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Title: La guerra dei pirati e la marina pontificia dal 1500 al 1560, vol. 1
Author: Guglielmotti, Alberto
Language: Italian
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                        LA GUERRA DEI PIRATI

                                  E
                        LA MARINA PONTIFICIA
                           DAL 1500 AL 1560


                                PER IL
                       P. ALBERTO GUGLIELMOTTI
                     DELL'ORDINE DEI PREDICATORI,
                         TEOLOGO CASANATENSE.


                            VOLUME PRIMO.



                               FIRENZE.
                        SUCCESSORI LE MONNIER.
                                1876.



PROEMIO.


Gli Storici latini hanno chiamato Piratica la guerra combattuta sul mare
da Pompeo il Grande contro gli schiavi della Cilicia, ribelli alle leggi
ed alla maestà del popolo romano; ed ora sono io che penso attagliarsi
dirittamente al mio proposito l'esempio e l'aggiunto medesimo per
distinguere il presente dagli altri miei lavori, e per compendiarne a un
tratto l'unità. All'epoca che ormai tocca la presente narrazione, tutto
il corpo dei nostri marini nella difesa della civiltà e della religione
dispiegano e mantengono costante e principale l'assunto di reprimere gli
attentati della grande pirateria musulmana, divenuta gigantesca a
pubblico danno del popolo cristiano, durante il periodo de'
sessant'anni, pe' quali adesso dovremo trascorrere: per ciò questa parte
della mia storia, come è singolarmente intesa a seguire passo passo i
fasti dei maggiori Capitani nel tempo e nello scopo prescritto, così
vuole starsene da sè; e insieme vuole mantenere il legame di prima
origine e di finale intendimento cogli altri miei volumi. In somma lo
scritto sulla guerra dei pirati, secondo sua entità individua, e, presso
che non dissi personale, tratta a nome suo dei fatti suoi; e come membro
di maggior famiglia prenderà il posto nell'ordine convenevole tra gli
antecessori e i susseguenti, e formerà insieme cogli altri volumi una
sola storia della Marina e del suo svolgimento in ogni parte, tenuto
sempre fermo l'addentellato sulla marina romana. Di questa, tra tutte a
me più nota e più vicina, ho potuto meglio da cima a fondo studiare le
vicende; ed essa, comecchè di ogni altra infino ad ora la più negletta,
continuerassi nel servigio delle più avventurose, e nella risoluzione
dei problemi storici, tecnici e filologici, dovunque occorra cessare
oscurità e dubbiezze pel vasto argomento. I nomi degli Orsini, dei
Salviati, degli Sforza, e di altrettali campioni, che daranno il titolo
agli otto libri seguenti, entrano mallevadori intorno alla importanza
del subbietto: il quale per questo non si resterà sempre circoscritto
negli angusti termini delle nostre spiagge, ma a buon diritto anderà
cercando anche da lungi le imprese navali di maggior momento più che
altri in genere non penserebbe oggidì, e certamente più che taluno non
vorrebbe consentire, se non fossevi condotto e ritenuto dalla pienezza
delle testimonianze, donde è la forza del mio discorso. Gli estratti
degli scrittori contemporanei, e i documenti degli archivi, non per
lusso, ma per necessità introdotti nel testo e nelle note, faranno di
scusare le altrui ricerche, di togliere le difficoltà, di chiarire i
fatti: e l'abbondanza delle prove mi confido di vedere dai lettori non
tanto menata buona, quanto efficace a sdebitarmi pur di qualche
negligenza nelle scritture mie per la distrazione perpetua della mente
verso le cifre e le citazioni delle altrui. Non mi dilungo nel
proemiare: ringrazio i benevoli, riconosco i favorevoli, osservo i
critici; e del resto nel corpo della storia, quando il destro me ne
verrà maggiormente spontaneo ed evidente, darò miglior conto delle mie
ragioni, e volgerò come si deve risposte proporzionali alla cortesia
delle domande.

      _Di Roma, alla Minerva,
  Casa generalizia dei Domenicani,
         31 dicembre 1875._

                                P. ALBERTO GUGLIELMOTTI, O. P.



LIBRO PRIMO.

Capitano Lodovico del Mosca, cavaliere romano. [1500-1503.]


SOMMARIO DEI CAPITOLI.

I. — Introduzione. — Origine della pirateria musulmana. — La grande
pirateria. — I maggiori pirati del cinquecento ammiragli dell'Impero e
sovrani nell'Africa. — Ragioni e titolo di questi due volumi.

II. — L'anno del giubileo (1500). — Disegni di crociate contro i Turchi.
— Il capitan Lodovico del Mosca e la guardia del mare. — Il capitano
Mutino. — Costruzione di galere in Civitavecchia (1501).

III. — Compra di artiglierie, e documento. — Durano le bombarde. — I
carri di munizione al triplo delle bocche da fuoco. — I tromboncini di
marina. — La Metraglia.

IV. — Sotto colore di crociata i Francesi a Metellino e gli Spagnuoli
alla Cefalonia (1501). — Lustre, non mine. — Le due armate danno in
Italia, cacciano re Federigo, pigliano il Regno, che resta alla Spagna.

V. — Cesare Borgia. — La marineria nelle guerre intestine (maggio 1501).
— Assedio di Piombino. — Il Mosca piglia l'Elba e la Pianosa. —
L'Appiano fugge. — Il Borgia, tornato da Capua, entra in Piombino e lo
fortifica (agosto 1501). — Suoi architetti, il Sangallo e Leonardo.

VI. — Viaggio di Papa Alessandro (febbrajo 1502). — Sei galèe, due
galeoni, ed altri legni. — La rôcca di Palo e di Civitavecchia. — Il
palazzo del Vitelleschi a Corneto. — Le provvigioni di Castro. —
Navigazione a Piombino (febbrajo 1502).

VII. — All'Elba per due giorni. — Ritorno, tempesta, e disagi per quelle
maremme. — All'Argentaro. — Il Deflusso alla spiaggia di Corneto, e la
Deriva. — Rifugio a Portercole. — Ritorno in Roma (marzo 1502).

VIII. — Morte del capitano Mosca (29 marzo 1502). — Funebri onori. —
Lapida. — Continuazione dell'anno e del libro sotto il nome dello stesso
Capitano.

IX. — Armamento contro i Turchi, sei galèe di Civitavecchia, due di
Ancona, altre assoldate in Venezia (aprile 1502). — Giacopo da Pesaro e
Angelo Leonini: Documenti. — Congiunzione dei nostri coi Veneziani.

X. — Il capitano Cintio Benincasa e i suoi antenati. — Portolani e
cartografi anconitani. — La declinazione della Bussola segnata
primamente da loro. — Lettere e risposte (luglio 1502).

XI. — L'isola e fortezza di Santamaura. — Il salto di Saffo. — Presidio
di milizia regolare e di pirati.

XII. — Piano di attacco. — La divisione romana nel canale. — Battute
dodici galeotte di pirati. — Occupato il ponte e il borgo. — Investita
la piazza (23 agosto).

XIII. — I Veneziani dall'altra parte a chiudere il circuito. — Il
soccorso ributtato da quattro galèe romane. — Proposizioni di resa, e
rotta di pirati. — Occupata la piazza e il castello (29 agosto).

XIV. — Lettera del nostro Commissario. — Ritorno del capitano Cintio. —
Dissidî dei principi cristiani. — Notizie dell'espugnazione. — Parte
principale sostenuta dai Romani (15 settembre).

XV. — Considerazioni sulla offensiva. — Sfratto dal mare all'armata
nimica. — Scelta del punto d'attacco in terra. — Divisioni convergenti.
— Marcia di fronte. — Vantaggio sui passi coll'artiglieria dal mare. —
Ciascuno al suo posto.

XVI. — Differenza tra corsaro e pirata. — E tra milizia regolare e
piratica. — La forca ai pirati.

XVII. — Le fortificazioni nuove di Santamaura. — Ingegneri di Roma e di
Venezia. — Fortezze di nuova forma nel principio dell'arte nuova.

XVIII. — Tutti contro il Turco, a parole. — Disegni sopra
Costantinopoli, resi vani dalle guerre dei Francesi e degli Spagnuoli
nel Regno. — La mina a Castel dell'Uovo: ripetizione dall'originale e
primitivo magisterio del Martini. — Morte di Alessandro VI, e precipizio
di Cesare Borgia (18 agosto 1503).



LIBRO PRIMO.

CAPITANO LODOVICO DEL MOSCA,

CAVALIERE ROMANO.

[1500-1503.]



I. — Facendomi a scrivere della guerra piratica, combattuta sul mare pel
continuato periodo di sessant'anni, anche dai nostri capitani, con
grande dimostrazione di virtù, ed altrettanto splendore di nobili
ammaestramenti, mi bisogna alla prima ricordare come per gli stessi
principî fondamentali del Corano gli Islamiti di ogni luogo e di ogni
tempo si sono messi alle guerre di invasione, ed alle guerre di
piraterìa. L'abominio contro la civiltà del Vangelo, la propagazione
della loro setta colla spada, e la cupidigia dell'altrui, dovevano
senz'altro menare i seguaci di Maometto nella Siria, nell'Egitto, nella
Grecia, nell'Ungheria, nella Polonia, sotto Buda e sotto Vienna, alle
battaglie campali ed agli assedî; e similmente gli stessi principî
avevano a spingere la bordaglia moslemica per tutti i mari
sbrigliatamente ai ladronecci. Costoro, contro dei quali adesso in
specialtà avremo a fare, sulle riviere marittime in privati conventicoli
adunavansi, sceglievano a libito i condottieri, costruivano legni da
corso, metteansi al remo e alle armi, entravano sui passi, ed ora
coll'arte, ora cogli inganni, ora colla violenza ghermivano quanto lor
si parava dinanzi, bastimenti, merci, danaro, persone, e tutto facevan
proprio e divideansi nei loro paesi, in parti proporzionali alla
ribalderia di ciascuno. Scendevano ancora soppiatti nelle nostre
campagne, tramavano insidie ai grandi personaggi; come a papa Leone per
le campagne Laurentine, al duca di Savoja sulle coste di Villafranca, al
grammaestro Lilladamo sulla via di Rodi, ed alla celebre Giulia Gonzaga
nella villa di Fondi. Ad ogni modo davano sul bestiame, sulla gente del
contado, massime se femmine o fanciulli. Di qua tra noi lacrime,
incendî, rovine mettevano; di là nei loro serragli prede sempre maggiori
menavano: tanto che non era nell'Africa così misera cittaduzza, che non
avesse tre, cinque e più migliaja di Cristiani in durissima schiavitù
condotti a mercato dai ladroni. I quali senza legge, senza patenti,
senza tribunali, senza pietà, contro il giure di natura e delle genti,
persecutori perpetui tanto dei nemici che degli amici, non erano
solamente corsari, come alcuni dicono adesso, sì veramente pirati e
ladroni di mare, come gli chiamavano i popoli e gli scrittori di allora;
se ne togli quei pochi di Francia e di Venezia, che per diversi rispetti
di pace o di alleanza, costretti talvolta a dissimulare, davan loro del
corsaro, e non intendevano di meno parlare di pirati, descrivendone le
opere ladre. L'evidenza dei fatti rimena al giusto il significato della
lusinghiera parola[1].

Non dico per questo che la piraterìa sia uscita improvvisa e tutta
armata dal centro del secolo decimosesto: anzi pei fatti e pei principî
che ho posti qui ed altrove, si può facilmente intendere quanto
pertinace e quasi congenita abbia a dirsi cotesta magagna in tutte le
razze musulmane, tanto che non si è mai potuta totalmente estirpare nel
Mediterraneo, se non di fresco colla presa di Algeri: nondimeno è pur
noto nella storia, e qui meglio si vedrà, che la principale epoca della
grande piraterìa corse terribile nel mezzo del secolo decimosesto,
quando ai ladroni fu dato salire sui troni di Barberia e diventare
ammiragli di Costantinopoli. Cotesta grandezza sul capo di coloro che
pubblicamente infestavano il mare per proprio mestiere, non si incontra
costante in verun altro tempo, nè prima, nè poi; ma solamente nel
periodo dove siamo per entrare col nostro discorso. Vedremo gli stessi
Imperatori ottomani, nella briga di sottomettere l'Africa
settentrionale, e di cacciarne le antiche dinastie degli Arabi, portare
innanzi costoro ugualmente rapaci e bugiardi a danno dei Cristiani, che
degli Islamiti. Pensate uomini arcigni e scalzi, colle mani incallite
sul remo e col dorso incurvato sotto al fardello, i quali nondimeno
levano lo sguardo e le speranze infino ai troni: essi si chiamano
Camalì, Curtògoli, Gaddalì, il Moro, il Giudèo, Cacciadiavoli, Oruccio,
Barbarossa, Moràt, Dragutte, Scirocco, Luccialì; surti tra le brutture
della plebe, qualcuno rinnegato, altri fellone, e tutti schiume di
ribaldi, che nel secolo decimosesto avranno a essere sovrani di Algeri,
di Tunisi, di Tripoli, di Tagiora, di Alessandria, e delle isole
maggiori dallo Jonio alle Gerbe; ed oltracciò tutti ammiragli o
comandanti di squadra nell'armata dell'imperio ottomano. Pensate che
contro a costoro, sovente nelle piccole avvisaglie e talora nei grandi
fatti d'arme, coi nostri capitani ed alleati avremo a sostenere
durissima lotta per salvare la civiltà cristiana dalla barbarie
moslemica, e così farete ragione al titolo e all'argomento del presente
volume.

La fortuna nei sessant'anni non ci fu sempre propizia. Sei volte noi
affrontammo le maggiori forze dei nemici; e con tre splendide vittorie
ottenute presso alle muraglie di Corone, di Tunisi, e di Afrodisio,
toccammo tre grossi rovesci nelle acque della Prèvesa, di Algeri, e
delle Gerbe; e saremmo rimasti lì colla peggio, se non fosse venuta
dappoi la settima giornata di Lepanto a rilevarci. Dirò dei grandi e dei
piccoli successi, tirando fuori anzi tutto i particolari meno conosciuti
dei capitani di Roma, col nome dei quali divido in otto libri la mia
storia. Ma non intendo tanto strettamente tenermi contro i pirati, che
non abbia a riferire qua e là gli altri fatti attenenti alle nostre
marine, e allo svolgimento dell'arte nautica e militare, e similmente ai
viaggi lontani ed alle guerre vicine, sieno desse state gloriose o no.
Pesami l'incontro di nojose brighe, proprio nei primi decennali del mio
racconto: nè ciò tolgasi a mal grado il lettore, che io non potevo
cominciare dove mi tornasse meglio, ma donde ho lasciato nei miei libri
del Medio èvo; e non posso ora narrare a libito, ma devo mettere in
ordine gli avvenimenti come seguono, secondo il tempo. Andiamo innanzi
con franchezza, chè ogni cosa provvedutamente verrà al suo punto; e
l'argomento principale, a grado a grado rilevandosi, campeggerà tra gli
accessorî, che non si potevano omettere senza sconcio. Basta di ciò: e
per menomare il fastidio di chi legge e di chi scrive valga la varietà
intorno all'unico subbietto, e lo stile rispondente alla materia.
Andremo talora a basse vele sul margine del lido, e ci gitterem talvolta
in alto mare sulla cresta dei marosi, come ci menerà la fortuna,
seguendo sempre per filo il nostro cammino.

NOTE:

[1] LEO Pp. X, _Duci et decurionibus Genuen._ ext. ap. BEMBO, _Oper.
omn._, IV, 104: _«Appulisse ad Italiæ insulas et littora vobis vicina
punicam piratarum classem nunciatum est.... diripere, depopulari, etc.»_

ITEM, ibid. 110: _«Morte mulctandos piratas si capiantur.»_ et p. 142:
_«Piratæ pœni captivum fecerunt Paulum Victorium.»_

ISTHUANFIUS, _De rebus hungaricis_, lib. XI: _«Hariadenus princeps
piratarum, ac mauri turcique prædones littora Hispaniæ atque Italiæ
excursionibus atque rapinis reddunt infesta.»_

PRUDENCIO SANDOVAL, _Vida y hechos del emperador Carlos V_, in-fol.
Pamplona, 1634, t. II, p. 143, A, in fin.: _«Dragut no estava en las
treguas; y era un pubblico ladron que andava a toda ropa.»_

MALIPIERO DOMENICO, _Annali Veneti_, nell'_Arch. Stor. Ital._, VII, II,
648: _«È sta fatto più volte querela a Costantinopoli dei danni che fa'
i corsari alle cose nostre.... de può tutti quelli che sono andati a
portar presenti al signor Turco, tutti ha habù provision, et è stà fatti
so' capitani.»_



[1500.]

II. — Eccoci all'anno secolare del giubileo, quando gli spirituali
propositi, e i religiosi pensamenti, e le visite ai santuarî di Roma,
rinfocolavano in ogni parte del mondo cristiano gli antichi disegni
delle crociate, a propria difesa contro le perpetue infestazioni dei
Musulmani. I naviganti, i pellegrini, e chiunque andava e veniva da
lontane parti per le vie del mare, più frequentate allora delle vie di
terra, diceva lo sgomento e le molestie patite dai pirati; e tutti
speravano nell'alleanza proposta ai principi cristiani da papa
Alessandro.

Le speranze parevano toccare alla certezza, niuno potendosi persuadere
che non si dovesse venire ai ferri per una impresa tanto necessaria, e
da tutti desiderata, alla quale dicevano volersi mettere col massimo
delle forze i sovrani di Francia e di Spagna; oltre agli Ungheri ed ai
Polacchi, che già con grand'animo combattevano contro le orde di
Bajazet, ed oltre ai Veneziani che nei mari di Levante più che mai
valorosamente difendevano dal medesimo tiranno i loro possedimenti. Le
cose erano tanto innanzi nei congressi di Roma, che papa Alessandro
spediva il diploma di capitano generale dell'armata cristiana al
grammaestro di Rodi e cardinale di sant'Adriano, Pietro d'Aubusson, uomo
di gran valore e di sommo accorgimento[2]: ed il futuro maestro delle
cerimonie papali componeva la formola delle orazioni da recitare nella
distribuzione delle Croci, e nella benedizione del comune stendardo
della lega[3].

I trattati della spedizione generale contro i Turchi correvano per le
corti lontane e pei tempi futuri sopra quei fondamenti che in breve
vedremo; e insieme insieme crescevano le provvisioni vicine per
assicurare le spiagge e per reprimere le minute infestazioni dei pirati.
La squadra della guardia, ordinata fin dall'anno precedente con quei
capitoli che altrove ho pubblicati, pel concorso grandissimo dei
pellegrini in quest'anno, aveva ricevuto rilevante incremento: quanto al
numero era salita dai tre ai dodici legni; ciò è dire tre galèe, tre
brigantini, tre fuste, due galeoni, e una baleniera[4], la cui comparsa
vedremo tra poco nelle acque dell'Elba; e quanto alle persone, era
venuto al supremo comando, come uomo di maggior fiducia, il capitano
Lodovico del Mosca, cavaliere romano, di antica e nobile famiglia, ora
estinta: giovane di alti spiriti e di molta perizia nelle cose del mare,
cui nulla sarebbe mancato per farci rivedere in tutta la chiarezza il
pristino vigore del sangue romano, se avesse potuto vivere più
lungamente in tempi migliori[5]. Il Mosca col suo collega Lorenzo Mutino
si tenne tutto l'anno in crociera dall'Argentaro al Circèo, e per le
isole vicine di Toscana e di Napoli, ad assicurare i passi dei naviganti
verso Roma, quanto durò sulla spiaggia romana il movimento dei
pellegrini. Niun disastro nell'annata: anzi tutela dei viaggiatori, e
abbondanza delle cose necessarie alla vita nei porti dello Stato e negli
alberghi di Roma. Il nome del Mosca era temuto dai barbari; e la virtù
del Mutino onorata dai Romani, che vollero ascriverlo alla nobiltà, e
pareggiarlo al collega[6].

Oltracciò il capitano del Mosca davasi gran faccenda negli apprestamenti
della spedizione generale; e metteva in costruzione sul cantiere di
Civitavecchia sei galèe, come principio di quelle venti che papa
Alessandro aveva promesso mandare di sua parte nella guerra di Oriente.
Ecco in prova un documento inedito e breve[7]:

«Addì undici di gennajo mille cinquecento e uno. Avendo il Santissimo
padre e signor nostro comandato che si paghino mille ducati d'oro in oro
di Camera al signor Lodovico del Mosca ed a Mutino di Moneglia, prefetti
della guardia sulla spiaggia o marina romana, per metter mano alla
costruzione di alcune galèe da essere unite insieme coll'armata della
santa romana Chiesa contro i Turchi, come si ritrae dalla cedola di
nostro Signore, registrata nella cancelleria della Camera apostolica al
libro intitolato _Diversorum_, foglio cennovantasei; così i predetti
Lodovico e Mutino personalmente costituiti innanzi alla Camera
apostolica, spontaneamente ec., hanno promesso a nostro Signore, e alla
detta Camera, ed a me Notajo ec., di spendere i medesimi ducati mille
bene e diligentemente nell'opera delle galèe, e di darne buona ragione
al bisogno ogni volta che ne siano richiesti; ed hanno giurato secondo
la formola camerale, sotto le pene consuete, di eseguire ciò che nella
predetta cedola si contiene ec. Presenti nella detta Camera Pietro
Chioma, e Bernardo foriere di palazzo, insieme ai Cursori per testimonî.
Genesio di Fuligno.»

NOTE:

[2] ALEXANDER PAPA VI, _De expeditione contra Turcas_, anno MD. Mss.
Casanat., D, IV, 22, p. 227.

RAYNALDUS, _Ann. Eccl._, 1501, n. 2: «_Magna classis parabatur a
Pontifice, Francorum Hispanorumque regibus, Venetis et Rhodiis, summo
imperatore Petro Aubussonio, Apostolicæ sedis Legato._»

[3] PARIS DE GRASSIS, _Diaria cæremonialia_. Mss. Casanat., XX, III, 5.

RAYNALDUS, _Ann. Eccl._, 1500, n. 10.

[4] SCIPIONE AMMIRATO, _Storie fiorentine_, in-fol. 1641, vol. II, p.
266: «_Il Papa.... con tre galèe, tre fuste, tre brigantini, due galeoni
e una baloniera._»

[5] TEODORO AMAYDEN, O AMIDENO, _Le famiglie romane nobili_. Mss.
autografo alla Bibl. Casanatense, segnato E, III, 11, n. 175.

PIER LUIGI GALLETTI, _Inscriptiones romanæ infimi ævi Romæ extantes_,
in-4, 1760, II, class. x, n. 10.

[6] UBERTUS FOLIETTA, _Clarorum Ligurum elogia_, in-fol. Roma, 1577, et
ap. BURMAN _in Thesaur._, I, parte I, p. 815: Leonis ep.

    «_Amborum virtute olim tua littora, Tybris,_
        _Intacta a Mauris tuta fuere diu._
    _Quin Mauros Turcasque trahis per flumina Victor,_
        _Dum properant fortes in fera bella duces._
    _Nunc Mutinorum servas tu grata nepotes,_
        _Roma memor: decorant hi nova sæcla viri._»

[7] ALEXANDRI PP. VI, _Instrumentorum Cameræ_, lib. XV, p. 5. — BIBL.
VATICANA, cod. 8046. — SCHEDE BORGIANE nel Museo di Propaganda in Roma:
«_Die XI januarii, MDI. Cum sit quod SSmus. D. N. mandaverit solvi
Domino Ludovico Mosca, et Mutino de Monilla præfectis custodiæ splagiæ
romanæ, seu maris romani, ducatos mille auri in auro de Camera pro
incipienda fabricatione certarum triremium pro classe S. R. E. contra
Turcas, prout per mandatum S. D. N. registratum in Camera Apostolica,
libri Diversorum, fol. 196; iccirco præfati Ludovicus et Mutinus
personaliter constituti etc. in C. A. præsentes, sponte etc. promiserunt
præfato S. D. N. et dictæ Cameræ, ac mihi Notario etc. dictos ducatos
mille exponere in dictam operam bene et diligenter, ac de illis totiens
quotiens opus fuerit et requirentur, bonum et fidele computum reddere,
et alia facere quæ in dicto mandato continentur, sub pœnis et in forma
Cameræ juraverunt etc. rogantes etc. Præsentibus in dicta Camera Petro
Coma et Bernardo.... S. D. N. Forerio et Cursoribus testibus. — Gen.
Fulginas._»



III. — E per non tornare a salti sopra questa materia delle costruzioni
e degli armamenti, qui adesso dirò che per la diligenza del capitan
Lodovico si ebbero prestamente le sei galèe fornite di tutto punto nel
porto di Civitavecchia[8]; e appresso furono comperate a vilissimo
prezzo per tredici mila ducati tutte le artiglierie che il re Federigo,
fuggendo dal Regno, aveva raccolte in Ischia; a dire che valevano più di
cinquanta mila. I due Capitani se le tirarono a bordo presso la riva
dell'isola, e le condussero su pel Tevere alla ripa di Roma, donde
poscia le avviarono per Campodifiore a Castel Santangelo. Gli spettatori
lungo il passaggio noverarono trentasei bombarde maggiori col seguito di
ottanta carri; alcuni tratti da cavalli, altri da bufali: tiri a
scempio, a coppia, a quattro, e a sei[9]. Due carri pieni di schioppetti
per le barche; nove carri con circa quaranta bombardelle, messe a tre,
quattro e sei per carro: dodici con ventiquattro bombarde ordinarie,
altrettanti carri per le dodici bombarde grosse; trentasette carri con
palle di ferro, tre con polvere; e cinque finalmente con nitro,
verrettoni, e pallette mescolatamente. Artiglieria bellissima, di lavoro
eccellente, e di gran forza, scortata da duemila uomini d'ordinanza,
oltre ai manipoli che andavano avanti, e tra carro e carro, e alla coda.

Dunque al principio del cinquecento si avevano pur care, e si stimavano
ancora ad alto prezzo le antiche bombarde e bombardelle; e questo sia
ricordo dell'ultimo periodo: da qui innanzi avremo cannoni calibrati al
peso della palla di ferro. Dunque i carri da trasporto sorpassavano del
triplo il numero delle bocche da fuoco di grosso e di mediocre calibro:
e quindi nel traino di guerra, anche al tempo di Carlo VIII, il numero
dei carri doveva superare due o tre volte quello delle artiglierie da
fazione: tanto che leggendo per quei tempi cencinquanta carri, si ha a
intendere una quarantina di pezzi, col seguito di tre carri di munizioni
per ciascuno, con qualche altro di rispetto. Valga il documento del
Burcardo a confermare le avvertenze del maggiore Angelucci.

Passando alle cose navali, abbiamo qui gli schioppetti per le barche,
che avevano a essere archibusi sulle forcelle, corti di canna e larghi
di bocca; come tuttavia si mettono alle bande dei piròscafi o delle
barche armate quelle minute armi da fuoco, che diciamo petrieri a coda,
o vero tromboncini di marina. Finalmente le pallette alla rinfusa, poste
mescolatamente negli ultimi carri delle munizioni, fannomi pensare alla
metraglia, di che ho dato il primo esempio nell'anno 1453[10]. Ripeto
Metraglia, termine tecnico, di comune uso e legittimo tra i nostri
soldati, i quali lasciano come stanno in altro senso le voci Scaglia,
Cartoccio, e simili. Le quali voci, tuttochè nitide ed eleganti, non
esprimono il concetto della voce Metraglia, cioè quella quantità
collettiva di pallette, di ferro battuto, di numero e peso determinato,
che si mettono insieme nel pezzo per battere il nemico con molti
projetti ad ogni tiro. La voce è registrata dal Grassi, e dal Fanfani;
ed ha esempî del Colletta, del Giordani, e di più altri. Il
Guerrazzi[11] ha voluto scrivere coll'_i_, _Mitraglia_; ed a punto per
questa mitra, calcata infino agli occhi, non ha potuto vederne
l'etimologia; ed ha lasciato che altri la supponesse di origine
francese; laddove il Gassendi e lo Jal (francesi ambedue), ce la
rimandano qua, facendola derivare dal latino _Mittere_[12]. Anzi meglio
(per la desinenza non latina, ma tutta propria della lingua italiana, in
_aglia_) possiamo noi ridurla al verbo Mettere, come a dire
_Metteraglia_; la qual voce, al pari delle nostrane Pedonaglia,
Nuvolaglia, ed altrettali, esprimono l'accozzaglia di più oggetti
simili, messi insieme a formare un tutto collettivo: e così Metraglia
per una certa quantità di projetti simili messi insieme, come se fossero
un projetto solo. L'Angelucci ha pubblicato un documento, dove è scritto
precisamente _Mettraglia_[13]. Dunque questa sarà etimologia
ragionevole, e voce necessaria per esprimere cosa diversa dalla Scaglia
in tritumi, dalle Ghiande allungate, dalle Pallette elementari, e dai
Grappoli tropologici; e così per distinguere il contenente dal
contenuto; cioè i projetti dalle Ceste, Lanterne, Cuffie, Cartocci,
Sacchetti, e Tonnelli che li contenevano, secondo le espressioni spesso
ricordate con lodevole proprietà anche dagli antichi bombardieri.

NOTE:

[8] BURCARDUS, _Diaria cæremonialia_, edita ab ECCHARDO JOAN. GEORG.
_Corpus hist. medii evi_, in-fol. Lipsia, 1723, II, 2137: _«Fuerunt pro
eo paratæ sex galeae.»_ ITEM, ex mss. Casanat., XX, III, 2.

[9] BURCARDUS cit., ap. ECCHARD. II, 2138: «_Sabato XXVIII maji MDII.
Post horam Vesperorum conducta fuit de Ripa per campum Floræ, ad castrum
Sancti Angeli artilleria olim Federici regis neopolitani quam habuit in
Hischia, et eam Papa emerat ab ipso Rege pro ducatis tresdecim millibus,
existimabatur autem esse valoris quinquaginta millium ducatorum. Fuerunt
carruccæ octuaginta, quarum singulæ trahebantur quædam per unum equum,
quædam per duos bufalos, aliæ per tres, aliæ per sex bufalos. In prima
et undecima carretta sclopeta pro barchis, et etiam materiales: in
sequentibus in qualibet tres vel quatuor aut sex bombardellæ. Successive
in aliis singulis carrettis, usque ad vigesimam tertiam carrettam
fuerunt una simul duæ bombardæ. Et successive in singulis usque ad
trigesimam quintam carrettam fuerunt una bombarda magna. Et plurimæ ex
eis fuerunt pulcherrimæ et fortis compositionis. Sequebantur pedestres
duo millia vel circa ordinate, et septem in quolibet membro incedentes
cum lanceis, alabardis et sclopetis. Et post illos trigintaseptem
carrucæ pallottis ferreis oneratæ; deinde tres cum barilibus pulveris,
tandem quinque aliæ cum salnitro, telis et palloctis mixtim. Quæ omnia
Papa, stans in castro sancti Angeli, vidit conduci._»

[10] P. A. GUGLIELMOTTI, _Storia della Marina pont. nel Medio èvo_. Le
Monnier, 1871, II, 185.

[11] F.-D. GUERRAZZI, _Vita di Andrea Doria_, in-8. Milano, 1864, I, 27:
«_I cartocci pieni di palle pigliarono nome di_ Mitraglia, _del qual
nome l'etimologia da noi s'ignora._»

[12] A. JAL, _Glossaire polyglotte nautique_, in-4. Parigi, 1848, p.
1010: «_Mitraille, fr. s. f._ (? _De_ mittere, _envoyer._)» e p. 1002:
_Nous pensons que_ Mittere, _envoyer, est le mot latin dont on a fait
Mitraille._»

[13] ANGELO ANGELUCCI, direttore del Museo di artiglieria a Torino,
_Documenti inediti per la Storia delle armi da fuoco italiane_, in-8.
Torino, 1870, vol. I, p. 211.



IV. — Con tanti armamenti, e con sì larghe promesse dei principali
sovrani della cristianità, pareva che si sarebbero fatte imprese
segnalate in Oriente contro i Turchi nell'anno presente. Luigi XII, re
di Francia e signore di Genova, aveva allestito grossa e bella armata di
galere e di navi, sotto la condotta del conte Filippo di Cleves
Ravenstein: ma costui senza intendersi nè coi Veneziani, nè col Legato
di Rodi, entrato nell'Arcipelago, fece soltanto le viste di mettersi in
guerra contro la casa ottomana; assaltò Metellino, dètte batteria senza
profitto, e rese il bordo a ponente, perdendo nel viaggio la nave
ammiraglia, dove esso stesso navigava; e poco dopo un altro de' suoi
maggiori vascelli, con quasi tutta la gente[14].

Similmente l'armata di Ferdinando, detto il Cattolico, re di Spagna,
prese le vie di levante sotto il governo di Consalvo di Cordova,
chiamato il gran Capitano. Questi si unì co' Veneziani alla Cefalonia,
dove l'armata di san Marco e le fanterie sbarcate in terra stringevano
di assedio il castello principale dell'isola; e là ostentò le stesse
apparenze, tiri di cannoni, scorrerie di soldati, assalti di marinari.
Se non che poco si trattenne, e sempre sur un'àncora di leva, pronto a
salpare e a volgersi indietro, secondo le secrete istruzioni della sua
corte. Perciò non mette conto confutare quei pochi che, seguendo il
Giovio, gli attribuiscono fatti stupendi e specialmente una mina colla
polvere da bombarda[15]. Piaggerie gioviali, di che non fanno motto i
contemporanei, nè gli storiografi ufficiali di Venezia e di Spagna[16].

Filippo e Consalvo sotto il vessillo della santa crociata coprivano
biechi intendimenti: non a danno dei Turchi, sì dei Cristiani, dei
parenti, degli amici, tramavano insidie[17]. Essi maneggiavano doppio
trattato: fingere la guerra contro i Turchi, distendere nello Jonio
grandi forze, addormentare Federigo re di Napoli, coglierlo alla
sprovvista, cacciarlo dal trono, e dividersi il Regno. Alla Francia,
Napoli, Terra di Lavoro ed Abbruzzi; alla Spagna, Calabria e Puglia. Le
due armate navali, nel momento convenuto, dettero dentro a sostenere gli
eserciti di terra, presero ogni cosa, cacciarono il Re, fecero gazzarra.
Ma poi, nata questione a chi dei due si dovesse la Capitanata, si
azzuffarono tra loro intorno alla preda: e dopo molti scontri finalmente
i Francesi colla peggio furono al tutto cacciati dal Regno, e le due
Sicilie per tre secoli restarono provincie di Spagna. Quando riscontro
nelle storie sì fatte vergogne, imposture, tradimenti e soperchierie,
resto allibbìto. Non dico di più: stimo i miei lettori, e son certo
della loro virtù nel patire e nel tacere[18]. Ne avrem bisogno, e
andiamo innanzi.

NOTE:

[14] AGOSTINO GIUSTINIANI, _Annali di Genova_, in-fol. 1537, p. 256, D.

BOSIO JACOPO, _Storia della sacra religione et illustrissima milizia di
San Giovanni Gerosolimitano_, in-fol. Roma, 1594-1602, II, 543, C, 548,
B.

[15] JOVIUS PAULUS, _Vitæ illustrium virorum_, in-fol. Basilea, 1578,
_Vita Gonsalvi a Corduba_.

IDEM, di _Consalvo Fernando da Cordova_, tradotta da LODOVICO DOMENICHI,
Firenze, 1550.

[16] PETRI BEMBI, _Rerum venetarum historiæ_, lib. V, in-4. Venezia,
1718, p. 174.

GERONIMO ZURITA, _Historia del rey don Fernando el catholico_, in-4.
Saragozza, 1610, lib. IV, cap. XXV, p. 194.

[17] RAYNALDUS, _Ann. eccl._, 1500, n. 10: «_Decretum in Turcas sacrum
bellum, quam male confectum fuerit, turpe est referre._»



[Maggio 1501.]

V. — Per questi tempi era in Roma gonfaloniere della Chiesa, e supremo
governatore delle armi, Cesare Borgia; uomo già tanto conosciuto, che
non fa di mestieri spendere parole a ritrarre i lineamenti della sua
laida e crudele natura[19]. Congiunto a real principessa del sangue di
Francia, sostenuto dal suocero e dal padre, investito del ducato di
Romagna, sottomessa la plebe de' tirannetti sotto al giogo di maggior
tirannia, agognava a crescere sempre più di potenza e di stati. Esso
gittava le armi romane nel vortice incerto delle guerre intestine, donde
non avevano a uscire se non col sacco di Roma. Insomma il Borgia, sotto
certi pretesti, che a tali uomini non mancano mai, deliberò di fare
conquiste in Toscana; e di menarvi dall'altra parte il Capitano della
marineria, secondo la forma del capitolo decimoquinto, intorno alla
guardia del mare, già da me nei libri precedenti pubblicato[20].
L'impresa di Toscana io non per vanto, ma per necessità, devo inserire;
perchè nulla manchi alla storia mia, e al tempo stesso si veda come
all'ombra di tristo padrone intristisce la generazione dei servi.

Già prima di movere, il Valentino aveva dato voce anche esso di
apparecchiarsi per terra e per mare contro i Turchi; e la buona gente di
ogni paese tanto meglio aggiustavagli fede, quanto maggiormente tutti
desideravano la stessa cosa. Se non che Cesare da Faenza, valicato
l'Appennino alla uscita d'aprile con settemila fanti ed ottocento uomini
d'arme, scendeva in Toscana appresso a certi fuorusciti fiorentini, per
opera dei quali sperava che avessero a nascere novità nel paese, da
rivolgere poscia a suo profitto. Ma poichè Luigi XII, il quale per
l'acquisto di Milano e di Genova tanta parte aveva nelle cose d'Italia,
ebbe spiegata la protezione sua verso il popolar reggimento di Firenze,
e fatto divieto al Valentino di molestarlo, costui per non dire di
averci rimesso di riputazione passando di là senza niuno acquisto, se ne
andò a danni di Giacopo d'Appiano signore di Piombino. Prestamente
occupò Sughereto, Scarlino, Baratto, e le altre terre del contado: e
quindi pose il campo sotto alla piazza principale, dove il Signore si
era ridotto col nervo delle sue genti, risoluto ad ostinata difesa.

[Giugno 1501.]

Allora Cesare chiamò da Civitavecchia la squadra del Mosca per bloccare
Piombino dalla parte di mare, sì che ai difensori venisse meno ogni
speranza di soccorso[21]. All'entrante di giugno Lodovico uscì dal porto
di Civitavecchia con sei galere, tre brigantini, due galeoni, e duemila
fanti di sbarco; i quali prima di tutto si rivolsero all'Elba, isola di
molta importanza per le miniere e pei porti; isola di rifugio nel nostro
secolo a un imperatore spodestato. Di colà cacciò i ministri e le
guardie dell'Appiano, pose presidio nelle terre, e prese il castello e
l'isola della Pianosa: indi strinse più da presso Piombino. Saviamente
il celebre architetto Simone del Pollajolo agli otto di giugno scriveva
di Firenze a Lorenzo Strozzi, pel quale murava il notissimo palazzo,
dicendo[22]: «Il Valentino con duemila è ito nell'Elba; molti dichono
che fugge i Francesi, io per me credo che vada a pigliar l'isola,
considerato che Piombino non può aver soccorso se non dall'Elba.»
Sottile e giusta riflessione, schizzata di volo in una letterina, donde
si pare quanto stesse bene a Simone il nomignolo del Cronaca.

[Agosto 1501.]

Ciò non pertanto il signor Giacopo con gran cuore e con maggior bravura
tennesi più che due mesi a difendere la terra, e dall'altra parte i
Borgiani a batterla, e il cavalier Lodovico sempre innante col suo
naviglio a sforzarla. Nel qual tempo il Valentino, senza mai sciogliere
l'assedio nè per terra nè per mare, seguì con parte de' suoi l'esercito
francese alla conquista dì Napoli; e sfogate in Capua quelle sue tanto
conte crudeltà e libidini, tornò con Vitellozzo Vitelli e Giampaolo
Baglioni a stringere maggiormente l'espugnazione. Allora l'Appiano
persuaso di non potersi più lungamente sostenere, e abbandonato dai
vicini, che avrebbero potuto ajutarlo, pensò fuggirsi celatamente verso
la Francia per non venire a niun trattato con un uomo, cui la fama
pubblica e l'evidenza dei fatti davano taccia di solennissimo
traditore[23].

[Sett. dic. 1504.]

Uscitone il Signore, la guarnigione si arrese al duca Valentino; il
quale volse tutto lo studio a fornire il nuovo stato d'armi sufficienti
tanto a difenderlo, quanto ad accrescerlo, venendone il destro, con
qualche altro lembo di Toscana, specialmente dalla parte di Pisa: ed in
oltre fece ripararne le fortificazioni per opera (come si deve pensare)
del suo architetto ordinario, Antonio Giamberti da Sangallo[24]; e
certamente coll'assistenza di Leonardo da Vinci[25], che in quel
passaggio di Toscana era divenuto suo familiare, architetto, ed
ingegnere militare.

NOTE:

[18] SCIPIONE AMMIRATO, _Storie fiorentine_, in-fol. Firenze, 1641,
part. II, 264, E.

[19] RAYNALDUS, _Ann. eccl._ in indice: «_Cæsar Borgia filius nothus
Alex. VI.... Signifer rom. Eccl.... Barbaricam immanitatem exercet....
cæsis hominum millibus, fœminisque pollutis.... Thesaurum ecclesiasticum
expilat, etc._»

BEMBUS Cardinalis, S. R. E. cit., 216: «_Borgiæ perfidia et
crudelitas_.»

MURATORI, _Ann._, 1502 in princ.: «_Si rivolse l'iniquo Borgia ai
tradimenti,... l'iniquissimo Cesare Borgia._»

CATALANI GIUSEPPE, _Prefazioni critiche al Muratori_, (ufficiale censore
dell'edizione romana) in-8. Roma, 1788, t. X, part. I, n. 5: «_Del resto
quanto dice il Muratori in questo e nei due anni seguenti contro Cesare
Borgia, tutti glielo accordiamo._» Dunque impossibile lodarne i fautori.
— V. app. nota 26.

[20] P. A. G. cit., II, 501: «_Promisit habere et tenere amicos
Sanctitatis suæ præfatæ pro amicis et inimicos pro inimicis, cuiuscumque
status, gradus aut præminentiæ fuerint._»

[21] RAYNALDUS, _Ann._, 1501, n. 15, 20, 81: «_Alexander etiam, privatis
ductus comodis, in bellis italicis exercuit arma.... Plumbinum ad
deditionem compulit.... Inanes de classe pontificia in Oriente spes:
duas naves majoris alvei notho filio ad appugnandum Plumbinum
concessæ._»

BIAGIO BONACCORSI, _Diarî_, in-fol. Venezia, 1568, — e Mss. alla
Corsiniana di Roma, cod. 320, 321.

Vedi appresso la Lapida, nota 34.

[22] SIMONE DEL POLLAIOLO, detto il CRONACA, _Lettere tre inedite_,
pubblicate da Jodoco del Badia, in-8. Firenze, 1869.

[23] RAPHAEL VOLATERRANUS, _Comment. Urban._, in-fol. Basilea, 1530, p.
261.

AMMIRATO cit., II, 264.

FILIPPO NERLI, _Comment._, in-fol. Augusta, 1728, lib. V. princ.

GIO. CAMBI, _Stor._ (pubbl. da Idelf. s. Luigi), 168.

GUICCIARDINI, lib. V, post. init.

ANONIMO, _Vita di Rodrigo Borgia_, Mss. Casanat., E, IV, 22.



[17 febbrajo 1502.]

VI. — Nè a ciò contento, per quietare i popoli e per mostrare
grandiosità e fermezza, volle menare colà papa Alessandro; dove io,
costretto dalla evidenza e notorietà del fatto, devo seguirlo. Ma in
questo terrommi da parte colla mia navicella a vele basse e piombinando
del continuo, per non urtare in veruno scoglio, secondo le migliori
carte marine, e il parere di eccellenti e accreditati piloti[26].

Giovedì diciassette di febbrajo di buon mattino Alessandro uscì di Roma
a cavallo col Duca, e con quell'accompagnamento maggiore che loro si
conveniva: sei cardinali, Pallavicino, Orsino, Cosenza, Sanseverino,
D'Este e Borgia; sette vescovi, gli oratori dei principi, il tesoriero,
il secondo cirimoniere, sei cantori della cappella, e tutta la famiglia
così del Papa come dei cardinali, e di quegli altri signori,
cencinquanta persone. La prima notte si posarono a Palo nel castello di
casa Orsina. Dopo il desinare del dì seguente, tutti di nuovo a cavallo
per la via Aurelia, e la sera in Civitavecchia; dove Alessandro e il
Duca alloggiarono nella Rocca, e gli altri qua e là per le case della
terra.

[19 febbrajo 1502.]

Nel porto sorgeva pavesata a festa la squadra navale per scortare i
viaggiatori e per traghettarli all'Elba ed a Piombino: sei galèe nuove,
altrettanti legni minori, e due galeoni di alto bordo colle masserizie,
e co' cavalli. Alla testa il capitan Lodovico del Mosca, e sottesso
gentiluomini e cavalieri di paraggio, e gran rinforzo di fanterie
borgiane[27]. Per supplimento alle ciurme, ed a rinforzo del palamento,
non avendo schiavi maomettani, il Valentino aveva fatto mettere al remo
quasi tutti i carcerati di Roma, e una grossa brigata di oziosi e di
vagabondi tolti alle strade e alle bettole della città; di che venne
biasimo anche al Mosca. Il sabato seguente sull'ora di vespro le galèe
sfilavano in parata verso la fossa di Corneto, e la corte cavalcava alla
volta della stessa città, dove giugnevano la sera per riposare nel
palazzo del fu cardinale Giovanni Vitelleschi. Questo insigne capolavoro
di architettura, murato nella prima metà del quattrocento, esiste
ancora: e quantunque non mai condotto a compimento, fa di sè nobilissima
mostra per ricca magnificenza e squisita leggiadria. Chiunque sente il
bello dell'arte non può essere che non lo riguardi sempre con maggiore
ammirazione e diletto. Bellissima la fronte principale, grandiosa la
corte e il portico interno, ricca la decorazione delle finestre e delle
cornici, graziosi e delicati i fregi scolpiti di rilievo sul travertino.
Monumento importante per la storia delle arti, non conosciuto quanto si
merita, perchè fuor di mano in piccola città. Il capitano Sacchi ne'
suoi Ricordi determina l'epoca del lavoro nel 1439, tace il nome
dell'architetto[28], nè ho potuto saperne di più da quegli egregi
coltivatori delle memorie patrie che sono monsignor Domenico Sensi, e
conte Pietro Falzacappa.

Divisava Alessandro partirsi di Corneto la sera della domenica,
dirigendosi a Castro, città vescovile poscia distrutta, e voleva alla
spiaggia di Montalto imbarcarsi verso Piombino. Ne fa fede la lettera
seguente[29]: «Ai Toscanesi, salute ec. Essendoci noi partiti di Roma a
fine di pigliare alcun conforto per sollievo dello spirito affaticato, e
volendo visitare la città di Piombino, ci troviamo questa sera in
Corneto, e passeremo il prossimo lunedì per la nostra città di Castro.
Ma perchè sentiamo dire che colà patiscono carestia di biade, e che al
contrario la città vostra ne abbonda, noi per tenore delle presenti, e
per quanto avete cara la nostra grazia, ed evitar volete la nostra
indignazione, vi imponiamo che dobbiate con ogni cura e sollecitudine
mandare alla suddetta città di Castro orzo e fieno quanto si può; e
similmente pane e ogni altra maniera di vettovaglia, tanto che per le
ore antimeridiane del predetto giorno di lunedì tutto sia in punto nella
stessa città. Così voi sarete per fare a noi cosa grata, altrimente
grandissimo dispiacere. Di Corneto, 19 febbrajo 1502, del nostro
pontificato anno decimo.»

[21 febbrajo 1502.]

Le provvigioni di Toscanella saranno servite solamente al cardinal di
Cosenza, ai cerimonieri, ed a pochi altri, mandati avanti l'istesso
giorno per la via di terra a preparare splendido ricevimento nel punto
di arrivo; chè tutta la corte, dopo il vespro della domenica venti di
febbrajo, entrarono nelle galèe alla spiaggia di Corneto, e la mattina
seguente al tocco del mezzodì, sparando a festa le maggiori bombarde,
con gran gazzarra di trombe e di tamburi, discesero alla riva di
Piombino[30]. Pensate luminarie, giuochi, suoni, e danze menate dalle
genti di quel luogo; e pensate liberalità, grazie, e doni, ricevuti.

NOTE:

[24] VASARI, _Le Vite_, ecc. Le Monnier, VII, 218: «_Antonio contrasse
servitù col Papa, che gli mise grandissimo amore.... e l'opera di
castello Sant'Angelo gli die' credito grande appresso il Papa e col duca
Valentino suo figliuolo.... finchè quel pontefice visse, egli di
continuo attese a fabbricare._»

[25] VASARI cit., VII, 58, Commentario: «_Abbiamo nel 1502 la patente
del Valentino che nomina Leonardo da Vinci architetto e suo ingegnero
generale._»

AMORETTI, _Memorie storiche di Leonardo da Vinci_. Milano, 1804, p. 95.

MILANESI E PINI, _La scrittura degli artisti in fotografia_. Firenze,
1869. — Di Leonardo: «_Passando il duca Valentino di Toscana per andare
a Piombino.... ebbe a' suoi stipendi Leonardo._»

[26] RAYNALDUS, _Ann. Eccles._, 1502, n. 10; «_Serviebat imprimis
Alexander Pont. ambitioni Cæsaris Borgiæ filii sui, magno apostolicæ
majestatis dedecore._»

FERD. UGHELLI, BOVIO, CIACCONIO, BOLLANDISTI.

CIVILTÀ CATTOLICA, 15 marzo 1873, p. 726, 732.

E qui le note 19, 21.

[27] BURCARDUS cit., ap. ECCHARDVM, II, 2137; _«Sanctissimus Dominus
noster exivit Urbem, iturus Cerveterem, Cornetum, et per mare Plombinum.
Erant paratæ pro eo sex galeæ, pro quarum usu missi fuerant quasi omnes
carcerati Urbis,... et multi capti per plateas et tabernas.... prout
fieri potuit.»_

AMMIRATO cit., 265: _«Il Papa arrivato a Piombino a' ventisei di febrajo
con tre galere, tre fuste, tre brigantini, due galeoni, e un
baloniere.»_

[28] CRONACHE E STATUTI DI VITERBO, tra i Documenti pubblicati dalla
Società di Storia Patria per Toscana, Umbria e Marche, in-4. Firenze,
1872, p. 171. _Ricordi_ del cap. PIER GIAN PAOLO SACCHI giuniore:
_«1438. Io stei in Corneto fino ad otto di febraro del 1439 dove per
commissione di sua Signoria reverendissima di esso mio signore patriarca
Gio. Vitelleschi feci finire il palazzo suo in Corneto.... dalli
fondamenti che io ne ebbi particolar cura.»_

[29] ALEXANDER PP. VI, _Tuscaniensibus_, Datum Corneti die XIX februarii
MDII, pont. an. x, pubblicata nell'originale latino da Secondiano
Campanari. _Tuscania e i suoi Monumenti_, in-8. Montefiascone, tip. del
Seminario, 1856, t. II, p. 280, doc. 85.

[30] MARINO SANUDO, _Diarî Veneziani_, mss. alla Marciana, IV, 81: _«Si
have da Roma che il Papa è andato per mare a Piombino acquistato per suo
figliuolo.... In Roma dicevano questa fosse una fuga per non aspettare
il re di Francia, dubitando essere deposto dal papato.»_

SEBASTIANO BRANCA DE' TELLINI, _Diario romano dal 1497 al 1517_. Mss. —
COD. VATIC., 6388. — COD. CAPITOL. cred. XIV, 7. — COD. BARBER. XXVIII,
22, n. 1103. — Breve scrittura, tuttavia inedita, notizie di Roma, e
certezza di date.



[25 febbrajo 1502.]

VII. — Io seguo il Mosca, che a' venticinque di buon mattino si rimette
alla vela, e trasporta Alessandro, Cesare, e la corte all'Elba, distante
circa dieci miglia da Piombino[31]. Dopo un'ora, traversato il canale
co' venti di Levantescirocco a mezza nave, entra nel sicurissimo seno di
Portoferrajo, donde i viaggiatori passano quel giorno e il seguente in
feste e in visite, alle borgate e ai luoghi vicini, specialmente alle
inesauste miniere del ferro. La sera del sabato ventisei tornano tutti a
Piombino, e finalmente il martedì primo di marzo prendono congedo per
tornarsene a Roma. Alessandro coi sei cardinali, i prelati e la famiglia
sulla Capitana; Cesare per sua maggior comodità sulla Padrona, e gli
altri si allogano sui diversi legni, tra la consueta gazzarra degli
spari e dei suoni, pensandosi a gran diletto navigare.

[1-5 marzo 1502.]

Ma il mese di marzo, che tutti sappiamo stravagante più d'ogni altro
nell'anno, entrava proprio di quel giorno a confondere le vane speranze:
e lo Scirocco regnante nel Tirreno, che si era infino a lì tenuto
maneggevole, cresceva furioso, e più che mai contrario al ritorno. Gran
vento, grosso mare, dirotta pioggia; cielo scuro, orizzonte ristretto e
vergato per ogni parte dai fili spessi ed obbliqui dell'acqua a vento.
In somma tetra prospettiva, adombrata dal fosco colore che pigliano le
vele sempre che siano bagnate. Archeggiavano e prueggiavano di piccole
bordate: ma certi ormai di non avanzare nel viaggio, e risoluti di non
voler tornare indietro a Piombino, gittavansi stentatamente nei ridossi
deserti di quelle maremme: prima nel golfo della Follonica, poi alla
cala del Forno, dove passavano tre giorni senza riposo e senza conforto.
Intanto le provvigioni, che non erano fatte per sopperire a lungo,
cominciavano a mancare; nè si poteva far cucina. Di che smagati i
cortigiani, e conquisi dallo spavento, dal disagio e dal digiuno,
cadevano ammalati; e qualcuno in compendio ne moriva. Tutti soffrivano,
e più d'ogni altro il Mosca, non essendoci persona che da lui non
volesse qualcosa d'impossibile; ed egli di notte e di giorno, all'acqua
e al vento, in mezzo a tutti in faccenda. Finalmente senza dir verbo,
faceva risolutamente salpare i ferri, e con tutto lo sforzo dei remi, e
qualche scossa di vela nel momento opportuno, pigliava rifugio a
Santostefano sulla bocca dello stagno d'Orbetello la sera del cinque;
menandosi appresso la brigata tanto avvilita, che niuno si ardì toccare
tromba o tamburo, nè dar voce, nè ammettere visita o invito dei
terrazzani, per non lasciarsi vedere in quello stato.

Il dì seguente cedeva alquanto la furia del vento, ma non del mare: ed
Alessandro, smanioso di levarsi al più presto da tanto travaglio,
ordinava la partenza, e cresceva lo schianto. Imperciocchè doppiato
l'Argentaro, e venuti all'altura di Corneto, non potevano accostarsi a
terra: anzi per quanto incalzassero di remo, di vela, e di manovra, e
vie più facessero di spingere i legni a riva; di tanto il mare
fluttuante ricacciavali indietro[32]. Fenomeno non raro, nè ignoto ai
marini e agli idraulici, diverso dal tormentoso sussulto dei colpi
riverberati dalle risacche; e propriamente chiamato Deflusso: il quale
si produce in certe condizioni di lido, quando il mare gonfio, sollevato
sulle battigie, e incalzato continuamente dai flutti seguenti sotto un
angolo di obliquità (come nel caso nostro dalla furia sinistra dello
Scirocco), perduto l'equilibrio e l'oscillazione, ricade fuggendo dal
lato di minor resistenza; e indi in poi piglia natura di corrente
straordinaria, che mena i galleggianti nella sua direzione con violenza
proporzionale alla massa e velocità del deflusso medesimo. Entrati
adunque i nostri legni nella zona della detta corrente, dopo lunghi ed
inutili sforzi delle misere ciurme, vedendosi sempre più andar lungi in
deriva, presero il partito di rendere il bordo, e di poggiare per
rifugio a Portercole. Nel qual tragitto corsero come perduti, imbarcando
da poppa, e talvolta anche da prua, tanto mare, che non fu passeggiero
alcuno che non si tenesse spacciato. Solo il Valentino, prima di virare,
saltando sopra un grosso palischermo con quattordici robusti rematori,
riuscì ad afferrare la spiaggia: e solo Alessandro tornandosi addietro
mantenne l'aria intrepida, seduto in un seggiolone di scarlatto, e
segnandosi in fronte ad ogni colpo di mare.

A bello studio ho scritto Deriva, parlando qui avanti dei nostri
bastimenti, menati a ritroso dalla corrente del mare: e quando mi
accaderà altrimenti alcun trasporto violento per causa di vento
laterale, dirò Scarroccio. Vocaboli diversi di cose differenti: ambedue
tecnici, nostrani, e necessarî; che non si vogliono nè confondere per
sinonimi, nè rifiutare per forestieri, come taluno ha tentato. La Crusca
registra al mascolino il Derivo, esprimente il Derivare intransitivo,
cioè l'Andar giù come il rivo, il Discendere, il Deviare: però i
marinari chiamano con proprietà di lingua Deriva, quella Anomalia di
trasporto oltre o fuori del rombo assegnato che soffre nella navigazione
un bastimento menato dalla corrente del mare. L'etimologia sprizza
evidente dal Rivo, perchè le correnti marine vanno come i fiumi; e
l'effetto si pare quel desso, in ambedue i casi, di spingere in giù, di
ritardare in su, e di volgere da lato i galleggianti, o inerti o
semoventi, secondo la risultante delle diverse forze e direzioni. Il
fenomeno presso alle ripe è visibile pel rilievo dei punti fermi: ma in
alto mare, il flutto, la scia, il bastimento, e tutto va dalla stessa
parte; e non puoi addartene coi sensi, ma devi seguire l'invisibile
carro di Nettuno con risultamenti proporzionali alla direzione e
velocità della corrente e della rotta, sommate, sottratte o composte,
secondo l'angolo. Qui approdano gli studî del Maury in America, del
Cialdi in Italia, e di altri maestri a gara in ogni parte. Onde cresce a
maggior importanza l'intendimento di questa voce, alla quale mi ha
condotto la stessa corrente che respinse i reduci dal lido di Tarquinia,
e ricacciolli a Portercole.

[11 marzo 1502.]

Vi giunsero la sera dello stesso giorno sei di marzo: e non vedendo
segno vicino di miglior fortuna, volsero le spalle al mare. Tutti quelli
che sentivansi in forza di cavalcare seguirono Alessandro per le
medesime strade, donde erano venuti: gl'infermi in gran numero restarono
negli alberghi lungo la via, e i viaggiatori senza le consuete
accoglienze rientrarono in Roma agli undici del mese[33]. Navigazione
certamente straordinaria, che dette da dire alla gente: e non pochi si
fecero lecito di salire fino ai superni consigli, pensando e scrivendo
che in quel modo si fosse voluta ricordare la caducità delle cose
mondane a chiunque dimenticata l'avesse.

NOTE:

[31] BURCARDUS cit.: _«Die vigesima quinta februarii, feria sexta SSmus
D. N. et dux Valentinus intravit galeam quæ transfretavit ad insulam
Elbæ ubi mansit usque sabatum ad diem 26, quo die sero rediit
Plumbinum.»_

[32] BURCARDUS. Mss. Casanat. cit., XX, III, 2: _«Anno Christi MDII,
feria quarta, die prima martii usque sabatum.... Voluerunt solatium et
supervenit tempus contrarium, sive tempestas ingens, ex quo non
potuerunt secure navigare, neque voluerunt redire Plumbinum.... Die
quinta galeæ persequutæ sunt iter suum versus Cornetum, ad cujus
conspectum applicuerunt. Dux majus periculum timens descendit de galea
ad barchettam, e qua venit in terram. Papa vero cum galea sua non potuit
attingere portum, ex quo omnes commoti hinc et inde in galea sunt
prostrati, solo Papa dempto, qui in sede sua in puppi firmiter et
intrepide sedens prospexit omnia: et cum mare versus galeam fortiter
irrueret, Papa dicebat Jesus, et signo Crucis se signabat.... Nautæ
propter maris et venti turbationem nec cibum nec ignem facere posse se
excusabant... In sero venit in portum Herculis.»_



[29 marzo 1502.]

VIII. — Per conseguenza abbiamo ora a compiangere la immatura morte di
quegli che più d'ogni altro era stato messo a tortura. Il capitano del
Mosca, rimenata la squadra in Civitavecchia, se ne venne a Roma, e ai
ventinove dell'istesso mese sull'ora di terza morissi nella ancor fresca
età di anni trentasei, mesi dieci e giorni cinque. Uno scrittore
contemporaneo ci ricorda l'ultima sua comparsa, dicendo[34]: «Lodovico
del Mosca, cavaliero romano, e capitano delle galèe di Nostro Signore,
il quale aveva jeri sull'ora di terza terminato il corso di sua vita, fu
portato oggi in chiesa, vestito di una sopravveste nuova di broccato
sopra un farsetto di velluto violetto tutto di nuovo; una bella spada
sul petto, sproni d'oro alle calcagna, e quattro anelli gemmati nelle
dita. Innanzi alla bara sessanta doppieri di cera bianca, e appresso
molti amici e compagni d'arme in gramaglie. Passò il convoglio dalla sua
casa, che è presso al chiassetto della parrocchia di santo Stefano in
Piscinula, girando pel rione fino a Campodifiore, indi alle case de'
Capodiferro, e appresso per la Regola entrò nella parrocchiale, dove il
morto fu seppellito col farsetto, la sopravveste, la spada, gli speroni,
ed uno anello nel dito, toltine gli altri tre. Ebbe accompagnamento
onorevole più che alcun altro signore da molti anni a questa parte. Egli
aveva fatto testamento il giorno avanti, alla presenza dei suoi
genitori. Tra l'altre cose ordinando di essere sotterrato colle
vestimenta e distintivi predetti, e a lume di sessanta doppieri. Rogato
l'atto, chiamò il mercante presso al letto, e fecegli tagliare quattro
canne di velluto violetto pel suo vestire; ed una canna di broccato
d'oro per la sopravveste, da esser messa col suo corpo nella sepoltura.
Per memoria dei posteri i genitori vi posero una pietra colla iscrizione
che così riproduco, come si legge nel Galletti, e nell'autografo più
antico di Teodoro Amayden intorno alle nobili famiglie romane,
gelosamente conservato nella nostra Casanatense[35]:

«A Lodovico del Mosca, cavaliere romano, capitano della navale armata
pontificia, che dopo onorati servigi nella questura dell'erario pubblico
e nel dicastero della penitenzieria apostolica, mostrando a chiare prove
il pristino vigore del sangue romano, in quei durissimi tempi che
tutt'intorno per terra e per mare fremevano l'armi, da Alessandro sesto
pontefice massimo nominato comandante supremo della marina, espugnato
Piombino, sottomessa l'Elba, condotto in quei luoghi l'istesso
Pontefice, nel fiore delle speranze sue e di ogni altro, e specialmente
del Popolo romano, oppresso dall'avversità morissi li ventinove di marzo
dell'anno di salute 1502. Visse anni trentasei, mesi dieci, giorni
cinque. Evangelista e Francesca genitori infelicissimi al figlio
dolcissimo e benemerito posero.»

La mestizia, compagna indivisibile di qualunque dipartita, mi torna ora
più acerba nel dire l'estremo vale al primo Capitano venutomi innanzi
nel primo libro. E, poichè altrimenti non potrei crescergli onoranza, mi
sarà concesso dedicare al suo nome la continuazione del libro medesimo,
senza mutarne il titolo. Tanto più che le imprese migliori seguono nel
corso dell'istesso anno per opera dei compagni, dei navigli e degli
ufficiali addestrati da lui.

NOTE:

[33] BURCARDUS cit.: _«Feria sexta, die undecima martii MDII, SSmus
intravit palatium suum cum familia, demptis illis qui obierunt per
viam... infirmi manserunt per viam.... Nemo venit obviam eis.»_

MURATORI, _Ann._, 1502.

RAYNALDUS, _Ann. Eccl._, MDII.

[34] BURCHARDUS cit., Sab. die 30 martii 1502.

SEBASTIANO BRANCA DEI TELLINI, _Diario romano dall'anno 1497 al 1517_,
citato sopra.

[35] TEODORO AMAYDEN, volgarmente L'AMIDENO, _Le famiglie romane
nobili_, in-fol. parvo. mss. autografo alla Casanatense, E, III, 11. —
N. 175, _Famiglia Mosca o dei Maroni_.

PETRUS ALOYSIUS GALLETTI, _Inscriptiones Romanæ infimi ævi Romæ
extantes_, in-4. Roma, 1760, class. X, n. 10:

                                D . O . M .
                    LUDOVICO . MUSCÆ . ÆQUITI . ROMANO
                     PONTIFICIÆ . CLASSIS . PRÆFECTO
            QUI . CUM . A . LITTERIS . PŒNITENTIARIÆ . APOST.
       QUÆSTURAQ . ROM . ÆRARII . EGREGIAM . OPERAM . PONT . NAVASSET
            VIGOREMQ . PRISTINUM . ROM . SANGUINIS . PRÆSEFERRET
            AB . ALEX . VI . P . M . DURIS . ILLIS . TEMPORIBUS
           CUM . OMNIA . LATE . MARI . TERRAQ . ARMIS . FREMERENT
      MARI . OMNI . QUAQUE . PONTIFICIA . DITIO . PATERET . PRÆPOSITUS
  POPULINO . ILVAQ . QUO . ET . PONTIFICEM . IPSUM . VEXERAT . EXPUGNATIS
           AC . MAXIMA . SPE . OMNIUM . PRÆSERTIM . POPULI . ROM.
                     AC . RERUM . ADPARATU . FLORERET
                           ADVERSO . INTERCEPTUS
         OBIIT . ANNO . SALUT . MDII . DIE . XXIX . MENSIS . MARTII
                  VIXIT . ANN . XXXVI . MENS . X . D . V
               EVANGELISTA . ET . FRANCISCA . INFŒLICISSIMI
                    FILIO . DULCISSIMO . AC . BENEMER.
                                 POSS.



[Aprile 1502.]

IX. — Squilla dunque un'altra volta sulle marine del Tevere la tromba di
giusta guerra contro Turchi e pirati: ed io là mi volgo, dove i
cavalieri di Rodi e i Veneziani già combattono contro il nemico comune,
aspettando alle armi loro incremento di riputazione e di conforto dalle
armi di Roma. Papa Alessandro, memore delle promesse, intima la partenza
alle sei galere tornate dall'Elba col capitano Lorenzo Mutini, ne
spedisce altre due venute di Ancona col capitano Cintio Benincasa; e pel
compimento di maggior numero manda a Venezia quello stesso Angelo
Leonini, vescovo di Tivoli, che dalla prima gioventù erasi mostrato
destro e valente in simili maneggi, come altrove si è detto[36]. In
somma tredici galere, alcuni brigantini, dumila cinquecento fanti delle
bande borgiane, e per commissario straordinario Giacopo da Pesaro,
vescovo Pafense, infino a tanto che non ne desse il comando al cardinale
grammaestro di Rodi[37].

La corte di Roma, tenace delle antiche costumanze, ritorna all'antico: e
dopo la morte di un capitano laicale sostituisce due ecclesiastici. Un
vescovo per commissario, e un cardinale per comandante; come si usava
nel Medio èvo, massime nelle imprese contro infedeli. Era l'uso del
tempo, non solamente in Roma, ma in ogni altra parte d'Europa: e cesserà
la maraviglia chi sappia come in Francia infino ai tempi di Luigi XIV
v'avea vescovi e cardinali per capitani di vascelli e di galèe e di
armate navali, largamente ricordati sopra autentici documenti dello
storiografo più recente della marina francese[38].

Il vescovo Giacopo da Pesaro di gran nascita tra i Veneziani, e di non
minore esperienza nelle cose del mare, fresco di età, di bell'aspetto e
prode, a chi ne cerca si mostra tuttavia quasi vivo per mano di Tiziano
ritratto in una tavola di altare nella chiesa dei Frari a Venezia,
genuflesso innanzi a san Pietro, e da lui fisamente riguardato con
occhio affettuoso in grazia dei servigi resi alla causa del
cristianesimo[39]: si mostra altresì scolpito in bianco marmo nel
mausolèo della famiglia con una sentenziosa iscrizione che lo ricorda
vissuto per anni ottantuno, come si dice di Platone: e più anche al
nostro proposito si mostra negli annali ecclesiastici pel diploma di
papa Alessandro, che qui traduco nel nostro volgare dal testo latino
pubblicato nell'opera del Rainaldo[40]: «Al venerabile fratello, Giacopo
vescovo di Pafo, nuncio e commissario nostro, salute ec. Alessandro papa
sesto ec. — Avendo noi per difesa della cristianità deliberato di
mandare la nostra armata navale contro i Turchi oppressori e nemici del
nome cristiano, ci bisogna un prefetto che ne prenda il carico, e la
conduca al diletto figliuolo nostro Pietro di sant'Adriano, diacono
cardinale e grammaestro dell'ospedale di san Giovanni gerosolimitano;
personaggio già sopra questa guerra, per consiglio dei venerabili
fratelli nostri, Cardinali di santa romana Chiesa, eletto e costituito
Legato nostro e della Sede apostolica coll'autorità di governare e
provvedere alla detta armata. Or dunque, sperando bene di te e della tua
prudenza, destrezza e prontitudine nell'eseguire fedelmente gli ordini
nostri, ti abbiamo nominato nuncio e commissario della armata medesima
al fine di reggerla, e di condurla all'istesso cardinale Legato e di
rassegnargliela da parte nostra, e di seguirlo nelle spedizioni che
vorrà fare. Intanto tu avrai facoltà di comandare, di mettere e togliere
gli ufficiali, di punire i delinquenti, e di fare ogni altra cosa
necessaria ed opportuna al predetto fine, secondo che richiede l'onor
nostro e della santa Sede, e insieme il buon governo e condotta della
stessa armata. Laonde per autorità apostolica, a tenore delle presenti
ti facciamo, nominiamo, e deputiamo nuncio e commissario per eseguire i
già detti ordinamenti, ec. Dato a Roma, presso san Pietro, addì venti
d'aprile dell'anno 1502, del nostro pontificato anno decimo.»

[Luglio 1502.]

Prese le lettere, Giacopo navigò difilato all'isola del Cerigo, dove
erano ad aspettarlo cinquanta galèe di Venezia sotto Benedetto da Pesaro
suo fratello; più tre galere di Rodi, comandate dal cavalier di
Scalenghe; e quattro di Francia col capitano Prégeant de Bidoux,
cavaliere gerosolimitano, chiamato dai nostri Piergianni, uomo assai
noto nella storia del suo paese, per essere stato dei primi a rilevare
colà le arti marinaresche[41]. Piergianni voleva in breve tornarsene a
ponente, i Gerosolimitani dovevano proseguire verso Rodi, e i Veneti,
già padroni del mare per averne cacciato il nemico, divisavano
congiungersi coll'armata di Roma per gittarsi improvvisamente sull'isola
di Santamaura, e toglierla dalle mani dei Turchi. Avrebbe voluto
Giacopo, secondo gli ordini di papa Alessandro, condursi oltre fino a
Rodi, e rassegnare il naviglio e le genti al cardinale Legato: ma
stretto dalle preghiere e dalle ragioni dei Signori veneziani, ebbe per
bene di compiacerli e di restarsi con loro, non inviando altri al
Grammaestro che il capitano Cintio Benincasa con una sola galèa per fare
le sue scuse e portargli le lettere che da Roma e dal Cerigo gli si
mandavano.

NOTE:

[36] UGHELLUS, _Italia sacra, inter Tiburtin._, I, 1312.

P. A. G., _Marina del Medio èvo_, II, 397, 403.

[37] MARINO SANUDO, giuniore, _Diarî_, mss. alla Marciana, t. IV, p. 87,
88: _«Aprile 1502: El Papa vuole armar quatordici galìe.... più vuole
haver in campagna ottocento uomini d'arme.... vuole armar vinti galìe,
cinque in Venezia, l'altre in Ancona.»_

RAYNALDUS, _Ann._, 1502, n. 20: _«Pontificia classis.... Jacobo episcopo
paphensi præfecto, tresdecim tantum navium (cum viginti Alexander esset
pollicitus per apostolicas litteras) Venetis se conjunxit.»_

BOSIO cit., II, 559, e; 543, e; 544, ult.

[38] A. JAL, _Abraham Duquesne et la marine de son temps_. Parigi, in-8.
1873, Henry Plon., I, 61: _«Pour commander les armées du Roy.... Gabriel
de Beauveau de Rivarenne, évêque élu de Nantes....»_ p. 64: _«M. Henry
d'Esconbleau de Sourdis archevêque de Bordeaux, pour commander l'armée
navale.»_ p. 101: _«Le cardinal de la Vallette, bon soldat, avait bien
servi à la direction du corps d'armée.»_ p. 129: _«Galère ducale....
dont le cardinal était capitaine.»_ p. 594: _«Monseigneur de Sourdis
archevêque de Bordeaux a une esquadre, et va à Fontarabia.»_ ec.

[39] VASARI, ediz. Le Monnier, XIII, 26: _«Tiziano.... nella chiesa dei
frati Minori.... alla cappella di quelli ca da' Pesari, fece in una
tavola la Madonna col figliuolo in braccio, un san Piero e un san
Giorgio, ed attorno i padroni ginocchioni ritratti di naturale; infra i
quali è il vescovo di Baffo ed il fratello, tornati allora dalla
vittoria che ebbe detto vescovo contro i Turchi._»

A. EMMANUELE CICOGNA, _Le iscrizioni veneziane_, in-4. 1830, III,269:

                         JACOBUS . PISAURUS
                          PAPHI . EPISCOPUS
           QUI . TURCAS . BELLO . SEIPSUM . PACE . VINCEBAT
  EX . NOBILI . INTER . VENETOS . AD . NOBILIOREM . INTER . ANGELOS
                         FAMILIAM . DELATUS
               NOBILISSIMAM . IN . ILLA . DIE . CORONAM
                      JUSTO . JUDICE . REDDENTE
                       HIC . SITUS . EXPECTAT
                     VIXIT . ANNOS . PLATONICOS
                     OBIIT . IX . KAL . APRILIS
                               MDXLVII

[40] RAYNALDUS, _Ann. Eccl._, 1502, n. 19.

[41] ANSELME GUIBOURS, _Histoire généalogique de France_, in-fol.
Parigi, 1726-33, VII, 923.

LEON GUERIN, _Histoire maritime de France_, in-8. Parigi, 1843, II, 405.

V. appresso la nota 49.



X. — Cintio nobile anconitano, come tutti sanno, specialmente nella sua
patria, dove tuttavia si mantiene nell'antico splendore la famiglia dei
marchesi Benincasa, era cavaliero destro e valente tanto nelle armi
quanto nelle lettere; capitano, oratore e poeta di chiara fama; accetto
nelle corti dei principi, feudatario del re d'Ungheria; ed uomo (secondo
la tempra delle nostre città marittime) atto ad ogni cosa onorata e
forte. Nelle arti marinaresche poi eccellentissimo per tradizione dei
suoi maggiori, tra i quali primeggia Grazioso Benincasa, autore di un
_Portolano_ composto nel 1435, non sopra altre carte, ma (come egli
stesso scrive) tratto dal vero, toccato colle mani e veduto cogli occhi.
Portolano in dieci o dodici esemplari autografi tutti bellissimi, che si
conservano ancora negli scrigni di Ancona, e di altre biblioteche in
Europa; noverandoci anche quello di Andrea, figlio di Grazioso,
custodito nella biblioteca di Ginevra. Non mi dilungo, quantunque
richiesto, appresso agli antichi portolani, e molto meno appresso alle
carte marine dei secoli passati, perchè è impossibile trattarne a dovere
senza il sussidio delle figure e delle tavole, che non rilevano a' miei
editori. Valgami il desiderio di saperle una volta tutte raccolte e
riprodotte a facsimile in grandioso Atlante per soddisfare alle ricerche
degli studiosi ed alle citazioni degli scrittori. Allato alle tavole del
vecchio Torcello, e dell'Anonimo posseduto dal Luxoro; allato a tanti
altri cartografi genovesi e veneziani non disgraderà la comparsa del
Crescentio di Roma, e dei Benincasa d'Ancona; e con essi entrerà quel
Freduccio che primo segnò nel 1497 la declinazione della bussola; e quel
Bonomi, parimente anconitano, che offerì ai Colonnesi la carta portata
da Marcantonio vincitore a Lepanto[42].

Ma frattanto il capitano Cintio era giunto in Rodi, ed aveva presentato
al Grammaestro le lettere di papa Alessandro, del commissario Giacopo, e
del generale Benedetto. Le prime contenevano scuse per l'anno passato e
speranze pel presente. Il Commissario scriveva di essersi congiunto al
Cerigo coll'armata, e aver dovuto cedere alle pressantissime istanze del
Generale di restarsi con lui per dargli mano nell'impresa imminente,
come udirebbe a voce dal messaggiero. Finalmente il Generale con due
lettere, confermando le cose scritte dal Commissario, aggiugneva che
volendo questi a ogni modo andare a Rodi, non aveva altrimenti lasciato
di farlo che per le grandi preghiere dello stesso scrivente, cui non
sembrava nè onesto nè utile perdere il migliore tempo in distrazioni e
viaggi di complimenti, quando si avevano eccellenti opportunità di
combattere, come secretamente gli verrebbe riferito dal Capitano di
Ancona e dai suoi Cavalieri.

Il Grammaestro, udite le relazioni di Cintio, lodavane il bel garbo; e
ponendogli innanzi ricca collana di oro da portare sul petto per amor
suo, gli consegnava le risposte. Al Papa diceva di spedire forze
maggiori, e di procurare il concorso efficace delle grandi potenze: al
Commissario di attendere con buona licenza e di grande animo all'impresa
divisata: e al Generale, le stesse cose ripetendo, aggiungeva buoni
consigli, notizie recenti, e offerte amplissime di sè e dell'Ordine
suo[43].

NOTE:

[42] GRATIOSO BENINCASA, _Portulario_, 1435. Codice dell'Archivio di
Ancona, segnato n. LXVI, di carte novantacinque, alte m. 0,28; larghe m.
0,20. — Ne parla il CIAVARINI, nella _Collezione dei documenti
marchigiani_, I, LIX; il PARDESSUS, _Lois maritimes_ alterandone il nome
in _Benincosa_; W. E. SMITH, _The mediterranean_, in-8. Londra, 1854, e
ricorda l'esemplare conservato nel Museo britannico; C. DESIMONI,
Lettere e note.

BARTHOLOMÆUS DE BONIS HOMINIBUS _anconitanus faciebat Anconæ_ 1570.
Bellissima carta marina in pergamena, larga m. 0,93; alta m. 0,54,
nobilmente miniata e conservata nell'Archivio Colonna in Roma. Grazie
all'arch. Pressutti.

ATLANTE idrografico del Medio èvo, posseduto dal prof. Tammar Luxoro,
pubblicato a facsimile ed annotato egregiamente da C. Desimoni, e L. T.
Belgrano, in-8. Genova, 1867.



[Agosto 1502.]

XI. — Mentre queste lettere di andata e di ritorno solcavano il mare
Carpazio, Veneti e Romani movevano verso lo Jonio col disegno di
abbassare l'orgoglio del terribile pirata Camalì Aichio, che faceva da
principe nell'isola di Santamaura; e da quel centro con molti bastimenti
sottili infestava le riviere e i naviganti dell'Adriatico e dello Jonio.

Fra le sette isole possedute lungamente dai Veneziani, che non ha guari
formavano stato indipendente sotto la protezione dell'Inghilterra, ed
ora stanno insieme col regno di Grecia, non ultima di grandezza e di
popolazione avvisiamo l'isola di Santamaura, chiamata altresì Leucade; e
specialmente ricordata nelle storie pel salto che dicono quindi abbia
fatto da una rupe nel mare la poetessa Saffo, tradita dal giovanetto
Faone: salto che per lungo tempo a gara ripetevano gli amanti disperati
della Grecia e di Roma, pensandosi di spegner pure nella scossa
repentina delle gelide acque il fuoco ardente della passione. L'isola si
prolunga da presso alle coste dell'Epiro, proprio rimpetto alla
provincia dell'Acarnania; non essendovi di mezzo altro che un canale di
dieci miglia, angusto altrettanto che lungo, e nella estremità superiore
verso borea tanto sottile, da farci supporre che nei secoli più remoti
sia stata congiunta da quella parte l'isola al continente. Ma nel tempo
della nostra impresa, come al presente, essa era ed è circondata per
ogni lato dal mare, quantunque nella parte più ristretta, sopra bassi
fondi, ed a cavaliere di alcune isolette o scogli vi sia stato gittato
un ponte che sbarra il canale, mette l'isola in comunicazione colla
terraferma, e mena di fronte alla metropoli, donde tutta l'istessa isola
piglia il nome. Questa città così posta, e con buoni sorgitori attorno,
è stata sempre piazza di molta importanza per chiunque guerreggia nello
Jonio, e più o meno fortificata secondo i tempi. Nel principio del
secolo decimosesto ell'era ricinta in giro di grossa e buona muraglia,
fiancheggiata da massicci torrioni, munita di molta artiglieria, e
maggiormente assicurata da un castello di pianta quadrilunga, protetto
da cinque grandi torri rotonde, e da quattro piccole torri quadrate.
Intorno alle scarpate della piazza e del castello fossi profondissimi,
allagati dal mare; e aperto alle spalle sur una penisola il borgo,
abitato da pescatori e da povera gente[44].

NOTE:

[43] JACOMO BOSIO, _Storia dei Cavalieri gerosolimitani_, in-fol. Roma,
1602, II, 560. Seconda edizione riveduta ed ampliata.

FRANCESCO FERRETTI, _La pietra di paragone della vera nobiltà_, in-4.
Ancona, 1685, p. 135.

GIULIANO SARACINI, _Notizie storiche della città di Ancona_, in-fol.
Roma, 1675, p. 506.

[44] P. VINCENZO CORONELLI, cosmografo della repubblica di Venezia,
_Atlante Veneto_, in-fol. magn., 1690, II, 27. _«Isola e fortezza di
Santamaura, dedicata al N. U. Matteo Sanudo, procur. di san Marco.»_

IDEM, _Città, fortezze, isole e porti principali d'Europa_, in-fol.
Venezia, 1689, tav. 155: _«Fortezze della Prevesa e Santamaura.»_ — T.
II, 238: _«Forte di Santamaura»_, e tav. 260, _«Santamaura.»_

TOMMASO PORCACCHI, _Le isole famose del mondo descritte_, in-4. figur.,
Venezia, 1604, p. 75.

ANONIMO, _Isole, fortezze e terre famose_, in-8. bislungo figurato.
Venezia, senza l'anno. Bibl. Casanat., Oa, XIII, 3, p. 33, 34, 36.

NICHOLAS BELLIN, _Atlas maritime_, in-4. figur. Parigi, 1764, IV, 116.

CAP. W. H. SMITH, _Jonian Sea, Santamaura Surveyed, an. 1825._ — Carte
dell'ammiragliato britannico: _«The strong castle of Santamaura.»_

BASSORILIEVO in Venezia, Chiesa di santa Maria gloriosa dei Frari; sulla
base del monumento, scolpito da Lorenzo Bregno e da Baccio di Montelupo
alla memoria del generale Benedetto Cappello, vedesi il prospetto della
fortezza di Santamaura.



[23 agosto 1502.]

XII. — Volendo pertanto il General veneziano, e il Commissario nostro,
da ogni lato circondare la piazza, dove per l'abbarramento del ponte non
potevano spiegare in giro l'armata, fermarono di procedere con due
divisioni convergenti da un lato e dall'altro al medesimo punto
obbiettivo: sì che la divisione romana colla prua a borea per didentro,
fin dove è più angusto il canale tra il continente e l'isola, tagliasse
le comunicazioni colla terraferma, e togliesse ogni via di sortita e di
soccorso al presidio: allo incontro la divisione veneziana, per di fuori
a largo mare, fino al porto di Demata, investisse la piazza e battessela
dall'altra banda.

Era il ventitrè d'agosto, e il Commissario nostro colle dodici galere
romane, favorito dai venti australi, infilava rapidamente tra la
terraferma e l'isola; oltrepassava lo Scorpione, il Drepano, la punta
delle Torrette, il forte Sangiorgio; ed entrava nel grande stagno presso
la estremità del canale, dove si tenevano in posta dodici galeotte di
pirati. Costoro, già sugli avvisi, speravano poter cogliere l'armata
nostra sprovveduta, o almeno conquidere i legni ad uno ad uno, come
venissero a sfilare dall'angusto passaggio. Ma i Romani altrettanto
animosi che guardinghi, sempre col piombino in acqua, tenendosi stretti
tra loro in due linee di fronte, al primo comparire dei nemici,
poggiarono tutti insieme sopra di loro, arrancando con tale impeto, e
fulminando con tanta furia di cannonate, che tutte le galeotte volsero
in fuga alla spiaggia; e i pirati gittandosi a guazzo fuggirono,
lasciando i dodici legni abbandonati in potere dei vincitori[45].

Non per questo i nostri marini indugiarono punto in festa o in bottino:
anzi provvidamente seguirono la vittoria. E poichè niuno più poteva
togliere dalle loro mani la preda, tirarono innanzi, ruppero il ponte,
appostarono quattro galèe alla terraferma per impedire i soccorsi; e
sbarcando sull'isola un migliajo di fanti, investirono la piazza dal
lato meridionale, e occuparono il borgo. La sera dello stesso giorno,
coperti dalle case, ponevano l'alloggiamento vicino al castello, e ne
tagliavano l'acquedotto. Prosperi successi per terra e per mare dove è
accertata la direzione.

NOTE:

[45] RAYNALDUS cit., 1502, n. 21.

PETRI BEMBI, _Rerum venetarum historiæ_, lib. VI, in-4. Venezia, 1718,
p. 212.

GUICCIARDINI, _Storia d'Italia_, in-fol. Venezia, 1738, p. 404.

BOSIO cit., II, 561.

DE HAMMER, _Storia dell'impero osmano_, versione ital., in-16. Venezia,
Antonelli, 1828, VII, 135: _«La flotta papale di venti galere, e la
veneziana assediarono e conquistarono S. Maura.... Gli storici osmani
passano perfino sotto silenzio la detta conquista.»_ Però anche il De
Hammer procede confuso colle persone, coi luoghi e co' tempi, cose
d'altronde chiarissime pei documenti che qui si citano.



[29 agosto 1502.]

XIII. — Il Generale dei Veneziani, che doveva dall'opposta banda
consentire all'assalto improvviso, giunse coi venti australi in capo
all'isola, fino alle piagge dei Pineti; ma non potè orzare tanto da
accostarsi alla piazza: però in tutto quel giorno fu costretto tenersi
largo sulle volte. Ma la dimane, favorito dalla brezza notturna, sbarcò
la fanteria con alcuni pezzi di grosso calibro, e prese a battere in
breccia il castello. Quindi da ogni parte più e più vigorosa
l'oppugnazione. Quei di dentro, quattrocento assappi, cento giannizzeri,
e duemila terrazzani, quasi tutti pirati, disperatamente rispondevano
all'urto e alle percosse sempre più incalzanti dei Cristiani. E dalla
parte dell'Epiro, affacciatosi il soccorso di mille cavalli con qualche
nervo di fanti, spediti dal governatore di terraferma, furono talmente
più volte frustati e rifrustati a metraglia dalle quattro galere romane,
che gran ventura ebbero di potersi salvare con disperatissima fuga, e di
non farsi più rivedere alla testa del ponte.

Questa cacciata abbassò l'orgoglio del presidio, composto di gente
riottosa e discorde. I quali vedendo di non potersi a lungo sostenere, e
sfiduciati omai del soccorso, dopo sette giorni di batteria, e già
aperta la breccia, uscirono tumultuariamente sulla porta per trattare la
capitolazione: chiedevano salva la vita e le sostanze di tutti,
dappoichè la piazza e il castello più salvare non potevano. Nondimeno in
quella che i capitani delle due parti dibattevano la forma dei capitoli,
volendo specialmente il Generale veneziano ricevere a giusti patti i
soldati regolari del presidio, e lasciare fuori della legge a sua
discrezione i pirati; costoro, infelloniti quasi più contro i compagni
che contro i nemici, presero ad altercare, mostrandosi pronti ad ogni
eccesso. Pensate le milizie borgiane e marcoline se potevano tollerare
in sul viso minacce e millanterie di pirati! Al primo lampo
d'indignazione sprizzato dalla mano d'un fante incollerito, tutti gli
altri dettero dentro, sforzarono il passo, ed ebbero di presente la
terra e il castello. Così addì ventinove d'agosto venne in poter dei
Cristiani la fortezza di Santamaura, dove il nostro Commissario
scioglieva le catene a gran numero d'infelici pugliesi, siciliani e
calabresi che gemevano in dura schiavitù; e il Generale veneziano di
presente faceva appiccare ai merli per la gola o tagliare a pezzi i più
tristi pirati di quel luogo; tra i quali l'istesso Camalì Aichio, detto
dai Turchi Kamàl-raìs[46]. Tal sia del primo.



[15 Settembre 1502.]

XIV. — Jacopo il commissario, scrivendo al cardinal Legato in Rodi,
narra distesamente questi successi: e perchè nella lettera si contengono
particolari importanti alla marineria, io non posso nè devo lasciare di
riprodurla qui per esteso, come si legge nelle colonne del Bosio:
avvertendo però che Sopraccomito era il titolo che si dava al comandante
di un naviglio, quando non si diceva Capitano se non di squadra, o di
armata. I Veneziani, più d'ogni altro tenaci, ne hanno mantenuto l'uso,
anche nel secolo decimosesto. La voce è formata da Comito, primo
ufficiale della marinaresca, e da Sopra in significato di eccellenza,
come dire superiore degli ufficiali e genti di una galèa o nave. La voce
Ammiraglio, derivata dall'arabo _Al-Emir_, principe dell'armata navale,
fecesi nostrana al tempo delle Crociate, colle varianti di Almirante,
Almiraglio, ed Armiraglio, che si leggono nei secoli decimoterzo e
decimoquarto: ma nel decimosesto niuno dei grandi in Italia ha avuto
questo titolo, nè anche Andrea Doria; e il grado supremo esprimevasi col
dire Capitan generale. Anzi in Venezia la voce Ammiraglio era venuta
tanto giù da non significare altro se non il primo Nostromo dell'armata,
o del porto, dell'arsenale[47]. Ecco la lettera[48]:

«Reverendissimo ecc. Hier sera che fu a' quattordici del presente
ritornò Francesco Cintio anconitano sopraccomito a salvamento con la
galera pontificia, e bacio le mani alla S. V. R.ma de' favori e delle
cortesie usategli. V. S. è prudentissima et haverà molto bene compreso
quanto grande sia il buon animo di Sua Santità, e quanto ella sia stata
defraudata delle speranze, delle promesse, e della fede datale dalli
potentati cristiani, che unitamente contro le cose turchesche intervenir
dovevano. Questo procede, Reverendissimo Signore, dalle differenze nate
tra loro, onde non può la Santità Sua adempiere ciò che a V. S. R.ma
significato haveva, in far concorrere et intervenire i potentati
suddetti, e tutti i fedeli popoli cristiani a questa santa speditione.
Ma poichè contro ogni speranza restano le cose dei Cristiani così fredde
et addormentate, come V. S. R.ma può molto bene comprendere; e che Sua
Beatitudine resta con infinito dispiacere e rammarico di non poter
adempire l'ardentissimo suo desiderio in reprimere le forze di questi
cani turchi, non vedo io in ciò altro rimedio che pregare la divina
clemenza, alla quale ogni creatura è sottoposta, che si degni illuminare
le menti e muovere i cuori dei Principi cristiani.

»Delle galèe apostoliche io non ne ho ricevute se non tredici; e siamo
già si può dire nel verno: nè tengo speranza alcuna delle altre che
mancano al compimento delle venti. Le tredici sono stipendiate solamente
per quattro mesi, che spirano per tutto ottobre; nè a me sarebbe lecito
preterire i limiti et il termine statuitomi da Sua Santità, senza altro
suo espresso comandamento.

»L'armata di Francia non è venuta: e si crede che, per le differenze
nate tra lui et il re di Spagna per conto del regno di Napoli, non verrà
altrimenti. Le quattro galere del capitan Prejanni francese[49] sono
partite tredici giorni sono da Santamaura, per andare al soccorso del re
di Francia; essendosi il detto Capitano partito subito che intese che i
Francesi erano in arme contro Spagnoli nel detto regno di Napoli.

»L'armata veneziana, ed io con essa, fummo ai ventitrè del passato a
Santamaura, nido di corsali turchi[50], che facevano mille danni: e con
l'ajuto di Dio ai ventinove del medesimo pigliammo la terra et il
castello con seicento Turchi, e molte femine et fanciulli. Il magnifico
Generale fece tagliare a pezzi i corsali, facendo prigioni i giannizzeri
ed altri soldati. Abbiamo liberati molti Cristiani schiavi.

»Questa felice vittoria in gran parte attribuir si deve all'armata
apostolica, la quale era dalla banda dove erano più di mille cavalli
turchi ben armati con buon numero d'infanteria turchesca, che più volte
tentarono di soccorrere Santamaura; e con le nostre artiglierie
pontificie glielo abbiamo proibito, con morte di molti di loro.

»E perchè il magnifico Generale ha risoluto di fortificare il castello
di Santamaura, non si potrà assentare di qua; anzi sarà necessario (dopo
che avrà fatto le debite provvisioni), che lasci qui da quindici galere
per ajutare la fabbrica e la fortificatione. Onde V. S. R.ma può
considerare che egli rimarrà con poche galere: e conseguentemente la S.
V. R.ma resta defraudata delle promesse e della fede datale, e della
speranza di vedere unite insieme e di comandare alle galere del Papa,
del re di Francia, e di questa repubblica veneziana. Oltrechè noi non
siamo in tale stato da fare l'onorata et utile impresa, alla quale V. S.
R.ma proposto havea di condurci. Resta solamente che Ella si degni
accettare il mio buon animo; e che mi favorisca di farne fede alla
Santità di Nostro Signore con sue lettere.

«Dall'isola di Santamaura, nella galera capitana del Sommo Pontefice, a'
15 settembre 1502. — Giacopo da Pesaro, Com.º»

NOTE:

[46] SANUDO, _Diarî citati_, mss. alla Marciana, IV, p. 108,109: _«Li
Janissari si arresero, ma i Asapi non vollero; e per questo tutti fece
tagliar a pezzi, e apichar.»_

ANONYMO, _Histoire de Pierre d'Aubusson grand Maître des chevaliers de
Rhodes_, mss. Casanat., X, VIII, 30, p. 463, 465.

PETRUS JUSTINIANUS, _Historia Venet._, lib. X, in-fol. Argentina, 1611,
p. 211.

GABRIELIS MAURI, _Oratio in funere Benedicti Pisauri ad Ducem senatumque
Reipub. Venetæ_, ext. ap. LUNIG, _Orationes procerum Europæ_, in-12.
Lipsia, 1713, p. 182.

CICOGNA, _Iscrizioni Veneziane_, in-4. 1830, III, 269. Sulla tomba di
Benedetto Pesaro: _«Leucade . Expugnata . Aichio . Sævissimo . Pirata .
Interfecto.»_

DE HAMMER cit., X, 444.

[47] MALIPIERO, _Annali Veneti_ cit., VII, ii, 624.

PARDESSUS, _Collection des Lois maritimes de tous les peuples_, V, 70,
72, etc.

P. A. G., _Marcantonio Colonna_, p. 197.

[48] GIACOPO PESARO, commissario sull'armata del Sommo Pontefice, al
Rev.mo signor cardinale di sant'Adriano legato dell'armata cristiana in
Oriente contro i Turchi. — Lettera data dall'isola di Santamaura nella
galera capitana del Sommo Pontefice ai 15 settembre 1502. — BOSIO cit.,
II, 561.

[49] Questi è il _Prejeant de Bidoux_, del quale si è detto alla nota
41, e vedi l'Indice pel resto: chè nei fatti di Santamaura non fece
altro che una breve comparsa.

[50] Qui dal contesto si intende pirati, come torna alla p. 49.



[Ottobre 1502.]

XV. — Non mi crederei di avere pienamente soddisfatto al mio debito, se
pei fatti ora narrati, e pei documenti prodotti non venissi alle
conseguenze, onde il magisterio della storia discende alla pratica
utilità. Però devo segnalare la tattica dei nostri antichi marini: i
quali senza gran fatto smarrirsi nelle astruserie dell'analisi, come
oggi dicono della scienza, risolvevano a colpo sicuro i più ardui
problemi della milizia navale, e non fallivano alla meta.

Eccoli pigliare guerra offensiva contro i Turchi sul mare; e primamente
volgere tutte le forze contro l'armata nemica per isbrattarla dal campo,
senza pensare sul principio nè ad isole nè a castelli. Questa è
semplicissima teoria, e di gran momento: tuttochè non sempre osservata
da altri. Col nemico vicino e grosso, le isole non si pigliano; ma in
quella vece si toccano le busse a doppio tra terra e mare: essendo
impossibile tentare piazza ben difesa e non patire avaria nell'armamento
e perdita nella gente, intanto che il navilio del nemico resta intatto,
e può sempre a suo vantaggio piombare improvvisamente e opprimerti
lacero e stanco.

Dunque gli antichi coi fatti e colle parole dicevano: prima di tutto
cerca l'armata nemica, e sfidala a battaglia. Se accetta, devi contare
di averla vinta, posto che tu imprenda a ragione guerra offensiva con
forze sufficienti. Se il nemico non accetta, suo peggio: chè dovrà
tenersi vituperato agli occhi propri ed altrui, con quell'effetto morale
di abbattimento, che pareggia e talvolta supera una disfatta. Nell'uno e
nell'altro caso ti rendi padrone del campo. Così nel fatto presente i
Veneziani fin dal principio della guerra avevano costretto l'armata
turchesca a sgombrare dallo Jonio, ed a ritirarsi dietro alle guardie
dei Dardanelli. Quindi divenuti padroni del mare potevano a scelta
tentare l'espugnazione di questo o di quel castello o isola, che loro
tornasse meglio, senza temere altro impaccio.

Sopraggiunta l'armata romana al Cerigo nel mese di luglio, i capitani
alleati appuntano tra tutte la piazza di Santamaura, la cui importanza
ancor si mantiene, come una delle chiavi dell'Adriatico e dello Jonio; e
dove tutti i dominatori, fino al primo Napoleone e al ultimo Palmerston,
han tenuto l'occhio e il presidio. Gli alleati formano due divisioni di
tutta l'armata, perchè non si può altrimenti circuire la piazza: ma
vanno spediti e convergenti allo stesso punto; corrono co' venti
medesimi a un tempo verso borea sulle due parallele; gli uni di dentro
per le coste orientali, gli altri di fuori per le occidentali; e
spargono da ogni parte lo sgomento nel cuore del presidio. Ben possono
andar sicuri, tanto congiunti che divisi, perchè non v'ha armata nemica
appresso per attaccarli a ritaglio.

Il nostro Commissario entra improvvisamente nel canale, procede serrato
in battaglia con ordine di fronte, secondo l'uso perpetuo dei legni
militari muniti di rostro e di artiglierie sulla testa: dico artiglierie
d'ogni genere, antiche o moderne, da corda o da fuoco. Alla vista delle
galeotte piratiche, egli non dispiega le file, nè si perde in giravolte
e ritortole (come altri farebbe, incaponito nel metodo eccezionale dei
vascelli a vela); ma dritto ed abbrivato corre a investire: con che
obbliga il nemico alla fuga, e piglia sulla spiaggia tutto il suo
navilio. Nè qui si arresta: anzi procede oltre allo scopo principale,
rompe le comunicazioni tra il continente e l'isola, occupa il ponte, si
alloggia nel borgo, investe dalla sua parte la piazza; e appostatosi dì
prua in terra colle artiglierie di quattro galèe, impedisce ogni
movimento dei nemici, e ricaccia sempre indietro le migliaja dei cavalli
e dei fanti che cercano rompere le linee dell'assedio. Dove è da notare
il gran vantaggio delle batterie navali per la difesa dei passi in
litorale aperto o di piano inclinato; perchè esse possono incrociare i
fuochi e spazzare da ogni parte la campagna, senza correre pericolo di
essere prese d'assalto, come non di raro avviene alle batterie, tuttochè
ben difese, sulle colline.

Dall'altra parte la prima divisione corre coi venti del secondo
quadrante fino all'altura della piazza, indi orza a raso, e non
potendosi prolungare contro vento, tanto da presso archeggia, che alla
prima brezza favorevole della notte mette in terra le genti e le
artiglierie, munisce le trincere, apre la breccia, e in pochi giorni
costringe alla resa il castello, e piglia tutta l'isola. Effetti sicuri
di cause ordinate, quando è posto l'uomo certo alla cosa certa, e quando
ciascuno fa a dovere la parte sua.



XVI. — Venendo ai capitoli, voglionsi distinguere le condizioni diverse
del presidio: altri i patti convenienti ai giannizzeri ed alle milizie
regolari; altri i patti ai pirati, contuttochè chiamati corsari. Dove
torna acconcio notare la enormità del confondere queste due voci,
capitalmente diverse, quantunque date per identiche, e diffinite l'una
per l'altra anche dalla Crusca, e dai seguaci. Non tutti i naviganti
sono corsari, nè tutti i corsari sono pirati: convengono nel genere
rimoto del correre; chè naviganti, pirati, e corsari tutti corrono sul
mare; ma si distinguono per le diverse ragioni de' corsi loro: e le
differenze si hanno a cavare non tanto dalle scritture private dei
letterati, quanto dalle sentenze dei pubblicisti e della giurisprudenza
marittima, cominciando dal classico Consolato del mare. Corsaro
propriamente dicesi Colui, che, quantunque privata persona, nondimeno
(autorizzato con lettere patenti dal suo governo) comanda un bastimento
armato, e corre il mare contro i nemici del paese, in tempo di guerra, a
suo rischio e guadagno. Per estensione dicesi pur corsaro o corsale il
bastimento e l'equipaggio. Essi portano la bandiera nazionale, sono
soggetti alle leggi dello stato, hanno tribunali che ne giudicano i
fatti e le prede: devono essere rispettati dai neutri, possono
rifugiarsi nei loro porti; vincitori o vinti godono sul mare le medesime
guarentigie che il diritto di natura e delle genti accorda ai comandanti
e persone dei corpi franchi in terra. Al contrario i pirati si
pareggiano in tutto cogli assassini: Compagnia di ribaldi senza altra
legge che il libito, uniti insieme per rubare sul mare, senza bandiera,
o vero con bandiere bugiarde, senza rispetto di pace o di tregua, senza
patenti, senza tribunali: pubblici nemici di tutti, peste e flagello dei
mari.

Or di che tempra fossero quei cotali delle dodici galeotte e del
castello, si fa manifesto dalle forche, assegnate non a tutti i
prigionieri, ma a loro soltanto; perchè essi soli in ogni tempo, o di
guerra o di pace o di tregua, rubavano e infestavano i mari per mestiero
e pertinace costume ladronesco. Erano dunque veri pirati, e non corsari.
Per tali gli ebbero i giannizzeri, che nella difesa li provarono
riottosi; par tali i vincitori che, avutili prigioni, li fecero a pezzi;
per tali, senza equivoci, gli avranno i miei lettori.



XVII. — Presa l'isola, si pensa subito a mantenere e a fortificare il
castello della capitale: perciò un distaccamento di quindici galere,
come dire buon numero di gente ai lavori; di ufficiali a dirigerli, di
ciurme ad eseguirli, di soldati a difenderli. Duolmi non trovare nome di
ingegnere; perchè essendo già da cinque lustri inventata la nuova
maniera di fortificare, ed oltre alle due scuole del Sangallo e del
Martini surta pur la scuola mista con Basilio e con Leonardo, come
altrove ho detto e dirò, doveva naturalmente svolgersi l'arte medesima
nella guerra viva, nell'assedio e nella difesa delle piazze, e nei loro
risarcimenti. Indi si potrebbe forse dimostrare che le opere a cantoni
di nuova maniera, le teste del ponte, e i tre rivellini fiancheggiati
intorno al vecchio castello, tanto dalla parte dell'isola, che di
terraferma, come si vedono delineati nelle carte del cinquecento e del
seicento[51], sono stati primamente imbastiti di terra e di fascine nel
1502 dagli ingegneri che le armate di Venezia e di Roma in quel tempo
non lasciavano mai di aver con loro in qualsivoglia spedizione. Dovevano
probabilmente essere tra i Veneziani gli allievi Urbinati del Martini,
dell'Amoroso, di Ciro; perchè il Senato dalla Romagna e dalla Marca
traeva il nervo delle sue fanterie; e già sentivano della nuova maniera
i primi Savorgnani, Girolamo Genga, e quel Basilio della Scola che era
stato sopra l'artiglieria di Carlo VIII e dei Signori veneziani, e aveva
poco anzi fatto modelli di fortezza in nuova forma[52]. Tra le genti di
Roma dovevano essere ingegneri della scuola Sangallesca; perchè in quel
tempo di tanta ricchezza e concorrenza di maestri si raunava in Roma
attorno al Valentino per amore o per forza il fiore dei grandi artisti,
come Antonio Giamberti, Leonardo da Vinci e i loro seguaci; per opera
dei quali in questi tempi avevano a rafforzarsi con opera di nuova
maniera il castello di Santangelo, le rocche di Nettuno e di
Civitacastellana, e le due fortezze di Bologna e di Perugia. Qualcuno
degli allievi di cotesti maestri deve aver diretto i nuovi lavori a
Santamaura. Fia bene averlo notato per quei riscontri che col tempo e
con altri documenti potranno venirci innanzi.

Finalmente dal contesto e dalle esplicite dichiarazioni del nostro
Commissario, secondo la lettera diretta al Grammaestro, apertamente si
rileva come tutti allora volevano dare al Turco e ai pirati; e come pur
tutti si scusavano di non poterlo fare. Niuno taceva la necessità di
spegnere l'incendio, questi lo diceva a quello, e ciascuno ne lasciava
il carico all'altro. Il mondo sempre a un modo: ostacoli, impotenze, e
scuse non mancano mai a chi ne cerca; e la buona volontà sempre di
mezzo. Che dubbi? Tutti hanno ragione. E per tanta sovrabbondanza di
ragioni in ogni tempo sono cresciuti, durano e dureranno i disordini.

NOTE:

[51] PIANTE, INCISIONI E SCULTURE, come alla nota 44.

[52] MARIN SANUDO, _Annali Veneti_, Mss. alla Marciana, I, 70, b.

BART. CARTARI, _Lettera al duca di Ferrara_. — CAMPORI, _Letter. Art._,
p. 1.

LUIGI DA PORTO, _Lettere storiche_, 1.



[1503.]

XVIII. — Nel vero l'acquisto di Santamaura avrebbe potuto riscaldare le
pratiche della lega, e dar campo al Grammaestro, almeno nell'anno
seguente, di eseguire il suo divisamento: ciò era condurre l'armata del
Papa, di Francia, di Venezia, e di Spagna a Costantinopoli, mentre
Bajazet era impigliato ai confini estremi ed opposti del suo imperio
nelle guerre cogli Ungheresi e co' Persiani. Poteasi a un tratto cessare
dal cristianesimo la calamitosissima peste e il vituperosissimo
servaggio. Ma Consalvo di Cordova allora allora rompeva la tregua e
assaltava i Francesi, volendo cacciarli al tutto dal Regno; allora
l'Italia da un capo all'altro andava sossopra, e allora volavano le
famose mine contro il castello dell'Uovo, condotte secondo i principî
del nostro Francesco di Giorgio Martini, ingegnere sanese; alle quali,
checchè ne abbia altri congetturato[53], è impossibile assegnare lui
stesso come direttore, perchè era già morto l'anno avanti del mese di
gennajo, nella sua villetta della Volta a Fighille, come pur da venti
anni sopra sicuri documenti il Milanesi ha dimostrato[54].

Bisogna tuttavia notare che delle mine al castello dell'Uovo nel 1503 si
è fatto gran rumore di maraviglie e di scritture, perchè eseguite dagli
stranieri, tuttochè non fossero altro che copie: al contrario tanto poco
si è detto della prima mina originale, allumata quivi stesso in Napoli
otto anni avanti contro Castelnovo da un italiano, che infino a jeri si
dubitava dell'inventore e dell'esecutore. Sorte comune di tutti quasi i
nostri successi domestici. Ma ora gli è tempo di mettere la cosa a
certezza colla testimonianza dei contemporanei: essendo oramai evidente
che la prima mina, condotta con principî tecnici, e di efficace
operazione, e con pieno successo, brillò il venerdì ventisette novembre
1495 contro la cittadella o mastio di Castelnovo in Napoli, tenuto dai
Francesi di Carlo VIII, ed assalito da Ferdinandino di Aragona, durante
il breve risorgimento della sua Casa[55]. Certo altresì l'ingegnere
nella persona del celebre Francesco di Giorgio Martini, scrittore di
quell'importantissimo _Trattato di architettura civile e militare_ che
fu pubblicato dal professor Carlo Promis. Il quale Martini più volte era
stato richiesto dell'opera sua dai principi Aragonesi, e certamente
nell'assedio di Castelnuovo serviva di ingegnere maggiore al giovane re
Ferdinando, come ne fa fede lo Spannocchi, oratore dei Senesi in corte
di Roma, per una lettera pubblicata dall'Angelucci[56]; e per lungo
discorso il contemporaneo Vannoccio, ed altri[57]. Dunque il Narciso
toscano del Giovio, celebre macchinatore di opere ammirabili, maestro di
lavori sotterranei, che offerì l'opera sua al re Ferdinandino per
espugnare Castelnovo di Napoli, fu senza dubbio il nostro Francesco[58];
il quale oltracciò nelle sue tavole lasciò disegni bellissimi delle
mine, certamente finiti prima del cinquecento tre.

[18 agosto 1503.]

In mezzo ai rumori delle mine e delle armi, nazionali e straniere,
morissi a' diciotto d'agosto papa Alessandro, precipitò Cesare Borgia,
Giacopo d'Appiano riprese Piombino, tutti gli altri tornarono alle case
loro: e per quel che riguarda i successi della nostra marina devo
chiudere il primo libro dicendo che i Veneziani, costretti a fare la
pace col Turco, seppero dare buon conto di Santamaura per ricuperare in
cambio la Cefalonia che avevano perduta[59].

NOTE:

[53] CARLO PROMIS, _Architettura civile e militare di Francesco di
Giorgio Martini_ con dissertazioni e note, in-4. Torino, 1841, II, 344,
e segg.: _«A Francesco di Giorgio autori gravissimi rivendicarono le
mine di Napoli del 1503.... Vannoccio Biringuccio.... Francesco de
Marchi meglio istrutto nelle rettificazioni.... Girolamo Cardano.... il
Folard. — E veramente in quell'anno 1503, benchè non esista alcun
documento che lo indichi in Napoli, pure nessuno ve n'è che lo dica
soggiornante altrove: rimane però la difficoltà che si fosse per allora
allontanato da Siena, egli che contava ottant'anni di vita.»_

[54] CAV. GAETANO MILANESI, direttore dell'Archivio Mediceo in Firenze,
_Documenti per la Storia dell'arte Sanese_, in-8. Siena, tip. Porri,
1854, II, 466, produce documenti del dì 9 febbrajo e del 5 marzo 1502,
nei quali i giudici e notaj di Siena parlano della vedova e dei pupilli
_«Magistri Francisci Georgii.... olim magistri Francisci Georgii
pictoris et magistri ingegneris de Senis.»_

CARLO PINI, _La Scrittura degli artisti italiani riprodotta con la
fotografia_, in-4. Firenze, 1870. Dispensa quinta. Autografo di
Francesco di Giorgio e notizie della sua vita: _«Nato in Siena addì 23
settembre 1439.... morto nel mese di gennaio 1502.»_ Dunque di anni
sessantadue, e non ottanta di vita.

[55] SILVESTRO GUARINO, _Diario napoletano_, ex. ap. PELLICCIA,
_Raccolte di Cronache e Diari napol._, I, 223: «_A dì 27 novembre 1495,
de venerdì, ad ore 23 la cittadella del Castello fo pigliata, perchè ce
erano state fatte chiù tagliate nella fabrica e fosso, con fascine e
polvere de bombarde, in modo che tutta cascao insieme._»

[56] M. ANTONIO SPANNOCCHI, Lettera data da Roma addì 7 dicembre 1495,
accennata nelle note del Vasari, ediz. Le Monnier, IV, 206, e pubblicata
dall'ANGELUCCI, _Ricordi e documenti di Uomini e trovati italiani_,
in-8. Torino, 1866, p. 14: «_D'intorno al Castello è il nostro M.
Francesco di Giorgio, et con cave ed altre materie non attende che a
stregnerlo di modo che in brevissimi giorni, o per amore o per forza, si
existima sarà del Re, chè sotto con cave, et di fuora le bombarde, assai
l'hanno offeso._»

[57] VANNOCCIO BIRINGUCCI, _La Pirotecnia_. Venezia, 1540, lib. X, cap.
IV: «_Fu il primo inventore (delle mine) Francesco di Giorgio....
ancorchè tal gloria si desse e dia da chi non lo sa (come io) al capitan
Pietro Navarra.... advenendo in questo, come sempre adviene, che la fama
delle cose grandi è data alli più degni. Ma l'inventor vero, come v'ho
detto, ne fu il sopradetto Francesco, il quale con grande stipendio per
le sue virtù stava in Napoli in quelli tempi che il re di Spagna lo
tolse dalle mani del re di Francia.... Fece tre di queste mine et con
polvere; a un tratto, quando tempo li parve, offese sotto la cappella
della chiesa del Castello._» Intendi Nuovo, del quale parla, non
dell'Uovo.

[58] PAULUS JOVIUS, _Historiar._, lib. III, 92.

[59] BEMBO cit., lib. VIII. — PIETRO GIUSTINIANI cit., lib. X. —
GUICCIARDINI cit., lib. VI.

DE HAMMER cit., VII, 138: «_La principal condizione della pace era la
restituzione di S. Maura, ritenendo in cambio i Veneziani Cefalonia._» e
p. 264: «_Aloisio Segundino, segretario di Venezia, mandato alla Porta
per la pace, con istruzioni del 20 luglio 1503._»



LIBRO SECONDO.

Capitano Baldassarre da Biassa, gentiluomo genovese. [1503-1513.]


SOMMARIO DEI CAPITOLI.

I. — Giulio II, e i suoi capitani di mare. — Baldassarre, Giovanni e
Antonio da Biassa (novembre 1503).

II. — Disegni di Giulio e accentramento. — Il sistema feudale, i baroni,
e le città libere. — Mossa contro i Bentivogli e i Baglioni. — Le due
fortezze di Bramante e del Sangallo (1506).

III. — Le città di Romagna in mano ai Veneziani. — Ingegneri e capitani
di papa Giulio (1507). — Gita a Civitavecchia per la pietra angolare
della fortezza (dicembre 1508). — Propositi colà coll'Ambasciatore
veneziano.

IV. — Costruzione di sei galere in Ancona. — Capitani anconitani. —
Breve di Giulio (15 gennaio 1509). — Altro Breve, e termine della
costruzione nell'anno medesimo.

V. — Mosse e intendimenti diversi degli alleati di Cambrè (giugno 1509).
— Molestie dei pirati nella Liguria. — Ruine nel Tirreno. — Una delle
nostre galèe presa dai pirati (agosto 1509). — Trofei di bandiere in
Africa. — La sorte delle sei galere perdute.

VI. — La guerra di Ferrara. — L'armata navale dei Veneziani sul Po. —
Ponte di barche e ridotti alle due teste. — Scorrerie nel ducato, e
pericolo di Ferrara (21 dicem. 1509). — Provvisioni del duca e batterie
coperte dietro gli argini.

VII. — Si apre il fuoco la mattina (22 dicembre 1509). — Rotta
dell'armata veneziana. — Acquisto di quindici galèe e di altri legni e
prigioni. — Il ritorno militare, e i palischermi.

VIII. — I Veneziani chiedono la pace. — Capitoli e convenzioni sulla
libertà del mare (20 febbrajo 1510).

IX. — Rottura coi Francesi. — Fatti d'arme in Lombardia e alla
Mirandola. — Condizioni di Genova sotto i Francesi. — Giulio move l'armi
per cacciarli (giugno 1510).

X. — Armamenti e fuorusciti in Civitavecchia. — Sei galèe romane, e
diciassette veneziane. — I nostri bloccano Genova. — Le Caracche. —
Posizioni del blocco (luglio 1510).

XI. — Ordinanza del capitano Piergianni per rompere il blocco. — Giuoco
delle barche armate e dei legami. — Ritirata dei nostri. — L'arte antica
e i suoi pregi. — La tattica secondo gli emergenti. — Vantaggi degli
assalitori. — Discapito di chi non può muovere in ordine di battaglia.

XII. — Le artiglierie usate in queste fazioni (luglio 1510). — Origine
del cannone, e perchè chiamato Pezzo. — Nomi arbitrarî delle artiglierie
nei primi tempi. — Forme e composti diversi, ed a più canne. —
Magnificenza degli ornati. — Criterio logico del nuovo ordinamento a
multipli. — I tre generi, e le specie subalterne delle artiglierie.

XIII. — Ritorno e armamento maggiore sopra Genova. — Rassegna alla foce
del Tevere. — Donativo. — Giulio s'imbarca ad Ostia, scende in
Civitavecchia, e va in Lombardia. — Le due armate a Portovenere. —
Combattimento sotto vela su due linee parallele. — Ardimento di Giano
Fregosi. — Ritirata (settembre 1510). — Genova caccia i Francesi.

XIV. — Capitoli col capitan Giovanni da Biassa per la guardia del mare
contro i pirati (15 settembre 1511).

XV. — Considerazioni sui capitoli. — Forza delle galèe e dei brigantini.
— Soldi, razioni, specchio.

XVI. — Tassa del due per cento. — Servigio di guerra, di dogana, e di
polizia. — Freno alle rappresaglie. — Metodo per duplicare la forza
dell'armamento. — Rifacimento dei danni. — Proibizione dei noli. — Amici
e nemici. — Malfattori al remo. — Missioni straordinarie.

XVII. — Concilio di Laterano. — Richieste dei padri, e trattati di lega
contro i Turchi. — Documento (3 maggio 1512). — Apparecchi per la
spedizione. — Morte di papa Giulio (21 febbraio 1513). — Fine del
Biassa.



LIBRO SECONDO.

CAPITANO BALDASSARRE DA BIASSA,

GENTILUOMO GENOVESE.

[1503-1513.]



[Novembre 1503.]

I. — Morto papa Alessandro Borgia, e in men d'un mese andatogli appresso
Pio III dei Piccolomini, salì al supremo seggio nel primo giorno di
novembre dell'anno medesimo il cardinal Giuliano della Rovere, nipote di
Sisto IV, e vescovo Ostiense, che si fece chiamare Giulio II. Più volte
nei libri precedenti ho parlato di lui: e senza ripetere a sazietà ciò
che tutti sanno, mi terrò ora contento a considerare l'applicazione del
marzial suo genio alle cose del mare.

Fin dal principio chiamò capitano dell'armata navale, ed intimo
consigliere nelle marittime bisogne, Baldassarre da Biassa, prode uomo,
di antica famiglia genovese, della quale ora non resta discendenza; ma
soltanto nella riviera occidentale della Spezia, tra Marinasco e
Pegazzano, il castello di originaria pertinenza chiamato Biassa; e nel
blasone ligure presso a quel nome resta lo stemma segnato con un lione
rampante in campo d'azzurro, sotto corona di marchese. Baldassarre,
veterano della naval milizia, affine dei Fregosi, discendente di
valorosi marini, e benemerito del cardinal Giuliano della Rovere per
averlo trafugato da Ostia a Savona, quando pericolosi frullavano i
risentimenti borgiani, fu da lui medesimo (divenuto papa) largamente
riconosciuto e nominato capitano del mare[60]. Modesto titolo, che in
quei tempi scusava i più sonanti dei moderni ammiragli, e portava pari
grandezza e maggiore autorità. Il capitano del mare, comandante supremo,
nominava e toglieva gli ufficiali, faceva giustizia, a niuno cedeva
eccetto al sovrano, e intorno alla sua persona adunava cinquanta o
sessanta gentiluomini o capitani veterani, che formavano la sua casa
militare. Insieme con questi mettete Giovanni, figlio e successore di
Baldassarre, come vedremo[61]; metteteci Antonio della stessa
famiglia[62]; e poi Lorenzo degli Egidi, gentiluomo civitavecchiese[63];
e tre nobili anconitani, Gabrio Bonarelli, Galeazzo Fanelli, Melchiorre
Acquieri[64]; e i due Mutini, Lorenzo e Girolamo[65]; e avrete in
compendio, secondo il tempo, lo stato maggiore della marina.

Con questi campioni papa Giulio si andava preparando alle imprese già di
lunga mano meditate, infino a tanto che duravano i fastidî continui dei
segni e contrassegni per ricuperare le rôcche del Valentino; e più anche
i fastidî delle guerre ancor vive tra Francesi e Spagnoli nel Regno. Col
suo da Biassa, ora sulle galèe, ora sul bucintoro, navigava
all'occasione pel Tevere e pel Tirreno ad Ostia e a Civitavecchia:
mirava a Genova, attendeva il tempo opportuno, e faceva grande
assegnamento sulla marina per venire a capo dei suoi divisamenti. Il
Bembo, solenne conoscitore del Papa e delle sue tendenze, con un solo
tratto di penna e da gran maestro scolpisce uno dei principali caratteri
dell'animo di lui, non avvertito da altri: ciò è dire che l'unico
diletto di Giulio, per riposo di stanchezza, era spaziare sur una barca
pel mare[66]. Paride de Grassi, prefetto delle cirimonie, non ha omesso
alcune volte di registrarne le navigazioni, specialmente quando si
terminavano sul Tevere alla basilica di san Paolo, e gli andavano
all'incontro i Cardinali[67].

NOTE:

[60] UBERTUS FOLIETTA, _Clarorum Ligurum elogia_, ap. BURMANN _in
Thesaur._ I, i, 816: «_Balthassar de Biassia complures annos, magna cum
rerum gestarum gloria, sub Julio II meruit, summæ navalium rerum
præfectus; quem Ioannes filius, duarum triremium dominus, æmulatus
est._»

GUICCIARDINI, _Stor._, lib. X, ediz. di Ginevra, in-4. 1645, p. 594:
«_Papa Giulio aveva fatto venire da Civitavecchia il Biascia, capitano
delle sue galere._»

FEDERICI, _Abecedario delle famiglie nobili di Genova._ Mss. consultato
per favore dal ch. cav. Cornelio Desimoni.

DIVERSORUM, _Codice dell'Arch. Genovese._ Nominato: «_Pellegrino da
Blasia custode della darsena circa il 1432._»

[61] BARTHOL. SENAREGA, _De reb. genuen._, S. R. I, XXIV, 602, c:
«_Triremis pontificia, cui Joannes Blaxia, præerat._»

DOCUMENTO qui appresso, cap. XIV: «_Johannes de Blaxia, nobilis
januensis, præfectus et capitaneus generalis classis, S. R. E._»

AGOSTINO GIUSTINIANI, _Annali di Genova_, in-4, 1537, p. 266, M: «_Et
una galera del Papa, capitano Giovanni di Biassia._»

[62] GIUSTINIANI cit., p. 272, Q: «_Et due gallere del Papa, le quali
comandava Antonio de Biassia della Spezza._»

[63] JULII II, _Introitus et Exitus Camer. Aplcæ. ann._ 1507-8. — ARCH.
SECR. VAT., codice segnato C, 1664, p. 214: «_Die trigesimo primo
augusti ducatos sexcentum auri de Camera magnifico domino Laurentio de
Ægidiis, capitaneo triremium ad stipendia S. D. N., pro sua provisione
duorum mensium._»

ITEM, C. 1666, p. 146: «_Die secundo decembris magnifico Laurentio de
Ægidiis, capitaneo triremium, ducatos 900, pro ejus provisione trium
mensium._»

ARCHIVIO Municipale di Civitavecchia. V. Indice, voce _Egidi_.

[64] JULII PP. II, _brevia Anconitanis_, V. appresso nota 15, e 18.

[65] JULII PP. II, _Introitus et Exitus_ cit, Codice segnato C, 1666, p.
166: «_Prima die Martii Laurentio Mutino, cap. triremium SSmi D. N. pro
ejus provisione duorum mensium ducatos 600._»

CATASTO _ad Sancta Sanctorum_. MSS. p. 203, anno 1510: «_Hyeronimus
Mutinus capitaneus trium remium, pro quo solvit Hyeronymus de Picchis
florenos quinquaginta pro anniversario animæ ejus, sepultus in Ecclesia
S. Augustini._»

GALLETTI, _Inscript. Rom._, Class. X, n. 7: «_Laurentio Mutino.... in
eamdem triremium præfecturam ab Julio II suffecto._»

[66] BEMBUS, _Histor._ cit., 261: «_Julius tranquillo mari navicula
exhilaratus, qua una ille re magnopere delectabatur._»



[1506.]

II. — L'ardente animo di papa Giulio, in quelle traversate, grandiosi e
forti disegni mulinava: ed anzi tutto ricuperare gli stati della Chiesa
romana, sbrattare dalle grandi città gli ostinati ribelli, e ridurre le
provincie a più stretto legame colla capitale.

Ciò che Cesare Borgia aveva principiato con frode ed a privato
vantaggio, voleva Giulio alla scoperta e per pubblico beneficio
compiere. Trent'anni di cardinalato, e lunga esperienza nei grandi
affari veduti, uditi, e trattati, davangli convincimento di giustizia
nelle sue intenzioni: e per la dignità dello Stato, e per la quiete de'
popoli, pensava non dover più oltre tollerare l'oltracotanza dei baroni.
Allora gli Estensi di Ferrara, i Bentivogli di Bologna, gli Ordelaffi di
Forlì, i Manfredi di Faenza, i Riari di Cesena, i Malatesta di Rimini,
gli Sforzeschi di Pesaro, gli Uffreducci di Fermo, i Varani di Camerino,
i Vitelli di Castello, i Baglioni di Perugia, i Feltreschi di Urbino, i
Colonnesi, gli Orsini, i Conti, i Savelli, i Gaetani, i Capizzucchi, i
Cesarini, i Farnesi per tutta la campagna romana, erano in continui
tafferugli tra loro e cogli altri, a pubblico danno. Principati, ducati,
baronie, repubbliche, comuni, quel che volete: ma sempre più o meno
dipendenti da Roma, sempre attenenti a quello Stato che era venuto nel
dominio dei Pontefici. Errore sofistico sarebbe chiamare assolutamente
indipendenti le predette o qualunque altra città o provincia dal Tronto
al Po, e dall'Argentaro al Circèo: errore il non volerle comprese nel
dominio della storia pontificia. Impossibile distruggere il fatto, in
quanto tale. Sarebbe pure ingiustizia chiamare indistintamente tiranni
tutti i baroni o cittadini che vi dominavano. La maggior parte non erano
tali di origine, avendo ricevuto dagli stessi Pontefici dei tempi
passati le investiture a titolo di feudo o di vicariato; e spesso la
condotta militare, includente la ricognizione baronale e il
consentimento dei popoli, donde traevano le milizie: e in quanto al modo
del governare, essi procedevano come gli altri principi maggiori e
minori del tempo loro. Ma il sistema feudale aveva ormai finito il
corso, e doveva dar luogo alle esagerazioni del biasimo, seguace
perpetuo d'ogni forma dismessa: doveva esser seguìto dalla monarchia
assoluta, di che Ferdinando spagnuolo aveva fatto piantare il primo tipo
nel Regno per mezzo di Consalvo; tipo perfezionato dappoi per gli studî
di Carlo V in ogni altra parte del vecchio e del nuovo mondo.

I tempi dunque volgevano propizî ai disegni di Giulio: il quale come
ebbe veduto quietare le armi di Francia e di Spagna, mosse da Roma per
l'impresa di Perugia e di Bologna, contro ai Baglioni e ai Bentivogli.
Occupò fortemente le due città, riformò lo stato, e fece disegnare due
fortezze per mantenerlo. Alla Bolognese, presso porta Galliera, pensò il
Bramante, che ne fece il disegno, e ne commise l'esecuzione a Giulian
Leno, architetto romano, suo domestico ed erede[68]. Se ne ignora la
forma: ma deve essere stata solamente imbastita di fascine e di terra,
perchè non guari dopo i Bolognesi la distrussero in due giorni.

Per la fortezza di Perugia fu chiamato da Arezzo Antonio, il vecchio, da
Sangallo, ingegnere militare dei Fiorentini; il quale sull'altipiano
rimpetto alla cattedrale, alla piazza, e al corso, molto acconciamente
pel sito di quei dirupi, disegnò la pianta secondo le regole dell'arte
nuova, già da lui stesso osservate in Roma, in Nettuno, e in
Civitacastellana. Secondo il primitivo disegno del primo Antonio la
rôcca fu condotta a compimento dal secondo Antonio, detto il giovane,
nel pontificato di Paolo III[69]. I cartoni dell'uno e dell'altro, che
ho visti nella Galleria di Firenze, potranno supplire alle memorie del
tempo futuro: perchè la fortezza dopo il 1860 è stata totalmente
disfatta e rasata. Antonio il giovane prese nome più dello zio, come
questi superò la fama del fratello, perchè l'uno e l'altro vissero più
tempo dopo Giuliano, quando l'arte della fortificazione, per tante
occasioni propizie, e per tanti ingegni eccellentissimi, ogni giorno
progrediva; ma quanto al merito dell'invenzione, Giuliano è stato e sarà
sempre il maestro del fratello e dei nipoti e di quanti altri vennero
dappoi.

NOTE:

[67] PARIS DE GRASSIS, _Diar. Cærem._, Mss. Bibliot. Casanat., XX, III,
3, 4, 5. Tom. primo, ad diem XVIII octobris, MDV: «_SSmus D. N. ivit....
ad Civitatem veterem et Ostiam, tandem hodie decimaoctava octobris, quæ
est dies sancti Lucæ, rediit ad Urbem per flumen Tyberis usque ad s.
Paulum, ubi discendens ex navi obviaverunt ei duo reverendissimi domini
Cardinales._»

IDEM, Mense augusti et novembris MDVII.

IDEM, Mense decembris, die XVII, MDVIII.

[68] PARIS DE GRASSIS, _Diaria cærem._, MSS. _Itinerarium_, S. D. N.,
_Julii_, Pp. II, anno. MDVI. — BIBL. CASANAT., XX, III, 4: «_De
positione primarii lapidis in arce bononien. per Legatum, Papa præsente.
Die XX februarii MDVII, sabati, mane; hora XVI, Papa æquitavit ad locum
Arcis fiendæ.... Cardinalis sancti Vitalis legatus cum magna populi
turba, viso horologio solari.... Lapidem primum benedixit et posuit._»

ARCHIVIO SECR. VAT., _Memorie di artisti_, estratte da ALBERTO ZAHN, e
inserite nell'_Arch. St. It._, ann. 1867, VI, i, 180: «_Die XXIX
decembris, Magistro Bramanti architectori, S. D. N. pro expensis per eum
cum suis sociis factis et faciendis Bononiæ et in reditu ad Urbem._»

VASARI, ed. Le Monnier, VII, 133: «_Andò Bramante ne' servizi di Giulio
II a Bologna, quando ella tornò alla Chiesa.... Fece molti disegni di
piante e di edifizi...._» 139: «_Lasciò suo domestico ed amico Giulian
Leno, che molto valse nelle fabbriche de' suoi tempi._»

[69] VASARI, ed. Le Monnier, _Vita di Giuliano ed Antonio da Sangallo_,
VII, 219; X, 15.



[1507.]

III. — Assettate le cose di Bologna e di Perugia, tornossene Giulio in
Roma ai ventisei di marzo del 1507, col pensiero di andare oltre
nell'assunto, e di ritogliere ai Veneziani Ravenna, Cervia, Rimini e
Faenza: le prime due già da molto tempo perdute, e le altre cascate di
mano a Cesare Borgia nella ultima catastrofe. Perciò dovette entrare in
molti maneggi, e trattati, e spedizioni, e guerre; nelle quali lo
servirono i migliori ingegneri di quella e di ogni altra età, come
Bramante, Antonio da Sangallo, Baldassarre Peruzzi, Andrea da Sansovino;
ed i capitani più eccellenti, come Marcantonio Colonna seniore,
Francesco M. della Rovere, Alfonso da Este, Lodovico Pico, Francesco da
Gonzaga, Giovanni Sassatelli, Raniero della Sassetta, Lucio Malvezzi, e
Renzo da Ceri. Forte e sicuro dell'appoggio e delle opere di tali
uomini, si dette a trattare la famosa lega di Cambrè, secondo le
particolari vedute sue.

[Dicembre 1508.]

E, come se non avesse altri pensieri pel capo, s'imbarcò a Ripa sul
bucintoro[70], e se ne andò a Civitavecchia, dove voleva murare una
buona fortezza per la difesa del porto e della città[71]. Pose esso
stesso colle sue mani la prima pietra addì quattordici dicembre del
1508, che fu principio a quel nobile edificio militare, disegnato da
Bramante, che tuttavia si ammira, e del quale farò altrove più largo
discorso.

Fra i grandi personaggi, che in quella occasione seguirono il Papa in
Civitavecchia, vuolsi annoverare Giorgio Pisani ambasciatore di Venezia,
il quale aveva dal Senato pressantissime commissioni di por mente a
tutto ciò che potesse nella romana curia succedere, di tener l'occhio ai
maneggi, di chiarire i sospetti, e di conseguire l'investitura delle
quattro città controverse. Ed egli spiando diligentemente ogni luogo ed
ogni tempo opportuno per venire a capo di negozio tanto difficile,
finalmente un giorno, che tutti colà vedevano Giulio col capitano da
Biassa e cogli altri ufficiali delle galèe scendere in terra del
consueto bucintoro bellissimo e della passeggiata intorno al porto ed
alla prossima marina sommamente lieto, non si lasciò fuggire
l'opportunità; ed entrò apertamente nel discorso di Romagna, sperando in
quella larghezza di cuore trovare la via per giugnere all'intento[72].

Quando precipitò la casa Borgia, e il duca Valentino in un giorno perse
lo stato, i Veneziani avevano tolto dalle mani di costui Rimini e
Faenza: e volendone mantenere l'acquisto, supplicavano Giulio che, come
già da Cardinale aveva consigliato il Senato a liberare quelle città dal
crudelissimo tiranno, così da Pontefice permettesse loro di ritenerle
agli stessi patti di feudo e di vicariato, con che il Borgia le aveva
tenute. Nel qual discorso, e col medesimo esempio dell'istesso Borgia,
contrapponendo Giulio alla caducità di piccolo principe la tenace
fermezza di potente repubblica; e quindi la facilità di ricuperare una
volta dall'uno, e la malagevolezza di riavere mai nulla dagli altri;
conchiudeva non poter acconsentire alla domanda. Ma al tempo stesso
(toccando pur di altre differenze occorrenti tra Roma e Venezia,
specialmente intorno a Ravenna, a Cervia, ed alla libertà del mare) si
lasciò andare a promettere la concessione di Faenza e di Rimini in feudo
a quel gentiluomo veneziano cui volesse il Senato presentarle; tanto che
la repubblica potesse di fatto avere quelle città; e la romana Chiesa
almeno in apparenza non perderle. Tutto inutile: Giorgio, dicendo non
esser costume della veneta repubblica far principi i suoi cittadini,
rifiutò l'offerta, e non fece motto di ciò nè al Senato nè al collega
Giovanni Badoaro, restatosi infermo per quei giorni in Roma. Così per
negligenza dell'ambasciatore in un punto di tanta importanza si trovò
Venezia a un pelo dal precipizio: e gli uomini ebbero da apprendere come
uno stato pieno di ricchezza e di riputazione, dopo essere per dieci
secoli sempre cresciuto di potenza e di dominio, poteva in un sol giorno
essere quasi totalmente rovinato. Proprio allora gli alleati di Cambrè
pubblicavano i capitoli e le convenzioni di quasi tutta l'Europa contro
Venezia[73].

NOTE:

[70] P. A. G., _Medio èvo_, II, 467, 473.

[71] PARIS DE GRASSIS, _Diaria cærem._, ad diem xiv decembris MDVIII:
«_Ad Centumcellas pro lapide angulari Arcis novæ._» — Et XVII dicti:
«_Heri sero Papa ex Civitate veteri per mare reversus est in Urbem._»

[72] BEMBO cit., 261: «_Cum Julio Centumcellas petente Georgius Pisanus
in comitatu fuit.... Ibi cum Julium tranquillo mari navicula exhilaratum
videret, qua una ille re magnopere delectabatur, Pisanus de eo ipso
reipublicæ in Flaminia negotio alloqueretur, Quin tu (inquit Julius) non
cum Senatu tuo agis ut is aliquem ex suis civibus mihi proponat cui ego
dem Ariminum Faventianaque romanæ reipublicæ nomine obtinenda?... Ita et
habebitis re vos a me oppida illa, et ego ad speciem non amisero._»

[73] LÜNIG JOANNES CHRISTIANUS, _Codex Italiæ diplomaticus_, in-fol.
Lipsia, 1725-35, t. I, p. 134; t. II, p. 1995; t. IV, 1827.

DU MONT, _Corps universel diplomatique du droit des gens, contenant un
recueil des traités d'alliance, de paix, de trève, de neutralité, de
commerce, etc._ in-fol. Amsterdam, IV, i, 113. — La Lega fu sottoscritta
in Cambray tra Cesare, Spagna e Francia a' 10 dicembre 1508.



[15 gennajo 1509.]

IV. — Giulio tornato in Roma sul bucintoro per la via del mare e del
fiume; aspettandosi di lunghe e fortunose guerre, anche nell'Adriatico,
considerate le brighe dei Veneziani; e volendo tenersi pronto alla
spedizione contro i Turchi, di che esso pure ed ogni altro sentiva la
necessità; indusse gli Anconitani a costruire sei galèe, promettendo di
mettere per capitani sopra tre delle medesime gli ambasciatori della
città che allora stavano in corte, cioè Gabrio Bonarelli, Galeazzo
Fanelli, e Melchiorre Acquieri. Il Breve di papa Giulio, che per essere
inedito volgarizzo col testo latino a fronte, diceva così:[74] «Ai figli
diletti, Anziani e Consiglieri, della nostra città d'Ancona, Giulio papa
II. — Diletti figliuoli salute ecc. Dappoichè ci è stato concesso dalla
divina bontà quello che noi sempre abbiamo desiderato e ricerco; ed
oramai i principi cristiani, tolto via ogni fomite di contenzione, sono
venuti tra loro a concordia, tanto che finalmente possiamo sperare di
poterci volgere più che mai forti e con possente armata contro la
perfidia dei Turchi e degli altri nemici del nome cristiano; volendo noi
andare innanzi a ogni altro coll'opera e coll'esempio, quando si tratta
di spedizione pietosa altrettanto che necessaria, abbiamo deliberato di
apparecchiare poderosa armata navale. Sapendo per tanto che in cotesta
città nostra di Ancona, specialmente diletta, si possono costruire
eccellenti galèe, vogliamo che intanto ne siano cominciate sei sotto la
vostra direzione. Il governo delle tre prime galèe abbiamo già assegnato
di nostra spontanea volontà ai diletti figliuoli, oratori vostri appo
noi, Gabriele de' Bonarelli cavaliere, Galeazzo de' Fanelli, e Melchior
Acquieri, uomini prodi e che ci sembrano attissimi a tale ufficio. Vi
esortiamo dunque con paterno affetto a mettere tutta la vostra cura e
diligenza nella predetta costruzione, e noi penseremo alle spese. Perchè
intanto l'opera proceda spedita e voi abbiate il danaro occorrente al
taglio dei legnami, vogliamo e comandiamo al diletto figlio Niccolò
Calcagni, tesoriero in cotesta provincia nostra della Marca, che di
presente vi conti cinquecento ducati d'oro. Di più espressamente
comandando, ordiniamo ai diletti figli, uomini e popoli delle nostre
terre di Montesanto, di Santelpidio, di Civitanova, e di Castelfidardo,
che a voi ed ai vostri ministri benignamente permettano tagliare e
trasportare pei loro territorî e distretti il legname necessario alla
costruzione delle nominate galèe; messa onninamente da parte ogni scusa
e contradizione.»

«Dato a Roma addì quindici di gennajo 1509, del nostro pontificato anno
sesto. — Sigismondo»[75].

Gli Anconitani pigliarono a volo la bella occasione che loro s'offriva:
ed istruiti altresì dalle lettere private degli ambasciatori capirono il
gran conto dell'armamento e della fabbrica, secondo l'interesse della
città, del porto, del commercio e della navigazione, come tra poco
vedremo. Nell'anno medesimo le sei galèe erano fatte, varate, e in punto
di ogni cosa, tranne il corredo mobile; di che non avevano ricevuto nè
istruzione nè danaro[76]. Perciò l'istesso Giulio alla fine dell'anno,
di nuovo encomiando la diligenza degli Anconitani, ordinava il
fornimento degli attrezzi e del corredo; e spediva danaro, come dalla
lettera seguente, che per la sua importanza nell'istesso modo qui
pubblico[77]:

«Ai figli diletti, eccetera. Pei discorsi del diletto figliuolo Galeazzo
Fanelli, concittadino ed oratore vostro (più volte e sempre volentieri
da noi veduto ed udito), e insieme per le relazioni del venerabile
fratello Antonio arcivescovo Sipontino, generale uditore della Camera,
testè tornato d'Ancona, abbiamo inteso il procedere delle fortificazioni
di cotesta città nostra, e delle galèe da voi per ordine nostro
costruite. Gratissime le notizie dell'uno e dell'altro: e noi approviamo
pienamente e lodiamo la vostra diligenza e sollecitudine. Ma perchè poco
sarebbe l'avere ben cominciato opere degne, se non si facesse di
condurle poscia a perfezione con pari diligenza e premura, noi
confidando sempre nella vostra prontezza e sollecitudine vi commettiamo
di provvedere al fornimento delle dette galèe con tutti quegli attrezzi
e corredi che fanno al navigare; cioè vele, remi, áncore, antenne,
alberi, ed armamenti; e tutto col minor dispendio e la maggiore celerità
possibile; perchè, come il bisogno ne venga, noi ce ne possiamo
immediatamente servire. Sarà nostro pensiero somministrarvi il danaro: e
intanto, perchè possiate meglio eseguire le nostre commissioni, abbiamo
già scritto al diletto figlio Tesoriero di cotesta nostra provincia che
vi paghi a vista mille ducati d'oro della nostra Camera a conto delle
spese; e appresso liberalmente vi manderemo quel che sarà necessario.

«Dato a Roma, presso san Pietro sotto l'anello del Pescatore, addì
quattro dicembre 1509, del nostro pontificato anno settimo. —
Sigismondo.»

NOTE:

[74] JULIVS PP. II, classem adversus Turcas paraturus, Anconitanis
mandat ut sumptibus Sedis Apostolicæ sex triremes construant. ARCH. MUN.
ANCON. — COD. VATICANO, n. 8046. — SCHEDE BORGIANE in Propaganda. —
SARACINI, _Storie di Ancona_, lo accenna senza pubblicarlo, 301.

«_Dilectis filiis antianis et consiliariis civitatis nostræ Anconæ. —
Julius II, Dilecti filii salutem, etc. — Quando id quod semper optavimus
et quæsivimus Dei benignitate est factum ut Reges et Principes
christiani, sublato omnis discordiæ fomite, in mutuam pacem
concordiamque convenirent, spesque major quam antheac unquam affluxerit
valida expeditione contra perfidos Turchos et alios christiani nominis
hostes arma sumendi, nosque ad tam sanctum et necessarium opus, opere et
exemplo reliquos anteire velimus, et propterea statuerimus validam
classem parare, sciamusque civitatem nostram istam peculiarem et
dilectissimam opportunissimam esse triremibus fabricandis; idcirco sex
triremes apud vos fieri volumus, quarum curam vos suscipere debeatis. Et
trium ex sex triremium hujusmodi gubernationem et patronatum dilectis
filiis Gabrieli de Bonarellis equiti, et Galeatio de Fanellis, el
Melchiori Aquerio, oratoribus apud nos vestris, nam ii nobis peridonei
visi sunt, motu proprio demandavimus. Hortamur igitur vos charitate
paterna ut fabricandis hujusmodi triremibus exactissimam curam et
diligentiam adhibeatis. Nos enim pro fabrica dictarum triremium vobis
satisfieri curabimus; et insuper ut triremes ipsæ celeriter confici
possint, pro incisione lignorum pro dicta fabrica facienda per dilectum
filium Nicolaum Calcaneum istius provinciæ nostræ thesaurarium summam
quingentorum ducatorum auri ad præsens vobis persolvendam volumus et
mandamus. Dilectisque filiis, comunitatibus et hominibus Montis sancti,
Sancti Elpidii, Civitenovæ, et castri Ficardi, terrarum nostrarum,
expresse præcipiendo mandamus quatenus vobis et commissariis vestris in
earum territoriis et districtu ligna, quæ fabricandis hujusmodi
triremibus necessaria fuerint, cedere et inde asportare benigne
permittant, omni excusatione et contradictione cessante._»

«_Datum Romæ apud S. Petrum sub anulo Piscatoris, die XV januarii, MDIX.
Pont. Nost. Ann. VI. — Sigismondus._»

[75] Questi è il celebre Sigismondo de' Conti da Foligno, segretario di
Giulio II, ritratto da Raffaello nel notissimo dipinto della Madonna di
detta città, e autore dei _Commentari storici_ del suo tempo, come ho
notato nella mia _Storia del Medio èvo_, II, 426.

[76] ARCHIVIO DI STATO IN FIRENZE cit., Medio èvo, I, 403: «_Fabbricasi
la galea, se vi si attende con diligenza.... in giorni sessanta, havendo
però tutto il legname pronto.... benchè dichino che il principe Doria ne
fece fare una in ventisette giorni._»

[77] Archivio ut sup.: «_Dilectis filiis etc. Intelleximus non solum a
dilecto filio Galeatio Fanello, concive et oratore vestro, quem pluries
et vidimus et audivimus libenter, sed etiam a ven. fratre Antonio
archiepo Sipontino, Cameræ Aplcæ generali auditore, qui proximis diebus
isthic fuit, quo in statu esset fabrica iam murorum istius nostræ
civitatis, quam triremium quæ apud vos jussu nostro construuntur:
fuerunt nobis gratissima omnia quæ illi retulerunt, et vestram in
omnibus diligentiam et studium probamus atque laudamus. Verum quia parum
esset rem aliquam strenue cœpisse, nisi illa pari diligentia
perficeretur et perduceretur ad optatum exitum, de eadem diligentia et
sedulitate vestra confisi committimus vobis ut dictas triremes de
oportunis omnibus remis, ancoris, velis, antennis, arboribus,
armamentis, et aliis rebus necessariis ad navigandum ea qua fieri
poterit majori celeritate, et quo minori potest sumptu provideatis; ita
ut cum necesse fuerit nihil obstet quo minus illis uti possimus. Nos
providebimus de pecuniis ad id necessariis; et interim ut ea comodius
exequi possitis scripsimus dilecto filio istius provinciæ nostræ
Thesaurario ut solvat statim vobis ducatorum auri de Camera mille pro
parte sumptus dictarum triremium, successiveque benigne præbebimus
reliqua necessaria._»

«_Datum Romæ apud S. Petrum, sub anulo Piscatoris die IV decembris,
MDIX. Pont. Nri. Anno VII. — Sigismundus._»



[Giugno 1509.]

V. — Mentre questi armamenti si facevano con gran pressa in Ancona,
altrettanto rapide correvano le spedizioni da Roma e da Civitavecchia,
come portava l'accesso di Giulio alla lega di Cambrè; e l'impetuosa
indole di lui, che avrebbe voluto ogni cosa pensata e fatta a un tempo
solo. Tutto verso Romagna e verso Lombardia, dove squillavano già da più
parti le trombe contro Venezia. Massimiliano imperatore voleva togliersi
dal viso la vergogna della cacciata poc'anzi sofferta, e contava unire
all'imperio il Friuli, Verona, Treviso, Vicenza, e Padova: Lodovico di
Francia consentiva con lui per annettere al Milanese Crema, Cremona,
Brescia, e Bergamo; Ferrante spagnuolo per riscuotere Brindisi, Trani,
Otranto, e Monopoli; il duca di Savoja per ottenere il reame di Cipro;
il Papa per ricuperare Ravenna, Cervia, Faenza, e Rimini; i Fiorentini
per assicurarsi il dominio di Pisa; e il duca di Ferrara per arrotondare
i suoi confini d'Oltrepò. La congrega di tanti competitori, con
intendimenti così diversi, non poteva durare più d'un anno; e i
Veneziani facevano assegnamento sulla rivalità dei nemici per
sostenersi: non così però che nel primo impeto della guerra, concorrendo
da ogni parte tanta gente contro di loro soli, non perdessero a un
tratto quasi tutto lo stato di terraferma.

Io non seguirò l'esercito di Francia alla battaglia della Ghiaradadda,
nè le schiere imperiali dentro Padova, nè le bande roveresche intorno a
Ravenna; perchè non devo torcere lo sguardo dai navigli e dalle acque
dell'Adriatico e del Tirreno, dove in quest'anno occorrono due fatti
assai diversi presso al Tevere di Roma, e sul Po di Ferrara. Comincio
dal primo.

[Agosto 1509.]

I Barbareschi tra le nostre discordie e le continue guerre intestine
crescevano d'arte e di ardire; e non trovando contrasto, venivano da
padroni sulle riviere d'Italia. L'anno precedente avevano saccheggiato
la Liguria, menando preda di sostanze e di schiavi da ogni parte,
specialmente dal Diano, grossa terra di quella riviera, dove gli
abitanti collo stormo dei paesi vicini erano a pena riusciti a
sollecitare la ritirata dei nemici, senza poterne ricuperare nè roba nè
persona[78]. In quest'anno i medesimi pirati, come i nomadi dell'Africa
che mutano cogli armenti le pasture dopo aver consumato le erbe dei
prati, finchè non siano ricresciute, facevano accolta di rapina sulle
maremme di Toscana e di Roma, avventurandosi sino alla foce del Tevere
presso Ostia. Erano colà alla guardia due galèe del Biassa, tutte
fiacche e dimesse per aver mandato le migliori fanterie al campo di
Ravenna, e però esposte a perdita quasi necessaria. Non mi richiedete il
numero dei nemici, nè l'arte del mostrarsi in pochi, nè gli agguati dei
molti, nè il combattimento dei sorpresi: i contemporanei non toccano i
particolari di questo fatto; ed io vorrei ignorarlo, e presso che non
dissi cancellare ogni memoria delle due galere. Vi basti questo: una
fuggita, e l'altra presa[79].

Così i Romani impararono a calcare le vie di Algeri rasati, scalzi, e
incatenati: così i pirati, che avevano già raccolto nell'Africa le
bandiere delle altre nazioni, e dei monarchi maggiori della cristianità,
poterono ridurre a compimento l'araldica collezione degli stemmi,
aggiugnendo a suo luogo anche la bandiera papale. Dove mi bisogna notare
che, sopra cencinquanta e più legni nemici in questi sessant'anni della
guerra piratica presi dai nostri marini e dalla loro brigata, ne abbiamo
perduti solamente sei. La galèa del Biassa nel mare di Ostia, la
capitana del Vettori l'anno diciotto nel canal di Piombino, la sensile
del Divizi il trentotto alla Prèvesa, e la generalizia colle due
conserve dell'Orsino il sessanta alle Gerbe. Della prima e dell'ultime
due, mai più novella: in somma tre perdute per sempre, e tre ricuperate.
Quella del Vettori dopo un anno rimenata a Civitavecchia da Andrea
Doria, quella del Divizi ripresa alla Capraja da Gentil Virginio dopo
tre anni, e la generalizia dell'Orsini riconquistata dopo undici anni
per mano di Ruggero degli Oddi alla battaglia di Lepanto.

NOTE:

[78] PETRUS BIZARUS, _Historia genuensis_, in-fol. Anversa, 1579, p.
425: «_Anno 1508 aliqui turcici myoparones sinum Lugusticum mirifice
inquietarunt, et descensione in continentem facta, justa Dianum oppidum,
duobus mille pass. a mari distans, haud pænitendam prædam abegerant....
Sed indigenarum viribus, male mulctatis hostibus, ut reprimerentur
factum fuit._»

RAYNALDUS, an. 1508, n. 27.

[79] SENAREGA, _De rebus genuens._ S. R. I., XXIV, 600: «_Anno 1509
Mauri hac æstate admixti Turcis littus Romanum et mare Tuscum
infestarunt: duæque biremes maurorum unam Pontificis triremem cæperunt,
altera in fugam versa._»

BIZARUS cit., 426: «_Non procul ab Ostia iidem Piratæ alteram triremem
pontificiam facili negotio intercepere.... alteram vero in fugam
conjecerunt._»

GIUSTINIANI cit., 265, F.: «_Mori e Turchi rovinarono in quest'anno 1509
la navigazione et in spiaggia romana pigliarono una delle due galere
dalla guardia del Papa, l'altra se ne fuggitte._»

RAYNALDUS, Anno 1508, n. 27 (per errore di anticipazione come avverte il
Manzi): «_Id in anni sequentis æstatem 1509 referendum esse:_»



[21 dicembre 1509.]

VI. — Intanto i Veneziani, da ogni parte compressi, sdrucivano con tutto
l'impeto della indignazione contro il duca di Ferrara: nemico più
vicino, debole, ed odioso[80]. Avendogli già preso ed arso Comacchio,
divisavano percuoterlo della stessa o peggior rovina dentro Ferrara, col
concorso dell'esercito dalla parte di terra, e dell'armata di galere, di
navi e di barche pel Po. E quantunque alcuni senatori volessero
dissuadere la intramessa dei navigli nelle acque interne; e tra gli
altri si dichiarasse contrario il capitano Angelo Trevisani, dicendo che
per le molte fortificazioni piantate dal Duca sulle ripe del fiume, e
per la magrezza delle acque non si poteva rimontarlo tanto addentro
senza grave pericolo; nondimeno prevalendo negli altri l'opinione della
propria possanza navale, e non avendo altrove come impiegarla, il Senato
ordinò allo stesso Trevisano di eseguire gli ordini, e di assalire gli
stati del Duca pel fiume con diciotto galere, sei navette, ed altri
legni minori.

Il Trevisano venne nel Po per la bocca delle Fornaci; ed abbruciata
Còrbola, predando il paese intorno, salì il fiume infino al Lagoscuro; e
mandò oltre un grosso corpo di cavalleggieri, che per terra lo
accompagnavano, a scorrere le campagne sulla riva sinistra
dall'Occhiobello al Ficheruolo. Esso coll'armata, non potendo passare
avanti, si fermò in mezzo al fiume dietro l'isoletta di qua della
Polesella; luogo distante undici miglia da Ferrara, e molto acconcio a
travagliarla; dove voleva aspettare l'esercito di terra che
prosperamente procedeva da quella parte, ricuperata Montagnana, e quasi
tutto il Polesine di Rovigo. Intanto allestiva il bisognevole ai
vegnenti: gittava un ponte di barche per assicurare il passo ai fanti e
ai cavalli, e con grandissima prestezza muniva le teste del ponte
medesimo con due ridotti molto forti sulle opposte ripe del Po.

Erasi il Duca adoperato inutilmente ad impedire la costruzione e
l'afforzamento del ponte: e di ciò esso, e i capitani suoi, e i Romani e
i Francesi venutigli di soccorso, stavano in gran pensiero; parendo a
ciascuno che la città di Ferrara non fosse in quel modo senza
pericolo[81]. E chi un partito, chi un altro proponendo, finalmente gli
stessi Ferraresi per la perizia loro dei luoghi e del fiume facilmente
ponevano il modo di sgominare l'armata, il ponte, e i ridotti dei
nemici: cose da principio sembrate difficilissime.

Pertanto il ventuno di dicembre il duca Alfonso, e con lui il fratello
Ippolito cardinale da Este, i Trotti, i Mori, i Guidi, i Bagni, gli
Ariosti, i Tassoni, la nobiltà e il popolo ferrarese, e insieme i
capitani di Roma e di Francia, assaltarono a furia il ridotto bastionato
di verso Ferrara. Non che pensassero di poterlo espugnare al primo
attacco, ma solamente volevano costringere i Veneziani a chiudervisi
dentro, ed a lasciare sgombro l'argine circostante del fiume, per
coprire liberamente gli agguati dietro certe risvolte che non potevano
essere dal ridotto nè battute, nè viste. Poi nella notte, forato
l'argine a fior d'acqua in più luoghi, secondo il divisamento del
Cardinale (molto ingegnoso e intendente di queste faccende), distesivi
buoni panconi d'olmo e di rovere, e fatte a dovere le piatteforme e le
troniere, vi condussero celatamente le migliori artiglierie della
munizione ducale, che n'avea di bellissime, gittate da' più eccellenti
fonditori di quel tempo, massime dagli Alberghetti[82]; e stettervi
quieti apparecchiandosi alla fazione della dimane.

NOTE:

[80] ANDREAS MOCENIGUS, _Bellum cameracense_, in-12. Venezia, 1525, p.
44: «_Dux Ferrariæ rhodiginum Pollesinem cœperat, et amplius terra
marique infestus erat._»

[81] MOCENIGUS cit., 46: «_Interea Ferrarienses, aucti gallicis
pontificiisque auxiliaribus... castellum summa ope oppugnare aggressi
sunt._»



[22 dicembre 1509.]

VII. — Il giorno del ventidue, per tempissimo, stavano le genti e le
batterie dagli alleati, sopra e sotto all'armata nemica, coperti dagli
argini, coi pezzi studiosamente livellati, e le munizioni pronte: nè i
Veneziani sospettavano punto di quanto nella notte si era apparecchiato
contro di loro, quando a un cenno del Duca, smascherate le trombe delle
cannoniere, si aprì il fuoco. Piombò l'attacco tanto improvviso, e con
tal vigore crebbe via via, che (quantunque i Veneziani subitamente
riscossi non cessassero di rispondere) in men d'un'ora l'armata nemica
fu rotta. Alcuni legni in fiamme, altri in fondo, il Trevisano sur un
palischermo in fuga, la capitana tutta forata in deriva e indi a tre
miglia sommersa; il presidio dei ridotti in precipitosa ritirata, il
ponte distrutto; quindici galèe, tre navi grosse, e molte minori
sottomesse; duemila morti, tremila prigioni: perdita di soli quaranta
collegati[83].

Così terminossi in una giornata d'inverno la guerra di Ferrara per
battaglia anfibia in terra e in acqua, fluviale e marina; donde Giulio
seppe cavare gran frutto a beneficio degli stessi Veneziani, e riuscì
finalmente a diffinire la intricata e strana questione della libertà del
mare. Per questo mi sono fermato sul Po, e mi ci trattengo ancora infino
a compiuto racconto, spettatore del marzial trionfo dei Ferraresi e del
Duca. Di che Lodovico Ariosto, quantunque assente in quel giorno
correndo per le poste ambasciatore straordinario del Duca a chiedere i
soccorsi di Roma, ci ha lasciato ricordo nel classico poema, dove canta
le glorie della sua patria innanzi all'istesso sovrano, cui dirige il
discorso[84]. Procedevano a remo sul fiume otto galèe, prescelte tra le
meno guaste, colle armi in mostra, e le bandiere nemiche in forma di
trofeo: seguivano appresso i barconi del ponte disfatto, tutti pieni di
prigionieri disarmati, e attorno fuste e brigantini di guardia colle
milizie vittoriose. Il duca Alfonso vestito di tutt'arme, e sopravi lo
strascico della clamide sovrana, sfoggiava dalla poppa della galèa dei
Marcelli; e il cardinale Ippolito modestamente sopra una barchetta
ordinaria, senza intromettersi negli onori della vittoria, dimostrava
coi fatti di cederla tutta al fratello. Le trombe squillavano marziali
armonie, e l'artiglieria rinforzava il concerto della pubblica esultanza
vivamente espressa dalle altissime acclamazioni dei popoli accalcati
sulle due ripe, o concorrenti appresso ai vincitori sopra burchi, scafe,
gondole, battelli, lancioni, caicchi, sandali, schifi, in somma sopra
palischermi d'ogni maniera.

Ritorno volontieri alla voce Palischermo, perchè mi credo onorato di
parlare e di scrivere la lingua di Dante e di Colombo, anzichè accattare
stranezze dalla Senna e dall'Ebro. I documenti del secolo decimoterzo, i
classici, i giurisperiti, i viaggiatori, l'Ariosto, il Pulci, il Botta,
il Carena, tutti ripetono Palischermo: tanto che se v'ha nella lingua
d'Italia tecnico vocabolo di marineria da ogni uomo ricevuto, gli è
proprio desso. Bel termine e vivo nella nostra lingua soltanto; la quale
ci conserva, specialmente nelle cose del mare, le originali tradizioni
dei Pelasghi. Secondo le radici arcaiche esprime la pluralità degli
scalmi (πολύς σχαλμός); e secondo le italiche esprime pala e
scalmo, cioè remo e caviglia. In somma risponde al supremo concetto di
genere universale, tanto necessario nel discorso ordinato e diffinitivo:
e comprende con una sola voce ogni maniera di piccoli legni assegnati
principalmente a camminare coi remi, e a non dilungarsi troppo dal lido
o dai navili grandi, pel servigio dei quali sono fatti e condotti. Sotto
questo supremo genere entrano i subalterni, come dire palischermi
marini, lacustri, e fluviali; e le diverse specie da caccia, da pesca,
da lavori idraulici; e le diverse qualità di lusso, di salvamento, di
milizia, con tutti i loro nomi particolari e distinti, come altrove ho
notato, perchè si vegga la ricchezza e proprietà della marinaresca
nomenclatura italiana, onde siam francati dalla miseria e dalla vergogna
di accattare altrove[85]. Mi hanno risposto dicendo, che oggidì i
marinari non costumano più la voce Palischermo; e in vece usano dire
_Imbarcazione_. Grammercè di tali novelle, Signore, chiunque tu sii
ostinato a stravolgere le voci con manifesto neologismo, e servile
imitazione straniera, in senso non mai conosciuto dai nostri scrittori
accreditati. Fa senno, vieni alla prova, rimetti in onore i termini
nostrani; e presto presto vedrai i marinari averli più cari e ripeterli
meglio che non le stranezze puntellate dall'abuso. Tutti sanno
facilmente acconciarsi al bene, anche nel parlare: e gli stessi marinari
ne forniscono luminosa prova, dismessa alla buon'ora tutta una congerie
di vociacce, come tutti sappiamo. Essi han lasciato in specie il barbaro
_Canotto_; tu in genere di' altrettanto della stravolta _Imbarcazione_,
e vivi contento[86].

NOTE:

[82] Cap. ANGELO ANGELUCCI, _Documenti inediti per servire alla storia
delle armi da fuoco italiane_, in-8. Torino, 1869, p. 278.

[83] CŒLIUS CALCAGNINUS, _Comment. de venetæ classis expugnatione_,
in-fol. Basilea, 1544, p. 484.

BELCAIRUS, _Comment._, lib. XI, in-fol. Lione, 1625, p. 332.

BEMBUS cit., lib. IX, prop. fin.

GUICCIARDINI cit., lib. VIII.

PAOLO GIOVIO, _Vita di Alfonso da Este_, in-12. Venezia, 1597, p. 25.

[84] LODOVICO ARIOSTO, _Orlando furioso_, XL, 2:

    «_Ebbe lungo spettacolo il fedele_
      _Vostro popol la notte e il dì che stette,_
      _Come in teatro, le inimiche vele_
      _Mirando in Po tra ferro e fuoco astrette:_
      _Che gridi udir si possono e querele,_
      _Ch'onde veder di umano sangue infette,_
      _Per quanti modi in tal pugna si mora_
      _Vedeste, e a molti dimostraste allora._

    «_Nol vidi io già, ch'ero sei giorni innanti,_
      _Mutando ogni ora altre vetture, corso_
      _Con molta fretta e molta ai piedi santi_
      _Del gran Pastore a domandar soccorso._
      _Poi nè cavalli bisognâr nè fanti,_
      _Ch'in tanto al leon d'or l'artiglio e il morso_
      _Fu da voi rotto, sì che più molesto_
      _Non l'ho sentito da quel giorno a questo._

    «_Ma Alfonsin Trotti, il qual si trovò al fatto,_
      _Annibale e Pier Moro, e Ascanio, e Alberto,_
      _E tre Arïosti, e il Bagno, e il Zerbinatto,_
      _Tanto me ne contâr ch'io ne fui certo._
      _Me ne chiarîr poi le bandiere affatto,_
      _Vistone al tempio in gran numero offerto;_
      _E quindici galèe che a queste rive_
      _Con mille legni star vidi captive._»

[85] P.A.G., _Medio èvo_, II, 347.



[20 febbrajo 1510.]

VIII. — Per la giornata di Ferrara (nella quale di poco o di nulla
s'intromise) crebbe tanto la riputazione di Giulio, che i Veneziani
deliberarono volersi a ogni patto e subito pacificare con lui. Egli
altresì da sua parte, chè in fondo non amava l'intramessa degli
stranieri nelle cose d'Italia, e non voleva il totale abbassamento di
quei Signori, volentieri dètte orecchio alle proposte; le quali
immantinente tennero occupati i negoziatori dell'una e dell'altra parte:
tanto che un mese dopo la battaglia tutto era fatto. Il Pontefice
riceveva nella sua grazia i Veneziani, questi restituivano le città di
Romagna, e insieme pubblicavano i capitoli della loro concordia. Ne'
quali capitoli Giulio, tenendo conto di ciò che doveva aver promesso
agli Anconitani, cavava fuori solenne dichiarazione, sommamente
importante alla storia marinaresca, onde a gran trionfo della giustizia,
anche per mutuo consenso delle parti, finalmente era riconosciuta la
libertà del mare. Questo accordo, come troncò il corso a tante miserie e
a tante guerre, così sia di compimento al largo discorso che ne ho fatto
nella mia storia del Medio èvo; e venga qui volgarizzato alla lettera,
dall'originale latino. Nojoso documento nella forma, nel contesto e
nelle continue minutissime riprese, impugnazioni e riserve: dalle quali
tuttavia ciascuno può meglio comprendere le cavillazioni con che tale
libertà era impugnata a discapito pubblico, specialmente delle città
marittime della Marca e della Romagna. Eccone il tenore[87]:

«Capitolo decimo. Similmente gli Oratori veneti a nome del Doge e del
Senato, come sopra, hanno promesso e si sono obbligati per tutto il
tempo futuro in perpetuo di non impedire mai più nè frastornare
direttamente o indirettamente, sotto qualunque pretesto o ragione, i
sudditi tutti e singoli immediatamente soggetti della santa romana
Chiesa, o vero delle città, castella, terre e luoghi di ogni
denominazione della stessa romana Chiesa, insieme coi loro cittadini,
abitatori, e popoli: similmente dicono di non impedire i sudditi
mediatamente soggetti alla medesima Chiesa che tengono città, castella e
luoghi d'ogni maniera in feudo o in vicariato, insieme coi loro
vassalli, cittadini, contadini, abitatori e popoli delle già dette
città, terre, castelli e luoghi, tanto della Marca d'Ancona, che della
Romagna, compresa eziandio la città di Ferrara col suo territorio e
distretto, così che le persone di tutti i predetti luoghi, e i navigli
d'ogni maniera, e le merci d'ogni specie possano navigare liberamente,
speditamente, e senza niuna gabella, pedaggio, imposizione, spesa,
estorsione, esigenza, o pagamento; ma in quella vece al tutto franchi
possano andare per acqua in qualsivoglia parte così dell'Adriatico, come
di ogni altro mare, e per le acque dolci. Anzi più gli Oratori veneti,
come sopra, hanno promesso di lasciar sempre a tutti i predetti la
navigazione libera, senza mai mettere impedimento alle persone, alle
merci, alle sostanze in niun modo nè sotto alcun colore o causa, nè
anche sotto il pretesto della guardia e custodia del mare, alla quale
(in quanto si oppone alle predette promesse) hanno specialmente ed
espressamente rinunciato; nè pure sotto pretesto di visitare le merci, o
di rivedere i registri e le scritture in qualunque modo esistenti nei
predetti navigli o presso gli stessi naviganti, ancorchè si allegasse il
sospetto che le merci, le sostanze e ogni altra cosa espressa avanti
potesse appartenere in tutto o in parte ad altre persone che non fossero
soggette al Pontefice romano.»

Tante parole per togliere gli abusi, per troncare le dispute, e per
stabilire il gran teorema della libertà del mare[88]!

NOTE:

[86] ARIOSTO, I cinque canti che seguono il _Furioso_, IV, 18:

    «_Gittar fa in acqua i palischermi; e gente_
      _A salutar lo manda umanamente._»

[87] JULII PP. II, _Capitula et conventiones cum illustri dominio
Venetorum sub die XX februarii_ MDX. in-4. Roma, 1510. — Foglio volante
alla Biblioteca Casanat. Miscell. in-4, volume 216.

JULII PP. II, _Capitula et conventiones in tractatu inscripto. Copia
capitulorum factorum de anno MDX inter S. D. N. Julium secundum et
Dominium Venetorum._ — Mss. Casanat., X, IV, 47, p. 160.

RAYNALDUS, _Ann._, 1510, n. 2 et segg.

SENAREGA, S. R. I., XXIV, 601, e.

BELCAIRUS cit., 329.

GUICCIARDINI cit., 567.



[Maggio 1510.]

IX. — In quella che papa Giulio si pacificava coi Veneziani, rompevasi
coi Francesi e co' Tedeschi; non essendosi costoro collegati con lui,
come ho detto, se non per togliere alla Repubblica ogni possedimento di
terraferma, e per allargare ciascuno le sue fimbrie in Italia: quindi nè
gli uni nè gli altri potevano adesso patire di vedere in qualche modo
assicurato il dominio veneto all'ombra e sotto la protezione della
possanza papale. I quali umori, ingrossati da altre non meno torbide
sorgenti, quest'anno medesimo ruppero in aperte ostilità, volsero a
rovescio lo scacchiero, e presto furono veduti gli alleati di Giulio
pigliare l'armi contro di lui.

In questo secondo periodo della guerra si rialzò la fortuna di Venezia:
i popoli di terraferma, stanchi dell'insolenza straniera, richiamarono
san Marco; e le milizie papali, condotte dal celebre Francesco Maria
della Rovere duca d'Urbino e nipote di Giulio, insieme con Marcantonio
Colonna, antenato del Trionfatore, congiuntesi alle milizie veneziane
capitanate dal notissimo Lorenzo Orsini, detto comunemente dai soldati,
per ragione del feudo, Renzo da Ceri, affrontarono le schiere di Francia
guidate da Carlo d'Amboisa e da Giangiacopo Trivulzio. I Papalini
espugnarono per ingegno di Bramante la Mirandola, i Veneziani toccarono
sul Po qualche altro rovescio, e più cose notevoli successero, secondo
la grandezza dei prodi capitani che ho qui avanti nominati. Ma tutto
questo, come negozio dal mio divisamento troppo lontano, metto da parte;
dovendomi rivolgere al mare insieme coll'armata verso Genova.

Era la città di Genova da lungo tempo in gran turbamento per civili
discordie, ora commosse dai popolani contro i nobili, ora dagli stessi
nobili tra loro divisi; i quali tutti per sostenersi gli uni contro gli
altri avean perduto insieme la libertà, chiamando padroni di fuori.
Prima si eran posti all'obbedienza del duca di Milano, poi del re di
Francia: ed avendo Lodovico XII per questi tempi in dominio anche il
maggior ducato di Lombardia, si trovavano i Genovesi aggiogati insieme
all'istesso carro di Parigi e di Milano. Ora sembrando dalla parte di
terra troppo ristrette le ostilità contro i Francesi, Giulio papa ligure
divisò portar loro la guerra anche sul mare; non solo per diversione, ma
più colla speranza di prosciogliere la sua patria dal giogo straniero.
Laonde spinse dalla Macra alla Spezia Marcantonio Colonna con grosso
nervo di fanti e di cavalli; e chiamò da Varese un corpo di quasi
diecimila Svizzeri, perchè urtando alle spalle i Francesi dalla parte di
Milano, corressero difilati a congiungersi al Colonna sotto Genova.

NOTE:

[88] P. A. G., _La marina del medio èvo_. Le Monnier, 1871, I, 446, 451,
453, 458, 462, 463; II, 398.



[Luglio 1510.]

X. — Principalissimo fondamento per ottenere il fine aveva ad essere
l'armata navale dal capitan da Biassa allestita nel porto di
Civitavecchia, intorno alla quale si raccoglievano le migliori milizie
di Roma, e quasi tutti i fuorusciti genovesi con Ottaviano e Giano
Fregosi, con Girolamo e Niccolò Doria, ed altrettali uomini di quella
potenza e seguito che tutti sanno. Costoro montavano tutti insieme sopra
le sei galèe di papa Giulio; e appresso ne traevano undici di Venezia
sotto il governo di Girolamo Contarini, sopracchiamato il Grillo[89].
Qui adesso mi si offrono diversi successi, e belli esempi di tattica
navale, tutti del caso nostro, che narrerò con quei particolari che ci
han conservato le scritture dei contemporanei.

Il Biassa a prima giunta occupò Chiavari, Rapallo, e Sestri che sono le
migliori città e terre della Liguria orientale; poi condusse l'armata
innanzi al porto di Genova, promettendosi che i partigiani di dentro
farebbero rumore, secondo la consueta lusinga dei fuorusciti. Ma in
quella vece cupo silenzio nell'interno della città, e gente desta alle
difese e alle batterie intorno alle mura era a vedere; perchè al primo
annunzio degli armamenti di Civitavecchia, i Francesi ed i loro
partigiani (come poi si seppe) avevano introdotte molte milizie, ed
altre continuamente ne chiamavano di Lombardia, e gran gente dalla
riviera occidentale. Oltracciò era entrato nel porto Piergianni,
cavalier di Rodi e capitano del re con sei galèe, e sei di quelle grosse
navi che, per lo più usate nel traffico, prima dai Genovesi, poi dagli
Spagnoli e Portoghesi, chiamavansi Caracche[90]. La voce deriva dal
Càrabo dei Pelasghi: e rimenata dai nostri cronisti antichi, trapassa
nel diminutivo a Caravella[91]. Con questi presidî, imbrigliata la città
contro ogni movimento interno, non restava agli assalitori altro partito
se non bloccarla dalla parte del mare ed affamarla: chè essendo in luogo
sterile, e difficile a ricevere altronde che dal mare le vittuaglie,
contavano trenta giorni di blocco per costringere la piazza alla resa.

Perciò il Biassa, praticissimo di quella riviera, persuase al Grillo di
mettersi seco alla guardia presso il porto dal lato orientale in un
senetto, chiamato allora la Fossa di Villamarina, dove era buon
sorgitore, riparato dalle tempeste e dai nemici per un lungo ed ampio
scanno di bassi quasi a fior d'acqua, innanzi al quale dovevano
necessariamente frangere le onde, e dovevano arrestarsi i navigli
vegnenti dal largo. Dunque le sei galèe di Roma e le undici di Venezia
entrarono in quella insenata dalla banda di levante, dieron fondo,
posero le vedette sui monti, e si tennero presti a uscir fuori per
ghermire qualunque naviglio si fosse voluto avvicinare al porto. Questa
stallìa non saprei dire con qual nome sia oggidì espressa dai Genovesi;
nè posso dalla mia memoria, nè dalle relazioni degli amici dedurre la
permanenza del seno e del banco[92]: ma rispetto al fatto che narro non
è possibile nè a me ne ad altri il dubitare, perchè espressamente
descritto da quel gran capitano e sommo tattico del suo tempo, nipote di
papa Giulio, che aveva mano in queste faccende e ne sapeva tutto il filo
e tutti i punti; dico di Francesco Maria della Rovere duca d'Urbino, dal
quale ricavo le qualità e i nomi dei luoghi, come stavano allora[93].

NOTE:

[89] BIZARUS cit., lib. XVIII, p. 428.

BEMBUS cit., lib. X, p. 376.

GUICCIARDINI cit., lib. IX, p. 590.

BELCAIRUS cit., lib. XII, p. 343.

[90] ARIOSTO, _Orlando furioso_, XVIII, 35:

    «_E quivi una Caracca ritrovâro,_
      _Che per Ponente mercanzie raguna:_
      _Per loro e pe' cavalli s'accordâro_
      _Con un vecchio padron ch'era da Luna._»

[91] CAFFARO, _La Cronichetta di Gerusalemme_, p. 37 e più volte negli
_Annali_, ediz. del Pertz; ed indice del medesimo che scrive talvolta
_Gorabus_. — Noto il passaggio della _Bi_ in _Vu_.

ISIDORUS, XIX, i, fin. citato dal FORCELLINO; _Carabus_, _i_, m. e i
Greci Κάραβος, ου, ό: «_Navigii genus._»

BARTOLOMMEO CRESCENTIO, _La nautica mediterranea_, in-4. Roma, 1602, p.
526: «_I Greci di oggi chiamano alla nave Caravi._» Dunque dal Pelasgo,
comune ai Greci e ai Latini, _Carabo_; indi _Caracca_, e il diminutivo
_Caravella_, senza bisogno di aspettare col chiarissimo AMARI gli Arabi
in Sicilia, I, 302, che singhiozzando ci dicano _Karra-ka_ per nave
incendiaria, fuor di proposito.

BOSIO cit., III, 7, 22, 25, 88, 99, 108. Parla della nuova e della
vecchia Caracca di Rodi, la prima delle quali costruita a Nizza.

[92] CARTA di Genova e suoi contorni. Superba incisione in-fol. massimo
alla Bibl. Casanat. Q. I, 4, in CC. (Niuno indizio di questa posizione).

CARTA idrografica della Liguria per gli ufficiali e piloti della marina
sotto la direzione del viceammiraglio cav. Giuseppe Albini. Incisa nello
stabilimento di Niccolò Armanno, gran fol. Genova, 1854. — (Mette un
seno dietro lo scoglio della Campana, ma non al caso nostro, perchè
troppo vicino e soggetto alla piazza, e di poco o niun fondo. I Genovesi
da me interrogati non conoscono questo seno, nè il nome di Villamarina.)

[93] FRANCESCO MARIA DELLA ROVERE, _Discorsi militari_, in-12. Ferrara,
1583, p. 30: «_Come fece Piergianni francese poco lontano da Genova
verso levante ad un luogo chiamato la Fossa di Villamarino con misier
Hieronimo Contarino detto Grillo, il quale haveva diciassette galèe,
undici venetiane et sei di Papa Giulio, il quale era stato in spiaggia
aperta, con uno scagno però dinanzi coperto d acqua che lo faceva sicuro
dalle barze, et voleva assediar Genova._»



XI. — Se non che il capitano Piergianni coi Genovesi del suo partito,
non volendo perdere la città, nè lasciarsi bloccare, uscì fuori alla
testa delle sei galèe e delle sei caracche, risoluto di sloggiare il
Biassa dalla formidabile posizione e levare sè stesso di angustia. E
sapendo egli pure dello scanno e degli ostacoli al suo procedimento,
tenne questo modo. Innanzi alle caracche pose le galèe per rimburchio, e
innanzi alle galèe mandò le sei barche maggiori per attacco; ciascuna
barca con un pezzo da trenta sulla prua: caracche, galèe, e barche a sei
righe, in tre file, tutte legate tra loro con lunghissimi gherlini
intugliati, tanto che ogni legno potesse condurre, ed essere a un
bisogno condotto dagli altri[94]. Ciò fatto Liguri e Francesi sulle
barche con buon remeggio e il piombino alla mano, si accostarono fin
quasi sullo scanno, e aprirono il fuoco co' sei pezzi da trenta contro
il gruppo delle galèe ormeggiate, facendo loro gran danno, specialmente
nei posticci e nel palamento.

Non mica che il Grillo e il Biassa e quegli altri caporioni stessero
colle mani alla cintola, che anzi rispondevano a cannonate furiosamente.
Ma presto si avvidero che per essere le barche piccoli legni, e sempre
in moto sul mare, difficilmente si poteva offenderli. Provaronsi allora
ad uscir fuori per fianco: ma le caracche a cavaliere sul callone
dell'acqua piena, tempestando con lunghe colubrine e con doppi cannoni
da cento libbre di palla, vittoriosamente difendevano le barche: nè a
petto di quella grossa artiglieria potevano contrastare le galere nostre
uscendo ad una ad una coi corsieri comuni da cinquanta[95]. In somma il
Grillo e il Biassa dovettero filare costa costa per tirarsi fuori dal
pozzo; e dovettero tornare indietro senza conchiudere nulla, anzi
afflitti da molti danni. Il capitano di Francia assai rispettosamente
seguilli alla coda. Toccaron gli uni e gli altri all'Elba: il Biassa a
Lungone, Piergianni al Ferrajo. Poi dalla punta diforana dell'Argentaro
questi rese il bordo verso Genova, e gli altri continuando la bordata
ripararono nel porto di Civitavecchia[96].

Quando udirai contar maraviglie dell'arte moderna, mettiti in guardia: e
senza misconoscere i miglioramenti che a grado a grado si svolgono,
ripensa al passato, cercane le notizie, e troverai sempre più che
comunemente non pensano i prosuntuosi del tempo presente. Le Piramidi,
il Colossèo, il Partenone, il Panteon non si fanno più; e le opere
d'arte degli Etruschi e dei Greci si studiano ancora. Ma senza andar
tanto lungi, eccoti nel principio del cinquecento dalla parte di
Piergianni e de' Genovesi tali palischermi che efficacemente entravano
in lizza con pezzi da trenta, cioè di quell'istesso calibro, del quale
si compone l'armamento ordinario nelle batterie dei vascelli a tre ponti
che ancora restano negli arsenali d'Inghilterra e di Francia. Pensa
altresì la grandezza e forza delle caracche che issavano a bordo que'
cotali palischermi, e metteanli in coverta presso a cannoni doppi da
cento libbre di palla in ferro, di che dirò a parte qui appresso.
Intanto vedi artifizio nella distribuzione delle forze sopra tre linee,
secondo la pescagione dei legni, per accostarli sicuramente al
bersaglio; e vedi teoria di convergenza e di unione per mezzo di quei
cánapi che tenevano diciotto navigli di specie diversa in un sol corpo
atto a offendere alla testa e alla coda; ed a resistere compatto da sè;
e a portar soccorso in ogni membro quantunque lontano, secondo gli
eventi. Vedi pur quei gherlini distesi tra le file a grande distanza, i
quali impedivano ancora al nemico l'entrar di mezzo e il tagliar fuori
una partita dall'altra: sistema di legami che in alcuna circostanza
potrebbe tornare con molto vantaggio anche adesso.

Dalla parte del Grillo e del Biassa possiamo notare la scelta di
eccellente posizione pel blocco: vicino alla città, rimpetto alla bocca
del porto, dietro allo scanno, al riparo delle tempeste del mare e degli
insulti dei grossi navigli. Ciò non pertanto tornarono colla peggio, e
ciò per due precipui difetti. Primo, perchè nella insenata falliva loro
il maggiore requisito di stazione militare, ciò è dire lo spazio
sufficiente da uscir fuori in ordine di battaglia. Secondo, perchè
accettarono il combattimento fermi sull'àncora, non curando i vantaggi
che naturalmente secondano l'impeto dell'assalitore, e gli mettono quasi
la metà della vittoria nelle mani. Dovevano uscir subito al largo, e non
fidare troppo nei ripari, e nella inerzia della massa immobile. Chi sta
sciolto e libero può andare dove e quando vuole, e da quella parte e in
quel modo che più gli talenta confondere l'avversario accoccolato e
poltro.

NOTE:

[94] DELLA ROVERE cit., 30, b: «_Le barche haveano una corda che
giungeva fino alle caracche; et quando havevano tirato, quelli delle
caracche tiravano a sè la barca, et havea tempo di cargar il pezzo._»

[95] DELLA ROVERE cit., 30: _«Piergianni andò a trovar Grillo.... et
armò le barze delle caracche, et poseli sopra sei cannoni da trenta
l'uno.... et li cannoni di cinquanta delle galere non tiravano quanto le
colobrine et cannoni da cento delle caracche.»_

[96] BEMBO cit., 394.

MOCENIGO cit., 63.

GIUSTINIANI cit., 266, 267.

SENAREGA, _S. R. I._, XXIV, 602, 605.



XII. — Ora non posso passarmi dei progressi dell'artiglieria, per quel
che ne dice a proposito di questi fatti marinareschi il nostro autore.
Parlando del Biassa, del Grillo e di Piergianni egli distingue cannoni
da trenta, da cinquanta, e da cento; e indica il calibro ragguagliato al
peso della palla di ferro. Dunque non più bombarde o bombardelle,
secondo ciò che ho detto nel Medioèvo. Veniamo al cannone.

In principio il cannone era la parte posteriore della bombarda, dove si
metteva la polvere e il coccone: poscia allungato diveniva artiglieria
compiuta, e manteneva il nome di Pezzo. Se ne facevano dei grandi e dei
piccoli d'ogni maniera, e li chiamavano basilischi, aspidi, dragoni,
sagri, falconi: nomi spaventevoli di uccelli rapaci, di bestie
imaginarie, di mostri favolosi. In somma più che trenta tra specie e
varietà che ricordo qui in ordine di grandezza: basilisco, dragone,
possavolante, serpentino, colubrina, cacciacornacchi, aspido, girifalco,
sagro, pernice, pellicano, sagretto, falcone, falconetto, smeriglio,
ribadocchino, cerbottana, saltamartino: oltracciò le artiglierie di
canna corta; cioè bastardi, rebuffi, crepanti, veratti, aquile, mojane,
cortane, vugleri, tarabusti; e le molte varietà denominate dagli uffici
speciali, onde dicevansi spacciafossi, spazzacampagne, traditori,
trabucchi, redèni, forlini, e più altri nomi che uscivano dall'arbitrio
dei fonditori, e dei capitani, come ne dice per questi tempi
l'Ariosto[97].

Arrogi il composto di ciascuna di queste forme coll'altra; e più le
artiglierie di molte canne unite insieme, che chiamavano organi: pezzi
fusi con due o tre anime, o con più camere giranti attorno a una tromba
sola per moltiplicare i colpi, e si dicevano cannoni composti o
compagni; di che abbiamo i disegni nel Valturio di Rimini, e nelle
cartelle di Leonardo all'Ambrosiana; e abbiamo i campioni nei musei di
Europa. Tra i quali niuno ch'io sappia novera un vecchio cannone da
ventiquattro che ho veduto all'arsenale di Tophanè in Costantinopoli, di
tromba aperta ad entrambe le estremità, e alla culatta una gran ruota
massiccia e girante dietro la tromba, in guisa da presentarle
successivamente dodici incamerature cavate nell'istesso massiccio della
gran ruota, capaci di altrettante cariche, e però di dodici colpi in
punto.

Intanto le arti belle, già risorte, piaceansi adornare di nobili disegni
le terribili bocche da fuoco: fiori, fogliami, festoni, corone, delfini,
figure d'uomini e di animali, stemmi e imprese di squisito lavoro si
spiegano e s'intrecciano sulle maniglie, sulle gioje, sulle fascie, e
sui bottoni de' pezzi; tanto da renderli preziosi anche come monumenti
delle arti del disegno, e degni di stare nei musei allato alle statue e
alle sculture.

Appresso il criterio filosofico si applica, a toglier via la confusione,
i ghiribizzi, e l'arbitrio; e forma ordinatamente sopra norme stabili i
generi e le specie. Primo genere il cannon prototipo, lungo venti bocche
a palla di ferro da libbre cinquanta; e gli si dà l'aggiunto di Cannone
intiero, ordinario, comune: tutti gli altri a un bel circa multipli o
summultipli del primo. Onde cannon doppio da cento, mezzocannone da
ventiquattro, quarto cannone da dodici, ottavo cannone da sei. Neglette
le piccole differenze, come si usa delle frazioni.

Secondo genere i cannoni di canna lunga, che pigliano nome di Colubrine:
e tra queste l'ordinaria o comune di trentadue bocche, traente palla da
libbre trentadue. Indi coi multipli la doppia da sessantaquattro, la
mezza da sedici, la terza da dieci, e la quarta da otto; senza contare
le straordinarie di bocche quaranta, e le bastarde di ventisei.

Terzo genere i cannoni di canna corta, da due a otto bocche, che
pigliano nome di mortaj e di petrieri per scaraventare palle cariche,
carcasse, scaglie, ferracci, e catene.

Le specie subalterne e le varietà traevano dalle forme e condizioni
accessorie, e le esprimevano con aggiunti diversi: onde cannoni
colubrinati o serpentini dicevano i più lunghi di canna al di sopra
delle venti bocche in calibro di misura. Gli altri dicevano bastardi,
sottili, rinforzati, poveri o ricchi di metallo, reali, seguenti,
incamerati, lisci o rigati. Davano altresì aggiunti diversi secondo
l'ufficio: e nomavano cannoni da campo che ora diciamo da campagna;
cannoni da batteria, che ora diciamo da breccia; e cannoni da muro, che
ora diciamo da piazza e costa.

Questo valga per chiarire tutta insieme la nuova nomenclatura che mano
mano ci verrà innanzi nella storia e nei documenti, secondo il metodo
fin qui tenuto. Penso di spiegare da me le ragioni del mio racconto, e
di scusare le altrui postille. Penso a Tito Livio (mi si perdoni
l'altezza del paragone) che se avesse creduti necessarî i discorsi degli
altri sopra le sue _Deche_, egli avrebbe fatti da se i commentarî; e
certamente meglio, rispetto alle sue intenzioni.

NOTE:

[97] LODOVICO ARIOSTO, _Orlando furioso_, XI, 24:

    «_E qual bombarda e qual nomina scoppio,_
      _Qual semplice cannon, qual cannon doppio._
    «_Qual sagro, qual falcon, qual colubrina_
      _Sento nomar, come al suo autor più aggrada,_
      _Che il ferro spezza e i marmi apre e ruina_
      _E ovunqe passa si fa dar la strada._»



[Agosto 1510.]

XIII. — Intanto il capitano di Roma e quel di Venezia, rimenando indietro
Marcantonio Colonna, i due Fregosi, i due Doria e gli altri, venivano in
Roma con lieta faccia accolti da Giulio, il quale volle averli tutti
insieme alla mensa, e farli partecipi de' suoi disegni; dimostrando loro
come senza perdersi d'animo fermato aveva di ripigliar subito subito e
con maggior gagliardìa quella impresa medesima. Imperocchè niente
avvilito, anzi più ardente e sdegnoso per la repulsa, armava anche esso
in Civitavecchia cinque caracche e una galeazza da contrapporre alle
nemiche di alto bordo; e faceva racconciare le galèe, e scriveva soldati
per opera di Francesco Ghiberti, allora chierico di Camera e commissario
dell'armata. In somma a mezzo agosto chiamò tutti alla mostra sulla foce
del Tevere, dove esso stesso montato sul suo bucintoro volle
personalmente rassegnar le caracche ad una ad una, e poi la galeazza, e
appresso nove galere del Biassa, e diciassette di Venezia. Indi per
dimostrazione di contentezza fece distribuire alle genti in donativo
straordinario sedici botti di vino, trentadue buoi, settantaquattro
montoni, e pan fresco in buon dato. Finalmente imbarcatosi sulla
capitana del Biassa al centro di tutto lo squadrone romano e veneziano,
colle navi grosse appresso, navigò sino all'altura di Civitavecchia[98].
Di là licenziò l'armata con molti augurii all'impresa di Genova, verso
la quale al tempo stesso scendevano dall'Appennino le fanterie del
Sassatelli, spintevi in fretta da Bologna: ed esso, venuto in terra,
montava a cavallo dirigendosi verso Viterbo, ed oltre per Bologna e pel
campo, dove si combatteva ugualmente contro i Francesi, e si preparava
l'espugnazione della Mirandola[99].

[Sett. 1510.]

Altresì i ministri di Francia, consapevoli dei movimenti che da terra
che da mare facevano i Papalini e i Veneziani, non lasciavano cosa
alcuna opportuna alla difesa per mare e per terra. E già Piergianni
colle sue caracche e colle galèe de' Genovesi era uscito al confine
incontro ai vegnenti, aspettandoli nelle acque di Portovenere. Le due
armate si incontrarono sotto vela con venti maneggevoli, e presero
subito a combattere da lungi con grande strepito di cannonate: ma sempre
da lungi, perchè si temevano a vicenda, nè l'uno ardiva investire
l'altro. Anzi il Biassa e il Grillo avevano fermo di non avventurarsi a
battaglia di esito incerto, per non perdere il frutto che speravano più
facilmente conseguire dalle pratiche dentro alla città. Perciò
continuarono la rotta sempre innanzi, e sempre sparando dalla destra
contro Piergianni che seguiva costeggiando verso terra, e continuamente
rispondeva dalla banda sinistra, tanto, che giunsero insieme alla vista
di Genova. Colà il Biassa principalmente voleva dimostrare la costanza
nella impresa, e far sentire a quel popolo lo strepito delle
artiglierie, e riscuoterlo, e dargli a vedere qualche tratto di bravura.
A un suo cenno Giano Fregosi, il più caldo dei fuorusciti, con una
saettìa di gran remeggio e piena di gente scorse due volte innanzi alla
città, fecesi sempre più presso al porto, e col suo ardire costrinse i
nemici a crescergli la fiducia di entrarvi dentro. E in sul fatto
cacciovvisi di mezzo, correndo lunghesso il molo e tentando a gran voce
gli animi dei Genovesi; finchè preso di mira dai castelli tra un nembo
di fuoco e di ferro, assicurato nondimeno dalla velocità del suo legno,
potè ritirarsi senza danno. Allora soltanto il Biassa virò di bordo, e
volse verso Civitavecchia senza che il nemico osasse più
molestarlo[100].

[Ottobre 1510.]

Piegando oramai la stagione al verno, i Veneziani presero congedo, e ne
andarono afflitti dalle tempeste per l'Adriatico, dopo perdute cinque
galèe nello stretto di Messina. Ma Giulio e il Biassa restarono tanto
minacciosi, e dieron sì lungamente da fare ai Francesi, e tanta parte
del loro fuoco posero in petto ai partigiani, che finalmente ai venti di
giugno del 1512 i Genovesi levato il rumore, e cacciato il presidio
straniero, ripigliarono le forme consuete del loro governo, e chiamarono
Giano Fregosi doge della patria.

NOTE:

[98] FOLIETTA cit., ap. BURMANN, I, 1, 707.

BIZARUS cit, lib. XVIII, 427, 430.

BELCAIRUS cit., lib. XII, 343.

GUICCIARDINI cit., lib. IX, 598.

P. A. G., _Medio èvo_, II, 467.

[99] PARIS DE GRASSIS cit.: _«Die XVIII octobris in festa s. Lucæ, MDX.
Ad meas sacras cæremonias numquam pertinere videtur bellorum hostilium
apparatus.... verum affectus patriæ.... me cogit ut aliquid de iis
tantum quæ ad rem Pontificis faciunt dicam.... Die prima mensis
septembris SSmus D. N. cum apud Faliscos ageret, ex causis novis animum
ejus moventibus.... Statuit versus Bononiam proficisci, et eadem die
incœpit iter suum.... Die jovis nona januarii MDXI SSmus ex Bononia
recessit profecturus ad exercitum militiæ suæ,intellecturus causam
quare.... non procederent contra Gallos, et ad expugnationem Mirandulæ
et Ferrariæ.... et licet ab omnibus et universis tam Patribus et
Prælatis de Curia, quam etiam Bononiensibus, profectio ipsa
damnaretur.... Tamen ipse, omnibus prædictis non obstantibus.... statuit
proficisci.»_



[15 settembre 1511.]

XIV. — Ora ripigliando l'argomento principale e la difesa della spiaggia
romana contro i pirati, passiamo a considerare i fatti di papa Giulio
anche intorno a questa necessità sempre crescente nel suo tempo. Tutto
inteso a mantenere l'alleanza dei Veneziani, e la fiducia dei Genovesi,
non licenziò le galèe già costruite in Ancona, nè le altre trovate in
Civitavecchia; anzi aggiunsevi più due galèe e due brigantini in
isquadra specialmente deputata alla guardia del Tirreno con certi
capitoli che gli rendevano facile la duplicazione del numero e lieve la
spesa. I quattro legni dovevano formare squadra permanente in arme per
la guardia delle marine, senza escludere i legni maggiori, tenuti di
riserva al bisogno straordinario, come si usa anche adesso. Pei meriti
del capitan Baldassarre chiamò a questo speciale servigio Giovanni suo
figlio, il quale, tuttochè giovane, godeva riputazione di esperto e
valoroso marino. Il tenore delle convenzioni risulta dall'istrumento
della condotta, che ora pubblico nel nostro volgare col testo originale
a fronte, come fo sempre che mi si offrono documenti importanti ed
inediti[101].

«Capitoli del Capitano delle galèe. In nome di Dio, così sia. — Anno
mille cinquecento undici, indizione decimaquarta, giorno quindici di
settembre, e del pontificato del santissimo in Cristo padre e signor
nostro Giulio per divina provvidenza papa secondo, anno ottavo. A tutti
sia manifesto e palese pel presente istrumento pubblico che
gl'infrascritti sono patti, convenzioni e capitoli, fatti, fermati,
contratti e stabiliti, tra il reverendo padre e signore Lorenzo Fieschi,
vescovo Ascolano, vicecamerlengo, nella reverenda Camera apostolica
luogotenente del reverendissimo signor cardinale di san Giorgio,
Raffaele vescovo Ostiense, camerlengo; coll'intervento presenza e
volontà dei reverendi padri P. Orlandi, vescovo eletto di Mazara e
tesorier generale di nostro Signore; e più Ferdinando Ponzetti, decano
dei seguenti chierici di Camera, cioè dire Filippo di Siena
protonotario, Lorenzo Pinzi datario, Francesco Armellini, e Giovanni
Botonti da Viterbo, insieme nel luogo dell'udienza congregati, e sugli
interessi della Camera consultanti e deliberanti in nome e vece del
prefato santissimo Padre e della sua Camera, per ordine speciale
dell'istesso nostro Signore, espresso coll'oracolo della viva voce
intorno a questo contratto: stando essi tutti i predetti da una parte,
ed il signor Giovanni da Biassa dall'altra parte, ciascuno per sè stesso
agente stipulante e capitolante intorno e sopra la guardia del mare e
della spiaggia romana e per solenne contratto convenuti nei singoli
capitoli che seguono, cioè:

«1. Il predetto reverendo Signore, vicecamerlengo e luogotenente, per
volontà consenso e nome, come sopra, ha condotto il prefato signor
Giovanni da Biassa alla guardia di tutta la spiaggia romana, da
Terracina a monte Argentaro, con due galèe ciascuna di venticinque
banchi, e due brigantini ciascuno di quindici banchi, con che in cadauna
galèa abbiano a essere almeno cinquanta, e in ogni brigantino almeno
trenta uomini liberi, atti a naval combattimento, oltre ai marinari ed
oltre alla ciurma necessaria: e questa condotta avrà a durare due anni
prossimi futuri, e poscia a beneplacito di nostro Signore, da cominciare
il giorno della mostra alla foce d'Ostia, o dove ordinerà la Santità
sua: il qual beneplacito non si intenderà rinnovato altrimenti che per
quattro mesi, se prima le parti non avranno manifestato la volontà di
recedere dal contratto.

»2. Similmente il predetto reverendo Signore, vicecamerlengo e
luogotenente, nel nome come sopra, ha promesso all'istesso Giovanni per
lo stipendio suo e della sua gente dare e consegnare tutti gli
emolumenti del Dritto, cioè la riscossione del due per cento imposto già
per la medesima guardia nel modo che al presente sempre si riscuote, e
secondo gli ordinamenti fatti dalla Camera sopra questa materia, il qual
Diritto fin da ora ha rassegnato al medesimo, perchè decorra in suo
favore dal dì che farà la mostra, tanto che possa riscuoterlo a suo
piacimento: oltre al quale stipendio non potrà mai chiedere altra
mercede.

»3. Similmente il predetto reverendo Signore vicecamerlengo e
luogotenente, per volontà e nome come sopra, ha concesso all'istesso
Giovanni, qualora egli possa avere nelle mani alcun frodatore che trae
grano dai luoghi o porti soggetti mediate ed immediatamente alla Chiesa
senza la bolletta e senza la permissione del doganiero sopra le tratte,
o del suo legittimo sostituto, così che apparisca non avere egli pagato
la tratta medesima secondo le leggi della dogana, in tal caso sia lecito
all'istesso Prefetto toglier via il detto grano e l'una metà ritenerla
per sè, l'altra fedelmente consegnare alla Camera: e questo valga
similmente per ogni altra cosa, sostanza o merce che mai troverà
trafugata di contrabbando.

»4. Similmente ha promesso e conceduto al nominato Prefetto in sua balìa
tutti e singoli pirati, ladroni e infestatori del mare, con tutti i loro
navigli, beni e sostanze dovunque li potrà trovare, assalire,
sottomettere, e tenere. E se per avventura alcun di loro inseguito
dall'istesso Prefetto verrà a rifugiarsi nei porti o luoghi dello Stato,
dovranno gli ufficiali ed uomini di quei luoghi pigliarli e rimettergli
al Prefetto, sì che gli abbia in sua potestà ed arbitrio.

»5. Similmente il predetto r. Sig., come sopra, ha offerto e promesso al
Prefetto ogni conveniente soccorso e favore per tutte le terre e per
tutti i luoghi soggetti alla santa romana Chiesa contro chiunque ardisse
molestare lui e la sua gente: ordinando fino da ora a tutti e singoli
ufficiali e persone dei detti luoghi che ad ogni richiesta del Prefetto
medesimo debbano assisterlo coi favori e soccorsi convenienti.

»6. Similmente il nominato reverendo Signore vicecamerlengo e
locotenente come sopra, ha concesso allo stesso Prefetto che se egli
darà la caccia ad alcun pirata, ladrone o infestatore, e se costoro
fuggendo troveranno ricetto in alcun porto o luogo fuori dello Stato,
così che egli non possa avergli in mano, anzi gli sia fatta resistenza
dalla gente di quel luogo, allora sia lecito a lui mettersi alle
rappresaglie, che fin d'ora gli sono concesse tanto che sia fatta la
restituzione compensativa ai naviganti lesi dagli stessi pirati e
infestatori. Nondimeno dovrà prima dare le prove del ricetto concesso a
coloro, e dell'impedimento opposto al suo procedere; e non potrà in
effetto esercitare le rappresaglie se non gliene venga dalla Camera
apostolica concessa la facoltà pel caso speciale. In ogni modo tutto
quello che il Prefetto in forza di rappresaglia avrà toccato o sarà
venuto in sue mani, che in mare che in terra, dovrà fedelmente
rassegnare alla Camera per rifarne i danni a chi li ha patiti.

»7. Dall'altra parte il nominato signor Giovanni prefetto ha promesso
custodire, difendere e guarentire la detta spiaggia romana dalla detta
città di Terracina fino al detto monte Argentaro con due galere e due
brigantini di sua proprietà, ben armati come sopra, contro tutti e
singoli pirati, ladroni, invasori e malviventi; e difendere insieme le
persone tutte e singole coi loro navigli, legni, beni, roba, e merci,
nell'accesso e nel recesso, sia dell'alma città di Roma, sia di ogni
altro luogo mediate o immediate a lei soggetto.

»8. Similmente ha promesso lo stesso Prefetto pagare del suo ogni danno
o ruberia che potrà succedere mai in qualunque parte del predetto mare,
eziandio che esso non fosse presente in quel luogo, posto che sia nei
termini e confini prefissi da qualunque lato: qualora però i pirati e
ladroni non abbiano maggior numero di galere, di brigantini e di gente,
così che a punto per la inferiorità sua non possa il Prefetto
prudentemente assaltarli, combatterli e perseguitarli. In somma circa la
riparazione dei danni egli non potrà presumere altra scusa, meno quella
della forza maggiore; la quale eccezione tuttavia dovrà essere provata
innanzi alla Camera, al cui giudizio sarà lasciata la deliberazione e
decisione sopra la verità del caso eccezionale.

»9. Similmente il prenominato Prefetto ha promesso a questo effetto
mantenere due galèe ciascuna di venticinque banchi, e due brigantini
ciascuno di quindici banchi, tutto di sua proprietà, pognamo da lui
costruiti o comprati; nelle quali galèe, oltre alla ciurma necessaria
hanno a essere cinquanta uomini, e in ciascun brigantino trenta uomini
bene armati ad uso di mare, con cannoni, balestre, partigiane, ronconi,
spuntoni, ramponi, rotelle, targoni, ed ogni altro armamento, arme e
munizione necessaria ed opportuna ad offesa e a difesa: ed il numero dei
detti uomini almeno sempre pieno, e le persone ben armate, ed atte,
sperimentate e pratiche del mestiero.

»10. Similmente ha promesso e si è obbligato a dare la mostra dei legni
e delle genti in ogni luogo e quantunque volte sia richiesto da sua
Santità o dalla Camera.

»11. Similmente ha promesso mettere in terra cinquanta uomini o più ad
ogni richiesta di nostro Signore o della Camera.

»12. Similmente egli ha promesso e si è obbligato che se alcuno dei
naviganti nel predetto mare resterà mai per mala sorte preso o depredato
dai pirati corsali o malviventi, o dai medesimi in qualunque modo
offeso, depredato o impedito, sia nella persona o nelle sostanze o nei
bastimenti, esso Prefetto piglierà con ogni diligenza il carico di
perseguitare i nemici, e sarà suo debito strappar loro dalle mani la
preda, ricuperare le cose perdute, renderle ai padroni, e scortarli a
luogo sicuro, senza pretensione di prezzo o di mercede. Altrimenti se
così non facesse, salvo il legittimo impedimento, ha promesso e si è
solennemente obbligato a favore di chiunque abbia patito danno dai
predetti pirati o da altri invasori, di rilevarli senza danno di suo
danaro, e di soddisfarli fino ad intiera compensazione delle perdite
sofferte. Perciò la Camera apostolica resterà immune e onninamente
libera dal detto peso, eccettuato il caso della forza maggiore, come
negli altri capitoli addietro si contiene, e della quale si deve dare la
prova innanzi alla congregazione Camerale.

»13. Similmente il Prefetto si è obbligato sotto pena di due mila
ducati, durante la condotta, di non far traffico colle galere nè co'
brigantini; e di non trasportare derrate o mercanzie di qualunque specie
e da qualunque luogo a qualsivoglia parte; e di non pattuire mai dei
predetti legni alcun nolo.

»14. Similmente ha promesso e si è obbligato, tanto di estate che
d'inverno, avere per sua stazione il porto di Civitavecchia, o le foci
del Tevere, o gli altri porti e luoghi dello Stato nel mare predetto,
cioè intra Terracina e l'Argentaro, perchè sempre più pronto abbia a
trovarsi, dovendo resistere agli invasori dei detti luoghi, e difendere
chiunque concorre all'alma città di Roma, o da quella e dagli altri
luoghi predetti si parte.

»15. Similmente sarà tenuto il detto Capitano ad ogni richiesta di
nostro Signore, o della Camera, mostrare le sue galere e brigantini
presso alle foci del Tevere, dove indicherà sua Beatitudine, così armati
e corredati come li ebbe, sotto pena di ducati diecimila, alla quale
saranno obbligati espressamente anche i suoi mallevadori.

»16. Similmente ha promesso e si è obbligato di non togliere cosa alcuna
ai naviganti, nè esso, nè alcuno della sua gente e brigata, quantunque
offerta in dono, altrimenti sia punito ad arbitrio della Camera.

»17. Similmente ha promesso e si è obbligato di tenere gli amici di sua
Santità e della santa romana Chiesa per amici suoi, ed i nemici per
inimici di qualunque stato, grado e preminenza essi siano.

»18. Similmente sua Santità ha promesso al Prefetto di fargli consegnare
gli uomini condannati a morte dai tribunali dello Stato ecclesiastico; e
la scelta nel modo che ordinerà nostro Signore. Costoro presi e
consegnati saranno messi al remo per un anno soltanto nelle predette
galèe, se pure non fosse altrimenti prescritto dalla volontà di nostro
Signore.

»19. Similmente il predetto Capitano o sia Prefetto, nel caso che a lui
fossero prestate le galèe e i brigantini dalla santità di nostro Signore
o dalla Camera predetta, ha promesso e si è obbligato di doverli
restituire ogni volta che gli verranno richiesti da sua Santità o dalla
Camera, sì veramente che li renda integri ed illesi nello stato medesimo
che esso li avrà ricevuti per la detta guardia in prestanza. Ciò non
pertanto, se nel tempo della restituzione, come sopra, durerà tuttavia
la sua condotta, si è obbligato ed ha promesso sostituire subito due
altre galèe e due brigantini di sua proprietà, comprati o costruiti da
lui, atti sempre, armati, e corredati come sopra è detto.

»20. Similmente il predetto Capitano ha promesso e si è obbligato di
dare sufficiente malleveria sopra banchieri per la somma di mille
cinquecento ducati d'oro; e quelli esauriti, dovrà rinnovare e ripetere
la malleveria a giudizio della Camera per la stessa somma, che resterà
sempre in deposito per l'osservanza degli obblighi suoi, e pel
rifacimento dei danni a chi ne ha patiti, secondo la sentenza della
Camera in forma spedita e stragiudiziale.

»21. Similmente se durante la condotta avverrà mai che il Prefetto
sopraddetto sia spedito con ordini della santità di nostro Signore in
altra parte fuori dei confini della spiaggia romana, allora egli non
sarà tenuto a risarcire danni di niuno, ancorchè succedessero per causa
della assenza del medesimo Prefetto o Capitano e della missione
straordinaria: purchè il Capitano chiaramente dimostri alla Camera il
mandato della predetta destinazione.

»22. Similmente i nominati signori, Vicecamerlengo e Chierici
presidenti, per compiere l'armamento di una delle due galèe, fiacca di
palamento, hanno promesso al lodato Capitano centoquaranta ducati d'oro
di Camera per lo stipendio di un sol mese a settanta marinari o rematori
da essere uniti cogli altri ottanta ch'egli ha già pronti; e ciò infino
a che sia fatta la permutazione del sostituire ai medesimi i condannati
a morte, o vero infino a che egli abbia preso pirati come sopra da
metterli al remo; i quali come saranno sottentrati dovrà cessare lo
stipendio a proporzione del numero delle persone riformate.

»Che.... eccetera. — Fatto in Roma nella casa del reverendo padre e
signore Ferdinando Ponzetti, decano della predetta Camera, nell'anno,
mese, giorno, indizione, e pontificato come sopra. Presenti i venerabili
uomini signori Giovanni Falèt e Giovanni Emerich, chierici della diocesi
di Albi e Tolosa, testimonî.

»Melchior di Campagna, notajo rogato.

»Giovanni da Biassa, nobile genovese, prefetto e capitano generale
dell'armata di galèe e brigantini della S. R. C. per la guardia della
spiaggia romana.

»Sicurtà per ducati cinquecento, Bart. Doria.

»Per altri cinquecento, Sebastiano Sauli, genovese.

»Per altri cinquecento, Agostino Chigi di Siena.»

NOTE:

[100] FOLIETTA cit., 816, e gli altri delle note precedenti.

[101] JULII PP. II, _Capitulor._, anno 1503-1512. — ARCH. SECR. VAT., t.
LXII, p. 252. — SCHEDE BORGIANE. — COD. VATICANO, segnato n. 8046:

_«Capitula Capitanei triremium. — In nomine Domini, amen. Anno millesimo
quingentesimo undecimo, indictione XIV, die vero decimoquinto mensis
septembris pontificatus, SSmi in Xto patris et domini nostri, domini
Julii divina providentia papæ secundi anno octavo. Cunctis pateat
evidenter et sit notum per hoc præsens publicum instrumentum, quod
infrascripta sunt pacta conventiones et capitula, inita facta firmata et
stabilita inter rev. in Xto patrem et dominum Laurentium de Flisco epum
Escalon. vicecamerarium, et in Camera aplica remi in Xto patris ad dni
Raphaelis epi Ostien. car. s. Georgii dni Papæ camerarii locumtenentem,
cum præsentia consensu et voluntate revm. patrum P. Orlandi electi
Mazaren. præfati S. D. N. thesaurarii generalis, Ferdinandi Ponzetti
decani, Philippi de Senis prothonotarii, Laurentii Pintii ejusdem S. D.
N. datarii, Francisci Armellini, et Johanis de Viterbio, Cameræ aplicæ
clericorum præsidentium, simul in uno loco audientiæ congregatorum et
super rebus Cameræ aplicæ consultantium, et deliberantium, vice et
nomine præfati S. D. N. et Cameræ aplicæ, speciali mandato ipsis a S. D.
N. vivæ vocis oraculo super hoc facto, inter eos ex una, ac dominum
Joannem de Blasia partibus ex altera, pro seipsis agentes stipulantes et
capitulantes de et super custodia maris et splagiæ romanæ, solemni
stipulatione interveniente per singula capitula repetita, videlicet._

»I. _In primis quia præfatus rev. Dominus vicecamerarius et locumtenens
de consensu et voluntate ac nomine supradictis conduxit præfatum dominum
Joannem de Blasia custodiæ prcedictæ, scilicet a Terracina ad montem
Argentarium, totam splagiam romanam includentibus et comprehendentibus,
cum duabus galeis, qualibet vigintinque banchorum, et cum duobus
brigantinis quolibet quindecim banchorum, in quibus sint homines ad
minus quinquaginta pro qualibet galea, et triginta pro qualibet
brigantino, liberi et expediti ad bellum navale, una cum nautis et
ciurma ad id necessariis: et hoc pro duobus annis proxime futuris et
deinde ad beneplacitum S. D. N. inchoandis a die qua faciet monstram in
faucibus Ostiæ, seu ubi prefata Sanctitas sua voluerit, quod
beneplacitum renovatum non censeatur nisi per quatuor menses posteaquam
aliqua pars prædictarum a prædicta conducta discedere velle
declarverit._

»II. _Item prefatus Dnus vicecamerarius et locumtenens, quo supra
nomine, promisit eidem Joanni pro ejus et prædictorum hominum et
nautarum stipendio dare et consignare, durante dicta conducta, omnia
emolumenta et introitus Directi, videlicet duorum pro centenario, quod
impositum fuit et colligitur pro hujusmodi custodia, juxta consuetudinem
et ordinationem desuper factam per Cameram aplicam, et ex nunc dictum
Directum assignavit ei, currendum a die monstræ per eum faciendæ, quod
possit exigere ad ejus voluntatem et petitionem, ultra quod pro dicto
stipendio nihil aliud petere possit._

»III. _Item præfatus R. D. vicecamerarius et locumtenens, de voluntate
et nomine quibus supra, concessit eidem Joanni quod quandocumque
contingat ipsum comprehendere aliquem conducentem granum extractum ex
portubus et locis S. R. E. mediate vel immediate subjectis sine bulletta
et licentia dohanerii tractarum aut ejus legitimi substituti per quam
non indicaverit solvisse dohanerio vel substituto prædictis jura dohanæ,
eo caso ipse Præfectus possit et sibi liceat levare et auferre dictum
granum, et illius medietatem retinere pro se, et aliam medietatem
fideliter consignare Cameræ apostolicæ et similiter et omnibus et
singulis rebus bonis et mercantiis, quos in fraudem et contra
prohibitionem ac contra bandum asportari deprehenderit._

»IV. _Item promisit et concessit præfato Præfecto in predam omnes et
singulos piratas, turbatores et alios mare ipsum infestantes cum eorum
navigiis rebus et bonis ubicumque illos reperire invadere capere et
habere poterit. Et si forte aliqui ex ipsis piratis et turbatoribus ad
portus terras et loca prædicta S. R. E., ipso Præfecto eos persequente,
et fugati ab eo, diffugerent, officiales et homines locorum eos capere
et consignare debeant et teneantur in manibus ipsius Præfecti, et ad
ejus arbitrium et potestatem._

»V. _Item præfatus R. D. vicecamerarius et locumtenens, de volontate et
nomine quibus supra, obtulit et promisit ei omne oportunum auxilium et
favorem per quascumque terras et loca S. R. E. subjecta contra
quoscumque ei et ejus genti adversantes; mandans ex nunc omnibus et
singulis officialibus et personis dictorum locorum ut ad omnem ipsius
Præfecti requisitionem oportunis sibi favoribus et auxiliis assistant._

»VI. _Item præfatus R. D. vicecam. et locumt. ut supra concessit dicto
Præfecto, quod si ipse insequeretur aliquem piratam, perturbatorem, et
infestatorem predictum, qui receptarentur in aliquo portu seu loco extra
terras et loca præfatæ S. R. E. ita quod eos capere non posset, et
incolæ portus et loci illius ei consignare nollent, liceat ei exercere
contra eos represalias, quas ex nunc eidem Præfecto concedit, donec
illis qui a dictis piratis et infestatoribus damnum passi fuerint prius
fuerit satisfactum, et de receptione et impedimento hujusmodi constare
fecerit. Sed ipsas represalias exequi non possit, nisi prius ab eadem
Camera apostolica concessum fuerit. Et quidquid ipse Præfectus vigore
dictarum represaliarum cœperit et ad ejus manus pervenerit tam per
mare quam per terram fideliter assignet in Camera apostolica pro
satisfactione eorum qui damnum passi fuerint._

»VII. _Et e converso supradictus dominus Johannes præfectus promisit cum
duabus galeis et brigantinis duobus ad eum pertinentibus, ut præfertur
bene armatis, custodire, tueri et defendere dictam splagiam, a prædicta
civitate Terracinæ usque ad dictum montem Argentarium, ab omnibus et
singulis piratis, latronibus, invasoribus et perturbatoribus, omnesque
et singulos tam ad almam Urbem quam ad alia loca S. R. E. mediate vel
immediate subjecta venientes, indeque recedentes cum eorum navigiis
lignis bonis rebus et mercibus._

»VIII. _Item promisit idem Præfectus solvere de suo omne damnum et
robariam quæ in aliquo loco maris præfati quomodocumque evenerit,
etiamsi ipse Præfectus in eo loco non adesset, dummodo locus ipse in
terminis et finibus prædictis ex quacumque parte comprehensis existat;
si piratæ et prædatores hujusmodi majorem numerum galearum et
brigantinorum et armatorum in eis existentium non habuerint, ita quod
ipse Præfectus propter majores vires ipsorum piratarum et depredatorum
majorem numerum galearum et brigantinorum habentium eos invadere et
aggredi rationabiliter non valuerit, ut cum illis congrediatur eo usque
confligendo aut cum effectu insequendo: ita quod super hujusmodi
damnorum refectione nullam aliam habeat excusationem nisi quod damna
ipsa habentes majorem numerum galearum et brigantinorum perpetraverint,
de quo constare debeat in præfata Camera, cujus judicio præmissa in
eventu decidentur et determinentur._

»IX. _Item promisit prænominatus Præfectus ad præmissum effectum
retinere duas galeas, quamlibet vigintiquinque banchorum; et duos
brigantinos quemlibet quindecim banchorum ad se pertinentes et de suo
emptos sive fabricatos, in quibus, absque ciurma necessaria, sint ad
minus quinquaginta homines in qualibet galea, et triginta, in quolibet
brigantino, bene armati ad usum classis, videlicet cum bombardis,
balistis, partesanis, ronchonibus, lanceis longis, ramponibus, rotellis,
targonibus, cœterisque armis et armamentis ac munitionibus
necessariis et opportunis tam ad defendendum quam ad offendendum, ac
numerum dictorum hominum ad minus, qui sint et bene armati et in
hujusmodi expeditione assueti, apti, et practici._

»X. _Item promisit et se obligavit facere monstram toties quoties per
præfatam Sanctitatem suam seu per Cameram apostolicam, et ubicumque
requisitus fuerit._

»XI. _Item promisit ponere in terram quinquaginta vel plures homines ad
omnem requisitionem SSmi D. N. et Cameræ apostolicæ._

»XII. _Item promisit et se obbligavit quod si contingat aliquem per
prædictum mare navigantem, aut ejus navigia, a piratis cursariis et
turbatoribus prædictis capi aut depredari aut impediri, ipse Præfectus
omni diligentia curabit invasores et piratas hujusmodi per mare et loca
quæcumque persequi, et prædam eripere, et ab eis prædam sic ereptam ac
navigantes et nautas cum ea captos detinere et recuperare, illamque
fideliter propriis dominis et patronis restituere, ipsosque captos et
recuperatos hujusmodi ad locum tutum reducere, sine mercedis aut prætii
alicujus receptione. Alias si recuperationem et restitutionem prædictas
cum effectu non fecerit, omni excusatione cessante, sicut promisit et
solemniter se obligavit, omnia damna illis qui in prædictis locis a
piratis et aliis invasoribus, ut præmittitur, passi fuerint, de suo
efficaciter reficere, ita ut damnum passis integre satisfaciat; et
Camera apostolica a prædicto onere omnino sit libera, et ipsam a
prædictis indemnem penitus præservare sit obligatus, nisi ipsi piratæ et
invasores majorem numerum galearum et brigantinorum et armatorum in
eisdem existentium habuerint, de quo constare debeat, ut in aliis primis
capitulis expressum fuit in Camera prædicta._

»XIII. _Item ipse Præfectus promisit, sub pœna duorum millium
ducatorum, durante conducta prædicta, dictis galeis sive brigantinis pro
vectura aliqua sive mercium sive rerum ad quemcumque locum devehendarum,
aut pro aliquo naulo, non uti._

»XIV. _Item promisit et se obligavit quod tam in æstate quam in hyeme
statio sua erit apud portum Civitevetulæ, vel ad fauces Ostiæ, seu in
aliis portubus et locis S. R. E. in mari prædicto, scilicet inter
Terracinam et montem Argentarium, ad hoc ut promptius invadentibus
prædicta loca obsistere, et ad almam Urbem venientes sive ab ea et ab
alis locis prænominatis discendentes defendere possit._

»XV. _Item teneatur dictus Capitaneus repræsentare dictas galeas et
brigantinos suos ad omnem requisitionem SSmi D. N. vel Cameræ ad fauces
Tyberiis vel ubi Sanctitas sua mandaverit, ita fulcitas sicut recepit
sub pœna decem millium ducatorum, ad quam fidejussores expresse
teneantur._

»XVI. _Item promisit et se obligavit quod nec ipse neque alius de ejus
comitiva et gentibus aliquid capiet a navigantibus, etiamsi dono
offeratur, alioquin puniatur arbitrio Cameræ._

»XVII. _Item promisit habere et tenere amicos Sanctitatis suæ et S. R.
E. pro amicis, et inimicos pro inimicis, cujuscumque status, gradus, et
præminentiæ fuerint._

»XVIII. _Item sanctitas D. N. promisit eidem Præfecto consignari facere
homines in terris Ecclesiæ damnatos ad mortem naturalem, prout Sanctitas
sua eligi mandabit, qui sic electi et consignati solum per annum
retineri possint in dictis galeis, nisi aliter de voluntate ejusdem
Sanctitatis suæ fuerit decretum._

»XIX. _Item prædictus Capitaneus sive Præfectus promisit et se obligavit
quod si ei per sanctitatem D. N. vel per Cameram præfatam comodatæ
fuerint galeæ prædictæ et brigantini, quas et quos retenturus est ad
prædictam custodiam, illas et illos ad omnem requisitionem Sanctitatis
suæ et Cameræ prædictæ illesas et integras, et prout erant tempore factæ
accomodationis prædictæ restituere. Et nihilominus si tempore
restitutionis prædictæ adhuc conducta sua duraverit, promisit et se
obligavit habere duas galeas et duos brigantinos de suo fabricatos et ad
prædictam custodiam bene instructos et armatos ut supra dictum est._

»XX. _Item prædictus Capitaneus promisit et se obligavit dare
sufficentem cautionem banchorum pro summa mille quingentorum ducatorum
auri, qua emanata, reiterare et renovare ipsam cautionem pro refectione
damnorum, et statim ad judicium ipsius Cameræ, pro observatione
præmissorum et refectione damnorum illis qui ea passi fuerint, prout
præfata Camera summarie et extrajudicialiter iudicaverit._

»XXI. _Item si contingeret durante conducta præfatum Præfectum mitti per
sanctitatem D. N. ad aliqua loca extra dictam splagiam, quod in prædicto
eventu, eo non præsente in dicta splagia, non teneatur ad refectionem
aliquorum damnorum quæ in dicta splagia fierent durante absentia dicti
Præfecti sive Capitanei ex causa missionis SSmi D. N. dummodo ipse
Capitaneus de destinatione præmissa in ipsa Camera clare constare facere
teneatur._

»XXII. _Item prædicti domini Vicecamerarius et Clerici præsidentes pro
complemento armaturæ unius galeæ promiserunt præfato Capitaneo ducatos
centum quadraginta auri de Camera pro stipendio singuli mensis
septuaginta nautarum sive remigantium, una cum illis octuaginta quos
habet paratos, donec commutati fuerint pro eis homines damnati ad
mortem, vel ipse aliquos piratas capiat ut supra, quibus consignatis,
dictum stipendium per Cameram solvendum cessare debeat pro rata
cujuslibet consignati._

»_Pro quibus, etc._

»_Actum Romæ in domo habitationis r. p. d. Ferdinandi Ponzetti decani
prælibati Cameræ apostolicæ sub anno, indictione, die, mense et
pontificatu, quibus supra: præsentibus ibidem venerabilibus viris et
dominis Johanne Phaleto et Johanne Emerici, clericis Alben. et Tolosan.
diœcesis testibus._

»_Melchior de Campania, Notarius rogatus._

»_Joannes de Blaxia, nobilis januensis, Præfectus et Capitaneus
generalis classis triremnium et brigantinorum S. R. E. pro custodia
maris ejusd. S. R. E._

»_Pro cautione ducatorum quingentorum, Barth. de Auria._

»_Pro aliis quingentis, Sebastianus Sauli, januensis._

»_Pro aliis quingentis, Augustinus Chisius, de Senis._»



[1512.]

XV. — Il primo strumento di questo genere, stipulato alla fine del
secolo decimoquinto, sotto Alessandro VI, dai capitani Mosca e Mutino,
ho già pubblicato nella mia storia del Medio èvo; e sopra vi ho fatto
tal commentario quale allora occorreva per la qualità di quei tempi e
del mio lavoro. Ora devo continuarmi nello stesso metodo: e lasciando da
parte la descrizione delle galèe e dei brigantini, largamente già svolta
in altri libri; e similmente passando oltre su quei capitoli che
nell'uno e nell'altro strumento tornano identici, voglio considerare le
mutazioni introdotte in un secolo di avanzata civiltà, e dopo dodici
anni di esperienza; perchè meglio si veda lo svolgimento tecnico e
amministrativo, insieme cogli usi e colle costumanze marinaresche.

Vengano dunque per ordine i capitoli, spicchino tra l'altre ove sono le
notizie utili alla storia, e vadano i confronti infino al secolo
precedente. Nel principio si determina la forza materiale dei navigli,
dicendo galèe di venticinque banchi: dove sta la parte pel tutto,
secondo l'uso del tempo; perché dai venticinque banchi (come dal
pentecòntoro primitivo) uscivano per le due bande cinquanta remi lunghi,
onde si calcolava la forza e la grandezza d'una galèa, come oggidì si
valuta quella dei piròscafi pel numero dei così detti cavalli. Gli
uomini da combattere tornano fissi nel numero di cinquanta, che coi
marinari, colle maestranze, e cogli ufficiali, formano un cencinquanta,
ed altrettanti rematori; in somma trecento persone per ogni galèa. Ma i
brigantini, legni minori di soli quindici banchi, dovevano essere
forniti di trenta remi tra le due bande, di trenta rematori, di trenta
soldati, e insieme cogli ufficiali e coi marinari avere in circa novanta
persone. I quali per loro bravura si credevano tanto sufficienti ad ogni
prova contro pirati malviventi e frodatori, che a numero pari non
dubitavano punto di riuscire superiori a qualunque nimico: obbligati in
caso contrario a far le spese di ogni danno proprio ed altrui.

Il documento presente determina soltanto i numeri, senza entrare nella
qualità e negli uffici di ciascuno; e senza stabilire le competenze del
soldo, vestito e vitto: segno che rispetto a ciò le parti si rimettono
alle mutue convenzioni degli arrolati col capitano, o alla consuetudine
vigente. Di che se alcuno volesse sapere, e talvolta potrebbe anche
averlo necessario per ragioni di confronto e di costumi, noterò in breve
ciò che risulta dai documenti del tempo vicino se non simultaneo al
Biassa. Di vestiario ognuno faceva da sè con certa uniformità relativa,
perchè semplice[102]: berrette e cappelli piumati, farsetti e giubboni
di velluto, bandoliere e cinturini di cuojo, cappotti e cappucci a
becchetto. In caso di combattimento o di mostra tanto i soldati che i
marinari allacciavansi la corazzina e il morione[103]. La guardia
facevano colla spada e colla picca, e traevano le armi d'asta, gli
archibugi, le fiaschette e le forcine dall'armeria del naviglio. Dalla
càneva del penése pigliavano la giornaliera razione. Questa Razione si
mantiene da tre secoli sempre viva, si legge nei documenti toscani del
cinquecento, nei bandi granducali per le milizie, nei contratti e
inventarî romani, ed è registrata dal Falcone, perchè necessaria, non
essendo lo stesso vitto e razione. Quello esprime provvisione necessaria
al vivere, nutrimento, cibo; ma razione aggiugne di più il modo
ragionevole del distribuirlo, secondo la proporzione dei gradi, perchè
non si dava uguale a tutti; ma a chi parte scempia, a chi parte
avvantaggiata, a chi doppia, a chi quadrupla. La distribuzione ordinaria
pel sostentamento di un uomo libero chiamavasi Parte, si valutava a due
scudi mensuali, e si componeva quotidianamente di una pinta di vino, due
libbre di biscotto, tre once di minestra, una libbra di carne fresca, o
mezza di salata, o di pesce o di cacio; più aceto, olio e sale:
tutt'insieme due scudi, come in alcun luogo dimostrerò. Ai fanti, ai
provieri, ai semplici marinari una sola razione; e costoro dicevansi di
parte scempia: ai marinari avvantaggiati o di prima classe, metà più; e
dicevansi di parte e mezza: alle maestranze e agli ufficiali parte
doppia; e così di seguito, sempre alla ragione di scudi due per parte:
salvo a ciascuno il diritto di toccarla in derrata o in danaro al
predetto ragguaglio. Antichissimo costume: mi ricorda Vegezio nella
primitiva milizia romana chiamare Duplari, quelli che toccavano a doppio
la vittuaglia[104]. I soldi rispondevano al pregio alto della moneta in
quei tempi, e al basso delle opere e delle derrate; e correvano dai due
ai quindici scudi per mese, secondo lo specchietto che inserisco qui
appresso, perché si vegga a un batter d'occhio il numero delle persone,
i titoli degli ufficî, e la spesa particolare e collettiva di ogni mese
per ciascuna galèa semplice: salvo sempre il crescere di gente e di
soldi nella capitana, e il crescere similmente nelle sensili per le
occorrenze di rinforzo straordinario. Salvo pure il diminuire di gente,
di soldi e di razioni nel tempo del riposo invernale: riposo, per la
stessa indole della lingua comune (donde a ragione uscì la voce
Sciopero) chiamato per la bocca dei marinari Scioverno. Agli esempî
sopperiscono i documenti toscani, gli statuti cavallereschi di santo
Stefano, e l'uso di tutti gli altri porti d'Italia, dove dicesi
Sciovernare e Scioverno, in senso di riposare e di riposo disarmato
nella darsena durante il verno. Metto gli ufficiali in ordine di dignità
secondo il costume romano, e mi tengo al minimo dei numeri, riducendo
ogni cosa alla più chiara e semplice espressione che per me si possa
derivare dai complicatissimi documenti che cito.

SPECCHIO

_dei Soldi e delle Razioni agli Ufficiali, Gente di capo, Marinari, e
Soldati in una galèa del Secolo XVI._

  Numero  TITOLO.                          SOLDO           RAZIONE
                                          mensuale        cotidiana

                                      Singol. Collett. Singol. Collett.

                                      Scudi    Scudi   Parti    Parti
    1     Capitano                      15       15       4        4
    3     Nobili di poppa                4       12       2        6
    1     Padrone                        6        6       2        2
    1     Comito                         5        5       2        2
    1     Piloto                         4        4       2        2
    1     Cappellano                     4        4       2        2
    2     Bombardieri                    3        6       2        4
    2     Sottocomiti                    3        6       2        4
    2     Consiglieri pilotini           3        6       2        4
    1     Scrivano                       3        3       2        2
   14     Marinari di parte e mezza      3       42       1,5     21
   14     Marinari di parte scempia      2       28       1       14
    8     Compagni timonieri             3       24       1,5     12
    1     Aguzzino                       5        5       2        2
    1     Maestro d'ascia                3        3       2        2
    1     Calafato                       3        3       2        2
    1     Barilajo                       3        3       2        2
    1     Barbiere cerusico              3        3       2        2
    6     Fanti di maestri               2       12       1        6
    8     Provieri                       1        8       1        8
    2     Mozzi                          »        »       0,5      1
    1     Sergente                       5        5       2        2
    4     Caporali                       4       16       1,5      6
   10     Soldati vantaggiati            3       30       1,5     15
   35     Soldati comuni                 2       70       1       35

  123                                           322              164

Per queste ragioni si consegnava al padron della galèa buona scorta di
danaro; e nei depositi metteansi le provvigioni in buon dato da
sopperire al bisogno, secondo la qualità del viaggio: specialmente
biscotto, farine, vino, olio, aceto, carnesecca, animali da macello,
polli, uova, cacio, tonnina, sardelle, riso, pasta, fave, legumi e sale,
che in tutte le note di quei tempi ritornano[105].

NOTE:

[102] ARCHIVIO COLONNA, _Armata navale_, I, 201; III, 43. — Istruzioni
di M. A. C. ai capitani: _«Procurerà che li soldati abbiano calzoni di
velluto, per quanto sia possibile, o di panno.... et con giubboni che
siano buoni.»_

[103] DOCUMENTI COLONNESI cit., I, p. 186, 231: _«Celate, Rotelle,
Corazzine, Morioni.»_

[104] VEGETIUS, _De re milit._, II, 7: _«Duplares qui binas annonas
consequuntur.»_



XVI. — Nel secondo capitolo si conferma il diritto del due per cento
sulle merci: il qual diritto (al pari di ogni altra imposizione
temporanea) impiantato una volta per ragioni eccezionali sotto Innocenzo
VIII, si vede non cader più: anzi crescere col commercio e colla
sicurezza del navigare, tanto che, riconosciuta la sufficienza dello
stesso provento, si toglie al Capitano ogni speranza di toccare altronde
stipendio maggiore. L'incremento della rendita medesima risulta dal
fatto: che in principio bastava solo per mantenere una galèa, poi per
due brigantini e una fusta, ed ora per due galere e due brigantini.

Possiamo raccogliere dal testo del secondo, e di più altri capitoli, la
squadra di Giovanni rispondere all'ordine di triplice servigio, contro
nemici, frodatori e malviventi; ciò è dire alle fazioni di guerra, di
dogana e di polizia; conforme all'uso di ogni paese per quel tempo. Uso
che dura tuttavia, dovunque sia minuta la forza della guardia, e
ristretto il territorio da guardare.

La giunta al capitolo sesto intorno alle rappresaglie manifesta
l'avanzamento della civiltà: imperciocché non si permette più al
Capitano di correre sbrigliato a suo talento, ma gli si aggiugne il
freno. Resta accesa la minaccia generica delle rappresaglie, come si
usava nel medio èvo, e ciò per ritegno maggiore ai fautori dei ladroni;
ma si toglie al Capitano l'arbitrio di procedere all'atto esecutivo,
senza prima ottenere la permissione della Camera pel caso particolare. E
non anderebbe lontano dal vero chi pensasse a qualche disordine
precedente in materia tanto delicata, ed a qualche molestia sofferta
dalla Camera, quante volte le rappresaglie siano cadute sopra innocenti,
o vero sopra cotali, cui non mettesse conto di offendere.

I capitoli settimo, nono e diciannovesimo, messi insieme, ci disvelano
artifizio sottile. Le galèe e i brigantini hanno a essere o proprietà
del Capitano, o prestanza della Camera. In quest'ultimo caso (a punto il
concreto di papa Giulio) si obbliga il Capitano di restituire ogni cosa
non solamente alla fine della condotta, ma tutte le volte che ne sia
richiesto. Ora al tempo stesso, non essendo congedato, deve esso
subitamente del suo rifarne altrettanto; cioè aver in punto altre due
galèe ed altri due brigantini. Dunque per questo semplicissimo ripiego
può Giulio al bisogno duplicare le forze navali in tempo di guerra,
senza portarne il peso in tempo di pace. Basta chiedere la restituzione
di quattro legni per averne otto.

Appresso dal decimo capitolo si fa manifesto che i naviganti,
danneggiati dai pirati e dagl'infestatori del mare, dovevano essersi
rivolti al tribunale della Camera, pel risarcimento dei danni; allegando
(come si può pensare) le obbligazioni del Capitano a loro favore; e
forse anche il diritto acquisito col pagamento del due per cento sulle
merci, titolo equivalente all'assicurazione marittima. Quindi la Camera,
riconoscendo (almeno implicitamente) la giustizia della domanda, e
volendo alleviarsi di questo peso, lo carica tutto sulla capitanìa della
guardia. Il deposito, la sicurtà, i millecinquecento, tutto a carico del
Capitano pel risarcimento altrui.

Il rimedio contenuto nel capitolo decimoterzo disvela una taccherella
precedente, vale a dire che i signori Capitani della guardia per maggior
lucro attendevano talvolta ai trasporti ed al traffico. La tentazione
doveva esser forte, perchè in quei tempi i mercadanti difficilmente
confidavano ad altri il carico delle merci preziose, massime delle
seterie, se non a bastimenti militari; e ciò pel pericolo gravissimo dei
pirati. L'uso era già comune tra regnicoli, siciliani e genovesi. Ma in
Roma papa Giulio non ne volle udir verbo, e proibì ogni maniera di
noleggio sotto la pena di duemila ducati: e ciò con molta ragione.
Imperciocché, messo che siasi ai noli, il Capitano non può liberamente
tenersi in crociera, ma deve andare diritto or qua or là per togliere e
portare le merci verso i luoghi assegnati: di che facilmente potendo
venir saputo ai nemici, si lascia loro il campo libero di gettarsi nella
parte indifesa per rubare, frodare, o manomettere a man salva. Ed anche
supposto lo scontro, il Capitano di traffico non può combattere
speditamente, come si richiede; sia per la distrazione dei pensieri, sia
per l'ingombro del carico. Questo capitolo, nuovo di pianta, spiega
meglio a parer mio la perdita e la fuga delle due galere, e la disgrazia
del capitano Baldassarre nell'estate del nove, come ho detto. Or qui tra
Baldassarre e Giovanni vuolsi notare che al figlio si dà soltanto il
titolo di Prefetto, per non menomare l'autorità del padre: e quando pur
negli ultimi capitoli il notajo lascia correre la voce di Capitano,
subito la spiega e restringe, appiccandole allato l'interpretazione
limitativa alla sola prefettura della guardia permanente. Giovanni
istesso nella firma prima segna assolutamente nobile genovese, poi
circoscrive il capitanato alla prefettura, e il generalato alla guardia
della spiaggia.

Sotto pena anche maggiore, e meglio diremmo massima, di ducati
diecimila, si obbliga Giovanni pel capitolo decimoquinto a tenersi
sempre bene armato, e col pieno della gente, e pronto a dar la mostra in
ogni luogo e tempo che verrà richiesto, perchè non abbia mai a prendere
fidanza di poter nascondere la sua diffalta.

Pel caso di guerra viva, papa Giulio tempera nel suo capitolo
decimosettimo il tenore assoluto del decimoquinto di papa Alessandro. Si
ripete nell'uno e nell'altro l'obbligo del Capitano di tenere per amici
e per nemici gli amici ed inimici di sua Santità; ma Giulio ci aggiugne
il nome della santa romana Chiesa. Con ciò fa manifesto di volere
amicizie ed ostilità giustificate da ragioni di ordine superiore alla
personalità privata.

L'uso antichissimo del condannare i malfattori alla pena del remo viene
espresso nel capitolo decimottavo, con una giunta straordinaria. Si
tratta di mettere a remigare per un anno anche i condannati a morte; ai
quali senza ingiuria pensavano di poter concedere un anno di vita,
perchè alla società oltraggiata dai loro misfatti venisse compenso con
qualche servigio di pubblica utilità. Trapela eziandio dal capitolo
medesimo alcun disegno non totalmente maturo del legislatore intorno a
questa materia: e si potrebbe forse pensare alla commutazione della
pena; sì veramente che gli sciagurati nell'annata dessero qualche segno
di resipiscenza, e qualche speranza di miglior costrutto. Il numero
totale della ciurma in ciascuna galèa risulta dal capitolo
vigesimosecondo pei numeri settanta più ottanta, che fanno cencinquanta
rèmigi: dunque a tre per remo, ciò è dire tre persone per ogni remo
lungo, armato a terzeruolo. Misera la condizione dei rematori nella
galèa: notte e giorno in catena, e costretti col nerbo a gravissime
fatiche. Loro alloggiamento tra i banchi, unico riparo dalle intemperie
la tenda, quando pur poteasi fare: niun soldo, vestito simile ai
bonavoglia, come dirò altrove; e per vitto giornaliero tre libbre di
biscotto e una minestra di fava all'olio. Dicevano bene que' signori
dell'istrumento che altrettanto valeva la pena di morte.

Finalmente gli ultimi capitoli mostrano chiaro come ogni stato presso
alla riva del mare, grande o piccolo che sia, ha bisogno continuo di
forze navali; non solo per la difesa delle persone e per la tutela delle
leggi, ma anche per quei molteplici servigi, che nello strumento si
comprendono sotto la generica denominazione di missioni straordinarie.

NOTE:

[105] ARCHIVIO CAMERALE DI ROMA, del quale dirò appresso, lib. VI, nota
10.

ARCHIVIO DI STATO IN FIRENZE, sezione Medicea, doc. inedit. Fabbrica e
costo delle galèe, scrittura del principe di Piombino don Alfonso
d'Appiano, al granduca Francesco, con data da Cavinana, 2 luglio 1574,
etc. p. 130 e segg.

BIBLIOTECA BARBERINIANA IN ROMA, Mss. inedito, segnato LVIII, 19, e
intitolato: «_Nota di quanto costa una galea_, ecc.» p. 12.

ITEM, cod. LV, 23: _«Stipendî che al presente si danno agli ufficiali ed
altra gente delle galere di Nostro Signore.»_

ITEM, ibid.: _«Provvisioni che si devono dare agli infrascritti delle
galere di Nostro Signore. Data del 6 aprile 1622, firmato cap. Camillo
Nardi, m. propr.»_



[3 Maggio 1512.]

XVII. — Fra le quali spedizioni sarebbe stata sommamente importante e
desiderabile la mossa del Capitano e de' bastimenti di Roma, cogli altri
delle potenze cristiane, contro i temerarî di Costantinopoli per
arrestarne l'invasioni; o almeno contro i pirati dell'Arcipelago dello
Jonio e dell'Africa per ricuperare i legni perduti e per disciogliere le
catene alle migliaja dei Cristiani miseramente gementi nella schiavitù.
Di là voci arrochite nel pianto, e lettere vergate da livide mani
chiedevano soccorso; di qua ogni cuor generoso rincalzava le stesse
risposte: ed i padri del concilio convocato da papa Giulio al Laterano,
fin dalla prima sessione, tenuta a tre di maggio, proponevano l'alleanza
dei fedeli contro gl'insulti perpetui, spietati e insopportabili del
nemico comune. Uno dei vescovi, interprete degli altrui desiderî, e
costretto dal proprio dovere, alla presenza del Pontefice e di tutto il
solenne consesso, così favellava in quel giorno[106]: «Certamente senza
sospiri, senza lacrime e senza il massimo cordoglio non posso rammentare
io, non che esprimere, l'oltracotanza, l'immanità e la rabbia dei
Turchi.... Non entro nel pelago dei mali da noi patiti pei tempi
passati, dico soltanto di ciò che adesso soffriamo.... Frequenti
gl'insulti di guerre ingiuste, continue le scorrerie di ladronecci
disumani: i figli strappati dalle braccia dei genitori, i bambini dal
seno delle madri, le spose violate al cospetto degli uomini, le vergini
tratte a barbariche libidini, i vecchi come inutile ingombro sgozzati in
mezzo alla famiglia, la gioventù come giumenti condannata alla gleba.
Queste nequizie non ho letto io nelle carte, nè mi sono state raccontate
da altri. Io stesso, io continuamente le vedo. Io dalle mura di Spalato,
mia sede arcivescovile, osservo i ladroni a torme saccheggiare i borghi,
e mettere a soqquadro le campagne col ferro e col fuoco, e menar cattivi
in gran numero i figli miei dell'uno e dell'altro sesso, che son pur
figli vostri, o Padre beatissimo. Le stesse scelleratezze nei loro
distretti provano i miei dodici suffraganei. E se volete altri
testimoni, maggiori di ogni eccezione, eccovi qui dinanzi i vescovi
dell'Ungheria, e l'amplissimo primate di quel regno infelice; essi vi
dicono altrettanto.... Spesso spesso siamo costretti, ed io misero
altresì, sospendere a mezzo gli ufficî divini, uscir dalla chiesa,
deporre la cappa, vestire di piastra e di maglia, e correre alle porte
per confortare il popolo afflitto, per fargli cuore, e per condurlo
contro i nemici assetati del nostro sangue.»

[21 febbrajo 1513.]

A questi sentimenti espressi dalla bocca dei padri rispondevano i
popoli, plaudivano i Romani, massime quelli che ricordavano la impresa
di Santamaura o per fatto proprio o per domestica tradizione. La grande
alleanza e la mossa generale contro i tiranni di Costantinopoli, e
contro i pirati di Barberia, nel cuore e sulle labbra di tutti, parevano
imminenti: e Giulio istesso se ne mostrava ed erane al pari di ogni
altro fervidamente desideroso[107]. Ma io son costretto a troncare il
discorso e a tacermi, sì come improvvisamente si tacque papa Giulio la
mattina del ventuno di febbrajo, itone il magnanimo spirito in luogo più
conforme alla sua grandezza. Rotte le pratiche, sospeso il concilio,
aperto il conclave, finito il capitanato di Baldassarre. Nel congedarmi
da lui, secondo le convenienze, vorrei almeno di volo toccare i fatti
successivi della sua vita privata e pubblica nella sua patria: ma ogni
ricerca essendomi tornata vana, mi bisogna senz'altro star contento a
ricordare la stima da lui goduta nella corte di Roma, finchè visse il
suo protettore e concittadino. Ma di Giovanni suo figlio, e di Antonio
suo congiunto, i quali nella squadra permanente e nella riserva
continuarono a militare tra noi anche dopo l'elezione del nuovo
Pontefice, farò menzione, come verranno, sotto il supremo comando
dell'altro Capitano che darà il nome al terzo libro.

NOTE:

[106] ACTA _Concilii Lateranensis quinti generalis novissimi sub Julio
II et Leone X celebrati; in Collect. Concilior._, edit. a Labbeo et
Cossartio, in-fol. Venezia, 1732, XIX, 700: _«Sessio prima, die III maji
MDXII. — «Bernardi Zane archiepiscopi Spalatensis oratio habita in prima
sessione, præsente Julio II P. M.»_

[107] PAOLO GIOVIO, vescovo di Nocera, _Consiglio intorno al modo di
fare l'impresa contro infedeli, secondo la consulta fatta dal Papa_,
in-4. Venezia, 1608. Traduzione di M. LODOVICO DOMENICHI, in fine _alle
Storie_.



LIBRO TERZO.

Capitano Paolo Vettori, marchese della Gorgona. [1513-1526.]


SOMMARIO DEI CAPITOLI.

I. — Il secolo di Leon decimo. — La casa Vettori, e il capitano Paolo. —
Notizie e ritratto (15 marzo 1513).

II. — La darsena di Civitavecchia. — Proposta di cavarla a certa
profondità. — Documento. — La marèa. — Lavori di Bramante, e scandagli
del Sangallo (dicembre 1513).

III. — Le squadre del Vettori, del Biassa e del Bonarelli (1514). —
Bombardieri e castellani. — La rôcca d'Ostia concessa al cardinal Riario
(aprile 1515).

IV. — La dieta per fortificare Civitavecchia. — Disegni autografi di
Antonio da Sangallo per la prima volta dichiarati. — Lavori al porto e
alla darsena (ottobre 1515).

V. — Scorrerie del pirata Curtògoli. — Armamento della spiaggia. —
Lettere di Leone. — Pratiche di alleanza contro i pirati (aprile 1516).

VI. — Spedizione in Africa. — Galèe romane, liguri e francesi sotto
Federigo Fregosi, e bandiera papale. — Assalto a Biserta — Presa di una
galèa nello stagno di Tunisi. — Corsa infino alle Gerbe. — Liberazione
di Cristiani, e acquisto di piccoli legni (agosto 1516). Rivaggio e
Paraggio.

VII. — Conseguenze della spedizione. — Lettera del re di Tunisi. —
Disegni del pirata Curtògoli contro Cristiani e Musulmani. — Comincia il
dominio de' pirati nell'Affrica. — Viaggetti di Papa Leone presso alle
marine. — La Magliana. — Ritorno di Curtògoli, e agguato contro papa
Leone (ottobre 1516).

VIII. — Epidemia in Civitavecchia pei fanghi della darsena. — Morte del
giovane Pier Vettori (1517) — La nostra capitana presa dal pirata
Gaddalì con dodici fuste (settembre 1518).

IX. — Prigionia e riscatto di Paolo Vettori (dicembre 1518). — La nostra
galèa diviene capitana di Gaddalì. — Combattimento del Doria alla
Pianosa. — Riscossa la galèa, e imprigionato Gaddalì (22 aprile 1519).

X. — Francesco, Carlo, e Solimano. — Disegni dei Turchi contro Rodi. — I
galeoni col Vettori in soccorso di Rodi. — Crociera per quei mari, e
acciacco di pirati. — Documento (1520).

XI. — Leone e Carlo contro Francesco. — Armata in Civitavecchia per
isbalzare i Francesi da Genova. — Fazioni di mare. — Sbarco di milizie.
— Acquisti di Lombardia. — Feste alla Magliana. — Morte di Leone (1
dicembre 1521).

XII. — Adriano VI (9 gennajo 1522). — Il Vettori colle galèe in Spagna
per condurlo a Roma. — Navigazione da Tortosa a Barcellona. — Rotta e
dirotta. — La scia e la prora fluida. — Diffidenze degli Spagnuoli. — La
notte e l'astronomia nautica. — Il Doria a Monaco (13 agosto 1522).

XIII. — In alto mare. — Fuga dei pirati, liberazione di una nave. — A
Genova, a Livorno, a Portercole (26 agosto 1522).

XIV. — La notte sull'àncora. — Ingresso in Civitavecchia (27 agosto
1522). — Fisonomia di Adriano. — Visita alle fortificazioni. — Ricordo
delle Celle navali. — Partenza per Ostia. — Arrivo a Roma. — Richieste
per Rodi (28 agosto 1522).

XV. — Le fortificazioni di Rodi. — Basilio da Vicenza, e le tre scuole
degl'ingegneri militari. — Lavori di Basilio in Rodi. — Le altre difese
di quella piazza (1520-1522).

XVI. — Mossa dei Turchi contro Rodi. — Armata ottomana, e squadre dei
pirati. — Disegni del Bartolucci contro di loro. — I Cavalieri alle
poste. — Novero dei difensori (26 giugno 1522).

XVII. — Il Martinengo e i suoi allievi in Rodi. — Batterie convergenti e
radenti. — Ripari, e lavori di terra. — Fuochi lavorati e polverificio.
— Contrammine preventive e occasionali. — Ferito il Martinengo di
_chirioboarda_ (luglio-novembre 1522).

XVIII. — Artiglieria turchesca. — Bombarde e basilischi. — Palle di
pietra, di ferro e di bronzo. — Il rimbalzo e i portelli a ribalta. —
Mortaj e bombe. — Mine dei nemici. — Cavalieri di campo. — Uccellamento
alle cime. — Assalti, mortalità, capitolazione (20 dicembre 1522).

XIX. — La partenza da Rodi e l'ultimo squillo della tromba (1 gennajo
1523). — I Cavalieri verso Roma. — Il Vettori incontro. — Il Grammaestro
in Civitavecchia (agosto 1523). — Convento, spedale, marineria. — Morte
d'Adriano, elezione di Clemente, e trattati dei cavalieri
(settembre-novembre 1523).

XX. — Paolo Vettori confermato da Clemente VII. — Capitoli della
condotta (12 dicembre 1523).

XXI. — Confronto tra questo ed altri simili documenti. — Il numero dei
combattenti. — Castellania e capitanato. — Servizio di guerra, dogana e
polizia. — Prede, risarcimenti, e memorie perdute. — Rappresaglie
annullate. — Articolo del contaggio (1524).

XXII. — Molestie del pirata Giudèo. — La squadra nostra e la
gerosolimitana contro di lui. — Presigli due bastimenti, e affrancati
gli schiavi (giugno 1524).

XXIII. — Le due squadre in Spagna col Grammaestro e col Legato (25
giugno 1525). — Prigionia e liberazione del re Francesco (gennajo 1526).
— Lega contro l'Imperatore (22 maggio 1526). — Missione di Paolo Vettori
e sua morte (26 maggio 1526).



LIBRO TERZO.

CAPITANO PAOLO VETTORI,

MARCHESE DELLA GORGONA.

[1513-1526.]



[15 marzo 1513.]

I. — Quanto vi avea di grande nelle scienze, nelle lettere e nelle arti
per tutta l'Italia, in un'epoca straordinariamente feconda di belli
ingegni, quasi tutto al principio del secolo decimosesto erasi raccolto
in Roma: però papa Leone, eletto ai quindici di marzo del 1513, non ebbe
a durare gran fatica per mettere a festa la sua corte col primo fiore
delle dotte e virtuose persone del tempo. Suoi secretarî il Bembo e il
Sadoleto, suoi teologi il Silvestro ed il Gaetano, suoi pittori
Raffaello e Giulio, suoi architetti il Sangallo e Michelangelo; e suo
capitano sul mare, mi sia presto concesso questo passaggio, il nobile
Paolo Vettori, pari a chiunque nella grandezza dell'animo, nella
gagliardia del braccio e nella perizia dell'arte nautica[108].

La famiglia dei Vettori, ammessa a tutti gli onori della repubblica
fiorentina, prima che si tramutasse in Roma col titolo del marchesato,
fioriva in questi tempi per uomini eminenti nelle lettere e nelle armi,
tutti apertamente seguaci della fortuna trionfante di casa Medici: Piero
il giovane, sommo filologo del suo tempo[109]; Piero il vecchio,
celebrato per senno politico e per la molta perizia nelle lettere latine
e greche; il nome di Francesco ritorna ad ogni pagina delle storie
patrie, dalla cacciata di Pier Soderini, fino all'elezione del duca
Cosimo; e il nome di Paolo, secondogenito di Piero il vecchio e fratello
di Francesco, spicca a gran rilievo nelle vicende di Roma durante il
pontificato di Leone, d'Adriano, e di Clemente. Sollevato dai favori e
dagli encomî singolarissimi della casa e dei partigiani de' Medici; ed
altrettanto depresso dal biasimo degli avversarî, può essere chiamato ad
esempio della sorte comune di chiunque entra troppo nei partiti, e con
questo corre diversamente accagionato nei giudizî degli uomini e delle
storie. Due sole cose di lui tuttafiata amici e nemici a vicenda
confermano: l'eccellenza di marino, e l'intrinsichezza di confidente
appo il cardinal Giovanni dei Medici. Il quale, divenuto Papa, anche
nella sublimità del nuovo grado, continuò a comunicare con lui i suoi
pensamenti: e sapendo quanto poteva ripromettersi dal valore di un uomo
non solo da discorrere, ma da operare fortemente, datogli subito il
capitanato delle galèe, lo mandò con questo titolo a Torino, compagno di
Giuliano suo fratello per le nozze con Filiberta di Savoja.

Paolo era nei trentasei anni: sottile e rubizzo della persona, fronte
sporgente, ricca e crespa capigliatura all'occipite, rada alla sommità,
naso affilato e non breve, piccoli mustacchi, poca barba, alto il
ciglio, e lo sguardo acutissimo e penetrante come di succhiello. Restaci
il suo ritratto inciso in gran foglio tra le immagini degli uomini
illustri della Toscana, vestito di ricca armadura, il bastone del
generalato sotto al braccio, bussole, rombi, compassi, e carte marine
sur un trespolo, ed egli presso il verone fisso cogli occhi al mare,
alle galèe ed agli stendardi dalle chiavi incrociate. Sotto vi è
scritto[110]: «Paolo Vettori, capitan generale delle galèe della Chiesa
nel pontificato di Leone X, Adriano VI, e Clemente VII; dalla corte di
Roma e dalla repubblica fiorentina spedito al campo imperiale di
Lombardia. Nato nel 1477, morto nel 1526.»

Più altre notizie di lui ci fornirà la storia scritta dal fratello,
recentemente pubblicata con molte annotazioni nell'Archivio storico di
Firenze[111]: e ricchissima mèsse avremmo potuto raccogliere
dall'archivio privato dei marchesi Vettori di Roma, se i moderni
discendenti ed eredi avessero saputo custodire quel tesoro di lettere e
di corrispondenze originali, che ora non si sa dove sia perduto[112].

NOTE:

[108] POMPEO LITTA, _Le famiglie celebri d'Italia. — Dei Vettori_, tav.
II. — Quivi l'ordine genealogico, le brevi notizie di ciascuno, e lo
stemma tagliato di due pezze di ferro e d'argento, e sul taglio la banda
d'oro caricata di tre gigli.

GIORGIO VIVIANO MARCHESE, _La galeria dell'onore_, in-4. Forlì, 1735, I,
438.

GIOVANNI CAMBI, _Le istorie_, ap. P. IDELFONSO DI SAN LUIGI, _Delizie
degli eruditi toscani_, in-8. Siena, 1786, XXII, 142.

GUICCIARDINI, SEGNI, NARDI, VARCHI, AMMIRATO.

[109] ANGELUS M. BENDINIUS, _Petri Victorii vita et clarorum Italorum et
Germanorum epistolæ ad eundem_, in-4. Firenze, 1758.

[110] SERIE DI RITRATTI _degli uomini illustri toscani, con gli elogi
storici dei medesimi_, in-fol. magno, Firenze, 1768, t. II, quasi nel
mezzo del volume non impaginato. «_Da un quadro di casa Vettori._»

BIBL. CASANT. M. II. 10, in CC.

[111] FRANCESCO VETTORI, _Sommario della Storia d'Italia dal 1511 al
1527; e Notizie delle azioni di Francesco e di Paolo Vettori_,
pubblicate per cura di ALFREDO REUMONT. — ARCH. STOR. ITAL., 1848, in-8.
Firenze, app. n. 22, VI, 270.

[112] L'ARCHIVIO PRIVATO DI CASA VETTORI IN ROMA, citato dal MORENI
nella _Bibliografia toscana_, dal LITTA nelle _Famiglie celebri_, dal
RANKE nelle _Vite dei pontefici del cinquecento_, e da altri, aveva fino
al principio di questo secolo, come da uno schizzo d'inventario presso
di me:

«_Due volumi di lettere a Paolo Vettori, capitan generale delle galèe
del Papa;_»

«_Due altri volumi di lettere della Repubblica fiorentina a Francesco
Vettori, nell'anno 1513;_»

_«Tre altri volumi della stessa al medesimo dall'anno 1514 al 1524;»_

«_Un volume di lettere di personaggi illustri ai Vettori dal 1513 al
1519._»



[Dicembre 1513.]

II. — La pronta nomina dell'eccellente capitano, e l'immediato possesso
di lui in Civitavecchia, affrettarono la risoluzione dei risarcimenti
alla darsena, per meglio raccogliervi e ordinarvi le forze marittime
dello Stato. La darsena non è altrimenti una prigione, come alcuni
pensano, ma la parte più sicura e più comoda di un porto, dove il
naviglio militare sverna, si racconcia e si arma. L'equivoco è venuto
nei tempi moderni dall'esservi restati in abbandono i bastimenti da
remo, e con essi le ciurme di catena, o ristrette sulle pulmonarie
galleggianti, o stivate nei prossimi magazzini. Salvo il caso recente,
resta per ogni altro tempo il primo e proprio significato di porto
minore presso un porto maggiore, fornito di scali e di edificî per
servigio dei navigli militari, difeso con buone fortificazioni e ripari
dalle tempeste del mare e dagli insulti dei nemici. Antichissimo fatto:
alla romana dicevasi Angiporto, alla greca Epistio, all'italica
Porticciuolo; e poi, con voce derivata dall'arabo, Darsena[113].

Presso al porto di Civitavecchia una ve n'ha, che può essere annoverata
tra le più belle del Mediterraneo: venticinque migliaja di metri quadri
in superficie, sei metri di uniforme profondità, grandiosi magazzini
all'intorno, e talmente coperta da una cinta bastionata, che niuno la
vede se non siavi dentro. Un documento di questo tempo ci mostra che si
voleva nettarla e ridurla a maggiore profondità. E quantunque la scritta
non porti data, nondimeno deve necessariamente ridursi alla fine del
tredici. Non prima, perchè intestata a papa Leone, eletto nel mese di
marzo dell'anno medesimo; non dopo, perchè agli undici di marzo
dell'anno seguente moriva Bramante, al cui giudizio è rimessa
l'approvazione dei lavori[114]. Ecco il documento[115]:

«Patti e conditioni fatte da Giulio de Maximi, che promette a Leon X di
cavare a certa profondità e tempo il porto piccolo di Civitavecchia. —
Io Julio de Maximi sono contento e prometto a lo santissimo padre nostro
papa Leone X di cavare il porto piccolo di Civitavecchia, incominciando
dalla bocca, e seguitare dentro per tutto, per infino alle mura che
circuiscono il detto porto, con le infrascripte conditioni et capituli:

«1. Di prima che la santità di nostro Signore debba darmi al presente
ducati quattro mila d'oro in oro per prezzo e mercede di tutta l'opera
che havrò a fare in detto porto: et per me pagarli di contanti a Mario
de li Cavalieri, nobile cittadino romano.

«2. Il detto Mario havrà a promettere et obbligarsi a nostro Signore, in
caso che io non osservi di cavare il detto porto, secondo di sotto
prometto, di restituire tutti li danari havrà ricevuti; o vero far
cavare esso il porto, secondo la mia promessa, con quel più breve tempo
si potrà.

«3. Che io sia obbligato cavare il porto con miei ingegni ed arti, in
modo che la bocca stia sempre aperta et patente, come sta ora, per
comodo de' naviganti.

«4. Voglio, cominciando dalle acque comuni, che è il mezzo tra l'altezza
diurna et bassezza delle acque per lo flusso, nel quale mezzo si vede
certa verdura come una linea retta nelli muri et scogli del porto; et
diuturnamente et ordinariamente crescono le acque uno palmo vel circa
sopra quel segno, et viceversa decrescono; et per le grandi altezze et
bassezze extraordinariamente eccedono da ogni banda assai: et da quel
segno in giù voglio cavar tanto che habbia palmi nove di fondo di canna
romana. Eccetto che, se trovassi scoglio o muro, non voglio essere
obbligato a cavare più oltre che esso muro o scoglio.

«5. Da poi che saranno disborsati li danari, et chiarito il giusto segno
delle acque, a comune judicio di marinari venetiani et genovesi, o vero
a judicio di frate Bramante (al quale del tutto me ne rimetto), voglio
aver tempo due mesi a mettermi in ordine per cominciare l'opera: et di
poi alli duo mesi voglio haver tempo mesi diciotto ad haverlo finito di
cavare.

«6. Che mi sia lecito gittare il fango in quel luogo che mi farà più
comodo.

«7. Che mi sia lecito far tagliare il legname che mi bisognerà in tutte
le selve vicine, in terra di Chiesa, senza alcun prezzo di selvatico o
di altra impositione.

«8. Che io sia accomodato di tutte quelle stanze che mi bisognerà, tanto
in rôcca vecchia quanto in rôcca nuova, e dove la Camera havrà modo di
accomodarmi, senza alcun pagamento.

«9. Che tutte le cose che adoprerò per me, per l'opera, e per i miei
uomini habbiano a essere franche da ogni gabella, così se da Roma, come
se da ogni altro luogo soggetto alla Chiesa, mi bisognerà mandare roba a
Civitavecchia, siano franche da ogni gabella; e similmente quella roba e
artiglieria havrò adoperata alla detta opera, volendola ridurre in Roma,
sieno franche da ogni gabella o datio.

«10. Che tutte le galere et altri legni che sono annegati nel detto
porto, et ogni altra cosa, sia libera mia.

«11. Che andando li miei uomini per macinar grano alli mulini vicini, li
mulinari sieno obbligati posporre ogni altra persona et expedire li
miei, sotto quella pena parerà a Nostro Signore, eccetera.»

I documenti, siano pure intorno a materie di piccola importanza, portano
più lume e certezza alla storia di qualunque discorso, a chi li sappia
intendere. Ecco qui, rispetto alla darsena di Civitavecchia, la bozza di
un contratto per cavarla a certa profondità; ed eccovi insieme la
certezza della sua esistenza anteriore all'opinione de' moderni che
l'attribuiscono a papa Pio IV, senza attendere alle memorie perpetue del
medio èvo, come ho detto altrove, e senza sapere della descrizione
fattane nel quattrocento da Flavio Biondo. Anzi il presente documento ce
la mostra già tanto antica nel pontificato di Leone, e mezzo secolo
prima del detto Pio, che pei rottami di navigli sommersivi da tempo
immemorabile e per la invetrata poltiglia, sarebbesi resa inutile se non
si dava mano a rinettarla. Di più eccovi la speranza di trovarvi
anticaglie e oggetti preziosi, come di fatto si è visto infino ai nostri
giorni, essendosi ripescato colà tra le molte medaglie, bolli, musaici,
ed altri oggetti antichi, quel superbo braccio di bronzo di che si
abbellisce ora il musèo etrusco del Vaticano. Ecco nella eccellentissima
casa dei Massimi, nota agli eruditi per le edizioni romane del primo
secolo, continuarsi lo slancio verso le imprese ingegnose. Eccovi il
teorema della marèa diurna, notissimo anche in quel tempo; e la maniera
di valutarne con pratiche induzioni anche nel nostro mare gli estremi,
tuttochè di poca levata nelle circostanze ordinarie. Ecco la popolare
nomenclatura che allora distingueva la rôcca vecchia dalla nuova; e
questa, che oggidì chiamiamo la Fortezza, già tanto avanzata nella
costruzione, da potervisi alloggiare la brigata e gli operaj di messer
Giulio. Ed ecco finalmente ogni cosa rimessa al giudizio di un grande
artista, come dire di Bramante; il cui nome, introdotto con tanta
sicurezza nel documento, per sè indica la notorietà e frequenza di lui
in quel luogo; dove non poteva essere per altro che per l'opera maggiore
che allora vi si faceva, ciò è dire per la fabbrica della predetta
Fortezza, tutta di suo stile, come altrove più largamente esporrò. Si
noti eziandio l'appellativo di Frate, dato a Bramante; perchè risponde a
capello coi fatti e colla storia; e ricorda la promozione di lui
all'ufficio del Piombo: ricco, geloso e nobile ufficio di suggellare col
metallo dolce le bolle pontificie, secondo che usavano i frati laici
dell'ordine Cisterciense; a similitudine dei quali gli altri piombatori,
cavati dal ceto degli artisti, vestivano in certe occasioni l'abito
consueto dei frati precessori, e si chiamavano Frati del piombo,
camuffati di tonaca e di cappuccio, come si vedono pure ritratti nelle
antiche rappresentanze, quantunque non facessero niuna professione di
vita monastica[116].

Non voglio lasciare questo documento senza venire alla conclusione. La
cavatura in vece di giungere solamente alla profondità uniforme di palmi
nove per tutto il bacino, passò la minima di palmi quindici, e toccò la
massima di palmi venti, come risulta dalla pianta di detta darsena
delineata poco dopo da Antonio il giovane da Sangallo, e coperta con una
rete di scandagli, il cui originale ho trovato io stesso tra i cartoni
di lui alla Galleria di Firenze, e ne ho il facsimile presso di me per
la squisita cortesia del cavalier Carlo Pini, direttore e conservatore
delle stampe[117].

NOTE:

[113] RUTILIUS, _Itinerar._, vers. 242.

VARRO, _De L. L._, IV, 31.

VITRUVIUS, _Arch._, lib. IV.

CRESCENTIO, _Nautica_, 537, 539, 542.

[114] VASARI, ediz. Le Monnier, VII, 138.

GAYE, _Carteggio di artisti_, in-8. Firenze, 1839-41, II, 135: Lettera
di Baldassarre Turini a Lorenzo de' Medici, scritta da Roma il 12 marzo
1514, _«Maestro Bramante morì hiermattina.»_

[115] ARCHIVIO SECRETO VATIC. Armadio XIII, caps. XIV, n. 26.

SCHEDE BORGIANE, cit., Musèo di propaganda.

CODICE VATICANO, n. 8046.

ANT. COPPI, _Schede ms._, alla Casanatense.

[116] VASARI, cit., ediz. Le Monnier, X, 129, 130. «_Sebastiano
Viniziano chiese l'ufficio del Piombo.... Il Papa ordinò che esso
Bastiano avesse l'ufficio.... Laonde Sebastiano prese l'abito del
frate._»

ITEM, VII, 133. «_Per il che Bramante meritò dal detto Papa Giulio, che
sommamente l'amava per le sue qualità, di esser fatto degno dell'ufficio
del Piombo._»

ITEM, XII, 233. «_Michelangiolo messe innanzi e favorì volentieri
Guglielmo della Porta.... e gli fece dare l'ufficio del Piombo.... il
cardinal Farnese ordinò fare una gran sepoltura per le mani di esso Fra
Guglielmo._»



[1514.]

III. — Adesso mi continuo a tirar fuori dai registri le notizie, secondo
i tempi. Trovo nel quattordici tre squadre in navigazione: quella della
guardia consueta sotto il Vettori, composta di tre galere e di due
brigantini[118]; l'altra di due galere con Giovanni da Biassa, il quale,
quantunque licenziato da Giulio II dopo la battaglia di Ravenna, ora
nondimeno milita con papa Leone, e per lui quest'anno rimena in Francia
il signore di Rochefort, ambasciatore del re presso la santa Sede; ed
al ritorno, passando di Genova, da Giovanni Vespucci oratore papale in
quella città riceve l'ordine di venirsene sollecitamente colle galèe
in Civitavecchia per congiungersi col Vettori, e assicurare viemeglio
le difese della spiaggia, e i servigi che si prevedono pel viaggio del
Papa[119]. La terza muove da Ancona col cavalier Bonarelli verso
Venezia per imbarcare certe artiglierie, richieste da papa Leone al
doge Loredano[120], secondo la nota compilata da Leonardo di Firenze,
nuovo capo dei bombardieri in castello Santangelo, succeduto di fresco
al defunto Matteo Galli bombardiero romano[121].

[Aprile 1515.]

Questi apparecchi tendevano evidentemente alla spedizione generale
contro i nemici comuni della società cristiana, ma non approdavano.
Tutti piativano per finirla coi Turchi di là, non così però che prima
non volessero di qua aver assettato le faccende loro a proprio talento.
Quindi ciascuno proseguiva i suoi litigi intestini: le divisioni tra i
principi maggiori del mondo cristiano crescevano, e vicino ci bolliva
aspro conflitto con Urbino, con Ferrara e con Milano, oltre alla
congiura contro la vita di papa Leone, che poi scoppiò nel diciassette.
Il cardinal Petrucci strangolato in Castello, tre altri afflitti di
gravissime pene, e il cardinale Adriano di Corneto fuggito via[122].

Il primo passo dierono i congiurati in quest'anno al diciannove
d'aprile, quando il cardinale ostiense Raffaello Riario, per sicurezza
della sua persona e dei complici, richiese la rôcca di Ostia, dal
cardinal Giulio dei Medici e dal castellano Gianfrancesco de Noris
fiorentino. La prese a titolo di affitto, con grossa malleveria sul
banco dei Balducci, e colla promessa di tenerla e goderla a uso delle
oneste persone con tutte le munizioni, artiglierie e corredo; secondo
legale inventario[123].

NOTE:

[117] ANTONIO PICCONI DA SANGALLO alla Galleria di Firenze, tra i suoi
originali, non numerati, se non con un 270 attraversato da una linea di
cancellatura. Vi si leggono tre scritture di sua mano: al margine
«_Porticello,_» all'ingresso sulla piazzetta «_Giardino,_» alla mancina,
«_Li muri del paramento,_» e sulla rete degli scandagli i numeri, «15,
17, 18, 20,» ecc.

[118] GIOVANNI CAMBI, cit., XXII, 142.

SCIPIONE AMMIRATO, cit., II, 335

[119] GUICCIARDINI, ediz. del 1645 cit., p. 594.

PETRUS BEMBUS, _Epistolæ Leonis X, Pont. Max. nomine conscriptæ, inter
Opera omnia_, in-fol., Venezia, 1729, IV, 74, 85: «_Johanni Blassiæ,
classis prefecto, sub die xxx sept. MDXIV.... Eidem triremium prefecto,
sub. die xxx maji MDXV._»

[120] BEMBUS ut. sup., IV, 87: «_Leo X, Leonardum Lauretanum Venetorum
Ducem rogat, ut tormenta bellica commodet parandis navibus Anconæ
constructis adversus Turcas.... Statui triremes aliquot, que Anconæ
fabricatæ sunt deducere et ornare.... Peto ut tormenta bellica mihi
commodes etc..._» (5 luglio 1515).

[121] ARCHIVIO SECR. VAT. — _Leonis Pp. X. Diversor._ — «_Die I dec.
MDXIIII Leonardus de Florentia fuit librator tormentorum in arce Sancti
Angeli, loco defuncti magistri Matthæi Galli._» — ARCH. ST. IT., an.
1866, I parte, p. 219.



[Ottobre 1515.]

IV. — Non conscio dell'iniqua trama, papa Leone il primo di ottobre
partivasi da Roma verso l'Etruria marittima, e finalmente riducevasi
colla corte in Civitavecchia, dove pel cavamento della darsena e pei
fondali guadagnati, venuto in maggiori speranze, faceva assegnamento di
nuove fortificazioni. Aveva perciò intimato colà una dieta di soldati e
d'ingegneri principalissimi, coi quali alla vista del luogo intendeva
deliberare il modo e la forma della nuova cinta. Convennero quegli
stessi capitani ed architetti, che poscia nel dicembre seguirono papa
Leone verso Bologna incontro a Francesco re di Francia, secondo il
partito preso quivi stesso in Civitavecchia sulla fine d'ottobre al
primo annunzio del pericolo, come narra Paride de Grassi[124].
Necessaria avvertenza cronologica per istabilire con certezza il fatto e
il tempo.

Ragionandosi dunque colà di fortificare detto luogo (come ben dice il
Vasari), cioè la città intiera, non un pezzo della rôcca vecchia o della
nuova (come altri confondono al solito), tra quei signori ed architetti,
e tra i diversi pareri, Antonio il giovane da Sangallo, afferrata la
bella occasione di mostrare alla corte, ai mecenati e a ogni altro il
valor suo, e quanto degnamente fosse stato eletto tre mesi prima
all'eminente ufficio di architetto di san Pietro, spiegò i suoi cartoni,
e mostrò il disegno compiuto di tutta l'opera, che fu approvato dal Papa
e dagli altri, come di tutti il migliore per giudizio, per arte, per
eleganza, e per fortezza[125]. Dunque non ciance o ciarpe vecchie,
salmisìa, ma progressi importanti dell'arte nuova.

Antonio, iniziato ai principî dell'architettura militare dagli zii, e
poi seguace di Bramante non solo nel corridojo di Castel Santangelo, ma
anche nella rôcca nuova di Civitavecchia, come dimostrerò coi suoi
autografi, già conosceva il terreno, e già aveva in pronto il
risultamento dei suoi studî: una cinta bastionata alla moderna, con
sette baluardi reali da circondare la darsena e la città da un mare
all'altro, appoggiando gli estremi alle due rôcche. Quali si mostrano i
quattro disegni originali di sua mano che si conservano alla Galleria di
Firenze, e gli altri tre che vi ho trovato io stesso, tali i lavori
eseguiti in Civitavecchia nell'istesso secolo e tuttavia esistenti,
conformi ai medesimi disegni; tale la pianta identica degli originali e
della esecuzione intagliata sopra quattro medaglie del secolo
decimosesto. Dunque rivelazioni importantissime per la storia dell'arte,
che oramai ci viene sicura, dimostrata, e più antica che altri non
avesse pensato o scritto. Falso il primato dei Sammicheli, secondario il
magisterio del Martini. Il primo baluardo esiste ancora in Ostia dal
1483 per opera di Giuliano da Sangallo, il primo pentagono bastionato
esiste ancora in Civitacastellana dal 1496 per opera di Antonio suo
fratello, la prima fortezza quadrata con quattro baluardi a musone
esiste ancora dal 1501 per opera dello stesso; e la prima cinta reale di
piazza d'arme, coll'ordine rinforzato a fianchi doppi, esiste ancora in
Civitavecchia dal 1515, per opera del nipote. Non avremo più a perderci
in dubbii e in congetture appresso ad altri misagiati ricordi di
fortificazioni, posteriori di data, e da lunga pezza distrutte[126]: ma
verrà la storia nuova sopra Monumenti primitivi, di epoca certa,
tuttavia esistenti, e conformi ai disegni originali dei classici,
conservati infino a oggi. La somma di queste cose io scrivevo del 1858
nel giornale delle Strade ferrate[127], quando niuno dei miei maestri
(anche dopo compiuta l'edizione del Vasari pel Le Monnier) nè in Roma,
nè in Italia, nè fuori pensava punto a queste nuove dimostrazioni, colle
quali e con altre simili tratterò io la storia dell'architettura
militare senza allontanarmi dalla spiaggia romana, come si vedrà nel mio
libro della fortificazione. Non intendo a pretensioni, ma alla verità
che torna onorevole a tutti.

Antonio allora aggiunse agli ufficî suoi di Roma la direzione dei lavori
di Civitavecchia, andandovi spesso e tornandone, secondo il bisogno. E
quantunque egli cominciasse l'opera di terra e fascine, riservando a
miglior tempo l'incamiciatura; nondimeno murò quattro porte, due dalla
parte della campagna e due alla marina, sulle quali esso stesso pose lo
stemma delle sei palle di papa Leone[128]; e questo fu addì quindici
giugno del diciannove. Il mese seguente addì ventisette luglio dello
stesso anno Antonio fece incastrare attorno alla darsena le teste di
bronzo che ancora si vedono, e sono chiamate dai civitavecchiesi i
Mascheroni: cioè una diecina di teschi a ceffo leonino, disegnati da
mano maestra di vivissima bizzarria, e gittati in metallo colle zanne
sporgenti e le labbra accartocciate per sostenere fermamente e penzoloni
gli anelli massicci pur di bronzo, dove i bastimenti danno volta ai cavi
di posta in alto, tanto da poter camminare per le banchine senza
inciampare a ogni passo tra i cánapi. Gli anelli ritraggono le forme
consuete del cinquecento colla gemma piramidale a quattro faccie nel
castone: in somma l'anello mediceo. Il getto si dice fatto da Giacopo
dell'Opera, cui si pagano cento ducati a buon conto[129]. Col nome
dell'Opera abbiamo notissimo tra gli artisti un Giovanni, detto pur
delle Corniole, discendente di tessitori di drappi a opera, donde il
soprannome della famiglia. Giovanni, morto in Firenze nel 1516, lasciò
eredi i nipoti, figli di Francesco suo fratello; uno dei quali avrebbe a
essere il nostro Jacopo[130].

Dunque Antonio costruiva la cinta bastionata, murava le porte, metteva
gli stemmi, incastrava cogli arpesi i mascheroni, piombinava nella
darsena, ristaurava il porto, la bocca e il molo grande[131]: e tanto
era attaccato a quel luogo, che dopo cinque lustri continuavasi a
solennizzare colà le care memorie della sua prima comparsa, scrivendo di
suo pugno[132]: «Colubrina di mastro Andrea. Questa Colubrina ò fatto la
prova a Civitavecchia, addì dieci ottobre 1538.»

NOTE:

[122] PARIS DE GRASSIS, _Diaria cærem._ mss. cit., sub. die XIX maji
MDXVII, et segg.

RAINALDUS, _Ann. Eccl._ 1517 n. 92, 96.

[123] ARCHIVIO SECR. VAT. _Leonis Pp. X, Diversor._ sub die XIX aprilis,
MDXV: «_Deputatio Julii cardinalis de Medicis ad custodiam arcis Ostiæ,
et arrendamentum dictæ arcis cardinali Ostiensi.... qui promisit uti et
frui arbitrio boni viri, et illam tenere nomine Francisci Antonii de
Noris.... Una cum omnibus et singulis munitionibus, artiglieriis, et
aliis rebus per inventarium consignatis._»

[124] PARIS DE GRASSIS, cit.: «_Die prima mensis octobris MDXV Papa
discessit ab Urbe versus Viterbium, Montem Faliscorum, Tuscanellam et
Centumcellas seu Civitatem Veterem. Ubi cum esset nunciatum est, regem
Francorum, qui nuper Mediolanum in potestatem suam redegerat, velle ad
Papam personaliter cum exercitu suo venire. Unde Papa veritus ne quid
novitatis in transitu machinaretur operatus est ut ipse ad Bononiam cum
omni curia transcenderet._»

AMMIRATO, cit., 317: «_Non era il Pontefice senza sospetto, che il Re
vittorioso non si volgesse contro Toscana e contro Roma._»

RAINALDUS, _Ann. Eccl. 1515_, n. 20 e segg.

[125] VASARI, cit., ed. Le Monnier, X, 6: «_Andando poi il Papa a
Civitavecchia per fortificarla, e in compagnia di esso infiniti signori,
e fra gli altri Giovan Paulo Baglioni, e il signor Vitello, e similmente
di persone ingegnose Pietro Navarra, ed Antonio Marchisio.... e
ragionandosi di fortificar detto luogo, infinite e varie circa ciò
furono le opinioni; e chi un disegno chi un altro facendo, Antonio fra
tanti ne spiegò loro uno, il quale fu confermato dal Papa e da quei
signori ed architetti, come di tutti migliore per bellezza e fortezza, e
bellissime ed utili considerazioni: onde Antonio ne venne in grandissimo
credito appresso la Corte._»

[126] CARLO PROMIS, _Gli ingegneri militari che operarono e scrissero in
Piemonte dal 1300 al 1650_, in-8. Torino, 1871, p. 22, novera tra le
primitive Nizza del 1517, Piacenza del 1518, Bari del 1520, Firenze del
1523; e non fa motto di Civitavecchia del 1515 anteriore a tutte le sue
primitive, e più delle altre conservata.

[127] LE STRADE FERRATE, giornale romano ebdomadario, diretto dal cav.
LUIGI MANZI. Anno secondo, numeri 22 e 23, colla data della loro
pubblicazione nel venti e ventisette novembre 1858. — Richiamato nel
giornale _Arcadico_ di Roma immediatamente per la rivista seguente tra
le varietà, e ripetuto nel primo paragrafo della mia scrittura sui
bastioni di Civitavecchia colla data del 28 aprile 1860.

[128] ARCHIVIO STOR. ITAL., _Notizie artistiche_, cavate dall'ARCHIVIO
SECRETO VATICANO e pubblicate da ALBERTO ZAHN, in-8. Firenze, 1867, VI,
I, 184: «_Magistro Antonio da Santo Gallo, ducati quaranta, addì 15
giugno 1519, quali sono per pagare quattro pezzi di marmi a magistro
Pietro Stella, per quattro arme che vanno a Civitavecchia._»

Item dal periodico di Roma, intitolato al BUONARROTI, anno 1871. Agosto,
p. 246.

[129] ARCHIVIO e BUONARROTI, cit., ut sup. «Addì 27 luglio 1519
_Magistro Jacopo dell'Opera a buon conto sopra le teste di bronzo vanno
a Civitavecchia, duc. 100._»

[130] MILANESI e PINI, _Corrispondenza di artisti_. La vita e
l'autografo di Gio. dell'Opera.

[131] ARCHIVIO, ut sup. citato pur nel BUONARROTI, p. 246: «_A 20
novembre 1519 a maestro Ant. da Santo Gallo per acconciar la bocca del
porto di Civitavecchia, et pagare li maestri del molo grande, duc.
500._»

«_3 Ottobre 1520. A messer Filippo Argenti per conto del molo grande di
Civitavecchia, et fundamento del Palazzo, a conto, duc. 500._»



[26 Aprile 1516.]

V. — Intanto che le nostre marine contro ai pirati fortificavansi,
Curtògoli crescendo di ardimento e di potenza teneva in continuo
fastidio le campagne littorane, e sul mare moltiplicava i danni. Costui
turco d'origine (_Kurdogli_) gran maestro della grande pirateria,
d'intesa coll'imperatore di Costantinopoli, erasi stabilito in Biserta
del regno di Tunisi, più tosto principe che ospite, con trenta
bastimenti da corso e quasi seimila ladroni al suo comando; coi quali
intendeva nuocere a ogni altro cristiano o islamita, tanto sol che
giovasse agli interessi della crescente razza piratica. Però non ostante
il trattato di commercio e di amicizia tra il re di Tunisi e i Genovesi,
aveva menato prede dalla Liguria, e sottomessa a tradimento una galera
della guardia. Quest'anno del sedici alla primavera contava già presi
diciotto bastimenti siciliani con tutto il carico di frumenti; e lo
sciame crescente dei ladroni venivagli appresso con molti bastimenti da
remo, ronzando sulle spiagge dell'Etruria marittima. Papa Leone con
pressa grande scriveva alle città e ai rettori littorani di mettersi in
guardia contro nemici possenti e vicini; ed al preside della provincia,
Francesco Pitta, ordinava di non mancare a niuna parte dell'ufficio suo
per salvezza dei popoli. Le lettere papali, colla data del ventisei di
aprile di quest'anno, sono pubbliche tra le opere del Bembo che le
dettava: e qualcuna ne resta ancora originale negli archivî delle città
medesime. Traduco la più breve, diretta ai Falisci, e valga per
saggio[133]: «Abbiamo notizia certa di una armata non piccola di ladroni
e pirati africani che han preso a scorrere pel nostro mare, ed ora si
volgono contro Civitavecchia e contro le spiaggie del vostro distretto.
Dunque vi ordiniamo di ubbidire senza replica a Francesco Pitta
vicelegato della provincia in tutte le cose che vi comanderà, non
altrimenti che se vi fossero comandate da Noi stessi in persona. Sono
provvisioni urgenti che riguardano l'incolumità vostra nella vita e
nelle sostanze. Dato a Roma li ventisei di aprile 1516 del nostro
pontificato anno quarto.»

Può ciascuno da sè quasi direi vedere gli effetti di lettere tanto
incalzanti e stringate: accorrere dalle provincie interne le milizie
assoldate, armarsi la gente del contado a piedi e a cavallo, uscire
all'aperto, occupare i ponti e le strade, battere le spiagge, mandare e
ricevere corrispondenze celeri da luogo a luogo, di giorno e di notte, e
mettere in opera tutti i provvedimenti che a cessare simili pericoli per
quei tempi si costumavano. Il solo sospetto, e molto più le prossime
minacce, bastavano a tenere in travaglio le intiere province, e a dare
altrettanto di fastidio che la stessa invasione. I pacifici abitatori
nell'ambascia, la città di Roma in sospetto, preghiere pubbliche per le
chiese, e il Pontefice istesso a processione per conciliare il favore di
Dio e degli uomini alla difesa del paese[134].

Però senza misconoscere i vantaggi della pietà, papa Leone attendeva al
resto, come colui che parlando dei turchi e dei pirati soleva dire[135]:
«Grande stoltezza di alcuni il pensare di poterli conquidere solamente
colle orazioni: dobbiamo metterci alle armi, e combattere da senno, se
vogliamo liberarci dalla loro oppressione.» A questo fine apparecchiava
la sua squadra navale, congiungeva le galere del Biassa a quelle del
Vettori, tregua tra i principi proponeva, cardinali di fiducia e di
autorità per le corti spediva, e tutte quelle pratiche ripigliava che
gli scrittori sacri e profani di quel tempo ricordano[136]. Pratiche
continue per quattro anni in tutta l'Europa, ed altrettanto allora
ferventi nei pensieri e nei discorsi dei contemporanei, quanto oggidì
fredde nella memoria e nelle pagine della storia. Valgami per esempio
quel grande ingegno di Girolamo Vida, che, quasi ringiovanito nella
speranza di vedere effetti stupendi di generale spedizione, studiate e
robuste parole scriveva all'istesso Pontefice promotore dell'impresa,
dicendo[137]: «Orsù dunque chiama alle armi i marini di Italia ed i regi
di Europa: concedimi a gran contento di vedere una volta l'ampiezza del
pelago ricoperta dai navigli della cristianità, come desiderano tutti i
vicini e i lontani. Di questa speranza brillano gli animi dei popoli, la
gioventù animosa si apparecchia alle battaglie; ed io, quasi dimentico
dell'estro febèo, nulla più ardentemente ormai desidero che intrecciare
colle frondi del serto poetico gli allori di Marte.» Alle parole del
Vida di fresco ha fatto eco, gran dire! il Guerrazzi sull'istesso
proposito di papa Leone, scrivendogli[138]: «Adesso il Papa e i Principi
cristiani volsero la mente a tal fatto, che avrebbe dovuto restarsi
sempre in cima dei loro pensieri, e questo era la pirateria, con la
quale i Turchi, condottisi ad abitare le coste dell'Africa, avevano reso
il Mediterraneo infame, peggio che non è una selva infestata da
assassini.... impresero la guerra dei pirati, e ne commisero il comando
a Federigo Fregoso, arcivescovo di Palermo e fratello del Doge.»

NOTE:

[132] ANTONIO PICCONI DA SANGALLO, Mss. alla Galleria di Firenze, citati
nelle note e commentarii del Vasari, ediz. Le Monnier, cit., X, 83.

[133] LEO PP. X, _Faliscis, Viterbiensibus, Graviscanis, et Francisco
Pittae, Hetruriae prolegato_. Dat. Rom. sexto kal. majas an. IV. (26
aprile 1516). inter. _Opera omn._ P. BEMBI, cit., IV, 103, et segg.

LEO PP. X, _Prioribus et comunitati civitatis nostræ Tuscanellæ. Dat. ex
villa nostra Manliana die XXVI aprilis MDXVI_. — Nella _Storia di
Toscanella_, di SECONDIANO CAMPANARI in-8. Montefiascone, 1856, p. 283.

[134] GIULIO DE MEDICI card., _Lettere al vescovo di Pola_, nuncio in
Venezia del 30 ottobre e 4 nov. 1517, nei Mss. Torrigiani, _Arch. Stor.
It._, 1874, ultim. disp., 406, 407; e del 16 marzo 1518 al vescovo di
Sebenico nuncio in Francia, disp. seconda dell'anno seguente, p. 233:
«_Venerdì XII del corr. andò per questo conto_ (del Turco), _una solenne
processione con tucto el clero et altri religiosi et officiali et tucto
el populo con le sante Reliquie. Sabato ne andò un altra più solenne da
S. Lorenzo in Damaso a S. Maria del populo. Domenica, che fummo a_
XIIII, _una solennissima da S. Pietro a la Minerva, dove andò N. S. con
tutto il collegio a piedi, che non si ricorda mai a Roma una cirimonia
tanto devota, et di tanta consolatione spirituale._»

[135] PAOLO GIOVIO, _Vita di Leon X_, lib. IV.

ANGELUS FABRONIUS, _Vita Leonis X_, in-4. Pisa, 1797, p. 73.

ROSCÖE, _Vita di Leon X_, pel BOSSI, Milano 1817, VIII, 11.

[136] RAYNALDUS. _Ann. Eccl._ 1517, nº 33-54.

LABBEUS, _Collect. concil._, in-fol. Venezia, 1732, vol. XIX, p. 984:
«_De lateranensi Concilio et expeditione contra Turcas._»

JACOBI SADOLETI, _Oratio in promulgatione induciarum_, ibid. et int. op.
ejusdem.

ANDREA NAVAGERO, _Dedicatoria a papa Leone_, premessa all'edizione di M.
Tullio.

GUICCIARDINI, _Stor._, lib. XIII.

GIO. SAGREDO, _Memorie dei monarchi ottomani_, in-4. Venezia, 1573.

REGISTRO cit., dei Mss. Torrigiani. — Lettere del 5 e 14 novembre 1517.
— ARCH. STOR. ITAL., 1875, disp. seconda, p. 189-193.

[137] HIERONYMUS VIDA, _oper. omn._, in-4. Padova, 1731, II, 137:

                «_Leoni Papae X._
    _Ergo age, arrectam Ausoniam et paratos_
      _Publica Europæ voca ad arma reges,_
      _Jamque spumosum videam latere_
                _Classibus aequor._
    _Hoc avent omnes Itali exterique,_
      _Gestiunt cunctis animi, paratur_
      _Martis ad præclara opera et labores_
                _Pulchra juventus._
    _Ipse ego, quamvis alia nitere_
      _Mens erat lauro, ardeo nunc amore_
      _Martis armorumque: tui relinquunt_
                _Phoebe calores._»



[5 Maggio 1516.]

VI. — L'occasione di giusto sfogo all'impeto di tanto universale
commozione venne da sè; e papa Leone la colse in quest'anno alla
comparsa di Curtògoli, sommamente odiato dai Genovesi per gl'insulti
ricevuti, e dal re di Francia per consenso simpatico verso la sospirata
Liguria. Di che consapevole papa Leone, non dubitando punto di essere
ascoltato, scrisse la seguente importantissima lettera[139]: «Ad
Ottaviano Fregosi prefetto, ed ai decurioni di Genova. — Tutti sanno
essere comparsa attorno alle isole d'Italia, e presso alle vostre
riviere l'armata dei pirati tunisini; e da più parti arrivano dolorosi
avvisi di rapine e di desolazioni. Io voglio cacciar via cotesti ladroni
dai nostri mari, e, se sarà possibile, al tutto sterminarli. Con somma
celerità apparecchio il mio naviglio: e sperando fare cosa onorevole a
tutti gl'Italiani, ed a voi salutare per la comunanza degli stessi
pericoli, vi chiedo in prestito quelle quattro galèe che avete pronte
nel porto, e vi prego di armarne altre quattro colla massima
sollecitudine. Io pago la quota che mi tocca. Ma presto, presto,
mandatemi i legni vostri, uniteli co' miei, leviamoci dal viso la
vergogna, facciamo di respingere gl'insulti del nemico, e di
conquiderlo. Ripeto diligenza, premura e somma prestezza. Dato in Roma
addì 5 di Maggio 1516».

Le istruzioni verbali del messaggero portavano di più la nomina di
Federigo Fregosi genovese, arcivescovo di Salerno (non di Palermo, come
stampa il Guerrazzi), fratello del doge Ottaviano, col titolo di Legato
al comando dell'armata collettizia, secondo la proposta; e quindi
l'obbligo a tutti di seguirne il supremo stendardo in conformità alle
antiche costumanze. Il Breve della legazione si legge al disteso tra le
opere del Bembo[140].

I Genovesi maggiormente per questi avvisi messi in assillo contro
Curtògoli, si restrinsero a consiglio, e deliberarono subito di
corrispondere alla chiamata, accettandone le condizioni utili ed
onorevoli a ciascuno. Perocchè con questo ben si argomentavano di
provvedere al decoro della romana Sede, ed alla convenienza dei proprî
interessi: comandante genovese, e di fiducia nella città; stendardo
papale, e di valida copertura in Tunisi: in somma buon giuoco per dare
in sulla testa al pirata Curtògoli, senza rompersi del tutto con Abdallà
re della terra, e salvo il proposito di ripigliare appresso meglio di
prima con lui i commerci dell'Africa.

Il Piergianni di nostra conoscenza, trovandosi lieto in quei giorni con
sei galere e tre galeoni nel porto di Genova, da buon cavaliero rodiano,
offrì il suo concorso a papa Leone; e proposegli il quesito d'impiccare
per la gola alle antenne tutti i prigionieri che mai si potessero avere
nelle mani, tanto che agli altri servisse di terribile esempio. Leone
rispose accettando l'offerta, sì veramente che volesse stare
all'obbedienza del Legato e seguirne lo stendardo; rimettendosi del
supplizio dei pirati, e di ogni altro provvedimento al Legato medesimo,
che per essere uomo di senno e di prudenza singolare, pieno di nobiltà e
di grazia, sarebbe per fare ogni cosa conveniente, e col dovuto rispetto
terrebbe conto delle opinioni e dei suggerimenti del capitano
Piergianni[141]. Eccovi eziandio qualcuno di parte francese, che,
dicendo corsari, intende ladroni da forca.

[4 agosto 1516.]

Dunque ai primi di agosto abbiamo insieme sette legni papali, cioè i due
brigantini della guardia e le tre galere di Paolo Vettori, di che si è
detto nei capitoli precedenti e nelle lettere di papa Leone[142]; più
altre due galèe pontificie sotto il capitano Antonio da Biassa, per
questo solo ricordato dal Giustiniani, perchè nativo della Spezia, e
perciò attenente al titolo dei suoi annali, dove non entrava il Vettori.
Abbiamo quattro galere della repubblica condotte da Andrea Doria,
capitano del porto; ed altre quattro di privati genovesi messe su a
richiesta e soldo di papa Leone. Finalmente le sei galere e i tre
galeoni del Piergianni francese; che tutti insieme tornano a capello nel
numero indicato dal Giustiniani, diciannove galere, tre galeoni, due
brigantini, e ventiquattro vele[143].

Degli altri principi nostri parla la lettera del cardinale Giulio dei
Medici al vescovo di Tricarico nunzio in Francia, colla data di Roma sei
maggio, così[144]: «E' si scoperse a Civitavecchia, circa dodici giorni
fa, ventisette vele di Turchi, cioè ventitrè fuste et quattro galere, et
subito se ritrassero. Et dipoi sono state intorno a Zanuti et l'Elba. Il
che dètte a Nostro Signore gran dispiacere.... Et pensando a' remedi Sua
Santità judicò che fussi necessario si unissi insieme le galere et
galeoni del Cristianissimo et di Genova con quelle delli Spagnuoli che
si trovano a Napoli.... Sua Santità, oltre al concorrere colli legni
sui, contribuirebbe anche alla spesa di quattro galere che di nuovo si
armassino a Genova». Dunque anche l'invito agli Spagnuoli dominanti in
Napoli, come tutti sanno; e niuna omissione della parte di Roma. Ma
perché dal Regno non corrisposero, fia bene ricordare la sentenza con
che papa Leone per mezzo de' suoi ministri scrivendo al vescovo
d'Isernia Massimo Corvino, nuncio in Napoli, se ne doleva infino a due
anni dopo con queste parole[145]: «Nostro Signore dal canto suo non ha
mancato di ogni possibile offitio con tutti i principi cristiani, et
precipue col re Cattolico: et per anchora non li pare (parlando con
vostra Signoria come la intendiamo) che questi Spagnuoli si risentino,
et considerino il periculo. Et però V. S. userà lo ingegno et virtù sua
in fare qualche opera a beneficio della repubblica cristiana
principalmente per queste cose del Turco.»

Usciti al largo i migliori sotto lo stendardo della Chiesa, e tra essi
il Fregosi, il Vettori, il Doria, il Piergianni, il Biassa, ed
altrettali capitani di gran conto, girarono attorno per incontrare
Curtògoli: all'Elba, alla Capraja, alla Corsica, alla Sardegna, sempre
indarno, perchè costui insieme con tutti gli altri ladroni, il cui fine
precipuo non istava nel combattere, ma nel rubare, avevano preso da ogni
parte la fuga. Non è mai mancata, nè sarà mai per mancare la lingua agli
stolti, agli schiavi, ai rinnegati, e ai traditori. Però navigazione
languida, mare quieto, venti di stagione, notti serene, giornate lunghe,
e niuna scoperta. Bisogna dunque cercare Curtògoli nel suo nido, e
passare in Africa.

Intanto che si naviga di buon braccio coi Ponenti consueti dal golfo di
Cagliari sul rombo di Ostroscirocco, verso Biserta, ci accade di
considerare le condizioni del paese. Regnava di questi tempi per tutta
l'ampiezza della Bizacena, dal confine di Algeri a quello di Tripoli,
Abu-Abd-Allah-Mohammed della dinastia degli Hafsiti, islamita di razza
bèrbera, e totalmente indipendente dall'imperio ottomano. Costui per
antica tradizione di famiglia teneasi affezionato ai Genovesi, firmava
trattati con loro di amistà e di commercio, e ne favoriva il traffico,
la pesca, i coralli, i fondachi; perchè gli fruttavano molto tesoro, e
provvedevano ai mercati con soddisfazione grande de' suoi popoli. Venuto
poscia Curtògoli co' soldati turchi e con lo squadrone piratico a
chiedergli ospitalità, lo accolse pur volentieri; tanto perchè
musulmano, quanto perchè favorito dalla plebe amante degli avventurosi
guadagni: e lo tenne molto più caro ai suoi privati interessi, posciachè
il pirata (secondo la legge del Corano) faceagli toccar netta la quinta
parte di tutte le prede che veniva facendo sopra i Cristiani. Però aveva
assegnato a Curtògoli il porto e la città di Biserta (l'antica
Hippo-Zarythus, tra gli Arabi Benzert) nel punto più sporgente della
costa; proprio rimpetto allo sbocco del Tirreno; donde colla destra
poteva ferire Trapani di Sicilia, colla sinistra Cagliari di Sardegna, e
di faccia il Tevere, Roma, Napoli, la Toscana, e la Liguria. Là
stanziava Curtògoli, di là traeva viveri e gente. Ricco, armato,
favorito: già principe di fatto in Africa.

Dunque Abdallà voleva nel suo stato la pace con tutti, e la prosperità
dei suoi interessi. Amici i mercadanti coi loro commerci, amici i pirati
colle loro prede. Fermi tutti alla legge: stessero contenti i primi a
pagar le gabelle, e stessero pur contenti gli altri a rassegnare le
quinte; chè Abdallà, amico comune, contava continuarsi sempre in pace
con loro. Fuori dei suoi porti si accapigliassero pure insieme i
mercadanti e i pirati; non per questo doveva esso rompersi la testa:
anzi aspettarli sempre lieto al ritorno, o colle gabelle, o colle
quinte. Stolto a non capire l'immoralità dell'avara connivenza! Stolto a
non prevedere la propria ruina pei pirati! Essi ricchi, essi armati,
essi forti nelle viscere del dominio, favoriti dalla plebe, e sostenuti
dall'imperadore ottomano, dovevano tra poco cacciare tutta la sua
discendenza dal paese, e farsi padroni del regno.

I Genovesi, consapevoli del tranello di Abdallà, e volendo levarne del
pari, entrarono nella stessa simulazione, coprironsi sotto bandiera di
papa Leone che non aveva tanti rispetti, e deliberarono assaltare
Curtògoli nel suo ricovero, facendo pur le viste di non offendere il Re.
Fermatisi pertanto la notte dietro l'isoletta della Galitta, la mattina
improvvisamente entrarono nella insenata che serve di porto a Biserta.
Là per evidenza di fatto accertarono il giudizio della ritirata generale
dei ladroni, vedendo tutti i legni dello stesso Curtògoli, galèe, fuste
e brigantini, una trentina di bastimenti, tutti disarmati dentro terra
alla fiumara, nel mese d'agosto, come se fosse scioverno. Subito i pochi
Turchi di guardia presero a fuggire, ed i molti Cristiani prigionieri a
scuotere le catene, chiedendo ad alta voce la libertà. Soldati e
marinari saltarono in terra, di presente sciolsero gli oppressi, e
proruppero nel saccheggio dei legni, dei magazzini, dei casali, infino
ai borghi di Biserta. Mossa repentina, cominciata cogli stimoli della
pietà, e guasta dalla cupidigia delle genti tumultuarie venute colle
ultime galere, come si può di leggieri intendere pensando le intrinseche
ragioni, la disciplina militare, e il silenzio dei parziali. Facilmente
si sarebbero potuti portar via, o almeno bruciare nel primo attacco,
tutti i bastimenti piratici: ma il disordine, il tristo esempio,
gl'indugi, ed i fardelli crebbero fiducia ai musulmani della città e del
contado di concorrere a cavallo sulla riva; dove agli alleati non restò
altro ripiego, se non serrar le file, mettere in mezzo i riscattati e le
prede, e rimontare sui navigli, senza speranza di miglior sorte in quel
luogo, anzi perdendovi due palischermi.

Incalzati dal vento, continuaronsi verso levante sopra i rivaggi della
Goletta, coll'intendimento di cavar fuori dallo stagno la galèa della
guardia genovese, predata l'anno avanti da Curtògoli nei paraggi di capo
Côrso. Quei gentili e colti signori che più volte si sono degnati
onorare le povere cose mie dei loro benevoli suffragi, abbiansi pur da
me pubblica testimonianza di leale gratitudine per l'amore che mostrano
alla bellissima nostra lingua, ed alle sue voci marinaresche. Di che
provocatamente prendo occasione, quando mi occorre, per fare qualche
avvertenza intorno alla ricchezza ed alla proprietà nello scolpire
nettamente i concetti e le differenze delle cose, come qui mi accade tra
i due termini Rivaggio e Paraggio. Ambedue tecnici, usati dai classici,
e registrati alla Crusca, esprimono in genere un Tratto di mare: ma
l'uno lo determina diversamente dall'altro. Chè il primo lo appressa al
sensibile della riva e delle terre vicine; e il secondo lo solleva al
razionale dei paragoni lontani sul mare o sui circoli della sfera.

Venuto adunque il Fregosi sui rivaggi della Goletta, die' fondo ai
ferri, e subitamente spinse tre barche armate nello stagno: le quali,
nonostante il fuoco della massiccia torre (unica difesa del passo in
quel tempo), entrarono nel canale, presero a rimburchio la galera, e se
la menarono appresso. Bella ed onorata fazione.

Indi costeggiata l'Africa giù giù dalle Conigliere, alle Cherchene ed
alle Gerbe, bruciando legni nemici, menando preda, e traendosi in
trionfo tre brigantini, tornarono sullo scorcio dello stesso mese ai
porti d'Italia[146]. Ho seguito nel racconto la guida di autorevoli
scrittori, e particolarmente del Giustiniani contemporaneo; la cui
autorità, già grande tra i Genovesi, cresce ogni dì, trovandosi le sue
parole sempre conformi ai documenti che di tempo in tempo tornano alla
luce. In somma la spedizione ebbe plauso, tornò utile, e papa Leone
lodossi de' suoi marini, scrivendo al condottiero[147]: «Ho saputo tutti
i successi della navigazione, e tutti i fatti dell'armata da te condotta
in mio nome contro i pirati. E perchè ogni cosa è stata eseguita con
animo e costanza grande, con molta fatica, e secondo la dignità della
romana Sede, di ciò sommamente lieto, ti lodo e con tutta l'effusione
dell'animo ti benedico.»

NOTE:

[138] F.D. GUERRAZZI, _Vita di Andrea Doria_; in-16. Milano, 1864, I,
85.

[139] LEO PP. X, _Octaviano Fregosio, prefecto et decurionibus genuen.
Dat. Romæ_ III _nonas majas_ MDXVI (5 maggio). — Ap. BEMBO cit., IV,
104: «_Appulisse ad Italiæ oras et littora vobis vicina punicam
piratarum classem.... diripere, depopulari.... Ad eam repellendam vel si
fieri poterit conterendam a vobis peto ut ad hanc rem quam paro, Italis
quidem omnibus honorificam, vobis certe propter periculi societatem
etiam salutarem, quatuor vestras triremas commodetis, alias totidem quam
celerrime imperetis, quibus navibus cum nostra Classe consociatis,
hostes turpiter nobis insultantes aggredi atque opprimere possimus....
Partem stipis ad vos mittam.... Oportet studium, diligentiam, tum maxime
celeritatem adhibere._»

[140] LEO PP. X, _Federigo Fregosio_, _archiepiscopo Salernitano et
classis præfecto_. — Ap. BEMBO cit., IV, 103. — Il Breve della
legazione.

[141] LEO PP. X, _Petro Joanni (Pregeant de Bidoux)_. Dat. Romæ VII kal.
quintiles, MDXVI (25 di giugno 1516). Ap. BEMBO cit., IV, 110:
«_Federigo arch. Salern. quem classi nostræ legavi praesto sis, eique in
omnibus pareas.... quod attinet ad morte mulctandos piratas si
capiantur, ut magis cœteri a locorum nostrorum vastatione absterreantur,
ejus rei deliberationem, quemadmodum reliqua omnia, ipsi Legato remisi
quem scio tuis consiliis multum semper tributurum._»

[142] LEO PP. X, come alla nota 32: «_Cum nostra classe consociatis._»

DOCUM. cit. sopra, nota 11, e qui appresso nota 37: «_Sua Santità oltre
al concorrere coi legni suoi._»

[143] GIUSTINIANI cit., _Annali di Genova_, 272, Q.: «_Fu fatto capitano
dell'armata l'arcivescovo Federigo, et levò la bandiera di papa Leone,
et ebbe diciannove galèe, tre gallioni et doi brigantini.... due gallere
del Papa, le quali comandava Antonio del Biassia della Spezza._»

[144] REGISTRO _di lettere scritte a nome del card. Giulio de' Medici_,
tra i Mss. Torrigiani donati all'Arch. di Stato in Firenze e pubblicati
da Cesare Guasti nell'ARCH. ST. IT. in-8. Firenze, 1874, Disp. 4. p. 47.
— _Ep. Tricaricen._ di Roma, 6 maggio 1516.

[145] REGISTRO cit., disp. seconda del 1875, p. 217. _Episcopo
Esernien._, di Roma, 8 febbrajo 1518.

[146] BIZARUS cit., 447: «_Federigus Fulgosius.... cum aliqua præda,
triumque hostium navigiorum incremento classem incolumem reduxit.»_

GIUSTINIANI cit., 272.

GIOVIO, BEMBO, REGISTRI cit.

ARIOSTO, _Furios._ XLII, 20, 21, 22.



[Settembre 1516.]

VII. — Ora veniamo alle conseguenze tra i Genovesi ed Abdallà, e poi tra
Curtògoli e i Romani. I primi, ripresa la galera e data l'acerba lezione
a Biserta, fecero per mezzo de' mercadanti nazionali stabiliti in
Africa, noti ed accetti al Tunisino, rappresentargli a tempo le lagnanze
del ricetto accordato ai pirati e alle prede; e chiesero se Abdallà
volesse o no rimettersi in pace, secondo i trattati, come per l'avanti.
Abdallà rispose ad Ottaviano Fregosi e ai governanti di Genova una
lettera importantissima in lingua araba; che, per essere inedita ed
unica, fu recentemente volgarizzata e stampata dal chiaro professor
Michele Amari, dalla cui squisita cortesia ne ebbi in dono un
esemplare[148]. Non bisogna fermarsi alle apparenze, nè alla congerie
orientale delle proteste, scuse e ricriminazioni: ma entrar dentro nelle
intime intenzioni, che evidentemente tornano a tre capi. Primo, Abdallà
non vuole inimicarsi affatto coi Genovesi, nè scapitare sulle gabelle,
nè perdere il mercato; e scrive aperto[149]: «Non ci tocca il duro
tratto, col quale ci mortificate, nè il rimprovero che ci sentiam fare
da voi con aspri e pungenti detti (la somma dei quali è) che abbiamo
cercato con gravissime offese di romperla con voi. Mai no: noi non
abbiamo cessato mai di tener presente l'amistà e il buonvolere che un
tempo voi avevate per questo stato; perciò abbiamo sopportato dei grandi
rammarichi, dicendo sempre: Via speriamo che Iddio acconci ogni cosa e
che rinasca la buona armonia. Or noi speriamo che si rinnovi la pace,
come voi proponete.»

Nel secondo piglia gran faccenda, volendo persuadere agli altri, come a
sè stesso scusava, la necessità del ricettare i pirati. Per questo non
fa mai motto di Curtògoli e delle sue ruberìe, e molto meno tocca della
galèa genovese custodita non dai pirati, ma da' suoi stessi ministri nel
canale della Goletta: il tristo ingozza l'ingiuria della riscossa per
non rammentare il torto del sequestro. Anzi mostra chiaro il desiderio
di condurre i Genovesi alla stessa tolleranza ed obblivione delle cose
passate. Quindi la somma delle discolpe torna a un sol punto: esso dice
di ricettare i Turchi non come pirati, ma come musulmani[150]. «Se noi
lasciamo a costoro (libertà di) sbarcare nei nostri paesi e vendere e
comprare, questo non è cosa che debba movere l'animo vostro contro di
noi. Come oseremmo di cacciare dal nostro territorio i correligionarii
nostri? Come vietare la venuta di gente benevola ed amica? Sarebbe
giusta l'ira vostra se noi li aiutassimo colle nostre forze, se
uscissimo in corso con essoloro sopra di voi, se loro fornissimo alcun
soccorso spontaneamente per (effetto di) lega, sì come voi usate con
coloro che fanno imprese ai nostri danni. Ma voi sapete di certa scienza
che siamo scevri di coteste colpe, anzi lontani da quelle più che
niun'altra gente al mondo.»

Finalmente dopo le scuse della connivenza, e dopo le dichiarazioni
dell'amistà, conchiude di aggiungere al trattato vecchio un capitolo
nuovo, come dire di non più permettere ai pirati turchi di stazione in
Tunisi il molestare i Genovesi, dicendo[151]: «Ci obbligheremo verso di
voi a impedire che i Turchi vi arrechino danno di qualsivoglia maniera;
ed a fare che chiunque noccia ad una nave dei Genovesi non abbia a
lagnarsi che di sè medesimo, sia nella fossa di Tunisi o sia sulle
costiere (del reame).... Rallegratevi adunque quanti voi siete, e datene
annunzio per tutti i vostri paesi e città.... Noi vi giureremo la
pace.... dopo che avremo imposto a tutti i Turchi vegnenti nei nostri
dominii il patto che qual di loro offenda alcuna nave de' Genovesi, o
faccia prigioni sopra essi, o rechi ad essi qualsivoglia molestia o
pregiudizio, non possa in alcun modo sbarcare in alcun luogo del nostro
dominio; e se sbarchi, sarà lecito a chiunque di por mano nel suo sangue
ed avere: oltrechè noi manderemo gente a combatterlo e a fargli guerra.»

Dunque ai Genovesi scuse, pace, e privilegio: ed ai Romani il solito
guadagno di restarsi più di prima esposti alle insidie. Di fatto
Curtògoli, che conosceva gli umori di Abdallà e prevedeva l'esito e il
divieto che vennegli appresso sul conto dei Genovesi, pensò solo di
vendicare lo scorno e i danni sulla spiaggia romana, divisando avere
nelle mani niente meno che la persona istessa di papa Leone. Doveva il
ribaldo avere di qua secrete intelligenze con qualche traditore; cosa da
non maravigliare chi sappia come allora le più ardenti passioni tra
Francia e Spagna, tra libertà e servaggio, tra grandi e popoli, tra
Siena e Firenze, e via via, tutto s'intrecciava intorno alla fatal casa
dei Medici. Con questa intenzione Curtògoli presto riarmò le sue fuste,
concorrendovi a gara la gioventù musulmana, avida di vendette e di
rapine: e per meglio coprire il proposito principale nell'istesso
settembre fece vela verso levante; e poi quatto quatto nell'ottobre si
accostò alle spiagge latine[152].

Giovane ancora, e figlio del magnifico Lorenzo, soleva papa Leone nella
stagione dell'autunno uscir di Roma con pochi amici e famigliari, e dar
tregua ai gravi pensieri, e riposo all'animo stanco, scorrendo le
campagne e le riviere a sollazzo di caccia e di pesca[153]. Per questo
avea caro il castello della Magliana a cinque miglia da Roma sulle ripe
del Tevere e verso il mare, donde è la data di molte sue lettere. Oggidì
vedete squallido e deserto tugurio, ricinto da muraglie cadenti tra le
felci sotto la stretta dell'edera parassita: un tristo e lungo fienile
agli approcci, un pantano innanzi alla porta senza imposte, una fontana
ridotta a beveratojo, qualche giumento a capo basso nella corte, e una
misera osteria postavi a disperazione dei passeggieri. Ma ai giorni di
papa Leone il sontuoso edificio, come ho veduto io nei disegni del
Sangallo[154], e tutti possono leggere nei documenti di quel tempo[155];
e riconoscere anche adesso nella parte bassa del palazzo, e nelle
magnifiche finestre del primo piano, tuttochè ridotte a quartiero;
allora, dico, sul ponte levatojo splendevano ai raggi del cielo latino
le armi e le piume dei cavalieri e dei cortigiani; e intorno marmi,
stemmi, metalli, ricchezza. Di là papa Leone cavalcava privatamente a
Porto, ad Ostia, ad Ardea, a Laurento; scendeva alla marina, saliva
sugli schifi dei pescatori; ed ora per mare colle reti e coll'amo; ora
per le campagne coi cani e co' falconi spaziava. Esso stesso ne parla
nelle lettere a Carlo re di Spagna, rendendogli grazie delle quattordici
aquile da presa, avute in dono da lui[156].

[28 ottobre 1516.]

In quest'anno usciva di Roma a' diciotto di settembre, e stava fuori
quasi due mesi, visitando le città di maremma, e tenendo in più luoghi
la posta della caccia e della pesca[157]. Da Toscanella il dieci di
ottobre scriveva al medico Guglielmo Gallo, dandogli la facoltà di
scavare in un campo presso Civitavecchia (dove costui pensava ritrovare
certo tesoro), sì veramente che non avesse a cavare più d'un mese, e
sempre presenti sul taglio due decurioni del municipio[158]. Avrebbe a
essere qui parola di quell'altipiano che volge a levante due miglia
dalla città, e che tuttavia si chiama Campodelloro, famoso nelle locali
tradizioni di statue, di ombre, di maggio, e di altre baje, sempre
provate leggiere e fallaci a dispetto delle avide lusinghe.

Leone istesso, proseguendo il suo viaggio, passava di là, senza dubbio
ridendo del Gallo: indi veniva a Palo, poi alle marine del Tevere, e
alle città suburbane fino alla spiaggia laurentina sotto Civita Lavinia,
dove finalmente lo aspettava Curtògoli con diciotto fuste, e la sua
gente parte a bordo, parte in terra per metterlo in mezzo[159]. Qualcuno
a gran ventura n'ebbe sentore, e tutta la brigata volse le briglie a
tempo, galoppando di gran fretta verso Roma, dove entrarono a salvamento
li ventotto di ottobre. Paride de Grassi, il quale sapeva tutto,
quantunque non fosse della partita, non fa motto esplicito
dell'avventura. Ma qui soltanto scrive pesca, caccia, e ritorno
improvviso: dunque ebbe a essere agguato pauroso ed indegno[160]. Tale
ce lo mostrano le testimonianze di alcuni storici, e la congiura sei
mesi dopo scoperta. Lascio ad altri il carico di analizzare questi
fatti, e di risolvere il problema delle conseguenze che potevano venire
dalla prigionìa di un Papa nelle mani dei Barbareschi: a me basta che il
lettore pensi soltanto alla possibilità di tale successo, perchè si
persuada della necessità della guardia del mare in un paese che vi
confina. Sul paese sfogò sue vendette Curtògoli.

NOTE:

[147] LEO PP. X, _Federigo arch. Salern._ Dat. Romæ decimo Kal. oct.,
MDXVI, (22 sett.) — ap. BEMBO cit., IV, 113: «_De rebus gestis ea
classe, cui meo nomine præfuisti cognovi.... quæ quidem omnia quoniam
magno constantique animo, multoque tuo labore, ex nostra dignitate sunt
confecta, te de his vehementer collaudo meoque nomine tibi benedictionem
plurimis optimisque verbis impartior._»

[148] PROF. MICHELE AMARI, _Nuovi ricordi arabici su la Storia di
Genova_, in-8. figur. 1873. — Dagli _Atti della Società Ligure di Storia
patria_, V, 75.

[149] ABDALLÀ, _lettera ad Ottaviano Fregosi_, volgarizzata dall'AMARI,
come sopra, p. 79.

[150] ABDALLÀ, lettera cit., 78.

[151] ABDALLÀ, lettera cit., 79, 82.

[152] BIZZARUS, cit., 447: «_Cœterum Curtogolus, ubi summa celeritate
sua navigia refecisset, nulla mora interposita in partes orientales
adnavigavit._»

GIUSTINIANI cit., 272, R: «_Et Cortogoli con gran prestezza riparò et
rifece l'armata sua, et navigò verso levante._»

[153] PARIS DE GRASSIS, Diaria Cærem. Mss. Casanat. XX, III, 6.

«_Mense januario MDXIV, Papa ivit ad Civitatem Veterem._

»_Mense octobris die prima MDXV, post prandium Papa ab urbe discessit,
versus Viterbium, Tuscanellam, et Centumcellas, seu Civitatem Veterem._

»_Mense novembris, ante dominicam primam Adventus MDXIX, Papa ivit ad
Manlianam, et inde ad ulteriora oppida per mensem...._

»_Mense novembris die septima MDXX. Hoc tempore Papa ivit spaciatum ad
suburbana._

»_Mense novembris die vigesima quarta MDXXI. Papa Leo ex Manliano, ubi
erat solatii causa, accessit ad urbem...._

«_Mense aprilis die vigesima sesta MDXVI. Datum ex villa nostra
Manliana....»_ v. sopra nota 26.

[154] GIULIANO DA SANGALLO, _Disegni autografi_ già di casa Gaddi, ora
presso il conte Bernardino di Campello. Volume grande di 74 fogli, ai
numeri 3 e 4, pianta della Magliana, e di suo pugno: «_Capela,
sagrestia, corte, logia, sala per la guardia, entrata maestra, sala,
camera e anticamera per il capitano della guardia, camera per li cuochi,
cucina, entrata dell'orto, camere, etc._»

[155] ARCH. CAMERALE, _Vacchette due_, scritte dal Serapica maestro di
casa di Leon X per le spese private, pubblicati gli estratti nel
BUONARROTI, _Giornale romano_, Agosto 1871, p. 246:

«_Addì sette maggio 1519 a mastro Gio. Francesco de Santo Gallo per
finire la Gabarra della Magliana, ducati 200._

«_20 nov. 1519. Al med. Gio. Francesco da San Gallo per certi strumenti
da misurare di architettura ducati due._»

[156] LEONIS PP. X, _Epistola Carolo Hispaniarum regi._ Dat. Romæ, III
id. januar MDXVII, ap. BEMBUM cit., 117: «_Ego tantummodo cum autumni
romanum cælum fugio valetudinis causa interdum venatione et aucupio me
oblecto, vel potius eos qui mecum sunt ut jucundior per agros vagatio et
delectabilior nos in labore viæ teneat._»

[157] DE GRASSIS cit.: «_Die decima octava septembris MDXVI, Papa
solatii causa recessit ab Urbe.... per duos menses absens fuit in
vicinis locis venando et piscando. Tandem die vigesima octava octobris
redivit._»

[158] LEONIS PP. X, _Epist. Guglielmo Gallo medico._ Dat. Tuscanellæ, VI
id. oct. MDXVI, ap. BEMBUM cit., 114: «_Agnosco credulitatem inanemque
spem tuam, et quam hæc lævia et fallacia sint.... tamen fodiendi ubi
voles in eo agro tibi facultas esto edicto meo, quod valere per mensem
integrum volo, tecumque dum fodies Centumcellarum decuriones bini
sunto._»

[159] ANONIMO PADOVANO, _Storia del suo tempo_, Mss. è citata sovente
dal MURATORI, massime per questo fatto.

MURATORI, _Annali_, 1516, fin.

ROSCOE cit., V, 160.

[160] PARIS DE GRASSIS, _Diaria Cærem._: «_Die decimaoctava septembris
MDXVI, Papa solatii causa recessit ab Urbe, diebus istis per duos menses
absens fuit in vicinis locis, venando et piscando; tandem die lunæ
vigesimaoctava octobris redivit._»



[1517.]

VIII. — Dunque tristi tempi volgevano anche nel secolo d'oro, come
sogliamo chiamare quello di Leone X: e alla marina in quest'anno si
aggiugneva la pestilenza pel putrido fango cavato dal fondo della
darsena, e gittato a caso, secondo il comodo dell'appaltatore[161]. E
dire che altri vorrebbe adesso ritentar la prova nel Tevere, o in simili
grandi e antichi corsi d'acqua, dove sboccano fogne e cloache! Grande la
morìa tra le genti di capo e di remo, pieni gli spedali, piene le fosse;
e per lutto maggiore vi cadeva un giovane ufficiale di anni diciassette,
amato e riverito da tutti, ed unico figlio del capitano. Piero Vettori
da fanciullo erasi messo sul mare: prima mozzo, poi pilotino che allora
dicevano consigliere, e appresso ufficialetto col titolo consueto di
nobile di poppa[162], cresceva di grande aspettazione, pensandosi
ciascuno vederlo un giorno pareggiare ed anche superare il valore e la
maestria del padre. Primo tra tutti nelle ardite manovre navali, primo
nei rischiosi combattimenti, primo nel soccorso dei languenti, cadde
come fiore reciso innanzi al mattino, e gettato per ornamento sulla
coltre della bara. Ebbe i supremi onori da' suoi compagni d'arme, ed una
iscrizione a conservarne la memoria con queste parole[163]: «A Piero
Vettori, figliuolo di Paolo capitano dell'armata navale di papa Leone
decimo, giovanetto di bella indole, di costumi onorati, e di vita
integerrima, cui morte immatura e acerbo lutto tolsero la grandezza
dalla pubblica espettazione presagita. Visse anni diciassette, e giorni
diciassette. Morì addì quindici novembre dell'anno 1517.»

[1518.]

Nella seguente primavera ripigliava Paolo la navigazione di corso, tanto
per mitigare il proprio cordoglio, quanto per dare aria e movimento alle
genti costernate ed affrante dalle recenti sventure. E sebbene la sua
guardia principale fosse dal Circèo all'Argentaro, pur non dismetteva le
difese dei naviganti anche per la riviera calabra, e specialmente per le
maremme toscane; tanto più che dai Fiorentini in premio dei fatti egregi
a loro vantaggio era stato investito dell'isola Gorgona, e della rôcca
che la protegge. L'estate di quest'anno andò tutta in caccia contro il
famoso pirata Gaddalì, il quale fuggiva sempre che Paolo appressavasi,
portando altrove e ben lontano, ora nella Sardegna, ora nella Corsica, e
poi sulle marine della Liguria e della Spagna la desolazione.

[Settembre 1518.]

Finalmente a mezzo settembre, avendo inteso Paolo che alcune fuste dello
stesso Gaddalì erano state vedute nel canal di Piombino, corse a quella
volta, e ne scoprì due, le quali subito virarono di bordo, e secondo il
solito presero a fuggire. E Paolo più che mai appresso per raggiugnerle
senza aspettare le conserve, colla speranza di riuscir solo nella
vittoria. Sforzò di vela e di remi, e tenne dietro ai nimici, tanto che
gli ebbe investiti. Se non che la fuga di costoro, ed il lasciarsi
raggiugnere, non era stato altro che inganno per trarre Paolo a
trabocco: perchè, le due fuste, piene di gente da fazione, presero a
combattere risolutamente; intanto che altre dieci, infino a lì nascoste,
uscivano dal canale e lo circondavano da ogni parte. Le conserve,
languide ed afflitte dalle precedenti infermità, vedendo dodici legni
nemici in un gruppo addosso a Paolo, giudicarono non doversi cacciare
nel conflitto: disperato ormai per chi giugneva troppo tardi, e inutile
per chi non aveva più rimedio. Laonde, la nostra capitana, quantunque
già impadronitasi di una fusta nemica, nondimeno assalita dalle altre,
dopo lotta disperata, morti quasi tutti i difensori, e l'istesso Paolo
ferito, dovette cadere nelle mani dei pirati[164]. Pensate baccano
quando fu menata cattiva in Tunisi col generale in catena e gli altri al
remo! Pensate che alcun tempo passò, senza che in Roma si sapesse nulla
di loro, nè se fosser vivi o morti. Soltanto sette marinari, scampati
collo schifo, raccontavano di aver veduto il Capitano combattere e
cadere.

Io non loderò Paolo dell'essersi a quel modo cacciato avanti da solo,
senza dar tempo agli altri di sostentarlo; perchè sì fatto ardire sempre
riesce nocivo, scemando le forze proprie, e crescendo animo ai nemici.
L'esperienza degli antichi tempi e dei moderni ha confermato i tristi
effetti della temerità, massime nel non curare l'unione, l'ordinanza e
la convergenza delle forze, quando si possono in un dato punto
adoperare. Valga per tutti l'esempio di don Rodrigo Portondo, generale
delle galèe di Spagna, il quale dopo avere con sette legni nell'anno
1529 condotto a Genova Carlo V, passando al ritorno presso le Baleari,
per aver voluto andar solo ad assaltare il Cacciadiavoli, famoso pirata,
spregiando lui e tutta la sua squadra di fuste e di brigantini, pagò la
temerità colla vita e colla perdita di tutte le galere, che dopo
lagrimevole massacro di gente restarono predate[165].

NOTE:

[161] DOCUMENTO cit., 56, p. 130; e appresso, cap. XX, 57.

[162] PANTERA, _Armata navale_, 115.

CRESCENTIO, _Nautica Mediter._, 85, 94.

DOCUM. TOSCAN. cit., 95, 130, 132.

DOCUM. ROM. cit., per tot., — e qui allo specchio, p. 112.

LABAT, _Voyage._ Parigi, 1730, IV, 294: «_Le Gentilhomme de poupe a huit
écus. On appelle ainsi celui qui sert de lieutenant au capitaine, qui
porte ses ordres, fait ses commissions d'honneur, et qui l'accompagne
quand il sort.... La Capitane du Pape a plus que les autres galères le
double des gentils-hommes de poupe._»

[163] LAPIDA posta in Roma sulla tomba, perduta nei ristauri della
Chiesa, conservata nell'archivio di famiglia, prodotta nell'_Arch. St.
It._ in-8. Firenze, 1843, app. n. 22, VI, 272, 280; e dall'ANONIMO nella
_Serie di ritratti d'illustri Toscani_, in-fol. Firenze, 1768, in med.

                             D. O. M.
          PETRO . VICTORIO . PAULI . LEONIS . X . PONT . MAX.
                   CLASSIS . PRÆFECTI . FILIO
          INDOLIS . OPTIMÆ . ADOLESCENTI . MORUM . PROBATISS.
                      VITÆQUE . INTEGERRIMÆ
  QUAM . CUM . MAXIMA . OMNIUM . EXPECTAT . INTER . MORTALES . DUCERET
                               HEU
        ABSTULIT . ATRA . DIES . ET . FUNERE . MERSIT . ACERBO
               VIXIT . ANN . XVII . ET . DIES . XVII
               OBIIT . ANNO . SALUTIS . M . D . XVII
                      XVI . KAL . DECEMBRIS

[164] AMMIRATO cit., II, 335: «_Pagolo Vettori generale delle galèe del
Pontefice, mentre colla sua sola galèa volontarioso si spinge innanzi
per far preda di due fuste di Mori in sul mar di Piombino, accerchiato
da otto altre, che erano in agguato, senza poter dalle sue galèe
ricevere soccorso, restò.... fatto prigione._»

GIUSTINIANI cit., 273, D.

E tutti gli altri citati nelle cinque note prime di questo libro.

[165] BIZARUS cit., 485: _«Portundus suæ prætoriæ cursum intendit ut
reliquas triremes quæ remigio minus valebant anteiret.... dicens se vel
sua tantum prætoria trireme, cuncta ea barbarorum leviora navigia esse
demersurum.... Portundum Barbari, capta prætoria, cum suis omnibus
defensoribus trucidant.... et cæteras triremes capiunt.... insigni parta
Victoria.»_

BOSIO cit., III, 79, B: «_Portondo Rodrigo, capitano delle galere di
Spagna.... dal rais Cacciadiavoli era stato ucciso con perdita delle
sette galèe che comandava._»

GIOVIO PAOLO, _Storia_ tradotta dal DOMENICHI, in-4. Venezia, 1608, II,
123.

VARCHI, in-8. Firenze, 1842, II, 24: «_Rodrigo Portondo.... nel
ritornarsene in Spagna.... rotto e morto con otto galèe da Aidino delle
Smirne, nominato tra gli altri corsali Cacciadiavoli._»



[Marzo 1519.]

IX. — Nondimeno ebbe Paolo miglior fortuna: sopravvisse alla pugna e
alle ferite, e condotto prigioniero in Tunisi trovò per sorte alcuni
mercadanti veneziani che, persuasi dalle sue ragioni, si offerirono di
riscattarlo, pagando per lui l'enorme taglia di sei mila ducati
d'oro[166]. Poscia sopravvenuto colà Pietro Michieli, capitano delle
galèe della repubblica, quei mercadanti glielo consegnarono perchè il
menasse a Venezia, e sotto specie d'onore, e per la sicurezza del
danaro. Di che il detto Paolo, dal primo porto d'Italia, spacciando un
uomo a Roma, diè avviso al Papa nell'autunno per lettere di suo pugno,
dicendo come era vivo e ne andava a Venezia; dove sperava che sua
Santità sarebbe contenta di mandargli l'occorrente a poter fare il dover
suo coi creditori[167]. Delle quali lettere Leone prese sommo piacere,
essendochè faceva di lui gran conto; e da un anno senza nessuna nuova
tenevalo per morto. Viemeglio adunque dalla disgrazia si parve l'amor
grande che gli portava: imperciocchè papa Leone di presente approvò il
riscatto; e quantunque pesasse di tante migliaja, volle che fosse
sborsato dal suo privato cassetto, senza verun disagio della casa
Vettori. Anzi si disse che Leone non fu veduto mai cavar danaro con
maggior contentezza; conoscendo o dicendo a chiunque come per poco
prezzo ricuperava un uomo che per la fede e per la virtù era atto ad
eseguire i suoi pensieri, quanto alcun altro che avesse attorno.
Conferma egli stesso colle sue parole l'altrui sentenza, scrivendo di
Roma il ventisei dicembre 1519 al doge Loredano, così[168]: «Tornato
dall'Africa Paolo Vettori, capitano della nostra armata navale, testè
prigioniero dei pirati tunisini, ho raccolto dal suo racconto con quanta
amorevolezza e liberalità Pietro Michieli similmente capitano delle
galèe di cotesta repubblica naviganti in quelle parti, lo abbia
riscattato, non dubitando metter fuori per lui, tutto chè uomo estraneo,
una grossa somma di moneta. Godo assai di questo successo, ammiro la
prontezza, lodo la magnificenza, e vi assicuro che niuna cosa poteva
accadermi più lieta di tale riscatto.» In questo modo Paolo tornossene
al suo governo, rifece la capitana, e si tenne per quelle fazioni che
appresso diremo, come verranno.

Ora volgiamoci a Gaddalì, che lieto dei seimila, lietissimo del grande e
forte naviglio di guerra conquistato, ed uso (come egli era) di
circoncidere a forza i giovanetti cristiani per fargli turchi, non
poteva omettere di falsare il bastimento romano per renderlo piratico.
Però coi maggiori della sua brigata, e numeroso equipaggio, e molte
bandiere rosse, e stelle, e lune e scimitarre, vi montò sopra, e lo
dichiarò ammiraglio delle sue dodici fuste, colle quali alla buona
stagione dell'anno seguente riprese il corso, pensando che la fortuna
propizia avrebbe a crescergli nuovi e più splendidi guadagni. Or qui gli
avvenne il rovescio de' suoi pensamenti: e ciò per la bravura di un
tale, che appresso abbiamo a vedere successore di Paolo nel governo
della marineria romana. Fatto per più ragioni del passato e del futuro,
da non doversi preterire.

[22 aprile 1519.]

Andrea Doria in quest'anno continuava a servire la repubblica di Genova
col modesto titolo di capitano del porto, come a dire comandante di
quelle quattro galèe che i Genovesi solevano tenersi armate da presso
per la difesa del loro commercio. Le galèe erano delle sforzate, cioè
fornite di gran numero di rematori condannati all'opera pubblica: e
sapendo che Gaddalì veniva baldanzoso colla capitana contraffatta,
minacciando gran cose contro tutti i naviganti, propose ed ottenne da
quei signori di poterne armare in fretta altre due di bonavoglia, cioè
con rematori condotti a prezzo e a tempo fisso, come altrove dirò. Così
prese il mare e corse tanto che la mattina del ventidue d'aprile,
vigilia di san Giorgio protettore dei Genovesi, essendo sopra alla
Pianosa, videsi venire incontro la squadra di Gaddalì col vento
freschissimo da Scirocco. E pensando Andrea che non avrebbe combattuto
bene colà contro all'audace nemico, avvantaggiato dal numero e dal
vento, fece le viste di fuggire, seguitato sempre dai pirati fino al
capo di sant'Andrea, che è la estrema punta occidentale dell'Elba. Ivi
egli divisava girare a levante per quella risvolta, ben da lui
conosciuta, e così guadagnare il vento, e compensare la disparità del
numero, dei legni e della gente. Presso al capo, il Doria orzò a raso; e
Gaddalì comprese, quantunque tardi, la manovra; e come la navigazione di
lui non era per fuggire, ma per tirarselo appresso infino a tal parte
dove potesse facilmente voltar faccia, e con maggior vantaggio
assalirlo. Laonde il pirata guardossi bene dal doppiare il capo: anzi
venutagli meno la speranza nella supposta fuga di Andrea, cominciò esso
stesso daddovero a fuggire, mettendosi a remo contro vento; perché la
più parte de' suoi legni eran sottili, di gagliardo palamento, e capaci
di tenere la rotta per ogni rombo.

Allora il Doria mainò tutto: e mostrando alla sua gente il nemico in
fuga ordinò similmente voga arrancata contro di lui, dicendo aperto
essere persuaso che la giornata gli darebbe vittoria. E perchè le ultime
due galèe armate di fresco si vedevano al remeggio più tarde delle
altre, aggiustò loro il rimburchio di due galèe sforzate, mettendole
tutte quattro agli ordini del conte Filippino Doria, suo luogotenente,
ed uomo, di cui poteva essere certo certissimo che non lo avrebbe mai in
nessun caso abbandonato. Esso intanto colla capitana e la padrona scorse
avanti: non già alla maniera del Portondo e degli altri per combattere
da solo; ma per provocare il nemico, per traccheggiarlo col cannone, e
per trattenerlo infino a tanto che le sue conserve potessero essere vive
sul posto. Nondimeno contro sua volontà fu costretto a difendersi un
quindici minuti da cinque legni che gli si erano gittati addosso, e la
padrona similmente a difendersi da tre, prima che Filippino, scioltosi
dai rimburchi, potesse mettere in battaglia altre due galèe, e
finalmente le ultime due. Le quali non di meno con gente fresca, libera
e arrabbiata, più risoluta di menar le mani che i remi, tanto
volonterosamente dettero dentro, che dopo un'altra mezz'ora di
ferocissima mischia, dove caddero moltissimi dei Genovesi e cinquecento
dei pirati, ebbesi piena vittoria. Presi, da tre fuste in fuori che si
dierono alla fuga, tutti i legni nemici: molti pirati prigionieri, molti
cristiani riscattati, e riscossa dopo sette mesi la capitana di Roma.
Vittoria veramente segnalata, e conseguìta per arte marinaresca e per
bravura militare: vittoria che, oltre all'onore, fruttò il grandissimo
beneficio di togliere di mezzo quel terribile Gaddalì, di frenare
l'oltracotanza dei pirati, e di mettere un po' di sicurezza tra i
naviganti[169]. Qualche scrittore moderno ha errato di anticipazione,
mettendo questo fatto all'anno diciassette[170], perché successe
precisamente li ventidue d'aprile del diciannove, come dice il
Giustiniani, contemporaneo e accuratissimo scrittore; e come risulta
dalla riscossa della capitana di Roma, e dalle lettere del Bembo citate
avanti, che portano data certa.

NOTE:

[166] ROSCOE cit., V, 200.

ARCHIVIO DI FAMIGLIA citato nella _Serie de' Ritratti_, nota 3.

ARCHIVIO STORICO ITALIANO cit., VI, 270 e segg.

[167] CESARE CAMPANA, _Vita di Filippo_, II, 87, B, princ.: «_Il
riscatto degli schiavi xni fu accordato col pagare per ciascun
gentiluomo trecento scudi, e cento per ciascun altro._» Dunque
gravissima taglia; e doppia di quella pagata da Dragut.

[168] LEONIS PP. X, _Epistola Leonardo Lauretano Venetiarum principi.
Dat. Romæ_ VII _Kal. januarii_ MDXIX, ap. BEMBUM cit., 142: «_De Paullo
Victorio nostræ classii præfecto, quem piratæ poæni captivum fecerant,
ex Aphrica redeunte, cognovi quam amanter quamque eum liberaliter Petrus
Michael istius reipublicæ longarum navium ad ea loca comparatarum item
præfectus magno pretio redemerit.... Quæ sane omnia grata mihi et
jucunda ceciderunt.... in alieno homine recuperando tantum pecuniæ
tamque celeriter erogarint.... Nil mihi accidere gratius ea liberatione
potuisset._» (26 decembre 1519).



[Gennaio 1520.]

X. — Ora uno sguardo all'Europa, e ai tre monarchi maggiori che stanno
per metterla sossopra: dovremo poscia lungamente con loro travagliarci.
Francesco re di Francia, presuntuoso, cavalleresco, fantastico, freme di
sdegno, perchè disgradato da Carlo e dagli elettori dell'imperio: Carlo
imperatore e re di Spagna, cupo, despota, battagliero, minaccia di
conquidere il rivale, perchè non resti più che un solo possente in
Europa: e Solimano, detto dai Turchi il magnifico, altiero, fanatico e
conquistatore, vagheggia tra le altrui discordie l'ingrandimento della
casa sua. Terribile triumvirato, che riepiloga in sè tutti i pregi e
tutti i difetti di tre nazioni.

Facendo principio da Solimano, succeduto in quest'anno a Selim, eccolo
per ragion di stato tutto rivolto all'amicizia e alla esaltazione dei
pirati, divisando per opera loro dilatare le conquiste in Europa contro
i Cristiani, e in Africa contro i Musulmani: eccolo con tutto lo sforzo
apprestare formidabile spedizione, principalmente inculcatagli dal
padre, contro i cavalieri di Rodi. Dall'altra parte vediamo il principe
Fabrizio del Carretto, grammaestro dei Gerosolimitani, oltre al crescere
le forze sue ed oltre all'ordinare lavori di fortificazione, come meglio
si parrà nell'assedio, continuamente sollecitare e chiedere dai principi
di ponente gli ajuti necessarî a potersi difendere. Di che papa Leone
più che mai desideroso, volendo per debito del suo ufficio contentarlo,
ordina a Paolo Vettori l'armamento di tre galeoni, e l'immediato
trasporto di validi soccorsi nell'isola. Antichissimo è in Italia il
nome e l'uso dei galeoni: ne parla il Caffaro con altri cronisti più
rimoti[171]. Pensate sorta di bastimento misto, e quasi intermedio tra
nave e galèa; a similitudine di questa avrete il taglio allungato, ed a
similitudine dell'altra il corpo di alto bordo: in somma nave lunga e
galèa grossa. Ponevano i costruttori principalmente la mira alla
solidità dello scafo, ed alla velocità del corso: massiccia l'ossatura,
lunga la chiglia, stretto il piano, e due castelli di gran rilievo a
poppa e a prua, che davangli figura arcuata, simile al quartieron della
luna. Quattro alberi verticali; due quadri a proravia, e due latini a
poppavia: le vele di civada e di contraccivada sotto al bompresso; e
sopravi alcuni flocchi, che chiamavano quarnali e quarnaletti, perchè
issati con paranchi a quattr'occhi. Dunque albero maestro e trinchetto
colle gabbie e gabbiette quadre; arbori e antenne latine colle due
mezzane: capacità di due o tremila tonnellate. Durante il secolo
decimosesto venivano crescendo di numero i galeoni, e si facevano di
maggiore importanza per la navigazione delle Indie, dove gli Spagnoli e
i Portoghesi usavano mandargli non così solamente pel traffico, che non
fossero al tempo stesso capaci di stare in battaglia e difendersi da
soli e in convoglio, con cinquanta e più pezzi di artiglieria grossa
distribuita nel primo e nel secondo ponte e nei castelli, oltre alla
minuta della tolda e delle gabbie[172]. Sul tipo dei galeoni, verso la
fine del cinquecento, sursero le prime costruzioni dei moderni vascelli.

[Giugno 1520.]

Con tre bastimenti di questa specie sciolse le vele da Civitavecchia il
capitano Paolo Vettori, menando seco per luogotenente il cavaliere
Battista Nibbia, numeroso equipaggio, munizioni, artiglierie, e tre
compagnie di ducencinquanta fanti l'una, gente sceltissima, e accolta
con gran festa dai Cavalieri, e perchè mandata dal Papa, e perchè davano
mostra di utile soccorso[173]. Poco dopo sopravvennero quattro
brigantini, quattro barche, e nove galèe di Francia, sotto il capitano
Bertrando Dorvesan signore di san Blancars; il quale insieme coi Romani
si trattenne in Rodi per tutta l'estate, e sempre al corso per le marine
dell'Asia contro quei bastimenti piratici che erano stati licenziati da
Solimano a tentare i primi colpi e le prime scoperte contro l'isola.
Molti gli scontri avventurosi: e specialmente lodata l'arte e la bravura
degli ausiliarî nell'attaccare e distruggere tutta l'armata di un
principalissimo pirata turco, come ne scrive al cardinal de' Medici il
Grammaestro di Rodi.

Tra la ricchezza di questi fatti accennati a pena per le generali,
languisco di stento come fanno i cronisti, senza poter colorire il mio
racconto di quelle composizioni prospettiche, che a modello ci hanno
lasciato gli storici classici. Mancano i particolari: però non mi è dato
svolgere nè teoremi nautici, nè principî strategici, nè applicazioni
tattiche; nè rilevare il discorso per le circostanze necessarie, per le
cause intrinseche, e per gli effetti naturali. Perdonino i gentili e
discreti lettori, cui mi studio fare intendere i pensamenti miei senza
tediarli, se non posso altrimenti soddisfare al loro desiderio ed al
mio: ed in vece si contentino della seguente lettera del Grammaestro, il
cui originale latino, che non ripeto perchè pubblicato altrove per le
stampe, così parla[174]:

[25 agosto 1520.]

«Al reverendissimo padre e signore, signor Giulio della santa romana
Chiesa, e del titolo di san Lorenzo in Damaso prete cardinale de'
Medici, vicecancelliero, e protettor nostro, signore osservandissimo. —
Reverendissimo ecc., premesse le raccomandazioni nostre umilissime. Sì
come abbiamo già scritto a vostra Signoria reverendissima, è venuto qui
in Rodi il magnifico signor Paolo Vettori, capitano della marittima
squadra di nostro Signore, con tre galeoni per darci soccorso nel caso
che avessimo dovuto essere assediati, come a ragione si temeva. Il
prelodato Capitano si è trattenuto con noi, sempre desto nel cercare le
occasioni di renderci i maggiori servigî; ed è riuscito felicemente
(dappoichè niuno è venuto ad assediarci) nell'impresa di combattere e
distruggere i navigli di un principalissimo pirata turco, secondo la
richiesta e gli indizî che noi gli avevamo dati. Egli è uomo prode,
generoso, e tutto inteso a fare cose degne del nome cristiano ed
onorevoli a nostro Signore. Sentiamo perciò l'obbligo della gratitudine
alla Signoria vostra che ci ha procurato il predetto soccorso, e
inviatoci tale egregio Capitano che ha fatto in ogni cosa il nostro
piacimento, così che nulla potevamo desiderare che egli di presente non
facesse a lunga pezza più in là di ogni nostro desiderio. Se fosse stato
nostro confratello, e cavaliero dell'Ordine, non avrebbe potuto far di
più. Laonde ci protestiamo obbligati a lui, e ne rendiamo grazie a
vostra Signoria reverendissima che ad un tratto ci ha conferiti tanti
favori. La supplichiamo ancora a volersi degnare di continuarci il suo
valevole patrocinio; del quale, se non avrà da noi corrispondente
guiderdone, chè siamo impotenti a tante grazie debitamente compensare,
ne avrà dall'altissimo Iddio, di ogni opera buona largo compensatore, in
questo e negli altri secoli la dovuta mercede. Esso intanto felicemente
conservi la vostra Signoria reverendissima. Dato in Rodi, addì
venticinque d'agosto 1520. — Umile servitore il Maestro di Rodi fra
Fabrizio.»

[Sett. ott. 1520.]

Venuto l'autunno, e cessato ogni sospetto d'assedio per quella stagione,
anche per essersi Solimano rivolto contro Belgrado in Ungheria, Fabrizio
diè congedo a Paolo; e in segno di gratitudine gli pose sul petto una
collana d'oro di mille scudi da portare nelle solenni comparse per amor
suo: agli altri ufficiali fece altresì ricchi presenti, secondo il grado
di ciascuno, distribuendo anelli e vasellami d'oro e d'argento, con che
onoratamente se ne tornarono[175].

NOTE:

[169] GIUSTINIANI cit., 273, E, all'anno 1519.

PANTERO PANTERA, _Armata navale_, p. 321, e anno 1519.

[170] F. D. GUERRAZZI, _Vita d'Andrea Doria_, in-16. Milano, 1864, I,
87, anno 1517.

[171] CAFFARUS ET CONT., _Annales genuen._, S. R. I., VI, 580, 591:
«_Armatæ sunt per Pisanos galeæ duæ et unus galeonus.... Armati pro
comuni Januæ duo galeoni velocissimi.... Fuit unus galeonus cursarium
Pisanorum._»

[172] MARCO GUAZZO, _Storie_, in-8. Venezia, Giolito, 1549, p. 237:
«_Sui galeoni arbori, antenne, trinchetti delle gabbie, gabbiette,
manti, ghindazzi, tolda, cassero, ballatojo, trombe da seccare, cartocci
e scaglie di sassi, colle loro lanterne._»

CRESCENTIO, _La Nautica Mediterranea_, in-4. Roma, 1607, p. 71: «_Non vi
è altra differenza tra il galeone e la nave, che il galeone per la
velocità del corso deve essere più lungo di colomba, et alquanto più
stretto di piano: et per più pompa gli mettono due mezzane, oltre il
maestro et trinchetto._»

[173] BOSIO cit., II, 621, E: «_Vennero tre galeoni del Papa molto bene
armati, e ben provveduti di soldati, di munizioni, di vettovaglie, e di
tutte le cose necessarie._»

VERTOT, _Histoire des chevaliers de Saint Jean de Jérusalem_, etc. in-8.
Parigi, 1737, III, 249: «_A la prière de ce vigilant grandmaître le Pape
envoya au secours de la religion trois gallions bien arméz._»

DAL POZZO, _Ruolo generale dei Cavalieri geros. della lingua d'Italia_,
in-fol. Messina, 1689, p. 20.

[174] SERIE _di Ritratti d'illustri Toscani_, in-fol. Firenze, 1768,
quasi nel mezzo, non impaginato, e quivi l'originale cavato
dall'Archivio domestico dei Vettori in Roma, dove era conservato
l'originale nell'Armadio B, n. 142, p. 99.



[8 maggio 1521.]

XI. — Torneremo ancor noi a Rodi tra poco: ma intanto dobbiamo volgerci
a Carlo e a Francesco, e con essi alle nostre guerre intestine d'Italia,
divenute oramai perpetue: guerre che ci tolgono ogni lieta prospettiva,
e ci rendono le vittorie e le sconfitte egualmente pesanti. Francesco,
trovandosi troppo esposto alle insidie di Carlo, studiava modo di
potersi almen colle armi assicurare: e per converso Carlo, tanto
politicamente coperto, quanto l'altro militarmente ardito, aspettava di
esser provocato, per mostrare al mondo la sua gran ragione di opprimere
a un tratto il rivale. Questi umori già acerbi, e sempre più guasti dal
tempo e dai mestatori, scoppiavano finalmente l'anno ventuno in guerra
generale; che, cominciata in Navarra, si stendeva mano mano alle Fiandre
e all'Italia. I Fiorentini e il Papa (tutt'uno in quel tempo) si
dichiararono per Carlo contro Francesco; chè Leon dei Medici, dopo la
prigionia di Ravenna, niuna cosa più ardentemente desiderava, quanto
cacciare da Genova, da Milano, e da tutta l'Italia i Francesi[176].
Marciavano le fanterie tedesche e le spagnuole contro Milano, ed
uscivano insieme da Bologna e da Reggio le milizie papali col famoso
Guicciardini, al quale si accostava Prospero Colonna e Federigo Gonzaga
con fiorito esercito di fanti italiani, più dieci mila Svizzeri
assoldati dal Papa.

Al tempo stesso si preparava in Civitavecchia la consueta armata navale
per isbalzarli da Genova, dove tenevano piede fermo, sostenuti dalla
fazione dei Fregosi e dei Doria. Per converso gli Adorni, i Fieschi e
tutti gli uomini principali del partito contrario convenivano
secretamente in Civitavecchia al fine di intendersi e di armarsi in quel
porto; donde disegnavano movere improvvisamente contro Genova,
sorprendere la città, e mutare lo stato. Dicevano essere gli avversari
negligenti, sprovveduti, odiosi al popolo: dicevano che per l'autorità e
clientela propria i partigiani, senza contrasto, alla prima comparsa
piglierebbero l'armi, e leverebbero il rumore, per introdurli. Tornano
sempre le istesse fantasie dei fuorusciti.

Con questi intendimenti, zitti e presti allestivano in Civitavecchia
l'armata: quattro galèe e due brigantini del Papa, altrettanti legni di
Carlo chiamati da Napoli, e sei dei fuorusciti, diciotto bastimenti in
tutto, sotto gli ordini di Paolo Vettori[177]. Ed essendo i collegati
padroni di tutti i luoghi e porti vicini, avevano così bene isolata la
Liguria, e rotte tutte le comunicazioni per mare e per terra, che non
solo non trapelò mai in Genova niuna notizia di ciò che in Civitavecchia
si preparava, ma passarono venti giorni senza che entrasse in quel porto
nè lettera, nè messaggero a recar novella d'oltre i confini.

La quale straordinaria diligenza, come riempì di maraviglia tutta la
città, così in vece di celare i disegni degli aggressori e di
addormentare i Francesi, produsse l'effetto contrario di viemeglio
riscuoterli. Specialmente fu desto il doge Ottaviano Fregosi, uomo
scaltrito, il quale non lasciò di premunirsi contro ogni subitaneo e
inopinato movimento: cavò soldati dalle terre circostanti, rinforzò le
guardie, armò le fortezze di terra e di mare, vi pose capitani di
fiducia, distribuì le armi ai partigiani, fece sorvegliare i contrarî, e
si tenne pronto e risoluto a resistere contro chiunque volesse
assaltarlo[178].

[3 agosto 1521.]

In quella salpavano da Civitavecchia i collegati, navigando al largo in
alto mare per non essere discoperti. Ma la cosa era già chiara, come ho
detto: e per soprassello la mattina del tre di agosto all'altura di capo
Côrso, avendo dato gran caccia a una saettìa genovese, senza poterla
raggiugnere, dierono occasione a costoro di correre per rifugio in
Genova, dove subito trombarono il pericolo imminente. Onde la città di
presente fu in arme, chiuso il porto, guardato il muro da ogni parte, e
la spedizione al tutto vana. Indarno si accostarono: indarno vociarono
san Giorgio e popolo. Perduta la speranza principalmente fondata nella
sorpresa, si tolsero giù di là, e sbarcarono a Recco le fanterie. Le
quali facilmente occupata Chiavari e la Spezia, e valico l'Appennino,
andarono a congiungersi in Lombardia con Prospero Colonna. Appresso
l'armata navale se ne tornò col Vettori verso Civitavecchia[179].

[16 novembre 1521.]

Ora la diversione sopra Genova, quantunque non producesse subito e
direttamente l'effetto voluto dai collegati, nondimeno giovò
agl'interessi loro più che non avessero pensato. Imperciocchè le
fanterie sbarcate dalle galere sulla riviera di levante giunsero
improvvise alle spalle dei Francesi in Lombardia, sgominarono le loro
linee, e accrebbero le forze di Prospero Colonna capitano generale
degl'Imperiali. Il quale con esse, e con Ferdinando d'Avalos, marchese
di Pescara, entrò vittorioso in Milano il sedici di novembre: ed ambedue
l'anno seguente di viva forza espugnarono Genova, e portarono a
compimento il disegno.

[1 dicembre 1521.]

Intanto le notizie della prima vittoria ottenuta in Milano e l'acquisto
di Parma e Piacenza, correvano da ogni parte, e papa Leone ne pigliava
incredibile allegrezza[180]. Egli era in villa alla Magliana, quando
gliene venne l'annuncio: e là in mezzo ai cavalieri ed ai soldati della
sua guardia, che per proprio sollazzo e per secondarne gli umori
facevano festa e gazzarra con spari, e suoni, e fuochi notturni, prese
quella infreddatura, per la quale, cresciuto lo strapazzo anche in Roma
nel rinnovare di giorno e di notte le feste medesime, improvvisamente
soffocato dal catarro morissi la notte del primo dicembre, giovane ancor
di quarantasei anni[181].

NOTE:

[175] BOSIO, II, 624.

[176] CAPITULA _novæ confederationis inter Sanctissimum D. N. Leonem Pp.
X, serenissimum Cæsarem Carolum Romanorum regem electum. Romæ die viii
maji MDXXI._ — Pubblicato dall'originale dell'Archivio di castel
Sant'Angelo da monsignore GIUSTO FONTANINI nella _Storia del dominio
sopra Parma e Piacenza_, in-4. Roma, 1720, p. 328:

«_Cap. V. Quam celerrime et occultissime.... exercitus Franciscum
Sfortiam Mediolanum versus, et classis Adurnos Genuam deducat; ut utra
manus celerius commissionem suam peregerit cum altera statim conjungatur
ad opus celerius perficiendum, Gallosque extra Italiam penitus
submovendos._»

[177] AMMIRATO cit., 338: «_Papa Leone deliberò.... di cacciare i
francesi d'Italia.... et di rimettere al ducato di Milano Francesco
Sforza.... Per mezzo dei forusciti e con le sue galèe, sotto Pagolo
Vettori havendo tentato di rivolgere quegli stati._»

[178] RAYNALDUS, _Ann. eccl._, 1521, n. 106.

BIZARUS cit., _Hist. Genuen._, p. 450.

BELCAIRUS cit., _Rer. Gallic._, 490.

FERRON, _De Reb. Gallor._, lib. V.

FREHERUS, S. R. G., III, 356.

GIUSTINIANI, _Ann. Gen._, 274.

FOLIETTA, ap. BURM., I, i, 722.

[179] BIZARUS cit., 450; «_Statutum est ut eodem tempore, repentino
impetu, et exulum insidiis, Genua et Mediolanum oppugnarentur....
Cæsaris triremes quæ tunc Neapoli stationem habebant, et pontificiæ quæ
duce Paulo Victorio Centumcellis erant.... una cum Hieronymo Adurnio....
repente se in urbis portu ostenderent.... Cum nullam seditionem in Urbe
oriri perciperent.... classe subducta enavigarunt versus Spediam....
Clavarum nullo præsidio firmatum occuparunt._»

[180] RAYNALDUS, _Ann. Eccl._, 1521, n. 108: «_Ex victoriæ nuncio Leonem
pontificem ingenti diffusum lætitia referunt, in qua.... decessit
inopina morte._»

[181] PARIS DE GRASSIS cit.: «_Die vigesima quarta novembris MDXXI, hora
quasi prima noctis, audivimus bombardas in signum lætitiæ ex castro s.
Angeli ob Mediolanum captum a nostris militibus.... Tantum lætabatur
Leo, ut numquam plus lætatus fuerit intrinsecus vel extrinsecus, ita et
taliter ut ex Manliana, ubi erat profectus solatii causa, per plures et
plures nuncios festivitatis signa fieri mandaret: quæ signa per triduum
continuum perdurarunt diebus et noctibus.... Die dominica, quæ fuit
prima mensis decembris, mortuus est papa Leo decimus ex catharro
superfluo, concepto in villa Manliana._»



[9 gennajo 1522.]

XII. — Dunque grandi novità in Roma: e prima d'ogni altra ai nove di
gennajo l'elezione di un papa fiammingo, che non aveva mai veduto nè
Roma, nè l'Italia. I Cardinali acclamarono il nome, da niuno aspettato,
di Adriano vescovo di Tortosa, uomo di piccola nazione nato in Utrecht
presso al mare di Fiandra, pe' suoi meriti e per la sua virtù onorato da
tutti, e specialmente dall'imperatore Carlo V, che lo aveva avuto a
maestro[182]. Il nuovo eletto trovavasi allora in Biscaglia, governatore
e visitatore dei regni di Spagna a nome del detto Carlo; dove avendo
ricevuto per mezzo del secretario del cardinal Carvajal notizia certa
della sua elezione, e deliberato di accettarla per togliere la Chiesa
dai pericoli della rinuncia, conservò l'istesso suo nome, e si fece
chiamare Adriano VI.

[Aprile 1522.]

Intanto i Cardinali, compiuto il rito dell'elezione, si erano diviso tra
loro il reggimento dello Stato, infino a che l'eletto non venisse in
persona a pigliarne le redini: ed in questo mezzo avevano confermato
Paolo Vettori nel carico delle galèe, dando a lui medesimo la
commissione di navigare in Spagna, e di servire papa Adriano nel viaggio
che certamente avrebbe fatto dalla parte del mare, non parendo
conveniente di metterlo a traverso ai paesi sconvolti dalle guerre delle
due nazioni. Quindi Paolo, fornitosi a dovere, sciolse le vele da
Civitavecchia, con quattro galèe e un brigantino, menando seco il
cardinale Cesarino e il Colonnese, ambasciatori ambedue deputati dal
sacro Collegio e dal Popolo romano a presentare solennemente il decreto
dell'elezione nelle proprie mani del novello Pontefice, ed a confortarlo
alla venuta. Così il naviglio da papa Leone per altro fine apparecchiato
tornò utilissimo, quando men si pensava, per condurre a Roma il
successore. Tanto meglio che molti opinavano, e taluno ancora
apertamente diceva, ogni indugio doversi stimare pericoloso, come
principio di sentire la residenza della romana Curia un'altra volta in
lontane regioni trasferita[183]. Perciò Paolo navigò di lungo a
Barcellona, dove ebbe avviso che Adriano, partitosi di Vittoria, a
piccole giornate era venuto in Saragozza coll'intenzione di scendere a
Tortosa sull'Ebro, e di là imbarcarsi per l'Italia. La navigazione,
descritta giorno per giorno dal canonico don Biagio Ortisio, seguace e
familiare del nuovo Pontefice, ci somministra per buona ventura alcune
notizie attenenti alle cose del mare: e perchè segna sempre i punti di
partenza e di arrivo e di passaggio coi particolari del luogo e del
tempo, ci apre la via a talune considerazioni storiche, filologiche e
nautiche, le quali non potrebbero altrove appoggiarsi se non sul
fondamento dei fatti certi, e sulla stabilità delle cause, degli
effetti, e delle circostanze, secondo ragione di storia tecnica[184].

[8 luglio 1522.]

Martedì otto di luglio sull'ora di vespro sorgevano a ruota sur
un'áncora di leva nel golfo dell'Ampolla presso Tortosa le quattro galèe
e il brigantino papale agli ordini del Vettori, più quattro galèe di
Spagna comandate dal capitano Giovanni di Velasco; ai quali bastimenti
si unirono nel proseguimento del viaggio altri ed altri, che a gara
desideravano fare servigio e rendere onore al Pontefice. Venuto Adriano
sul lido, tuonavano le artiglierie della squadra, battevano al vento le
bandiere, salivano a riva i marinari, e davano la voce del plauso,
secondo gli antichi costumi[185]. In quella il Pontefice montava sulla
capitana del Vettori, e in un tratto saliva l'áncora, e sguizzava il
legno sotto la sferza del palamento: tutti gli altri per simile manovra
appresso, e tutti a remo infino a Tarragona essendo il vento debole e
contrario. Or tu nel tragitto sui rivaggi di Catalogna, senza
sbigottimento di tempesta nel mese di luglio a ciel sereno, guarda sul
mare. Ampia distesa di azzurro pieno e vivo; e dalla parte del sole vedi
larga distesa di luce tremolante sull'acqua, come fiume d'oro liquido; e
appresso ai legni nove striscie bianchissime, visibili a lunga distanza,
dovunque pel movimento progressivo abbiano essi aperto il varco al loro
passaggio. Per questa ragione i marinari con voce nostrana, (non
celtica) chiamano Rotta il loro cammino; e intendono rompimento, ciò è
dire la via che fa il naviglio rompendo l'acqua del mare. Via diversa da
ogni altra; e però da esser distintamente espressa con nome speciale:
via che non ha nè spazzo nè lastrico, via che non si fa altrimenti se
non rompendo e spostando l'acqua colla carena; come non si fa viaggio
d'inverno tra le montagne se non rompendo e spostando la neve colla
pala; di che pur nelle alpi di Toscana ed altrove si dice far la Rotta.
Per questo non peritaronsi il Manuzzi ed il Fanfani di confermare ai
marinari, almeno indirettamente, l'uso legittimo di questa voce,
registrandone il composto Dirotta e il verbo Dirottare[186]. Ma vuolsi
esser cauti nel coglierne il proprio senso, perchè il Dirotto ha sempre
nel suo concetto qualcosa di strabocchevole e disordinato; e non si
userebbe bene nè Dirotta nè Dirottare (secondo l'esempio medesimo del
Sassetti[187]) se non per viaggio di navigli fuori della rotta
assegnata, perdendo le conserve, contro l'intento e l'istruzione del
comandante superiore della squadra o del convoglio. Quindi la
navigazione ben ordinata sarà sulla rotta, non alla dirotta: e così
usano adesso ragionevolmente i marinari.[188]

Torna ora coll'occhio sul solco visibile appresso alla tua rotta, e il
piloto ti dirà essere l'effetto della carena che nella sua corsa fende
l'acqua del mare, come il vomero tratto da' buoi fende le glebe sul
campo; e ti dirà essere continuamente mantenuto dal ritorno laterale
delle acque istesse, che dopo passato il legno si gettano del continuo
nel cavo aperto da lui per rimettersi a livello, secondo la natura dei
fluidi. Ti dirà che il vertice di quel solco è al tagliamare, i filoni
sul rilievo dell'acqua attorno ai due fianchi, il vortice dietro alla
poppa dove i filoni vanno a riunirsi; e ti mostrerà la traccia che
rimane sull'acqua visibilissima anche in tempesta, alla distanza di
mille metri, più o meno, secondo la velocità del bastimento e lo stato
del mare. Ti dirà che i marinari non dicono solco, ma Scia; perchè non è
fossa uguale in tutto a quella dei campi dove la terra resta come
l'aratro la lascia; ma al contrario nel mare l'acqua ricade dopo il
passaggio del bastimento, cercando sempre come fluido l'equilibrio di
livello. Ti dirà che la voce Scia, derivata dai Pelasghi, comune ai
Greci e ai Latini,[189] dura sempre tra' marinari italiani nel
significato proprio di traccia lasciata sull'acqua dal bastimento in
moto progressivo, e che le molteplici varianti dei dialetti[190]
viemeglio confermano la ortografica lezione di Scia.[191] Onde Sciare
assolutamente, per tornare indietro sulle proprie tracce; Sciare alla
banda, per girarsi sul posto; Scione per groppo o nodo di vento
contrario rabbiosissimo e subitaneo che ti ricaccia indietro sulla scia,
a rischio di fiaccarti l'alberatura e di profondarti nel pelago; e
Scionata per colpo del detto scione.

Che se darai segno di intendere e di gradire questi ragionamenti,
l'istesso piloto colla cortesia e franchezza propria del marinaro ti
scorgerà dall'altra parte alla testa del naviglio, per mostrarti il
principio di questo fenomeno in quella che dicono Prora fluida; cioè in
quel volume d'acqua che si solleva proprio alla prua del bastimento, e
gli si rovescia innanzi quando cammina. Monta sul graticolato, e tra i
balaustri del bàtolo vedi volume d'acqua premuto a un tempo di fronte
dal bastimento corrente, ed alle spalle dalla circostante massa inerte;
volume costretto dalle due forze a sollevarsi nel mezzo davanti al
tagliamare ed al petto del naviglio che lo investe. Vedine la figura di
grande catino rovescio, col convesso all'insù, e la superficie di
regolare emisferio: vedine il colore più e più scuro, ma liscio e
lucente come di acciajo brunito: e laddove i labbri del catino ritrovano
il livello delle acque circostanti, quivi frangersi, arruffarsi,
schiumare, fuggire, e correre pei lati fino a rimescolarsi nel vortice
della scia. Tieni pur sempre l'occhio fisso al tagliamare, e quel catino
rovescio è sempre lì, e quelle schiume dei lati fuggono sempre di là, e
il volume cresce o scema, secondo la velocità del naviglio, tanto che
segue il suo cammino. Ma se una volta il bastimento si arresta, allora
da sè a un tratto catino, labbri, spuma, filoni, e ogni cosa sparisce
alla prua. Osserva i fatti sul gran libro della natura; ed essa ti sarà
guida a ragionare e a calcolare più dei maestri. Procedi col metodo di
Aristotele e di Galileo, così per ordine: prima l'osservazione, poi il
raziocinio, e finalmente il calcolo; non a rovescio, come fanno certi
cotali oggidì. Altrimenti la ragione si appoggia sul vuoto, e dal
calcolo non caverai un punto più di quanto vi hai messo. Questo io
ripeto in genere delle scienze naturali, e specialmente
dell'applicazioni loro all'arte nautica; cui, dopo lungo studio e non
ignobil pratica, soglio dir mia. Siami concesso lasciar correr questi
pensieri filologici e tecnici come gli ho scritti sul mare, ritraendoli
del vero nella sostanza e nei particolari, donde soltanto può essere che
venga un po' di freschezza e di vita al discorso, trattando argomento
difficile, senza menomarne punto di esattezza e di verità. Per certo non
fo maggiore assegnamento sugli artifizî oratorî, che sulle dottrine
positive: però metto fatti nuovi e antichi, ragionamenti, specchi, e
numeri. Lascio ai novellieri tutta la leggerezza della follìa romantica,
e ai rètori la licenza di menare le onde in tempesta giù all'imo
tartaro, e di sollevarle poscia (gonfiando le trombe) insino alle
stelle.

[5 agosto 1522.]

La dimora di Tarragona si prolungò quasi un mese per ispedire gravi e
urgenti affari di Spagna, e per raccogliere alcune fanterie che Adriano
aveva fatto scrivere a rinforzo della squadra e della guardia.
Finalmente la sera del cinque d'agosto, essendo ogni cosa in punto,
riprese la via del mare; e con lui sulla capitana il cardinal Cesarini,
don Lopez Hurtado vicario imperiale, il duca di Sessa, il conte di
Cabras, l'ambasciatore d'Inghilterra, l'orator di Milano, il legato di
Ferrara, il vescovo di Feltre, e buon numero d'altri prelati e baroni,
che a gran diletto navigando approdarono il dì seguente sull'ora di
vespro in Barcellona. Era la bella capitale di Catalogna tutta in festa
per rimeritare l'onore inusitato della visita papale. Oltre al concorso
di tutte le classi dei cittadini sul porto, oltre alle salve dei
castelli ed al rintocco delle campane, avevano ordinato archi trionfali,
e molti edifizî magnifici e belli; ed un nobile ponte alla marina,
coperto di ricche drapperie. Temendo però non forse avesse a rovinare,
carco come era di infinito popolo, non volle Adriano mettervi il piede;
ma in quella vece si fece condurre dal palischermo agli scali del molo
vecchio, sotto al Mongiuì: indi tra la folla mescolatamente e sempre a
piedi si avviò verso la cattedrale di santa Eulalia. Il molo nuovo, che
ora forma la parte migliore del porto, non esisteva in quel tempo,
perchè gittato alla fine del cinquecento, come ricorda il celebre
ingegnere idrografico della marineria papale Bartolommeo Crescentio nel
suo Portolano, con queste parole[192]: «A ridosso sotto Mongonìa vi è
bonissimo riparo da Ponente e Libeccio; ma oggidì sotto al molo nuovo di
Barcellona vi stanno meglio, essendo ben ormeggiate. Le prime galèe che
ivi hanno dato fondo, e detto la prima Messa, sono state le galèe
pontificie».

Dalla chiesa sarebbesi Adriano incontanente rivolto al porto, se una
buriana improvvisa con tuoni, lampi, e gran pioggia non l'avesse
costretto a riparare nel palagio del vicerè, dove fu servita la cena.
Lasciate ai marinari la voce Buriana, che non può essere sostituita da
altre voci, per indicare quelle specie di temporalaccio che in piccolo
spazio e per breve durata con certa accozzaglia di nugoloni si scarica
in pioggia sopra un luogo determinato, quando lì vicino sarà bellissimo
tempo. Succede per lo più di estate, e col vento più sereno del luogo,
per esempio tra noi succede colla Tramontana o Borea, donde gli venne il
nome[193].

Dunque dopo la buriana, fattosi al solito sereno il cielo e tranquillo
il mare, Paolo Vettori sparò il cannone della partenza: segno prescritto
a tutti di doversi incontanente rimbarcare. Adriano levossi tra i primi
con alquanti famigliari più solleciti; e a lume di fiaccole andò
ciascuno al palischermo assegnato per le rispettive galèe. I neghittosi
che durante lo spazio di tolleranza dentro un'ora non furono presti al
convegno, ebbero a battersi l'anca sul molo di Barcellona, a venire per
altra strada, o a tornarsene alle case loro[194]. Intanto il convoglio
papale costeggiando la Catalogna, raccoglievasi ogni sera in alcun porto
di quelle marine: il giovedì sette di agosto a san Paolo, il venerdì
alla Calella, il sabato a san Felice, la domenica alla Rosa, schivando
di proposito il porto delle Palme, perchè infetto dalla peste.
Finalmente il giorno appresso spuntarono il capo delle Croci, ultimo
confine orientale delle coste iberiche[195].

[12 agosto 1522.]

Ecco dinanzi le riviere della Francia, ed ecco attorno le rivalità della
Spagna. I consiglieri di Carlo V, stretti a' fianchi dell'augusto
viaggiatore, posero e vinsero il partito che niuno del convoglio, nè
legno nè persona, dovesse accostarsi o discendere nelle terre del re
Francesco: perciò volsero le prore ad alto mare, tirando a golfo
lanciato dal capo Creus alle isole di Hyeres, allora disabitate pel
continuo infestamento dei pirati musulmani[196]. Francesco aveva
preveduto il tiro degli avversarî: e non volendo scapitar di
riputazione, nè smentire il nome di gran cavaliere, che tutti gli
davano, impegnò parola reale e diè fede pubblica di libero transito per
terra e per mare a chiunque avesse voluto seguire il Pontefice; e molti
della famiglia ne fecero la prova, passando anche per terra con carri e
bagaglie senza molestia, anzi ricevendo in ogni parte da tutti e
specialmente dai regî ministri cortesie e favori[197].

Intanto il convoglio traversava di lungo il golfo Lione, navigando tra
cielo e mare due giorni e due notti. Secondo il costume militare, la
mattina gli ufficiali riconoscevano la presenza e posizione di tutti i
legni, issavano le bandiere, mutavan la guardia della diana, pigliavano
l'amplitudine del sol nascente, la declinazione della bussola, la rotta
corretta: appresso il servigio di lavanda e di nettezza. Sul mezzodì
segnavano i rilievi del sole in altezza, e con essi la latitudine
precisa e l'ora di bordo. La sera alla preghiera in comune[198]: e dato
il nome di riconoscimento per la notte, i viaggiatori metteansi al
riposo, ed i piloti vigilanti guidavano pel corso degli astri i navigli
al loro destino. In ogni tempo l'altezza del sole e delle stelle,
specialmente delle polari, hanno dato ai naviganti la latitudine: e
sempre la culminazione della luna, le sue distanze dalle fisse, le
effemeridi e gli orologi, han dato più o meno precisa la longitudine; e
quindi il punto di bordo corretto, secondo la stima e secondo
l'osservazione. Prima del sestante usavano la balestrina e l'astrolabio,
prima dei cronometri le ampollette e la clessidra, e prima della bussola
il pinace. Con questi argomenti dettero precetti Tolommeo ed Ipparco;
senza cronometri e senza sestanti Colombo scoprì l'America; e calcolando
sulle stelle Annone, Palinuro, Tifi, e tutti gli antichi navigarono in
altura. A questo proposito non posso tacere di un fatto recentissimo,
che conferma l'altro antichissimo da me già stampato intorno al Pinace,
o bussola pelasga[199]. Un bravo capitano A. Grubissich del Lloyd
austriaco, venendo dalle Indie nel 1872, ed essendoglisi impazzate tutte
le bussole di bordo, costruì tale uno strumento che ne faceva le veci,
tuttochè privo dell'ago calamitato: insomma navigò in altura col Pinace
alla maniera dei Pelasghi. Tanto è vero che gli uomini, messi nella
medesima necessità, ritornano sempre alle stesse cose! L'ingegnoso
ripiego del Grubissich parve così importante alla commissione marittima
di Trieste, che ne volle pubblicata la regola per governo dei capitani
in caso simile; e il Direttore della Gazzetta ufficiale del regno per la
stessa ragione la fece ripetere in Italia[200] Ma che? Forse forse dalle
osservazioni astronomiche e dirette ogni giorno non riconosciamo noi le
variazioni della bussola magnetica, e le anomalie ordinarie, e le
perturbazioni eccezionali, e le irregolarità prodotte dai luoghi, dai
tempi, dai metalli circostanti, e da tante altre influenze non
altrimenti correggibili se non coll'ajuto degli astri? Dunque il Pinace
aggiustato al sole ed alle stelle risponde sempre come bussola
astronomica: e la bussola magnetica (certamente di gran comodità per
tutti, massime pei rozzi timonieri) non è stata nè sarà mai di assoluta
necessità pei grandi marini. Di' lo stesso d'ogni altro strumento
novello, e intenderai meglio l'arte nautica degli antichi maestri[201].

NOTE:

[182] ANONIMO, _Storia de' Conclavi._ Mss. Casanat., XX, IV, 49, p. 502.

RAYNALDUS, _Ann._, 1522, n. 5, 16 e segg.

PAOLO GIOVIO, _Vita di Adriano VI_, tradotta dal DOMENICHI, in-4.
Firenze, 1549, p. 406.

N.B. Gli _Atti ufficiali_ della Curia romana infino al presente gli
assegnano il cognome di _Florent_; altri aggiungono _Dedel Van Trusen_.

[183] RAYNALDUS, _Ann._, 1521, n. 15: «_Putarunt Romani Hadrianum,
audita sœvientis Romæ epidemiæ fama, italicum iter intermissurum....
expetebatur ob varios tristes casus ejus in Urbe præsentia...._» et
1522, n. 5: «_Non defuere qui timerent, ne in Hispanias Sedes apostolica
transferenda esset._»

[184] BLASIUS ORTISIUS, (_Ortiz_) _Itinerarium Hadriani Sexti_, ap.
BALUTIUM, _Miscell._ in-8. Parigi, 1680, III, 351 a 470.

[185] ORTIZ cit., 361, 376: «_Obtulerunt Pontifici quatuor triremes
imperatoris nomine, quarum capitaneus erat dominus Joannes a Velasco....
SSmus triremes ascendit numero odo cum scapha, vulgo vergatin....
festive cum suis tormentis ignivomis ut moris est._»

[186] MANUZZI, _Vocab. della Crusca_, voce _Dirotta_.

FANFANI, _Vocab. della lingua italiana_, voce _Dirotta_.

[187] FILIPPO SASSETTI, _Lettere_, in-8. Firenze, 1855, p. 267:
«_Andammo navigando di conserva, l'una nave a vista dell'altra, quattro
giorni; e avanti che noi scoprissimo l'isola della Madera, già aveva
preso ciascuno la sua dirotta, e perdutici di vista tutti, nonostante
gli ordini e le istruzioni e i comandamenti._»

[188] STRATICO, _Vocab. di marina in tre lingue_, voce _Rotta_.

CIVILTÀ CATTOLICA, 1º luglio 1858, p. 133: «_Ecco il battello pigliare
celerissimo verso l'alto la rotta._»

[189] HENRICUS STEPHANUS, LEOPOLD, aliiq. _Lexicon_: «Σχιὰ, ᾶς, ὴ.
_Umbra_, _adumbratio_.»

VITRUVIUS, _Archit._, I, 2: «_Sciagraphia, frontis et laterum
adumbratio._»

[190] MANUZZI, _Vocab._ coll'esempio del PULCI «_Assia, e Assiare._»

ROFFIA col PANTERA, _Vocab._ «_Sia e Siare._»

CRESCENTIO, _Nautica_, 142, coi Napolitani «_Zia, e Ziare._»

[191] CARLO BOTTA, _Viaggio._ Continuamente: «_Scia e Sciare._»

FANFANI, _Vocab._ «_Sciare._» Non registra _Scia_.

CARENA, _Veicoli_, 96: «_Scia, quella traccia, o solco, o striscia che
lascia sull'acqua dietro di sè la nave che cammina._»

L. FINCATI (cap. di vascello). _Dizionario di marina_, in-16. Genova,
1870: «_Scia, traccia lasciata dalla nave nel fendere il mare nel suo
moto progressivo. Sciare, vogare in dietro in modo da far progredire
colla poppa. Sciavoga, avanti da un lato, e indietro dall'altro per
girare._»

[192] BARTOLOMMEO CRESCENTIO, _Portolano della maggior parte de' luoghi
da stanziare navi e galèe in tutto il Mediterraneo_, in-4. Roma, tipog.
del Bonfadino, 1598, e 1602, p. 5.

[193] STRATICO, _Vocab. di marina._

FANFANI, _Vocab. dell'uso._

[194] ORTIZ cit., 381: «_Intempestæ noctis conticinio, ecce tonitrua
bombardarum quibus.... omnes vocabantur ad triremes.... illud signum
omnibus comune.... multos remansisse suspicor.... quorum aliqui postea
evecti sunt.... alii vero ad sua redierunt._»

[195] ORTIZ cit., 381: «_In portu sancti Pauli, (Sampau) ventum est ad
portum qui dicitur La Cala de Calella.... in portum cagnominatum Sancti
Felicis_ (Sanfiliù) _et de Rosas.... promontorium nuncupatum Cap. de
Creus.... Palamox intactum reliquimus quia peste laborabat._»

[196] ORTIZ cit., 383: «_Nostra classis, ne se committeret Francigenis,
transivit.... ad insulas Errojas, inabitatas formidine piratarum._»

[197] ORTIZ cit., 383: «_Fides pubblica data a Rege Franciæ.... Multi ex
familia cum jumentis tum sarcinariis tum vectoriis.... per Gallias
illæsi et incolumes transierunt._»

[198] ORTIZ cit., 383: «_Ante noctis crepusculum magno tubarum
clangore.... cantores Papæ Salveregina solemniter decantabant, quorum
concentus suavissime resonabat._»

CESARE MAGALOTTI, _La legazione del cardinal Barberino nell'anno_ 1625.
Mss. Casanat., XX, IV, 9, sotto il dì 22 marzo 1625, p. 31: «_Al tocco
dell'Avemmaria in ciascuna galera si cantavano le Litanie della Madonna
insieme con altre preci. Di poi si domandava il nome alla Capitana, sì
come si suol fare ne' luoghi pericolosi, acciocchè in caso di burrasca
le galere possano essere unite ed ajutarsi l'una l'altra. Dal Comito
reale, d'ordine di sua Eminenza fu dato il nome di san Giovan
Battista._» — Sono certo di rinvendicare al cav. Cesare Magalotti
giuniore l'opera predetta, quantunque anonima alla Barberiniana ed
altrove; e da alcuni, col signor Lumbroso (_Cassiano dal Pozzo_, in-8.
Torino, 1875, p. 15), attribuita per errore al predetto Cassiano.
L'Autore, a p. 25, nominando Cesare Magalotti seniore, aggiugne _Mio
zio_; ed a p. 353, afferma la sua ambasceria ai signori Lucchesi pel
giorno 13 dicembre 1625. Ora nell'Archivio di Stato in Lucca, codice
intitolato _Libro visite di principi_, Serie B, armadio 50, numero 13
pel detto giorno, mese ed anno, si riscontra Ambasciatore precisamente
lo stesso cav. Cesare Magalotti: dunque il libro è suo. Così io alla
Casanatense (quando ero bibliotecario) ho scritto sulla copertina del
detto codice.

[199] P. A. G., _Marina del Medio èvo_. Firenze, Le Monnier, 1871, vol.
I, p. 420. — Le bussole primitive, e le seguenti.



[13 agosto.]

XIII. — Ridottosi il convoglio all'isola di sant'Onorato, non avrebbero
veduto faccia che di monaci e di pescatori, se non fosse comparso con
una feluca il vescovo di Grasse a inchinare papa Adriano, portandogli in
buon dato frutta, aranci e rinfreschi, graditi ai naviganti nella estiva
stagione, come tutti sanno; e come pur ne scrisse l'Ortisio in lode del
Vescovo a nome di tutti. Indi dalle deserte isole provenzali si
accostarono finalmente alle ridenti riviere d'Italia, e presero terra in
Villafranca. Quivi, perchè paese straniero, e fuori del temuto confine,
era in punto uno ambasciatore del re Francesco, mandato a complire col
Pontefice ed a mettersi nel suo seguito. Passarono oltre insieme, e
fecero un po' di sosta innanzi a Monaco, essendo venuto riccamente e con
grande onore di compagnia, Luciano Grimaldi, principe della terra, a
pregare Adriano di voler discendere nel porto e riposare nella sua casa.
Ma pel gran desiderio dei viaggiatori di esser presto in Roma, ne fu
ringraziato; niuno volendosi più trattenere, che non fosse necessario
per rinnovare le provvigioni e l'acquata.

E perchè meglio ognun veda quanto di questi minuti racconti nautici si
può avvantaggiare la storia generale, narrerò il caso singolarissimo di
Andrea Doria, di che indarno cerchereste altrove, sia nelle storie
comuni, sia nelle particolari biografie di lui, antiche e moderne, dal
Cappelloni al Guerrazzi. Certamente avrei desiderato, oltre alle
scritture del Canonico spagnuolo, aver per le mani il giornale di
navigazione del capitan Vettori e di qualche altro ufficiale del
convoglio, e me ne sarei tenuto più ricco di notizie tecniche da farne
copia anche ai miei lettori: ma perchè non mette conto il cercare quel
che non si può avere, dirò di Andrea coll'Ortisio.

La notte del trenta di maggio di quest'anno Genova era stata presa e
saccheggiata dalle milizie di Carlo V, e Andrea capitano di quel porto
colle quattro galèe del suo comando aveva dovuto fuggirsi dalla patria,
dove insieme cogli imperiali era entrata la fazione contraria degli
Adorni. Ridottosi in Monaco, presso i Grimaldi aspettava gli eventi
futuri, e viveva in esilio. Ciò non per tanto in quella occasione,
vedendo tante feste per quei rivaggi, e concorrere a gara legni e
persone intorno alla capitana del romano Pontefice, pensò cavare dal
porto le sue quattro galèe, e venire in mezzo per salutare più
degnamente cui tutti onoravano. Sciolse gli ormeggi, uscì fuori, schierò
le galèe, spalò i remi, posesi in giolito, e prese a fare una bella
salva d'artiglierie, e gala di bandiere, e tutti quegli altri rispetti
che si usano in mare. Se non che gli Spagnuoli del corteggio, pieni di
sospetto contro di lui, tanto notissimo avversario, quanto si era
dimostro nel caso di Genova, presero le armi, caricarono a palla, e si
apparecchiarono a combatterlo con sì grande circospezione e silenzio,
che papa Adriano dalla sua camera nè pure se ne avvide. Ma lo notò bene
l'Ortisio, che passeggiava in coverta dalla spalliera alle rembate; e
meglio lo capì Andrea che squadrava da lungi, e ben intendeva i segni e
gli umori. Perciò, salve, bandiere, voci, trombe: ma sempre alla larga.
Poi sciascorre, aggiaccio alla banda, e via nel porto di Monaco[202].
Così mutano le condizioni degli uomini nel corso delle umane vicende,
che quello stesso Andrea, il quale era tenuto lontano come pubblico
nemico, tanto che nè pure all'ombra del pacifico stendardo papale non
era lasciato, nè si ardiva egli medesimo, accostare per rendere onori e
saluti, proprio desso aveva tra poco a essere capitan generale della
marineria pontificia, e poscia comandante supremo ed arbitro di tutte le
armate spagnole ed imperiali nel Mediterraneo; e doveva a un batter di
ciglio far tremare quegli stessi che avevano caricato le artiglierie
contro di lui. E ben egli sapeva apparecchiarsi all'avventuroso trionfo,
superando le difficoltà oppostegli dagli uomini e dalla sorte: chè a
dispetto degli avversarî volle cavarsi la voglia di essere a ogni modo
innanzi al nuovo Papa, e di vederlo bene cogli occhi suoi. Staccavansi a
ogni tratto da quella riviera feluche e navicelli pieni di signori e di
popolani colle donne e co' fanciulli per ricevere dappresso la
benedizione del Pontefice: tra tanta gente si cacciò mescolatamente
anche Andrea in abito dimesso e spalleggiato dai suoi fidi; e così senza
altrui sospetto, entrò ed uscì, vide e parlò, come aveva divisato[203].

Appresso, volendo Adriano liberarsi dai nojosi indugi delle visite di
tanti sconosciuti, ordinò che il convoglio da quindi innanzi dovesse
allargarsi da terra durante la giornata, e la notte soltanto accostarsi
a qualche porto o ridosso per riposare quietamente, ed anche per
assicurarsi dagli insulti dei pirati, che molti e arditissimi ronzavano
intorno, tenendo il capitano Vettori, il Velasco, e gli altri in
perpetui sospetti. Tutti i naviganti potevano in quei tempi vedere cogli
occhi propri la desolazione delle riviere iberiche, francesi ed italiane
per le pertinaci infestazioni dei ladroni: le spiaggie squallide, le
isole disabitate, le capanne in cenere, i pescatori in fuga, e le fuste
dei barbareschi a zonzo sul mare, sempre fuggenti innanzi ai legni
militari, e sempre piombanti dovunque appariva facile la preda. Adriano
istesso fremeva vedendosi costoro alla coda pei canali e attorno alle
isole: ma non gli conveniva il dar la caccia, nè il crescere gli stenti
e gli indugi del viaggio. Ciò non pertanto recossi ad onore il poter
liberare dalle mani degli infedeli una grossa nave, già quasi da loro
sottomessa; e senza troppo dilungarsi dal cammino, tener dietro a quei
furfanti che fuggivano disperatamente dal suo cospetto[204]. Continue le
guardie, le esplorazioni, e le cautele, in più luoghi ricordate
dall'Ortisio[205]: «Ecco, egli dice, alcune vele alla vista. Bisogna
aspettare che siano riconosciute dalle vedette. Ora mettono i pezzi in
batteria, e i soldati pigliano l'armi. Avvisano fuste di Turchi. Dove
molte isole, ivi cresce il pericolo dei pirati.» Però affrettiamci ancor
noi al termine della navigazione, e mettiamo in compendio i giorni, i
luoghi e i rilievi maggiori del viaggio.

Quattordici di agosto, vigilia della Assunzione, riposo alla cala di
Santostefano presso a capo dell'Arma: Adriano di buon mattino celebra il
sacrificio nella chiesa parrocchiale.

Quindici del mese, solennità dell'Assunta, in Portomaurizio: la Messa
nella chiesa dei Minori, fuori di città per evitare la folla. Cinque
galèe di Genovesi si uniscono al convoglio.

Sedici, stazione al capo di Noli.

Diciassette, ingresso solenne in Savona. Il nipote di papa Giulio
accoglie nella sua casa il successore dello zio. Lautissima cena, e lodi
dei cortigiani al buon gusto ed alla magnificenza dei signori della
Rovere.

Diciotto all'alba, in Genova. La città costernata pel recente saccheggio
accoglie il Pontefice con pietosa mestizia. L'Ortisio ricorda molti
particolari non indegni, precedenti e seguenti l'espugnazione[206]

Diciannove, a Portofino tempesta e stazione per quattro giorni.

Ventidue a Portovenere. Armamento tumultuario: avvisano la comparsa di
alcune fuste piratiche.

Ventitrè, presso Livorno. Incontro di cinque cardinali sur un
brigantino: montano tutti sulla capitana ed entrano insieme col Papa nel
porto.

Ventisei a levata di sole nelle acque di Piombino, sul mezzodì a
Portercole, di mezzanotte all'altura di Civitavecchia.

NOTE:

[200] GAZZETTA _Ufficiale del Regno_, sabato 30 marzo 1872, n. 90, p. 2,
col. 1.

[201] C. VALERIUS FLACCUS, SETINUS, _Argonaut._, lib. I, vers. 481:

    «_Pervigil Arcadico Tiphys pendebat ab astro_
    _Hagniades; felix stellis qui segnibus usum_
    _Et dedit æquoreos, cælo duce, tendere cursus._»

[202] ORTIZ cit., 386: «_Andreas de Oria, exul a die expugnationis
Genuæ.... cum quatuor triremibus.... parum a portu Monæci descendens,
huc et illuc navigando nostram classem versus, fœdera pacis igneis
tonitruis demonstravit.... Inscio Pontifice, jussu centurionum, omnia
nostra navigia parabantur ad arma.... Eo fortasse Andreas tam cito in
suam stationem se recepit._»

[203] ORTIZ cit., 386: «_Cum multi nobiles cum suis scaphis ad
recipiendam benedictionem Pontificis advenissent, eumdem Andream de Oria
inter eos adventasse ferebatur._»

[204] ORTIZ cit., 387: «_Conspeximus quamdam navem non procul a piratis
captam.... qui nostram classem prospicientes sicut nebulæ repente
evanuerunt._»

[205] ORTIZ cit., 381: «_Nunciatum fuit quædam navigia prope adesse....
oportuit subsistere, quousque per exploratores patesceret..._» 396:
«_Parantur bellica tormenta et milites ad arma, nuncius asserit Turcarum
fustas adesse...._» 399: «_Multæ insulæ circa Plumbin, et crebra
pericula piratarum._»



[27 agosto 1522.]

XIV. — E perchè a quell'ora i viaggiatori e il Pontefice riposavano in
silenzio, essendo bellissima notte di estate, senza vento, quieto mare e
ciel sereno, ordinò Paolo di calumare tacitamente le gomene fuori del
porto, riserbando le visite, gli affari e il solenne ingresso alla
mattina seguente. Già la sera al tramonto i guardiani del porto avevano
scoperto in mare tra il Giglio e l'Argentaro da diciotto a venti vele; e
il Governatore, avvisato in tempo, stava cogli altri alla torre del
fanale, speculando se quelle fossero del convoglio papale, o di pirati,
pronto ad ogni evento. Quando ecco venire avanti leggiadro e snello il
brigantino del Vettori, e portar le notizie certe, e insieme gli ordini
di avere ognicosa in punto pel solenne ingresso alla dimane[207].

Laonde nella notte i cirimonieri finirono gli apparecchi del
ricevimento, con questo che la mattina seguente all'alba andrebbe a
bordo l'arcivescovo di Cosenza, e insieme alquanti prelati e personaggi
per la prima riverenza, e per invitare l'augusto viaggiatore alla
discesa nel porto del suo Stato: poi se a lui piacesse, entrerebbe
innanzi a tutti colla capitana presso al ponte coperto di seta e di
porpora, per venirne agiatamente alla sponda: colà gli si darebbe a
baciare la Croce, e quindi sotto baldacchino, accompagnato dai
cardinali, verrebbe alla chiesa di santa Maria.

Così all'ora stabilita, che fu la mattina del mercoledì ventisette del
mese d'agosto, tuonando le artiglierie della squadra, e rispondendo dal
forte e dalla piazza; sciolte a gloria le campane della terra (che
avevano a essere a ruota, di quella forma antica, la cui bellezza
ammiravo io stesso da fanciullo), squillando le trombe e rullando i
tamburi con grandi voci di plauso e di festa, entrò la capitana e tutte
le altre galèe e navi nel porto[208]. Il Pontefice, sbarcato al ponte, e
quindi dalla romana curia secondo il rito incontrato, cavalcò sopra la
bianca chinèa tra numerosa schiera di personaggi e dignitarî, insieme
coi visconti della città, sino alla chiesa principale; donde, ascoltata
la Messa, si ridusse al suo palagio nella rôcca[209].

Stavano intenti gli uomini per vedere quale avesse a essere l'aspetto
del nuovo Pontefice, e restavano tutti negli occhi e nell'animo ripieni
della onorata presenza sua. Un bel volto, grave e verecondo, e molto
riguardevole per santa letizia, che gli sfavillava dagli occhi; così che
alle cortesie e profferte altrui, ed ai rallegramenti, rispondeva
piuttosto tranquillo che giulivo; e con parlare dolce e dilettevole per
la brevità e pel senno: di modo che non usando familiarità negli atti e
nelle parole, non però fuor di proposito diceva cosa alcuna che fosse
rozza o superba. Solo un neo posso rilevare dai contemporanei, ripetendo
le istesse loro parole, che pareva ai cardinali ed agli altri avvezzi
alle costumanze romane, che il nuovo Papa si portasse con loro poco
domesticamente: perchè mangiava solo, e solo quando lo chiamavano a
navigare tanto desiderosamente e in fretta scendeva alla marina, che non
avvisava nè aspettava alcuno: e una volta i cardinali, che cenavano
insieme, dovettero levarsi da tavola e corrergli dietro con poco decoro
in gran fretta e confusione. Non dico nulla degli artisti, pittori,
scultori e architetti: perchè costoro, già in auge con Leone e con
Giulio, all'improvviso tutti messi da parte, non ci fanno maravigliare
se ne hanno in più modi straziata la memoria oltre misura.

Egli intanto con alcuni più intimi, e tra essi l'Ortisio, visitava la
città, specialmente la fortezza di Bramante non ancora condotta a
compimento, visitava le fortificazioni imbastite dal Sangallo, le nuove
artiglierie, la darsena, il porto, e presso la spianata della fortezza
le antiche celle navali; di che oggi (se ne togli l'incorrotto nome
latino della città) quasi non resta più vestigio. Ma allora duravano le
forme dei cantieri cellulari, ricordati in questa visita dall'Ortisio,
testimonio di veduta[210]; e fatti scolpire da papa Giulio nelle due
medaglie commemorative della fortezza, edificata proprio in quel sito.
Celle mal ripetute nelle tavole del Litta, del Bonanni, e di altri
numismatici e incisori[211]; i quali, non sapendo che fossero quei segni
minuti alla estremità della spianata sul lido, li ritrassero in figura
di cespugli, di funghi o di scogli. Ma in sostanza, quantunque a
piccolissimi punti, esprimono i seni incavati sul lido a rimessa di
navigli; e me ne appello agli originali della zecca romana, ed ai
campioni del cardinal Tosti che ho avuto per le mani, e più alla
medaglia di Giulio III per l'istesse celle col motto[212]: «Porto e
rifugio delle nazioni». In quest'ultima i medesimi seni spiccano senza
equivoco, perchè a punti maggiori e rispondenti al soggetto principale
della medaglia, come dirò largamente in alcun luogo. Basti intanto
ricordare le forme, gli scrittori e i prolegomeni delle future
dimostrazioni[213].

[28 agosto 1522.]

La sera istessa del ventisette il convoglio scioglieva da Civitavecchia,
e la mattina seguente le sole galèe imboccavano la Fiumara con qualche
stento: segno d'interrimento progressivo[214]. Le navi di alto bordo
restavansi al largo; e papa Adriano con un palischermo procedeva
rapidamente sul Tevere, ed entrava nella rôcca d'Ostia, ben accolto dal
Carvajal, vescovo e castellano. Tra i grandi personaggi convenuti per
incontrare il nuovo Pontefice al termine della navigazione, e per
accompagnarlo la sera stessa al monastero di san Paolo, e il dì seguente
con solenne cavalcata per entro alla città insino al Vaticano[215], non
vuolsi tacere la presenza del cardinale de' Medici, grandemente
affezionato all'Ordine gerosolimitano, cavaliero altresì e protettore
del medesimo nella curia, il quale insieme col cardinal Cesarino e con
molte ragioni dimostrava la necessità di mandare immediatamente
gagliardo soccorso a Rodi, strettamente assediata dai Turchi. Ambedue
pregavano che tutta quell'armata di navi e di galere, schierate sulla
foce del Tevere, dopo aver così bene servito la Santità sua nel
tragitto, dovessero essere di presente dirette alla difesa di una piazza
tanto importante per la sicurezza del cristianesimo in Oriente[216].

NOTE:

[206] ORTIZ cit., 391 a 394.

GREGORIO CORTESE, _Del sacco di Genova nel_ 1522, recato dal latino in
italiano da G. B. QUEIROLO, in-8. Genova, 1845.

GIUSTINIANI cit., 276

BIZARUS cit., 454.

[207] BLASIUS DE CŒSENA, _Diaria cæremonialia sub Hadriano_ VI. Mss.
alla Barberiniana, segnato 1102: «_Die XXVI augusti MDXXII et segg.: In
Civiate Veteri, hora prima noctis, venerunt custodes deputati dicentes
se vidisse qualiter velæ numero XVIII aut XX erant in mare ad vistam....
tota nocte stetimus speculando an essent illæ galeæ Papæ, vel
infidelium. Supervenit brigantinus et nunciavit de adventu Papæ et
Curiæ, et quod omnes illa hora quiescerent. Ea nocte fuit ordinatum ut
in aurora archiepiscopus Cosentinus et magistri cæremoniarum irent primo
diluculo ad visitandum Papam in navi, et ad faciendam primam
reverentiam. Deinde prope Arcem, in fine pontis erecti ibi, porrigeretur
Papæ Crux osculanda; et sub baldachino associaretur usque ad ecclesiam a
cardinalibus Legatis._»

[208] IDEM: «_Die xxvii augusti summo mane, Papa descendit de navi, et
super mulam intravit Civitatemveterem cum cardinalibus._»

[209] ORTIZ cit., 399: «_Ibique ad Centumcellas aderant aliquot
Cardinales et nonnulli nobiles romani.... ibique familia pontificis in
palatio ipso Tinellum, ut ita loquar, romanum agnoscere cœpit quo se
familiares vescendi causa conferebant._»

[210] ORTIZ cit., 399: «_Iterea visimus Urbem et Castrum nondum
consummatum, et Cellas centum ut fama erat, et nomen vetus civitatis
adhuc continet. Castrum munitum instrumentis ferreis necnon aquosa
fovea, quod quidem postquam fuerit perfectum inexpugnabile fore
creditur._»

[211] LITTA, _Famiglie celebri_. Della Rovere, e le Tavole delle
medaglie di Giulio II.

BONANNI, _Numismata Rom. Pont._, in-fol. Roma, 1699, I, 157: «_Portus
Centumcellæ — Julius Ligur Papa Secundus._» — «_Julius Secundus Arcis
Fundator. — Civitavecchia._»

VENUTI, _Numism._, p. 51.

[212] «_Julius III Pont. Max._ — _Portus et Refugium Nationum._»
Medaglia in oro prodotta dal BONANNI, p. 243, fig. XVI; e rispondente
alle lapidi di quel tempo e di quel Pontefice in Civitavecchia,
pubblicate dal TORRACA, 50; e dall'ANNOVAZZI, 271.

[213] DIODORO SICULO, _Hist._, lib. XIV: «_Ædificavit multas domos
navium in ambitu novi portus centum sexaginta, quarum quæque duas naves
capiebat._»

P. A. G., _La Storia del Medio èvo_, I, 6, 13, 58, 60.

[214] ORTIZ cit., 400: «_Ostium Tyberis obstitit. Aditus enim nequaquam
profundus, sed prope vadosus est._»

[215] FRANCESCO CANCELLIERI, _I possessi dei romani Pontefici_, in-4.
Roma, 1802, p. 84.



[1520-22.]

XV. — La gelosia di stato fra Spagnuoli e Francesi, come tutti sanno,
impedì la spedizione del soccorso. Checchè sia degli altri, andremo noi
a Rodi per vedere da presso i grandi fatti che vi si compiono. Ce ne dà
ragione l'importanza del subbietto, l'attenenza della nostra colla
marineria gerosolimitana, la partecipazione dei successivi travagli, il
soccorso portatovi nel venti, ed il ragionamento fattone or ora dai due
Cardinali subito terminata la navigazione di Spagna.

Non fa mestieri ricordare lo struggimento dei Turchi nel desiderio di
cacciare i Cavalieri dall'Oriente, e di pigliarsi l'isola di Rodi, per
venire avanti sicuri colle conquiste in Germania e in Italia. Gran prova
ne aveva fatto Maometto II l'anno avanti di morire; e poscia a
quell'esempio Bajazet suo figlio, Selim suo nipote, e finalmente in
questi tempi Solimano mostrava aperto l'animo suo di volere illustrare
il principio del regno col sospirato acquisto. Dall'altra parte i
Cavalieri allestivansi alle difese, e in cima dei loro pensieri tenevano
le fortificazioni della capitale e della loro residenza. Sorta la nuova
maniera di fortire, e fattasi sempre più certa l'intenzione dei Turchi
di mettersi all'assedio, toccò in sorte a un Grammaestro della lingua
d'Italia l'introdurre nella piazza l'arte nuova, inventata dai grandi
artisti italiani. Il principe Fabrizio del Carretto, di grande casata
ligure, uomo solerte e provvido, fondato nell'esperienza e nella
ragione, che messe insieme non ingannano mai, prevedeva l'assedio futuro
più terribile degli assedî precedenti; e come cominciò a governare, così
finchè visse stette saldo nel proposito di fortificare l'isola, e più la
città e il porto, con lavori grandiosi e continui dal diciassette al
ventuno[217].

Quattro ingegneri sono nominati dai contemporanei per le opere e per le
difese di quest'ultimo assedio: Basilio della Scola vicentino, maestro
Gioeni siciliano, Girolamo Bartolucci fiorentino, e Gabriele Tadini di
Martinengo bergamasco. Comincio dal primo, il cui nome è ricordato dal
Fontano, cancelliere dell'Ordine gerosolimitano, presente in Rodi per
tutto quel tempo, e scrittore diligentissimo[218]; ed è pur ripetuto più
largamente dal Bosio, storico ufficiale dell'Ordine istesso, con queste
parole[219]: «Deliberato havendo il gran maestro Fabrizio del Carretto
di ridurre la fortificatione della città di Rodi nel più sicuro e
miglior stato che ridurre si potesse, fece andare nel seguente anno 1520
in Rodi Basilio della Scuola, ingegnero dell'imperatore Massimiano, il
quale era il maggior uomo di quella professione che allora vivesse. E
col parer suo, e di molti altri valent'uomini che in Rodi si trovavano,
e particolarmente di maestro Giuenio ingegnero della Religione ci fecero
molti, utili e buoni ripari».

Dunque trovandomi ora colla data certa nel 1520, cioè nel primo mezzo
secolo dell'arte nuova, troppo importante mi sembra per la ragione delle
mie storie il rispondere alla domanda che ogni studioso farà intorno
alla vita ed alle opere di Basilio; postochè infino a questi ultimi
tempi pochi sapevano degli elogi tributatigli dal Fontano e dal Bosio, e
niuno più di loro: anzi il suo nome e i fatti erano ormai quasi
dimenticati anche in Vicenza sua patria[220]. Se non che prima
l'edizione delle lettere di Luigi da Porto pel Bressan, appresso le
inedite artistiche pubblicate dal Campori, e finalmente le reminiscenze
vicentine del Magrini hanno cominciato a diradare le tenebre, e a darci
qualche miglior contezza dell'egregio ingegnero, del quale ora metto
insieme le notizie che ho potuto da questa e da ogni altra parte
raccogliere.

Basilio della Scuola, o Scola, così scrivevano i migliori, così il
Bosio, il da Porto, il Sanudo, il Pagliarino, il Barberano, il
Castellini, e ultimamente il Magrini (non della Scala, come altri stampa
oggidì a rischio di confonderlo con Giantommaso Scala veneziano e
posteriore) nacque in Vicenza circa il 1460, dove la famiglia era
noverata tra le nobili, secondo che attesta il Pagliarino nel novero
delle medesime, dicendo[221]: «Della Scola, famiglia venuta di Verona.
Il primo fu maestro Bonaventura di Tommaso, il quale generò Basilio,
padre di Agostino, dal quale sono nati Leone, Alessandro, e Battista
della Scola; così detto perchè maestro Bonaventura teneva scuola».
Dunque il cognome, qualunque sia stato precedentemente secondo l'origine
veronese, divenne certamente della Scola per la professione vicentina;
nome che tuttavia si mantiene onoratamente nei discendenti, tra i quali
per debito di gratitudine devo ricordare quel fior di cavaliero che è il
baron Giovanni Scola, le cui visite e corrispondenze mi sono state di
gran giovamento per queste ricerche. I primi rudimenti delle scienze,
massime filosofiche e matematiche, Basilio deve aver ricevuto dalla
domestica educazione del padre; e non essere escito dalla nativa città
che per seguire la milizia nelle guerre di quei tempi. Alla calata
dei Francesi in Italia del 1494, egli era già tanto avanti nell'arte
e di sì gran fama, che Carlo VIII lo volle al suo soldo sopra
l'artiglierie[222]: essendo notissimo e di uso comune nei primi tempi,
che l'istesso ingegnere, il quale disegnava le fortificazioni, attaccava
e difendeva le piazze, e governava i pezzi, come si fa manifesto per gli
esempî dei primi da Sangallo, del Martini, dei fratelli da Majano, del
Cecca, di Leonardo, del Martinengo, e di tanti altri. Dopo due anni,
cioè nel 1496, e mese di maggio, Basilio era al soldo dei Veneziani,
soprantendente alle artiglierie della repubblica, colla commissione di
gettare cannoni grossi da batteria cento pezzi; e similmente di
incavalcarli sopra carri fatti a disegno speciale per questa
bisogna[223]. L'anno 1500 doveva essersi rimesso al soldo di Francia,
perché lo troviamo prigioniero degli Aragonesi in Napoli, e liberato ad
istanza dei signori Veneziani; pei quali al principio del 1501 faceva un
modello di fortezza, secondo le nuove forme: modello da mettere stupore
nei riguardanti, soldati, ingegneri, e ambasciatori; e del quale si
scrivevano le notizie per le corti, come di cosa singolarissima. Pognamo
queste parole al duca di Ferrara[224]: «Hozi son stato a vedere uno
modello de rocha, fa fare questa Signoria (_di Venezia_) ad uno Basilio
de la Scala da Vicenza, el quale havea tenuto la maestà del Re di Napoli
in prigione e a complacentia di questa Signoria l'ha relassato. È venuto
qui cum salvoconducto però. Et he una bella opera, e monstra che el
serebe questa rocha, o castello che se sia, inexpugnabile: et a
disputarla cum luy, allega bone ragione de ogni minima cosa. He facto de
legnamo: è piccolo: lì sono di gran ripari di molte offese e difese:
torri in triangolo, quadre, tonde e di ogni sorta, e cum bombardiere con
mantelletti a merli in triangolo.... a V. E. maestro sopra li
maestri.... non dispiacerebbe, per esserli quello bono se fa in Franza
de tali cose, quello se fa in Italia, et maxime al presente per la
maestà del re di Napoli a Castelnovo, quello se fa in Alemagna ed
altrove.» Dunque merli e torri in triangolo, difese a cantoni, puntoni,
e tutto il meglio che si usava in ogni parte d'Italia, in Francia, e in
Germania. Le notizie qui espresse rispondono pienamente allo stile di
Basilio, ed alle opere fatte in Rodi: e più al costume del tempo, quando
i grandi artisti del risorgimento, architetti e ingegneri esprimevano i
loro concetti non solo colla matita, ma con bellissimi edifici di
commesso e di scalpello sul legno; dei quali non pochi sono ricordati
dal Vasari, ed alcuni si conservano ancora, come oggetti degni dello
studio e dell'ammirazione dei posteri. Valga per tutti il gran modello
della basilica Vaticana diretto dal Sangallo ed eseguito da Antonio
dell'Abbaco, che tuttavia si conserva qui in Roma.

Avanti che scoppiasse la tempesta contro la repubblica per la furia
della famosa lega di Cambrè, al principio del 1508, Basilio era
provvisionato con ducento ducati annui dai Veneziani; i quali lo
chiamavano[225] Uomo probo, fedelissimo, conosciuto per esperienza,
accetto al capitan generale, e necessario alle loro artiglierie. L'anno
dopo egli era in giro per le fortezze e città di terraferma a rivedere
le difese, le munizioni, le armi, come si costuma in procinto di
guerra[226].

Le istorie vicentine oltracciò ricordano un altro modello di Basilio per
afforzare maggiormente la loro città; modello approvato in Venezia, ma
non eseguito per l'impedimento delle guerre predette; e pur di sì gran
pregio, che bastò ad ammansare un principe di Anhalt. Costui
coll'esercito imperiale entrando in Vicenza nel 1510, si fece promettere
da quei cittadini, se volevano andare esenti dal sacco e dal fuoco, tre
cose: pagare cinquanta mila ducati, abbassare tutti gli stemmi dei
Veneziani, e costruire a spese loro il castello già modellato da Basilio
della Scola[227]. Ma le vicende della guerra tolsero al principe tedesco
la soddisfazione di beccarsi il castello, come l'avevano tolta ai
Veneziani, e a noi troncano il discorso, venutaci meno da ogni lato
l'esecuzione. Ma non per questo andò giù la riputazione di Basilio:
anzi, dopo la pace, più che mai famoso e pregiato, ebbe inviti alla
corte dell'imperatore Massimiliano, stipendi da Carlo V, e finalmente
richieste del parere e dell'opera sua in Rodi, dove erano maestri,
principi e cavalieri d'ogni nazione. Dunque uomo eccellente nell'arte
sua; fonditore, bombardiero, ingegnere, architetto, a levante ed a
ponente, coi Veneziani, coi Francesi, coi Tedeschi e coi Rodiani. In
somma il protagonista della scuola mista.

Alcuni, scrivendo dei grandi artisti, sembrano solo intenti a narrare i
viaggi, i costumi, i guadagni, le gare, e simili cose comuni a tutti gli
uomini; e lasciano indietro, o vero non dicono a bastanza dello stile di
ciascuno, del genio, delle opere, e delle strade battute per giugnere a
nuove invenzioni. Campo troppo largo, nel quale non posso entrare
adesso: ma per mantenere a Basilio il suo posto, devo ricordare le tre
Scuole, altrove accennate, che io chiamo Sangallesca, Urbinate e
Mista[228]. La prima a parer mio comincia con Giuliano da Sangallo pel
baluardo a cantoni del 1483, tuttora esistente nella rôcca d'Ostia; e
pel compiuto sistema delle casematte nel grosso del recinto primario
della rôcca medesima; continua col pentagono di Antonio in
Civitacastellana, e col quadro bastionato a Nettuno; e termina con
Antonio Picconi, inventore dell'ordine rinforzato, e grandioso
ampliatore delle casematte e delle contrammine nel famoso baluardo di
Roma. La scuola Urbinate comincia con Francesco di Giorgio Martini, al
soldo del duca Federigo; comparisce coi puntoni dell'Amoroso in Ancona e
di Ciro in Puglia, si svolge col fiancheggiamento nelle tavole del
caposcuola, risalta colla mina di Napoli nel 1495, e termina col Genga e
col Castriotto, ordinatori delle opere esteriori in tante loro fortezze.
La terza scuola, cioè la mista, doveva avere alla testa uno che sentisse
di tutti; i cui disegni rilevassero puntoni e fianchi, torri triangolari
e merloni in punta, difese a cantoni, quadrate, tonde, e d'ogni sorta.
Tale comparisce Basilio della Scola: tale per le testimonianze certe
degli scrittori contemporanei, e tale per l'opere fatte e tuttora
esistenti in Rodi[229]. A fianco di Basilio, e per le stesse ragioni, io
metto Leonardo da Vinci; e segno l'ultimo periodo classico della scuola
mista col nome di Michelangelo, il quale nel 1529 portava i terrapieni
fino alle difese supreme dei parapetti; cosa non mai fatta da niuno nè
in Italia nè fuori, prima di lui[230].

Torniamo ora a Rodi, e vediamo sul posto lo stato delle fortificazioni
per quest'ultimo assedio, ed i lavori di Basilio. Avremo la scorta del
Fontano, cancelliere dell'Ordine, e presente a tutti i successi degli
ultimi tempi; e ci daranno ajuto le piante della città, e le memorie che
ne ho appuntate io stesso ne' miei viaggi[231]. Sappia intanto il
lettore, che ora qui e dovunque io mantengo ai luoghi la perenne
nomenclatura italiana, come ci viene dal Fontano, dal Bosio, dai
viaggiatori, dai marinari, dai portolani e dagli atlanti del nostro
paese; senza smagarmi appresso ai nomi arbitrarî o corrotti per nostra
confusione dagli strani singhiozzi e squarcioni degli Inglesi, dei
Francesi, e dei Turchi. Ammiro e lodo la perfezione delle moderne carte
idrografiche, massime dell'ammiragliato britannico; e ciò per la
esattezza dei rombi e degli scandagli, e per l'indizio delle mutazioni
naturali e artificiali sui lidi nel tempo moderno: ma per la storia del
passato, quando il commercio di Oriente e le colonie asiatiche ed
africane, e tutta la navigazione del Mediterraneo era in mano ai
marinari italiani, io non cerco sulle carte i nomi stranieri, perchè gli
ho tutti domestici. Posso dire Costantinopoli in vece di _Stamboul_;
Alessandria, non _Scanderìa_; Bicchiere, non _Bequier_ nè _Abouckir_;
Calcedonia, non _Makrìkui_; Metellino, non _Midillùh_. Similmente,
intorno a Rodi, dirò torre del Trabucco, non _Arab-tower_; torre dei
Molini, non _Kandia-point_; torre di san Niccolò, non _Tower of St.
Elmo_; capo Parambolino, non _Koumbournou_: e perchè scrivo italiano ho
detto e dirò sempre Orlacco, non _Vourlack_; Afrodisio, non _Mahadie_, e
simili. Valgami l'autorità non sospetta dello dotto ammiraglio inglese
Guglielmo Enrico Smith, il quale nella sua opera importantissima,
intitolata Memorie fisiche, storiche e nautiche del Mediterraneo, ha
scritto a bello studio un capitolo per ispiegare agli altri le mutazioni
sue intorno alla nomenclatura dei luoghi ed alla loro ortografia; pur
confessando che molte voci, quantunque false e stranamente mescolate di
vecchio e di nuovo, col franco e col turco; nondimeno sono state incise,
e si leggono stampate nelle carte marine di Inghilterra e di Francia.
Tutto dire! un ammiraglio britannico mi assolve dal rimprovero di
rispettabile amico genovese sul conto dei termini topografici intorno
alla descrizione di Smirne, nella mia storia marinaresca del Medio èvo;
dove ho voluto secondo il mio costume usare i termini dei nostri piloti;
distinguervi il capo Fogliero dalla città delle Foglie vecchie e nuove;
porgli dirimpetto il Calaberno in vece del _Kara-Bouroun_; e poi
l'Orlacco e la Cittadella, in vece del _Vourlack_ e del _Sanjack-Burnù_.
L'ammiraglio, dico, mi giustifica con queste precise parole[232]: «Molti
errori di nomi locali sono stati introdotti, ed hanno preso posto nelle
istesse carte idrografiche del nostro ammiragliato: ne citerò uno solo
rispetto a Smirne. Presso alla città sopra una lingua di terra sporgente
in mare sventolava la bandiera ottomana (_Sanjack_) inalberata sul
mastio della Cittadella. Questo capo, chiamato dai Turchi Sanjak-Burnù,
divenne pei Francesi capo St. Jacques, e pei nostri sapientoni divenne
capo St. James; nome che si leggeva anche recentemente nelle carte del
nostro ammiragliato». Egli continua cercando come togliere sì fatti
spropositi. Intanto io vo innanzi: e senza aspettare che gli levino a
comodo loro quei signori, me li spazzo da me; e n'ho abbastanza coi
nostri storici, marinari, e portolani; pognamo pur coll'Atlante del
Luxoro, illustrato dal Desimoni e dal Belgrano. Io sto con loro, e seguo
gli stessi principî, anche nella descrizione della piazza di Rodi.

Dalla parte del mare le difese principali della città e del porto in
procinto di assedio avevano a essere le catene distese, e le navi
affondate sulla bocca, per impedirne l'ingresso ai nemici[233]; e
insieme le batterie intorno agli scali per rifrustargli. Di più a
guardia della marina tre grandi torrioni, che meglio direbbonsi
castelli, nei tre punti principali del porto; cioè la torre rotonda dei
Molini sulla punta del braccio destro, la torre quadrata e bizzarra del
Trabucco sul gomito sinistro; ed alla punta estrema dell'istesso braccio
sinistro (tra il porto grande e il Mandracchio) il torrione maestro di
san Niccolò; alto, grosso, valido, a più ordini sporgenti e rientranti,
e sommamente riguardevole per le scogliere che lo circondano, pei
macigni che lo compongono, per gli stemmi cavallereschi che lo adornano,
e per le batterie alte e basse che si affacciano anche adesso in punto
ad ogni prova. Imperciocchè oltre al principale torrione rotondo di
mezzo, che gli dà nome e comparsa, tu vedi abbasso ampia cinta di
castello quadrato, simile al risalto del castello dell'Uovo sulla
riviera di Napoli; ma di aspetto più fiero, di colore più scuro, di
macigni più grossi, e di più numerose troniere. Durante l'ultimo assedio
il torrione di san Niccolò restò quasi intatto, e tutta la fronte del
mare poco o punto presa di mira dal nemico, secondo la previsione di
Basilio: il quale però dalla parte del porto non riconobbe necessità di
opere nuove, ne vi lasciò nulla di suo.

Volgiamo adunque verso terra per la cinta già fortificata all'antica,
come si è visto nell'assedio dell'ottanta, e troveremo alta e grossa
muraglia di pietra viva, e più ordini di batterie, e attorno profondo ed
ampio fossato. Di più troveremo di mezzo, aggiuntivi da Basilio, sette
baluardi; cinque grandi e due piccoli. I primi denominati dalle lingue
di Alvergna, di Spagna, di Inghilterra, di Provenza e d'Italia; gli
altri due distinti col nome del sito e del fondatore; cioè l'uno
chiamato Cosquino, perchè rivolto a tale villaggio; e l'altro
Carrettano, perchè levato su alle spese del grammaestro Fabrizio del
Carretto[234].

La voce Baluardo comparisce tra noi dopo l'invenzione dell'artiglieria
da fuoco, e prima dello svolgimento della moderna architettura militare:
voce più volte ripetuta nel quattrocento, in significato di riparo
interno, munito di batterie, e principalmente ordinato dietro alle
brecce delle antiche muraglie contro l'assalto[235]. L'origine della
parola è del latino classico e medievale, come già disse il
Galilei[236]: e si conferma per le varianti Balláuro, Balluàro,
Baloardo, Belvardo, Belloguardo e Belliguardo; voci tutte insieme
derivate dalla stessa bèllica radice, però esprimenti Guardia di guerra,
cioè guardia e difesa della guerra; perchè nei combattimenti il baluardo
è la principale piazza d'arme delle fortezze. Al modo stesso, e dalla
istessa radice, deriva l'antico Ballatojo, che era la piazza suprema
delle torri, o vero dei castelli navali, non mica per le danze, ma
acconcia ai combattimenti, e per ciò latinamente chiamata
_Bellatorium_[237]. Dunque non abbiamo a cercare troppo lontano nè a
correre oltre i monti, nè a spremere da ignote favelle le voci
dell'architettura militare: le abbiamo da presso e domestiche in casa
nostra, dove son nate. E qualunque possa essere l'apparente simiglianza
dell'italico Baluardo col nordico _Bullwerck_, io ho sempre pensato che
non si abbiano a dire congiunti di parentela nè ascendente nè
collaterale; ma che ciascuno di essi faccia casa e famiglia da sè nel
suo paese.

Quando la nuova maniera di fortificare bandì gli angoli morti e pose il
teorema della difesa radente, perché ogni punto del perimetro avesse a
essere visto e fiancheggiato da un altro, allora la torre antica si
abbassò, prese figura pentagonale, volse il sagliente alla campagna,
spianò di qua e di là in lungo due facce, e si munì di fianchi, con
leggi matematiche e proporzionali nella misura dei lati e degli angoli;
leggi fondate sulle ragioni dei poligoni iscritti e circoscritti al
cerchio. In somma la piazza pentagona divenne membro principale della
fortezza: e fu detta Baluardo, quando era murata di calcina, di mattoni
e di pietre; fu detta Bastione, quando era imbastita di pali, di fascine
e di terra; e finalmente, fatto il connubio dei due metodi, e messi
insieme i muraglioni e i terrapieni, fu detto tanto baluardo che
bastione per l'istessa cosa, anche nel linguaggio dei grandi maestri;
usandosi tuttavia più spesso quest'ultimo vocabolo che non il primo;
perché col bastione abbiamo il verbo Bastionare, e i verbali e i
derivati; di che l'altro manca.

Ciò posto, vien chiaro il lavoro e il merito di Basilio in Rodi. Esso
non era chiamato a demolire, nè a gittar nuovo di pianta il fondamento
di una cinta compiuta di fortificazione regolare: anzi fondatore della
scuola mista, anche per sistema proprio, doveva meglio di ogni altro
sapersi acconciare alla varietà richiesta dal sito, dagli uomini, dai
precedenti e dall'economia. Esso pertanto lasciava in piè, com'erano,
tutte le torri che vi trovava, e le convertiva in cavalieri di nuovi
baluardi alla maniera sua; cioè irregolari, misti, senza proporzione
determinata, e con poco riguardo alla continuità della radente, legando
con lunghi allineamenti di barbacani e di contragguardie il vecchio col
nuovo perimetro, il quale perciò in più luoghi piglia l'aspetto di cinta
doppia. Ma a un batter d'occhio l'osservatore diligente distingue il
nuovo dal vecchio: perchè dove l'antiche muraglie cadono a piombo, senza
fascia e senza ornamenti, appuntate soltanto di merli all'antica, a coda
di rondine semplice o doppia; per lo contrario le muraglie di Basilio
scendono tutte a scarpa, tutte col risalto di grosso cordone in pietra
al piano delle batterie, e tutte col parapetto difeso da merloni
massicci di pianta quadrilunga e di sezione triangolare: proprio come si
legge del modello suo nella lettera al duca di Ferrara, ove si parla dei
mantelletti e dei merli in triangolo[238]. I quali merloni rettangoli,
acconciati a sesto di squadra coi due cateti sui piani della muraglia e
del parapetto, volgono l'ipotenusa all'aria, lasciando aperta tra
merlone e merlone la strombatura pel pezzo. Vedete nel venti le difese
supreme di Basilio ancora di pietra e di muro. Terrapienate le cortine,
i fianchi, le faccie vecchie e nuove; ma infino al piano delle batterie,
non fino ai parapetti. Degno di speciale menzione fuor della porta che
volge alla sinistra del molo di san Niccolò devo ricordare quel puntone
solitario e senza fianchi, collegato colle vecchie mura presso a due
torri, e rivolto col sagliente al Mandracchio, che evidentemente
appartiensi a Basilio, avendo tutti i caratteri distintivi delle opere
sue; e richiama al pensiero i lavori simili dell'Amoroso. Il Bosio
proprio a questo propugnacolo dà il nome di «Baluardo piccolo, detto san
Pietro, che guarda la torre del Trabucco sopra il molo di san Niccolò;»
ed il Fontano lo chiama «Baluardo Carrettano»[239].

Di più Basilio cavò maggiormente i fossi, e murò la controscarpa,
chiamata da alcuni terza cinta[240]. Niuna opera esteriore, cosa di gran
diffalta nell'assedio: chè sarebbero stati utilissimi, a tener più
lontano dalla piazza il nemico, alcuni ridotti sulle alture circostanti.
Poscia visitò il castello Sampiero in Asia, il forte di Langò, e le
difese degli altri luoghi ed isole soggette all'Ordine gerosolimitano.
Stette in Rodi sino all'anno seguente, sempre in compagnia del Gioeni: e
con lui lavorò di rilievo tutto il modello delle fortificazioni, da
essere per saggio mandato al Papa[241]. Finalmente morto il Grammaestro
suo protettore, e pressato dai richiami dell'imperatore Carlo V, prese
licenza da quei signori, ed ebbela con molti ringraziamenti e regali,
più quattrocento ducati pel viaggio, senza che niuno più dica verbo di
lui, nè per la vita nè per la morte. Ma le tanto onorevoli
testimonianze, ed i lavori lasciati in Rodi basteranno a salvare il suo
nome dall'oblio: imperciocchè, all'infuori del raffazzonare i castelli
del porto e del risarcire le brecce di terra, i Turchi non hanno
aggiunto nè mutato nulla in quella piazza, restandovi ogni cosa come era
quando vi sono entrati; compresa l'artiglieria bellissima di bronzo, che
ancora si affaccia dalle antiche troniere. Ho veduto io stesso le
sentinelle ottomane presso ai pezzi guardare, senza comprendere, sugli
orecchioni e sulle maniglie gli stemmi dei cavalieri, le croci a otto
punte, e le figure di gran rilievo a imagine dei nostri Santi. Una sola
novità puoi aspettarti colà, dalla quale devi esser destro a schermirti,
se non vuoi passar la notte all'addiaccio: ciò è dire la chiusura
immancabile di tutte le porte, subito che tramonta il sole, infino alla
levata del giorno seguente. Tanto per lunga tradizione dura tuttavia
l'antica paura nel petto dei moderni guardiani!

NOTE:

[216] RAYNALDUS, Ann., 1522, 22: «_Julius Medices cardinalis ac plures
alii Pontificem ursere precibus, mox atque pervenit, ut classem egregie
instructam Rhodum ad ferendas obsessis equitibus suppetias mitteret._»

BOSIO cit., III, 40: «_Il cardinal de' Medici et il Cesarino....
pregavano papa Adriano di voler mandare da Civitavecchia le galere et
vasselli insieme colle genti che di Spagna condotto l'avevano.... a
soccorrere Rodi.... Ma in Roma.... pel duca di Sessa, et per don Carlo
di Lannoi, si mutò di parere._»

GIOVIO cit., _Vita di Adriano_, 417.

BELCAIRUS cit., lib. XVII, n. 21.

[217] SEBASTIANO PAOLI, _Codice diplomatico gerosolimitano_, II, 182. —
Breve di papa Leone nel gennajo del 1517 per le fortificazioni di Rodi.

[218] JACOBUS FONTANUS, _De bello Rhodio_, edit. a Clausero, in-fol.
Basilea, 1556, p. 451: «_Propugnaculum a Basilio, architecto Cæsaris
Caroli quinti, magistratu Fabricii Carrectani modulatum...._» 445:
«_Norunt qui mecum in parte laboris et periculi fuerunt._» (Cito sempre
la suddetta edizione.)

[219] JACOMO BOSIO, _Storia della sacra religione et illustrissima
milizia di san Giovanni Gerosolimitano_, in-fol. t. II, 621, A (cito
sempre la seconda edizione fatta in Roma dall'Autore l'anno 1602,
lasciando la prima imperfetta del 1594.)

[220] CARLO PROMIS, _Gli Ingegneri militari che operarono o scrissero in
Piemonte_, in-8. Torino, 1871, p. 92: «_Un insigne maestro (sconosciuto
pur esso agli Italiani ed ai conterranei suoi) Basilio della Scala,
vicentino, uno degli ignorati e primi fondatori di questa scienza, e del
quale dirò qui brevemente._»

[221] BATTISTA PAGLIARINO, _Cronache di Vicenza_, in-4. 1663, p. 319:
«_Famiglie nobili vicentine._»

[222] MARIN SANUDO, _Annali veneti._ Mss. alla Marciana, t. I, p. 70, B:
«_Basilio de la Scola vicentino, che era stato col re di Francia sopra
le artiglierie._»

[223] SANUDO cit., Mss.: «_Addì 13 maggio 1496 fo principiato di fare
alcune artiglierie da bombardare, come fanno le bombarde grosse, le
quali viene menate sui carretti al costume dei Franzesi. Basilio della
Scola vicentino che era stato col re di Francia sopra le artiglierie,
incominciò a gettarne cento pezzi in Canareggio; et mandato detto
Basilio per le terre nostre a torre legnami per far fare li carri._»

[224] BARTOLOMMEO CARTARI, oratore di Ferrara in Venezia, lettera al
duca Ercole I, data del 7 febbrajo 1501, pubblicata dal marchese
CAMPORI, _Lettere artistiche inedite_, in-8. Modena, 1866, p. 1. (La
stampa moderna dice _Scala_.)

[225] ARCHIVIO DEI FRARI IN VENEZIA. Deliberazioni del Senato. T. R. 16,
dal 1508 al 1509: «_A dì 17 febraio 1509 (in stile veneto 1508) A
Basilio de la Scola, probo e fedelissimo nostro, che s'altrova a servigi
nostri, persona molto necessaria al bisogno delle artiglierie nostre,
così per experientia avuta di lui, come per relatione dell'illustrissimo
capitano et gubernatore nostro gienerale, annui ducati dusento._»
(Ricevuto dal baron Gio. Scola con sua lettera del 24 marzo 1871, presso
di me.)

[226] LUIGI DA PORTO, _Lettere storiche_, scritte dall'anno 1509 al
1528, ora per la prima volta raccolte interamente e ridotte a corretta
lezione, e annotate da BARTOLOMMEO BRESSAN. Firenze, Le Monnier, 1857. —
Lettere del 2 e 7 marzo 1509, p. 1: «_Già si è fatta la lega palese....
I Veneziani hanno mandato Basilio della Scola, nostro vicentino, a
rivedere tutte le artiglierie che sono nelle loro città e fortezze di
terra ferma, come uomo che essi tengono provvisionato sopra le munizioni
e terre loro._»

[227] CASTELLINI, _Storie vicentine_, in-4, tip. Parise, 1822, t. XIII,
lib. xvi: «_Che la città sia in debito di fare edificare un castello
fortissimo, secondo il disegno di Basilio della Scola vicentino._» — (La
stampa dice _Scala_: ma nell'originale, mi avvisano, è scritto _Scola_.)

IL PADRE BARBARANO, _Annali di Vicenza_, Mss. in quella città. (Narra
l'istesso fatto del principe di Anhalt, riporta le medesime condizioni,
e scrive Basilio della Scola.)

AB. ANTONIO MAGRINI, _Reminiscenze vicentine_, in-8. Vicenza, tipografia
di Gius. Staider, 1869, p. 47: «_La caduta di Rodi mi porge il destro di
rischiarare una reminiscenza vicentina nella persona di un
architetto.... che è ancora quasi sconosciuto in patria.... È questi
Basilio della Scola...._» — (Esso pure _Scola_.)

IDEM, _Discorso dell'architettura in Vicenza_, in-8. Padova, tip. del
Seminario, 1845, p. 36: «_Basilio della Scola che l'imp. Massimiliano
presceglieva ad innalzare in Vicenza una cittadella._»

[228] P. A. G., _Storia della marina nel Medio èvo_, II, 415.

[229] Docum. cit., alla nota 117, e segg., e 127 e segg.

[230] BENEDETTO VARCHI, _Storia Fiorentina_, edizione dell'Arbib, in-8.
Firenze, 1843, II, 213: «_È adunque da sapere che Michelangelo, avendo
preso cura delle fortificazioni di Firenze, e principalmente del monte
di San Miniato.... fece bastioni.... la corteccia di fuori era di
mattoni crudi fatti di terra pesta mescolati col capecchio trito, il di
dentro era di terra e stipa molto bene stretta e pigiata insieme._»

VASARI, ediz. cit., _Michelangelo_, XII, 206, 365, e segg.

GIULIO SAVOGNANO. Mss. di fortificazione in Firenze alla _Palatina_, in
appendice ai Mss. del Galilei.

[231] CARTE MARINE _dell'ammiragliato britannico_: «_Town and ports of
Rhodes, surveyed by com. Thomas Grave_, _R. N. and M. S._, _Beacon_,
_years_ 1841, 1871.» Due grandi carte, e la pianta della città capitale
colle sue fortificazioni. Si vende in Londra dall'agente
dell'ammiragliato J. D. Potter. — Presso di me.

CORONELLI, _Cosmografo di Venezia_. _L'Isola di Rodi_, con piante e
figure, in-8. Venezia, 1688. — Bibl. Corsini.

IDEM, _Piante di città e fortezze_, due volumi in fol. Pianta di Rodi,
I, 41. — Presso di me.

J. BAUDOIN, et NABERAT, _Histoire des chevaliers de Rhodes_, in-fol.
Parigi, 1659. — _Pianta di Rodi_, III, 53. — Casanatense.

O. DAPPER, _Les îles de l'Archipel_, in-fol. Amsterdam, figur. 1703. —
_Città e porto di Rodi_, cinque tavole, p. 89. — Item.

SEBASTIANO PAOLI, _Codice diplomatico dei Gerosolimitani_, in-fol.
Lucca, 1737. — _Pianta di Rodi_, II, 491. — Item.

JOANNES MEURSIUS, _Opera omnia ex recentione J. Lami_, in-fol. Firenze,
1744. — _Pianta di Rodi_, III, 685. — Item.

JOSEPH VON HAMMER, _Topographische Ansichten gesammelt auf einer Reise
in die Levante_, in-8. Vienna, 1811. — _Pianta di Rodi_, p. 73. — Pel
favore del baron C. Testa di Costantinopoli.

BERNARD ROTTIERS, _Monuments de Rhodes; dédié au Roi des Pays-Bas_,
in-8. Brusselles, 1828, p. 111, e le tavole dell'Atlante che ho innanzi
per favore del chiariss. comm. Cialdi. — L'Autore, colonnello del genio,
ha neglettato la pianta.

VICTOR GUERIN, _Voyage dans l'isle de Rhodes_, in-8. Parigi, Durand,
1856.

EUGÈNE FLANDIN, _Histoire des chev. de Rhodes et description de ses
monuments._ Tours, chez Marne, 1867.

[232] WILLIAM HENRY SMITH, _rear-admiral_, _R. N._, _The Mediterranean,
a memoir physical, historical, and nautical_, in-8. Londra, 1854, p.
406: «_On the orthography and nomenclature adopted.... These names are a
strange mixture, and corruption of Hellenic, Romaic, Latin, Frank, and
Turckish.... many of the misnomer retains their places in our charts and
maps...._» 415: «_There are many of these blounders, but one may be
cited. At Smirna on a post the thurkish Sanjak or banner was hoisted on
a projecting head-land. This cape therefore, named Sanjak-Burnù, became
in french Pointe of. St. Iacques, to which our savants duly translated
Point of St. James: the name under which it appeared till very lately,
in our admiralty charts._»

[233] FONTANUS JACOBUS, _De Bello Rodio_, editus a Clausero, in-fol.
parv. Basilea, 1556, p. 457: «_Naves saburra saxoque gravatas paululum a
muro altiore mari depressit.... Portus septus valida ferreaque cathena
transversum ante fauces projecta, trabibus etiam que supra undas
natabant, validisque anchorariis funibus._»

[234] FONTANUS cit., 445: «_Magnam urbis partem Basilius novo validoque
murorum ambitu cinxit._»

Et 458: «Fossa, vallo, muro, mœnibus, turribus, propugnaculis.»

Et 468: «_Muro et promuro validissimo septum.... tresdecim turribus....
quinque maximis propugnaculis._»

Et 475: «_Propugnaculi Cosquinensis, et Carrectani._»

BOSIO, II, 293, E: «_Baluardo d'Alvergna.... bastione d'Inghilterra....
bastion di Provenza.... baluardo d'Italia alla porta del molo....
baluardo di Castiglia.... piccolo baluardo di Cosquino.... piccolo detto
san Pietro, che guarda la torre del Trabucco verso il molo di san
Niccolò,»_ (cioè il Carrettano.)

VERTOT cit., III, 290: «_Rhodes étoit entourée d'une double, d'autres
disent d'une triple enceinte de murailles, fortifiées par treize tours
antiques dont il y en avoit cinq renfermées dans une espèce de ravelin
ou de bastion, que les historiens du temps appellent des boulevarts._»

[235] P. A. G., _Medio èvo_, I, 404; II, 418, 424, 428.

[236] GALILEO GALILEI, _Trattato della fortificazione_, cap. V, tra le
opere pubblicate dall'ALBERI in Firenze, 1854, in-8, t. XI, p. 146: «_Si
domanda Bellovardo, quasi che Belliguardo: cioè guardia e difesa della
guerra._»

[237] LÜNIG. _Contract. Regis Franc. cum Venetis_, anno 1268: «_Naves
habeant.... bellatorium de retro puppis._»

ARIOSTO, _Furioso_, XIX, 44:

    «_Castello e ballador spezza e fracassa_
      _L'onda nemica, e il vento ognor più fiero._»

[238] DOCUM. cit., alla nota 117.

[239] BOSIO cit., II, 294, lin. 46.

FONTANUS cit., 475, lin. 32.

P. A. G. _Medio èvo_, II, 417.

[240] VERTOT, cit. alla nota 127.

[241] BOSIO cit., 624, B: «_Fu mandato al Papa un bellissimo e
diligentissimo modello in rilievo di tutta la città di Rodi, che il gran
maestro fra Fabrizio del Carretto haveva fatto fare da maestro Zuenio,
per mostrare al Papa il termine, nel quale la fortificazione di detta
città ridotta haveva._»



[26 giugno 1522.]

XVI. — Dunque tutti alle porte di Rodi per l'ultima prova[242]. La morte
del grammaestro Fabrizio del Carretto, la novità dell'eletto Filippo
Villiers de l'Isle Adam, l'ardimento del pirata Curtògoli contro di
lui[243], la lentezza dei Cavalieri nel finire i lavori delle nuove
fortificazioni[244], la morte di papa Leone, la lontananza del
successore, e le consuete discordie tra gli altri principi della
cristianità, conducono l'imperatore Solimano a determinare la immediata
spedizione per l'estate dell'anno presente. Comandante supremo Mustafà
suo cognato col titolo di seraschiere; Achmet pascià, generale degli
ingegneri; Pirì pascià, dai nostri cronisti chiamato Pirro, capo del
consiglio, o come oggi direbbesi di stato maggiore: e insieme col
navilio imperiale lo sciame dei pirati di levante e di ponente, condotti
da Kara-Mahmud, e dal celebre Curtògoli, ambedue ammiragli e piloti
generali dell'armata ottomana[245]. Dicono trecento vele in mare, e
cento mila uomini da mettere in terra[246].

La mattina del ventisei di giugno a levata di sole tutta l'armata nemica
comparve alla vista dell'isola[247]; e sfilando da ostro a borea non
molto lungi dal porto, andossene sopra tre miglia alla cala di
Parambolino, riparata dal capo di Bove contro i venti regnanti di
Ponentemaestro[248]. La grande insenata quasi non bastava alla
moltitudine dei legni, che a gara l'uno dell'altro volevano accostarsi a
terra per mettersi ciascuno, massime i pirati e i mercadanti, più agiato
e sicuro. Veduta la gran ressa di tanti bastimenti, Girolamo Bartolucci
fiorentino, eccellente nell'arte militare, e, secondo patria, di scuola
Sangallesca, da essere ragionevolmente annoverato tra i valentuomini ed
ingegneri della piazza, quantunque non comparisca altrimenti che per
strategico, pensò di poterli tutt'insieme conquidere. Il Fontano con
svegliate parole esprime le ragioni del grandioso disegno che poteva
infin dal primo giorno darci vinta la guerra, e ci mena a ripensare il
discorso dell'egregio uomo al Grammaestro e al suo consiglio in questa o
simil forma[249]: Voi, signori, vedete la confusione dei legni
turcheschi, stivati insieme da non si poter muovere; voi avete barche
eccellenti e fuochi artificiati, avete piloti pratici e marinari arditi
da cacciarsi sopravvento, da mettere il fuoco in mezzo, e da ritirarsi
per poppa co' palischermi, e anche a nuoto, cogli amici al soccorso e i
nemici in scompiglio. A voi la scelta del tempo, del vento, della notte,
di tutte le comodità. Se bruceranno, la vittoria è nostra: se no,
guadagneremo altrimenti pur molto perchè il nemico dovrà sparpagliare e
distendere l'armata in lungo cordone e sottile; perderà la coesione, il
mutuo sostegno, e la prestezza dell'operare; senza togliere a noi di
poterlo, quando che sia, mandare in fiamme volta per volta. Le proposte
del fiorentino non fecero presa. Uno tra gli astanti si oppose, altri
stettero in ponte, e il Bartolucci pronosticò male della difesa. Tristo
chi non coglie nelle grandi operazioni, massime della guerra, i primi
vantaggi!

Ciò non pertanto in quel giorno tutti i cavalieri, i soldati, il popolo,
latini e greci, erano in arme: cinque mila uomini sotto le bandiere, e
seicento cavalieri alle poste, secondo l'ordine delle lingue[250].
Cominciando dalla parte australe, alla porta di Filermo i Francesi,
appresso i Tedeschi infino alla porta di san Giorgio, indi le lingue
d'Alvergna e di Spagna, dappoi gl'Inglesi, accosto i Provenzali, ultimi
di luogo e primi di valore i legionarî italiani, contrapposti alle arti
ed alle frodi di Pirro[251]. Trecento soldati e trenta cavalieri
distaccati al castello di san Niccolò. E sulla piazza un grosso e
brillante squadrone di marinari, sbarcati dalle navi e galèe di Rodi, e
dai legni che si trovavano per ventura nel porto: specialmente da un
poderoso bastimento siciliano; dalla gran nave veneta del capitan
Giannantonio Bonaldi, cui fu data in premio la croce di cavaliero; e
dalla caracca genovese del capitan Domenico Fornari, col quale erano
cencinquanta marinari eletti, e quindici giovani mercadanti, secondo
l'uso delle città marittime, appartenenti alla primaria nobiltà
genovese, Andrea Pallavicini, Bastian Doria, Filippo Lomellino, Niccolò
Gentili, Pietro de' Marini, Vincenzo Palma ed altrettali.

Più valgono coll'armi in qualunque fazione i marinari che non i soldati:
imperciocchè oltre all'agilità delle membra, ed all'uso continuo di
slanci ardimentosi in mezzo a ogni maniera di ostacoli, hanno i marinari
la stessa disciplina dei soldati, e più il maneggio non solo esclusivo
di questa o di quella, ma collettivamente di tutte le armi. Essi al
moschetto, essi alle pistole, agli spadoni, ai pugnaletti, alle picche,
agli spuntoni; essi ad attaccare e a difendere le piazze, essi al
governo e maneggio dell'artiglieria, al trasporto e al mantenimento dei
cavalli, essi pronti per pratica e per istinto ad ogni manovra che
cerchi arte, destrezza, e genio. Dunque eccellentissima tra tutte le
milizie, tanto che non si può discorrer di marinari senza entrare nelle
teorie di ogni arma speciale. Laonde ben fece il Fontano di mettere tra
i primi nella difesa gli uomini sbarcati da tutti i bastimenti del
porto, e condotti dagli stessi loro ufficiali e capitani. Vivi questi
prodi non cadeva la piazza[252].

[15 luglio 1522.]

Intanto i Turchi accampati fuori del tiro poneansi all'ordine; e i loro
legni andavano e venivano carichi di soldati, presi dalle riviere della
Licia e della Caria; e le grosse navi mettevano in terra il parco delle
artiglierie, e le munizioni da guerra e da bocca. Procedevano lenti, ma
cauti: aspettavansi duro e feroce contrasto. Ed i nostri, per concorde
testimonianza dei fuggitivi e delle spie, sapevano che il nemico era
fermo nel fare primario assegnamento sui lavori della zappa e delle
mine; pei quali lavori avean condotto molte migliaja di picconieri e di
minatori[253]. Bisognava un uomo in Rodi, che, anche da questa parte
dell'arte nuova, sapesse contrastare agli assalitori, e superare ogni
altro del suo tempo.

NOTE:

[242] FONTANUS cit., 480, lin. 31, nomina tre scrittori di
quest'assedio, che alla Casanatense e in Roma non si trovano, cioè:
«_Fr. Macedonius eques et antiquarius, fr. Georgius Fancellus eques
lugdunensis, et Robertus Perusinus._» Il primo deve essere il cav.
Alessandro Macedonio della lingua d'Italia nominato più volte dal Bosio.
Del terzo conosco un'Orazione in Roma alla presenza del Papa, sopra i
fatti di Rodi durante l'assedio.

[243] FONTANUS cit., 446, 46; «_Curtogolus archipirata in statione ad
Maleæ promontorium expectabat adventum Magni Magistri.... Curtogolus
elusus, fremens frendensque.... in fretum Rhodium erupit._» — BOSIO, e
VERTOT, pel fatto medesimo.

[244] DAPPER cit., 107, fin: «_Avertissoit alors Solyman que les
Rhodiens avoient démoli un gran cartier de murailles pour le rebâtir
avec plus de régularité suivant les règles modernes de l'architecture
militaire._»

[245] FONTANUS cit., 464, 28: «_His piraticis navigiis jungenda est
classis.... Archipirata Carrà._» 457, 47: «_Cum caeteris piratis
Curtogolus._» 466, 23: «_Ad trecentum et amplius naves._»

BOSIO, 653, E: «_Curtogoli piloto e conduttore dell'armata._»

[246] BOSIO cit., 652, E: «_Ascese la detta armata a quattrocento vele
intorno.... Al campo uomini dugentomila...._»

DE HAMMER GIUSEPPE, _Storia dell'imperio osmano_, volgarizzata dal
tedesco, e approvata dall'autore, in-12. Venezia 1828 e segg. IX, 33:
«_Flotta di trecento vele, diecimila soldati e guastatori, e centomila
per terra._»

Le noble chevalier frère JACQUES bastard DE BOURBON, _La grande et
merveilleuse et très-cruelle oppugnation de la noble cité de Rhodes_,
imprimè l'an. 1526: esso conta così:

  Galere sottili                              103
  Galere grosse                                35
  Maone                                        15
  Trafurelle                                   20
  Schirazzi                                    72
                                              ———
                                              250

Più altri navigli venuti dalla Sorìa, e conclude: «_durant le siège
furent la plus part du temps au nombre de quatre cens voiles ou
environ._»

TIEPOLO, _Relazione di Costantinopoli_ tra i Mss. del SANUTO, t. XXXIII:
«_Partì da Costantinopoli li 18 giugno 99 galìe sutil, 70 grosse, 40
palandarie, 50 fuste, brigantini et altri navigli fin in numero di 300
vele._»

[247] FONTANUS cit., 466: «_Sexto calendas julias, mane diei, nunciatum
e specula.... classem venire._»

BOSIO cit., 651, C: «_Nella mattina delli ventisei del detto mese di
giugno l'armata alla volta di Rodi fu scoperta dalla sentinella._»

[248] GRAVES cit.: «_Koum Bournou, but generally called by the Pilots
Molino Point._» (BOSIO, II, 652, D. — FONTANO, 466, 43. — E tutti i
nostri, dicono cala _di Parambolino_, e capo _di Bove_.)

[249] FONTANUS cit., 466: «_Audivi propositam esse a Hieronymo
Bartolutio florentino, in rebus bellicis non inexercitato, rationem
exurendæ classis._»

[250] FONTANUS cit., 453: «_Recensa hominum qui arma ferre possent
quinque millia.... Æquites sexcenti, Cretenses sagittarii quingenti....
rustici fodiendo ferendoque terram._»

[251] FONTANUS cit., 468: «_Ad portam qua itur ad montem Filermum,
Franci.... Ad portam S. Georgii, robur Germanorum.... Arverni finitimi
Hispanis, ambo quod ibi fossatum minori profunditate.... Phalanx
Brittannica.... Postea Galli narbonenses.... ultima statione, sed prima
virtute, legio italica, urbem adversus Pyrri vim fraudesque
defendebat._»

BOSIO cit., 644. Nomi e cognomi di tutti i cavalieri, venturieri,
capitani e marinari che si trovarono all'assedio.

[252] FONTANUS, 453, 25: «_Cæteri qui pugnæ diligenter fideliterque
vacarunt, fuere nautæ, remiges, classarii, quorum virtutem juverunt
duces ipsi maritimique excursores.... Joannes Antonius Bonaldius
venetus.... Dominicus Fornarius ligur.... et Siculus quidam._» 497, 26.
«_Flos nautarum nostrorum in bello periit._»

[253] BOSIO, 652, E: «_Nel campo turchesco erano da sessantamila,
espressamente condotti per far mine._»

FONTANUS, 469, 13: «_Quinquaginta millibus agrestium hominum.... excisæ
sunt rupes durissimi silicis, campi montibus æquati, et complanata
montium juga._»



[22 luglio 1522.]

XVII. — Il celebre ingegnere militare Gabriele dei Tadini, nobile
bergamasco, nato nel castello di Martinengo, donde prese il soprannome,
era in Candia provvisionato dei Veneziani sopra le fortificazioni e le
artiglierie del regno[254]. Desideroso di trovarsi presente in un
assedio che tutti prevedevano celeberrimo, e stretto dalle chiamate
onorevoli dei Cavalieri per una guerra così grossa e vicina, quantunque
senza licenza del governatore di Candia, secretamente partissi con
alcuni compagni; e guidato dal cavaliere Antonio Bosio, vincendo ogni
ostacolo, e passando per mezzo all'armata nemica, entrò la notte del
ventidue di luglio nel porto di Rodi. Presero terra con lui diversi
amici tutti valentuomini nella fortificazione e nell'artiglieria, come
Giorgio di Conversano ricevuto tra i cavalieri, di cui avremo a parlare
anche altrove, Benedetto Scaramuccia romano, Giovanni Zambara scozzese,
Niccolò di Costo vercellese, Francesco Latese côrso, e Antonio di
Montenegro vicentino, il quale doveva saper di Basilio e seguire col
Martinengo la scuola mista[255].

[28 agosto 1522.]

A parte le feste e le carezze dei Rodiani intorno a questi prodi,
specialmente al Martinengo, cui subitamente offrirono la gran croce, e
l'aspettativa alla prima dignità vacante nella lingua d'Italia: dirò
quel che ora più monta. A lui il carico delle fortificazioni e dei
ripari con ampia facoltà di ordinare e disporre ogni cosa, secondo il
parere e giudizio proprio, e di governare a suo talento le artiglierie,
essendo egli di ciò sommamente intendente e pratico; ed oltracciò uomo
laborioso, molto vigilante e della persona valente ed ardito. Egli mutò
in pochi giorni le condizioni dell'assedio, e fece pentire i Turchi di
essersi messi a difficile prova. Imperciocchè distinguendo in un batter
d'occhio per suo giudizio i punti principali dagli accessorî, e volgendo
le artiglierie della piazza alla testa delle trincere e alla discesa
delle mine, batteva fiero e duro dovunque il nemico era sul principiare,
e però mal riparato: faceva effetti stupendi, sovvertiva le opere, e
tanta strage menava tra la gente, che niuno più ardiva accostarsi al
lavoro. Indi la rivolta dei guastatori, il dispregio dei capitani, e
l'ammutinamento dei soldati. Tutto l'esercito musulmano in scompiglio
era sul punto di sbandarsi, e molti colle armi alla mano chiedevano di
essere rimbarcati e di tornarsene, quando addì ventotto di agosto al
tocco dopo il mezzodì, ecco improvvisamente e di gran pressa arrivare al
campo l'imperatore Solimano col rinforzo di quindici mila archibugeri
per togliere lo spavento, e per rimettere l'attacco a suo modo[256]. La
venuta di costui deve riputarsi come il

BOSIO, 660: E: «_Solimano arrivò in Rodi a' ventotto di luglio...._»
(Deve dire agosto, pel Fontano presente, e pel suo proprio contesto.)
più grande elogio del Martinengo e dei difensori nel primo periodo della
guerra.

[Settembre-dicembre 1522.]

Non è mio compito trattare di proposito l'assedio; sì bene seguire lo
svolgimento dell'arte nuova in un fatto del primitivo tempo, di grande
importanza, e dove per le relazioni minute dei testimoni di vista ci è
concesso studiare partitamente le opere d'ingegno degli oppugnatori e
degli assediati.

Dalla parte della difesa sembrami degna di ricordo l'arte del Martinengo
in quattro punti capitali; ciò è dire nelle contrabbatterie, nei fuochi
artificiali, nelle ritirate, e nelle contrammine. Fin dal principio egli
prese a contrabbattere di ficco i punti cardinali dell'attacco, come ho
detto: i suoi fuochi convergenti dominarono quelli del nemico, li
ridussero al silenzio, impedirono i lavori, e avrebbero finalmente vinta
la prova, se non fosse venuto Solimano in persona con grandi rinforzi a
rilevare i suoi dall'abbattimento, e a rimenarli più che mai numerosi e
pertinaci agli approcci[257]. Ondechè venuti costoro più e più alle
strette, e fattasi ai nostri di giorno in giorno maggiore la necessità
di contrabbattere anche per fianco, l'ingegno di Gabriele supplì ai
difetti di Basilio. Perchè non avendo questi, o per sistema o per
necessità, provveduto al compiuto affilamento della radente, come si è
veduto, il Martinengo pose come meglio potè batterie posticce di pezzi
minuti per traverso, tanto da trovare la radente davanti alle cortine ed
ai fossi, incrociando i fuochi dai punti opposti sulla linea della
muraglia minacciata[258]. Perciò quando i nemici cominciarono a tentare
gli assalti, dove il Martinengo aspettavali, le batterie posticce e le
permanenti da due parti scopavano tra mezzo, menando strage, e imponendo
ai sopravviventi la ritirata[259]. Così potè mantenersi alla lunga sulle
difese.

Nè punto minori vantaggi si procacciarono i Cavalieri coi fuochi
artificiati di guerra serviti largamente nella difesa, massime
all'ultimo tempo, quando i combattimenti si furono ridotti sulle brecce
da presso, corpo a corpo. Lingue e trombe di fuoco, pignatte e carcasse
ardenti, olio incendiario, e misture fumanti e fetide di solfo e di
bitume, scendevano incessantemente tra la folta dei nemici: e guai chi
ne toccava[260]. Che se non fosse stata la grande disparità numerica tra
i combattenti, e se gli avversari non avessero potuto sempre ripienare
il vuoto delle loro file, certamente l'esito della tenzone sarebbe stato
conforme all'ingegno ed alla eroica costanza dei difensori. Trovavano
essi ripiego per tutto, ed eseguivano i trovati con prestezza e
regolarità meravigliosa. Per esempio, cominciando a sentir penuria di
polvere, si volsero ai molini, posero alle macine i cavalli del
Grammaestro, ebbero caldaje, distillatoj, pestelli, fornaci: chi a
raccogliere o a purificare il nitro, chi a triturare i solfi, chi a
mescere il carbon dolce, chi a governare la pasta, e a disseccarla, e a
granirla: uomini liberi, fedeli, ed esperti, difesi da buone guardie;
esclusi sempre i servi e gli schiavi da luogo tanto geloso[261]. Così
ebbero infino al termine abbondanza di polvere, e n'avanzarono tanta da
fornire largamente il naviglio nella ritirata, e da lasciarne un
deposito nascosto, pel caso del ritorno, che dopo tre secoli divampò,
come ho detto altrove, nel terremoto del sessanta.

Quanto ai lavori di terra fin dal principio eransi raccolti i contadini
rodiotti nella città assediata pei cavamenti e pei trasporti: le quali
opere salirono dieci doppi tanto, quando le batterie e le mine dei
Turchi cominciarono a rovinare il perimetro primario della piazza[262].
Allora altresì crebbe al Martinengo il carico di provvedere ai ripari, e
di fare eseguire nuovi lavori. Qua traverse da opporre all'infilata, là
tagli per arrestare il progresso dei giannizzari, e ritirate
all'indentro delle rovine per sostegno dei difensori: alcune preparate
insin dai primi giorni, altre costruite sotto al fuoco dei nemici[263].
Nei quali lavori egli si adoperava non solo colle seste e collo squadro,
ma colla spada e col pugnale, sovente a corpo a corpo contro gli
avversarî[264], e sempre sostenuto dai suoi ajutanti, specialmente dal
Conversano e dallo Scaramuccia. Fra l'altre cose fece una ritirata co'
suoi ripari in quadro, così forte e sicura, che dai Turchi era chiamata
la Mandra, perché i combattenti vi stavano tanto raccolti a fidanza come
il gregge nell'ovile[265]. Per le ragioni dell'arte, e pel valore dei
combattenti, massime dei marinari, furono ributtati tanti assalti, e
uccisi tanti nemici, e mantenuta la piazza per tutto l'anno, finché durò
la speranza del soccorso.

Ultimo, ma di maggiore importanza per la storia della milizia, viene il
lavoro delle contrammine, governate colla polvere di guerra, in
opposizione alle mine dei Turchi. Si usavano pure negli antichi tempi e
nel medio èvo cave e contraccave, cioè militari cunicoli sotterranei per
offesa o per difesa delle piazze: cunicoli chiamati colle voci delle
miniere metalliche, alla cui similitudine si conducevano. Ma dopo il
salto della pignatta (vera o imaginaria) sul fornello dell'alchimista;
dopo il rovinìo del palazzo di Lubecca per fortuita accensione delle
polveri nel 1360, venuto il primo suggerimento del capitano Domenico di
Firenze contro la porta di Pisa nel 1403, e appresso la prova di
Belgrado nel 1439, e le teorie del Taccola e del Santini nel 1449, e il
cimento di Sarzanello nel 1487, tutti preamboli ricordati dal Promis (ai
quali posso aggiungere il suggerimento di Fermo nel 1446, e le prove di
Costantinopoli nel 1453), finalmente Francesco di Giorgio Martini,
fondatore della scuola Urbinate, scriveva di proposito la teoria delle
mine, e ne disegnava le figure, e ne faceva esperimento con pieno
successo l'anno 1495 contro Castelnuovo di Napoli[266]. Dopo di lui la
fortuna ed il proposito concessero al Martinengo la prima comodità in un
grande assedio di svolgere nella pratica tutto l'ingegno delle
contrammine. Tanto più che egli non trovò apparecchi preventivi di
pianta, come i Sangalleschi usavano murare insieme coi baluardi; non
trovò androni a piramide, nè pozzi a campana, nè altri vuoti
sotterranei, donde il fluido elastico delle mine nemiche potesse
liberamente espandersi, fuggire, e perdere la forza. Nondimeno da sè
pensò alle contrammine occasionali e improvvisate: cacciossi
risolutamente sotterra appresso alla zappa, dal muro al fosso e allo
spalto; e cavando gallerie magistrali sul fronte delle opere più gelose,
e guidando cunicoli di scoperta a cercare le mine del nemico, faceva di
troncarne il procedimento, di espellere gli operaj, di distruggere i
lavori, di accecare o inondare le diramazioni; o almeno di lasciarvi
tali squarci, spiragli o sfogatoj, che la furia della polvere accesa non
avesse a scuotere le muraglie, ma a trovare la strada aperta per
andarsene, senza rovina. Fin dai primi giorni di agosto aveva cavato nel
fosso molti pozzi di testa ai lavori seguenti, e di ricetto alle acque
stillanti; di là spingevasi coi cunicoli in diverse direzioni. Indi
all'ascolta: la trivella di ficco, l'orecchio ai picchi, l'occhio ai
lumi, la bacinetta ai sonagli, il tamburo ai sugherelli; e appresso ad
ogni minimo sentore di zappa nemica, tanto che si potesse trovarne la
direzione, e avvilupparla. Più volte, non dieci nè venti, ma oltre a
cinquanta, si incontrò là sotto nel bujo coi Turchi, dove esso stesso di
sua mano contro loro allumava i fuochi lavorati ed i barili di polvere
nei pertugi di scoperta per cacciarli lontano; e poi appresso a
chiudere, e a tenere il passo[267]. Più volte apriva sì fattamente il
terreno al disopra dei fornelli già carichi, che riusciva a sventarne lo
scoppio; o a mandarne la rovina tutt'altrove[268]. Ai quali lavori
continuamente intento, e ognora presente di giorno e di notte,
vigilantissimo, intrepido, e presto a correre là dove vedea il bisogno,
passando continuamente dai sotterranei ai baluardi, dalla polveriera
alle batterie, e specialmente coll'occhio sempre intento a sopravvedere
ogni pericolo; finalmente affacciandosi a un pertugio, proprio
nell'occhio sinistro toccò un'archibugiata, per la quale ebbe quasi a
morire. Vedi se i bersaglieri ottomani uccellavano, o no, di trista
ragione anche ai minuti membruzzi, e sappi che non il solo Martinengo
restò colpito in quel che guardava: lo stesso al cavalier Giovanni di
Homèdés che fu poscia grammaestro, lo stesso successe ai cavalieri
Michele d'Argillemont, a Giovacchino de Cluis, ed a molti altri che vi
lasciarono la vita. Più avventuroso il Martinengo, non restò inchiodato
al muro, come il Cecca, che la palla dall'occhio gli uscì dietro
l'orecchio corrispondente, ed egli superata la gravissima infermità,
portò a lungo tanto che visse l'onorata cicatrice; sempre ai riguardanti
sulla sua fronte mostrando il perpetuo eclisse di nobilissima stella. Or
si noti che questo colpo sinistro, chiamato dal Bosio, più recente
scrittore, un'archibugiata[269]: ci viene espresso nel più antico testo
del Fontano, con termine assai rilevante per la storia dell'artiglieria,
dicendosi colpo di Chirioboarda, cioè di manesca arma da fuoco[270].
Dunque il radicale rimbombo nel _boato_, e la focosa desinenza in
_arda_, dal principio alla fine per tradizione perenne, durano
incorrotti, ed esprimono in ogni tempo la artiglieria da fuoco per
opposito alle armi da corda. Criterio di gran momento per riconoscere
negli antichi scrittori, al di là della comune opinione, la prima
origine della polvere e delle armi sue, come altrove ho detto.

NOTE:

[254] ACHILLES MUTIUS, _Theatrum quo domorum, rerum, virorum, bergomatum
monumenta referuntur_, in-4, 1596.

FR. CELESTINO DA BERGAMO (Colleoni). _Storia di Bergamo._ in-4. 1617, p.
512.

DONATO CALVI, _Campidoglio dei guerrieri ed altri illustri personaggi di
Bergamo_, in-4. Milano, 1668, p. 160.

Promis, II, 76. — Gabriele nato a Martinengo nel 1480, morto in Roma,
1544.

[255] BOSIO cit., II, 657; III, 19, D; 148, B.

FONTANUS cit., 467.

[256] FONTANUS 470: «_Quinto calendas septembris hora postmeridiana
Tyramnus in castra venit.... Vocavit ad concionem inermes....
circumdedit eos armato peditatu quindecim millium chirioboardericorum....
et suggestum ascendit, omnia offendens, quæcumque dici aut fingi queunt
ignaviæ et pavoris exempla in illo exercitu, nihil instituto
disciplinaque militum, nihil imperio ducum._»

[257] FONTANUS cit., 469: «_Tormenta per turres et muros præparata in
medias hostium phalanges cuneosque confertissimos.... tumultus,
secessionem, conjurationem et fugam meditati.... bombardæ rhodienses
penetrabant omnia._» 470, 3.

[258] FONTANUS, 479, 38: «_Bombardæ locatæ per transversa opera in
summitate murorum latus hostium discerpebant._» 486, 6: «_Minutorum
tormentorum utroque latere positorum, conglobatis ictibus, muri faciem
tuerentur._» 476, 14: «_Jussu et consilio Martinenghi, tormentis levibus
oppositis in fronte, læevo latere propugnaculi novi, item dextero ex
opere militari._» 486, 40: «_Utilissimum fuit quod.... tormenta dextera
levaque muri recenter extructi barbarorum latera confringebant._»

[259] FONTANUS, 475, 33: «_Bombardarii.... stragem ediderunt, latus
oppugnantium petendo._»

[260] FONTANUS, 478, 37: «_Ignes, sulphur, oleum incendiarium, imber
ignium.... ubi fervens materia artus hostium apprehenderat, nulla vi
excuti poterat, et quidquid attigerat pervadebat._».... 483, 41: «_Pice,
oleo, materia incendiaria._»

BOSIO, 685, D.

[261] FONTANUS, 472, 16: «_Rhodii inopiam pulveris tormentarii
senserunt, quem molarum rotatu per dies noctesque quinque mensium bis
septem equi magni Magisitri atterebant.... homines liberi triginta
sex.... non servi.... ne qua fraus._»

BOSIO, 637, A; 663, E.

[262] FONTANUS, 453: «_Rustici fodiendo, ferendoque terram._»

[263] FONTANUS, 486, 45: «_E tabulatis atque ibi erectis operibus.... e
parte muri recenter instructi in speciem quadratam.... murum illum
oppositum.... et alterum opponendum.... et vallum ligneum objecimus._»

[264] BOSIO, 669, C: «_Senza il riparo e traversa.... fatta dal
Martinengo nella notte precedente.... il baluardo e la città perduta si
sarebbe.... quivi a spada a spada, e l'istesso Martinengo.... in quel
giorno fece prodezze mirabili._»

[265] BOSIO, 485, E: «_Il Martinengo diede ordine che si facesse uno
steccato et un riparo.... detto dai Turchi la Mandra.... ripari e
traverse cominciate dal Martinengo.... fecero finire da Preianni con
Giorgio di Conversalo e Benedetto Scaramoso._» (Scaramuccia e
Conversano.) — FONTANUS, 467, 15: «_Prejannes Rhodum intravit._»

[266] CARLO PROMIS, _Mem._ cit., II, 329-39. (Erra nel 1503.)

NICCOLÒ DELLA TUCCIA, _Cronaca di Viterbo_, ext. tra i Docum. pubblicati
dalla _Società di Storia patria_ per Toscana, Umbria, e Marche, in-4.
Firenze, 1872, V, 202. (Suggerimento di una mina nel 1446 contro la
città di Fermo.)

LAONICUS CHALCONDYLA, _De rebus turcic._ edit a Clausero in-fol.
Basilea, 1556, p. 121. (Per Costantinopoli.)

LEONARDUS JUSTINIANUS (Chiensis), _De jactura Constant._, editus a
Lonicero, II. 86, 87. (Item.)

P. A. G., _Medio èvo_, voce _Mina_. — Qui p. 52 e segg. (Tutto il filo,
fino alle ultime dimostrazioni, condotto da ingegneri italiani.)

[267] FONTANUS, 467, 33: «_Martinengus, mirabilis inventor et artifex
operum bellicorum, quinquaginta quinque fuisse dicuntur, perlevi negotio
ludificabatur actis contra cuniculis et specubus introrsum...._» 473, 1:
«_Immani specu sub terram, transversis cuniculis, hostium cuniculos
trigintaduos excipiebat...._» 476, 9: «_Super terram bombardis et subter
cuniculis ludificatus est hostem._»

[268] FONTANUS, 476, 38: «_Vis cuniculi pleni materiæ inflammatilis
evanuit in venas subterraneas et contra actos cuniculos._»

BOSIO, 668, C: «_La maggior parte delle mine però non ebbe effetto per
cagione delle contrammine dell'industrioso e vigilantissimo
Martinengo.... stando continuamente ad ascoltare.... Si mettevano bacini
da barbiero con sonagli dentro, e tamburi.... Molte trovate ne
furono.... abbruciati e soffocati i Turchi con barili di polvere che il
Martinengo stesso collocò nel pertugio._»

[269] BOSIO cit., 686, B: «_Il Martinengo per vedere se una traversa era
ben fatta, mettendo l'occhio ad un pertugio.... venne una archibugiata
che gli schiacciò e passò l'occhio._»

[270] FONTANUS cit., 484, 9: «_Martinengus.... ictu chirioboardæ oculo
privatus._» — 470, 39: «_Armato peditatu quindecim millium
boardericorum._» — 482, 27: «_Efferacior vis tormentorum continuit
boatus suos._» — 483, 35: «_Chirioboarderici intra aggeres latitantes
stabant tormentis paratis._» — 484, 14: «_Quantum eæ chirioboardæ nobis
nocebant._» — 486, 43: «_Chirioboarderiis pluvia obstitit.... nam pulvis
madefactus incendi non potuit._»

P. A. G., _Medio èvo_, II, da 35, a 51.



XVIII. — Ora veniamo ai Turchi, ed alle opere dirette da Achmet pascià,
comandante delle artiglierie e degli ingegneri. Costui ci mostra di
prima vista il gran parco delle quaranta bombarde antiche da
scaraventare macigni, cioè palle di pietra, grosse nella periferia dai
nove agli undici palmi[271]. Inoltre ci mette innanzi dodici di quei più
recenti cannoni doppî, che allora chiamavano basilischi; e cacciavano
palle di bronzo più grandi della testa ordinaria d'un uomo; che vuol
dire palle metalliche di cento libbre in peso. Giuocavano questi pezzi
con centro e trenta tiri al giorno senza risquitto[272]: «Ciascun pezzo
(dice il Sansovino nel volgarizzamento) trasse tal dì cento e trenta
volte, come che paja che sia fuor di modo, nondimeno la cosa fu pur
così, essendosi avvertito diligentemente.» Le stesse notizie vengono
confermate dal cavalier Giacopo di Borbone, e da altri contemporanei,
con minute varietà nel più e nel meno, come sempre suole accadere: ma
quanto al numero dei tiri abbiamo altre prove di quei tempi da far
maravigliare anche i moderni capitani d'artiglieria. Quando i grossi
pezzi e insieme i minuti, che erano infiniti sagri, falconetti, e
passavolanti, traevano a general batteria, correva per l'aria un rombo
continuo, oscuravasi il sole, e tra la tenebrìa del fumo conglomerato
non si vedeva più che lampi, e non si sentiva che tuoni, con quella
rovina di muraglie e di case che ognuno può intendere.

Unica eccezione notata dai contemporanei e presenti (il che forte
rilieva ai pensamenti miei sopra il rimbalzo), quando ogni muro rovinava
sotto i colpi dei Turchi, resistevano soltanto a gran ventura le
muraglie delle ritirate, perchè obblique e di grande scarpata. Le palle,
dice il Fontano, non attecchivano sui nuovi ripari pel loro pendìo: e
ciò fu la nostra salvezza[273]. Potrà qualcuno in terra e in mare tener
conto di questi fatti, e venire alla stessa conclusione di salvezza pei
medesimi principî di obbliquità. A questo proposito torna acconcio il
ricordo dei portelli a ribalta, con che i Turchi coprivano le loro
batterie, non le volendo sapere imboccate o scavalcate dai Cavalieri.
Avevano costruito cassoni di legno dolce pieni di terra, con un subbio
rotondo di traverso nel mezzo: li tenevano innanzi alle trombe dei
pezzi, bilicati sì fattamente che con una susta e un cavetto, facendo
all'altalena, si poteva scoprire la bocca del cannone, allumarlo, e
subitamente nasconderlo. Artifizio utilissimo ai Turchi: e potrebbe
molto meglio perfezionato convenire ai Cristiani, massime nelle batterie
corazzate, come ho detto altrove[274].

Arrogi la batteria di dodici mortaj, che in arcata traevano pietre di
sette palmi circolari sui tetti, sulle case, sulle chiese, e per poco
non dissi sulla testa del Grammaestro: e continuavano quel giuoco di
notte e di giorno per più di due mesi, cioè più lungamente e con maggior
furia che nell'altro assedio dell'ottanta[275]. I mortaj, oltre alle
palle di pietra, spesso spesso gittavano globi di rame, carichi di
polvere e di fuochi lavorati, dentrovi canne d'archibugetti pur carichi,
e fuori acutissime punte di ferro. Le terribili carcasse volavano per
aria, menandosi dietro lungo strascico di fumo; e cadendo crepavano a un
colpo, scaraventando sui circostanti punte, palle, scaglie e fuoco[276].

Al tempo stesso e senza interruzione i Turchi lavoravano sotterra alle
mine, persuasi fin dal principio che la resistenza della piazza
tornerebbe vana contro il lavoro pertinace della zappa. Avevano al campo
cinquantamila tra guastatori, picconieri e palajuoli, menati

BOURBON cit.: «_Coups avec boullets de cuyvre pleins d'artifice de
feu._» a forza dalle Provincie danubiane[277]: per opera dei quali il
circondario di Rodi sotterra erasi ridotto simile alle catacombe della
campagna di Roma. Discese, androni, pozzi, corridoj, gallerie,
diramazioni, armature e telaj per sostegno delle volte e delle fiancate,
camere e fornelli da essere intasati e carichi, sotto le mura, sotto i
baluardi, e in più che trenta punti diversi[278]. Finalmente addì cinque
di settembre, caricato il fornello e intasata la camera, posta a segno
la salsiccia e la sementella, a un cenno di Achmet pascià, scoppiò la
mina principale sotto il baluardo d'Inghilterra. La città non altramente
che per grande terremoto tutta si scosse, il baluardo si aprì di cima in
fondo: pietre, terra, persone all'aria, e poi giù di ritorno in paurosa
pioggia[279]. Amici e nemici attoniti innanzi alla voragine. In quel
momento entrava in chiesa il Grammaestro con alquanti de' suoi a
confortare lo spirito nell'orazione, e i sacerdoti dal coro, segnandosi
in fronte, principiavano le laudi, col versetto del salmo, dicendo: « O
signore, affrettati a liberarci[280].» Udito il fragore tragrande, e
saputogli subito della mina, il Grammaestro levossi sclamando: Piglio
l'augurio, e se Iddio si affretta, anche io con lui. Raduna le riserve,
corre sul posto, e trova i difensori del baluardo a corpo a corpo coi
Turchi. Empito, armi, ferite, e morte. In somma ributtati i nemici: e la
salvezza della città dovuta al valore del presidio, ed alla traversa
fattavi la notte precedente dal Martinengo[281]. Anche dei nostri
caddero molti in quel giorno: tra loro non devo tacere il nome del
venturiero genovese Filippo Lomellino, e del cavalier Pietro Mela di
Savona. Nè devo tacere il nome vittorioso dell'eroe principale della
giornata, così chiamato da tutti il giovane cavalier Battista Orsino di
Roma, cui specialmente chi lo vide in quel frangente attribuisce prodigi
di valore[282].

Col baluardo di Inghilterra non cadde adunque la piazza, ma per altri
quattro mesi tenne in duro travaglio gl'ingegneri ottomani. La terra, le
pietre, e tutto il cavaticcio dei cunicoli ammassavano costoro sul campo
attorno ai fossi, e ne facevano alture più e più eminenti, per scoprire
e battere anche l'interno della città[283]. Arte familiare e quasi direi
propria dei Turchi il colmar valli, e spianar monti, levar colline, e
passeggiare sotterra: arte che toccò il sommo della eccellenza nel
memorabile assedio di Candia, sostenuto colla zappa per venticinque anni
dai Veneziani, e abbandonato in un giorno dai Francesi col frustino. In
somma intorno a Rodi volano più e più ripetute le mine: alcune senza
danno, perchè sventate dai nostri; altre (come quella accesa sotto alla
posta d'Italia) a stramazzo dei nemici, perchè rivolta la sfera
d'attività e i raggi d'esplosione contro le loro trincere; una con
grandissima rovina della piazza scoppia sotto il baluardo di
Spagna[284]. Indi brecce, assalti, insidie, ritorni, tagli, e ritirate,
facendosi ogni giorno la città più piccola, ed allargandosi sempre più
l'entrata ai nemici[285]. Niun soccorso dall'Europa, che avrebbe potuto
in un momento mutare la sorte degli assediati; niun conforto
nell'autunno, e disperazione ormai certa per l'inverno imminente. I
Latini, ridotti a pochi, gemono; i Greci stanchi mormorano. Non sembrami
assedio qualunque, non piazza attaccata da esercito proporzionale: ma
presso che non dissi scoglio derelitto in mezzo al mare, sul quale
gavazzano inferociti col fuoco, col piccone, e colle mine gli spiriti
infernali. Scoglio albeggiante per le tombe di quattromila difensori;
azzannato dagli spettri di quaranta mila maomettani morti sotto ai
ferri, e brancicato da altrettanti sfiniti dalle infermità e dai
disagi[286].

Noi abbiam finito di considerare le particolarità tecniche dell'assedio
per parte degli amici e dei nemici. Siam giunti all'estremo. Che più? La
piazza parlamenta, dunque si arrende.

[20 dicembre 1522.]

Ecco la somma dei patti: Cessione dell'isola, e di tutte le sue
pertinenze, all'imperatore dei Turchi. Mallevería di ostaggi,
venticinque cavalieri ed altrettanti cittadini. Libertà ai Cristiani
nell'esercizio del loro culto, e nel possesso delle loro chiese. Licenza
a chiunque di andarsene, e navigli pel trasporto. Immunità di ogni
gravezza agli abitanti per cinque anni. Tempo tre anni a scegliere tra
la dimora e la partenza. Tempo dodici giorni al Grammaestro e a tutti i
cavalieri del convento, ed a chiunque vorrà andarsene con loro. Permesso
di cavare dalla piazza tanto solo di artiglieria e di munizione che
basti al necessario armamento consueto delle galèe e delle navi
gerosolimitane nel viaggio[287].

[24 dicembre 1522.]

Addì ventiquattro dicembre entrarono trionfalmente i Turchi nella piazza
per la porta di Cosquino: entrò insieme sopra un bel cavallo di maneggio
l'imperator Solimano con gran pompa, e poca letizia. Pensava ai prodi
abbattuti, al principe soggiogato, alla varietà della fortuna, e al
pericolo proprio di trovarsi un giorno nelle medesime condizioni. Diceva
con voce sommessa, e di perenne ricordo, ai suoi più intimi: Pesami
alquanto il venire io oggi a cacciare questo vecchio Cristiano dalla sua
casa. I due grandi antagonisti vollero vedersi insieme. Il vecchio
Principe attorniato dai cavalieri andò a visitare il giovane Sultano in
mezzo ai giannizzeri; l'uno e l'altro, nel guardarsi a vicenda, attonito
e maravigliato rimase, senza profferir parola[288]. Il pirata Curtògoli,
divenuto principe di Rodi, ruppe il silenzio: e allora cominciarono quei
discorsi, e vennero quelle scuse, e quell'incolpar la fortuna, e quelle
altre consuete urbanità, che son pur belle tra i nemici.

[1º gennajo 1523.]

Finalmente il primo giorno dell'anno seguente le navi, le galèe, la gran
caracca rodiana, i bastimenti di convoglio erano in punto, e tutti
presti alla vela: i cavalieri e i soldati a bordo, e con essi le
reliquie dei Santi, gli arredi sacri, e cinque migliaja di rodiotti più
rassegnati all'esiglio, che alla viltà e alla schiavitù. Ultimo a
imbarcarsi il principe fra Filippo Villiers l'Ile Adam: silenzio da ogni
parte, e mestizia sul volto di ognuno. In quella l'araldo fedele, che
seguiva da presso il suo signore, a un cenno del Grammaestro, imboccò la
tromba; e con sentita melodia, più quasi gonfio degli occhi che delle
gote, trasse e modulò dolcemente l'aria notissima del saluto e della
partenza. Lo squillo della cavalleria cristiana corse per l'ultima volta
sulle note marine. E in quell'incontro di luogo, di tempo e di pensieri,
parve a ciascuno che appresso al suono rispondesse gemendo l'eco dei
monti e delle valli, l'eco delle torri e delle case loro. Il brivido
serpeggiò per le vene degli infelici; e l'uno negli occhi dell'altro
riguardando poteva leggere i proprî e gli altrui pensieri, e sentire
ugualmente accelerato il palpito di tutti i petti. Sublime la sofferenza
nel dolore, e nobile la reminiscenza dei giorni acerbi. Quella tromba
dell'ultimo squillo, infino al presente gelosamente custodita, riposa
ancora intatta sur un guancialetto di velluto cremisi, coperto da
un'urna di cristallo, in mezzo alla sala del musèo nel palazzo
magistrale di Malta. Sembra muta agli stolti: ma tu che leggi, se hai
senno e cuore, se ti appressi e attendi, potrai forse ancor tu vederne
fremere la canna, e alitare sotto al padiglione gli stessi o simili
ricordi che io qui ne ho scritti, come ho sentito, nel vederla.

NOTE:

[271] FONTANUS, 471, 40: «_Vis quadraginta bombardarum, quæ jactu
saxorum rotunditatis palmorum novem, aliquando undecim.... urbem
vexabant._» Item, 471, 20: 474, 49.

[272] FONTANUS, 471, 45: «_Duodecim æneæ machinæ globos æneos majores
justo capite evomebant.... nomen a serpentibus Basiliscis.... Ante ora
omnium centum et triginta missilia.... quod licet supra naturam
videatur, tamen ita rem esse compertum est._»

FRANCESCO SANSOVINO, _Volgarizzamento della guerra di Rodi_. in-12.
Venezia, 1548, p. 32.

JACQUES DE BOURBON, _Le Siège de Rhodes_, publié par NABERAT.

BOSIO cit., 657, A.

P. A. G., _Medio èvo_, II, 185, 186, 411.

[273] FONTANUS cit., 485,28: «_Multas domos prosternebant.... interiorem
autem murum, recenter oppositum, raro attingebant propter suam
declivitatem: quæ res nobis magnæ salutis._»

P. A. G., _Medio èvo_. V, Indice voce _Rimbalzo_.

[274] FONTANUS, 472,3: «_Apposuerunt tabulas attignatione contigua....
quarum medium axis transversus introrsum sustinebat. Hos Turca funibus e
superiori capite cum subduxisset ut capita machinarum delecta
apparerent.... igne apposito murum quatiebat._»

BOSIO, II, 663, E: «_Erano i detti mantelletti di grossi tavoloni.... e
pieni di terra... dinanzi ai pezzi, con alcuni ingegni che chiudevano i
portelli delle troniere.... gli aprivano, e subito sparato chiudevano._»

P. A. G., _Medio èvo_, I, 405, 408.

[275] FONTANUS, 471, 20: «_Duodecim æneæ machinæ.... ore in coelum
erecto.... dies noctesque, jactu bimestri, projicientes globos saxeos
eptapalmares, in tecta, templa, fere in caput Magni Magistri.... plus
quam in altera oppugnatione._»

[276] FONTANUS, 471, 32: «_Jecerunt etiam globos cupreos plenos intus
bombardis digitalibus, et inter eos exurimenta, bitumen, sulphur, pix
liquida.... cui styli ferrei inhærebant.... hi longo igneoque tractu
volantes, casu suo crepabant.... fumo, odore, obfuscantes.... styli,
bombardulæ necabant._»

[277] FONTANUS, 469, 12: «_Comparatis ad opus cuniculorum quinquaginta
millibus agrestium...._» 475, 10: «_Ex Moesia et Valachia._» 487, 1:
«_Decreverunt non justo congressu.... sed fossis, incilibus, dolabris,
terebrisque murum subrui debere._»

BOSIO, II, 653, E: «_La principale speranza dei Turchi era per via di
mine.... avevano sessantamila picconieri e guastatori dalla Valacchia e
dalla Bosnia._»

[278] BOSIO, II, 668, C: «_Secondo il conto.... cinquantaquattro
mine.... alcuni vogliono quarantacinque.... altri trentotto._»

[279] FONTANUS, 473, 4: «_Nonis septembribus.... ad propugnaculum
anglicanum.... incenso cuniculo, violentissimo crepitu urbs tota
contremuit, non aliter quam terremotu._»

[280] PSALMUS LXIX, vers. 1: «_Deus in adjutorium meum intende; Domine,
ad adjuvandum me festina._»

FONTANUS cit., 473, 9.

[281] BOSIO, 669, B: «_Se non fosse stato un riparo o traversa di
rinfronte fatta nella precedente notte dal Martinengo appunto alla
mina.... i Turchi sarebbero entrati, e la città perduta._»

[282] FONTANUS, 473, 44: «_Enituit fortitudo cujusdam equilis itali,
quem Baptistam romanum vocant._»

BOSIO, II, 670, C: «_Segnalaronsi i cavalieri fr. Battista Orsino romano
e fr. Francesco Tellez portoghese, che fecero prove mirabili e degne di
eterna memoria._»

[283] FONTANUS, 469, 17: «_Excisæ rupes.... campi montibus equati....
complanata montium juga._» 483, 32: «_Fossas complanatas.... terra
injecta.... eminens altitudo supra modum...._»

[284] FONTANUS, 475, fin. «_Maximam muri partem Hispanorum ignito
violentoque distractu in altum aera._»

[285] FONTANUS, 487, 10: «_Minorem in dies urbem faciebant.... Area
intra Urbem occupata ab hostibus fere ducentorum passuum._»

[286] BOSIO, II, 699, C: «_Achmet pascià giurò sopra la fede sua al cav.
Ant. de Grolèe, detto Passim, che morti v'erano di violenta morte più di
quarantaquattro mila, et altri quaranta o cinquanta mila di infermità._»

DE HAMMER cit., IX, 44: «_Immensa la perdita degli assediatori, più che
centomila di loro erano morti pel fuoco e per le malattie._»

DE BOURBON cit., «_Le Bascha jura sur sa foi et assura qu'il en estoit
mort de mort violente plus de 64,000, et 40 ou 50 mille de maladie._»

[287] BOSIO, 698. — SANSOVINO, _Mon. Olt._, Venezia, 1574, p. 210.

[288] FONTANUS, 494: «_Ambo, alter alterius intuitu et admiratione mutua
attonitus, invicem paulisper sese contemplati sunt._»

BOSIO, III, 4, A: «_Curtògoli, famoso corsale, Beì, o sia governatore di
Rodi e di tutto il dominio che era stato della Religione._»



[Agosto 1523.]

XIX. — Gli esuli volsero le prue all'isola di Candia, dove ricevettero i
primi conforti dalla cortesìa dei Veneziani. Ma volendo il Grammaestro
in tanta distretta, e tra le crescenti discordie dei principi nostri,
sfuggire ai pericoli delle altrui gelosie, e non accostarsi più all'uno
che all'altro, quando aveva bisogno di tutti, deliberò di venirsene col
pieno convoglio a Civitavecchia, e poi di ridursi a Roma sotto l'ombra
del comun Padre; divisando altresì trattar meglio da vicino con lui
intorno alla conservazione ed ai futuri destini dell'Ordine
gerosolimitano. Laonde mosse col convento da Candia; e dopo molti
disagi, e stenti, e pestilenza, e burrasche, costretto qua e là alle
quarantine ed alle riparazioni, finalmente nel mese d'agosto si accostò
alla spiaggia romana. Papa Adriano, avvisato dal nuncio di Napoli,
ordinò al capitan Paolo Vettori di andargli incontro colle galèe della
guardia, di servirlo, e di fargli scorta per le note maremme. Paolo si
pose in crociera al confine, tenendo il mare tra monte Circèo e l'isola
di Ponza sempre coll'occhio alla Trinità di Gaeta: e come ebbe veduto
spuntare dal Capo lo stendardo di Rodi, salutò i vegnenti con tutta
l'artiglieria, si unì con loro, e li condusse insino all'altura di
Civitavecchia. Là dette i piloti, e si tirò in disparte, perchè la
capitana magistrale liberamente entrasse innanzi a tutti nel porto: ma
Filippo per sua gran modestia e riverenza non volle consentire a ciò;
anzi risolutamente si pose appresso alla capitana di Paolo, che batteva
stendardo papale, e così vennero dentro con tutto il seguito, salutati
da una bella salva della fortezza, e accompagnati dagli ufficiali e dal
popolo agli alloggiamenti già preparati nel palazzo della rôcca. Là era
il vescovo di Cuenca inviato straordinario del Papa presso la persona
del Grammaestro, coll'ordine di riceverlo degnamente, di confortarlo, e
insieme di offerirgli la città e il porto in piena giurisdizione, non
altrimenti che se fosse di suo dominio: e poscia passati i giorni
canicolari, senza pericolo della salute, un altro avviso il chiamerebbe
per condurlo ed onorarlo in Roma[289].

Così la città di Civitavecchia, prima di ogni altra, in quel tempo
divenne residenza dell'Ordine gerosolimitano, standovi insieme il
Grammaestro col suo consiglio, e i cavalieri delle sette lingue, il
convento, e lo spedale per curare i feriti e gli infermi, che ne avean
moltissimi tra loro; essendovi proposto per ospitaliero quell'istesso
commendatore fra Jacopo di Borbone che scrisse importanti ricordi
dell'assedio[290]. Di più nella stessa città e porto per sette anni
restò stabilmente la sede precipua della marineria dell'Ordine sotto il
comando del cavalier piemontese Bernardino d'Airasca, col doppio titolo,
di ammiraglio dell'Ordine sul mare, e di luogotenente del magisterio nel
governo della terra, come meglio si vedrà qui appresso[291].

[Settembre 1523.]

Dappoi sul principio del mese di settembre, riavutosi il Papa da certa
infermità, mandò a chiamare il Grammaestro: ed egli cavalcò verso Roma
con gran seguito, incontrato alla porta da tutti gli Ordini della città,
signori, popolo, e cortigiani, come si conveniva al valoroso campione.
Filippo faceva grandissimo assegnamento sulla intramessa di papa Adriano
nelle bisogne dell'Ordine suo, sapendo quanto egli fosse geloso
osservatore degli obblighi e custode delle tradizioni, e protettore de'
benemeriti, e quanto potente nell'animo dell'imperatore Carlo V, senza
del quale non si poteva conchiudere nulla di stabile nè da lungi nè da
presso. Gran cose ruminava. Se non che dopo il primo ricevimento avuto
dal Papa nel pubblico concistoro, e dopo una udienza privata, finirono
tutte le speranze. Adriano ricaduto nella precedente infermità, morissi
addì quattordici del mese di settembre.

[19 novembre 1523.]

Indi a due mesi e cinque giorni, cioè ai diciannove di novembre,
rinverdirono le speranze dei cavalieri e dei marinari per l'elezione di
Clemente VII, quel desso che già cardinale Giulio de Medici, cavaliero
di Rodi e protettore dell'Ordine, abbiamo più volte nominato. Di
presente il Grammaestro si strinse con lui per averlo favorevole nella
scelta e nel conseguimento della nuova residenza. Diverse tra i
negoziatori le inclinazioni ed i pareri: chi proponeva il golfo della
Suda in Candia, chi Tripoli di Barberìa, chi l'Elba nel Tirreno, e altri
Malta, Ponza, Minorca, e simili; sempre mirando a pur volere che la
residenza avesse a essere di paese marittimo, più tosto in isola, e di
non molta estensione; cioè da potersi con poca fatica fortificare e
mantenere, e da offrire comodità alla navigazione ed al corso contro i
pirati, professione oramai precipua dall'Ordine medesimo. Tuttavia il
maggior numero dei suffragi concorreva per l'isola di Malta, anche
perchè era riguardata come antimurale d'Italia, e stazione diritta verso
la Terrasanta, e in ogni modo punto strategico di offesa e difesa contro
i Turchi. Ondechè il Grammaestro più che altrove pendeva verso la detta
isola; e dimostrava a Carlo V per lettere e messaggi l'onore e anche
l'utile che a lui medesimo ne verrebbe, se la concedesse, tanto per la
conservazione del nobilissimo Ordine, quanto per difendere dai pirati i
regni di Napoli e di Sicilia, senza altro suo fastidio o dispendio.
Durarono sette anni queste pratiche: nel qual tempo la residenza
conventuale andò trasferita in Viterbo, e le forze navali colla carovana
dei cavalieri restarono accentrate in Civitavecchia. Nella città di
Viterbo non troverai più nè stemmi, nè bandiere, nè altro che a suo
tempo diceva il Bosio: sola una lapidetta, sulla facciata, a sinistra di
chi entra nella chiesa di san Faustino, postavi stantìa dai canonici
l'anno 1644, ricorda che quivi si raunavano conventualmente agli uffici
divini i cavalieri di Rodi. Di qua in Civitavecchia non resta altro
monumento che l'Ospedale civile e militare presso alla chiesa di san
Paolo nella piazza d'arme; che piantato dal cavalier di Borbone, e poi
diretto dal collegio dei cappellani delle nostre galèe, ampliato dai
cavalieri Magalotti e Bichi, e amministrato dalla confraternita del
Gonfalone, passò finalmente nelle mani dei benemeriti religiosi di san
Giovanni di Dio, i quali infino al presente degnamente lo conservano.

NOTE:

[289] FONTANUS, 500, 26: «_Lileadamus.... unanimi suorum decreto, petiit
Civitatemveterem.... ibique ab episcopo Conquensi, Pontificis summi
nomine, mira et ingenti gratulatione exceptus._»

BOSIO, III, 18, A: «_Il gran maestro seguì la galea che portava lo
stendardo del Papa.... salutato da tutta l'artiglieria della città e
della ròcca.... ricevuto da tutti gli ufficiali e nobili con grande
onore._»

VERTOT cit., III, 421: «_Le grand-Maitre avec sa colonie arriva à
Civitta-Vecchia.... Le saint Père lui fit dire qu'il se reposât._»

[290] BOSIO cit., III, 49, C: «_Il gran maestro.... fece accomodare in
Civitavecchia un'infermeria.... della quale diede il carico al
commendatore fra Jacomo di Borbone._»

[291] VERTOT cìt., III, 435: «_Le Pape consentit que les vaisseaux el
les galères de l'Ordre restassent dans le port de Civitavecchia._»

BOSIO cit., III, 19, C; «_Il Gran Maestro.... lasciò in Civitavecchia
suo luogotenente generale l'ammiraglio fra Bernardino d'Airasca._»

FONTANUS cit., 500, 33: «_Sacræ militiæ apud Civitatem veterem, summo
imperio delegato, nobilissimo æquite fratre Bernardino Araschæ, præfecto
maris._»



[12 dicembre 1523.]

XX. — In questo stante il nuovo Pontefice di gran voglia confermava
Paolo Vettori nel capitanato delle galèe; e infin dal principio della
sua esaltazione stringeva con lui i patti contenuti nel seguente
documento, al quale dobbiamo riportarci per comprendere quanto grande
perdita abbia fatta la storia nostra nella dispersione dell'archivio
privato della medesima Casa. Produco questo documento, e lo volgarizzo
alla distesa, non essendovi capitolo che non abbia varianti sui capitoli
anteriori; e con essi i nuovi di pianta ci apriranno la via a
riconoscere lo stato delle cose marinaresche, e le mutazioni
introdottevi, sì come mi farò appresso a considerare. Ecco i Patti
convenuti tra la Camera apostolica e Paolo Vettori per la condotta delle
galèe[292]:

«In nome di Dio, così sia. — Per il presente pubblico strumento sia noto
a tutti ed evidentemente apparisca come nell'anno del Signore mille
cinquecento ventitrè addì dodici del mese di dicembre, e nell'anno primo
del pontificato di nostro signore Clemente per divina provvidenza papa
settimo; costituiti in Camera alla presenza del reverendissimo in Cristo
padre e signore Francesco Armellini del titolo di santa Maria in
Trastevere e di san Callisto, prete cardinale di santa romana Chiesa e
camerlengo; del reverendissimo padre e signore Bernardo de' Rossi,
vescovo di Treviso, vicecamerlengo e dell'alma città governatore, e dei
reverendi chierici presidenti della Camera apostolica Giovanni da
Viterbo, Antonio Pucci vescovo di Pistoia, Cristoforo Barrozzi, Tommaso
Regis, e Niccolò de' Gaddi eletto vescovo di Fermo; ed alla presenza di
Girolamo Ghinucci vescovo di Worcester uditore generale delle cause
della Camera apostolica, per mandato speciale del predetto santissimo
Signor nostro, espresso di viva voce all'istesso Camerlengo, come pure
in virtù dell'ufficio suo del camerlengato, spontaneamente e per certa
scienza di tutti i predetti, non per errore, ma per volontà libera e
spontanea di tutti e singoli, in vece e nome del santissimo Signor
nostro e della Camera apostolica, hanno condotto per capitano delle
galèe della santa romana Chiesa e del santissimo Signor nostro il nobil
uomo Paolo Vettori di Firenze, costituito al cospetto del nominato
Camerlengo e dei predetti Chierici, coi patti e convenzioni, capitoli e
modificazioni seguenti, cioè:

»1. Primieramente il predetto reverendissimo signor Camerlengo ed i
Chierici di Camera per consenso volontà e nome dei predetti, cioè del
santissimo Signor nostro e della Camera apostolica, danno la condotta al
predetto capitano Paolo di due galèe e di due brigantini della santa
romana Chiesa, per la guardia della spiaggia romana da Terracina a monte
Argentaro inclusivamente, obbligandolo a tenere in ciascuna galèa almeno
venticinque uomini, ed in ciascun brigantino almeno diciotto uomini
liberi ed atti a naval combattimento; e la condotta abbia a durare a
beneplacito della Camera.

»2. Similmente i predetti signori eccetera, hanno promesso all'istesso
Capitano pel salario suo e degli uomini predetti e per lo stipendio dei
marinari, e per le spese delle medesime galèe e brigantini dare e
consegnare durante la condotta per ogni anno ducati otto mila d'oro in
oro, ciascuno di giulî dieci, e in quattro rate trimestrali anticipate.

»3. Similmente i predetti eccetera hanno concesso allo stesso Capitano
che quante volte egli possa avere nelle mani alcun frodatore che
trasporta grano o altre biade o merci tratte dai porti o dai luoghi
soggetti mediatamente o immediatamente alla santa romana Chiesa, senza
bolletta o senza licenza di sua Santità, o del Camarlengo, o dei
cavalieri di san Pietro, per la parte che tocca loro sul doganiero delle
tratte, o del legittimo sostituto, o vero senza licenza di altri che ne
abbia autorità, in tutti questi casi, se colui che estrae o trasporta
non può provare di aver pagato la debita tassa di tratte e di dogana ai
ministri deputati per riceverla, allora sia lecito e possa lo stesso
Capitano toglier via il grano e le altre biade dai navigli che ne
portano; ed una quarta parte tenersela per sè, e le altre tre quarte
fedelmente e subito consegnare alla Camera: e questo similmente valga
per tutte e singole le altre sostanze, e mercanzie che mai troverà
trafugate in frode contro la proibizione ed il bando.

»4. Similmente hanno promesso e conceduto al nominato Capitano in sua
balìa tutti e singoli pirati ladroni e infestatori del mare con tutti i
loro navigli, beni e sostanze dovunque li potrà trovare, assalire,
sottomettere e tenere. E se per caso alcuno di loro, inseguìto dallo
stesso Capitano, andrà per rifugio nei porti, terre e luoghi predetti
della santa romana Chiesa, dovranno gli ufficiali ed uomini di quei
luoghi pigliarli e rimetterli nelle mani del Capitano, tanto che esso
gli abbia in suo arbitrio e potestà. E quando mai i detti pirati saranno
presi, la quarta parte di ogni cosa trovata nei navigli medesimi sia
propria del Capitano, come è stato sempre osservato fino al presente,
posto pur che i detti pirati siano cristiani.

»5. Similmente eccetera, hanno offerto e promesso al predetto Capitano
ogni opportuno favore e soccorso per tutte le terre e luoghi soggetti
alla santa romana Chiesa contro chiunque ardisse molestare lui o la sua
gente, prescrivendo infin da questo momento a tutti gli ufficiali e
persone dei detti luoghi che ad ogni richiesta del medesimo Capitano lo
assistano e favoriscano come si conviene.

»6. Similmente eccetera hanno concesso al detto Capitano che se egli
darà la caccia ad alcun pirata ladrone o infestatore; e se costoro
fuggendo troveranno ricetto in alcun porto o luogo fuori dei luoghi e
terre della predetta romana Chiesa, tanto che egli non possa pigliarli,
anzi gli sia fatta resistenza dalla gente di quel luogo medesimo
risoluti a non volerli consegnare, allora sia lecito a lui venire alle
rappresaglie che gli sono concesse fin da ora, tanto che ne segua la
restituzione compensativa dei danni patiti da naviganti per opera degli
stessi pirati. Non pertanto dovrà prima dare le prove del ricetto
eseguito e dell'impedimento opposto contro il suo procedere, e non potrà
venire all'atto pratico di esercitare in fatto le rappresaglie medesime,
se non gliene sia concessa la licenza pel caso speciale dalla stessa
Camera apostolica. E sempre dovrà fedelmente rassegnare alla detta
Camera apostolica tutto quello che esso Capitano in vigore delle dette
rappresaglie avrà toccato che in mare che in terra, per rifacimento dei
danni a chi ne ha patiti.

»7. Similmente ha promesso il suddetto Capitano pagare del suo ogni
danno e ladroneggio che potrà mai esser fatto in qualunque parte del
predetto mare, eziandio che il medesimo Capitano non fosse presente in
quel luogo, dato che sia nei termini e confini prefissi da qualunque
lato, supposto che i pirati e ladroni non abbiano maggior forza e numero
di galèe e di brigantini e di gente armata nei medesimi: così che a
punto per la inferiorità sua non possa il Capitano prudentemente
assaltarli, combatterli, e perseguitarli, e prenderli: supposto
similmente che il detto Capitano nella medesima spiaggia non sia
occupato altrove nel combattere e nel fugare altri ladroni, e pirati; o
vero intento a spalmare e a dar carena alle sue galèe e brigantini; o
pure impedito da notevole infermità o da morbo epidemico delle ciurme e
degli uomini imbarcati nelle dette galèe e brigantini: di che il
predetto signor Capitano dovrà dare contezza a nostro Signore o vero
alla Camera. Insomma circa la riparazione dei danni egli non potrà
addurre altra scusa se non quella della forza maggiore dei nemici per
aver essi numero più grande di galèe di brigantini e di gente armata in
essi; e la scusa degli impedimenti sopra espressi. Le quali eccezioni
nondimeno dovranno essere dimostrate innanzi alla Camera, al cui
giudizio nel caso concreto dovrà rimettersi il Capitano, perché siano
decise e terminate: sempre supposto che tutte le cose predette in favore
dei mercatanti danneggiati debbano valere quante volte essi abbiano a
tempo e luogo opportuno fatto e pagato il debito loro al Capitano, tanto
che egli possa provvedere.

»8. Similmente ha promesso dare la mostra quantunque volte e dovunque
sarà richiesto dalla predetta sua Santità e dalla Camera.

»9. Similmente ha promesso sbarcare in terra cinquanta uomini e più ad
ogni richiesto di nostro Signore e della predetta Camera.

»10. Similmente ha promesso e si è obbligato che se alcuno dei naviganti
o dei navigli nel predetto mare resterà per mala sorte preso o depredato
dai pirati corsari e ladroni, o vero dai medesimi in qualunque modo
impedito, esso Capitano con ogni diligenza piglierà cura di perseguitare
gl'invasori e i pirati per mare e per ogni luogo, e sarà dover suo
strappar loro la preda, ricuperare i navigli, i naviganti ed ogni cosa
perduta, render tutto ai padroni e proprietarî, e scortare le persone e
le cose ricuperate infino a luogo sicuro, senza pretensione di alcun
prezzo o mercede; purchè il navigante abbia pagato come sopra il debito
al Capitano. Altrimenti se così non facesse, se non ricuperasse e non
restituisse effettivamente secondo la possibilità, allora senza altre
scuse ha promesso e solennemente si è obbligato a favore di chiunque
abbia patito danno da pirati e ladroni nei luoghi predetti, di
mantenerli indenni e di pagare di suo danaro ogni perdita fino ad
intiera compensazione del danno sofferto. Perciò la Camera apostolica
resterà libera dal detto peso; ed il Capitano dovrà mantenerla
onninamente immune. Eccettuato il caso della forza maggiore pel numero
delle galèe, dei brigantini e delle genti, il caso delle occupazioni del
Capitano, o del contagio come sopra. Delle quali eccezioni devesi dare
la prova innanzi alla Camera predetta come è scritto espressamente nei
precedenti capitoli.

»11. Similmente il Capitano si è obbligato ed ha promesso, sotto pena di
duemila ducati, di non trafficare colle galèe nè co' brigantini
predetti, durante la condotta, e di non trasportare mercanzie o derrate
di qualunque spezie e da qualunque luogo a qualsivoglia parte; e di non
pattuire noleggio, se ciò non fosse per mandato espresso di nostro
Signore o della Camera, da esser mostrato in scritto.

»12. Similmente ha promesso e si è obbligalo a tenere la stazione così
d'inverno come d'estate nel porto di Civitavecchia, o alla foce d'Ostia,
o negli altri porti e luoghi della santa romana Chiesa nel mare
predetto, cioè da Terracina a monte Argentaro, perchè abbia sempre più
pronto a trovarsi vicino contro gli invasori dei detti luoghi, e nella
difesa di chiunque viene all'alma città di Roma, da quella o dagli altri
predetti luoghi si parte.

»13. Similmente il predetto Capitano sarà tenuto ad ogni richiesta di
nostro Signore o della Camera mostrare le galèe e i brigantini presso la
foce del Tevere, dovunque vorrà la Santità sua, o il predetto
reverendissimo Camerlengo, così corredati, come gli saranno consegnati;
e di più restituire la infrascritta fortezza, sotto pena di diecimila
ducati, oltre ai danni ed interessi: e perciò dovrà dare mallevadori
sufficienti.

»14. Similmente ha promesso e si è obbligato che nè esso nè altri della
sua gente e brigata non toglierà mai nulla dai naviganti, se pur non
fosse da loro spontaneamente offerto in dono, altrimenti sarà tenuto a
risarcire il danno, secondo l'arbitrio della Camera.

»15. Similmente ha promesso avere e tenere gli amici di sua Santità e
della santa romana Chiesa per amici, ed i nemici per nemici, di
qualunque stato, grado, o preminenza essi siano.

»16. Similmente la santità di nostro Signore ha promesso al medesimo
Capitano di fargli consegnare gli uomini che per le terre della Chiesa
sono o saranno condannati alla galera; ed esso Capitano potrà ritenere i
predetti condannati ne' suoi legni, se altrimenti non sarà ordinato per
volontà della stessa Santità e della Camera: sempre però dovrà rendere
ragione di quelli al nominato Camerlengo, quando ne sia richiesto.

»17. Similmente il detto Capitano ha promesso e si è obbligato dare la
sicurtà sopra banchieri di credito per la residua somma di mille
cinquecento ducati d'oro di Camera, e assottigliata che sia la detta
somma per compensi di danni, dovrà subito ripetere e rinnovare la stessa
malleveria sufficiente a giudizio della Camera medesima per fermezza
dell'adempimento dei capitoli, e per compenso dei danni a chi ne ha
patiti, secondo che giudicherà la stessa Camera in forma sommaria e
stragiudiziale.

»18. Similmente se durante la condotta avverrà che il Capitano per
ordine di nostro Signore sia spedito in altra parte fuori dei confini
della spiaggia romana, allora pe' casi già contemplati egli non sarà
tenuto ad alcun risarcimento di danni che succederanno nella spiaggia,
quando egli ne sarà assente per missione del santissimo Signor nostro:
purché il detto Capitano dimostri chiaramente alla Camera la
destinazione predetta, mostrando le lettere o i brevi del santissimo
Signor nostro.

»19. Similmente se avvenisse, come spesso succede, che navigando a loro
viaggio per la spiaggia romana alcuni brigantini di mercadanti
cristiani, e veduti dagli altri marinari delle barche littorane, costoro
entrassero in sospetto pensando i primi essere brigantini di pirati; e
per ciò si mettessero in fuga ed anche eleggessero di investire in
terra, o di fare altrimenti naufragio; in questo caso il Capitano non
sia tenuto a risarcire i danni di alcuno, purchè presenti le sue prove
che per la detta ragione coloro da sè stessi siansi gittati a traverso.

»20. Similmente quando il Capitano saprà essere per la spiaggia lo
stormo dei pirati, e avviserà i padroni delle barche ammonendoli di non
passare oltre; e di non doppiare i promontorî se prima egli non ne dia
loro avviso e sicurtà; e ciò non ostante i padroni medesimi delle barche
traessero di lungo e poi fossero presi, in cotal caso il detto signor
Capitano non dovrà essere tenuto all'ammenda nè al risarcimento dei
danni, sempre supposto che i pirati abbiano forza maggiore, tanto che
egli non sia sufficiente a convogliare il barchereccio.

»21. E similmente l'istesso santissimo Signor nostro, perchè stiano vie
meglio sicure e difese le galèe, i brigantini e l'armata navale di sua
Santità e della santa romana Chiesa, concede al predetto capitan Paolo
la rôcca nuova di Civitavecchia, perché sia tenuta, usata e goduta da
sua Signoria per tutto il tempo che durerà il suo capitanato, coi
carichi, salario ed emolumenti consueti, cioè l'assegnamento mensuale di
ducati sei da giulî dieci per soldèa, e di ducati dieci da carlini dieci
per gli ancoraggi dei bastimenti. Volendo che il predetto Paolo per la
malleveria della rôcca possa valersi ancora dello istesso banchiere o
mercadante che è mallevadore suo per la restituzione delle galèe e dei
brigantini come sopra al santissimo Signor nostro, o al Camerlengo o
alla Camera apostolica; e ciò abbia a essere per la medesima somma di
ducati diecimila, tanto che per la restituzione sia delle galèe e dei
brigantini, sia della rôcca, il detto signor Capitano non abbia obbligo
di dare sicurtà per altra somma maggiore.

»22. Similmente il predetto Capitano dovrà tenere un libro, nel quale
siano scritti o faccia scrivere nome e cognome di tutte e singole
persone condannate alla galera, o che vi saranno mandate di tempo in
tempo: scritta la qualità della condanna, se perpetua o a determinato
tempo, quando e come gli verrà espresso: e di queste cose essendo
richiesto dovrà almeno due volte all'anno mandare esatta relazione alla
Camera; e il tenore di detta nota deve essere conforme al libro
originale di consegna e trasmissione che si conserva presso la Camera
apostolica in Roma.

»23. Similmente ha promesso il detto Capitano, e si è obbligato dentro
il termine di giorni venticinque accreditare presso la Camera un suo
procuratore e tenerlo residente in Curia, perchè si possa subitamente
trattare con lui dei danni e dei risarcimenti: e che non sia lecito
procedere contro il detto Capitano se non citato il procuratore e non
altrimenti.

»24. Similmente che il capitano possa ricevere i condannati da qualunque
tribunale gli vengano trasmessi: sempre però debba scriverli nel suo
libro e darne conto alla Camera apostolica come sopra.

»25. Similmente che il detto Capitano non possa appaltare nè impegnare
ad alcuna persona, nè a collegio, nè ad università il diritto del due
per cento, senza la esplicita licenza della Camera predetta.

»26. Similmente la espressa condotta avrà a durare a beneplacito di
nostro Signore; e, lui morto, a beneplacito della Camera apostolica.

»Così eccetera addì 12 dicembre 1523.»

NOTE:

[292] CLEMENTIS PP. VII, _Pacta conventa inter Cameram aplicam ex una et
Paulum Vectorium ex altera partibus, pro conductione triremium._ —
_Mss._ COD. VATIC. 7109, p. 228. — ARCH. SECR. VAT. t. XVIII, p. 20. —
Schede Borgiane in Propaganda. — Arch. Vettori, cit. alla nota 5.

«_In nomine Domini, amen. — Per hoc præsens publicum instrumentum
cunctis pateat evidenter et sit notum quod anno a nativitate Dni
MDXXIII, die vero duodecima decembris, pontificatus SSmi D. N. D.
Clementis divina providentia papæ VII, anno primo, constituti coram Rmo
in Xto P. et D. Francisco Armellini, titulo S. M. in Transtyberim et S.
Callisti, presbytero card. S. R. E. et SSmi D. N. papæ camerario; Rmo P.
et D. Bernardo Rubeo epo Tarvisino dicti rmi Dni Camerarii Vicecamerario
et almæ Urbis gubernatore ac reverendis DD. Philippo de Senis clericorum
decano protonotario aplico, Joanne de Viterbio, Antonio Puccio epo
Pistoriensi, Christophoro Barotio, Thoma Regis, et Nicolao de Gaddis
electo Firman., clericis Cameræ aplicæ præsidentibus, ac Hieronymo
Ghinutio epo Vigornien. causarum Cameræ aplicæ auditore generali, de
mandato præfati SSmi D. N. Papæ vivæ vocis oraculo dicto Camerario
facto, ac etiam sui camerariatus officio, sponte ac ex eorum certis
scientiis et non per errorem sed cujuslibet eorumdem scientiis et
spontaneis voluntatibus, vice et nomine ejusdem SSmi D. N. et Cameræ
aplicæ, conduxerunt in Capitaneum triremium S. R. E. et SSmi D. N.
nobilem virum Paulum Victorium de Florentia, constitutum coram praefato
Camerario et Clericis prædictis, cum pactis et conventionibus, capitulis
et modis infrascriptis, videlicet:_

»I. _Imprimis præfatus rmus D. Camerarius et Clerici præfati de consensu
voluntate et nomine supradictorum SSmi D. N. et Cameræ A. conducunt
præfatum Paulum in capitaneum duarum triremium et duorum brigantinorum
S. R. E. pro custodia Splagiæ rom. videlicet a Terracina ad montem
Argentarium inclusive et comprehensive in quibus tenere debeat ad minus
homines viginti quinque pro qualibet triremi, et decem octo homines pro
quolibet bergantino, liberos et aptos ad bellum navale: et hoc ad
beneplacitum præfatæ Cameræ._

»II. _Item præfati etc. promiserunt eidem Capitaneo pro ejus salario et
præfatorum hominum et nautarum stipendio dare et consignare, durante
dicta conducta, singulo anno pro expensis triremium et brigantinorum
prædictorum ducatos octomilia auri in auro, de juliis decem pro ducato,
videlicet singulo trimestri quartam partem, cum anticipatione primæ
pagæ._

»III. _Item præfati etc. concesserunt eidem Capitaneo quod quandocumque
contingat ipsum deprehendere aliquem conducentem granum aut aliquod
bladum vel merces extractas ex portubus et locis S. R. E. mediate vel
immediate subjectis sine bullecta et licentia SSmi D. N. aut Cameræ, aut
militum sancti Petri pro rata rerum dohaneris tractarum, aut ejus
legitimi substituti, seu alterius ad id potestatem habentis, et talis
extraneus et conductor non docuerit solvisse debitam tractam et dohanam
deputatis ad illa recipienda, eo casu ipse præfatus Capitaneus possit et
sibi liceat levare et auferre dictum granum et alia blada ex navigiis
illa portantibus, et illius quartam partem retinere pro se, et alias
tres quartas partes fideliter statim consignare Cameræ apostolicæ: et
similiter de omnibus et singulis bonis et mercantiis, quas in fraude et
contra prohibitionem et contra bandum asportari deprehenderit._

»IV. _Item promiserunt et concesserunt præfato Capitaneo in predam omnes
et singulos piratas, turbatores et alios mare ipsum infestantes, cum
eorum navigiis rebus et bonis, ubicumque illos reperire invadere capere
et habere potuerit: et si forte aliquis ex ipsis piratis et turbatoribus
ad portus terras et loca prædicta S. R. E., ipso Capitaneo eos
persequente et fugati ab eo diffugerent, ipsi officiales et homines
locorum ipsos capere et consignare debeant et teneantur in manibus
ipsius Capitanei ad ejus arbitrium et potestatem. Et si contingat tales
piratas capere, quarta pars rerum inventarum in ipsis navigiis sit
ipsius Capitanei, prout hactenus semper fuit observatum, etiamsi ipsi
piratæ essent christiani._

»V. _Item etc. obtulerunt et promiserunt præfato Capitaneo omne
oportunum auxilium et favorem per quascumque terras et loca S. R. E.,
subjecta contra quoscumque ei et ejus genti adversantes: mandantes ex
nunc omnibus officialibus et personis dictorum locorum ut ad omnem
ipsius Capitanei requisitionem oportunis favoribus sibi assistant._

»VI. _Item etc. concesserunt dicto Capitaneo quod si insequeretur
aliquem piratarum perturbatorum infestatorum qui receptarentur in aliquo
portu seu aliquo alio loco extra terras et loca præfatæ S. R. E., ita ut
eos capere non possit, et incolæ portus et loci illius consignare
nollent, liceat sibi exercere contra eos represalias, quas ex nunc eidem
Capitaneo concedunt, donec illis qui a dictis piratis et infestatoribus
damnum passi fuerint prius fuerit satisfactum, et de receptatione et
impedimento hujusmodi constare fecerit: sed ipsas represalias exequi non
possit nisi prius ab eadem Camera apostolica concessum fuerit. Et
quidquid dictus Capitaneus vigore dictarum represaliarum ceperit, aut ad
ejus manus pervenerit tam per mare quam per terram, fideliter assignet
in Camera apostolica pro satisfaciendo damnum eorum qui passi sunt._

»VII. _Item promisit dictus Capitaneus solvere de suo omne damnum et
robariam quæ in aliquo loco maris prædicti quomodocumque, etiamsi ipse
Capitaneus in eo loco non adesset, dummodo locus ipse in terminis et
finibus prædictis ex quacumque parte comprehensis existat, si piratæ et
prædatores hujusmodi majorem numerum triremium, et brigantinorum et
armatorum in eis existentium non habuerint: ita quod ipse Capitaneus
propter majores vires ipsorum piratarum et depredatorum majorem numerum
triremium et brigantinorum et armatorum in eis existentium habentium eos
invadere et aggredi rationabiliter non valuerit ut cum illis
congrediatur eo usque confligendo aut cum effecto insequendo: aut quod
dictus Capitaneus impediretur in Splagia hujusmodi confligendo aut
fugando alios piratas et derubatores, aut in spalimando et dando carenam
dictis triremibus et brigantinis occupatus esset, aut aliquo contagio
infirmitatis considerabilis, quia epidemiæ morbus in ciurma sive
hominibus obrepserit in triremibus et brigantinis residentibus: super
quibus dictus dominus Capitaneus SSmum D. N. aut apostolicam Cameram
certiorare teneatur: ita quod super hujusmodi damnorum refectione nullam
habeat excusationem nisi quod damna ipsa habentes majorem numerum
triremium et brigantinorum atque armatorum in eis existentium
perpetraverint; aut, ut supra occupatus esset: de quo constare præfatus
Capitaneus facere debeat in præfata Camera, cujus judicio præmissa in
eventu decidantur et terminentur: et hoc dummodo mercatores rerum
deperditarum eidem Capitaneo congruis loco et tempore satisfecerint adeo
quod providere possit._

»VIII. _Item promisit facere mostram toties quoties per præfatam
Sanctitatem et Cameram et ubicumque requisitus fuerit._

»IX. _Item promisit ponere in terram quinquaginta vel plures homines ad
omnem requisitionem SSmi. D. N. et Cameræ prædictæ._

»X. _Item promisit et se obligavit quod si contingat aliquem per
predictum mare navigantem aut ejus navigia a piratis cursariis et
perturbatoribus præfatis capi et deprehendi aut impediri, ipse
Capitaneus omni diligentia curabit invasores et piratas hujusmodi per
mare et loca quæcumque persequi, et ab eis prædam sic captam et navigia
et nautas cum eis captos retinere et recuperare, illamque propriis
dominis et patronis restituere, ipsosque captos et recuperatos hujusmodi
ad locum tutum reducere, sine mercedis aut prætii alicujus receptione,
dummodo per ipsum navigantem ipsi Capitaneo ut supra satisfactum fuerit.
Alias si recuperationem cum effectu, si fieri potuerit, non fecerit,
omni excusatione cessante promisit et solemniter se obligavit omnia
damna illis qui in præmissis locis a piratis et aliis invasoribus ut
præmittitur passi fuerint, de suo efficaciter reficere, ita ut damnum
passis integre satisfiat, et Camera apostolica a præfato onere omnino
sit libera, et ipsam a præmissis indemnem penitus præservare sit
obligatus, nisi piratæ ipsi et invasores majorem numerum triremium et
brigantinorum et armatorum in eis existentium habuerint; aut Capitaneus
ut supra occupatus esset, aut contagio et infirmitate ut etiam supra
laboraret. De quo constare debeat, ut in aliis primis capitulis
expressum fuit in Camera præfata._

»XI. _Item ipse Capitaneus promisit sub pœna duorum millium
ducatorum, durante conducta prædicta, dictis triremibus ac brigantinis
pro vectura aliquarum mercium sive rerum ad quemcumque locum
devehendarum, sive undecumque advehendarum aut pro aliquo nauto, non
uti, nisi de expresso mandato SSmi. D. N. aut Cameræ de quo constare
debeat in scriptis._

»XII. _Item promisit et se obligavit quod tam in æstate quam in hyeme
statio sua erit apud portum Civitevetulæ aut ad fauces Ostiæ seu in
aliis portubus et locis S. R. E. in mari prædicto scilicet inter
Terracinam et montem Argentarium, ad hoc ut promptius invadentibus
prædicta loca obsistere, et ad almam Urbem venientes seu ab ea et aliis
locis prænominatis discedentes defendere possit._

»XIII. _Item teneatur dictus Capitaneus repræsentare dictas triremes et
brigantinos ad omnem requisitionem SSmi. D. N. vel Cameræ prædictæ ad
fauces Tyberis, vel ubi Sanctitas sua, vel dictus remus Camerarius
mandaverint, ita fulcitas sicuti ipsi Capitaneo consignabunt; necnon
restituere infrascriptam arcem sub pœna decem millium ducatorum ac
damnorum et interesse, ad quod fidejussores dare teneatur._

»XIV. _Item promisit et se obligavit quod nec ipse nec alius de ejus
comitiva et gentibus aliquid capiet a navigantibus, nisi tantum quantum
eorum sponte sibi donabitur etiamsi dono offeretur, alioquin teneatur ad
damnum arbitrio Cameræ._

»XV. _Item promisit habere et tenere amicos Sanctitatis suæ et S. R. E.
pro amicis, et inimicos pro inimicis, cujuscumque status gradus aut
præeminentiæ fuerint._

»XVI. _Item Sanctitas D. N. promisit eidem Capitaneo consignare facere
homines in terris Ecclesiæ qui sunt condemnati vel condemnabuntur ad
triremes, quos consignatos retinere possit in dictis triremibus nisi
aliter de voluntate ejusdem Sanctitatis et Cameræ fuerit decretum, de
quibus teneatur reddere rationem eidem Camerario quoties ab eo
requisitus fuerit._

»XVII. _Item dictus Capitaneus promisit et se obligavit dare
sufficientem banchum pro residuo mille quingentorum ducatorum auri de
Camera, qua summa evacuata pro refactione damnorum, reiterare et
renovare ipsam cautionem teneatur idoneam statim ad judicium ipsius
Cameræ pro observatione præmissorum et refactione damnorum illis qui
illa passi fuerint, prout prædicta Camera summarie et extrajudicialiter
judicaverit._

»XVIII. _Item si contingeret, durante dicta conducta, præfatum
Capitaneum mitti per SSmum. D. N. ad aliqua loca extra prædictam
Splagiam, quod in prædictos eventus, eo non præsente in dicta Splagia,
non teneatur ad refactionem aliquorum damnorum qui in dicta Splagia
fierent durante absentia dicti Capitanei ex causa missionis SSmi. D N.,
dummodo dictus Capitaneus de destinatione præmissa in ipsa Camera clare
constare faciat per litteras vel brevia SSmi. D. N._

»XIX. _Item si contingeret, ut sæpius evenire solet, quod aliqui
brigantini christianorum transirent per Splagiam romanam, et nautæ
habentes barchas existimarent illos esse brigantinos piratarum eligerent
ire ad terras versus, vel alias naufragari, quod in hujusmodi casu
dictus Capitaneus ad restitutionem aliquorum damnorum non teneatur,
facta legitima fide quod per dictam causam irent transversum._

»XX. _Et similiter quando Capitaneus, sciens piratas esse in Splagia
romana, significaret conducentes barchas quod non transirent Montem
quousque aliud avvisaret, et hoc non obstante nautæ conducentes barchas
transirent et caperentur, quod in hoc tali casu dictus dominus
Capitaneus ad emendam sive restitutionem damnorum non teneatur, constito
quod piratæ haberent majores vires quam ipse, ita ut non esset
sufficiens traducere barcareccium._

»XXI. _Et similiter idem SSmus D. N. pro majori conservatione et
tuitione triremium et brigantinorum et armatæ maritimæ suæ Sanctitatis
et S. R. E. concedit dicto Paulo capitaneo arcem novam Civitevetulæ per
dictum dominum Paulum, quousque ejus officium capitaneatus durabit,
tenendam utendam et fruendam cum oneribus salario et emolumento
consuetis, videlicet sex ducatos de juliis decem pro ducatu mense
quolibet, et ducatos decem de carolenis de anchoragiis navigiorum.
Volens quod dictus Paulus pro cautione per eum ipsum danda occasione
arcis, possit dare eumdem bancherium sive mercatorem qui pro eo cavebit
de restituendis dictis triremibus et brigantinis ut supra SSmo D. N. vel
Camerario aut Cameræ apostolicæ ex et pro eadem summa decem millium
ducatorum, ita quod tam pro restitutione triremium et brigantinorum
præfatorum quam dictæ arcis dictus dominus Capitaneus pro majori summa
cavere non teneatur._

»XXII. _Item quod prædictus Capitaneus teneatur et obligatus sit tenere
unum librum in quo describantur et describi faciat omnia nomina et
cognomina omnium et singularum personarum condemnatarum ad triremes quæ
pro tempore ad illas mittentur; et si erunt condemnatæ in perpetuum vel
ad tempus quando hoc sibi dicatur, et de his teneatur saltem bis in anno
requisitus reddere certiorem Cameram apostolicam et nota in dicto libro
fienda sit conformis mandato et libro consignantium, et Romæ in Camera
apostolica consignato._

»XXIII. _Item promisit dictus Capitaneus et se obligavit intra
vigintiquinque dies constituere in Camera unum procuratorem, et illum
tenere residentem in Curia ad effectum quod damna data illi notificari
possint, et quod illo citato et non aliter contra eum procedi possit._

»XXIV. _Item quod Capitaneus possit recipere quoscumque captivos sibi
trasmissos de mandato quorumcumque judicum, de quo teneatur tenere et
reddere computum Cameræ apostolicæ ut supra._

»XXV. _Item quod dictus Capitaneus non possit locare seu pignorare
alicui personæ collegio vel universitati directum duorum pro centenario,
absque expressa licentia præfatæ Cameræ._

»XXVI. _Item dicta conducta durare debeat ad beneplacitum SSmi D. N. et
illo defuncto, ad beneplacitum Cameræ apostolicæ._

»_Ita etc. die XII decembris MDXXIII._»



[Gennajo 1524.]

XXI. — Per intendere i capitoli presenti, nei quali si contiene tanta
parte e così importante delle notizie marinaresche, bisogna ricordare
gli altri simili capitoli pubblicati avanti, e le dichiarazioni già
messe intorno ai particolari storici e tecnici, che qui non devo
ripetere[293]. Basterà seguire l'istesso metodo, e tirar fuori le novità
che ora ci vengono innanzi, secondo l'ordine dello strumento.

La squadra permanente resta fissa ai quattro legni, due galèe e due
brigantini: salvo il caso di armamento straordinario, che abbiam veduto
e più vedremo crescere infino a otto, dodici, e trentasei vele. Ora nel
primo capitolo si assottigliano per economia i numeri dei combattenti,
riducendoli da cinquanta a venticinque nelle galèe, e da venticinque a
diciotto nei brigantini: dobbiamo però intendere di gente fissa al
minimo per tutto l'anno d'estate e d'inverno; e di più metterci il
rinforzo occasionale di soldati della guarnigione di Civitavecchia,
secondo il bisogno. Però al capitano Vettori si concede anche la
castellania della rôcca nuova, che ora dicesi la Fortezza, perchè col
governo supremo della piazza e delle armi in terra meglio possa esso
stesso difendere le galèe ed i brigantini nel porto; e col supplemento
delle fanterie meglio armarli quando escono al corso[294]. Questo è il
primo esempio dell'unione dei due comandi nel medesimo Capitano: unione
poscia continuata, e di grande efficacia indi a quattro anni per salvare
la persona istessa di papa Clemente, come vedremo.

Appresso troviamo accresciuti gli emolumenti del Vettori; ciò è dire
anzi tutto la rendita consueta del due per cento sulle merci, gravame
introdotto a tempo e mantenuto in perpetuo, di che si parla più volte,
confermandolo implicitamente col precetto ai naviganti di fare il debito
loro verso il Capitano; e a questo di non transigere coi debitori, e di
non impegnare altrui la detta rendita[295]. Dunque dovevano sempre i
marinari pagare il due per cento, e doveva il Capitano riscuoterlo da
sè. Di più gli si aggiungono ducati ottomila all'anno per i quattro
legni, e ducati settantadue per la rôcca, e centoventi per gli
ancoraggi[296]. Toltogli solamente il guadagno dei noli, da non si poter
conciliare in niun modo coll'efficacia del presidio e col decoro della
milizia[297].

Pel quarto si conferma il triplice servigio della guardia contro pirati,
frodatori e malviventi; ciò è dire fazioni di guerra, di dogana e di
polizia, ordinate al combattimento coi pirati, al sequestro coi
frodatori, ed al freno coi turbolenti[298]. Questi ultimi a lungo andare
finivano nelle stesse galèe col remo in mano, per sentenza dei
tribunali, fatta amplissima facoltà al Vettori di riceverne da ogni
parte con la sola avvertenza di scriverli al libro[299].

I sequestri sopra i frodatori divideansi in quattro parti; una delle
quali a vantaggio del Capitano e della sua gente, vuoi per compenso
delle fatiche, vuoi per eccitamento maggiore alla sorveglianza: le altre
tre andavano al pubblico erario in pena dei trasgressori, e per
rifacimento delle tante altre frodi impunemente compiute. Notando
specialmente a questo proposito essere contemplata, a preferenza di ogni
altra, la frode delle granaglie, perchè toccano più da vicino il
sostentamento del popolo, e perchè sono sempre state il maggior prodotto
delle maremme, donde i vicini e i lontani ne traevano in gran copia;
tanto che il prezzo estimativo delle tratte stava in cima alle liste
degli introiti fiscali; e se ne concedeva una parte ai sovventori dello
Stato, pognamo ai cavalieri di san Pietro, perchè potessero rifarsi del
danaro dato in prestanza ed a premio[300].

Quanto alla sorte dei pirati, importantissimo sarebbe il predetto
capitolo terzo, e insieme il quarto e il decimo se, oltre alle relative
cifre proporzionali in terzi e in quarti, contenessero anche le
assolute, cioè il numero medio delle prede annuali[301]. Ma dall'obbligo
imposto al Capitano di rifare a sue spese tutti i danni che i naviganti
pativano (danni certamente continui e gravissimi) possiamo arguire che
non dovevano essere minori gli acquisti sui nemici, senza supporre
assurdamente tristissimo affare per lui. Dunque vittorie frequenti, e
ricche prede sopra i pirati, quantunque non ricordate più che da questi
capitoli, e dalla tradizione che si fa ogni dì più languida nei nostri
porti, e dalle bandiere che a grado a grado si perdono anche nelle
Chiese, dove in gran numero erano state messe per ricordo e per trofeo,
come in alcun luogo dirò. Di coteste prede, delle quali il Capitano non
toccava più della quarta parte, metteasi pur in forza, e cavava i fondi
necessarî a compensare i danni dei naviganti; perchè esse erano di gran
valuta. I bastimenti forti e da corso, il corredo, le gomene, le vele,
le artiglierie, e gli uomini stessi, giovani e gagliardi, più il
comandante e gli ufficiali, portavano guadagni: sia pel riscatto delle
loro famiglie, sia per la vendita o pel servigio; valutandosi almeno
cinquecento lire per testa. E ciò tanto spesso avveniva che il capitolo
quarto non dubita corroborare la teoria legale coll'argomento
dell'esperienza e dei fatti, dicendosi bastare al Capitano la quarta
delle prede[302], «Come è stato sempre osservato fino al presente.»

Il nome delle rappresaglie ritorna contro i protettori dei pirati nel
capitolo sesto, ma la cosa di fatto sparisce: perchè tra tante cautele,
eccezioni, permessi, e riguardi pei casi speciali, la formola si riduce
a zero; e resta soltanto la minaccia come spauracchio[303]. Non ho mai
trovato che siano state concesse in pratica, nè mai eseguite da alcuno
nel secolo decimosesto.

Più rilevante ci viene il capitolo settimo, dove si parla della epidemia
o della peste a bordo, come impedimento legittimo alle militari fazioni
del Capitano, e scusa ragionevole per esonerarlo dal rifacimento dei
danni[304]. La quale eccezione, tutta nuova, non può essere stata
aggiunta per nulla; ma deve avere la sua ragione nei fatti precedenti.
Questo a parer mio ci rimena senz'altro al successo degli ultimi anni,
quando Paolo cadde prigioniero e fu menato a Tunisi, perchè si avventurò
a combattere colle galèe affrante dalla stessa epidemia, per la quale
era morto il figlio, come abbiamo veduto. Insomma poste le cause,
bisogna aspettarsi gli effetti, così in ordine, come ora per maggior
chiarezza ricordo. Nel quattordici Giulio de' Massimi, cavando la
darsena, pattuiva di gettare il fango dove tornasse meglio al suo
comodo[305]: dopo tre anni di lavoro scoppiava nel diciassette
l'epidemia, della quale espressamente parla il presente documento[306],
e di essa tra tanti e tanti moriva l'unico figlio del comandante per
essersi trattenuto nel porto, dove l'aria si era fatta pestilenziale,
come scrive il biografo contemporaneo di Paolo[307]: «Egli non lasciò
figli masti, perchè uno che n'ebbe di molto grande espettazione, e che
si credeva che avesse a pareggiare il valore del padre; molto desideroso
di farsi grande, stava del continuo esercitandosi sul mare: e
trattenutosi una volta qualche giorno in un porto, dove l'aria era
pestilente, aspettando di assaltare certi legni barbareschi, fu
assaltato, senza potersi difendere, dalla morte.» Appresso fece seguito
la perdita della galèa capitana, l'impotenza delle sensili, la prigionia
del comandante, e l'enorme taglione[308].

Lascio gli altri capitoli che non hanno bisogno di commento, o l'hanno
ricevuto nel precedente discorso, e conchiudo che l'esperienza aveva
dimostrato esservi non di rado alcuni padroni di barche, i quali o per
eccessiva presunzione, o per estrema vigliaccheria, venivano all'istesso
segno di perdersi; e poi di volere che altri avesse a salvarli, e a
compensarli dei danni. Nulla doversi a costoro dicono i capitoli[309].
Se i codardi si spaventano delle ombre vane e di qualunque bastimento
che passa, se pigliano gli amici per nemici, e se per salvare le persone
da un pericolo immaginario mandano a traverso i legni o gittano il
carico, non devono pretendere nulla dagli altri; ma da sè stessi
ripetere così il male come il rimedio. Per opposito quei folli
spregiatori dei consigli e dei pericoli, che, avvisati a non si muovere
da luogo sicuro, vogliono mettersi da sè a rischio evidente, se
v'incappano, è colpa loro: dunque a sè stessi devono attribuire il
danno, e del proprio trovare il compenso. Tanto temuta e così grande era
a dispetto di tutti, o temerari o codardi, la potenza dei pirati!

NOTE:

[293] P. A. G., _Marina del medio èvo_, II, 481, 498, e in questo volume
p. 95.

[294] DOCUM., § 13, 21.

[295] DOCUM., § 7, 10, 25.

[296] DOCUM., § 2, 7, 10, 21.

[297] DOCUM., § 11. — Vedi sopra p. 115.

[298] DOCUM., § 4, 6.

[299] DOCUM., § 16, 22, 24.

[300] DOCUM., § 3.

[301] DOCUM., § 3, 4, 10.

[302] DOCUM., § 4: «_Prout hactenus semper fuit observatum._»

[303] DOCUM., § 6.

[304] DOCUM., §7: «_Si aliquo contagio infirmitatis considerabilis
impediretur, quia epidemiæ morbus in ciurma sive hominibus obrepserit._»

[305] DOCUM. cit., p. 130, § 6 (correggi la nota 54, p. 159, dove per
errore tipografico è scritto 56.)

[306] DOCUM. cit., p. 248, § 7; (correggi come sopra, dove dice 57 in
vece di §7)

[307] AZIONI di _Paolo Vettori_. ARCH. ST. IT. in-8. Firenze, 1848,
Append. n. 22, p. 272.



[Giugno 1524.]

XXII. — I quali, terminato a loro talento l'assedio di Rodi, e sciolti
oramai dall'impegno di servire personalmente a Solimano nella guerra
viva, spartiti per tutto il Mediterraneo eransi rivolti alle prede, come
i lupi dopo lungo digiuno. Qui sulle nostre marine primo di tutti il
Giudèo, israelita rinnegato e famosissimo pirata, faceva capo con
trentaquattro tra fuste e galeotte di sua proprietà. Gran fabro
d'infingimenti costui, gran maestro di astuzie, gran conoscitore di
tutti i nascondigli dell'Argentaro, del Circèo, dell'Elba, di Ponza, e
delle altre isole a noi vicine. Sempre presente e sempre celato,
piombava all'improvviso sui bastimenti di traffico, fuggiva a suo potere
i legni militari, e teneva quasi bloccati i nostri porti. Pel Vettori
era il caso pratico della forza maggiore. Nondimeno volendo contrapporsi
quanto più poteva ai nemici, e togliere la brutta vergogna al paese,
persuase i Cavalieri rodiani di armare le tre galèe che tenevano nella
darsena, e di uscire al corso con lui. Il Bosio non esprime apertamente
il merito speciale di Paolo, e doveva pel suo scopo passarci sopra; ma
dal contesto si fa palese. Sortirono insieme nel mese di giugno,
sbrattarono i ladroni, e presso all'isoletta di Gianutri presero di viva
forza due galeotte, lasciatevi in guardia dal Giudèo. Le prede
ammarinate entrarono con gran festa in Civitavecchia; e con esse ducento
avventurosi Cristiani liberati dalla schiavitù, e quasi altrettanti, tra
turchi e mori, fatti prigionieri[310]. Niuno penserà che la crociera,
così bene incominciata, abbiasi a dir finita nel mese di giugno: ma
perché non ne trovo scritto, lascio che altri da sè ne giudichi o ne
cerchi altrove; messi da parte i nostri cronisti, dai quali non caverà
mai nulla dei fatti marinareschi, non che dei bastimenti del Vettori e
dell'Airasco, ma soltanto delle feste di Roma[311].

Anzi tanto era consueto alle due squadre l'andare di conserva, che il
Grammaestro medesimo, volendo tenere secreto un suo viaggio marittimo,
senza che niuno nè anche dei suoi Cavalieri ne trapelasse il disegno,
ordinò al Luogotenente in Civitavecchia di allestire le galèe, sotto
colore di volerle mandare insieme colle galèe del Papa in busca di
pirati[312]. Ripiego tolto dalle cose consuete, e nullamente fuori
dell'ordinario per non eccitare la maraviglia o i sospetti di alcuno; e
al tempo stesso ripiego opportuno per fargli trovare in punto le galèe
di Roma e di Rodi, quando egli all'improvviso vorrebbe mettersi in
viaggio colle due squadre.

NOTE:

[308] AMMIRATO, BEMBO, e gli altri al lib. III, cap. VIII

[309] DOCUM., §19, 20.

[310] BOSIO cit., III, 29, A.

[311] COLA COLEINE, _Diario romano dal 1521 al 1561_, inedito. — _Codice
Chigiano_, n. 1020; N. II, 32. — _Codice Barberin._, XXVIII, 22, n.
1103. — _Codice Vaticano_, 6389. (Breve scrittura di ricordi, per lo più
di promozioni, feste, giostre, carnevali e conviti, e non si allontana
dalle mura di Roma. Non mi ha dato nulla per la marina, e lo ricordo co'
simili una volta per sempre).



[25 febbraio 1525.]

XXIII. — Perocchè grandi cose precipitavano in Italia, ed i politici
davansi faccende per acconciare gli affari propri e gli altrui in mezzo
allo scompiglio generale. La mattina del venticinque di febbrajo
all'alba i capitani di Carlo V avevano vinto la grande battaglia di
Pavia; e il re Francesco in mezzo al rotto suo esercito era caduto
prigioniero. Carlo, trovato l'emulo ritroso a sottoscrivere i patti
impostigli per la riconciliazione, voleva domarlo: per ciò lo faceva
tradurre sotto buona scorta da Genova per la via del mare in Catalogna,
e poscia nella torre di Madrid.

Niuno dei principi di Europa volle allora restarsi in disparte; anzi
tutti a gara, chi per questo chi per quello, si offersero mediatori dei
trattati, e delle grazie, e di sè stessi. Pensate il Grammaestro di Rodi
nella bella ed onesta occasione di entrar paciero tra l'Imperatore ed il
Re, a beneficio di quei principi, e della Cristianità, e dell'Ordine suo
per la desiderata cessione di Malta, come si dimenava per essere tra i
primi in Madrid: e papa Clemente per le stesse e più gravi ragioni,
approvando il divisamento di lui, si risolveva di mandarvi insieme il
cardinal Salviati, come legato straordinario; e ciò senza che in
pubblico se ne parlasse prima del fatto.

[25 giugno 1525.]

Ondechè un bel giorno, che fu il venticinque di giugno, comparvero in
Civitavecchia il Grammaestro e il Cardinale: dove, essendo le galèe
delle due squadre già pronte, si imbarcarono; e senza dilazione tutti
insieme tirarono a golfo lanciato fino a Marsiglia[313]. Colà ebbero a
trattenersi alcuni giorni, dovendo intendersi colla regina Madre,
reggente del regno, e insieme aspettare la duchessa d'Alansone sorella
del re, che desiderava con loro passare in Spagna per consolare il
fratello prigioniero e malato. Indi colla stessa felicità navigarono a
Barcellona, donde il Legato, il Grammaestro, la Duchessa e tutto il
corteggio mossero alla volta di Madrid, adoperandosi poscia ciascuno
secondo le commissioni e i pensieri suoi nei trattati che si terminarono
l'anno seguente.

Le due squadre al ritorno non ebbero altra novità che la perdita di un
cavaliero di Rodi, morto a bordo di sua infermità; e l'incontro nella
riviera di Genova presso Levanto col famoso duca di Borbone, ribello di
Francia, il quale avrebbe voluto violentare il Vettori e l'Airasco, e
rimenarli verso Barcellona, se non fossero stati destri a
liberarsene[314]. Già costui cominciava a mestare nelle cose nostre, e
si disponeva a quelle maggiori violenze che gli fruttarono la morte sui
prati di Castello presso di Roma.

[Gennajo 1526.]

Intanto si riposavano quei signori di Madrid, essendosi al principiar
dell'anno seguente, nel giorno diciassette di gennajo, conclusa la pace
tra l'Imperatore ed il Re. Francesco riacquistava la libertà, cedendo
alla fortuna di Carlo i suoi diritti sui regni di Napoli e di Sicilia,
sui ducati di Milano e di Genova, sui contadi di Fiandra e d'Artoà[315].
Ma come uscì della prigione, e tornossi a Parigi, si fece sciogliere
dalle promesse: e confortato dai principi italiani (cui pesava trovarsi
alla mercè di Cesare), strinse una lega, chiamata sacra, con papa
Clemente, coi Veneziani, coi Fiorentini e col duca di Milano, e ripigliò
la guerra contro l'Imperatore[316].

[26 maggio 1526.]

In quella volendo papa Clemente spedire in Francia un uomo di somma
fiducia, che, sotto specie di congratularsi col Re della sua
liberazione, vedesse secretamente gli affari della lega di Cognac,
spacciò il suo fidatissimo Paolo Vettori, generale delle galèe e
castellano di Civitavecchia, come era già previsto nei capitoli pel caso
di missione straordinaria[317], e più volte aveva praticato al campo di
Lombardia ed altrove, senza smettere per questo l'ufficio di capitano
del mare. Paolo, avvegnachè corresse le poste in grandissima diligenza,
non oltrepassò Firenze, poichè in quella città improvvisamente pose fine
ai viaggi di questo mondo, e giunse ai termini dell'altro, lasciando
nella massima costernazione gli amici[318].

La nostra squadra si mise a duolo: negre gramaglie, stendardi a
mezz'asta, fiamme col velo, e cannonate a lunghi intervalli. Intanto i
pensieri di tutti volgeansi alla novità che avrebbe a portare in quei
paurosi giorni l'elezione del nuovo Capitano, come vedremo nel libro
seguente.

NOTE:

[312] BOSIO cit., III, 36, D: «_Fu di parere che.... in compagnia colle
galèe di Sua Santità e della Religione andassero.... si dovesse tenere
secreta l'andata.... il Gran Maestro scrisse che le galere della
Religione si dovessero porre in ordine per accompagnare il generale del
Papa dovunque andar voluto avesse.... in busca di corsali._»

[313] BOSIO cit., III, 36, E: «_Il Grammaestro da Roma.... in compagnia
del Legato se ne andò in Civitavecchia, dove a 25 di giugno fece dare le
vele ai venti..._» 37, A: «_Navigando alla volta di Francia con le
galere della Religione unitamente con quelle del Sommo Pontefice._»

[314] BOSIO, 40, C: «_Nel detto viaggio di ritorno.... trovarono il duca
di Borbone nel porto di Levanto, che voleva essere accompagnato a
Barcellona._»

[315] DU MONT, _Corps diplomatique_, t. IV, part. i, p. 399.

GREGORIO ROSSO, _Storia delle cose di Napoli dal 1526 al 1537_ scritta
per modo di giornale, in-4. Napoli, 1635, p. 2.

BIZARUS cit., 471.

[316] JOANNES CHRISTIANUS LUNIG, _Codex Italiæ diplomatic._, in-fol.
Lipsia, 1725-35, t. I, p. 175: «_Liga sancta inita inter Clementem VII
P. M. Franciscum I Gallicæ regem, respublicas Venetam et Florentinam,
nec non Franciscum Sfortiam mediolanensem, adversus Carolum V, electum
rom. imp. Actum Cognaci, die XXII maji MDXXVI._»

[317] DOCUM., § 18.

[318] ARCHIVIO STORICO, in-8. Firenze, 1848, t. VI, p. 270, 280, 335,
354.



LIBRO QUARTO.

Capitano Andrea Doria, dei Signori di Oneglia. [1526-1533.]


SOMMARIO DEI CAPITOLI

I. — Chiamata di Andrea Doria. — I miei Critici. — Confondono Andrea con
Giannandrea, sempre da me distinti. — Notizie e ritratto fisico e morale
(maggio 1526).

II. — Navigli e soldi per la guardia. — Castellania di Civitavecchia. —
Primo corso contro Barbarossa, fugato il pirata, e presigli quindici
bastimenti (giugno 1526).

III. — La lega di Cognac. — Capitani e ingegneri papali in Lombardia e
Romagna. — Il Doria sulle maremme di Siena. — Piglia Talamone e
Orbetello: ritiene Portercole (luglio 1526).

IV. — Assedio di Genova per mare e per terra. — Il Doria a Portofino, i
Francesi a Savona. — Fazioni diverse (agosto 1526). — Battaglia navale
di Codimonte. — Vittoria contro l'armata di Spagna (19 novembre 1526).

V. — Invasione del regno di Napoli. — Andrea sbarca le bande nere in
quei rivaggi (febbrajo 1527). — Tregua e disarmo (25 marzo 1527). — Il
Borbone contro Roma, e il sacco (6 maggio 1527).

VI. — Condotta e fede di Andrea in Civitavecchia. — Salva il papa
dall'ultimo pericolo (agosto 1527). — Piglia licenza (dicembre 1527). —
Passa dalla Francia alla Spagna. — Lascia in Civitavecchia Antonio Doria
(15 dicembre 1527).

VII. — Antonio continua il capitanato di Andrea con sei galèe e due
brigantini (18 gennajo 1528). — Richieste le nostre galèe dai
Gerosolimitani per riprendere Rodi (settembre 1528). — Accompagnamento
degli ambasciatori a Genova (1529). — Cessione di Malta a' cavalieri
(1530).

VIII. — Solimano in Ungheria. — Soccorsi del Papa all'Imperatore. —
Armamento navale. — Scritti di Antonio Doria editi ed inediti (1531).

IX. — I Bonavoglia. — Necessità di tale gente, e metodi di averne. —
Vitto, vestito e soldo. — Difficoltà di scriverne nello Stato. — Metodo
del giuoco. — Le gazzette manoscritte o Avvisi di Roma (1531).

X. — Forze navali dei collegati e dei Turchi in Levante. — Incontro coi
Veneziani. — Scorrerie di ricognizioni (agosto 1532).

XI. — La città di Corone assalita. — Batterie di terra e di mare. —
Manovra singolare delle galèe nel battere, non intesa dallo Jal. — I
rimburchi per poppa. — Scale volanti, e palischermi blindati (agosto
1532).

XII. — Assalto delle fanterie ributtato. — Assalto delle galèe, e presa
di Corone. — Chi fu il primo? (21 settembre 1532).

XIII. — Il soccorso dei Turchi sbaragliato. — Buche di lupo. — Resa del
castello. — Moderazione dei vincitori (22 settembre 1532).

XIV. — Corone presidiata. — Nuove ricognizioni infino ai Dardanelli, e
ricche prede. — Occupazione di Patrasso e della rôcca (2 ottobre 1832).

XV. — Il golfo di Lepanto, e i due castelli. — Espugnazione di Rio per
opera dei marinari. — Sedizione dei soldati (15 ottobre 1532).

XVI. — Assedio di Antirio. — Combattimento alla Campagna. — Il nostro
quadrato e le maniche di archibugeri. — Batteria nella notte. — Assalto,
uccisione, mina (20 ottobre 1532). — Ritorno ed effetti della campagna.
— Cacciato Solimano da Vienna. — Antonio se ne torna in Genova (1533).



LIBRO QUARTO.

CAPITANO ANDREA DORIA,

DEI SIGNORI DI ONEGLIA.

[1526-1533.]



[Maggio 1526.]

I. — A ridosso di uno scoglio nella Liguria occidentale stavasi quasi
nascosto per questi tempi un capitano eccellente, che aveva a divenire
il più grande e fortunato marino della età moderna, quando papa Clemente
trovandosi in grandi maneggi, nel maggior bisogno, senza capitano di
mare per la improvvisa morte del suo Vettori, volgeva lo sguardo proprio
a quello scoglio che copre il piccol porto di Mentone, e ne cavava
Andrea Doria per metterlo al comando della sua armata navale. Questi
sono fatti e servigi intimi di un Gentiluomo genovese a un Pontefice
romano, di un Doria a un Medici, non c'entra predominio nè di Francia nè
di Spagna, e si tratta bene o male della pubblica salute: però fatti e
servigi al solito dalla comune degli scrittori, anche in Italia, o non
conosciuti o disgradati. Dirò dunque io di Andrea per questi tempi, che
offeso già prima dai ministri cesarei pel sacco di Genova, e poi dai
ministri francesi per conto di onori e di paghe in Provenza, erasi
ricondotto colle sue galere presso il principe di Monaco, dove una volta
l'abbiamo incontrato[319]: e dirò che venendogli da Roma l'onorevole
chiamata, volentieri coglieva l'occasione di rimettersi al largo.
Occasione che, presa di volo, quantunque per breve tempo, doveva far
meglio conoscere al mondo quest'uomo, e menar lui e la sua casa alla
suprema altezza, dove ai privati sia dato giugnere senza diventar
sovrani.

Fin dal principio pregherò i miei critici di non venirmi a confondere
questo notissimo Andrea Doria con nessun altro dei tanti Andrea, suoi
antenati e successori; e specialmente di non confonderlo con quel
Giovanni Andrea figliuolo di Giannettino, cui noi per proprietà e vezzo
della nostra lingua diciamo con sola una parola Giannandrea. Confusione
incredibile! dove nondimeno sono caduti non pochi dottoroni, e
specialmente in Germania lo scrittore di una rassegna intorno alla mia
storia della battaglia di Lepanto; articolo inserito nel notissimo
giornale storico che si pubblica dal Sybel in Monaco di Baviera[320]. Il
Signore della critica avrebbe voluto da me intorno ai campioni della
battaglia di Lepanto maggiori notizie cavate dalla vita di Andrea Doria,
scritta da Lorenzo Cappelloni, e da Carlo Sigonio. Dalla vita di Andrea,
morto undici anni prima di quella battaglia? dal Cappelloni che stampava
la vita sei anni prima del combattimento? Dovrem noi dunque abbattuti in
terra, e sfatati pur delle cose nostre, menar sempre buono il parere di
chiunque presume insegnarci la confusione dei libri, dei tempi e delle
persone? Tanto basti per saggio. Tu però con questo, savio lettore,
potrai far ragione anche di altri censori, che senza studio e senza
cortesia, pigliando l'aria di professori veterani, tanto si manifestano
da sè giudici immaturi e incompetenti (massime nelle cose tecniche), a
distinguere il vecchio dal nuovo, la cronaca dalla storia, e simili,
quanto altri a distinguere il nipote dallo zio.

Volendo più che siami possibile togliere ogni pretesto di sconci
equivoci dalla mente di chicchessia, io metto qui a piè l'alberetto
genealogico[321]; ed insieme ripeto trovarsi spesso, e ritornare sovente
nella casa Doria il nome di Andrea, ora solitario, ora in composizione
di altri nomi, per individui diversi: e specialmente altra essere la
persona di Andrea capitano di Clemente VII e di Carlo V; altra la
persona di Giannandrea capitano di Filippo II, e nipote in quarto grado
laterale dell'altro. Del secondo non abbiamo niuna biografia, come ho
scritto[322]; del primo parlano tutti i dizionarî storici in ogni lingua
e le vite speciali per lui singolarmente composte, dal Cappelloni
contemporaneo suo, infino al Guerrazzi contemporaneo nostro. Dunque
adesso, che siamo nel 1526, e Andrea è vivo nella storia (non pel 1571,
che egli era morto) dobbiamo parlare dei fatti suoi; adesso qui, e non
altrove, gli è tempo di ricercare per certi critici il Cappelloni[323].

Andrea Doria, allievo della scuola romana, come colui che qui in Roma
sotto Niccolò Doria suo zio, nella guardia papale al tempo di Innocenzo
VIII genovese, aveva fatto la prima milizia, era passato poscia a Napoli
in servigio degli Aragonesi; poi la seconda volta in Roma col prefetto
Giovanni della Rovere; appresso coi suoi genovesi in Corsica; e
finalmente, disgustato nella patria degli ostinati disordini tra le
fazioni di Francia e di Spagna, porse di buon grado l'orecchio alla
terza chiamata della prima città. Aveva allora sessant'anni, essendo
nato nel 1466 la notte di sant'Andrea in Oneglia signoria della sua
casa; ma vegeto e robusto dimostravasi uomo capace negli altri
trentaquattro anni della vita di fare cose grandi. Un bello e nobile
aspetto di quella pienezza e gravità che gli antichi hanno espresso
nella immagine di Platone: complesso ed alto della persona, un grande
ovato di volto, fibroso il collo, ampia la fronte, corta la
capigliatura, lunga e distesa la barba, strette e sottili le labbra,
l'occhio intento e alquanto fiero, e il muscolo delle ciglia infino al
mezzo abitualmente corrugato. Fermo nei propositi, sobrio nei piaceri,
parco nelle spese, magnifico nelle utili circostanze, e sempre assegnato
del suo e dell'altrui. Tale ce lo mostrano i fatti, e gli scrittori
della sua vita, e il suo stesso testamento: e tale ancor si rivela a chi
considera l'espressione del suo volto, inciso nelle medaglie, scolpito
nei marmi, e dipinto nelle tele, specialmente nel classico ritratto che
si conserva nella galleria romana de' suoi discendenti, colorito per
mano di Sebastian Luciani, detto dal Piombo, pittore della scuola
veneziana di quel valore che tutti sanno, e massime pei ritratti ai suoi
giorni ed anche oggi riputato eccellentissimo[324].

NOTE:

[319] ORTISIUS cit., p. 386. (V. sopra p. 190, 12 agosto 1522.)

[320] SYBEL, _Giornale storico_, in-8. Monaco, libreria di T. G. Cotta,
t. VIII, quaderno IV, anno 1862, p. 550. — A mia richiesta la Direzione
rettificò l'equivoco, e mi spedì in foglietto volante un esemplare
dell'ammenda pubblicata l'anno seguente 1863, p. 149, che conservo
presso di me. Ciò ricordo ad onore della Direzione.

[321] GENEALOGIA dei principi Doria compilata sopra i documenti genovesi
da AGOSTINO OLIVIERI, _Monete, medaglie e sigilli dei principi Doria_,
in-8. Genova, 1859, p. 30. — E da L. T. BELGRANO, _Il palazzo dei
principi D'Oria a Fassuolo coll'atlante di undici tavole_. Genova, 1874,
p. xiv, tav. prima:

Alberetto Genealogico dei Doria.

                          FRANCESCO, qu. CEVA
                         Consignore di Oneglia
                   m. Caterina Grimaldi, qu. Giovanni
                        dei Signori di Antibo
                                   |
             +—————————————————————+————————————————————+
             |                                          |
          GIOVANNI                                    CEVA
  m. Luigia Doria, qu. Tedisio.       m. Carocosa Doria, qu. Enrichetto
             |                                 Signore di Dolceacqua.
             |                                          |
          TOMMASO                                    ANDREA
  m. Maria Grillo, qu. Lorenzo                n. 30 novembre 1466
     Signore di Lerma.                creato principe di Melfi nel 1531
             |                                 † 25 novembre 1560.
             |
        GIANNETTINO
  m. Ginetta Centurioni-Oltramarino
    di Adamo, Marchese di Stepa.
             |
             |
        GIANNANDREA
          n. 1539.
  Secondo principe di Melfi.

[322] P. A. G., _Marcantonio Colonna alla battaglia di Lepanto_,
Firenze, Le Monnier, 1862, p. 47, dove si descrive l'età, la fisonomia e
il carattere di Giannandrea: e alle pagine 41, 45, 125, ec., dove
parlando di Andrea (tuttochè incidentemente) si aggiunge sempre _Il
vecchio_, o _Lo zio_, per calcar meglio la diversità delle due persone.
E perchè del primo trattano tutti i biografi, ho detto del secondo:
«_Niuna biografia, a mia notizia, parla di Giannandrea, men che quella
di Brantôme._» (Così ripeto anche oggi 15 luglio 1875. — Dirò a luogo e
tempo della sua autobiografia perduta.)

[323] LORENZO CAPPELLONI (alla genovese _Capellone_). _La vita e gesti
di Andrea Doria_, in-8. Venezia, Gabriel Giolito dei Ferrari, 1565.
(_Notate l'anno!_)

CAROLI SIGONII, _De Vita Andreæ Doriæ, libri duo_. ext. int. op. omn.
III, in-fol. Milano, 1733. — Genova, 1586.

POMPEO ARNOLFINI, _Vita e fatti di Andrea Doria_, tradotti dal latino di
CARLO SIGONIO, in-8. Genova, 1598. (Cito la traduzione.)

F. D. GUERRAZZI, _Vita di Andrea Doria_, due volumi in-16. Milano,
Guigoni, 1864.

MORERI, LADVOCAT, FELLER, DE CHESNEL, BIOGRAFIA _universale di Venezia_,
DIZIONARIO _degli uomini illustri_ ed. in Padova, e ogni altro MANUALE
_storico_ e DIZIONARIO _di erudizione_, tutti insomma parlano di Andrea,
e fin qui niuno di Giannandrea. (Come ho detto così ripeto a' miei
Critici.)

[324] GIUSEPPE MELGHIORRI, _Guida di Roma_. Galleria del Palazzo Doria,
in-8. Roma, 1835.

AGOSTINO OLIVIERI, _Monete, medaglie e sigilli dei principi Doria_,
in-8. Genova. tav. 1 e 2, e il suo testamento e codicilli, a p. 86.

PINI e MILANESI, _Scrittura di artisti in fotografia_, in-4. Firenze,
1870. — Sebastiano del Piombo.

VASARI, ed. Le Monnier, X, 12: «_Bastiano ritrasse ancora Andrea Doria,
che era nel medesimo modo mirabile._» XIII, 161: «_Il Bronzino poco dopo
a monsignor Giovio amico suo fece il ritratto di Andrea Doria._» XII,
29, 30, più IX, 10: «_La statua di Andrea Doria fatta dal Montorsoli e
da Alfonso Lombardi._»

AVV. GAETANO AVIGNONE, _Medaglie dei Liguri e della Liguria_, in-8.
Genova, 1872, pag. 84: «_Andrea Doria._»



[Giugno 1526.]

II. — Ai primi di giugno Andrea era già investito del nuovo ufficio,
come capitano della navale armata di Roma, e castellano della fortezza
di Civitavecchia, secondo gli stessi capitoli del Vettori. A lui il
comando delle due galere e de' due brigantini permanenti; a lui la
condotta di altre sei galere di rinforzo, quattro proprie, e due di
Antonio suo congiunto. Il nome di questo Antonio deve essere fin dal
principio avvertito bene dai lettori e ricordato, perchè entra ora
luogotenente, e poscia resterà successore di Andrea; e ci darà materia
alla continuazione del libro quarto, come ce l'hanno data pel secondo i
due da Biassa. Cresciuti i legni, infino a dieci, anche i soldi del
nuovo capitano ebbero a salire da otto a trentacinque mila ducati per
anno, facendosene in gran parte il ritratto da nuove gravezze imposte
sui macelli: di che malcontenti i beccaj tumultuarono in Roma, e fecero
sciopero; dandoci a vedere che niente è nuovo nel mondo[325].

Abbiamo adunque in punto dieci bastimenti, sotto eccellente capitano; e
dobbiamo aspettarci degni fatti contro i pirati, se pur non verranno i
negoziatori di Cognac a trascinarci altrove. Nel vero, come Andrea ebbe
udito il Barbarossa, per allora giovane pirata, esser comparso sulle
maremme di Toscana, in quel primo fervore uscì subito fuori del porto
coi dieci legni, e più le tre galere di Rodi, avendo coll'autorità del
Papa, e coll'esempio del Vettori, persuaso quei signori a seguirlo[326].
La spedizione ben ordinata e presta si coronò di splendido serto,
certamente prima che ai nemici fosse arrivata la notizia
dell'apprestamento dei nostri marini. Barbarossa aveva già messo a
soqquadro le maremme di Toscana, senza trovare niuno che potesse
resistergli, o dargli novelle di ciò che fosse di qua dal monte: per ciò
usciva baldanzoso dal canale di Piombino, e coi Ponenti della stagione
volgeva verso la spiaggia romana. Tutto inteso col guardo
sull'orizzonte, cercava la preda, quando gli stessi Libecciuoli che il
portavano a Scirocco col carro alla destra, gli posero dinanzi una
dozzina di legni militari, coperti di cotone col carro a sinistra, e
schierati in battaglia, e tutti abbrivati contro di lui. Si potrebbe
dire che quasi agli occhi suoi non avrebbe creduto, se non si fossero
mostrate sulle bandiere le chiavi di Roma, e le croci di Rodi; e poi,
come non riconoscere all'attrezzatura, alla ordinanza, al brio, i legni
militari? Sorpreso all'improvviso, e persuaso di non potere resistere,
dette il segno di pronta ritirata, e gittò pel primo la sua galeotta
velocissima a remo contro vento. Ma gli altri, tutti in un branco,
brigantini, fuste e galeotte, quindici legni, vennero a un tratto nelle
mani dei vincitori. I quali con gran festa rientrarono nel porto di
Civitavecchia; esultando i popoli vicini e lontani nel vedere distrutta
la terribile masnada, imprigionati in gran numero i Turchi, e sciolte le
catene a più centinaja di Cristiani, alcuni dei quali allora allora
avevano cominciato a remigare. La memoria di questo fatto importante
sarebbe perita, come tante altre delle nostre, se l'intramessa delle tre
galere di Rodi non avesse dato ragione al Bosio di registrarla ne' suoi
annali[327]. Dunque al testo dell'Ariosto possiamo ora aggiugnere più
largo commentario, confermandone la sentenza in ogni parte, anche nella
zona della spiaggia romana, dove ai nostri tempi si sarebbe meno
pensato[328].

NOTE:

[325] SCIPIONE AMMIRATO cit., 359, 19: «_In Roma i macellaj si sono
sollevati per alcuni dazj messi dal Papa per sostentar la condotta di
Andrea Doria, cui aveva dato il generalato delle sue galee._»

[326] BOSIO cit., III, 45, B: «_Andrea Doria, fatto generale delle
galere del Papa, non così presto n'ebbe preso il possesso, che
coll'autorità del Papa ebbe in conserva le tre galere della Religione._»



[Luglio 1526.]

III. — Intanto pubblicavasi la Lega di Cognac, e gli alleati
scopertamente si apprestavano alla guerra contro l'Imperatore. Cacciarlo
dalla Lombardia, mutargli lo stato di Siena e di Genova, torgli il regno
di Napoli, pareva loro altrettanto facile nell'esecuzione, quanto lo
sentivano nel desiderio[329]. Io non voglio allontanarmi dal mare:
perciò lascio da parte la Lombardia, dove pestava il conte Guido
Rangoni, il famoso Giovanni dei Medici, e Francesco Guicciardini; e dove
già erano andati per commissione di papa Clemente a rivedere le fortezze
di Romagna e di Piacenza Antonio da Sangallo, Michele Sammicheli,
Battista il Gobbo, Antonio dell'Abbaco, e Giulian Leno[330]. Lascio
dentro terra questi capitani ed ingegneri, e mi accosto alle maremme di
Siena, dove il Doria si avvicina per sostenere gli eserciti campeggianti
in Toscana.

Voleva Clemente metter giù il reggimento popolare dei Senesi favorevole
agl'Imperiali, e rialzare contro di loro il partito dei Petrucci, a capo
dei quali era Fabio, congiunto per matrimonio colla casa dei Medici.
Perciò dal confine di Viterbo e d'Orvieto aveva spinto dieci mila tra
fanti e cavalli contro Siena; e da Civitavecchia aveva fatto uscire
Andrea colle galèe e mille fanti di sopraccollo per sostenerli. I dieci
mila romani, fiorentini e forusciti, coi commissari Antonio Ricasoli e
Roberto Pucci, al primo scontro in campagna furono rotti dai Senesi,
colla perdita di tutta l'artiglieria, e di quasi tutto il bagaglio.
Restò a compensare i danni minaccioso il Doria dalla parte del mare.
Egli prese quante vettovaglie di là venivano ai Senesi, impedì i
soccorsi, assaltò i porti, ebbe Talamone ed Orbetello, e presidiò
stabilmente Portercole[331]. Quest'ultima piazza ritenne per quattro
anni, arrabattandosi indarno i priori di Siena tra le ritortole della
Curia e di Andrea, finchè il capitan Cencio Corso con improvvisa
battaglia di mano non l'ebbe ricuperata ai Senesi nel mese di febbrajo
del 1530.

NOTE:

[327] BOSIO cit., 45, C: «_Andrea Doria contro Barbarossa famosissimo
prese nei mari di Civitavecchia quindici vaselli da remo.... liberato un
numero grandissimo di poveri Cristiani schiavi._»

[328] ARIOSTO, _Furioso_, XV, 30:

    «_Questo è quel Doria che fa dai pirati_
    _Sicuro il vostro mar da tutti i lati._»

[329] FOLIETTA, _Hist. genuen. Ann._, 1525, in fin., ap. _Burman in
Thesaur._, I, 728, D.

GIOVANNI CAMBI, _Storie_; tra le _Delizie degli eruditi toscani_, XXII,
282.

GIAN MATTEO GHIBERTI, _Lettera a don Michele de Sylva_. _Lett. dei
principi_, in-4. Venezia, 1575, II, 154.

GUICCIARDINI, lib. XVII, ed. cit., p. 1169.

VARCHI BENEDETTO, _Storie fiorentine_, lib. II.

AMMIRATO cit., II, 363.

[330] VASARI cit., Le Monnier, X, 10. — XI, 110, n. 111.

PROMIS cit., II, 74, 300.



[Agosto 1526.]

IV. — Maggior travaglio aveva a portare la mossa verso Genova; dove
governava Antoniotto Adorno, sostenuto dal partito imperiale. Pensate
Genova, città da rendere buon conto a chicchessia coll'armi in mano;
pensate Antoniotto, bene assettato nel palazzo ducale, e risoluto
insieme cogli aderenti suoi di non volerne uscire; pensate i capitani di
Carlo V, attaccati coi denti a quella piazza importantissima tra tutte
in Italia, ed anello necessario per carrucolare verso la Spagna, Napoli
e Milano; essendo chiusa ogni altra linea, specialmente dai Francesi, e
sapendo che perduta Genova, nè uomo più, nè soldo, nè altro qualunque
soccorso sarebbe potuto passare. Dunque qui il nodo principalissimo, e
qui il contrasto maggiore.

Ne fu scritto al Doria, il quale rispose non esservi altro mezzo che
stringere Genova dalla parte del mare; mettersi con due armate nelle due
riviere, e tenersi pronti di qua e di là a combattere unitamente contro
l'armata di Spagna, che nel mezzo verrebbe per certo a portarle i
soccorsi. Disegno strategico. Se fosse stato eseguito a tempo, niun
dubbio che avrebbe dovuto Genova aprir le porte, Antoniotto fuggire, e i
Cesariani cadersi in pessimo termine. Ma la bisogna delle leghe va
sempre a un modo; ciò è dire con poca corrispondenza reciproca. Andrea
si accostò presso alla riviera di levante, ma i Francesi tardarono
dall'altra di ponente, i Veneziani non comparvero in tempo, e gli
Spagnuoli ebbero tutta la comodità di provvedere. Entrarono alla
spicciolata, genti, vettovaglie, danaro; venne di Spagna fresco fresco
il duca di Borbone, col grado di capitan generale dell'esercito cesareo
in Italia.

Finalmente a mezzo agosto l'armata di Francia col conte Pietro Navarro
prese Savona, favorito dagli abitanti, nemici dei Genovesi; intanto che
dall'altra parte Andrea Doria colle galèe del Papa e dei Veneziani
faceva testa a Portofino, mettendovisi di forza per mare e per terra.
Aveva seco i dieci legni della squadra papale, ed una quindicina della
veneziana, venuti alla fine in questi mari, secondo i patti della lega,
sotto il governo di Luigi Armero[332]. Così stettero tre mesi stringendo
il blocco da levante e da ponente: a niuno più concesso nè l'entrare nè
l'uscire, cresceva dentro maggiormente la penuria, e fuori vie meglio
l'abbondanza per le molte e continue prede che le due armate facevano
sul mare[333]. E in quel mezzo Filippino Fieschi, governatore delle armi
a Portofino, col rinforzo di ottocento marinari buttatigli in terra da
Andrea, dava la mala paga ai Cesariani che si erano arditi di trasalire
il monte, pensandosi vanamente di poter riscuotere quel posto, e di
allargare alquanto il blocco dalla parte di terra[334].

[19 novembre 1526.]

Finalmente il grosso dell'armata spagnuola salpava da Cartagena per
rifornire la piazza di Genova: venti galèe di scorta, ventidue navi da
carico, grandi provvigioni, molti cavalli, quattromila fanti veterani,
Ferrante Gonzaga, Ferdinando Alarcone, e don Antonio Lannoy vicerè di
Napoli, venivano di lungo verso il golfo: ma costretti da grossa
tempesta di scirocco, riparavano a san Fiorenzo sulla estremità boreale
della Corsica, aspettando l'opportunità di movere tutti uniti al
soccorso di Genova[335]. Per opposito i confederati si mettevano in
punto con deliberazione di tenere il passo, e in gran fretta da
Portovenere chiamavano quelle galèe veneziane che vi si erano raccolte a
spalmare. Assembrati distesero l'ordinanza, mettendo in battaglia
quarantaquattro legni di linea così[336]: sedici galèe e quattro galeoni
di Francia, tredici galèe di Venezia, e undici del Papa: al centro
Pietro Navarro, alla destra Andrea Doria, alla sinistra Luigi Armero, i
galeoni alla fronte.

Disposta in tal modo l'ordinanza, e mandate a ciascuno le istruzioni
precise per governarsi nello scontro imminente, si volgevano di faccia
al vento, persuasi che il nemico con tante navi quadre non potrebbe
venire altrimenti che sotto vela, di buon braccio, e secondo il rombo
della giornata, come e dove essi aspettavano. Nè ebbero ad indugiarsi
gran fatto, chè a diciannove di novembre ecco l'armata di Spagna dalla
parte di Sestri orientale; e incontanente i confederati all'incontro dal
ridosso di Portofino, navigando quelli a vela e questi a remo
risolutamente gli uni contro gli altri. S'incontrano dinanzi a quella
lingua di terra che i Genovesi chiamano Codimonte[337]. Pietro Navarro
intima la battaglia con un tiro di corsia, colpisce giusto, e mette
abbasso l'asta e la bandiera dell'almirante spagnuolo: grida di lieto
augurio tra i confederati, e di confusione tra i nemici. Il Doria e
l'Armero volano innanzi arrancati, e gli altri a gara contro i vegnenti,
traendo a furia di tutte le artiglierie. In breve le due armate di qua e
di là si avvicinano, sparisce il campo del mare interposto, si
mescolano, si urtano, si afferrano; e rimane una selva intricata
d'alberi e d'antenne, scossa dal fuoco, dal ferro, e dal cozzo. Una
nuvola di fumo corre sull'orizzonte: bassa e bianca a prima uscita; ma
crescendo i tiri si condensa colle fumate seguenti, si leva in vorticose
spire, torreggia, si oscura, intercetta la luce da ponente, e nasconde
il sole prima del tramonto. Tra quel tenebrìo, quanto tu mai intesamente
riguardi, non vedi che lampi contro lampi; e non odi che il rombo del
tuono tutto intorno, e lo scroscio delle murate, e il precipizio degli
attrazzi, interrotto soltanto dal fremito dei combattenti. Il mare
intorno si fa livido, copresi di rottami, ribolle. E dopo quattro ore di
combattimento, quantunque cresca la notte, puoi vedere l'armata spagnola
rotta dalla testa alla coda, alcune navi sommerse, altre prese, e la
maggior parte in fuga per l'alto mare, e malconce, correre per ricetto
inverso Napoli. Il vento e la notte levano gli avanzi delle loro navi
dinanzi alle nostre galere[338]. Dunque gli alleati mantengono il
blocco, e lo stringono maggiormente: ma non per questo Genova apre le
porte; anzi ostinata nella difesa fino agli ultimi di agosto dell'anno
seguente, aspetta di aprire le porte al Doria, al Trivulzio, e alla
girata del re Francesco.

NOTE:

[331] ANONYMI SENENSIS, _Bellum Julianum anno MDXXVI gestum_. ARCH. ST.
IT., 1850, app. VIII, p. 312.

LUCIANO BANCHI, _I porti della maremma sanese durante la repubblica_,
narrazione storica con documenti inediti. ARCH. STOR. IT., in-8.
Firenze, 1870, t. XII, parte II, disp. 4, p. 62, e docum. segg.

GUICCIARDINI cit., 1190.

AMMIRATO cit., II, 359.

SIGONIO cit., 54.

CAPPELLONI cit., 27.

[332] SIGONIO cit., 56: «_Le galere del Doria se ne passarono da
Civitavecchia a Portofino, e quelle dei Francesi vennero da Marsiglia a
Savona._»

CAPPELLONI cit., 27: «_Il capitano Andrea con otto galere, con lo
stendardo del Pontefice, andò a Portofino.... et sedici galere
vinitiane._»

GIUSTINIANI cit., 278: «_Venne l'armata di Francia et ripigliò
Savona.... si congiunsero quattordici galere dei Veneziani con sei del
Papa.... in tutto trentasette galere._»

[333] BIZARUS cit., 462, fin.: «_Multis navibus frumento onustis, quæ
Genuam petebant, captis._»

[334] GIUSTINIANI, loc. cit., 278.

GUICCIARDINI cit., 1220.

[335] GIUSTINIANI, 278: «_L'armata di Spagna erano vintidue velle
quadre._»

[336] BIZARUS, 432, 35: «_Classis in qua quatuor galeones, sexdecim
triremes regiæ, tresdecim Venetorum, et undecim pontificiæ._»

[337] ATLANTE LUXORO, p. 52, n. 65: «_Codemonte_ (nota) _Capodimonte,
oggi capo della Chiappa, a ponente di san Fruttuoso._»

CARTA _idrografica del littorale della Liguria_, scandagliata dagli
ufficiali e piloti della regia marina sotto la direzione del vice
ammiraglio c. G. ALBINI, gran-fol. Genova, 1834: «_Promontorio di
Portofino, punta della Chiappa._»

[338] SIGONIO cit., 56.

CAPPELLONI cit., 28.

GIUSTINIANI cit., 278, Y.

VERDIZZOTTI cit., II, 488.

BELCAIRUS, _Rer. Gallic._, in-fol. Lione, 1625, p. 580.

MURATORI, _Ann._, 1526, prop. fin.



[Gennajo-febbrajo 1527.]

V. — Or qui la materia sempre più mi si arruffa: ed io nè voglio
allungar le fila, nè posso troncarle. Sento dentro di me la stessa
ambascia, già provata da Jacopo Sadoleto, vescovo allora e consigliero
di papa Clemente, e poscia amplissimo cardinale, quando inutilmente
studiavasi a dissuadere coteste guerre intestine[339]. La stessa
ambascia dico, e forse maggiore: perché a lui fu concesso allontanarsi,
ed a me non è dato potermi tirare da parte. Metterò dunque in compendio
quanto per necessità delle seguenti sciagure mi tocca.

Il Lannoy, novello vicerè, sbarcato a Napoli dopo la rotta di Codimonte,
piglia il comando dell'esercito imperiale, passa i confini, occupa
Frosinone; e i Colonnesi in favor suo levano rumore nella Campagna.
Renzo da Cere e Alessandro Vitelli ricacciano indietro il Lannoy, e
costringono i Colonnesi alla fuga. Clemente allora chiama il conte di
Valdimonte, ultimo rampollo della casa Angioina per metterlo colle armi
sul trono di Napoli[340].

Andrea Doria, richiamato a Civitavecchia, imbarca le terribili bande
nere, capitanate da Orazio Baglioni per la morte di Giovanni de' Medici,
ucciso poco anzi da una archibugiata nel Mantovano[341]: imbarca alla
Fiumara del Tevere il nuovo Re di Napoli, che procedendo come
luogotenente del Papa, e sostenuto dalle forze di Venezia e di Francia,
occupa Ponza addì ventitrè di febbrajo; e di là coi proclami e colle
armi piglia Mola di Gaeta, Torre del Greco, Castellamare, Sorrento e
Salerno[342].

Al tempo stesso Renzo da Cere, Alessandro Vitelli, Orazio Baglioni,
Battista Savelli, Pietro Biraghi ed altrettali condottieri del Papa
s'impadroniscono di Tagliacozzo, di Sora, dell'Aquila, e già già si
appressano alle mura di Napoli, secondo i disegni preparati dai tattici
maggiori della lega. Tutto a seconda dei loro desiderî nell'Italia
meridionale, e continuati successi delle armi per terra e per mare[343].

[25 marzo 1527.]

I Cesariani dall'altra parte, palpitanti all'imminente e finale
rovescio, pigliano l'unico partito che resta ai disperati in questa
fatta guerre. Mandano oratori al Papa, si gittano in ginocchio, e fanno
ogni sforzo di spaventi e di tranelli per distaccarlo dalla lega. Ora
essi pensano al pianto dei popoli, al sangue degli innocenti, al trionfo
del turco, ai progressi dell'eresia: in somma non chiedono altro che
tregua. E i ministri di Roma con Cesare Fieramosca, inviato dal Lannoy,
addì venticinque di marzo in fretta e in furia, con poca participazione
degli alleati, sottoscrivono la tregua di otto mesi. Il Lannoy sgombra
dagli strali della Chiesa; e Clemente richiama indietro da ogni campo le
milizie e i capitani, dando il congedo a tutti per levarsi dalle
spese[344]. Pensate sorpresa e rabbia di Francesi, di Veneziani e di
Fiorentini: pensate scorno e rovina di Curia e di Romani. Ecco il punto:
restiamo soli, e disarmati.

[5 maggio 1527.]

Il duca di Borbone venuto poc'anzi di Spagna a Genova e a Milano, con
suprema autorità, come ho detto; già indettatosi con Carlo, e conscio
più che altri delle segrete intenzioni di lui per ogni caso di questa
guerra[345]; non vuole udir verbo nè di pace, nè di tregua, nè di
Lannoy; dicendo non avere esso sottoscritto nulla, nè esser tenuto a
nulla dalla firma degli altri: anzi a reciso protesta di volersi
continuare nella marciata verso Firenze e verso Roma. Francesco Maria
della Rovere, duca d'Urbino e generale dei Veneziani, richiamato dai
suoi signori per questi casi oltrepò, consapevole dell'animo dei Medici
sul conto dei Rovereschi, e dei fatti di Lorenzo già duca d'Urbino,
chiude gli occhi, e lascia fare. Dunque il Borbone si avanza dalla
Lombardia verso Roma senza ostacolo; e con lui il famoso Frandesberg
degli strozzini, e trentamila uomini d'ogni nazione, tedeschi, svizzeri,
spagnuoli, fiamminghi, luterani e ribaldi. Costoro sicuri per lo
scioglimento dell'esercito papale, e tratti all'esca dell'ingordo
bottino, danno l'assalto a Roma addì cinque del mese di maggio 1527.

[6 maggio 1527.]

E quantunque il traditore di Francia, e corifèo di Spagna miseramente
lasci la vita nei prati di Castello, nondimeno l'opera scellerata si
compie pei seguaci del suo nome: i quali nel dì sei di maggio uccidono
quanti vogliono per le strade di Roma, dicono quattromila cittadini; e
saccheggiano la città, le chiese, i monasteri con tanto sfogo
d'avarizia, di libidine e di crudeltà, quanto mai nè prima nè dopo, nè
dalle barbare genti nè dalle incivilite, non si era veduto nella
afflitta città[346].

NOTE:

[339] RAYNALDUS, _Ann. eccl._, 1526, n. 10: «_Jacobus Sadoletus
episcopus Carpectoractensis, postea cardinalis, qui Pontifici a
consiliis erat, extitit semper belli dissuasor._»

[340] GREGORIO ROSSO, _Giornali_ cit., p. 4.

GIUSTINIANUS, _Rer. Venet._, in-fol. Argentorati, 1611, p. 259.

BELCAIRUS, _Rer. Gallic._, in-fol. Lione, 1625, p. 582.

VERDIZZOTTI cit., II, 478.

[341] AMMIRATO cit., II, 363.

[342] GIO. MATTEO GHIBERTI, _Lettera a messer Andrea Doria_, tra le
«_Lettere dei principi._» Venezia, 1575, II, 165.

IDEM, _Corrispondenza segreta col cardinale Agostino Trivulzio,
decifrata e pubblicata dal marchese Filippo Gualtieri_, in-8. Torino,
1845.

CAPPELLONI cit., 28: «_Il Pontefice.... chiamò Andrea a Civitavecchia,
il quale imbarcò.... alcune genti di guerra.... sotto il carico di
Orazio Baglione.... e alla Fiumara di Roma monsignor di Valdimonte._»
(Vaudemont.)

[343] BELCAIRUS cit., 590.

GUICCIARDINI cit., 1242.

MURATORI, _Ann._, 1527.

[344] CLEMENTIS, PP. VII. _Epistolæ et acta diversa._ Mss. Casanat., X,
IV, 47.

RAYNALDUS, _Ann. eccl._, 1527, n. 11.

[345] GIUSTINIANI cit., 278, X: «_Il duca di Borbone, quale era andato
in Spagna a parlare con Cesare, ritornò a Genoa con quattro gallere, et
passò in Lombardia, et restò capitan generale._»

[346] MARCELLO ALBERINI (romano e testimonio di veduta), _Discorso sopra
il sacco di Roma._ Ms. nell'Archivio Capitolino, Credenz. XIV, cod. vii,
da 51 a 88.

ANONIMO, _Relazione del sacco di Roma, dato li sei di maggio 1527, e
cavata da alcuni manoscritti di persone trovatesi presenti_. Mss.
Casanat., D, VI, 33.

JACOPO BONAPARTE, _Ragguaglio storico di tutto l'occorso giorno per
giorno nel sacco di Roma, dove si trovò presente_, in-4. Colonia, 1756.

FRANCESCO GUICCIARDINI, _Il sacco di Roma_, in-8. Colonia, 1758. — Ed
_Opere inedite_, vol. IX.

PATRIZIO DE ROSSI, _Memorie storiche dei principali avvenimenti politici
d'Italia, durante il pontificato di Clemente VII_, in-12. Roma, 1837.

CÆSAR GLORIERIUS, _Historia expugnatæ et direptæ urbis Romæ_, in-4.
Parigi, 1538.

ADAM REISNERUS, _Comment. de vita et rebus gestis Georgii et Gasparis
Frundsbergiorum_, in-fol. Francoforte, 1568.

ANONYMO, _Dialogos de Mercurio y Caron.... en que se tratan las cosas
acaecidas en Roma l'año 1527_, in-4. perv. Sine nota loci et anni.
Biblioteca Casanat Z, XIII, 31.

DOCUMENTI pub. dal Corvisieri, Roma, 1873.

CARLO MILANESI, _Il sacco di Roma_. Firenze, 1867.

SCIPIONE VOLPICELLA, _Narrazione del Santoro_, ec.

ENRICO NARDUCCI, _Il poemetto del Celebrino_. Roma, 1872.



[Giugno-luglio 1527.]

VI. — Ora non mi talenta il seguire lo svolgimento dei trattati intorno
alla persona del Papa, nè il discorrere della sua ritirata e dimora in
castello Santangelo, nè della fuga in Orvieto, nè del Governo che fecero
l'Imperatore e i Confederati di questo intricatissimo negozio. Lascio
cui spetta il riconciliamento di Clemente e di Carlo, la coronazione di
Bologna, e l'assedio di Firenze, dove niuna parte ebbe, nè bella nè
brutta, la mia marina. In quella vece invito il lettore a venir meco
dove ci aspetta Andrea Doria: il quale sorpreso dagli inaspettati
avvenimenti, senza istruzioni, senza paghe, e senza partito, nondimeno
meglio di ogni altro coll'ingegno e colla fede giovò alla causa ed alla
incolumità del Pontefice. Imperciocchè avendo ripigliato personalmente
la castellania della fortezza, e il comando della piazza in
Civitavecchia, coi marinari e co' soldati delle galèe e coll'ajuto dei
terrazzani, trovandosi in luogo forte per natura e per arte, non volle
mai consegnare la città agli Imperiali; ma vi si tenne sempre fermo e in
buon ordine, tanto che coloro non si ardirono di assalirlo: per opposito
presero a carezzarlo, pregandolo con molte lusinghe ed impromesse, che
volesse accettare la condotta ed unirsi con Cesare[347]. Ma egli, fermo
nel proponimento e nella fede, non si lasciò mai abbindolare. Anzi più
per messi secreti scrisse al medesimo Papa le proposizioni
degl'imperiali: e da lui privatamente fu consigliato di non dover
prestare orecchio alle loro ricerche; ma di starsene fermo in
Civitavecchia, e di guardarne il porto, altrimenti sarebbe cagione di
farlo condurre prigioniero in qualche fortezza di Spagna, come era
successo nel caso simile al re Francesco per la via del porto di Genova.
Conchiudeva consigliandolo di non si muovere, finchè egli non fosse
fuori del pericolo; e poscia di accostarsi più tosto ai Francesi, che
agli Spagnuoli, quando ne verrebbe il tempo[348]. Di questi fatti non
meno importanti alla storia universale, che alla marina, gli storici
nostri municipali non fanno motto.

[Agosto 1527.]

Andrea eseguì di punto in punto i consigli privati: si tenne costante
alla guardia del mare, e il primo dei suoi sigilli, pubblicato
dall'Olivieri[349], si trova ancora attaccato ad una lettera che esso
scriveva da Civitavecchia nel mese d'agosto di quest'anno, raccomandando
ai protettori del banco di san Giorgio in Genova l'abate Imperial Doria,
eletto vescovo di Sagona in Corsica, del quale avrà a tornare il
discorso. Finalmente quando ebbe veduto alquanto di quiete, e l'animo di
papa Clemente già volto agli accordi, condusse le quattro galèe di sua
proprietà in Savona[350]; lasciando nondimeno con altre sei galèe e due
brigantini alla guardia di Civitavecchia Antonio Doria, suo
luogotenente; il quale fu poscia confermato dal Papa nello stesso carico
di capitano[351]. Antonio ci darà materia alla continuazione di questo
libro, intestato col nome della casa Doria.

[Dicembre 1527.]

Così terminò sullo scorcio dell'anno ventisette il capitanato di Andrea.
Itosene appresso al soldo di Francia, ebbe il grado di generale, e
l'Ordine di san Michele: ma non tardò guari a nuovamente disgustarsi del
re Francesco. Dopo la pacificazione di Roma, addì trenta giugno
dell'anno ventotto fuggì di Provenza, e si condusse a servire Carlo V,
dal quale non si distaccò mai più. Capitan generale del mare, e di tutte
le armate di Spagna, principe di Melfi, cavaliere del Tosone, grande di
prima classe, oppresso da molti fardelli, e legato a straniera fortuna,
sempre ugualmente bravo, ma non sempre altrettanto sincero, divenne tra
le mani di Carlo strumento necessario della pubblica servitù, mascherata
con grande artifizio in diverse maniere, e indarno voluta scuotere coi
maneggi e colle armi dai principi, dai popoli, e dai Papi quanti furono
tra Clemente VII e Paolo IV. Non dico di più: il suo nome e i suoi fatti
torneranno sovente infino alle ultime pagine di questo e dell'altro
volume.

NOTE:

[347] GUICCIARDINI, Stor., lib. XIII, in-4. 1645, senza nota di luogo,
p. 452: «_I fanti spagnuoli e tedeschi entrarono in castello Santangelo,
ma non furono colla medesima facilità consegnate le altre fortezze e
terre; perchè quella di Civitavecchia ricusò consegnare Andrea Doria,
benchè ne avesse comandamento dal Pontefice._»

MURATORI, _Annali_, 1527, post. med.: «_I capitani imperiali fecero
accordo con obbligarsi il Papa a pagare.... e consegnare Castel
Santangelo, e le rocche d'Ostia, di Civitacastellana, e di
Civitavecchia.... Andrea Doria ricusò di consegnare Civitavecchia._»

[348] CAPPELLONI cit., 28, 29: «_Andrea da Napoli fece ritorno in
Civitavecchia.... in questo repentino et inaspettato accidente della
presa di Roma.... si trovava Andrea in Civitavecchia.... pregato dal
Papa a non prestare orecchio agli imperiali.... perchè se si accordava
con loro sarebbe stato cagione di farlo condurre prigione in Spagna o a
Napoli._»

SIGONIO cit., 57: «_Il Papa non potendo in questo tempo servirsi del
Doria.... et saputo che gli erano offerti grandi partiti, perchè
passasse al servizio dell'Imperatore.... lo sollecitò per secreti messi
ad appoggiarsi di nuovo al re di Francia._»

[349] AGOSTINO OLIVIERI, _Monete, medaglie e sigilli dei principi
Doria_, in-8. figur. Genova, 1859, p. 42 e tav. I: «_I sigilli dei
principi Doria che mi vennero alle mani sono pochi. Il primo spetta ad
Andrea I; è su carta bianca, attaccato ad una lettera che quel Principe_
(non ancor tale) _scriveva ai Protettori di San Giorgio l'agosto 1527 da
Civitavecchia. Rappresenta l'aquila distesa sulla croce di
Sant'Andrea._»

[350] CAPPELLONI, 30: «_Et passando da Civitavecchia a Savona, andò a
congiungersi con le altre galèe francesi._»

[351] BOSIO cit., III, 69, C: «_Nell'anno 1528.... il Pontefice aveva
dato intenzione di mandare anche egli all'impresa di Rodi due delle sue
cinque galere._» V. appresso le note segg.



[1528.]

VII. — Continuandomi nel mio subbietto, so di entrare nei pensamenti dei
nostri marini, che, scossi dagli strani ed infelici successi di Roma,
argomentano il termine della loro intramessa nelle guerre intestine,
tanto stranamente governate; e sospirano la levata delle armi a più
degne imprese contro il nemico comune. Dopo la partenza di Andrea, trovo
sei galèe e due brigantini armati e pronti ad ogni fazione nel porto di
Civitavecchia; trovo al governo il capitano Antonio Doria, già
luogotenente del cugino; e vedo intorno a quei legni principi,
ambasciatori, soldati e venturieri fare assegnamento[352]. Vedo altresì
in quel porto i Cavalieri gerosolimitani riarmare la loro squadra, e
costruire galèe di nuovo, come quelli che, tenutisi da parte con savio
consiglio durante il sacco di Roma, meno di ogni altro avean sentito il
peso delle recenti sciagure[353]. Entrati poscia nelle smanie di fare
qualche cosa, e molto più ristucchi della precaria dimora in casa
altrui, fantasticavano sopra Rodi, sperando di potervi ritornare, se pur
riuscisse di ritogliere per forza, per sorpresa e per secrete
intelligenze l'isola dalle mani dei Turchi. Il Grammaestro e i suoi
davansi di ciò gran faccenda: e vedevasi continuo andirivieni di
cavalieri e di emissarî, da levante e da ponente, senza che altri
potesse penetrarne la cagione. Ma ben sapevane papa Clemente, il quale
aveva promesso al balì Salviati, suo nipote, di ajutare l'impresa con
tutte, o con una parte delle sue galere[354].

[29 giugno 1529.]

Se non che la prima mossa di quei legni non poteva non rispondere alle
mutate condizioni della curia, ed al rivolgimento di Clemente verso la
fortuna prepotente di Carlo. Dimentico delle atrocissime ingiurie,
l'istesso Papa sottoscriveva addì ventinove di giugno il famoso
trattato, pel quale l'eletto Carlo doveva venire in Italia, ricevere la
corona dell'imperio, dare la Margherita d'Austria ad Alessandro dei
Medici, rimettere in maggiore grandezza questa Casa, e consentire a
tante altre cose, che non mi torna il ripetere[355]. Però nè le galere
gerosolimitane si volsero a Rodi contro i Turchi, nè le pontificie ad
accompagnarle; ma tutti insieme corsero verso Genova incontro a Cesare,
che aveva a venire per la via del mare di Spagna.

[12 agosto 1529.]

Tra i grandi e dei primi entrò nel porto con tutta la squadra papale di
galèe e di brigantini Alessandro dei Medici, futuro duca di Firenze,
accompagnato dal cardinale Ippolito suo cugino e da solenne ambascerìa
per complire con Cesare a nome di papa Clemente, e per confermarlo nella
opinione della benevolenza sua[356]. Poscia comparvero baroni, prelati,
e ambasciatori di ogni parte di Spagna, di Germania e d'Italia; e
finalmente ai dodici di agosto sull'ora di vespro ecco Carlo d'Austria,
ecco la capitana di Andrea Doria, e trentasei galere in ordinanza, e
settanta vele quadre tra caracche e navi grosse, ed altri ventiquattro
legni sottili, come brigantini, fuste, trafurelle[357], e fregate; in
tutto all'incirca centotrenta bastimenti: più dodicimila soldati di
sbarco, e dumila cinquecento cavalli di guerra[358]. Dunque bellissime
feste in Genova liberata.

Appresso quei signori, con Cesare, e fanti, e cavalli, e bisogni,
andarono verso Bologna, dove nell'ottobre sopravvenne papa Clemente, il
quale di sua mano coronò Carlo re ed imperatore nel mese di febbrajo
dell'anno seguente.

[24 marzo 1530.]

Colà in Bologna, coll'autorità e favore del Papa, il Grammaestro ed i
Cavalieri gerosolimitani ebbero da Carlo V la donazione della città di
Tripoli in Barberia, e per loro residenza l'isola di Malta, donde
presero il nome, col quale anche noi da qui innanzi comincieremo a
chiamarli[359].

NOTE:

[352] BOSIO cit., II, 71, E: «_Il Pontefice.... non poteva concedere
alcuna delle sue sei galere per unirle coll'armata della Religione._»

GIOVIO, RAINALDO, DORIA, e appresso alle note 45, e 46.

[353] BOSIO cit., 48, E: «_Due galere nuove, oltre un'altra che già in
Civitavecchia s'era quasi del tutto finita._»

[354] BOSIO cit., 69, G: «_Il Salviati priore di Roma.... dovesse
destramente procurare di averle tutte, e che almeno le due galere
promesse da Sua Santità in modo alcuno non mancassero._»

[355] DU MONT, _Corps diplomatique_, IV, II, 5 a 53.

VARCHI, ediz. fiorent., 1843, I, 590.

[356] RAYNALDUS, _Ann. Eccl._, 1529, n. 70: «_Clemens Pp. VII, dilecto
filio Carolo etc... tres legatos, S. R. E. cardinales ad eamdem
serenitatem tuam duximus destinandos._»

VARCHI, _Storie_, ediz. fiorent., 1843, II, 50.

[357] BENEDETTO VARCHI, _Storie fiorentine_, in-fol. Colonia, 1721, p.
227. — Ed. in-8. Firenze, 1843, II, 24, 28: «_Cesare agli dodici di
Agosto in giovedì sera a Genova.... fanteria novemila quattrocento....
dumila bisogni.... cavalli di guerra dumila cinquecento.... trentasei
galere del Doria e del Portondo.... settanta vele quadre.... ed il
restante trafurelle e brigantini circa cento trenta legni._» (L'editore
avverte nella nota di avere invano cercato _Trafurella_ nei Vocabolari.
Se avesse avuto il mio, sarebbegli venuto così: _Trafurella_, s. f.
(BOSIO, II, 652. VARCHI, Colonia, p. 227): Specie di galeotta sottile e
agilissima a vela e a remo, così detta dalla attitudine al trafugarsi e
al passare di soppiatto in ogni parte. Si usava per avviso, per la
polizia dei porti, e anche per combattimenti di sorpresa e di agguato.)

[358] BIZARUS cit., 479.

FILIPPO DEI NERLI, _Comment._, in-fol. Augusta, 1728, p. 191.

BERNARDO SEGNI, _Storie_, in-fol. Augusta, 1723, p. 76.



[1531.]

VIII. — Intanto Solimano imperatore dei Turchi non erasi tenuto
neghittoso: ma delle guerre intestine tra i Cristiani lietissimo, dopo
aver percorso l'Ungheria e saggiato la strada fin sotto alle mura di
Vienna, accennava di voler ripigliare la campagna con potentissimo
esercito per venire dalla valle del Danubio nel centro di Europa[360].
Carlo imperatore, e il fratello suo Ferdinando re dei Romani, chiedevano
istantemente gli ajuti del Papa[361]: il quale l'anno seguente mandò in
Germania il cardinal dei Medici suo nipote con buona scorta di veterane
milizie, e capitani famosi, e cavalli di guerra, ai quali fu dato con
gran dimostrazione di valore, e grandissima strage d'infedeli,
sciogliere l'assedio e liberare la fortezza di Clissa in Ungheria. Il
fiore dei capitani e gentiluomini italiani si trovò raccolto in quei
campi, dove erano Marzio e Pirro Colonna, Battista Castaldo, Alfonso del
Vasto, Piermaria de' Rossi, Filippo Tornielli, Ottone di Montaùto, Guido
Rangoni, e Sforza Baglioni, uniti col grande ingegnere militare Gabriele
Tadini di Martinengo, e col celebre condottiere Ferrante Gonzaga[362].

Questo sia detto delle cose di terra per anticipazione e in iscorcio,
dovendo io a preferenza occuparmi della marina, dove al tempo istesso
Cesare e Clemente con ottimo consiglio preparavano sforzo di grossa
guerra. Assalire Solimano alle spalle, minacciare la reggia di
Costantinopoli, e togliergli il più che si potesse della Grecia
divisavano, volendo così distaccarlo per forza dall'Ungheria. Sapevano
bene che la principale difesa consiste nell'offesa; e che non si libera
in altro modo più facilmente il proprio territorio, quanto invadendo il
territorio nemico. L'esempio di Scipione valeva allora e varrà sempre
per tutti.

A tal fine papa Clemente ordinava ad Antonio Doria di crescere la
squadra fino a dodici galèe, e di tenersi pronto alla primavera prossima
per seguire in Oriente l'armata imperiale[363]. Antonio medesimo tutto
aperto, parlando pur brevemente di sè, come era uso, ed in persona
terza, ne fa ricordo nelle succinte pagine di quel Compendio storico che
dopo quarant'anni licenziò alle stampe, facendo pensiero di magnificare
soltanto le glorie di Carlo d'Austria e dei successori, coi quali si era
intimamente legato[364]. Però spese l'annata nel costruire e nel mettere
in buon assetto le dodici galere, e nel far gente per armarle. Cosa
facile nel trentuno: abbondava il danaro, e similmente numerosi vivevano
senza partito i soldati e i marinari congedati a cagione della pace
rimessa e delle guerre finite in ogni parte d'Italia. A lui la scelta
dei migliori uomini di mare nei paesi littorani; a lui la chiamata dei
più valenti delle bande nere e di quegli altri che avevano combattuto in
terra di Roma e di Toscana.

Aveva Antonio intorno agli armamenti i suoi pensieri particolari; di che
ha pur lasciato memoria negli inediti suoi Discorsi sulle cose
turchesche per la via di mare, dei quali viene in concio dare breve
sunto per chiarire gli apprestamenti suoi di quest'anno colle sue stesse
parole[365]. Dice non potersi fare armata di mare colle navi a vela, ma
soltanto colle galere, le quali pel remeggio possono andare dove
vogliono: e ne adduce tutte quelle ragioni che si potrebbero oggidì
mettere assieme per dimostrare che non si può chiamare naviglio di linea
quello, il quale non abbia la macchina a vapore. Quanto alle navi quadre
di alto bordo, che vanno a vela, dice ricisamente impossibile farle
navigare insieme colle galèe; e quindi non essere bastimenti da mettere
in linea di battaglia; perchè la diversità della forza motrice, e le
svariate condizioni del vento e del mare le costringeranno cento volte a
separarsi, e daranno al capitano nemico tutto l'agio di schivare, o di
cercare, o di differire il combattimento a suo talento; e di attaccare o
quelle o queste a ritaglio. Dunque mette le galèe in battaglia, e le
navi in convoglio appresso e distaccate per trasportare munizioni,
macchine, cavalli, e artiglierie, all'occasione dello sbarco. Ad ogni
galèa assegna ottanta soldati archibugeri e picchieri, coll'obbligo di
adoperare l'arme in asta o l'arme da fuoco, secondo il bisogno e secondo
l'incontro da vicino o da lontano. A ciascuno la difesa di corazzina e
di celata, contro le frecce, sempre in uso tra i Turchi. Il vitto e il
soldo di soldato e di marinaro limitato a quattro ducati in ogni mese,
«Come si è sempre fatto, e si fa tuttavia, per li ministri di dette
armate.» Vorrebbe che si lasciasse il carico degli ufficî principali ai
medesimi uomini del paese dove si armano le galèe; e dai luoghi istessi
vorrebbe cavare per ciascuna sessanta marinari ordinarî, oltre le ciurme
di cento cinquanta persone per galèa, e quanta più si possa gente di
Bonavoglia. Conchiudendo colla somma complessiva di cinquecento ducati
d'oro al mese per ciascuna galèa. La stessa cifra segna il Bosio, ed
ambedue (sottratto lo scioverno) ritornano alle conclusioni dei nostri
documenti a suo luogo prodotti[366].

NOTE:

[359] SEBASTIANO PAOLI, _Codice diplomatico dell'Ordine Gerosolimitano_,
in-fol. Lucca, 1737, II, p. 194. — Diploma esteso, per Malta, Gozo e
Tripoli di Barberia.

BOSIO cit.. III, 80, C: «_Tenore del privilegio della donazione di
Malta, del Gozo e di Tripoli, donati alla Religione da Carlo V, tradotto
dal latino nel volgar nostro idioma eccetera. Dato da Castelfranco
presso Bologna addì 24 Marzo MDXXX, indizione terza, duodecimo
dell'imperio._»

DE VERTOT cit., III, 509: «_Le traité concernant les Chevaliers fut
signé le 24 de Mars à Castelfranco, petite ville du Bolonois. L'Empereur
y déclaroit.... qu'il avoit cedé et donne à perpetuité.... à la dite
religion de St Jean, comme fief noble, libre, et franc les châteaux,
places, et isles de Tripoli, Malthe, et Goze._»

[360] FRANCESCO SANSOVINO, _Annali turcheschi_ e _Vite dei principi
Ottomani_, in-4. Venezia, 1573, p. 242: «_Solimano andò avanti alla
volta di Buda._»

[361] LUIGI GONZAGA (detto Rodomonte), _Stanze a M. Lodovico Ariosto_,
stampate in appendice al _Furioso_, di questi successi nel 1531 parla
così:

    «_Poichè la fiera spada d'Oriente_
    _È quasi giunta a le Tedesche porte;_
    _E volto il tergo al già vinto Occidente_
    _Il mio signor post'ha suo petto forte_
    _Per farne scudo: e chiama all'alta impresa_
    _Italia, Francia, e la romana Chiesa._»

[362] TEODORO SPANDUGINO CANTACUZENO, _Commentari dell'origine e costumi
dei Turchi_, in-8. Firenze, 1551, p. 58, 59.

[363] RAYNALDUS, _Ann._, 1532, n. 20: «_Præter hæc vero subsidia, etiam
duodecim triremes classi conjunxit._»

PAOLO GIOVIO, _Historie del suo tempo_, tradotte da Lodovico Domenichi,
in-4. Venezia, 1608, p. 271: «_Le galèe del Papa col signor Antonio
Doria, loro generale._»

[364] ANTONIO DORIA, _Compendio delle cose di sua notizia et memoria
occorse al mondo nel tempo dell'imperator Carlo Quinto_. Genova, fol.
parv., coi tipi di Antonio Bellone, 1571, p. 48: «_L'anno 1532 ordinò
l'Imperatore che Andrea Doria andasse contro l'armata di Solimano....
con la sua, e dieci galere del Papa, delle quali Antonio Doria era
generale, e quattro della Religione di Rodi sotto il capitano Salviati
prior di Roma, che tutte insieme erano trentotto, con altre trenta
navi._» (Libro rarissimo: esemplare procuratomi dai miei amici di
Genova.)

[365] ANTONIO DORIA, _Discorso delle cose turchesche per via di mare_.

Mss. Casanatense, segnato XX, IX, 8. Inedito.

Carta e caratteri del secolo decimosesto, senza data, ma certamente
composto prima del 1548, perchè vi si parla di Barbarossa vivente. Sono
quattordici pagine di scrittura piena, e comincia: «_Havendo il Turco,
come è manifesto a ciascuno, grandissime forze di danari, di gente, e di
galere...._ (finisce) _Sborsi molta quantità di danari._»



IX. — La scrittura altresì del nostro Capitano parla qui avanti dei
rematori di Bonavoglia, e sorge spontanea la domanda del lettore, che
cerca chi fossero costoro, i quali sotto il grazioso titolo coprivano la
più disperata condizione della vita; e similmente qual colpa o sventura
li menasse al tristo mestiero, e qual legge o costumanza della società
ne reggesse la sorte. Alcuni tra i moderni vorrebbero far le viste di
intenderla questa materia; ma la toccano appena, nè valgono per ogni
caso le loro spiegazioni. E perchè non si può lasciar correre senza
chiarirla una costumanza marinaresca, che ritorna nei classici, negli
storici e nei documenti, ne dirò narrando fatti, e così meglio si
intenderanno le risposte in materia di fatto.

Un giovane robusto e sano, stretto dal bisogno, o dai debiti, o dal
giuoco, o da qualunque (anche onesta) ragione, pognamo di soccorrere i
genitori o di dotare una sorella; in somma chiunque voleva danaro per
quei tempi, purchè fosse robusto e giovane, egli poteva trovare banco
aperto di sicura e pronta riscossione in qualunque città marittima, ove
stanziavano galèe. Andare al provveditore, chiedere, per esempio, cento
monete, era tutt'uno che toccarle; dato che il postulante scrivesse
subito di sua mano coi testimoni l'obbligo di scontarle di buona voglia
col remo in galèa. Dopo di ciò il candidato, messo ai ruoli, vestito
della assisa comune dei rematori, e rasato di ogni pelo, meno i
mustacchi, era condotto a bordo, e messo in catena al suo posto, perchè
la persona sua stesse a mallevaria delle monete[367].

Colà egli aveva il vitto al pari dei marinari: pan fresco o biscotto due
libbre ogni dì, una pinta di vino, tre once di minestra, una libbra di
carne fresca, o mezza di salata; e nei giorni di astinenza sei once di
cacio o di pesce; che tutt'insieme per quei tempi si valutava due scudi
per mese, o scudi ventiquattro per anno, che venivangli pagati a titolo
di razione[368]. Or sopra questi ventiquattro il novello bonavoglia non
poteva fare assegnamento niuno per iscontare il debito dei cento,
bisognandogli consumarli alla giornata per vivere. Quindi non gli
restava che il misero soldo di altri due scudi per mese, cioè di
ventiquattro scudi per anno, coi quali doveva livellare il danaro
ricevuto. Nondimeno bisogna aggiugnergli dispendio coll'obbligo di
vestirsi del suo, e di rinnovare nella primavera d'ogni anno il proprio
corredo, mettendoci all'incirca sei scudi; e precisamente scudi sei,
soldi trentotto, e cinquantotto centesimi di soldo, secondo la valuta
del danaro e dei drappi in quel tempo[369]. Ondechè per saldare col
residuo delle mercedi il debito di cento monete egli era in obbligo di
remigare per cinque anni, sei mesi, e quattro giorni. Supponiamo sempre
regolare il rilascio del soldo: chè se in quella vece ne toccava parte,
o vero se richiedeva ulteriori prestanze (posto che al provveditore
fosse parso continuargliene), allora proporzionalmente, come sopra,
avevano a crescere gli anni dello sconto, e la durata del servigio.

Nello Stato romano era legge il mettere in ogni galèa da venticinque a
trenta di bonavoglia, cioè dire almeno uno per banco. La ragione è
chiara ugualmente dal fatto: chè non essendo costoro nè infedeli come i
turchi, nè disperati come i galeotti a vita, non potevano avere comune
con esso loro l'animo e l'interesse di ribellarsi e di fuggire: ma in
quella vece, stando sempre di mezzo agli altri, dovevano più di chi che
fosse avvertire se alcun trattato di sollevamento si ordisse; e dovevano
dar mano a sventarlo. Certamente avrebbe voluto il turco impadronirsi
della galèa e menarsela coi cristiani legati in Barberia; di che giorno
e notte ciascun di loro farneticava: probabilmente il forzato a vita si
sarebbe, e talvolta si è, unito co' turchi nella speranza di miglior
fortuna. Non mai si è visto che vi consentisse un bonavoglia, essendo
moralmente impossibile che questi entrasse nel rischio della rivolta,
dove aveva tutto a perdere e nulla a guadagnare. Da ciò possiamo
intendere altresì come la interna sicurezza della galèa in gran parte si
posava sulla fede dei bonavoglia. Essi in quella mescolanza di pirati,
di malfattori e d'infedeli, essi erano a frenare gli schiavi, essi a
contenere i forzati, a regolare la voga, a riveder le catene, a guardare
le spalle dei marinari, a scoprire i complotti; ed essi, in caso di
combattimento dubbioso, erano pronti a pigliar l'armi, come più volte è
successo, ed a far traboccare la bilancia in nostro favore. In tal caso
ogni conto saldato subito al ritorno nel porto.

Perciò i governi che solevano tenere armate di galèe davano a destri
uomini il carico di arruolarne in buon dato: e costoro entrando per le
bettole, pei ritrovi degli oziosi, e principalmente per le case di
giuoco, prestavano danari a chi ne voleva, col patto che, non
restituendo a tempo, si avesse a scontare in galera[370]. Laonde allora
tutti i giocatori guadagnavano qualcosa: e chi danari, e chi remi.
Questo metodo si osservava in Napoli, questo in Malta[371], in Messina,
e specialmente in Venezia; dove si armavano talvolta le galèe a
centinaja, per le quali non bastando a quei signori la gente che si
poteva scrivere nella città e nel dominio di terraferma, mandavano
uomini loro a cavarne di Dalmazia, dalle isole Jonie, e sopra tutto
dalle due Sicilie, dove abbondavano i disperati[372]. Colà è ancor vivo
tra la plebe il motto, comunemente anche adesso ripetuto, avvegnachè da
pochissimi ben compreso, col quale sogliono rimbeccare chiunque richieda
dispendio difficoltoso, dicendogli: Vuoi tu dunque che io abbia a
vendermi al Veneziano? Vedete in quali pieghe si nasconde la tradizione
sempre durevole dei fatti strani.

La maggior difficoltà, che sempre incontravasi in Roma, volendo armar
galèe, era la penuria dei rematori. Se squillava la tromba, o se batteva
il tamburo per le strade, facendo la chiamata di soldati, come allora si
costumava, tu vedevi piene in un giorno le compagnie di bella e fiorita
gente; e la gioventù dell'Umbria, del Lazio, della Sabina, delle Marche
e della Romagna seguire a migliaja le bandiere degli Orsini, dei
Colonnesi, dei Savelli, dei Baglioni, dei Pepoli, dei Malvezzi, dei
Farnesi e di altrettali, nelle Fiandre, in Germania, nell'Ungheria, in
Levante: ma sul punto dei remi alla catena, niuno voleva saperne. Tra
poco c'incontreremo col patriarca Grimani alla Prevesa, che per mancanza
di rematori sarà costretto disarmare quattro delle nostre galèe, e colla
gente di quelle rinforzare le altre trenta. Similmente al tempo di Sisto
V, dovendosi armare in Civitavecchia dieci galèe nuove, e non bastando
per far ciurma il vuotare le carceri dello Stato, nè il far venire
centotrenta schiavi da Malta[373], bisognò acconciarsi al metodo della
bisca.

Era allora vivissima e generale la passione pei giuochi d'azzardo: e il
danaro in via dei Banchi per niuna cosa tanto correva, quanto per le
scommesse[374]. Si metteva la posta su tutto: sulla vita e sulla morte
delle persone, sui matrimonî, sulle promozioni, sulle guerre, sulle
paci, sulle cose future, anche illecite. E perchè l'interesse e il
puntiglio volevano vinta la scommessa, non di raro co' tranelli si
faceva di produrre o d'impedire questo o quello, perchè l'esito
rispondesse alla predizione. Basta leggere le istorie particolari di
quel tempo, e più di tutto le leggi, i bandi, e gli editti della potestà
civile e della ecclesiastica nel corso del secolo decimosesto, per
restarne pienamente convinti[375]. Ciò supposto gli arrolatori aprirono
tre giuochi d'azzardo, uno in Trastevere, uno alla Regola, ed uno ai
Monti: con questo però che chiunque perdeva, e non pagava, andar dovesse
a scontare il debito di bonavoglia in galèa. Pensate concorso di
giuocatori! In quelle nottate di primavera una turma di servitori, di
cavalcanti, di stallieri, e di cuochi partivano imbrancati per
Civitavecchia, le galèe ben fornite scioglievano i canapi, e le dame e i
cavalieri e i grandi signori si levavano la mattina senza
domestici[376].

Tiro fuori dagli Avvisi di Roma queste notizie importanti per la storia
dei costumi e della marineria del secolo decimosesto: ed ora avendone il
destro, e dovendo quinci innanzi qualche volta citarli, metto giù alcune
notizie poco comuni intorno ai detti Avvisi, perchè il lettore sappia
donde traggo talora le testimonianze, e come egli possa ordinare i
riscontri.

La prima gazzetta pubblicata colle stampe in Roma è il Diario per le
guerre dei Turchi in Ungheria, che comincia addì cinque di agosto del
1716, e se ne conserva tutta la serie (rarissima collezione) alla nostra
Casanatense. Prima di quello in Roma non si stampavano gazzette. Ma
essendo gli uomini prima e dopo egualmente desiderosi di sapere ciò che
alla giornata succedeva dentro e fuori della città, e non avendone
allora copia a stampa, supplivano colle gazzette manoscritte, che
chiamavano Avvisi. Per essi correvano notizie pronte a chi pagava, e
lucro stabile a chi scriveva. Raccogliere e accertare i particolari dei
fatti interni, e talvolta anche le dicerie della città; tenere
corrispondenza coi paesi lontani, stendere i racconti, cavarne le copie
e distribuirle, era ufficio di quei giornalisti a penna, come dei
moderni a stampa. Anzi più: che non facendosi la distribuzione se non a
personaggi di alto affare, per intramessa e secondo gli interessi di
taluno tra loro, cascavano talvolta nelle pagine degli Avvisi notizie
arcane e importantissime, che difficilmente adesso si cercherebbero
altrove. Quindi le gelosie fiscali e non di raro i sequestri e le
sospensioni degli Avvisi. Certamente ricordo io stesso di avervi letto
del bargello, delle perquisizioni e della prigionia del giornalista in
Tor di Nona; tutto narrato da lui medesimo per iscolparsi al solito
cogli associati sul ritardo di qualche settimana. Non v'ha biblioteca o
archivio importante di Roma che non conservi qualche parte di cotesti
Avvisi: la Casanatense ne ha dieci volumi, altri la Barberiniana, e via
via. Ma la più ampia collezione è nella biblioteca del Vaticano, dove,
oltre alla serie della associazione pontificia, sono colate le altre di
Urbino e degli Ottoboni; più che ducento volumi dall'anno 1554 in poi,
cioè sovente un volume per anno, e alcuni duplicati. L'Avviso usciva
almeno due volte la settimana in quaderni di dodici, sedici e più
pagine: comprendeva sotto la rubrica di Roma le notizie di tutta
l'Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Levante; e sotto la data di
Anversa le notizie di tutta la Germania, Polonia, Ungheria e
Settentrione. Ricca miniera per chi abbia criterio, e sappia lavorare al
crogiuolo, sfiorata a pena dal Mai, verso la quale da più che trent'anni
ho cominciato io col discorso, e poi colle stampe a condurre gli
studiosi, che in Roma istessa non la conoscevano[377]. Valga l'esempio
del primo giornale istorico di Roma, pubblicato nella stessa città
l'anno 1845, dove sono inseriti alcuni brani di questi Avvisi, cavati
dai codici dell'archivio Gaetani. E non sono mica secrete corrispondenze
e private di Gianfrancesco Peranda secretario col suo padrone cardinal
Enrico, come quivi stesso congetturano i Saggiatori[378]: ma veri
frammenti delle semipubbliche gazzette a penna di quel tempo, come potrà
accertare chicchessia, confrontando le parole, i fogli, lo stile, e le
date dei codici Gaetani colle date, e stile, e fogli Vaticani, e
Urbinati, Ottoboniani, Casanatensi, e simili; perchè troverà essere
tutte copie identiche dello stesso originale. Copie che sono state
conservate presso coloro, i quali non avevano bisogno di distruggerle.
Torniamo all'armata.

NOTE:

[366] BOSIO cit., III, 103, A, anno 1531: «_Due galere ben armate di
ciurma, con sessanta huomini di capo per galèa, a ragione di dodicimila
ducati d'oro l'anno; cioè cinquecento al mese per galèa._»

Vedi sopra i docum. e lo specchio a p. 112.

[367] PANTERA, _L'armata navale_, in-4. Roma, 1614, p. 132: «_I
buonavoglia si distinguono dagli altri per i mustacchi non rasi che
portano per segno, essendo nel resto rasi, come gli altri.... gli
schiavi turchi portano una ciocca di capelli sulla sommità della
testa.... i forzati tutti rasi._»

[368] ARCHIVIO CAMERALE DI ROMA, di che vedi all'Indice.

ARCHIVIO DI STATO IN FIRENZE, come alla p. 113.

CODICE Barberiniano cit., ivi:

_Nota di quanto importa la razione di marinaro o di bonavoglia in un
mese:_

  1. Pan fresco o biscotto libbre due al giorno, che
     in un mese sono libbre 60 a soldi 12 la decina      scudi 0,72.

  2. Una pinta di vino (sottosopra un litro), che a
     soldo uno e un terzo fa per mese                          0,40.

  3. Minestra once tre, che per mese sono libbre otto,
     a un soldo la libbra                                      0,08.

  4. Libbra una di carne fresca, o mezza di salata, o di
     pesce, o di cacio                                         0,72.

  5. Olio e sale                                               0,08.
                                                              ——————
                                                         scudi 2,00.

[369] ARCHIVI E CODICI come alla nota precedente.

_Nota delle spese di vestiario per ogni forzato o schiavo o bonavoglia,
all'anno._

  1. Giubba di stametto rosso palmi undici, a scudo
     uno la canna di palmi otto                         scudi 1, 37.50

  2. Canavaccio per fodera palmi sei, a soldi quindici
     la canna                                                 0, 11.25

  3. Tela per due pantaloni, palmi diciotto, a soldi quindici
     la canna                                                 0, 37.75

  4. Tela per due camicie, palmi ventidue a soldi diciassette
     la canna                                                 0, 46.75

  5. Berretto rosso di panno                                  0, 08. —

  6. Cappotto di albaggio in palmi ventuno, a scudi uno
     e soldi venti due e mezzo la canna                       3, 21.33

  7. Calzettoni di albaggio palmi tre, all'istesso prezzo
     di sc. 1.22 ½ la canna                                   0, 27.20

  8. Un pajo di scarpe                                        0, 50. —

  9. Spago per cucire il cappotto                             0, 00.80

  10. Filo per cucire ogni altra cosa, oncia una
      avvantaggiata
                                                              0, 02. —
                                                             ——————————
                                                        scudi 6, 38.58

[370] PANTERO PANTERA (capº. della galea santa Lucia di N. Signore, p.
125 e 230), _L'armata navale_, in-4. Roma, 1614, p. 140: «_Potrà anche
il principe aprire un giuoco pubblico per avere remieri di buona
voglia.... il qual modo è mirabile per far galeotti.... e sebbene pare
che abbia apparenza d'illecito.... nondimeno questo modo si tollera, e
forse giova ai giovani, perchè si domano, ed escono più corretti e più
cauti._»

[371] BOSIO cit., III, 368, A: «_Il Gran Maestro.... tolse a punta
d'onore il riarmare le tre galere.... superando il mancamento delle
ciurme, che era il maggiore ostacolo.... con danari tanti vogadori
maltesi furono accordati, che col rimanente degli schiavi.... furono
bastevoli._»

[372] BARTOLOMMEO CRESCENTIO (romano ed ingegnere idrografo dell'armata
pont. come dalla dedica e dal Portolano, ed alle p. 128, 397, 408) _La
nautica mediterranea_, in-4. Roma, 1607, p. 95: «_Bonevoglie sono gente
vagabonda a chi la fame o il giuoco forzò a vendersi in galèa. I meglio
sono gli Spagnoli et i Napolitani, sì come ancora sono i più._»

[373] BARTOLOMMEO DAL POZZO, _Storia dei cavalieri di Malta_, dal 1570
al 1688, in-4. Verona, 1703, I, 309.

AVVISI di Roma, _Cod. Urbin._ sotto la data 2 marzo 1588.

[374] IL SAGGIATORE, _Giornale romano di storia, belle arti, e
letteratura_, diretto da Achille Gennarelli e Paolo Mazio, in-8. Roma,
1845, IV, 104, e 108: «_Giornale di casa Gaetani delle cose di Roma. —
Cominciano di nuovo a farsi in Banchi altre scommesse sulla promozione
dei cardinali, da farsi a questa Pentecoste: chi dice di sì, chi dice di
no. E quelli che stanno sulla negativa danno il sessanta per cento._»

BENEDETTO VARCHI, _Storie fiorentine_, lib. II, in-8. Firenze, 1843, I,
72: «_Piero Orlandini, come s'usa comunemente nella sede vacante....
aveva scommesso che il card. de Medici non sarebbe papa, e Giovammaria
Benintendi di sì._»

[375] COLLEZIONE di _bolle_, _bandi_, _editti_ e _leggi_ anche in fogli
volanti, dal principio della stampa sino al presente. — Bibl.
Casanatense nel camerino a sinistra, circa sessanta volumi.

[376] AVVISI di Roma, _Codice Urbinate alla Vaticana_, sotto la data del
25 maggio 1588. — (Narra ciò come cosa di fatto, e notissima a tutti in
Roma.)



[1532.]

X. — Nel corso dell'anno trentuno il nostro Capitano aveva apparecchiato
secondo i suoi pensamenti le dodici galèe convenute tra i ministri del
Papa e di Cesare per attaccare gli Ottomani in Levante. Alla buona
stagione del trentadue salpava dalle nostre spiaggie ben fornito d'armi,
di gente e di danaro, e si riduceva nel porto di Messina: luogo
destinato pel ritrovo di tutta l'armata cristiana, che sotto gli ordini
supremi di Andrea Doria doveva operare contro i Turchi. In Messina si
raccolsero insieme più che cento vele: cioè dodici galèe di Roma
condotte da Antonio Doria, quattro di Malta col cavalier Bernardo
Salviati, trentotto imperiali cavate in numero pressochè uguale da
Genova, da Napoli, dalla Sicilia e dalle Spagne; si raccolsero
trentacinque navi, compresa la caracca di Malta, pel trasporto delle
munizioni e degli attrezzi: navi armate in guerra, piene di buoni
soldati, e di grosse artiglierie, e più una ventina di legni minori,
fuste e brigantini, pei servigî minuti[379]. La Caracca di Malta,
chiamata Sant'Anna, fatta costruire dai cavalieri sulle coste di Nizza,
merita di essere specialmente ricordata nelle storie marittime, per
intendere la forma, costruzione, velatura, corazza, forza e armamento
dei grandi vascelli da convoglio nel secolo decimosesto, secondo i
minuti ragguagli lasciatici dai contemporanei. Quanto a grandezza di
scafo, ripeterò le parole del Bosio che la chiama gran macchina,
grandissima nave, e superbissimo vascello da guerra[380]. Sei ponti
coperti: due sott'acqua, uno a livello, e tre al di sopra, compresovi il
cassero e i suoi ripiani di poppa, alti più di venticinque metri
dall'acqua, tanto che il calcese d'una galèa messasi sotto nol
raggiugneva. Attorno logge, gallerie, giardinetti, e vasi d'aranci e di
fiori. Lo scafo per tutta l'opera viva foderato di lastroni di piombo
colla chiovagione di bronzo per manco consumo; e la metallica corazza
molle, secondo la natura del piombo, per difesa dei colpi e degli
squarci in virtù di ammorzamento[381]. La sua capacità si valutava a
diciotto mila salme grosse di Sicilia, cioè tremila tonnellate di
carico, oltre il suo corredo ordinario di artiglierie, armi, e
provvigioni per sei mesi. Tre alberi verticali con tre gabbie
sovrapposte, e grandi pennoni di vele quadre, trevi, parrocchetti, e
pappafichi. Due mezzane alla latina. Gli alberi maggiori imbottati, il
cui piede in coverta misurava dieci metri di circonferenza. Cinquanta
cannoni grossi e colubrine in batteria, altrettanti petrieri, sagri, e
falconetti sul cassero e sulle gabbie, trecento marinari, quattrocento
tra soldati e cavalieri: saloni, camerini, corridoj, cappella, e armeria
con tutto il fornimento di armi offensive e difensive per cinquecento
persone. Gran dire per un vascello che non entrava nella linea, ma
soltanto nei convogli!

[Agosto 1532.]

Dopo gli indugi consueti nel mettere insieme tante cose e tante persone,
finalmente usciva dal porto di Messina l'armata cristiana: Antonio Doria
e le galèe romane di vanguardia, Andrea nel corpo di battaglia con
trentotto galèe, al retroguardo il Salviati colle quattro galèe di
Malta, appresso tutto il convoglio a vela. Navigavano secondo i rilievi
dei promontorî maggiori, dal capo dell'Arme allo Spartivento, al
Rizzuto, alla Leuca, e finalmente allo Schinario del Zante.

Dall'altra parte Omer-Aly (notate il nome[382]) con ottanta galere
rasentava le marine della Grecia per tenere quei popoli in rispetto, e
l'Italia in apprensione. Ed i Veneziani, allora in pace col Turco, non
facevano lamento; ma sotto il comando di Vincenzo Cappello dal Zante con
sessanta galèe ben armate codiavano i movimenti degli Ottomani, senza
molestarli. Venezia, tuttochè sola, e per semplice cautela, aveva sul
mare un'armata più potente che non tutto il resto della Spagna,
dell'Imperio, e dell'Italia in guerra viva. Avvicinandosi i nostri al
Zante, uscivano incontro i Veneziani per fare i saluti: tre divisioni di
venti galèe l'una in ordine di fronte, tutte a remo, e pavesate a festa.
Le nostre galèe appressavansi in tre colonne di tre righe e sei file per
ciascuna: di vanguardia Antonio, nella battaglia il Principe, al
retroguardo il Salviati: le navi alla coda sotto vela a scacchiere.
Venuti a giusta distanza, le colonne passavano tantosto all'ordine di
fronte, così: l'antiguardo di fianco poggiando alla destra stendevasi in
ala da quel lato; la battaglia sottentrava sur una linea nel mezzo, e il
retroguardo arrancando a sinistra quasi a un tratto apriva l'altra ala,
e compiva l'ordinanza di battaglia[383]. Appresso una ventina di palate
per farsi più vicini e meglio e ordinati tutti insieme; e allora spala
remi, affrenella, issa pavesi, fiato alle trombe, e fuoco ai pezzi. I
Veneziani al modo stesso in ordinanza, spalati, affrenellati, e
pavesati, salutavano; e offrivano quanto lor fosse lecito pei trattati:
porti, vettuaglia e ricovero.

Tale il primo incontro di Andrea Doria, divenuto principe e capitano
generale del Mediterraneo per Carlo V, coll'armata navale dei Signori
veneziani al Zante: incontro amichevole e cortese dall'una e dall'altra
parte. Alcuni storici gli mettono in bocca oltracciò una bella parlata,
invitando quei Signori a unirsi seco contro il nemico comune; e un'altra
orazione non meno bella appiccano a Girolamo da Canale, capitano del
golfo e luogotenente del Cappello, per iscusarsene. Baje coteste: niuno
meglio di Andrea doveva sapere non esser lecito, nè onesto, per arbitrio
di private suggestioni tentare la fede dei capitani contro gli ordini
del loro governo in materia così grave come la guerra; niuno conoscere
meglio di lui doversi in tal caso le belle parole portare in senato a
Venezia, non in galèa al Zante.

Dunque passò oltre verso la Grecia, deliberato di cercare e di
combattere l'armata nemica, e di sbrattare il campo di operazione. Ora
per renderci sicuri della viltà dei Turchi sul mare in questo tempo,
basti dire che Omer-Aly, grande ammiraglio, con ottanta galere, non ebbe
ardimento di aspettare le nostre cinquantaquattro: anzi uscito dal golfo
dell'Arta, prima che i nostri si accostassero al Zante, filava rasente i
lidi della Morèa, fuggendo verso Costantinopoli[384]. Andrea seguivalo
lentamente fino a Modone, rimburchiandosi appresso le navi; non senza
mandargli dietro a bello studio sette galere delle migliori, cioè sei di
Roma e una di Malta, tutte sotto il comando del nostro Antonio, perchè
diligentemente osservassero e riferissero del cammino che fatto
avrebbero i fuggitivi; e potendo anche li trattenessero[385]. Ed essendo
arrivato Antonio fino a capo Malèo, e di là all'altura di Nauplia, ed
avendo saputo dai Greci e dai marinari incontrati per via, che Omer-Aly
se n'era passato a Negroponte, e tuttavia più oltre accennava verso i
Dardanelli; tornò a darne contezza al Principe, surto ai ridossi di
Sfragia, che ora diciamo l'isola della Sapienza.

NOTE:

[377] P. A. G., _Marcantonio Colonna alla battaglia di Lepanto_.
Firenze, Le Monnier, 1862, p. 157. (Queste cose medesime in poche
parole.)

[378] IL SAGGIATORE, _Giornale romano_ cit., 1845, t. IV, da p. 65 a 75.

[379] Prese le cifre e le varianti dagli storici che cito continuamente,
Giovio, Sigonio, Cappelloni, Bosio, Bizzarro, Foglietta, ed altri, si
può formare il seguente

SPECCHIO _dell'armata navale e della sua forza nell'anno 1532_.

  Colonne:

  S: Soldati.
  M: Marinari.
  R: Rematori.
  G: Galere.
  N: Navi.
  L: Legni min.
  Cav: Cavalli.
  Can: Cannoni.

              |                     ||
  Contingente |      PERSONALE      ||          MATERIALE
      di      |—————————————————————||———————————————————————————
              |   S   |  M   |  R   || G  | N  | L  | Cav |  Can
  ———————————————————————————————————————————————————————————————
   1. Roma    |  1200 |  720 | 1800 || 12 |  » |  2 |  »  |   60
   2. Genova  |  3600 | 1440 | 1800 || 12 | 12 |  5 | 100 |  348
   3. Napoli  |  3000 | 1200 | 1500 || 10 | 10 |  6 | 100 |  290
   4. Sicilia |  1800 |  700 | 1200 ||  6 |  5 |  3 | 100 |  160
   5. Malta   |   800 |  240 |  450 ||  4 |  1 |  1 |  »  |   65
   6. Spagna  |  2400 | 1020 | 1500 || 10 |  7 |  4 | 100 |  218
              |       |      |      ||    |    |    |     |
              |—————————————————————||———————————————————————————
     _Totale_ | 12800 | 5320 | 8250 || 54 | 35 | 21 | 400 | 1141
  ———————————————————————————————————————————————————————————————

                        Uomini           26,370
                        Legni               110
                        Cannoni            1141
                        Cavalli             400

[380] Bosio cit., III, 150. — (Di _Caracca_, vedi indietro a p. 84.)

[381] P. A. G., _Medio èvo_, alla voce _Corazza_. — E _Navi romane_,
terza ediz., p. 7.

[382] BOSIO, III, 114, B: «_Generale dell'armata turchesca Imer Ali._» I
cronisti, e i latinisti in vece di Omer-Aly scrivono _Omerale_,
_Umerale_, e simili.

DE HAMMER cit., IX, 211, lo chiama _Ahmed-beg_.

[383] BIZARUS cit., 491: «_Acierum ordo explicatur.... Antonius Auria,
qui primo præerat agmini, in dexteram sensim deflectit.... Andreas
introrsum.... Salviatus ad lævam concitavit remiges.... Æquata omnium
triremium fronte._»

GIOVIO cit., 269.



[Settembre 1532.]

XI. — Vedendo pertanto gli alleati non esserci modo di venire a naval
battaglia, e già certi della propria superiorità per la ritirata del
nemico, volsero l'animo ad alcuna impresa di terra. E chi un luogo, e
chi un altro proponendo, finalmente la maggioranza deliberò seguire il
parere di Antonio Doria generale di Roma, anzi che del Salviati generale
di Malta, il quale per onore della sua bandiera avrebbe voluto tornare a
Modone, inutilmente da lui preso e perduto l'anno avanti. I voti adunque
furono per espugnare la fortezza e città di Corone nella Messenia,
presso alle rive del Pamiso. La città sorge sulla pendice estrema del
monte Termazio, che fa punta avanzata dentro il mare a scirocco, ed è in
due parti distinta: la bassa alla riva, chiamata Isola, ma non è tale; e
l'alta verso il monte detta Castello, perchè afforzata da una rôcca:
divise tra loro da una muraglia intermedia; ed ambedue recinte di
antiche cortine, ma forti; fiancheggiate da torrioni rotondi, grossi ed
alti. Dista quindici miglia da Modone, seguendo la via spedita di terra;
e più del doppio dista per mare, dovendosi tutta circuire la sporgenza
che da quella parte fa il capo Gallo. Le due insenate al piè della città
offrono due buoni ancoraggi, che l'uno ha per traverso i Libecci, e
l'altro i Grecali; tanto che passando dall'uno all'altro ogni naviglio
facilmente si mette a ridosso; e di più in quest'ultima parte, che è
alla sinistra della piazza, restano ancora gli avanzi di un vecchio molo
e di sponde murate con fondale e capacità sufficiente per otto o dieci
galèe[386]. La profondità del mare è sempre direttamente proporzionale
all'altura del terreno e dei monti circostanti[387].

I nostri capitani che ben conoscevano ed avevano rivedute le condizioni
della piazza, le qualità del terreno, e gli scandagli delle rive
circostanti (notizie di prima levata per questa specie imprese)
ordinarono l'attacco da ogni parte, cioè dalla terra e dal mare, con
tutte le forze. Lo sbarco a destra e a sinistra: di qua gl'Italiani,
sotto Girolamo Tuttavilla conte di Sarno; di là gli Spagnuoli, sotto don
Girolamo di Mendoza: gli uni e gli altri di notte ad aprire le trincere
ed a piantare le batterie contro la piazza.

Dalla parte del mare, volendo io descrivere la manovra dell'armata, mi
bisognerà mettere insieme il racconto dei contemporanei, le teorie
dell'antica tattica navale, e il dipinto dell'attacco, opera di Lazzaro
Calvi sopra certe grandiose tele che una volta stavano nel guardaroba
del palazzo Doria a Fassuolo, ed ora incorniciate adornano la galleria
del palazzo di Pegli[388]. Il chiaro archeologo della marina francese A.
Jal, che le ebbe vedute in Genova assai prima del trasporto, e molto
meno danneggiate, descrive la rappresentanza dell'attacco, dipinto nella
più antica tra le predette tele, e dice così[389]: «Si vedono le navi
sotto vela battere le fortificazioni alla destra di Corone, ed alla
sinistra combattere le galere. Una squadretta di sei galere si avanza di
fronte, e un'altra squadretta di sei vedesi appresso, attaccate ambedue
di rovescio da poppa a poppa con due gomene. Non intendo questa
ordinanza, e la mia sagacità non arriva a comprenderne la ragione.... Ma
cose simili non si inventano, massime quando si dipinge in casa Doria.»
Mi fido io di mettere adesso all'evidenza tutta intiera la spiegazione
del dipinto e della manovra, come altrove ho promesso[390]. E quantunque
già n'abbia dato indizio sufficiente, comparirà ora meglio il merito dei
pittori genovesi e dei principi Doria: per opera dei quali, artisti e
mecenati, noi vedremo che non solo in quella casa e sotto gli occhi di
tali padroni non si dipingevano assurdità nautiche, ma che di proposito
si voleva conservare il ricordo dell'arte antica, perchè avesse a
tornare utile agli studiosi del tempo futuro, come è stata più volte
posta in opera con felice successo nei tempi passati.

Dunque se vuoi comprendere gli ordini che si preparano per battere la
città dalla parte del mare, guarda prima le navi che di verso libeccio,
scorrendo e ronzando sotto vela, dovranno aprire il fuoco, come sempre
si costuma. Poi vedi i barconi maggiori dell'armata, coperti da doppio
tavolato a pendìo per difesa della gente e dei rematori, che dovranno a
tempo opportuno cacciarsi sotto alle scarpate della piazza, e gittare i
ferri tra gli scogli, perchè le galèe dell'assalto vi si possano
facilmente tonneggiare[391]. Appresso considera i ponti volanti
preparati sulle stesse galèe colle antenne loro medesime appajate, e
sostenute, e condotte qua e là dalle medesime loro manovre rinforzate,
cioè dagli amanti, dalle oste, e dai bracotti di orza e di poggia[392].
Finalmente osserva le galèe scelte per la batteria, colle antenne
abbassate, secondo il sistema dei nostri maggiori, i quali usavano
mainare tutto ed anche disalberare, quando navigavano celatamente a
remo, o battevano fortezze; e ciò per rendere più difficile la scoperta,
e per ricevere danni minori nell'attrezzatura[393].

Attendi meglio al punto capitale, dove incontri assortite per battere
trentasei galèe divise in tre gruppi di dodici l'uno, ed ogni gruppo in
due sezioni di sei galèe addossate a rovescio da poppa a poppa; e vedi
due gomene distese tra ogni coppia: e intenderai che tutte le galèe di
batteria, sempre pronte ad ajutarsi vicendevolmente di rimburchio,
avranno a moversi del continuo per non restarsi a punto fermo come
bersaglio sotto al fuoco del nemico. La prima sezione di sei andrà
contro la piazza di prua per battere, e la seconda starà di poppa per
tirar fuori la prima; e quindi per voltarsi, sempre a contrasto chi
dalla destra chi dalla sinistra, a riguardo di tenersi sempre appoppati
e di non impigliar mai il palamento tra i calumi laschi delle gomene; ma
di poter liberamente sottentrar di prua, e ribattere, e ritirarsi, e
poscia ritornare; movendosi sempre in giro, caricando, e sparando
alternamente or l'una or l'altra sezione; e aiutandosi a vicenda, ora
col remeggio proprio, ora col rimburchio altrui: e ciò specialmente nel
caso di avaria. Partiti ingegnosi dei nostri marini del tempo andato,
che non hanno bisogno di troppa sagacità per essere intesi, come ci
vengono dalle teorie tecniche, dagli storici contemporanei e dai
dipinti[394]. Partiti che vedremo ripetuti più volte, specialmente alla
Goletta di Tunisi e al Castelnovo di Dalmazia. Partiti, che si
pigliavano quando si avevano molte galèe, e piccola fronte da battere;
non volendo fare troppo lungo raggio nè troppo lontano il cerchio della
batteria; nè mettere troppo da presso e fermo il navilio alle percosse
dei nemici. In somma tutto questo è l'apparecchio precisamente per
Corone, dove vogliamo entrare.

NOTE:

[384] ANTONIO DORIA cit., 48: «_Non havendo.... l'armata di Solimano di
ottanta galere.... osato aspettare quella dell'Imperatore, se ne fuggì
verso Costantinopoli._»

[385] GIOVIO cit. 269: «_Gli mandò dietro il signor Antonio Doria con
sette buone galere che lo perseguitasse._»

BOSIO cit., 114, C: «_Spedì appresso Antonio Doria con sette galere
spalverate, fra le quali andò la galera della Religione chiamata il
Gallo._»

BIZARUS, 492: «_Antonium Auriam cum delectis septem triremibus, qui
persequeretur, misit._»

[386] CORONELLI, _Piante di città e fortezze_, in-fol. Venezia, 1869, t.
I, tav. 161 e t. II, 232, 252. — (Bellissime piante e prospetti di
Corone.)

TEATRO _delle guerre contro il Turco_, dove sono le piante e le vedute
delle principali città e fortezze di Morèa, ecc., in-fol. Roma,
Giangiacopo de Rossi alla Pace, 1687, tav. 77, 78. — Bibl. Casanat., Y.
I. 13.

CAPTAIN A. I. MANSELL, _R. N. West coast of Morea Koron's Anchorage_,
gran-fol. Londra, 1865, pubblicato dall'ufficio idrografico
dell'Ammiragliato, e venduto da I. D. Potter, agente di detto ufficio,
n. 31, Poultry, e n. 14, King Street, Tower Hill.

[387] VALERIUS FLACCUS, _Argonaut._, I., v. 580:

    «_Quot in ætera surgit_
    _Molibus, infernas toties demissa sub undas._»

[388] ANTONIO MERLI, e L. T. BELGRANO, _Il palazzo del principe Doria a
Fassuolo_, in-8. con magnifiche tavole. Genova, 1874, p. 54.

[389] A. JAL, _Archéologie navale_, in-8. Parigi, 1840, I, 438: «_J'ai
trouvé dans les peintures du garde-meubles de la casa d'Oria à Gênes une
représentation très-curieuse de l'attaque de Coron en 1533_ (leggi 1532)
_par la flotte combinée espagnole, génoise, papale et malthaise.... On y
voit les naves combattant sous voiles la partie droite des
fortifications, pendant que les galères combattent la gauche.... un rang
de six galères, derrière lequel est un second rang de six autres galères
attachées poupe à poupe par deux gomènes.... Arrangement dont la cause
échappe à ma sagacité.... On n'invente pas des choses pareilles....
surtout quand on peint dans le palais d'Oria._»

IDEM, I, 13. Parla del dipinto esprimente il fatto di Corone.

[390] P. A. G., _Le due navi romane del bassorilievo portuense_ nelle
tre edizioni, e specialmente nell'ultima, a p. 99, 100.

[391] BIZARUS, 493: «_Naves circumductæ in amplissimam coronam....
Scaphæ pluteis et asseribus protectæ, ancoras provehi et in littus ad
scopulos collocari jubebat._»

SIGONIO, 148.

GIOVIO cit., 270.

[392] BIZARUS, 493: «_Pontes paribus antennis impositi, tabulisque
constrati a fronte prominebant ita ut summitati mœnium æquarentur._»
— CAPPELLONI cit., p. 50.

[393] CRESCENTIO, _Nautica_ cit., 120: «_Come si fa per disarborare la
maestra e quando._»

PANTERA, _L'Armata navale_ cit., 310: «_Facendo ammainare le vele e
disarborare l'albero della maestra, e andar le galèe l'una dietro
l'altra._»

MARCO GUAZZO, _Storie_, in-8. Venezia, 1549, p. 153: «_Doria.... tolte
seco sei galere del Papa.... che punto non parevano per essere dette
galere disalberate.... et dipoi fece disalberare trenta altre galere._»

[394] BOSIO cit., III, 147, A: «_L'ordine nel battere Corone.... le
galere in tre squadre.... disarborate.... accordandosi a schiera a
schiera.... andavano sotto, sparavano.... e poi ritirandosi davano luogo
alle altre per ritornare di nuovo, secondo l'ordine._»

JOVIUS, _Hist._ in-fol. Basilea, 1578, p. 285: «_Triremes rostratæ per
acies tripartito agmine succederent, displosisque tormentis, sequentibus
locum darent._»

RAYNALDUS, _Ann._, 1535, n. 50: «_Auria disposuit ut rostratæ sibi per
vices tripartitæ succederent, displosisque tormentis, cederent locum
sequentibus._»

MARCO GUAZZO cit., 247: «_Le galèe a quattro a quattro dovevano battere,
e poi voltarsi a dar luogo alle altre, e così di mano in mano._»



[21 settembre 1532.]

XII. — Disposta, come abbiam detto[395], ogni cosa, e favoriti in tutto
dai Greci[396] finalmente la mattina del ventuno di settembre le
fanterie italiane e le spagnuole sbarcano dalle opposte parti, e
ciascuna nazione pianta la sua batteria di sette pezzi. Il Tuttavilla a
sinistra dal lato di greco, e il Mendoza a destra da quel di
libeccio[397]. Le navi in gran cerchio circondano la punta Lividia,
pronte ad aprire il fuoco con tutto il loro cannone, non solo dai
fianchi, ma dalle gabbie altresì della Grimalda e della Rodiana, dove
sono stati allogati due sagri e due falconi[398]. Le galere in tre
gruppi di due sezioni, messe a rovescio, come ho detto, si accostano
dalla parte del molo. Tra quelle sezioni e quei gruppi Antonio Doria
alla testa e le galere romane sulla destra[399]. Gli altri legni
maggiori e minori in attenzione all'intorno, di riserva, di soccorso, e
di assalto.

Al cenno del Principe tutti i pezzi tuonano da terra e da mare, con sì
gran furia e tanto effetto, che in poco tempo cadono le difese, e il
presidio resta muto. In quella il conte di Sarno, pensando aver breccia
sufficiente, conduce i fanti italiani alla prova. Grande animo
dimostrano e maggior costanza: tre volte rimettonsi al cimento e tre
volte ne sono risospinti. Alto di troppo il muro, corte le scale,
ostinati i Turchi. Suonano a raccolta, e le fanterie si ritirano, morti
trecento giovani, e più del doppio feriti: caduto tra i principali
Teodoro Boschite, già famoso condottiero di stradiotti nelle guerre
d'Italia, caduto il capitan Francesco Carnao di Napoli, ed il capitan
Giacomo da Capua; e per una archibugiata venutagli dall'alto pesto un
occhio e strappata la lingua all'alfiero Capani. Il Mendoza dall'altra
parte, non avendo apertura, o trovandola malagevole, con accorto
consiglio non si mette all'azzardo.

Se non che in questa maniera d'imprese la fortuna sempre risponde ai
voti dei marinari; e così nel presente cimento loro riserba la vittoria.
Finito il riddone delle trentasei galèe appoppate, avanzano le diciotto
dell'assalto presso alla sponda, dove fa punta il torrione maestro della
piazza, che ancora vi sta col piede in acqua profonda[400]; mandano i
ferri colle barche imbarbottate, e tirandosi cogli argani sempre più
sotto alla scarpata del torrione, issano le antenne, fanno indietro il
carro, volgono avanti la penna, e lasciano andare l'abete sui parapetti
nemici. La scala pei marinari è fatta, e il passo aperto. Montano dal
calcese alla penna, avanzano cavalcioni coll'armi tra i denti: saette,
archibugiate, e grida di chi cade e di chi salta. In breve agguantano e
si raggavignano ai muri e mettonsi sulla piazza. Primo di tutti colla
bandiera in mano un giovanetto genovese, mozzo della nave Grimalda[401];
appresso un soldato del galeone d'Otranto, indi Lamba Doria, e via via
ogni altro a gara colle armi e colle bandiere si spandono per le
muraglie dell'Isola, e costringono i Turchi a fuggirsi nel Castello.

Non mi maraviglio punto che il commendator Jacopo Bosio mandi sulle mura
di Corone prima di ogni altro i suoi cavalieri di Malta[402]: sì bene
maravigliomi del Guerrazzi, tanto democratico, che mi tiene addietro
quel povero mozzo di oscuro nascimento, ma di chiarissimo valore, per
mandargli innanzi il patrizio Lamba Doria[403]. Vorrei io potere
incidere il nome di quel giovane sulla corona murale che egli si meritò,
se qualche pietosa penna prima di me l'avesse scritto. Ma nobile o
plebèo, noto o innominato, genovese o romano, scevro d'ogni
parteggiamento, non fia mai che tolga cui si deve l'onore e il merito;
nè che attribuisca ai miei più che non trovi fermo per la testimonianza
dei contemporanei, esaminata a fil di critica. E quantunque Antonio
Doria ed altri diano il primato a quei delle galere del Papa[404] non mi
lascio pigliare alla imbeccata; perchè il primo non può essere nel
numero del più, perchè lo slancio compete a' giovani, e perchè un
Giovio, un Bizarro, ed altrettali non possono esser sospetti di falsità
quando mettono un mozzo innanzi a un Lamba.

NOTE:

[395] INDICE in fine, alle voci _Castelnuovo_, e _Goletta_.

[396] BIZARUS, 493: «_Hortantibus maxime Græcis, qui ad nostros
cupidissime transierant._»

[397] BIZARUS, 493: «_Tuttavilla duceret italicas cohortes, et læva
parte supra molum quateret septem tormentis.... Mendocius cum Hispanis a
dextera.... totidem tormentis aggrederetur._»

[398] BIZARUS, 493: «_In summis carchesiis duarum navium maximarum,
Grimaldiæ scilicet et Rhodiæ, sacri falconesque bini constituti._»

[399] BIZARUS, 493: «_Pontificiæ triremes.... Antonio Auria deposcente,
dexterum cornu tenuere._»

GIOVIO cit., 271: «_Ma le galèe del Papa al dirimpetto, richiedendo ciò
Antonio Doria, tennero il corno destro._»

[400] W. H. SMITH, _Mediterranean_, Londra, 1854, p. 59: «_The City of
Koròn.... the shores are exceedingly bold-to, there being a dept of 120
fathoms at a short distance from the shore._»

[401] BIZARUS, 494: «_Primus vexillum defixit imberbis juvenis Ligur,
genere humilis, sed eo saltu clarus.... proximus miles ex hydruntino
galeone, ac demum Lamba._»

GIOVIO cit., 272: «_Fu il primo un giovane sbarbato genovese della nave
Grimalda.... il quale piantò lo stendardo su la muraglia dei nemici....
appresso un soldato del galeone d'Otranto e Lamba genovesi ambedue._»

[402] BOSIO cit., III, 115, C: «_I cavalieri di san Giovanni furono i
primi a montare sopra le mura di Corone.... a forza di mani e di braccia
fu necessario che vi rampecassero_ (sic.)»

[403] F. D. GUERRAZZI cit., _Vita di Andrea Doria_, I, 277: «_Macchine
che prolungandosi si andarono a posare a modo di ponti sul parapetto
delle opposte muraglie.... Sopra cotesto aereo calle primo si
avventurava, e primo attinse le opposte mura Lamba Doria_» (e buci!).

[404] ANTONIO DORIA, _Compendio_ cit., 48: «_A Corone il giorno di San
Matteo del trentadue, dandosi l'assalto in un medesimo tempo da tutte le
parti, entrarono prima quei delle galèe del Papa, dalla parte che si
chiama Isola._»

DE HAMMER cit., IX, 210: «_Trecento soldati italiani perirono dalla
parte di terra, più di mille furono feriti: ma più felici furono i
soldati delle galere papali che, dalla così detta Isola, penetrarono
nella città._»



[22 settembre 1532.]

XIII. — Pel rumore di tanta guerra i Turchi delle città e castella
circonvicine trombarono a stormo, e levaronsi in arme per soccorrere
Corone, divisando sfondare il quartiere del Tuttavilla, entrare nel
Castello, sciogliere l'assedio, e ricuperare la città bassa che s'era
perduta. Buono pel Conte che nella notte, facendo diligentissima
guardia, potè cogliere al varco una spia, e cavargli di dosso le
lettere, dove si diceva tutto per filo l'ordine che nel dì seguente i
nemici avrebber tenuto per sorprenderlo. Il Tuttavilla pensò cavar
partito dall'avviso: fece lavorare tutta la notte alle barriere del
campo, e condusse la zappa ai traghetti, e grandi tagliate aprì sul
terreno a mo' di quei trabocchetti che gl'ingegneri militari chiamano
Buche di lupi; poi coprì ogni cosa di pertiche sottili, di canne, e di
sarmenti; e si tenne in punto per ricevere i Turchi come si conveniva, e
per finire nello stesso giorno l'espugnazione.

Alla prima luce del seguente giorno ventidue di settembre, ecco un
capitano rinnegato di nome Tòdaro sopracchiamato Tredita, perchè tante e
non più gliene rimanevano nella destra (quantunque a larga mano
compensato dai nostri scrittori colle solite varianti _Tudàr_, _Tadare_,
_Zadare_, _Tridigito_, _Trigidito_, _Tridito_, _Tradito_); eccolo, dico,
con settecento cavalli venirsene di buon trotto verso Corone; ed ecco i
nostri a menarselo di qua e di là per la campagna, infino ai traghetti
preparati. Prima le galèe a cannonate lo cacciano dalla strada della
marina, poi il capitano Spinola gli sbarra la via del Borgo, e lo gitta
a monte dall'altra parte, e in ultimo Pietro Frangipani, barone della
Tolfa e conte di san Valentino, con trecento archibugeri gli si lancia
dietro per farlo correre più presto. Tòdaro trovato contrasto dalle
altre parti, e vedendo sguernita la via maestra di verso il Castello,
che nei suoi divisamenti teneva per ultima, sprona di gran galoppo per
guadagnare la porta. In quella furia, stando amici e nemici a
riguardare, ecco improvvisamente sparire una squadra, come se fosse
ingojata dalla voragine; poi sparire una seconda, e una terza, e gli
altri appresso accatastarsi rovescioni cavalieri e cavalli nelle fosse.
Ecco d'ogni intorno uscire i nostri soldati a far prigioni quanti ancora
sopravvivono all'acciacco e allo scorno. E Tòdaro restarsi tutto pesto
nel fondo[405].

Pensate le speranze del presidio dove fuggirono a quella vista! Lo
spavento e la penuria delle munizioni produssero l'effetto. Uscì la
bandiera bianca, uscì la guarnigione a buoni patti, e la città tutta
intiera venne quello stesso giorno in poter dei Cristiani.

Il Principe e tutti gli altri di terra e di mare nelle varie fazioni
dell'assedio mostrarono senno e bravura da eguagliare ciò che si legge
degli antichi, e da non aver pari altrove nella marineria di quel tempo.
Arrogi la moderazione dei capitani in tutta la condotta di questa
campagna, e specialmente la rigorosa osservanza dei patti, rispetto
all'onore, alla roba e alle donne, anche dei Turchi; gastigando
severamente in pubblico qualunque soldato o marinaro si fosse ardito
mancare alla disciplina e violare le convenzioni. In somma si voleva
mantenere incorrotta appo tutti, amici e nemici, la fama di giustizia e
di fede: perchè gli stessi Turchi, tanto differenti di religione, di
costumi e d'ingegno, conoscessero chiaramente alla prova come i
Cristiani, oltre alla valentia nell'armi, avessero anche umanità, fede e
temperanza nella vittoria.

NOTE:

[405] GIOVIO, 272: «_Avendo tagliato la via maestra, vi avevano tirato
una fossa a traverso.... Mandato il signor Pietro della Tolfa con
trecento archibugeri.... i Turchi spingendo i cavalli.... cadevano nella
fossa._»



[23 settembre 1532.]

XIV. — La mattina seguente, come surse il sole dal mare rimpetto al
torrione del primo ingresso, la salva dei cannoni salutò la levata dei
tre nuovi stendardi sulle mura della piazza. Le chiavi di Roma, la croce
di Malta e l'aquilone dell'Imperio ondeggiarono insieme per
dimostrazione pubblica di possesso[406]. Imperciocchè di unanime
consentimento i capitani in consiglio avendo deliberato mantenere la
piazza a beneficio del cristianesimo ed a base di future operazioni,
incontanente il Principe fece risarcire le mura, crescere l'artiglieria,
deporre nei magazzini abbondanti provvigioni da guerra e da bocca,
presidio spagnuolo di mille fanti, e governatore delle armi don Girolamo
di Mendoza. Al quale, perchè ci si adattava di mala voglia, il Principe
in fede di cavaliero cristiano promise soccorso in qualunque estremo
bisogno, anche a private sue spese, se mai fosse assalito dai Turchi.

[1 ottobre 1532.]

Intanto spediva otto galere scelte nell'arcipelago, perchè scorrendo
quei mari pigliassero informazioni più fresche dell'armata nemica, non
forse avesse a disturbare improvvisamente tornando le altre imprese che
si divisavano. Andarono col cavalier Salviati le tre galere di Malta,
una di Genova, e quattro di Roma; che molto volentieri, come nipote di
sua Santità, lo seguirono[407]. Il resto dell'armata sciolse da Corone,
fece l'acquata a Navarino, e si presentò a Patrasso, città dell'Etolia,
allora squallida come tutte le altre invase dai Turchi, e ai nostri
giorni rifiorita, al pari dei tempi antichi, ricca di commercio,
frequentata dai navigli, ed abbellita da trentamila Ellèni che ancora ti
mostrano i classici profili del tempo di Pericle, resi più e più
cospicui dal pittoresco vestimento nazionale. L'albergo delle tre
potenze mi ricordava il risorgimento della Grecia, e l'altro di costa la
vicinanza dell'Italia.

[12 ottobre 1532.]

Sulla riva della gran rada si attelò l'armata nostra, e sull'atto pose
in terra cinque mila uomini in arme. Ma i Turchi avevano prestamente
sgombrato la città bassa, e colle loro donne e fanciulli eransi ridotti
all'acropoli, allogando alla rinfusa la turba imbelle in una grande
opera esteriore, che a guisa di falsabraca circondava il castello con un
muro ed un fosso. Dunque avanti colle trincere: avanti, che snuda la
spada il conte di Sarno. Mille archibugeri a levar di posto i difensori,
cento bombardieri ad aprire la breccia, le ciurme in giornèa alla
fascina per la colmata. Presto vien giù la vecchia muraglia esteriore,
presto si livella il passaggio nel fosso. Primo vi salta Giovanni
Cavaniglia, giovane cavalier napoletano, secondo il conte di Sarno con
tre alfieri e tre bandiere, appresso le compagnie in colonna. I Turchi
abbandonano il ridotto esterno, come già avevano lasciato la città. Gran
cosa la prestezza e l'ardimento nelle fazioni di guerra, gran forza
l'esempio dei fatti precedenti, gran peso il precipizio di chi comincia
a cadere.

Resterebbeci ora la difficile espugnazione del castello sulla rocciosa
cima del monte; se i Turchi, alla vista miserabile delle femmine e de'
bambini in strida e in pianti, e senza provvigioni da sostentarsi
lungamente, non venissero a sollevarci, offerendosi pronti di
capitolare. Sono dunque ricevuti liberi, salvo l'onore delle donne, i
panni di dosso a ciascuno, e il passaggio assicurato a tutti pel golfo
di Lepanto. Patti gelosamente mantenuti, e sanzionati col capestro al
collo di tre o quattro sciaurati che eransi arditi di mettere le mani su
certe donnette, e di rapirne gli ornamenti[408].

NOTE:

[406] BOSIO cit., 116, A: «_S'arborarono sulla porta medesima tre
bandiere, cioè del Papa, dell'Imperatore, e della Religione di San
Giovanni._»

[407] BOSIO, 116, B: «_Spedito havendo il prior di Roma Salviati con
quattro galere della Religione, ed altre quattro del Papa._»



[15 ottobre 1532.]

XV. — L'istesso giorno tornarono dall'arcipelago le otto galèe degli
esploratori, riportando liete notizie: Omer-Aly essersi ritirato a
scioverno in Costantinopoli, niuna armata inimica sul mare, averlo essi
corso da padroni infino ai Dardanelli, fatto sbarchi, preso prigioni, e
menatasi appresso una grossa nave carica di vittuaglie e di munizioni,
tolta al sostentamento della fortezza di Modone. L'istesso Salviati,
venuto in terra, prendeva la vanguardia della scorta intorno ai
prigionieri, quasi tre mila persone, che scendevano dal Castello alla
marina; il Principe seguiva il convoglio alla coda, con imperioso
contegno e severo, mostrando dalle ciglia aggrottate la ferma
deliberazione di punire qualunque violasse punto della capitolazione.

Da Patrasso alle bocche di Lepanto sono cinque miglia marine, nel corso
delle quali avrai sempre dinanzi luoghi e prospetti di alta rinomanza
nella storia antica e nella moderna. Sul piano alla sinistra biancheggia
Missolungi presso alle rive dell'Ellade, dove Marco Botzaris brilla
ancora nella disperata difesa. Più oltre di fronte sfuma di lontano il
promontorio Azziaco, dove Agrippa affermò il trono di Augusto. Appresso
trovi le memorie di Pirro e di Pompèo. Nel mezzo il campo, dove fu
combattuta la famosa battaglia di Lepanto. Vedi quegli irti scogli alti
e spessi sorgere a picco dal mare? Sembrano piramidi di rilievo sui
piani del deserto, o seguenza di grandi capanne attelate lungo i pascoli
della campagna romana. Sono desse, le Echinadi degli antichi, le
Curzolari del tempo più vicino, le testimonianze delle nostre vittorie.
Dai due lati a squadra vanno ad incontrarsi nello stretto le coste
dell'Epiro e del Peloponneso, e di là si entra nel golfo nascosto che
corre lungo e sottile da Lepanto infino a Corinto, circondato da alti
monti e chiuso in fondo dalle pendici dell'Elicona e del Parnasso. Alla
bocca del golfo erano da tempo antichissimo due torri di guardia; e
queste, prima da Bajazetto e poi da Solimano, accresciute e rinforzate,
hanno preso la forma di giuste fortezze. La prima che incontri
sull'estremità del Peloponneso, oggi Morèa e provincia di Etolia,
chiamasi Rio, l'altra Antirio, che gli sta di rimpetto sul margine
dell'Epiro, oggi Rumelìa, e provincia di Acarnania. I due castelli,
arroncigliati al piede de' due promontori sull'estrema lacinia dalle
alte e precipitose montagne, sporgono dentro nell'acqua, come per
azzannare insieme il passo del golfo. Puoi vedere, nell'uno e
nell'altro, bizzarra miscela di militare architettura vecchia e nuova;
torri rotonde e quadrate, baluardi sfiancati e di punta, muraglie di
macigno e di ciottoli, merlature antiche e troniere nuove; e
specialmente dabbasso la lunga filiera delle batterie casamattate, colle
strombature ad archetti, le quali sono di fatto la miglior difesa della
bocca, e potrebbero in quel breve tratto non solo ridurre a pezzi
qualunque bastimento si ardisse tentare il passo, ma potrebbero quasi i
due Castelli distruggersi l'un l'altro, se avvenisse mai che avessero a
contrabbattere tra loro. Alcuni li chiamano Dardanelli: chi legge sia
cauto, quando si parla delle bocche e castelli di Morèa, a non
confonderli con quei della Troade, nè con altri simili[409].

Verso il primo di questi castelli sciolse il Principe con tutta
l'armata: ed alle fanterie sbarcate già in Patrasso ordinò di venirsene
allo stesso segno per la via di terra: brevissima marciata, come ho
detto. Sperava per la presente fortuna aprire il golfo alla navigazione
dei Cristiani e schiudere nuova strada da entrar più dentro nelle
viscere della Grecia. Preceduto dalla fama di Corone e di Patrasso, vi
giunse per la via di mare prima dei fanti; e trovò i Turchi di Rio pieni
di sgomento, e i Greci tra mezzo a dar loro buoni consigli, perchè se ne
andassero in pace. Quindi per accordo, tanto prestamente uscì fuori il
presidio turchesco, che i marinari poterono abbottinare il misero avanzo
delle private masserizie lasciatevi dai nemici nella fretta, prima che
le fanterie arrivassero a parteciparne. Però costoro punti dall'invidia
e dall'avarizia si ammutinarono; e gittaronsi pazzamente alla campagna,
rubando a tutti, così a' Turchi, come a' Greci.

Pericoloso e tristo episodio, che poteva produrre funeste conseguenze,
se il conte di Sarno colle buone, e il principe Doria colle brusche, non
avessero ridotto i sediziosi a sommissione. I quali prestamente sgannati
della speranza del bottino, anzi consumate le proprie vittuaglie, e
meglio riconosciuta la colpa, si arresero alla mercè. Minacciò il
Principe la decimazione alla maniera romana: nondimeno, per quei
rispetti che ciascuno intende, rimise l'effetto ad altro tempo, dicendo
che intanto passassero tutti nell'Etolia all'acquisto del secondo
Castello; e là si vedrebbe chi fosse da vero pentito, e chi volesse
colle susseguenti opre migliori cancellare la vergogna del misfatto
precedente.

NOTE:

[408] BIZARUS cit., 495.

BOSIO cit., 116, C.

[409] VILLIAM H. SMITH rear-admiral. _The Mediterranean_, in-8. Londra,
1854, p. 51: «_The entrance of the gulf defended by two castles of
projecting form, which are distant a mile and a half from each other,
and are known as the Dardanelles of Lepanto_ (_Rhium, and Antirrhium._)»

CORONELLI, _Piante di città e fortezze_, tav. 52, 122, 134, 169: «_Bocca
del golfo di Lepanto, Dardanello di Grecia da Mezzogiorno. Dardanello
Molicrèo. Golfo di Patrasso. Dardanelli di Lepanto. Dardanello di Rio._»
— P. A. G., _Giornali di viaggio_, Mss.



[20 ottobre 1532.]

XVI. — Già il conte di Sarno aveva passato lo stretto per investire
Antirio, e più volte si era affrontato coi nemici di dentro, e coi
cavalli venutigli addosso da Lepanto: ma pel tumulto di Rio e per
l'ammutinamento dei soldati, aveva dovuto tornare indietro a rimettere
la disciplina tra quelle genti, che particolarmente nella sua bontà e
valore confidavano. Quindi tutti insieme tornarono nell'Etolia, e si
fecero lungo la riva due miglia più in su a sbarcare le artiglierie
grosse, per essere ogni altra parte del circondario scoperta e battuta
dal Castello. Qui li aspettava più duro contrasto. Giannizzeri veterani
ed ufficiali risoluti volevano smentire la viltà dei presidiarî delle
altre fortezze.

Cristoforo Doria, uomo di quella fortuna e ardimento che avremo
specialmente ad ammirare poi ad un anno, pigliava il carico di sbarcare
l'artiglieria grossa dalle navi di alto bordo per l'espugnazione. Vedilo
ordire doppi paranchi, di sotto alle gabbie e di punta alle verghe
maggiori, sollevare i pezzi, condurgli dalla perpendicolare interna
all'esterna, riceverli nei barconi, remigarli fino al lido, metterli
sulle palanche e sui curri, incavalcarli su grossi carri, e menargli a
braccia fino al campo già disegnato dal conte di Sarno. Trajano
Cavaniglia, mastro di campo, con trecento sceltissimi archibugeri
attorno di scorta.

[25 ottobre 1532.]

Mentre i nostri apparecchiavansi, i Turchi uscirono da Lepanto in gran
numero di fanti e cavalli: nè però il Conte spaventato punto di tanta
moltitudine venne meno al dover suo; anzi uscì fuori anche esso menando
alla campagna da quattromila fanti, senza sguernire il campo; e
ordinatili in battaglia quadrata colle risvolte agli angoli per cavar
fuori e metter dentro al bisogno le maniche degli archibugeri, andò a
trovare i nemici, coprendo sempre alle spalle l'accampamento suo; e
ordinando dalle trincere buona guardia colle artiglierie volte agli
assediati, specialmente alla porta e alla spianata del Castello, sì che
niuno potesse entrare nè uscire. Ma perchè i Turchi del soccorso non si
arrischiavano contro l'ordinanza del Conte, nè mettevano in fazione la
fanteria, ma attendevano solamente a volteggiare co' cavalli, ed a
scorrere in qua e in là badaluccando, cominciò il Conte a ritirarsi
lentamente, tenendo però addietro il nemico cogli archibugeri, che
uscivano, spiegavansi in cordone, sparavano, e ritiravansi nel centro
del quadrato. Essendo così durata infino a notte la scaramuccia, i
Turchi, affranti dal continuo caracollare della giornata, andarono a
riposarsi in Lepanto; ed i nostri, rinfrancatisi di cibo per turno,
stettero tutta la notte a battere furiosamente l'Antirio da terra e da
mare, non volendo al nuovo giorno essere trattenuti da alcuno, ma aver
finito ogni cosa.

Ondechè rovesciata una parte della muraglia, e uccisi molti di dentro,
quantunque si vedesse il presidio ostinato e valoroso, non si
peritarono, essendo ancor bujo, di spingere due piccole colonne
all'assalto. Marinari e soldati entrarono dentro di primo slancio: nè
per questo i giannizzeri vollero posare l'armi nè arrendersi; ma
disperatamente continuarono a contrastare e a combattere per la piazza e
per gli androni, facendo testa a ogni traghetto, finchè non caddero fuor
di combattimento più di trecento. Allora i pochi superstiti,
ricoveratisi nel mastio, per rendere anche colla morte loro funesta ai
Cristiani la vittoria, e inutile l'acquisto del Castello, appiccarono il
fuoco alla munizione della polvere e volarono all'aria. Estrema
risoluzione, per la quale molti pur dei nostri rimasero infranti al di
sotto, e molte avarie patirono le galèe pei rottami scaraventati da ogni
parte col fuoco.

[Novembre 1532.]

Finalmente vedendo che i tempi cominciavano a rompere, e la stagione a
farsi ogni di più trista, l'armata sciolse dalle riviere della Grecia; e
il Principe, dopo aver visitato un'altra volta Corone, rinforzata la
piazza, e rinnovate le promesse di soccorso in caso di bisogno per
l'anno futuro, rimandò ciascuno al riposo invernale nei suoi porti.

Il nostro Capitano ricondusse in Civitavecchia genti vittoriose, ricche
spoglie, e liete novelle, ricevendo anche da Roma larghe dimostrazioni
di gradimento per le egregie opere fatte nel corso della campagna.
Dispersa dal Mediterraneo l'armata nemica, espugnate quattro fortezze,
presa una nave carica di munizioni, e conseguito pienamente il fine
primario della spedizione, cioè la cacciata di Solimano e degli eserciti
suoi da Vienna e dall'Ungheria[410]. Imperciocchè l'attacco dei nostri
marini alle sue spalle portò di fatto nell'esercito ottomano quello
sgomento e quella solennissima sconfitta che sollevò in quest'anno
l'Europa dall'imminente pericolo della barbarica occupazione. Già più
volte nei secoli precedenti al modo istesso e per simile concorso delle
nostre genti dalla parte del mare erano stati vinti e cacciati i Turchi
dai paesi cristiani, e specialmente da Belgrado[411].

Le quali vittorie, per terra e per mare splendidamente conseguite, vie
più a papa Clemente amicarono Carlo imperatore, il quale riconosceva
averne ricevuto nel maggior bisogno validissimo soccorso. Perciò Carlo
nell'invernata dell'anno medesimo tornò un'altra volta a Bologna per
trattare con lui direttamente, e senza altri mediatori degl'interessi
comuni, e delle provvisioni da fare nell'anno seguente, volendo
continuare la guerra contro il Turco: suprema necessità civile e
religiosa del tempo.

[Gennajo 1533.]

E perchè il principe Doria, accrescendo gli armamenti marittimi,
insisteva e richiamava Antonio per suo luogotenente in Genova, il Papa
non potè a meno di dargliene licenza, e in suo luogo per capitano
generale della squadra, e per castellano di Civitavecchia, pose il
cavalier Bernardo Salviati, come vedremo nell'altro libro. E vedremo
altresì per lunghi anni nei fatti di mare del tempo seguente comparire
Antonio Doria sempre più avanti nelle grazie della corte di Spagna:
marchese di santo Stefano di Aveto in Liguria, marchese di Ginnosa nel
Regno, consigliero di don Giovanni a Lepanto, e gran privato del re
Filippo in Italia, il quale a fondo e di lunga mano conoscevalo, e
sapeva come e dove impiegarlo[412].

NOTE:

[410] BRANTOME cit., II, 51: «_Quand Solyman vint devant Vienne la
première fois.... une armée navale attaqua l'Admiral-Bassa.... qui se
retira bien qu'il fust le plus fort. Sur quoi le gran Seigneur, en ayant
pris l'alarme, desmordit de Vienne, et tira vers Constantinople._»

RAYNALDUS, _Ann._, 1532, n. 39, 46, 51.

ANTONIO DORIA, _Compendio_ cit., 48: «_Fu presa la città di Patrasso e
le Castella, che guardavano quel golfo, del qual danno parve che il
Turco si sbigottissi molto._»

[411] P. A. G., _Medio èvo_, II, 170, 269.

[412] DOCUM. DI SIMANCAS, pubblicati e ordinati da MASSIMILIANO SPINOLA,
L. T. BELGRANO, e FRANCESCO PODESTÀ. _Atti di Stor. Patr._, t. VIII, p.
356. Lettera di FILIPPO DI SPAGNA a CARLO V, data da Voghera, 16 dic.
1548: «_Discuriose particularmente en la persona de Antonio Doria, y en
lo que el pretende que V. M. le dé autoridad a el y a los otros criados
y servientes que V. M. en aquella ciudad tiene, y que no la tuviesse
toda Andrea Doria, y otras cosas a este proposito: por donde paresciò
que seria mejor que el dicho Antonio Doria se fuesse a Napoles, como
dice que lo quiere hazer, que no estuviesse allì; porque, aunque para
servir no es tanta parte, como el se haze; para un tumulto seria
mucho._»



LIBRO QUINTO.

Capitano Bernardo Salviati, cavaliere di Malta e priore di Roma.
[1533-1534.]


SOMMARIO DEI CAPITOLI.

I. — Bernardo Salviati e suoi fatti. — La rissa dei Cavalieri in Malta
(15 marzo 1533). — Bernardo capitano delle galèe e castellano di
Civitavecchia (18 aprile 1533). — Consigli pel soccorso di Corone
(maggio 1533).

II. — La partenza delle sedici galèe da Civitavecchia (4 giugno 1533). —
Partenza da Messina (2 agosto). — Ordinanza dell'armata pel soccorso. —
L'ammiraglio turco rifiuta la battaglia. — Tafferuglio intorno a due
navi, e fuga dei nemici. — Ardimento del Salviati. — Sciolto l'assedio
(7 agosto 1533).

III. — Mutato il presidio di Corone. — Dispersione dell'armata nemica. —
Viltà dei Turchi in mare. — Perplessità e politica consueta della corte
di Spagna. — Perdita di tre galèe del Doria (settembre 1533). — Perdita
di Corone.

IV. — Ritorno del Salviati. — Viaggio del Papa a Marsiglia. — Ordinanza
del convoglio (5 ottobre 1533). — Il Codice dei saluti.

V. — Incontro e ingresso solenne nel porto di Marsiglia. — La reale di
Francia. — Il bargio per lo sbarco (11 ottobre 1533).

VI. — Le nostre galèe visitate dal Re e dalla Corte. — Menano il Re a
diporto per le isole vicine. — Elogi (15 ottobre 1533). — Lo scarroccio.

VII. — Ritorno del Papa sulle galèe di Francia, e poi sulle sue (12
novembre). — Arrivo in Civitavecchia (7 dicembre). — Dimora in questa
città, e Brevi colla data della medesima (10 dicembre 1533). — Paolo
Giustiniani.

VIII. — Brevetto al Salviati. — Comandante e castellano.

IX. — Inventario delle galèe. — I termini del mestiere. — Attrezzi,
vele, alberi, corredo, remi, artiglieria. — Documento (16 aprile 1534).

X. — Ancora del Bucintoro. — Il titolo di Generale. — I Cannoni
serpentini, e le artiglierie sui fianchi delle galere (20 aprile 1534).
— L'Archivio Camerale.

XI. — Crociera del Salviati coll'Usodimare. — Presi tre bastimenti di
pirati (12 giugno 1534). — Il ritorno dei vincitori, secondo le nostre
tradizioni (20 giugno 1534). — Le bandiere nelle chiese.

XII. — Arte di Solimano per conquistare in Africa. — Il pirata
Barbarossa re d'Algeri ed ammiraglio dell'imperio. — I maggiori pirati
del tempo, il Moro, il Giudèo, Cacciadiavoli e Barbarossa. — Pensieri di
costui intorno alla marineria (luglio 1534).

XIII. — Disegno doppio di Barbarossa contro Cristiani e Maomettani. —
Dare sull'Italia, e pigliar Tunisi. — Ruine in Calabria. — Arsione di
tre galèe del Papa sul cantiere. — Incendio di Terracina. — Fuga della
Giulia Gonzaga. — Spavento in Napoli. — Barbarossa alla foce del Tevere
(20 agosto 1534).

XIV. — Barbarossa piglia Tunisi. — Indignazione di Spagna e d'Italia. —
Apprestamenti di guerra. — Il Salviati e Paolo Giustiniani. — Muore
Clemente VII, e il Salviati si ritira (25 settembre 1534). — Ultime
notizie del Salviati.



LIBRO QUINTO.

CAPITANO BERNARDO SALVIATI,

CAVALIERE DI MALTA E PRIORE DI ROMA.

[1533-1534.]



[15 marzo 1533.]

I. — Bernardo Salviati, figliuolo di Giacopo e della Lucrezia de'
Medici, nipote de' due pontefici Leone e Clemente, e scritto alla
primaria nobiltà fiorentina e romana, aveva da giovanetto preso l'abito
dei cavalieri di san Giovanni; e pei suoi meriti, e pei rispetti della
famiglia, era prestamente salito ai primi onori dell'Ordine suo: balì
della gran croce, priore di Roma, e capitano generale delle galere, come
lo abbiam veduto l'anno passato all'impresa di Corone[413]. Prode, ricco
e splendido, viveva alla grande: casa aperta in Malta e in Roma,
numerosa famiglia, e intorno alla persona sua in terra e in mare da
sessanta gentiluomini principali e capitani riformati che lo seguivano
in ogni fazione, secondo lo stile dei maggiori comandanti di quel
tempo[414]. Di simili esempî per Marcantonio Colonna e per Carlo Sforza
altrove ho detto e dirò[415].

Tornato però Bernardo di Corone a svernare in Malta, ebbe suo malgrado a
trovarsi involto in una sanguinosa baruffa, della quale non posso
passarmi, perchè entra come causa prossima della sua chiamata in Roma; e
perchè mi dà ragione degli uomini, dei tempi e dei fatti che ho a
trattare. Ai primi di marzo in Malta, un gentiluomo fiorentino, seguace
del Salviati, aveva steso morto in duello un giovane cavaliere della
lingua di Provenza, con grandissima alterazione degli zii e degli altri
parenti ed amici; che molti e prosuntuosi ne aveva l'ucciso nell'isola.
Costoro accecati dalle furie della vendetta, tutti in frotta assaltarono
a tradimento per la strada il Fiorentino: il quale quantunque con alcuni
compagni valorosamente si difendesse, nondimeno toccò la peggio, e a
pena potè ritirarsi grondante di sangue. Qui non finisce: hanno a esser
cinque i ripicchi, e assai peggiori gli altri tre successivi de' due
precedenti. Tutti quei signori a biasimare le superchierie e le
uccisioni; e ciascuno da sua parte inteso a ripetere uccisioni e
superchierie: cioè a commettere i medesimi falli biasimati in altrui.
Tanto è folle la superbia, e tanto è cieca la passione disordinata! I
familiari del Salviati e gli amici del Fiorentino tornarono in piazza,
gridando e bravando contro i Provenzali: e lì una terza puntaglia,
spargendosi dall'una parte e dall'altra di molto sangue. Pareva nella
notte seguente quietato il tumulto: e già il Grammaestro dava corso alla
giustizia contro i religiosi dell'abito, e il Salviati da parte sua
metteva in catena una diecina di gentiluomini, quando i Francesi fatta
secretamente tra loro una conventicola in casa del commendator
d'Orleano, entravano la mattina seguente sotto falsi pretesti a bordo
della capitana, dove spietatamente uccidevano a ghiado quattro di quegli
incatenati. E avrebbero a uno a uno agghiadato anche gli altri, se al
primo rumore non fossero accorsi i soldati, i marinari, e l'istesso
Salviati in persona per frenare quei traditori, e per cacciarli via
senza altro dal bastimento. Ma che? venuto poco dopo in terra, il
medesimo Salviati a richiamarsi col Grammaestro di così grande eccesso,
non era a pena entrato in casa sua, ed ecco l'assembraglia di tutti i
cavalieri francesi, provenzali e alvergnasci a bandiere spiegate venirlo
ad investire: ecco tutta la lingua d'Italia venirlo a soccorrere, e
dagli altri alberghi delle lingue diverse uscir fuori i cavalieri in
arme, e accostarsi chi di qua chi di là per ajutare questi o
quelli[416]. Parrebbero sogni, se non fossero fatti realmente successi!
E dico fatti in plurale, perchè se ne hanno parecchi simili nelle storie
di costoro; ed io, tuttochè per incidenza, ne avrò a ricordare un altro
nel settimo libro. Non prenda maraviglia il lettore: anzi per l'esempio
dell'altrui nequizia guardisi meglio dal disordine delle passioni, ed
alta sopra la ferina mantenga la dignità dell'umana natura. Altrimenti
nel furore trapassano ogni segno e grondano sangue gli artigli delle
belve, gli unghioni dei cavalli, le spade dei cavalieri.

[Aprile 1533.]

In somma dopo una giornata di orribile confusione ebbero a lavorare i
tribunali e il carnefice: cavalieri strozzati, sommersi nel canale,
degradati, cacciati dall'isola. E il priore Salviati, moderatamente
tenutosi sulle difese senza uscir di casa durante il tumulto, la mattina
seguente se ne tornava a bordo: e per levarsi da ogni trista occasione,
scioglieva i canapi e con tutta la squadra se ne veniva prestamente in
Civitavecchia. Allora papa Clemente lo nominò capitano delle galèe
romane, col triplice intendimento di compensarlo in qualche modo delle
ingiurie sofferte in Malta; di dargli giusta ragione a non ritornarvi,
finchè gli umori ardenti dei nemici non fossero freddati; e di riunire
in un sol corpo, sotto lo stendardo papale, sedici galèe; cioè le dodici
di Roma, e le quattro di Malta, per mandarle unitamente contro i Turchi,
secondo i concerti presi col Grammaestro e coll'Imperatore.

[Maggio 1533.]

Così il Salviati, venuto al possesso delle galèe e della castellanìa di
Civitavecchia, pose gli ordini dell'armamento: e poi corse in Roma, ove
era richiesto del suo parere intorno alle cose di Corone[417]. E molto
cadde in concio che al tempo stesso venissero al Papa lettere
recentissime di don Girolamo di Mendoza, governatore delle armi in
quella piazza, il quale diceva trovarsi già strettamente assediato per
terra e per mare, le provvigioni di bocca e le munizioni di guerra
cominciargli a mancare; ricordasse il Doria la fede datagli del
soccorso, e pensassero gli altri principi della cristianità a non
lasciar perdere quella piazza, nè a confondere la fiducia dei Greci, già
tanto esaltati, con che facilmente potrebbesi e in poco tempo ricuperare
tutta la Morèa.

Il Capitano novello confermava pienamente i giudizî del Mendoza; e per
la perizia sua nelle cose di guerra e di mare, e per la cognizione
speciale di quei luoghi, dove aveva due anni combattuto, insisteva sulla
necessità del soccorso con tutta l'armata, altrimenti anderebbe al certo
perduta ogni cosa. Di che facendo gran ressa il Salviati, e con lui i
ministri di Roma, e al tempo stesso anche il Doria da Genova, finalmente
venne dall'Imperatore l'ordine che si dovesse soccorrere Corone con
tutta l'armata; anzi più aggiungervi quelle altre dodici galèe nuove,
che don Alvaro di Bazan aveva fatto costruire nei porti di Spagna.

NOTE:

[413] EUGENIO GAMURRINI, _Delle famiglie Toscane ed Umbre_, in-4.
Firenze, 1679, t. IV, p. 176. — Nato in Firenze 1492, morto in Roma
1568.

[414] BOSIO cit., III, 122, B: «_Bernardo Salviati priore di Roma
tratteneva ordinariamente da sessanta gentiluomini principali et
valorosi capitani appo la persona sua._»

[415] P. A. G., _Marcantonio Colonna alla battaglia di Lepanto_, Le
Monnier, 1862, p. 19. Documento coi nomi e cognomi di settantasette
gentiluomini che formavano la casa militare del Capitan generale; e
appresso al libro settimo tornerà lo stesso col capitano Carlo Sforza.

PAOLO DE MOCHIS, gentiluomo romano, in una lettera a Pier Luigi Farnese
duca di Parma, narra come testimonio di veduta la fedeltà dei trenta
gentiluomini poveri, provvisionati da Cesare Borgia duca Valentino, che
soli gli restarono fedeli, e lo salvarono dalla furia del popolo romano
dopo la morte del Papa. — Lettera pubblicata dal RONCHINI nel giornale
perugino del 1872, intitolato: _Erudizione Artistica_.

[416] BOSIO cit., III, 122.

VERTOT cit., IV, 244.

[417] BOSIO, 125, A: «_Il prior Salviati colle quattro galere della
Religione in Civitavecchia.... da lui intese le relazioni di
Corone...._» 126: «_Sua Santità lo mandò in Civitavecchia.... dandogli
il carico delle galere della Chiesa.... il corno destro dell'ordinanza
al Salviati colla squadra delle galere ecclesiastiche colle quattro
della Religione._»



[4 giugno 1533.]

II. — Quindi il nostro squadrone, bene in ordine e fornito di tutto
punto, salpò da Civitavecchia alli quattro di giugno, e fu così presto
in Napoli, come Andrea Doria col resto dell'armata. Ma il Principe in
confusione, non potendo imbarcare le fanterie spagnole assegnate a
questo viaggio, perchè si erano apertamente ribellate sotto il pretesto
delle paghe, e per compenso avevano saccheggiato la città di Aversa, e
fatto di grandi malvagità in tutta la provincia[418]. Pazienza, tempo.
Federigo di Toledo, il marchese del Vasto, e danari sonanti ammansarono
la stizza di quei feroci, che si lasciarono condurre a Messina, dove il
Principe aveva ancora a provvedersi di vittuaglia, di munizioni, e di
molte altre cose occorrenti al soccorso della assediata città. Al cui
presidio intanto, volendo accrescere le speranze, mandò con una scelta
galèa velocissima Cristoforo Pallavicini, adottato in casa Doria, perchè
portasse l'avviso del soccorso vicino. Cristoforo, arditissimo
manovriero, di pieno giorno e alla vista dei nemici passò per prua
dinanzi alle galèe dei Turchi, ed entrò a salvamento nel porto piccolo
di Corone. Colà pose in terra alcuni rinfreschi, dette il danaro, rimise
le lettere: e senza attendere altrimenti alle difficoltà ed agli
sconforti, coll'istesso coraggio e fortuna volle tornarsene per recare
personalmente al Principe piena contezza dello stato della piazza, e
come il presidio si teneva saldo nella speranza della sua venuta[419].

[Luglio 1533.]

Oltracciò ebbe il Principe pienissima informazione di molte altre cose
necessarie a sapere per suo governo, e che non si volevano manifestare a
tutti, specialmente intorno alle condizioni dell'armata nemica, condotta
dal vecchio Lufty-bey. Cristoforo aveva contato novanta legni; sessanta
galèe grosse, e il resto fuste e brigantini: aveva veduti i gagliardetti
dei pirati di Ponente, e del Moro d'Alessandria: e di più tutto il
naviglio sugli ormeggi in quattro, coi capi di posta a poppa, segno di
poca disposizione per levarsi di là, dove stavano ammassati nella cala
di capo Gallo, a ostro della piazza e fuori del tiro. Di che Andrea
prese animo: e quantunque il nemico lo avanzasse nel numero, e non si
fossero vedute mai le dodici galèe promesse di Spagna, deliberò
nondimeno seguire ad ogni modo il suo viaggio, ed entrare in Corone,
facendo assegnamento sopra i Ponenti freschi, che sogliono spirare di
estate dopo il mezzodì. Avanti, senza mettersi a niun rischio di
battaglia: chè sarebbe stata imprudente col nemico o sui ferri o alla
vela ogni altra fazione atta a ritardare o ad impedire lo scopo
principale del soccorrere la piazza, e di sciogliere l'assedio.

[2 agosto 1533.]

Dunque ordina che tutti sian pronti al primo cenno: due galeoni di gran
corpo, pieni di gente e di grossa artiglieria, vadano innanzi; segua la
reale con ventisette galèe nel corpo di battaglia, alla destra si metta
il Salviati colle sedici galèe di Roma e di Malta; alla stanca Antonio
Doria con altrettante di Napoli e di Sicilia; alla coda colle salmerie
le trenta navi; queste, schifando ogni riscontro di nemici, tirino di
lungo, e corrano difilate verso la fortezza per mettersi sotto alla
difesa del suo stendardo, e del suo cannone. Così ordinati escono di
Messina ai due di agosto, gittansi a golfo lanciato sulla Morèa,
spuntano capo Gallo, si coprono di cotone, e via col vento fresco di
buonbraccio verso la piazza. Passa il convoglio, passano le navi, e
appresso passano le galèe: e i Turchi all'áncora nella bella cala di
ponente guardano per prua il passaggio de' nostri, senza dar segno nè di
battaglia nè di mossa, se non quando di lontano traggono colpi
d'artiglieria, ricambiati del pari, con poco danno delle due parti. In
somma dal lato del mare l'assedio è sciolto, e l'armata vincitrice
ammaina sotto le mura della piazza.

[7 agosto 1533.]

Qui un'altra volta mi è dato osservare, col Salviati e coi
contemporanei, l'imperizia dei Turchi nella tattica navale.
Considerazione di gran momento per intendere come e quando costoro
divennero poscia per fatto proprio e per altrui opinione eccellenti
marini a nostro danno. Avrebbe dovuto Lufty da capo Gallo, subito subito
passate le navi a vela, tagliar le gomene o filarle per occhio, e
gittarsi a furia sullo squadrone seguente delle galèe; e ne avrebbe
facilmente ottenuta vittoria, trovandosi superiore del doppio nel
numero, e padrone di tagliare fuori l'armata sottile dalla grossa.
Imperocchè le navi di alto bordo, una volta passate col vento fresco di
Ponente, potevano ben continuare la rotta a levante, ed anche potevano
fermarsi sull'ancora sottovento: ma del tornare indietro per
ricongiungersi o per soccorrere le galere sarebbe stato impossibile.
Nondimeno Lufty, attonito e irresoluto, non seppe conoscere nè cogliere
il grandissimo vantaggio che gli si offriva; e lasciò senza contrasto
compiere ai nostri il divisato soccorso[420].

Se non che la fortuna sempre variabile ci richiama nel mezzo del mare, e
ci mette in procinto di battaglia. Due grosse navi delle nostre a mezza
strada si abbordano tra loro, e impigliansi a vicenda per le verghe e
per le sartie: navi cariche di munizioni e piene di infanteria spagnuola
da sbarco. La speranza di facile preda stimola Lufty, il quale
finalmente distacca alquante galèe per ghermir le due navi restìe: ed
ecco le galèe nostre volgere indietro a remo per liberarle. In poco
tempo una nave è già perduta, l'altra è agli estremi, e si sostiene a
pena per la bravura del capitano Hermosilla. Il Doria e il Salviati
avvampano di sdegno, Lufty palpita di spavento, il Moro freme di rabbia.
All'appressarsi delle poche galèe cristiane, i Turchi si ritirano, le
due navi restano libere, e sulla ricuperata troviamo prigionieri ducento
giannizzeri derelitti dai compagni, dopo esserci stati messi per
marinarla. Non basta, chè il Salviati si caccia appresso al nemico
fuggitivo, tormentandolo alle spalle con spessi tiri, e già è presso ad
investire una galèa sdrucita e azzoppata dal suo cannone. Ma il Principe
lo divieta con un tiro senza palla, e giù la bandiera a mezz'asta,
perché torni addietro. Dove tutti lodano la intrepidezza e la manovra
del Salviati; e lodano altresì il senno del Principe. Prima in questo
caso compiere il disegno stabilito di soccorrere la piazza, poi l'altro
di combattere coll'armata nemica[421].

Al ritorno del Salviati i maggiori capitani scesero in terra; e il
Mendoza, squadronate sulla piazza le fanterie sopraggiunte colle prime
navi nel porto, fece dalla sua parte gagliardissima sortita: cacciò i
Turchi dalle trincere, prese il campo, demolì i ridotti, tolse i
cannoni; Lufty-bey al tempo stesso prueggiò verso Modone: e così in un
giorno per terra e per mare fu sciolto l'assedio[422].

NOTE:

[418] MAMBRINO ROSEO, _Continuazione delle Storie del Mondo di Giovanni
Tarcagnota_, in-4. Venezia, Giunti, 1598, III, 153.

PAOLO GIOVIO cit.

COLLENUCCIO, ROSEO, E PACCA, _Storia di Napoli_, in-4. Venezia, 1613,
II, 113: «_Occorse di giugno che i soldati vecchi spagnuoli
abbottinatisi per conto delle paghe havevano occupato Aversa, et
saccheggiatala; et fatto di gran danni ad altri luoghi in Terra di
Lavoro._»

[419] CAPPELLONI cit., 52.

SIGONIO cit., 160.

[420] ANTONIO DORIA, _Compendio_ cit., 52.

[421] BOSIO cit., III, 127, B: «_Il prior di Roma più di tutti
avanzato.... stava già per investire alcune galere turchesche.... fu
proibito dal Principe._»

[422] CLEMENS PP. VII, _Ferdinando rom. regi. sub die XXI augusti
MDXXXIII_, ap. RAYNAL.: «_Per hos dies præsidium Coronis, quod a Turcis
obsidebatur, cesareæ et nostræ classis virtute, obsidione liberatum._»



[31 agosto 1533.]

III. — Liberati dal presente pericolo, i collegati rivolsero l'animo a
premunirsi contro gli assalimenti futuri: sbarcare le vettovaglie e le
munizioni, risarcire le mura, scambiare il presidio, opere di
prestissima esecuzione[423]. Il Mendoza col suo terzo riprese il mare,
secondo il patto; ed alla guardia di Corone sottentrò il maestro di
campo Maccicào con tre mila di quei fanti che si erano ammutinati in
Aversa, perché scontassero la pena della sedizione. Indi l'armata nostra
si rivolse di nuovo contro Lufty, che si teneva tra la Sapienza e
Modone. Indarno lo sfidarono a battaglia: esso portò in pace tutte le
cannonate e tutte le vergogne che gli toccarono; e ognora più
stringendosi al sicuro sotto le batterie di quella fortezza, e sempre
governandosi timidamente, come aveva fatto dal principio, rifiutò la
sfida, e cedette ai nostri la padronanza del mare. Vero è che Solimano
aveagli strettamente ordinato di fuggire il cimento, ma esso eseguiva
l'ordine con soverchia timidezza: e tutto ciò evidentemente più e più
dimostra che infino a questi tempi i Turchi nè riputavansi da sè, nè
dagli altri erano riputati invincibili in mare. Non però di meno tra
poco vedremo cambiarsi tutto al rovescio l'opinione; e poiché siamo
presso al termine tra l'uno e l'altro avviso, ne fo ricordo, perchè il
lettore non abbia a trovarcisi improvvisamente sorpreso.

Che se noi vorremo imparzialmente esaminare anche i fatti della presente
campagna ne caveremo tristi pronostici, e risulterà gran differenza
anche nelle cose nostre tra il passato, il presente e il futuro. Nel
trentadue assedii, battaglie, conquiste, città, fortezze, castelli: ed
ora tutto si riduce a cambiare un presidio ed a rifornire una piazza.
Niuna impresa di terra, niun combattimento sul mare. Perchè non dar
dentro in Modone? Perchè non distruggervi le galèe di Solimano, le fuste
del Moro, e il navilio degli altri pirati? Perchè non mettersi almeno
alla Sapienza e bloccarli tanto che vi si avessero a consumar di stento?
Perchè non venir mai le dodici galèe nuove di Spagna? Perchè tornare
indietro e licenziare gli ausiliari nel mese d'agosto? Il Giovio, e
tanti altri scrittori nostrani e stranieri, favorevoli e imparziali,
tutti dicono essere il Doria andato con pochi, il Bazano rimasto a
Messina, Cesare più che mai sicuro in Spagna, le forze navali tolte dal
pericolo di una battaglia in Levante, ed i Francesi presi a sospetto in
Ponente[424]. Insomma già si vede Carlo tentennare, e volgere l'animo a
quei ripieghi con che prima e dopo usarono governarsi i politici della
sua corte. Battere il Turco, ma non abbatterlo; osteggiarlo per zelo di
religione, e mantenerlo per freno dei rivali; librarsi tra le due col
pretesto di salvare l'armata, e scusare ogni magagna col sospetto dei
Francesi. Nella sostanza prevalevano le ragioni di stato contro i
Veneziani, i quali sarebbero divenuti troppo spigliati in Italia, se
altri avesseli ajutati a scuotersi di dosso il peso dei Turchi. Carlo
aspettava Milano da Francesco Sforza: e con tanti maneggi di armi nelle
Sicilie, col sacco di Roma, coll'assedio di Firenze, e colla lega di
quasi tutti i grandi e i piccoli stati italiani, compresivi pure i
Lucchesi, proprio in quest'anno, agognava a prepotenza, e temeva
soltanto di Venezia[425]. Dunque grande energia sul mare nella guerra
turchesca del trentadue, perchè trattavasi della salute di Vienna; ed
altrettanta tiepidezza nel trentatrè, perchè non si voleva dar ansa di
troppo rilievo ai Veneziani. Politica doppia, e sempre mantenuta dalla
corte di Spagna, per la quale perderemo molto capitale, e dappoi i
frutti di Lepanto, e adesso presto presto perdiamo Corone, come ora dico
per compiere, poichè ci sono, questo racconto.

Lufty-bey aspettò tanto in Modone, che ne fosse partito il Doria; e
allora, avendo intatta l'armata, riprese il blocco e l'assedio peggio di
prima. Il Maccicào si difese valorosamente: ma chicchessia alla lunga si
stracca, e col tempo ogni cosa si muta, e succede or lieta or trista.
Pensate lui proprio il Maccicào in una sortita cadere negli agguati ed
esser fatto a pezzi con molti de' suoi; pensate gli altri del presidio
senza capo, e di quella natura turbolenta che abbiam veduta; e non
avrete a maravigliare che nel mese d'aprile del trentaquattro siano
tornati i castelli in mano ai Turchi, gli Spagnoli in Italia, e i Greci
al giogo per altri tre secoli.

[12 settembre 1533.]

Primi dunque a provare i tristi effetti della mezza campagna ebbero a
essere gli autori delle mezze misure. Carlo ci rimise di riputazione, di
danaro e di gente, offese i Greci, e perse la piazza: Andrea, perchè non
dette dentro, toccò dai pirati di Corone la peggio. Imperocchè essendosi
ricondotto a Genova, e avendo lasciate sole in Messina tre delle sue
proprie galere per caricare certe seterìe di quei mercadanti, quando
esse vollero col ricco carico rimettersi in mare, in vece di tornare a
Genova, furono condotte in Barberia dal Giudèo, che se le prese a
salvamano[426].

NOTE:

[423] NICOLAUS ISTHUANFIVS, _De reb. Hungar._, lib. XI.

JOVIUS cit., lib. XXXI.

BIZARUS cit., lib. XX.

BONFADIUS, lib. II.

ANDREAS MAUROCENUS, lib. IV.

[424] PAULUS JOVIUS, _Histor._, lib. XXXI, in-fol. Basilea, 1578, p.
222: «_Fuere qui existimarent Turcas universa classe exui ea die facile
potuisse, si Auria bazanianas triremes expectare maluisset; quam
infirmis viribus a Messana festinare. Sed alii graviore rectioreque
Consilio in freto Siciliæ opportune eos substitisse dicebant, ne Italiæ
littora penitus omni navali præsidio nudarentur. Neque enim universas
triremes in unius pugnæ periculum devocari Cæsar volebat, utpote qui
nequaquam exploratam haberet Gallorum voluntatem._»

RAYNALDUS, _Ann. Eccles._, 1533, n. 93.

[425] MAMBRINO ROSEO, _Storia di Napoli_ cit., II, 114: «_Si confermò la
lega fra l'Imperatore, il Papa, il Duca di Milano, il Duca di Ferrara,
Fiorentini, Genovesi, Senesi et Lucchesi contro i perturbatori della
pace d'Italia, costituendo Antonio de Leiva capo e generale sopra la
guerra, il quale dovesse stare in Milano._»



[15 settembre 1533.]

IV. — Per opposito il nostro capitano navigando sicuro pei porti di
Sicilia, trovò al suo indirizzo lettere pressanti di Roma, che lo
avvisavano del matrimonio conchiuso tra Enrico d'Orleano, secondogenito
del re Francesco di Francia, e la Caterina de' Medici, figliuola di
Lorenzo il giovane, e nipote di papa Clemente. Di più le lettere
medesime portavano che, avendo sua Santità accettato l'invito del Re di
abboccarsi con lui in Marsiglia e di trovarsi insieme con tutto il
parentado alle nozze, non si aspettava altro per cominciare la
navigazione, se non il ritorno delle galèe di Levante. Laonde il
Salviati, ottenuta dal Grammaestro la licenza di condurre seco colle
dodici galèe di Roma eziandio le quattro di Malta, venne difilato nel
porto di Civitavecchia, dove imbarcò molte masserizie e arredi, e molta
gente della famiglia, co' quali si volse prestamente verso Livorno, a
fine di raggiungervi il Papa: il quale partitosi già di Roma il martedì
nove di settembre, per Montepulciano, la Valdelsa, e il Valdarno di
sotto, era entrato in Pisa e finalmente in Livorno, senza toccare
Firenze per quei rispetti che facilmente ciascuno può intendere. Come fu
in quel porto la squadra del Salviati, papa Clemente discese alla marina
e montò sulla capitana di Francia addì cinque ottobre, giorno di
domenica, sull'ora di vespro, intanto che le galèe di Provenza, di Malta
e di Roma facevano salva reale per tre volte con tutta la loro
artiglieria e moschetteria[427].

[5 ottobre 1533.]

Indi pigliavano il largo, e procedevano così: alla vanguardia alcune
galèe più veloci e bene armate col carico di cercare intorno, di
scoprire gli agguati e di tracciare il cammino: e queste sotto il
governo di ufficiali, cui chiamavano Cercamare, e Re di galèa[428].
Seguiva una trireme di gran rispetto per nome la Duchessa; e quivi i
cerimonieri e i chierici della cappella papale, intenti per turno a
salmeggiare presso il tabernacolo, ove tra doppieri ardenti si custodiva
la santa Eucaristia: primo dei sacerdoti il prefetto delle cirimonie,
Pierpaolo Gualtieri di Arezzo, dal cui giornale raccolgo alcune notizie
e tutte le date di questo viaggio[429]. Appresso si attelava lo
squadrone delle galèe con al centro la Reale di Francia, condotta dal
duca d'Albania, ove risiedeva papa Clemente; e nelle altre a destra e a
sinistra sedici cardinali, molti prelati, e il resto della curia e dei
familiari: finalmente venivano quattro navi di trasporto colle lettighe,
le mute dei cavalli, e tutti quegli arnesi e corredi e fornimenti di
chiesa, di corte e di città, che il Papa, i Cardinali, e gli altri nelle
funzioni e concistori usar dovevano in Francia.

Lo splendido viaggio di un romano Pontefice con sedici Cardinali,
all'incontro di un Re di Francia con tutta la sua corte, durante la
traversata, teneva gli ufficiali novelli e i veterani della marina in
continue conferenze tra loro sull'ordinamento dei saluti. Punto di sommo
rilievo nel secolo decimosesto. Quei signori non lasciavano occasione
niuna di mostrare altrui cortesia secondo il debito, e di esigere dagli
altri uguale corrispondenza. Il codice dei saluti tanto necessario
stimavasi a bordo, quanto la carta da navigare. Aveanvi regole generali
e particolari, ed eccezioni per ogni capo: lo sparo dei cannoni, la
battuta dei tamburi, lo squillo delle trombe, le voci dei marinari, la
parata dei soldati, tutto scritto nei tempi e nei numeri, secondo la
dignità delle corone, dei personaggi, dei comandanti, dei navigli, delle
città, delle fortezze, e simili; a chi il cominciare, a chi il
rispondere, o come a un tempo darsi e rendersi i saluti vicendevolmente.
Come trattare i supremi generali, o i luogotenenti, o i capisquadra;
sulle reali, sulle capitane, sulle padrone; a mare aperto, in porto o in
darsena; armati o disarmati, di arrivo o di partenza. Quando uscire
incontro ai maggiori, quanto procedere, quale distanza tenere. Come
prendere la posta, o libera o colta da altri. Come ricevere le visite, e
restituirle: quando issare, mainare, scuotere, o ribattere per saluto la
bandiera. Come navigare sottovento, dove mettere lo sperone, come
tenersi alla scaletta del più degno, o attelarsi alla pari colle
conserve. Quando abbattere la tenda, o stringere le vele, spalare o
palpare i remi. E che fare alla presenza di Re, Imperatori, Papi,
Principi, e via via: con tante clausole eccezionali, che il codice
veniva in pratica difficilissimo, e dava continuo rappiglio di querele
ai puntigliosi, e di dispute sentenziose agli interpreti. Però l'istesso
codice prescriveva il contegno da tenere contro i mancatori nel caso,
che chiamavano, di onore dinegato[430]. Son piene le storie delle
controversie perpetue in questa materia dei Genovesi co' Toscani, e dei
Cavalieri di Malta con tuttaddue.

Così, sempre salutando, toccarono il Finale e Villafranca, senza entrare
nel porto di Nizza per certi puntigli del duca di Savoia; e di là con
felicissima navigazione la mattina dell'undici ottobre, sull'ora di
terza, comparvero alla vista di Marsiglia, segnalati subito dalle
vedette al monte della Guardia.

NOTE:

[426] BOSIO cit., III, 127, E: «_Il Doria lasciò in Messina tre galere a
carico dell'Adorno per caricare le sete et altre mercantie per
Genova.... le quali diedero negli agguati del Giudèo, che a salvamento
le prese._»

[427] JOVIUS cit., lib. XXXI.

BELCAIRUS cit., lib. XX.

GUICCIARDINI cit., lib. XX.

VARCHI cit., lib. XIV.

RAYNALDUS, _Ann._, 1533, n. 78.

[428] BOSIO, III, 65, E: «_Gli antiani atti agli uffici di Re, e di
Cercamari. Comanda il Re le guardie, et le altre fationi di Cavalieri,
et a lui appartiene il riconoscere e procurare che siano bene armati. Et
il Cercamare comanda le artiglierie, et le munitioni per
l'archibuseria._»

[429] PETRUS PAULUS GUALTERIUS, _Diaria cæremonialia sub Clemente VII_.
Mss. Bibl. Barberiniana, 1105, p. 187: «_Anno MDXXXIII, die martis, nona
septembris prælibatus Clemens cum curia sua discessit ex Urbe Roma....
Die dominica, quinta octobris, post meridiem, Papa ingressus est galeam
suam, et omnes alii cardinales et curiales, secundum loca sibi
designata. Societas nostra, scilicet Corporis Christi, habuit galeam
nuncupatam Ducissam.... Navigatum est nocte dieque.... Die sabati, hora
decimasesta, intravimus portum Massiliæ.... Die dominica, duodecima
octobris, processerunt ad ecclesiam cathedralem._»

[430] REGOLE agli ufficiali pei saluti e segni diversi di onoranza sul
mare, jurisditioni di tutte le galere dei cristiani, incontri, tiri,
salve, saluti, risposte et cortesie. Mss. alla Barberiniana, segnato LV,
57 (e copia presso di me).

REGOLE per le guardie, armamenti, saluti, e competenze delle galere e
navi di Nostro Signore. — _Codicetto_ in-fol. par. presso di me.



[11 ottobre 1533.]

V. — All'incontro per tre miglia dentro mare venne il cardinale Legato
d'Avignone, e con lui altri tre Cardinali francesi, cioè il Borbonio, il
Lorenese ed il Grammonte; i quali, fatta la riverenza al Pontefice, si
unirono colla loro galèa al corteggio, ripiegandosi in bell'ordine di
contrammarcia appresso della Reale, perchè le fosse libera la via di
entrare agiatamente prima di ogni altra nel porto. La Reale di Francia
chiamava sopra di sè da ogni parte lo sguardo degli innumerevoli
spettatori, così per la personale dignità dell'augusto viaggiatore, come
per la bellezza delle sue forme. Superbo naviglio costruito a sommo
studio di grande comparsa. La camera maggiore dall'albero di maestra
infino alla timoniera, coperta di ricchissimi damaschi cremisini,
seminati di gigli d'oro, a lungo strascico, profusamente insino al mare.
Intorno alla poppa scolture di rilievo messe a oro sul fondo nero; donde
maggior risalto di ricchezza e di armonia, e insieme sicurtà di
navigazione, e sfoggio di appariscenza[431]. Sulla freccia dorata un
forbito fanale di metallo, lucido a specchio, che nel giorno e più anche
nella notte gittava sprazzi di vivissima luce. Il coronamento del dorso
rilevato in arco, e sostenuto da statue gigantesche ai lati dello stemma
papale e reale tra ricchi festoni di alto rilievo e di finissimo
intaglio: ed alle bande, sotto lo sporto dei listelli e dei fregi,
gruppi in figura di tritoni e di sirene che, danzando intorno al
naviglio, facevano come di sorreggerne il corpo e di seguirne l'andare.
Le tende tutte di porpora a ricamo: le camere parate di teletta d'oro e
di seta. Gli spallieri incatenati al banco con catene d'argento; e la
ciurma di trecento robusti rematori tutti vestiti di raso damascato
rosso e giallo, ai colori del Re[432].

Appresso alla Reale venivano le due Capitane di Roma e di Malta[433], e
le altre galèe del convoglio insieme colle quattro provenzali[434] tutte
splendide e ricche di ornamenti, tutte pavesate a festa con bandiere
bellissime, i marinari e i soldati alle poste e alle rembate in grande
assisa, e salutando da ogni parte con tiri d'artiglieria la città, le
fortezze, le navi, e da quelle corrisposte colpo per colpo, con tanto
strepito di salve e di cannonate, che più non si potrebbe dire. Gittata
l'àncora nel mezzo al porto, ecco il real bargio alla scaletta destrale
di fuoribanda per ricevere il Pontefice, e per menarlo alla sponda:
palischermo grandioso, ponte coperto, ricco padiglione, sfarzoso
cortinaggio, porpora, frange e nappini d'oro: in somma comodo e
magnificenza, rapidità di corso, e sicurezza d'accosto ad ogni banchina.
Entratovi Clemente, e postosi sur un seggiolone di velluto, col seguito
di tutti gli altri palischermi e dei personaggi più ragguardevoli,
discese in terra presso alla chiesa di sant'Agostino, nella quale rese
all'Altissimo le dovute grazie; e poi se ne andò ad un bel luogo del Re,
chiamato il Giardino, ove riposò quella notte, dovendo fare il dì
seguente l'entrata solenne nella città[435].

NOTE:

[431] M. ARNOUL, _Lettres_. Mss. Bibl. Nat.; pubblicate da A. JAL
nell'opera _Abraham Duquesne et la Marine de son temps_, in-8. Parigi,
1873, t. I, p. 542: «_Car, comme ces Réales ne sont jamais que noir et
or, je voudrois l'armer toute de Mores avec des coliers et poignets
d'argent, non plus que les chaînes de deux premiers bancs qui sont
d'argent à celles d'Espagne.... Ma pensée, et c'est l'ordre de toutes
les Réales, noires et or, ou tout or._»

[432] BRANTOME, _Cap. étrang._, II, 222: «_Couverture de rouge et jaune
mi parties, car ils portoient la livrée du Roy, qui est jaune et rouge,
comme je ai veu la reyne Marguerite daujourd'huy sa petite fille la
porter long-temps par ses pages et laquais._»

[433] BOSIO cit., III, 127, D: «_Salviati avvisato del matrimonio.... e
dell'invito di Sua Santità a Marsiglia.... avuto particolare ordine dal
G. Maestro con le galere Apostoliche e con quelle della Religione si
incaminò._»

[434] AUGUSTE LAFORET, _Étude sur la marine des galères_, in-8. figur.
Parigi e Marsiglia, 1861, p. 4: «_Dix-huit galères parées de leurs plus
riches ornements, amènent le pape Clement VII dans les murs de
Marseille, où se trouvaient déjà François I et sa cour._»

IDEM, p. 26.



[15 ottobre 1533.]

VI. — I marinari sanno ormai per lunga esperienza che io non sono uso
abbandonarli, e sanno che non amo cacciarmi tra la folla dentro terra
appresso alle feste cortigianesche; però possono prevedere ch'io mi
passerò delle nozze del duca d'Orleano con madama Caterina, la quale
doveva essere, come dicevano, giovane, savia e bella. Ciascuno potrà
leggerne altrove gli elogi e le feste, ed anche imaginarsele da sè,
pensando grandi cose per la presenza del Pontefice, dei Cardinali, e
della Curia romana; per la magnificenza del re Francesco con tre suoi
figliuoli, e della Regina sorella dell'Imperatore, e di tanti principi,
baroni e prelati di Francia e d'Italia concorsivi a gara. Ma non lascerò
di ricordare la riverenza e l'ammirazione con che quei signori, venendo
al porto, riguardavano i nostri bastimenti, non potendosi saziare di
vederli e di rivederli. Chi lodava la lindura dei navigli, chi il
marzial piglio degli equipaggi, massime dei romani e dei maltesi,
tornati allora allora di Levante, dove avevano combattuto e vinto il
Turco, e durante la campagna di due anni avevano preso la fortezza di
Patrasso ed i castelli di Lepanto, espugnato Corone, e scioltone
l'assedio, con tanta gloria del nome cristiano. Gli ufficiali di marina
festeggiati da tutti, e continue le visite a bordo.

Di che entrata pur la voglia nell'animo del re Francesco, si condusse il
dì quindici di ottobre a visitare le nostre galèe; e per maggior diletto
con molti elogi volle che il Salviati uscisse dal porto e seco lo
menasse pel mare attorno alle Pomeghe ed oltre a dieci miglia più in
fuori, giostrandogli ed armeggiandogli ai lati tutte le altre galèe
dello squadrone romano e maltese, con grandissima letizia del Re e de'
suoi cavalieri[436]. Possiamo in cotesta occasione pensare ogni sorta di
manovre: ora a vela di buonbraccio, e in poppa, e all'orza, correndo e
volteggiando; ora a remo di voga larga, o di corso arrancato, o di
riposo, o in giolito, o a quartieri; dando e pigliando caccia, e traendo
colpi d'artiglieria; tra le voci degli ufficiali di comando, e le
esclamazioni consuete e notorie del capitano Salviati. Il quale
compiacendosi con quei signori, e lodandosi della sua gente, secondo i
tratti di destrezza e secondo le osservazioni dell'arte nautica, non
aveva tanto a potersi tenere, che una volta o l'altra non
esclamasse[437]: Al corpo di santa gallina! vedi prontezza di girata,
vedi efficacia di timone, vedi prueggio sull'occhio del vento, e vedi
falcato sulla scia l'arco dello scarroccio.

Era il tempo del magisterio dei nostri marini: fresca la memoria e vivi
gli allievi del Colombo, del Vespucci, del Cabotto e del Pigafetta;
tempo che Genovesi e Napolitani, Doria e Caraccioli, Spinoli e
Centurioni guidavano le armate di Spagna; fiorentini e romani, Strozzi e
Orsini, Sforza e Farnesi attendevano in posti eminenti alle armate di
Francia; tempo che il Salviati prior di Roma poteva parlare di
Scarroccio anche alla presenza del re Francesco, come ho scritto avanti,
per farmi largo a dichiarare questa voce nostrana, tecnica, necessaria,
da non confondere colla Deriva.

Tace la Crusca dello Scarroccio: perciò lezioni, varianti, e dubbiezze
senza fine. Ma il termine è antico, e sempre vivo tra i marinari:
termine derivato al tempo e al modo stesso del notissimo Carroccio, cioè
dal carro. Perocchè le antenne latine (principale attrezzatura dei
bastimenti di linea nei secoli passati) erano composte di due verghe
trincate insieme; che si chiamavano, e tuttavia si chiamano, Carro e
Penna. Questa così detta, perchè alta e sottile si solleva e fa punta;
l'altro, perchè grosso e basso porta su e giù tutto il fardello delle
vele maggiori e minori inferite e governate sull'antenna. Pel rovescio
del carro viene lo Scarroccio: conciossiachè nel navigare alla latina
sempre il carro si porta al vento; e se il vento sarà obbliquo alla
rotta, si metterà il carro obbliquo al vento, e la vela obbliqua alla
chiglia. La risultante di queste forze obblique spinge il naviglio
innanzi pel rombo assegnato: ma al tempo stesso quel che soverchia di
forza laterale (non potendo per la ragione dell'obbliquità concorrere
tutta nella direzione voluta) premendo pur lateralmente vela, corpo,
fianco e attrezzi del bastimento medesimo, non può non gittarlo alquanto
sottovento, mentre pur segue col fil della prora il cammino prescritto.
Dunque i marinari dicono propriamente Scarroccio[438]: Quel trasporto
involontario che patisce il naviglio col vento obbliquo a rovescio del
carro, fuori della via assegnata, sulla quale governa. Trasporto
proporzionale alle qualità nautiche del bastimento, al suo taglio,
stivamento, velatura, velocità propria, forza del vento, obbliquità di
spinta, e stato del mare. Trasporto anomalo che compete in origine ai
bastimenti latini sotto vela: ma che per la stessa similitudine si dice
di ogni legno a vela, a remo, a vapore, quando sia gittato sotto via
dalla spinta del vento laterale, come succede del legno latino a
rovescio del carro. Trasporto che si riconosce a un batter d'occhio
sulla scia o solco impresso dalla rotta sul mare; il quale solco
comparisce curvo, perchè prodotto da due forze angolari che operano in
ogni minimo istante di tempo, l'una nella direzione della chiglia,
l'altra nella direzione del vento, sotto un angolo che può essere
misurato col grafometro, e indicare colla sua maggiore o minore apertura
la quantità della anomalia. Trasporto finalmente che può esser corretto
e mitigato cogli aloni distesi al fianco del naviglio, dal lato di
sottovento, perchè contrastino nell'acqua contro la spinta laterale, e
diminuiscano lo scarrocciare; cosa che tornerebbe inutile non solo, ma
dannosa, nel caso di corrente e di deriva.

Da ciò resta vie meglio chiarita la necessità delle due voci Scarroccio
e Deriva, che non si vogliono confondere per sinonime, nè rifiutare per
forestiere, come alcuni pretendono. Esse rispondono a diversi concetti:
chè si può scarrocciare senza derivare, e viceversa: anzi al tempo
stesso si può derivare in un verso e scarrocciare in un altro, secondo
l'andamento uguale od opposto della corrente, del vento e della rotta; e
talora la deriva corregge lo scarroccio, pognamoci nel caso di stringere
il vento colla marèa.

Intanto ragionando insieme di arte e di mare quei signori se ne
ritornano lietissimi verso il porto di Marsiglia, innanzi al quale ho
voluto ricordare gli onori e i teoremi della nostra marineria, perchè si
veda quanto giustamente ella fosse encomiata dagli stessi Francesi e dal
Re, il cui giudizio ognuno riputerà di gran peso e valore. Pel secolo
decimosesto valgono le notizie conservateci e pubblicate dal signore di
Godeffroy, scrittore ufficiale della corte di Francia: e pei due secoli
seguenti varranno le scritture del notissimo Labat, brioso viaggiatore
francese, il quale più volte ripete, e costringe anche me a ripigliare
le sue parole[439]. «Le galèe semplici del Papa sono di primaria
grandezza, uguali alle capitane di Francia e degli altri principi.... La
capitana poi ha sempre la poppa ornata di scolture e dorature. Ne fa
varata una, l'anno 1714, dove spiccava intagliata a rilievo tutta la
solenne cirimonia della canonizzazione di san Pio; lavoro di valente
scalpello, e adorno di dorature per tutto dove si poteva metterne.
Difficile immaginare cosa più magnifica! La poppa sembrava un monte
d'oro ombreggiato da ricco padiglione di damasco rosso colle frange e i
nappini d'oro. Tutte altresì ben armate, palamento numeroso ed esperto;
e difese da buoni soldati, tratti dalle compagnie di Roma e dalla
guarnigione di Civitavecchia.... Bisogna confessare che non si vedono
sul Mediterraneo galèe più grandi, meglio armate e più ricche di quelle
del Papa.... La regina di Polonia s'imbarcò a Civitavecchia sulla
capitana di Roma, comandata dal priore Ferretti.... Nel porto di
Marsiglia le galere pontificie fecero salva con tutta l'artiglieria....
La capitana salutò la reale di Francia con quattro tiri di cannone ed
ebbe risposta colpo per colpo. Ciascuno potrà pensare, senza altro
dirne, che vi fu calca per venirla a vedere. Essa lo meritava
certamente: perchè, a confessione degli stessi Francesi, era la più
magnifica capitana che fosse stata veduta a Marsiglia.» Togliete quanto
volete: ce ne resterà sempre a bastanza per quelli che non ha guari
metteanci allo zero. Avrete il resto tra poco dalla penna di un classico
francese.

NOTE:

[435] TEODORE GODEFFROY, _Le ceremonial françois_, in-fol. Parigi, 1649,
t. I, p. 816: «_La triomphante et somptueuse entrée de nostre saint Pére
le Pape, fait en la ville de Marseille l'an. 1533._»

IDEM, p. 820: «_Autre relation manuscrite des mismes entrées que
dessus._»

ANTOINE DE RUFFI, _Histoire de Marseille,_ in-fol. 1642, p. 215.

SEBASTIANO FANTONI CASTRUCCI, _Istoria della città d'Avignone e del
contado Venesino_, in-4. Venezia, 1678.

[436] GODEFFROY, _Ceremonial françois_ cit., 819, 823: «_Le mercredi
ensuivant quinzième jour du dit mois d'Octobre ne fut fait aucune chose
de memoire, sinon que le Roy prit après disner toutes les galères qui
estoient dedans le port, et s'en alla en la haute mer environ deux ou
trois lieues; et entra en une isle pour passer le temps et soy
esbattre.... Le Pape n'a bougé de son logis.... Le Roy a esté quelque
temps avec le Pape: il s'en est allé aux galères qu'il a emmenées en
esbat sur la mer, et ont tiré force artillerie, ce qui il faisoit bon
voir et ouyr._»

[437] BENEDETTO VARCHI, _Storie Fiorentine_, ediz. di Firenze, 1844,
in-8. t. III, p. 109: «_Bernardo Salviati.... priore di Roma.... passò
per Ferrara, e ragionando con Giovambatista Busini di quel che gli era
avvenuto in Firenze, disse: Al corpo di santa gallina! (che così usava
giurare) se io non ero accorto il Bandini mi faceva mal capitare._»

[438] PANTERA cit., _Armata navale_, e voc. in fine. «_Scarroccio è il
diffalco che si dà al cammino fattosi, quando si va a vela delle oste._»
(Ciò è dire col vento obliquo, orzando col carro, e caricata la penna
coll'osta di sopravvento.)

[439] PÈRE JEAN BAPTISTE LABAT, _Voyage en Espagne et en Italie_, in-8.
Parigi, 1730, t. IV, p. 190: «_Les galères ordinaires du Pape sont de la
première grandeur.... aussi grandes que les comandantes de France et des
autres princes. La réale a toujours sa poupe enrichie de scolptures et
dorures. On en mil une neuve à l'eau en 1714, où la cérémonie de la
canonisation de saint Pie était en bas-reliefs très-finis: elle étoit
dorée par tout où elle pouvoit l'étre; rien n'étoit plus magnifique. Sa
poupe paraissait una montagne d'or sous un pavillon de damas rouge, avec
des franges et des crépines d'or. Elles sont aussi très-bien armées,
pourvues d'une bonne chiourme, nombreuse et bien exercée, on y mette de
bons soldats qu'on prend dans les compagnies de Rome et de la garnison
de Civita-Vecchia._» p. 299: «_Il faut convenir qu'il n'y a point de
galères sur la Mediterranée plus grandes, mieux armées, plus richement
ornées que celles du Pape._» VII, 66: «_La royne de Pologne s'embarqua
sur la galère capitane du Pape commandé par le grand prieur Ferretti....
A Marseille les galères du Pape saluèrent de tous leurs canons.... La
capitane salua la réale de France de quatre coups de canon, que la réale
lui rendit coup pour coup.... On peut croire,sans que je le dise, qui'l
y avoit presse à la venir voir. Elle le meritoit bien; car de l'aveu
méme des François c'étoit la plus magnifique qu'on eùt encore vûe._»



[12 novembre 1533.]

VII. — Posto finalmente un termine alle feste ed ai congressi tra il
Papa e il Re (donde tanti sospetti e tante speranze in Europa), creati
quattro cardinali francesi, tenuti diversi concistori, dopo
trentaquattro giorni di conviti e tornei, Clemente VII prese congedo: e
addì dodici del mese di novembre si rimbarcò in Marsiglia per tornare
alla sua sede. Toccarono Santropè, Villafranca e Portovenere, senza
altra novità che di tempeste invernali, specialmente nelle acque di
Savona: dove al dire del Belcaire, gravissimo storico francese[440],
papa Clemente non volle più navigare sulle galere di Francia per la poca
perizia dei nocchieri, quantunque i legni fossero eccellenti; ma
tramutossi di bordo passando sulla capitana di Roma, già governata dal
Doria (come abbiamo veduto), ed ora condotta dal Salviati. Il quale,
pienamente rispondendo alla fiducia di lui, rimiselo sicuro e lieto nel
porto di Civitavecchia[441].

[7 dicembre 1533.]

Stanco della lunga navigazione, prima di ripigliare il viaggio di Roma
per la via di terra, volle altresì papa Clemente riposarsi tre giorni in
Civitavecchia, con grande onore e splendidezza alloggiato e festeggiato
nel palagio della Rôcca: e volle similmente far posare le sue genti di
mare, riconoscendo ciascuno secondo i meriti. Agli ufficiali le collane
d'oro, alle genti di capo i fiorini, ed alle genti di remo la pasciona.
Di qua nei tre giorni della dimora spedì lettere e brevi in diverse
parti; due dei quali al mio proposito da essere specialmente ricordati.
Il primo al principe Doria in Genova, colla data di Civitavecchia del
giorno sette dicembre, lodandosi dell'incontro a Portovenere e della
compagnia seguente di alcune sue galere condotte da Marcantonio del
Carretto, figlio di Alfonso marchese di Finale, e della Peretta
Usodimare, passata in seconde nozze collo stesso Andrea[442]. Nel
secondo breve al Grammaestro di Malta, sotto la data del giorno otto e
della stessa città[443], maggiormente a lui si loda dei marinari, degli
ufficiali e del Salviati priore di Roma pel doppio servigio, e nella
guerra contro i Turchi, e nel viaggio dei tre mesi tra l'andata, la
dimora e il ritorno, appresso alla persona sua: coglie questa occasione
per ricordare in modo solenne e durevole la fede, la bravura e la
perizia nautica delle due squadre, e del prode comandante: rimettendosi
a lui medesimo per le minute informazioni che gli darà in scritto delle
cose più notevoli occorse nel viaggio marittimo, massime da Savona in
qua: finalmente prega il Grammaestro a contentarsi di lasciarglielo in
Civitavecchia, per capitano della guardia permanente; e di
proscioglierlo dall'obbligo di ritornare nell'isola colle galèe della
Religione gerosolimitana per quei rispetti che egli doveva benissimo
intendere senza altro discorso.

[10 dicembre 1533.]

La mattina del dieci dicembre papa Clemente per le poste corse verso
Roma, e vi giunse il giorno istesso alle due pomeridiane. La sera fecero
vela le galèe di Malta verso l'isola, condotte dal luogotenente del
Salviati; e verso Genova si rivolse Marcantonio del Carretto in
compagnia del capitano Paolo Giustiniani, che vi rimenava alcune galèe
assoldate già prima alle spese della Camera apostolica.

NOTE:

[440] FRANCISCUS BELCAIRUS, _Rerum Gallicarum_, lib. XX, in-fol. Lione,
1625, p. 641: «_Clemens septimus Massilia solvens, et gravi tempestate
jactatus, Savonam transmisit: ubi gallicis triremibus non satis fidens,
propter navarchorum imperitiam, aurianas ascendit, et Centumcellas
petiit._»

[441] GUALTERIUS cit., in _Diariis_ Mss. «_Die mercurii, duoduecima
novembris, recessimus ex Massilia, et venimus ad locum Salitæ.... die
jovis ad locum Tropæi, die veneris ad Villamfrancam.... Die septima
decembris Pontifex applicuit ad Civitatem Veterem.... die decima dicti
ingressus est Urbem hora vigesima prima._»

[442] CLEMENS PP. VII, _Andreæ de Auria. Datum Civitæ Vetulæ die septimo
decembris MDXXXIII_: apud RAYNALDUM ann. 1533, n. 88: «_Revertitur ad
nobilitatem tuam dilectus filius nobilis vir Marcus Antonius de Auria,
natus tuus, cum tuis triremibus.... gratias tuæ nobilitati.... etc._»

[443] CLEMENS PP. VII, _Magistro domus hospitalis S. Joannis. Datum
Civitævetulæ, die octava decembris MDXXXIII_. — apud SEBASTIANUM PAOLI,
_Codice diplomatico_, in-fol. Lucca, 1737, t. II, p. 205: «_Notum esse
voluimus et dilecto filio, et secundum carnem nepoti nostro, priori
Urbis Bernardo de Salviatis, cæterisque vestris testimonium apud te
redderemus.... Geminato fructu quem ex illis cæpimus, tum in subventione
Coronis, tum in hac comitatione nostra.... gratias agimus, etc._»



[15 dicembre 1533.]

VIII. — Il capitan Salviati restossi nel porto di Civitavecchia con tre
galèe e un brigantino: comandante della marina, governatore della piazza
e castellano della rôcca. La nomina verbale agli ultimi due ufficî
valeagli fin dal principio, ma il brevetto non fu segnato che al primo
di settembre, quando egli era nei viaggi di Corone e di Marsiglia, e
però il possesso deve ridursi in questi giorni del suo ritorno e della
sua dimora. Produco il documento nella integrità, perchè inedito[444]:

«Al diletto figlio Bernardo dei Salviati, priore di Roma, e prefetto
delle nostre galèe. Clemente papa VII. — Figliuolo diletto, salute,
eccetera. Confidando nella tua virtù, fede, sollecitudine e prudenza,
per autorità apostolica e per tenore delle lettere presenti, noi ti
deputiamo castellano della fortezza e commissario della nostra terra di
Civitavecchia, con tutti gli onori, giurisdizioni, paghe, salarî ed
emolumenti consueti; e ciò da durare a nostro beneplacito, e da
principiare subito che sarai approdato nel detto porto. Ordiniamo nel
tempo stesso al presente castellano della detta fortezza, che la
consegni a te medesimo, o a chi tu manderai in tua vece, eccetera. —
Dato in Roma, presso san Pietro, sotto l'anello del Pescatore, addì
primo di settembre 1533, del nostro pontificato anno decimo. — Blosio».
Non occorre commento.

NOTE:

[444] CLEMENS PP. VII, _Bernardum de Salviatis triremium præfectum,
castellanum quoque arcis et commissarium terræ Civitævetulæ constituit._
— Dall'Archivio di Civitavecchia, e dalle Schede Borgiane in Propaganda.

«_Dilecto filio Bernardo de Salviatis priori Urbis, et nostrarum
triremium præfecto, Clemens papa VII. Dilecte fili, salutem etc. De tua
virtute, fide, diligentia, et prudentia confidentes, te castellanum
arcis et commissarium terrae Civitævetulæ cum honoribus et omnibus
jurisdictionibus, paghis, salariis, et emolumentis consuetis ad
beneplacitum nostrum, cum primum illuc appuleris incohandum, auctoritate
apostolica, tenore præsentium deputamus. Mandantes moderno castellano
dictæ arcis ut tibi, vel missis a te, arcem etc. consignet. — Datum Romæ
apud sanctum Petrum, sub anulo Piscatoris, die prima septembris
MDXXXIII. Pont. Nori anno decimo. — Blosius._»



[16 aprile 1534.]

IX. — Più e più importante alla storia della marineria segue
l'inventario proprio di quest'anno addì sedici di aprile, per la
consegna delle galèe al nuovo comandante: inventario non potuto
compilare prima pei continui suoi viaggi di Levante e di Francia. Lo
pubblico, perchè si veda la continuazione delle voci del mestiero: voci
che il Berisio, notajo romano, scriveva negli atti, come gli venivano
dall'ufficiale della marina deputato a questo servigio. Non altra
mutazione farò che dell'ortografia, correggendo gli idiotismi manifesti
dello scrittore, tanto che ne venga corretta la lezione. Dirò Bande,
dove è scritto _Banne_; Dodici, non _Dudichi_; Timoni, non _Temoni_, e
simili; perchè non voglio col pregio dei documenti crescere la
confusione del linguaggio marinaresco, ma in quella vece rilevare la
legittimità tradizionale dei vocaboli, purgati che sieno dalle mende dei
dialetti e della plebe. Ecco la traduzione del preambolo latino, e poi
come segue il testo volgare[445]:

«Addì sedici d'aprile, anno 1534, il reverendo signore fra Bernardo
Salviati, priore del priorato di Roma dell'ordine di san Giovanni
gerosolimitano, e capitan generale delle galèe del santissimo Signor
nostro, assegnate alla guardia del mar Tirreno, spontaneamente eccetera,
da sè eccetera, disse e dichiarò ed apertamente in pubblico confessò
nelle tre galèe e nel brigantino del suo governo e capitanato, come
sopra, essere e trovarsi tutte e singole le munizioni e fornimenti
contenuti e notati nella infrascritta Cedola, firmata e sottoscritta di
sua propria mano. Le quali cose, insieme colle predette galèe e
brigantino, il lodato signor capitano Bernardo ha promesso restituire a
suo tempo, secondo la forma espressa nei capitoli della sua condotta, e
tolta di mezzo ogni eccezione. Per le quali cose eccetera, si obbligò
eccetera. Fatto in Roma nel palazzo di casa Medici presso la piazza
Navona, che il medesimo signor Bernardo ha per suo abitare.

»Tenore della Cedola:

»LO INVENTARIO DI UNA GALÈA[446].

»Il corpo della galèa[447] fornita, con suoi banchi, pedagne,
balestriere e battagliole[448].

»Item dodici catene di ferro per fornimento della sartia[449].

»Item due timoni forniti con loro aggiacci, aguglie e feminelle[450].

»Item uno schifo con sua catena, e tre paja di remi.

»Item un fanale dorato.

»Item l'albero della galèa et antenna, fornito di sartia e taglie; e
bronzi per imbronzare il calcese e le taglie, come si usa.

»Item altre taglie, pasteche di schifo, e da arborare, et alcune di
rispetto.

»Item remi pel fornimento di una galèa et di rispetto, in tutto
centosettanta[451].

»Item piombo per impiombare il palamento et altre cose necessarie alla
galèa, cantari nove e un terzo.

»Item catene pei forzati interziate[452], coi loro perni e chiavette,
quarantanove.

»Item manette, perni, traverse per la munizione della galèa,
quarantadue.

»Item pali di ferro tre.

»Item accette[453] tredici per la provvisione della galèa.

»Item per la cucina della galèa, una caldaja grande, una mezzana, una
terza, ed otto calderotti piccoli.

»Item padelle tre, et spiedi quattro.

»Item due ronzoni[454] di ferro per sorgere.

»Item barili da acqua cennovantasei.

»Item vernicali[455] centocinquanta.

»Item una manica di corame per empir la stipa[456].

»Item pavesi ducento[457].

»Item rotelle quaranta.

»Item botti per la stipa tredici.

»Item archibusi co' loro fornimenti cinquanta.

»Item celate trentatrè.

»Item lancioni quindici.

»Item partigianoni dodici.

»Item alabarde trentatrè.

»Item picche cento.

»Item spade quaranta.

»Item l'albero e antenna del trinchetto fornito di sua sartia, come si
usa.

»IL VELAME.

»Un artimone[458] guernito co' suoi mattaffioni e cordini[459].

»Un bastardo guernito, come sopra.

»Una borda guernita, come di sopra.

»La vela del trinchetto guernita, come si usa.

»Una vela di trevo[460]

»LE TENDE.

»Una tenda di albagio.

»Una tenda di canavaccio.

»Un tendale di albagio.

»Un tendale di cotonina.

»Due bussole da navigare.

»Quattro ampollette per la guardia.

»E più due caldaje grandi e due piccole, e quattro cucchiaj, che sono
per cuocere la pece da calafatare, e serviranno per le tre galèe.

»SARTIAME.

»Cinque gomene.

»Due gomenette.

»Un prodàno, et una vetta di prodàno[461].

»Le vette[462] da ghindare[463].

»Le oste della galera[464].

»Le orze a poppa, e l'orza novella[465].

»Un pajo di amanti.

»Due scotte.

»Due palmare[466].

»Una grippia da collo[467].

»Una vetta da arborare.

»Una barbetta per lo schifo[468].

»Un provese.

»Una quarnaletta.

»Gli stroppi con che voga il palamento.

»L'ARTIGLIERIA.

»Un cannone serpentino per la prua della galèa col suo ceppo
ferrato[469].

»Due mezzi cannoni serpentini per la prua, coi loro ceppi ferrati[470].

»Due quarti cannoni[471] per le bande coi loro ceppi ferrati.

»Due smerigli grandi per le bitte, et quattro piccoli per le bande[472].
Et più le carcature per la predetta artiglieria[473].

»Lo inventario di sopra scritto è tutto della galèa capitana, e così
delle altre due galèe, riservato il fanale, et le caldaje di pece.

»Et più il bucio[474] del brigantino co' suoi banchi.

»Item albero et antenna guernito di sartia e taglie.

»Item remi trentadue.

»Item una vela guernita.

»Item un ferro per sorgere.

»Item un cavetto e due provesi.

»Fra Bernardo Salviati priore di Roma.»

NOTE:

[445] PROTOCOLLO del notajo Berisio, nell'Archivio dei Notari e
Cancellieri di Camera a Montecitorio in Roma. Volume intestato
_Contract. ann. 1534, cart. 152, vers._

«_Die XVI aprilis MDXXXIV. R. D. frater Bernardus de Salviatis prior
prioratus almæ Urbis, Ordinis sancti Joannis hierosolymitani, et
triremium SSmi D. N. Papæ ad custodiam maris Thirreni dispositarum
Generalis capitaneus, sua sponte etc. per se etc. dixit et declaravit,
et palam publice confessus fuit in tribus triremibus et brigantino,
quorum ut præfertur capitaneus existit esse omnes et singulas munitiones
et furnimenta infrascripta Cedula inferius registrata, et ejus manu et
subscriptione munita, contenta et annotata. Quæ omnia una cum prædictis
galeis et brigantino præfatus D. Bernardus capitaneus restituere et
consignare promisit, juxta formam capitulorum dictæ conductæ omni
exceptione remota. Pro quibus etc. se obligavit etc. — Actum Romæ in
palatio familiæ de Medicis, prope Agonem, nunc habitationis ipsius D.
Bernardi etc. — Tenor dictæ Cedulæ.:_»

[446] _Inventario_, qui segue il testo in volgare, salvo l'ammenda
ortografica: e si noti che non è per la restituzione immediata, ma per
la consegna, coll'obbligo di restituire quando ne sarà richiesto dalla
Camera.

[447] _Galèa_, dalla clausola in fine si deduce che si parla della
Capitana, essendo le altre due ugualmente fornite, meno il Fanale,
proprio della prima, e alcuni attrezzi comuni a tutte tre.

[448] _Pedagna_, queste voci ho già dichiarate nella storia del _Medio
èvo_, I, 187: ho detto come i rematori salendo dalla pedagna alla
banchina e al banco «_facevano descrivere al braccio del remo spazio
circolare doppio più che non era la distanza da banco a banco,
gittandosi colle spalle addietro, e traendosi il remo al petto sino alla
proda del banco seguente_.» Questo metodo era notissimo, come pur qui si
vede, due secoli prima di Giambattista Baliani, il quale nei suoi
Opuscoli fisico-matematici ritorna sul medesimo, come se fosse nuovo.
Parrebbe che al suo tempo (secolo decimosettimo inoltrato) fosse stato
da altri dismesso e da lui riprodotto; per quanto ora si può argomentare
dall'oscuro latino suo, e senza figure.

[449] _Catene_, oggi nei quadri diconsi _Landre_.

[450] _Aguglia_, ciascun pernio grande su cui gira il timone, il dim.
_Agugliotto_. — _Feminella_, l'occhio mastiettato con le sue bandelle,
nel quale entra l'aguglia. — L'_Aggiaccio_ è la barra per governarlo.

[451] _Remi_ per vogare a terzeruolo, cioè con tre remi per banco: indi
banchi ventisette, remi 162, e otto di rispetto.

[452] _Catene_ interziate, torna il medesimo tre rematori per banco.

[453] _Accette_, per legnare nei boschi.

[454] _Ronzoni_, àncore a quattro marre senza ceppo.

[455] _Vernicale_, torna la voce per scodella grande, come è detto fin
dal 1268. (I, 352.)

[456] _Stipa_, ramaglia da brusca usata nel calafatare: per traslato le
botti che sopra vi posano.

[457] _Pavesi_, scudi da far pavesata.

[458] _Artimone_, qui vela latina, minore del bastardo.

[459] _Mattaffioni_, funi matte, cioè cavetti che per lo più non si
annodano, ma pendono dalle verghe o vele, ed oscillano al vento, e
servono a diverse legature quando occorre sulle vele e verghe medesime.
— _Cordino_ per raccogliere la vela nel mezzo.

[460] _Trevo_, vela quadra e bassa; cioè vela di fortuna per la galèa.

[461] _Prodàno_, in genere canapo di proda o di prua, talvolta ormeggio,
e talvolta straglio di prua: e specialmente cavo piano di primo tiglio
per lavori di forza.

[462] _Vetta_ dal lat. _Vitta, ae, f. a vinciendo_, Capo di manovra
minore sopra un'altra manovra maggiore. Tirante, o Menale.

[463] _Ghindare_ già dichiarato (I, 200, 220.)

[464] _Osta_, cavo che mette e tiene l'antenna al vento, ed osta che non
si sposti.

[465] _Orza_ qui manovra e cavo da orientare il carro; e la novella di
riserva in caso che l'ordinaria si rompa.

[466] _Palmare_, _da palo e mare_: canapo manesco da essere portato per
acqua da un uomo a nuoto, e legato a un palo in terra. Indi le voci
Palombaro, Paróma e simili.

[467] _Grippia_ da aggrappare, Cavo legato all'àncora e al gavitello che
ne segna il posto: _da collo_, dicesi quella più forte che ajuta a
salpare.

[468] _Barbetta_, cavetto per legare lo schifo a rimburchio.

[469] _Serpentino_, cannone da cinquanta e di lunga volata, e lunga
canna, sino alle ventisei bocche, ma leggiero di metallo.

[470] _Mezzi cannoni_, da ventiquattro e di lunga canna.

[471] _Quarti cannoni_, cioè da dodici per le bande, da appostare sui
fianchi, come si vedrà qui appresso.

[472] _Smerigli_, tornano altri quattro pezzi sui fianchi, come sopra.
_Smerigli piccoli_ da quattro libbre di palla, che traevano a scaglia
posti sui ceppi.

[473] _Carcatura_, polvere, palle, metraglia, e tutta la munizione degli
undici pezzi.

[474] _Bucio_: ecco una prova di più, oltre a quel che è detto del
Bucintoro nel _Medio èvo_ (II, 469): la voce durava nel secolo XVI.



[20 aprile 1534.]

X. — Non posso lasciar correre la lindura e la brevità del documento ora
prodotto senza la compagnia di alcuni commenti. Il capitano Salviati,
parlando del fusto di un brigantino, non si perita chiamarlo il Bucio.
Dunque la radicale ormai notissima del famoso Bucintoro durava pel
comune uso tradizionale anche nel secolo decimosesto, e sotto la penna
di un marinaro che sentiva a un tempo di Firenze, di Malta e di Roma.
Potrei citare altri esempî[475]. Ma più di tutto stimo il suggerimento
dell'Archivio Veneto, e l'opinione anteriore di Angelo Zon, da me non
avvertita prima, la quale ora corrobora la mia diversamente cavata, e
tronca ogni altra disputa con un argomento di fatto[476]. Il cerimoniale
della basilica di san Marco, codice del secolo decimoterzo, parlando
della festa solenne dell'Ascensione, e della comparsa del Bucintoro alla
marina di Venezia, dice tutto aperto[477]: «I Canonici devono
accompagnare il Doge quando navigherà sul Bucio.»

Nel nostro documento esce adesso per la prima volta il titolo di
capitano Generale[478]. Bisogna avvertire che, venuto al governo della
squadra romana, il Salviati già teneva al suo carico la squadra maltese;
e per questo comandava sedici galèe, con due capitane. Indi a maggiore
autorità fece seguito più grandioso titolo. Lo stesso innalzamento dopo
venti anni successe in Malta a proposito di Leone Strozzi, di cui si
legge così[479]: «Al primo di giugno 1553 Leone Strozzi, priore di
Capua, prese possesso delle galere che erano sette: cioè le quattro
ordinarie della Religione, e le tre del medesimo Priore, che stavano al
soldo del comun tesoro. E perchè egli aveva avuto così gran carichi, et
allora comandava due capitane, per questo fu egli da tutti chiamato
comunemente il Generale. E questa fu la prima volta che il capitano con
tal titolo chiamato fosse.» Similitudine di cause, di effetti e di
avvertenze tra Malta e Roma.

Vuolsi ancora notare nell'inventario il costume romano sul conto delle
artiglierie. In ogni galèa undici pezzi, e i tre maggiori serpentini.
Intendi cannoni colubrinati, di lunga canna, almeno di ventisei bocche,
per più lontana gittata; e non troppo ricchi di metallo per maggior
leggerezza. Il corsiero da cinquanta, i laterali da ventiquattro, gli
estremi da dodici; due smerigli alle bitte, e quattro alla mezzanìa.
Sistema espressamente ricordato dal Pantera con queste parole[480]:
«Oltre al pezzo di corsìa, sogliono le galere portare un sagro dall'una
e dall'altra parte, e appresso ai sagri si mette un cannone petriero da
quindici: e più si suole accomodare verso le posticce uno smeriglio
dall'una e dall'altra banda della galèa. Questi pezzetti, caricandosi
con i mascoli et maneggiandosi facilmente, sono comodissimi. Alla poppa
portano un simile pezzetto da ogni parte alla spalla, o un petriero
piccolo, acciocchè aggravino meno. Et quest'ordine si tiene nell'armare
di artiglieria le galere ponentine.» Ne vedremo l'importanza e
l'applicazione.

Più largamente pel tempo successivo entrano in questi particolari i
codici più recenti dell'Archivio camerale, cominciato per ordine di
Alessandro VII, e continuato infino agli ultimi tempi[481]. Centinaja di
volumi, attenenti alle cose del mare, che forse io solo (dopo messi ai
palchetti) ho studiato ad uno ad uno per amplissima concessione del
cavaliere Angelo Galli, ministro allora delle Finanze in Roma, e
coll'assistenza di Pietro Benucci, archivista del ministerio: ambedue
ricordati per debito di gratitudine. Ne darò gli estratti secondo il
corso dei tempi seguenti: ma perchè questi ci rimandano agli anteriori,
valgano per sempre i cenni presenti di fatto mio proprio, che tutti quei
codici ho veduto nel palazzo Salviati (fabbricato dal medesimo nostro
capitano Generale), donde sono passati al moderno Archivio di Stato,
come mi dice il Corvisieri.

NOTE:

[475] BOSIO, III, 136, C: «_Barbarossa fece appiccare il fuoco bruciando
alcuni Buchi di galere già fabbricati per conto di Clemente VII._»

ITEM, p. 173, D: «_I Veneziani accomodassero il Pontefice dei Buchi che
ricercati avesse per fare il numero di galere._»

ITEM, p. 849, E: «_S. Santità havuti in prestito dodici buchi di galere
dai Venetiani, armare gli fece alle sue spese._»

[476] ARCHIVIO Veneto in-8. 1874, t. VII, parte prima, GIURIATO.

[477] CRONACA DA CANALE, _Arch. Stor. It._, in-8. Firenze, 1845, alla
nota 146: «_Canonici debent sociare dominum Ducem quando iverit in
Buzo._» — (Senza vele, senza alberi: Bucio.)

[478] DOCUM. cit. preambolo: «_Bernardus de Salviatis, triremium SSmi
domini nostri Papæ capitaneus Generalis._»

[479] BOSIO cit., III, 337, B.

Vedi sopra p. 43.

[480] PANTERA, _Armata navale_, in-4. Roma, 1614, p. 87.

[481] INVENTARIO di tutte le posizioni, istrumenti, tabelle, chirografi,
contratti, carteggi, eccetera, risguardanti le materie camerali, divise
coll'ordine relativo al nuovo metodo, con cui si ritengono nella
computisteria generale della R. C. A. e nell'archivio generale del
Ministero di Finanza, situato nel palazzo già Salviati, ora Camerale
alla Lungara:

«_Pagina 220: Civitavecchia, navi e galere pontificie, cui sono, state
poi surrogate le Barche guardacoste._

»_Tomi dodici delle materie attinenti alle galere e navi dal 1652 al
1789._

»_Altri tre come sopra, di seguito._

»_Altri due di relazione storica dei fatti concernenti l'assento delle
galere, navi, e fregate, cui sono succedute le guardacoste, scritta
dall'ab. Sperandini allora sostituto commissario._

»_Altro volume di materie risguardanti la costruzione delle antiche
guardacoste._

»_Armamento di due galeotte corsare per guardare la spiaggia
dell'Adriatico dal 1737 al 1754._

»_Scritture per la causa agitata avanti la congregazione dei conti fra
la R. C. A. e l'impresario della costruzione delle nuove guardacoste,
sulla pretensione del Bonifico delle spese oltre al convenuto, e suo
rescritto in fine._

»_Altri tomi risguardanti le navi di alto bordo e le fregate san Pietro,
san Paolo, san Clemente e san Carlo._

»_Strumenti, cause, promozioni, processi, assentisti, arsenali, torri,
navigazioni, Tevere, passonate, tiro, ec. ec., sino ai volumi segnati
775, 797._»



[12 giugno 1534.]

XI. — Ma poichè si avanza la buona stagione per navigare, e già da più
parti sul Tirreno scorrono gli amici ed i nemici nostri, gli è tempo di
uscir dagli archivi di stato e dei notaj, e di rivolgerci al mare, dove
al marzial brio possiamo anche da lungi riconoscere la squadra del
Salviati. Sono sei galèe: tre della guardia consueta, ed altrettante
armate alle spese dello splendido capitano, desideroso di farsi merito,
e sicuro di trovarne compenso. Gran cose deve aver fatto in quest'anno,
quantunque non se ne trovi sillaba negli scrittori romani. Ma l'eco
della fama allora ne portò infino a Genova le notizie, e di là me le
rimena per la penna del Bonfadio; il quale non tanto strettamente narra
le cose sue, che non se ne possano talora avvantaggiare le nostre. Il
capitano Marco Usodimare (come dice esso Bonfadio e tutti sanno) nobile
e prode genovese, facendo gran conto del Salviati e della sua gente,
venne quest'anno con cinque galèe a trovarlo, richiedendolo di conserva
contro una grossa banda di fuste e di galeotte piratiche, che rapinavano
a talento sulle maremme di Toscana. Navigarono le undici galèe intorno a
quelle isole, dalla Pianosa all'Elba, ed al canal di Piombino; e
finalmente vennero a sapere che il grosso dei pirati, fuggiti da ogni
altra parte, si tenea celato all'aspetto sulle ancore nella cala di
Montecristo, isoletta allora disabitata dirimpetto all'Argentaro, e ben
visibile col tempo alquanto sereno a chi riguarda da Civitavecchia
inverso ponente. Dunque antenne in battaglia, serpentini e smerigli in
batteria, soldati e marinari alle poste, e voga arrancata verso la cala.
Se non che dalle alture dell'isola avendo le guardie dei nemici
discoperto le nostre galere, imbrancaronsi in fuga precipitosa; risoluti
a loro costume di schivare lo scontro dei navigli militari. Nondimeno
due galeotte, meno delle altre preste a fuggire, sopraggiunte e
investite, vennero in potere di Bernardo e di Marco; ed una terza,
pertinacemente inseguita con lunga caccia, mainò la bandiera e s'arrese
all'altura di capo Côrso. Ducento Cristiani liberati dalla catena, cento
e più ladroni messi al remo, tre legni presi a rimburchio, e buona preda
divisa tra Genova e Roma[482].

Pensate feste al ritorno dei vincitori: feste sovente negli scorsi
secoli, e infino al principio del presente ripetute nelle nostre città
marittime per celebrare il trionfo dei prodi contro i barbari: feste pur
accennate qua e là da parecchi con qualche generica declamazione, ma da
niuno divisate colle particolari costumanze tradizionali, che si usavano
quasi all'istesso modo in Nizza, in Genova, in Livorno, in
Civitavecchia, e in tutti i porti d'Italia. Di che facendosi ogni giorno
più languida la memoria per le mutate condizioni dei tempi, andrebbe
ogni traccia finalmente a perdersi, se qualcuno non se ne facesse
espositore. L'indole di questa storia tanto stringe più che altri me
stesso, quanto ognun vede, a pigliarne il carico: però non mi perito di
soddisfarvi, come colui che nella mia patria infino dalla prima età, tra
il secondo e il terzo decennale di questo secolo, ho potuto raccogliere
gli ultimi ricordi dei nostri veterani, attori e testimonî del secolo
anteriore; e ne conservo tuttavia vivissima la memoria. Avrò io adesso a
tessere il catalogo delle antiche conoscenze, e a nominare tutti i
campioni, dal comandante Andrea Zara, infino al marinaro bombardiere
Carlo Viola? Per non divagar tanto lontano col discorso di altri e di
me, e senza togliere punto di fede al racconto, basterà che dica di
quest'ultimo più che ottuagenario, ma vegeto e rubizzo vecchio, cui noi
fanciulli col maestro facevamo corona nelle ore del passeggio vespertino
sul molo del Bicchiere per udirne i racconti. Ed egli con bel garbo
seduto sul calastrello di riposo d'un pezzo da quarantotto, quivi stesso
in batteria sul molo, dicendo e rispondendo alle nostre domande,
consolava la mestizia del suo verno, e la giocondità della nostra
primavera, discorrendo dei primi suoi combattimenti contro i Turchi, e
dei suoi ritorni vittoriosi: e divisava ogni cosa così bene per punto e
per segno, e colle circostanze delle persone, dei tempi e dei luoghi che
era delizia l'udirlo non solo a noi, ma a chiunque s'incontrasse a
passare.

Da lui adunque, e da altri ancora di maggior calibro, abbiamo per
tradizione perenne infino al termine, che i vincitori dei barbareschi,
nel tornare verso il porto colle prede ammarinate, davano avviso da
lungi del felice avvenimento e della festosa venuta: gala di bandiere, e
nove spari di cannone con tre rapidi colpi per tre lunghi intervalli. A
quel segno i cittadini, messa da parte ogni altra cura, concorrevano al
porto; i guardiani approntavano le cautele del lazzeretto, la
guarnigione schieravasi sulla calata, le campane di santa Maria sonavano
a gloria, e la fortezza, spiegati gli stendardi maggiori, salutava i
vegnenti con tiri ventuno, la piazza salutava con sei. Le prime notizie
ad alta voce davansi e riceveansi dal fortino del Bicchiere, presso la
bocca di Levante; e di là partiva il primo scoppio di plauso ai reduci
valorosi, e l'ultimo vale di congedo agli estinti benemeriti. I legni
entravano nel porto traendosi dietro le prede colle bandiere rovesciate,
e lo strascico in mare: pigliavano la posta al molo del lazzaretto; e
sbarcavano spartitamente, tra le voci e i saluti del popolo, prima i
Cristiani affrancati, e poi i Turchi prigionieri, perchè sotto custodia
purgassero la contumacia. Ciò fatto squillavano le trombe di bordo, e
salutavano santa Fermina protettrice dei naviganti: poi volgendosi
rispondevano ai saluti della fortezza e della piazza colpo per colpo: e
subito, senza pigliar pratica, uscivano dal porto per consumare al largo
in crociera di guardia la quarantina: pronti ogni giorno a rinnovare le
medesime feste e cautele, se la fortuna li avesse rimenati a novelli
cimenti. Finalmente cessato ogni pericolo di contagio (per quei tempi
anche la peste entrava tra i favori consueti dei Barbareschi), tutto
l'armamento, soldati e marinari sotto le armi, scendevano in terra coi
loro ufficiali alla testa, e appresso scalzi in lunga fila i Cristiani
affrancati venivano a processione nella chiesa di santa Maria, dove
rendevano le dovute grazie a Dio e ai Santi: e per memoria del beneficio
lasciavano la bandiera maggiore dei legni nemici.

Ricordo io in Civitavecchia, e ogni altro meco del mio tempo può
ricordare, come infino a venti anni fa sul cornicione della stessa
chiesa duravano ancora ritti agli stipiti di ciascuna finestra i gruppi
di queste bandiere: aste di quasi tre metri, e stamigne di color rosso
vergate di bianco con più maniere di stelle, di scimitarre e di rosoni.
Quei trofei delle nostre istorie tolti dal posto, e messi in pezzi al
focolare sotto la caldaja, caddero in un giorno tutti in cenere; tanto
che nè a me nè ad altri maggiori (quando il puzzo ne venne in Roma) non
fu più dato di poterne ricuperare briciola; e ciò pel fatto stupido di
chi ebbe mano negli ultimi ristauri di quel luogo. Al modo stesso pur
quivi ne avevano manomessi parecchi anche prima, e continuamente se ne
disertano altrove. Colpa di moderne fantasie, e di vecchie ignoranze.
Valgano queste parole per avviso, anzi che per biasimo: e servano di
compenso ai pubblici monumenti recentemente perduti. Parole scritte da
chi ricorda la riverenza con che gli anziani li additavano, e
l'ammirazione che i giovani ne sentivano: parole di chi ora, richiamando
le prime e care impressioni dell'adolescenza, ripensa come dalle
bandiere della Chiesa e dai racconti del Molo siansi forse derivati
nella sua mente ancor tenera i primi semi di questi volumi.

NOTE:

[482] JACOBUS BONFADIUS, _Annales Genuen._, lib. II, apud. — GRÆVIUM _in
Thesaur._ I, 1360, A: «_Marcus Ususmarius.... cum sex triremibus
pontificis maximi sibi conjunctis, cum intellexisset prædonum manum ad
insulam quæ Mons-Christi appellatur consedisse, eo celeriter contendit,
et primo statim adventu duas eorum biremes, et paulo post ad caput
Corsum tertiam expugnavit. Prædones ad centum comprehensi atque in
servitutem adducti; ducenti vero Christiani a servitute soluti._»



[1 luglio 1534.]

XII. — Ma perchè voglio conchiudere, torno a Solimano, intorno al quale
oramai scopertamente si raccoglie e cresce per ragion di stato la grande
pirateria. Dopo i rovesci di Corone, caduto in disgrazia prima Omèr-Aly,
e appresso Lufty-Bey, sottentra al governo dell'armata ottomana, come
supremo ammiraglio, il terribile Barbarossa: e l'innalzamento di cotesto
pubblico ladrone ad ufficio e dignità tanto principale nella monarchia
mi conduce a considerare più largamente le condizioni di lui, dei suoi
pari, e la nuova alleanza al culmine, per questi tempi, tra i pirati e
la casa ottomana.

Solimano teneva l'animo alle conquiste; non pure a danno dei Cristiani,
ma anche a scapito dei Musulmani. L'Africa settentrionale maggiormente
solleticava i suoi appetiti, e non è a stupire che anche verso quelle
parti distendesse i capi della sua rete. Vedeavi largamente diffusa per
opera dei Turchi, sudditi suoi, la minuta e la grande pirateria; e
arguiva il vantaggio che pe' suoi divisamenti avrebbe potuto cavarne. I
pirati, datisi alle rapine contro il commercio di levante e di ponente
dalle marine di Rodi e di Cipro, infino alle riviere d'Italia, di
Francia e di Spagna, per necessità avevano dovuto cercar rifugio,
ricetto e protezione nei porti vicini dell'Egitto e di Barberìa; ed i
sovrani indipendenti delle antiche dinastie arabe e berbere non eransi
ricusati di accogliere lietamente i venturieri per dimostrazione di
fratellanza mussulmana, e per ingordigia di guadagni castrensi. Gli
stolti chiamandosi in casa gente strania e ladra, e vedendola ogni
giorno crescere di potenza, di clientela e di prestigio, non prevedevano
doversi attendere a essere una volta o l'altra cacciati. L'occasione
alla lunga non poteva fallire, nè potevano i pirati mancare di un punto
all'occasione. Venne il destro a senno di Solimano: la strada aperta, i
popoli volubili, i ladroni potenti. Egli prese tutti i pirati sotto la
sua protezione, e con un sol tiro seppe rivolgere ogni cosa a suo pro;
crescere tormento ai Cristiani, rimettere a nuovo la sua armata navale,
cacciare i vecchi padroni di Barberìa, e sottoporre l'Africa al suo
dominio. Sapeva bene il tristo, come pei fatti si comprovò, che non
avrebbero potuto da sè soli i pirati occupare tanto paese, e molto meno
mantenerselo lungamente contro i caduti, senza l'ajuto di
Costantinopoli, e senza riconoscere, come egli voleva, l'alta sovranità
del Sultano. Siamo or dunque al compiuto svolgimento di queste tresche
per opera dei maggiori pirati, ed ora fa mestieri chiamarli a rassegna,
secondo l'ordine e i meriti di ciascuno.

A quattro a quattro ci compariscono nei tre periodi della nostra storia
i principali archimandriti della pirateria, traendosi appresso alla loro
fortuna tutto il codazzo dei minori satelliti. I corifei della prima
quadriglia, venutici innanzi, sono già passati fra le ombre. Camalì,
principe di Santamaura, impiccato al suo posto[483]. Gaddalì, gran
capitano di Tunisi, messo in catena alla Pianosa, e non più
riscosso[484]. Curtògoli signore di Biserta, ammiraglio di Solimano, e
principe di Rodi, caduto e decrepito nell'isola[485]. E il quarto, Carrà
Maometto, viceammiraglio ottomano contro i Gerosolimitani, sbranato da
una palla di cannone, durante l'assedio[486].

Sottentra la seconda quadriglia di maggior comparsa: e ci stanno ora
innanzi, tutti allievi della prima scuola in aria di superare i maestri,
il Moro, il Giudèo, Cacciadiavoli e Barbarossa. Verranno appresso quei
della terza: e nomineremo a suo tempo Moràt, Dragùt, Scirocco e
Lucciali. Ora diciamo dei presenti.

Il Moro, vero africano di schiatta, di colore e di pelo, faceva da
padrone in Alessandria. Di là con molti legni egiziani infestava
l'Arcipelago, quando non era ai soldi di Solimano; nell'armata del quale
lo abbiamo già veduto presso Corone. Costui ebbe il tracollo nell'anno
presente sulle coste di Candia; dove scontratosi con una squadretta di
galèe veneziane, che navigavano in Soria sotto la fede de' trattati,
volle provarsi a rubarle, facendo le viste di non credere alla bandiera
di san Marco. Era o no pirata? Se non che Girolamo da Canale, comandante
della squadretta, avvedutosi del furbo, prese anche esso a fingere di
non riconoscere gli stendardi del Moro: e di buon senno gli corrispose
con tal furia di cannonate, e l'ebbe talmente concio, che mandatigli a
fondo quattro bastimenti, ferì lui stesso, e l'afflisse d'irreparabil
danno, così che d'indi in poi non se ne dice più nulla. Solimano
imperatore non si ardì fare richiamo di ciò, saputo avendo che il Moro
era stato il primo a provocare: anzi mostrò di contentarsi delle scuse
mandategli subito dal Senato veneziano; e laudò il Canale per valoroso
ed accorto capitano. Pensate se a difesa di sfregiato ribaldo voleva
accattar briga coi Veneziani, quando gli cresceva grossa sulle braccia
la guerra per terra e per mare con Carlo imperatore[487].

Il Giudèo, come indica il nome, isdraelita rinnegato di Smirne, a furia
di ruberie aveva acquistato grandi ricchezze, e insieme il dominio delle
Gerbe. Da quell'isola navigava con trentaquattro bastimenti da remo a
ruina della Sicilia, di Napoli e della Spiaggia romana. Egli era cieco
d'un occhio: gli Arabi lo chiamavano Sinàm, i Turchi Ciefùt, e noi col
nome comune di Giudèo l'abbiamo più volte ricordato, specialmente quando
gli togliemmo due bastimenti a Gianutri; e ne diremo più cose appresso
infino al caso rarissimo che gli portò la morte, mostrandolo quale egli
era valoroso al pari di ogni altro pirata; e men di ogni altro pazzo e
crudele[488].

Aidino (etiope, come scrive il Bosio; o smirnèo, secondo l'opinione del
Varchi; o caramano a detto comune), per essere arrisicato e furioso
pirata, non altrimenti nominavasi tra i nostri e tra i suoi conoscenti,
che col terribile titolo di Cacciadiavoli. Costui divenuto famosissimo
nel ventinove, dopo l'uccisione del general Portondo, la strage degli
Spagnoli, e la presa di tutta la squadra che aveva lasciato a Genova
l'Imperatore, non aveva più chi ardisse misurarsi con lui. Di nome e di
fatto spaventoso a tutte le madri e a tutte le spose dei marinari della
Cristianità, sarebbe salito ad altissimo segno tra i novelli signori
dell'Africa, se per un caso di arsura dopo la guerra di Tunisi non fosse
caduto, come tra poco vedremo[489].

I fatti di Barbarossa si legano più strettamente alla nostra istoria,
però voglionsi con maggior larghezza trattare. Un greco rinnegato
dell'isola di Metellino, chiamato Giacopo, e dai Turchi (tra i quali era
assoldato come spahì) detto Jacùb, lasciò morendo due figliuoli, all'uno
dei quali aveva posto nome Urudge, e all'altro Chaireddin,
sopracchiamati dai nostri storici Oruccio e Ariadeno, e quest'ultimo pel
colore del pelame più comunemente Barbarossa[490]. I due fratelli (degli
altri qui non cale) poverissimi essendo, si gittarono insieme a vivere
di rapina corseggiando con una piccola fusta, armata a spese altrui; ed
avendo seguito la squadra di Camali-raìs, guadagnarono tanto con lui,
che vennero pian piano ad infrancarsi la fusta, poi ad armarne due, e
via via salendo giunsero a tante ricchezze e a sì gran pratica del
mestiero, che senza contrasto furono riconosciuti primi campioni della
grande pirateria nel Mediterraneo[491]. Vero è che non sempre la fortuna
andava a versi di costoro; e non di rado toccavano le busse, come ho
detto particolarmente di Barbarossa; quando gli togliemmo in un giorno
quindici bastimenti[492]: ma si rifacevano presto, e tornavano più
arrabbiati e più destri di prima. Il tristo mestiere aveva profonde
radici: la gioventù concorreva numerosa a cercar ventura, la plebe
inciurmavasi per fanatismo, i grandi favorivano per ostentazione, e i
principi agognavano servirsene per ragione di stato. Scoppiata in Algeri
la guerra di successione tra Mesud e Abdallah della famiglia dei
Beni-Hafss, avvenne che l'uno dei pretendenti chiamò Oruccio in ajuto,
per opera del quale cacciò l'altro, e si fece padrone del regno[493]. Ma
non corse gran tempo, come spesso tra simil gente suole avvenire, ed
Oruccio ammazzò il cliente e prese per sè il regno di Algeri,
assicurandone il possesso coll'investitura dell'imperator Solimano. Così
Barbarossa primamente divenne fratello del Re; e, dopo che questi fu
morto combattendo sotto le mura di Orano, divenne Re esso stesso, più
ardito e più crudele del primo. Di pelame rossiccio, di barba folta, di
mediocre statura, di forza erculea, era specialmente sguardevole per un
gran labbro spenzolato all'ingiù, che lo faceva alquanto bleso nel
favellare, e davagli l'aria di vero pirata. Superbo, vendicativo,
spietato, traditore; sapeva nondimeno pigliare le maniere graziose ed
affabili, massime nel sorridere col volto composto a dolcezza. Parlava
molte lingue, a preferenza la spagnola. Coraggioso, circospetto, amico
dei suoi subalterni. Aveva intorno a sè raccolte tutte le schiume:
Assan-agà, rinnegato sardo, per suo luogotenente; Haidino delle Smirne,
soprannomato Cacciadiavoli, per caposquadra; il Giudèo per capo di stato
maggiore; Tabàch, Salech, e Mamì-raìs per ajutanti. Tra i figli di
costoro e degli altri marinari sceglieva a preferenza gli ufficiali
novelli, dicendo che i lioncini diventano leoni. Studiava continuo
intorno alla costruzione navale: da pesante e tarda rendevala leggiera e
veloce, e ripeteva alle maestranze che per raggiugnere i cervi più
valgono i levrieri che i mastini: questi buoni a guardare la casa,
quelli a scorrere per la campagna ed a ghermire la preda. In vece delle
grosse artiglierie rinforzate di metallo, che tormentavano i bastimenti
proprî quasi più degli altrui, faceva imbarcare colubrine di minor peso
e di maggior passata; spiegando ai bombardieri il pensier suo
coll'esempio del braccio che, per cogliere e attrappare chi fugge, giova
averlo più tosto lungo che grosso. Tale era il re dei pirati, che,
avendo fatto scellerate cose contro i Cristiani per le marine
dell'Arcipelago, di Sicilia, di Napoli, di Genova e di Spagna, in
quest'anno mille cinquecento trentaquattro pigliava il comando supremo
della navale armata dell'imperio ottomano. Gli è questo o no il trionfo
della pirateria? Abbiamo o no la guerra coi pirati? Udite i fatti di
costui nell'anno presente.

NOTE:

[483] SANUDO e DOCUM. cit., alla p. 42 e segg. (_Kamâlì_, o
_Kamàl-Rays_.)

DE HAMMER cit., X, 444.

[484] GIUSTINIANI, BEMBO, PANTERA, e gli altri citati alla p. 167 e
segg. (_Gad-Aly._)

[485] BOSIO, AMARI, ed i citati a p. 144, 216, 237.

DE HAMMER cit., IX, 32. (_Kurdôgli._)

[486] FONTANUS cit., 466, 28: «_Archypirata Carrà Mahumethes, tormento
ab arce Telèa accuratius emisso, Orco traditus._» Vedi sopra, p. 216.
(_Karrà-Mahmùd._)

[487] BOSIO cit., III, 128, B. «_Il Moro di Alessandria combattuto e
rotto da Girolamo Canale nelle acque di Candia._»

MAMBRINO ROSEO, _Storie del Mondo_, in-4. Venezia, 1598, parte III, p.
154.

[488] BRANTÔME, _Capit. étrang._ cit., II, 82: «_Sinàm surnommé le Juif,
tres-renommé corsaire, et pour ce le sultan Solyman l'envoya pour son
admiral en la mer Rouge._»

DE HAMMER, X, 466: «_Sinàm rinegato ebrèo, difensore della Goletta._» —
Vedi p. 262; e l'Indice. (_Synàm, Ciefút._)

[489] VARCHI, _Storie_, ed. 1843, II, 24: «_Aidino delle Smirne,
nominato tra gli altri corsali Cacciadiavoli._»

BIZARUS cit., 485.

BOSIO, III, 79, B; e gli altri a p. 162.

CALVETUS STELLA, _De Afrodisio Capto_, ed. a CLAUSERO, _De rebus turc._,
in-fol. Basilea, 1556, p. 629: «_Cum nominis christiani hoste
atrocissimo Cahìs, cognomine Diabolus._»

DE HAMMER cit., X, 460: «_Un altro chiamato dagli storici europei
Cacciademonio, dagli italiani Cacciadiavoli, dai francesi Chassediable,
dagli olandesi Knuppeldiewel, e da Eutrobio Cassiadiabolus.
Probabilmente Cassia e Caccia sono Kasim o Quâsim._»

[490] Così scrivevano i nostri cinquecentisti; il primo sarebbe stato
tra i Musulmani _Oürudge_; e l'altro _Kair-ed-Din_. Le varianti al
solito; tanto che taluno di Oruccio ha fatto Orazio, e quasi tutti di
Kair-ed-Din han fatto Ariadeno.

[491] PAOLO GIOVIO, _Le vite brevemente descritte degli uomini illustri
di guerra antichi e moderni_, tradotte da LODOVICO DOMENICHI, in-4.
Firenze, 1554. Barbarossa; et _Histor._, lib. XXX.

ADRIEN RICHER, _Vie de Barberousse_, in-12. Parigi, 1781.

BRANTÔME, in-16. Leida, 1666. _Capit. étrang._ II, 79.

CORNELIUS SCEPPERUS, _Collect. rer. turc._, in-4. Anversa, 1554.

SCHARDIUS, _Collect. rer. german._

DE HAMMER cit., X, 444. — Barbarossa nella sua autobiografia tace, come
convenivagli, la primitiva religione di suo padre, asserita nondimeno da
tutti i contemporanei: e nomina gli altri due fratelli Isacco ed Elia.

[492] Vedi sopra, p. 277.

[493] DE HAMMER cit., X, 448.

GIOVIO, RICHER, aliiq. Nota 79.



[20 agosto 1534.]

XIII. — Il possesso dell'ammiragliato ha a essere famoso per inganni e
ruine a doppio contro Cristiani e contro Musulmani, presi insieme
all'istesso tranello con un tiro il più solenne di quanti mai ne possano
balenare alla mente d'un ribaldo. Eccone il filo. Era il regno di Tunisi
altresì lacerato dalla rivalità di due fratelli, Rossetto e Muleasse,
dell'antica dinastia berbera degli Hafsiti già ricordati, e indipendenti
dai Turchi[494]. Il maggiore dei pretendenti, discacciato dall'altro,
avendo fatto ricorso a Barbarossa, quale stupido pecorone al lupo
rapace, dettegli l'occasione sommamente desiderata di divorarli ambedue,
e di menare a un tempo il randello in Italia. Barbarossa fece grossa
armata più che ottanta vele; e perchè Muleasse non avesse a pigliar
sospetto, nè a mettersi sulle difese, sparse voce di voler tentare
imprese nel regno di Napoli per vendicare gli oltraggi ricevuti poc'anzi
a Corone. E non volendo che niuno avesse a tacciarlo di bugiardo, nè
Maleasse mai a dubitare delle sue parole; anzi perchè si rendesse
ciascuno più sicuro dei fatti suoi, venne realmente a Messina con tutta
l'armata, passò lo stretto, e tirando su marina marina, come turbine
menato da procelloso vento, disperse, disfece, incenerì bastimenti,
castella, città. In Calabria saccheggiò Sanlucido, e ne trasse tutto il
popolo in schiavitù. Scórse di là al Cetraro, ove trovò la terra
abbandonata, e vi fece appiccare il fuoco, bruciandovi insieme alcuni
corpi di galere, tra i quali erano tre già finiti per conto di papa
Clemente. Per tale incidente veniamo a sapere quanti modi teneansi a
crescere la forza materiale della nostra marineria, e come da ogni parte
i pirati eranle infesti[495].

Barbarossa venne avanti, sbarcò in Procida, pose lo spavento in Napoli,
bruciò bastimenti nel golfo, prese prigioni e roba da ogni parte:
bombardò Gaeta, distrusse Sperlonga, e per tradimento ebbe Fondi,
fuggendone a stento la celebre Giulia Gonzaga, vedova di Vespasiano
Colonna, duca di Trajetto, e riputata la più bella donna d'Italia[496].
Dicono che Barbarossa sarebbe riuscito nell'intento di presentare beltà
tanto rara in dono a Solimano, se la giovane Contessa non fosse stata
tra i primi a riscuotersi dal sonno, ed a fuggire seminuda dalle branche
del ladrone. Il quale nondimeno vendicossi saccheggiando la terra,
battendo e bruciando Terracina. Finalmente comparve alli venti d'agosto
sulle marine di Roma presso alla foce del Tevere; con tale sbigottimento
dei popoli, che gli scrittori contemporanei comunemente asseriscono, che
Barbarossa avrebbe preso di certo Roma e Napoli, se ne avesse fatto la
prova[497].

NOTE:

[494] MARCO GUAZZO cit., 116: «_Del mese di febbraio 1534 morì
Muleì-Mausèt re di Tunisi, lasciando due figliuoli: Muleì-Roscit, e
Muleì-Hasèm._» — (V. sopra, p. 149, e seg.)

[495] BOSIO cit., III, 136, C: «_Barbarossa al Cetraro fece appiccare il
fuoco, abbruciando alcuni Buchi di galere che quivi si facevano, tra i
quali tre già pronti a vararsi per conto di Clemente VII._»

RAYNALDUS, _Ann._, 1534, n. 60: «_Barbarossa Citrarium incendit, et
septem triremes adhuc imperfectas cremavit._»

ANTONIO DORIA, _Compendio_ cit., 53: «_Barbarossa bruggiò al Cetrano sei
corpi di galèe._»

HAMMER cit., X, 452: «_Barbarossa assalì San Lucido, prese 800
prigionieri, e lo bruciò. Egual sorte ebbe il Cetraro insieme con
diciotto galere._»



[Settembre 1534.]

XIV. — Ma colui non intendeva a questo: anzi fermo nel doppio disegno,
riuscitagli a talento la prima parte, non voleva indugiarsi a compiere
la seconda. Quindi all'improvviso, rinfrescata nel Tevere la provvisione
dell'acqua, e fatta la legna nei boschi vicini, pigliava la volta; e pel
rombo di Ostrolibeccio tra la Sicilia e la Sardegna gittavasi a golfo
lanciato sopra Tunisi. Muleasse era in festa nella reggia, non attendeva
visite, non sospettava di Barbarossa: anzi da buon musulmano, lodava ai
suoi tunisini i meriti di lui in così belle fazioni, la cui fama ad arte
si era fatta correre in Africa, e per tutto altrove. Pensate se non lo
chiamò esso pure pirata e traditore, quando una bella mattina se lo vide
accigliato venirgli improvvisamente davanti, entrare nella reggia, e
cacciarlo di casa!

Fattosi adunque Barbarossa, per le ladre invasioni sul nostro e
sull'altrui, sommamente odioso a tutti i popoli, non altro era a udire
in Europa che il grido della pubblica indignazione contro di lui: tutti
richiedevano dai Principi, dall'Imperatore e dal Papa che si dovesse
subito subito fiaccargli l'orgoglio.

[23 settembre 1534.]

Era allora nell'ultima infermità papa Clemente: nondimeno i ministri
ordinarono la leva in massa dentro Roma, il rinforzo delle guardie pel
littorale, l'armamento della fortezza di Civitavecchia, l'apparecchio
della squadra navale, e la compra di altre sette galèe commisero al
capitano Paolo Giustiniani luogotenente del Salviati. Ma essendo poco
dopo, addì venticinque di settembre, mancato di vita l'istesso
Pontefice, restarono le maggiori provvisioni riservate al successore,
come vedremo nell'altro libro[498].

[Ottobre 1534.]

Il Salviati intanto, afflitto e pensieroso per la morte dello zio,
rassegnava al nuovo Pontefice i ricchi e nobili ufficî che aveva dal
precessore ricevuti, e tra essi la castellanìa di Civitavecchia e il
generalato delle galèe, perchè ne disponesse a suo piacimento. Accettata
la dimissione, restavasi in Roma col titolo di ambasciatore ordinario e
di procurator generale del suo Ordine gerosolimitano presso la santa
Sede. Dopo qualche tempo, legato come era dai voti solenni della
professione religiosa, e adulto negli anni, lasciò la spada, prese gli
ordini sacri, e si ridusse in Parigi presso la cugina, dalla quale fu
nominato elemosiniero di Francia, e vescovo di Chiaramonte. Finalmente
ebbe il cardinalato da Pio IV, e morì in Roma addì sei di maggio del
1568. Le sue benemerenze si ricordano ancora dai Romani per quel suntoso
palazzo che tuttavia mantiene il nome dei principi Salviati suoi
successori ed eredi, sulla riva destra del Tevere di fronte al porto
Leonino, architettato da Nanni di Baccio Bigio[499]. Palazzo da Bernardo
Salviati con grandissimo dispendio fabbricato in Roma a imitazione di
Andrea Doria in Genova, per onorarvi, se il caso ne venisse, con
splendida accoglienza il Re e i Reali di Francia, come l'altro vi menava
in trionfo l'Imperatore e gl'Infanti di Spagna.

NOTE:

[496] VASARI cit., ed. Le Monnier, nella vita di _Sebastiano Veneziano_
detto _del Piombo_, ricorda il famoso ritratto di questa Signora, X,
131.

ANNIBAL CARO, _Lettere famigliari_, in-8. Padova, 1742. I, 47, 58, 315,
338. Parla della stessa.

ARIOSTO, _Orlando Furioso_, XLVI, 8:

    «_Giulia Gonzaga, che dovunque il piede_
    _Volge, e dovunque i sereni occhi gira,_
    _Non pure ogni altra di beltà le cede,_
    _Ma come scesa dal ciel dèa l'ammira._»

[497] JOVIUS cit., lib. XXXIII.

RAYNALDUS, _Ann._, 1534, n. 60.

ROSEO, III, 165.

CONTATORE, _Storia di Terracina_, 146.

DE HAMMER cit., X, 453.

[498] GUALTERIUS cit., Mss.: «_Die vigesima quinta septembris hora
decima-octava et media Clemens VII obiit Romae, et die vigesima sexta
sepelitur in Ecclesia sancti Petri._» (Donde fu poi trasportato al nobil
tumulo che tuttavia si mantiene nel coro della Minerva, rimpetto a Leon
X.)

RAYNALDUS, _Ann._, 1534, n. 68.

[499] VASARI, ed. _Le Monnier_, XIII, 125, 2.



LIBRO SESTO.

Capitano Gentil Virginio Orsini, conte dell'Anguillara. [1534-1548.]


PARTE PRIMA. DAL 34 AL 37.


SOMMARIO DEI CAPITOLI.

I. — Paolo III e il conte dell'Anguillara. — Nomina di capitano, e
brevetto (20 novembre 1534).

II. — Capitoli e strumento della condotta (2 dicembre 1534). — Paolo
Giustiniani luogotenente, ed altri ufficiali. — Disegni contro
Barbarossa (febbrajo 1535).

III. — Dodici galèe alla vela (2 marzo 1535). — Partenza e documento. —
Raunanza di navigli in Civitavecchia, e arrivo del Papa (20 aprile). —
Pregi del porto.

IV. — La benedizione e la medaglia di papa Paolo (23 aprile). — Sua
dimora in Civitavecchia. — Compimento della fortezza e mastio ottagono
primitivo.

V. — L'armata in Cagliari. — Carlo V sulla imperiale col Doria. —
Prevalenza delle galèe sulle navi. — Le Poliremi.

VI. — Ordinanza e bandiere. — In Africa. — Incaglio della Imperiale. —
Detto e fatto di Andrea. — Golfo di Tunisi (25 giugno 1535).

VII. — La Goletta. — Le fortificazioni vecchie e nuove. — L'armata dei
pirati nello stagno. — Errore di Barbarossa. — Sue forze e seguaci
(luglio 1535). — L'assedio e le trincere. — Combattimenti e sortite. —
Mortalità dei nostri.

VIII. — Batteria generale di terra e di mare. — Manovra speciale delle
galere. — Distruzione delle difese. — Assalto alla Goletta, vittoria e
conseguenze (14 luglio 1535).

IX. — Fieri propositi di Barbarossa contro i suoi. — Risposta del
Giudèo. — I consiglieri di Carlo V. — L'Orsino propone l'espugnazione di
Tunisi. — Marcia dell'esercito cristiano. — Campo di Barbarossa e sua
ritirata (19 luglio 1535).

X. — Gli schiavi cristiani in Tunisi minacciati di esterminio. — Parere
del Giudèo. — Condizione dei rinnegati, e degli schiavi. — Accordo tra
loro. — Sollevazione interna e vittoria dell'esercito cristiano. — Fuga
di Barbarossa e del Giudèo, morte di Cacciadiavoli (21 luglio 1535).

XI. — Carlo in Tunisi. — Patti col nuovo Re. — L'Orsino porta in Roma i
serrami di Tunisi. — Lapida al Vaticano senza il suo nome! (agosto e
dicembre 1535).

XII. — Carlo in Roma e querele contro Francesco per Milano (5 aprile
1536). — Chiamata dei Turchi. — Armamenti di Solimano, e provvidenze del
Papa (1536).

XIII. — Paolo III in Civitavecchia per gli armamenti (aprile 1537). — I
Turchi pigliano Castro nella Puglia (8 luglio 1537). L'Orsino con sei
galèe unito all'armata del Doria. — Cacciata dei convogli nemici (10
luglio 1537).

XIV. — Presi ed arsi quattordici schirazzi (13 luglio). — Due galere e
una galeotta gittate a traverso. — Il Bey, prigioniero dei Cimmeriotti,
incolpa i Veneziani. — Solimano dichiara guerra a Venezia, e richiama i
suoi dalla Puglia (20 luglio 1537).

XV. — Crociera per proteggere i Veneziani. — Combattimento di quaranta
contro dodici. — Valore fa numero. — Vittoria stentata dei nostri. — I
pezzi di mezzania sulle galèe conchiudono (23 luglio).

XVI. — Risarcimenti al Pacso. — Divisione della preda. — Ritorno a
Messina. — Feste dei Siciliani. — Difesa dei Veneti. — Ritirata di
Solimano (settembre 1537).

XVII. — Venuta dei Francesi in Italia e loro rovesci. — Spedizione per
richiamare Solimano. — Fazioni dell'armata. — Ritorno di tutti ai loro
porti (ottobre 1537).



LIBRO SESTO.

CAPITANO GENTIL VIRGINIO ORSINI,

CONTE DELL'ANGUILLARA.

[1534-1548.]



PARTE PRIMA. DAL 34 AL 37.



[12 ottobre 1534.]

I. — Esultarono i Romani la notte del dodici d'ottobre, quando alla
suprema dignità col nome di Paolo III salì il cardinale Alessandro
Farnese, strettamente congiunto con quasi tutte le grandi famiglie della
città, tra le quali niuno più da un secolo, dopo Martino V, aveva tenuto
le somme chiavi: e il nuovo Eletto fin dal principio, alle amorevolezze
della sua patria corrispondendo, non dissimulò il proposito di rilevarne
la sorte, affidando ai concittadini suoi secondo il merito le cariche
vacanti, massime della milizia e della marineria. L'inclita progenie
degli Orsini[500], pari a qualunque delle maggiori di Roma e di fuori, e
tanto conosciuta, quanto basta per iscusare ogni altro discorso intorno
agli altissimi pregi di antichità e di grandezza, cui non potrà mai
nulla aggiugnere l'adulazione nè togliere la malignità, tra le prime
provò gli effetti dei nuovi favori diffusi sul patriziato romano: ed il
supremo comando del mare venne affidato a Gentil Virginio Orsini, conte
dell'Anguillara, uomo per arte e per valore da essere annoverato tra i
primi marini del suo tempo, che pur n'ebbe di molti e di
eccellentissimi. Prospettando il pelago dai littorani castelli dei suoi
maggiori[501], aveva posto il Conte fin dalla prima età amore e studio
grandissimo alle cose del mare; e coi propri navigli militando prima e
dopo, anche in Francia, giunse a meritarsi, quantunque straniero, la
rarità dell'ordine di san Michele, e il grado di luogotenente generale
nelle marittime armate del re Francesco. Stringomi ora alle cose romane,
e incomincio coll'inedito documento della sua nomina[502]:

[20 novembre 1534.]

«Paolo papa III al diletto figliuolo Gentil Virginio degli Orsini, conte
dell'Anguillara, e capitano generale delle nostre galèe. — Figlio
diletto, salute ed apostolica benedizione. — La nobiltà del sangue e
dell'animo tuo, la singolar fede e devozione che sempre hai dimostrato
verso di Noi e verso l'apostolica Sede, della quale tu sei nobil
suddito, giustamente ci fanno volgere il pensiero a te per chiederti il
fedele servigio della tua spada e del tuo senno a beneficio nostro e
della Sede predetta. Nella fiducia dunque di vederti degnamente
corrispondere alla grandezza della inclita casa tua ed alle nostre
fondate speranze in tutto quello che ti verrà commesso, noi per autorità
apostolica e pel tenore del brevetto presente a nostro beneplacito
facciamo, costituiamo e deputiamo te stesso (che anche secondo le
ragioni del sangue sei nostro parente) per Capitan generale delle galèe
nostre tanto esistenti quanto da essere costruite di nuovo, e di più per
commissario nostro nel porto e nella terra di Civitavecchia, con tutti
gli onori, pesi, giurisdizioni, facoltà ed emolumenti, secondo le leggi
e le usanze appartenenti ai capitani generali delle galèe ed ai
commissarî nostri nei predetti porto e terra. Quanto agli stipendî, noi
fin d'ora confermiamo e vogliamo osservati i capitoli della tua
condotta, intavolati tra te e il diletto figlio Agostino (Spinola), del
titolo di santo Apollinare prete cardinale, nostro e della santa romana
Chiesa camerlengo, come se qui fossero integralmente inseriti. Noi
pertanto in virtù di santa obedienza comandiamo a tutti e singoli gli
uomini della predetta terra, porto e galèe; ed a quelli di tutto lo
Stato e dominio della santa Chiesa romana, specialmente dei luoghi
littorani, tanto del Tirreno quanto dell'Adriatico, e similmente a tutte
le comunità, popoli e particolari persone, ed ai loro governatori
comandiamo che ti riconoscano per Capitano generale delle galèe e per
commissario nostro, e ti obbediscano come si deve e si suole, e ti diano
sempre e dovunque favore ed assistenza. Altresì comandiamo a coloro cui
spetta di somministrarti ciò che ti devono secondo le leggi e le
consuetudini, non ostante qualunque cosa in contrario. Vogliamo tuttavia
che, prima di prender possesso del detto ufficio, tu debba essere tenuto
a prestare il consueto giuramento nelle mani dell'istesso Camerlengo, ed
a promettere e mantenere le altre convenzioni, secondo il tenore dei
predetti capitoli.»

«Dato in Roma, addì venti del mese di novembre, 1534. Anno primo del
pontificato. — Blosio. — Agostino cardinal camerlengo.»

NOTE:

[500] POMPEO LITTA, _Le famiglie celebri d'Italia_, in-fol. magno,
figur. Milano, 1838. — _Casa Orsini di Roma_, tav. XXVII, _Gentil
Virginio_. — (Voglionsi in esso correggere gli errori delle date,
conforme ai documenti certi che verrò producendo in questo libro.)

SANSOVINO, _L'istoria di casa Orsina e degli uomini illustri della
medesima_, in-fol. 1565, II, 25.

GAMURRINI, _Genealogia delle famiglie toscane ed umbre_, in-4. Firenze,
1671, II, 22.

IMHOFF, _Genealogia viginti illustrium in Italia familiarum_, in-fol.
Amsterdam, 1710, p. 332.

[501] CARDINALE ORSINI, _Lettera all'abate Giustiniani sopra le
antichità di Palo e delle località vicine_. (Feudi degli Orsini in
maremma a ponente di Roma.) Tra le memorabili del medesimo Giustiniani,
t. I. — BIB. CASANAT., VV, IX, 4.

[502] PAULUS PP. III, _Gentilem Virginium de Ursinis capitaneum
generalem triremium et commissarium portus et oppidi Civitævetulæ
constituit_. — ARC. SECR. VAT., Lib. Brev. _Ann._, 1534, mense nov. n.
3, p. 45; e schede Borgiane nel Musèo di Propaganda; e dall'Arch. di
Civitavecchia.

«_Paulus papa III, dilecto filio Gentili Virginio de Ursinis,
Anguillariæ comiti, nostrarum triremium capitaneo generali. — Dilecte
fili, salutem etc. — Nobilitas generis et animi tui, singularisque fides
et devotio tua ergo Nos et sanctam apostolicam Sedem, cuius nobilis es
subditus, merito nos inducunt ut tua opera fidelitate ac diligentia in
nostris et dictæ Sedis servitiis libenter utamur. Itaque sperantes quod
in rebus tibi commissis tuo inclyto generi et nostræ in te fiduciæ
respondebis, te, qui etiam consanguineus secundum carnem noster existis,
nostrarum triremium tam præsentium quam fabricandarum generalem
Capitaneum, nec non in portu et oppido Civitævetulæ nostris commissarium
nostrum, cum omnibus et singulis honoribus, oneribus, jurisdictionibus,
facultatibus, et emolumentis ad generales triremium Capitaneos ac
dictorum oppidi et portus Commissarios pertinere solitis et consuetis;
salario vero in capitulis inter dilectum filium Augustinum, tituli
sancti Apollinaris presbyterum cardinalem nostrum et S. R. E.
Camerarium, quæ nos confirmamus et observari debere decernimus, a te
initis specificando, auctoritate apostolica ad nostrum beneplacitum,
facimus, constituimus et deputamus per presentes. Quapropter tam
dictorum oppidi et portus ac triremium hominibus, quam totius Status et
ditionis S. R. E. præsertim littoralium locorum Tyrrheni et Hadriatici
maris communitatibus, populis et particularibus personis, eorumque
gubernatoribus in virtute sanctæ obedientiæ præcipimus ut tibi tamquam
Capitaneo generali triremium et commissario nostro, prout consueverunt
et tenentur, obediant, foveant et assistant, et ad quos spectat de
consuetis et debitis respondeant. Contrariis non obstantibus
quibuscumque. Volumus autem quod antequam officium hujusmodi ineas
juramentum et alia, juxta tenorem capitulorum præedictorum a te
adimplenda, in manibus prædicti Camerarii præstare, promittere et
adimplere tenearis._»

«_Datum Romæ, die vigesima novembris, MDXXXIV, anno primo: — Blosius. —
A. card. Camerarius._»



[7 dicembre 1534.]

II. — Appresso a questo Breve, potranno gli archivisti, che ora
rimettono a sesto le carte, registrare l'istrumento della condotta di
Gentil Virginio alla guardia del mare, secondo l'indicazione che qui ne
do senza volerlo ripetere io, perchè simile agli altri due già
pubblicati e commentati pel Biassa e pel Vettori. Al mio proposito può
senz'altro bastare il preambolo per stabilire brevemente, e con
documenti inediti, la certezza dei fatti, dei luoghi, delle persone e
delle date[503].

«Giorno di lunedì, sette del mese di dicembre, anno 1534. — Il
reverendissimo in Cristo padre e signore Agostino Spinola del titolo di
santo Apollinare prete cardinale Perugino, e della santa romana Chiesa
camerlengo, asserendo ed affermando di avere nelle mani certi capitoli,
convenzioni e patti da essere stipulati, contrattati e celebrati
coll'illustrissimo signor Gentile Virginio Orsini conte dell'Anguillara,
sopra la condotta del predetto signor conte Gentile per capitano
generale deputato alla custodia del mar Tirreno e della Spiaggia romana,
capitoli già conosciuti da sua Santità, e firmati e stabiliti, secondo
l'infrascritto tenore; e volendo come si deve obedire al comando
sovrano, e provvedere altresì alla sicura navigazione del detto mare ed
alla comodità di chiunque vada o venga alla romana Curia, però il
predetto reverendissimo signor cardinale Camerlengo coll'intervento,
assistenza e consenso dei reverendi in Cristo padri, signor Ascanio
vescovo di Rimini e tesorier generale di nostro Signore, e di Giovanni
de Gaddi, e di Uberto di Gambara vescovo di Tortona, chierici della
Camera apostolica, insieme congregati a questo effetto, e rappresentanti
tutta la Camera apostolica, per comandamento di nostro Signore da una
parte, ed il predetto illustrissimo signor Gentile Virginio Orsini conte
e presente dall'altra parte, intorno alla condotta del predetto Conte
per capitan generale sopra la guardia del detto mare e spiaggia, gli uni
e l'altro stabilirono, contrassero, e celebrarono i seguenti capitoli,
patti e convenzioni, nel modo infrascritto.... eccetera.

«Fatto in Roma, nel borgo di san Pietro e nel palazzo di residenza del
predetto reverendissimo signor cardinale Camarlengo, giorno, mese ed
anno come sopra.»

Dunque Paolo III procedeva intorno alle faccende del mare con molta
speditezza e sollecitudine: esso in men di due mesi di già aveva in
pronto brevi, strumenti, capitano e squadra. Dodici galèe
apparecchiavansi pel Conte: le tre della guardia, permanente in
Civitavecchia, e le altre di nuova costruzione acquistate in Genova da
Paolo Giustiniani, luogotenente della squadra romana[504]. Paolo, nobile
veneto, ed eccellente marino[505], mostrava tra noi l'istessa bravura e
diligenza che tutti in lui avean lodato per l'assedio di Rodi[506]. Il
Conte altresì faceva prodigi: arrolava in pochi giorni millecinquecento
fanti, quasi tutti veterani delle bande di Renzo e degli altri della sua
casa, cresceva le genti di capo, chiamava marinari e maestranze dalle
province, raccoglieva vittuaglie e munizioni, metteasi in punto per
essere dei primi ad ogni fazione.

E ciò con molta ragione, perchè nell'invernata tutti sparlavano di
Barbarossa, e dicevano che dopo il fatto di Tunisi bisognava aspettarsi
da quello impigliatore colle forze navali sue proprie, e coll'armata del
Sultano, e colle squadre degli altri pirati, di vedere nella prossima
primavera soggiogata la Sicilia; o almeno colpite di tal guasto le
marine d'Italia, che si dovesse a petto della seconda stimare per nulla
la desolazione fattavi nella prima passata. Perciò concorrendo la
giustizia della causa, e la necessità della difesa, ed i clamori dei
popoli, facilmente si accordarono insieme Carlo imperatore, e papa
Paolo, di prevenire i danni proprî, anzi di portare la guerra nel paese
nemico, per troncare l'oltracotanza della pirateria, dandole sul capo, e
appunto colà nel regno di Tunisi, dove era men fermo, perchè più nuovo e
più violento, il suo dominio. A tal fine il Papa rilasciava
all'Imperatore le decime del clero; e doppie decime imponeva per tutta
l'Italia[507]; per questo la sollecitudine e i rinforzi dell'armamento
prescritti all'Orsino; e con impulso straordinario l'apprestamento di
navigli, di munizioni e di genti in tutti i porti d'Italia e di Spagna.
Il marchese del Vasto metteva assieme dodicimila fanti italiani,
bellissima gioventù, sotto tre colonnelli; Girolamo Tuttavilla, conte di
Sarno, già celebre pei fatti di Corone; Federigo del Carretto, marchese
di Finale, alleato del principe Doria; Agostino Spinola, di quella
casata che ha dato in ogni tempo eccellenti capitani ed ammiragli.
Ottomila fanti tedeschi si raccoglievano sotto le bandiere del conte
Massimiliano di Herbestein, ed altrettanti spagnuoli col famoso don
Fernando d'Alarcone. Il principe Doria attendeva all'armata navale ed ai
vascelli di trasporto per le munizioni, pei cavalli e per le artiglierie
di assedio e da campo; avendogli l'Imperatore fatto intendere
secretamente di volersi trovare in persona alla condotta di questa
impresa. Per timore di Barbarossa e dei pirati in quest'anno medesimo
papa Paolo cominciava a pensare alla fortificazione di Roma col
Sangallo, al compimento della fortezza di Civitavecchia con
Michelangelo, ed ai ristauri della rôcca d'Ostia col Cansacchi.

NOTE:

[503] ARCHIVIO dei notaj e cancellieri di camera cit., Volume intitolalo
_Contract. ab. ann._ 1531, _ad_ 1539. Ch. 34. rect. Berisius Not. —
«_Die Lunæ vij decembris MDXXXIV. — Rmus in Xto P. D. Augustinus
Spinula, tit. S. Apollinaris presb. card. Perus. S. R. E. Camerarius,
asserens et affirmans habere in manibus a SSmo D. N. D. Paulo div. prov.
Pp. III quædam capitula, conventiones et pacta ut cum Ilmo D. Gentile
Virginio Ursino de Anguillaria comite, super conducta d. D. Gentilis
comitis in capitaneum generalem ad custodiam maris Tyrrheni et Splagiæ
romanæ ineat, contrahat et celebret sibi tradita et de S. S. scitu
firmata et stabilita juxta tenorem infrascriptum, volens ut par est
mandatis apostolicis obsequi, et securæ navigationi d. maris pro romana
Curia et ad eam venientium et ab ea recedentium commoditate providere,
hinc est quod praef. Rmus D. card. Camerarius assistentibus,
intervenientibus et consentientibus R. in Xto pabus d. Ascanio epo
Arimin. SSmi. d. n. p. thesaurario generali, el Joanne de Gaddis, et
Uberto de Gambara, epo Terdonen. Cameræ aplæ clericis insimul
congregatis ad hunc effectum et totam Cameram aplcam representantibus de
præf. SSmi D. N. Pp. mandato ex una, et præfatus Illmus D. Gentiles
Virginius Ursinus comes prædictus presens partibus ex altera, super
conducta prædicti Comitis in Capitaneum generalem ad custodiam dicti
maris el Splagiæ capitula pacta et conventiones infrascripta inierunt
contraxerunt, in hunc qui sequitur modum...._

»_Actum Romæ in burgo S. Petri, in palatio residentiæ præfati Card.
Camerari die, mense, et anno, ut supra._»

[504] BOSIO, III, 140, E: «_Il Papa ajutava l'imperatore con dodici
galere, che a sue spese aveva fatto armare in Genova et in Civitavecchia
a carico di Virginio Orsino._»

ARCHIVIO conventuale dei Domenicani in Civitavecchia, codici intitolati
_Ricordanze_ tre volumi in-fol. parv. segnati A. B. C., e codice
intitolato _Campione_, in-fol. e l'altro intitolato _Memorie_, p. 50:
«_Paolo terzo fece fare nove galere in Genova, alle quali aggiunse le
tre galere che erano solite di guardare la spiaggia, e delle dodici
galere fece generale il sig. Virginio Orsini._»

COLECION de documentos ineditos para la historia de España. ed.
NAVARRETE, in-8. Madrid, 1843. III, 545: «_Carta de Carlos V a la
imperadriz, del Caller 12 junio 1535: »Vinieron las tres galeras de Su
Santidad con otras nueve que armò en Jenua._»

ALFONSO ULLOA, _Vita di Carlo V_. in-4. Venezia, 1566, p. 137: «_Il papa
fece armare nove galere oltre alle tre che aveva prima, dandovi per capo
Virginio Orsino._»

[505] RAYNALDUS, _Ann._, 1534, n. 43: «_Pontifex novem triremes in portu
Genuensi comparavit, quibus tres alias quæ jam instructæ in portu
Centumcellarum erant conjunxit, Virginium Ursinum præfecit.... Adjuncto
Paulo Justiniano veneto, navali peritia insigni._»

[506] BOSIO cit., III, 140, E: «_Dando al conte Orsino per luogotenente
quel Paolo Giustiniani, gentiluomo veneziano, del quale sopra facemmo
menzione che di Candia aiutata aveva la Religione, mentre in Rodi si
trovava._»

IDEM, p. 3, A; et p. 6, E; etc.

[507] PAULI PP. III, _Bulla impositionis duarum decimarum super
fructibus ecclesiasticis in tota Italia_. — BIBL. CASANAT. _Collezione
grande di Bolle, editti, bandi_, etc. dal principio della stampa fino al
presente in più che settanta grossi volumi in-fol. t. I, n. 46.



[2 marzo 1535.]

III. — La notte seguente al due di marzo il conte dell'Anguillara
salpava colle dodici galere da Civitavecchia verso Napoli, ove intendeva
congiungersi a don Pietro di Toledo, figliuolo del vicerè e capitano
delle galèe del Regno. Ecco un altro documento da intestare
nell'archivio domestico al nome del conte Gentile, della cui persona e
navigli onorevolmente si parla. Breve e nitida letterina del capitano
Giustiniani a Paolo III; scritta in volgare, meno le formole consuete in
quel tempo della introduzione e della chiusura che sono in latino[508]:
«Beatissimo Padre. Dopo l'umile raccomandazione di me stesso, e dopo
baciati i Santi piedi; vengo a dire come credo che Vostra Santità per
lettere dell'eccellenza del Conte intenderà che, essendo buon tempo,
coll'aiuto di Dio questa notte ci partiremo per Napoli, e di là poi
anderemo col resto dell'armata a trovare l'eccellenza del signor
principe Doria. Le galere di Vostra Santità sono così bene armate, come
ogni altra galera che sia per mare. Spero coll'aiuto di Dio, che il
Conte mio padrone farà onore a Vostra Santità ed a sè medesimo, ed
utilità alla religione cristiana. Io quanto più genuflesso mi raccomando
alla Santità Vostra e bacio i santi piedi, pregandola si contenti avere
per raccomandati i poveri miei figliuoli, e commettere al reverendo
signor Datario che il memoriale dato a Vostra Santità abbia effetto.
Bacio i santi piedi, pregando il signore Iddio che sana e felice
conservi Vostra Santità. — Di Civitavecchia a dì 2 marzo 1535. — Umile
servitore e schiavo, Paolo Giustiniani.»

[18 aprile 1535.]

Tre porti erano stati principalmente assegnati in Italia come centro
della spedizione contro Tunisi: Napoli, Genova e Cagliari. Di qua le
forze italiche, di là le oltramontane, nel mezzo la convergenza degli
uni e degli altri, per procedere unitamente al punto obbiettivo. Il
Toledo e l'Orsino, colle ventisei galere dello Stato e del Regno, erano
fin dal mese di marzo in Napoli, ed aspettavano Antonio Doria, di nostra
conoscenza, che doveva venire con altre ventidue galere scortando le
quaranta navi grosse del marchese del Vasto colle fanterie italiane
prese a Portovenere. Se non che, pesando ai due primi la tardanza del
terzo, uscirongli incontro per congiungersi più presto con lui, che
veniva lentamente di porto in porto, pigliando vittuaglia, artiglierie e
gente, secondo che ne trovava apparecchiate: e così gli uni e gli altri
capitarono a mezza via nel porto di Civitavecchia, dove altresì
dovevansi imbarcare alcune fanterie nostrane scritte per l'Imperatore
nella provincia della Marca[509].

[20 aprile 1535.]

Or mentre tanti bastimenti e così gran numero di soldati e di marinari
incontravansi in Civitavecchia, venne il desiderio al Papa di vederli; e
similmente alla gente raunata sul mare, il desiderio di riceverne la
benedizione: cosa facile, e prestamente messa ad effetto. Perciò
chiamarono a palazzo Biagio Martinelli da Cesena, prefetto delle
cirimonie, e imposergli di allestire ogni cosa secondo il rito già usato
da Sisto IV nel licenziare l'armata sua alla riscossa di Otranto contro
i Turchi, come altrove ho narrato[510]. Biagio istesso, scrivendone il
ricordo nei suoi diarî, dice essergli tornata vana ogni ricerca negli
archivi, tanto fra le scritture del Burcardo, che del Volterrano, e di
Paride (sia detto a nostro sollievo quando sovente ci troviamo in simile
distretta): però conchiude di aver composto del suo una formola
conveniente coll'approvazione del Papa, e spedito ai cardinali e a ogni
altro della cappella l'invito di trovarsi tutti insieme nella sala del
concistoro in Civitavecchia la mattina del ventitrè di aprile feria
sesta, sull'ora di terza, per ricevere i capitani, consegnare lo
stendardo, e dare la solenne benedizione all'armata. Aggiugne don Biagio
che per certa sua infermità non si mosse di Roma; e in vece mandò a
dirigere l'esecuzione Gianfrancesco Fermano, secondo cerimoniere e suo
collega[511].

Aveavi nel porto dodici galèe del Conte, quattordici del Toledo,
ventidue del Doria, in tutto quarantotto galèe; quaranta navi di alto
bordo, il marchese del Vasto, il principe di Salerno, quel di Bisignano,
lo Spinelli, il Caraffa, i due Sanseverini, il conte di Sarno, il
marchese del Finale, lo Spinola e tanti altri capitani delle fanterie, e
delle navi, e delle galere, con sopravi tra soldati, marinari e
rematori, più di trenta mila uomini[512].

Questi sono fatti da tutti saputi o visti nel secolo decimosesto; ed
altri simili saputi e visti seguiranno nei tempi posteriori, infino alla
spedizione di Egitto.[513] Per l'occupazione di Roma ai nostri giorni io
stesso ho veduto più volte andare e venire di Francia in flotta con
armi, bagaglie, artiglierie e cavalli, dieci e venti mila uomini; e
agiatamente nel porto di Civitavecchia compiere le operazioni di imbarco
e di sbarco con celerità e sicurezza. Non all'amore di patria, nè alle
passioni nostrane o straniere, nè ai capitani di inverno o di estate
m'appello io: sì bene ai fatti, cui niuno può misconoscere, quantunque
altri voglia fare le viste di obliarli. Al modo stesso, sostenuto dai
fatti, ripeto che infino a cinque anni fa, quando io scrivevo e stampavo
la mia Marina, e quando non correvano ancora i treni delle strade
ferrate per la Liguria, nè per le province di Roma, nè pei trafori del
Cenisio, allora il porto di Civitavecchia contava per uno dei centri
della navigazione a vapore di tutti i paesi; non essendovi linea
periodica di levante di ponente, che da Marsiglia e da Messina non
facesse punta di andata e di ritorno nel porto medesimo; dove trovavano
come altrove la comodità, e più che nei porti vicini la sicurezza. E
quantunque d'inverno e col tempo cattivo si stia male da per tutto,
nondimeno l'artificiosa struttura ed unica del nostro porto offriva ed
offre ai legni combattuti dalle tempeste comodo ricetto e sicura
stallìa; tanto che può dirsi arcirarissimo il caso di naufragio nel
porto medesimo, come non di raro succede altrove. Lascio da parte
Giovanni Villani, che, parlando di tempesta in Napoli, dice: «Quante
galèe e legni avea in quel porto, tutti li ruppe e gittò in terra.»
Lascio quel che tutti sanno di Livorno che non vi finisce burrasca che
non lasci qualche bastimento in secco sotto al Marzocco. Lascio gli
odiosi paragoni, i registri pubblici e le cifre arruffate. Basta
ricordare il fatto dei giorni presenti, registrato nell'ufficiale
Rivista marittima per raccogliere con certezza, come tra un centinajo di
naufragî in men di due mesi, pei porti di destra e di sinistra, non se
ne conti nè pur uno pel nostro; il cui movimento annuo, segnato dalla
stessa Rivista ufficiale, risulta di tremila duecento otto bastimenti
tra entrati e usciti, con cinquecentomila tonnellate, e trentamila
persone di equipaggio, per l'anno 1872, che è il primo della decadenza.
Si potrà nel tempo futuro ridurre ogni cosa al nulla, potremo cadere
come Pisa e come Amalfi: ma non sarà giammai possibile annichilire i
fatti del tempo precedente, nè censurare la verità delle proposizioni
che li ricordano[514].

NOTE:

[508] PAOLO GIUSTINIANI, _Lettera alla S. di N. S. data da
Civitavecchia, 2 marzo 1535_ — Pubblicata dallo storico giornale romano,
intitolato IL SAGGIATORE cit., I, 279, in-8. Roma 1844. — «_Beatissime
Pater, Post humilem recommendationem et pedum oscula beatorum._» — (Il
Conte, del quale si parla senza altri aggiunti, è Gentil Virginio, come
risulta dal contesto).

[509] MAMBRINO ROSEO cit., III, 169: «_L'imperatore fece in Italia
assoldare gente, oltre quella che gliene assoldò il Papa._»

GIROLAMO FANTINI, _I successi di Roma e di tutta l'Italia,
coll'apparecchio dell'armata contro Barbarossa_, in-4. Roma, 1535.

ANTONIO DORIA, _Compendio_ cit., 56; «_Il marchese del Vasto s'haveva da
imbarcare con Antonio Doria, con ordine di raccorre l'armata d'Italia e
condurla sino a capo di Polla di Sardegna, dove s'haveva a congiungere
con la di Spagna. E così raccolte sei galèe di Papa Paolo Terzo sotto il
governo di Gentil Virginio Orsino, tre della Signoria di Genova, et
alcun'altre armate di nuovo nel regno di Napoli, et altre di Sicilia....
con molti nobili, e soldati, con le munizioni et vittuaglie._»

GONZALO ILLESCAS, _Jornada de Carlos V a Tunes_: «_Papa Paulo offreciose
de ayudar a Su Majesdad con doce galeras.... los señores y republicas de
Italia todos acudieron._»

[510] P. A. G., _La Marina del medio èvo_, II, 435.

[511] BLASIUS MARTINELLI de Cæsena _Diaria Cæremonalia_, MSS. BIBL.
BARB., cod. 1102.

JOANNES FRANCISCUS Firmanus, Socius præfecti. in _Diariis_ ut sup. BIBL.
CASANAT. XX, III, 17. «_Mense aprili MDXXXV. Pontifex Centumcellis
triremes benedixit, et quarto calendas majas Romam reversus est._»

[512] GONZALO ILLESCAS, _La Jornada de Carlos V a Tunes_: «_El marquès
del Vasto con todas las compagnias de gente española, italianos, y
tuduscos, escribieronse cinco mil italianos mas del los ordenarios;
Maximiliano Eberstenio trajo hasta ocho mil tudescos, y con la demas
gente partiò el marquès de Genua con otras galeras y treinta navios de
carga. Tomò puerto en Cività-Vieja, adonde el Papa estava esperando para
ver la gente y echarles à todos la benedicion._»

MAMBRINO ROSEO cit., III, 169: «_Queste genti imbarcate in Genova e
distribuite sopra quaranta navi grosse.... Antonio Doria fece la scorta
con 22 galèe.... Questa armata capitò in Civitavecchia, dove era il
Papa.... Che la benedì tutta, et diede lo stendardo a Virginio Orsini
capitano delle sue galere._»

RAYNALDUS, _Ann. Eccl._, 1535, 43, 44.

ARCHIVIO DE' DOMENICANI cit., (alla nota 5.) Volume intitolato
_Memorie_, p. 50: «_Paolo III con il clero dei sacerdoti benedisse
l'armata in effetto da un'alta Torre, quale è la torre di Roccha._»

PRUDENCIO SANDOVAL, _Historia de Carlos V_, in-fol. parvo. Pamplona,
1634, II, 112.

MARCO GUAZZO, _Storie_, in-8. Venezia, 1549, p. 151.

GIOVIO cit., 356.

[513] ANTONIO COPPI, _Annali d'Italia in continuazione del Muratori_.
Anno 1798, n. 2.

CAV. PIETRO MANZI, _Stato antico ed attuale del porto, città e provincia
di Civitavecchia_, in-8. Prato, 1837, p. 46: «_Il naviglio pontificio,
composto ed equipaggiato dai nostri, fu tratto alla spedizione di
Egitto, e recò colà quel celebrato generale Desaix, che io conobbi
personalmente, perchè in quella circostanza alloggiò nella mia casa
paterna._»

BARON PARRILLI, _Le più celebri battaglie navali_, in-8, figur. Napoli,
1871, p. 25: «_Cinque convogli riuniti nei porti di Marsiglia, Tolone,
Genova, Civitavecchia ed Aiaccio, sommanti in uno a dugentotrentadue
vele.... ventiquattro mila fanti, quattromila cavalli, tremila
cannonieri, sessanta artiglierie da campo;_» e p. 27: «_Bonaparte
costeggiò per riunirsi ai convogli di Ajaccio e di Civitavecchia._»

ANTONIO LISSONI, _Storia militare italiana_, in-8. Torino, 1844, p. 22.

[514] RIVISTA MARITTIMA, in-8, Roma, 1873, al Ministero della Marina,
anno VI, fascicolo 1, p. 178: «_Indicazioni sui naufragi ed altri
sinistri marittimi, avvenuti a navi mercantili dal 20 ottobre al 15
dicembre 1872.... Nelle acque dello Stato.... Compartimenti di
Napoli.... Granatello.... Torre del Greco.... Nisida.... Pozzuoli....
Castellamare.... Compartimenti di Livorno, Isola dell'Elba.... ec._»

ITEM. Anno VI, fascicolo 2, feb. 1873, p. 345: «_Naufragi di bastimenti
mercantili nazionali: a Vado.... a Catania.... alla Follonica.... ad
Anzio.... a Terranova.... ec._»

ITEM. Anno VI, fasc. V, giugno 1873, p. 489.

ITEM. Giugno 1873: «_Tre bastimenti rotti gli ormeggi e calati a fondo
nel porto di Oneglia; due naufragati al Marzocco del porto di Livorno;
otto naufragati a Sestri di Levante; tre naufragati a Lerici; uno a
Porto Empedocle; uno presso Sanremo; uno alla Torre di Fogliano; uno sul
Molo san Vincenzo di Napoli, ec._»



[23 aprile 1535.]

IV. — Torniamo a quei signori che aspettano in Civitavecchia, se pur gli
abbiam lasciati, in procinto di salire nella sala maggiore della rôcca;
dove il Pontefice, contornato dai cardinali e dai prelati della curia,
vuole riceverli a pubblico concistoro. Entrano in frotta e in bellissime
assise, odono dal supremo Gerarca parole di conforto, e vedono il
tradizionale vessillo della Croce, da lui benedetto, passare nelle mani
del conte Gentile per essere consegnato all'Imperatore. Appresso al
Conte e al vessillo tornano i militari a bordo: e papa Paolo coi
ministri salito in cima alla torre della stessa rôcca, quasi nel centro
del porto, dove ora è l'orologio dei quattro prospetti, levando la voce
e le mani al cielo, spande la papal benedizione sulla moltitudine
genuflessa, pregando dall'onnipotente Iddio a loro favore e a difesa del
popolo cristiano quella felicità di vittoria, che poco dopo di fatto
conseguirono. Silenzio profondo, quando non volevasi altro udire che la
voce del Pontefice; e scoppio di plauso, e suon di trombe e di campane,
e salva generale di artiglierie, quando tutti si furono levati in
piedi[515].

Parve tanto importante lo spettacolo della giornata, che papa Paolo,
giusto estimatore delle cose grandi, volle conservarne la memoria ai
tempi futuri con una medaglia storica. Io ne ho avuto alle mani
nitidissimo esemplare e fresco di zecca per favore del cardinale Antonio
Tosti, altre volte lodato; e ciascuno facilmente potrà trovarne
l'incisione nelle opere dei noti illustratori della numismatica
papale[516]. Nella medaglia voi vedete sotto ricco baldacchino nella
sommità del campo, coperto il capo di tiara e gli omeri del grandioso
ammanto, il pontefice Paolo III, tra suoi cardinali e ministri,
distendere la mano in atto di benedire; e quasi direi in atto di
pronunciare quelle parole che sembrano suonargli sul labbro, e che
certamente rimpetto alla sua bocca si leggono scolpite nell'epigrafe:
«LA . BENEDIZIONE . DEL . SIGNORE . DISCENDA . SOPRA . DI . VOI.»
Attorno ai gradini del trono vedete i visconti e i decurioni della terra
sorreggere le aste del baldacchino; appresso le mura merlate, sulle
quali sovreggia la torre, dove si compie il sacro rito; e abbasso vedete
nel porto la moltitudine dei navigli accalcati in scorcio gli uni sugli
altri, supponendosi il maggior numero nascosto dal cerchiolino del
campo, e dalla projezione prospettica della torre. Intorno spicca
ritratto l'orizzonte del luogo verso il mare, sì come nel vero si
presenta a chi riguardi da quella torre medesima inverso ponente la
ampia insenata della valle dell'Alga, le colline di Tarquinia, e da
lungi la chiusura dei monti che fan capo all'Argentaro.

Nel dritto della medaglia avete la figura ritratta a immagine di
«PAOLO.III.PONTEFICE.MASSIMO», come quivi stesso si legge: ed egli vi si
mostra scoperto il capo, calva la fronte, ricca la barba, e rabescato il
manto. Fatto memorabile: e però spesso ricordato dai Farnesi, anche
nelle pitture classiche dei loro palazzi, e nel celeberrimo di
Caprarola[517].

[24 aprile 1535.]

Il giorno seguente, come per continuazione di tanta allegrezza, col
vento favorevole di terra, tutto il naviglio sciolse le vele, coprì
d'ogni intorno l'orizzonte, e a gruppi paralleli sulla perpendicolare
del lido si rivolsero inverso la Sardegna, dove avevasi a fare la massa.
Papa Paolo restossi per altri cinque giorni in Civitavecchia, infino al
ventotto del mese, che tornò in Roma. Nel qual tempo le storie e i
documenti municipali segnano il termine dei lavori della rôcca nuova,
oggi detta la Fortezza, e ne attribuiscono il compimento a Michelangelo:
sentenza confermata dalla perenne tradizione.[518] Non mica che il
Buonarroti abbia disegnato di pianta e tirato su dalle fondamenta il
mastio ottagono, perchè tale era già nel primitivo disegno di Bramante,
cioè simile agli ottagoni anteriori di Civitacastellana, e di castello
Santangelo; e tale pur disegnato vent'anni prima comparisce negli
originali di Antonio Picconi[519]: anzi più fino a un certo segno di
altezza doveva già esser murato nel chiudere il circuito della fortezza.
Voglionsi però attribuire a Michelangelo, oltre al finimento, le
decorazioni, che sono tutte di suo stile; belle, nobili e fiere, come si
conveniva all'opera e all'autore. Certamente in questi tempi
Michelangelo era tra noi, e in gran favore presso il Papa, famigliare ed
architetto di palazzo[520]: certamente suo è lo stemma di casa Farnese,
a gran rilievo sullo spigolo del sagliente con nobili e fieri svolazzi
di travertino bugnato e rustico: similmente sua la cornice bellissima,
che sostenuta da mensoloni coi gigli frapposti ti mostra il primo tipo
di quel che egli stesso ebbe a fare dappoi nel cornicione notissimo dei
palazzo Farnese in Roma.

NOTE:

[515] LAPIDA nel palazzo municipale di Civitavecchia, prodotta dal
Torraca, 49; e dall'Annovazzi, 257:

                          PAULUS . III . ROM .
                 CAROLI . V . IMPERATORIS . CLASSEM
                 AD . TUNETUM . OCCUPANDUM . PARATAM
     EXPIAVIT . AB . EXCELSA . TURRI . CIVITATIS . CENTUMCELLARUM
                      UBI . VIRGINIUM . URSINUM
                         GENERALEM . ECCLESIÆ
               SACRO . FOEDERIS . VEXILLO . INSIGNIVIT
            ARCEMQ . A . JULIO . II . INCHOATAM . ABSOLVIT
                             AN . MDXXXV .

[516] ALPHONSUS CIACCONIUS, _Vitæ Pontificum Rom._ in-fol. figur. cura
notis Oldoini, Roma, 1677, III, 558.

BONANNI PHILIPPUS, _Numismata Rom. Pont. a Martino V, etc._ in-fol.
figur. Roma, 1699, ad _Paulum III_, in tabula, n. 32.

RODULPHINUS VENUTI, _Numismata Pont._, in-4, figur. Roma, 1744, p. 84:

(Nel diritto) PAULUS . III . PONT . MAX .

(Nel rovescio) BENEDICTIO . DOMINI . SUPER . VOS

[517] VASARI, ediz. Le Monnier, _Vita di Taddeo Zucchero_, XII, 139:
«_Seguitano quattro storie sopra la cornice, cioè sopra ogni faccia la
sua. Nella prima il Papa benedice le galèe a Civitavecchia per mandarle
a Tunisi di Barberia l'anno 1535._»

[518] LAPIDA monumentale cit., alla nota 16:

               «ARCEMQUE A JULIO II INCOHATAM ABSOLVIT.»

MANZI cit., 46: «_Opera di Michelangelo però può asserirsi che sia il
maschio.... che fu fatto edificare posteriormente da Paolo III._»

ANNOVAZZI, p. 265.

CONDIVI, _Vita di M. A._ in-fol. Roma, 1553; Firenze, 1746, p. 39:
«_Paolo III se ne venne a trovare Michelangelo a casa.... lo prese al
suo servigio.... gli fece fare infinite cose, che da me dette non
sono._»

[519] ANTONIO PICCONI DA SANGALLO, _Schizzi del 1515 per le
fortificazioni di Civitavecchia_, originali alla Galleria di Firenze, e
facsimile presso di me. — (Antonio di sua mano disegna sul terreno le
nuove linee, appoggiandole ai punti noti e preesistenti, tra i quali la
fortezza e il suo mastio, disegnato in ottagono, e scrittovi sopra:
«_Torrone della Rocha, di mezzo, a faccie._»)

[520] VASARI cit., ed. Le Monnier, XII, 219, e nel prospetto cronologico
della vita, 384.



[Maggio-giugno 1535.]

V. — Il mese di maggio, con buona parte del mese seguente, passò nel
raunare l'armata, il convoglio e le genti, andando e tornando pel golfo
di Cagliari questi e quelli da parti diverse a compiere il fornimento ed
a mettersi in pronto per l'imminente fazione. Nello stesso tempo si
raccoglievano le cifre, espresse dappoi colle consuete varianti da
diversi scrittori. Noi possiamo ridurle come segue: dodici galèe del
Papa, quattro di Malta, dieci di Sicilia, quattordici di Napoli, sedici
di Spagna e ventidue del Doria, comprese le tre di Genova; in tutto
settantotto galèe. Un galeone e dodici caravelle di Portogallo sotto
l'infante don Luigi, fratello del re e dell'imperatrice. Più una
trentina di legni minori tra fuste, galeotte e brigantini. La
moltitudine delle navi a vela conteremo insino al dugento, per non
crescerle oltre al bisogno che abbiamo di trasportare le munizioni, le
vittuaglie, e li trentamila soldati tra italiani, spagnoli e
tedeschi[521]. Alla testa di tutti la reale di Spagna, fatta costruire
dal Doria in Genova, per la persona dell'imperator Carlo V: galèa di
trenta banchi, e di sessanta remi a scaloccio, tutti in un piano,
maneggiati da trecento rematori a cinque per remo: galèa per le misure
di lungo e di largo maggiore di ogni altra, e similmente per forza e
bellezza. Oro in ogni parte, profusione alla poppa, sculture, intagli,
metalli, tappeti, seta, porpora. Soldati, marinari e gentiluomini in
bellissime assise: gli stessi rematori vestiti di nuovo con drappi di
raso e catene d'argento agli spallieri[522].

Qui mi bisogna avvertire che non solo i papi e i cardinali viaggiando
per gli affari loro, ma anche gl'imperatori e i grandi ammiragli e i
capitani del secolo decimosesto, per le spedizioni militari mettevano in
non cale i vascelli di alto bordo, e pigliavano lor posto fermo sulle
galèe. Esse duravano ancora come legni di linea per eccellenza, secondo
quelle tattiche ragioni del movimento libero, che altrove ho largamente
trattate, e qui coi fatti e cogli esempî tutte le volte confermo. V'avea
tante navi all'armata, e tanti vascelli, e cocche e caracche comodissime
e grandissime: ma Carlo imperatore, e il Doria generale, e ogni altro
intendevano per uso proprio preferire il bastimento sopra tutto
militare, cioè la galèa di vigoroso remeggio. Dunque i famosi vascelli
dei tre ponti per mezzo al secolo decimosesto non ancora mettevano conto
nella tattica navale. E quando dico bastimento, galèa, nave, vascello, e
simili, io parlo nel proprio e tecnico significato di queste voci
generiche e particolari, secondo la lingua nostra, non piacendomi
l'equivoca miscela dei retori cinquecentisti, che scrivendo
(particolarmente in latino) per seguire le eleganze classiche dei
termini antichi confondono il significato tecnico dei moderni. Costoro
chiamano monoremo la feluca e la fregata, chiamano bireme la fusta e la
galeotta, dicono trireme per galèa, quadrireme per capitana, cinquereme
per reale, sereme per imperatoria, eccetera; come se il remo fosse
l'unità di misura esprimente coi multipli la maggior grandezza e dignità
del bastimento. Peggio quando non sono costanti e coerenti con sè stessi
o cogli altri nell'uso e significato della stessa voce; e quando con un
solo vocabolo vogliono significare più specie; e sempre quando
ingenerano falso concetto, trasportando i nomi particolari dalle prime
polière ai posteriori bastimenti da remo, troppo diversi da quelle.
Nelle polière salivano giustamente i numeri, come gli ordini dei
rematori e dei remi sovrapposti; ma nelle galèe posteriori i numeri
medesimi portano a falso concetto, dove remi e rematori tenean le
caviglie all'istesso livello sur un piano solo. Fuste, galeotte,
brigantini, feluche, galèe, capitane, reali, e tutti i legni di questo
genere sempre tra noi, pel tempo di che parliamo, col remeggio in un sol
piano. Valga l'esempio della famosa galèa di Vittor Fausto, costruita a
Venezia nel 1529, e lodata in verso e in prosa da cento scrittori, come
quella che più d'ogni altra, a parer loro, rispondeva all'antico.
Ebbene? chi la chiama cinquereme, chi quadrireme, chi di cinque ordini
per fianco, chi di cinque remi per banco, chi di cinque uomini per remo.
Avrebbero fatto meglio, invece di cento elogi, lasciarci una sola
descrizione tecnica, o un solo disegno geometrico. Allora si sarebbe
veduto chiaro, che ell'era sottosopra una galèa come le altre, senza
palchi sovrapposti, con più remi a sensile, maneggiati da più persone in
ciascun banco, e sulla stessa coverta. Di fatto, dopo la prima comparsa,
fu messa in conserva nell'arsenale, d'onde non uscì più per
quarant'anni, finchè nello straordinario armamento della guerra di Cipro
non venne a pigliarsela Marcantonio Colonna, il quale in pochi giorni
l'armò a scaloccio di palamento simile a ogni altra galèa, secondo il
costume del cinquecento[523].

Insisto su questi particolari, perchè mi è avviso che dalla confusione
dei termini nasce la confusione delle menti; e sono di pensare che gran
parte della presente incertezza nella scienza delle antichità navali
procede dall'abuso dei vocaboli per fatto dei retori ignari dell'arte.
Del resto come io intenda la costruzione delle antiche polière, e la
interna disposizione dei remi in più ordini sovrapposti, ho detto
altrove: tutto si riduce a spiegare le triremi, che erano il maggior
numero, e i veri legni di linea, e avevano il nome proprio ternario
degli ordini, talamo, zigo e trano; e dalle persone talamiti, zigiti e
traniti. Le setteremi eran poche nell'antichità, come poche altresì le
galeazze dei tempi successivi: e le altre polière che talvolta si
leggono di venti e più ordini, erano mostri, che non uscivano dai porti,
nè mai entravano in battaglia; ma poltrivano in porto per pompa di
boriosi uomini, pognamo di Gerone, di Demetrio e di Tolomeo. Dei tre,
cinque e sette ordini ho dato spiegazione tecnica, tanto da poterne
chiunque fare il modello e la costruzione; e ne ho presso di me i
disegni geometrici col piano orizzontale, d'innalzamento e di
projezione; pei quali menando il compasso e la riga posso rispondere a
tutte le esigenze, e risolvere tutte le difficoltà[524]. Ciò basta per
ora: e quei benevoli, che me ne chiedono un trattato speciale,
aspettino, come fo io, un monumento di soda e aperta ragione (perchè
infino a oggi non ne abbiamo niuno), che mostri la interna disposizione
dei remi e dei rematori; e ci sia fondamento per trapassare dal detto al
fatto con sicurezza. Sostenuto da un monumento, potrò dire del navilio a
remo, come ho scritto del navilio a vela, così militare, come da
traffici, illustrando i classici monumenti dell'antichità.

NOTE:

[521] ALOYSIUS ARMERIUS, _De Gulleta et Tuneto expugnatis_, ap.
CLAUSERUM _de reb. Turcic._, in-fol. Basilea, 1556. (BIBL. CASANAT. N.
IX, 27.) p. 534: «_Septuaginta scilicet triremes, triginta intra
biremes, celoces.... oneraria navigia trecenta._»

ALFONSO ULLOA, _Vita di Carlo V_, in-4. Venezia, 1566, p. 137:
«_Novantuna galera.... ducento e due navi grosse.... in tutto trecento e
settantuna vela._»

ANTONIO DORIA, _Compendio_ cit., 56, 57: «_Tre galèe della Signoria di
Genova._» (Niuno nomina il Capitano.)

[522] BIZARUS cit., 502: «_Et unam quadriremem, quæ Cæsaris prætoria
erat, instructam fuisse.... Remigibus serica tunica.... epibatis
exornatis._»

ARNOUL cit., (p. 351): «_Armer de Mores avec de colliers et poignets
d'argent, non plus que les chaînes de deux premieres bancs qui sont
d'argent à celles d'Espagne._»

[523] P. A. G., _Marcantonio Colonna a Lepanto_, 25, 107, e Docum. ivi
citati.

[524] P. A. G., _Medio èvo_, I, 121, 181.



[24 giugno 1535.]

VI. — Gentil Virginio all'arrivo montò sulla galèa dell'Imperatore
presso al capo della Polla nel golfo di Cagliari, portandogli lo
stendardo e gli augurî del santo Padre: indi si pose colla capitana di
Roma nel primo posto alla destra di lui, la capitana di Malta sulla
sinistra, e per compimento la capitana di Genova. Davano i quattro
stendardi bellissima mostra, piena di pio e lieto presagio, per essere
nel mezzo dell'ordinanza appaciati gli emblemi del sacerdozio e
dell'imperio, spada e scettro, croce e chiavi, tra due quartieri di
uguali colori in diversa divisa[525].

Tutta l'armata uscì dal golfo di Cagliari addì ventiquattro di giugno.
Innanzi l'augusto Carlo, salutato dal plauso dei marinari, dei soldati e
dei popoli; appresso l'Orsino, e secondo l'ordine le capitane, le
squadre e il convoglio delle navi. La mattina seguente, condotti dal
Maestrale, assicuravano i navigli presso Utica, che oggi diciamo
Portofarina, dove tre secoli prima erasi sbarcato Luigi IX di Francia
per la crociata. Nell'ultimo recesso, che gli antichi chiamavano palude
Tritonide, dove l'acqua è più bassa, ma sufficente, entrarono le galèe:
e quivi nella fretta del pigliare la posta, volgendo le prue al largo e
le poppe a terra, una sola corse pericolo: proprio dessa, la grossa
dell'Imperatore. Perchè come maggiore di ogni altra cercava più il
fondo; e nel distendere la gomena, scorrendo indietro (non di banda,
come alcuni dicono, ma di chiglia), diè nel secco col calcagnolo di
poppa. Rifiutava spiccarsi: ed agli sforzi dei rematori non altrimenti
rispondeva che dimenandosi sulle anche con certi sbalzi da mettere alla
prova la maestria del pie' marino. In quella tutti gli occhi smarriti
cercavano il vecchio Andrea: ed esso a tutti i presenti, ed anche alle
future generazioni rispondendo, dimostrava quanto era e pratico marinaro
e destro cortigiano. Notate il fatto improvviso, e segnate il carattere.
Andrea senza scomporsi trae un gran fischio, e grida[526]: Silenzio, e
pronti! Poi distesa la mano in avanti, comanda risoluto: Tutti a prua! e
corre egli stesso menandosi insieme verso la estremità anteriore della
galèa qualche centinajo di persone. Per quel contrappeso in avanti, a
tanta distanza dal centro, la galèa abbassa il becco, solleva la coda, e
sguizzando dolce dolce si ritorna a galla; prestamente richiamata dai
marinari sulla gomena più presso all'àncora, e raccolti a corto i
calumi. Ciò fatto, Andrea ritorna: e festosamente salutando l'Imperatore
con quel suo storico berrettone a gronda, celebra i prodigî della terra
africana, la quale subito ha dato segno manifesto di volersi ridurre e
fermare sotto ai piedi di Sua Maestà[527]. Non esce in ciance!

[28 giugno 1535.]

Intanto i pensieri di ogni altro corrono verso Tunisi, città edificata
dieci miglia a levante dalle ruine dell'antica Cartagine, e però anche
essa dalla riva dell'Africa direttamente contrapposta, quasi
sull'istesso meridiano, alla foce del Tevere e alle marine di Roma. Or
per comprendere le operazioni di Barbarossa, ed i fatti seguenti dei
nostri campioni, vieni meco, lettore, sulla prima feluca di scoperta
innanzi alla baja di Tunisi, ed appunta sulla carta i rilievi[528].
Fermi in giolito all'altura di capo Cartagine, senza appressarci di
troppo ai rivaggi nemici, quanto il guardo scuopre, vediamo innanzi una
grande insenata per venticinque miglia di giro infino al capo Zafferano:
insenata aperta da greco e chiusa da ogni altra parte. Ecco per la
quarta di Libeccio ad Ostro, distante cinque miglia, una gola o angusto
passaggio, pel quale entra l'acqua del mare in uno stagno di poca
profondità, ma di molta estensione; ed ecco, pel rombo di
Ponentelibeccio all'estremità dello stagno, grande città, avvolta nei
vapori consueti dei centri popolosi. Sulla bocca tra il mare e lo
stagno, ov'è il lembo estremo del terreno boreale, segna la fortezza
della Goletta, e la ragione del nome ne vedi sulla figura di
strettissima gola aperta tra lo stagno e il mare. Segna sulla città il
nome di Tunisi, così come la vedi distesa per la pendice di un colle, e
coronata in vetta dalla cittadella, ordinaria residenza del principe.
Per questi rilievi tu hai dinanzi la pianta e il prospetto di tutto il
circondario, nè altro ti resterebbe a segnare, se non avesse Barbarossa
pensato di mettere nello stagno tutta l'armata sua; ottanta bastimenti
d'ogni maniera. Perciò tu vedi là in mezzo una selva di alberi e di
antenne alla rinfusa in lunga fila per quell'angusto canale che va dalla
Goletta verso Tunisi; canale poco più profondo dello stagno, e tanto
ingombro di navigli piratici da non restarvi nè spazio nè passaggio.
Dunque dall'altura di capo Cartagine tu vedi traguardando per Maestro
tutta l'armata cristiana a Portofarina, per Libeccio quarta di Ostro la
Goletta; e per Ponentelibeccio il canale di mezzo allo stagno, i
bastimenti piratici, e in fondo a sette miglia la città di Tunisi.

Ciò posto sarà chiaro il disegno dei nostri campioni: bloccare per mare
lo stagno, assalire la Goletta per terra, pigliare tutti i bastimenti
dei pirati, e finalmente cacciar via Barbarossa dalla capitale. Perciò
le galèe condotte dal Doria e dall'Orsino passano alla guardia dinanzi
al golfo; e il marchese del Vasto, generale supremo delle fanterie, con
venticinque mila uomini da Portofarina scende lungo il lido per
attaccare la Goletta da terra.

NOTE:

[525] BOSIO cit., III, 142, D: «_L'aquilone dell'Imperatore nel
mezzo.... a dritta sei gigli d'oro in campo azzurro di Paolo III.... a
sinistra lo stendardo gerosolimitano, Croce bianca in campo rosso.... e
di Genova, Croce rossa in campo bianco._» (Così non altrimenti nel mio
_Medio evo_, II, 180.)

[526] JOVIUS cit., 279: «_Ad imperium canentis fistulæ dimidiam partem
vectorum et remigum in adversam spondam declinare jussit.... quadriremis
uti pondere sublevata incolumis evasit._»

[527] BOSIO cit., III, 143, A: «_Doria disse che il terreno africano
haveva dato segno di volersi presto e volentieri accostare e fermarsi
sotto il dominio di S. M._»

SIGONIO cit., 174: «_Si rallegrarono della buona fortuna di Cesare._»

CAPPELLONI cit., 60. (Non dice verbo di ciò.)

RAYNALDUS, _Ann._, 1535, n. 49.

[528] CORONELLI, _Atlante Veneto_, in gran fol. Venezia, 1697. — Tavole
e carte di Barberia.

NICHOLAS DU BELLIN, _Atlas maritime_, in-4. Parigi, 1774, III, 71:
«_Côtes de Barberie; 81, Golphes de Tunis; 82, Plan de la ville de
Tunis; 83 Plan du fort et canal de la Goulette._»

THOMAS A. HULL, R. N., _Bay of Tunis_, in-fol. _Published at the
Admiralty_, June, 1st 1867, _Sold by J. D. Potter Agent of Admiralty
charts_, 31, Poultry et 11, King Street, Tower Hill.

WILLIAM, H. SMITH, _Mediteranean_, 92.



[6 luglio 1535.]

VII. — La fortificazione della Goletta, infino ai primi decennali del
secolo decimosesto, non era più che una sola torre quadrata, ma grande
di trenta metri per ogni lato, grossa di sette metri nella sezione, e
munita di batterie alte e basse in tutto il giro: in somma un antico
tipo delle moderne torri massimiliane[529]. Ma ciò non bastando a
calmare le inquiete apprensioni, Barbarossa vi aveva aggiunto intorno un
pentagono regolare, fortificato con bastioni, fianchi e cortine,
lasciandovi nel mezzo la torre a guisa di mastio o cavaliere; presso a
poco in quel modo che prima era stato disegnato, e poi fu ridotto il
castello di Roma. Ciò non pertanto le opere nuove non erano compiute; ma
in tanta brevità di tempo solamente imbastite di terra bagnata e battuta
tra salsiccioni di ulivi e di palme ben stretti e incatenati di dentro e
di fuori con travi, pali e remi di galere; divisando poi Barbarossa di
poter rivestire tutta l'opera con buona incamiciatura di muraglia,
ancorchè giudicasse che già da sè, come era, farebbe in ogni caso lunga
resistenza. Per questo si mise in cuore di volerla difendere a tutto suo
potere: molto più che di necessità doveva proibire ai nostri l'entrata
dello stagno, se voleva salvare gli ottanta bastimenti; i quali oramai
non potevano più uscirne, ma in ogni modo salvarsi o perdersi tutti
insieme colla Goletta. Errore capitale, di che il celebre pirata portò,
finchè visse, acerba ricordanza e pentimento; scusandosi soltanto col
dire che niuno avrebbe potuto mai prevedere la venuta dell'imperatore
dei Cristiani con tanto sforzo in Africa. Veramente quando dai
prigionieri e da qualche fuggitivo venne accertato che Carlo V conduceva
da sè la spedizione, si turbò tutto, e capì subito la gravità del caso e
l'importanza della Goletta. Fece il possibile: cavò artiglierie dalle
navi e dalle galere; e ne guarnì non pure i fianchi e la fronte dei
baluardi, ma le cortine, e infino ai fossi, con tanta copia che più non
ve ne capiva; e posevi di presidio seimila turchi sceltissimi, sotto il
comando del Giudèo, e per luogotenente Cacciadiavoli. Pose di più un
grosso nervo di gente in Tunisi sotto Assàn-Agà, trentamila mori a
cavallo per la campagna; ed egli si tenne pronto a riconoscere le
difese, e a dirigere i soccorsi, massime della Goletta; dove per maggior
comodità aveva fatto gittare un ponte di legno a cavallo del canale,
tanto da tenere aperte le comunicazioni con Tunisi per la riva
meridionale, essendo l'altra occupata dai nostri.

[8 luglio 1535.]

Intanto il marchese del Vasto, venuto a campo sotto la piazza, stringeva
l'assedio, compiva le trincere, e mediante le strade coperte e le vie
ritorte andavasi appressando ai baluardi. Lavori lenti, terreno
sabbioso, clima insolito, stagione caldissima, e pertinace resistenza
degli assediati, sempre intesi nel contrabbattere e nel sortire, tutte
le volte che loro si offeriva una occasione. In quei combattimenti
perdette la vita molta gente: anche per qualche ruggine di rivalità che
nudrivano tra loro i soldati delle diverse nazioni. Devo però ricordare
la morte di quel Girolamo Tuttavilla conte di Sarno, già tanto chiaro
all'impresa di Corone; il quale, abbandonato dagli altri, cadde per una
archibugiata in testa, alla fronte delle compagnie italiane, mentre
caricava arditamente e ricacciava una sortita del presidio. Perdita
gravissima di valoroso giovane, che altrimenti sarebbe divenuto il gran
capitano dell'età sua. Cadde Girolamo Spinola per un colpo di zagaglia
nel fianco; e allato al marchese del Vasto cadde Fabrizio del Carretto.
Noverate pur tra i morti Cesare Benimbene e Luca Savelli romani; Cesare
Berlinghieri, Costanzo di Costanzo, Baldassarre Caracciolo napolitani;
Luca e Antonio Sicardi piemontesi; Ottavio Monaci, due colonnelli e
molti principali delle milizie italiane[530]. Dunque dalla parte di
terra si menavano ferocemente le mani: ma io mi devo stringere alla
marina.

NOTE:

[529] JOANNES ETROBIUS, _De Tuneto et Gulleta expugnatis_, ap. CLAUSERUM
_de Reb. Turc._, in-fol. Basilea, 1556, p. 567: «_Est autem Turris
quadrata admirandæ crassitudinis, altitudinis duarum contignationum
ambitu interiori, complectens passus quadraginta, exteriori vero
circiter quinquaginta.... tormenta circiter quadringenta._»

BOSIO, 143, D: «_Era la Goletta, quando Barbarossa la prese, una sola,
ma buona e grossa torre ritonda ed alta.... Barbarossa l'aveva fatta
circondare di bastioni e di fianchi.... La torre in mezzo a guisa di
gran cavaliere.... numero grandissimo di pezzi d'artiglieria._»



[14 luglio 1535.]

VIII. — Ecco addì quattordici del mese di luglio, terminati i lavori di
assedio, e aperto da tre parti il fuoco di breccia, ecco a sollecita
espugnazione venire le galèe dalla parte del mare, secondo il disegno
stabilito nel consiglio di guerra, coll'intervento dei due capitani di
Roma e di Malta[531]. Le navi grosse addietro, e le galèe in prima
linea, disalberate, divise in tre squadre, e ciascuna squadra in due
sezioni a coppia colle gomene da poppa a poppa, per andare, levarsi,
tornare e battere alternatamente, in quel medesimo modo che erasi
osservato, ed ho descritto per l'espugnazione di Corone[532]. Remigavano
a quartieri, or queste or quelle, col palamento proprio per venire
avanti, e col palamento altrui per dare indietro, massime in caso di
avaria: e giuocando l'artiglieria, e volgendosi in distanza, e
ritornando all'attacco per turno, ora la prima, ora la seconda sezione,
l'una caricando i pezzi nella ritirata, e l'altra scaricandoli a furia
nell'attacco, con un girar continuo da terra al largo, e viceversa, come
farebbero le fanterie ordinate in colonna per fuochi di drappelli[533].
Questa manovra, eseguita con rara precisione dai marinari, ammirata da
Cesare e dagli altri osservatori, riduceva a disperazione i Turchi: i
quali non potevano accertare la punteria, nè vedere l'effetto d'un sol
colpo sopra quei legni giranti che senza risquitto li tormentavano.

Di più merita essere ricordata, perchè conforme agli stessi principî, la
bella manovra di Giorgio da Conversano, già ajutante del Martinengo in
Rodi, il quale sur una grossa barcaccia con una quindicina di serventi
volle mettersi in batteria. Aveva sulla poppa appostato un cannone da
ventiquattro, e sulla prua due sagri da otto; e girandosi sopra due
ancorotti con due destre presentava or poppa or prua, facendo fuoco
continuo da una parte e dall'altra, caricando di là mentre di qua
sparava. In questo modo, senza mai ricevere danno, conciava a punto
fermo i bombardieri nemici e toglievali dalle difese[534].

In somma dopo otto ore continue di fuoco vivissimo dalle batterie di
terra, e dopo il simultaneo ronzare delle galèe, come si è detto
dall'alba al mezzodì dalla parte del mare, dove tra i primi sovrastava
l'Orsino[535]; fattasi densissima la caligine, non altro più vedendosi
che lampi e fumo, e il sole non più lucente di una languida pittura
tinta di rosso, cessano da una parte e dall'altra le scariche; e tutti
intenti affrettano il momento di venirsi a riconoscere. Il Ponente a
grado a grado dissipa l'atro nuvolone, e quando finalmente si può
coll'occhio correre sull'orizzonte, eccoti dinanzi la Goletta presso che
rasata; abbasso il mastio, sossopra i baluardi, rotta qua e là la cinta.

A quella vista i soldati e i marinari chiedono di presente l'assalto: i
sacerdoti distendono l'assoluzione generale, squillano le trombe, e le
colonne gittansi concitate all'ultima prova. Corrono dal campo i soldati
tra i solchi del sabbione; guazzano alla riva i marinari coll'acqua alla
cintura. Non grido, non colpo, non parola vanitosa o superba: profondo
silenzio fino al piè delle brecce. Ma giunti a quel segno tutti insieme
levano il grido di guerra: ripetono le nazionali invocazioni a Santiago,
a san Giovanni, a san Pietro, a san Giorgio: irrompono, e con tanta
prestezza e con tanto impeto, che il Giudèo, il Cacciadiavoli, e quanti
erano pirati di nome e di fatto infernali, trovano a pena la strada e il
tempo di fuggirsi verso Tunisi pel ponte di legno, quando gli assalitori
vi entrano da ogni altra parte, e vi piantano le loro bandiere[536].

Non si potrebbero noverare facilmente tutti i vantaggi della vittoria:
acquisto della principal fortezza e chiave del regno, riputazione
cresciuta alle armi cristiane, avvilimento dei nemici, disordine portato
dai fuggitivi dentro Tunisi; e sopra ogni altra cosa, cattura di tutti i
bastimenti barbareschi, senza perderne pur uno. In somma conseguìto in
un giorno il fine prossimo della spedizione, e annichilate sul mare le
forze navali dei maggiori pirati.

NOTE:

[530] IL GIOVIO, _Lettera al duca di Mantova_, data da Roma li 14 luglio
1535. Nomina tutti i predetti. (Tra le _Lettere dei principi_, in-4.
Venezia, 1577, presso Giordano Ziletti, III, 147.)

[531] BOSIO cit., III, 144, B: «_Il signor Virginio Orsini generale del
Papa haveva il voto prima, et dopo haveva il secondo voto il priore
Bottigella generale delle galere della Religione._»

[532] BOSIO, 147, B: «_Innanzi le galere, in tre squadre....
disarborate.... a schiera a schiera.... andavano sotto.... sparavano e
poi ritraendosi davano luogo alle altre per ritornare di nuovo secondo
l'ordine.... col quartiero di poppa soltanto vogavano.... pareva
scaramuccia et era di piacere in rimirarla da lontano._»

MARCO GUAZZO, _Storie_, in-8. Venezia, 1519, p. 153: «_Doria.... tolte
seco sei galere del Papa.... che punto non parevano per essere dette
galèe disalborate.... e da poi fece disalborare trenta altre galere._»

ANTONIO DORIA, _Compendio_ cit., 60: «_Acciocchè ricevessero minor
danno.... le galèe avevano disarborato._»

V. sopra p. 316.

[533] JOVIUS cit., 285: «_Rostratæ per vices tripartito succederent,
displosisque tormentis, sequentibus locum darent._»

RAYNALDUS, _Ann._, 1535, n. 50: «_Auria disposuit ut rostratæ naves sibi
per vices tripartitæ succederent, displosisque tormentis, cedendo
sequentibus locum darent._»

[534] BOSIO, 148, C.

[535] PRUDENCIO SANDOVAL, _Vida y echos des emperador Carlos Quinto_,
in-fol. Pamplona, 1635, part. II, p. 135: «_El conde de Anguilara,
cavalero romano, con sus galeras y con las de Malta, y otros.... se
habia podido acercar. La bateria fue terrible._»

JOANNES ETROBIUS cit., 553: «_Naves longæ, eæque ingentes, omnibus rebus
ad bellum accomodis instructissime munitæ, a beatissimo patre summo
Pontifice missæe, quibus preærat, genere clarus tum factis strenuus,
Virginius Ursinus Anguillariæ comes._»



[15 luglio 1535.]

IX. — Quando i fuggitivi entrarono in Tunisi, Barbarossa con fiero
cipiglio guardò soldati e capitani; e aggiungendo acerbe parole,
rinfacciò loro la perdita della fortezza e dell'armata. Costoro altresì,
arrovellati di vergogna e di rabbia pei danni privati di ciascuno,
fremevano. Era in Tunisi a vedere quel che sempre e dovunque succede tra
i compagni di sventura, che l'uno all'altro ne rimanda la colpa; e niuno
dall'altro ne vuol sentire rimbrotto. E sarebbero quei furfanti, secondo
lor natura, venuti alle mani tra loro, come già erano a male parole, se
il Giudèo meno avventato degli altri non si fosse volto a Barbarossa
quietamente per tutti rispondendo. Avere essi fatto opera e difesa degna
di uomini valorosi; e tenuto testa, finchè erasi potuto, alle forze
soperchianti dell'Imperator dei Cristiani e dei suoi marinari; dalle
mani dei quali esso stesso il Re di Tunisi, quantunque soldato e
marinaro valentissimo, riputerebbe gran ventura e decoro in simile
circostanza esserne potuto uscir vivo.

Dall'altra parte i cortigiani di Carlo V già si lasciavano intendere di
voler dare l'impresa per finita, senza mettersi altrimenti intorno alla
capitale; allegando la difficoltà di espugnarla, la moltitudine degli
Arabi intorno a difenderla, la disperazione dei pirati, il calore della
stagione, la penuria delle vittuaglie, e la insalubrità del clima per
uno esercito già stanco e solito a vivere in paesi migliori. Nè si
vergognavano costoro di ripetere tale filatessa nel consiglio di guerra
alla presenza di tutti i maggiori capitani e dello stesso
Imperatore[537]. I retori insegnano che non mancano mai argomenti a chi
ne cerca da quelle sedici sorgenti, o luoghi comuni, come essi gli
chiamano, onde gli oratori possono trarre argomenti alle scettiche
proposizioni in pro e in contro. Guai agli uomini, se il buon senso
naturale non vincesse l'arte sofistica! Nell'istesso consiglio l'Orsino
di Roma, informato ai principî di più alta sapienza, e secondo le
istruzioni di Roma[538]; il Bottigella di Malta, e quanti erano quivi
generosi e savi risposero: Doversi l'esercito e l'Imperatore quietare
nelle imprese compiute, non nelle smozzate a metà; via Barbarossa da
Tunisi, dicevano, altrimenti impossibile la sicurezza del Mediterraneo e
dell'Italia: facile con genti vittoriose schiacciare in quel nido la
testa del superbo, già confuso da tante perdite, e conturbato dalla
discordia de' suoi.

Vinse il partito migliore, e la sera dello stesso giorno l'esercito
Cristiano, tenendo sempre la base e i magazzini in Portofarina, marciava
da quella banda rasentando lo stagno per la strada diretta verso Tunisi.
Gli Italiani a sinistra, appoggiati al margine del lago, e condotti dal
principe di Salerno, succeduto all'infelice Tuttavilla, gli Spagnuoli a
destra condotti dal solito Alarcone, nel centro i Tedeschi comandati
dall'Heberstein, appresso le ciurme trainando a braccia i carri
dell'artiglieria, le provvigioni e le bagaglie; e il famoso duca d'Alba,
allora semplice volontario, con quattro o cinquecento cavalli faceva
retroguardo e assicurava le spalle. Il marchese del Vasto, come capitan
generale scorreva da ogni parte e riferiva all'Imperatore, che se ne
veniva inforcando un piccolo barbero di mezzo alle bandiere.

[16 luglio 1535.]

In tale ordinanza la mattina seguente giugnevano a tre miglia da Tunisi
presso a certe colline, dove Barbarossa si era accampato con esercito
tumultuario di Arabi, di Mori e di Beduini, la maggior parte a cavallo,
che alcuni fanno ascendere infino a centomila; tutti diretti dai
veterani della pirateria, e difesi sulla fronte e sui fianchi da
moltissimi cannoni minuti, con ordine che, quando vedessero il bello,
sparassero. Volevano prima metterci in confusione e poscia a macello,
sbrigliando a tempo la cavalleria barbarica.

Il marchese del Vasto ed i nostri capitani non per questo sbigottirono:
anzi già erano sul menare avanti i pezzi di campagna, quando veduta per
una parte la difficoltà del traino, perchè le ruote profondavansi nel
sabbione; e per l'altra visto in tutto l'esercito ardente il desiderio
di venire prestamente alle mani, preludio di certissima vittoria, non
parve loro tempo da indugiare. Però ottenuto il consenso
dell'Imperatore, e fattolo ritirare a suo luogo tra le bandiere, fecero
subito dar nelle trombe; e l'esercito con furore grandissimo caricò sul
nemico.

Non voleva Barbarossa giuocar tutto il suo in quella giornata, nè
mettere capitale, stato, gente, e ogni cosa in un punto a pericolo. Non
essendogli riuscito, secondo i suoi pensieri, il disegno di spaventare i
Cristiani colla mostra di tante forze e di tanta gente, volse l'animo a
temporeggiare, come ogni altro avrebbe fatto nel caso suo. Laonde
seguendo l'orme del Giudèo e di quegli altri che aveva prima rampognati,
voltò le spalle, raccolse le milizie regolari alla difesa di Tunisi, e
lasciò fuori alla campagna la cavalleria leggiera, e le migliaja di Mori
e di Beduini, a molestare da ogni parte il campo cristiano e le sue
comunicazioni col mare.

NOTE:

[536] ULLOA ALFONSO, _Vita di Carlo V_, in-4. Venezia, 1866, p. 138.

BIZARUS cit., lib. XXI.

JOVIUS cit., lib. XXXIV.

[537] ALOYSIUS ARMERIUS cit., 539: «_Variæ principum sententiæ. Nam alii
satis negotii gestum existimabant.... Gollettam captam, classem pene
totam in manibus.... Exercitus hostium non spernendus.... æstivo
tempore, ingenti æstu.... in Affrica.... Difficile sine incomodo
militum.... cibaria.... sine aquatione.... conabantur Cæsari persuadere
ut Africam relinqueret atque in Hispaniam navigaret...._»

JOANNES ETROBIUS cit., 568: «_Convocato concilio.... sententiis variatum
est.... aliis suadentibus, ut quasi re perfecta in Hispaniam redeat,
aliis e contra reclamantibus etc._»

ANTONIO DORIA, _Compendio_ cit., 60: «_Alcuno dei principali del
Consiglio mostrava all'Imperatore assai difficoltà e manifesti
pericoli.... di combattere Tunigi._»

[538] PAULUS PP. III, _Imperatori, sub die xxviii julii MDXXXV_, ap.
RAYNALD. _Ann._, 1535, n. 52: «_Hodie orator tuus nobis nunciavit captam
a te Gulettam.... adjciens te postero die...., ad Tunetum ipsum
expugnandum cum toto exercitu contendisse.... Agimus Deo maximas
gratias.... ut fessa tot malis christianitas conquiescat._»



[20 luglio 1535.]

X. — I nostri investirono la piazza: e cominciarono i lavori con quelle
vicende, che sempre ritornano in simili operazioni. Ma la vittoria
compiuta aveva a venire in modo totalmente diverso, e fuori di ogni
previsione. Erano dentro Tunisi, servi dei pirati nell'estrema miseria,
quasi dieci mila anime battezzate; spagnoli, francesi, tedeschi, e più
di tutti italiani; e tra essi mercadanti, soldati, cavalieri, marinari,
sacerdoti, gente d'ogni età e d'ogni sesso, i quali, fino dal primo
comparire dell'armata nostra, avevano dovuto lasciarsi rinchiudere
strettamente in certe fosse cavate per custodire i frumenti, secondo
l'usanza del paese, e quivi chiamate Gune. E ciò nè anche bastando, il
Tiranno, che forte dubitava di loro, si apparecchiava a farli
massacrare, o vero a lasciarli tutti insieme morire di fame sotterra. Ed
avrebbe senza fallo eseguito l'atroce disegno, se non fosse stato
distolto dagli stessi capitani suoi, che amavano gli schiavi pei loro
interessi, come ai nostri tempi i separatisti della Carolina. Più di
tutti si oppose il Giudèo per quei principi di umanità che non potevano
essere totalmente cancellati dall'animo suo: egli dissuadeva Barbarossa
dal proposito; e in chiari termini dicevagli che lo strepito della
strage farebbe manifesta a tutto il mondo la paura e la impotente
disperazione sua; cose ambedue nocevoli a chi guerreggia: e appresso gli
avrebbe tirato la vendetta di tutti, e anche di Solimano, odiatore dei
fatti spietati contro gli inermi, e non uso a comportarli in alcuno.
Quindi Barbarossa scese alle mezze misure: come dire, agli schiavi
lasciar la vita, ed alle Gune sostituire le catene nei fondi della
fortezza[539].

Le minacce, come è noto, non tolgono la forza all'avversario; anzi lo
rendono più cauto e maggiormente studioso di ricatto. Perciò
gl'infelici, cui non fuggivano i disegni del barbaro, nulla più
intentamente cercavano, quanto di uscire come che fosse dal gravissimo
pericolo. Apprensioni non punto minori tormentavano in quei giorni la
coscienza dei rinnegati, ai quali la vittoria dei Cesariani presagiva il
capestro. Non erano nè pochi nè impotenti costoro: e mezzo turchi per
l'attuale professione, e mezzo cristiani per le precedenti abitudini,
dell'una e dell'altra legge partecipando, entravano facilmente nei
disegni degli uni e degli altri. Disonesta confusione, e dannosa
conseguenza della pirateria, perchè da un assurdo ne vengono mille.

Or dunque per diverse ragioni correvano manifestamente gravissimo
pericolo gli schiavi incatenati e i rinnegati carcerieri. Nella
comunanza delle sofferenze facilmente questi e quelli si intesero
insieme, promettendosi a vicenda protezione nel rischio, colle dolci
parole della patria favella: incanto irresistibile nella mestizia della
terra straniera. Anzi pure alcuni rinnegati cominciarono a disciogliere
le catene di certi amici; dappoi questi sferrarono diversi compagni, e
gli uni agli altri dando mano con proporzione rapidamente crescente, in
poco di tempo furono tutti disciolti. In quella, traendo ardimento dalla
disperazione a qualunque più ardua prova, anche per la fiducia del
vicino soccorso, assaltarono in massa le guardie turchesche nelle
viscere della stessa fortezza. Colle armi del furore, coll'unghie, co'
denti, e poi co' pali, e finalmente colle spade tolte ai nemici, se ne
impadronirono; e dall'alto con voci e segni chiamarono l'esercito
cristiano alla vittoria. I nostri di fuori corsero dentro; e Barbarossa,
maledicendo a Maometto, al Giudèo, ed a tutte le furie del suo destino,
quasi fuggiasco e dagli stessi soldati suoi abbandonato, uscì di
Tunisi[540].

Io non lo seguirò nè pur da lontano, quantunque sappia che alla fine
potrà trovare certi legni che lo condurranno a Minorca, e poi a
Costantinopoli; unico punto di suo ristoro. Il Giudèo fuggì alle Gerbe,
ma non vi stette gran tempo, perchè nominato ammiraglio del mar Rosso,
passò di là ad allestire in Suez un'armata contro i Portoghesi, i cui
progressi nelle Indie mettevano in sospetto Solimano. Del Cacciadiavoli
basta fin qui. Egli volse le calcagna come gli altri, camminò meno, e
giunse più lungi di tutti. Bogliente di rabbia, ed arso dal sole e dalla
sete, per quelle lande scoprì l'acqua in una cisterna, e tanto
ingordamente ne bevve, che quivi presso crepò[541].

Il Mediterraneo nettato a un tratto, ed agli allori di Corone aggiunte
le palme di Tunisi, siamo al massimo dei nostri vantaggi nel periodo di
sessanta anni. Ma non per questo possiamo quietare. Torneranno i pirati
più terribili di prima: risorse non mancano al tristo mestiero, nè
gelosie mancheranno, nè guerre tra i principi cristiani, nè errori degli
uni e degli altri. Compiuta nobile impresa, distrutto il nido principale
della pirateria, cacciato Barbarossa, rimessa in seggio l'antica
dinastia, liberati dalla schiavitù diecimila cristiani nella capitale, e
il triplo nelle provincie, niuno per questi giorni avrebbe potuto tra i
principi eguagliare la gloria di Carlo, se i suoi più intimi non lo
avessero condotto a concedere il sacco[542].

NOTE:

[539] DE HAMMER cit., X, 459: «_Chaireddin voleva fare uccidere per sua
sicurezza i settemila schiavi cristiani; ma lo ritennero gli abitanti
della città._» — BOSIO, GIOVIO, _cæteriq._

[540] ANTONIO DORIA, _Compendio_ cit., 61: «_Aveva Barbarossa fatto
condurre nel Castello tutti i vogadori, fra quali erano circa ottomila
Cristiani schiavi.... accadè che alcuni rinegati, vedendo la rotta dei
Turchi, apersero la porta della prigione, animando i Christiani alla
libertà, il che eseguirono facilmente, e pigliate quelle armi che
poterono nel Castello, se ne impadronirono._»

[541] BOSIO, 153, E: «_Affrettando la fuga fu cagione che Aidin,
sopranominato Cacciadiavoli, arso dal sole e dalla sete, bevendo
crepasse._»

[542] DE HAMMER cit., X, 461: «_Tre ore aveva durato il consiglio per
decidere se fosse da concedersi all'esercito il saccheggio. Ma la
rapacità degli Ispani preponderò.... trentamila abitanti perirono e
diecimila furono tratti in schiavitù.... sfrenata in particolare la
rabbia dei soldati spagnuoli: cercavano avidamente l'oro, distruggevano
moschèe, scuole, statue, libri.... tutto alla rinfusa come polve._»

BOSIO cit., III, 153, C: «_Tunisi saccheggiato.... non perdonando a
sesso nè ad età._»



[21 luglio 1535.]

XI. — Il vigesimo primo del mese di luglio l'Imperatore con alla destra
l'Orsino, pel cui senno e costanza era giunto a tanta altezza, entrava
trionfalmente nella città di Tunisi, seguito dall'esercito vincitore. E
senza distendermi in lungo sul governo di Carlo, brevemente dirò che
rimise sul trono il re Muleasse già discacciato da Barbarossa; e ciò
tanto per non aizzare maggiormente gli Africani, quanto per avere tra
loro un sostegno, e per liberarsi dalle spese e dalle molestie. Poi
trattando con lui, imposegli annuo tributo di omaggio, perpetuo divieto
di pirateria, libertà ai Cristiani nella pesca del corallo, cessione
della Goletta, e vettovaglie al presidio spagnuolo. Però gl'ingegneri
imperiali subitamente presero a rimettere in difesa lo sbocco della
Goletta: risarcirono la torre maestra, e attorno menarono un quadrato
con quattro baluardi acuti, e però biasimati dal celebre capitano de'
Marchi, il quale implicitamente dava la preferenza al pentagono
precedente[543]. Venne poscia con spazio molto maggiore, ed a cavallo
sul canale, una fortificazione sui lati dell'esagono: si conservò per
quarant'anni, e fu perduta alli ventitrè di agosto nel settantaquattro
da don Giovanni d'Austria, come a suo tempo diremo. Finalmente oggidì,
mutate le condizioni, cresciuto il commercio, le case e i magazzini
attorno al canale, non se ne vede più nulla.

[Agosto 1535.]

L'armata vittoriosa sciolse dai lidi africani, menando migliaja di
cristiani riscattati a libertà, e appresso ammarinati i bastimenti dei
nemici. L'imperatore prese terra a Trapani: e die' licenza all'Orsino,
partecipe delle fatiche e della gloria, di ricondurre le galèe a
Civitavecchia. Tornò menomato non solo dei tanti che dato avevano la
vita per la pubblica salute, ma con molti soldati e marinari monchi,
feriti e poveri più di ogni altro. Imperocchè, secondo il solito, essi
non toccarono guadagni nè di artiglierie, nè di navigli, nè di
ricchezze[544]. Ebbero soltanto in dono dalle istesse mani
dell'Imperatore un catenaccio, insieme col chiavistello e la stanga
della porta di Tunisi, perchè l'avessero a mostrare nella basilica di
san Pietro in Roma a perpetua consolazione della anima loro.

Restarono quei rugginosi ferri per qualche anno nel portico della
chiesa, dappoi nella sacrestia, e finalmente oggidì si trovano (come io
scrittore ho veduto e riveduto le tante volte) nell'atrio esterno
dell'archivio canonicale, e vicino alle catene del porto di Satalia,
delle quali altrove ho fatto menzione. Quivi sporge dal muro una vecchia
lapida, che dice così[545]: «Carlo V imperatore, espugnata la città di
Tunisi, mandò questa stanga e questo serrame al tempio del beato Pietro
apostolo, per ricordare ai posteri la segnalata vittoria.»

Qual maraviglia che i minuti particolari e i fatti egregi dei nostri
marini non suonino più che tanto nella storia, quando dello stesso
nobilissimo condottiero e prode romano, stato sempre a' fianchi di
Carlo, per suo rispetto, si tace anche il nome nelle iscrizioni
monumentali di Roma?

NOTE:

[543] CAP. FRANCESCO DE MARCHI, _Architettura militare_, in-fol. figur.
Brescia, 1599, p. 227, tav. 136.

BARTOLOMMEO SERENO, _Commentari_, in-8. Montecassino, 1845, p. 341.

[544] P. A. G., _Medio èvo_, I, 30, 341; II, 457. — _Marcantonio
Colonna_, 245.

[545] LAPIDA nella sacrestia della basilica Vaticana, atrio esterno
dell'Archivio canonicale:

                        CAROLUS . V . IMPERATOR
                           TUNETO . EXPUGNATO
                       VECTEM . ET . SERAM . HANC
                              BEATO . PETRO
                       OB . INSIGNEM . VICTORIAM
                               TRANSMISIT.



[5 aprile 1536.]

XII. — Mentre da un capo all'altro d'Italia dovunque passava l'augusto
Carlo si facevano feste straordinarie con archi, trionfi, statue e
pitture, lavorandovi tutti gli artisti del tempo buoni e cattivi, come
dice il Vasari[546]; e mentre si ripetevano con infinita esultanza dei
popoli le lodi sue, per avere condotto felicemente a termine la guerra
piratica; già agli occhi dei savî per certi segni apparivano nuove
sventure, e gli scoppi imminenti di altre guerre intestine. Imperciocchè
essendo morto improvvisamente e senza prole, addì ventiquattro
d'ottobre, Francesco Sforza duca di Milano, non poteva nè il re di
Francia nè quel di Spagna lasciare il retaggio al rivale senza
discapito, nè ritenerlo per sè senza battaglia. Di fatto Carlo, venuto
da Napoli in Roma il cinque d'aprile, alla presenza del Pontefice, e dei
cardinali, e degli ambasciatori, e di tutta la corte, in pubblico
concistoro, disfogava acerbamente le sue querele contro Francesco;
l'Ambasciatore parigino rispondeva a Cesare: e dopo le ingiurie tra loro
venivano i danni sopra noi[547].

[Maggio-dicembre 1536.]

Suonarono adunque di malauguroso squillo le trombe in Italia, campo di
battaglia a tutti i rivali. Non si parlò più del Concilio: ed i principi
nostri in poco tempo furono veduti tutti pieni di gelosie e di guerre.
Il Piemonte calpestato, Genova assalita, Venezia sospettosa, Milano
straziato, e gli Svizzeri da ogni pretendente subillati, offrirono
spettacolo da potersene rallegrare tutti i pirati, e Barbarossa e
Solimano. Quest'ultimo principalmente, conoscendo l'altrui tramestìo
opportuno ai casi suoi, stimò bene di smettere la guerra che faceva già
da più anni al Sofi di Persia, e di assaltare in vece l'Italia: tanto
più che i pirati lo incitavano a entrare in questo campo di sicure
vendette e di maggiori guadagni. Si diceva anche pubblicamente allora,
ciò che gli scrittori e i fatti hanno dappoi largamente confermato,
essersi inteso il re Francesco coll'imperatore Solimano, per mezzo
dell'ambasciatore La Foresta, di mettersi insieme contro Carlo in
Italia; e che venendo il Re coll'esercito dalla parte di terra sul Po,
verrebbe Solimano coll'armata dalla parte del mare sopra la Puglia[548].

Lo svolgimento di questa semenza, come ognun vede, troppo lussureggiava
per maturare a un tratto: ma forbivano i ferri, si apriva la campagna in
Provenza, in Piemonte, in Lombardia, e intanto il re Francesco
allestivasi a passare oltralpe in persona collo sforzo di Francia, e
Solimano a spedire nello Jonio l'armata di mare per ajutarlo.
Barbarossa, alla testa degli arsenali e dei navigli, dava voce di voler
passare in Egitto, e di là pel mar Rosso ai mercati delle Indie contro i
Portoghesi, i quali avevano nella guerra precedente favorito i Persiani,
ed ora tentavano chiudere le porte del commercio ai Turchi. Ma
quantunque sì fatte voci fossero artificiosamente divulgate, non
potevano non essere sospette alle persone pratiche degli affari; e il
Papa apertamente diceva che il turbine turchesco sarebbe certamente
piombato in Italia. Per questo spedì nunci straordinarî alle corti,
propose ai principi eque condizioni di pace o di tregua, ed all'Orsino
prescrisse di tenere le forze marittime pronte ad ogni evento. Esso
stesso per dar calore agli armamenti e alle difese della Maremma andò in
persona a rivedere le rôcche, a confortare i popoli, a dar animo ai
capitani e alle milizie. In ventisette giorni, movendo da Roma, visitò
Nepi, Viterbo, Montefiascone, Orvieto, Gradoli, Capodimonte,
Acquapendente, Toscanella, Corneto, Civitavecchia e Cere: e lasciando in
ogni parte ordini e provvisioni, pel compimento dei restauri e delle
opere nuove, si volse poi con tutto l'animo alle mura di Roma[549].
Notate il tempo e tutte le circostanze, e vi sarà manifesto come non per
Clemente, nè pel Borbone, nè pel sacco; ma contro Barbarossa, e contro i
Turchi ebbero principio le moderne fortificazioni di Roma, e le opere
del Sangallo e del Castriotto attorno alla città, al Borgo e al
Vaticano.

NOTE:

[546] VASARI, _Vite degli artisti_, ed. cit., VI, 135.

[547] SFORZA PALLAVICINO, _Istoria del Concilio di Trento_, in-fol.
Roma, 1666, p. 83: «_Cesare in Concistoro fece un ragionamento per lo
spazio d'un'ora.... passò ad un'agra doglianza del re Francesco....
l'ambasciatore di Francia lesse una risposta.... senza altro frutto per
l'una e per l'altra parte, che di sfogare, o più tosto di scoprire, la
soverchia passione._»

[548] RAYNALDUS, _Ann. Eccl._, 1536, n. 21: «_Franciscus rex impio
fædere cum Solymano percusso, illum proximo anno ad Neapolitanum regnum
invadendum pellexit._»

SANDOVAL cit., II, 215: «_El rey de Francia despacho sus ambaxadores al
Turco.... a pedir a Solyman que embiase contra el Emperador su armata._»

JOVIUS cit., lib. XXXVI, princ.

BELCAIRUS cit., in-fol. Lione, 1625, p. 686.

MAMBRINO ROSEO cit., III, 190.

[549] PETRUS PAULUS GUALTERIUS, Aretin. præfect. cœrem. _Diaria_,
Mss. cit., sub die quarta octobris MDXXXVI: «_Itinerarium domini
Papæ.... die undecima septembris mane diluculo discessit ab Urbe.... die
duodecima Nepete.... die decimaquarta ad Caprarolam.... die decimasesta
Viterbii.... die decimanona ad Montem Faliscum.... die vigesimaprima
Urbeveteri.... die vigesimaquinta ad Acquampendentem.... die
vigesimaseptima ad Gradulum.... die vigesimanona in Capitamontis.... dia
secunda octobris ad Tuscanellam.... die tertia ad Cornetum.... die
quarta ad Civitatemvetulam.... die sexta in Cære Veteri.... die septima
reversus ad Urbem._»



[29 aprile 1537.]

XIII. — Ma perchè sempre più montavano i sinistri presagi, e dal mare si
vedevano crescere le punte della luna tra nubi procellose, tornava papa
Paolo in Civitavecchia per rivedere l'armamento delle galèe e della
fortezza, e per aggiungere nuovi stimoli a Gentil Virginio ed a
Michelangelo che vi si adoperavano[550]. E non andò molto che
avveraronsi le sue previsioni. Solimano nel mese di maggio, lasciata da
banda la Persia, l'Egitto e i Portoghesi, fece uscir dai Dardanelli
contro l'Italia l'armata sua di quattrocento vele agli ordini di
Barbarossa, con gran convoglio di fanterie e di cavalli.

[8 luglio 1537.]

Costoro dall'Epiro si appressarono alla Puglia, cercando luogo opportuno
di sbarco insieme e di fermata: e veduta ben munita la città di
Brindisi, non meno che la piazza di Otranto, gittaronsi più abbasso otto
miglia; e parte per sorpresa, parte per inganno di Troilo Pignattelli,
ebbero dal cavalier Mercurino Gattinara la terra di Castro, dove subito
subito principiarono a fortificarsi, non senza scorrere le provincie
vicine disertando e predando roba e persone[551]. In questo modo
un'altra volta si posò fermamente la bandiera dei Turchi sulle torri
d'Italia.

Non può a parole esprimersi quale fosse la scossa di tutti i vicini e
dei lontani, e l'ardore dei popoli e dei principi per togliersi
d'attorno quella peste. Il vicerè di Napoli spediva nella Puglia fanti e
cavalli, il principe Doria raccoglieva in Messina navi e galere, il
Grammaestro mandava da Malta cavalieri e capitani, e il Papa da Roma
spediva incontanente marinari e soldati[552]. L'Orsino, tenendosi in
punto, e già imbarcati i rinforzi straordinarî, e la fiorita compagnia
di gentiluomini romani seguaci della sua casa, al primo rumore salpò da
Civitavecchia, menando seco sei galere; cioè le tre di sua proprietà
privata, e le altre della Camera, secondo i capitoli della condotta. La
prima, che faceva da capitana ed era navigata dal Conte, per ragion di
famiglia, chiamavasi l'Orsina; la seconda, messa a padrona, per felicità
di augurio nomavasi la Vittoria; la terza, per le tradizioni di Ostia e
di più altri luoghi della spiaggia romana, sant'Agostino: le altre tre,
per le ragioni che ognun vede, eran chiamate san Pietro, san Paolo e san
Giovanni: alle quali non guari dopo il Conte aggiungeva la settima che
teneva sul cantiere in costruzione, e chiamavala per riverenza del
Pontefice suo congiunto ugualmente san Paolo; distinguendosi le due
omonime coll'aggiunta del Papa o del Conte[553].

L'Orsino prestamente si congiunse in Napoli colle sette galere del
Regno, e in Messina colle tre di Sicilia, e colle ventidue del Doria,
formandosi uno squadrone di trentotto galere: non certamente valido a
disfare l'armata nemica, ma sufficiente a molestarla. Con questo disegno
dal capo Spartivento si tirarono al Zante, mettendosi alla coda, e
pigliando a rovescio l'armata nemica, e scorrendo per le marine
dell'Epiro attesero a proibire il passaggio dei convogli, delle
vittuaglie, delle munizioni e della gente nuova, con tanto successo e sì
grande ardimento che i Turchi alla spicciolata ebbero a restare quasi
sempre conquisi. Alla loro virtù, e più presto che non si sarebbe potuto
sperare, dobbiamo noi, come espressamente i contemporanei giudicarono,
attribuire la cacciata dei Turchi dalla Puglia. Passeremci delle minute
avvisaglie, per venire drittamente ai due fatti più importanti della
crociera.

NOTE:

[550] BLASIUS MARTINELLI, De Cœsena, _in Diariis_, Mss. cit., sub die
vigesimanona aprilis MDXXXVII: «_Papa recessit ab Vrbe versus
Civitatemveterem, ut videret triremes et provideret contra piratas
marittimos._»

[551] ZUCCAGNI ORLANDINI, _Corografia di tutta l'Italia_, in-8. figur.
1843. — Regno di Napoli, Terra d'Otranto.

BAUDRAND, _Lexicon geographicum_, in-fol. Parigi, 1670, p. 173:
«_Castrum Minervæ nunc Castro, urbs fuit Salentinorum in provincia
Hydruntina in ora littorali maris Jonii, alias male habita a Turcis,
nunc utcumque reparata et munita._»

[552] SCIPIONE MICCIO, _Vita di don Pietro di Toledo vicerè di Napoli_,
pubblicata nell'ARCH. STOR. IT., prima serie, t. IX, p. 31 e 34: «_Et
non molto dopo arrivò il principe Doria con venticinque galere et doi
galeoni: e appresso entraro cinque galere di Papa Paolo III._»

BOSIO cit., 170, B: «_Sollecitato il Doria dal Papa e dal Vicerè a
mettere insieme l'armata.... mandandogli il Pontefice a quell'effetto
sei galere sue, benissimo armate._»



[13 luglio 1537.]

XIV. — Stando i nostri alla guardia nelle riviere dell'Albania tra la
Rilla e la Parga, addì tredici di luglio, scoprirono da lungi molti
navigli di quella specie che i Levantini chiamano schirazzi (bastimenti
da carico di gran corpo, alberi a pioppo, e vele quadre), i quali, come
poi si seppe, venivano da Alessandria mandati dal Giudèo con munizioni
ed attrezzi militari per l'esercito di Puglia. I marinari degli
schirazzi scoprirono altresì le nostre galere: ma non pensando mai che
potessero i Cristiani in arme per quei giorni navigare tanto lontano dai
porti loro, e così da presso ai rivaggi altrui; anzi per molte apparenze
persuasi che le galere nostre fossero barbaresche, proseguirono sbadati
la loro navigazione per gittarsi poscia dal capo Bianco di Corfù al capo
d'Otranto in Italia. Venuti da presso, scoprirono l'errore, ma non
furono più in tempo a ripararlo: tentarono la fuga, si coprirono di
cotone; tutto inutile. Da ogni parte circondati e investiti si arresero,
senza che ne fuggisse pur uno. I Turchi messi al remo, le munizioni
ripartite, ed i quattordici navigli con un po' di paglia e di stipa
sotto coverta bruciati in mezzo al mare[554].

[18 luglio 1537.]

Dopo cinque giorni, facendosi diligentemente alla penna la scoperta sul
tramonto e sulla levata del sole, ebbero un altro incontro di sommo
rilievo per le conseguenze. Tanto nelle fazioni di guerra giova la
vigilanza! Alla prima mattina del diciotto di luglio furono alla vista
nel canale di Corfù due galere ed una galeotta di nemici, e si ordinò
incontanente la caccia. Coloro, vedendosi inseguiti da forze maggiori,
presero a fuggire, investirono in terra, abbandonarono i legni, e si
imbrancarono verso i monti dei Cimmeriotti, gente cruda e bestiale, dai
quali furono fatti a pezzi senza pietà, eccetto alquanti maggiorenti,
cui salvarono la vita più tosto per ingordigia di grosso riscatto, che
per altri rispetti. Tra i vivi ricorderò un dragomanno turco, chiamato
Jonus-Bey, o, come dice il De Hammer, Junis-beg, uomo notissimo nella
storia ottomana di questi tempi, favorito dell'Imperatore, e da lui
mandato a Girolamo Pesaro, generale dei Veneziani in Corfù, per
richiamarsi di certe baruffe occorse poc'anzi tra alcune galere delle
due parti, a cagione di saluti. Or costui col capo pieno di Veneziani,
di risentimenti e di tafferugli, caduto nelle mani dei Cimmeriotti, e
tutto spavento, non capì mai che altri, se non i Veneziani medesimi, gli
avessero fatto il brutto tiro di dargli la caccia, e di gettarlo in
quelle strette; perchè quanto al Doria ed all'Orsino non pensava nè meno
che avessero potuto tanto presto, e in così piccol numero, comparire per
quelle marine. Però scrisse lettere furiose a Solimano: e incaponito
come era in questo che la Repubblica abusasse perfidamente della pace
per abbassare la casa Ottomana, ora sotto pretesto di saluti dinegati,
ora di bandiere non conosciute, ora di dragomanni presi a sospetto,
aggiunse nelle medesime lettere orribili cose contro di loro; e con
questo si fece strada a chiedergli il riscatto[555].

Tanto bastò per liberare la Puglia. Solimano già inquieto, nell'udire
sul fatto le querele dell'ambasciatore, si accese di grande ira: e,
subillato da Barbarossa, di presente giurò precipitosamente di non
volere più attendere a niuna impresa, se prima non si fosse vendicato
dei Veneziani. Dichiarò guerra alla repubblica, stabilì di andare in
persona all'assedio di Corfù, e tantosto richiamò le genti e l'armata da
Castro. Ecco dunque per la prontezza e valore di quelle poche galèe
liberata un'altra volta l'Italia dai Turchi; ed ecco a nostro vantaggio
di prospetto l'alleanza dei Veneziani.

NOTE:

[553] DOCUMENTI, inventarî e testimonianze seguenti alle prime note
della parte seconda.

[554] JOVIUS cit., 331: «_Ejus generis navigia, quæ a Turcis schiratia
vocantur, capta.... Turcis ad transtra triremium traductis, translata
præda, navigia incensa._»

MAMBRINO ROSEO cit., 192: «_Il Doria incontrò molti schirazzi che da
Alessandria all'armata di Solimano.... Questi pensavano che le galere
del Doria fossero di Barbarossa.... presi tutti, messi al remo, la preda
sull'armata, bruciati i vascelli._»

BOSIO, 170, D: «_Il Doria s'incontrò in quattordici schirazzi, caricati
di munizioni e d'armi al soccorso dell'armata turchesca.... tutti si
rendettero, presero le robe più pretiose, tutti i vascelli abbruciati._»

ANTONIO DORIA, _Compendio_ cit., 70; «_Andrea Doria.... presso a Corfù
prese tredici schirazzi con circa ottocento Turchi e deliberò abbruciare
i legni._»

[555] SABELLICI CONTINUAT., in-fol. Basilea, 1560, lib. XXI, vol. III,
p. 468.

JOVIUS cit., 331.

MAMBRINO ROSEO cit.. III, 192.

ANDREAS MAUROCENUS, _Hist. Ven._

PIETRO GIUSTINIANI, _Storia Veneziana_.

DE HAMMER, _Storia_ cit., IX, 215: «_Junis-beg._»



[22 luglio 1537.]

XV. — In un momento per tutto l'Adriatico corse il rumore degli
apprestamenti ordinati alla Vallona per assaltare Corfù e gli altri
possedimenti della repubblica, standovi l'istesso Solimano in persona a
sollecitare e a dirigere l'armamento; e là raccogliendo gli avanzi delle
forze materiali e personali che avevano campeggiato nella Puglia. Però
levati a maggiori speranze, e certi ormai di avere in ajuto contro i
Turchi la numerosa e bellissima armata di Venezia (infino allora
tenutasi neutrale), continuavansi più che mai diligentemente i nostri a
solcare di giorno e di notte quei mari, pigliando lingua da ogni parte,
specialmente dagli Albanesi. Tanto meglio, che erano testè venute di
rinforzo le quattro galere di Malta condotte da Lione Strozzi, colle
quali l'armata nostra saliva al numero di quarantadue galere, montate da
gente numerosa, prode, esperta e capace di fare buoni effetti, massime
per lo sbandamento dei nemici. Da indi a quattro giorni, parlamentando
con una barca levantina, seppero di certe galèe nemiche, capitanate da
Aly-Zelif, uomo di molta autorità tra gli Ottomani, che dovevano passare
pel canale di Corfù conducendo i migliori uomini di cavalleria della
guardia imperiale, chiamati di gran fretta alla Vallona attorno alla
persona di Solimano, con ordine di lasciare ad altri la cura dei
cavalli, perchè a mano agiatamente gli conducessero per la via di terra.

Laonde i nostri di notte e celatamente andarono a mettersi sul passo
agli agguati presso le Merliere, che sono quattro isolette, chiamate
dagli antichi Ericusa, Elafusa, Marate e Multace; dove spartitamente e
con buone guardie aspettando, scoprirono di fatto la sera del ventidue
le dodici galere, che facevano la strada predetta. Levaronsi per
incontrarle, e durante la notte essendo già plenilunio e chiarissima
luce, non dubitarono punto di investirle e di combatterle. I Turchi,
quantunque meno apparecchiati, valorosi tuttavia e dilicati sul punto
d'onore, vennero subito ai ferri, e non ismentirono la riputazione del
corpo, sostenendo l'arrembaggio a corpo a corpo con tanta costanza che,
dopo tre ore, non ostante il gran numero dei morti e dei feriti, il
combattimento durava come era cominciato. Quando poscia la cieca
mischia, cominciatasi nella notte, comparve meglio a grado a grado
rischiarata dal sol nascente, allora i nostri capitani conobbero il gran
rischio, nel quale si trovavano per le avarie dei legni proprî, e per la
grande rovina della gente; non vedendosi altro nelle corsie e sui
castelli che corpi morti, mutilati e feriti; e le acque del mare intorno
piene di rottami e di cadaveri, torbide e tinte di sangue.

[23 luglio 1537.]

Ripetuto l'assalto generale con maggior vigore e gagliardissimo slancio,
senza poter rimettere pur uno dei legni nemici: tenendosi fermi al posto
quei Turchi, che pel valore e pel numero non lasciavano far progresso a
nessuno, ma trucidavan sulle rembate, sulla palmetta, al piè
dell'albero, o ricacciavano indietro mal concio chiunque si presentava:
nè anche più potendosi maneggiare l'artiglieria di prua, per essere i
legni di amici e nemici tutti confusi gli uni sugli altri, e i Turchi in
mezzo prolungati a contrabbordo: in somma ridottosi il combattimento
all'uccellare di archibuso o di spuntone per abbattere o infilzare
dovunque si vedesse la minima particella di un corpo fuor dei pavesi,
fosse di turco o di cristiano; finalmente si parve il vantaggio di chi
studia nei libri, anche intorno alle cose di milizia e di marina: il
vantaggio di chi sull'esempio degli antichi non lascia di tenere da ogni
parte del suo bastimento, anche a tergo e sui fianchi, macchine e
strumenti di offesa e difesa. Le galèe nostre, secondo gli inventarî
ufficiali, portavano cannoni alle bande: due pezzi da dodici sui
fianchi; e similmente quattro smerigli alla mezzanìa, ciò era altri
quattro pezzi da sei laterali[556]. Al modo istesso le galèe di Malta,
come dice espressamente il Bosio, solevano portare un mezzo cannone
dall'una e dall'altra parte della mezzanìa sul posticcio; pezzi acconci
sulla conveniente piattaforma al di sopra dei banchi[557]. I quali mezzi
e quarti cannoni e smerigli facilmente si potevano mettere in batteria,
o ritirare nella stiva, secondo le occorrenze del navigare e del
combattere, per mezzo dello affusto a scalone, che per sua snodatura
faceva piano inclinato, attissimo a rimaneggiare il pezzo, come altrove
si è detto[558]. Le palle laterali, devo ora io dire, provaronsi di buon
peso la mattina del ventitrè per decidere la sorte dell'ostinato
combattimento: ed il fuoco dei Romani e dei Maltesi fece traboccare a
favor dei Cristiani la bilancia. Come si cominciò dai fianchi a giuocar
coi tiri di ficco, tantosto parve ai Turchi disperata la difesa. Anzi
più, veduta una delle loro galere per quei colpi sfondata e sommersa,
tutti abbiosciarono. Posero giù le bandiere, gittarono al mare le
scimitarre, che avevano bellissime di acciajo damaschino; e salutando
inermi colla mano alla bocca, alla fronte ed al petto, conforme l'uso
nazionale, si arresero. Undici galèe guadagnate, una sommersa, duemila
cinquecento morti, ottocento prigionieri, sessanta cannoni. Vittoria
pagata a caro prezzo, restandovi i vincitori presso che disarmati per la
moltitudine dei morti e dei feriti, messi insieme infino a mille
cinquecento persone.

Quei che considerano la ragione dei fatti possono per molti esempi
intendere, quanto talvolta in mare, più del numero dei navigli, valga la
bravura e il numero dei combattenti[559]: che certamente nel caso
presente dodici legni furono a un pelo per vincerne quarantadue. Anzi
comunemente si disse che le cose sarebbero andate a rovescio per noi se
nell'azzuffamento di quella notte fossero sopraggiunti sol quattro o
cinque legni in ajuto dei nemici, e se i nostri non avessero potuto
giuocare a tempo coi pezzi di traverso[560].

NOTE:

[556] DOCUMENTI, _inventari e autorità_ cit. a p. 368, e 370:
«_Inventario delle galere di Nostro Signore, etc. fatto in Roma addì 26
aprile 1534. — Artiglieria.... due quarti cannoni per le bande....
quattro smerigli per le bande._»

[557] BOSIO cit., III, 171, D: «_Il mezzocannone che le galere della
Religione sogliono portare dall'una e dall'altra banda a mezzania, nella
posticcia._»

[558] P. A. G., _Medio èvo_, I, 203; II, 230; e qui appresso più volte,
come all'Indice, voce _Scalone_. — (Lo scalone delle galèe è il primo
tipo del moderno affusto Moncrieff.)

[559] P. A. G., _Medio èvo_, II, 26.

[560] JOVIUS cit., 331. — CAPPELLONI cit., 76. — SIGONIO cit., 188.

ANTONIO DORIA, _Compendio_ cit., 71: «_Andrea trovò la sera vicino a
Terraferma all'incontro dell'isola del Paxso et aspettatole dietro il
capo, essendo la luna in quintadecima, che rendeva la notte chiarissima,
le investì le dodici galere.... combattute dalle due ore di notte, fino
a più d'una di sole: et al fine superate restarono prese.... morirono di
loro e furono feriti 2500, e di Christiani trecento morti, e mille
dugento feriti._»

DE HAMMER cit., X, 471, 474, 546: «_Comandante delle dodici galere Ali
Celebi, Kiajà di Gallipoli._»



[Agosto 1537.]

XVI. — Lo stesso giorno dopo il mezzodì l'armata volse le prore inverso
il Pacso, ed ivi sostenne quanto portava una prima cura ai feriti, un
po' di rattoppamento ai navigli e alle manovre, e la ripartizione della
preda meno danneggiata in parti proporzionali a ciascuna squadra. Toccò
all'Orsino la migliore delle galèe, con tutte le artiglierie, e grossa
mano di prigionieri per remigarla[561]. Poscia sapendo che Barbarossa
veniva a cercar vendetta, fecero vela a ponente verso Messina. Il
principe Doria, il conte dell'Anguillara, il priore Strozzi, e gli altri
capitani incontrarono ricevimento trionfale, e feste solenni nella
città; e non rifinivano le lodi dei Siciliani per gli ottimi effetti
cavati dalla gloriosa campagna con forze tanto limitate contro nemici
così possenti. Vedete prestezza, fede, valore e successi, quando il
dèmone della gelosia di stato non trova appicco tra i collegati!

[Settembre 1537.]

Però a Solimano da ogni parte giungevano sinistre novelle: abbandonata
la Puglia, disfatto l'esercito, perduti gli schirazzi, le galèe, la
gente, gli ambasciatori; e ciò per opera soltanto di una quarantina di
bastimenti. Lo sdegno suo cercava vendette: e sospettando che non
avrebbe sortito tanti successi l'armata nostra in quella campagna senza
secreta intelligenza coi Veneziani, gittavasi perdutamente ai danni
della Repubblica, facendone assalire per terra e per mare tutti i
confini, massime i possedimenti della Dalmazia e della Grecia; ed egli
in persona col maggior nervo dei suoi metteasi all'attacco di Corfù. Ma
in queste imprese sparpagliate, non altro gli successe se non desolare
le campagne, bruciare le ville, e ridurre in schiavitù alquante migliaja
di contadini; avendo le fortezze, e prima di ogni altra la piazza di
Corfù, fatto buona prova contro gli assalimenti suoi. In Dalmazia
Camillo Orsini e il conte Giulio da Montevecchio colle fiorite legioni
della Marca e di Roma non solo difesero le piazze forti, ma tolsero ai
Turchi diversi castelli; tra i quali Ostrovizza, importantissima per la
posizione tra Zara e Traù[562].

In somma caduto d'animo per tante perdite, non compensato dagli incendî,
e posto anche in pericolo della vita per una congiura di Cimmeriotti,
che avevano risoluto di sbranarlo nel suo stesso padiglione; vedendo di
più avvicinarsi l'avversa stagione, e temendo molestie dall'armata
veneziana e dalla nostra se più tardasse la ritirata, si levò Solimano a
mezzo settembre dall'assedio di Corfù, ed a Costantinopoli si ridusse,
non senza gran vergogna per tanti disegni tornatigli vani nel primo
cominciare. All'incontro le premure di papa Paolo sortirono felici
effetti a vantaggio dell'Italia e della cristianità in tanti modi
afflitta. Egli stesso, che intendevane l'importanza, e pigliava animo
dalla cacciata di Solimano a sperare cose maggiori, segnavane il ricordo
in una medaglia simbolica rappresentante il Delfino vincitore del
Coccodrillo[563]. Basta accennarla, perchè ciascuno ne intenda il
concetto, senza spendervi altre parole, non vi si trovando cosa che
tocchi direttamente all'armata navale.

NOTE:

[561] JOVIUS cit., 332: «_Abductis aliquot hostium triremibus captivis,
quæ erant integræ._»

BOSIO cit., 172, A: «_Il principe Doria, havendo partito il bottino
colle galere del Papa e della Religione, se ne andò al Pacsù._»

[562] JOVIUS cit., 340, 31: «_Conscriptis Anconæ cohortibus et opportuno
tormentorum instrumento, atque item commeatu, Pontifex liberaliter
adjuvit Crosiccium in Dalmatia.... Lucas Anconitanus pontificiis præerat
auxiliis.... Misso Camillo Ursino, Ostrovizzam expugnarunt._»

MAMBRINO ROSEO cit., III, 194: «_I Veneziani mandarono al presidio di
Zara Camillo Orsini col conte Giulio di Montevecchio, che frenarono il
grande ardire dei Turchi.... Camillo assaltò con gran vigore e prese
Ostrovizza, luogo forte dei Turchi._»



[Ottobre 1537.]

XVII. — Buon per noi che la ritirata di Solimano avvenisse in tempo, e
secondo il bisogno; perchè a un punto, quando colui se ne andava da una
parte a Costantinopoli, sboccavano dall'altra in Italia più numerose le
genti del re Francesco: che quando si fossero incontrati insieme,
certamente avrebbero ridotto a mal partito più i popoli che
l'Imperatore. Nondimeno peggiori guerre si ripigliavano ai nostri danni
in Piemonte e in Lombardia: il marchese del Vasto cozzava col signore
delle Humières, questi cadeva di male in peggio, il Re spedivagli il
figlio con molto rinforzo, poi presentavasi esso stesso in persona sul
campo. Ma venendo sempre meno la fortuna di Francia, e vedutosi il Re
agli estremi, non dubitò di mandare a Costantinopoli il signore di
Rincon con dieci galere provenzali per richiamare in Italia Solimano e
Barbarossa ad ajutarlo.

Intanto l'armata cristiana in Messina, rifattasi delle avarie e
rifornita di gente, e cresciuta colle galere di Spagna, e con molte
navi, fino al numero di cento legni, salpava, e rimetteasi nelle acque
dello Jonio a tenerne lontano i Barbareschi, ed a pizzicare la coda
degli Ottomani nella ritirata. Durante questa ultima parte della
campagna non occorse fatto di rilievo. Barbarossa fuggiva di lungo, e i
nostri appresso senza potergli altro dare se non fretta maggiore, nè
togliergli che pochi bastimenti da carico da lui licenziati per
Barberìa; facendovi però molti prigionieri, de' quali la squadra romana
ebbe la parte che le veniva[564].

Finalmente il Doria, avendo saputo del passaggio che far doveva il
signor di Rincon, nuovo ambasciatore di Francia (per la morte del La
Foresta avvenuta alla Vallona nel mese di luglio), virò di bordo,
volendo andare ad incontrarlo sull'altura di capo Passero; e per manco
disagio, menarlo a riposo nel castello di Mattagrifone in Messina. Ma in
questa caccia nè Romani nè Maltesi il seguirono, avendo gli uni e gli
altri espresso comandamento di non mescolarsi nelle contese private dei
principi cristiani, sotto qualunque colore. Per ciò lo Strozzi fece vela
verso Malta, e l'Orsino verso Civitavecchia, ambedue risoluti di
svernare. E il principe Doria dopo alquanti giorni, avendo inutilmente
cercato pei mari l'ambasciatore di Francia, seguì l'esempio altrui,
volgendosi al riposo di Genova, come disse qui in Civitavecchia in casa
dell'Orsino, cui volle personalmente riverire e ringraziare[565].

I grandiosi fatti del trentasette da una parte, e dall'altra le mene dei
turchi e dei pirati, le minacce contro l'Italia, l'invasione della
Puglia, la guerra ai Veneziani, l'assedio di Corfù, e tutti i patimenti
del cristianesimo[566], aprirono a papa Paolo la strada per condurre a
termine la tanto sospirata alleanza dei principi cristiani contro il
nemico comune, secondo l'esempio dei tempi anteriori, ed a modello dei
seguenti. La trattazione più larga della lega conclusa nel trentotto tra
Paolo III, Carlo V e i Veneziani; e gli infelici successi non meno
importanti che negletti della medesima, mi costringono (insieme col
Tipografo) a dividere in due parti il libro sesto. Grandi cose abbiamo
veduto nella prima parte, e maggiori ne vedremo nella seconda. Ma tristo
paragone tra i fatti precedenti di fede manifesta, ed i successivi di
coperta gelosia; come meglio che altrove apparirà qui nel volume
secondo.

FINE DEL VOLUME PRIMO.

NOTE:

[563] PHILIPPUS BONANNI, _Numismata Rom. Pont._, in-fol. figur. Romæ,
1699, I, 199, tav. II, n. 35:

                   PAULUS . TERTIUS . PONT . MAX.

[564] BOSIO cit., 172, B: «_Doria prese una germa di Turchi e buon
numero di schiavi.... de' quali partecipò la porzione._»

[565] PETRUS PAULUS GUALTERIUS, Aretinus præfect. Cærem. in _Diariis_
cit., sub die 28 septembris 1537.

[566] JOANNES CRISPUS, Ægæi maris dux, _Ad Christianos Principes, ex
Naxo cal. decemb. MDXXXVII_, ap. CLAUSERUM _de reb. Turc._, in-fol.
Basilea, 1556, p. 590, 594: «_Extimulat infinitus numerus Christianorum
captivorum compedibus ferreis cathenisque vinctus qui mahometano Tyramno
durissime ac dolentissime servit._»



INDICE DEL VOLUME PRIMO.


  Proemio                                                  Pag. 1

  Libro Primo. — Capitano Lodovico del Mosca, cavaliere
    romano (1500-1503)                                          3

  Libro Secondo. — Capitano Baldassarre da Biassa, gentiluomo
    genovese (1503-1513)                                       57

  Libro Terzo. — Capitano Paolo Vettori, marchese della
    Gorgona (1513-1526)                                       125

  Libro Quarto. — Capitano Andrea Doria, dei signori di
    Oneglia (1526-1533)                                       271

  Libro Quinto. — Capitano Bernardo Salviati, cavaliere di
    Malta e priore di Roma (1533-1534)                        335

  Libro Sesto. — Capitano Gentil Virginio Orsini, conte
    dell'Anguillara dal 1534 al 1548.
    Parte prima (dal 34 al 37)                                391



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (canapi/cánapi, ancore/àncore, archivi/archivî e
simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.





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