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Title: Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 3 (of 13)
Author: Gibbon, Edward, 1737-1794
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 3 (of 13)" ***


                               STORIA

                       DELLA DECADENZA E ROVINA

                          DELL'IMPERO ROMANO


                                 DI
                           EDOARDO GIBBON


                       TRADUZIONE DALL'INGLESE


                            VOLUME TERZO



                               MILANO
                         PER NICOLÒ BETTONI
                             M.DCCC.XX



STORIA DELLA DECADENZA E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO



CAPITOLO XVI.

      _Condotta del Governo romano verso i Cristiani, dal Regno di
      Nerone fino a quello di Costantino._


Se prendiamo a considerar seriamente la purità della Religione
Cristiana, la santità de' suoi morali precetti, e l'innocente non meno
che austera vita della maggior parte di quelli, che ne' primi tempi
abbracciarono la fede dell'Evangelio, saremo naturalmente indotti a
supporre, che anche dal Mondo infedele risguardata si fosse con la
dovuta riverenza una dottrina così benefica; che le persone sapienti e
culte, quantunque deridendo i miracoli, stimato avessero le virtù della
nuova setta, e che i Magistrati avesser protetto, invece di
perseguitare, un ordine di uomini, che prestava la più sommessa
obbedienza alle leggi, sebbene sfuggisse le attive cure della guerra e
del governo. Dall'altra parte se noi riflettiamo che la tolleranza del
Politeismo era universale ed invariabilmente sostenuta dalla fede del
Popolo, dall'incredulità de' filosofi, e dalla politica del Senato e
degl'Imperatori di Roma, non sappiam vedere qual nuova colpa i Cristiani
avesser commesso, e da che mai fosse stata provocata ed inasprita la
blanda indifferenza dell'Antichità, e quali nuovi motivi potessero
indurre i Principi Romani, che lasciavan sussistere in pace sotto il lor
moderato dominio mille diverse forme di religioni senza prendervi alcun
interesse, a punir severamente una parte de' loro sudditi, che si erano
scelta una singolare, ma innocente maniera di fede e di culto.

Sembra che la religiosa politica degli antichi prendesse un più rigido
ed intollerante carattere per opporsi al progresso del Cristianesimo.
Circa ottant'anni dopo la morte di Cristo, soggiacquero all'estremo
supplizio gl'innocenti seguaci di lui per sentenza di un Proconsole
dell'indole più amabile e filosofica, e secondo le leggi di un
Imperatore, riguardevole per la saviezza e giustizia del suo generale
governo. Le apologie, che più volte indirizzate furono ai successori di
Traiano, son piene de' più patetici lamenti, perchè fra tutti i sudditi
del Romano Impero fossero esclusi dal partecipare i vantaggi di quel
fausto governo i soli Cristiani, che obbedivano ai dettami della
coscienza, e ne imploravan la libertà. Sono stati diligentemente
raccolti i supplizi di alcuni pochi martiri eminenti; e da quel tempo,
in cui s'ottenne il supremo potere dal Cristianesimo, i Direttori della
Chiesa non hanno impiegata minor cura nel discuoprire la crudeltà, che
nell'imitar la condotta de' Pagani loro avversari. Lo scopo del presente
capitolo è di separare (s'è possibile) i pochi autentici ed interessanti
fatti da una indigesta massa di finzioni e di errori, e di riferire in
un modo ragionevole e chiaro le cagioni, l'estensione, la durata e le
più importanti circostante delle persecuzioni, alle quali esposti furono
i primi Cristiani.

I seguaci di una Religione perseguitata, oppressi dal timore, animati
dal risentimento, e riscaldati forse dall'entusiasmo, rade volte si
trovano in uno stato di mente, proprio ad investigar con tranquillità o
a stimar con candore i motivi de' lor nemici, che spesso sfuggono anche
all'imparziale ed acuta vista di quelli, che trovansi ad una sicura
distanza dal fuoco della persecuzione. Alla condotta degl'Imperatori
verso i primitivi Cristiani attribuita si è una ragione, la quale può
sembrare molto speciosa e probabile, perchè si deduce appunto dal genio
ben noto del Politeismo. È stato già osservato, che la religiosa
concordia del mondo era principalmente sostenuta dall'assenso e dalla
riverenza, che le nazioni dell'Antichità ciecamente professavano per le
rispettive lor tradizioni e ceremonie. Si poteva dunque aspettare, che
le medesime fossero per unirsi con isdegno contro una setta od un
popolo, che si separasse dalla comunione dell'uman genere, e pretendesse
di posseder esclusivamente la cognizione di Dio, sdegnando come empia ed
idolatrica qualunque altra forma di culto, eccettuata la propria. Si
mantenevano i diritti della tolleranza mediante una condiscendenza
reciproca: giustamente dunque ne furono spogliati quelli, che ricusavano
di pagare il consueto tributo. Siccome questo si ricusò inflessibilmente
dai soli Giudei, l'esame del trattamento, che loro fecero i Magistrati
Romani, servirà a spiegare fino a qual segno siano queste speculazioni
giustificate da' fatti, e ci condurrà a scoprire le vere cagioni della
persecuzione del Cristianesimo.

Senza ripeter quello ch'è stato già detto della riverenza che avevano i
Principi e i Governatori Romani pel Tempio di Gerusalemme, osserveremo
solamente che tutte le circostanze che accompagnarono e seguirono la
distruzione del Tempio e della città, potevano inasprir gli animi de'
conquistatori, ed autorizzare la persecuzion religiosa co' più speciosi
argomenti di giustizia politica e di pubblica sicurezza. Dal regno di
Nerone fino a quello di Antonino Pio, dimostrarono i Giudei tal fiera
intolleranza del dominio di Roma, che più volte proruppero in
sollevazioni ed in stragi le più furiose. L'umanità si scuote al
racconto delle orribili crudeltà, che commisero nelle città dell'Egitto,
di Cipro e di Cirene, dove abitavano, fingendo una proditoria amicizia
co' Nazionali, che non avevano sospetto alcuno verso di loro[1]: e siam
quasi tentati ad applaudire la rigida rappresaglia, che dalle armi delle
Legioni si usò contro un genere di fanatici, la barbara e credula
superstizione de' quali pareva, che li rendesse implacabili nemici non
solo del governo Romano, ma anche dell'uman genere[2]. L'entusiasmo
degli Ebrei sostenevasi dall'opinione, ch'essi non potevan
legittimamente pagar tributi ad un Sovrano idolatra, e dalla seducente
promessa tratta dai loro antichi oracoli, che in breve sarebbe nato un
Messia conquistatore, destinato a rompere le loro catene, e a trasferire
ai favoriti del Cielo l'impero della Terra. Il celebre Barcocheba,
coll'annunziarsi che fece come loro, da lungo tempo aspettato,
liberatore, e col convocar tutti i discendenti di Abramo per sostener la
speranza d'Israele, raccolse un formidabile esercito, con cui resistè
per due anni al potere dell'Imperatore Adriano[3].

Ad onta di queste ripetute provocazioni, finì l'ira de' Principi Romani
con la vittoria; nè continuarono le loro apprensioni oltre il tempo del
pericolo e della guerra. Mediante la general tolleranza del Politeismo e
la mansueta indole di Antonino Pio, a' Giudei restituiti furono gli
antichi lor privilegi, ed ottennero essi un'altra volta la facoltà di
circoncidere i loro figli con la moderata limitazione, che non dovesser
mai dare ad alcun proselito straniero quel contrassegno distintivo della
stirpe Giudaica[4]. Quantunque i numerosi avanzi di quel popolo
restassero sempre esclusi da' recinti di Gerusalemme, pure fu loro
permesso di formare e di mantenere considerabili stabilimenti tanto
nell'Italia che nelle Province, di acquistar la cittadinanza di Roma, di
godere degli onori municipali, e di ottenere nel tempo stesso
un'esenzione da' gravi e dispendiosi uffizi della società. La
moderazione o il disprezzo de' Romani legalmente autorizzò la forma del
governo ecclesiastico, instituito dalla vinta setta. Il Patriarca, che
avea fissato la sua residenza in Tiberiade, ebbe la facoltà di eleggere
i propri subalterni ministri ed apostoli, di esercitare una domestica
giurisdizione, e di ricevere da' suoi dispersi fratelli una
contribuzione annuale[5]. Nelle principali città dell'Impero
frequentemente si edificarono nuove sinagoghe, e nella più solenne e
pubblica forma si celebravano i sabbati, le feste e i digiuni, comandati
o dalla legge Mosaica o dalle tradizioni Rabbiniche[6]. Questo gentil
trattamento appoco appoco addolcì la feroce indole de' Giudei. Scossi
dal loro sogno di profezia e di conquista, incominciarono a diportarsi
da sudditi pacifici e industriosi. L'odio irreconciliabile, che avevano
contro il genere umano, in luogo di prorompere in atti di violenza e di
sangue, si dissipò in soddisfazioni meno pericolose. Prendevano essi
tutte le occasioni per soverchiar gl'Idolatri nel commercio, e
pronunziavano segrete ed ambigue imprecazioni contro il superbo regno di
Edom[7].

Mentre i Giudei, che rigettavano con abborrimento i Numi adorati dal lor
Sovrano e da' loro consudditi, godevano ciò non ostante con libertà
l'esercizio della loro insocievole religione, vi doveva esser qualche
altro motivo ch'esponeva i discepoli di Cristo a quella severità, da cui
ritrovavasi esente la discendenza di Abramo. La differenza fra loro è
semplice e naturale, ma secondo i sentimenti dell'antichità era della
massima importanza. Gli Ebrei formavano una _nazione_, i Cristiani una
_setta_; e se ogni società era naturalmente portata a rispettar le sacre
istituzioni de' propri vicini, le premeva altresì di perseverare in
quelle de' suoi maggiori. La voce degli oracoli, i precetti de' filosofi
e l'autorità delle leggi davan concordemente vigore a questa nazionale
obbligazione. Per l'altera pretensione, che avevano i Giudei di una
santità superiore agli altri, provocar potevano i Politeisti a
risguardarli come una razza di uomini odiosa ed impura. Sdegnando il
commercio con le altre nazioni, potevan meritare il loro disprezzo. Le
leggi di Mosè potevano esser per la massima parte frivole o assurde: non
di meno essendo queste per più secoli state ricevute da una numerosa
società, i lor seguaci venivan giustificati dall'esempio dell'uman
genere; ed universalmente si conveniva, che essi avevan diritto di
praticare ciò che sarebbe in loro stato un delitto di trascurare. Ma
questo principio, che proteggeva la sinagoga Giudaica, non dava
sicurezza o favore alcuno alla primitiva Chiesa. I Cristiani
abbracciando la fede dell'Evangelio, supponevansi rei di una non
naturale ed imperdonabile colpa. Scioglievano essi i sacri vincoli
dell'usanza e dell'educazione; violavano le religiose instituzioni del
lor paese, e presuntuosamente disprezzavano ciò che i padri loro creduto
avevano come vero, o rispettato come sacro. Nè tal apostasia (se ci è
permesso di usare questa espressione) era di una specie parziale o
locale, poichè il devoto disertore, che si ritirava da' tempj
dell'Egitto o della Siria, avrebbe ugualmente sdegnato di cercare un
asilo in quelli di Atene o di Cartagine. Ogni Cristiano con disprezzo
rigettava le superstizioni della sua famiglia, della sua città e della
sua provincia. Tutto il corpo de' Cristiani di comune accordo ricusava
di aver alcun commercio con gli Dei di Roma, dell'Impero e dell'uman
genere. Invano l'oppresso credente reclamava i diritti non alienabili
della coscienza e del giudizio privato. Quantunque la sua situazione
potesse risvegliar la pietà, i suoi argomenti non potevano mai
convincere l'intelletto nè della filosofica nè della credula parte del
Mondo Pagano. Argomento era di stupore per essi che uno dovesse avere
scrupolo di adattarsi alla maniera di culto già stabilita, non meno che
sarebbe stato se uno concepito avesse subitaneo abborrimento ai costumi,
al modo di vestire, od al linguaggio del proprio paese[8].

Alla sorpresa de' Pagani successe ben presto lo sdegno; e gli uomini più
pii furono esposti all'ingiusta, ma pericolosa imputazione d'empietà. La
malizia ed il pregiudizio si univano a rappresentare i Cristiani come
una società di atei, che avendo audacissimamente attaccato le religiose
costituzioni dell'Impero, meritato avevano i più severi castighi de'
magistrati civili. Nella confessione, che facevano di loro fede,
gloriavansi di essersi liberati da qualunque sorta di superstizione
ricevuta in qualsivoglia parte del globo dal vario genio del Politeismo;
non era però ugualmente chiaro qual divinità, o quale specie di culto
sostituito avessero agli Dei ed a' tempj dell'antichità. La pura e
sublime idea, ch'essi avevano dell'Ente supremo, sfuggiva dal grossolano
concepimento del volgo Pagano, che non sapeva immaginare un Dio
spirituale e solitario, il quale non si rappresentava sotto alcuna
figura corporea o segno visibile, nè si adorava con la solita pompa di
libazioni e di feste, di altari e di sacrifizi[9]. I Sapienti della
Grecia e di Roma, che innalzato avevano le loro menti alla
contemplazione dell'esistenza e degli attributi della prima Causa, per
ragione o per vanità eran portati a riservare a se stessi o a' loro
scelti discepoli il privilegio di questa filosofica devozione[10]. Essi
erano ben lontani dall'ammettere i pregiudizi dell'uman genere, come il
contrassegno della verità, ma gli consideravano come provenienti
dall'original disposizione della natura umana: e supponevano che
qualunque popolar forma di fede e di culto, in cui si fosse preteso di
non far uso dell'aiuto de' sensi, a misura che allontanata si fosse
dalla superstizione, sarebbesi trovata incapace di raffrenare i voli
della fantasia, o le visioni del fanatismo. Il non curante sguardo, che
gli uomini d'ingegno e di dottrina condiscendevano a gettare sopra la
Rivelazione Cristiana, serviva solo a confermare la loro precipitata
opinione, ed a persuaderli, che il principio dell'unità di Dio, che
avrebbero potuto rispettare, veniva sfigurato dallo stravagante
entusiasmo, ed annichilito dalle vane speculazioni de' nuovi settari.
L'autore di un celebre dialogo, ch'è stato attribuito a Luciano, mentre
affetta di trattare il misterioso soggetto della Trinità in uno stile
ridicoloso e disprezzante, mostra di non conoscere la debolezza
dell'umana ragione e l'imperscrutabile natura delle perfezioni
Divine[11].

Poteva sembrar meno sorprendente, che il fondatore del Cristianesimo
fosse rispettato da' suoi Discepoli non solamente come un sapiente ed un
profeta, ma che fosse anche adorato come una divinità. I Politeisti eran
disposti ad ammettere ogni articolo di fede, che paresse aver qualche
rassomiglianza, per quanto distante ed imperfetta si fosse, colla
mitologia popolare; e le leggende di Bacco, d'Ercole, o di Esculapio
preparato avevano in qualche modo la loro immaginazione all'apparire del
Figlio di Dio sotto una forma umana[12]. Ma stupivano, che i Cristiani
abbandonassero i tempj di quegli antichi Eroi, che nell'infanzia del
mondo avevano inventato le arti, instituite le leggi, e domati i
tiranni, o i mostri che infestavano la terra, a fine di scegliere per
oggetto esclusivo del religioso lor culto un oscuro maestro, che di
fresco, ed appresso un popolo barbaro era stato sacrificato o alla
malizia de' propri suoi nazionali, o alla gelosia del governo Romano. Il
volgo Pagano, riservando la sua gratitudine solo per i benefizi
temporali, rigettava l'inestimabile dono della vita e della immortalità,
che all'uman genere si offeriva da Gesù Nazareno. La sua mansueta
costanza in mezzo a crudeli e volontari tormenti, la sua general
benevolenza, e la sublime semplicità delle sue azioni e del suo
carattere non eran sufficienti, a giudizio di quegli uomini carnali, a
compensar la mancanza di fama, di dominio e di fortuna; e mentre
ricusavano di ammettere lo stupendo trionfo di lui sopra le potestà
delle tenebre e della morte, malamente rappresentavano o insultavan la
nascita equivoca, la vita vagabonda, e l'ignominiosa morte del divino
Autore del Cristianesimo[13].

La reità personale, in cui ogni Cristiano era incorso nel preferire in
tal modo il suo privato sentimento alla religion nazionale, veniva molto
aggravata dal numero, e dall'unione de' colpevoli. Egli è ben noto, ed è
già stato osservato, che la Romana politica riguardava con la massima
gelosia e diffidenza qualunque associazione fra' propri sudditi, e che
davansi con mano assai parca i privilegi de' corpi privati, sebbene
instituiti per i più innocenti e benefici soggetti[14]. Le religiose
assemblee dei Cristiani, che si eran separati dal culto pubblico,
apparivano di una specie molto meno innocente: erano esse illegittime
nel lor principio, e nelle lor conseguenze potean divenire pericolose;
nè gl'Imperatori credevano di violar le leggi della giustizia, quando
per la pace della società proibivano quelle segrete, ed alle volte
notturne adunanze[15]. La pia disubbidienza de' Cristiani fece comparire
la lor condotta, o forse i loro disegni in un aspetto molto più serio e
colpevole: ed i Principi Romani, che avrebbero per avventura sofferto di
lasciarsi piegare da una pronta sommissione, stimando interessato il lor
onore nell'esecuzione de' lor comandi, qualche volta intrapresero, per
mezzo di rigorosi gastighi, di domar questo spirito indipendente, che
audacemente riconosceva un'autorità superiore a quella del Magistrato.
Sembrava, che l'estensione e la durata di questa spirituale cospirazione
la rendesse ogni giorno più meritevole del loro castigo. Abbiamo già
veduto, che l'attivo e fortunato zelo de' Cristiani gli aveva
insensibilmente diffusi per ogni Provincia, e quasi per ogni città
dell'Impero. Pareva, che i nuovi convertiti rinunziassero alla propria
famiglia e al proprio paese, e che si collegassero mediante un
indissolubil nodo d'unione con una particolar società, che per ogni dove
assumeva un carattere diverso dal resto del genere umano. Il tristo ed
austero aspetto, che avevano, l'abborrimento per gli affari e piaceri
comuni della vita, e le lor frequenti predizioni d'imminenti
calamità[16] inspiravano a' Pagani l'apprensione di qualche pericolo,
che provenir potesse dalla nuova setta, ch'era tanto più sospetta quanto
era più oscura. «Qualunque esser possa (dice Plinio) il principio della
loro condotta, pare, che l'inflessibile ostinazione loro sia meritevole
di gastigo[17].»

Le cautele, con le quali i Discepoli di Cristo celebravano gli uffizi
della religione, furono a principio dettate dal timore e dalla
necessità, ma in appresso si continuarono per elezione. Con imitare la
tremenda secretezza, che usavasi ne' misteri Eleusini, si eran lusingati
i Cristiani, che rendute avrebbero più rispettabili agli occhi del Mondo
Pagano le sacre loro instituzioni[18]. Ma l'evento, come spesso accade
nelle operazioni della sottile politica, deluse le loro brame ed
aspettazioni. Si concluse, ch'essi nascondevano solamente ciò, che
avrebbero avuto rossore di manifestare. La loro mal accorta prudenza
diede un'occasione alla malizia d'inventare, ed alla sospettosa
credulità di prestar fede alle orribili favole, le quali rappresentavano
i Cristiani come i più malvagi degli uomini, che praticavano nelle
oscure lor conventicole ogni sorta d'abbominazione, cui potesse
inventare una fantasia depravata, ed imploravano il favore
dell'incognito loro Dio mediante il sacrifizio di ogni morale virtù. Vi
erano molti che pretendevano di confessare o di riferire le ceremonie di
tale abborrita società. Asserivasi che «veniva presentato al coltello
del proselito, come un mistico simbolo per iniziarlo, un bambino nato di
fresco, tutto coperto di farina, e che egli senza saperlo con vari colpi
segretamente feriva a morte l'innocente vittima del proprio errore: che
appena era seguita la crudel funzione, i settarj ne bevevano il sangue,
avidamente ne squarciavan le membra ancor palpitanti, e s'impegnavano,
per esser fra loro tutti complici del delitto, ad un eterno silenzio.
Con uguale confidenza affermavasi, che a questo crudel sacrificio
succedeva un ben degno convito, in cui l'intemperanza serviva a provocar
le brutali passioni, finchè, nel momento assegnato, i lumi ad un tratto
venivano estinti, bandito il pudore, e la natura dimenticata; e come il
caso portava, l'oscurità della notte si contaminava dall'incestuoso
commercio dei fratelli colle sorelle e delle madri coi figliuoli[19].»

Ma era sufficiente la lettura delle antiche apologie per rimuover dalla
mente di un ingenuo avversario qualunque più leggiero sospetto. I
Cristiani coll'intrepida sicurezza dell'innocenza, dal romor popolare si
appellano all'equità de' Magistrati; convengono che se alcuna prova si
può addur de' delitti, che la calunnia loro ha imputati, son degni del
più severo gastigo. Affrontano la pena, e disfidan le prove. Nel tempo
stesso dimostrano con ugual verità e naturalezza, che l'accusa manca di
probabilità non meno che di prova, domandano essi, come alcuno può
credere seriamente che i puri e santi precetti dell'Evangelo, i quali
tanto spesso restringono l'uso de' piaceri più leciti, dovessero
inculcar la pratica de' misfatti più abbominevoli; che una numerosa
società si potesse risolvere a disonorarsi agli occhi de' suoi propri
membri; e che un gran numero di persone di ogni sesso, di ogni età,
d'ogni carattere, insensibile al timor della morte o dell'infamia,
consentir dovesse a violar que' principj, che la natura e l'educazione
avevan profondissimamente impressi ne' loro animi[20]? Sembrerebbe, che
niente potesse indebolir la forza, o distruggere l'effetto di una così
efficace giustificazione, se non fosse stata l'indiscreta condotta degli
stessi Apologisti, che tradiron la causa comune della religione per
soddisfare il devoto lor odio contro i nemici domestici della Chiesa.
Ora si andò lentamente insinuando, ed or si asserì arditamente, che que'
sanguinosi sacrifizj medesimi e quelle incestuose solennità, che sì
falsamente imputavansi agli ortodossi credenti, erano realmente
celebrate da' Marcioniti, da' Carpocraziani, e da varie altre Sette di
Gnostici, che sebbene deviassero ne' sentieri dell'eresia, pure
sentivano sempre la forza della natura umana, e si regolavan sempre
secondo i precetti del Cristianesimo[21]. Simili accuse ritorcevansi
contro la Chiesa dagli Scismatici, che abbandonato avevano la comunione
della medesima[22], e confessavasi da ogni parte, che appresso molti di
quelli che si attribuivano il nome di Cristiani, prevaleva la più
scandalosa licenza di costumi. Un Magistrato Pagano, che non aveva nè
tempo nè capacità per discernere la linea quasi impercettibile, che
distingue la fede ortodossa dall'eretica pravità, poteva facilmente
supporre, che l'animosità, che regnava fra loro, avesse tolta ad essi di
bocca la confessione de' lor comuni delitti. Fu fortuna pel riposo, o
almeno per la riputazione de' primi Cristiani, che i Magistrati alle
volte procedessero con maggior freddezza, e moderazione di quella che
per ordinario accompagna lo zelo religioso, e ch'essi riferissero, come
resultato imparziale delle lor giudiciali ricerche, che i settarj, i
quali abbandonato avevano il culto dominante, sembravan sinceri nelle
lor professioni, ed irreprensibili ne' lor costumi, per quanto potessero
incorrere la censura delle Leggi[23], attesa l'assurda ed eccessiva loro
superstizione.

L'istoria, che intraprende a rammentare i fatti de' passati secoli per
istruzione de' futuri, male meriterebbe tal onorevole uffizio, qualora
condiscendesse a difender la causa de' tiranni, o a giustificar le
massime della persecuzione. Bisogna però confessare, che la condotta
degl'Imperatori, che parvero i meno favorevoli alla primitiva Chiesa,
non è in verun modo tanto colpevole, quanto quella di alcuni moderni
Sovrani, che hanno impiegato le armi della violenza e del terrore contro
le religiose opinioni di una parte de' loro sudditi. Dalle lor
riflessioni, o anche da' propri lor sentimenti poteva un Carlo V. o un
Luigi XIV. aver acquistato una giusta cognizione de' diritti della
coscienza, dell'obbligatione della fede, e dell'innocenza dell'errore.
Ma per li Principi ed i Magistrati dell'antica Roma erano affatto ignoti
que' principj, che inspiravano ed autorizzavano l'inflessibile
ostinazione de' Cristiani nella causa della verità, nè potevano da se
stessi scuoprire ne' loro petti alcun motivo, che gli avesse indotti a
ricusare una legittima, e quasi natural sommissione alle sacre
instituzioni della patria loro. La medesima ragione, che contribuisce ad
alleggerire la reità delle lor persecuzioni, doveva tendere a diminuirne
il rigore. Siccome operava sopra di essi non già il furioso zelo de'
devoti, ma la moderata politica de' legislatori, spesse volte doveva il
disprezzo far rallentare, e la compassione far sospendere l'esecuzione
di quelle leggi, ch'esse avevan fatte contro gli umili ed oscuri seguaci
di Cristo. Dalla general considerazione del lor carattere e de' motivi
che avevano, possiam naturalmente concludere: I. che passò un tempo
considerabile avanti ch'essi riguardassero i nuovi settari come un
oggetto, che meritasse l'attenzion del Governo; II. che nell'esame di
ognuno de' loro sudditi, che fosse accusato di un delitto sì singolare,
procedevano con cautela e ripugnanza; III. ch'essi erano moderati
nell'uso delle pene; e IV. che l'afflitta Chiesa godè molti intervalli
di pace e di tranquillità. Nonostante la trascurata indifferenza, che
han dimostrato i più abbondanti, ed i più minuti fra' Gentili scrittori
per gli affari de' Cristiani[24], possiam tuttavia confermare
ciascheduna di queste probabili supposizioni con la testimonianza di
autentici fatti.

I. Fu per saggia disposizione della Providenza gettato un misterioso
velo sopra l'infanzia della Chiesa, il quale, finattanto che non fu
maturata la fede Cristiana, e moltiplicato il numero de' credenti, servì
a proteggerli non solo dalla malizia, ma anche dalla cognizione del
Mondo Pagano. L'abolizione lenta e per gradi delle ceremonie Mosaiche
diede una sicura ed innocente coperta a' più antichi proseliti
dell'Evangelio. Essendo la maggior parte di loro della stirpe d'Abramo,
si distinguevano perciò col segno particolare della circoncisione,
facevano le lor offerte nel tempio di Gerusalemme, finchè questo non fu
totalmente distrutto, ed ammettevano la legge ed i profeti, come genuina
inspirazione di Dio. I Gentili convertiti, che per una spirituale
adozione erano stati associati alla speranza d'Israele, venivano in
simil guisa confusi sotto l'abito e l'apparenza di Giudei[25]; e siccome
i Politeisti facevano meno attenzione agli articoli di fede, che al
culto esterno, la nuova setta, che nascondea con gran cura, o
leggermente annunziava la sua futura grandezza ed ambizione, era
lasciata rifuggire sotto la general tolleranza concessa nel Romano
Impero ad un antico e celebre Popolo. Non passò forse gran tempo che i
Giudei medesimi, animati dallo zelo più fiero e dalla più gelosa fede,
si accorsero della separazione, che appoco appoco fecero i lor Nazareni
fratelli dalla dottrina della Sinagoga, e volentieri avrebber voluto
estinguere quella pericolosa eresia col sangue di quelli che vi
aderivano. Ma i decreti del Cielo avevano già disarmato la lor malizia;
e quantunque potessero qualche volta usare lo sfrenato privilegio della
sedizione, essi da lungo tempo più non godevano l'amministrazione della
giustizia criminale; nè riusciva loro facilmente d'inspirare nel
tranquillo petto d'un Magistrato Romano il rancore del proprio loro zelo
e pregiudizio. I Governatori delle Province si mostravano pronti ad
ascoltare qualunque accusa, che risguardar potesse la pubblica
sicurezza; ma tosto che venivano informati, ch'era questione non già di
fatti, ma di parole, e che si disputava soltanto dell'interpretazione
delle leggi, e profezie Giudaiche, stimavano indegno della maestà Romana
il discuter seriamente le oscure differenze, che potevan nascere fra
gente barbara e superstiziosa. L'innocenza de' primi Cristiani era
protetta dall'ignoranza e dal disprezzo; e spesso trovava nel tribunale
di un Magistrato Pagano il rifugio più sicuro contro il furor della
Sinagoga[26]. Se noi fossimo in vero disposti ad ammetter le tradizioni
di una troppo credula antichità, riferir potremmo i lontani
pellegrinaggi, le imprese maravigliose, e le diverse morti de' dodici
Apostoli; ma una più esatta ricerca ci porterà a dubitare, se fu
permesso ad alcuna di quelle persone, che avevan veduto i miracoli di
Cristo, di contestare col proprio sangue oltre i confini della Palestina
la verità della loro testimonianza[27]. Atteso l'ordinario periodo della
vita umana, può molto naturalmente presumersi che la maggior parte di
essi fossero morti, avanti che il rancor degli Ebrei scoppiasse in
quella furiosa guerra, la quale non finì che con la rovina di
Gerusalemme. Per un lungo tratto di tempo, che passò dalla morte di
Cristo fino a quella memorabile ribellione, non possiamo ravvisare alcun
vestigio d'intolleranza Romana, eccettuata la subitanea, passeggiera, ma
crudele persecuzione, che fu mossa da Nerone contro i Cristiani della
Capitale, trentacinque anni dopo il primo, e solo due anni avanti il
secondo, di que' grandi eventi. Il carattere dell'Istorico filosofo, al
quale principalmente dobbiamo la cognizione di questo singolar fatto,
sarebbe per se solo bastante ad impegnar la nostra più attenta
considerazione.

Nel decimo anno del Regno di Nerone la Capitale dell'Impero fu afflitta
da un fuoco, che infierì oltre la memoria o l'esempio de' secoli
precedenti[28]. Restarono involti in una comune distruzione i monumenti
dell'arte Greca e del Romano valore, i trofei delle guerre Punica e
Gallica, i tempj più santi, ed i palazzi più splendidi. De' quattordici
rioni, o quartieri, ne' quali era divisa Roma, quattro solamente
rimasero interi, tre furono livellati al suolo, e gli altri sette, che
sperimentato avevano il furor delle fiamme, presentavano un tristo
prospetto di desolazione e rovina. Pare che la vigilanza del Governo non
trascurasse alcuna precauzione, che alleggerir potesse il sentimento di
sì terribile calamità. Furono aperti alla sconsolata moltitudine i
giardini Imperiali, si costruirono per loro comodo temporanei edifizj, e
venne distribuita un'abbondante copia di grano e di provvisioni ad un
prezzo assai moderato[29]. Sembra che la più generosa politica dettasse
gli editti, che regolarono la disposizione delle strade, e la
costruzione delle case private, e come suole per ordinario accadere in
un tempo di prosperità, l'incendio di Roma produsse nel corso di pochi
anni una città novella, più regolare e più vaga dell'antica. Ma tutta la
prudenza ed umanità di Nerone furono insufficienti a liberarlo dal
sospetto del popolo. Qualunque delitto imputar potevasi all'assassino
della propria moglie e della madre, nè poteva un Principe, che
prostituiva la sua persona e dignità sul teatro, esser creduto incapace
della più stravagante follia. La voce della fama accusava l'Imperatore
come un incendiario della sua Capitale, e siccome le più incredibili
narrazioni sono le più confacenti al genio di un popolo infuriato, così
raccontavasi gravemente, e senz'alcun dubbio credevasi, che Nerone,
godendo all'aspetto della calamità di cui era stato cagione, si
dilettasse in cantare sulla sua lira la distruzione dell'antica
Troia[30]. Per allontanare un sospetto, che il potere del dispotismo non
era capace di sopprimere, l'Imperatore pensò di sostituire in suo luogo
alcuni finti rei. «Con questo scopo (continua Tacito) sottopose a più
atroci tormenti quegli uomini, che sotto la volgar denominazione di
Cristiani erano già notati con la meritata infamia. Essi prendevano il
nome e l'origine da Cristo, che nel regno di Tiberio avea sofferto la
morte per sentenza del Procuratore Ponzio Pilato[31]. Questa empia
superstizione fu per un tempo repressa; ma ella si sparse di nuovo, e
non solamente si diffuse per la Giudea, prima sede di questa malvagia
setta, ma fu introdotta anche in Roma, comune asilo, che riceve e
protegge tutto ciò ch'è impuro ed atroce. Le confessioni di quelli, che
furon presi, scuoprirono una gran moltitudine di complici, e furono
tutti convinti, non tanto del delitto di aver posto fuoco alla città,
quanto dell'odio, che portavano al genere umano[32]. Morivano fra
tormenti, e questi erano amareggiati dall'insulto e dalla derisione.
Alcuni di essi furono inchiodati sopra croci, altri cuciti dentro pelli
di bestie feroci, ed esposti alla rabbia de' cani, altri, coperti di
materie combustibili, servivano come di torce per illuminare l'oscurità
della notte. Furon destinati i giardini di Nerone pel tristo spettacolo
che venne accompagnato da una corsa di cavalli, ed onorato dalla
presenza dell'Imperatore, che si mescolava col volgo, in abito ed in
attitudine di cocchiere. La colpa de' Cristiani meritava in vero il più
esemplare gastigo, ma il pubblico abborrimento si cangiò in compassione,
supponendosi che quelle infelici vittime venisser sacrificate non tanto
al rigore della giustizia, quanto alla credulità di un geloso
tiranno[33].» Quelli che con occhio curioso rimirano le rivoluzioni
dell'uman genere, posson osservare, che i giardini ed il circo di Nerone
nel Vaticano, che macchiati furon dal sangue de' primi Cristiani, si son
resi più famosi pel trionfo e per l'abuso della religione perseguitata.
Nel medesimo luogo[34] si è, dopo, eretto un tempio, che di gran lunga
sorpassa le antiche glorie del Campidoglio, da' Pontefici Cristiani, i
quali traendo il loro diritto di universal dominio da un umile pescatore
di Galilea, sono succeduti al trono de' Cesari, han date leggi ai
Barbari conquistatori di Roma, ed hanno estesa la spirituale loro
giurisdizione dalle coste del Baltico fino a' lidi del mar Pacifico.

Ma non sarebbe a proposito di lasciar questo racconto della persecuzion
di Nerone, senza fare alcune riflessioni, che possono servire a
rimuovere le difficoltà, onde si rende dubbiosa la susseguente storia
della Chiesa, ed a rischiararla di qualche lume.

I. Non può la critica più scettica non rispettar la verità di tal fatto
straordinario, e la genuina tempera di questo celebre passo di Tacito.
La prima vien confermata dall'esatto e diligente Svetonio, che rammenta
il gastigo da Nerone dato a' Cristiani: setta di uomini che abbracciato
avevano una nuova e colpevol superstizione[35]. L'altra si può provare
col consenso de' più antichi manoscritti; coll'inimitabil carattere
dello stile di Tacito, con la sua riputazione, che ne ha reso immune il
testo dalle interpolazioni della pia frode, e col tenore della sua
narrazione, che accusa i Cristiani de' più atroci delitti, senza
insinuare, ch'essi godessero alcun miracoloso o magico potere sopra il
resto del genere umano[36]. II. Quantunque sia probabile, che Tacito
nascesse qualche anno avanti l'incendio di Roma[37], potè ciò nonostante
rilevare dalla lettura e dalla conversazione la notizia di un fatto, che
seguì nel tempo della sua infanzia. Avanti di esporsi al Pubblico,
tranquillamente egli aspettò, che il proprio ingegno fosse giunto alla
sua piena maturità, ed aveva più di quarant'anni, allorchè un grato
riguardo alla memoria del virtuoso Agricola trasse da lui la prima di
quelle istoriche composizioni, che diletteranno ed istruiranno la più
remota posterità. Dopo di aver fatto una prova della propria forza nella
vita d'Agricola, e nella descrizione della Germania, concepì, e
finalmente pose in esecuzione un'opera più difficile, vale a dire
l'istoria di Roma in trenta libri, dalla caduta di Nerone sino
all'avvenimento al trono di Nerva. L'amministrazione di quest'ultimo
introdusse un tempo di prosperità e di giustizia, che Tacito avea
destinato per occupazione della sua vecchiezza[38]; ma quando più da
vicino esaminò quel soggetto, stimando per avventura, che fosse un
uffizio più onorevole, o meno invidioso quello di rammentare i vizi de'
passati tiranni, che di celebrar le virtù di un Sovrano regnante, si
determinò piuttosto a narrare in forma d'annali le azioni de' quattro
immediati successori di Augusto. L'impresa di raccogliere, disporre, e
adornare una serie di ottant'anni in un'opera immortale, di cui ogni
sentenza contiene le più profonde osservazioni, e le immagini più vive,
fu bastante ad esercitare il genio di Tacito stesso per la maggior parte
della sua vita. Negli ultimi anni del Regno di Traiano, mentre il
vittorioso Monarca estendeva la potenza di Roma oltre gli antichi di lei
confini, l'Istorico nel secondo e nel quarto libro de' suoi annali
descriveva la tirannia di Tiberio[39], e dovè succedere al trono
l'Imperatore Adriano avanti che Tacito, nel regolar proseguimento della
sua opera, potesse riferir l'incendio della Capitale e la crudeltà di
Nerone verso gl'infelici Cristiani. Alla distanza di sessant'anni era
dovere dell'Annalista d'adottare le narrazioni de' contemporanei, ma era
naturale pel Filosofo di spaziare nella descrizione dell'origine, del
progresso e carattere della nuova setta non tanto secondo le cognizioni,
o i pregiudizi dell'età di Nerone, quanto secondo quelli del tempo di
Adriano. III. Tacito assai frequentemente confida, che la curiosità o la
riflessione de' suoi lettori sia per supplire a quelle intermedie
circostanze ed idee, che nell'estrema sua precisione ha creduto proprio
di sopprimere. Noi possiamo dunque avventurarci ad immaginare qualche
probabil motivo, che diriger potesse la crudeltà di Nerone contro i
Cristiani di Roma, de' quali non meno l'oscurità che l'innocenza avrebbe
dovuto porli al coperto dallo sdegno ed anche dalla cognizione di esso.
Gli Ebrei, che si trovavano in gran numero nella Capitale, ed eran
oppressi nel proprio paese, formavano un oggetto molto più confacente a'
sospetti dell'Imperatore, e del Popolo; nè potea parere improbabile, che
una vinta nazione, la quale già manifestava il proprio abborrimento pel
giogo Romano, potesse ricorrere a' mezzi più atroci, per soddisfare il
suo implacabile desiderio di vendicarsi. Ma gli Ebrei avevano molto
potenti avvocati nel Palazzo, ed anche nel cuor del Tiranno, cioè la
bella Poppea, di lui moglie e signora, ed un favorito commediante della
razza d'Abramo, che avevano già impiegate le loro intercessioni a favore
del colpevole Popolo[40]. Bisognava in loro vece offerire qualche altra
vittima, e si potè suggerir facilmente, che sebbene i veri seguaci di
Mosè fossero innocenti dell'incendio di Roma, fra loro era insorta una
nuova perniciosa setta di _Galilei_, ch'era capace de' misfatti i più
orribili. Sotto il nome di _Galilei_ si confondevano due distinte specie
di uomini le più opposte fra loro ne' costumi e ne' principj, vale a
dire i Discepoli, che avevano abbracciata la fede di Gesù di
Nazaret[41], e gli Zeloti, che aveano seguito la bandiera di Giuda
Gaulonita[42]. I primi erano amici, i secondi nemici del genere umano; e
l'unica somiglianza, che fosse tra loro, consisteva nell'istessa
inflessibil costanza, che per difesa della lor causa li rendeva
insensibili a' tormenti ed alla morte. I seguaci di Giuda, che
inducevano i lor nazionali alla ribellione, restaron presto sepolti
sotto le rovine di Gerusalemme; laddove quelli di Gesù, conosciuti sotto
il più celebre nome di Cristiani, si diffusero per tutto l'Impero
Romano. Quanto egli era naturale per Tacito, nel tempo d'Adriano,
l'attribuire a' Cristiani la colpa ed i tormenti, che poteva con molto
maggior verità e giustizia imputare ad una setta, della quale quasi era
estinta l'odiosa memoria! IV. Qualunque sia l'opinione, che vogliamo
avere di tal congettura (giacchè non è questa più che una congettura)
egli è chiaro, che gli effetti non meno che la causa della persecuzione
di Nerone furono ristretti alle mura di Roma[43]; che le religiose
opinioni de' Galilei, o de' Cristiani, non furono mai un oggetto di
pena, o anche di pura inquisizione; e che siccome l'idea de' lor
patimenti fu per lungo tempo connessa con quella della crudeltà ed
ingiustizia, così la moderazione de' seguenti Principi li dispose a
risparmiare una setta oppressa da un Tiranno, il furore del quale
ordinariamente s'era diretto contro la virtù e l'innocenza.

Egli è in qualche modo da notarsi, che le fiamme della guerra consumaron
quasi nel medesimo istante il tempio di Gerusalemme ed il Campidoglio di
Roma[44]; nè sembra meno singolare, che il tributo della devozione,
destinato pel primo, convenir si dovesse dalla forza di un vincitore
insultante in restaurare ed ornar lo splendore dell'altro[45].
L'Imperatore impose una tassa generale per via di capitazione sul popolo
Ebreo, e quantunque la somma, che toccò a ciascheduno individuo, non
fosse considerabile, pure l'uso pel quale era destinata, e la severità,
con cui si esigeva, la facevano riguardare come un intollerabile
peso[46]. Poichè i ministri di tal esazione estendevano le loro ingiuste
ricerche a molti, che niente avevan che fare col sangue, o con la
religion degli Ebrei, era impossibile che i Cristiani, i quali sì spesso
eransi coperti sotto l'ombra della Sinagoga, evitassero allora quella
rapace persecuzione. Ansiosi com'erano di sfuggire la più leggiera
infezione d'idolatria, la lor coscienza vietava ad essi di contribuire
all'onore di quel demonio, che aveva preso il carattere di Giove
Capitolino. Siccome un assai numeroso benchè decadente partito fra'
Cristiani, aderiva sempre alla legge di Mosè, gli sforzi, che facevano
per nasconder la loro origine Giudaica, venivano scoperti dalla decisiva
testimonianza della circoncisione[47], nè i Magistrati Romani avean
comodo d'investigare la differenza de' religiosi sentimenti. Fra'
Cristiani presenti al Tribunale dell'Imperatore, o come par più
probabile, avanti a quello del Procurator della Giudea, si dice che ve
ne comparissero due distinti per la loro estrazione, ch'era veramente
più nobile di quella de' più gran Monarchi. Questi erano i nipoti di S.
Giuda Apostolo, fratello di Gesù Cristo[48]. Le lor naturali pretensioni
al trono di David potevan forse attirar loro il rispetto del Popolo, ed
eccitar la gelosia del Governatore; ma la bassezza del loro vestire e la
semplicità delle lor risposte lo convinsero ben presto, ch'essi non
erano desiderosi, nè capaci di turbar la pace del Romano Impero. Essi
confessarono francamente la propria stirpe reale e la stretta parentela
che avevano col Messia, ma rinunziarono ad ogni temporale oggetto, e si
protestarono, che il regno, da essi devotamente aspettato, era puramente
di una specie spirituale ed angelica. Quando esaminati furono intorno a'
loro beni ed impieghi, mostrarono le loro mani indurite dalla
giornaliera fatica, e dichiararono, che traevan tutto il loro
mantenimento dalla coltivazione di un fondo vicino al villaggio di
Cocaba dell'estensione di circa 24 acri Inglesi[49] e del valore di 9000
dramme, o sia di trecento lire sterline. I nipoti di S. Giuda furon
licenziati con compassione e disprezzo[50].

Ma quantunque l'oscurità della casa di David la potesse far sicura da'
sospetti di un tiranno, tuttavia la presente grandezza della propria
famiglia pose in agitazione la pusillanime indole di Domiziano, il quale
non poteva quietarsi, se non se col sangue di que' Romani, che egli
temeva, o detestava, o stimava. De' due figli di Flavio Sabino[51] suo
zio, il maggiore fu tosto convinto di meditare tradimenti, ed il minore,
che aveva il nome di Flavio Clemente, dovè la propria salvezza alla
mancanza di coraggio e di abilità[52]. L'Imperatore distinse per lungo
tempo un sì innocente congiunto col suo favore e con la sua protezione,
gli diede in isposa la sua nipote Domitilla, adottò i figli di quel
matrimonio, dando loro la speranza della successione, ed investinne il
padre degli onori del Consolato. Appena però ebbe finita l'annuale sua
magistratura, che per un leggiero pretesto fu condannato e posto a
morte; Domitilla fu bandita in un'Isola abbandonata sulle coste della
Campania[53]; e furon pronunziate sentenze di morte, o di confiscazioni
contro un gran numero di persone, che si trovarono involte nell'accusa
medesima. Il delitto imputato loro fu quello di _Ateismo_, e di _costumi
Giudaici_[54]; singolare associazione d'idee, la quale non può con
alcuna verosimiglianza applicarsi, che a' Cristiani presi in
quell'aspetto, nel quale venivano oscuramente ed imperfettamente
risguardati da' Magistrati e dagli scrittori di quella età. Sulla forza
di una interpretazione così probabile, che ammette con troppa violenza i
sospetti di un tiranno, come una prova del lor onorevol delitto, la
Chiesa ha posto Clemente e Domitilla fra' suoi primi martiri, ed ha
infamati gli atti di Domiziano chiamandoli seconda persecuzione. Ma
questa (se pur merita questo nome) non fu di lunga durata. Pochi mesi
dopo la morte di Clemente e l'esilio di Domitilla, Stefano, liberto del
primo, che aveva goduto il favore, ma sicuramente non aveva abbracciata
la fede della sua Padrona, assassinò l'Imperatore nel proprio di lui
palazzo[55]. La memoria di Domiziano fu condannata dal Senato; furono
annullati i suoi atti; gli esiliati da lui, richiamati; e sotto il dolce
governo di Nerva, mentre si restituirono gl'innocenti ai gradi ed alle
sostanze loro e fortune, anche i più colpevoli ottennero il perdono, o
evitarono la punizione[56].

II. Circa dieci anni dopo, sotto il regno di Traiano, fu affidato a
Plinio il Giovane dal suo amico e signore il governo della Bitinia e del
Ponto. Egli si trovò tosto perplesso nel determinare a qual regola di
giustizia o di legge dovesse appigliarsi nell'esecuzione di un uffizio
il più ripugnante alla sua umanità. Plinio non si era mai trovato
presente ad alcun processo giudiciale contro i Cristiani, de' quali
sembra che non conoscesse che il nome, e gli era del tutto ignota la
natura del lor delitto, il metodo di convincerli, e la misura delle
pene, che si dovevano ad essi applicare. In questa dubbiezza ricorse,
com'era solito, allo spediente di esporre alla saviezza di Traiano un
imparziale, ed in alcuni capi favorevol ragguaglio della nuova
superstizione, supplicando l'Imperatore a degnarsi di sciogliere i suoi
dubbi, e d'illuminare la sua ignoranza[57]. Plinio avea impiegato la sua
vita nell'acquisto della scienza e negli affari del mondo. Fin dall'età
di diciannove anni avea perorato con distinzione ne' tribunali di
Roma[58], occupato un posto nel Senato, goduto gli onori del Consolato,
ed acquistate moltissime relazioni con ogni ceto di uomini così
nell'Italia come nelle Province. Dalla perplessità di lui possiam quindi
trarre qualche utile indizio; possiamo assicurarci, che quando egli
prese il governo della Bitinia, non erano in vigore leggi universali, o
decreti del Senato contro i Cristiani: che nè Traiano, nè alcuno de'
suoi virtuosi predecessori, de' quali erano in uso gli editti nella
giurisprudenza civile e criminale, avevan dichiarato pubblicamente le
loro intenzioni rispetto alla nuova setta, e che per quante processure
si fosser fatte contro i Cristiani, non ve n'era alcuna di peso ed
autorità sufficiente per determinar la condotta di un Magistrato Romano.

La risposta di Traiano, alla quale hanno frequentemente appellato i
Cristiani de' posteriori tempi, dimostra tanto riguardo per la giustizia
e l'umanità, quanto si potea conciliare con le false idee della
religiosa politica[59]. Invece di far vedere l'implacabile zelo d'un
inquisitore, ansioso di scoprire le più minute particolarità
dell'eresia, ed esultante nel numero delle sue vittime, l'Imperatore
manifesta molto maggior premura per proteggere la sicurezza
dell'innocente, che per impedire lo scampo del colpevole. Riconosce la
difficoltà di stabilire alcun sistema generale; ma pone due regole
salutari, che spesso diedero sollievo ed aiuto agli angustiati
Cristiani. Quantunque ordini a' Magistrati di punir quelle persone che
son legalmente convinte, proibisce però loro con una incoerenza molto
umana di far veruna ricerca intorno a' supposti rei. Nè si permette al
Magistrato di procedere in qualunque specie d'accusa. Rigetta
l'Imperatore le accuse anonime come troppo ripugnanti all'equità del suo
governo; ed affinchè si abbiano per convinti coloro, a' quali viene
imputato il delitto di professare il Cristianesimo, rigorosamente
richiede la positiva testimonianza di un onesto ed aperto accusatore.
Egli è probabile ancora, che quelli che assumevano un uffizio sì odioso,
fossero obbligati a dichiarare i fondamenti de' loro sospetti, a
individuare, tanto rispetto al tempo quanto al luogo, le segrete
assemblee, che avevan frequentato i Cristiani loro avversari, ed a
scuoprire un gran numero di circostanze, che si nascondevano con la
gelosia più vigilante agli occhi profani. Se riuscivano in tal impresa,
si esponevano allo sdegno di un attivo e considerabil partito, alla
censura della porzione più culta dell'uman genere, ed all'ignominia, che
in ogni tempo e paese ha sempre accompagnato il carattere di un
accusatore. Se mancavano per l'opposto nelle lor prove, incorrevano la
severa, e forse capital pena, che secondo una legge dell'Imperatore
Adriano, infliggevasi a quelli, che falsamente attribuivano a' loro
concittadini il delitto di Cristianesimo. Potea qualche volta la
violenza di una superstiziosa o personale animosità prevalere alle più
naturali apprensioni della disgrazia e del pericolo; ma non si può senza
dubbio supporre, che accuse di un'apparenza così infelice fossero
leggermente o con frequenza intraprese da' sudditi pagani del Romano
Impero[60].

Dall'espediente, che si usava per eludere la prudenza delle leggi,
rilevasi una sufficiente prova di quanto efficacemente sconcertarono
esse i malvagi disegni della privata malizia, o dello zelo
superstizioso. In una grande e tumultuosa assemblea i freni del timore e
della vergogna, così potenti nelle menti degl'individui, perdono la
massima parte della loro influenza. Il devoto Cristiano, a misura che
desiderava d'ottenere o d'evitar la gloria del martirio, aspettava, o
con impazienza o con terrore, le occasioni de giuochi pubblici e delle
solennità. In queste gli abitanti delle grandi città dell'Impero
adunavansi nel Circo o nel Teatro, dove ogni circostanza, del luogo non
meno che della ceremonia, contribuiva ad accenderne la devozione, e ad
estinguerne l'umanità. Mentre i numerosi spettatori, coronati di
ghirlande, profumati d'incenso, purificati col sangue delle vittime, e
circondati d'altari e di statue delle lor tutelari Divinità, si davano
al godimento de' piaceri, che risguardavan come un'essenzial parte del
culto lor religioso; vedevano che i soli Cristiani abborrivano gli Dei
delle Genti, e con l'assenza e tristezza loro in tali solenni feste
pareva che insultassero, o deplorassero la pubblica felicità. Se
l'Impero era afflitto da qualche nuova disgrazia, da peste, da fame, o
dal cattivo esito di una guerra; se aveva il Tevere dato fuori o il Nilo
non era uscito dalle sue sponde; se la terra s'era scossa, o se
interrotto s'era il solito corso delle stagioni, i superstiziosi Pagani
non dubitavano, che i delitti e l'empietà de' Cristiani, che
risparmiavansi dall'eccessiva lenità del Governo, finalmente avessero
provocato lo sdegno della divina giustizia. Non era da sperare, che in
mezzo ad una licenziosa ed inasprita plebaglia si osservasse la forma di
procedere legalmente; nè l'anfiteatro, asperso del sangue delle bestie
feroci e de' gladiatori, era il luogo dove potesse farsi udire la voce
della compassione. Le grida impazienti della moltitudine denunziavano i
Cristiani come i nemici degli uomini e degli Dei, li condannavano a' più
atroci tormenti, ed avanzandosi a nominare alcuni dei più ragguardevoli
fra nuovi settari, con irresistibil veemenza chiedevano, che
nell'istante medesimo fossero presi ed esposti a' leoni[61]. I
Governatori delle Province, ed i Magistrati, che presedevano a' pubblici
spettacoli, eran per ordinario disposti a soddisfare le inclinazioni, ed
a quietare la rabbia del popolo col sacrifizio di poche vittime,
soggette all'odio di esso. Ma la saviezza degl'Imperatori proteggeva la
Chiesa dal pericolo di simili tumultuarj clamori ed illegittime accuse,
ch'essi a ragione disapprovavano come ripugnanti sì alla fermezza che
all'equità della loro amministrazione. Gli editti di Adriano e di
Antonino Pio dichiararono espressamente, che la voce del popolo non
dovesse mai risguardarsi come una prova legale per convincere, o per
punire que' disgraziati, che abbracciato avevano l'entusiasmo del
Cristianesimo[62].

III. Non era la pena una conseguenza inevitabile dell'essere alcuno
stato convinto; e que' Cristiani dei quali si era con la maggior
chiarezza provato il delitto, mediante il deposto di testimoni, o anche
per la volontaria lor confessione, ritenevano sempre in lor mano la
facoltà di scegliere o la vita o la morte. Non tanto la trasgressione
passata, quanto la resistenza presente eccitava lo sdegno del
Magistrato. Concedevasi un facil perdono al pentimento, e se
acconsentivano di gettar pochi grani d'incenso sopra l'altare, venivan
licenziati dal Tribunale salvi e con applauso. Un Giudice umano stimava
suo dovere di procurare il ravvedimento piuttosto che la pena di que'
delusi entusiasti. Prendendo diverso stile secondo l'età, il sesso, o la
situazione de' prigionieri, spesso adattavasi a mettere loro davanti
agli occhi ogni circostanza, che potesse rendere o più piacevol la vita,
o più terribil la morte, ed a sollecitarli, anzi a pregarli a voler
mostrare qualche compassione verso se stessi, le lor famiglie ed i loro
amici[63]. Se le minacce e le persuasive non avevano effetto, si
ricorreva spesse volte alla forza; supplivano i flagelli e le torture
alla mancanza degli argomenti, e impiegavasi ogni sorta di crudeltà per
domare quell'inflessibile, e come, sembrava a' Pagani, colpevole
ostinazione. Gli antichi Apologisti hanno censurato con ugual verità che
rigore l'irregolar condotta de' lor persecutori, i quali, contro
qualunque principio di giudicial processura, servivansi de' tormenti per
ottenere non già la confessione, ma la negazione del delitto, che
formava l'oggetto di lor ricerche[64]. I Monaci de' secoli posteriori,
che nelle tranquille lor solitudini si occuparono a variare le morti ed
i patimenti de' primi Martiri, hanno spesso inventato tormenti di una
specie molto più raffinata ed ingegnosa. È piaciuto lor di supporre in
particolare, che lo zelo de' Magistrati Romani, sdegnando di avere
qualunque riguardo per la virtù morale, o per la pubblica decenza,
procurasse di sedurre quelli, che non eran capaci di vincere, e che per
lor ordine si esercitasse la più brutale violenza contro coloro, de'
quali trovavano impossibile la seduzione. Si racconta, che talvolta
alcune pie donne le quali erano preparate a disprezzar la morte, furono
condannate a sostenere un esperimento più duro, e forzate a deliberare,
se dovessero valutar più la religione che la lor castità. I giovani, a'
lascivi abbracciamenti de' quali venivano abbandonate, erano
solennemente esortati dal Giudice a fare i loro più vigorosi sforzi per
sostener l'onore di Venere contro quell'empie vergini, che ricusavano di
bruciar l'incenso sopra i suoi altari. La lor violenza però comunemente
restava delusa, e l'opportuna interposizione di qualche miracolo
preservava le caste spose di Cristo anche dal disonore di una
involontaria caduta. Non si dovrebbe in vero tralasciar di osservare,
che le più antiche ed autentiche memorie della Chiesa sono rade volte
macchiate con queste indecenti e stravaganti finzioni[65].

La totale non curanza della probabilità e del vero nella
rappresentazione di questi primitivi martirj fu cagionata da un inganno
molto naturale. Gli scrittori Ecclesiastici del quarto e del quinto
secolo attribuirono a' Magistrati di Roma l'istessa dose d'implacabile
inflessibilissimo zelo, che riempiva i loro petti contro gli Eretici e
gl'Idolatri de' loro tempi. Non è improbabile che alcune di quelle
persone, ch'erano elevate alle dignità dell'Impero, potessero essersi
imbevute dei pregiudizi della plebe, e che la disposizione, che altre
avevano alla crudeltà, potesse venire accidentalmente stimolata da
motivi di avarizia, o di sdegno personale[66]. Ma egli è certo, e
possiamo appellarcene alle confessioni di riconoscenza de' primi
Cristiani, che que' Magistrati, i quali esercitavano l'autorità
dell'Imperatore o del Senato nelle Province, ed alle cui mani era
unicamente affidata la potestà della vita e della morte, per lo più
erano uomini culti e d'ingenua educazione, che rispettavano le regole
della giustizia, ed avevan famigliari i precetti della Filosofia. Spesso
evitavano l'odioso uffizio di persecutori, trascuravano le accuse con
disprezzo, e suggerivano agli accusati Cristiani qualche legal
sotterfugio, per mezzo di cui potessero eludere la severità delle
leggi[67]. Ogni volta ch'erano investiti di un potere non limitato[68],
se ne servivano molto meno per l'oppressione, che pel sollievo e pel
favore dell'afflitta Chiesa. Essi erano ben lontani dal condannar tutti
i Cristiani, che venivano accusati a' lor tribunali, e dal punir colla
morte tutti coloro, ch'eran convinti di un ostinato attaccamento alla
nuova superstizione. Contendandosi per ordinario delle pene più miti
della carcere, dell'esilio, della condanna a' lavori delle miniere[69],
lasciavano alle infelici vittime di lor giustizia qualche ragione di
sperare, che un prospero evento, l'avvenimento al trono, il matrimonio,
o il trionfo d'un Imperatore, potesse in breve, mediante un generai
perdono, restituirli al primiero lor grado. Sembra, che i Martiri,
condannati all'immediata esecuzione da' Magistrati Romani, fossero
scelti dagli estremi più opposti fra loro. Essi erano o Vescovi o Preti,
vale a dire le persone più distinte fra' Cristiani per causa del lor
grado e dell'influenza che avevano sopra degli altri, onde il loro
esempio potesse incuter terrore in tutta la setta[70]; oppure gl'infimi
e più abietti fra loro, particolarmente quelli di servil condizione, le
vite de' quali stimavansi di piccol valore, ed i lor patimenti si
risguardavano dagli antichi con troppa indifferenza e disprezzo[71]. Il
dotto Origene, che per la sua esperienza ed erudizione era benissimo
informato dell'istoria de' Cristiani, dichiara ne' più espressi termini,
che il numero de' Martiri non era molto considerabile[72]. La sola
testimonianza di lui dovrebbe servire ad annientare quel formidabile
esercito di Martiri, le reliquie de' quali, tratte per la maggior parte
dalle catacombe di Roma, hanno riempiuto tante Chiese[73], e che
mediante le loro maravigliose azioni sono stati il soggetto di tanti
volumi di Sacri romanzi[74]. Ma può spiegarsi e confermarsi l'asserzione
generale d'Origene con le particolari testimonianze del suo amico
Dionisio, il quale nell'immensa Città d'Alessandria, ed al tempo della
rigorosa persecuzione di Decio non conta che dieci uomini e sette donne,
che soffrirono per la professione del nome Cristiano[75].

Nel corso della medesima persecuzione governava la Chiesa non sol di
Cartagine, ma eziandio dell'Affrica lo zelante, l'eloquente, ed
ambizioso Cipriano. Aveva esso tutte le qualità, che impegnar potevano
la riverenza del Fedele, o provocare i sospetti, e l'ira de' magistrati
Pagani. Pareva, che il carattere parimente e la situazione di lui
additassero quel santo Prelato come il più distinto oggetto del pericolo
e dell'invidia[76]. L'esperienza però della vita di Cipriano è
sufficiente a provare, che la nostra immaginazione ha esagerato le
pericolose circostanze di un Vescovo Cristiano; e che i rischi, a' quali
andava esposto, erano meno imminenti di quelli, che la temporale
ambizione è sempre disposta a incontrare nella carriera degli onori.
Furono uccisi quattro Imperatori Romani con le loro famiglie, i
favoriti, gli aderenti nello spazio di dieci anni; durante il qual tempo
guidò il Vescovo di Cartagine con la sua autorità ed eloquenza le
deliberazioni della Chiesa Affricana. Solo nel terz'anno del suo Governo
ebb'egli motivo per pochi mesi di temere i rigorosi editti di Decio, la
vigilanza de' Magistrati ed i clamori del Popolo, che ad alta voce
dimandava, che Cipriano, condottier de' Cristiani, fosse gettato a'
leoni. La prudenza suggerì come necessaria per un tempo la ritirata, ed
egli obbedì alla voce della prudenza. Si ritirò in un'oscura solitudine,
dalla quale potè mantenere una costante corrispondenza col Clero e col
Popolo di Cartagine; e nascondendosi finchè la tempesta fosse passata,
si conservò in vita, senza interrompere la sua potenza o la sua
riputazione. L'estrema di lui cautela però non isfuggì la censura de'
più rigidi fra' Cristiani, che si lagnavano, nè i rimproveri de' suoi
personali nemici, che insultavano una condotta, da essi risguardata come
un pusillanime e colpevole abbandono del più sacro dovere[77]. La
convenienza di riservarsi per li futuri bisogni della Chiesa, l'esempio
di molti santi Vescovi[78] e le divine ammonizioni, ch'egli stesso
dichiarava di ricever frequentemente nelle visioni e nell'estasi, erano
le ragioni, ch'esso adduceva per giustificarsi[79]. Ma si vede la sua
migliore apologia nella volontaria fermezza, con cui, circa otto anni
dopo, soffrì la morte per causa della religione. È stata fatta l'istoria
autentica del suo martirio con insolito candore ed imparzialità; onde un
breve ragguaglio delle circostanze più importanti, che l'accompagnarono,
ci darà la più chiara idea dello spirito e delle formalità delle
persecuzioni Romane[80].

Nel tempo che Valeriano era Console per la terza volta, e Gallieno per
la quarta, Paterno, Proconsole d'Affrica, citò Cipriano a comparire
avanti al suo Consiglio privato. Ivi l'informò dell'ordine Imperiale che
allora avea ricevuto[81], affinchè quelli, che avevano abbandonato la
religione Romana, dovessero immediatamente tornare a praticar le
ceremonie de' loro antenati. Cipriano replicò senza esitare, ch'egli era
un Cristiano ed un Vescovo consacrato al culto dell'unico e vero Dio, al
quale offeriva ogni giorno le proprie suppliche per la salvezza e
prosperità de' due Imperatori, suoi legittimi Sovrani. Con modesta
fiducia invocò il privilegio di cittadino, ricusando di dare alcuna
risposta a varie odiose ed, a vero dire, illegali questioni, che il
Proconsole avea proposte. Fu pronunziata una sentenza d'esilio per pena
della disubbidienza di Cipriano, e fu esso condotto senza dilazione a
Curabi, città libera e marittima, di Zeugitania, in una piacevol
situazione, in un fertile territorio, ed alla distanza di circa quaranta
miglia da Cartagine[82]. L'esule Vescovo godeva de' comodi della vita e
della coscienza della propria virtù. Era sparsa la sua riputazione per
l'Affrica e per l'Italia; fu pubblicato, per edificazione del mondo
Cristiano, un racconto della sua condotta[83]; e la solitudine del
medesimo era frequentemente interrotta dalle lettere, dalle visite, e
dalle congratulazioni de' Fedeli. All'arrivo di un nuovo Proconsole
nella Provincia, parve che la fortuna di Cipriano prendesse per qualche
tempo un aspetto più favorevole. Fu esso richiamato dal bando, e
quantunque non gli fosse per anche permesso di ritornare in Cartagine,
gli furono assegnati per luogo di sua dimora i propri di lui giardini,
situati ne' contorni della capitale[84].

Finalmente, appunto un anno dopo che Cipriano fu chiamato per la prima
volta in giudizio, Galerio Massimo, Proconsole d'Affrica, ricevè
l'imperial dispaccio pur l'esecuzione de' Dottori Cristiani[85]. Al
Vescovo di Cartagine parve grave di esser egli destinato per una delle
prime vittime, e la fragilità della natura lo tentò a sottrarsi per
mezzo di una segreta fuga al pericolo ed all'orror del martirio; ma
presto ricuperando quella fortezza ch'esigeva il proprio carattere,
tornò a' suoi giardini, ed aspettò pazientemente i ministri della morte.
Due uffiziali di qualità, a' quali affidata venne tal commissione,
posero Cipriano in un cocchio fra loro, e poichè il Proconsole allora
non era in comodo, lo condussero non già in una carcere, ma in una casa
privata in Cartagine, appartenente ad uno di essi. Fu apparecchiata
un'elegante cena pel Vescovo, e fu permesso a' suoi amici Cristiani di
godere per l'ultima volta la sua compagnia, mentr'eran piene le contrade
di una moltitudine di Fedeli, ansiosi ed agitati per l'imminente morte
del loro padre spirituale[86]. Nella mattina comparve avanti il tribunal
del Proconsole, il quale dopo essersi informato del nome e della
situazione di Cipriano, gli comandò di sacrificare agli Dei, e lo eccitò
a riflettere alle conseguenze della sua disubbidienza. Il rifiuto di
Cipriano fu stabile e decisivo; ed il Magistrato, dopo ch'ebbe udita
l'opinione del suo consiglio, con qualche ripugnanza pronunziò la
sentenza di morte. Questa fu conceputa ne' termini seguenti. «Che
immediatamente sia decapitato Tascio Cipriano, come nemico degli Dei di
Roma, come capo e condottiero di una rea società, la quale da esso è
stata sedotta ad empiamente resistere alle leggi de' santissimi
Imperatori Valeriano e Gallieno[87].» La forma della sua esecuzione fu
la più mite e la meno penosa, che dar si potesse ad una persona convinta
di un delitto capitale; nè fu adoperato l'uso della tortura, per
ottenere dal Vescovo di Cartagine o l'abbiurazione delle sue massime, o
la scoperta de' complici.

Tosto che fu pubblicata la sentenza, «Noi moriremo con lui» gridò
generalmente tutta insieme la moltitudine dei Cristiani, che stava ad
ascoltare avanti le porte del Palazzo. Le generose loro dimostrazioni di
zelo e di affetto non furono nè vantaggiose a Cipriano, nè per loro
stessi pericolose. Fu egli condotto sotto la guardia de' Tribuni e de'
Centurioni, senza resistenza, e senza insulto, al luogo dell'esecuzione,
ch'era una spaziosa pianura vicina alla città, ed era già piena di un
gran numero di spettatori. A' fedeli di lui Diaconi e Preti fu concesso
di accompagnare il Santo lor Vescovo. Essi l'aiutarono a togliersi le
vesti di sopra, stesero sul terreno de' panni per raccoglier le preziose
reliquie del suo sangue, e da esso riceveron l'ordine di dare
venticinque monete d'oro all'esecutore. Dopo di che il Martire si cuoprì
con le proprie mani la faccia, e ad un solo colpo fu reciso il suo capo
dal busto. Rimase per alcune ore il cadavere esposto alla curiosità de'
Gentili; ma nella notte fu tolto di là, e con trionfal processione allo
splendore di molti lumi fu trasportato al cimitero dei Cristiani. Furon
celebrate pubblicamente a Cipriano l'esequie senza il minimo impedimento
per parte dei Magistrati Romani; e que' Fedeli, che prestaron gli ultimi
uffizj alla persona e memoria di lui, furono sicuri da ogni pericolo
d'inquisizione o di pena. Egli è da osservarsi, che in una moltitudine
sì grande di Vescovi, che si trovavano nella Provincia dell'Affrica,
Cipriano fu il primo, che fosse reputato degno di ottener la corona del
martirio[88].

Era veramente in poter di Cipriano o di morir martire, o di vivere
apostata: ma dipendeva da questa scelta l'alternativa dell'onore, o
dell'infamia. Se potesse anche supporsi che il Vescovo di Cartagine si
fosse servito della professione della fede Cristiana solo come
d'istrumento della propria ambizione o avarizia, doveva egli sempre
sostenere il carattere che aveva assunto[89]; e se in lui era la minima
dose di viril fortezza, doveva esporsi piuttosto a' più crudeli
tormenti, che per un solo atto cambiare la riputazione di tutta la vita
nell'abborrimento de' suoi Cristiani fratelli e nel disprezzo del mondo
Gentile. Ma se lo zelo di Cipriano veniva sostenuto da una sincera
persuasione della verità di quelle dottrine ch'egli predicava, la corona
del martirio dovea sembrargli piuttosto un oggetto di desiderio che di
terrore. Dalle vaghe, sebben eloquenti declamazioni de' Padri non è così
facile di concepire un'idea distinta, o di determinare il grado di
quell'immortal gloria e felicità, ch'essi con fiducia promettevano a
quelli ch'erano sì fortunati da spargere il proprio sangue in difesa
della religione[90]. Con la diligenza che si conveniva, essi
inculcavano, che il fuoco del martirio suppliva ogni difetto, ed espiava
ogni colpa; che mentre le anime degli altri Cristiani eran obbligate a
passare per una lenta e penosa purificazione, i Martiri entravano
trionfanti al godimento immediato dell'eterna felicità, dove in
compagnia de' Patriarchi, degli Apostoli e de' Profeti regnavan con
Cristo, ed erano come assessori di esso nell'universal giudizio
dell'uman genere. La sicurezza di una durevole riputazione sopra la
terra, motivo sì confacente alla vanità della natura umana, serviva
spesse volte ad animare il coraggio de' Martiri. Gli onori, che Roma od
Atene largivano a' que' cittadini, ch'erano morti per difesa della lor
patria, non erano che fredde e deboli dimostrazioni di rispetto, ove si
confrontino coll'ardente gratitudine e devozione, ch'esprimeva la
primitiva Chiesa verso i vittoriosi campioni della fede. S'incominciò a
celebrare come una ceremonia sacra l'annual commemorazione delle virtù e
dei tormenti loro, e andò a terminar finalmente in un culto religioso.
Fra' Cristiani poi, che avevan pubblicamente confessato i principj di
lor religione, quelli che si liberavano (come spesso accadeva) dal
tribunale o dalle carceri de' Magistrati Pagani, godevano quegli onori
ch'erano giustamente dovuti all'imperfetto martirio, ed alla generosa
fermezza che avevano dimostrato. Le più devote donne ambivano che fosse
loro permesso d'imprimer baci su' ferri ch'essi avevan portato, e sulle
ferite che avevano ricevuto. Le lor persone si stimavano sante; se ne
ricevevan con rispetto le decisioni; ed essi troppo spesso abusavano,
col loro spirituale orgoglio e colle licenziose maniere, della
preminenza, che lo zelo e l'intrepidezza avevano loro acquistato[91].
Distinzioni di questa sorta, nel tempo che rappresentano la
grand'esaltazione del merito, mostrano il picciol numero di quelli che
soffrirono patimenti, o la morte per la professione del Cristianesimo.

La sobria discrezione de' nostri tempi sarebbe più portata a censurar
che ad ammirare, e potrebbe anche più facilmente ammirar che imitare il
favore de' primi Cristiani, i quali, secondo la viva espressione di
Sulpicio Severo, desideravano il martirio con maggiore ansietà di quel
che i suoi contemporanei sollecitassero un Vescovato[92]. L'epistole
scritte da Ignazio, quando egli era condotto in catene per le città
dell'Asia, spirano i sentimenti più ripugnanti alla comune inclinazione
della natura dell'uomo. Vivamente egli prega i Romani, che quando sarà
esposto nell'Anfiteatro, non vogliano con le lor tenere ma inopportune
intercessioni privarlo della corona della gloria, e si dichiara risoluto
di voler provocare ed irritar le bestie feroci, che verrebbero impiegate
come istrumenti della sua morte[93]. Si raccontano alcune storie del
coraggio di Martiri, che effettivamente fecero quel che Ignazio s'era
proposto: che inasprirono il furor de' Leoni, sollecitaron l'esecutore
ad affrettare il suo uffizio, allegramente saltaron nel fuoco preparato
per consumarli, e dimostrarono un senso di gioia e di piacere nel mezzo
de' più squisiti tormenti. Si son conservati molti esempi di uno zelo,
che non poteva soffrire que' freni che gl'Imperatori avean posti per
sicurezza della Chiesa. Supplivano alle volte i Cristiani medesimi con
la propria volontaria dichiarazione alla mancanza di un accusatore,
precipitosamente sturbavano le pubbliche funzioni del Paganesimo[94], e
correndo in folla a' tribunali de' Magistrati, chiedevano loro che
pronunziassero ed eseguissero la sentenza stabilita dalla legge. La
condotta de' Cristiani era in vero troppo notabile per isfuggire alla
vista degli antichi Filosofi; ma sembra che fosse per loro un oggetto
molto meno d'ammirazione che di stupore. Incapaci d'immaginare i motivi,
che alle volte trasportavano la fortezza de' credenti oltre i confini
della prudenza o della ragione, trattavano tale ansietà di morire come
uno stravagante risultato di ostinata disperazione, di stupida
insensibilità, o di superstiziosa frenesia[95]. «Infelici! (esclamò il
Proconsole Antonino, parlando a' Cristiani dell'Asia) infelici! se voi
siete sì stanchi di vivere, vi sembra egli tanto difficil cosa il trovar
delle funi e de' precipizj?[96].» Egli andò sommamente guardingo (come
osserva un erudito e devoto Istorico) nel punire persone che non avevan
trovati altri accusatori che se medesimi, non essendosi dalle leggi
Imperiali fatto provvedimento veruno per un caso così inaspettato;
laonde avendone condannati alcuni pochi per servir d'esempio a' loro
fratelli, scacciò la moltitudine con indignazione e disprezzo[97].
Nonostante però questo reale o affettato sdegno, l'intrepida costanza
de' Fedeli produceva gli effetti più salutari su quegli spiriti, che
dalla natura e dalla grazia eran disposti a ricever facilmente le verità
religiose. In tali funeste occasioni, fra' Gentili v'erano molti, che
avevano compassione, che ammiravano, e che si convertivano. Da quelli
che pativano, si comunicava il generoso entusiasmo agli spettatori, ed
il sangue de' Martiri, secondo una ben nota osservazione, divenne il
seme della Chiesa.

Ma sebbene la devozione sublimato avesse, e l'eloquenza continuasse ad
infiammar questo ardor della mente, pure esso diede insensibilmente
luogo alle speranze e ai timori più naturali del cuore umano, all'amor
della vita, all'apprension della pena, ed all'orrore del proprio
discioglimento. I più prudenti regolatori della Chiesa trovaronsi
costretti a raffrenar l'indiscreto fervore de' lor seguaci, e a
diffidare di una costanza, che troppo spesso gli abbandonava nell'ora
dell'esperimento[98]. A misura che divenne meno mortificata ed austera
la vita de' Fedeli, essi furono di giorno in giorno meno ambiziosi degli
onori del martirio; ed i soldati di Cristo, in vece di distinguersi con
volontarie azioni d'eroismo, disertavan frequentemente dal loro posto, e
fuggivano in confusione l'aspetto di quel nemico, al quale erano in
dover di resistere. Vi erano però tre maniere di evitare le fiamme della
persecuzione, che non portavan seco il grado medesimo di reato: la prima
in vero si risguardava generalmente come innocente; la seconda era di
una specie dubbiosa, o almeno di una veniale mancanza; ma la terza
induceva una diretta e colpevole apostasia dalla fede Cristiana.

I. Un moderno Inquisitore udirebbe veramente con sorpresa, che allorchè
avanti ad un Magistrato Romano accusavasi alcuno sottoposto alla sua
giurisdizione, per aver abbracciato la setta del Cristianesimo, fosse
comunicata l'accusa alla parte accusata, e le fosse accordato un
conveniente spazio di tempo per porre in ordine i propri affari
domestici, e per preparare una difesa al delitto che le veniva
imputato[99]. Se l'accusato avea qualche dubbio intorno alla propria
costanza, tal dilazione gli somministrava l'opportunità di conservar la
sua vita ed il suo onore mediante la fuga, di ritirarsi in qualche
oscura solitudine, o in qualche distante Provincia per ivi aspettare
pazientemente il ritorno della sicurezza e della pace. Un contegno sì
conforme alla ragione veniva spesso autorizzato dall'avviso e
dall'esempio de' più santi Prelati, e sembra, che fosse censurato da
pochi, se si eccettuino i Montanisti, che dal loro stretto ed ostinato
attaccamento pel rigore dell'antica disciplina furon condotti
all'eresia[100]. II. I Governatori delle Province, ne' quali non
prevaleva lo zelo all'avarizia, avevano introdotto il costume di vendere
degli attestati (o come si dicevan _libelli_) ne' quali facevan fede,
che le persone ivi menzionate avean soddisfatto alle leggi, e
sacrificato alle Romane divinità. Producendo queste false dichiarazioni,
potevano gli opulenti e timorosi Cristiani ridurre al silenzio la
malignità di un accusatore, e in qualche modo conciliare la religione
con la loro salvezza. Una tenue penitenza poi serviva a purgare questa
profana dissimulazione[101]. III. In ogni persecuzione si trovava un
gran numero d'indegni Cristiani, che pubblicamente negavano, o
rinunciavano la fede che professavano; e che confermavan la sincerità di
loro abbiura con gli atti legali di ardere incenso, o di offerire
sacrifizii. Alcuni di questi apostati cedevano alla prima esortazione o
minaccia del Magistrato, mentre la pazienza d'altri era vinta dalla
lunghezza e reiterazion de' tormenti. I volti spaventati di alcuni
tradivano i loro interni contrasti, mentre altri s'avanzavano con
fiducia ed ilarità verso gli altari degli Dei[102]. Ma la finzione,
indotta dal timore, non durava più lungamente del presente pericolo.
Appena diminuiva il rigore della persecuzione, le porte della Chiesa
erano assediate dalla moltitudine de' penitenti, che detestavano la loro
idolatrica sommissione, e che supplicavano con uguale ardore, ma con
vario successo, di esser nuovamente ricevuti nella società de'
Cristiani[103].

IV. Quantunque fossero stabilite varie regole generali per convincere e
per punire i Cristiani, pure in un esteso ed arbitrario governo il
destino di que' settarj doveva sempre in gran parte dipendere dal lor
portamento, dalle circostanze de' tempi e dall'indole tanto del supremo,
che de' subalterni lor Giudici. Alle volte lo zelo potea provocare, e la
prudenza mitigare o rimuovere il superstizioso furor de' Pagani. Diversi
motivi potevan disporre i Governatori delle Province a mantenere in
vigore, o a rilassar l'esecuzione delle leggi, ed il più forte fra
questi era il riguardo che avevano non solo pei pubblici editti, ma
ancora per le segrete intenzioni dell'Imperatore, del quale uno sguardo
era sufficiente ad accendere, o ad estinguere la persecuzione. Ogni
volta che si esercitava qualche accidentale severità nelle diverse parti
dell'Impero, i primitivi Cristiani si dolevano de' lor patimenti, e
forse gli ampliavano; ma il celebre numero di _dieci_ persecuzioni fu
determinato dagli scrittori Ecclesiastici del quinto secolo, che avevano
una cognizione più distinta de' casi prosperi ed avversi della Chiesa,
dal tempo di Nerone fino a quello di Domiziano. Gl'ingegnosi paralelli
delle _dieci_ piaghe d'Egitto e delle _dieci_ corna dell'Apocalisse
furono i primi a suggerir questo numero alle lor menti, e
nell'applicazione, che facevano della fede profetica alla verità
istorica, ebber la cura di sceglier que' regni che furon veramente i più
contrari alla causa de' Cristiani[104]. Ma queste passeggiere
persecuzioni non servivano, che a ravvivare lo zelo, ed a restaurar la
disciplina de' Fedeli, ed i momenti di un rigore straordinario venivan
compensati da intervalli molto più lunghi di sicurezza e di pace.
L'indifferenza di alcuni Principi, e l'indulgenza di altri fecer godere
a' Cristiani una pubblica e di fatto, quantunque per avventura non
giuridica, tolleranza di lor religione.

L'Apologia di Tertulliano contiene due molto antichi, molto singolari, e
nel tempo stesso molto sospetti esempi d'Imperiale clemenza, cioè gli
editti pubblicati sotto Tiberio e Marco Antonino, e diretti non solo a
protegger l'innocenza de' Cristiani, ma anche a promulgare quegli
stupendi miracoli che avevan contestato la verità di lor dottrina. Il
primo di essi è accompagnato da alcune difficoltà, che potrebbero far
dubitare uno spirito scettico[105]. Ci si vorrebbe far credere, _che_
Ponzio Pilato informasse l'Imperatore dell'ingiusta sentenza di morte,
ch'esso aveva pronunziata contro una persona innocente, e per quanto
pareva, divina, e che, senza acquistarne il merito, si esponesse al
pericolo del martirio; _che_ Tiberio il quale non occultava il suo
disprezzo per ogni religione, immediatamente concepisse il disegno di
porre il Messia Giudeo fra' Numi Romani; _che_ il servile Senato si
avventurasse a disubbidire a' comandi del suo Signore; _che_ Tiberio,
invece di risentirsi di tal rifiuto, si contentasse di proteggere i
Cristiani dalla severità delle leggi, molti anni prima che queste
fossero fatte, o avanti che la Chiesa prendesse un nome, o avesse
un'esistenza particolare; e finalmente _che_ si conservasse la memoria
di questo fatto straordinario ne' registri più pubblici ed autentici, i
quali non vennero a notizia degl'Istorici Greci e Romani, e furon
soltanto visibili agli occhi di un Cristiano d'Affrica, il quale compose
la sua apologia cento sessant'anni dopo la morte di Tiberio. Si suppone,
che l'Editto di Marco Antonino fosse l'effetto della sua devozione e
gratitudine per essere stato miracolosamente liberato nella guerra
contro i Marcomanni. L'angustia delle Legioni, l'opportuna tempesta di
pioggia e di grandine, di tuoni e di fulmini, ed il terrore e la
disfatta de' Barbari, si celebrarono dall'eloquenza di più scrittori
Pagani. Se in quell'esercito si fosse trovato alcun Cristiano, egli era
naturale ch'essi dovessero attribuir qualche merito alle fervide preci,
che nel momento del pericolo avean fatte per la propria, e per la
pubblica sicurezza. Ma tuttavia siamo assicurati da monumenti di marmo e
di rame, dalle medaglie Imperiali e dalla colonna Antonina, che nè il
Principe, nè il Popolo dimostrò alcun sentimento di questo segnalato
favore, giacchè attribuirono di comune accordo la loro liberazione alla
providenza di Giove ed all'interposizion di Mercurio. In tutto il corso
del suo Regno, Marco disprezzò i Cristiani come filosofo, e li punì come
Sovrano[106].

Per una fatalità singolare, i travagli che avevano sofferto i Cristiani
sotto il governo di un Principe virtuoso, immediatamente cessarono al
comparir di un Tiranno, e siccome nessuno, fuori di loro, aveva
sperimentato l'ingiustizia di Marco, così furono essi soli protetti
dalla piacevolezza di Commodo. La celebre Marcia, che fu la prima
favorita fra le sue concubine, e che finalmente tramò l'uccisione
dell'Imperiale suo amante, aveva un singolare affetto per l'oppressa
Chiesa; e benchè fosse impossibile, ch'ella conciliar potesse la pratica
del vizio co' precetti dell'Evangelio, pure poteva sperar di purgare le
fragilità del suo sesso e della sua professione, dichiarandosi
protettrice de' Cristiani[107]. Sotto la graziosa protezione di Marcia
essi passarono in sicurezza i tredici anni di quella crudel tirannia, e
quando si stabilì l'Impero nella casa di Severo, acquistarono una
famigliare, ma più onorevole connessione con la nuova Corte.
L'Imperatore era persuaso, che in una pericolosa malattia gli fosse
stato di qualche vantaggio o spirituale o fisico l'olio santo, col quale
un suo schiavo l'aveva unto. Ei trattò sempre con particolar distinzione
molti di ambedue i sessi, che avevano abbracciato la nuova religione. La
nutrice non meno che il precettore di Caracalla furono Cristiani; e se
mai quel Principe mostrò un sentimento d'umanità, ne fu cagione un
accidente, che sebbene di piccol peso, ha qualche relazione alla causa
del Cristianesimo[108]. Nel regno di Severo fu tenuta in freno la furia
del popolo; per qualche tempo sospeso il rigore delle antiche leggi; ed
i Governatori delle Province restavano soddisfatti con ricevere un dono
annuale dalle Chiese poste dentro i limiti di loro giurisdizione, come
prezzo o guiderdone della loro moderatezza[109]. La controversia intorno
al preciso tempo di celebrar la Pasqua armò i Vescovi dell'Asia e
dell'Italia gli uni contro gli altri, e fu questo risguardato come
l'affare più importante di quel tempo di pace e di tranquillità[110]. Nè
fu interrotta la quiete della Chiesa, finchè sempre crescendo il numero
de' proseliti, sembra che finalmente richiamasse l'attenzione, o
alienasse l'animo di Severo. Col fine d'impedire il progresso del
Cristianesimo, pubblicò un editto, che sebbene fosse diretto soltanto
contro quelli che si convertivan di nuovo, pure non si potè
rigorosamente mettere in esecuzione senza esporre al pericolo ed alla
pena i più zelanti tra' loro Dottori e Missionari. In questa mite
persecuzione possiam ravvisar sempre lo spirito indulgente di Roma e del
Politeismo, che sì facilmente ammetteva ogni cosa in favore di quelli,
che praticavano le religiose cerimonie de' loro Padri[111].

Ma presto spirarono, insieme con l'autorità di Severo, le leggi ch'egli
avea fatte; ed i Cristiani, dopo questa accidentale tempesta, goderono
una calma di trentotto anni[112]. Fino a quest'epoca essi avevano per
ordinario tenuto le loro assemblee in case private ed in luoghi remoti.
Fu loro permesso in questo tempo di erigere e di consacrare edifizi atti
all'esercizio del culto religioso[113], di comprar terre anche
nell'istessa Roma per uso della comunità; e di far l'elezioni de' lor
ministri Ecclesiastici in una forma così pubblica, e nel tempo stesso
così esemplare da meritar la rispettosa attenzione dei Gentili[114].
Questo lungo riposo della Chiesa fu congiunto con la dignità. I regni di
que' Principi, che traevan l'origine dalle Province dell'Asia, furono i
più favorevoli per li Cristiani: le persone eminenti di questa setta,
invece d'essere ridotte ad implorare la protezione di uno schiavo, o
d'una concubina, erano ammesse nel Palazzo coll'onorevol carattere di
sacerdoti e di filosofi; e le lor misteriose dottrine, ch'erano già
sparse fra il popolo, insensibilmente attirarono la curiosità del
Sovrano. Quando l'Imperatrice Mammea passò da Antiochia, dimostrò
desiderio di trattar col celebre Origene, che avea diffuso la fama della
sua pietà e dottrina per l'Oriente. Obbedì Origene ad un invito così
lusinghiero, e quantunque non potesse sperar di succedere nella
conversione di una donna artificiosa ed ambiziosa, essa udì con piacere
le eloquenti di lui esortazioni, ed onorevolmente lo rimandò al suo
ritiro di Palestina[115]. Furono adottati i sentimenti di Mammea dal suo
figliuolo Alessandro, e fu indicata la filosofica devozione di
quell'Imperatore da un singolare ma indiscreto riguardo per la religione
Cristiana. Collocò egli nella sua Cappella domestica le statue d'Abramo,
di Orfeo, d'Apollonio e di Cristo, quasi volendo fare un onore
giustamente dovuto a que' rispettabili savj, che in vari modi avevano
instruito il genere umano a porger omaggio alla suprema ed universale
divinità[116]. Fra' suoi domestici, si professava e si esercitava
apertamente una fede ed un culto più puro. Furono forse per la prima
volta veduti a Corte de' Vescovi, ed allorchè, dopo la morte di
Alessandro, il crudel Massimino scaricò il suo furore sopra i favoriti
ed i servi dell'infelice di lui benefattore, molti Cristiani di ogni
grado e di ambedue i sessi furono involti nel promiscuo macello, che ha,
per tal motivo, impropriamente ricevuto il nome di Persecuzione[117].

Nonostante la crudel disposizione di Massimino, gli effetti del suo
sdegno contro i Cristiani furon limitati solo a certi luoghi e tempi, ed
il pio Origene, ch'era stato proscritto come una sacra vittima, fu
tuttavia riservato a portare la verità del Vangelo alle orecchie de'
Monarchi[118]. Egli mandò varie lettere edificanti all'Imperator
Filippo, alla sua moglie ed alla madre; ed appena quel Principe, ch'era
nato nelle vicinanze della Palestina, ebbe usurpato lo scettro
Imperiale, i Cristiani acquistarono un amico ed un protettore. Il
pubblico ed anche parzial favore di Filippo verso i seguaci della nuova
religione, ed il costante di lui rispetto per li Ministri della Chiesa
diedero qualche colore al sospetto, che prevalse in que' tempi, che
l'Imperatore medesimo si fosse convertito alla fede[119], e somministrò
qualche fondamento ad una favola, che in seguito fu inventata, vale a
dire ch'egli s'era purgato, mediante la confessione e la penitenza,
dalla colpa contratta per l'uccisione del suo innocente
predecessore[120]. La caduta di Filippo introdusse con la mutazione dei
Principi un nuovo sistema di governo, così oppressivo per li Cristiani,
che l'antecedente lor condizione fino dal tempo di Domiziano, si
rappresentava come uno stato di perfetta libertà e sicurezza,
paragonandolo col rigoroso trattamento, ch'essi soffrirono sotto il
breve regno di Decio[121]. Le virtù di questo Principe difficilmente ci
permetteranno di sospettare che un vile odio contro i favoriti del suo
predecessore influisse sopra di lui, ed è più ragionevole di credere,
che nell'esecuzione del suo disegno generale di restaurar la purità de'
costumi Romani, desiderasse di liberar l'Impero da quella ch'esso
condannava come una rea e nuova superstizione. I Vescovi delle città più
considerabili furono condannati all'esilio o alla morte; la vigilanza
de' Magistrati impedì per sedici mesi al Clero di Roma di procedere ad
una nuova elezione; ed era opinion de' Cristiani, che l'Imperatore
avrebbe sofferto con maggior pazienza un competitore alla porpora che un
Vescovo nella Capitale[122]. Se fosse possibile di supporre, che la
penetrazione di Decio scoperto avesse l'orgoglio sotto il manto
dell'umiltà, o che avesse potuto prevedere, che dalle pretensioni di
autorità spirituale sarebbe insensibilmente nato il dominio temporale,
ci cagionerebbe minor sorpresa, ch'egli risguardasse i successori di S.
Pietro come i rivali più formidabili di quelli d'Augusto.

Il Governo di Valeriano si distinse per una leggerezza ed incostanza,
che mal conveniva alla gravità di un _Censore di Roma_. Nel principio
del suo regno, egli sorpassò in clemenza que' Principi de' quali si era
sospettato che avessero abbracciata la fede Cristiana. Negli ultimi tre
anni e mezzo, prestando orecchio alle insinuazioni di un ministro
addetto alle superstizioni dell'Egitto, adottò le massime, ed imitò la
severità del suo predecessore Decio[123]. L'esaltamento di Gallieno, che
accrebbe le calamità dell'Impero, restituì la pace alla Chiesa, ed i
Cristiani ottennero il libero esercizio della loro religione, mercè di
un editto diretto ai Vescovi, e concepito in tali termini, che sembrava
riconoscere in essi un uffizio e carattere pubblico[124]. Si tollerava
che le antiche leggi, senza venir formalmente rivocate, cadessero
nell'obblivione; ed eccettuate alcune ostili intenzioni attribuite
all'Imperatore Aureliano[125], i Discepoli di Cristo passarono più di
quarant'anni in uno stato di prosperità molto più pericoloso per la loro
virtù, che i più aspri patimenti della persecuzione.

L'istoria di Paolo Samosateno, che occupò la Sede Metropolitana
d'Antiochia, allorchè l'Oriente trovavasi nelle mani di Odenato e di
Zenobia, può servire ad illustrare la condizione ed il carattere di que'
tempi. La ricchezza di quel Prelato era una prova sufficiente di sua
reità, mentre non aveva avuto origine nè dall'eredità de' suoi padri, nè
dalle arti di un'onesta industria. Ma Paolo risguardava il servigio
della Chiesa come una professione molto lucrosa[126]. La sua
Giurisdizione ecclesiastica era venale e rapace, estorceva frequenti
contribuzioni da' più facoltosi Fedeli, e convertiva in uso proprio gran
parte dell'entrata comune. La religione Cristiana, per causa
dell'orgoglio e lusso del medesimo, si rendè odiosa agli occhi de'
Gentili. Il luogo, dove teneva consiglio, ed il suo trono, lo splendore
col quale compariva in pubblico, la folla de' supplicanti che implorava
la sua attenzione, la quantità di lettere e di suppliche, alle quali
dettava le sue risposte, e la perpetua confusione di affari, ne' quali
era involto, erano circostanze molto più convenienti allo stato di un
Magistrato civile[127], che all'umiltà di un Vescovo antico. Ogni volta
ch'egli parlava dal pulpito al popolo, affettava lo stil figurato ed i
gesti teatrali di un sofista Asiatico, mentre la Cattedrale risuonava
delle più alte e stravaganti acclamazioni in lode della sua divina
eloquenza. Contro coloro, che resistevano al suo potere o ricusavano di
adular la sua vanità, il Prelato d'Antiochia era arrogante, rigido ed
inesorabile, ma rilassava la disciplina, e distribuiva con prodiga mano
i tesori della Chiesa ai Cherici da lui dipendenti, a' quali era
permesso d'imitare il lor capo nella soddisfazione di ogni sensuale
appetito; giacchè Paolo si deliziava molto liberamente ne' piaceri della
tavola, ed avea ricevuto nel Palazzo Episcopale due giovani e belle
donne, come compagne costanti de' suoi momenti di quiete[128].

Nonostanti questi scandalosi vizi, se Paolo di Samosata conservato
avesse la purità della fede ortodossa, il suo regno sopra la capital
della Siria non sarebbe terminato che con la sua vita: e se fosse nata
un'opportuna persecuzione, uno sforzo di coraggio avrebbe forse potuto
collocarlo nello schiera de' Santi e de' Martiri. Alcuni delicati e
sottili errori, ch'egli adottò imprudentemente, ed ostinatamente
sostenne intorno alla dottrina della Trinità, eccitarono lo zelo e lo
sdegno delle Chiese orientali[129]. I Vescovi, dall'Egitto fino al Ponto
Eusino, si posero in armi ed in movimento. Furon tenuti vari Concili,
pubblicate confutazioni, pronunziate scomuniche, accettate e ricusate a
vicenda dichiarazioni ambigue, conclusi e violati trattati, e finalmente
Paolo di Samosata fu spogliato del suo carattere Episcopale per sentenza
di settanta o ottanta Vescovi, che a tal fine si adunarono in Antiochia,
e che, senza consultare i diritti del Clero e del Popolo, gli elessero
di loro autorità un successore. La manifesta irregolarità di questo
procedere accrebbe il numero de' malcontenti faziosi; e siccome Paolo,
che non era nuovo negli artifizi delle Corti, s'era insinuato nel favor
di Zenobia, per più di quattr'anni si mantenne in possesso della casa e
dell'uffizio Episcopale. La vittoria d'Aureliano cangiò l'aspetto delle
cose in Oriente, ed i due discordi partiti che attribuivansi l'un
l'altro gli epiteti di scisma e d'eresia, ebbero l'ordine, o la
permissione di agitar la causa avanti al tribunale del conquistatore.
Questo pubblico e molto singolar giudizio serve a dare una convincente
prova, che si riconosceva l'esistenza, la proprietà, i privilegi e
l'intrinseco governo de' Cristiani, se non dalle leggi, almeno da'
Magistrati dell'Impero. Poteva difficilmente aspettarsi, che Aureliano,
come Gentile e soldato, entrasse a discutere, se le opinioni di Paolo o
quelle de' suoi avversari fossero le più conformi alla verità della fede
ortodossa. La sua determinazione però si fondò su' principj generali di
equità e di ragione. Risguardò esso i Vescovi dell'Italia come i Giudici
più imparziali e rispettabili fra' Cristiani, ed appena fu informato
ch'essi avevano concordemente approvata la sentenza del Concilio, si
acquietò alla lor decisione, ed immediatamente diede ordine, che Paolo
fosse costretto ad abbandonare le possessioni temporali che
appartenevano ad un uffizio, di cui, secondo il giudizio de' propri
fratelli, egli era stato regolarmente privato. Ma nel tempo che si
applaudisce alla giustizia di Aureliano, non si dovrebbe perder di vista
la sua politica; imperocchè procurava egli di restituire e di collegare
la dipendenza delle Province dalla capitale per qualunque mezzo che
potesse vincolar l'interesse, o i pregiudizi di ogni parte de' propri
sudditi[130].

In mezzo alle frequenti rivoluzioni dell'Impero i Cristiani sempre
fiorivano in pace e prosperità; e quantunque la famosa Era de' Martiri
siasi principiata dall'avvenimento al Trono di Diocleziano[131],
tuttavia il nuovo sistema di politica, introdotto e mantenuto dalla
saviezza di quel Principe, continuò per più di diciott'anni ad inspirare
il più dolce e libero spirito di tolleranza intorno alla religione. La
mente, in vero, di Diocleziano medesimo era meno idonea alle ricerche
speculative che alle attive fatiche della guerra e del governo. La sua
prudenza lo rendè alieno da ogni grande innovazione, e quantunque il suo
temperamento non fosse suscettibile di zelo o di entusiasmo, egli
conservò sempre un abituale riguardo per le antiche Divinità
dell'Impero. Ma l'ozio delle due Imperatrici, Prisca di lui moglie e
Valeria sua figlia, permise loro di ascoltare con maggiore attenzione e
rispetto le verità del Cristianesimo, che in ogni tempo ha professato le
sue più speciali obbligazioni alla devozion delle donne[132]. I
principali Eunuchi Luciano[133] e Domoteo, Gorgonio ed Andrea, che
trattavano la persona, godevano il favore, e governavano la casa di
Diocleziano, proteggevano con la potente loro efficacia la fede, che
avevano abbracciata. Fu imitato il loro esempio da molti de' più
considerabili uffiziali del Palazzo, che ne' rispettivi lor posti avean
la cura degli ornamenti Imperiali, delle vesti, delle masserizie, delle
gioie, ed anche del tesoro privato; e sebbene alle volte potevano esser
obbligati d'accompagnar l'Imperatore, quando andava al tempio per
sacrificare[134], pure godevano, insieme con le loro mogli, i loro figli
ed i loro schiavi, dell'esercizio libero della religione Cristiana.
Diocleziano ed i suoi Colleghi frequentemente conferivano gli uffizi più
importanti a quelle persone, che non celavano il loro abborrimento pel
culto de' Numi, ma che avevan mostrato capacità pel buon servizio dello
Stato. I Vescovi, nelle rispettive loro Province, tenevano un grado
onorevole, ed eran trattati con distinzione e rispetto, non solamente
dal Popolo, ma anche da' Magistrati medesimi. Quasi in ogni città si
trovarono insufficienti le antiche Chiese per contenere la moltitudine,
che sempre cresceva, de' proseliti; ed in luogo di quelle furono eretti
pel culto de' Fedeli più stabili e capaci edifizj. La corruzione de'
costumi e de' principj di religione, della quale con tanta forza
lamentasi Eusebio[135], si può riguardare non solo come una conseguenza,
ma come una prova della libertà, di cui godevano ed abusavano i
Cristiani sotto il regno di Diocleziano. La prosperità rilassato aveva i
nervi della disciplina; prevalevano in ogni Congregazione la frode,
l'invidia, e la malizia; i Preti aspiravano all'uffizio Episcopale, che
di giorno in giorno diveniva un oggetto più degno della loro ambizione;
i Vescovi, che contendevan fra loro per l'Ecclesiastiche preeminenze,
pareva che con la lor condotta si attribuissero un secolare e tirannico
poter nella Chiesa; e la viva fede, che distingueva sempre i Cristiani
da' Gentili, molto meno si manifestava nella lor vita che ne' loro
scritti di controversia.

Nonostante quest'apparente sicurezza, potrebbe un attento osservatore
discernere alcuni sintomi, che minacciavan la Chiesa d'una persecuzione
più violenta di tutte quelle, che aveva fino allora sofferte. Lo zelo ed
il rapido progresso de' Cristiani svegliò i Politeisti dalla supina loro
indifferenza nella causa di quelle Divinità, che il costume e
l'educazione avevano appreso loro a rispettare. Le vicendevoli
provocazioni di una guerra religiosa, che aveva continuato più di
dugent'anni, esacerbò l'animosità delle parti, che combattevano. I
Pagani s'irritavano per l'ardire di una oscura e nuova setta, che
pretendeva di accusare di errore i propri compatriotti, e di condannare
i loro padri all'eterna miseria. L'abitudine di giustificare la
mitologia popolare contro le invettive di un implacabil nemico,
produceva ne' loro spiriti qualche sentimento di fede e di riverenza per
un sistema, ch'essi erano assuefatti a risguardare con la leggerezza più
trascurata. Le facoltà soprannaturali, che assumeva la Chiesa,
inspiravan terrore nel tempo stesso ed emulazione. I seguaci della
vecchia religione si trinceravano con simili fortificazioni di prodigi,
inventavan nuove maniere di sacrificare, d'iniziare[136] o di espiare i
delitti; procuravano di restituire il credito a' loro spiranti
oracoli[137], e con ansiosa credulità porgevan orecchio a qualunque
impostore, che lusingasse i lor pregiudizi con maravigliosi
racconti[138]. Pare che ambe le parti accordassero la verità di
que' miracoli, che si attribuivano gli avversari; e mentre si
contentavan di ascriverli ad arte magica o al poter de' Demonj,
concorrevano reciprocamente a restaurare e stabilire il regno della
superstizione[139]. La filosofia, ch'è il più pericoloso nemico di
questa, erasi allora mutata nel suo più vantaggioso alleato. I boschetti
dell'Accademia, i giardini d'Epicuro, ed anche il Portico degli Stoici
erano quasi abbandonati, come tante diverse scuole di scetticismo e di
empietà[140], e molti fra' Romani bramavano, che fosser condannati e
soppressi per autorità del Senato gli scritti di Cicerone[141]. La setta
de' nuovi Platonici, che prevalse, credè prudente partito quello di
unirsi co' Sacerdoti, che forse disprezzava, contro i Cristiani, che
aveva ragione di temere. Questi filosofi alla moda sostennero il disegno
di trarre un'allegorica sapienza dalle finzioni de' Greci poeti,
instituirono riti misteriosi di divozione per uso de' lor discepoli
eletti, raccomandarono il culto degli Dei antichi, considerati come gli
emblemi, o i ministri della suprema Divinità, e composero molti
elaborati trattati contro la fede dell'Evangelio[142], che dopo dalla
prudenza degli Imperatori ortodossi furono dati alle fiamme[143].

Quantunque la politica di Diocleziano e l'umanità di Costanzo li
disponessero a mantenere inviolate le massime di tolleranza, si venne
ben presto in chiaro, che i due loro colleghi, Massimiano e Galerio,
nudrivano il più implacabile odio pel nome e per la religione de'
Cristiani. Le scienze non avevano mai illuminato le menti di que'
Principi, nè l'educazione aveva addolcito il loro temperamento. Dovevano
essi alle proprie spade la loro grandezza, e nella più sublime fortuna
ritennero sempre i superstiziosi pregiudizi de' soldati e delle inculte
persone. Nell'amministrazion generale delle Province obbedivano alle
leggi stabilite dal lor benefattore; ma ne' loro campi e palazzi
trovavano spesse occasioni di esercitare una persecuzione segreta[144],
alla quale porgeva l'imprudente zelo de' Cristiani qualche volta i più
speciosi pretesti. Fu eseguita una sentenza di morte contro
Massimiliano, giovane d'Affrica, ch'era stato dal proprio padre condotto
avanti del Magistrato, come capace d'esser legittimamente reclutato, ma
che ostinatamente sosteneva, che la propria coscienza non gli avrebbe
mai permesso di abbracciare la professione della milizia[145].
Difficilmente potrebbe sperarsi che alcun governo soffrisse, che l'atto
del Centurione Marcello restasse impunito. Quest'uffiziale, in un giorno
di pubblica solennità, gettò via la cintura, le armi e le insegne del
proprio impiego, ed esclamò ad alta voce, ch'esso non voleva obbedire ad
altri che all'eterno Re Gesù Cristo, e che rinunziava per sempre l'uso
delle armi carnali ed il servizio di un Sovrano idolatra. I soldati,
rimasti attoniti, appena ripreser l'uso de' propri sensi, che arrestaron
Marcello. Fu egli esaminato nella città di Tingi dal Presidente di
quella parte della Mauritania, e siccome era convinto dalla sua propria
confessione, fu condannato, e decapitato come disertore[146]. Esempi di
tal natura molto meno appartengono alla persecuzion religiosa, che alla
disciplina militare o anche civile; ma servirono ad alienar la mente
degl'Imperatori, a giustificar la severità di Galerio, che dimise un
gran numero di uffiziali Cristiani da' loro impieghi, e ad autorizzar
l'opinione, che una setta di entusiasti, che sostenevano principj sì
ripugnanti alla pubblica sicurezza, o dovea rimanere inutile, o presto
divenir pericolosa all'Impero.

Dopo che il buon successo della guerra Persiana ebbe innalzate le
speranze, e la riputazione di Galerio, passò questi un inverno con
Diocleziano nel palazzo di Nicomedia; ed il destino del Cristianesimo fu
l'oggetto delle segrete loro deliberazioni[147]. L'esperto Imperatore
era sempre inclinato a prender miti determinazioni; e sebbene facilmente
consentisse, che i Cristiani fossero esclusi da tutti gl'impieghi del
palazzo e dell'esercito, ne' termini più forti esprimeva il pericolo non
meno che la crudeltà di spargere il sangue di que' delusi fanatici.
Galerio finalmente ottenne da lui la permissione di adunare un
consiglio, composto di poche persone le più distinte ne' dipartimenti sì
civili che militari dello Stato. Fu in lor presenza discussa tal
importante questione, e quegli ambiziosi Cortigiani facilmente
conobbero, che a loro incumbeva di secondar con l'eloquenza l'importuna
violenza di Cesare. Si può supporre che insistessero sopra ogni punto,
che interessar potesse l'orgoglio, la pietà o i timori del lor Sovrano
nella distruzione del Cristianesimo. Gli rappresentarono forse, che
restava imperfetta l'opera gloriosa di render libero l'Impero, finchè
permettevasi, che sussistesse e moltiplicasse un popolo indipendente nel
cuore delle Province. I Cristiani (potevasi così colorire il discorso)
abbandonando gli Dei e gl'istituti di Roma, stabilito avevano una
Repubblica a parte, che avrebbe potuto in vero sopprimersi avanti che
acquistato avesse alcuna forza militare: ma ch'era già governata dalle
sue proprie leggi e magistrali, che possedeva un pubblico tesoro, che
era intimamente connessa in tutte le sue parti, medianti le frequenti
adunanze de' Vescovi, a decreti de' quali accordavasi una cieca
obbedienza dalle numerose loro ed opulente congregazioni. Pare che
argomenti di questa sorta potessero determinar lo spirito ripugnante di
Diocleziano ad abbracciar un nuovo sistema di persecuzione; ma
quantunque noi possiam sospettare, non è però in nostro potere di
riferire i segreti maneggi della Corte, gli oggetti e gli odj privati,
la gelosia delle donne e degli eunuchi, e tutte quelle piccole sì ma
decisive cagioni, che tanto spesso influiscono sul fato degli Imperi e
ne' consigli de' più saggi Monarchi[148].

Finalmente fu indicata la volontà degl'Imperatori a' Cristiani, che nel
corso di quel tristo inverno avevano con ansietà aspettato l'esito di
tante secrete consultazioni. Fu destinato il dì 23 di Febbraio che (o
fosse per accidente, e con premeditazione) coincideva con la festa
Romana de' _Terminali_[149], per porre un termine al progresso del
Cristianesimo. Allo spuntar del giorno il Prefetto[150] del Pretorio,
accompagnato da' vari Generali, Tribuni ed Uffiziali del Fisco, si portò
alla Chiesa principale di Nicomedia, ch'era situata sopra un'eminenza
nella più popolata e bella parte della città. Furono immediatamente
spezzate le porte; entrarono essi nel Santuario; e siccome in vano
cercarono qualche visibile oggetto di culto, furon costretti a
contentarsi di dare alle fiamme i libri della Sacra Scrittura. I
Ministri di Diocleziano eran seguiti da un numeroso corpo di guardie e
di guastatori, che marciavano in ordino di battaglia, provvisti di tutti
gl'istrumenti soliti ad usarsi nella distruzione delle fortificate
città. Mediante l'assidua loro fatica fu in poche ore gettato a terra
quel sacro Edifizio, che torreggiava sopra il Palazzo Imperiale, ed
aveva per lungo tempo eccitato l'invidia e l'indignazione de'
Gentili[151].

Il giorno seguente fu pubblicato un editto generale di
persecuzione[152], e quantunque Diocleziano, sempre alieno
dall'effusione del sangue, avesse moderato il furor di Galerio, che
proponeva di fare immediatamente arder vivo chiunque ricusasse di
offerir sacrifizi, le pene stabilite contro l'ostinazione de' Cristiani
si possono giudicar sufficientemente rigorose ed efficaci. Fu comandato,
che in tutte le Province dell'Impero le loro Chiese fossero demolite da'
fondamenti; e fu denunziata la pena di morte contro tutti quelli che
presumessero di tenere alcuna segreta assemblea per motivo di culto
religioso. I filosofi, che in quel tempo assunsero l'indegno uffizio di
dirigere il cieco zelo della persecuzione, avevano diligentemente
studiato la natura ed il genio della religion Cristiana; e siccome
sapevano che si supponeva che le dottrine speculative della Fede
contenute fossero negli scritti de' Profeti, degli Evangelisti e degli
Apostoli, essi probabilissimamente suggeriron l'ordine, che i Vescovi ed
i Preti consegnar dovessero tutti i loro libri sacri nelle mani de'
Magistrati, a' quali era stato ingiunto sotto le pene più rigorose di
bruciarli in una forma pubblica e solenne. Per il medesimo editto furon
tutti in una volta confiscati i beni della Chiesa; e distribuiti in
varie parti, o furon venduti al migliore offerente, o uniti all'erario
Imperiale, e donati alle città e collegi, o concessi alle sollecitazioni
de' rapaci cortigiani. Dopo di aver preso tali efficaci misure per
abolire il culto, e per isciogliere il governo de' Cristiani, fu creduto
necessario di sottoporre a' travagli più intollerabili la condizione di
que' perversi individui, che tuttavia rigettassero la religione della
natura, di Roma, e de' loro antichi. Le persone ingenue furon dichiarate
incapaci di tutti gli onori ed impieghi; gli schiavi, privati per sempre
della speranza di libertà; e tutto il corpo del popolo spogliato della
protezion delle leggi. I Giudici furono autorizzati ad udire e a
determinare ogni azione intentata contro un Cristiano, ma non era
permesso a' Cristiani di querelarsi per qualunque ingiuria, che avesser
sofferto; e così quegl'infelici settarj furon esposti alla severità
della pubblica giustizia, nel tempo ch'erano esclusi dal benefizio della
medesima. Questa nuova specie di martirio sì lento e penoso, tanto
ignominioso ed oscuro, fu, per avventura, più atta ad istancar la
costanza de' Fedeli: nè si può dubitare, che le passioni e l'interesse
dell'uman genere non fossero in quest'occasione disposti a secondare i
disegni dell'Imperatore. Ma la politica di un ben regolato Governo dovè
qualche volta interporsi in sollievo degli oppressi Cristiani: nè era
possibile, che i Principi Romani togliessero affatto il timore delle
pene, o secondassero qualunque atto di violenza e di frode, senz'esporre
la propria loro autorità, ed il resto de' loro sudditi a' più forti
pericoli[153].

Appena fu quest'editto esposto alla pubblica vista nel lungo più
frequentato di Nicomedia, che fu lacerato dalle mani di un Cristiano, il
quale nell'istesso tempo espresse le più amare invettive il suo
disprezzo ed abborrimento per tali empi e tirannici Governatori. Il suo
delitto, secondo le più miti leggi, riducevasi a ribellione, e meritava
la morte; e se fosse vero ch'egli era una persona di grado e
d'educazione, quello circostanze non potevan servire che ad aggravar la
sua colpa. Fu egli bruciato, o piuttosto arrostito a fuoco lento, e gli
esecutori, bramosi di vendicare l'insulto fatto personalmente
agl'Imperatori, esaurivano ogni finezza di crudeltà senza esser capaci
di vincer la sua pazienza, o di alterar quel continuo ed insultante
sorriso, ch'egli conservò sempre nelle ultime sue agonie. I Cristiani,
quantunque confessassero che tal condotta rigorosamente non era stata
conforme alle leggi della prudenza, pure ammiravano il divino fervor del
suo zelo; l'eccessive lodi, che prodigalmente diedero alla memoria del
loro Martire ed Eroe, contribuirono a figgere nella mente di Diocleziano
una profonda impressione di terrore e di odio[154].

Ben presto si misero in moto i suoi timori alla vista di un pericolo, al
quale appena egli potè sottrarsi. Nello spazio di quindici giorni, il
Palazzo di Nicomedia, ed eziandio la camera in cui dormiva Diocleziano,
si trovarono due volte in mezzo alle fiamme; e sebbene ambedue le volte
queste fossero estinte senz'alcun danno considerabile, pure la singolar
reiterazione del fuoco fu non senza ragion risguardata come un'evidente
prova, che quello non era stato l'effetto della negligenza o del caso.
Il sospetto cadde naturalmente sopra i Cristiani, e fu suggerito, con
qualche specie di probabilità, che que' disperati fanatici, provocati
dagli attuali lor patimenti, e temendo le calamità che lor sovrastavano,
aveano formato una cospirazione cogli eunuchi del palazzo, fedeli loro
fratelli, contro le vite degl'Imperatori, ch'essi detestavano come
irreconciliabili nemici della Chiesa di Dio. La gelosia e lo sdegno
prevalse in ogni petto, ma specialmente in quello di Diocleziano. Furon
poste in carcere molte persone distinte, o per gl'impieghi da lor
sostenuti, o pel favore di cui erano state onorate. Si mise in opera
ogni sorta di torture, e la Corte ugualmente che la città restò
macchiata da molte sanguinose esecuzioni[155]. Ma siccome non si potè
scuoprire alcuna prova di questo misterioso fatto, sembra che
autorizzati siamo o a presumere l'innocenza, o ad ammirar la fermezza di
quei che soffrirono. Pochi giorni dopo, Galerio si ritirò in fretta da
Nicomedia, dichiarando che se differiva la sua partenza da quel
condannato palazzo, egli sarebbe caduto vittima della rabbia de'
Cristiani. Gli Storici Ecclesiastici, da' quali soltanto possiam trarre
una imperfetta o parzial notizia di questa persecuzione, non sanno come
render ragione de' timori e del pericolo degl'Imperatori. Due di questi
scrittori, uno Principe ed uno Retore, furon testimoni di veduta
dell'incendio di Nicomedia. L'uno l'attribuisce al fulmine ed all'ira
divina; l'altro asserisce, che fu cagionato dalla malizia di Galerio
medesimo[156].

Poichè l'editto contro i Cristiani destinavasi a formare una legge
universale di tutto l'Impero, e poichè Diocleziano e Galerio, quantunque
non aspettassero il consenso de' Principi occidentali, eran sicuri però
che ancor essi vi avrebber concorso, parrebbe più conforme alle idee che
abbiamo di politica, che i Governatori di tutte le Province avesser
ricevuto istruzioni segrete per pubblicar nel medesimo giorno questa
dichiarazione di guerra ne' rispettivi loro dipartimenti. Almeno era da
aspettarsi che la facilità dello pubbliche strade e delle poste, già
stabilite, avesse posto in grado gl'Imperatori di trasmettere con la
massima celerità i loro ordini dal palazzo di Nicomedia all'estremità
del Mondo Romano; e ch'essi non avrebber sofferto, che passassero
cinquanta giorni avanti che fosse pubblicato l'editto nella Siria, e
quasi quattro mesi prima che fosse notificato alle città
dell'Affrica[157]. Questa dilazione deve attribuirsi per avventura alla
cauta indole di Diocleziano, che aveva contro voglia dato l'assenso alla
persecuzione, e che desiderava di vederne una prova sotto i propri
occhi, avanti di dar luogo a' disordini ed al disgusto, che
inevitabilmente dovea cagionare nelle distanti Province. A principio, in
vero, fu proibito a' Magistrati lo spargimento del sangue; ma fu
permesso, ed anche raccomandato allo zelo di essi l'uso di ogni altra
sorta di severità; nè i Cristiani, quantunque di buona voglia cedessero
gli ornamenti delle lor Chiese, potevano indursi ad interrompere le
religiose loro adunanze o a dare i loro libri sacri alle fiamme. Pare
che la devota ostinazione di Felice, Vescovo Affricano, imbarazzasse i
Ministri subalterni del Governo. Il Curatore della sua città lo mandò in
catene al Proconsole; questi lo trasmise al Prefetto del Pretorio
d'Italia; e Felice, che sdegnò fino di dare una colorita risposta,
finalmente fu decapitato a Venosa nella Lucania, luogo celebre pel
nascimento d'Orazio[158]. Parve che quest'esempio, e forse qualche
rescritto Imperiale fatto in conseguenza di esso, autorizzasse i
Governatori delle Province a punir colla morte i Cristiani, che
ricusavano di consegnare i lor libri sacri. Vi furono senza dubbio molte
persone che presero quest'opportunità d'ottener la corona del martirio;
ma ve ne furono anche troppo altre, che si comprarono una via
ignominiosa, scuoprendo e dando nelle mani degl'Infedeli le Sacre
Scritture. Un gran numero eziandio di Vescovi e di Preti per questa rea
condiscendenza ebbero il nome di _traditori_; e il loro delitto fu causa
di un grande scandalo presente, e di gran discordia in futuro nella
Chiesa Affricana[159].

Tanto s'eran già moltiplicate nell'Impero le copie o le traduzioni della
Scrittura, che la più rigorosa inquisizione non potè cagionare alcuna
fatal conseguenza, ed anche pel sacrifizio di que' volumi, che in ogni
congregazione eran destinati all'uso pubblico, si richiese il consenso
di alcuni traditori ed indegni Cristiani. Ma l'autorità del Governo e
l'impegno de' Pagani poterono facilmente eseguire la distruzione delle
Chiese. In alcune Province però i Magistrati si contentarono di far
chiudere i luoghi del culto religioso; in altre più alla lettera
eseguirono i termini dell'editto, e dopo aver tirato fuori le porte, i
banchi, ed il pulpito, che fecero bruciare come un rogo funereo,
totalmente demolirono il resto degli edifizi[160]. Forse a quella trista
occasione si deve applicare un'istoria molto considerabile che si
racconta con tanto varie ed improbabili circostanze, che serve ad
eccitare piuttosto che a soddisfar la nostra curiosità. Pare che in una
piccola città della Frigia, di cui non ci è rimasto nè il nome nè la
situazione, tanto i Magistrati quanto il corpo del popolo avessero
abbracciato la fede Cristiana; e siccome poteva temersi qualche
resistenza all'effettuazion dell'editto, così il Governatore della
Provincia ebbe il rinforzo di un numeroso distaccamento di legionari.
All'avvicinarsi di questi, i Cittadini si ritirarono dentro la Chiesa,
risoluti o di difender con le armi il sacro edifizio o di perire sotto
le sue rovine. Rigettarono con isdegno la notizia e la permissione data
loro di ritirarsi, a segno che irritati i soldati dalla lor ostinazione
posero fuoco da tutte le parti alla fabbrica, e con questa specie
straordinaria di martirio consumarono un gran numero di Frigj con le lor
mogli e figliuoli[161].

Alcune leggiere turbolenze insorte nella Siria e sulle frontiere
dell'Armenia, quantunque soppresse quasi nel tempo medesimo in cui
furono suscitate, diedero a' nemici della Chiesa un'occasione molto
plausibile d'insinuare, che s'erano quelle segretamente fomentate
dagl'intrighi de' Vescovi, i quali avevano già dimenticato le fastose
lor professioni di passiva ed illimitata obbedienza[162]. L'ira o i
timori di Diocleziano finalmente lo trasportarono oltre i limiti della
moderazione, che fino allora avea conservato; ed in una serie di crudeli
editti dichiarò l'intenzione che aveva di abolire il nome Cristiano. Col
primo di questi editti s'ordinò a' Governatori delle Province di
catturar tutti quelli del ceto Ecclesiastico, e le carceri, destinate
pei delinquenti più vili, furon tosto piene di una moltitudine di
Vescovi, di Preti, di Diaconi, di Lettori e di Esorcisti. Con un secondo
editto, fu comandato a' Magistrati d'impiegar ogni sorta di severità,
che potesse richiamarli dall'odiosa loro superstizione, ed obbligarli a
tornare al Culto già stabilito degli Dei. Quest'ordine rigoroso fu
esteso da un altro editto a tutto il corpo de' Cristiani, che furono
esposti ad una violenta e generale persecuzione[163]. In vece di que'
freni salutari, ch'esigevano la diretta e solenne testimonianza di un
accusatore, il dovere non meno che l'interesse degli uffiziali Imperiali
divenne quello di scuoprire, di perseguitare, e di tormentare i più
distinti Fedeli. Furono stabilite gravi pene contro tutti coloro, che
avesser preteso di salvare un proscritto settario dal giusto sdegno
degli Dei e degl'Imperatori. Nonostante però la severità di tal legge,
il virtuoso coraggio, ch'ebbero molti Pagani di celare i loro amici o
congiunti, somministra una prova onorevole che il furore della
superstizione non aveva estinto ne' loro animi i sentimenti della natura
e della compassione[164].

Appena Diocleziano ebbe pubblicato i suoi editti contro i Cristiani, che
desiderando egli di commettere ad altre mani l'opera della persecuzione,
si spogliò della porpora Imperiale. Il carattere e la situazione de'
suoi colleghi e successori li mossero talvolta a mantenere in vigore, e
talvolta a sospendere l'esecuzione di queste rigorose leggi, nè
acquistar possiamo una giusta e distinta idea di quest'importante
periodo d'istoria Ecclesiastica, se non consideriamo separatamente lo
stato del Cristianesimo nelle diverse parti dell'Impero per lo spazio di
dieci anni, che passarono fra' primi editti di Diocleziano, e la pace
finale della Chiesa.

La dolce ed umana indole di Costanzo era avversa all'oppressione di
qualunque parte de' propri sudditi. Gli uffizi principali del suo
palazzo si esercitavano dai Cristiani, egli amava le loro persone,
stimava la lor fedeltà, e non gli dispiacevano punto i principj della
lor religione. Ma finchè Costanzo restò nel grado subordinato di Cesare,
non fu in sua facoltà di apertamente rigettar gli editti di Diocleziano,
o di non obbedire a' comandi di Massimiano. Ciò nonostante la sua
autorità contribuì ad alleggerir que' tormenti, ch'egli compassionava e
abborriva. Acconsentì con ripugnanza alla distruzione delle Chiese, ma
volle proteggere le persone de' Cristiani dalla furia del popolo e dal
rigore delle leggi. Le Province della Gallia (sotto il qual nome
possiamo probabilmente comprendere anche quelle della Britannia)
dovettero la singolar tranquillità, che goderono, alla gentile
interposizione del lor Sovrano[165]. Ma Daziano, Presidente o
Governatore della Spagna, mosso o da zelo o da politica, volle piuttosto
eseguire i pubblici editti degl'Imperatori, che intendere le segrete
intenzioni di Costanzo; e difficilmente può dubitarsi, che la sua
provinciale amministrazione non fosse macchiata dal sangue di alcuni
pochi Martiri[166]. L'elevazione di Costanzo alla suprema indipendente
dignità di Augusto aprì un libero corso all'esercizio delle sue virtù, e
la brevità del suo regno non gl'impedì di fondare un sistema di
tolleranza, di cui lasciò l'esempio e i precetti a Costantino suo
figlio. Questo suo fortunato figlio, dal primo istante del suo
innalzamento essendosi dichiarato protettore della Chiesa, finalmente
meritò il nome di primo Imperatore, che professasse pubblicamente, e
stabilisse la Religione Cristiana. I motivi della sua conversione, per
quanto possan variamente dedursi dalla benevolenza, dalla politica,
dalla convinzione o dal rimorso, ed il progresso di quella rivoluzione,
che per la potente influenza di lui e de' suoi figli fece divenire il
Cristianesimo la religion dominante del Romano Impero, formeranno un
capitolo molto interessante nel terzo volume di quest'Istoria. Per ora
servirà osservare, che ogni vittoria di Costantino produsse qualche
sollievo o benefizio alla Chiesa.

Le Province d'Italia e d'Affrica sperimentarono una breve ma violenta
persecuzione. I rigorosi editti di Diocleziano furono severamente e di
buona voglia eseguiti dal suo collega Massimiano, che da gran tempo
odiava i Cristiani, e si dilettava negli atti sanguinari e di violenza.
Nell'autunno del primo anno della persecuzione i due Imperatori
s'incontrarono a Roma per celebrare il loro trionfo; sembra che dalle
segrete loro deliberazioni provenissero varie leggi oppressive, e la
diligenza de' Magistrati fu animata dalla presenza de' loro Sovrani.
Dopo che Diocleziano si fu dimesso dalla porpora, furono amministrate
l'Italia e l'Affrica sotto nome di Severo, e restarono esposte senza
difesa all'implacabile odio di Galerio, da cui egli dipendeva. Fra'
Martiri di Roma, Adautto merita di esser fatto noto alla posterità. Egli
era di una famiglia nobile dell'Italia, e per i gradi successivi della
Corte si era innalzato fino all'importante uffizio di tesoriere del
privato erario del Principe. Adautto è anche più osservabile per
essere stata l'unica persona elevata in grado e cospicua, che sembri
aver sofferto la morte in tutto il corso di questa generale
persecuzione[167].

La ribellione di Massenzio immediatamente restituì la pace alle Chiese
dell'Italia e dell'Affrica, e quell'istesso tiranno, che oppresse ogni
altro ceto de' suoi soggetti, si dimostrò giusto, umano ed anche
parziale verso gli afflitti Cristiani. Egli contava sulla lor
gratitudine ed affezione, e supponeva molto naturalmente, che le
ingiurie, ch'essi avevan sofferto, ed i pericoli, a' quali sempre
temevano di essere esposti per parte del suo più inveterato nemico, gli
assicurerebbero la fedeltà di un partito, già considerabile pel numero e
per l'opulenza[168]. Anche la condotta di Massenzio verso i Vescovi di
Roma e di Cartagine può risguardarsi come una prova della sua
tolleranza, mentre i più ortodossi Principi terrebbero probabilmente lo
stesso contegno, rispetto al già stabilito lor clero. Marcello, ch'era
il primo di que' Prelati, aveva eccitato la confusione nella Capitale
per causa della severa penitenza, che imponeva ad un gran numero di
Cristiani, i quali nel corso dell'ultima persecuzione avevano
rinunziato, o finto di rinunziare alla lor religione. Il furore di parte
proruppe in frequenti e violente sedizioni; il sangue de' Fedeli
spargevasi per mezzo delle proprie lor mani; e si vedeva che l'esilio di
Marcello, in cui sembrava meno risplendere la prudenza che lo zelo, era
l'unico mezzo capace di restituir la quiete all'angustiata Chiesa di
Roma[169]. Pare che la condotta di Mensurio, Vescovo di Cartagine, fosse
anche più riprensibile. Un Diacono di quella città aveva pubblicato un
libello contro l'Imperatore. Il delinquente si rifuggì nel palazzo
Episcopale, e quantunque fosse un poco troppo presto per far valere
alcun diritto di Ecclesiastica immunità, pure il Vescovo ricusò di
rilasciarlo a' Ministri della giustizia. Per questa sediziosa resistenza
Mensurio fu chiamato alla Corte, ed in luogo di ricevere una giusta
sentenza di morte o d'esilio, dopo un brev'esame gli fu permesso di
tornare alla propria Diocesi[170]. La felice condizione de' Cristiani
sottoposti a Massenzio era tale, che quando bramavan di avere per lor
proprio uso qualche corpo di Martire, dovevan procacciarselo dalle più
distanti Province d'Oriente. Raccontasi a questo proposito un'istoria
d'Aglae, Dama Romana, discesa da una famiglia Consolare, che godeva un
patrimonio sì vasto, ch'esigeva l'opera di settantatre amministratori.
Bonifazio era fra questi il favorito della patrona, e siccome Aglae
univa l'amore con la divozione, si dice ch'egli fosse ammesso a
partecipar del suo letto. L'opulenza di cui ella godeva, la pose in
istato di soddisfare il pio desiderio di acquistare qualche sacra
reliquia d'Oriente. Consegnò dunque a Bonifazio una considerabile somma
d'oro, ed una gran quantità d'aromati; ed il suo amante, accompagnato da
dodici cavalli e da tre carri coperti, intraprese un lungo
pellegrinaggio fino a Tarso nella Cilicia[171].

Il genio sanguinario di Galerio, primo e principale autore della
persecuzione, riuscì formidabile per quei Cristiani, che per loro
disgrazia trovaronsi dentro i limiti de' suoi Stati, e può
ragionevolmente supporsi che molti di mediocre fortuna, i quali non
erano impediti dalle catene o della ricchezza o della povertà,
frequentemente abbandonassero il lor natio paese, e si cercassero un
rifugio nel più dolce clima d'Occidente. Fintanto ch'esso comandò le
sole armate e Province dell'Illirico, difficilmente potè trovare, o fare
un numero considerabil di Martiri in un paese guerriero, che avea
ricevuto i Missionari dell'Evangelio con maggior freddezza e ripugnanza,
che qualunque altra parte dell'Impero[172]. Ma quando Galerio ebbe
ottenuto il supremo potere e governo d'Oriente, egli appagò nella
massima estensione il suo zelo e la sua crudeltà non solo nelle Province
della Tracia e dell'Asia, che riconoscevano la immediata giurisdizione
di lui; ma in quelle ancora della Siria, della Palestina, e dell'Egitto,
dove Massimino soddisfaceva la propria inclinazione col prestare una
rigorosa obbedienza a' fieri comandi del suo benefattore[173]. I
frequenti inciampi nelle sue ambiziose mire, l'esperienza di sei anni di
persecuzione, e le riflessioni salutari, che una lenta e penosa malattia
suggerì alla mente di Galerio, finalmente lo persuasero, che i più
violenti sforzi del dispotismo sono insufficienti ad estirpare un intero
popolo, o a vincere i pregiudizi di religione. Bramoso di rimediare al
male che avea cagionato, pubblicò in nome proprio e nel nome di Licinio
e di Costantino un editto generale, che dopo una fastosa esposizione de'
titoli Imperiali, proseguiva nella seguente maniera:

«Fra le importanti cure, che hanno occupato la nostra mente per
l'utilità e conservazion dell'Impero, egli fu nostra intenzione di
correggere, e ristabilir ogni cosa secondo le antiche leggi, e la
pubblica disciplina dei Romani. Il nostro desiderio si rivolse
particolarmente a richiamar nella via della ragione e della natura i
delusi Cristiani, che avevan rinunziato la religione e le ceremonie
instituite da' loro padri, e presontuosamente disprezzando la pratica
dell'Antichità, avevano inventato stravaganti leggi ed opinioni secondo
i dettami del lor capriccio, e nelle diverse Province del nostro Impero
raccolti s'erano in moltiplice società. Gli editti, che abbiamo
pubblicato per mantenere in vigore il culto degli Dei, avendo esposto
molti Cristiani al pericolo ed alla miseria, molti avendo sofferto la
morte, e moltissimi altri, che tuttora persistono nell'empia loro
follia, essendo restati privi di ogni pubblico esercizio di religione,
siamo disposti ad estendere a quegl'infelici gli effetti della solita
nostra clemenza. Permettiamo dunque ad essi di professar liberamente le
lor private opinioni, e di potersi unire nelle lor conventicole senza
timore o molestia, purchè però sempre conservino il dovuto rispetto alle
leggi ed al governo già stabilito. Per mezzo di un altro rescritto
indicheremo le nostre intenzioni a' Giudici e Magistrati; e speriamo che
la nostra indulgenza impegnerà i Cristiani ad offerire le lor preghiere
alla Divinità, ch'essi adorano, per la salvezza e prosperità nostra, per
la loro, e per quella della Repubblica[174].» Regolarmente non si dee
cercar nello stile degli editti o de' manifesti il vero carattere o i
secreti motivi de' Principi; ma siccome queste son parole di un
Imperatore spirante, la sua situazione può forse risguardarsi come una
prova della sua sincerità.

Quando Galerio sottoscrisse quest'editto di tolleranza, egli era ben
sicuro, che Licinio avrebbe facilmente secondato le inclinazioni del
proprio benefattore ed amico, e che tutte le determinazioni, prese in
favor dei Cristiani, avrebbero ottenuto l'approvazione di Costantino. Ma
l'Imperatore non volle arrischiarsi ad inserirvi nel preambolo il nome
di Massimino, il consenso del quale era della massima importanza, e che
pochi giorni dopo successe alle Province dell'Asia. Ne' primi sei mesi
però del suo nuovo regno, Massimino affettò di adottare i prudenti
consigli del suo predecessore; e quantunque non condiscendesse giammai
ad assicurar la tranquillità della Chiesa con un pubblico editto,
Sabino, suo Prefetto del Pretorio, mandò una circolare a tutti i
Governatori e Magistrati delle Province, nella quale spaziava sopra la
clemenza Imperiale, riconosceva l'invincibile ostinazion de' Cristiani,
ed ordinava a' ministri di giustizia di tralasciare le loro inefficaci
ricerche, e di chiuder gli occhi alle segrete assemblee di quegli
entusiasti. In conseguenza di questi ordini, molti Cristiani rilasciati
furono dalle prigioni, o liberati dalle miniere. I Confessori, cantando
inni di trionfo, tornavano a' lor paesi, e quelli, che avevan ceduto
alla violenza della tempesta, chiedevano con lacrime di pentimento di
esser riammessi nel seno della Chiesa[175].

Ma questa finta calma fu di breve durata, nè poterono i Cristiani
d'Oriente fondare alcuna speranza nel carattere del lor Sovrano. La
crudeltà e la superstizione erano le passioni dominanti l'animo di
Massimino: la prima gli suggeriva i mezzi, la seconda gli additava gli
oggetti della persecuzione. L'Imperatore era tutto portato al culto
degli Dei, allo studio della magia, ed a prestar fede agli oracoli. I
Profeti o i Filosofi, ch'egli rispettava come favoriti del Cielo,
venivano spesso innalzati al governo delle Province, ed ammessi a' suoi
più segreti consigli. Questi facilmente lo persuasero, che i Cristiani
andavano debitori delle loro vittorie alla regolar disciplina con cui
vivevano, e che la debolezza del Politeismo era nata principalmente
dalla mancanza d'unione e di obbedienza fra' Ministri della religione.
Fu dunque instituito un sistema di governo, che era evidentemente
copiato da quello della Chiesa. In tutte le maggiori città dell'Impero
vennero i tempj risarciti ed adornati per ordine di Massimino, ed i
Sacerdoti destinati al culto delle varie Divinità furono sottoposti
all'autorità di un Pontefice superiore, che si volle opporre al Vescovo,
affinchè promuovesse la causa del Paganesimo. Questi Pontefici poi
riconoscevano ancor essi la suprema giurisdizione de' Metropolitani, o
sommi Sacerdoti delle Province, che agivano come immediati Vicarj
dell'Imperatore medesimo. Una veste bianca era l'insegna della lor
dignità, e questi nuovi Prelati furono diligentemente presi dalle più
nobili ed opulente famiglie. Per le insinuazioni de' Magistrati e
dell'Ordine sacerdotale si fece un gran numero di ossequiose
rappresentanze, particolarmente dalle città di Nicomedia, di Antiochia e
di Tiro, che artificiosamente esponevano le ben note intenzioni della
Corte, come i sentimenti generali del popolo; eccitavano l'Imperatore a
consultar le leggi della giustizia piuttosto che i dettami della sua
clemenza; esprimevano l'abborrimento che avevano a' Cristiani, ed
umilmente supplicavano, che quegli empi settarj fossero finalmente
esclusi da' limiti de' lor territorj. Sussiste ancora la risposta di
Massimino alla rappresentanza, ch'ei ricevè da' cittadini di Tiro. Loda
esso lo zelo e la devozion loro in termini della più alta soddisfazione;
si diffonde sull'ostinata empietà de' Cristiani; e mostra, mediante la
facilità con cui consente alla lor espulsione, ch'egli credeva di
ricevere piuttosto che di conferire una grazia. A' Sacerdoti non meno
che a' Magistrati fu data l'autorità di procurare l'esecuzione de' suoi
editti, i quali sopra tavole di rame vennero incisi, e quantunque fosse
ad essi raccomandato ch'evitassero di spargere il sangue, si fecero
tuttavia soffrire ai non ubbidienti Cristiani i più crudeli ed
ignominiosi gastighi[176].

I Cristiani Asiatici tutto aveano a temere dalla severità di un
superstizioso Monarca, il quale prendeva le sue misure di violenza con
sì deliberata politica. Ma appena erano scorsi pochi mesi, che gli
editti pubblicati, da' due Imperatori d'Occidente obbligarono Massimino
a sospendere il proseguimento de' suoi disegni: la guerra civile,
ch'egli sì temerariamente intraprese contro Licinio, occupò tutta la sua
attenzione; e la disfatta e la morte di Massimino presto liberaron la
Chiesa dall'ultimo e dal più implacabile de' suoi nemici[177].

In questo general prospetto della persecuzione, che fu autorizzata per
la prima volta dagli editti di Diocleziano, io mi sono a bella posta
astenuto dal descrivere i tormenti e le morti particolari dei Martiri.
Sarebbe stato assai facile di raccogliere dall'istoria di Eusebio, dalle
declamazioni di Lattanzio e dagli atti più antichi una lunga serie di
orride e disgustose pitture, e di riempiere molte pagine di flagelli e
di verghe, di uncini di ferro e di letti infuocati, e di ogni genere di
torture, che il fuoco ed il ferro, le bestie feroci ed i più barbari
esecutori potessero infliggere al corpo umano. Ravvivar si potrebbero
queste scene funeste con una folla di visioni e di miracoli, destinati o
a differire la morte, o a celebrare il trionfo, o a scuoprir le reliquie
di que' Santi canonizzati, che soffriron pel nome di Cristo. Ma io non
posso determinar ciò che debbo scrivere, finchè non mi trovo soddisfatto
intorno alla misura di quello che debbo credere. I più gravi Istorici
Ecclesiastici, ed Eusebio stesso, molto francamente confessano, di aver
riferito tutto ciò che potea ridondare in gloria, e di aver soppresso
tutto quel che poteva tendere al disonore della religione[178]. Tal
protesta dovrà eccitare naturalmente il sospetto, che uno scrittore, il
quale ha sì apertamente violato una delle leggi fondamentali
dell'Istoria, non abbia avuto molto riguardo all'osservanza delle altre;
ed il sospetto prenderà sempre maggior vigore dal carattere d'Eusebio,
che era meno portato alla credulità, e più esercitato negli artifizi
delle Corti, che quasi tutti gli altri di lui contemporanei. In alcune
occasioni particolari, quando i Magistrati erano inaspriti da qualche
personal motivo d'interesse o di sdegno, quando lo zelo de' Martiri li
muoveva a dimenticar le regole della prudenza, e forse anche della
decenza, a rovesciare gli altari, a scagliare imprecazioni contro
gl'Imperatori, ad offendere il Giudice sedente nel suo Tribunale, allora
si può supporre, che qualunque genere di tormenti, cui la crudeltà
potesse inventare o la costanza soffrire, esaurito venisse su quelle
vittime, destinate al supplizio[179]. Si è fatta però costante menzione
di due circostanze, le quali fan credere che il trattamento generale de'
Cristiani, presi da' ministri di giustizia, fosse meno intollerabile di
quel che ordinariamente suppongasi. I. A' Confessori, condannati ai
lavori delle miniere, permettevasi dall'equità o dalla negligenza de'
lor custodi di fabbricare cappelle, e di liberamente professare la lor
religione in mezzo a quelle orribili abitazioni[180]; II. I Vescovi eran
costretti a raffrenare ed a censurare il precipitato zelo de' Cristiani,
che volontariamente si davano nelle mani de' Magistrati. Alcuni di
questi erano persone oppresse dalla povertà e da' debiti, che ciecamente
cercarono di terminare una miserabile vita per mezzo d'una gloriosa
morte; altri erano allettati dalla speranza, che una breve sofferenza
purgato avrebbe le colpe di tutta la vita; ed altri finalmente venivan
mossi dal motivo meno onorevole di rilevare abbondanti alimenti, e forse
un considerabil guadagno dall'elemosine, che la carità de' Fedeli donava
a' carcerati[181]. Dopo che la Chiesa ebbe trionfato sopra tutti i suoi
nemici, l'interesse non meno che la vanità de' prigionieri li dispose ad
ampliare il merito de' respettivi lor patimenti. Una giusta distanza di
tempo o di luogo diede campo al progresso della finzione, ed i frequenti
esempi, che si allegavano, di santi Martiri, de' quali si erano
instantaneamente risanate le piaghe, rinnovata la forza, e
miracolosamente restituite le membra perdute, erano sommamente adatti
allo scopo di rimuovere ogni difficoltà, e di rispondere a qualunque
obbiezione. Siccome le più stravaganti leggende contribuivano all'onor
della Chiesa, venivano esse applaudite dalla credula moltitudine,
sostenute dal potere del Clero, e confermate dalla sospetta
testimonianza dell'Istoria Ecclesiastica.

Le descrizioni degli esilj, delle carcerazioni, delle pene e de'
tormenti son così facilmente esagerate o abbellite dal pennello di un
artificioso Oratore, che siamo naturalmente indotti ad investigare un
fatto di una più distinta ed incredibil natura, vale a dire il numero
delle persone, che soffriron la morte in conseguenza degli editti
pubblicati da Diocleziano e da' suoi colleghi e successori. I leggendari
moderni fanno menzione di armate e di città intere, che furono ad un
tratto disperse dalla cieca rabbia della persecuzione. I più antichi
scrittori si contentano di spargere una quantità di libere e tragiche
invettive, senza discendere a determinare il numero preciso di quelli,
a' quali fu concesso di sigillare col loro sangue la fede
dell'evangelio. Dall'istoria d'Eusebio però possiam ricavare, che nove
soli Vescovi furon puniti con la pena di morte; e dalla particolar
enumerazione, ch'ei fa, de' Martiri della Palestina, siamo assicurati
che non più di novanta due Cristiani ebber diritto a quell'onorevol
titolo[182]. Siccome non sappiamo fino a qual segno ascendesse in quel
tempo lo zelo ed il coraggio Episcopale, dal primo di questi fatti non
possiamo tirare alcuna utile conseguenza: ma il secondo può servire a
giustificare una importantissima ed assai probabile conclusione. Secondo
la distribuzione delle Province Romane, la Palestina può valutarsi la
decimasesta parte dell'Impero Orientale[183]; e poichè vi furono alcuni
governatori, che per una reale o affettata clemenza avean conservato le
loro mani pure dal sangue de' Fedeli[184], egli è ragionevol di credere,
che il paese, dov'era nato il Cristianesimo, producesse almeno la
decimasesta parte de' Martiri, che soffriron la morte negli stati di
Galerio e di Massimino; per conseguenza tutti insieme potrebbero
ascendere a circa mille cinquecento; numero, che se dividasi ugualmente
ne' dieci anni della persecuzione, darà un annual resultato di
centocinquanta Martiri. Usando la medesima proporzione rispetto alle
Province dell'Italia, dell'Affrica, e forse della Spagna dove al termine
di poco più di tre anni fu sospeso o abolito il rigore delle leggi
penali, si ridurrà la quantità de' Cristiani, che soffrirono per
giudicial sentenza la pena capitale in tutto l'Impero a meno di duemila
persone. E poichè non può dubitarsi, che i Cristiani eran più numerosi,
ed i lor nemici più esacerbati nel tempo di Diocleziano, di quel che
fossero stati mai in alcuna precedente persecuzione, questo probabile e
moderato calcolo può darci regola per valutare il numero de' Santi e de'
Martiri primitivi, che sacrificaron la vita per l'importante fine
d'introdurre nel mondo la religione Cristiana.

Noi finiremo questo capitolo con una trista verità, che contro voglia
s'insinua nella mente; cioè che ammettendo, anche senz'esitazione o
esame veruno, tutto quel che ha narrato l'istoria, o finto la devozione
intorno a' martirj, bisogna sempre confessare, che i Cristiani hanno
usato, nel corso delle intestine lor dissensioni, gli uni contro degli
altri severità molto maggiori di quelle, ch'essi abbiano giammai provate
dallo zelo degl'Infedeli. Ne' secoli d'ignoranza, che vennero dopo la
sovversione dell'Impero d'Occidente, i Vescovi della città Imperiale
estesero il loro dominio sopra i Laici ugualmente che sopra i Cherici
della Chiesa Latina. La fabbrica della superstizione da essi eretta, che
potè per lungo tempo affrontare i deboli sforzi della religione, fu
assaltata finalmente da una folla di arditi fanatici, che dal secolo
duodecimo fino al decimosesto assunsero il popolar carattere di
Riformatori. La Chiesa Romana difese con la violenza il dominio, che
acquistato avea con la frode: ed un sistema di benevolenza e di pace fu
ben presto disonorato con le proscrizioni, con le guerre, con le stragi
e coll'instituzione del Sant'Uffizio. E siccome i Riformatori erano
animati dall'amore della libertà civile non meno che religiosa, i
Principi Cattolici unirono il loro interesse con quello del Clero, e
sostennero con la spada e col fuoco i terrori delle spirituali censure.
Si dice, che ne' soli Paesi Bassi soffrissero per mano del carnefice più
di centomila sudditi di Carlo V. e questo numero straordinario viene
attestato da Grozio,[185] uomo d'ingegno e di dottrina, che mantenne la
sua moderazione in mezzo al furor delle Sette che contendevano, e
compose gli annali del secolo e del paese, in cui visse, in un tempo nel
quale la invenzione della stampa avea facilitato i mezzi di sapere i
fatti, ed accresciuto il pericolo di scuoprire la falsità. Se dobbiamo
prestar fede all'autorità di Grozio, bisogna confessare, che il numero
de' Protestanti posti a morte in una sola Provincia, e durante il corso
di un solo regno, sorpassò di gran lunga quello degli antichi Martiri
nello spazio di tre secoli, ed in tutto il Romano Impero. Ma se
l'improbabilità del fatto medesimo dee prevalere al peso della
testimonianza, se dee credersi, che Grozio abbia esagerato il merito ed
i patimenti de' Riformatori[186], saremo naturalmente portati a
richiedere, qual fiducia dunque aver possiamo ne' dubbiosi ed imperfetti
monumenti dell'antica credulità; o qual credito si voglia accordare ad
un Vescovo cortigiano o ad un appassionato declamatore, che sotto la
protezione di Costantino godeva il privilegio esclusivo di rappresentare
le persecuzioni mosse contro i Cristiani da' vinti rivali, o da'
negletti predecessori del grazioso loro Sovrano.


NOTE:

[1] In Cirene trucidarono 220,000 Greci, in Cipro 240,000, ed in Egitto
una grandissima quantità di persone. Molte di queste infelici vittime
furon segate in due parti, secondo un precedente esempio datone da
David. I vittoriosi Giudei divoravan la carne, leccavano il sangue, si
avvolgevan come nastri le budella di que' meschini attorno a' lor corpi.
_Vedi Dione Cassio l. LXVIII. p. 1145._

[2] Senza ripetere le ben note descrizioni di Gioseffo, possiamo
apprendere da Dione (_l. LXIX, p. 1262_) che nella guerra di Adriano
furon passati a fil di spada 580,000 Giudei, oltre un numero infinito di
essi, che morirono di fame, di disagio e di fuoco.

[3] Per la setta degli Zeloti vedi _Basnag. Hist. des Juifs l. I. c.
17_; pe' caratteri del Messia, secondo i Rabbini _l. V. c. 11, 12, 13_;
per le azioni di Barcocheba _l. VII. c. 12_.

[4] Noi dobbiamo a Modestino Giurisconsulto Romano (_l. VI. Regular._)
una distinta notizia dell'Editto di Antonino. Vedi _Casaubon. ad Hist.
Aug. p. 27_.

[5] Vedi _Basnag. Hist. des Juifs l. III. c. 2, 3_. La carica di
Patriarca, fu soppressa da Teodosio il Giovine.

[6] Basti solo rammentare il _Purim_, o la liberazione degli Ebrei dal
furore d'Aman, che fino al Regno di Teodosio fu celebrata con insolente
trionfo e sfrenata intemperanza. _Basnage Hist. des Juifs l. VI. c. 17.
l. VIII. c. 6._

[7] Secondo il falso Gioseffo, Tsefo nipote di Esaù condusse in Italia
l'armata d'Enea Re di Cartagine. Un'altra Colonia d'Idumei, fuggendo la
spada di David, si rifuggì negli stati di Romolo. Per queste o per altre
ragioni di ugual peso gli Ebrei applicarono il nome d'Edom all'Impero
Romano.

[8] Dagli argomenti di Celso, quali son rappresentati e confutati da
Origene (_l. V. p. 247, 259._) possiamo chiaramente scuoprire la
distinzione, che si faceva fra il _popolo_ Ebraico, e la _setta_
Cristiana. Si veda nel Dialogo di Minuzio Felice una bella ed elegante
descrizione de' sentimenti popolari intorno all'abbandonamento del culto
stabilito.

[9] _Cur nullas aras habent? templa nulla? nulla nota simulacra?.. unde
autem vel quis ille, aut ubi, Deus unicus, solitarius, destitutus?
Minuc. Felix c. 10._ L'interlocutore Pagano fa una distinzione in favor
de' Giudei, che una volta ebbero un tempio, altari, vittime, ec.

[10] Egli è difficile (dice Platone) di acquistare, e pericoloso il
pubblicare la cognizione del vero Dio. Vedasi la Teologia de' Filosofi
nella traduzione, che ha fatto in Francese l'Abate d'Olivet dell'opera
di Tullio _De natura Deorum Tom. 1. pag. 275_.

[11] L'autore del Filopatride tratta continuamente i Cristiani come una
compagnia di sognatori entusiasti δαιμόνιοι, αἰθέριοι, αἰθεροβατοῦντες,
ἀεροβατοῦντες ec. ed in un luogo manifestamente allude alla visione,
in cui S. Paolo fu trasportato al terzo Cielo. In un altro luogo
Triefonte, che rappresenta un Cristiano, dopo aver deriso gli Dei del
Paganesimo propone un misterioso giuramento.

    ὙΨιμέδοντα θέον, μέγαν, ἄμβροτον, οὐρανίωνα,
    Ὑιον πατρὸς. πνεῦμα ἐη πατρὸς ἐππορευόμενον,
    Ἑν ἐκ τριῶν, καὶ ἑνὸς τρία ταῦτα νόμιζε.

Ἀριθμέειν με διδάσκεις (questa è la profana risposta di Critia) Καὶ
ὅρκος ἡ ἀριθμητική, οῦκ οἶδα γὰρ τί λέγεις, ἐν τρία, τρία ἐν.

[12] Secondo Giustino Martire (_Apolog. major._ c. 70. 85), il demonio,
che aveva qualche imperfetta cognizione delle profezie, aveva finto a
bella posta questa somiglianza, che potesse rimuovere, quantunque con
diversi mezzi, tanto il Popolo che i Filosofi dall'abbracciar la fede di
Cristo.

[13] Nel primo e secondo libro d'Origene, Celso tratta la nascita e il
carattere del nostro Salvatore col più empio disprezzo. L'oratore
Libanio loda Porfirio e Giuliano per aver confutato la follia di una
setta, che ad un uomo di Palestina morto dava il nome di Dio, e di
figlio di Dio. _Socrat. Hist. Eccl. III. 23._

[14] L'Imperator Traiano ricusò la permissione di lasciar formare una
compagnia di 150 spegnitori d'incendj per uso della città di Nicomedia.
Egli non gradiva qualunque associazione. Vedi _Plin. Epist. X. 42, 43_.

[15] Il Proconsole Plinio avea pubblicato un editto generale contro le
adunanze illegittime. La prudenza de' Cristiani fece sospender le loro
Agapi, ma era impossibile ch'essi omettessero l'esercizio del culto
pubblico.

[16] Siccome le profezie dell'Anticristo, del prossimo abbruciamento del
mondo ec. irritavano que' Pagani, che non convertivano, se ne faceva
menzione con cautela e riserva, e furono censurati i Montanisti per aver
troppo liberamente svelato il pericoloso segreto. _Vedi Mosem. p. 413._

[17] _Neque enim dubitabam, quodcumque esset quod faterentur_ (queste
sono le parole di Plinio), _pervicaciam certe et inflexibilem
obstinationem debere puniri._

[18] Vedasi l'istoria Eccles. Mosem. _Vol. I. pag. 101_ e _Spanem.
Remarques sur les Césars, de Julien pag. 468. etc._

[19] Vedi Giustino Mart. _Apolog._ I, 35, II, 14. Atenagora _in
Legation. c. 27_, Tertulliano _Apolog._ c. 7, 8, 9. Minucio Felice c. 9,
10, 30, 31. L'ultimo di questi Scrittori riferisce l'accusa nella più
elegante e circostanziata maniera; la risposta di Tertulliano è più
ardita e più vigorosa.

[20] Nella persecuzione di Lione alcuni schiavi Gentili furon costretti
dal timor de' tormenti ad accusare i lor padroni Cristiani. La Chiesa di
Lione, scrivendo a' propri fratelli dell'Asia, tratta l'orrida accusa
con l'indignazione e il disprezzo che merita. _Euseb. Hist. Ecl. V. I._

[21] Vedi Giustino Mart. _Apolog. I, 35._ Iren. adv. _haeres. I. 24._
Clem. Alessand. _Stromat. l. III. p. 438._ Euseb. _IV. 8_. Sarebbe grave
e disgustoso il riferir tutto ciò, che hanno immaginato i successivi
Scrittori, tutto quel ch'Epifanio ha ricevuto come vero, e che ha
copiato il Tillemont. Il Beausobre (_Hist. du Manicheisme l. IX. c. 8,
9_) ha esposto con grande spirito l'arte non ingenua di Agostino e del
Pontefice Leone.

[22] Quando Tertulliano divenne Montanista, diffamò la Morale della
Chiesa, ch'egli aveva sì fortemente difesa. _Sed majoris est agape, quia
per hanc adolescentes tui cum sororibus dormiunt, appendices scilicet
gulae lascivia et luxuria: de Jejun. c. 17._ Il canone 35 del Concilio
d'Elvira provvede agli scandali, che troppo spesso macchiavan quelli,
che facevan le vigilie nelle Chiese, e screditavano il nome Cristiano
agli occhi degl'Infedeli.

[23] Tertulliano (_Apolog. c. 2._) si diffonde a gran ragione, e con un
poco di stile declamatorio sulla bella ed onorevol testimonianza di
Plinio.

[24] Nella vasta compilazione dell'Istoria Augusta (una parte di cui fu
composta nel Regno di Costantino) non si trovano sei linee relative a'
Cristiani; nè la diligenza di Sifino ha potuto scoprire il lor nome
nella vasta istoria di Dione Cassio.

[25] Un oscuro passo di Svetonio può somministrare per avventura una
prova di quanto stranamente si confondesser fra loro gli Ebrei ed i
Cristiani di Roma.

[26] Vedasi nel 18 e 25 capitolo degli Atti Apostolici la condotta di
Gallione, Proconsole dell'Acaia, e di Festo, Procurator della Giudea.

[27] Nel tempo di Tertulliano e di Clemente Alessandrino la gloria del
martirio si ristringeva a S. Pietro, a S. Paolo, ed a S. Giacomo. I
Greci più moderni bel bello l'attribuirono al resto degli Apostoli, e
prudentemente scelsero per teatro della lor predicazione e de' lor
tormenti qualche remoto paese di là da' confini del Romano Impero,
_Vedi_ Mosemio _p. 81_, e Tillemont _Mémoires Eccles. Tom I. p. III_.

[28] _Tacit. Annal. XV. 38, 44._ _Sueton. in Neron. c. 38._ _Dion. Cass.
l. LXII. p. 1014._ _Oros. VII. 7._

[29] Il prezzo del grano (probabilmente del _Modio_) fu ridotto a tre
_Nummi_, che può equivalere a circa quindeci Scellini per sacco Inglese.

[30] Noi possiam osservare, che Tacito fa menzione di tal fama con
diffidenza molto conveniente e dubbiezza, mentre essa viene avidamente
descritta da Svetonio, e solennemente confermata da Dione.

[31] Questa sola testimonianza è sufficiente a dimostrar l'anacronismo
degli Ebrei, che pongon la nascita di Cristo quasi cent'anni più presto
(_Basnage Hist. des Juifs l. V. c. 14, 15._). Possiamo apprendere da
Gioseffo (_Antiq. XVIII. 3_) che il tempo, in cui fu Procuratore Pilato,
corrisponde agli ultimi dieci anni di Tiberio dall'anno di Cristo 27 al
37. Quanto all'epoca particolare della morte di Cristo, una tradizione
molto antica la fissa ai 25 di Marzo dell'anno 29 sotto il Consolato de'
due Gemini (_Tertullian. adv. Judaeos c. 8._). Questa data che si adotta
dal Pagi, dal Cardinal Noris e dal Le Clerc, sembra per lo meno tanto
probabile, quanto l'Era volgare, che (non so per quali congetture) li
pone quattro anni più tardi.

[32] _Odio humani generis convicti._ Queste parole possono significare
l'odio del genere umano contro i Cristiani, o l'odio, de' Cristiani
contro il genero umano. Ho preferito quest'ultimo senso, come il più
conforme allo stile di Tacito ed all'error popolare, di cui un precetto
del Vangelo (_Vedi Luca XIV. 26_) era forse stato l'innocente occasione.
Giustificato viene il mio interpretamento dall'autorità di Lipsio; da
quelle de' traduttori di Tacito, Italiani, Francesi e Inglesi,
dall'autorità di Mosemio (p. 102), di Le Clerc (_Hist. Eccles. p. 427_),
del Dottore Lardner (_Testimon. vol. I. p. 345_) e del vescovo di
Glocester (_Legat. Div._ vol. III. p. 38). Ma poichè il vocabolo
convicti non si unisce molto felicemente col rimanente della sentenza,
Giacomo Gronovio ha anteposto di leggere _conjuncti_, seguendo
l'autorità del prezioso Codice di Firenze.

[33] _Tacit. Annal. XV. 44._

[34] _Nardini Roma antica p. 387. Donatus de Roma antiqua l. III. p.
449._

[35] _Sueton. in Neron. c. 16._ L'epiteto di _malefica_, il quale alcuni
sagaci Comentatori traducono _magica_, più ragionevolmente risguardasi
da Mosemio come sinonimo dell'_exitiabilis_ di Tacito.

[36] Il passo risguardante Gesù Cristo, che fu inserito nel testo di
Gioseffo tra il tempo d'Origene o quello d'Eusebio, può somministrare un
esempio di non volgar falsità. Si riferiscono distintamente l'esecuzione
delle profezie, le virtù, i miracoli, e la risurrezione di Gesù.
Gioseffo riconosce, ch'egli era il Messia, e dubita se debba chiamarlo
un uomo. Se potesse rimaner qualche dubbio intorno quel celebre passo,
il lettore può esaminare le argute obbiezioni di le Fevre (_Havercamp.
Joseph. tom. II. p. 267-273_), l'elaborata risposta di Daubuz (p.
187-232) e la maestrevol replica (_Biblioth. Ant. L. Mod. t. VII. p.
237-288_) di un critico anonimo ch'io credo essere il dotto Ab. di
Longuerue.

[37] Vedi le vite di Tacito fatte da Lipsio, e dall'Abate de la
Bleterie, il Dizionario di Bayle all'art. _Tacite_ e Fabricio _Biblioth.
Latin. Tom. II. p. 386. Edit. Ernest._

[38] _Principatum Divi Nervae, et imperium Traiani uberiorem
securioremque materiam senectuti seposui._ Tacit. _Hist. I._

[39] _Vedi_ Tacito, _Annal. II, 61 IV. 4._

[40] Il nome del commediante era Alituro. Per il medesimo canale
Gioseffo (_de vita sua c. 3._) aveva ottenuto, circa due anni prima, il
perdono e la libertà di alcuni Sacerdoti Ebrei ch'erano prigionieri in
Roma.

[41] L'erudito Dottore Lardner (Testimonianze giudaiche, e Gentili _Vol.
II. p. 101-103_) ha provato, che il nome di Galilei fu molto antico, e
forse la prima denominazione dei Cristiani.

[42] Gioseff. _Antiq. XVIII. 1, 2._ Tillemont. _Ruine des Juifs_ (_p.
742._). I figli di Giuda furono crocifissi al tempo di Claudio. Il suo
nipote Eleazaro, dopo la presa di Gerusalemme, difese una forte rocca
con 960 de' suoi più disperati seguaci. Quando l'ariete ebbe fatto una
breccia, essi rivoltaron le loro spade contro le loro mogli ed i figli,
e finalmente contro i lor propri petti; e tutti morirono, fino
all'ultimo.

[43] Vedi Dodwell. _Paucitat. Martir. l. XIII._ La inscrizione Spagnuola
appresso Grutero, _p. 238. n. 9_, è una manifesta e conosciuta menzogna,
inventata da quel famoso impostore Ciriaco di Ancona, per lusingare
l'orgoglio ed i pregiudizi degli Spagnuoli. Vedi Ferreras (_Hist.
d'Espagne Tom. I p. 192._)

[44] Il Campidoglio fu bruciato nel tempo della guerra civile fra
Vespasiano e Vitellio il dì 19 Decembre dell'anno 69. Il tempio di
Gerusalemme restò distrutto ne' 10 Agosto del 70 per le mani de' Giudei
stessi, piuttosto che per quelle de' Romani.

[45] Il nuovo Campidoglio fu dedicato da Domiziano (_Sveton. in
Domitian. c. 5. Plutarco in Poplicol. Tom. I. p. 230, Edit. Bryan._) Il
solo indoramento costò 12000 talenti (più di cinque milioni di
zecchini). Fu opinione di Marziale (_l. IX. Epig. 3,_) che se
l'Imperatore avesse voluto esigere il suo denaro, Giove medesimo,
neppure col porre generalmente all'incanto l'Olimpo, avrebbe potuto
pagare due scellini per lira.

[46] Rispetto al Tributo vedasi Dione Cassio (_l. LXVI. p. 1082 con le
note di Reimaro_), Spanemio (_de usu numism. Tom. II. p. 571_) e Basnag.
(_Hist. des Juifs l. VII. c. 2._)

[47] Svetonio (_in Domitian. c. 12_) avea veduto un vecchio di
novant'anni pubblicamente esaminato avanti al Tribunale del Procuratore.
Questo è quel che Marziale chiama _Mentula tributis damnata_.

[48] Questa denominazione a principio s'intese nel senso più comune, e
fu supposto che i fratelli di Gesù fossero la legittima prole di Maria e
di Giuseppe. Un divoto rispetto per la virginità della Madre di Dio
suggerì agli Gnostici, ed in seguito a' Greci ortodossi l'espediente di
dare una seconda moglie a Giuseppe. I Latini, fino dal tempo di
Girolamo, vi accrebbero qualche cosa, attribuirono a Giuseppe un
celibato perpetuo, e con molti esempi simili giustificarono la nuova
interpretazione, che Giuda ugualmente che Giacomo e Simone, i quali sono
chiamati fratelli di Gesù Cristo, non fossero che suoi primi cugini.
Vedi Tillemont, _Memoir. Eccles._ (_Tom. I. part. III._) _e_ Beausobre,
_Hist. critiq. du Manich._ (_l. II c. 2._)

[49] Trenta nove πλεθρα, quadrati di cento piedi l'uno, il
qual terreno, rigorosamente computato, appena formerebbe la somma di
nove acri. Ma la probabilità delle circostanze, la pratica degli altri
scrittori Greci e l'autorità del Valois mi fanno inclinare a credere,
che si usi il πλεθρον per esprimere il Romano _jugero_.

[50] _Euseb. III. 20._ La storia o presa da Egesippo.

[51] Vedasi la morte, ed il carattere di Sabino appresso Tacito (_Hist.
III. 74-75_). Sabino era il fratel maggiore di Vespasiano, e fino
all'avvenimento al trono di lui, si era considerato come il principal
sostegno della famiglia Flavia.

[52] Flavium Clementem patruelem suum contemtissimae inertiae.... ex
tenuissima suspicione interemit. Sueton. in Domit. c. 15.

[53] L'Isola Pandataria secondo Dione. Bruzio Presente (_ap. Eusebio III
18_) la bandisce in quella di Ponzia, che non era molto distante dalla
prima. Tal differenza, ed un errore o d'Eusebio, o de' suoi copisti han
data occasione di supporre due Domitille, una moglie, e l'altra nipote
di Clemente. Vedi Tillemont, _Mem. Eccles._ (_Tom. II. p. 224._)

[54] _Dione l. LXVII. p. 1112._ Se Bruzio Presente, dal quale
probabilmente prese questo racconto, era il corrispondente di Plinio
(_Epist. VII. 3_) possiam risguardarlo come uno scrittore contemporaneo.

[55] _Sueton. in Domit. c. 17. Filostr. in vit. Apollon. l. VII._

[56] _Dion. l. LXVIII. p. 1118. Plin. Epist. IV. 22._

[57] _Plin. Epist. X. 97._ L'erudito Mosemio si esprime con le più alte
lodi intorno al moderato ed ingenuo carattere di Plinio. A malgrado di
tutti i sospetti del Dottore Lardner (Vedi le testimonianze Giudaiche e
Pagane _Vol. II. p. 46_), io non posso ravvisare alcuna ipocrisia nel
suo linguaggio o nella sua maniera di procedere.

[58] _Plin. Epist. V. 8._ Egli difese la sua prima causa nell'anno 81,
cioè un anno dopo la famosa eruzione del Vesuvio, nella quale il suo zio
perdè la vita.

[59] _Plin. Epist. X. 98._ Tertulliano (_Apolog. c. 5_) risguarda questo
Rescritto, come un rilassamento delle antiche leggi penali _quas
Traianus ex parte frustratus est._ Eppure Tertulliano in un altro luogo
delle sue Apologie nota l'incoerenza di proibire le inquisizioni, e di
ordinare i gastighi.

[60] Eusebio (_Hist. Eccles. l. IV. c. 9_) ci ha conservato l'editto di
Adriano. Egli ce ne dà parimente uno (_c. 13_) ancora più favorevole
sotto nome di Antonino, del quale però non s'ammette così universalmente
l'autenticità. La seconda Apologia di Giustino contiene alcune curiose
circostanze relative alle accuse de' Cristiani.

[61] Vedi Tertulliano (_Apolog. c. 40_). Gli atti del martirio di
Policarpo somministrano una viva pittura di tali tumulti, che per
ordinario si fomentavano dalla malizia dei Giudei.

[62] Questi regolamenti sono inseriti ne' soprammentovati Editti di
Adriano e di Pio. Vedi l'Apologia di Melitone (_ap. Euseb. l. IV. c.
26_).

[63] Vedasi il rescritto di Traiano, e la condotta di Plinio. Gli atti
più autentici de' Martiri abbondano di simili esortazioni.

[64] In specie vedasi Tertulliano (_Apolog. c. 2_) e Lattanzio (_Instit.
Divin. V. 9._) I raziocinj loro son quasi gl'istessi; ma si ravvisa
bene, che il primo di questi Apologisti era stato un legale, ed il
secondo un rettorico.

[65] Vedansi due esempi di questa specie di tortura negli Atti Sinceri
de' Martiri pubblicati dal Ruinart (p. 160-399.). Girolamo, nella sua
Leggenda di Paolo Eremita, riporta una strana istoria d'un giovane, che
fu legato nudo in un letto di fiori ed assalito da una bella e lasciva
meretrice. Egli represse la tentazione lacerandosi co' denti la lingua.

[66] La conversione della propria moglie provocò Claudio Erminiano,
Governatore della Cappadocia, a trattare i Cristiani con straordinario
rigore. Tertulliano ad _Scapulam cap. 3._

[67] Tertulliano, nella sua lettera al Governatore dell'Affrica, fa
menzione di molti notabili esempi di lenità e di tolleranza, de' quali
esso ebbe notizia.

[68] _Neque enim in universum aliquid, quod quasi certam formam habeat,
constitui potest_; espressione di Traiano che diede un largo campo alle
operazioni de' Governatori delle Province.

[69] _In metalla damnamur, in insulas relegamur. Tertullian. Apolog. c.
12._ Le miniere della Numidia contenevano nove Vescovi, con un numero
de' loro Cherici e Popolo a proporzione, ai quali Cipriano mandò una
pietosa lettera di consolazione o di lodi. Vedi Cipriano (_Epist. 76,
77._)

[70] Quantunque non possiam prestare intera fede all'epistole, o agli
atti d'Ignazio, che si trovano nel II tomo dei Padri Apostolici; pure
possiam citare quel Vescovo d'Antiochia come uno di questi martiri
condannati per esempio degli altri. Fu egli mandato in catene a Roma
come ad un pubblico spettacolo; e quando arrivò a Troade, ricevè la
piacevol notizia, che la persecuzione d'Antiochia era già terminata.

[71] Fra' Martiri di Lione (_Euseb. l. V. c. 1_) la schiava Blandina fu
distinta co' più squisiti tormenti. De' cinque Martiri, sì celebri negli
Atti di Felicita e Perpetua, due erano servi, e due altri di molto vil
condizione.

[72] _Origen. adv. Celsum._ (_l. III. p. 116._). Le sue parole meritano
d'essere trascritte. Ολιγοι κατα καιρους, καὶ σφοδρα ευαριθμητοι περι
τῶν Χρισιανῶν θεοσεβειας τεθνηκασι.

[73] Se noi riflettiamo, che tutti i plebei di Roma non eran Cristiani,
e che tutti i Cristiani non eran santi nè martiri, possiam giudicare,
con quanta certezza possano attribuirsi gli onori sacri a quelle ossa ed
urne, che si prendono senza distinzione alcuna da' pubblici cimiteri.
Dopo un libero ed aperto commercio, che se n'è fatto per dieci secoli,
si è risvegliato qualche sospetto fra' più eruditi Cattolici. Al
presente si richiedono, come una prova di santità e di martirio le
Lettere R. M., una caraffa piena di liquor rosso, che si crede sangue o
la figura di una palma. I due primi segni però son di piccolo peso, e
quanto all'ultimo si osserva da' Critici 1. che quella che si dice
figura d'una palma, è forse un cipresso o anche puramente un punto, o un
intrecciamento di punteggiatura usato nelle iscrizioni sepolcrali; 2.
che la palma era il simbolo della vittoria fra' Pagani; 3. che fra'
Cristiani serviva come d'emblema non solo del martirio, ma anche di una
gloriosa risurrezione in genere. Vedi la lettera del P. Mabillon sul
culto de' Santi ignoti, ed il Muratori sopra le Antichità Italiane
(_Dissert. LVIII._).

[74] Per dare un saggio di queste leggende, ci contenteremo de'
diecimila soldati Cristiani fatti crocifiggere in un giorno da Traiano o
da Adriano sul monte Ararat. Vedi Baronio _ad Martyrol. Rom._ Tillemont
(_Mem. Eccles. Tom. II. P. II. p. 438._) e le Miscellanee di Geddes
_vol. II. p. 203_. L'abbreviatura MIL., che può significare tanto
_soldati_ che _migliaia_, dicesi, che abbia prodotto vari sbagli
straordinari.

[75] Vedi Dionisio _ap. Euseb. l. VI. c. 41_. Uno de' diciassette fu
accusato ancora di furto.

[76] Le lettere di Cipriano somministrano una molto curiosa ed original
pittura sì di esso che de' suoi tempi. Vedansi parimente le due vite di
Cipriano, scritte con ugual esattezza quantunque con mire assai
differenti, l'una da Le Clerc (_Biblioth. univers. Tom. XII. p.
208-378._) l'altra dal Tillemont (Memoir. Eccles. _Tom, IV. part. I. p.
76-459_).

[77] Vedasi la civile ma severa lettera del Clero di Roma al Vescovo di
Cartagine (_Cyprian. Epist. 8, 9._) Ponzio pone la massima cura e
diligenza in giustificare il suo maestro contro la general censura, che
se gli faceva.

[78] Specialmente quello di Dionisio di Alessandria, e di Gregorio
Taumaturgo di Neocesarea. Vedi Euseb. (_H. E. lib. VI. c. 40_) e le
Memorie di Tillemont (_Tom. IV. Part. II. p. 685._).

[79] Vedi Cipriano, _Epist. 16_, e la vita che ne fece Ponzio.

[80] Abbiamo una vita originale di Cipriano fatta dal Diacono Ponzio,
compagno del suo esilio e spettatore della sua morte; e possediamo
ancora gli antichi Atti Proconsolari del suo martirio. Questi due
documenti son coerenti fra loro e probabili; e quel ch'è più
osservabile, sono spogliati di qualunque circostanza maravigliosa.

[81] Potrebbe parere, che questi fosser ordini circolari mandati a tutti
i Governatori nel medesimo tempo. Dionisio (_ap. Euseb. l. VII. c. 11._)
racconta l'Istoria del proprio esilio da Alessandria, quasi nell'istessa
maniera. Ma siccome egli evitò la morte, o sopravvisse alla
persecuzione, si dee reputare o più o men fortunato di Cipriano.

[82] Vedi Plinio, _Hist. Nat. V. 3_. Cellario _Geogr. ant._ (_Part. III.
p. 96._) i Viaggi di Shaw p. 90, e per l'adiacente paese (ch'è terminato
dal Capo Bona, o dal promontorio di Mercurio) l'Affrica di Marmol (_Tom.
II. p. 474._). Si trovano ivi i residui di una acquedotto vicino a
Curubis, o Curbis presentemente mutato in Gurbes; ed il D. Shaw lesse
un'iscrizione, che chiama quella città _Colonia Fulvia_. Il Diacono
Ponzio (_in vit. Cypriani c. 12_) l'appella _apricum et competentem
locum, hospitium pro voluntate secretum, et quidquid apponi eis ante
promissum est, qui regnum et justitiam Dei quaerunt_.

[83] Vedi Cipriano (_Epist. 77. Edit. Fell._)

[84] Nell'atto della sua conversione aveva egli venduto quei giardini
per benefizio de' poveri. La bontà di Dio (probabilissimamente la
liberalità di alcuni amici Cristiani) li restituì a Cipriano. Vedi
Ponzio c. 15.

[85] Quando Cipriano un anno avanti era stato mandato in esilio, sognò
che sarebbe stato posto a morte nel seguente giorno. L'evento fece
spiegare quella parola come indicante un anno. Vedi Ponzio. c. 12.

[86] Ponzio (c. 15) confessa che Cipriano, col quale cenò egli stesso,
passò la notte _custodia delicata_. Il Vescovo esercitò l'ultimo atto di
giurisdizione molto a proposito, disponendo, che le giovani donne, che
vegliavano nella strada, fossero allontanate dal pericolo, e dalle
tentazioni di una folla notturna. _Act. Proconsolar. c. 2_.

[87] Vedasi negli Atti c. 4, ed appresso Ponzio c. 17, la sentenza
originale. Quest'ultimo l'esprima in un modo oratorio.

[88] Vedi Ponzio c. 19. Al Tillemont (_Memoir. Tom. IV. Part. I p. 450
nat. 50_) non piace una così positiva esclusione di ogni Martire di
grado Episcopale più antico.

[89] Qualunque sia l'opinione che possiamo avere del carattere o de'
principj di Tommaso Becket, bisogna confessare ch'egli soffrì la morte
con una costanza non indegna de' primitivi Martiri. Vedi Lord Lyttelton
_Istor. di Enrico II._ (_Tom. II. p. 592 ec._).

[90] Vedasi particolarmente il trattato di Cipriano _de Lapsis p. 87-98.
Ediz. Fell._ L'erudizione di Dodwell (_Dissert. Cyprian. XII. XIII._) e
l'ingenuità di Middleton (_Ricerca libera p. 162 ec._) non hanno
lasciato cosa da aggiungere intorno al merito, agli onori, ed ai motivi
de' Martiri.

[91] Vedi Cipriano _Epist. 5, 6, 7, 22, 24 e de unit. Eccles_. Il numero
de' pretesi Martiri si è moltiplicato assaissimo per l'uso, che fu
introdotto, di dare quest'onorevole nome a' Confessori.

[92] _Certatim gloriosa in certamina ruebatur; multoque avidius tum
martiria gloriosis motibus quaerebantur, quam nunc Episcopatus pravis
ambitionibus appetuntur. Sulpic. Sever. l. II. Egli poteva omettere la
parola nunc_.

[93] Vedi _Epist. ad Rom. c. 4, 5 ap. Patres Apostol_. (_Tom. II. p.
27._). Era confacente al proposito del Vescovo Pearson (_Vindic.
Ignatian. part. II. c. 9_) di giustificare con profusione di esempi e di
autorità i sentimenti d'Ignazio.

[94] L'Istoria di Polieuto, sulla quale Cornelio ha formato una
bellissima tragedia, è uno de' più celebri, quantunque non de' più
autentici esempi di questo eccessivo zelo. Noi dobbiam osservare, che il
canone 60 del Concilio d'Elvira nega il titolo di martiri a quelli che
si esponevano alla morte col pubblicamente distruggere gl'Idoli.

[95] Vedi Epitteto _l. IV. c. 7_, e (sebbene vi sia qualche dubbio,
s'egli alluda a' Cristiani) Marco Antonino _de rebus suis_ (_l. XI. c.
3._) _Lucian. in Peregrin_.

[96] _Tertullian. ad Scapul_, c. 5. Gli eruditi son divisi fra tre
dell'istesso nome, che furon Proconsoli d'Asia. Io sono inclinato ad
attribuire questo fatto ad Antonino Pio, che poi fu Imperatore, e che
può aver governato l'Asia sotto Traiano.

[97] _Mosem. de rebus Christ. ante Constant. p. 235_.

[98] Vedi l'epistola della Chiesa di Smirne _ap. Euseb. Hist. Eccl._
(_l. IV. c._ 15).

[99] Nella seconda Apologia di Giustino si trova un esempio speciale e
molto curioso di questa legal dilazione. Il medesimo fu concesso a'
Cristiani accusati nella persecuzione di Decio; e Cipriano (_de Lapsis_)
fa espressa menzione del _dies negantibus praestitutus_.

[100] Tertulliano risguarda la fuga dalla persecuzione come
un'imperfetta, sebbene assai colpevole, apostasia, come un empio
tentativo di eludere la volontà di Dio ec. Egli ha scritto un trattato
su tal proposito (Vedi _p. 536-544. Edit. Rigalt._). che è pieno del più
fiero fanatismo e della più incoerente declamazione. Merita però qualche
attenzione il vedere che Tertulliano medesimo non sofferse il martirio.

[101] I _Libellatici_, che sono specialmente noti per le opere di
Cipriano, vengono descritti con la massima precisione nel copioso
commentario di Mosemio p. 48, 489.

[102] Vedi Plinio (_Epist. X._ 97.) Dionisio Alessandrino. _ap.
Euseb.(l. VI. c. 41.) Ad prima statim verba minantis inimici maximus
fratrum numerus fidem suam prodidit: nec prostratus est persecutionis
impetu, sed voluntario lapsu seipsum prostravit. Cyprian. oper. p. 89._
Fra questi disertori trovaronsi molti Preti ed anche Vescovi.

[103] Fu in quest'occasione, che Cipriano scrisse il suo trattato _de
Lapsis_, e molt'epistole. Fra' Cristiani del secolo antecedente non si
trova la controversia intorno al trattamento degli apostati penitenti.
Dobbiamo noi attribuirlo alla superiorità della fede e coraggio di essi,
od alla più scarsa cognizione, che abbiamo della loro Istoria?

[104] Vedi Mosemio p. 97. Sulpicio Severo fu il primo autore di questo
computo, quantunque sembri, che desideri di riservar la decima e
maggiore persecuzione per la venuta dell'Anticristo.

[105] Della testimonianza, che fece Ponzio Pilato si fa menzione per la
prima volta da Giustino. I successivi accrescimenti fatti a
quell'Istoria (nel passare ch'ella fece per le mani di Tertulliano, di
Eusebio, di Epifanio, di Grisostomo, di Orosio, di Gregorio Turonense, e
degli autori di molte edizioni degli Atti di Pilato) sono esattamente
fissati dal Calmet; Dissertazioni sulla Scrittura (_Tom. III. p. 651.
ec._).

[106] Rispetto a questo miracolo, come si dice comunemente della Legione
fulminea, vedasi l'ammirabil critica di Moyle _Vol. II. p._ 81-390 delle
sue opere.

[107] Dione Cassio, o piuttosto l'abbreviatore di lui Sifilino, _l.
LXXII. p._ 1206. Moyle ha esposto lo stato della Chiesa nel Regno di
Commodo.

[108] Si confronti la vita di Caracalla nell'Istoria Augusta con la
lettera di Tertulliano a Scapula. Il Dottore Jortin (_Osservaz.
sull'Istor. Ecclas. Vol. II. p. 5._) risguarda la cura di Severo per
mezzo dell'olio santo con gran desiderio di convertirla in un miracolo.

[109] Tertulliano _De Fuga_, _c. 13._ Il dono si faceva in occasione
delle feste de' Saturnali; ed è un soggetto di grand'importanza per
Tertulliano, che il Fedele dovesse restar confuso con quelli,
ch'esercitando le professioni più infami, accattavano la connivenza del
Governo.

[110] _Euseb. l. V. c. 23. 24. Mosem. p. 435, 447._

[111] _Judaeos fieri sub gravi poena vetuit. Idem etiam de Christianis
sanxit. Hist. Aug. p. 70._

[112] _Sulpic. Sever. l. II. p. 384._ Questo computo (fattavi una sola
eccezione) vien confermato dall'istoria d'Eusebio e dalle opere di
Cipriano.

[113] Si discute l'antichità delle Chiese Cristiane dal Tillemont
(_Memoir. Eccles. Tom. III. part. II. p. 68-72_) e dal Moyle (_Vol. I.
p. 378-398_). Quegli riferisce la prima costruzione di esse alla pace di
Alessandro Severo; questi alla pace di Gallieno.

[114] Vedi l'Istoria Augusta p. 130. L'Imperator Alessandro adottò il
loro metodo di proporre pubblicamente i nomi di quelle persone, che
dovevan promuoversi agli Ordini. È vero però che l'onore di tal costume
si attribuisce ancora agli Ebrei.

[115] Vedi _Eusebio Hist. Eccl. l. VI. c. 21_ e Girolamo _de script.
Eccl. c. 54_. Mammea fu chiamata una santa e pia donna sì da' Cristiani
che da' Pagani. Da' primi però era impossibile, che essa potesse meritar
quell'onorevol epiteto.

[116] Vedi L'Istoria Augusta _p. 123_. Sembra, che Mosemio (_p. 465_)
troppo nobiliti la domestica religione d'Alessandro. Il suo disegno di
fabbricare un pubblico tempio a Cristo (_Hist. Aug. p. 129_) e le
obbiezioni, che furon suggerite o ad esso, o in simili circostanze ad
Adriano, par che non abbiano avuto altro fondamento, che un improbabil
racconto inventato da' Cristiani, ed adottato con troppa credulità da un
Istorico del tempo di Costantino.

[117] _Euseb. l. VI. c. 28._ Si può presumere che i buoni successi de'
Cristiani avessero commosso ad ira l'ipocrita devozione de' Pagani che
sempre andava crescendo. Dione Cassio, il quale compose la sua Storia
sotto il regno anteriore, destinava molto probabilmente ad uso del suo
Sovrano que' consigli ch'egli attribuiva ad una migliore età ed al
favorito di Augusto. Intorno a quest'orazione di Mecenate, o per dir
meglio, di Dione, posso riferire il lettore all'imparziale opinione che
ne ho portato io medesimo (Vol. I N. 25), ed all'abbate De la Bleterie
(_Mem. de l'Acad. t. XXIX. p. 303. t. XXV. p. 432_).

[118] Orosio (_l. 7. c. 19_) rappresenta Origene come l'oggetto
dell'odio di Massimino; e Firmiliano, Vescovo di Cappadocia in quel
tempo, dà una giusta e ristretta idea di questa persecuzione. Vedi
Cipriano (_Epist. 75._).

[119] La menzione che si fa di que' Principi, che pubblicamente si
supponevan Cristiani, quale si trova in una lettera di Dionisio
Alessandrino (_ap. Euseb. l. VII. c. 10_) evidentemente allude a Filippo
ed alla sua famiglia, ed è una testimonianza contemporanea, che tal
opinione aveva preso vigore; ma il Vescovo Egiziano, che viveva in una
umile distanza dalla corte di Roma, si esprime con una giusta diffidenza
rispetto alla verità del fatto. Le lettere d'Origene che sussistevano al
tempo d'Eusebio (_Vedi l. VI. c. 36_) probabilmente deciderebbero questa
più curiosa che importante questione.

[120] _Euseb. l. VI. c. 34_. L'istoria è stata abbellita, secondo il
solito, da' successivi scrittori, ed è confutata con sovrabbondante
erudizione da Federigo Spanemio (_Oper. var. Tom. II. p. 440 ec._).

[121] _Lactant. de Mortib. Persec. c. 3, 4_. Dopo aver celebrato la
felicità e l'avanzamento della Chiesa, durante una lunga successione di
buoni Principi, soggiunge: _Extitit post annos plurimos execrabile
animal, Decius, qui vexaret Ecclesiam_.

[122] _Euseb. l. VI. c. 39_. _Cyprian. Epist. 55_. Rimase vacante la
Sede Romana dal martirio di Fabiano, che seguì nei 20 di Gennaio
dell'anno 250, fino all'elezion di Cornelio fatta ne' 4 Giugno del 251.
Decio era probabilmente partito da Roma, giacchè fu ucciso avanti la
metà di quell'anno.

[123] Vedi Eusebio _l. VII. c. 10_. Mosemio (p. 548) ha dimostrato molto
chiaramente, che il Prefetto Macriano ed il Mago Egizio sono un'istessa
persona.

[124] Eusebio (_l. VII. c. 13_) ci dà una versione Greca di quest'editto
Latino, che sembra essere stato molto conciso. Per mezzo di un altro
Editto Gallieno comandò, che si restituissero a' Cristiani i Cimiteri.

[125] Vedi Eusebio _l. VII. c. 30_. Lattanzio _de Mort. Persecut. c. 6_.
S. Girolamo _in Chron. p. 177_. Oros. _l. VII. c. 23_. Il lor linguaggio
è generalmente sì ambiguo e scorretto, che non sappiamo determinare fino
a qual segno Aureliano estendesse le sue intenzioni avanti che fosse
assassinato. Moltissimi fra i moderni eccettuato Dodwell (_Dissert.
Cyprian. XI. 64_.) hanno preso di qui l'occasione di guadagnare alcuni
pochi Martiri straordinari.

[126] Paolo si compiaceva più del titolo di _Ducenario_ che di quello di
Vescovo. Il Ducenario era un procuratore Imperiale, così chiamato dal
suo salario di dugento sesterzi, o di tremila dugento zecchini l'anno.
(Vedi Salmasio _ad Hist. Aug. p. 124_) Alcuni Critici suppongono, che il
Vescovo d'Antiochia realmente avesse ottenuto quell'uffizio da Zenobia,
mentre altri non lo considerano che come un'espressione figurata del suo
fasto ed insolenza.

[127] La simonia non era incognita in que' tempi ed il Clero alle volte
comprava quel che avea intenzione di vendere. Ciò si chiarisce dal
Vescovato di Cartagine, che fu comprato da una ricca Matrona chiamata
Lucilla, per il suo servo Maiorino. Il prezzo, fu di 400 _Folli_
(_Monum. antiq. ad calcem Optati p. 263._) Ogni _Folle_ conteneva 125
monete d'argento, e può valutarsi tutta la somma circa 4800 zecchini.

[128] Se volessimo diminuire i vizi di Paolo, saremmo costretti a
sospettare, che i Vescovi dell'Oriente, adunati insieme, avessero
pubblicato le più maliziose calunnie in una lettera circolare mandata a
tutte le Chiese dell'Impero (_ap. Euseb. l. VII. c. 30_).

[129] La sua eresia (come quelle di Noeto e di Sabellio, che insorsero
nel medesimo secolo) tendeva a confondere la misteriosa distinzione
delle persone Divine. Vedi Mosemio _p. 720. ec._

[130] Vedi Eusebio (_Hist. Eccl. l. VII. c. 30_). Ad esso è interamente
dovuta la curiosa istoria di Paolo Samosateno.

[131] L'Era de' Martiri, ch'è sempre in uso fra' Copti e gli Abissinj,
dee computarsi dal 29 Agosto dell'anno 284, perchè il principio
dell'anno Egiziano cadeva diciannove giorni prima del reale avvenimento
al trono di Diocleziano. Vedasi la Dissertazione preliminare all'Arte di
verificar le date.

[132] L'espressione di Lattanzio (_de M. P. c. 15_) _sacrificio pollui
coegit_ suppone l'antecedente lor conversione alla fede, ma non par che
giustifichi l'asserzione di Mosemio (_p. 192_), ch'esse privatamente si
fossero battezzate.

[133] Il Tillemont (_Memoir. Eccles. Tom. V. Part. I. p. 11, 12_) ha
tratto dallo Spicilegio di Don Luca d'Acheri un'istruzione molto
curiosa, che fece il Vescovo Teona per uso di Luciano.

[134] Vedi Lattanzio _de M. P. c. 10_.

[135] _Euseb. Hist. Eccl. l. VIII c. 1._ Il lettore, che voglia
consultare l'originale non mi accuserà di avere ingrandito la pittura.
Eusebio aveva circa sedici anni, quando Diocleziano fu fatto Imperatore.

[136] Noi potremmo addurre fra' moltissimi esempi il misterioso culto di
Mitra, ed il _Taurobolia_, essendo quest'ultimo divenuto alla moda nel
tempo degli Antonini. Vedi una Dissertazione di Deboze nelle memorie
dell'Accademia delle Iscrizioni (_Tom. II. p. 443_). Il romanzo
d'Apuleio è pieno sì di devozione che di satira.

[137] L'impostore Alessandro con molta forza raccomandò l'oracolo di
Trofonio in Mallos, e quelli di Apollo in Claro e in Mileto (_Lucian.
Tom. II. p. 236. Edit. Reitz._). Quest'ultimo, l'istoria singolare del
quale potrebbe somministrare un episodio molto curioso, fu consultato da
Diocleziano, avanti ch'ei pubblicasse i suoi editti della persecuzione
(_Lactant. de M. P. c. 11_).

[138] Oltre le antiche istorie di Pitagora e d'Aristeo, frequentemente
si opponevano a' miracoli di Cristo le cure fatte al Santuario
d'Esculapio, e le favole attribuite ad Apollonio di Tiane; quantunque io
convenga col D. Lardner. (Vedi _Testim. Vol. III. p. 252, 352_), che
quando Filostrato scrisse la vita d'Apollonio, non ebbe tal intenzione.

[139] Egli è molto da dolersi, che i Padri Cristiani, ammettendo la
parte soprannaturale, o com'essi credono, infernale del Paganesimo, con
le proprie lor mani distruggano il gran vantaggio, che altrimenti noi
potremmo trarre dalle generose concessioni de' nostri avversari.

[140] Giuliano (_p. 301 Edit. Spanhem._) dimostra una devota gioia,
perchè la providenza degli Dei avesse estinte l'empie Sette, e per la
maggior parte distrutti i libri de' Pirronei e degli Epicurei; ch'erano
assai numerosi, mentre il solo Epicuro non compose meno di 300 volumi.
Vedi Diogene Laerzio _l. X. c. 26_.

[141] _Cumque alios audiam mussitare indignanter, et dicere oportere
statui per Senatum, aboleantur ut haec scripta, quibus Christiana
religio comprobetur, et vetustatis opprimatur auctoritas. Arnob. adv.
Gentes l. III p. 103, 104._ Egli aggiunge molto assennatamente: _Erroris
convincite Ciceronem.... nam intercipere scripta, et publicatam velle
submergere lectionem, non est Deum defendere, sed testificationem
timere._

[142] Lattanzio (_Div. Inst. l. V. c. 2, 3_) fa una molto chiara ed
ingegnosa istoria di due di questi filosofi, nemici della Fede. Il vasto
trattato di Porfirio contro i Cristiani era composto di trenta libri, e
fu scritto in Sicilia circa l'anno 270.

[143] Vedi _Hist. Eccl. l. I. c. 9._ ed il _Cod. Teodos. l. I. Tit. I.
l. 3_.

[144] Eusebio (_l. VIII. c. 4. c. 17_) determina il numero de' martiri
militari con la seguente notevole espressione σπανιως τουτων εις που
καὶ δευτερος, di cui non hanno renduta la forza nè il Traduttore
Latino, nè il Francese. Nonostante l'autorità d'Eusebio, ed il silenzio
di Lattanzio, di Ambrogio, di Sulpicio, d'Orosio ec. si è per lungo
tempo creduto, che la legione Tebea, composta di 6000 Cristiani,
soffrisse il martirio per ordine di Massimiano nella valle delle alpi
Pennine. Ne fu per la prima volta pubblicata l'istoria, verso la metà
del quinto secolo, da Eucherio Vescovo di Lione, che l'ebbe da certe
persone, alle quali era stata comunicata da Isacco Vescovo di Ginevra,
che si dice averla ricevuta da Teodoro Vescovo d'Ottoduro. Tuttavia
sussiste l'Abbazia di S. Maurizio, ricco monumento della credulità di
Sigismondo Re di Borgogna. Vedasi un'eccellente dissertazione nel Tomo
XXXIV. della _Bibliothèque raisonnée p. 427-454_.

[145] Vedi _Acta Sincera p. 299_. Le istorie del martirio di lui e di
Marcello portano qualche carattere di verità e di autenticità.

[146] _Act. Sincer. p. 302_.

[147] _De M. P. c. II._ Lattanzio (o chiunque siasi l'autore di questo
piccol trattato) aiutava a quel tempo in Nicomedia; ma sembra difficile
immaginare com'egli potesse acquistare una cognizione così esatta di ciò
che seguiva nel gabinetto Imperiale.

[148] L'unica circostanza, che possiam ravvisare, è la devozione e la
gelosia della madre di Galerio. Essa ci viene descritta da Lattanzio
come _Deorum montium cultrix, mulier admodum superstitiosa_. Aveva essa
una grande autorità sopra il figlio, ed era offesa dalla poca stima di
alcune delle sue serve Cristiane.

[149] Il culto e la festa del Dio Termine elegantemente si illustrano
dal De Boze (_Mem. de l'Accademie des Inscriptions Tom. I. p. 50_.).

[150] Nell'unico manoscritto, che abbiamo di Lattanzio, si legge
_profectus_; ma la ragione, e l'autorità di tutti i Critici permettono
di sostituir _praefectus_, in luogo di quella parola che distrugge il
senso del passo.

[151] Lattanzio (_de M. P. c. 12_) fa una pittura molto viva della
distruzion della Chiesa.

[152] Mosemio (_p. 922-926_) da molti luoghi sparsi di Lattanzio e
d'Eusebio ha rilevato una molto giusta ed esatta notizia di
quest'editto, sebbene qualche volta egli dia in congetture e
sottigliezze.

[153] Molti secoli dopo, Eduardo I. praticò con gran successo l'istessa
forma di persecuzione contro il Clero d'Inghilterra. Vedi Hume, Ist.
d'Ingh. Vol. I. p. 300 dell'ultima edizione in 4.

[154] Lattanzio solamente lo chiama _quidquam etsi non recte, magno
tamen animo ec. c. 12_. Eusebio (_l. VIII. c. 5_) l'adorna degli onori
secolari. Nessuno si è avvisato di far menzione del suo nome; i Greci
però celebrano la memoria di lui sotto il nome di Giovanni. Vedi
Tillemont, _Mem. Eccles. Tom. V. p. II. p. 320_.

[155] (_Lactant. de M. P. c. 13, 14._) _Potentissimi quondam eunuchi
necati, per quos Palatium et ipse constabat._ Eusebio (_l. VIII. c. 6._)
racconta le crudeli esecuzioni degli eunuchi Gorgonio, e Doroteo, e di
Antimio Vescovo di Nicomedia; ed ambidue questi Autori descrivono in
un'equivoca ma tragica forma le orride scene, che furono rappresentate
anche alla presenza Imperiale.

[156] Vedi Lattanzio, Eusebio, e Costantino _ad Coetum sanctorum c. 25._
Eusebio confessa la sua ignoranza intorno alla ragione del fuoco.

[157] _Tillemont Memoir. Eccl. Tom. V. Part. 1. p. 43._

[158] Vedi _Act. Sincer. Ruinart. p. 353_. Quelli di Felice di Tibara, o
di Tibur sembrano assai meno corrotti, che nelle altre edizioni, le
quali somministrano un vivo saggio della licenza propria delle leggende.

[159] Vedi il primo libro di Ottato Mellevitano contro i Donatisti
dell'ediz. del Dupin; Parigi 1700. Egli fiorì nel regno di Valente.

[160] Le memorie antiche, pubblicate al fine delle Opere di Ottato, (_p.
261_) descrivono in una maniera molto circostanziata come procedevano i
Governatori nella distruzion delle Chiese. Facevano essi un minuto
inventario de' vasi che vi trovavano. Sussiste ancora quello della
Chiesa di Cirra nella Numidia: consisteva in due calici d'oro e sei
d'argento, in sei urne, una caldaia, sette lampade, il tutto parimente
d'argento, oltre una gran quantità di utensili di rame e di vestimentî
sacri.

[161] Lattanzio (_Instit. Div. V. II_) restringe tal calamità al
_conventiculum_ con la sua congregazione. Eusebio (_VIII. 11_) l'estende
a tutta la città, e rappresenta qualche cosa di simile ad un assedio
regolare. Ruffino, antico di lui traduttore Latino, aggiunge alcune
importanti circostanze intorno alla permissione accordata agli abitanti
di ritirarsi. Siccome la Frigia s'estendeva sino a' confini
dell'Isauria, può essere, che l'indole inquieta di que' Barbari
indipendenti contribuisse alla lor disgrazia.

[162] Eusebio _l. VIII. c. 6_. Il Valese (con qualche probabilità) pensa
d'avere scoperta in un'orazion di Libanio la ribellione della Siria; e
ch'essa fu un temerario attentato del Tribuno Eugenio, il quale con soli
cinquecento uomini occupò Antiochia, e potè forse lusingare i Cristiani
con la promessa di tollerare la religione. Da Eusebio (_l. IX. c. 8_) e
da Mosè di Corene (_Hist. Armen. l. II. c. 77_) può rilevarsi ch'era già
stato introdotto nell'Armenia il Cristianesimo.

[163] Vedi Mosem. (_p. 938._) Il testo d'Eusebio chiaramente dimostra,
che i Governatori, de' quali fu esteso, non già ristretto il potere, in
forza delle nuove leggi potevan condannare alla morte i più ostinati
Cristiani per servir d'esempio a' lor confratelli.

[164] Atanasio _p. 833._ _ap. Tillemont. Mem. Eccles. Tom. V. part. I.
p. 90._

[165] Vedi Euseb. (_l. VIII. c. 13._) e Lattanz. _de M. P. c. 15_.
Dodwel (_Dissert. Cyprian. XI. 75_) rappresenta quegli Scrittori come
non coerenti fra loro. Ma il primo evidentemente parla di Costanzo,
quando era Cesare, e l'altro del medesimo Principe innalzato al grado
d'Augusto.

[166] Dalle Inscrizioni di Grutero apparisce, che Daziano determinò i
confini fra' territorj di Pax Julia e di Evora, città situate nella
parte meridionale della Lusitania. Se riflettiamo alla vicinanza, in cui
sono questi luoghi col Capo S. Vincenzo, possiam sospettare, che il
celebre Diacono e Martire di questo nome, per negligenza da Prudenzio si
ponga in Saragozza, o in Valenza. Vedasi la pomposa istoria de' suoi
patimenti nelle memorie di Tillemont _Tom. V. Part. II. p. 58-85_.
Alcuni Critici son d'opinione, che il dipartimento di Costanzo, come
Cesare, non includesse la Spagna, la quale continuasse ad essere sotto
l'immediata giurisdizione di Massimiano.

[167] Euseb. _l. VIII. c. 2_. Gruter. _Inscr. p. 1171. n. 18_. Ruffino
ha sbagliato intorno all'uffizio di Adautto, ugualmente che intorno al
luogo del suo martirio.

[168] Euseb. _l. VIII, c. 14_. Ma siccome Massenzio fu vinto da
Costantino, faceva a proposito per Lattanzio di por la sua morte fra
quelle de' persecutori.

[169] Può vedersi l'epitaffio di Marcello appresso il Grutero _Inscr. p.
1172. n. 3_. Esso contiene tutto ciò, che noi sappiamo della sua storia.
Molti Critici suppongono che Marcellino o Marcello, i nomi de' quali si
trovano nella lista dei Papi, sian persone diverse, ma il dotto Abate De
Longuerre si convinse ch'essi non erano che una sola persona.

    _Veridicus rector lapsis quia crimina flere_
    _Praedixit miseris, fuit omnibus hostis amarus._
    _Hinc furor, hinc odium; sequitur discordia, lites,_
    _Seditio, caedes: solvuntur foedera pacis._
    _Crimen ob alterius, Christum qui in pace negavit_
    _Finibus expulsus patriae est feritate Tyranni._
    _Haec breviter Damasus voluit comperta referre._
    _Marcelli popolus meritum cognoscere posset._

Possiam osservare che Damaso fu fatto Vescovo di Roma l'anno 366.

[170] _Optat. contr. Donatist. l. I. c. 17, 18._

[171] Gli Atti della passione di S. Bonifazio, che abbondano di miracoli
e di declamazioni, furon pubblicati dal Ruinart p. 283, 291 in Greco e
in Latino, sull'autorità di un manoscritto molto antico.

[172] Ne' primi quattro secoli si trovano poche tracce di Vescovi o di
Vescovati nell'Illirico Occidentale. Si è creduto probabile, che il
Primate di Milano estendesse la sua giurisdizione fino a Sirmio,
capitale di quella gran Provincia. Vedasi la Geografia sacra di S. Paolo
p. 68-76 con le Osservazioni di Luca Holstenio.

[173] L'ottavo libro d'Eusebio, ed il supplemento intorno ai Martiri di
Palestina, si riferiscono principalmente alla persecuzione di Galerio e
di Massimino. I lamenti generali, coi quali dà principio Lattanzio al
quinto libro delle sue Instituzioni Divine, alludono alla lor crudeltà.

[174] Eusebio (_l. VIII. c. 17_) ci ha dato una versione Greca, e
Lattanzio (_De M. P. c. 34_) l'originale Latino di questo memorabil
editto. Sembra, che nessuno di questi scrittori abbia pensato quanto ciò
direttamente s'opponga a quel ch'essi hanno poco avanti affermato de'
rimorsi e del pentimento di Galerio.

[175] Eusebio (_l. IX. c. 1_) riporta l'epistola del Prefetto.

[176] Vedi Eusebio _l. VIII. c. 14. l. IX. c. 2-8._ e Lattanzio _de M.
P. c. 36_. Questi scrittori convengono in descrivere gli artifizi di
Massimino; ma il primo riferisce l'esecuzione di varj Martiri, mentre
l'altro afferma espressamente che _occidi servos Dei vetuit_.

[177] Pochi giorni avanti la sua morte pubblicò un amplissimo editto di
tolleranza, nel quale attribuì tutti i rigori, che avevan sofferto i
Cristiani, ai Giudici e Governatori, che avevano male inteso le sue
intenzioni. Vedasi l'editto _ap. Euseb. l. IX. c. 10_.

[178] Tale è la bella deduzione che si trae da due passi notabili
appresso Eusebio _l. VIII. c. 2_, e _de Martyr. Palest. c. 12_. La
prudenza dell'Istorico ha esposto il suo carattere alla censura ed al
sospetto. Era ben noto, ch'egli stesso era stato posto in carcere, e si
supponeva che se ne fosse liberato per mezzo di qualche disonorevole
compiacenza. Tal accusa gli fu mossa contro nel tempo ch'esso viveva, ed
anche alla sua presenza nel Concilio di Tiro. Vedi Tillemont _Mem.
Eccles. Tom. VIII. Part. 1. p. 67_.

[179] L'antica, e forse autentica narrazione de' patimenti di Taraco, e
de' suoi compagni (_Act. Sincer. Ruinart. p. 419-448_) è piena di forti
espressioni di disprezzo e di sdegno, che non potevano non irritare il
Magistrato. La condotta di Edesio verso Jerocle, Prefetto dell'Egitto,
fu anche più straordinaria. λογοις τε καὶ εργοις τον θικαστην ... περιβαλων. _Euseb. de Martyr. Palest. c. 5._

[180] _Euseb. de Mart. Palest. c. 13._

[181] _August. Collat. Cartag. Dei III. c. 13. ap. Tillemont Mem.
Eccles. Tom. V. part. I. p. 46_. La controversia co' Donatisti ha sparso
qualche luce, quantunque forse parziale, sull'istoria della Chiesa
Affricana.

[182] Eusebio (_de Martyr. Palest. c. 13_) chiude la sua narrazione
assicurandoci, che questi sono i Martirj, che avvennero nella Palestina
in _tutto_ il corso della persecuzione. Può sembrare, che il quinto
capitolo del suo libro VIII, che si riferisce alla Provincia della
Tebaide in Egitto, contraddica la nostra moderata calcolazione; ma
questo non servirà che a farci ammirare l'artifizioso maneggio
dell'Istorico. Scegliendo per teatro della più squisita crudeltà il più
distante e separato paese del Romano Impero, dice che nella Tebaide
spesso avevan sofferto il Martirio da dieci fino a cento persone in un
giorno. Ma quando egli viene a raccontar il suo proprio viaggio in
Egitto, il suo stile insensibilmente diventa più cauto e moderato.
Invece di usare un grande ma determinato numero, parla di molti
Cristiani (πλειους) e col massimo artifizio sceglie due parole
ambigue (ισ ορτσαηιεν e ὑπμειναστας) che possono
indicare tanto quel che aveva veduto, quanto ciò che aveva udito; sì
l'aspettazione che l'esecuzion della pena. Essendosi così assicurato un
sotterfugio, lascia l'interpretazione dell'equivoco passo a' suoi
lettori e traduttori; immaginando a ragione che la lor pietà
gl'indurrebbe a preferir il senso più favorevole. Fu per avventura un
poco maliziosa l'osservazione di Teodoro Metochita, che tutti quelli che
avevan conversato, come Eusebio, con gli Egiziani, si dilettavano di uno
stile oscuro ed ingrato (Vedi Valesio nel luogo cit.).

[183] Quando la Palestina era divisa in tre parti, la Prefettura
d'Oriente conteneva 48 Province. Siccome però le antiche distinzioni
delle nazioni erano da gran tempo abolite, i Romani distribuirono le
Province, avuto riguardo ad una general proporzione di loro estensione
ed opulenza.

[184] _Ut gloriari possint, nullum se innocentium peremisse, nam et ipse
audivi aliquos gloriantes, quia administratio sua in hac parte fuerit
incruenta. Lactant. Inst. Div. V. 12._

[185] _Grot. Annal de Reb. Belgic. l. I. p. 12. Edit. fol._

[186] Fra Paolo (_Istor. del Concil. Trident. l. III._) riduce il numero
de' Martiri Belgici a 50000. Non era Fra Paolo inferiore a Grozio in
dottrina e moderazione. L'anteriorità del tempo conferisce alla
testimonianza del primo qualche vantaggio, che per altra parte egli
perde per la distanza, che passa da Venezia a' Paesi Bassi.



SAGGIO DI CONFUTAZIONE

DE' DUE CAPI XV. E XVI. DELL'ISTORIA DI

EDOARDO GIBBON

SPETTANTI ALL'ESAME DEL CRISTIANESIMO

COMPENDIO DI UN'OPERA DI NICOLA SPEDALIERI.


    _Mala et impia consuetudo est contra Deos disputare,_
      _sive animo id fiat, sive simulate._

                               Cic. de Nat. Deor. lib. II.



SAGGIO DI CONFUTAZIONE DEL CAP. XV.


Si protesta a bel principio il Sig. Gibbon di voler fare una ricerca
intorno al progresso e stabilimento del Cristianesimo, guidato
unicamente dal candore e dalla ragione, e lo fa con un'arte e con una
prevenzione, che comincia dalle prime mosse a svelarsi. Egli si lagna
essere i monumenti de' primi tempi della Chiesa _sospetti_ ed
_imperfetti_; e li rende tali la mala fede, colla quale egli, dove
li tronca, dove gli altera, dove vi aggiunge capricciosi comenti
per far nascere le _difficoltà_, dalle quali si finge imbarazzato.
Incontra un'altra gran difficoltà, ch'egli ascrive alla _legge
dell'Imparzialità_, ed è quella di calunniare i Cristiani, anche dove la
critica più severa li terrebbe al coperto della maldicenza. Sarà nostro
dovere di andarne di mano in mano somministrando le prove, per quanto ci
sarà permesso dagli angusti limiti, che ci siamo prefissi.

Nel proporre l'argomento del capo, ad onta della ambiguità, colla quale
si spiega per parer Cristiano, e delle proteste che fa di _rispettare la
cagione primaria de' rapidi progressi della Chiesa Cristiana_, determina
abbastanza il lettore ad accorgersi, ch'egli intende provare, nulla in
tale avvenimento osservarsi di sovrannaturale, ma esser tutto a
_naturali cagioni_ dovuto. Se ciò fosse vero, la Religione verrebbe a
spogliarsi della luminosissima prova, che in favore della sua divina
origine si raccoglie dal modo col quale si stabilì, e dalla rapidità con
cui si propagò. Egli muove ogni pietra per far crollare questa prova; ma
noi per sostenerla dureremo assai lieve fatica.

Il nostro esame però non è _importante_ solamente per questo. La nausea
del sovrannaturale ha trasportato ancora l'Autore a negare i miracoli
de' primi secoli, quelli degli Apostoli, quelli di Gesù Cristo, ogni
miracolo in generale; e ad esercitar pure la sua mordacità contro i
misteri o contro la morale della Religion Rivelata: onde disputando con
lui, si disputa con un Incredulo, che si sforza di comparire Cristiano.
In vero questo ritratto non è luminoso: ma gli argomenti, che ne
recheremo, convinceranno chiunque, che nell'esporre i suoi sentimenti
noi certamente non ci siamo specchiati sull'esempio di lui.

Le cagioni naturali, ch'egli ha felicemente rinvenute, sono: _1. Lo zelo
inflessibile e intollerante de' Cristiani: 2. La dottrina di una vita
futura accompagnata da ciò che poteva aggiungerle peso: 3. Il dono de'
miracoli attribuito alla Chiesa primitiva: 4. La morale pura, ed austera
degli antichi Fedeli: 5. L'unione e la disciplina della Cristiana
Repubblica: 6. La debolezza del Politeismo: 7. Lo Scetticismo del Mondo
Pagano: 8. La pace e l'unione del Romano Impero._

      Prima Conclusione che dee provare l'Autore. Lo zelo e
      inflessibile e intollerante de' Cristiani fu una delle cagioni
      naturali dello stabilimento e de' progressi del Cristianesimo.

RISTRETTO. _Il popolo Ebreo, che giacque gran tempo nella condizione de'
più vili schiavi, si distinse coll'insociabilità de' costumi, coll'odio
che professava del genere umano, e colla ostinazione invincibile, colla
quale ricusò sempre di accoppiare l'elegante mitologia dei Greci alle
istituzioni Mosaiche. I primi Giudei non credettero i miracoli operati
da Dio alla lor presenza: quelli però del secondo tempo prestarono cieca
fede alla tradizione de' loro maggiori. La legge Mosaica sembra essere
stata istituita per un paese particolare e per una sola nazione. Il
Cristianesimo prescrisse uno zelo egualmente esclusivo per la verità
della Religione, ed ammise l'autorità di Mosè e de' Profeti, da' quali
però il Messia era stato promesso come Re e Conquistatore, non come
Martire e Figliuolo di Dio. La Chiesa dimorò gran tempo confusa fra le
Sette della Sinagoga, ed i Giudei convertiti univano all'Evangelio il
culto Mosaico. I loro argomenti sembrano plausibili; ma la sagacità
degl'interpreti ha rimossa ogni difficoltà. La Chiesa di Gerusalemme,
che osservava i riti Mosaici, tornò da Pella nella nuova città di
Adriano, avendovi prima rinunciato; e quelli, che rimasero costanti,
furon trattati da Eretici. Circa questa controversia S. Giustino Martire
spiegò a Trifone il suo sentimento con gran diffidenza, e confessò
ch'era contrario a quello della Chiesa, che finalmente trionfò sul più
mite. Se gli Ebioniti pretendevano non doversi abolire l'antico
Testamento per la sua perfezione, gli Gnostici al contrario vi trovavano
tanti difetti, che ricusarono di crederlo dettato da Dio. Sino ad
Adriano la Chiesa tollerò ogni setta; in progresso l'escluse tutte.
Persuasi i primi Cristiani, essere i demonj gli autori, i patrocinatori
e gli oggetti dell'Idolatria, riguardavano con orrore ogni piccolo segno
di culto nazionale: il loro più essenziale e più penoso dovere era di
conservarsi puri nella corruzione dell'Idolatria, che infettava tutte le
azioni pubbliche e private, prendendo sempre l'apparenza del piacere, e
spesso quella della virtù. I Cristiani pretendevano da ciò l'opportunità
di dichiarare e di confermare la zelante loro opposizione. Per mezzo di
tali proteste di continuo si fortificava il loro attacco alla fede, ed a
misura che cresceva lo zelo, essi combattevano con più ardore e con più
felice successo nella santa guerra intrapresa contro l'impero de'
demonj._

RISPOSTA. Tutti gli oggetti, che si presentano uniti in questo quadro,
sono estranei all'argomento prefisso per titolo: della promessa
conclusione in nessuna parte si parla, fuorchè nelle ultime righe, che
noi abbiamo giudicato importante di trascrivere interamente, affinchè il
lettore gli domandi ragione, come ha impiegate tante carte e tante
citazioni di Autori in materie che non influiscono per modo alcuno nella
conclusione, che avea tolta a stabilire, ed a questa non consacri se non
gli ultimi quattro o cinque versi.

Ma formano essi poi una prova? Vediamolo. Conclusione. _Una delle
cagioni naturali dello stabilimento e de' progressi del Cristianesimo fu
lo zelo degli stessi Cristiani._ Supposta prova. _I Cristiani si
opponevano con forza alle pratiche dell'Idolatria, e dichiaravano con
zelo i loro sentimenti. Per mezzo di tali proteste di continuo si
fortificava il loro attacco alla fede; ed a misura che cresceva lo zelo,
essi combattevano con più ardore e con più felice successo nella santa
guerra intrapresa contro l'impero dei demonj._ Qui, se noi non siamo
ciechi, non iscorgiamo, se non la descrizione del fatto, di cui dovevasi
render ragione. _Lo zelo de' Cristiani combatteva con felici successi
contro i demonj; cioè stabiliva e dilatava la fede dell'Evangelio tra le
genti, che servivano al demonio._ Come esso produceva quest'effetto? Da
quali principj ripeteva la sua forza? Da questa spiegazione dipenderebbe
il decidere, se in esso dobbiamo riconoscere una cagione del tutto
_naturale_. Ma l'Autore di tutto ha parlato fuorchè di questo; e quindi
ognuno comincerà a scuoprire, quanto ci vaglia nell'arte di ragionare, e
quanta pena dia agli Apologisti del Cristianesimo per difenderlo da'
colpi di lui.

Lo zelo de' Cristiani ridusse rapidamente alla fede molte nazioni del
mondo. Questo è il fatto, di che dobbiamo rintracciar la cagione, e per
condurci da filosofi, uopo è considerare le persone dal Cristiano zelo
investite, quelle che ne seguiron l'impulso, e l'oggetto, intorno al
quale si aggirava lo zelo. Nè dobbiamo permettere all'Autore, che dopo
di averci fatta visitare la Palestina per informarci degli affari
Giudaici senza vedervi nascere il Cristianesimo, ci trasporti di salto
in mezzo agl'Idolatri, e ci additi i Campioni dell'Evangelio già
cresciuti e formati in atto di guerreggiare contro l'impero del demonio.
Ragion vuole, che se ne osservi il primo cominciamento, ed insieme i
primi progressi.

I fondatori della Religion Cristiana furono Gesù Nazareno, ch'era tenuto
per figliuolo di un falegname, e dodici pescatori, che abbandonate le
reti, si diedero a seguirlo. La loro apparenza non poteva risvegliare,
se non il più alto disprezzo. Poveri, rozzi, ignoranti, odiati dalla
loro nazione, impresero a riformare il Mondo, ed il loro zelo fu
coronato dai _più felici successi_.

I primi, ai quali eglino si rivolgessero, furono i Giudei, a cui erano
pienamente noti. I Giudei si distinguevano _all'ostinazione invincibile
di non voler accoppiare altra istituzione a quelle di Mosè_; ed alle
istituzioni Mosaiche era congiunta la fortuna dello Stato. Questi i
primi piegarono la fronte alla croce. Indi si aggregarono all'ovile di
Cristo gl'Idolatri sudditi dell'Impero Romano, i quali da una parte
guardavano con dispregio e con orrore i Giudei, e dall'altra erano
tenacemente attaccati alla Religione della patria e per l'antichità
ch'ella vantava, e per la gloria, alla quale aveva fatto salire
l'Impero, e soprattutto perchè _l'idolatria sotto l'apparenza del
piacere e della virtù_ si presentava con sì seducenti maniere, che pe'
_Cristiani_ medesimi _era un dovere penoso il resistervi_.

In quel tempo i progressi, che i Romani avevano fatto nelle scienze,
erano pervenuti al colmo della perfezione. Allora fu che pubblicossi il
sistema Cristiano; sistema che co' suoi misteri pareva che distruggesse
le più semplici e le più chiare idee della ragione, e che chiamando gli
uomini colle massime morali ad una meta troppo alta riguardo alla sfera,
dentro la quale si erano confinati i Gentili, sgomentava la natura ed
irritava le passioni.

Questa dottrina e questa morale sostenuta dall'ardore di persone in
apparenza cotanto deboli, in brevissimo tempo si stabilì, e fu
avidamente abbracciata dagl'inflessibili Giudei e da' voluttuosi
Gentili. Ora bisogna provare, che una sì stupenda rivoluzione accadde
secondo il corso ordinario dell'umana natura, o confessare che i _felici
successi_, che incontrò lo zelo de' Missionari Evangelici, si debbono
ascrivere a cagione sovrannaturale. Quando l'Autore vorrà trattar
l'argomento, che ha lasciato intatto, saprà a qual partito appigliarsi.

Presentiamogli frattanto un'altra considerazione. Non solamente ci fa
stupire la conversione del Mondo operata con istrumenti tanto in
apparenza deboli, ma inoltre non sappiamo comprendere, come ed i
predicatori ed i convertiti avessero potuto star saldi fra tanti
pericoli. _I Cristiani_, esclama l'Autore, _si opponevano con forza agli
errori, dichiaravano i loro sentimenti, e tali proteste gli attaccavano
vie più alla fede_. Anche qui veggiamo il nudo fatto, al quale bisogna
aggiungere tutte le circostanze per darne idea adeguata.

Le tentazioni della Idolatria sono minutamente descritte dalla stessa
penna dell'Autore, il quale ha ben riflettuto, che tutte le azioni, sì
pubbliche che private vi facevano allusione, e ch'era un dovere penoso
quello di resistere alle dolci attrattive del piacere, ch'ella menava in
trionfo. A terminare il quadro noi aggiungeremo, che la professione
Cristiana era universalmente tacciata con nota d'infamia; che le leggi
l'avevano proscritta; che chi l'abbracciava, perdeva i suoi beni, e
stava di continuo esposto al pericolo dell'esilio, dei tormenti, della
morte. Avviene naturalmente, che tante e tali difficoltà inspirino
_maggior coraggio a combattere_? L'Autore lo ha istoricamente supposto:
aspettiamo ora, che lo provi filosoficamente; e diamo intanto una rapida
scorsa agli oggetti estranei, co' quali egli ha dissipata la sua e la
nostra attenzione.

Comincia dal rappresentare come una gioconda _armonia di scambievole
tolleranza_ il profondo letargo, nel quale giacevano immerse tutte le
nazioni Idolatre circa il più grande, anzi l'unico affare, che abbia
l'uomo in questa vita mortale; e procura di mettere in odio
l'_intolleranza de' Giudei_, per ferir di riverbero il Cristianesimo,
che prescrisse lo stesso _zelo esclusivo_. L'intolleranza religiosa non
è altro che una incompatibilità di dottrina che nasce dalla natura,
anzichè dall'arbitrio degli uomini. Siccome non può stare, che il
triangolo abbia e non abbia tre lati, così non può conciliarsi, che sia
stata rivelata da Dio una dottrina ed un'altra ad essa contraria: e
s'egli ha annessa la salvazione a quella, non può essere, che si salvi
chi a questa si attiene.

È ben altro l'insociabilità de' costumi, l'inumanità, la crudeltà, onde
negli ultimi tempi furono rimproverati i Giudei per una depravazione
personale contraria alle leggi di Mosè, il quale se vietò loro di
trattare cogli Idolatri per non contaminarsi coll'esecrande lordure, che
vengono rammemorate ne' libri sacri, ordinò loro nel medesimo tempo, che
rendessero a' forestieri tutti gli uffizi della carità; e di _trattarli
come se stessi, a motivo che anch'eglino erano stati forestieri nella
terra di Egitto_.

La legge Mosaica fu istituita _per un paese particolare e per una sola
nazione_ quanto alla parte cerimoniale ed all'amministrazione politica,
ma quanto ai precetti del Decalogo, che appartengono alla natura e cui
Iddio si degnò di confermare colla rivelazione, obbliga tutti gli
uomini.

Che _i primi Giudei testimonj de' miracoli, co' quali Iddio gli
scortava, non li credessero, e che vi prestassero cieca credenza i
posteri per semplice tradizione_, l'Autore lo raccoglie da quel passo:
_usquequo detrahet mihi populus iste?_ _Usquequo non credent mihi in
signis, quae feci coram eis?_ Gli dobbiamo rimproverare l'ignoranza del
Latino, o la mala fede? Per non esserci permesso nè l'uno nè l'altro,
farebbe d'uopo, che nel testo si leggesse _usquequo non credant signa
quae feci coram eis_. Ma l'espressione _usquequo detrahent mihi:
usquequo non credent mihi in signis_ suona in volgare: Fino a quando
mormoreranno della mia condotta? _Fino a quando non presteranno fede
alle mie minacce ed alle mie promesse, giacchè ho fatti innanzi a loro
tanti miracoli?_ Questo è il vero rimprovero fatto a' _primi Giudei_, e
che si vede non meno frequentemente ripetuto a' _Giudei del secondo
tempio_. Per la qual cosa nulla da questo luogo può riferirsi contro la
certezza degli enunciati miracoli.

I Profeti riunirono nel Messia co' caratteri di _Re_, e di
_Conquistatore_ quelli di _Martire_ e di _Figliuolo di Dio_, e questi si
trovano raccolti in ogni libro di Teologia. Ma ripiglia Orobio: Gesù non
essendo stato Re e Conquistatore temporale, perchè i suoi seguaci
ricorrono al senso spirituale? Perchè risponde il Limborchio, tal è
l'interpretazione datane dagli Scrittori del nuovo Testamento, inspirati
da quel Dio che dettò l'antico: e le prove dell'inspirazione di quelli è
tale, che i Giudei non possono contrastarle senza ferire ancor questo.

La _Chiesa non restò_ pure un momento _confusa colla Sinagoga_, nè
quanto alla dottrina, nè quanto alla comunione. Gli Ebrei insegnavano,
che la salute dipendeva unicamente dalla legge Mosaica; che Gesù era
stato un impostore, e che la sua dottrina doveva passare per un'empia e
detestabile profanazione. Secondo i Cristiani, Gesù era figliuolo di
Dio, da cui solo sperar si doveva la vita eterna, e le cerimonie
Mosaiche erano divenute per lo meno inutili. Circa la comunione, i
Cristiani si congregavano in case private, e la Sinagoga lungi dal
tollerarli li perseguitò fieramente e dentro e fuori della Palestina.

Lo sbaglio dell'Autore sarà per avventura derivato dal vedere, che nel
primo secolo alcuni de' Giudei convertiti univano amendue i culti. Nel
qual punto di storia sembra, che le sue idee fossero molto superficiali
e confuse.

Tre classi di Giudei sostenevano l'osservanza dei riti Mosaici: alcuni
li congiungevano all'Evangelio, ma senza crederli necessari alla salute;
e questi erano riconosciuti per Ortodossi; altri ne insegnavano la
necessità, e furono rigettati come Eretici sin dalla nascita della
Chiesa, allor quando gli Apostoli nel Concilio di Gerusalemme
dichiararono, che non erano più necessari. Nella terza classe mettiamo i
Giudei non convertiti, i quali esaltavano tanto le istituzioni Mosaiche,
che condannavano assolutamente la legge ed il culto di Cristo.

Ora scrive l'Autore, che _gli argomenti impiegati da' Giudei convertiti
a provare, che le ceremonie Mosaiche non potevano abrogarsi, e che tutti
i Proseliti li dovevano riconoscere come indispensabili, non
plausibili_: gli espone in compendio, e cita la conferenza d'Orobio con
Limborchio, dove si trovano estesamente spiegati (p. 103). Chi non dirà
ad un tal parlare, che Orobio difenda la causa de' Cristiani
giudaizzanti? Frattanto questa è una metamorfosi operata
dall'immaginazione dell'Autore, che lo ha convertito tanti anni dopo che
è morto; impresa, che non potè riuscire al Limborchio, col quale il
Giudeo Orobio disputò per ben tre volte contro il Cristianesimo, e
rimase Giudeo. Sì fatti errori, commessi per troppo abbondare in
erudizione, ci vagliano di ammaestramento; quando ci rammentiamo della
sicurezza, colla quale egli dichiarò nella piccola prefazione di _aver
letti tutti gli originali, coi quali aveva illustrate la sue ricerche_.

Ma quali sono gli argomenti, a cui egli dà tanto peso? _Iddio è
immutabile._ Che ne segue? Si muta egli forse per aver limitata
l'esistenza dell'uomo? No. Perchè adunque non ha potuto ab eterno
volere, che la legge Mosaica durasse sino a certo tempo, e poi desse
luogo a quella, che ne' suoi immutabili decreti doveva seguire? _Gesù
Cristo e gli Apostoli osservarono le ceremonie di Mosè_: perchè, dice S.
Paolo, non era stato ancora squarciato l'antico chirografo; dappoichè
Gesù ebbe consumate sulla croce tutte le profezie, cominciò un nuovo
ordine di cose, e gli Apostoli coll'intervento del divino Spirito
dichiararono, che il peso de' riti Mosaici non era più necessario.

Vi vuol dunque una gran dose di stupidezza o di malignità a dire, che la
_sagacità de' santi Interpreti_ qui ha dato di piglio all'allegoria,
ovvero ai sofismi, come se in una cosa tanto facile e piana sorgessero
difficoltà da non potersi altrimenti superare.

Nel raccontar le vicende della Chiesa di Gerusalemme l'Autore confonde i
_Nazarei_ Eretici co' primi Cristiani, ch'ebbero per qualche tempo la
denominazione medesima: tolto il quale equivoco, si scorgerà chiaramente
nella Storia che la Chiesa Gerosolimitana fu sempre ortodossa, e quando
andò, e quando ritornò da Pella; mentre se professava coll'Evangelio i
riti Mosaici, non ne insegnava la necessità; sebbene per essere que'
Fedeli ammessi nella nuova città edificata da Adriano sul monte Sion
avessero dovuto rinunziare ad ogni costume Giudaico. I Nazarei Eretici,
che ne difendevano la necessità, e nutrivano altri errori capitali
contro la fede, cacciati da Gerusalemme non ebbero più permesso di farvi
ritorno per la loro ostinazione, e rimasero separati dalla comunicazione
dei Fedeli nella stessa guisa di prima. Secondo alcuni eglino stessi
sono gli _Ebioniti_; ma secondo altri l'una setta è diversa dall'altra.

San Giustino Martire fu d'avviso, che non fosse peccaminosa l'osservanza
de' riti Mosaici, purchè non si credesse necessaria. Ma invece di
_spiegarsi colla più riservata diffidenza_, nel passo si legge ripetuto
tre volte _salvatum talem iri aio_. Nella traduzione dell'Autore Trifone
l'interroga del _sentimento della Chiesa_; e nel testo si dice; _an
sunt, qui dicant, hujusmodi salvatum non iri? Sunt, ego respondi_. Non
esprime quanti erano, molto meno che fosse opinione di tutta la Chiesa.
_Cum talibus_, prosegue il Santo, _neque consuetudinis, neque hospitii
communionem habere audent_; parole compendiate così dal Mosemio: _minus
clementer decernunt_. L'Autore prese da questo la citazione, e vi fece
un ampio comento: asserendo _che quando Giustino fu pressato a dichiarar
il sentimento della Chiesa, confessò che vi erano molti fra gli
Ortodossi Cristiani, che non solo escludevano i loro giudaizzanti
fratelli dalla speranza di salvazione, ma che evitavano ancora ogni
commercio con loro ne' comuni offizj di amicizia, d'ospitalità e di vita
sociale._ In un quadro d'intolleranza si doveva por mano a tinte assai
forti.

Gli Gnostici non rigettarono l'antico Testamento _per averlo trovato
pieno di difetti_, ma perchè fu inspirato dal Creatore, che nel loro
sistema de' due principj era l'Autore del male. Per lo stesso sistema
neppur poterono accomodarsi agli Evangeli, ne' quali s'insegna, avere il
Verbo assunta umana carne, la quale era per loro opera del Creatore.

Le difficoltà, ch'egli cita contro l'antico Testamento, abusando del
nome degli Gnostici, sono state ripetute sino alla nausea dai
predecessori del Signor Gibbon, e gli Apologisti vi hanno tanta luce
arrecata, che non possono più rimettersi in campo senza stancare la
pazienza del Pubblico. Simili dettagli al nostro istituto non si
convengono.

Dite voi, che _sino ad Adriano la Chiesa tollerò tutte le Sette?_ Gesù
Cristo aveva ordinato: _si ecclesiam non audiverit, sit tibi, tanquam
ethnicus et pubblicanus_; e l'Apostolo aveva detto _haereticum hominem
devita_. Nell'epistole di S. Paolo, di S. Giovanni e di S. Ignazio,
discepolo degli Apostoli, ad ogni passo s'incontrano vive esortazioni a
fuggire gli Eretici.

Passando da Gerusalemme a Roma, l'Autore si maraviglia, come i Cristiani
_avessero in tanto orrore ogni segno di culto nazionale_. Ma o Iddio non
esige un culto neppur naturale; o un culto contrario all'unità della sua
natura ed alla perfezione de' suoi attributi dee veramente inspirare
l'orrore, col quale i Cristiani guardavano l'universale depravazione
delle leggi di natura, consecrata agli Dei nel culto idolatrico.
L'Autore motteggia sul demonio, come se senza l'intervento di lui
l'idolatria non fosse il più enorme di tutti i peccati. _I demonj erano
autori, patrocinatori ed oggetti dell'Idolatria_, in quanto tentavano
gli uomini contro il precetto di onorare Dio, come giornalmente li
tentano intorno agli altri doveri.

Nella storia delle stravaganze dello spirito umano mancava chi facesse
il panegirico dell'Idolatria. L'Autore ha occupato il posto voto: ma il
suo elogio non può piacere se non a coloro, le cui idee e le cui brame
terminano ne' sensi. _La superstizione compariva sempre sotto
l'apparenza del piacere e spesso della virtù_, e sappiamo qual piacere
ella menasse in trionfo. Virtù e voluttà formano un'idea complessa di
nuova invenzione.

_Era un dovere penoso pei Cristiani il conservarsi puri in mezzo a tanta
corruzione._ Come stettero saldi? E come fecero uscire i Gentili dal
lezzo, in cui si giacevano? Secondo il corso della natura i Gentili
dovevano sovvertire i Cristiani, anzichè i Cristiani convertire i
Gentili. Ma noi siamo tornati insensibilmente al titolo dell'Articolo, e
l'Autore non vuole che se ne parli.

      Seconda Conclusione che dee provare l'Autore. La dottrina d'una
      vita futura, accompagnata dall'opinione dell'imminente fine del
      mondo, e del beato regno de' mille anni fu una delle cagioni
      naturali dello stabilimento o de' progressi del Cristianesimo.

RISTRETTO. _Gli antichi filosofi inculcavano questa semplice verità, che
nulla attender si dee dopo la morte: ma pochi saggi della Grecia e di
Roma seguendo la guida dell'immaginazione e della vanità insegnavano
essere l'anima immortale. Una dottrina tanto superiore ai sensi, se
occupava piacevolmente l'ozio de' solitari, perdeva ogni efficacia nel
commercio e nei negozi della vita civile; giacchè la filosofia non potè
co' più alti sforzi che indicar debolmente il desiderio, la speranza, o
al più la probabilità d'una vita futura, il darne la certezza
apparteneva alla Rivelazione. La mitologia Pagana non poteva giovare,
perchè già se n'era cominciato a scuotere il giogo. Questa dottrina
dell'immortalità però si stabilì più prosperamente nell'Indie, nella
Siria, nell'Egitto, nella Gallia per l'ambizione de' Sacerdoti. Nella
legge Mosaica, dove si dovrebbe trovare, non se ne fa menzione: i Giudei
fino ad Esdra si limitarono al presente. Indi a non molto i Sadducei la
rigettarono attaccati al senso letterale della Scrittura, e l'ammisero i
Farisei con altri dommi tratti dalla filosofia Orientale, il cui partito
finalmente prevalse. Ma non divenendo essa per ciò più probabile, era
necessario che ricevesse da Gesù Cristo la sanzione di verità divina.
Allorchè fu offerta agli uomini la promessa d'una felicità eterna, non è
maraviglia che venisse accettata da gran numero di persone d'ogni
religione, d'ogni condizione, d'ogni Provincia._

_L'opinione della prossima fine del mondo, fondata sulle parole di Gesù
Cristo e degli Apostoli, che dopo il corso di 17 secoli non si è
avverata, produceva i più salutari effetti sopra i Cristiani, e contro
gl'Increduli si annunciavano le più orribili calamità._

_Si credeva inoltre, che Gesù Cristo avrebbe regnato in terra mille anni
innanzi la risurrezione generale. Questo sistema adattato ai desiderj ed
alle apprensioni degli uomini dovè molto contribuire a' progressi del
Cristianesimo. Quando poi non se n'ebbe più bisogno, fu condannato come
invenzione dell'eresia._

_La condanna de' più saggi e de' più virtuosi Pagani offende l'umanità e
la ragione del presente secolo: ma nella primitiva Chiesa si condannava
al supplicio eterno la massima parte della specie umana. Sentimenti così
rigidi sparsero di amarezza un sistema di amore: i Fedeli insultavano i
Politeisti, e questi subitamente atterriti senza poter essere sovvenuti
da' Sacerdoti o da' Filosofi loro, restavano soggiogati; e se una volta
inducevansi a sospettare, che potesse la religion Cristiana esser vera,
diveniva facile il convincerli, che il partito più prudente era quello
di abbracciarla_ (p. 139).

RISPOSTA. Prosegue l'Autore colla stessa copia d'idee estranee, e colla
stessa scarsezza di ragionamenti adattati al bisogno. Noi dobbiamo
investigare, come naturalmente giovasse all'avanzamento della Religione
la dottrina dell'immortalità, l'aspettazione dell'imminente fine del
mondo, l'opinione del beato regno di mille anni.

Circa la prima parte egli dopo di averci esposti i sentimenti delle
antiche nazioni e gli sforzi della filosofia, termina con queste parole.
_Allorchè fu offerta agli uomini la promessa d'una felicità eterna, non
è maraviglia che venisse accettata da un gran numero di persone d'ogni
religione ec._ Eccoci adunque nello stesso caso di prima: questo è un
replicare con giro diverso di termini, che _la dottrina dell'immortalità
fu una delle cagioni naturali dello stabilimento e de' progressi del
Cristianesimo_; che era quello che si dovea provare.

_Non è maraviglia, che venisse accettata da gran numero di persone._
Cesserà la maraviglia o pel vantaggio derivante dalla stessa dottrina, o
per la qualità di coloro, che predicarono, o per la disposizione, nella
quale trovavansi quelli a cui fu predicata.

Non può l'Autore attenersi alla prima parte, avendo supposto, che _la
dottrina dell'immortalità, se allettava l'ozio dei solitari, perdeva
ogni efficacia nel commercio e ne' negozj della vita civile._ Ma ponendo
da parte i pensamenti di lui, la incoerenza de' quali non reca alcun
giovamento alla causa della verità, la dottrina della vita avvenire,
quale si stabilisce nel Cristianesimo, ha un aspetto seducente ed un
altro ributtante. Non possono non allettare gl'ineffabili beni di una
beata eternità promessi a chi soffre coraggiosamente i travagli d'una
brevissima vita. Ma non possono non ributtare gl'inesplicabili tormenti
aggravati dall'immenso peso dell'eternità sopra un miserabile, che abbia
avuta la disgrazia di atterrare il cumulo di tutti i suoi meriti con un
solo peccato di desiderio. Ed il dogma della Predestinazione, che si
riferisce a questo gran termine, eccita, più che speranza, terrore ed
abbattimento di spirito. Se non che questo stesso terrore, questo
abbattimento di spirito può servir di motivo a seriamente pensare ad un
negozio di tanta importanza. Ma egli è indubitato, che una dottrina, sia
per l'amor proprio interessante quanto si voglia, non acquisterà mai
alcun grado di efficacia, se non quando si presenterà alla mente dotata
della necessaria certezza. Le promesse e le minacce senza prova son
nulla.

I Predicatori Evangelici, attesi i loro caratteri esterni, non avevano
l'autorità de' filosofi. Oltre ciò i nostri non prendevano a convincere
con ragioni filosofiche. Eglino proponevano l'immortalità come un
articolo che si doveva credere, non come il prodotto d'una
dimostrazione. Su qual fondamento potevasi prestar fede alle loro
dichiarazioni? O dovevano essere dispregiati, o gli animi dovevano
restar penetrati dall'evidenza delle prove generali della Rivelazione.
Ma in tal guisa la verità del Cristianesimo, già riconosciuta, faceva
ricevere unitamente agli altri dommi quello dell'immortalità, quando ci
doveva provare, che la dottrina dell'immortalità era la cagione, che
faceva abbracciare il Cristianesimo.

Qual era la disposizione degli Ebrei? A tempo di Gesù Cristo la dottrina
della vita avvenire costituiva un articolo essenziale della loro
credenza; onde il Cristianesimo non offeriva loro alcun nuovo vantaggio,
e ritrovava un ostacolo naturalmente impossibile a superarsi. Nel
Cristianesimo la vita eterna era promessa soltanto a chi credeva in Gesù
Nazareno; nel Giudaismo a chi osservava senza mescolanza di altri culti
le istituzioni Mosaiche.

Circa la credenza de' Pagani l'Autore non sa determinarsi; nè noi ci
gioveremo della sua perplessità. O essi profetavano questa dottrina, o
non la professavano. Nella prima supposizione non vi è ragione
sufficiente, per cui il Pagano dovesse abbandonare la Religione della
patria, che insegnava lo stesso sistema. Nella seconda bisogna
rinunciare al senso comune per non vedere, che una novità di tal natura,
in luogo di agevolare le conversioni, ne accresceva la difficoltà. Voi
Cristiani, doveva dire il Politeista, mi promettete un paradiso, se io
abbraccierò l'Evangelio; e mi minacciate un inferno, so resterò nella
Religione, nella quale son nato. I grand'uomini della Grecia e di Roma
hanno altamente derisa questa dottrina; lo stesso popolo di presente la
considera come una chimera; nel Senato e nei Teatri di Roma si annuncia
pubblicamente e senza velo, che tutto finisce colla morte: sopra quali
prove voi vi fondate? Non è questa la disposizione naturale, in cui le
istanze de' Cristiani metter dovevano i Gentili?

Lo opinioni del _prossimo fine del mondo_ e del _terreno regno di
Cristo_ sono soggette alle stesse difficoltà. Esse non potevano prendere
neppure aspetto di probabilità, se prima gl'Infedeli non rimanevano
convinti dalle verità della Rivelazione Cristiana. E la prima era
inoltre in se tant'odiosa, tanto sensibilmente feriva la sensibilità de'
Romani per la gloria e per la perpetuità dell'Impero, che fu una delle
cagioni che nel fuoco delle persecuzioni gli stimolava ad incrudelire
contro persone, le quali lor pareva, che bramassero l'estinzione di
tutto il genero umano. Ma è tempo di passare alle digressioni.

Chiunque abbia una leggiera tintura della storia della filosofia, sa che
tra' Greci l'immortalità dell'anima dal solo Epicuro fu rigettata.

I Romani sino a Catone universalmente la credettero. Dappoichè penetrò
in Roma la filosofia di Epicuro, lo spirito di Scetticismo infettò
alcuni di que' letterati; ma il popolo rimase costante nell'antica
credenza, ch'era conforme a quella degl'Indiani, degli Assirj, degli
Egizj, de' Galli, i _Sacerdoti_ de' quali non avevano alcuna preeminenza
sopra quelli de' Romani. Anzi allora fu, che all'Epicureismo sottentrò
il nuovo Platonismo confederato colla filosofia Orientale, quando il
Cristianesimo cominciava a predicare la vita avvenire; allora i
filosofi, alzarono altare contro altare; e tutto fu inutile.

Se l'Autore ha lette le dimostrazioni addotte da' moderni filosofi in
favore dell'immortalità, doveva accennare i difetti per convincersi, che
_la filosofia co' più alti suoi sforzi non può indicarne se non che
debolmente il desiderio e la speranza o al più la probabilità_. Vero è
che queste dimostrazioni, che non si assomigliano punto alle sue, non
possono solleticare il suo gusto.

Ne' libri di Mosè si fa molte volte non oscura menzione di questa
dottrina: confessiamo però, ch'ella non è contenuta nell'economia
dell'antica legge, ristretta dentro la sfera del temporale, sicchè se
non vi si trova, non vi si dee trovare. L'Autore Inglese della divina
legislazione di Mosè, che il Sig. Gibbon poteva consultare, parla molto
acconciamente di questo argomento.

_I Sadducei la negarono_, perchè quantunque ella si trovi ne' libri di
Mosè, e più chiaramente ne' seguenti Scrittori, quelli si compiacquero
di profanar la Scrittura colla Filosofia di Epicuro. Per la stessa
ragione l'ammisero i Farisei, non per _l'autorità della filosofia
Orientale_; se l'Autore non voglia distruggere quanto ha sostenuto
sull'inflessibile ostinazione de' Giudei nel ricusar di unire alcuna
istituzione con quelle di Mosè.

Del resto egli riconosce questo dogma _dettato dalla natura_, benchè
prima l'avesse creduto _inspirato a pochi filosofi dalla vanità_: lo
confessa _approvato dalla ragione_ a dispetto della _filosofia, che co'
più alti suoi sforzi non potè dimostrarlo_: gli piace, che _l'avesse
adottato la superstizione_, dopo d'aver dichiarato la Mitologia
_insufficiente a farlo ricevere_; che _i più savj Politeisti ne avevano
scossa l'autorità_; e che _i voti del popolo Pagano diretti a Giove e ad
Apollo risguardavano il solo presente_. Finalmente _gli Ebrei lo
credevano_ come rivelato; ma _perchè ciò nulla vi aggiungeva di
probabilità, fu necessario, che lo rivelasse Gesù Cristo_. Il Sig.
Gibbon ha bisogno della sagacità d'un interprete più che santo.

La distruzione prossima del mondo, la comparsa dell'Anticristo, e la
venuta di Cristo giudice è una predizione contenuta formalmente
nell'Evangelio e nell'Epistole di S. Paolo, di S. Pietro, di S.
Giovanni: ella pel corso di 17 secoli non si è avverata: dunque questi
libri non furono divinamente inspirati. Ecco l'obbiezione, ed ecco la
risposta, che si raccoglie dalla bell'Opera del Sig. Hammond Scrittore
Inglese più antico del nostro. Convien distinguere due venute di Gesù
Cristo, l'una a punire i Giudei, e l'altra a giudicare tutto il genere
umano. Quella nella Scrittura si predice imminente, ma questa si dà per
incerta. Applicate i passi in quistione alla comparsa dei primi
Eresiarchi denominati _Anticristi_ da S. Giovanni, ed alla distruzione
di Gerusalemme sotto Vespasiano, e troverete adempita la predizione nel
tempo da' sacri Autori designato.

Se il Sig. Gibbon avesse rammentato, che Origene fiorì molto prima di
Lattanzio, ed ebbe gran numero di seguaci, non avrebbe detto, che _da S.
Giustino Martire fino a Lattanzio tutti i Padri riguardavano la dottrina
del Millennio come una verità creduta da tutta la Chiesa_. Origene
sostenuto dal maggior numero distrusse sì fattamente l'errore, che
avendo il Vescovo Nipote (molto prima di Lattanzio) tentato di
ristabilirlo, non trovò, dice il Mosemio, se non pochi fanatici nelle
campagne e ne' borghi dell'Egitto, che gli prestassero orecchio. Per
altro diversamente ideavano questo regno i pochi Ortodossi, che avevano
adottata tale chimera, e diversamente gli Eretici: finchè scopertasi
l'origine nelle favole Giudaiche ed in Corinto, la Chiesa giustamente lo
proscrisse. E siccome abbiamo dimostrato, che la riferita opinione nulla
per se poteva influire ne' progressi del Cristianesimo, riesce insipido
il sentirci dire, che _quando l'edifizio della Chiesa fu quasi al
termine, si tolse di mezzo il sostegno, che aveva servito un tempo per
comodo della fabbrica._

La _riprovazione_ de' pretesi _saggi e virtuosi Pagani_ ben intesa non
offende nè l'_umanità_, nè la _ragione_ del nostro secolo, ma come si
debba intendere secondo la fede cattolica, nè noi possiamo brevemente
spiegarlo, nè ai semplici nuoce il non saperlo. Giova l'udire, che
_questi sentimenti spargevano di amarezza un sistema d'amore_; poichè
tanto più ci maravigliamo, come l'Autore abbia riposta in questa
dottrina la sua seconda cagion de' progressi del Cristianesimo, quanto
più candidamente egli ne accenna gli effetti contrari.

      Terza Conclusione che dee provare l'Autore. Il dono de' miracoli
      falsamente attribuito alla Chiesa primitiva fu una delle cagioni
      naturali dello stabilimento e dei progressi del Cristianesimo.

RISTRETTO. _I doni soprannaturali, che dicesi avere ricevuti i primi
Cristiani, dovevano contribuire a convincere gl'Infedeli. Oltre i
prodigi accidentali, la Chiesa si è arrogata sin dagli Apostoli una
successione non interrotta di facoltà miracolose, come il dono delle
lingue, le visioni e le profezie, il potere di scacciare i demonj, di
sanar gli ammalati e di resuscitare i morti. Ireneo, che attribuisce il
dono delle lingue ai suoi contemporanei, dice di se stesso, che
predicando l'Evangelio nelle Gallie, doveva contrastare colle difficoltà
di un dialetto barbaro. E se i Cristiani d'allora richiamavano a vita
gli estinti, come ne fa testimonianza Ireneo, lo Scetticismo di que'
tempi non si potrebbe spiegare. Teofilo ricusò di dar questa prova ad un
Pagano che si sarebbe convertito. Del resto in ogni secolo si osserva
una succession di miracoli; e verremmo a contraddirci, se negassimo
nell'ottavo e nel decimo secolo al venerabile Beda e a S. Bernardo
quella fede, che abbiamo con tanta generosità accordata nel secondo a
Giustino e ad Ireneo. L'utilità poi de' miracoli è sempre la stessa:
ogni secolo ha avuto degl'increduli da combattere, degli Eretici da
convincere, degl'Infedeli da convertire. Frattanto confessando ogni uomo
ragionevole esser già tal potere cassato, dovè togliersi alla Chiesa in
un'epoca che noi non sappiamo terminare. Di presente regna un segreto
Scetticismo: assuefatti da gran tempo ad osservare ed a rispettare
l'ordine invariabile della natura, non siamo sufficientemente preparati
a sostenere l'azione visibile della Divinità. Diversa era la situazion
degli uomini al nascere del Cristianesimo. I più curiosi ed i più
creduli fra' Pagani s'inducevano spesse volte ad entrare in una società,
che si attribuiva un attual diritto alla potestà di far miracoli. I
primitivi Cristiani battevan continuamente una strada mistica: i
prodigi, ch'eglino si figuravano di operare, li disponevano a ricevere
colla stessa facilità le maraviglie dell'Evangelio ed i misteri, che per
loro confessione sorpassavano le forze del loro intelletto. Quest'intimo
convincimento fu celebrato sotto nome di fede, e raccomandato come il
principale e forse l'unico merito del Cristiano, poichè secondo i più
rigidi Dottori le virtù morali, che possono praticarsi egualmente
dagl'Infedeli, son prive d'ogni valore o efficacia per operare la nostra
giustificazione_ (p. 147).

RISPOSTA. _Che il dono de' miracoli dalla primitiva Chiesa vantato ne
agevolasse naturalmente i progressi_, l'Autore neppure ha tentato di
provarlo: ci avverte a principio, che _ciò doveva contribuire a
convincere gl'Infedeli_: in tutto il restante perde di vista la
conclusione; e finalmente termina con asserire, che _i Gentili entravano
per curiosità o per credulità nella Chiesa che vantava il poter de'
miracoli_.

Tanta parsimonia qui non è fuor di ragione. Imperciocchè impegnatosi
egli a provare, ch'erano illusioni o imposture i miracoli, che
all'antica Chiesa si attribuiscono, il mettersi poscia a seriamente
provare, che _l'imposture e l'illusioni contribuivano a convincere
gl'Infedeli_, sarebbe stato lo stesso che contraddirsi.

Quindi dobbiamo prendere in ischerzo, che i Gentili rinunciassero alla
propria Religione, ed entrassero nella Chiesa perseguitata dal Principe
per pura _curiosità_. Questo sarebbe un nuovo principio morale di mutar
il cuore, e dal libertinaggio farlo passare all'estremo di una vita pura
ed austera.

Vi potevano entrare per _credulità_. In quel tempo i Romani erano troppo
illuminati, e a udire l'Autore _avevano già scossa l'autorità della
Mitologia_, che spacciava tante maraviglie. Or poi entrati per soverchia
semplicità nella Chiesa, come potevano rimanervi, trovando la loro
aspettazione delusa? Se miracoli non se ne operavano, i Proseliti non
potevano trovarvene. Chi gl'incantava? Come concepivano un tenacissimo
attaccamento a questa madre? Per quale speranza si lasciavano
barbaramente tormentare e toglier la vita? Subodorata appena l'impostura
o l'illusione, non dovevano abbandonare con isdegno una società infame?
Non dovevano alzar la voce, ed avvertire i parenti, gli amici, i
magistrati, il pubblico, che si guardassero dalle frodi Cristiane?

Sarebbe puerilità il voler più insistere sopra un assurdo così
palpabile: rivolgiamoci piuttosto all'oggetto, al quale tendono
veramente gli sforzi dell'avversario. Egli non vuol miracoli di veruna
sorta, nè in verun tempo: egli investe quelli de' primi secoli, quelli
degli Apostoli e di Gesù Cristo, ed in generale ogni evento che non sia
nell'ordine della natura. Questa è la vera meta delle sue ricerche, ed a
questo noi ora volgeremo le nostre difese.

Avanti però d'innoltrarsi, convien premettere due osservazioni. Ecco la
prima. Non si dee contendere, se la primitiva Chiesa vantasse un potere
di far miracoli permanente, e da esercitarlo a sua disposizione. Mai non
si è così creduto nel Cristianesimo: mai non si è avuta l'arroganza di
pretendere, che Iddio assoggettata avesse la sua onnipotenza
all'arbitrio degli uomini. Quante difficoltà non farebbe nascere un tale
sistema? A chi Iddio confidò questo potere? Ad ogni Fedele in
particolare? O all'unione di tutti? O pure a' Vescovi presi ad uno ad
uno, ovvero al Sacerdozio in corpo? E qual condotta conveniva tenere
nelle occorrenti emergenze? Quelli d'una Provincia erano padroni di fare
il miracolo, o dovevano implorare il consenso ed il soccorso di tutte le
Chiese? Essendo somigliante disegno impossibile ad eseguirsi, si è
sempre insegnato, che Iddio secondo il suo puro beneplacito accordava i
doni miracolosi ad alcuni d'eminente virtù e nelle circostanze che gli
rendevano necessari, nella stessa guisa, che furono conceduti a Mosè e
ad altri illustri personaggi dell'antico Testamento.

La seconda riflessione riguarda l'origine istorica della presente
controversia. Fu ella posta in campo dal Dottor Middleton colle stesse
difficoltà critiche, che il nostro Autore ha tolte di peso da lui. La
novità dell'impresa sollevò contro il Middleton tutto il Mondo
Cristiano, ed i suoi Avversari lo ridussero alla disperazione di cambiar
lo stato della questione, per ritirarsi con onore. Dichiarò egli di non
aver tolti a combattere i miracoli passeggieri ne' primi secoli
accaduti, ma solo il poter permanente, di che si credeva rivestita la
Chiesa: cosa, ripiglia il Mosemio, da niuno sostenuta, e che per
conseguenza non meritava la pena di confutarsi con un grosso volume. Il
Sig. Gibbon cita questo grosso volume, cita l'opposizioni che incontrò,
cita l'Apologia ch'egli preparò; ma non dichiara il fine ch'ebbe la
disputa, e par che ignori, che la di lui piuttosto ritrattazione che
apologia fu data alla luce un anno dopo la morte del medesimo.

Fu rimproverato al Middleton che le difficoltà da lui fatte contro i
miracoli dei primi secoli si stendevano naturalmente a quelli degli
Apostoli e di Gesù Cristo. In fatti egli oppose ai primi il Pirronismo
dei letterati contemporanei, la credulità del popolo ed alcune
leggerissime riflessioni di critica sopra i monumenti degli antichi
Scrittori, e gli fu fatto vedere, che le stesse leggerissime riflessioni
di critica possono applicarsi agli Evangeli, e che si rinviene la stessa
credulità del popolo Ebreo, e lo stesso Pirronismo negli Scribi e ne'
Farisei. Il Middleton, persuaso della verità de' miracoli depositati ne'
libri canonici, non volendo riconoscere la fatale conseguenza de' suoi
principj, amò meglio di mutar la questione. Col nostro Autore è
superfluo l'affannarsi a mettergli in vista la stessa conseguenza, come
quegli, che lungi dall'averla in orrore, se la fa propria, e temendo che
il suo lettore non sia capace di scuoprirla da se, ve lo conduce per
mano, e si leva del tutto la maschera verso il fine del capo.

Ora noi qui non prenderemo direttamente a difendere i miracoli di Gesù
Cristo, giacchè egli non gli ha direttamente assaliti; faremo l'apologia
de' prodigi de' primi secoli nella già divisata maniera ch'ei gli ha
attaccati, e la certezza di questi terrà al coperto la certezza di
quelli.

E prima di sciogliere le sue difficoltà, ci sia permesso di ragionare
alquanto sul fatto e diciamo, che se i Gentili venivano in folla alla
fede, questa è una prova evidente della verità de' miracoli, che si
dicevano accaduti. E vaglia il vero o bisogna supporli tutti stupidi e
privi di ogni amore per la Religione della patria, o confessare, che la
conversione loro era il risultato di veri miracoli. Imperciocchè i
Cristiani lungi dal cercare la solitudine e le tenebre operavano in
pubblico; e ciò apparisce da quella specie di disfide, che s'incontrano
ad ogni passo aprendo i libri degli Scrittori dei primi secoli.
Dall'altra parte i vantati prodigi erano di tal natura, che anche i più
rozzi contadini potevano formarne giudizio. Il parlare diverse lingue,
il liberare gli ossessi, il richiamare a vita gli estinti, ricercano
recondite cognizioni di fisica o sublimi sforzi d'ingegno a deciderne?
Dunque supponendo i Gentili forniti del senso comune, e freddamente
interessati per la propria Religione, se nelle operazioni Cristiane non
vi era un fondo di verità, se ne dovevano accorgere; onde se si
convertirono contro l'interesse delle proprie passioni, il fatto stesso
fa una invittissima prova in favore di essi miracoli.

Inoltre abbiamo detto, che se nella Chiesa non si facevano veri
miracoli, i Proseliti, che vi erano entrati per _credulità_, dovevano o
presto o tardi disingannarsi, ed uscirne. A che dobbiamo attribuire la
loro perseveranza per fino in faccia de' tormenti e della morte? Non si
trattava d'una famiglia, di una città, di una Provincia. Dovunque erano
sparsi i Cristiani, vantavano le stesse maraviglie. Apostati ve n'ebbe
in ogni tempo, in ogni tempo gli Eretici esclusi dal seno della Chiesa
erano pronti a calunniarla; e la perpetua cura de' filosofi era di porre
in discredito i seguaci dell'Evangelio. Credibile che per niuna di
queste vie siasi potuta mai giuridicamente provare una frode, una
collusione? Noi avremmo voluto che l'Autore, in vece di esercitarsi
nella gramatica, avesse trattato da filosofo questo argomento. Ma
ascoltiamo quanto gli è piaciuto di ripetere dietro la scorta di un
Dottore sconfitto.

_Come si può spiegare lo Scetticismo de' letterati Pagani_ intorno
all'immortalità dell'anima ed intorno la rivelazione in generale? Si
spiega ottimamente con accordarvi di buon grado, che questi _guardavano
gli affari Cristiani con quell'indifferenza, e con quel dispregio_, con
cui credete di mortificarci in tanti passi dell'Opera vostra. Persone,
che non credono, perchè non si sono informate, perchè non hanno fatto
esame veruno, qual peso di autorità possono avere? Oltre che è legge
forse di Psicologia, che la volontà si determini invincibilmente secondo
la verità che scuopre l'intendimento? Perchè peccano tanti Cristiani
persuasi fermamente dell'esistenza dell'inferno? Non si debbono avere in
conto alcuno i pregiudizi, la superbia, i legami civili che stringono
più che ogni altro le persone di merito distinte? E di questi stessi
personaggi non ne vantò in gran copia la primitiva Chiesa?

Della _credulità del popolo_ si è abbastanza parlato per non dover qui
ripetere il già detto. Restano le riflessioni critiche sopra Ireneo e
sopra Teofilo.

_Ireneo_, dice il Middleton, _attribuisce altrui il dono delle lingue,
dov'egli predicando l'Evangelio nelle Gallie confessa di aver dovuto
contrastare colle difficoltà d'un dialetto barbaro_. Nel testo si legge,
che il Santo si scusa di non iscrivere con Greca eleganza la storia
dell'Eresie a motivo di questo barbaro dialetto: frattanto ci si
suppone, che ciò accadesse nell'_atto di predicar l'Evangelio_. La
parola Greca poi, alla quale si fa significare _contrastare colle
difficoltà di un dialetto barbaro_ realmente significa _esercitare,
usare, parlare_ un dialetto barbaro.

_Teofilo rigettò la proposizione di rendere ad un morto la vita, per
quanto bramoso fosse dalla conversion dell'amico._ Il fatto è verissimo,
e ne istruisce chiaramente, che gli antichi Vescovi non si avvisavano di
poter fare i miracoli a lor piacimento. Ma che se ne vuole inferire?
_Dunque Ireneo, il quale dice, che questo prodigio non era raro a suo
tempo, e ch'egli aveva conversato con persone, alle quali era stata
fatta questa grazia, mentisce._ Dobbiamo perdere il tempo a confutar
questa maniera di argomentare? Dipendente da questo è l'altro esame che
siamo ora per fare. Suppone l'Autore, che _ogni uomo ragionevole
confessi, non farsi più nella Chiesa veri miracoli_. La sua perplessità
è soltanto nel fissar l'epoca della pretesa sospensione. _Fu
immediatamente dopo la morte degli Apostoli? Alla conversione di
Costantino? All'estinzione dell'Arriana eresia?_ Tacciamo che la
perplessità non può aver luogo in chi ha impugnati i miracoli de' tempi
d'Ireneo, e facciamo osservare, che i Cattolici esclusi dal numero degli
_uomini ragionevoli_, perchè insegnano operarsi tuttora, benchè meno
frequentemente, e doversi operare veri miracoli sino alla consumazione
de' secoli nella Chiesa, lo dimostrano all'Autore co' suoi stessi
principj.

_Perchè ricuseremo noi la testimonianza di Beda o di Bernardo
nell'ottavo o nel decimo secolo, ammettendo quella d'Ireneo nel
secondo?_ Ecco il primo argomento.

Al presente la Chiesa ha _degl'Increduli da combattere, degli Eretici da
convincere, degli Infedeli da convertire,_ come ne' secoli andati, di
sorte che l'utilità o sia la necessità de' miracoli è sempre la stessa.
E questo è il secondo argomento.

_La successione della dottrina, de' Santi, de' Martiri e de' miracoli in
ogni secolo è così seguita, che non si scorge in quale anello siasi
rotta la catena._ Dunque essa non si è mai rotta; poichè confrontando
l'un secolo coll'altro, la differenza, se vi fosse, dovrebbe essere
sensibile. Ecco il terzo argomento.

Verisimilmente l'Autore avrà avuta in mira un'altra conclusione. Ogni
uomo ragionevole confessa, che attualmente non accadono veri miracoli:
ma quelli degli altri secoli giungendo di mano in mano sino agli
Apostoli ed a Gesù Cristo, sono muniti delle stesse prove, e sembrano
ugualmente utili; dunque tutti i miracoli sono mere imposture.

Ora ecco il vantaggio che hanno i Cattolici sopra i Protestanti. I primi
ammettendo i miracoli presenti difendono senza fatica quelli della
primitiva Chiesa, quelli degli Apostoli, quelli di Gesù Cristo, co'
quali fanno una catena. I secondi non possono negare i miracoli de'
tempi moderni, senza rovesciare gli altri, co' quali sono connessi. Ed
il Middleton nella prima Opera dichiarò veramente, che non si poteva
contrastare all'odierna Chiesa il vanto de' miracoli, se non prendendo a
distruggere quelli de' primi secoli: ma egli non si accorse, che
bisognava salire agli Apostoli ed a Gesù Cristo. Noi non ci tratterremo
più sopra questo argomento, avendo rispinti i tentativi del nostro
Autore; aspetteremo che alcuno de' Protestanti sciolga i nodi, che fa
nascere il loro sistema, giacchè i due Apologisti Inglesi non hanno
soddisfatto all'aspettazione del Pubblico.

Toccando alla sfuggita i miracoli di Gesù Cristo, l'Autore pretende, che
i _prodigi, che figuravansi di fare i primi Cristiani, li disponevano ad
ammettere colla stessa facilità le maraviglie dell'Evangelio,_ ch'ei
chiama _autentiche_ per nascondere in qualche maniera il veleno. Nella
qual satira però non sappiamo, se la stolidezza non superi la malignità;
perocchè supponendo i Cristiani illusi riguardo a se stessi, l'inganno
non potea provenire se non dall'essere persuasi del divino potere di
Gesù Cristo e dell'efficacia delle sue promesse, senza la qual
persuasione non si sa comprendere come potevano vantarsi di far miracoli
a nome di Cristo. La fede adunque de' propri miracoli si risolveva ne'
miracoli di Cristo; non credevano ai miracoli di Cristo per un
somigliante potere che attribuivano a se stessi.

I Cristiani _confessavano_ e confessano _sorpassare i misteri le forze
del loro intelletto_; e li credevano e li credono sulla forza de'
miracoli, i quali provano averli Iddio rivelati. E questa è necessità di
conseguenza, non _facilità di credere_.

_Assuefatti_, prosegue l'Autore, _ad osservare ed a rispettare l'ordine
invariabile della natura, la nostra ragione o almeno la nostra fantasia
non è preparata sufficientemente a sostenere l'azione visibile della
Divinità_, cioè a credere, che Iddio possa o voglia mutare l'ordine
naturale: e siccome in ogni tempo l'ordine della natura si è osservato
invariabile, in ogni tempo, gli uomini avrebbero dovuto rigettare i
miracoli. Ma si è dimostrato contro lo Spinosa non tanto da' Teologi,
quanto da' filosofi di tutte le Sette, che l'ordine naturale,
invariabile rispetto alle creature, è soggetto al volere del Creatore,
il quale per puro suo beneplacito prescrisse alla materia piuttosto
queste leggi che altre, come chiaramente si osserva da' Fisici nel moto
degli astri, il quale, comunque si concepisca, in niun modo ripugna alla
materia. Se Iddio poi abbia o non abbia voluto alcune volte sospendere
le leggi della natura, ella è una questione di fatto, circa la quale il
Signor David Hume pubblicò qualche sofisma, che non potè oscurare la
luce di questa semplicissima verità, che i fatti si provano per via di
testimonianze.

La _fede_ dei Cristiani vien qui derisa come _credulità_: e si riflette
che _questo era il principale e forse l'unico merito, che si richiedeva
dal Cristiano_. S. Paolo al contrario diceva ai Fedeli: _sia ragionevole
l'ossequio della vostra fede_; ed altrove s'inculca, che si _provi_
rigorosamente _lo spirito_. La fede, che tanto si esaltava, era
l'operazione della Grazia sull'intelletto: questa è una delle virtù
teologali, e non la _principale_; giacchè la Scrittura dà la preminenza
alla _carità_: _major harum charitas_; ed insegna, che _la fede senza
l'opere è morta_.

Nè _solamente secondo i Dottori rigorosi_, ma ancora secondo il dogma
della Chiesa universale, _le opere degl'Infedeli_, le quali possono
esser buone quanto alla pura sostanza, non conducono alla
giustificazione. E quando si ponga mente, che il fine della beatitudine
è sovrannaturale, si cesserà di maravigliarsi, come opere fatte colle
pure forze della natura non vi abbiano rapporto.

Abbiamo fatta un'ampia e diretta apologia della verità de' miracoli,
quando ci aspettavamo di sentire, come i falsi miracoli giovavano
naturalmente a convertire gl'Infedeli.

      Quarta Conclusione che dee provare l'Autore. Le virtù dei primi
      Cristiani furono una delle cagioni naturali dello stabilimento e
      de' progressi del Cristianesimo.

RISTRETTO. _I primi Apologisti rappresentano co' più vivi colori la
riforma de' costumi, che s'introdusse nel mondo mediante la predicazione
del Vangelo. Perchè mio disegno è di notar solamente quelle cagioni
umane che furono scelte per secondar l'efficacia della Rivelazione, ne
esporrò due, che naturalmente rendettero la vita dei primitivi Cristiani
più pura ed austera di quella de' Pagani loro contemporanei: una era il
pentimento delle lor colpe passate; l'altra il desiderio di sostener la
riputazione della società. Furono i Cristiani accusati di attirare al
loro partito i delinquenti più scellerati, che si persuadevano di lavare
nell'acque del battesimo le colpe passate, per le quali dai tempj degli
Dei ricusavasi loro qualunque espiazione. Quelli, che nel mondo avevan
seguitato, sebbene imperfettamente, i dettami della benevolenza e del
decoro, traevano dall'opinione della propria rettitudine una sì
tranquilla soddisfazione, che li rendeva molto men suscettibili di que'
subiti movimenti di vergogna, di cordoglio e di terrore, che avevan
fatto nascere tante maravigliose conversioni. La brama della perfezione
diveniva la passion dominante di quelli a dispetto della ragione, che si
contiene dentro i limiti d'una fredda mediocrità. Ogni società
particolare, che si è staccata dal corpo d'una nazione, divien subito
oggetto d'universale ed invidiosa attenzione, e però ogni membro si
trovava impegnato ad invigilare colla maggior premura sulla propria
condotta e su quella de' suoi fratelli. Comecchè per la massima parte si
esercitavano in qualche negozio o professione, vi attendevano colla
massima integrità e col più onesto contegno. Il disprezzo del mondo e la
persecuzione gli abituavano negli esercizi di umiltà, di mansuetudine e
di pazienza. I Vescovi ed i Dottori d'allora spesso prendevano nel senso
il più letterale que' rigidi precetti di Cristo e degli Apostoli, che i
moderni comentatori hanno spiegato con libera e figurata maniera come
consigli. Una dottrina così sublime doveva rendersi venerabile al
popolo: ma era mal adattata per ottener l'approvazione di que' mondani
filosofi, che nella condotta di questa vita passeggiera consultano i
sentimenti della natura, e l'interesse della società. I principj della
natura sono l'amor del piacere e quello d'agire, che rivolti in buon uso
formano la privata e la pubblica felicità. Ma i primitivi Cristiani non
bramavano di rendersi o piacevoli o utili in questo mondo. Eglino
credevano illecito ogni piacere, i comodi, gli ornamenti, il lusso.
Credevano che se Adamo si fosse conservato innocente, avrebbe propagata
la specie umana in altro modo; che il matrimonio dee riguardarsi come
uno stato d'imperfezione e di perfezione il celibato. Le vergini
d'Affrica però permettevano a' Preti ed a' Diaconi d'aver luogo nei loro
letti, e la natura insultata vendicava i propri diritti. Non erano i
Cristiani meno alieni dagli affari che dai piaceri. Non sapevano come
conciliar la difesa delle proprie persone e sostanze colla dottrina
dell'illimitata tolleranza: offendevansi dall'uso de' giuramenti, e
credevano illecita, la guerra._

RISPOSTA. La maggior parte del presente articolo è impiegata a
combattere la morale Cristiana co' vecchi sofismi, vestiti di brillanti
espressioni, e nelle due prime ricerche si cambia la questione; poichè
si prendono ad indagare le _cagioni umane, per cui i primi Cristiani
menavano vita più pura ed austera de' Pagani loro contemporanei_: onde
questa è la quarta volta, che l'Autore perde di vista il tema del suo
ragionare. Come la morale Cristiana potè naturalmente operare tante
conversioni, dal nostro Autore mai nol sapremo.

Anzi perchè è una specie di fatalità la sua, che distrugga con una mano
quello, che si sforza di edificare coll'altra, s'impegna a provare,
essere la morale Cristiana _contraria alla natura ed all'interesse della
società_. Con tale asserzione come può conciliarsi, che questa stessa
morale muovesse naturalmente i Gentili ad abbracciarla?

Ella non è _contraria alla natura_: noi lo vedremo, ma ella è contraria
alle prave inclinazioni della natura corrotta: ella esige dalle passioni
una perpetua ubbidienza alla ragione: ella prescrive che tutte le azioni
si riferiscano a Dio: ella reputa beati quelli che piangono, quelli che
sono perseguitati, gli umili, i poveri di spirito, ella ordina non pure
il perdono, ma la dilezione ancora de' nemici. Questo sistema doveva
sgomentar gl'Idolatri, la morale de' quali, consecrata dalla Religione,
non vietava se non i delitti, che riguardano la sicurezza del pubblico;
e quanto al piacere dei sensi accordava una libertà illimitata. Come
poteva in così breve spazio di tempo farsi una grande rivoluzione ne'
pregiudizi della mente e della disposizione abituale della volontà? Si
stenta tanto a convertire un peccatore invecchiato nel Cristianesimo
stesso, dove il culto, le prediche, l'esempio altrui operano
incessantemente sul cuore: e dobbiamo figurarsi tanta facilità ne'
Gentili, che in premio di tal cambiamento avevano innanzi i tormenti e
la morte intimata dalle leggi, che avevano proscritta questa morale? È
ciò conforme all'ordine della natura? I nostri Apologisti additando con
istupore le numerose conversioni operate dalla predicazione
dell'Evangelio, esclamano, questo essere un effetto sensibile della
Grazia divina, che sola può superare i grandi ostacoli, che nella mente
e nel cuore doveva incontrare; ed il nostro Autore vuole, che crediamo
sulla sua parola, che la qualità stessa di questa morale produceva
naturalmente quegli effetti, che ci fanno stupire; ma noi non cangeremo
sentimento, fino a quando egli non avrà messa mano alle prove.

La prima questione, ch'egli tratta, è di spiegare, perchè i _Cristiani_,
cioè gl'Idolatri già per altre vie convertiti, _menavano vita più pura
ed austera di quelli che restavano nell'Idolatria?_ Dichiara di
spiegarlo con due _cagioni umane_, e poi ne assegna cinque. _Il
pentimento de' falli passati: il desiderio di sostenere la riputazione
della società: l'interesse temporale: il disprezzo del mondo: la
persecuzione._

_Il pentimento de' falli passati._ Erano nel sistema dell'Idolatria
_peccati inespiabili_? Per appoggiare novità così singolare l'Autore non
cita monumenti. Ma supposto, che i _più grandi scellerati_ volessero
purificarsi coll'acque battesimali, potevano riconoscere una virtù in
questo sacramento senza riconoscere insieme la verità del Cristianesimo?
Ed in questo caso non pure i _gran peccatori_, ma anche coloro, che
_vivevano con qualche onestà_, dovevano farsi un dovere d'entrar nella
via della salute; poichè _una rettitudine naturale_ non può tener
_tranquillo_ chi crede alle minacce della Rivelazione: _qui non
crediderit, condemnabitur_.

La conversione de' maggiori scellerati, che poi divennero i Santi più
grandi, certamente _fa onore alla Chiesa_. Ma l'Autore, che vuol tutto
avvelenare, soggiunge che a questi _soli_, e specialmente alle _femmine
di malvagio costume_, i Missionari Evangelici si rivolgessero. Non
possiamo meglio ribattere la calunnia, che invitandolo a scorrere gli
Atti degli Apostoli, dove troverà, ed in gran numero venuti alla fede,
Sacerdoti, Scribi, Farisei, Capi di Sinagoga tra Giudei, e tra Gentili,
ministri di Regine, Governatori di Province, Centurioni, donne nobili e
persone di lettere.

Il _desiderio di sostenere la riputazione della società_ sarebbe stato
di qualche stimolo, se i Pagani non si fossero trovati universalmente
prevenuti, che nella società Cristiana si commettevano i più detestabili
eccessi. Chi vi si ascriveva, dovea piuttosto resistere all'infamia, di
che si copriva. Solo si può concedere, che dovevano impegnarsi a
distruggere tali calunnie coll'esemplarità del vivere.

L'_interesse_ fa custodire la _buona fede_ e l'_integrità_ in coloro,
che fanno la professione di negozianti, o esercitano qualche mestiere.
Ma qui l'Autore ci dipinge i Cristiani come _morti a tutti gli affari
del mondo_; e prima ci aveva detto, che si astenevano da' mestieri, che
quasi tutti alludevano ai riti Idolatrici.

Il _disprezzo del mondo_ segue appunto per distruggere l'_interesse_.
Quest'era una delle virtù ch'esercitavano, non una delle cagioni, per
cui esercitavano la virtù.

La _persecuzione_ fu posta in opera dagl'Imperadori come mezzo efficace
a sgomentar l'animo: come partorisse naturalmente l'effetto contrario,
l'Autore doveva spiegarlo. Ma della prima questione si è detto
abbastanza; passiamo alla seconda.

La morale Cristiana è tacciata come _eccessiva, fanatica, contraria ai
principj della natura ed all'interesse dello Stato, riprovata da'
filosofi, condannata dalla ragione, che ama la fredda mediocrità_. E per
questo noi abbiamo soggiunto, che era fuori dell'ordine naturale, che
fosse così prontamente abbracciata. Ma non si parli più di questo.
Diteci, quali sono i veri principj della _natura_, che formano la
_privata e la pubblica felicità_. L'_amor del piacere_ è il primo,
_l'amor dell'azione_ il secondo. L'uno e l'altro restano per sentimento
dell'Autore degradati dalla morale Evangelica. A rettamente giudicarne,
convien prima sviluppar i principj, e determinarne la generalità, colla
quale a lui piace sempre di parlare al lettore.

L'_amor del piacere_. Vi ha un piacere intellettuale, ed un altro di
senso, perchè l'uomo è composto di corpo e di spirito. Questo
naturalmente è più nobile di quello; e seguendo le facili tracce della
ragione, l'ultimo fine, per cui fu l'uomo creato, è un bene spirituale,
non corporeo. Quindi altro non essendo i precetti morali che tanti mezzi
naturalmente proporzionati all'indole del fine, segue per legittima
illazione, che l'amor del piacere sensibile dee stare immutabilmente
subordinato all'amore del piacere intellettuale, e che prende la forma
di mal morale ogni qual volta viola questa subordinazione; poichè allora
non riferendosi più l'azione al suo fine, esce dall'ordine.

Ciò premesso il solo riguardo della _salute_ e della _temperanza_, e non
so quale _depuramento d'arte_ nei piaceri di senso formano il ben
fisico, al quale attendono pure i bruti; il bene morale risulta da'
principj dell'animo, non da' vantaggi del corpo: ed appena questo
linguaggio sarebbe perdonabile ad un Materialista.

Nel confrontar poi con questo principio la morale Evangelica, l'Autore
vuol dare ad intendere, che tutti i detti di Gesù Cristo abbiano forza
di _precetto_, e che l'idea de' _consigli_ fosse impiegata tardi per
dare soddisfazione alla filosofia. Quante volte è stato prodotto contro
gli oppositori il passo decisivo dell'Evangelio: _se vuoi salvarti,
osserva i precetti: se vuoi esser perfetto, vendi quanto possiedi, e
segui me_.

Ha egli in seguito raccolte alcune forti espressioni de' Santi Padri, i
quali secondo lo stile concionatorio dimandano il più, affine di
ottenere il meno, ed ha detto con intrepidezza: ecco, o Cristiani, la
vostra morale: frattanto i Cristiani non trovano il peccato nelle cose
appartenenti _a' comodi ed a' piaceri de' sensi_; se non quando esse
turbano l'esercizio delle facoltà spirituali, e distolgono l'animo dalla
sua naturale tendenza all'ultimo fine.

Che _Adamo avrebbe generato senza concupiscenza, se si fosse conservato
innocente_ è opinione privata; più comunemente s'insegna, che la via
della generazione sarebbe stata sempre la stessa; ma che la
concupiscenza non si sarebbe mai ribellata dalla ragione.

Le parole _crescite et multiplicamini_, e quelle di Gesù Cristo, che
alludono all'istituzione del Sacramento del matrimonio, non palesano la
_perplessità d'un legislatore che permette ciò che non vorrebbe_. Nè noi
dobbiamo inquietarci colle questioni che fanno i Casisti a questo
proposito, bastando alla condotta il sapere, che il matrimonio è lecito,
e che fu inoltre elevato alla dignità di Sacramento.

Non possiamo negare, che secondo la Scrittura e la Tradizione il
_celibato sia più perfetto del matrimonio_; ed a considerarne soltanto i
vantaggi esterni, avremmo pure il suffragio della filosofia. L'Autore
però non può ignorare, che questo non è un precetto se non
ecclesiastico, e semplicemente per coloro, che vogliono portare il
giogo, e che quanto all'interesse dello Stato nel Cristianesimo si
prende per regola il bisogno del Pubblico più che la perfezione de'
particolari.

L'uso delle _Vergini Affricane di dividere il letto coi Diaconi e co'
Preti_, che S. Cipriano tentò di estirpare, ripeteva l'origine dalla
dottrina del matrimonio, per la cui validità s'insegnava, che bastasse
la congiunzione degli animi senza il commercio de' corpi. Con il
Mosemio; il quale conviene cogli antichi Storici che sottoposte le
Vergini alle prove più rigorose ritrovarono intatte; sicchè non
sappiamo, perchè il nostro Autore copiando l'erudizione dal Mosemio
abbia aggiunto contro di lui, che _la natura insultata vendicò i suoi
dritti_. Questo non è uno de' _difetti_ che egli _scopre con pena,
costretto dalla legge dell'imparzialità_. E Dio volesse, che fosse il
solo! Ma facciamo parola del secondo principio della natura.

L'_amor dell'azione_. A parlar con rigore l'_azione_ non si ama per se
stessa, ma come mezzo che conduce ad un fine. Noi riconosciamo
volentieri, che l'operare in pace per far fiorire il buon ordine, e per
procurare il ben essere de' nostri simili, come anche l'operare in
guerra giusta per proteggere la pace, è conforme all'intenzione del
Creatore, purchè si depuri dalla corruzione, che vi sogliono spargere
l'ambizione, la cupidigia e l'ira; passioni che sempre campeggiano nella
Storia Greca e Romana, ed oscurano quella scarsa porzione di bene, che
l'attività di quelle genti produsse. Intorno alla qual cosa non temiamo
di asserire, che il Cristianesimo non solo non distrugge questo amore
d'azione necessario alla sicurezza ed alla prosperità dello Stato, ma
inoltre lo fortifica e lo perfeziona.

Non lo distrugge, perchè non vieta la _giusta difesa di se stesso_,
avendone lasciato un illustre esempio S. Paolo, il quale non si fece
illecito di sostener la sua causa innanzi a' legittimi tribunali, e di
appellarsi in ultimo grado a quello di Cesare. Si vieta l'odio, il
rancore, lo spirito della vendetta, e lo vieta ancora la legge di
natura.

Non lo distrugge, perchè nella dottrina della Chiesa non si è mai
reputata _illecita la guerra_, come evidentemente lo provano i passi
verbali del nuovo Testamento raccolti a bella posta dal Grozio; e come
lo conferma il fatto medesimo, che ne addita le armate Romane non mai
scarse di soldati e di ufficiali Cristiani. Origene, ed alcuni altri
pochi Dottori seguirono l'opinione contraria.

Non lo distrugge, perchè lo _spirito del Cristianesimo non si offende
dall'uso de' giuramenti_, ma dal giurare per le false Divinità e per la
Fortuna dell'Imperatore, ch'era una di quelle.

Non lo distrugge finalmente, perchè i Cristiani, anzichè _abborrire_ del
tutto _gli affari civili_, s'impegnavano con prontezza negli uffizj loro
destinati dagli Imperadori; e si sa, che non pure l'esercito, ma
eziandio il palazzo di Diocleziano abbondava più di ministri Cristiani
che di uffiziali Gentili.

Anzi lo fortifica; primo, perchè tanto nel Principe quanto ne' sudditi
ci fa rispettare l'immagine di Dio; secondo perchè all'obbligazione
esterna aggiunge l'interna; e terzo perchè propone un premio ed una pena
nella vita avvenire, a cui niuna cosa del tempo può paragonarsi; e
sostituendo il principio purissimo della carità a quello dell'amor
proprio perfeziona il sistema della natura.

Gli antichi Cristiani non andavano a conquistare, portando la strage e
la desolazione nelle città e nelle campagne; non celebravano la letizia
de' trionfi con trarre incatenati al cocchio Sovrani, che non avevano
altro delitto, fuorchè quello di aver difesa la propria libertà; non
eccitavano popolari sedizioni per mettere in ischiavitù la Repubblica.
Ma i Cristiani facevano immensi viaggi, e combattevano colle tempeste
del mare, coi disastri della terra, colla fame, colla sete, per far
fiorire in ogni angolo della terra l'amor di Dio e del prossimo. I
Cristiani si affannavano a raccoglier limosine per distribuirle a'
poveri; a visitare i pupilli; a consolare le vedove; ad estirpare gli
odj e l'emulazioni; a bandire gli omicidj e gli adulterj. I Cristiani
finalmente davano ricovero ai servi cacciati da' proprj padroni, e
liberavano da una morte penosa i bambini esposti secondo il permesso
delle leggi dalla crudeltà de' genitori, e li nutrivano, e li educavano
per restituirli allo Stato. No, i Cristiani in tutto ciò _non bramavano
di piacere al mondo_; ma vi voleva tutta l'intrepidezza del nostro
Autore a soggiungere, che _non erano utili al mondo_. Egli ha provato
questa accusa, come ha dimostrato, che la morale Cristiana fu la quarta
cagione naturale dello stabilimento e de' progressi del Cristianesimo.

      Quinta Conclusione che dee provare l'Autore. L'unione e la
      disciplina della Cristiana Repubblica fu una delle cagioni dello
      stabilimento e de' progressi del Cristianesimo.

RISTRETTO. _I primitivi Cristiani morti agli affari ed a' piaceri del
mondo trovarono un'occupazione nel governo della Chiesa. Una società,
che attaccava la religion dominante dell'Impero dovè adottare una forma
di governo particolare. Gli Apostoli non ne istituirono alcuna: le prime
Chiese furono libere ed indipendenti; e sino a certo tempo il governo fu
in mano de Profeti; per l'abuso de' quali furono in seguito le pubbliche
funzioni della religione affidate ai Vescovi ed ai Preti; nomi che nella
loro origine, sembra che indicassero lo stesso ministero ed ordine di
persone. Eglino a principio governarono collegialmente: poscia fu
stabilito un Presidente in ogni Collegio, come Ministro di tutto il
Corpo. Questi in progresso divenne superiore per usurpazione. Verso la
fine del secondo secolo le Chiese della Grecia e dell'Asia introdussero
i Concilj ad imitazione delle città Greche, i quali comunicandosi gli
atti con una corrispondenza reciproca venne così la Chiesa Cattolica a
prender la forma, e ad acquistare la forza d'una repubblica federativa.
Il Clero molte volte si oppose all'usurpazioni de' Vescovi, e fu
accusato di fazione e di scisma; e la causa Episcopale dovette i suoi
rapidi progressi agli ambiziosi artifizi di Cipriano e di pochi altri
Prelati a lui simili. Le cagioni, che distrussero l'eguaglianza de'
Sacerdoti, fecero nascere tra' Vescovi una preminenza di grado, ed indi
una superiorità di giurisdizione. Quest'è l'origine de' Metropolitani ed
il fondamento dell'autorità de' Papi. Ogni società ha diritto di
escludere dalla sua comunione quelli che la ledono: la Chiesa Cristiana
esercitava questo diritto contro gli ostinati, ed ammetteva i ravveduti
alla penitenza pubblica. S. Cipriano riguardava la dottrina della
scomunica e della penitenza come la più essenziale parte della
Religione._

RISPOSTA. Il governo, di cui tratta l'Autore sotto il titolo di
_disciplina_, risguarda il regolamento interno della società Cristiana;
onde se ne può spiegare la conservazione, non ha veruna relazione alle
conversioni de' Gentili: nè egli ha pur tentato di dargli questo
aspetto; e così lasciando intatto l'argomento, per la quinta volta si
perde a fare un trattato di diritto canonico.

Ma neppure spiega così la conservazione della Chiesa. Dalla forma del
governo egli deduce l'_unione_ di tutti i Fedeli, e pretende che i
_Concilj dessero alla Chiesa la forza di una Repubblica federativa_. Ora
la sua stessa esposizione contiene gli argomenti che la distruggono.

Primo, egli è di avviso, che il governo fu sempre vario, finchè si
stabilì l'autorità Episcopale, e che i Concilj furono introdotti ad
esempio delle città Greche, verso la fine del secondo secolo: per la
qual cosa se la Chiesa acquistò la forza d'una grande Repubblica
federativa per l'istituzione de' Concilj, non se ne spiega la
conservazione per tutto il tempo anteriore, in cui l'incostanza del
governo, che prendeva, ora una, ora un'altra forma, non poteva darne
alcuna stabilita.

Secondo, nella sua supposizione cominciarono i Cherici ad usurparsi la
giurisdizione del popolo, e ad opprimerne la libertà e l'indipendenza;
in seguito i Vescovi sottomisero i Sacerdoti: poscia s'introdusse una
subordinazione tra' Vescovi, e finalmente il Romano Pontefice tirò a se
tutta l'autorità. Il popolo fu in dissensione co' Cherici, i Cherici co'
Vescovi, ed i Vescovi contrastaron fra loro e col Romano Pontefice.
Questa tela di governo è ordita secondo la sua fantasia, non secondo la
verità della storia: le dissensioni bensì son troppo vere; anzi egli non
ne ha toccata che una parte sola; ed a noi non piace di scuoprire le
piaghe dell'umanità, che lascia per tutto le funeste tracce della sua
debolezza. Ci basta il sin qui detto a conchiudere, che se realmente
invece della decantata _unione_, regnò nell'ovile di Cristo la
dissensione, mal se ne prende a spiegare la conservazione dalla forma di
governo, che ne fornì l'occasione.

Ragioniamo adesso sul diritto Canonico che l'Autore ci propone, e
riflettiamo essere suo avviso, che qualunque forma di governo, che
prendesse successivamente la Chiesa, fu d'istituzione puramente umana; o
d'istituzione umana ancora i Concilj e le Censure. Noi lo neghiamo e
speriamo di convincerlo ad evidenza, che il governo ecclesiastico fu
istituito da Gesù Cristo, come pure i Concilj ed il diritto della
scomunica; e che l'istituzione divina, anzichè soffrire alcun
cangiamento, si osservò e si osserva tuttora inalterabilmente la stessa.

_La società Cristiana_, dic'egli, _nemica della religion dell'Impero,
dovè pensare ad una forma di governo particolare_. Che i Cristiani
fossero nemici dell'Idolatria, senz'esserlo dell'Impero, a cui
ciecamente sempre si sottomisero, è cosa per loro gloriosa. Ma non si
tratta ora di questo; si tratta di consultare i libri autentici della
vita di Gesù Cristo, per vedere se vi lasciò istituito un governo, e di
mostrar così quanto deviino dalla verità le congetture del nostro
Autore.

Ivi si scorge, che Gesù Cristo ai soli Apostoli diede la facoltà di
legare e di sciogliere; che a loro soli assegnò dodici troni per
giudicare le dodici tribù; che a loro soli confidò il diritto di pascere
le sue pecorelle. Infatti ebbe egli inoltre settantadue discepoli, ai
quali non conferì se non una missione a certo tempo limitata, e ben si
vede che non gli fece partecipi dei privilegi compartiti agli Apostoli.
E perchè alla Chiesa aveva promessa la perpetuità, nè si può concepire
una società permanente senza una forma di governo, chiara cosa è, che
l'autorità conferita agli Apostoli doveva secondo l'intenzione divina
trasfondersi ne' successori. Ma diremo che ogni Fedele succede agli
Apostoli? In tal guisa tutti sarebbero Giudici, tutti Dottori, tutti
Pastori, cioè nessuno Giudice, nessuno Dottore, nessuno Pastore, essendo
questi termini relativi, che portano seco l'idea d'una subordinazione.
Per non attribuire a Cristo un assurdo sì strano, uopo è dire che alle
facoltà degli Apostoli succedono alcuni dei Fedeli, non tutti i Fedeli:
e così il più leggiero ragionamento, che si faccia sopra i passi della
Scrittura, purchè non si abbia impegno di difendere il sistema del
partito, atterra irreparabilmente la democrazia, e stabilisce
l'aristocrazia nella forma del governo delineata dal Legislatore Divino.

Resta ad investigare, se l'aristocrazia consista nel corpo del Clero,
oppure in quello de' Vescovi; ch'è lo stesso che cercare se i Vescovi
sono _superiori_ del Clero, per istituzione Divina, o semplici
_amministratori_ di un'autorità che risegga propriamente nel collegio
Sacerdotale. Nella Scrittura vi ha un passo decisivo, nel quale si dice
a' Vescovi, che _gli ha posti sopra le Chiese lo Spirito Santo_.

Qui però nasce una difficoltà dalla confusione dei nomi. Il titolo di
_Vescovo_ e di _Prete_ si dava alla stessa persona; quello a dinotarne
l'uffizio, questo a ragionare dell'anzianità. Dunque come faremo
risaltare la superiorità de' Vescovi, prendendo questa denominazione nel
senso comune?

Nell'Apocalisse i Capi della Chiesa vengono distinti col nome di
_Angeli_, cioè d'inviati, e si attribuisce loro il diritto di governare
con formole ch'escludono ogni altro. Nell'epistole di S. Ignazio,
Discepolo degli Apostoli, nulla s'inculca più frequentemente ed ai Laici
ed ai Cherici, quanto la perfetta subordinazione al proprio Vescovo. Ci
è noto che i Presbiteriani rigettano l'uno e l'altro libro, per non
poterli conciliare col proprio sistema: ma in questo stesso mostrano
apertamente il lor torto; giacchè per sostenere un assurdo, si gettano
in un assurdo più grande. A principio non vi furono che gli Apostoli ed
i Preti, cioè i Vescovi: se non che crescendo di giorno in giorno le
spirituali conquiste della Chiesa, furono chiamati i semplici Sacerdoti
ed i Diaconi in sussidio de' Vescovi, ma come sudditi, non come eguali.

Il piano instituito da Cristo, e posto in esecuzione dagli Apostoli mai
non soffrì nella sua essenza alterazione veruna. Imperciocchè i
_Profeti_, che illustrarono la Chiesa nascente co' loro doni
sovrannaturali, se venivano consultati nelle occorrenze, non
esercitarono mai alcun atto di giurisdizione, come asserisce l'Autore,
il quale è caduto nell'inganno degli altri, che vedendo ne' libri del
nuovo Testamento qualche Profeta far le funzioni Episcopali, perchè
oltre di esser Profeta era Vescovo, hanno attribuito al primo carattere
ciò che non conviene se non al secondo.

Il Vescovo ed il Clero non di rado erano fra loro in contesa: ma non si
dee dire perciò, che il _nome di fazione e di scisma fu dato al
patriottismo de' Preti ad oggetto di far prevalere la causa Episcopale_.
Questo giudizio dee risultare dalla natura de' fatti particolari. Se i
Preti pretendevano di agguagliarsi al Vescovo e di considerarlo come un
loro deputato, erano veramente Scismatici. Se il Vescovo spogliava il
Clero de' suoi diritti legittimi, il torto era di lui, non de' Preti.

Molto meno l'Autore dee farsi lecito di tacciar di _ambizione_ e di
_artifizio_ il Santo Martire Cipriano difensore de' diritti
incontrastabili dell'Episcopato e della disciplina della Chiesa, per
sottrarre un Prete bacchettone, ed un Diacono discolo alla condanna
pronunziata da un Concilio di Preti, ed approvata dal consenso di tutti
i secoli. Gli rincresce di non poter entrare nella discussione de' fatti
spettanti al famoso scisma di Novato e di Novaziano, per far trionfare
l'innocenza e la virtù sopra l'ostinazione di volere offuscare la gloria
de' Santi più eminenti della Chiesa contro le leggi della Critica.
L'avversario per altro non ha fatto che semplicemente citare.

La _subordinazione de' Vescovi ai Metropolitani_ è di istituzione umana,
ma non porta seco alcuna distinzione quanto alla sostanza della dignità,
del carattere e de' diritti annessivi da Cristo. Il _primato_ poi del
_Romano Pontefice_ si fonda chiaramente ne' testi verbali della
Scrittura. _Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam
meam_.

Divina parimente è l'_istituzione de' Concilj_, circa la quale la
Scrittura non solo somministra testimonianze incontrastabili, ma anche
fatti decisivi; atteso che il congresso tenuto dagli Apostoli e da'
Seniori, o sia dai Vescovi in Gerusalemme sulla disputa de' riti Mosaici
fu vero Concilio e modello di tutti gli altri; checchè ne dica il
Mosemio coll'ingegnosa, ma insufficiente congettura dell'esempio delle
città Greche appoggiata a Tertulliano. I Giudei celebravano de' Concilj;
ed il Cristianesimo uscì dalla Palestina. Può però ben essere, che fosse
tolto da' Greci l'uso di celebrarli due volte l'anno, nella primavera e
nell'autunno.

Finalmente egli è vero, che _ogni società ha diritto naturalmente di
escludere dalla sua comunione chi ne viola le leggi_, ma è ugualmente
vero che il diritto della Chiesa è d'origine divina, contenuto in quelle
parole: _si Ecclesiam non audiverit, sit tibi tanquam ethnicus et
publicanus_, ed in quell'altre: _quodcumque ligaveritis erit et ligatum
in coelis_.

S. Cipriano fu rigido sostenitore della disciplina; considerò la
penitenza e la scomunica come i ripari esterni della Religione, non come
_l'essenziale della Religione_. L'Autore lo calunnia, abusando delle di
lui epistole, alle quali rimandiamo per brevità il nostro lettore per
disingannarsi.

      Sesta Conclusione che dee provare l'Autore. La debolezza del
      Politeismo favorì i progressi del Cristianesimo.

RISTRETTO. _Il Politeismo non era sostenuto da' Sacerdoti, i quali
avessero un particolar interesse nel culto degl'idoli, e non avevano fra
loro legame alcuno di governo._

RISPOSTA. Avendo l'Autore parlato delle cagioni contenute nel
Cristianesimo, ora ne reca in mezzo altre tre consistenti nella
disposizione del Gentilesimo; e qui non possiamo rimproverargli, che
ponga in dimenticanza ciò che doveva provare; diremo bensì, che queste
tre cagioni non hanno forza di provare, se non che il Cristianesimo in
esse incontrò tre validissimi ostacoli.

I Sacerdoti dell'Autore sono quali a lui piace di fingerli: ma i
Sacerdoti della storia traevano dal culto degl'idoli grandi emolumenti,
grandi onori, gran potenza. Essi avevano un collegio, ch'esercitava una
giudicatura. Cicerone perorò per la sua casa dinanzi ai Pontefici, e ne
parla col più gran rispetto. Gli Autori, gli Aruspici intervenivano in
tutti i negozi pubblici sì di pace come di guerra con autorità quasi
assoluta; e riferendosi tutte le azioni private all'idolatria, i
Ministri della medesima avevano un'influenza generale nelle private
famiglie, tanto che gl'Imperatori non credettero di regnare, se non
quando al poter del Monarca aggiunsero i diritti del Sommo Pontefice.

Come può rendersi credibile, che i Sacerdoti guardassero con
indifferenza le sconfitte del Politeismo, sul quale si fondava tutta la
loro fortuna, e la perdonassero a' Cristiani, i quali rendevano palesi
alla plebe le loro imposture? Il fatto è, che furono eglino i principali
autori della persecuzione, e ch'eglino la tennero perpetuamente accesa,
anche quando i Principi si mostravano avversi allo spargimento del
sangue: eglino irritavano la superstizione del popolo, eglino
infiammavano l'ira de' Ministri; eglino facevano scrivere da' filosofi
atrocissime satire. L'Autore che fa la storia delle persecuzioni, poteva
ignorar questo fatto?

      Settima Conclusione che dee provare l'Autore. Lo Scetticismo del
      Mondo Pagano favorì i progressi del Cristianesimo.

RISTRETTO. _Allorchè apparve il Cristianesimo nel mondo, lo Scetticismo
di Cicerone e di Luciano si era dilatato in tutti gli ordini delle
persone: in tale stato il popolo era disposto a ricevere un altro
sistema di mitologia più conforme al gusto del secolo; ed il
Cristianesimo si mostrò ornato di tutto ciò, che poteva attrarre la
curiosità, lo stupore e la riverenza del popolo._

RISPOSTA. L'Autore fa astrazioni; e la storia ne insegna, che per tre
secoli il popolo perseguitò con tanto furore i Cristiani, che li
chiedeva a morte nella solennità delle feste con sediziosi clamori: ne
insegna, che i Principi furono costretti a dichiarare colle leggi loro,
che i clamori della plebe non sarebbero più ricevuti come prova
legittima; ne insegna, che la sfrenatezza ed il gran numero degli
accusatori non poterono reprimersi se non rivolgendo contro di essi le
pene intimate ai Cristiani, supposto che non ne avessero provata la
reità: e tutto ciò si legge nel capo seguente del sig. Gibbon.

Lo _Scetticismo_, che è uno sforzo di spirito ed uno stato di violenta
sospensione, non prende radice nel popolo minuto, di cui la credulità è
il difetto ordinario.

Del resto il nostro Autore ha dichiarato in che consiste lo Scetticismo
da lui trovato nel mondo Pagano. Si parlava della vita avvenire, come
una favola, e si era scosso il giogo della mitologia, che spacciava
tante maraviglie. Frattanto _ecco_, ci si dice, _una disposizion
favorevole a credere ed a ricevere le maraviglie dell'Evangelio, cioè
una mitologia più conforme al gusto del secolo: ecco il Cristianesimo
ornato di tutto ciò che potava attrarre la curiosità, lo stupore, e la
riverenza dagli Scettici_.

      Ottava Conclusione che dee provare l'Autore. La pace e l'unione
      dell'Impero Romano favorì i progressi del Cristianesimo.

RISTRETTO. _Gli Ebrei della Palestina riceveron sì freddamente i
miracoli di Cristo, che stimarono superfluo di pubblicare o almeno di
conservare alcun Evangelio Ebraico. Le storie autentiche della vita di
lui furono composte ad una distanza considerabile da Gerusalemme, a dopo
che il numero de' Cristiani convertiti si era estremamente moltiplicato.
Tradotte in Latino divennero perfettamente intelligibili a tutti i
sudditi di Roma. L'essere tutte le nazioni sotto un solo Monarca, e le
grandi strade costruite per le legioni aprivano ai Missionari
dell'Evangelio un facile passaggio per tutto; e non incontrarono essi
alcuno degli ostacoli che sogliono impedire l'introduzione di una
Religione straniera in lontani paesi._

RISPOSTA. È leggiadrissima l'immagine de' Missionari Evangelici, che
marciano comodamente a bandiere spiegate ed a tamburro battente per le
grandi strade costruite per le legioni Romane. Noi grossolani stupiamo
su i progressi del Cristianesimo: vi ha chi c'illumina: essi sono dovuti
_alle grandi strade delle legioni_. Ben è vero, che gli Apostoli
viaggiando a due a due, e non portando seco _neque sacculum, neque
peram_, non avevano bisogno delle grandi strade; ed è perciò che S.
Paolo dipinge pateticamente i disastri ed i pericoli de' suoi viaggi. Ma
che importa? Colpa loro, che non ne profittassero; _le strade consolari
aprivano per tutto adito facile all'Evangelio_. Ci resta un sol dubbio:
le leggi ed i Ministri Imperiali, che perseguitavano i Missionari
Evangelici, non potevano con eguale facilità penetrar da per tutto _per
le grandi strade costruite per le legioni_.

L'_università del linguaggio_, se fosse stata vera, avrebbe potuto
nuocere alla dilatazione dell'Evangelio, quanto gli avrebbe potuto
giovare.

Similmente l'_unione delle Province sotto un solo Monarca_, se da una
parte contribuiva ai progressi della Religione, dall'altra rendeva più
facile e spedita l'esecuzione degli ordini imperiali contro la medesima.
Abbiamo tuttora presente la viva pittura fatta altrove dal pennello
dell'Autore per esprimere l'orribile situazione di chi aveva incontrato
la disgrazia del Principe: tutto l'Impero per quello sventurato era una
carcere.

Conchiude l'Autore, che il Cristianesimo in mezzo a tanti comodi _non
incontrò alcuno degli ostacoli che sogliono impedire l'introduzione di
una Religione straniera_. Passiamo sotto silenzio i pregiudizi di
ciascun popolo, la gelosia de' Sacerdoti, l'invidia de' Filosofi, la
corruzione universale, e domandiamo se le leggi proibitive
degl'Imperadori non formavano un ostacolo degno di considerazione.

Giacchè le digressioni ci perseguitano sino alla fine, invitiamo
l'Autore ad aprire il Talmud, nel qual libro i Giudei, che si suppongono
_indifferenti_ ai luminosi prodigi di Cristo, ne depositarono la memoria
in due articoli, l'uno de' quali è ben lungo. Il Talmud fu in vero
composto assai tardi; ma gli Autori avrebbero prestato così gran
vantaggio ai Cristiani, se avessero potuto sopprimere la tradizione
della nazione?

I Giudei, che vennero alla fede, oltre l'Evangelio di S. Matteo, che
tutte le ragioni provano essere stato scritto in Ebraico, ne avevano un
altro intitolato _secondo gli Ebrei_, e che nei primi secoli della
Chiesa fu avuto universalmente in venerazione.

Per quanto _lontana da Gerusalemme e dal tempo di Gesù Cristo si finga
la data de' quattro Evangelj_, sono certe due cose: primo, che queste
opere furono scritte dagli stessi testimoni de' fatti: secondo, che
furono trovate conformi a quanto a viva voce avevano pubblicato gli
Apostoli; poichè in caso diverso o non sarebbero state ricevute, o si
sarebbe mutata la stabilita credenza: questa ragione prova, che saremmo
sicuri della veracità degli Evangelj, quando pure volessimo accordare
contro la certezza istorica, che furono composti in tempi assai bassi da
persone, che li divolgarono per opere de' Discepoli di Cristo.


_Veduta istorica de' progressi del Cristianesimo._

Essendosi immaginato l'Autore di aver provato, che il Cristianesimo fu
debitore del suo stabilimento e dei suoi progressi a cagioni puramente
naturali, ne fa ora un _quadro_, com'egli dice, _istorico_, ma realmente
favoloso, e col disegno di confermare il suo intento. Imperciocchè
falsificando la testimonianza del Grisostomo, ed abusando di un passo di
Origene e d'un altro di Eusebio fa un calcolo ideale del numero dei
Cristiani di un sol luogo, e poi come pur suole, ne deduce illazioni
generali. Scende appresso a criticare gli antichi Scrittori sì Gentili
che Cristiani, i quali con voce concorde, benchè con mira diversa, si
mostrano stupiti della dilatazione dell'Evangelio; e si affanna
particolarmente sopra il passo di Plinio con isforzi cotanto vani, che
altro non ottiene, se non il palesare lo spirito deciso di parzialità,
che pur vorrebbe celare.

A noi non è dato di trattenerci in queste minute ricerche; tanto più che
la fatica sarebbe superflua; mentre basta alla causa, che si richiami
l'Autore agli Atti di S. Luca, dove sono sommariamente descritte le
conquiste fatte dalla Chiesa nel breve periodo della predicazione di
alcuni degli Apostoli. Egli non ha favellato mai di un libro che solo
contiene i monumenti autentici della fondazione e dell'infanzia della
Religione. Il lettore però potrà giudicar dall'infanzia della Chiesa,
quale ella dovesse essere adulta.


_Impugnazione e difesa de' miracoli di Gesù Cristo._

Abbiamo avvertito, che l'Autore stendeva le sue vedute sino ai miracoli
di Cristo, che formano la prova più decisiva della divinità della sua
religione, perchè dotati d'una certezza agli altri superiore. Egli ce
gli ha presentati sotto gli occhi, ora sotto uno, ora sotto un altro
aspetto, ma sempre di volo. Or che ha disposto l'animo del lettore, si
toglie la maschera, e si ferma. Ci fermeremo noi pure; ma nè da lui, nè
da noi chi leggerà, dovrà aspettarsi cose nuove; poichè egli è
ripetitore per elezione, e noi lo siamo per dovere.

Primo argomento. _La nuova setta era quasi tutta composta di contadini
ed artisti, di fanciulli e di donne, di mendichi e di schiavi, i quali
sfuggendo il pericoloso incontro de' filosofi dogmatizzavano in occulto
presso la moltitudine rozza ed ignorante capace sempre di essere
sorpresa. A misura che l'umile fede di Cristo diffondevasi pel mondo, fu
abbracciata da varie persone che meritavano qualche riguardo pei doni
della natura e della fortuna, ma queste eccezioni o son troppo poche, o
troppo recenti ad oggetto di togliere interamente di mezzo le
imputazioni d'ignoranza e di oscurità, che si rimprovera a' primi
Fedeli._ Appoggiandosi i miracoli di Cristo a sì fatta testimonianza,
qual fede possono meritare?

RISPOSTA. Prima di noi si è fatto vedere co' monumenti alla mano la
falsità della supposizione, i quali monumenti tolti dagli Atti degli
Apostoli ne istruiscono, che le persone nobili, le persone facoltose, le
persone di talento si trovano non in iscarso numero nel primo nascere
della Religione, tra gli Scribi, tra' Farisei, tra' Sacerdoti
contemporanei di Cristo e degli Apostoli, che si convertirono in folla:
_multa turba Sacerdotum_.

Prima di noi si è fatto riflettere, che la certezza de' miracoli operati
dal fondatore del Cristianesimo non si appoggia alla fede soltanto de'
primi seguaci dell'Evangelio, ma ancora, e principalmente, alla
pubblicità de' fatti, all'esame giuridico istituitone dal corpo della
nazione, alla deposizione de' testimoni confermata col sacrificio
volontario della vita, alla grande rivoluzione prodotta nel mondo, che
non si può concepire, se non si suppongano gli accennati miracoli dotati
di un'evidenza superiore a qualunque eccezione.

Argomento secondo. _Gli uomini di spirito, come Seneca, i due Plinj,
Tacito, Plutarco, ed altri perderono di vista, e rigettaron la
perfezione del sistema Cristiano, riguardando i seguaci di esso come
ostinati e perversi Entusiasti, che esigevano una tacita sommissione
alle lor misteriose dottrine senza produrre un solo argomento._

RISPOSTA. Primo, se vale la non credenza di alcune persone di spirito,
dee similmente valere la credenza di alcune persone di spirito: e noi a
quelli dell'Autore potremmo opporne un numero anche maggiore.

Secondo, cotesti uomini di spirito trascurarono d'informarsi delle cose
de' Cristiani, e prevenuti ch'eglino fossero fanatici, non gli degnarono
dei loro pensieri. Ora chi non si applica, chi non esamina, non fonda
presunzione contro fatti esaminati, da chi vi prendeva interesse.

Terzo, Celso si vantò di aver letti e meditati gli Evangeli; ed in
questi libri si rinvengono le circostanze de' fatti, i nomi de'
testimonj, i luoghi ne' quali furono operati, le occasioni nelle quali
avvennero, le persone che ne furono onorate, le critiche de' nemici,
ch'è quanto a dire tutto quello che si ricerca per farne un esame
sufficiente. Giacchè questi scritti erano noti ai Gentili; giacchè
questi miracoli si pubblicavano a voce, e quasi sempre colle vive
opposizioni de' Giudei, come si è potuto dire, che _i Cristiani
esigevano una tacita sommissione_?

Argomento terzo. _Gli Apologisti Cristiani che presero la difesa di loro
medesimi, della lor religione e de' loro angustiati fratelli, quando
vogliono mostrare la divina origine del Cristianesimo insistono sulle
profezie atte a convincere un Giudeo, non un Gentile. Se avessero avuto
buoni argomenti a far valere i miracoli di Cristo, gli avrebbero
impiegati._

RISPOSTA. Primo, gli Evangeli erano pubblici; molti de' testimonj
tuttora vivevano: si sottoponevano a' giudizi legali, e sostenevano la
lor confessione in mezzo ai tormenti; ed i Giudei, nel paese de' quali
erano accaduti i prodigi, accrescevano ad ora ad ora il numero de'
credenti. Oltre a ciò si operavano quotidianamente nuovi miracoli; e
questi comprovavano quelli di Cristo. Con tante prove vive e parlanti
qual bisogno vi era di Apologie?

Secondo, si possono produrre mille passi di Autori Pagani per
dimostrare, che i Gentili comunemente non mettevano in dubbio i miracoli
attribuiti a Cristo: ne scansavano la forza col supporre negli Eroi del
Politeismo lo stesso potere. Dimandiamo di nuovo, qual bisogno vi era,
che gli Apologisti prendessero a provare ciò che non si contrastava?
Quando i Pagani cominciarono ad attaccarli colle loro difficoltà,
cominciarono pure gli Apologisti a difenderli. Origene fu un di costoro,
ma non il primo, trovandosene altri prima di lui citati dal Mosemio.

Terzo. Se non vi soddisfano gli antichi Apologisti, consultate i
moderni. L'esame de' fatti è limitato, come i fatti medesimi: quanto si
può dir contro, e quanto si può rispondere in favore, si trova raccolto
ne' libri loro: questi stessi argomenti, che trattiamo noi, vi sono
ampiamente spiegati.

Argomento quarto. _Seneca e Plinio non parlano delle tenebre non
naturali, in cui per tre ore fu involta la terra nella passione di
Cristo._

RISPOSTA. Tertulliano afferma, che il prodigio fu da' Gentili notato ne'
pubblici registri: il suo passo è sostenuto, per tacer di tanti altri,
dal famoso Huezio; nè ha fondamento alcuno la diversa lettura, che ne
vorrebbe fare l'Autore. Flegonte, Scrittor Pagano, è pur vendicato
dall'Huezio, il quale giustamente conchiude, che contro la positiva
testimonianza di costoro niuna forza ha il silenzio degli altri.

Che _Plinio avesse destinato un capitolo apposta per gli ecclissi di
natura straordinaria e d'insolita durata_, e che questo della passione
non vi si trovi, non è cosa da far meraviglia. Al lib. II. c. 30. _Hist.
Nat._ si leggono le seguenti parole: _Fiunt prodigiosi et languiores
defectus; quali occiso Cesare et Antoniano bello, totius fere anni
pallore perpetuo._ Ecco una proposizione generica illustrata con un
esempio, invece di _un capitolo fatto a bello studio per menarvi tutti
gli ecclissi straordinari._


RIASSUNTO.

Qui termina il Cap. XV. del Sig. Gibbon: egli ci ha obbligati a fare un
viaggio ben lungo e curto: ma la moltiplicità e la sconnessione degli
oggetti che abbiamo esaminati, e molto più di quelli, che siamo stati
costretti a passare sotto silenzio, costituiscono il pregio singolare di
questo libro. Una mano meno imperita e più paziente gli avrebbe uniti e
distribuiti con ordine: il metodo da lui tenuto non è buono che a
rintuzzare il senso comune. Al che aggiungendosi la superficialità delle
cognizioni, che apparisce, all'indeterminata e confusa generalità
dell'idee, la perpetua mala fede, colla quale corrompe i movimenti della
storia e l'avidità di malignare sopra ogni cosa, ne risulterà un doppio
carattere, che non è certo quello del pensatore e quello dell'uomo
onesto. Egli ha fatto il quadro istorico de' progressi del
Cristianesimo; il colorito orrido, ed i contorni forzati palesano
abbastanza la passione del pittore. Noi che vogliamo fare il quadro
istorico della sua logica, non dobbiamo se non riunire in un sol punto
di veduta, e mostrar come delineate in carta le parti principali del suo
edifizio.

Prima Conclusione. _Lo stabilimento ed i progressi del Cristianesimo
furono effetti naturali dello zelo intollerante de' Cristiani._ L'Autore
di tutto ha trattato fuorchè di questo; e quanto ha detto, non vale che
a stabilire la conclusione opposta.

Seconda Conclusione. _Fu dovuto al domma dell'immortalità, all'opinione
dell'imminente fine del mondo e del millenio._ L'Autore di tutto ha
trattato fuorchè di questo, e quanto ha detto, non vale che a provare il
contrario.

Terza Conclusione. _Fu dovuto al poter de' miracoli che i primi
Cristiani falsamente si attribuirono._ L'Autore non ne ha trattato, e la
conclusione in se stessa è contraddittoria.

Quarta Conclusione. _Fu dovuto alla morale Cristiana._ L'Autore non ne
ha trattato ed ha provato il contrario, provando, ch'essa compariva ai
Gentili contraria alla natura ed all'interesse dello Stato.

Quinta Conclusione. _Fu dovuto alla forma dal governo Ecclesiastico._
L'Autore non ne ha trattato, nè apparisce quale rapporto abbia il
governo interno colle conversioni degl'Infedeli.

Sesta Conclusione. _Fu dovuto all'indifferenza de' Sacerdoti Pagani._ La
supposizione è contraddetta dalla storia.

Settima Conclusione. _Fu dovuto allo Scetticismo del popolo Pagano._ La
supposizione è contraria al fatto, e lo Scetticismo, di che parla
l'Autore, non conduce se non all'incredulità.

Ottava Conclusione. _Fu dovuto alle grandi strade delle legioni,
all'uniformità della lingua, ed all'unione delle Province sotto un solo
Monarca; nel rimanente il Cristianesimo non incontrò alcuno degli
ostacoli, che sogliono impedire l'introduzione di una Religione
straniera in lontani paesi._ Qui l'Autore ha superato se stesso; e noi
non vogliamo togliere ad alcuno il piacere d'ammirarlo.



SAGGIO DI CONFUTAZIONE DEL CAP. XVI.


Qui l'Autore si fa a parlare delle persecuzioni sofferte dal
Cristianesimo, e prende ad investigarne le _cagioni, l'estensione, la
durata e le più importanti circostanze_, e tutti i suoi sforzi tendono a
due oggetti: primo, a mostrar sempre più, che nulla avvi di maraviglioso
nello stabilimento di una Religione, ch'_ebbe tutto il tempo di crescere
e di fortificarsi, prima che si esponesse all'impeto delle
persecuzioni_, che fu _perseguitata lentamente_, e che _godè molti
intervalli considerabili di pace_: secondo, è suo impegno di far servire
queste stesse cose a giustificare la condotta dei persecutori, e a
rovesciare sopra i Cristiani l'odiosità tutta. Nel che egli è stato in
parte preceduto dal Signor di Voltaire nella Storia universale, da cui
egli ha cavati alcuni suoi materiali. Facciamoci pertanto a considerar
le cagioni della persecuzione, che sono l'_aver i Cristiani abbandonato
il culto nazionale: l'essere stati accusati di ateismo: il segreto delle
loro adunanze: i loro costumi calunniati_.

      L'abbandono del culto nazionale; primo motivo della
      persecuzione.

RISTRETTO. _Si è osservata la tolleranza religiosa di tutto il genere
umano: vediamo ora, come furono trattati gl'intolleranti Giudei per
giudicare delle vere cagioni, per le quali fu perseguitato il
Cristianesimo, che adottò la stessa intolleranza. I Giudei, dopo la
distruzione di Gerusalemme, da Nerone sino ad Antonino Pio, spesso si
rivoltarono contro i Romani; ma mediante la general tolleranza del
politeismo e il dolce carattere dell'ultimo Imperatore si restituirono
loro gli antichi privilegi. Giacchè questi, benchè rigettassero con
abborrimento la Divinità de' loro Sovrani, godevano il libero esercizio
della loro Religione insocievole, perchè non furono tollerati i
Cristiani? La differenza è chiara: i Giudei formavano una nazione, i
Cristiani una setta. Essendo stata ricevuta la legge Mosaica per molti
secoli da una numerosa società, quelli che l'osservavano, si
giustificavano coll'esempio del genere umano; laddove i Cristiani
violavano le istituzioni religiose del proprio paese: ed i filosofi non
concepivano che si dovesse esitare a conformarsi al culto stabilito,
come ai costumi, all'abbigliamento ed al linguaggio della patria._

RISPOSTA. L'Autore per voler essere singolare nelle sue idee si
contraddice. Secondo la massima della _tolleranza universale_, tutte le
Religioni dovevano rivolgersi contro la Giudea e la Cristiana, entrambe
intolleranti: frattanto la prima fu tollerata, e la seconda no; e n'era
la ragione, che i _Giudei formavano nazione, ed i Cristiani setta_. Or
la _Nazione_ Giudaica lasciava per questo di essere _insocievole_ ed
_intollerante_? Dunque o è falso, che l'_intolleranza_ era il motivo
della persecuzione de' Cristiani; o è falso, che i Giudei furono
tollerati, perchè costituivano nazione.

Anzi la verità, che trionfa nella storia, si è, che gl'_intolleranti_
Giudei furono perseguitati, sinchè costituirono _nazione_, e che allora
si lasciarono in pace, e ricuperarono i lor privilegi, quando, distrutta
la città e perita un'infinita quantità di abitanti, quelli che rimasero,
si sciolsero, e si sparsero per le Province dell'Impero. Fecero eglino
di tratto in tratto alcuni deboli sforzi per sottrarsi dal giogo de'
Romani, e prendevano i più efficaci motivi di ribellarsi dalle loro
opinioni religiose, come l'Autore lo avverte. Finchè i Romani li
temettero, gl'infestarono col ferro e col fuoco: disarmati e sottomessi
che gli ebbero, permisero ch'esercitassero pacificamente il proprio
culto. Quando facevano ancor figura di _Nazione_, ed i Romani vollero
profanare il lor tempio, perchè non valse questo stesso _carattere,
l'antichità della stirpe, e l'esempio di tutto il mondo_?

Ma se noi discordiamo dall'Autore intorno a' _Giudei_, intorno ai
_Cristiani_ convenghiamo con lui. L'_aver essi abbandonato il culto
nazionale_, ed il farlo abbandonare da altri, era la vera cagione della
persecuzione. Forse i Romani erano disposti a soffrire ogni culto,
purchè non ve ne fosse uno che pretendesse di escludere gli altri, e di
distruggere quello dell'Impero. Il Cristianesimo voleva essere solo,
riprovava com'empi tutti i culti della terra, e faceva ogni sforzo per
far entrar tutto il mondo nella sua comunione; e perciò tutto il mondo
si voltò contro di esso.

Come lo _zelo esclusivo ed intollerante_ de' Cristiani, ch'era la
cagione naturale della persecuzione, poteva essere cagione naturale de'
loro progressi, si è nel precedente capo veduto: qui dobbiamo cercare,
se questa prima cagione di persecuzione rimuova da' persecutori la
taccia d'ingiustizia, come s'ingegna di fare l'Autore.

Egli mette in contrasto queste due massime: _ogni uomo ha diritto di
disporre della sua coscienza e del suo giudizio particolare: e non si
deve esitare a conformarsi al culto nazionale, come ai costumi, agli
abbigliamenti, ed alla lingua della patria_. Riferisce che _i Cristiani
riclamavano i diritti inalienabili della coscienza; ma soggiunge, che i
loro argomenti erano dispregiati da' filosofi, cui pareva un delitto
enorme ed irremissibile l'abbandonare il culto della nazione_.

Obblighiamolo a scegliere. S'egli riconosce per giusta la prima massima,
uopo è, che si unisca con tutti i Cristiani a detestare l'ingiustizia
dei loro antichi persecutori. S'egli vuol fare l'apologia di questi,
bisogna che mostri con buone ragioni che sia equa la massima, che fa
recitar da filosofi, come da interlocutori di scena. _Non si deve
esitare?_ Perchè? Ma ecco il carattere del Sig. Gibbon: asserisce e poi
tace; giacchè non pare a noi, che una similitudine insensata possa stare
invece di prova: i _costumi, l'abbigliamento, la lingua_ sono cose
indifferenti: che ogni culto religioso debba guardarsi colla stessa
indifferenza, ha bisogno di prova, e prove l'Autore non ne suol dare.

L'uomo per la verità e per la salute non può essere indifferente, come
circa il modo di parlare e di vestirsi: noi non crediamo, che alcun uomo
ragionevole possa mettere in dubbio la verità di questa massima
contraria a quella de' pretesi filosofi.

Quando uno ha scoperta la verità e la strada della salute, ha diritto di
fare tutto ciò ch'è necessario a conseguirla, e di astenersi da tutto
ciò che nuoce al suo fine. Questa seconda massima è dotata della stessa
evidenza.

Il diritto, ch'è in uno di fare o di non fare una cosa, induce agli
altri obbligazione di non molestarlo. Questo è un assioma di gius
naturale.

Ora supponiamo, che il sistema vero, il sistema che unicamente conduca
alla salute, sia il Cristianesimo. La contraddizione, che vi ha tra'
dogmi, la morale ed il culto dell'Idolatria, e tra il culto, la morale
ed i dogmi del Cristianesimo, e così sensibile, che ci dispensa
dall'ulteriormente spiegarlo. In una parola, il Cristianesimo, che
supponiamo vero, condanna ogni altro culto, come dannoso alla salute.

In qualunque paese uno si trovi s'egli si persuade della verità del
Cristianesimo, non può guardarlo con indifferenza; chi ha diritto di
fare quanto esso gli prescrive, e di astenersi da tutto ciò, ch'esso gli
proibisce; e gli altri hanno l'obbligazione di non molestarlo; poichè
queste tre massime hanno una necessaria connessione fra di loro.

Resta un sol punto a decidersi. A chi propriamente appartiene il
giudicare della verità o della falsità di una Religione? O alla nazione
o ai privati. Non alla nazione; poichè essendo il fine della società
civile il ben essere temporale di quelli, che si unirono in corpo sotto
una certa forma di governo, l'autorità pubblica non si stende sulle
azioni interne che non hanno rapporto alla società; si stende certamente
sulla professione esterna della Religione, non già per esaminare se sia
vera o falsa; poichè ciò non conduce al fine della società; ma per
vedere se la tale professione esterna giovi o nuoca alla sicurezza ed
alla prosperità dello Stato. Il giudizio della verità o della falsità
della Religione appartiene ad ogni privato; poichè ognuno in privato è
interessato nel fine ch'ella propone. Ed in effetto o si consideri la
Religione naturale, e Iddio parlava a ciascuno in privato, per l'organo
della Religione; o si tratti della rivelata, e Iddio non la propose al
Sinedrio di Gerusalemme ed al Senato di Roma, perchè essi obbligassero i
sudditi a riceverla, ma la promulgò pubblicamente e promiscuamente a
tutti.

Diamo pertanto il suo a ciascuno. Ogni suddito dell'Impero Romano aveva
diritto di giudicare, se la rivelazione Cristiana era la vera; e quando
si persuadeva di doverla abbracciare, nè alcuno in particolare, nè la
nazione in corpo aveva diritto di molestarlo, unicamente per questo, di
sorte che le leggi proibitive degl'Imperatori per questo riguardo erano
ingiuste, contrarie manifestamente ai principj del gius naturale.

Ma apparteneva alla potestà pubblica l'esaminare, se la Religione
Cristiana era utile o nociva allo Stato nella sua esterna professione. E
questo esame poteva farsi a _priori_, come suol dirsi ed a _posteriori_.
L'esame a _posteriori_ sarebbe stato il più breve. È certo, che il
Cristianesimo è rivelato da Dio? Dunque non può nuocere alla società
civile, perchè Iddio non vuole il detrimento della società civile.
L'esame a _priori_ esigeva, che si facesse un confronto de' dogmi e
della morale Cristiana co' principj, su i quali è fondato il ben
pubblico. Se i Pagani lo avessero fatto, avrebbero veduto, che il
Cristianesimo lungi dal distruggere i fondamenti del ben essere civile,
li fortifica e li perfeziona, come noi lo abbiamo brevemente accennato
nel capo precedente; e così invece di perseguitarlo dovevano fare sul
principio quello che fece Costantino dopo l'esperienza di tre secoli.

Ma quello, che rende più detestabile la loro condotta, si è che non
esaminarono, ma sparsero il sangue di tanti sudditi innocenti per puri
sospetti, per semplice gelosia di Stato, per l'orribile costume che ha
il dispotismo d'incrudelire senza poter neppure rendere ragione a se
stesso, perchè incrudelisca.

      La falsa accusa di ateismo; secondo motivo della persecuzione.

RISTRETTO. _I Cristiani erano rappresentati come una società di Atei; nè
si vedeva, quale Divinità, e quale specie di culto avessero sostituito
agli Dei ed ai tempj dell'antichità. I Filosofi, che ammettevano l'unità
di Dio, erano persuasi, che i pregiudizi popolari dipendono
dall'originale disposizione della natura umana, e che un culto fatto pel
popolo, se crede di non aver bisogno de' sensi, dà nel fanatismo. Si
avvisavano che i Cristiani degradassero l'unità di Dio colle loro
chimeriche speculazioni. Sarebbe sembrato meno sorprendente, che
avessero rispettato G. C. come un sapiente, come un savio, che adoratolo
come un Dio. I Politeisti erano disposti dalle leggende di Bacco,
d'Ercole e di Esculapio a veder comparire il Figliuolo di Dio sotto
forma umana; ma si maravigliavano, che i Cristiani abbandonati
gl'inventori delle arti e delle leggi e i domatori de' mostri e de'
tiranni, scegliessero per oggetto esclusivo del loro culto un oscuro
maestro che di fresco, e presso un popolo barbaro era stato vittima
della malizia o della gelosia; rigettavano l'immortalità offerta da
Cristo e la sua risurrezione, e desideravano la sua nascita equivoca, la
sua vita e la sua morte ignominiosa._

RISPOSTA. L'accusa, che nel titolo si annuncia d'_ateismo_, realmente
era di _fanatismo, di superstizione_. I Gentili rimproverati da'
Cristiani di adorare Dei di pietra e di legno, invece di rivolgersi al
Creatore dell'universo, come potevano attaccarli di _ateismo_? Sapevano
bene, che _agli Dei della favolosa antichità_ avevano sostituito G. C.
Figliuolo di Dio; e che _al culto di Roma_ avevano surrogato un altro
culto secretamente celebrato: sicchè realmente gli accusavano di
_superstizione_, non d'ateismo.

L'una e l'altro possono avere riguardo al ben essere dello Stato; e vi
ha chi ha trattato problematicamente, se nuoca più alla società la
superstizione, che l'ateismo.

Secondo i principj poc'anzi stabiliti, i Romani per non incorrere la
taccia d'ingiusti, dovevano, sprezzando le voci ed i numeri volgari, far
un serio esame della dottrina Cristiana, per decidere se intesa nel suo
giusto senso, si opponesse o no al bene dello Stato.

Noi ci lagniamo d'aver essi negletto un dovere tanto essenziale: ci
lagniamo anzi, che imperversando nell'odio chiusero l'orecchie alle vive
proteste de' Cristiani, e si risero delle ardenti Apologie, nelle quali
questi esponevano chiaramente la loro credenza sulla natura della
Divinità e sull'innocenza del loro culto religioso.

Ma l'Autore per lo più deviante dal vero segno, non introduce i Gentili
a dimostrare, che il culto era di nocumento allo Stato; ciò che sarebbe
stato a proposito per la loro giustificazione; ma si vale della loro
maschera semplicemente a risvegliare un filosofico disprezzo degli
augusti misteri, che formano l'oggetto della nostra credenza,
trattandoli di _speculazioni chimeriche_ inventate a _degradare l'unità
di Dio_. Il qual esame esce da' limiti della presente questione; e fuori
dalle ingiurie, nulla altro si trova da confutare.

Abbiamo veduto che i Cristiani stessi confessano essere i _misteri
superiori alla religione_, e ch'eglino li credono obbligati dalle prove
generali, che dimostrano la verità della Rivelazione. Laonde per
conchiudere logicamente contro i _misteri_ fa d'uopo esaminare le prove
della Rivelazione. E gli antichi Politeisti più di noi prossimi ai
fatti, e circondati da una luce pressochè perenne, proveniente da'
frequenti miracoli che si operavano; dall'eminenza delle virtù, che
facevano campeggiare i Cristiani di ogni sesso, di ogni condizione e di
ogni paese; e dal coraggio, col quale incontravano la morte, potevano
più facilmente convincersi dell'origine divina del Cristianesimo.

_I filosofi, che ammettevano l'unità di Dio, si persuadevano assai male_
che i _pregiudizi popolari dipendessero dalla disposizione originale
dell'umana natura_, per concludere insensatamente, che non si dee far
conto della _differenza dell'opinioni e de' culti_. La disposizione
costante ed essenziale dell'_umana natura_ è di avere una ragione, per
iscuoprire la verità ed amarla, e per iscuoprire tutti i falsi
pregiudizi, e detestarli e correggerli.

Ma i filosofi dell'Autore insegnano ottimamente, che _un culto fatto pel
popolo, se crede di non aver bisogno dei sensi, dà nel fanatismo_.
Questa lezione non dee farsi ai Cristiani, che hanno avuto sempre un
culto sensibile, e che nella sua parte essenziale fu istituito da Dio
medesimo; ma ai moderni Deisti, i quali escludono ogni pratica esterna.
Non possiamo però approvare, che questi filosofi ristringano la
necessità del culto esterno alla sola contemplazione del _popolo_,
poichè non si trova sistema di gius naturale, in cui parlandosi degli
uffizi a Dio dovuti, non si stabilisca in termini generali
l'obbligazione del culto esterno.

_Ai filosofi sarebbe sembrato meno sorprendente che avessero rispettato
G. C. come un sapiente, che adoratolo come un Dio._ Ma le profezie ed i
miracoli ci obbligano a riconoscerlo come Dio; e colla loro evidenza
rendono ragionevole quest'ossequio.

_Le leggende di Ercole, di Bacco, di Esculapio avevano assuefatti i
Politeisti a veder comparire gli Dei sotto umana forma_: ma nessuno era
disposto a riconoscere tre persone in una sola natura, e la natura umana
unita colla divina in una sola di esse tre persone. Questo mistero fu
rivelato dal Cristianesimo, e fu creduto per le prove della Rivelazione,
non perchè i Politeisti fossero disposti a idee così remote dalle loro.

_L'essere inventori delle arti e delle scienze e domatori de' mostri e
de' tiranni_ è un carattere che rende gli uomini degni della stima de'
loro simili; ma d'un uomo, per quanto sia grande, non può farsene un
Dio; e questa fu la stupida superstizione dei Politeisti: furono
convinti co' loro stessi Autori di dar gli onori Divini a soggetti,
ch'erano stati puri uomini, ed uomini, i cui vizi e le cui stravaganti
vicende oscuravano la luce delle poche opere giovevoli, che attribuì
loro la Mitologia. In Gesù Cristo noi non adoriamo un uomo Deificato, ma
un Dio unito all'umana natura; e nelle cui azioni traluceva così
chiaramente la Divinità, che ne restò pure atterrito chi condannollo
alla morte.

La _nascita di Gesù da una vergine e la sua risurrezione_ si mettevano
dagl'Infedeli in _derisione_; e frattanto gl'Infedeli si convertivano in
folla: quanto dovevano essere chiare le prove, che facevano ricevere
idee così lontane dal naturale.

E queste prove, alle quali l'Autore non ha potuto togliere un grado di
forza, dimostrano contro di lui, e dimostravano ai filosofi ed
agl'Idolatri dell'antichità, che il Cristianesimo è il sistema della
verità, non un'invenzione della superstizione.

      Le assemblee Cristiane; terzo motivo di persecuzione.

RISTRETTO. _La politica Romana risguardava con gelosia e diffidenza
qualunque società particolare, che si formava nello Stato: e le
Cristiane assemblee parevano meno innocenti e più pericolose di ogni
altra. Gl'Imperatori volevano in esse punire lo spirito d'indipendenza,
e temevano, che le predizioni d'imminente calamità inspirassero
l'apprensione di qualche pericolo, che provenir potesse dalla nuova
setta, che era tanto più sospetta, quanto più oscura._

RISPOSTA. Questo è il ritratto del dispotismo, che invece di
giustificare fa fremere di sdegno chiunque conosce i diritti originali
dell'umanità. Una politica che _prende gelosia di qualunque società
particolare, che si formi nello Stato_, senza informarsi dell'istituto
che professa, dell'oggetto a cui tende, degli esercizi in che si occupa,
sarà sempre, come sempre è stata, la politica de' Tiranni.

Le _Cristiane assemblee parevano meno innocenti, e più pericolose d'ogni
altra?_ Dunque se ne doveva prendere esatta cognizione. Potevasi negar
fede agli Apologisti, come parte interessata. Ma Plinio fece sapere a
Traiano, com'egli aveva impiegata una diligenza particolare per venire
in chiaro di che si trattasse nelle adunanze de' Cristiani; che per sino
aveva impiegati i tormenti ad istrappar dalla bocca di due donne, che in
esse servivano da ministre, la verità, che il risultato delle sue
ricerche era stato d'averle trovate _innocenti e superstiziose_. Qual fu
la risoluzione del virtuoso Traiano? Stabilì un piano regolare di
persecuzione, per abolire un istituto che si era trovato non pure
innocente, ma virtuoso, perchè _obbligava_ secondo Plinio col
_giuramento all'astinenza d'ogni reità_.

Plinio non vi trovò l'_indipendenza_, che sarebbe stata degna di esser
punita dall'Imperadore; e Tertulliano sfidò i Gentili ad additare un
solo Cristiano, che fosse caduto in sospetto d'essere entrato a parte di
qualche cospirazione. Non si sono mai dolsuti i Magistrati di aver
trovati i Cristiani refrattari alle leggi ed alla sommissione dovuta al
loro grado. Tutta l'_indipendenza_ era ristretta alla libertà della
coscienza, che niuna potenza umana ha diritto di costringere.

Le _calamità erano predette_ imprudentemente da' _Montanisti_; ma i
Pagani, che si credevano insultati, si vendicavano sopra tutti i
Cristiani per isdegno, non perchè temessero, che i perseguitati
potessero giungere ad acquistar la forza di avverare le loro predizioni.
Questo maligno pensamento dell'Autore non si trova rinfacciato da alcuno
agli antichi Cristiani.

      I Costumi de' Cristiani calunniati; quarto motivo di
      persecuzione.

RISTRETTO. _Le cautele, colle quali i Cristiani celebravano gli uffizi
di Religione, davano occasione ai Gentili di credere ch'eglino
uccidessero bambini nati di fresco tutti coperti di farina, e che se ne
cibassero, e che poi stinti i lumi avessero incestuosi commerci fra
loro._

RISPOSTA. L'accusa di _cibarsi delle carni d'un bambino coperto di
farina_ aveva un fondamento vero: i Cristiani celebrando il mistero
dell'Eucaristia, ch'era la parte essenziale del loro culto, sotto le
specie di pane mangiavano il vero corpo di G. C., e terminata la
funzione si congedavano con darsi il bacio di pace, ch'era il fondamento
de' pretesi incesti.

Quanto più atroci erano queste calunnie, tanto più cautamente doveva
procedere il Governo; e la più superficiale ricerca gli avrebbe fatto
scuoprire il vero. Non sarà un'eterna infamia per gl'Imperatori Romani
aver uccisi tant'innocenti sopra un equivoco così grossolano?

      L'attaccamento all'Idolatria; ultimo motivo di persecuzione
      taciuto dall'Autore.

Egli è strano che l'Autore abbia passato sotto silenzio la principal
cagione delle persecuzioni, posta la quale, tutte le altre si spiegano,
e tolta la quale nessuna dell'altre facilmente si concepisce.
Imperciocchè sia riguardo ai delitti imputati, sia circa i sospetti, che
prendevano dalle adunanze Cristiane, non è credibile che i Romani, i
quali nell'amministrazione delle leggi non passano per la più ingiusta,
o la più feroce nazione, avesser voluto spargere tanto sangue, e
privarsi di tanti sudditi, senza un forte interesse che gli stimolasse a
violare così visibilmente i principj dell'equità naturale.

L'_attaccamento alla propria Religione_, il quale doveva essere grande
per ogni riguardo di antichità, di educazione, di libertinaggio, di
gloria, faceva sì, che chiudessero volontariamente gli occhi alla luce,
e che perseguitassero nella Religione Cristiana, non una setta rea e
pericolosa allo Stato, ma una rivale, che minacciava all'idolatria la
totale distruzione del suo regno.

Questa cagione trova nella storia di que' tempi gli argomenti più chiari
a convincerne chiunque. Imperciocchè non solo vi si veggono i Sacerdoti
porre in opera ogni artifizio per opprimere i Cristiani; non solo i
Filosofi inventare nuovi sistemi a rettificar l'idolatria per non
lasciarla cadere; ma altresì vi si vede il popolo tutto acceso del più
alto fanatismo, oltrepassare i limiti prescritti dagl'imperadori allo
spirito di accusa, e rinunciando talora all'ubbidienza del proprio
Sovrano, usurparne la maestà per dissetarsi del sangue nemico.
Cercheremo le tracce della giustizia ne' _tumulti popolari_?

Non creda alcuno aver l'Autore tralasciato questo articolo per pura
inavvertenza: egli lo ha taciuto a disegno, poichè tanto _furore
religioso_ come poteva conciliarsi colla _tolleranza del mondo Pagano_,
che forma l'oggetto delle sue delizie? Come avrebbe potuto dire, che _i
persecutori dal Cristianesimo non furono animati dal furioso zelo de'
divoti, ma dalla moderata politica de' legislatori_.

Dall'esame delle cagioni della persecuzione, come i persecutori possano
restare assoluti, lo abbiamo sufficientemente veduto. Seguendo ora i
passi dell'Autore, vedremo, s'egli riesca meglio nell'apologia de'
Tiranni, cogli articoli, che pretende stabilire sulla storia delle
persecuzioni. Essi sono quattro: che _passò molto tempo prima che la
Chiesa fosse perseguitata:_ che gl'_Imperadori nel punire i Cristiani si
condussero con precauzione e con ripugnanza:_ che _furono moderati
nell'uso delle pene:_ e che _la Chiesa gustò molti intervalli di pace_.

      Articolo primo. Se veramente il Cristianesimo stette molto ad
      essere perseguitato.

RISTRETTO. _I Giudei erano tollerati, e la Chiesa dimorò molto tempo
coperta sotto il velo del Giudaismo. Forse gli Ebrei non tardarono ad
accorgersi, che i loro fratelli Nazarei si staccavano di più in più
dalla Sinagoga: ma era stata ad essi tolta l'amministrazione della
giustizia criminale, nè era facile d'inspirare al Magistrato Romano il
rancore del loro zelo._

RISPOSTA. Suo intendimento è di provare, che il primo de' persecutori fu
Traiano nel secondo secolo, che per conseguenza la lunga pace, che godè
la Chiesa in tutto questo tempo, quanto fa risplendere l'_indulgenza_
del Politeismo, tanto poco ci fa maravigliare de' _progressi_ che fece
la Religione.

Perchè egli taccia nell'uno e nell'altro capo con tanta ostinazione la
prima fondazione del Cristianesimo nella Palestina, ognuno lo può più di
leggieri comprendere. Che la Chiesa fu fondata nel vivo fuoco della
persecuzione; che il fondatore ed alcuni de' suoi primi discepoli furono
fatti morire da' Capi della nazione; che essa fece leggi proibitive e
rigorose contro coloro che si fossero dichiarati per Gesù Nazareno; che
in vigore di tali leggi si venne alla carcerazione di molti Fedeli; che
questi furono costretti a sottrarsi colla fuga all'insidie de' nemici, o
ad andare raminghi qua e là; che finalmente i Giudei non rivocarono mai
questi ordini, sono fatti troppo noti, per non doversi che semplicemente
citare.

Quanto ai Gentili convien distinguere due persecuzioni, l'una indiretta
e tacita, l'altra diretta ed espressa. La seconda cominciò dall'anno
decimo di Nerone, non da Traiano: e la prima fece soffrir la morte ai
Cristiani avanti ancora che fossero conosciuti sotto questo nome.
Proveremo l'uno e l'altro.

_La Chiesa stette molto tempo coperta sotto il velo del Giudaismo._ Ci
siamo altrove spiegati abbastanza su di questo proposito; ma
convenghiamo coll'Autore, che in que' primi tempi i Gentili non facevano
differenza tra Giudei venuti alla fede, e Giudei non convertiti. _I
Giudei_, prosiegue l'Autore, _erano tollerati_: la tolleranza fu loro
accordata da _Antonino Pio_; lo ha detto pur egli. Prima di questo tempo
furono perseguitati per le loro _continue ribellioni_; e l'Autore trova
sotto Domiziano alcuni, fatti morire per costumi Giudaici. Quindi
appunto perchè i Cristiani passavano per i Giudei, erano compresi nelle
loro disgrazie.

Inoltre vi erano due antichissime leggi, l'una delle quali è rammentata
da Livio, e l'altra da Cicerone; esse vietavano ogni culto straniero, e
davano la pena di morte ai malefici. Ora Svetonio, parlando de' primi
Cristiani, dice, ch'erano accusati di _maleficio_.

Terzo, Plinio a tempo di Traiano condannava a morte i Cristiani prima
che questo Imperadore stabilisse contro di essi una pratica criminale:
onde s'inferisce che gli altri Governatori seguivano pure lo stesso
costume. E siccome Plinio dichiarò di non aver trovata una regola fissa
per sua direzione, così è da dirsi, che si procedesse contro i Cristiani
non in forza di qualche legge vigente fatta a bella posta contro di
loro, ma per leggi generali, che facessero nascere perplessità
nell'animo di un Ministro, che voleva guidarsi con sicurezza. Altronde
si sa che, essendo state annullate le leggi di Nerone dal Senato e
quelle di Domiziano dal suo successore, Plinio non può alludere a
queste.

Quarto, sotto Traiano si condannarono i Cristiani _pe' clamori del
popolo_, e non apparisce, che fosse nato allora questo abuso.

Quinto, finalmente sappiamo, che Tiberio, sotto cui fu crocifisso il
Redentore del mondo, difese i Cristiani dal _rigor delle leggi_: niuno
avendo ancora potuto far leggi espresse contro i Cristiani, uopo è dire,
che si facessero valere contro di essi le leggi generali dianzi
rammentate.

Ecco adunque solidamente stabilito, che il Cristianesimo appena nato,
appena conosciuto, fu costretto a soggiacere sotto il flagello d'una
persecuzione tacita ed indiretta, onde l'Autore non possa tanto lodare
l'_indulgenza del Politeismo_, e non ci rappresenti la _Chiesa giunta a
sufficiente robustezza, prima che la persecuzione la prendesse a
combattere_.

La persecuzione espressa e diretta cominciò da Nerone; sue furono le
prime leggi, quelle di Domiziano le seconde. Ma l'Autore facendosi bello
di alcune riflessioni, che si trovano nella Storia universale del Signor
di Voltaire, vuol che si tolgano questi due Imperadori dal numero de'
persecutori. Ecco come parla del primo.

RISTRETTO. _Abbiamo da Tacito, che Nerone imputando ai Cristiani
l'incendio di Roma, attribuito generalmente a lui, ne fece morire una
moltitudine con crudeli tormenti. Ma 1. non si può mettere in dubbio la
verità del fatto, e la genuità del testo di Tacito: 2. egli non potè
essere informato di questo fatto se non dalla conversazione o dalla
lettura: 3. non potè parlarne se non sessant'anni dopo, quando cioè era
forzato ad adottare le relazioni de' contemporanei riguardo ai
Cristiani, e parlarne non tanto secondo le cognizioni o i pregiudizi
dell'età di Nerone, quanto secondo quelli d'Adriano: 4. Tacito lascia
spesso le circostanze intermedie che dee supplirvi il lettore. Può dirsi
pertanto che Nerone fosse disposto ad imputar l'incendio di Roma
piuttosto ai Giudei che agli oscuri Cristiani; e che quelli profittando
della protezione di Poppea e di un Giudeo Commediante sostituissero per
vittima i Galilei, setta di recente nata fra loro, e che avendo avuto lo
stesso nome i seguaci di Cristo denominati Cristiani all'età d'Adriano,
si credesse per equivoco accaduta ai Cristiani la disgrazia de' Galilei,
e che Tacito avesse commesso lo sbaglio medesimo. Ma comunque ciò sia,
questa crudeltà riguardò l'accusa dell'incendio, non de' dogmi de'
Cristiani, e non uscì dal recinto di Roma; ed i Principi seguenti
risparmiavano una setta oppressa da un Tiranno._

RISPOSTA. Le quattro osservazioni sopra Tacito sono ammirabili. La
prima, ch'è sulla _genuità del passo_, non è a proposito. Nella quarta,
pretendendosi che Tacito _fosse caduto in un equivoco di nomi_, si
vorrebbe che il lettore lo rischiarasse, con _supplire le circostanze
intermedie ch'egli suol tralasciare_. Nella seconda Tacito, per
informarsi di un avvenimento accaduto nella sua fanciullezza, doveva
ricorrere alla _relazione, o agli scritti_. Se non che viene la terza ad
annunciarci, che _parlando egli di questo fatto sessanta anni dopo_,
cioè sotto Adriano, _dovè adottare l'idee di questo tempo, non del tempo
di Nerone_. Il Signor di Voltaire non cumulò tanti spropositi.

O Tacito consultò memorie scritte, o le relazioni de' viventi. In un
periodo di sessant'anni le memorie scritte non potevano essere, che o
prossime al fatto o contemporanee; e ne' pubblici registri dovevano
trovarsi i nomi, la condizione e l'istituto de' giustiziati; di sorte
che a questi caratteri Tacito, il quale si mostra informato dell'origine
de' Cristiani, non poteva equivocare in forza del nome: anzi avrebbe
potuto correggere l'opinione del suo tempo se l'avesse trovata erronea.
Se consultò le relazioni de' viventi, naturalmente dovè ricorrere a' più
vecchi come a' più vicini al fatto; e benchè la di lui storia si
supponga scritta _sessant'anni dopo_, pure non potè egli raccoglier la
materia, e stenderla in breve spazio di tempo: di maniera che ci
avvicineremo tanto ai contemporanei, che non si comprenderà più la
possibilità dell'equivoco. Tacito era _fanciullo_ allorchè Nerone
commise quell'eccesso; nell'età avanzata non dovè informarsi da persone,
che allora erano molto maggiori di lui?

Che Nerone potè essere disposto ad _imputare il suo delitto ai Giudei_,
è un semplice _può essere_. Che i Giudei potessero sottrarsi a questa
procella _per la protezione di Poppea_, è un altro _può essere_. Che
sostituissero in loro vece i Galilei o sia i seguaci di Giuda Gaulonia,
è un _può essere_ inverisimile: poichè odiando eglino molto più che
questi i Cristiani, avrebbero fatto piombar il fulmine piuttosto sopra i
Cristiani, che sopra una loro setta.

Consultiamo _congetture_ più plausibili. È certo, che i Cristiani hanno
sempre creduto che Nerone incrudelisse contro di loro; e che nella loro
tradizione non vi poteva essere equivoco; mentre dovevano dagli amici,
da' parenti, da' Sacerdoti essere pienamente informati di tutte le
circostanze. Se le vittime sventurate della crudeltà del Tiranno non
fossero state del loro istituto, trattandosi di comparire rei o almeno
capaci di un delitto così odioso, non dovevano opporsi all'opinione, che
si finge invalsa a tempo di Adriano, per lavarsi dall'infamia, e per non
autorizzare gli altri Principi coll'esempio di Nerone?

Nell'affar dall'incendio non fu perseguitata direttamente la _fede de'
dogmi_; ma i Cristiani non soffrirono quel barbaro trattamento se non
perchè professavano una Religione, accusata dall'odio del genere umano,
e capace d'incendiare la capitale dell'Impero.

Ma riguardo alla Religione stessa, Tertulliano dice, che Traiano
_annullò leggi contrarie a' Cristiani_: e prima di questo Principe le
rammentate leggi non possono ascriversi che a Domiziano ed a Nerone.
Lattanzio pure scrive, che _Nerone si accinse a rovinare il tempio
celeste_. Da ultimo S. Pietro e S. Paolo conseguirono la palma del
martirio sotto questo Principe, ma non nell'occasione dell'incendio di
Roma. Se ciò è vero, la persecuzione dovè essere generale.

Tolto questo mostro dal mondo, il Senato ne annullò gli atti, e i
Principi, che vennero appresso sino a Domiziano, non consta, che
avessero pubblicate leggi contro i Cristiani. Ma non perciò si lasciava
di procedere contro di loro, in virtù delle leggi generali che venivano
a ferirne l'istituto. Ma veniamo a Domiziano.

RISTRETTO. _Avendo il fuoco incendiato il tempio del Campidoglio,
gl'Imperadori imposero una tassa ai Giudei; il che diede motivo di
vessarli: i Cristiani, che passavano per Giudei, furono involti nella
persecuzione. Dei due figliuoli di Flavio Sabino zio di Domiziano, il
maggiore fu convinto di cospirazione; il minore detto Flavio Clemente
dovè la sua sicurezza alla mancanza di coraggio e di abilità, ma
finalmente fu fatto morire: e Domitilla sua moglie fu rilegata. Il
delitto imputato loro fu d'ateismo e di costumi Giudaici: onde qui non
vi è idea nè di martiri nè di persecuzione._

RISPOSTA. L'incendio del tempio del Campidoglio avvenne durante la
guerra civile tra Vitellio e Vespasiano: il nuovo tempio fu dedicato da
Domiziano, ma la tassa imposta ai Giudei fu a lui anteriore. Nè i
Cristiani confondono le vessazioni sofferte da' Giudei, e forse da
alcuni del loro partito, colle leggi proibitive del Cristianesimo: onde
l'Autore confonde le sue idee, e quelle del lettore per voler troppo
discorrere.

La legge riguarda la condanna di _Flavio Clemente_, ch'egli fa morire
per _pura gelosia di governo_, citando il principio d'un passo di Dione,
e sopprimendo il rimanente, dove soggiunge lo Storico, che _sopra la
stessa accusa di ateismo e di costumi Giudaici altri furono condannati
alla morte, ad altri furono confiscati i beni_. Queste esecuzioni
suppongono una legge fatta per proibire l'_ateismo e i costumi
Giudaici_, caratteri, che convengono ai soli Cristiani; onde a Clemente
di _poco talento_, cioè modesto rimane nel numero de' Martiri, e
Domiziano nella classe de' Persecutori. E notiamo di volo, che sotto
Domiziano il Cristianesimo si era insinuato nella sua famiglia.

      Articolo secondo. Se gl'Imperatori si condussero con precauzione
      e con ripugnanza nel perseguitare i Cristiani.

Nuova e singolar maniera di ragionar sulla storia! Turbar l'ordine
cronologico senza bisogno; parlar del martirio di San Cipriano prima che
avvenisse; unir Tiberio con Marco Aurelio, e farli venire in iscena dopo
Traiano; e dopo Decio rompere la serie degli Imperadori per trattenerci
sull'ardore, col quale i Cristiani correvano al martirio, sopra i motivi
che ve li spignevano, e sul rilassamento tra loro introdottosi, e
finalmente dividere le parti della Commedia ed assegnare ad un
Imperadore la _precauzione_, ad un altro la _ripugnanza_, ad un terzo la
_moderazione_: e quindi conchiudere in tuono d'autorità, che i
Persecutori del Cristianesimo si regolarono con _precauzione_, con
_ripugnanza_, con _moderazione_; ecco i rari pregi di questo libro.

Non ha fatto così l'Autore del Discorso sulla Storia universale; non
così l'Autore de' Ragionamenti sulla storia Ecclesiastica; non così
l'Autore dell'Osservazioni sulla grandezza, e sulla decadenza de'
Romani. Questi, che scrivevano per istruire, si guardarono da tutto ciò,
che potesse partorir confusione; in vece di generalizzare le idee,
limitarono le loro riflessioni alla natura di ogni fatto particolare; e
così sotto il loro pennello il bianco è rimasto bianco, ed il nero è
rimasto nero. Premendo noi le stesse vestigia, e rinunciando in fatto di
storia all'universalità dell'idee, vorremmo porre sotto l'occhio del
lettore le leggi fatte da ogni Imperadore, e la maniera colle quali
furono eseguite; onde più dalla storia stessa che dalle nostre
riflessioni risultasse il carattere proprio di ciascuno, se il nostro
disegno ci permettesse di dilungarci: tuttavia non lasceremo che si
desideri il bisognevole.

E primieramente la _precauzione_, la _ripugnanza_, la _moderazione_, che
tanto si estolle, non si manifesta nella persecuzione indiretta e
permanente; poichè l'aver appunto trascurato sino a Plinio di procedere
nella causa de' Cristiani con una regola fissa; e l'avere permesso, che
i Sacerdoti colle loro suggestioni, ed il popolo con tumultuosi clamori
si arrogassero il diritto della sovranità, dà idea e ne' Principi e ne'
sudditi di quei tempi di tutto altro che di _precauzione_, di
_ripugnanza_, e di _moderazione_.

Secondariamente, i primi due autori delle persecuzioni dirette ed
espresse, Nerone e Domiziano, sembrano piuttosto mostri che uomini, come
ognuno facilmente concederà, senza che si ripetano da noi i decreti e le
azioni loro. Ma siccome l'Autore ha tolti questi due Tiranni dal numero
de' persecutori, e pretende, che Traiano fosse il primo a far leggi
particolari sopra i Cristiani, così da questo cominciano ad additarsi
nella storia i tre caratteri dianzi rammentati. Osserviamo intanto,
com'egli faccia il ritratto di Traiano e de' suoi successori.

      Articolo terzo, se Traiano, Adriano ed Antonino si condussero
      con precauzione, con ripugnanza, e con moderazione contro i
      Cristiani.

RISTRETTO. _Sotto Traiano, Plinio il giovane, Governatore della Bitinia
trovossi perplesso nel determinare qual legge seguir dovesse co'
Cristiani, dal che si arguisce che fino allora non esisteva contro di
essi alcuna legge generale. Egli ricorse a Traiano, nella risposta del
quale si stabilirono due utili regolamenti. Perchè egli ordina ai
Magistrati di punire i convinti, proibisce di farne inquisizione;
rigetta l'accuse anonime, e similmente il denunciante doveva provare
tutte le circostanze dell'accusa. Se vi riusciva si rendeva odioso ed a'
Cristiani ed a' Gentili; se non vi riusciva, incontrava la pena severa,
e forse capitale imposta da una legge di Adriano: onde non si crederà
sicuramente che i sudditi idolatri dell'Impero Romano avessero formate
leggermente o frequentemente accuse, dalle quali avevano sì poco a
sperare._

RISPOSTA. Primo, questo tratto di storia è distinto dall'Autore a
dimostrare la _precauzione_, e la _ripugnanza_: la _moderazione nell'uso
delle pene_ è argomento d'un altro quadro.

Secondo, nel titolo dell'articolo egli annunzia in generale, che
gl'Imperadori si condussero con _precauzione_ e con _ripugnanza, quando
si trattò di punire i sudditi accusati di Cristianesimo_; e qui parla
del solo Traiano, e tocca di volo Adriano, e sino all'ultimo de'
persecutori più non parla di questo.

Terzo, riferisce imperfettamente la legge di Traiano, dalla quale
essenzialmente dipende il giudizio, che far ne dobbiamo; e regala grandi
vantaggi a' Cristiani a forza d'immaginarli.

Plinio espose a Traiano, che avendo fatto diligente esame intorno
all'istituto ed alle adunanze de' Cristiani, non vi aveva trovato se non
che cantavano lodi al loro Cristo; che facevano pranzi sobri ed
ordinari, e che si astringevano con giuramento ad astenersi da ogni
reità; che avevano cessato pure di adunarsi per ubbidire agli ordini
suoi; e che poste per maggior cautela due donne Cristiane a' tormenti,
non potè altro scuoprire se non un gran fondo di superstizione. Risponde
l'Imperadore, che in _quest'affare non si può stabilire una regola
sicura_; ma si compiace di ordinare, che _non si faccia più inquisizione
contro i Cristiani, se però essi verranno accusati e convinti, i
Magistrati usino ogni mezzo di ridurli, e trovandoli ostinati, li
puniscano colla morte_.

Confessa lo stesso Autore, che la legge è _contraddittoria_: in fatti se
il Cristianesimo gli pareva delitto di morte, doveva permettere, che si
seguisse a procedere per inquisizione come in tutti gli altri delitti
capitali; se non gli sembrava che vi dovesse aver luogo l'inquisizione
non doveva punir di morte gli accusati.

Questa legge recò due gravissimi danni ai Cristiani. Traiano lasciò
libero ai Magistrati l'impiegare i mezzi eziandio di rigore, affin di
ridurre i Cristiani al volere del Principe; e così aprì la via ai
tormenti ed alla crudeltà: ed essendo questo il primo piano criminale
fatto contro il Cristianesimo, si stabilì sì fattamente, che
gl'Imperadori seguenti non poterono del tutto abolirlo, quando vollero
favorire gli oppressi. Quindi la _ripugnanza_ vi è nella legge, ma non
vi è nè _precauzione_, nè _moderazione_; anzi evvi o una negligenza così
supina o una politica così artifiziosa, che i Cristiani sono costretti
ad imputare a Traiano tutti i mali, che fecero loro soffrire i suoi
successori.

È curioso l'Autore, quando dice, che gli accusatori dovevano
_vergognarsi o temere_. Sapete chi erano gli accusatori? I Sacerdoti, i
Filosofi, i quali stimavano di prestar ossequio agli Dei, perdendo i
loro nemici. E la legge di Traiano recò loro tanto poco spavento, che
Adriano suo successore, ed indi Antonino Pio non poterono frenarne
altrimenti l'ardore, che coll'imporre al calunniatore la stessa pena del
calunniato. Eglino pure dichiararono, che i clamori del popolo non
sarebbero stati più ammessi come prova legale.

In questi due Principi la verità ci obbliga a riconoscere qualche grado
di _ripugnanza_, di _precauzione_, di _moderazione_; ed i nostri Storici
hanno loro renduta la meritata giustizia. Iddio volesse ch'eglino
avessero avuto il coraggio di condannare all'obblio la funesta legge di
Traiano. Avendo eglino conosciuta la ragione, dovevano trarla da' ceppi
dell'oppressione invece di consolarla. Ma la spada nelle loro mani non
fu digiuna di sangue: e molti Martiri sotto di loro illustrarono la
Chiesa. Forse temettero la superstizione del popolo e la possanza
dell'irritabile genere de' Sacerdoti Pagani: non avendo essi avute idee
molto pure della giustizia, noi, piuttosto che malignare sulla loro
condotta, siamo disposti a compatirli. Lo stesso Traiano per avventura
era stato costretto a rispettare la congiura universale del Paganesimo
contro i Cristiani, ma non sappiamo perdonargli l'aver permesso ai
Magistrati di tentar la costanza de' denunciati, sempre che la giustizia
suole impiegare i tormenti ad ottenere la confessione, non la negazione
del delitto.

      Articolo quarto. Se gl'Imperadori furono moderati nell'uso delle
      pene.

RISTRETTO. _Non era la pena una conseguenza inevitabile dell'essere
alcuno stato convinto: chi tornava all'Idolatria era assoluto,
applaudito, premiato; ed i giudici prendevano piuttosto a disingannarli
che a punirli. Gli Scrittori del quarto e del quinto secolo hanno
attribuito ai Magistrati Romani le più grandi crudeltà, e le più
indecenti tentazioni. La loro educazione, il rispetto per le regole
della giustizia, l'amore pe' precetti della filosofia non rendono
credibili tali racconti._

RISPOSTA. Di che tempo si parla? Di quali Ministri? Sotto quali
Imperadori? Dovrebbero determinarsi tutte queste circostanze, per
ragionare con fondamento sulla pretesa _moderazione_. Fu moderato
Nerone, che fece servir i Cristiani per funesti fanali a' suoi infami
divertimenti? Fu moderato Domiziano, che incrudelì contro il proprio
sangue? Fu moderato Traiano, che aprì il primo la via de' tormenti? Fu
moderato Decio che ordinò ai Magistrati d'inventarne de' nuovi? Fu
moderato Marco Aurelio, che molto prima di Decio fece crudelissime
stragi? Fu moderato Galerio, che opinò che i Cristiani si dovessero
bruciar tutti vivi? Quali i Principi, tali esser ne dovevano i Ministri.
Se si fosse trattato di un delitto, in cui i Giudici alcuno interesse
non avessero avuto, si potrebbero per ventura supporre, quali sono dal
loro Apologista dipinti. Ma eglino professavano la Religion combattuta
da' Cristiani; ed avevano continuamente all'orecchio i Sacerdoti
degl'Idoli. Come supporli indifferenti, e piuttosto disposti a
_disingannare_, che a _punire_ i nemici de' loro Numi? Qualche esempio
di moderazione e di umanità pur nella storia si trova; ed i nostri
Scrittori stessi ne hanno conservata la memoria; ma è un abusare del
pubblico il citar qualche esempio in prova di un'asserzione generale.

E giacchè l'Autore ci obbliga a fare il vero carattere de' Magistrati
Romani, invece dell'_eccellente educazione, del rispetto per la
giustizia, dell'amore per la filosofia_, noi troviamo due fatti
incontrastabili. Primo, che gl'Imperadori dovettero varie volte
reprimere la licenza de' loro ministri. Secondo, sotto Decio questi
edificanti Ministri vendevano pubblicamente falsi attestati ai
Cristiani, che non avevano coraggio di combattere; e per costringerli a
comprarli, facevano soffrire i più barbari tormenti a que' miserabili,
che non potevano pascere la loro avarizia? La bella _educazione_!
l'incorrotta _giustizia_! il purissimo _amore della filosofia_! farsi
spergiuri e tradire il proprio Principe e la propria Religione.

Il Mosemio ha trovate le tracce di sì reo costume, anche ne' tempi
anteriori a Decio e sappiamo dagli Atti Apostolici che S. Paolo fu fatto
marcire due anni in prigione dal Ministro Romano, che si era lusingato
di poterne trarre danaro. E se il danaro veniva loro offerto da'
sacerdoti de gl'Idoli, come non è incredibile, con qual ferocia dovevano
avventarsi contro gli oggetti dell'odio loro?

Riferiscono gli Storici del quarto e del quinto secolo che i Pagani alle
volte impiegavano contro i Cristiani _le più indecenti tentazioni_; e
ciò era conforme alla loro Religione. Non si sa, che Venere avea dei
postriboli dedicati al suo nome, e che le meretrici credevano di
onorarla? E questo si pretendeva dalle Vergini Cristiane?

Ma eccoci costretti a rompere il filo della Cronologia, per trattenerci
in varie digressioni su i _motivi, che portavano i Cristiani a cercare
il martirio, sull'ardore de' primi Cristiani, sul rilassamento, che vi
s'introdusse per gradi; sopra i diversi mezzi di evitare il martirio, e
sopra gli editti di Tiberio e di Marco Aurelio._

      Digressione prima sopra i motivi, che portavano i Cristiani a
      cercare il martirio.

RISTRETTO. _Le vaghe declamazioni de' Padri non spiegano il grado di
gloria, ch'essi promettevano a chi spargeva il sangue in difesa della
Religione. Insegnavano, che il fuoco del martirio suppliva ogni difetto
ed espiava ogni colpa, che mentre le anime degli altri Cristiani erano
obbligate a passare per una lenta e penosa purificazione, i martiri
entravano trionfanti al godimento immediato dell'eterne beneficenze.
Oltre questo motivo servivano d'incitamento gli onori co' quali la
Chiesa celebrava i gloriosi Campioni dell'Evangelio. I Confessori, che
non erano condannati a morte, erano pure onorati; ed essi troppo spesso
abusavano col loro spirituale orgoglio e colle licenziose maniere della
preeminenza, che lo zelo e l'intrepidità avevano loro acquistata._

RISPOSTA. La dottrina de' Padri circa il _valore del martirio_ è chiara,
ed è quella, che ha esposta l'Autore. Quanto al _grado di gloria_
assegnato ai Martiri, il saperlo non era di gran giovamento.

Se l'Autore riconosce, che i Martiri correvano alla morte a motivo della
_gloria celeste_, non può loro attribuire quello della _gloria
temporale_: un Martire sapeva, che l'_orgoglio spirituale_ lo avrebbe
privato della mercede, alla quale aspirava; onde o rinunciava al
martirio o alla superbia.

I _Confessori erano onorati_: si rispettavan in essi la presenza della
grazia, che gl'infiammava al martirio: ma le decisioni si aspettavano
dalle mani de' Vescovi non de' _Confessori_.

Non possiamo mettere in dubbio la testimonianza di S. Cipriano, il quale
si duole del _rilassamento_, che cominciava ad introdursi tra'
Confessori, _passata già la tempesta_: questi sventurati non avevano
forza di resistere ad un secondo combattimento: e perciò il Santo
Vescovo insisteva tanto sulla _disciplina_ che riguardava gli onori de'
Confessori.

      Seconda digressione sull'ardore de' primi Cristiani.

RISTRETTO. _Noi saremmo disposti più a criticare che ad ammirare
l'ardore de' primi Cristiani, che spiravano sentimenti opposti alla
comune inclinazione della natura dell'uomo. Molti irritavano il furor
de' leoni, affrettavano i carnefici, si lanciavano con gioia tralle
fiamme; e non avendo accusatori si dichiaravano da se stessi, e
correvano in folla attorno ai tribunali. I filosofi ne stupivano, e
trattavano tale maniera di morire come uno strano risultato di ostinata
disperazione e di stupida insensibilità, o di superstiziosa frenesia._

RISPOSTA. Lattanzio rispondeva a questi filosofi, che la _stupidità o la
stoltezza_ si trova sempre in _pochi_; che non si concepisce come
divengano folli ad un tratto persone in gran numero, di ogni età, di
ogni sesso, di ogni condizione, sparse in tante diverse regioni. Vuolsi
ancora notare che la pretesa _frenesia_ derivava da un sistema di
dottrina ragionato, ed era la conchiusione di un sistema di vivere
similmente ragionato. Da ultimo è certo che la vista de' Martiri talora
convertiva improvvisamente gli astanti, che si dichiaravano Cristiani
per morire egualmente Martiri. Ciò non è frequente nell'ordine della
natura.

Prima che il Martire Ignazio prorompesse in _sentimenti opposti alla
comune inclinazione della natura dell'uomo_, S. Paolo aveva detto:
_cupio dissolvi et esse cum Christo_. Perciò noi siamo portati ad
_ammirarli_ invece di _criticarli_. Ma chi ha perduto il tatto
spirituale, ed ha riposto ogni suo bene negli oggetti grossolani de'
sensi, certamente nulla più dee temer che la morte.

      Terza digressione sul rilassamento, che s'introdusse per gradi.

RISTRETTO. _Quest'ardor della mente diè luogo insensibilmente alle
speranze e timori più naturali del cuore umano, all'amor della vita,
all'apprension della pena, ed all'orrore del proprio discioglimento. I
regolatori più prudenti della Chiesa trovaronsi costretti a raffrenar
l'indiscreto fervore de' lor seguaci, e a diffidare d'una costanza che
troppo spesso gli abbandonava nel momento del pericolo. A misura che
divenne meno mortificata ed austera la vita de' Fedeli, essi furono meno
ambiziosi degli onori del martirio._

RISPOSTA. Questo avvenne sotto Decio, la cui persecuzione fu
violentissima. Ne' tempi seguenti, sino a Costantino, non si osservarono
le stesse cadute. Ecco adunque una _febbre di spirito_, che sta tre
secoli a _dar luogo a poco a poco all'amor della vita ed all'apprension
del dolore_.

      Quarta digressione sopra i mezzi di evitare il martirio.

RISTRETTO. _Eranvi tre mezzi di sottrarsi alla fiamma della
persecuzione,_ 1. _L'accusato aveva tutto il tempo di difendersi: s'egli
diffidava della sua costanza, la dilazione gli serviva per fuggire, il
che fu autorizzato dall'avviso e dall'esempio dei più santi Prelati._ 2.
_I Governatori vendevano per avarizia attestati, ne' quali si
dichiarava, che le persone nominate si erano sottomesse alle leggi, ed
avevano sacrificato alle divinità di Roma; e così i Cristiani potevano
quietar la malignità d'un accusatore._ 3. _Molti veramente apostatavano;
ma cessato il pericolo erano ammessi tra' penitenti._

RISPOSTA. Quando il popolo era da subito furore assalito non si dava nè
_libertà_, nè _tempo_ di _difesa_ al Cristiano. Quando i Magistrati
volevano vendicarsi dell'affronto che ricevevano dalla costanza de'
martiri, quando erano pagati da' Sacerdoti, quando non erano pagati da'
Cristiani; e quando la mente dell'Imperatore propendeva al rigore, gli
accusati non avevano altro mezzo di schivare i tormenti e la morte,
fuorchè l'apostasia. Quando il Principe inclinava all'indulgenza i
ministri la secondavano, e riusciva a qualche Cristiano di rimanersi
occulto.

Ma la fuga non si concedeva a chi era caduto una volta nelle mani della
giustizia; questi venivano ristretti e custoditi in prigione, ed erano
riserbati alla prova de' tormenti. Fuggivano quelli che non erano stati
ancora denunziati o arrestati.

_Libertà di difese_ non ve n'era, nè ve ne poteva essere. Non si
trattava di verificare un delitto: e l'accusato confessava e persisteva
nel suo proponimento, e non era capace di difese; o tornava alla
Religione degl'Idoli, ed era _assoluto, applaudito, premiato_.

I _Libellatici_, così detti, perchè si munivano de' falsi attestati che
compravano dall'avarizia de' _ben educati, de' giusti, de' filosofi_
Ministri, furono dalla Chiesa creduti rei di _grave peccato_, e questo
consisteva nello spergiuro e nello scandalo. S. Cipriano si esprime
così: _nefandos idolatriae libellos_. Ma il N. A. dice, che era
riguardata come una _venial mancanza che si espiava con una leggera
penitenza_, ingannato per avventura dalle parole del Mosemio: _modica
molestia veniam delicti sui ab Ecclesiis impetrabant, quasi impetrare
veniam_, significasse che il peccato era veniale. E le parole _modica
molestia_ esprimono, che le Chiese gli ricevevano alla comunione _senza
molto stento_, giacchè essi realmente non avevano negata la fede.

      Digressione quinta sopra gli editti di Tiberio e di Marco
      Aurelio.

RISTRETTO. _L'Apologetico di Tertulliano contiene due esempi della
clemenza degl'Imperatori, ma molto sospetti; e sono gli editti di
Tiberio e di Marco Aurelio. Quanto al primo, non è verisimile, che
Pilato informasse l'Imperatore della sentenza di morte da se
ingiustamente pronunciata: nè che Tiberio conosciuto al dispregio di
ogni Religione, volesse collocar G. C. tra gli Dei di Roma; nè che il
servile Senato gli si opponesse; nè che questo Principe proteggesse i
Cristiani dalla severità di leggi, che ancora non erano state fatte.
Quanto al secondo, la colonna Antonina prova, che Marco Aurelio ed il
popolo Romano attribuirono la pioggia maravigliosa a Giove ed a
Mercurio, non al Dio de' Cristiani. In tutto il corso del suo regno
Marco Aurelio dispregiò i Cristiani come filosofo, li punì come
Sovrano._

RISPOSTA. Non è il solo _Tertulliano_, che riferisca il fatto di
_Tiberio_: ne fa pure menzione Melitone nell'Apologia, che presentò ad
Antonino, oltre Eusebio, Orosio ed altri citati dal Fabricio. Nè le
difficoltà, che si fanno in contrario, sono di gran momento. I
Governatori erano tenuti a mandare all'Imperadore ogni famosa sentenza,
che usciva dal loro tribunale; sicchè se Pilato non ne lo informava,
doveva temere il gastigo dovuto alla mancanza del suo uffizio. E non era
meglio prevenire e giustificarsi di proprio pugno, facendo cadere tutta
la colpa sopra i sediziosi Giudei? Tiberio, ch'era _irreligioso_, dette
molti esempi di animo superstiziosissimo: e potè costringere il Senato a
ricevere tra gli Dei un savio della Giudea per mortificare quella
_servile adunanza_. Il Senato potè _opporglisi_, sicuro del suffragio
del popolo, ed appoggiato all'antica legge, che proibiva l'introduzione
di ogni culto straniero: e Tiberio che progettò, non comandò, potè
desistere da un impegno difficile, e farne occulta vendetta. Potè pure
proteggere i Cristiani contro l'accennata legge, e contro l'altra
spettante ai maleficj, benchè niuno ancora avesse fatte leggi
_particolari_ contro il Cristianesimo. Il Mosemio che agita questa
controversia di critica, dice che le _adotte ragioni non possono
facilmente distruggersi_.

Il miracolo della _legione fulminante_ è sostenuto validamente da gran
numero di Scrittori, che non possono tacciarsi di mancanza di critica.
Insegnano essi, che se quello fu vero miracolo, dee necessariamente
attribuirsi al vero Dio; e quale viene descritto dagli stessi Pagani,
non può richiamarsi alla forza delle cagioni naturali. Insegnano, che la
colonna Antonina, nella quale la grazia si ascrive a Giove ed a Mercurio
fu eretta da' Pagani, i quali certamente dovevano contrastare ai
Cristiani la liberazione dell'esercito. L'unica difficoltà che meriti
considerazione si è il vedere, che quest'Imperadore perseguitò i
Cristiani dopo il riferito miracolo. Ma Houtteville crede d'aver
chiaramente dimostrato, che nel testo di Eusebio debbasi leggere l'anno
7 in vece di 17 per collocare la persecuzione prima dell'avvenimento: e
soggiunge, che supponendo autentica la data d'Eusebio, la persecuzione
deve ascriversi ai Sacerdoti, ai Magistrati, al popolo, così altamente
infuriati contro i Cristiani a dismisura cresciuti, che neppure
rispettavano la volontà del Principe.

      Articolo quinto. Intervalli di pace goduti dalla Chiesa.

Non è nostro intendimento di seguire l'Autore, che come abbiamo
osservato ha orribilmente sconvolto l'ordine de' tempi, e facendo
calcoli poco esatti, e poco veridici, trova or qua or là lunghi
intervalli di pace. Confuteremo alla rinfusa i suoi errori, con mettere
sotto l'occhio del lettore le semplici date de' tempi, seguendo le
tracce del Mosemio, che non può essere a lui sospetto, come quegli, che
gli ha fornita lo maggior parte della materia, onde ha empito questo
capo.

La Chiesa nacque nella Giudea, e nacque nella persecuzione, che spesso
da S. Luca vien detta _magna_. Passata appena nel regno dell'Idolatria
sotto lo stesso Tiberio, i Cristiani, oscuramente conosciuti, venivano
puniti in virtù di due leggi stabilite da molto tempo nell'Impero contro
i culti stranieri, e contro i maleficj. Abbiamo fondamento di credere,
che Tiberio accordasse la sua protezione ai seguaci dell'Evangelio, ma
eglino non si lodano di Caligola e di Claudio, come di quello. Le
predette leggi sotto costoro servivano di pretesto ai sacerdoti, ai
filosofi, al popolo di perseguitare i Cristiani.

Nerone nel decimo anno del suo regno fu indubitatamente il primo a
dichiarare la persecuzione che durò 4 anni quanti egli ne sopravvisse.
Galba regnò 7 mesi, poco meno Ottone, e 15 Vitellio, che fu sempre in
guerra con Vespasiano, il quale governò 10 anni, e 2 Tito. I nominati
Principi non fecero editti di persecuzione; ma ella si esercitava
tacitamente e diveniva più violenta a misura che i progressi del
Cristianesimo recavano maggior gelosia e timore ai cultori degl'Idoli.

Domiziano che resse l'Impero 15 anni solamente, negli ultimi pubblicò il
suo editto contro i Cristiani, che fu rivocato o da lui stesso o da
Nerva, il quale diede alla Chiesa due anni di respiro. La persecuzione
di Traiano durò 19 anni, prima più ampia in vigore delle antiche leggi,
e poi più ristretta, ma renduta regolare e stabile dal di lui rescritto.
Sulle di lui orme camminò Adriano nel principio del suo governo: in
seguito mitigò, ma non abolì il sistema del suo predecessore; sicchè ne'
21 anni della sua amministrazione la Chiesa fu da non pochi Martiri
illustrata. Antonino Pio lasciò per qualche tempo vessare i Cristiani a
discrezione de' lor nemici: ma poi commosso dalle rappresentanze di un
Ministro fece il famoso editto ad _commune Asiae_, per reprimere però
solamente la temerità ed il gran numero degli accusatori: egli tenne 23
anni il comando. Marco Aurelio senza far nuove leggi, continuò la
persecuzione, che in alcune province fu atrocissima, e cessò di vivere
dopo 19 anni di principato. Anche ne' 13 anni di Commodo, che non fu
persecutore, si trovavano de' Martiri. Severo piuttosto protesse i
Cristiani a principio: ma al 5 anno si rivoltò e fece editti espressi
contro di loro: sedè egli sul trono 18 anni. Anche i principj di
Caracalla furono macchiati del sangue de' Martiri: in appresso si
rallentò la tempesta; e tutto il suo governo fu di 6 anni.

A Caracalla successe Macrino, il cui regno fu di 1 anno, e passò ad
Elagabalo, che lo tenne 3 anni. Egli protesse i Cristiani più per la
follia de' suoi pensamenti che per inclinazione verso loro. Alessandro
Severo, che visse 13 anni, amò i Cristiani: se non che il famoso
Giureconsulto Ulpiano loro nemico per intimorire l'Imperadore raccolse
tutte le leggi pubblicate sino allora contro la Chiesa; ciò che fece
nascere molte vessazioni. Massimiano in tre anni che visse, fu sempre
persecutore. Gordiano che non afflisse i Cristiani, morì dopo 6 anni di
governo. Quello di Filippo durò 5 anni e fu loro favorevole. Ma Decio,
il quale dichiarò di nuovo la persecuzione, la rese tanto funesta che il
tempo delle passate procelle poteva sembrar tempo di calma. Egli regnò 4
anni, e 3 Gallo, che proseguì con minor rigore la persecuzione.
Valeriano, che da prima si prestò favorevole ai Cristiani in progresso
gli perseguitò per 4 anni. Gallieno restituì loro la pace, sebbene
imperfettamente: egli visse 8 anni, e 2 Claudio, sotto cui pure le cose
Cristiane furono abbastanza tranquille. Aureliano nel quinto anno del
suo governo rinnovò la persecuzione, e morì appena che l'ebbe
incominciata.

Siamo giunti a Diocleziano, e possiamo dire senza timore di esagerare,
che la Chiesa sino a lui non fu un momento libera dalla persecuzione.
Dieci Principi le fecero aperta guerra: alcuni la guardarono con
indifferenza, ed alcuni altri la protessero. Ma la persecuzione
indiretta era un fuoco perpetuo, mantenuto dall'interesse de' Sacerdoti
e dalla superstizione del popolo; niuno de' Principi meno nemici del
nome Cristiano osò di estinguere questo foco. Basta questa sola
riflessione a convincersi, che la _persecuzione_, la _ripugnanza_, la
_moderazione_, _i lunghi intervalli di pace_ sono parti dell'accesa
fantasia del Panegirista de' persecutori.

Del resto, quando vogliano chiamarsi tempi di pace gl'intervalli che
passarono tra una ed un'altra delle persecuzioni dirette ed espresse con
nuove leggi, ognuno sa, che un anno di guerra distrugge la popolazione
di un secolo. Come la Chiesa invece di andarsi debilitando prendesse
maggior lena e vigore a segno che sotto l'ultimo persecutore dovè
impegnare l'Idolatria ed opporsi con tutte le forze (ed ogni sforzo fu
vano) al suo totale esterminio, attendiamo, che lo spieghi l'Autore col
suo sistema delle _cagioni naturali de' progressi del Cristianesimo_.

Egli si trattiene molto sulla persecuzione di Diocleziano; e questa è
un'epoca ch'esige anche da noi una particolare attenzione.

      Della persecuzione di Diocleziano.

RISTRETTO. _Il sistema di Diocleziano fu per più di 18 anni favorevole
ai Cristiani, che si erano prodigiosamente moltiplicati, e godevano
gl'impieghi i più importanti. I Pagani allora fecero gli ultimi sforzi,
ed i Sacerdoti inventarono nuovi prodigi e chiamarono in soccorso i
nuovi Platonici. Diocleziano e Costanzo non amavano di allontanarsi
dalle massime della tolleranza, ma Massimiano e Galerio si dichiararono
contro i Cristiani, prendendone motivo dall'imprudente zelo dei
medesimi, come apparisce dagli esempi di Massimiliano di Affrica e del
Centurione Marcello. Dopo la guerra di Persia riuscì a Galerio d'indurre
Diocleziano a cominciare la persecuzione, che crebbe per gradi. In forza
del primo editto le prigioni furono riempite di Ecclesiastici; cogli
altri la persecuzione fu estesa a tutti i Cristiani, e furono intimate
pene terribili a chi avesse sottratto un proscritto all'ira
degl'Imperadori. L'incendio apparso due volte nel palazzo di Nicomedia
intimorì altamente Galerio, che ne credè autori i Cristiani. Poichè
Diocleziano ebbe rinunciato l'Impero, i suoi Colleghi ora sospesero, ora
incalzarono la persecuzione secondo le circostanze, nelle quali si
trovavano. In Occidente Costanzo protesse i Cristiani dal furore del
popolo e dal rigor delle leggi. L'Italia e l'Affrica provarono una
persecuzione breve e violenta sotto Massimiano; mentre la ribellione di
Massenzio vi ricondusse improvvisamente la pace. Galerio poichè ebbe
l'Impero di tutto l'Oriente, ebbe campo di soddisfare la sua crudeltà
nella Tracia, nell'Asia, nella Siria, nella Palestina e nell'Egitto._

RISPOSTA. Quest'ultima persecuzione, che durò un intero decennio e fu
denominato _l'Era de' Martiri_, per la copia che ne morirono, si può
chiamare persecuzione ragionata, a differenza dell'altre, ch'erano state
accese piuttosto da un subitaneo furore, o dalla natia fierezza de'
Principi, che da fredda e riflettuta politica. Insinua non oscuramente
l'Autore che i Cristiani stessi, che per gran pezzo erano stati protetti
e beneficati da Diocleziano, l'obbligassero ad armar la destra in loro
danno con fatti scandalosi e superbi, che distruggevano i principj della
disciplina militare, e cita in prova di ciò i due esempi di
_Massimiliano_ e di _Marcello_. Ma questo tratto di storia, che
immediatamente precedè l'esaltazione del Cristianesimo, è così luminoso,
che non si dee durar fatica a dissipare le torbide nebbie con cui si
sforza egli di oscurarlo.

I veri motivi della persecuzione furono due, l'uno fu l'ultimo sforzo
della superstizione e dell'interesse de' Sacerdoti, l'altro fu la
smisurata ambizione di Galerio: il primo è toccato dall'Autore, che
passa totalmente sotto silenzio il secondo.

Vedendo i Sacerdoti, che malgrado una guerra ch'era durata tre secoli,
il Cristianesimo era divenuto presso che da per tutto la Religione
dominante; che gli eserciti erano pieni di soldati Cristiani; che i
Cristiani occupavano le principali cariche della Corte Imperiale; che i
Cristiani avevano pubblici tempj e godevano il favore dei Principi,
facilmente congetturarono, che se uno de' quattro padroni del mondo si
fosse dichiarato Cristiano, l'idolatria sarebbe irreparabilmente andata
in rovina, e temendo in Diocleziano più che in altri, tal mutazione, il
pericolo parve loro sì grande, che non potesse rimoversi, se non con
isforzi straordinarj.

Diocleziano era ignorante e superstizioso: dunque i Sacerdoti fecero
parlar un oracolo contro i Cristiani, ed apparir segni infausti nelle
vittime a cagion dei Cristiani. Questi due artifizj commossero l'animo
del Principe che minacciò i Cristiani della sua Corte, e diede qualche
ordine per costringerli a sacrificare agli Dei: ma dominato dall'amor
della quiete, il suo sdegno appena acceso si estingueva; sicchè,
disperando i Sacerdoti di guadagnarlo, si rivolsero a Galerio, in cui
vedevano disposizioni più favorevoli.

Era Galerio rozzo, brutale, superstizioso all'eccesso; e dopo la guerra
di Persia era venuto in tanta superbia, che formò l'ambizioso progetto
di far perire i suoi Colleghi, e di godersi solo l'Impero. Costanzo
Cloro, minacciato di prossima morte dalle abituali sue infermità, non
gli dava gran pena, e la fortuna di Massimiano era appoggiata a quella
di Diocleziano; sicchè contro costui doveva egli tutte le sue macchine
indirizzare. Diocleziano, amando i Cristiani, n'era egualmente riamato,
ed il loro numero, e la loro potenza lo tenevano in sicuro di qualunque
attentato; onde Galerio non poteva perderlo, senza perder prima i
Cristiani: e perchè Diocleziano faceva nel comando la figura di capo,
come quegli, che aveva inventato il nuovo sistema, ed aveva chiamato a
parte dell'Impero gli altri tre Principi, bisognava ch'egli stesso fosse
lo strumento della persecuzione de' Cristiani.

Dunque il traditore, cautamente celando il suo vero disegno, assediava
continuamente le orecchie di Diocleziano, e tentava ogni mezzo
d'infiammare il di lui animo contro i Cristiani. Felici noi, e felice
lui, se penetrando le mire del nemico avesse seco temporeggiato per
politica, come aveva già fatto co' Sacerdoti per naturale freddezza!
Egli resistè buona pezza agli assalti; ma finalmente la istanza di
Galerio gli parve sì giusta, che non potesse con onore rigettarla.
Domandò Galerio, che si mettesse l'affare in deliberazione secretamente
con alcuni scelti Consiglieri; l'ottenne, e vinse. I Consiglieri furono
nominati da lui, e vedendolo correre a gran passi alla fortuna, ne
secondarono la intenzione.

Niuno degli antichi ha lasciato scritto ciò, che nel Consiglio si disse:
ciò non ostante il nostro Autore crede d'indovinarlo; egli suppone, che
i Ministri persuasero Diocleziano colle seguenti riflessioni: _Che non
doveva permettersi che sussistesse, e si moltiplicasse un popolo
indipendente, e numeroso nel cuore delle Province._ Ma Diocleziano si
lodava della ubbidienza, e del servizio de' Cristiani, che erano sparsi
per tutto, e vivevano subordinati alle leggi, contenti della libertà di
coscienza. Che i _Cristiani avevano formata una repubblica a parte, che
si poteva sopprimere, prima che acquistasse una forza militare_. Ma
Diocleziano avrebbe risposto, che questa era una fredda ripetizione. Che
_questa Repubblica già si governava colle proprie leggi, e co' propri
magistrati_: e ciò nello spirituale; nel temporale co' magistrati, e
colle leggi del Principe. Che _già possedeva un tesoro pubblico_. Tesoro
in sogno; le Chiese raccoglievano quotidianamente le oblazioni e
quotidianamente le distribuivano, secondo i canoni della disciplina.
_Che tutte le parti erano intimamente legate fra loro per mezzo delle
adunanze dei Vescovi_; cioè professavano la stessa credenza. Che _i loro
decreti erano ricevuti dalle numerose congregazioni con cieca credenza_:
nelle materie spettanti alla loro fede, Iddio volesse, che i nostri
nemici fossero entrati in queste considerazioni!

Ma lo spirito calunniatore del nostro Autore è contrario ai monumenti
più autentici della Storia. Imperciocchè le addotte accuse
giustificherebbero così bene la persecuzione, che i Principi per
rimuoverne tutta la odiosità, e far in se stessi risplendere l'amor del
ben pubblico, le avrebbero pomposamente spiegate nei loro editti, se si
fossero potuti lusingare, che alcuno vi avrebbe prestata credenza. Che
vuol dire, che non se ne fa neppur motto? Galerio in fine pubblicò
l'editto di rivocazione: in esso prese a giustificarsi, e dichiarò che
il suo disegno era stato di guarire la superstizione de' Cristiani, e di
ricondurli alla Religione degl'Idoli. Un Principe può purgarsi con
ragioni di Stato, e trascura un vantaggio così essenziale? Inoltre, è
noto, che Geroele Presidente della Bitinia fu uno de' Consiglieri, e lo
strumento principale della persecuzione: costui pubblicò due libretti
contro i Cristiani; Lattanzio, che ne dà l'estratto, non porge il minimo
indizio di sospettare ciò, che l'Autore gli ha fatto dire.

Cade qui in acconcio di spiegare i due esempi che egli suppone anteriori
alla persecuzione, e cagione ancora della medesima. Quando i Sacerdoti
fecero credere a Diocleziano, che nella vittima, ch'egli consultava, non
si trovavano i soliti segni, per la presenza de' Cristiani, il Principe
_milites ad nefanda sacrificia cogi praecepit_, come scrive Lattanzio.
Ma i soldati, piuttosto che sacrificare agl'Idoli, rinunciavano alla
milizia; ciò, ch'era permesso.

Ora negli atti del Ruinart citati dall'Autore il Centurione Marcello
così dice: _Se tale è la condizione di quelli che militano, che debbano
essere costretti a sacrificare agli Dei, ed agl'Imperadori, io getto a
terra il cingolo e l'armi_. Il Signor di Voltaire sopprimendo tutte le
circostanze ha narrato, che _Marcello in giorno di pubblica festa avendo
gettato a terra le insegne militari, dichiarò che al solo Cristo
ubbidiva_: e così potè soggiungere che _fu punito, come disertore, non
come Martire, e che si trattava di una legge militare, non di una guerra
di Religione_. Il nostro Autore lo ha copiato fedelmente con tutta la
citazione, benchè nelle altre sue ricerche consulti sempre gli
originali. Questo, e simili fatti, sieno accaduti prima, sieno accaduti
dopo la dichiarazione della persecuzione, altro non dimostrano, se non
che i Cristiani dediti alla milizia non volevano rinunciare alla propria
Religione.

Massimiliano di Affrica non può nella stessa guisa scusarsi: egli
dichiarò, che la sua coscienza non gli permetteva di appigliarsi al
mestiere delle armi. Ma quali sospetti poteva risvegliare nell'animo de'
Principi un fatto singolare, quando gran moltitudine di Cristiani
serviva attualmente negli eserciti?

Galerio si sforzò di far cadere sopra i Cristiani il sospetto del fuoco,
che si attaccò al palazzo: ma Diocleziano fece dare i tormenti a _tutti
i suoi_; e la sua Corte era composta di Cristiani, e di Gentili.
Costantino, che allora era nel palazzo di Nicomedia lo attribuisce ad un
fulmine; Lattanzio ne fa autore lo stesso Galerio. Siccome gl'incendj
furono due, così non è facile di mettere in chiaro le difficoltà, che ne
nascono; ma se noi non possiamo convincerne Galerio, così egli non potè
convincerne i Cristiani.

Si è detto, che la intera durata della persecuzione fu di 10 anni; ma
non sempre, nè da per tutto dello stesso tenore. Opinò Galerio da prima,
che i Cristiani si dovessero bruciar tutti vivi, e il suo avviso fu
rigettato con orrore. Diocleziano sempre abborrì il sangue, e non fu
strascinato sino all'eccesso, che a grado a grado. Ordinò col primo
editto la consegna de' libri sacri; così la tempesta si scaricò sopra i
soli Ecclesiastici, ma succedendosi di mano in mano gli editti, la
persecuzione divenne generale.

E ne' primi due anni fu violenta: la rinuncia di Diocleziano fu cagione
di qualche cambiamento: Costanzo, che ubbidiva con ripugnanza, rendè la
pace ai Cristiani suoi sudditi: Massenzio rivoltatosi contro Massimiano,
trasse nel suo partito i Cristiani di quella porzione d'Impero: ma
Galerio fece orribili stragi in tutto l'Oriente.

      Editto di Galerio per dare la pace alla Chiesa.

RISTRETTO. _Galerio afflitto da lunga e penosa malattia pubblicò un
editto, nel quale dichiarò ch'era intenzion sua di correggere e
ristabilir tutto secondo le antiche leggi e la disciplina pubblica de'
Romani; e di ricondurre nella via della ragione e della natura i delusi
Cristiani, che avevano abbandonata la Religione, e le ceremonie de' loro
maggiori; e che disprezzando presuntuosamente le pratiche
dell'antichità, avevano inventate leggi ed opinioni stravaganti secondo
i dettami del lor capriccio, ed avevano formate diverse società nelle
Province dell'Impero: ma che trovandoli tuttora ostinati nell'empia loro
follia permetteva loro di nuovo il libero esercizio della propria
Religione, purchè conservassero sempre il rispetto dovuto alle leggi, ed
al governo, e gli esortava a pregare il lor Dio per la sua salute, e per
la prosperità dell'Impero._

RISPOSTA. O l'Autore ha falsificato l'editto, o lo ha malamente tradotto
dal latino. Nell'originale non si nominano mai le _leggi_, sulle quali
tanto s'insiste nella traduzione. La _disciplina_ Romana che Galerio
voleva rimettere, significa, come lo avverte il Mosemio, la _Religione_.
Così Galerio suppone, che i Cristiani andavano contro la Religione
Romana, non contro le antiche leggi, e contro la disciplina civile. Nel
testo si legge, _ut Christiani, qui parentum suorum reliquerunt sectam,
ad bonas mentes redirent_; ed in fatti, i moderni platonici li
accusavano di essersi allontanati dal primo loro istituto. Le parole
_sectam parentum suorum_, chiarissime in se stesse, nella traduzione
esprimono, che i Cristiani avevano abbandonata la _Religione de' loro
maggiori Idolatri_, poichè soggiugne _disprezzando presuntuosamente le
pratiche dell'antichità, avevano inventate leggi, ed opinioni
stravaganti, secondo i dettami del loro capriccio, e che però i delusi
Cristiani si dovevano ricondurre nella via della ragione, e della
natura_. In verità bisogna avere una fronte molto intrepida, per portar
la impostura ad un segno tanto alto.

Conchiudiamo sopra Galerio, e sopra Diocleziano. Questo Principe fu
piuttosto sciocco, che crudele: e nella persecuzione servì di puro
strumento. Il vero Autore ne fu il primo, che per le stragi, e le
carneficine giunse al suo intento di ristabilire la monarchia
universale; ma anzichè poterne godere egli il frutto, morì dal dolore di
aver messo in libertà il giovane Costantino, a cui il cielo aveva
destinato il trono del Mondo. Ed i Sacerdoti Pagani, ch'eccitarono una
sì grave e sì lunga tempesta, per impedire, che alcuno de' Principi non
si dichiarasse cristiano, ottennero in premio delle loro fatiche, che la
temuta dichiarazione seguisse in Costantino, e che questi collocasse
nella sedia imperiale la croce di Gesù Cristo. Così la Providenza sa
impiegare le passioni degli uomini, per giungere a fini diametralmente
contrari a quelli, che essi si propongono.

      Relazione probabile de' patimenti de' Martiri, e de' Confessori.

RISTRETTO. _Eusebio, e Lattanzio declamano, ed esagerano i patimenti
sofferti da' Cristiani in questa persecuzione. Il primo si rende
sospetto, col dichiarare di scrivere tutto ciò che poteva ridondare in
gloria, e di aver soppresso tutto quello che poteva tendere al disonore
della Religione. Quando i Cristiani irritavano i Magistrati, egli è da
credere, che fossero trattati con rigore. Ma ordinariamente avveniva il
contrario; e ciò apparisce,_ 1. _da' Confessori condannati alle miniere,
dove avevano la libertà di formar cappelle per professarvi la loro
Religione:_ 2. _da' Vescovi, ch'erano obbligati a reprimere lo zelo
precipitato di coloro, che gettavansi volontariamente nelle mani de'
Magistrati, o per debiti, o per saziare la fame, o per espiare i lor
falli con una lunga carcerazione. Trionfato ch'ebbe la Chiesa sopra
tutti i suoi nemici, la vanità esagerò i patimenti de' Martiri, e 'l
potere del Clero accreditò le leggende piene di miracoli._

RISPOSTA. Dal prefiggersi Eusebio di non voler parlare delle _contese
precedenti alla persecuzione, e delle cadute, che si videro nella
persecuzione_, e di voler narrare soltanto _ciò, che poteva giustificare
i giudizj divini, e ciò, ch'era utile_ (così si legge nel testo) non
segue, che si fosse impegnato a mentire, ed esagerare. Ma l'Autore gli
fa dire, _che voleva scrivere tutto ciò che poteva ridondare in gloria
della Religione_.

I Confessori condannati alle miniere, si servivano delle caverne,
ch'egli chiama _cappelle_, per celebrarvi il culto divino. Dunque per
questa libertà il travaglio delle miniere era una pena leggiera. Il
ragionamento non è molto convincente.

I Vescovi erano costretti a frenare lo zelo precipitato di coloro, che
gettavansi volontariamente nelle mani de' Magistrali. Dunque i
Magistrati non li facevano molto patire. Questo secondo sillogismo
conchiude nella stessa guisa, che il primo.

I _debitori_, che si fanno carcerare da' Magistrati per la fede, col
pericolo di perdere la vita, per non farsi carcerare da' creditori, o
per non implorarne la clemenza; ed i _poveri_, ch'erano alimentati dalla
Chiesa senza bisogno di costituirsi in prigione, e che ciò non ostante
per saziare la fame si abbandonavano alla discrezione de' loro nemici,
che li bastonavano, e li costringevano a fare lunghi digiuni, sono
personaggi, che nel romanzo del Sig. Gibbon fanno una comparsa del tutto
singolare.

Quando voglia rigettarsi Eusebio senza motivo, un argomento certo, che
non _probabile_, degli orribili tormenti sofferti da' Martiri in tutte
le persecuzioni, e massimamente nell'ultima, può cavarsi dagli editti
medesimi degl'Imperadori. Traiano stabilì l'uso di dare i tormenti per
espugnare la costanza dell'animo, e siccome non prescrisse alcuna
misura, dovevano crescere quelli, quanto era questa più salda. Decio
ordinò ai Ministri, che inventassero nuovi generi di supplicj: e Traiano
fulminò gravissime pene contro que' Gentili, che avessero sottratto un
Cristiano al suo sdegno. Oltre ciò, l'odio ragionato de' Sacerdoti, e
l'occulto disegno di Galerio, che non poteva condursi a fine senza
distruggere i Cristiani, ci fanno abbastanza giudicare, se Lattanzio
debba passare per un declamatore, e per un falsario Eusebio.

      Del numero de' Martiri.

RISTRETTO. _Origene dichiara, che a suo tempo esisteva un piccolissimo
numero di Martiri. San Dionisio suo amico non numera, che_ 10 _uomini,
e_ 7 _donne uccise nella persecuzione di Decio nell'immensa Città di
Alessandria. Nella persecuzione di Diocleziano Eusebio riferisce, che_ 9
_Vescovi furono puniti di morte, e nella sua numerazione de' Martiri
della Palestina se ne trovano_ 92_. Ora la Palestina faceva la
sedicesima parte dell'Impero di Oriente: e supponendo ch'ella desse la
sedicesima parte di Martiri, eglino in tutto l'Oriente ascenderanno a
mille cinquecento, il qual numero diviso pe' dieci anni della
persecuzione darà_ 150 _Martiri per anno. Applicando la stessa
proporzione all'Occidente, dove dopo il terzo anno fu sospeso e abolito
il rigor delle leggi, i Cristiani fatti morire in tutto l'Impero saranno
poco meno di duemila. E siccome questa fu la più lunga e la più atroce
delle persecuzioni, il nostro calcolo moderato e probabile ci darà la
giusta idea de' Martiri degli altri tempi._

RISPOSTA. Nel passo di Origene, sul quale insiste il Dodwello, si dice,
che i _Martiri erano pochi, perchè Iddio non aveva voluto, che si
distruggesse la stirpe de' Cristiani_, e ciò indica, ch'egli considerò
il numero de' Martiri riguardo alla gran moltitudine de' Cristiani, non
in se stesso; ed in questo senso disse bene, _esser piccolo_.

San Dionisio numera 17 Martiri, non determinatamente, non escludendo gli
altri, ma trascegliendo i più illustri.

Così pure va inteso Eusebio; e basta dare una scorsa alla sua Storia
della persecuzione, e far attenzione all'espressioni che adopra in
descriverla, per rimanerne convinto.

Il calcolo formato sopra i Martiri della Palestina si fonda sopra due
supposizioni, l'una falsa, e l'altra non provata. Che i Martiri ivi
costituissero la _sedicesima parte_ de' Cristiani, non è provato neppure
per congettura. E che Eusebio nominandone 92 intenda parlare
esclusivamente, si è veduto, ch'è falso; e vuolsi aggiungere, che nel
luogo stesso, dice, che in ogni _provincia la moltitudine de' Martiri fu
innumerabile_; e parlando della Tebaide riflette, che _in un sol giorno
ne furono tanti decapitati, che il ferro perdè il taglio, e gli
esecutori si succedevano per la stanchezza l'uno all'altro_.

Del resto, abbiamo gli editti de' persecutori; ed abbiamo gli Atti
sinceri de' Martiri, da' quali, ancorchè se ne detragga un terzo, sempre
ne resterà un numero prodigioso.

Terminiamo col Mosemio, Autore a lui famigliare: _Essere non pochi, ma
molti quelli, che, per tre secoli e più, sostennero la morte per Cristo,
è noto per gravissime testimonianze, e di parole, e di cose. Ma è anco
fuori di dubbio, doversi detrarre un piccolo numero dall'immenso
esercito di Martiri, che predicano egualmente i Greci ed i Latini. Non è
da dispregiarsi l'opinione del Dodwello, se si determini così._ I
Martiri sono molto più pochi di quello, che crede il volgo. _Nè al
contrario è da dispregiarsi l'opinione degli avversari, se si prenda in
questo senso._ I Martiri sono in molto maggior numero di quello, che
stima il Dodwello.


RIASSUNTO

In questo capo si è lungamente ragionato sulle cagioni della
persecuzione colla mira di vedere, se ne restino giustificati gli
Autori. La prima cagione fu la _natura intollerante_ della Religione
Cristiana, che obbligava i seguaci a rinunziare al _culto nazionale_. La
seconda fu la falsa accusa di _ateismo_, o per dir meglio, di
superstizione, e _chimeriche speculazioni_. La terza le _assemblee
Cristiane_ che, celebrandosi in secreto, risvegliavano ne' Gentili
sinistri sospetti. La quarta i _costumi de' Cristiani_ di atroci
calunnie macchiati. E la quinta obbliata dall'Autore, l'attaccamento de'
Pagani alla Idolatria.

Noi le abbiamo tutte ad una ad una richiamate ad esame; ed abbiamo
trovato, non essersi l'Autore ingannato nell'attribuire alla loro forza
la persecuzione. Bensì, lungi dal poter esse formare difesa alcuna dei
Gentili, ne manifestano anzi a chiare note la ingiustizia. Imperciocchè
quello, che si supponeva, era onninamente falso: e per diritto naturale
non può alcun suddito condannarsi, senza esaminare, se meriti supplicio.
Ora i persecutori trascurarono per tre secoli di adempire a questo
dovere essenziale della legge di natura.

Siamo indi passati a considerare, se dalla storia delle persecuzioni
risultino i quattro articoli dall'Autore proposti: cioè se veramente la
Chiesa _istette molto_ ad essere perseguitata: se i persecutori usarono
_precauzione_, e _ripugnanza_ nel far le leggi di proscrizione, e
nell'eseguirle; se nell'uso delle pene furono _moderati_, e se la
Religione provò vari considerabili intervalli di _pace_.

La Storia in vece di questi quattro articoli ci ha dimostrati
chiaramente avverati gli opposti; perocchè la Chiesa nacque nella
persecuzione, ed andò sempre crescendo nella persecuzione: prima fu
assalita da' Giudei nella Palestina, poi in Roma da' Politeisti, in
forza di due antiche leggi: in seguito, senza mai cessare questa
persecuzione indiretta, dieci Imperadori fino a Costantino fecero contro
il Cristianesimo editti espressi di tormenti e di morte.

In vece della _precauzione_ e _della ripugnanza_ la Storia ci ha
dimostrato, che non si conobbe dalla maggior parte nè misura, nè
ritegno, e che in vece della _moderazione_ regnò per tutto la rabbia e
la barbarie.

_Intervalli di pace_ tra una, ed un'altra persecuzione se ne rinvengono;
poichè tra tanti Imperadori, che riempirono la serie di tre secoli,
dieci soltanto fecero leggi contro di noi. Se non che, la persecuzione
indiretta tenuta sempre accesa da' Sacerdoti, da' Filosofi, dal popolo,
non ci permise mai di respirare; e troviamo ancora de' Martiri sotto
que' Principi stessi, che ci accordarono la loro protezione.

Abbiamo finalmente posta in chiaro la persecuzione di Diocleziano, che
fu l'ultima, e durò un decennio, dove abbiamo veduto, con quanto vani
sofismi l'Autore si è sforzato di oscurare i _patimenti_ de' Cristiani,
e di annichilare il numero de' _Martiri_. Quale giustificazione risulti
da tutto ciò, per rendere meno orribile la condotta de' Pagani contro di
noi, lo giudichi il lettore.

      Confronto tra l'un Capo, e l'altro.

L'edificio della verità debbe essere tale, che le parti, ond'è composto,
sieno insieme, e si corrispondano con perfetta armonia. Quando manca
questa; quando le parti hanno ripugnanza tra loro sicchè la presenza
dell'una escluda la presenza delle altre, a questo segno manifestamente
si riconosce la macchina della menzogna. Avendo in tanto sottoposto ad
esame tutto quello, ch'è piaciuto all'Autore di comunicare al pubblico
sopra la Religione Cristiana, facciamo l'ultimo passo, ch'è quello di
confrontare l'un capo coll'altro.

E primieramente, confrontando disegno con disegno, ne salta agli occhi
la contraddizione. Nel primo caso si vogliono spezzare i progressi del
Cristianesimo per cagioni naturali, e ciò in diversi termini vuol dire,
che i Gentili erano naturalmente portati ad abbracciarlo, sia per la
propria disposizione, sia per l'indole della Religione Evangelica. Nel
secondo si prende a dimostrare che dalle cagioni provenienti dall'indole
(almeno apparente) della Religione, e dalle disposizioni de' Politeisti,
erano costoro naturalmente spinti a perseguitarla, e tanto naturalmente,
che l'Autore, il quale li giustifica, è persuaso, che avessero avuto
ragione. Or noi lo preghiamo a collegare insieme queste due idee. Ma
diamo una rapida scorsa alle parti costituenti le due macchine.

Il Cristianesimo, si dice nel primo capo, fu naturalmente abbracciato
per lo zelo esclusivo, o sia intollerante de' Cristiani medesimi. Ma
nell'altro capo si sostiene, che l'intolleranza de' Cristiani, per la
quale essi abbandonavano il culto nazionale, pareva ai Politeisti un
peccato nuovo, straordinario, irremissibile; e che questa fu la prima
cagione, che li determinò naturalmente alla persecuzione. L'Autore avrà
la bontà di combinare.

Ivi la seconda cagione de' progressi del Cristianesimo si suppose essere
la dottrina dell'immortalità con tutto il suo apparato. Ma qui si
riferisce, che i Pagani rigettavano il prezioso dono dell'immortalità
offerta da Gesù Cristo, e ne desideravano la risurrezione; e quanto
all'opinione dell'imminente fine del mondo, che si chiamò ivi in
soccorso dell'immortalità, qui si dice; che sì fatte predizioni movevano
a sdegno i Gentili, e facevano loro temere, che non si sollevasse
qualche pericolo all'Impero, tanto più grave, quanto più oscura era la
setta de' Cristiani. Noi non possiamo conciliare queste cose.

Intorno all'attività de' miracoli, avendo trovata una patente
contraddizione nel medesimo luogo, dove si suppongono falsi, ed insieme
operanti vere e numerose conversioni, non abbiamo bisogno di confrontar
capo con capo. Nè il secondo ne tratta, e dovrebbe trattarne, giacchè
sarebbe stata giusta cagione di persecuzione, se i Politeisti fossero
stati convinti, o avessero potuto provare che i Cristiani erano tanti
impostori.

Quanto all'altra pretesa cagione di progressi, riposta nella morale
Cristiana, abbiamo veduto, dove se n'è parlato, come è una gran
ripugnanza il dire, che la morale Cristiana agli occhi de' Gentili
pareva contraria alla natura, ed al bene dello Stato, e che nel medesimo
tempo eglino erano da essa naturalmente determinati ad abbracciarla. Ma
nell'altro capo vi ha di più: vi ha, che la morale de' Cristiani era
tacciata di ateismo, d'infanticidj, di pranzi di carne umana, d'incesti,
e che queste false accuse formavano uno dei motivi della persecuzione.
Senza dubbio qui a rischiarare le tenebre abbisognano molte idee
intermedie, tralasciate, per supplirsi dalla sagacità degl'interpreti.

In quel capo si pretese, che la unione, e la disciplina Ecclesiastica
contribuì alla dilatazione della Chiesa. In questo la unione de'
Cristiani, che aveva la forma, e la forza di una grande Repubblica
confederata risveglia la gelosia del governo; le adunanze Cristiane
sembrano sospette, i seguaci di Gesù Cristo erano accusati di spirito
d'indipendenza, e per questo venivano perseguitati. Come concilieremo
queste idee?

Finalmente in un capo si rappresentano i Sacerdoti degl'Idoli, come
persone indolenti, che lasciano fare ai Cristiani, quanto lor piace:
nell'altro i Sacerdoti infiammano il popolo, i Sacerdoti chiamano in
soccorso i Filosofi, i Sacerdoti inventano nuovi oracoli, e nuovi
prodigi, affin di perdere i Cristiani. Ed il popolo, che si supponeva
caduto nello scetticismo, e che aveva già scossa l'autorità delle
maraviglie della Mitologia, e che per certa conseguenza che fa l'Autore,
così disposto a ricevere le maraviglie autentiche dell'Evangelio, per
tre secoli infierisce contro i Cristiani, con sediziosi clamori li
chiede alla morte contro le leggi del Principe, e si mostra tanto
dominato dallo spirito di accusa, che parecchi sono costretti a
reprimerlo colle più forti minacce.

Un uomo dell'Antichità fu tacciato d'incostanza, e fu posto in derisione
con un bel verso a tutti noto.

_Destruit, aedificat, mutat quadrata rotundis._

Il Signor Gibbon fa di più; pretende, che stiano insieme le rovine e gli
edifizi, i quadrati ed i circoli.

Ecco il libro contro il quale nessun Apologista, a parere di alcuni,
doveva osare di scrivere. Noi non abbiamo fatto, che compendiare o per
dir meglio sfiorare una Opera, nella quale tutto è pacatamente, e
secondo la sua naturale estensione esaminato. Dal poco, che ci è stato
lecito di presentare al pubblico, ci ripromettiamo, che i due capi del
Signor Gibbon, che riguardavano la Religione, saranno per l'avvenire
meglio letti da chi vorrà parlarne con fondamento: ma lasciando
all'autore della Opera gli applausi, che merita, noi siamo contenti di
aver in parte contribuito alla utilità de' lettori.

FINE.



CAPITOLO XVII.

      _Fondazione di Costantinopoli. Sistema politico di Costantino e
      de' suoi successori. Disciplina militare. Corte e Finanze._


Il disgraziato Licinio fu l'ultimo rivale, che si oppose alla grandezza
di Costantino, e l'ultimo prigioniero, che ne adornò il trionfo. Dopo un
prospero e tranquillo regno, il conquistatore lasciò erede la sua
famiglia del Romano Impero, di una nuova capitale, d'un nuovo governo, e
di una nuova religione; e le innovazioni, che egli fece, furono adottate
e riguardate con venerazione da quelli che gli succedettero. Il secolo
di Costantino Magno e de' suoi figli è pieno d'importanti avvenimenti;
ma l'Istorico resterebbe oppresso dal numero e dalla varietà de'
medesimi, se diligentemente non separasse l'uno dall'altro i successi,
che non hanno altra connessione fra loro che quella dell'ordine de'
tempi. Dovrà egli dunque descrivere quei politici stabilimenti, che
dieder forza e consistenza all'Impero, avanti di procedere a riferir le
guerre e le rivoluzioni, che ne accelerarono la decadenza. Dovrà far uso
della divisione fra gli affari civili e gli ecclesiastici, non
conosciuta dagli antichi: la vittoria poi e l'interna discordia de'
Cristiani somministreranno copiosi e distinti materiali, tanto
d'edificazione quanto di scandalo.

[A. D. 324]

Dopo la disfatta e la deposizione di Licinio, il vittorioso di lui
rivale s'applicò a gettare i fondamenti di una città destinata ad essere
in futuro la dominante dell'Oriente, ed a sopravvivere all'Impero ed
alla religione di Costantino. I motivi o d'orgoglio o di politica, che a
principio indussero Diocleziano a ritirarsi dall'antica sede del
governo, avevano acquistato maggior peso per l'esempio de' suoi
successori, e per la consuetudine di quarant'anni. Roma si era
insensibilmente confusa co' regni dipendenti, che ne avevano una volta
riconosciuto il dominio; e la patria de' Cesari si riguardava con fredda
indifferenza da un Principe marziale nato nelle vicinanza del Danubio,
educato nelle Corti ed armate dell'Asia, ed investito della porpora
dalle legioni della Britannia. Gl'Italiani, che ricevuto avevano
Costantino come loro liberatore, umilmente obbedivano agli editti,
ch'esso qualche volta si compiaceva d'indirizzare al Senato ed al Popolo
Romano; ma di rado venivan onorati dalla presenza del nuovo loro
Sovrano. Nel vigore della sua età, Costantino, secondo le varie
occorrenze di guerra o di pace, muovevasi ora con lenta dignità, ora con
attiva diligenza lungo le frontiere de' suoi vasti dominj; ed era sempre
apparecchiato ad entrare in battaglia tanto contro gli esterni, che
contro gl'interni nemici. Ma come egli giunse, di grado in grado, al
sommo della prosperità e ad un'età più matura, incominciò a pensare di
stabilire la forza e la maestà del Trono in una più durevole sede.
Volendo scegliere una situazione vantaggiosa, preferì a qualunque altra
quella, che serve di confine fra l'Asia e l'Europa, tanto per domare con
potenti armi i Barbari, che abitavano tra il Danubio ed il Tanai, quanto
per osservare con occhio geloso la condotta del Re di Persia, che di mal
animo soffriva il giogo d'un ignominioso trattato. Con tali mire avea
Diocleziano scelta per sua residenza, ed abbellita Nicomedia; ma la
memoria di Diocleziano era con ragione abborrita dal protettor della
Chiesa, e Costantino non era insensibile all'ambizione di fondare una
città, che potesse perpetuar la gloria del proprio suo nome. Nel tempo
delle ultime operazioni militari contro Licinio, ebbe bastante
opportunità di esaminare, come soldato non meno che come politico,
l'incomparabile posizione di Bizanzio, e di osservare quanto era
fortemente guardato quel luogo dalla natura contro gli attacchi de'
nemici, mentr'era da ogni parte accessibile a' vantaggi del commercio.
Molti secoli prima di Costantino, uno de' più giudiziosi Storici
dell'antichità[187] avea descritto i vantaggi di una situazione, dalla
quale ad una debole colonia di Greci era provenuto il comando del mare e
l'onore di una florida ed indipendente Repubblica[188].

Se consideriamo Bizanzio nell'estensione che acquistò coll'augusto nome
di Costantinopoli, può rappresentarsene la figura come di un triangolo
di lati disuguali. L'angolo ottuso, che s'avanza verso l'oriente ne'
lidi dell'Asia, affronta e rispinge i flutti del Bosforo Tracio. Il lato
settentrionale della città è circondato dal porto, ed il meridionale è
bagnato dalla Propontide o dal mar di Marmora. La base del triangolo è
all'occidente, e serve di confine al continente d'Europa. Ma senza una
più ampia spiegazione non può con sufficiente chiarezza intendersi
l'ammirabile forma e divisione delle terre e delle acque, che sono
all'intorno della città.

Quel tortuoso canale, per cui con rapido e continuo corso le acque
dell'Eussino scorrono verso il Mediterraneo, fu chiamato _Bosforo_, nome
non meno celebre nell'istoria che nelle favole dell'Antichità[189]. Una
gran quantità di tempj e di altari votivi, sparsi lungo quegli scoscesi
e selvosi lidi non fa che dimostrar l'imperizia, i terrori e la
devozione de' Greci naviganti, che seguitando l'esempio degli Argonauti
andarono esplorando i pericoli dell'inospito Eussino. Su quelle spiagge
la tradizione conservò lungo tempo la memoria del palazzo di Fineo,
infestato dalle oscene arpie[190], e del silvestre regno di Amico, che
sfidò il figlio di Leda alla pugna del cesto[191]. Lo stretto del
Bosforo ha per termini gli scogli Cianei, che una volta, secondo la
descrizione de' Poeti, galleggiavano sulla superficie dell'acque; ed
erano dagli Dei destinati a difendere l'ingresso dell'Eussino dalla
profana curiosità[192]. Dagli scogli Cianei fino al capo ed al porto di
Bizanzio la girevole lunghezza del Bosforo si estende circa a sedici
miglia[193], e la più comune di lui larghezza può computarsi circa un
miglio e mezzo. Le _nuove_ fortezze d'Europa e d'Asia furon fabbricate
nell'uno e nell'altro continente su' fondamenti de' due celebri tempj di
Serapide e di Giove Urio. Le _antiche_, le quali son opera
degl'Imperatori Greci, dominano la parte più stretta del canale, in un
luogo dove gli opposti lidi si accostan fra loro fino alla distanza di
cinquecento passi. Queste fortezze furono restaurate e fortificate da
Maometto II. quando meditava l'assedio di Costantinopoli[194]; ma il
conquistatore Turco probabilmente ignorava che Serse, quasi duemila anni
prima di lui, aveva scelto il medesimo luogo per unire, mediante un
ponte di barche, i due continenti[195]. Ad una piccola distanza dalle
antiche fortezze si scuopre la piccola città di Crisopoli, o Scutari,
che può quasi risguardarsi come il subborgo Asiatico di Costantinopoli.
Quando il Bosforo incomincia a farsi strada verso la Propontide, passa
fra le due città di Bizanzio e di Calcedone. Quest'ultima fu fabbricata
dai Greci, pochi anni avanti la prima; e la società de' fondatori di
essa, i quali non videro la più vantaggiosa situazione dell'opposto
lido, ha dato luogo ad una proverbiale espressione di disprezzo verso di
loro[196].

Il porto di Costantinopoli, che si può considerare come un braccio del
Bosforo, nella più remota antichità ebbe il nome di _corno d'oro_. La
curva, ch'esso descrive, si può assomigliare al corno d'un cervo, o
verisimilmente con più proprietà a quello d'un bove[197]. L'epiteto
d'_aureo_ esprimeva le ricchezze, che qualunque vento portava dalle più
distanti regioni nel sicuro ed ampio porto di Costantinopoli. Il fiume
Lico, formato dall'unione di due piccioli torrenti, versa perpetuamente
nel porto una quantità d'acqua nuova, che serve a purgarne il fondo, e
ad invitare delle periodiche turme di pesci a ritirarsi in quel
conveniente recinto. Siccome in que' mari appena si sentono le vicende
delle maree, la costante profondità del porto fa che le mercanzie
possano scaricarsi ne' magazzini senza aiuto di battelli; ed è stato
osservato, che in molti luoghi possono i più grossi vascelli appoggiare
le prore alle case, mentre le loro poppe si stan movendo
nell'acqua[198]. Questo braccio del Bosforo, dall'imboccatura del Lico
fino a quella del porto, è lungo più di sette miglia. L'entratura è
larga circa cinquecento braccia, e nelle occasioni vi si può tirare
attraverso una forte catena per guardare il porto e la città dagli
attacchi d'una flotta nemica[199].

Tra il Bosforo e l'Ellesponto, recedendo l'una dall'altra per ambe le
parti le spiagge dell'Europa e dell'Asia, contengono fra loro il mar di
Marmora, che dagli antichi si chiamava Propontide. La navigazione, dalla
fine del Bosforo fino al principio dell'Ellesponto, è di circa cento
venti miglia. Quelli, che fan vela verso ponente nel mezzo della
Propontide, possono scorgere nel tempo stesso le alture della Tracia e
della Bitinia, e non perdere mai di vista l'alta cima del monte Olimpo,
coperta d'eterna neve[200]. A sinistra lasciano un profondo golfo, nel
mezzo del quale era situata Nicomedia, Imperial residenza di
Diocleziano; e prima di gettar l'ancora a Gallipoli, passano le piccole
isole di Cizico e di Proconneso, dove il mare, che separa l'Europa
dall'Asia, di nuovo si stringe in un angusto canale.

I Geografi, che hanno esaminato con la più esatta intelligenza la forma
e l'estensione dell'Ellesponto, assegnano a quel celebre Stretto la
lunghezza di circa sessanta miglia di tortuoso corso, ed intorno a tre
miglia d'ordinaria larghezza[201]. Ma la parte più stretta del canale si
trova al settentrione delle antiche fortezze Turche, fra le città di
Sesto e d'Abido. In questo luogo l'ardito Leandro s'espose al passaggio
del mare per posseder la sua bella[202]. Qui fu parimente che in un
luogo, dove la distanza fra gli opposti lidi non può eccedere i 500
passi, Serse costruì uno stupendo ponte di barche per trasportare in
Europa un milione e settecentomila Barbari[203]. Un mare, contenuto
dentro sì stretti limiti, male sembra, che meritar possa il singolar
epiteto di _largo_, che Omero ugualmente che Orfeo hanno frequentemente
dato all'Ellesponto. Ma le nostre idee di grandezza son relative: un
viaggiatore, e specialmente un poeta, che naviga lungo l'Ellesponto, che
va seguitando i giri del canale, e contempla quel teatro di campagne,
che da ogni parte par che ne terminino il prospetto, insensibilmente
perde la memoria del mare, e la sua fantasia gli dipinge quel celebre
stretto con tutte le qualità d'un gran fiume, che scorre dolcemente in
mezzo alle piante di una mediterranea campagna, e che finalmente per una
larga bocca si scarica entro il mar Egeo, od Arcipelago[204]. L'antica
Troia[205], situata sopra un'eminenza a piè del monte Ida, dominava la
bocca dell'Ellesponto, il quale appena dimostrava di ricevere un aumento
d'acque dal tributo di quegl'immortali ruscelli del Simoenta e dello
Scamandro. Il campo de' Greci occupava dodici miglia lungo la spiaggia
del promontorio Sigeo sino al Reteo; ed i fianchi dell'esercito eran
guardati da' più bravi capitani, che combattevano sotto gli stendardi
d'Agamennone. Nel primo di que' promontorj trovavasi Achille con
gl'invincibili suoi Mirmidoni, e l'intrepido Aiace aveva piantate le sue
tende sull'altro. Dopo che Aiace si fu sacrificato al suo orgoglio mal
corrisposto ed all'ingratitudine de' Greci, gli fu eretto il sepolcro in
quel luogo, dove aveva difesa la flotta dal furore di Giove e d'Ettore;
ed i cittadini della nuova città di Reteo celebravano la sua memoria con
onori divini[206]. Costantino, prima che si risolvesse a dar giustamente
la preferenza alla situazione di Bizanzio, avea concepito il disegno
d'eriger la sede dell'Impero in quel celebre luogo, dal quale i Romani
traevano la favolosa origine loro. A principio fu scelta per la nuova
capitale quell'estesa pianura, che giace sotto l'antica Troia verso il
promontorio Reteo ed il sepolcro d'Aiace, e quantunque tal impresa fosse
tosto abbandonata, i grandiosi avanzi che vi restarono delle mura e
delle torri non terminate, chiamarono la curiosità di tutti coloro che
navigarono per lo Stretto dell'Ellesponto[207].

Adesso noi siamo in grado di conoscere la vantaggiosa positura di
Costantinopoli, che sembra essere stata dalla natura formata apposta per
riuscire la capitale ed il centro d'una gran monarchia. L'Imperial
città, situata nel grado 41 di latitudine, dominava dai suoi sette
colli[208] i lidi opposti dell'Europa e dell'Asia; il clima era salubre
e temperato; il terreno fertile; il porto sicuro e capace; e l'accesso
dalla parte di terra di piccola estensione e di facil difesa. Il Bosforo
e l'Ellesponto si possono risguardare come le due porte di
Costantinopoli, ed il Principe, ch'era padrone di que' passi tanto
importanti, poteva sempre tenerli chiusi ai vascelli nemici ed aperti al
commercio. Può in qualche modo attribuirsi la conservazione delle
Province orientali alla politica di Costantino, in quanto che i Barbari
dell'Eussino, che avanti di lui avevano sparse le loro armate navali nel
cuore del Mediterraneo, ben presto desisterono dall'esercitar la
pirateria, disperando di poter forzare quell'insormontabile ostacolo.
Quando eran chiuse le porte dell'Ellesponto e del Bosforo, la capitale
in tale spazioso recinto poteva sempre godere di tutti i prodotti, atti
a supplire a' bisogni, od a soddisfare il lusso dei numerosi suoi
abitatori. Le coste marittime della Tracia e della Bitinia, che
languiscono sotto il peso dell'oppressione de' Turchi, presentano
tuttavia un ricco prospetto di giardini, di vigne, e di abbondanti
raccolte; e la Propontide è stata in ogni tempo famosa per
l'inesauribile quantità del pesce più squisito, che si prende in certe
determinate stagioni senza che vi sia bisogno d'arte veruna e quasi
senza fatica[209]. Ma quando si aprivano al commercio i due passi dello
Stretto, questi a vicenda accoglievano le naturali ed artificiali
ricchezze del settentrione e del mezzodì, dell'Eussino e del
Mediterraneo. Tutte le naturali produzioni, che si raccoglievano nelle
foreste della Germania e della Scizia, fino alle sorgenti del Tanai e
del Boristene; tutto ciò che si lavorava dalle arti dell'Europa e
dell'Asia; il grano d'Egitto, le gemme e le spezierie dell'India la più
remota, si trasportavano da' diversi venti nel porto di Costantinopoli,
che per molti secoli attrasse il commercio dell'antico mondo[210].

Il prospetto della vaghezza, della salubrità e della dovizia, raccolte
in un sol luogo, era sufficiente a giustificar la scelta di Costantino.
Ma siccome gli uomini hanno in ogni età supposto che una decente
mescolanza di prodigio e di favola rifletta un maestoso decoro sopra
l'origine delle grandi città[211], così l'Imperatore desiderava
d'ascrivere la sua risoluzione non tanto agl'incerti consigli dell'umana
politica, quanto agl'infallibili ed eterni decreti della Divina
Sapienza. Egli ha avuta la cura di far sapere alla posterità in una
delle sue leggi, ch'esso gettò i sempre durevoli fondamenti di
Costantinopoli per ubbidire a' comandi di Dio[212]; e sebbene non abbia
voluto riferire in qual maniera gli fosse comunicata l'inspirazione
celeste, tuttavia è stato ampiamente supplito al difetto del suo modesto
silenzio dall'ingenuità de' posteriori scrittori, i quali descrivono la
notturna visione, che presentossi alla fantasia di Costantino nel tempo
che dormiva dentro le mura di Bizanzio. Il genio tutelare della città,
vale a dire una venerabil matrona, cadente sotto il peso degli anni e
delle infermità, venne trasformata ad un tratto, in una florida
fanciulla, che fu dalle sue proprie mani adornata con tutti i simboli
dell'Imperiale grandezza[213]. Destossi il Monarca, interpretò il fausto
augurio, ed obbedì, senza esitare, al volere celeste. Da' Romani si
celebrava il giorno dell'origine d'una città o Colonia con tali
ceremonie, quali si erano stabilite da una generosa superstizione[214];
e quantunque Costantino potesse ometter que' riti, che troppo sapevano
d'origine Pagana, pure vivamente desiderava di lasciare una profonda
impressione di speranza e di rispetto negli animi degli spettatori.
L'Imperatore stesso, a piedi, con una lancia in mano, conduceva la
solenne processione, e dirigeva la linea che si tirava per limite della
nuova capitale, fintanto che s'incominciò ad osservare con istupore
dagli astanti la gran circonferenza di essa, ed essendosi alcuni di loro
finalmente avventurati ad avvertirlo, che aveva già oltrepassato il più
vasto circuito di una gran città, «Io proseguirò sempre avanti (replicò
Costantino ) fintanto che _Egli_, l'invisibil guida, che cammina avanti
di me, non crederà a proposito di fermarsi»[215]. Senza presumere
d'investigar la natura o i motivi di questo condottiero straordinario,
ci contenteremo della più umil cura di descrivere l'estensione ed i
limiti di Costantinopoli[216].

Nello stato in cui presentemente si trova la città, il palazzo ed i
giardini del Serraglio occupano il promontorio di levante, ch'è il primo
de' sette colli; e contengono circa cento cinquanta acri della nostra
misura[217]. Si è costruita su' fondamenti d'una Repubblica Greca la
sede della gelosia e del dispotismo Turco, ma è da supporsi che i
Bizantini fosser tentati, dalla comodità del porto, ad estendere le loro
abitazioni da quella parte oltre i moderni confini del Serraglio. Le
nuove mura di Costantino s'estesero dal porto fino alla Propontide,
attraverso la maggior larghezza del triangolo, alla distanza di quindici
stadi dalle antiche fortificazioni; ed inclusero nel loro recinto,
insieme con la città di Bizanzio, cinque de' sette colli, che agli occhi
di quelli che s'avvicinano a Costantinopoli, par che in bell'ordine
s'innalzino l'uno sopra dell'altro[218]. Circa un secolo dopo la morte
del fondatore, le nuove fabbriche, slargandosi da un lato sul porto e
dall'altro lungo la Propontide, già occupavano l'angusta cima del sesto
e l'ampia sommità del settimo colle. La necessità di proteggere que'
sobborghi dalle continue incursioni de' Barbari, impegnò Teodosio il
Giovane a circondare la sua capitale con un conveniente e durevol
recinto di mura[219]. La maggior larghezza di Costantinopoli, dal
promontorio orientale alla porta d'oro, era di circa tre miglia
Romane[220]. La circonferenza comprendeva fra le dieci e le undici
miglia; e può considerarsene l'area come uguale a circa duemila acri
Inglesi. Egli è impossibile di giustificare le credule e vane
esagerazioni de' viaggiatori moderni, che alle volte hanno esteso i
confini di Costantinopoli ai circonvicini villaggi della costa d'Europa
ed anche dell'Asia[221]. Ma i sobborghi di Pera e di Galata, quantunque
situati fuori del porto, possono meritar di considerarsi come una parte
della città[222]; e tal aggiunta può forse autorizzar la misura d'un
Istorico Bizantino, che assegna per circonferenza della sua patria
sedici miglia Greche (corrispondenti a circa quattordici delle
Romane)[223]. Sembra che tal estensione non fosse indegna d'una sede
Imperiale. Pure Costantinopoli dovè cedere in grandezza a Babilonia ed a
Tebe[224], all'antica Roma, a Londra, ed anche a Parigi[225].

Il dominatore del mondo Romano, che aspirava ad erigere un eterno
monumento delle glorie del proprio regno, poteva impiegare, nell'eseguir
quella grand'opera, le ricchezze, il travaglio, e tutto il gusto, che in
quel tempo restava, di tanti milioni di sudditi. Si può formar qualche
idea della spesa, che impiegò nella fabbrica di Costantinopoli la
liberalità Imperiale, dell'essersi accordati circa due milioni e
cinquecentomila lire per la costruzione delle mura, de' portici e degli
acquedotti[226]. Le selve, che adombravano i lidi del Ponto Eussino e le
famose cave di marmo bianco della piccola isola di Proconneso,
somministrarono una inesauribile quantità di materiali, facili ad esser
trasportati per la comodità di un breve tragitto al porto di
Bizanzio[227]. Da un gran numero di lavoranti e di artefici con
travaglio continuo si faceva ogni sforzo per condurre a termine l'opera;
ma l'impaziente Costantino ben presto conobbe, che nella decadenza delle
arti la perizia ed il numero degli architetti, che aveva, eran troppo
sproporzionati alla grandezza dei suoi disegni. Fu dunque ordinato a'
Magistrati delle più distanti province di erigere scuole, di stabilire
professori, e d'impegnare, colla speranza de' premj e de' privilegi,
allo studio ed alla pratica dell'architettura un numero sufficiente di
giovani d'ingegno, educati liberalmente[228]. Le fabbriche della nuova
città furono eseguite da quegli artefici, che potea dare il regno di
Costantino; ma furono però decorate dalle opere dei più celebri maestri
del tempo di Pericle e di Alessandro. Il poter far rivivere il genio di
Fidia e di Lisippo sorpassava in vero la forza d'un Imperator Romano; ma
le immortali produzioni, ch'essi lasciate avevano alla posterità, furono
senza difesa esposte alla rapace vanità di un despota. Per ordine di
esso le città della Grecia e dell'Asia spogliate vennero de' più
pregevoli loro ornamenti[229]. I trofei di memorabili guerre, gli
oggetti di religiosa venerazione, le statue più perfette degli Dei e
degli Eroi, dei Sapienti e dei Poeti dell'Antichità contribuirono allo
splendido trionfo di Costantinopoli, e dieder luogo a quella riflessione
dell'Istorico Cedreno[230], il quale osserva con qualche entusiasmo, che
niente altro pareva mancare, salvo gli animi degli uomini illustri, che
da quegli ammirabili monumenti venivano rappresentati. Ma non è già
nella città di Costantino, e nel decadente periodo d'un Impero, allorchè
la mente umana trovavasi oppressa dalla schiavitù così civile, come
religiosa, che cercarsi dovevano le anime d'un Omero e d'un Demostene.

Nel tempo dell'assedio di Bizanzio aveva il conquistatore piantato la
propria tenda sulla dominante eminenza del secondo colle. Per eternare
pertanto la memoria del suo buon successo, destinò per il Foro
principale[231] quel medesimo vantaggioso luogo, che sembra essere stato
di figura circolare o piuttosto elittica. Due archi trionfali ne
formavano gli opposti due ingressi; i portici, che lo circondavano da
ogni parte, erano pieni di statue; e nel centro del Foro s'alzava una
sublime colonna, un mutilato frammento del quale indica ora la sua
degradazione col nome di _Colonna bruciata_. Questa colonna posava sopra
un piedistallo di marmo bianco, alto venti piedi, ed era composta di
dieci pezzi di porfido, ciascuno de' quali aveva l'altezza di circa
dieci piedi, e la circonferenza di circa trenta tre[232]. Nella sommità
della colonna, alla distanza di sopra 120 piedi da terra, fu collocata
una statua colossale d'Apollo. Essa era di bronzo, ed era stata
trasportata o da Atene o da qualche città della Frigia, supponendosi che
fosse opera di Fidia. L'Artefice avea rappresentato il Dio del giorno, o
come fu interpretato dipoi, l'Imperator Costantino medesimo con uno
scettro nella destra, col globo del mondo nella sinistra, e con una
corona di raggi lucenti sul capo[233]. Il Circo, o l'Ippodromo era una
magnifica fabbrica, lunga circa quattrocento passi, e larga cento[234].
Lo spazio fra le due _mete_ o guglie era pieno di statue e di obelischi;
e possiamo ancora osservare un frammento molto singolare d'antichità,
vale a dire i corpi di tre serpenti avviticchiati ad una colonna di
rame. I loro tre capi una volta servivano a sostenere il tripode d'oro,
che i Greci vittoriosi dopo la disfatta di Serse consacrarono nel tempio
di Delfo[235]. La bellezza dell'Ippodromo è stata dopo lungo tempo
sfigurata dalle rozze mani de' conquistatori Turchi; ma tuttavia
ritenendo il nome d'_Atmeidan_, che indica presso a poco l'istesso,
serve di luogo d'esercizio pei loro cavalli. Dal trono, donde
l'Imperatore godeva i giuochi circensi, per una scala a chiocciola[236]
scendeva esso nel palazzo, ch'era un edificio magnifico, il quale appena
cedeva alla residenza dell'istessa Roma, ed insieme con i cortili,
giardini o portici adiacenti occupava una considerabil estension di
terreno su' lidi della Propontide fra l'Ippodromo e la Chiesa di S.
Sofia[237]. Dovremmo in simil guisa far menzione dei bagni, che
seguitarono a ritenere il nome di Zeusippo, dopo che dalla munificenza
di Costantino arricchiti furono d'alte colonne di varj marmi, e di sopra
sessanta statue di bronzo[238]. Ma devieremmo dal proposito di
quest'istoria, se volessimo descriver minutamente le diverse fabbriche e
quartieri della città. Servirà in generale avvertire, che nelle mura di
Costantinopoli fu compreso tutto ciò che adornar poteva la dignità di
una gran capitale, o contribuire all'utile o al piacere de' numerosi di
lei abitanti. In una particolar descrizione di essa, composta circa
cent'anni dopo la sua fondazione, si trovano un campidoglio o scuola di
studi, un circo, due teatri, otto bagni pubblici e cento cinquanta tre
privati, cinquanta due portici, cinque granai, otto acquedotti o
conserve d'acqua, quattro spaziose sale per le adunanze del Senato, o
de' Tribunali di giustizia, quattordici chiese, quattordici palazzi, e
quattromila trecento ottantotto case, che per la loro struttura e
bellezza meritavano d'esser distinte dalla moltitudine delle abitazioni
plebee[239].

Il secondo, e più serio oggetto dell'attenzione del fondatore fu la
popolazione della sua favorita città. Ne' secoli tenebrosi, che
successero alla traslazion dell'Impero, furono stranamente confuse fra
loro le remote colle immediate conseguenze di quel memorabile
avvenimento dalla vanità de' Greci e dalla credulità de' Latini[240]. Fu
asserito e creduto, che tutte le famiglie nobili di Roma, il Senato,
l'Ordine equestre con tutti i loro innumerabili dipendenti avean
seguitato l'Imperatore alle spiagge della Propontide; che fu lasciata
una razza spuria di stranieri e di plebei a posseder la solitudine della
vecchia capitale; e che le terre d'Italia, che da gran tempo eran
divenute giardini, restaron tutto ad un tratto spogliate di coltivatori
e di abitanti[241]. Nel corso di quest'istoria tali esagerazioni si
ridurranno al giusto loro valore; pure, siccome l'accrescimento di
Costantinopoli non può attribuirsi al generale aumento dell'uman genere
o della industria, conviene ammettere, che questa colonia artificiale
s'innalzò a spese delle antiche città dell'Impero. Furono probabilmente
invitati da Costantino molti opulenti Senatori di Roma e delle Province
Orientali ad abbracciare per patria quella fortunata regione, che egli
avea scelta per sua residenza. Gl'inviti d'un Principe difficilmente si
posson distinguere da' comandi; e la liberalità dell'Imperatore
facilmente e di buona voglia fu secondata. Egli donò a' suoi favoriti i
palazzi, che avea fabbricati ne' diversi quartieri della città, assegnò
loro, per sostenere il proprio decoro, varie terre e pensioni[242], ed
alienò i fondi pubblici del Ponto e dell'Asia per concedere in vece
stati ereditari, colla facile condizione di mantenere una casa nella
capitale[243]. Ma ben presto tali obbligazioni ed incoraggiamenti
divenner superflui, e furono a grado a grado aboliti. Dovunque si
stabilisce la sede del Governo, ivi si spende una parte considerabile
delle pubbliche rendite dal Principe stesso, da' suoi Ministri, dagli
Offiziali di giustizia e da' Cortigiani. Vi sono attratti i provinciali
più ricchi dai potenti motivi dell'interesse e del dovere, del
divertimento e della curiosità. Si forma insensibilmente una terza
classe anche più numerosa di abitatori da' servi, dagli artefici, e da'
mercanti, che ritraggono la sussistenza dal proprio lavoro, e da'
bisogni o dal lusso delle classi più elevate. In meno d'un secolo
Costantinopoli contendeva coll'istessa Roma intorno alla superiorità
delle ricchezze e della popolazione. Nuovi edifizi, ammucchiati insieme
con poco riguardo alla salute o alla decenza, lasciavano appena lo
spazio di anguste strade per la perpetua folla di uomini, di cavalli e
di carriaggi. Il terreno, in principio destinato per la città, non era
più sufficiente a contenere il popolo che sempre cresceva, e le sole
fabbriche aggiuntevi, che si avanzavano dall'una e dall'altra parte nel
mare, potevan formare una città molto considerabile[244].

Le frequenti e regolari distribuzioni di vino e di olio, di grano o di
pane, di danaro o di provvisioni avevano quasi liberato i cittadini più
poveri di Roma dalla necessità di lavorare. Il fondator di
Costantinopoli volle in qualche maniera imitar la magnificenza de' primi
Cesari[245]; ma per quanto la sua liberalità eccitasse l'applauso del
popolo, essa è incorsa nella censura de' posteri. Un popolo di
legislatori e di conquistatori avea ben diritto alle raccolte
dell'Affrica, la quale si era conquistata col di lui sangue; ed Augusto
immaginò con grand'arte, che i Romani, godendo dell'abbondanza, perduta
avrebbero la memoria della libertà. Ma non può scusarsi la prodigalità
di Costantino per alcuna considerazione nè di pubblico, nè di privato
vantaggio; e l'annuale tributo di grano, imposto sopra l'Egitto in pro
della nuova sua capitale, impiegavasi a nutrire una pigra ed insolente
plebaglia a spese degli agricoltori d'un'industriosa Provincia[246]. Vi
sono alcuni altri regolamenti di quest'Imperatore meno biasimevoli, ma
che non meritano che se ne faccia menzione. Esso divise Costantinopoli
in quattordici rioni, o quartieri[247], decorò col nome di Senato il
Consiglio pubblico[248], comunicò i privilegi d'Italia a'
cittadini[249], e diede alla nascente città il titolo di Colonia, e di
prima e più favorita figlia dell'antica Roma. La venerabile madre
mantenne sempre la legittima e riconosciuta superiorità, che dovevasi
all'età, alla dignità ed alla memoria della sua prima grandezza[250].

Costantino faceva proseguir l'opera con l'impazienza di un amante; onde
in pochi anni, o come altri racconta, in pochi mesi[251] fur terminate
le mura, i portici ed i principali edifizi; ma tale straordinaria
diligenza ecciterà meno la maraviglia, se rifletteremo che molte
fabbriche furono finite così precipitosamente e con tali mancanze, che
al tempo del successore si dovettero con difficoltà preservare
dall'imminente ruina[252]. Si possono facilmente supporre i giuochi e le
largità, che decorarono la pompa di questa memorabile festa; ma v'è una
circostanza più singolare e permanente, che non deve interamente
omettersi. Ogni anno, nel giorno natalizio della città, si collocava
sopra un carro trionfale la statua di Costantino formata per suo ordine
di legno dorato, che teneva nella destra una piccola immagine del Genio
del luogo. Le guardie, vestite de' loro più ricchi abiti e portando in
mano dei bianchi ceri, accompagnavano la solenne processione, che girava
per l'Ippodromo. Quando era giunta dirimpetto al trono dell'Imperatore
regnante, questi si alzava, e con grata riverenza adorava la memoria del
suo predecessore[253]. Nella solennità della dedicazione per mezzo d'un
editto inciso in una colonna di marmo, si diede alla città di Costantino
il titolo di _Seconda_ o di _Nuova Roma_[254]. Ma il nome di
Costantinopoli[255] prevalse a quell'onorevole epiteto: e dopo il corso
di quattordici secoli tuttavia continua la fama dell'autore di
essa[256].

La fondazione di una nuova capitale è naturalmente connessa con lo
stabilimento di una nuova forma di amministrazione sì civile che
militare. Un distinto esame del complicato sistema di politica
introdotto da Diocleziano, migliorato da Costantino, e perfezionato
dagl'immediati di lui successori, può non solo dilettare la fantasia con
la singolar pittura d'un grande Impero, ma servirà eziandio ad
illustrare le segrete ed interne cause della rapida sua decadenza. Nella
considerazione di altri rilevanti stabilimenti, possiamo essere spesso
condotti a' più antichi o a' più moderni tempi della storia Romana; ma i
limiti propri della presente ricerca saran compresi dentro il periodo di
circa centotrent'anni, cioè dall'avvenimento al trono di Costantino,
sino alla pubblicazione del _Codice Teodosiano_[257]; dal quale,
ugualmente che dalla _Notizia dell'Oriente e dell'Occidente_[258],
trarremo le più copiose ed autentiche istruzioni dello stato
dell'Impero. Questa varietà d'oggetti sospenderà per qualche tempo il
corso della narrazione: ma tal interrompimento sarà criticato soltanto
da que' lettori, che non sentono la importanza delle leggi e de'
costumi, quando con avida curiosità leggono gl'intrighi passeggieri
d'una Corte o l'accidental evento d'una battaglia.

Il virile orgoglio de' Romani, contento della potenza effettiva, aveva
lasciato alla vanità dell'Oriente la formalità e le ceremonie d'una
fastosa grandezza[259]. Ma, quando essi perdettero anche l'ombra di
quelle virtù, che nascevano dall'antica lor libertà, la semplicità dei
costumi Romani restò insensibilmente corrotta dalla tumida affettazione
delle Corti dell'Asia. Dal dispotismo degl'Imperatori abolite furono le
distinzioni del merito e del carattere personale, che son tanto cospicue
in una Repubblica, e così deboli ed oscure in una Monarchia; in luogo
loro fu sostituita una severa subordinazione di gradi, e di uffizi,
dagli schiavi titolati, che sedevano sugli scalini del trono, sino a'
più vili strumenti dell'arbitrario potere. Questa moltitudine di sudditi
abbietti aveva interesse di assicurare l'attual governo dal timore d'una
rivoluzione, che ad un tratto avrebbe potuto confonder le loro speranze,
ed impedire il premio de' lor servigi. In questa _Divina Gerarchia_
(giacchè in tal modo essa è frequentemente chiamata) veniva indicato con
la più scrupolosa esattezza ogni grado, e se ne spiegava la dignità con
una quantità di frivole e solenni ceremonie, la cognizione delle quali
richiedeva uno studio, ed era un sacrilegio l'ometterle[260]. Fu
corrotta la purità della lingua Latina, ammettendosi nell'uso continuo
della vanità e dell'adulazione un'abbondanza d'epiteti, che Tullio
avrebbe appena intesi, e che Augusto avrebbe rigettati con isdegno. I
primi uffiziali dell'Impero venivano salutati, anche dal Sovrano
medesimo, co' bugiardi titoli di vostra _Sincerità_, vostra _Gravità_,
vostra _Eccellenza_, vostra _Eminenza_, vostra _sublime ed ammirabil
Grandezza_, vostra _illustre e magnifica Altezza_[261]. Le lettere o sia
Patenti del loro uffizio erano curiosamente ripiene di quegli emblemi,
ch'eran più adattati a spiegarne la natura e la dignità; come sarebbero
l'immagine, o il ritratto del regnante Imperatore, un carro trionfale,
il libro delle costituzioni posto sopra una tavola, coperto d'un ricco
tappeto, ed illuminato da quattro ceri, le allegoriche figure delle
Province da governarsi, o i nomi e le insegne delle truppe, che si
dovevan comandare. Alcuni di questi simboli d'uffizio erano realmente
collocati nel luogo dove davasi udienza: altri precedevano il loro
pomposo treno, allorchè comparivano in pubblico, ed ogni circostanza del
lor portamento, dell'abito, degli ornati, e del corteggio era diretta ad
ispirare una profonda venerazione per quelli, che rappresentavano la
Maestà Suprema. Il sistema del governo Romano da un filosofico
osservatore potrebbe prendersi per uno splendido teatro, pieno di attori
di ogni grado e carattere, che ripetevano il linguaggio, ed imitavano le
passioni del loro originale[262].

Furono accuratamente distinti in tre classi tutti quei magistrati,
ch'erano di sufficiente importanza da meritar d'aver luogo nello stato
generale dell'Impero. Questi erano gli _Illustri_, gli _Spettabili_ o
_Rispettabili_, ed i _Clarissimi_, che si possono esprimer dagl'Inglesi
colla parola _onorevoli_. Ne' tempi della Romana semplicità,
quest'ultimo epiteto serviva solo per indicare una indeterminata
espressione di deferenza, fin tanto che in progresso divenne il titolo
particolare e proprio di tutti quelli, ch'erano membri del Senato[263],
ed in appresso di coloro, che da quel venerabil corpo venivano eletti
per governar le Province. Molto tempo dopo si condiscese alla vanità di
quelli, che in forza del loro grado ed uffizio potevan pretendere una
maggior distinzione sopra il resto dell'ordine Senatorio col nuovo
titolo di _Rispettabili_: ma quello d'_Illustri_ fu sempre riservato ad
alcuni personaggi eminenti, che dalle altre due classi si riverivano ed
obbedivano come superiori. Esso fu comunicato soltanto 1. a' Consoli ed
a' Patrizj; 2. a' Prefetti del Pretorio, ed a quelli di Roma e di
Costantinopoli; 3. a' Generali di cavalleria e d'infanteria; e 4. a'
sette ufficiali del palazzo, ch'esercitavano le lor sacre funzioni
intorno alla persona dell'Imperatore[264]. Fra quegl'illustri
Magistrati, che si stimavano del medesimo grado, l'anzianità nel posto
cedeva il luogo alla riunione di più dignità[265]. Gl'Imperatori, che
desideravano di moltiplicare i loro favori, potevano alle volte coll'uso
de' codicilli onorarj soddisfare la vanità, ma non l'ambizione de'
cortigiani impazienti[266].

I. Fintanto che i Consoli Romani furono i primi magistrati d'uno Stato
libero, dall'elezione del popolo nasceva il diritto ch'essi avevano
d'esercitare la lor potestà; e fintanto che gl'Imperatori condiscesero a
mascherare la servitù, che imponevano a Roma, i Consoli continuarono ad
esser eletti da' voti o reali o apparenti del Senato. Ma sino dal regno
di Diocleziano furono aboliti anche questi vestigi di libertà, ed i
felici candidati, che venivano insigniti degli annuali onori del
Consolato, affettavan di deplorare l'umiliante condizione de' loro
predecessori. Gli Scipioni ed i Catoni eran ridotti a sollecitare i voti
de' plebei, a sostenere le gravi e dispendiose formalità d'una elezione
popolare, e ad esporre la lor dignità alla vergogna di un pubblico
rifiuto; laddove il loro più fortunato destino gli avea serbati ad un
secolo e ad un governo, in cui si dispensavano i premj della virtù
dall'infallibil sapienza di un grazioso Sovrano[267]. Dichiaravasi nelle
lettere, cui l'Imperatore spediva a' due Consoli eletti, ch'essi erano
stati creati per la sola di lui autorità[268]. I loro nomi e ritratti,
incisi sopra tavolette d'avorio dorate, si spargevano per l'Impero come
presenti, che facevansi alle Province, alle Città, a' Magistrati, al
Senato ed al Popolo[269]. Si faceva la solenne loro inaugurazione
dov'era la residenza Imperiale, e per lo spazio di centovent'anni Roma
fu continuamente priva della presenza degli antichi suoi
magistrati[270]. La mattina del primo di Gennaio, i Consoli assumevano
le insegne della lor dignità. Si vestivano in tal occasione d'un abito
di porpora con ricami di seta e d'oro, ed alle volte con ornati di
sontuose gemme[271]. In questa solennità erano corteggiati da' più
eminenti uffiziali dello Stato e della milizia, in abito di Senatori; ed
i littori portavano avanti di loro gli inutili fasci, armati colle, una
volta, formidabili scuri[272]. La processione dal palazzo[273] andava al
Foro o piazza principale della città, dove i Consoli salivano sul lor
Tribunale, e si assidevano sulle sedie curuli, fatte all'usanza degli
antichi tempi. Essi esercitavano subito un atto di giurisdizione,
manumettendo uno schiavo, ch'era loro presentato per quest'effetto; e
tal ceremonia era diretta a rappresentare la celebre azione dell'antico
Bruto, autore della libertà e del Consolato, allorchè diede la
cittadinanza al fedel Vindice, che avea scoperta la cospirazione de'
Tarquinii[274]. La pubblica festa durava più giorni in tutte le città
principali, in Roma per costume, in Costantinopoli per imitazione; in
Cartagine, in Antiochia ed in Alessandria per amor del piacere, e per la
sovrabbondanza delle ricchezze[275]. Nelle due capitali dell'Impero gli
annuali giuochi del teatro, del circo e dell'anfiteatro[276] costavano
quattromila libbre d'oro, cioè intorno a trecento e ventimila zecchini;
e se una sì grave spesa oltrepassava le forze e la volontà de'
magistrati medesimi, si suppliva dal tesoro Imperiale[277]. Tosto che i
Consoli avevano adempiuto questi doveri di consuetudine, potevano
ritirarsi all'ombra della vita privata, e godere nel rimanente dell'anno
la tranquilla contemplazione della propria grandezza. Essi non
presedevano più alle adunanze della nazione, nè più eseguivano le
pubbliche determinazioni di pace o di guerra. Le loro facoltà (qualora
non fossero impiegati in altri uffizi di maggior efficacia) erano di
poco momento; ed i loro nomi non servivano che di legittima data per
l'anno, in cui avevano essi occupato il seggio di Mario e di Cicerone.
Contuttociò per altro si sentiva, e si confessava negli ultimi tempi
della schiavitù Romana, che questo vuoto nome poteva paragonarsi, ed
anche preferirsi al possesso della sostanzial potenza. Il titolo di
Console fu sempre l'oggetto più splendido dell'ambizione, ed il premio
più nobile della virtù e della fedeltà. Gli stessi Imperatori, che
disprezzavano la debole ombra della Repubblica, conoscevano di
acquistare maggior maestà e splendore ogni volta che assumevano gli
annuali onori della dignità consolare[278].

La più superba e perfetta divisione, che possa trovarsi in ogni tempo o
paese fra i nobili e la volgar gente, è forse quella de' patrizi e de'
plebei, quale fu stabilita ne' primi tempi della Repubblica Romana. I
primi possedevano quasi esclusivamente le ricchezze e gli onori, le
cariche dello Stato e le ceremonie della religione: e con la più
insultante gelosia[279] conservando essi la purità del lor sangue,
tenevano i loro clienti in una specie di coperto vassallaggio. Ma queste
distinzioni, tanto incompatibili con lo spirito d'un popolo libero,
furono dopo lungo dibattimento abolite, mediante i continui sforzi de'
Tribuni. I più attivi e fortunati fra' plebei accumulavano ricchezze,
aspiravano agli onori, meritavano Trionfi, contraevano parentele, e dopo
alcune generazioni assumevano l'orgoglio dell'antica nobiltà.[280] Le
famiglie patrizie, per lo contrario, il primitivo numero delle quali non
era stato accresciuto fino al termine della Repubblica, o mancarono
secondo l'ordinario corso di natura, o furono estinte in tante guerre di
fuori e domestiche, o per mancanza di merito o di fortuna
insensibilmente si frammischiarono con la massa del popolo[281]. Ben
poche ne rimanevano, che potesser dimostrare pura e genuina l'origine
loro fin dal principio della città o anche da quello della Repubblica,
quando Cesare ed Augusto, Claudio e Vespasiano dal corpo del Senato
prescelsero un numero competente di nuove famiglie patrizie, colla
speranza di perpetuare un ordine, che si considerava sempre come
onorevole e sacro[282]. Ma questi artificiali supplementi (ne' quali era
sempre inclusa la casa regnante) furono rapidamente tolti di mezzo dal
furore de' tiranni, dalle frequenti rivoluzioni, dal cangiamento de'
costumi e dalla mescolanza delle nazioni[283]. Quando Costantino salì
sul trono, poco più vi restava che una indeterminata ed imperfetta
tradizione, che i Patrizi erano stati una volta i primi fra' Romani.
Formare un corpo di nobili, l'influenza de' quali può restringere
l'autorità del Monarca nel tempo che l'assicura, sarebbe stato molto
incoerente al carattere ed alla politica di Costantino; ma quand'anche
si fosse da lui nutrito seriamente questo pensiero, avrebbe oltrepassato
i limiti del suo potere il ratificare con un editto arbitrario una
instituzione che aspettar dee la conferma dal tempo e dall'opinione.
Egli richiamò, è vero, a nuova vita il titolo di Patrizi; ma lo richiamò
come una distinzione personale non ereditaria. Essi non cedevano che
alla passeggiera superiorità de' Consoli annuali; ma godevano la
preeminenza sopra tutti i grandi uffiziali dello Stato col più
famigliare accesso alla persona del Principe. Fu dato loro
quest'onorevole dignità a vita; e siccome per ordinario essi erano
favoriti e ministri, che avevano invecchiato nella Corte Imperiale, così
dalla ignoranza e dall'adulazione fu pervertita la vera etimologia di
quel nome, ed i Patrizi di Costantino furono venerati come i padri
adottivi dell'Imperatore e della Repubblica[284].

II. Le vicende de' Prefetti del Pretorio furono totalmente diverse da
quelle de' Consoli e de' Patrizi; questi videro la loro antica grandezza
ridursi ad un vano titolo, quelli a grado a grado innalzandosi dalla
condizione più bassa, furono investiti dell'amministrazione sì civile
che militare del mondo Romano. Dal regno di Severo fino a quello di
Diocleziano si confidavano alla loro soprantendenza le guardie del
palazzo, le leggi e le finanze, le armate e le province; e come i Visir
dell'Oriente, con una mano essi tenevano il sigillo, e coll'altra la
bandiera dell'Impero. L'ambizione de' Prefetti sempre formidabile, e
qualche volta fatale a' signori medesimi a' quali servivano, era
sostenuta dalla forza delle truppe Pretoriane; ma dopo che quel superbo
corpo fu indebolito da Diocleziano, e finalmente soppresso da
Costantino, i Prefetti che sopravvissero alla caduta di quello, senza
difficoltà si ridussero alla condizione di utili ed obbedienti ministri.
Quando essi non furono più responsabili della sicurezza della persona
Imperiale, dimisero la giurisdizione, che avevano fino a quell'ora
preteso d'avere, e s'esercitarono in tutti i dipartimenti del palazzo.
Tosto che cessarono di condurre alla guerra sotto i loro ordini il fiore
delle truppe Romane, furono spogliati da Costantino d'ogni militar
comando; ed in ultimo i capitani delle guardie, per una singolare
rivoluzione, trasformati furono in civili magistrati delle province.
Secondo il sistema di governo stabilito da Diocleziano, ciascheduno de'
quattro Principi aveva il suo Prefetto del Pretorio, e dopo che la
Monarchia si fu di nuovo riunita nella persona di Costantino, egli
continuò a creare l'istesso numero di quattro Prefetti, ed alla lor cura
affidò le stesse province, ch'essi già amministravano, 1. Il Prefetto
dell'Oriente stendeva l'ampia sua giurisdizione alle tre parti del
globo, che eran sottoposte a' Romani, dalle cateratte del Nilo ai lidi
del Fasi, e dalle montagne della Tracia fino alle frontiere della
Persia; 2. Le importanti province della Pannonia, della Dacia, della
Macedonia e della Grecia riconoscevano una volta l'autorità del Prefetto
dell'Illirico; 3. La potestà del Prefetto dell'Italia non si ristringeva
soltanto al paese da cui prendeva il titolo, ma s'estendeva di più al
territorio della Rezia fino alle sponde del Danubio, alle dipendenti
isole del Mediterraneo ed a tutta quella parte del continente
dell'Affrica, che trovasi fra' confini di Cirene e quelli della
Tingitania: 4. Il Prefetto delle Gallie, sotto questa plurale
denominazione, comprendeva le contigue province della Britannia e della
Spagna, ed era obbedito, dalla muraglia d'Antonino fino al forte del
monte Atlante[285].

Dopo che i Prefetti del Pretorio furono dimessi da ogni militar comando,
le civili funzioni, che fu ordinato loro d'esercitare sopra tante
soggette nazioni, erano adequate all'ambizione ed all'abilità de' più
consumati ministri. Alla lor saviezza fu commessa l'amministrazione
suprema della giustizia e delle finanze; oggetti che in tempo di pace
comprendono quasi tutti i respettivi doveri del Sovrano e del popolo;
del primo per difendere i cittadini, che sono ubbidienti alle leggi; del
secondo per contribuire quella porzione di lor sostanze, che si richiede
per le spese dello Stato. Dall'autorità de' Prefetti del Pretorio si
regolavano il conio delle monete, le pubbliche strade, le poste, i
granai, le manifatture e tutto ciò, che interessar potea la pubblica
prosperità. Come immediati rappresentanti della maestà Imperiale avevan
la facoltà di spiegare, di ampliare, o qualche volta di modificare gli
editti generali per mezzo delle prudenziali loro dichiarazioni.
Invigilavano essi sulla condotta de' Governatori delle province,
deponevano i trascurati, e punivano i delinquenti. In ogni affar
d'importanza o civile o criminale si poteva appellare da qualunque
inferior tribunale a quello del Prefetto; ma le sentenze di esso eran
finali ed assolute, e gl'Imperatori medesimi ricusavano d'ammettere
alcuna querela contro il giudizio, o l'integrità di un magistrato,
ch'essi onoravano di tanto illimitato potere[286]. Il suo stipendio era
conveniente alla sua dignità[287]; e se era dominato dalla passione
dell'avarizia, gli si presentavano frequenti occasioni di fare una
doviziosa raccolta di gratificazioni, di presenti e di profitti d'ogni
genere. Quantunque gl'Imperatori non avessero più timore dell'ambizione
de' loro Prefetti, avevano però l'avvertenza di contrabbilanciare il
potere di questa gran carica con l'incertezza e la brevità della sua
durata[288].

Le sole città di Roma e di Costantinopoli, per causa della somma loro
dignità ed importanza, erano eccettuate dalla giurisdizione de' Prefetti
del Pretorio. L'immensa grandezza della città, e l'esperienza della
tarda ed inefficace azione delle leggi aveva somministrato alla politica
d'Augusto uno specioso pretesto d'introdurre in Roma un nuovo
Magistrato, che solo potesse tenere in freno una servile e turbolenta
plebaglia col forte braccio del potere arbitrario[289]. Per primo
Prefetto di Roma fu destinato Valerio Messala, affinchè la sua
riputazione favorisse un atto sì odioso; ma in capo a pochi giorni quel
buon cittadino[290] dimise il suo uffizio, dichiarando con un animo
degno dell'amico di Bruto, ch'egli si riconosceva incapace d'esercitare
un potere incompatibile colla pubblica libertà[291]. Quando incominciò a
divenir più debole il sentimento di libertà, si videro con più chiarezza
i vantaggi del buon ordine; ed al Prefetto, che sembrava esser destinato
solo per terrore degli schiavi e de' vagabondi, fu permesso d'estendere
la sua civile e criminale giurisdizione sulle famiglie nobili ed
equestri di Roma. I Pretori, che ogni anno creavansi come giudici della
legge e dell'equità, non poterono contrariar lungo tempo il possesso del
Foro ad un Magistrato vigoroso e permanente, che ordinariamente
ammettevasi alla confidenza del Principe. I lor tribunali erano
abbandonati, il loro numero, che altre volte era stato variamente fra i
dodici e i diciotto[292], fu appoco appoco ridotto a due o tre, e le
loro importanti funzioni si ristrinsero alla dispendiosa
obbligazione[293] di dare i giuochi per divertimento del Popolo. Dopo
che l'uffizio de' Consoli Romani si cangiò in una vana pompa, che rare
volte si sfoggiava nella capitale, i Prefetti presero il vacante lor
posto in Senato, e furono ben presto riconosciuti come i Presidenti
ordinari di quella augusta assemblea. Ricevevano essi gli appelli fino
alla distanza di cento miglia, e risguardavasi come un principio di
giurisprudenza, che da loro soli dipendeva tutta l'autorità
municipale[294]. Nell'esecuzione del suo laborioso impiego, era il
Governatore di Roma assistito da quindici uffiziali, alcuni de' quali in
origine erano stati uguali o anche superiori di esso. Le principali sue
incumbenze si riferivano al comando di una copiosa guardia, stabilita
per difender la città dagli incendi, da' rubamenti e da' notturni
disordini; alla custodia e distribuzione del grano e delle provvisioni
pubbliche; alla cura del porto, degli acquedotti, delle comuni cloache,
della navigazione e del letto del Tevere; ed all'inspezione sopra i
mercati; i teatri e le opere sì private che pubbliche. La lor vigilanza
risguardava i tre principali oggetti di una regolar polizia, vale a dire
la sicurezza, l'abbondanza e la mondezza della città; ed era destinato
un particolare inspettore per le statue in prova dell'attenzione del
governo a conservar lo splendore e gli ornamenti della Capitale: questi
era come un custode di quell'inanimato popolo, che secondo lo
stravagante computo d'un antico Scrittore, appena era inferiore di
numero a' viventi abitatori di Roma. Circa trent'anni dopo la fondazione
di Costantinopoli, fu creato anche in quella Capitale nascente un
magistrato simile al Prefetto di Roma per i medesimi usi, e colle
medesime facoltà; e fu stabilita una perfetta uguaglianza fra la dignità
de' _due_ Prefetti municipali, e de' _quattro_ del Pretorio[295].

Quelli, che nell'Imperial gerarchia distinguevansi col titolo di
_Rispettabili_, formavano una classe intermedia fra gl'_Illustri_
Prefetti e gli _Onorevoli_ Magistrati delle Province. In questa classe i
Proconsoli dell'Asia, dell'Acaia, e dell'Affrica pretendevano la
preeminenza, che accordavasi alla memoria dell'antica lor dignità; e
l'appello dal lor tribunale a quello de' Prefetti era quasi l'unico
segno di lor dipendenza[296]. Ma il governo civile dell'Impero era
distribuito in tredici ampie _Diocesi_, ognuna delle quali uguagliava la
giusta estensione di un potente Regno. La prima di queste diocesi era
sottoposta alla giurisdizione del _Conte_ d'Oriente; e si può formare
un'idea dell'importanza, e del numero delle sue funzioni col solo
riflettere che per l'immediato di lui uso erano impiegati seicento
apparitori, che ora si direbbero segretari, giovani assistenti o
messi[297]. Non era più occupato da un Cavalier Romano il posto di
_Prefetto Augustale_ d'Egitto: ma ne fu ritenuto il nome, e furon
continuate nel Governatore di quella diocesi le straordinarie facoltà,
che una volta la situazione del paese ed il temperamento degli abitanti
rendettero indispensabili. Le altre undici diocesi dell'Asia, del Ponto
e della Tracia; della Macedonia, della Dacia, e della Pannonia o sia
dell'Illirico occidentale; dell'Italia e dell'Affrica; della Gallia,
della Spagna, e della Gran-Brettagna erano governate da dodici _Vicari_
o _Viceprefetti_[298], il nome de' quali spiega abbastanza la natura e
la dipendenza del loro uffizio. Può aggiungersi ancora, che i
luogotenenti generali degli eserciti Romani, ed i Conti e Duchi
militari, de' quali dovremo da qui avanti parlare, goderono la dignità
ed il titolo di _Rispettabili_.

A misura che prevaleva ne' consigli degl'Imperatori lo spirito di
gelosia e d'ostentazione, attendevano essi a dividere con diffidente
sollecitudine la sostanza, ed a moltiplicare i titoli del potere. I
vasti paesi, che i conquistatori Romani avevan uniti sotto la medesima
semplice forma di governo, furon senz'avvedersene sminuzzati in piccioli
frammenti; finchè in ultimo tutto l'Impero fu diviso in cento sedici
Province, ognuna delle quali aveva un dispendioso e splendido
stabilimento. Tre di queste eran governate da _Proconsoli_, trentasette
da _Consolari_, cinque da _Correttori_, e settantuna da _Presidenti_.
Diversi erano i nomi di questi magistrati, disposti in successivo ordine
i loro gradi, ingegnosamente variate le insegne della lor dignità, e la
lor situazione secondo le accidentali circostanze diveniva più o meno
piacevole o vantaggiosa. Ma tutti (eccettuati solo i Proconsoli) erano
ugualmente compresi nella classe degli _onorevoli_, ed era ugualmente
affidata loro in ogni rispettivo distretto l'amministrazione della
giustizia e delle finanze, finattanto che piacesse al Principe, sotto
l'autorità però de' Prefetti o de' lor deputati. I ponderosi volumi de'
Codici e delle Pandette[299] darebbero gran materia per una minuta
ricerca di quanto fosse migliorato il sistema del governo provinciale
dalla saviezza de' Romani Politici e Giurisconsulti nello spazio di sei
secoli. Sarà però sufficiente per un Istorico lo scegliere due singolari
e salutevoli provvedimenti, diretti a restringer l'abuso dell'autorità.
1. Per mantener la pace ed il buon ordine i Governatori delle Province
erano armati colla spada della Giustizia. Essi infliggevano pene
corporali, e trattandosi di delitti capitali avevano il potere di vita e
di morte. Ma non avevan la facoltà di concedere al condannato la scelta
del supplizio, nè di condannare a veruna delle più miti ed onorevoli
specie d'esilio. Queste prerogative si riservavano ai Prefetti, i quali
soli potevano imporre la grave ammenda di cinquanta libbre d'oro, mentre
i loro Vicari non potevan passare la piccola quantità di poche
once[300]. Tal distinzione, la quale par che accordi un maggior grado
d'autorità nel tempo stesso che ne toglie un minore, si appoggiava sopra
un motivo assai ragionevole. Il grado più piccolo di potenza era
infinitamente più soggetto all'abuso. Le passioni d'un Magistrato
Provinciale potevano spesso indurlo ad atti di oppressione, che non
attaccassero che la libertà o le sostanze dei sottoposti; ma per un
principio di prudenza, e forse anche d'umanità, sempre avrebbe avuto
orrore a versare un sangue innocente. Può in simil guisa riflettersi che
l'esilio, le considerabili pene pecuniarie, o la scelta d'una morte più
mite, si riferiscono particolarmente a' ricchi ed a' nobili; e perciò le
persone più esposte all'avarizia, o alla collera di un provincial
Magistrato si toglievano all'oscura di lui persecuzione per soggettarle
al più augusto ed imparzial tribunale del Pretorio. 2. Poichè a ragione
temevasi che si potesse corrompere l'integrità del giudice, se vi poteva
entrare il proprio di lui interesse, o impegnarvisi le sue affezioni, si
fecero i più rigorosi regolamenti per escludere, senza una special
dispensa dell'Imperatore, ogni persona dal governo di quella Provincia,
dov'era nata[301], e per impedire al Governatore o a' suoi figli di
contrar matrimonio con alcuna nazionale o abitante[302], o di comprare
schiavi, terre, o case dentro i limiti della propria giurisdizione[303].
Nonostanti queste rigorose precauzioni, l'Imperator Costantino, dopo
venticinque anni di regno, deplora la venalità e l'oppressione, che
s'usava nell'amministrar la giustizia, ed esprime col più ardente
sdegno, che l'udienza del Giudice, la spedizione o la dilazion degli
affari e la diffinitiva sentenza eran pubblicamente vendute o dal
giudice medesimo, o da' ministri del suo tribunale. La ripetizione di
leggi impotenti e di minacce inefficaci dimostra la continuazione, e
forse anche l'impunità di questi delitti[304].

Tutti i Magistrati civili erano tratti dal ceto de' Professori di legge.
Le famose Istituzioni di Giustiniano son dirette alla gioventù de' suoi
dominj, che s'era data allo studio della giurisprudenza Romana; ed il
Sovrano si compiace di animare la loro diligenza con assicurarli, che la
loro perizia ed abilità sarebbe a suo tempo premiata con aver parte, in
proporzion del loro merito, nel governo della Repubblica[305].
S'insegnavano gli elementi di questa lucrosa scienza in tutte le città
considerabili dell'Oriente e dell'Occidente; ma la più celebre scuola
era quella di Berito[306] sulle coste della Fenicia, che fioriva da più
di tre secoli fin dal tempo d'Alessandro Severo, autor forse di uno
stabilimento sì vantaggioso al suo paese nativo. Dopo un regolare corso
d'educazione, che durava cinque anni, gli studenti si spargevano per le
province, andando in cerca di ricchezze e di onori: nè poteva loro
mancare un'infinita quantità di affari in un grand'Impero già corrotto
dalla moltiplicità delle leggi, delle arti e de' vizi. Il solo tribunale
del Prefetto del Pretorio d'Oriente poteva somministrar impiego a
centocinquanta Avvocati, sessantaquattro de' quali erano distinti con
particolari privilegi, ed ogni anno due se ne sceglievano con l'onorario
di sessanta libbre d'oro per difendere le cause del fisco. Si faceva il
primo esperimento dei loro talenti rispetto alle materie giudiciali con
destinarli ad agire, secondo le occasioni, come assessori dei
magistrati; quindi erano spesso innalzati a presedere in quei tribunali,
avanti ai quali avean patrocinate le cause; ottenevano il governo d'una
Provincia, e coll'aiuto del merito, della riputazione, o del favore
successivamente a grado a grado salivano alle _illustri_ dignità dello
Stato[307]. Nella pratica del Foro questi uomini avevan considerata la
ragione come un istrumento di disputa; interpretavano essi le leggi
secondo i dettami del privato interesse; e le medesime perniciose
abitudini restavano sempre inerenti al loro carattere nella pubblica
amministrazione dello Stato. L'onore in vero d'una profession liberale
si è sostenuto da molti antichi e moderni avvocati, che hanno occupato i
più importanti posti con grand'integrità e costumata saviezza; ma nel
declino della giurisprudenza Romana l'ordinaria promozione de'
Giureconsulti era piena d'inganno e d'infamia. Quella nobile arte, che
s'era una volta mantenuta come la sacra eredità dei Patrizi, era caduta
nelle mani de' liberti e de' plebei[308], che piuttosto colle astuzie
che col sapere ne facevano un sordido e pernicioso commercio. Alcuni di
loro s'insinuavano nelle famiglie ad oggetto di fomentare le differenze,
di promuover le liti, e di preparare una messe di guadagno per loro
medesimi, o pe' lor confratelli. Altri, chiusi ne' lor gabinetti, si
davano l'aria di gran Professori di legge, somministrando ad un ricco
cliente delle sottigliezze per confondere la più patente verità, o degli
argomenti per colorire le pretensioni più ingiuste. La classe più
copiosa e popolare si componeva dagli avvocati, ch'empivano il Foro col
suono della lor turgida e loquace rettorica. Non curanti della
riputazione e della giustizia, per la maggior parte ci vengono
rappresentati come guide ignoranti e rapaci, che conducevano per un
labirinto di spese, di dilazioni, e di ostacoli i loro clienti, dai
quali, dopo un tedioso corso di anni, finalmente venivano abbandonati,
quando eran quasi esaurite la pazienza e le sostanze di essi[309].

III. Nel sistema politico introdotto da Augusto, i Governatori, almeno
quelli delle Province Imperiali, erano investiti del pieno potere, che
aveva il Sovrano medesimo. Da loro soli dipendevano i ministri sì di
pace che di guerra, essi distribuivano i premj e le pene, e comparivano
su' lor tribunali con gli abiti della civile magistratura, dopo che
tutti armati si eran trovati alla testa delle Romane legioni[310].
L'influenza del danaro, l'autorità della legge ed il comando della
milizia concorrevano a rendere il lor potere supremo ed assoluto; o
quando essi eran tentati di violare la loro fedeltà verso il Principe,
la provincia fedele, che restava avvolta nella lor ribellione, appena
sentiva nel suo stato politico alcun cangiamento. Dal tempo di Commodo
fino al regno di Costantino, potrebbero contarsi cento Governatori, che
con vario successo innalzarono la bandiera della ribellione; e
quantunque troppo spesso venisser sacrificati degl'innocenti, si
potevano alle volte anche prevenire de' colpevoli dalla sospettosa
crudeltà del lor Signore[311]. Costantino, per assicurare il suo trono e
la pubblica tranquillità da questi formidabili servitori, risolvè di
dividere l'amministrazione civile dalla militare, e di stabilire, come
una distinzione permanente e di professione, una pratica che non era
stata adottata che come un accidentale espediente. La suprema
giurisdizione ch'esercitava il Prefetto del Pretorio sugli eserciti
dell'Impero, fu trasferita in due Maestri _Generali_, ch'egli creò, uno
per la cavalleria, l'altro per l'infanteria; e sebbene ciascheduno di
quest'_Illustri_ ufficiali fosse più specialmente mallevadore della
disciplina di quelle truppe, ch'erano sotto l'immediata di lui
direzione, pure ambidue promiscuamente comandavano in campo i diversi
corpi di cavalli o di fanti, che trovavansi uniti nella medesima
armata[312]. Il loro numero tosto fu raddoppiato, attesa la divisione
dell'Oriente dall'Occidente, e furon distribuiti come Generali separati,
del medesimo titolo e grado fra loro, nelle quattro importanti frontiere
del Reno, dell'alto e del basso Danubio, e dell'Eufrate: e finalmente fu
commessa la difesa del Romano Impero ad otto Maestri generali di
cavalleria e d'infanteria. Sotto i lor ordini eran disposti nelle varie
province trentacinque comandanti militari: tre nella Britannia, sei
nella Gallia, uno nella Spagna, uno nell'Italia, cinque sull'alto
Danubio, e quattro sul basso, otto nell'Asia, tre nell'Egitto, e quattro
nell'Affrica. I titoli di _Conti_ e di _Duchi_[313], per mezzo de' quali
venivano essi propriamente distinti, hanno un significato così diverso
negl'idiomi moderni, che l'uso di essi può recar qualche maraviglia. Ma
converrebbe rammentarsi che il secondo di questi nomi non è che la
corruzione d'una parola Latina, che distintamente applicavasi a
qualunque capo di milizia. Tutti questi Generali dunque delle Province
eran _Duchi_; ma non ve n'eran che dieci fra loro, i quali fossero
decorati del grado di _Conti_ o compagni; titolo d'onore, o piuttosto di
favore, che s'era di fresco inventato nella Corte di Costantino.
L'insegna, che distingueva l'uffizio dei Conti e dei Duchi, era un
cingolo d'oro; ed oltre la paga si donava loro tanto da poter mantenere
cento novanta servi e cento cinquant'otto cavalli. Era loro vietato
rigorosamente d'ingerirsi in alcuna cosa, che appartenesse
all'amministrazione della giustizia o delle pubbliche rendite; ma il
comando altresì ch'esercitavan sopra le truppe del lor dipartimento era
indipendente dall'autorità de' magistrati. Verso l'istesso tempo, in cui
Costantino stabiliva le leggi per l'ordine Ecclesiastico, egli instituì
nel Romano Impero il geloso equilibrio fra la potestà civile e militare.
L'emulazione, ed alle volte anche la discordia che regnava fra due
professioni d'interessi opposti e di costumi non compatibili fra loro,
produceva conseguenze ora utili ed ora perniciose. Si poteva rare volte
aspettare, che il Generale ed il Governator civile di una provincia
cospirassero insieme per disturbar la quiete di essa, o si unissero per
procurarne il vantaggio. Mentre l'uno differiva di prestar quell'aiuto,
che l'altro sdegnava di sollecitare, le truppe rimanevano bene spesso
senza ordini o senza paghe; tradivasi la pubblica sicurezza, ed i
sudditi senza difesa erano esposti al furore dei Barbari.
L'amministrazione così divisa, qual fu stabilita da Costantino, indebolì
il vigor dello Stato, mentre assicurò la tranquillità del Monarca.

Si è meritamente censurata la memoria di Costantino per un'altra
innovazione, che corruppe la disciplina militare, e preparò la rovina
dell'Impero. I diciannove anni, che precederono l'ultima sua vittoria
sopra Licinio, erano stati un periodo di licenza, e d'interna discordia.
I rivali, che contendevano per il possesso del Mondo Romano, avean
ritirata la maggior parte delle lor forze dalla guardia delle loro
frontiere generali; e le principali città, che formavano i confini de'
rispettivi loro dominj, eran piene di soldati che ne risguardavano i
nazionali come i più implacabili loro nemici. Dopo che fu cessato il
bisogno di queste interne guarnigioni col fine della guerra civile, il
conquistatore mancò di prudenza o di fermezza per restituire la severa
disciplina di Diocleziano, e per sopprimere una fatale indulgenza, che
l'abito avea renduta cara, e quasi avea confermata all'ordine militare.
Nel regno di Costantino, fu ammessa una popolare ed anche legal
distinzione fra' _Palatini_[314] ed i _Confinanti_, fra le truppe, che
impropriamente dicevansi del palazzo, e quelle delle frontiere. I primi
si distinsero per la superiorità della paga e de' privilegi, ed era loro
permesso, eccettuate le straordinarie occorrenze di guerra, di tenere
tranquillamente i loro quartieri nel cuore delle Province.
L'intollerabile peso di questi opprimeva le città più floride. I soldati
appoco appoco dimenticavano le virtù della lor professione, e si davano
solo a' vizi della vita civile, o s'avvilivano esercitandosi nelle arti
meccaniche, o erano snervati dalla mollezza de' bagni e de' teatri. Essi
divenner ben presto non curanti de' marziali esercizi, delicati nel
vitto e nel trattamento; e nel tempo che inspiravan terrore a' sudditi
dell'Impero, tremavano all'avvicinarsi che facevano con ostile anime i
Barbari[315]. Non era più mantenuta coll'istessa cura, nè difesa con
ugual vigilanza quella catena di fortificazioni, che Diocleziano ed i
suoi colleghi avean tirata lungo le sponde de' fiumi reali. I soldati,
che tuttavia rimanevamo sotto il nome di truppe di frontiera, potevan
servire per la difesa ordinaria. Ma il loro animo era avvilito
dall'umiliante riflessione, che essi, i quali eran esposti ai travagli
ed ai pericoli d'una perpetua guerra, venivan premiati solo con circa
due terzi della paga e degli emolumenti, che prodigamente si davano alla
truppe del palazzo. Anche le bande o legioni, ch'erano innalzate quasi
al livello di quegl'indegni favoriti, si sentivano in certo modo
disonorate dal titolo d'onore, che loro si permetteva d'assumere. Invano
si ripeterono da Costantino le più spaventose minacce di ferro e di
fuoco contro i soldati di frontiera, che avessero ardito di disertare,
di secondar le incursioni de' Barbari o di partecipar delle
spoglie[316]. Di rado si possono allontanare per mezzo di parziali
rigori que' danni che provengono da imprudenti consigli; e quantunque i
Principi, che succederono, si studiassero di restaurare la forza ed il
numero delle guarnigioni di frontiera, tuttavia l'Impero, fino
all'ultimo istante del suo scioglimento, continuò a languire per quella
mortal ferita, che gli fece con tanta inavvertenza e debolezza la mano
di Costantino.

Sembra che l'istessa timida politica di divider tutto ciò che è unito,
d'abbassare ciò che è eminente, di temere ogni attiva potenza, e di
sperar che i più deboli siano per riuscire i più obbedienti, prevalesse
nelle instituzioni di molti Principi, e specialmente in quelle di
Costantino. Il marziale orgoglio delle legioni, i campi vittoriosi delle
quali erano stati sì spesso il teatro della ribellione, era nutrito
dalla memoria delle passate loro imprese, e dalla cognizione
dell'attuale loro forza. Finchè si mantennero nell'antico lor numero di
seimila uomini, ciascheduna di esse da se formava, sotto il regno di
Diocleziano, un oggetto visibile ed importante nella storia militare del
Romano Impero. Pochi anni dopo, questi corpi giganteschi ridotti furono
ad una molto minor grandezza; e quando la città d'Amida era difesa
contro i Persiani da sette legioni con alcuni ausiliari, l'intera
guarnigione, insieme con gli abitanti d'ambedue i sessi, e quelli
dell'abbandonata campagna, non passavano il numero di ventimila
persone[317]. Da questo, e da simili altri fatti vi è motivo di credere,
che la costituzione delle truppe legionarie, alla quale in parte
dovevasi il valore e la disciplina loro, fu sciolta da Costantino, e che
que' corpi d'infanteria Romana, che seguitavano ad arrogarsi gl'istessi
nomi od onori, non contenevano che mille, o mille cinquecento
uomini[318]. Facilmente si potea domar la cospirazione di tanti separati
distaccamenti, ciascheduno de' quali era intimorito dal sentimento della
propria debolezza; ed i successori di Costantino potevano secondar
l'amore, che avevano per l'ostentazione, con ispedir gli ordini loro a
cento trentadue legioni, descritte ne' ruoli de' numerosi loro eserciti.
Il resto delle truppe era diviso in centinaia di coorti d'infanteria e
di squadroni di cavalleria. Si credeva che le armi, i titoli, e le
insegne loro inspirasser terrore, e sfoggiassero la varietà delle
nazioni, che militavano sotto le bandiere Imperiali. Non v'era neppure
un'ombra di quella severa semplicità, che ne' tempi della libertà e
della vittoria, soleva distinguere la linea di battaglia d'un esercito
Romano dalla confusa oste d'un Monarca dell'Asia[319]. Un computo più
particolarizzato, tratto dalla _Notizia_, potrebbe esercitare la
diligenza d'un antiquario; ma l'istorico dovrà contentarsi d'osservare,
che il numero delle stazioni, o guarnigioni, stabilite sulle frontiere
dell'Impero, ascendeva a cinquecento ottantatremila soldati, e che, al
tempo dei successori di Costantino, l'intera forza della milizia si
considerava di seicento quarantacinquemila[320]. Uno sforzo così
prodigioso eccedeva il bisogno de' più antichi tempi e le forze de' più
recenti.

Secondo i varj stati della società si reclutano gli eserciti per motivi
molto diversi. I Barbari sono stimolati dall'amor della guerra; i
cittadini d'una Repubblica libera sogliono essere indotti da un
principio di dovere; i sudditi, o almeno i nobili d'una Monarchia sono
animati da un sentimento d'onore; ma i timidi e lussuriosi abitatori
d'un decadente Impero non possono essere allettati a militare che dalla
speranza del guadagno, o costretti dal timor della pena. Gli scrigni del
Romano erario erano esausti per l'accrescimento dello stipendio, pei
ripetuti donativi, e per l'invenzione di nuovi emolumenti e concessioni,
che nell'opinione della gioventù provinciale potevan compensare i
travagli ed i pericoli della milizia. Ciò nonostante quantunque la
statura de' soldati si fosse abbassata[321], quantunque vi fossero
ammessi, almeno per una tacita condiscendenza, indistintamente gli
schiavi, pure la difficoltà insormontabile di trovar regolari e adequate
leve di volontari, obbligò gl'Imperatori ad usare de' metodi più
efficaci e violenti. Le terre, che solevan darsi a' veterani come premj
liberi del loro valore, furono d'allora in poi accordate con una
condizione, che contiene i primi tratti delle concessioni feudali, vale
a dire, che i figli, che lor succedevano nell'eredità, si dessero alla
professione delle armi, tosto che giungevano all'età virile; e se
vilmente ricusavan di farlo, si punivano colla perdita dell'onore, de'
beni ed eziandio della vita[322]. Ma siccome l'annual prodotto de' figli
de' veterani non dava che un picciol sussidio a' bisogni della milizia,
si facevano spesso delle reclute nelle Province, ed ogni proprietario si
obbligava o a prender le armi, o a somministrare un sostituto, o a
procurarsi l'esenzione con pagare una grave tassa. La somma di
quarantadue monete d'oro, a cui fu ridotta, dimostra l'esorbitante
prezzo de' volontari, e la difficoltà con cui dal governo ammettevasi
quest'alternativa[323]. Era tale l'orrore che aveva invaso gli animi
degli avviliti Romani per la profession di soldato, che molti giovani
dell'Italia e delle Province, si tagliavan le dita della man destra per
sottrarsi alla necessità di militare, ed era sì comunemente in uso tale
strano espediente, che meritò la severa punizion delle leggi[324] ed un
nome particolare nella lingua Latina[325].

L'introduzione de' Barbari negli eserciti Romani divenne ogni giorno più
universale, più necessaria e più fatale. I più animosi fra gli Sciti,
fra' Goti, ed i Germani, che si dilettavano della guerra, e trovavano
più vantaggioso per loro il difendere che il devastare le Province,
s'arrolavano non solo fra gli ausiliari delle respettive loro nazioni,
ma anche nelle legioni medesime, e nelle truppe Palatine le più
distinte. Siccome conversavano essi liberamente co' sudditi dell'Impero,
appoco appoco impararono a disprezzarne i costumi e ad imitarne le arti.
Essi abbandonarono quella tacita riverenza, che l'orgoglio di Roma
soleva esigere dalla loro ignoranza, nel tempo che acquistavan la
cognizione e il possesso di que' vantaggi, per mezzo dei quali soltanto
ella sosteneva la sua decadente grandezza. I soldati barbari, che
facevano prova di qualche militare talento, erano avanzati
senz'eccezione ai posti più importanti; ed i nomi de' Tribuni, de'
Conti, de' Duchi e de' Generali medesimi scuoprono un'origine straniera,
ch'essi non volevan più simulare. Spesse volte s'affidava loro la
condotta d'una guerra contro i lor nazionali; e sebbene la maggior parte
di essi preferisse i vincoli della fedeltà a quelli del sangue, non eran
però sempre liberi dalla taccia o almen dal sospetto di tenere una
corrispondenza proditoria col nemico, d'invitarne le invasioni, o di
risparmiarne la ritirata. Gli eserciti e la Corte del figlio di
Costantino eran governati dalla potente fazione de' Franchi, i quali
mantenevano la più stretta unione fra loro e col lor paese nativo, e
risentivano qualunque personale affronto, come un torto fatto all'intera
nazione[326]. Quando si sospettò che il tiranno Caligola avesse
intenzione di vestire un candidato molto straordinario dell'abito
consolare, avrebbe forse eccitato meno stupore la sacrilega
profanazione, se l'oggetto della sua scelta fosse stato, invece d'un
cavallo, il più nobil Capitano de' Germani o de' Brettoni. Il corso di
tre secoli avea prodotto un cangiamento così notabile ne' pregiudizi del
popolo, che Costantino, colla pubblica approvazione, mostrò a' suoi
successori l'esempio di accordar gli onori del Consolato a que' Barbari,
che per i loro meriti e servigi avevan ottenuto di esser posti fra'
principali Romani[327]. Ma siccome questi coraggiosi veterani, ch'erano
stati educati nell'ignoranza o disprezzo delle leggi, erano incapaci
d'esercitare alcuna carica civile; così le facoltà della mente umana
venivan ristrette dall'irreconciliabil separazione de' talenti, e delle
professioni. I culti cittadini delle Repubbliche Greche e della Romana,
il carattere de' quali potevasi adattare al Foro, al Senato, alla
guerra, o alle scuole, avevano appreso a scrivere, a parlare, e ad agire
col medesimo spirito, e con uguale abilità.

IV. Oltre i Magistrati ed i Generali che, lontani dalla Corte
esercitavano la delegata loro autorità sopra le province e le armate,
l'Imperatore conferiva eziandio il grado d'_Illustri_ a sette de' più
immediati suoi servitori, alla fedeltà de' quali affidava la custodia
della propria salute, o de' suoi consigli o tesori. In primo luogo gli
appartamenti privati del Palazzo eran governati da un eunuco favorito,
che nell'idioma di quel tempo si chiamava _Praepositus_, o _Prefetto del
sacro cubicolo_, o sia della camera Imperiale. Era suo uffizio di
seguire l'Imperatore nelle ore di pubblici affari, ed in quelle di
passatempo, e di fare intorno alla persona di lui tutti quei bassi
servizi, che non traggono splendore che dall'influenza del trono. Sotto
un Principe che meritasse di regnare, il gran Ciamberlano (giacchè
possiam dargli tal nome) era un utile ed umil domestico; ma un
artificioso domestico, che profitta di tutte le occasioni, cui
somministra una libera confidenza, insensibilmente acquisterà sopra uno
spirito debole quell'ascendente, che l'austera saviezza, e la virtù non
lusinghiera può rare volte ottenere. I degenerati nipoti di Teodosio,
invisibili a' loro sudditi, disprezzabili ai lor nemici, esaltarono il
Prefetto della lor camera sopra i capi di tutti i ministri del
Palazzo[328]; ed anche il suo deputato, cioè il primo dello splendido
treno di schiavi, che attualmente servivano, era stimato degno di
precedere a' _rispettabili_ Proconsoli della Grecia o dell'Asia. Eran
sottoposti alla giurisdizione del Ciamberlano i _Conti_, o
Soprantendenti, che regolavano i due importanti dipartimenti, della
magnificenza della guardaroba, e del lusso della tavola Imperiale[329].
2. La principale amministrazione de' pubblici affari era commessa alla
diligenza ed abilità del _Maestro degli Uffizj_[330]. Egli era il
supremo Magistrato del palazzo, invigilava sulla disciplina delle scuole
civili e militari, e riceveva gli appelli da tutte le parti dell'Impero,
nelle cause che appartenevano a quel numeroso esercito di persone
privilegiate, che come servitori di Corte avean ottenuto per se, e per
le sue famiglie il diritto d'esser esenti dall'autorità dei giudici
ordinari. La corrispondenza fra il Principe ed i sudditi passava per li
quattro _Scrinia_, o uffizi di questo ministro di Stato. Il primo era
destinato ai memoriali, il secondo alle lettere, il terzo alle domande,
ed il quarto a' fogli ed ordini di cose miscellanee. Ognuno di questi
era diretto da un _Maestro_ inferiore di _rispettabile_ dignità, ed
erano spediti tutti gli affari da cento quarantotto segretari, presi la
maggior parte dal ceto de' legali, per causa della copia di estratti e
di relazioni che frequentemente occorreva di fare nell'esercizio delle
varie loro funzioni. Per una condiscendenza, che ne' primi secoli si
sarebbe creduta indegna della maestà Romana, era destinato un particolar
segretario per la lingua Greca, e v'erano interpreti per ricever gli
Ambasciatori de' Barbari; ma il dipartimento degli affari esteri, che
forma una parte così essenziale della moderna politica, rare volte
occupava l'attenzione del Maestro degli Uffizi. Egli era più seriamente
occupato dalla general direzione delle poste e degli arsenali
dell'Impero. V'erano trentaquattro città, quindici in Oriente, e
diciannove in Occidente, nelle quali regolari compagnie di artefici
erano perpetuamente impiegate per fabbricare armi difensive ed offensive
d'ogni sorta, e macchine militari, che si depositavan ne' magazzini, e
secondo le occasioni si prendevano per servigio delle truppe. 3. Nel
corso di nove secoli, l'uffizio del _Questore_ avea sopportato una
rivoluzione molto singolare. Nell'infanzia di Roma, ogni anno
s'eleggevan dal popolo due magistrati inferiori, per sollevare i Consoli
dall'odioso maneggio del pubblico erario[331]. Fu accordato un
assistente simile ad ogni Proconsole e ad ogni Pretore, che avesse un
governo civile o militare. Estendendosi le conquiste, i due Questori
furono appoco appoco moltiplicati fino al numero di quattro, di otto, di
venti, o per breve tempo forse anche di quaranta[332]; ed i cittadini
più nobili ambivano molto un uffizio, che dava loro posto in Senato, ed
una giusta speranza d'ottener gli onori della Repubblica. Mentre Augusto
affettava di conservar libera l'elezione, si contentava di accettare
ogni anno il privilegio di raccomandare, o piuttosto in sostanza di
nominare un certo numero di candidati; ed aveva per costume di scegliere
uno di questi giovani distinti per leggere le sue orazioni o epistole
nelle assemblee del Senato[333]. La pratica d'Augusto fu imitata da'
Principi, che gli succederono; fu stabilita quella accidental
commissione come un uffizio permanente, ed il solo Questor favorito,
assumendo un nuovo e più illustre carattere, sopravvisse alla
soppressione degli antichi ed inutili di lui colleghi[334]. Poichè le
orazioni, ch'ei componeva in nome dell'Imperatore[335], acquistaron la
forza, ed in ultimo anche la forma di assoluti editti, egli fu
considerato come un rappresentante della potestà legislativa, come
l'oracolo del Consiglio, e come l'original sorgente della civile
giurisprudenza. Egli era qualche volta invitato a prender posto nella
suprema giudicatura del concistoro Imperiale, co' Prefetti del Pretorio
e col Maestro degli Uffizi, e gli era spesso richiesta la soluzione de'
dubbi de' Giudici inferiori; ma siccome non era aggravato da una gran
quantità di affari subordinati alla sua carica, egli impiegava i suoi
talenti ed il suo ozio a coltivare quel maestoso stile d'eloquenza, che
nella corruzione della lingua e del gusto conserva sempre la dignità
delle leggi Romane[336]. Potrebbe in qualche maniera paragonarsi
l'ufficio del Questore Imperiale con quello del Cancelliere moderno, ma
l'uso del gran sigillo, che sembra essere stato introdotto da' Barbari
ignoranti, non fu mai usato per convalidare i pubblici atti
dell'Imperatore. 4. Al Tesorier generale delle entrate pubbliche fu dato
il titolo straordinario di _Conte delle sacre largizioni_, forse per
indicare che ogni pagamento nasceva dalla volontaria bontà del Monarca.
Il pretender di concepire le particolarità quasi infinite delle spese
annuali e quotidiane, risguardanti l'amministrazione sì civile che
militare d'un grande Impero, eccederebbe la forza della più vigorosa
immaginazione. Tal azienda occupava continuamente più centinaia di
persone, distribuite in undici diversi uffizi, artificiosamente
inventati per esaminare, e sindacare le rispettive loro operazioni. La
moltitudine di questi agenti naturalmente tendeva ad accrescersi; e fu
più d'una volta creduto espediente di rimandare ai loro naturali uffizi
quegl'inutili ministri soprannumerari, che abbandonando i lor onesti
lavori, si eran con troppo calore insinuati nella lucrosa professione
delle Finanze[337]. Corrispondevano al Tesoriere ventinove ricevitori
Provinciali, diciotto de' quali eran onorati col titolo di Conti; e la
giurisdizione di lui s'estendeva sopra le miniere, dalle quali
estraevansi i metalli preziosi, sopra le zecche, ove si convertivano
questi in moneta corrente, e sopra i pubblici erari delle città più
importanti, in cui si depositava il denaro per servizio dello Stato.
Questo ministro regolava ancora il commercio straniero dell'Impero, e
dirigeva ugualmente tutte le manifatture di lino e di lana, nelle quali
eseguivansi le successive operazioni di filare, di tessere, e di
tingere, specialmente dalle donne di servil condizione per uso del
Palazzo e dell'esercito. Nell'Occidente, dove le arti s'erano introdotte
di fresco, si contavano ventisei di questi stabilimenti; ed un numero
anche più grande può supporsi che ven fosse nelle industriose Province
dell'Oriente[338]. 5. Oltre le pubbliche rendite, che un assoluto
Monarca poteva esigere e spendere a suo piacere, gl'Imperatori, in
qualità di opulenti cittadini, avevano un patrimonio molto esteso,
ch'era amministrato dal _Conte_, o Tesoriere _del dominio privato_. Una
parte di questo formavasi forse dagli antichi beni patrimoniali dei Re e
delle Repubbliche; un'altra da quelli delle famiglie, che furon
successivamente innalzate alla porpora; ma la parte più considerabile
d'esso proveniva dall'impura sorgente delle confiscazioni. Il patrimonio
Imperiale era sparso per le Province, dalla Mauritania fino alla
Britannia; il ricco però e fertil terreno della Cappadocia indusse il
Monarca a stabilire le sue più belle tenute in quella regione[339], e
Costantino, oppure i suoi successori, presero l'opportunità di
giustificar la loro avarizia collo zelo di religione. Soppressero eglino
il ricco tempio di Comana, dove il sommo Sacerdote della Dea della
guerra sosteneva la dignità di sovrano; ed applicarono al privato lor
uso le terre sacre, abitate da seimila sudditi o schiavi della Dea e
suoi ministri[340]. Ma non eran questi gli abitanti da valutarsi: le
pianure, che s'estendono dal piè del monte Argeo fino alle sponde del
Saro, nutrivano una generosa razza di cavalli famosi nell'antico mondo
sopra tutti gli altri per la maestosa loro figura ed incomparabil
velocità. Le leggi difendevano questi _sacri_ animali, destinati per
servizio della Corte e de' giuochi Imperiali, dalla profanazione d'un
padrone volgare[341]. Le possessioni della Cappadocia erano di
sufficiente importanza per esigere l'inspezione d'un _Conte_[342]; nelle
altre parti dell'Impero si ponevano ufficiali di minor grado; e i
deputati del Tesoriere privato, non meno che quelli del pubblico, eran
sostenuti nell'esercizio delle indipendenti loro funzioni, ed
incoraggiati a contrabbilanciare l'autorità de' magistrati
Provinciali[343]. 6. 7. I corpi scelti di cavalleria e d'infanteria, che
guardavan la persona dell'Imperatore, eran sotto l'immediato comando de'
due _Conti de' Domestici_. Tutto il loro numero consisteva in tremila
cinquecento uomini, divisi in sette _scuole_ o truppe, ognuna delle
quali ne conteneva cinquecento; ed in Oriente quest'onorevole servizio
era quasi totalmente proprio degli Armeni. Ogni volta che nelle
pubbliche ceremonie schieravansi questi ne' cortili e ne' portici del
Palazzo, la loro alta statura, il tacito ordine e le splendide armi
d'argento e d'oro spiegavano una pompa marziale non indegna della Romana
maestà[344]. Dalle sette scuole si presceglievano due compagnie di
cavalli e di fanti, dette de' _Protettori_, il posto vantaggioso de'
quali formava la speranza ed il premio de' soldati più meritevoli. Essi
montavan la guardia negli appartamenti interni, e secondo le occasioni
erano spediti nelle Province ad eseguire con celerità e vigore gli
ordini del loro Signore[345]. I Conti de' Domestici eran succeduti
all'Uffizio de' Prefetti del Pretorio, e come i Prefetti medesimi,
aspiravano a passare dal servizio del Palazzo al comando degli eserciti.

Veniva facilitato il continuo commercio tra la Corte e le Province dalla
costruzione delle strade e dalla instituzione delle poste. Ma questi
utili stabilimenti erano accidentalmente connessi con un pernicioso ed
intollerabile abuso. S'impiegavano sotto la giurisdizione del Maestro
degli Uffizi due o trecento _agenti_ o messaggi, per annunziare i nomi
de' Consoli annuali e gli editti, o le vittorie degl'Imperatori. Questi
si arrogarono insensibilmente l'incumbenza di riferir tutto ciò che
potevan osservare intorno alla condotta o dei Magistrati, o de' privati
cittadini; e furon ben tosto risguardati come gli occhi del
Monarca[346], ed il flagello del popolo. Sotto la gran protezione, che
loro dava un debole Regno, si moltiplicarono fino all'incredibil numero
di diecimila, sdegnavan le dolci, ancorchè frequenti ammonizioni delle
leggi, ed esercitavano nel lucroso maneggio delle poste una rapace ed
insolente oppressione. Questi delatori, che avevano una regolar
corrispondenza colla Corte, venivano incoraggiati dal favore e dal
premio a scuoprir diligentemente i progressi di qualunque ribelle
disegno, dai deboli ed oscuri sintomi di mal contentezza fino agli
effettivi apparecchi di un'aperta ribellione. La loro trascuratezza o
reità nel violar la verità e la giustizia, era coperta dalla sacra
maschera dello zelo; e potevan sicuramente diriger gli avvelenati lor
dardi tanto contro gl'innocenti quanto contro i colpevoli, che provocato
avessero il loro sdegno, o ricusato di comprar da loro il silenzio. Un
suddito fedele della Siria, per esempio, o della Britannia, era esposto
al pericolo o almeno al timore d'esser tratto in catene alla Corte di
Milano, o di Costantinopoli per difender la vita ed i beni dalla
maliziosa accusa di questi privilegiati informanti. Si regolava
l'amministrazione ordinaria con que' metodi, che la sola estrema
necessità può scusare; ed alle mancanze di prove diligentemente
supplivasi coll'uso della tortura[347].

L'ingannevole e pericolosa prova, ch'enfaticamente si dice della
_questione criminale_, fu ammessa piuttosto che approvata dalla
giurisprudenza de' Romani. Essi applicavano questa sanguinaria maniera
d'esame soltanto a' corpi de' servi, i patimenti de' quali rare volte da
quei superbi Repubblicani si pesavano sulla bilancia della giustizia o
dell'umanità, ma non avrebber consentito a violare la sacra persona d'un
cittadino, finchè non avessero avuto la prova più chiara del suo
delitto[348]. Gli annali della tirannide, dal regno di Tiberio a quello
di Domiziano, circostanziatamente riportano l'esecuzioni di molte
vittime innocenti; ma finchè si tenne viva la più debole rimembranza
della libertà e dell'onor nazionale, le ultime ore d'ogni Romano furon
sicure dal pericolo dell'ignominiosa tortura[349]. La condotta però de'
Magistrati Provinciali non si regolava secondo la pratica della città, o
le rigorose massime de' Giureconsulti. Essi trovaron l'uso della tortura
stabilito, non solo fra gli schiavi dell'oriental dispotismo, ma
eziandio fra' Macedoni, che obbedivano ad un Monarca moderato, fra'
Rodj, che fiorivano per la libertà del commercio, ed anche fra' savj
Ateniesi, che avevano sostenuta la dignità della specie umana[350]. La
acquiescenza de' Provinciali incoraggiva i loro Governatori ad
acquistare, o anche ad usurpar l'arbitrario potere d'impiegare i
tormenti per estorcere da' rei vagabondi o plebei la confessione de'
loro delitti, finattanto che appoco appoco giunsero a confonder le
distinzioni de' gradi, ed a non curare i privilegi de' cittadini Romani.
Le apprensioni de' sudditi gli stimolavano a chiedere, e l'interesse del
Sovrano lo impegnava a concedere una copia di speciali esenzioni, che
tacitamente accordavano, anzi autorizzavan l'uso generale della tortura.
Esse proteggevan tutte le persone di grado _illustre_ oppure
_onorevoli_, i Vescovi ed i loro Preti, i Professori delle arti
liberali, i Soldati e le loro famiglie, gli Uffiziali municipali e i
loro posteri fino alla terza generazione, e tutti gl'impuberi[351]. Ma
fu introdotta nella nuova giurisprudenza dell'Impero la fatal massima,
che in caso di ribellione, che includeva qualunque offesa, cui la
sottigliezza de' legali potesse far nascere da un'ostile intenzione
verso il Principe o la Repubblica[352], sospendevansi tutti i privilegi,
e tutte le condizioni si riducevano al medesimo ignominioso livello.
Siccome la salute dell'Imperatore manifestamente si preferiva ad ogni
considerazione di giustizia o di umanità, tanto la venerabile vecchiezza
quanto la tenera gioventù erano ugualmente esposte ai più crudeli
tormenti; e continuamente soprastavano al capo de' principali cittadini
del Mondo Romano i terrori di un'accusa maliziosa, che poteva
rappresentarli o come complici, o come testimonj d'un forse immaginario
delitto[353].

Per quanto possan questi mali sembrar terribili, si ristringevan per
altro a quel piccolo numero di sudditi Romani, la pericolosa situazione
de' quali era in qualche modo compensata dal godimento di que' vantaggi
o di natura o di fortuna, che gli esponevano alla gelosia del Monarca.
Gli oscuri milioni di sudditi di un grand'Impero hanno molto men da
temere la crudeltà che l'avarizia de' lor Signori; e la loro umile
felicità è principalmente aggravata dal peso delle tasse eccessive, che
dolcemente premendo i ricchi, discendono con gravità accelerata sulle
inferiori e più indigenti classi della società. Un ingegnoso
Filosofo[354] ha calcolato la misura universale delle pubbliche
imposizioni secondo i gradi di libertà e di servitù; ed asserisce, che a
tenor d'una legge invariabile di natura deve sempre crescere colla
prima, e diminuire in giusta proporzione colla seconda. Ma questa
riflessione, che tenderebbe ad alleggiare le miserie del dispotismo, è
in contraddizione almeno coll'istoria del Romano Impero, che accusa i
medesimi Principi di avere spogliato ed il Senato della sua autorità, e
le Province de' loro beni. Senz'abolire tutte le varie costumanze e i
pesi sulle merci, che senz'accorgersene sono pagati dall'apparente
scolta del compratore, la politica di Costantino e de' suoi successori
preferì una semplice diretta maniera di tassazione, più coerente allo
spirito d'un governo arbitrario[355].

Il nome e l'uso dello _Indizioni_[356], che serve ad assicurar la
cronologia de' secoli di mezzo, nacque dalla pratica regolare de' Romani
tributi[357]. L'Imperatore sottoscriveva di propria mano con inchiostro
purpureo l'editto o l'indizione solenne, che tenevasi affissa nella
città principale di ciascheduna Diocesi, per lo spazio di due mesi
precedenti il primo di Settembre. E per una molto facile connessione
d'idee si trasferì la parola _Indizione_ a significar la misura del
tributo che prescriveva, e l'annuale termine che accordava per il
pagamento. Questa generale stima de' sussidi era proporzionata a' reali
o immaginari bisogni dello Stato; ma ogni volta che la spesa eccedeva la
rendita, o questa era minore del computo che se n'era fatto, s'imponeva
sul popolo una nuova tassa col nome di _superindizione_, e si comunicava
il più pregevole attributo della sovranità a' Prefetti del Pretorio, che
in alcuni casi potevano provvedere alle non prevedute e straordinarie
occorrenze del pubblico servizio. L'esecuzione di queste leggi
(l'entrare nel minuto ed intricato ragguaglio delle quali sarebbe troppo
noioso) consisteva in due diverse operazioni; vale a dire nel dividere
l'imposizione generale nelle proporzionate sue parti, nelle quali si
tassavano le province, le città, e gl'individui del Mondo Romano; e
nell'esigere le varie contribuzioni degl'individui, delle città e delle
province, finattanto che le raccolte somme fossero poste negl'Imperiali
tesori. Ma siccome il conto fra il Monarca ed il suddito era sempre
aperto, e la nuova richiesta precedeva l'intero pagamento
dell'antecedente obbligazione, così dalle stesse mani muovevasi la grave
macchina delle Finanze per tutto il giro dell'annua sua rivoluzione.
Tutto ciò, che v'era d'onorevole o d'importante nell'amministrazione
delle pubbliche rendite, commettevasi alla saviezza dei Prefetti e dei
loro Provinciali rappresentanti; alle funzioni lucrose avea diritto una
folla di uffiziali subordinati, alcuni de' quali dipendevano dal
Tesoriere, altri dal Governatore della Provincia; e nelle inevitabili
dispute d'un ambigua giurisdizione avevano frequenti occasioni di
contendersi fra loro le spoglie del popolo. Gli uffizi laboriosi, che
non potevan produrre che invidia e rimproveri, pericoli e spese,
appoggiavansi ai _Decurioni_, che formavano i corpi delle città, e che
dalla severità delle leggi Imperiali erano stati condannati a sostenere
i pesi della società civile[358]. Tutti i terreni dell'Impero (senza
eccettuare i beni patrimoniali del Monarca) formavan l'oggetto
dell'ordinaria tassazione, ed ogni nuovo acquirente contraeva le
obbligazioni dell'antecedente possessore. Un esatto _Censo_[359], o
misurazione era la sola giusta maniera di determinare la porzione che
ogni cittadino dovea contribuire per servizio pubblico: e dal noto
periodo delle Indizioni v'è motivo di credere che si ripetesse questa
difficile e dispendiosa operazione regolarmente ogni quindici anni. Si
misuravan le terre dagl'intendenti che mandavansi nelle Province; si
esprimeva distintamente la loro natura, se erano arabili o da pastura,
vignate o boschive; e si prendeva una stima del loro comun valore dal
rispettivo prodotto di cinque anni. Il numero degli schiavi e del
bestiame costituiva una parte essenziale della relazione; davasi a'
proprietari un giuramento che gli obbligava a scuoprire il vero stato
de' loro negozi; ed i tentativi, ch'essi facevano di prevaricare, o
d'eludere l'intenzione del legislatore, venivano severamente investigati
e puniti, come delitti capitali che includevano il doppio reato di lesa
maestà e di sacrilegio[360]. Si pagava una gran parte del tributo in
danaro; e della moneta corrente dell'Impero non si poteva legalmente
ricevere, che oro[361]. Il rimanente delle tasse veniva pagato, secondo
la proporzione determinata dall'annuale indizione, in un modo vie più
diretto ed oppressivo. Coerentemente alla diversa natura delle terre, si
trasportava da' Provinciali, o a loro spese, il real prodotto di esso in
varie specie di vino o d'olio, di grano o d'orzo, di legno o di ferro
nei magazzini Imperiali, da' quali secondo le occasioni eran distribuite
per l'uso della Corte, dell'esercito, e delle due capitali, Roma e
Costantinopoli. I Commissari delle rendite si trovavano così spesso nel
caso di fare delle considerabili compre, ch'era loro vietato
rigorosamente d'accordare compensazione veruna, o di ricevere in danaro
la valuta di ciò, che si doveva esigere in ispecie. Nella semplicità
primitiva di piccole Comunità, questo metodo può esser bene adatto a
raccoglier le offerte quasi volontarie del Popolo; ma esso è
suscettibile nel tempo stesso dell'ultima estensione e dell'ultima
strettezza, che in una corrotta ed assoluta Monarchia si devono
introdurre da una perpetua contesa fra il potere dell'oppressione e le
arti della frode[362]. Si rovinò appoco appoco l'agricoltura delle
Province Romane, e progredendo il dispotismo, che tende a fare svanire i
suoi propri disegni, gl'Imperatori furon costretti a trar qualche merito
dalla condonazione de' debiti o dalla remissione de' tributi, che i loro
sudditi non erano più capaci di pagare. Secondo la nuova divisione
dell'Italia, la fertile e fortunata Provincia della _Campania_, il
teatro delle antiche vittorie e de' ritiri deliziosi de' cittadini
Romani, s'estendeva fra il mare e l'Appennino, dal Tevere fino al
Silaro. Dentro lo spazio di sessant'anni dopo la morte di Costantino,
sulla prova d'un attual misura, fu concessa un'esenzione in favore di
trecento trentamila acri inglesi di terra deserta e non coltivata, che
ascendeva ad un'ottava parte dell'intera Provincia. Poichè nella Italia
non s'erano ancora veduti vestigi alcuni di Barbari, non può attribuirsi
la causa di questa sorprendente desolazione, rammentata dalle leggi, che
all'amministrazione degl'Imperatori Romani[363].

Il modo di tassare, o sia per accidente o per consiglio premeditato,
sembra che unisse la sostanza di un'imposizione sulle terre colle forme
d'una capitazione[364]. Le spedizioni, che si facevano d'ogni Provincia
o distretto, esprimevano il numero de' sudditi tributari, e la somma
delle pubbliche imposizioni. Questa era divisa per quello, e la stima,
che una tal Provincia contenesse tanti _capita_ o capi di tributo, e che
ogni _capo_ fosse tassato per un tal prezzo, era universalmente ammessa
non solo ne' calcoli popolari, ma anche ne' legali. La valuta d'un capo
tributario doveva esser varia secondo le molte accidentali, o almeno
varianti circostanze; ma ci si è conservata qualche notizia di un fatto
molto curioso e della massima importanza, perchè appartiene ad una delle
più ricche Province del Romano Impero, e che adesso fiorisce come il più
splendido regno d'Europa. I rapaci Ministri di Costanzo avevano dato
fondo alla ricchezza della Gallia, esigendo per annuo tributo di
ciaschedun capo venticinque monete d'oro; l'umana politica del suo
successore ridusse la capitazione a sette[365]. Fatta dunque una
moderata proporzione fra questi contrari estremi di straordinaria
oppressione e di passeggiera indulgenza, può forse determinarsi la comun
misura delle imposizioni della Gallia a sedici monete d'oro o circa nove
lire sterline[366]. Ma questo calcolo, o piuttosto i fatti, da' quali è
dedotto, non posson mancare di suggerir due difficoltà ad una mente che
pensa, la quale resterà sorpresa nel tempo stesso e dall'_uguaglianza_ e
dalla _grandezza_ della capitazione. L'intraprendere di schiarirle può
per avventura spargere qualche lume sull'interessante materia delle
finanze nel decadente Impero.

I. Egli è chiaro, che finattanto che l'immutabil costituzione della
natura umana produce e mantiene una divisione sì disuguale di beni, la
parte più numerosa della società resterebbe priva della sua sussistenza
se volesse imporsi a tutti un'ugual tassa, dalla quale rileverebbe il
Sovrano una ben piccola entrata. Tale invero sarebbe anche la teoria
della capitazione Romana; ma in pratica non si sentiva più
quest'ingiusta uguaglianza subito che il tributo si fondava sul
principio di un'imposizione _reale_ non già _personale_. Si univano più
indigenti cittadini a comporre un sol _capo_, o una parte della
tassazione; mentre un ricco Provinciale in proporzione delle sue
sostanze, rappresentava egli solo varj di questi enti immaginari. In una
poetica supplica, diretta ad uno degli ultimi e più meritevoli fra i
Principi Romani, che regnava nella Gallia, Sidonio Apollinare
rappresenta il suo tributo sotto la figura d'un triplice mostro, del
Gerione delle Greche favole, e prega il nuovo Ercole a graziosamente
degnarsi di salvargli la vita con tagliare i tre capi di quello[367]. La
fortuna di Sidonio era molto superiore alla ricchezza ordinaria d'un
poeta, ma se egli avesse proseguito l'allusione, avrebbe dovuto
rappresentare molti de' nobili Galli con i cento capi della formidabile
Idra, che si estendevano sulla superficie del paese, e divoravano la
sussistenza di cento famiglie.

II. La difficoltà di pagare un'annua somma di circa nove lire sterline
per la tassa di capitazione della Gallia può apparire ancor più
evidente, se facciasene il confronto col presente stato della medesima,
in un tempo ch'è governata dall'assoluto Monarca d'un popolo
industrioso, ricco ed affezionato. Le tasse di Francia nè per timore nè
per lusinghe si posson fare oltrepassare l'annuale somma di diciotto
milioni di lire sterline, che dovrebber forse dividersi fra ventiquattro
milioni d'abitatori[368]. Fra questi, sette milioni, considerati come
padri, fratelli, o mariti, possono soddisfare agli obblighi della
rimanente moltitudine di donne e di fanciulli; pure l'ugual porzione
d'ogni suddito tributario appena monterà sopra i cinquanta scellini di
nostra moneta, in luogo di un peso quasi quadruplo, che s'imponeva a'
Gallici lor antenati. Può trovarsi la ragione in tal differenza, non
tanto nella respettiva scarsità o abbondanza d'oro e d'argento, quanto
nello stato diverso di società nell'antica Gallia e nella Francia
moderna. In un paese dove ogni suddito ha il privilegio della libertà
personale, tutta la somma delle tasse, che si levano o sui beni stabili
o sul consumo, si può comodamente dividere in tutto l'intero corpo della
nazione. Ma la massima parte delle terre dell'antica Gallia, non meno
che delle altre Province del Mondo Romano, eran coltivate da schiavi, o
da contadini, la dipendente condizione de' quali non era che una meno
rigida servitù[369]. In tale stato i poveri eran mantenuti a spese de'
padroni, che godevano i frutti de' loro lavori; ma siccome ne' cataloghi
de' tributi non avevano luogo che i nomi di que' Cittadini, che avevano
i mezzi d'un'onorevole o almeno d'una decente sussistenza, così la
respettiva piccolezza del loro numero spiega e giustifica la maggior
rata della loro capitazione. La verità di tal proposizione può
illustrarsi col seguente esempio. Gli Edui, una delle più potenti e
culte tribù o città della Gallia, occupavano l'estensione d'un
territorio, che adesso contiene sopra cinquecentomila abitanti, nelle
due Diocesi Ecclesiastiche di Autun e di Nevers[370]; e con la probabile
aggiunta di quelle di Scialon e di Macon[371], la popolazione
ascenderebbe a ottocentomila anime. Nel tempo di Costantino, il
territorio degli Edui non dava che venticinquemila _capi_ di
capitazione, settemila de' quali furono liberati da quel Principe dal
peso intollerabile del tributo[372]. Una giusta analogia par che
confermi l'opinione d'un ingegnoso istorico[373], che i cittadini liberi
e tributari non oltrepassassero il numero di mezzo milione; e se nella
comune amministrazione del Governo si possono considerare i loro annuali
pagamenti circa quattro milioni e mezzo, moneta inglese, se ne
ricaverebbe, che sebbene la porzione d'ogni individuo fosse quattro
volte maggiore, pure non s'esigeva nella Provincia Imperiale della
Gallia, che la quarta parte delle moderne tasse di Francia. Le esazioni
di Costanzo possono calcolarsi sette milioni di lire sterline, che
furono ridotte a due dall'umanità, o dalla saviezza di Giuliano.

Ma questa tassa o capitazione su' proprietari di terre, avrebbe lasciata
esente una ricca e numerosa classe di liberi cittadini. Colla mira di
far contribuire anche quella specie di ricchezza, che proviene dall'arte
o dal lavoro, e consiste in danaro o in mercanzie, s'impose
dagl'Imperatori un distinto e personal tributo sulla parte commerciante
de' loro sudditi[374]. Furono accordate alcune esenzioni, molto
strettamente limitate sì rispetto il tempo che il luogo, a' proprietari,
che disponevano del prodotto delle lor possessioni; si usò qualche
indulgenza verso chi professava le arti liberali; ma ogni altro ramo
d'industria, spettante al commercio, fu sottoposto al rigor della legge.
Il riguardevole mercante d'Alessandria, che introduceva le gemme e le
spezierie dell'India per l'uso del Mondo Occidentale; l'usuraio che
traeva dall'interesse della moneta un tacito ed ignominioso profitto;
l'ingegnoso artefice; il diligente meccanico; ed anche il rivenditore
più oscuro di ogni rimoto villaggio dovevano ammetter gli ufficiali del
Fisco a parte del loro guadagno; ed il Sovrano del Romano Impero, che
tollerava la professione delle pubbliche prostitute, partecipava
dell'infame lucro. Siccome questa generale imposizione sopra l'industria
si ritirava ogni quattro anni, essa era chiamata la _contribuzione
lustrale_: e l'istorico Zosimo[375] si lagna, che veniva annunciata
l'approssimazione del fatal periodo dalle lacrime e da' terrori de'
cittadini, ch'erano spesso dall'imminente sferza costretti a prendere i
partiti più abbominevoli ed inumani per procacciar la somma, in cui la
loro povertà era stata tassata. Non può in vero giustificarsi la
testimonianza di Zosimo dalla taccia di passione e di pregiudizio; ma
dalla natura di tal tributo sembra ragionevole il dedurre, ch'esso era
arbitrario nella distribuzione, ed estremamente rigoroso nella maniera
d'esigersi. La segreta ricchezza del commercio ed i guadagni precari
dell'arte o del lavoro non son suscettibili, che d'una arbitraria
valutazione, che di rado è svantaggiosa per l'interesse del Fisco; e
siccome la persona del trafficante supplisce alla mancanza d'una
visibile e permanente sicurezza, così il pagamento dell'imposizione, che
nel caso de' tributi sopra le terre si può ottenere mediante il possesso
de' beni, rare volte può estorcersi per altri mezzi che per quelli delle
pene corporali. Viene attestato, e forse mitigato il crudel trattamento
degl'insolventi debitori del Fisco da un editto molto umano di
Costantino, che disapprovando l'uso de' tormenti e delle verghe, assegna
un'ampia ed ariosa prigione per luogo della loro custodia[376].

Queste tasse generali erano imposte ed esatte per assoluta autorità del
Monarca; ma le offerte, che secondo le occasioni facevansi dell'_oro
coronario_, conservarono sempre il nome e l'apparenza del consenso del
Popolo. V'era un uso antico, che i confederati della Repubblica, i quali
ascrivevano la lor salvezza, o liberazione al buon successo delle armi
Romane; ed anche le città dell'Italia, che ammiravano il valore del
vittorioso lor Generale, adornavan la pompa del suo trionfo con doni
volontari di corone d'oro, le quali dopo la cerimonia eran consacrate
nel tempio di Giove per rimanere come un durevol monumento della sua
gloria ne' futuri secoli. Il progresso dello zelo e della adulazione
moltiplicò ben presto il numero, ed accrebbe la grandezza di questi
popolari donativi; ed il trionfo di Cesare fu adornato di duemila
ottocento ventidue massicce corone, il peso delle quali ascendeva a
ventimila quattrocento quattordici libbre d'oro. Fu immediatamente fatto
fondere questo tesoro dal prudente Dittatore, che conosceva sarebbe
stato più utile a' suoi soldati che agli Dei: l'esempio di lui fu
imitato da' suoi successori, e fu introdotto il costume di mutar questi
splendidi ornamenti nel più grato dono di corrente moneta d'oro
dell'Impero[377]. A lungo andare, i donativi spontanei furono esatti
come dovuti per obbligo; ed invece di ristringersi all'occasione d'un
trionfo, si supponeva, che si largissero dalle varie città delle
province della Monarchia, ogni volta che l'Imperatore si compiaceva
d'annunziare il suo avvenimento al trono, il suo Consolato, la nascita
d'un figlio, la creazione d'un Cesare, una vittoria contro i Barbari, o
qualunque altro reale o immaginario successo che felicitava gli annali
del suo regno. Il libero donativo particolare del Senato di Roma era
fissato dall'uso a mille seicento libbre d'oro, o intorno a cento
vent'ottomila zecchini. I sudditi oppressi vantavano la loro felicità,
perchè il Sovrano graziosamente si compiaceva d'accettar questo debole,
ma volontario attestato della lor fedeltà e gratitudine[378].

Un popolo, insuperbito dall'orgoglio, od esacerbato dalla scontentezza,
si trova rare volte in grado di formare una giusta idea dell'attuale sua
situazione. I sudditi di Costantino erano incapaci di discernere la
decadenza del genio e della maschia virtù, che tanto li rendeva
inferiori alla dignità de' loro antenati: ma potevano ben sentire e
dolersi del furor della tirannia, del rilassamento della disciplina e
della moltiplicazione delle tasse. L'istorico imparziale, che riconosce
la giustizia de' loro lamenti, non lascerà d'osservare alcune favorevoli
circostanze, che tendevano ad alleggerir la miseria della loro
condizione. La minacciosa tempesta de' Barbari, che sì presto rovesciò i
fondamenti della grandezza Romana, era sempre rispinta o sospesa sulle
Frontiere. Si coltivavano le arti del lusso e le lettere, e dagli
abitanti di una gran parte del globo godevansi gli eleganti piaceri
della società. Le formalità, la pompa, e le spese del Governo civile
contribuivano a tenere in freno l'irregolar licenza de' soldati; e
quantunque le leggi fossero violate dalla forza, o pervertite dalla
sottigliezza, i savj principj della Romana giurisprudenza conservavano
tuttavia un sentimento d'ordine e d'equità, incognito al dispotico
governo dell'Oriente. I diritti dell'uman genere potevan trarre qualche
patrocinio dalla Religione e dalla Filosofia; ed il nome di libertà che
non doveva più destar timore veruno, poteva qualche volta avvertire i
successori d'Augusto, ch'essi non regnavano sopra una nazione di Schiavi
o di Barbari[379].


NOTE:

[187] Polibio (_l. IV. p. 423_) dell'edizione del Casaubono. Egli
osserva che la pace de' Bizantini spesso era disturbata, e ristretta
l'estensione del lor territorio dalle scorrerie dei Barbari della
Tracia.

[188] La città fu fondata 656 anni avanti l'Era Cristiana da Biza, uomo
di mare, che si diceva figlio di Nettuno. I suoi seguaci eran venuti da
Argo e da Megara. Fu in seguito rifabbricato e fortificato Bizanzio da
Pausania, generale Spartano. Vedi Scaligero _animad. ad Euseb. p. 81_.
Ducange _Constantinopolis l. 1. part. 1. c. 15, 16_. Quanto alle guerre
dei Bisantini contro Filippo, i Galli ed i Re della Bitinia non si dee
prestar fede, che agli antichi scrittori i quali vissero prima che la
grandezza della città Imperiale suscitasse lo spirito di adulazione e di
falsità.

[189] Il _Bosforo_ è stato molto minutamente descritto da Dionisio di
Bisanzio, che visse a' tempi di Diocleziano (Hudson _Georg. Minor. Tom.
III._), e da Gilles o Gillio viaggiatore Francese del XVI. Secolo.
Sembra, che Turnefort (_Lett. XV._) siasi servito de' suoi propri occhi
e dell'erudizione di Gillio.

[190] Ben poche congetture sono così felici, come quella del Le Clerc,
il quale suppone (_Biblioth. univ. Tom. I. p. 248_) che le arpie non
fossero che locuste. Il nome Siriaco o Fenicio di quest'insetti, il
ronzio che fanno nel volare, il fetore e la devastazione che producono,
ed il vento settentrionale, che li trasporta verso il mare, tutto
contribuisce a stabilire questa probabilissima somiglianza.

[191] Amico risedeva in Asia fra le antiche e le nuove rocche, in un
luogo chiamato _Laurus insana_; e Fineo in Europa vicino al villaggio di
Mauramolo ed al Mar Nero. Vedi Gyll. _de Bosphor. l. III. c. 23_.
Tournefort _Lett. XV._

[192] L'inganno proveniva da varie punte di scogli alternativamente
coperte ed abbandonate dalle onde. Al presente non sono che due piccole
isole situate in vicinanza de' due contrari lidi; quella d'Europa è
distinta per la colonna di Pompeo.

[193] Gli antichi la facevano di 120 stadi, o di quindici miglia Romane.
Essi cominciavano a misurar lo stretto dalle nuove fortezze, ma lo
continuavano fino alla città di Calcedone.

[194] Ducas _Hist. c. 34_. Leunclav. _Hist. Turc. Musulmanic. l. XV. p.
577_. Sotto l'Impero Greco, queste fortezze servivano per li prigionieri
di Stato col tremendo nome di _Lete_ e di torri dell'obblivione.

[195] Serse fece imprimere sopra due colonne di marmo in lettere Greche
ed Assirie i nomi delle nazioni a lui sottoposte ed il sorprendente
numero delle sue fortezze terresti e marittime. I Bizantini dipoi
trasportarono queste colonne dentro la città, e se ne servirono per
altari delle tutelari loro Divinità. Herodot. _l. IV. c. 37_.

[196] _Namque arctissimo inter Europam Asiamque divortio Bysantium in
extrema Europa posuere Graeci, quibus Pythium Apollinem consulentibus,
ubi conderent urbem, redditum oraculum est, quaererent sedem coecorum
terris adversam. Ea ambage Chalcedonis monstrabantur, quod priores illuc
advecti, praevisa locorum utilitate pecora legissent. Tacit. Annal. XII.
62._

[197] Strab. _l. X. p. 492_. Presentemente se ne son tagliati molti
rami, o per parlare meno figuratamente, molti seni del porto si son
ripieni. Vedi Gyll. _de Bosph. Thrac. l. I. c. 3_.

[198] Procop. _de adific. l. I. c. 5_. La sua descrizione vien
confermata da' viaggiatori moderni. Vedi Thevenot. _P. I. l. I. c. 15_.
Tournefort _lett. XII_. Niebuhr _viagg. d'Arab. p. 22_.

[199] Vedi Ducange _C. l. I. P. I. c. 16_. e le _sue osservazioni sopra
Villehardouin p. 289_. Fu tirata una catena da Acropoli vicino al
moderno Kiosco fino alla torre di Galata ed era sostenuta a convenienti
distanze da grossi pali di legno.

[200] Thevenot (_viagg. in Levante P. I. l. I. c._ 14) ne riduce la
misura a 125 piccole miglia Greche. Belon (_Observat. l. I. c._ 1)
dà una buona descrizione della Propontide, ma si contenta
dell'indeterminata espressione di una giornata e mezzo di cammino. Dove
Sandys (_viag. p._ 21) parla di 150 stadi tanto in lungo che in largo,
non può supporsi che un error di stampa nel testo di questo giudizioso
viaggiatore.

[201] Vedasi un'ammirabile dissertazione del Dauville sopra l'Ellesponto
e i Dardanelli, nelle _Memorie dell'Accademia delle Iscrizioni Tom.
XXVIII. p._ 318-346. Pure anche quell'ingegnoso Geografo è troppo
inclinato a supporre delle nuove e forse immaginarie misure, ad oggetto
di render gli antichi scrittori tanto esatti, quanto egli stesso. Gli
stadi, de' quali si serve Erodoto nella descrizione dell'Eussino, del
Bosforo ec. (_l. IV. c._ 85) senza dubbio devono esser tutti della
medesima specie; ma sembra impossibile di conciliarli o con la verità, o
fra di loro.

[202] La distanza obbliqua fra Sesto ed Abido era di trenta stadi.
S'espone dal Mahudol l'improbabilità del racconto di Ero e Leandro, ma
coll'autorità de' poeti e delle medaglie si difende dal La Nauze. Vedi
_Accad. delle Inscriz. Tom. VII. Hist. p._ 74. _Mem. p._ 140.

[203] Vedi _lib. VII._ d'Erodoto, che ha innalzato un elegante trofeo
alla sua propria fama, ed a quella del suo paese. Sembra che ne sia
stata fatta l'enumerazione con tollerabile accuratezza; ma era
interessata la vanità, prima de' Persiani e poi de' Greci, ad amplificar
l'armamento e la vittoria. Io dubiterei molto se gl'_invasori_ abbiano
mai sorpassato il numero degli uomini di qualunque paese, che abbiano
attaccato.

[204] Vedi le _Osservazioni_ di Wood _sopra Omero p._ 320. Io ho preso
con piacere quest'osservazione da un Autore, che in generale non par che
abbia corrisposto all'espettazione del Pubblico e come critico e meno
ancora come viaggiatore. Aveva egli veduti i lidi dell'Ellesponto; avea
letto Strabone; dovrebbe aver consultati gl'itinerari Romani: come fu
dunque possibile che confondesse _Ilium_ con _Alexandria Troas_
(_Observ. p._ 340, 341) città, che sono 6 miglia distanti l'una
dall'altra?

[205] Demetrio di Scepside scrisse sessanta libri sopra trenta versi del
catalogo d'Omero. Per soddisfare la nostra curiosità è sufficiente il
_lib. XIII_ di Strabone.

[206] Strab. _l. XIII. p._ 595. Omero descrive con gran chiarezza la
disposizione delle navi, che furono tratte in terra ed i posti d'Aiace e
d'Achille.

[207] Zosimo _l. II. p._ 10. Sozomen. _l. II. c._ 3. Teofan. p. 18.
Nicefor. Callisto _l. VII. p._ 48. Zonara _Tom. II. l. XIII. p._ 6.
Zosimo pone la nuova città fra Ilio ed Alessandria; ma questa apparente
differenza può conciliarsi con ciò, che dicono gli altri, mediante la
grand'estensione della sua circonferenza. Avanti la fondazione di
Costantinopoli, Cedreno dice che venne progettata per capitale
Tessalonica, e Zonara, Sardica. Tutti e due suppongono con ben poca
probabilità che l'Imperatore, se non fosse stato impedito da un
prodigio, avrebbe rinnovato l'errore de' _ciechi_ Calcedonesi.

[208] Descriz. dell'Oriente di Pocock _Vol. II, part. II. p._ 127. La
descrizione, ch'ei fa de' sette colli, è chiara ed esatta. Questo
viaggiatore di rado è tanto soddisfacente come in quest'occasione.

[209] Vedi Belon. _Osserv. c._ 72, 76. Fra le varie specie di pesci i
Pelamidi, che sono una specie di Tonni, erano i più celebri. Si può
rilevar da Polibio, da Strabone e da Tacito che il guadagno della pesca
formava la rendita principale di Bizanzio.

[210] Vedi l'eloquente descrizione del Busbequio _Epist. I._ _p._ 64.
_Est in Europa; habet in conspectu Asiam, Aegyptum, Africamque a dextra:
quae tametsi contiguae non sunt, maris tamen, navigandique commoditate
veluti junguntur. A sinistra vero Pontus est Euxinus etc._

[211] _Datur haec venia antiquitati, ut miscendo humana divinis,
primordia Urbium augustiora faciat._ Tit. Liv. _in Proëm._

[212] In una delle sue leggi così s'esprime. _Pro comoditate Urbis, quam
materno nomine, jubente Deo, donavimus. Cod. Theodos. l. XIII. Tit. V.
leg. 7._

[213] I Greci, come Teofane, Cedreno e l'Autore della Cronica
Alessandrina si contengono dentro i limiti di espressioni vaghe o
generali. Volendo un ragguaglio più circostanziato della visione,
bisogna ricorrere a tali scrittori Latini, quale è Guglielmo di
Malmesbury. Vedi Ducange _C. P. l. I. p._ 24, 25.

[214] Vedi Plutarc. _in Romul. Tom. I. p. 49. Edit. Bryan._ Fra le altre
cerimonie facevasi una gran buca, la quale si riempiva con pugni di
terra, che ciascheduno de' nuovi abitanti portava dal luogo della sua
nascita, ed in tal modo adottava la sua nuova patria.

[215] Filostorg. _l. II. c._ 9. Questo accidente, quantunque preso da un
autore sospetto, è caratteristico e probabile.

[216] Vedi nelle _Memor. dell'Accad. delle Iscriz. T. XXXV_. _pag._ 747,
758 una dissertazione del Danville sopra l'estensione di Costantinopoli.
Egli prende la pianta inserita nell'_Impero Orientale_ del Banduri per
la più esatta; ma con una serie di minutissime osservazioni corregge la
stravagante proporzione della scala, e determina che la circonferenza
della città è di circa 7800 tese Francesi invece di 9500.

[217] Appresso gl'Inglesi un acro contiene un'estensione di terra, lunga
40 pertiche e larga 4.

[218] Codin. _Antiquit. Const. p._ 12. Egli assegna per limite dalla
parte del porto la chiesa di S. Antonio. Se ne fa menzione dal Du Cange
_l. IV. c. VI._ ma non mi è riuscito di scuoprire il luogo, dov'essa era
situata.

[219] Fu costruita la nuova muraglia di Teodosio nell'anno 413. Nel 447
fu gettata a terra da un terremoto, ed in tre mesi rifabbricata dalla
diligenza del Prefetto Ciro. Il sobborgo della _Blacherne_ fu per la
prima volta compreso nella città al tempo d'Eraclio. Du Cange _Const. l.
I. c. 10, 11_.

[220] Nella _Notizia ec._ se n'esprime la misura con piedi 14075. Si può
ragionevolmente supporre, che questi fossero piedi Greci, la proporzione
de' quali fu ingegnosamente determinata dal Danville. Secondo esso 180
piedi equivalgono ai 78 cubiti Asemiti, che diversi scrittori dicono
esser l'altezza di S. Sofia. Ciascheduno di questi cubiti era uguale a
27 pollici francesi.

[221] L'esatto Thevenot (_l. I. c. 15_) in un'ora e tre quarti girò
intorno a' due lati del triangolo, dal Chiosco del Serraglio fino alle
sette Torri. Danville accuratamente pondera, e molto s'affida a questa
decisiva testimonianza che somministra una circonferenza di dieci o
dodici miglia. Molto s'allontana dall'ordinario suo carattere
Tournefort, allorchè (_Lett. XI_) s'estende alla stravagante misura di
trenta o di trentaquattro miglia, senz'includervi Scutari.

[222] Il luogo chiamato _Sycae_ (o sia i Fichi) formava la decima terza
regione, e fu molto abbellito da Giustiniano. Esso ebbe in seguito i
nomi di Pera, e di Galata. È ovvia l'etimologia del primo, incognita
quella del secondo nome. Vedi Du Cange _Const. l. I. c. 22_. Gyll. _de
Byzant. l. IV. c. 10_.

[223] Cento undici stadi, che possono computarsi in miglia Greche
moderne di 7 stadi l'uno, o sia di 660 ed alle volte di sole 600 tese
Francesi. Vedi Danville _Misur. Itinerar. p. 53_.

[224] Corretti gli antichi Testi, che descrivono la grandezza di
Babilonia e di Tebe; ridotte a' giusti termini l'esagerazioni, e
certificate le misure, troviamo, che quelle famose città avevano la
grande, ma non incredibil circonferenza di circa venticinque o trenta
miglia. Si confronti Danville nelle _Memor. dell'Accad. Tom. XXVIII. p.
235_ colla sua _Descrizione dell'Egitto pag. 201, 202_.

[225] Se Costantinopoli e Parigi si dividano in tanti quadrati di 50
tese Francesi l'uno, il primo contiene 850 di queste parti, ed il
secondo 1160.

[226] Seicento centinaia, o sessantamila libbre d'oro. Tal somma è presa
da Codino _Antiq. Const. p. 11_. Ma questo disprezzabile Autore, a meno
che non abbia tratta la sua relazione da qualche sorgente più pura, non
sarebbe probabilmente stato capace di contare in una maniera così
disusata.

[227] Quanto alle foreste del Mar Nero vedasi Tournefort _Lett. XVI_.
Quanto alle cave di marmo di Proconneso, vedi Strabone _l. XIII. p.
588_. Queste ultime avevan già somministrato i materiali alle grandiose
fabbriche di Cizico.

[228] Vedi _Cod. Theod. lib. XIII. Tit. IV. leg. 1_. La data di questa
legge è dell'anno 334 e fu indirizzata al Prefetto dell'Italia, la
giurisdizione del quale s'estendeva sull'Affrica. Merita d'esser
consultato il Comentario del Gotofredo sopra tutto il Titolo.

[229] _Constantinopolis dedicatur pene omnium Urbium nuditate: Hieronym.
Chron. p. 181_. Vedi Codin. _p. 8, 9_. L'autore delle Antichità Cost.
_l. III_ (appresso Banduri _Imp. Orient. Tom. I. p. 41_) enumera Roma,
Sicilia, Antiochia, Atene ed una lunga lista di altre città. Può
supporsi che le Provincie della Grecia e dell'Asia minore avranno
somministrato il più ricco bottino.

[230] _Hist. Comp. p. 369._ Esso descrive la statua, o piuttosto il
busto d'Omero con sì fino gusto, che chiaramente indica, che Cedreno
copiò lo stile d'un secolo più fortunato.

[231] Zosimo _l. II. p. 106. Cronic. Alessand. o Pasqual. p. 284_. Du
Cange _Const. l. I. c. 24_. Anche quest'ultimo scrittore pare, che
confonda il Foro di Costantino coll'Augusteo, o corte del Palazzo. Io
non sono ben sicuro, se abbia precisamente distinto quel che appartiene
all'uno ed all'altro.

[232] Pocock porge la descrizione più tollerabile di tal colonna,
_Descriz. d'Orient. vol. II. Part. II. p. 131_, ma essa in molti luoghi
è tuttavia oscura, e non soddisfa pienamente.

[233] Du Cange _Const. l. I. c. 24. p. 76_, e le sue _not. ad Alexiad.
p. 382_. La statua di Costantino o d'Apollo fu abbattuta nel tempo di
Alessio Comneno.

[234] Tournefort (_Lett. XII._) considera l'Atmeidan 400 passi. Se
intende passi geometrici di sette piedi l'uno, sarebbe stato lungo 300
tese, intorno a quaranta più lungo del gran Circo di Roma. Vedi Danville
_Misur. Itiner. p. 72_.

[235] Se i custodi delle reliquie più sante potessero addurre una serie
di prove, quali si possono allegare in quest'occasione, ne sarebbero ben
essi contenti. Vedi Banduri _ad antiquit. Const. p. 668_. Gyll. _de
Bizant. l. II. c. 13_. 1. Può in primo luogo provarsi l'originale
consacrazione del tripode, e della colonna nel tempio di Delfo
coll'autorità d'Erodoto e di Pausania; 2. Zosimo Pagano si trova
d'accordo co' tre Storici Ecclesiastici, Eusebio, Socrate e Sozomeno in
asserire, che per ordine di Costantino furon trasportati a
Costantinopoli gli ornamenti sacri del tempio di Delfo; e fra gli altri
espressamente si nomina la colonna serpentina dell'Ippodromo. 3. Tutti i
viaggiatori Europei, che sono stati a Costantinopoli da Buondelmonti
fino a Pocock, la descrivono nel medesimo luogo, e quasi nell'istessa
maniera; e le differenze, che si trovan fra loro, non nascono che dalle
ingiurie che ha sofferto da' Turchi. Maometto II. con un colpo di scure
spezzò la mascella di sotto ad uno de' serpenti. Thevenot _l. I. c. 17_.

[236] Da' Greci fu adottato il nome Latino di _cochlea_, e
frequentemente s'incontra nell'istoria Bizantina. Du Cange _Const. l.
II. c. 1. p. 104_.

[237] Vi sono tre punti topografici, che indicano la situazione del
Palazzo; 1. La scala che lo faceva comunicare coll'Ippodromo o Atmeidan,
2. Un piccolo porto artificiale sulla Propontide, da cui salivasi
facilmente per una serie di scalini di marmo a' giardini del Palazzo, 3.
L'Augusteo, ch'era una spaziosa corte, un lato della quale veniva
occupato dalla facciata del palazzo, e l'altro dalla chiesa di Santa
Sofia.

[238] Zeusippo era un epiteto di Giove, ed i bagni facevano una parte
dell'antico Bizanzio. Du Cange non ha sentito la difficoltà di
determinarne la vera situazione. L'Istoria par che gli unisca con S.
Sofia, e col palazzo; ma la pianta originale, inserita nel Banduri, li
pone dall'altra parte della città, vicino al porto. Quanto alle loro
bellezze, vedi _Chron. Paschal. p. 285_ e Gyll. _de Byzan. l. II. c. 7_.
Cristodoro (_Antiquit. Const. l. VII_) compose delle iscrizioni in versi
per ogni statua. Egli era un poeta Tebano di nascita non men che
d'ingegno _Boeotum in crasso jurares aere natum_.

[239] Vedi la _notizia ec._ Roma una volta contava 1780 grandi case
_domus_; ma bisogna che tal parola avesse un significato più ampio. In
Costantinopoli non si fa menzione d'_Insulae_. La Capitale antica
conteneva 424 strade, la nuova 322.

[240] Luitprand. _Legat. ad Imperat. Niceph. p. 153_. I Greci moderni
hanno stranamente sfigurate le antichità di Costantinopoli. Sarebbero
scusabili gli sbagli degli scrittori Turchi o Arabi, ma fa stupore, che
i Greci, che avevano tra le mani autentici materiali, conservati nella
lor propria lingua, preferissero la finzione alla verità, e le favolose
tradizioni alla storia genuina. In una sola pagina di Codino posson
contarsi dodici imperdonabili errori, quali sono la riconciliazione di
Severo e di Negro, il matrimonio tra il figlio dell'uno e la figlia
dell'altro, l'assedio di Bizanzio fatto da' Macedoni, l'invasione de'
Galli, che richiamò Severo a Roma, i sessant'anni che scorsero dalla
morte di lui alla fondazione di Costantinopoli ec.

[241] Montesquieu, _Grand. et decad. des Rom. c. 17_.

[242] Temist. _Orat. III. p. 48. Edit. Hardouin_. Sozomeno _l. II. c.
3_. Zosimo _l. II. p. 107_. Anon. Vales. _p. 715_. Se dovessimo prestar
fede a Codino (_p. 10_) Costantino fabbricò le case pei Senatori sul
medesimo esatto disegno de' loro palazzi di Roma, e diede ad essi
ugualmente che a se medesimo il piacere d'una gradita sorpresa; ma tutta
quell'istoria è piena di finzioni e di insussistenti racconti.

[243] Fra le Novelle dell'Imperator Teodosio il Giovane al fine del
Codice Teodosiano (_Tom. VI Nov. 12._) si trova la legge con cui
quell'Imperatore, nell'anno 438, abolì tali concessioni. Il Tillemont
(_Hist. des Emper. Tom. IV. p. 37_) ha evidentemente sbagliato intorno
alla natura di questi beni. La medesima condizione, che si sarebbe con
ragione stimata un peso, qualora fosse stata imposta su' beni de'
privati, si riceveva come un favore quand'era accompagnata dalla
concessione di fondi Imperiali.

[244] Gillio (_de Byzant l. I. c. 3._) raccoglie, e connette fra loro i
passi di Zosimo, di Sozomeno e di Agatia, che riferiscono
l'accrescimento, e le fabbriche di Costantinopoli. Sidonio Apollinare
(_in Panegyr. Anthem. 56. p. 291. Edit. Sirmond_) descrive le moli, che
furono gettate molto avanti nel mare: formavansi queste dalla famosa
pozzolana che indura nell'acqua.

[245] Sozomeno _l. II. c. 3_. Filostorg. _l. II. c. 9_. Codino
_Antiquit. Const. p. 8_. Si rileva da Socrate (_l. II. c. 13._) che la
quotidiana distribuzione della città consisterà in ottanta migliaia di
σιτου, che o si può tradur con Valesio per _modj_ di _grano_, o
supporre ch'esprima il numero de' pani, che si dispensavano.

[246] Vedi _Cod. Theodos. lib. XIII e XIV e Cod. Justin. Ed. XII. Tom.
II. p. 648. edit. Genev._ Si veda il bel lamento di Roma nel Poema di
Claudiano _de bello Gildon. v. 46-64_.

    _Cum subiit par Roma mihi, divisaque sumpsit_
    _Aequales Aurora togas; Aegyptia rura_
    _In partem cessere novam._

[247] Si fa menzione de' rioni di Costantinopoli nel codice di
Giustiniano, e sono particolarmente descritti nella Notizia di Teodosio
il Giovane; ma siccome gli ultimi quattro di essi non son compresi nelle
mura di Costantino, si può dubitare se tal divisione della città riferir
debbasi al fondatore.

[248] _Senatum constituit secundi ordinis;_ claros _vocavit. Anonym.
Valesian. p. 715._ I Senatori della vecchia Roma avevano il titolo di
_Clarissimi_. Vedasi una curiosa nota di Valesio _ad Ammian. Marcellin.
XXII. 9_. Dall'epistola undecima di Giuliano apparisce, che si
risguardava il posto di Senatore piuttosto come un peso, che come un
onore; ma l'Abbate della Bletterie (_Vit. di Giovian. Tom. II. p. 371_)
ha dimostrato che questa lettera non può riferirsi a Costantinopoli. Non
potremmo noi leggere invece del celebre nome di Βυζαντιοις
l'oscuro ma più probabile vocabolo Βισανθηνοις? Bisanto, o
Redesto (adesso Rodosto) era una piccola città marittima della Tracia.
Vedi _Steph. Byzant. de Urbibus p. 225_ e _Cellar. Geograph. Tom. I. p.
849_.

[249] _Cod. Theodos. l. XIV. 13._ Il Comentario di Gotofredo (_Tom. V.
p. 220_) è lungo ma oscuro; ed in verità non è facile il determinare in
che consistesse il Gius Italico, dopo che fu comunicata a tutto l'Impero
la libera cittadinanza Romana.

[250] Giuliano (_Orat. I. p. 8_) celebra Costantinopoli come non meno
superiore ad ogni altra città, di quel che fosse inferiore all'istessa
Roma. Il dotto di lui Comentatore (_Spanem. p. 75._ ec.) giustifica
questa maniera di parlare con varj esempi simili di Autori
contemporanei, Zosimo non meno che Socrate e Sozomeno fiorirono dopo la
divisione dell'impero, fatta fra due figli di Teodosio, la quale stabilì
una perfetta uguaglianza fra la Capitale antica e moderna.

[251] Codino (_Antiquit. p. 8_) asserisce, che furon gettati i
fondamenti di Costantinopoli nell'anno del mondo 5837 (dell'Era volg.
329) il dì 26 settembre, e che fu fatta la dedicazione della città negli
11 Maggio 5838 (330 di Cristo). Egli pretende di connettere queste date
con altr'epoche caratteristiche, ma si contraddicono l'una coll'altra:
l'autorità di Codino è di piccolo peso, e lo spazio, ch'egli assegna,
dee sembrare insufficiente. Giuliano (_Orat. I. p. 8_) fissa il termine
di dieci anni, e Spanemio (p. 69-759) procura di stabilirne la verità
coll'aiuto di due passi presi da Temistio (_Orat. IV p. 58_), e da
Filostorgio (_l. II c. 9_) e tal tempo si conta dall'anno 324 al 334.
Intorno a questo punto di cronologia son tra loro divisi i moderni
critici, ed i varj lor sentimenti vengono con molt'accuratezza discussi
dal Tillemont (_Hist. des Emper. Tom. IV. p. 619-625_).

[252] Temist. _Orat. III. p. 47_. Zosimo _l. II. p. 108_. Costantino
medesimo in una delle sue leggi (_Cod. Theod. l. XV. Tit. 1._) manifesta
la sua impazienza.

[253] Può vedersi il più antico e pieno racconto di tale straordinaria
ceremonia nella Cronica Alessandrina p. 285. Tillemont, e gli altri
amici di Costantino, offesi dall'aria di Paganesimo, che sembra indegna
di un Principe Cristiano, avevan ragione di risguardarla come dubbiosa,
ma non avevano perciò diritto di ometterla affatto.

[254] Sozomeno _l. II. c. 2_. Du Cange _C. P. l. I. c. 6_. _Velut ipsius
Romae filiam_ dice S. Agostino _de civit. Dei l. V. c. 25_.

[255] Eutrop. _l. X. c. 8_. Giuliano _Orat. 1. p. 8_. Du Cange C. P. I.
c. 5. Si trova il nome Costantinopoli nelle medaglie di Costantino.

[256] Il vivace Fontenelle (_Dial. de' Morti XII._) affetta di derider
la vanità dell'ambizione umana, e par che trionfi per essere andato a
voto il disegno di Costantino, l'immortale cui nome, dice, che adesso
s'è perduto nella volgar denominazione d'_Istambol_, che è una
corruzione che fanno i Turchi delle parole εις την πογιν (alla
città). Ma sempre si conserva il nome originale di Costantinopoli: in
primo luogo, appresso le nazioni dell'Europa, 2. appresso i Greci
moderni, 3. appresso gli Arabi, gli scritti de' quali sono sparsi per
l'ampio tratto delle loro conquiste nell'Asia e nell'Affrica. Vedi
d'_Herbelot. Bibliot. Orient. p. 275_. Finalmente appresso i Turchi più
culti, e l'Imperatore medesimo ne' pubblici suoi decreti. Cantemir
_Istor. Ottom. p. 51_.

[257] Il Codice Teodosiano fu promulgato nell'anno di Cristo 438. Vedi i
Prolegomeni del Gotofredo _c. 1. p. 385_.

[258] Il Pancirolo, nell'elaborato suo Comentario, assegna alla
_Notizia_ una data quasi simile a quella del Codice Teodosiano; ma le
sue prove o piuttosto congetture sono sommamente deboli. Io sarei anzi
inclinato a porre quest'utile opera nel tempo, che passò fra l'ultima
divisione dell'Impero (an. 395), e l'invasione fatta con buon successo
da' Barbari nelle Gallie (an. 407.) Vedi _Hist. des anc. Peupl. de
l'Europe Tom. VII. p. 40_.

[259] _Scilicet externae superbiae sueto, non inerat notitia nostri_
(forse _nostrae_); _apud quos vis imperii valet, inania transmittuntur._
Tacit. _Annal. XV. 31_. Può vedersi la degradazione dallo stile di
libertà e di semplicità a quello di formalità e di servitù nelle lettere
di Cicerone, di Plinio e di Simmaco.

[260] L'Imperator Graziano dopo d'aver confermato una legge di
precedenza, pubblicata da Valentiniano, padre di sua _Divinità_, così
prosegue: _Si quis igitur, indebitum sibi locum usurpaverit, nulla se
ignoratione defendat; sitque plane sacrilegii reus, qui divina praecepta
neglexerit, Cod. Theodos. lib. VI. Tit. V. leg. 2_.

[261] Vedasi la _Notit. Dignitat._ al fine del Codice Teodos. _Tom. VI.
p. 316_.

[262] Pancirolo _ad Notitiam utriusq. Imper. p. 39_. Ma le sue
spiegazioni son oscure, ed egli non distingue abbastanza gli emblemi
puramente dipinti, dall'effettive insegne d'uffizio.

[263] Nelle Pandette, che possono riferirsi a' regni degli Antonini,
l'ordinario e legittimo titolo d'un Senatore è _Clarissimus_.

[264] Pancirol. _p. 12-17_. Io non ho creduto di dover fare menzione
alcuna de' due gradi minori _Perfectissimus_ ed _Egregius_, che si
davano anche a molti non innalzati alla dignità Senatoria.

[265] _Cod. Theod. lib. VI. Tit. VI._ Con la più minuta esattezza si
determinano le regole di precedenza dagl'Imperatori; e con ugual
prolissità vengono illustrate dal dotto interprete di esse.

[266] _Cod. Theodos. lib. VI. Tit. XXII_.

[267] Ausonio (_in Gratiar. Action._) s'estende vilmente su questa
indegna specie di luogo oratorio, che vien maneggiato con un poco più di
libertà e d'ingenuità da Mamertino. _Paneg. Vet. XI. 16, 19._

[268] _Cum de Consulibus in annum creandis solus mecum volutarem... te
Consulem et designavi et declaravi, et priorem nuncupavi_: queste sono
alcune dell'espressioni usate dall'Imperat. Graziano verso il poeta
Ausonio suo precettore.

[269]

    _Immanesque... dentes,_
    _Qui secti ferro in tabulas auroque micantes,_
    _Inscripti rutilum coelato Consule nomen_
    _Per proceres et vulgus eant._

                    Claud. _in II. Consul. Stilic. 456._

Montfaucon ha pubblicato alcune di queste tavolette, o dittici. Vedi il
_Supplem. all'Antich. spieg. Tom. III. p. 220._

[270]

    _Consule laetatur post plurima saecula viso_
    _Pallanteus apex: agnoscunt rostra curules_
    _Auditas quondam proavis: desuetaque cingit_
    _Regius auratis Fora fascibus Ulpia lictor._

                    Claudian. _in VI. Cons. Honor. 643._

Dal regno di Caro fino al sesto Consolato d'Onorio si trova un
intervallo di centovent'anni, nel qual tempo gl'Imperatori furono sempre
il primo di Gennaio assenti da Roma. Vedi la _Cronolog. di Tillemont
Tom. III. IV. e V._

[271] Vedi Claudiano _in Cons. Prob. et Olybrii 178 etc. et in IV. Cons.
Honor. 585 etc._ quantunque, rispetto a quest'ultimo, non è facile il
distinguer gli ornamenti dell'Imperatore da quelli del Console. Ausonio
ricevè dalla liberalità di Graziano una _veste palmata_ o abito di
Ceremonia, in cui era ricamata la figura dell'Imperator Costanzo.

[272]

    _Cernis et armorum proceres legumque potentes:_
    _Patricios sumunt habitus, et more Gabino_
    _Discolor incedit legio, positisque parumper_
    _Bellorum signis sequitur vexilla Quirini._
    _Lictori cedunt aquilae, ridetque togatus_
    _Miles, et in mediis effulget Curia Castris?_

                         Claud. _in IV. Cons. Honor. 5._

    _.... Strictasque procul radiare secures._

                              _In. Cons. Prob. 229._

[273] Vedi Vales. _ad Ammian. Marcell. l. XXII. c. 7._

[274]

    _Auspice mox latum sonuit clamora Tribunal,_
    _Te fastos ineunt quater; solemnia ludit_
    _Omnia libertas; deductum vindice morem_
    _Lex celebrat, famulusque jugo laxatus herili_
    _Ducitur, et grato remeat securior ictu,_

                        Claud. _in IV. Cons. Honor. 611._

[275] _Celebrant quidem solemnes istos dies omnes ubique urbes, quae sub
legibus agunt; et Roma de more et Constantinopolis de imitatione, et
Antiochia pro luxu, et discincta Carthago, et domus flaminis Alexandria,
sed Treviri Principis beneficio. Auson in gratiar. act._

[276] Claudiano (_in Cons. Mall. Theodor. 279-331_) descrive con vivace
ed immaginosa maniera i diversi giuochi del circo, del teatro e
dell'anfiteatro, dati da' nuovi Consoli. Ma eran già stati proibiti i
sanguinosi combattimenti de' gladiatori.

[277] Procop. _in Histor. arcan. c. 26._

[278] _In consulatu honos sine labore suscipitur._ Mamertino _in Paneg.
Vet. XI. 2._ Questa esaltata idea del Consolato è presa da un'orazione
(_II. p. 107_) che recitò Giuliano nella servil Corte di Costanzo. Vedi
l'Ab. della Bleterie (_Memoir. de l'Acad. Tom. XXIV. p. 289_) che si
studia di cercare i vestigi dell'antica costituzione, e che li trova
qualche volta nella fertile sua fantasia.

[279] Le leggi delle XII Tavole proibirono i matrimoni fra i Patrizi e i
Plebei; e le uniformi operazioni della natura umana possono assicurare,
che il costume sopravvisse alla legge. Vedasi appresso Livio (IV. 1-6)
l'orgoglio di famiglia innalzato dal Console ed i diritti del genere
umano sostenuti dal Tribuno Canuleio.

[280] Vedansi le vivaci pitture, che fa Sallustio nella guerra
Giugurtina dell'orgoglio de' nobili, e fino del virtuoso Metello che non
poteva soffrire, che si dovesse dar l'onore del Consolato all'oscuro
merito del suo Luogotenente Mario (c. 64.) Dugento anni prima, la stirpe
de' Metelli stessi era confusa fra i plebei di Roma; e dall'etimologia
del loro nome _Caecilius_, vi è motivo di credere, che quegli altieri
nobili derivassero la lor origine da un venditore di viveri.

[281] Nell'anno di Roma 800 vi rimanevan ben poche, non solo delle
antiche famiglie patrizie, ma anche di quelle, ch'erano state creato da
Cesare e da Augusto. (Tacit. _Annal. XI. 25._) La famiglia di Scauro
(ch'era un ramo della patrizia degli Emilj) erasi ridotta in uno stato
sì basso, che suo padre, il quale s'esercitava nel commercio del
carbone, non gli lasciò che dieci schiavi, e qualche cosa meno di
seicento zecchini. (Valer. Massim. l. IV. c. 4. n. 11. Aurel. Vitt. _in
Scaur._) Il merito però del figlio salvò la famiglia dall'obblivione.

[282] Tacito _Annal. XI 25._ Dione Cass. l. LII p. 693. Le virtù
d'Agricola, che fu creato patrizio dall'Imperator Vespasiano,
rifletterono l'onore sopra quell'antico Ordine: ma i suoi antenati non
oltrepassavano la nobiltà equestre.

[283] Sarebbe stata quasi impossibile questa mancanza, se fosse vero,
come Casaubono costringe Aurelio Vittore ad affermare (_ad Sueton. in
Caesar. c. 42._ vedi _Hist. Aug. p. 203_ e Casaubono _Comment. p. 220_)
che Vespasiano creò in una volta mille famiglie patrizie. Ma tale
stravagante numero è troppo anche per tutto l'Ordine Senatorio, se non
vi si voglian comprendere tutti i cavalieri Romani distinti colla
permissione di portare il laticlavo.

[284] Zosim. _lib. II. p. 118_ e Gotofred. _ad Cod. Theod. l. VI. Tit.
VI._

[285] Zosim. _l. II. p. 109-118_. Se non avessimo per buona avventura
questo soddisfacente ragguaglio della divisione del potere, e delle
province de' Prefetti del Pretorio, saremmo spesse volte restati
perplessi fra' copiosi particolari del _Codice_ e la circostanziata
minutezza della _Notizia_.

[286] _A Praefectis autem Praetorio provocare non sinimus_ dice
Costantino medesimo in una legge del _Cod. Giustin. lib. VII. Tit. LXII.
leg. 19_. Carisio, Giurisconsulto del tempo di Costantino (Heinec.
_Hist. Jur. Rom. pag. 349_), che risguarda questa legge come un
fondamental principio di Giurisprudenza, paragona i Prefetti del
Pretorio a' Generali di cavalleria degli antichi Dittatori. _Pandect. l.
I. Tit. XI._

[287] Allorchè nello Stato già esausto dell'Impero, Giustiniano volle
instituire un Prefetto del Pretorio per l'Affrica, gli assegnò un
salario di cento libbre d'oro _Cod. Justinian. l. I. Tit. XXVII. leg.
1._

[288] Tanto per questa che per le altre dignità dell'Impero potrem
riportarci agli ampi Comentari del Pancirolo, e del Gotofredo, che hanno
diligentemente raccolti, e posti con esattezza in ordine tutti i
materiali sì legali, che istorici su tal articolo. Il Dott. Howell
(_Istor. del Mond. Vol. II. p. 24-77_) da questi Autori ha formato un
compendio molto distinto dello Stato del Romano Impero.

[289] Tacit. _Annal. IV. 11_. Euseb. _in Chron. p. 155_. Dione Cassio
nell'oraz. di Mecenate (_t. VII. p. 675_) descrive quali prerogative al
suo tempo aveva il Prefetto di Roma.

[290] La fama di Messala fu appena corrispondente al suo merito. Nella
sua più fresca gioventù fu raccomandato da Cicerone all'amicizia di
Bruto. Egli seguì le bandiere della Repubblica, finchè furon vinte ne'
campi di Filippi; ed allora accollò e meritò il favore del più moderato
de' conquistatori, nè lasciò di sostener la sua libertà e dignità nella
Corte di Augusto. La conquista dell'Aquitania giustificò il trionfo di
lui. Disputò, come oratore, a Cicerone medesimo la palma dell'eloquenza.
Messala coltivò tutte le muse, ed era il protettore d'ogni bell'ingegno.
Impiegava egli le sue serate in filosofiche conversazioni con Orazio;
ponevasi a tavola in mezzo a Delia e Tibullo; e si prendeva piacere
d'incoraggiare i talenti poetici del giovane Ovidio.

[291] _Incivilem esse potestatem contestans_, dice il Traduttore
d'Eusebio. Tacito esprime la medesima idem con altre parole; _quasi
nescius exercendi_.

[292] Vedi Lipsio _Excurs. D. ad. I. Lib. Tacit. Annal._

[293] Heinec. _Elem. Jur. Civ. secund. ord. Pandect. Tom. I. p. 70_.
Vedi anche Spanemio _De us. Numism. Tom. II. Diss. X. p. 119_. Nell'anno
450 Marciano pubblicò una legge, con cui stabilì, che ogni anno tre
cittadini fossero eletti dal Senato, ma col loro assenso, Pretori di
Costantinopoli. _Cod. Justin. l. I. Tom. XXXIX. leg. 2._

[294] _Quidquid igitur intra urbem admittitur ad P. U. videtur
pertinere, sed et si quid intra centesimum milliarium._ Ulpian. _in
Pandect. l. I. Tit. XIII. n. 1_. Egli prosegue ad enumerare i diversi
uffizi del Prefetto, che nel Cod. di Giustiniano (_lib. I. Tit. XXXIX.
leg. 3_) si dichiara dover precedere e comandare a tutte le magistrature
civili _sine injuria ne detrimento honoris alieni_.

[295] Oltre le nostre solite guide, possiam osservare, che felice
Contelorio fece un trattato a parte _De Praefecto Urbis_ e che nel
decimoquarto libro del Codice Teodosiano si trovano molte curiose
particolarità relativamente alla polizia di Roma e di Costantinopoli.

[296] Eunapio asserisce, che il Proconsole dell'Asia era indipendente
dal Prefetto, lo che per altro si deve intendere con qualche
limitazione: egli è fuor di dubbio che non riconosceva giurisdizione del
Vice-Prefetto. Pancirolo, _p. 161_.

[297] Il Proconsole dell'Affrica aveva quattrocento apparatori; i quali
tutti ricevevano stipendi o dal tesoro Imperiale o dalla Provincia. Vedi
Pancirolo, p. 26 ed il Cod. Giustin. _l. XII. Tit. LVI. LVII._

[298] Trovavasi parimente in Italia il _Vicario_ di Roma: e si è molto
disputato, se la sua giurisdizione si contenesse nelle cento miglia
dalla città, o s'estendesse sopra le dieci Province meridionali
dell'Italia.

[299] Fra le opere del celebre Ulpiano ve n'era una in dieci libri
intorno all'uffizio del Proconsole, i doveri del quale, quanto alla
sostanza, eran gli stessi che quelli d'un ordinario Governator di
Provincia.

[300] I Presidenti o Consolari potevano imporre soltanto la pena di due
once; i Vice-prefetti di tre; i Proconsoli, il conte di Oriente, ed il
Prefetto d'Egitto di sei. Vedi Heinec. Jur. Civ. _Tom. I. p. 75._
Pandect. _L. LXVIII. Tit. XIX. n. 8._ Cod. Justinian. _L. I. Tit. LIV.
leg. 4. 6._

[301] _Ut nulli Patriae tuae administratio sine speciali Principis
permissu permittatur_ Cod. Justin. _l. I. Tit. LXI_. Fu pubblicata la
prima volta questa legge dall'Imperator Marco dopo la ribellione di
Cassio _Dion. l. LXXI_. Il medesimo si osserva nella China con ugual
rigore ed effetto.

[302] Pandect. _l. XXXIII. Tit. II. n. 38, 57, 63_.

[303] _In jure continetur, ne quis in administratione constitutus
aliquid compararet_ Cod. Theodos. _l. VIII. Tit. XV. l. 1_. Questa
massima di Gius comune fu confermata da una serie di editti da
Costantino fino a Giustino (vedi il restante del Titolo). Si eccettuano
da tale proibizione, che s'estende fino a' più bassi ministri del
Governatore, solamente le vesti e le provvisioni per vivere. L'acquisto
fatto dentro i cinque anni potea revocarsi; dopo di che, se scuoprivasi,
era devoluto al tesoro pubblico.

[304] _Cessent rapaces jam nunc officialium manus; cessent, inquam; nam
si moniti non cessaverint, gladiis praecidentur_: Cod. Theodos. _l. I
Tit. VII. leg. 1_. Zenone ordinò, che tutti i Governatori per cinquanta
giorni dopo spirato il tempo del lor governo, restassero nella Provincia
per rispondere a qualunque accusa: Cod. Justin. _lib. II. Tit. XLIX leg.
1_.

[305] _Summa igitur ope et alacri studio has leges nostras accipite, et
vosmetipsos sic eruditos ostendite, ut spes vos pulcherrima foveat, toto
legitimo opere perfecto, posse etiam nostram Rempublicam in partibus
ejus vobis credendis gubernari._ Justinian. _Proem. Instit._

[306] Lo splendore della scuola di Berito, che mantenne nell'Oriente
l'idioma e la giurisprudenza de' Romani, si può considerare che durasse
dal terzo secolo fino alla metà del sesto. Heinec. _Jur. Rom. Hist. p.
351-356._

[307] Siccome in un tempo anteriore esposi la civile e militare
promozione di Pertinace, così inserirò qui gli onori civili di Mallio
Teodoro. In primo luogo egli si distinse per la sua eloquenza, mentre
perorava come avvocato nel Tribunale del Prefetto del Pretorio;
secondariamente governò una Provincia dell'Affrica o come Presidente, o
come Consolare, e nella sua amministrazione meritò l'onore di una statua
di rame; 3. fu dichiarato Vicario o Viceprefetto di Macedonia; 4.
Questore; 5. Conte delle sacre largizioni; 6. Prefetto del Pretorio
delle Gallie, mentre poteva anche passare per giovane; 7. dopo una
ritirata e forse una disgrazia di molti anni, che Mallio (confuso da
alcuni critici col poeta Manilio, vedi Fabric. _Biblio. Latin. Edit.
Ernest. Tom. I. c. 18. p. 501_) impiegò nello studio della filosofia
Greca, fu eletto Prefetto del Pretorio dell'Italia nell'anno 397. 8.
mentre tuttavia esercitava quella gran carica fu creato nell'anno 399
Console per l'Occidente; ed il suo nome per causa dell'infamia del suo
collega, l'eunuco Eutropio, spesse volte si trova solo ne' Fasti; 9.
nell'anno 408 Mallio fu fatto la seconda volta Prefetto del Pretorio
dell'Italia. Anche nel venale panegirico di Claudiano si scuopre il
merito di Mallio Teodoro, il quale per una rara avventura era intimo
amico di Simmaco e di S. Agostino. Vedi Tillemont _Hist. des Emp. Tom.
V. p. 1110-1114_.

[308] Mamertin. _in Panegyr. vol. XI. 20. Aster. ap. Phor. p. 1500._

[309] Il curioso passo d'Ammiano (_l. XXX. c. 4_), con cui dipinge i
costumi de' legali suoi contemporanei, somministra uno strano mescuglio
di buon senso, di falsa rettorica e di stravagante satira. Gotofredo
(_Prolegom. ad. Cod. Theodos. c. 1. p. 185_) conferma ciò che dice
l'Istorico con querele somiglianti e con autentici fatti. Nel quarto
secolo potevan caricarsi molti cammelli co' libri legali. Eunap. _in
vit. Edesii p. 72_.

[310] Se ne veda un esempio assai splendido nella vita d'Agricola,
specialmente ne' _cap._ 20 e 21. Al Luogotenente della Gran-Brettagna
s'affidava l'istesso potere, che Cicerone, Proconsole della Cilicia,
aveva esercitato in nome del Senato e del Popolo.

[311] L'Abbate Dubos, che ha esaminato con accuratezza (vedi _Hist. de
la Mon. Franc. Tom. I p. 41-100 edit. 1742_) le instituzioni e di
Augusto e di Costantino, avverte, che, se Ottone fosse stato ucciso il
giorno avanti ch'eseguisse la sua cospirazione, egli comparirebbe adesso
nell'Istoria ugualmente innocente che Corbulone.

[312] Zosimo _l. II. p. 110_. Avanti che finisse il regno di Costanzo i
_Magistri militum_ erano già cresciuti fino a quattro. Ved. Vales. _Ad
Ammian. l. XVI. c. 7._

[313] Quantunque si faccia spesso menzione de' Conti e dei Duchi
militari sì nella storia che ne' codici, tuttavia per avere un'esatta
cognizione del numero e delle stazioni di essi, convien ricorrere alla
_Notizia_. Quanto all'instituzione, al grado, a' privilegi de' Conti in
generale, vedi il Cod. Teodos. _lib. VI. Tit. XII-XX_ col Comentario del
Gotofredo.

[314] Zosim. _l. 2. p. 14_. Con molta oscurità s'esprime la distinzione
fra le due classi delle truppe Romane tanto appresso gli storici, quanto
nelle leggi e nella _Notizia_. Si consulti ciò nonostante il copioso
_Paratitlon_ o estratto del Gotofredo al libro VII del Codice Teodosiano
_de re militari l. VII. Tit. I. leg. 18. lib. VIII. Tit. I. leg. 10_.

[315] _Ferox erat in suos miles et rapax, ignavus vero in hostes et
fractus_, Ammiano _l. XXII. c. 4_. Egli osserva, che amavano i morbidi
letti, e le case di marmo, e che più pesavano le loro coppe che le loro
spade.

[316] Cod. Theodos. _l. VII, Tit. I. leg. 1. Tit. XII. leg. 1_. Vedi
Howell _Istor. del Mond. Vol. II p. 19_. Questo dotto istorico, che non
è conosciuto abbastanza, si sforza di giustificare il carattere e la
politica di Costantino.

[317] Ammiano _l. XIX. c. 2_. Egli osserva, (c. 5.) che il disperato
ardore di due legioni Galliche fu come un pugno d'acqua gettata in un
grand'incendio.

[318] Pancirol. _ad Notit. Mem. de l'Acad. des Inscr. T. XXV. p. 491_.

[319] _Romana acies unius prope formae erat et hominum, et armorum
genere. Regia acies varia magis multis gentibus dissimilitudine armorum,
auxiliorumque erat._ Tit. Liv. _l. XXXVII. c. 39, 40_. Flaminio anche
prima dell'evento avea paragonato l'esercito d'Antioco ad una cena, in
cui si fosse cucinata la carne d'un vile animale in diverse maniere
dall'arte de' cuochi. Vedi _la vita di Flamin._ in Plutarco.

[320] Agat. _l. V. p. 157. Edit. Louvre_.

[321] Valentiniano (Cod. _Theod. l. VII. Tit. XIII. leg. 3_) ne fissa la
misura a cinque piedi e sette dita, che sono circa cinque piedi e
quattro pollici e mezzo inglesi. Prima era stata di cinque piedi, e
dieci dita, e ne' migliori corpi di sei piedi romani. _Sed tunc erat
amplior multitudo, et plures sequebantur militiam armatam._ Veget. _de
re milit. l. I c. 5_.

[322] Vedi i due Titoli _De Veteranis_, _De Filiis Veteran_. nel settimo
libro del Cod. Teodos. L'età, in cui s'esigeva il militar servizio, era
varia, da' sedici a' venticinque anni. Se i figli de' veterani venivano
con un cavallo, avean diritto di militare nella cavalleria; due cavalli
poi davano loro altri stimabili privilegi.

[323] _Cod. Theodos. l. VII. Tit. XIII. leg. 7._ Secondo l'Istorico
Socrate (vedi Gotofr. ivi), l'istesso Imperator Valente alle volte
esigeva ottanta monete d'oro per una recluta. Nella Legge seguente
freddamente si esprime, che non siano ammessi gli schiavi _inter optimas
lectissimorum militum turmas_.

[324] Per ordine d'Augusto, si venderono al pubblico incanto la persona,
ed i beni d'un cavalier Romano, che avea mutilato due suoi figliuoli
(Sueton. _in Aug. c. 27_). La moderazione di quell'artificioso
usurpatore dimostra, che quest'esempio di severità era giustificato
dallo spirito de' tempi. Ammiano fa una distinzione fra gli effeminati
Italiani ed i coraggiosi Galli (_l. XV. c. 12_). Pure non più che
quindici anni dopo, Valentiniano in una legge diretta al Prefetto della
Gallia, è costretto a ordinare, che questi vili disertori siano bruciati
vivi (_Cod. Theod. l. VII. Tit. XIII. leg. 5_). Erano tanto moltiplicati
nell'Illirico, che la Provincia si lagnava della scarsità di reclute,
_Ib. leg. 10_.

[325] Essi erano chiamati _Murci_. Si trova in Plauto ed in Festo la
parola _murcidus_ per indicare una persona, pigra e codarda, che secondo
Arnobio ed Agostino era sotto l'immediata protezione della Don _Murcia_.
Per causa di questa particolare specie di codardia gli scrittori della
Latinità di mezzo prendon _murcare_ per sinonimo di _mutilare_. Vedi
Lindenborg e Vales. _ed_ Ammian. Marcell. _l. XV. c. 12_.

[326] _Malarichus — adhibitis Francis, quorum ea tempestate in palatio
multitudo florebat, erectius jam loquebatur, tumultuabaturque._ Ammian.
_l. XV. c. 5._

[327] _Barbaros omnium primus ad usque fasces auxerat et trabeas
consulares._ Ammian. _l. XX. c. 10_. Sembra che Eusebio (_in vit. Const.
l. IV. c. 7_) ed Aurelio Vittore confermino la verità di tale
asserzione; pure ne' trentadue Fasti consolari del regno di Costantino
non ho potuto trovare il nome d'un solo Barbaro. Crederei dunque che la
liberalità di quel Principe si riferisse agli ornamenti piuttosto che
all'uffizio del Consolato.

[328] Cod. Theod. _lib. VI. Tit. VIII_.

[329] Per una metafora ben singolare, presa dal militar carattere de'
primi Imperatori, il loro Maestro di Casa era chiamato Conte del loro
campo (_Comes castrensis_). Cassiodoro rappresenta con molta serietà al
Principe, che la riputazione di lui e dell'Impero dovea dipendere
dall'opinione, che gli ambasciatori stranieri avrebber concepito
dell'abbondanza e magnificenza della tavola reale (_Var. l. VI. epist.
9_).

[330] Guterio (_De offic. Domus Aug. l. II. c. 20. l. III._) ha con
molta esattezza spiegate le funzioni del Maestro degli Uffizj, e la
costituzione degli _Scrinia_ al medesimo subordinati. Ma invano egli
tenta, sulla più dubbiosa autorità, di condurre al tempo degli Antonini,
o anche di Nerone l'origine d'un Magistrato, che non si può trovar
nell'Istoria prima del regno di Costantino.

[331] Tacito (_Annal. XI. 22_) dice, che i primi Questori furono eletti
dal popolo, sessantaquattro anni dopo la fondazione della Repubblica; ma
egli è d'opinione ch'essi lungo tempo avanti si creassero annualmente
da' Consoli ed anche da' Re. Ma tale oscuro punto d'antichità è
contrastato da altri scrittori.

[332] Sembra, che Tacito (_Annal. XI. 22_) consideri come il numero
maggior de' Questori quello di venti; e Dione (_l. XLIII. p. 374_) fa
conoscere che se Cesare il Dittatore una volta ne creò quaranta, ciò fu
solamente ad oggetto di facilitare il pagamento d'un immenso debito di
gratitudine. Pure l'aumentazione, ch'egli fece de' Pretori, si mantenne
anche ne' successivi regni.

[333] Sueton. in _Aug. c._ 65. e Torrent. _iv._ Dion. Cass. p. 755.

[334] La gioventù ed inesperienza de' Questori, ch'entravano in
quell'importante carica nel loro ventesimoquinto anno (_Lips. Excurs. ad
Tacit. l._ III. _D._) obbligarono Augusto a rimuoverli dal maneggio del
tesoro; e quantunque fosse loro da Claudio restituito, sembra che ne
fossero finalmente privati da Nerone (Tacit. _Annal._ XXII. 29. Sueton.
_in Aug. c._ 36. _in Claud. c._ 24. Dion. _pag._ 666. 961. _ec._ Plin.
_Epist._ X. 20 _et alib._) Nelle Province della divisione Imperiale, in
luogo de' Questori con miglior consiglio si ponevano i _Procuratori_
(_Dion. Cass. p._ 707. Tacit. _in vit. Agricol. c._ 15) o come si
chiamarono in seguito, i _Razionali_ (_Hist. Aug. p._ 130). Ma nelle
province del Senato si trova sempre una serie di Questori fino al Regno
di Marco Antonino (Vedi le Iscrizioni di Grutero, l'epistole di Plinio,
ed un fatto decisivo nella Storia Augusta p. 64). Si può rilevare da
Ulpiano (_Pandect. l._ I. _Tit._ 13.) che fu abolita la loro provinciale
amministrazione sotto il governo della casa di Severo; e nelle
successive turbolenze dovettero naturalmente cessare le annuali o
triennali elezioni de' Questori.

[335] _Cum patris nomine et epistolas ipse dictaret, et edicta
conscriberet, orationesque in senatu recitaret, etiam Quaestoris vice._
Sueton. _in Tit. c._ 6. Quest'uffizio dovè acquistare anche maggior
dignità per essere accidentalmente stato esercitato dal presuntivo erede
dell'Impero. Traiano affidò la medesima cura ad Adriano suo Questore e
Cugino. Vedi Dodwell _Praelect. Cambden. X. XI. pag._ 362, 394.

[336]

    _... Terris edicta daturus_
    _Supplicibus responsa... Oracula regis_
    _Eloquio crevere tuo; nec dignius unquam_
    _Majestas meminit sese Romana locutam._

Claudian. _in Cons. Mall. Theod._ 33. Vedi ancora Simmaco _Epist._ I 17,
e Cassiodoro _Var_, VI. 5.

[337] Cod. Theodos. _l._ VI. Tit. 30. Cod. Justin. _lib._ XII. _Tit._
24.

[338] Ne' dipartimenti de' due Conti del Tesoro, la parte Orientale
della _Notizia_ è molto mancante. Egli è da osservarsi, che si trovava
una cassa pubblica in Londra, ed un Gineceo, o manifattura in
Winchester. Ma la Britannia non era creduta degna nè d'una zecca, nè
d'un arsenale. La sola Gallia ne aveva tre delle prime ed otto de'
secondi.

[339] Cod. Theodos. _l._ VI. _Tit._ XXX. _leg._ 2 e Gotofredo _Ib_.

[340] Strab. _Geogr. l._ XII. _p._ 809. L'altro Tempio di Comana in
Ponto era una colonia di quello della Cappadocia _l._ XII _p._ 825. Il
Presidente di Brosses (Vedi il suo Salust. _Tom._ II. _p._ 21)
congettura, che la Divinità adorata nelle due Comane fosse _Beltis_, la
Venere d'Oriente o la Dea della generazione; ente ben diverso in vero
dalla Dea della guerra.

[341] Cod. Theodos. _l._ X. _Tit._ V. _De Grege Dominico_. Gotofredo ha
raccolto tutti gli antichi passi relativi a' cavalli della Cappadocia.
La _Palmaziana_, ch'era una delle più belle razze, fu confiscata ad un
ribelle, il patrimonio del quale era sedici miglia distante da Tiana,
vicino alla strada pubblica tra Costantinopoli ed Antiochia.

[342] Giustiniano _Novell._ 30 sottopose il dipartimento del Conte della
Cappadocia all'autorità immediata dell'Eunuco favorito, che presedeva al
_Sacro cubicolo_.

[343] Cod. Theod. _l._ VI. _Tit._ XXX. _leg._ 4. _ec._

[344] Pancirolo _p._ 102, 136. Si descrive l'apparato di questi
Domestici militari nel poema latino di Corippo: De Laudibus Justin. _l._
III. _p._ 157-179, 420 _dell'_Append. dell'Istor. Bizant. _Rom._ 1777.

[345] Ammiano Marcellino, che servì tanti anni, non potè ottenere, che
il rango di Protettore. I primi dieci fra questi onorevoli soldati eran
_Clarissimi_.

[346] Senofont, _Cyrop. l._ VIII. Briston _De regn. Persic. l._ I. _n._
190. _p._ 264. Gl'Imperatori adottarono con piacere questa metafora
Persiana.

[347] Quanto agli _agentes in rebus_ vedi Ammiano _l._ XV. _c._ 3. _l._
XVI. _c._ 5. _l._ XXII. _c._ 7. colle curiose annotazioni del Valesio.
Cod. Theod. _l._ VI. _Tit._ XXVII. XXVIII. XXIII. Fra i passi raccolti
nel Comentario del Gotofredo, il più osservabile è quello preso da
Libanio nel suo discorso intorno alla morte di Giuliano.

[348] Le Pandette (_l._ XLVIII. _Tit._ XVIII.) contengono i sentimenti
de' più celebri Giureconsulti a proposito della tortura. Essi la
restringono solo agli schiavi; Ulpiano stesso è pronto a confessare, che
_res est fragilis, et periculosa, et quae veritatem fallat_.

[349] Nella cospirazione di Pisone contro Nerone, Epicaride (_libertina
mulier_) fu l'unica persona torturata; tutti gli altri furono _intacti
tormentis_. Sarebbe superfluo l'aggiungere esempi di questo più deboli,
e difficile il trovarne de' più forti. Tacito. _Annal._ XV. 57.

[350] _Dicendum,.. de institutis Atheniensium, Rhodiorum_ _doctissimorum
hominum, apud quos etiam (id quod acerbissimum est) liberi civesque
torquentur etc._ Cicer. _Partit. Orat._ 6. 34. Può rilevarsi dal
processo di Filota la pratica de' Macedoni. Diodor. Sicul. _l._ XVII.
_p._ 604. Q. Curt. _l._ VI. _c._ 11.

[351] L'Eineccio (_Elem. Jur. Civ. P._ VII. _p._ 81) ha riunite insieme
tutte queste esenzioni.

[352] Sembra che questa definizione del prudente Ulpiano (_Pandect. l._
XLVIII. _Tit._ IV.) fosse adattata alla Corte di Caracalla, piuttosto
che a quella di Alessandro Severo. Vedi i Codici di Teodosio e di
Giustiniano _ad leg. Juliam majestat_.

[353] Arcadio Carisio è il Giurisconsulto più vecchio citate dalle
Pandette per giustificare l'universal uso della tortura in tutti i casi
di ribellione; ma questa massima di tirannia, ch'è ammessa da Ammiano
(_l._ XIX. _c._ 12) col più rispettoso terrore, vien confermata da varie
leggi de' successori di Costantino. Vedi Cod. Theod. _l._ IX. _Tit._
XXXV. _In majestatis crimine omnibus aequa est conditio_.

[354] Montesquieu _Espr. des Loix l._ XII. _c._ 13.

[355] David Hume (_Sagg. vol. I. p._ 389) ha veduto quest'importante
verità con qualche specie di dubbiezza.

[356] Si usa tuttavia nella Corte del Papa il ciclo delle Indizioni, che
può farsi rimontare sino al regno di Costanzo, e forse di Costantino suo
padre; ma è stato molto ragionevolmente alterato il principio del loro
anno, riducendolo ai primo di Gennaio. Vedi L'art de verif. les dat.
_p._ XI, il diction. Raison de la Diplomat. _Tom._ II _p._ 25, e due
diligenti trattati che abbiamo per opera de' Benedettini.

[357] I primi 28 Titoli dell'undecimo libro del Codice Teodosiano sono
pieni di circostanziati regolamenti sull'importante materia de' tributi;
ma suppongono una cognizione dei principj fondamentali più chiara di
quella che siamo presentemente in grado d'avere.

[358] Il Titolo, che risguarda i Decurioni (_l._ XII. _Tit._ I.) è il
più ampio in tutto il Codice Teodosiano; mentre non contiene meno di
cento novantadue leggi per determinare i doveri, ed i privilegi di
quell'utile ceto di Cittadini.

[359] _Habemus enim et hominum numerum qui delati sunt et agrum modum._
Eumen. _in Paneg. vet._ VIII. 6. Vedi Cod. Theod. _l._ XIII. _Tit._ X.
XI. col Coment. di Gotofredo.

[360] _Si quis sacrilega vitem falce succiderit, aut feracium ramorum
foetus hebetaverit, quo declinet fidem censuum, et mentiatur callide
paupertatis ingenium, mox detectus capitale subibit exitium, et bona
ejus in Fisci jura migrabunt._ Cod. Theod. _l._ XIII. _Tit._ XI. _leg._
1. Sebbene questa legge non sia esente da una studiata oscurità, essa è
però sufficientemente chiara per provare quanto fosse minuta
l'inquisizione, e sproporzionata la pena.

[361] Sarebbe cessata la maraviglia di Plinio. _Equidem miror P. R.
victis gentibus argentum semper imperitasse non aurum._ Hist. Nat.
XXIII. 15.

[362] Furono prese precauzioni (Vedi Cod. Theod. _l._ XI. _Tit._ II. _e_
Cod. Justin. _l._ X. _Tit._ XXVII. _leg._ 1, 2, 3,) per restringer ne'
Magistrati l'abuso dell'autorità sì nell'esazione che nella compra del
grano; ma quelli che avevano tant'abilità da leggere le Orazioni di
Cicerone contro Verre (III _de frument._) potevano istruirsi di tutte le
diverse arti d'oppressione, rispetto al peso, al prezzo, alla qualità ed
al trasporto delle specie. L'avarizia d'un Governatore senza lettere
poteva supplire alla sua ignoranza.

[363] Cod. Theod. _lib._ XI. _Tit._ XXVIII. _leg._ 1 pubblicata il dì
24. Marzo dell'anno 395 dall'Imperatore Onorio, solo due mesi dopo la
morte di Teodosio suo padre. Egli parla di 528,042 jugeri Romani, che ho
ridotto alla misura Inglese. Il jugero conteneva 28800. piedi quadrati
Romani.

[364] Gotofredo (_Cod. Theod. Tom._ VI. _p._ 116) tratta con gravità e
dottrina il soggetto della capitazione; ma volendo egli interpretar la
parola _caput_ per una parte o misura di beni, esclude troppo
assolutamente l'idea d'una tassa personale.

[365] _Quid profuerit (Julianus) anhelantibus extrema penuria Gallis,
hinc maxime claret, quod primitus partes eas ingressus pro capitibus
singulis tributi nomina vicenos quinos aureos reperit flagitari;
discedens vero septenos tantum munera universa complentes._ Ammiano _l._
XVI. _c._ 5.

[366] Nel computo della moneta sotto Costantino ed i suoi successori,
noi non abbiamo che a riferirci all'eccellente discorso di Greaves sopra
il _Denarius_ per esser convinti delle seguenti proposizioni: 1. Che
l'antica e moderna libbra Romana, che contiene 5256 grani di peso di
dodici once la libbra, è più leggiera circa la duodecima parte della
libbra Inglese, ch'è composta di 5760 di que' grani medesimi; 2. Che la
libbra d'oro, la quale una volta era stata divisa in quarantotto
_aurei_, era in quel tempo ridotta a settantadue monete più piccole che
avevan l'istesso nome; 3. Che si davano legittimamente cinque di questi
_aurei_ per una libbra d'argento, e che per conseguenza la libbra d'oro
si cambiava per quattordici libbre e ott'once d'argento secondo il peso
Romano, o per circa tredici libbre secondo l'Inglese; 4. Che la libbra
Inglese d'argento si conia in sessantadue scellini. Posti questi
principj, si può computare la libbra Romana d'oro, ch'è la comune misura
di grosse somme, per quaranta lire sterline, ed il corso dell'_aureo_
per qualche cosa più d'undici scellini.

[367]

    _Geryones nos esse puta, monstrumque tributum,_
    _Hinc capita ut vivam tu mihi tolle tria._

Sidon. Apoll. _Carm._ XIII. La riputazione del P. Sirmondo mi faceva
sperare maggior soddisfazione nella sua nota a questo notevol passo (p.
144) di quella che vi ho trovata. Le parole _suo vel suorum nomine_
dimostrano l'ambiguità del Comentatore.

[368] Per quanto possa quest'asserzione sembrar molto estesa, essa è
fondata sugli originali registri delle nascite, delle morti, e de'
matrimonj, tenuti con pubblica autorità e presentemente depositati nella
_Controlleria_ Generale di Parigi. Il prodotto annuale delle nascite per
tutto il regno preso in cinque anni (dal 1770 al 1774 l'uno e l'altro
inclusive) è di 479649 maschi e di 449269 femmine, in tutto di 928918
fanciulli. La sola Provincia dell'Hainault Francese dà 9906 nascite, e
siamo assicurati da un'effettiva enumerazione del popolo, che si è
ripetuta ogni anno dal 1773 al 1776, che fatto il calcolo, l'Hainault
contiene 257097 abitanti. Secondo la regola d'una giusta analogia
possiam dedurre, che la proporzione ordinaria delle nascite annuali a
tutta la popolazione è di circa 1 a 26, e che il regno di Francia
contiene 24,151,868 persone d'ambedue i sessi e d'ogni età. Se ci
contentiamo poi della più moderata proporzione di 1 a 25, tutta la
popolazione ascenderà a 23,222,950. Dalle diligenti ricerche del Governo
Francese (le quali non sono indegne della nostra imitazione) possiamo
aspettare un grado di certezza sempre maggiore su quest'importante
soggetto.

[369] Cod. Theod. _l. V. Tit. IX. X. XI_. Cod. Justin. _l. XI. Tit.
LXIII. Coloni appellantur, qui conditionem debent genitali solo, propter
agriculturam sub dominio possessorum_ August. _De Civ. Dei l. X. c. 1_.

[370] L'antica giurisdizione di (_Augustodunum_) Autun in Borgogna,
capitale degli Edui, comprendeva l'adiacente territorio di
(_Noviodunum_) Nevers. Vedi Danville, _Not. de l'anc. Gaul. p. 491_. Le
due Diocesi d'Autun e di Nevers adesso sono composte la prima di 110 e
l'altra di 160 Parrocchie. I registri delle nascite, tenuti per undici
anni in 476 Parrocchie della medesima Provincia di Borgogna, e
moltiplicati secondo la moderata proporzione per 25. (Vedi Messance,
_Ricerche sulla popolaz. p. 142_) ci autorizzano ad assegnare il numero
netto di 656 persone ad ogni parrocchia, il qual numero venendo
moltiplicato per le 770 parrocchie della Diocesi di Nevers, e d'Autun,
produrrà la somma di 505,120 persone per l'estensione del paese una
volta occupato dagli Edui.

[371] Si può fare un'aggiunta di 301,750 abitanti per le Diocesi di
Scialon (_Cabillonum_) e di Macon (_Matisco_); poichè l'una contiene 200
Parrocchie e l'altra 260. Potrebbe giustificarsi quest'aumento di
territorio con molte speciose ragioni. 1. Scialon e Macon erano senza
dubbio comprese nella primitiva giurisdizione degli Edui (vedi Danville
_Not. p. 187, 443_). 2. Nella Notizia di Gallia si trovan notate non
come _Civitates_, ma solo come _Castra_. 3. Non sembra che sieno state
sedi Episcopali prima del quinto e del sesto secolo. Contuttocciò v'è un
passo d'Eumenio (_Paneg. vet. VIII. 7_) che con gran forza m'impedisce
d'estendere il territorio degli Edui, nel regno di Costantino, lungo le
belle rive della navigabile Saona.

[372] Eumen. _in Paneg. Vet. VIII. 11_.

[373] L'Ab. Dubos Hist. Crit. de la M. F. Tom. I. p. 121.

[374] Vedi Cod. Theod. _lib. XIII. Tit. I. c. IV_.

[375] Zosimo _l. II. p. 115_. Probabilmente si trova negli attacchi di
Zosimo tanta passione e pregiudizio, quanta nella elaborata difesa fatta
della memoria di Costantino dallo zelante dottor Howel _Ist. del Mond.
Vol. II. p. 20_.

[376] Cod. Theod. _l. XI. Tit. VII. leg. 3_.

[377] Vedi Lips. _De Magnitud. Rom. l. II. c. 9_. La Spagna Tarragonese
presentò all'Imperator Claudio una corona d'oro di settecento libbre di
peso, e la Gallia un'altra di novecento. Ho seguìto la ragionevole
correzione di Lipsio.

[378] Cod. Theod. _l. XII. Tit. XIII_. I Senatori si supponevano esenti
dall'_aurum coronarium_; ma l'_oblatio auri_, che si esigeva dalle lor
mani, era precisamente dell'istessa natura.



CAPITOLO XVIII.

      _Carattere di Costantino. Guerra Gotica. Morte di Costantino.
      Divisione dell'Impero fra' tre suoi figli. Guerra di Persia.
      Tragiche morti di Costantino il Giovane, e di Costante.
      Usurpazione di Magnenzio. Guerra civile. Vittoria di Costanzo._


Il carattere d'un Principe, che mutò la sede dell'Impero, ed introdusse
cangiamenti così importanti nella civile e religiosa costituzione del
suo dominio, ha fissato l'attenzione, e diviso i sentimenti degli
uomini. Il liberator della Chiesa dal grato zelo de' Cristiani è stato
decorato di tutte le qualità d'un Eroe ed eziandio d'un Santo; mentre il
dissapore del partito, che restò vinto, ha paragonato Costantino al più
abbominevole di que' Tiranni, che per il vizio e per la debolezza loro
disonorarono la porpora Imperiale. Si sono in qualche modo perpetuate le
passioni stesse nelle successive generazioni; ed il carattere di
Costantino anche nel presente secolo si risguardava come un oggetto o di
satira o di panegirico. Dall'imparziale unione di que' difetti, che si
confessano da' più ardenti di lui ammiratori, e di quelle virtù, che gli
si concedono da' più implacabili suoi nemici, noi potremmo sperar di
formare un giusto ritratto di quell'uomo straordinario, che adottar si
potesse dalla verità o dal candor d'un istorico senza rossore[380]. Ma
tosto si vedrebbe, che la vana impresa di unire colori così discordi, e
di conciliare qualità sì incoerenti, produrrebbe una figura mostruosa
piuttosto che umana, qualora non si guardasse nel suo proprio e distinto
lume, per mezzo d'un'esatta separazione de' differenti periodi del regno
di Costantino.

La natura aveva arricchito delle più scelte doti la persona ugualmente
che l'animo di Costantino. Egli era alto di statura, d'aspetto maestoso,
e grazioso nel portamento; in ogni esercizio cavalleresco mostrava la
propria forza ed attività; e dalla sua più tenera gioventù fino ad
un'età molto avanzata, conservò il vigore della sua costituzione per un
esatto attaccamento alle domestiche virtù della castità e della
temperanza. Si dilettava del socievol commercio, della conversazione
famigliare; e quantunque alle volte secondasse la sua disposizione a
mettere in burla con minor riserva di quella che richiedeva la severa
dignità del suo posto, la cortesia però e la liberalità delle sue
maniere guadagnavano i cuori di tutti coloro che lo trattavano. Si è
avuta per sospetta la sincerità della sua amicizia; ma dimostrò in varie
occasioni, ch'esso non era incapace d'un vivo e durevole affetto.
L'inconveniente di un'educazione senza letteratura non aveva impedito
ch'egli si formasse una giusta idea dell'importanza del sapere; e le
arti e le scienze riconobbero qualche incoraggiamento dalla generosa
protezione di Costantino. Nella spedizione degli affari, la sua
diligenza era instancabile; e le attive facoltà del suo spirito erano
quasi di continuo esercitate in leggere, scrivere, o meditare, in dare
udienza agli ambasciatori, ed in esaminar le querele de' propri sudditi.
Anche quelli, che censurarono la giustezza delle sue misure, furon
costretti a confessare, che esso aveva della magnanimità nel concepire,
e della pazienza nel mettere in esecuzione i disegni più ardui,
senz'essere impedito nè dai pregiudizi dell'educazione, nè dai clamori
della moltitudine. In battaglia, comunicava la sua intrepidezza alle
truppe, che comandava coll'abilità d'un consumato Generale; ed al suo
sapere piuttosto che alla fortuna si possono attribuire le segnalate
vittorie, che riportò contro gli estranei ed i domestici nemici della
Repubblica. Amava la gloria, come il premio, e forse come il motivo
delle sue fatiche. Può giustificarsi quella ambizione senza limiti, che
dal momento, in cui accettò la porpora a York, comparisce come la sua
passion dominante, da' pericoli della sua situazione, dal carattere de'
suoi rivali, dalla cognizione d'un merito superiore e dall'apparenza,
che il buon successo l'avrebbe posto in grado di restituir la pace e il
buon ordine all'Impero diviso. Nelle sue guerre civili contro Massenzio
e Licinio, aveva guadagnato in suo favore le inclinazioni del popolo,
che confrontava gli aperti vizi di que' tiranni collo spirito di
prudenza e di giustizia, che sembrava dirigere la general condotta di
Costantino[381].

Questo è il carattere che Costantino avrebbe, con poche eccezioni,
trasmesso alla posterità, se fosse morto sulle rive del Tevere, o anche
nelle pianure d'Adrianopoli. Ma il fine del suo regno (secondo la
moderata e veramente mite sentenza d'un autore del medesimo secolo) lo
degradò da quel posto, che s'era acquistato fra' più degni Principi
Romani[382]. Nella vita d'Augusto s'osserva il tiranno della Repubblica
convertito quasi per insensibili gradi nel padre della sua patria e del
genere umano. In quella di Costantino si può considerare un Eroe, che
aveva per tanto tempo inspirato l'amore di se ne' suoi sudditi, ed il
terrore ne' suoi nemici, che degenera in un crudele e dissoluto Monarca,
corrotto dalla propria fortuna, o dalla conquista elevato al di là della
necessità di simulare. La pace generale, ch'egli mantenne gli ultimi
quattordici anni del suo regno, fu un periodo di splendore apparente,
piuttosto che di reale prosperità; e la vecchiezza di Costantino restò
infamata dai due opposti ma conciliabili vizi della rapacità e della
prodigalità. I tesori che si trovarono accumulati ne' palazzi di
Massenzio e di Licinio, furono profusamente scialacquati; le diverse
innovazioni fatte dal conquistatore portarono aumento di spese;
l'importare delle sue fabbriche, la sua Corte, e le sue feste
richiedevano immediati e grossi sussidj; e l'unico fondo, che sostener
potesse la magnificenza del Sovrano, era l'oppressione del popolo[383].
Gl'indegni suoi favoriti, arricchiti dall'infinita liberalità del loro
Signore, usurpavano impunemente il privilegio della rapina e della
corruzione[384]. Si sentiva in ogni parte della pubblica amministrazione
una segreta ma universal decadenza, e l'Imperatore medesimo, quantunque
sempre conservasse l'ubbidienza, perdè però appoco appoco la stima dei
propri sudditi. L'abito ed i costumi, che affettò nel declinare degli
anni, non servirono che ad avvilirlo agli occhi del Mondo. La pompa
Asiatica, ch'erasi adottata dalla vanità di Diocleziano, prese un'aria
di mollezza e d'effeminatezza nella persona di Costantino. Egli è
rappresentato con una finta chioma di varj colori, artificiosamente
disposta da' periti acconciatori di quel tempo; con un diadema di nuova
e più dispendiosa invenzione; con una profusione di gemme e di perle, di
collane e di smanigli; e con una mobile veste di seta a' diversi colori
molto vagamente ricamata con fiori d'oro. In tale arnese, che appena
potrebbe scusarsi dalla gioventù e dalla follia di Elagabalo, non ci è
permesso di ravvisar la saviezza d'un attempato Monarca e la semplicità
d'un veterano di Roma[385]. Un animo così corrotto dalla prosperità e
dalla compiacenza, era incapace d'innalzarsi a quella magnanimità che
sdegna i sospetti, e che s'arrischia a perdonare. La morte di Massimiano
e di Licinio può giustificarsi per avventura da quelle massime di
politica, che s'apprendono nelle scuole de' tiranni; ma un racconto
imparziale dell'esecuzioni o piuttosto degli assassinamenti, che
macchiarono gli ultimi anni di Costantino, suggeriranno alla più candida
nostra mente l'idea d'un Principe, che poteva sagrificar senza ribrezzo
le leggi della giustizia ed i sentimenti della natura, a' dettami o
delle sue passioni o dell'interesse.

Sembrava che la medesima fortuna, che aveva tanto costantemente seguito
le bandiere di Costantino, assicurasse le speranze e i conforti della
sua vita domestica. Quelli fra' suoi Predecessori, che avevan goduti più
prosperi e lunghi regni, come Augusto, Traiano e Diocleziano, erano
stati mancanti di posterità; e le frequenti rivoluzioni non avevan mai
dato tempo abbastanza ad alcuna famiglia Imperiale di crescere e
moltiplicare all'ombra della porpora. Ma la dignità reale della famiglia
Flavia, che per la prima volta fu nobilitata dal Gotico Claudio, discese
per varie generazioni; e Costantino medesimo ricevè dal proprio padre
gli ereditari onori reali, che tramandò a' suoi figli. L'Imperatore
aveva avuto due mogli. Minervina, oscuro ma legittimo oggetto del suo
giovanile amore[386], non gli aveva lasciato se non che un figlio
chiamato Crispo. Da Fausta, figlia di Massimiano ebbe tre figlie e tre
figli, noti sotto i nomi fra loro simili di Costantino, di Costanzo e di
Costante. A' fratelli non ambiziosi di Costantino Magno, Giulio
Costanzo, Dalmazio ed Annibaliano[387] fu permesso di godere il grado
più onorevole e la più abbondante fortuna, che potesse combinarsi con
uno stato privato. Il più giovane di essi visse oscuramente e senza
posterità. I due maggiori ebbero in matrimonio le figlie di ricchi
Senatori, e propagarono nuovi rami della stirpe Imperiale. Fra i figli
di Giulio Costanzo _Patrizio_, Gallo e Giuliano divennero in seguito i
più illustri. I due figli di Dalmazio, ch'erano stati decorati col vano
titolo di _Censori_, si chiamarono Dalmazio ed Annibaliano. Due sorelle
di Costantino Magno, Anastasia ed Eutropia, furon date per mogli ad
Ottato e Nepoziano, Senatori di nascita nobile e di consolar dignità.
Costanza, terza di lui sorella, si distinse per l'eminente sua grandezza
e miseria. Essa rimase vedova del soggiogato Licinio; e fu per sua
intercessione che un innocente fanciullo, frutto del suo matrimonio,
conservò per qualche tempo la vita, il titolo di Cesare ed una precaria
speranza di successione. Oltre le femmine e gli affini della casa
Flavia, pareva che dieci o dodici maschi, a' quali secondo il linguaggio
delle Corti moderne si darebbe il titolo di Principi del sangue, fossero
destinati o a ereditare per ordine, o a sostenere il trono di
Costantino. Ma in meno di trent'anni questa numerosa e crescente
famiglia fu ridotta alle persone di Costanzo e di Giuliano, che soli
sopravvissero ad una serie di delitti e di calamità, simili a quelle che
i Tragici han deplorato nelle male augurate stirpi di Cadmo e di Pelope.

Crispo, figlio maggiore di Costantino ed erede presuntivo dell'Impero,
vien rappresentato dagl'istorici imparziali come un amabile e compito
giovane. Fu affidata la cura della sua educazione o almen de' suoi studi
a Lattanzio, il più eloquente fra' Cristiani, e precettore mirabilmente
adatto a formare il gusto, e ad eccitar le virtù del suo illustre
discepolo[388]. All'età di diciassette anni Crispo fu insignito del
titolo di Cesare e dell'amministrazione delle Province Galliche, dove le
scorrerie de' Germani gli diedero pronta occasione di segnalare il
militar suo valore. Nella guerra civile, che insorse poco dopo, il padre
ed il figlio divisero le loro forze; ed in quest'istoria è stato già
celebrato il valore e la condotta di quest'ultimo nel forzare lo stretto
dell'Ellesponto, sì ostinatamente difeso dalla flotta superiore di
Licinio. Quella vittoria navale contribuì a determinar l'evento della
guerra, e si riunirono i nomi di Costantino e di Crispo nelle liete
acclamazioni degli Orientali lor sudditi, che ad alta voce gridavano,
che s'era soggiogato, ed attualmente si governava il mondo da un
Imperatore dotato d'ogni virtù, e dall'illustre di lui figliuolo,
Principe amato dal Cielo e viva immagine delle perfezioni del padre. Il
pubblico favore, che rare volte accompagna la vecchiezza, spargeva il
suo lustro sulla gioventù di Crispo. Egli meritava la stima, e
s'attirava l'affezione della Corte, dell'esercito e del popolo. Il
merito già sperimentato d'un Monarca regnante si confessa da' sudditi
con ripugnanza, e frequentemente si nega con parziali e mal contenti
susurri; laddove dalle nascenti virtù del successore si concepiscono le
più ardenti ed illimitate speranze di una pubblica e privata
felicità[389].

[A. D. 324-325]

Questa pericolosa popolarità eccitò ben presto l'attenzione di
Costantino, che tanto come padre che come Re non sofferiva un uguale. In
vece di procurare di assicurarsi la fedeltà del suo figlio co' generosi
vincoli della confidenza e della gratitudine, risolse di prevenire i
mali, che si potean temere dalla non soddisfatta ambizione. Crispo ebbe
tosto motivo di dolersi, che mentre il suo minor fratello Costanzo si
mandava col titolo di Cesare a regnare sul suo particolar dipartimento
delle Province Galliche[390], _egli_, Principe d'età matura, che avea
prestati sì recenti e segnalati servigi, in luogo d'esser elevato alla
dignità superiore d'_Augusto_, era confinato come prigioniero alla Corte
del padre, ed esposto senza forza o difesa ad ogni calunnia, cui
suggerir potea la malizia de' suoi nemici. In tali difficili
circostanze, il Giovane reale non fu sempre capace di contenere la sua
condotta o di sopprimere la sua scontentezza; e possiamo assicurarci
ch'egli era circondato da una quantità di perfidi o indiscreti compagni,
che di continuo procuravan di accendere, ed eran forse indotti a tradire
la veemenza non riservata del suo risentimento. Un editto di Costantino,
pubblicato verso questo tempo, indica manifestamente i reali o affettati
sospetti di lui, che si fosse fatta una segreta cospirazione contro la
sua persona ed il suo governo. Con tutti gli allettativi di onori e di
premj, esso invita i delatori d'ogni specie ad accusare senz'eccezione i
suoi magistrati o ministri, i suoi amici, o i suoi più intimi favoriti,
protestando con una solenne asserzione, ch'egli stesso avrebbe ascoltata
l'accusa, ed avrebbe da se stesso vendicate le proprie ingiurie; e
terminando con una preghiera, la quale scuopre qualche apprensione di
pericolo, onde la Previdenza dell'Ente supremo continui sempre a
proteggere la salute dell'Imperatore e dell'Impero[391].

[A. D. 326]

I delatori, che secondarono un invito sì liberale, eran versati
abbastanza nelle arti delle Corti per indicar come rei gli amici e gli
aderenti di Crispo; nè v'è alcun motivo di non credere alla veracità
dell'Imperatore, che aveva promesso un'ampia dose di vendetta e di
gastigo. La politica di Costantino, per altro, mantenne le stesse
speranze di riguardo e di confidenza verso d'un figlio, che incominciava
a risguardare come il suo più irreconciliabil nemico. Furon battute
medaglie co' soliti voti pel lungo e felice regno del giovine
Cesare[392]; ed in quella guisa che il popolo, il quale non era ammesso
a' segreti della Corte, amava sempre le sue virtù, o ne rispettava la
dignità, così un poeta, che sollecita il suo richiamo dall'esilio, adora
con ugual riverenza la maestà del padre e quella del figliuolo[393]. Era
giunto il tempo di celebrar l'augusta ceremonia del ventesimo anno del
regno di Costantino; e l'Imperatore a tal effetto trasferì la Corte da
Nicomedia a Roma, dove s'eran fatti pel suo ricevimento i più splendidi
preparativi. Ogni occhio ed ogni lingua affettava d'esprimere un
sentimento di generale felicità, e per un tempo il velo della solennità
e della dissimulazione servì a cuoprire i più cupi disegni di vendetta e
di morte[394]. Nel più bel della festa l'infelice Crispo fu arrestato
per ordine dell'Imperatore, che si spogliò della tenerezza di un padre
senza prendere l'equità di un giudice. L'esame fu breve e privato[395];
e poichè fu stimato conveniente di togliere agli occhi del popolo Romano
la morte del Principe, sotto forte custodia fu mandato a Pola
nell'Istria, dove poco dopo fu privato di vita, o per mano del carnefice
o per la più mite operazione del veleno[396]. Nella ruina di Crispo
restò involto Licinio Cesare[397], giovane di amabili costumi, e non
potè muoversi la violenta gelosia di Costantino dalle preghiere, nè
dalle lacrime della sorella sua favorita, che dimandava la vita d'un
figlio, l'unico delitto del quale era il proprio grado, ed alla perdita
di cui ella non potè lungamente sopravvivere. La storia di questi
disgraziati Principi, la natura e la prova del loro delitto, la forma
del processo e le circostanze della lor morte furono sepolte in una
misteriosa oscurità; ed il Vescovo Cortigiano, che ha in un'elaborata
opera celebrato le virtù e la pietà del suo Eroe, conserva un prudente
silenzio intorno a questi tragici avvenimenti[398]. Un tale superbo
disprezzo per l'opinione del genere umano, mentre imprime un'indelebile
macchia sulla memoria di Costantino, ci dee far sovvenire della molto
diversa condotta d'uno de' più gran Monarchi del nostro secolo. Il Czar
Pietro, nel pieno possesso d'una potenza dispotica, sottopose al
giudizio della Russia, dell'Europa e della posterità le ragioni, che lo
costrinsero a sottoscrivere la condanna d'un colpevole, o almeno
degenerante figliuolo[399].

Era sì generalmente riconosciuta l'innocenza di Crispo, che i Greci
moderni, i quali adorano la memoria del lor fondatore, son ridotti a
palliare il delitto d'un parricidio, che i sentimenti comuni della
natura umana non permettevano di giustificare. Pretendono essi, che
quando l'afflitto padre scuoprì la falsità dell'accusa, da cui la sua
credulità era stata sì fatalmente sedotta, pubblicò al mondo il suo
pentimento e rimorso, prese il lutto per quaranta giorni, nello spazio
de' quali s'astenne dall'uso de' bagni e da ogni ordinario conforto
della vita, e per durevole instruzione della posterità eresse a Crispo
una statua d'oro con questa memoranda inscrizione: «Al mio Figlio che ho
ingiustamente condannato»[400]. Un racconto così morale ed interessante
meriterebbe d'esser sostenuto da autorità meno soggette a eccezioni; ma
se consultiamo gli scrittori più antichi ed autentici, essi
c'informeranno, che il pentimento di Costantino non si manifestò, che
con atti di vendetta e di sangue, e che purgò l'uccisione d'un figlio
innocente coll'esecuzione d'una forse rea moglie. Ascrivono la disgrazia
di Crispo alle arti della matrigna Fausta, di cui l'implacabile odio, o
l'amore mal corrisposto rinnuovò nel palazzo di Costantino l'antica
tragedia d'Ippolito e di Fedra[401]. Come la figlia di Minosse, anche la
figlia di Massimiano accusò il suo figliastro d'un incestuoso attentato
contro la castità della moglie del proprio padre; e facilmente ottenne
dalla gelosia dell'Imperatore una sentenza di morte contro d'un
Principe, che essa con ragione risguardava come il più formidabile
rivale de' propri figli. Ma Elena, la vecchia madre di Costantino,
compianse e vendicò l'acerbo fato di Crispo di lui nipote; nè passò gran
tempo, che si fece una reale o supposta scoperta, che Fausta medesima
aveva un reo commercio con uno schiavo appartenente alle stalle
Imperiali[402]. La condanna e la pena di essa furono le conseguenze
immediate dell'accusa; e l'adultera fu soffocata dal fumo d'un bagno,
che a tal fine era stato eccessivamente riscaldato[403]. Alcuni
crederanno forse che la rimembranza d'una coniugale unione di vent'anni,
e l'onore dello comune lor prole, destinata erede del Trono, avrebbe
dovuto ammollire il duro cuore di Costantino, e persuaderlo a
contentarsi che la sua moglie, per quanto potesse comparir delinquente,
purgasse le proprie colpe in una solitaria prigione. Ma sembra fatica
superflua il ponderare la convenienza di questo singolare avvenimento,
se non se ne può accertare la verità, ch'è veramente accompagnata da
alcune circostanze di perplessità e di dubbio. Tanto quelli, che hanno
attaccato, quanto quelli, che han difeso il carattere di Costantino,
hanno trascurato i considerabili passi di due orazioni pronunziate nel
Regno seguente. La prima celebra le virtù, la bellezza e la fortuna
dell'Imperatrice Fausta, figlia, moglie, sorella e madre di tanti
Principi[404]. La seconda in espressi termini afferma, che la madre del
giovane Costantino, il quale fu ucciso tre anni dopo la morte di suo
padre, sopravvisse per piangere il destino del figlio[405]. Nonostante
la positiva testimonianza di varj scrittori sì Cristiani che Pagani, vi
resteran sempre ragioni di credere o almeno di sospettare, che Fausta
evitasse la cieca e sospettosa crudeltà del marito. Le morti però d'un
figlio e d'un nipote insieme coll'esecuzione d'un gran numero di
rispettabili e forse innocenti amici[406], che furono involti nella lor
caduta, possono esser bastanti a giustificare il disgusto del popolo
Romano, ed a spiegare i satirici versi affissi alla porta del Palazzo,
che paragonavan fra loro gli splendidi e sanguinosi regni di Costantino
e di Nerone[407].

Per la morte di Crispo parve che l'Impero fosse devoluto a' tre figli di
Fausta, de' quali già è stata fatta menzione sotto i nomi di Costantino,
di Costanzo e di Costante. Questi Principi furono, l'uno dopo l'altro,
investiti del titolo di Cesari; e le date della lor promozione si posson
riferire al decimo, al ventesimo ed al trentesimo anno del regno del
loro padre[408]. Questa condotta, sebbene tendesse a moltiplicare i
futuri padroni del Mondo Romano, sarebbe scusabile per la parzialità
dell'affetto paterno; ma non son così facili a intendersi le ragioni
dell'Imperatore, allorchè pose a rischio la sicurezza sì della sua
famiglia che del suo popolo, con elevar senza necessità i due suoi
nipoti Dalmazio ed Annibaliano. Il primo fu innalzato, mediante il
titolo di Cesare, ad essere uguale a' cugini; in favor dell'altro
Costantino inventò il nuovo o singolar titolo di _Nobilissimo_[409], al
quale unì la lusinghiera distinzione d'una veste di porpora e d'oro. Ma
in tutta la serie de' Principi Romani di qualunque tempo dell'Impero, il
solo Annibaliano fu distinto col titolo di Re; nome, che i sudditi di
Tiberio avrebbero detestato come un profano e crudele insulto di
capricciosa tirannide. L'uso di tal titolo, anche nel regno di
Costantino, sembra un fatto strano e senza connessione con altri, che
appena può ammettersi sull'autorità delle Imperiali medaglie, unita a
quella degli scrittori contemporanei[410].

Era tutto l'Impero altamente interessato nell'educazione di questi
cinque giovani, riconosciuti per successori di Costantino. Gli esercizi
del corpo li preparavano alle fatiche della guerra e a' doveri della
vita operativa. Quelli, che hanno occasione di rammentare l'educazione o
i talenti di Costanzo, confessano, che egli era eccellente nelle arti
ginnastiche di saltare e di correre; ch'egli era un destro arciero, un
abile cavaliere e capacissimo nell'uso di tutte le diverse armi, che
adoperavansi nell'esercizio o della cavalleria o della infanteria[411].
La medesima assidua cultura fu impiegata, quantunque forse con disegual
successo, a fecondar lo spirito degli altri figli e nipoti di
Costantino[412]. Furono invitati i più celebri Professori della
Cristiana religione, della Greca filosofia e della Romana giurisprudenza
dalla liberalità dell'Imperatore, che riservava a se stesso l'importante
incombenza di istruire i reali giovani nella scienza del governo e nella
cognizione degli uomini. Ma il genio di Costantino stesso erasi formato
per mezzo dell'avversità e della esperienza. Nel libero commercio d'una
vita privata e fra' pericoli della Corte di Galerio, aveva imparato a
dominar le proprie passioni, a maneggiar quelle dei suoi uguali, ed a
provvedere alla propria salvezza presente e alla futura sua grandezza
con una prudente e coraggiosa condotta. I destinati suoi successori
ebbero la disgrazia di nascere, e d'esser educati nella porpora
Imperiale. Continuamente attorniati da una copia d'adulatori, passarono
la lor gioventù fra le delizie del lusso e coll'espettazione d'un trono;
nè la dignità del lor grado avrebbe permesso loro di scendere da quel
sublimo posto, d'onde sembra che i diversi caratteri della natura umana
prendano un aspetto liscio ed uniforme. L'indulgenza di Costantino gli
ammise in una ben tenera età a partecipare dell'amministrazion
dell'Impero; ed essi studiavan l'arte di regnare a spese del popolo
affidato alla lor cura. Costantino il Giovane fu destinato a tener la
sua Corte nella Gallia: ed il suo fratello Costanzo mutò quel
dipartimento, ch'era stato l'antico patrimonio del loro padre, nelle più
opulenti e meno marziali regioni d'Oriente. L'Italia, l'Illirico
occidentale e l'Affrica erano assuefatte a riverir Costante, terzo suo
figlio, come rappresentante il gran Costantino. Egli stabilì Dalmazio
sulla frontiera Gotica, alla quale congiunse il governo della Tracia,
della Macedonia e della Grecia. Fu scelta la città di Cesarea per
residenza d'Annibaliano, e furon destinate le Province del Ponto, della
Cappadocia e dell'Armenia Minore per formare l'estensione del suo nuovo
regno. Si provvide un conveniente stabilimento per ciascheduno di questi
Principi. Fu accordata una giusta porzione di guardie, di legioni e di
ausiliari per la respettiva lor dignità e difesa. I Ministri ed i
Generali, che posti furono intorno alle loro persone, eran tali quali
Costantino potè credere che avrebbero assistito ed anche censurato
questi giovani Sovrani nell'esercizio del lor delegato potere. A misura
che avanzavano in età ed in esperienza, insensibilmente si dilatavano i
limiti della loro autorità; ma l'Imperatore riservò sempre a se stesso
il titolo d'Augusto; e nel tempo che mostrava i Cesari alle armate ed
alle province, manteneva ogni parte dell'Impero in un'eguale obbedienza
al supremo suo Capo[413]. La tranquillità degli ultimi quattordici anni
del suo regno fu appena interrotta dalla spregevol ribellione di un
condottier di cammelli nell'isola di Cipro[414], o dalla parte attiva,
che la politica di Costantino lo impegnò a prendere nelle guerre de'
Goti e de' Sarmati.

Fra' diversi rami della razza umana, i Sarmati ne formano uno molto
considerabile; poichè sembra che riuniscano i costumi de' Barbari
Asiatici colla figura e col temperamento degli antichi abitanti
d'Europa. Secondo i varj accidenti di pace o di guerra, d'alleanza o di
conquista, furono essi alle volte confinati alle rive del Tanai, ed alle
volte si sparsero nelle immense pianure, che sono fra la Vistola e il
Volga[415]. La custodia de' lor numerosi greggi ed armenti, la ricerca
di cacciagione e l'esercizio della guerra, o piuttosto della rapina,
dirigevano i vagabondi movimenti de' Sarmati. I mobili campi o città,
ch'era l'ordinario soggiorno delle loro mogli e figliuoli, non
consistevano che in gran carri tirati da bovi e coperti in forma di
tende. La forza militare della nazione era composta di cavalleria; ed il
costume, che avevano i loro guerrieri di tenere a mano uno o due
cavalli, li poneva in grado d'avanzare o di ritirarsi con una rapida
diligenza, la quale sorprendeva la sicurezza, ed eludeva l'incalzamento
d'un distante nemico[416]. La scarsità, che avevano del ferro, trasse la
lor rozza industria ad inventare una specie di corazza capace di
resistere alla spada o al pugnale, quantunque non fosse formata che di
ugne di cavallo tagliate in picciole e nette strisce, poste
diligentemente l'una sopra dell'altra in forma di scaglie o di penne, e
fortemente cucite sopra un giustacuore di lino[417]. Le armi offensive
de' Sarmati erano corte daghe, lunghe lance e pesanti archi con un
turcasso di frecce. Eran ridotti alla necessità di servirsi di ossa di
pesci per le punte de' loro dardi; ma l'uso d'immergerle in un velenoso
liquore che attossicava le ferite che facevano, è sufficiente per se
solo a provare in essi i più selvaggi costumi; giacchè un popolo, che
avesse avuto qualche sentimento d'umanità, avrebbe abborrito una pratica
sì crudele, ed una nazione perita nelle arti di guerra avrebbe sdegnato
un sì impotente ripiego[418]. Ogni volta che questi Barbari uscivano
dalle loro foreste in cerca di preda, le irsute lor barbe, gli
scarmigliati capelli, le pelli, delle quali eran coperti da capo a
piedi, ed i lor fieri aspetti, che pareano esprimere l'innata crudeltà
de' loro animi, inspiravano a' più inciviliti Provinciali di Roma
sbigottimento ed orrore.

Il tenero Ovidio, dopo d'aver consumato la gioventù fra' piaceri della
fama e del lusso, fu condannato ad un esilio senza speranza sulle gelide
rive del Danubio, dov'era esposto quasi senza difesa al furore di questi
mostri selvaggi, con gli spiriti grossolani dei quali temeva che potesse
un giorno confondersi la delicata sua ombra. Ne' suoi patetici ma alle
volte femminili lamenti[419], egli descrive co' più vivi colori l'abito
ed i costumi, le armi e le incursioni de' Goti e de' Sarmati, che
s'erano uniti con disegni di distruzione; e dalle notizie che ci dà
l'istoria, v'è qualche motivo di credere, che questi Sarmati fossero i
Jazigi, una delle più numerose e guerriere tribù della nazione. Gli
allettativi dell'abbondanza gl'invitarono a cercarsi un permanente
stabilimento sulle frontiere dell'Impero. Poco dopo il regno d'Augusto,
essi costrinsero i Daci, che sussistevano mediante la pesca sulle rive
del fiume Teyss o Tibisco, a ritirarsi nelle montagne, abbandonando a'
Sarmati vittoriosi i fertili piani dell'Ungheria superiore, che han per
confini il corso del Danubio ed il semicircolare recinto de' monti
Carpazi[420]. In tal vantaggiosa posizione potevano avanzare o
sospendere il momento dell'attacco, secondo che venivan provocati dalle
ingiurie o addolciti dai presenti; appoco appoco appresero l'arte di
usare armi più pericolose; e quantunque i Sarmati non abbian renduto
celebre il loro nome per alcuna memorabile impresa, nelle occasioni però
assistevano gli Orientali ed Occidentali loro vicini, i Goti e i
Germani, con formidabili corpi di cavalleria. Essi vivevano sotto
l'aristocrazia irregolare de' lor capitani[421]; ma dopo ch'ebbero
ammesso fra loro i Vandali fuggitivi, che cederono alla forza de' Goti,
par che prendessero da quella nazione un Re dell'illustre stirpe degli
Astingi, che avevano anticamente abitate le spiagge dell'Oceano
Settentrionale[422].

[A. D. 361]

Questo motivo di nimicizia dovè accrescere le occasioni di contese, che
nascono continuamente a' confini di guerriere ed indipendenti nazioni. I
Principi Vandali erano stimolati dal timore e dalla vendetta: i Re Goti
aspiravano ad ampliare il loro dominio dall'Eussino alle frontiere della
Germania; e le acque del Maros, picciolo fiume, che cade nel Tibisco,
eran macchiate dal sangue de' guerreggianti Barbari. Dopo d'avere
sperimentata la superiorità della forza o del numero de' loro avversari,
implorarono i Sarmati la protezione del Monarca Romano, il quale vedeva
con piacere la discordia delle nazioni, ma avea ragione di temere il
progresso delle armi Gotiche. Tosto che Costantino si fu dichiarato in
favore della parte più debole, il superbo Ararico Re de' Goti, in cambio
di aspettare l'attacco delle legioni, passò audacemente il Danubio, e
sparse la devastazione ed il terrore nella Provincia di Mesia. Per
opporsi al corso di questo rovinoso nemico, il vecchio Imperatore
intraprese in persona la pugna; ma in tal occasione o la sua fortuna o
la sua condotta non corrispose alla gloria, che s'era acquistata in
tante straniere e domestiche guerre. Esso ebbe la mortificazione di
veder fuggire le sue truppe avanti ad un tenue distaccamento di Barbari,
che le inseguirono fino all'ingresso del trincierato loro campo, e
l'obbligarono a provvedere alla propria salvezza con una precipitosa ed
obbrobriosa ritirata. L'evento d'una seconda più fortunata battaglia
restituì l'onore al nome Romano; e dopo un ostinato dibattimento, il
potere dell'arte e della disciplina prevalse agli sforzi del non
regolato valore. L'esercito sconfitto de' Goti sgombrò il campo e la
devastata Provincia, e lasciò libero il passo del Danubio; e quantunque
al maggiore de' figli di Costantino fosse permesso di tenere il posto
del padre, tuttavia il merito della vittoria, che sparse una gioia
universale, fu ascritto ai providi consigli dell'Imperatore medesimo.

[A. D. 332]

Esso contribuì almeno ad accrescer questo vantaggio per mezzo de' suoi
maneggi col libero e guerriero popolo del Chersoneso[423], la cui
Capitale, situata nella costa occidentale della penisola Taurica o
Crimea, riteneva sempre qualche vestigio di Greca colonia, e si
governava da un magistrato perpetuo, assistito da un consiglio di
Senatori, chiamati enfaticamente i Padri della città. Gli abitatori del
Chersoneso eran animati contro i Goti dalla memoria delle guerre, che
nel precedente secolo con forze disuguali avean sostenuto contro
gl'invasori del lor paese. Essi erano uniti co' Romani per causa de'
reciproci vantaggi del commercio, poichè dalle Province dell'Asia
ricevevano grano e manifatture, ch'essi cambiavano co' soli prodotti che
avevano di sale, di cera e di cuoi. Obbedienti alle domande di
Costantino, prepararono, sotto la condotta di Diogene lor magistrato, un
considerabile esercito, la principal forza del quale consisteva in
balestre ed in carri militari. La veloce marcia e l'intrepido attacco di
essi, nel tempo che divertiva l'attenzione de' Goti, secondava le
operazioni de' generali Imperiali. I Goti, vinti da tutte le parti, si
ritirarono nelle montagne, dove nel corso d'una infelice campagna si
conta che ne perissero sopra centomila di freddo e di fame. Finalmente
fu accordata la pace alle umili loro preghiere; fu ricevuto il figlio
maggiore d'Ararico come il più stimabile ostaggio; e Costantino cercò di
convincere i loro capi, mediante una liberal distribuzione di onori e di
premj, quanto alla inimicizia de' Romani fosse preferibile la loro
amicizia. L'Imperatore fu anche più magnifico nel dimostrare la sua
gratitudine verso il fedel popolo del Chersoneso. Fu soddisfatta la
vanità della nazione per mezzo di splendide e quasi reali decorazioni,
accordate al lor magistrato ed a' suoi successori. Si stipulò
un'esenzione perpetua da ogni tributo per li vascelli, che commerciavano
ne' porti del mar Nero. Fu promesso un sussidio regolare di ferro, di
grano, d'olio e di qualunque altro genere, che potesse loro essere utile
in pace od in guerra. Ma fu creduto, che per li Sarmati fosse un premio
bastante la liberazione dalla loro imminente ruina; e l'Imperatore, con
un'economia forse troppo diretta, dedusse una parte delle spese della
guerra dalle gratificazioni ordinarie, che solevan darsi a quella
turbolenta nazione.

[A. D. 334]

I Sarmati, esacerbati da tale apparente disprezzo, colla solita
leggerezza de' Barbari presto si dimenticarono de' benefizi, che avevano
sì poco tempo avanti ricevuti e de' pericoli, che tuttavia minacciavano
la loro sicurezza. Le scorrerie, ch'essi fecero sulle terre dell'Impero,
provocarono lo sdegno di Costantino ad abbandonarli al loro fato; nè più
volle opporsi all'ambizione di Geberico, famoso guerriero, che di fresco
era salito sul Trono de' Goti. Wisumar, Re Vandalo, mentre solo e
senz'assistenza, con indomito coraggio difendeva i suoi Stati, fu vinto
ed ucciso in una decisiva battaglia, che abbattè il fiore della gioventù
Sarmata. Il resto della nazione prese il disperato espediente di armare
i propri schiavi, ch'erano una razza di cacciatori e pastori induriti
nella fatica, col tumultuario soccorso de' quali vendicarono la loro
disfatta, e scacciarono l'invasore da' loro confini. Ma tosto si
accorsero d'aver cambiato un estraneo con un interno più pericoloso e
più implacabil nemico. Gli schiavi, furibondi per l'antica lor servitù,
ed insuperbiti per la presente lor gloria, sotto il nome di Limiganti
pretesero e s'usurparono il possesso del paese che avevan salvato. I
padroni, incapaci d'opporsi alla sregolata furia della moltitudine,
preferirono i travagli dell'esilio alla tirannia de' loro servi. Alcuni
de' Sarmati fuggitivi si procurarono una dipendenza meno ignominiosa
sotto le ostili bandiere de' Goti. Una più copiosa parte si ritirò al di
là dei monti Carpazi fra i Quadi, Germani loro confederati, e furono
facilmente ammessi alla partecipazione d'una superflua quantità
d'incolto terreno. Ma la massima parte dell'angustiata nazione si voltò
verso le fruttuose Province di Roma. Implorando essi la protezione e il
perdono dell'Imperatore, solennemente promisero, sì come sudditi in
pace, che come soldati in guerra, la fedeltà più inviolabile all'Impero,
che gli avesse graziosamente ricevuti nel proprio seno. Secondo le
massime adottate da Probo e da' suoi successori, furono con amore
accettate le offerte di questa colonia di Barbari; e venne
immediatamente assegnata per l'abitazione e sussistenza di trecentomila
Sarmati una sufficiente porzione di terre nelle Province della Pannonia,
della Tracia, della Macedonia e dell'Italia[424].

[A. D. 335-337]

Col reprimer che fece l'orgoglio de' Goti e coll'accettare l'omaggio
d'una supplichevol nazione, Costantino sostenne la maestà dell'Impero
Romano; e vennero Ambasciatori dall'Etiopia, dalla Persia e dalle più
lontane regioni dell'India a congratularsi della pace e della prosperità
del suo governo[425]. S'egli contava fra' favori della fortuna la morte
del suo primogenito, del nipote, e forse ancor della moglie, godè una
continuazione non interrotta di privata e di pubblica felicità fino al
trentesim'anno del suo regno; periodo che a nessuno de' suoi
predecessori, dopo Augusto, fu permesso di celebrare. Costantino
sopravvisse circa dieci mesi a quella solenne ceremonia; e nella matura
età di sessantaquattro anni, dopo una breve malattia, finì la memorabil
sua vita nel palazzo d'Aquirion ne' sobborghi di Nicomedia, ov'erasi
ritirato per godere il vantaggio dell'aria, colla speranza di ricuperare
l'esauste sue forze mediante l'uso dei bagni caldi. L'eccessive
dimostrazioni di dispiacere o almeno di lutto sorpassarono tutto ciò
ch'erasi mai praticato in altre simili precedenti occasioni. Nonostante
la pretensione del Senato e del Popolo dell'antica Roma, il cadavere del
morto Imperatore, secondo l'ultima sua richiesta, fu trasportato nella
città, ch'era destinata a conservare il nome e la memoria del suo
fondatore. Il corpo di Costantino, adornato della porpora e del diadema,
vani simboli di grandezza, fu collocato sopra un talamo d'oro in un
appartamento del palazzo, che a tal effetto s'era splendidamente
apparato e ripieno di lumi. Furono esattamente osservate le formalità
della Corte; ogni giorno alle ore stabilite i principali uffiziali dello
Stato, dell'armata e del palazzo, accostandosi con ginocchia piegate e
con portamento composto alla persona del loro Sovrano, gli offerivano il
loro rispettoso omaggio colla medesima serietà, che se fosse stato in
vita. Questa teatrale rappresentazione fu continuata per motivi di
politica qualche tempo; nè l'adulazione poteva ometter l'opportunità
d'osservare, che il solo Costantino per uno special favore del cielo
avea regnato anche dopo la morte[426].

Ma questo regno non potea consistere che in vane apparenze; e ben presto
si conobbe, che rare volte si obbedisce alla volontà del più assoluto
Monarca, quando i sudditi non han più niente da sperare dal suo favore,
o da temer dal suo sdegno. Gli stessi Ministri e Generali, che si
piegavano con tanta riverenza avanti al disanimato corpo del defunto
loro Sovrano, erano impegnati in segreti consigli per escludere i suoi
due nipoti, Dalmazio ed Annibaliano, dalla parte ch'egli aveva loro
assegnata nella succession dell'Impero. Noi abbiamo una cognizione
troppo imperfetta della Corte di Costantino per formare alcun giudizio
dei veri motivi, che mossero i capi della cospirazione; qualora non si
volesse supporre, che fossero animati da uno spirito di gelosia e di
vendetta contro il Prefetto Ablavio, superbo favorito, che lungamente
avea regolato i consigli del defunto Imperatore, ed abusato della
confidenza di lui. Gli argomenti, per mezzo dei quali sollecitarono il
concorso de' soldati e del popolo, erano chiari ad ognuno: essi potevano
con ugual decenza che verità insistere nel superior grado de' figli di
Costantino, nel pericolo di moltiplicare il numero dei Sovrani e negli
imminenti mali, che alla Repubblica minacciava la discordia di tanti
Principi rivali, che non si trovavan congiunti col tenero vincolo
dell'affezione fraterna. Fu condotto con zelo e segretezza l'intrigo
fino al segno, che si ottenne un'alta ed uniforme dichiarazione dalle
truppe, che non avrebbero sofferto nell'Impero di Roma regnassero altri
che i figli del loro compianto Monarca[427]. Si conviene da tutti che il
giovane Dalmazio, ch'era unito co' suoi collaterali parenti per li
vincoli anche dell'amicizia e dell'interesse, aveva ereditato una gran
parte delle doti del gran Costantino. Ma in quest'occasione non pare che
prendesse alcuna misura per sostenere colle armi i giusti diritti,
ch'esso ed il suo fratello traevano dalla generosità del loro zio.
Attoniti e sopraffatti dall'impeto del furor popolare, sembra che
inabili a fuggire o a resistere, s'abbandonassero nelle mani
degl'implacabili loro nemici. Fu sospeso il loro destino fino alla
venuta di Costanzo, ch'era il secondo[428], e forse il più favorito tra'
figli di Costantino.

La voce dell'Imperatore spirante avea raccomandata la cura de' suoi
funerali alla pietà di Costanzo; e questo Principe, attesa la vicinanza
della sua residenza in Oriente, poteva con facilità prevenire la
diligenza de' suoi fratelli, che risedevano ne' lontani loro governi
dell'Italia e della Gallia. Appena ebbe preso possesso del Palazzo di
Costantinopoli, che il suo primo pensiero fu quello di togliere di
timore i congiunti mediante un solenne giuramento, con cui si fece
mallevadore della loro sicurezza; e la seconda sua occupazione fu di
trovare qualche specioso pretesto, che potesse liberare la sua coscienza
dall'obbligo d'una imprudente promessa. Furon fatte servire le arti
della frode a' disegni della crudeltà, e si attestò una manifesta
falsità da una persona del più sacro carattere. Costanzo ricevè dalle
mani del Vescovo di Nicomedia una fatal pergamena, che fu asserito
essere il vero testamento di suo padre, nel quale dall'Imperatore si
esprimevano i suoi sospetti d'essere stato avvelenato da' propri
fratelli, e scongiurava i suoi figli a vendicar la sua morte ed a
provvedere alla propria loro salvezza colla punizione de' rei[429]. Per
quante ragioni potessero addurre quegl'infelici Principi per difendere
la vita e l'onore da una tanto incredibile accusa, furon costretti a
tacere da' furiosi clamori de' soldati, che si dichiararono loro nemici
nel tempo stesso, e giudici ed esecutori. Lo spirito, ed anche la forma
del legittimo processo, restò più volte violata in un tumultuario
macello, in cui restarono involti i due zii di Costanzo, sette de' suoi
cugini, i più illustri dei quali furon Dalmazio ed Annibaliano, il
Patrizio Ottato, che aveva per moglie una sorella del morto Imperatore,
ed il Prefetto Ablavio, a cui la potenza e le ricchezze avevano
inspirato qualche speranza d'ottenere la porpora. Se vi fosse bisogno
d'aggravare anche gli orrori di questa sanguinosa scena, si potrebbe
aggiungere, che Costanzo medesimo aveva sposata la figlia di Giulio suo
zio, e che aveva data la sua sorella in matrimonio al suo cugino
Annibaliano. Queste parentele, che la politica di Costantino, senza
riguardo al pubblico danno[430], avea fatte tra' diversi rami della casa
Imperiale, non servirono che a convincere il mondo, che questi Principi
erano ugualmente freddi alle lusinghe del coniugale affetto, che
insensibili a' vincoli del sangue ed alle tenere suppliche della
gioventù e dell'innocenza. D'una sì numerosa famiglia i soli Gallo e
Giuliano, figli minori di Giulio Costanzo, furono salvati dalle mani
degli assassini, finattanto che il loro furore, saziato per la strage,
si fosse in qualche modo quietato. L'Imperator Costanzo, che in assenza
dei suoi fratelli era il più sottoposto alla taccia e a' rimproveri,
dimostrò in alcune posteriori occasioni un debole e passeggiero rimorso
di quelle crudeltà, che i perfidi consigli de' suoi ministri, e
l'irresistibile violenza delle truppe avevano estorto dall'inesperta sua
giovinezza[431].

[A. D. 337]

Alla strage della famiglia Flavia successe una nuova divisione delle
province, che fu confermata in un personale congresso de' tre fratelli.
Costantino ch'era il maggiore dei Cesari, ottenne insieme con una certa
preminenza di grado il possesso della nuova capitale, che portava il
nome di lui e di suo padre. La Tracia e le regioni dell'Oriente furono
il patrimonio accordato a Costanzo, e Costante fu riconosciuto per
legittimo Sovrano dell'Italia, dell'Affrica e dell'Illirico Occidentale.
Gli eserciti si sottoposero al loro ereditario diritto; ed essi dopo
qualche dilazione condiscesero a ricevere dal Senato Romano il titolo
d'_Augusto_. Allorchè assunsero le redini del governo, il maggiore di
questi Principi aveva ventun anno, il secondo venti, ed il terzo non più
di diciassette[432].

[A. D. 310]

Mentre le guerriere nazioni dell'Europa seguivano le bandiere de' suoi
fratelli, Costantino fu lasciato alla testa dell'effemminate truppe
dell'Asia a sostenere il peso della guerra Persiana. Ne' giorni in che
morì Costantino, il trono dell'Oriente s'occupava da Sapore figlio
d'Ormouz, ovvero Ormisda, e nipote di Narsete, che dopo la vittoria di
Galerio aveva umilmente confessata la superiorità del Romano potere.
Quantunque Sapore fosse nel trentesimo anno del lungo suo regno, era
però sempre nel vigore della gioventù, giacchè per una strana
combinazione la data del suo innalzamento al trono avea preceduto quella
della sua nascita. La moglie d'Ormouz rimase gravida al tempo della
morte del suo marito; e l'incertezza del sesso, eccitò le ambiziose
speranze de' Principi della casa Sassan. I timori della guerra civile
restarono alla fine dissipati dalla positiva assicurazione de' Magi, che
la vedova d'Ormouz avea concepito ed avrebbe felicemente dato alla luce
un figlio. I Persiani, obbedienti alla voce della superstizione,
prepararono senza dimora la ceremonia della coronazione di esso. Fu
posto nel mezzo del Palazzo un letto reale, sopra di cui stava la
regina; il diadema fu collocato nel luogo che si potea supporre
contenesse l'erede d'Artaserse; ed i Satrapi adoraron prostrati la
maestà del loro invisibile ed insensibil Sovrano[433]. Se dee prestarsi
fede a questo maraviglioso racconto, che sembra per altro esser conforme
ai costumi del popolo, ed alla durata straordinaria del suo regno,
dobbiamo ammirar non solamente la fortuna ma anche il genio di Sapore.
Nella molle e segreta educazione di un _Harem_ Persiano il real giovane
seppe conoscere l'importanza d'esercitare il vigore del corpo e dello
spirito, e si rendè degno, pel proprio merito personale, d'un trono, sul
quale era stato posto mentre non sapeva per anche i doveri e le
tentazioni d'un potere assoluto. La sua minorità fu esposta alle
calamità quasi inevitabili della discordia domestica; fu sorpresa e
saccheggiata la sua capitale da Thair, potente Monarca di Yemen o
dell'Arabia; e restò disonorata la maestà della famiglia reale per la
schiavitù d'una Principessa, sorella del morto Re. Ma tosto che Sapore
giunse all'età virile, il vanaglorioso Thair, la sua nazione ed il suo
paese cederono a' primi sforzi del giovane guerriero, che fece uso della
vittoria con sì giudiziosa unione di rigore e di clemenza, che da'
timori e dalla gratitudine degli Arabi ottenne il titolo di
_Dhoulacnaf_, o protettore della nazione[434].

[A. D. 342]

L'ambizione del Monarca Persiano, al quale i suoi nemici attribuiscono
le virtù di soldato e di politico, era animata dal desiderio di vendicar
le disgrazie dei suoi maggiori, e di strappar di mano a' Romani le
cinque province di là dal Tigri. La fama militare di Costantino e la
forza reale o apparente del suo governo ritardarono l'attacco, e mentre
l'ostile condotta di Sapore provocava lo sdegno della Corte Imperiale,
le artificiose di lui negoziazioni ne trattenevano la pazienza. La morte
di Costantino fu il segnale di guerra[435], e lo stato in cui erano le
frontiere della Siria e dell'Armenia pareva che eccitasse i Persiani col
prospetto di una ricca spoglia e d'una facil conquista. L'esempio delle
stragi del palazzo diffuse uno spirito di licenza e di sedizioni fra le
truppe dell'Oriente, che non erano più tenute a freno dall'abitudine
d'obbedire ad un veterano comandante. La prudenza di Costanzo, che dopo
il congresso co' suoi fratelli nella Pannonia s'era immediatamente
affrettato di accorrere alle rive dell'Eufrate, fece a grado a grado
tornar le legioni al dovere ed alla disciplina; ma il tempo
dell'anarchia aveva permesso a Sapore di porre l'assedio a Nisibi, e di
occupar molte delle più importanti fortezze di Mesopotamia[436].
Nell'Armenia il celebre Tiridate avea lungo tempo goduto la pace e la
gloria, che meritava pel suo valore e per la fedeltà verso Roma. La
stabile alleanza, ch'esso mantenne con Costantino gli produsse de'
benefizi non solo temporali, ma anche spirituali: mediante la
conversione di Tiridate si unì al carattere d'Eroe quello di Santo, la
fede Cristiana si predicò, e si stabilì dall'Eufrate fino ai lidi del
mar Caspio, e l'Armenia s'attaccò all'Impero col doppio legame della
politica e della religione. Ma siccome molti nobili Armeni tuttavia
ricusavano di abbandonare la pluralità degli Dei e delle mogli, la
pubblica tranquillità era turbata da una malcontenta fazione, che
insultava la cadente età del proprio Sovrano, ed impazientemente
aspettava l'ora della sua morte. Morì egli finalmente dopo un regno di
cinquantasei anni, e con Tiridate spirò la fortuna della Monarchia
Armena. Il suo legittimo erede fu mandato in esilio; i sacerdoti
Cristiani o furon uccisi o espulsi dalle loro Chiese, furono sollecitate
le barbare Tribù d'Albania a discendere da' loro monti, e due de' più
potenti Governatori, usurpando le insegne o la forza della dignità
reale, implorarono l'assistenza di Sapore, ed aprirono le porte della
loro città alle guarnigioni Persiane. Il partito Cristiano sotto la
scorta dell'Arcivescovo d'Artassata, immediato successore di S. Gregorio
l'_Illuminatore_, ricorse alla pietà di Costanzo. Continuaron le
turbolenze per circa tre anni, dopo i quali Antioco, uno degli ufficiali
del Palazzo, eseguì felicemente l'Imperial commissione di restituire a
Cosroe, figlio di Tiridate, il trono de' suoi Padri, di conferire onori
e premj a' fedeli seguaci della casa d'Arsace, e di promulgare un
general perdono, che fu accettato dalla maggior parte de' Satrapi
ribelli. Ma i Romani ritrassero da questa rivoluzione più onor che
vantaggio. Era Cosroe un Principe di piccola statura e di spirito
pusillanime. Non atto alle fatiche della guerra ed alieno dalla società,
si ritirò dalla sua capitale in un remoto palazzo, che fabbricò sulle
rive del fiume Eleutero nel mezzo d'un ombroso bosco, dove consumava
l'ozioso suo tempo ne' campestri divertimenti della caccia. Per
assicurarsi questa disonorevole quiete si sottopose alle condizioni di
pace, che Sapore si compiacque d'imporgli; quali furono il pagamento
d'un annuale tributo, e la restituzione della fertil provincia
d'Atropatena, che il coraggio di Tiridate e le armi vittoriose di
Galerio avevano aggiunta al regno dell'Armenia[437].

[A. D. 337-360]

Nel lungo periodo del regno di Costanzo, le province d'Oriente furono
afflitte dalle calamità della guerra Persiana. Le irregolari scorrerie
delle truppe leggiere spargevano alternativamente il terrore e la
devastazione al di là del Tigri e dell'Eufrate, dalle porte di
Ctesifonte a quelle d'Antiochia, e quest'attiva milizia era formata
dagli Arabi del Deserto, i quali vivevan divisi d'interessi e di
affezioni; mentre alcuni degl'indipendenti lor capi erano arrolati nel
partito di Sapore, ed altri avevano impegnata la dubbiosa lor fede
all'Imperatore[438]. Le più gravi ed importanti operazioni della guerra
si conducevano con ugual vigore; gli eserciti di Roma e di Persia
s'incontrarono l'uno coll'altro in nove sanguinose battaglie, in due
delle quali comandava lo stesso Costanzo in persona[439]. L'evento di
esse fu per lo più contrario a' Romani, ma nella battaglia di Singara
l'imprudente loro valore aveva quasi acquistato una segnalata e decisiva
vittoria. Le truppe stazionarie di Singara si ritirarono all'avvicinarsi
di Sapore, che passò il Tigri sopra tre ponti, ed occupò vicino al
villaggio d'Hilleh un vantaggioso posto, ch'esso per mezzo de' numerosi
suoi guastatori circondò in un giorno con un profondo fosso ed un alto
riparo. La sua formidabile armata, messa in ordine di battaglia, copriva
le rive del fiume, le adiacenti alture, e tutta l'estensione d'una
pianura di sopra dodici miglia, che separava i due eserciti. Erano
ambedue ugualmente impazienti di venire alle mani; ma i Barbari, dopo
una tenue resistenza caddero in disordine, o incapaci di sostenere, o
desiderosi di straccare la forza delle due gravi legioni, che anelanti
per il caldo e la sete gl'inseguirono attraverso la pianura, e
tagliarono a pezzi una squadra di cavalleria di grave armatura, ch'era
stata avanti all'ingresso del campo per proteggere la lor ritirata.
Costanzo, che s'era molto impegnato nella caccia de' fuggitivi, procurò,
senza effetto, di raffrenare l'ardore delle sue truppe, rappresentando
loro i pericoli della prossima notte e la certezza di compire i loro
disegni al nuovo giorno. Confidarono però esse molto più nel proprio
valore, che nell'esperienza o abilità del lor Capitano, quietarono co'
loro clamori le timide sue rimostranze; e correndo con furia all'impresa
riempirono il fosso, gettarono a terra il riparo, e si dispersero per le
tende ad oggetto di ricuperare l'esauste lor forze e godere la ricca
messe delle loro fatiche. Ma il prudente Sapore aveva aspettato il
momento opportuno per la vittoria. Il suo esercito, la maggior parte del
quale, posto in sicuro sulle altezze, era stato spettator dell'azione,
s'avanzò in silenzio e sotto l'ombra della notte; e gli arcieri
Persiani, guidati da' lumi del campo, scagliarono una pioggia di dardi
sopra quella disarmata e licenziosa moltitudine. La sincerità
dell'istoria dichiara[440], che i Romani furono vinti con una terribile
strage, e che le fuggitive reliquie delle legioni restarono esposte ai
più intollerabili travagli. Quantunque la dissimulazione del panegirico,
confessando che fu macchiata la gloria dell'Imperatore dalla
disubbidienza de' soldati, procuri di tirare un velo sulle circostante
di questa infelice ritirata, uno per altro di que' venali oratori, così
gelosi della fama di Costanzo, riporta con sorprendente freddezza un
atto di tanta incredibile crudeltà, che nell'opinione de' posteri deve
imprimere la più brutta macchia all'onore del nome Imperiale. Era stato
preso nel campo Persiano il figlio di Sapore, erede della corona. Questo
sventurato giovane, che avrebbe risvegliato la compassione del più
selvaggio nemico, fu battuto, torturato e pubblicamente messo a morte
da' crudeli Romani[441].

[A. D. 338-346-350]

Per quanti vantaggi potessero incontrare le armi di Sapore in campo, e
quantunque nuove ripetute vittorie spargessero fra le nazioni la fama
del suo valore e della sua condotta, pure non poteva egli sperar di
riuscire nell'esecuzione de' suoi disegni, finchè le fortificate piazze
della Mesopotamia, e sopra tutto la forte ed antica città di Nisibi
restavano in possesso de' Romani. Nello spazio di dodici anni, Nisibi,
che fin dal tempo di Lucullo era meritamente stimata il baloardo
dell'Oriente, sostenne tre memorabili assedj contro la potenza di
Sapore, e non avendo il Monarca ottenuto l'intento, dopo d'avere
insistito negli attacchi sopra sessanta, ottanta e cento giorni, fu per
tre volte rispinto con perdita ed ignominia[442]. Questa grande e
popolata città era situata circa due giornate distante dal Tigri nel
mezzo d'una piacevole e fertil pianura a piè del monte Masio.
Difendevasi da un profondo fosso[443] un triplice recinto di mura; e
l'intrepida resistenza del Conte Luciliano e della sua guarnigione,
veniva secondata dal disperato coraggio del popolo. I cittadini di
Nisibi erano animati dall'esortazioni del loro Vescovo[444], assuefatti
alle armi per la presenza del pericolo, e convinti dell'intenzione che
avea Sapore, di porre in luogo loro una colonia Persiana, e condurre
essi in una lontana e barbara schiavitù. Il successo de' due primi
assedj accrebbe la lor fiducia, ed inasprì l'animo superbo del gran Re,
che s'avanzò per la terza volta verso Nisibi alla testa delle forze
unite della Persia e dell'India. Le macchine ordinarie, inventate per
battere o minare le mura, si resero inefficaci dalla superior perizia
de' Romani; ed eran passati molti giorni inutilmente, quando Sapore
prese una risoluzione degna d'un Monarca Orientale, che credeva gli
stessi elementi soggetti fossero al suo potere. Nella stagione, in cui
sogliono struggersi le nevi dell'Armenia, il fiume Migdonio, che passa
per la pianura e per le città di Nisibi, forma, come il Nilo[445],
un'inondazione nell'adiacente paese. Per opera de' Persiani fu ritenuto
sotto la città il corso del fiume, e le acque furono per ogni parte
ristrette da sodi argini di terra. Su questo lago artificiale s'avanzò
in ordine di battaglia una flotta di vascelli armati, pieni di soldati,
e con macchine, che scagliavano pietre del peso di cinquecento libbre;
ed attaccarono quasi al medesimo livello le truppe, che difendevan le
mura. L'irresistibile forza dell'acqua era fatale alternativamente
all'una ed all'altra delle parti combattenti, finchè in ultimo cedè ad
un tratto una parte di mura, incapace di sostenere l'accumulata
pressione, e s'aprì un'ampia breccia di centocinquanta piedi. I Persiani
furono immediatamente spinti all'assalto, e dall'evento di quella
giornata dipendeva il fato di Nisibi. La cavalleria di grave armatura,
che conduceva la vanguardia d'una profonda colonna, restò imbarazzata
nel fango, ed in gran parte annegossi nelle profondità, che per esser
occupate dall'acqua, non si vedevano. Gli elefanti, renduti furiosi
dalle ferite, accrebbero il disordine, e gettarono a terra migliaia
d'arcieri Persiani. Il gran Re, che da un sublime trono vedeva le
disgrazie del proprio esercito, suonò, sdegnato e di mala voglia, il
segno della ritirata, e per qualche ora sospese di proseguire l'attacco.
Ma i vigilanti cittadini profittarono dell'opportunità della notte, ed
al far del giorno si vide un nuovo muro alto sei piedi, che s'andava di
mano in mano elevando per riempire la breccia. Sebbene fossero andate a
voto le sue speranze, e perduto avesse più di ventimila uomini, Sapore
pressava sempre con un'ostinata fermezza la resa di Nisibi, nè potè
cedere che alla necessità di difendere le province Orientali della
Persia contro una formidabil invasione de' Massageti[446]. Commosso da
questa nuova, abbandonò in fretta l'assedio, e con rapida diligenza
marciò dalle sponde del Tigri a quelle dell'Oxo. Il pericolo e le
difficoltà della guerra con gli Sciti l'impegnarono poco dopo a
concludere o almeno ad osservare una tregua coll'Imperator Romano, che
fu grata ugualmente ad ambidue i Principi; mentre Costanzo medesimo,
dopo la morte de' suoi due fratelli, si trovò involto per le rivoluzioni
dell'Occidente in una guerra civile, che richiedeva, anzi pareva
ch'eccedesse il più vigoroso sforzo del suo diviso potere.

[A. D. 304]

Erano appena passati tre anni dopo la division dell'Impero, che i figli
di Costantino parvero impazienti di persuadere il Mondo, ch'essi non
eran capaci di contentarsi di que' dominj, ch'erano inabili a governare.
Il maggiore di questi Principi tosto si dolse d'esser defraudato della
sua giusta posizione delle spoglie de' trucidati cugini; quantunque
cedesse alla maggior colpa e al merito di Costanzo, volle esigere da
Costante la cessione delle province Affricane, come un equivalente delle
ricche regioni della Macedonia e della Grecia, che aveva acquistate il
fratello per la morte di Dalmazio. La mancanza di sincerità, ch'egli
sperimentò in una tediosa ed inutil negoziazione, inasprì la fierezza
del suo temperamento, e con piacere egli diede orecchio a que' favoriti,
che gli suggerirono, che proseguendo a querelarsi, ne andava del suo
onore non meno che dell'interesse. Alla testa pertanto d'una tumultuaria
truppa, atta piuttosto alla rapina che alla conquista, invase
all'improvviso gli Stati di Costante per la strada delle alpi Giulie, e
primi a risentire gli effetti del suo sdegno furono i contorni
d'Aquileia. Le disposizioni di Costante, che in quel tempo risedeva
nella Dacia, furono prese con più prudenza ed abilità. Alla nuova
dell'invasione del fratello egli distaccò un corpo scelto e disciplinato
delle sue truppe Illiriche, proponendosi di seguitarlo in persona col
rimanente delle sue forze. Ma la condotta de' suoi Generali finì tosto
quella non naturale contesa. Costantino, dalle ingannevoli apparenze di
fuga, fu condotto in un agguato che gli era stato preparato in un bosco,
dove il temerario giovane fu con pochi seguaci sorpreso, circondato ed
ucciso. Ritrovato che fu il suo corpo nell'oscuro torrente dell'Alsa,
ottenne gli onori di una tomba Imperiale; ma le province di lui si
assoggettarono al conquistatore, che ricusando d'ammetter Costanzo suo
maggior fratello ad alcuna porzione di tali nuovi acquisti, si mantenne
in quieto possesso di più di due terzi dell'Impero Romano[447].

[A. D. 350]

Fu differita la morte di Costante medesimo in circa dieci anni, e fu
riservata la vendetta della morte del fratello alla mano più vile d'un
domestico traditore. Le perniciose conseguenze del sistema, introdotto
da Costantino, si manifestarono nella debole amministrazion de' suoi
figli, che per causa de' vizi, e della debolezza loro perderon tosto la
stima e l'affezione del lor popolo. L'orgoglio, che prese Costante pel
felice successo, non meritato però, delle sue armi, si rendè più
sprezzabile per la mancanza di capacità ed applicazione. La sua tenera
parzialità per alcuni schiavi Germani, non distinti che per gli
allettativi della gioventù, fu un oggetto di scandalo al popolo[448]; e
dal pubblico disgusto fu incoraggiato Magnenzio, ambizioso soldato di
barbara estrazione, a sostener l'onore del nome Romano[449]. Gli scelti
corpi de' Gioviani e degli Erculei, che riconoscevan per loro capo
Magnenzio, tenevano il posto più rispettabile ed importante nel campo
Imperiale. L'amicizia di Marcellino, Conte delle sacre largizioni,
somministrò con mano liberale i mezzi della seduzione. I soldati
restarono convinti coi più speciosi argomenti, che la Repubblica
intimava loro di rompere i legami dell'ereditaria servitù, e di
premiare, mediante la scelta d'un Principe attivo e vigilante, le stesse
virtù, che avevano innalzato i maggiori del degenerato Costante da una
condizione privata al trono del mondo. Poscia che la cospirazione fu
matura per eseguirsi, Marcellino, sotto pretesto di celebrare il giorno
natalizio del figlio, diede uno splendido trattenimento alle persone
_illustri_ ed _onorevoli_ della Corte della Gallia, che risedeva
allora nella città d'Autun. Fu ad arte prolungata l'intemperanza
della festa fino ad un'ora della notte molto tarda, e si tentarono
i convitati, che nulla di ciò sospettavano, a condescendere ad una
pericolosa e rea libertà di conversazione. Si aprirono ad un tratto
le porte, e Magnenzio, che per pochi momenti erasi ritirato, tornò
nell'appartamento, adornato del diadema e della porpora. I congiurati lo
salutarono subito co' titoli d'Imperatore e d'Augusto. La sorpresa, il
terrore, lo sbalordimento, le ambiziose speranze, e la mutua ignoranza
del resto dell'assemblea, la impegnarono ad unire le proprie voci alla
generale acclamazione. Le guardie affrettaronsi a prendere il giuramento
di fedeltà, si chiuser le porte della città, ed avanti lo spuntar del
giorno, Magnenzio divenne padrone delle truppe e del tesoro del palazzo
d'Autun. Mediante la sua segretezza e diligenza, ebbe qualche speranza
di sorprendere la persona di Costante, che stava nella vicina foresta
occupato nel favorito suo divertimento della caccia, o forse in altri
piaceri di più segreta e colpevol natura. Il rapido progresso però della
fama gli concesse un momento di tempo a fuggire, quantunque la
diserzione de' soldati e de' sudditi gli togliesse la facoltà di
resistere. Avanti di poter giungere ad un porto della Spagna, dove avea
intenzione d'imbarcarsi, fu sopraggiunto vicino ad Elena[450] a piè de'
Pirenei, da un corpo di cavalleria leggiera, il cui capo, senza riguardo
alla santità d'un tempio, eseguì la sua commissione uccidendo il figlio
di Costantino[451].

[A. D. 350]

Subito che la morte di Costante ebbe decisa questa facile ma importante
rivoluzione, fu imitato dalle altre province dell'Occidente l'esempio
della Corte d'Autun. Venne riconosciuta l'autorità di Magnenzio per
tutta l'estensione delle due gran Prefetture della Gallia e dell'Italia;
e l'usurpatore con ogni sorta d'oppressione si preparò a raccogliere un
tesoro, con cui soddisfar potesse l'obbligazione d'un immenso donativo,
e supplire le spese d'una guerra civile. Le marziali regioni
dell'Illirico, dal Danubio all'estremità della Grecia, avevan da lungo
tempo obbedito al governo di Vetranione, vecchio Generale, amato per la
semplicità de' suoi costumi, e che acquistato aveva qualche riputazione
per la sua esperienza e servizi militari[452]. Attaccato per abito, per
dovere e per gratitudine alla famiglia di Costantino, immediatamente
assicurò colle più forti espressioni l'unico figlio sopravvivente del
suo defunto Signore, che avrebb'esposto con inviolabile fedeltà la sua
persona e le sue truppe ad oggetto di prendere una giusta vendetta dei
traditori della Gallia. Ma le legioni di Vetranione furono sedotte
piuttosto che provocate dall'esempio di ribellione; il loro Capo
dimostrò ben presto mancanza di fermezza o di sincerità; e la sua
ambizione trasse uno specioso pretesto dall'approvazione della
Principessa Costantina. Questa crudele ed ambiziosa donna, che da
Costantino Magno suo padre, avea ottenuto il grado di _Augusta_, pose il
diadema colle proprie mani sul capo del Generale dell'Illirico; e parea,
che aspettasse dalla vittoria di lui il compimento di quelle illimitate
speranze, delle quali restata era priva per la morte d'Annibaliano di
lei marito. Forse fu senza consenso di Costantina, che il nuovo
Imperatore fece una necessaria, benchè disonorevole alleanza
coll'usurpatore dell'Occidente, la cui porpora era stata così
recentemente macchiata col sangue del fratello di essa[453].

[A. D. 350]

La notizia di quest'importanti avvenimenti, che sì altamente intaccavano
l'onore e la salvezza della casa Imperiale, richiamarono le armi di
Costanzo dal non glorioso proseguimento della guerra Persiana. Egli
raccomandò la cura dell'Oriente a' suoi Generali, ed in seguito a Gallo
suo cugino, che fece passare dalla prigione al trono: e marciò verso
Europa con una mente agitata dal contrasto fra la speranza ed il timore,
fra il dispiacere e lo sdegno. Arrivato che fu ad Eraclea nella Tracia,
l'Imperatore diede udienza agli Ambasciatori di Magnenzio e di
Vetranione. Marcellino, primo autore della cospirazione, che aveva in
certo modo data la porpora al suo nuovo Signore, accettò arditamente
questa pericolosa commissione, e gli furono scelti tre colleghi fra
gl'illustri personaggi dello Stato e dell'esercito. A questi deputati fu
data istruzione d'ammollire lo sdegno, e d'eccitare il timore di
Costanzo. Fu data loro facoltà d'offerire al medesimo l'amicizia e
l'alleanza de' Principi Occidentali; di assodare la loro unione col
doppio matrimonio di Costanzo colla figlia di Magnenzio, e di questo con
l'ambiziosa Costantina; e di riconoscere nel trattato la superiorità del
grado, che avrebbe potuto giustamente pretendersi dall'Imperator
dell'Oriente. Se poi l'orgoglio ed una erronea pietà l'avessero indotto
a ricusare tali eque condizioni, fu ordinato agli Ambasciatori, che gli
esponessero l'inevitabil ruina, che accompagnato avrebbe la sua
inconsideratezza, qualora si fosse avventurato di provocare i Sovrani
dell'Occidente ad esercitar la superiore lor forza e ad impiegare contro
di lui quel valore, quell'abilità e quelle legioni, alle quali la
famiglia di Costantino doveva tanti trionfi. Pareva, che tali
proposizioni ed argomenti meritassero la più seria attenzione; fu
differita la risposta di Costanzo al giorno seguente; e poichè aveva
pensato all'importanza di giustificare nell'opinione del popolo una
guerra civile, in tali termini parlò al suo Consiglio, che lo ascoltava
con reale o con affettata credulità. «La passata notte, diss'egli, poi
che mi fui ritirato al riposo, m'apparve l'ombra del gran Costantino,
che abbracciava il cadavere del mio defunto fratello: la voce ben nota
di esso mi eccitò alla vendetta, mi vietò di disperare della Repubblica,
e mi assicurò del successo e della gloria immortale, che avrebbe
coronato la giustizia delle mie armi.» L'autorità di questa visione o
piuttosto l'autorità del Principe che la riferiva, servì ad acchetare
ogni dubbio, e ad escludere ogni negoziazione. Furono rigettati con
isdegno i termini ignominiosi di pace. Uno degli Ambasciatori del
Tiranno fu rimandato colla superba risposta di Costanzo; i suoi
colleghi, come indegni de' privilegi del gius delle genti, furon posti
in catene; ed i contendenti si prepararono a fare un'implacabile
guerra[454].

[A. D. 350]

Tale fu la condotta, e tal era forse il dovere del fratello di Costante
verso il perfido usurpator della Gallia. La situazione ed il carattere
di Vetranione ammettevano provvisioni più dolci; e la politica
dell'Imperatore Orientale tendeva a disunire i suoi antagonisti, ed a
separar le forze dell'Illirico dal partito della ribellione. Fu facile
ingannar la schiettezza e la semplicità di Vetranione, che talvolta
ondeggiando fra le opposte mire dell'onore e dell'interesse, dimostrò al
mondo l'instabilità della sua indole e restò insensibilmente impegnato
ne' lacci d'un'artificiosa negoziazione. Costanzo lo riconobbe per
legittimo ed ugual collega nell'Impero, a condizione però ch'egli
rinunziasse l'odiosa alleanza con Magnenzio, e si assegnasse un luogo di
congresso sulle frontiere delle rispettive loro province, dove potessero
vincolar la loro amicizia colle mutue promesse di fedeltà, e regolar di
comune consenso le future operazioni della guerra civile. In conseguenza
di tale accordo, Vetranione s'avanzò fino alla città di Sardica[455],
alla testa di ventimila cavalli, e d'un più numeroso corpo d'infanteria;
forze tanto superiori a quelle di Costanzo, che sembra che l'Imperatore
dell'Illirico dominasse sopra la vita ed i beni del suo rivale, il quale
dipendendo dal successo delle sue private negoziazioni, aveva sedotte le
truppe, e minato il trono di Vetranione. I Capitani, che avevano
segretamente abbracciato il partito di Costanzo, prepararono in suo
favore un pubblico spettacolo, immaginato per iscuoprire ed infiammar le
passioni della moltitudine[456]. Fu comandato che s'unissero insieme i
due eserciti in una larga pianura vicino alla città. Nel mezzo di esse,
a forma delle regole dell'antica disciplina, si eresse un militar
tribunale o palco, dal quale solevan gl'Imperatori nelle solenni ed
importanti occasioni arringare le truppe. Intorno al Tribunale formavano
un cerchio immenso i ben disposti ordini di Romani e di Barbari, con
spade sguainate o con erette lance, gli squadroni di cavalleria e le
coorti d'infanteria, distinte dalle varietà delle loro armi ed insegne;
e l'attento silenzio, che osservavano, era qualche volta interrotto da
alte espressioni di clamore e d'applauso. Alla presenza di questa
formidabile assemblea furono chiamati i due Imperatori ad esporre la
situazione dei pubblici affari; la precedenza del grado fu ceduta alla
real nascita di Costanzo; e quantunque egli fosse poco perito nelle arti
della rettorica, pure si portò in queste difficili circostanze con
fermezza, destrezza ed eloquenza. La prima parte di quest'orazione parve
solamente diretta contro il Tiranno della Gallia; ma nel tempo che
tragicamente compiangeva la crudele uccision di Costanzo, andava
insinuando, che niun altro che un fratello aver poteva diritto alla
succession del fratello. Si confuse con qualche compiacenza nelle glorie
della stirpe Imperiale, e richiamò alla mente delle truppe il valore, i
trionfi, e la liberalità del gran Costantino, a' figli del quale dicea,
che avevano essi obbligata la lor ubbidienza, mediante un giuramento di
fedeltà, che l'ingratitudine de' suoi servitori più favoriti aveva
tentato di fare ad essi violare. Gli ufficiali, che circondavano il
Tribunale, e dovevano in tale straordinaria scena far le lor parti,
confessarono l'irresistibil forza della ragione e dell'eloquenza con
salutare l'Imperator Costanzo come legittimo loro Sovrano. I sentimenti
di fedeltà e di pentimento comunicaronsi di ordine in ordine, finattanto
che la pianura di Sardica risuonò tutta coll'universale acclamazione:
«via quest'intrusi usurpatori: lunga vita e vittoria, al figlio di
Costantino; sotto le sole di lui bandiere combatteremo e vinceremo.» I
gridi delle migliaia di soldati, i loro minaccevoli gesti, il fiero
rimbombo delle armi sorpresero e vinsero il coraggio di Vetranione, che
stava in mezzo alla ribellione de' suoi seguaci in dubbiosa e tacita
sospensione. In vece di darsi all'ultimo rifugio d'una generosa
disperazione, si sottopose vilmente al suo fato, e toltosi il diadema di
capo, in presenza de' due eserciti cadde prostrato a' piedi del suo
vincitore. Costanzo usò con prudenza e moderazione della vittoria; ed
alzando da terra il vecchio supplicante, ch'esso affettò di chiamare col
caro nome di padre, gli porse la mano per discendere dal trono. Fu
destinata la città di Prusa per esilio o ritiro del deposto Monarca, il
quale visse altri sei anni in seno alla pace ed all'abbondanza. Egli
spesso esprimeva i suoi sentimenti di gratitudine per la bontà di
Costanzo, e con una semplicità molto amabile avvisava il suo benefattore
a rinunziare lo scettro del Mondo, e cercare il contento nella
tranquilla oscurità d'una condizione privata, dove può solamente
trovarsi[457].

[A. D. 351]

La condotta di Costanzo in tal memorabile occasione veniva celebrata con
qualche sorta di giustizia; ed i suoi Cortigiani paragonavano le
studiate orazioni, che faceva un Pericle o un Demostene al popol
d'Atene, colla vittoriosa eloquenza, che avea persuaso una moltitudine
armata ad abbandonare o deporre l'oggetto della parziale sua
scelta[458]. L'imminente contesa con Magnenzio era d'una specie più
seria e sanguinosa. Il Tiranno con rapide marce s'avanzò incontro a
Costanzo, conducendo un grand'esercito, composto di Galli, di Spagnuoli,
di Franchi e di Sassoni, di quei Provinciali, che somministravan la
forza delle legioni, e di quei Barbari, che si tenevan come i nemici più
formidabili della Repubblica. I fertili piani[459] della bassa Pannonia,
fra il Dravo, il Savo ed il Danubio, presentarono uno spazioso teatro; e
le operazioni della guerra civile furon mandate in lungo ne' mesi di
estate per l'arte o per la timidità de' combattenti[460]. Costanzo avea
dichiarato d'avere intenzione di decidere la contesa ne' campi di
Cibali; nome ch'egli credeva dover animar le sue truppe per la
rimembranza della vittoria, che nel medesimo avventuroso luogo erasi
ottenuta, dalle armi di Costantino suo padre. Pure atteso le
inespugnabili fortificazioni, colle quali l'Imperatore circondava il suo
campo, pareva che volesse piuttosto sfuggir che incontrare un generale
combattimento. Lo scopo di Magnenzio era quello di tentare o di
costringere l'avversario ad abbandonare quel vantaggioso posto; ed
impiegò a tal oggetto le diverse marce, evoluzioni e stratagemmi, che la
cognizione dell'arte della guerra potea suggerire ad un esperto
ufficiale. Egli prese d'assalto l'importante città di Siscia; fece un
attacco contro quella di Sirmio, ch'era dietro al campo Imperiale; tentò
di forzare un passaggio pel Savo nelle province Orientali dell'Illirico;
e tagliò a pezzi un numeroso distaccamento, che aveva tirato negli
stretti passi d'Adarno. Per quasi tutta la estate il Tiranno della
Gallia si tenne padrone del campo. Le truppe di Costanzo erano stanche e
scoraggiate; diminuiva la sua riputazione agli occhi del mondo; ed il
suo orgoglio condescendeva a sollecitare un trattato di pace, che
avrebbe rilasciato all'assassino di Costante la sovranità delle province
oltre le alpi. Tali offerte acquistaron forza per l'eloquenza di
Filippo, ambasciatore Imperiale, ed il Consiglio non meno che l'esercito
di Magnenzio si disponevano ad accettarle. Ma l'altiero usurpatore, non
curando le rimostranze de' suoi amici, diede ordine, che si ritenesse
Filippo come prigioniero, o almeno come ostaggio, mentre spediva un
uffiziale a rimproverare a Costanzo la debolezza del suo regno, e ad
insultarlo colla promessa del perdono, se avesse immediatamente deposta
la porpora. L'unica risposta, che l'onor permetteva all'Imperatore di
dare, fu «ch'esso confidava nella giustizia della sua causa e nella
protezione d'un Dio vendicatore.» Ma egli era tanto persuaso
dell'infelicità di sua situazione, che non osò di contraccambiar
l'indegnità, ch'era stata commessa verso il suo rappresentante. La
negoziazione però di Filippo non fu senz'effetto; poichè indusse Silvano
Franco, Generale di merito e di riputazione, a disertare con un corpo
considerabile di cavalleria, pochi giorni avanti la battaglia di Mursa.

[A. D. 341]

La città di Mursa o Essek, celebre ne' moderni tempi per un ponte di
barche lungo cinque miglia sul fiume Dravo e per le adiacenti
paludi[461], è stata sempre considerata come una piazza importante nelle
guerre dell'Ungheria. Magnenzio, dirigendo la sua marcia verso Mursa,
mise fuoco alle porte della città, ed in un improvviso assalto ne aveva
quasi scalate le mura. La vigilanza della guarnigione estinse le fiamme;
l'avvicinarsi, che fece Costanzo, non gli diede tempo di continuar le
operazioni dell'assedio; e l'Imperatore in breve tolse l'unico ostacolo
che impedir poteva i suoi movimenti, forzando un corpo di truppe che
s'erano situate in un vicino anfiteatro. Il campo di battaglia intorno a
Mursa era una pianura nuda ed uguale; su questa Costanzo pose in
ordinanza il suo esercito col Dravo alla destra, mentre la sinistra o
per la natura della disposizione del luogo, o per la superiorità della
sua cavalleria estendevasi molto avanti oltre al destro fianco di
Magnenzio[462]. Le truppe rimasero in armi da ambe le parti con ansiosa
espettazione per la maggior parte della mattina, ed il figlio di
Costantino dopo d'aver animato con un eloquente discorso i soldati, si
ritirò in una Chiesa a qualche distanza dal campo di battaglia, e
commise a' suoi Generali la condotta di questa decisiva giornata[463].
Essi meritavan la sua fiducia pel valore e per l'arte militare, che
dimostrarono. Diedero saviamente principio all'azione sulla sinistra; ed
avanzando tutta l'ala della cavalleria in linea obbliqua, ad un tratto
girarono sul fianco destro del nemico, il quale non era preparato a
resistere all'impeto del loro attacco. I Romani dell'Occidente presto si
riunirono, mediante l'abitudine della disciplina; ed i Barbari della
Germania sostennero la fama della loro nazionale bravura. Il
combattimento divenne tosto generale; si mantenne con varj e singolari
giri di fortuna, ed appena finì colle tenebre della notte. La segnalata
vittoria, che ottenne Costanzo, si attribuisce alle armi della sua
cavalleria. Vengon descritti i suoi corazzieri, come tante massicce
statue di acciaio, lucenti per la loro squamosa armatura, che rompevano
con le pesanti lor lance la stabile ordinanza delle Galliche legioni.
Tosto che le legioni cederono, gli squadroni più leggieri e più attivi
della seconda linea s'introdussero con la spada alla mano negli
intervalli di mezzo, e compirono il disordine. Intanto i grossi corpi
de' Germani restarono esposti quasi nudi alla destrezza degli arcieri
Orientali, e tutte le truppe di que' Barbari furon costrette dalle
angustie e dalla disperazione a precipitarsi nel largo e rapido corso
del Dravo[464]. Il numero degli uccisi fu calcolato esser
cinquantaquattromila uomini, e la strage de' vincitori fu maggiore di
quella de' vinti[465]; circostanza, che prova l'ostinazione del
combattimento, e giustifica l'osservazione d'un antico scrittore, che
furon consumate le forze dell'Impero nella fatal battaglia di Mursa, per
la perdita d'un'armata veterana, sufficiente a difendere, o ad aggiunger
nuovi trionfi alla gloria di Roma[466]. Nonostanti le invettive d'un
servile oratore, non v'è la minima ragione di credere, che il Tiranno
abbandonasse nel principio della battaglia la sua propria bandiera.
Sembra ch'egli esercitasse le virtù di generale e di soldato, finattanto
che la giornata non fu assolutamente perduta, ed il suo campo in man dei
nemici. Magnenzio allora provvide alla propria salvezza, e deposti gli
ornamenti Imperiali, fuggì con qualche difficoltà le ricerche de'
cavalleggieri, che senza posa inseguirono la sua rapida fuga dalle
sponde del Dravo fino a piè delle alpi Giulie[467].

[A. D. 351]

La vicinanza dell'inverno somministrò all'indolenza di Costanzo molte
speciose ragioni per differire il proseguimento della guerra fino alla
seguente primavera. Magnenzio avea fermata la sua residenza nella città
d'Aquileia, ed apparentemente si mostrava risoluto di disputare il passo
de' monti o delle lagune, che fortificavano i confini della Provincia
Veneta. La sorpresa, fatta di un castello nelle alpi per una segreta
marcia degl'Imperiali, non avrebbe bastato a determinarlo di lasciare il
possesso dell'Italia, se le inclinazioni del popolo avessero sostenuto
la causa del loro Tiranno[468]. Ma la memoria delle crudeltà, esercitate
da' suoi ministri dopo l'infelice ribellione di Nepoziano, aveva
lasciato una profonda impressione d'orrore e di sdegno negli animi de'
Romani. L'ardito giovine, figlio della Principessa Eutropia e nipote di
Costantino, avea veduto con isdegno usurparsi lo scettro d'Occidente da
un perfido Barbaro. Armando quindi una truppa disperata di schiavi e di
gladiatori, sorprese la debole guardia della domestica tranquillità di
Roma, ricevè l'omaggio del Senato, ed assumendo il titolo d'Augusto,
precariamente regnò nel tumultuoso periodo di ventotto giorni. La marcia
di alcune forze regolari pose fine alle sue ambiziose speranze: la
ribellione fu estinta nel sangue di Nepoziano, di Eutropia sua madre, e
de' suoi aderenti; e fu estesa la proscrizione a tutti coloro, che avean
contratto una fatale alleanza col nome e colla famiglia di
Costantino[469]. Ma appena Costanzo, dopo la battaglia di Mursa, divenne
padrone delle coste marittime della Dalmazia, un corpo di nobili esuli,
che s'erano arrischiati ad equipaggiare una flotta in qualche porto
dell'Adriatico, venne a cercar protezione e vendetta nel vittorioso suo
campo. Per la segreta loro intelligenza co' propri nazionali, Roma e le
città dell'Italia indotte furono a spiegare le bandiere di Costanzo
sulle lor mura. I grati veterani, arricchiti dalla generosità del padre,
segnalarono la lor gratitudine e fedeltà verso il figlio. La cavalleria,
le legioni e gli ausiliari dell'Italia rinovarono il loro giuramento
d'ubbidienza a Costanzo; e l'usurpatore, spaventato per la general
diserzione, fu costretto co' residui delle sue truppe fedeli a ritirarsi
oltre le alpi nelle Province della Gallia. I distaccamenti però, che
spediti furono o per tribolare o per impedire la fuga di Magnenzio, si
condussero colla solita imprudenza di coloro che si trovano in buona
fortuna; e gli diedero nelle pianure di Pavia l'opportunità di voltarsi
contro quelli che l'inseguivano, e di soddisfare alla sua disperazione
colla strage d'una inutil vittoria[470].

[A. D. 353]

L'orgoglio di Magnenzio fu ridotto dalle ripetute disgrazie a
supplicare, ma invano, per la pace. Spedì egli primieramente un
Senatore, nell'abilità di cui confidava, ed in seguito varj Vescovi, il
sacro carattere de' quali ottener poteva una più favorevol udienza,
coll'offerta di rinunziare la porpora, e colla promessa di consacrare il
rimanente della sua vita in servizio dell'Imperatore. Ma Costanzo,
quantunque accordasse graziosi termini di perdono e di riconciliazione a
chiunque lasciasse lo stendardo della ribellione[471], si dichiarava
però inflessibilmente determinato a dare la giusta pena a' delitti d'un
assassino, ch'egli si preparava ad opprimere da ogni parte collo sforzo
delle vittoriose sue armi. Una flotta Imperiale s'impossessò facilmente
dell'Affrica e della Spagna, confermò la fede vacillante de' popoli
Mori, e sbarcò considerabili truppe, le quali passarono i Pirenei, e
s'avanzarono verso Lione, ultima e fatal dimora di Magnenzio[472].
L'indole del Tiranno, che non fu mai inclinato alla clemenza, veniva
stimolata dalle angustie ad esercitare qualunque atto d'oppressione, che
estorcer potesse un pronto sussidio dalle città della Gallia[473].
Finalmente stancossi la loro pazienza, e Treveri, sede del governo
Pretoriano, diede il segno della ribellione, chiudendo in faccia le
porte a Decenzio, che dal fratello era stato elevato al grado di Cesare
o d'Augusto[474]. Da Treveri, Decenzio fu costretto di ritirarsi a Sens,
dove tosto fu circondato da un'armata di Germani, che dalle perniciose
arti di Costanzo erano stati introdotti nelle civili dissensioni di
Roma[475]. Intanto le truppe Imperiali forzarono i passi delle alpi
Cozie, e nel sanguinoso combattimento di monte Seleuco il partito di
Magnenzio fu irrevocabilmente notato col titolo di ribelle[476]. Non fu
Magnenzio in grado di condurre un altro esercito in campo; venne
corrotta la fedeltà delle sue guardie; e quando comparve in pubblico per
animarle colle sue esortazioni, fu salutato con un concorde applauso di
«lunga vita all'Imperatore Costanzo». Il Tiranno, accorgendosi che si
preparavano a meritare perdono e premj con sagrificare il più malvagio
delinquente, ne prevenne il disegno trafiggendosi col proprio
ferro[477]; morte più mite ed onorata di quella, che potea sperar
d'ottenere dalle mani d'un nemico, di cui la vendetta sarebbe stata
colorita dallo specioso pretesto della giustizia e della fraterna pietà.
L'esempio del suicidio fu imitato da Decenzio, che strangolossi alla
nuova della morte di suo fratello. Marcellino, autore della
cospirazione, era già da gran tempo disparuto nella battaglia di
Mursa[478]; e fu ristabilita la pubblica tranquillità, mediante
l'esecuzione de' sopravviventi capi d'una rea e disgraziata fazione. Fu
estesa una severa inquisizione a tutti coloro, che o per elezione o per
forza si ritrovarono involti nella causa de' ribelli. Fu mandato Paolo,
soprannominato _Catena_ per la sua grande abilità nel giudicial
esercizio della tirannide, ad esplorare i nascosti residui della
cospirazione nella remota Provincia della Gran-Brettagna. L'onesta
indignazione, dimostrata da Martino Vice-Prefetto dell'Isola, fu
interpretata come una prova della sua colpa; ed il Governatore trovossi
nella necessità di rivolger contro il proprio petto la spada, con cui
tentato avea di ferire il Ministro Imperiale. I più innocenti sudditi
dell'Occidente furono esposti agli esilj e alle confiscazioni, alla
morte ed a' tormenti; e siccome i timidi son sempre crudeli, l'animo di
Costanzo si mostrò inaccessibile alla clemenza[479].


NOTE:

[379] Teodosio il Grande, nel giudizioso avviso al suo figlio (Claudian.
_in IV. Consul. Honor. 214_), distingue la Condizione d'un Principe
Romano da quella di un Monarca Parto. Per l'uno era necessaria la virtù,
per l'altro bastar poteva la nascita.

[380] Non c'inganneremo rispetto a Costantino, se «crederemo tutto il
male, che ne dice Eusebio, e tutto il bene, che ne dice Zosimo» Fleury
_Hist. Eccles. Tom. III. p. 233_. In fatti Eusebio e Zosimo sono i due
estremi dell'adulazione e dell'invettiva. Si esprimono le ombreggiature
di mezzo da quegli scrittori, il carattere e la situazione de' quali
temperò in varie maniere l'influenza del loro zelo di religione.

[381] Le virtù di Costantino si son prese per la massima parte da
Eutropio e da Vittore il giovane, due Pagani sinceri, che scrissero dopo
l'estinzione della famiglia di esso. Anche Zosimo e l'Imperator Giuliano
confessano il suo coraggio personale e le militari sue perfezioni.

[382] Vedi Eutropio X. 6. _In primo Imperii tempore optimis Principibus,
ultimo mediis comparandus_. Dall'antica versione Greca di Peanio (_Edit.
Havercamp. p. 697._) sono inclinato a sospettare ch'Eutropio avesse
originalmente scritto _vix mediis_, e che quest'odioso monosillabo fosse
tolto di mezzo dall'affettata inavvertenza de' copisti. Aurelio Vittore
esprime l'opinion generale per mezzo d'un volgare, e veramente oscuro
proverbio; Trachala _decem annis praestantissimus: duodecim sequentibus_
latro; _decem novissimis_ pupillus _ob immodicas profusiones_.

[383] Giuliano (_Orat. I. p._ 8) in un discorso adulante pronunziato in
presenza del figlio di Costantino e ne' Cesari p. 335. Zosim. _p._ 114,
115. Posson citarsi le fabbriche tuttora esistenti di Costantinopoli ec.
come una prova durevole e senza eccezione della profusione del loro
autore.

[384] L'imparziale Ammiano merita la nostra fede. _Proximorum fauces
aperuit primus omnium Constantinus lib._ XVI. _c._ 8. Eusebio medesimo
ne confessa l'abuso (_Vit. Const. l._ IV. _c._ 29, 54), ed alcune leggi
Imperiali ne indicano debolmente il rimedio; vedi _sopra_ p. 60 n. 1.

[385] Giuliano ne' Cesari tenta di mettere in ridicolo il suo zio. Il
dotto Spanemio però conferma la sospetta di lui testimonianza
coll'autorità di medaglie (Vedi _Coment. p._ 156-299. 397. 459.) Eusebio
dice (_Orat. c._ 5) che Costantino vestiva in tal guisa per causa del
pubblico, non di se stesso. Se ciò s'ammettesse, il più stolto
vanaglorioso non sarebbe mai privo di scusa.

[386] Zosimo e Zonara sono d'accordo in rappresentar Minervina, come la
concubina di Costantino, ma Du Cange ha molto bravamente dimostrato il
carattere di essa, producendo un passo decisivo di uno de' panegirici:
_ab ipso fine pueritiae te matrimonii legibus dedisti_.

[387] Du Cange (_Famil. Byzantin. p._ 44) sull'autorità di Zonara gli dà
il nome di Costantino, ch'è alquanto inverisimile, essendo già stato
occupato dal fratello maggiore. Si fa menzione di quello da Annibaliano
nella _Cronica Pasquale_ ed è approvato dal Tillemont. _Hist. des Emper.
T._ IV. _p._ 527.

[388] Girol. _in Chron._ La povertà di Lattanzio si può riferire o a
lode del disinteressato filosofo, o a vergogna dell'insensibil padrone.
Vedi Tillemont _Mem. Eccl. Tom._ VI. _part._ I. _p._ 345. Dupin
_Bibliot. Eccl. T._ I. _pag._ 205. Lardner _Credibil. dell'Ist. Evangel.
P._ II. _Vol._ VII. _p._ 66.

[389] Euseb. Hist. Eccles. _l._ X. c. 9. Eutropio (X. 6.) lo chiama
_egregium virum_; e Giuliano (_Orat._ I) assai chiaramente allude alle
imprese di Crispo nella guerra civile. Vedi Spanem. _Coment. p._ 92.

[390] Si confronti Idacio e la Cronica Pasq. con Ammiano _l._ XIV. _c._
5. Sembra che l'anno, in cui Costanzo fu creato Cesare, sia con più
accuratezza fissato da due Cronologisti; ma l'istorico, il quale visse
nella sua Corte, non poteva ignorare il _giorno_ anniversario. Quanto
alla deputazione del nuovo Cesare alle Province della Gallia vedi
Giuliano _Orat. I p._ 12. Gotofredo _Cronol. leg. p._ 26. Blondello _del
Primat. della Chies. pag._ 1183.

[391] Cod. Theod. _l._ IX. _Tit._ IV. Gotofredo sospetta i segreti
motivi di questa legge. _Coment. Tom._ III. _pag._ 9.

[392] Du Cange _Fam. Byzant. p._ 58. Tillemont _Tom._ IV. _p._ 610.

[393] Il suo nome era Porfirio Ottaviano. Si stabilisce la data del suo
panegirico, scritto secondo il gusto di quel tempo in bassi acrostici,
da Scaligero _ad Euseb. p._ 250. da Tillemont _Tom._ IV. _p._ 607 e dal
Fabricio _Bibl. Latin. l._ IV. _c._ 1.

[394] Zosim. _l._ II. 103. Gotofred. _Chronolog. leg. pag._ 28.

[395] Ἀκριτως _senza processo_ è la forte e più probabilmente
giusta espressione di Svida. Vittore il Vecchio, che scrisse nel regno
seguente, dice con conveniente cautela: _natu grandior incertum qua,
causa patris judicio occidisset_. Se noi consultiamo gli scrittori
posteriori, come Eutropio, Vittore il Giovane, Orosio, Girolamo, Zosimo,
Filostorgio e Gregorio di Tours, sembra che la cognizione, che hanno di
questo fatto, vada a grado a grado crescendo a misura che dovevan
diminuire i mezzi d'esserne informati: circostanza, che frequentemente
s'incontra nelle istoriche ricerche.

[396] Ammiano (_l._ XIV. _c._ II) adopera l'espression generale
_peremptum_. Codino (p. 34) dice, che il Principe fu decapitato; ma
Sidonio Apollinare (_Epist._ V. 8), forse per fare un'antitesi al bagno
_caldo_ di Fausta, vuol piuttosto che gli fosse dato un sorso di
_freddo_ veleno.

[397] _Sororis filium commodae indolis juvenem._ Eutrop. X. 6. Non
sarebb'egli permesso di congetturare, che Crispo avesse sposato Elena,
figlia dell'Imperator Licinio, e che in occasione del felice matrimonio
della Principessa fatto nell'anno 322, Costantino avesse accordato un
generale perdono? Vedi Du Cange (_Fam. Byzant. p._ 47) e la legge (_l._
IX. _Tit._ XXXVII) del Codice Teodosiano che ha tanto imbarazzato
gl'Interpreti. Gotofred. _Tom._ III _p._ 297.

[398] Vedi la vita di Costantino specialmente nel l. II. c. 19, 20.
Evagrio dugento cinquant'anni dopo (l. III. c. 41.) dedusse dal silenzio
d'Eusebio un vano argomento contro la verità del fatto.

[399] Voltaire _Hist. de Pierre le Grand, P._ 2. _c._ 10.

[400] Ad oggetto di provare, che da Costantino fu eretta la Statua, e
dipoi nascosta dalla malizia degli Arriani, Codino con molta facilità
inventa (p. 34) due testimonj, Ippolito ed Erodoto il Giovane, alle
immaginarie storie de' quali con fiducia sfacciata si riferisce.

[401] Zosimo (_l._ II. _p._ 103) si può considerar come il nostro
originale. L'accorgimento de' moderni, assistito da qualche cenno che ne
han dato gli antichi, ha illustrato e migliorato l'oscura ed imperfetta
di lui narrazione.

[402] Filostorgio _l._ II. _c._ 4. Zosimo (_l._ II. _p._ 104, 116)
attribuisce a Costantino la morte di due mogli; cioè dell'innocente
Fausta, e d'un'adultera, ch'era madre de' tre successori di lui. Secondo
Girolamo passaron tre o quattro anni fra la morte di Crispo e quella di
Fausta. Vittore il Vecchio osserva un prudente silenzio.

[403] Se Fausta fu privata di vita, è ragionevol di credere, che il
teatro della sua esecuzione fossero i privati appartamenti del palazzo.
L'oratore Grisostomo compiacque la sua fantasia con esporre
l'Imperatrice nuda in un deserto monte, ad essere divorata dalle fiere.

[404] Giulian. _Orat. I._ Par ch'egli la chiami madre di Crispo. Ella
potè forse prender quel titolo per adozione. Almeno non si risguardava
come mortale di lui nemica. Giuliano paragona la fortuna di Fausta a
quella di Parisatide Regina di Persia. Un Romano si sarebbe dovuto
rammentare più naturalmente Agrippina seconda.

    _Et moi qui sur le trône ai suivi mes ancètres;_
    _Moi fille, femme, soeur, et mère de vos maitres._

[405] Monod. _in Constant. Jun. c._ 4 _ad calc. Eutrop. Edit.
Havercamp_. L'oratore la chiama la più divina e pia delle Regine.

[406] _Interfecit numerosos amicos_ Eutrop. XX. 6.

[407]

    _Saturni aurea, saecula quis requirat?_
    _Sunt haec gemmea, sed Neroniana._

                       Sidon. Apollinar. V. 8.

Egli è un poco singolare, che questi satirici versi fossero attribuiti
non ad un oscuro compositor di libelli, o ad un disgustato patriotta, ma
ad Ablavio primo ministro e favorito dell'Imperatore. Noi possiamo
adesso conoscere, che le imprecazioni del popolo Romano eran dettate
dall'umanità non meno che dalla superstizione. Zosim. _t. II. p. 105_.

[408] Euseb. _Orat. in Constant. c. 3_. Queste date son corrette
abbastanza da giustificar l'Oratore.

[409] Zosim. _l. II. p. 117_. Sotto i predecessori di Costantino
_Nobilissimus_ era un epiteto indeterminato piuttosto che un fisso e
legittimo titolo.

[410] _Adstruunt nummi veteres ac singulares_; Spanem. _de us. num.
Diss. XII. Vol. II. p. 357_. Ammiano parla di questo Romano Re (_l. XIV.
c. I._ e _Vales. Ib._). Il Frammento Valesiano lo chiama Re de' Re, e la
Cronica Pasquale p. 286. usando la Parola Ρηγα, aggiunge peso
alla testimonianza Latina.

[411] La sua destrezza negli esercizi marziali è celebrata da Giuliano
_Orat. I. p. 11._ _Orat. II. p. 53._ e confessata da Ammiano _l. XXI. c.
16_.

[412] Euseb. _in vit. Const. l. IV. c. 51_. Julian. _Orat. I. p. 11.
16._ coll'elaborato Comentario di Spanemio. Libanio _Orat. III. p. 109_.
Costanzo studiò con lodevol diligenza; ma la lentezza della sua fantasia
gl'impedì di far progressi nell'arte della poesia o anche della
rettorica.

[413] Eusebio (_l. IV. c. 51, 52_) con animo d'esaltare l'autorità e la
gloria di Costantino, afferma, ch'esso divise il Romano Impero, come
avrebbe potuto un cittadino privato dividere il suo patrimonio. Può
rilevarsi la divisione, ch'ei fece delle Province da Eutropio, da' due
Vittori, e dal frammento Valesiano.

[414] Per la vigilanza di Dalmazio fu preso Calosero, ch'era l'oscuro
capo di questa ribellione o piuttosto tumulto, e bruciato vivo nella
pubblica piazza di Tarso. Vedi Vittore il Vecchio, la Cronica di
Girolamo, e le dubbiose tradizioni di Teofane e di Cedreno.

[415] Il Cellario ha raccolto le opinioni degli antichi rispetto alla
Sarmazia Europea ed Asiatica; e il Danville le ha applicate alla
Geografia moderna, con l'avvedimento e coll'esattezza che sempre
distinguono quell'eccellente scrittore.

[416] Ammiano _l. XVII. c. 12_. I cavalli Sarmati eran castrati per
prevenire i dannosi accidenti, che avrebber potuto produrre le forti e
indomabili passioni de' maschi.

[417] Pausania _l. I. p. 50. Edit. Hulm._ Quel diligente viaggiatore
aveva esaminato con attenzione una corazza sarmatica, che si conservava
nel tempio d'Esculapio in Atene.

[418]

    _Aspicis et mitti sub adunco toxica ferro_
    _Et telum caussas mortis habere duas._

             _Ovid. ex Pont. l. IV. ep. 7. v. 7._

Vedi nelle Ricerche sopra gli Americani (_Tom. II p. 236, 271_) una
dissertazione molto curiosa intorno a' dardi avvelenati. Il veleno
traevasi ordinariamente dal regno vegetabile; ma quello, che usavan gli
Sciti, par che fosse tratto dalla vipera con una mistura di sangue
umano. L'uso delle armi avvelenate, che si è trovato diffuso in ambedue
i mondi, non ha mai preservato una tribù di selvaggi dalle armi di un
disciplinato nemico.

[419] I nove libri delle poetiche epistole, che compose Ovidio ne' primi
sette anni del suo tristo esilio, hanno, oltre il merito dell'eleganza,
un doppio pregio. Presentano, cioè, una pittura dello spirito umano,
posto in circostanze molto singolari, e contengono molte curiose
osservazioni, che nessun Romano, fuori che Ovidio, avrebbe avuto
l'occasione di fare. Si è raccolta ogni circostanza, che può contribuire
ad illustrar l'istoria de' Barbari dell'accuratissimo Conte di Buat.
_Hist. Anc. des Peupl. de l'Europe Tom. IV. c. XVI. p. 286-317_.

[420] I Sarmati Jazigi eran già stabiliti sulle rive del Patisso o
Tibisco, quando Plinio pubblicò nell'anno 79 la sua Storia Naturale.
Vedi l. IV. c. 15. Al tempo di Strabone e di Ovidio, sessanta o
settant'anni avanti, par che abitassero al di là de' Geti, lungo le
coste dell'Eussino.

[421] _Principes Sarmatarum Jazygum, penes quos civitatis regimen...
plebem quoque et vim equitum, qua sola valent, offerebant._ Tacit.
_Hist. III. 5_. Fu fatta quest'offerta nella guerra civile tra Vitellio
e Vespasiano.

[422] Sembra che quest'ipotesi d'un Re Vandalo sopra sudditi Sarmati sia
necessaria per conciliare il Goto Giornaudes con gl'istorici Greci e
Latini di Costantino. È da osservarsi, che Isidoro, il quale visse in
Ispagna sotto il dominio dei Goti, dà loro per nemici non i Vandali, ma
i Sarmati. Vedi la sua Cronica appresso _Groz._ p. 709.

[423] Bisogna che io faccia qualche apologia per essermi servito senza
scrupolo dell'autorità di Costantino Porfirogenito, in tutto ciò, che ha
rapporto alle guerre e negoziazioni degli abitanti del Chersoneso. Io
so, ch'egli era un Greco del decimo secolo, e che i suoi racconti
d'Istoria antica son bene spesso confusi e favolosi. Ma in
quest'occasione, ciò ch'esso narra è per la massima parte coerente e
probabile; nè deve esservi molta difficoltà a concepire, che per un
Imperatore potevano essere accessibili alcuni archivi segreti, ch'erano
sfuggiti alla diligenza degl'Istorici minori. Quanto alla situazione ed
istoria del Chersoneso vedi Peyssonel _Des Peuples barbares qui ont
habité les bords du Danube. c. XVI. p. 84, 90_.

[424] Le guerre Gotiche e Sarmatiche son riportate in un modo così
imperfetto, che io sono stato costretto a confrontare fra loro i
seguenti scrittori, che reciprocamente si suppliscono, correggono, ed
illustrano l'uno coll'altro. Quelli che si prenderanno la medesima pena,
possono avere un diritto di criticare la mia narrazione. Ammiano _l.
XXVII. c. 22_. Annon. Vales. _p. 715_. Eutrop. X. 7. Sesto Rufo _de
Prov. c. 26_. Julian. _Orat. I. p. 9_ col _Coment. di Span. p. 94_.
Hieron. _in Chron._ Euseb. _in vit. Const. l. IV. c. 6_. Socrat. _l. I.
c. 18_. Sozom. _l. I c. 8_. Zosim. _l. II. c. 108_. Jornand. _de reb.
Get. c. 22_. Isidor. _in Chron. p. 709. in Hist. Gothor. Grotii_,
Constant. Porphyrog. _De administr. Imper. c. 53. p. 208. Edit. Meurs_.

[425] Eusebio (_in vit. Const. l. IV. c. 50_) osserva tre circostanze
relative a quest'Indiani. 1. Essi vennero dai lidi dell'Oceano
Orientale; descrizione che può applicarsi alle coste della China o del
Coromandel; 2. Presentarono scintillanti gemme ed incogniti animali; 3.
Protestarono che i loro Monarchi avevano erette statue per rappresentare
la maestà suprema di Costantino.

[426] _Funus relatum in urbem sui nominis; quod sane P. R. aegerrime
tulit._ Aurel. Vittore. Costantino s'era preparato un magnifico sepolcro
nella Chiesa de' Santi Apostoli. Vedi Eusebio. _l. IV. c. 60_, che nel
quarto libro della vita di esso dà il migliore, e quasi l'unico
ragguaglio della malattia, della morte, e de' funerali di Costantino.

[427] Eusebio (_l. IV. c. 6._) termina il suo racconto con questa fedele
dichiarazione delle truppe, e scansa tutte le odiose circostanze del
macello, che seguì dopo.

[428] Si descrive il carattere di Dalmazio con vantaggio, quantunque
brevemente, da Eutropio X. 9. _Dalmatius Caesar prosperrima indole,
neque patruo absimilis_, haud multo _post oppressus est factione
militari_. Siccome tanto Girolamo quanto la Cronica Alessandrina fanno
menzione del terzo anno di questo Cesare, che non principiava fino al
18. o 24. Settembre dell'anno 337, egli è chiaro che queste militari
fazioni continuarono per più di quattro mesi.

[429] Ho riferito questo singolare aneddoto sull'autorità di Filostorgio
_l. II. c. 16_. Ma se mai da Costanzo, o dagli aderenti di lui si usò
tal pretesto, dipoi fu disprezzato, appena ebbe servito all'immediato
loro disegno. Atanasio (_Tom. I p. 856_) fa menzione del giuramento, che
Costanzo avea preso per la sicurezza de' suoi congiunti.

[430] _Coniugia sobrinarum diu ignorata tempore addito percrebuisse_.
Tacit. _Annal. XII. 6._ e Lips. _Ib._ La rivocazione dell'antica legge,
e la pratica di cinquecent'anni non furono bastanti a sradicare i
pregiudizi de' Romani, che sempre risguardarono i matrimonj de' cugini
germani come una specie d'imperfetto incesto (Augustin. _De civ. Dei XV.
6._); e Giuliano, il cui spirito era stravolto dalla superstizione e
dall'ira, diffama queste non naturali parentele fra' propri di lui
cugini coll'obbrobrioso epiteto di γαμὼν τε ου γαμον _nozze non
nuziali_ (_Orat. VII p. 228_). La giurisprudenza de' canoni ha di poi
restituita, e rinvigorita questa proibizione, senza però averla potuta
introdurre nelle civili, o comuni leggi di Europa. Vedi a proposito di
questi matrimonj Taylor _Leg. Civ. p. 331_. Brorer. _de Jur. Connub. l.
II. c. 12_. Hericourt _Loix Eccles. P. III. c. 4_. Fleury _Inst. du
Droit Can. Tom. I. p. 331. Paris 1767_ e Fra Paolo _Istor. del Conc.
Trid. l. VIII_.

[431] Giuliano (_ad S. P. Q. Athen. p. 270_) accusa il suo cugino
Costanzo di tutta la colpa di un macello, in cui era stato sì vicino a
soccombere ei pure. Vien confermata la sua asserzione da Atanasio, che
per ragioni di altro genere non era meno nemico di Costanzo (_Tom. I. p.
856._) Zosimo conviene nella medesima accusa; ma i tre abbreviatori
Eutropio e i Vittori usano l'espressione molto temperata _sinente potius
quam jubente; — incertum quo suasore — vi militum_.

[432] Euseb. _in vit. Const. l. IV. c. 69_. Zosim. _l. II. p. 1117_.
Idat. _in Chron._ Vedi due note di Tillemont _Hist. des Emper. IV. p.
1086-1091_. Si fa menzione del regno del fratello maggiore in
Costantinopoli solo nella Cronica Alessandrina.

[433] Agatia, che visse nel sesto secolo, è l'autore di questa istoria
(_l. IV. p. 135. edit. Lovre_). Egli rilevò tali notizie da alcuni
estratti delle Croniche persiane, che ottenne e tradusse l'interprete
Sergio durante la sua ambasceria a quella Corte. La Coronazione della
madre di Sapore, è similmente rammentata da Schikard (_Tarikk. p. 126_)
e D'Herbelot (_Bibl. Orient. p. 763_).

[434] D'Herbelot. _Bibl. Or. p. 764_.

[435] Sesto Rufo c. 26 la di cui autorità in quest'occasione non è
disprezzabile, afferma che i Persiani richiesero invano la pace, e che
Costantino si preparava a marciar contro di loro; ma il peso maggiore
della testimonianza d'Eusebio ci costringe ad ammettere, se non la
ratifica, i preliminari almeno del trattato. Vedi Tillemont _Hist. des
Emper. T. IV. p. 420_.

[436] Julian. _Orat. I. p. 20_.

[437] Julian. _Orat. I. p. 20, 21_. Mosè di Corene l. II. c. 8-9 l. III.
c. 1-9. p 226-240. Il perfetto accordo fra gl'indeterminati cenni
dell'Oratore contemporaneo e la circostanziata narrazione dell'Istorico
nazionale dà lume all'uno e peso all'altro. Può anche osservarsi,
rispetto all'autorità di Mosè, che si trova il nome d'Antioco pochi anni
prima in un uffizio d'inferior dignità. Vedi Gotofred. _Cod. Theodos.
Tom. IV. p. 350_.

[438] Ammiano XIV 4. fa una viva descrizione della vita vagabonda e
predatoria de' Saraceni, che s'estendevano da' confini dell'Assiria fino
alle cateratte del Nilo. Dalle avventure di Malco, che Girolamo
riferisce in sì piacevol maniera, si rileva, che la pubblica strada fra
Berea ed Edessa era infestata da questi ladroni. Ved. _Hieron. Tom. I.
p. 256_.

[439] Noi prenderemo da Eutropio l'idea generale di questa guerra X. 10.
_A Persis enim multa et gravia perpessus, saepe captis oppidis, obsessis
urbibus, coesis exercitibus, nullumque et contra Saporem prosperum
praelium fuit, nisi quod apud Singaram etc._ Quest'ingenua narrazione
vien confermata da' cenni, che ne danno Ammiano, Rufo, e Girolamo. Le
due primo Orazioni di Giuliano, e la terza di Libanio ce ne presentano
una più lusinghiera pittura; ma la ritrattazione di ambedue quegli
oratori dopo la morte di Costanzo, nel tempo che ci rimette in possesso
della verità, infama il loro carattere e quello dell'Imperatore. Il
Comentario di Spanemio sulla prima orazione di Giuliano contiene una
profusa erudizione. Vedansi ancora le giudiziose osservazioni di
Tillemont. _Hist. des Emper. Tom. IV. p. 656_.

[440] _Acerrima nocturna concertatione pugnatum est, nostrorum copiis
ingenti strage confessis._ Ammiano XVIII. 5. Vedi anche Eutropio X. 10.
e Sesto Rufo c. 27.

[441] Libanio _Orat. III. p. 133_ con Giuliano _Orat. I. p. 24_ ed il
Coment. di Spanemio _p. 179_.

[442] Vedi Giuliano _Orat. I. p. 27_, _Orat. II. p. 62_ col Comentario
di Spanemio (_p. 188-202_), che illustra le circostanze e determina
l'epoca de' tre assedj di Nisibi. S'esaminano anche le date di essi dal
Tillemont (_Hist. des Emper. Tom. IV. p. 668, 671, 674_) e qualche cosa
s'aggiunge da Zosimo (_l. III. p. 151_) e dalla Cronica Alessandrina
(_p. 290._)

[443] Sallust. _Fragm. LXXXIV. edit. Brosses._ Plutar. _in Lucul._
(_Tom. III. p. 184._) Nisibi è presentemente ridotta a centocinquanta
case; le terre paludose producon riso, ed i fertili prati, fino a Mosul
ed al Tigri, son coperti dalle rovine della città e de' villaggi. Vedi
Niebuhr (_Viag. Tom. II. p. 300-309._)

[444] I miracoli, che Teodoro (_l. II. c. 30_) ascrive a S. Giacomo,
Vescovo d'Edessa, furono almeno fatti per una causa che lo meritava,
cioè per la difesa della patria. Egli comparve sulle mura in forma del
Romano Imperatore, e mandò un'armata di zanzare a punger le trombe degli
elefanti, e a sconfigger l'esercito del nuovo Sennacherib.

[445] Giulian. _Orat. I. p. 27_. Quantunque Niebuhr, (_Tom. II. p. 307_)
assegni un gonfiamento molto considerabile al Migdonio, sopra del quale
vide un ponte di dodici archi, nonostante è difficile di capire quanto
paralello di un piccol ruscello con un gran fiume. Nella descrizione di
queste stupende operazioni d'acqua si trovano molte circostanze oscure,
e quasi non intelligibili.

[446] Noi dobbiamo a Zonara (com. II _l. XIII. p. 11_) la notizia di
tale invasione de' Massageti, ch'è perfettamente coerente alla serie
generale degli avvenimenti a' quali siamo condotti oscuramente
dall'interrotta storia d'Ammiano.

[447] Si riferiscono le cause e gli avvenimenti di questa guerra civile
con molta ambiguità e contraddizione. Io ho seguìto specialmente Zonara
e Vittore il Giovane. Il monodio pronunziato in occasione della morte di
Costantino (_ad calcem Eutropii edit. Havercamp._) potrebbe averci date
molte notizie; ma la prudenza ed il cattivo gusto impegnarono l'Oratore
a diffondersi in una vaga declamazione.

[448] _Quarum_ (_Gentium_) _obsides pretio quaesitos pueros venustiores,
quod cultius habuerat, libidine hujusmodi arsisse pro certo habetur._ Se
non si fosse reso pubblico il gusto depravato di Costante, Vittore il
Vecchio, che occupava un posto considerabile nel regno del fratello di
lui, non l'avrebbe asserito in termini sì positivi.

[449] Giuliano _Orat. I. et II_. Zosim. _l. II._ (_p. 134._) Vittore
_nell'Epit._ V'è ragione di credere, che Magnenzio fosse nato in una di
quelle colonie barbare, che Costanzo Cloro avea stabilite nella Gallia.
La sua condotta può farci sovvenire del famoso patriotta Simone di
Montfort, Conte di Leicester, che potè persuadere il buon popolo
d'Inghilterra, ch'esso, Francese di nascita, aveva preso le armi par
liberarlo dagli estranei favoriti.

[450] Quest'antica città era una volta fiorita col nome d'_Illiberis_
(Pompon. Mela II. 5.) La munificenza di Costantino le diede nuovo
splendore, ed il nome della propria madre. Elena (che ha tuttavia il
nome di Elne) divenne Sede Episcopale, ed il Vescovo di essa dopo lungo
tempo trasferì la sua residenza a Perpignano, capitale del moderno
Rossiglione. Vedi D'Anville (_Not. de l'anc. Gaul. p. 380._) Longuerue
_Descript. de la Franc._ (_p. 223_) e la _Marca Ispanica_.

[451] Zosimo _l. II._ (_p. 119, 120_) Zonara _Tom. II. l. XIII._ (_p.
13_) e gli Abbreviatori.

[452] Eutropio (X. 10) rappresenta Vetranione con più moderazione, e
probabilmente con più verità de' due Vittori. Esso era nato di oscuri
parenti nelle più selvagge parti della Mesia; e la sua educazione era
stata tanto negletta, che dopo il suo innalzamento studiò l'alfabeto.

[453] Giuliano descrive nella sua prima Orazione la dubbiosa e
fluttuante condotta di Vetranione, ed accuratamente la spiega Spanemio,
che discute la situazione ed il contegno di Costantina.

[454] Vedi Pietro Patrizio nell'_Excerpt. Legation._ (_p. 27_).

[455] Zonara (T. II l. XIII. p. 16.) La situazione di Sardica, vicina
alla moderna città di Sofia, sembra meglio adattata a questo congresso,
che la situazione o di Naisso o di Sirmio, dove si pone da Girolamo, da
Socrate, e da Sozomeno.

[456] Vedi le due prime Orazioni di Giuliano, specialmente a _p. 31_ e
Zosimo (_l. II p. 122._) La distinta narrazione dell'Istorico serve ad
illustrare le diffuse ma indeterminate descrizioni dell'Oratore.

[457] Vittore il Giovane dà al suo esilio l'enfatico nome di
_voluptarium otium_. Socrate (_l. II. c. 18_) è garante della
corrispondenza coll'Imperatore la quale parrebbe provare che Vetranione
era in vero _prope ad stultitiam simplicissimus_.

[458] _Eum Constantius .... facundiae vi dejectum imperio in privatum
otium removit. Quae gloriam post natum Imperium soli processit eloquio,
clementiaque etc._ Aurelio Vittore, Giuliano e Temistio adornano questo
fatto co' più artificiosi e vivi colori della loro rettorica.

[459] Busbechio (_p. 112._) attraversò la bassa Ungheria e Schiavonia in
un tempo, in cui erano esse ridotte quasi ad un deserto dalle reciproche
ostilità de' Cristiani e de' Turchi. Pure con maraviglia rammenta
l'insuperabile fertilità del terreno; ed osserva, che l'altezza
dell'erba era sufficiente a nascondere un carro carico alla sua vista.
Vedi anche Browne _Viagg._ nella Collezione di Harris. _Vol. II._ (_p.
762._ ec.).

[460] Zosimo fa un ampio racconto della guerra e della negoziazione (_l.
II. p. 123-130_). Ma siccome non si dimostra nè soldato nè politico, la
sua storia dee ponderarsi con attenzione, ed ammettersi con cautela.

[461] Questo riguardevole ponte, ch'è fiancheggiato con torri, e fondato
su grossi pali di legno, fu costruito l'anno 1566 dal Sultano Solimano
per facilitare la marcia de' suoi eserciti nell'Ungheria. Vedi Browne
_Viagg._ e Busching _Sistem. di Geogr. Vol. II. p. 90_.

[462] Questa positura e le successive evoluzioni son chiaramente,
sebbene in breve, descritte da Giuliano (_Orat. I. p. 36_).

[463] Sulpic. Sever. l. II. 405. L'Imperatore passò la giornata in
preghiere con Valente, Vescovo Arriano di Mursa, che guadagnò la sua
confidenza con annunciargli l'evento della battaglia. Il Tillemont
(_Hist. des Emper. Tom. IV. p. 1110_) osserva molto a proposito il
silenzio di Giuliano rispetto al personal valore di Costanzo nella
battaglia di Mursa. Il silenzio dell'adulazione qualche volta equivale
alla più positiva ed autentica prova.

[464] Giuliano _Orat. I. p. 36_ ed _Orat. II. p. 59, 60_. Zonara _Tom.
II. l. XIII. p. 17_. Zosim. l. II. _p. 130, 133_. Quest'ultimo celebra
la destrezza dell'arcier Menelao, che poteva scagliare tre dardi nel
medesimo tempo; vantaggio, che secondo la sua idea degli affari
militari, materialmente contribuì alla vittoria di Costanzo.

[465] Secondo Zonara, Costanzo di 80000 uomini che aveva, ne perdè 30000
e Magnenzio 24000 di 36000. Gli altri articoli di questo racconto
sembran probabili ed autentici; ma nel numero dell'armata del Tiranno
dev'essersi fatto sbaglio o dall'autore o da' copisti. Magnenzio aveva
raccolto tutte le forze d'Occidente sì de' Romani che de' Barbari in un
formidabile corpo, che non può giustamente stimarsi minore di 100,000
uomini. Giulian. _Orat. I. p. 34, 35_.

[466] _Ingentes R. I. vires ea dimicatione consumptae sunt ad quaelibet
bella externa idonea, quae multum triumphorum possent, securitatisque
conferre._ Eutrop. X. 13. Vittore il Giovane s'esprime nell'istessa
guisa.

[467] In quest'occasione dobbiam preferire la non sospetta testimonianza
di Zosimo e di Zonara alle lusinghiere asserzioni di Giuliano. Vittore
il Giovane dipinge in un singolare aspetto il carattere di Magnenzio.
_Sermonis acer, animi tumidi, et immodice timidus; artifex tamen ad
occultandam audaciae specie formidinem._ È egli più verisimile, che
nella battaglia di Mursa la sua condotta fosse governata dalla natura o
dall'arte? Io inclinerei alla seconda.

[468] Julian. _Orat. I. p. 38 39_. In quel luogo non meno che
nell'_Oraz. II. p. 97_ egli esprime la general disposizione del senato,
del popolo, e de' soldati dell'Italia in favore dell'Imperatore.

[469] Vittore il Vecchio descrive in una maniera patetica la misera
condizione di Roma. _Cujus stolidum ingenium adeo P. R. patribusque
exitio fuit, uti passim domus, fora, viae, templaque cruore,
cadaveribusque opplerentur bustorum modo._ Atanasio Tom. I. (_p. 677_)
deplora la morte di molte illustri vittime, e Giuliano (_Orat. II. p.
58_) rammenta con esecrazione la crudeltà di Marcellino implacabil
nemico della casa di Costantino.

[470] Zosim. l. II. _p. 133_. Vittore _in Epitom._ I panegiristi di
Costanzo, col solito loro candore, omettono di far menzione di
quest'accidentale disfatta.

[471] Zonara Tom. II. l. XIII. _p. 17_. Giuliano in diversi luoghi di
due orazioni si diffonde sulla clemenza di Costantino verso i ribelli.

[472] Zosimo _l. II. p. 133_. Giuliano _Orat. I. p. 40, II. 74_.

[473] Ammiano XV. 6. Zosimo l. II. _p. 133_. Giuliano, che (nell'_Oraz.
I. p. 40_) inveisce contro i crudeli effetti della disperazion del
Tiranno, rammenta (_Orat. I. p. 34_) gli opprimenti editti, che furon
dettati dalla necessità, o dall'avarizia di esso. I suoi sudditi furon
costretti a comprare i beni Imperiali; specie di proprietà dubbia e
pericolosa, che in caso di rivoluzione avrebbe potuto loro imputarsi
come una condannabile usurpazione.

[474] Le medaglie di Magnenzio celebrano le vittorie di _due_ Augusti e
del Cesare. Quest'ultimo era un altro fratello chiamato Desiderio. Vedi
Tillemont _Hist. des Emp. Tom. IV. p. 757_.

[475] Giuliano _Orat. I. p. 40, II. p. 74_ con Spanem. _p. 263_. Il
comentario di questo illustra i fatti di quella guerra civile. _Mons
Seleusi_ era un picciol luogo nelle alpi Cozie poche miglia distante da
_Vapincum_, o Gap, città Episcopale del Delfinato. Vedi Danville _Not.
de la Gaule p. 464_, e Longuerue _Descript. de la France p. 327_.

[476] Zosimo l. II. _p. 134_. (Liban. _Orat. X. p. 268, 269_).
Quest'ultimo con gran veemenza critica tal crudele ed appassionata
politica di Costanzo.

[477] Giuliano _Orat. I. p. 46_. Zosimo l. II. _p. 134_. Socrate l. II.
c. 32. Sozomeno l. IV. c. 7. Vittore il Giovane descrive la sua morte
con alcune orride circostanze: _Transfosso latere, ut erat vasti
corporis, vulnere, naribusque, et ore cruorem effundens exspiravit._ Se
può darsi fede a Zonara, il Tiranno, avanti di spirare, ebbe il piacere
d'uccidere colle sue proprie mani sua madre e Desiderio di lui fratello.

[478] Sembra che Giuliano (_Orat. p. 58, 59_) sia incerto nel
determinare, se egli da se stesso si desse la pena de' suoi delitti, o
se annegossi nel Dravo, o se da' vendicatori Demonj fu trasportato dal
campo di battaglia al luogo degli eterni tormenti a lui destinato.

[479] Ammiano XIV 5 XXI. 16.



CAPITOLO XIX.

      _Costanzo solo Imperatore. Elevazione e morte di Gallo. Pericolo
      ed innalzamento di Giuliano. Guerre coi Sarmati e co' Persi.
      Vittorie di Giuliano nella Gallia._


Le divise Province dell'Impero nuovamente s'unirono per la vittoria di
Costanzo; ma poichè quel Principe debole mancava di merito personale in
pace o in guerra; poichè temeva de' suoi Generali, e diffidava de'
Ministri, il trionfo delle sue armi non servì che a stabilire il regno
degli Eunuchi sul Mondo Romano. Questi miserabili enti, antica
produzione della gelosia e del dispotismo Orientale[480], furono
introdotti nella Grecia ed in Roma pel contagio del lusso Asiatico[481].
Rapido fu il loro progresso; e gli Eunuchi, i quali al tempo d'Augusto
si erano abborriti, come il mostruoso corteggio d'una Regina
d'Egitto[482], furono appoco appoco ammessi nelle famiglie delle
Matrone, de' Senatori e degli Imperatori medesimi[483]. Ristretti da'
severi editti di Domiziano e di Nerva[484], accarezzati dalla vanità di
Diocleziano, ridotti ad un umile stato dalla prudenza di
Costantino[485], moltiplicarono ne' palazzi de' suoi degenerati
figliuoli, ed insensibilmente acquistarono la cognizione, ed in ultimo
la direzione de' segreti consigli di Costanzo. L'avversione e il
disprezzo, che il Mondo ha sempre con tale uniformità mantenuto per
questa imperfetta specie di uomini, sembra che abbia degradato il loro
carattere, e gli abbia quasi renduti incapaci, come si suppongono
essere, di concepire alcun sentimento generoso, o di fare alcun'azione
degna di gloria[486]. Ma gli Eunuchi erano esperti nelle arti
dell'adulazione e dell'intrigo, e governavan l'animo di Costanzo,
alternativamente servendosi de' timori, dell'indolenza e della vanità
del medesimo[487]. Mentr'egli mirava in un ingannevole specchio la bella
apparenza della pubblica prosperità, con supina indolenza permetteva
loro, che gli celassero le querele delle maltrattate Province; che
accumulassero immense ricchezze con vendere la giustizia e gli onori;
che infamassero le dignità più importanti colla promozione di quelli,
che dalle lor mani aveano comprata la facoltà dell'oppressione[488]; e
che soddisfacessero il proprio sdegno contro que' pochi spiriti
indipendenti, che arditamente ricusavano di sollecitare la protezione di
schiavi. Il più distinto fra questi schiavi era il Ciamberlano Eusebio,
il quale regolava il Monarca ed il Palazzo con tale assoluto dominio,
che Costanzo, secondo il sarcasmo d'un imparziale Istorico, godeva
qualche credito appresso il superbo suo favorito[489]. Per le
artificiose di lui suggestioni, l'Imperatore s'indusse a sottoscriver la
condanna dell'infelice Gallo, e ad aggiungere un nuovo delitto alla
lunga lista delle uccisioni, che macchiano l'onore della casa di
Costantino.

[A. D. 351]

Quando i due nipoti di Costantino, Gallo e Giuliano, furon sottratti al
furor de' soldati, il primo aveva circa l'età di dodici anni, ed il
secondo di sei; e siccome il maggiore credevasi d'una debole
costituzione di corpo, così con minor difficoltà ottennero una vita
precaria e dipendente dall'affettata pietà di Costanzo, il quale
conosceva che l'esecuzione di tali orfani abbandonati si sarebbe stimata
dal Mondo come un atto della più deliberata crudeltà[490]. Furono
destinate varie città della Jonia e della Bitinia per luoghi di loro
educazione ed esilio; ma tosto che l'età loro crescente eccitò la
gelosia dell'Imperatore, giudicò più prudente consiglio di soprattenere
quegl'infelici giovani nella forte rocca di Macello, vicino a Cesarea.
Il trattamento, ch'essi provarono in sei anni di confino, fu quale
potevano in parte sperare da un attento custode, e in parte temere da un
sospettoso Tiranno[491]. La lor prigione era un antico palazzo,
residenza dei Re della Cappadocia; la situazione era piacevole, la
fabbrica grandiosa, e spazioso il recinto. Essi proseguivano i loro
studi, e facevano i loro esercizi sotto la guardia de' più periti
maestri; ed il numeroso corteggio, destinato ad accompagnare, o
piuttosto a guardare i nipoti di Costantino, era degno della dignità di
lor nascita. Ma non potevano essi dissimulare a se medesimi, ch'eran
privi di sostanze, di libertà e di sicurezza, separati dalla società di
quelli, a' quali avrebber potuto accordare la confidenza e la stima, e
condannati a passare le triste ore loro in compagnia di schiavi addetti
a' comandi d'un Tiranno, che già gli aveva offesi fuor di qualunque
speranza di riconciliazione. A lungo andare però le necessità dello
Stato costrinsero l'Imperatore o piuttosto i suoi Eunuchi ad investir
Gallo, nel ventesimo quinto anno della sua età, del titolo di Cesare, ed
a confermare tal politica unione, mediante il matrimonio di lui colla
Principessa Costantina. Dopo un formale incontro, nel quale i due
Principi reciprocamente impegnaron la propria fede di non intraprender
giammai cosa alcuna in pregiudizio l'uno dell'altro, si portarono
senz'indugio alle rispettive loro stazioni. Costanzo continuò la sua
marcia vers'Occidente, e Gallo fissò la sua residenza in Antiochia, di
dove, con delegata autorità, amministrava le cinque gran Diocesi della
Prefettura Orientale[492]. In questo fortunato cambiamento il nuovo
Cesare non dimenticò il fratello Giuliano, che ottenne gli onori del suo
grado, le apparenze della libertà e la restituzione d'un ampio
patrimonio[493].

Gli scrittori più indulgenti verso la memoria di Gallo, e Giuliano egli
stesso, quantunque desiderasse di tirare un velo sopra le fragilità del
fratello, sono obbligati a confessare, che Cesare non era capace di
regnare. Trasportato da una prigione ad un trono, non aveva nè ingegno,
nè applicazione, nè docilità per compensare la mancanza delle cognizioni
e dell'esperienza. Un temperamento per natura fastidioso e violento,
invece di esser corretto, fu inasprito dalla solitudine e
dall'avversità; la memoria di ciò, che avea sofferto, lo dispose a
render l'istesso agli altri, piuttosto che a compatire; e gl'impeti
sregolati del suo furore riuscirono spesso fatali a quelli, che gli
stavano attorno, o eran sottoposti al suo potere[494]. Costantina sua
moglie vien descritta non come una donna, ma come una furia infernale,
tormentata da una insaziabil sete di sangue umano[495]. Invece
d'impiegar la sua preponderanza ad insinuargli miti consigli di prudenza
e di umanità, ella esacerbava le fiere passioni del marito; e siccome
riteneva la vanità del suo sesso, quantunque deposta ne avesse la
gentilezza, un vezzo di perle fu stimato da essa equivalente prezzo per
la morte di un nobile innocente e virtuoso[496]. La crudeltà di Gallo
alle volte si manifestava nell'aperta violenza di popolari o militari
esecuzioni, ed alle volte si mascherava sotto l'abuso della legge e
della formalità de' processi giudiciali. Le case private d'Antiochia ed
i luoghi pubblici eran pieni di delatori e di spie; e Cesare stesso,
celato sotto un abito plebeo, molto spesso si compiaceva di prendere
quell'odioso carattere. Ogni appartamento del Palazzo era ornato con
istrumenti di morte e di tortura, ed era sparsa una generale
costernazione nella capitale della Siria. Il Principe dell'Oriente, come
se fosse stato consapevol di quanto avea da temere, e quanto poco
meritava di regnare, prese per oggetti dell'ira sua i Provinciali
accusati di qualche immaginario tradimento, ed i propri Cortigiani,
ch'esso con più ragione sospettava, che accendessero colla segreta loro
corrispondenza il timido e sospettoso animo di Costanzo. Ma non pensava,
che privavasi dell'affezione del popolo, unico suo sostegno, nel tempo
che somministrava alla malizia dei suoi nemici le armi della verità, ed
all'Imperatore il più bel pretesto di togliergli la porpora ad un tempo
e la vita[497].

[A. D. 354]

Finattanto che la guerra civile tenne sospeso il fato del Mondo Romano,
Costanzo dissimulò di conoscere la debole e crudele amministrazione, a
cui la sua scelta sottoposto aveva l'Oriente; e la scoperta di alcuni
assassini, mandati segretamente in Antiochia dal Tiranno della Gallia,
servì a convincere il pubblico, che l'Imperatore ed il Cesare erano
uniti negl'istessi interessi, e perseguitati da' medesimi nemici[498].
Ma quando fu decisa la vittoria in favor di Costanzo, il dipendente di
lui collega divenne meno utile e men formidabile. Rigorosamente e con
sospetto si esaminava ogni circostanza della sua condotta, e fu
segretamente risoluto o di privar Gallo della porpora, o almeno di farlo
passare dall'indolente lusso dell'Asia a' travagli e pericoli d'una
guerra in Germania. La morte di Teofilo, Consolare della Provincia della
Siria, che in un tempo di carestia era stato trucidato dal popolo
d'Antiochia colla connivenza e quasi ad insinuazione di Gallo, fu
giustamente sentita non solo come un atto di sfacciata crudeltà, ma come
un pericoloso insulto contro la maestà suprema di Costanzo. Due ministri
d'illustre grado, cioè Domiziano, Prefetto Orientale, e Monzio, Questore
del Palazzo, ebbero per una special commissione la facoltà di visitare e
riformare lo Stato dell'Oriente. Fu data loro istruzione di portarsi
verso Gallo con moderazione e rispetto, ed impegnarlo colle più blande
arti della persuasione a condiscendere all'invito del suo fratello e
collega. L'inconsideratezza del Prefetto rendè vane queste prudenti
misure, ed accelerò la di lui rovina ugualmente che quella del suo
nemico. Al suo arrivo in Antiochia, Domiziano passò altieramente avanti
alle porte del Palazzo, e adducendo un leggiero pretesto
d'indisposizione, si tenne più giorni in un ostinato ritiro per
preparare un memoriale, che trasmise alla Corte Imperiale. Cedendo
finalmente alle pressanti sollecitazioni di Gallo, il Prefetto
condiscese a prender posto in Consiglio; ma il primo passo, che fece, fu
di significare un breve e superbo mandato, in cui si diceva, che Cesare
immediatamente andasse in Italia, minacciando, ch'egli stesso avrebbe
punito la sua dilazione o ambiguità, con sospendere la solita
prestazione pel suo trattamento. Il nipote e la figlia di Costantino,
che mal potevan soffrire l'insolenza d'un suddito, espressero il loro
sdegno con fare immediatamente arrestar Domiziano da una guardia. La
querela però sempre ammetteva qualche termine d'accomodamento. Ma questo
fu reso impraticabile dall'imprudente condotta di Monzio politico,
l'arte ed esperienza del quale furono spesso tradite dalla leggerezza
della sua natura[499]. Il Questore con altiere parole rimproverò a
Gallo, che un Principe, il quale appena era autorizzato a tor di carica
un magistrato municipale, non dovea presumere d'imprigionare un Prefetto
del Pretorio; convocò un'assemblea di uffiziali civili e militari; e
richiese in nome del lor Sovrano, che difendessero la persona e la
dignità de' rappresentanti di esso. Da questa temeraria dichiarazione di
guerra l'impaziente indole di Gallo fu provocata ad abbracciare i più
disperati consigli. Ordinò egli che le sue guardie stessero sulle armi,
adunò la plebaglia d'Antiochia, ed al loro zelo raccomandò la cura della
sua salute e vendetta. I suoi comandi furono troppo fatalmente obbediti.
Presero insolentemente il Prefetto ed il Questore, e legate loro insieme
con funi le gambe, gli strascinarono per le contrade della città, fecero
mille insulti e mille ferite a quelle infelici vittime, e finalmente
gettarono dentro l'Oronte i loro corpi straziati e privi di vita[500].

Dopo tal fatto, qualunque fosse stato il disegno di Gallo, solo in un
campo di battaglia egli potea sostenere la sua innocenza con qualche
speranza di buon successo. Ma l'animo di quel Principe era formato
d'un'ugual mistura di violenza e di debolezza. Invece d'assumere il
titolo d'Augusto, e d'impiegare in sua difesa le truppe ed i tesori
dell'Oriente, si lasciò ingannare dall'affettata tranquillità di
Costanzo, che lasciandogli la vana pompa d'una Corte, appoco appoco
richiamò le veterane legioni dalle Province dell'Asia. Ma siccome
tuttavia sembrava pericoloso arrestar Gallo nella sua Capitale, si
praticarono con felice successo le lente e più sicure arti della
dissimulazione. Le frequenti e pressanti lettere di Costanzo eran piene
di protestazioni di confidenza e d'amicizia, esortando egli Cesare a
soddisfare a' doveri del suo alto posto, a sollevare il suo collega da
una parte delle pubbliche cure, e ad assistere l'Occidente colla sua
presenza, coi consigli e colle armi. Dopo tante reciproche ingiurie
Gallo avea ragione di temere e di diffidare. Ma egli avea trascurate le
opportunità di fuggire e di resistere; fu sedotto dalle assicurazioni
adulatrici del Tribuno Scudilone, che sotto le sembianze di ruvido
soldato copriva la più artificiosa insinuazione; ed affidossi al credito
di Costantina sua moglie, finchè la intempestiva morte di questa
Principessa diede compimento alla rovina, in cui egli era rimasto
involto per le impetuose di lei passioni[501].

[A. D. 355]

Dopo un lungo indugio, Cesare con repugnanza intraprese il suo viaggio
verso la Corte Imperiale. Traversò egli la vasta estensione de' suoi
dominj da Antiochia ad Adrianopoli con un numeroso ed imponente
corteggio; e siccome procurava di celare al mondo e forse a se stesso le
sue apprensioni, diede al popolo di Costantinopoli il trattenimento de'
giuochi nel Circo. Poteva però nel progresso del viaggio essersi accorto
dell'imminente pericolo. In tutte le principali città era incontrato da
ministri di confidenza, che avevan commissione d'occupar le cariche del
Governo, d'osservare i suoi movimenti, e di prevenire la precipitosa
furia della sua disperazione. Le persone, spedite per assicurar le
Province che lasciavasi addietro, passavan oltre con freddi saluti o con
affettato disprezzo; ed all'avvicinarsi ch'egli faceva, allontanavano a
bella posta le truppe, che avevano i quartieri lungo la pubblica strada,
per timore che potessero esser tentate ad offerire le loro spade per
fare una guerra civile[502]. Dopo di essersi permesso a Gallo il riposo
di pochi giorni in Adrianopoli, egli ricevè un ordine espresso nello
stile più assoluto ed altiero; che lo splendido di lui treno dovesse
fermarsi in quella città, e Cesare stesso con soli dieci carri di posta
si affrettasse di giungere alla residenza Imperiale di Milano. In questo
rapido viaggio, il profondo rispetto, ch'era dovuto al fratello e
collega di Costanzo, venne insensibilmente cangiato in una ruvida
famigliarità; e Gallo che conobbe dal contegno de' suoi domestici,
ch'essi risguardavansi già come sue guardie, ed avrebber tosto potuto
servire di esecutori, incominciò ad accusare la sua fatale inavvertenza,
ed a riflettere con terrore e rimorso alla condotta, con cui egli aveva
provocata la sua rovina. A Petovio nella Pannonia si abbandonò la
dissimulazione, che fino allora s'era conservata. Fu egli condotto in un
palazzo ne' sobborghi, dove il General Barbazio con uno scelto corpo di
soldati, che non potevano essere mossi dalla pietà, nè corrotti dai
premj, aspettava l'arrivo dell'illustre sua vittima. Sul far della sera
fu arrestato, spogliato ignominiosamente delle insegne di Cesare, e
condotto in fretta a Pola nell'Istria, appartata prigione, che era stata
sì recentemente macchiata di sangue reale. L'orrore, ch'egli sentiva, fu
tosto accresciuto dal comparir che fece l'Eunuco Eusebio, suo implacabil
nemico, il quale coll'assistenza d'un Notaro e d'un Tribuno procedè ad
interrogarlo intorno all'amministrazione dell'Oriente. Cesare cadde
sotto il peso della vergogna e del delitto, confessò tutte le ree azioni
e tutti i ribelli disegni, de' quali era accusato, ed attribuendoli al
consiglio della sua moglie, esacerbò lo sdegno di Costanzo, che rivedeva
con parzial prevenzione le minute dell'esame. Restò l'Imperatore
facilmente convinto, che la propria salvezza non era compatibile colla
vita del suo cugino; fu segnata, spedita ed eseguita la sentenza di
morte; ed il nipote di Costantino, colle mani legate sul dorso, fu
decapitato in prigione, come il più vil malfattore[503]. Quelli che sono
inclinati a coprire la crudeltà di Costanzo, asseriscono ch'ei tosto
pentissi, e procurò di revocare il sanguinoso mandato; ma che il secondo
messo, incaricato di portare la sospensione, fu ritenuto dagli Eunuchi,
i quali temevano l'inesorabile indole di Gallo, e desideravano di unire
al _loro_ Impero le ricche Province dell'Oriente[504].

[A. D. 355]

Oltre il regnante Imperatore, di tutta la numerosa posterità di Costanzo
Cloro, non sopravviveva che il solo Giuliano. L'infelicità della sua
nascita reale lo involse nella disgrazia di Gallo. Dal suo ritiro nel
felice paese della Jonia, fu trasportato sotto forte guardia alla Corte
di Milano, dove languì più di sette mesi in continuo timore di soffrir
l'istessa ignominiosa morte, che quasi avanti a' suoi occhi
quotidianamente davasi agli amici e aderenti della sua perseguitata
famiglia. Se ne scrutinavano con maligna curiosità i gesti, gli sguardi,
il silenzio, ed era perpetuamente attaccato da nemici, che non avea mai
offesi, e con artifizi, ai quali non era mai stato assuefatto[505]. Ma
nella scuola dell'avversità, Giuliano acquistò insensibilmente le virtù
della fermezza e della discrezione. Egli difese il proprio onore non men
che la vita dalle insidiose sottigliezze degli Eunuchi, che tentavano
d'estorcere qualche dichiarazione de' suoi sentimenti; e mentre
cautamente chiudeva in se il dispiacere e la collera, nobilmente
sdegnava di adulare il Tiranno con alcuna apparente approvazione della
morte di suo fratello. Giuliano ascrive molto devotamente la sua
miracolosa liberazione alla protezione degli Dei, che liberarono la sua
innocenza dalla sentenza di distruzione, cui la lor giustizia avea
pronunziata contro l'empia casa di Costantino[506]. Con gratitudine
risguarda come il più efficace strumento della lor Providenza la
costante e generosa amicizia dell'Imperatrice Eusebia[507], donna di
gran bellezza e di merito, la quale per l'ascendente, che aveva preso
sull'animo del marito, contrabbilanciava in qualche modo la potente
cospirazione degli Eunuchi. Per intercessione della sua protettrice,
Giuliano fu ammesso alla presenza dell'Imperatore; difese con decente
libertà la sua causa; fu ascoltato favorevolmente; e nonostanti gli
sforzi de' suoi nemici, che insistevano sul pericolo di risparmiare il
vendicatore del sangue di Gallo, prevalse nel consiglio il sentimento
più dolce d'Eusebio. Ma gli Eunuchi temerono gli effetti di un secondo
congresso; e Giuliano fu avvisato di ritirarsi per un tempo nelle
vicinanze di Milano, finattanto che l'Imperatore stimò opportuno di
assegnare la città d'Atene per luogo del suo onorevole esilio. Egli che
fin da' più teneri anni avea dimostrato un'inclinazione o piuttosto una
passione per l'idioma, pei costumi, per la dottrina e per la religione
de' Greci, obbedì con piacere ad un ordine sì confacente ai suoi
desiderii. Lungi dal tumulto delle armi e dalla perfidia delle Corti,
passò sei mesi fra' boschetti dell'Accademia, in un libero commercio co'
Filosofi di quel tempo, che studiavano di coltivare l'ingegno,
d'incoraggiare la vanità, e d'infiammare la devozione del loro Reale
Allievo. Le loro fatiche non restarono senza effetto, e Giuliano
conservò per Atene inviolabilmente quel tenero riguardo, cui rare volte
manca d'eccitare in un animo generoso la memoria del luogo, dove ha
scoperte ed esercitate le crescenti sue facoltà. La piacevolezza ed
affabilità de' costumi, che suggerite gli erano dal temperamento, ed
imposte dal presente suo stato, appoco appoco gli cattivarono
l'affezione degli stranieri, non meno che de' cittadini co' quali
trattava. Alcuni de' suoi compagni di studio poterono per avventura
esaminare la sua condotta con occhio di pregiudizio e d'avversione; ma
Giuliano stabilì nelle scuole d'Atene una prevenzione in favore delle
sue virtù e de' suoi talenti, la quale tosto si sparse per tutto il
Mondo Romano[508].

Mentre Giuliano passava il suo tempo in quello studioso ritiro,
l'Imperatrice, risoluta di condurre a fine il disegno che aveva formato,
non si dimenticò di aver cura della sua fortuna. La morte dell'ultimo
Cesare avea lasciato solo Costanzo investito del comando, ed oppresso
dal moltiplice peso di un vasto Impero. Avanti che saldate fossero le
ferite di una discordia civile, vennero inondate le Province della
Gallia da un diluvio di Barbari. I Sarmati più non avevano in rispetto
la barriera del Danubio. L'impunità della rapina aveva accresciuto
l'ardire ed il numero de' selvaggi Isauri: questi ladroni scendevano
dalle scoscese lor rupi a devastare il circonvicino paese, ed avevano
già tentato, quantunque senza buon successo, d'assediare l'importante
città di Seleucia, che era difesa da una guarnigione di tre legioni
Romane. Soprattutto il Monarca Persiano, insuperbito per la vittoria,
minacciava di nuovo la pace dell'Asia, e richiedevasi indispensabilmente
la presenza dell'Imperatore, tanto nell'Oriente che nell'Occidente. Fu
questa la prima volta che Costanzo sinceramente confessò che la sola sua
forza non era capace di sostenere cure e dominj sì vasti[509].
Insensibile alla voce dell'adulazione, la quale l'assicurava che
l'onnipotente di lui virtù e celeste fortuna avrebbe continuato a
trionfare sopra ogni ostacolo, diede con piacere orecchio al consiglio
d'Eusebia, che soddisfaceva la sua indolenza, senza offendere la
sospettosa sua vanità. Quando ella s'accorse che la rimembranza di Gallo
stava fortemente impressa nell'animo dell'Imperatore, voltò
artificiosamente l'attenzione di lui agli opposti caratteri de' due
fratelli, che fin dall'infanzia erano stati paragonati a quelli di
Domiziano e di Tito[510]. Essa avvezzò il marito a risguardar Giuliano
come un giovane di una dolce non ambiziosa disposizione, la fedeltà e
gratitudine del quale potevano assicurarsi col dono della porpora, e
capace di occupare onoratamente un posto subordinato, senz'aspirare a
disputare il comando, o adombrar le glorie del suo Benefattore e
Sovrano. Dopo un ostinato, quantunque segreto dibattimento, la
opposizione degli Eunuchi favoriti soggiacque all'ascendente
dell'Imperatrice; e fu risoluto che Giuliano, dopo d'aver celebrato le
sue nozze con Elena, sorella di Costanzo, sarebbe destinato a regnare
col titolo di Cesare sulle regioni di là dalle alpi[511].

Quantunque l'ordine, che lo richiamò alla Corte, fosse probabilmente
accompagnato da qualche indicazione della prossima sua grandezza, egli
chiama il popolo d'Atene in testimonio delle lacrime di sincero
dispiacere che sparse, quando con sua ripugnanza fu tolto dall'amato
ritiro[512]. Egli tremava per la sua vita, per la fama, ed anche per la
sua virtù; e l'unica sua fiducia era fondata nella persuasione che
Minerva gli inspirasse tutte le azioni, e ch'egli fosse protetto da una
guardia invisibile di Angeli, ch'essa per questo fine avea preso dal
sole e dalla luna. Si avvicinò con orrore al palazzo di Milano; nè potè
l'ingenuo giovane celare il suo sdegno, quando si trovò accolto con
falso e servile rispetto dagli assassini di sua famiglia. Eusebia,
godendo del buon esito dei suoi benigni disegni, l'abbracciò colla
tenerezza d'una sorella, e procurò, colle più dolci carezze, di
dissipare i suoi terrori, e riconciliarlo colla sua fortuna. Ma la
cerimonia di radersi la barba, ed il suo goffo portamento, quando la
prima volta mutò il mantello di Greco filosofo nell'abito militare di
Principe Romano, . divertì per qualche giorno la leggerezza della Corte
Imperiale[513].

[A. D. 355]

Gl'Imperatori del secolo di Costantino non si degnavano più di
consultare il Senato nella scelta d'un collega, ma erano ansiosi, che
fosse ratificata la loro elezione dal consenso dell'esercito. In questa
solenne occasione si posero in armi le guardie, colle altre truppe i
quartieri delle quali erano nelle vicinanze di Milano; e Costanzo salì
sull'alto suo Tribunale, tenendo per mano il suo cugino Giuliano, che in
quel giorno appunto entrava nel ventesimo quinto anno della sua
età[514]. In uno studiato discorso, concepito e recitato con dignità,
l'Imperatore espose i varj pericoli, che minacciavano la prosperità
della Repubblica, la necessità di nominare un Cesare per
l'amministrazione dell'Occidente, e l'intenzione che aveva, se era
conforme a' lor desiderii, di premiare coll'onor della porpora le virtù,
che molto promettevano, del nipote di Costantino. Si manifestò
l'approvazione de' soldati con un rispettoso bisbiglio; essi guardavano
fissamente il viril contegno di Giuliano, ed osservavano con piacere,
come il fuoco, che scintillava ne' suoi occhi, era temperato da un
modesto rossore, in vedersi così esposto per la prima volta alla
pubblica vista del Mondo. Appena fu terminata la cerimonia della sua
investitura, Costanzo voltossi a lui con un tuono d'autorità, che la
maggiore di lui età e condizione gli permetteva di prendere, ed
esortando il nuovo Cesare a meritare con eroici fatti quel sacro ed
immortal nome, l'Imperatore diede al suo collega i più forti
contrassegni di un'amicizia che non sarebbe mai stata diminuita dal
tempo, nè interrotta dalla lor separazione o dimora ne' climi più
distanti fra loro. Finito che fu il discorso, le truppe batterono gli
scudi contro le ginocchia in segno di applauso[515], mentre gli
uffiziali, che circondavano il Tribunale, esprimettero con decente
riserva, l'idea che avevan de' meriti del rappresentante di Costanzo.

I due Principi tornarono al Palazzo nel medesimo cocchio, e nel tempo
della lenta processione Giuliano ripetea fra se stesso un verso del suo
favorito Omero, che poteva ugualmente applicare alla sua fortuna ed a'
suoi timori[516]. I ventiquattro giorni, che Cesare passò a Milano dopo
la sua investitura, ed i primi mesi del suo Gallico regno furono
soggetti ad una splendida ma severa schiavitù, nè l'acquisto degli onori
poteva compensare la perdita della sua libertà[517]. Eran osservati i
suoi passi, le sue lettere intercettate: e fu costretto dalla prudenza
ad evitare le visite dei suoi più intimi amici. A quattro soli de' suoi
più antichi domestici fu permesso di seguitarlo, a due paggi, al suo
medico ed al suo bibliotecario; l'ultimo dei quali era impiegato nella
custodia d'una pregevol collezione di libri, dono dell'Imperatrice, che
studiava le inclinazioni ugualmente che l'interesse del suo amico. In
luogo di que' fedeli servitori, gli fu dato un corteggio, quale in vero
conveniva alla dignità d'un Cesare, ma composto da una folla di schiavi,
privi e forse incapaci di qualunque attaccamento pel nuovo loro Signore,
a cui per la maggior parte essi erano incogniti o sospetti. La sua
mancanza d'esperienza poteva esiger l'aiuto d'un savio consiglio; ma le
minute istruzioni, che regolavano il trattamento della sua tavola e la
distribuzione delle ore, erano adattate ad un giovane che fosse tuttavia
sotto la disciplina dei suoi precettori, piuttosto che alla situazione
d'un Principe, a cui fosse affidata la condotta d'una importante guerra.
S'egli aspirava a meritar la stima de' sudditi, veniva ritenuto dal
timore di far dispiacere al suo Sovrano; e per fino furon fatti svanire
i frutti del suo matrimonio da' gelosi artifizi d'Eusebia medesima[518],
che in questa sola occasione sembra essersi dimenticata della tenerezza
del suo sesso e della generosità del proprio carattere. La memoria del
padre e dei fratelli rammentò a Giuliano il proprio pericolo, e furono
accresciuti i suoi timori dal fresco indegno fato di Silvano. Nella
state, che precedè la sua elevazione, quel Generale era stato scelto per
liberare la Gallia dalla tirannia de' Barbari; ma Silvano tosto conobbe
che avea lasciato nella Corte Imperiale i suoi più pericolosi nemici.
Uno scaltro delatore, sostenuto da varj de' principali ministri, procurò
di ottenere da esso alcune lettere commendatizie; e cancellatone tutto
il contenuto fuor che la firma, riempì il voto della pergamena di
espressioni che indicavano affari di gran rilievo e di tradimento.
L'inganno però, attesa l'industria e il coraggio de' suoi amici, fu
scoperto, ed in un gran consiglio di uffiziali civili e militari, tenuto
in presenza dell'Imperatore medesimo, fu pubblicamente riconosciuta
l'innocenza di Silvano. Ma troppo tardi si fece tale scoperta; la nuova
della calunnia e la precipitosa confiscazione del suo patrimonio aveva
già indotto lo sdegnato Capitano alla ribellione di cui era stato sì
ingiustamente accusato. Egli assunse la porpora nel suo principal
quartiere di Colonia, e pareva, che le sue attive forze minacciasser
l'Italia d'un'invasione, a Milano di un assedio. In quest'occorrenza
Ursicino, Generale d'ugual grado, riguadagnò con un tradimento il favore
che aveva perduto per gli eminenti suoi servigi in Oriente. Esacerbato,
com'egli poteva speciosamente asserire, da ingiurie di tal natura, si
affrettò con pochi seguaci ad unirsi alle bandiere, ed a tradir la
fiducia del suo troppo credulo amico. Dopo un regno di soli ventotto
giorni, Silvano fu assassinato, i soldati, che senz'alcuna colpevole
intenzione avean ciecamente seguìto l'esempio del Capitano, tornarono
immediatamente al loro dovere; e gli adulatori di Costanzo celebrarono
la saviezza e felicità del Monarca, il quale aveva estinto una guerra
civile senza il rischio di veruna battaglia[519].

La difesa della frontiera della Rezia e la persecuzione della Chiesa
Cattolica, trattennero Costanzo in Italia più di diciotto mesi dopo la
partenza di Giuliano; e prima di tornar in Oriente volle l'Imperatore
compiacere la propria curiosità ed alterigia con una visita che fece
alla vecchia capitale[520]. Egli s'incamminò da Milano verso Roma per le
vie Emilia e Flaminia; e quando fu quaranta miglia vicino alla città, la
marcia d'un Principe, che non aveva mai vinto alcuno straniero nemico,
prese le apparenze d'una processione trionfale. Il suo splendido treno
era composto di tutti i ministri di lusso, ma in un tempo di profonda
pace era circondato dalle armi lucenti dei numerosi squadroni delle sue
guardie e de' corazzieri. Le spiegate loro bandiere di seta, ricamate
d'oro e disegnate in forma di dragoni, sventolavano intorno alla persona
dell'Imperatore. Costanza sedeva solo in un alto carro, splendente d'oro
e di preziose gemme; ed eccetto che piegò il capo nel passare sotto le
porte della città, affettò un imponente contegno d'inflessibile, e come
sembrar poteva, insensibile gravità. Si era introdotta nel Palazzo
Imperiale dagli Eunuchi l'austera disciplina della gioventù Persiana; e
tal'era l'abitudine alla pazienza in essi inculcata, che durante una
lenta e noiosa marcia egli non fu mai veduto muover la mano verso la
faccia, o voltar gli occhi a destra o a sinistra. Fu ricevuto da'
Magistrati e dal Senato di Roma; ed osservò con attenzione gli onori
civili della Repubblica e le immagini consolari delle famiglie nobili.
Eran piene le contrade d'una innumerabile moltitudine. Le ripetute
acclamazioni esprimevano la loro gioia, nel vedere dopo un'assenza di
trentadue anni la sacra persona del loro Sovrano; e Costanzo medesimo
con qualche piacevolezza indicava l'affettata sua meraviglia, che l'uman
genere si fosse così ad un tratto riunito nel medesimo luogo. Fu
alloggiato il figlio di Costantino nell'antico palazzo di Augusto;
presedè al Senato, arringò al popolo da quel Tribunale su cui Cicerone
sì spesso era salito, assistè con insolita affabilità a' giuochi del
Circo, ed accettò le corone d'oro, ed i panegirici, che avevano
preparato per tal ceremonia i Deputati delle principali città. La breve
sua visita di trenta giorni fu impiegata in vedere i monumenti dell'arte
o della forza che erano sparsi ne' sette colli e nelle adiacenti valli.
Ammirò la tremenda maestà del Campidoglio, la vasta estensione de' bagni
di Caracalla e di Diocleziano, la severa semplicità del Panteon, la soda
grandezza dell'anfiteatro di Tito, l'elegante architettura del teatro di
Pompeo, e del Tempio della Pace, e soprattutto la maestosa struttura del
Foro, e la colonna di Traiano, confessando, che la voce della fama, così
facile ad inventare ed ampliare, avea dato un ragguaglio non adeguato
della Metropoli del mondo. Il viaggiatore che ha contemplato le ruine
dell'antica Roma, può concepir qualche idea imperfetta de' sentimenti
che doveano inspirare, quando innalzavano le fronti nello splendore
d'una incorrotta bellezza.

La soddisfazione, che Costanzo provò nel suo viaggio, eccitò in esso la
generosa emulazione di lasciare a' Romani qualche memoria della sua
gratitudine e munificenza. La sua prima idea fu d'imitare l'equestre
statua colossale, che avea veduto nel Foro di Traiano; ma quando
seriamente ponderò le difficoltà d'eseguirla[521], si determinò
piuttosto ad abbellire la capitale col dono d'un obelisco Egiziano. In
tempi assai remoti ma culti, che sembra abbiano preceduto l'invenzione
della scrittura alfabetica, s'erano eretti questi obelischi in gran
numero nella città di Tebe e d'Eliopoli dagli antichi Sovrani
dell'Egitto, colla giusta speranza che la semplicità della lor figura e
la durezza della materia avrebbero resistito alle ingiurie del tempo e
della violenza[522]. S'erano fatte trasportare a Roma da Augusto e da'
suoi successori molte di queste colonne straordinarie, come monumenti i
più durevoli della loro potenza e vittoria[523]; ma vi rimaneva tuttavia
un obelisco, che per la sua grandezza o santità restò lungo tempo immune
dalla rapace vanità dei conquistatori. Costantino l'aveva destinato per
adornar la sua nuova città[524], e poscia che per ordine di lui fu
rimosso dalla base su cui posava avanti al tempio del Sole in Eliopoli,
fu trasportato per mezzo del Nilo ad Alessandria. La morte di Costantino
sospese l'esecuzione del suo disegno, e questo fu l'obelisco dal suo
figlio destinato per l'antica capitale dell'Impero. Fu preparato un
vascello di straordinaria forza e grandezza per trasferir questo enorme
pezzo di granito, lungo almeno cento quindici piedi, dalle rive del Nilo
a quelle del Tevere. L'obelisco di Costanzo si pose a terra in distanza
di circa tre miglia dalla città, e s'innalzò con grande sforzo d'arte e
di lavoro nel gran Circo di Roma[525].

[A. D. 357-358-359]

S'affrettò la partenza di Costanzo da Roma per la non indifferente
notizia delle angustie e del pericolo delle Province Illiriche. Le
distrazioni della guerra civile e le irreparabili perdite, che le Romane
legioni avean fatte nella battaglia di Mursa, esposero quelle regioni
quasi senza difesa alla cavalleria leggiera dei Barbari e specialmente
alle incursioni de' Quadi; feroce e potente nazione, che sembra avere
cangiato le istituzioni Germaniche colle armi e con gli artifizi
militari de' Sarmati loro alleati[526]. Le guarnigioni della frontiera
non eran sufficienti a reprimere i loro progressi; e l'indolente Monarca
fu alla fine costretto di adunare dall'estremità de' suoi dominj il
fiore delle truppe Palatine, di mettersi in campo in persona, e
d'impiegare un'intera campagna, col precedente autunno e colla primavera
seguente, a proseguir seriamente la guerra. L'Imperatore passò il
Danubio sopra un ponte di barche, tagliò a pezzi tutti quelli che
incontrava in cammino, penetrò nel cuor del paese de' Quadi, e vendicò
con rigore le calamità, ch'essi avevano cagionato alle Province Romane.
Gli sbigottiti Barbari furon tosto ridotti a chieder la pace; offerirono
di restituire i di lui sudditi prigionieri in emenda del passato, ed i
più nobili ostaggi per pegno della futura loro condotta. La generosa
cortesia, dimostrata al primo de' lor capitani che implorò la clemenza
di Costanzo, incoraggiò i più timidi ed ostinati ad imitarne l'esempio;
ed il campo Imperiale si trovò pieno di Principi e d'Ambasciatori delle
più lontane Tribù, che occupavano le pianure della bassa Polonia, e che
si potevan creder sicure dentro l'alta cima de' monti Carpazi. Mentre
Costanzo dava la legge ai Barbari di là dal Danubio, egli distinse con
speciosa compassione gli esuli Sarmati, ch'erano stati espulsi dal paese
nativo per la ribellione de' loro schiavi, e che facevano un aumento
molto considerabile alla potenza de' Quadi. L'Imperatore, adottando un
generoso, ma insieme artificiale sistema di politica, liberò i Sarmati
da' vincoli di tal umiliante dipendenza, e mediante un trattato a parte
restituì loro la dignità d'una nazione, unita sotto il governo d'un Re
amico ed alleato della Repubblica. Dichiarossi egli risoluto di
sostenere la giustizia della lor causa e di assicurar la pace delle
Province coll'estirpazione, o almeno coll'espulsione de' Limiganti, i
costumi de' quali eran tuttora infettati da' vizi della servile lor
nascita. L'esecuzione di questo disegno fu accompagnata più da
difficoltà che da gloria. Il territorio de' Limiganti era difeso contro
i Romani dal Danubio, contro i nemici Barbari dal Tibisco. Le terre
paludose, ch'eran fra questi due fiumi, spesso coperte dalle inondazioni
di essi, formavano un intricato deserto, praticabile solo dagli
abitanti, che ne sapevano i segreti sentieri e le inaccessibili rocche.
All'avvicinarsi di Costanzo, i Limiganti tentarono l'efficacia delle
preghiere, della frode e delle armi; ma egli rigettò con vigore le loro
suppliche, fece svanire i rozzi loro stratagemmi, e rispinse con arte e
fermezza gli sforzi del loro sregolato valore. Una delle lor più
guerriere Tribù, stabilita in una piccola isola verso l'unione del
Tibisco col Danubio, s'avventurò di passare il fiume con intenzione di
sorprendere l'Imperatore, durante la sicurezza di un amichevole
conferenza. Ma presto divenne la vittima della perfidia che meditava.
Circondati da ogni lato, calpestati dalla cavalleria, e tagliati a pezzi
dalle spade delle legioni, sdegnarono di chieder mercede, e con indomita
ostinazione anche fra le agonie della morte afferravano le armi. Dopo
questa vittoria un corpo considerabile di Romani sbarcò sulle sponde
opposte del Danubio; i Taifali, Tribù di Goti impegnata al servizio
dell'Impero, invasero i Limiganti dalla parte del Tibisco; ed i Sarmati
liberi, loro antichi padroni, animati dalla speranza e dalla vendetta,
penetrarono pel montuoso paese nel cuore de' loro antichi stati. Un
incendio generale scoprì le capanne de' Barbari, ch'erano situate nel
profondo della foresta; ed il soldato combatteva con fiducia sopra un
pantanoso terreno, in cui non si camminava che con pericolo. In tal
estremità i più bravi fra' Limiganti eran determinati a morire colle
armi in mano piuttosto che cedere; ma finalmente prevalse il sentimento
più mite, invigorito dall'autorità de' lor vecchi; ed una supplice folla
di essi, seguita dalle mogli e da' figli, portossi al campo Imperiale
per sapere il loro destino dalla bocca del conquistatore. Dopo d'aver
celebrato la viva clemenza, che era sempre inclinata a perdonare i
replicati loro delitti, ed a risparmiare il restante d'una colpevol
nazione, Costanzo assegnò loro per luogo di esilio un lontano paese,
dove potevan godere una sicura ed onorevole quiete. I Limitanti
obbediron con ripugnanza, ma avanti di giungere, o almeno avanti
d'occupare le abitazioni ad essi destinate, tornarono alle rive del
Danubio, esagerando i travagli della loro situazione, e chiedendo con
fervide proteste di fedeltà, che l'Imperatore si degnasse di conceder
loro un tranquillo stabilimento dentro i confini delle Province Romane.
In vece di consultar l'esperienza, ch'egli stesso avea fatto della loro
incorreggibile perfidia, Costanzo prestò orecchio a' suoi adulatori, che
furon pronti a mettergli in vista l'onore ed il vantaggio di ricevere
una colonia di soldati in un tempo, in cui era più facile d'ottener da'
sudditi dell'Impero delle contribuzioni pecuniarie, che il militar
servizio. Fu permesso a' Limiganti di passare il Danubio; e l'Imperatore
diede udienza alla moltitudine in una larga pianura vicina alla moderna
città di Buda. Essi circondarono il Tribunale, e pareva, che
ascoltassero con rispetto una orazione piena di dignità e di dolcezza,
quando uno de' Barbari, gettando per aria la sua scarpa, gridò ad alta
voce _Marha! Marha!_ parola di diffidenza, che fu ricevuta come segnale
del tumulto. Corsero così con furia ad impadronirsi della persona
dell'Imperatore; dalle rozze lor mani fu saccheggiato il suo trono reale
e l'aureo suo letto; ma la difesa fedele delle sue guardie, che gli
morirono a' piedi, gli procurò un momento di tempo per salire sopra un
veloce cavallo, e sottrarsi alla confusione. La disgrazia incorsa per
una sorpresa di traditori, fu presto vendicata dal numero e dalla
disciplina de' Romani; nè si finì il combattimento che coll'estinzione
del nome e della nazione de' Limiganti. I Sarmati, liberi, furon di
nuovo posti in possesso delle antiche loro sedi, e sebbene Costanzo
diffidasse della leggerezza del loro carattere, pure aveva qualche
speranza che un sentimento di gratitudine influir potesse nella futura
loro condotta. Aveva egli osservato l'alta statura e l'ossequioso
contegno di Zizais uno de' più nobili fra' lor Capitani. Gli conferì
dunque il titolo di Re; e Zizais dimostrò di non essere indegno di
regnare con un sincero e durevole attaccamento agl'interessi del suo
benefattore, che dopo tale splendido fatto ricevè il nome di _Sarmatico_
dalle acclamazioni del vittorioso suo esercito[527].

[A. D. 358]

Mentre il Romano Imperatore ed il Monarca di Persia difendevano alla
distanza di tremila miglia i loro estremi confini contro i Barbari del
Danubio e dell'Oxo, la frontiera, che si trovava interposta fra loro,
pativa le vicende d'una languida guerra e di una precaria tregua. Due
ministri Orientali di Costanzo, cioè Musoniano Prefetto del Pretorio,
l'abilità del quale non ebbe effetto per mancanza di verità e
d'integrità, e Cassiano Duca di Mesopotamia, coraggioso e veterano
soldato, aprirono una segreta negoziazione col Satrapa Tamsapore[528].
Queste aperture di pace, trasportate nel servile e adulante linguaggio
Asiatico, furono mandate al campo del gran Re, il quale risolse di
significare per mezzo d'un Ambasciatore i termini ch'era inclinato ad
accordare ai supplicanti Romani. Narsete, ch'egli aveva decorato di tal
carattere, fu ricevuto onorevolmente nel passare che fece per Antiochia
e Costantinopoli; giunse dopo un lungo cammino a Sirmio, e nella sua
prima udienza rispettosamente spiegò il velo di seta che copriva la
superba lettera del suo Sovrano. Sapore, Re dei Re e fratello del Sole e
della Luna (tali erano gli altieri titoli affettati dall'Orientai
vanità) esprimeva la sua compiacenza, che il suo fratello Costanzo
Cesare fosse stato istruito dall'avversità. Sosteneva egli, come
legittimo successore di Dario Istaspe, che il fiume Strimone in
Macedonia era il vero ed antico limite del suo Impero; dichiarando,
però, che in prova della sua moderazione si sarebbe contentato delle
Province dell'Armenia e della Mesopotamia, che fraudolentemente s'erano
estorte da' suoi Antenati. Egli assicurava, che senza la restituzione di
queste contrastate regioni era impossibile stabilire alcun trattato
sopra una forte e durevole base; e minacciava con arroganza, che se
tornava il suo Ambasciatore senza effetto, egli era preparato ad entrare
in campo nella primavera, ed a sostener la giustizia della sua causa
colla forza delle sue invincibili armi. Narsete, ch'era dotato delle più
culte ed amabili qualità, procurò di addolcire, per quanto il suo dovere
lo permetteva, la durezza dell'ambasciata[529]. Maturamente fu ponderato
sì lo stile che la sostanza della lettera nel consiglio Imperiale, e fu
rimandato l'Ambasciatore colla risposta; «che Costanzo aveva diritto di
non approvare l'officiosità de' suoi ministri, che avevano operato
senz'avere alcun ordine speciale del Trono; egli ciò nonostante non era
alieno da un uguale ed onorevole trattato; ma era molto indecente ed
assurdo il proporre all'unico e vittorioso Imperatore del Mondo Romano
quelle medesime condizioni di pace, ch'esso aveva rigettato con isdegno,
quando era limitato il suo potere dentro gli angusti limiti
dell'Oriente; e dovrebbe Sapore rammentarsi, che se qualche volta i
Romani erano stati vinti in battaglia, essi erano quasi sempre stati
felici nell'esito della guerra». Pochi giorni dopo la partenza di
Narsete furon mandati tre Ambasciatori alla Corte di Sapore, il quale
dalla spedizione della Scizia era già tornato all'ordinaria sua
residenza di Ctesifonte. Furono scelti un Conte, un Notaro ed un Sofista
per quest'importante commissione; e Costanzo, ch'era segretamente
ansioso di concluder la pace, aveva qualche speranza, che la dignità del
primo di questi ministri, la destrezza del secondo e la rettorica del
terzo[530] avrebbero persuaso il Monarca Persiano a diminuire il rigore
delle sue domande. Ma i progressi del loro trattato furon combattuti e
fatti svanire dagli ostili artifizi d'Antonino[531], suddito Romano
della Siria, ch'era fuggito dall'oppressione, ed ammesso a' consigli di
Sapore e fino alla mensa reale, dove secondo l'uso de' Persiani si
discutevano frequentemente gli affari più rilevanti[532]. Lo scaltro
fuggitivo, colla medesima condotta con cui soddisfaceva alla sua
vendetta, promuoveva il proprio interesse. Egli continuamente stimolava
l'ambizione del nuovo suo Signore ad abbracciar la favorevole occasione
che le più valorose truppe Palatine eran occupate coll'Imperatore in una
distante guerra sul Danubio. Istigava Sapore ad invader l'esauste e non
difese Province dell'Oriente colle numerose armate della Persia, ora
fortificate mediante l'alleanza ed aggiunta de' Barbari più feroci.
Tornarono dunque senza buon successo gli Ambasciatori di Roma, ed una
seconda Ambasceria, di grado ancor più onorevole, fu detenuta in
istretto confino, e minacciata o di morte o d'esilio.

[A. D. 359]

L'Istorico militare stesso[533], che fu spedito ad osservar l'esercito
de' Persiani, allorchè preparavansi a costruire un ponte di barche sul
Tigri, vide da una eminenza la pianura d'Assiria, per quanto stendevasi
l'orizzonte, coperta di uomini, d'armi, e di cavalli. Alla testa di essi
compariva Sapore, cospicuo per lo splendore della sua porpora. Alla
sinistra di lui, che fra gli Orientali è il posto più onorato, Grumbate
Re de' Chioniti dimostrava il vigoroso portamento d'un provetto e famoso
guerriero. Il corrispondente posto dall'altra parte s'era dal Monarca
riserbato pel Re degli Albanesi, che conduceva le sue Tribù indipendenti
da' lidi del mar Caspio. I Satrapi ed i Generali eran distribuiti
secondo i diversi loro gradi, e tutta l'armata, oltre il numeroso treno
del lusso Orientale, consisteva in più di centomila combattenti,
indurati alla fatica e scelti fra le più valorose nazioni dell'Asia. Il
disertore di Roma, che in certo modo dirigeva i consigli di Sapore,
l'aveva prudentemente avvisato, che in luogo di consumar la state in
tediosi e difficili assedi, marciasse direttamente verso l'Eufrate, e
senza indugio cercasse d'impadronirsi della debole e ricca Metropoli
della Siria. Ma i Persiani, appena si furono un poco avanzati nelle
pianure della Mesopotamia, che videro essersi usata qualunque
precauzione che ritardar potesse i loro progressi, e sconcertarne i
disegni. Gli abitanti co' loro bestiami s'erano assicurati ne' luoghi
forti, s'erano incendiate per tutto il paese le biade non anche mature,
e fortificati con acuti pali i guadi del fiume; sugli opposti lidi
eransi piantate delle macchine militari, ed una opportuna piena
dell'Eufrate spaventò i Barbari dal tentare il solito passo del ponte di
Tapsaco. Allora la perita loro guida, mutato il disegno delle
operazioni, condusse l'esercito per un lungo circuito, ma per un fertile
territorio verso la sorgente dell'Eufrate, dove il nascente fiume
riducesi ad un basso ed accessibil torrente. Sapore non curò con
prudente disprezzo la forza di Nisibi, ma passando sotto le mura
d'Amida, risolvè di sperimentare, se la maestà della sua presenza avesse
indotto la guarnigione a immediatamente sottomettersi. Il sacrilego
insulto d'un dardo, che a caso strisciò sulla reale sua tiara, lo
convinse dell'errore in cui era; e lo sdegnato Monarca diede con
impazienza orecchio all'avviso de' suoi ministri, che lo scongiuravano a
non sagrificare il successo della sua ambizione alla soddisfazione della
sua collera. Il giorno seguente, Grumbate s'avanzò verso le porte con un
corpo scelto di truppe, e chiese la resa immediata della città, come
l'unica espiazione che si potesse accettare per tal atto di temerità e
d'insolenza. Fu risposto alle sue proposizioni con una generale scarica,
e l'unico di lui figlio, bello e valente giovane, fu trafitto nel cuore
da un dardo scagliato da una balestra. Si celebrò, secondo i riti del
suo paese, il funerale del Principe de' Chioniti; ed il dispiacere del
vecchio suo padre fu alleggerito dalla solenne promessa di Sapore, che
la rea città d'Amida sarebbe servita di rogo funebre per espiare la
morte ed eternar la memoria del figlio.

L'antica città d'Amid o Amida[534], che alle volte prende anche il nome
provinciale di Diarbekir[535], è vantaggiosamente situata in una fertil
pianura, bagnata da' naturali e dagli artefatti canali del Tigri, di cui
il maggior ramo circonda in forma circolare l'oriental parte della
città. L'Imperator Costanzo poco avanti avea conferito ad Amida l'onor
del suo nome, e vi aveva aggiunto le fortificazioni di stabili mura e di
alte torri. Essa era provvista d'un arsenale di macchine militari, e la
guarnigione ordinaria era stata accresciuta fino a sette legioni quando
fu attaccata dalle armi di Sapore[536]. Le sue prime e più ardenti
speranze dipendevan dall'esito d'un assalto generale. Furono assegnati i
lor posti alle varie nazioni, che seguitavano le sue bandiere; il
Mezzodì a' Verti, il Settentrione agli Albanesi, l'Oriente a' Chioniti,
accesi d'ira e di cordoglio, l'Occidente a' Segestani, i più prodi fra'
suoi guerrieri, che si coprivano la fronte con una formidabile linea
d'Indiani elefanti[537]. I Persiani da ogni parte sostenevano i loro
sforzi, ed animavano il loro coraggio; ed il Monarca, non curando la
propria dignità e salvezza, dimostrava in proseguire l'assedio l'ardore
d'un giovane soltanto. Dopo un ostinato combattimento, i Barbari furon
rispinti, ed immediatamente tornati all'assalto, furono di nuovo mandati
indietro con una terribile strage. Due legioni ribelli di Galli,
ch'erano state bandite dall'Oriente, segnalarono il loro non
disciplinato coraggio con una sortita fatta di notte nel centro del
campo Persiano. Nell'ardore di uno de' più fieri di questi replicati
assalti, Amida fu tradita dalla perfidia d'un disertore, che indicò a'
Barbari una segreta e negletta scaletta, tagliata nella rupe che pende
sopra il corso del Tigri. Tacitamente salirono settanta arcieri scelti
della guardia reale al terzo piano d'un'alta torre, che dominava il
precipizio; essi alzarono la bandiera Persiana, che fu segnale di
partenza per gli assalitori, e di turbamento per gli assediati; e se
questi già perduti soldati avesser potuto mantenere il loro posto pochi
minuti di più, col sacrifizio delle loro vite si sarebbe potuto comprare
l'espugnazione della piazza. Poscia che Sapore ebbe sperimentato
senz'effetto il poter della forza e degli stratagemmi, ricorse alle più
lente ma più sicure operazioni di un regolare assedio, nella condotta
del quale fu istruito dalla perizia de' disertori Romani. Ad una giusta
distanza s'aprirono le trinciere, e le truppe destinate a tal uso,
avanzarono sotto il tetto portatile di forti graticci per riempire il
fosso, e minare i fondamenti delle mura. Nel tempo stesso costruite
furono torri di legno, e spinte innanzi sopra le ruote, affinchè o i
soldati, che erano provvisti di armi da scagliare d'ogni specie,
potessero combattere quasi a livello colle truppe che difendevano le
mura. S'impiegò in difesa d'Amida ogni sorta di resistenza che l'arte
potea suggerire, o il coraggio porre in esecuzione, e più d'una volta le
macchine di Sapore furon distrutte dal fuoco de' Romani. Ma si possono
esaurire le forze d'una città assediata. I Persiani riparavan le loro
perdite, ed avanzavano le opere; l'ariete, che continuamente batteva,
avea fatta una larga breccia, e la forza della guarnigione, diminuita
dal ferro e dalle malattie, cedè al furor dell'assalto. I soldati, i
cittadini, le loro mogli e figliuoli, tutti quelli, che non ebber tempo
di fuggire per la porta opposta, furono da' conquistatori involti in un
indistinto macello.

[A. D. 360]

Ma la rovina d'Amida fu la salute delle Province Romane. Tosto che
furono quietati i primi trasporti della vittoria, Sapore fu in grado di
riflettere, che per castigare una disubbidiente città, egli aveva
perduto il fiore delle sue truppe e la stagione più favorevole per la
conquista[538]. Eran caduti trentamila de' suoi veterani sotto le mura
d'Amida, nella continuazione d'un assedio, che durò settantatre giorni,
ed il deluso Monarca tornò alla sua Capitale con affettato trionfo e con
segreta mortificazione. Egli è più che probabile, che l'incostanza de'
Barbari suoi alleati fosse tentata d'abbandonare una guerra, in cui
avevan incontrato sì inaspettate difficoltà, e che il vecchio Re de'
Chioniti, saziato di vendetta, con orrore s'allontanasse da una scena
d'azione, dov'era restato privo della speranza di sua famiglia e
nazione. La forza non meno che lo spirito dell'esercito, con cui Sapore
venne in campo nella seguente primavera, non era più uguale alle
illimitate mire di sua ambizione. Invece d'aspirare alla conquista
dell'Oriente, fu costretto a contentarsi di prendere due fortificate
città della Mesopotamia, Singara e Bezabde[539]; l'una situata in mezzo
ad un arenoso deserto, e l'altra in una picciola penisola circondata
quasi da ogni parte dal profondo e rapido corso del Tigri. Furono fatte
prigioniere cinque legioni Romane di quella diminuita grandezza, a cui
s'eran ridotte nel secolo di Costantino, e mandate schiave negli estremi
confini della Persia. Smantellate le mura di Singara, il conquistatore
abbandonò quel luogo solitario e segregato. Ma con diligenza restaurò le
fortificazioni di Bezabde, ed in quel posto importante stabilì una
guarnigione o colonia di veterani, ampiamente fornita di ogni sorta di
difesa, ed animata da alti sentimenti d'onore e di fedeltà. Verso il
fine della campagna le armi di Sapore ebbero qualche sinistro per
un'infelice impresa contro Virta, o Tecrit, bene munita, o come fu
generalmente creduto fino al tempo di Tamerlano, inespugnabil fortezza
degli Arabi indipendenti[540].

La difesa dell'Oriente contro lo armi di Sapore esigeva, ed esercitato
avrebbe l'abilità del più consumato Generale; e parve una fortuna per lo
Stato, che quella fosse la Provincia del valoroso Ursicino, che solo
meritava la fiducia de' soldati e del popolo. Ma nel tempo del pericolo,
Ursicino[541] fu rimosso dal suo posto pei maneggi degli Eunuchi; ed il
comando militare dell'Oriente per gl'istessi mezzi fu dato a Sabiniano,
ricco e sottil veterano, ch'era giunto alle infermità della vecchiaia
senz'acquistarne l'esperienza. Per un secondo ordine, ch'ebbe origine
dagli stessi gelosi ed incostanti consigli, Ursicino fu nuovamente
spedito alle frontiere della Mesopotamia, e condannato a sostener le
fatiche d'una guerra, gli onori della quale s'erano trasferiti
all'indegno rivale di lui. Sabiniano stabilì il suo indolente quartiere
sotto le mura d'Edessa, e mentr'egli si dilettava dell'oziosa parata
dell'esercizio militare, ed al suono de' flauti si muoveva in Pirrica
danza, la pubblica difesa era abbandonata all'ardire e alla diligenza
del primiero Generale dell'Oriente. Ma ogni volta che Ursicino
raccomandava qualche vigoroso piano d'operazioni; quando proponeva di
girare alla testa di una leggiera ed attiva armata intorno alle falde
de' monti per intercettare i convogli del nemico, inquietare la vasta
estensione delle linee Persiane, e sollevare le angustie d'Amida, il
timido ed invidioso Comandante allegava, che da positivi ordini gli era
impedito di mettere a rischio la salute delle truppe. Amida finalmente
fu presa; i più prodi suoi difensori, che s'eran salvati dal ferro de'
Barbari, moriron per mano del carnefice nel campo Romano; ed Ursicino
medesimo dopo d'aver sofferto la disgrazia d'un esame parziale fu punito
per la cattiva condotta di Sabiniano colla perdita del militare suo
grado. Ma Costanzo ben presto sperimentò la verità della predizione, che
un onesto sdegno aveva tratto di bocca all'ingiuriato suo Duce, vale a
dire, che sintanto che si fosse tollerato, che prevalessero tali massime
di governo, l'Imperatore stesso avrebbe veduto, non essere facile
impresa il difendere gli Orientali suoi Stati dalla invasione d'uno
straniero nemico. Quando ebbe soggiogati o quietati i Barbari del
Danubio, Costanzo a lente giornate s'incamminò verso l'Oriente, e dopo
aver pianto sulle ancor fumanti ruine d'Amida, pose con un potente
esercito l'assedio a Bezabde. Venivano scosse le mura da' replicati
sforzi de' più grossi arieti; la città era ridotta all'ultima estremità,
ma fu sempre difesa dal paziente ed intrepido valor della guarnigione,
finchè l'avvicinarsi della stagione piovosa obbligò l'Imperatore a
toglier l'assedio, ed a ritirarsi con ignominia ne' suoi quartieri
d'inverno ad Antiochia[542]. L'orgoglio di Costanzo, e l'ingegno de'
suoi cortigiani non sapevano come trovar materia di panegirici negli
avvenimenti della guerra Persiana; mentre la gloria del suo cugino
Giuliano, al comando militare del quale avea esso affidate le Province
della Gallia, era sparsa pel Mondo con una semplice e breve narrazione
delle sue imprese.

Nel cieco furore della guerra civile, Costanzo avea abbandonato a'
Barbari della Germania il paese della Gallia, che sempre riconosceva
l'autorità del suo rivale. Un numeroso sciame di Franchi e di Alemanni
fu invitato a passare il Reno con presenti e promesse, colla speranza
delle spoglie, e con una perpetua concessione di tutti i territori,
ch'essi avrebber potuto sottomettere[543]. Ma l'Imperatore, che per un
passeggiero servigio avea con tanta imprudenza provocato lo spirito
rapace de' Barbari, presto conobbe e sentì con rammarico le difficoltà
di sloggiare que' formidabili alleati, dopo ch'essi gustate avean le
ricchezze del suolo Romano. Senza riguardo veruno alla sottile
distinzione di fedeltà e di ribellione, quest'indisciplinati ladroni
trattavano come lor naturali nemici tutti i sudditi dell'Impero, che
possedevano qualche cosa, ch'essi desideravano d'acquistare. Furon
saccheggiate, e per la maggior parte ridotte in cenere quarantacinque
floride città, Tongres, Colonia, Treveri, Vormazia, Spira, Strasburgo
ec. oltre il numero molto maggiore di castelli e villaggi. I Barbari
della Germania, sempre fedeli alle massime de' loro antichi, abborrivano
i recinti di mura, a' quali davan gli odiosi nomi di prigioni e
sepolcri; e piantando le indipendenti loro abitazioni sopra le rive de'
fiumi, come del Reno, della Mosella, della Mosa, si assicuravano dal
pericolo d'una sorpresa, mediante una rozza e precipitosa fortificazione
di grossi alberi ch'essi abbattevano, e ponevano attraverso alle strade.
Gli Alemanni si stabilirono nei moderni paesi dell'Alsazia e della
Lorena; i Franchi occuparono l'Isola de' Batavi insieme con un'ampia
estensione del Brabante, che allora si conosceva sotto il nome di
Toxandria[544], e merita d'esser considerata come la sede originale
della Gallica loro Monarchia[545]. Dalla sorgente fino all'imboccatura
del Reno le conquiste de' Germani s'estesero sopra quaranta miglia a
ponente di quel fiume in un paese popolato di colonie del proprio lor
nome e nazione; ed il teatro delle loro devastazioni era tre volte più
esteso di quello delle loro conquiste. Ad una distanza anche maggiore
restarono abbandonati i luoghi aperti della Gallia, e gli abitanti delle
città fortificate, che confidavano nella propria forza e vigilanza,
furono costretti a contentarsi di que' sussidj di grano, che poteva
nascere nel terreno compreso dentro il recinto delle lor mura. Le
diminuite legioni, mancanti di paga e di provvisioni, di armi e di
disciplina, tremavano all'avvicinarsi, e fino al nome stesso de'
Barbari.

In tali triste circostanze fu destinato un inesperto giovane a salvare e
governar le Province della Gallia, o piuttosto, come si esprime egli
stesso, a rappresentare una vana immagine della grandezza Imperiale. La
ritirata e studiosa educazione di Giuliano, durante la quale s'era più
addomesticato co' libri che colle armi, co' morti che co' viventi, lo
lasciò in una profonda ignoranza delle arti pratiche della guerra e del
governo; e quando egli sgarbatamente ripetea qualche esercizio militare,
ch'era per lui necessario d'apprendere, esclamava sospirando, «o
Platone, Platone, qual occupazione per un filosofo!» Pure anche questa
speculativa filosofia, che gli uomini d'affari son troppo inclinati a
disprezzare, aveva infuso nello spirito di Giuliano i precetti più
nobili, ed i più splendidi esempj; l'aveva animato coll'amor della
virtù, col desiderio della fama, e col disprezzo della morte. L'abito di
temperanza, che si commenda nelle scuole, diviene anche più essenziale
nella severa disciplina d'un campo. I puri bisogni della natura
regolavano la misura del suo cibo e del suo sonno. Rigettando con
isdegno le delicatezze preparate per la sua tavola, egli saziava il suo
appetito colle semplici e comuni vivande assegnate a' più bassi soldati.
Nel rigor d'un inverno della Gallia non volle mai soffrire il fuoco
nella sua camera, e dopo un breve ed interrotto riposo, spesse volle
s'alzava nel più bel della notte da un tappeto steso sul suolo, per
ispedire qualche urgente affare, per visitar le sue ronde, e per rubar
pochi momenti, ad oggetto di proseguire i favoriti suoi studi[546]. I
precetti d'eloquenza, ch'egli aveva fin qui praticato in immaginari
soggetti di declamazione, furono più vantaggiosamente applicati ad
eccitare o a quietare le passioni d'una moltitudine armata; e quantunque
Giuliano, per l'antica sua abitudine di conversazione e di letteratura,
fosse più familiarmente istruito delle bellezze della lingua Greca, pure
aveva ancora una sufficiente cognizione della Latina[547]. Come Giuliano
a principio non era stato destinato a sostenere il carattere di
Legislatore o di Giudice, egli è probabile che la Giurisprudenza civile
de' Romani non avesse richiamato alcuna parte considerabile della sua
attenzione: ma ritrasse però da' suoi filosofici studj un inflessibil
riguardo per la giustizia, temperato da una disposizione alla clemenza,
la cognizione de' generali principj d'equità e d'evidenza, e la facoltà
d'investigare pazientemente le più intrigate e tediose questioni, che
potesser proporsi alla sua discussione. Le misure di politica e le
operazioni di guerra debbono soggiacere ai diversi accidenti delle
circostanze e dei caratteri, e l'inesperto studente debb'essere spesso
dubbioso nell'applicazione della più perfetta teoria. Ma nell'acquisto
di tale importante scienza, Giuliano fu assistito non meno dall'attiro
vigore del suo proprio ingegno che dalla saviezza ed esperienza di
Sallustio, uffiziale elevato in grado, che tosto concepì un sincero
amore verso un Principe sì degno della sua amicizia: l'incorruttibile
integrità di lui era ornata dal talento di sapere insinuare le più ardue
verità, senza, offendere la delicatezza d'un orecchio reale[548].

[A. D. 356]

Giuliano, subito dopo ch'ebbe ricevuta la porpora a Milano, fu mandato
nella Gallia con una debole comitiva di 360 soldati. A Vienna, dove
passò un inverno penoso e pieno di cure nelle mani di que' ministri, a'
quali Costanzo avea confidata la direzione di sua condotta, Cesare fu
informato dell'assedio e della liberazione d'Autun. Quella vasta ed
antica città, non difesa che da rovinate mura e da una pusillanime
guarnigione, fu salvata per la generosa risoluzione di pochi veterani,
che a difesa della patria loro ripresero le armi. Nel passar ch'ei fece
da Autun nell'interno delle Province Galliche, Giuliano abbracciò con
ardore la prima opportunità di segnalare il proprio coraggio. Alla testa
d'un piccolo corpo di arcieri e di grave cavalleria, egli preferì la più
breve, ma più pericolosa delle due strade che potea fare; ed ora
eludendo gli attacchi de' Barbari, ch'eran padroni della campagna, ora
facendo lor fronte, arrivò con onore e salvezza al campo vicino a Reims,
dove le truppe Romane avevano avut'ordine di adunarsi. La vista del lor
giovane Principe rinvigorì lo spirito languente de' soldati, e partirono
da Reims per cercare il nemico con tal fiducia, che poco mancò non
tornasse loro fatale. Gli Alemanni, pratici del paese, raccolsero
segretamente le sparse lor forze, e presa l'opportunità d'una oscura e
piovosa giornata, gettaronsi con inaspettato impeto sulla retroguardia
de' Romani. Prima che rimediar si potesse all'inevitabile disordine, due
legioni rimaser disfatte; e Giuliano apprese per esperienza, che la
cautela e la vigilanza sono le più importanti lezioni dell'arte della
guerra. In una seconda e più felice azione, ricuperò e stabilì la sua
fama militare; ma siccome l'agilità de' Barbari non gli permise
d'inseguirli, la sua vittoria non fu sanguinosa nè decisiva. Si avanzò,
nonostante, fino alle rive del Reno, osservò le rovine di Colonia, si
convinse delle difficoltà della guerra, e si ritirò all'avvicinarsi
dell'inverno, mal contento della Corte, del suo esercito e della sua
fortuna[549]. La forza del nemico era tuttavia nel suo vigore, e non sì
tosto ebbe Cesare divise le proprie truppe; e stabiliti a Sens nel
centro della Gallia i quartieri, che fu circondato ed assediato da una
numerosa oste di Germani. Ridotto in tal estremità ai ripieghi del
proprio ingegno, dimostrò una prudente intrepidezza, che compensò tutte
le mancanze del luogo e della guarnigione; ed i Barbari, in capo a
trenta giorni, furon costretti a ritirarsi senz'effetto, pieni di
rabbia.

[A. D. 357]

L'interna compiacenza di Giuliano, il quale non era debitore che alla
propria spada di questa insigne liberazione, fu amareggiata dal
riflettere, ch'egli era stato abbandonato, tradito e forse sagrificato
alla distruzione da quelli, ch'eran obbligati ad assisterlo per ogni
vincolo d'onore e di fedeltà. Marcello, Comandante generale della
cavalleria nella Gallia, interpretando troppo rigorosamente gli ordini
gelosi della Corte, mirava con fredda indifferenza le angustie di
Giuliano, ed aveva impedito alle truppe, ch'erano sotto i suoi ordini,
di marciare in soccorso di Sens. Se Cesare avesse tacitamente
dissimulato un insulto tanto pericoloso, la persona e l'autorità sua
divenivano esposte al disprezzo del Mondo; e se si fosse lasciata
passare impunemente un'azione sì rea, l'Imperatore avrebbe confermato i
sospetti, a' quali si dava un colore molto specioso dalla sua precedente
condotta verso i Principi della famiglia Flavia. Marcello fu richiamato,
e blandamente dimesso dalla sua carica[550]. In luogo di lui fu
destinato generale della cavalleria Severo, esperto soldato, di
conosciuto coraggio e fedeltà, che era capace d'avvertir con rispetto ed
eseguire con zelo, e che senza ripugnanza si sottopose al supremo
comando, che Giuliano finalmente ottenne per le premure della sua
protettrice Eusebia, sopra gli eserciti della Gallia[551]. Per la
prossima campagna fu adottato un sistema d'operazioni molto giudizioso.
Giuliano medesimo, alla testa del rimanente delle veterane sue truppe e
di alcune nuove leve, che gli era stato permesso di fare, arditamente
penetrò nel centro de' ripostigli de' Germani, e con diligenza ristabilì
le fortificazioni di Saverna in un posto vantaggioso, che avrebbe o
represse le scorrerie, o impedita la ritirata del nemico. Nell'istesso
tempo Barbazio, Generale d'infanteria, si mosse da Milano con un'armata
di trentamila uomini, e passando le montagne, si apparecchiava a gettare
un ponte sul Reno, nelle vicinanze di Basilea. Era ragionevole
d'aspettarsi, che gli Alemanni, stretti per ogni parte dalle armi
Romane, si sarebbero tosto trovati nella necessità d'abbandonar le
Province della Gallia, e sarebbero corsi a difendere il nativo loro
paese. Ma svanirono le speranze di quella campagna per l'incapacità o
per la invidia o per le segrete istruzioni di Barbazio, il quale si
diportò come se fosse stato nemico di Cesare, e segreto alleato de'
Barbari. La negligenza, con cui lasciò liberamente passare e tornare
indietro una truppa di saccheggiatori, quasi avanti alle porte del suo
campo, gli si può attribuire a mancanza d'abilità; ma il perfido atto di
bruciare una quantità di barche e di provvisioni superflue, che
sarebbero state del più rilevante vantaggio all'esercito della Gallia,
fu una prova delle sue ree ed ostili intenzioni. I Germani disprezzarono
un nemico, che pareva mancante di forze o d'inclinazione ad offenderli;
e l'ignominiosa ritirata di Barbazio privò Giuliano dell'aspettato
soccorso, e gli lasciò il pensiero di liberarsi da una pericolosa
situazione, in cui non poteva egli nè rimanere con salvezza, nè
ritirarsi con onore[552].

[A. D. 357]

Gli Alemanni, appena furon liberati da' timori di un'invasione, si
prepararono a castigare il giovane Romano, che pretendeva disputar loro
il possesso di quel paese, ch'essi credevano appartenere a se medesimi
per diritto di conquista e per li trattati. Consumarono tre giorni e tre
notti nel trasferire sul Reno le militari lor forze. Il fiero Cnodomar,
scuotendo il pesante suo dardo, che vittoriosamente avea maneggiato
contro il fratello di Magnenzio, conduceva la vanguardia de' Barbari, e
moderava colla sua esperienza il marziale ardore che il suo esempio
inspirava[553]. Egli era seguitato da sei altri Re, da dieci Principi di
nascita reale, da una lunga serie di coraggiosi nobili, e da
trentacinquemila de' più prodi guerrieri delle Tribù della Germania.
L'ardire che nasceva dalla cognizione della propria lor forza, fu
accresciuto dalla notizia che loro portò un disertore, che Cesare con un
debole esercito di tredicimila uomini occupava un posto circa ventun
miglia distante dal loro campo di Strasburgo. Con tali disuguali forze,
Giuliano risolvè di cercare e d'incontrare l'esercito Barbaro, e fu
preferito il periglio d'un'azione generale alle tediose ed incerte
operazioni d'attaccare separatamente i corpi dispersi degli Alemanni. I
Romani marciavano raccolti fra loro in due colonne, la cavalleria alla
destra, e l'infanteria alla sinistra; ed il giorno era così avanzato,
quando giunsero a vista del nemico, che Giuliano desiderava di differir
la battaglia fino alla mattina seguente, e dar tempo alle sue truppe di
ristabilir l'esauste lor forze co' necessari aiuti del riposo e del
cibo. Non pertanto, cedendo con qualche ripugnanza alle grida de'
soldati, ed anche all'opinione del suo Consiglio, gli esortò a
giustificar col valore quell'ardente impazienza, che in caso di una
rotta si sarebbe universalmente tacciata co' nomi di temerità e di
presunzione. Suonarono le trombe, s'udì pel campo il clamor militare, e
le due Armate corsero con ugual furore all'attacco. Cesare, che in
persona comandava l'ala destra, contava sulla destrezza de' suoi arcieri
e sul peso dello loro corazze. Ma furono immediatamente rotte le sue
linee da un irregolar mescuglio di cavalleria e di fanteria leggiera, ed
ebbe la mortificazione di vedere la fuga di seicento de' più rinomati
suoi corazzieri[554]. I fuggitivi furono trattenuti e riuniti dalla
presenza ed autorità di Giuliano, che non curando la propria salute, si
gettò avanti di loro, e mettendo in contro ogni stimolo di vergogna e
d'onore, li ricondusse contro il vittorioso nemico. Il combattimento fra
le due linee d'infanteria fu ostinato e sanguinoso. I Germani erano
superiori in forza e statura, i Romani in disciplina e disposizione; e
siccome i Barbari, che militavano sotto lo stendardo dell'Impero,
univano in se i respettivi vantaggi d'ambe le parti, i loro vigorosi
sforzi, guidati da un perito condottiero, finalmente determinarono
l'evento della giornata. I Romani perderono quattro tribuni, e
dugentoquarantatre soldati in questa memorabil battaglia di Strasburgo,
tanto gloriosa per Cesare[555], e salutare per le afflitte Province
della Gallia. Seimila Alemanni rimaser morti sul campo, senz'includervi
quelli, che s'annegaron nel Reno, o furono trafitti dai dardi, mentre
tentavano di passare a nuoto all'altra riva del fiume[556]. Cnodomar
istesso fu circondato e fatto prigioniero insieme con tre dei suoi
valorosi compagni, che avean giurato di seguire in vita o in morte il
destino del loro capo. Giuliano lo ricevè con pompa militare nel
Consiglio de' suoi ufficiali; ed esprimendo una generosa compassione
dell'abbattuto suo stato, dissimulò l'interno disprezzo, che aveva per
la vile umiliazione del suo prigioniero. In vece di far mostra del vinto
Re degli Alemanni, come un grato spettacolo alle città della Gallia,
trasse rispettosamente ai piè dell'Imperatore questo splendido trofeo
della sua vittoria. Cnodomar ebbe un onorevole trattamento; ma
l'impaziente Barbaro non potè sopravvivere lungo tempo alla sua
disfatta, al suo confino ed esilio[557].

[A. D. 358]

Poscia che Giuliano ebbe scacciato gli Alemanni dalle Province dell'alto
Reno, voltò le armi contro dei Franchi, i quali eran situati più vicini
all'Oceano sui confini della Gallia e della Germania, e che pel numero e
più ancora per l'intrepido loro valore s'erano sempre stimati fra'
Barbari i più formidabili[558]. Quantunque fossero questi fortemente
attratti dagli allettativi della rapina, professavan però un
disinteressato amor della guerra, ch'essi riguardavano come la suprema
felicità ed il massimo onore della vita umana; e gli spiriti non meno
che i corpi loro erano sì perfettamente indurati pel continuo esercizio,
che secondo la viva espressione d'un oratore, le nevi dell'inverno erano
per essi così piacevoli, come i fiori della primavera. Nel mese di
dicembre, dopo la battaglia di Strasburgo, Giuliano attaccò un corpo di
seicento Franchi, che si eran gettati in due castelli sopra la
Mosa[559]. Nel mezzo di quella rigida stagione sostennero essi con
inflessibil costanza un assedio di quarantaquattro giorni; sintanto che
in ultimo esausti dalla fame, ed accortisi che la vigilanza del nemico
in rompere il ghiaccio del fiume non lasciava più loro alcuna speranza
di fuga, i Franchi acconsentirono per la prima volta a recedere
dall'antica legge, che imponeva loro di vincere o di morire. Cesare
immediatamente mandò questi prigionieri alla Corte di Costanzo, che
accettandoli come un pregevole dono[560], prese con piacere l'occasione
di aggiungere tanti eroi alle più scelte truppe delle sue guardie
domestiche. L'ostinata resistenza di questo pugno di Franchi fece
apprendere a Giuliano le difficoltà della spedizione, che meditava di
fare nella seguente primavera contro tutto il corpo della nazione. La
sua rapida diligenza però sorprese e spaventò gli attivi Barbari.
Ordinando a' suoi soldati di provvedersi di biscotto per venti giorni,
improvvisamente piantò il suo campo vicino a Tongres, mentre il nemico
lo supponeva sempre ne' quartieri d'inverno a Parigi, e che aspettasse
il lento arrivo de' suoi convogli d'Aquitania. Senza lasciar tempo a'
Franchi d'unirsi o di deliberare, dispose con arte le sue legioni, da
Colonia fino all'Oceano; e pel terrore, non meno che pel felice successo
delle sue armi, tosto riduce le supplicanti Tribù ad implorar la
clemenza, e ad obbedire a' comandi del loro Conquistatore. I Camavj si
ritiraron sommessamente alle antiche loro abitazioni di là dal Reno; ma
fu accordato a' Salj di possedere il nuovo stabilimento di Toxandria,
come soggetti ed ausiliari dell'Impero Romano[561]. Si ratificò con
solenni giuramenti il trattato, e furon destinati varj inspettori
perpetui per risedere tra' Franchi, coll'autorità di esigere la rigorosa
osservanza de' patti. Si riporta un accidente abbastanza interessante
per se medesimo, ed in nessun modo ripugnante al carattere di Giuliano,
che ingegnosamente immaginò l'intreccio e la catastrofe della tragedia.
Quando i Camavj chieser la pace, egli dimandò il figlio del loro Re come
l'unico ostaggio, su cui potesse fidarsi. Un tristo silenzio, interrotto
da lacrime e da lamenti, dimostrò la mesta perplessità dei Barbari; ed
il vecchio lor Capo in patetico linguaggio dolevasi, che la privata sua
perdita veniva ora amareggiata dal sentimento della pubblica calamità.
Mentre i Camavj stavan prostrati a piè del suo trono, il real
prigioniero, ch'essi credevan già morto, d'improvviso comparve a' lor
occhi; e tosto che il tumulto di gioia si convertì in attenzione, Cesare
parlò all'assemblea in questi termini. «Ecco il figlio, il Principe, che
da voi si piangeva. Voi l'avevate perduto per vostra colpa; Dio ed i
Romani ve l'hanno restituito. Io conserverò ed educherò il giovane,
piuttosto come un monumento della mia propria virtù, che come un pegno
della vostra sincerità. Se voi tenterete di violare la fede, che avete
giurata, le armi della Repubblica vendicheranno la perfidia non già
sull'innocente, ma su' colpevoli.» I Barbari si ritirarono dalla sua
presenza, penetrati de' più profondi sentimenti di gratitudine e
d'ammirazione[562].

[A. D. 357-358-359]

Non era sufficiente per Giuliano l'aver liberato le Province della
Gallia da' Barbari della Germania. Egli aspirava ad emulare la gloria
del primo e più illustre fra gl'Imperatori, ad esempio del quale compose
i suoi Comentari della guerra Gallica[563]. Cesare ha riferito con
interna compiacenza la maniera con cui passò il Reno _due_ volte.
Giuliano potè vantarsi, che prima di prendere il titolo d'Augusto, aveva
in tre felici spedizioni portato le Aquile Romane oltre quel gran
fiume[564]. La costernazione de' Germani dopo la battaglia di Strasburgo
lo animò a fare il primo tentativo; e la ripugnanza delle truppe tosto
cedè alla persuasiva eloquenza d'un Capitano, il quale era a parte delle
fatiche e de' pericoli, che imponeva all'infimo de' suoi soldati. I
villaggi da ambe le parti del Reno, ch'erano abbondantemente provvisti
di grano e di bestiame, provarono le devastazioni d'un'armata che
invade. Le case principali, fabbricate con qualche imitazione della
Romana eleganza, furon consumate dalle fiamme; e Cesare s'avanzò
arditamente circa dieci miglia, finchè arrestati furono i suoi progressi
da un'oscura ed impenetrabil foresta, minata da scavi sotterranei, che
con segrete insidie ed imboscate minacciava ogni passo dell'assalitore.
La terra era già coperta di neve; e Giuliano dopo d'avere risarcito una
antica fortezza ch'era stata eretta da Traiano, concesse una tregua di
dieci mesi ai sottomessi Barbari. Allo spirar della tregua, Giuliano
intraprese una seconda spedizione di là dal Reno, per umiliare
l'orgoglio di Surmar, e di Ortairo, due Re degli Alemanni, che s'eran
trovati presenti alla battaglia di Strasburgo. Essi promisero di
restituire tutti gli schiavi Romani, che tuttavia restavano in vita; e
siccome Cesare s'era procurata un'esatta notizia dalle città e da'
villaggi della Gallia degli abitanti che avevan perduti, potè scuoprire
qualunque tentativo, ch'essi fecero per ingannarlo, con tal felicità ed
esattezza, che servì quasi a stabilir l'opinione della soprannaturale
sua intelligenza. La terza spedizione di lui fu anche più splendida ed
importante delle due precedenti. I Germani avevan raccolte le lor forze
militari, e si muovevano lungo le opposte rive del fiume col disegno di
abbattere il ponte, e d'impedire il passo ai Romani. Ma questo
giudizioso piano di difesa restò sconcertato da un'opportuna diversione.
Furon distaccati trecento attivi soldati, ed armati leggermente in
quaranta piccole barche ad oggetto d'andare in silenzio lungo la
corrente, e prender terra in qualche distanza da' posti del nemico. Essi
eseguirono i loro ordini con tale ardire e celerità, che avevan quasi
sorpreso i Capi de' Barbari, i quali senz'alcun timore tornavano ebbri
da una delle lor feste notturne. Senza stare a ripetere l'uniforme e
disgustoso racconto delle stragi e delle devastazioni, servirà
l'avvertire che Giuliano dettò da se stesso le condizioni di pace a sei
de' più superbi Re degli Alemanni, a tre de' quali fu permesso di vedere
la severa disciplina e la pompa marziale d'un campo Romano. Cesare,
seguìto da ventimila prigionieri liberati dalle catene de' Barbari,
ripassò il Reno, dopo d'aver terminato una guerra, il successo della
quale era stato paragonato alle antiche glorie delle vittorie Punica e
Cimbrica.

Tosto che il valore e la condotta di Giuliano ebbe assicurato un
intervallo di pace, egli applicossi ad un'opera più conforme alla sua
umana e filosofica indole. Restaurò diligentemente le città della
Gallia, che avevan sofferte le incursioni de' Barbari, ed in specie si
fa menzione di sette posti importanti fra Magonza, e la bocca del Reno,
che furon rifabbricati e fortificati per ordine di Giuliano[565]. I
soggiogati Germani s'eran sottomessi alle giuste, ma umilianti
condizioni di preparare, e di trasportare i necessari materiali.
L'attivo zelo di Giuliano incalzava il proseguimento dell'opera; e tal
era l'ardore ch'egli aveva sparso fra le truppe, che gli ausiliarj
medesimi rinunziando le loro esenzioni da ogni dover di fatica, facevano
a gara ne' più servili lavori colla diligenza de' soldati Romani.
Incumbeva a Cesare di provvedere alla sussistenza, non meno che alla
sicurezza degli abitanti e delle guarnigioni. La deserzione degli uni e
l'ammutinamento delle altre dovevano essere le fatali ed inevitabili
conseguenze della carestia. La cultura delle Province della Gallia era
stata interrotta dalle calamità della guerra; ma fu supplito, mediante
la paterna sua cura, alle scarse raccolte del Continente dall'abbondanza
delle Isole addiacenti. Seicento gran barche, costruite nella foresta
d'Ardenna, fecer più viaggi alla costa della Britannia, e di là tornando
cariche di grano, rimontavano su pel Reno, e distribuivano i loro
carichi alle varie città e fortezze lungo le sponde del fiume[566]. Le
armi di Giuliano avevano renduta libera e sicura una navigazione, che
Costanzo aveva offerto di comprare a spese della sua dignità, e d'un
tributario donativo di duemila libbre d'argento. L'Imperatore con
parsimonia ricusava a' propri soldati le somme, che con prodiga e
tremante mano accordava a' Barbari, e si pose ad una forte prova la
destrezza ugualmente che la costanza di Giuliano, quando si mise in
campagna con un esercito malcontento che avea già militato per due
campagne senza ricevere alcuna regolar paga, o alcuno straordinario
donativo[567].

La regola principale, che dirigeva, o sembrava che dirigesse
l'amministrazione di Giuliano, era un tenero riguardo per la pace e
felicità de' suoi sudditi[568]. Egli consacrò l'ozio de' suoi quartieri
d'inverno agli uffizi del governo civile, ed affettò di assumere con
maggior piacere il carattere di Magistrato che quello di Generale.
Avanti d'andare alla guerra, delegò ai Governatori Provinciali molte
cause pubbliche e private che s'eran portate al suo Tribunale; ma
tornato che fu, diligentemente rivide i loro processi, mitigò il rigore
delle leggi e pronunziò un secondo giudizio sopra gli stessi Giudici.
Superiore a quell'indiscreto ed intemperante zelo per la giustizia, ch'è
l'ultima tentazione degli animi virtuosi, raffrenò tranquillamente e con
dignità l'ardore d'un Avvocato, che accusava l'estorsione del Presidente
della Provincia Narbonese. «Chi si potrà mai trovar reo» esclamò il
veemente Delfidio «se serve il negare?» E chi, replicò Giuliano, «sarà
mai trovato innocente, se serve l'affermare?» Nella generale
amministrazione, tanto di pace quanto di guerra, l'interesse del Sovrano
è ordinariamente l'istesso che quello del popolo: ma Costanzo si sarebbe
stimato altamente offeso, se le virtù di Giuliano l'avessero defraudato
di una parte del tributo, ch'egli estorceva da un oppresso ed esausto
paese. Il Principe, ch'era investito delle insegne della dignità reale,
poteva qualche volta pretendere di correggere la rapace insolenza degli
agenti inferiori, di porre in chiaro i corrotti loro artifizi, e
d'introdurre una specie d'esazione più uguale e più facile. Ma il
maneggio delle finanze fu con maggior sicurezza affidato a Florenzio,
Prefetto del Pretorio della Gallia, effeminato tiranno, incapace di
pietà o di rimorsi; ed il superbo ministro dolevasi della più decente e
gentile opposizione, mentre Giuliano stesso era piuttosto inclinato a
censurare la debolezza della sua propria condotta. Cesare avea rigettato
con orrore un mandato per la leva d'una tassa straordinaria, che il
Prefetto gli aveva presentato per la sua sottoscrizione; e la pittura
fedele della pubblica miseria, con cui era egli stato obbligato a
giustificare il suo rifiuto, offese la Corte di Costanzo. Possiamo avere
il piacere di leggere i sentimenti di Giuliano, quali esso gli esprime
con calore e libertà in una lettera ad uno de' suoi più intimi amici.
Dopo d'aver esposta la sua condotta, prosegue in questi termini. «Era
egli possibile per un discepolo di Platone e d'Aristotile il procedere
diversamente da quel che ho fatto? Poteva io abbandonare gl'infelici
sudditi, affidati alla mia cura? Non era io chiamato a difenderli dalle
replicate ingiurie di questi insensibili ladroni? Un Tribuno, che
abbandona il suo posto, è punito di morte, e privato degli onori della
sepoltura. Con qual giustizia pronunziar potrei la sentenza contro di
esso, se nel tempo del pericolo io medesimo trascurassi un dovere molto
più sacro ed importante! Dio mi ha collocato in questo sublime posto; la
sua Providenza mi guarderà e sosterrà. Quand'anche fossi condannato a
patire, mi conforterò col testimonio d'una pura e retta coscienza.
Piacesse al Cielo, che io avessi tuttavia un consigliere come Sallustio!
Se stiman proprio di mandarmi un successore, mi sottometterò senza
ripugnanza; e vorrei piuttosto profittare della breve opportunità di far
bene, che godere una lunga durevole impunità nel male»[569]. La precaria
e dipendente situazione di Giuliano ne spiegava le virtù, e ne celava i
difetti. Non era permesso al giovane Eroe, che sosteneva nella Gallia il
trono di Costanzo, di riformare i vizi del governo; ma aveva il coraggio
di sollevare o di compassionare le angustie del popolo. A meno che non
fosse stato capace di nuovamente eccitare il marziale spirito dei
Romani, o d'introdurre le arti dell'industria e del raffinamento fra'
selvaggi loro nemici, non poteva nutrire alcuna ragionevole speranza di
assicurar la pubblica tranquillità o con la pace o con la conquista
della Germania. Pure le vittorie di Giuliano sospesero per breve tempo
le scorrerie de' Barbari, e differirono la rovina dell'Impero Orientale.

La sua salutare influenza fece risorger le città della Gallia, ch'erano
state sì lungo tempo esposte a' danni della discordia civile, della
guerra co' Barbari e della domestica tirannia; e s'eccitò lo spirito
d'industria colla speranza del premio. L'agricoltura, le manifatture ed
il commercio di nuovo fiorivano sotto la protezion delle leggi; e le
Curie, o corpi civili eran nuovamente piene di utili e rispettabili
membri: la gioventù non temeva più il matrimonio, nè i coniugi temevan
più la posterità; si celebravano le pubbliche e private feste colla
solita pompa; ed il frequente e sicuro commercio delle Province spiegava
l'immagine della nazionale prosperità[570]. Uno spirito, come quel di
Giuliano, dovea sentire la general felicità, della quale era l'autore;
ma egli vedeva con particolar soddisfazione e compiacenza la città di
Parigi, sede del suo invernal soggiorno, ed oggetto anche della sua
parziale affezione[571]. Quella splendida capitale, che adesso contiene
un vasto territorio da ambe le parti della Senna, era in principio
ristretta alla piccola isola, che è nel mezzo del fiume, da cui gli
abitanti eran forniti d'acqua pura e salubre. Il fiume bagnava il piè
delle mura, e la città non era accessibile, che per mezzo di due ponti
di legno. Dalla parte settentrionale della Senna stendevasi una foresta;
ma al mezzodì il suolo, che adesso ha il nome dell'Università, fu
insensibilmente coperto di case, e adornato d'un palazzo, d'un
anfiteatro, di bagni, d'un acquedotto e d'un campo Marzio per esercizio
delle truppe Romane. Il rigore del clima era temperato dalla vicinanza
dell'Oceano; e con qualche precauzione, insegnata dall'esperienza, si
coltivavan con frutto le viti ed i fichi. Ma negl'inverni crudi la Senna
si ghiacciava profondamente; ed i grossi pezzi di ghiaccio, che
scorrevan giù pel fiume, potevano da un Asiatico paragonarsi a' massi di
bianco marmo, che s'estraevano dalle cave della Frigia. La licenza e
corruzione d'Antiochia richiamavano alla memoria di Giuliano i semplici
e severi costumi della sua cara Lutezia[572], dove i divertimenti del
teatro erano incogniti, o disprezzati. Egli confrontava acceso di sdegno
gli effeminati Sirj colla brava ed onesta semplicità de' Galli, e ne
obbliò quasi l'intemperanza, ch'era l'unica macchia del carattere
Celtico[573]. Se Giuliano potesse adesso visitar di nuovo la capitale
della Francia, potrebbe conversar con uomini di scienza e di grande
ingegno, capaci d'intendere e d'istruire uno scolare de' Greci; potrebbe
scusar le vivaci e graziose follie d'una nazione, il cui spirito
marziale non si è mai snervato dalla propensione al lusso; e dovrebbe
applaudire la perfezione di quell'inestimabil arte, che ammollisce,
raffina, ed abbellisce il commercio della vita sociale.


NOTE:

[480] Ammiano (_l. XIV. c. 6_) attribuisce la prima pratica di castrare
al crudele ingegno di Semiramide, che si suppone regnasse più di mille
novecento anni prima di Cristo. L'uso degli Eunuchi è molto antico sì
nell'Asia che nell'Egitto. Se ne fa menzione nella Legge di Mosè
_Deuteron. l. XXIII_. Vedi Goguet _Orig. des Loix ec. P. I. l. I. c. 3_.

[481]

    _Eunuchum dixti velle te;_
    _Quia solae utuntur his Reginae._

Terent. _Eunuch. Act. I. Sc. 2_. Questa commedia è tradotta da una di
Menandro, e l'originale dev'esser comparso alla luce poco dopo le
conquiste orientali d'Alessandro.

[482]

    _Miles.... spadonibus_
    _Servire rugosis potest._

Horat. _Carm. V. 9_, e Dacier _Ib._ Colla parola _spado_ i Romani
energicamente esprimevano il loro abborrimento a tale mutilazione. Il
nome Greco d'Eunuchi, che insensibilmente prevalse, aveva un suono più
dolce, ed un senso più ambiguo.

[483] Noi non abbiamo che a rammentar Poside, Liberto ed Eunuco di
Claudio, in favore di cui l'Imperatore prostituì varj de' più onorevoli
premj del valor militare. Vedi Sveton. _in Claud. c. 28_. Poside impiegò
una gran parte delle sue ricchezze in fabbricare.

    _Ut spado vincebat Capitolia nostra_
      _Posides._ Juvenal _Sat. XIV_.

[484] _Castrari mares vetuit._ Sveton. in Domit. _c. 7_. Vedi Dion.
Cass. l. LXVII _p. 1107_, l. LXVIII. _p. 1119_.

[485] Si trova un passo nell'Istoria Augusta (_p. 137_), in cui
Lampridio nel tempo che loda Alessandro Severo e Costantino per aver
limitata la tirannia degli Eunuchi, deplora i danni, che cagionavano
essi negli altri regni: _Huc accedit quod Eunuchos nec in consiliis, nec
in ministeriis habuit; qui soli Principes perdunt, dum eos more Gentium
aut Rogum Persarum volunt vivere; qui a Populo etiam amicissimum
semovent; qui internuntii sunt, aliud quam respondetur referentes;
claudentes Principem suum, et agentes ante omnia, ne quid sciat._

[486] Senofonte (_Cyropaed. l. VIII. p. 540_) ha esposte le speciose
ragioni, che impegnaron Ciro ad affidare la propria persona alla
custodia degli Eunuchi. Aveva egli osservato negli animali, che sebbene
l'uso della castrazione potesse addolcire la loro non governabil
fierezza, non ne diminuiva però la forza e lo spirito, e si persuadeva,
che uomini separati dal resto della specie umana, sarebbero più
fortemente attaccati alla persona del loro benefattore. Ma una lunga
esperienza ha contraddetto al giudizio di Ciro. Può incontrarsi qualche
particolar esempio di Eunuchi, distinti per la fedeltà, pel valore, e
l'abilità loro; ma se esaminiamo l'istoria in genere della Persia,
dell'India e della China, troveremo che la potenza degli Eunuchi ha
uniformemente indicato la decadenza e la caduta di ogni dinastia.

[487] Vedi Ammiano Marcellino l. XXI. c. 16, l. XXII. c. 4. Tutta la
serie dell'imparziale sua storia serve a giustificar le invettive di
Mammertino, di Libanio, e di Giuliano medesimo, che hanno insultato i
vizi della Corte di Costanzo.

[488] Aurelio Vittore censura la negligenza del suo Sovrano in eleggere
i Governatori delle Province e i Generali dell'esercito; e termina la
sua storia coll'ardita osservazione, ch'è assai più pericoloso in un
regno debole d'attaccare i ministri, che non lo stesso Monarca: _uti
verum absolvam brevi, ut Imperatore ipso clarius ita apparitorum
plerisque magis atrox nihil._

[489] _Apud quem_ (_si vere dici debeat_) _multum Constantius potuit._
Ammian. l. XVIII. c. 4.

[490] Gregorio Nazianzeno (Orat. III. p. 90) rimprovera l'Apostata della
sua ingratitudine verso Marco, Vescovo d'Aretusa, che aveva contribuito
a salvargli la vita; ed apprendiamo, quantunque da un testimone meno
rispettabile (Tillemont _Hist. des Emper. Tomo IV. p. 916_), che
Giuliano fu nascosto nel santuario d'una Chiesa.

[491] Si contiene il racconto più autentico dell'educazione e delle
avventure di Giuliano nell'epistola, o manifesto, ch'egli stesso
indirizzò al Senato ed al Popolo d'Atene. Libanio (_Orat. Parental._)
dal canto de' Pagani, e Socrate (l. II. c. 1) da quello de' Cristiani ce
ne han conservate molte interessanti particolarità.

[492] Quanto alla promozione di Gallo, vedi Idacio, Zosimo, ed i due
Vittori. Secondo Filostorgio (_l. IV. c. 1._). Teofilo, Vescovo Arriano,
fu il testimone, e come il garante di questo solenne trattato. Egli
sostenne tal carattere con generosa fermezza; ma il Tillemont (_Hist.
des Emper. Tom. IV. p. 1120_) crede molto improbabile che un Eretico
possedesse una tale virtù.

[493] Sul principio fu permesso a Giuliano di proseguire i suoi studi in
Costantinopoli; ma la riputazione, ch'egli acquistava, presto eccitò la
gelosia di Costanzo, e fu avvisato il giovane Principe di ritirarsi ne'
meno cospicui teatri della Bitinia e della Jonia.

[494] Vedi Giulian. _ad S. P. Q. A. 271_. Girol. _in Chron._ Aurel.
Vitt. Eutrop. X. 14. Io copierò le parole d'Eutropio, che scrisse il suo
compendio circa quindici anni dopo la morte di Gallo, quando non v'era
più alcun motivo o di adulare, o di deprimere il suo carattere: _Multis
incivilibus gestis Gallos Caesar... vir natura ferox, et ad tyrannidem
pronior, si suo jure imperare licuisset._

[495] _Megaera quidem mortalis, inflammatrix saevientis assidua, humani
aruoris avida etc._ Ammian. Marcellin. l. XIV. c. 1. La sincerità
d'Ammiano non gli permetterebbe di alterare i fatti, o i caratteri; ma
l'amore, che ha per gli ambiziosi ornamenti, spesso lo conduce ad una
veemenza d'espressione non naturale.

[496] Il nome di questo era Clemazio d'Alessandria, e l'unico suo
delitto fu l'aver ricusato di soddisfare a' desiderj della sua suocera,
che ne sollecitò la morte, perchè era restato deluso il suo amore.
Ammiano l. XIV. c. 1.

[497] Vedi in Ammiano (_l. XIV. c. 1, 7_) un ampio ragguaglio delle
crudeltà di Gallo. Giuliano suo fratello (_p. 272_) ci fa conoscere,
ch'erasi formata una segreta cospirazione contro di lui; e Zosimo nomina
(_l. II. p. 135_) le persone impegnate in quella, vale a dire un
ministro di ragguardevol grado, ed alcuni oscuri agenti, che avevan
risoluto di fare la loro fortuna.

[498] Zonara (_l. XIII. T. II. p. 17, 18._). Gli assassini avevano
sedotto un gran numero di legionari; ma i loro disegni furono scoperti e
rivelati da una vecchia, nella capanna della quale alloggiavano.

[499] Nel testo attuale d'Ammiano si legge: _asper quidem, sed ad
lenitatem propensior_, che forma un non senso contraddittorio. Valesio
coll'aiuto d'un vecchio manoscritto ha corretta la prima di queste
corruzioni, e si vede qualche raggio di lume, sostituendovi la parola
_vafer_. Se ci arrischiamo a cangiare _lenitatem_ in _levitatem_,
quest'alterazione d'una sola lettera renderà tutto il passo chiaro e
corrente.

[500] In vece d'esser costretti a raccoglier da varj fonti sparse ed
imperfette notizie, entriamo adesso nel pieno corso dell'istoria
d'Ammiano, nè abbiam bisogno di riferire, che il settimo ed il nono
capitolo del suo libro decimoquarto. Non dee però interamente ommettersi
Filostorgio (_l. III. c. 28_) sebbene parziale per Gallo.

[501] Ella preceduto avea suo marito; ma morì di febbre per viaggio in
un picciol luogo della Bitinia chiamato _Coenum Gallicanum_.

[502] Le legioni Tebee, acquartierate in Adrianopoli, mandarono a Gallo
una deputazione coll'offerta de' loro servigi. (Ammiano _l. XIV. c.
11._) La _Notizia_ (S. 6, 20, 38. _Edit. Labb._) fa menzione di tre
diverse legioni, ch'ebbero il nome di Tebee. Lo zelo del Voltaire, per
distruggere una disprezzabile quantunque celebre leggenda, lo ha tentato
a negare, su' più leggieri fondamenti, l'esistenza d'una legione Tebea
negli eserciti Romani. Vedi _Oeuvr. de Voltaire Tom. XI. p. 414 Edit.
4_.

[503] Vedi l'intera narrazione del viaggio e della morte di Gallo presso
Ammiano _l. XIV. c. 11_. Giuliano si duole, che fosse condannato a morte
il fratello senza processo: si studia di giustificare o almen di scusare
la crudel vendetta, che questi avea fatto, de' suoi nemici; ma sembra
alla fine confessare, che giustamente si potea privarlo della porpora.

[504] Filostorg. _l. IV, c. 1_. Zonara _l. XIII. T. II. p. 19_. Ma il
primo era parziale per un Monarca Arriano, ed il secondo trascrisse
senza scelta o criterio tutto quel che trovò negli scritti degli
antichi.

[505] Vedi Ammiano Marcellino (_l. XV. c. 1, 3, 8._) Giuliano medesimo,
nella sua lettera agli Ateniesi, fa una molto viva e giusta pittura del
suo pericolo e de' suoi sentimenti. Egli dimostra però qualche
propensione ad esagerar le sue pene, insinuando, sebbene in termini
oscuri, ch'esse durarono più d'un anno; periodo che non si può
conciliare colla verità della cronologia.

[506] Giuliano ha esposto i delitti e le sventure della famiglia di
Costantino in una favola allegorica con felicità immaginata, e
raccontata piacevolmente. Essa forma la conclusione dell'Orazione
settima, da cui fu staccata e tradotta dall'Abate della Bleterie: _Vit.
di Giovian._ (_Tom. II. p. 385-408_).

[507] Essa era nativa di Tessalonica in Macedonia, di nobil famiglia,
figliuola e sorella di Consoli. Si può collocare il suo matrimonio
coll'Imperatore nell'anno 352. In un tempo di divisione, gli storici di
tutti i partiti sono fra loro d'accordo nelle sue lodi. Vedi le loro
testimonianze raccolte dal Tillemont _Hist. des Emper._ (_Tom. IV. p.
750-754_).

[508] Libanio e Gregorio Nazianzeno hanno esaurito gli artifizi e le
forze della loro eloquenza per rappresentar Giuliano come o il primo fra
gli Eroi, o il peggior de' Tiranni. Gregorio fu di lui condiscepolo in
Atene; ed i sintomi, ch'egli sì tragicamente descrive della futura
empietà dell'Apostata, si riducono solo ad alcune imperfezioni di corpo,
ed a certe singolarità del suo conversare, e delle sue maniere. Esso
protesta, ciò nonostante, che fin d'allora previde e predisse le
calamità della Chiesa e dello Stato. (_Gregor. Naz. Orat. IV. p. 121,
122._)

[509] _Succumbere tot necessitatibus tamque crebris unum se, quod
numquam fecerat, aperte demonstrans_; Ammiano _l. XV. c. 8_. Ivi esprime
con i propri lor termini le adulatrici proteste de' Cortigiani.

[510] _Tantum a temperatis moribus Juliani differens fratris, quantum
inter Vespasiani filios fuit Domitianus et Titum_; Ammiano _l. XIV. c.
21_. Le circostanze e l'educazione de' due fratelli furono tanto simili,
che somministrano un forte esempio dell'innate diversità de' caratteri.

[511] Ammiano (_l. XV. c. 8_. Zosimo _l. III. p. 137, 138_)

[512] Giuliano _ad S. P. Q. A._ (_p. 275, 276_). Liban. _Orat. X. p.
268_. Giuliano non volle cedere finchè gli Dei non gli ebber significato
la lor volontà per mezzo di ripetute visioni ed augurj. Allora la sua
pietà gli vietò di resistere.

[513] Giuliano medesimo riferisce (_p. 274_) con qualche vivezza le
circostanze della sua metamorfosi, i dimessi suoi sguardi e la sua
perplessità in vedersi così ad un tratto trasportato in un nuovo Mondo,
dove ogni oggetto gli appariva straniero ed ostile.

[514] Vedi Ammiano Marcellin. (_l. XV c. 8_. Zosim. _l. III. p. 139_.)
Aurelio Vittore, Vittore il Giovane _in Epitom._ Eutrop. X. 14.

[515] _Militares omnes horrendo fragore scuta genibus illidentes, quod
est prosperitatis indicium plenum, nam contra cum hastis clypei
feriuntur irae documentum est et doloris._ Ammiano aggiunge con una
delicata distinzione; _cumque, ut potiori reverentia servaretur, nec
supra modum laudabant, nec infra quam decebat._

[516] Ἐλλαβε πορφύρεος θανάτος, καὶ μοῖρα καραταιλ: _l'occupò
la purpurea morte, ed il fato violento. Iliad. E. v. 83._ La parola
_porpora_, che Omero aveva usato, come un indeterminato, ma comune
epiteto della morte, da Giuliano s'applicava ad esprimer molto a
proposito la natura e l'oggetto delle proprie apprensioni.

[517] Egli rappresenta ne' termini più patetici (_p. 277_) le angustie
della sua nuova situazione. La provvisione della sua tavola era però sì
elegante e sontuosa che il giovane filosofo la rigettò con isdegno
«_Quum legeret libellum assidue, quem Costantius ut privignum ad studia
mitens manu sua conscripserat, praelicenter disponens quid in convivio
Caesaris impendi deberet, phasianum, et vulvam, et sumen exigi vetuit et
inferri._» Ammiano Marcellino (_l. XVI. c. 5._)

[518] Se vogliam riflettere, che Costantino, padre d'Elena, era morto
più di diciotto anni avanti in una matura vecchiezza, sembrerà
probabile, che la figlia, quantunque vergine, non poteva essere al tempo
del suo matrimonio molto giovane. Ella poco dopo partorì un figlio, che
immediatamente morì; _quod obstetrix, corrupta mercede, mox natum,
praesecto plusquam convenerat umbilico, necavit._ Accompagnò essa
l'Imperatore e l'Imperatrice nel loro viaggio di Roma, e quest'ultima,
_quaesitum venenum bibere per fraudem illexit, ut quotiescumque
concepisset immaturum abjiceret partum_; Ammiano _l. XVI. c. 10_. I
nostri Fisici determineranno, se realmente può esservi tale veleno:
quanto a me sono inclinato a credere, che la pubblica malignità
imputasse gli effetti del caso a colpa di Eusebia.

[519] Ammiano (XV. 5.) era perfettamente informato della condotta e del
fato di Silvano; egli stesso era uno de' pochi seguaci, che
accompagnarono Ursicino in quella pericolosa impresa.

[520] Quanto alle particolarità della gita di Costanzo a Roma, vedi
Ammiano _l. XVI. c. 10_. Noi abbiam solamente da aggiungere, che da
Costantinopoli fu scelto per Deputato Temistio, e ch'egli compose per
questa ceremonia la sua quarta orazione.

[521] Ormisda, Principe fuggitivo di Persia, fece osservare
all'Imperatore, che se faceva un tal cavallo, dovea pensare a
preparargli una simile stalla (qual'era il Foro di Traiano). Si riporta
un altro detto d'Ormisda, cioè «che gli era solo _dispiaciuta_ una cosa,
vale a dire che a Roma gli uomini morivano come altrove». Se noi
adottiamo questa lezione del testo di Ammiano (_displicuisse_, invece di
_placuisse_) possiamo risguardarla come una prova della Romana vanità.
Il senso contrario sarebbe stato quello d'un misantropo.

[522] Allorchè Germanico visitò gli antichi monumenti di Tebe, il più
vecchio fra' Sacerdoti gli spiegò il significato di que' geroglifici,
Tacit. _Annal. II c. 60_. Ma sembra verisimile, che avanti l'utile
invenzione dell'alfabeto, questi o naturali o arbitrarj segni fossero i
comuni caratteri della nazione Egiziana. Vedi Warburton _Divin. Legaz.
di Mosè Vol. III. p. 69-243_.

[523] Vedi Plin. _Hist. Nat. l. XXXVI. c. 14, 15_.

[524] Ammiano Marcell. _l. XVII. c. 4_. Egli ci dà una interpretazione
Greca de' geroglifici; e Lindenbrogio suo Comentatore aggiunge
un'iscrizione Latina del tempo di Costanzo in venti versi contenente una
breve istoria dell'obelisco.

[525] Vedi Donat. _Rom. Antiq. l. III. c. 14. l. IV. c. 41_ e l'erudita
quantunque confusa Dissertazione del Bargeo sugli obelischi, inserita
nel Tomo IV dello _Antichità Romane di Grevio. p. 1897-1936_. Questa
dissertazione è dedicata al Pontefice Sisto V, ch'eresse l'obelisco di
Costanzo nella piazza ch'è avanti alla Chiesa Patriarcale di S. Gio.
Laterano.

[526] Gli avvenimenti di questa guerra de' Quadi e de' Sarmati si
riferiscono da Ammiano XVI, 10, XVII, 12, 13, XIX, 11.

[527] _Genti Sarmatarum magno decori considens apud eos regem dedit_:
Aurel. Vittore. In una fastosa Orazione, pronunziata da Costanzo
medesimo, egli si diffonde con molta vanità e con qualche cosa di vero
nelle proprie sue geste.

[528] Ammian. XVI. 9.

[529] Ammiano (_XVII. 5_) trascrive l'orgogliosa lettera. Temistio
(_Orat. IV p. 57. Edit. Petav._) fa menzione dell'involto di seta.
Idacio e Zonara descrivono il viaggio dell'Ambasciatore, e (in _Excerpt.
Legat. p. 28_). Pietro Patrizio c'informa della sua conciliante
condotta.

[530] Ammiano XVII. 5 e Vales. ib. Il sofista o filosofo (questi nomi
erano in quel tempo quasi sinonimi) era Eustazio di Cappadocia,
discepolo di Jamblico ed amico di S. Basilio, Eunapio (_in vit. Edexii
p. 44, 47_), appassionato pel suo filosofico Ambasciatore, gli
attribuisce la gloria d'avere incantato il barbaro Re colle persuasive
lusinghe della ragione e dell'eloquenza. Vedi Tillemont (_Hist. des
Emper. Tom. IV p. 828, 1132_).

[531] Ammiano XVIII 5, 6, 8. Il decente e rispettoso contegno d'Antonino
verso il Generale Romano lo pone in un aspetto molto interessante ed
Ammiano stesso parla con qualche compassione e stima del traditore.

[532] Questa circostanza, quale ci vien notificata da Ammiano, serve a
provare la veracità d'Erodoto (_l. I. c. 133_) e la durevolezza de'
costumi Persiani. Questi sono stati sempre dediti all'intemperanza; ed i
vini di Shiraz hanno trionfato sopra la legge di Maometto. Brisson _de
Regn. Pers. l. II. p. 462-472_ e Chardin. _Viag. in Pers. Tom. III. p.
90_.

[533] Ammiano _l. XVIII. 6, 7, 8, 10_.

[534] Per la descrizione d'Amida, vedi d'Herbelot _Bibliot. Orient. p.
108. Hist. de Timur-Rec par Cherefeddin Alì l. III. c. 41_. Ahmed
Arabasides _Tom. I. p. 331. c. 43. Viag. di Tavernier Tom. I. p. 301.
Viag. d'Otter. Tom. II. p. 273_ e _Viag. di Niebuhr. Tom. II. p.
324,-328_. L'ultimo di questi viaggiatori, dotto ed esatto Danese, ha
dato una pianta d'Amida, che illustra le operazioni dell'assedio.

[535] Diarbekir, ch'è chiamata Amid, o Kara-amid nelle pubbliche
scritture de' Turchi, contiene sopra 16000 case, ed è la residenza d'un
Bassà di tre code. L'epiteto di _Kara_ nasce dall'oscurità della pietra,
che compone le forti ed antiche mura d'Amida.

[536] Le operazioni dell'assedio d'Amida sono minutamente descritte da
Ammiano (XIX. 1-9) ch'ebbe un'onorevole parte nella difesa, e con fatica
si salvò quando la città fu assaltata da' Persiani.

[537] Di queste quattro nazioni gli Albanesi troppo bene sono conosciuti
per aver bisogno d'alcuna descrizione. I Segestani abitavano un'ampia e
piana regione, che sempre conserva il loro nome al Sud di Korasan, ed a
Ponente dell'Indostan (vedi Georg. _Nubiens. p._ 133 e d'Herbelot _Bibl.
Orient. p._ 797). Non ostante la vantata vittoria di Bahram (vol. I.
_p._ 410) i Segestani più d'ottant'anni dopo compariscono alleati di
Persia come un'indipendente nazione. Non ci è nota la situazione de'
Verti e de' Chioniti; ma sono inclinato a collocare (almeno i secondi)
verso i confini dell'India e della Scizia. Vedi Ammiano XVI. 9.

[538] Ammiano ha indicato la cronologia di quest'anno con tre segni, che
non sono perfettamente coerenti tra loro, o colla serie dell'istoria. 1.
Il grano era maturo, quando Sapore invase la Mesopotamia; _cum jam
stipula flavente turgerent_: circostanza, che nella latitudine d'Aleppo
naturalmente porterebbe al mese d'Aprile o di Maggio. Vedi Harmer
_Osservaz. sulla Scrittur. Vol. I. p. 41_. Shaw _Viagg. p. 355 ediz. 4_.
Secondariamente s'impedirono i progressi di Sapore dall'inondazione
dell'Eufrate che generalmente accade ne' mesi di Luglio e d'Agosto.
Plin. _His. Nat. V. 21_. _Viag. di Pietro della Valle Tom. I p. 696, 3_.
Quando Sapore dopo un assedio di settantatre giorni ebbe preso Amida,
l'autunno era molto avanzato, _autumno praecipiti, haedorumque improbo
sidere exorto_. Per conciliare queste apparenti contraddizioni, conviene
ammettere qualche ritardo nel Re di Persia, qualche inesattezza
nell'istorico, e qualche disordine nelle stagioni.

[539] Ammiano dà notizia di questi assedj XX. 6, 7.

[540] Quanto all'identità di Virta e di Tecrit, vedi Danville _Geogr.
anc. Tom. II. p. 201_, e quanto all'assedio fatto di quel castello da
Timur-Bec a Tamerlano, vedi Cherefeddin _l. III. c. 33_. Il biografo
Persiano esagera il merito e la difficoltà di quest'impresa, che liberò
le carovane di Bagdad da una formidabile banda di ladri.

[541] Ammiano (XVIII. 5, 6. XIX. 3. XX. 2) rappresenta il merito e la
disgrazia d'Ursicino con quella fedel diligenza, che un soldato deve al
suo generale. Vi si può sospettare qualche parzialità, ma tutto il
racconto è coerente e probabile.

[542] Ammiano XX. 11. _Omisso vano incepto hiematurus Antiochiae rediit
in Syriam aerumnosam, perpessus et ulcerum, sed et atrocia diuque
deflenda_. In tal modo ha restaurato Giacomo Gronovio un oscuro passo: e
crede che questa sola correzione meritasse una nuova edizione del suo
Autore, il senso del quale si può adesso oscuramente capire. Io
aspettava qualche maggior luce dalle recenti fatiche del dotto Ernesti
(_Lips. 1773_).

[543] Da Giuliano medesimo posson rilevarsi le devastazioni de' Germani
e le angustie della Gallia. _Orat. ad S. P. Q. Athen; p. 277_. Ammiano
XV. 21. Liban. _Orat. X_. Zosimo _l. III. p. 140_. Sozomeno _l. III. c.
1_.

[544] Ammiano XVI. 8. Sembra che tal nome derivi da' Toxandri di Plinio,
e s'incontra molto frequentemente nelle istorie del medio evo. Toxandria
era un paese di boschi e di paludi, che si estendeva dalle vicinanze di
Tongres fino all'unione del Vahal col Reno. Vedi Vales, _Notit. Galliar.
p. 558_.

[545] Il paradosso del P. Daniel, che i Franchi ebbero alcuno
stabilimento permanente da questa parte del Reno avanti a' tempi di
Clodoveo, è confutato con molta erudizione e buon senso dal Biet, che ha
dimostrato con una serie di prove il loro possesso non interrotto di
Toxandria per cento trent'anni avanti l'avvenimento al trono di
Clodoveo. La dissertazione del Biet fu coronata dall'accademia di
Soissons l'anno 1736 e pare che giustamente si preferisse al discorso
del suo più celebre competitore l'Abate Le Boeuf, antiquario, il cui
nome era felicemente espressivo de' suoi talenti.

[546] La vita privata di Giuliano nella Gallia e la severa disciplina,
che si propose di seguitare, vengono esposte da Ammiano (XVI. 5) che si
protesta di lodare, e da Giuliano medesimo, che affetta di mettere in
ridicolo (_Misopog. p. 540_) una condotta, che in un Principe della casa
di Costantino doveva eccitar con ragione la sorpresa del mondo.

[547] _Aderat Latine quoque disserenti sufficiens serma_. Ammiano XVI.
5. Ma Giuliano, educato nelle scuole della Grecia, risguardò sempre il
linguaggio de' Romani, come un dialetto straniero e popolare, ch'egli
usava solo nelle necessarie occasioni.

[548] Non sappiamo qual fosse l'attuale uffizio di questo eccellente
ministro, che poi Giuliano creò Prefetto della Gallia. Sallustio fu
presto richiamato dalla gelosia dell'Imperatore; e si può tuttavia
leggere un sensibile ma pedantesco discorso (_p. 218-352_) in cui
Giuliano deplora la perdita di sì pregevole amico, al quale si confessa
debitore della sua riputazione. Vedi La Bleterie _Pref. a la vie de
Jovien_. _p. 20_.

[549] Ammiano (XVI. 2, 3) sembra molto più soddisfatto dell'esito di
questa prima campagna che Giuliano medesimo, il quale molto ingenuamente
confessa, ch'egli niente fece di conseguenza, e che fuggì avanti il
nemico.

[550] Ammiano XVI. 7. Libanio parla piuttosto con vantaggio de' militari
talenti di Marcello (_Orat. p. 273_) e Giuliano fa conoscere, che non si
sarebbe così facilmente richiamato, qualora non avesse dato altri motivi
di dispiacere alla Corte v. 278.

[551] _Severus, non discors, non arrogans, sed longa militiae
frugalitate compertus, et eum recta, praeeuntem secuturus, ut ductorem
morigerus miles_. Ammiano XVI. 11. Zosimo _l. III. p. 140_.

[552] Intorno al disegno e alla mancanza di cooperazione fra Giuliano e
Barbazio, vedi Ammiano XVI. 11 e Libanio _Orat. X. p. 273_.

[553] Ammiano XVI. 12 descrive colla sua gonfia eloquenza la figura ed
il carattere di Cnodomar: _Audax et fidens ingenti robore lacertorum,
ubi ardor praelii sperabatur immanis, equo spumante, sublimior erectus
in jaculum formidandae vastitatis, armorumque nitore conspicuus; antea
strenuus et miles, et utilis praeter ceteros ductor... Decentium
Caesarem superavit aequo marte congressus_.

[554] Dopo la battaglia, Giuliano tentò di restituire il vigore
dell'antica disciplina con esporre questi fuggitivi, vestiti da donne,
alla derisione di tutto il campo. Nella seguente campagna quelle truppe
nobilmente rivendicarono il loro onore. Zosimo _l. III. p. 142_.

[555] Giuliano stesso (_ad S. P. Q. Athen. p. 279_) parla della
battaglia di Strasburgo colla modestia d'uno che conosce il proprio
merito, ἐμαχεσάμην ουκ ἀκλεως ἰσως καὶ εις υμας ἀφίκετο ἠ τοιαυτη μάχη:
_pugnammo non senza gloria: forse in voi ridondava il merito di tal
pugna_. Zosimo lo paragona colla vittoria d'Alessandro sopra Dario;
noi però non sappiamo vedervi alcuno di que' colpi di genio militare,
che chiamano l'attenzione de' secoli sulla condotta e sul successo
d'una giornata.

[556] Ammiano XVI. 12. Libanio ne aggiunge duemila al numero degli
uccisi (_Orat. X. p. 274_). Ma queste piccole differenze spariscono a
fronte de' 60000 Barbari, che Zosimo ha sagrificato alla gloria del suo
Eroe (_l. III. p. 131_). Si potrebbe attribuir questo numero stravagante
alla negligenza de' copisti, se il credulo o parziale istorico non
avesse fatto crescere l'esercito di 35000 Alemanni in una innumerabil
moltitudine di Barbari, πληθος αππρον βαρβαρώ. Non è nostra
colpa se tale scoperta c'inspira in simili casi un'opportuna diffidenza.

[557] Ammiano XVI. 12. Libanio _Orat. X. p. 276_.

[558] Libanio (_Orat. III. p. 137_) fa una pittura molto vivace de'
costumi de' Franchi.

[559] Ammiano XVII. 2. Libanio _Orat. X. p. 278_. L'oratore Greco, per
aver mal inteso un passo di Giuliano, s'è indotto a rappresentare i
Franchi in numero di mille, e poichè il suo capo era sempre pieno della
guerra del Peloponeso, li paragona a' Lacedemoni, che furono assediati e
presi nell'Isola di Sfacteria.

[560] Giuliano _ad S. P. Q. Athen. p. 280_. Libanio _Orat. X. p. 274_.
Secondo l'espressione di Libanio, l'Imperatore δωρα ωνομαζε,
(_li chiamò doni_) che La Bleterie (_Vie de Julien. p. 118_) interpreta
come un'onesta confessione, e Valesio (_ad Ammiano XVII. 2_) come una
bassa evasione della verità. Dom. Bouquet (_Hist. de France Tom. I. p.
733_) sostituendovi l'altra parola ενομισε (_stabilì_) vorrebbe
togliere tutte due le difficoltà e lo spirito di questo passo.

[561] Ammiano _XVII. 8_. Zosimo _l. III. p. 146-150_ la sua narrazione
viene oscurata da un miscuglio di favole; e Giuliano (_ad S. P. Q.
Athen. p. 280_) così s'esprime, ἐμαχεσάμην ουκ ἀκλεῶς. ἰσως καὶ εις
υμας ἀφίκετο ἠ τοιαυτη μάχη _Ricevemmo una parte della nazione de'
Salj, e scacciammo i Camavj._ Questa differenza di trattamento conferma
l'opinione che a' Salj Franchi fosse permesso di ritenere i loro
stabilimenti in Toxandria.

[562] Quest'interessante storia, ch'è stata compendiata da Zosimo, si
riferisce da Eunapio (_in Excerpt. Legat. p. 15, 16, 17_) con tutte le
amplificazioni della Rettorica Greca; ma il silenzio di Libanio, di
Ammiano e di Giuliano medesimo ne rende molto sospetta la verità.

[563] Libanio, amico di Giuliano, chiaramente ci fa sapere (_Orat. IV.
p. 178_) che il suo Eroe avea composta l'istoria delle sue campagne
Galliche. Ma Zosimo (_l. III. p. 140_) sembra, che derivasse la sua
notizia solo dalle orazioni (logoi) e dalle Epistole di
Giuliano. Il discorso, indirizzato agli Ateniesi, contiene un esatto,
quantunque generale racconto della guerra contro i Germani.

[564] Vedi Ammiano _XVII. 1, 10. XVIII, 2_ e Zosimo _l. III. p. 144_.
Giuliano _ad S. P. Q. Athen. p. 280_.

[565] Ammiano _XVIII. 2_. Libanio _Orat. X. p. 279, 280_. Di questi
sette posti, quattro sono presentemente città di qualche conseguenza,
cioè Bingen, Andernac, Bonn, e Nuyss: gli altri tre, vale a dire
_Tricesinae, Quadriburgium_, e _Castra Herculis_, o Eraclea non
sussistono più; ma v'è motivo di credere, che nel luogo, dov'era
_Quadriburgum_, gli Olandesi abbian costruito il Forte di Schenk; nome
che tanto offendeva la fastidiosa delicatezza di Boileau. Vedi D'Anville
_Not. de l'anc. Gaule p. 183_. Boileau _Ep. p. IV_. e _le Note_.

[566] Noi possiam credere a Giuliano medesimo (_Orat. ad S. P. Q. Athen.
p. 280_) che dà una particolar notizia del fatto. Zosimo v'aggiugne 200
vascelli di più, _l. III. p. 145_. Se vogliam computare le seicento navi
di grano di Giuliano a sette sole tonnellate l'una, eran capaci di
estrarne 120000 sacca (Vedi Arbuthnot _Pes. e Misur. p. 237_). Il paese,
che poteva soffrire sì grand'estrazione, doveva esser già pervenuto ad
un ottimo stato d'agricoltura.

[567] Le truppe una volta proruppero in un ammutinamento, avanti al
secondo passaggio del Reno. Ammiano _XXII. 9_.

[568] Ammiano _XVI. 5. XVIII. 1_. Mammertino in _Paneg. Vet. XI. 4_.

[569] Ammiano _XVII. 3_. Giulian. _Epist. XV. edit. Spanhem._ Tal
condotta giustifica almeno l'encomio di Mammertino: _Ita illi anni
spatia divisa sunt, ut aut Barbaros domitet, aut civibus jura restituat;
perpetuum professus aut contra hostem, aut contra vitia certamen._

[570] Libanio _Orat. Parent. in Imp. Julian. I. c. 38; in Fabr. Bibl.
Graec. Tom. VII. p. 263, 264_.

[571] Vedi Giuliano _in Misopogon. p. 340, 341_. Lo stato antico di
Parigi è illustrato da Enrico Valesio (_ad Ammiano XX. 40_), dal suo
fratello Adriano Valesio e dal Danville (nelle _respettive loro Notizie
dell'antica Gallia_), dall'Abbate di Longuerue (_Descript. de la Franc.
T. I. p. 12, 13_) e dal Bonamy (_Mem. dell'Accad. delle Inscriz. Tom.
XV. p. 656, 691_).

[572] Την Φιλην Λευκετιαν (Giuliano _in Misopog. p. 340_).
_Leucetia_, o _Lutetia_ era l'antico nome della città, che secondo il
costume del quarto secolo prese il nome territoriale di Parigi.

[573] Giuliano _in Misopogon. p. 359, 360_.


FINE DEL VOLUME TERZO.



INDICE DEI CAPITOLI E DELLE MATERIE CHE SI CONTENGONO NEL TERZO VOLUME


  CAPITOLO XVI. _Condotta del Governo Romano verso
  i Cristiani, dal Regno di Nerone fino a quello di
  Costantino._

  A. D.
          Il Cristianesimo perseguitato da gl'Imperatori
            di Roma                                      _pag._ 6
          Cagioni da cui questi potevano essere mossi           7
          Indole ribelle de' Giudei                             8
          Religione de' Giudei tollerata                        9
          Gli Ebrei riguardati come _nazione_, i
            Cristiani come _setta_                             11
          Il Cristianesimo accusato d'Ateismo e mal
            conosciuto dal popolo e dai filosofi               12
          Le assemblee che si tenean dai Cristiani
            riguardate come adunanze di cospiratori            16
          I costumi de' Cristiani calunniati                   18
          Imprudenza loro nel modo di difendersi               19
          I Cristiani confusi dai Gentili coi Gnostici, e
            conseguenze che da ciò derivarono                  20
          Incendio di Roma sotto il regno di Nerone            25
          I Cristiani accusati di esso e terribilmente puniti  27
          Passo di Tacito a tale proposito                     27
          Osservazioni sovra questo passo                      29
          I Cristiani ed i Giudei egualmente oppressi
            sotto il regno di Domiziano                        34
          Condanna e morte di Flavio Clemente                  37
          Ignoranza di Plinio su di quanto si aspettò
            ai Cristiani                                       39
          Legali procedure contr'essi instituite sotto
            il regno di Traiano e de' suoi successori          40
          Clamori popolari contro i Cristiani                  41
          Ordine di giudicatura che si teneva rispetto
            i Cristiani                                        43
          Equità de' Magistrati Romani                         46
          Numero de' Martiri meno considerabile di quanto
            è stato esagerato                                  48
          Osservazioni intorno al martirio di Cipriano
            vescovo di Cartagine                               49
          Primi rischi corsi dal medesimo e sua fuga           50
      257 Esilio                                               51
          Condanna                                             53
          Morte                                                54
          Motivi della condotta tenuta da Cipriano             55
          Ardore con cui i primitivi Cristiani agognavano
            il martirio                                        57
          A mano a mano illanguidito                           60
          Tre vie per evitarlo                                 61
          Avvicendarsi di severità e tolleranza                63
          Le dieci persecuzioni                                63
          Editti in favor de' Cristiani che si attribuiscono
            a Tiberio ed a Marco Antonino                      64
      180 Stato de' Cristiani nel durare de' regni di
            Commodo e di Severo                                66
  211-249 Deteriorato sotto i successori del secondo
            di questi due imperatori                           68
  244-249 Regni di Massimino, Filippo e Decio                  70
  253-260 Di Valeriano, Gallieno e loro successori             72
      260 Paolo Samosateno e suoi costumi                      73
      270 Rimosso dalla sede d'Antiochia                       75
      274 Come Aureliano si prendesse cura di far eseguire
            tale sentenza                                      76
  280-303 Pace e prosperità della Chiesa sotto Diocleziano     77
          Progresso dello zelo fra i Cristiani e della
            superstizione fra i Pagani                         79
          Alcuni soldati cristiani puniti da Massimiano
            e Galerio                                          82
          Diocleziano indotto da Galerio ad incominciare
            una persecuzione generale contro i Cristiani       84
      303 Distruzione della chiesa di Nicomedia                86
      303 Primo bando contro i Cristiani                       86
          Zelo manifestato a tale proposito da un Cristiano
            e punizione ch'ei n'ebbe                           88
          Esecuzione che sortì il primo bando                  91
          Distruzione delle chiese                             92
          Successivi bandi                                     94
          Idea generale della persecuzione                     95
          Stato dei Cristiani nelle Province occidentali,
            sotto Costanzo e nel primo periodo del regno
            di Costantino                                      96
          Nell'Italia e nell'Affrica, sotto Massimiano e
            Severo                                             97
          Sotto Massenzio                                      98
          Nell'Illirico e nell'Oriente sotto Galerio e
            Massimino                                         100
          Editto di tolleranza pubblicato da Galerio          102
          Pace della Chiesa                                   103
          Massimino si prepara a rinnovare la persecuzione    104
          Fine delle persecuzioni                             106
          Su quanto possa credersi intorno ai patimenti
            de' Martiri e de' Confessori                      106
          Numero de' Martiri                                  109
          Conclusione                                         111

  SAGGIO DI CONFUTAZIONE De' due Capi XV e XVI
  dell'Istoria di Odoardo Gibbon spettanti all'esame
  del Cristianesimo; Compendio di un'opera di
  Nicola Spedalieri                                           115

  CAPITOLO XVII. _Fondazione di Costantinopoli.
  Sistema politico di Costantino e de' suoi successori.
  Disciplina militare, Corte e finanze._

      324 Disegno d'una nuova Capitale                        234
          Situazione di Bisanzio                              236
          Descrizione di Costantinopoli                       236
          Bosforo                                             237
          Porto                                               239
          Propontide                                          240
          Ellesponto                                          241
          Fondazione della città                              243
          Estensione                                          248
          Progressi di questa grand'opera                     250
          Edifizi                                             250
          Popolazione                                         256
          Privilegi                                           259
  330-334 Dedicazione di Costantinopoli                       262
          Forma di governo                                    264
          Gerarchie dello Stato                               266
          Tre gradi d'onore                                   266
          Consoli                                             267
          Patrizi                                             271
          Prefetti del Pretorio                               274
          Prefetti di Roma e di Costantinopoli                277
          Proconsoli e viceprefetti                           280
          Governatori delle province                          281
          Professione della legge                             285
          Ufficiali militari                                  288
          Distinzione delle truppe                            291
          Riduzione delle legioni                             293
          Difficoltà delle leve                               295
          Aumento de' Barbari ausiliari                       297
          Sette ministri del Palazzo                          299
          Ciamberlano                                         299
          Maestro degli uffizi                                301
          Questore                                            304
          Tesoriere pubblico                                  305
          Tesoriere privato                                   306
          Conti de' domestici                                 308
          Agenti o ministri delatori                          308
          Uso della tortura                                   310
          Finanze                                             312
          Tributo generale o Indizione                        313
          Tasse in forma di capitazione                       317
          Capitazione sul commercio e l'industria             323
          Liberi donativi                                     325
          Conclusione                                         327

  CAPITOLO XVIII. _Carattere di Costantino. Guerra
  Gotica. Morte di Costantino. Divisione dell'Impero
  fra tre suoi figli. Guerra di Persia. Tragiche morti
  di Costantino il Giovane e di Costante. Usurpazione
  di Magnenzio. Guerra civile. Vittoria di Costanzo._

          Carattere di Costantino                             328
          Sue virtù                                           329
          Suoi vizi                                           331
          Sua famiglia                                        333
          Virtù di Crispo                                     335
  324-325 Gelosia di Costantino                               337
      326 Disgrazia e morte di Crispo                         340
          Figli e nipoti di Costantino                        344
          Loro educazione                                     345
          Costumi de' Sarmati                                 347
          Loro stabilimento vicino al Danubio                 349
      331 Guerra Gotica                                       351
      332 Sconfitta sofferta dai Goti                         352
      334 Espulsione de' Sarmati                              354
      335 Ambascerie venute a Costantino dall'Etiopia,
            dalla Persia e dall'India                         356
      337 Morte e funerali di Costantino                      356
          Fazioni della Corte                                 357
          Uccisione de' principi                              359
          Divisione dell'Impero                               361
      310 Sapore re di Persia                                 362
          Stato della Mesopotamia e dell'Armenia              364
      342 Cristianesimo propagatosi nell'Armenia              365
  337-360 Guerra Persiana                                     366
  338-350 Assedio di Nisibi                                   369
          Guerra tra i figli di Costantino                    372
          Morte di Costante                                   374
          Magnenzio e Vetranione assumono la porpora          376
          Costanzo nega d'entrare in negoziati con
            Magnenzio e Vetranione                            378
          Vetranione spogliato della porpora si ritira
            in Prusa                                          379
          Guerra di Costanze contro Magnenzio                 382
      341 Battaglia di Mursa                                  385
      351 Conquista dell'Italia                               388

  CAPITOLO XIX. _Costanzo solo Imperatore. Elevazione
  e morte di Gallo. Pericolo ed innalzamento di Giuliano.
  Guerre coi Sarmati e co' Persi. Vittorie di Giuliano
  nella Gallia._

          Potenza degli eunuchi                               394
          Educazione di Gallo e di Giuliano                   397
      351 Gallo dichiarato Cesare                             398
          Credulità ed imprudenza di Gallo                    399
      354 Uccisione de' ministri imperiali                    402
          Pericolosa situazione di Gallo                      404
          Sua disgrazia e morte                               405
          Pericolo e liberazione di Giuliano                  407
          Suo esilio in Atene                                 409
          Viene richiamato a Milano                           412
      355 Dichiarato Cesare                                   413
          Fine infelice di Silvano                            416
          Nuovo obelisco                                      419
  357-359 Guerra contro i Quadi ed i Sarmati                  421
      358 Negoziazione di Persia                              425
      359 Sapore invade la Mesopotamia                        428
          Assedio d'Amida                                     430
      360 Di Singara                                          433
          Condotta de' Romani                                 435
          Invasione della Gallia fatta dai Germani            437
          Condotta di Giuliano                                439
      356 Prima campagna da lui fatta nella Gallia            441
      357 Seconda                                             443
          Battaglia di Strasburgo                             445
      358 Vittoria di Giuliano                                447
  357-359 Tre spedizioni di Giuliano al di là del Reno        452
          Città della Gallia restaurate                       454
          Amministrazione civile di Giuliano                  456
          Descrizione di Parigi                               458


FINE DELL'INDICE.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Le citazioni in greco
sono state trascritte integralmente, senza apportare alcuna
correzione per eventuali inesattezze ortografiche o grammaticali.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 3 (of 13)" ***

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