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Title: Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 5 (of 13)
Author: Gibbon, Edward, 1737-1794
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 5 (of 13)" ***


                               STORIA

                       DELLA DECADENZA E ROVINA

                          DELL'IMPERO ROMANO


                                 DI
                           EDOARDO GIBBON


                       TRADUZIONE DALL'INGLESE


                            VOLUME QUINTO



                               MILANO
                         PER NICOLÒ BETTONI
                             M.DCCC.XXI



STORIA DELLA DECADENZA E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO



CAPITOLO XXV.

      _Governo e morte di Gioviano. Elezione di Valentiniano che
      associa il fratello Valente all'Impero, e fa la final divisione
      degl'Imperi dell'Oriente e dell'Occidente. Ribellione di
      Procopio. Amministrazione civile ed ecclesiastica. La Germania.
      La Gran-Brettagna. L'Affrica. L'Oriente. Il Danubio. Morte di
      Valentiniano. I due suoi figli Graziano e Valentiniano II
      succedono all'Impero Occidentale._


La morte di Giuliano aveva lasciato in una situazione molto dubbia e
pericolosa gli affari dell'Impero. S'era salvato il Romano esercito per
mezzo di un ignominioso e forse necessario trattato[1]; ed i primi
momenti di pace del pietoso Gioviano, destinati furono a restaurare la
domestica tranquillità della Chiesa e dello Stato. L'indiscretezza del
suo predecessore, invece di conciliare, aveva fomentato ad arte la
guerra di religione, e la bilancia, che affettò di mantenere fra le
ostili fazioni, non servì che a perpetuar la contesa, con le vicende di
speranza e di timore, e con le reciproche pretensioni di antico possesso
e di favore presente. I Cristiani avean dimenticato lo spirito del
Vangelo; ed i Pagani s'erano imbevuti di quel della Chiesa. Nelle
famiglie private si arano estinti i sentimenti della natura dal cieco
furore dello zelo e della vendetta; era violata la maestà delle leggi, o
se ne abusava; le città dell'Oriente venivan macchiate di sangue; ed i
più implacabili nemici de' Romani si trovavano in seno al loro paese;
Gioviano era stato educato nella professione del Cristianesimo; e nella
marcia, che fece da Nisibi ad Antiochia, lo stendardo della croce, il
Labaro di Costantino, che fu di nuovo spiegato alla testa delle Legioni,
annunziò al popolo la fede del nuovo Imperatore. Appena salito sul trono
mandò una circolare a tutti i Governatori delle Province, in cui
confessava la divina verità, ed assicurava il legittimo stabilimento
della religione Cristiana. Furono aboliti gl'insidiosi editti di
Giuliano, le immunità Ecclesiastiche furono restituite ed ampliate; e
Gioviano condiscese sino a dolersi, che le angustie de' tempi
l'obbligassero a diminuir la dose delle caritatevoli distribuzioni[2]. I
Cristiani eran tutti concordi nell'alto e sincero applauso, che davano
al pio successor di Giuliano. Ma tuttavia ignoravano qual formula di
fede o qual sinodo avrebbe scelto per norma dell'ortodossia; e la pace
della Chiesa fece immediatamente risorgere le ardenti dispute, che si
eran sospese nel tempo della persecuzione. I Vescovi, capi delle Sette
contrarie fra loro, convinti dall'esperienza, che la lor sorte
moltissimo dipendeva dalle prime impressioni, che si sarebbero fatte
nella mente d'un ignorante soldato, si affrettarono di giungere alla
Corte d'Edessa o d'Antiochia. Eran piene le pubbliche vie dell'Oriente
di Vescovi Omousj, Arriani, Semiarriani ed Eunomiani, che procuravano di
sorpassarsi l'uno l'altro nella santa carriera; gli appartamenti del
palazzo risonavano dei loro clamori; e le orecchie del Principe venivano
assalite, e forse rendute attonite pel singolar mescuglio di argomenti
metafisici e di appassionate invettive[3]. La moderazione di Gioviano,
che raccomandava la concordia e la carità, e rimetteva i contendenti
alla decisione d'un futuro Concilio, era interpretata come un sintomo
d'indifferenza; ma finalmente si scoprì e si dichiarò il suo
attaccamento alla fede Nicena dalla riverenza ch'ei dimostrò per le
virtù _celestiali_ del grande Atanasio[4]. L'intrepido veterano della
fede, al primo avviso della morte del tiranno, era uscito all'età di
settanta anni dal suo ritiro. Le acclamazioni del popolo un'altra volta
lo collocarono sulla sede Archiepiscopale; ed egli saviamente accettò o
prevenne l'invito di Gioviano. Il venerabile aspetto, il tranquillo
coraggio, e l'insinuante eloquenza d'Atanasio sostennero la riputazione
ch'erasi già acquistato nelle Corti di quattro successivi Principi[5].
Tosto ch'egli ebbe guadagnato la confidenza, ed assicurata la fede del
Cristiano Imperatore, tornò in trionfo alla propria Diocesi, e continuò
per altri dieci anni[6] a regolar con prudenti consigli e con
instancabil vigore l'Ecclesiastico governo di Alessandria, dell'Egitto e
della Chiesa Cattolica. Avanti di partire d'Antiochia, egli accertò
Gioviano, che l'ortodossa sua devozione sarebbe stata premiata con un
lungo e pacifico regno. Atanasio avea motivo di sperare, ch'egli avrebbe
ottenuto o il merito d'una predizione adempita, o la scusa d'una grata,
quantunque inefficace preghiera[7].

La forza più tenue, quando è applicata ad aiutare e dirigere la naturale
inclinazione del suo oggetto, opera con irresistibile peso; e Gioviano
ebbe la buona fortuna d'abbracciar le opinioni religiose, che erano
sostenute dallo spirito di quel tempo e dallo zelo e dal numero del più
potente partito[8]. Sotto il regno di lui il Cristianesimo ottenne una
facile e durevol vittoria; ed appena cessò il favore della reale
protezione, il genio del Paganesimo, che ardentemente si era innalzato e
favorito dagli artifizi di Giuliano, cadde irreparabilmente a terra. In
molte città i tempj furono chiusi o abbandonati; i filosofi, che aveano
abusato della passeggiera loro potenza, stimaron prudente consiglio
quello di radersi la barba, e di mascherare la lor professione; ed i
Cristiani godevano d'essere in grado allora di perdonare o di vendicare
le ingiurie, che avean sofferte nel regno antecedente[9]. Fu dissipata
però la costernazione del Mondo Pagano mediante un savio e grazioso
editto di tolleranza, in cui Gioviano espressamente dichiarò, che
sebbene avrebbe severamente punito i sacrileghi riti della magia, pure i
suoi sudditi potevan liberamente e con sicurezza esercitare le cerimonie
dell'antico culto. Ci si è conservata la memoria di questa legge
dall'oratore Temistio, che dal Senato di Costantinopoli fu deputato ad
esporre il suo fedele omaggio al nuovo Imperatore. Temistio si diffonde
sulla clemenza della Natura Divina, sulla facilità degli errori umani,
su' diritti della coscienza, e sull'indipendenza dello spirito; ed
inculca eloquentemente i principj d'una filosofica tolleranza, di cui la
superstizione medesima non ha rossore d'implorar l'aiuto nel tempo della
sua calamità. Egli osserva giustamente, che nelle recenti mutazioni ambe
le religioni erano state alternativamente disonorate dagli apparenti
acquisti d'indegni proseliti, di que' divoti della regnante porpora, che
passavano senza ragione e senza vergogna dalla chiesa al tempio, e dagli
altari di Giove alla sacra mensa de' Cristiani[10].

Nello spazio di sette mesi le truppe Romane, che allora eran tornate ad
Antiochia, aveano fatto una marcia di mille cinquecento miglia, nella
quale avevan sofferto tutti i travagli della guerra, della fame e del
clima. Nonostanti i loro servigi, le loro fatiche e l'approssimarsi
dell'inverno, il timido ed impaziente Gioviano non concedette agli
uomini ed ai cavalli che un riposo di sei settimane. L'Imperatore non
potè soffrire le indiscrete e maliziose satire del popolo
d'Antiochia[11]. Era egli ansioso di occupare il palazzo di
Costantinopoli, e di prevenir l'ambizione di qualche competitore, che
avrebbe potuto aspirare al vacante omaggio dell'Europa. Ma ricevè ben
presto la grata notizia, che si riconosceva la sua sovranità dal Bosforo
Tracio fino all'oceano Atlantico. Con le prime lettere, che spedì dal
campo della Mesopotamia, egli avea delegato il comando militare della
Gallia e dell'Illirico a Malarico, prode e fedele uffiziale della
nazione dei Franchi; ed al Conte Luciliano, suo suocero, che si era già
segnalato per coraggio e buona condotta nella difesa di Nisibi. Malarico
avea ricusato un impiego, di cui non si credeva capace, e Luciliano era
stato trucidato a Reims in un accidentale ammutinamento delle coorti
Batave[12].

[A. 364]

Ma la moderazione di Giovino, maestro generale della cavalleria, che
seppe dimenticare il disegno della sua disgrazia, presto quietò il
tumulto, e confermò i dubbiosi animi dei soldati. Fu dato e preso con
leali acclamazioni il giuramento di fedeltà; e i deputati degli eserciti
Occidentali[13] salutarono il nuovo loro Sovrano, come scendeva dal
monte Tauro verso la città di Tiana nella Cappadocia. Da Tiana continuò
la sua frettolosa marcia verso Ancira, capitale della provincia di
Galazia, dove Gioviano assunse, insieme col piccol suo figliuolino, il
nome e le insegne del Consolato[14]. Dadastana[15], oscura città quasi
ad uguale distanza tra Ancira e Nicea, era destinata per fatale termine
del viaggio e della vita di esso. Dopo una copiosa e forse intemperante
cena andò a riposare, e la mattina seguente l'Imperator Gioviano fu
trovato morto nel letto. In diverse maniere fu esposta la causa di
quest'improvvisa morte. Alcuni la riguardarono come l'effetto d'una
indigestione cagionata o dalla quantità del vino, o dalla qualità dei
funghi ch'egli aveva golosamente mangiati la sera. Secondo altri, fu
soffocato nel sonno dal vapore del carbone, cui trasse dalle muraglie
della camera la dannosa umidità d'un intonaco fresco[16]. Ma la mancanza
di una regolare inquisizione intorno alla morte di un Principe, il regno
e la persona del quale andaron presto in obblio, sembra che fosse la
sola circostanza che sostenesse i maliziosi susurri di veleno e di
domestico tradimento[17]. Il corpo di Gioviano fu mandato a
Costantinopoli per esser sepolto coi suoi predecessori; ed incontrossi
per via la mesta processione da Carito sua moglie, figlia del Conte
Luciliano, che tuttavia piangeva la recente morte del padre, e
s'affrettava ad asciugare le lacrime fra gli abbracciamenti di un
Imperiale marito. Amareggiavasi lo sconcerto ed il dolore di essa
dall'ansietà della tenerezza materna. Sei settimane avanti la morte di
Gioviano, il piccolo suo figlio era stato posto nella sedia curule,
adornato del titolo di _Nobilissimo_, e delle vane insegne del
Consolato. Non essendo il real fanciullo, che avea preso dall'avo il
nome di Varroniano, consapevole di sua fortuna, la sola gelosia del
Governo si rammentava ch'egli era figlio d'un Imperatore. Sedici anni
dopo viveva ancora, ma era già stato privato d'un occhio; e l'afflitta
sua madre ad ogni momento aspettava, che le fosse strappata
quell'innocente vittima dalle braccia, per tranquillare col proprio
sangue i sospetti del regnante Sovrano[18].

Dopo la morte di Gioviano rimase il trono Romano per dieci giorni[19]
senza Signore. I Ministri ed i Generali continuarono ad unirsi in
consiglio, ad esercitare le respettive loro funzioni, a mantener
l'ordine pubblico, ed a condurre pacificamente l'esercito verso la città
di Nicea nella Bitinia, che si era scelta per luogo della nuova
elezione[20]. In una solenne adunanza delle civili e militari potestà
dell'Impero, fu di nuovo concordemente offerto il diadema al Prefetto
Sallustio. Egli ebbe la gloria di farne un secondo rifiuto; e quando
allegate furono le virtù del padre in favore del figlio, il Prefetto con
la fermezza d'un generoso patriota dichiarò agli Elettori, che la debole
vecchiezza dell'uno, e l'inesperta gioventù dell'altro erano ugualmente
incapaci dei laboriosi doveri del governo. Si proposero diversi
candidati: e dopo ponderate le obbiezioni al carattere od alla
situazione di essi, furono l'un dopo l'altro rigettati; ma tosto che
venne pronunziato il nome di Valentiniano, il merito di quest'uffiziale
riunì i suffragi di tutta l'assemblea, ed ottenne la sincera
approvazione di Sallustio medesimo. Valentiniano[21] era figliuolo del
Conte Graziano, nativo di Cibali nella Pannonia, il quale da un'oscura
condizione si era innalzato, mediante un'incomparabil destrezza e
vigore, al comando militare dell'Affrica e della Gran Brettagna, da cui
erasi ritirato con ampie ricchezze e con sospetta integrità. Il grado
però ed i servigi di Graziano contribuirono a favorire i primi passi
della promozione di suo figlio; e gli porsero un'opportuna occasione di
spiegar quelle sode ed utili qualità, che ne sollevarono il carattere
sopra l'ordinario livello dei suoi compagni soldati. Valentiniano era
alto di statura, grazioso e maestoso. Il virile suo aspetto, che portava
impressi alti segni di sentimento e di spirito, inspirava fiducia agli
amici, ed ai nemici timore; e per secondare gli sforzi dell'indomito suo
valore, il figlio di Graziano aveva ereditato i vantaggi di una forte e
sana costituzione. Coll'abitudine della castità e temperanza, che
raffrena gli appetiti ed invigorisce le forze, Valentiniano si mantenne
la propria e la pubblica stima. Le occupazioni di una vita militare
avean distratto la sua gioventù dall'eleganti ricerche della
letteratura; egli ignorava la lingua Greca e le arti della Rettorica: ma
siccome l'animo dell'oratore non era mai sconcertato da timida
perplessità, egli era capace, ogni volta che l'occasione lo richiedeva,
d'esporre i risoluti suoi sentimenti con facile ed ardita eloquenza. Le
uniche leggi, che esso aveva studiato, eran quelle della marzial
disciplina; e presto si distinse per la laboriosa diligenza e
l'inflessibil severità, con cui adempiva e sosteneva i doveri del campo.
Al tempo di Giuliano egli si espose al pericolo della disgrazia, pel
disprezzo che dimostrò in pubblico verso la religion dominante[22]; ma
dalla successiva condotta di lui parrebbe, che l'indiscreta ed
inopportuna libertà di Valentiniano fosse stata l'effetto di militar
baldanza, piuttosto che di uno zelo Cristiano. N'ebbe per altro il
perdono, e fu sempre impiegato da un Principe che stimava il suo
merito[23]; e nei vari successi della guerra Persiana egli accrebbe
quella riputazione, che erasi già acquistato sulle rive del Reno. La
prestezza e felicità, con cui eseguì un'importante commissione, gli aprì
l'adito al favor di Gioviano ed all'onorevol comando della seconda
_scuola_, o compagnia dei _Targettieri_, o sia delle guardie domestiche.
Nel marciar che faceva da Antiochia, era giunto ai suoi quartieri
d'Ancira, quando gli fu inaspettatamente significato, senz'arte o
intrigo veruno, d'assumere nel quarantesimo terzo anno della sua età,
l'assoluto governo del Romano Impero.

[A. 364]

L'invito dei Ministri e dei Generali a Nicea sarebbe stato di poco
rilievo, se non si fosse confermato dalla voce dell'esercito. Il vecchio
Sallustio, che aveva frequentemente osservate le irregolari fluttuazioni
delle adunanze popolari, propose che nissuna di quelle persone, la cui
militar dignità poteva eccitare un partito in loro favore, comparisse in
pubblico, sotto pena di morte, nel giorno dell'inaugurazione. Pure tanto
prevalse l'antica superstizione, che a questo pericoloso intervallo
volontariamente s'aggiunse tutto un giorno, perchè in esso appunto
cadeva l'intercalazione dell'anno bisestile[24]. Finalmente, quando si
suppose che l'ora fosse propizia, Valentiniano comparve sopra un alto
Tribunale; fu applaudita la giudiziosa elezione; ed il nuovo Principe
venne solennemente adornato del diadema e della porpora in mezzo alle
acclamazioni delle truppe, che eran disposte in ordine di guerra intorno
al Tribunale. Ma stendendo egli la mano per parlare all'armata
moltitudine, ad un tratto eccitossi un ansioso mormorio nelle file, che
appoco appoco scoppiò in un alto ed imperioso grido, ch'ei nominasse
immediatamente un collega nell'Impero. La intrepida tranquillità di
Valentiniano ottenne silenzio ed impose rispetto. Egli così parlò
all'assemblea: «Pochi momenti fa, o miei compagni soldati, era in
_vostro_ potere di lasciarmi nell'oscurità di una condizione privata.
Giudicando dalla testimonianza della passata mia vita, che io meritassi
di regnare, mi avete posto sul trono. Adesso è mio dovere di provvedere
alla salute ed al vantaggio della Repubblica. Il peso dell'Universo è
troppo grande, senza dubbio, per le mani d'un debol mortale. Io so quali
sono i limiti delle mie forze e l'incertezza della mia vita; e lungi
dallo sfuggire, io sono ansioso di sollecitare l'aiuto di un degno
collega. Ma dove la discordia può esser fatale, la scelta di un fedele
amico richiede una matura e seria deliberazione. Di questo io avrò cura.
La _vostra_ condotta sia fedele e costante. Ritiratevi ai vostri
quartieri; rinfrescate gli spiriti ed i corpi; ed attendete il solito
donativo in occasione dell'innalzamento al trono d'un nuovo
Imperatore[25]». Le attonite truppe con una mescolanza d'orgoglio, di
soddisfazione e di terrore ubbidirono alla voce del loro Signore. Le
ardenti lor grida si convertirono in una tacita riverenza; e
Valentiniano, circondato dalle aquile delle legioni e dalle diverse
bandiere della cavalleria e della infanteria, fu condotto con pompa
militare al palazzo di Nicea. Siccome però conosceva l'importanza di
prevenire qualche imprudente dichiarazion de' soldati, consultò
l'assemblea de' suoi capitani, e furono brevemente espressi i veri lor
sentimenti dalla generosa libertà di Dagalaifo: «Ottimo Principe» (disse
questo uffiziale) «se avete riguardo solo alla vostra famiglia, voi
avete un fratello; ma se amate la Repubblica, cercate il più meritevole
fra i Romani[26]». L'Imperatore, che soppresse il dispiacere senza
alterare la sua intenzione, s'avanzò lentamente da Nicea verso Nicomedia
o Costantinopoli. In uno dei sobborghi di quella capitale[27], trenta
giorni dopo la sua promozione, diede il titolo di Augusto a Valente suo
fratello; e poichè i più arditi patriotti erano persuasi, che la loro
opposizione, senza esser giovevole alla patria, sarebbe riuscita fatale
a loro medesimi, fu ricevuta la dichiarazione dell'assoluta sua volontà
con una tacita sommissione. Valente allora trovavasi nell'anno
trentesimo sesto dell'età sua; ma non aveva mai esercitata la sua
abilità in alcun impiego militare o civile; ed il suo carattere non
aveva eccitato nel Mondo alcuna viva espettazione. Aveva però una
qualità, che molto si valutava da Valentiniano, e che mantenne la pace
domestica dell'Impero; vale a dire un grato e rispettoso attaccamento al
suo benefattore, di cui Valente umilmente e di buona voglia riconobbe la
superiorità, sì nel genio che nel potere, in ogni azione della sua
vita[28].

[A. 364]

Prima di dividere le Province dell'Impero, Valentiniano volle riformarne
l'amministrazione. Furono invitati ad intentar pubblicamente le loro
accuse i sudditi di ogni classe, ch'erano stati oppressi o tribolati nel
regno di Giuliano. Il silenzio universale attestò l'irreprensibile
integrità del Prefetto Sallustio[29]; e Valentiniano con le più
onorevoli espressioni d'amicizia e di stima rigettò le pressanti
sollecitazioni di lui, che gli fosse conceduto di ritirarsi
dall'amministrazion dello Stato. Ma tra i favoriti dell'ultimo
Imperatore se ne trovarono molti, che avevano abusato della sua
credulità o superstizione; e che non potevano più sperare di esser
protetti dal favore o dalla giustizia[30]. Per la maggior parte i
Ministri del Palazzo e i Governatori delle Province furon rimossi dai
rispettivi lor posti; ma il merito sublime di alcuni Uffiziali fu
distinto dalla folla dei colpevoli; e non ostanti le grida in contrario
dello zelo e dello sdegno, sembra che tutte le parti di questo delicato
processo fossero eseguite con una ragionevol dose di saviezza e
moderazione[31]. La gioia del nuovo regno ebbe un breve e sospetto
interrompimento dalla improvvisa malattia dei due Principi; ma tosto che
si furono essi ristabiliti in salute, lasciaron Costantinopoli al
principio di primavera, e nel castello, o nel palazzo di Mediana,
distante da Naisso tre miglia, eseguirono la solenne e final divisione
dell'Impero Romano[32]. Valentiniano cedè al fratello la ricca
Prefettura dell'Oriente, dal basso Danubio sino ai confini della Persia;
riservandosi pel proprio immediato governo le guerriere Prefetture
dell'Illirico, dell'Italia e della Gallia, dall'estremità della Grecia
fino al muro Caledonio, e da questo fino al piè del monte Atlante.
L'amministrazione delle Province restò sull'antica base; ma vi fu
bisogno d'un doppio numero di Generali e di Magistrati per due consigli
e due Corti: se ne fece la distribuzione, avuto un giusto riguardo al
merito particolare ed alla situazione di ciascheduno, e furono tosto
creati sette generali sì di cavalleria che d'infanteria. Terminato
amichevolmente quest'importante affare, Valentiniano e Valente
s'abbracciaron per l'ultima volta. L'Imperator d'Occidente fissò la sua
residenza per un tempo a Milano; e l'Imperatore di Oriente tornò a
Costantinopoli per assumere il dominio di cinquanta Province, il
linguaggio delle quali eragli del tutto ignoto[33].

[A. 365]

Presto fu disturbata la tranquillità dell'Oriente dalla ribellione; e fu
minacciato il trono di Valente dagli audaci attentati di un rivale, che
non aveva altro merito che una parentela coll'Imperator Giuliano[34], e
questa era stata l'unico suo delitto. Procopio era stato ad un tratto
promosso dall'oscuro posto di Tribuno o di Notaro, al comando di tutto
l'esercito della Mesopotamia; la pubblica opinione lo dichiarava già
successore di un Principe privo di eredi naturali; ed i suoi amici o
avversari propagavano un vano romore, che Giuliano avanti l'altar della
Luna a Carre avea privatamente investito Procopio della porpora
Imperiale[35]. Egli procurò, mediante la sua leale e sommessa condotta,
di disarmare la gelosia di Gioviano: senza ostacolo dimesse il comando
militare; e con la sua moglie e famiglia si ritirò a coltivare l'ampio
patrimonio, che possedeva nella provincia della Cappadocia. Furono
interrotte queste utili ed innocenti occupazioni dall'arrivo di un
uffiziale, che a nome dei nuovi Sovrani Valentiniano e Valente fu
spedito con una truppa di soldati per condurre l'infelice Procopio o ad
una prigione perpetua o ad una ignominiosa morte. La sua presenza di
spirito gli procurò una maggior dilazione, ed un fato più splendido.
Senza mostrare di porre in dubbio il mandato reale, chiese la grazia di
pochi momenti per abbracciare la sua dolente famiglia; e mentre una
lauta mensa tratteneva la vigilanza delle sue guardie, esso destramente
si rifuggì nelle coste marittime dell'Eussino, dalle quali passò nella
regione del Bosforo. In quel remoto paese dimorò molti mesi esposto ai
travagli dell'esilio, della solitudine e del bisogno; mentre il
malinconico temperamento di lui fomentava le sue disgrazie, ed agitata
era la sua mente dal giusto timore, che se qualche accidente scoperto
avesse il suo nome, i Barbari senza grande scrupolo avrebbero
infedelmente violate le leggi dell'ospitalità. In un punto d'impazienza
e di disperazione, Procopio s'imbarcò sopra un vascello mercantile che
facea vela per Costantinopoli; ed aspirò arditamente al grado di
Sovrano, giacchè non gli era permesso di godere con sicurezza quello di
suddito. Da principio si nascose nei villaggi della Bitinia,
continuamente cangiando d'abitazione e di vesti[36]. Appoco appoco si
arrischiò ad entrare nella Capitale affidò la propria vita e fortuna
alla fedeltà di due amici, uno Senatore e l'altro eunuco, e concepì
qualche speranza di buon successo dalla notizia ch'ebbe dello stato
attuale de' pubblici affari. Il Corpo del popolo era infetto da uno
spirito di malcontentezza, che gli faceva desiderar la giustizia e
l'abilità di Sallustio, che era stato imprudentemente dimesso dalla
Prefettura dell'Oriente. Si disprezzava il carattere di Valente, rozzo
senza vigore, e debole senza dolcezza. Temevasi l'influenza del patrizio
Petronio suo suocero, crudele e rapace ministro, che rigorosamente
esigeva i tributi rimasti arretrati fin dal regno dell'Imperatore
Aureliano. Le circostanze eran propizie ai disegni di un usurpatore. La
condotta ostile dei Persiani richiedeva la presenza di Valente nella
Siria; dal Danubio all'Eufrate le truppe erano in moto; e la Capitale in
tale occasione era piena di soldati che passavano e ripassavano il
Bosforo Tracio. Furono indotte due coorti di Galli a dare orecchio alle
segrete proposizioni dei cospiratori, sostenute dalla promessa d'un
liberal donativo; e siccome veneravano ancora la memoria di Giuliano,
facilmente acconsentirono a difender l'ereditaria pretensione del
proscritto parente di lui. Allo spuntar del giorno vennero esse
schierate vicino ai Bagni d'Anastasia; e Procopio, vestito di un abito
di porpora più conveniente ad un commediante che a un Principe, comparve
come se fosse risuscitato da morte in mezzo a Costantinopoli. I soldati,
ch'erano preparati a riceverlo, salutarono il tremante lor Principe con
acclamazioni di gioia e con voti di fedeltà. Fu tosto accresciuto il lor
numero da un'insolente truppa di villani raccolti nella adiacente
campagna; e Procopio, difeso dalle armi dei suoi aderenti, venne
successivamente condotto al Tribunale, al Senato ed al Palazzo. Nei
primi momenti del tumultuario suo regno egli rimase attonito e
spaventato dal cupo silenzio del popolo, che o non sapeva la causa di
tal novità o temea dell'evento. Ma la sua forza militare era superiore
ad ogni attuale resistenza; i malcontenti correvano in folla allo
stendardo della ribellione; i poveri erano eccitati dalle speranze, ed i
ricchi intimoriti dal pericolo di un saccheggio universale; e l'ostinata
credulità della moltitudine fu ingannata un'altra volta dai promessi
vantaggi della ribellione. S'arrestarono i Magistrati; si aprirono con
diligenza le porte della città e l'ingresso del porto; ed in poche ore
Procopio divenne assoluto, quantunque precario, padrone della Imperiale
città. L'usurpatore sostenne quest'inaspettato successo con qualche
specie di coraggio e di destrezza. Egli propagò ad arte i rumori e le
opinioni più favorevoli al suo interesse, nel tempo che deludeva la
plebe col dare udienza ai frequenti, ma immaginari ambasciatori delle
remote nazioni. Restarono appoco appoco involti nella colpa della
ribellione i grossi Corpi di truppe, che si trovavano nelle città della
Tracia e nelle fortezze del basso Danubio; ed i Principi Goti
acconsentirono d'aiutare il Sovrano di Costantinopoli con la formidabile
forza di più migliaia di ausiliari. I Generali di esso passarono il
Bosforo e sottomisero senza fatica le disarmate, ma ricche Province
della Bitinia e dell'Asia. La città e l'isola di Cizico, dopo una
onorevol difesa, cedè al suo potere; le famose legioni dei Gioviani e
degli Erculei abbracciaron la causa dell'usurpatore, ch'essi avevano
avuto ordine d'opprimere; e perchè i veterani venivano continuamente
aumentati da nuove leve, in poco tempo ei si vide alla testa d'un
esercito, il valore ed il numero del quale corrispondeva all'importanza
della contesa. Il figlio d'Ormisda[37], giovane intelligente ed animoso,
si condusse a trarre la spada contro il legittimo Imperatore
dell'Oriente, ed il Principe Persiano fu immediatamente investito
dell'antico e straordinario potere di Romano Proconsole. La parentela di
Faustina, vedova dell'Imperator Costanzo, che pose nelle mani
dell'usurpatore se stessa e la propria figlia, aggiunse alla causa di
lui dignità e reputazione. La Principessa Costanza, che allora aveva
circa cinque anni, accompagnava in una lettiga la marcia dell'esercito.
Essa veniva mostrata al popolo nelle braccia dell'adottivo suo padre; ed
ogni volta che passava per le file, accendevasi la tenerezza dei soldati
in furore marziale[38]; si rammentavano essi le glorie della casa di
Costantino, e dichiaravano con sincere acclamazioni, che avrebbero
sparso l'ultima goccia del loro sangue in difesa della fanciulla
reale[39].

Frattanto Valentiniano trovavasi agitato e perplesso per la dubbiosa
notizia della ribellione dell'Oriente. Le difficoltà d'una guerra nella
Germania lo costringevano ad impiegar le immediate sue cure nella
salvezza dei proprj Stati; e siccome veniva impedito o corrotto ogni
canale di comunicazione, egli dava orecchio con dubbiosa ansietà ai
romori che si andavano artificiosamente spargendo, che la disfatta e la
morte di Valente avesse lasciato Procopio solo Signore delle Province
Orientali. Valente non era morto; ma alla nuova della ribellione, ch'ei
ricevè in Cesarea, disperò vilmente della sua vita e dello Stato;
propose d'entrare in trattato coll'usurpatore, e scuoprì una segreta
inclinazione a deporre la porpora Imperiale. La fermezza de' suoi
Ministri salvò il timido Monarca dal disonore e dalla rovina, e
l'abilità loro tosto decise in suo favore l'evento della guerra civile.
In un tempo di tranquillità, Sallustio si era dimesso dal suo posto
senza parlare; ma appena fu attaccata la sicurezza pubblica, egli
ambiziosamente sollecitò la preminenza nella fatica e nel pericolo; e la
restituzione della Prefettura dell'Oriente a quel virtuoso ministro fu
il primo passo, che indicò il pentimento di Valente, e soddisfece gli
animi del popolo. Il regno di Procopio in apparenza era sostenuto da
poderose armate e da ubbidienti Province; ma molti dei primi uffiziali,
sì militari che civili, si erano indotti o per motivi di dovere, o
d'interesse a sottrarsi da quella rea scena, o a spiare l'occasione di
tradire o di abbandonare la causa dell'usurpatore. Lupicino con marcie
affrettate s'avanzò a condurre le legioni della Siria in aiuto di
Valente. Arinteo, che in forza, in beltà, ed in valore superava tutti
gli Eroi di quel tempo, con una piccola truppa attaccò un corpo
superiore di ribelli. Quando egli si vide a fronte di quei soldati, che
avevano militato sotto le sue bandiere, ad alta voce comandò loro
d'arrestare e consegnargli nelle mani il preteso lor condottiere; e tale
fu l'ascendente del suo genio, che un ordine sì straordinario fu
immediatamente obbedito[40]. Arbezione, rispettabile veterano di
Costantino Magno, che era stato distinto con gli onori del Consolato, fu
persuaso a lasciare il suo ritiro, ed a condurre un'altra volta
l'esercito in campo. Nel calor dell'azione, trattosi l'elmo
tranquillamente di capo, mostrò la canizie ed il suo venerabile aspetto;
salutò i soldati di Procopio coi teneri nomi di figli e di compagni; e
gli esortò a non più sostenere la causa disperata di un disprezzabil
tiranno, ma seguir piuttosto il vecchio loro capitano, che gli avea
tante volte condotti alla vittoria e all'onore. Nelle due battaglie di
Tiatira[41] e di Nicosia, l'infelice Procopio fu abbandonato dalle sue
truppe, che restaron sedotte dalle istruzioni e dall'esempio dei perfidi
loro uffiziali. Dopo d'aver vagato per qualche tempo nei boschi e nelle
montagne della Frigia, fu tradito dai timidi suoi seguaci, condotto al
campo Imperiale, ed immediatamente decapitato. Egli ebbe la sorte
ordinaria degli usurpatori, a cui mal succedono lo loro imprese; ma gli
atti di crudeltà, esercitati dal vincitore sotto l'orma di legittima
giustizia, eccitarono la compassione e lo sdegno dell'universo[42].

In vero tali sono i frutti comuni e naturali del dispotismo e della
ribellione. Ma l'inquisizione contro il delitto di magia, che nel regno
dei due fratelli fu sì rigorosamente perseguitato sì in Roma che in
Antiochia, s'interpetrò come un fatal sintomo o dell'ira del cielo o
della depravazione degli uomini[43]. Non dubitiamo di generosamente
applaudirci, che nel secolo presente la parte più illuminata dell'Europa
ha tolto di mezzo[44] un odioso e crudele pregiudizio, che regnava in
ogni clima del globo, ed era inerente ad ogni sistema di religiose
opinioni[45]. Le nazioni e le Sette del Mondo Romano ammettevano con
ugual credulità e abborrimento l'esistenza di quell'arte infernale[46],
che si credeva capace di sovvertire l'ordine eterno dei pianeti e le
volontarie operazioni dello spirito umano. Temevano il misterioso potere
dei caratteri magici e delle incantazioni, di potenti erbe e di
esecrabili riti, che potevan togliere o richiamare la vita, infiammar,
le passioni dell'animo, guastar le opere della creazione, ed estorcere
dai ripugnanti demoni i segreti del futuro. Credevano, con la più strana
incoerenza, che questo soprannatural dominio dell'aria, della terra e
dell'inferno si esercitasse pei bassi motivi di malizia o di lucro da
grinzose vecchie, o da vagabondi stregoni, che passavano le oscure lor
vite nella miseria e nel disprezzo[47]. Le arti della magia eran
condannate ugualmente dalla pubblica opinione e dalle leggi di Roma; ma
siccome tendevano a soddisfare le più imperiose passioni del cuore
umano, così erano continuamente proscritte e continuamente
praticate[48]. Una causa immaginaria è capace di produrre i più serj e
dannosi effetti. Le oscure predizioni della morte d'un Imperatore o del
buon successo d'una cospirazione non erano dirette che a stimolar le
speranze dell'ambizione o a sciogliere i vincoli della fedeltà; ed il
delitto, che in se stessa conteneva la magia, veniva aggravato dagli
attuali reati del tradimento e del sacrilegio[49]. Questi vani terrori
disturbavano la pace della società e la felicità degli individui; e
l'innocente fiamma, che appoco appoco struggeva un'immagin di cera,
dalla spaventata fantasia della persona, che si voleva maliziosamente
rappresentare, potea trarre una potente e perniciosa energia[50].
Dall'infusione di quell'erbe, che si supponeva avessero una forza
soprannaturale, si potea facilmente passare all'uso di veleni più
sostanziali; e la follìa degli uomini divenne alle volte l'istrumento e
la maschera dei più atroci delitti. Poichè dai Ministri di Valentiniano
e di Valente fu incoraggiato lo zelo degli accusatori, non poterono essi
ricusare di prestare orecchio ad un'altra accusa, che troppo spesso avea
parte nelle scene di domestiche colpe; accusa d'una più mite e meno
cattiva natura, per la quale il pio, ma eccessivo rigore di Costantino
avea recentemente stabilita la pena di morte[51]. Questa fatale ed
incoerente mescolanza di tradimento e di magia, di veleno e di adulterio
somministrava infiniti gradi di delitto e d'innocenza, di scusa e di
aggravio, che in queste processure pare che fossero confusi dalle
ardenti o corrotte passioni dei giudici. Essi facilmente s'accorsero,
che tanto più si stimava dalla Corte Imperiale l'industria ed il
discernimento loro, quanto maggiore era il numero delle esecuzioni che
si facevano pe' decreti dei respettivi loro Tribunali. Non senza
un'estrema ripugnanza pronunziavano qualche sentenza d'assoluzione, ma
con ardore ammettevano testimonianze anche macchiate da spergiuri ed
estorte per via di tormenti a provare le più improbabili accuse contra
le persone più rispettabili. Il progresso dell'inquisizione apriva
sempre nuova materia di processi criminali; l'audace delatore, di cui si
fosse scoperta la falsità, si ritirava impunemente; ma alla misera
vittima, che palesava dei reali o supposti complici, rade volte
accordavasi premio della sua infamia. Dall'estremità dell'Italia e
dell'Asia erano tratti giovani e vecchi in catene ai tribunali di Roma e
d'Antiochia. Senatori, Matrone e Filosofi spirarono in mezzo ad
ignominiosi e crudeli tormenti. I soldati, destinati alla guardia delle
prigioni, dichiararono con voci di compassione e di sdegno, che il loro
numero non era sufficiente ad impedire la fuga o la resistenza della
moltitudine dei prigionieri. Le famiglie più ricche erano rovinate dalle
confiscazioni ed ammende; i più innocenti cittadini tremavano per la
loro salute; e possiam formare qualche idea dell'estensione del male
dalla stravagante asserzione d'un antico Scrittore, che nelle soggette
Province i prigionieri, gli esuli ed i fuggitivi formavano la maggior
parte degli abitanti[52].

[A. D. 364-375]

Quando Tacito descrive le morti degli innocenti ed illustri Romani, che
furon sacrificati alla crudeltà dei primi Cesari, l'arte dell'Istorico o
il merito dei pazienti eccita nei nostri petti i più vivi sentimenti di
terrore, d'ammirazione e di pietà. Il volgare ed indistinto pennello
d'Ammiano ha dipinto queste sanguinose scene con tediosa e non piacevole
esattezza. Ma siccome non è più impegnata la nostra attenzione dal
contrasto di libertà e di servitù, di recente grandezza e di attual
miseria, dovremmo con orrore torcer lo sguardo dalle frequenti
esecuzioni, che disonorarono in Roma ed Antiochia il regno dei due
fratelli[53]. Valente era timido[54] di naturale, e Valentiniano
collerico[55]. Il principio dominante dell'amministrazione del primo era
un ansioso riguardo per la sua personal sicurezza. Da privato egli avea
con tremante rispetto baciato la mano dell'oppressore; e quando salì sul
trono, con ragione aspettava che gli stessi timori, di cui egli avea
portato il giogo, dovessero assicurargli la paziente sommissione del
popolo. I favoriti di Valente ottennero, mediante il privilegio della
rapacità e della confiscazione, quella ricchezza che non avrebber potuto
ottenere dalla sua economia[56]. Gli insinuavano essi con persuadente
eloquenza, che in ogni caso di ribellione il sospetto equivale alla
prova; che il potere suppone l'intenzione del delitto; che l'intenzione
non è meno colpevole dell'atto; e che un suddito non dee più vivere,
qualora la sua vita può minacciare la salute, o turbare il riposo del
suo Sovrano. Fu alle volte ingannato il giudizio di Valentiniano, e si
abusò della sua confidenza; ma egli avrebbe con uno sprezzante sorriso
imposto silenzio ai delatori, se avessero preteso di porre in agitazione
la sua fortezza con rappresentargli il pericolo. Essi lodavano
l'inflessibile amore che aveva per la giustizia; e nell'esercizio di
essa era l'Imperatore facilmente indotto a risguardar la clemenza come
una debolezza, e la passione come una virtù. Finattanto che non ebbe a
contendere che con gli uguali nei fieri incontri di una vita attiva ed
ambiziosa, Valentiniano fu rare volte ingiuriato, e non insultato mai
impunemente: se attaccavasi la sua prudenza, s'applaudiva il suo
spirito; ed i più altieri e potenti Generali temevano di provocar lo
sdegno di un soldato imperterrito. Dopo esser divenuto Signore del
Mondo, gli uscì per disgrazia di mente, che dove non ha luogo la
resistenza, non può esercitarsi il coraggio; ed invece di consultare i
dettami della ragione, secondava i furiosi moti del suo temperamento, in
un tempo in cui erano essi vergognosi per lui, e fatali pe' miseri
oggetti dell'ira sua. Tanto nel governo della propria casa che
dell'Impero, piccole o anche immaginarie mancanze, una parola
inconsiderata, un'accidentale ommissione, un indugio involontario si
punivano con immediate sentenze di morte. L'espressioni che più
comunemente uscivano di bocca all'Imperator dell'Occidente, eran queste:
«Gli si tagli la testa: sia bruciato vivo: sia battuto con verghe fino
alla morte[57]»: ed i più favoriti Ministri presto impararono, che col
temerariamente procurar di sospendere o d'esaminare l'esecuzione dei
sanguinarj comandi di lui, potevano essi medesimi restare involti nella
colpa o nel gastigo della disubbidienza. Le replicate soddisfazioni di
questa rozza giustizia indurirono il cuore di Valentiniano contro la
compassione ed il rimorso; ed i trasporti della passione vennero
confermati dall'abitudine della crudeltà[58]. Poteva egli mirare con
fredda soddisfazione le convulsive agonie della tortura e della morte;
donava la sua amicizia a quei servi fedeli, l'indole dei quali era più
coerente alla propria. Il merito di Massimino, che avea fatto strage
delle più nobili famiglie di Roma fu premiato con la real approvazione e
con la Prefettura della Gallia. Non poterono aver la sorte di
partecipare del favore di Massimino, che due feroci ed enormi orsi
distinti coi nomi d'_Innocenza_, e di _Mica aurea_. Eran sempre vicine
alla camera di Valentiniano le gabbie di tali favorite guardie; e spesso
egli si dilettava del grato spettacolo di vedere sbranare e divorar da
loro le palpitanti membra dei malfattori abbandonati alla furia di esse.
Il Romano Imperatore prendevasi gran cura del loro cibo e dei loro
esercizi; e quando _Innocenza_ ebbe adempito con una lunga serie di
meritevoli servigi il suo uffizio, al fedele animale fu restituita la
libertà dei nativi suoi boschi[59].

Ma nei tranquilli momenti della riflessione, allorchè lo spirito di
Valente non era agitato dal timore, o quello di Valentiniano dall'ira, i
tiranni riassumevano i sentimenti o almeno la condotta di padri della
patria. Lo spassionato giudizio dell'Imperator d'Occidente era in grado
di conoscer chiaramente e di procurar con ardore il bene proprio e del
pubblico; ed il Sovrano d'Oriente, che imitava con ugual docilità i varj
esempi, che riceveva dal suo fratello maggiore, veniva alle volte
guidato dalla saviezza e virtù del Prefetto Sallustio. Ambidue i
Principi invariabilmente ritennero nella porpora la modesta e regolata
semplicità, che adornato avevano la privata lor vita; e sotto il regno
di essi i piaceri della Corte non costarono mai al popolo rossore o
sospiri. Essi appoco appoco riformarono molti abusi dei tempi di
Costanzo; adottarono giudiziosamente e migliorarono i disegni di
Giuliano e del suo Successore; e spiegarono uno stile ed uno spirito di
legislazione, che può risvegliare nella posterità l'opinione più
favorevole del carattere e del governo loro. Non si sarebbe aspettato
mai dal padrone d'_Innocenza_ quella tenera cura pel bene dei sudditi,
che mosse Valentiniano a condannare l'esposizione dei bambini nati di
fresco[60], ed a stabilire con stipendi e privilegi quattordici abili
Medici nei quattordici quartieri di Roma. Il buon senso di un ignorante
soldato immaginò un utile e liberale Instituto per l'educazione della
gioventù e pel sostegno delle scienze allor decadenti[61]. Era sua
intenzione che s'insegnassero le arti della rettorica e della grammatica
in lingua Greca e Latina nelle Metropoli di ogni Provincia; e poichè
ordinariamente la grandezza e la dignità della scuola era proporzionata
a quella della città in cui si trovava, le Accademie di Roma e di
Costantinopoli vantavano una giusta e singolar preeminenza. I frammenti
degli editti letterari di Valentiniano rappresentano imperfettamente la
scuola di Costantinopoli, che fu a grado a grado perfezionata dai
successivi regolamenti. Era essa composta di trent'uno Professori,
distribuiti in diversi rami di scienze; vale a dire un filosofo e due
legali, cinque sofisti e dieci grammatici per la lingua Greca, tre
oratori ed altri dieci grammatici per la Latina, oltre sette scrivani, o
come in quel tempo si chiamavano antiquari, le laboriose penne dei quali
provvedevano le pubbliche Biblioteche di buone e corrette copie dei
classici Autori. La regola di condotta, che fu allora prescritta agli
studenti, è tanto più curiosa che somministra i primi sbozzi della forma
e della disciplina di una moderna Università. Si richiedeva, che essi
portassero gli opportuni attestati dei Magistrati delle native loro
Province. Regolarmente si notavano in pubblici registri i nomi, le
professioni e le abitazioni loro. Era severamente proibito alla studiosa
gioventù di perdere il tempo in conviti o nei teatri, ed era limitato il
termine della loro educazione all'età di vent'anni. Il Prefetto della
città poteva gastigar gli oziosi ed i refrattari con le verghe e
coll'espulsione; ed aveva ordine di riferire ogni anno al Maestro degli
Uffizi, quali scolari per le cognizioni ed abilità loro si potessero
utilmente impiegare in servizio pubblico. Gli instituti di Valentiniano
contribuirono ad assicurare i vantaggi della pace e dell'abbondanza; e
servì a guardar le città lo stabilimento dei _Difensori_[62], eletti
liberamente come Tribuni ed Avvocati del popolo per sostenere i diritti,
ed esporre gli aggravj di esso avanti ai Tribunali dei Magistrati
civili, o anche al piè del Trono Imperiale. Si amministravano
diligentemente le finanze da due Principi, che per tanto tempo erano
stati assuefatti alla rigorosa economia di una condizione privata; ma
nell'incassamento e nell'impiego della pubblica entrata un occhio
discernitore potrebbe osservare qualche differenza fra il governo
d'Oriente e quel d'Occidente. Valente era persuaso che non si potesse
sostenere la liberalità reale per mezzo della pubblica oppressione; e
non ebbe mai l'ambizione di aspirare ad assicurare, mediante le presenti
angustie, la futura forza e prosperità del suo popolo. Invece di
accrescere il peso delle tasse, che nello spazio di quaranta anni a
grado a grado si erano raddoppiate, nei primi quattro anni del suo regno
diminuì la quarta parte del tributo dell'Oriente[63]. Sembra che
Valentiniano fosse meno attento ed ansioso di sollevare i pesi del suo
popolo. Potè in vero riformare gli abusi dell'amministrazione fiscale,
ma esigeva senza scrupolo una gran parte dei beni dei privati, essendo
convinto, che le rendite, le quali sostenevano il lusso degl'individui,
si sarebbero con molto maggior vantaggio impiegate nel difendere e
migliorare lo Stato. I sudditi Orientali, che abitualmente godevano il
benefizio della condotta del loro Principe, applaudivano alla
beneficenza di esso, e la seguente generazione sentì e riconobbe il
solido, quantunque meno splendido, merito di Valentiniano[64].

[A. D. 364-375]

Ma la più onorevol particolarità del carattere di Valentiniano è quella
costante e moderata imparzialità, che egli sempre mantenne in un tempo
di religiose contese. Il suo buon senso, non illuminato in vero, ma
neppure corrotto dallo studio, evitava con rispettosa indifferenza le
sottili questioni Teologiche. Il governo della _Terra_ esigeva la sua
vigilanza, e soddisfaceane l'ambizione; e nel tempo che si rammentava
d'esser discepolo della Chiesa, non si dimenticò mai che era Sovrano del
Clero. Nel regno d'un Apostata, egli avea segnalato il suo zelo per
l'onore del Cristianesimo; concesse dunque ai suoi sudditi il privilegio
che aveva assunto per se medesimo; ed essi accettar potevano con
gratitudine e con fiducia la general tolleranza, permessa da un Principe
dominato dalle passioni, ma incapace di timore o di simulazione[65]. I
Pagani, gli Ebrei e tutte le varie Sette, che ammettevano l'autorità
divina di Cristo, eran protetti, dalle leggi contro il potere arbitrario
o il popolare insulto; nè ci aveva specie alcuna di culto che fosse
proibita da Valentiniano, eccettuate quelle segrete e ree pratiche, le
quali abusavano del nome di religione per cuoprir gli oscuri disegni del
vizio e del disordine. L'arte magica, siccome si puniva più crudelmente,
così veniva proscritta con più rigore; ma l'Imperatore adottò una formal
distinzione per protegger gli antichi metodi di divinazione approvati
dal Senato, ed esercitati dagli Aruspici Toscani. Col consenso dei
Pagani più ragionevoli avea condannato la licenza dei sacrifizi
notturni; ma immediatamente ammesso l'istanza di Pretestato Proconsole
dell'Acaia, il quale rappresentò che la vita dei Greci sarebbe divenuta
misera e disgustosa, qualora fossero essi restati privi dell'inestimabil
vantaggio dei misteri Eleusini. La sola filosofia può vantarsi (e forse
non è più che un semplice vanto della filosofia) che la gentile sua mano
è capace di sradicare dalla mente umana i segreti e fatali principj del
fanatismo. Ma questa tregua di dodici anni, che acquistò maggior forza
dal saggio e vigoroso governo di Valentiniano, sospendendo la
ripetizione delle vicendevoli ingiurie, contribuì ad addolcire i
costumi, e ad abbattere i pregiudizi delle religiose fazioni.

[A.D. 363-378]

L'amico della tolleranza trovavasi per disgrazia distante dal teatro
delle più fiere controversie. Appena i Cristiani dell'Occidente si furon
distrigati dai lacci della formola di Rimini, felicemente ricaddero nel
letargo dell'ortodossia; ed i piccoli residui del partito Arriano, che
tuttavia sussistevano in Milano e in Sirmio, potevano risguardarsi come
oggetti piuttosto di disprezzo che di sdegno. Ma nelle province
Orientali, dall'Eussino fino all'estremità della Tebaide, la forza ed il
numero delle ostili fazioni si bilanciava con maggiore uguaglianza; e
questa, invece di secondare i consigli di pace, non serviva che a
perpetuar gli orrori della guerra di religione. I Monaci ed i Vescovi
sostenevano i loro argomenti con invettive; e le loro invettive alle
volte venivano accompagnate dalle percosse. Atanasio dominava sempre in
Alessandria; le Sedi di Costantinopoli e d'Antiochia erano occupate dai
Prelati Arriani, ed ogni vacanza di Vescovato era l'occasione di un
tumulto popolare. Gli _Homousiani_ furon fortificati dalla
riconciliazione di cinquantanove Vescovi Macedoniani o Semiarriani; la
segreta ripugnanza, che avevano d'abbracciare la divinità dello Spirito
Santo, oscurava lo splendore di tal trionfo; e la dichiarazion di
Valente, che nei primi anni del suo regno aveva imitato l'imparzial
condotta del fratello, fu un importante vittoria dalla parte
dell'Arrianismo. I due fratelli avean passata la privata lor vita nello
stato di catecumeni; ma la pietà di Valente lo mosse a chiedere il
Sacramento del Battesimo avanti d'esporsi ai pericoli della guerra
Gotica. Egli si rivolse naturalmente ad Eudosso[66] Vescovo della città
Imperiale; e se l'ignorante Monarca fu istruito da quell'Arriano Pastore
nei principj della Teologia eterodossa, l'inevitabile conseguenza
dell'erronea sua scelta dee in lui risguardarsi piuttosto come una
disgrazia che come un delitto. Qualunque fosse stata la determinazione
dell'Imperatore, dovea sempre disgustare una gran parte dei Cristiani
suoi sudditi; giacchè i Capi tanto degli Homousiani che degli Arriani
credevano, che se non si lasciavano dominare, si facesse loro una
crudele ingiuria ed oppressione. Dopo aver fatto questo decisivo passo,
era molto difficile per esso il conservare la virtù o la riputazione
d'imparziale. Veramente non aspirò mai, come Costanzo, alla fama di
profondo Teologo; ma siccome avea ricevuto con semplicità e rispetto le
opinioni di Eudosso, Valente rimise la sua coscienza alla direzione
dell'Ecclesiastiche sue guide, e coll'influenza della propria autorità
promosse la riunione degli eretici _Atanasiani_ al corpo della Chiesa
Cattolica. Da principio ebbe compassione di lor cecità; in seguito
appoco appoco fu provocato dalla loro ostinazione; ed insensibilmente
incominciò ad odiar quei Settari, pei quali era egli stesso un argomento
di odio[67]. Era sempre dominato il debole spirito di Valente dalle
persone, colle quali famigliarmente conversava; e l'esilio o la
prigionia d'un privato son favori che facilissimamente si accordano in
una Corte dispotica. Si davano tali pene frequentemente ai Capi del
partito _Homousiano_; e la disgrazia di ottanta Ecclesiastici di
Costantinopoli, che forse per accidente bruciarono sopra una nave,
imputossi alla crudele e premeditata malizia dell'Imperatore e de' suoi
Arriani ministri. In ogni contesa i Cattolici (se ci è permesso di
anticipar questo nome) eran costretti a pagar la pena delle mancanze
loro e di quelle degli avversari. In ogni elezione il Candidato Arriano
aveva la preferenza; e se gli si opponeva il maggior partito del popolo,
era comunemente sostenuto dall'autorità del Magistrato civile, o anche
dai terrori di una forza militare. I nemici d'Atanasio tentarono di
turbar gli ultimi anni della venerabil vecchiezza di lui; ed il suo
breve ritirarsi al sepolcro del proprio padre si celebrò come un quinto
esilio. Ma lo zelo di un gran popolo, che immediatamente corse alle
armi, pose in timore il Prefetto, ed all'Arcivescovo si lasciò finir la
vita in pace ed in gloria dopo quarantasette anni di Vescovato. La morte
d'Atanasio fu il segnale della persecuzione dell'Egitto; ed il ministro
Pagano di Valente, che a forza collocò l'indegno Lucio nella sede
Archiepiscopale, si procacciò il favore del partito dominante per mezzo
del sangue e dei patimenti dei Cristiani loro fratelli. Amaramente
dolevansi questi della libera tolleranza in favore del Culto Pagano e
Giudaico, come d'una circostanza aggravante la miseria dei Cattolici e
la reità dell'empio Tiranno dell'Oriente[68].

Il trionfo del partito ortodosso ha lasciato sopra la memoria di Valente
una profonda macchia di persecuzione; ed il carattere di un Principe,
che traeva le sue virtù ed i suoi vizi da un debole intelletto e da
un'indole pusillanime, appena merita che ci prendiamo la pena di farne
l'apologia. Ciò nonostante, il candore può scoprire motivi di
sospettare, che i Ministri Ecclesiastici di Valente spesso eccedessero
gli ordini o anche le intenzioni del loro Signore; e che la verità dei
fatti siasi molto magnificata dalla veemente declamazione e dalla facile
credulità dei suoi antagonisti[69]. In primo luogo, il silenzio di
Valentiniano può suggerire un probabile argomento, che i parziali
rigori, esercitati nelle Province ed in nome del suo collega, soltanto
si riducessero ad alcune oscure ed inconsiderabili deviazioni dallo
stabilito sistema di tolleranza religiosa; e quel giudizioso Istorico,
che ha lodato la temperata natura del fratello maggiore, non si è
creduto in dovere di porre a contrasto la tranquillità dell'Occidente
con la crudele persecuzione dell'Oriente[70]. Secondariamente, per
quanto vogliam prestar fede alle incerte e lontane relazioni, si può
distintamente conoscere il carattere o almeno la condotta di Valente
negli affari che trattò personalmente coll'eloquente Basilio Arcivescovo
di Cesarea, che era succeduto ad Atanasio nel maneggio della causa
spettante alla Trinità[71]. Se ne fece la circostanziata narrazione
dagli amici ed ammiratori di Basilio; e spogliata che sia da un
grossolano abbigliamento di rettorica e di miracoli, resteremo sorpresi
dall'inaspettata dolcezza del tiranno Arriano, che ammirò la fermezza
del suo animo, o temè, facendogli violenza, una rivoluzione generale
nella provincia della Cappadocia. L'Arcivescovo, che sosteneva con
inflessibile alterigia[72] la verità delle sue opinioni e la dignità del
suo posto, fu lasciato nel libero possesso della sua coscienza e della
sua sede. L'Imperatore devotamente assistè nella Cattedrale alla messa
solenne: ed in luogo di una Sentenza di esilio, sottoscrisse la
donazione di considerabili beni per uso di uno spedale, che Basilio
aveva ultimamente fondato nelle vicinanze di Cesarea[73]. In terzo
luogo, non ho potuto trovare, che da Valente fosse fatta contro gli
Atanasiani alcuna legge, come quella che in seguito fece Teodosio contro
gli Arriani; e l'editto, che suscitò i più violenti clamori, non sembra
poi tanto degno di riprensione. L'Imperatore aveva osservato, che molti
dei suoi sudditi, seguitando la pigra loro inclinazione, si erano
associati, sotto pretesto di religione, ai Monaci dell'Egitto; e diede
ordine al Conte dell'Oriente di trarli fuori della lor solitudine, e
costringere quei disertori della società ad accettare la giusta
alternativa, o di rinunziare ai temporali lor beni, o di adempire i
pubblici doveri degli uomini e dei cittadini[74]. Sembra che i Ministri
di Valente estendessero il senso di questo penale statuto, giacchè si
arrogarono il diritto di arrolare nelle armate Imperiali i Monaci
giovani e di forte corporatura. Fu spedito da Alessandria nel vicino
deserto di Nitria[75], popolato da cinquemila Monaci, un distaccamento
di cavalleria e d'infanteria consistente in tremila soldati. Erano essi
guidati da Preti Arriani, e si racconta, che fu fatta una considerabile
strage nei Monasteri, nei quali non si ubbidiva ai comandi del
Principe[76].

[A. 370]

Gli stretti regolamenti, che la saviezza dei moderni Legislatori ha
fatti per frenare la ricchezza e l'avarizia del Clero, in origine si
posson dedurre dall'esempio dell'Imperatore Valentiniano. Il suo
editto[77], indirizzato a Damaso Vescovo di Roma, fu pubblicamente letto
nelle Chiese della città. Egli ammoniva gli Ecclesiastici ed i Monaci a
non frequentare le case delle vedove e delle vergini, e ne minacciava la
disubbidienza con pene civili. Al Direttore non fu più permesso di
ricevere alcun donativo, legato, o eredità dalle figlie spirituali; ogni
testamento contrario a quest'editto fu dichiarato nullo, e ciò che si
fosse illegittimamente donato, dovea confiscarsi in benefizio del tesoro
pubblico. Sembra che con una successiva costituzione fossero estesi gli
stessi provvedimenti alle Monache e ai Vescovi, e che tutte le persone
dell'ordine Ecclesiastico si rendessero incapaci di ricevere alcuna
donazione testamentaria, e rigorosamente fossero limitate ai naturali e
legittimi diritti della successione. Valentiniano, come custode della
domestica felicità e virtù, applicò al male nascente questo rigoroso
rimedio. Nella Capitale dell'Impero le donne di case nobili e ricche
possedevano vastissimi e indipendenti patrimonj: e molte di quelle
devote femmine avevano abbracciato le dottrine del Cristianesimo, non
solamente col freddo assenso dell'intelletto, ma eziandio col calore
dell'affezione, e forse coll'ardor della moda. Sacrificavano esse i
piaceri della pompa e del lusso; e rinunziavano per amor della castità
alle dolci lusinghe della società conjugale. Si deputava qualche
Ecclesiastico, di reale o di apparente santità, per diriger la timorosa
loro coscienza, e per occupare la tenerezza vacante del loro cuore; e
spesso qualche furbo o entusiasta, che dall'estremità dell'Oriente
correva a godere in uno splendido teatro i privilegj della professione
Monastica, si abusava dell'illimitata confidenza che esse
precipitosamente accordavangli. Mediante il disprezzo, che questi avevan
del Mondo, insensibilmente acquistavano i più desiderabili vantaggi di
esso, come il vivo attaccamento di una forse giovane e bella donna, la
delicata abbondanza d'una casa opulenta, ed il rispettoso omaggio degli
schiavi, dei liberti e dei clienti d'una Senatoria famiglia. Le immense
ricchezze delle Dame Romane appoco appoco si consumavano in prodighe
elemosine e in dispendiosi pellegrinaggi; e l'artificioso Monaco, che
aveva assegnato a se stesso il primo e, se era possibile, il solo posto
nel testamento della spirituale sua figlia, pretendeva sempre di
dichiarare, con la dolce apparenza dell'ipocrisia, che egli era il solo
strumento della carità, e l'amministratore dei beni dei poveri. Quel
lucroso ma disonorevol commercio[78], che si esercitava dal Clero per
defraudare l'espettazione degli eredi naturali, avea provocato fino lo
sdegno d'un secolo superstizioso; e due dei più rispettabili Padri
Latini molto ingenuamente confessano, che l'ignominioso editto di
Valentiniano fu giusto e necessario; e che i Sacerdoti Cristiani avean
meritato di perdere un privilegio, che tuttavia si godeva dai
commedianti, dai cocchieri e dai ministri degli idoli. Ma la saviezza e
l'autorità del legislatore di rado son vittoriose, quando combattono la
vigilante destrezza dell'interesse privato; e Girolamo o Ambrogio
potevano con pazienza acquietarsi nella giustizia di una legge salutare,
ma inefficace. Se raffrenavansi gli Ecclesiastici negli acquisti di
personali emolumenti, essi non lasciavano d'esercitare una più lodevole
industria in accrescere la ricchezza comune della Chiesa, ed in decorare
la loro avidità coi nomi speciosi di pietà e di patriottismo[79].

[A. 366-384]

Damaso, Vescovo di Roma, che dovè svergognare l'avarizia del suo Clero
pubblicando la legge di Valentiniano, ebbe il buon senso o la buona
fortuna di impegnare in suo servizio lo zelo e l'abilità del dotto
Girolamo; e questo grato Santo ha celebrato il merito e la purità d'un
carattere molto ambiguo[80]. Ma curiosamente ha osservato gli splendidi
vizj della Chiesa Romana sotto il regno di Valentiniano e di Damaso
l'istorico Ammiano, che indica l'imparziale suo sentimento in queste
espressive parole. «La Prefettura di Juvenzio godeva il vantaggio della
pace e dell'abbondanza; ma presto fu disturbata la tranquillità del suo
governo da una sanguinosa sedizione del diviso popolo. L'ardore di
Damaso e di Orsino, per occupare la sede Episcopale, sorpassò
l'ordinaria misura dell'ambizione umana. Essi contendevano col furor di
parte; era sostenuta la disputa con le ferite o con la morte dei loro
seguaci; ed il Prefetto, incapace d'impedire o d'acquietare il tumulto,
fu costretto dalla forza maggiore a ritirarsi nei sobborghi. Damaso
prevalse: la vittoria, molto contrastata, finalmente rimase dalla parte
della fazione di lui; furon trovati nella Basilica di Sicinino[81], dove
i Cristiani tenevano le religiose loro adunanze, centotrentasette corpi
morti[82]; e passò molto tempo avanti che gli animi riscaldati del
popolo riprendessero la solita loro tranquillità. Considerando lo
splendore della Capitale, non mi fa maraviglia, che un premio sì
valutabile accendesse le brame di uomini ambiziosi, e producesse le più
fiere ed ostinate contese. Il candidato, che ottiene l'intento, è sicuro
d'esser arricchito dalle offerte delle matrone[83]; e vestito con
decente cura ed eleganza può passeggiar nel suo cocchio per le strade di
Roma[84]; e la sontuosità della mensa Imperiale non uguaglierà i copiosi
e delicati conviti apparecchiati dal gusto ed a spese dei Romani
Pontefici. Con quanto più di ragione (continua il buon Pagano)
provvederebbero questi Pontefici alla vera loro felicità, se invece
d'allegare la grandezza della città come una scusa dei loro costumi,
imitasser la vita esemplare di alcuni Vescovi delle province, nei quali
la sobrietà e temperanza, il moderato equipaggio, e gli umili sguardi
rendono la modesta e pura loro virtù commendabile alla Divinità ed ai
veri adoratori di essa[85]». Fu estinto lo scisma di Damaso e di Orsino
mediante l'esilio di questo ultimo; e la saviezza del Prefetto
Pretestato[86] restituì la calma alla città. Pretestato era un Pagano
filosofo, un uomo erudito, di buon gusto e culto, che cuoprì sotto
l'aria di scherzo un rimprovero, allorchè assicurò Damaso, che avrebbe
subito abbracciato egli stesso la religione Cristiana, se avesse
ottenuto il Vescovato di Roma[87]. Questa viva pittura della ricchezza e
del lusso dei Papi nel quarto secolo, tanto più riesce curiosa, in
quanto che ci rappresenta il grado medio fra l'umile povertà del
pescatore Apostolico, e la regia condizione d'un Principe temporale, i
dominj del quale s'estendono dai confini di Napoli fino alle rive del
Po.

[A. 364-375]

Quando il voto dei Generali e dell'esercito pose nelle mani di
Valentiniano lo scettro del Romano Impero, la sua riputazione nelle
armi, la militar perizia ed esperienza che aveva, ed il rigido suo
attaccamento ai costumi, ugualmente che allo spirito dell'antica
disciplina, furono i principali motivi della giudiziosa loro elezione.
L'ardor delle truppe, che lo costrinsero a nominare un collega, fu
giustificato dalla pericolosa situazione dei pubblici affari; e
Valentiniano medesimo sapeva, che le forze di uno spirito anche il più
attivo non servivano per difendere le remote frontiere di una Monarchia
sottoposta alle invasioni. Appena la morte di Giuliano ebbe liberato i
Barbari dal terrore del suo nome, che le più vive speranze di rapine e
di conquiste eccitarono le nazioni dell'Oriente, del Settentrione e del
Mezzogiorno.

[A. 364-375]

Le loro scorrerie furono spesso moleste ed alle volte formidabili; ma
nei dodici anni del regno di Valentiniano, la sua fermezza e vigilanza
difese i proprj Stati, e parve che il vigoroso genio di lui inspirasse e
dirigesse i deboli consigli del fratello. Il metodo in forma di annali
esprimerebbe con più forza le urgenti e divise cure dei due Imperatori;
ma l'attenzione del lettore sarebbe ugualmente distratta da una tediosa
ed incostante narrazione. Un separato prospetto dei cinque gran teatri
di guerra, cioè della Germania, della Britannia, dell'Affrica,
dell'Oriente e del Danubio, darà un'idea più distinta dello stato
militare dell'Impero nei regni di Valentiniano e di Valente.

[A. 365]

I. Gli Ambasciatori degli Alemanni erano stati offesi dalla dura ed
altiera condotta di Ursacio, Maestro degli Uffizi[88], che per un atto
d'inopportuna parsimonia avea diminuito il valore e la quantità dei
presenti, ai quali essi avevan diritto, o per uso o per trattato,
nell'innalzamento al trono dei nuovi Imperatori. Espressero e
comunicarono essi a' loro nazionali un forte sentimento dell'affronto
che facevasi alla nazione. Gli animi dei loro Capi, facilmente
irritabili, furono inaspriti dal sospetto di esser disprezzati; e la
marzial gioventù corse in folla a' loro stendardi. Avanti che
Valentiniano fosse in istato di passare le alpi, i villaggi della Gallia
erano in fiamme; e prima che il suo general Dagalaifo potesse andare
incontro agli Alemanni, questi avevano già posto in sicuro gli schiavi e
le spoglie nelle foreste della Germania. Al principio dell'anno seguente
la militar forza di tutta la nazione ruppe in profonde e sode colonne il
riparo del Reno nel mezzo al rigore d'un inverno settentrionale. Furon
disfatti e feriti mortalmente due Conti Romani; e le bandiere degli
Eruli e dei Batavi caddero nelle mani dei vincitori, che spiegarono con
insultanti clamori e minacce il trofeo della loro vittoria. Le bandiere
furono ricuperate: ma i Batavi non si eran purgati dalla macchia del
disonore e della fuga loro agli occhi del severo lor giudice.
Valentiniano era d'opinione, che i suoi soldati dovessero apprendere a
temere il lor comandante, prima che potessero cessare di temere il
nemico. Furono solennemente adunate le truppe, ed i tremanti Batavi
circondati dall'esercito Imperiale. Valentiniano allora, salito sul
Tribunale, quasi che sdegnasse di punir la codardia con la morte,
impresse una nota d'indelebile ignominia negli uffiziali, la cattiva
condotta e pusillanimità de' quali si trovò essere stata la prima
occasione della disfatta. I Batavi furon deposti dal loro grado,
spogliati delle armi, e condannati ad esser venduti per ischiavi al
maggiore offerente. A questa tremenda sentenza le truppe caddero
prostrate a terra; supplicarono che si calmasse lo sdegno del loro
Sovrano; e si protestarono, che se gli avesse accordato loro di fare
un'altra prova, si sarebbero dimostrati non indegni del nome di Romani e
di suoi soldati. Valentiniano, che affettava ripugnanza, finalmente cedè
alle loro istanze: i Batavi ripresero le armi, e con esse l'invincibil
risoluzione di lavare il lor disonore nel sangue degli Alemanni[89].
Dagalaifo aveva scansato il principal comando, e quest'esperto Generale
da cui erano rappresentate forse con troppa prudenza l'estreme
difficoltà dell'impresa, ebbe la mortificazione di vedere avanti il
termine della campagna, che il suo rivale Giovino cangiò quegli ostacoli
in decisivi vantaggi sopra le forze disperse dei Barbari. Alla testa
d'un ben disciplinato esercito di cavalleria, di infanteria e di truppe
leggiere, Giovino s'avanzò con cauti e rapidi passi fino a
Scarponna[90], nel territorio di Metz, dove sorprese una grossa
divisione di Alemanni, prima che avessero tempo di prender le armi; ed
animò i suoi soldati con la fiducia di una facile e non sanguinosa
vittoria. Un'altra divisione o piuttosto armata nemica, dopo una crudele
e licenziosa devastazione dell'adiacente paese, si riposava sulle
ombrose rive della Mosella. Giovino, che aveva osservato il terreno
coll'occhio di Generale, tacitamente si approssimò per mezzo d'una
profonda e selvosa valle, fino a poter distintamente conoscere
l'indolente sicurezza dei Germani. Alcuni stavan bagnando le robuste lor
membra nel fiume: altri pettinavano i lunghi e biondi loro capelli; ed
altri bevevano gran quantità di prezioso e delicato vino. Ad un tratto
essi udirono il suono della tromba Romana; e videro nel loro campo il
nemico. Lo stupore produsse il disordine; a questo successe la fuga e
l'abbattimento; e la confusa moltitudine dei più bravi guerrieri fu
trafitta dalle spade e dai giavelotti dei legionari e degli ausiliari. I
fuggitivi corsero al terzo e più considerabile corpo, che si trovava
nelle pianure Catalaunie vicino a Scialons nella Sciampagna; furono in
fretta richiamati i distaccamenti sparsi ai loro stendardi, ed i Capi
dei Barbari, ammoniti ed irritati dal fato dei loro compagni, si
prepararono ad incontrare in una decisiva battaglia le vittoriose forze
del Luogotenente di Valentiniano. Il sanguinoso ed ostinato
combattimento durò tutta una giornata di state con egual valore e con
dubbio successo. Ma prevalsero finalmente i Romani con la perdita di
mille dugento soldati. Vi restarono morti seimila degli Alemanni, e
quattromila feriti; ed il valente Giovino, dopo avere inseguito i
fuggitivi residui del loro esercito fino alle sponde del Reno, tornò a
Parigi a ricever l'applauso del suo Sovrano e le insegne del Consolato
pel seguente anno[91]. Il trionfo dei Romani fu macchiato in vero dal
trattamento che fecero al Re prigioniero, il quale fu da essi appiccato
ad un patibolo, senza che lo sapesse lo sdegnato loro Generale. Questo
vergognoso atto di crudeltà, che potrebbe imputarsi al furor delle
truppe, fu seguito dalla deliberata uccisione di Witicab figlio di
Vadomairo, Principe Germano, di costituzione di corpo debole ed
infermiccia, ma d'ardimentoso e formidabile spirito. Il domestico
assassino di lui fu instigato e protetto da' Romani[92]; e la violazione
delle leggi d'umanità e di giustizia dimostra la segreta loro
apprensione della debolezza del cadente Impero. Rade volte nei pubblici
consigli si adotta l'uso del pugnal traditore, sin tanto che si conserva
qualche fiducia nella forza aperta del brando.

[A. 368]

Mentre gli Alemanni sembravano umiliati dalle recenti loro calamità,
restò mortificato l'orgoglio di Valentiniano dall'inaspettata sorpresa
di Mogunziaco o Magonza, città principale dell'alta Germania. Nel tempo
meno sospetto d'una solennità Cristiana, Rando ardito ed abile Capitano,
che aveva lungamente premeditato l'attacco, passò improvvisamente il
Reno; entrò nella non difesa città, e ritirossi con una gran quantità di
schiavi d'ambedue i sessi. Valentiniano risolvè di prendere una severa
vendetta sopra tutto il corpo della nazione. Fu ordinato al Conte
Sebastiano d'invadere il loro paese con le truppe dell'Italia e
dell'Illirico probabilmente dalla parte della Rezia. L'Imperatore in
persona, accompagnato da Graziano suo figlio, passò il Reno alla testa
d'un formidabile esercito, che era sostenuto d'ambe le parti da Gioviano
e da Severo, Generali della cavalleria e dell'infanteria dell'Occidente.
Gli Alemanni, essendo incapaci di impedire la devastazione dei loro
villaggi, piantarono il campo sopra un'alta e quasi inaccessibil
montagna nel moderno ducato di Virtemberga, e con fermezza aspettarono
l'avvicinarsi dei Romani. Valentiniano espose la propria vita ad un
imminente pericolo per l'intrepida curiosità, con cui volle persistere
ad esplorare un passo segreto e non guardato. Una truppa di Barbari uscì
ad un tratto da un'imboscata; e l'Imperatore, che spronò fortemente il
cavallo verso una ripida e sdrucciolevole scesa, dovè lasciarsi dietro
il proprio scudiere, e l'elmetto magnificamente ornato d'oro e di pietre
preziose. Al segno di un assalto generale, le truppe Romane circondarono
e salirono da tre diverse parti la montagna di Solicinio. Ogni passo che
facevano, accresceva loro l'ardore, ed abbatteva la resistenza del
nemico; e poscia che le riunite lor forze ebbero occupata la sommità del
monte, impetuosamente spinsero i Barbari verso il declive
settentrionale, dove era situato il Conte Sebastiano per impedir loro la
ritirata. Dopo tal segnalata vittoria Valentiniano tornò ai suoi
quartieri d'inverno a Treveri; dove promosse la pubblica gioia colla
rappresentazione di trionfali e splendidi giuochi[93]. Ma il saggio
Monarca, invece d'aspirare alla conquista della Germania, limitò la sua
attenzione all'importante e laboriosa difesa della frontiera Gallica
contro un nemico, la forza di cui era rinnovata da uno sciame di
coraggiosi volontari, che di continuo venivano dalle più lontane tribù
del Settentrione[94]. Sulle rive del Reno, dalla sua sorgente fino allo
stretto dell'Oceano, s'eressero frequenti e considerabili fortezze ed
opportune torri; l'ingegno d'un Principe, abile nelle arti meccaniche,
inventò nuove operazioni e novelle armi; e le sue numerose reclute di
gioventù, sì Romana che Barbara, venivano esercitate rigorosamente in
tutti gli esercizi di guerra. Il progresso dell'opera, alla quale si
opposero ora le modeste rappresentanze, ed ora gli attacchi dei nemici,
assicurò la tranquillità della Gallia pei nove seguenti anni
dell'amministrazione di Valentiniano[95].

[A. D. 371]

Questo prudente Imperatore, che diligentemente praticava le savie
massime di Diocleziano, procurava di fomentare e d'eccitar le interne
divisioni delle tribù della Germania. Verso la metà del quarto secolo il
paese (probabilmente della Lusazia e della Turingia) da ambe le parti
dell'Elba era occupato dall'incostante dominio dei Borgognoni, guerriero
e numeroso popolo della razza dei Vandali[96], l'oscuro nome del quale
appoco appoco s'estese ad un potente regno, e finalmente è restato ad
una florida Provincia. Sembra, che la circostanza più considerabile
negli antichi costumi dei Borgognoni fosse la diversità della civile ed
ecclesiastica loro costituzione. Si dava il nome di _Hendino_ al Re o
Generale, e quello di _Sinisto_ al sommo Sacerdote della nazione. La
persona di quest'ultimo era sacra, e perpetua la sua dignità; ma il
governo temporale tenevasi con un titolo molto precario. Se i successi
della guerra intaccavano il coraggio o la condotta del Re, egli veniva
immediatamente deposto; e l'ingiustizia dei propri sudditi lo faceva
responsabile della fertilità della terra e della regolarità delle
stagioni, che pareva dovere più propriamente spettare al dipartimento
Sacerdotale[97]. Il dibattuto possesso di alcune saline[98] impegnava
gli Alemanni ed i Borgognoni a frequenti contese; questi secondi
facilmente furon tentati dalle sollecitazioni segrete e dalle generose
offerte dell'Imperatore; e con vicendevol credulità s'ammise la favolosa
lor discendenza dai soldati Romani, che erano stati anticamente lasciati
di guarnigione nelle fortezze di Druso, come quella ch'era coerente al
mutuo loro interesse[99]. Tosto comparve un'armata di ottantamila
Borgognoni sulle rive del Reno; e con impazienza chiedevan l'aiuto ed i
sussidi che Valentiniano avea loro promesso; ma lusingati furono a forza
di scuse o dilazioni, finchè dopo avere inutilmente aspettato, furon
costretti al fine di ritirarsi. Le armi e le fortificazioni della
frontiera Gallica frenarono il furore del lor giusto sdegno; e la
strage, che fecero dei prigionieri, servì ad inasprire l'odio ereditario
dei Borgognoni e degli Alemanni. Si può spiegar forse l'incostanza del
savio Principe, per qualche alterazione delle circostanze; e può anche
darsi che il primo disegno di Valentiniano fosse quello di spaventare
piuttosto che di distruggere; giacchè si sarebbe tolto ugualmente
l'equilibrio del potere coll'estirpazione sì dell'una che dell'altra
nazione Germanica. Fra i Principi Alemanni, Macriano, che col nome
Romano apprese avea le arti di soldato e di politico, meritò l'odio e la
stima di Valentiniano. L'Imperatore s'indusse a passare in persona con
una leggiera e spedita truppa il Reno, si avanzò per cinquanta miglia
nell'interno del paese, ed avrebbe infallibilmente ottenuto l'oggetto
delle sue ricerche, se le giudiziose misure di lui non si fossero
sconcertate dall'impazienza delle sue truppe. Macriano in seguito fu
ammesso all'onore di una personale conferenza coll'Imperatore: ed i
favori che ne ricevè, lo assodarono fino alla morte nella sincera e
costante amicizia della Repubblica[100].

Era il paese coperto dalle fortificazioni di Valentiniano; ma le coste
marittime della Gallia e della Britannia rimanevano esposte alle
depredazioni dei Sassoni. Questo celebre nome, pel quale noi abbiamo un
dolce e domestico interesse, sfuggì di vista a Tacito; e nelle carte di
Tolomeo appena s'indica l'angusto collo della penisola Cimbrica, e le
tre piccole isole verso la bocca dell'Elba[101]. Questo piccolo
territorio, corrispondente al moderno Ducato di Slevvig o forse
d'Holstein, non era capace di produrre quegli immensi sciami di Sassoni,
che dominarono sull'Oceano, che empirono le isole Britanniche del
proprio linguaggio, delle loro leggi e colonie, e che per tanto tempo
difesero la libertà del Settentrione dalle armi di Carlo Magno[102].
Facilmente trarremo la soluzione di questa difficoltà dalla somiglianza
dei costumi e dalla libera costituzione delle tribù della Germania, che
si univano l'una coll'altra nelle più minute occorrenze di amicizia o di
guerra. La situazione dei primitivi Sassoni li disponeva ad abbracciar
le pericolose professioni di soldati o di pirati; ed il buon successo
delle loro avventure doveva eccitare naturalmente la emulazione dei loro
più bravi paesani, che erano disgustati della trista solitudine delle
loro boscaglie e montagne. In ogni stagione scorrevano giù per l'Elba
intere flotte di barche, piene di valorose ed intrepide compagnie, che
aspiravano a vedere l'immenso aspetto dell'Oceano, ed a gustare la
ricchezza ed il lusso di incogniti Mondi. Sembrerebbe però verosimile,
che i più copiosi ausiliari dei Sassoni fossero somministrati dalle
nazioni, che abitavan lungo i lidi del Baltico. Avevano esse armi e
navi, l'arte della navigazione e l'abitudine della guerra marittima; ma
la difficoltà di passar le colonne d'Ercole settentrionali[103], le
quali per più mesi dell'anno eran chiuse dal ghiaccio, limitava la loro
perizia e il loro coraggio dentro i confini d'uno spazioso lago. La fama
dei fortunati successi di quelli, che navigavano dalla bocca dell'Elba,
dovea ben presto incitarli ad attraversare lo stretto istmo di Slesvvig,
ed a lanciare le loro navi nell'ampio mare. Le varie truppe di pirati e
di avventurieri che combattevano sotto l'istesso stendardo, appoco
appoco s'unirono in una società permanente, di ruberie a principio, e di
governo in appresso. D'una confederazion militare a grado a grado
formossi un corpo di nazione, mediante le dolci operazioni del
matrimonio e della consanguineità; e le circonvicine tribù, che ne
sollecitavano l'alleanza, presero il nome e le leggi dei Sassoni. Se il
fatto non fosse renduto certo dalle più indubitabili prove, parrebbe che
noi ci abusassimo della credulità dei nostri lettori, descrivendo i
vascelli, nei quali i Sassoni pirati arrischiaronsi a scherzare coi
flutti dell'Oceano Germanico, del canale Britannico, e della baia di
Biscaglia. La chiglia delle lor larghe e piatte barche era formata di
leggiero legname; ma i lati e le opere morte non eran che di vimini con
una coperta di forti pelli[104]. Nel corso delle tarde loro e distanti
navigazioni dovettero sempre trovarsi esposti a' pericoli, e molto
spesso alla disgrazia del naufragio, e gli annali marittimi dei Sassoni
furon senza dubbio ripieni di ragguagli delle perdite che essi fecero
sulle coste della Britannia e della Gallia. Ma l'audace spirito dei
pirati affrontò i pericoli tanto del mare che del lido; la lor perizia
fu confermata dall'abitudine delle imprese; l'infimo dei loro marinari
era ugualmente capace di maneggiare un remo e d'alzare una vela, che di
regolare un vascello; ed i Sassoni si rallegravano all'aspetto d'una
tempesta, che occultava i loro disegni, e dispergeva le flotte
nemiche[105]. Dopo d'aver acquistato un'esatta cognizione delle Province
marittime d'Occidente, estesero più oltre le loro depredazioni, ed i
luoghi più remoti avean ragion di temere per la lor sicurezza. I navigli
Sassoni pescavan sì poco, che potevan facilmente rimontar quaranta o
cento miglia su pei gran fiumi; tanto piccolo era il loro peso, che
trasportavansi sopra dei carri da un fiume all'altro; ed i pirati, che
erano entrati nell'imboccatura della Senna o del Reno, potevan
discendere pel rapido corso del Rodano giù nel Mediterraneo. Le Province
marittime della Gallia furon molestate dai Sassoni sotto il regno di
Valentiniano; fu posto un Conte militare a difesa della costa o del
confine Armorico; e quest'uffiziale che non trovò la sua forza o abilità
sufficiente all'impresa, implorò l'aiuto di Severo, Generale
dell'infanteria. I Sassoni, circondati ed oppressi dal numero, furon
costretti ad abbandonare le loro spoglie, ed a cedere una scelta truppa
dell'alta loro e robusta gioventù per militare negli eserciti Imperiali.
Essi non stipularono che una sicura ed onorevole ritirata; e facilmente
accordossi tal condizione dal Generale Romano, che meditava un atto di
perfidia[106] non meno inumano che imprudente, finchè restava in vita ed
in armi un solo Sassone, che vendicar potesse la sorte dei suoi
nazionali. Il prematuro ardore de' fanti, che erano stati posti
segretamente in una profonda valle, manifestò l'imboscata: e sarebbero
forse restati vittime del lor tradimento, se un grosso corpo di corazze,
eccitato dallo strepito della pugna, non si fosse velocemente avanzato a
trar d'angustia i compagni, e ad opprimere l'indomito valore dei
Sassoni. Si salvarono alcuni prigionieri dal furor della spada per
spargere il sangue nell'anfiteatro; e l'oratore Simmaco si duole, che
ventinove di quei disperati selvaggi, strangolandosi con le proprie
mani, avessero impedito il divertimento del Pubblico. Ciò nondimeno i
filosofi ed i culti cittadini di Roma concepirono un profondo orrore,
quando furono informati che i Sassoni consacravano agli Dei la decima
delle loro prede _umane_, e che determinavano a sorte gli oggetti del
barbaro sacrifizio[107].

II. Le favolose colonie degli Egizj e dei Troiani, degli Scandinavi e
degli Spagnuoli, che lusingavano l'ambizione, e divertivano la credulità
dei nostri rozzi antenati, sono insensibilmente svanite alla luce della
scienza e della filosofia[108]. Il presente secolo è persuaso della
semplice e ragionevole opinione, che le isole della Gran Brettagna e
dell'Irlanda fossero appoco appoco popolate dal vicino continente della
Gallia. Si è conservata la distinta memoria d'un'origine Celtica dalla
costa di Kent fino all'estremità di Catness e d'Ulster nella costante
somiglianza della lingua, della religione e dei costumi; ed i caratteri
particolari delle tribù Britanniche possono attribuirsi naturalmente
all'influenza di circostanze accidentali e locali[109]. La provincia
Romana era ridotta allo stato di civile e pacifica servitù; i diritti
della selvaggia libertà s'eran ristretti agli angusti confini della
Caledonia. Gli abitanti di quella Settentrionale regione fino dal regno
di Costantino eran divisi nelle due grandi tribù degli Scoti e dei
Pitti[110], che dopo hanno avuto una sorte molto diversa. È restata
estinta la potenza e quasi anche la memoria dei Pitti dai fortunati loro
rivali; e gli Scoti, dopo d'aver conservato per più secoli la dignità
d'un regno indipendente, hanno, mercè di un'uguale e volontaria unione,
accresciuto l'onore del nome Inglese. La mano della natura aveva
contribuito a fissare l'antica distinzione degli Scoti e dei Pitti. I
primi abitavan nei monti, ed i secondi nel piano. La costa orientale
della Caledonia può risguardarsi come un uguale e fertile paese, che
anche in un rozzo stato d'agricoltura poteva produrre una quantità
considerabile di grano; e l'epiteto di _cruitnich_, o mangiatori di
frumento, esprimeva il disprezzo o l'invidia dei carnivori montanini.
Può la cultura della terra introdurre una separazione più esatta di
beni, e l'abitudine di una vita sedentaria; ma la passion dominante dei
Pitti era sempre l'amore delle armi e della rapina; ed i loro guerrieri,
che nel tempo della battaglia solevan nudarsi, eran distinti agli occhi
dei Romani per uno strano costume che avevano, di colorire i lor corpi
con vivi colori e con capricciose figure. La parte occidentale della
Caledonia s'innalza irregolarmente in selvagge e nude montagne, che
scarsamente compensano il travaglio dell'agricoltore, e sono con
maggiore vantaggio impiegate nella pastura dei greggi. I montanari si
diedero dunque alle occupazioni di pastori e di cacciatori; e siccome
rade volte si fissavano in alcuna stabile abitazione, acquistarono
l'espressivo nome di Scoti, che nella lingua Celtica dicesi equivalere a
quello di ambulatori vagabondi. Gli abitanti di uno steril terreno furon
costretti a cercare un altro sussidio di cibo nell'acqua. I profondi
laghi, e le baie, che intersecano il loro paese, sono abbondantemente
provvedute di pesce; ed appoco appoco s'arrischiarono a gettar le reti
nell'Oceano. La vicinanza dell'Ebridi, sparse in tanta copia lungo la
costa occidentale della Scozia, tentò la curiosità e migliorò la perizia
loro; ed a grado a grado appresero l'arte o piuttosto l'abitudine di
maneggiare le loro barche in un mar tempestoso, e di regolare il
notturno loro corso col lume delle stelle ben note. I due acuti
promontori della Caledonia quasi toccano i lidi di una spaziosa isola, a
cui per la sua lussureggiante vegetazione fu dato il nome di _verde_, ed
ha conservato con una piccola differenza lo denominazione d'_Erin_ o
_Jerne_, o _Irlanda_. Egli è _probabile_, che in qualche distante
periodo d'antichità le fertili pianure d'Ulster ricevessero una colonia
di affamati Scoti, e che gli stranieri del Norte, che avevano ardito
d'affrontare le armi delle legioni, dilatassero le loro conquiste sopra
i selvaggi e non guerrieri abitanti d'un'isola solitaria. Egli è certo,
che nella decadenza del Romano Impero, la Caledonia, l'Irlanda e l'isola
di Man erano abitate dagli Scoti, e che quelle congiunte Tribù, spesso
associate fra loro nelle imprese militari, erano altamente impegnate nei
vari accidenti della respettiva loro fortuna. Essi tennero lungamente
cara la viva tradizione del comune lor nome ed origine; ed i Missionari
dell'isola de' Santi, che sparser la luce del Cristianesimo nella
Britannia Settentrionale, stabilirono la vana opinione, che gli
Irlandesi lor nazionali fossero i padri naturali non meno che spirituali
della stirpe Scozzese. Ci è stata conservata questa incerta ed oscura
tradizione dal venerabile Beda, che sparse qualche raggio di luce fra le
tenebre dell'ottavo secolo. Su questo debole fondamento a grado a grado
s'eresse una grossa fabbrica di favole dai Bardi e dai Monaci; due
specie di persone, che ugualmente abusarono del privilegio di fingere.
La nazione Scozzese, con orgoglio male inteso, adottò la sua Irlandese
genealogia; e si sono adornati gli annali di una lunga serie di Re
immaginari dalla fantasia di Boezio, e dalla classica eleganza di
Bucanano[111].

[A. D. 343-366]

Sei anni dopo la morte di Costantino, le rovinose irruzioni degli Scoti
e dei Pitti richiesero la presenza del suo figlio minore, che regnava
nell'Impero occidentale. Costante visitò i suoi stati Britannici; ma
possiam formare qualche giudizio dell'importanza delle sue operazioni
dal linguaggio del panegirico, che celebra soltanto il suo trionfo sugli
elementi, o in altri termini la buona fortuna d'un salvo e felice
passaggio dal porto di Bologna a quello di Sandwich[112]. Le calamità,
che i miseri Provinciali continuavano a soffrire per la guerra di fuori,
e per la domestica tirannia, furono aggravate dalla debole e corrotta
amministrazione degli eunuchi di Costanzo; ed il passeggiero sollievo,
che aver poterono dalle virtù di Giuliano, tosto svanì per l'assenza e
la morte del loro benefattore. Le somme d'argento e d'oro, che erano
state a gran fatica raccolte o generosamente trasmesse pel pagamento
delle truppe, furono intercettate dall'avarizia de' Comandanti;
pubblicamente vendevansi le dimissioni, o almen l'esenzioni dal servizio
militare; la miseria dei soldati, che erano ingiustamente spogliati
della legittima e scarsa lor sussistenza, gl'induceva a spesse
diserzioni; erano rilassati i nervi della disciplina; e le pubbliche
strade infestate dai ladroni[113]. L'oppressione dei buoni e l'impunità
dei malvagi contribuivano ugualmente a sparger nell'isola uno spirito di
malcontentezza e di ribellione; ed ogni suddito ambizioso, ogni esule
disperato poteva concepire una ragionevole speranza di sovvertire il
debole e distratto governo della Britannia. Le nemiche tribù
Settentrionali, che destavan l'orgoglio e il potere del Re del Mondo,
sospesero i domestici loro odj; ed i Barbari della terra e del mare, gli
Scoti cioè i Pitti ed i Sassoni, si diffuser con rapido ed irresistibil
furore dalla muraglia d'Antonino fino ai lidi di Kent. Nella ricca e
fertil provincia della Britannia erasi accumulata ogni produzione della
natura e dell'arte, ogni oggetto di comodità o di lusso, che quelli
erano incapaci di formar col lavoro, o di procurarsi per via del
commercio[114]. Un filosofo può deplorare in vero l'eterna discordia del
genere umano; ma dovrà confessare, che la brama della preda è un
eccitamento più ragionevole che la vanità della conquista. Dal tempo di
Costantino fino a quello dei Plantageneti, questo rapace spirito
continuò a dominare i poveri e robusti Caledoni; ma quell'istesso
popolo, la generosa umanità del quale pare che inspirasse i canti
d'Ossian, fu disonorato da una selvaggia ignoranza delle virtù della
pace e delle leggi della guerra. I loro meridionali vicini han provato e
forse esagerato le crudeli depredazioni degli Scoti e de' Pitti[115]; e
gli Attacotti[116], valorosa tribù della Caledonia, prima nemici e poi
soldati di Valentiniano, da un testimone di veduta sono accusati di
essersi deliziati nel gustare la carne umana. Si dice, che quando
andavano a caccia nei boschi, attaccavano più i pastori che il bestiame,
e che avidamente sceglievano le più delicate e carnose parti, sì degli
uomini che delle donne, cui essi preparavano per gli orridi loro
conviti[117]. Se realmente si è trovata nelle vicinanze della
commerciante e letterata città di Glascovia una razza di cannibali, si
possono ravvisare nel corso dell'istoria Scozzese gli opposti estremi
d'una vita selvaggia ed incivilita. Queste riflessioni tendono ad
ampliare il giro delle nostre idee, ed a secondare la piacevole
speranza, che la nuova Zelanda in qualche secolo futuro possa produrre
l'Hume dell'emisfero Meridionale.

Ogni messaggio, che attraversar poteva il canale Britannico, portava
alle orecchie di Valentiniano le più triste e terribili nuove; e
l'Imperatore fu tosto informato, che i due militari Comandanti della
Provincia erano stati sorpresi e tagliati a pezzi dai Barbari. Fu
spedito in fretta Severo, Conte dei domestici, e con ugual celerità
richiamato, dalla Corte di Treveri. Le rappresentanze di Giovino non
servirono che ad indicar la grandezza del male; e dopo una lunga e seria
deliberazione, fu affidata la difesa o piuttosto la ricuperazione della
Britannia all'abilità del valoroso Teodosio. Le imprese di tal Generale,
che fu padre d'una serie d'Imperatori, si son celebrate con particolar
compiacenza dagli scrittori di quel tempo: era però degno del loro
applauso il reale suo merito; e fu ricevuta dall'esercito e dalla
provincia la scelta di lui, come un sicuro presagio di vicina vittoria.
Ei prese il momento favorevole alla navigazione; e pose in terra sicure
le numerose e veterane truppe degli Eruli e dei Batavi, de' Gioviani e
dei Vittori. Nella sua marcia da Sandwich a Londra, Teodosio disfece
vari corpi di Barbari, liberò una moltitudine di schiavi, e dopo aver
distribuito ai soldati una piccola parte della preda, acquistossi la
fama d'una disinteressata giustizia con restituire il rimanente ai
legittimi proprietari. I cittadini di Londra, che avevan quasi disperato
della loro salute, spalancaron le porte; ed appena Teodosio ebbe
ottenuto dalla Corte di Treveri l'importante aiuto di un Luogotenente
militare, e d'un Governatore civile, eseguì con saviezza e vigore il
laborioso disegno di liberare la Britannia. Si richiamarono ai loro
stendardi i soldati vaganti; un editto di general perdono dissipò i
pubblici timori; ed il gradito suo esempio alleggerì il rigore della
marzial disciplina. Il variabile metodo di guerreggiare dei Barbari, che
divisi in più corpi infestavan la terra ed il mare, lo privò della
gloria d'una segnalata vittoria; ma si conobbe il prudente spirito e la
consumata perizia d'un Generale Romano nelle operazioni di due campagne,
che liberarono l'una dopo l'altra ogni parte della provincia dalle mani
d'un crudele e rapace nemico. Fu diligentemente restituito lo splendore
alle città e la sicurezza alle fortificazioni dalla paterna cura di
Teodosio, il quale con la forte sua destra confinò i Caledoni tremanti
nell'angolo settentrionale dell'isola, e perpetuò col nome e con lo
stabilimento della nuova provincia di _Valenza_ le glorie del regno di
Valentiniano[118]. La voce della poesia e del panegirico può aggiungere
forse con qualche grado di verità, che le incognite regioni di Tule
imbrattate furon dal sangue dei Pitti; che i remi di Teodosio percossero
i flutti dell'Oceano iperboreo; e che le remote Orcadi furon la scena
della sua vittoria navale sopra i pirati Sassoni[119]. Ei lasciò la
provincia con una buona e splendida reputazione, e fu immediatamente
promosso al posto di Generale della cavalleria da un Principe, che
applaudir poteva senza invidia al merito dei propri sudditi.
Nell'importante posto dell'alto Danubio il conquistatore della Britannia
represse e disfece le armate degli Alemanni, avanti d'esser destinato a
sopprimere la ribellione dell'Affrica.

[A. 366]

III. Il Principe, che ricusa d'esser il giudice, insegna al popolo di
risguardarlo come il complice dei suoi ministri. Si era per lungo tempo
esercitato il comando militare dell'Affrica dal Conte Romano, ed a quel
posto non era inferiore la sua abilità; ma siccome il sordido interesse
era l'unico motivo di sua condotta, egli diportavasi in molte occasioni
come se fosse stato nemico della provincia, ed amico dei Barbari del
deserto. Le tre floride città di Oea, di Leptis, e di Sabrata, che sotto
il nome di Tripoli avevano già da gran tempo stabilita una unione
federativa[120], furon costrette per la prima volta a chiudere le porte
contro un'ostile invasione; molti dei loro più onorevoli cittadini furon
sorpresi e trucidati, saccheggiati i villaggi ed anche i sobborghi; ed
estirpate le viti e gli alberi fruttiferi di quel ricco territorio dai
maliziosi selvaggi della Getulia. I miseri Provinciali implorarono la
protezione di Romano; ma presto si accorsero che il loro Governatore
militare non era meno crudele e rapace dei Barbari. Poichè non erano
essi capaci di somministrare i quattromila cammelli, e l'esorbitante
donativo, che egli esigeva prima di marciare in soccorso di Tripoli, la
sua domanda equivaleva a un rifiuto, e poteva esser giustamente accusato
come l'autore della pubblica calamità. Nella annuale assemblea delle tre
città, furono eletti due Deputati per portare a' piedi di Valentiniano
la solita offerta di una vittoria d'oro, ed accompagnar questo tributo
di dovere, piuttosto che di gratitudine, coll'umile loro querela di
essere rovinati dal nemico e traditi dal loro Governatore. Se la
severità di Valentiniano fosse stata ben regolata, avrebbe dovuto cadere
sulla rea testa di Romano. Ma il Conte, molto esperto nelle arti della
corruzione, avea mandato un veloce e fedel messaggiero per assicurarsi
della venale amicizia di Remigio, Maestro degli Uffizi. La saviezza del
consiglio Imperiale fu ingannata dall'artifizio, e raffreddatone il
giusto sdegno dalla dilazione. Finalmente, quando la replica delle
doglianze fu giustificata dalla reiterazione delle pubbliche angustie,
fu spedito dalla Corte di Treveri il notaro Palladio ad esaminare lo
Stato dell'Affrica e la condotta di Romano. Facilmente si disarmò la
rigida imparzialità di Palladio; fu egli tentato a riservare per sè una
parte del tesoro pubblico, che portava seco pel pagamento delle truppe;
e dal momento, in cui fu testimone a se stesso del proprio delitto, non
potè più ricusar d'attestare l'innocenza ed il merito del Conte. Si
dichiarò frivola e falsa l'accusa dei Tripolitani; e da Treveri fu
rimandato nell'Affrica Palladio stesso con una speciale commissione per
iscuoprire e perseguitare gli autori di quell'empia cospirazione contro
i rappresentanti del Sovrano. Le sue ricerche maneggiate furono con
tanta destrezza e felicità, che obbligò i cittadini di Leptis, i quali
di fresco avean sostenuto un assedio di otto giorni, a contraddire la
verità dei propri loro decreti, ed a censurar la condotta dei lor
deputati. Dalla temeraria e caparbia crudeltà di Valentiniano si
pronunziò senza esitare una sanguinosa sentenza. Per espresso comando
dell'Imperatore fu pubblicamente decapitato in Utica il presidente di
Tripoli, che aveva preteso di aver compassione delle angustie della
provincia; furon posti a morte quattro distinti cittadini come complici
dell'immaginaria frode; e a due altri fu tagliata la lingua. Romano,
superbo per l'impunità, ed irritato dalla resistenza continuò a godere
il comando militare, finattanto che gli Affricani provocati furono
dall'avarizia di lui ad unirsi allo stendardo ribelle di Firmo il
Mauritano[121].

[A. D. 372]

Nabal, padre di lui, era uno dei più ricchi e potenti Principi Mauritani
che riconoscessero la Sovranità di Roma. Siccome però aveva lasciato
dalle sue mogli o concubine una numerosa prole, ardentemente si
disputava intorno alla ricca sua eredità; e Zamma, uno de' suoi figli,
in una domestica rissa fu ucciso da Firmo di lui fratello. L'implacabile
zelo, col quale Romano procedè alla legittima vendetta di questo
omicidio, si potrebbe attribuire soltanto ad un motivo di avarizia o di
odio personale: ma in quest'occasione le sue pretensioni eran giuste; la
sua influenza era potente; e Firmo chiaramente conobbe che egli o doveva
presentare il collo al carnefice, o appellare dalla sentenza del
concistoro Imperiale alla sua spada ed al popolo[122]. Esso fu ricevuto
come il liberator della patria; ed appena si vide, che Romano non era
formidabile che ad una sommessa Provincia, il Tiranno dell'Affrica
divenne un oggetto d'universale disprezzo. La rovina di Cesarea, che fu
saccheggiata e bruciata dai licenziosi Barbari, convinse le città
refrattarie del pericolo che correvano resistendo; la potenza di Firmo
si stabilì, almeno nelle Province della Mauritania e della Numidia; e
pareva che egli non fosse più dubbioso che nell'assumere o il diadema di
Re Mauritano o la porpora di Romano Imperatore. Ma gl'imprudenti ed
infelici Affricani presto s'accorsero, che in questa inconsiderata
rivoluzione non avevano a sufficienza esaminata la propria loro forza o
l'abilità del lor condottiero. Avanti che questi aver potesse alcuna
certa notizia, che l'Imperator d'Occidente avesse determinata la scelta
di un Generale, o che si fosse preparata una flotta di trasporti alla
bocca del Rodano, ad un tratto egli seppe che il Gran Teodosio con una
piccola truppa di veterani avea preso terra presso a Igilgiti o Gigeri
sulla costa dell'Affrica; ed il timido usurpatore fu oppresso dalla
superiorità del valore e del genio militare. Quantunque Firmo avesse
armi e danaro, pure la disperazione di vincere lo ridusse immediatamente
all'uso di quegli artifizi che nel medesimo luogo ed in simili
circostanze si erano praticati dall'astuto Giugurta. Ei tentò
d'ingannare con un'apparente sommissione la vigilanza del Generale
Romano, di sedurre la fedeltà delle sue truppe, e di prolungar la durata
della guerra coll'impegnar l'una dopo l'altra le tribù indipendenti
dell'Affrica ad abbracciare il partito, ed a proteggere la fuga di esso.
Teodosio imitò l'esempio, ed ebbe il successo del suo predecessore
Metello. Quando Firmo in aria di supplicante accusò la sua temerità, ed
umilmente sollecitò la clemenza dell'Imperatore, il Luogotenente di
Valentiniano lo accolse, e lo licenziò con un amichevole abbraccio; ma
premurosamente richiese i sodi e sostanziali contrassegni d'un
pentimento sincero; nè dalle assicurazioni di pace si potè mai
persuadere a sospendere per un momento le operazioni d'un'attiva guerra.
Dalla penetrazione di Teodosio fu scoperta un'oscura cospirazione; ed
egli soddisfece, senza molta ripugnanza, il pubblico sdegno, che
segretamente aveva eccitato. Molti de' rei complici di Firmo furono
abbandonati, secondo il costume antico, al tumulto d'una esecuzion
militare; molti altri più, mediante l'amputazione di ambe le mani,
continuarono a presentare un istruttivo spettacolo d'orrore; l'odio dei
ribelli era accompagnato da timore; ed il timore, che avevano dei
soldati Romani, era mescolato con una rispettosa ammirazione. Fra le
immense pianure della Getulia, e le innumerabili valli del monte Atlante
era impossibile d'impedir la fuga di Firmo; e se avesse l'usurpatore
potuto stancare la pazienza del nemico, avrebbe posto in sicuro la sua
persona in fondo a qualche remota solitudine, ed avrebbe potuto aspettar
la speranza di una ribellione futura. Ei fu vinto però dalla
perseveranza di Teodosio, che avea fatto un'inflessibile risoluzione di
non terminare la guerra che con la morte del tiranno, e d'involger nella
rovina di lui qualunque nazione Affricana, che avesse ardito di
sostenerne la causa. Alla testa d'un piccolo corpo di truppe, che rare
volte eccedevano il numero di tremila cinquecento uomini, il Generale
Romano avanzavasi con una costante prudenza, senza temerità e senza
timore, nel cuore d'un paese, in cui veniva attaccato alle volte da
eserciti di ventimila Mauritani. La fermezza della sua disciplina
disordinava l'irregolarità dei Barbari; essi erano sconcertati dalle
opportune ed ordinate sue ritirate; restavan continuamente delusi dagli
ignoti ripieghi dell'arte militare, e sentirono e confessarono la giusta
superiorità che aveva sopra di loro il Capitano d'una incivilita
nazione. Allorchè Teodosio entrò negli estesi dominj d'Igmazen Re degli
Isaflensi, l'altiero Selvaggio domandò in termini di diffidenza il suo
nome, e l'oggetto di sua spedizione: «Io sono (replicò il forte e non
timido Conte) io sono il Generale di Valentiniano, Signore del Mondo,
che qua mi ha spedito a perseguitare e punire un disperato ladrone.
Dàllo subito nelle mie mani; e sia certo, che se non obbedirai agli
ordini dell'invincibile mio Sovrano, tu ed il popolo, su cui regni,
sarete totalmente distrutti». Tosto che Igmazen fu convinto, che il suo
nemico avea forza e risolutezza capace d'eseguire quella fatal minaccia,
consentì a comprare una pace necessaria col sacrifizio d'un reo
fuggitivo. Le guardie, che furon poste alla custodia della persona di
Firmo, gli tolsero qualunque speranza di fuga; ed il Mauritano Tiranno,
dopo d'aver estinto col vino il sentimento del pericolo, deluse
l'insultante trionfo dei Romani, strangolandosi da se stesso la notte.
Il suo cadavere, unico presente che Igmazen potè offerire
all'Imperatore, fu con disprezzo gettato sopra un cammello; e Teodosio
riconducendo le sue vittoriose truppe a Sitifi, fu salutato dalle più
vive acclamazioni di gioia e di fedeltà[123].

[A. 376]

S'era perduta l'Affrica pe' vizi di Romano e ricuperata per le virtù di
Teodosio: ora la nostra curiosità può vantaggiosamente occuparsi in
investigare il trattamento che i due Generali rispettivamente ottennero
dalla Corte Imperiale. Era stata sospesa l'autorità del Conte Romano dal
Comandante generale della cavalleria; egli era stato posto in sicura ed
onorevol custodia fino al termine della guerra. I suoi delitti eran
dimostrati con le più autentiche prove; ed il pubblico aspettava con
impazienza il decreto di una rigorosa giustizia. Ma il parziale e
potente favore di Mellobaude l'animò a ricusare i legittimi suoi
giudici, ad ottenere replicate dilazioni a fine di procurarsi una folla
di favorevoli testimonianze, e finalmente a cuoprire la rea sua condotta
coll'altro delitto della frode e della finzione. Verso il medesimo
tempo, il restauratore della Britannia e dell'Affrica, sopra un incerto
sospetto, che il nome ed i servigi di lui fossero superiori al grado di
suddito, fu ignominiosamente decapitato a Cartagine. Non regnava più
Valentiniano; e la morte di Teodosio non meno che l'impunità di Romano
si può giustamente attribuire alle arti dei Ministri, che abusarono
della confidenza, ed ingannarono l'inesperta gioventù dei suoi
figli[124].

Se Ammiano avesse usato la geografica sua esattezza nel descrivere le
operazioni Affricane di Teodosio, noi avremmo con ardente curiosità
seguitato i distinti e domestici passi della sua marcia. Ma la tediosa
enumerazione delle incognite e non interessanti tribù dell'Affrica, si
può ridurre alla generale osservazione, che esse erano tutte della nera
stirpe dei Mori, che abitavano gl'interni stabilimenti delle province
della Mauritania e della Numidia, paese (come in seguito si è chiamato
dagli Arabi) dei datteri e dello locuste[125]; e che come andava
nell'Affrica decadendo la potenza Romana, insensibilmente si
ristringevano i limiti della civiltà e dell'agricoltura. Oltre gli
ultimi confini de' Mauritani, il vasto ed inospito deserto del Sud
s'estende più di mille miglia fino alle rive del Nigro. Gli Antichi, i
quali avevano una cognizione molto debole ed imperfetta della gran
Penisola dell'Affrica, furono alle volte indotti a credere, che dovesse
la zona torrida restare perpetuamente priva di abitatori[126]; ed alle
volte divertivano la lor fantasia con empire quel voto intervallo di
uomini o piuttosto di mostri[127], di satiri con le corna e col piede
forcuto[128], di favolosi centauri[129], e di umani pimmei, che facevano
un'audace e dubbiosa guerra contro le grue[130]. Cartagine avrebbe
tremato alla strana notizia che le terre di là dall'equatore eran piene
d'innumerabili popoli, i quali non differivano dall'ordinaria figura
della specie umana, che nel colore; ed i sudditi del Romano Impero
avrebbero potuto affannosamente aspettare, che quegli sciami di Barbari,
che uscivan dal Settentrione, presto incontrassero dalla parte del
Mezzogiorno nuovi sciami di Barbari ugualmente formidabili e fieri. Tali
oscuri terrori si sarebbero invero dissipati dalla più esatta cognizione
del carattere degli Affricani loro nemici. L'inazione per altro dei Neri
non sembra che sia l'effetto nè della virtù, nè della pusillanimità
loro. Soddisfano essi, come il resto degli uomini, le loro passioni ed
appetiti; e le vicine tribù si trovan frequentemente impegnate in atti
d'ostilità[131]. Ma la rozza loro ignoranza non ha inventata mai verun
arme efficace di difesa o di distruzione; pare che siano incapaci di
formare alcun piano esteso di governo o di conquista; e le nazioni della
zona temperata facilmente hanno scoperta l'inferiorità delle loro
potenze intellettuali; e ne hanno abusato. Ogni anno s'imbarcano dalla
costa della Guinea sessantamila Neri per non tornar mai più al nativo
loro paese; ma sono imbarcati in catene[132]; e tal continua emigrazione
che nello spazio di due secoli avrebbe potuto somministrar eserciti da
soggiogar tutto il globo, accusa la reità dell'Europa e la debolezza
dell'Affrica.

[A. 365-378]

IV. Era stato fedelmente eseguito dalla parte dei Romani l'ignominioso
trattato, che salvò l'esercito di Gioviano; e siccome avevano essi
rinunziato solennemente alla sovranità ed alleanza dell'Armenia e
dell'Iberia, quei tributari due regni si trovarono esposti senza
protezione alle armi del Monarca Persiano[133]. Entrò Sapore nel
territorio dell'Armenia, conducendo un formidabile esercito di corazze,
di arcieri e d'infanteria mercenaria; ma era un invariabile suo costume
il mescolare la guerra con la negoziazione, e risguardar la falsità e lo
spergiuro, come gli istrumenti più efficaci della reale politica. Egli
affettò di lodare la prudente e moderata condotta del Re d'Armenia; ed
il non diffidente Tiranno si lasciò persuadere dalle replicate
assicurazioni d'un'insidiosa amicizia a dar la propria persona in mano
ad un infido e crudele nemico. In mezzo ad uno splendido convito fu
posto in catene d'argento, quasi fosse un onore dovuto al sangue degli
Arsacidi; e dopo una breve dimora nella Torre dell'Oblivione ad
Ecbatana, fu liberato dalle miserie della vita per mezzo o del suo
proprio pugnale, o di quello d'un assassino. Il regno dell'Armenia fu
ridotto alla condizione d'una provincia Persiana; ne fu divisa
l'amministrazione fra un nobile Satrapo, ed un favorito Eunuco; e Sapore
senza indugio marciò a soggiogare il marziale spirito degli Iberi.
Sauromace, che per concessione degl'Imperatori vi regnava, fu espulso
dalla forza superiore; ed il Re dei Re, insultando alla maestà di Roma,
pose il diadema sul capo all'abbietto suo vassallo Aspacura. La città
d'Artogerassa[134] fu l'unico luogo dell'Armenia, che ardisse resistere
allo sforzo delle sue armi. Il tesoro depositato in quella forte rocca
tentava l'avarizia di Sapore; ma il pericolo d'Olimpiade, moglie o
vedova del Re d'Armenia, eccitò la pubblica compassione, ed animò il
disperato valore dei sudditi e soldati di essa. I Persiani furon
sorpresi e rispinti sotto le mura d'Artogerassa da una coraggiosa e ben
concertata sortita che fecero gli assediati. Ma di continuo si
rinnovavano ed accrescevan le forze di Sapore; s'esaurì finalmente il
disperato coraggio della guarnigione; cederono all'assalto le mura; e
l'altiero vincitore, dopo d'aver messo a ferro e fuoco la ribelle città,
condusse via schiava una sfortunata Regina, che in un più prospero tempo
era stata destinata per isposa del figlio di Costantino[135]. Se però
Sapore trionfava già della facil conquista di due dipendenti regni,
presto s'accorse che non può dirsi soggiogato un paese, fin tanto che
infierisce negli animi del popolo uno spirito d'ostilità e di
contumacia. I Satrapi, ai quali fu egli costretto d'affidarsi,
abbracciaron la prima occasione che ebbero di riguadagnar l'affezione
dei loro compatriotti, e di segnalare l'odio immortale che portavano al
nome Persiano. Gli Armeni e gl'Iberi, dopo la lor conversione,
risguardavano i Cristiani come i favoriti, ed i Magi come i nemici
dell'Ente Supremo; l'influenza parimente del Clero sopra un popolo
superstizioso si esercitava in favore di Roma, e finchè i successori di
Costantino disputarono con quelli d'Artaserse la sovranità delle
intermedie Province, la connessione religiosa portò sempre un vantaggio
decisivo dalla parte dell'Impero. Un numeroso ed attivo partito
riconobbe Para, figlio di Tirano, per legittimo Sovrano d'Armenia; ed il
diritto di esso al trono avea le sue profonde radici nell'ereditaria
successione di cinquecento anni. Per unanime consenso degl'Iberi fu
diviso ugualmente il paese fra' rivali due Principi; ed Aspacura che era
debitor del diadema all'elezione di Sapore, fu costretto a dichiarare,
che il riguardo pe' suoi figliuoli ch'eran ritenuti in ostaggio dal
Tiranno, era l'unico riflesso che l'impediva di rinunziare apertamente
all'alleanza della Persia. L'Imperator Valente che rispettava le
convenzioni del trattato, e temeva d'impegnar l'Oriente in una
pericolosa guerra, tentò con lenti e cauti passi di sostenere il partito
Romano nei Regni d'Iberia e d'Armenia. Dodici Legioni stabilirono
l'autorità di Sauromace sulle rive del Ciro. L'Eufrate era difeso dal
valore d'Arinteo. Un potente esercito sotto il comando del Conte
Trajano, e di Vadomairo, Re degli Alemanni, pose il campo nei confini
dell'Armenia. Ma fu strettamente ordinato loro di non essere i primi a
commettere ostilità, che potessero interpretarsi come un'infrazione del
trattato: e tale fu l'implicita obbedienza del Generale Romano, che i
soldati si ritirarono con esemplare pazienza sotto una pioggia di dardi
Persiani, insino a che avessero chiaramente acquistato un giusto diritto
ad una legittima ed onorevol vittoria. Queste apparenze di guerra però
insensibilmente si ridussero ad una vana e tediosa negoziazione. Ambe le
parti sostenevan le lor pretensioni con mutui rimproveri di ambizione e
di perfidia; e sembra che il trattato originale fosse espresso in
termini molto oscuri, giacchè furono esse ridotte alla necessità
d'inconcludentemente appellarsi alla parzial testimonianza de' Generali
di ambedue le nazioni, che si erano trovati presenti al trattato
medesimo[136]. L'invasione dei Goti e degli Unni, che poco dopo scosse i
fondamenti del Romano Impero, espose le Province dell'Asia alle armi di
Sapore. Ma l'età cadente e forse le infermità del Monarca gli suggeriron
nuove massime di moderazione e di pace. La sua morte, che accadde nella
piena maturità d'un regno di settanta anni, cangiò in un istante la
Corte ed i consigli della Persia; e probabilmente ne fu impiegata
l'attenzione nelle domestiche turbolenze, e nei distanti sforzi di una
guerra Carmania[137]. Nel godimento della pace si perdè la rimembranza
delle antiche ingiurie; fu permesso ai Regni dell'Armenia e dell'Iberia
pel reciproco, sebbene tacito, consenso di ambi gl'Imperi di riprendere
la dubbiosa loro neutralità; e nei primi anni del regno di Teodosio,
giunse a Costantinopoli un'ambasceria Persiana per iscusare i mal
giustificabili passi del precedente regno; e per offerire, come un
tributo d'amicizia o anche di rispetto, uno splendido donativo di gemme,
di seta e di elefanti dell'India[138].

[A. 384]

Nella general pittura degli affari Orientali sotto il regno di Valente,
le avventure di Para formano uno degli oggetti più singolari e di
maggior effetto. Il nobile Giovane, cedendo alle persuasioni d'Olimpia
sua madre, era fuggito attraverso l'oste Persiana, che assediava
Artogerassa, ed aveva implorato la protezione dell'Imperator
dell'Oriente. Pei timidi suoi consigli, Para fu alternativamente
sostenuto e richiamato, restituito ai suoi Stati, e tradito. Furono per
qualche tempo eccitate le speranze degli Armeni dalla presenza del lor
naturale Sovrano; ed i Ministri di Valente si persuadevano di mantenere
l'integrità della fede pubblica, se non concedeva egli al suo vassallo
di prendere il diadema ed il titolo di Re. Ma presto si pentirono della
loro imprudenza. Restaron confusi dai rimproveri e dalle minacce del
Monarca Persiano. Ebbero anche ragione di diffidare dell'indole crudele
ed incostante di Para medesimo, che sacrificava le vite dei suoi sudditi
più fedeli ai più tenui sospetti, e teneva una segreta e vergognosa
corrispondenza coll'assassino del proprio padre e col nemico della sua
patria. Para, collo specioso pretesto di deliberare coll'Imperatore
intorno ai comuni loro interessi, fu indotto a discendere dalle montagne
dell'Armenia, dove il suo partito era in armi, e ad affidare la propria
indipendenza e salute alla discrezione d'una perfida Corte. Il Re
dell'Armenia (giacchè tale appariva egli ai propri occhi, ed a quelli
della sua nazione) fu ricevuto coi dovuti onori da' Governatori delle
Province per le quali passava; ma quando arrivò a Tarso nella Cilicia,
sotto vari pretesti fu arrestato il progresso del suo viaggio; si
guardavano con rispettosa vigilanza i suoi movimenti; ed appoco appoco
s'accorse d'esser prigioniero in balìa dei Romani. Egli soppresse allora
lo sdegno, coprì i suoi timori, e dopo d'essersi preparata segretamente
la fuga, montò a cavallo con trecento de' suoi fedeli seguaci.
L'uffiziale, che stava alla porta del suo appartamento, immediatamente
partecipò tal fuga al Consolare della Cilicia, che lo sopraggiunse nei
sobborghi, e tentò senza effetto di dissuaderlo dal proseguire quel
temerario e pericoloso disegno. Fu ordinato ad una legione d'inseguire
il fuggitivo Reale; ma l'inseguimento dell'infanteria non poteva dare
gran fastidio ad un corpo di cavalleria leggiera, e dopo il primo nuvolo
di dardi che furono scagliati nell'aria, precipitosamente si ritirarono
alle porte di Tarso. Dopo una continua marcia di due giorni e due notti,
Para giunse co' suoi Armeni alle sponde dell'Eufrate; ma il passaggio
del fiume, che doverono traversare a nuoto, portò seco qualche dilazione
e qualche perdita. Il paese era in armi; e le due strade, non separate
che da uno spazio di tre miglia, erano state prese da mille arcieri a
cavallo sotto gli ordini di un Conte e d'un Tribuno. Para avrebbe dovuto
cedere alla maggior forza, se l'accidentale arrivo d'un viaggiatore suo
amico non gli avesse manifestato il pericolo ed i mezzi per evitarlo. Un
oscuro e quasi impraticabil sentiero per un folto bosco condusse in
sicuro la truppa Armena, e Para si era lasciati dietro il Conte ed il
Tribuno, mentre stavano essi pazientemente aspettando l'arrivo di lui
per le pubbliche strade. Tornarono dunque alla Corte Imperiale, scusando
la loro mancanza di diligenza o di successo; e seriamente addussero in
lor difesa, che il Re d'Armenia, il quale era un abile Mago, aveva
trasformato se stesso ed i compagni, ed era passato avanti ai lor occhi
sotto un'altra figura. Tornato Para al nativo suo regno, tuttavia
continuò a professarsi amico ed alleato dei Romani; ma questi troppo
aspramente l'avevano ingiuriato per lasciarlo in pace, e fu pronunziata
nel consiglio di Valente la segreta sentenza della sua morte. Fu
commessa la fatale esecuzione di essa alla sottil prudenza del Conte
Trajano; ed egli ebbe il merito d'insinuarsi nella confidenza del
credulo Principe in modo, che potè trovar la comodità di trafiggergli il
cuore. Para fu invitato ad un banchetto Romano che era stato preparato
con tutta la pompa e tutto il lusso Orientale; la sala risuonava di
grata musica, e la compagnia era già riscaldata dal vino, allorchè il
Conte ritirossi per un momento, sfoderò la spada, e diede il segno
dell'uccisione. Immediatamente corse addosso al Re d'Armenia un robusto
e disperato Barbaro; e quantunque egli bravamente difendesse la propria
vita con la prima arma che a caso gli capitò nelle mani, la mensa
dell'Imperial comandante restò macchiata dal sangue reale d'un ospite e
d'un alleato. Tanto eran deboli e malvagie le massime del governo
Romano, che per giungere ad un fine dubbioso di politico interesse,
crudelmente si violavano in faccia al Mondo le leggi delle nazioni ed i
sacri diritti dell'ospitalità[139].

V. Nel pacifico intervallo di trent'anni i Romani assicuraron le loro
frontiere, ed i Goti estesero i loro dominj. Le vittorie del
grand'Ermanrico[140], Re degli Ostrogoti, ed il più nobile nella stirpe
degli Amali, si son paragonate dall'entusiasmo dei suoi nazionali alle
imprese d'Alessandro, con questa singolare e quasi incredibile
differenza, che lo spirito marziale dell'Eroe Gotico, invece di esser
sostenuto dal vigore della gioventù, si manifestò con gloria e successo
nell'ultimo periodo della vita umana, fra l'età di ottanta e di
centodieci anni. Le indipendenti tribù furon persuase o costrette a
riconoscere il Re degli Ostrogoti per Sovrano della nazione Gotica: i
Capi dei Visigoti o dei Tervingi rinunziarono al titolo Reale, ed
assunsero il più basso nome di _Giudici_; e fra questi Atanarico,
Fritigerno, ed Alvavivo erano i più illustri pel personale lor merito,
non meno che per la vicinanza alle province Romane. Quelle domestiche
conquiste, le quali accrebbero la forza militare d'Ermanrico,
ingrandirono anche gli ambiziosi disegni di lui. Esso invase gli
addiacenti paesi del Nord, e dodici considerabili nazioni, delle quali
non si possono esattamente definire i nomi ed i limiti, l'una dopo
l'altra cederono alla superiorità delle armi Gotiche[141]. Gli Eruli,
che abitavano le pantanose terre vicine alla palude Meotide, eran
celebri per la loro forza ed agilità; ed in tutte le guerre dei Barbari
veniva con ardore sollecitato, ed altamente stimato l'aiuto della loro
infanteria leggiera. Ma lo spirito attivo degli Eruli fu soggiogato
dalla lenta e costante perseveranza dei Goti; e dopo una sanguinosa
azione in cui restò morto il Re, i residui di quella guerriera tribù
divennero un utile aumento all'esercito di Ermanrico. Marciò egli allora
contro dei Venedi, non abili nell'uso delle armi, e solo formidabili pel
loro numero, i quali occupavano la vasta estensione delle pianure della
moderna Polonia. I vittoriosi Goti, che non eran di numero inferiori ad
essi, prevalsero nella pugna mercè dei vantaggi decisivi della
disciplina e dell'esercizio. Dopo d'aver sottomesso i Venedi, s'avanzò
il conquistatore senza alcuna resistenza fino ai confini degli
Estj[142], antico popolo, di cui tuttavia conservasi il nome nella
Provincia d'Estonia. Quei remoti abitanti della costa Baltica si
sostenevano mediante i lavori dell'agricoltura, s'arricchivano col
commercio dell'ambra, ed erano addetti al culto speciale della madre
degli Dei. Ma la scarsità del ferro costringeva i guerrieri Estj a
contentarsi di clave di legno; e si attribuisce la riduzione di quel
ricco paese alla prudenza piuttosto che all'armi d'Ermanrico. I suoi
stati che s'estendevano dal Danubio al Baltico, includevano le native
regioni, ed i moderni acquisti dei Goti; ed esso regnava sopra la
maggior parte della Germania e della Scizia coll'autorità di un
conquistatore e qualche volta con la crudeltà di un tiranno; ma regnava
sopra una parte del globo incapace di perpetuare e di adornare la gloria
de' suoi Eroi. Il nome d'Ermanrico è quasi sepolto nell'obblivione;
appena si ha notizia delle sue imprese; e pare che i Romani stessi
ignorassero i progressi d'un'intraprendente potenza, che minacciava la
libertà del Settentrione e la pace dell'Impero[143].

[A. 366]

I Goti avevano contratto un ereditario attaccamento all'Imperial casa di
Costantino, che tante segnalate prove avea lor date di liberalità e di
potenza. Essi rispettavano la pubblica pace; e se alle volte qualche
truppa ostile ardiva di passare il confine Romano, tale irregolare
condotta candidamente si attribuiva all'indomito spirito della Barbara
gioventù. Il disprezzo, che avevano per due Principi nuovi ed oscuri,
innalzati al trono per una popolare elezione, inspirò ai Goti più ardite
speranze; e mentre formavano disegni di riunire le confederate loro
forze sotto il medesimo stendardo della nazione[144], furono facilmente
tentati ad abbracciare il partito di Procopio, ed a fomentare col
pericoloso loro soccorso la discordia civile dei Romani. Il pubblico
trattato non avrebbe richiesto più di diecimila ausiliari; ma con tanto
zelo adottossi questo disegno dai Capi de' Visigoti, che l'armata, la
quale passò il Danubio, ascese al numero di trentamila uomini[145]. Essi
marciarono con la superba persuasione, che l'invincibile loro valore
avrebbe decisa la sorte del Romano Impero; e le Province della Tracia
gemerono sotto il peso dei Barbari, che spiegavano l'insolenza di
padroni e la licenziosa condotta di nemici. Ma l'intemperanza che
sollecitava i loro appetiti, ne ritardò il progresso; e prima che i Goti
potessero avere alcuna certa notizia della disfatta e della morte di
Procopio, conobbero dallo stato di difesa, in cui si trovava il paese,
che il fortunato rivale di lui aveva ripresa la civile e la militar
potestà. Una catena di torri e di fortificazioni, abilmente disposte da
Valente o dai suoi Generali, arrestò la loro marcia, ne impedì la
ritirata, e ne intercettò la sussistenza. La fierezza dei Barbari fu
domata e sospesa dalla fame; posero essi dispettosamente le loro armi ai
piedi del vincitore, che offrì loro cibo e catene; i numerosi schiavi
furon distribuiti in tutte le città dell'Oriente; ed i provinciali, che
ben presto si famigliarizzarono col loro aspetto selvaggio, appoco
appoco arrischiaronsi a misurare le forze con quei formidabili
avversari, il nome de' quali era stato sì lungamente l'oggetto del loro
terrore. Il Re della Scizia (ed il solo Ermanrico potea meritare tal
sublime titolo) sentì dispiacere ed ira per tal disgrazia della nazione.
I suoi Ambasciatori fecero alte doglianze alla Corte di Valente della
violazione dell'antica e solenne alleanza, che per tanto tempo era
sussistita fra i Romani ed i Goti. Dicevano essi d'avere adempito il
dovere di alleati assistendo il parente e successore dell'Imperator
Giuliano; richiedevano l'immediata restituzione dei nobili schiavi; ed
insistevano sopra una ben singolar pretensione, che i Generali Goti, che
marciavano in armi ed in ostile ordinanza, avesser diritto al sacro
carattere ed ai privilegi di ambasciatori. Un decente ma perentorio
rifiuto di tali stravaganti domande venne significato ai Barbari da
Vittore, Generale della cavalleria, che rappresentò con forza e dignità
le giuste querele dell'Imperatore d'Oriente[146]. Fu interrotto il
trattato: e le virili esortazioni di Valentiniano incoraggiarono il
timido suo fratello a vendicare l'insultata maestà dell'Impero[147].

[A. 367-368-369]

Un istorico di quel tempo celebra lo splendore e la grandezza di questa
guerra Gotica[148]; ma l'evento di essa appena merita l'attenzione della
posterità, qualora non voglia risguardarsi come un passo preliminare
dell'imminente decadenza e rovina dell'Impero. In cambio di condurre le
nazioni della Germania e della Scizia alle rive del Danubio, o anche
alle porte di Costantinopoli, il vecchio Monarca dei Goti rassegnò al
bravo Atanarico il pericolo e la gloria d'una guerra difensiva contro un
nemico che maneggiava con debole destra le forze d'un grande stato. Fu
eretto un ponte di barche sopra il Danubio; la presenza di Valente
animava le sue truppe; e la sua ignoranza nell'arte della guerra veniva
compensata in esso dalla personal bravura, e da una savia deferenza ai
consigli di Vittore e d'Arinteo, suoi Generali di cavalleria e
d'infanteria. Le operazioni della campagna regolate furono dalla loro
abilità ed esperienza; ma fu loro impossibile di trarre i Visigoti dai
forti posti delle montagne; e la devastazione delle pianure obbligò i
Romani medesimi a ripassare il Danubio all'approssimarsi dell'inverno.
Le continue piogge che fecer gonfiare le acque del fiume, produssero una
tacita sospension di armi, e confinarono l'Imperator Valente in tutta la
seguente state nel suo campo di Marcianopoli. Il terzo anno della guerra
fu più favorevole pe' Romani, e dannoso pe' Goti. L'interrompimento del
commercio privò i Barbari degli oggetti di lusso, che essi già
confondevano con le necessità della vita, e la desolazione d'un molto
esteso tratto di paese gli minacciava degli orrori della carestia.
Atanarico fu provocato o costretto ad arrischiare una battaglia, che ei
perdè, nella pianura; e la crudel precauzione dei vittoriosi Generali,
che avevano promesso un grosso premio per la testa di ogni Goto, che
portata fosse nel campo Imperiale, rendè più sanguinosa la caccia dei
vinti. La sommissione dei Barbari quietò lo sdegno di Valente e del suo
consiglio; l'Imperatore diede orecchio con piacere all'adulatrice ed
eloquente rimostranza del Senato di Costantinopoli, che per la prima
volta ebbe parte nelle pubbliche deliberazioni; ed i medesimi Generali
Vittore ed Arinteo, che avean felicemente diretta la condotta della
guerra, ebbero la facoltà di regolare le condizioni della pace. La
libertà del commercio, che i Goti avevano fin allora goduta, fu
ristretta a due sole città sul Danubio; fu severamente punita la
temerità dei lor Capi con la soppressione delle pensioni e dei sussidi
che ricevevano; e l'eccezione che fu stipulata in favore del solo
Atanarico, fu più vantaggiosa che onorevole al Giudice dei Visigoti.
Atanarico, il quale sembra che in quest'occasione consultasse il suo
privato interesse senza aspettar gli ordini del Sovrano, sostenne la
propria dignità e quella della sua tribù nel personal congresso, che fu
proposto dai Ministri di Valente. Ei persistè nella dichiarazione, che
era impossibile per lui senza incorrere nella colpa di spergiuro, il
porre mai piede sul territorio dell'Impero; ed è più che probabile che
il riguardo, che aveva per la santità del giuramento, fosse confermato
dai recenti e fatali esempi della Romana perfidia. Fu scelto il Danubio
che separava i dominj delle due indipendenti nazioni, per luogo della
conferenza. L'Imperator d'Oriente ed il Giudice dei Visigoti,
accompagnati da un ugual numero di loro seguaci armati, s'avanzarono nei
respettivi loro battelli fino alla metà del fiume. Dopo la ratifica del
trattato e la consegna degli ostaggi, Valente tornò in trionfo a
Costantinopoli, ed i Goti rimaser tranquilli circa sei anni, finchè a
forza non furono spinti contro l'Impero Romano da un'innumerabile armata
di Sciti, che sboccarono dalle gelate regioni del Norte[149].

[A. 374]

L'Imperator d'Occidente, che aveva lasciato al fratello il comando del
basso Danubio, riservò immediatamente a se stesso la difesa delle
Province Retiche e Illiriche, che per tante centinaia di miglia
estendevansi lungo il maggior fiume dell'Europa. L'attiva politica di
Valentiniano era continuamente occupata in aggiunger nuove
fortificazioni alla sicurezza della frontiera; ma l'abuso di tal
politica provocò il giusto risentimento dei Barbari. I Quadi si dolsero
che era stato preso dal lor territorio il suolo per una fortezza che si
meditava di fare; e sostennero con tanta ragione e moderatezza le loro
querele, che Equizio, Generale dell'Illirico, acconsentì a sospendere il
proseguimento dell'opera, finattanto che fosse più chiaramente informato
del volere del suo Sovrano. Questa bella occasione di far ingiuria a un
rivale, e di avanzare la fortuna del proprio figlio, fu ardentemente
abbracciata dal crudele Massimino, Prefetto o piuttosto tiranno della
Gallia. Le passioni di Valentiniano non soffrivan opposizioni; ed egli
prestò con credulità orecchio alle assicurazioni del suo favorito, che
se fosse affidato allo zelo di Marcellino, suo figlio, il governo di
Valeria e la direzione dell'opera, l'Imperatore non sarebbe stato più
importunato dalle audaci rimostranze dei Barbari. I sudditi di Roma ed i
nativi della Germania furono insultati dall'arroganza d'un giovane e
indegno Ministro, che risguardava la rapida sua elevazione come la prova
ed il premio del sublime suo merito. Egli affettò, per altro,
d'ammettere la modesta istanza di Gabino, Re de' Quadi, con attenzione e
riguardo: ma quest'artificiosa cortesia celava un oscuro e sanguinario
disegno, ed il credulo Principe s'indusse ad accettare il premuroso
invito di Marcellino. Io non so come variare la narrazione di delitti
fra loro simili, o come riferire che nel corso d'un medesimo anno, ma in
diverse lontane parti dell'Impero, l'inospita mensa di due Comandanti
Imperiali fosse macchiata dal regio sangue di due ospiti ed alleati,
crudelmente uccisi per ordine ed in presenza di essi. L'istesso fu il
destino di Gabinio e quello di Para; ma in maniera molto diversa la
crudel morte del Sovrano si risentì dalla servil indole degli Armeni e
dal libero ed audace spirito dei Germani. I Quadi erano essi, in vero,
assai scaduti da quel formidabil potere, che al tempo di Marco Antonino
aveva sparso il terrore fino alle porte di Roma. Essi però avevano
sempre armi e coraggio; questo fu animato dalla disperazione, ed
ottennero il solito rinforzo di cavalleria dai Sarmati, loro alleati. Il
perfido Marcellino fu tanto imprudente che scelse il momento, nel quale
i veterani più bravi erano stati mandati a sopprimere la ribellione di
Firmo; e tutta la Provincia era esposta con una debol difesa al furore
dei Barbari esacerbati. Essi invasero la Pannonia nel tempo della
raccolta; senza compassione distrussero tutto ciò che facilmente non
potevano trasportare; e disprezzarono o demolirono le vuote
fortificazioni. Alla Principessa Costanza, figlia dell'Imperator
Costanzo, e nipote del gran Costantino, assai difficilmente riuscì di
fuggire. La regia fanciulla che innocentemente avea sostenuta la
ribellione di Procopio, era in quel tempo destinata per moglie all'Erede
dell'Impero Occidentale. Traversava essa con uno splendido e non armato
corteggio quella Provincia creduta pacifica. E la persona di lei fu
salvata dal pericolo, ugualmente che la Repubblica dal disonore,
mediante l'attivo zelo di Messala, Governatore di quelle Province.
Appena egli seppe che il villaggio, dove ella s'era fermata per
desinare, era quasi circondato dai Barbari, la pose in fretta sul
proprio cocchio, e corse velocemente finchè giunse alle porte di Sirmio,
che era distante ventisei miglia. Neppur questa città sarebbe stata
sicura, se i Quadi ed i Sarmati si fossero speditamente avanzati, mentre
i Magistrati del popolo erano in una generale costernazione. Il loro
indugio concesse a Probo, Prefetto del Pretorio, tempo abbastanza di
riprendere animo egli stesso, e di ravvivare il coraggio dei cittadini.
Egli abilmente diresse i loro valorosi sforzi per riparare e fortificare
le cadenti muraglie; e procurò l'opportuna ed efficace assistenza d'una
compagnia di arcieri, per proteggere la capitale delle Province
Illiriche. Sconcertati nei tentativi, che fecero contro le mura di
Sirmio, gli irritati Barbari voltaron le armi contro il Generale della
frontiera, al quale ingiustamente attribuivano la morte del loro Re. Non
poteva Equizio mettere in campo che due legioni; ma contenevano esse il
veterano vigore delle truppe Mesie e Pannonie. La ostinazione con cui
disputaron fra loro i vani onori della precedenza e del grado, fu causa
della lor distruzione; e mentre agivano con forze separate e con
differenti disegni, sorprese furono e trucidate dall'operoso vigore
della Sarmata cavalleria. Il buon successo di quest'invasione provocò
l'emulazione delle confinanti tribù; e si sarebbe infallibilmente
perduta la Provincia della Mesia, se il giovane Teodosio, Duce o militar
Comandante della frontiera, non avesse, nella disfatta del pubblico
nemico, segnalato un intrepido genio, degno dell'illustre suo padre e
della sua futura grandezza[150].

[A. 375]

Lo spirito di Valentiniano, che allora risedeva in Treveri, fu
profondamente commosso dalle calamità dell'Illirico; ma la stagione
avanzata sospese l'esecuzione de' suoi disegni fino alla primavera
seguente. Mosse egli in persona, con una parte considerabile delle
truppe della Gallia, dalle rive della Mosella; ed ai supplichevoli
Ambasciatori dei Sarmati, che l'incontraron per viaggio, rispose
dubbiosamente, che quando fosse giunto al luogo dell'azione, avrebbe
esaminato e deciso. Arrivato a Sirmio, diede udienza ai Deputati delle
Province Illiriche, i quali altamente gloriaronsi della loro felicità
sotto il prospero governo di Probo, Prefetto del Pretorio[151].
Valentiniano, ch'era lusingato da tali dimostrazioni di fedeltà e di
gratitudine, dimandò imprudentemente al Deputato dell'Epiro, che era un
filosofo Cinico d'intrepida sincerità[152], s'era egli stato inviato
liberamente dai voti della Provincia? «Io son mandato (replicò Ificle)
con lacrime e con lamenti da un popolo contro sua voglia». L'Imperatore
s'arrestò: ma l'impunità de' suoi ministri fece stabilire la perniciosa
massima che essi potevano opprimere i sudditi, senza offendere il
servizio di lui. Una rigorosa ricerca sopra la loro condotta avrebbe
medicato il pubblico disgusto. La severa condanna dell'uccisor di
Gabinio era il solo mezzo che restituir potesse la confidenza dei
Germani, e vendicar l'onore del nome Romano. Ma il superbo Monarca era
incapace della magnanimità, che osa riconoscere una mancanza. Dimenticò
egli la causa, solo si rammentò dell'ingiuria, e s'avanzò nel paese dei
Quadi con un'insaziabile sete di vendetta e di sangue. Si giustificò
agli occhi dell'Imperatore, e forse a quelli del Mondo l'estrema
devastazione ed il promiscuo macello d'una barbara guerra dalla crudele
equità delle rappresaglie[153], e tale fu la disciplina dei Romani e la
costernazione del nemico, che Valentiniano ripassò il Danubio senza la
perdita d'un solo uomo. Siccome aveva egli risoluto di totalmente
distruggere i Quadi in una seconda campagna, stabilì i suoi quartieri
d'inverno a Bregezio sul Danubio, vicino alla città di Presburgo
nell'Ungheria. Mentre il rigore della stagione teneva sospese le
operazioni di guerra, i Quadi fecero un umile tentativo di mitigare il
furor del vincitore; ed i loro Ambasciatori, alla premurosa persuasione
d'Equizio, furono introdotti nel consiglio Imperiale. Accostaronsi al
trono inchinati ed in aria dimessa; e senza neppure osar di dolersi
della morte del loro Re, affermarono con solenni giuramenti, che
l'ultima invasione era solo imputabile ad alcuni sregolati ladroni, dal
consiglio pubblico della nazione condannati ed abborriti. La risposta
dell'Imperatore lasciò ad essi ben poca speranza di clemenza o di pietà.
Egli rinfacciò loro, col più intemperante linguaggio, la lor viltà,
ingratitudine ed insolenza. Gli occhi, la voce, il colore, i gesti
esprimevano la violenza dello sfrenato furore di lui. Mentre tutto il
suo aspetto era agitato da una passion convulsiva, un grosso vaso
sanguigno ad un tratto gli si ruppe nel petto; e Valentiniano cadde
senza parola nelle braccia dei suoi famigliari. Essi ebbero
immediatamente la cura di nasconder la sua situazione alla moltitudine:
ma in pochi minuti l'Imperator d'Occidente spirò in un'agonia dolorosa,
ritenendo fino all'ultimo i suoi sentimenti, e cercando inutilmente di
esprimere le sue intenzioni ai Generali e Ministri che circondavano il
reale suo letto. Valentiniano aveva circa cinquantaquattro anni; e non
mancavano che cento giorni a compire i dodici anni del suo regno[154].

[A. 375]

Un istorico Ecclesiastico attesta seriamente la poligamia di
Valentiniano[155]. «L'Imperatrice Severa (io riferisco la favola )
ammise alla sua famigliar conversazione la bella Giustina, figlia d'un
Governatore Italiano; ed espresse con sì grandi ed inconsiderate lodi la
sua ammirazione di quelle nude bellezze, che aveva spesso vedute nel
bagno, che l'Imperatore fu tentato d'introdurre una seconda moglie nel
proprio letto; e con pubblico editto estese a tutti i sudditi
dell'Impero l'istesso domestico privilegio, che aveva preso per se
medesimo». Ma noi siamo assicurati dalla testimonianza della ragione e
dell'Istoria, che i due matrimoni di Valentiniano con Severa e con
Giustina furon contratti l'un dopo l'altro; e che ei si servì
dell'antica permission del divorzio, che era sempre accordata dalle
leggi, quantunque condannata dalla Chiesa. Severa fu madre di Graziano,
il quale sembrò che riunisse in sè ogni diritto all'indubitata
successione dell'Impero Occidentale. Egli era il figlio maggiore d'un
Monarca, il glorioso regno del quale avea confermato la libera ed
onorevol scelta dei suoi compagni soldati. Prima di giungere all'età di
nove anni il regio fanciullo avea ricevuto dalle mani dell'indulgente
suo padre la porpora ed il diadema col titolo d'Augusto; n'era stata
solennemente confermata la scelta dal consenso ed applauso degli
eserciti della Gallia[156]; ed erasi aggiunto il nome di Graziano a
quelli di Valentiniano e di Valente in tutti gli atti legali del Governo
Romano. Mercè del suo maritaggio con la nipote di Costantino, il figlio
di Valentiniano acquistò tutti gli ereditari diritti della Famiglia
Flavia, che in una serie di tre Imperiali generazioni s'erano confermati
dal tempo, dalla religione, e dalla riverenza del popolo. Alla morte del
padre il giovane reale aveva l'età di diciassette anni; e già le sue
virtù giustificavano la favorevole opinione del popolo e dell'esercito.
Ma Graziano si trovava senza timore nella reggia di Treveri, allorchè
alla distanza di molte centinaia di miglia Valentiniano subitamente morì
nel campo di Bregezio. Le passioni che sì lungo tempo erano state
soppresse dalla presenza d'un dominante, immediatamente si ravvivarono
nel consiglio Imperiale; e l'ambizioso disegno di regnare in nome di un
fanciullo fu posto artificiosamente in effetto da Mellobaude e da
Equizio, che avevano per sè l'amore delle truppe Illiriche ed Italiane.
Immaginarono essi i più onorevoli pretesti per rimuovere i Capi del
popolo e le truppe della Gallia, che avrebber potuto sostenere i diritti
del legittimo successore; e suggerirono con un ardito e decisivo passo
la necessità di estinguere le speranze dei nemici sì domestici che
stranieri. L'Imperatrice Giustina, che era restata in un palazzo circa
cento miglia lontano da Bregezio, fu rispettosamente invitata a venire
nel campo col figlio del morto Imperatore. Il sesto giorno dopo la morte
di Valentiniano, il Principe fanciullo dell'istesso nome, che non aveva
più di quattr'anni, fu mostrato nelle braccia della propria madre alle
legioni, e coll'acclamazion militare solennemente investito dei titoli e
delle insegne del potere supremo. La savia e moderata condotta
dell'Imperator Graziano impedì a tempo gli imminenti pericoli d'una
guerra civile. Accettò volentieri la scelta dell'esercito; dichiarò che
avrebbe sempre risguardato il figlio di Giustina come fratello, non come
rivale; e consigliò l'Imperatrice a stabilire col figlio di Valentiniano
la sua residenza a Milano nella bella e pacifica provincia dell'Italia,
mentre egli assumeva il più difficil comando delle regioni oltre le
alpi. Graziano dissimulò il suo sdegno finattanto che potesse con
sicurezza punire, o svergognare gli autori della cospirazione: e sebbene
si diportasse con uniforme tenerezza e riguardo verso il suo infante
collega, tuttavia nell'amministrazione dell'Impero occidentale confuse
appoco appoco l'uffizio di tutore coll'autorità di Sovrano. Si
esercitava il governo del Mondo Romano unitamente in nome di Valente e
dei suoi due nipoti: ma il debole Imperator Orientale, che in questa
dignità successe al suo fratello maggiore, non ebbe mai peso od
ascendente veruno nei consigli dell'Occidente[157].

NOTE:

[1] Le medaglie di Gioviano l'adornano di vittorie, di corone di lauro e
di schiavi prostrati. Du Cange _Famil. Bizantin._ p. 52. L'adulazione è
uno stolto suicidio: distrugge se stessa con le proprie mani.

[2] Gioviano restituì alla Chiesa τον αρχαιον κοσμον, _l'antico
decoro_; espressione forte e significante; Filostorg. l. VIII.
c. 5 _con le dissertazioni del Gotofredo_ p. 329, Sozomeno VI. c. 3. Si
esagera da Sozomeno la nuova legge, che condannò il ratto o il
matrimonio delle Monache (_Cod. Teodos._ l. IX. tit. XXV. leg. 2). Egli
suppone che uno sguardo amoroso, l'adulterio del cuore, fosse punito con
la morte dall'Evangelico Legislatore.

[3] Si confronti Socrate l. III c. 25. e Filostorgio l. VIII. c. 6. _con
le dissertazioni del Gotofredo_. 330.

[4] La parola _celestiale_ esprime debolmente l'empia e stravagante
adulazione dell'Imperatore verso l'Arcivescovo τἦ πρὸς τον θεὸν τὦν
ολων ὁμὸιωσεως; _figura di Dio onnipotente_. Vedi la lettera
originale appresso Atanasio Tom. II. p. 33. Gregorio Nazianzeno (_Orat.
XXI._ p. 392.) celebra l'amicizia di Gioviano e di Atanasio. I Monaci
d'Egitto consigliarono il Primate a far quel viaggio: Tillemont _Mem.
Eccl. Tom._ VIII. p. 221.

[5] Il Bleterie rappresenta ingegnosamente Atanasio alla Corte
d'Antiochia _Hist. de Jovien Tom. I._ pag. 131, 148. Egli traduce le
singolari ed originali conferenze dell'Imperatore, del Primate d'Egitto,
e de' Deputati Arriani. L'Abbate non si mostra soddisfatto delle rozze
facezie di Gioviano; ma la parzialità dell'Imperatore per Atanasio
prende a' suoi occhi il carattere di giustizia.

[6] Il vero tempo della sua morte è oscurato da varie difficoltà:
(Tillemont _Mem. Eccl._ Tom. VIII. p. 719-723). Ma la data del 2. Maggio
373., che sembra più coerente all'istoria ed alla ragione vien
confermata dall'autentica vita di lui. Maffei _Osservaz. Letterar. Tom.
III._ p. 81.

[7] Vedi le osservazioni del Valesio e Jortin (_Rifles. sull'Istor.
Eccl._ Vol. IV. p. 38.) sopra la lettera originale d'Atanasio
conservataci da Teodoreto (l. IV. c. 3). In alcuni manoscritti vien
tralasciata quell'imprudente promessa, forse dai Cattolici gelosi della
fama profetica del loro Capo.

[8] Atanasio (ap. Teodoret. l. IV. c. 3) magnifica il numero degli
Ortodossi, che riempivano tutto il Mondo; παρέξ ὸλὶγων των τα Αρεὶ
ου Φρονουντὦν; _eccettuati alcuni pochi seguaci della dottrina
d'Arrio_. Quest'asserzione fu verificata nello spazio di 30. o 40. anni.

[9] Socrate (l. III. c. 24.) Gregorio Nazianzeno, (_Orat. IV._ p. 131),
e Libanio (_Orat. parent._ c. 148, p. 369) esprimono i viventi sensi
delle rispettive loro fazioni.

[10] Temist. _Orat._ V. p. 63-71, _edit. Harduin. Paris_ 1684. L'Ab.
della Bleterie giudiziosamente osserva (_Hist. de Jovien Tom._ II. pag.
199.) che Sozomeno ha passato in silenzio la general tolleranza, e
Temistio lo stabilimento della religione Cattolica. Ciascheduno di essi
ha voltato l'occhio lungi da quell'oggetto, che non gli piaceva, ed ha
procurato di sopprimere quella parte dell'editto, che secondo la propria
opinione, era meno onorevole all'Imperator Gioviano.

[11] Οι δε Αντίοχεις ουκ ηδεως δὶεκειντο πρὸς ὰυτὸν, ὰλλ’
έπεσκωπτον ὰυτὸν ωδαὶς καὶ παροδὶαις καὶ καλουμενοις Φαμωσοις: _E
quelli d'Antiochia non si portavan piacevolmente verso di esso: ma
l'insultavano con canzoni, con motti satirici, e con quelli che chiaman
libelli famosi_. Giovanni Antioch. _in Excerpt. Valesian. p._ 845.
Possono ammettersi le satire d'Antiochia anche su debolissime prove.

[12] Si paragoni Ammiano (XXV. 10.) che omette il nome dei Batavi, con
Zosimo (l. III. p. 197.) che trasferisce la scena dell'azione da Reims a
Sirmio.

[13] _Quos capita scholarum ordo castrensis appellat._ Ammiano XXV. 10,
e Vales. _ib._

[14] _Cujus vagitus pertinaciter reluctantis, ne in curuli sella
veheretur ex more, id quod mox accidit, protendebat._ Augusto ed i
Successori di lui avevan chiesta rispettosamente la dispensa dell'età
per li figliuoli o nipoti, che avevano innalzati al Consolato. Ma la
sella curule del primo Bruto non era mai stata disonorata da un bambolo.

[15] L'Itinerario d'Antonino pone Dadastana distante 125 miglia da
Nicea, e 117 da Ancira (Wesseling. _Itinerar._ p. 142). Il Pellegrino di
Bordò, tralasciando alcune fermate, riduce tutto quello spazio da 242 a
181 miglia: Wesseling. p. 574.

[16] Vedi Ammiano (XXV. 10.) Eutropio (X. 18.), che potè per avventura
trovarsi presente, Girolamo (Tom. I. p. 26. _ad Heliodorum_), Orosio
(VII. 31), Sozomeno (l. VI. c. 6), Zosimo (lib. III. p. 197. 198.) e
Zonara (Tom. II. l. XIII. p. 28. 29). Non può sperarsi un perfetto
accordo fra loro, nè staremo a discutere le minute differenze che vi si
trovano.

[17] Ammiano, dimenticatosi del solito suo candore e buon senso,
paragona la morte dell'innocente Gioviano a quella del secondo
Affricano, che aveva eccitato i timori e lo sdegno della fazion
popolare.

[18] Grisostomo Tom. I, p. 336. 344. _Edit. Monfaucon_. L'oratore
Cristiano procura di confortare la vedova con esempi d'illustri
avversità; ed osserva che fra nove Imperatori (includendovi Gallo
Cesare) che avevan regnato al suo tempo, due soli (Costantino e
Costanzo) eran morti di morte naturale. Tali vaghe consolazioni non
hanno mai servito ad asciugare una lacrima.

[19] Sembra, che dieci giorni difficilmente potessero esser sufficienti
per la marcia e per l'elezione. Ma possiamo osservare in primo luogo,
che i Generali potevano ordinar l'uso speditivo delle pubbliche poste,
per se stessi, per i loro famigliari e per i messaggi; secondariamente,
che le truppe marciavano, per comodo delle città, in più divisioni; e
che la fronte della colonna poteva essere a Nicea, quando la
retroguardia trovavasi ad Ancira.

[20] Ammiano XXVI. 1. Zosim. l. III. p. 198. Filostorg. l. VIII. c. 8. e
Gotofred. _dissert._ p. 334. Filostorgio, il quale pare che avesse delle
importanti ed autentiche notizie, attribuisce la scelta di Valentiniano
al Prefetto Sallustio, al Generale Arinteo, a Dagalaifo Conte dei
domestici, ed al patrizio Daziano, le pressanti raccomandazioni dei
quali da Ancira ebbero una grande influenza nell'elezione.

[21] Ammiano XXX. 7. 9. e Vittore il giovane hanno somministrato il
ritratto di Valentiniano, che dee naturalmente precedere ed illustrare
l'istoria del suo regno.

[22] In Antiochia, dove era obbligato a seguire l'Imperatore nel tempio,
ei percosse un sacerdote, che avea preteso di purificarlo coll'acqua
lustrale. Sozomeno l. VI. c. 6. Teodoreto l. III. c. 15. Tal pubblica
provocazione poteva convenire a Valentiniano; ma essa non dà luogo
all'indegna accusa del filosofo Massimo, che suppone qualche più privata
ingiuria. Zosimo l. IV. p. 200, 201.

[23] Socrate l. IV. Da Sozomeno (l. VI. c. 6.) e da Filostorgio (l. VII.
c. 7. _con le Dissertazioni del Gotofredo p._ 293) vi si interpone un
precedente esilio a Melitene o nella Tebaide. (Il primo potrebbe esser
vero).

[24] Ammiano, in una lunga ed inopportuna digressione (XXVI. 1. e
_Vales. iv._) inconsideratamente suppone d'intender egli una questione
astronomica, della quale i suoi lettori siano all'oscuro. Essa è
trattata con più giudizio, ed a proposito da Censurino (_De die Natal._
c. 20.) e da Macrobio (_Saturnal._ l. I. _c._ 12-16). Il nome di
bisestile, che indica l'anno di cattivo augurio (Agostino _ad Januar.
Epist._ 119.) è nato dalla ripetizione del giorno _sesto_ avanti le
calende di Marzo.

[25] Il primo discorso di Valentiniano è pieno in Ammiano, (XXVI. 2.)
conciso e sentenzioso in Filostorgio (l. VIII.).

[26] _Si tuos amas, Imperator, optime, habes fratrem: si Rempublicam,
quaere quem vestias_: Ammiano XXVI. 4. Nella division dell'imperio,
Valentiniano ritenne per sè quell'ingenuo Consigliere (c. 6.).

[27] _In Suburbano_ Ammiano XXVI. 4. Il famoso _Hebdomon_, o campo di
Marte, era distante sette stadj, o sette miglia da Costantinopoli. Vedi
Vales. ed il suo fratello. _Iv. e_ Ducange _Const. l._ II. _p._ 140,
141, 172, 173.

[28] _Participem quidem legitimum potestatis; sed in modum apparitoris
morigerum, ut progrediens aperiet textus._ Ammiano XXVI. 4.

[29] Nonostante la testimonianza di Zonara, di Suida, e della Cronica
Pasquale, il Tillemont (_Hist. des Emper. Tom._ V. _p._ 671.) brama di
non dar fede a questi racconti sì vantaggiosi per un Pagano.

[30] Eunapio celebra ed esagera i patimenti di Massimo (p. 82. 83). Egli
confessa però che questo Sofista o mago, reo favorito di Giuliano, e
personal nemico di Valentiniano, fu rilasciato libero, mediante il
pagamento d'una piccola multa.

[31] Il Tillemont (Tom. V. p. 21.) ha esaminato e confutato quelle
illimitate asserzioni di general disgrazia che si trovano app. Zosimo l.
IV. p. 201.

[32] Ammiano XXVI. 5.

[33] Ammiano dice in termini generali, _subagrestis ingenii, nec
bellicis, nec liberalibus studiis eruditus_: Ammiano XXXI. 14. L'oratore
Temistio, con l'impertinenza propria di un Greco, desiderò allora per la
prima volta di parlar la lingua Latina, dialetto del suo Sovrano,
την δὶαλεκτον κρατουσαν; _dialetto Imperiale_: Orat. VI. pag. 71.

[34] La parola ανεψὶος _cognatus consobrinus_, esprime un
grado incerto di parentela, o di consanguinità. _Vedi Vales. ad Ammian_.
XXIII. 3. Forse la madre di Procopio era sorella di Basilina madre
dell'Apostata e del Conte Giuliano zio del medesimo. Du Cange _Fam.
Byzant. p. 49._

[35] Ammiano XXIII. 3. XXIV. 6. Ei fa menzione di tal voce con molta
dubbiezza. _Susurravit obscurior fama; nemo enim dicti auctor extitit
verus_. Giova però l'osservare, che Procopio era Pagano; quantunque la
sua religione sembra che non apportasse favore nè danno alle sue
pretensioni.

[36] Tra i suoi luoghi d'asilo fu una casa di campagna dell'eretico
Eunomio. Il padrone di essa era lontano, innocente, e non consapevole
del fatto; pure appena evitar potè la sentenza di morte, e fu bandito
nelle remote regioni della Mauritania: Filostorg. l. IX. c. 5. 8. e
Gotofredo _Dissert. p. 369. 378._

[37] _Hormisdae maturo juveni, Hormisdae regalis illius filio potestatem
Proconsulis detulit, et civilia, more veterum et bella recturo_; Ammiano
XXVI. 8. Il Principe Persiano si trasse fuori da tal pericolo con onore
e sicurezza, e dipoi (l'anno 380), gli fu restituito il medesimo
straordinario uffizio di Proconsole della Bitinia (Tillemont _Hist. des
Emper._ Tom. V. p. 204). Io non so se la razza di Sassan si propagasse.
Trovo nell'anno 514 un Papa Ormisda; ma egli era nativo di Frusino
nell'Italia (Pagi _Brev. Pontif. T. I. pag._ 247).

[38] Questa ribelle fanciulla fu in seguito moglie dell'Imperator
Graziano; ma morì giovane e senza figli. Vedi Du Cange _Fam. Byzant. p._
48, 59.

[39] _Sequimini culminis summi prosapiam._ Tale era il linguaggio di
Procopio, che affettava di sprezzare l'oscura nascita e la fortuita
elezione dell'ignobil Pannonio. Ammiano XXVI. 7.

[40] _Et dedignatus hominem superare certamine despicabilem,
auctoritatis et celsi fiducia corporis, ipsis hostibus jussit suum
vincere rectorem: atque ita turmarum antesignanus umbratilis
comprehensus suorum manibus._ La robustezza e la beltà d'Arinteo, nuovo
Ercole, vien celebrata da S. Basilio, il quale suppone che Dio lo
creasse come un modello inimitabile della specie umana. I Pittori e gli
Scultori non sapevano esprimere la sua figura; gli Storici nel riferire,
che fanno, le imprese di lui, sembrano favolosi (Ammiano XXVI. e Vales.
_ib._).

[41] Il medesimo campo di battaglia si pone in Licia da Ammiano, e da
Zosimo a Tiatira, che sono alla distanza di 150. miglia fra loro. Ma
Tiatira _alluitur Lyco_ (Plin. _Histor. Nat._ V. 31, Cellar _Geogr.
Antiq. Tom._ II. p. 79) ed i copisti facilmente poteron cangiare un
ignoto fiume in una ben nota provincia.

[42] Le avventure, l'usurpazione e la caduta di Procopio vengono
regolarmente riferite da Ammiano (XXVI. 6. 7. 8. 9. 10.) e da Zosimo (l.
IV. p. 203-210). Spesse volte s'illustrano, e di rado si contraddicono
fra loro. Temistio (_Orat._ VII. p. 91. 92.) vi aggiunge qualche vil
panegirico, ed Eunapio (p. 83. 84.) qualche maligna satira.

[43] Liban. _De ulcisc. Julian. nece_ c. IX. p. 158, 159. Il Sofista
deplora la pubblica frenesia, ma non accusa (neppur dopo la loro morte)
la giustizia degli Imperatori.

[44] I Giureconsulti Francesi ed Inglesi dei nostri tempi accordano la
_teoria_, e negan la _pratica_ dell'arte magica: Denisart _Recueil de
decis. de Jurispr. Vedi Sorciers T. IV. p._ 553. Blackstone _Commment.
Vol. IV._ p. 60. La ragione privata sempre suol prevenire o avanzare il
sapere pubblico; ond'è che il Presidente di Montesquieu (_Esprit des
Loix l. XII. c._ 5, 6.) rigetta l'esistenza della magia.

[45] Vedi le opere di Bayle _Tom. III._ p. 567-589. Lo Scettico di
Rotterdam presenta, secondo il suo costume, uno strano mescuglio di
vaghe cognizioni, e di vivace ingegno.

[46] I Pagani distinguevan la magia buona dalla cattiva, la teurgica
dalla goetica (_Hist. de l'Acad. ec. T. VII. p._ 25). Ma non avrebber
potuto difendere tale oscura distinzione contro l'acuta logica del
Bayle. Nel sistema Giudaico e nel Cristiano _tutti_ i demoni sono
spiriti infernali; ed _ogni_ commercio con essi è idolatria, apostasia
ec. che merita morte e dannazione.

[47] La Canidia d'Orazio (_Carm. l. V. od. 5. con le illustrazioni di
Dacier e di Sanadon_) è una strega volgare. L'Erictone di Lucano
(Pharsal. VI. 430-830.) è molesta e disgustosa, ma qualche volta
sublime. Essa riprende la lentezza delle furie: e minaccia con tremenda
oscurità di pronunziare i veri lor nomi, di scuoprire il vero infernale
aspetto di Ecate, e d'invocar le segrete potestà che sono _sotto_
l'inferno ec.

[48] _Genus hominum potentibus infidum, sperantibus fallax, quod in
civitate nostra et vetabitur semper et retinebitur_: Tacit. _Hist. I._
22. Vedi Agostin. _de Civ. Dei l. VIII. c._ 19. ed il _Cod. Teodos. l.
IX. Tit. XXVI. col Comment._ del Gotofredo.

[49] La persecuzione d'Antiochia fu cagionata da una colpevole
consultazione. Si posero le ventiquattro lettere dell'alfabeto intorno
ad un tripode magico; ed un mobile agnello, che era stato collocato nel
centro, indicò nel nome del futuro Imperatore le quattro prime lettere
Φ, Ε, Ο, Δ. Teodoro (forse con molti altri che avevan quelle
fatali sillabe nel loro nome) fu condannato a morte. Teodosio successe
nel trono. Lardner (_Testim. Pagan. Vol. IV. p._ 353-372.) ha esaminato
copiosamente e bene quest'oscuro fatto del regno di Valente.

[50]

    _Limus ut hic durescit, et haec ut cera liquescit_
    _Uno eodemque igni..._

                              Virgil. _Bucol. VIII._ 80.

    _Devovit absentes, simulacraque cerea figit:_

                    Ov. _in Epist. Hipsi. ad Jason._ 91.

Tali vane incantazioni poteron commuovere lo spirito, ed accrescer la
malattia di Germanico. Tacit. _Annal. II._ 69.

[51] Vedi Heinecc. Antiq. Jur. Rom. Tom. II. p. 353. _ec. Cod. Teod.
l. IX. Tit. VIII_, col _Comment. del Gotofred._

[52] È descritta, ed assai probabilmente esagerata la crudele
inquisizione di Roma e di Antiochia da Ammiano (XXVIII, 1. XXIX, 1. 2.),
e da Zosimo (l. IV. p. 216. 218). Il filosofo Massimo fu con qualche
ragione involto nell'accusa di magia (Eunap. _in vit. Sophist. p._ 88.
89.), ed il giovane Grisostomo, che accidentalmente aveva trovato uno
dei libri proscritti, si credè perduto. Tillemont _Histoir. des Emper.
Tom. V. p._ 340.

[53] Si consultino gli ultimi sei libri d'Ammiano, e specialmente i
ritratti dei due fratelli reali (XXX. 8. 9. XXXI. 14). Il Tillemont
(Tom. V. pag. 12-18. p. 127-133.) ha raccolto da tutta l'antichità le
virtù ed i vizi loro.

[54] Vittore il giovane asserisce, che egli era _valde timidus_: pure
alla testa d'un esercito si portava con decente fermezza, come avrebbe
fatto quasi qualunque altro. Il medesimo Istorico si propone di provare
che la sua collera non era dannosa. Ammiano però osserva con maggior
candore e giudizio, che _incidentia crimina ad contemptam vel laesam
Principis amplitudinem trahens in sanguinem saeviebat_.

[55] _Cum esset ad acerbitatem naturae calore propensior... poenas per
ignes augebat et gladios._ Ammiano XXX. 8. ved. XXVII. 7.

[56] Ho trasferito la taccia d'avarizia da Valente a' suoi servi. Questa
passione appartiene più propriamente ai Ministri che ai Re, nei quali
per ordinario viene estinta dal dominio assoluto.

[57] Egli esprimeva alle volte una sentenza di morte in aria di scherzo.
_Abi, comes, et muta ei caput, qui sibi mutari Provinciam cupit._ Un
ragazzo, che avea sciolto troppo presto un can da caccia Spartano, un
artefice che avea fatto una bella corazza, in cui mancavano pochi grani
del giusto peso, ec., furon vittime del suo furore.

[58] Erano innocenti tre apparitori ed un agente di Milano, che
Valentiniano condannò per aver significato una legal citazione. Ammiano
(XXVII. 7.) stranamente suppone che tutti coloro, i quali erano stati
ingiustamente condannati, si venerassero come martiri dai Cristiani.
L'imparziale silenzio di lui non ci permette di credere, che Rodano,
gran Ciamberlano, fosse arso vivo per un atto d'oppressione: _Cron.
Pasq. p._ 302.

[59] _Ut bene meritam in sylvas jussit abire_ Innoxiam. Ammian. XXIX. 5.
e Vales. _ib._

[60] Vedi _Cod. Justin. lib. VIII. Tit. III. leg. 2. Unus quisque
sobolem suamn nutriat. Quod si exponendam putaverit, animadversioni,
quae constituta est, subiacebit._ Io non mi starò a mescolare
presentemente nella disputa insorta fra Noodt e Bynkershoek, con quali
pene e per quanto tempo tal pratica opposta alla natura si fosse
condannata o abolita dalle leggi, dalla filosofia e dalla maggior
cultura della società.

[61] Questi salutari stabilimenti sono indicati nel codice Teodosiano
_lib._ XIII. _Tit. III. De Professoribus et Medicis, e lib._ XIV. _Tit._
IX. _De studiis liberalibus urbis Romae_. Oltre il Gotofredo, solita
nostra guida, si può consultare il Giannone (_Stor. di Napoli Tom._ I.
p. 105. 111) che ha trattato di quest'importante soggetto con lo zelo e
con la curiosità d'un letterato che studia l'istoria del suo paese.

[62] _Cod. Teodos. lib. I. Tit. XI._ col _Paratitlo_ del Gotofredo, che
diligentemente riunisce tutto ciò che si trova nel resto del Codice.

[63] Tre versi d'Ammiano (XXXI. 14) equivalgono a tutta una orazione di
Temistio (VIII. p. 101-120.) piena di adulazione e pedanteria e di
luoghi comuni di Morale. L'eloquente Thomas (Tom. I, p. 336-396) si è
dilettato nel celebrar le virtù ed il genio di Temistio che non fu
indegno del secolo, nel quale visse.

[64] Zosimo _l._ IV. p. 102, Ammiano XXX. 9. La riforma, che ei fece, di
dispendiosi abusi, potè dargli diritto alla lode, _in provinciales
admodum parcus, tributorum ubique molliens sarcinas_. Alcuni chiamavano
avarizia la sua frugalità: Girolam. _Cronic._ p. 186.

[65] _Testes sunt leges a me in exordio imperii mei datae: quibus
unicuique quod animo imbibisset colendi libera facultas tributa est.
Cod. Teodos. lib. IX. Tit. XVI. leg._ 9. A questa dichiarazione di
Valentiniano possiamo aggiungere le varie testimonianze di Ammiano (XXX.
9), di Zosimo (lib. IV. p. 204.) e de Sozomeno (l. VI. c. 7. 27). Il
Baronio sarebbe naturalmente indotto a biasimare questa ragionevole
tolleranza: _Annal. Eccl. an._ 370. num. 129. 132. an. 375. n. 3. 4.

[66] Eudosso era d'un naturale timido e dolce. Quando battezzò Valente
nell'anno 367. doveva essere molto vecchio, poichè aveva studiato la
teologia cinquantacinque anni avanti sotto il dotto e pio martire
Luciano. Filostorg. l. II c. 14-16, l. IV. c. 4. col Gotofred. p.
82-206. e Tillemont _Mem. Eccles. Tom. V. p._ 474. 480. ec.

[67] Gregorio Nazianzeno (_Orat. XXV. p._ 432.) insulta lo spirito
persecutore degli Arriani, come un infallibil sintomo d'errore e
d'eresia.

[68] Questo schizzo del governo Ecclesiastico di Valente è tratto da
Socrate (l. IV.), da Sozomeno (l. VI.), da Teodoreto (l. IV.), e dalle
immense compilazioni del Tillemont (specialmente dal Tom. VI. VIII. e
IX.).

[69] Il D. Jortin. (_Osservaz. sull'Istor. Eccles._ Vol. IV. p. 78.) ha
già concepito ed insinuato l'istesso sospetto.

[70] Questa riflessione è così ovvia e forte, che Orosio (l. VII. c. 32.
33.) differisce la persecuzione fino ad un tempo posteriore alla morte
di Valentiniano. Socrate dall'altra parte, suppone (l. III. c. 21.) che
fosse quietata da una filosofica orazione, che pronunziò Temistio l'anno
374. (_Orat. XXII._ p. 154. solamente in Latino). Tali contraddizioni
diminuiscono l'evidenza ed abbreviano il termine della persecuzione di
Valente.

[71] Il Tillemont, da me seguitato e compendiato, ha tratto (_Mem.
Eccles. Tom. VIII._ p. 153-167.) le più autentiche circostanze dai
Panegirici dei due Gregori, l'uno fratello e l'altro amico di Basilio.
Le lettere di Basilio medesimo (Dupin _Bibl. Eccles. Tom. II._ p.
155-180.) non presentano l'immagine d'una persecuzione molto viva.

[72] _Basilius Caesarensis Episcopus Cappadociae clarus habetur... qui
multa continentiae et ingenii bona uno superbiae malo perdidit._ Questo
irriverente passo perfettamente combina con lo stile e col carattere di
S. Girolamo. Non si trova nell'Edizione Scaligeriana della sua Cronica;
ma Isacco Vossio l'ha trovato in alcuni antichi manoscritti, che non
erano stati corretti dai Monaci.

[73] Quella nobile e caritatevole fabbrica (quasi un'altra città)
sorpassava in merito se non in grandezza, le piramidi o le mura di
Babilonia. Essa era destinata principalmente a ricevere i lebbrosi:
Gregor. Nazianzeno _Orat. XX._ pag. 439.

[74] _Cod. Teodos. l. XII. Tit. I. leg. 63._ Il Gotofredo (Tom. IV. p.
409-413) fa l'uffizio di Commentatore e d'Avvocato. Il Tillemont (_Mem.
Ecoles. Tom. VIII. p. 808._) suppone una seconda legge per iscusare gli
Ortodossi suoi amici, che avevano male rappresentato l'editto di Valente
e soppresso la libertà della scelta.

[75] Vedi Danville _Descript. de l'Egypt. p. 74._ In seguito esamineremo
gl'Instituti Monastici.

[76] Socrate l. IV. c. 24. 25., Orosio l. VII. c. 33. Girol. _Cron._ p.
189. e Tom. II. p. 212. I Monaci dell'Egitto facevano molti miracoli,
che provan la verità della loro fede. Benissimo, (dice Jortin _Osservaz.
Vol. IV._ p. 79.) ma chi prova la verità di questi miracoli?

[77] _Cod. Teodos. lib. XVI. Tit. II. leg. 20._ Il Gotofredo (Tom. IV.
pag. 49.), seguitando l'esempio del Baronio, raccoglie senza parzialità
tutto quello che i Padri hanno detto relativamente a questa importante
legge, lo spirito della quale molto tempo dopo fu fatto risorgere
dall'Imperator Federigo II. da Eduardo I. Re d'Inghilterra, e da altri
Principi Cristiani, che regnarono dopo il duodecimo secolo.

[78] L'espressioni, che ho adoperate, son deboli e moderate, se si
paragonino con le veementi invettive di Girolamo (Tom. I. p. 13. 45.
144). Fu anche ad esso rinfacciata la colpa, che egli imputava ai Monaci
fratelli di lui; e lo _scellerato, il versipelle_ fu pubblicamente
accusato come amante della vedova Paola. (Tom. II. p. 363). Ei godeva
senza dubbio l'affezione sì della madre che della figlia; ma dichiara
che non abusò mai della sua autorità in favore di alcun sensuale o a sè
vantaggioso disegno.

[79] _Pudet dicere Sacerdotes Idolorum, mimi, et aurigae, et scorta
haereditates capiunt: solis Clericis ac Monacis hac lege prohibetur. Et
non prohibetur a persecutoribus, sed a Principibus Christianis. Nec de
lege quaeror, sed doleo, cur meruerimus hanc legem._ Girolamo (Tom. I.
p. 13) prudentemente indica la segreta politica di Damaso, suo
protettore.

[80] Tre parole di Girolamo, _Sanctae memoriae Damasus_ (Tom. II. p.
109.), lavano tutte le sue macchie; ed abbagliano i devoti occhj del
Tillemont: _Mem. Eccles. T. VIII p. 386. 424._

[81] La Basilica di Sicinino o di Liberio è probabilmente la Chiesa di
S. Maria Maggiore sul colle Esquilino. Baronio an. 367. num. 3. e Donat.
_Rom. Antiq. et nov. lib. IV. c. 3. p. 462._

[82] Girolamo stesso è costretto a confessare _crudelissimae
interfectiones diversi sexus perpatratae. Cron._ p. 186. Ma per strana
combinazione ci è restato un _libello_, o domanda originale di due Preti
del partito contrario. Essi affermano, che furon bruciate le porte della
Basilica, e scoperchiatone il tetto; che Damaso marciò alla testa del
suo Clero, di scavatori di sepolcri, di cocchieri e di gladiatori
stipendiati; che non fu ucciso veruno del suo partito, ma che vi furon
trovati centosessanta corpi morti. Tal libello fu pubblicato dal P.
Sirmondo nel primo Tomo delle sue opere.

[83] I nemici di Damaso lo chiamavano _Auriscalpius Matronarum_,
sollecitatore degli orecchj delle matrone.

[84] Gregorio Nazianzeno (_Orat._ XXXII. p. 526.) descrive la vanità ed
il lusso dei Prelati che presedevano alle città Imperiali; gli aurei
loro cocchi, i focosi destrieri, ed il numeroso seguito ec. La turba
dava luogo come ad una bestia selvaggia.

[85] Ammiano XXVII. 3. _Perpetuo Numini verisque ejus cultoribus._ Che
incomparabil condiscendenza d'un Politeista!

[86] Ammiano, che fa una bella narrazione della sua Prefettura (XXVII.
9.), lo chiama _praeclarae indolis gravitatisque Senator_ (XXII. 7. e
_Vales. ib_.). Una curiosa Inscrizione (ap. Gruter. MCII, n. 2.)
contiene in due colonne gli onori civili e religiosi di esso. In una
vien dichiarato Pontefice del Sole e di Vesta, Augure, Quindecemviro,
Jerofante ec. ec. Nell'altra 1. Questore candidato, più probabilmente
titolare, 2. Pretore, 3. Correttore della Toscana e dell'Umbria, 4.
Consolare della Lusitania, 5. Proconsole dell'Acaja, 6. Prefetto di
Roma, 7. Prefetto del Pretorio d'Italia, 8. dell'Illirico, 9. Console
eletto; ma egli morì prima che cominciasse l'anno 385. Vedi Tillemont
_Hist. des Emper. Tom. V. p. 241, 736_.

[87] _Facite me Romanae urbis Episcopum, et ero protinus Christianus:_
Girolam. Tom. II. p. 165. Egli è più che probabile, che Damaso non
avrebbe comprato a tal prezzo la conversione di esso.

[88] Ammiano XXVI. 5. Valesio aggiunge una lunga e stimabile nota sopra
il Maestro degli Uffizj.

[89] Ammiano XXVII. 1. Zosimo l. IV. p. 208. Vien soppressa la vergogna
dei Batavi da un soldato contemporaneo per un riguardo all'onor
militare, che non poteva interessare un Retore Greco del seguente
secolo.

[90] Vedi Danville _Not. dell'ant. Gallia p. 587_. Il nome della
Mosella, che non è specificato da Ammiano, viene indicato chiaramente da
Mascov _Istor. degli ant. Germani_ VII. 2.

[91] Son descritte queste battaglie da Ammiano (XXVII. 2) e da Zosimo
(l. IV. p. 209.) il quale suppone che Valentiniano vi si trovasse
presente.

[92] _Studio sollicitante nostrorum occubuit_: Ammiano XXVII. 10.

[93] Questa spedizione vien riferita da Ammiano (XXVII. 10) e celebrata
da Ausonio (_Mosell. 421_.) il quale stoltamente suppone, che i Romani
ignorassero le sorgenti del Danubio.

[94] _Immanis enim natio jam inde ab incunabulis primis varietate casuum
imminuta, ita saepius adolescit, ut fuisse longis soeculis aestimetur
intacta_: Ammiano XXVII. 5. Il Conte di Buat (_Histor. des Peuples de
l'Europ. Tom. VII. p. 370_.) attribuisce la fecondità degli Alemanni
alla facilità con cui adottavano gli stranieri.

[95] Ammiano XXVIII. 2. Zosimo l. IV. p. 214. Vittore il Giovane fa
menzione del genio meccanico di Valentiniano: _nova arma meditari;
fingere terra seu limo simulacra._

[96] _Bellicosos et pubis immensae viribus affluentes, et ideo metuendos
finitimis universis._ Ammiano XXVIII. 5.

[97] Io son sempre inclinato a sospettare, che gl'Istorici e i
viaggiatori facilmente riducano a leggi generali alcuni fatti
straordinarj. Ammiano attribuisce un costume simile all'Egitto; ed i
Chinesi l'hanno attribuito al Tapsin o all'Impero Romano (De Guignes
_Histor. des Huns_ Tom. II. p. I. p. 79.)

[98] _Salinarum finiumque causa Alemannis saepe jurgabant:_ Ammiano
XXVIII. 5. Può esser che si disputassero il possesso della _Sala_, fiume
che produceva del sale, e che era stato l'oggetto di antiche pugne.
Tacit. _Annal._ XIII. 57. e Lipsio _ib._

[99] _Jam inde temporibus priscis sobolem se esse Romanam Burgundii
sciunt_; e tale incerta tradizione appoco appoco prese un aspetto
regolare: Oros. l. VII. c. 32. Essa è distrutta dalla decisiva
testimonianza di Plinio, che fece l'istoria di Druso, e militò in
Germania (Plin. Sec. _Epist._ III. 5.) dentro i sessant'anni dalla morte
di quell'eroe: Germanorum _generae quinque Vindili, quorum pars
Burgundiones ec. Hist. nat. IV. 28._

[100] Le guerre e le negoziazioni relative a' Borgognoni ed agli
Alemanni son distintamente riferite da Ammiano Marcellino (XXVII. 5.
XXIX. 4. XXX. 1.) Orosio (l. VII. c. 33) e le Croniche di Girolamo e di
Cassiodoro determinano alcune date, ed aggiungono varie circostanze.

[101] Επι τον αυχενα της Κιμβρικη χερσονεσου Σαξονες _nel più
stretto del Chersoneso Cimbrico i Sassoni_. All'estremità Settentrionale
della penisola (ch'è il promontorio Cimbrico di Plinio IV. 27) Tolomeo
pone il restante dei _Cimbri_, e riempie l'intervallo fra i _Sassoni_ ed
i Cimbri con sei oscure tribù, che erano unite insieme fino dal sesto
secolo sotto la nazional denominazione di _Dani_. Vedi Cluver. _German.
Antiq._ l. III. c. 21. 22. 23.

[102] Danville (_Etablissem. des etats de l'Europe p._ 19. 26) ha
determinato gli estesi limiti della Sassonia al tempo di Carlo Magno.

[103] La flotta di Druso invano tentò di passare o anche d'avvicinarsi
al _Sund_ (chiamato per una facile somiglianza _le colonne d'Ercole_) e
non fu mai più intrapresa tale spedizione navale: Tacit. _de morib.
Germ. c._ 34. La cognizione che i Romani acquistarono delle forze
marittime del Baltico (c. 44. 45) l'ottennero col mezzo dei viaggi che
facevano per terra in cerca dell'ambra.

[104]

    _Quin et Aremoricus piratam Saxona tractus....._
    _Sperabat; cui pelle salum sulcare Britannum_
    _Ludus; et assuto glaucum mare findere lembo._

                         Sidon. _in Panegyr. Avit._ 369.

Il genio di Cesare imitò in una particolare occasione quei rozzi ma
leggieri vascelli, che s'usavano ancora dagli abitanti della Britannia
(_Comment. de Bello Civ._ I. 51) e Guichardt (_Nouv. Memoir. milit.
Tom._ II. _p._ 41. 42). Le navi Britanniche farebbero al presente
stupire il genio di Cesare.

[105] Posson trovarsi le migliori notizie originali, rispetto ai pirati
Sassoni, appresso Sidonio Apollinare (l. VIII. _Epist._ VI. p. 223,
_edit. Sirmond._), ed il miglior Commentario appresso l'Abb. du Bos
(_Hist. crit. de la Monar. Fran. Tom._ I. _l._ I _c._ 16. _p._ 148-155.
_Vedi_ anche p. 78. 79).

[106] Ammiano (XXVIII. 5.) giustifica tale mancanza di fede ai pirati e
ladroni; ed Orosio (l. VII. c. 32.) esprime più chiaramente la vera lor
colpa, _virtute atque agilitate terribiles_.

[107] Simmaco (l. II. ep. 16.) pretende di far tuttavia menzione dei
sacri nomi di Socrate e della filosofia. Sidonio, Vescovo di Clermont,
potea condannare (l. VIII. _epist._ 6.) con _minor_ incoerenza i
sacrifizi umani dei Sassoni.

[108] Nel principio del secolo passato il dotto Cambden fu costretto a
distruggere con rispettoso scetticismo il Romanzo di _Bruto_ Troiano,
che ora è sepolto in una tacita obblivione con _Scota_ figlia di Faroah,
e la numerosa lor discendenza. Pure io so, che si trovano ancora fra gli
originali nativi di Irlanda molti campioni della colonia Milesia. Un
popolo, malcontento della propria condizione presente, s'attacca ad ogni
visione di passata o futura sua gloria.

[109] Tacito, o piuttosto Agricola suocero di lui, potè osservare la
carnagione Germanica o Spagnuola di alcune tribù Britanniche; ma la più
moderata e dichiarata loro opinione era questa: _In universum tamen
aestimanti, Gallos vicinum solum occupasse, credibile est. Eorum sacra
deprehendas.... Sermo haud multum diversus_. (_In vitae Agric. c._ XI.)
Cesare ha osservato la somiglianza della lor religione (_Comm. de Bell.
Gallic._ VI. 13.); ed al suo tempo l'emigrazione dalla Gallia Belgica
era un fatto recente o almeno istorico (V. 10). Cambden, lo Strabone
Britannico, ha modestamente determinato le nostre genuine antichità.
(_Britan. Vol._ I. _Inter. p._ II. XXXI.)

[110] Negli oscuri e dubbi sentieri dell'antichità Caledonia ho preso
per miei condottieri due dotti ed ingegnosi abitatori di montagne, che
per la nascita e l'educazione loro erario specialmente adattati a tale
uffizio. Vedi le Dissertazioni critiche sull'origine, antichità ec. dei
Caledoni del Dott. Gio. Macpherson, Londr. 1768, _in_ 4. e
_l'Introduzione all'Istoria della Gran Brettagna e dell'Irlanda di
Giacomo Macpherson, Scud. Londr._ 1773, 4, _terza ediz._ Il Dott.
Macpherson era un ministro dell'isola di Sky; ed è una circostanza che
fa onore al nostro secolo, che nella più remota fra l'Ebridi sia stata
composta un'opera piena d'erudizione e di critica.

[111] Si è fatta risorgere negli ultimi momenti di sua rovina, e
vigorosamente si è sostenuta la discendenza Irlandese degli Scoti dal
Rev. Whitaker (_Istor. di Manchester vol. I. p._ 430. 431 _ed Istoria
genuina dei Brettoni provata ec. p._ 154. 293). Pure confessa egli, 1.
che gli Scoti d'Ammiano Marcellino (an. 340) erano già stabiliti nella
Caledonia, e che gli Scrittori Romani non danno alcun indizio della loro
emigrazione da un altro paese; 2. che tutti i racconti di tali
emigrazioni, che si son fatti o ammessi dai Bardi Irlandesi, dagli
Istorici di Scozia o dagli antiquari Inglesi (Bucanano, Cambden, Usher,
Stillingfleet ec.) sono interamente favolosi; 3. che tre delle tribù
Irlandesi mentovate da Tolomeo (anno 150) eran d'origine Caledonia; 4.
che il ramo cadetto dei Principi Caledoni della casa di Fingal acquistò
e possedè il regno dell'Irlanda. Dopo queste concessioni la differenza
che resta fra il Whitaker ed i suoi avversari, è piccola ed oscura.
L'istoria _genuina_, che egli produce, d'un Fergus cugino d'Ossian, che
si trasferì (nell'anno 320.) dall'Irlanda nella Caledonia, è fondata
sopra un supplimento congetturale alla poesia Ersa, e sopra la debole
testimonianza di Riccardo di Cirencester, Monaco del secolo XIV. Il
vivace spirito dell'erudito ed ingegnoso Antiquario l'ha indotto a
dimenticare la natura d'una questione, che con tanta veemenza egli
discute, e tanto assolutamente decide.

[112] _Hyeme tumentes ac saevientes undas calcastis oceani sub remis
vestris... insperatam Imperatoris faciem Britannus expavit_: Jul.
Firmic. Matern. _de error. prop. Religion. p._ 464. _edit. Gronov. ad
calc. Minuc. Felic._ Vedi Tillemont _Hist. des Emper. Tom._ IV. _p._
336.

[113] Liban. _Orat. parent. c._ XXXIX. p. 264. Questo curioso passo è
sfuggito alla diligenza degli Inglesi nostri antiquari.

[114] I Caledoni lodavano e desideravano l'oro, i destrieri, i lumi ec.
dello _straniero_. Vedi _la Dissert. del D. Blair sopra Ossian Vol. II.
p._ 343. e _l'Introduzione di Macpherson p._ 241-286.

[115] Lord Littleton ha riferito circostanziatamente (_Istor. d'Enric.
II. Vol. I. pag._ 182.) e David Darymple ha brevemente rammentato
(_Annal. di Scozia Vol._ I. _p._ 69) una barbara irruzione degli Scoti
in un tempo (an. 1137) in cui la legge, la religione e la società
dovevano avere addolcito gli antichi loro costumi.

[116] _Attacotti bellicosa hominum natio_: Ammiano XXVII. 8. Cambden ha
restituito (_Introd. p._ CLIII) il loro vero nome nel testo di Girolamo.
Le truppe degli Attacotti, che Girolamo aveva veduto nella Gallia,
furono in seguito poste nell'Italia e nell'Illirico: _Notit. l._ VIII.
XXXIX. XL.

[117] _Cum ipse adolescentulus in Gallia viderim Attacottos (o Scotos)
gentem Britannicam humanis vesci carnibus; et cum per silvas porcorum
greges et armentorum pecudumque reperiant, pastorum nates, et feminarum
papillas solere abscindere; et has solas ciborum delicias arbitrari._
Tale è la testimonianza di Girolamo (_Tom._ II. _p._ 75), di cui non ho
ragione di porre in dubbio la veracità.

[118] Ammiano ha succintamente descritto (XX. 1. XXVI. 4. XXVII. 8.
XXVIII. 3.) tutta la serie della guerra Britannica.

[119]

    _Horrescit... ratibus... impervia Thule._
    _Ille... nec falso nomine Pictos._
    _Edomuit, Scotumque vago mucrone secutus_
    _Fregit Hyperboreas remis audacibus undas._

                  Claudian. in III. Cons. Honorii v. 53.

    _.... Maduerunt Saxone fuso_
    _Orcades: incaluit Pictorum sanguine Thule._
    _Scotorum cumulos flevit glacialis Jerne._

_In IV. Consult. Honor._ v. 31. Vedasi anche Pacato (_in Paneg. veter.
XII._ 5). Ma non è facile lo stabilire il valore intrinseco
dell'adulazione e della metafora. Si paragonino le vittorie
_Britanniche_ di Bolano (_Stat. Silv. V._ 2) col vero carattere di lui
(_ap. Tacit. in vit. Agricol._ 6. 16).

[120] Ammiano fa spesso menzione del loro _concilium annuum, legitimum
etc._ Leptis e Sabrata sono da gran tempo distrutte; ma la città di Oea,
patria d'Apulejo, fiorisce ancora sotto la provincial denominazione di
_Tripoli_. Vedi Cellar. _Geogr. antiq. Tom. II. P. II. pag._ 8. Danville
_Geogr. Ancien. Tom. II. pag._ 71 72 e Marmol _Afrique Tom. II. pag._
562.

[121] Ammiano XVIII. 6. Il Tillemont (_Hist. des Emper. T. V. p._ 25.
676) ha discusso le difficoltà cronologiche dell'istoria del Conte
Romano.

[122] La cronologia d'Ammiano è sconnessa ed oscura; ed Orosio (l. VII.
c. 33. p. 551 _edit. Havercamp._), sembra, che ponga la rivoluzione di
Firmo dopo la morte di Valentiniano e di Valente. Il Tillemont (_Hist.
des Emper. T. V. p._ 691) procura di sgombrar la strada. Ne' più
sdrucciolevoli sentieri possiamo affidarci al paziente e sicuro mulo
delle Alpi.

[123] Ammiano XXIX. 5. Il testo di questo lungo capitolo (di quindici
pagine in quarto) è mutilato e corrotto; e la narrazione è ambigua per
mancanza d'indicazioni cronologiche e geografiche.

[124] Ammiano XXVIII. 4. Orosio l. VII. c. 33. p. 551. 552. Girol.
_Chron. p._ 187.

[125] Leone Affricano (_nei viaggi di Ramusio Tom. I. fol._ 78, 83) ha
fatto una curiosa pittura sì del popolo che del paese, il quale vien più
minutamente descritto nell'_Affrica di Marmol. Tom._ III. _p._ 1-54.

[126] Tale inabitabile zona fu appoco appoco ridotta, pei miglioramenti
fatti all'antica geografia, da quarantacinque a ventiquattro o anche
sedici gradi di latitudine. Vedi una dotta e giudiziosa nota del Dott.
Robertson _Istor. d'Amer. Vol. I. p._ 426.

[127] _Intra, si credere libet, vix jam homines, et magis semiferi...
Blemmyes, satyri_ ec. Pomponio Mela l. 4. p. 26. _Edit. Voss._ in 8.
Plinio spiega _filosoficamente_ (VI. 35) le irregolarità della natura,
che _con credulità_ egli aveva ammesse V. 8.

[128] Se il Satiro era l'Orang-outang, o la grande scimia umana di
Buffon (_Hist. nat._ Tom. XIV. p. 43 ec.), potè realmente farsi veder
vivo uno di quella specie in Alessandria nel regno di Costantino.
Contuttociò resta sempre qualche difficoltà sopra la conversazione che
ebbe S. Antonio con uno di quei pii Selvaggi nel deserto della Tebaide
(Girol. _vit. Paul. Erem._ Tom. I. p. 238).

[129] S. Antonio incontrò anche uno di _questi_ mostri; l'esistenza dei
quali fu sostenuta seriamente dall'Imperatore Claudio. Il pubblico se ne
rideva; ma il suo Prefetto dell'Egitto ebbe la cura di mandare
l'artificiosa preparazione di un corpo imbalsamato d'un _Hippocentauro_
che fu conservato quasi per un secolo nel palazzo Imperiale. Vedi Plin.
(_Hist. nat._ VIII. 3) e le giudiziose osservazioni di Freret (_Mem. de
l'Acad._ Tom. VII. p. 321).

[130] La favola de' pimmei è antica quanto Omero (_Iliad._ III. 6). I
pimmei dell'India e dell'Etiopia erano (trispithami) alti ventisette
pollici. Nella primavera marciava la lor cavalleria (sopra capre e
montoni) in militare ordinanza per distrugger le ova delle grue:
_aliter_ (dice Plin.) _futuris gregibus non resisti_. Le loro case erano
formate di terra, di foglie e di gusci di conchiglie. Vedi Plin. VI. 35.
VII 2., e Strabone l. II. p. 121.

[131] I Volumi III e IV della stimabile _Storia dei viaggi_ descrivono
lo stato presente de' Neri. Le nazioni delle coste marittime si sono
incivilite pel commercio Europeo; e quelle dell'interno del paese sono
state migliorate dalle colonie Moresche.

[132] _Hist. Philos. e Polit._ Tom. IV. p. 192.

[133] È originale e decisiva la testimonianza d'Ammiano (XXVII 12). Si
son consultati Mosè di Corene (l. III. c. 17. p. 249 e c. 24. p. 169), e
Procopio (_De Bell. Pers. l. I. c._ 5. _p._ 17. _Ed. Louvr._), ma
bisogna far uso con diffidenza e cautela di quest'istorici, che
confondono i fatti fra loro distinti, ripetono i medesimi avvenimenti, e
v'inseriscono stravaganti racconti.

[134] Forse Artagera o Ardis, sotto le mura di cui restò ferito Cajo
nipote d'Augusto. Questa fortezza era situata sopra Amida, vicino ad una
delle sorgenti del Tigri. Vedi Danville _Geogr. anc._ Tom. II. p. 106.

[135] Il Tillemont (_Hist. des Emper._ Tom. V. pag. 701) prova colla
cronologia, che Olimpia deve essere stata madre di Para.

[136] Ammiano (XXVII. 12. XXIX. 1. XXX. 1. 2), ha descritto gli
avvenimenti della guerra Persiana, senza le date. Mosè di Corene (_Hist.
Armen. l. III. c._ 28. _p._ 261. _c._ 31. _p._ 266. _c._ 33. p. 271)
somministra altri fatti; ma è sommamente difficile il distinguere il
vero dal favoloso.

[137] Artaserse fu successore e fratello (cugino germano) del gran
Sapore, e custode del suo figlio Sapore III (Agat. l. IV. p. 136. _Edit.
Louvr._) Vedi l'_Istor. Univers._ Vol. XI. p. 86, 162. Gli autori di
quell'opera disuguale hanno compilato i fatti della dinastia Sassania
con erudizione e diligenza; ma è male inteso il metodo di dividere in
due distinte storie le narrazioni Romane e le Orientali.

[138] Pacat. _in Paneg. Vet. XII._ 22. ed Oros. _lib. VII. c._ 34.
_Ictumque tum foedus est, quo universus Oriens usque ad nunc_ (an. 416)
_tranquillissime fruitur_.

[139] Vedi ap. Ammiano (XXX. 1.) le avventure di Para. Mosè di Corene lo
chiama Tiridate; e racconta una lunga e non improbabile storia di Gnelo
suo figlio, che in seguito divenne popolare nell'Armenia, e provocò la
gelosia del Re allora regnante (l. III. c. 21, ec. p. 253).

[140] Sembra che il breve racconto del regno e delle conquiste
d'Ermanrico sia uno dei più stimabili frammenti, che Giornande abbia
preso (c. 28) dalle Gotiche storie d'Ablavio o di Cassiodoro.

[141] Il Buat (_Hist. des Peuples de l'Eur._ Tom. VI. p. 311, 329) va
investigando, con maggiore industria che effetto, le nazioni domate
dalle armi d'Ermanrico. Ei nega l'esistenza dei _Vasinobronci_, per
causa dell'eccessiva lunghezza del loro nome. Eppure l'Inviato Francese
a Ratisbona o a Dresda deve aver traversato il paese dei _Mediomatrici_.

[142] L'edizione di Grozio (_Jornandes_ p. 642) porta il nome di
_Aestri_. Ma la ragione ed il MS. Ambrosiano hanno restituito quello di
_Aestii_, i costumi e la situazione dei quali si rappresentano dal
pennello di Tacito (_Germ. c._ 45).

[143] Ammiano (XXXI. 3) osserva in termini generali: _Ermenrichi...
nobilissimi Regis, et per multa fortiter facta, vicinis gentibus
formidati, ec._

[144] _Valens... docetur relationibus Ducum, gentem Gothorum ea
tempestate intactam, ideoque saevissimam, conspirantem in unum ad
pervadendum parari collimitia Thraciarum._ Ammiano XXVI. 6.

[145] Il Buat (_Hist. des Peuples de l'Europ. Tom. VI. p._ 332) ha con
esattezza determinato il vero numero di questi ausiliari. I tremila
d'Ammiano, ed i diecimila di Zosimo non erano che le prime divisioni
dell'armata Gotica.

[146] Si trova descritta questa marcia e la successiva negoziazione nei
Frammenti d'Eunapio (_Excerpt. legat. p._ 18. _Edit. Louvr._). I
Provinciali, che in seguito divennero famigliari coi Barbari, trovarono
la loro forza più apparente che reale. Essi erano alti di statura, ma
avevano le gambe grosse, e le spalle anguste.

[147] _Valens enim, ut consulto placuerat fratri, cujus regebatur
arbitrio, arma concussit in Gothos ratione justa permotus_: Ammiano
(XXVII. 4.) poi continua a descrivere non già il paese dei Goti, ma la
pacifica ed obbediente provincia della Tracia, che non era attaccata
dalla guerra.

[148] Eunap. _in Excerpt. Leg. pag. 18 19._ Bisogna che il Greco Sofista
risguardasse come una medesima guerra tutta la serie dell'istoria
Gotica, sino alle vittorie, ed alla pace di Teodosio.

[149] La guerra Gotica è descritta da Ammiano, (XXVII. 5) da Zosimo (l.
IV. p. 211 214) e da Temistio (_Orat. X. p. 129 141_). L'oratore
Temistio fu invitato dal Senato di Costantinopoli a congratularsi col
vittorioso Imperatore; e la sua servile eloquenza paragona Valente sul
Danubio ad Achille sullo Scamandro. Giornandes ha tralasciato una guerra
particolare ai Visigoti, e non gloriosa pel nome Gotico. Mascou _Istor.
dei Germani VII. 3._

[150] Ammiano (XXIX. 6) e Zosimo (l. IV. p. 119 220) notano esattamente
l'origine ed il progresso della guerra dei Quadi e de' Sarmati.

[151] Ammiano, che (XXX. 5) confessa il merito di Petronio Probo, ne ha
con giusta asprezza censurato l'oppressivo governo. Quando Girolamo
tradusse e continuò la Cronica d'Eusebio an. 380 (Vedi Tillemont Mem.
_Eccl. Tom. XII. p. 53 626_) espresse la verità o almeno la pubblica
opinione del paese con queste parole; _Probus P. P. Illirici
iniquissimis tributorum exactionibus ante provincias, quas regebat, quam
a Barbaris vastarentur, erasit: Chron. Edit. Scaliger. p. 187. Animad. p
259._ Il Santo contrasse in seguito un'intima e tenera amicizia con la
vedova di Probo; ed il nome del Conte Equizio, meno a proposito in vero,
ma senza molta ingiustizia è stato sostituito nel testo.

[152] Giuliano (_Orat. VI. p. 298_) descrive il suo amico Ificle come un
uomo virtuoso e di merito, che erasi reso ridicolo ed infelice,
adottando l'abito ed i costumi stravaganti de' Cinici.

[153] Ammiano XXX. 5. Girolamo, che esagera la disgrazia di
Valentiniano, gli nega sino quest'ultima consolazione della vendetta:
_Genitali vastato solo et inultam Patriam derelinquens: Tom. I. p. 26._

[154] Vedasi quanto alla morte di Valentiniano, Ammiano (XXX. 6), Zosimo
(l. IV. p. 221), Vittore (_in Epitom._), Socrate (l. IV. c. 31) e
Girolamo (_in Chron. p. 187, e Tom. I. p. 26 ad Heliodor._). Fra loro si
trova gran varietà di circostanze; ed Ammiano è tanto eloquente che
scrive senza alcun senso.

[155] Socrate (l. IV. c. 31) è l'unico testimone originale di questa
stolta istoria, sì repugnante alle leggi ed ai costumi de' Romani, che
appena merita la formale ed elaborata dissertazione del Bonamy (_Mem. de
l'Acad. Tom. XXX. p. 394 405_). Pure io riterrei la natural circostanza
del bagno, piuttosto che seguitare Zosimo, che rappresenta Giustina,
come una vecchia vedova di Magnenzio.

[156] Ammiano (XXVII. 6) descrive la forma di questa militar elezione ed
_augusta_ investitura. Pare che Valentiniano non consultasse, e neppur
ne informasse il Senato di Roma.

[157] Ammiano XXX. 10. Zosimo l. IV. pag. 222, 223. Il Tillemont ha
provato (_Hist. des Emper. T. V. p. 707, 709_) che Graziano regnò
nell'Italia, nell'Affrica e nell'Illirico. Io ho procurato di esprimere
la sua autorità negli stati del Fratello, in uno stile ambiguo, simile
alla maniera con cui l'usava.



                             RIFLESSIONI
                           D'IGNOTO AUTORE
                          SOPRA I CAPITOLI
          XVII, XVIII, XIX, XX, XXI, XXII, XXIII, XXIV E XXV
                    DELLA STORIA DELLA DECADENZA
                    E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO

                                 DI

                           EDOARDO GIBBON

                       DIVISE IN TRE LETTERE

                              DIRETTE
                     AI SIGG. FOOTHEAD E KIRK

                         INGLESI CATTOLICI


LETTERA I.

So per lunga esperienza, che l'amore del vero, e lo zelo per la Santa
Religione Cattolica, che vi siete obbligati con giuramento solenne di
propagare nella Inghilterra, dove nasceste, prevalgon di molto in cuore
vostro allo spirito di patriottismo: e però non temo di confessarvi, che
quanto più mi vado inoltrando nella lettura della Storia Romana del
vostro Gibbon, tanto meno mi sembra meritevole di quelle lodi, che io
sull'altrui relazione in presenza vostra incautamente gli tributai. A me
par di vedere nel Sig. Gibbon uno scrittore per verità elegante ed
erudito; ma che ora vergognosamente si contraddice, ora dà per
indubitati dei fatti di Storia Ecclesiastica; i quali se non sono
falsissimi, sono almeno dubbi, e non bene decisi; e per l'opposto nega
ed oscura i meglio autenticati e i più certi, e ciò sempre a danno ed
avvilimento del partito Cattolico; mostrando sempre un indicibil
dispregio dei Santi Padri, depositari fedeli e sostenitori indefessi di
quei venerabili dogmi, che egli malamente conosce, e sfigura. Non è già
intenzione mia di tener dietro al Sig. Gibbon in tutti i suoi
traviamenti: se io lo facessi, vi stancherebbero le mie riflessioni per
la moltitudine e la lunghezza, e vi priverei di quel piacere che si
gusta nel rilevare da se medesimo gli sbagli degli uomini, che menan
rumore nella Repubblica letteraria. Ne farò adunque quante possan
bastare a porre in chiaro l'asserzion mia: e per quel che riguarda la
prima parte di essa mi ristringo a S. Atanasio, a Giuliano l'Apostata,
ed al carattere generale dei Cristiani dei loro tempi.

Ecco adunque come il Sig. Gibbon parla del primo. _L'immortal nome di
Atanasio non potrà mai separarsi dalla Dottrina Cattolica della
Trinità._ Quindi è, che _essendo la causa di lui quella della verità, e
della giustizia quella_, io dico, _della verità religiosa, il regno
dell'Imperadore Costanzo restò infamato dalla ingiusta persecuzione del
grande Arcivescovo intrepido campion della Fede Nicena, ed ospite
venerando di Costantino_ il figlio, il quale _colla decenza del suo
contegno si conciliò l'affezione del Clero non men che del popolo_: e
rei pur furono di solenne _ingiustizia quelli Ecclesiastici Giudici_,
che lo condannarono in Tiro.

Or se io dicessi, che noi _possiam diffidare delle proteste di rispetto,
che quell'istesso Atanasio faceva all'Imperatore Costanzo_; che _egli in
quel modesto equipaggio, solito ad affettarsi dalla politica e
dall'orgoglio, faceva le visite Episcopali_; che _Arsenio era
un'immaginaria sua vittima e suo segreto amico_; che _egli sì abbondante
di difese rispetto ad Arsenio medesimo ed al calice, lasciò la grave
accusa di aver fatto battere, ed imprigionare sei Vescovi senza
risposta_; se io mettessi in _forse_, che _la ragione fosse veramente
dalla parte di Atanasio_: se finalmente decidessi, che _la differenza
tra homoousion, ed homoiusion essendo quasi invisibile all'occhio
Teologico più delicato_, Atanasio mostrossi _avido di fama ed attaccato
dal contagio del fanatismo_; neghereste voi mai, che io fossi
oppostissimo di sentimento al Sig. Gibbon in riguardo a quel celebre
Primate di Egitto? E come negarlo? Asserisce l'Autore, che il Clero
deposto sotto Costanzo era _Ortodosso_, che la dottrina di Atanasio era
_Cattolica_, che i Giudici di lui furono _ingiusti_; io per lo contrario
direi, che buona parte di quella disputa fu più grammaticale che
teologica, e che Atanasio fu ben fanatico a sacrificarsi se non per un
dittongo, almeno per un vocabolo _proibito dal Concilio d'Antiochia_. Il
Sig. Gibbon afferma, che il contegno di quel Santo era decente, ed
attissimo a conciliarsi l'affetto universale: ed io in quel modesto
equipaggio ravviserei l'orgoglio, la politica, e l'avidità della fama.
Il Sig. Gibbon ripete sovente, che la giustizia e la verità, e per
conseguenza la ragione assistevano la causa di Atanasio: io dubiterei se
la ragione fosse veramente dalla sua parte: il Sig. Gibbon profonde per
Atanasio luminosi titoli di _grande, d'immortale, di venerando_, io gli
darei quelli di finto, di adulatore o di subdolo. Non valuto però molto
quell'ultimo, perchè essendo lo stesso, che _Venerabile_, questo
l'Autore lo trova benissimo conciliabile in S. Gregorio Nazianzeno con
l'altro di _stolto_ e di _calunniatore_[158]. Nell'esporvi la mia
ipotesi non ho fatto altra cosa, che trascrivervi letteralmente le
parole del Sig. Gibbon, che voi potete riscontrare nel libro. Vi sarà
dunque facile il conchiudere, che il Sig. Gibbon è in opposizione con se
medesimo.

Dovremo noi credere a questo A. nel primo caso o sibben nel secondo? Io
per me voglio credergli assolutamente nel primo; perocchè il carattere,
che ivi fa di Atanasio è conforme a quello, che fanno di lui il
Tillemont ed i Monaci Benedettini: ed egli stesso m'insegna, che _la
diligenza del Tillemont e degli Editori Benedettini ha raccolto tutti i
fatti ed esaminata ogni difficoltà concernente la vita del grande
Atanasio_: e mi maraviglio che dimenticatosi di una regola così giusta,
tratti Gioviano d'_adulatore, empio e stravagante_ per aver detto
celestiali le virtù del S. Arcivescovo, ed averlo chiamato figura della
Divinità[159], e con una nuova opposizione con se medesimo _non ammetta
la delicatezza del Baronio, del Valesio_, e precisamente _del Tillemont
nel rigettare l'aneddoto del rifugio di Atanasio in casa della bella
vedova Alessandrina_, indegno certamente della gravità della Storia
Ecclesiastica, ingiurioso alla memoria di un Santo sì illustre, e forse
inventato dal livor degli Arriani. Ma che volete aspettarvi di coerente
da un Autore, il quale ad onta degli _originali ed autentici monumenti,
onde confessa esser giustificate le apologie e le lettere ai Monaci di
Atanasio_ ha la stravaganza di dichiararsi di _prestarvi minor fede:
perchè egli troppo vi apparisce, innocente e troppo assurdi gli
avversari di lui_? Intanto con questo suo modo di pensare e di scrivere
ci fa toccar con mano, come non vi ha assurdo delirio, di cui non sia
capace un uomo preoccupato dallo spirito di religioso partito, o di una
tolleranza sfrenata. Osservatelo più distintamente in Giuliano
l'Apostata.

Già v'immaginerete, che egli debba esser l'Eroe del Sig. Gibbon, ed in
sostanza è così. _Erano inimitabili_, dice egli, _le virtù di Giuliano_,
ed il suo trono era _la sede della ragione, della virtù, e forse della
vanità_, vanità, che il medesimo nostro Critico non si risovvenendo del
_forse_ chiama _eccessiva_. Io non istarò a discutere quale alleanza
possa darsi tra la vera virtù e la vanità: Teologia sarebbe questa
troppo sublime per uno che applaude ai _Protestanti della Francia, della
Germania, e dell'Inghilterra per aver sostenuta con l'armi la civile e
religiosa lor libertà_ contro la teoria e la pratica costante dei primi
Cristiani, e che giudica lo stesso Giuliano _tollerabil Teologo_ sebben
sostenga che _Cristo è uomo puro, e che la Trinità non è dottrina nè di
Paolo, nè di Gesù, nè di Mosè_. Chiederò solo al Sig. Gibbon
primieramente, se Giuliano costantemente, o spesso almeno _si rammentava
di quella fondamental massima di Aristotele, che la vera virtù si trova
in ugual distanza fra gli opposti vizi_? Ora ei mi risponde, che
_l'indole di Giuliano era di rammentarsene rare volte_. Dunque il trono
di lui non era la sede della ragione e della virtù, ed il Sig. Gibbon si
contraddice[160]. Domando a voi in secondo luogo, se l'ingiustizia,
l'ingratitudine, la mala fede, la leggerezza di naturale siano
ragionevoli e virtuose? Una simile domanda ecciterà forse le vostre
risa, e forse il vostro sdegno. Incolpatene il Sig. Gibbon: egli è che
mi obbliga a farvela. Imperciocchè se la _giustizia medesima parve che
piangesse il fato di Ursulo tesorier dell'Impero, ed il suo sangue
accusò l'ingratitudine di Giuliano, di cui si erano opportunamente
sollevate le angustie dall'intrepida liberalità di quell'onesto
Ministro_; se l'Imperatore stesso restò _profondamente colpito dai
propri rimorsi_ per un attentato, che Ammiano (L. XX.) chiama
_impurgabile_, o conviene ammettere un'ingiustizia ed una ingratitudine
ragionevole e virtuosa, o d'uopo è confessare, che il trono di Giuliano
non fu la sede della ragione e della virtù. Si obbligò ancora Giuliano
con una promessa, che _avrebbe dovuto esser sempre inviolabile_, che se
gli Egizi, i quali altamente richiedevano i doni fatti o
illegittimamente o per imprudenza, _fosser comparsi in Calcedonia,
avrebbe ascoltato in persona, e decise le lor querele_; ma intanto dal
trono, che era la sede della ragione e della virtù, _partì un ordine
assoluto, che vietando di trasportare a Costantinopoli Egizio veruno,
esausta la loro pazienza e il denaro, furono costretti a tornare con
isdegnosi lamenti al nativo loro paese_. Ma vi è di più. L'Imperatore,
che occupava quel trono, sede della ragione e della virtù, sostenne
_l'ingiustizia di escludere_ i Cristiani da tutti gli uffizi di fedeltà
e di profitto, _maliziosamente_ rammentando loro, che non era lecito ad
un Cristiano di usar la spada o della giustizia o della guerra, e
_dissimulando più che potè l'ingiustizia_, che esercitavasi in nome di
lui dai Ministri, (per quanta tara si debba fare all'espressioni degli
Storici Ecclesiastici) _esprimeva il suo real sentimento intorno alla
loro condotta con dolci riprensioni e con reali premi_ e per finirla,
quell'Imperatore medesimo _leggiero di naturale ordinò senza prove_, che
fosse immediatamente eseguita _la vendetta contro i Cristiani, ai quali
un leggierissimo rumore_ imputava _l'incendio del Tempio di Dafne_. Con
tutto ciò _affinchè sembri mancar qualche cosa alla grazia e perfezione
della intera figura, bisogna guardare con minuta e forse malevola
attenzione il ritratto di Giuliano_, poichè ei cercò sempre di unire
l'_autorità_ con il _merito_, e la _felicità colla virtù_.

Siccome questo giudizio intorno a Giuliano è espresso da Gibbon in un
paragrafo a parte, il quale ha per titolo (_il suo carattere_), però mi
azzardai di asserire, che questo Imperatore è il suo Eroe. Non lo è per
altro del Mosheim dottissimo Protestante ancor esso. Fate di grazia il
confronto di questi giudizi: «Per collocare (dice questo Scrittore,
Storia Eccl. Sec. I. part. n. 13.) Giuliano tra i più grandi uomini,
conviene essere od acciecato all'eccesso dai propri pregiudizi, o non
aver letto giammai con attenzione le opere di lui, o non aver finalmente
alcuna giusta idea della vera grandezza. Il carattere di Giuliano
presenta pochi di quei tratti, che contraddistinguono un uomo grande...
Egli era superstizioso all'eccesso; prova ben chiara di un intelletto
limitato e di uno spirito basso e superficiale... Aggiungete a ciò
l'ignoranza la più perfetta della vera filosofia, e giudicate se
Giuliano quand'anche fosse superiore in alcuna cosa ai figli di
Costantino, non è però al di sotto di Costantino medesimo ad onta delle
ingiurie con cui l'opprime, e del disprezzo che ne mostra in
qualsivoglia occasione». Voi forse potrete dirmi, letta che avrete la
storia del Sig. Gibbon, che ancora egli confessa essere stato Giuliano
credulo all'_arte divinatoria_ quant'altri mai, _dissimulatore_ solenne
in fatto di Religione, per _una strana contraddizione avere sdegnato il
giogo salutare del Vangelo, mentre fece una volontaria offerta di sua
ragione sugli altari di Giove e di Apollo e preferì gli Ancili alla
Croce_, essersi _per fine avvilito_ con le _visioni e coi sogni_ e con
una _superstizione_ che pose in _pericolo la sorte dell'Impero Romano_.
Che se è così, perchè dunque per una più strana contraddizione asserire
che _inimitabili furono le virtù_ di Giuliano, e che _bisogna riguardare
con minuta, e forse con malevola attenzione il ritratto di lui, affinchè
sembri mancar qualche cosa alla grazia e perfezione dell'intera figura_?
O fidatevi del Sig. Gibbon, quando si tratta di formare i caratteri!
Finisco con fare una osservazione di quello, che ei fece in generale
delle Sette Cristiane, cioè di _quegli ostili Settari, che prendevano i
nomi di Ortodossi e di Eretici; ai quali la nostra tranquilla ragione, a
suo dire, imputerà un uguale, o almeno «non molto diversa dose di bene e
di male .... poichè sì dall'una che dall'altra parte poteva esser lo
sbaglio innocente, la fede sincera, la pratica meritoria o corrotta»_.
Qui sicuramente si parla degli Atanasiani od Omousiani, e degli Arriani
loro avversari. Ma questi servironsi per ripetute confessioni del Sig.
Gibbon _dell'ambiguità dell'ingegnosa malizia_, di _una squisita
malignità dell'inganno, dei destri maneggi, dell'arte sofistica_;
questi, che al Concilio di Tiro _avevan segretamente determinato di fare
apparir delinquente, e di condannare il lor nemico_ Atanasio,
_procurarono di mascherare la loro INGIUSTIZIA coll'imitazione della
forma giudiciaria_. Questi, opponendosi alla causa di Atanasio,
opponevansi ancora alla _Fede Nicena_, di cui egli era il campione, ed
_alla verità religiosa_. Ed in uomini di tal tempra _poteva esser lo
sbaglio innocente, la fede sincera_? E questo non è un contraddirsi, ed
un abusarsi della pazienza d'un onorato lettore?


LETTERA II.

Vi ho fatto osservare nella mia prima lettera, che il Sig. Gibbon si
protesta di non poter ammettere la _delicatezza del Baronio, del
Valesio, e del Tillemont, che quasi rigettano_ il racconto di Palladio
intorno al rifugio di S. Atanasio in casa della Vergine Alessandrina,
che egli con ogni scaltrezza vorrebbe pure far credere una lunga
corrispondenza amorosa. E che? Sarebbe forse un troppo gran torto fatto
a Palladio, il preferire alla sua l'autorità di S. Gregorio Nazianzeno,
e di Atanasio medesimo, il quale attesta, che subito dopo l'invasione
della Chiesa di Alessandria fatta da Siriano fuggissi nell'Eremo? Che
ivi poi si trattenesse per lungo tempo il dimostrano le lettere, che ei
di colà scrisse, come ne fa fede la data[161], e il conferma la minuta
descrizion del saccheggio dato a quei Monasteri dai furibondi soldati,
che l'obbligarono a ricovrarsi in un orrido nascondiglio. Ma quando
fosse stato sì scrupoloso il Sig. Gibbon da negar tutto a Palladio,
perchè invece di far una vana pompa di delicatezza di stile non ha
piuttosto avvertito, che non apparteneva alle vergini il _lavare i piedi
dei Santi, che l'intrepido Campion della fede Nicena_ non era sì molle
da esigere da una vergine un tale uffizio in mancanza di vedove[162],
che quella vergine inerendo al racconto dello stesso Palladio doveva
essere allora non di venti anni, ma quasi quadragenaria, e che
finalmente brevissima e transitoria dovette essere la dimora del S.
Arcivescovo presso di lei, essendo fuor di ogni dubbio, che egli visse
nel deserto presso a sei anni, e che intruso appena Giorgio di
Cappadocia nella sua sede, sotto pretesto di andare in traccia di lui,
furono saccheggiate le case, ed aperte perfino le sepolture; e le
vergini, altre svelte dalle braccia dei genitori, altre insultate per le
pubbliche vie di Alessandria (Athan. ad solit. p. 849. a 53.)? Or come
persuadersi, che fosse dalla sfrenata licenza di mal credenti soldati
rispettata la casa di colei, che descrivesi come un prodigio di bellezza
notissimo? Il Sig. Gibbon però, tacendo tutto questo, chiude la sua
narrazione con asserire senz'altra testimonianza, fuor di quella del suo
capriccio, che nel _tempo della sua persecuzione ed esilio, Atanasio
replicò sovente le sue visite alla bella e fedele amica_[163].

Almeno il Sig. Gibbon contentandosi di calunniare così audacemente nella
condotta morale il _grande_ ed _immortale_ Atanasio, lo risparmiasse
nella credenza! Ma no: Atanasio, secondo lui, _difese più di vent'anni
il Sabellianismo di Marcello di Ancira, ed il Petavio dopo un lungo ed
accurato esame ha pronunziato con ripugnanza la condanna di Marcello._
Io confesso, che il Petavio[164] enumera vari Scrittori gravissimi del
secolo di Marcello, dai quali esso fu tenuto per vero eretico
Sabelliano. Egli però in tuono molto diverso da quello del Sig. Gibbon
parla di lui; poichè trova di malagevole discussione la causa di quel
Vescovo: _Minus explicatu facilis est Causa Marcelli Ancyrani_ (§. 1.
ivi), e così conchiude il §. V: «_Quare digna est ea res, de qua amplius
cogitent eruditi, ed antiquitatis Ecclesiasticae periti._» Questo
appunto io vedo eseguito dal Ch. Natale Alessandro[165] nella
dissertazione _de Fide Marcelli Ancyrani_, in cui dimostra l'integrità
della dottrina di quel Prelato, bersaglio delle calunnie Eusebiane, sì
con la confessione di fede da lui presentata al Pontefice Giulio
riferita da S. Epifanio (haeres. 72.), come dalla esposizione di fede,
che da lui ricevuta, i suoi discepoli presentarono ai Vescovi Ortodossi,
ed ai Confessori, in cui si anatematizza, tra le altre distintamente,
l'eresia di Sabellio, per tacere le testimonianze di S. Atanasio ed il
giudizio del Concilio Sardicese: e fa eziandio svanire le difficoltà
dedotte dagli Scrittori enumerati dal Petavio[166]. A me però basta, che
gli argomenti di quel dotto Domenicano e del Montfaucon vaglian soltanto
a lasciare il fatto di Marcello nell'antica dubbiezza[167] per
verificare, che il Sig. Gibbon per iscreditare il partito Cattolico pone
per indubitati dei fatti, che non lo sono. Ma quand'ancora si potesse
provar chiaramente, che l'Ancirano sostenne il Sabellianismo, resterebbe
pure da mostrare a Gibbon, che S. Atanasio difese il medesimo errore, ed
il difese per più di vent'anni, ed io lo sfido a citarmi un sol
testimone in suo favore. Ma gli spiriti filosofici dei nostri giorni si
arrogano l'altissimo privilegio di asserir senza prove, ed in bocca loro
un'espressione enfatica, od un motto pungente ha da passare per una
perfetta dimostrazione. Uditelo infatti: Il _celebre sogno di Costantino
può spiegarsi o colla politica, o coll'entusiasmo dell'Imperatore, e la
famosa apparizion della Croce è una favola Cristiana, che potè trarre la
sua origine dal sogno, e si mantenne un onorevole posto nelle leggende
di superstizione, finattanto che l'ardito e sagace spirito di critica
osò di non apprezzare il trionfo, e di attaccar la veracità del primo
Imperatore Cristiano._

Chi non crederebbe a sentir parlare in un tuono sì decisivo, che questo
avvenimento si dimostrasse falso al dì d'oggi come si è dimostrata falsa
la storiella della Papessa Giovanna? Non sono già leggende di
superstizione a giudizio del Sig. Gibbon medesimo le opere del
Tillemont, del Fleury, del Noris[168]: eppure ed il _celebre sogno, e la
famosa apparizion della Croce_ vi trovan luogo tuttora. Non è una
leggenda di superstizione la bella dissertazione del Benedettino Matteo
Jaccuzzi[169], nè troppo superstiziosi,

_ cred'io, si diranno gli Autori della _Storia Universale_; eppur questi
ed altri moltissimi ricevon tutto il racconto di Eusebio (L. I. C.
XXVIII. in V. _Constantini_). Ed a ragione: poichè se la _politica_ e
l'_entusiasmo_ avesser potuto indurre il primo Imperatore Cristiano ad
uno spergiuro sacrilego, avrebbe almeno egli avuta tanta politica da non
allegare per testimone della visione tutto l'esercito, che lo seguiva.
Che se Costantino non solo narrò al suo confidente Eusebio il prodigio,
ma soggiunse: _eo viso et seipsum, et milites omnes qui ipsum
sequebantur, et qui spectatores miraculi fuerant, vehementer
obstupefactos_: ecco migliaia di persone atte a scoprir l'impostura del
primo già morto, mentre Eusebio scriveva, ed a rilevare e decidere la
credulità del secondo. Il fatto si e però che _id quod subsecutum est
tempus sermonis hujus veritatem testimonio suo confirmavit._ Lo
confermarono le vittorie e la conversione di Costantino, lo confermarono
il Labaro, e l'iscrizione conservataci da Eusebio, e lo confermarono con
ogni apparenza di verità molti di quegli spettatori, che, quando scrisse
Eusebio[170] tai cose, sopravvivevano. Nè starò ad allegare gli atti del
Martire Artemio, rigettati senza _però sospirare_, come afferma
falsamente il Sig. Gibbon, dal Tillemont: il Cronico Alessandrino,
Lattanzio, Filostorgio, Socrate, Niceforo, Gelasio Ciziceno, e molti
altri Scrittori di ogni nazione ed età, e di religione diversa: le
pitture dell'Effemeridi Greco-Moscovite, una antica lucerna, nella
quale sotto il monogramma di Cristo si legge: ἐν τουτω νικα: son
testimoni e monumenti, i quali dal più ardito e _sagace spirito di
Critica_ non si abbatteranno giammai con puri argomenti negativi, quali
sono gli addotti dal Sig. Gibbon: ciò non ostante ha da essere un tale
avvenimento una _favola Cristiana_, ed _una leggenda di superstizione_,
solo perchè il Sig. Gibbon decide così: come pure per la ragione
medesima noi dobbiam credere, che _la fermezza di Liberio fosse superata
dai travagli dell'esilio, e che quel Romano Pontefice comprasse il suo
ritorno a prezzo di alcune ree condiscendenze._ Qui però mi aspetto, che
voi prendendo le parti del vostro compatriota vi maravigliate, come io
ardisca rimproverarlo intorno ad un fatto, di cui tra i Protestanti del
pari che tra i Cattolici comunemente si è convenuto, e parmi di vedervi
stendere la mano alla penna per tessere il numeroso Catalogo degli
Scrittori che sostengono la caduta di quel Pontefice. Vi prego però a
voler sospendere questa inutil fatica, ed a riassumer piuttosto l'esame
di questo fatto con quella maturità di riflessione, la quale è sì
propria di voi. Quali adunque mai furono queste ree condiscendenze di
Liberio? Soscrisse egli forse qualche formula di Fede eretica? Questa
opinione, che fu già dei Centuriatori Magdeburgesi, di Giunio, di
Chamber ec. è stata omai confutata pienamente dal Gretsero[171] e da
Natale Alessandro[172] per tacere degli altri, nè ardirei mai di
attribuirla al Sig. Gibbon. Forse Liberio, sorpreso dagli artifizi dei
Semiarriani, gli ammise alla sua comunione, soscrivendo la personal
condanna di S. Atanasio? Questo appunto sembra essere il sentimento del
nostro Storico, e questa è stata sempre, io nol niego, la comune
opinione. Non la pensano però così il Ch. Corgnio Canonico di
Soissons[173], non l'eloquentissimo Card. Orsi[174], non l'eruditissimo
Zaccaria nell'appendice alla Teologia del Petavio in una Dissertazione:
_De Commentitio Liberii lapsu_. Ed eccone le principali ragioni.
Teodoreto[175] versatissimo nelle storie, che chiama Liberio nell'atto
di andare in esilio _gloriosum veritatis Athletam_, lo chiama poi di
ritorno, _egregium omni laude dignissimum, admirandum_: Son eglino
titoli questi, che convenissero a Liberio, il quale _avesse comprato il
suo ritorno a prezzo di alcune ree condiscendenze?_ Cassiodoro[176]
detto da Incmaro Remense[177] _virum acerrimi ingenii, et insignis
eruditionis_ pensa, e scrive nei termini di Teodoreto. Altrimenti
vogliamo noi credere, che il popolo Romano avesse accolto Liberio
siccome avvenne per testimonianza di S. Girolamo, e di Marcellino[178]
in aria di trionfante? Quel popolo, io dico, a cui esso era carissimo
appunto per la sua fermezza in resistere all'Imperatore Costanzo[179],
che era amantissimo di S. Atanasio, e che non odiava l'intruso Felice,
se non perchè comunicava con gli Arriani, quantunque _formulam fidei a
Nicenis Patribus expositae integram quidem, et inviolatam
servabat_[180]. Che se Liberio vinto dai travagli dell'esilio avesse
condisceso a Costanzo a danno della causa del _grande Atanasio, e della
verità religiosa_, ed a prezzo sì indegno avesse comprato il suo
ritorno, avrebbe pur anche _espiata con opportuna penitenza la propria
colpa_; e la prima e necessaria testimonianza di pentimento sarebbe
stata una ritrattazione o dichiarazione del suo operato: ed il Sig.
Gibbon istesso par che ne abbia veduta la necessità, come ancora la vide
quell'impostore, che ci ha lasciato un frammento di una lettera
comunicatoria sotto il nome di quel Pontefice diretta a S.
Atanasio[181]. Ora il pentimento dei Vescovi ingannati a Rimini vien
contestato da molti Autori contemporanei[182]; ma nè Sulpizio Severo, nè
Socrate, nè Sozomeno, nè Teodoreto fanno menzione di quel di Liberio.
Aggiungete, che questo Papa scrivendo ai Vescovi dell'Italia[183] dopo
il Concilio Riminese, dice che sebbene vi fossero alcuni di parere _non
esse parcendum his qui apud Ariminum ignorantes egerunt_, ei però pensa
diversamente, così esprimendosi: _sed mihi, cui convenit omnia MODERATE
perpendere, maxime cum et Egyptii omnes et Achivi hanc adunati
sententiam receperint_ (secondo la correzione degli Editori Benedettini)
_visum est parcendum quidem his, de quibus supra tractavimus._ Qui pone
in veduta Liberio, che il Sovrano Pontefice debba essere moderato: qui
egli sembra determinarsi pel perdono a contemplazione ancora dei Greci e
degli Egiziani. Ma come avrebbe potuto mostrar di esitare a concedere
perdonanza a dei Vescovi pentiti di ciò che _ignorantes egerant_ in una
causa, in cui egli medesimo avesse lasciata _vincere la sua fermezza_ e
fosse stato _colpevole condiscendente_? E come ostentare moderazione
senza esporsi alle risa, ed alle invettive degli emuli, e forse di quei
medesimi, a cui accordava il perdono? Unite tali riflessioni alle
testimonianze degli Storici sopraccitati[184], e decidete se la caduta
di Liberio non debba aversi per favolosa, giacchè quello, che si ha di
essa in S. Atanasio, ed ha fatto illusione a tanti illustri Scrittori,
si dimostra esser parto di una mano ignorante o maligna; e supposti
eziandio interpolati, ed indegni di S. Ilario si provano quei testi, che
per essere stati da molti tenuti per genuini, rendevano indubitata la
caduta di Liberio[185]. Io però mi sarei contentato[186], che il Sig.
Gibbon avesse citato Ruffino là dove dice[187]; _Liberius Romae
Episcopus, Costantio vivente, regressus est. Sed hoc utrum quod
acquieverit voluntati suae ad subscribendum, an ad populi R. gratiam, a
quo proficiscens fuerat exoratus, indulgens pro certo compertum non
habeo._ Non è però da pretendersi questa sincerità e moderazione da chi
mette in dubbio i fatti più certi, e che talora anche li nega od oscura.
Incominciamo dalla riedificazione del tempio di Gerusalemme tentata in
van da Giuliano. «La demolizione dell'antico tempio, dice il Sig. della
Bleterie[188], era terminata, e senza pensarvi si erano rigorosamente
adempiute le parole di Cristo: _non relinquetur lapis super lapidem, qui
non destruatur_[189]. Si vollero gettar le nuove fondamenta, ma usciron
dal luogo medesimo vortici spaventosi di fiamme, che con formidabili
slanci divorarono i lavoranti. Lo stesso accadde diverse volte, e
l'ostinazione del fuoco rendendo inaccessibile quel luogo, costrinse ad
abbandonare per sempre l'impresa». Son questi gli stessi termini di
Ammiano Marcellino, autore contemporaneo[190]. Ruffino[191],
Teodoreto[192], Socrate[193], Sozomeno[194], Filostorgio confermano il
fatto attestato altresì da tre Padri coetanei ancor essi Gio.
Grisostomo, Ambrogio e Gregorio Nazianzeno, dal primo vent'anni dopo
davanti a tutta Antiochia[195], dal secondo non molto dopo, come cosa
notissima scrivendo all'Imperatore Teodosio; dal terzo in uno[196] dei
suoi discorsi contro Giuliano composto l'anno medesimo. Non vi è
adunque, conchiude il Mosemio[197], avvenimento certo sì come è questo.
Tuttavolta a sentimento di Gibbon, _un Filosofo potrà sempre domandare
l'original testimonianza d'intelligenti ed imparziali Spettatori_. Sì
certamente potrà domandar un filosofo Spinosista, od uno che sembra
insultare i Santi Ortodossi sfidandoli a scegliere intorno alla celebre
morte d'Arrio _o il veleno o un miracolo_, quand'ei fu sempre attorniato
da una folla di Eusebiani; sì uno che ha la franchezza di domandare col
Sig. Jortin chi prova la verità dei miracoli dei Monaci antichi
Egiziani, mentre quello, che asserisce Teodoreto[198] del Monaco S.
Giuliano, può con ragione asserirsi di quasi tutti: _magnitudinis autem
miracolorum factorum ab illo testes etiam sunt hostes veritatis_. Qui
non si tratta di un fenomeno passaggiero, come è un fuoco fatuo, od una
stella cadente; i vortici di fuoco si videro diverse volte: _metuendi
globi flammarum prope fundamenta crebris assultibus erumpentes fecere
locum exustis ALIQUOTIES operantibus inaccessum_. Nè i testimoni del
fatto son puri Cattolici, e però tali _da non dispiacer loro un
miracolo_. Ve n'ha degli Eterodossi, ve n'è un _Pagano giudizioso e
candido storico_ per confessione del Sig. Gibbon, _e spettatore
IMPARZIALE della vita e della morte di Giuliano_, per non contarsi
Giuliano medesimo[199]. Considerate poi se la nazione Giudaica, _di cui
gli uomini si erano dimenticati della loro avarizia, e le donne della
loro delicatezza_ per agevolare la sospirata intrapresa; se il Monarca,
_che si proponeva di stabilire in quel tempo un ordine di Sacerdoti,
l'interessato zelo dei quali scuoprisse le arti, e resistesse
all'ambizion dei Cristiani loro rivali, ed invitarvi gli Ebrei, il forte
fanatismo dei quali sarebbe sempre stato pronto a secondare ed anche
prevenire le ostili misure dal Paganesimo; se il virtuoso, dotto,
fortissimo Alipio_, che presiedeva coraggiosamente a quell'opera; se
Libanio l'adulatore più sfacciato, che abbian conosciuto le Corti,
sarebber sempre rimasti in un vergognoso silenzio, quando tante bocche
Cristiane gridarono altamente al miracolo? Conchiuderò dunque col lodato
Mosemio: «Chiunque esaminerà questo fatto con attenzione e senza
parzialità, troverà le più forti ragioni di aderire all'opinion di
coloro, che lo attribuiscono all'azione immediata della Divinità. Gli
argomenti, che si propongono per provare che fu un fenomeno naturale, o
come altri il pretendono, effetto dell'arte e dell'impostura, non hanno
solidità, e si possono confutare con la maggiore facilità».

Un altro _fatto oscuro_ pel Sig. Gibbon è lo scisma dei Donatisti.
_Forse_, egli dice, _la loro causa fu decisa giustamente, e forse non
era priva di fondamento la lor querela, che si fosse ingannata la
credulità dell'Imperatore_: Due cose però egli tiene per ferme, la prima
_che il vantaggio, che Ceciliano poteva trarre dall'anteriorità della
sua Ordinazione veniva tolto di mezzo dall'illegittima od almeno
indecente fretta, con cui si era fatta senza aspettare l'arrivo dei
Vescovi della Numidia_; la seconda è che _i due partiti non ostante il
loro irreconciliabile odio avevan gli stessi costumi, lo stesso zelo e
dottrina, la istessa fede e lo stesso culto_. Ma per quanta oscurità
possa trovarsi in tal fatto sappiamo da S. Ottato Milevitano[200] e da
S. Agostino[201], cioè da scrittori i meglio informati di tutta la
controversia, che l'ambizion di Bostro e Celesio, i quali con Lucilla
formarono il rabbiosissimo scisma, impedì l'intervento dei Vescovi della
Numidia all'elezione di Ceciliano: che questi fu eletto con i suffragi
di tutto il popolo, e quindi ordinato dal Vescovo di _Aptonga_, città
vicina a Cartagine, e conseguentemente a norma del costume vegliante, in
quel modo appunto che il Vescovo Romano si consacrava da quello d'Ostia.
E ciò è tanto vero, che cent'anni dopo pretendendo i Donatisti, che
Ceciliano fosse stato condannato per non aver ricevuta l'ordinazione dal
Primate Numida, S. Agostino fu in grado di sostenere, che questa
ommissione neppur gli era stata obiettata. Infatti Ceciliano all'arrivo
dei Vescovi della Numidia era già unito con tutta Cartagine, trattine
pochi Scismatici, e per mezzo delle usate lettere comunicatorie con la
Chiesa di Roma, con tutte quelle dell'Affrica e dell'Universo. Non
credeva adunque la Chiesa Cattolica, che l'_anteriorità dell'ordinazione
di Ceciliano venisse tolta di mezzo_ dall'assenza dei Numidi, nè poteva
crederlo per le ragioni addotte, e nol credevano gli stessi faziosi:
perocchè, non trovando delitto da rimproverare a Ceciliano, si ridussero
ad asserire contro la verità che il Vescovo Aptungitano Consecrante era
uno dei traditori.

Con qual fronte poi osa il Sig. Gibbon di decantare nei due partiti
tanta _uniformità di costumi, di zelo, di dottrina e di fede_? I
Donatisti rovesciavano gli altari, o li purgavano come contaminati da
quei che si dicevan Cattolici: frangevano i sacri vasi e li fondevano,
infierivano contro i vivi e contro i defunti, gettavano il Crisma per le
finestre, ed ai cani la Sacratissima Eucaristia, come attestano i Padri
sopra lodati, ed espone il medesimo Sig. Gibbon[202]. Ora dove si legge
che fossero somiglianti costumi nel partito Cattolico? Qui si chiedono
al Sig. Gibbon testimonianze da stare a confronto con quelle di Ottato e
di Agostino. Ma non allegandone, e non potendone allegare veruna: qual
concetto formerete del vostro Gibbon? E per riguardo alla dottrina e
alla fede non erano i Donatisti quei soli, che ribattezzando negavano
l'efficacia del battesimo amministrato fuor della vera Chiesa contro i
decreti dei Concili di Arles[203] e di Nicea[204]? E non riputavano una
meretrice la Chiesa Cattolica, pretendendo che la vera ed immacolata
fosse riconcentrata nella fazion di Donato, e pronunziando nel tempo
medesimo la condanna della loro eresia con quelle solenni parole
liturgiche, con cui dicevano di offerire il Sacrificio per l'unica
Chiesa, _la quale è sparsa per tutta la terra_? Ommetto, che Donato il
Cartaginese era Arriano di sentimento, perchè la moltitudine dei
Donatisti non vi aderiva[205]: essendo assai manifesto e per le cose già
dette e per essere stati refrattari i Donatisti ad ambedue le legittime
Potestà, il Sacerdozio e l'Impero, aver eglino avuto una Fede ed una
Dottrina molto diversa da quella dei loro avversari.

Avendo il Sig. Gibbon intrapresa in qualche modo la difesa dei
Donatisti, con quanta ragione però già l'avete veduto: credete voi che
ei volesse abbandonare la causa dei Novaziani? Pensate: essa è la
migliore del Mondo, perciocchè _ortodossa era la loro fede e sol
dissentivano dalla Chiesa in alcuni articoli di disciplina, i quali
forse non erano essenziali per la salute_. A dir vero, sulle prime,
Novaziano si contentò di dolersi, che in Roma i caduti si ricevessero
alla Comunione con soverchia facilità, e questo potè passare per uno
zelo di disciplina[206], ed anche sedurre alcuni Santi allor prigionieri
per la fede. Ma quindi ed egli, e molto più apertamente i seguaci di
lui[207] unirono allo scisma l'eresia negando alla Chiesa la potestà di
riconciliare i caduti in tempo di persecuzione per qualsivoglia
penitenza che essi facessero contro le generali ed illimitate
espressioni di Gesù Cristo[208], e condannando le seconde nozze per modo
da dichiarare adultere quelle vedove che si rimaritavano, come se
avesser preteso di saperne più di S. Paolo[209], dice S. Agostino, ed
avere una dottrina più pura di quella degli Apostoli. Senza che io mi
dilunghi a noverare gli altri errori dei Novaziani ed intorno
all'assoluzione dei peccati gravi commessi dopo il battesimo stesso, al
culto delle reliquie, il Canone VIII. del I. Concilio Niceno basta per
sè solo a distruggere affatto la loro pretesa _Ortodossia. Haec autem
prae omnibus eos_, (Cioè i Novaziani, i quali avevano assunto
l'orgoglioso nome di Catari) _convenit profiteri, quod Catholicae et
Apostolicae Ecclesiae Dogmata suscipiant et sequantur, idest et bigamis
se communicare, et his qui in persecutione prolapsi sunt_. Non ho avuto
difficoltà ad allegare l'autorità di un Concilio, primieramente perchè
il mio disegno scrivendo è di premunir voi, che vi gloriate di esser
Cattolici contro gli errori del Sig. Gibbon; ed in secondo luogo perchè
egli per quanto ironicamente possa chiamarne _infallibili i Decreti_,
trattandosi dei _generali_ pur si confessa ben soddisfatto dell'articolo
_Concile_ nella Enciclopedia e ne cita ancor esso le decisioni, quando
gli torna in acconcio. Sarebbe pure stato considerabile in uno storico
giudizioso e sincero, che ne avesse allegata alcuna per confermare, che
_la superstizione de' tempi abbia insensibilmente moltiplicati gli
ordini, giacchè nella Chiesa Romana oltre il carattere Episcopale se n'è
stabilito il numero di sette, tra i quali però i quattro minori son
presentemente ridotti a vuoti ed inutili titoli_. Per altro pur troppo è
giusta riguardo a molte Chiese particolari quest'ultima riflessione:
comecchè dai Padri Tridentini[210] fosse fatta ai Vescovi una gravissima
esortazione, ed un positivo comando, che nelle sacre funzioni si
rendessero attivi i Chierici dal Diacono fino all'Ostiario. Ma questo
istesso dimostra, che la Chiesa universale rappresentata da quel sacro
Consesso, contro l'avviso del Sig. Gibbon è persuasa che tutti questi
Ordini, benchè sia forse soverchio il numero degli Ordinati, non sono un
_parto della superstizione_. Erano forse tempi di superstizione i primi
tre secoli della Chiesa e l'età degli Apostoli? Or di quei tempi appunto
gloriosissimi per Santa Chiesa s'introdussero questi ordini per
sentimento del medesimo S. Concilio: _Sanctorum Ordinum a Diaconatu ad
Ostiariatus functiones ab Apostolorum temporibus in Ecclesia
laudabiliter receptae in usum juxta Sacros Canones revocentur_. Non
ignoravano quei venerabili Padri, che fino dalla metà del terzo secolo
Cornelio R. Pontefice scrivendo a Fabio Antiocheno[211] numera sette
Suddiaconi, 42. Accoliti, e tra Esorcisti, Lettori, ed Ostiari 52: e che
S. Ignazio Patriarca antichissimo di Antiochia scrive in una lettera:
_saluto Sanctum Presbyterium, saluto Sacros Diaconos, saluto
Subdiaconos, Lectores, Exorcistas..._ Li vedevano rammentati nel quarto
secolo dai Concili Laodiceno e Cartaginese come cosa già da gran tempo
stabilita, e per conseguenza eran convinti, che _non per superstizione_
tali Ordini _sunt adjecti_, ma bensì _propter utilitatem ministerii,
quod propter multitudinem credentium per alteros postea impleri debere
necessitas flagitavit_[212].

Ciò che finora io sono andato divisando, benchè di volo, può, cred'io,
bastare a convincervi, che il Sig. Gibbon dà per indubitati alcuni fatti
di Storia Ecclesiastica, che se non son falsi, sono almen dubbi ed
indecisi, e che per l'opposto i meglio autenticati e più certi o niega
od oscura sempre a danno ed avvilimento del partito Cattolico. Leggetelo
con attenzione, e troverete altri esempi per confermare la verità della
mia asserzione.


LETTERA III.

Chi ha del Vangelo la stranissima idea, che esso _apra un infinito
prospetto d'invisibili mondi, e spieghi la misteriosa essenza della
Divinità_, la quale abitando in mezzo ad una luce inaccessibile noi
viatori non possiam vedere che di riflesso ed in enimma, non dee recar
maraviglia se mal conosca e sfiguri i Dommi della nostra SS. Religione
quantunque fondamentali. Tal è il Sig. Gibbon. Primieramente è suo
disegno l'inculcare, che quello, che dai Cristiani si crede del Divin
Verbo, altro non è se non se _un Domma già maravigliosamente annunziato
da Platone_ anzi il _fondamental principio della Teologia di quel
Filosofo_: il quale però _non si stabilì sufficientemente, come una
verità, o trovossi in stato di restar sempre confuso con le filosofiche
visioni dell'Accademia ... finchè il nome, ed i divini attributi del
Logos non furono confermati dalla celeste penna dell'ultimo e del più
sublime fra gli Evangelisti_.

Secondariamente si lusinga nella controversia Arriana di andare
_seguendo il progresso della ragione e della Fede, dell'errore e della
passione in un modo_ da farsi credere uno storico, _il quale tiri
rispettosamente il velo del Santuario_ (p. 90.).

Nella presente lettera farò alcune riflessioni su questi due punti: e
riguardo al λογος, asserisco I. che il Domma Cristiano del
Divin Verbo _non è maravigliosamente annunziato da Platone_, e che
verisimilmente neppure il nome λογος è stato preso da lui[213].
II. Che prima dell'Evangelo di S. Giovanni per _divina rivelazione era
stato scoperto al Mondo il sorprendente segreto, che il_ λογος,
_che era con Dio, fu dal principio, che era Dio ec. Si era incarnato
ec._

Esaminando senza prevenzione le opere di Platone egli è ben difficile,
per non dire impossibile, il persuadersi, che esso distinguesse l'idea,
il λογος dal sommo Dio. Infatti in quel libro, in cui riferisce
ciò che egli aveva appreso da Timeo Locrese, Pitagorico illustre,
fissando che due son le cagioni di tutte le cose, stabilisce, che _di
quelle, le quali si fanno secondo la ragione ella è una mente_ Νὸον
μἐν των κατὰ λογον γιγνομενων, _la quale chiamasi Dio, è cagione
delle cagioni_ θέον τε ὀνομαὶσερ θαι, ἀρχην τε τὦν ἀρχὦν, e
_che questo Dio è un Essere improdotto ed immutabile ed intelligibile
esemplare di quante cose soggiacciono a mutazione_ καὶ τὸ μὲνεὶμεν
αγενατον τε καὶ ἀχινάτον... νοατον τε καὶ παραδεῖγμα τὸν γεννωμένων,
όπὸσα ὲν μετὰβολα ἑντε e per fine questa mente, questa Idea,
questo Dio, questo Esemplare non stassi ozioso ma _tien la ragione
di maschio, e di padre_ ὥ τό μέν ἓιδος λόγος εχει ἆρρενος τε καί
πὰτρος. Fin qui adunque non sembra aver neppur sospettato Platone,
che l'Idea, il Verbo, od il λὸγος si distingua da Dio Sovrano.
Indi prosegue a dire, che prima della disposizione dei Cieli fatta
λὸγω altro non vi era che _Idea, materia_: ma che ο Φὲος δημιῦργος
_Iddio sommo Artefice_: ordinò la seconda, sottoponendola a certe
determinate leggi. Se adunque il Cielo od il Mondo secondo quel
Filosofo è formato λὸγω, e questo λὸγος è l'idea ίδεα, e l'idea,
la quale esso chiama in appresso, _intelligibile essenza... ed
esemplare, che in sè contiene tutti gli animali intellegibili_ τὰν
νοητὰν ουσιὰν… καί τὸ παρὰδειγμα περὶεχον πὰντα τὰ νοατὰξῶα ὲν ὰυτῶ,
e l'Idea, io dico non è punto distinta da Dio; si rende manifesto,
che Platone non fa distinzione alcuna tra il _Logos_, e _Dio_.

Il Dialogo intitolato il Timeo, in cui più diffusamente si espongono i
pensamenti di quel filosofo conferma ciò che abbbiamo veduto finora. E
come non vedere che il _Logos_ non è una persona distinta da Dio, ma o
il _raziocinio di lui_ λυγισμος θεοῦ[214] _o la Idea, la Nozione,
il pensiero di Dio_ ἔξ οὔν λόγου καί διάνοιας θεου ec.[215] è infine
Dio stesso che _avendo pensata_ λογισαμένος, e che per tal _pensiero,
o ragione_ διὰ τόν λογισμον τὸν δὲ[216] formò l'Universo?

Una maggior somiglianza della dottrina Platonica con la Cristiana
apparisce nella lettera, in cui Platone invita Ermia, Erasto, e Corisco
ad unirsi in amicizia _chiamando in testimone Dio regolatore delle cose
tutte esistenti e future, e Padre Signore del Regolatore e Principio_.
καί τὸν τῶν πὰντον θεὸν ἡγέμονα τῶν τε οντῶνκαί τῶν μελλόνκων τε
ἡγέμονός καί αιτίου πατέρα κυρίον νἓπομνύτας. Egli è però
certo, che quel Filosofo per figlio di Dio, non intende altro che il
Mondo, come ei dichiara nell'Epimonide, dicendo: _E quale Dio mai vado
io celebrando? Il Cielo senza fallo._ τινά δη καί σεμνυνῶν ποτὲ λεγῶ
θεον: σχὲδον ούράνον. Sì il Cielo od il Mondo, come si spiega in
più luoghi del Timeo, lì è Figlio di Dio, del quale parla il filosofo
Ateniese, generato dalla prima ed immutabile cagione[217], figlio
Unigenito, immagine di Dio, e Dio perfettissimo, perchè creduto da lui
di una perfettissima somiglianza non colla sola eterna idea del sommo
Fattore, ma col sommo Fattore medesimo. Di qui lo scherzo di Velleio
Epicureo nel chiamare rotondo il Dio di Platone[218]. È poi ciò tanto
vero, che Platone per prevenire l'obbiezione, che poteva farsegli contro
la pretesa perfettissima somiglianza del Mondo con Dio, essendo questo
sempiterno, e quello formato, soggiunge[219] che siccome il _solo
prototipo Dio esiste da tutta l'eternità: così il Mondo è il solo ad
essere stato, ad essere attualmente, e che sarà per tutto il tempo_.
Τό μέν γὰρ δὴ παρα. δειγμα πάντα ἄιωνα εδίν ον. ὸ δ’ αὺδιὰ τέλους τον
απαντα χρονον γεγωνος (ουρα ος) τε και ῶν, καί ἔσομὲνος ἔδι μόνος.
E poichè tuttavolta dopo la produzione del tempo mancava ancor
qualche cosa al Mondo per essere somigliantissimo al suo esemplare Dio;
questi al parer di Platone vi fece altrettante specie di animali, quante
corrispondessero alle sue idee, essendo egli l'_eterno animale_.
Aggiungete, che niuno degli antichi i più versati nelle opere di quel
creduto Dio de' filosofi vi ha ravvisato giammai che il _Logos_ sia
figlio vero di Dio, ed una persona da lui distinta. Non Cicerone, il
quale chiamando la vera legge: _mentem omnia ratione aut cogentis, aut
vetantis Dei_: e dicendola _nata simul cum mente_ _divina_, conchiude
che ella è in sostanza _Ratio recta summa Jovis_[220]. Non Plutarco;
poichè sebbene attribuisca il sistema di tre principi a Platone, cioè
Dio, la materia, e l'Idea che egli chiama _essenza incorporea_; ciò
nonostante non la distingue da Dio, ma la pone esistente nei _concetti e
nell'immaginazione del medesimo Dio_ ὲν νομάσι καὶ φαντάσιαις τοῦ
θεοῦ[221]. Non Celso finalmente, il quale sebben sovente deridesse
i Cristiani come plagiari di Platone, e mille volte li rampognasse della
loro credenza intorno al Figlio di Dio G. C., confessa chiaramente,
accennando senza dubbio Platone, che gli _antichi chiamavano il Mondo
figlio di Dio, perchè esso è prodotto da Dio_: ὰνδρες παλαιοὶ τὸν δὲ
τόν κόσμον ὡς ἑκ θεοῦ γεγομένον, παιδὰ τὲ αὐτοῦ ἤιθεον προσείπον[222].
Ciò presupposto, vi par egli che la fede Cattolica del Divin Verbo
_sia un Domma già maravigliosamente annunziato da Platone, anzi il
fondamental principio della Teologia di quel filosofo_? Quando
non fosser giustissime le spiegazioni dei luoghi sopraccitati[223], e si
temesse di fare ingiuria ai Padri della Chiesa[224] (scrupolo che se è
potuto cadere nel Ch. Zaccaria, è del tutto fuori del carattere dei Sig.
Gibbon) a non concedere a quel filosofo alcun'ombra d'idea dell'arcano,
di cui ragiono; non basterebbe a smentire la proposizione dello storico,
e mostrare che ei non conosce, o sfigura i nostri dommi veramente
_fondamentali_, e la discordia che osservasi tra gl'interpreti più
celebri della dottrina Platonica, Plotino, Numenio, Proclo, ed altri da
quest'ultimo confutati, e quel che ne dice nella sua _stupenda opera_ il
P. Petavio, anzi quel che ne dice il Sig. Gibbon istesso? Il _Logos_ di
Platone è per il Sig. Gibbon _una metafisica astrazione animata dalla
sua poetica immaginazione, con cui rappresentosselo sotto il più
accessibil carattere di Figlio di un Eterno Padre Creatore e Governatore
del Mondo_. Ma il _Logos_, di cui S. Giovanni _ha sì chiaramente
definita la precedente esistenza, e le divine perfezioni_, è per Domma
Cattolico vero figlio di Dio, ed è una Persona distinta dall'Eterno suo
Genitore. Dove è dunque _tanto maravigliosamente annunziato da Platone_
questo Domma Cattolico? Ella è poi un'altra quistione di pura critica,
se S. Giovanni togliesse da Platone questo vocabolo λόγος: il
che sebben sia facilissimo l'asserire, tanto è lontano da potersi provar
chiaramente, che anzi le congetture son del tutto contrarie. Basti
riflettere, che Platone era il favorito dei Farisei, e degli Eretici
contemporanei degli Apostoli. Questi adunque per l'uno e per l'altro
motivo dovevan guardarsi dal far uso a bella posta sì delle dottrine,
che delle espressioni Platoniche. Vero è però, che in progresso di tempo
Ammonio, fondatore della scuola Alessandrina, volendo formare un
sincretismo universale filosofico e teologico, pretese che Platone
avesse insegnata la Trinità: ed i Padri della Chiesa se ne persuasero
per la lusinga di far ricevere ai Gentili i nostri misteri coll'autorità
dei medesimi loro filosofi. Così le oscurissime idee di Platone furon
determinate nel senso Cristiano. Ma quanto la Trinità di Platone sia
lontana dalla nostra Cristiana pochi vi sono che nol sappiano,
specialmente dopo la celebre opera del P. Mairan[225].

Vediamo adesso, se prima del Vangelo scritto da S. Giovanni nel regno di
Nerva[226] fosse ancor rivelato, che il _Logos che era con Dio fin dal
principio, che era Dio, che aveva fatto tutte le cose, e per cui tutte
le cose erano state fatte, si era incarnato nella persona di Gesù di
Nazaret, era nato da una Vergine e morto sulla croce_. Avvertite bene:
io non metto in questione se S. Giovanni fosse primo tra gli Scrittori
inspirati dalla nuova alleanza ad usare la voce λὸγος; pretendo
solo contro il Sig. Gibbon, che il soggetto, o la persona, a cui
l'applicò S. Giovanni fosse già nota per divina rivelazione, pretendo in
somma, che la dottrina, che assegna a Dio un figlio da Lui distinto,
eterno, ed a Lui eguale fosse rivelata bastantemente molto prima
dell'ultimo Evangelista. Ciò poi dovrà intendersi dimostrato quando si
provi, che in quel medesimo Gesù di Nazaret la rivelazione divina aveva
fatto conoscere riuniti quegli stessi caratteri ed attributi, che si
ravvisano nel _Logos_ di S. Giovanni.

Io non istarò ad insistere con il dotto Lamy[227] sulle testimonianze di
Filone[228] per mostrar che gli antichi Giudei avevano la stessa nozione
del _Verbo Divino_ ιοῦ λόγου θεἰου, la qual ce ne danno gli
scritti dei Cristiani, nè sulle parafrasi Caldaiche del V. T. le quali
in cento luoghi insinuano, che il _Membra_ corrispondente al λόγος
dei Giudei Ellenisti è distinto da Dio Padre, è Dio, e mediatore
tra Dio e gli uomini. Osserverò bensì col Ch. vostro Pocok nelle sue
note ad _Portam Mosis_, che tutti gli antichi Ebrei interpretarono il
secondo Salmo Davidico del Messia (e conseguentemente di G. C.) tenuto
sempre per vero figlio di Dio[229] finchè non si videro costretti ad
interpretarlo altrimenti, _ut respondeatur Minacis seu haereticis_, cioè
a noi Cristiani, secondo l'espressione di R. Jarchi. Mi unisco ancora
col soprallodato Lamy a maravigliarmi come chi ha dato un'occhiata al
Vangelo possa esser d'avviso, contro la testimonianza di S.
Epifanio[230], che fosse ignota ai buoni antichi Israeliti la Trinità:
mentre l'Angelo Gabriele nell'annunziazion della Vergine abitante in
Nazaret[231], le ne ragiona come di cosa notissima. E notate che
l'ossequio di lei alla fede era quale l'esige S. Paolo da tutti i
Cristiani, non cieco, ma ragionevole. La difficoltà da lei opposta sulla
propria fecondità ne sia la riprova. Eppur ella non chiese chi fosse lo
Spirito S. fecondatore, non chi il figlio dell'Altissimo Salvatore, e Re
Sempiterno, mistero per lo meno tanto sublime ed astruso, quanto la
fecondità di una Vergine. Ma checchesia della credenza Giudaica prima
della venuta di Gesù Cristo, certo è che S. Luca riferì molto prima[232]
del Vangelo di S. Giovanni questa celeste ambasceria, ed inserì ancora
nella sua narrazione il Cantico di Maria, il colloquio di lei con
Elisabetta, e l'altro Cantico di Zaccaria. Ora nel primo la Vergine
esulta alla vista del suo _Salvatore vicino_[233] σοτηρί μου,
Elisabetta si umilia profondamente alla _madre del suo Signore_[234], e
Zaccaria chiama il suo neonato _Profeta dell'Altissimo e Precursor del
Signore[235] disceso dall'alto de' Cieli ad illuminare l'uman genere
sedente nelle tenebre e nell'ombra di morte. Lume illustratore delle
nazioni e Salvatore_ fu detto Gesù ancora dal buon Simeone[236], quando
colle tremule braccia se lo strinse al seno, allorchè Maria presentollo
al Tempio: come forse prima ancor di S. Luca, e certamente non molto
dopo narrò S. Matteo[237]. E che diremo poi di quella voce celeste, che
in occasione del battesimo di G. Cristo pubblicamente lo autenticò per
figlio di Dio: _Hic est filius meus dilectus in quo mihi bene
complacui_[238]? Mi si opporrà forse coi Sociniani, che si parla in quel
luogo di una figliuolanza di adozione? Ma quelle parole, specialmente
coll'enfasi del testo Greco ὸ υἰόςμου, ὁ ἀγάπητος _ille est
filius meus, ille dilectus_[239], non indicano la preesistenza della
persona, a cui son dirette, ed alludendo chiaramente al Cap. VIII. dei
Proverbi, ove parla la Sapienza medesima, o il λὸγος divino non
coincidono con l'espression del Salmista[240] _Dominus dixit ad me:
filius meus es tu, ego hodie genui te?_ Espressioni applicate a G.
Cristo negli atti Apostolici[241], e da S. Paolo nella sua sublime
Epistola agli Ebrei[242]. Seguiamo pertanto la sicura traccia di quel
gran Dottor delle genti. Egli è fuor di dubbio, che l'intenzion
dell'Apostolo nel domandare: _Cui enim dixit aliquando Angelorum, filius
meus es tu, ego hodie genui te?_ Ella è di confermare, che Cristo è
figlio di Dio in un modo distinto e del tutto singolare. Ma gli Angeli
ancora son detti nelle Sacre Scritture figli di Dio[243], perchè son
tali per adozione. Dunque se Cristo è quell'unico figlio, che dicesi
generato da Dio Padre, e generato _hodie_, avverbio attissimo ed usato
nel sacro linguaggio[244] ad esprimere l'eternità; egli debbe essere
necessariamente figlio non adottivo, ma per natura[245]. Ed invero nel
capo ottavo della lettera ai Romani, dove il medesimo Apostolo parla
diffusamente della figliuolanza di adozione di tutti i credenti, quando
rammenta Gesù Cristo, che ce l'ha meritata sottoponendosi alla morte di
Croce, lo chiama in opposizione _Figlio proprio_ dell'eterno Genitore.
ὀς γε τοῦ ἰδίου υὕου ούκ ὲφείσατο[246]. _Qui etiam proprio
Filio_ (suo) _non pepercit_: espressione esattamente corrispondente a
quella di S. Giovanni, là dove ei dice, che i Giudei cercavano di
uccidere Gesù Cristo non tanto come violatore del Sabato, quanto
perchè[247] diceva Iddio πατέρα ἰδίον _Padre proprio_, agguagliandosi
in tal maniera a Dio stesso: dritto però che secondo il medesimo
Apostolo giustamente arrogavasi[248]: _Qui cum in forma Dei
esset non rapinam arbitratus est se aequalem Deo._ E come non dovea
credersi proprio, e natural figlio di Dio quello, che vien chiamato
dall'istesso San Paolo assolutamente tale le tante volte[249],
Immutabile e Sempiterno[250]? Quello di cui dice: _portans omnia verbo
virtutis suae[251], omnia per ipsum et in ipso_ _creata sunt_[252], _per
quem fecit et saecula[253]?_ Quello che viene intimato agli Angeli di
adorare[254], ed è chiamato _super omnia Deus benedictus in saecula, e
Dio_[255] _sedente sopra un eterno trono_[256]? Ecco adunque manifestato
per una divina rivelazione anteriore di non poco a quella fatta per
mezzo di San Giovanni in Gesù di Nazaret un figlio di Dio, Luce vera, un
figlio proprio e naturale, Dio ancor esso eguale al Padre, che ha fatto
tutte le cose, e per cui tutte le cose sono state fatte, incarnatosi, e
nato da una Vergine, e morto sulla Croce. Ma questi sono i caratteri del
λόγος di S. Giovanni. Ecco adunque atterrata la proposizione
del Critico: ed altro non si può per conseguenza conchiudere se non che
l'ultimo Evangelista introdusse una nuova parola, ma esprimente l'idea
comune, e ischiarò la materia, spiegando la generazione divina di G.
Cristo contro l'oscura e scarsa setta degli Ebioniti, confusi a torto da
Gibbon[257] coi Nazareni, con quella esattezza, con cui gli altri tre
Evangelisti ne avevano narrata la generazione carnale.

Ci resta ora ad esaminare, se il sig. Gibbon nel seguire il progresso
della controversia Arriana abbia tirato il velo del Santuario con quel
rispetto che vanta. Già voi sareste in grado di giudicarne sì dalla
taccia di Sabellianismo, e da quella di fanatismo data ad un Santo, _il
cui zelo era temperato dalla discrezione_ (son parole dell'Autore), e
che fu tanto alieno dal tumulto, che dovette perfino difendersi dalla
calunnia di codardia che gli procurò la sua fuga[258], come pure dalla
caduta di Liberio asserita con tanta franchezza. Ma poichè trattasi del
principal Capo di nostra fede, come osservarono ancora i Vescovi adunati
in Ancira[259], mi convien darvi una più chiara riprova del rispetto del
nostro Storico pel Santuario.

Egli pertanto vuol proibito l'uso dell'_Homoousion_ dal sinodo
Antiocheno, e considera quel _termine misterioso, che ognuno era libero
d'interpretare secondo le proprie opinioni_, come un temperamento
politico della _maggior parte_ dei Vescovi presenti al Concilio Niceno,
_alcuni dei quali inclinavano ad una Trinità nominale_, ed altri che
erano i _Santi allor più alla moda, il dotto Gregorio Nazianzeno, e
l'intrepido Atanasio favorivano il Triteismo._ Quindi a scorno dei
_Consustanzialisti, che pel loro buon successo avevan meritato il nome
di Cattolici_ reca in trionfo un passo di S. Ilario _trascritto da Locke
nel modello del suo nuovo repertorio_, in cui si duole che _tanti sinodi
rigettassero, ammettessero, ed interpretassero quel celebre termine_: e
sembra che si compiaccia nel rammentar _le furiose dispute_, che quegli
ebbero _con gli Homoiousii_ i quali tanto _accostavansi_, al parer suo,
_alle porte della Chiesa_, che narrando le crudeltà di Macedonio _in
difesa_ (com'ei dice) _dell_'ομοιουσιον, _non può ritenersi_
dal _rammentare che la differenza tra Homoiousion, e Homoousion è quasi
invisibile all'occhio teologico più delicato_: conchiudendo in fine che
_tutti erano egualmente agitati dallo spirito intollerante, che avevano
tratto dalle pure e semplici massime dell'Evangelio_.

È verissimo che il Bull come ancora i nostri teologi si son creduti in
dovere di conciliare fra loro i due sinodi Antiocheno e Niceno,
osservando che i Santi Atanasio, Basilio ed Illario rammentano la
proibizione della voce Ομόουσιον fatta dal primo; ma egli è
vero egualmente, che niuno di essi attesta di averla letta nell'Epistola
Sinodica: ond'è che essi ne parlarono solo in supposizione, che ella vi
fosse, come andavano divulgando i Semi-Arriani, ma falsamente ed a solo
oggetto di mostrar che gli _Homoousiasti_ o _Consustanzialisti_, come
per dispregio essi chiamavano gli Ortodossi[260], avevan cambiato
dottrina. Imperciocchè se otto, o nove anni prima di quel sinodo i
Pentapolitani avevano accusato Dionigi Alessandrino lor Vescovo al
Romano Pontefice del medesimo nome come impugnatore dell'Eternità, e
_Consustanzialità_ del Figlio col divin Padre, e tal dottrina aveva
irritato quel Pontefice, ed il Concilio da esso a bella posta adunato in
Roma: se l'accusato avevala rigettata siccome erronea prima in una
lettera, e quindi più ampiamente in quattro Libri, rendendo palese la
calunnia dei suoi malevoli; mi sembra chiaro, che la credenza della
_Consustanzialità_ del Figlio col Padre era fin d'allora comune, come
potè sovente S. Atanasio rinfacciare agli Arriani. Or come è mai
verisimile, che il sinodo Antiocheno _Ortodosso_ volesse dar sospetto di
opporsi in qualche maniera ed alla credenza comune, ed al Romano
Pontefice, ed a tutto il suo sinodo condannando la voce Ομοόυσιον?
Osservate inoltre che non cominciossi a rammentar tal decreto prima
del Concilio Aneirano del 358, vale a dire intorno a novant'anni dopo.
Vi par egli che i refrattarj al Concilio Niceno maestri d'inganni,
intrighi e sofismi avesser taciuto per sì lungo tempo un Decreto,
che gli avrebbe tanto, almeno apparentemente favoriti? L'avrebbe mai
od ignorato o taciuto uno dei principali sostegni del partito Ariano,
Eusebio di Cesarea, secondo Gibbon, _il più dotto dei Prelati
Cristiani_? Anzi egli medesimo nel Lib. VII della sua storia
inserì una gran parte della lettera dei PP. Antiocheni, eppure ivi non
ne fa cenno: ed in una, che esso ne scrisse poco dopo al Concilio
Niceno[261], limpidamente confessa che i Padri antichi si eran serviti
di quella voce. Che se realmente si fosse fatta in quel sinodo tal
condanna, come mai pochi anni dopo S. Pamfilo nell'Apologia per Origene
avrebbe inserito un intero Capitolo per dimostrare la _Consustanzialità_
del Verbo? Ne volete di più? Nella professione di fede opposta dal
sinodo Antiocheno medesimo agli errori di Paolo di Samosata più volte si
adopera la voce Ομοουσιον. Apparisce al presente, non so negarlo,
fatta in Nicea quella formula: ma che sia questo un errore
degli Amanuensi il prova il silenzio di Gelasio Ciziceno presso Fozio, e
l'espressa testimonianza del sinodo generale Efesino[262].

Per quello poi che riguarda i motivi, che indussero i Padri Niceni ad
adottare il vocabolo Ομοουσιον, egli è tanto difficile il
persuader un animo non preoccupato da massime eterodosse a giudicar di
quel venerando Consesso, come ne giudica il sig. Gibbon, quanto è
malagevole l'atterrare i più stimabili fondamenti della certezza
storica. «Erano dispostissimi, siccome attestano S. Atanasio[263] e
Teodoreto[264], quei rispettabili Vescovi ad inserire nella professione
di fede quelle espressioni soltanto, che si trovavano in termini nelle
S. Scritture, cioè che Gesù Cristo è da Dio, è Verbo e Sapienza, e
proprio Germe del divin Padre; ma non essendo possibile rinvenirne
alcuna che gli Arriani non adattassero al Verbo egualmente, che alle
creature, avvedutisi i Padri della lor frode ed empia astuzia _furon
costretti_ ad esporre con parole più chiare ciò che intendessero con
quella espressione _esser da Dio_, ed a scrivere per conseguenza, che il
_Figlio è della sostanza di Dio_: affinchè la detta espressione _esser
da Dio_ non si credesse accomunata al Figlio ed alle creature, e propria
egualmente di loro. In fatti l'esser della divina sostanza non è proprio
di creatura veruna, ma unicamente del Verbo... Parimenti quando
trattossi d'inserir, nel formulario di fede, che il Figlio è la vera
potenza ed immagin del Padre, a lui somigliante, immutabile onninamente,
eterno, ed indiviso nel Padre, tanto bisbigliarono gli Eusebiani, tanto
mostrarono di applaudirsi scambievolmente con le occhiate e con i cenni,
che ben si comprese, che l'espressioni _esser simile a Dio, essere in
Dio, esser la potenza di Dio_ eran da essi accomunate al Figlio, ed agli
uomini, leggendosi nelle Sacre Scritture, che l'uomo è l'immagine e la
gloria di Dio.... Quindi è che i Vescovi, considerata la loro ipocrisia
e maliziosa indole, furono anch'essi COSTRETTI DALLA NECESSITÀ a
raccogliere il senso di quelle espressioni dalle Scritture, ripetendo
con più chiari termini ciò che avanti avevano detto scrivere che il
Figlio è ομοουσιος Consustanziale al Padre ec.». Questo
medesimo vien ripetuto dal S. Primate nella sua Epistola agli
Affricani[265], e da S. Gregorio Nazianzeno[266]. Adunque non _per
nascondere le lor differenze, non per sospendere le loro dispute_, _non
per unire i loro partiti_ divisi tra il Sabellianismo ed il Triteismo i
Padri Niceni adottarono l'_Homoousion_; ma per recidere COSTRETTI DALLA
NECESSITÀ con un colpo solo la nefanda testa dell'Arrianesimo.

Ma vi era poi realmente quel gran numero di fautori di una Trinità
nominale magnificato da Gibbon nell'assemblea, che introdusse quella
voce nel simbolo? I _Santi_, che a detta del nostro rispettosissimo
Critico, _erano più alla moda al tempo degli Arriani Atanasio,
Gregorio Nazianzeno_, a cui si aggiungono _il Nisseno e Cirillo
l'Alessandrino[267] favorirono_ veramente _l'ipotesi delle tre menti, o
sostanze, e dei tre esseri coeguali e coerenti mediante la perpetua
concordia di loro amministrazione e l'essenzial conformità del loro
volere_? Dio buono! E come può essere ignoto al sig. Gibbon, che
presentatosi S. Illario al Sinodo di Seleucia[268] _primum quaesitum est
ab eo, quae esset Gallorum fides; quia tum Arrianis prava de nobis
vulgantibus ab Orientalibus suspecti habebamur_ TRINONYMAM SOLITARII DEI
UNIONEM _secundum_ SABELLIUM _credidisse_? Ma quando ancora egli ignori
un tal fatto, da quelle _oscure dispute, e certi notturni combattimenti_
da lui rammentati coi termini stessi di Socrate, non credo di fargli
ingiuria a dedurne, che esso abbia letto il Cap. VIII del I Libro di
quello storico. Ivi dunque avrà letto altresì le parole: _qui_ του ομοουσιοου την λεξιν _Consubstantialis vocem aversabantur SABELLII
DOGMA ab iis qui vocem illam probabant, induci arbitrabantur. Atque
idcirco impios illos vocabant, utpote qui Filii Dei existentiam
tollerent_[269]. Or perchè non inferirne, che quel Sabellianismo è una
mera calunnia, di cui i nemici della divina natura di Gesù Cristo, od
almeno di quella voce, che tanto ben l'esprimeva, caricarono i Padri
Ortodossi difensori dei termini precisi del Concilio Niceno? Come può
dunque vantar rispetto pel Santuario chi rinnova le antiche calunnie
contro di quelli, che sì gelosamente ne conservarono lo splendore? E non
è un rinnovare con Clerc le antiche calunnie il tacciare di fautori del
Triteismo i due Gregori, Atanasio e Cirillo l'Alessandrino a cui (non
già a S. Basilio) vuolsi attribuire il Libro Περι της αγιας Τριαδος
ec. _de S. Trinitate ec. Tres Deos a nobis coli causantur...
eamque CALUMNIAM probabiliter struere non intermittunt... Sed veritas
pugnat pro nobis_[270]. Sia pure un _actum agere_, come dice il sig.
Gibbon _il provare, che Homoousios significhi una sostanza in specie,
che secondo Aristotele le stelle sono homoousie, e che tre uomini sono
consustanziali in quanto appartengono alla medesima specie_; sarebbe
ancora per altro un _actum agere_ il dimostrare, che i Padri Niceni
affissero a quel celebre termine una significazione diversa da quella,
in cui usavasi o nel comune linguaggio, od in quello della filosofia dei
Gentili, come fin d'allora S. Atanasio rispondeva agli Arriani[271]:
_Haec sunt Ethicorum interpretationes, nosque nihil eorum egemus, quae
ipsi afferunt_; essendo già state raccolte le chiarissime testimonianze
di Socrate[272], di S. Atanasio medesimo[273], e dell'istesso Eusebio di
Cesarea[274], il quale scrisse: _Homoousion esse Filium Patri, cum
adlatis rationibus discussum esset_ (nel sinodo di Nicea) _convenit non
juxta corporum modum, neque instar mortalium animantium accipi
debere_[275]. Sarebbe molto più un _actum agere_ l'allegare una lunga
serie dei luminosissimi resti di quei Santi amatori della dottrina
Apostolica, non della _moda_, che apertamente dimostrarono la loro
Ortodossia intorno al mistero della Santissima Trinità, specialmente
scrivendo a Voi, che sì di proposito vi applicate agli studi Sacri con
la guida di dotti Maestri, e sotto gli auspicj di un illuminato e
religiosissimo Cardinale Protettore della vostra nazione. Sarò pertanto
brevissimo su questo articolo; ed in difesa del Nazianzeno riferirò
solamente quelle parole dell'Orazione XXXVII, in cui ragiona quel Santo
Padre della Trinità contro i Macedoniani e gli Arriani, le quali per
esser decisive furono artificiosamente omesse dal Clerc, che ad inganno
dei semplici non ebbe rossore di confermare il suo falso sistema con
passi tratti da quell'Orazione medesima. _Horum quodlibet Unitatem habet
non minus ejus cum quo conjungitum, quam sui ipsius respectu propter
essentiae et potentiae IDENTITATEM_ τω ταυτω της ουσιας, και της
δυναμεως. _Atque haec unionis hujus ratio est, quantum quidem ipsi
percipimus._ Questa non è certamente _la pericolosa ipotesi delle tre
menti o sostanze, o di tre esseri coeguali ec._ Il Nazianzeno asserisce,
che tra le Divine Persone non solo vi è uguaglianza di potenza e natura,
ma IDENTITA'. Confermiamolo. Se l'Unità di natura nelle Divine Persone
al parere del S. Padre consistesse in una mera coeguaglianza, e nella
sola conformità del loro valore, quell'Unità resterebbe, quand'anche si
concepisse mancante d'una delle tre Menti, o Sostante Divine. Ma egli
_nullo modo_, soggiunge esclamando, _UNAM ILLAM NATURAM, ac peraeque
venerandam trunca. Alioqui si quid ex Tribus everteris, TOTUM everteris,
imo a TOTO excideris_. È dunque patente l'Ortodossia di S. Gregorio
Nazianzeno. Può egli inoltre confessarsi più chiaramente, che il Figlio
non è una seconda Mente o Sostanza, ma bensì il Verbo, o la Sapienza del
Padre, ed _una Sostanza istessa_ con lui di quello che lo confessi
Cirillo l'Alessandrino? Si può mai più nettamente asserire, che la
Divina _sostanza è una sola_, benchè distinta in tre Persone di quel che
faccialo S. Atanasio? Ecco le parole del primo[276]: _Intelligendum sic
ex Patre natum Filium, ut Sapientia ex mente, quae sicut et alia
quodammodo esse a mente per expressionem ipsius videtur, et in ipsa vere
est; non enim SEPARABILITER ab ea prodit_. I termini del secondo son
questi[277]. _Neque tres hypostases per se ipsas DIVISAS, ut in
hominibus pro natura corporum accidit fas est in Deo cogitare: ne ut
gentes Deorum multitudinem inducamus... Laudanda colendaque et adoranda
Trinitas UNA et INDIVIDUA est, nec ullam figuram habet, sed sine
confusione CONJUNGITUR; quemadmodum ejusdem UNITAS distinguitur sine
DIVISIONE._ Quindi è manifesto non potersi sfuggir la taccia di
calunniatore da chiunque asserisce, che i Padri soprallodati favorissero
il Triteismo. Egli è poi tanto falso che l'_Homoousion potesse essere
caro ed ai Triteisti, ed ai fautori di una Trinità nominale_, che nel
linguaggio Teologico a norma delle espressioni di G. Cristo medesimo
_Ego, et Pater unum sumus... Ego in Patre, et Pater in me est_[278], si
credeva piuttosto capace di non conciliare i due supposti contrari
partiti, ma di distruggerli. _Vox ista_ ομοουσιον, _et SABELLII
impietatem corrigit, tollit enim hypostaseos identitatem, et
perfectam Personarum intelligentiam introducit. Non enim aliquid idem
est sibi ipsi Homoousion, sed alterum alteri. Itaque rectissime, et cum
pietate conjunctissime hypostaseon dividuntur proprietates, et
immutabilitas naturae inalterabilis repraesentatur_. Così S. Basilio
Magno[279], a cui egregiamente uniformasi S. Ambrogio scrivendo[280].
_Frustra autem verbum istud propter SABELLIANOS declinare se dicunt et
in eo suam impietatem produnt. Homoousion enim aliud alii non ipsum est
sibi. Recte ergo Homoousion Patri Filium dicimus quia eo verbo, et
PERSONARUM DISTINCTIO_ (contro Sabellio), _et NACTURAE UNITAS_ (contro i
Politeisti e gli Arriani) _significatur_.

Ma se così grande era la forza di quel vocabolo, e sì ben fissata la
significazione, perchè mai tanti sinodi _lo rigettarono, l'ammisero,
l'interpretarono_? Il Sig. Gibbon istesso mi presenta in gran parte come
rispondervi. Ciò avvenne perchè _gli Arriani sempre stimaron prudente
consiglio quello di mascherare con ambigue parole i lor sentimenti e
disegni, avvenne per l'astuzia dei loro Capi, per il loro odio verso
Atanasio, ed in modo singolarissimo per il minuto e capriccioso gusto
dell'Imperator Costanzo[281], che perseguitava con egual zelo quelli,
che difendevan la simil sostanza, quelli che sostenevano la
Consustanzialità, e quelli che negavano la somiglianza del Figlio di
Dio_. Anderebbe ingannato a partito chi credesse in quel passo del S.
Vescovo di Poitiers[282] delineato il carattere dei difensori del
simbolo di Nicea egualmente che quello dei nemici dell'_Homoousion_: e
molto più chi volesse dedurne l'estinzione o l'incertezza della vera
credenza nel vasto Impero Romano. Non è però nuovo l'abuso dei libri di
S. Illario per quest'oggetto. Anche Vincenzo Rogatista vi si faceva
forte disputando contro S. Agostino sulla Cattolicità della Chiesa. Dico
che sarebbe un abusare delle opere di quel S. Padre a pensare in tal
modo, poichè intorno a quei tempi medesimi per la testimonianza di
Socrate[283] _Achajae et Illyrici civitates, et reliquae Occiduarum
partium Ecclesiae tranquillae adhuc erant, et inconcussae, tum quod
inter se consentirent, tum quod fidei regulam a Nicaeno Concilio
traditam constantissime retinerent_, ed Illario nel IV. Libro _de
Trinitate_[284] provoca gli Eretici alla fede della Chiesa universale,
in cui _omne os credentium Christum Deum loquitur_. Il parlare come se
uno avesse parte a un disordine, da cui si vogliano ritrar coloro, coi
quali si forma una società, è forse il più efficace linguaggio per
l'intento, che sappia dettar l'umiltà e la prudenza. Vedendo pertanto lo
zelantissimo Vescovo, che nel Conciliabolo Costantinopolitano sotto gli
occhi dell'Augusto Sovrano si erano soscritti gli Arriani decreti fatti
in Rimini[285] dopo la partenza dei Legati, e non ancor disperando del
ravvedimento dei _dissidenti_ e del Principe, intende realmente in
quella Rappresentanza di rimproverar questo e quelli perchè convochino
tanti Sinodi, e con tante formule _vadano in traccia della fede, come se
non vi fosse_[286]; ma lo fa in termini, i quali denotando che ciò
avvenisse per comun colpa di tutti i Cristiani, non irritassero i veri
colpevoli ed il prepotente lor fautore. In fatti confrontate il passo
trascritto da Gibbon, ed inserito nel suo Repertorio da Locke con quel
che scrisse San Illario probabilmente[287] pochi mesi dopo, e
giustificate a chi egli imputasse la colpa di sì scandaloso disordine,
dicendo all'Imperatore quando ei si fu tratta la maschera: _Synodo
contrahis, et Occidentalium fidem ad impietatem compellis.... Orientalis
autem dissensione artifex nutris_[288]. _Namque post primam vere_
_Synodi Nicaenae... novis vetera subvertis, nova ipsa rursum innovata
emendatione rescindis, emendata autem iterum emendando condemnas... His
quidem ego intra Nicaeam scripta a Patribus fide fundatus, manensque non
egeo_[289]. Quindi ancora deducesi, che l'_Homoousion_ fu riguardato con
savissima avvedutezza da S. Illario sotto diversi aspetti, ora cioè come
inutile, or come pio e religioso, ed or come scandaloso ed empio.
Riguardollo siccome ozioso ed inutile per coloro, _i quali erano
immobilmente fondati nella sostanza della fede Nicena_, dicendo: _his
quidem... ego non egeo_, e in appresso[290]. _Quod tametsi nobis ad
fidem otiosum sit ec._; come pio e religioso poi _per quegli stessi_,
qualora lo usassero a solo oggetto di evitare la confusione Sabelliana,
che i maligni Settari spargevano, che si celasse nell'_Homoousion_ dagli
Ortodossi, come sopra osservammo[291]. _Mihi quidem similitudo ne UNIONI
detur occasio sancta est._ E qui dee notarsi che dal S. Vescovo della
Gallia non differisce di troppo l'immortale Primate d'Egitto, giacchè
protestasi di riguardare i medesimi come fratelli nella credenza, mentre
scrive[292]: _Adversus autem eos,_ _qui omnia Synodi Nicaenae scripta
recipiunt, de solo autem CONSUBSTANTIALI ambigunt, non ut adversus
inimicos affici nos decet... Sed veluti fratres cum fratribus
disceptamus, ut cum quibus nobis eadem sit sententia, controversia autem
de Verbis_. Onde si vede chiaro quanto sia _rispettoso_ il Critico a
giudicare Atanasio _attaccato dal contagio del fanatismo_, e a darci i
due opposti partiti, come _egualmente agitati dallo spirito
d'intolleranza_. Riguardavasi finalmente come scandaloso ed empio in
bocca di quegli impugnatori della _Consustanzialità_, che lo prendevano
in opposizione all'eguaglianza perfetta del Figlio col Padre e all'unità
dell'essenza, come porta la sua genuina e nuda significazione. _Et me
movet (cum scandalo) homoousii nuditas_[293]. Così il S. Vescovo di
Poitiers, il quale prosiegue[294]. _Multa saepe fallunt, quae similia
sunt... similitudo vera in veritate naturae est. Veritas autem in
utroque naturae non negatur HOMOOUSION_, come leggesi concordemente nei
Codici MSS. ed esige il buon senso. _Has enim similitudines, quae non ex
unitate naturae sint, metuo._ Così pure S. Atanasio _de Synod. Qui
secundum substantiam simile dicit, participationem quadam simile esse
definit... Hoc vero factarum rerum est, quae propter participationem
fiunt similes Deo_. Così l'A. _de Filii Divinit._[295]. _Denique sublato
Homoousion idest unius substantiae vocabulo, Homoousion, idest similem
(Filium) factori suo posuerunt, cum aliud sit similitudo, aliud
veritas._ Ed in tal caso non fa di mestiero di un occhio teologico
delicato gran fatto per distinguere la differenza tra quei due famosi
vocaboli[296]: e perciò S. Illario soggiunse[297]. _Non puto quemquam
admonendum in hoc loco ut expendat, quare dixerim SIMILIS SUBSTANTIAE
PIAM INTELLIGENTIAM nisi quia intelligerem et IMPIAM, et idcirco
similem, non solum aequalem, sed etiam eamdem dixisse, ut neque
similitudinem, quam tu frater Lucifer praedicari volueras, improbarem,
et tamen SOLAM PIAM esse similitudinis intelligentiam admonerem, quae
UNITATEM Substantiae praedicaret._ Che questo poi fosse il caso di una
gran parte dei Vescovi dell'Oriente io lo deduco dal ripeter che fa
Sant'Illario per ben due volte nel Libro _de Synodis_[298], che a
proporzione delle molte Chiese che vi erano, _pochi_ professavano la
_vera fede_, e dal dir loro, apostrofandoli, che gli avevan dato
speranza di richiamare la _vera fede_, (opponendosi, com'è verisimile,
agli Anomei) non già che l'avessero richiamata[299]. Ma che tale fosse
altresì l'_Homoousion_ sostenuto da Macedonio, non ardisco
asserirlo[300]. So però con certezza che esso uscì dalla scuola degli
Arriani, che da loro fu ordinato Vescovo, e che fu Eresiarca
nell'impugnare la Divinità dello Spirito Santo; che il suo odio contro
il Patriarca Paolo ed i fautori di lui fu intestino, e la sua ambizione
senza misura[301], e francamente asserisco, che l'esecrande tirannie dei
Macedoni e dei Giorgi di Cappadocia, che la squisita malignità degli
Eusebi, che gl'intrighi dei Valenti e degli Ursaci non si trovaron
giammai nei _Santi alla moda_ del tempo loro[302], e so per fede divina
che quei Settari avrebbon potuto apprendere _dalle pure e semplici
massime dell'Evangelio_ ad unire alla prudenza del serpe la semplicità
di colomba, ad esser miti ed umili di cuore come fu Gesù Cristo,
egregiamente imitato dai due distinti Campioni della Fede Nicena
Atanasio[303] ed Illario[304], e a dar la loro vita per la lor greggia,
non a toglierla altrui. Perciò riconosco in chi asserisce che _tutti
egualmente erano agitati nel tempo della Controversia Arriana dallo
spirito intollerante, che avevano tratto dall'Evangelio_, non uno
Storico, il quale tiri _rispettosamente il velo del Santuario_, ma
sivvero (per usare un'espressione suggeritami dal Sig. Gibbon istesso)
un Profano.

Ho, per quanto mi sembra, adempiute le mie promesse. Tocca ora a voi,
intraprendendo un'ampia confutazione degli errori del Sig. Gibbon, a
vendicare l'onore della Religione oltraggiata, e a sostenere il decoro
del partito Cattolico della nazione; giacchè avete ambedue ed acutezza
d'ingegno e cognizione delle lingue erudite ed ogni dì più divenite
valenti nelle Ecclesiastiche Controversie. Avvertite però, il vostro
Avversario è un Proteo, il quale

    _Omnia transformat se se in miracula rerum,_
    _Ignemque horribilemque feram fluviumque liquentem._

NOTE:

[158] L'A. allude a mio credere al celebre _Galilaee vicisti, satiare
ec._ ed al racconto, che Giuliano volesse precipitarsi nel fiume vicino
per celar la sua morte, e così passar, come Romolo, per un Dio. Ma S.
Gregorio (_Orat. IV. p._ 290. _Edit. Paris._ 1583) non dice cosa veruna
delle bestemmie di quell'Imperatore, nè del sangue gettato contro al
Cielo; e benchè accenni il secondo fatto, osserva in generale, che le
circostanze della morte di Giuliano erano incertissime. Sozomeno poi (l.
VI. c. 2), e Teodoreto (l. 30. c. 25. _Ed. Vales._) parlano del primo
come di cosa non ben sicura, e come un discorso di pochi. Vedi della
Bleterie pag. 495 e segg. Se il sig. Gibbon avesse ben ponderata la
forza del titolo di _Calunniatore_ si sarebbe astenuto dal darlo a
Gregorio ed ai Santi più moderni, per non meritarlo egli stesso. Vedi
Filostorgio H. E. l. 7. in fogl.

[159] Che dirà dunque l'Autore dell'Apocalisse, in cui i Vescovi son
distinti col nome di Angeli? Che di G. C. medesimo, mentre disse di loro
nella persona degli Apostoli; _qui vos audit, me audit, qui vos spernit,
me spernit?_ E come non sapere che di tutti i buoni si legge: _Ego dixi,
Dii estis_ ec.? Lo sa benissimo: ma è tanto prevenuto contro Gioviano,
che unitamente al merito di Confessore nel precedente regno gli nega
quello di aver esatto dall'esercito che lo proclamò Imperatore la
professione del Cristianesimo, benchè ne sian testimoni Socrate,
Sozomeno e Teodoreto (l. IV. c. 1. ex Vales.) sol perchè Ammiano dice
(l. XXV. c. 6) _hostiis pro Joviano, extisque inspectis pronunciatum
est_ etc. Alle osservazioni del Baronio (ad Ann. 363. §. 118) sul testo
citato, aggiungo col Tillemont, che forse alcuni pochi ostinati Pagani
compiron quel rito superstizioso senza saputa dell'Imperatore, e che
_Ammiano avea una cognizione molto oscura e superficiale della Storia
Ecclesiastica_. È Gibbon istesso che parla in tal modo; perchè in
quell'occasione l'ignoranza di Ammiano torna in discredito dei
Cattolici.

[160] Grot. L. I. c. 4. Bossuet Var. l. 10.

[161] V. Athan. Epist. ad Lucif. et Serapion.

[162] Vedi Hermant Vie de S. Athanas.

[163] Vedi Baron. ad an. 356. n. 85. Tillemont Tom. VIII. N. 74. Fleury
l. 13. n. 32.

[164] L. I. c. XIII. de Trin. §. 6.

[165] Sec. IV. diss. 30.

[166] V. Bern. Montf. _Diatriba de Causa_ Marcelli Ancyr. T. 2. Coll.
Nov. PP. et Script. Graecor.

[167] Il Garner. Diss. ad Mart. Mercat. Opera T. III. p. 312 chiama la
medesima causa _difficile ed oscura_.

[168] Vedi Mamachi T. I. Orig. et Antiq. Christ. i PP. di Trevoux Febr.
1708. Arti 26. Claud. Molinet. 1681, nel Giornale dei dotti di Parigi
ec. ec. Tra i Protestanti Gio. Reischko 1681. Gian Cristof. Wolf. 1706.
_De visione Crucis, etc._

[169] _Syntagma, quo apparientis M. Costantino Crucis historia complexa
est universa. Romae 1595._

[170] Euseb. loc. cit.

[171] Controv. Rob. Bell. defens. T. II. Col. 1044.

[172] Saec. IV. Diss. 32.

[173] Dissertation Crit. etc. et hist. sur le P. Libere, dans laquelle
on fait voir, qu'il n'est jamais tombé. A Paris 1736.

[174] Pap. 185. Tom. II. Venet. 1757.

[175] L. 2. C. 17. Hist. Eccles.

[176] L. 5. C. 18. Hist. Tripart.

[177] De div. et multipl. rat. Animae. c. 2.

[178] Praef. T. 5. Bibl. PP. p. 652.

[179] Sozom. L. 4. 15. Ed. Vales.

[180] Theodoret Hist. l. 2. c. 17.

[181] Labbé T. 2. Conc. p. 655.

[182] Hieron. Dial. adv. Lucifer. Damas. presso Teodoret. L. 2. Hist.
Eccl. c. 22. Lib. med. presso Socr. l. 4. Hist. XII.

[183] Nei Framm. di S. Ilario pag. 1357. Ediz. dei Mon. Benedet.

[184] Sulpic. Sever. Hist. Sacr. L. 2. c. 39. Socr. Hist. E. L. 2. c.
37.

[185] Vedi il Cap. IV. e V. della cit. Dissert. _De Comment. ec._

[186] L. I. Hist. c. 27.

[187] L'A. non ha troppo buon sangue coi Papi. _Il carattere di Damaso è
molto ambiguo, e tre parole di Girolamo Sanctae Memoriae Damasus, lavano
tutte le sue macchie, ed abbagliano i devoti occhi del Tillemont._ Si
trovan però dileguate presso questo Scrittore le calunnie, dalle quali
fu attaccato quel Santo Pontefice. Si cita inoltre Teodoreto L. V. c.
2., che parla così di Damaso: _Is erat Episcopus Romae vita laudabili
conspicuus, quique sibi dicenda, faciendaque omnia pro Apostolicis
dogmatis statuerat._, e nel L. IV. c. 30 lo pone nella classe medesima
con i due SS. Gregorio, e con S. Ambrogio. Allega ancora l'autorità del
Concilio Calcedonese che nell'allocuzione all'Imperatore Marciano si
espresse in questi termini. _Sic quoque Damasus Romanae urbis decus ad
justitiam, ovvero Romanae urbis Episcopus, et justitia decus._ Appella
per fine a non pochi antichissimi Martirologi, nei quali con S. Girolamo
si legge nominato S. Damaso. Non sono dunque tre parole quelle che hanno
abbagliato gli occhi devoti del Tillemont. Vedi T. VIII. Memor.

[188] Vie de l'Empereur Julien L. V. p. 396.

[189] Marc. L. XIII. V. 1. 2.

[190] Lib. 23. c. 1.

[191] L. I. c. 38, 39.

[192] L. 3. c. 17.

[193] L. 3. c. 17.

[194] L. V. c. ult.

[195] Adv. Judeos Orat. 2, Hom. 4 in Matth.; Homil. 41 in Act. Apost.

[196] Greg. Naz. Orat. 2. in Julian.

[197] Sec. IV. 1. p. n. 14.

[198] L. IV. c. 27.

[199] M. della Bleterie pag. 399 in una Nota.

[200] _Adv. Parmentanum._

[201] _De Unit. Eccl., Cont. Petilian., Cont. Cresc. in Epist. et alibi
passim._

[202] Nat. Aless. Saec. IV. pag. 15. Tillem. Tom. VI. Vales. etc.

[203] Can. 8.

[204] Can. 19. cum not. Christ.

[205] S. Ag. De haeres. ad Quod vult Deus. L. 69.

[206] Fleury L. XI. §. 53.

[207] V. Tillem. T. 3. Les Novatiens.

[208] _Quodcumque solveris etc. Quorum remiseritis peccata remittuntur
eis etc._ Jo. 30. Matth. 16.

[209] _Quod si dormierit vir ejus, liberata est etc._

_Cui vult nubat._ ad Corinth. I. c. 7.

[210] Sess. 23. c. 17. de Reformat.

[211] Sess. 23. c. 17. de Reformat.

[212] S. Ambros. L. 2. de Off. Eccles. L. 6. ex A. malar. Fortun. v.
Morin. part. 2. De Sac. Ordin.

[213] L'Autore in ciò si conforma a Clerc Epist. Cr. 7, 8, 9 ed al
Mosem. _Dissert. de turb. per Plat. Ecclesia._

[214] P. 1049.

[215] P. 1042.

[216] P. 1049.

[217] Tim. p. 1049.

[218] Cic. L. I. de Nat. Deor.

[219] P. 1052.

[220] Lib. II. _de Nat. Deor._

[221] L. I. C. 10. _de Plat. Philos._

[222] Orig. L. V. p. 307.

[223] Vedi la Pref. degli Edit. Bened. di S. Giustino Part. 2. c. 1.

[224] Not. _ad Petav. de Trinit._ L. I. c. 1.

[225] _Divinitas J. C. manifesta in Script. et. tradit._ Vedi Praef. _ad
S. Justini oper._ part. II. C. 1. §. V. e Bossuet _Elevazioni alla SS.
Trinità_ II. Settimana.

[226] Pag. 95. T. V. Il Critico segue l'opinion del Lamy _Praef.
apparat._ C. 7. Calmet però dà per ricevuta dalla maggior parte l'epoca
dell'ann. 98 di G. C. I. di Traiano _In Evang. S. Joan. Proleg._

[227] Dissert. _De Verbo Dei_ §. 3. 4.

[228] Non si nega a Clerc, che Filone fosse un Platonico celebre: ma si
ha diritto di esiger da lui, che non dia una mentita a Filone stesso, il
quale nel Lib. de Opif. Mundi attesta di aver appresa la dottrina del
Logos περί τῦ λὸγου non da Platone, ma da Mosè. Μωσεῶς ἔστι τὸ υόγμα
τουτο, ουκ εμον. Vedi _Joh. Lami de recta Christ. in eo quod myster.
Div. Tri. adtinet Sententia._ L. 4. c. 8.

[229] Dissert. cit. §. 5.

[230] Haeres. V.

[231] Luc. C. 1. v. 26.

[232] I MSS. Greci portan per data l'anno di G. C. ma la più verisimile
può fissarsi verso l'an. 53 vedi _Calm. in Ev. Luc. Proleg._

[233] Luc. C. 5. v. 47.

[234] Luc. C. 1. v. 45.

[235] Luc. C. 1. v. 76. e seg.

[236] Luc. C. 2. v. 30. e seg.

[237] V. Simon. Hist. Crit. N. T. C. 15. Calmet in _Evang. S. Matth.
Prolegom._

[238] Matth. C. 3. V. 17. Marc. C. 3. v. 11. Luc. 3. v. 23.

[239] _Dilectus ibi sonare potest unigenitus: vox enim Jachid idest
unicus filius, saepius redditur a LXX. ἁγάπητος Lamy Comment.
in Harm. c. V._

[240] Psalm. II. v. 7.

[241] C. 4. V. 25 e seg.

[242] C. I. Il Blondello, lo Spanemio, il Tillemont tengono con la
massima parte degli antichi, che la lettera agli Ebrei sia scritta
l'Anno di C. 63. Vedi Calm. Proleg. Art. III.

[243] Psalm. 87. Job. 1 6. 11. 1.

[244] S. August. in psalm. 2.

[245] Vedi Abbadie T. III. Traité de la Divinité de J. C.

[246] C. 8. v. 37.

[247] Joh. V. 18.

[248] Ad Philippens. C. 2. v. 6.

[249] Ad Rom. C. 1. v. 4. C. 8. v. 3. Ad Hebr. C. 1. v. 2. C. 5. v. 8.
C. 6. v. 6. C. 7. v. 3. C. 10, v. 29. ec.

[250] Ad Hebr. C. 1. v. 11.

[251] d. C. 1. v. 3.

[252] Ad Colos. C. 1. v. 16.

[253] Ad Hebr. C. 1. v. 2.

[254] d. C. 1. v. 6.

[255] Ad Roman. C. 9. v. 3.

[256] d. C. 1. v. 8.

[257] I Nazareni per testimonianza di S. Girolamo: _credebant in
Christum Filium Dei._ Ora secondo la semplicità di quei tempi, ed a
norma del simbolo Apostolico il credere in Cristo Figlio di Dio era lo
stesso che crederlo propriamente Dio, generato da Dio Padre. Perciò
soggiunge S. Girolamo _in quem et nos credimus._ Vedi Lo Quien Diss. VII
Damasc., e la solida confutazion di Freret del Ch. Padre Fassini
Profess. di S. Scrittura in Pisa: _De Apostolica Evangeliorum Origine_
n. 25 e 26 dove risponde al Mosemio citato da Gibbon.

[258] Vedi _Athanas. De fuga sua._

[259] An. 358. V. N. Ales. Sec. 4. Dissert. 15. e cap. 3. §. 22.

[260] Vedi Bingham. Orig. Eccl. L. 1. C. 2. §. 13.

[261] Ap. Socr. L. I. H. E.

[262] Vedi la Dissert. del P. D. Prudenzio Mairan sopra i Semi-Arriani.
Parigi 1722 e l'altra _de voce Homoousion_ ec. _Aucto. Liberato Fassoni
ec_. Romae 1753. V. ancora S. Atanas. _De Sent. Dionys_. n. 18. Nov.
edit. Tom. I. p. 256.

[263] _De Nicaen. Syn. Decret_. p. 115.

[264] Lib. I. H. E. C. 8.

[265] Pag. 709.

[266] Orat. 49.

[267] Ometto Gio. Damasceno, come appartenente al VII. Secolo. V. gli
Aut. cit. di sotto.

[268] Sulpic. Sever. L. 2. Vet. Ed.

[269] Socr. d. C. 8. L. I. H. E. ex Vales. Fu questo il Sofisma d'Arrio
medesimo, cattivo Dialettico, Socr. L. 1. C. 5.

[270] Vedi il C. 14 e 26. De recta PP. Necaenor. Fide Jo. Lami.

[271] Lib. 1. de Synod §. 31.

[272] L. I. H. E. C. 25.

[273] De Synod. c. 45.

[274] Apud Socr. L. 1. H. E. C. 8.

[275] Vedi Bull. _Defens. Fid. Nicaen._ e la cit. Dissert. di D. Gio.
Lami _De recta Patrum Nicaenorum Fide._ Venet. 1733. C. 2.

[276] S. Cyrill. Alex. Lib. I. Thes. C. 7.

[277] _S. Athan. in exposit. Fid._

[278] _S. Athanas. Lib. de Synod._ §. 20. _Verum cum Filii ex Patre
generatio alia plane sit a natura hominum, nec solum similis ille sit
substantiae Patris, sed DIVIDI ab eo non queat, quum item unum ipse, et
Pater sit, ut idem dixit, SEMPERQUE VERBUM SIT IN PATRE, ET PATER IN
VERBO, eo modo quo splendor se habet ad lucem... idcirco Synodus ea re
perspecta eum esse CONSUBSTANTIALEM recte scripsit._ Questi non son
termini favorevoli a la moda del Triteismo.

[279] Epist. 300.

[280] Lib. 3. de _Fid._ C. 7.

[281] _Ad Constantium Aug. L._ 2.

[282] V. Fleury Hist. Eccl. l. 13. §. 43. e l'Avvertim. degli Edit.
Bened. _ad_ 2 _Lib. ad Constant. A._

[283] H. E. L. 2. C. 27.

[284] §. 30.

[285] Nat. Alex. H. E. Saec. IV. §. 25.

[286] Ad Const. A. Lib. 2. §. 6.

[287] Vedi la Dissert. premessa dagli Edit. Bened. al Lib. _Contr.
Const._ Aug.

[288] L. 2. Constant. A. §. 7. Sono ancora notabili quelle espressioni
presso Fozio sulla morte di Costanzo, dicendo: _Imperium pariter ac
vitam, et Synodos ad stabiliendam impietatem dereliquit_. Philost. l. 6.
n. 5.

[289] Lib. cit. §. 23. Vedi ancora il Lib. _de Syn. seu de Fide Orient._
§. 63.

[290] Lib. cit. §. 27.

[291] Quello però riputavasi dal S. Padre un timor vano, mentre nel Lib.
de Synod. §. 91 così parla: _Interpretati Patres nostri sunt post
Synodum Nicaenam ec. Homoousii proprietatem religiose, extant libri,
manet conscientia ec._

[292] De Synod. pag. 703. Vedi N. Aless. Dissert. XV. _de voce_
Ομοιουσιον _ad Saec. IV_.

[293] S. Hilar. _Apol. ad Reprehens._ VIII.

[294] Lib. de Synod. §. 89. Nat. etc.

[295] Tra le op. di S. Ambrogio C. 2.

[296] V. Mar. Victor. L. 1. _adv. Arrium_, e Greg. Naz. Or. 21. p. 26.

[297] _Apolog. ad Reprehens._ III.

[298] §. 66.

[299] _De Synod._ §. 79. Vedi Apolog. IV. Vedi la Diss. cit. di Nat.
Aless. in cui son pochissimi gli Homoousiani difesi come Ortodossi da
quel dotto Scrittore. Aezio, che senza raggiro professava la
_dissomiglianza_ ανομοιον, rimproverava in faccia a Costanzo i
sostenitori dell'ομοιουσιν....... _Asserens idem se profiteri
ac sentire cum illis omnibus. Verum, inquiebat, quod penes me verum est
isti dissimulant, et quod ego prae me fero ac palam confiteor, illi
omnes non diffitentur, sed fraudulenter obtegunt. Epiph. haeres. l. 3.
T._ 1. _haer._ 76.

[300] Theodor. H. E. Lib. 2. C. 6. Vedi Fleury Lib. 15. §. 30. H. E.

[301] Socr. L. I. C 17. H. E. Soz. L. 3. C. 9.

[302] Uomini alla moda χρονιτας chiamò Aezio per ludibrio gli
Arriani suoi persecutori, poichè si accomodavano al tempo e alla Corte.
Vedi Germon. de Veter. haeres. etc. L. 2. Quando poi si pretendesse dato
da quel Capo degli Anomei un tal nome ai _Consustanzialisti_, molto più
risalterebbe il rispetto dell'Autore per il Santuario.

[303] Vedi Tillem. T. 8. S. Athanas. Art. 117. «Il avoit soutenu la
verité de la Trinité moins par sa plume que par ses souffrances, et par
le Martyre continuel de sa vie».

[304] _Olim in ipso Sacrosancti Sacrificii meditullio, in praefactione
scilicet ante canonem Hilarium morum lenitate pollentem (Ecclesia)
decantabant._ Vedi la Dissert. de Maur. in Lib. Contr. Constant. §. 3.



CAPITOLO XXVI.

      _Costumi dei popoli pastori. Progresso degli Unni dalla China in
      Europa. Fuga dei Goti. Passano il Danubio. Guerra Gotica.
      Disfatta e morte di Valente. Graziano investe Teodosio
      dell'Impero Orientale: suo carattere e fine. Pace e stabilimento
      dei Goti._


[A. 365]

Nel secondo anno del regno di Valentiniano e di Valente, la mattina del
dì ventuno di Luglio, la maggior parte del Mondo Romano fu scossa da un
violento e rovinoso terremoto. Se ne comunicò l'impressione anche alle
acque; i lidi del Mediterraneo restarono in secco per la subitanea
ritirata del mare; con le mani si prendevano i pesci in gran copia; dei
grossi vascelli restaron piantati nel fango; ed un curioso
spettatore[305] divertiva gli occhi o piuttosto la fantasia contemplando
il vario aspetto di valli e di monti, che dopo la formazione del globo
non erano mai stati esposti alla vista del Sole. Ma presto ritornaron le
acque con un immenso ed irresistibil diluvio, che fece grandissimo danno
sulle coste della Sicilia, della Dalmazia, della Grecia e dell'Egitto;
alcune grosse barche furon trasportate sui tetti delle case o alla
distanza di due miglia dal lido; i flutti trascinaron via il popolo con
le sue abitazioni; e la città d'Alessandria faceva ogni anno la
commemorazione di quella fatal giornata, in cui eran perite
nell'inondazione cinquantamila anime. Questa calamità, il racconto della
quale da una provincia all'altra s'andava magnificando, sorprese e
spaventò i sudditi di Roma; e l'atterrita loro immaginazione amplificò
la grandezza reale di quel momentaneo flagello. Rifletterono essi ai
precedenti terremoti che avevan rovinato le città della Palestina e
della Bitinia; risguardarono tali fieri colpi come puri preludi di più
terribili calamità; e la timida lor vanità era inclinata a confondere i
sintomi di un Impero decadente con quelli della rovina del Mondo[306].
Era uso di quei tempi l'attribuire qualunque notabile avvenimento al
volere speciale della Divinità; le alterazioni della natura dovevano
essere connesse, mediante un'invisibil catena, con le opinioni
metafisiche e morali della mente umana; ed i più sagaci divinatori
sapean distinguere, secondo il colore dei respettivi lor pregiudizi, che
lo stabilimento della eresia tendeva a produrre un terremoto, o che un
diluvio era l'inevitabile conseguenza del progresso della colpa e
dell'errore. Senza pretendere di esaminar la verità e la convenienza di
queste alte speculazioni, l'Istorico può contentarsi d'una riflessione,
che sembra giustificata dall'esperienza, vale a dire che l'uomo ha molto
più da temere dalle passioni delle creature della sua specie, che dalle
convulsioni degli elementi[307]. I dannosi effetti d'un terremoto, di un
diluvio, d'un oragano, o dell'eruzion di un Vulcano hanno una
proporzione ben piccola con le ordinarie calamità della guerra; per
quanto siano adesso moderate dalla prudenza o dall'umanità dei Principi
dell'Europa, che divertono se stessi, ed esercitano il coraggio dei loro
sudditi, nella pratica dell'arte militare. Ma le leggi ed i costumi
delle nazioni moderne almeno proteggono la sicurezza e la libertà del
vinto soldato; ed il pacifico cittadino rare volte ha motivo di dolersi,
che la sua vita o i suoi beni siano esposti al furor della guerra.
Nell'infelice periodo della caduta del Romano Impero, di cui può
giustamente porsi l'epoca nel regno di Valente, era personalmente
attaccata la felicità e sicurezza d'ogni individuo; e le arti e le
fatiche di più secoli furono crudelmente sfigurate dai Barbari della
Scizia e della Germania. L'invasione degli Unni fece precipitare sulle
province Occidentali la nazione Gotica, che s'avanzò in meno di quaranta
anni dal Danubio al mare Atlantico, e col buon successo delle sue armi
aprì la strada alle aggressioni di tante altre ostili tribù, più
selvagge di essa. L'original principio di tali moti era nascosto nelle
remote regioni del Norte; ed una curiosa investigazione della vita
pastorale degli Sciti[308], o dei Tartari[309] illustrerà l'occulta
causa di quelle rovinose emigrazioni.

I differenti caratteri, che distinguono le nazioni civili del globo, si
possono attribuire all'uso e all'abuso della ragione, che modifica sì
variamente, e con tant'arte compone i costumi e le opinioni d'un Europeo
o d'un Chinese. Ma l'azione dell'istinto è più sicura e più semplice che
quella della ragione; è molto più facile il determinar gli appetiti d'un
quadrupede, che le speculazioni d'un filosofo; e le selvagge tribù del
genere umano quanto più si accostano alla condizione degli animali,
tanto più forti conservano la somiglianza l'una coll'altra. L'uniforme
stabilità dei loro costumi è la natural conseguenza dell'imperfezione
della loro facoltà. Ridotti ad una simile situazione, i bisogni, i
desiderj, i piaceri loro continuano sempre gli stessi; e l'influenza del
cibo o del clima, che in un più perfetto stato della società vien
sospesa o anche tolta da tante cause morali, potentissimamente
contribuisce a formare e a mantenere il carattere nazionale dei Barbari.
In ogni tempo le immense pianure della Scizia o della Tartaria sono
state abitate da vaganti tribù di cacciatori e di pastori, l'indolenza
dei quali ricusa di coltivare la terra, e l'inquieto loro spirito sdegna
il riposo di una vita sedentaria. In ogni tempo gli Sciti ed i Tartari
sono stati famosi pel loro invincibile coraggio, e per le rapide
conquiste che hanno fatto. I troni dell'Asia furono più volte rovesciati
dai pastori del Norte, e le loro armi hanno sparso il terrore e la
devastazione sulle più fertili e guerriere contrade dell'Europa[310]. In
quest'occasione ugualmente che in molte altre il sobrio storico viene a
forza riscosso da una grata visione; e con qualche ripugnanza è
costretto a confermare, che i costumi pastorali, che si sono adornati
coi più belli attributi della pace e dell'innocenza, sono molto più atti
alle fiere e crudeli abitudini di una vita militare. Per illustrare
quest'osservazione, io prenderò adesso a considerare una nazione di
pastori e di guerrieri nei tre importanti articoli 1. del cibo, 2.
dell'abito e 3. degli esercizi loro. I racconti dell'antichità vengono
confermati dall'esperienza dei moderni tempi[311]; e le rive del
Boristene, del Volga o del Selinga ci presenteranno ugualmente l'istesso
uniforme spettacolo di simili nativi costumi[312].

I. Il grano od anche il riso, che forma l'ordinario e sano cibo dei
popoli culti non si può ottenere che mediante il paziente travaglio
dell'agricoltore. Alcuni fortunati selvaggi, che abitano fra i Tropici,
sono abbondantemente nutriti dalla liberalità della natura; ma nei climi
Settentrionali una nazione di pastori è ridotta ai soli suoi greggi ed
armenti. Gli abili professori dell'arte medica determineranno (seppure
sono in grado di farlo) quanta influenza può aver l'uso del cibo animale
o vegetabile sull'indole dello spirito umano, e se l'associazione, che
si fa comunemente, di carnivoro e di crudele, meriti d'esser considerata
in altro aspetto, che in quello di un innocente e forse salutar
pregiudizio d'umanità[313]. Pure se è vero che la vista e la pratica
d'una famigliar crudeltà indebolisca, senz'accorgersene, i sentimenti di
compassione, possiamo osservare, che gli orridi oggetti, mascherati
dalle arti del raffinamento Europeo, si presentano nella tenda di un
pastore Tartaro nella nuda loro e più disgustosa semplicità. Si macella
il bove o la pecora da quell'istessa mano, dalla quale solea ricevere il
quotidiano suo cibo: e le palpitanti membra dell'animale con
piccolissima preparazione si pongono sulla mensa dell'insensibile
uccisore. Nella professione militare, e specialmente nella condotta di
un numeroso esercito l'uso esclusivo del cibo animale sembra che produca
i più sodi vantaggi. Il grano è una merce voluminosa e facile a
guastarsi; ed i gran magazzini, che sono indispensabilmente necessari
per la sussistenza delle nostre truppe, lentamente si debbono
trasportare a forza di uomini e di cavalli. Ma gli armenti ed i greggi,
che accompagnano la marcia dei Tartari, somministrano una sicura e
copiosa quantità di carne e di latte: nella massima parte delle incolte
solitudini è florida e lussureggiante la vegetazione dell'erba; e pochi
sono i luoghi tanto sterili, dove l'indurato bestiame del Norte non
possa trovare una sufficiente pastura. Si moltiplica il vitto, e se ne
prolunga la durata dall'indistinto appetito e dalla sofferente astinenza
dei Tartari. Si cibano essi con indifferenza della carne tanto di quegli
animali che si sono uccisi per la tavola, quanto di quelli che son morti
per malattia. Gustano con particolar piacere la carne di cavallo, che in
ogni tempo ed in ogni paese è stata proscritta dalle incivilite nazioni
dell'Europa e dell'Asia; e questo singolar genio facilita il successo
delle lor militari operazioni. L'attiva cavalleria della Scizia è sempre
seguitata nelle più distanti e rapide loro incursioni da un adeguato
numero di cavalli scossi, che alle occorrenze posson servire o a
raddoppiare la velocità o a soddisfare la fame dei Barbari. Molti sono i
ripieghi del coraggio e della povertà. Quando il foraggio all'intorno
del campo dei Tartari è quasi consumato, essi ammazzano la maggior parte
del loro bestiame, e ne conservan la carne o affumicata o secca al sole.
Nelle subitanee occasioni di precipitose marce, si provvedono d'una
sufficiente quantità di piccoli globi di cacio o piuttosto di cattivo
latte accagliato, che essi sciogliono alle occorrenze nell'acqua; e
questo non sostanzioso cibo sostiene per molti giorni la vita od anche
il coraggio del paziente guerriero. Ma comunemente a tale straordinaria
astinenza, che si approverebbe da uno Stoico, e da un Eremita sarebbe
invidiata, succede la piena soddisfazione del più vorace appetito. I
vini dei climi più dolci sono i più grati presenti o la più stimabil
merce che ai Tartari offerire si possa; e l'unico esempio di loro
industria pare che consista nell'arte d'estrarre dal latte di cavalla un
liquor fermentato, che ha un fortissimo poter d'inebriare. I selvaggi sì
del vecchio che del nuovo Mondo, provano, come gli animali di rapina, le
alternative vicende della carestia e dell'abbondanza; ed il loro stomaco
è assuefatto a sostenere, senza molto incomodo, gli opposti estremi
dell'intemperanza e della fame.

II. Nei tempi di rustica e marziale semplicità si trova sparso nel giro
di un esteso e coltivato paese un popolo di soldati e di agricoltori; e
ben dovè passar qualche tempo avanti che la guerriera gioventù della
Grecia e dell'Italia si potesse unire sotto l'istessa bandiera o per
difendere i propri confini, o per invadere i territori delle vicine
tribù. Il progresso delle manifatture e del commercio insensibilmente
raccoglie una gran moltitudine dentro le mura d'una città; ma questi
cittadini non son più soldati; e le arti, che adornano e perfezionano lo
stato della civil società, corrompono le abitudini della vita militare.
I costumi pastorali degli Sciti par che congiungano i diversi vantaggi
della semplicità e della coltura. Sono costantemente uniti insieme
gl'individui della stessa tribù, ma sono uniti in un campo; ed il
naturale spirito di quest'indomiti pastori, è animato dal vicendevol
aiuto e dall'emulazione. Le case dei Tartari non sono altro che piccole
tende di forma ovale, che offrono una fresca ed asciutta abitazione per
la mista gioventù di ambi i sessi. I palazzi dei ricchi consistono in
capanne di legno di tal grandezza, che si possan comodamente posare
sopra gran carri, e tirare da una serie, forse di venti o di trenta
bovi. Gli armenti ed i greggi dopo aver pasciuto tutto il giorno nelle
adiacenti pasture, si ritirano all'avvicinarsi della notte sotto la
protezione del campo. La necessità d'impedire la più dannosa confusione
di tal perpetua mescolanza di uomini e di animali, deve a grado a grado
introdurre nella disposizione, nell'ordine e nella guardia
dell'accampamento, i principj dell'arte militare. Quando è consumato il
foraggio d'un dato distretto, la tribù o piuttosto l'armata dei pastori
muove regolarmente in cerca di altri pascoli; e così acquista
nell'ordinarie occupazioni della vita pastorale la cognizione pratica
d'una delle più importanti e difficili operazioni di guerra. La scelta
dei posti si regola secondo la differenza delle stagioni; nella state i
Tartari si avanzano verso tramontana, e piantano le loro tende sulle
rive di un fiume o almeno nelle vicinanze di un'acqua corrente. Ma
nell'inverno tornano al Mezzodì, e mettono il campo dietro a qualche
comoda altura al riparo dai venti, che si rendono più crudi nel passare
che fanno per le bianche e ghiacciate regioni della Siberia. Usi di tal
sorta sono mirabilmente adattati a spargere fra le vagabonde tribù lo
spirito di emigrazione e di conquista. La connessione fra il popolo ed
il suo territorio è sì fragile che si può rompere al più leggiero
accidente. Il campo, non già il suolo, è il paese nativo del vero
Tartaro. Nel recinto del campo si contengon sempre la famiglia, i
compagni, i beni di esso; e nelle marce ancor più distanti è sempre
circondato dagli oggetti più cari, più preziosi, o più famigliari ai
suoi occhi. La sete della preda, il timore o la vendetta delle ingiurie,
la intolleranza della servitù sono in ogni tempo state cause sufficienti
per muovere le tribù della Scizia ad avanzarsi arditamente in qualche
ignoto paese, dove sperar potessero di trovare una più copiosa
sussistenza o un meno formidabil nemico. Le rivoluzioni del Norte hanno
spesso determinato la sorte del Sud; e nel contrasto delle ostili
nazioni il vincitore ed il vinto o hanno espulso, o sono stati
alternativamente scacciati, dai confini della China a quelli della
Germania[314]. Queste grandi emigrazioni, che alle volte si sono
eseguite con una quasi incredibil prestezza, si rendevan più facili
dalla particolar natura del clima. Si sa che il freddo della Tartaria è
molto più crudo di quello che si potrebbe ragionevolmente aspettare in
mezzo ad una zona temperata: si attribuisce tale straordinario rigore
all'altezza delle pianure, che si alzano, specialmente a levante, più di
mezzo miglio sopra il livello del mare, ed alla quantità di salnitro, di
cui è profondamente impregnato il terreno[315]. Nell'inverno, i larghi e
rapidi fiumi, che scaricano le loro acque nell'Eussino, nel mar Caspio e
nel Glaciale, sono fortemente agghiacciati; i campi son coperti da un
letto di neve; e le fuggitive o vittoriose tribù posson traversare
sicuramente colle loro famiglie, coi loro carriaggi e bestiami la
sdrucciolevole e dura superficie d'un'immensa pianura.

III. La vita pastorale, paragonata coi travagli dell'agricoltura e delle
manifatture, è senza dubbio una vita d'oziosità, e siccome i pastori più
considerabili della stirpe dei Tartari lasciano agli schiavi la cura
domestica del bestiame, la loro quiete rare volte viene disturbata da
alcuna servile o continua sollecitudine. Ma quest'ozio, invece di esser
consacrato ai molli piaceri dell'amore e dell'armonia, utilmente si
spende nei violenti e sanguinosi esercizi della caccia. Le pianure della
Tartaria sono piene di forti e vantaggiose razze di cavalli, che si usan
comodamente sì nelle operazioni della guerra che nel cacciare. Gli Sciti
sono stati sempre celebri per l'ardire e destrezza loro nel cavalcare: e
la costante abitudine gli aveva sì stabilmente fissati sui lor cavalli,
che gli stranieri supponevano ch'essi facessero le ordinarie funzioni
della vita civile, che mangiassero, bevessero, e fino dormissero senza
smontar da cavallo. Sono eccellenti nel maneggiar destramente la lancia;
il lungo arco Tartaro è teso da un robusto braccio, ed il pesante dardo
è diretto al suo scopo con infallibile mira ed irresistibile forza.
Questi dardi sono spesse volte scagliati contro gl'innocenti animali del
deserto, che crescono e si moltiplicano nell'assenza del loro più
formidabil nemico, vale a dire contro le lepri, le capre, i capriuoli, i
cervi, gli alci e le gazzelle. Continuamente si esercita il vigore e la
pazienza sì degli uomini che dei cavalli nelle fatiche della caccia; e
l'abbondante copia di selvaggiume contribuisce alla sussistenza ed anche
al lusso d'un campo Tartaro. Ma le imprese dei cacciatori Sciti non si
ristringono alla distruzione solo di timidi o innocenti animali; essi
affrontano con coraggio l'orso irritato, allorchè si rivolta contro i
suoi persecutori; eccitano l'infingardo ardire del cignale, e provocano
il furor della tigre, quando sta dormendo nel folto dei boschi. Dove si
trova pericolo, per loro ivi è gloria; e la maniera di cacciare, che
apre il più bel campo all'esercizio del valore, può risguardarsi a
ragione come l'immagine e la scuola della guerra. Le generali partite di
caccia, che formano l'ambizione e il diletto dei Principi Tartari,
compongono un istruttivo esercizio per la numerosa loro cavalleria.
Descrivesi un cerchio di molte miglia in circonferenza per circondare la
cacciagione d'esteso distretto; e le truppe, che formano il cerchio,
s'avanzano regolarmente verso il comun centro, dove gli animali
prigionieri, circondati da ogni parte, restano abbandonati a' dardi dei
cacciatori. In tal marcia, che spesso continua per più giorni, la
cavalleria dee rampicarsi pei colli, passare a nuoto i fiumi, e girare
attorno alle valli, senza interrompere l'ordine stabilito del proprio
successivo progresso. Acquistano così la pratica di diriger l'occhio ed
i passi ad un oggetto lontano; di conservare le giuste distanze fra
loro; di sospendere o d'affrettare il passo a misura dei movimenti di
quelli che sono a destra e a sinistra; e di conoscere e ripetere i segni
dei lor condottieri. Questi ultimi studiano in tal pratica scuola le più
importanti lezioni dell'arte militare, ed un pronto ed esatto
discernimento del terreno, della distanza e del tempo. Nella vera guerra
non si richiede altra variazione, che quella d'impiegar la stessa
pazienza e valore, la stessa perizia e disciplina contro un nemico
umano; e i divertimenti della caccia servono come di preludio alla
conquista d'un Impero[316].

La società politica degli antichi Germani ha l'apparenza d'una
volontaria confederazione d'indipendenti guerrieri. Le tribù della
Scizia, distinte con la moderna denominazione di _Orde_, prendon la
forma d'una crescente numerosa famiglia, che nel corso di più
generazioni si è propagata dalla medesima origine. Gl'infimi ed i più
ignoranti fra i Tartari conservano con scrupolosa vanità l'inestimabil
tesoro della loro genealogia, e per quante distinzioni di gradi si
possano essere introdotte dalla disugual distribuzione delle pastorali
ricchezze, essi vicendevolmente rispettansi l'uno coll'altro; come
discendenti del primo fondatore della Tribù. L'uso, che sempre sussiste,
di adottare i fedeli e più valorosi lor prigionieri, può confermare il
sospetto molto probabile che quell'estesa consanguineità sia in gran
parte legale e fittizia. Ma tale utile pregiudizio, approvato dal tempo
e dall'opinione, produce gli effetti della verità. Gli altieri Barbari
prestano una pronta e volontaria ubbidienza al Capo del loro sangue; ed
il loro Capo o _Mursa_, come rappresentante il primo lor Padre, esercita
la autorità di giudice in tempo di pace e di condottiere in tempo di
guerra. Nel primitivo stato del Mondo pastorale, ogni _Mursa_ (s'è
permesso di usare il nome moderno) era il Capo indipendente d'una vasta
e separata famiglia; ed i limiti del suo particolar territorio furono
gradatamente stabiliti dalla maggior forza o dal mutuo consenso. Ma
l'azione costante di varie permanenti cause contribuì ad unire le _Orde_
vaganti in comunità nazionali, sotto il comando d'un supremo Capo. I
deboli desideravan soccorso, ed i forti erano ambiziosi di dominio; la
potenza, che è il risultato dell'unione, oppresse e raccolse le forze
divise delle addiacenti tribù; e siccome i vinti furon liberamente
ammessi a partecipare i vantaggi della vittoria, i più valorosi Capi
s'affrettarono a costituire se stessi ed i lor seguaci sotto il
formidabile stendardo d'una nazione confederata. Il più fortunato fra i
Principi Tartari assunse il militar comando, al quale aveva diritto per
la superiorità del merito o del potere. Egli fu innalzato al trono dalle
acclamazioni de' suoi uguali; ed il titolo di Kan esprime, nel
linguaggio dell'Asia Settentrionale, la piena estensione della reale
dignità. Fu per lungo tempo ristretto il diritto dell'ereditaria
successione al sangue del fondator della Monarchia, e fino al presente
tutti i Kan, che regnano, dalla Crimea fino alla muraglia della China,
sono i successivi discendenti del famoso Gengis[317]. Ma siccome è
indispensabil dovere d'un Sovrano Tartaro quello di condurre i guerrieri
suoi sudditi in campo, spesse volte son trascurati fra loro i diritti
d'un fanciullo; ed a qualche regio congiunto, riguardevole per l'età e
pel coraggio, s'affida la spada e lo scettro del suo predecessore. Si
levano sulle tribù due tasse regolari e distinte, per sostenere la
dignità sì del nazionale comune Monarca, che del loro Capo speciale; e
ciascheduna di queste contribuzioni ascende alla decima parte dei beni e
delle prede loro. Un Sovrano Tartaro gode la decima parte della
ricchezza del suo popolo; e siccome s'accrescono in una molto maggior
proporzione le sue domestiche facoltà di greggi e di armenti, egli è in
istato di copiosamente mantenere il rustico splendore della sua Corte,
di premiare i più meritevoli o più favoriti fra i suoi seguaci, e
d'ottenere dal dolce influsso della corruzione l'ubbidienza, che
potrebbe alle volte negarsi ai rigorosi comandi dell'autorità. I costumi
dei propri sudditi, assuefatti, com'esso, al sangue ed alla rapina,
possono scusare ai loro occhi certi particolari atti di tirannide, che
ecciterebber l'orrore d'un popolo incivilito; ma nei deserti della
Scizia non si è mai riconosciuto il potere dispotico. L'immediata
giurisdizione del Kan è ristretta dentro i confini della propria tribù;
e si è moderato l'esercizio della sua reale prerogativa dall'antico
istituto di un concilio nazionale. Tenevasi regolarmente il
_Coroultai_[318], o la dieta dei Tartari nella primavera o nell'autunno,
in mezzo ad una pianura, dove potevano intervenire, secondo i lor gradi,
a cavallo i Principi della Famiglia regnante ed i Mursi delle respettive
tribù, col marziale e numeroso loro treno, e l'ambizioso Monarca potea
consultare le inclinazioni d'un armato popolo, di cui osservava la
forza. Nella costituzione delle nazioni Tartare o Scite si possono
scuoprire i principj d'un governo feudale; ma il perpetuo contrasto di
quelle nemiche tribù è andato alle volte a finire nello stabilimento
d'un potente dispotico Impero. Il vincitore, arricchito dal tributo, e
fortificato dalle armi de' Re dipendenti, ha esteso le sue conquiste
sull'Europa e sull'Asia: i felici pastori del Norte si son sottoposti a'
vincoli delle arti, delle leggi e delle città; e l'introduzione del
lusso, dopo aver distrutto la libertà del popolo, ha rovesciato i
fondamenti del Trono[319].

Nelle frequenti e remote emigrazioni degl'ignoranti Barbari non si può
lungamente conservar la memoria de' passati eventi. I moderni Tartari
non sanno le conquiste de' loro antichi[320]; e la notizia, che noi
abbiamo dell'istoria degli Sciti, proviene dal loro commercio co' Greci,
co' Persiani e co' Chinesi, culte e civili nazioni del Mezzodì. I Greci,
che navigavano per l'Eussino, e fondavano colonie lungo le coste
marittime, fecero appoco appoco un'imperfetta scoperta della Scizia,
scorrendo dal Danubio e da' confini della Tracia fino all'agghiacciata
Meotide, sede d'un perpetuo inverno, ed al Monte Caucaso, che nel
linguaggio poetico si rappresentava come l'ultimo limite della terra.
Celebravano essi con semplice credulità le virtù della vita
pastorale[321], ed avevano un timore più ragionevole della forza e del
numero de' bellicosi Barbari[322], che con disprezzo burlavansi
dell'immenso armamento di Dario, figlio d'Idaspe[323]. I Monarchi
Persiani avevano esteso le lor occidentali conquiste fino alle rive del
Danubio ed a' confini della Scizia Europea. Le Province Orientali del
loro Impero erano esposte agli Sciti dell'Asia, selvaggi abitanti delle
pianure al di là dell'Osso e del Giassurte, due ampi fiumi, che dirigono
il corso verso il mar Caspio. La lunga e memorabil contesa d'Iran e
Turan è sempre un argomento d'istorie o di romanzi; il celebre e forse
favoloso valore de' Persiani Eroi, Rustano ed Asfendiar, si segnalò
nella difesa della patria contro gli Afrasiabi del Settentrione[324]; e
l'invincibil coraggio de' medesimi Barbari sul suolo stesso resistè alle
vittoriose armi di Ciro e d'Alessandro[325]. Agli occhi de' Greci e de'
Persiani, la vera geografia della Scizia era terminata a Levante dal
Monte Imao o Caf; ed il distante prospetto delle ultime ed inaccessibili
parti dell'Asia era coperto dall'ignoranza, o renduto ambiguo dalla
finzione. Ma queste inaccessibili regioni sono l'antica sede d'una
potente e culta nazione[326], la cui esistenza rimonta per mezzo di una
probabile tradizione a più di quaranta secoli[327]; e ch'è in grado di
verificare una serie di quasi due mill'anni, mediante la perpetua
testimonianza di esatti storici contemporanei[328]. Gli annali[329]
della China illustrano lo stato e le rivoluzioni delle Tribù pastorali,
che si posson sempre distinguere coll'indeterminato nome di Sciti o di
Tartari, vassalli, nemici ed alle volte conquistatori d'un grand'Impero,
la politica del quale si è costantemente opposta al cieco ed impetuoso
valore de' Barbari Settentrionali. Dall'imbocccatura del Danubio fino al
mar del Giappone, tutta la lunghezza della Scizia è di circa cento dieci
gradi, che in quel paralello, corrispondono a più di cinquemila miglia.
Non si può così facilmente o con tanta esattezza misurar la latitudine
di quei vasti deserti; ma dal quarantesimo grado, che tocca la muraglia
della China, possiamo sicuramente avanzarci verso il Norte più di mille
miglia, fintantochè non siamo arrestati dall'eccessivo freddo della
Siberia. In quell'orrido clima, in vece della vivace pittura d'un campo
Tartaro, il fumo ch'esce fuori dalla terra o piuttosto dalla neve,
scuopre le sotterranee abitazioni de' Tongusi e de' Samojedi; alla
mancanza de' cavalli e de' bovi viene imperfettamente supplito dall'uso
de' rangiferi e di grossi cani; ed i conquistatori della terra vanno
insensibilmente degenerando in una razza di deformi e piccoli selvaggi,
che tremano al suon delle armi[330].

Gli Unni, che nel regno di Valente minacciarono l'Impero di Roma, in un
tempo molto anteriore si erano renduti formidabili a quel della
China[331]. La loro antica e forse original sede era un esteso,
quantunque arido e nudo tratto di paese al Norte, immediatamente dopo la
gran muraglia. Il luogo di essi è presentemente occupato da quarantanove
Orde o compagnie de' _Mongussi_, nazione pastorale composta di circa
dugentomila famiglie[332]. Ma il valore degli Unni estese gli angusti
limiti de' loro Stati, ed i rozzi lor Capi, che presero il nome di
_Tangiù_, appoco appoco divennero conquistatori o Sovrani di un
formidabile Impero. A Levante le vittoriose loro armi non furono
arrestate che dall'Oceano; e le rare tribù, che si trovavano sparse fra
l'Amur e l'ultima penisola di Corea, si unirono con ripugnanza alle
bandiere degli Unni. A Ponente, vicino all'origine dell'Irtis e nelle
valli dell'Imao, trovarono uno spazio più ampio, e più numerosi nemici.
Uno de' Luogotenenti del _Tangiù_, soggiogò in una sola spedizione
ventisei popoli; gl'Iguri[333] distinti sopra la stirpe Tartara per
l'uso delle lettere, furono nel numero de' suoi vassalli; e per una
strana connessione delle cose umane la fuga di una di quelle vagabonde
tribù richiamò i vittoriosi Parti dall'invasione della Siria[334]. Al
Settentrione fu assegnato per limite alla potenza degli Unni l'Oceano.
Senza nemici, che resister potessero ai lor progressi, o senza
testimoni, che contraddicessero la lor vanità, poterono sicuramente
condurre a fine una reale o immaginaria conquista delle gelate regioni
della Siberia. Il _mar Settentrionale_ era fissato per ultimo termine
del loro Impero. Ma il nome di quel mare, sui lidi del quale il
patriotta Sovou abbracciò la vita di pastore e d'esule[335], con
probabilità molto maggiore può trasferirsi al Baikal, capace ricettacolo
di acque di più di trecento miglia in lunghezza, che sdegna il modesto
nome di _Lago_[336], e che presentemente comunica co' mari del Nord
mediante il lungo corso dell'Angara, del Tonguska e del Genissì. La
sommissione di tante remote nazioni potea lusingare l'orgoglio del
_Tangiù_; ma non poteva esser premiato il valore degli Unni, che
coll'acquisto del ricco e lussurioso Impero del Mezzogiorno. Nel terzo
secolo avanti l'Era Cristiana, fu costrutta una muraglia lunga
millecinquecento miglia per difendere le frontiere della China contro le
incursioni degli Unni[337]; ma tale stupendo lavoro, che tiene un luogo
cospicuo nella carta del Mondo, non ha mai contribuito alla sicurezza di
un popolo non guerriero. La cavalleria del Tangiù era spesse volte
composta di dugento o trecentomila uomini, formidabili per
l'incomparabil destrezza, con cui maneggiavano gli archi e i cavalli;
per l'indurata lor pazienza nel sopportar l'intemperie dell'aria, e per
l'incredibil velocità della lor marcia, che rare volte veniva sospesa da
torrenti o precipizj, dai fiumi più profondi, o dalle più alte montagne.
Si sparsero essi ad un tratto sulla superficie del paese; ed il rapido
loro impeto sorprese, rendè inattiva, e sconcertò l'elaborata e grave
tattica d'un armata Chinese. L'Imperator Kaoti[338], soldato di fortuna,
innalzato dal personale suo merito al trono, mosse contro gli Unni con
quelle truppe veterane, che avean militato nelle guerre civili della
China. Ma egli fu tosto circondato dai Barbari, e dopo un assedio di
sette giorni, il Monarca, senza speranza di alcun soccorso, fu ridotto a
comprarsi lo scampo con un'ignominiosa capitolazione. I successori di
Kaoti, le vite dei quali eran dedite alle arti della pace o al lusso
della Reggia, furono sottoposti ad una più durevol vergogna. Con troppa
fretta confessarono essi l'insufficienza delle fortificazioni e delle
armi loro. Troppo facilmente si convinsero, che mentre gli incendi
annunziavano da ogni parte l'approssimarsi degli Unni, le truppe
Chinesi, che dormivano coll'elmo in capo, e con la corazza indosso,
venivano distrutte dalla continua fatica d'inutili marce[339]. Fu
stipulato un regolar pagamento di danaro e di seta per prezzo di una
breve e precaria pace; e si usò dagl'Imperatori della China, ugualmente
che da quei di Roma, il meschino espediente di mascherare un real
tributo sotto nome di donativo o di sussidio. Vi restava però un'altra
specie di tributo più vergognosa, che violava i sacri sentimenti
dell'umanità e della natura. Le fatiche della vita selvaggia, che
nell'infanzia distruggono i figli di costituzione meno sana e robusta,
formano una notabile sproporzione nel numero dei due sessi. I Tartari
sono d'ingrata ed anche deforme figura, e risguardando essi le loro
donne come istrumenti delle domestiche fatiche, i desiderj o piuttosto
gli appetiti loro si dirigono al godimento di più eleganti bellezze. Una
scelta truppa delle più belle fanciulle della China fu annualmente
destinata ai rozzi abbracciamenti degli Unni[340]; e si assicurò
l'alleanza dei superbi Tangiu per mezzo del lor matrimonio con le figlie
o naturali o adottive della famiglia Imperiale, che invano tentavano di
fuggire quella sacrilega unione. È descritta la situazione di queste
infelici vittime nei versi d'una Principessa Chinese, che si lagna
d'essere stata condannata dai suoi parenti ad un lontano esilio sotto un
Barbaro marito; si duole che l'unica sua bevanda era latte inacidito,
carne cruda il solo suo cibo, e che una tenda era il suo palazzo; ed
esprime con un accento di patetica semplicità il natural desiderio di
trasformarsi in uccello per volarsene alla cara sua patria, oggetto
delle sue tenere e perpetue brame[341].

[A. A. C. 146-87]

Due volte si è fatta la conquista della China dalle tribù pastorali del
Nord; le forze degli Unni non erano inferiori a quelle dei Mogolli o dei
Mantsciù; e la loro ambizione poteva nutrir le più ardenti speranze di
buon successo. Ma ne restò umiliato l'orgoglio, ed arrestato il
progresso, dalle armi e dalla politica di Vouti[342], quinto
Imperatore della potente dinastia di Ilan. Nel lungo suo regno di
cinquantaquattr'anni, i Barbari delle Province meridionali si
sottoposero alle leggi ed ai costumi della China, e furono estesi gli
antichi limiti della Monarchia, dal gran fiume di Kiang fino al porto di
Canton. Invece di ristringersi alle timide operazioni d'una guerra
difensiva, i suoi Luogotenenti penetrarono per più centinaia di miglia
nel paese degli Unni. In quegl'immensi deserti, dov'è impossibile formar
magazzini, e difficile trasportare una sufficiente quantità di
provvisioni, le armate di Vouti furono esposte più volte ad
intollerabili travagli; e di centoquarantamila soldati, che marciarono
contro i Barbari, soli trentamila tornarono salvi ai piedi del loro
Sovrano. Queste perdite però vennero compensate da una splendida e
decisiva fortuna. I Generali Chinesi trasser vantaggio dalla superiorità
che avevano per la natura delle loro armi, pei loro carri da guerra e
per l'aiuto dei Tartari loro alleati. Fu sorpreso il campo del Tangiù in
mezzo all'intemperanza ed al sonno: e quantunque il Monarca degli Unni
si facesse bravamente strada per le file nemiche, lasciò sopra mille
cinquecento dei suoi soldati sul campo. Ciò nonostante, questa segnalata
vittoria, che fu preceduta e seguitata da molti sanguinosi
combattimenti, assai meno contribuì alla distruzione della potenza degli
Unni, che l'efficace politica, usata per distaccare dalla loro
ubbidienza le tributarie nazioni. Intimorite dalle armi, o allettate
dalle promesse di Vouti e dei suoi successori, le più considerabili
tribù, sì Orientali che Occidentali, scossero il giogo del Tangiù.
Mentre alcune di esse si professarono alleate o suddite dell'Impero,
divennero tutte implacabili nemiche degli Unni; ed il numero di
quell'altiero popolo, ridotto che fu alle naturali sue forze, si potea
forse contenere nelle mura di una delle grandi e popolate città della
China[343]. La diserzione dei propri sudditi, e l'incertezza d'una
guerra civile finalmente costrinsero il Tangiù stesso a rinunziare alla
dignità d'indipendente Sovrano ed alla libertà regolare di una guerriera
e coraggiosa nazione. Fu egli ricevuto a Sigan, capitale della
Monarchia, dalle truppe, dai Mandarini e dall'Imperatore medesimo con
tutti gli onori, che adornar potevano, e mascherare il trionfo della
vanità Chinese[344]. Fu preparato un palazzo magnifico per riceverlo;
gli fu assegnato il posto sopra tutti i Principi della Famiglia Reale; e
fu tratta all'estremo la pazienza d'un Barbaro Re dalle cerimonie di un
banchetto composto di otto portate di vivande e di nove solenni cantate
di musica. Ma egli pagò inginocchioni il debito di un rispettoso omaggio
all'Imperatore della China; pronunziò in nome di se stesso e de' suoi
successori un perpetuo giuramento di fedeltà, e volentieri accettò un
sigillo, che gli fu dato come emblema della sua real dipendenza. Dopo
quest'umiliante sommissione i Tangiù alle volte mancaron di fede, e
profittarono dei favorevoli momenti della guerra e della rapina; ma la
monarchia degli Unni appoco appoco decadde, finattanto che dalla
discordia civile restò divisa in due separati regni, fra loro nemici.
Uno dei Principi della nazione fu spinto dall'ambizione o dal timore a
ritirarsi verso il Mezzodì con otto Orde, che comprendevano fra quaranta
e cinquantamila famiglie. Egli ottenne insieme col titolo di Tangiù un
sufficiente territorio sul confine delle Province Chinesi; e fu
assicurato il costante suo attaccamento al servizio dell'Impero dalla
debolezza e dal desiderio di vendicarsi. Dopo questa fatal divisione gli
Unni del Nord continuarono a languire intorno a cinquant'anni,
finattanto che da ogni parte restarono oppressi dai loro esterni ed
interni nemici. La superba Inscrizione[345] d'una colonna, eretta sopra
un'alta montagna, annunzia alla posterità che un esercito Chinese avea
marciato settecento miglia nell'interno del paese degli Unni. I
Sienpi[346], tribù di Tartari orientali, si vendicarono delle ingiurie
che anticamente avevano ricevute; e la potenza dei Tangiù, dopo un regno
di mille trecento anni, fu totalmente distrutta, avanti il fine del
primo secolo dell'Era Cristiana[347].

[A. 93-100]

Fu variata la sorte dei soggiogati Unni dalla varia influenza del
carattere e della situazione[348]. Più di centomila persone, le più
povere invero e le più imbecilli della nazione, si contentarono di
restare nel loro nativo paese, di rinunziare al nome e all'origine loro
particolare, e d'essere incorporate al vittorioso popolo dei Sienpi.
Cinquant'otto Orde, che sono circa dugentomila uomini, ambiziosi d'una
più onorevole servitù, si ritirarono verso il Sud; imploraron la
protezione degli Imperatori della China; e fu loro permesso d'abitare e
di guardare le ultime frontiere della Provincia di Chansi ed il
territorio di Ortous. Ma le tribù più guerriere e potenti degli Unni
mantennero, nell'avversa fortuna, l'indomito spirito dei loro antichi.
Il Mondo occidentale era aperto al loro valore e risolverono di
scuoprire e soggiogare, sotto la condotta degli ereditari lor Capitani,
qualche remota regione, tuttavia inaccessibile alle armi dei Sienpi ed
alle leggi della China[349]. Il corso della loro emigrazione presto li
portò oltre le montagne dell'Imao, ed i confini della Geografia Chinese;
ma noi possiamo distinguer fra loro le due gran divisioni di questi
formidabili esuli, che diressero la loro marcia verso l'Osso e verso il
Volga. La prima di tali colonie si stabilì nelle fertili e vaste pianure
della Sogdiana sulla parte orientale del mar Caspio, dove conservarono
il nome di Unni con l'epiteto di Eutaliti, o Neftaliti. Ne furono
mitigati i costumi, ed anche insensibilmente migliorati gli aspetti
dalla dolcezza del clima e dalla lunga dimora che fecero in una florida
provincia[350], che poteva tuttavia ritenere una debole impressione
delle arti della Grecia[351]. Gli Unni _bianchi_, nome che trassero dal
cangiamento delle loro carni, presto abbandonaron la vita pastorale
degli Sciti. Gorgo, che sotto il nome di Carizmo, ha poi goduto un
temporaneo splendore, era la resistenza del Re, che esercitava una
legittima autorità sopra un obbediente popolo. Il loro lusso era
mantenuto dal lavoro dei Sogdiani; e l'unico vestigio dell'antica loro
barbarie era l'uso che obbligava tutti i compagni, alle volte fino al
numero di venti, che avevan partecipato della generosità d'un ricco
Signore, ad esser sepolti vivi nell'istesso sepolcro di lui[352]. La
vicinanza degli Unni alle Province della Persia gli espose a frequenti e
sanguinosi contrasti con la potenza di quella Monarchia. Ma essi
rispettavano in tempo di pace la fede dei trattati, ed in guerra i
dettami dell'umanità; e la loro memorabil vittoria sopra Perose o Firuz
dimostrò la moderazione ugualmente che il valore dei Barbari. Il secondo
corpo degli Unni, che appoco appoco s'avanzarono verso il Nord-ovest, fu
soggetto ai travagli d'un più freddo clima, e di una marcia più
laboriosa. La necessità li costrinse a mutar le sete della China con le
pelli della Siberia; si cancellarono in essi gl'imperfetti principj di
una vita tendente a civiltà; e la natural fierezza degli Unni divenne
maggiore pel commercio con le selvagge tribù, che con qualche ragione
paragonate furono alle bestie feroci del deserto. Il loro spirito
indipendente rigettò ben presto l'ereditaria successione dei Tangiù; ed
essendo ciascheduna Orda governata dai particolari suoi Mursi, la
tumultuaria loro assemblea dirigeva i pubblici passi di tutta la
nazione. Fino al secolo XII il nome di Grande Ungheria[353] provava la
passeggiera loro residenza sulle sponde orientali del Volga.
Nell'inverno discendevano coi loro greggi ed armenti verso la bocca di
quel gran fiume; e le loro estive correrie giungevano fino alla
latitudine di Saratoff, o forse all'unione del Kama. Tali per lo meno
erano i moderni confini dei Calmucchi neri[354], che rimasero per circa
un secolo sotto la protezione della Russia, e che sono di poi ritornati
alle native loro sedi sulle frontiere dell'Impero Chinese. La marcia ed
il ritorno di quei Tartari vagabondi, il campo riunito dei quali è
composto di cinquantamila tende o famiglie, serve a schiarire le
distanti emigrazioni degli antichi Unni[355].

È impossibile riempire quell'oscuro intervallo di tempo, che scorse da
che gli Unni del Volga furono perduti di vista dai Chinesi, fino al
comparire che fecero agli occhi dei Romani. V'è qualche ragione però di
sospettare, che quella medesima forza, che tratti gli aveva dalle native
lor sedi, sempre continuasse a spinger la lor marcia verso le frontiere
dell'Europa. La potenza dei Sienpi, loro implacabili nemici, che
s'estendeva più di tremila miglia da Levante a Ponente[356], doveva
gradatamente opprimerli col peso e col terrore d'una formidabil
vicinanza; e la fuga delle tribù della Scizia doveva tendere
inevitabilmente ad accrescere la forza, o a restringere i territori
degli Unni. I difficili ed oscuri nomi di quelle tribù offenderebber
l'orecchio senza illuminar l'intelletto del lettore; ma io non posso
tacere il sospetto assai naturale, che gli Unni del Nord traessero un
rinforzo considerabile dalla rovina della dinastia del Sud, la quale nel
corso del terzo secolo si sottopose al dominio della China; che i
guerrieri più prodi andassero in cerca dei liberi e fortunati lor
nazionali: e che siccome s'eran divisi per la prosperità, così fossero
facilmente riuniti dai comuni travagli della loro avversa fortuna[357].
Gli Unni co' loro greggi ed armenti, colle loro mogli e figliuoli, coi
loro dipendenti ed alleati si trasferirono all'occidental parte del
Volga, ed arditamente avanzaronsi a invadere il paese degli Alani,
popolo pastorale che occupava o devastava un esteso tratto dei deserti
della Scizia. Le tende degli Alani occupavano le pianure fra il Volga ed
il Tanai, ma il nome e gli usi di essi erano sparsi per l'ampia
estensione dalle loro conquiste, e le dipinte tribù degli Agatirsi e dei
Geloni si confondevano fra' loro vassalli. Verso il Nord penetrarono
nelle agghiacciate regioni della Siberia fra quei selvaggi che
nell'impeto del furore o della fame erano assuefatti a cibarsi di carne
umana; e le loro incursioni meridionali giungevano fino ai confini della
Persia e dell'India. La mescolanza col sangue Sarmatico e Germanico
aveva contribuito a migliorare la figura degli Alani, a schiarirne
l'oscura carnagione, ed a tingere i loro capelli d'un color biondo, che
di rado si trova nella razza dei Tartari. Essi erano meno deformi nelle
persone, e meno brutali nei costumi degli Unni; ma non cedevan punto a
quei formidabili Barbari nel loro marziale indipendente coraggio,
nell'amor della libertà, che rigettava fin l'uso degli schiavi
domestici, e nella passione per le armi, che considerava la guerra e la
rapina come il piacere e la gloria dell'uman genere. Una scimitarra nuda
piantata in terra era l'unico oggetto del religioso lor culto; i crani
dei nemici formavano i sontuosi ornamenti dei loro cavalli; e miravan
con occhio di pietà e di disprezzo i pusillanimi guerrieri, che
pazientemente aspettavano la infermità della vecchiezza o i tormenti
d'una lenta malattia[358]. Sulle rive del Tanai la forza militare degli
Unni affrontossi con quella degli Alani con ugual valore, ma con sorte
diversa. Gli Unni prevalsero nel sanguinoso combattimento; vi restò
ucciso il Re degli Alani; ed i residui della vinta nazione furon
dispersi dall'ordinaria alternativa della fuga o della sommissione[359].
Una colonia di esuli trovò rifugio sicuro nelle montagne del Caucaso fra
il Ponto Eussino e il mar Caspio, dove conservano tuttavia il proprio
nome e la loro indipendenza. Un'altra colonia s'avanzò con coraggio più
intrepido verso i lidi del Baltico, unissi alle settentrionali tribù
della Germania, e partecipò delle spoglie delle Province Romane della
Gallia e della Spagna. Ma la maggior parte della nazione degli Alani
abbracciò le offerte d'una onorevole ed utile unione, e gli Unni, che
stimavano il valore dei loro men fortunati nemici, passarono con un
aumento di numero e di sicurezza ad invadere i confini del Gotico
Impero.

[A. 375]

Il grand'Ermanrico, gli stati del quale s'estendevan dal Baltico
all'Eussino, godeva in una piena maturità di vecchiezza e di riputazione
il frutto delle sue vittorie, allorchè fu agitato dal formidabile
aspetto di un esercito d'ignoti nemici[360], ai quali potevano i suoi
barbari sudditi senza ingiustizia dare il nome di Barbari. Il numero, la
forza, i rapidi movimenti, e l'implacabile crudeltà degli Unni si
provarono, si temettero e si amplificarono dagli attoniti Geti, che
videro i loro campi e villaggi consumati dalle fiamme, ed oppressi da
ogni genere di stragi. A questi reali terrori aggiungevasi la sorpresa e
l'abborrimento, che eccitavano la strillante voce, i rozzi gesti e la
strana deformità degli Unni. Questi selvaggi della Scizia furon
paragonati (e la pittura aveva qualche rassomiglianza) agli animali che
camminano assai sconciamente sopra due gambe; ed alle malfatte figure
(_Termini_), che solevano collocarsi dagli antichi sui ponti. Erano essi
distinti dal resto della specie umana per le larghe spalle, i nasi
schiacciati, ed i piccoli occhi neri profondamente sepolti nel capo; ed
essendo quasi privi di barba, non godevan giammai nè le grazie virili
della gioventù, nè il venerabile aspetto della vecchiezza[361].
S'assegnò loro un'origine favolosa, degna della figura e dei costumi che
avevano, vale a dire che le streghe della Scizia, che per le maligne
loro o mortifere azioni erano state cacciate dalla società, si fosser
congiunte nel deserto con spiriti infernali, e che gli Unni fossero la
prole di quell'esecrabile congiunzione[362]. Questa favola, sì piena
d'orrore e di assurdità, fu facilmente abbracciata dal credulo odio de'
Goti; ma nel tempo che soddisfaceva il loro abborrimento, ne accresceva
il timore; mentre poteva supporsi che la posterità dei demoni e delle
streghe avesse ereditato qualche parte della forza soprannaturale non
meno che dell'indole maligna dei suoi genitori. Contro nemici di questa
sorte Ermanrico preparossi ad esercitare le riunite forze del dominio
Gotico; ma presto conobbe, che le suddite sue tribù, irritate
dall'oppressione, eran più inclinate a secondar che a rispingere
l'invasione degli Unni. Uno dei Capi de' Rossolani[363] aveva già
disertato dallo stendardo d'Ermanrico, ed il crudel Tiranno aveva
condannato la moglie innocente del traditore ad essere fatta in pezzi da
indomiti cavalli. I fratelli di quell'infelice donna presero il
favorevol momento di vendicarsi. Il vecchio Re de' Goti languì qualche
tempo dopo la pericolosa ferita che ricevè da' loro pugnali; ma
ritardossi la condotta della guerra per la sua infermità; ed i pubblici
consigli della nazione furono divisi da uno spirito di gelosia e di
discordia. La morte di esso, che fu attribuita alla sua propria
disperazione, lasciò le redini del governo in mano a Vitimero, il quale
col dubbioso aiuto di alcuni mercenari Sciti, mantenne la disugual
contesa fra le armi degli Unni e degli Alani, finattanto che fu egli
disfatto ed ucciso in una decisiva battaglia. Gli Ostrogoti si
sottomisero al loro destino; e da ora in poi troverassi la regia stirpe
degli Amali fra' sudditi del superbo Attila. Ma la persona del fanciullo
Re Viterico fu salvata dalla diligenza di Alateo e di Safrace, due
guerrieri di sperimentata bravura e fedeltà, che per mezzo di caute
marce condussero gl'indipendenti residui della nazione degli Ostrogoti
verso il Danasto o il Niester, fiume considerabile, che ora separa gli
stati Turchi dall'Impero della Russia. Il prudente Atanarico, più
attento alla propria che alla generale salvezza, aveva stabilito il
campo dei Visigoti sulle rive del Niester, con la ferma risoluzione
d'opporsi ai vittoriosi Barbari, che stimò imprudenza di provocare.
L'ordinaria velocità degli Unni era impedita dal peso del bagaglio e
dall'impaccio degli schiavi; ma la loro perizia militare ingannò, e
quasi distrusse l'armata d'Atanarico. Mentre il Giudice dei Visigoti
difendeva le rive del Niester, fu circondato da un numeroso
distaccamento di cavalleria, che al lume della luna aveva passato a
guado il fiume; e d'uopo gli furono estremi sforzi di coraggio e di
condotta per effettuar la sua ritirata verso la montagna. L'indomito
Generale aveva già formato un nuovo e giudizioso piano di guerra
difensiva; e le forti linee, che si preparava a tirare fra i monti, il
Pruth, ed il Danubio, avrebbero assicurato l'esteso e fertile
territorio, che adesso porta il nome di Valachia dalle rovinose
incursioni degli Unni[364]. Ma le speranze e le misure del Giudice dei
Visigoti furono presto sconcertate dalla tremante impazienza de' suoi
scoraggiati compagni, persuasi dal lor timore che l'interposizione del
Danubio fosse l'unico baluardo, che salvar li potesse dalla rapida
caccia e dall'invincibil valore dei Barbari della Scizia. Sotto il
comando di Fritigerno e d'Alavivo[365], il corpo della nazione s'avanzò
in fretta verso le rive del gran fiume, ed implorò la protezione del
Romano Imperatore dell'Oriente. Atanarico medesimo, sempre ansioso
d'evitare il delitto di spergiuro, si ritirò con una truppa di fedeli
seguaci nella montuosa regione di Caucaland, che sembrava esser guardata
e quasi nascosta dalle impenetrabili foreste della Transilvania[366].

[A. 376]

Dopo che Valente ebbe terminato la guerra Gotica con qualche apparenza
di gloria e di buon successo, passò pe' suoi dominj dell'Asia; e
finalmente fissò la sua residenza nella Capitale della Siria. I cinque
anni[367], che ei consumò in Antiochia, furono impiegati a spiare in una
sicura distanza gli ostili disegni del Monarca Persiano, a frenare le
ruberie dei Saracini e degl'Isauri[368], a confermare con argomenti più
forti di quelli della ragione a dell'eloquenza la fede della teologia
Arriana, ed a quietare i suoi ansiosi sospetti cogl'indistinti supplizi
dell'innocente e del reo. Ma s'eccitò l'attenzione più seria
dell'Imperatore per l'importante notizia, che ei ricevè dagli ufficiali
militari e civili, ai quali affidato avea la difesa del Danubio. Egli fu
informato che il Settentrione agitavasi da una furiosa tempesta; che
l'irruzione degli Unni, incognita e mostruosa razza di selvaggi, avea
rovesciato la potenza de' Goti; e che una supplichevole moltitudine di
quella bellicosa nazione, l'orgoglio di cui era in quel tempo umiliato
all'eccesso, occupava uno spazio di più miglia lungo le rive del fiume.
Con le braccia stese e con patetici lamenti, ad alta voce deploravano le
passate loro disgrazie ed il presente pericolo; confessavano che la
unica loro speranza di salute era posta nella clemenza del Governo
Romano; e con la maggior solennità protestavano, che se la graziosa
liberalità dell'Imperatore avesse loro permesso di coltivare le ampie
terre della Tracia, si sarebbero tenuti obbligati dai più forti vincoli
di dovere e di gratitudine ad obbedire alle leggi, ed a difendere i
confini della Repubblica. Tali assicurazioni confermate furono dagli
Ambasciatori dei Goti, i quali con impazienza aspettavano dalla bocca di
Valente una risposta, che finalmente determinasse la sorte degl'infelici
lor nazionali. L'Imperatore Orientale non era più guidato dalla saviezza
ed autorità del suo fratello maggiore, ch'era morto verso il fine
dell'anno precedente; e siccome la misera situazione de' Goti richiedeva
un'instantanea e perentoria decisione, gli mancò il favorito spediente
degli spiriti deboli e timidi, che riguardano l'uso de' passi dilatorj
ed ambigui, come i più ammirabili sforzi d'una consumata prudenza.
Finattantochè sussisteranno fra gli uomini le medesime passioni ed
interessi, si presenteranno frequentemente, come soggetto di moderne
deliberazioni, le quistioni di guerra e di pace, di giustizia e di
politica, che agitavansi nei consigli della Antichità. Ma a' più
sperimentati Politici dell'Europa non è stato giammai commesso
d'investigare la convenienza o il pericolo di rigettare o d'ammettere
una innumerabile moltitudine di Barbari, che son tratti dalla
disperazione e dalla fame a cercare uno stabilimento negli Stati d'una
incivilita nazione. Allorchè fu riferita ai Ministri di Valente
quest'importante proposizione, sì essenzialmente connessa con la
pubblica sicurezza, essi rimasero perplessi e divisi, ma presto
convennero nel lusinghiero sentimento che pareva più favorevole
all'orgoglio, all'indolenza, ed all'avarizia del loro Sovrano. Gli
schiavi, ch'erano decorati coi titoli di Prefetti e di Generali,
dissimularono o non curarono il timore di questa nazional emigrazione,
tanto diversa dalle particolari ed accidentali colonie, che si erano
ammesse negli ultimi confini dell'Impero. Anzi applaudirono alla buona
fortuna, che avea condotto dalle più distanti regioni del globo una
numerosa ed invincibile armata di stranieri a difendere il trono di
Valente, il quale aggiunger poteva al tesoro Imperiale le immense somme
d'oro somministrate dai Provinciali per compensare l'annua loro dose di
reclute. Si esaudirono le preghiere dei Goti, e dalla Corte Imperiale
s'accettò il loro servigio; e furono immediatamente spediti ordini a'
Governatori civili e militari della diocesi della Tracia onde fare i
preparativi necessari pel passaggio, e per la sussistenza di un gran
popolo, insino a che destinato gli fosse un proprio e sufficiente
territorio per la futura sua residenza. Fu accompagnata però la
liberalità dell'Imperatore da due rigorose e dure condizioni, che la
prudenza giustificar potea dalla parte dei Romani, ma che non altro che
la necessità poteva estorcere dagli sdegnosi Goti. Prima che passassero
il Danubio, si volle che consegnassero le loro armi; e che tolti loro i
figli, si spargessero per le Province dell'Asia, dove potessero ridursi
a civiltà mercè dell'educazione, e servire di ostaggi per assicurare la
felicità dei loro genitori.

Nella sospensione, che produceva un dubbioso e distante trattato,
gl'impazienti Goti fecero qualche temerario tentativo di passare il
Danubio senza la permissione del Governo, del quale implorato avevano la
protezione. Furono diligentemente osservati i loro movimenti dalla
vigilanza delle truppe acquartierate lungo il fiume, ed i loro primi
distaccamenti andarono disfatti con notabile strage; pure tanto eran
timide le deliberazioni del regno di Valente, che i probi Uffiziali, che
avean servito la patria nell'adempimento del loro dovere, furon puniti
con la perdita degli impieghi, e poco mancò che non fossero privati di
vita. Giunse finalmente l'ordine Imperiale per trasportare sopra il
Danubio tutto il corpo della nazione Gotica[369]; ma l'esecuzione di tal
ordine fu laboriosa e difficile. Le acque del Danubio, che in quel luogo
ha più d'un miglio di larghezza[370], erano gonfie per le continue
piogge, ed in quel tumultuario passaggio, molti restaron dispersi ed
annegati dalla rapida violenza della corrente. Fu messa in ordine una
grossa flotta di navi, di barche e di battelli; s'impiegarono più giorni
e più notti nel passare e ripassare con istancabil travaglio; e gli
Uffiziali di Valente usarono la maggior diligenza, affinchè neppure uno
di quei Barbari, che erano destinati a rovesciare i fondamenti di Roma,
rimanesse sull'opposta sponda. Fu creduto espediente di prendere
un'esatta notizia del loro numero; ma le persone, a ciò deputate, ben
presto abbandonarono con maraviglia e sconcerto il proseguimento
d'un'infinita ed ineseguibile impresa[371], ed il principale Istorico di
quel tempo asserisce con la maggior serietà, che i prodigiosi eserciti
di Dario e di Serse, che si erano sì lungamente risguardati come favole
della vana e credula antichità, allora furono giustificati agli occhi
del Mondo dall'evidenza del fatto e dell'esperienza. Un probabile
testimone ha determinato il numero dei soldati Goti a dugentomila
uomini; e se vogliamo aggiungervi una dose proporzionata di donne, di
fanciulli e di schiavi, tutta la massa del popolo, che componeva tal
formidabile emigrazione, dovè montare a quasi un milione di persone di
ambedue i sessi e di ogni età. I figli dei Goti, almeno quelli d'un
grado distinto, furono separati dalla moltitudine. Essi vennero senza
dilazione condotti a remoti luoghi, assegnati per la loro dimora ed
educazione; e quando quel numeroso corpo di ostaggi o di schiavi passava
per le città, il loro gaio e splendido abbigliamento, la robusta e
marzial loro figura, eccitava la sorpresa e l'invidia dei Provinciali.
Ma la stipulazione più offensiva pe' Goti, e più importante pe' Romani,
vergognosamente fu elusa. I Barbari, che risguardavano le loro armi come
insegne di onore e pegni di sicurezza, si disposero ad offerire per esse
un prezzo, che la licenza o l'avarizia dei Ministri Imperiali fu
facilmente tentata di accettare. I superbi guerrieri, ad oggetto di
conservare le armi, acconsentirono con qualche ripugnanza a prostituire
le mogli o le figlie; e le bellezze d'una vaga donzella o d'un piacevol
fanciullo assicurarono la connivenza degl'Inspettori, che alle volte
gettavano un occhio d'avidità sui frangiati tappeti o sulle vesti di
lino dei nuovi loro alleati[372], o che sacrificavano il loro dovere al
vil desiderio d'empire le loro stalle di bestiame e le case di schiavi.
Fu permesso ai Goti d'entrar nelle barche con le armi in mano; e quando
la lor forza fu riunita all'altra parte del fiume, l'immenso esercito,
che si sparse nei piani e nei colli della bassa Mesia prese un ostile e
minaccevole aspetto. Poco dopo comparvero, sulle rive Settentrionali del
Danubio, Alateo e Safrace, tutori del fanciullo loro Sovrano, e
condottieri degli Ostrogoti; ed immediatamente spedirono ambasciatori
alla Corte di Antiochia per sollecitare con le medesime proteste di
alleanza e di gratitudine l'istesso favore, che era stato concesso ai
supplichevoli Visigoti. L'assoluta negativa di Valente sospese il loro
progresso, manifestò il pentimento, i sospetti ed i timori del consiglio
Imperiale.

Una indisciplinata e vagante nazione di Barbari esigeva le più ferme
disposizioni ed il maneggio più destro. Non potea supplirsi al
quotidiano mantenimento di quasi un milione di sudditi straordinari,
senza una costante ed abile diligenza, e questa poteva continuamente
venire interrotta dal caso o dagli sbagli. L'insolenza o lo sdegno dei
Goti, se accorgevansi di essere soggetti di timore o di disprezzo,
poteva spingerli agli estremi più disperati, e sembra, che il destino
dello Stato dipendesse dalla prudenza ed integrità de' Generali di
Valente. In quest'importante crisi tenevano il governo militare della
Tracia Lupicino e Massimo, nelle cui venali menti la più tenue speranza
di privato guadagno prevaleva a qualunque considerazione di pubblico
vantaggio; e la cui reità non era diminuita, che dall'incapacità di
conoscere i perniciosi effetti della temeraria e colpevole loro
amministrazione. Invece d'ubbidire agli ordini del Sovrano, e di
soddisfare con decente liberalità le domande dei Goti, imposero un vile
ed opprimente tributo sulle necessità degli affamati Barbari. Vendevasi
loro ad un prezzo esorbitante il più basso cibo; ed in luogo di sane e
sostanziose provvisioni eran pieni i mercati di carne di cani, e di
animali immondi, che erano morti di malattia. Per fare il considerabile
acquisto d'una libbra di pane, i Goti si privavano del possesso d'un
dispendioso, quantunque utile, schiavo; e volentieri compravasi una
piccola quantità di cibo per dieci libbre d'un prezioso, ma inutil
metallo[373]. Quando esaurite furono le loro facoltà, continuarono tale
necessario commercio con la vendita dei loro figli e delle figlie; e non
ostante l'amor della libertà, che animava ogni petto Gotico, si
sottoposero alla massima umiliante, che era meglio pei loro figliuoli di
esser mantenuti in una condizione servile, che perire in uno stato di
misera e disperata indipendenza. Viene eccitato il risentimento più vivo
dalla tirannia di pretesi benefattori, i quali esigono fieramente il
debito di gratitudine, cui hanno cancellato con le posteriori ingiurie.
Appoco appoco si suscitò nel campo dei Barbari, che inutilmente
adducevano il merito della paziente e rispettosa loro condotta, uno
spirito di malcontentezza, ed altamente si dolsero dell'inumano
trattamento che avean ricevuto dai nuovi alleati. Si vedevano attorno la
dovizia ed abbondanza di una fertil provincia, in mezzo alla quale
soffrivano gl'intollerabili travagli d'un'artificial carestia. Avevano
però nelle mani i mezzi di trovare sollievo ed anche vendetta, giacchè
la rapacità dei loro Tiranni avea rilasciato ad un offeso popolo il
possesso e l'uso delle armi. I clamori d'una moltitudine, che non sa
mascherare i suoi sentimenti, annunziarono i primi sintomi di
resistenza; e posero in agitazione i timidi o colpevoli amici di
Lupicino e di Massimo. Questi artificiosi Ministri, che sostituirono le
astuzie di momentanei espedienti ai savi e salutari consigli di una
estesa politica, tentarono di rimuovere i Goti dalla pericolosa lor
situazione sulle frontiere dell'Impero, e dispergerli per le province
interiori in quartieri di accantonamento separati fra loro. Siccome
sapevano quanto male avevan meritato il rispetto o la confidenza dei
Barbari, diligentemente raccolsero da ogni parte delle forze militari,
che spinger potessero la lenta e ripugnante marcia di un popolo, che
ancora non avea rinunziato al titolo o ai doveri di suddito di Roma. Ma
nel tempo che l'attenzione dei Generali di Valente non applicavasi che
ai malcontenti Visigoti, disarmavano essi imprudentemente le navi ed i
Forti, che formavano la difesa del Danubio. Alateo e Safrace videro il
fatale sbaglio, e ne profittarono, mentre ansiosamente spiavano la
favorevole occasione di sottrarsi all'inseguimento degli Unni. Per mezzo
di quelle navi e barchette, che precipitosamente poteron trovare i
condottieri degli Ostrogoti, trasportarono senza ostacolo il Re e
l'esercito loro, ed arditamente piantarono un ostile e indipendente
campo sul territorio dell'Impero[374].

Alavivo e Fritigerno, sotto nome di giudici, erano i condottieri dei
Visigoti in pace ed in guerra; e l'autorità, che essi traevano dalla
nascita, era confermata dal libero consenso della nazione. In un tempo
di tranquillità, il governo loro aveva potuto essere uguale, non meno
che il grado che avevano; ma tosto che i lor nazionali furono esacerbati
dalla fame e dall'oppressione, la superiore abilità di Fritigerno
assunse il militar comando che egli aveva diritto di esercitare pel
pubblico bene. Ei raffrenò lo spirito impaziente dei Visigoti,
finattanto che le ingiurie e gl'insulti dei loro tiranni giustificassero
nell'opinione degli uomini la lor resistenza; ma non era disposto a
sagrificare alcun reale vantaggio alla pura lode di moderazione e di
giustizia. Conoscendo l'utile che potea trarre dall'unione delle forze
Gotiche sotto lo stesso stendardo, segretamente coltivò l'amicizia degli
Ostrogoti; e mentre professava un'implicita obbedienza agli ordini dei
Generali Romani, avanzavasi a piccole giornate verso Marcianopoli,
capitale della bassa Mesia, circa settanta miglia distante dalle rive
del Danubio. In quel luogo fatale, scoppiarono le fiamme della discordia
e dell'odio reciproco in un terribile incendio. Lupicino aveva invitato
i Capitani Goti ad uno splendido convito, ed il militare lor seguito era
rimasto in armi all'ingresso del palazzo. Ma erano strettamente guardate
le porte della città; ed erano i Barbari assolutamente esclusi dal
comodo d'un abbondante mercato, al quale avevano ugual diritto e come
sudditi e come alleati. Le umili loro suppliche si rigettarono con
insolenza e derisione; e siccome esausta ormai era la loro pazienza, i
paesani, i soldati ed i Goti presto si trovarono involti in un
combattimento di appassionate altercazioni, e di ardenti rimproveri.
Inconsideratamente diedesi un colpo; si trasse precipitosamente una
spada; ed il primo sangue, che videsi uscire in quest'accidentale
contesa, divenne il segnale d'una lunga e rovinosa guerra. In mezzo allo
strepito ed alla brutale intemperanza, fu riportato a Lupicino da un
segreto messo, che molti de' suoi soldati erano stati uccisi e spogliati
delle loro armi, ed essendo egli già infiammato dal vino ed oppresso dal
sonno, diede l'ordine temerariamente che se ne vendicasse la morte con
la strage delle guardie di Fritigerno e d'Alavivo. Le clamorose strida
ed i lamenti di quei, che morivano, scoprirono a Fritigerno il suo
estremo pericolo; e siccome esso possedeva il freddo ed intrepido
spirito d'un Eroe, vide ch'egli era perduto, se lasciava deliberare un
momento quell'uomo che l'aveva sì altamente ingiuriato. «Una piccola
contesa (disse il Capitano Goto con un fermo, ma piacevol tuono di voce)
par che sia insorta fra le due nazioni; essa potrebbe produrre le più
pericolose conseguenze, qualora non sia subito quietato il tumulto dalla
sicurezza della nostra salute e dall'autorità della nostra presenza».
Dette queste parole, Fritigerno ed i suoi compagni, sguainate le spade,
s'aprirono il passo per mezzo all'irresistente folla che empiva il
palazzo, le strade e le porte di Marcianopoli, e montando sui loro
cavalli, scomparvero in fretta dagli occhi degli stupefatti Romani. I
Generali dei Goti vennero salutati dalle fiere, e liete acclamazioni del
campo; immediatamente fu risoluta la guerra, e senza differire s'eseguì
tale risoluzione: si spiegarono le bandiere della nazione, secondo l'uso
dei loro antenati; e risuonò l'aria della terribile e lugubre musica
della barbara tromba[375]. Il debole e reo Lupicino, che aveva osato di
provocare, trascurato di distruggere, e che tuttavia presumeva di
sprezzare il formidabile suo nemico, marciò contro i Goti alla testa di
quella milizia, che potè raccogliere in tal subitanea occorrenza. I
Barbari aspettarono che s'avvicinasse circa nove miglia in distanza da
Marcianopoli, ed in quest'occasione si vide che l'abilità del Generale
era di maggior efficacia che le armi e la disciplina delle truppe. Il
valore dei Goti fu con tanta perizia diretto dal genio di Fritigerno,
che in uno stretto e vigoroso attacco rupper le file delle Legioni
Romane. Lupicino abbandonò le armi e le insegne, i Tribuni ed i più
bravi soldati che aveva, nel campo di battaglia; ed il loro inutil
coraggio non servì che a proteggere la vergognosa fuga del Capitano.
«Quel fortunato giorno pose fine alle angustie dei Barbari ed alla
sicurezza de' Romani; da quel giorno in poi rinunziando i Goti alla
precaria condizione di esuli e di stranieri, assunsero il carattere di
cittadini e di padroni, s'attribuirono un assoluto dominio sopra i
possessori delle terre, e ritennero in lor potere le province
Settentrionali dell'Impero, che hanno per confine il Danubio». Tali son
le parole d'un Istorico Goto[376], che celebra con rozza eloquenza la
gloria dei suoi nazionali. Ma i Barbari non esercitarono il loro
dominio, che ad oggetto di predare o di distruggere. Poichè i Ministri
dell'Imperatore gli avean privati dei benefizi comuni di natura, e del
libero commercio della vita sociale, vendicarono essi tale ingiustizia
contro i sudditi dell'Impero, e furono espiati i delitti di Lupicino con
la rovina dei pacifici agricoltori della Tracia, coll'incendio dei loro
villaggi e con la strage o la schiavitù delle innocenti loro famiglie.
Tosto si sparse nei luoghi vicini la nuova della vittoria dei Goti; e
riempiendo essa di terrore e di sconcerto gli animi dei Romani, la
precipitosa loro imprudenza contribuì ad accrescer le forze di
Fritigerno e le calamità della provincia. Qualche tempo avanti questa
grand'emigrazione, era stato ricevuto sotto la protezione ed al servizio
dell'Impero un numeroso corpo di Goti condotti da Suerido e da
Colia[377]. Erano questi accampati sotto le mura d'Adrianopoli; ma i
ministri di Valente desideravano ansiosamente di mandarli di là
dall'Ellesponto per allontanarli dalla pericolosa tentazione, a cui
potevano sì facilmente esser soggetti per la vicinanza ed il buon
successo dei lor nazionali. La rispettosa sommissione, con la quale
acquietaronsi all'ordine della loro marcia, avrebbe potuto considerarsi
come una prova della lor fedeltà; e la moderata richiesta, che fecero
d'un sufficiente sussidio di provvisioni e della dilazione di soli due
giorni fu espressa nei termini più doverosi. Ma il primo Magistrato di
Adrianopoli, irritato per causa di alcuni disordini commessi nella sua
villa, negò di compiacergli, ed armando contro di loro gli abitanti e
gli artefici di una popolata città, insistè con ostili minacce
nell'immediata loro partenza. I Barbari si rimasero in silenzio e
sospesi, finattanto che non furono esacerbati dagl'insultanti clamori e
da' dardi della plebaglia; ma stancata che fu la loro pazienza o non
curanza, scagliaronsi contro l'indisciplinata moltitudine, percossero
con molte vergognose ferite i dorsi dei fuggitivi loro nemici, e gli
spogliarono delle splendide armi[378], che erano indegni di portare. La
somiglianza delle offese e delle azioni presto riunì questo vittorioso
distaccamento alla nazione dei Visigoti; le truppe di Colia e di Suerido
aspettarono l'arrivo del gran Fritigerno, si raccolsero sotto i suoi
stendardi, e segnalarono il loro ardore nell'assedio di Adrianopoli. La
resistenza però della guarnigione fece conoscere ai Barbari che
nell'attacco delle regolari fortificazioni rare volte hanno effetto gli
sforzi d'un imperito coraggio. Il lor Generale conobbe l'errore, levò
l'assedio, e dichiarò «d'essere in pace con le mura di pietra[379],» e
si vendicò del mancato colpo sull'addiacente campagna. Egli accettò con
piacere l'utile rinforzo degl'indurati lavoratori, che scavavano le
miniere d'oro della Tracia[380] per vantaggio e sotto la sferza d'un
insensibil padrone[381]; e questi nuovi compagni condussero i Barbari
per segreti sentieri ai luoghi più remoti, che erano stati scelti per
porre in sicuro gli abitanti, le bestie ed i magazzini di grano.
Coll'aiuto di tali guide, niente rimase nascosto o inaccessibile; era
fatale la resistenza, la fuga ineseguibile, e la paziente sommissione
della disperata innocenza rare volte trovava pietà nei Barbari
conquistatori. Nel corso di tali depredazioni si restituirono agli
abbracciamenti degli afflitti genitori in gran numero i figli dei Goti,
che erano stati venduti per ischiavi, ma questi teneri incontri, che
avrebbero dovuto ravvivare nei loro animi e far loro gustare qualche
sentimento di umanità, non tendevano che a stimolare la nativa loro
fierezza col desiderio della vendetta. Essi con grande attenzione
prestavano orecchio ai lamenti dei loro figli, che nella schiavitù avean
sofferto le più crudeli indegnità dalle licenziose o ardenti passioni
dei loro padroni; ed usavan le medesime crudeltà, gli stessi indegni
trattamenti con gran rigore verso i figli e le figlie dei Romani[382].

[A. 377]

L'imprudenza di Valente e dei suoi ministri aveva introdotto nel cuor
dell'Impero un popolo di nemici; pure si sarebber potuti riconciliare
gli animi dei Visigoti mediante un'ingenua confessione dei passati
errori, ed un sincero adempimento degli antichi trattati. Sembrava che
tali salutari e moderate provvisioni fosser coerenti alla timida
disposizione del Monarca orientale; ma in questa sola occasione Valente
fece il bravo, e tale inopportuna bravura tornò fatale a lui stesso ed
a' sudditi. Ei dichiarò la sua intenzione di marciare da Antiochia a
Costantinopoli per reprimere quella pericolosa ribellione; e siccome
conosceva le difficoltà dell'impresa, sollecitò l'assistenza
dell'Imperatore Graziano suo nipote, che comandava le forze
dell'Occidente. Si richiamarono in fretta dalla difesa dell'Armenia le
truppe veterane; abbandonossi alla discrezione di Sapore
quell'importante frontiera; e fu affidata, nell'assenza di Valente,
l'immediata condotta della guerra Gotica a' suoi Luogotenenti Traiano e
Profuturo, Generali che nutrivano una favorevole e ben falsa opinione
della loro abilità. Arrivati che furono nella Tracia s'unì ad essi
Ricomero, Conte dei domestici, e gli ausiliari dell'Occidente, che
marciavano sotto la sua bandiera, sostenevano le legioni Galliche,
ridotte però da uno spirito di diserzione a vane apparenze di forza e di
numero. In un consiglio di guerra, nel quale influiva più l'orgoglio che
la ragione, fu risoluto di cercare ed affrontare i Barbari, che stavano
accampati nei fertili e spaziosi prati vicino alla più meridionale delle
sei bocche del Danubio[383]. Il loro campo era circondato dalla solita
fortificazione de' carri[384]; ed i Barbari, sicuri dentro il vasto
cerchio di quel recinto, godevano i frutti del loro valore e le spoglie
della Provincia. In mezzo alla disordinata intemperanza, il vigilante
Fritigerno osservava i movimenti, e penetrava i disegni dei Romani. Egli
si accorse che il numero de' nemici andava sempre crescendo; e siccome
conobbe l'intenzione che avevano d'attaccar la sua retroguardia, subito
che la mancanza del cibo lo costringesse a muovere il campo, richiamò i
suoi predatorj distaccamenti, che occupavano l'addiacente campagna.
Appena scuoprirono essi i concertati fuochi[385], che obbedirono con
incredibile prestezza al segnale del lor Capitano; il campo fu ripieno
d'una marzial folla di Barbari; le impazienti lor grida chiedevano la
battaglia, e quel tumultuario zelo fu approvato ed animato dallo spirito
dei loro Capi. Era già molto avanzata la sera; e le due armate si
prepararono al combattimento, che fu differito soltanto fino allo
spuntare del nuovo giorno. Mentre le trombe incitavano alle armi, fu
invigorito l'indomito coraggio dei Goti dalla reciproca obbligazione
d'un solenne giuramento; e nell'avanzarsi che facevano incontro al
nemico, i rozzi cantici, che celebravano la gloria dei loro maggiori,
eran mescolati con dissonanti e feroci strida, che s'opponevano
all'artificiosa armonia delle acclamazioni Romane. Fritigerno dimostrò
qualche perizia militare nel guadagnar che fece il vantaggio d'una
dominante altura; ma la sanguinosa pugna, che principiò e finì
col giorno, si mantenne da ambe le parti mediante i personali ed
ostinati sforzi di robustezza, di valore e d'agilità. Le legioni
dell'Armenia sostennero la loro fama nelle armi; ma furono oppresse
dall'irresistibile peso della moltitudine dei nemici; fu posta in
disordine l'ala sinistra dei Romani, ed i loro corpi, tagliati a pezzi,
restarono sparsi nel campo. Questa particolare disfatta, per altro, fu
bilanciata da un particolar successo; e quando i due eserciti ad un'ora
tarda della sera si ritirarono ai respettivi lor campi, niuno di loro
potè vantare gli onori o gli effetti di una decisiva vittoria. La
perdita reale fu più sensibile pe' Romani a cagione della piccolezza del
loro numero; ma i Goti restarono tanto confusi e sconcertati per questa
vigorosa e forse inaspettata resistenza, che rimasero sette giorni
dentro le loro fortificazioni. Ad alcuni uffiziali di grado distinto
furono piamente fatte quelle ceremonie funebri, che permettevan le
circostanze del tempo e del luogo; ma l'indistinto volgo fu lasciato
insepolto sul campo. Ne fu avidamente divorata la carne dagli uccelli di
rapina, che in quel tempo godevano di molto frequenti e deliziosi pasti,
e molti anni dopo le bianche o nude ossa, che cuoprivano l'ampia
estensione dei campi, presentarono agli occhi d'Ammiano un terribile
monumento della battaglia di Salice[386].

S'era interrotto il progresso dei Goti dal dubbioso evento di questa
sanguinosa giornata; ed i Generali dell'Imperatore, il cui Esercito
sarebbe rimasto distrutto da un'altra battaglia di simil fatta,
adottarono il più ragionevole disegno di rovinare i Barbari per mezzo
dei bisogni e delle strettezze della stessa loro moltitudine. Si
preparavano essi a confinare i Visigoti nell'angusto angolo di terra,
che è fra il Danubio, il deserto della Scizia ed il monte Emo,
finattantochè insensibilmente se ne consumasse la forza e lo spirito
dall'inevitabile azion della fame. Fu eseguito il disegno con qualche
condotta ed effetto; i Barbari avevan quasi dato fondo ai lor magazzini
ed ai ricolti del paese; e la diligenza di Saturnino, Generale di
cavalleria, si impiegava in accrescer la forza, e ristringere
l'estensione delle fortificazioni Romane. Furono però interrotte le sue
fatiche dall'inquietante notizia, che nuovi sciami di Barbari aveano
passato il non difeso Danubio, affine o di sostenere la causa o d'imitar
l'esempio di Fritigerno. La giusta apprensione di potere egli stesso
venir circondato ed oppresso dalle armi di ostili ed ignote nazioni,
obbligò Saturnino ad abbandonare l'assedio del campo de' Goti; ed essi
nell'uscire sdegnati dal confino in cui erano, saziaron la fame e la
vendetta loro con la replicata devastazione della fertil campagna, che
s'estende più di trecento miglia dalle rive del Danubio fino allo
stretto dell'Ellesponto[387]. L'accorto Fritigerno si era fortunatamente
applicato a secondar le passioni e l'interesse dei Barbari suoi alleati;
e l'amore della rapina e l'odio di Roma favorirono o prevennero
l'eloquenza de' suoi ambasciatori. Egli strinse una forte e vantaggiosa
alleanza col gran corpo de' suoi nazionali, che obbediva ad Alateo ed a
Safrace, custodi del fanciullo loro Sovrano; il sentimento del comune
loro interesse fece sospendere la lunga animosità delle rivali tribù; si
associò sotto un solo stendardo la parte indipendente della nazione; e
sembra che i Capitani degli Ostrogoti cedessero al superior genio del
Generale de' Visigoti. Ottenne il formidabile aiuto dei Taifali, la
militar fama dei quali era disonorata e avvilita dalla pubblica infamia
dei domestici loro costumi. Ogni giovane, all'entrar che faceva nel
Mondo, era unito con vincoli di onorevole amicizia e di brutale amore a
qualche guerriero della tribù; nè sperar potea di restar libero da
questa non natural connessione, finattantochè non avesse provata la sua
virilità coll'uccidere da solo a solo un grand'orso o un selvaggio
cignale[388]. Ma i più potenti ausiliari dei Goti si trassero dal campo
di quegli stessi nemici, che gli avevano espulsi dalle native lor sedi.
La libera subordinazione, ed i vasti territorj degli Unni e degli Alani
differivano le conquiste, e dividevano i consigli di quei popoli
vittoriosi. Più Orde furono allettate dalle generose promesse di
Fritigerno, e la rapida cavalleria della Scizia aggiunse peso ed energia
ai costanti e valorosi sforzi dell'infanteria Gotica. I Sarmati, che non
la poteron mai perdonare al successore di Valentiniano, goderono della
general confusione, e l'accrebbero; ed un'opportuna irruzione degli
Alemanni nelle Province della Gallia impegnò l'attenzione e divertì le
forze dell'Imperator d'Occidente[389].

Uno dei più gravi danni, che si risentisse dall'introduzione de' Barbari
nell'esercito e nel palazzo, fu la corrispondenza che tenevano coi
nemici lor nazionali, ai quali o per imprudenza o per malizia
manifestavano la debolezza dell'Impero Romano. Un soldato della guardia
del corpo di Graziano era di nazione Alemanno e della tribù dei
Lenziensi, che abitavano di là dal lago di Costanza. Alcuni affari
domestici l'obbligarono a domandar licenza d'assentarsi. In una breve
visita, che fece alla famiglia ed ai suoi amici, fu esposto alle curiose
loro interrogazioni; e la vanità del loquace soldato tentollo a spiegar
l'intima cognizione che aveva dei segreti di Stato e dei disegni del suo
Signore. La notizia, che Graziano si preparava a condurre le forze
militari della Gallia e dell'Occidente in soccorso di Valente suo zio,
additò all'inquieto spirito degli Alemanni il momento ed il modo di fare
una felice invasione. L'impresa di alcuni piccoli distaccamenti, che nel
mese di Febbraio passarono il Reno sul ghiaccio, fu preludio d'una più
importante guerra. Le audaci speranze di preda, e forse di conquista,
vinsero le riflessioni della timida prudenza o della fedeltà nazionale.
Ogni foresta, ogni villaggio somministrò una truppa di forti
avventurieri, e la grand'armata degli Alemanni, che al suo avvicinarsi
fu dal timore del popolo considerata di quarantamila soldati, venne in
seguito amplificata sino a settantamila dalla vana e credula adulazione
della Corte Imperiale. Le legioni, alle quali si era ordinato di
marciare nella Pannonia, furono immediatamente richiamate o ritenute per
la difesa della Gallia; il comando militare fu diviso fra Nanieno e
Mellobaude; e sebbene il giovane Imperatore rispettasse la lunga
esperienza e la sobria saviezza del primo, era però più inclinato ad
ammirare e seguire il marziale ardore del suo compagno, al quale si
permetteva di riunire in sè gl'incompatibili caratteri di Conte dei
domestici e di Re dei Franchi. Priario, Re degli Alemanni, rivale di
lui, era guidato o piuttosto spinto dall'istesso ostinato valore; e
poichè le loro truppe erano animate dallo spirito dei condottieri,
s'incontrarono, si videro e s'attaccarono fra loro vicino alla città
d'Argentaria o Colmar[390] nelle pianure dell'Alsazia. Fu giustamente
attribuita la gloria di tal giornata alle armi da lanciare ed alle ben
eseguite evoluzioni dei soldati Romani: gli Alemanni, che lungamente si
mantennero saldi, furono trucidati con instancabil furore; soli
cinquemila Barbari si rifuggiaron nei boschi e nelle montagne: e la
morte gloriosa del loro Principe sul campo di battaglia lo salvò dai
rimproveri del popolo, che sempre è disposto ad accusar la giustizia o
la condotta d'una guerra infelice. Dopo questa segnalata vittoria, che
assicurava la pace della Gallia, e sosteneva l'onore delle armi Romane,
l'Imperator Graziano finse di procedere immediatamente alla sua
spedizione orientale; ma giunto a' confini degli Alemanni voltossi ad un
tratto a sinistra, li sorprese coll'improvviso passaggio del Reno, ed
arditamente avanzossi nel cuore del loro paese. I Barbari opposero al
suo progresso gli ostacoli della natura e del coraggio; e continuarono
sempre a ritirarsi da un colle all'altro, finattantochè dalle replicate
prove restaron convinti della forza e della perseveranza dei loro
nemici. Fu accettata la lor sommissione come un segno non già del
sincero lor pentimento, ma dell'angustia, in cui allor si trovavano; e
si volle dall'infedele nazione uno scelto numero di bravi e robusti loro
giovani, come un pegno più sostanziale della futura loro moderazione. I
sudditi dell'Impero, che avevano tante volte sperimentato che gli
Alemanni non potevano esser soggiogati dalle armi, nè tenuti a freno dai
trattati, non potevano promettersi alcuna solida e durevol tranquillità;
ma nelle virtù del giovane loro Sovrano videro il prospetto di un lungo
e prospero regno. Allorchè le legioni si rampicavano su pei monti, e
scalavano le fortezze dei Barbari, si distingueva nelle prime file il
valor di Graziano; e la dorata e variamente colorita armatura delle sue
guardie era trafitta e lacerata dai colpi che avean ricevuti nel
costante attaccamento alla persona del loro Sovrano. All'età di
diciannove anni parve che il figlio di Valentiniano possedesse già i
talenti della guerra e della pace; ed il suo personal successo contro
gli Alemanni fu interpretato come un sicuro presagio dei Gotici suoi
trionfi[391].

Mentre Graziano meritava e godeva l'applauso dei suoi sudditi,
l'Imperator Valente, che avea finalmente mosso la sua Corte ed armata da
Antiochia, fu ricevuto dal popolo di Costantinopoli come l'autore della
pubblica calamità. Non erasi anche riposato dieci giorni nella Capitale,
che dai licenziosi clamori dell'Ippodromo venne spinto a marciar contro
i Barbari che aveva invitati nei suoi dominj; ed i cittadini, che sono
sempre valorosi, quando son lontani dal pericolo reale, dichiaravano con
sicurezza, che se fossero loro date le armi, avrebbero essi soli
intrapreso di liberar la Provincia dalle devastazioni d'un insultante
nemico[392]. I vani rimproveri d'un'ignorante moltitudine affrettarono
la caduta del Romano Impero; questi provocarono la disperata imprudenza
di Valente, che non trovava o nella propria riputazione o nel suo
spirito motivo alcuno da sostener con fermezza il pubblico dispregio.
Egli presto s'indusse pei felici successi dei suoi Luogotenenti a
sprezzare il potere dei Goti, che mediante la diligenza di Fritigerno
trovavansi allora uniti nelle vicinanze di Adrianopoli. Il valente
Frigerido aveva intercettato la marcia dei Taifali; il Re di quei
licenziosi Barbari era stato ucciso in battaglia; e gli schiavi
supplichevoli erano stati mandati in un lontano esilio a coltivar le
terre d'Italia, che furono assegnate loro nei territorj vacanti di Parma
e di Modena[393]. Le azioni di Sebastiano[394], che di fresco erasi
posto al servizio di Valente, ed era stato promosso al grado di Generale
d'infanteria, erano vie più onorevoli ad esso e vantaggiose per la
Repubblica. Egli ottenne la permissione di scegliere da ciascheduna
legione trecento soldati, e questo separato distaccamento in breve
acquistò lo spirito di disciplina e l'esercizio delle armi, che erano
quasi dimenticati sotto il regno di Valente. Atteso il vigore e la
condotta di Sebastiano, fu sorpreso nel proprio campo un grosso corpo di
Goti, e l'immenso bottino, che ricuperossi dalle lor mani, empì la città
d'Adrianopoli e le addiacenti pianure. Gli splendidi racconti, che fece
il Generale delle sue imprese, inquietaron la Corte Imperiale per
l'apparenza d'un merito superiore; e quantunque egli cautamente
insistesse sopra le difficoltà della guerra Gotica, ne fu lodato il
valore, e rigettato il consiglio; e Valente, che ascoltava con vanità e
con piacere le adulatrici suggestioni degli eunuchi del palazzo, era
impaziente d'assicurarsi la gloria d'una facile e sicura conquista. Il
suo esercito fu invigorito da un numeroso rinforzo di veterani; e fu
condotta la sua marcia da Costantinopoli ad Adrianopoli con tanta
perizia militare, che prevenne l'attività dei Barbari, i quali avean
disegnato d'occupare i passi di mezzo per intercettare o le truppe
medesime o i convogli e le provvisioni di esse. Il campo, che Valente
avea piantato sotto le mura d'Adrianopoli, fu, secondo l'uso dei Romani,
fortificato con un fosso ed un recinto, e convocossi un importantissimo
consiglio di guerra per decidere della sorte dell'Imperatore e
dell'Impero. Vittore fortemente sostenne il partito più ragionevole
della dilazione, avendo egli con l'esperienza corretto la natural
fierezza del carattere Sarmatico, mentre Sebastiano con la pieghevole ed
ossequiosa eloquenza di un Cortigiano, rappresentava ogni precauzione ed
ogni misura, che contenesse qualche dubbio d'immediata vittoria, come
indegna del coraggio e della maestà del loro invincibil Monarca. Fu
precipitata la rovina di Valente dalle ingannevoli arti di Fritigerno, e
dalle prudenti ammonizioni dell'Imperatore Occidentale. Il Generale dei
Barbari era perfettamente informato dei vantaggi della negoziazione in
mezzo alla guerra; e fu spedito un Ecclesiastico Cristiano, come sacro
ministro di pace, per iscuoprire e render dubbiosi i consigli del
nemico. Si esposero con forza e con verità le disgrazie non meno che le
ingiurie della nazione Gotica dall'Ambasciatore, il quale si protestò in
nome di Fritigerno, che egli era sempre disposto a deporre le armi o ad
impiegarle solo in difesa dell'Impero, se assicurar poteva un tranquillo
stabilimento a' vaganti suoi nazionali nelle terre incolte della Tracia,
ed una sufficiente quantità di grano e di bestiame. Aggiunse però, in un
segreto colloquio di confidenziale amicizia, che gli esacerbati Barbari
erano alieni da tali ragionevoli condizioni, e che Fritigerno stava in
dubbio se potesse condurre a fine la conclusione del trattato, qualora
egli non si trovasse sostenuto dalla presenza e dal terrore di un
esercito Imperiale. Verso l'istesso tempo tornò dall'Occidente il Conte
Ricomero ad annunziar la disfatta e la sommissione degli Alemanni, a far
sapere a Valente che il suo nipote avanzavasi con rapide marce alla
testa delle veterane e vittoriose legioni della Gallia; ed a richiedere
in nome di Graziano e della Repubblica, che si sospendesse qualunque
passo pericoloso e decisivo, finattantochè la congiunzione dei due
Imperatori assicurasse il buon successo della guerra Gotica. Ma sul
debole Sovrano dell'Oriente non agivano che le illusioni fatali della
gelosia e dell'orgoglio. Sdegnò l'importuno avviso; rigettò l'umiliante
soccorso; segretamente paragonò l'ignominioso o almeno non glorioso
corso del proprio regno con la fama di un giovane imberbe; e corse al
campo per innalzarsi un immaginario trofeo, prima che la diligenza del
suo collega potesse aver parte veruna nei trionfi della battaglia.

Il nove d'Agosto, giorno che ha meritato d'avere luogo fra i più
malaugurati del calendario Romano[395], l'Imperator Valente, lasciato
sotto una forte guardia il suo bagaglio e la cassa militare, si partì da
Adrianopoli per attaccare i Goti, ch'erano accampati alla distanza di
circa dodici miglia dalla città[396]. Per qualche sbaglio degli ordini,
o per l'ignoranza del luogo, l'ala destra, o la colonna di cavalleria
giunse a vista del nemico, mentre la sinistra era sempre in una
considerabil distanza; i soldati furon costretti nell'affannoso caldo
della state ad affrettare il passo; e si formò la linea di battaglia con
un tedioso disordine ed una irregolar dilazione. S'era distaccata la
cavalleria Gotica per cercar foraggio nelle vicine campagne; e
Fritigerno tuttavia continuava a praticare i soliti suoi artifizi. Spedì
egli dei Messaggieri di pace, fece proposizioni, richiese ostaggi, e
consumò il tempo a tal segno, che i Romani, esposti senza riparo ai
cocenti raggi del sole, restarono esausti dalla sete, dalla fame e
dall'intollerabil fatica. L'Imperatore si indusse a mandare un
Ambasciatore nel campo Gotico: fu applaudito lo zelo di Ricomero, che
solo ebbe il coraggio d'accettare questa pericolosa commissione; ed il
Conte dei domestici, adornato con le splendide insegne della sua
dignità, erasi già qualche tratto avanzato fra le due armate, quando fu
improvvisamente richiamato indietro dal suono della battaglia. Fu fatto
il precipitoso ed imprudente attacco da Bacurio l'Ibero, che comandava
un corpo di arcieri e di targettieri; ed in quella guisa che
s'avanzarono temerariamente, ritiraronsi ancora con perdita e con
vergogna. Nel momento stesso gli squadroni volanti di Alateo e di
Safrace, dei quali ansiosamente s'aspettava l'arrivo dal Generale dei
Goti, scenderono come un turbine dalle montagne, attraversarono il
piano, ed aggiunsero nuovi terrori al tumultuario, ma irresistibile
incontro dell'esercito Barbaro. In poche parole si può descriver
l'evento della battaglia d'Adrianopoli, sì fatale a Valente ed
all'Impero. La cavalleria Romana si diede alla fuga; l'infanteria restò
abbandonata, circondata e tagliata a pezzi. Le più abili evoluzioni, il
più fermo coraggio appena son sufficienti a distrigare un corpo
d'infanteria, circondato in un piano aperto da un maggior numero di
cavalli; ma le truppe di Valente, oppresse dal peso dei nemici e dei
propri lor timori, si trovavano strette in un piccolo spazio, dov'era
per loro impossibile d'estender le file, o anche di servirsi con effetto
delle spade e dei giavellotti. In mezzo al tumulto, alla strage ed al
disordine, l'Imperatore, abbandonato dalle sue guardie e ferito, come si
suppone, da un dardo, cercò rifugio fra i _Lancearj_ ed i _Mattiarj_,
che tuttavia mantenevano il loro posto con qualche apparenza d'ordine e
di fermezza. I fedeli Generali, Traiano e Vittore, che videro il suo
pericolo, altamente gridarono che era tutto perduto, se non si poteva
salvar la persona dell'Imperatore. Alcune truppe, animate dalle loro
esortazioni, s'avanzarono in soccorso di lui; ma non trovarono che un
sanguinoso tratto di terra, coperto di un mucchio di armi spezzate e di
laceri corpi, senza potere scuoprir l'infelice lor Principe nè fra i
vivi nè fra i morti. Infatti non potevano essi trovarlo, se vere sono le
circostanze, con le quali hanno alcuni Storici riferito la morte
dell'Imperatore. La cura de' suoi ministri condusse Valente dal campo di
battaglia in una vicina capanna, dove procuravasi di medicare la sua
ferita e di provvedere alla futura salvezza di lui. Ma fu ad un tratto
circondato dai nemici quest'umile asilo; tentarono essi di forzarne la
porta; ma, provocati da una scarica di dardi scagliati dal tetto, ed
impazienti di più indugiare, misero fuoco ad un mucchio di secche legna,
e distrussero la capanna insieme coll'Imperatore ed i suoi famigliari.
Valente perì nelle fiamme, e non iscampò che un sol giovane, il quale
saltando dalla finestra contò la trista novella, ed informò i Goti
dell'inestimabile preda, che avevan perduto per causa della loro
inconsideratezza. Nella battaglia d'Adrianopoli perì un gran numero di
prodi e distinti Uffiziali, ed essa uguagliò nell'effettiva perdita, e
molto sorpassò nelle fatali conseguenze la disgrazia, che Roma una volta
soffrì nei campi di Canne[397].

Si trovarono fra i morti due Generali della cavalleria e della
infanteria, due grand'Uffiziali del palazzo e trentacinque Tribuni, e la
morte di Sebastiano mostrò al Mondo che se egli fu l'autore, fu pure la
vittima della pubblica calamità. Fu distrutto per più di due terzi
l'esercito Romano, e le tenebre della notte vennero tenute per molto
propizie, come quelle che servirono a coprire la fuga della moltitudine,
ed a proteggere la più ordinata ritratta di Vittore e di Ricomero, che
soli, in mezzo alla generale costernazione, mantennero il vantaggio di
un tranquillo valore e di una regolar disciplina[398].

Mentre erano ancora fresche nelle menti degli uomini le impressioni del
dolore e dello spavento, l'oratore più celebre di quel tempo compose
l'orazione funebre d'un esercito superato e d'un odioso Principe, il
trono del quale era già stato occupato da uno straniero. «Non mancan
persone (dice l'ingenuo Libanio) che incolpano la prudenza
dell'Imperatore, o che attribuiscono la pubblica disgrazia al difetto di
coraggio e di disciplina nelle truppe. Quanto a me, io venero la memoria
delle lor precedenti azioni; venero la gloriosa morte, che valorosamente
soffrirono, stando salde e combattendo nei loro posti: venero il campo
di battaglia, asperso del sangue loro e di quello dei Barbari. Questi
onorevoli segni sono già stati cancellati dalle piogge; ma i superbi
monumenti delle ossa loro, di quelle dei generali, dei centurioni e de'
valenti soldati meritano una più lunga durata. Il Sovrano medesimo pugnò
e cadde nelle prime file dell'esercito. I suoi famigliari gli
presentarono i più veloci destrieri della stalla Imperiale, che presto
l'avrebbero liberato dalla persecuzion del nemico; essi lo stimolarono
in vano a conservare l'importante sua vita pel futuro servigio della
Repubblica. Ei fu costante nella protesta d'essere indegno di
sopravvivere a tanti de' più valorosi e fedeli suoi sudditi; ed il
Monarca restò nobilmente sepolto sotto un monte di uccisi. Non vi sia
dunque chi ardisca d'attribuir la vittoria dei Barbari al timore, alla
debolezza o alla imprudenza delle truppe Romane. I Capitani ed i soldati
animati furono dal valore dei loro maggiori, de' quali uguagliavan la
disciplina e l'arte militare. La generosa loro emulazione fu sostenuta
dall'amore della gloria, che li pose in istato di contendere nel tempo
istesso con la fame e con la sete, col ferro e col fuoco, ed a
volentieri abbracciare una morte onorata, come un refugio contro la fuga
e l'infamia. Lo sdegno degli Dei è stata la sola cagione del buon
successo dei nostri nemici». La verità dell'istoria può disapprovar
qualche parte di questo panegirico, che a rigore non si può conciliare
col carattere di Valente o con le circostanze della battaglia; è dovuta
però la più giusta lode all'eloquenza, e molto più alla generosità del
Sofista d'Antiochia[399].

Si esaltò l'orgoglio de' Goti per questa memorabile vittoria, ma restò
sconcertata la loro avidità dalla mortificante scoperta, che la più
ricca porzione delle spoglie Imperiali era stata riposta dentro le mura
di Adrianopoli. Essi affrettaronsi a godere il premio del lor valore; ma
s'opposero loro i residui d'un vinto esercito con intrepida fermezza,
che fu l'effetto della disperazione e l'unica speranza che avessero di
salute. Le mura della città, ed i ripari del campo addiacente, furono
guerniti di macchine militari, che scagliavano pietre d'enorme peso, e
spaventavano gl'ignoranti Barbari più con lo strepito e con la velocità,
che coll'effetto reale della scarica. S'erano uniti nel pericolo e nella
difesa i soldati, i cittadini, i provinciali e i domestici del palazzo;
tornò rispinto il furioso assalto de' Goti; le segrete loro arti di
perfidia e di tradimento furono scoperte; e dopo un ostinato
combattimento di più ore, si ritirarono alle loro tende, convinti per
esperienza, che sarebbe stato migliore partito per essi l'osservare il
trattato, che il sagace lor Condottiero aveva tacitamente stipulato con
le fortificazioni delle grandi e popolate città. Dopo il precipitoso e
non politico macello di trecento disertori, atto di giustizia sommamente
utile alla disciplina degli eserciti Romani, i Goti levarono sdegnati
l'assedio d'Adrianopoli. Lo spettacolo della guerra e del tumulto si
convertì ad un tratto in un tacito orrore solingo; immediatamente sparì
la moltitudine; i segreti sentieri de' boschi, e de' monti eran segnati
dalle vestigia de' fuggitivi tremanti, che cercavan rifugio nelle
distanti città dell'Illirico e della Macedonia; ed i fedeli ministri
della casa e del tesoro Imperiale cautamente andavano in cerca
dell'Imperatore, del quale tuttora ignoravan la morte. La corrente
dell'inondazione Gotica scorse dalle mura d'Adrianopoli fino ai
sobborghi di Costantinopoli. I Barbari furon sorpresi dallo splendido
aspetto della capitale dell'Oriente, dall'altezza ed estension delle
mura, dalle migliaia di ricchi e spaventati cittadini, che coronavano i
forti, e dalla varia veduta della terra e del mare. Nel tempo, che
stavano ammirando con inutile desiderio le inaccessibili bellezze di
Costantinopoli, una truppa di Saracini[400], che fortunatamente s'erano
arruolati al servigio di Valente, fece una sortita da una porta della
città. La cavalleria della Scizia dovè cedere alla mirabil velocità ed
al brio de' cavalli Arabi; quelli che li cavalcavano erano abili
nell'evoluzioni della guerra irregolare; ed i Barbari settentrionali
restarono attoniti e sconcertati dall'inumana ferocia de' Barbari del
Mezzodì. Un soldato Gotico, essendo stato ucciso dal pugnale d'un Arabo,
il chiomato e nudo selvaggio, ponendo le labbra alla ferita di esso,
esprimeva un orribil diletto nel succiar che faceva il sangue del vinto
di lui nemico[401]. L'armata Gotica, carica delle spoglie de' ricchi
sobborghi e del territorio addiacente, con lentezza si mosse dal Bosforo
verso i monti, che formano il confine Occidentale della Tracia. Fu
abbandonato l'importante passo di Succi dal timore o dalla mala condotta
di Mauro; ed i Barbari, che non avevano più da temere alcuna resistenza
dalle disperse e vinte truppe dell'Oriente, si diffusero sulla
superficie d'una fertile e coltivata regione, sino ai confini
dell'Italia e del mare Adriatico[402].

[A. 378-379]

I Romani, che narrano con tanta freddezza e brevità gli atti di
giustizia esercitati dalle legioni[403], riservano la lor pietà ed
eloquenza per le angustie, che soffrirono essi, allorchè le Province
furono invase e desolate dalle armi fortunate de' Barbari. La semplice
ben circostanziata istoria (se pure una tal istoria esistesse) della
rovina d'una sola città, delle disgrazie d'una sola famiglia[404]
potrebbe rappresentare un'interessante ed istruttiva pittura de' costumi
umani; ma la tediosa ripetizione di vaghi e declamatori lamenti
stancherebbe l'attenzione del più paziente lettore. Si può applicare la
stessa censura, quantunque forse non in grado uguale agli scrittori sì
profani che ecclesiastici di quegl'infelici tempi, vale a dire che i
loro animi erano accesi da una religiosa e volgare animosità, e che
s'alterava la vera grandezza e il colore di ogni oggetto
dall'esagerazioni della corrotta loro eloquenza. Potè l'ardente
Girolamo[405] deplorar con ragione le calamità apportate da' Goti, e da'
Barbari loro alleati nel nativo suo paese della Pannonia e nella vasta
estensione delle Province, che sono fra le mura di Costantinopoli e il
piè delle alpi Giulie; le rapine, le stragi, gl'incendi, e sopra tutto
la profanazion delle Chiese, che si convertirono in stalle, e
l'irriverente trattamento delle reliquie de' Santi Martiri. Ma il Santo
si lascia trasportare oltre i confini della natura e dell'istoria,
quando asserisce «che non rimase in quelle deserte regioni altro che il
cielo e la terra; che distrutte le città ed estirpata la razza umana, il
suolo era tutto ingombrato da folte selve e d'inestricabili boschi; e
che s'adempiva la universal desolazione, annunziata dal Profeta Sofonia,
nella scarsità delle bestie, degli uccelli e fino de' pesci». Si
esposero tali querele circa vent'anni dopo la morte di Valente; e le
Province Illiriche, le quali furono sempre soggette all'invasione ed al
passaggio de' Barbari, continuarono dopo un calamitoso corso di dieci
secoli a somministrar nuovi materiali di rapina e di distruzione.
Quand'anche si potesse supporre, che un ampio tratto di paese fosse
lasciato inculto e senz'abitanti, le conseguenze di ciò non avrebber
potuto essere tanto fatali alle inferiori produzioni dell'animata
natura. Gli utili e deboli animali, che si nutriscon dalla mano degli
uomini, posson soffrire e distruggersi, qualora sieno privati della lor
protezione; ma le bestie della foresta, nemiche o vittime dell'uomo, si
debbon piuttosto moltiplicare nel libero e non disturbato possesso de'
solitari loro dominj. Le varie tribù, che popolano l'aria o l'acqua,
sono anche meno connesse colla sorte della specie umana; ed è molto
probabile, che i pesci del Danubio dovessero sentire maggior terrore ed
angustia dall'avvicinarsi loro un vorace luccio, che dalle ostili
scorrerie d'un'armata di Goti.

[A. 378]

Per quanto fosse stato grande il numero delle calamità dell'Europa,
v'era motivo di temere che in breve le stesse disgrazie s'estenderebbero
alle pacifiche regioni dell'Asia. I figli de' Goti erano stati
giudiziosamente distribuiti per le città dell'Oriente; e si erano
impiegate le cure dell'educazione per vincere ed ingentilire la nativa
fierezza della loro indole. Nello spazio di circa dodici anni era
continuamente cresciuto il lor numero; ed i fanciulli, che nella prima
emigrazione erano stati mandati sopra l'Ellesponto, avevano acquistato
con rapido avanzamento la forza e lo spirito di una perfetta
virilità[406]. Era impossibile di impedir che sapessero gli eventi della
guerra Gotica; e siccome quegli arditi giovani non aveano studiato il
linguaggio della dissimulazione, dimostravano il desiderio, la brama, e
forse l'intenzione, che avevano, d'emulare il glorioso esempio de' loro
padri. Pareva che il pericolo di que' tempi giustificasse i gelosi
sospetti dei Provinciali; e furono ammessi tali sospetti come
indubitabili prove, che i Goti dell'Asia formato avessero una segreta e
pericolosa cospirazione contro la pubblica sicurezza. La morte di
Valente avea lasciato l'Oriente senza Sovrano; e Giulio, che occupava
l'importante posto di General delle truppe con un'alta riputazione di
diligenza e d'abilità, si credè in dovere di consultare il Senato di
Costantinopoli, che nella vacanza del Trono si considerava da esso, come
l'assemblea rappresentante della nazione. Appena ebbe ottenuto la libera
facoltà di operare come giudicava espediente pel bene della Repubblica,
che convocò i primi uffiziali, e segretamente concertò i mezzi opportuni
per eseguire il sanguinario suo disegno. Fu immediatamente pubblicato un
ordine, che in un dato giorno si unisse la Gioventù Gotica nelle città
capitali delle respettive loro Province; e siccome si fece a bella posta
spargere una voce, che si convocavano per dar loro un liberal donativo
di terre e di danaro, la piacevole speranza mitigò il furore del loro
sdegno, e forse sospese i moti della cospirazione. Nel giorno
determinato tutta la gioventù Gotica fu diligentemente raccolta
senz'armi in una piazza; le strade ed i passi della medesima erano
occupati dalle truppe Romane, ed i tetti delle case coperti di arcieri e
frombolieri. In tutte le città dell'Oriente fu dato alla medesima ora il
segnale dell'indistinto macello; e la crudel prudenza di Giulio liberò
le Province dell'Asia da un domestico nemico, che in pochi mesi avrebbe
potuto portare il ferro ed il fuoco dall'Ellesponto all'Eufrate[407].
L'urgente considerazione della sicurezza pubblica può senza dubbio
autorizzare la violazione di ogni legge positiva. Ma fino a qual segno
questa od altra simil considerazione possa valere a disciogliere le
naturali obbligazioni d'umanità e di giustizia, è dessa una dottrina,
che io desidero di sempre ignorare.

[A. 379]

L'Imperator Graziano erasi molto avanzato nella sua marcia verso le
pianure d'Adrianopoli, quando fu informato, a principio dalla voce
confusa della fama, ed in seguito dai più esatti ragguagli di Vittore e
di Ricomero, che l'impaziente collega di lui era stato ucciso in
battaglia, e che la spada dei vittoriosi Goti aveva esterminato due
terzi dell'armata Romana. Per quanto sdegno meritasse la temeraria e
gelosa vanità dello zio, l'ira di un animo generoso è facilmente vinta
dai più dolci moti di dolore e di compassione; ed anche i sentimenti di
pietà presto andarono a perdersi nella seria e formidabile
considerazione dello stato attuale della Repubblica. Graziano non era
più in tempo d'assistere, ed era troppo debole per vendicare il suo
disgraziato Collega, ed il valoroso e modesto giovane sentì se stesso
incapace a sostenere un Mondo cadente. Una formidabil tempesta di
Barbari della Germania sembrava pronta ad invader le Province della
Gallia; e lo spirito di Graziano era oppresso e distratto
dall'amministrazione dell'Impero Occidentale. In quest'importante crisi,
il Governo dell'Oriente, e la condotta della guerra Gotica esigevano
tutta intera l'attenzione d'un Eroe e d'un politico. Un suddito,
investito di sì ampio comando, non avrebbe lungamente conservato la sua
fedeltà ad un distante benefattore; ed il consiglio Imperiale abbracciò
la savia e virile risoluzione di acquistarsi una riconoscenza, piuttosto
che cedere ad un insulto. Graziano desiderava di donare la porpora come
un premio della virtù: ma non è facile per un Principe, educato nel
supremo posto, di conoscere alla età di diciannove anni i veri caratteri
dei propri Generali e ministri. Procurò di pesare con imparziale
bilancia i diversi loro meriti e difetti; e mentre frenava il temerario
ardire dell'ambizione, diffidava di quella cauta saviezza, che induce a
disperare della Repubblica. Siccome ogni momento di dilazione faceva
perdere qualche parte del potere e de' ripieghi del futuro Sovrano
d'Oriente, la situazione delle circostanze non permetteva un tedioso
dibattimento. Graziano tosto dichiarò la sua scelta in favore d'un
esule, il padre del quale, non più che tre anni avanti, aveva sofferto,
esercitando esso l'autorità sovrana, un'ingiusta ed ignominiosa morte.
Il Gran Teodosio, nome celebre nell'Istoria e caro alla Chiesa
Cattolica[408], fu chiamato alla Corte Imperiale, che appoco appoco
erasi ritirata dai confini della Tracia al più sicuro quartiere di
Sirmio. Cinque mesi dopo la morte di Valente, l'Imperator Graziano
produsse in presenza alle truppe adunate il _suo_ Collega e _loro_
Signore, che dopo una modesta e forse sincera resistenza, fu costretto
ad accettare, in mezzo alle generali acclamazioni, il diadema, la
porpora e l'ugual titolo d'Augusto[409]. Destinate furono al governo del
nuovo Imperatore le Province della Tracia, dell'Asia e dell'Egitto,
sopra le quali avea regnato Valente; ma siccome ad esso era specialmente
affidata la condotta della guerra Gotica, fu smembrata la Prefettura
dell'Illirico; e furono aggiunte agli stati dell'Impero d'Oriente le due
gran diocesi della Dacia e della Macedonia[410].

L'istessa Provincia, e forse anche l'istessa città[411], che aveva dato
al trono le virtù di Trajano ed i talenti d'Adriano, fu la sede
originale d'un'altra famiglia di Spagnuoli, che in un secolo meno felice
tenne per quasi ottant'anni il decadente Impero di Roma[412]. Questa
uscì dall'oscurità degli onori municipali mediante l'attivo spirito del
vecchio Teodosio, Generale le cui imprese nella Britannia e nell'Affrica
formarono una delle più splendide parti degli annali di Valentiniano. Il
figlio di quel Generale, che aveva parimente il nome di Teodosio, fu
educato da abili professori negli studi liberali della gioventù; ma
nell'arte della guerra fu istruito dalla tenera cura e dalla severa
disciplina del proprio padre[413]. Sotto lo stendardo di tal
condottiere, il giovane Teodosio andò in cerca di gloria e di cognizioni
nei più lontani teatri dell'azione militare; assuefece il suo corpo alla
diversità delle stagioni e dei climi; distinse il suo valore per mare e
per terra; ed osservò la differente maniera di guerreggiare degli Scoti,
dei Sassoni e dei Mori. Il proprio merito e la raccomandazione del
conquistatore dell'Affrica l'elevarono in breve ad un comando separato;
e fatto Duce della Mesia, vinse una armata di Sarmati, salvò la
Provincia, meritò l'amor dei soldati, e provocò l'invidia della
Corte[414]. La sua nascente fortuna ben presto decadde per la disgrazia
e l'esecuzione dell'illustre suo padre; e Teodosio ricevè come un favore
la permissione di ritirarsi a fare una vita privata nella nativa sua
Provincia di Spagna. Ei dimostrò un fermo e moderato carattere nella
calma, con cui s'adattò a questa nuova situazione. Il suo tempo era
quasi ugualmente diviso fra la città e la campagna; lo spirito, che
aveva animato la sua condotta pubblica, si fece conoscere anche
nell'attivo e premuroso adempimento di ogni dover sociale; e con
vantaggio applicossi la diligenza del soldato a migliorare il vasto suo
patrimonio[415], che era fra Vagliadolid e Segovia in mezzo ad un
fertile territorio, tuttavia famoso per la più squisita razza di
pecore[416]. Dagl'innocenti ma utili lavori delle sue possessioni,
Teodosio in meno di quattro mesi fu trasferito al trono dell'Impero
Orientale; e tutta la serie dell'istoria degli uomini non potrà forse
somministrare un esempio simile d'innalzamento nell'istesso tempo sì
puro e sì onorevole. I Principi, che ereditano pacificamente lo scettro
dei loro padri, pretendono e godono un diritto legittimo, tanto più
sicuro, quanto è assolutamente distinto dai meriti del lor carattere
personale. I sudditi, che in una Monarchia o in uno stato popolare
acquistano la suprema potestà, possono elevarsi colla superiorità del
genio o della virtù sopra i loro simili; ma rare volte la loro virtù è
libera dall'ambizione, e frequentemente la causa del candidato, che
ottiene il suo intento, è macchiata dalla colpa della cospirazione o
della guerra civile. Eziandio in que' Governi, che permettono al Monarca
regnante di nominare un collega o successore, la parziale sua scelta,
nella quale possono influire le più cieche passioni, è spesso diretta ad
un indegno soggetto. Ma la più sospettosa malignità non potè attribuire
a Teodosio nell'oscura sua solitudine di Cauca, gli artifizi, i
desiderj, e neppure le speranze d'un ambizioso politico, ed il nome
stesso dell'esule da gran tempo sarebbe andato in dimenticanza, se le
vere e distinte virtù di lui non avesser lasciato una profonda
impressione nella Corte Imperiale. Il sublime suo merito, nel tempo
della prosperità, non si era curato; ma nelle pubbliche angustie fu
generalmente riconosciuto o sentito. Qual fiducia mai non doveva esser
posta nella sua integrità, mentre Graziano potè fidarsi, che un pietoso
figlio per amore della Repubblica perdonato avrebbe l'uccisione del
padre! Qual espettazione dovevasi avere della sua abilità per sostener
la speranza, che un solo uomo potesse salvare e restaurar l'Impero
dell'Oriente! Teodosio fu decorato della porpora nell'anno
trentesimoterzo della sua età. Il volgo guardava con ammirazione la
virile bellezza del sembiante e la graziosa maestà della persona di lui,
che si compiaceva di paragonare con le pitture e medaglie dell'Imperator
Trajano; mentre gl'intelligenti osservatori scuoprivano nelle sue
qualità del cuore e dello spirito una ben più importante rassomiglianza
all'ottimo ed al più grande fra i Principi Romani.

[A. 379-382]

Non senza il più sincero dispiacere debbo adesso prender licenza da
un'esatta e fedel guida, che ha composto l'istoria de' suoi tempi senza
secondare i pregiudizi e le passioni che ordinariamente influiscono
sulla mente di uno scrittore contemporaneo. Ammiano Marcellino, che
termina l'utile sua opera con la disfatta e con la morte di Valente,
raccomanda il soggetto più glorioso del seguente regno al fresco vigore
ed all'eloquenza della nuova generazione[417]. Ma questa non fu disposta
ad accettarne il consiglio o ad imitarne l'esempio[418], e nello studio
del regno di Teodosio noi siamo ridotti ad illustrare la parzial
narrazione di Zosimo con oscuri barlumi di frammenti e di croniche, col
figurato stile della poesia o del panegirico, e col precario aiuto degli
Ecclesiastici, che nel calore della fazion religiosa son portati a
disprezzare le virtù profane della sincerità e della moderazione.
Consapevole di tali svantaggi, che continueranno ad involgere una parte
considerabile dell'istoria della decadenza e rovina del Romano Impero,
io camminerò con dubbiosi e timidi passi. Può affermarsi però
arditamente, che non fu mai vendicata la battaglia d'Adrianopoli da
veruna segnalata o decisiva vittoria di Teodosio contro i Barbari: e
l'espressivo silenzio dei venali oratori di lui si può confermare
dall'osservazione dello stato e delle circostanze dei tempi. La fabbrica
d'un potente Impero, che era sorto coll'opera di più secoli, non poteva
rovesciarsi dalla disgrazia di una sola giornata, se la forza fatale
dell'immaginazione non avesse esagerato la vera misura della calamità.
La perdita di quarantamila Romani, che perirono nelle pianure
d'Adrianopoli, poteva presto ripararsi nelle popolate Province
dell'Oriente, che contenevano tanti milioni di abitatori. Il coraggio di
un soldato è la qualità più a buon mercato e più comune della natura
umana; ed una sufficiente perizia per affrontare un nemico
indisciplinato, poteva in breve acquistarsi mediante la cura dei
Centurioni, che in vita eran rimasti. Se i Barbari s'erano impossessati
dei cavalli e delle armi dei vinti loro nemici, le copiose razze della
Cappadocia e della Spagna somministrar potevano nuovi squadroni di
cavalleria; i trentotto arsenali dell'Impero erano abbondantemente
forniti di magazzini di armi offensive e difensive; e la ricchezza
dell'Asia potea sempre concedere un ampio fondo per le spese della
guerra. Ma gli effetti, che produsse la battaglia d'Adrianopoli negli
animi dei Barbari o de' Romani estesero la vittoria de' primi, e la
disfatta de' secondi molto al di là dei limiti d'una sola giornata. Si
udì un Capitano Gotico protestare con insolente moderazione, che quanto
a sè era stanco della strage; ma si maravigliava come un popolo, che
fuggiva d'avanti a lui come un branco di pecore, ardisse ancora di
disputargli il possesso dei propri beni e delle Province[419]. Gli
stessi terrori, che aveva sparso fra le tribù Gotiche il nome degli
Unni, s'erano inspirati dal formidabil nome dei Goti fra' sudditi ed i
soldati dell'Impero Romano[420]. Se Teodosio avesse precipitosamente
raccolto le sparse sue truppe, e le avesse condotte in campo a fronte
d'un vittorioso nemico, il suo esercito sarebbe restato vinto dai propri
timori, nè l'incerta sorte del successo avrebbe scusato l'imprudenza del
Capitano. Ma il Gran Teodosio, titolo che onorevolmente si meritò in
questa importante occasione, si condusse da costante e fedel custode
della Repubblica. Piantò i suoi principali quartieri a Tessalonica,
capitale della Diocesi di Macedonia[421], d'onde poteva osservare gli
irregolari movimenti dei Barbari, e diriger le operazioni dei suoi
Luogotenenti, dalle porte di Costantinopoli fino ai lidi dell'Adriatico.
Si rinforzarono le guarnigioni e fortificazioni delle città; e le
truppe, nelle quali fu ravvivato un sentimento d'ordine e di disciplina,
ripresero insensibilmente coraggio per la confidenza della propria
salvezza. Da questi sicuri posti arrischiaronsi a fare delle frequenti
sortite su' Barbari, che infestavano l'addiacente campagna; e siccome
rare volte permettevasi loro l'attacco senza qualche decisivo vantaggio
o nel terreno o nel numero, le loro imprese furono per lo più fortunate,
e presto restarono persuasi per la propria esperienza della possibilità
di vincere gl'_invincibili_ loro nemici. Appoco appoco riunironsi in
piccole armate i distaccamenti di quelle divise guarnigioni; si
proseguirono i medesimi cauti passi a forma d'un esteso e ben concertato
piano di operazioni; i quotidiani successi accrescevan forza e coraggio
alle armi Romane, e l'artificiosa diligenza dell'Imperatore, che facea
circolare i più favorevoli ragguagli degli avvenimenti della guerra,
contribuì a domar l'orgoglio dei Barbari, e ad animar le speranze e
l'ardire dei proprj sudditi. Se in luogo di questi deboli ed imperfetti
delineamenti, si potessero con esattezza rappresentare i consigli e le
azioni di Teodosio in quattro successive campagne, vi è ragione di
credere, che la consumata perizia di lui meriterebbe l'applauso d'ogni
militare lettore. Le dilazioni di Fabio avevano anticamente salvato la
Repubblica; e mentre gli splendidi trofei di Scipione nella campagna di
Zama tirano a sè gli occhi della posterità, gli accampamenti e le marce
del Dittatore fra i colli della Campania hanno un ben giusto diritto a
quell'indipendente e solida fama, che il Generale non è costretto a
dividere nè con la fortuna nè con le truppe. Di tal sorta fu il merito
ancor di Teodosio; e la debolezza del suo corpo, che fu molto
inopportunamente attaccato da una lunga e pericolosa malattia, non potè
opprimere il vigore della sua mente, o deviarne l'attenzione dal
pubblico servigio[422].

[A. 379-382]

La liberazione e la pace delle Province Romane[423] fu opera più della
prudenza che del valore; la prudenza di Teodosio fu secondata dalla
fortuna; e l'Imperatore non mancò mai di trar profitto e vantaggio da
ogni favorevole circostanza. Finattantochè il superior genio di
Fritigerno conservò l'unione, e diresse i movimenti dei Barbari, la loro
forza fu capace della conquista d'un grande Impero. La morte di
quell'Eroe, predecessore e maestro del famoso Alarico, liberò
un'impaziente moltitudine dall'intollerabile giogo della disciplina e
della discrezione. I Barbari, ch'erano stati tenuti in freno dalla sua
autorità, s'abbandonarono ai dettami delle loro passioni; e queste di
rado erano coerenti o uniformi. Un'armata di conquistatori si divise in
molte disordinate bande di selvaggi ladroni; e la cieca ed irregolare
lor furia non fu meno dannosa a loro medesimi che ai nemici. Si vedeva
la cattiva loro disposizione nel distrugger che essi facevano qualunque
oggetto, che non avevan forza di trasportare, o buon gusto da godere; e
spesso consumarono con improvvida rabbia le raccolte o i granai, che
poco dopo divennero necessari alla lor sussistenza. Eccitossi uno
spirito di discordia fra quelle indipendenti nazioni e tribù, che non
s'erano unite che per mezzo dei vincoli d'una libera e volontaria
alleanza. Le truppe degli Unni e degli Alani dovevan naturalmente
rinfacciare a' Goti la fuga; e questi non eran disposti ad usar con
moderazione i vantaggi della fortuna: non potea più lungamente restar
sospesa l'antica gelosia fra gli Ostrogoti ed i Visigoti; ed i superbi
Capitani tuttora si rammentavan gl'insulti e le ingiurie che si eran
fatte reciprocamente, allorchè la nazione trovavasi al di là del
Danubio. Il progresso delle particolari fazioni abbatteva il più general
sentimento dell'animosità nazionale; e gli uffiziali di Teodosio avevan
ordine di comprare con liberali doni e promesse la ritirata o i servigi
del malcontento partito. L'acquisto di Modar, principe del sangue reale
degli Amali, diede un ardito e fedel campione alla parte Romana.
L'illustre disertore ottenne subito il posto di Generale con un
importante comando; sorprese un'armata di suoi nazionali, che erano
immersi nel sonno e nel vino; e dopo una crudele strage degli attoniti
Goti tornò con un'immensa preda di quattromila carri al campo
Imperiale[424]. Nelle mani d'un avveduto politico i mezzi più differenti
si possono utilmente dirigere ai medesimi fini; e la pace dell'Impero,
cominciata dalla divisione, fu compiuta dalla riunione dei Goti.
Atanarico il quale era stato paziente spettatore di quegli straordinari
avvenimenti, alla fine dell'evento delle armi fu tratto fuor dagli
oscuri nascondigli dei boschi di Caucaland. Egli non esitò più a passare
il Danubio, ed una parte molto considerabile dei sudditi di Fritigerno,
che aveva già provato gli incomodi dell'anarchia, facilmente s'indusse a
riconoscer per Re un Giudice Gotico, del quale rispettava la nascita, e
spesso aveva sperimentato l'abilità. Ma l'età avea raffreddato l'ardente
spirito d'Atanarico; ed invece di condurre il suo popolo al campo della
battaglia e della vittoria, diede orecchio prudentemente all'opportuna
proposizione d'un onorevole e vantaggioso trattato. Teodosio, che
conosceva il merito ed il potere del suo nuovo alleato, condiscese ad
incontrarlo alla distanza di più miglia da Costantinopoli; e lo trattò
nella città Imperiale con la confidenza d'un amico o colla magnificenza
d'un Monarca. «Il Barbaro Principe con curiosa attenzione osservò la
varietà degli oggetti, che a sè traevano i suoi occhi, e finalmente
proruppe in questa sincera e patetica esclamazione di meraviglia: Adesso
io miro, ciò che non avrei mai creduto, le glorie di questa Capitale
stupenda! E girando attorno gli occhi vide ed ammirò la dominante
situazione della città, la forza e bellezza delle mura e dei pubblici
edifizi, il capace porto, coronato d'innumerabili navi, il continuo
commercio di remote nazioni, e le armi e la disciplina delle truppe. In
verità, proseguì Atanarico, l'Imperator dei Romani è un Dio sopra la
terra; e l'uomo presontuoso, che ardisce d'alzar la mano contro di lui,
è reo del proprio sangue[425].» Il Gotico Re non potè goder lungamente
di quell'onorevol e splendido trattamento, e poichè la temperanza non
era la virtù della sua nazione, giustamente si può sospettare che la
mortale malattia di lui derivasse da' piaceri degl'Imperiali banchetti.
Ma la politica di Teodosio trasse un più solido vantaggio dalla morte di
lui che non avrebbe potuto aspettare dai più fedeli servigi del suo
alleato. Con solenni ceremonie si fece il funerale d'Atanarico, nella
capitale dell'Oriente; fu eretto un magnifico monumento alla sua
memoria; e tutta l'armata di esso, vinta dalla liberal cortesia e dal
decente lutto di Teodosio, s'arrolò sotto gli stendardi dell'Imperio
Romano[426]. La sommissione d'un corpo di Visigoti sì grande produsse le
più salutevoli conseguenze; e l'influsso della forza, della ragione e
della corruzione, unite insieme, divenne sempre più potente ed esteso.
Ogni Capitano indipendente affrettossi a fare un trattato a parte, pel
timore che un ostinato indugio non l'esponesse solo e senza difesa alla
vendetta o alla giustizia del vincitore. Si può fissare la data della
generale o piuttosto finale capitolazione dei Goti a quattro anni, un
mese e venticinque giorni dopo la disfatta e la morte dell'Imperator
Valente[427].

[A. 386]

Le Province del Danubio erano già sollevate dall'opprimente peso dei
Grutungi od Ostrogoti mediante la volontaria ritirata d'Alateo e di
Safrace, lo spirito inquieto dei quali avevagli mossi a cercare nuove
scene di rapina e di gloria. Il distruttivo loro corso era diretto verso
l'Occidente; ma noi dobbiamo contentarci d'un'oscura ed imperfetta
cognizione delle varie loro avventure. Gli Ostrogoti spinsero varie
tribù Germaniche nelle Province della Gallia; conclusero e tosto
violarono un trattato coll'Imperator Graziano; avanzaronsi nelle
incognite regioni del Norte; e dopo uno spazio di quattro anni tornarono
con maggiori forze alle rive del basso Danubio. Avevano reclutato i più
feroci guerrieri della Germania e della Scizia; ed i soldati o almeno
gli Istorici dell'Impero non conoscevan più il nome e gli aspetti dei
primi loro nemici[428]. Il Generale, che comandava le forze terrestri e
marittime della frontiera della Tracia, tosto s'accorse che la propria
superiorità sarebbe svantaggiosa pel pubblico servigio; e che i Barbari,
spaventati dalla presenza delle sue flotte e legioni, avrebbero
probabilmente differito il passaggio del fiume fino al prossimo inverno.
La destrezza delle spie, che esso mandò nel campo dei Goti, attirò i
Barbari in una rete fatale. Si lasciarono persuadere, che mediante un
ardito tentativo avrebber potuto sorprendere nel silenzio e
nell'oscurità della notte l'addormentato esercito dei Romani; e fu
precipitosamente imbarcata tutta la moltitudine in una flotta di tremila
canoe[429]. I più prodi fra gli Ostrogoti conducevano la vanguardia: il
corpo di mezzo era composto del rimanente dei loro sudditi e soldati; e
le femmine ed i fanciulli seguivano con sicurezza nella retroguardia.
Era stata scelta una notte senza luna per eseguire il disegno; ed erano
quasi giunti alla sponda meridionale del Danubio con la ferma fiducia di
trovare un facile sbarco ed un campo non guardato. Ma s'arrestò ad un
tratto il progresso dei Barbari da un ostacolo inaspettato, vale a dire
da una triplice fila di navi fortemente connesse l'una coll'altra, che
formavano un'impenetrabil catena di due miglia e mezzo lungo il fiume.
Mentre tentavano essi di aprirsi per forza la strada in un disuguale
combattimento, fu oppresso il lor destro fianco dall'irresistibile
attacco di una flotta di galere, che erano spinte giù pel fiume dalla
forza insieme dei remi e della corrente. Il peso e la velocità di quelle
navi da guerra ruppe, gettò a fondo, e disperse le rozze e deboli canoe
dei Barbari: inefficace tornò ad essi il loro valore; ed Alateo, Re o
Generale degli Ostrogoti, perì con le brave sue truppe, o sotto la spada
dei Romani, o nelle acque del Danubio. L'ultima divisione di
quell'infelice flotta poteva riguadagnare l'opposto lido; ma l'angustia
ed il disordine della moltitudine la rendè incapace di azione e di
consiglio; e tosto implorarono la clemenza dei vittoriosi nemici. In
questa occasione, ugualmente che in molte altre, è difficile di
conciliar le passioni ed i pregiudizi degli scrittori del secolo di
Teodosio. Il parziale e maligno Istorico, che altera qualunque azione
del suo regno, asserisce, che l'Imperatore non comparve nel campo di
battaglia, finattantochè i Barbari non furon vinti dal valore e dalla
condotta di Promoto, suo luogotenente[430]. L'adulante Poeta, che
celebrò nella Corte d'Onorio le glorie del padre e del figlio,
attribuisce la vittoria al personale valore di Teodosio; e quasi vuole
insinuare che il Re degli Ostrogoti fosse ucciso per mano
dell'Imperatore[431]. Si potrebbe forse trovare la verità dell'istoria
in un giusto mezzo fra queste estreme e contradditorie asserzioni.

[A. 383-395]

Il trattato originale, che fissò lo stabilimento dei Goti, che assicurò
i lor privilegi, e ne determinò le obbligazioni, servirebbe ad
illustrare la storia di Teodosio e de' suoi successori. La serie di
questa non ha che imperfettamente conservato lo spirito e la sostanza di
quel singolare accordo[432]. Le devastazioni della guerra e della
tirannide preparato avevano molti ampi tratti di fertile ma incolto
terreno per uso di quei Barbari, che non isdegnavano d'esercitarsi
nell'agricoltura. Fu posta una Colonia numerosa di Visigoti nella
Tracia; il resto degli Ostrogoti si trapiantò nella Frigia e nella
Lidia: si supplì agl'immediati loro bisogni con una distribuzione, che
loro si fece di bestiame e di grano; e se ne incoraggiò l'industria in
futuro, mercè di un'esenzione dai tributi per un certo numero di anni. I
Barbari avrebbero meritato di provare la perfida e crudel politica della
Corte Imperiale, se si fossero piegati ad esser dispersi per le
Province. Essi chiesero ed ottennero separatamente il possesso dei
villaggi e distretti, assegnati per loro abitazione: ritennero sempre e
propagarono il linguaggio ed i costumi loro nativi; sostennero in seno
del dispotismo la libertà del domestico loro governo; e riconobbero la
sovranità dell'Imperatore, senza sottoporsi all'inferior giurisdizione
delle leggi e dei magistrati di Roma. Fu sempre permesso ai Capi
ereditari delle tribù e delle famiglie di comandare in pace ed in guerra
i loro seguaci; ma fu abolita la dignità reale, ed i generali dei Goti
erano eletti e rimossi ad arbitrio dell'Imperatore. Si mantenne al
servizio continuo dell'Impero d'Oriente un'armata di quarantamila Goti;
queste superbe truppe, che prendevano il nome di _Foederati_, o alleati,
si distinguevano per le auree loro collane, per la generosa paga, e pei
larghi privilegi che avevano. S'accrebbe il nativo loro coraggio per
l'uso delle armi e per la cognizione della disciplina, e mentre la
Repubblica era difesa o minacciata dalla dubbiosa spada dei Barbari,
vennero finalmente ad estinguersi negli animi dei Romani le ultime
scintille dell'ardor militare[433]. Teodosio ebbe la destrezza di
persuadere ai suoi alleati, che le condizioni di pace, a cui l'avevano
tratto la necessità e la prudenza, non erano che volontarie espressioni
della sua sincera amicizia per la nazione dei Goti[434]. Si oppose poi
una maniera diversa di difesa o d'apologia alle querele del popolo, che
altamente censurava tali vergognose e pericolose concessioni[435]. Si
dipinsero coi più vivi colori le calamità della guerra; e diligentemente
s'esagerarono i primi sintomi della restaurazione del buon ordine,
dell'abbondanza e della sicurezza. Gli avvocati di Teodosio affermar
potevano con qualche apparenza di verità e di ragione, che era
impossibile d'estirpare tante bellicose tribù, ridotte alla disperazione
per la perdita del nativo loro paese; e che l'esauste Province sarebbero
tornate a vita, mediante un fresco sussidio di soldati e di agricoltori.
I Barbari serbavano sempre un acerbo ed ostile aspetto; ma la esperienza
del passato poteva animar la speranza, che avrebbero acquistato in
seguito l'abitudine dell'industria e dell'obbedienza; che si sarebbero
inciviliti i loro costumi mercè del tempo, dell'educazione e della forza
del Cristianesimo; e che la loro posterità si sarebbe appoco appoco fusa
nel gran Corpo del popolo Romano[436].

Non ostanti questi speciosi argomenti e queste grate speranze, ogni
occhio illuminato chiaramente vedeva, che i Goti sarebbero lungamente
restati nemici, e ben presto sarebber divenuti conquistatori del Romano
Impero. Il rozzo ed insolente loro contegno esprimeva il disprezzo, che
avevano dei cittadini e dei provinciali, che impunemente
insultavano[437]. Teodosio fu debitore del buon successo delle sue armi
allo zelo ed al valore dei Barbari, ma era precaria la loro assistenza;
e qualche volta furono indotti da una ribelle ed incostante disposizione
ad abbandonare i suoi stendardi, nel momento in cui v'era maggior
bisogno del loro servigio. Nella guerra civile contro Massimo, un gran
numero di disertori Goti si ritirò nelle paludose terre della Macedonia;
saccheggiarono le addiacenti Province, ed obbligarono l'intrepido
Monarca ad esporre la propria persona, e ad esercitar la sua forza per
sopprimere la nascente fiamma della ribellione[438]. Le pubbliche
apprensioni venivano confermate dal forte sospetto, che quei tumulti non
fossero l'effetto d'un accidentale trasporto, ma il risultato di un
profondo e premeditato disegno. Si credeva generalmente, che i Goti
avessero sottoscritto il trattato di pace con un'ostile ed insidiosa
intenzione; e che i loro Capi si fossero precedentemente legati fra loro
con un solenne e segreto giuramento di non mantener mai la fede ai
Romani, di mostrar la più bella apparenza di fedeltà e d'amicizia, e di
spiare il momento favorevole alla rapina, alla conquista ed alla
vendetta. Ma siccome gli animi dei Barbari non erano affatto insensibili
alla forza della gratitudine, molti condottieri Gotici sinceramente
attaccaronsi al servizio dell'Impero, o almeno dell'Imperatore; il corpo
della nazione fu appoco appoco diviso in due contrari partiti, e gran
sottigliezza impiegossi nella conversazione e nella disputa in
paragonare fra loro le obbligazioni del primo e del secondo dei loro
vincoli. I Goti, che si riguardavano come amici della pace, della
giustizia e di Roma, eran diretti dall'autorità di Fravitta, valoroso ed
onorato giovane, spettabile sopra gli altri suoi nazionali per la
gentilezza dei costumi, pei generosi sentimenti, e per le dolci virtù
della vita sociale. Ma la fazione più numerosa aderiva al fiero ed
infedele Priulfo, che infiammava le passioni, e sosteneva l'indipendenza
dei suoi guerrieri seguaci. In una delle feste solenni, essendo i Capi
di ambe le parti stati invitati alla mensa Imperiale, furono riscaldati
appoco appoco dal vino a tal segno, che dimenticarono i consueti
riguardi di discrezione e di rispetto, e scuoprirono alla presenza di
Teodosio il fatal segreto delle domestiche loro dispute. L'Imperatore,
ch'era stato contro sua voglia testimone di tale straordinaria
controversia, dissimulò i timori e lo sdegno, e tosto licenziò la
tumultuosa assemblea. Fravitta, agitato ed inasprito dall'insolenza del
suo rivale, la cui partenza dal palazzo avrebbe potuto essere il segno
d'una guerra civile, arditamente lo seguitò, e sfoderata la spada, stese
morto Priulfo ai suoi piedi. I loro compagni corsero alle armi; ed il
fedel campione di Roma sarebbe restato oppresso dal maggior numero, se
non fosse stato difeso dall'opportuna interposizione delle guardie
Imperiali[439]. Tali erano le scene del furore dei Barbari, che
disonoravano il palazzo e la mensa dell'Imperatore di Roma; e poichè
gl'impazienti Goti non potevano esser tenuti a freno, che dal fermo e
moderato carattere di Teodosio, pareva che la pubblica salute dipendesse
dalla vita e dall'abilità di un solo uomo[440].

NOTE:

[305] È tale il cattivo gusto d'Ammiano (XXVI; 10) che non è facile il
distinguere in esso i fatti dalle metafore. Pure egli positivamente
asserisce d'aver veduto lo scheletro imputridito d'una nave _ad secundum
lapidem_, a Metone o Modona nel Peloponneso.

[306] I terremoti e le innondazioni sono in varie guise descritte da
Libanio (_Orat. de ulcisc. Juliani nece. c. X. ap. Fabric. Biblioth.
Graec. Tom. VII. p. 158 con una dotta nota d'Oleario_,) da Zosimo (_l.
IV. p. 221_), da Sozomeno (_l. VI. c. 2_), da Cedreno (_p. 310-314_) e
da Girolamo (_in Chron. p. 186 e Tom. I. p. 250 in vit. Hilarion_.). La
città d'Epidauro sarebbe restata distrutta, se i prudenti cittadini non
avesser posto S. Illarione, monaco Egizio, sul lido. Egli vi fece il
segno della croce, la montagna si scosse, si fermò, piegossi, e tornò al
suo posto.

[307] Dicearco Peripatetico compose un trattato a posta per provare
questa verità ovvia, che non è la più onorevole alla specie umana:
Cicer. _de Offic_. II. 5.

[308] I primitivi Sciti d'Erodoto (l. IV. c. 47-57. 99. 101) avevano per
confini il Danubio e la palude Meotide, occupando uno spazio di 400
stadi (o 400 miglia Romane). Vedi Dauville _Mem. de l'Acad. Tom. XXV. p.
573-571_. Diodoro Siculo (Tom. I. _l. II. p. 155. Edit. Wesseling_) ha
notato i successivi progressi del nome e della nazione degli Sciti.

[309] I _Tatars_ o Tartari furono in origine una tribù; in seguito
rivali, e finalmente sudditi dei Mògolli. Nelle vittoriose armate di
Gengis-Kan e dei suoi successori, i Tartari formavano la vanguardia; ed
applicavasi a tutta la nazione il nome, che prima degli altri giungeva
alle orecchie degli stranieri: Freret _Hist. de l'Acad. Tom. XXV. p.
60_. Parlando di tutti o di alcuno dei popoli pastori settentrionali
dell'Europa o dell'Asia, promiscuamente mi servo dei nomi di _Sciti_ o
di _Tartari_.

[310] _Imperium Asiae ter quaesivere: ipsi perpetuo ab alieno Imperio
aut intacti aut invicti mansere_. Dal tempo di Giustino (II. 2.) in poi
essi hanno moltiplicato questo numero. Voltaire ha compendiato in poche
parole (Tom. X. p. 65. _Hist. Gener. c. 156_) le conquiste dei Tartari.

    «Spesso sulle tremanti nazioni da lontano
    «Ha la Scizia spirato il vivo nembo di guerra.

[311] Il quarto libro d'Erodoto somministra un curioso, benchè
imperfetto, ritratto degli Sciti. Fra' moderni che descrivono l'uniforme
loro vita, il Kan di Kowaresm Abulgazi Bahadur esprime i naturali suoi
sentimenti; e la sua storia genealogica dei Tartari è stata copiosamente
illustrata dagli editori Francesi e Inglesi. Carpin, Ascelin e Rubruquis
(_nell'Istor. dei viaggi Tom. VII_.) rappresentano i Mogolli del secolo
XIV. A queste guide ho aggiunto Gerbillon, e gli altri Gesuiti
(_Descript. de la Chine par du Halde Tom. IV_.) che hanno esattamente
osservato la Tartaria Chinese, e l'onesto ed intelligente viaggiatore
Bell d'Antermony (2. Vol. in 4. _Glasg_. 1763).

[312] Gli Usbecchi son quelli che più si sono allontanati dai lor
primitivi costumi 1. per causa della religion Maomettana che professano,
2. per il possesso che hanno delle città e delle raccolte della gran
Bucaria.

[313] _Il est certain, que, les grands mangeurs de viande sont en
général cruels et féroces plus que les autres hommes. Cette observation
est de tous les lieux et de tous les temps: la barbarie Anglaise est
connue: Emil. de Rousseau Tom. I. p. 274_. Qualunque sia l'opinione che
abbiamo di questa osservazione in generale, non accorderemo facilmente
la verità dell'esempio addotto. Le oneste querele di Plutarco ed i
patetici lamenti di Ovidio ci seducono la ragione con eccitar la nostra
sensibilità.

[314] Tali emigrazioni Tartare si sono scoperte dal sig. di Guignes
(_Hist. des Huns Tom._ I. II.) abile e laborioso interprete della lingua
Chinese, il quale ha aperto in tal guisa nuove ed importanti scene
nell'istoria dell'uman genere.

[315] I Missionari trovarono, che una pianura nella Tartaria Chinese,
distante non più d'ottanta leghe dalla gran muraglia, era superiore
tremila passi geometrici al livello del mare. Montesquieu, il quale ha
fatto uso ed abuso delle relazioni dei viaggiatori, deduce le
rivoluzioni dell'Asia da questa importante circostanza, che il caldo ed
il freddo, la debolezza e la forza si toccano fra loro senza una zona
temperata di mezzo: (_Esprit des Loix l. XXII. c. 3_).

[316] Petit de la Croix (_vie de Gengiskan l. III. c. 7_) rappresenta
tutta la gloria ed estensione della caccia Mogolla. I Gesuiti Gerbillon
e Verbiest seguivano l'Imperatore Kamhi nella caccia di Tartaria
(Duhalde _Descritp. de la Chine_ T. IV p. 81, 290. _edit. in fol._).
Kienlong, nipote di lui, che congiunge la disciplina dei Tartari con le
leggi e la cultura della China, descrive da poeta (_Elog. de Moukden_ p.
273. 285) i piaceri, che aveva spesso goduto alla caccia.

[317] Vedi il Tomo II. dell'Istoria genealogica dei Tartari, e le liste
dei Kan, al fine della vita di Gengis o Zingis. Nel regno di Timur, o
Tamerlano, uno de' suoi soggetti, discendente di Gengis, usava sempre il
regio nome di Kan, ed il conquistatore dell'Asia contentossi del titolo
d'Emir, o di Sultano. Abulgazi P. V. c. 4. D'Herbelot. _Bibl. Orien. p.
878._

[318] Vedi le diete dogli antichi Unni (De Guignes Tom. II. p. 26), ed
una curiosa descrizione di quelle di Gengis (_vie de Gengiskan. l. I. c
6. l. IV. c. 11_). Si fa menzione di tali assemblee frequentemente
nell'istoria Persiana di Timur, quantunque non servissero esse che a
confermar le risoluzioni del loro Signore.

[319] Montesquieu s'affatica per ispiegare una differenza, che non
sussiste, fra la libertà degli Arabi e la _perpetua_ schiavitù de'
Tartari (_Espr. des Loix l. XVII. c. 5. l. XVIII. c. 19 ec._).

[320] Abulgazi Kan riferisce, nelle prime due parti della sua storia
Genealogica, le misere favole e tradizioni de' Tartari Usbecchi, intorno
a' tempi anteriori al regno di Gengis.

[321] Nel XIII. libro dell'Iliade Giove da' sanguinosi campi di Troja
rivolge gli occhi alle pianure della Tracia e della Scizia. Cangiando
ogggetto, ei non potea vedere una scena più piacevole o più innocente.

[322] Tucidide _l. II c. 97._

[323] Vedi il lib. IV. d'Erodoto. Allorchè Dario avanzossi nel deserto
di Moldavia, fra il Danubio ed il Niester, il Re degli Sciti gli mandò
un topo, una rana, un uccello e cinque dardi: formidabile allegoria!

[324] Posson trovarsi tali guerre ed eroi sotto i respettivi lor titoli
nella Biblioteca orientale dell'Herbelot. Se ne sono celebrate le geste
in un poema epico di sessantamila coppie di versi rimati da Ferdusi,
l'Omero Persiano. Vedi l'Istoria di Nader Shah p. 145, 165. Il Pubblico
si dee dolere che il sig. Jones abbia sospeso le sue ricerche
d'erudizione orientale.

[325] S'illustra laboriosamente il mar Caspio co' suoi fiumi e le
addiacenti Tribù nell'_Esame critico degli Storici d'Alessandro_, dove
si paragona la vera geografia con gli errori prodotti dalla vanità o
dalla ignoranza de' Greci.

[326] Sembra che la sede originale della nazione fosse al Norte-Ovest
della China nelle province di _Chensi o Chansi_. Sotto le due prime
Dinastie, la città principale fu sempre un campo amovibile; eran sparsi
raramente i villaggi; s'impiegava più terra in pasture, che per
l'agricoltura: l'esercizio della caccia era diretto a purgare il paese
dalle bestie selvagge; Petcheli (dove ora è Pekino) era un deserto: e le
province meridionali eran popolate da selvaggi Indiani. La dinastia di
Han (206 anni avanti Cristo) diede all'Impero la forma ed estensione
attuale.

[327] Si è fissata in diverse guise l'Era della Monarchia Chinese
dell'anno 2952 fino al 2132 avanti Cristo; e si è scelto per legittima
epoca l'anno 2637 per ordine dell'Imperatore presente. Tal differenza
nasce dall'incerta durata delle prime due Dinastie, e dallo spazio
vacante fra loro sino a veri o favolosi tempi di Fohi o Hoangti.
Sematsien principia la autentica sua cronologia dall'anno 841. Le
trentasei ecclissi di Confucio (trentuna delle quali si sono verificate)
s'osservarono fra gli anni 722 e 480 avanti Cristo. Il _periodo
Istorico_ della China non ascende più alto delle Olimpiadi Greche.

[328] Dopo vari secoli d'anarchia e di despotismo la Dinastia di Han
(206 anni avanti Cristo) fu l'epoca del risorgimento delle lettere.
Furon ristaurati i frammenti dell'antica letteratura; migliorato e
fissato il carattere; ed assicurata in futuro la conservazione de' libri
mercè delle utili invenzioni dell'inchiostro, della carta e della
stampa. Novantasette anni prima di Cristo, Sematsien pubblicò la prima
storia della China. Lo sue fatiche furono illustrate e continuate da una
serie di cent'ottanta Storici. Tuttavia sussiste la sostanza delle
opere, e si trovano attualmente depositate le più considerabili di esse
nella libreria del Re di Francia.

[329] La China è stata illustrata dalle fatiche de' Francesi, vale a
dire de' Missionari a Pekino e de' Sigg. Freret e de Guignes a Parigi.
Le precedenti tre note son tratte dal _Chouking_ con la prefazione e le
note di Guignes, Parigi 1770, dal _Tong-kien-kang-mou_ tradotto dal P.
de Mailla col titolo d'_Hist. générale de la Chine Tom._ I. _p._ XLIX.
_CC._, dalle _memorie sulla China Parigi_ 1776. _ec. Tom._ I. _p._
1-323. _Tom._ II _p._ 5-56, dall'_Istoria degli Unni Tom._ I. _p._
6-131. _Tom._ V. _p._ 345-362 e dalle _Memorie dell'Accad. delle Iscriz.
Tom._ X. _p._ 377-402. _Tom._ XV _p._ 495-564. _Tom._ XVIII. _p._
178-295. _Tom._ XXXVI. _p._ 164-238.

[330] Vedi l'_Istor. gener. de' Viaggi Tom._ XVIII. e l'_Istoria
Genealogica vol._ II. _p._ 620-664.

[331] Il Guignes (_Tom._ II. _p._ 1-124) ha fatto l'istoria originale
degli antichi Hiong-nou o Unni. La geografia Chinese del lor territorio,
(_Tom. I. Part._ II. _p._ LV. LXIII) par che contenga una parte delle
loro conquiste.

[332] Vedasi appresso Duhalde (_Tom._ IV. _p._ 28-65) una circostanziata
descrizione con una corretta carta del paese de' Mongussi.

[333] Gl'Iguri o Viguri eran divisi in tre classi; in cacciatori,
pastori ed agricoltori, e quest'ultima era sprezzata dalle altre due.
Vedi Abulgazi _Par._ II. _c._ 7.

[334] _Memoir. de l'Acad. des Inscript. Tom._ XXV. _p._ 17-33. L'estesa
veduta del Guignes ha confrontato questi lontani avvenimenti fra loro.

[335] Sono tuttavia celebri nella China la fama di Sovou o So-ou, il suo
merito e le singolari di lui avventure. Vedi l'_elogio di Moukden p._
20. _net. p._ 241-247. e le _Memoir. sur la Chine Tom._ III. _p._
317-360.

[336] Vedi Isbrand Jves nella collezione d'Harris _vol._ II. _p._ 931, i
viaggi di Bell _vol._ I. _p._ 247-254 e Gmelin nell'_Ist. gen. de'
viaggi Tom._ XVII. _p._ 283 329. Notano tutti la volgare opinione, che
il _mar Santo_ diviene torbido e tempestoso, se alcuno ardisce di
chiamarlo _Lago_. Questa minuzia grammaticale eccita spesse dispute fra
l'assurda superstizione dei marinari e l'assurda ostinazione de'
viaggiatori.

[337] La costruzione della muraglia della China vien mentovata dal
Duhalde (Tom. II. p. 45), e dal Guignes (T. II. p. 59).

[338] Vedi la vita di Lieoupang o Kaoti nell'_Istoria della, China_
pubblicata a Parigi 1777 cc. T. I. p. 441, 522. Quest'opera voluminosa è
la traduzione fatta dal P. Mailla del _Tong-kien-kang-Mou_, che è il
celebre compendio della grande storia di Sema Kouang (an. 1084) e dei
suoi continuatori.

[339] Vedasi un libero ed ampio memoriale presentato da un Mandarino
all'Imperator Vouti (an. avanti Cristo 180, 157) appresso Duhalde (Tom.
II. p. 412-426) tratto da una raccolta di fogli pubblici notati col
pennello rosso da Kamhi medesimo (p. 384-612). Un altro memoriale fatto
dal ministro di guerra Kan-Mou (Tom. II. p. 555) somministra varie
curiose circostanze de' costumi degli Unni.

[340] Si fa menzione di una quantità di donne come d'un articolo
consueto di trattato o di tributo: _Storia della conquista della China
fatta dai Tartari Mantsciù, Tom._ I. _p._ 186. 187 _con la nota
dell'Editore_.

[341] De Guignes _Hist. des Huns_ Tom. II. p. 62.

[342] Vedi il regno dell'Imperator Vouti nel _Kang-Mou_ Tom. III, p.
1-98. Sembra, che il vario ed incoerente carattere di lui sia
imparzialmente delineato.

[343] Si usa tale espressione nel memoriale all'Imperator Vouti:
_Duhalde Tom._ IV. _p._ 417. Senza adottare l'esagerazioni di Marco Polo
e d'Isacco Vossio, noi possiamo ragionevolmente accordare a Pekino due
milioni d'abitatori. Le città Meridionali, che contengono le manifatture
della China, sono anche più popolate.

[344] Vedi il Kang-Mou Tom. III. p. 150 ed i fatti successivi, sotto i
respettivi lor anni. Questa memorabile festa è celebrata nell'elogio di
Moukden, e spiegata in una nota dal P. Gaubil p. 89, 90.

[345] Quest'inscrizione fu composta sul luogo medesimo da Pankou,
Presidente del Tribunale d'Istoria (Kang-Mou T. III. p. 392). Si sono
scoperti altri simili monumenti in molte parti della Tartaria (_Hist.
des Huns_ Tom. II. p. 122).

[346] Il Guignes ha inserito nel T. I. p. 189 una breve notizia de'
Sienpi.

[347] L'Era degli Unni si fissa dai Chinesi all'anno 1210 prima di
Cristo. Ma la serie dei loro Re non comincia che all'anno 230 (_Hist.
des Huns_ Tom. II. p. 21. 123).

[348] Si riferiscono i vari accidenti della caduta e della fuga degli
Unni nel Kang-Mou Tom. III. p. 88, 91, 95, 139: il piccolo numero di
ciascheduna Orda si può attribuire alle loro perdite e divisioni.

[349] Il Guignes ha dottamente investigato le tracce degli Unni per i
vasti deserti della Tartaria. Tom. II. p. 123, 277, 225, ec.

[350] Regnava nella Sogdiana Maometto, Sultano di Carizme, quando essa
fu invasa (l'anno 1218) da Gengis e dai suoi Mogolli. Gl'istorici
Orientali (Vedi d'Herbelot, Petit della Croix ec.) celebrano le popolate
città, che ei rovinò, e le fertili campagne da lui devastate. Nel
seguente secolo furon descritte le medesime province di Corasmia e di
Maccaralnahr da Abulfeda (Hudson _Geog. minor. Tom._ III). Se ne può
veder la presente miseria nell'_Istoria genealogica dei Tartari, pag._
423-469.

[351] Giustino (XLI. 6.) ha fatto un breve compendio dei Re Greci della
Battriana. Io attribuirei all'industria loro il nuovo e straordinario
commercio, che trasportava le mercanzie dell'India nell'Europa per mezzo
dell'Osso, del mar Caspio, del Ciro, dal Fasi e del ponto Eussino. Le
altre strade sì terrestri che marittime erano in possesso dei Seleucidi
e dei Tolomei. Vedi _l'Esprit des Loix l._ 21.

[352] Procopio: _de Bello Persic. l._ I. c. 3. p. 5.

[353] Nel secolo decimoterzo il Monaco Rubruguis (che attraversò
l'immensa pianura di Kipzak nel suo viaggio alla Corte del gran Kan)
osservò il nome speciale di _Ungheria_ coi vestigi d'una lingua ed
origine comune. _Hist. des Voyag. Tom. VII. p. 269._

[354] Bell (Vol. I. p. 29-34), e gli Editori dell'Istoria Genealogica
(p. 539) hanno descritto i Calmucchi del Volga nel principio del
presente secolo.

[355] Questa gran transmigrazione di 300000 Calmucchi o Torguti seguì
l'anno 1771. L'original narrazione di Kien-Long, Imperatore della China
regnante, che fu fatta per servir d'inscrizione ad una colonna, è stata
tradotta dai Missionari di Pekino: _Memoir. sur la Chine Tom._ I. p.
401-418. L'Imperatore affetta in essa il dolce e specioso linguaggio di
figlio del Cielo, e di padre del suo popolo.

[356] Kang-Mou (Tom III. p. 447) attribuisce alle lor conquiste uno
spazio di 14000 lì. Secondo la misura presente, 200 (o più esattamente
193) lì son uguali ad un grado di latitudine; e per conseguenza un
miglio Inglese è maggiore di tre miglia della China. Ma vi sono forti
ragioni di credere, che l'antico lì appena fosse la metà del moderno.
Vedi l'elaborate ricerche del Danville, Geografo informato di qualunque
tempo o clima del globo; _Mem. de l'Academ. T. II. p. 125-502: Mesur.
Itiner. p. 154-167._

[357] Vedi _l'Istoria degli Unni Tom. II. p. 125-144._ La successiva
storia (p. 145-277) di tre o quattro Dinastie di Unni, prova
evidentemente, che una lunga dimora nella China non servì a diminuire il
loro spirito marziale.

[358] _Utque hominibus quietis et placidis otium est voluptabile, ita
illos pericula juvant et bella. Judicatur ibi beatus, qui in praelio
profuderit animam: senescentes etiam et fortuitis mortibus mundo
digressos ut degeneres et ignavos conviciis atrocibus insectantur._
Bisogna concepire una ben alta idea dei conquistatori di _tali_ uomini.

[359] Intorno agli Alani, vedi Ammiano (XXXI. 2), Giornandes (_De reb.
Getic. c. 24_), Guignes _(Hist. des Huns Tom. II. p. 279_), e l'Istor.
Genealog. dei Tartari (Tom. II. p. 617).

[360] Siccome abbiamo l'autentica storia degli Unni, non sarebbe a
proposito il ripetere o confutare le favole che male rappresentan
l'origine ed i progressi loro, il passaggio, che fecero, della palude o
dell'acqua Meotide nella caccia di un bove o d'un cervo, le Indie che
avevano scoperte ec. (Zosimo l. IV. p. 224. Sozomeno l. VI. c. 37.
Procop. _Hist. Miscell. c. 5._ Giornandes c. 24 _Grandeur et decad. des
Rom. c. 17_).

[361] _Prodigiosae formae et pandi, ut bipedes existimes bestias; vel
quales in commarginandis pontibus effigiati stipites dolantur incompti._
(Ammiano XXXI. 1). Giornandes (c. 24) dipinge con forte caricatura la
faccia d'un Calmucco. _Species pavenda nigredine... quaedam deformis
offa, non facies habensque magis puncta, quam lumina:_ Vedi Buffon
_Hist. nat. Tom. III. p. 380._

[362] Tale esecranda origine, che Giornandes (c. 24) descrive col
rancore d'un Goto, può esser derivata in principio da qualche più
piacevole favola dei Greci (Erodoto l. IV. c. 9).

[363] I Rossolani possono essere i padri de' Ρως _Russis_
(Danville _Empire de Russie p. 1-10_) la residenza de' quali (nell'anno
862) verso Novogrod Veliki non può esser molto lontana da quella che ai
Rossolani assegna (nell'an. 886) il Geografo di Ravenna (I. 11 IV. 4.
46, V. 28. 30).

[364] Il testo d'Ammiano pare imperfetto o corrotto; ma la natura del
terreno spiega, e quasi determina la difesa Gotica. _Mem. de l'Acad.
Tom._ XXVIII. p. 444, 462.

[365] Il Buat (_Hist. des Peuples de l'Europ. T._ VI. _p. 407_) ha
concepito una strana idea, che Alavivo fosse l'istesso che Ulfila
Vescovo Gotico, e che Ulfila, nipote d'un prigioniero della Cappadocia,
divenisse per un dato tempo Principe dei Goti.

[366] Ammiano (XXXI. 3.) e Giornandes (_de reb. Getic. c. 24_)
descrivono la sovversione dell'Impero Gotico fatta dagli Unni.

[367] La cronologia d'Ammiano è oscura ed imperfetta. Il Tillemont si è
affaticato per ischiarire e fissare gli annali di Valente.

[368] Zosim. l. IV. p. 223. Sozom. l. VI. c. 38. Gl'Isauri solevano
infestar nell'inverno le strade dell'Asia minore fino alle vicinanze di
Costantinopoli. Basilio _Ep._ 250. _ap. Tillemont. Hist. des Emper.
Tom._ V. _p._ 106.

[369] Si descrive il passaggio del Danubio da Ammiano (XXXI. 1. 4), da
Zosimo (l. IV. p. 223. 224), da Eunapio (_in Except. legat. p._ 19. 20)
e da Giornandes (c. 25. 26). Ammiano dichiara (c. 5) che intende solo
_ipsas rerum digerere summitates_; ma spesso fa un giudizio falso
dell'importanza delle cose; e l'eccessiva prolissità di lui vien
malamente bilanciata da una brevità fuor di tempo.

[370] Chishull, curioso viaggiatore, ha notato la larghezza del Danubio,
ch'ei passò al Mezzodì di Bucarest vicino alla congiunzione dell'Argish
(p. 77). Egli ammira la bellezza e la spontanea fertilità della Mesia o
Bulgaria.

[371]

    Quem qui scire velit, Libyci velit aequoris idem
    Discere, quam multae Zephyro turbentur arenae.

Ammiano ha inserito nella sua prosa questi versi di Virgilio (_Georg.
l._ II) usati dal poeta per esprimere l'impossibilità di numerare le
varie specie di viti. Vedi Plinio _Hist. Nat. l._ XIV.

[372] Eunapio e Zosimo enumerano esattamente questi articoli di
ricchezza e di lusso Gotico. Conviene però supporre, che fossero
manifatture delle province, che i Barbari avevano acquistate come
spoglie di guerre, o come doni o prezzo di pace.

[373] _Decem libras_: bisogna sottintendervi la parola _d'argento_.
Giornandes manifesta le passioni ed i pregiudizi di un Goto. I servili
Greci Eunapio e Zosimo mascherano l'oppressione Romana, ed abominano la
perfidia dei Barbari. Ammiano, Istorico patriotico, tocca leggermente e
contro voglia quest'odioso soggetto. Girolamo, che scrisse quasi sul
luogo, è sincero, quantunque breve: _Per avaritiam Maximi Ducis ad
rebellionem fame coacti sunt: in Chron._

[374] Ammiano XXXI. 4, 5.

[375] _Vexillis de more sublatis, auditisque_ triste sonantibus
classicis: Ammian. XXXI 5. Questi sono i _rauca cornua_ di Claudiano
(_in Rufin. II._ 57) i grossi corni dell'_Uri_, o del toro selvatico,
quali si sono recentemente usati dai Cantoni Svizzeri d'Uri e
d'Untervald (Simler _de Republ. Hel. lib._ II. _p._ 201 _edit. Fuselin.
Tigur._ 1734). S'introduce delicatamente, sebben forse a caso, il loro
corno militare in una original narrazione della battaglia di Nancy
(dell'anno 1477): _Attendant le combat le dit cor fut corné par trois
fois, tant que le vent du corneur pouvoit durer, ce qui estbahit fort
Monsieur de Bourgoigne_; car dejà à Morat l'avoit ouy. (Vedi _les Pieces
justificat. nell'ediz. in_ 4. _di Filippo di Comines Tom._ III. _p._
493).

[376] Giornandes _de reb. Getic. c._ 26. _p._ 648. _Edit. Grot._ Questi
_splendidi panni_ (tali considerar si debbono relativamente) senza
dubbio son tratti dall'Istorie più estese di Prisco, d'Ablavio o di
Cassiodoro.

[377] _Cum populis suis longe ante suscepti._ Noi non sappiamo
precisamente la data e le circostanze della loro trasmigrazione.

[378] Era stabilita in Adrianopoli una fabbrica Imperiale di scudi ec.
ed alla testa del popolo si trovavano i _Fabricensi_ o artefici (_Vales.
da Ammian._ XXXI. 6).

[379] _Pacem sibi esse cum parietibus memorans_: Ammiano XXXI. 7.

[380] Queste miniere erano nel paese dei Bessi sulla cima della montagna
di Rodope fra Filippi e Filippopoli, due città della Macedonia, che
traevano il nome e l'origine dal Padre d'Alessandro. Dalle mine della
Tracia ricavava egli annualmente il valore, non già il peso di mille
talenti (200000 lire sterl.); rendita che serviva a pagar la Falange ed
a corromper gli oratori della Grecia. Vedi Diodor. Sicul. Tom. II. l.
XVI. p. 88. _Edit. Wesseling_, Gotofred. _Comment. al Cod. Teodos._ T.
III. _p._ 496, Celar. _Geogr. ant. Tom._ I. _p._ 676. 857, Danville
_Geogr. anc. Tom._ I. _p._ 336.

[381] Poichè quegli infelici lavoratori spesso fuggivano, Valente avea
promulgato rigorose leggi per trarli dai lor nascondigli. _Cod. Teodos.
l._ X. _Tit._ XIX. _leg._ 5. 7.

[382] Vedi Ammiano XXXI. 5. 6. L'Istorico della guerra Gotica perde il
tempo e la carta con una intempestiva ricapitolazione delle antiche
incursioni dei Barbari.

[383] L'Itinerario d'Antonino (p. 226. 527. _Edit. Wesseling._) pone
questo luogo circa sessanta miglia al Nord di Tomi, esilio d'Ovidio; ed
il nome di _Salices_ (Salci) esprime la natura del suolo.

[384] Questo recinto di carri (_il Carrago_) era la consueta
fortificazione dei Barbari (Veget. _de re milit. l._ III. _c._ 10.
Vales. _ad Ammiano_ XXXI. 7). Se n'è conservato l'uso ed il nome da' lor
discendenti fino al secolo XV. Il _Carriaggio_, che circonda l'esercito,
è un termine famigliare ai lettori di Froissard o Comines.

[385] _Statim ut accensi malleoli._ Ho usato il senso litterale di torce
o fuochi reali, mo ho qualche sospetto che tal espressione non sia che
una di quelle turgide metafore, di quei falsi ornamenti, che
continuamente deturpano lo stile di Ammiano.

[386] _Indicant nunc usque albentes ossibus campi_: Ammiano XXXI. 7.
Potè l'Istorico aver veduto quelle terre in qualità o di soldato o di
viaggiatore. Ma la sua modestia ha soppresso le avventure della propria
vita posteriori alle guerre Persiane di Costanzo e di Giuliano. Non
sappiamo in qual tempo egli abbandonasse la milizia e si ritirasse a
Roma, dove pare che abbia composto l'Istoria de' suoi Tempi.

[387] Ammiano XXXI. 8.

[388] _Hanc Taifalorum gentem turpem et obscoena vita flagitiis ita
accipimus mersam, ut apud eos nefandi concubitus foedere copulentur
mares puberes aetatis viriditatem in eorum pollutis usibus consumpturi.
Porro si qui jam adultus aprum exceperit solus: vel interemit ursum
immanem, colluvione liberatur incesti_: Ammiano XXXI 9. In simil guisa
fra' Greci, e più specialmente fra i Cretesi i santi vincoli
dell'amicizia eran confermati e macchiati da un amore contro natura.

[389] Ammiano XXXI. 8. 9. Girolamo (Tom. I. p. 26) enumera le nazioni e
indica un calamitoso periodo di venti anni. La sua lettera ad Eliodoro
fu scritta nel 397. Tillemont _Mem. Eccles. Tom._ XII. _p._ 645.

[390] Viene esattamente determinato il campo di battaglia, _Argentaria_
o _Argentovaria_, dal Danville (_Not. de l'anc. Gaul._ p. 96. 99) a
ventitre leghe Galliche o a miglia trentaquattro e mezzo Romane al Sud
di Strasburgo. Dalle sue rovine è sorta la vicina città di _Colmar_.

[391] La piena ed imparzial narrazione d'Ammiano (XXXI. 10.) può trarre
qualche luce di più dall'Epitome di Vittore, dalla Cronica di Girolamo,
e dall'Istoria d'Orosio (l. VII c. 33. p. 552. _edit. Havercamp._).

[392] _Moratus paucissimos dies seditione popularium levium pulsus:_
Ammiano XXXI. 11. Socrate (l. IV. c. 38.) supplisce alle date e ad
alcune circostanze.

[393] _Vivosque omnes circa Mutinam, Regiumque: et Parmam Italica
oppida, rura culturos exterminavit:_ Ammiano XXXI. 9. Quelle città e
distretti, circa dieci anni dopo la Colonia dei Taifali, compariscono in
uno stato molto desolato. Vedi Muratori _Diss. sopra le antich. Ital.
Tom. I. Diss. XXI. p. 354._

[394] Ammiano XXXI. 11. Zosimo l. IV. p. 228-230. Quest'ultimo si
diffonde nelle passate azioni di Sebastiano, e sbriga in pochi versi
l'importante battaglia d'Adrianopoli. Secondo i Critici Ecclesiastici,
che detestano Sebastiano, la lode, che gli dà Zosimo, gli fa disonore
(Tillemont _Hist. des Emper. Tom. V. p. 121_). Il pregiudizio e
l'ignoranza di esso lo rendono certamente un molto equivoco giudice del
merito.

[395] Ammiano (XXXI. 11, 13) è quasi solo a descrivere i consigli e le
azioni che andarono a finire nella fatal battaglia d'Adrianopoli. Noi
possiam censurare in vero i difetti del suo stile, il disordine e
l'ambiguità delle sue narrazioni; ma dovendo adesso restare privi di
questo imparziale Istorico, il dispiacere che abbiamo per tale
irreparabile perdita, impone silenzio ai rimproveri.

[396] La differenza fra le otto miglia d'Ammiano e le dodici d'Idazio
non può imbarazzare che quei Critici (Vales. _ibid_.), i quali
suppongono, che un grande esercito sia un punto matematico senza spazio
o dimensione.

[397] _Nec ulla annalibus praeter Cannensem pugnam ita ad internecionem
res legitur gesta._ Ammiano XXXI. 13. Secondo il grave Polibio non si
salvarono dal campo di Canne più di 670 cavalli e di 3000 fanti; 10000
ne furono fatti schiavi; ed il numero degli uccisi ascese a 5630 cavalli
e 70000 fanti: Polib. T. III. p. 371. _Edit. Casaub._ 8. Tito Livio
(XXII. 49.) è un poco men sanguinoso: ei riduce la strage a 2700 cavalli
ed a 40000 fanti. Fu supposto, che l'esercito Romano fosse composto di
87200 uomini effettivi (XXII. 36).

[398] Abbiam preso qualche tenue lume da Girolamo (_T. I. p. 26, e in
Cron. p. 188_), da Vittore (in _Epitom._), da Orosio (_l. VII. c. 33. p.
554_), da Giornandes (_c. 27_), da Zosimo (_l. IV. p. 230_), da Socrate
(_l. IV. c. 38_), da Sozomeno (_l. IV. c. 40_), da Idazio (_in Cron._).
Ma la testimonianza di essi tutti uniti insieme, paragonata col solo
Ammiano, è debole ed insufficiente.

[399] Libanio _de ulc. Jul. nece_ ap. Fabric. _Bibl. Gr. T. VII p.
146-148._

[400] Valente avea guadagnato o piuttosto comprato l'amicizia dei
Saracini, dei quali si erano già provate le moleste incursioni sulle
frontiere della Fenicia, della Palestina e dell'Egitto. S'era introdotta
di fresco la fede Cristiana in un popolo ch'era destinato a propagare in
seguito un'altra religione: Tillemont (_Hist. des Emper. Tom. V. p. 104.
106. 141. Mem. Ec. Tom. VII. p. 593_).

[401] _Crinitus quidam nudus omnia praeter pubem subraucum et lugubre
strepens._ Ammiano XXXI. 16. e Vales. _Ib._ Gli Arabi spesso
combattevano nudi, uso che si può attribuire al caldo lor clima e ad
un'ostentata bravura. La descrizione di quest'incognito selvaggio è il
vivo ritratto di Dorar, nome così terribile pei Cristiani della Siria.
Vedi Ockley _Stor. dei Sarac. vol. I. p. 72. 84. 87._

[402] Può tuttavia investigarsi la serie degli eventi nelle ultime
pagine d'Ammiano (XXXI. 15. 16). Zosimo (l. IV. p. 227. 231.), del quale
siamo adesso costretti a tener conto, sbaglia nel porre la sortita degli
Arabi avanti la morte di Valente. Eunapio (_in Excerpt. Leg. p. 20_)
loda la fertilità della Tracia, della Macedonia ec.

[403] S'osservi con quanta indifferenza racconta Cesare nei commentari
della guerra Gallica, ch'ei pose a morte tutto il Senato de' Veneti, che
gli si era reso a discrezione (l. III. 16), che si sforzò d'esterminare
tutta la nazione degli Eburoni (VI. 31), che a Bourges furono trucidate
quarantamila persone per la giusta vendetta de' suoi soldati, i quali
non risparmiaron nè sesso, nè età (VII. 27).

[404] Tali sono i racconti del sacco di Magdeburgo fatti
dall'Ecclesiastico e dal Pescatore, che Harte ha tradotto (_Ist. di
Gustavo Adolfo vol. I. p. 313-320_), con qualche timore di violare la
_dignità_ dell'Istoria.

[405] _Et vastatis urbibus, hominibusque interfectis, solitudinem et_
raritatem bestiarum _quoque fieri, et_ volatilium pisciumque: _testis
Illiricum est, testis Thracia, testis, in quo ortus sum solum_
(Pannoniae?) _ubi praeter caelum et terram et crescentes vepres et
condensa sylvarum cuncta_ perierunt. Tom. VII. _p. 250. ad. I. cap.
Sophon. e Tom. I. p. 20._

[406] Eunapio (_in Excerpt. Leg. p. 20_), pazzamente suppone un
accrescimento soprannaturale nei giovani Goti, a fine di poter
introdurre gli uomini armati di Cadmo, che nacquero dai denti del
dragone ec. Tale era la Greca eloquenza di quel tempo.

[407] Ammiano evidentemente approva quest'esecuzione, _efficacia, velox
et salutaris_, con che termina la sua opera (XXXI-16). Zosimo, che è
curioso ed abbondante (l. IV. p. 233-253), sbaglia la data, e si studia
di trovare la ragione, per cui Giulio non consultò l'Imperator Teodosio,
che non era per anche salito sul trono d'Oriente.

[408] Fu composta nel secolo passato una vita di Teodosio il Grande
(_Parig. 1679 in 4, 1680 in 12_), per infiammare di zelo cattolico lo
spirito del giovin Delfino. Flechier, autore di essa, poi Vescovo di
Nimes, era un celebre predicatore e la sua storia è adornata o guastata
dall'eloquenza del pulpito; ma egli prende le notizie dal Baronio ed i
principj da S. Ambrogio e da S. Agostino.

[409] Si descrive la nascita, il carattere e l'innalzamento di Teodosio
da Pacato (_in Paneg. vet. XII. 10. 11. 12_), da Temisio (_Orat. XIV. p.
182_), da Zosimo (l. IV. p. 231), da Agostino (_de Civ. Dei V. 15_), da
Orosio (l. VII. c. 33), da Sozomeno (l. V. c. 2), da Teodoreto (lib. V.
c. 5), da Filostorgio (l. IV. c. 17 _col Gotofredo_ p. 393),
nell'Epitome di Vittore e nelle Croniche di Prospero, d'Idazio, di
Marcellino, nel _Thesaur. tempor._ di Scaligero, ec.

[410] Tillemont _Hist. des Emper. Tom. V. p. 716._ ec.

[411] _Italica_, fondata da Scipione Affricano pei feriti suoi veterani
d'Italia. Se ne vedono tuttavia le rovine circa una lega sopra Siviglia,
ma dall'opposta parte del fiume. Vedasi l'_Ispania illustrata_ di Nonio;
breve ma stimabil trattato: c. XVII. p. 64-67.

[412] Io convengo col Tillemont (_Hist. des Emper. T. V. p. 726_) nel
sospetto intorno alla Real genealogia di Teodosio, che rimase occulta
fino alla promozione di esso. Anche dopo di questa il silenzio di Pacato
contrabilancia la venal testimonianza di Temistio, di Vittore e di
Claudiano, che uniscono la famiglia di Teodosio al sangue di Trajano e
di Adriano.

[413] Pacato paragona e conseguentemente preferisce la gioventù di
Teodosio alla militar educazione d'Alessandro, di Annibale e del secondo
Affricano, i quali avevan militato, com'esso, sotto i lor genitori. XII.
8.

[414] Ammiano fa menzione di questa vittoria che riportò: _Theodosius
Junior Dux Mesiae prima etiam tum lanugine juvenis, princeps postea
perfectissimus._ Il medesimo fatto s'attesta da Temistio e da Zosimo; ma
Teodoreto (l. V c. 5 ), che vi aggiunge alcune curiose circostanze,
l'applica male a proposito al tempo dell'interregno.

[415] Pacato (_in Paneg. vol. XII. 9._) preferisce la vita rustica di
Teodosio a quella di Cincinnato; l'una era effetto della scelta, l'altra
della povertà.

[416] Danville (_Geogr. Anc. Tom. I._ p. 25) ha fissato la situazione di
Cauca o Coca nell'antica Provincia di Galizia, in cui Zosimo ed Idazio
hanno posto la nascita o il patrimonio di Teodosio.

[417] Udiamo Ammiano medesimo: _Haec, ut miles quondam et Graecus, a
principatu Caesaris Nervae exorsus, adusque Valentis interitum, pro
virium explicavi mensura, nunquam, ut arbitror, sciens silentio ausus
corrumpere vel mendacio. Scribant reliqua potiores aetate, doctrinisque
florentes. Quos id, si libuerit, aggressuros, procudere linguas ad
majores moneo stylos._ Ammiano XXXI. 16. I primi tredici libri, che sono
un epitome superficiale di dugentocinquantasette anni, ora sono perduti:
gli ultimi diciotto, che non contengono più di venticinque anni, ci
conservano ancora una copiosa ed autentica storia de' suoi tempi.

[418] Ammiano fu l'ultimo suddito di Roma che componesse un'istoria
profana in lingua Latina. L'Oriente, nel secolo dopo, produsse alcuni
storici retori, come Zosimo, Olimpiodoro, Malco, Candido ec. Vedi Vossio
_de Histor. Graec. l. II c. 18. De Histor. Latin. l. II. c. 10._

[419] Grisostom. _T. I. pag. 344. edit. Montfauc._ Io ho riscontrato ed
esaminato questo passo; ma senza l'aiuto del Tillemont (_Hist. des
Emper. Tom. V. p. 152_) non avrei mai potuto scoprire un aneddoto
storico in uno strano miscuglio di mistiche e morali esortazioni,
indirizzate dal Predicator d'Antiochia ad una giovane vedova.

[420] Eunap. _in Excerpt. Legat. p. 21._

[421] Vedi Gotofredo _Cronol. delle Leggi. Cod. Teod. T. I. Proleg. p.
XCIX. CIV._

[422] Molti scrittori si fermano assai nella malattia e nella lunga
dimora di Teodosio a Tessalonica. Zosimo per diminuir la sua gloria;
Giornandes per favorire i Goti; e gli Autori Ecclesiastici per dar luogo
al suo Battesimo.

[423] Si paragoni Temistio (_Orat. XIV. p. 181_) con Zosimo (l. IV. p.
232) con Giornandes (c. XXVII. p. 649) e col prolisso commento del conte
di Buat (_Hist. des Peupl. Tom. VI. p. 477-552_). Le Croniche d'Idazio e
di Marcellino alludono, in termini generali, _a magna certamina_, magna
multaque _praelia_. I due epiteti non sono da conciliarsi facilmente.

[424] Zosimo l. IV. p. 232 lo chiama Scita, nome che sembra dai Greci
più moderni essersi applicato ai Goti.

[425] Al Lettore non dispiacerà di vedere le parole originali di
Giornandes o dell'autore ch'egli trascrive: _Regiam urbem ingressus est,
miransque, en_ (inquit) _cerno quod saepe incredulus audiebam, famam
videlicet tantae urbis. Et huc illuc oculos volvens nunc situm urbis
commeatumque navium, nunc moenia clara prospectans, miratur, populosque
diversarum gentium quasi fonte in uno e diversis partibus scaturiente
unda sic quoque militem ordinatum aspiciens. Deus, inquit, est sine
dubio terrenus imperator, et quisquis adversus eum manum moverit, ipse
sui sanguinis reus existit:_ Giornandes (_c. XXVIII. p. 650_) passa a
far menzione della sua morte e dei suoi funerali.

[426] I brevi ed autentici cenni, che si trovano nei _Fasti_ d'Idazio
(_Chron. Scalig. p. 52_) son macchiati dalla passione di un
contemporaneo. L'orazione quarantesima di Temistio è un complimento alla
Pace ed al Console Saturnino (An. 383).

[427] Giornandes c. XXVIII. p. 650. Anche Zosimo (l. IV p. 246) è
costretto a lodare la generosità di Teodosio, tanto onorevole per esso,
e vantaggiosa pel Pubblico.

[428] Εθνος το Σκεθικον πασιν αγνωυον, _Gente Scitica, ignota
a tutti_: Zosimo _l. IV. p. 252_.

[429] Io sono autorizzato dalla ragione e dall'esempio ad applicare
questo nome Indiano ai μονοξυλα, _navicelle fatte d'un sol albero_,
dei Barbari, che sono alberi scavati in forma di battelli,
πληθει μονοξυλων εμβιβασαντες: _traghettando con una moltitudine di
monoxuli_: Zosimo _lib. IV p. 253_.

    _Ausi Danubium quondam tranare Gruthungi._
    _In lintres fregere nemus: ter mille ruebant_
    _Per fluvium plenae cuneis immanibus alni._

                         Claudian. in IX. Cons. Hon. 623.

[430] Zosimo l. IV. p. 252-255. Ei troppo spesso dimostra la sua
scarsezza di giudizio, deturpando le più serie sue narrazioni con minute
ed incredibili circostanze.

[431] _Retulit... Odothaei Regis opima._

V. 6. Le spoglie _opime_ eran quelle che un Generale Romano potea
guadagnare solamente sopra un Re o un Generale nemico, ucciso da esso
con le proprie mani; e nei secoli vittoriosi di Roma non se ne contano
più di tre esempi.

[432] Vedi Temistio _Orat. XVI. p. 211_. Claudiano (_in Eutrop. l. II.
p. 152_) fa menzione della Colonia Frigia...

    _... Ostrogothis colitur mistisque Gruthungis_
    _Phryx ager_...

E quindi passa a nominare il Pattolo e l'Ermo, fiumi della Lidia.

[433] Si paragonino fra loro Giornandes (c. XX. 27) che nota la
condizione ed il numero dei confederati Gotici, Zosimo (l. IV. p. 258),
che fa menzione degli aurei loro collari, e Pacato (_in Paneg. vet. XII.
37_), che applaudisce con falsa o stolta gioia alla disciplina e bravura
loro.

[434] _Amator pacis generisque Gothorum._ Questa è la lode, che gli dà
l'Istorico Goto (c. XXIX), che rappresenta la sua nazione come composta
di uomini pacifici, lenti alla collera, e pazienti delle ingiurie.
Secondo T. Livio, i Romani non conquistarono il Mondo che per
difendersi.

[435] Oltre le parziali invettive di Zosimo (sempre malcontento dei
Principi Cristiani) vedansi le gravi rappresentanze, che Sinesio
indrizza all'Imperatore Arcadio (_de Regno p. 25. 26. Edit. Petav_). Il
filosofo Vescovo di Cirene era vicino abbastanza per giudicare, ed
abbastanza lontano per non esser tentato dal timore e dall'adulazione.

[436] Temistio (_Orat. XVI. p. 211. 212_) compose un'elaborata e
ragionevole apologia, che per altro non è esente dalle puerilità della
Greca rettorica. Orfeo potè solo allettare le bestie selvagge della
Tracia; ma Teodosio incantò gli uomini e le donne, dai predecessori dei
quali Orfeo nell'istesso luogo era stato fatto in pezzi ec.

[437] Costantinopoli fu privata, mezzo un giorno, della pubblica
distribuzione di pane per espiar l'uccisione d'un soldato Gotico:
κυουντες τον Σκυθικον etc. (aver ammazzato uno Scita) fu il
delitto del popolo. Liban. _Orat. VII. p. 394. Edit. Morel._

[438] Zosimo t. IV. p. 267. 271. Egli racconta una lunga e ridicola
storia dell'avventuroso principe, che scorse il paese con soli cinque
cavalieri, di uno spione che essi scuoprirono, batterono ed uccisero
nella capanna di una vecchia ec.

[439] Si confronti Eunapio (_in Excerpt. Legat. p. 21. 22_), con Zosimo
(l. IV. p. 279). Deve senza dubbio applicarsi alla medesima storia la
differenza delle circostanze e dei nomi. Fravitta o Travitta in seguito
fu Console, nell'anno 401, e continuò nel fedele servizio del figlio
maggiore di Teodosio (_Tillemont Hist. des Emp. Tom. _V. p. 467).

[440] _I Goti messero tutto a sacco dal Danubio fino al Bosforo;
esterminarono Valente e il suo esercito, e non ripassarono il Danubio,
che per abbandonar l'orribile solitudine, che avevan fatto_ (Oeuvres de
Montesquieu T. III p. 479. Considérations sur les causes de la grand. et
de la decad. des Rom. c. 17). Il Presidente di Montesquieu sembra avere
ignorato che i Goti, dopo la disfatta di Valente, non abbandonarono mai
il territorio Romano. Sono adesso trent'anni, dice Claudiano (_de Bell.
Getic_. 166. ec. An. 404),

    _Ex quo jam patrios gens haec oblita Triones,_
    _Atque Istrum transvecta semel, vestigia fixit_
    _Threicio funesta solo...._



CAPITOLO XXVII.

      _Morte di Graziano. Rovina dell'Arrianesimo. S. Ambrogio. Prima
      guerra civile contro Massimo. Carattere, amministrazione e
      penitenza di Teodosio. Morte di Valentiniano II. Seconda guerra
      civile contro Eugenio. Morte di Teodosio._


Non aveva Graziano ancor finita l'età di venti anni, che la sua fama
uguagliava già quella dei più celebri Principi. La gentile ed amabile
indole sua rendevalo caro agli amici privati, e la graziosa affabilità
delle sue maniere impegnava l'affezione del popolo. I Letterati, che
godevano della generosità del loro Sovrano, ne riconoscevano il gusto e
l'eloquenza; i militari applaudivano ugualmente il valore e la destrezza
di esso nelle armi; e si risguardava dal Clero l'umile pietà di
Graziano, come la prima e la più vantaggiosa delle sue virtù. La
vittoria di Colmar aveva liberato l'Occidente da una formidabile
invasione; e le grate Province dell'Oriente attribuivano i meriti di
Teodosio all'autore della grandezza di lui e della pubblica salute.
Graziano non sopravvisse a tali memorabili fatti che quattro o cinque
anni; sopravvisse però alla propria riputazione, ed avanti che cadesse
vittima della ribellione, aveva perduto in gran parte il rispetto e la
fiducia del Mondo Romano.

L'errore è inescusabile, poichè travisa la principale ed immediata
cagione della caduta dell'Impero Occidentale di Roma.

La notabile alterazione del carattere o della condotta di esso non può
imputarsi nè agli artifizi della adulazione, che fino dall'infanzia
circondato avevano il figlio di Valentiniano, nè alle forti passioni,
dalle quali sembra, che quel moderato giovane fosse libero. Un più
accurato esame della vita di Graziano può suggerire per avventura la
vera causa, per cui restaron deluse le pubbliche speranze. Le apparenti
virtù di lui, invece d'essere un difficil prodotto dell'esperienza e
dell'avversità, erano i prematuri ed artificiali frutti d'un'educazione
reale. L'ansiosa tenerezza di suo padre era continuamente occupata in
procurargli quei vantaggi, de' quali aveva forse tanto maggiore stima,
quanto meno egli stesso ne avea goduto; ed i più abili maestri d'ogni
scienza e d'ogni arte s'erano affaticati a formar lo spirito e il corpo
del giovane Principe[441]. Con ostentazione faceva uso delle notizie,
che essi con gran fatica gli comunicavano, e queste gli procuravano da
tutti prodighe lodi. La molle e docile sua disposizione riceveva
facilmente la impronta dei giudiziosi loro precetti, ed era facile il
prendere una mancanza di passione per forza di raziocinio. I suoi
precettori furono appoco appoco innalzati al grado ed all'autorità di
Ministri di Stato[442]; e siccome saviamente dissimulavano la segreta
loro influenza, parve, ch'egli agisse con fermezza, a proposito, e con
giudizio nelle più importanti occasioni della sua vita e del suo regno.
Ma la forza di questa elaborata istruzione non penetrò al di là della
superficie; ed i periti maestri, che con tanta cura guidavano i passi
del loro allievo reale, non poterono inspirar nel debole ed indolente
carattere di lui quel vigoroso ed indipendente principio d'azione, che
rende la ricerca laboriosa della gloria essenzialmente necessaria alla
felicità, e quasi all'esistenza dell'Eroe. Appena il tempo ed il caso
ebbero allontanati quei fedeli consiglieri dal trono, l'Imperator
d'Occidente insensibilmente discese al livello del naturale suo genio,
abbandonò le redini del governo a quelle ambiziose mani, che erano già
stese per prenderle, e passò il suo tempo nelle più frivole occupazioni.
Gl'indegni delegati del suo potere, del merito dei quali era un
sacrilegio il dubitare[443], instituirono un pubblico mercimonio di
favore e d'ingiustizia sì nella Corte che nelle Province. Si dirigeva la
coscienza del credulo Principe da' Santi e dai Vescovi[444], i quali
procurarono un editto Imperiale per punire come capitale delitto la
violazione, la negligenza, o anche l'ignoranza della divina legge[445].
Fra i diversi esercizi, nei quali s'era occupata la gioventù di
Graziano, erasi egli applicato con particolar genio e successo a
maneggiare i cavalli, a tender l'arco ed a scagliare il giavellotto; e
queste abilità, che potevano essere utili per un soldato, restarono
prostituite nel più vile oggetto della caccia. Si formarono vasti parchi
pei divertimenti Imperiali, furono abbondantemente forniti d'ogni specie
di bestie selvagge; e Graziano trascurava i doveri ed eziandio la
dignità del suo grado per consumar le intere giornate nella vana
ostentazione di destrezza e d'ardire nel cacciare. La vanità, e il
desiderio, che aveva il Romano Imperatore, di esser eccellente in
un'arte, in cui avrebbe potuto esser superato dall'infimo de' suoi
schiavi, rammentava ai numerosi spettatori gli esempi di Nerone e di
Commodo; ma il casto e moderato Graziano era alieno dai mostruosi lor
vizi; e le sue mani non furon macchiate che dal sangue degli
animali[446].

La condotta di Graziano, che avviliva il suo carattere agli occhi del
Mondo, non avrebbe potuto disturbare la sicurezza del suo regno, se non
si fosse provocato l'esercito a risentirsi delle particolari sue
ingiurie. Finattantochè il giovane Imperatore fu guidato dalle
istruzioni dei suoi maestri, si professò amico e quasi sotto la tutela
dei soldati; consumava molte ore nella famigliar conversazione del
campo; e la salute, il sollievo, i premi, gli onori delle fedeli sue
truppe sembrava che fossero l'oggetto delle premurose cure di lui. Ma
dopo che Graziano secondò più liberamente il dominante suo gusto per la
caccia e per lo scagliare de' dardi, fece naturalmente lega coi ministri
più destri del suo favorito divertimento. Fu ammesso al servizio
militare e domestico del palazzo un corpo di Alani; e l'ammirabile
abilità che essi erano assuefatti ad usare nelle immense pianure della
Scizia, veniva esercitata in un più angusto teatro, quali erano i parchi
ed i chiusi recinti della Gallia. Graziano ammirava i talenti ed i
costumi di tali favorite guardie, alle quali sole affidava la difesa
della sua persona: e come se avesse voluto insultare la pubblica
opinione, spesse volte si facea vedere ai soldati ed al popolo con
l'abito e le armi, con il lungo arco, la risuonante faretra e
l'abbigliamento di pelli a foggia di Scita guerriero. L'indegno
spettacolo di un Principe Romano, che avea rinunziato alle vesti ed ai
costumi del proprio paese, riempì gli animi delle legioni di dispiacere
e di sdegno[447]. Fino i Germani, sì forti e formidabili negli eserciti
dell'Impero, affettavano di sdegnare lo strano ed orrido aspetto dei
selvaggi del Norte, che nello spazio di pochi anni eran giunti dalle
rive del Volga a quelle della Senna. Si sollevò per le armate e per le
guarnigioni dell'Occidente un alto e licenzioso mormorio, e siccome la
molle indolenza di Graziano trascurò d'estinguere i primi sintomi di
dissapore, non si supplì alla mancanza d'amore e di rispetto dal poter
del timore. Ma la sovversione d'uno stabilito governo è sempre una opera
di qualche reale e di molta apparente difficoltà; ed il trono di
Graziano era difeso dalle sanzioni del costume, della legge, della
religione e di quella delicata bilancia fra le forze civili e militari,
ch'erasi stabilita dalla politica di Costantino. Non è di grande
importanza il cercar per quali cause fosse prodotta la rivoluzione della
Britannia. Dal caso comunemente nasce il disordine: avvenne che i semi
della ribellione caddero in un terreno, che si supponeva più fecondo in
tiranni ed usurpatori di qualunque altro[448]; le legioni di
quell'isola, separata dal resto dell'Impero, erano state lungo tempo
famose per uno spirito di presunzione e d'arroganza[449]; e fu
proclamato il nome di Massimo dalla tumultuaria ma unanime voce tanto
dei soldati che de' Provinciali. L'Imperatore o il ribelle, mentre il
suo titolo non era per anche assicurato dalla fortuna, era nativo di
Spagna, del medesimo paese, compagno nella milizia e rivale di Teodosio,
di cui non avea veduto l'innalzamento senza qualche movimento d'invidia
e di sdegno: le avventure della sua vita l'avevano da gran tempo
stabilito nella Britannia; ed io non sarei alieno dal trovarne qualche
fondamento nel matrimonio, che si dice avere egli contratto con la
figlia d'un ricco Signore della Contea di Caernarvon[450]. Ma potrebbe
giustamente riguardarsi questo posto provinciale come uno stato d'esilio
e d'oscurità; e se pure Massimo aveva ottenuto qualche uffizio civile o
militare, non era investito dell'autorità nè di Governatore nè di
Generale[451]. Gli scrittori parziali di quel tempo confessano l'abilità
ed anche l'integrità di esso, e realmente fa d'uopo che fosse un merito
assai cospicuo quello, che potè estorcere tal confessione in favore del
vinto nemico di Teodosio. La malcontentezza di Massimo potè forse
disporlo a censurar la condotta del suo Sovrano, e ad incoraggiare senza
forse alcuna mira d'ambizione il mormorio delle truppe. Ma in mezzo al
tumulto egli artificiosamente o modestamente ricusò di salire sul trono;
e sembra che si prestasse qualche fede alla positiva sua dichiarazione,
che fu costretto ad accettare il pericoloso dono della porpora
Imperiale[452].

Era però ugualmente pericoloso il ricusare l'Impero; e dal momento, in
cui Massimo avea mancato alla fedeltà verso il legittimo suo Sovrano, ei
non poteva sperar di regnare, e neppur di vivere, se limitava la sua
moderata ambizione dentro gli angusti confini della Britannia. Con
ardire e con prudenza risolvè di prevenire i disegni di Graziano; la
gioventù dell'isola corse in folla a' suoi stendardi, ed invase la
Gallia con una flotta ed un esercito che lungo tempo dopo si rammentava
come l'emigrazione d'una considerabil parte della nazione
Britannica[453]. L'ostile avvicinamento loro pose in agitazione
l'Imperatore nella pacifica sua residenza di Parigi; ed i dardi, che
egli oziosamente impiegava contro gli orsi ed i leoni, avrebber potuto
con più onore adoprarsi contro i ribelli. Ma i deboli suoi sforzi
annunziavano il degenerato animo e la disperata situazione di esso; e lo
privarono de' ripieghi, che pure avrebbe potuto trovare nel soccorso de'
propri sudditi e degli alleati. Le truppe della Gallia, invece d'opporsi
alla marcia di Massimo, lo riceverono con liete e leali acclamazioni; e
la vergogna della diserzione passò dal Popolo al Principe. I soldati,
che per la lor situazione erano più immediatamente addetti al servizio
del palazzo, abbandonarono lo stendardo di Graziano, la prima volta che
fu spiegato nelle vicinanze di Parigi. L'Imperator d'Occidente fuggì
verso Lione con un treno di soli trecento cavalli, e nelle città lungo
la strada, nelle quali sperava di trovare un rifugio o almeno un libero
passo, apprese con crudele esperienza, che ogni porta è chiusa per gli
sfortunati. Contuttociò egli avrebbe potuto giunger sicuro negli stati
del suo fratello, e tosto ritornar con le forze dell'Italia e
dell'Oriente, se non si fosse lasciato fatalmente ingannare dal perfido
Governatore della Provincia Lionese. Graziano fu trattenuto dalle
proteste di una dubbiosa fedeltà e dalle speranze di un soccorso, che
non poteva esser efficace, finattantochè l'arrivo di Andragazio,
Generale della cavalleria di Massimo, pose fine al suo inganno. Questo
risoluto uffiziale eseguì senza rimorso gli ordini o le intenzioni
dell'usurpatore. Nell'alzarsi da cena, Graziano fu dato nelle mani
dell'assassino: e fu negato fino il suo corpo alle pressanti e pietose
istanze del fratello Valentiniano[454]. La morte dell'Imperatore fu
seguita da quella del potente suo generale, Mellobaude Re dei Franchi,
il quale fino all'ultimo istante della sua vita mantenne quell'ambigua
riputazione, che è la giusta ricompensa dell'oscura e sottile
politica[455]. Tali esecuzioni poterono forse esser necessarie per la
pubblica sicurezza; ma il fortunato usurpatore, il cui potere fu
riconosciuto da tutte le Province dell'Occidente, ebbe il merito e la
soddisfazione di vantare, che ad eccezione di quelli che eran periti
nella battaglia, il suo trionfo non fu macchiato dal sangue Romano[456].

Le avventure di questa rivoluzione si succederono con tanta rapidità,
che sarebbe stato impossibile per Teodosio di marciare in aiuto del suo
benefattore, prima di ricever notizia della disfatta e della morte di
esso. Nel tempo che un sincero dispiacere o un ostentato lutto occupava
l'Imperatore Orientale, arrivò alla sua Corte il principal Ciamberlano
di Massimo; e la scelta d'un venerabile vecchio per un uffizio, che
ordinariamente si esercitava da Eunuchi, annunziò alla Corte di
Costantinopoli la gravità e la temperanza dell'usurpatore Britannico.
L'ambasciatore condiscese a giustificare o scusar la condotta del suo
Signore, ed a protestare in uno specioso linguaggio, che l'uccision di
Graziano si era fatta senza saputa o consenso di lui dal precipitoso
zelo dei soldati. Ma procedè ad offerire a Teodosio, in un fermo ed
ugual tuono, l'alternativa della pace o della guerra. Il discorso
dell'ambasciatore terminò con un'animosa dichiarazione, che quantunque
Massimo, e come Romano e come padre del proprio popolo, avrebbe voluto
piuttosto impiegar le proprie forze nella comun difesa della Repubblica,
pure trovavasi armato e pronto, qualora si fosse rigettata la sua
amicizia, a disputare in un campo di battaglia l'Impero del Mondo. Si
richiedeva una perentoria ed immediata risposta; ma era sommamente
difficile per Teodosio il soddisfare, in quest'importante occasione o ai
sentimenti dell'animo suo o all'espettazione del pubblico. L'imperiosa
voce dell'onore e della gratitudine altamente gridava per la vendetta.
Egli ricevuto aveva il diadema Imperiale dalla liberalità di Graziano;
la sua pazienza avrebbe confermato l'odioso sospetto, ch'ei fosse più
profondamente mosso dalle antiche ingiurie che dalle recenti
obbligazioni; e se accettava l'amicizia dell'assassino, pareva che fosse
a parte ancor del delitto. Anche i principj della giustizia e del social
interesse ricevuto avrebbero un fatal colpo dall'impunità di Massimo: e
l'esempio d'una fortunata usurpazione poteva tendere a sciogliere
l'artificial fabbrica del governo, e ad immergere un'altra volta
l'Impero nei delitti e nelle miserie de' tempi trascorsi. Ma siccome i
sentimenti di gratitudine e d'onore dovrebbero costantemente regolar la
condotta d'un privato, così nella mente d'un Sovrano possono cedere al
sentimento di più importanti doveri; e le massime tanto di giustizia che
d'umanità debbon permettere che impunito resti un atroce delinquente, se
un innocente popolo involgasi nelle conseguenze della sua pena.
L'assassino di Graziano aveva usurpato, è vero, l'Imperio, ma
attualmente ne possedeva le più bellicose Province; ma esaurito era
l'Oriente dalle disgrazie, ed eziandio dal buon successo della guerra
Gotica; e seriamente ci avea da temere, che, dopo che la vital forza
della Repubblica si fosse consumata in una dubbiosa e distruttiva
contesa, il debole vincitore fosse per restare una facile preda ai
Barbari Settentrionali. Queste importanti riflessioni impegnaron
Teodosio a dissimulare il suo sdegno, e ad accettar l'alleanza del
tiranno. Ma stipulò, che Massimo si dovesse contentare di posseder le
Province oltre le alpi. Il fratello di Graziano fu confermato ed
assicurato nella sovranità dell'Italia, dell'Affrica e dell'Illirico
occidentale; ed inserite furono nel trattato alcune onorevoli condizioni
per conservar la memoria e le leggi del defunto Imperatore[457]. Secondo
il costume di quel tempo, furono esposte alla venerazione del popolo le
immagini dei tre Imperiali colleghi, nè dovrebbe leggermente supporsi,
che nell'istante d'una solenne riconciliazione, Teodosio nutrisse un
segreto disegno di tradimento e di vendetta[458].

[A. 380]

Il disprezzo di Graziano pei soldati Romani l'aveva esposto a' fatali
effetti del loro sdegno. La sua profonda venerazione pel clero Cristiano
riportò in premio l'applauso e la gratitudine d'un ceto potente, che in
ogni tempo si è arrogato il privilegio di dispensare onori sì in terra
che in Cielo[459]. I Vescovi Ortodossi piansero la sua morte e
l'irreparabile loro perdita; ma furono ben presto consolati dal
conoscere, che Graziano avea posto lo scettro dell'Oriente nelle mani
d'un Principe, l'umile fede e fervente zelo del quale venivan sostenuti
dallo spirito e dall'abilità d'un carattere più vigoroso. Fra'
benefattori della Chiesa, la gloria di Teodosio è rivale della fama di
Costantino. Se questo ebbe il vantaggio d'innalzar lo stendardo della
croce, l'emulazione del suo successore s'acquistò il merito di soggiogar
l'eresia d'Arrio, e d'abolire il culto degl'idoli nel Mondo Romano.
Teodosio fu il primo Imperatore che fosse battezzato nella vera fede
della Trinità. Quantunque fosse nato da una famiglia Cristiana, le
massime o almeno la pratica di quel secolo il trassero a differire la
ceremonia della sua iniziazione, finattantochè una seria malattia, che
ne minacciò la vita verso il fine del primo anno del suo regno,
l'avvertì del pericolo della dilazione. Avanti di riaprir la campagna
contro i Goti, ricevè il sacramento del Battesimo[460] da Acolio,
Vescovo ortodosso di Tessalonica[461]: ed appena l'Imperatore uscì dal
sacro fonte, tutto acceso degli ardenti sentimenti di rigenerazione,
dettò un solenne editto, che pubblicava la propria fede, e prescriveva
la religione ai suoi sudditi: «È nostra volontà (tal è lo stilo
Imperiale) che tutte le nazioni, governate dalla moderazione e clemenza
nostra, costantemente aderiscano alla religione, che da S. Pietro fu
insegnata ai Romani, che si è conservata dalla fedel tradizione, e che
ora si professa dal Pontefice Damaso e da Pietro Vescovo d'Alessandria,
uomo d'Apostolica Santità. Secondo la disciplina degli Apostoli e la
dottrina del Vangelo, crediamo la sola Divinità del Padre, del
Figliuolo, e dello Spirito Santo, sotto una Maestà uguale ed una pia
Trinità. Autorizziamo i seguaci di questa dottrina ad assumere il titolo
di Cristiani Cattolici; e siccome stimiamo, che tutti gli altri sieno
stravaganti pazzi, li notiamo coll'infame nome di eretici, e dichiariamo
che le lor conventicole non abbiamo più ad usurpare la rispettabil
denominazione di Chiese. Oltre la condanna della divina giustizia,
debbono aspettarsi di soffrir le severe pene, che la nostra autorità,
guidata da celeste sapienza, crederà proprio d'infligger loro»[462]. La
fede d'un soldato è comunemente il frutto dell'istruzione, piuttosto che
della ricerca; ma siccome l'Imperatore teneva sempre fissi gli occhi su'
termini visibili dell'ortodossia, ch'egli aveva sì prudentemente
stabiliti, le religiose opinioni di lui non furono mai alterate dagli
speciosi testi, dai sottili argomenti e dalle ambigue formule dei
dottori Arriani. Una volta, in vero, dimostrò qualche debole
inclinazione a conversare coll'eloquente e dotto Eunomio, che viveva in
ritiro ad una piccola distanza da Costantinopoli; ma fu impedito il
pericoloso congresso dalle preghiere dell'Imperatrice Flaccilla, che
tremava per la salute del marito; e restò confermato l'animo di
Teodosio, mediante un argomento teologico, adattato alla più rozza
capacità. Egli aveva dato di fresco ad Arcadio, suo maggior figlio, il
nome e gli onori d'Augusto; ed i due Principi stavano assisi sopra un
magnifico trono a ricever l'omaggio de' loro sudditi. Un Vescovo,
Anfilochio d'Icone, s'accostò al trono, e dopo d'aver salutato con la
dovuta riverenza la persona del suo Sovrano, trattò il real giovanetto
coll'istessa famigliar maniera, che avrebbe potuto usare verso un
fanciullo plebeo. Il Monarca, irritato da tale insolente contegno, diede
ordine, che tosto fosse cacciato dalla sua presenza quel rozzo Ministro.
Ma nel tempo che le guardie lo spingevano verso la porta, il destro
Polemico ebbe luogo d'eseguire il suo disegno, ad alta voce esclamando:
«Tal è il trattamento, o Imperatore, che il Re del Cielo ha preparato a
quegli empi, che affettano di venerare il Padre, ma negano di
riconoscere l'uguale Maestà del divino suo Figlio». Teodosio
immediatamente abbracciò il Vescovo d'Icone; e non dimenticò più
l'importante lezione, che avea ricevuto da questa drammatica
parabola[463].

Costantinopoli era la sede e la fortezza principale dell'Arrianesimo; e
per il lungo spazio di quarant'anni[464] la fede de' Principi e dei
Prelati, che dominavano nella Capitale dell'Oriente, fu rigettata nelle
scuole più pure di Roma e d'Alessandria. La sede Archiepiscopale di
Macedonia, che era stata macchiata di tanto sangue Cristiano, s'occupò
successivamente da Eudosso e da Demofilo. Nella loro diocesi il vizio e
l'errore godevano una libera introduzione da ogni provincia dell'Impero;
le ardenti ricerche intorno alle controversie di religione
somministravano un'occupazione di più all'affaccendata oziosità della
Metropoli; e possiam prestar fede all'asserzione d'un intelligente
osservatore che descrive, con qualche piacevolezza, gli effetti del
loquace loro zelo: «Questa città (egli dice) è piena di artisti e di
schiavi, che son tutti profondi Teologi, e predicano nelle botteghe e
nelle strade. Se bramate che uno vi cambi una moneta, egli vuole
informarvi della differenza tra il Padre ed il Figlio; se dimandate il
prezzo d'un pane, vi si dà per risposta, che il Figlio è inferiore al
Padre; e cercando voi se il bagno è all'ordine, la risposta è, che il
Figlio fu fatto dal niente»[465]. Gli eretici di varie denominazioni
vivevano in pace sotto la protezione degli Arriani di Costantinopoli, i
quali procuravano d'assicurarsi l'attaccamento di quegli oscuri Settari,
mentre abusavano con instancabil severità della vittoria che avevano
ottenuto sopra i seguaci del Concilio Niceno. Nei parziali regni di
Costanzo e di Valente, ai deboli residui degli Omousiani fu impedito il
pubblico e privato esercizio di lor religione; ed è stato in patetico
stile osservato, che il disperso gregge lasciavasi andar vagando senza
pastore per le montagne o divorar dai lupi rapaci[466]. Ma poichè il
loro zelo, invece d'esser vinto, traeva forza e vigore dall'oppressione,
essi presero il primo momento d'imperfetta libertà, che si ripresentò
loro per la morte di Valente, e formarono una regolar congregazione,
sotto la condotta di Pastore Episcopale. Basilio e Gregorio
Nazianzeno[467], ambidue nativi di Cappadocia, eran distinti sopra tutti
i loro contemporanei[468] per la rara unione di profana eloquenza e
d'ortodossa pietà. Questi Oratori, che arrivarono alle volte a
paragonarsi da se stessi e dal Pubblico ai più celebri degli antichi
Greci, erano uniti fra loro coi vincoli della più stretta amicizia. Essi
avevan coltivato con uguale ardore i medesimi studi liberali nelle
scuole d'Atene; s'erano ritirati con ugual divozione alla solitudine
stessa nei deserti del Ponto; e pareva totalmente spenta ogni scintilla
d'emulazione o d'invidia nei santi ed ingenui petti di Gregorio e di
Basilio. Ma l'esaltazione di Basilio da una vita privata alla sede
Archiepiscopale di Cesarea, scuoprì al Mondo, e forse a lui medesimo
l'orgoglio del suo carattere; ed il primo favore, che egli condiscese a
fare al suo amico, fu preso per un crudele insulto; e s'ebbe forse
l'intenzione di farlo[469]. In vece d'impiegare i sublimi talenti di
Gregorio in qualche utile e cospicuo posto, l'altiero Prelato scelse fra
i cinquanta Vescovati della sua estesa provincia il miserabil villaggio
di Sasima[470] senz'acqua, senza verzura, senza società, situato
all'unione di tre pubbliche strade, e frequentato solo dal continuo
passaggio di rozzi e clamorosi condottieri di carri. Gregorio si
sottomise con ripugnanza a tal umiliante esilio; fu ordinato Vescovo di
Sasima; solennemente però si protesta di non aver mai consumato il suo
spiritual matrimonio con questa disgustante sposa. In seguito consentì a
prendere il governo della nativa sua Chiesa di Nazianzo[471], di cui suo
padre era stato Vescovo più di quarantacinque anni. Ma siccome conosceva
bene di meritare un'altra udienza ed un altro teatro, accettò con
lodevole ambizione l'onorevole invito, che gli fu fatto dal partito
ortodosso di Costantinopoli. Arrivato che fu Gregorio nella Capitale, fu
alloggiato in casa d'un pio e caritatevole congiunto; si consacrò agli
usi del Culto religioso la stanza più grande, e le si diede il nome
d'_Anastasia_ per esprimere la risurrezione della Fede Nicena. Questo
privato oratorio fu dipoi convertito in una magnifica Chiesa; e la
credulità dei posteriori tempi era già disposta a dar fede ai miracoli
ed alle visioni, che attestavano la presenza o almeno la protezione
della Madre di Dio[472]. Il pulpito dell'Anastasia fu il teatro delle
fatiche e dei trionfi di Gregorio Nazianzeno; e nello spazio di due anni
egli provò tutte le spirituali avventure, che formano la prospera o
contraria fortuna d'un Missionario[473]. Gli Arriani, provocati
dall'ardire di tale impresa, rappresentavan la sua dottrina, come se
avesse predicato tre distinte ed uguali Divinità; e la devota plebaglia
veniva eccitata a sopprimere, con la violenza e col tumulto, le
irregolari assemblee degli eretici Atanasiani. Uscì dalla cattedrale di
S. Sofia un confuso mescuglio «di vili mendici che non meritavan pietà,
di monaci che parevan satiri o capre, e di donne più terribili che
altrettante Gezzabelle». Si aprirono a forza le porte dell'Anastasia; si
fece o si tentò di fare gran danno con bastoni, con pietre e con
tizzoni; e siccome nel tumulto restò ucciso un uomo, Gregorio, che la
mattina seguente fu chiamato avanti al Magistrato, ebbe la soddisfazione
di supporre che colui pubblicamente confessava il nome di Cristo. Dopo
di essersi liberato dal timore e dal pericolo d'un nemico di fuori, la
nascente sua Chiesa fu deturpata e lacerata da un'interna fazione. Uno
straniero che aveva il nome di Massimo[474] e l'abito di filosofo
Cinico, s'insinuò nella confidenza di Gregorio, l'ingannò, e fece abuso
della favorevole opinione che questi aveva di lui; e formando un segreto
accordo con alcuni Vescovi dell'Egitto, mediante una clandestina
ordinazione tentò di soppiantare il suo protettore dall'Episcopal sede
di Costantinopoli. Tali mortificazioni qualche volta poteron tentare il
missionario di Cappadocia a desiderar l'oscura sua solitudine. Ma
premiate ne furono le fatiche dall'accrescimento continuo della sua fama
e della sua congregazione; ed ebbe il piacere d'osservare, che la
maggior parte della numerosa sua udienza partiva dai suoi discorsi
soddisfatta dell'eloquenza del predicatore[475], o mortificata per le
molte imperfezioni della propria fede o morale[476].

[A. 380]

I Cattolici di Costantinopoli furono animati di lieta fiducia dal
battesimo e dall'editto di Teodosio; ed aspettavano impazientemente gli
effetti della sua graziosa promessa. Restaron ben presto soddisfatte le
loro speranze; e l'Imperatore, appena ebbe finite le operazioni della
campagna, fece il suo pubblico ingresso nella capitale alla testa di un
vittorioso esercito. Il giorno dopo il suo arrivo, chiamò Damofilo alla
sua presenza, e propose a quell'Arriano Prelato la dura alternativa o di
sottoscrivere alla fede Nicena, o di rilasciar subito agli ortodossi
credenti l'uso ed il possesso del palazzo Episcopale, della Cattedrale
di S. Sofia, e di tutte le Chiese di Costantinopoli. Lo zelo di
Damofilo, che in un santo cattolico si sarebbe giustamente applaudito,
abbracciò senza esitare una vita di povertà e di esilio[477]; ed alla
sua remozione immediatamente successe la purificazione della città
Imperiale. Gli Arriani poterono con qualche apparenza di giustizia
dolersi, che una piccola congregazione di settari dovesse usurpare le
cento Chiese, ch'essi non eran sufficienti a riempire, mentre la maggior
parte del popolo veniva crudelmente esclusa da ogni luogo di culto
religioso. Teodosio fu sempre inesorabile: ma siccome gli Angeli, che
difendevan la causa de' Cattolici, non eran visibili che agli occhi
della fede, esso prudentemente invigorì quelle celesti legioni col più
efficace aiuto delle armi temporali e corporee; e fu occupata la Chiesa
di S. Sofia da un grosso corpo di guardie Imperiali. Se l'animo di
Gregorio era suscettivo d'orgoglio, ei dovè sentire una ben viva
soddisfazione, allorchè l'Imperatore lo condusse per le contrade in
solenne trionfo, e con le proprie mani lo pose rispettosamente sulla
sede Archiepiscopale di Costantinopoli. Ma il Santo, che non avea
superato le imperfezioni dell'umana virtù, era profondamente mosso dal
mortificante pensiero, che l'entrar, che ei faceva nell'ovile, era
piuttosto da lupo che da pastore; che le armi lucenti, che circondavan
la sua persona, eran necessarie alla sua salvezza; e ch'egli solo era
l'argomento delle imprecazioni d'un gran partito, i cui individui come
uomini e cittadini, era impossibile per esso di non curare. Vide
l'innumerabil moltitudine di persone di ambedue i sessi e d'ogni età,
che affollavasi per le strade, alle finestre e su' tetti delle case; udì
la tumultuosa voce della rabbia, del cordoglio, dello stupore e della
disperazione; e Gregorio confessa ingenuamente, che nel memorabil giorno
della sua installazione, la Capital dell'Oriente avea l'apparenza d'una
città presa d'assalto, e caduta nelle mani d'un Barbaro
conquistatore[478]. Circa sei settimane dopo, Teodosio dichiarò la sua
risoluzione di scacciare da tutte le Chiese dei propri Stati i Vescovi
ed i Cherici, che avesser ostinatamente ricusato di credere o almeno di
professar la dottrina del Concilio di Nicea. Sapore, suo Luogotenente,
fu armato degli ampli poteri d'una legge generale, d'una special
commissione e d'una forza militare[479]; e tal ecclesiastica rivoluzione
fu condotta con tanto discernimento e vigore, che stabilissi la
religione dell'Imperatore senza tumulto o spargimento di sangue in tutte
le Province Orientali. Se si fosser lasciati sussistere gli scritti
degli Arriani[480], conterrebbero essi forse la dolente storia della
persecuzione, che afflisse la Chiesa sotto il regno dell'empio Teodosio;
ed i patimenti dei santi lor confessori potrebbero eccitar la pietà del
disappassionato lettore. Pure v'è motivo di supporre, che la violenza
dello zelo e della vendetta in qualche modo restasse delusa dalla
mancanza di resistenza; e che gli Arriani dimostrassero, nella loro
avversità, fermezza molto minore di quella onde avea fatto prova il
partito Cattolico sotto i regni di Costanzo e di Valente. Sembra che la
condotta ed il moral carattere delle opposte Sette fosse regolato dai
medesimi comuni principj di natura e di religione; ma si può por mente
ad una circostanza assai materiale, che tendeva a distinguere i gradi
della teologica loro fede. Ambe le parti, sì nelle scuole che nelle
chiese, riconoscevano e veneravano la divina maestà di Cristo; e siccome
noi siam sempre inclinati ad attribuire alla divinità i sentimenti e le
passioni di noi medesimi, si poteva credere più prudente o rispettoso
contegno quello di esagerare che di ristringere le adorabili perfezioni
del Figlio di Dio. Il discepolo d'Atanasio esultava nella orgogliosa
opinione d'essersi fatto un merito per ottenere il favor divino; laddove
il seguace d'Arrio doveva esser tormentato dal segreto timore d'essere
forse reo d'un'imperdonabile colpa, attesa la scarsa lode ed i parchi
onori, ch'ei dava al Giudice dell'universo. Le opinioni dell'Arrianesimo
potean soddisfare uno spirito freddo e speculativo; ma la dottrina del
simbolo Niceno, raccomandata con la massima forza dai meriti della fede
e della devozione, era molto più atta a divenir popolare, e ad aver buon
successo in una credula età.

La speranza di trovare nelle assemblee del Clero ortodosso la verità e
la sapienza, indusse l'Imperatore a convocare in Costantinopoli un
sinodo di cento cinquanta Vescovi, che procederono senza molta
difficoltà o dilazione a perfezionare il sistema teologico, che s'era
stabilito nel Concilio di Nicea. Le veementi dispute del quarto secolo
s'erano principalmente aggirate sulla natura del Figlio di Dio; e le
varie opinioni, che s'erano abbracciate intorno alla _seconda_ Persona
della Trinità, per una ben naturale analogia furono estese e trasferite
alla terza[481]. Pure si trovò o si credè necessario questo Concilio da'
vittoriosi avversari dell'Arrianesimo, per ispiegare l'ambiguo
linguaggio di alcuni rispettabili Dottori; per confermare la fede dei
Cattolici; e per condannare una scarsa ed incoerente Setta di
Macedoniani, i quali liberamente ammettevano, che il Figlio era
consostanziale al Padre, mentre temevano sembrasse, che confessassero la
esistenza di tre Dei. Fu pronunziata una decisiva e concorde sentenza
per ratificare l'ugual divinità dello Spirito Santo; questa misteriosa
dottrina si è ricevuta da tutte le Chiese del Mondo Cristiano; e la
grata loro venerazione assegnò all'adunanza de' Vescovi di Teodosio il
secondo posto fra' Concili generali[482]. Può essersi conservata per
tradizione, o per inspirazione comunicata, la lor perizia intorno alla
verità della religione; ma la sobria testimonianza dell'istoria non
accorderà gran peso alla personale autorità dei Padri di Costantinopoli.
In un tempo, in cui gli Ecclesiastici avevano scandalosamente degenerato
dall'esempio dell'Apostolica purità, i più indegni e corrotti erano
sempre i più ardenti a frequentare ed a turbare le Episcopali adunanze.
Il contrasto e la fermentazione di tanti fra loro contrari interessi e
temperamenti infiammavano le passioni dei Vescovi: e quelle che in essi
dominavano erano l'amor dell'oro e l'amor della disputa. Molti di que'
Prelati, che allora facevano plauso all'ortodossa pietà di Teodosio,
avevan più volte cangiato con prudente flessibilità i loro simboli e le
loro opinioni; e nelle diverse rivoluzioni della Chiesa e dello Stato,
la religione del Sovrano era la regola dell'ossequiosa lor fede.
Allorchè l'Imperatore sospendeva la sua preponderante influenza, il
turbolento Sinodo veniva ciecamente spinto dagli assurdi e superbi
motivi di orgoglio, d'odio e di sdegno. La morte di Melezio, che accadde
nel tempo del Concilio di Costantinopoli, presentava la più favorevole
occasione di terminare lo scisma d'Antiochia, lasciando finire
pacificamente all'avanzato rivale di lui, Paolino, i suoi giorni nella
cattedra Episcopale. La fede e le virtù di Paolino erano irreprensibili:
ma la sua causa era sostenuta dalle Chiese occidentali: ed i Vescovi del
Sinodo risolvettero di perpetuare il male della discordia, mediante la
precipitosa ordinazione d'un candidato spergiuro[483], piuttosto che
tradire l'immaginata dignità dell'Oriente, che era stato illustrato
dalla nascita e dalla morte del Figlio di Dio. Sì disordinato ed
ingiusto procedere forzò i più gravi membri dell'assemblea a dissentire
ed a separarsi dagli altri; e la clamorosa turba, che restò padrona del
campo di battaglia, non potè paragonarsi che a vespe od a gazze, ad una
moltitudine di grue o ad una truppa di oche[484].

[A. 381]

Potrebbe forse nascere il sospetto, che sia stata fatta una pittura sì
svantaggiosa de' Concili Ecclesiastici dalla parzial mano di qualche
ostinato eretico o d'un malizioso infedele. Ma il nome del sincero
Istorico, che ha preservato quest'istruttiva lezione alla cognizione dei
posteri, deve impor silenzio all'impotente bisbiglio della superstizione
e della ipocrisia. Egli era uno dei più eloquenti e pii Vescovi di quel
tempo; un santo ed un dottor della Chiesa; la sferza dell'Arrianesimo, e
la colonna della fede ortodossa; un membro distinto del Concilio di
Costantinopoli, in cui, dopo la morte di Melezio, esercitò l'uffizio di
presidente, in una parola, Gregorio Nazianzeno medesimo. L'aspro ed
indecente trattamento, ch'ei ne ebbe[485], lungi dal derogare alla
verità della sua testimonianza, somministra una prova di più dello
spirito che animava le deliberazioni del Sinodo. I concordi voti di
questo avevan confermato i diritti che il Vescovo di Costantinopoli
traeva dall'elezione del popolo e dal consenso dell'Imperatore. Ma
Gregorio divenne tosto la vittima della malizia e dell'invidia. I
Vescovi Orientali, suoi valorosi aderenti, provocati dalla moderazione
di lui nell'affare di Antiochia, lo abbandonarono senza difesa alla
contraria fazione degli Egiziani, che posero in dubbio la validità della
sua elezione, e rigorosamente sostennero l'antiquato canone che proibiva
la licenziosa pratica delle traslazioni Episcopali. L'orgoglio o
l'umiltà di Gregorio gli fece evitare una contesa, che avrebbe potuto
imputarsi ad ambizione ed avarizia; ed egli pubblicamente propose, non
senza qualche dose di sdegno, di rinunziare al governo d'una Chiesa, che
era risorta e quasi creata per le sue fatiche. Fu accettata la rinunzia
dal Sinodo e dall'Imperatore, più facilmente di quello che sembra ch'ei
si aspettasse. Nel tempo in cui aveva egli forse sperato di godere i
frutti della vittoria, fu occupata la sua sede Episcopale dal Senatore
Nettario; ed il nuovo Arcivescovo che aveva per accidente il vantaggio
d'un buon naturale e d'un venerabile aspetto, fu obbligato a differir la
ceremonia della consacrazione per aver comodo di eseguir prima quella
del suo Battesimo[486]. Dopo questa notabile esperienza
dell'ingratitudine dei Principi e dei Prelati, Gregorio si ritirò
un'altra volta all'oscura sua solitudine della Cappadocia, dove impiegò
il rimanente della sua vita, circa otto anni, in esercizi di poesia e di
divozione. Si è aggiunto al suo nome il titolo di Santo; ma la tenerezza
del cuore[487] e l'eleganza dell'ingegno riflettono un più vago
splendore sulla memoria di Gregorio Nazianzeno.

[A. 380-394]

Teodosio non era contento d'aver soppresso l'insolente regno
dell'Arrianesimo, nè d'avere sovrabbondantemente vendicato le ingiurie
che avevan sofferto i Cattolici dallo zelo di Costanzo e di Valente.
L'ortodosso Imperatore considerava ogni eretico come un ribelle alle
supreme potestà del cielo e della terra; e credeva che ciascheduna di
queste potesse esercitare la propria particolar giurisdizione sull'anima
e sul corpo del reo. I decreti del Concilio di Costantinopoli avevan
determinato la vera norma della fede; e gli Ecclesiastici, che
governavano la coscienza di Teodosio, gli suggerirono i più efficaci
mezzi di persecuzione. Nello spazio di quindici anni ei promulgò almeno
quindici severi editti contro gli eretici[488], specialmente contro
quelli che rigettavano la dottrina della Trinità; e per privarli d'ogni
speranza di rifugio duramente ordinò, che se fosse allegata in loro
favore qualche legge o rescritto, non dovessero dai giudici
risguardarsi, che come illegittime produzioni della frode e della
falsità. Gli statuti penali erano diretti contro i ministri, le
adunanze, e le persone degli eretici; e le passioni del legislatore
erano espresse nello stile della declamazione e dell'invettiva. In primo
luogo gli eretici dottori, che usurpavano i sacri nomi di Vescovi o di
Preti, non solo erano spogliati dei privilegi ed emolumenti sì
liberalmente accordati al clero ortodosso; ma si esponevano anche alle
gravi pene dell'esilio e della confiscazione, se pretendevano di
predicar la dottrina o di praticare i riti delle _maledette_ lor Sette.
Fu imposta una pena di dieci libbre d'oro (sopra ottocento zecchini) ad
ogni persona, che avesse ardito di conferire, di ricevere, o di favorire
un'ordinazione di eretici; e con ragione speravasi, che se si fosse
potuta estinguere la razza dei pastori, gli abbandonati lor greggi
sarebbero stati costretti, dall'ignoranza e dalla fame, a tornare in
seno alla Chiesa Cattolica. Secondariamente la rigorosa proibizione
delle conventicole fu minutamente estesa ad ogni possibile circostanza,
in cui gli eretici avesser potuto adunarsi coll'intenzione di adorare
Dio e Cristo, secondo i dettami della loro coscienza. Tutte le religiose
loro adunanze, o pubbliche o segrete che fossero, di giorno o di notte,
nelle città o nella campagna, erano ugualmente vietate dagli editti di
Teodosio, e la fabbrica o il suolo che si adoprava per tale illegittimo
uso, era confiscato a profitto del demanio imperiale. In terzo luogo, si
supponeva che l'error degli eretici non provenisse che dall'ostinazione
degli animi loro, e che tal ostinazione giustamente meritasse censura e
gastigo. Gli anatemi della Chiesa venivano invigoriti da una specie di
scomunica civile, che separava gli eretici da' loro concittadini
mediante una particolar nota d'infamia; e questa dichiarazione del sommo
Magistrato tendeva a giustificare o almeno a scusare gl'insulti d'una
plebe fanatica. I Settari furono appoco appoco renduti incapaci di
possedere impieghi onorevoli o lucrosi, e Teodosio applaudivasi della
sua giustizia quando comandò, che siccome gli Eunomiani distinguevano la
natura del Figlio da quella del Padre, fossero incapaci di far
testamento o di ricevere alcun vantaggio dalle donazioni testamentarie.
Il delitto dell'eresia Manichea si stimava tanto enorme che non si
potesse espiare se non con la morte del reo; e l'istessa pena capitale
fu inflitta agli Audiani o _Quartodecimani_[489], che avessero ardito di
commetter l'atroce misfatto di celebrare in giorno improprio la festa di
Pasqua. Ogni Romano poteva fare da pubblico accusatore; ma sotto il
regno di Teodosio fu per la prima volta instituito l'uffizio
degl'_Inquisitori_ della fede, nome sì meritamente abborrito. Ciò
nonostante si assicura che rade volte si dava esecuzione a' suoi editti
penali, e che il pio Imperatore sembrava meno bramoso di punire, che di
correggere o di spaventare i disubbidienti suoi sudditi[490].

[A. 385]

La teoria della persecuzione fu stabilita da Teodosio, alla giustizia e
pietà del quale si è fatto applauso da' Santi; ma la pratica di essa
nella sua maggior estensione riserbavasi a Massimo, di lui rivale e
collega, il primo fra' Principi Cristiani, che spargesse il sangue de'
Cristiani suoi sudditi, per motivo delle religiose lor opinioni. La
causa dei Priscillianisti[491], recente Setta di eretici, che disturbava
le Province della Spagna, fu per appello trasportata dal Sinodo di Bordò
all'Imperial Concistoro di Treveri; e per sentenza del Prefetto del
Pretorio, sette persone furono torturate, condannate e poste a morte. Il
primo fra loro fu Priscilliano medesimo[492], Vescovo d'Avila[493] in
Ispagna, che aggiungeva a' vantaggi della nascita e della fortuna gli
ornamenti dell'eloquenza e dell'erudizione. Due Preti e due Diaconi
furon compagni nella morte, ch'essi reputavano un glorioso martirio,
dell'amato loro maestro; ed il numero delle religiose vittime si compì
coll'esecuzione di Latroniano, poeta rivale in fama agli antichi, e di
Eucrocia, nobile matrona di Bordò, vedova dell'oratore Delfidio[494].
Due Vescovi che avevano abbracciato i sentimenti di Priscilliano, furono
condannati ad un lontano ed orrido esilio[495], e si usò qualche
indulgenza verso i meno colpevoli, che ebbero il merito d'un pronto
pentimento. Se prestar si dee qualche fede alle confessioni estorte dal
timore o dalla pena, ed alle vaghe narrazioni, figlie della malizia e
della credulità, l'eresia dei Priscillianisti conterrebbe le diverse
abominazioni di magia, d'empietà e di dissolutezza[496]. Priscilliano,
che andava girando pel Mondo in compagnia delle sue spirituali sorelle,
veniva accusato di pregar tutto nudo in mezzo alla congregazione, ed
arditamente asserivasi, che era stato soppresso il prodotto del suo reo
commercio con la figlia d'Eucrocia per mezzi anche più odiosi e malvagi.
Ma un'esatta o piuttosto ingenua ricerca farà conoscere, che se i
Priscillianisti violavano le leggi di natura, ciò avveniva non già per
la dissolutezza, ma per l'austerità del vivere. Essi condannavano
assolutamente l'uso del letto maritale, e spesso disturbavasi la pace
delle famiglie da indiscrete separazioni. Prescrivevano o commendavano
una totale astinenza da ogni cibo animale, e le continue loro preghiere,
digiuni e vigilie inculcavano una regola di stretta e perfetta
devozione. Le opinioni speculative di questa Setta intorno alla persona
di Cristo ed alla natura dell'anima umana erano tratte dal sistema
Gnostico o Manicheo; e questa vana filosofia, che dall'Egitto erasi
trasferita nella Spagna, era male adattata agli spiriti più grossolani
dell'Occidente. Gli oscuri discepoli di Priscilliano soffrirono,
languirono, ed appoco appoco disparvero; le sue opinioni rigettate
furono dal Clero e dal popolo: ma la sua morte diede motivo ad una lunga
ed ardente controversia, mentre alcuni attaccavano, altri applaudivano
la giustizia di tale sentenza. Noi possiamo osservar con piacere l'umana
incoerenza dei Santi e dei Vescovi più illustri, d'Ambrogio di
Milano[497], e di Martino di Tours[498], i quali sostennero in
quest'occasione la causa della tolleranza. Essi compassionarono
quegl'infelici che avevan sofferto il supplizio a Treveri; ricusarono di
comunicare coi loro Episcopali uccisori; e se Martino deviò da tal
generosa risoluzione, lodevoli ne furon le cause, ed il pentimento
esemplare. I Vescovi di Tours e di Milano pronunciarono, senza esitare,
l'eterna dannazione degli eretici; ma restarono sorpresi e scossi dalla
sanguinosa immagine della morte lor temporale, e gli onesti sentimenti
della natura resisterono agli artificiali pregiudizi della teologia.
L'umanità di Ambrogio e di Martino fu confermata dalla scandalosa
irregolarità dei processi fatti contro Priscilliano ed i suoi aderenti.
I ministri civili ed ecclesiastici avevano oltrepassato i limiti delle
respettive loro Province. Il giudice secolare aveva ricevuto un appello,
e pronunziata una sentenza definitiva in materia di fede e di
giurisdizione Episcopale. I Vescovi s'erano disonorati esercitando
l'uffizio di accusatori in una causa criminale. La crudeltà
d'Itacio[499], che vide le torture, e sollecitò la morte degli Eretici,
provocò il giusto sdegno del Mondo: ed i vizi di quel malvagio Vescovo
si risguardarono come una prova, che il suo zelo fosse inspirato da
sordidi motivi d'interesse. Dopo la morte di Priscilliano si son
raffinati e ridotti a metodo i barbari attentati della persecuzione nel
Santo Uffizio, che assegna la distinta sua parte alla potestà
ecclesiastica ed alla secolare. La vittima, condannata regolarmente,
si consegna dal sacerdote al magistrato, e dal magistrato all'esecutore;
e l'inesorabil sentenza della Chiesa, che dichiara la spiritual
colpa del reo, vien espressa nel dolce linguaggio della pietà e
dell'intercessione.

[A. 374-397]

Fra gli Ecclesiastici, che illustrarono il regno di Teodosio, Gregorio
Nazianzeno era distinto per l'abilità d'eloquente predicatore; la fama
di doni miracolosi accresceva peso e dignità alle virtù monastiche di
Martino di Tours[500]; ma giustamente si pretendeva la palma
dell'Episcopal vigore e capacità dall'intrepido Ambrogio[501].
Discendeva egli da una nobil famiglia Romana; suo padre aveva esercitato
l'importante uffizio di Prefetto del Pretorio della Gallia; e ben
presto, dopo aver atteso agli studi d'una liberal educazione, giunse
nella regolar carriera degli onori civili al posto di Consolare della
Liguria, Provincia, che includeva l'Imperial residenza di Milano.
All'età di trentaquattro anni, ed avanti che avesse ricevuto il
Sacramento del Battesimo, Ambrogio con sorpresa di se stesso e del Mondo
fu ad un tratto di Governatore trasformato in Arcivescovo. Senza che vi
avesse parte veruna, per quanto si dice, l'arte o l'intrigo, tutto il
corpo del popolo concordemente lo salutò col titolo Episcopale, la
concordia e la perseveranza delle loro acclamazioni fu attribuita ad un
impulso soprannaturale; ed il ripugnante Magistrato fu costretto ad
intraprendere un uffizio spirituale, per cui non era preparato dalle
abitudine ed occupazioni della precedente sua vita. Ma l'attività del
suo genio presto lo pose in istato di esercitare con zelo e con prudenza
i doveri dell'Ecclesiastica potestà; e mentre di buona voglia rinunziò
a' vani e splendidi ornamenti della grandezza temporale, condiscese, pel
ben della Chiesa, a dirigere la coscienza degl'Imperatori, ed a
criticare l'amministrazione dell'Impero. Graziano lo amava e lo
rispettava come un padre; e l'elaborato trattato della fede della
Trinità era destinato per istruzione di quel giovane Principe. Dopo la
tragica morte di lui, allorchè l'Imperatrice Giustina tremava per la
salvezza propria e di Valentiniano suo figlio, fu spedito l'Arcivescovo
di Milano in due diverse ambascerie alla Corte di Treveri. Egli esercitò
con ugual fermezza e sagacità le forze del proprio carattere sì
spirituale che politico; e forse contribuì con la sua autorità ed
eloquenza a frenare l'ambizione di Massimo, ed a protegger la pace
dell'Italia[502]. Ambrogio consacrato aveva la propria vita e tutti i
suoi talenti al servizio della Chiesa. Le ricchezze per lui erano un
oggetto di disprezzo; aveva rinunziato al privato suo patrimonio; e
vendè senza esitare i vasi sacri per riscattare degli schiavi. Il Clero
ed il popolo di Milano erano attaccati al loro Arcivescovo, ed ei
meritava la stima senza sollecitare il favore o temere il disgusto de'
suoi deboli Sovrani.

[A. 385]

Era naturalmente appoggiato il governo d'Italia e del giovane Imperatore
a Giustina sua madre, donna dotata di beltà e d'ingegno; ma che in mezzo
ad un popolo ortodosso avea la disgrazia di professare l'eresia Arriana,
che essa procurava d'instillare nell'animo del figlio. Giustina era
persuasa che un Imperator Romano potesse, nei propri dominj, pretendere
l'esercizio pubblico della sua religione; e propose all'Arcivescovo,
come una moderata e ragionevol domanda, ch'ei le rilasciasse l'uso d'una
sola Chiesa o nella città o nei sobborghi di Milano. Ma la condotta
d'Ambrogio era diretta secondo principj molto diversi[503]. Potevano
invero nel suo sistema appartenere a Cesare i palazzi della terra; ma le
Chiese erano case di Dio; e dentro i limiti della sua diocesi, egli
solo, come legittimo successor degli Apostoli, era il Ministro divino. I
privilegi sì temporali che spirituali del Cristianesimo erano ristretti
ai veri credenti; ed Ambrogio godeva, che le teologiche sue opinioni
fossero il modello della verità e dell'ortodossia. L'Arcivescovo che
ricusava d'entrare in alcuna conferenza o negoziazione con gl'istrumenti
di Satana, dichiarò con moderata fermezza la sua risoluzione di ricevere
il martirio, piuttosto che cedere all'empio sacrilegio; e Giustina, che
risguardava tal rifiuto come un atto d'insolenza e di ribellione,
precipitosamente determinossi a far uso dell'Imperial prerogativa del
proprio figlio. Bramando essa di fare pubblicamente nella prossima festa
di Pasqua i suoi atti di devozione, fu ordinato ad Ambrogio di comparire
avanti al Consiglio. Obbedì egli alla citazione col rispetto d'un
suddito fedele; ma fu seguitato, senza il suo consenso, da un popolo
innumerabile, che affollavasi con impetuoso zelo alle porte del palazzo:
e gli spaventati ministri di Valentiniano, in vece di pronunziare una
sentenza di esilio contro l'Arcivescovo Milanese, umilmente lo
supplicarono, che volesse interporre la sua autorità per difender la
persona dell'Imperatore e restituir la pace alla Capitale. Ma le
promesse, che Ambrogio ebbe e comunicò al popolo, furon tosto violate da
una perfida Corte; e ne' sei più solenni giorni, che la cristiana pietà
ha destinato all'esercizio della religione, la città fu agitata da
irregolari convulsioni di tumulto e di fanatismo. Si mandarono gli
Uffiziali del palazzo a preparare prima la Basilica Porziana, poi la
nuova, per immediatamente ricevervi l'Imperatore colla sua madre. Si
disposero al solito le splendide suppellettili ed il baldacchino per la
sede Reale; ma vi fu bisogno di porvi una forte guardia per difenderla
dagl'insulti della plebaglia. Gli Ecclesiastici Arriani, che
s'arrischiavano a farsi veder nelle strade, furono esposti ai più
imminenti pericoli di vita: ed Ambrogio godè il merito e la riputazione
di liberare i suoi personali nemici dalle mani della moltitudine irata.

Ma nel tempo che si affaticava a raffrenare gli effetti del loro zelo,
la patetica veemenza de' suoi discorsi continuamente infiammava
l'ardente e sediziosa indole del popolo di Milano. Venivano
indecentemente applicati alla madre dell'Imperatore i caratteri d'Eva,
della moglie di Giob, di Gezabel, di Erodiade; e la brama che aveva essa
d'ottenere una Chiesa per gli Arriani, era paragonata alle più crudeli
persecuzioni, che avessero sofferto i Cristiani sotto il regno del
Paganesimo. I provvedimenti che prendea la Corte non servivano che a far
conoscere la grandezza del male. Fu imposta una tassa di dugento libbre
d'oro sul corpo dei mercanti e degli artefici: fu intimato a nome
dell'Imperatore un ordine a tutti gli Uffiziali ed inferiori ministri
de' tribunali di giustizia, che finattantocchè duravano i pubblici
disordini, dovessero star chiusi nelle loro case: ed i ministri di
Valentiniano imprudentemente confessarono, che la più rispettabile parte
de' cittadini Milanesi favoriva la causa del proprio Arcivescovo. Egli
fu di nuovo sollecitato a restituire la quiete del paese, mediante
un'opportuna compiacenza alla volontà del Sovrano. La risposta
d'Ambrogio fu concepita nei termini più umili e rispettosi, che potevano
però interpretarsi come una seria dichiarazione di guerra civile. Espose
«che la propria vita ed i suoi beni erano in mano dell'Imperatore, ma
ch'esso non avrebbe mai tradito la Chiesa di Cristo, o avvilito la
dignità del carattere Episcopale. In una causa di tal sorta era
preparato a soffrire qualunque danno la malizia del demonio avesse
potuto apportargli; e solo desiderava di morire in presenza del fedele
suo gregge ed appiè dell'Altare; ei non aveva contribuito ad eccitar la
furia del popolo, ma era solo in potere di Dio l'acquietarla; abborriva
le scene di sangue e di confusione che probabilmente sarebber seguite; e
la sua più calda preghiera era quella di non sopravvivere a veder la
rovina d'una florida città, e forse la desolazione di tutta
l'Italia[504]». L'ostinata bacchettoneria di Giustina avrebbe posto a
rischio l'Impero del suo figlio, se in questa disputa con la Chiesa e
col popolo di Milano avesse potuto contare sull'attiva ubbidienza delle
truppe del palazzo. Era marciato un grosso corpo di Goti ad occupar la
Basilica, che era l'oggetto della contesa; ed avrebbe potuto aspettarsi
dagli Arriani principj, e dai barbari costumi di questi mercenari
stranieri, che non avrebbero essi avuto alcuno scrupolo ad eseguire i
più sanguinari comandi. Si fece loro incontro l'Arcivescovo sulla sacra
soglia, e fulminando contro di essi una sentenza di scomunica, domandò
loro in tuono di padre e di signore, se era per invader la casa di Dio,
ch'essi aveano implorato l'ospital protezione della Repubblica? La
sospensione de' Barbari concesse qualche ora per un più efficace
trattato; e l'Imperatrice fu persuasa dal parere dei più savi suoi
consiglieri a lasciare ai Cattolici il possesso di tutte le Chiese di
Milano, e a dissimulare fino ad un'occasione più opportuna i suoi
pensieri di vendetta. La madre di Valentiniano non potè mai perdonare ad
Ambrogio simil trionfo; ed il giovane Reale esclamò nell'impeto della
passione, che i suoi propri servi erano pronti a darlo nelle mani d'un
insolente Prete.

[A. 386]

Le leggi dell'Impero, alcune delle quali portavano in fronte il nome di
Valentiniano, condannavano tuttavia l'eresia d'Arrio, e sembrava che
scusassero la resistenza de' Cattolici. Giustina fece sì che fosse
promulgato in tutte le Province, sottoposte alla Corte di Milano, un
editto di tolleranza; fu concesso a tutti quelli che professavano la
fede di Rimini, l'esercizio libero di lor religione; e l'Imperatore
dichiarò, che tutti coloro, che avessero trasgredito questa sacra e
salutare costituzione, sarebbero stati puniti di morte, come nemici
della pubblica pace[505]. Il linguaggio ed il carattere dell'Arcivescovo
di Milano possono giustificare il sospetto, che la sua condotta presto
somministrasse un ragionevole fondamento, o almeno uno specioso pretesto
ai ministri Arriani, che spiavano l'occasion di sorprenderlo in qualche
atto di disubbidienza ad una legge, ch'ei stranamente rappresenta come
una legge di sangue e di tirannide. Si emanò una sentenza di mite ed
onorevol esilio, che ordinava ad Ambrogio di partir subito da Milano,
mentre gli permetteva di scegliere il luogo di sua dimora ed il numero
de' propri compagni. Ma l'autorità dei Santi, che hanno predicato ed
eseguito le massime di una piena sommissione, parve ad Ambrogio di minor
peso che l'estremo ed urgente pericolo della Chiesa. Egli arditamente
ricusò d'obbedire, e tal passo fu sostenuto dall'unanime consenso del
suo popolo[506]. Faceva esso a vicenda la guardia alla persona del
proprio Arcivescovo; furono bene assicurate le porte della Cattedrale e
del palazzo Vescovile; e le truppe dell'Imperatore, che ne avevan
formato il blocco, non ardirono d'arrischiar l'attacco di quella
inespugnabil fortezza. I numerosi poveri, che la liberalità d'Ambrogio
avea sollevati, abbracciaron questa bella occasione di segnalare lo zelo
la gratitudin loro; e siccome avrebbe potuto stancarsi la pazienza della
moltitudine per la lunghezza ed uniformità delle notturne vigilie, egli
prudentemente introdusse nella Chiesa di Milano l'utile instituzione di
un'alta e regolar salmodia. Nel tempo che Ambrogio sosteneva quest'ardua
contesa, fu avvertito in sogno a scavar la terra in un luogo, dove più
di trecent'anni prima erano state depositate le spoglie dei due martiri,
Gervasio e Protasio[507]. Si trovarono subito sotto il pavimento della
Chiesa due perfetti scheletri[508] con le teste separate dai loro corpi
ed un'abbondante copia di sangue. Con solenne pompa si esposero le sante
reliquie alla venerazione del popolo; ed ogni circostanza di questa
fortunata scoperta fu mirabilmente atta a promuovere i disegni
d'Ambrogio. Si suppose che le ossa dei Martiri, il sangue e le vesti
loro avessero le virtù di risanare dai mali, e tal soprannatural potenza
si comunicasse ai più distanti oggetti senza perdere in minima cosa la
primiera sua attività. Parve che la straordinaria cura di un cieco[509]
e le forzate confessioni di varj ossessi giustificassero la fede e la
santità dell'Arcivescovo; e la verità di questi miracoli viene attestata
da Ambrogio medesimo, da Paolino suo segretario e dal celebre Agostino,
di lui proselito, che in quel tempo professava rettorica in Milano. La
ragionevolezza del nostro secolo può approvare per avventura
l'incredulità di Giustina e dell'Arriana sua Corte, la quale derise le
teatrali rappresentazioni, che si facevano per l'artifizio ed a spese
dell'Arcivescovo[510]. L'effetto, per altro, ch'ebbero sull'animo del
popolo, fu rapido ed invincibile; ed il debole Sovrano dell'Italia si
trovò incapace di contendere col favorito del Cielo. Anche le potestà
della terra s'interposero in difesa d'Ambrogio; il disinteressato avviso
di Teodosio fu il genuino risultato della pietà e dell'amicizia, e la
maschera dello zelo religioso coprì gli ostili ed ambiziosi disegni del
tiranno della Gallia[511].

[A. 387]

Avrebbe Massimo potuto finire il suo regno in pace e prosperamente, se
avesse saputo contentarsi del possesso di quelle tre vaste regioni, che
adesso formano i tre più floridi regni dell'Europa. Ma l'intraprendente
usurpatore, la sordida ambizione del quale non era nobilitata dall'amor
della gloria e delle armi, risguardò le attuali sue forze, come
istrumenti soltanto di sua futura grandezza, ed il successo da lui
ottenuto, divenne la causa immediata della sua distruzione. Furono
impiegate le somme ch'egli estorse[512] dalle oppresse Province della
Gallia, della Spagna e della Britannia, in arrolare e mantenere una
formidabile armata di Barbari, presi per la maggior parte dalle più
fiere nazioni della Germania. L'oggetto dei preparativi e delle speranze
di esso era la conquista d'Italia; e segretamente meditava la rovina
d'un innocente giovane, il governo del quale abborrivasi e disprezzavasi
da' suoi Cattolici sudditi. Ma poichè Massimo desiderava d'occupare
senza resistenza il passaggio delle alpi, accolse con perfide carezze
Donnino della Siria, ambasciator di Valentiniano, e lo sollecitò ad
accettare il soccorso d'un corpo considerabil di truppe per servire
nella guerra Pannonica. La penetrazione d'Ambrogio aveva scoperto, sotto
le proteste d'amicizia, le insidie d'un nemico[513]; ma Donnino della
Siria fu corrotto o ingannato da' liberali favori della Corte di
Treveri; ed il Consiglio di Milano rigettò pertinacemente il sospetto di
pericolo, con una cieca fiducia ch'era un effetto non già di coraggio,
ma di timore. L'ambasciatore medesimo servì di scorta alla marcia degli
ausiliari; e senza diffidenza veruna questi furono ammessi nelle
fortezze delle alpi. Ma l'astuto tiranno seguitonne con celeri e taciti
passi la retroguardia; e siccome diligentemente impedì ogni cognizione
dei suoi movimenti, lo splendore delle armi, e la polvere che
s'innalzava dalla cavalleria, diedero il primo annunzio dell'ostile
avvicinamento d'uno straniero alle porte di Milano. In tal estremità,
Giustina ed il suo figlio potevano accusare la propria imprudenza, ed i
perfidi artifizi di Massimo; ma loro mancavano il tempo, la risolutezza
e la forza per opporsi a' Germani ed a' Galli, sì nella campagna che
dentro le mura d'una vasta e disaffezionata città. La fuga fu l'unica
loro speranza, ed Aquileia l'unico refugio loro; ed avendo Massimo
allora spiegato il proprio genuino carattere, il fratello di Graziano
aspettare poteva la medesima sorte dalle mani dell'assassino medesimo.
Massimo entrò in Milano trionfante; e se il saggio Arcivescovo ricusò
una pericolosa e rea connessione coll'usurpatore, potè almeno
indirettamente contribuire al buon successo delle sue armi con inculcare
dal pulpito il dovere della rassegnazione, piuttosto che quella della
resistenza[514]. L'infelice Giustina giunse salva in Aquileia; ma non si
fidò delle fortificazioni di quella città, temè l'evento d'un assedio, e
risolvè d'implorare la protezione del Gran Teodosio, di cui la virtù e
la forza eran celebri in ogni parte dell'Occidente. Fu segretamente
preparato un vascello per trasportare l'Imperial famiglia, che
precipitosamente imbarcossi in uno degli oscuri porti di Venezia o
dell'Istria, traversò tutta l'estensione de' mari Adriatico e Jonico,
girò attorno all'estremo promontorio del Peloponneso, e, dopo una lunga
ma fortunata navigazione, si riposò nel porto di Tessalonica. Tutti i
sudditi di Valentiniano abbandonarono la causa di un Principe che colla
sua ritirata gli aveva assoluti dal dovere di fedeltà; e se la piccola
città d'Emona in Italia non avesse preteso d'arrestare la non gloriosa
vittoria di Massimo, egli avrebbe ottenuto senza verun contrasto
l'intero possesso dell'Impero d'Occidente.

[A. 387]

In luogo d'invitare i reali suoi ospiti nel palazzo di Costantinopoli,
Teodosio ebbe delle ignote ragioni di farli restare a Tessalonica;
queste ragioni però non provenivano da disprezzo nè da indifferenza,
poichè andò immediatamente a visitarli in quella città accompagnato
dalla maggior parte della sua corte e del Senato. Dopo le prime tenere
espressioni di amicizia e di condoglianza, il pio Imperatore
dell'Oriente ammonì gentilmente Giustina, che alle volte il delitto
d'eresia veniva punito in questo Mondo e nell'altro; e che il passo più
efficace a promuovere lo ristabilimento del Figlio sarebbe stata la
pubblica professione della Fede Nicena, per la soddisfazione che avrebbe
dato quest'atto sì alla terra che al Cielo. Fu da Teodosio rimessa
l'importante questione della guerra o della pace alla deliberazione del
suo Consiglio; e gli argomenti che potevano addursi per la parte
dell'onore e della giustizia, dopo la morte di Graziano avevano
acquistato un grado considerabile di maggior peso. La persecuzione della
famiglia Imperiale, a cui Teodosio stesso era debitore della sua
fortuna, veniva in tal occasione aggravata da fresche e replicate
ingiurie. Nè giuramenti, nè trattati frenar potevano l'insaziabile
ambizione di Massimo; e la dilazione di vigorosi e decisivi partiti,
invece di prolungare il ben della pace, avrebbe esposto l'Impero
orientale al pericolo d'una ostile invasione. I Barbari, che aveano
passato il Danubio, avevano finalmente assunto il carattere di soldati e
di sudditi, ma era tuttavia indomita la nativa loro fierezza; e le
operazioni d'una guerra, ch'esercitato ne avrebbe il valore, e
diminuitone il numero, poteva ottenere il fine di sollevar le Province
da un'intollerabile oppressione. Nonostanti queste sode e speziose
ragioni, ch'erano approvate dalla maggior parte del Consiglio, Teodosio
pendeva sempre dubbioso, se trar doveva la spada in una contesa, che
dopo tal atto non avrebbe più ammesso termine alcuno di riconciliazione;
nè s'avviliva il magnanimo di lui carattere dai timori, che aveva per la
salute dei piccoli suoi figli e pel bene dell'esausto suo popolo. In tal
momento d'ansiosa dubbiezza, mentre il destino del Mondo Romano
dipendeva dalla risoluzione d'un solo uomo, le grazie della Principessa
Galla patrocinaron con la massima efficacia la causa di Valentiniano
fratello di lei[515]. Restò ammollito il cuor di Teodosio dalle lacrime
della beltà; furono insensibilmente legati i suoi affetti dalle grazie
della gioventù e dell'innocenza; l'arte di Giustina maneggiò e diresse
l'impulso della passione, e la celebrazione delle nozze reali fu la
sicurezza ed il segno della guerra civile. Gl'insensibili critici, che
risguardano qualunque amorosa debolezza come una macchia indelebile alla
memoria del grande ed ortodosso Imperatore, in quest'occasione sono
inclinati a porre in dubbio la sospetta autorità dell'istorico Zosimo.
Quanto a me, confesserò francamente, che mi dà piacere il trovare ed
anche l'andar ricercando nelle rivoluzioni del Mondo qualche traccia dei
dolci e teneri sentimenti della vita domestica; ed in mezzo ad una folla
di fieri ed ambiziosi conquistatori io provo una particolar compiacenza
a distinguere un gentile eroe, che vi sia motivo di supporre, che
ricevuto abbia le armi dalle mani d'amore. La fede de' trattati
assicurava la pace col Re della Persia; i bellicosi Barbari si lasciavan
persuadere a seguir lo stendardo o a rispettar le frontiere d'un attivo
e generoso Monarca; e gli stati di Teodosio, dall'Eufrate sino
all'Adriatico, risuonavano sì per terra che per mare de' preparativi di
guerra. Parve che la buona disposizione delle forze orientali ne
moltiplicasse il numero, e distraesse l'attenzione di Massimo. Aveva
egli ragion di temere, che uno scelto corpo di truppe sotto il comando
dell'intrepido Arbogaste dirigesse la marcia lungo le rive del Danubio,
ed arditamente penetrasse per le Province della Rezia nel centro della
Gallia. Fu equipaggiata nei porti della Grecia e dell'Epiro una potente
flotta coll'apparente disegno che, dopo di avere aperto il passo con una
vittoria navale, Valentiniano e sua madre sbarcassero nell'Italia, senza
dilazione passassero a Roma, ed occupassero la sede maestosa della
Religione e dell'Impero. Intanto Teodosio medesimo alla testa d'un
valoroso e disciplinato esercito s'avanzava incontro al suo indegno
rivale, che dopo l'assedio d'Emona aveva piantato il suo campo nelle
vicinanze di Scizia, città della Pannonia ben fortificata dal largo e
rapido corso del Savo.

[A. 388]

I veterani che tuttavia si ricordavano della lunga resistenza e del
successivo risorgere del tiranno Magnenzio, si preparavano forse a'
travagli di tre sanguinose campagne. Ma la contesa col successore di
esso, che come egli aveva usurpato il trono dell'Occidente, restò
facilmente decisa nel termine di due mesi[516], e dentro lo spazio di
dugento miglia. Il superior genio dell'Imperatore orientale potè
prevalere sul debole Massimo, che in questa importante crisi dimostrossi
privo di abilità militare o di personale coraggio; ma la perizia di
Teodosio fu secondata dal vantaggio che aveva d'un'attiva e numerosa
cavalleria. Si erano formati degli Unni, degli Alani, e, dietro il loro
esempio, degli stessi Goti, tanti squadroni di arcieri che combattevano
a cavallo e confondeano il costante valore de' Galli e de' Germani,
mediante i rapidi movimenti d'una tartara maniera di guerreggiare. Dopo
la fatica d'una lunga marcia nel colmo della state, spronarono i focosi
loro cavalli nelle acque del Savo, passarono il fiume a nuoto in
presenza del nemico, ed immediatamente attaccarono, e posero in rotta le
truppe che dominavano il lido dall'altra parte. Marcellino, fratello del
Tiranno, avanzossi per sostenerle con le più scelte coorti, che si
consideravano come la speranza e la forza dell'esercito. L'azione, che
s'era interrotta per l'avvicinarsi della notte, si rinnovò la mattina
seguente; e dopo una sanguinosa battaglia i residui dei più bravi
soldati di Massimo, che sopravvissero, deposero le armi a' piedi del
vincitore. Senza sospendere la sua marcia a ricevere le leali
acclamazioni dei cittadini d'Emona, Teodosio inoltrossi avanti per finir
la guerra, mediante la morte o la presa del suo rivale, che fuggiva
d'avanti a lui con la diligenza che inspira il timore. Dalla sommità
delle Alpi Giulie discese con tale incredibil prestezza nelle pianure
dell'Italia, che egli giunse ad Aquileia la sera medesima del primo
giorno; e Massimo, che si trovò circondato da tutte le parti, appena
ebbe tempo di chiuder le porte della città. Queste però non poteron
lungamente resistere agli sforzi d'un vittorioso nemico, e la
disperazione, il disamore e l'indifferenza de' soldati e del popolo
accelerarono la caduta del misero Massimo. Fu egli tratto giù dal trono,
violentemente spogliato degli ornamenti Imperiali, del manto, del
diadema e dei calcetti purpurei; e come un malfattore condotto al campo
ed alla presenza di Teodosio in un luogo distante circa tre miglia da
Aquileia. La condotta dell'Imperatore non fu insultante, e dimostrò
qualche disposizione a compatire ed a perdonare al Tiranno
dell'Occidente, che non era mai stato suo personale nemico, ed era
divenuto allora l'oggetto del suo disprezzo. Si eccita in noi con gran
forza la compassione per le disgrazie, alle quali siam sottoposti noi
stessi; e lo spettacolo d'un altiero competitore, prostrato ai suoi
piedi, non poteva mancar di produrre pensieri molto gravi ed importanti
nell'animo del vittorioso Imperatore. Ma fu frenata la debole commozione
d'una involontaria pietà dal riguardo che ebbe alla pubblica giustizia
ed alla memoria di Graziano; ed abbandonò quella vittima al pietoso zelo
dei soldati che la trassero dalla presenza Imperiale, ed immediatamente
le spiccarono il capo dal busto. La notizia della disfatta e della morte
di Massimo fu ricevuta con sincero, o ben simulato piacere. Vittore, suo
figlio, al quale avea conferito il titolo d'Augusto, morì per ordine e
forse per mano del feroce Arbogaste; e tutti i disegni militari di
Teodosio furono felicemente eseguiti. Dopo d'aver terminato in tal modo
la guerra civile, con minor difficoltà e strage di quello che
naturalmente avrebbe aspettato, impiegò i mesi dell'invernal sua
residenza in Milano a ristabilire lo stato delle afflitte Province; e
sul principio della primavera, ad esempio di Costantino e di Costanzo,
fece il suo trionfale ingresso nell'antica Capitale del Romano
Impero[517].

L'oratore che può tacere senza pericolo, può anche lodare senza
difficoltà e ripugnanza[518]; ed i posteri confessarono che il carattere
di Teodosio potè somministrare il soggetto d'un ampio e sincero
panegirico[519]. La saviezza delle leggi ed il buon successo delle armi
di lui, ne rendettero il governo rispettabile agli occhi tanto de'
sudditi che de' nemici. Egli amò e rispettò le virtù della vita
domestica, che di rado soggiornano nei palazzi de' Principi. Teodosio fu
casto e temperato; godè senza eccesso i delicati e sociali piaceri della
mensa, ed il calore delle sue passioni amorose non fu mai diretto che ad
oggetti legittimi. Venivano adornati i sublimi titoli della grandezza
Imperiale da' teneri nomi di marito fedele e di padre indulgente; e
dall'affettuosa sua stima fu innalzato lo zio al grado di secondo padre.
Teodosio abbracciò come suoi i figli del fratello e della sorella; ed
estese l'espressioni del suo riguardo fino ai più oscuri e distanti rami
della numerosa sua parentela. Sceglieva i suoi famigliari amici
giudiziosamente fra quelle persone, che nell'ugual commercio della vita
privata gli eran comparse d'avanti senza maschera; la propria coscienza
di un personale superior merito lo pose in grado di sprezzare
l'accidental distinzione della porpora; e provò con la sua condotta, che
aveva dimenticato tutte le ingiurie, nel tempo che con la maggior
gratitudine si rammentava di tutti i favori e servigi, che avea ricevuto
prima di salire sul trono dell'Impero Romano. Il tuono serio o vivace
della sua conversazione era adattato all'età, al grado, o al carattere
dei sudditi, che vi ammetteva; e l'affabilità delle maniere spiegava
l'immagine della sua mente. Teodosio rispettava la semplicità dei buoni
e dei virtuosi; ogni arte, ogni talento d'un utile o anche indifferente
natura veniva premiato dalla sua giudiziosa liberalità; ed eccettuati
gli eretici, ch'ei perseguitò con implacabile odio, il vasto cerchio
della sua benevolenza non fu circoscritto che da' limiti della specie
umana. Il governo d'un potente Impero può sicuramente servire ad
occupare il tempo e l'abilità d'un uomo; pure il diligente Principe,
senz'aspirare alla fama, ad esso non conveniente, di profondo erudito,
riserbava sempre qualche momento d'ozio per l'istruttivo divertimento
della lettura. Il suo studio favorito era l'Istoria, che ne dilatò
l'esperienza. Gli annali di Roma, nel lungo periodo di undici secoli,
presentavano ad esso una varia e splendida pittura della vita umana; ed
è stato particolarmente osservato, che quando leggeva i crudeli fatti di
Cinna, di Mario, o di Silla, esprimeva con gran forza l'odio generoso
che aveva per quei nemici dell'umanità e della libertà. Egli si serviva
utilmente della propria spassionata opinione intorno agli avvenimenti
passati, come di regola per le sue azioni; ed ha meritato questa
singolar lode, che pare che le sue virtù siansi allargate con la sua
fortuna: il tempo della prosperità era per lui quello della moderazione,
ed apparve più cospicua la sua clemenza dopo il pericolo ed il buon
successo della guerra civile. Nel primo calore della vittoria, si
trucidarono le guardie Mauritane del Tiranno, ed un piccol numero dei
più colpevoli soggiacque alla pena della legge. Ma l'Imperatore si
dimostrò molto più attento a sollevar l'innocente, che a gastigare il
reo. I sudditi oppressi dell'Occidente, che si sarebbero stimati felici
al solo ricuperare le proprie terre, furon sorpresi al ricever che
fecero una somma di denaro equivalente alle loro perdite; e la
generosità del vincitore protesse la vecchia madre, ed educò le orfane
figlie di Massimo[520]. Un carattere così virtuoso potrebbe quasi
scusare la stravagante supposizione dell'Oratore Pacato, che se al
vecchio Bruto fosse stato permesso di tornare sulla terra avrebbe quel
rigido Repubblicano deposto a' piè di Teodosio l'odio che nutriva pei
Re; ed avrebbe ingenuamente confessato, che tal Monarca era il custode
più fedele della felicità e della dignità del popolo Romano[521].

Pure l'occhio penetrante del fondatore della Repubblica avrebbe dovuto
discernere due imperfezioni essenziali, che avrebber forse diminuito il
recente suo amore pel dispotismo. Il virtuoso animo di Teodosio spesse
volte si rilassava per indolenza[522], e qualche volta infiammavasi
dalla passione[523]. L'attivo coraggio di lui era capace degli sforzi
più vigorosi, quando si trattava d'ottenere un oggetto importante; ma
tosto che avea eseguito il suo disegno, o superato il pericolo, l'eroe
s'abbandonava ad un non glorioso riposo, e dimenticatosi che il tempo
d'un Principe è dovuto al suo popolo, si dava tutto al godimento
degl'innocenti, ma vani piaceri d'una lussuriosa Corte. La natural
disposizione di Teodosio era precipitosa e collerica; ed in uno stato,
in cui nessuno poteva resistere alle fatali conseguenze dell'ira sua, e
pochi sapevano avvertirlo, l'umano Monarca era con ragione agitato dalla
coscienza della propria debolezza e della sua forza. Si studiò sempre di
sopprimere o di moderare gl'impeti sregolati della passione; ed il buon
successo dei suoi sforzi accrebbe il merito della sua clemenza. Ma una
difficil virtù, che pretende al merito della vittoria, giace esposta al
pericolo di essere vinta; ed il regno d'un savio e misericordioso
Principe fu macchiato da un atto di crudeltà, che avrebbe infamato gli
Annali di Nerone o di Domiziano. Dentro lo spazio di tre anni
l'incostante Istorico di Teodosio è costretto a riferire il generoso
perdono dei cittadini d'Antiochia, e la barbara strage del popolo di
Tessalonica.

[A. 387]

La vivace impazienza degli abitanti d'Antiochia non mostravasi mai
contenta della situazione, in cui erano, o del carattere e della
condotta, dei propri Sovrani. I sudditi Arriani di Teodosio deploravan
la perdita delle lor Chiese; e siccome la sede d'Antiochia era disputata
da tre Vescovi, rivali fra loro, la sentenza, che decise le pretensioni
loro, eccitò le doglianze delle due congregazioni che l'ebbero in
disfavore. I bisogni della guerra Gotica e l'inevitabile spesa, che
accompagnò la conclusione della pace, avea costretto l'Imperatore ad
aggravare il peso delle pubbliche imposizioni; e siccome le Province
dell'Asia non avevan provato le calamità dell'Europa, così eran meno
disposte a contribuire al sollievo di essa. S'avvicinava già
l'avventuroso periodo del decimo anno del suo regno: festa più grata ai
soldati, che ricevevano un liberal donativo, che ai sudditi, le
volontarie offerte dei quali si eran da lungo tempo convertite in uno
straordinario ed opprimente peso. Gli editti della tassazione
interruppero il riposo ed i piaceri di Antiochia; ed il Tribunale del
Magistrato fu assediato da una supplichevole folla, che in un patetico,
ma da principio rispettoso linguaggio chiedeva la riforma de' propri
aggravj. Essi furono appoco appoco infiammati dall'orgoglio degli
altieri governatori, che trattavano i loro lamenti di colpevole
resistenza; il satirico loro sale degenerò in aspre e rabbiose
invettive; e le invettive del popolo insensibilmente dalle potestà
subordinate del governo giunsero ad attaccare il sacro carattere
dell'Imperatore medesimo. Il furore, provocato da una debole
opposizione, si scaricò sulle immagini della Famiglia Imperiale, che si
erano innalzate come oggetti di pubblica venerazione nei luoghi più
cospicui della città. Furono insolentemente gettate a terra dai loro
piedestalli le statue di Teodosio, di suo padre, di Flaccilla sua
moglie, dei due suoi figli Arcadio ed Onorio; queste furono spezzate o
strascinate con disprezzo per le strade: e le indegnità commesse contro
le rappresentazioni della Maestà Imperiale, sufficientemente spiegavano
gli empj e ribelli desiderj della plebe. Il tumulto fu quasi subito
soppresso dall'arrivo d'un corpo d'arcieri; ed Antiochia ebbe agio di
riflettere alla natura ed alle conseguenze del suo delitto[524]. Il
Governatore della provincia, com'esigeva il suo uffizio, mandò
all'Imperatore un fedele ragguaglio di tutto il fatto; mentre i
cittadini tremanti affidaron la confessione del delitto e le proteste
del pentimento allo zelo di Flaviano loro Vescovo, ed all'eloquenza del
Senatore Ilario, amico e probabilissimamente discepolo di Libanio; i
talenti del quale non furono in quella trista occasione inutili alla sua
patria[525]. Ma le due capitali Antiochia e Costantinopoli eran fra loro
distanti ottocento miglia; e nonostante la diligenza delle poste
Imperiali, la colpevol città restò severamente punita da una lunga e
terribile sospensione. Ogni romore agitava le speranze ed i timori degli
Antiocheni; ed udirono con terrore, che il loro Sovrano, esacerbato
dall'insulto fatto alle proprie statue, e più specialmente a quelle
della diletta sua moglie, avea risoluto di far livellare al suolo quella
delinquente città e trucidarne senza distinzione di età o di sesso i
colpevoli abitatori[526], molti dei quali erano già tratti dalle loro
apprensioni a cercare un rifugio nelle montagne della Siria, e nel
vicino deserto. Finalmente, ventiquattro giorni dopo la sedizione, il
Generale Ellebico, e Cesario Maestro degli Uffizi dichiararono la
volontà dell'Imperatore, e la sentenza d'Antiochia. Quella superba
Capitale restò degradata dallo stato di città; e la metropoli
dell'Oriente, spogliata delle sue terre, dei suoi privilegi e delle sue
rendite, fu sottoposta, coll'umiliante denominazion di villaggio, alla
giurisdizione di Laodicea[527]. Chiusi furono i bagni, i teatri ed il
circo; ed affinchè rimanesse nell'istesso tempo sospesa ogni sorgente di
abbondanza e di piacere, fu abolita dalle rigide istruzioni di Teodosio
la distribuzione del grano. Si procedè in seguito da' commissari di esso
ad investigare la colpa di ciascheduno, sì di quelli che distrutto
avevano le sacre statue, che di quelli che non l'aveano impedito. S'alzò
in mezzo del Foro il tribunale di Ellebico e di Cesario, circondato da
soldati armati. Comparivano in catene avanti di loro i più nobili e più
ricchi cittadini d'Antiochia, s'accompagnava l'esame dall'uso della
tortura, e secondo il giudizio di quegli straordinari Magistrati veniva
pronunziata o sospesa la lor sentenza. Le case dei rei furono esposte
alla vendita, le loro mogli e figliuoli furono ad un tratto ridotti
dall'abbondanza e dal lusso alla più abbietta miseria; e si aspettava,
che una sanguinosa esecuzione finisse gli orrori d'un giorno[528], che
il predicatore d'Antiochia, l'eloquente Grisostomo, ha rappresentato
come una viva immagine dell'ultimo ed universal giudizio del Mondo. Ma i
Ministri di Teodosio eseguivano con ripugnanza il crudele uffizio che
era stato loro commesso: spargevano lacrime compassionevoli sulle
calamità del popolo; e riverentemente dieder orecchio alle pressanti
sollecitazioni dei monaci e degli eremiti, che scesero a sciami dalle
montagne[529]. Ellebico e Cesario si lasciarono persuadere a sospendere
l'esecuzione di lor sentenza; e fu convenuto, che il primo restasse in
Antiochia, mentre l'altro tornava con tutta la possibil celerità a
Costantinopoli, ed arrischiavasi di consultare un'altra volta la volontà
del Sovrano. L'ira di Teodosio erasi già calmata; tanto il Vescovo che
l'oratore, deputati del popolo, avevano avuto una favorevole udienza; ed
i rimproveri dell'Imperatore eran piuttosto le querele d'una ingiuriata
amicizia, che le fiere minacce dell'orgoglio e del potere. Fu accordato
un libero e general perdono alla città ed a' cittadini d'Antiochia;
s'apriron le porte della prigione; i Senatori, che disperavano delle
proprie vite, ricuperarono il possesso delle case e dei beni loro; ed
alla capitale dell'Oriente fu restituita l'antica sua dignità e lo
splendore. Teodosio degnossi perfino di lodare il Senato di
Costantinopoli, che avea generosamente intercesso pei propri angustiati
fratelli; premiò l'eloquenza di Ilario col governo della Palestina; e
licenziò il Vescovo d'Antiochia coll'espressioni più tenere di rispetto
e di gratitudine. S'eressero mille nuove statue alla clemenza di
Teodosio; l'applauso dei sudditi veniva confermato dall'approvazione del
proprio suo cuore; e l'Imperatore confessò, che se l'esercizio della
giustizia è il più importante dovere d'un Sovrano la indulgenza però
della misericordia n'è il piacer più squisito[530].

[A. 390]

La sedizione di Tessalonica si attribuisce ad una causa più vergognosa,
e produsse molto più terribili conseguenze. Quella gran città, metropoli
di tutte le Province Illiriche, era stata difesa dai pericoli della
guerra Gotica con forti ripari e con numerosa guarnigione. Boterico,
Generale di quelle truppe, e per quanto apparisce dal nome stesso,
Barbaro di nazione, aveva fra i suoi schiavi un bel fanciullo, ch'eccitò
gl'impuri desideri d'uno dei cocchieri del circo. Per ordine di Boterico
fu posto in carcere l'insolente e brutale amante; e pertinacemente si
rigettarono gl'importuni clamori della moltitudine, che in occasione dei
pubblici giuochi dolevasi dell'assenza del suo favorito, e risguardava
l'abilità d'un cocchiere come un oggetto di maggiore importanza che la
sua virtù. Lo sdegno del popolo era già irritato da alcune precedenti
contese; e siccome s'era tratto di là il più forte della guarnigione pel
servizio della guerra Italica, i deboli residui, ch'erano ancora
diminuiti di numero per la diserzione, non poteron salvar l'infelice
Generale dalla licenziosa lor furia. Boterico, insieme con alcuni dei
suoi primi uffiziali, restarono crudelmente uccisi; i lacerati lor corpi
strascinati furono per le strade; e l'Imperatore, che in quel tempo
risedeva in Milano, fu sorpreso dalla notizia dell'audace e sfrenata
barbarie del popolo di Tessalonica. La sentenza di qualunque Giudice
spassionato avrebbe dovuto infliggere una severa pena agli autori del
delitto; ed anche il merito di Boterico potè contribuire ad esacerbare
il dispiacere e lo sdegno del suo Signore. Il focoso e collerico
temperamento di Teodosio fu impaziente delle dilatorie formalità d'un
processo criminale; e precipitosamente risolvè, che s'espiasse il sangue
del suo Luogotenente con quello del popolo reo. Pure il suo spirito
pendea tuttora dubbioso fra i consigli di clemenza e di vendetta; lo
zelo dei Vescovi avea quasi strappato dal ripugnante Imperatore la
promessa di un generale perdono. Ma fu di nuovo infiammata la sua
passione dalle adulanti suggestioni di Ruffino ministro di lui; e dopo
che Teodosio ebbe spedito i messaggi di morte, tentò, ma troppo tardi,
d'impedire l'esecuzione dei suoi ordini. Fu ciecamente commesso il
gastigo di una città Romana alla spada, che senza distinzione alcuna
operasse, de' Barbari; e si concertarono gli ostili preparativi
coll'oscuro e perfido artifizio di un'illegittima cospirazione. A
tradimento si invitò il popolo di Tessalonica in nome del suo Sovrano ai
giuochi del Circo; e tal era l'insaziabile avidità loro per questi
divertimenti, che da un gran numero di spettatori fu trascurata
qualunque considerazione di timore o di sospetto. Appena fu ripieno quel
luogo, i soldati, che erano stati posti segretamente intorno al Circo,
riceverono il segnale non già della corsa, ma di un generale macello.
Continuò quella promiscua carnificina per tre ore senza differenza di
stranieri o di nazionali, di sesso o di età, d'innocenza o di colpa; i
ragguagli più moderati fanno ascendere a settemila il numero degli
uccisi; ed alcuni scrittori asseriscono, che furono sacrificate più di
quindicimila vittime all'ombra di Boterico. Un mercante forastiero, che
probabilmente non aveva avuto parte nell'uccisione di esso, offerì la
propria vita e tutte le sue ricchezze per salvare uno dei suoi due
figli; ma mentre il padre stava esitando con uguale tenerezza, mentr'era
dubbioso nella scelta, e ripugnante alla condanna, i soldati posero fine
alla sua sospensione coll'immergere nel momento stesso i lor ferri nei
petti dei miseri giovani. L'apologia degli assassini, che erano cioè
obbligati a produrre un determinato numero di teste, non serve che ad
accrescere, coll'apparenza dell'ordine e della premeditazione, gli
orrori della strage, che fu eseguita per comandamento di Teodosio.
S'aggrava la colpa dell'Imperatore dalla lunga e frequente residenza di
lui in Tessalonica. Eran famigliari, e tuttora presenti
all'immaginazione di esso la situazione di quella sfortunata città,
l'aspetto delle contrade e delle fabbriche, le vesti ed i volti degli
abitatori e Teodosio aveva un forte e vivo sentimento dell'esistenza di
quel popolo ch'egli distrusse[531].

[A. 338]

Il rispettoso attaccamento dell'Imperatore pel Clero Cattolico l'aveva
disposto ad amare ed ammirare il carattere d'Ambrogio, che nel più
eminente grado riuniva in sè tutte le virtù Episcopali. Gli amici ed i
ministri di Teodosio imitavan l'esempio del loro Sovrano; ed egli vedeva
con maggior sorpresa che dispiacere, che tutti i suoi consigli segreti
venivano immediatamente comunicati all'Arcivescovo, il quale agiva nella
lodevole persuasione, che qualunque passo del governo civile può aver
qualche connessione con la gloria di Dio o coll'interesse della vera
religione. I Monaci e la plebe di Callinico, oscura città sulle
frontiere della Persia, eccitati dal proprio fanatismo, e da quello del
loro Vescovo, avevan tumultuariamente abbruciato un luogo d'adunanza dei
Valentiniani, ed una sinagoga di Ebrei. Il sedizioso Prelato fu
condannato dal magistrato della provincia o a rifabbricare la sinagoga,
o a risarcirne il danno; e questa moderata sentenza fu confermata
dall'Imperatore, ma non dall'Arcivescovo di Milano[532]. Ei dettò una
lettera di censura e di rimprovero, che più sarebbe stata forse a
proposito, se l'Imperatore avesse ricevuto la circoncisione, e
rinunciato alla fede del suo Battesimo. Ambrogio considera la tolleranza
della religione Giudaica come una persecuzione della Cristiana;
arditamente dichiara, ch'egli stesso ed ogni vero fedele avrebbe
ardentemente disputato al Vescovo di Callinico il merito del fatto e la
corona del martirio, e si duole ne' termini più patetici, che la
esecuzione della sentenza sarebbe stata fatale alla fama ed alla
salvazione di Teodosio. Poichè questo privato avvertimento non produsse
immediatamente l'effetto, l'Arcivescovo pubblicamente dal pulpito[533]
diresse il discorso all'Imperatore sul Trono[534], nè volle offrir
l'oblazione dell'altare, finattantochè non ebbe ottenuto da Teodosio una
solenne e positiva dichiarazione, che assicurasse l'impunità del Vescovo
e dei Monaci di Callinico. Fu sincera la ritrattazione di Teodosio[535];
e nel tempo della sua residenza in Milano continuamente andò crescendo
l'affetto, che avea verso d'Ambrogio per l'abitudine di una pia e
famigliare conversazione.

Quando Ambrogio seppe la strage di Tessalonica, il suo spirito fu
ripieno d'orrore e di angustia. Ritirossi alla campagna per soddisfare
il proprio dolore, e per evitar la presenza di Teodosio. Ma siccome
l'Arcivescovo era persuaso, che un timido silenzio lo avrebbe renduto
complice del misfatto, rappresentò in una privata lettera l'enormità del
delitto, che non potea cancellarsi che mediante le lacrime della
penitenza. L'Episcopal vigore d'Ambrogio fu temperato dalla prudenza, e
si contentò d'indicargli[536] una specie di scomunica indiretta,
assicurandolo, che era stato avvertito in visione di non offerire il
sacrifizio in nome o in presenza di Teodosio; ed avvisandolo, che si
limitasse all'uso delle preghiere, senz'ardire d'accostarsi all'altare
di Cristo, o di ricevere la santa Eucarestia con quelle mani che erano
tuttavia contaminate dal sangue di un innocente popolo. Era l'Imperatore
profondamente agitato dai propri rimproveri e da quelli del suo padre
spirituale; e dopo d'avere pianto le dannose ed irreparabili conseguenze
del suo precipitoso furore, si dispose a fare, giusta l'usata forma, le
sue devozioni nella Chiesa maggiore di Milano. Fu egli arrestato nel
vestibolo dall'Arcivescovo, che col tuono e col linguaggio di un
Ambasciatore del Cielo, dichiarò al suo Sovrano, che la contrizione
privata non era sufficiente a purgare un delitto pubblico, o a soddisfar
la giustizia dell'offesa Divinità. Teodosio umilmente rappresentò, che
se egli aveva commesso il delitto dell'omicidio, David, che era l'uomo
secondo il cuore di Dio, era stato non solo reo d'omicidio, ma ancor
d'adulterio. «Tu hai imitato Davide nel delitto, imitalo dunque nella
penitenza»: tale fu la risposta dell'inflessibile Ambrogio. Si
accettarono le rigorose condizioni del perdono e della pace; ed è
riportata la pubblica penitenza dell'Imperator Teodosio come uno dei più
onorevoli avvenimenti negli annali della Chiesa. Secondo le regole più
moderate della disciplina ecclesiastica, ch'era in vigore nel quarto
secolo, s'espiava il delitto d'omicidio con la penitenza di
vent'anni[537]; e siccome nel corso della vita umana era impossibile di
purgare il moltiplice reato della strage di Tessalonica, il delinquente
avrebbe dovuto escludersi dalla santa comunione fino all'ora della sua
morte. Ma l'Arcivescovo, consultando le massime di una religiosa
politica, accordò qualche indulgenza al grado dell'illustre penitente,
che umiliò fino alla polvere la sublimità del diadema, e potè ammettersi
la pubblica edificazione come un forte motivo per abbreviar la durata
della sua pena. Era abbastanza, che l'Imperator dei Romani, spogliato
delle insegne Reali, comparisse nella positura di dolente e di
supplichevole, e che in mezzo alla Chiesa di Milano umilmente chiedesse,
con singhiozzi e con lacrime, il perdono delle sue colpe[538]. In questa
cura spirituale, Ambrogio impiegò i diversi metodi della dolcezza e
della severità. Dopo una dilazione di circa otto mesi, fu restituita a
Teodosio la comunion dei fedeli; e l'editto, che frappone un salutevole
spazio di trenta giorni fra la sentenza e l'esecuzione di essa, può
riguardarsi come il degno frutto della sua penitenza[539]. I posteri
hanno applaudito alla virtuosa fermezza dell'Arcivescovo, e l'esempio di
Teodosio può servire a provare la vantaggiosa influenza di quei
principj, che possono sforzare un Monarca, superiore ai timori delle
pene umane, a rispettare le leggi e i ministri d'un Giudice invisibile.
«Un Principe (dice Montesquieu) sul quale hanno forza le speranze ed i
timori della religione, si può paragonare ad un leone, docile soltanto
alla voce ed alla mano del suo custode»[540]. I moti dunque di una reale
fiera dipenderanno e dall'inclinazione e dall'interesse dell'uomo, che
ha acquistato una sì pericolosa autorità sopra di essa, ed il sacerdote,
che ha nelle mani la coscienza di un Re, può accenderne o moderarne le
ardenti passioni. Il medesimo Ambrogio ha sostenuto la causa
dell'umanità e quella della persecuzione con ugual energia e con uguale
successo.

[A. 388-391]

Dopo la disfatta e la morte del Tiranno della Gallia, il Mondo Romano
restò in possesso di Teodosio. Dalla scelta di Graziano ei traeva
l'onorevol suo diritto alle province dell'Oriente: egli aveva acquistato
l'Occidente, per mezzo della vittoria, ed i tre anni, che passò
nell'Italia, furono utilmente impiegati a ristabilire l'autorità delle
leggi, ed a corregger gli abusi, che erano impunemente prevalsi durante
l'usurpazione di Massimo e la minorità di Valentiniano. Il nome di
questo era inserito regolarmente nei pubblici atti; ma sembrava, che la
tenera età e la dubbiosa fede del figliuolo di Giustina esigessero la
prudente cura di un custode Ortodosso; e l'ingegnosa ambizione di
Teodosio avrebbe potuto escludere l'infelice giovane senza contesa e
quasi senza una parola, dall'amministrazione, ed anche dall'eredità
dell'Impero. Se Teodosio avesse consultato le rigide massime
dell'interesse e della politica, la sua condotta sarebbe stata
giustificata dai suoi amici; ma la generosità del suo contegno in questa
memoranda occasione ha vinto anche l'applauso dei suoi più inveterati
nemici. Ei collocò Valentiniano sul trono di Milano, e senza stipulare
alcun presente o futuro vantaggio, gli restituì l'assoluto dominio di
tutte le Province, delle quali era stato spogliato dalle armi di
Massimo. Alla restituzione dell'ampio suo patrimonio, Teodosio aggiunse
il libero e generoso dono dei paesi oltre le Alpi, che il suo fortunato
valore avea ricuperati dall'assassino di Graziano[541]. Contento della
gloria che aveva acquistato nel vendicare la morte del suo benefattore e
nel liberar l'Occidente dal giogo della tirannide, l'Imperatore tornò da
Milano a Costantinopoli; e pacifico possessor dell'Oriente
insensibilmente ricadde negli antichi suoi abiti di lusso e d'indolenza.
Teodosio adempì la sua obbligazione verso il fratello di Valentiniano,
compartì la coniugal sua tenerezza alla sorella di esso; e la posterità,
che ammira la pura e singolar gloria dell'elevazione di lui, dee fare
applauso all'incomparabil sua generosità nell'uso della vittoria.

[A. 391]

L'Imperatrice Giustina non sopravvisse lungamente al suo ritorno
nell'Italia, e quantunque vedesse il trionfo di Teodosio, non le fu
permesso d'influire sul governo del proprio figlio[542]. Il pernicioso
attacco alla setta Arriana, che Valentiniano aveva imbevuto dall'esempio
e dalle istruzioni di lei, fu presto tolto via dalle lezioni di una
educazione più ortodossa. Il crescente suo zelo per la fede Nicena, e la
sua filiale riverenza pel carattere e l'autorità d'Ambrogio, dispose i
Cattolici a formare la più favorevol opinione delle virtù del giovane
Imperatore d'Occidente[543]. Applaudivano essi alla sua castità e
temperanza, al disprezzo che aveva del piacere, all'applicazione per gli
affari, ed alla tenera affezione di lui per le due sue sorelle, le quali
però non poterono indurre l'imparzial giustizia di lui a pronunziare
un'ingiusta sentenza contro l'infimo dei suoi sudditi. Ma quest'amabile
giovane, prima di finire il ventesim'anno della sua età, fu oppresso da
un tradimento domestico, e l'impero fu involto di nuovo negli orrori di
una guerra civile. Arbogaste[544], valente soldato della nazione dei
Franchi, teneva il secondo posto nella milizia di Graziano. Dopo la
morte del suo Signore s'unì allo stendardo di Teodosio; contribuì col
suo valore e colla sua condotta militare alla distruzion del tiranno, e
fu dichiarato, dopo la vittoria, Generale dell'esercito della Gallia. Il
real suo merito e l'apparente sua fedeltà avean guadagnato la confidenza
del Principe e del popolo; l'illimitata sua liberalità corruppe i
soldati; e mentre generalmente stimavasi come la colonna dello Stato,
l'ardito ed astuto Barbaro s'era segretamente determinato o a regolare o
a rovinar l'Impero d'Occidente. Si distribuirono i più importanti posti
dell'esercito tra i Franchi; furon promosse le creature d'Arbogaste a
tutti gli onori ed uffizi del governo civile; il progresso della
cospirazione allontanò dalla presenza di Valentiniano qualunque servo
fedele; e l'Imperatore, senza forza e senza cognizione, cadde appoco
appoco nella precaria dipendente condizione di schiavo[545]. Lo sdegno,
che egli manifestò, quantunque potesse nascere solo dall'impaziente e
precipitosa indole giovanile, può però ingenuamente anche attribuirsi
allo spirito generoso di un Principe, che sentiva di non essere indegno
di regnare. Secretamente invitò l'Arcivescovo di Milano ad intraprendere
l'uffizio di mediatore, come guarante della sua sincerità, e custode
della sua salute. Pensò d'informare l'Imperatore d'Oriente dell'infelice
situazione, in cui si trovava; e dichiarò, che, se Teodosio non avesse
potuto marciar prontamente in suo soccorso, egli avrebbe dovuto tentare
di fuggir dal palazzo, o piuttosto dalla prigione di Vienna in Gallia,
dove imprudentemente avea stabilito la sua residenza in mezzo alla
nemica fazione. Ma le speranze d'aiuto eran lontane e dubbiose; e
siccome ogni giorno somministrava qualche nuova provocazione,
l'Imperatore, senza forza o consiglio, con troppa fretta risolvè di
arrischiare un'immediata contesa col potente suo Generale. Ricevè
Arbogaste sul trono, e mentre il Conte s'accostava con qualche apparenza
di rispetto, gli diede un foglio, che indicava la dimissione da tutti i
suoi impieghi. «La mia autorità» (rispose Arbogaste con insultante
freddezza) «non dipende dal sorriso o dal sopracciglio di un Monarca»; e
con disprezzo gettò il foglio sul suolo. L'irato Monarca s'attaccò alla
spada di una delle guardie, che si sforzò di trarre dal fodero; e non fu
senza qualche sorta di violenza, che gli fu impedito di usar quell'arme
fatale contro il suo nemico o se stesso. Pochi giorni dopo tale
straordinario contrasto, in cui si era manifestato il risentimento e la
debolezza dell'infelice Valentiniano, si trovò strangolato nel suo
quartiere; e s'impiegò qualche cura per cuoprire il manifesto delitto di
Arbogaste, e persuadere il Mondo, che la morte del giovane Imperatore
era stato il volontario effetto della propria disperazione[546]. Il
corpo di lui fu con decente pompa condotto a sepellirsi in Milano, e
l'Arcivescovo recitò un'orazione funebre, per rammentarne le virtù e le
sventure[547]. In quest'occasione la umanità d'Ambrogio l'indusse a
sconvolgere in singolar modo il suo sistema teologico, ed a confortare
le piangenti sorelle di Valentiniano, con assicurarle che il pio lor
fratello, quantunque non avesse ricevuto il sacramento del Battesimo,
era stato introdotto senza difficoltà nelle sedi della beatitudine
eterna[548].

La prudenza d'Arbogaste aveva preparato il successo dei suoi ambiziosi
disegni; ed i Provinciali, nei petti dei quali era già estinto qualunque
sentimento di patriottismo o di fedeltà, con mansueta rassegnazione
aspettavano l'ignoto Signore, che la scelta di un Franco avrebbe posto
sul trono Imperiale. Ma qualche residuo di orgoglio e di pregiudizio
tuttavia s'opponeva all'elevazione d'Arbogaste medesimo; ed il
giudizioso Barbaro stimò consiglio migliore quello di regnare sotto il
nome di qualche dipendente Romano. Ei diede la porpora al Retore
Eugenio[549], ch'esso aveva già promosso dal posto di suo Segretario
domestico, a quello di Maestro degli Uffizi. Nel corso dei privati e dei
pubblici impieghi, il Conte aveva sempre approvato l'attaccamento e
l'abilità di Eugenio; la sua dottrina ed eloquenza, sostenuta dalla
gravità dei costumi, gli conciliava la stima del popolo; e la
ripugnanza, con cui parve salire sul trono, può inspirare una favorevole
prevenzione della virtù e moderazione di esso. Furono immediatamente
spediti alla Corte di Teodosio gli Ambasciatori del nuovo Imperatore,
per fargli sapere con affettata mestizia l'infelice accidente della
morte di Valentiniano, e per chiedere, senza rammentare il nome
d'Arbogaste, che il Monarca Orientale abbracciasse per suo legittimo
collega il rispettabile cittadino, che aveva ottenuto l'unanime
suffragio degli eserciti e delle Province occidentali[550]. Teodosio fu
giustamente irritato, che la perfidia d'un Barbaro avesse in un momento
distrutto le fatiche ed il frutto delle sue precedenti vittorie; e fu
eccitato dalle lacrime dell'amata sua moglie[551] a vendicare la morte
dello sfortunato fratello di lei, ed a sostenere un'altra volta con le
armi la violata Maestà del Trono. Ma siccome una seconda conquista
dell'Occidente era un'impresa pericolosa e difficile, rimandò con
splendidi doni e con ambigua risposta gli Ambasciatori di Eugenio, e
furono impiegati quasi due anni nei preparativi della guerra civile.

Avanti di appigliarsi ad alcun decisivo partito, il pietoso Imperatore
bramava di sapere la volontà del Cielo, e poichè il progresso del
Cristianesimo aveva fatto tacere gli oracoli di Delfo e di Dodona,
consultò un Monaco Egiziano il quale secondo l'opinione d'allora, godeva
del dono dei miracoli e della cognizion del futuro. Eutropio, uno degli
Eunuchi favoriti del palazzo di Costantinopoli, s'imbarcò per
Alessandria, di dove navigò su pel Nilo fino alla città di Licopoli o
dei Lupi, situata nella remota provincia della Tebaide[552]. Nelle
vicinanze di quella città e sulla cima di un alto monte, il Santo
Giovanni[553], aveva fabbricato con le sue proprie mani un'umil cella,
nella quale era dimorato più di cinquant'anni senz'aprire la porta,
senza veder la faccia di alcuna donna, e senza gustar cibo, che si fosse
preparato per mezzo del fuoco o qualche arte umana. Egli consumava
cinque giorni della settimana in preghiere e meditazioni; ma il sabbato
e la domenica ordinariamente apriva una piccola finestra, e dava udienza
alla folla dei supplicanti, che continuamente vi concorrevano da tutte
le parti del Mondo. S'accostò alla finestra in rispettoso portamento
l'Eunuco di Teodosio, propose le sue dimande intorno all'evento della
guerra civile, ed in breve tornò con un favorevole oracolo, che animò il
coraggio dell'Imperatore con la sicurezza d'una sanguinosa ma infallibil
vittoria[554]. Fu preceduto l'adempimento della predizione da tutti quei
mezzi, che somministrar poteva l'umana prudenza. Si scelse l'industria
dei due generali, Stilicone e Timasio, per compire il numero, e
ristabilir la disciplina delle legioni Romane. Marciarono le formidabili
truppe dei Barbari, sotto le insegne dei nativi lor Capitani. Erano
arrolati al servizio del medesimo Principe l'Ibero, l'Arabo, e il Goto,
che si miravan l'un l'altro con vicendevol sorpresa; ed il famoso
Alarico acquistò nella scuola di Teodosio quella cognizione dell'arte
della guerra, che poi esercitò con tanta fatalità per la distruzione di
Roma[555].

L'Imperatore Occidentale, o per dir meglio il suo Generale Arbogaste era
stato istruito dalla mala condotta e dalla disgrazia di Massimo di
quanto poteva riuscir pericoloso l'estender la linea di difesa contro un
abil nemico, il quale era in libertà di spignere o di sospendere, di
ristringere o di moltiplicare i suoi diversi modi d'attacco[556].
Arbogaste piantò il suo quartiere nei confini dell'Italia; lasciò senza
resistenza occupare alle truppe di Teodosio le province della Pannonia
fino a piè delle alpi Giulie; ed anche i passaggi delle montagne
negligentemente, o forse ad arte furono abbandonati all'audace invasore.
Questi discese dai monti, ed osservò con qualche sorpresa il formidabile
campo dei Galli e dei Germani, che occupava con le armi e con le tende
l'aperta campagna, che si estende fino alle mura d'Aquileia, ed alle
rive del Frigido[557] o del fiume freddo[558]. Questo angusto teatro
della guerra, circoscritto dalle Alpi e dall'Adriatico, non dava molto
luogo alle operazioni della militare perizia; lo spirito d'Arbogaste
avrebbe sdegnato un perdono; la sua colpa toglieva ogni speranza di
negoziazione; e Teodosio era impaziente di soddisfare la propria gloria
e vendetta col punir gli assassini di Valentiniano. Senza considerare
gli ostacoli, che la natura e l'arte opponevano ai suoi sforzi,
l'Imperatore d'Oriente attaccò subito le fortificazioni dei rivali,
assegnò ai Goti il posto d'un onorevol pericolo, e nutriva un segreto
desiderio, che la sanguinosa battaglia diminuisse l'orgoglio ed il
numero dei vincitori. Diecimila di quegli ausiliari, e Bacurio, Generale
degl'Iberi, valorosamente restaron morti sul campo. Ma il loro sangue
non servì a comprar la vittoria: i Galli mantennero il vantaggio che
avevano, e la sopravvegnente notte protesse la disordinata fuga o
ritirata delle truppe di Teodosio. L'Imperatore si riparò sui monti
vicini, dove passò una trista notte senza dormire, senza provvisioni, e
senza speranze[559]; eccettuata quella forte sicurezza, che nelle
circostanze più disperate un animo indipendente può trarre dal disprezzo
della fortuna e della vita. Si celebrava il trionfo d'Eugenio
dall'insolente e dissoluta gioia del suo campo, mentre l'attivo e
vigilante Arbogaste segretamente distaccava un corpo considerabil di
truppe ad oggetto d'occupare i passi dei monti, e circondare la
retroguardia dell'esercito Orientale. Allo spuntare del giorno, Teodosio
vide la grandezza e l'estremità del pericolo: ma ne furon tosto
dissipati i timori da un amichevol messaggio, spedito dai condottieri di
quelle truppe, che gli espose l'inclinazione che avevano d'abbandonare
lo stendardo del Tiranno. Furono senza esitare accordati gli onorevoli e
lucrosi premi che essi richiesero in prezzo del lor tradimento; e
siccome non si poteva facilmente aver foglio ed inchiostro, l'Imperatore
sottoscrisse sul suo medesimo libretto de' ricordi la ratifica del
trattato. Si ravvivò da quest'opportuno rinforzo lo spirito dei suoi
soldati; e con nuovo coraggio marciarono a sorprendere il campo di un
Tiranno, i primi Uffiziali del quale pareva che diffidassero o della
giustizia o del buon successo delle sue armi. Nel calor della pugna, ad
un tratto, come suole spesso accadere fra le alpi, si suscitò
dall'Oriente una furiosa tempesta. L'esercito di Teodosio era difeso per
la sua situazione dall'impetuosità del vento, che gettò un nuvol di
polvere in faccia ai nemici, disordinò le loro file, fece cadere loro i
dardi di mano, e rispinse o diresse altrove gli inefficaci lor
giavellotti. Si trasse abilmente profitto di quest'accidental vantaggio:
la violenza della tempesta fu magnificata dai superstiziosi terrori dei
Galli, i quali cederono senza vergogna all'invisibil potere del Cielo,
che sembrava militare dalla parte del pio Imperatore[560]. La sua
vittoria fu intera; ed i suoi rivali non si distinsero nella morte che
per la differenza dei loro caratteri. Il Rettore Eugenio, che aveva
quasi acquistato il dominio del Mondo, si ridusse ad implorar la
misericordia del vincitore; e gli impazienti soldati, nel tempo che ei
stava prostrato ai piè di Teodosio, gli tagliaron la testa. Arbogaste,
dopo aver perduto una battaglia, in cui adempiuto aveva i doveri di
soldato e di generale, andò vagando più giorni fra le montagne. Ma
quando restò convinto, che il caso era disperato, ed impraticabile la
fuga, l'intrepido Barbaro imitò l'esempio degli antichi Romani, e
rivolse contro il proprio petto la spada. Fu deciso il destino
dell'Impero in un angusto canto dell'Italia; ed il legittimo successore
della casa di Valentiniano abbracciò l'Arcivescovo di Milano, e ricevè
graziosamente la sommissione delle Province occidentali. Erano queste
restate involte nella colpa della ribellione; mentre l'inflessibil
coraggio dell'unico Ambrogio avea resistito alle pretensioni d'una
felice usurpazione. L'Arcivescovo con una viril libertà, che avrebbe
potuto esser fatale ad ogni altro suddito, rigettò i doni d'Eugenio,
evitò la sua corrispondenza, e si ritirò da Milano per fuggire l'odiosa
presenza d'un Tiranno, di cui predisse in ambiguo e discreto linguaggio
la perdita. Fu applaudito il merito d'Ambrogio dal vincitore, che si
assicurò l'affetto del popolo mediante la sua union con la Chiesa: e
s'attribuisce la clemenza di Teodosio alla pietosa intercessione
dell'Arcivescovo di Milano[561].

Dopo la disfatta d'Eugenio, tutti gli abitanti del Mondo Romano di buona
voglia riconobbero il merito non meno che l'autorità di Teodosio.
L'esperienza della sua condotta passata favoriva le più lusinghiere
speranze del futuro suo regno; e l'età dell'Imperatore, che non passava
cinquant'anni, pareva che allargasse il prospetto della pubblica
felicità. La sua morte, che seguì non più di quattro mesi dopo l'esposta
vittoria, fu riguardata dal popolo come un evento non preveduto e
fatale, che in un momento distruggeva le speranze della nascente
generazione. Ma l'amore del comodo e del lusso aveva segretamente
nutrito i principj della malattia[562]. La forza di Teodosio non fu
capace di sostenere il subitaneo, e violento passaggio dal palazzo al
campo; ed i sintomi di una idropisia, che andavan sempre crescendo,
annunziarono la pronta fine dell'Imperatore. L'opinione e forse
l'interesse del pubblico avea confermato la divisione degli Imperi
d'Oriente e d'Occidente; e i due reali giovani, Arcadio ed Onorio, che
avevano già ottenuto dalla tenerezza del genitore il titolo di Augusti,
furon destinati ad occupare i troni di Costantinopoli e di Roma. Non fu
permesso a questi Principi di esser partecipi del pericolo e della
gloria della guerra civile[563], ma tosto che Teodosio ebbe trionfato
degli indegni suoi rivali, chiamò Onorio, suo figlio minore, a godere i
frutti della vittoria, ed a ricever lo scettro dell'Occidente dalle mani
dello spirante suo padre. Si celebrò l'arrivo d'Onorio a Milano con una
splendida rappresentazione di giuochi nel Circo, e l'Imperatore,
quantunque oppresso dal peso del male, contribuì con la sua presenza
alla pubblica gioia. Ma si esaurì la forza, che gli restava, dai penosi
sforzi che fece per assistere agli spettacoli della mattina. Onorio, nel
rimanente del giorno, tenne il luogo del padre; ed il Gran Teodosio
spirò nella notte seguente. Nonostante le recenti animosità d'una guerra
civile, la sua morte fu generalmente compianta. I Barbari ch'egli avea
vinti, e gli Ecclesiastici, dai quali era stato vinto egli stesso,
celebrarono con alto e sincero applauso le qualità del morto Imperatore,
che più sembravano valutabili ai lor occhi. I Romani si spaventarono
all'imminente pericolo d'una debole e divisa amministrazione, ed ogni
disgraziato accidente degli infelici regni d'Arcadio e d'Onorio ravvivò
la memoria della loro irreparabil perdita.

Nella fedel pittura delle virtù di Teodosio, non si sono dissimulate le
sue imperfezioni, l'atto di crudeltà e l'abitudine dell'indolenza, che
oscurarono la gloria d'uno dei più grandi fra i Principi Romani. Un
istorico, perpetuo nemico della fama di Teodosio, ha esagerato i suoi
vizi ed i lor perniciosi effetti; egli audacemente asserisce, che i
sudditi di ogni ceto imitavano gli effemminati costumi del loro Sovrano,
che ogni specie di corruzione macchiava il corso della vita sì pubblica
che privata; e che i deboli freni dell'ordine e della decenza non eran
sufficienti ad impedire il progresso di quello spirito depravato, che
sacrifica senza rossore la considerazione del dovere e dell'utile alla
vile soddisfazione dell'ozio e dell'appetito[564]. Le querele degli
Scrittori contemporanei, che deplorano l'accrescimento del lusso, e la
depravazione dei costumi, ordinariamente indicano la particolare loro
indole e situazione. Vi sono pochi osservatori, che abbiano una chiara
ed estesa veduta delle rivoluzioni di una società; e che sieno capaci di
scuoprire i tenui e segreti motivi d'agire, che spingono ad un'istessa
uniforme direzione le capricciose e cieche passioni d'una moltitudine
d'individui. Se può affermarsi con qualche grado di verità, che la
lussuria dei Romani fosse più vergognosa o dissoluta nel regno di
Teodosio, che al tempo di Costantino, o forse d'Augusto, non può
attribuirsi tale alterazione ad alcuna vantaggiosa circostanza, che
avesse accresciuto la copia delle nazionali ricchezze. Un lungo periodo
di calamità o di decadenza dovè opporsi alla industria, e diminuir
l'opulenza del popolo; ed il profuso lusso deve essere stato l'effetto
di quella indolente disperazione, che gode il bene presente, e scaccia i
pensieri del futuro. L'incerta condizione del loro stato disanimava i
sudditi di Teodosio dall'impegnarsi in quelle utili e laboriose imprese,
che richiedono una spesa immediata, e promettono un lento e lontano
vantaggio. I frequenti esempi di desolazione e rovina li tentavano a non
risparmiare gli avanzi di un patrimonio, che ad ogni momento potea
divenire la preda dei rapaci Goti. E la pazza prodigalità, che prevale
nella confusione d'un naufragio o d'un assedio, può servire a spiegare
il progresso del lusso fra le disgrazie ed i terrori d'una cadente
nazione.

Il lusso effemminato, che infestava i costumi delle Corti e delle città,
aveva instillato un veleno distruttivo e segreto nei corpi delle
legioni; e si è notata la degenerazione di esse dalla penna d'uno
scrittore militare, che aveva diligentemente studiato i genuini ed
antichi principj della disciplina Romana. È una giusta ed importante
osservazione di Vegezio, che la infanteria fu invariabilmente coperta
con armi difensive, dalla fondazione della città fino al regno
dell'Imperator Graziano. Il rilassamento della disciplina e la mancanza
d'esercizio rendè i soldati meno atti e meno disposti a sostener le
fatiche militari: si dolevano essi del peso dell'armatura, che di rado
portavano; ed ottennero in seguito la permissione di deporre le corazze
e gli elmetti. I pesanti dardi dei loro maggiori, la spada corta, ed il
formidabile pilo, che avea soggiogato il Mondo, caddero insensibilmente
dalle lor deboli destre. Siccome non è compatibile l'uso dello scudo con
quello dell'arco, essi marciavano mal volentieri nel campo; condannati a
soffrire o il dolore delle ferite o l'ignominia della fuga, erano sempre
disposti a preferire l'alternativa più vergognosa. La cavalleria dei
Goti, degli Unni e degli Alani aveva sentito il benefizio, ed adottato
l'uso delle armi difensive; ed essendo eccellenti nel maneggiare le armi
da scagliare, facilmente opprimevano le tremanti e nude legioni, che
avevan le teste ed i petti esposti senza difesa alle frecce dei Barbari.
La perdita degli eserciti, la distruzione delle città, ed il disonore
del nome Romano indussero dipoi inutilmente i successori di Graziano a
ristabilir l'uso degli elmi e delle corazze nell'infanteria. Gli
snervati soldati abbandonarono la propria e la pubblica difesa; e la
pusillanime loro indolenza può risguardarsi come l'immediata cagione
della caduta dell'Impero[565].

NOTE:

[441] Valentiniano fu meno sollecito della religion del suo figlio,
poichè affidò l'educazion di Graziano ad Ausonio, dichiarato Pagano
(_Mem. de l'Academ. des Inscr. T. XV. p. 125-138_). La fama poetica
d'Ausonio condanna il gusto del suo secolo.

[442] Ausonio fu gradatamente promosso alla Prefettura del Pretorio
dell'Italia (nell'anno 377) e della Gallia (nell'anno 378) ed in fine fu
insignito del Consolato (l'anno 379). Egli espresse la sua gratitudine
con un servile ed insipido tratto d'adulazione (_Actio gratiarum p.
699-736_), che è sopravvissuto ad altre produzioni più degne.

[443] _Disputare de principali judicio non opportet: sacrilegii enim
instar est dubitare, an is dignus sit, quem elegerit Imperator: Cod.
Justin. l. IX. Tit. XXIX. leg. 3_. Questa legge sì ragionevole fu
confermata e pubblicata dopo la morte di Graziano dalla debole Corte di
Milano.

[444] Ambrogio compose per istruzione di lui un trattato teologico sulla
fede della Trinità: e Tillemont (_Hist. des Emper. Tom. V. p. 158. 169_)
attribuisce all'Arcivescovo il merito delle intolleranti leggi di
Graziano.

[445] _Qui divinae legis sanctitatem nesciendo omittunt, aut negligendo
violant et offendunt, sacrilegium committunt: Cod. Just. l. IX. Tit.
XXIX. leg_. Teodosio invero può pretender la sua parte nel merito di
questa estesa legge.

[446] Ammiano (XXXI. 10) e Vittore il Giovane riconoscono le virtù di
Graziano, ed accusano o piuttosto deplorano il depravato suo gusto.
L'odioso paralello di Commodo è addolcito dall'espressione: _licet
incruentus_, e forse Filostorgio (l. X. c. 10. _col Gotofred. pag. 412_)
ha mitigato con qualche riserva simile la comparazion di Nerone.

[447] Zosimo (l. IV. p. 247) e Vittore il Giovane attribuiscono la
rivoluzione al favor degli Alani ed al disgusto delle truppe Romane.
_Dum exercitum negligeret, et paucos ex Alanis, quos ingenti auro ad se
transtulerat, anteferret veteri ac Romano militi._

[448] _Britannia fertilis provincia tyrannorum:_ È una memorabile
espressione adoperata da Girolamo nella controversia Pelagiana, e
variamente interpretata nelle dispute dei nazionali nostri Antiquari.
Pare che le rivoluzioni del secolo passato giustifichino l'immagine del
sublime Bossuet: «Cette isle plus orageuse que les mers qui
l'environnent».

[449] Zosimo dice dei soldati Britannici: των αλλων απαντων πλεον
αυθαδεια και θυμῳ: _son molto superiori a tutti gli altri in arroganza
ed in ardire._

[450] Elena figlia d'Eudda. Può vedersi ancora la sua cappella a
Caer-Segont, ora Caer-Noarvon (_Carte Istor. d'Inghil. Vol. I. p. 168_
dalla Mona antiqua di Rowland). Il prudente lettore non sarà
probabilmente soddisfatto di tal testimonianza Gallese.

[451] Cambden (_Vol. I. Introd._ p. 101) lo caratterizza governatore
della Britannia, ed il padre delle nostre antichità vien seguitato,
com'è solito, dai ciechi suoi figli. Pacato e Zosimo avean preso qualche
cura per impedir quest'errore o favola; ed io mi difenderò con le
decisive loro testimonianze. _Regali habitu exulem suum, illi exules
orbis induerunt (in Paneg. vet. XII. 23_) e l'Istorico Greco con molto
minor equivoco, αυτοϛ (Maximus) δε ουδου εις αρχην εντιμον ετυχη
προελθων (_lib. IV. p. 248) esso poi non era costituito in onorevol
comando_.

[452] Sulpic. Sever. _Dial_. II. 7. Orosio l. VII. c. 34. p. 556.
Ambidue riconoscono (Sulpicio era stato suo suddito) l'innocenza ed il
merito d'esso. Egli è ben singolare, che Massimo sia stato trattato meno
favorevolmente da Zosimo, parziale avversario del suo rivale.

[453] L'Arcivescovo Usserio (_Antiq. Britann. Eccl. p. 107, 108_) ha
diligentemente raccolto le leggende dell'Isola e del Continente. Tutta
l'emigrazione consisteva in 30000 soldati e 100000 plebei, che si
stabilirono nella Brettagna. Le spose loro destinate, cioè S. Orsola con
11000 nobili Vergini, e 60000 plebee, sbagliarono la strada, preser
terra a Colonia, e furono crudelissimamente trucidate dagli Unni. Ma le
sorelle plebee vennero defraudate di tal onore: e quel che è più strano,
Giovanni Tritemio pretende di far menzione dei _figli_ di queste Vergini
Britanniche.

[454] Zosimo (l. IV. p. 248. 249) ha trasferito la morte di Graziano da
_Lugdunum_ (Lione) nella Gallia a _Singidunum_ nella Mesia. Possono
rilevarsi alcuni cenni dalle Croniche, e scuoprirsi alcune falsità in
Sozomeno (l. VII. c. 13) ed in Socrate (l. V. c. 11). Ambrogio è la
nostra guida più autentica (Tom. I. _Enarrat. in Psalm._ 61. p. 961.
Tom. II. Epist. 24. p. 888, ec. _et de Obitu. Valent. Consol._ n. 28. p.
1182).

[455] Pacato (XII. 68) celebra la fedeltà di Mellobaude, mentre nella
Cronica di Prospero si nota il suo tradimento come la causa della rovina
di Graziano. Ambrogio, che ha motivo di pensare a scolpare se stesso,
non condanna che la morte di Vallio, servo fedele di Graziano (Tom. II.
ep. 24 p. 891. _Ed. Benedict._)

[456] Egli si protesta, _nullum ex adversariis nisi in acie occubuisse_:
Sulpic. Sever. _in vit. B. Martin, a. 23._ L'orator di Teodosio accorda
una ripugnante, e pure autorevol lode alla clemenza di Massimo: _si cui
ille, pro ceteris sceleribus suis, minus crudelis fuisse videtur. Paneg.
vet. XII. 28._

[457] Ambrogio fa menzione di quelle leggi di Graziano, _quas non
abrogavit hostis: Tom._ II. _epist._ 17. _p._ 827.

[458] Zosimo l. IV. p. 251. 252. Noi possiamo ben disapprovare questi
odiosi sospetti; ma non possiamo tralasciare il trattato di pace, che
gli amici di Teodosio hanno assolutamente dimenticato, o ne han fatta
leggiera menzione.

[459] L'Arcivescovo di Milano, oracolo del Clero, assegnò al suo
discepolo Graziano un sublime e rispettabile posto nel Cielo. Tom. II.
_de Obit. Val. Consol. p._ 1193.

[460] Pel Battesimo di Teodosio vedansi Sozomeno (l. VII c. 4) Socrate
(l. V. c. 6) e Tillemont (_Hist. des Emper. Tom._ V. _p._ 728).

[461] Ascolio o Acolio fu onorato dall'amicizia e dalle lodi d'Ambrogio,
che lo chiama: _murus fidei atque sanctitatis_ (Tom. II. ep. 15 p. 820),
e quindi celebra la sua prontezza e diligenza in correre da
Costantinopoli in Italia, ec. (_epist._ 16. _p._ 822) virtù, che non
conviene nè ad un _muro_ nè ad un _Vescovo_.

[462] _Cod. Teod. lib._ XVI. _Tit._ I. _leg._ 2. _col Comment. del_
Gotofredo _Tom._ VI. _p._ 5-9. Tale editto meritava le più alte lodi del
Baronio: _auream sanctionem, edictum pium et salutare. Sic itur ad
astra_.

[463] Sozomeno l. VII. c. 6. Teodoreto l. V. c. 16. Al Tillemont (_Mem.
Eccles. Tom._ VI. _p._ 627, 628) dispiacciono i termini di _rozzo
Vescovo, e d'oscura città_. Pure bisogna che mi si permetta di credere,
che Anfilochio ed Icone fosser oggetti d'inconsiderabil grandezza
nell'Impero Romano.

[464] Sozomeno l. VII. c. 5. Socrat. l. V. c. 7. Marcellin. _in Chron._
Bisogna cominciare il computo dei quarant'anni dall'elezione o
intrusione d'Eusebio, che saggiamente cambiò il Vescovato di Nicomedia
con la sede di Costantinopoli.

[465] Vedi Jortin _Osservaz. sull'Istor. Eccl. Vol. IV. p._ 71.
L'Orazione trentesimaterza di Gregorio Nazianzeno somministra invero
qualche idea simile, ed alcune anche più ridicole; ma io non ho potuto
trovar le parole di questo notabile passo, che adduco sulla fede d'un
esatto ed ingenuo erudito.

[466] Vedi l'Orazione 32 di Gregorio Nazianzeno, ed il racconto ch'egli
ha fatto della sua vita in 1800 versi jambici. Pure ogni Medico è
disposto ad esagerare l'inveterata natura della malattia ch'egli ha
curata.

[467] Io mi confesso altamente obbligato alle due vite di Gregorio
Nazianzeno, composte, con molto diverse mire dal Tillemont (_Mem.
Eccles. Tom._ IX. _p._ 305-560, 695-741) e dal Le Clerc. (_Bibliot.
Univ. Tom._ XVII. _p._ 1. 128).

[468] A meno che Gregorio Nazianzeno non abbia fatto l'error di
trent'anni nella sua propria età, egli era nato, ugualmente che Basilio,
suo amico, circa l'anno 329. L'anticipata cronologia di Suida si è
ricevuta favorevolmente, perchè toglie lo scandalo, che il padre di
Gregorio, ancor egli santo, generasse figli dopo d'esser divenuto
Vescovo (Tillemont _Mem. Eccles. Tom._ IX. _p._ 693-769).

[469] Il Poema di Gregorio sulla propria vita contiene alcuni bei versi
(Tom. II. p. 9), che nascono dal cuore, ed esprimono i torti d'una
ingiuriata e perduta amicizia.

    .... πονοι κονοι λογων,
    Ομοςεγος τε και σινεςιος βιος
    Νους εις εν αμφοιν
    Διεσκεδασαι παντα ερριπται χαμαι
    Αυραι φερουσι τας παλαιας ελπιδας

... _Eran comuni le fatiche dai ragionamenti, famigliare e congiunta la
vita, un animo in ambidue ... Tutto si è dissipato, è caduto a terra, i
venti portano via le antiche speranze._

Nel Sogno della Notte di Mezza State, Elenia fa l'istesso patetico
lamento all'amico Ermia.

    _Is all the counsel that we two have shared,_
    _The sister's vows, ecc._

«Fra noi due comune abbiamo ogni consiglio, i voti della sorella ec.»

Shakespeare non aveva mai letto i poemi di Gregorio Nazianzeno, egli non
sapeva la lingua Greca: ma la sua madre lingua, cioè quella della
natura, è l'istessa nella Cappadocia e nell'Inghilterra.

[470] Questo svantaggioso ritratto di Sasima è preso da Gregorio
Nazianzeno (_Tom._ II. _de vita sua p._ 7. 8). Nell'Itinerario
d'Antonino se ne fissa la situazione precisa in distanza di quarantanove
miglia da Archelaide, e di trentadue da Tiana. (_p._ 144. _Edit.
Wesseling._).

[471] Si è reso immortale da Gregorio il nome di Nazianzo, ma si fa
menzione della sua patria sotto il nome Greco o Romano di Diocesarea da
Tillemont (_Memoir. Eccles. T._ IX. _p._ 692), da Plinio (VI. 3), da
Tolomeo e da Ierocle (_Itin. Wesseling p._ 709 ). Sembra che fosse
situata sul confine dell'Isauria.

[472] Vedi Du Cange _Const. Christ._ l. IV. p. 141. 142. La Θεια
δυναμις _Divina forza_ di Sozomeno (l. VII. c. 5) viene interpretata
per Maria Vergine.

[473] Tillemont (_Mem. Eccl. Tom._ IX. _p._ 432. ec. ) diligentemente
raccoglie, estende e spiega gli oratorj e poetici tratti di Gregorio
medesimo.

[474] Ei recitò un'orazione (_Tom._ I. _Orat._ XXIII. _p._ 409) in sua
lode; ma dopo la lor contesa fu mutato il nome di Massimo in quello di
Erone (Vedi Girolamo _T._ I. _in Catal. Script. Eccles._ p. 301). Io
tocco di volo tali personali ed oscure discordie.

[475] Sotto il modesto velo d'un sogno, Gregorio (T. II. _Carm._ IX.
_p._ 78) descrive il proprio buon successo con qualche umana
compiacenza. Pure dalla famigliare conversazione di lui con S. Girolamo,
suo discepolo (_Tom. I. Epist. ad Nepotian. p._ 14), parrebbe, che il
predicatore sapesse il vero valore dell'applauso popolare.

[476] _Lacrymae auditorum laudes tuae sint_: questo è il vivace e
giudizioso parere di S. Girolamo.

[477] Socrate (l. V. c. 7) e Sozomeno (l. VII. c. 5) riferiscono
l'evangeliche parole ed azioni di Damofilo, senza neppure una parola
d'approvazione. Egli riflettè, dice Socrate, ch'è difficile _resistere_
ai potenti: ma era facile, e sarebbe stato vantaggioso il
_sottomettersi_.

[478] Vedi Gregor. Naz. _Tom._ II. _de vita sua p._ 21. 22. Il Vescovo
di Costantinopoli, per istruzione della posterità, fa menzione di uno
stupendo prodigio. Nel mese di Novembre era una mattinata nuvolosa; ma
quando la processione entrò in Chiesa, comparve il Sole.

[479] Frai tre storici Ecclesiastici, il solo Teodoreto (l. V. c. 2) ha
rammentato quest'importante commissione di Sapore, che il Tillemont
(_Hist. des Emper. Tom._ V. p. 728) ha giudiziosamente trasferito dal
regno di Graziano a quello di Teodosio.

[480] Io non fo conto di Filostorgio, quantunque faccia egli menzione
dell'espulsion di Damofilo (I. c. 19). L'Istorico Eunomiano si è
diligentemente fatto passare per un crivello cattolico.

[481] Le Clerc ha dato un curioso estratto (_Bibl. Univ. Tom._ XVIII. p.
91-105) dei discorsi Teologici che Gregorio Nazianzeno recitò a
Costantinopoli contro gli Arriani, gli Eunomiani, i Macedoniani ec. Ei
dice ai Macedoniani, che divinizzavano il Padre ed il Figlio senza lo
Spirito Santo, che essi potevano chiamarsi _Triteisti_ così bene che
_Diteisti_. Gregorio medesimo era quasi un triteista; e la sua monarchia
del Cielo somiglia una ben regolata aristocrazia.

[482] Il primo Concilio Generale di Costantinopoli adesso trionfa nel
Vaticano; ma i Papi lungamente avevano esitato sopra di esso, e la lor
dubbiezza rende perplesso, e fa quasi vacillare l'umile Tillemont _Mem.
Eccl. Tom._ IX. p. 499-500.

[483] Avanti la morte di Melezio, sei o otto de' suoi Preti più
popolari, fra' quali era Flaviano, avean rinunziato con giuramento, per
amor della pace, al Vescovato d'Antiochia. (_Sozomeno_ l. VII. c. 3. 11.
_Socrate_ l. V. c. 5). Il Tillemont si crede in dovere di non prestar
fede all'istoria; ma confessa che nella vita di Flaviano si trovano
molte circostanze, che non sembrano coerenti alle lodi del Grisostomo ed
al carattere d'un santo. (_Mem. Eccl._ T. X. p. 541).

[484] Si consulti Gregorio Nazianzeno (_de vita sua T._ II. p. 25-28).
Può vedersi la sua generale e particolare opinione del Clero e delle
adunanze di esso, tanto in verso quanto in prosa (_Tom. I. Orat. I. p._
33. _epist. LV._ p. 814. _T. II. carm. X_. p. 81). Tali passi vengono
leggermente indicati dal Tillemont, ed ingenuamente prodotti dal le
Clerc.

[485] Vedi Gregorio _Tom._ II. _de vita sua p._ 28-31. Le orazioni 17.
28. 32. furono pronunziate nelle varie scene di quest'azione. La
perorazione dell'ultima (Tom. I. p. 528) in cui dà un solenne addio agli
uomini ed agli Angeli, alla Città ed all'Imperatore, all'Oriente ed
all'Occidente ec., è patetica e quasi sublime.

[486] Sozomeno attesta la capricciosa ordinazion di Nettario (l. VII. c.
8), ma il Tillemont osserva (_Memoir. Eccles. Tom._ IX. _p._ 719) che
«après tout, ce narré de Sozomene est si honteux pour tous ceux qu'il y
mèle, et sur-tout pour Théodose, qu'il vaut mieux travailler à le
détruire, qu'à le soutenir»: ammirabile regola di critica!

[487] Io intendo solamente di dire, che tale era la naturale sua indole,
quando non era infiammata o indurita dallo zelo religioso. Dal suo
ritiro, egli esorta Nettario a perseguitar gli Eretici di
Costantinopoli.

[488] Vedi _Cod. Teodos, lib. XVI. Tit. V. leg. 6. 23_ col commento del
Gotofredo a ciascheduna legge, ed il suo sommario generale o _Paratitlo:
Tom. VI. pag. 104-110._

[489] Essi facevan sempre la Pasqua, come gli Ebrei, nel decimoquarto
giorno del primo mese dopo l'equinozio di primavera, e così
pertinacemente opponevansi alla Chiesa Romana ed al Concilio Niceno, che
avea fissato la Pasqua in Domenica. Bingham. _Ant._ l. XX. c. 5. Vol.
II. p. 309. fol.

[490] Sozomeno l. VII. c. 12.

[491] Vedi l'Istoria Sacra di Sulpizio Severo (l. II. p. 447-455 _ed.
Lugd. Batav._ 1647) scrittore corretto ed originale. Il Dottor Lardner
(_Credibil ec. Part. II. Vol. IX. p. 256, 340_) ha lavorato
quest'articolo con pura erudizione, con moderazione e buon senso. Il
Tillemont (_Mem. Eccles. T. VIII. p. 491-527_) ha ammucchiato tutta la
spazzatura dei Padri: l'utile spazzino!

[492] Severo Sulpizio parla con istima e pietà dell'arcieretico: _Felix
profecto, si non pravo studio corrupisset optimum ingenium: prorsus
multa in eo animi et corporis bona cerneres_ (_Hist. Sacr. l. II. p.
439_). Anche Girolamo (_Tom. I. in Script. Eccl. p. 202_) parla con
moderazione di Priscilliano e di Latroniano.

[493] Questo Vescovato (nella vecchia Castiglia) rende presentemente
20000 ducati l'anno (Busching _Geog. Vol. II. p. 308_), ed è perciò
assai meno atto a produrre l'autore d'una nuova eresia.

[494] _Exprobabatur mulieri viduae nimia religio et diligentius culta
divinitas_ (Pacat. _in paneg. vet. XII. 29_). Tal era l'idea d'un umano,
quantunque ignorante politeista.

[495] Uno di essi fu mandato _in Syllinam insulam, quae ultra Britanniam
est._ Qual esser doveva l'antico stato degli scogli di Scilly (Cambden
_Britann. Vol. II. p. 1519_)?

[496] Le scandalose calunnie di Agostino, di Leone Papa ec. che il
Tillemont ingoia come un fanciullo, e Lardner confuta da uomo, possono
suggerire qualche ingenuo sospetto in favore degli antichi Gnostici.

[497] Ambrog. Tom. II. _epist._ 24. P. 891.

[498] Sulpizio Severo nell'Istoria Sacra, e nella vita di S. Martino usa
qualche cautela; ma si dichiara più liberamente nei dialoghi (III. 15).
Martino però fu ripreso dalla propria coscienza e da un Angelo; nè potè
in seguito far de' miracoli sì facilmente.

[499] Tanto il Prete Cattolico (_Sulpic. Sev. l._ II. _p._ 448) quanto
l'Oratore Pagano (_Pacat. in Paneg. vet._ XII. 29) disapprovano con
uguale indignazione il carattere e la condotta d'Itacio.

[500] La vita di S. Martino, ed i dialoghi intorno a' suoi miracoli,
contengono fatti adattati alla più grossolana ignoranza, in uno stile
non indegno del secolo d'Augusto. È così naturale la connessione fra il
buon gusto ed il buon senso, che mi fa sempre stupore questo contrasto.

[501] La breve e superficial vita di S. Ambrogio, scritta da Paolino suo
Diacono (_Append. ad edit. Bened. p. I. XV_) ha il pregio d'una
testimonianza originale. Il Tillemont (_Mem. Eccles. Tom. X._ p. 78-306)
e gli Editori Benedettini (p XXXI-LXIII) vi hanno lavorato con la solita
lor diligenza.

[502] Ambrogio medesimo (_Tom. II. ep. XXIV._ p. 888. 891) dà
all'Imperatore un assai spiritoso ragguaglio della sua ambasceria.

[503] La rappresentazione, ch'egli stesso fa dei suoi principj e della
sua condotta (_Tom. II. ep. XX. XXI. XXII. p. 851-880_), è uno dei più
curiosi monumenti d'antichità ecclesiastica. Essa contiene due lettere a
Marcellina sua sorella con una supplica a Valentiniano, ed il discorso
_de Basilicis non tradendis._

[504] Il Cardinale di Retz ebbe una simile ambasciata della Regina,
affinchè quietasse il tumulto di Parigi. Ciò non era più in suo potere:
_à quoi j'ajoutai tout ce que vous pouvez vous imaginer de respect, de
douleur, de regret et de soumission etc._ (Mém. T. I. p. 140). Io non
paragono certamente fra loro nè le cause nè le persone; ma il Coadiutore
medesimo aveva qualche idea (p. 84) d'imitar S. Ambrogio.

[505] Il solo Sozomeno (l. VII. c. 13), involge questo luminoso fatto in
una oscura e dubbiosa narrazione.

[506] _Excubabat pia plebs in Ecclesia mori parata cum Episcopo suo....
Nos adhuc frigidi excitabamur tamen civitate attonita atque turbata._
August. _Conf. l. IX. c. 7._

[507] Tillemont _Mem. Eccl. Tom._ II. p. 78, 498. Furono consacrate
molte Chiese in Italia, nella Gallia ec. a quest'incogniti Martiri, fra'
quali sembra che S. Gervasio sia stato più fortunato del suo compagno.

[508] _Invenimus mirae magnitudinis viros duos, ut prisca aetas ferebat.
Tom. II. epist. XXII. p. 875._ La grandezza di questi scheletri era
fortunatamente o artificiosamente adattata al popolar pregiudizio della
successiva decadenza della statura umana, ch'è prevalso in ogni secolo
fin dal tempo d'Omero.

_Grandiaque effossis mirabitur ossa sepulchris._

[509] Ambros. _T. II. ep._ XXII. p. 875. August. _Confess._ l. IX. c. 7
_de Civ. Dei_ l. XXII. c. 8. Paulin. _in vit. S. Ambros._ c. 14 _in
append. Bened. p. 4._ Il cieco aveva nome Severo, ei toccò la sacra
veste, ricuperò la vista, e consacrò il resto della sua vita (almeno per
venticinque anni) al servizio della Chiesa. Io raccomanderei questo
miracolo a' nostri Teologi, se non provasse il culto delle reliquie,
ugualmente che la fede Nicena.

[510] Paulin. _in vit. S. Ambros. c. 5. in app. Bened. p. 5._

[511] Tillemont. _Mem. Eccl. Tom. X._ p. 190, 750. Egli accorda
parzialmente la mediazione di Teodosio, e capricciosamente rigetta
quella di Massimo, quantunque si attesti da Prospero, da Sozomeno e da
Teodoreto.

[512] La modesta censura di Sulpicio (_Dial._ III. 15) gli porta una
ferita molto più profonda, che la debole declamazione di Pacato (XII.
25, 26).

[513] _Esto tutior adversus hominem pacis involucro tegentem._ Tale fu
il prudente avviso d'Ambrogio (_Tom. II. p. 891_) dopo che fu tornato
dalla sua seconda ambasceria.

[514] Il Baronio (an. 387. n. 63) applica a questo tempo di pubblica
calamità alcuni de' sermoni penitenziali dell'Arcivescovo.

[515] Zosimo riferisce la fuga di Valentiniano, e l'amor di Teodosio per
la sorella di esso (l. IV. p. 263. 264). Il Tillemont produce alcune
deboli ed ambigue testimonianze per anticipare il secondo matrimonio di
Teodosio (_Hist. des Emper. Tom. V._ p. 740), e conseguentemente per
confutare _ces contes de Zosime, qui seroient trop contraires à la piété
de Théodose._

[516] Vedi Gotofred. _Cronol. delle leggi Cod. Theod. T. I. p. XCIX._

[517] Oltre i cenni che possono raccogliersi dalle croniche e
dall'Istoria Ecclesiastica, Zosimo (l. IV. p. 259. 267), Orosio (l. VII.
c. 35.) e Pacato (_Paneg. vet_. XII. 30. 48) somministrano gli sconnessi
e scarsi materiali di questa guerra civile. Ambrogio (Tom. II. _Epist_.
40. p. 952-953.) allude oscuramente ai ben noti fatti della sorpresa
d'un magazzino, d'un'azione a Petavio, d'una vittoria, forse navale,
nella Sicilia ec. Ausonio applaudisce al merito singolare ed alla buona
fortuna d'Aquileia.

[518] _Quam promptum laudare Principem, tam tutum siluisse de Principe_
(Pacat. _in Paneg. vet. XII. 2_). Latino Pacato Drepanio, nativo della
Gallia, recitò quest'orazione a Roma (l'anno 388). Egli di poi fu
Proconsole dell'Affrica: ed Ausonio, suo amico, lo loda come un Poeta,
inferiore solo a Virgilio, (Vedi Tillemont _Hist. des Emper. Tom. V. p.
303_).

[519] Vedasi un bel ritratto di Teodosio fatto da Vittore il Giovane; i
delineamenti sono distinti, ed i colori ben fusi. La lode di Pacato è
troppo generale, e Claudiano pare che sempre tema d'esaltare il padre
sopra il figlio.

[520] Ambrog. Tom. II. _epist_. 40. p. 955. Pacato, per mancanza di
cognizione o di coraggio, tralascia questa gloriosa circostanza.

[521] Pacat. _in Paneg. vet. XII. 20_.

[522] Zosimo l. IV. p. 271. 272. La sua parziale testimonianza porta
seco l'aria di verità e di candore. Ei nota queste vicende di pigrizia e
di attività non già come un vizio, ma come una singolarità nel carattere
di Teodosio.

[523] Tal collerico temperamento si confessa e si scusa da Vittore. _Sed
habes_ (dice S. Ambrogio con decente e viril contegno al suo Sovrano)
_naturae impetum, quem si quis lenire velit, cito vertes ad
misericordiam: si quis stimulet, in magis exsuscitas, ut eum revocare
vix possis: (Tom. II. Epist. 51. p. 998_), Teodosio (ap. Claudian. _in
IV. Cons. Hon. 866. etc_.) esorta il figlio a moderar la sua collera.

[524] Tanto i Cristiani che i Pagani erano d'accordo nel credere che i
demonj suscitato avessero la sedizione d'Antiochia. Si facea veder per
le strade, dice Sozomeno (l. VII. c. 23), una donna gigantesca con una
sferza in mano. Un vecchio, dice Libanio (_Orat_. XII. p. 396) si
trasformò in giovane, e quindi in fanciullo.

[525] Zosimo nel suo breve e non ingenuo racconto (l. IV. p. 258. 259),
erra sicuramente in mandare Libanio stesso a Costantinopoli. Le proprie
orazioni di lui indicano, che restò in Antiochia.

[526] Libanio (_Orat. I. p. 6. Edit. Venet_.) dichiara, che sotto un
regno di quella sorte, il timor del macello era senza fondamento ed
assurdo, specialmente, nell'assenza dell'Imperatore, poichè la sua
presenza, secondo l'eloquente schiavo, avrebbe potuto legittimare gli
atti più sanguinosi.

[527] Laodicea sulla costa marittima, settantacinque miglia distante da
Antiochia (vedi Noris _Epoch. Syro-Maced. Diss. 3. p. 230_). Gli
Antiocheni si stimarono offesi, che la città di Seleucia, lor
dipendente, ardisse d'interceder per loro.

[528] Siccome i giorni del tumulto dipendono dalla festa mobile di
Pasqua, essi non si posson determinare, se non ne venga prima fissato
l'anno. Dopo ricerche assai laboriose si è preferito l'anno 387 dal
Tillemont (_Hist. des Emper. Tom. V. p. 741. 744_), e dal Montfaucon
(_Chrys. T. XIII. p. 105-110_).

[529] Grisostomo contrappone il loro coraggio, che non portava seco gran
rischio, alla codarda fuga dei Cinici.

[530] Si rappresenta la sedizione d'Antiochia in una maniera vivace, e
quasi drammatica da due Oratori, ciascheduno dei quali ha la sua dose
d'interesse e di merito. Vedasi Libanio (_Orat. XIV. XV. p. 389. 420.
Edit. Morel, Orat. I. p. 1-14. Venet. 1754_), e le venti orazioni di S.
Gio. Grisostomo _de statuis_ (T. II. p. 1-225. _edit. Montfaucon_). Io
non pretendo ad una gran famigliarità personale con Grisostomo: ma il
Tillemont (_Hist. des Emper. Tom. V. p. 263. 283_), e l'Hermant (_Vie de
S. Chrysost. Tom. I. p. 137-224_) l'avevan letto con più curiosità e
diligenza.

[531] La testimonianza originale d'Ambrogio (T. II. ep. 51, p. 998),
d'Agostino (de Civ. Dei v. 26) e di Paolino (in vit. Ambros. c. 24), si
manifesta in generali espressioni di orrore e di compassione. Essa poi
viene illustrata dalle successive e disuguali autorità di Sozomeno (l.
VII. c. 25), di Teodoreto (l. V. c. 17), di Teofane, (Chronogr. p. 62),
di Cedreno (p. 317), e di Zonara (Tom. II. l. 13. p. 34). Il solo
Zosimo, parzial nemico di Teodosio, non si sa per qual causa passa sotto
silenzio la peggiore delle sue azioni.

[532] Vedasi tutto questo fatto appresso Ambrogio (_Tom. II. epist. 60.
61. p. 946-956_), e Paolino di lui biografo (c. 23). Bayle e Barbeirac
(_Moral des Peres c. 17. p. 325_. ec.) hanno giustamente condannato
l'Arcivescovo.

[533] Il suo discorso è una strana allegoria della verga di Geremia, di
un albero di mandorle, della donna che bagnò ed unse i piedi di Cristo:
ma la perorazione è diretta e personale.

[534] _Hodie, Episcope, de me proposuisti_. Ambrogio lo confessò
modestamente; ma con forza riprese Timesto, Generale di Cavalleria e
d'infanteria, che aveva ardito di dire, che i Monaci di Callinico
meritavan d'esser puniti.

[535] Ma cinque anni dopo, essendo lontano Teodosio dalla spirituale sua
guida, tollerò gli Ebrei, e condannò la distruzione delle loro
sinagoghe. (_Cod. Teod. l. XVI. Tit. VIII. leg. 9 col comment. del
Gotofredo Tom. VI. p. 225_).

[536] Ambros. _Tom. II. Ep. 51 p. 997-1001_. La sua lettera è una
miserabile cantilena sopra un nobil soggetto. Ambrogio sapeva meglio
operare, che scrivere. Le sue composizioni sono prive di gusto o di
genio, senza lo spirito di Tertulliano, la copiosa eleganza di
Lattanzio, il vivace sapere di Girolamo o la grave energia di Agostino.

[537] Secondo la disciplina di S. Basilio (_can. 56_), l'omicida
volontario per _quattro_ anni era piangente: _cinque_ audiente, _sette_
prostrato; e _quattro_ consistente. Io ho l'originale (Beveridge _Pand.
Tom. 2. p. 47, 151)_ ed una traduzione (Chardon _Hist. des Sacrem. T. 4,
p. 219-277_) delle Epistole Canoniche di S. Basilio.

[538] La penitenza di Teodosio viene autenticamente descritta da
Ambrogio (_Tom. VI. de obit. Theod. c. 34. p. 1207_), da Agostino (_de
civ. Dei v. 26_), e da Paolino (_in vit. Ambros. c. 24_). Socrate è
ignorante, e Sozomeno (_l. VII. c. 25_) succinto; e bisogna servirsi con
cautela della copiosa narrazione di Teodoreto.

[539] _Cod. Theod. l. IX. tit. 40. leg. 13._ La data e le circostanze di
questa legge portano seco delle difficoltà; ma io mi sento inclinato a
favorire gli onesti sforzi del Tillemont (_Hist. des Emp. Tom. V. p.
721_), e del Pagi, (_Crit. Tom. I. p. 158_).

[540] _Un prince, qui aime la religion, et qui la craint, est un lion
qui cède à la main qui le flatte, ou à la voix qui l'appaise._ Esprit
des loix l. XXIV. c. 2.

[541] Τουτο περι τους ευερλνειας καθηκον εδοξεν ειναι, _ciò
parve che fosse decente verso i benefattori_. Tal'è l'avara lode di
Zosimo stesso (l. IV. p. 267). Agostino dice con qualche felicità
d'espressione: _Valentinianum... misericordissima veneratione
restituit_.

[542] Sozomeno l. VII. c. 14. La sua cronologia è molto irregolare.

[543] Vedi Ambrogio, _Tom. II. de obit. Valentin. c. 15. ec. p. 1178. c.
36. ec. p. 1184_. Allorchè il giovane Imperatore faceva un trattamento,
digiunava egli stesso; ricusò di vedere una bella attrice ec. Poichè
ordinò che le sue fiere fossero uccise, il rimprovero d'aver amato quel
divertimento appresso Filostorgio (l. XI. c. 1.) non è generoso.

[544] Zosimo (l. IV. p. 275) loda il nemico di Teodosio. Ma egli è
detestato da Socrate (l. V. c. 25) e da Orosio (l. VII. c. 35).

[545] Gregorio di Tours (_l. 2. c. 9. p. 165. nel secondo volume degli
Istorici di Francia_) ci ha conservato un curioso frammento di Sulpicio
Alessandro, istorico molto più valutabile di lui medesimo.

[546] Il Gotofredo (_dissert. ad Philostorg. p. 428-434_) ha
diligentemente raccolto tutte le circostanze della morte di Valentiniano
II. Le variazioni e l'ignoranza degli scrittori contemporanei provano
che essa fu segreta.

[547] _De obitu Valentin. Tom. II: p. 1173. 1196_. Egli è costretto ad
usare un linguaggio discreto ed oscuro: pure è molto più ardito di
quello che alcun laico, o forse qualunque altro Ecclesiastico si sarebbe
arrischiato di essere.

[548] Vedi c. 51. _p. 1188. c. 75. p. 1193_. Dom Chardon (_Hist. des
Sacrem. Tom. I. p. 86_), che confessa che S. Ambrogio sostiene col
maggior vigore l'_indispensabile_ necessità del Battesimo, stenta a
conciliare la contraddizione.

[549] _Quem sibi Germanus famulum delegerat exul_. Tal'è la disprezzante
espressione di Claudiano (_IV Cons. Hon. 74_). Eugenio professava il
Cristianesimo; ma è probabile in un grammatico, che fosse in segreto
attaccato al Paganesimo (Sozomen. l. VII. c. 22 Filostorg. l. XI. c. 2),
e quasi l'assicurerebbe l'amicizia di Zosimo (l. IV. p. 276, 277).

[550] Zosimo (l. IV. p. 278) fa menzione di quest'ambasceria; ma
un'altra storia lo distrae dal riferirne l'evento.

[551] Συνεταραξεν η τουτου γαμετη Γαλλα βασιληια τον αδελφον
ολοφυρομενη: _l'eccitò l'Imperatrice Galla, sua moglie, che piangeva
il fratello_. Zosimo l. IV. p. 278. In seguito dice (p. 280), che Galla
morì di parto, e riferisce che fu estrema l'afflizione del marito, ma
breve.

[552] Licopoli è la moderna _Siut_, ossia _Osiot_, città di Said, della
grandezza incirca di S. Denis, che fa un vantaggioso commercio col regno
di Sennaar; ed ha una molto conveniente fontana, _cujus potu signa
virginitatis eripiuntur_. Vedi Danville (_Descr. de l'Egypt. p. 171_),
Abulfeda (_Desc. Aegipt. p. 74_) e le curiose annotazioni (p. 25. 92)
del suo editore Michaelis.

[553] Fu descritta la vita di Giovanni di Licopoli da due dei suoi
amici, da Ruffino (l. II. c. 1. p. 449) e da Palladio (Hist. Laus. c. 43
p. 738) nella gran Collezione delle Vitae Patrum di Rosvveide. Il
Tillemont (_Mem. Eccles. T. X. p. 718. 720_) ne ha determinata la
cronologia.

[554] Sozomeno l. VII. c. 22. Claudiano (_in Eutrop. l. I. 311_) fa
menzione del viaggio dell'Eunuco: ma deride col maggior disprezzo i
sogni Egiziani, e gli oracoli del Nilo.

[555] Zosimo l. IV. p. 280. Socrat. l. VII. 10,. Alarico medesimo (de
bello Get. 524) si ferma con più compiacenza sulle sue prime imprese
contro i Romani.

.... _Tot Augustos Hebro qui teste fugavi_:

Pure la sua vanità difficilmente avrebbe potuto provare questa
_pluralità_ d'Imperatori fuggitivi.

[556] Claudiano _in IV. Cons. Honor_. 77. ec. pone a confronto i disegni
militari dei due usurpatori.

    _.... Novitas audere priorem_
    _Suadebat, cautumque dabant exemplo sequentem._
    _Hic nova moliri praeceps: hic quaerere tuta_
    _Providus. Hic fusis; collectis viribus ille._
    _Hic vagus excurrens; hic intra claustra reductus._
    _Dissimiles; sed morte pares..._

[557] Il Frigido, piccolo, quantunque memorabile fiume nella Gorizia,
ora chiamato Vipao, si getta nel Sonzio, o Lisonzo sopra Aquileia in
distanza di qualche miglio dal mare Adriatico. Vedi Danville _Cart.
Antich. Mod. e l'Italia Antiqua_ del Cluverio Vol. I. p. 188.

[558] Lo spirito di Claudiano è intollerabile: la neve era tinta di
rosso; il freddo fiume fumava; ed il canale avrebbe dovuto riempirsi di
cadaveri, se non si fosse accresciuta la corrente dal sangue.

[559] Teodoreto asserisce, che comparvero al vigilante o addormentato
Imperatore S. Giovanni e S. Filippo a cavallo. Questo è il primo esempio
della cavalleria apostolica, che divenne poscia sì popolare in Ispagna
ed al tempo delle Crociate.

[560]

    _Te propter gelidis Aquilo de monte procellis_
    _Obruit adversus acies, revolutaque tela_
    _Vertit in auctores, et turbine repulit hastas,_
    _O nimium dilecte Deo, cui fundit ab antris_
    _Aeolus armatas hyemes, cui militat aether,_
    _Et conjurati veniunt ad classica venti!_

Questi famosi versi di Claudiano (_in III. Cons. Hono. 93. an. 396_) son
riferiti dai suoi contemporanei Agostino ed Orosio, che sopprimono la
Pagana Divinità d'Eolo; ed aggiungono alcune circostanze, che avevan
sapute dai testimoni di veduta. Dentro i quattro mesi dopo la vittoria,
fu essa paragonata da Ambrogio alle vittorie miracolose di Mosè e di
Giosuè.

[561] Hanno raccolto gli avvenimenti di questa guerra civile Ambrogio
(Tom. II. ep. 62 p. 1022), Paolino (_in vit. Ambros._ c. 26-34),
Agostino (_De Civ. Dei_ V. 26), Orosio (l. VII. c. 35), Sozomeno (l.
VII. c. 24). Teodoreto (l. V. c. 24), Zosimo (l. IV. p. 281 ec.),
Claudiano (_in III. Con. Hon. 63-105. in IV. Cons. Honor. 70-117_) e le
Croniche pubblicate dallo Scaligero.

[562] Questa malattia, da Socrate (l. V. c. 26) attribuita alle fatiche
della guerra, si rappresenta da Filostorgio (l. XI. c. 2) come un
effetto di pigrizia e d'intemperanza; perlochè Fozio lo chiama uno
sfacciato mentitore; (Gotofredo _Diss. p. 438_).

[563] Zosimo suppone, che il fanciullo Onorio accompagnasse suo padre
(l. IV. p. 280). Pure l'espressione _quanto flagrabant pectora voto_, è
tutto quello che l'adulazione potè permettere ad un poeta contemporaneo,
il quale chiaramente descrive la negativa dell'Imperatore, ed il viaggio
d'Onorio _dopo_ la vittoria (Claudiano _in III. Cons. 78-125_).

[564] Zosimo l. IV. p. 244.

[565] Veget. _de re milit._ l. I. c. 10. La serie delle calamità, che
egli nota, ci costringe a credere, che l'Eroe a cui dedica il suo libro,
sia l'ultimo ed il meno glorioso dei Valentiniani.



CAPITOLO XXVIII.

      _Distruzione finale del Paganesimo. Introduzione del culto dei
      Santi, e delle reliquie fra i Cristiani._


La rovina del Paganesimo, seguita ai tempi di Teodosio, è forse l'unico
esempio dell'intiero annientamento di un'antica e popolare
superstizione; e può meritare per conseguenza di esser considerata come
un evento singolare nell'istoria dello spirito umano. I Cristiani, e
specialmente il Clero, avevan sofferto con impazienza le prudenti
dilazioni di Costantino, e l'ugual tolleranza di Valentiniano il
Vecchio; nè potevan creder perfetta o sicura la lor conquista,
finattantochè fosse permesso agli avversari di esistere. Impiegossi
l'autorità che Ambrogio ed i suoi fratelli aveano acquistato sopra la
gioventù di Graziano e la pietà di Teodosio, per inspirare massime di
persecuzione nei petti degl'Imperiali proseliti. Si stabilirono due
speciosi principj di religiosa giurisprudenza, dai quali deducevasi
un'immediata e rigorosa conseguenza contro i sudditi dell'Impero, che
continuavano ad osservare le ceremonie dei loro maggiori: vale a dire,
che il Magistrato in qualche modo si fa reo dei delitti che trascura di
proibire o di gastigare, e che il culto idolatrico delle favolose
Divinità e dei veri demonj è il delitto più abominevole contro la
suprema Maestà del Creatore. S'applicavano senza riflessione, e forse
erroneamente dal Clero le leggi di Mosè, e gli esempi della Storia
Giudaica[566] all'universale e dolce regno del Cristianesimo[567]. Fu
eccitato lo zelo degl'Imperatori a vendicare il proprio onore e quello
di Dio; e circa sessant'anni dopo la conversione di Costantino, si
rovesciarono i templi del Mondo Romano.

Dai giorni di Numa fino al regno di Graziano, i Romani mantennero la
regolar successione dei vari collegi dell'Ordine Sacerdotale[568].
Quindici Pontefici esercitavano la suprema loro giurisdizione su tutte
le persone e le cose dedicate al servizio degli Dei, e le varie
questioni, che continuamente nascevano in un sistema tradizionale e mal
collegato, eran sottoposte al giudizio del sacro lor Tribunale. Quindici
gravi ed eruditi Auguri osservavano l'aspetto dei Cieli, e determinavano
le azioni degli Eroi, secondo il volo degli uccelli. Quindici Custodi
dei libri Sibillini (che dal loro numero prendevano il nome di
Quindecimviri) alle occasioni consultavan l'istoria del futuro, e per
quanto sembra, delle cose contingenti. Sei Vestali consacravano la loro
verginità alla guardia del fuoco sacro e degli ignoti pegni della durata
di Roma, i quali a nessun mortale era stato permesso di rimirare
impunemente[569]. Sette Epuloni preparavano la mensa degli Dei,
dirigevano la solenne processione, e regolavan le cerimonie dell'annua
solennità. I tre Flamini di Giove, di Marte e di Quirino si
risguardavano come i particolari ministri delle tre più potenti
Divinità, che vigilavano sul destino di Roma e dell'Universo. Il Re dei
sacrifizi rappresentava la persona di Numa e dei suoi successori nelle
religiose funzioni, che non si potevano eseguire se non da mani Reali.
Le confraternite de' Salj, dei Lupercali ec. praticavano tali riti, che
avrebbero eccitato riso e disprezzo in qualunque persona ragionevole,
con la viva fiducia di attirarsi il favore degli Dei immortali. La
autorità, che i Sacerdoti Romani avevano anticamente avuto nei consigli
della Repubblica, fu appoco appoco abolita per lo stabilimento della
Monarchia, e per la mutazione della sede Imperiale. Ma era tuttavia
protetta dalle leggi e dai costumi del paese la dignità del sacro loro
carattere; e sempre continuavano, specialmente il collegio dei
Pontefici, ad esercitare nella capitale, ed alle volte nelle Province, i
diritti della loro ecclesiastica e civile Giurisdizione. Le loro vesti
di porpora, i cocchi di parata, ed i sontuosi loro trattamenti
attraevano l'ammirazione del popolo; e dalle sacre terre non meno che
dal pubblico erario tiravano un ampio stipendio, che abbondantemente
serviva a sostenere lo splendore del Sacerdozio e tutte le spese del
Culto religioso dello Stato. Siccome il servizio dell'altare non era
incompatibile col comando degli eserciti, i Romani, dopo i lor consolati
e trionfi, aspiravano ai posti di Pontefici o di Auguri; gli impieghi di
Cicerone[570] e di Pompeo nel quarto secolo erano occupati dai membri
più illustri del Senato; e la dignità della lor nascita rifletteva uno
splendore più grande sul carattere Sacerdotale. I quindici Sacerdoti,
che componevano il collegio dei Pontefici, avevano un grado più distinto
come compagni del loro Sovrano; e gl'Imperatori Cristiani condiscesero
ad accettare la veste e le insegne proprie del Sommo Pontificato. Ma
quando salì sul trono Graziano, più scrupoloso o più illuminato egli
rigettò vigorosamente quei simboli profani[571], applicò all'uso dello
Stato o della Chiesa le rendite de' Sacerdoti e delle Vestali, abolì gli
onori e le immunità loro, e sciolse l'antica fabbrica della
superstizione Romana, che era sostenuta dalle opinioni e dall'abitudine
di undici secoli. Il Paganesimo era sempre la religione costitutiva del
Senato. La sala o il tempio, in cui si adunava, era ornato dalla statua
e dall'altare della Vittoria[572], che rappresentava una maestosa donna
collocata sopra un globo con larghe vesti, con ali stese e con una
corona di alloro in mano[573]. I Senatori solevan giurare sull'altar
della Dea d'osservare le leggi dell'Imperatore e dell'Impero; ed una
solenne offerta di vino e d'incenso era l'ordinario principio dello loro
pubbliche deliberazioni[574]. La remozione di questo antico monumento
era l'unica ingiuria, che Costanzo avea fatto alla superstizione de'
Romani. L'altare della Vittoria fu ristabilito da Giuliano, da
Valentiniano tollerato, ed un'altra volta bandito dal Senato per lo zelo
di Graziano[575]. Pure l'Imperatore avea risparmiato le statue degli
Dei, che erano esposte alla pubblica venerazione: tuttavia sussistevano
quattrocento ventiquattro tempj, o cappelle per soddisfare la devozione
del popolo; ed in ogni quartiere di Roma era offesa la delicatezza dei
Cristiani dal fumo dei sacrifizi idolatrici[576].

[A. 384]

Ma i Cristiani facevano la minor parte del Senato di Roma[577]; e non
poterono esprimere che con la loro assenza la disapprovazione dei
legittimi, quantunque profani, atti del maggior partito Pagano. In
quell'assemblea le morte ceneri della libertà per un momento si
ravvivarono, ed infiammate furono dal soffio del fanatismo. Si
mandarono, l'una dopo l'altra, quattro rispettabili Deputazioni alla
Corte Imperiale[578] per rappresentar le querele del Sacerdozio e del
Senato, e per sollecitar la restaurazione dell'altare della Vittoria.
S'affidò la condotta di quest'importante affare all'eloquente
Simmaco[579], ricco e nobile Senatore, che univa il sacro carattere di
Pontefice e d'Augure con le dignità civili di Proconsole dell'Affrica e
di Prefetto di Roma. Era il petto di Simmaco animato dal più ardente
zelo per la causa del Paganesimo spirante; ed i religiosi di lui
antagonisti compiangevano in esso l'abuso dall'ingegno e l'inefficacia
delle morali virtù[580]. L'oratore, la domanda del quale all'Imperatore
Valentiniano tuttavia sussiste, sapeva le difficoltà ed il pericolo
dell'uffizio che s'era addossato. Egli evitò con cautela ogni argomento,
che potesse apparir relativo alla religione del suo Sovrano; umilmente
dichiarò, che le uniche sue armi eran le preghiere e le suppliche; e
trasse le sue ragioni artificiosamente dalle scuole della rettorica
piuttosto che da quelle della filosofia. Simmaco procurò di sedurre
l'immagine del giovane Principe con lo spiegar gli attributi della Dea
della Vittoria; egli insinuò che la confiscazione delle rendite dedicate
al servizio degli Dei, era un ordine indegno del generoso e
disinteressato carattere dell'Imperatore; e sostenne, che i sacrifizi
Romani sarebbero stati privi della forza ed energia loro, se non si
fossero più celebrati a spese ed in nome della Repubblica. Anche lo
scetticismo stesso potè somministrare un'apologia alla superstizione. Il
grande ed incomprensibil _segreto_ dell'universo, egli diceva, elude le
ricerche dell'uomo. Dove non può istruire la ragione, si può permettere
che guidi l'uso; e sembra che ogni nazione segua i dettami della
prudenza, mediante un fedele attaccamento a quei riti ed a quelle
opinioni, che hanno ricevuto l'approvazione dei secoli. Se quei secoli
si son veduti coronati di gloria e di prosperità, se il devoto popolo ha
frequentemente ottenuto i benefizi, che ha domandato agli altari degli
Dei, dee sembrare sempre più prudente consiglio quello di persistere
nella medesima pratica salutare, senza correr gl'ignoti rischi, che
posson seguire una precipitosa innovazione. Fu applicato il testimonio
dell'antichità e del successo con singolar vantaggio alla Religione di
Numa; e Roma stessa, qual celeste Genio, che presedeva al destino della
città, fu introdotta dall'Oratore a difendere la propria causa avanti al
Tribunale degli Imperatori. «Egregi Principi, (dice la venerabil
Matrona) Padri della patria, abbiate compassione della mia età, che
finora è passata in un continuo corso di opere pie. Poichè non ne son io
malcontenta, permettetemi di continuar nella pratica degli antichi miei
riti. Poichè son nata libera, concedetemi di godere i miei domestici
instituti. Questa religione ha ridotto il Mondo sotto alle mie leggi.
Questi riti hanno rispinto Annibale dalla città, ed i Galli dal
Campidoglio. Era la mia canuta chioma riserbata a tal intollerabil
disgrazia? Ignoro il nuovo sistema, che mi si vuol fare adottare; ma son
bene sicura, che la correzione della vecchiezza è sempre un uffizio
ingrato ed ignominioso[581]». I timori del popolo supplivano a quel che
la discrezione dell'oratore avea soppresso; e le calamità che
affliggevano e minacciavano il decadente Impero, venivano dai Pagani
concordemente imputate alla nuova religione di Cristo e di Costantino.

Ma le speranze di Simmaco restaron più volte deluse dalla ferma e destra
opposizione dell'Arcivescovo di Milano, che fortificò gli Imperatori
contro la fallace eloquenza dell'Avvocato di Roma. In questa
controversia, Ambrogio condiscende a parlar da filosofo, e a domandare
con qualche disprezzo, perchè si credesse necessario d'introdurre
un'immaginaria ed invisibile potestà, come causa di quelle vittorie, che
sufficientemente si poteano spiegare col valore e con la disciplina
delle legioni? Giustamente deride l'assurda reverenza per l'antichità,
che non poteva produrre altro effetto che quello di scoraggiare i
progressi delle arti, e far ricadere il genere umano nella sua
originaria barbarie. Quindi a grado a grado innalzandosi ad un più
sublime e teologico tuono, pronunzia che il solo Cristianesimo contiene
la dottrina di verità e di salute, e che ogni sorta di politeismo
conduce i suoi delusi seguaci per la via dell'errore all'abisso della
eterna perdizione[582]. Argomenti di tal sorta, suggeriti da un Vescovo
favorito, avean forza d'impedire la restaurazione dell'altare della
Vittoria; ma i medesimi argomenti cadevano con molto maggior energia ed
effetto dalla bocca d'un conquistatore, e gli Dei dell'antichità furon
tratti in trionfo dietro al cocchio di Teodosio[583]. In una piena
adunanza del Senato, l'Imperatore, secondo le formalità della
Repubblica, propose l'importante questione, se il culto di Giove, o
quello di Cristo formar dovesse la Religione dei Romani. La libertà dei
voti, che egli affettava di concedere, fu tolta dalle speranze e dai
timori, che inspirava la sua presenza; e l'arbitrario esilio di Simmaco
era una recente ammonizione, che poteva essere pericoloso l'opporsi ai
desiderj del Monarca. Fattasi una regolar divisione del Senato, Giove
restò condannato e degradato pel parere d'una pluralità di voti; ed è
piuttosto sorprendente, che vi si trovassero alcuni membri tanto arditi
da dichiarare, coi loro discorsi e suffragi, che essi eran sempre
attaccati agli interessi d'una ripudiata Divinità[584]. La precipitosa
conversione del Senato si deve attribuire a motivi o soprannaturali o
sordidi, e molti di questi ripugnanti proseliti dimostrarono, ad ogni
favorevole occasione, la segreta loro tendenza a gettar via la maschera
dell'odiosa dissimulazione. Ma si confermarono essi appoco appoco nella
nuova religione, a misura che la causa dell'antica diveniva più
disperata; e cederono all'autorità dell'Imperatore, all'uso dei tempi,
alle preghiere delle mogli e dei figli[585], che erano instigati e
diretti dal Clero di Roma e dai Monaci dell'Oriente. L'esempio
edificante della famiglia Anicia fu tosto imitato dal resto della
nobiltà: i Bassi, i Paolini, i Gracchi abbracciarono la religion
Cristiana; ed «i luminari del Mondo, la venerabile assemblea dei Catoni»
(tali sono le ampollose espressioni di Prudenzio) «erano impazienti di
spogliarsi degli ornamenti Pontificali, di gettar via la spoglia del
vecchio serpente, di assumere le candide vesti della battesimale
innocenza, e d'umiliare l'orgoglio dei Fasci Consolari avanti alle tombe
dei Martiri[586]». I cittadini, che sussistevano con la propria
industria, e la plebe, che era sostenuta dalla pubblica liberalità,
empivan le Chiese del Laterano e del Vaticano con una continua folla di
devoti proseliti. I decreti del Senato, che condannavano il culto degli
idoli, ratificati furono dal general consenso dei Romani[587]; s'oscurò
lo splendore del Campidoglio; ed i tempj solitari furono abbandonati
alla rovina e al disprezzo[588]. Roma si sottopose al giogo
dell'evangelio; ed il suo esempio trasse le soggiogate Province che non
avevano ancor perduta la reverenza per l'autorità ed il nome di Roma.

La filiale pietà degli Imperatori medesimi gli indusse a procedere con
qualche cautela e tenerezza nella riforma dell'eterna città. Quegli
assoluti Monarchi agirono con minor riguardo verso i pregiudizi dei
Provinciali. Il pio lavoro, che dalla morte di Costanzo[589] era stato
sospeso quasi venti anni, fu vigorosamente riassunto, e finalmente
condotto a termine dallo zelo di Teodosio. Mentre questo bellicoso
Principe combatteva ancora co' Goti non per la gloria, ma per la
salvezza della Repubblica, s'arrischiò ad offendere una considerabile
parte di sudditi con certi atti, che potevano forse assicurare la
protezione del Cielo, ma che dovevano sembrar temerari ed inopportuni
agli occhi dell'umana prudenza. Il buon successo dei suoi primi
tentativi contro i Pagani diede coraggio al pio Imperatore di rinnovare
ed invigorire gli editti di proscrizione: le medesime leggi che si erano
avanti pubblicate nelle Province Orientali, furono applicate, dopo la
morte di Massimo, a tutta l'estensione dell'Impero d'Occidente; ed ogni
vittoria dell'ortodosso Teodosio contribuì al trionfo della Cristiana e
Cattolica fede[590]. Egli attaccò la superstizione nella più vitale sua
parte, col proibir l'uso dei sacrifizi, ch'ei dichiarò illeciti ed
infami: e sebbene i termini de' suoi editti, più strettamente presi,
condannassero l'empia curiosità, che esaminava le viscere delle
vittime[591], ogni successiva spiegazione tendeva ad involgere nel
medesimo delitto la general pratica d'immolare, che essenzialmente
costituiva la religione dei Pagani. Siccome i tempj erano stati eretti a
causa dei sacrifizi, era dovere d'un benefico Principe quello
d'allontanare dai sudditi la pericolosa tentazione di trasgredire le
leggi che avea stabilite. Fu data una spezial commissione a Cinegio,
Prefetto del Pretorio d'Oriente, ed in seguito ai Conti Giovio e
Gaudenzio, due riguardevoli Uffiziali nell'Occidente, in forza di cui fu
ordinato loro di chiudere i tempj, di togliere o distrugger
gl'istromenti d'idolatria, d'abolire i privilegi dei Sacerdoti, e di
confiscare i patrimoni sacri a benefizio dell'Imperatore, della Chiesa o
dell'esercito[592]. Qui avrebbe potuto aver termine la desolazione, ed i
nudi edifizi, che non erano più impiegati al servizio dell'idolatria, si
sarebber potuti difendere dalla distruttiva rabbia del fanatismo. Molti
di quei tempj erano i più belli e splendidi monumenti della Greca
Architettura; e l'Imperatore medesimo avea interesse di non oscurar lo
splendore delle sue città, nè diminuire il valore dei suoi propri beni.
Si potea permettere che sussistessero quei magnifici edifizi, come tanti
durevoli trofei della vittoria di Cristo. Nella decadenza, in cui si
trovavan le arti, si potevano utilmente convertire in magazzini, in
luoghi di manifatture o di pubbliche adunanze, e forse anche, qualora si
fossero coi sacri riti sufficientemente purificate le mura dei tempj, si
poteva concedere che il culto del vero Dio espiasse l'antico delitto
della idolatria. Ma finattantochè sussistevano, i Pagani nutrivano una
forte e segreta speranza, che una felice rivoluzione, un secondo
Giuliano potesse di nuovo ristabilire gli altari degli Dei; e l'ardore,
col quale porgevano al trono le inefficaci loro preghiere[593], accrebbe
nei riformatori Cristiani lo zelo d'estirpare senza misericordia la
radice della superstizione. Le leggi degl'Imperatori dimostrano qualche
sintomo di una disposizione più dolce[594]: ma i loro freddi e languidi
sforzi non furono sufficienti ad arrestare il corso dell'entusiasmo e
della rapina, che era diretta o piuttosto mossa dai Regolatori
spirituali della Chiesa. Nella Gallia il Santo Martino, Vescovo di
Tours[595], marciava alla testa dei fedeli suoi Monaci a distrugger
gl'idoli, i tempj, e gli alberi sacri della estesa sua Diocesi; e
nell'esecuzione di questa difficile impresa il prudente lettore
giudicherà, se Martino era sostenuto dal soccorso di miracolosa potenza,
o dalle armi corporali. Nella Siria il divino ed eccellente
Marcello[596], come l'appella Teodoreto, Vescovo animato da fervore
Apostolico, risolvè di gettare a terra i magnifici tempj, ch'erano
tuttavia nella Diocesi d'Apamea. L'arte e la solidità, con cui era stato
fabbricato il tempio di Giove, resistè all'attacco. Era situata quella
fabbrica sopra un'eminenza; da ciascheduno dei quattro lati di essa era
sostenuto il sublime tetto da quindici grosse colonne, che avevano la
circonferenza di sedici piedi: e le gran pietre, delle quali venivan
composte, erano stabilmente collegate fra loro con piombo e ferro.
Invano erasi adoperata l'opera dei più forti ed acuti strumenti. Bisognò
ricorrere all'opera di distruggere i fondamenti delle colonne, che
caddero a terra subito che furono consumati dal fuoco i pali di legno,
che per un tempo vi si eran posti; e ne vengono descritte le difficoltà
sotto l'allegoria d'un nero demonio, che ritardava, quantunque non
potesse disfare, le operazioni dei macchinisti Cristiani. Superbo della
vittoria, Marcello si portò in persona sul campo contro la Potestà delle
tenebre; marciava una copiosa truppa di soldati e di gladiatori sotto
l'Episcopale stendardo; e l'un dopo l'altro s'attaccarono i villaggi ed
i tempj di campagna della Diocesi d'Apamea. Dovunque temevasi qualche
resistenza o pericolo, il Campion della fede, che per essere storpiato
non potea fuggire, nè combattere, si poneva ad una conveniente distanza,
oltre la portata dei dardi. Ma questa prudenza divenne cagione della sua
morte: fu egli sorpreso ed ucciso da un corpo di esacerbati villani; ed
il Sinodo della Provincia senza esitare pronunziò, che il santo Marcello
aveva sacrificato la propria vita per la causa di Dio. Nel sostener
questa causa si distinsero per la diligenza e lo zelo i Monaci, che
uscirono con precipitosa furia del deserto. Meritarono essi l'inimicizia
dei Pagani; e ad alcuni di loro poterono applicarsi i rimproveri
d'avarizia e d'intemperanza: d'avarizia, che soddisfacevano col sacro
saccheggio, e d'intemperanza, alla quale si abbandonavano a spese del
popolo, che follemente ammirava in essi i laceri panni, la sonora
salmodia e l'artificial pallidezza[597]. Un piccol numero di tempj fu
protetto dai timori della venalità, dal buon gusto, o dalla prudenza dei
civili ed ecclesiastici Governatori. A Cartagine il tempio della Venere
Celeste, il sacro recinto del quale formava una circonferenza di due
miglia, fu giudiziosamente convertito in una Chiesa Cristiana[598]; ed
una simile consacrazione ha conservata intatta la maestosa cupola del
Panteon a Roma[599]. Ma in quasi tutte le Province del Mondo Romano, un
esercito di fanatici, senza autorità e senza disciplina, invase i
pacifici abitatori; e la rovina delle più belle fabbriche della
antichità tuttavia spiega le devastazioni di quei Barbari, che ebbero il
tempo e la voglia di eseguire tale faticosa distruzione.

In questo ampio e vario prospetto di demolizioni può lo spettatore
distinguere in Alessandria le rovine del tempio di Serapide[600]. Questo
non pare che sia stato uno degli Dei naturali, o de' mostri che uscirono
dal fertil suolo del superstizioso Egitto[601]. Il primo de' Tolomei
aveva ricevuto ordine in sogno di portare in Egitto quel misterioso
straniero dalla costa del Ponto, dov'era stato per lungo tempo adorato
dagli abitanti di Sinope; ma si conoscevano tanto imperfettamente gli
attributi ed il regno di esso, che divenne un soggetto di disputa, se
rappresentasse il lucido globo del giorno o il tenebroso Monarca delle
sotterranee regioni[602]. Gli Egizj, che erano attaccati ostinatamente
alla religione dei loro padri, non vollero ammettere dentro le mura
delle loro città questa divinità forestiera[603]. Ma gli ossequiosi
Sacerdoti, che furon sedotti dalla liberalità de' Tolomei, si
sottoposero senza resistenza al potere del Dio del Ponto: gli fu trovata
un'onorevol domestica genealogia; e s'introdusse questo fortunato
usurpatore nel trono e nel letto d'Osiride[604], marito d'Iside e
celeste Monarca dell'Egitto. Alessandria che se ne attribuiva la special
protezione, si gloriava del nome di città di Serapide. Il suo
tempio[605], rivale della sublimità e magnificenza del Campidoglio, era
stato eretto sulla spaziosa cima di un'artefatta montagna innalzata
cento passi sopra il piano delle altre parti della città, e l'interiore
cavità di essa veniva stabilmente sostenuta da archi, e divisa in volte
ed in sotterranei quartieri. Era circondato il sacro edifizio da un
portico quadrangolare; le magnifiche sale, e le squisite statue vi
spiegavano il trionfo delle arti, e si conservavano i tesori dell'antica
dottrina nella famosa libreria d'Alessandria, ch'era con nuovo splendore
risorta dalle sue ceneri[606]. Poscia che gli editti di Teodosio ebbero
severamente proibito i sacrifizi dei Pagani, essi erano tuttavia
tollerati nella città e nel tempio di Serapide; e questa singolare
condiscendenza fu imprudentemente attribuita a' superstiziosi terrori
dei Cristiani medesimi, come se temessero d'abolire quegli antichi riti,
che soli assicurar potevano le inondazioni del Nilo, le riccolte
dell'Egitto e la sussistenza di Costantinopoli[607].

La sede Archiepiscopale d'Alessandria in quel tempo[608] era occupata da
Teofilo[609], perpetuo nemico della pace e della virtù, uomo audace e
cattivo, le mani del quale furono alternativamente macchiate dal sangue
e dall'oro. Si eccitò il religioso sdegno di lui dagli onori di
Serapide; e gli insulti, che ei fece ad un'antica cappella di Bacco,
persuasero i Pagani, che meditava un'impresa più importante e
pericolosa. Nella tumultuaria capitale dell'Egitto il più leggiero
incitamento serviva ad accendere una guerra civile. I devoti di
Serapide, ch'eran molto inferiori in forza ed in numero a' loro
avversari, presero le armi, spinti dal filosofo Olimpio[610], che gli
esortò a morire in difesa degli altari degli Dei. Si fortificarono
questi Pagani fanatici nel tempio o per meglio dire nella fortezza di
Serapide; rispinsero gli assedianti per mezzo di valorose sortite e
d'una risoluta difesa; e con le inumane crudeltà, che esercitarono
contro i Cristiani lor prigionieri, ottennero l'ultima consolazione dei
disperati. Il prudente magistrato fece utili sforzi per istabilire una
tregua, finattantochè la risposta di Teodosio determinasse il destino di
Serapide. S'adunarono le due parti senz'armi nella piazza principale; e
pubblicamente fu letto l'Imperiale rescritto. Ma quando si pronunziò
contro gli idoli d'Alessandria una sentenza di distruzione, i Cristiani
gettarono un grido di gioia e di giubilo, mentre gli infelici Pagani, al
furore dei quali era succeduta la costernazione, si ritirarono in fretta
e silenzio, e con la fuga ed oscurità loro delusero lo sdegno dei loro
nemici. Teofilo passò a demolire il tempio di Serapide senz'altre
difficoltà, che quelle ch'ei trovò nel peso e nella stabilità dei
materiali; tali ostacoli però tanto riuscirono insuperabili, che fu
costretto a lasciarvi i fondamenti; ed a contentarsi di ridur l'edifizio
medesimo ad un mucchio di sassi, una parte dei quali poco tempo dopo si
tolse per far luogo ad una Chiesa, che vi fu eretta in onore dei Martiri
Cristiani. Fu saccheggiata o distrutta la ricca libreria di Alessandria;
e circa vent'anni dopo, la vista degli scaffali voti eccitò il
dispiacere e lo sdegno di uno spettatore, la mente del quale non era
totalmente oscurata da religiosi pregiudizi[611]. Si potevano senza
dubbio salvare dal naufragio dell'idolatria pel piacere e per
l'istruzione dei posteri le composizioni degli antichi, tante delle
quali sono irreparabilmente perite; e poteva lo zelo, o l'avarizia
dell'Arcivescovo[612] essersi saziata con le ricche spoglie, che furono
il premio della sua vittoria. Mentre si fondevano diligentemente le
immagini ed i vasi d'oro e d'argento, e quelli del metallo meno
stimabile si rompevano con disprezzo, e gettavansi per le strade,
Teofilo si affaticava ad esporre le frodi ed i vizi dei ministri
degl'idoli; la lor destrezza nel maneggiare la calamita; le segrete loro
maniere di introdurre un uomo nella cavità della statua, e lo scandaloso
abuso, ch'essi facevano della fiducia dei devoti mariti e delle mogli
non sospettose[613]. Può sembrare che accuse di tal sorta meritino
qualche fede, non essendo contrarie all'artificioso ed interessato
spirito della superstizione. Ma il medesimo spirito è ugualmente
inclinato al vil costume d'insultare e di calunniare un abbattuto
nemico; e naturalmente viene scossa la nostra credenza dalla
riflessione, ch'è molto meno difficile inventare una storia falsa, che
sostenere una pratica frode. La colossale statua di Serapide[614] restò
involta nella rovina del tempio e della religione di esso. Un gran
numero di lamine di vari metalli, ingegnosamente unite fra loro,
componeva la maestosa figura della Divinità, che toccava da ogni parte
le mura del santuario. L'aspetto di Serapide, la sua positura sedente, e
lo scettro, che teneva nella mano sinistra, erano molto simili alle
rappresentazioni ordinarie di Giove. Esso era distinto da Giove nel
corbello o moggio, che aveva sul capo; e nell'emblematico mostro, che
teneva nella mano destra, il capo ed il corpo del quale era di un
serpente che si divideva in tre code, le quali terminavano in tre capi,
di cane, di leone e di lupo. Asserivasi con sicurezza, che se un'empia
mano avesse ardito di violare la maestà di quel Dio, i cieli e la terra
sarebbero immediatamente tornati al primiero lor caos. Un intrepido
soldato, animato dallo zelo, ed armato di una pesante scure militare,
salì sulla scala; ed il popolo Cristiano medesimo aspettava con qualche
ansietà di veder l'evento della battaglia[615]. Egli vibrò un vigoroso
colpo sulla guancia di Serapide; la guancia cadde a terra; non sentissi
alcun tuono, e tanto i cieli quanto la terra continuarono a mantenere la
tranquillità e l'ordine solito. Replicò il vittorioso soldato i suoi
colpi: fu rovesciato e fatto in pezzi l'enorme idolo; e le membra di
Serapide furono ignominiosamente trascinate per le strade di
Alessandria. Si bruciò nell'anfiteatro, in mezzo ai clamori della plebe,
il suo lacero corpo, e molti attribuirono la lor conversione a questa
scoperta dell'impotenza della loro tutelare Divinità. Le popolari specie
di religione, che propongono dei materiali e visibili oggetti di culto,
hanno il vantaggio di adattarsi e famigliarizzarsi ai sensi degli
uomini; ma questo vantaggio è contrabbilanciato da' vari ed inevitabili
accidenti, a' quali s'espone la fede dell'idolatra. Appena è possibile
ch'esso in ogni disposizione di mente conservi l'implicita sua riverenza
per gl'idoli o le reliquie, il cui semplice occhio o la mano profana non
son capaci di distinguere dalle più comuni produzioni della natura o
dell'arte; e se nel tempo del pericolo la segreta e miracolosa loro
virtù non opera per la propria conservazione, il devoto sprezza le vane
apologie de' suoi sacerdoti, e giustamente deride l'oggetto e la follia
del superstizioso suo attaccamento. Dopo la caduta di Serapide, i Pagani
tuttavia nutrivano speranza, che il Nilo avrebbe negato l'annuo suo
tributo agli empi dominatori dell'Egitto; e lo straordinario indugio
dell'inondazione pareva che indicasse il corruccio del Nume. Ma tale
dilazione fu tosto compensata dal rapido gonfiamento delle acque. Ad un
tratto queste s'alzarono a tal insolita altezza, che servì a consolare
il malcontento partito con la piacevole speranza d'un diluvio,
finattantochè il pacifico fiume di nuovo si ritirò al ben noto e
fertilizzante livello di sedici cubiti, o di circa trenta piedi
Inglesi[616].

I tempj del Romano Impero erano abbandonati o distrutti; ma l'ingegnosa
superstizione dei Pagani tentava d'eludere le leggi di Teodosio, dalle
quali era severamente punito qualunque sacrifizio. Gli abitanti della
campagna, la condotta dei quali era meno esposta agli occhi della
maliziosa curiosità, coprivano le religiose loro adunanze colle
apparenze di conviti. Nei giorni delle feste solenni, s'univano in gran
copia sotto l'estesa ombra di alcuni alberi sacri; si uccidevano ed
arrostivan bovi e pecore, e questo rurale convito era santificato
dall'uso dell'incenso e dagl'inni, che si cantavano in onor degli Dei.
Ma si adduceva, che siccome non s'offeriva bruciando alcuna parte
dell'animale, nè v'era l'altare per ricevere il sangue, e s'aveva cura
d'ommetter la precedente oblazione delle torte salate, e la final
ceremonia delle libazioni, queste festive adunanze non inducevan nei
convitati la colpa nè la pena d'un illegittimo sacrifizio[617].
Qualunque si fosse la verità dei fatti, o il merito della
distinzione[618] furon tolti di mezzo questi vani pretesti dall'ultimo
editto di Teodosio, che mortalmente ferì la superstizion dei
Pagani[619]. Questa legge proibitiva s'esprime nei termini più assoluti
ed estesi. «È nostra volontà e piacere (dice l'Imperatore) che nessuno
dei nostri sudditi, o sieno magistrati o privati cittadini, comunque
sublime o basso esser possa lo stato e condizion loro, ardisca in
qualunque città o in qualunque luogo venerare un idolo inanimato col
sagrifizio d'innocenti vittime». L'atto di sacrificare e la pratica
della divinazione per mezzo delle viscere della vittima si dichiarano
(senz'alcun riguardo all'oggetto di tali ricerche) delitti di tradimento
contro lo Stato, che non si possono espiare, se non con la morte del
reo. I riti della superstizione Pagana, che potevano sembrar meno
sanguinosi ed atroci, sono aboliti come altamente ingiuriosi alla verità
ed all'onore della religione; vengono specialmente enunciati e
condannati i lumi, l'incenso, le ghirlande, e le libazioni di vino; e
sono inclusi in questa rigorosa condanna gl'innocenti diritti del Genio
domestico, e degli Dei Penati. L'uso di alcuna di queste profane ed
illegittime ceremonie sottopone il delinquente alla confiscazione della
casa, o del fondo, in cui si è fatta; e se maliziosamente ha scelto il
luogo d'un altro pel teatro della sua empietà, è condannato a pagare
senza dilazione, una grave pena di venticinque libbre d'oro, che sono
più di mille lire sterline. Viene imposta una pena non meno
considerabile alla connivenza di quei segreti nemici della religione,
che trascureranno il dovere dei loro rispettivi uffizi, di rivelare cioè
o di punire il delitto d'idolatria. Tale fu lo spirito persecutore delle
leggi di Teodosio che furono più volte confermate dai suoi figli e
nipoti, con alto ed unanime applauso del Mondo Cristiano[620].

Nei crudeli regni di Decio e di Diocleziano era stato proscritto il
Cristianesimo, come un'apostasia, dall'ereditaria ed antica religion
dell'Impero; e gl'ingiusti sospetti, che si avevano d'un'oscura e
pericolosa fazione, venivano in qualche modo favoriti dall'inseparabile
unione, e dalle rapide conquiste della Chiesa Cattolica. Ma non si
possono applicare le medesime scuse d'ignoranza e di timore
agl'Imperatori Cristiani, che violavano i precetti dell'umanità e del
Vangelo. L'esperienza dei tempi avea dimostrato la debolezza e la follia
del Paganesimo; il lume della ragione e della fede aveva già esposto
alla maggior parte del genere umano la vanità degl'idoli, e la decadente
setta, che era tuttavia attaccata al lor culto, si poteva lasciar
esercitare in pace e nell'oscurità i religiosi riti dei suoi maggiori.
Se i Pagani fossero stati animati dall'indomito zelo, che occupava lo
spirito dei primi credenti, il trionfo della Chiesa sarebbe stato
macchiato di sangue; ed i martiri di Giove o d'Apollo abbracciato
avrebbero la gloriosa occasione di sacrificare le proprie vite e
sostanze a piè dei loro altari. Ma zelo così ostinato non era conforme
alla libera e negligente natura del politeismo. I violenti e replicati
colpi de' Principi ortodossi perderonsi nella molle e cedente materia,
contro la quale eran diretti; e la pronta obbedienza dei Pagani li
difese dalle pene e dalle multe del Codice Teodosiano[621]. Invece di
sostenere, che l'autorità degli Dei era superiore a quella
dell'Imperatore, essi desisterono con un lamentevole mormorio, dall'uso
di quei sacri riti, che il loro Principe avea condannato. Se qualche
volta furon tentati da un impeto di passione o dalla speranza di non
esser scoperti a secondare la favorita superstizione, l'umile pentimento
loro disarmava la severità del Magistrato Cristiano, e rade volte
ricusavano di purgare la propria temerità col sottomettersi, con qualche
segreta ripugnanza, al giogo dell'Evangelio. Eran piene le Chiese d'una
sempre crescente moltitudine di quest'indegni proseliti, che per motivi
temporali s'erano uniformati alla religion dominante; e nel tempo, che
devotamente imitavano la positura, e recitavan le preci dei Fedeli,
soddisfacevano la lor coscienza mediante la tacita e sincera invocazione
degli Dei dell'antichità[622]. Se i Pagani non avevan pazienza di
sofferire, mancava loro anche il coraggio di resistere, e le disperse
migliaia di essi, che deploravano la rovina dei tempj, cederono senza
contrasto alla fortuna dei loro avversari. Alla tumultuaria
opposizione[623], che fecero i villani della Siria, e la plebaglia
d'Alessandria al furore del fanatismo privato, fu imposto silenzio
dall'autorità e dal nome dell'Imperatore. I Pagani dell'Occidente, senza
contribuire all'innalzamento d'Eugenio, disonorarono col parziale
attaccamento loro la causa ed il carattere dell'usurpatore. Il Clero
ardentemente esclamava, ch'egli aggravava il delitto della ribellione
con quello dell'apostasia; che per licenza di lui erasi ristabilito
l'altare della Vittoria; e che si spiegavano in campo gli idolatrici
simboli d'Ercole e di Giove contro l'invincibil stendardo della Croce.
Ma presto furon distrutte le vane speranze dei Pagani con la disfatta
d'Eugenio; ed essi restarono esposti allo sdegno del vincitore, che si
sforzava di meritare il favore celeste coll'estirpazione
dell'Idolatria[624].

[A. 390-420]

Un popolo di schiavi è sempre pronto ad applaudire alla clemenza del suo
Signore, che nell'abuso del potere assoluto non deviene all'ultime
estremità dell'ingiustizia e dell'oppressione. Teodosio poteva senza
dubbio aver proposto ai Pagani suoi sudditi l'alternativa del battesimo
o della morte; e l'eloquente Libanio ha lodato la moderazione di un
Principe, che non obbligò mai con legge positiva tutti i suoi sudditi ad
immediatamente abbracciare e praticar la religione del proprio
Sovrano[625]. Non era divenuta la professione del Cristianesimo una
qualità essenziale per godere i diritti civili della società; nè s'era
imposto alcun peso particolare ai Settarj, che creduli ammettevano le
favole d'Ovidio, e rigettavano ostinati i miracoli del Vangelo. Il
palazzo, le scuole, l'esercito ed il senato eran pieni di devoti e
dichiarati Pagani; essi ottenevano senza distinzione gli onori civili e
militari dell'Impero. Teodosio distinse il suo generoso riguardo per la
virtù e pei talenti, con impartire a Simmaco la dignità consolare[626],
e con esprimere la sua personal amicizia per Libanio[627]; e i due più
eloquenti apologisti del Paganesimo non furon mai sollecitati o a mutare
o a dissimular le religiose lor opinioni. Era permessa ai Pagani la più
licenziosa libertà di parlare e di scrivere; gli istorici e filosofici
avanzi d'Eunapio, di Zosimo[628] e dei fanatici dottori della scuola
Platonica dimostrano le animosità più furiose, e contengono le più aspre
invettive contro i sentimenti e la condotta dei vittoriosi loro
avversari. Se questi audaci libelli erano pubblicamente noti, noi
dobbiamo applaudire il buon senso dei Principi Cristiani, che
riguardavano con riso e disprezzo gli ultimi sforzi della superstizione
e della disperazione[629]. Ma rigorosamente s'eseguivano le leggi
Imperiali, che proibivano i sacrifizi e le ceremonie del Paganesimo, ed
ogni momento contribuiva a distruggere l'autorità d'una religione,
ch'era sostenuta dall'uso piuttosto che dalle prove. Può segretamente
nutrirsi la devozione del poeta o del filosofo per mezzo delle
preghiere, della meditazione e dello studio; ma sembra che l'esercizio
del Culto pubblico sia l'unico solido fondamento delle opinioni
religiose del popolo, che traggono la loro forza dall'imitazione e
dall'abito. L'interrompimento di tal pubblico esercizio può nel corso di
pochi anni condurre a fine l'importante opera di una rivoluzion
nazionale. Non può lungamente conservarsi la memoria delle opinioni
teologiche senza l'artificiale aiuto dei Sacerdoti, dei tempj e dei
libri[630]. Il volgo ignorante, il cui animo è sempre agitato dalle
cieche speranze, e dai terrori della superstizione, verrà ben presto
persuaso da' suoi superiori a dirigere i propri voti alle dominanti
Divinità del suo secolo, ed appoco appoco s'imbeverà d'un ardente zelo
pel sostegno e la propagazione di quella nuova dottrina, che a principio
la fame spirituale l'obbligò ad accettare. La generazione, venuta dopo
la promulgazion delle leggi Imperiali, fu tratta nel seno della Chiesa
cattolica; e la caduta del Paganesimo, quantunque sì dolce, fu tanto
rapida, che non più di ventott'anni dopo la morte di Teodosio,
dall'occhio del Legislatore non se ne scorgevano più i deboli e minuti
vestigi[631].

La rovina della religione Pagana vien descritta dai Sofisti, come un
terribile e sorprendente prodigio, che coprì la terra di tenebre, e
ristabilì l'antico dominio della notte e del caos. Essi riferiscono in
alto e patetico tuono, che i tempj eran convertiti in sepolcri, e che i
luoghi sacri che prima splendevano adornati di statue degli Dei, erano
vilmente contaminati dalle reliquie dei martiri Cristiani. «I Monaci
(specie d'immondi animali, ai quali Eunapio è tentato di negar fino il
nome di uomini) sono gli autori del nuovo culto, il quale in luogo di
quelle Divinità, che si concepiscono coll'intelletto, ha sostituito i
più abbietti e dispregevoli schiavi. Le teste salate ed imbalsamate di
quegl'infami malfattori, che pei loro delitti han sofferto una giusta ed
ignominiosa morte; i loro corpi tuttavia marcati dall'impressione delle
verghe e dalle cicatrici, lasciatevi da que' tormenti che dati furono
per sentenza del magistrato: questi sono (prosegue Eunapio) gli Dei che
la terra produce ai nostri giorni; questi sono i martiri, gli arbitri
supremi delle nostre suppliche e domande a Dio, le tombe dei quali
vengono adesso consacrate come gli oggetti della venerazione del
popolo»[632]. Senz'approvarne la malizia, egli è molto naturale il
partecipare della sorpresa del Sofista, spettatore d'una rivoluzione che
innalzò quelle oscure vittime della Romana legge, al grado di celesti ed
invisibili protettori dell'Imperio Romano. Il grato rispetto, che
avevano i Cristiani pei martiri della fede, fu elevato dal tempo e dalla
vittoria ad una religiosa adorazione, ed i più illustri fra i Santi e
Profeti furono meritamente associati agli onori dei martiri. Cento
cinquant'anni dopo la gloriosa morte di S. Pietro e di S. Paolo, si
distinsero il Vaticano e la via Ostiense pei sepolcri, o piuttosto pei
trofei di quegli spirituali Eroi[633]. Nel secolo dopo la conversione di
Costantino, gl'Imperatori, i Consoli, ed i Generali degli eserciti
devotamente vigilavano i sepolcri di un facitor di tende e d'un
pescatore[634]: e furon depositate le lor venerabili ossa sotto gli
altari di Cristo, sui quali continuamente i Vescovi della città reale
offerivano l'incruento sacrifizio[635]. La nuova capitale dell'Oriente,
incapace di produrre alcun antico e domestico trofeo, fu arricchita
delle spoglie delle dipendenti Province. I corpi di S. Andrea, di S.
Luca, e di S. Timoteo quasi per trecent'anni avevan riposato in oscuri
sepolcri, dai quali furono trasportati con solenne pompa alla chiesa
degli Apostoli, che la magnificenza di Costantino aveva fondato sulle
rive del Bosforo Tracio[636]. Circa cinquant'anni dopo le medesime rive
onorate furono dalla presenza di Samuele, Profeta e Giudice del popolo
Israelita. Le sue ceneri, depositate in un vaso d'oro e coperte d'un
velo di seta, passarono dalle mani d'un Vescovo a quelle d'un altro. Si
riceveron dal popolo le reliquie di Samuele con la medesima gioia e
reverenza, che si sarebbe dimostrata al Profeta medesimo vivente; le
pubbliche strade, dalla Palestina fino alle porte di Costantinopoli,
eran occupate da una continua processione; e l'istesso Imperatore
Arcadio alla testa dei più illustri membri del Clero e del Senato,
s'avanzò incontro allo straordinario suo ospite, che aveva sempre
meritato e voluto l'omaggio dei Re[637]. L'esempio di Roma e di
Costantinopoli confermò la fede e la disciplina del Mondo Cattolico. Gli
onori de' Santi e dei Martiri, dopo un debole ed inefficace susurro
della profana ragione[638], si stabilirono generalmente; ed al tempo
d'Ambrogio e di Girolamo stimavasi, che sempre mancasse qualche cosa
alla santità d'una Chiesa Cristiana, finattantochè non fosse stata
santificata da qualche parte di sacre reliquie che determinassero ed
infiammassero la devozione del Fedele.

Nel lungo periodo di dodici secoli, che scorsero fra il regno di
Costantino, e la riforma di Lutero, il culto dei Santi e delle reliquie
corruppe la pura e perfetta semplicità del cristiano sistema; e si
posson osservare sintomi di tralignamento anche nelle prime generazioni
che adottarono e favorirono questa perniciosa innovazione.

I. La soddisfacente esperienza, che le reliquie dei Santi eran più
valutabili dell'oro e delle pietre preziose[639], stimolò il Clero a
moltiplicare i tesori della Chiesa. Senza molto riguardo alla verità od
alla probabilità, s'inventavan dei nomi per gli scheletri, e delle
azioni pei nomi. La fama degli Apostoli e dei santi uomini, che avevano
imitato la loro virtù, fu oscurata da religiose finzioni. All'invincibil
drappello dei genuini e primitivi martiri, essi aggiunsero molte
migliaia di eroi immaginari, che non eran mai stati se non nella
fantasia di artificiosi e crudeli autori di leggende; ed havvi motivo di
sospettare, che Tours non fosse la sola Diocesi, in cui le ossa d'un
malfattore fossero adorate invece di quelle di un Santo[640]. Una
pratica superstiziosa, che tendeva ad accrescere le tentazioni della
frode e della credulità, appoco appoco estinse nel Mondo Cristiano il
lume dell'istoria e della ragione.

II. Ma il progresso della superstizione sarebbe stato molto meno rapido
e vittorioso, qualora la fede del popolo non fosse stata assistita
dall'opportuno aiuto delle visioni e dei miracoli per assicurare
l'autenticità e la virtù delle più sospette reliquie. Nel regno di
Teodosio il Giovane, Luciano[641] Prete di Gerusalemme e ministro
Ecclesiastico del villaggio di Cafargamala, circa venti miglia distante
dalla città, riferì un sogno assai singolare, che per togliere i suoi
dubbi era stato ripetuto per tre sabati continui. Gli appariva nel
silenzio della notte una venerabile figura con una lunga barba, una
veste bianca ed una verga d'oro, diceva, che il suo nome era Gamaliele,
e dichiarava all'attonito Prete, che il suo corpo insieme con quelli
d'Abida suo figlio, di Nicodemo suo amico e dell'illustre Stefano, primo
martire della fede Cristiana, erano segretamente sepolti nel vicino
campo. Aggiunse con qualche impazienza, ch'era ormai tempo di liberar
lui ed i suoi compagni dall'oscura loro prigione; che la comparsa loro
sarebbe stata salutare ad un Mondo angustiato; e ch'essi avevano scelto
Luciano per informare il Vescovo di Gerusalemme della situazione e delle
brame loro. Per mezzo di nuove visioni si tolsero l'un dopo l'altro i
dubbi e le difficoltà, che tuttavia ritardavano questa importante
scoperta; e finalmente fu scavata la terra dal Vescovo, alla presenza di
una innumerabile moltitudine. Si trovarono per ordine le casse di
Gamaliele, del figlio, e dell'amico; ma quando comparve alla luce la
quarta cassa, che conteneva il corpo di Stefano, tremò la terra, e si
sparse un odore come di paradiso, che immediatamente risanò le varie
malattie di settantatre degli astanti. I compagni di Stefano restarono
nella pacifica lor residenza di Cafargamala, ma le reliquie del primo
martire si trasportarono con solenne processione ad una Chiesa, eretta
in onor loro sul monte Sion; e si conobbe in quasi tutte le Province del
Mondo Romano, che ogni piccola particella di quelle reliquie, come una
goccia di sangue[642] o la raschiatura di un osso, godeva una divina e
miracolosa virtù. Il grave e dotto Agostino[643], l'ingegno del quale
appena può ammettere la scusa della credulità, ha riferito
gl'innumerabili prodigi, che si fecero nell'Affrica dalle reliquie di S.
Stefano; e questa maravigliosa narrazione è inserita nell'elaborata
opera della Città di Dio, che il Vescovo d'Ippona produsse come una
stabile ed immortal prova della verità della Religione Cristiana.
Agostino solennemente dichiara d'avere scelto solo quei miracoli, che
venivano pubblicamente assicurati dagl'individui, che furon gli oggetti
o gli spettatori del potere del Martire. Molti ne furon omessi o
dimenticati; ed Ippona era stata trattata meno favorevolmente delle
altre città della Provincia. Eppure il Vescovo conta, nello spazio di
due anni, e dentro i limiti della sua Diocesi[644], più di settanta
miracoli, fra i quali erano tre morti risuscitati. Se vogliamo rivolgere
lo sguardo a tutte le Diocesi ed a tutti i Santi del Mondo Cristiano,
non sarà facile il calcolare le favole e gli errori, che nacquero da
quest'inesauribil sorgente. Ma ci sarà sicuramente permesso d'osservare,
che un miracolo, in quel tempo di credulità e di superstizione, perde
tal nome e tutto il suo merito, mentre appena potrebbe adesso
risguardarsi come una deviazione dalle ordinarie stabilite leggi della
natura.

III. Gli innumerabili miracoli dei quali eran le tombe dei martiri un
perpetuo teatro, manifestarono al pietoso credente lo stato e la
costituzione attuale del Mondo invisibile, e parve che le sue religiose
speculazioni fosser fondate sopra la stabile base del fatto e
dell'esperienza. Qualunque si fosse la condizione delle anime volgari,
nel lungo intervallo fra lo scioglimento e la resurrezione dei loro
corpi, egli era evidente che gli spiriti superiori dei Santi e dei
Martiri non passavano quella porzione di loro esistenza in tacito ed
ignobile sonno[645]. Egli era evidente (senza pretender di determinare
il luogo della loro abitazione o la natura della loro felicità) che essi
godevano la viva ed attiva coscienza della lor beatitudine, della virtù
e del potere che avevano; e che erano già sicuri del possesso
dell'eterno lor premio. L'estensione delle intellettuali facoltà loro
sorpassava la misura dell'umana immaginazione; mentre si provava
coll'esperienza, ch'essi eran capaci di udire e d'intendere le varie
domande dei numerosi loro devoti, che nell'istesso momento, ma nelle
parti più lontane del Mondo, invocavano il nome e l'aiuto di Stefano o
di Martino[646]. La fiducia dei loro supplicanti era fondata nella
persuasione, che i Santi, mentre regnavan con Cristo, gettassero un
occhio di compassione sopra la terra; che altamente s'interessassero
alla prosperità della Chiesa Cattolica; e che gl'individui, che imitavan
l'esempio della lor fede e pietà, fossero i particolari e favoriti
oggetti del più tenero loro riguardo. Alle volte invero potevano
influire nell'amicizia loro considerazioni di una specie meno sublime;
essi rimiravano con parziale affetto i luoghi che erano stati
santificati dalla nascita, dalla dimora, dalla morte, dalla sepoltura di
se medesimi o dal possesso delle loro reliquie. Le più basse passioni
d'orgoglio, d'avarizia e di vendetta, pare che siano indegne di un petto
celeste: pure i Santi stessi condiscendevano a dimostrare la grata loro
approvazione della generosità dei loro devoti; e si assegnavano i più
aspri castighi a quegli empi, che violavano i magnifici lor Santuari, o
non credevano al loro soprannaturale potere[647]. In fatti atroce doveva
essere il delitto, e strano sarebbe stato lo scetticismo di quelli, che
avesser ostinatamente resistito alle prove di una Divina potenza, a cui
gli elementi, tutto l'ordine della creazione animale, e fino le sottili
ed invisibili operazioni della mente umana eran costrette ad
ubbidire[648]. Gl'immediati e quasi instantanei effetti, che si
supponeva, seguissero la preghiera o l'offesa, persuasero i Cristiani
dell'ampia dose di favore e di autorità, che i Santi godevano alla
presenza del sommo Dio; e sembrò quasi superfluo il cercare se i
medesimi erano continuamente obbligati ad intercedere avanti al trono
della grazia, o se fosse loro permesso di esercitare, secondo i dettami
della loro benevolenza e giustizia, il delegato potere del subordinato
lor ministero. L'immaginazione, che erasi con penoso sforzo innalzata
alla contemplazione ed al culto della Causa Universale, ardentemente
abbracciò questi inferiori oggetti d'adorazione, come più proporzionati
alle grossolane idee ed imperfette facoltà che essa aveva. A grado a
grado corruppesi la sublime e semplice Teologia dei primitivi Cristiani;
e la Monarchia celeste, già oscurata da metafisiche sottigliezze, restò
degradata dall'introduzione di una popolare mitologia, che tendeva a
ristabilire il regno del Politeismo[649].

IV. Siccome gli oggetti della religione furono appoco appoco ridotti
alla misura dell'immaginazione, si introdussero i riti e le cerimonie,
che parevano operar più potentemente sui sensi del volgo. Se al
principio del quinto secolo[650] fossero ad un tratto resuscitati
Tertulliano, o Lattanzio[651], e veduto avessero la festa di qualche
Santo o Martire popolare[652], avrebber guardato con sorpresa e con
isdegno il profano spettacolo, ch'era succeduto al puro e spiritual
culto di una congregazione Cristiana. All'aprirsi delle porte della
Chiesa sarebbero essi restati offesi dal fumo dell'incenso, dall'odor
dei fiori, e dalla luce delle fiaccole e delle lampade, che sul
mezzogiorno spargevano un affettato, superfluo, e, secondo loro,
sacrilego lume. Se avvicinati si fossero alla balaustrata dell'altare,
avrebbero incontrato una folla prostrata, composta per la massima parte
di stranieri e di pellegrini, che la vigilia della festa si portavano
alla città; e già sentivano il forte trasporto del fanatismo, e forse
del vino. S'imprimevan devoti baci sulle mura e sul pavimento del sacro
edifizio, e qualunque si fosse il linguaggio della Chiesa, le ferventi
lor preci eran dirette all'ossa, al sangue, o alle ceneri del Santo, che
ordinariamente veniva nascosto da un velo di lino o di seta agli occhi
del volgo. I Cristiani frequentavano le tombe dei Martiri con la
speranza d'ottenere dalla potente loro intercessione ogni sorta di
spirituali, ma più specialmente, di temporali vantaggi. Imploravano essi
la conservazione della salute, la cura delle infermità, la fecondità
delle sterili mogli, o la salvezza e felicità dei lor figli. Quando
intraprendevano qualche distante o pericoloso viaggio, supplicavano i
santi Martiri ad esser loro protettori e lor guide; e se tornavano senza
disgrazie, di nuovo correvano ai sepolcri dei Martiri per celebrare con
grati ringraziamenti le obbligazioni che avevano alla memoria ed alle
reliquie dei celesti lor Patroni. Le mura eran piene all'intorno dei
simboli de' favori, ch'essi avean ricevuti; occhi, mani, piedi d'oro e
d'argento, ed edificanti pitture, che non potevan lungamente evitare
l'abuso di una indiscreta o idolatrica devozione, rappresentavano
l'immagine, gli attributi ed i miracoli del Santo tutelare. Uno stesso
originale ed uniforme spirito di superstizione potè suggerire nei paesi
o nei secoli più distanti fra loro gli stessi metodi d'ingannar la
credulità, e d'agire sui sensi del genere umano[653], ma bisogna
ingenuamente confessare, che i ministri della Chiesa Cattolica imitarono
quel profano modello, ch'erano impazienti di distruggere. I Vescovi più
rispettabili s'erano persuasi, che gl'ignoranti volgari più volentieri
avrebbero rinunziato alla superstizione del Paganesimo, se avessero
trovato qualche rassomiglianza o compensazione nel seno del
Cristianesimo. La religione di Costantino terminò, in meno di un secolo,
la definitiva conquista dell'Imperio Romano; ma i vincitori medesimi
furono insensibilmente soggiogati dalle arti dei loro vinti rivali[654].

NOTE:

[566] S. Ambrogio (_Tom. II. de obit. Theod. p. 1208_) loda
espressamente e raccomanda lo zelo di Giosia nel distruggere
l'idolatria. Il linguaggio di Giulio Firmico Materno sul medesimo
soggetto (_de error. profan. relig. p. 467. Edit. Gronov._) è piamente
inumano: _Nec filio jubet_ (_lex Mosaica_) _parci, nec fratri, et per
amatam coniugem gladium vindicem ducit etc._

[567] Bayle (Tom. II. p. 406 _nel suo Comment. Filos._) giustifica e
limita queste leggi d'intolleranza nel regno temporale di Jehovah sopra
gli Ebrei. Il tentativo è lodevole.

[568] Si vedano i tratti della Gerarchia Romana in Cicerone (_De legib.
II. 7, 8_), in Livio (l. 20), in Dionisio d'Alicarnasso (_l. II. p.
119-129. Edit. Hudson_), in Beaufort (_Republ. Rom. T. I. p. 1-90_) ed
in Moyle (_Vol. I. p. 10. 55_). Quest'ultima è l'opera d'un Inglese
repubblicano, non meno che di un Romano antiquario.

[569] Questi mistici e forse immaginari simboli hanno dato motivo a
varie favole e congetture. Sembra probabile, che il Palladio fosse una
piccola statua di Minerva (alta tre cubiti e mezzo) con una lancia ed
una conocchia; che fosse ordinariamente inclusa in una _seria_ o barile,
e che tal barile fosse collocato in modo da eludere la curiosità o il
sacrilegio. Vedi Meziriac. _Comment. sur les Epitr. d'Ovid. T. I. p. 60.
66, e Lipsio Tom. III. p. 610. de Vesta ec. c. 10._

[570] Cicerone francamente (_ad Attic. l. II. epist. 5_) o
indirettamente (_ad Famil. l. 15 ep. 4_) confessa che l'Augurato è il
principale oggetto dei suoi desiderj. Plinio ambisce di camminare sulle
vestigia di Cicerone, (l. IV. ep. 8) e potrebbe continuarsi la catena
della tradizione per mezzo dell'istoria e dei marmi.

[571] Zosimo l. IV. p. 249, 250. Ho soppresso le stolte sottigliezze
sopra le parole _Pontifex e Maximus_.

[572] Quella statua da Taranto erasi trasferita a Roma, posta da Cesare
nella Curia Giulia, e decorata da Augusto con le spoglie dell'Egitto.

[573] Prudenzio (_l. II. in princ._) ha delineato un ritratto molto
sgraziato della Vittoria; ma il lettore curioso resterà più soddisfatto
dalle antichità del Montfaucon (T. I. p. 341).

[574] Vedi Svetonio (_in August. c. 35_) e l'esordio del panegirico di
Plinio.

[575] Questi fatti sono vicendevolmente concessi dai due avvocati,
Simmaco e Ambrogio.

[576] La _Notitia Urbis_, più recente di Costantino, non trova fra gli
edifizi della città veruna Chiesa Cristiana degna di essere nominata.
Ambrogio (Tom. II. ep. 17. p. 825) deplora i pubblici scandali di Roma,
che continuamente offendevano gli occhi, gli orecchi, ed il naso del
fedele.

[577] Ambrogio afferma più volte, contro il sentimento comune (_Moyle
Oper. vol. II. p. 147_), che i Cristiani avevano una superiorità di
partito nel Senato.

[578] La prima dell'anno 382 a Graziano, che non le volle dare udienza:
la seconda, nel 384 a Valentiniano, allorchè disputavasi il campo fra
Simmaco ed Ambrogio: la terza nel 388 a Teodosio: e la quarta nel 392 a
Valentiniano. Lardner (_Testimonianze Pagane ec. Vol. IV. p. 372, 399_)
rappresenta bene tutto questo fatto.

[579] Simmaco il quale era investito di tutti gli onori Sacerdotali e
Civili, rappresentava l'Imperatore sotto i due caratteri di _Pontefice
Massimo_ e di _Principe del Senato_. Vedesi la superba inscrizione alla
testa delle sue opere.

[580] Come se uno dice Prudenzio, (_in Symmach_. I. 639), scavasse la
terra con un istrumento d'oro e d'avorio. Anche i Santi, e i Santi
polemici, trattan questo nemico con rispetto e civiltà.

[581] Vedasi l'Epistola 54 del Lib. X di Simmaco. Nella forma e nella
disposizione dei suoi dieci libri di lettere, esso imitò Plinio il
Giovane, del quale supponevano i suoi amici che uguagliasse o superasse
il ricco e florido stile (Macrob. _Saturnal_. l. V. c. 1). Ma Simmaco è
soltanto lussureggiante in vane foglie senza frutti e senza fiori. Pochi
fatti e pochi sentimenti si possono trarre dal suo verboso carteggio.

[582] Vedi Ambrogio Tom. II. ep. 17. 18. p. 825-833. La prima di queste
lettere è una breve precauzione; la seconda è una replica formale alla
domanda o al libello di Simmaco. Le stesse idee sono espresse più
copiosamente nella poesia, seppure può meritar questo nome, di
Prudenzio, il quale compose i due suoi libri contro Simmaco (nell'anno
404) mentre viveva ancora quel Senatore. Egli è molto stravagante, che
Montesquieu (_Considerat_. c. 19. T. III p. 487. ec.) trascurasse i due
nemici dichiarati di Simmaco, e si divertisse a spaziare nelle più
distanti e indirette confutazioni di Orosio, di S. Agostino e Salviano.

[583] Vedi Prudent. _in Symmach_. l. I. 545 ec. I Cristiani convengono
col Pagano Zosimo (l. IV. p. 283) nel collocar questa visita di Teodosio
dopo la seconda guerra civile: _gemini bis victor caede tyranni_ (l. 1.
410). Ma il tempo e le circostanze meglio s'adattano al suo primo
trionfo.

[584] Prudenzio, poi che provato che si dichiarò il sentimento del
Senato per mezzo d'una legittima superiorità di voti, prosegue a dire.
609. ecc.

    _Adspice quam pleno subsellia nostra. Senatu_
    _Decernant infame Jovis pulvinar, et omne_
    _Idolium longe purgata ab urbe fugandum._
    _Qua vocat egregii sententia Principis, illuc_
    _Libera cum pedibus, tum corde frequentia transit._

Zosimo attribuisce ai Padri Conscritti un coraggio pel Paganesimo, che
si trovò solo in pochi di loro.

[585] Girolamo porta l'esempio del Pontefice Albino, che era circondato
da tal famiglia di figli e di nipoti tutti fedeli, che sarebbero stati
sufficienti a convertire anche Giove medesimo: che straordinario
proselito! (Tom. I. _ad Laetam_ p. 54).

[586]

    _Exsultare Patres videas, pulcherrima mundi_
    _Lumina, conciliumque senum gestire Catonum_
    _Candidiore toga niveum pietatis amictum_
    _Sumere; et exuvias deponere Pontificales._

La fantasia di Prudenzio è riscaldata ed elevata dalla vittoria.

[587] Prudenzio, dopo d'aver descritto la conversione del Senato e del
popolo, domanda con qualche verità e fiducia:

    _Et dubitamus adhuc Romam tibi, Christe, dicatam_
    _In leges transisse tuas?_

[588] Girolamo esulta nella desolazione del Campidoglio e degli altri
tempj di Roma (Tom. I. p. 54. Tom. II. p. 95).

[589] Libanio (_Orat. pro Templis p. 10. Genev. 1634_ pubblicata da
Giacomo Gotofredo, e adesso molto rara) accusa Valentiniano e Valente
d'aver proibito i sacrifizi. Può l'Imperatore orientale aver dato
qualche ordine particolare: ma vien contraddetta l'idea di qualunque
legge generale dal silenzio del Codice e dalla testimonianza
dell'Istoria ecclesiastica.

[590] Vedansi le sue leggi nel _Codice Teodosiano lib. XVI. Tit. X. leg.
7-11_.

[591] I sacrifizi d'Omero non sono accompagnati da alcuna investigazione
di viscere (Vedi Feithius _Antiq. Homers_ l. I. c. 26): I Toscani, che
produssero i primi Aruspici, soggiogarono tanto i Greci, quanto i Romani
(Cicer. _de Divinat_. 2. 23).

[592] Zosimo l. IV. p. 245, 249. Teodoret. l. V. c. 21. Idazio _in
Chron_. Prosper. Aquitan. l. III. c. 38 appresso il Baronio _Annal
Eccl_. an. 389. n. 52. Libanio (_pro Templis p. 10_) si sforza di
provare, che gli ordini di Teodosio non furono diretti e positivi.

[593] Cod. Teodos. l. XVI. Tit. X. leg. 8. 18. Vi è luogo di credere,
che quel tempio d'Edessa, che Teodosio bramava di salvare per gli usi
civili, divenisse poco tempo dopo un mucchio di sassi. Libanio _pro
Templis_ p. 26. 27 e not. del Gotofred. p. 59.

[594] Vedasi la curiosa orazione di Libanio _pro Templis_, pronunziata,
o piuttosto composta circa l'anno 390. Io ho consultato con vantaggio la
versione e le note del dottor Lardner (_Testim. Pagan. Vol. IV. p. 135.
163_).

[595] Vedi la vita di Martino fatta da Sulpicio Severo (c. 9-14). Il
Santo prese una volta (come avrebbe fatto Don Chisciotte) un innocente
funerale pur una processione idolatrica, ed imprudentemente commise un
miracolo.

[596] Si confronti Sozomeno (l. 7. c. 15) con Teodoreto (l. V. c. 21).
Fra tutti due riferiscono la crociata e la morte di Marcello.

[597] Libanio (_pro Templis. p. 10-13_) scherza intorno a quegli uomini
vestiti di nero, cioè a' Monaci Cristiani, che mangiano più degli
elefanti. Poveri elefanti! Essi sono animali moderati.

[598] Prosper. Aquit. l. III. c. 38. _ap. Baron. Annal. Eccles._ an.
389. 258. Quel tempio restò chiuso per qualche tempo, e n'era stato
impedito l'accesso con pruni.

[599] Donat. _Roma antiq. et nova l. IV. c. 4._ pag. 468. Fu fatta
questa consagrazione dal Pontefice Bonifazio IV. Io non so quali
favorevoli circostanze avessero conservato il Panteon più di dugento
anni dopo il regno di Teodosio.

[600] Sofronio ne compose una recente storia a parte (Girol. _in Script.
Eccles. Tom. I. p. 303_) che ha somministrato i materiali a Socrate (l.
V. c. 16), a Teodoreto (l. I. V. c. 22) e a Ruffino (l. II. c. 22). Pure
quest'ultimo, che si trovò in Alessandria avanti e dopo il fatto, può
meritar la fede di testimone originale.

[601] Gerardo Vossio (_Oper. Tom. V. p. 80 e de Idol. I. c. 29_) tenta
di sostenere la strana opinione dei Padri, che in Egitto sotto la forma
del loro Api, e del Dio Serapide si adorasse il Patriarca Giuseppe.

[602] _Origo Dei nondum nostris celebrata. Aegyptiorum Antistites sic
memorant._ Tacit. _Hist._ IV. 83. I Greci, che avevan viaggiato in
Egitto, parimente ignoravano questa nuova Divinità.

[603] Macrob. _Saturnal. l. I. c. 7._ Un fatto sì forte prova
decisivamente la sua origine straniera.

[604] A Roma furono uniti nel medesimo tempio Iside e Serapide. La
precedenza, che avea la Regina, può servire a dimostrare la sua disugual
congiunzione con lo straniero del Ponto. Ma era stabilita in Egitto la
superiorità del sesso femminile, come una instituzion civile e religiosa
(Diodor. Sicul. Tom. I. l. I. p. 31. _edit. Wessel._), ed il medesimo
ordine si osserva nel trattato di Plutarco d'Iside e d'Osiride, che esso
identifica con Serapide.

[605] Ammiano XXII. 26. L'_Expositio totius mundi_ (_p. 8. in Geog.
Minor. d'Hudson. Tom. III_), e Ruffino (l. II. c. 22) celebrano il
_Serapeo_ come una delle maraviglie del mondo.

[606] Vedi _Memoir. de l'Acad. des Inscr. Tom. IX p. 197-416_. La
vecchia libreria de' Tolomei fu totalmente consumata nella guerra
Alessandrina di Cesare. Marc'Antonio diede tutta la collezione di
Pergamo (200000 volumi) a Cleopatra per servir di fondamento alla nuova
libreria d'Alessandria.

[607] Libanio (_pro Templis p. 21._) imprudentemente provoca i
Cristiani, suoi Signori, con questa insultante osservazione.

[608] Noi possiamo scegliere fra la data di Marcellino, anno 389, e
quella di Prospero anno 391. Il Tillemont (_Hist. des Emp. Tom. V. p.
310. 756._) preferisce la prima, ed il Pagi la seconda.

[609] Tillemont, _Mem. Eccl. Tom. XI. p. 441-500_. L'ambigua situazione
di Teofilo, ch'è un Santo, risguardato come amico di Girolamo, ed è un
diavolo, come nemico di Grisostomo, produce una specie d'imparzialità;
pure esaminato il tutto, la bilancia pende giustamente contro di lui.

[610] Lardner (_Pagan. Tevimon. vol. IV. p. 411_), ha addotto un bel
passo di Suida, o piuttosto di Damasio, che presenta il devoto e
virtuoso Olimpio non già in aspetto di guerriero, ma di profeta.

[611] _Nos vidimus armaria librorum, quibus direptis, exinanita ea a
nostris hominibus nostris temporibus memorant._ Orosio l. VI. c. 15 p.
421. Edit. Haverc. Sembra che Orosio, quantunque pinzochero e
controversista ne abbia rossore.

[612] Eunapio, nelle vite d'Antonino e d'Edesio, detesta la sacrilega
rapina di Teofilo. Il Tillemont (_Mem. Eccl. T._ XIII. p. 453) cita una
lettera d'Isidoro di Pelusio, che accusa il Primate del culto
_idolatrico_ dell'oro, dell'_auri sacra fames_.

[613] Ruffino nomina un Sacerdote di Saturno, che sotto la forma di quel
Dio conversava famigliarmente con molte pie donne di qualità,
finattantochè si tradì da se stesso in un momento di trasporto, in cui
non potè mascherare il tuono della sua voce. L'autentica ed imparziale
narrazione d'Eschine (Vedi Bayle _Diction. Cri. Scamandre_) e
l'avventure di Mondo (Gioseff. _Ant. Giud. l._ XVIII. c. 3. p. 877.
_Edit. Haverc._) possono provare che tali amorose frodi si son praticate
con buon successo.

[614] Si vedano le immagini di Serapide appresso Montfaucon (_Tom_. II.
p. 296), ma la descrizione di Macrobio (_Saturnal_. l. I. c. 20.) è
molto più pittoresca e soddisfacente.

[615]

    _Sed fortes tremuere manus, motique verenda_
    _Majestate loci, si robora sacra ferirent,_
    _In sua credebant redituras membra secures_.

(Lucan. III. 429). È vero, disse Augusto ad un veterano di Italia, in
casa del quale cenava, _che quello, che diede il primo colpo alla statua
d'oro d'Anaitide, restò immediatamente privo degli occhi e della vita?
Io fui quello_, rispose l'illuminato veterano, _e voi presentemente
cenate sopra una gamba della Dea_. Plin. _Hist. Nat. XXXIII. 24_.

[616] Sozomeno lib. VII. c. 20. Io ho supplito la misura. La stessa
misura dell'inondazione, e per conseguenza del cubito, è durata uniforme
fino dal tempo d'Erodoto. Vedi Freret nelle _Mem. de l'Acad. des Inscr.
Tom_. XVI. 344-353. Greaves _Oper. miscellan. vol. I. p. 233_. Il cubito
Egiziano è circa ventidue pollici del piede Inglese.

[617] Libanio, (_pro Templis_ p. 15. 16. 17) difende la loro causa con
delicata ed insinuante rettorica. Fino dai più antichi tempi avevano
tali feste ravvivato la campagna; e quelle di Bacco (_Georg_. II. 380)
avevan prodotto il teatro d'Atene. Vedi Gotofredo _ad Liban. e Cod.
Teod_. VI. p. 284.

[618] Onorio tollerò queste rustiche feste, an. 309. _Absque ullo
sacrificio, atque ulla superstitione damnabili_. Ma nove anni dopo credè
necessario di rinnovare ed invigorire la stessa costituzione. _Cod.
Teod. l. XVI. tit. X. leg. 17. 19_.

[619] _Cod. Teod. l. XVI. Tit. X. leg. 12_. Jortin (_Osserv. sull'Istor.
Eccl. vol. IV. p. 134_) censura con asprezza lo stile ed i sentimenti di
questa intollerante legge.

[620] Non dovrebbe leggermente darsi un'accusa di tal sorta: ma può
sicuramente giustificarsi coll'autorità di S. Agostino, il quale così
parla ai Donatisti. _Quis nostrum, quis vestrum non laudat leges ab
Imperatoribus datas adversus sacrificia Paganorum? Et certe longe ibi
poena severior constituta est: illius quippe impietatis capitale
supplicium est. Epist. 93. n. 10_. citata dal Leclerc, (_Bibl. Chois.
Tom. VIII. p. 277_) il quale aggiunge alcune riflessioni
sull'intolleranza de' vittoriosi Cristiani.

[621] Orosio _l. VII. c. 28. p. 537_. Agostino (_Enarr. in Ps._ 140. ap.
Lardner _Testim. Pag. volum. IV. p. 458._) insulta la lor codardia;
_Quis eorum comprehensus est in sacrificio (cum his legibus ista
prohiberentur) et non negavit?_

[622] Libanio (_pro Templis. p. 17. 18._) fa menzione dell'accidentale
conformità di quest'ipocriti, come d'una scena teatrale, senza
censurarla.

[623] Libanio termina la sua apologia (p. 32.) con dichiarare
all'Imperatore, che qualora egli espressamente non garantisca la
distruzione dei tempj, i proprietari difenderanno se stessi e le leggi;
ισθι του των αγρων δεσποτας καί αυτοις, καί τῳ νομω βοηθησοντας.
_Sappi che i Signori delle campagne provederanno a se stessi ed alla
legge._

[624] Paolin. _in. vit. Ambros. c. 26._ Agostino _de Civ. Dei l. V. c.
26._ Teodoret. l. V. c. 24.

[625] Libanio suggerisce la forma di un editto di persecuzione, che
Teodosio avrebbe potuto fare (_pro Templis_ p. 32.); scherzo imprudente,
ed esperienza pericolosa! Qualche altro Principe potrebbe aver preso il
suo consiglio.

[626]

    _Denique pro meritis terrestribus aeque rependens_
    _Munera, sacricolis summos impertit honores_
    ·  ·  ·  ·  ·  ·  ·  ·  ·  ·  ·  ·  ·
    _Ipse magistratum tibi Consulis, ipse tribunal_
    _Contulit._ (Prudent. _in Symmach._ I. 617. ec.)

[627] Libanio (_pro Templis_ c. 32) s'insuperbisce, che Teodosio
distinguesse in tal modo uno, che anche alla sua _presenza_ giurasse per
Giove. Pure questa presenza non sembra esser altro che una figura
rettorica.

[628] Zosimo, che chiama se stesso Conte ed Ex-avvocato del Tesoro, con
indecente e parzial bacchettoneria maltratta i Principi Cristiani, ed
eziandio il padre del proprio Sovrano. L'opera di lui dev'essere andata
in giro privatamente, poichè ha scansato le invettive degli Istorici
Ecclesiastici anteriori ad Evagrio (l. III. c. 40. 42.) che visse verso
il fine del sesto secolo.

[629] Ciò non ostante, i Pagani dell'Affrica si dolevano che i tempi non
permettessero loro di risponder con libertà alla città di Dio: nè S.
Agostino (V. 26.) contraddice all'accusa.

[630] I Mori della Spagna, che conservarono segretamente la
religione Maomettana per più d'un secolo, onde evitare il rigore
dell'inquisizione, avevano il Koran, coll'uso loro proprio della lingua
Arabica. Vedasi la curiosa ed ingenua storia della loro espulsione
appresso Geddes, _Miscell. vol. I. p. 1-198_.

[631] _Paganos, qui supersunt, quamquam jam nullos esse credamus. Cod.
Theod. lib. XVI. Tit. X. leg. 22. an. 423._ Teodosio il Giovane restò in
seguito persuaso che il suo giudizio era stato un poco immaturo.

[632] Vedi Eunapio nella vita del sofista Edesio; in quella d'Eustazio
ei predice la rovina del Paganesimo, και τι μυθωδες και αειδες σκοτος
τυραννησει τα επι γης καχλισα; _E carte favolose, ed oscure
tenebre domineranno la miglior parte della terra._

[633] Cajo (ap. Euseb. _Hist. Eccl. l. II. c. 25._) Prete Romano, che
visse al tempo di Zeffirino (an. 202-219.) è un antico testimone di
questa superstiziosa costumanza.

[634] Chrysost. _Quod Christus sit Deus. Tom. I. nov. Edit._ n. 9. Io
son debitore di questa citazione alla lettera pastorale di Benedetto
XIV. in occasione del giubbileo del 1750. Vedi le piacevoli e curiose
lettere di M. Chais; Tom. 3.

[635] _Male fecit ergo Romanus Episcopus? qui super mortuorum hominum,
Petri et Pauli, secundum nos ossa veneranda...... offert Domino
sacrificia, et tumulos eorum Christi arbitratur altaria._ Girol. _Tom.
II. adv. Vigilant._ p. 153.

[636] Girolamo (_Tom. II. p. 122._) fa fede di tali traslazioni, che son
trascurate dagli Istorici Ecclesiastici. La passione di S. Andrea a
Patra vien descritta in una lettera dal Clero dell'Acaia, che il Baronio
(_Annal. Eccl. an. 60._ n. 34.) desidera d'ammettere, e il Tillemont è
costretto a rigettare. S. Andrea fu adottato per fondatore spirituale di
Costantinopoli (_Mem. Eccl. Tom. II. p. 317-325. 188-594_).

[637] Girolamo (_T. II. p. 122._) pomposamente riferisce la traslazione
di Samuel, di cui si fa menzione in tutte le croniche di quei tempi.

[638] Il Prete Vigilanzio, che fu il protestante del suo secolo,
fortemente, quantunque senza effetto, s'oppose alla introduzione de'
Monaci, delle reliquie dei santi, dei digiuni ec.; per lo che Girolamo
lo paragona all'Idra, al Cerbero, a' Centauri ec.; e lo considera solo
come l'organo del demonio (_Tom. II. p. 120-126_). Chiunque leggerà la
controversia fra S. Girolamo e Vigilanzio, e la narrazione che fa S.
Agostino dei miracoli di S. Stefano, può prendere in breve qualche idea
dello spirito dei Padri.

[639] Il Beausobre (_Hist. du Manich. Tom II. p. 648._) applicò un senso
mondano alla pia osservazione del Clero di Smirne, che diligentemente
conservò le reliquie di S. Policarpio martire.

[640] Martino di Tours (vedi la sua vita c. 8. scritta da Sulpicio
Severo) ne trasse la confessione dalla bocca del morto. Si accorda che
l'errore sia naturale; la scoperta di esso è supposta miracolosa. Quale
di queste due cose è verisimile che sia seguita più frequentemente?

[641] Luciano compose in Greco la sua narrazione originale, che fu
tradotta da Avito, e pubblicata dal Baronio (_An. Eccl. An. 325. n.
7-16._). Gli Editori Benedettini di S. Agostino ne hanno dato (al fin
dell'opera _de Civitate Dei_) due diverse copie con molte varianti. Il
carattere della falsità è la sconnessione e l'incoerenza. Le parti più
incredibili della leggenda son mitigate, e rese più probabili dal
Tillemont _Mem. Eccl. Tom. II. p. 9_ ec.

[642] A Napoli si liquefaceva ogni anno una boccetta del sangue di S.
Stefano, fintantochè non gli successe quello di S. Gennaro: Ruinart
_Hist. Pers. Vandal. p. 529._

[643] Agostino compose i ventidue libri _de Civitate Dei_ nello spazio
di tredici anni, dal 413 al 426. (Tillemont _Mem. Eccl. Tom. XIV. p.
608._ ec.) Ei troppo spesso prende da altri la sua erudizione, e da se
stesso i suoi argomenti: ma tutta l'opera ha il merito di un magnifico
disegno, vigorosamente ed abilmente eseguito.

[644] Vedi Agostino (_de Civ. Dei. l. XXII. c. 22._) e l'appendice che
contiene due libri de' miracoli di S. Stefano, fatta da Evodio Vescovo
d'Uzalis. Freculso (ap. Basnag. _Hist. des Juifs Tom. VIII. p. 249._) ci
ha conservato un proverbio Gallico o Spagnuolo: _chi pretende d'aver
letto tutti i miracoli di S. Stefano è bugiardo_.

[645] Burnet (_de statu mortuor. p. 56-85._) raccoglie le opinioni dei
Padri, che sostenevano il sonno o riposo delle anime umane sino al
giorno del giudizio. In seguito espone (p. 91.) gli inconvenienti, che
dovrebbero nascere, se avessero un'esistenza più attiva e sensibile.

[646] Vigilanzio poneva le anime dei Profeti e dei Martiri o nel seno
d'Abramo (_in loco refrigerii_) o anche sotto l'altare di Dio, _nec
posse suis tumulis, et ubi voluerunt adesse praesentes_. Ma Girolamo
(Tom. II. p. 122.) fortemente confuta questa bestemmia: _Tu Deo legem
pones? Tu Apostolis vincula injices, ut usque ad Diem judicii teneantur
custodia, nec sint cum Domino suo, de quibus scriptum est;_ sequuntur
agnum quocumque vadit. _Si agnus ubique, ergo et hi, qui cum agno sunt,
ubique esse credendi sunt. Et cum diabolus et daemones toto vagentur in
orbe etc._

[647] Fleury, _Disc. sur l'Ist. Eccl. III p. 80_.

[648] In Minorca, le reliquie di S. Stefano convertirono in otto giorni
540 Ebrei, coll'aiuto in vero di qualche severità, come di bruciare la
Sinagoga, di cacciare gli ostinati a soffrir la fame fra scogli ec.
Vedasi la lettera originale di Severo Vescovo di Minorca (_ad calc. 3.
Augustin. de Civ. Dei_), e le giudiziose osservazioni del Basnagio (T.
VIII. p. 245-251).

[649] David Hume (_Sagg. vol. 3 p. 474_) osserva, come filosofo, il
natural flusso e riflusso del Politeismo e del Teismo.

[650] D'Aubignè (Vedi _le sue Memorie p. 156-160_) francamente offerì,
col consenso dei ministri Ugonotti, d'accordare i primi 400 anni per
servir di regola della fede. Il Cardinal du Perron chiese quarant'anni
di più, che imprudentemente furon concessi. Nessuno però dei due partiti
si sarebbe trovato contento di questo folle accordo.

[651] Il culto praticato ed inculcato da Tertulliano e da Lattanzio, è
tanto puro e spirituale, che le loro declamazioni contro le cerimonie
Pagane alle volte attaccano anche le Giudaiche.

[652] Fausto Manicheo accusa i Cattolici d'idolatria; _Vertitis idola in
Martyres..... quos votis similibus colitis._ Il Beausobre (_Hist. Crit.
du Manich. Tom. II. p. 629. 700_) Protestante, ma filosofo, ha
rappresentato con candore e dottrina l'introduzione della _Cristiana
idolatria_ nel quarto e nel quinto secolo.

[653] Può vedersi la somiglianza della superstizione, che non potrebbe
ascriversi all'imitazione, dal Giappone al Messico. Warburton ha
fatt'uso di quest'idea, ch'egli contorce per volerla rendere troppo
generale ed assoluta (_Div. Legaz. V. IV p. 126. ec._).

[654] L'imitazione del Paganesimo forma il soggetto di una piacevol
lettera, che il Dot. Middleton scrisse da Roma. Le osservazioni di
Warburton l'obbligarono ad unire (Vol. III. p. 120-152) l'istoria delle
due religioni, ed a provare l'antichità della copia Cristiana.



                              RIFLESSIONI
                            D'IGNOTO AUTORE
                           SOPRA I CAPITOLI
                         XXVI, XXVII E  XXVIII
                     DELLA STORIA DELLA DECADENZA
                     E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO

                                  DI

                            EDOARDO GIBBON

                        DIVISE IN TRE LETTERE

                               DIRETTE
                      AI SIGG. FOOTHEAD E KIRK

                          INGLESI CATTOLICI


LETTERA I.

L'amorevolezza, con cui accoglieste le brevi e semplici mie riflessioni
sul VI. e VII. Tomo della Storia del Sig. Gibbon della traduzione
Pisana, le quali v'indirizzai sì per rendervi cauti nella lettura di
un'opera pericolosa, che per varj titoli doveva sollecitare la vostra
letteraria curiosità, come ancora per animarvi a far uso in difesa della
Religione Cattolica del vostro raro talento e sapere: ed inoltre il
compatimento, che elleno meritarono presso il dotto ed illustre Prelato
della vostra nazione, Monsignor Stonor,[655] mi rendono coraggioso ad
indirizzarvene, unicamente pei fini medesimi, alcune altre poche, le
quali mi son presentate alla mente in leggendo l'ottavo Tomo uscito ora
alla luce. Ma in questo ancora sono tanto gli abbagli del Sig. Gibbon e
tanto varj, che senza nojarvi, censurandoli ad uno ad uno, vi mostrerò
soltanto l'Autore sempre coerente a se stesso nel pungere ed avvilire il
partito Cattolico; non accorgendosi egli per avventura, quanto, così
adoperando, ponga in diritto i suoi leggitori di applicare ai suoi libri
i giudiziosi canoni fissati da Plutarco nel suo aureo Opuscolo _de
Malignitate Herodoti_, per giudicare del merito di uno Storico.

Siccome un adulatore artificioso ed astuto frammischia talora tra molte
e lunghe lodi qualche ombra di biasimo[656], così la malignità ai
delitti medesimi accoppia la lode, affinchè quelli ritrovino più
agevolmente credenza. Vediamo se il Sig. Gibbon usa un cotal modo tanto
coi Padri Greci che coi Latini. «_Basilio e Gregorio Nazianzeno_ (egli
dice) _eran distinti sopra tutti i loro contemporanei per la rara unione
di profana eloquenza e di ortodossa pietà. Essi avevano coltivato i
medesimi studj liberali nelle scuole di Atene, si erano ritirati con
egual divozione alla solitudine... e pareva totalmente spenta ogni
scintilla di emulazione e d'invidia nei santi ed ingenui petti di
Gregorio e Basilio_». Ma che? _l'esaltazion di Basilio alla sede
Archiepiscopale di Cesarea scuoprì al Mondo, e forse a lui medesimo
l'orgoglio del suo carattere. Il primo favore, che Basilio fece
all'amico, fu preso per un insulto, e s'ebbe forse l'intenzione di
farlo. Invece d'impiegare i sublimi talenti di Gregorio in qualche utile
e cospicuo posto, l'altiero Prelato_ (Basilio) _diè il Vescovado del
miserabil villaggio di Sasima_ al Nazianzeno: _e questi dopo di essersi
sottomesso con ripugnanza a tale umiliante esilio, e_ dopo di aver
ajutato il proprio padre _nel governo della nativa sua Chiesa,
conoscendo bene di meritare un'altra udienza ed altro teatro, accettò
con lodevole ambizione l'onorevole invito, che gli fu fatto dal partito
ortodosso di Costantinopoli._ L'istesso Gregorio _sotto il modesto_ velo
d'un sogno _descrive il proprio buon successo nella predicazione,_ che
ivi ebbe, _con qualche umana compiacenza; ivi il Santo, che non avea
superate le imperfezioni dell'umana virtù, fu profondamente sensibile al
mortificante riflesso, che l'entrar che fece nell'ovile era piuttosto da
lupo che da pastore:_ ivi infine dopo molto _l'orgoglio o l'umiltà gli
fece evitare una contesa, che avrebbe potuto imputarsi ad ambizione ed
avarizia, e propose pubblicamente, non senza qualche dose di sdegno, di
rinunziare al governo di una Chiesa, che era risorta, e quasi creata per
le sue fatiche; e fu accettata la rinunzia dal Sinodo e dall'Imperatore
più facilmente di quello, che sembra che ei si aspettasse in quel tempo,
nel quale egli avea forse sperato di godere i frutti della vittoria._
Ecco dove vanno a finire le lodi del Sig. Gibbon! _Nei santi ed ingenui
petti_ di Gregorio e Basilio ascondevasi la radice di tutti i mali, la
superbia, ed il più abbominevol del vizi, l'ipocrisia. Si può egli mai
con più sottile scaltrimento attaccare la santità di due tra i più
illustri Dottori della Chiesa, e come tali riconosciuti dalla
medesima[657] per lo spazio non interrotto di quattordici secoli?

Nè io vo' già negare, che il Nazianzeno adoperasse dei modi non
plausibili per sottrarsi alle cure del litigioso Vescovado di Sasima, nè
che egli giungesse perfino sul primo fervore a rampognare Basilio, che
l'eminenza della sua sede lo avesse reso orgoglioso; ma non per questo
Basilio era tale, come lo afferma francamente il Sig. Gibbon, nè tale in
realtà reputavasi da Gregorio. Imperocchè questi medesimo giustificò di
poi bastevolmente Basilio[658] dicendo, che egli in quella occasione
avea preferito, senza riguardo agl'interessi dell'amicizia, tutto ciò,
che a suo avviso poteva contribuire al divino servigio; ed in un'arringa
fatta nell'adunanza dei Vescovi[659] intervenuti alla sua consacrazione
tessè un elogio eccellente a quel grande Arcivescovo, ragionando delle
virtù episcopali, che egli poteva apprender da esso; tra le quali e'
parrebbe che l'alterezza, l'invidia, l'emulazione e l'orgoglio tanto
meno si potessero annoverare, quanto più debbono i Vescovi
rassomigliarsi al divino Pastore e Maestro mansuetissimo ed umil di
cuore.

Sarà poi almen vero, che Gregorio per l'alto concetto, che avea di se
stesso, ricusasse il governo di Sasima e di Nazianzo, ed accettasse
quello della nuova Capital dell'Impero? Per verità fino ai dì nostri si
era creduto, che il Nazianzeno avesse cercato mai sempre di ascondersi
agli occhi degli uomini, a segno tale da venirgli imputato da taluno a
delitto[660] un soverchio amore per la solitudine. Da questo amore si
ripetevano unicamente le acerbe querele fatte all'amico sul Vescovado di
Sasima, a cui aveva sovente[661] manifestato il suo disegno di ritirarsi
totalmente dal Mondo, morti che fossero i suoi genitori, e da cui ne
aveva riscossi dei segni di approvazione. Ci confermava in tale opinione
il leggere nella mentovata Orazione[662], che Gregorio, quanto maggiori
lumi acquistava, tanto più si alienava coll'animo dalle dignità della
Chiesa, che tutte riputava sublimi per timore di esserne indegno, o di
addivenirne superbo, e cadere come Saulle: ben persuasi di non poter
ritrovare miglior testimone dei sentimenti del Nazianzeno, tranne colui
ch'è il solo scrutatore dei cuori umani, del Nazianzeno medesimo[663].
Ma quelle, mi si dirà, son parole. Son parole, egli è vero, ma
dimostrate per sincerissime da una serie costante di azioni, che son
quei frutti, dai quali siamo istruiti a discernere la santità
dall'ipocrisia. Non vi volle forse tutta la violenza e la tenerezza di
un genitore cadente per trar Gregorio dalla sua solitudine, ed
indurlo[664] a divider con esso il governo della nativa sua diocesi? E
non protestossi, nell'occasione di arrendersi a tai premure, di non
volergli succedere in conto alcuno dopo la morte, protesta che ei
rinnovò alla presenza dei Vescovi, i quali assisterono ai funerali del
padre defunto, contestandone l'ingenuità e colle replicate suppliche per
far eleggere il nuovo Pastore a Nazianzo[665], e colla sua ritirata nel
Monastero di S. Tecla e Seleucia?

Ma che forse non accettò l'onorevole invito, che gli fu fatto dal
partito ortodosso di Costantinopoli? Sì lo accettò; ma fu di mestiero
svellerlo a forza dal suo ritiro, dov'ei ritrovava le sue delizie[666].
Sì lo accettò; ma per terger le lagrime di tanti fedeli[667], che si
dolevano della sua renitenza: lo accettò finalmente, ma non già prima
che molti tra i suoi amici medesimi[668] lo riprendessero e lo
condannassero come poco curante del ben della Chiesa[669].

E qual città era ella mai a quei giorni Costantinopoli da stimolar
l'ambizione di Gregorio già vecchio, mal sano, ed infievolito dalle
austerità della penitenza[670]? I Macedoniani, gli Apollinaristi, gli
Eunomiani, e gli Arriani principalmente vi trionfavano: nè ciò è
attestato dal solo Gregorio, il quale insolentemente da Gibbon vien
paragonato ad _un medico sempre disposto ad esagerare l'inveterata
malattia, che egli ha curata_, ma da Sozomeno, da Ruffino, e da
Filostorgio medesimo[671]. Ivi i Cattolici omai ridotti ad un piccol
drappello erano divenuti soli il bersaglio della più fiera persecuzione,
di cui Gregorio stesso provò ben tosto il furore, essendo lapidato
villanamente[672]: ed ivi pure nel tempo di _Eudosso e Demofilo godeva_
(son parole del Sig. Gibbon) _una libera introduzione il vizio e
l'errore da ogni Provincia dell'Impero_[673]. E questa poteva esser
l'_udienza_, questo il _teatro_, questo l'_utile e cospicuo posto_ da
soddisfare _la vanità e l'ambizione?_

Ma volete ancor meglio conoscere quanto codesto spirito dominasse
Gregorio? Il Cinico Massimo colle arti più inique si fa ordinar Vescovo
di Costantinopoli, e Gregorio risolvè tosto di ritirarsi da quella
città; nè per distorlo dal suo disegno vi volle meno, che un popolo si
confinasse nella Chiesa, ove egli era adunato, per un'intiera giornata a
pregarlo e scongiurarlo, e protestasse di volergli impedir la partenza a
costo ancor della vita[674]. Espulso Demofilo, e condannato dal Sinodo
di Costantinopoli il perfido usurpatore, Teodosio[675], giusto
estimatore del merito di Gregorio, lo chiede per Vescovo di quella
Capitale, e Melezio e gli altri Prelati dell'Oriente violentano
replicatamente la sua modestia, e lo collocano sul trono Arcivescovile
altra volta da lui rifiutato[676], malgrado i suoi gemiti e le sue
grida[677]. L'Imperatore, il quale ebbe parte alla sua istallazione, fu
altresì testimone della sua resistenza[678]; la quale sarebbe anche
stata maggiore, se Gregorio non avesse sperato di contribuire alla pace
di Antiochia e del Mondo Cristiano nel grado di Vescovo d'una città
situata tra l'Oriente e l'Occaso.

Ed infatti presentatasi in breve l'occasion favorevole di stabilirla per
la morte del Patriarca Melezio, vedendo Gregorio riuscire inutili tutti
i suoi sforzi, e defraudate le sue speranze, non esitò punto ad
abbandonare l'abitazion vescovile, ed a proporre di lasciar la sua sede.
Accettata la proposizione dal Sinodo, restava l'assenso Imperiale. Le
preghiere del Santo furono così vive e pressanti, che Teodosio si
arrese, ma non già volentieri, nè _più facilmente di quel che egli
credeva_. Questa è una voce maligna, che sparsero allora i nemici del
Nazianzeno[679]

    _Imperator... cedit ac votis meis_
    _Ille haud libenter_, ut ferunt, cedit tamen,
la quale riproducendosi ora dal Sig. de Gibbon non recherà maraviglia
s'ei tace, e che i personaggi più riguardevoli della città, portatisi da
Gregorio a scongiurarlo, piangendo, di non abbandonare il suo popolo, lo
intenerirono con le loro lacrime, ma non lo piegarono[680]; e che i più
gravi membri del Sinodo non tanto _per il disordinato procedere contro
Paolino_, quanto per non udire la proposizion di rinunzia del
Nazianzeno, si chiuser le orecchie, batteron le mani, e si separaron
dagli altri; e qual giudizio per fine formi un istorico (da lui sovente
allegato, ma non già in un tal fatto) di quest'azione, la quale fu
certamente una delle più eroiche in tutta la Storia Ecclesiastica[681].
Ma se il Sig. Gibbon avesse indicati tai fatti, io avrei molto men
ragione di asserire, che egli si trova delineato in Plutarco.

Lo scrittore di cui parla quel Savio, debbe intrudere nella sua storia,
benchè poco a proposito (e qui rammentatevi, che il Sig. Gibbon si
propone di far la storia della decadenza e rovina dell'Impero Romano) le
disavventure, le azioni vituperevoli, e le scelleraggini delle
persone[682], e per lo contrario dee omettere ciò che avvi di buono,
quantunque abbia relazione al racconto già incominciato: anzi egli dee
attribuire le belle e notabili azioni ad una cagione viziosa,
interpretarne sinistramente i disegni, e sempre crederne il peggio, od
almen sospettarlo[683]. Per questo appunto l'A. attribuisce ad alterezza
ed orgoglio in S. Basilio l'elezione che fece di Gregorio al Vescovado
di Sasima, e la ripugnanza di questo per Sasima e per Nazianzo ad
_emulazione_ ed _invidia_, ed _alla cognizione, che aveva di meritare
altra udienza ed altro teatro_: perciò vuol che Gregorio stesso
_descriva il proprio buon successo nella predicazione con qualche umana
compiacenza_, tuttochè nel medesimo luogo ei protesti[684] di non
insuperbirsene neppur in sogno; nè sa decidere se l'_orgoglio_ o
_l'umiltà_ lo inducesse a ceder la cattedra di Costantinopoli e per
questo istesso, invece di osservare, che _generalmente_ fu accettata la
rinunzia più agevolmente di quello che si doveva da un'adunanza di
Vescovi, gli piace di dire _più facilmente di quello che sembra, che ei
s'aspettasse_.

Ma che si pretende dal Sig. Gibbon, potrebbe dirmi un lettore poco
avveduto, mentre egli confessa che _Gregorio era uno dei più eloquenti e
pii Vescovi di quel tempo, un Santo, un Dottor della Chiesa, la sferza
dell'Arrianesimo, la colonna della Fede ortodossa, un membro distinto
del Concilio di Costantinopoli, in cui dopo la morte di Melezio esercitò
l'uffizio di Presidente?_ Si pretende, per dirlo in breve, meno ironia,
e più buona fede. Ed infatti se un tal elogio fosse sincero, come
oserebbe, oltre il già divisato, di porre in ridicolo il Nazianzeno per
aver raccontato _come uno stupendo prodigio, che nella nuvolosa mattina
della sua istallazione, quando la processione entrò in Chiesa, comparve
il sole_; mentre egli dichiarasi[685] di narrarlo soltanto per esser
sembrato a molte persone un tratto di Provvidenza, avendo tanto
contribuito a tranquillare gli animi dei Cattolici, ed a sedare il
tumulto? E come potrebbe conchiudere la storia che riguarda Gregorio
medesimo, dicendo che _la tenerezza del cuore e l'eleganza del genio
riflette un più brillante splendore sulla memoria di lui, che il titol
di Santo, che si è aggiunto al suo nome_[686]. Ma il fine che il Sig.
Gibbon si è proposto con quel cumulo di titoli luminosi dati in quel
luogo a Gregorio, ei medesimo lo manifesta, ed è per _impor silenzio
all'importante bisbiglio della superstizione e del bigottismo_,
argomentando _ad hominem_, come suol dirsi, sull'autorità delle adunanze
del Clero[687] derise dal Santo e specialmente dal Concilio di
Costantinopoli, _che ora trionfa nel Vaticano_, ma _su di cui i Papi
lungamente avevano esitato_, di modo che _la loro dubbiezza rende
perplesso, e quasi vacillante l'umile Tillemont_. E qui appunto è dove
trionfa la malignità dello Storico. Imperciocchè se _la sobria
testimonianza della storia dee accordare alla personale autorità dei
Padri_, adunati in un Sinodo, un peso proporzionato al merito loro,
leggete Teodoreto[688], e il Baronio[689], e vedrete che non vi è forse
stato Concilio composto di un numero maggiore di Santi e di Confessori,
quanto quello, di cui si ragiona. Ve ne furono certamente di qualità
assai differenti, onde venne trattato con tal disprezzo dal Nazianzeno
«jusqu'à l'appeller une assemblée d'oisons, et de grues, qui se
bottoient, et se dechiroient sans discretion, une troupe de geais, et un
essaim des guespes, qui sautoient au visage dés qu'on s'opposoit à eux».
Cito la versione del testo fatta dal Tillemont[690], affinchè in secondo
luogo osserviate, che egli _leggermente_, ma _ingenuamente_ al pari di
_le Clerc_, ma però con minore impudenza, _indica tali passi_. E
finalmente era pur necessario ad uno storico ingenuo l'avvertire, che
quella lunga dubbiezza dei Papi intorno alle decisioni di quel Concilio
è stata unicamente in rapporto alla disciplina ed alla polizia della
Chiesa, e non intorno alla Fede: distinzione essenzialissima e già fatta
dal S. Pontefice Gregorio M.[691]. Che poi il simbolo Costantinopolitano
sia stato costantemente fin dalla più remota antichità riguardato dalla
Chiesa universale siccome Regola inconcussa di Fede, dimostrasi ad
evidenza coll'autorità del Concilio ecumenico Calcedonese celebrato soli
ottant'anni dopo, di Gelasio Pontefice del V. secolo[692], di S.
Gregorio M. che si protesta di venerare i quattro primi Concilj,
numerando il Costantinopolitano in secondo luogo, come i quattro
Evangelj[693], del V. Concilio ecumenico, in cui ciascuno dei Padri così
professò: _suscipio Sanctas quatuor Synodos, et quae ab ipsis de una
eademque fide definita sunt_; e per tacere le molte altre testimonianze
arrecate da Lupo e Natale Alessandro[694], con quella di Fozio, il quale
dice nel Libro _de Synod._ delle decisioni drammatiche del Concilio
Costantinopolitano: _Quibus haud multo post et Damasius Episcopus Romae_
(allora vivente) _eadem confirmans, atque eadem sentiens accessit_.

Una somigliante misura di lodi e d'ingiurie possiam rilevarla eziandio
relativamente ad Ambrogio, S. Arcivescovo di Milano. Poichè in un luogo
asserisce il Sig. Gibbon che _l'attività del suo genio presto lo pose in
istato di esercitare con zelo e con prudenza i doveri dell'Ecclesiastica
potestà_: in un altro confessa che _egli nel più eminente grado riuniva
in sè tutte le virtù Episcopali_, ed intanto ora il dileggia per aver
encomiato il S. Vescovo Ascolio coi titoli di _murus fidei, gratiae, et
sanctitatis,_ osservando con insulso e puerile motteggio, che _la
prontezza e la diligenza di lui in correre a Costantinopoli, in Italia
ec. non è virtù che convenga nè ad un muro, nè ad un Vescovo_; quasi che
disdicesse ad un Vescovo l'intervenire ai Concilj, l'opporsi con
intrepidezza Apostolica al furor degli Eretici, ed il non risparmiar
fatiche e disagi per la tranquillità della Chiesa Universale[695]. Ora
l'accusa per essersi _contraddetto ed avere sconvolto il suo sistema_
_teologico; assicurando_ che Valentiniano, quantunque non battezzato,
_era stato introdotto senza difficoltà nelle sedi della beatitudine
eterna: _ ora con la _sua ragionevolezza incredulo al par di Giustina
sulla_ illuminazione del cieco Severo _deride le teatrali
rappresentazioni, che si facevano per l'artifizio ed a spese
dell'Arcivescovo_: ed ora infine pretende, che, insieme con gli altri
Vescovi, Ambrogio fosse animato da uno spirito di persecuzione così
crudele da procurare un _editto Imperiale per punire come capital
delitto la violazione, la negligenza e anche l'ignoranza della divina
legge_. Fermiamoci brevemente sopra ciascuno di questi articoli.

E primieramente qual contraddizione vi è mai a negare che senza il
lavacro battesimale si dia la rigenerazione, e la remission dei peccati
negl'infanti ed eziandio negli adulti, i quali quantunque credano, e
facciano buone opere o senza cagione legittima lo differiscono o mancano
di quella carità, che si domanda perfetta; e per lo contrario ad
affermarlo di quelli, i quali, ardendo di carità, hanno un desiderio
vivissimo di battezzarsi, ed in tale disposizione son colti da una morte
non aspettata? Così conciliasi _senza stento_ S. Ambrogio con se
medesimo da Chardon, e dagli altri Teologi, come sapete[696]. Aveva
pertanto[697] ragione il S. Arcivescovo di consolare le Principesse
Giusta e Grata, le quali erano dolentissime, che il loro fratello
Valentiniano fosse morto senza battesimo, perchè ei conosceva a fondo la
carità di quel Principe, il quale aveva esposta la propria vita per la
salvezza degli uffiziali, contro i quali aveva macchinato il Conte
Arbogaste: _Quid illud quod mori non timuit? Imo pro omnibus se
obtulit... occidit itaque pro omnibus, quos diligebat_[698]; e sapeva
altresì quanto ardentemente egli avesse bramato di battezzarsi: _Atqui
etiam dudum hoc voti habuit, ut et antequam in Italiam venisset,
initiaretur, et proxime baptizari a se velle significavit, et ideo prae
ceteris causis me accersendum putavit_[699]. Del resto il linguaggio del
Santo non è quello di uno che sia sicuro, che _Valentiniano fosse stato
introdotto senza difficoltà nelle sedi della beatitudine eterna_, ma di
uno che spera soltanto, benchè con fiducia, della salute di quel
Sovrano: altrimenti sarebbe stato inutile il celebrare i sacri misterj
per esso, ed il pregare dì e notte per lui e pel fratello, com'ei
promette dicendo[700]. _Nulla nox non donatos aliqua precum mearum
contextione transcurret, omnibus vos oblationibus frequentabo_. Ma
siccome questo è un luminoso testo per provare la pratica già introdotta
nel IV. secolo di pregare e di offerire il sacrifizio pei defunti; così
conveniva o dissimularlo, o maliziosamente stravolgerlo.

Secondariamente io protesto di rinunziare _alla ragionevolezza del
nostro secolo_ quand'io debba credere, ciò che raccontasi del cieco
illuminato, nella scoperta dei corpi de' SS. Gervasio e Protasio _una
teatrale rappresentazione che si faceva per l'artifizio, ed a spese
dell'Arcivescovo_, e per conseguenza unirmi con gli Arriani a
deriderla[701]. Sia pure testimone del fatto _Ambrogio medesimo_. Ma qui
si trattava di una persona notissima: era noto il suo nome, nota la
professione, note le sue vicende, noti coloro, che lo avevan soccorso
nella sua cecità. Lo sia Paolino _Segretario_ di Ambrogio. Non avrà
dunque la vita di S. Ambrogio scritta da esso il pregio _di una
testimonianza originale_ accordatole liberamente dal Sig. Gibbon solo
perchè un tal _miracolo proverebbe il culto delle Reliquie ugualmente
che la fede Nicena?_ Di grazia permettetemi di esclamare con esso ad
altro proposito: _oh! l'ammirabil regola di Critica!_ Lo sia per fine
Agostino _proselito_ del medesimo. Sarà per questo la testimonianza di
lui tanto sospetta da dover credere Ambrogio un impostore solenne?
Eppure egli parla di un tal prodigio non solo nelle sue
confessioni[702], ma ancora nella grand'Opera _de Civitate Dei_[703]; ed
ivi ne parla come di un fatto avvenuto _immenso populo teste_, e
nuovamente in un sermone recitato in Affrica lo ratifica come testimone
_oculato_[704].

Nè vi deste a credere, che io pretendessi di sostener questo fatto come
un articol di Fede[705]: esigo solo, che si ponga in bilancia tuttociò
che lo rende credibile come quello che ad esso si oppone, e mi lusingo,
che la ragionevolezza di qualunque lettore, non prevenuto contro i
miracoli[706], avrà una conferma, che nella storia del Sig. Gibbon vi è
il quarto tra i segni di malignità divinati di sopra[707].

Passiamo ora all'editto Imperiale rappresentatoci da questo novello
Demade come una legge di Dracone vergata _non atramento sed sanguine_.
Comprende forse quella porzione di legge generalmente tutti i sudditi
dell'Impero, come li comprende il principio della celebre Costituzione
_cunctos populos_, a cui ella appartiene, od almeno tutti i Cristiani?
No certamente. Ella non altri riguarda, che i soli Vescovi, uffizio de'
quali è, secondo l'Apostolo, _exhortari in doctrina sana, et eos qui
contradicunt arguere_: e ciò deducesi dall'esser posta nel Codice
Teodosiano[708] sotto il titolo = _de munere seu officio Episcoporum in
praedicando verbo Dei_ =, ed è confermato dall'espressioni d'_ignoranza_
e di _negligenza_, le quali risguardano chi è destinato alla pubblica
istruzione. Imperocchè i veri termini della legge non son già quelli del
Codice di Giustiniano[709] contro la fede dei manoscritti, e del testo
Greco allegati dal Sig. Gibbon, ma sono i seguenti = Qui divinae legis
sanctitatem aut _nesciendo_ confundunt, aut _negligendo_ violant et
offendunt, sacrilegium committunt =. Siccome poi il ministero dei
Vescovi è sacrosanto, così gl'ignoranti, ed i trascurati ονομα Ψιλὸν
περιφεροντες secondo l'espressione di S. Basilio, son dichiarati
saviamente sacrileghi, cioè profanatori, ed indegni del lor
ministero. Questa, e non altra, è la pena capitale minacciata dai Cesari
in quell'editto. E poichè tra le quattro leggi, che son sotto il titolo
_de crimine sacrilegii_ nel Codice di Giustiniano, appena una se ne
ravvisa, che tratti del vero e proprio capital delitto del sacrilegio,
rifletteremo col Ch. Gotofredo nel Comentario alla nostra = _Quo etiam
exemplo liquet de erroribus dicam ne an fraudibus Triboniani?_ e noi
diremo del Sig. Gibbon[710].

Fin qui possiam dire che il Sig. Gibbon denigra la fama dei Santi con
qualche arte ed astuzia; ma nella causa dei Priscillianisti _Agostino e
Leone_ spacciano intorno ad essi _scandalose calunnie, e il Tillemont,
l'utile spazzino! che su questo punto ha ammucchiato tutta la spazzatura
dei Padri, le ingoia come un fanciullo_. Or che sarà mai di Agostino, il
quale ripete sì _scandalose calunnie_ e nella risposta al _Commonitorio_
di Orosio[711], e nell'Epistola al Vescovo Cerezio[712] e nel Libro _de
Haeresibus_[713], ed in quello _ad Consentium_[714]; e non solo non le
ritratta, ma nelle _Ritrattazioni_ medesime le rinnova[715]? Siamo ben
da compiangere noi _Papisti_, i quali decantiamo per luminari di S.
Chiesa uomini di tal carattere! Si cancellino adunque dai nostri fasti i
nomi di Agostino e Leone, e non si alleghi mai più nelle cattedre
l'autorità di _calunniatori sì scandalosi_. Ma insieme con essi
cancellisi quello di S. Filastrio Vescovo di Brescia; giacchè nel suo
libro _de Haeresibus_ sotto il nome di _occulti_, ed _astinenti
Manichei_[716] affermò che i Priscillianisti = _resurrectionem negantes,
sub figura confessionis Christianae multorum animas mendacio, ac
pecudiali turpidine non desinunt captivare_: e cancellisi insieme con S.
Delfino, che Priscilliano e due suoi seguaci ebber contrario a
_Bordeaux_, con S. Ambrogio, che lor si oppose a Milano, e con il S.
Pontefice Damaso, il quale essendo stati già condannati dal Sinodo di
Saragozza ricusò per fin di vederli[717], cancellisi, io dico, con tutti
questi ancor S. Girolamo. Ma perchè? dee soggiungere il Sig. Gibbon con
Beausobre, di cui adotta la critica su questo fatto[718]. «Quel
témoignage que celui de S. Jèrome, écrivant de sang froid, et en
Historien! Priscillien, dit il, fut opprimè par la _faction_, par les
_machinations_ d'Ithace, et d'Idace. Parle-t-on ainsi d'un homme
coupable de prophaner la Religion par les plus infames cérémonies, et
d'enseigner la perfidie, et les parjures?»[719]. Attenzione miei
Signori: Itacio fu sin d'allora ripreso da tutti i Santi, ai quali
dispiacquero egualmente gli accusatori che i rei[720], e fu ancora
severamente punito per aver preso le parti di accusatore, contro il
mansuetissimo spirito della Chiesa[721], ed il carattere Episcopale, non
tanto per zelo di Religione quanto per odio, e forse anche per interesse
in un giudizio di morte. Il linguaggio adunque di S. Girolamo, che
disapprova in quel luogo la condotta della fazione Itaciana non
giustifica Priscilliano per verun conto; tanto più che in quel luogo
medesimo siamo avvertiti da lui, che Priscilliano veniva accusato da
alcuni come sostenitore dell'eresia delli Gnostici, e da altri difeso:
parole, che dai nostri Avversarj prudentemente si omettono. Quindi è che
noi dubiteremmo tuttora ciò che S. Girolamo abbia creduto di
Priscilliano, se dopo qualche tempo non avesse scritto così a Ctesifonte
= _Priscillianus pars Manichaei, de turpitudine cujus te discipuli
diligunt plurimum... soli cum solis clauduntur mulierculis, et illud
inter coitum, amplexumque decantant_[722].

«Tum pater omnipotens, foecundis imbribus aether etc.... _qui quidem
partem habent Gnosticae haereseos de Basilidis impietate venientem etc._
Quel témoignage que celui de Jèrome, che parla meglio informato con
questo tuono di sicurezza! _Quid loquar de Priscilliano et saeculi
gladio, et TOTIUS ORBIS auctoritate damnatus_[723]? Si parla forse così
di un uomo, che credasi messo a morte più per le _cabale_ altrui, che
per i proprj delitti? E qual testimonianza non è mai quella di Sulpizio
Severo contemporaneo, _scrittore corretto ed originale_, il quale _parla
da Storico, e a sangue freddo_ per modo da non defraudar Priscilliano di
quelle lodi, che a lui si dovevano? Ora egli attesta[724] che la causa
di quell'eretico essendo stata commessa ad Evodio uomo ardente e severo,
ma giusto al sommo, _quo nihil umquam justius fuit[725], egli
Priscillianum gemino judicio auditum, convictumque maleficii, nec
diffitentem obscoenis se studuisse doctrinis, nocturnos etiam turpium
foeminarum egisse conventus, nudumque orare solitum, nocentem
pronuntiavit_. Notaste? Priscilliano, non in giudizio tumultuario, ma in
_due formali giudizj ascoltato da un giustissimo giudice_ fu dichiarato
reo e perchè così fu _convinto_, e perchè tale si _confessò_. Si parla
così di chi è condannato per _confessioni estorte dal timore, o dalla
pena, o per vaghe narrazioni figlie della malizia, e della credulità_? E
perchè non osservare, giacchè il Sig. Gibbon _inciderat in locum, qui ad
historiam pertinet_[726], che fu ripetuto il terzo giudizio, e non più
sostenendo le parti di querelante l'indegno Vescovo Itacio, ma
l'Avvocato del Fisco Patricio, in esso l'eretico subì la condanna?
Perchè non far avvertire, che colui che parla di tortura in
quell'occasione è Pacato, cioè a dire _un ignorante, quantunque umano
Politeista_ (per confessione fatta dal Sig. Gibbon senza tormenti), e
che esso ne parla da Oratore ed in termini molto vaghi[727]; e per lo
contrario Sulpizio rispetto alla confessione di Priscilliano, già
_pienamente convinto_ non ne fa motto: anzi scrive che tre persone,
benchè più vili _ante quaestionem_[728] manifestarono i proprj delitti,
e quei dei compagni? Poteva ancora, e doveva avvertire scrivendo senza
malizia, che Massimo stesso, inviando, per quanto sembra, il processo
dei Manichei, com'egli chiama i Priscillianisti[729], al Papa Siricio,
senza parlar di tormenti, dà tanto peso alle lor confessioni, che non le
stima soggette ad eccezione veruna[730]: e poteva e doveva finalmente
osservare, che Leone Papa non fece uso sicuramente della tortura nei
suoi diligentissimi esami: eppure non esitò di asserire pubblicamente
nei suoi sermoni[731] dei Manichei dei suoi tempi = Prosit universae
Ecclesiae, quod multi ipsorum ... in quibus sacrilegiis viverent
eorumdem confessione patefactum est =. Sicut proxima eorum confessione
patefactum est ut animi, ita et corporis pollutione laetantur[732], = e
per imporre un eterno silenzio all'importante bisbiglio della malignità,
ne fece spargere gli atti per tutti i Vescovadi d'Italia[733]. Onde
quando noi non avessimo altra testimonianza che quella di S. Leone
intorno agli errori, ed alla condotta dei Priscillianisti, e fosse del
tutto improbabile, che sotto il nome di Manichei quelli ancora si
comprendessero, ragion vorrebbe tuttavolta, che noi giudicassimo, non
aver lui senza esame diligentissimo accusato i Priscillianisti, come non
osò di accusare i Manichei. Ma poichè una congettura sì forte viene
autenticata dal fatto, siccome è evidente dalla lettera di quel S.
Pontefice a Turibio di Astorga intorno ai Priscillianisti propriamente
detti[734]; cesseranno, a mio credere, le meraviglie che _Tillemont
abbia ingojate come un fanciullo le scandalose calunnie d'Agostino, e
Leone_, tanto più che le osservo ingojate con pari facilità, non vi dirò
dal Baronio[735], da Graveson[736], da Natale Alessandro[737], da
Fleury[738], da Racine[739], dall'Orsi[740] forse _superstiziosi e
bigotti_; ma da un Alberto Fabricio[741], da un Cave[742], da un
Spanemio[743], da un Erasmo[744], dai Centuriatori di Magdeburgo[745], e
perfin da Basnage[746]. O vedete quanti fanciulli và indiscretamente a
percuotere la rigida sferza del Sig. Gibbon. Conchiudiamo pertanto col
nostro Plutarco, che egli «=Quid ni? Homo est scribendi gnarus, oratio
jucunda, venustate et vi quadam praedita, et narrationibus inest
elegantia, ac

    _Sermonem veluti cantor._

non quidem scite, sed tamen suaviter proposuit. Verum sicut in rosa
cantharides, ita hic cavendae sunt CALUMNIAE ejus, et INVIDENTIA sub
laevibus, et teneris latentes figuris verborum: ne per imprudentiam
absurdas, et falsas de praestantissimis (Ecclesiae) viris opiniones
concipiamus».


FINE DEL VOLUME QUINTO.

NOTE:

[655] Il Sig. Giovanni Kirk in data di Roma dei 12 Giugno 1784 scrisse
all'Autore delle Riflessioni in questi termini. Monsig. Stonor is Wholly
of your mind, that Gibbon of all other Libertines or Deists is the most
dangerous, as he has disguised himself under the cloak of
authority...... Hence it is that he approves of your having published a
precaution, that heedless readers may not be deceived with his fluid and
nervous style, and with the fame, that he has acquired. He was pleased
with... and desired me, if you should send any thing else of that nature
to give him the satisfaction of the perusal of it. ec. ec.

[656] Plut. Ex versione Xylandri Itasil. 1570. Sicut..... qui ex arte et
callide adulantur aliquando multis et longis laudationibus
vituperationes admiscent leviculas..... ita _malignitas_; ut fidem
criminibus faciat, laudem simul ponit.

[657] V. Tillem. Mem. Eccl. T. IX. p. 132. e 134. Bolland. 9. May p.
370.

[658] S. Greg. Naz. Orat. V. p. 135. «_spiritum_ amicitiae posthabere
minime sustinuisti, quandoquidem pluris nos fortasse, quam alios omnes
ducis: ita rursum _spiritum_ nobis longe anteponis». Parlò anche più
chiaro nell'Orazione funebre 20. p. 357. Vedi la Vita di S. Basilio Tom.
III. Ediz. de Bened. p. 112.

[659] S. Greg. Naz. Orat. 7.

[660] Tillem. Mem. Eccl. T. IX. p. 558. Du Pin. 656.

[661] Carm. I. p. 7.

[662] Or. VII. p. 142-43. etc.

[663] Leggete di grazia la sua Oraz. Apologetica. Tom. I. Orat. I.

[664] Carm. I. p. 8. 9. Carm. VI. p. 74. Orat. 8. p. 147-48.

[665] Carm. I. p. 9. Epist. 65. p. 824. Epist. 222. p. 900.

[666] Orat. 25. p. 439.

[667] Ep. 222 p. 910.

[668] Ep. 14 p. 777.

[669] Tillem. Mem. Ecclesiastic. Tom. IX. p. 412 T. IV.

[670] Vedi l'Oraz. 27 de se ipso et ad eos, qui ipsum Cathedram
Constantinopol. affectare dicebant.

[671] Soz. l. 4. C. 2. 7. Ruff. L. 1. c. 25. Philost. l. 8 c. 2, Greg.
Carm. 1 p. 10. Orat. 32 pag. 525.

[672] Tillem. Mem. Eccles. T. IX. pag. 407 e pag. 431.

[673] Sozom. l. VII. c. V. Suida in V. Δημοφιλος Niceph. L. 12 c. 8.

[674] Carm. I. p. 17. 18. Orat. 28 p. 483.

[675] Soz. L. 7. C. 7.

[676] Vedi l'Oraz. 27 sopracc.

[677] Carm. I. p. 24.

[678] d. Carm. p. 30.

[679] Carm. I. p. 30.

[680] Carm. I. p. 30.

[681] Sozom. L. 7. c. 7 ex Vales. Ac mihi quidem sapientissimum hunc
virum tum ob alia multa, cum maxime in hoc negotio mirari subit. _Nam
neque fasta elatus propter facundiam, nec inanis gloriae studio_ ei
Ecclesiae praesidere concupivit, quam pene extinctam ac mortuam ipse
regendam susceperat. Sed reposcentibus Episcopis depositum reddidit,
nihil de multis laboribus conquestus, nihil de periculis, quae adversus
haereses decertans subierat etc. V. Tillem. Tom. I. Mem. Eccl. p. 479. e
Basnage Annal. V. III p. 76. ec.

[682] Jam quod ab altera parte huic respondet, nemo non videt, bonum
scilicet aliquod videri impune posse omitti. Sed tamen malitiose hoc
fit, quando quod omittitur in locum incidit, qui ad historiam pertinet.
Illibenter enim laudare non est, quam libenter vituperare, honestius,
fortasse etiam turpius. Plutar. de Herod. Malignit.

[683] Id ibid. Quartum ergo signum est ingenii in historia scribenda
parum aequi, cum duo sunt aut plures una de re sermones, deteriorem
amplecti... Ac de rebus, quas gestas fuisse constat, caussa autem et
institutum actionis in obscuro est; _malignus est_, qui in deteriorem
partem conjecturas facit ... tum qui praeclaris factis caussam
subjiciunt vitiosam, calumniandoque in sinistras abducunt suspiciones de
latente ejus, qui rem gessit, consilio; quando ipsum factum palam
vituperare non possunt.... hos liquet _ad summam invidentiam et
nequitiam_ nihil sibi fecisse reliquum.

[684] Orat. 19. p. 78.

[685] Carm. I. de V. S. p. 22. 21.

[686] Neppur questo elogio è senza eccezione. Nel N. 1. intende di dir
solamente, che tal'era _l'indole naturale di Gregorio, quando non era
infiammata o indurita dallo zelo religioso_. Il fondamento
dell'eccezione è l'_esortazione fatta a Nettadio di perseguitare gli
Eretici di Costantinopoli_. Perchè dunque non citare nè le parole, nè il
luogo? La ragione è patente. Perchè tutta la persecuzione doveva
consistere in pregare l'Imperatore a non permettere, che gli
Apollinaristi colla loro libertà di predicare, e con la loro licenza
rovesciassero un domma fondamentale. Vedi la Lett. a Nettar. indic. col
tit. di Orazione 46. La mansuetudine di S. Gregorio verso gli Eretici è
sorprendente. Vedi la sua Ep. 81. e Tillem. nella sua vita art. 67.

[687] Il disprezzo dell'A. pe' Sinodi quantunque legittimi ed ecumenici
è già manifesto dal Cap. 20. della sua Stor. T. IV. in f. Vedi _la
Confutazione_ del Ch. Sig. Ab. Spedalieri P. 1. Sez. 5 c. 4.

[688] L. V. C. 7 e 8.

[689] Ad. an. 381. §. 22. V. Basnage Annal. Vol. III. p. 76.

[690] T. IX. M. Eccl. V. de S. Gregoire de Naz. art. 69. p. 473.

[691] Lib. VI. Ep. 31.

[692] Can. Sancta Romana Dist. 15. Sancta R. Ecclesia post illas veteris
testamenti et novi scripturas... etiam has suscipi non prohibet. S.
Synodum Constantinopolitanam, mediante Theodosio Seniore A., in qua
Macedonius haereticus debitam damnationem excepit.

[693] L. I. ep. 23 p. 390.

[694] Lup. in Schol. T. I. p. 368. Nat. Alex. Diss. 37. ad saec. IV.

[695] Ita ne raptus est murus fidei gratiae et sanctitatis, quem toties
ingruentibus Gothorum catervis, nequaquam tamen potuerunt barbarica
penetrare tela, expugnare multarum gentium bellicus furor?... Urgebat et
praeliabatur S. Acholius non gladiis, sed orationibus, non telis, sed
meritis percurrebat omnia excursu frequenti Costantinopolim, Achajam,
Epirum, Italiam. _Venit enim tamquam David ad pacem populi reformandam._
V. Ep. XV. et XVI. S. Ambros. Hermant. V. de S. Ambr. L. 3 c. 6. Till.
T. 9. M. Eccl. pag 478. Vedi Van-Espen. de Cura Episcop. Part. I. Tom.
16. cap. 3. etc.

[696] Chardon. T. I. p. 86. etc. L'A. de Re Sacramentar. L. 2. Quaest.
6. Append. §. I. Berti de Theol. discipl. L. 31. c. 23. Prop. 2.

[697] V. Trident. Syn. Sess. 6. cap. 4. et Sess. 7. c. 4.

[698] De Ob. Valent. Consol. T. 2. p. 1188. etc.

[699] Ibid. §. 53 ivi S. Ambr. porta la parità del Martirio. «Quid aliud
in nobis est nisi voluntas, nisi petitio? Si quia solemniter non sunt
celebrata mysteria hoc movet: ergo nec martyres, si cathecumeni fuerint,
coronentur... Quod si suo abluuntur sanguine, et hunc sua pietas abluit
et voluntas. Nel qual luogo notano gli eruditi Editori Benedettini: Idem
sensus fuit totius Christianae antiquitatis, circa Martyres... Et certe
ne Ambrosius videatur hic loqui ad gratiam. Vide Serm. 3. in Psalm. 118.
N. 14. Sed ei praeiverat Tertull. L. de Bapt. c. 16. Cyprian. Ep. 73 ad
Juba. jan. et al. sicut eosdem Augustinus, posterioresque in hoc secuti
sunt.»

[700] P. 1194. § 76. l. cit. V. Not. B. Editor.

[701] S. Ambros Serm. 2.

Negant coecum illuminatum, sed ille non negat se sanatum. Notus homo
est, publicis cum valeret mancipatus obsequiis, Severus nomine, lanius
ministerio. Deposuerat officium postquam inciderat impedimentum. Vocat
ad testimonium homines, quorum ante substentabatur obsequiis etc.

[702] S. Aug. lib. 9. Cons. C. 7.

[703] Lib. 22. C. 8.

[704] Serm. 39 de divers. «Ibi eram, Mediolani eram, facta miracula
VIDI, novi attestantem Deum pretiosis mortibus sanctorum suorum. _Coecus
notissimus universae Civitati illuminatus est._ Cucurrit, adduci se
fecit, forte adhuc vivit. In ipsa eorum Basilica, ubi sunt corpora totam
vitam suam se serviturum esse devovit».

[705] V. Franc. Veron. Reg. Fid. Cath. §. 3. in Append. ad Natal.
Alexand.

[706] Il Sig. Gibbon non vuol miracoli di veruna sorta, nè in verun
tempo: egli investe quelli degli Apostoli, e di Gesù Cristo medesimo.
Vedi il Saggio di Confutazione di Niccola Spedalieri ec.

[707] Quantum ergo signum est etc. Vedi il Muratori De Ingenior.
moderat. in Relig. neg. l. 3. C. 11.

[708] Lib. 16. Tit. 2. L. 25. p. 64. In quello del Cuiacio _Lugduni_
1566 si legge sotto il tit. generale _de Episcop. et Cler_.

[709] Lib. 9. T. 29. L. 1.

[710] V. Sulle leggi contro gli Eretici Enr. Cocc. de Hug. Grot. Lib. 2.
cap. 20. §. 50, il quale cita le dissertazioni di B. Par. Tom. 2. Ed.
Lausan. 1752. p. 403.

Ita jure communi, et legibus primorum Christianissimorum Imperatorum
tota haec causa accuratissime saeculo IV, et V definita est, et omni ex
parte pro natura delicti, et modo circumstantiarum aequa justaque satis
severitate in haereticos a Catholicae Ecclesiae regula deviantes
animadvertitur. Vedi ancora Not. Vales. ad cap. 3. L. 7. H. E. Socrat.
Si conviene però del principio Platonico, che la pena della ignoranza, e
del _semplice_ errore sia l'istruzione: onde sono lodevolissimi que'
Sovrani i quali con una giusta tolleranza provvedono egualmente alla
Religione e allo Stato.

[711] T. 8. p. 811. Ed. de' Maur.

[712] T. 2. Ep. 237. p. 850.

[713] Haeres. 70.

[714] Contr. Mendac. T. 6.

[715] L. 2. Retract. C. 60. Tunc et contra mendacium scripsi librum,
cujus operis ea causa extitit, quod ad Priscillianistas investigandos,
qui haeresim suam non solum negando, atque _mentiendo_, verum etiam
_pejerando_ existimant occulendam, visum est quibusdam Catholicis
Priscillianistas se debere simulare, ut eorum latebras penetrarent. Quod
ego fieri prohibens hunc librum condidi. — Un nemico così giurato della
menzogna, e della simulazione dovremo dirlo calunniatore? È ella questa
_la ragionevolezza del nostro secolo?_

[716] Jo. Albert. Fabric. collect. veter. PP. Brixieni. p. 45.

[717] Sulp. Sever. Hist. Sacr. L. 2. Edit. Hieron. de Prato T. 2. §. 47.
48.

[718] Histoire des dogm. de Manich. T. 2. I. 9. p. 755.

[719] Hieron. in Catalog. Script. N. CXXI

[720] Sulp. L. 2. Hist. S. §. 50.

[721] Socrat. H. E. Lib. 7. C. 3. S. Leon. Ep. 15. Ediz. del Cacc. v.
Hermant. V. de S. Ambroise L. 5. C. 4. e L. 7. C. 1.

[722] Epist. ad Ctesiph. adv. Pelag.

[723] Ibid.

[724] Lib. 2. Hist. Sac. §. 50. Ed. Hieron. de Prato.

[725] Sever. Sulp. in Vit. Mart. C. 20.

[726] Plutarch. loc. cit.

[727] Paneg. ad Theodos. C. 29. Quin etiam cum (Episcopi) judiciis
capitalibus adstitissent, cum gemitus, et tormenta miserorum auribus ac
luminibus hausissent etc.

[728] H. S. L. 2. §. 51.

[729] Vedi Calogerà Vol. 27. Bachiar. illustr. seu de Priscill. haeres.

[730] Quid adhuc proxime proditum sit Manichaeos sceleris admittere non
argumentis, neque suspicionibus dubiis vel incertis, sed ipsorum
confessione, inter judicia prolatis, malo quod ex gestis ipsis tua
sanctitas quam ex nostro ore cognoscas, quia hujuscemodi non modo facta
turpia, verum etiam foeda dictu proloqui sine rubore non possumus.
Baron. Annal. T. 4. ad An. 387. p. 440.

[731] Serm. 6 de Epiph. C. 5.

[732] Serm. 4 de Nativ. C. 4. Serm. 2 de Pentec. C. 2. V, Cacciar. de
Manich. haeres. Cap. 7 e 9. Exercit. de Priscill. haeres.

[733] Epist. ad. Episc. Ital. — Ad instructionem vestram ipsa acta
direximus, quibus lectis omnia quae a nobis reprehensa sunt nosse
poteritis. 8. Ap. Quesnel. al. 11. Cap. 1.

[734] Ep. 15 ac Turrib. Asturic. C. 4 — _qui sicut in nostro examine
detecti atque convicti per omnia sint a nostra fidei unitate discordes_.
—

[735] Ann. T. 4 p. 359 etc.

[736] T. 1. H. E. p. 301. 302. Romae 1717.

[737] T. 4. Sec. 4. Art. 17.

[738] T. 4. Hist. Ec. Ed. Bruxell. p. 384. etc.

[739] Sec. 4. Art. 15 §. 22.

[740] Stor. Eccl. Lib. 18.

[741] Sopr. Cit.

[742] Sec. 4 an. 381 vol. 1 p. 278.

[743] T. 1 p. 891.

[744] In Epist. S. Hieron. ad Ctesiph. T. 2 p. 164 in Not.

[745] Centur. 4. C. 5 p. 225 e Cap. 11 p. 812.

[746] Annal. Polit. Eccl. T. 3 p. 72.



INDICE DEI CAPITOLI E DELLE MATERIE CHE SI CONTENGONO NEL QUINTO VOLUME


  CAPITOLO XXV. _Governo e morte di Gioviano. Elezione
  di Valentiniano, che associa il fratello Valente
  all'Impero, e fa la final divisione degl'Imperi
  dell'Oriente e dell'Occidente. Ribellione di Procopio.
  Amministrazione civile ed ecclesiastica.
  La Germania. La Gran-Brettagna. L'Affrica.
  L'Oriente. Il Danubio. Morte di Valentiniano.
  I due suoi figli Graziano e Valentiniano II succedono
  all'Impero Occidentale._

  A. D.

      363 Stato della Chiesa                             _pag._ 5
          Gioviano pubblica una tolleranza universale           9
          Sua marcia da Antiochia                              11
      364 Morte di Gioviano                                    12
          Trono vacante                                        14
          Elezione e carattere di Valentiniano                 15
          È riconosciuto dall'esercito                         17
          Associa all'Impero il fratello Valente               19
          Final divisione degli Imperj d'Oriente e
            d'Occidente                                        20
      365 Ribellion di Procopio                                22
          Sua disfatta e morte                                 27
      373 Severa inquisizione contro il delitto di magia
            in Roma ed in Antiochia                            29
  364-375 Crudeltà di Valentiniano e di Valente                34
          Loro leggi e Governo                                 37
          Valentiniano conserva la tolleranza di religione     41
  367-378 Valente fa professione dell'Arrianesimo
            e perseguita i Cattolici                           43
      370 Morte d'Atanasio                                     45
          Giusta idea della sua persecuzione                   46
          Valentiniano raffrena l'avarizia del Clero           49
  366-384 Ambizione e lusso di Damaso Vescovo di
            Roma                                               52
  364-375 Guerra di fuori                                      55
      365 Germania. Gli Alemanni invadono la Gallia            56
      368 Valentiniano passa e fortifica il Reno               60
      371 Borgognoni                                           62
          Sassoni                                              64
          Britannia. Scoti e Pitti                             69
  343-366 Loro invasione della Britannia                       73
  367-370 Ristaurazione della Britannia per mezzo
            di Teodosio                                        76
      366 Affrica. Tirannia di Romano                          79
      372 Ribellione di Firmo                                  81
      373 Teodosio ricupera l'Affrica                          82
      376 Egli è decapitato a Cartagine                        85
          Stato dell'Affrica                                   86
  365-378 L'Oriente. Guerra Persiana                           88
      384 Trattato di pace                                     93
          Avventure di Para Re d'Armenia                       93
      374 Il Danubio. Conquista di Ermanrico                   96
      366 Causa della guerra Gotica                            98
  367-369 Ostilità e pace                                     101
      374 Guerra de' Quadi e dei Sarmati                      103
      375 Spedizione di Valentiniano                          106
          Gl'Imperatori Graziano e Valentiniano II            109

  RIFLESSIONI D'ignoto autore sopra i Capitoli XVII,
  XVIII, XIX, XX, XXI, XXII, XXIII, XXIV e XXV
  della Storia della Decadenza e Rovina dell'Impero
  Romano di Edoardo Gibbon, divise
  in tre lettere dirette ai Sigg. Foothead
  e Kirk inglesi cattolici                                    113

  CAPITOLO XXVI. _Costumi dei popoli pastori.
  Progresso degli Unni dalla China in Europa. Fuga
  dei Goti. Passano il Danubio. Guerra Gotica.
  Disfatta e morte di Valente. Graziano
  investe Teodosio dell'Impero Orientale: suo carattere
  e fine. Pace e stabilimento dei Goti._

      365 Terremoti                                           171
      376 Gli Unni ed i Goti                                  175
          Costumi pastorali degli Sciti o dei Tartari         174
          Abitazioni                                          179
          Esercizj                                            181
          Governo                                             184
          Situazione ed estension della Scizia o Tartaria     187
          Primitiva sede degli Unni                           191
      201 A. C. Loro guerra co' Chinesi                       193
   146-87 A. C. Decadenza e rovina degli Unni                 196
      100 A. C. Loro emigrazioni                              196
          Unni bianchi di Sogdiana                            200
          Unni del Volga                                      201
          Loro vittoria sopra gli Alani                       202
      375 Loro vittorie sui Goti                              205
      376 I Goti implorano la protezione di Valente           209
          Son trasportati sul Danubio nell'Impero Romano      212
          Loro angustie e malcontentezza                      215
          Ribellione de' Goti nella Mesia e prime loro
            vittorie                                          218
          Penetrano nella Tracia                              221
      377 Operazioni della guerra Gotica                      224
          Unione de' Goti con gli Unni, gli Alani ec.         227
      378 Vittoria di Graziano contro gli Alemanni            230
          Valente marcia contro i Goti                        233
          Battaglia di Adrianopoli                            236
          Disfatta de' Romani                                 238
          Morte dell'Imperator Valente                        239
          Orazion funebre di Valente e dell'esercito          240
          I Goti assediano Adrianopoli                        242
  378-379 Saccheggiano le Province Romane                     244
      378 Strage della gioventù Gotica nell'Asia              246
      379 L'Imperator Graziano investe Teodosio dell'Impero
            Orientale                                         248
          Nascita e carattere di Teodosio                     250
  379-382 Sua prudente e felice condotta nella guerra
            Gotica                                            254
          Divisioni, disfatta, e sommissione de' Goti         258
      381 Morte e funerali d'Atanarico                        260
      386 Invasione e disfatta dei Grutungi o sia Ostrogoti   262
  383-395 Stabilimento dei Goti nella Tracia e nell'Asia      265
          Ostili lor sentimenti                               268

  CAPITOLO XXVII. _Morte di Graziano. Rovina
  dell'Arrianesimo. S. Ambrogio.
  Prima guerra civile contro Massimo. Carattere,
  amministrazione e penitenza di Teodosio. Morte di
  Valentiniano II. Seconda guerra civile contro Eugenio.
  Morte di Teodosio._

  379-383 Carattere e condotta dell'Imperator Graziano        271
          Suoi difetti                                        272
      383 Malcontentezza delle truppe Romane                  274
          Ribellione di Massimo nella Britannia               276
          Fuga e morte di Graziano                            278
  383-387 Trattato di pace fra Massimo e Teodosio             280
      380 Battesimo ed Ortodossi editti di Teodosio           283
  340-380 Arrianesimo di Costantinopoli                       286
      378 Gregorio accetta la missione di Costantinopoli      290
      380 Rovine dell'Arrianesimo in Costantinopoli           292
      381 In Oriente                                          294
          Concilio di Costantinopoli                          295
          Ritirata di Gregorio Nazianzeno                     298
  380-394 Editti di Teodosio contro gli Eretici               300
      385 Esecuzione di Priscilliano e de' suoi compagni      303
  374-397 Ambrogio Arcivescovo di Milano                      307
      385 Sua opposizione con buon successo all'Imperatrice
            Giustina                                          309
      387 Massimo invade l'Italia                             316
          Fuga di Valentiniano                                318
          Teodosio prende le armi a favor di Valentiniano     318
      388 Disfatta e morte di Massimo                         321
          Difetti di Teodosio                                 327
      387 Sedizione d'Antiochia                               328
          Clemenza di Teodosio                                332
      390 Sedizione e strage di Tessalonica                   333
      388 Autorità e condotta d'Ambrogio                      336
      390 Penitenza di Teodosio                               337
  388-391 Generosità di Teodosio                              341
      391 Carattere di Valentiniano                           342
      392 Sua morte                                           344
  392-394 Usurpazione d'Eugenio                               345
          Teodosio si prepara per la guerra                   347
      395 Morte di Teodosio                                   353
          Corruzione di quei tempi                            355
          L'infanteria depone la propria armatura             356

  CAPITOLO XXVIII. _Distruzione finale del Paganesimo.
  Introduzione del culto dei Santi, e delle reliquie
  fra i Cristiani._

  378-395 Distruzione della religione Pagana                  358
          Stato del Paganesimo in Roma                        359
      384 Richiesta del Senato per l'altare della vittoria    363
      388 Conversione di Roma                                 366
      381 Distruzione de' Tempj nella provincia               369
          Il Tempio di Serapide in Alessandria                374
      389 Ultima sua destruzione                              377
      390 La religione Pagana è proibita                      382
          Indi oppressa                                       384
  390-420 E finalmente estinta                                386
          Culto dei Martiri Cristiani                         389
          Riflessioni generali                                392
          Martiri e reliquie favolose                         392
          Miracoli                                            393
          Risorgimento del Politeismo                         396
          Introduzione delle cerimonie pagane                 399

  RIFLESSIONI D'ignoto autore sopra i Capitoli XXVI,
  XXVII, XXVIII della Storia della decadenza
  e rovina dell'Impero Romano di Edoardo
  Gibbon, divise in tre lettere dirette ai
  Sigg. Foothead e Kirk, inglesi cattolici                    402


FINE DELL'INDICE



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (follia/follìa e simili), correggendo senza
annotazione minimi errori tipografici. Le citazioni in greco sono state
trascritte integralmente, senza apportare alcuna correzione per
eventuali inesattezze ortografiche o grammaticali.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 5 (of 13)" ***

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