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Title: Gli albori della vita Italiana - Conferenze tenute a Firenze nel 1890
Author: Various
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Gli albori della vita Italiana - Conferenze tenute a Firenze nel 1890" ***


                             GLI ALBORI

                               DELLA

                           VITA ITALIANA


               _Conferenze tenute a Firenze nel 1890_

                                DA

         O. Guerrini, P. Villari, P. Molmenti, R. Bonfadini,
         R. Bonghi, A. Graf, F. Tocco, P. Rajna, A. Bartoli,
         F. Schupfer, G. Barzellotti, E. Panzacchi, E. Masi.

                          QUARTA EDIZIONE.



                              MILANO
                      FRATELLI TREVES, EDITORI
                               1897.



                        PROPRIETÀ LETTERARIA

                    _Riservati tutti i diritti._

                       Tip. Fratelli Treves.



LE CONFERENZE DI FIRENZE SU GLI ALBORI DELLA VITA ITALIANA[1]

  [1] Ci sembra necessario far conoscere come queste Conferenze, che
  levarono tanto rumore quando furono pronunciate e che ora si
  pubblicano per le stampe, ebbero origine e come e dove furono
  tenute. Per soddisfare a questo desiderio, riproduciamo a mo' di
  prefazione un articolo pubblicato nell'ILLUSTRAZIONE ITALIANA del
  29 giugno 1890.


   “Raccogliere ascoltatrici e ascoltatori devoti, quanti amano
   genialità di studi, vigoria di pensieri, pittrice eleganza nel
   dire, e invitare gl'ingegni più colti, perchè ognun di essi nelle
   spirituali adunanze, colorisca, secondo un ordine determinato,
   una parte del gran quadro della _Vita Italiana_ nei varii secoli;
   parve assunto degno di quelle tradizioni di gentilezza onde
   Firenze si onora, e occasione bene augurata per procurare che i
   più valenti, mossi da un solo pensiero, illustrino le pagine
   gloriose della storia nostra civile. Firenze negli Orti
   neoplatonici, ai rezzi delle ville suburbane, nelle botteghe
   degli speziali, e poi nelle accademie e nei dotti ritrovi, ebbe
   in altri tempi il primato delle letterarie adunanze. Noi vorremmo
   che ora potesse modestamente dar l'esempio di eletti convegni, in
   cui l'ascoltare fosse studio e ricreazione dell'animo.„

Così diceva un manifesto che portava in calce alfalbeticamente disposti,
i nomi di Guido Biagi, G. O. Corazzini, Tommaso Corsini, Francesco
Gioli, Diego Martelli, Carlo Placci, Arnaldo Pozzolini, Piero Strozzi,
Pasquale Villari, e che, distribuito ne' salotti fiorentini e forestieri
e commentato in varie lingue dalla viva eloquenza di apostoli convinti,
ebbe la fortuna d'essere accolto con ogni favore. L'idea d'una serie di
letture sopra un determinato argomento parve utile e buona: avrebbero
almeno servito all'intento di farci conoscer meglio una parte della
nostra vita passata e ricondotto a Firenze uomini di chiara fama, la cui
voce da un pezzo non avea risuonato fra noi.

Il manifesto piacque a quanti lo lessero. Scritto con uno stile
leggermente _précieux_, parea fatto apposta per accarezzare gli orecchi
più delicati, per esser ritenuto a memoria, come una musica di parole
armoniose e soavi. Era destinato segnatamente alle signore, senza le
quali, — come disse un amico dell'amico più grande che esse abbiano
avuto, di Messer Giovanni di Boccaccio, non si può far cosa che abbia
profumo di gentilezza. E le signore che rimandarono le schede di
associazione con le loro firme in lettere inglesi, magre e sottili,
aveano subito compreso d'essere invitate a metter su qualche cosa che
avrebbe voluto esser durevole e degna.

Frattanto, mentre d'ogni parte si chiedevan notizie di queste letture e
della Società che le aveva promosse, venne innanzi l'inverno.
L'argomento della prima serie era già scelto: _Gli albori della Vita
Italiana_: e, distribuite le parti, già cominciavano i giornali ad
annunziare questo che sarebbe stato l'avvenimento letterario dell'anno,
storpiando maledettamente quel povero titolo che, di proto in proto, si
mutava ora in _allori_ e ora in _alberi_.

Restava da sceglier la sala per le conferenze: e la scelta avea grande
importanza perchè da essa dipendeva il carattere e l'intonazione delle
letture. Il luogo alle volte determina il buon esito d'un'impresa: lo
_Stabat_ in teatro non sarebbe lo _Stabat_, e la musica del _Barbiere_,
non potrebbe esser sonata sull'organo di chiesa. Così queste letture non
dovevano diventare lezioni cattedratiche e nemmeno conferenze popolari.
Una sala pubblica, l'_Aula Magna_, quella del _Buonumore_, la
_Filarmonica_, la Sala di Luca Giordano, per un'infinità di ragioni,
oltre a quelle accennate, non parevano adatte. Non ci voleva una sala a
pigione; ma si desiderava l'ospitalità signorile di qualche antico
palazzo. Il sogno era una bella sala con arazzi alle pareti, con un di
quei larghi camini del quattrocento che invitavano i nostri antichi
all'intimità del focolare, con le lumiere di nitido cristallo penzolanti
da un soffitto a cassettoni, con il profumo dei fiori accomodati nelle
paniere e nei vasi, con il tepore.... moderno d'un calorifero
invisibile. E il sogno si avverò grazie ad un gentiluomo artista, sempre
primo dove si tratti di tentare cosa utile e buona, e la cui benevola
cortesia è a prova di fuoco come la porcellana della splendida
Manifattura di Doccia. Il marchese Carlo Ginori, deputato al Parlamento,
R. Commissario per le antichità e belle arti della Toscana, proprietario
d'una fabbrica meravigliosa, cacciatore, schermidore e navigatore
appassionato, affittuario dell'isola di Montecristo e, dopo tutto, bello
e compito cavaliere, — concesse alla società la sala del suo palazzo, e
le _Letture fiorentine_ si chiamarono “le conferenze di Casa Ginori„.

La scelta della sala e la pubblicazione del programma per la prima serie
di letture che cominciarono il 1.º marzo 1890 per cessare il 19 aprile,
crebbero la curiosità universale. Se ne parlava dappertutto, nei crocchi
degli sfaccendati, come ai _domino_ serali dei professori dell'Istituto
Superiore, ai _five o'clock tea_ delle più _fashionables_ forestiere,
come ai pranzi spirituali delle duchesse. Gli scolari chiedevano alla
capitale o in provincia una tessera di giornalista per esservi ammessi;
i giornalisti soli si dolevano di non poter essere, almeno una seconda
volta, scolari.

Il primo marzo alle 3 pomeridiane precise, Olindo Guerrini saliva
trepidando sulla cattedra improvvisata nella sala Ginori e sedutosi per
leggere il suo _Preludio_, onde iniziavasi la serie delle Letture, si
guardò intorno con occhi spauriti. Gli s'affollava da presso e lo
stringea d'ogni parte una folla di ascoltatrici e d'ascoltatori curiosi,
un pubblico da dar soggezione ai più esperti e da far subito desiderare
a qualunque oratore di poter lì per li scomparire. Davvero meriterebbe
uno studio particolare l'uditorio di quella sala, composto com'era di
quanto ha Firenze di più culto ed eletto. Abbozzare qualche ritratto
sarebbe indiscretezza; dirò soltanto che c'eran signore d'ogni età,
d'ogni classe, d'ogni nazione, giovinette studiose che non perdevano una
sillaba di quanto sentivano, gentildonne rinomate per genialità di studi
e per eleganza di non studiati pensieri, donne ammirate per opere
d'ingegno e per amore alle arti, volti sbiancati dagli anni ma cari e
venerandi, volti rosei e sorridenti nella primavera della vita e ne'
trionfi mondani, volti eburnei di fanciulle dallo spirito arguto, chiome
nere con qualche filo d'argento, chiome sfidanti l'ala del corvo, o
rutilanti come l'oro liquefatto o bionde come le spighe mature; occhi
stellanti fatali ai poeti, e poeti co' baffi appuntati, e senatori
veleggianti nel mare dei sogni entro le punte d'un solino, e giovinotti
azzimati col fiore all'occhiello, e scolari, e artisti, e ufficiali, e
barbe e occhiali di professori....

Le conferenze ebbero sempre questi giudici che non disertarono il campo.
Conosco signore che si fecero scrupolo di mancare una sola volta; altre
che vennero da lontano per assistervi; altre e moltissime che rimasero
col desiderio, e scrivevan lettere alle amiche per aver compiuti
ragguagli. Ma dei singoli oratori non parlo: l'opera che tutti insieme
questi valenti ingegni hanno compiuto è una splendida pagina della
nostra storia, da essi rimessa in luce. Gli _Albori_ che si
distinguevano a mala pena di mezzo alle oscurità delle origini, son ora
rischiarati dalle indagini e dalla dottrina d'uomini per i quali il
sapere è professione; ed ora il bel volume edito dai Treves appagherà il
desiderio di quanti non poteron ascoltare questi artisti della parola.

Io non farò che enumerarli. Al Guerrini, nel cui volto tutti cercavano i
lineamenti ideali di Lorenzo Stecchetti, successe l'onorevole Romualdo
Bonfadini che svolse la prima parte del tema _Le Origini dei Comuni
Italiani_. Parlar di _Milano_ fu per lui facile assunto, e più facile
ancora incatenare gli uditori con parola fluida ed ornata. Alto della
persona, con una voce baritonale, col gesto largo e l'aspetto d'un padre
nobile, riaffermò la riputazione ormai assodata di parlatore valente.
_Venezia e le repubbliche marinare_ era la seconda parte del tema sulle
_Origini dei Comuni_ e toccò a Pompeo Gherardo Molmenti, che la trattò
con finezza d'artista e con quella signorile eleganza ch'egli sa mettere
in ogni cosa. La terza parte: _Firenze_, fu il trionfo del Villari che,
come pensatore profondo, come oratore appassionato ed efficace, ebbe un
de' maggiori successi di che possa andar lieto. Salito sulla cattedra,
riuscì subito ad affascinare il pubblico con la vivezza del dire
improvviso e la chiarezza del ragionamento. Il Villari non è un dicitore
studiato: la sua eloquenza è tutta cose, e prorompe dalla profondità del
sentimento, dalla convinzione della verità di quanto afferma. Lo
chiamerei un oratore all'inglese, perchè appunto sdegna i piccoli
artifizi della rettorica e, come il suo grande maestro De Sanctis, fa
consistere tutta l'arte nella sincerità e nell'onestà del pensiero.

Le _Origini del comune di Firenze_, che posson credersi un soggetto
arido e freddo, appena tollerabile per un erudito, furono per lui tema
di splendide considerazioni storiche, dalle quali assurse a concetti
nobilissimi sulla società umana e sulla moralità sociale. Gli uditori
scaldati a quell'onda di vivide e calde parole, salutaron con applausi
entusiastici l'illustre autore del _Savonarola_, del _Machiavelli_ e
delle _Lettere Meridionali_ che avea trovato in quell'ora, dinanzi a
così eletta adunanza, le note più squillanti e più umane della sua
eloquenza d'artista.

Alle Origini dei Comuni successero le _Origini della Monarchia_ in
_Piemonte_ ed a _Napoli_. Dovea parlare del _Piemonte_ Giuseppe Giacosa;
ma, impeditone da malattia, fu sostituito egregiamente dal Bonfadini che
ebbe un'altra volta liete e cordiali accoglienze. Di _Napoli_ lesse più
tardi, quando fu rimesso in salute, Ruggiero Bonghi che svolse il tema
al solito con molta e soda dottrina.

_Le origini del Papato e del Comune di Roma_ dettero modo ad Arturo
Graf, al poeta di _Medusa_, all'autore del _Diavolo_, professore
nell'Università di Torino, di mostrare com'egli sappia accoppiare una
straordinaria cognizione dei fatti con una non comune facilità
d'esposizione. Pio Rajna, la cui dottrina di filologo è pari soltanto
alla nobile rigidità del carattere, parlò delle _Origini della lingua
Italiana_ con autorità di scienziato e con garbo di artista, rendendo
accessibili le più difficili ed intricate questioni. A Francesco
Schupfer le _Università Italiane ed il Diritto_ dettero agio di esporre
molte nuove e sapienti vedute intorno al grave e importante argomento.
Il professor Felice Tocco, parlando da maestro degli _Ordini religiosi e
dell'eresia_, confermò la sua fama di pensatore originale e profondo e
di geniale espositore.

Le due letture che seguirono, quella del professore Adolfo Bartoli sulle
Origini della _Letteratura Italiana_ e quella di Enrico Panzacchi,
furono, con l'altra del Villari, giudicate bellissime fra le più belle
di questa serie. Il Bartoli lesse, con limpida dizione, alcune splendide
pagine che compendiano mirabilmente quant'egli ha scritto in molti e
pensati volumi. Il Panzacchi con una calda improvvisazione trattò delle
_Origini dell'arte nuova_, e il poeta bolognese non fu mai come quel
giorno ispirato ed eloquente. Quando ebbe finito gli fu fatta una vera
ovazione, e le signore lo circondarono come volessero rapirlo.

Una bella lettura del prof. Giacomo Barzellotti sulla _Filosofia e le
scienze nel periodo delle origini_, in cui con forma chiara ed artistica
si spiegano i più astrusi problemi onde le menti umane erano allora
affaticate, e un meraviglioso _Epilogo_ di tutte le dodici letture, nel
quale Ernesto Masi dimostrò d'essere ad un tempo pensatore profondo e
dicitore elegante, chiusero la Prima serie dedicata agli _Albori_, il 19
di aprile.

Quel giorno un cartoncino stampato con tutti i lenocinii dell'arte e
distribuito alle ascoltatrici e agli uditori plaudenti, annunziava per
l'anno venturo una nuova serie di letture sulla _Vita Italiana nei
secoli XIII e XIV_. Il roseo manifesto porta anche la firma del marchese
Carlo Ginori chiamato, per le sue benemerenze, a far parte della
_Società promotrice di pubbliche letture_.

Così andò, e — lasciatemelo dire — andò proprio bene!

                                                       GUIDO BIAGI.



PRELUDIO DI OLINDO GUERRINI


Quando, egregie signore e signori, quando l'autore ha compiuto l'opera,
allora comincia a pensare alla prefazione. Così il signore Iddio, dopo
aver creato dal nulla l'Universo, pensò alla prefazione — all'uomo — e
lo creò ultimo, a propria imagine e somiglianza. Ma il pubblico, che non
è iniziato ai misteri della tecnica d'arte, e ignora, per fortuna sua,
con quali artifizi si costruiscono un libro o un dramma musicale, crede
ingenuamente che l'opera sia stata pensata ed eseguita in quella stessa
successione di tempi e di idee in cui la trova disposta. Crede cioè che
l'autore abbia cominciato dal principio e finito colla fine; e che la
prefazione o il preludio, che stanno sul limitare del libro o del
dramma, sieno stati i primi, in ordine cronologico, ad esser composti.

E il buon pubblico erra. Che se, del resto, ragionasse soltanto per
analogia, si convincerebbe subito che una gran parte delle faccende di
questo mondo, contro ogni canone apparente di logica, non cominciano dal
principio. Sembra un paradosso, ma è un fatto di tutti i giorni. Quante
spese, per esempio, fatte prima d'avere i denari! Tutta la teoria del
credito è fondata appunto su questa facoltà particolare dell'uomo di
poter cominciare dalla fine. Quanti dottori esercitano la professione
prima d'averla studiata; quanti sonetti si cominciano a scrivere
dall'ultimo verso, quanti romanzi si cominciano a leggere dall'ultimo
capitolo. Quante affermazioni prima della certezza, quanti giuramenti
prima della convinzione, quante nozze prima dell'amore! L'uomo è un
essere perfettamente illogico; il che lo distingue dai bruti.

Nel caso nostro poi è legge di natura, fatale come quella della gravità,
che la prefazione debba esser fatta dopo il resto. Nella prefazione
l'autore riassume il contenuto dell'opera, indica l'ordine, espone il
metodo seguito e passa in rassegna le opinioni de' suoi colleghi sullo
stesso argomento. Dimostra a luce meridiana, ciò s'intende, che tutti i
colleghi e predecessori ebbero sempre torto marcio; pone delicatamente
in dubbio lo stato delle loro facoltà mentali, la loro fedina criminale
e il loro stato di famiglia, e dopo di averli spesso gratificati di
molti ma non nobili titoli, passa a dimostrare la propria superiorità,
la virtù propria, il proprio genio. Ora tutte queste operazioni
espositive non possono esser condotte a bene che ad opera compiuta,
quando l'autore ha finalmente un'idea chiara di quel che voleva fare e
di quel che gli è riuscito di fare. Se la ciambella gli riuscì col buco
egli la trasforma in altare e vi erige sopra un tempio nella prefazione,
dove offre a sè medesimo la mirra e l'incenso, e fa la ruota in faccia
agli ammiratori e tempera le saette per gli eterodossi. Se la ciambella
poi, non che col buco, riuscì senza la minima traccia di soluzione di
continuità, allora l'autore, come potete credere, fa precisamente lo
stesso, si erige l'altare, si fabbrica il tempio e gratifica sè stesso
dei più puri e più grati incensi della rettorica. Poichè, dal giorno in
cui fu trovata questa meravigliosa e matta arte dello scrivere, non fu
mai scrittore persuaso di aver fatto un brutto libro. Che se mai ne
nascesse un solo, in verità vi dico, che in quel giorno il sole si
oscurerà perchè sarà prossimo il giudizio universale.

Ad ogni modo, per tornare in carreggiata, qualunque sia il genere o la
fortuna dell'opera, resta fissata questa legge che la prefazione si fa
per l'ultima.

E se non bastassero le prove addotte, basterebbe pensare un poco al
preludio di un dramma musicale. Ivi il maestro espone o riassume i
motivi principali dell'opera, quasi li racconta ad uno ad uno al
pubblico, il quale per lo più non è loro avaro di applausi
d'incoraggiamento in principio, quanto è prodigo poi di energici fischi
di scoraggiamento alla fine. Ma se l'infelice maestro non avesse già
finita l'opera, come potrebbe accennarne i motivi principali nel
preludio? È dunque provato che l'esordio si fa dopo la conclusione: il
che era da dimostrare.

Da quel che ho detto fin qui, risulta anche provata un'altra
affermazione non meno inutile, che cioè la prefazione è una instituzione
antichissima.

È chiaro infatti che, le leggi naturali non avendo mai subito alcun
mutamento, gli autori della più remota ed incredibile antichità debbano
aver avuto le stesse passioni e sofferti gli stessi bisogni che questi
moderni. Intendo rispetto alle relazioni col pubblico, e non al
contenuto delle opere. Non so se come tutte le invenzioni anche questa
ci venga dalla China. Certo se lo merita. Ma ad ogni modo quel
remotissimo figlio del Cielo che primo commise una prefazione, fu tratto
dal desiderio di parlare di sè, della sua opera e di propiziarsi il
lettore, riuscendo come sempre all'effetto contrario, perchè è vero quel
che dice il Pascal che l'_io è odioso_.

Il costume latino, anzi più precisamente italiano, vorrebbe qui che io
vi sprofondassi meco nelle voragini della più oscura erudizione, in
cerca delle origini della prefazione. Avrete notato infatti che presso
di noi non si scrivono poche pagine sopra le cose meno importanti del
mondo, se, col pretesto di illuminar bene il lettore, non si risale alle
origini del genere umano. I più discreti si contentano della Bibbia.
Molte volte vi sarà capitato in mano un opuscolo che parla di un quadro,
di un coccio di maiolica o di un arazzo, e avrete visto che una buona
metà è spesa a ricordarvi le pitture degli Egizi, i vasi degli Etruschi,
e le tele di Aracne. L'autore vi fa subito capire che vi stima ignoranti
e v'insegna, bontà sua, che Jubal inventò la musica e Tubalcain la
metallurgia. Gli atti e le memorie delle Accademie storiche od
archeologiche, ora quasi esclusivamente consacrate allo studio assiduo
delle pentole e dei pentolini storici e preistorici, primeggiano
specialmente in questo comodo genere di pedanteria. È incredibile come
l'uso delle pentole fosse comune presso i nostri lontani progenitori e
come fosse grande la malizia loro nel nasconderle sotto terra per fornir
materia agli atti accademici; ma è più incredibile ancora l'estensione e
la profondità che ha preso ai nostri giorni questa scienza dei
pentolini, per cui gli archeologi moderni, dopo aver esposto tutta la
storia della ceramica, da certi segni e da certe graffiature sanno dirci
appuntino se il coccio fu di un Umbro o di un Ligure, se il vasaio fu
bello o brutto, ammogliato o scapolo. Il che importa molto alla umanità
ed alla archeologia.

La consuetudine italica del far precedere ad ogni più piccola cosa una
storia completa e un profluvio di erudizione, somiglia molto al morbo
della prefazione. È sempre un preambolo che si volge bensì alla crassa
ignoranza del lettore e non alla sua supposta simpatia, come accade per
lo più nella prefazione veramente detta; ma come preambolo deve esser
messo cogli altri. Ed anch'io per non esser meno buono italiano e meno
felice proemiatore, dovrei seguire questa bella tradizione di erudita
seccatura ed infliggervi il supplizio della storia e della preistoria
della prefazione. Ma tanta è la cortesia che mi avete dimostrato, e per
la quale vi sono gratissimo, che sento l'obbligo di essere umano e vi
risparmio la solita risalita della corrente dei secoli, la solita Bibbia
e i Fenici e gli Egizi.

Non posso però fare a meno di ricordarvi i Greci, perchè tanto fu lieto
il loro beato cielo che vide nascere gli uomini meglio proporzionati del
corpo e dell'intelletto che fossero mai. Il buon gusto fiorì tanto e
così felicemente sul fortunato suolo dell'Ellade, che il suo profumo
penetrò perfino la coriacea compagine della prefazione, la indusse ad
esser breve, e gli scrittori che erano Ateniesi nel testo, furono
Spartani nel proemio. Tempi invidiabili ed invanamente desiderabili, nei
quali Tucidide preludeva alla sua storia con dieci righe, ed Erodoto
preponeva alle sue _Muse_ immortali queste sole parole: “Erodoto
d'Alicarnasso avendo per ricerche conosciuto tra le altre cose, le
cagioni delle guerre tra i Barbari ed i Greci, le scrisse in questi
libri e le pubblicò, perchè le cose fatte dagli uomini non siano in
progresso di tempo dimenticate, e le azioni preclare e mirabili, così
dei Greci come dei Barbari, non siano defraudate della debita lode.„ E
nient'altro! Nell'originale sono trentanove parole, poco più di un
telegramma comune. Oh, se i fati benigni avessero concesso che le
prefazioni fossero tutte così, io credo fermamente che l'umanità sarebbe
più felice!

I Romani, grandi corruttori d'ogni cosa, guastarono questa aurea e santa
semplicità greca, e la prefazione di Tito Livio, per quanto bella, non è
più così breve. A poco a poco il decadimento non ebbe più riparo e si
giunse a tanto che Cicerone confessa ad Attico di aver pronta una
raccolta di prefazioni che possono adattarsi a qualunque libro.

A tanto giunge il demone della prefazione, e c'è chi sostiene che i
primi capitoli sallustiani della congiura di Catilina e della guerra di
Giugurta, non siano appunto che due prefazioni del genere delle
ciceroniane, a doppio uso, come i sofà letti o le canne seggiole, poste
in fronte al libro. Tanto e così esecrabile fu l'imperversare della
prefazione, che il pubblico irritato, nauseato, si ribellò, e ai tempi
di Plinio il giovane le prefazioni erano cadute in disuso. Quanti forse
tra voi non si augurano ora il ritorno di quella felice rivoluzione!

Ma la ribellione del pubblico e la sua avversione ai proemi, da Plinio
in qua, seguitò vivacissima e per 18 secoli non ha smesso e spero che
non smetterà così presto. C'è una guerra, ora sorda, ora fieramente
rumorosa tra gli autori e i lettori. I primi hanno bisogno di parlar di
sè e dell'opera propria, gli altri non ne vogliono sapere, hanno fretta
e stimano perduto il tempo speso nei preamboli. Il commensale che ha
l'appetito in resta sdegna i piattini dell'antipasto e si butta ai
piatti di resistenza. Chi ha un colloquio, d'affari o d'affetto, se la
cosa gli preme, salta il proemio ed entra subito in materia. E gli
autori sono tanto ciechi da non vedere che quando si salta la prefazione
si fa un elogio al libro, poichè si crede di trovarlo buono e si ha
fretta di leggerlo. E che quando si fa sul serio si dimentichino i
preamboli, ce lo insegnò quello stesso Cicerone che teneva le prefazioni
bell'e fatte e lo confessava senza arrossire. Quando si trovò in faccia,
non un avvocato in tribunale, ma Catilina in Senato, e non si trattava
più delle ciarle del poeta Archìa, ma della testa che non era molto
sicura sullo spalle; Cicerone, l'uomo delle prefazioni premeditate,
l'uomo che ispirò al Passeroni un enorme poema che non è altro che una
prefazione senza libro, credete voi che ricordasse i precetti
dell'oratoria e curasse che la parrucca della rettorica fosse pettinata
con tutte le regole? Si faceva sul serio, e saltò a pie' pari
nell'argomento e cominciò _ex abrupto_ col celebre _quousque tandem_. La
paura di perdere il capo non gli fece perdere la testa e spettava
proprio a lui ad insegnarci con tanta autorità che quando la cosa preme
i preamboli sono dimenticati.

Ebbene, il pubblico ha sempre fretta. Vuol conoscere il libro e non
l'autore. Questi gli sorride dietro le frasche della prefazione, gli
strizza l'occhio e gli dice: guardami come son bello! Ma il lettore
vuole il libro e non le smorfie: non cura gli sfoghi del povero autore
che ha tanto bisogno di convincere il prossimo della perfezione
dell'opera sua, di perorare, di persuadere; ma tira dritto, salta le
prime pagine serenamente e comincia il libro. L'autore insiste, ma
l'altro fa di peggio. Di qui una guerra accanita, di stratagemmi, di
imboscate, d'insidie; qua per immergere proditoriamente un'acutissima
prefazione nel cranio del prossimo, là per schivare l'orribil colpo e
punire degnamente lo scellerato aggressore. Le peripezie della lotta
sono varie e la fortuna alterna. Oggi, per esempio, lo sorti volgono
contrarie alla prefazione; il Dio delle battaglie sorride ai lettori.
Vedete la poca fortunata resurrezione del prologo nelle commedie. Quando
gli eventi della guerra favorirono gli autori, costoro infierirono sui
miseri vinti ed inflissero loro il supplizio di questi prologhi che
narrano anticipatamente la commedia e le lodi di chi la fece. Mutate le
sorti, il prologo fu sepolto a suon di fischi. Ma eccolo, cadavere
quattriduano, uscito dalla fossa, così sfiaccolato e bastonato che non
c'è bisogno d'esser Profeti o Sibille per predire il suo prossimo
ritorno alla pace del sepolcro. Vedete anche il preludio dei drammi per
musica, il quale, o arieggia alla concisione greca, o si stacca
dall'opera, sotto forma di sinfonia, e tende a vivere di vita propria e
non parassitaria. Così abbiamo opere senza preludio e sinfonie senza
opera, come segno certo della decadenza della prefazione e dell'abominio
in che è tenuta dal pubblico.

Ma gli autori sono costanti, tenaci, testardi. Come i Pelli Rosse
camminano cautamente nel sentiero di guerra, si appiattano alle
cantonate dei librai e scuoiano senza pietà il povero ingenuo che cade
nell'insidia. O si infingono come l'avvelenatore ed aspergono di falso
liquore gli orli del vaso, cercando di fare inghiottire la prefazione
sotto il nome di preludio, di preambolo, di esordio, di proemio, di
avviso al lettore. O commettendo ad altri il mandato di perpetrare il
misfatto premettendo al libro una lettera di amico illustre o le
lunghissime due parole dell'editore. Non v'è furberia che non sia stata
adoperata, non v'è lacciuolo che non sia stato teso. Il Manzoni inventò
un brano di cronaca vecchia. Altri più basso e più tardi, trovò la
gherminella dell'amico che pubblica i versi dell'amico morto ed abusò di
tutti i più sacri sentimenti di pietà e di compianto pur di far scoccare
l'indegna trappola della prefazione.

Quando il lettore c'è caduto una volta, inferocisce, e vede dappertutto
il fantasma della prefazione che lo perseguita. Poche prefazioni si sono
salvate dalla fiera ecatombe, e si sono salvate perchè in fondo non sono
prefazioni. Il prologo del Decamerone è il racconto della peste,
l'introduzione all'Enciclopedia una esposizione di principii filosofici,
il proemio al Cromwel un codice di precetti d'arte. Si sono salvate,
prima, certo, perchè belle, poi, certissimo, perchè impersonali. Infatti
possono stare assolutamente senza il libro e non sono prefazioni che pel
posto occupato nella paginatura. Tutte le altre sono involte nell'odio e
nella maledizione, e il lettore che si sente inseguito dall'autore, gira
alla larga, cogli occhi sospettosi; indovina il nemico, come la colomba
lo sparviere; fiuta il pericolo da lontano, lo fugge coll'anima guasta e
il fegato avvelenato, e non ha abbastanza vituperi, oltraggi e anatemi
pel nemico che lo tribola e lo caccia, il fratricida Caino!

Ma se gli odii e le vendette fra le parti belligeranti sono giunte a
tale che per poco non si danno al cannibalismo, considerate che si
tratta sempre di una prefazione scritta, di poche carte stampate che si
possono non leggere o sopprimere, se così piace. Ma che avverrà quando
la prefazione incarnata e fatta uomo, spinge la temeraria crudeltà fino
a presentarsi ad un pubblico di persone ben educate e gentili quanto si
voglia, ma non meno sensibili ai tormenti, non meno dolorosamente
eccitabili al martirio di un preambolo? È il mio caso. Io sono qui
l'odiosa, l'orribile, la spaventosa prefazione, cosciente del male che
fa e dell'avversione che desta. Io sono la prefazione eseguita contro
ogni ragion tecnica dell'arte, cioè fatta prima dell'opera e non dopo.
Io sono la vittima, ahimè non innocente! che gli autori hanno designato
al sagrificio, la mascula Ifigenia che colla sua perdita deve propiziare
i venti alle altrui navi. Si cercava Curzio che si gettasse nella
voragine, Orazio al ponte, Muzio Scevola all'ara. Si volle uno che
morisse pel popolo tutto, un candido agnello, una bianca colomba da
offrire al nume irato su questo altare; ed eccomi, candido agnello,
bianca colomba, accettante la passione, interceditrice per tutti.

Che se la giusta fama della cortesia vostra non mi avesse persuaso,
avrei respinto con orrore questo ufficio spietato di prefazione viva.
D'altronde ricordai il detto di uno Svizzero arguto, secondo il quale
l'amore prima del matrimonio è una prefazione troppo corta ad un libro
troppo lungo, e pensai di esser breve anch'io come l'amore, per
conciliarmi la vostra benignità. Quanto al matrimonio ci penserete voi
ed i miei successori, contentandomi di augurarvelo felice e ricco di
numerosa prole.


Comincia dunque così un ciclo di letture in questa gentile e gloriosa
Firenze, destinata, senza dubbio, dal suo fato a far attecchire
finalmente in Italia questo genere d'arte e di coltura. Pur troppo,
finora, presso di noi, anzi in tutti i paesi latini, i tentativi fatti
non ebbero che risultati mediocri, mentre nei paesi nordici, e
specialmente anglosassoni, la lettura e la conferenza ebbero ed hanno
una vita vivace e lodata. Di chi la colpa? Un po' di tutti; dei lettori
e del pubblico. I primi furono per lo più troppo inamidati, troppo
accademici, e il pubblico troppo esigente, troppo facile alla
stanchezza. Quest'arte deve ancor fiorire e fruttificare tra noi, e
senza dubbio la palestra che una colta società apre oggi ai migliori
ingegni italiani, gioverà a far amare questi ludi minervali, e la prova
sarà vinta. Poichè, non è già che le razze germaniche siano dotate di
maggior forza di resistenza fisica e morale, da sopportare letture di
maggior peso che gli omeri nostri non possono tollerare. Non è che gli
uomini del settentrione, abituati fino dalla puerizia ad una ragionevole
ginnastica del corpo e della mente, ne traggono muscoli più rigidi e
nervi più tesi contro l'urto e lo sforzo della seccatura. No, poichè non
v'è possa umana capace di resistere a tanto, e ve ne accorgete pensando
soltanto che forza erculea si richiegga per reprimere un indiscreto
sbadiglio. La ragione sta qui; che gli ascoltatori nordici hanno
l'abitudine, ed i lettori l'attitudine alla conferenza. I protestanti
hanno sostituito sermoni e conferenze alle nostre prediche, lasciando in
disparte l'enfasi e la gonfiezza che dal Segneri in qua sciupano la
nostra eloquenza sacra, ed accostandosi sempre più al fare piano e
persuasivo delle lezioni e delle letture laiche, educando alla lor volta
gli ascoltatori a questo genere d'arte e guidandoli a gustarlo ed a
compiacersene. Così i lettori e gli ascoltatori, anche per questo, si
sono raffinati ed educati, e tra loro vibra spesso quella corrente di
simpatia che è indispensabile perchè una lettura non riesca a male.
Infatti una conferenza è una grande gabbia, dove sono chiusi due cani, o
mettiamo due bestie più nobili, due leoni, che debbono passare un'ora
insieme. Cominciano a guatarsi, a scodinzolare e ad annusarsi. Se c'è la
corrente di simpatia, l'ora passerà bene; se la simpatia non c'è, accade
la baruffa e uno dei duellanti è inevitabilmente accoppato. Così se la
corrente ipnotica non si stabilisce tra il conferenziere e gli
ascoltatori; o il primo fa morire i secondi coll'asfissia, o i secondi
ammazzano il primo colla disapprovazione. In ogni caso poi, qualunque
dei due abbia la peggio, chi muore veramente e di mala morte, è
l'instituzione. Il giusto, secondo il solito, muore pel peccatore.


Ora, se altrove questa corrente di sensi simpatici fra i lettori ed il
pubblico è diventata quasi abituale, purtroppo dobbiamo confessare che
in Italia non è frequente. E la ragione è facile. Le conferenze sono
freddolose; una temperatura mediocre le ammazza subito, è finchè le
signore non si decideranno a frequentare con assiduità questi convegni
dove l'arte o la scienza le desiderano, l'ambiente sociale e morale sarà
sempre freddissimo.

La donna, che (in generale s'intende) ha i nervi più forti dell'uomo,
tanto che riesce a ballare un carnevale intero senza stancarsi, si
spaventa troppo facilmente all'idea di un piccolo sforzo di attenzione.
La sua nativa delicatezza rabbrividisce all'idea di un quarto d'ora di
raccoglimento. E se qualche lettore non la contenta, generalizza troppo
e si sdegna colla instituzione intera, la sfugge e colla sua assenza la
fa morire gelata. Se le signore sapessero come la loro presenza
riscaldi, come i loro begli occhi illuminino questi convegni, quanto
calore e luce e vita diano a tutte le cose umane il loro aspetto e la
benevolenza loro, come voi, egregie Signore, sfiderebbero il pericolo di
qualche momento non perfettamente allegro, mosse dall'idea di far
un'opera bella, utile e veramente degna della fine cortesia femminile.
Che se v'ha certezza di buona riuscita per questa colta società che
promove le letture, essa sta tutta nella felice conciliazione dell'opera
intrapresa, colle simpatie e colla lieta presenza dell'eterno femminino.


Se in Italia poi è città alcuna più degna di dar vita a simili imprese e
dove più fausti sorridano gli auspici, senza dubbio è questa — la cara e
gentilissima Firenze — dove le conferenze sembrano esser nate, e dove
certo per lunghi secoli vissero prosperamente. Quando la caligine del
medio evo cominciò a diradare, e gli uomini, che tornavano a sentirsi
giovani, credettero alla bellezza ed all'amore, su per questi giocondi
colli fiorentini, fuggendo la morìa e lo spavento, tre giovani e sette
fanciulle cominciarono il più lieto corso di conferenze che sia mai
stato. Infatti, che altro è il Decamerone se non una serie di conferenze
amorose, ora geniali, ora brutali, scintillanti ancora dell'arguzia
fiorentina, spiranti ancora l'alito dell'antica vita italiana? Ma
passata la gaiezza della fiorente gioventù, quando la dolce fiamma
dell'amore fu spenta, un'altra illusione sorrise agli ingegni
fiorentini, l'illusione della filosofia. Ed in questa disperata ricerca
dell'ideale, in questa speranza sempre vana di sapere il perchè delle
cose, ecco rinascere la conferenza, e il Ficino negli Orti famosi,
parlare ai fratelli in Platone e cercare affannosamente le prove del
Cristianesimo nella filosofia nata già sotto i platani e gli olivi di
Acadèmo. E rifiorirono le beltà dell'arte, frondeggiò l'albero della
scienza in questa Atene italica che dell'antica ebbe tutto, il genio, la
gloria e talvolta anche i vizi.


Caduta la giovinezza con l'amore, sfiorita colla speranza la virilità,
venne il doloroso periodo della scienza che è fatta di disillusioni e di
scetticismo. Già il Machiavelli leggeva i discorsi sulle Deche negli
Orti neoplatonici e cercava, non più le recondite ragioni dei fenomeni
universali, ma il segreto dei fatti e delle coscienze contemporanee. Il
vero, il freddo vero, rimane immobile e terribile sulle ruine degli
ideali e dei sogni caduti. Agli entusiasmi dell'amore, della fede, della
speranza, succedono, come i vecchi ai giovani, i severi studii della
realtà e della esperienza, e in questo radioso e divino sole di Toscana,
Galileo trova e numera le macchie. L'Accademia del Cimento notomizza la
natura, l'Accademia della Crusca notomizza la lingua. Non ci sono più
entusiasmi e tutta una generazione di vecchi frigidi, lavora
matematicamente precisa a scrutare, a compilare, a raccogliere; ma sul
suolo spossato la pianta della conferenza vegeta ancora, diventata
scientifica, erudita o anche pedante, pur tuttavia verde e vitale.
Persino gli ultimi e più cinerei tempi della decadenza la videro
trasformata in misere cicalate, ridotta ai puri lenocinii della lingua,
ultimo belletto alla decrepitezza del pensiero; ma la videro tuttora,
quasi a testimoniare della sua tenace vitalità in queste propizie aure
toscane. Le annose radici gettarono polloni ancor verdi fino a che i
tempi furono maturi e compiuti.


Ed ora, rinnovata ogni cosa nella vita sociale, politica e letteraria,
ecco di nuovo la conferenza antica che, sotto forma di lettura,
ringiovanita e rinnovata, si ripresenta ai colti fiorentini, non
immemori delle gloriose loro tradizioni. E così, uscita dal pelago alla
riva, si volge all'acqua perigliosa e guata il passato e si propone di
dipingervi per ora il lontano periodo delle origini, il principiare dei
Comuni, della Monarchia, del Papato, della lingua e dell'arte. Eccola,
sotto il patrocinio di illustri uomini, col decoro di celebri nomi,
ricordarvi che, nata già in Firenze, a voi, concittadini suoi, spetta il
farle accoglienze oneste e liete ed assicurarle vita duratura. Eccola,
per indegno ambasciatore, rivolgersi fiduciosa a voi, graziose signore,
chiedendo la benevolenza e l'amor vostro che vivifica, riscalda ed
illumina. Eccola, infine, ad implorare la vostra cortese pietà per la
vittima della prefazione.

   NOTA.

   Alle letture fiorentine doveva preludere l'onor. Ferdinando
   Martini. Ma l'illustre uomo, trattenuto a Roma da gravi doveri,
   non potè, ed io fui chiamato a sostituirlo.

   Grato agli egregi amici che pensarono a me ed a tutti coloro che
   benevolmente mi accolsero e festeggiarono, mi è forza però far
   noto ai lettori come fu fatta questa conferenza; cioè quasi
   all'improvviso. Ed essendo prefazione ad un libro ancora da
   farsi, non poteva darne che cenni vaghi con parole inconcludenti.
   Si trattava di menare il can per l'aia un paio di quarti d'ora,
   tanto per cominciare. Il che mi sia di scusa presso coloro che
   cercheranno qualche cosa qui, e non la troveranno. O. G.



LE ORIGINI DEL COMUNE DI FIRENZE

DI

PASQUALE VILLARI


I.

_Signori e Signore._

Chiunque sente annunziare una conferenza sulle origini di Firenze,
immagina subito una serie svariata di avvenimenti fantastici e
pittoreschi: castelli feudali; associazioni di operai, che combattono
intorno al Carroccio; poeti; pittori; l'origine delle arti, della
lingua, della cultura italiana. Chi invece ha l'onore di fare la
conferenza, e si pone a studiare coscienziosamente il soggetto, si trova
dinanzi alcuni brani di vecchi annalisti, i quali contengono una serie
scarsa di aride notizie, poco più che dei nomi e delle date: le date
spesso sbagliate, i nomi non sempre intelligibili. È facile immaginarsi
come gli antichi sciupassero qualche volta i nomi, se noi pensiamo che,
per esempio, un cronista quale era Giovanni Villani, nel parlarci di
Federico II di Svevia, di Corradino e degli altri della famiglia
_Hohenstaufen_, di Casa Sveva, traduce questo nome in Stuffo di Soave. E
così avvenne che gli scrittori moderni, in tanta scarsità di notizie,
ricorsero fra di noi al partito di rinunziare addirittura a discorrere
delle origini di Firenze. Basti dire che l'illustre marchese Gino
Capponi, nella sua grande opera, dopo una brevissima introduzione, fa un
salto fino alla morte della Contessa Matilde, e poi in dodici pagine
tratta più di un secolo di storia, arrivando fino al 1215.

Gli antichi si trovarono dinanzi a questa medesima difficoltà. Ma essi
seguirono un metodo molto semplice. Il Villani ed altri cronisti, non
trovando notizie sulle origini di Firenze, ci dettero una leggenda, che
non ha nessun fondamento storico, e non ha neppure la poesia che si
trova nelle leggende che circondano le origini di Roma e delle città
della Grecia. È una leggenda, invece, che qualche volta manca
addirittura di senso comune. Basti dire che in essa (quale almeno la
leggiamo nel Malespini) ci si descrive la moglie di Catilina, che, il
giorno della Pentecoste, va a sentire la messa nella Canonica di
Fiesole.

Bisogna quindi ricorrere ai documenti; ma i documenti fiorentini che noi
abbiamo, cominciano quando già il comune esisteva da un pezzo. È
naturale che il Comune non potesse fare dei trattati, delle leggi prima
di cominciare ad esistere. Abbiamo quindi bisogno d'aiutarci colla
storia generale del tempo, coi documenti posteriori, o di altri luoghi
vicini; di interpretare delle frasi; fare delle indagini, per potere,
retrocedendo con la induzione, cercare la spiegazione degli avvenimenti
anteriori. E così è che a voler fare davvero una buona conferenza sulle
origini di Firenze, bisognerebbe farla estremamente noiosa.

Ma si dirà: perchè scegliere allora un tale argomento? Ve ne sono tanti
nella storia d'Italia meno oscuri e più dilettevoli. Perchè scegliere
questo appunto delle origini? Il vero è che esso ha pure la sua grande
importanza, la quale risulta da più e diverse cagioni. E prima di tutto
ve n'è una assai generale. Il Comune italiano è una istituzione che creò
la società moderna. Il Medio Evo non conosceva lo Stato; l'Europa era
divisa in castelli feudali, in associazioni, quasi in piccoli gruppi e
frammenti. Al di sopra di questi frammenti, in cui la società si era
sgretolata, v'erano due grandi, due universali istituzioni: l'Impero e
la Chiesa; l'Impero, che rappresentava il principio giuridico e politico
del mondo; la Chiesa, che rappresentava l'unità del principio religioso.
Ma queste due istituzioni, appunto perchè universali, non potevano
favorire la costituzione dello Stato moderno, nazionale. Il Comune si
pose a tale opera, e gettò le basi dello Stato moderno. Il Medio Evo non
conosceva la civile uguaglianza; l'aristocrazia era una casta separata
dal resto della popolazione; essa in Italia rappresentava il sangue
straniero. I lavoratori, specialmente i lavoratori della terra, non
erano liberi, erano attaccati alla gleba, erano in condizioni servili.
Il Comune italiano proclamò l'indipendenza del lavoro, l'uguaglianza
degli uomini. Queste sono le basi su cui si fonda la società moderna; e
così noi, studiando le origini del Comune, veniamo come a studiare le
origini della società di cui facciamo parte, a cercare quasi le origini
del nostro proprio essere civile. Quindi è che tutti i problemi, i quali
si riferiscono alle origini dei Comuni italiani hanno una grande
importanza, destano un singolare interesse. Questa è anche la ragione
per la quale si è tanto disputato, per sapere se il Comune discendeva
dalle istituzioni e dalla cultura romana o doveva invece la sua
esistenza ad un principio nuovo, portato fra noi dai popoli germanici, i
quali avrebbero così avuto il vanto d'aver messo le prime basi alla
moderna civiltà. Il patriottismo si è mescolato in questa disputa, ed ha
reso sempre più difficile il trovare una soluzione imparziale e
scientifica.

Ma pel Comune di Firenze v'è ancora una ragione speciale, che rende
maggiore la sua importanza, e più vivo il desiderio d'indagarne le
origini. Esso è il più democratico di tutti quanti i Comuni italiani, è
quello che ha più di tutti lavorato per l'uguaglianza civile degli
uomini. Uno storico, assai celebre, il Thiers, appunto per questa
ragione, aveva deciso di dedicare gran parte della sua vita alla storia
di Firenze. Egli diceva: nessun altro Comune ha, nel Medio Evo,
affrontato tanti problemi economici, politici, sociali, e nessuno
s'avvicinò tanto alla loro soluzione; nessun creò un così gran numero di
nuove, ingegnose, mirabili istituzioni, come il Comune di Firenze. Ed
aveva perciò in molti anni raccolto una vasta serie di materiali, che
andarono poi bruciati al tempo della Comune di Parigi. Ma vi è di più.
La storia fiorentina si può dire che sia a tutti noi notissima. Nessun
paese in fatti ha avuto un così gran numero di sottoscrittori che
l'abbiano illustrata. Ogni avvenimento, ogni individuo, ogni pietra di
Firenze fu oggetto di lunghi studi, di dotte ricerche. Le sue
rivoluzioni furono descritte con grande eleganza di stile, ed i
personaggi che si presentano nella sua storia, sono a noi tutti
famigliarissimi. Ma, ciò non ostante, la storia di Firenze apparisce
assai spesso come un enigma. Rivoluzioni succedono a rivoluzioni, senza
che noi possiamo capire il perchè di tanta irrequietezza. Questo popolo
sembra non avere e non lasciar mai pace e nessuno. Per un matrimonio
avvenuto in un modo piuttosto che in un altro, perchè il Buondelmonti,
invece di sposare l'Amidei, sposa la Donati, non basta averlo pugnalato
sul Ponte Vecchio, ai piedi della statua di Marte; ma la cittadinanza
intera si divide in Guelfi e Ghibellini, che lacerano la Città per
secoli, e non si acquetano mai fino a che non sorge la tirannide ad
opprimerli tutti. E vien fatto qualche volta di chiedere: che cosa
vogliono questi Fiorentini, che empiono continuamente di tumulto e di
sangue le strade della loro bella città? Perchè non posano mai? Sono
essi così assetati di sangue, così pieni del desiderio della vendetta,
da non poter trovare nè lasciare tregua a nessuno?

Ma quando ci facciamo questa domanda, il mistero cresce ancora più,
perchè in mezzo a tanto tumulto, noi vediamo fiorire splendidamente le
arti della pace. Il commercio, le industrie dei Fiorentini riempiono
colle loro manifatture tutti quanti i mercati dell'Europa, dell'Oriente
e dell'Occidente. E, come se questa contraddizione fosse poca, a
crescere ancora più il mistero, noi vediamo qui sorgere le più pure, le
più ideali immagini che la mente umana abbia mai saputo creare. La
Beatrice di Dante, la Santa Cecilia di Donatello, le Madonne di Luca
della Robbia, i Santi, gli Angeli di Benozzo Gozzoli e di Beato Angelico
sorgono in mezzo a questo tumulto infernale, così splendidi e numerosi,
che noi siamo spinti a domandarci: di dove mai essi vengono? chi li ha
creati? Essi sembrano discesi in una bolgia infernale, come l'Angelo di
Dante, che, a piedi asciutti, sdegnoso, frettoloso, traversa la palude
Stige, rimuovendo con la mano dal viso le ingrate esalazioni. E allora
nasce la speranza, che forse, studiando le origini del Comune, vedendo
in che modo esso fu costituito, di dove questa società è partita, dove
si è fin dal principio indirizzata, la ricerca, per quanto arida, per
quanto penosa ed incompiuta, possa gettare una qualche luce sugli
avvenimenti posteriori della storia fiorentina. Ed è perciò che gli
scrittori moderni si sono oggi più che mai rivolti nuovamente a studiare
le origini di questo Comune. Cerchiamo dunque di affrontare l'arido
problema. E qui ho bisogno di raccomandarmi non solo alla vostra
indulgenza, ma anche a tutta la vostra pazienza.


II.

Innanzi tutto, come ho già accennato, ci si presenta una leggenda.
Questa incomincia da Adamo, poi salta ad Attalante, il quale viene a
cercare il luogo più salubre d'Europa, per formarvi una città. Trova
questo luogo sulla collina che è a settentrione di Firenze, e col
consiglio e l'aiuto di un astrologo, vi costruisce una città, unica al
mondo per la sua salubrità, e che perciò vien chiamata Fiesole,
_Fie-sola_. Ciò che vale a darci un'idea della rozzezza di questa
leggenda, si è il modo in cui essa spiega il nome di quasi tutte le
città della Toscana. Lucca si chiama Lucca da _lucere_, perchè i
Lucchesi furono i primi ad accertare la luce del Cristianesimo. Pistoia
si chiama Pistoia perchè in quella campagna fu già grandissima guerra ai
tempi di Catilina, tale che vi morì così gran gente, che si sviluppò la
peste, donde il nome di Pistoia. Siena è nel luogo in cui i Francesi,
andando a combattere i Longobardi, che erano nel mezzogiorno d'Italia,
lasciarono tutti i loro vecchi. Di qui il nome _Senæ, Senarum_,
adoperato in plurale. Pisa è nel luogo dove i Romani pesavano i tributi
dei popoli soggetti. Era necessario pesare contemporaneamente in due
luoghi diversi, e però, _Pisæ Pisarum_, al plurale.

La leggenda prosegue dicendo che Attalante ebbe varii figli, uno dei
quali, Dardano, andò a fondare la città di Troia, e quindi narra
l'assedio e l'incendio di questa città, la fuga di Enea, l'origine di
Roma. E qui si salta a Catilina, che venne a Fiesole, inseguito dai
Romani, comandati da un generale, il quale si chiamava Fiorino, e fu
disfatto sulle rive dell'Arno. Cesare allora venne a vendicarlo, e fondò
in suo onore, sull'Arno, la città di Firenze, la quale fu costruita come
una piccola Roma, con tutti i monumenti che erano nella Città eterna, il
Campidoglio, l'Anfiteatro, le Terme, il Foro, e fu chiamata perciò la
piccola Roma. Vengono poi i barbari, e Totila distrugge Firenze; ma
Carlo Magno la ricostruisce. E finalmente arriviamo alla guerra che
Firenze muove a Fiesole, distruggendola.

Che cosa possiamo noi cavare da questa leggenda, la quale fu certo
compilata nel secolo duodecimo, il secolo cioè in cui nacque il Comune
fiorentino? Innanzi tutto ne caviamo, che nel secolo in cui Firenze
nasceva, i Fiorentini avevano la mente piena di idee e di tradizioni
romane. Qui noi non troviamo tracce di tradizioni germaniche, anzi la
leggenda sembra respingerle sdegnosamente ogni volta che si presentano.
In una delle sue compilazioni, si ricorda essere stata opinione molto
diffusa, quella che diceva la famiglia Uberti venuta di Germania,
discesa dall'imperatore Ottone. Ma ciò, si aggiunge subito, è un errore,
perchè gli Uberti discesero invece dal sangue di Catilina “nobilissimo
re di Roma„. Questi ebbe un figlio, Uberto Cesare, a cui una moglie
fiesolana dette 16 figliuoli, uno dei quali fu mandato da Augusto a
sottomettere la Sassonia, che s'era ribellata, e colà sposò una dama
tedesca, da cui nacque Ottone imperatore. E così non sono già gli Uberti
discesi dagl'imperatori tedeschi; ma gl'imperatori sono discesi dagli
Uberti di Firenze, i quali vengono dal sangue di Catilina romano. La
leggenda ci dice ancora che tra Fiesole e Firenze vi fu un antagonismo
perpetuo. Fiesole infatti è città etrusca, Firenze città romana. Tutti i
nemici di Roma sono, secondo essa, nemici di Firenze; tutti gli amici di
Roma sono amici di Firenze; Cesare, Fiorino, Augusto. Carlo Magno è
quello che ricostruisce Firenze, dopo la distruzione fattane da Totila,
ed esso è il restauratore dell'Impero. Totila rappresenta i barbari che
lo distrussero. Catilina, nemico di Roma, è l'amico di Fiesole, il
nemico di Firenze.

Se noi guardiamo alle poche notizie storiche che abbiamo su tutto ciò,
vedremo che la leggenda non fa altro che ripeterle nel suo fantastico
linguaggio. Fino dai tempi di Dante era noto che Firenze discese da
Fiesole ab antico, ed il Machiavelli ci dice che Firenze fu una città,
la quale nacque dai mercanti fiesolani, che vennero a cercare un emporio
sull'Arno, là dove il Mugnone si congiunge con esso. Fondarono delle
capanne, le quali divennero case, e le case formarono più tardi una
città. Questa si formò, secondo tutte le notizie che abbiamo, due secoli
circa innanzi Cristo. Era un municipio florido al tempo di Silla, e gli
scavi recentemente fatti hanno confermato tali notizie, essendosi
trovate monete, colonne, ruderi, i quali provano che la Città a quel
tempo aveva già le terme ed un Anfiteatro di pietra. Augusto la restaurò
e vi fondò, secondo alcuni, una colonia, che fu chiamata perciò _Julia
Augusta Florentia_. Secondo altri, la colonia fu fondata invece da
Silla. È certo che Firenze ebbe mura romane, le quali esistevano ancora
a' tempi del Villani, e qualche avanzo se n'è ritrovato ai giorni
nostri. Il suo anfiteatro fu in tutto il Medio Evo conosciuto col nome
di Parlascio, e di esso qualche traccia può vedersi ancora nel Borgo dei
Greci. Le Terme erano presso la strada che oggi porta questo medesimo
nome. La città aveva pure il suo Campidoglio, in Mercato Vecchio, nel
luogo dove fu la Chiesa lungamente chiamata di Santa Maria in
Campidoglio. Era nondimeno piccolissima; non solamente non andava al di
là d'Arno, ma anche la strada che ora è chiamata Borgo Santi Apostoli,
rimaneva fuori delle mura. Questo è tutto quello che noi sappiamo dei
tempi più antichi.

Quanto alla notizia poi che ci dà la leggenda, della distruzione di
Firenze per opera di Totila, essa non è vera che in parte. È certo che
Totila coi Goti venne in Toscana, verso la metà del sesto secolo, la
oppresse, la saccheggiò, entrò in Firenze, e la trattò assai duramente,
ma non la distrusse. Se non che Firenze allora, e durante tutto il
dominio dei Longobardi, cadde in una così grande oscurità, che par quasi
scomparsa dal mondo, e nei documenti è qualche volta menzionata, come se
non fosse altro che un borgo di Fiesole. La leggenda esprime tutto
questo, dicendo che Totila distrusse Firenze. E siccome essa incominciò
finalmente a risorgere alquanto al tempo dei Franchi, sotto Carlo Magno,
così la leggenda, seguendo sempre lo stesso metodo, dice che Firenze fu
ricostruita da Carlo Magno. Questi vi si fermò per celebrarvi il Natale
nel 786, e dopo di lui molti Imperatori, trovandola sulla via di Roma,
dove andavano a prendere la corona, vi si fermarono del pari. Più volte
ci vennero anche i Papi, quando i frequenti tumulti popolari li
cacciavano dalla Città eterna. Alcuni di essi morirono a Firenze, dove
tennero Concilio, ed Alessandro II vi fu eletto. Certo è che le continue
relazioni di Firenze con Roma cominciarono a farla risorgere alquanto
dalla profonda oscurità in cui era caduta durante il dominio longobardo.


III.

È noto che i Longobardi per due secoli oppressero duramente l'Italia,
ponendo nelle città principali i loro duchi. A questi i Franchi
sostituirono poi i conti. Ma perchè i Ducati erano assai grandi, e i
duchi troppo potenti, i Franchi, non volendo che questi principi
mettessero a pericolo l'unità e la forza dell'Impero, resero più deboli
i conti e più piccoli i loro Comitati. Sui confini dell'Impero occorreva
però aver forza maggiore alla difesa, quindi vi crearono quello che
chiamarono _Marche_, le quali erano grossi Comitali, e i conti che le
comandarono, furono _Mark-grafen_, margravi, marchesi. La Toscana fu uno
di questi Margraviati. Il marchese o duca, giacchè qui usavano allora
l'uno e l'altro titolo, aveva il supremo comando, in nome dell'Impero, e
al disotto di lui erano i conti. Al tempo di questi margravi, Firenze
rimase lungamente una città oscura. Pisa e Lucca cominciarono a sorgere
più presto, la prima perchè favorita dalla sua posizione sul mare; la
seconda perchè, stata già sede dei duchi longobardi, era adesso sede
principale dei margravii. Conseguenza di questa forma di governo
stabilitasi in Toscana, fu che, mentre in Lombardia ed in tutta l'Italia
settentrionale, gl'Imperatori favorivano i nobili minori ed i vescovi, a
danno dei maggiori, che volevano indebolire, l'esistenza dei margravii
in Toscana portò invece l'indebolimento dei conti minori, dei vescovi,
ed in generale uno svolgimento meno vigoroso del feudalismo.

Questo stato di cose durò fino ai tempi della contessa Matilde, la quale
comandava nella Toscana, ed in gran parte dell'Italia centrale. Essa si
trovò trascinata nella lotta fra l'Impero e la Chiesa, fu severa contro
quelle città, quei conti e nobili che non s'univano a lei, ma favorivano
l'Impero. È questo il momento in cui Firenze, stata quasi sempre amica
dei Papi, cominciò a prosperare, senza che però il Comune si fosse
ancora formato. Il vederlo così tardi apparire è un fatto che stimolò
continuamente l'attenzione degli storici, i quali non si seppero rendere
ragione del perchè un Comune che poi progredì con tanta rapidità,
dovesse essere quasi l'ultimo a sorgere. Infatti esso ci si presenta,
non solamente dopo i Comuni di Venezia, di Amalfi, delle principali
città marittime, che precedettero tutte le altre; non solamente dopo i
Comuni lombardi; ma anche dopo i Comuni stessi della Toscana. È questo
un altro dei tanti misteri, che troviamo nella storia di Firenze.

Il primo segno, che incominci a farci vedere come già si formi una
cittadinanza fiorentina, e ci presenta non un Municipio, ma quasi
l'ombra lontana d'un Municipio che vuole apparire, è un fatto assai
strano. Nel 1063 il popolo di Firenze si ribellava contro il suo vescovo
Mezzabarba, perchè lo credeva eletto simoniacamente, cioè per danaro
pagato al duca Goffredo, marito di Beatrice, la madre di Matilde.
Volevano che il vescovo si dimettesse, e le passioni si accesero perciò
a segno che centinaia e centinaia morirono senza sacramenti, piuttosto
che riceverli da preti ordinati dal vescovo simoniaco. Il Papa
disapprovò questa condotta, ma invano scrisse e mandò suoi messi a
calmare gli animi. Quando il furor popolare era al colmo, un frate
dell'ordine di Vallombrosa, del quale si narra che era stato guardiano
di giumenti, si offrì di passare attraverso al fuoco per provare che il
vescovo non era legittimamente eletto. La prova ebbe luogo presso la
Badia di Settimo e noi abbiamo un documento del tempo, che minutamente
descrive il fatto. In esso si racconta, che il vescovo aveva minacciato
coloro che non volevano obbedirgli, di farli “non condurre, ma
trascinare„ dinanzi al _Præses_ dal _Municipale Præsidium_, e di fare
confiscare i loro beni dal _Potestas_.

Queste sono le prime parole che incominciano a farci vedere l'esistenza
di alcune magistrature, magistrature però che esistono prima che il
Comune sia nato, e si connettono ancora con le istituzioni feudali. Il
_Potestas_ però qui non ha nulla da fare col Podestà, che si trova più
tardi; non è altro che il margravio, il duca Goffredo. Qui come altrove
noi troviamo nei documenti del tempo nomi romani anche per indicare idee
e istituzioni germaniche. Il _Municipale Præsidium_ non poteva essere
che un presidio, dal duca Goffredo e poi dalla contessa Matilde tenuto
in Firenze. Ma il chiamarlo _Municipale_ fa credere che fosse composto
di cittadini, e dimostra che la Città cominciava a sentire la sua
personalità, la sua individualità. La narrazione degli avvenimenti
citati, è fatta in forma di lettera scritta al Papa, in nome del _Clerus
et Populus Florentinus_; e le lettere che San Pier Damiano, incaricato
dallo stesso Papa di calmare il furore popolare, mandava a Firenze, sono
indirizzate: _Civibus florentinis_. Noi dunque non abbiamo ancora il
Comune, ma ci accorgiamo che oramai è vicino a sorgere. Pure esso tarda
ancora, e lo vediamo, la prima volta, apparire, quando già altri Comuni
vicini si sono non solamente formati, ma cominciano a prosperare.

E qui si presenta una prima osservazione, la quale giova anch'essa a
spiegarci, perchè mai il Comune fiorentino nacque più tardi degli altri.
La condizione geografica di Firenze ebbe in ciò una parte grandissima.
Se la città si fosse trovata sulla pianura, come Lucca e Pisa; se si
fosse trovata sulla collina, come Siena, Arezzo, i nobili avrebbero
avuto interesse ad entrarvi, perchè i cittadini, che alla nobiltà erano
avversi, avrebbero avuto non piccolo vantaggio nell'assalire i castelli
nella valle o nella pianura. Ma Firenze essendo invece nella valle,
circondata da colline, sulle quali erano moltissimi castelli che
l'accerchiavano, i nobili avevano una posizione vantaggiosa, che tornava
loro conto mantenere, perchè così potevano più facilmente minacciare e
vincere la cittadinanza. Da questo fatto vennero due conseguenze. La
prima fu che il Comune fiorentino, col suo territorio, come dice il
Villani, tutto incastellato, stretto cioè da un cerchio di castelli
feudali, non poteva facilmente espandersi; e così il suo nascere e la
sua indipendenza furono da tali condizioni ritardati. La seconda
conseguenza fu, che tra i nobili e gli abitanti della Città, la maggior
parte dei quali erano commercianti o artigiani, nacque un antagonismo
molto più profondo e duraturo, che non si vide a Pisa, a Siena, a Lucca,
in alcun altro dei Comuni italiani. La democrazia e l'aristocrazia si
trovarono di fronte, separate in due campi avversi, senza potersi fra
loro mai conciliare.


IV.

Così noi abbiamo una spiegazione del perchè il nostro Comune sorse più
tardi degli altri, e la spiegazione del perchè, sin dal principio, esso
ebbe un carattere più democratico. E questo ci viene indirettamente
confermato dai documenti toscani, nei quali, quando si parla di Firenze,
non troviamo quasi mai la parola _nobiles_, che pure s'incontra assai
spesso quando si parla di Pisa, di Siena, di Lucca. Ma oltre di ciò,
bisogna osservare che questa cittadinanza (se così dobbiamo ora
chiamarla) di Fiorentini, che apparisce già formata prima del Comune,
non era costituita quale noi ce la potremmo immaginare oggi. Essa era
divisa in un numero grandissimo di piccoli gruppi, sopratutto
associazioni di arti e mestieri, le quali erano una trasformazione delle
antiche _Scholæ_ romane, quali le troviamo a Ravenna ed a Roma in tutto
il Medio Evo. Queste associazioni primitive, informi di arti e mestieri,
noi le vediamo a Venezia, fin dal nono secolo, ricordate nella cronaca
Altinate. E sebbene i documenti e le cronache di Firenze non ce ne
parlino, perchè noi non possiamo pretendere di trovare nè documenti nè
cronisti d'un Comune che ancora non esisteva, che ancora non aveva
proclamata la sua indipendenza, ciò non basta a negare che la
cittadinanza fosse già divisa in gruppi più o meno ordinati e
costituiti. Questa divisione anzi è quella che ci fa intendere come mai,
prima che fosse nato il Comune, la società potesse prosperare di
ricchezza e di forza, tanto da muoversi qualche volta a far guerra per
proprio conto. Il governo locale s'andava formando in queste
associazioni embrionali, le quali, coi loro capi, reggevano la
cittadinanza, senza bisogno d'un governo centrale; così la prosperità
poteva crescere e l'indipendenza esistere di fatto, prima che di
diritto, prima che il Comune fosse nato. Di maniera che alla contessa
Matilde bastava avere nella Città un presidio composto di Fiorentini, i
quali, in nome di lei, facevano quello che la Città voleva. Ai
Fiorentini non giovava dichiararsi indipendenti prima del tempo. Quando
si fossero allora separati dalla Contessa, questa, col solo
abbandonarli, li avrebbe lasciati in balìa di tutti quei nobili che
d'ogni lato li circondavano. Prima dunque d'arrischiarsi ad un tal passo
ardito, dovevano mettersi in grado di poter combattere e demolire i
vicini castelli, sentirsi forza sufficiente a condur soli una guerra
lunga e difficile. Perciò essi tardarono tanto, e così può dirsi che il
Comune esista già prima che sia nato.

Nel 1081 noi troviamo che l'imperatore Arrigo concedeva ai Lucchesi di
poter liberamente commerciare nei mercati di San Donnino e Capannori,
dai quali esplicitamente escludeva i Fiorentini. Ciò vuol dire che il
commercio di questi era già grande abbastanza e temibile, in un tempo
nel quale noi siamo ancora lontani dal veder sorgere il Comune. Con gli
artigiani v'erano anche delle famiglie di signori, di grandi, che si
chiamavano _Sapientes, Boni homines_, i quali a Firenze non erano nè
conti nè visconti o duchi; erano quasi sempre nobili decaduti, che, non
potendo vivere nel contado colla società feudale, s'erano ridotti in
Città, o erano nuovi ricchi, saliti su dal popolo, col quale serbavano
sempre stretti legami. Erano anch'essi associati fra loro, e possedevano
in comune delle torri, intorno alle quali cominciarono a formare le
cosidette Compagnie o Società delle torri.

Tali sono le condizioni in cui noi ci possiamo immaginare Firenze, prima
che il Comune nascesse. E tanto è vero che i Fiorentini avevano già di
fatto una indipendenza reale, prima che avessero una indipendenza
legale, che noi troviamo nel 1107, nel 1110, nel 1113 tre guerre da essi
combattute contro i vicini castelli di Monte Orlando, di Prato, di Monte
Cascioli, vincendo i Cadolingi e gli Alberti, conti allora potentissimi.
E queste guerre furono condotte nell'interesse commerciale delle Città,
contro il feudalismo, il che ci riconferma nella opinione, che le forze
crescenti della cittadinanza venivano dal commercio e dall'industria, e
che gli artigiani dovevano formare la parte principalissima di quella
cittadinanza, se tutto si faceva a loro vantaggio.

Un altro fatto che, in tanta scarsità di notizie, ha pure la sua
importanza, si è che nel 1113, quando i Pisani andarono all'impresa
delle Baleari contro i Saraceni, temendo che la loro città potesse
essere assalita dai Lucchesi, ne affidarono la guardia ai Fiorentini. E
questi presero subito il loro campo fuori delle mura, con ordine ai
soldati, che nessuno, pena la vita, osasse entrare nella Città, perchè
non volevano che fosse fatto ingiuria ad alcuno, sopra tutto alle donne:
non volevano che la lealtà fiorentina potesse essere neppure un momento
sospettata. Uno solo, violando le leggi della disciplina, osò entrare in
città, e fu messo a morte. I cronisti raccontano tutto ciò con molti
particolari che tradiscono la leggenda. Nondimeno questo ed altri simili
racconti ci dicono, che i Fiorentini erano allora in concetto di una
grande lealtà d'animo, di una grande moralità di costumi, e ciò risponde
anche a tutte le descrizioni che i cronisti ci fanno dei tempi più
antichi del Comune, risponde alla descrizione che ci fa Dante di
Firenze, quando viveva _sobria e pudica_. Il Villani si ferma con
orgoglio a descrivere la semplicità di quei costumi, e finisce col
dirci, che una dote di 100 lire era allora una dote comune, e una di 300
lire era tenuta _dota isfolgorata_. Dal che noi possiamo nuovamente
concludere, che nella Città non potevano esservi ancora nè una vera
aristocrazia, nè costumi feudali. Vediamo semplicemente i costumi dei
primi artigiani fiorentini, costumi che continuarono a durare un pezzo
nella loro antica purità.

Ma perchè tutti questi fatti non hanno grandi narratori, non hanno molti
documenti? Torniamo a ripeterlo, perchè il Comune non era nato, non
poteva quindi fare trattati in suo nome; e se combatteva per proprio
conto, lo faceva col consenso di Matilde, dalla quale tuttavia
dipendeva, dalla quale non era e non voleva essere indipendente, perchè
non gli conveniva.


V.

Ed ora, o Signori, siamo all'anno 1115, anno in cui muore la contessa
Matilde, e l'indipendenza del Comune incomincia. Come incomincia? Prima
di tutto l'esercizio principale del potere di Matilde in Firenze,
consisteva nel rendere giustizia solenne nei tribunali che presiedeva; e
noi abbiamo in fatti molte sentenze da lei pronunciate. Un dotto
scrittore tedesco ha esaminato queste sentenze, ed ha osservato che in
esse, a poco a poco, il carattere germanico margraviale del tribunale si
andava alterando, sotto l'azione crescente del diritto romano. E quale
era questa alterazione? Secondo l'antica usanza, il presidente del
tribunale pronunziava solennemente le sentenze, le quali esso formulava
col parere dei giudici. A poco a poco l'importanza dei giudici crebbe in
maniera, che il presidente divenne _inattivo_, fece cioè poco più che
pronunziare la sentenza da altri apparecchiata. Questo fatto
semplicissimo portò che la presenza di Matilde cominciò a divenire quasi
superflua, a segno che essa di tanto in tanto non intervenne nei
giudizii, lasciando i tribunali a sè stessi. Negli ultimi quindici anni
della sua vita, noi infatti non la vediamo quasi più comparire nei
tribunali fiorentini. I giudici che spesso erano fiorentini,
pronunziarono allora essi le sentenze, e così i cittadini si trovarono
già fino dai tempi della Contessa, ad esercitare uno dei principali
attributi della sovranità. Di maniera che, quando essa morì, restò un
popolo, che non era ancora libero e indipendente davvero, ma che aveva
già fatto guerre per proprio conto, e si amministrava da sè stesso la
giustizia.

Quando la contessa Matilde scomparì dalla scena del mondo, vi fu
nell'Italia centrale un periodo di estrema confusione. Essa aveva
lasciata erede di tutti i suoi beni la Chiesa, la quale perciò voleva
assumere il governo della Toscana. Ma il Margraviato apparteneva
all'Impero che voleva riprenderlo. La Contessa poteva disporre dei soli
beni allodiali, non dei feudali. Distinguere gli uni dagli altri non era
facile, spesso non era possibile; e così ne nacque una crisi
economico-sociale-politica. Il Margraviato ne andò in fascio, e le sue
varie parti si separarono, per mancanza di un'autorità superiore che
potesse esercitare il potere. In mezzo a questo stato di cose, Firenze
si trovò libera e indipendente, senza quasi avvedersene, senza quasi
sentire il bisogno di avere un nuovo governo. La società era già tutta
quanta in mano delle associazioni; di un governo centrale v'era appena
bisogno. Quelle famiglie che avevano comandato il presidio, che avevano
amministrato la giustizia in nome di Matilde, continuarono a farlo in
nome del popolo, e furono i Consoli del Comune. Quale è il primo segno
di questa indipendenza? La ripresa della guerra contro il Castello di
Monte Cascioli, che fu demolito e bruciato. Questo fatto ebbe una
speciale importanza.

L'imperatore Arrigo IV aveva mandato un tale Rabodo a restaurare
l'autorità dell'Impero in Toscana. Questi, a San Miniato al Tedesco (che
allora cominciò ad essere così chiamato) raccolse i nobili, per
riprendere, in nome del suo sovrano, il potere; andò poi alla difesa di
Monte Cascioli e i Fiorentini, combattendo il Castello, combatterono il
vicario e lo uccisero. Così essi presero finalmente il loro partito, e
dichiarandosi avversi all'Impero, divennero un Comune indipendente,
senza quasi accorgersene. E questa è la ragione per la quale gli storici
rimasero maravigliati e confusi. Come! Firenze la patria di Dante, la
patria di Michelangelo, quella che ha avuto così gran parte nella
coltura del mondo, nasce senza che nessuno se ne avveda? Vi deve essere
qualche errore, vi devono essere stati documenti ora scomparsi, deve
essere avvenuta una catastrofe che è stata dimenticata. Non è avvenuta
nulla di ciò. Firenze aveva cominciato ad essere di fatto indipendente;
continuò per la medesima via, quando scomparve la contessa Matilde. La
rivoluzione avvenne senza grandi scosse, senza quasi che alcuno se ne
avvedesse. Ma gli scrittori come Giovanni Villani non sapevano
persuadersi di dover cominciare così modestamente la storia della Città,
essi che vivevano nei giorni in cui la patria loro primeggiava e
risplendeva. E però, quando nel 1300, al tempo del giubileo, il Villani
si trovò a Roma, e ne ammirò i grandi monumenti, “io voglio scrivere,
esso diceva, la storia di Firenze, perchè Firenze è figlia di Roma, ed è
ora nel suo salire, quando invece Roma è nel suo cadere.„ Pieno di
questa idea, voleva imitare Tito Livio, e scoprirvi qualche cosa di
simile alle origini di Roma. Trovando invece una città nata modestamente
da un gruppo di mercanti, arrivata alla libertà e indipendenza senza
fare alcun rumore, non se ne contentava, non se ne persuadeva, e
ricorreva invece alla leggenda, che connetteva Firenze con Roma, con
Troja, con Enea, e la narrava come se fosse storia. Per queste stesse
ragioni anche i moderni cercarono nella storia quello che non v'era. I
fautori dell'origine germanica dei Comuni non vogliono credere che
questa cittadinanza si sia potuta formare di artigiani, senza che vi sia
entrato elemento feudale germanico; lo cercano, e non ve lo trovano, e
non sanno di ciò persuadersi. Gli scrittori italiani, se sono nemici del
Papa, ghibellini, non si persuadono che questa repubblica, la patria di
Dante e del Machiavelli, sia nata, si sia formata, sotto la contessa
Matilde, amica del Papa, e protetta da lei. E vanno anch'essi in cerca
di avvenimenti che non seguirono mai. Gli scrittori guelfi, è vero, si
rassegnano a ciò più facilmente assai; ma non sanno neppur essi capire
come mai Firenze sia potuta nascere dopo di Pisa, di Lucca, di Siena, di
tante altre città. Così tutti cercano quello che non si può trovare,
perchè non avvenne mai, e non vogliono vedere la verità che è chiara e
lampante sotto i nostri occhi, e sta tutta nelle poche notizie certe che
abbiamo. Altre non ve ne sono, altre non sarà facile, non sarà
possibile, io credo, trovarne.


VI.

La Repubblica si formò dunque come da sè stessa. I capi delle famiglie,
i quali avevano giudicato, comandato il presidio, guidato l'esercito in
campo, divennero i Consoli. I capi delle associazioni, insieme coi loro
aderenti, formarono il Consiglio, che si chiamò anche Senato. Nelle
grandi occasioni, quando si trattava d'affari assai importanti, si
sonava la campana e si raccoglieva il popolo a Parlamento. E questo era
il Comune fiorentino. Noi però non dobbiamo immaginarci che un tal
governo avesse l'importanza che hanno i governi delle società moderne,
perchè in Firenze il governo vero restava sempre nelle mani delle
associazioni. Ciò è tanto vero, che nei documenti, nei trattati che si
fanno fra città e città, si dice spesso che saranno eseguiti dai
Consoli, _se vi saranno_, e se non vi saranno, li faranno eseguire i
_Boni homines_, i capi delle Arti o altri cittadini. Il governo centrale
aveva un'importanza assai secondaria, il che ci spiega ancora, come mai,
in quelle continue rivoluzioni, in quei continui mutamenti di leggi e di
statuti, quando a noi pare qualche volta che un governo più non esista,
le cose potessero nondimeno procedere secondo il loro ordine naturale e
normale. La Città passava di rivoluzione in rivoluzione, senza che
alcuno sembrasse turbarsene, e quando a noi parrebbe che dovesse
seguirne il finimondo, tutto invece continuava secondo il solito, perchè
il governo era sempre restato in mano delle associazioni. Non era uno
Stato accentrato come i moderni, era una specie di confederazione di
arti e mestieri, di consorterie, di società diverse. Questo carattere
generale lo troviamo in tutti i Comuni italiani, ma in Firenze più che
altrove. Ciò spiega in gran parte la prodigiosa attività e intelligenza
popolare di quei tempi. Il cittadino era ogni giorno chiamato a prender
parte alla cosa pubblica; la discussione era continua; continui gli
attriti nei quali si formava e svolgeva una varietà infinita di
caratteri, di attitudini morali, industriali, politiche. E spiega ancora
come, in mezzo a così incessanti tumulti, potessero così splendidamente
fiorire le arti della pace: l'industria il commercio, le lettere, la
pittura, la scultura, l'architettura.

La seconda guerra che fece Firenze, nei primi tempi della sua vita
popolare, fu la guerra contro Fiesole, presa e distrutta nel 1125. E
perchè fu fatta questa guerra? Perchè, ci dice il Villani, Fiesole era
divenuta il nido di tutti i cattani lombardi, cioè i conti che avevano,
secondo lui, origine longobarda, e che veramente avevano la più parte
origine germanica. In questo momento, in fatti, nel quale i messi
imperiali sono a San Miniato, i signori feudali del contado si
raccolgono intorno a loro, contro la Città, e nei documenti troviamo
spesso che gli uni e gli altri sono chiamati _Teutonici_. La popolazione
toscana s'era così come divisa in due. Da un lato si vede un partito
germanico, feudale, imperiale; dall'altro le città, in cui erano
principalmente gli artigiani, gli eredi del sangue romano, che
rappresentavano il lavoro e l'industria, e divenivano ogni giorno più
una forza, una potenza capace di misurarsi col partito imperiale. A
Fiesole, per la posizione assai forte che essa aveva sul monte, resa più
forte da una rôcca, s'erano raccolti molti di questi nobili feudali, e
minacciavano la sottoposta Città; ne devastavano le campagne, ne
impedivano il commercio. I Fiorentini perciò mossero all'assalto.
Leggendo la narrazione, che di questa guerra ci dà il più antico
cronista fiorentino, il Sanzanome, il quale era un notaio, par di
leggere la descrizione d'una delle guerre fra i Romani ed i Cartaginesi.
Egli ci presenta un Fiorentino, che si leva in mezzo al popolo e dice:
Se siete veramente i figli di Roma, come pretendete, questo è il momento
di mostrarlo. E subito dopo fu emanato un editto dai Consoli, che
dichiararono la guerra. Si direbbe che il cronista fosse un erudito del
secolo XV, tanto le idee, la coltura, la forma, i pensieri romani erano
sin d'allora vivi in quella cittadinanza.

Se dunque noi troviamo forme e tradizioni romane, prima che il Comune
sia costituito, nella narrazione che descrive la prova del fuoco seguita
nel 1068; se troviamo tradizioni e forme romane, quando il Comune si va
costituendo, nella leggenda che descrive le sue origini; se troviamo
forme e tradizioni romane nel primo cronista che descrive la prima
grossa guerra, che fecero i Fiorentini, sempre a difesa del loro
commercio, sempre contro i nobili feudali, ci deve esser lecito di
concludere, che nelle sue mura stava il sangue romano di fronte agli
avanzi delle tradizioni e del sangue germanico, raccolto nei castelli
che l'accerchiavano, e che ritardarono la sua indipendenza.
Ritardandola, non impedirono però l'incremento delle sue forze
industriali, commerciali, militari, e così fu che quando morì la
contessa Matilde, Firenze era già di fatto un Comune indipendente,
sebbene tal non fosse ancora legalmente. E dopo ciò facilmente capiremo
che, quando molti non vogliono in nessun modo persuadersi che la cosa
sia così semplice, e vanno cercando astruse spiegazioni con grande
dottrina, questa assai spesso serve solo a rendere difficili fatti che
per sè stessi sarebbero assai facili.


VII.

Ma qui occorre un'altra osservazione. Se questi concetti sono giusti, se
veramente il Comune fiorentino è nato in tal modo, dovrebbe avverarsi
quello che noi accennavamo sin dal principio, cioè che qualche luce essi
dovrebbero gettare sugli avvenimenti posteriori, e ciò varrebbe anche a
confermare la verità di quanto abbiam detto fin qui. Vediamo dunque se
gli avvenimenti posteriori confermano le considerazioni finora esposte.

Se noi apriamo il Villani, troviamo che il primo periodo della storia
fiorentina è una serie di guerre continue contro i castelli. Il
territorio era tutto _incastellato_, esso dice, ed i Fiorentini uscivano
ogni primavera a combattere. Quale fu la conseguenza di queste guerre? I
castelli vennero demoliti; ma i conti che li abitavano non si potevano
uccidere; venivano quindi costretti a vivere in Città almeno una parte
dell'anno, il che li sottoponeva alle leggi del Comune. Tutto ciò in sul
principio non ebbe grande importanza; ma a poco a poco alterò la
cittadinanza fiorentina, introducendovi un elemento feudale, che era
nuovo, estraneo al Comune, ed aveva un'origine germanica, rappresentava
una società nemica. Così dentro le mura si troveranno ben presto due
società avverse, che non potranno vivere insieme: l'una dovrà
distruggere l'altra; la guerra civile sarà inevitabile. Questi nobili
hanno usi e costumi, tradizioni, educazione diversa assai da quella del
popolo. Essi vengono, si asserragliano, si fortificano nei loro palazzi,
che sono come castelli dal contado portati dentro la Città. Le stesse
ragioni che costrinsero i Fiorentini a combattere i castelli nel
contado, li costringeranno a combattere i nuovi palazzi fortificati, che
sorgono dentro le mura. La guerra civile non ha origine dal fatto del
Buondelmonti; non è conseguenza di odii e vendette personali; è una
guerra fatale fra due razze, fra due civiltà, una delle quali non può
vivere insieme con l'altra: bisogna che l'una o l'altra scomparisca
dalla terra. Questa guerra non è una prova che le passioni individuali
dominassero tanto in Firenze da prevalere su tutto; ma è invece una
prova che i sentimenti di quegli artigiani erano talmente uniti,
concordi e tenaci e che essi avevano una fede così profonda nei loro
destini, che si apparecchiavano a combattere dentro la Città, quel
nemico, che avevano combattuto fuori di essa.

Giovanni Villani, il quale affermava che il fatto del Buondelmonti, nel
1215, aveva la prima volta diviso la cittadinanza di Firenze,
dimenticava di averci precedentemente detto, che nel 1177 la guerra
civile era già cominciata per opera dei grandi, cioè degli Uberti, che
combatterono sin d'allora il governo consolare. Ciò prova che il fatto
del Buondelmonti fu uno di quei tanti episodii, che seguirono spesso in
tutti i Comuni del Medio Evo, ma non ebbe una vera importanza politica,
perchè non fu causa, ma conseguenza della guerra assai prima
incominciata.

Noi abbiamo dunque un secondo periodo nella storia di Firenze, il quale
è una lunga serie di guerre e rivoluzioni interne, che portano una serie
di trasformazioni sociali e politiche del Comune. Vediamo da una parte i
nobili col Podestà alla loro testa, dall'altra il popolo comandato dal
suo Capitano. Scopo e fine di questa lotta è la totale distruzione del
partito aristocratico, il che seguì nel 1293 con gli Ordinamenti di
Giustizia di Giano della Bella, i quali esclusero affatto i Grandi da
ogni partecipazione al governo. Tutte queste rivoluzioni hanno di mira
uno scopo costante, hanno un'origine comune, si seguono con un ordine
determinato. Non è il caso che domina la storia di Firenze, è una legge
storica, che risulta dai varii elementi, che costituirono la società
fiorentina nel Medio Evo.

Ma, finita che fu la prima serie di rivoluzioni, con gli Ordinamenti di
Giano della Bella, non finiva perciò la guerra civile. Come i nobili del
contado, demoliti che furono i loro castelli, non scomparvero affatto,
ma entrarono dentro la Città; così, esclusi ora dal governo, non per
questo scomparvero affatto, ma s'unirono ad una parte del popolo, cioè
ai capi delle principali Arti, e si formò il partito delle Arti maggiori
contro le minori, del popolo grasso contro il popolo minuto. Questo
rappresentava ora la democrazia già avanzata, quello che oggi diremmo il
partito radicale: era l'infima plebe, la quale non capiva, perchè essa,
che aveva preso parte alle guerre civili contro i nobili, alle battaglie
contro i castelli, dovesse rimanere esclusa dal governo. E quindi, se la
prima guerra civile era cominciata per escludere i nobili dal governo,
la seconda non fu fatta per escluderne il popolo grasso, ma perchè il
popolo minuto voleva insieme con esso avervi la sua parte. E come nel
1293 vedemmo l'ultima conseguenza logica del primo periodo, così nel
1378, col tumulto dei Ciompi, abbiamo l'ultima conseguenza logica del
secondo, ed il popolo minuto sale finalmente anch'esso al governo,
rimanendo in continuo contrasto coi ricchi. La plebe sin dal principio
eccedette nei suoi trionfi, ed allora comparvero sulla scena i Medici, i
quali, appoggiandosi ad essa, con accortezza impareggiabile,
s'impadronirono del governo. E così la Repubblica, dopo quasi un altro
secolo di lotte, finalmente cadde.

Questa storia fiorentina, adunque, non è un mistero, non è una serie di
rivoluzioni sottoposte al caso; essa è invece chiara come una
proposizione geometrica. Le sue rivoluzioni hanno una causa costante; il
suo scopo politico è sempre lo stesso. Dal giorno in cui il Comune ha
messo la prima pietra, noi possiamo, se studiamo quali sono gli elementi
che lo compongono, determinare logicamente, prevedere sicuramente quali
saranno le rivoluzioni, cui esso anderà soggetto. Sotto i Medici noi
troviamo che sono scomparse le Consorterie, la cui distruzione era in
fatti cominciata sin dal 1293. Troviamo che le Arti ancora esistono, ma
hanno perduto ogni importanza politica; vediamo un governo forte,
accentrato; una società che par quasi una società moderna. Una grande
uguaglianza civile apparisce per tutto; non più classi, nè gruppi
separati ed ostili; non titoli di nobiltà; non privilegi di alcuna
sorte; dagli ultimi si può salire, a forza d'ingegno, ai supremi gradi
sociali. Sotto un tale aspetto può dirsi che il Comune abbia raggiunto
il fine cui aveva sempre mirato, abbia ottenuto un vero trionfo.


VIII.

Ma questa, pur troppo, è un'ora funesta per lo spirito italiano; è l'ora
in cui incominciano la nostra corruzione e la nostra decadenza. La
società del Medio Evo più non esiste. Quelle associazioni a cui gli
uomini erano stati così affezionati, fra le quali avevano vissuto, per
le quali avevano combattuto ed erano morti, si sono disciolte; ma la
nazione non si è ancora formata. La piccola patria più non esiste, la
nuova ancora non si è formata. L'uomo del Medio Evo è scomparso, e
l'uomo moderno è nato, l'uomo, cioè, che deve fidare nelle sole sue
forze, nel solo suo ingegno, nella sola sua operosità; ma esso è nato
prima che si sia costituita la nazione. La conseguenza è che l'Italiano
di questo nuovo periodo, che si chiama il Rinascimento, si trova come ad
un tratto isolato nel mondo. Egli non può fidare in altri che in sè
stesso, egli non ha nessuno per cui vivere, nè c'è alcuno che viva per
lui. Egli si abbandona quindi al suo egoismo personale, nel momento
stesso in cui si aumentano, si acuiscono le forze della sua attività e
del suo ingegno. La decadenza morale incomincia quando il progresso
intellettuale continua più rapido che mai. E noi abbiamo un popolo, in
cui la cultura progredisce, in cui la scienza s'innalza, ma nel quale il
livello morale continuamente, rapidamente si abbassa. La nostra
splendida letteratura rivela anch'essa questa morale decadenza. Noi
vediamo apparire sulle labbra dell'Italiano quel cinico sorriso, che ci
è così spesso descritto nelle nostre commedie, nelle nostre novelle, in
cui si beffeggiano le cose più sante, e l'amore è privo d'ogni
sentimento davvero umano, e tutti gli affetti più nobili sono scomparsi,
quando non sono derisi. Lo scrittore somiglia allora a quei romanzieri
moderni, i quali, descrivendo il _demi-monde_, credono di descrivere il
mondo. E noi vediamo quegli accorti politici italiani, che sono i
maestri di tutti in Europa, che rappresentano la sapienza diplomatica,
che dovunque vanno sono ammirati, non riescire in casa loro ad altro,
che a costruire un mondo, il quale cade sotto il peso della sua stessa
corruzione. Vediamo questi uomini, che sono i primi calcolatori del
mondo, calcolar sempre e sbagliare tutti i loro calcoli, perchè essi
hanno dimenticato che nella vita umana v'è qualche cosa che non si pesa
e non si misura, che non si ragiona e non si calcola, ma si sente, ed
essi non la sentivano più. I tiranni italiani di quel tempo ci
presentano anch'essi un singolare spettacolo. Noi li vediamo
apparecchiare i loro veleni, affilare i loro pugnali, ridere di Dio, e
tremare dinanzi all'astrologo, da cui aspettano di conoscere l'ora
propizia ai loro delitti.

La storia, o Signori, non è una filosofia, non è una predica morale, non
fa che constatare i fatti. Ma percorretela in lungo ed in largo, ed essa
vi ripeterà di continuo, che l'egoismo veramente, profondamente umano, è
l'abnegazione; che ciò che solo può rendere l'uomo felice sulla terra, è
il vivere per gli altri; che quando le leggi e le istituzioni ci
spingono per questa via a cercare un ideale, cui far sacrifizio della
nostra esistenza, e dal quale solamente la vita può ricevere il suo
valore e la sua dignità, quello è il momento in cui il carattere morale
s'innalza e le nazioni diventano forti. Quando invece gli uomini si
rinchiudono, come gli Italiani del Rinascimento, nel proprio egoismo, la
decadenza diventa allora inevitabile.

Ma vi è ancora un'ultima osservazione. Gli stranieri, i quali si sono
mossi a studiare il Rinascimento, hanno detto: Ecco una nazione, la
quale, nel momento in cui più le sue arti e le sue lettere fioriscono,
nel momento in cui le più nobili qualità del suo ingegno si manifestano,
si corrompe sempre più rapidamente; ecco una nazione che cinicamente
ride sempre di tutto, una nazione che, allora quando più fiorisce
intellettualmente, è priva di ogni fede. Quelle idee stesse, che saran
sempre sua gloria, che essa mise nel mondo con la sua arte, la sua
letteratura, la sua scienza, percorrono l'Europa, e ne fecondano la
civiltà, perchè vi trovano un'atmosfera morale; ma in Italia non
riescono ad impedire la sua decadenza, perchè in essa il senso morale è
pervertito. E ne hanno concluso, che, quasi per legge di natura, nel
nostro carattere nazionale risplendono l'ingegno e tutte le qualità
intellettuali, ma sono invece offuscate le morali. Manca la vera
_intimità_, come essi dicono, del cuore, dell'animo. E però anche nella
loro arte gl'Italiani vedono più la forma che la sostanza, più il
sensibile che l'intelligibile e l'ideale. Quando si vogliono davvero
penetrare i misteri dell'anima, rappresentare la profondità, la santità
degli umani sentimenti, occorre rivolgersi alle nazioni germaniche, che
vi riescono assai meglio, perchè questo è il loro proprio regno, nel
quale agl'Italiani non è dato entrare. Uno storico tedesco di
grandissimo valore, che meglio d'ogni altro conosce il nostro
Rinascimento, il Burckhardt, a questo proposito, osservava: Ma se fosse
proprio vero che il carattere degl'Italiani fu quale voi lo descrivete;
se non fossero allora vissuti altri che i Borgia, gli Sforza, i
Malatesta, e i più corrotti novellieri avessero davvero rappresentato
tutto l'essere morale della nazione, questa sarebbe caduta in un tale
abisso da non poterne mai più risorgere in eterno. Il vostro giudizio
deve certamente avere qualche cosa di unilaterale, di erroneo. È meglio
lasciare in pace i popoli, quando non si è in grado di giudicarli
serenamente, sicuramente.

Ed invero queste condanne nazionali, che pretendono essere giudizii
imparziali, dimenticano prima di tutto, che la storia del pensiero
italiano cominciò allora con Dante e si chiuse con Michelangelo, le due
intelligenze, cioè, che hanno in supremo grado quelle qualità appunto
che si vorrebbero a noi negare; hanno tutta quella così detta
_intimità_, tutto quel carattere epico, tragico, che nello spirito
italiano dovrebbe assolutamente mancare, perchè manca nel Rinascimento.
Dante e Michelangelo, si disse, furono due eccezioni. Certo i sommi
ingegni sono eccezioni; ma sono pur quelli che meglio rappresentano il
paese che li produce. E dimenticano ancora, che la storia da noi
conosciuta, da noi studiata si occupa quasi sempre di quei soli ordini
sociali che, nel Rinascimento italiano, furono primi a sentire l'azione
corruttrice dell'atmosfera politica mutata, e che perciò più rapidamente
si erano corrotti, avendo subito preso parte al nuovo vivere sociale.
Che se quegli scrittori avessero voluto studiare davvero quali erano
allora le condizioni dello spirito italiano, avrebbero dovuto esaminare
anche gli ordini inferiori della società, nei quali, in tutti i tempi,
le vecchie tradizioni si mantengono più lungamente, e vedere quali
sentimenti, quali caratteri erano in essi. Avrebbero allora modificato i
proprii giudizii. Una prova sicura di quanto diciamo si ebbe
recentemente in due libri, che furono pubblicati dal compianto Cesare
Guasti, e sono gli epistolarii d'un oscuro notaio fiorentino e di una
gentildonna, che non aveva molta coltura. Ebbene, leggendo tali lettere
(quelle del notaio Mazzei sono della fine del XIV secolo e dei primi del
XV; quelle della Macinghi Strozzi, sono della fine del secolo XV),
leggendole, ci par di tornare quasi due secoli indietro. Noi ritroviamo
in esse ancora vivi tutti quei più puri sentimenti morali, che ricordano
i tempi in cui la Repubblica veniva fondata, quando Firenze viveva
sobria e pudica, e possiamo non solo scoprire un altro lato della
società di quel tempo, ma vedere anche quali furono veramente gli uomini
che fondarono la libertà, quali i loro animi quando essi crearono quelle
grandi istituzioni, che i politici e letterati del Rinascimento
cominciavano a disfare. Chi vuole accuratamente conoscere il
Rinascimento e l'opera sua, per cavarne giudizii generali sull'indole
del popolo italiano, dovrebbe pur distinguere ciò che in esso sopravvive
del passato, e dà ancora frutti di cui il solo Rinascimento sarebbe
stato incapace. Nel popolo, negli ordini inferiori della società, questo
passato sopravvive sempre più tenacemente, e si può meglio studiarlo.
Anche ai nostri giorni si ritrovano qualche volta gli avanzi di un
passato assai lontano, che non dobbiamo trascurare nelle società
moderne, se vogliamo conoscere bene il tempo in cui viviamo. A
giudicarla tutta, la società bisogna esaminarla da tutti i lati.

Certo quando noi guardiamo in Firenze il Duomo, il Palazzo Vecchio e gli
altri monumenti che gli stranieri tanto ammirano e tanto studiano,
dobbiamo ammirarli anche noi. Ma, sebbene assai pochi vi pensino, non
meno ammirabile è la condizione in cui la Repubblica fiorentina lasciò
le campagne della Toscana, non per le amene colline, non per le ricche
messi, ma per l'armonia sociale che vi regna, per le condizioni
economiche in cui l'antica Repubblica pose il contadino. Nel 1289 i
Fiorentini fecero una legge, la quale, con un linguaggio che sembra
quello stesso dell'Assemblea Costituente in Francia, dichiarava che la
libertà è sacra, inalienabile, che è voluta da Dio, è necessaria alla
prosperità di tutto il popolo, e liberava perciò i contadini da ogni
servitù. E sono questi i tempi medesimi, in cui s'iniziava quel
contratto agrario che fino ai nostri giorni fu tanto ammirato, che il
nobile animo del Sismondi chiamava uno dei grandi monumenti della
sapienza civile degl'Italiani, che gli economisti moderni dichiarano uno
dei mezzi più efficaci a liberare la società moderna dal pericolo
sociale d'un conflitto di classi, da cui essa sembra minacciata. E
questo fu fatto dai Fiorentini nel Medio Evo, quando il dominio della
società spettava alla forza, e per tutto regnavano persecuzione e
violenza. Fu quello il tempo in cui nell'Italia centrale venne trovata
quella forma di contratto, secondo la quale il coltivatore della terra
poteva, allora come ora, dire al proprietario: Tu sei il lavoro
accumulato dei secoli, io sono il lavoro vivente. Abbiamo bisogno l'uno
dell'altro, diamoci dunque amica la mano, e siamo soci. Così si
chiamarono allora, e così si chiamano oggi. E allora come ora, o
Signori, il lavoratore dei campi, il quale col sudore della sua fronte
feconda la terra italiana, che produce quella ricchezza, che è tanta
parte della prosperità nazionale, poteva tornare a casa tranquillo la
sera, e godere anch'esso le gioie della famiglia, e sentirsi uomo come
noi, e crescere con la sua la nostra felicità. E questo fu fatto dai
Fiorentini quando in Inghilterra, in Germania, in Francia i contadini
erano schiavi, erano servi della gleba. Quegl'Italiani che emanciparono
l'uomo, che emanciparono il lavoro, dovevano pure avere un alto
sentimento morale.

Il marchese Gino Capponi, l'illustre autore della Storia di Firenze,
soleva dire che i Fiorentini non avevano mai così bene impiegato il loro
denaro, come quando costruirono quel Duomo, che richiamò nella Città
tanta gente ad ammirarlo. Ma si potrebbe aggiungere, che essi non furono
mai così profondi calcolatori, come quando liberarono i coltivatori
della terra, in un tempo nel quale erano schiavi da per tutto. E
calcolarono non solo a vantaggio della loro prosperità economica, ma io
credo che calcolassero anche a vantaggio della loro prosperità
intellettuale e morale. Forse anzi in ciò sta una non ultima ragione del
perchè tanto le lettere e le arti progredirono allora in Firenze. Io non
credo, o Signori, che sia indifferente agli alti ingegni, i quali
spingono sereno, profondo, sicuro lo sguardo nella luce del vero, come
l'aquila fissa intrepida il suo occhio nel sole, non credo che sia
inutile il non avere lo sguardo turbato dalle ingiuste sofferenze di
coloro che onestamente lavorano. Credo invece, che giovi assai agli
artisti ed ai poeti, i quali si sollevano nel regno dell'arte; giovi,
affinchè le creazioni della loro fantasia serbino tutta la sacra purità
dell'ideale, il serbare, con la mente serena, una coscienza non
tormentata da rimorsi. — Ma allora quelle immagini divine dei poeti, dei
pittori del Trecento e del Quattrocento, di cui parlammo, non ci
appariranno più come l'Angelo di Dante nella bolgia infernale, che
traversa sdegnoso, frettoloso la palude Stige. Esse non vengono di
fuori, sono nate nella coscienza stessa di questo popolo, nei giorni in
cui difendeva la libertà e rispettava la giustizia, sono come la
sostanza stessa della sua anima. E così, o Signori, voi vedete, io
spero, come lo studio delle origini possa gettare una qualche luce o
rischiarare anche i fatti della storia posteriore del Comune e della
società italiana.



VENEZIA E LE REPUBBLICHE MARINARE

DI

P. G. MOLMENTI


_Signore e Signori_,

E dove a chi potrei oggi meglio parlare di Venezia, se non a voi qui in
Firenze, in Firenze così legata alla città delle lagune anche da recenti
prove d'affetto? Voi la conoscete, ma è sempre curioso il ricordarla la
storia di codeste genti veneziane, che non aspettano la loro fortuna,
come limosina dal caso, ma la conquistano colla prodezza e
l'accorgimento: si fanno innanzi tra la larva d'impero dei Cesari
bizantini e i rinnovantisi invasori stranieri, divengono signori di
grandi traffichi e conquistatori di vaste provincie, fiaccano l'orgoglio
dei maggiorenti e abbassano l'insolenza del popolo, piantano il vessillo
repubblicano sulle torri del palazzo imperiale di Bisanzio, divengono i
guardiani d'Italia contro gl'infedeli della religione e gli infedeli
della libertà; non s'abbassano mai nè anche quando li stringe da presso
il nemico: passano, a traverso la storia, eroi talvolta, talvolta uomini
pratici, guerrieri e mercanti, statisti e poeti, accorti sempre, sempre
ammirabili. Di questa grandezza, paragonabile nell'antichità alla
romana, nel tempo presente all'inglese, io vi accennerò, o signori, alle
umili origini, non toccando delle altre gloriose repubbliche marinare
d'Italia se non per ciò che con Venezia ha rapporto.

Quella regione, da una parte racchiusa dall'Adige e dal Timavo,
dall'altra lambita dalla curva settentrionale del golfo Adriatico e
difesa dalle Alpi tirolesi e carintie, era conosciuta dai Romani col
nome di Veneto. Le origini degli abitanti si collegavano ad Ilio,
secondo una tradizione non del tutto creata dalla boria nazionale, ma
ravvalorata dai versi dell'Eneide (I, 246). _Eneti_ viene dal greco e
vuol dire _laudabiles_, ma ai veneti cronachisti la nobiltà del cuore
non basta e trovano che la voce _enetici_ viene da Enea.

La regione era lieta di città popolose e fiorenti: Padova, Aquilea,
Altino, Verona; di paesi ferventi di vita: Ateste, Monselice, Concordia,
Treviso, Vicenza, Oderzo, Belluno, Ceneda, Acelo (Asolo). Collocati alle
porte orientali d'Italia, caddero primi, nel V secolo, sotto l'impeto
delle turbe barbariche, che diruparono dalle Alpi. Gli abitanti, dinanzi
a quelle disperate catastrofi, cercarono rifugio là dove le acque dei
fiumi dell'Italia superiore, giungendo al mare si fermano, stagnano, si
dilatano in lagune. Nulla però in esse d'insalubre. Il Lido, stretta
lingua di terra, che separa dal mare la laguna, è rotto in varie
aperture, in vari porti, che lasciano libero il corso delle acque. Il
flusso marino, che ora copre or lascia a secco quei fondi melmosi, porta
via ogni germe mefitico. Nulla di triste. Il cielo, che non splende del
troppo vivo fulgore meridionale e non ha la fredda vaporosità del
settentrione, si rispecchia nelle acque con quei magici riflessi, con
quella smorzatura di toni, con quelle armonie di tinte, che educarono
l'occhio dei pittori veneziani. Erano isole, se non deliziose e
frequenti, come alcuni sognarono, non abbandonate e squallide, come
credettero altri, e abitate e conosciute dai naviganti del tempo romano.
Si può arguir ciò da alcuni passi che a quelle isole si riferiscono in
Mela, in Tacito, in Plinio, nell'_Itinerario_ di Antonino, in Erodiano.
I due limiti estremi della regione insulare, non esposta all'ira degli
invasori, cui mancava il navilio, erano, da una parte Grado, dall'altra,
Capo d'Argine.

Chi dirigeva quei profughi, chi li guidava? Poetiche leggende ci sono
tramandate da una vecchia cronaca, chiamata Altinate, perchè uno degli
aneddoti in essa contenuti e scritti anche prima del secolo X, si
riferisce ad Altino, città prospera per commercio, magnifica per
edifici, fra i quali un palazzo imperiale, e per l'amenità delle ville,
degne di rivaleggiare con quelle di Baja, a quanto afferma Marziale:

    _Æmula Bajanis Altini litora villis._

I primi cronachisti veneti illuminano di luce poetica e religiosa le
antiche dimore dei loro padri. Tutti i grandi popoli, dalla Grecia e da
Roma a Venezia, hanno carezzata la loro origine leggendaria, e più da
essa si sono allontanati, grandeggiando, più si compiacquero non a
collegarsi con umili e rozze origini storiche, sinceramente esplorate,
ma con quel vago e indefinito della leggenda, che ritrova anche nei
primi albori della vita la grandezza. Così le città greche rannodarono
le antiche origini con gl'Iddii. Narra la cronaca d'Altino come agli
Altinati e agli Aquileiesi Iddio abbia manifestata l'imminente venuta
degli Unni. Ciò avveniva nel 452, e si sa come siano intimamente
collegate l'origine di Venezia e la leggenda di Attila, intorno alla
quale si raccolse ogni ricordanza di distruzione, di sangue, di stragi.
Gli uccelli nidificanti nelle mura e sulle torri di Altino fuggirono
portando nei becchi i loro nati. Non sapendo una parte di cittadini dove
trovare uno scampo, dopo un digiuno di tre giorni pregarono Iddio di
manifestar loro se dovessero affidarsi alla terra o alle navi. Si udì
una voce: _Ascendete sulla torre e_ _guardate verso la parte australe_.
Molti montarono sulla torre e videro in vicinanza alcune isole, e per
tali figure s'intese che doveasi andar là ad abitare. Un terzo circa di
cittadini, preceduti dai tribuni e dal clero, si diresse con barche alle
lagune e fondò la celebre Torcello. Due sacerdoti, Geminiano e Mauro,
incuoravano i fuggitivi e gli spiriti atterriti si commovevano, si
sublimavano nelle visioni dell'infinito. Appariva allora a Mauro una
bianca nube, dalla quale, insieme con due raggi di sole, scendea la voce
di Dio, che imponeva di innalzare in quel luogo una chiesa. Alla voce di
Maria, che dava, in altro sito, lo stesso comando, seguiva un prodigioso
miraggio: le bianche nubi si squarciarono e lasciarono vedere lidi
fiorenti, pieni di popolo e di gregge.

Altri Altinati andarono ad abitare Amoriana o Murano.

Una cronaca, di poco posteriore all'Altinate, quella di Grado, narra che
il patriarca Paolo, ritornando coi profughi all'antica patria, Aquileia,
ebbe una visione, dalla quale apprese come la _sævissima longobardorum
rabies_ avesse distrutto quella città. Egli allora si ritirò a Grado,
divenuta poi la più ricca fra le isole veneziane e la sede principale
della potestà ecclesiastica.

Eraclea, popolata essa pure da Aquileiesi e dal fiore degli Opitergini,
fu sede del governo.

I profughi di Asolo e di Feltre ripararono a Jesolo, più tardi chiamata
Equilio, per le razze dei cavalli, che vi si allevavano.

Gli scampati dalla distruzione di Padova si ridussero a Matemauco,
l'odierno Malamocco.

Il popolo di Concordia cercò riparo nell'isola, dalle capre che vi
condussero i pastori, chiamata Oaprule ed oggi Caorle.

Vissero tutte la fulgida vita della giocondità e della ricchezza. Ora,
dove esse sorgevano, si è fatto un triste deserto. Qua e là qualche
rudero; eco romita dei vecchi secoli. Vi regnano lo squallore e la
malaria.

Esiste ancora in tutta la suprema bellezza dell'arte e delle memorie,
Rivoalto, la più modesta di tutte le isole, che a poco a poco unita ad
Olivolo, indi a Luprio e finalmente alle Gemine e a Dorsoduro, formò
l'odierna Venezia.

L'operosità rinvigorita della sventura e la forza raddoppiata dagli
ostacoli animano quella moltitudine di persone, varie di condizioni, di
costumi, di sesso, di età, e cento anni circa dopo la distruzione di
Attila, i nuovi abitatori delle isole sono descritti con vivi colori da
Cassiodoro, in una lettera magniloquente ai _tribuni marittimi delle
lagune_, probabilmente ufficiali inferiori goti, ai quali il ministro, a
nome regio, ordina di preparare le navi per trasportare dall'Istria a
Ravenna il vino e l'olio.

Provveduti di navilio, arditi sfidano le tempeste del mare e le correnti
dei fiumi: erigono case, come nidi d'uccelli marini; collegano la terra
con fascine e dighe: ammucchiano sabbia per rompere le onde infuriate:
convivono in eguaglianza poveri e ricchi; non invidia, non vizî li
macchiano; ogni loro emulazione sta nel lavoro delle saline, da cui
nasce il frutto al quale ogni produzione è soggetta e che dell'oro è
assai più prezioso.

Nessuna descrizione più attraente, quantunque il ministro di Teodorico
fosse disposto ad abbellire il quadro, oltre che dall'indole sua, anche
dal bisogno che aveva il suo sovrano di trasportar vettovaglie coi
navigli di quei Veneti, i quali del resto riconoscevano nei
conquistatori goti l'alto dominio sulle isole.

Tuttavia in questo primo accenno storico, quel popolo risorgente dallo
squallore dei bassi tempi alla luce di un'êra novella, si rianima. Noi
la vediamo la tranquilla verdura di quelle isolette, specchiantisi nel
nitido specchio delle lagune. Oltre alle paludi giuncose, l'occhio si
posa sul mare romoreggiante. Qui la pace inconturbata potea destare
negli esuli il rimpianto e le memorie delle città disparite, gli
splendori distrutti e i tristi albori della nuova patria; là, il furiar
delle tempeste e il romoreggiar delle onde rendeano l'imagine dei
tumulti della esistenza, di lotte, di pericoli, di gloria. Ma le
tranquille melanconie dell'asilo non cullarono quelle anime, da tanti
dolori agitate, in una pace mesta. Essi allungarono lo sguardo, oltre le
paludi, sul verde Adriatico, e di esso sfidarono le lotte e i pericoli e
in esso cercarono la gloria. — Lotta e gloria — ecco il grido anche dei
secoli venturi. L'energia di quegli uomini si eleva ad eguale misura
delle difficoltà e degli ostacoli naturali: la loro vita tutta si
riassume nello scontrar pericoli, domarli, trionfare; una stessa
passione li agita, li comanda, li possiede.

Alla vita frugale e laboriosa seguono più prospere condizioni.
S'interrano dossi paludosi: ogni prominenza di sabbia, ogni più breve
isoletta è abitata; si regolano i canali tortuosi, si preparano approdi
e ripari alle barche, si arginano saline, si elevano mulini, si scavano
cisterne, si riducono prati, si piantano vigne. Ma anche nel sicuro
asilo della laguna giunge l'eco di battaglie e di stragi, di ribellioni
e di lotte. Nella Venezia continentale, da prima si agitano guerre fra
Ostrogoti e Bizantini, fra Bizantini e Franchi e Longobardi: poi lotte
dei patriarchi di Aquileia e Grado e dei vescovi veneti ora coi
Longobardi, or coi Bizantini, e controversie fra il papa e i patriarchi
e i vescovi. In breve la pace incominciò a turbarsi anche nella Venezia
marittima.

La prima costituzione politica, il reggimento dei tribuni marittimi, fu
imitato dai Bizantini, sotto la sudditanza dei quali, sciolti ormai
dalla gotica, passarono i Veneti. Confermano ciò, tra le fonti più
antiche, la _Storia gotica_ di Procopio, le inscrizioni di Grado del
secolo VI, edite dal Filiasi e dal Mommsen, la _Storia dei Longobardi_
di Paolo Diacono e gli _Annali_ del franco Eginardo. Allorchè i
Bizantini perdettero le città più importanti della Venezia terrestre e
ritirarono anche dalle isole i loro eserciti, gli abitanti, non più
soggetti a un dominio immediato, elessero un libero reggimento militare
di tribuni.

Cessati i pericoli e la pietà e i ricordi delle comuni sventure,
incominciarono le rivalità fra le isole, più o meno importanti, fra i
tribuni maggiori e minori; poi sorsero contese sui confini o sulla
proprietà delle terre coi Longobardi vicini, si sentì necessario creare
nelle isole un capo unico, un duce, che il popolo, col suo liquido
eloquio, chiamò _doxe_, titolo ritenuto poi sempre e con lievi mutamenti
anche nella lingua e nelle relazioni internazionali. Al nuovo capo,
eletto a vita, podestà quasi da sovrano, ricchezza di redditi e di
insegne, pari alla dignità, spada, scettro e corona; ei giudice di liti
e datore di ecclesiastici benefici: a lui il popolo richiedeva perfino
la benedizione nelle adunanze solenni. Tuttavia le cause importanti
dovevano essere trattate nell'assemblea generale e non già dal doge come
sovrano assoluto.

Il primo Doge, Paoluccio Anafesto, con l'assenso o almeno senza
opposizione della Corte greca, fu, nel 697, in un'assemblea del clero,
dei tribuni e dei più notabili cittadini, eletto in Eraclea.

Paoluccio strinse coi vicini Longobardi un patto, il primo, di cui si
abbia memoria nelle storie veneziane, che determinò i confini dei due
Stati e le ragioni scambievoli dei commerci.

In Eraclea, la vita ci si presenta assai diversa da quella descritta con
idillica poesia da Cassiodoro. Abbiamo accennato come le varie isole
dell'estuario fossero asilo agli abitanti delle desolate città di
Altino, di Aquileia, di Padova, di Oderzo, di Concordia, di Vicenza. Ma
una buona parte di quei fuggitivi s'erano riparati in luoghi, dipendenti
anche prima del loro municipio, come Grado, ad esempio, che aveva fatto
parte della dizione aquileiese: altri invece erano venuti ad occupar
terre, sulle quali i padri loro non aveano mai avuto alcun diritto. Nei
primi tempi, la sventura comune non avea lasciato luogo a discutere i
diritti di ciascheduno, e poveri e ricchi, come dice Cassiodoro,
conviveano colà in eguaglianza. Ma quando tacque il timore dei barbari,
sorsero gelosie e contrasti di elementi diversi, tendenti a soverchiarsi
a vicenda. Le ire interne, rinfocolate ora dai Greci, ora dai vicini
dominatori della terraferma, diedero origine alle due parti veneto-greca
e veneto-italica. Di qui torbidi mutamenti di governo. Non più il doge,
ma l'annuo governo dei maestri dei militi. Dopo poco si ritornò ai dogi
e per togliere ogni gelosia si trasferì la capitale a Malamocco. Alle
rivalità dei maggiorenti, alle gare delle due opposte fazioni,
s'aggiungeano le discordie e le vendette del popolo, il quale, specie
quando il doge tentava rendere dinastico il potere vitalizio,
associandosi quale il figlio, quale il fratello, si ribellava, uccideva,
incendiava. È un fiero delirar di battaglie e di stragi. Nel 717,
Eraclea è assalita e messa a fuoco dagli abitanti di Equilio, che danno
morte al doge Anafesto e a' suoi fidi. Nel 737 il doge Orso è ucciso a
furore di popolo; nel 741, il maestro dei militi Giovanni Fabriciaco è
deposto e abbacinato; nel 755, Galla si ribella al doge Diodato, lo
imprigiona, lo accieca, e usurpa il ducato per poco più d'un anno,
trascorso il quale, il popolo insorge contro Galla e gli appresta la
stessa sorte, ch'egli avea procurata all'infelice antecessore. Nel 764,
i nobili macchinano le fila di una congiura, rompono in furibondo
partito, traboccan di seggio il doge Monegario e gli strappano gli
occhi. Nel 801, circa, il doge Giovanni Galbaio, fautore dei Bizantini,
manda il figlio a Grado, con una divisione della flotta, per
assassinarvi quel Patriarca, che inchinava invece ai Franchi. Il figlio
di Galbaio prende d'assalto la città, imprigiona il Patriarca e lo fa
precipitare dalla torre più alta del Castello. Ma, dopo tre anni, il
doge Galbaio e il figlio Maurizio debbono fuggir da Venezia per non
cader vittime di una congiura, ordita dal nipote dell'ucciso patriarca
di Grado. Il partito franco riacquista allora vigore ed è eletto doge
Obelerio. Così che non errava il Machiavelli affermando Venezia, forse
più d'ogni altro comune italiano dell'età di mezzo, aver provato il
furore delle fazioni.

Codeste terribili agitazioni doveano metter capo all'invasione
straniera. Ma Venezia, destinata ad accogliere le fatidiche memorie del
popolo italiano, escì salva dalle turbolenze, che ne comprometteano la
libertà e l'esistenza.

Obelerio, appena eletto al dogato, era andato, insieme col fratello
Beato, a Diedenhofen, dove allora teneva corte l'imperatore Carlo, per
rendere omaggio di sudditanza ai principi franchi, che agognavano il
dominio anche del veneto litorale. Ma ritornato in patria, quando una
flotta greca, sotto il comando di Niceta, approdò alle isole, il doge
infido, mutò intendimenti, accostandosi ai Greci. Allora, il figlio di
Carlo Magno, Pipino, con forte esercito e numerosa squadra di legni,
invase e distrusse gran parte del ducato veneziano, minacciando da
presso la capitale Malamocco. Nel supremo pericolo si accetta il
consiglio del nuovo doge Agnello Partecipazio, di rifugiarsi nella umile
isoletta di Rialto, ove erano le offese più pronte e le difese più
sicure. Pipino, dice la tradizione, vuol inseguire i fuggitivi: fa
costruire con sassi e fascine un argine, presso Rialto, e ordina ai suoi
cavalieri di avanzarsi. Ma i cavalli dei Franchi sulla strada malferma,
s'impauriscono, balzano di qua e di là nell'acqua, i Veneti piombano
colle loro navi sui nemici sgominati e ne menano tal strage, che a
quelle acque rimase il nome di _canale orfano_ per le famiglie franche
private de' loro cari. L'orgoglio nazionale ha abbellito coi colori
della leggenda la vittoria dei Veneti contro il primo usurpatore, che
osasse mettere il piede sul sacro suolo della patria. Le tenebre di
questa età tempestosa son come solcate da un bagliore dell'antica
gloria. E certo, in mezzo alle lotte fratricide di quei tempi, non
ispirate se non all'odio ed alla rapina, questa può anche dirsi la prima
vittoria italiana. E il nome sacro d'Italia, offuscato da tante
ignominie, era raccolto con tanta pietà sul lembo estremo della
penisola, nell'umile isoletta di Rialto. Ed era bene affidato.

Quella stessa incomposta ardenza dovea, per fatalità storica, mettere
capo a leggi di moralità e di giustizia; quelle lotte erano pur segnale
di molta ed esuberante vita, e per questa via si dovea compire la legge
del progresso veneziano. Quando invece sull'alba della vita popolare il
dispotismo di un tiranno mette il suo volere in luogo della libertà
popolana, la quale deve manifestarsi con tutti i suoi errori e tutti i
suoi eccessi, gitta i semi di rivoluzioni, che scoppieranno più tardi e
lascieranno turbamenti perenni. Così nella vita dell'uomo: alle
giovinezze agitate succede la seria virilità, laddove all'età matura
sono riservate le follie, che la gioventù non commise. La vita non
soffre violazioni.

A Rialto comincia la città nobile e grande, con lei e per lei stanno la
forza e l'avvenire. Rialto, che si denominava così o da un fiumicello
Prealto, o dall'importanza del canale o rivo, divenne il centro della
nuova potenza. In essa la sede vescovile, il porto e i magistrati,
_officiales de Rivoalto_. Per lungo tempo _Rialto_ significò _Venezia_,
laddove il dogato, l'antico Stato da Grado a Capodargine si chiamò
invece _Venecia_.

Della vittoria su Pipino manca la certezza storica: certo è che il
giovane re, disperando di soggiogare i Veneti nel sicuro asilo di
Rialto, fu costretto a ritirarsi. Da questo momento cessa nei Franchi
ogni idea di conquista su Venezia. Nel definitivo accomodamento fra
Carlo e l'imperatore d'Oriente, nei preliminari della pace di Aquisgrana
dell'810 e nella pace definitiva dell'812, Carlo rinunzia esplicitamente
ad ogni pretensione sulle isole della laguna, riconosciuta come
provincia dell'Impero d'Oriente. Col trasferire la sede del governo in
Rialto non si era voluto soltanto provvedere alla sicurezza dello Stato,
ma s'era anche obbedito all'alto concetto di raccogliere e fondere in
luogo senza anteriore importanza, gli elementi migliori di varia
origine, dispersi per l'estuario. La prima capitale Eraclea avea
rappresentato il predominio greco, poi Malamocco la tendenza verso i
Franchi. Rialto significava l'indipendenza, la patria libera da ogni
influsso straniero. E si sentì fin dalle prime che la nuova patria era
stabile e sicura. Bisanzio, è vero, esercitava ancora una azione su
Venezia: i dogi cercavano sempre a quella corte dignità e uffizî, troppe
erano ancora le relazioni scambievoli, troppi gl'interessi della vita
veneziana, maturata al caldo sole d'Oriente. Ma non era più che
un'azione di nome. Che poteva aver di comune, quale autorità esercitare
un Impero, nato nella mollezza, fra le ambizioni delle donne e le basse
adulazioni dei cortigiani, fra le lusinghe e le menzogne, e volgente
alla fine, svigorito dalla decrepitezza, con un popolo fiorente di
gioventù, ricco di giovanile baldanza? La vigorìa e la gioventù non
furono contaminate dalla vecchiezza e dal vizio.

Venezia passa dall'adolescenza alla giovinezza robusta. Gli stessi
scompigli dei primi tempi fanno prova di eccesso di vigoria, della
necessità di azione; di quella inquietudine che cerca trar fuori
l'ordine dalla confusione delle cose. Agnello Partecipazio (811), primo
doge in Rialto, assoda lo Stato, abbellisce la nuova sede, unisce con
ponti i sessanta o settanta dossi che formano la nuova città, bonifica i
terreni paludosi, crea un magistrato per assicurare i lidi dall'impeto
delle acque. Anche qui il primo pensiero è rivolto a Dio, anche qui
intorno alle chiese, quasi a cercare la solenne protezione del cielo, si
fabbricano le case. E le chiese non sono già, come nei primi tempi di
tavola e di canne, _fabricæ lignæ_, ma si costruiscono di pietra e si
abbelliscono di marmi e colonne. Giustiniano, figlio di Agnello
Partecipazio e collega nel dogato al padre, fra l'813 e l'820, fondava
per incarico dell'imperatore bizantino Leone, un monastero di donne
dedicato a san Zaccaria. L'imperatore mandò da Costantinopoli alcuni
architetti, perchè l'opera fosse condotta a termine il più presto
possibile. E, circa nello stesso tempo, il doge Agnello gettava le
fondamenta di quel palazzo, che dovea servir di dimora ai reggitori del
più gagliardo Stato d'Europa. Ma per mostrare come legami di sudditanza
non esistessero più col decrepito impero di Costantinopoli, la nuova
libertà è posta non più sotto il protettorato dell'antico patrono greco
Teodoro, ma di un Santo, congiunto ai sentimenti e alle aspirazioni
nazionali. Narrava una leggenda che l'evangelista Marco nel suo viaggio
da Alessandria ad Aquilea, colto da una bufera, era stato gettato sulle
isole realtine, ove un angelo gli era apparso salutandolo: _Pax tibi,
Marce, Evangelista meus_. E in suo fatidico accento, il messo di Dio gli
annunziava che là fra quelle isole, chiamate un giorno a meravigliosa
prosperità, avrebbero trovato pace le sue ossa.

La leggenda servì mirabilmente a quella specie di misticismo ufficiale,
che, come ben fu detto, nessuno Stato ebbe in grado maggiore di Venezia.
Tutto ciò che si riferisce all'innalzamento del tempio, dove, secondo
l'angelica previsione, dovea trovar riposo il corpo dell'Evangelista, è
come avvolto da un'aura di misteriosa poesia. Strano il modo con cui da
Alessandria furono trasportati nelle isole realtine i resti di san
Marco. Due mercanti, Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, nell'828
approdavano ad Alessandria, dove i cristiani erano perseguitati dai
musulmani, che spogliavano di quanto contenevano di più prezioso le
chiese, per adornarne moschee. Anche il tempio dove era la tomba di san
Marco dovea essere distrutto. I due mercanti veneziani poterono ottenere
dai sacerdoti greci quelle sacre reliquie, e per sottrarle alle indagini
dei gabellieri musulmani, le coprirono di carni porcine, avute in orrore
dagli islamiti. Recata quindi la salma sulla nave, spiegarono al vento
le vele, approdarono alla patria, fra le festose accoglienze del doge e
del popolo. La santa reliquia fu riposta in palazzo ducale fin che si
fondasse il tempio, in omaggio del nuovo protettore.

Sotto Giovanni Partecipazio, nella chiesa, ridotta a buon termine e
adornata di colonne e marmi finissimi, spoglie di vittorie sui Saraceni,
si trasportò il corpo dell'Evangelista, il cui nome fu invocato nelle
sventure, nelle gioie, nelle battaglie, nelle vittorie. E Venezia, che
diverrà una delle prime potenze denaresche d'Europa, quasi a bene
augurare de' suoi commerci, stamperà il busto nimbato di san Marco sulle
sue monete; e l'animale simbolico dell'Evangelista diverrà ben presto il
segnacolo glorioso della repubblica, e nell'edifizio, sacro e inviolato
sepolcro del Santo, si svolgerà una serie di avvenimenti, nei quali si
riassume quanto v'ha di più glorioso nella veneta storia.

Se Venezia potea dirsi indipendente dall'Impero bizantino, non avea,
d'altra parte, più a temere le forti razze del settentrione. Colla
potenza Carolingia, minacciosa un dì per la libertà veneziana, la
giovane repubblica potea ora trattare da eguale ad eguale. Lodovico II,
nell'855, si reca insieme con l'imperatrice, insino a Brondolo, presso
Venezia, per onorar di una visita il doge Pietro Tradonico, del quale
tiene al fonte battesimale un nipote.

Ma, fra tanta prosperità, le interne discordie non quetavano, anzi,
tratto tratto, prorompevano tremende, specie fra i maggiorenti. Le
famiglie più illustri vengono fra loro al sangue: i Giustiniani, i
Basegi, i Polani da una parte; gli Istoili, i Barbolani, i Selvo
dall'altra. Lo stesso doge Pietro Tradonico è trucidato, non già in
tumulto di popolo, ma per mano di congiurati, i cui nomi sono fra i più
illustri di Venezia: Gradenigo, Candiano, Calabrisino, Faliero.

Nè men sinistra quella luce di rivolte civili, che circonda la bieca
figura di Pietro Candiano IV, prima esigliato per l'indole fiera e
turbolenta, poi con voltabile giudizio, richiamato in patria ed eletto
al dogato. Ma presto, lasciato veder l'animo suo, prorompente ad ogni
maniera di prepotenza, fu fatto nuovamente segno alle ire di congiurati,
che lo assalirono nel palazzo dove trovaron fiera resistenza nelle
soldatesche straniere, messe a guardia del doge. Allora appiccarono il
fuoco alle case vicine. Quando le fiamme minacciavano al palazzo ducale,
Candiano fuggì per l'atrio della chiesa di San Marco, insieme col
figlioletto ancora lattante. I congiurati lo scoprirono, s'avventarono
su lui, implorante la vita, almeno, pel figlio. Risposero col sangue. I
corpi degli uccisi, lasciati per ludibrio insepolti, furono raccolti e
seppelliti da un Giovanni Gradenigo, uomo pio, aborrente da quei furori.

Altre contese sanguinose sorgono fra le due famiglie dei Morosini e dei
Caloprini. Un Morosini, mentre esce di chiesa, è trafitto da un
Caloprino. I servi, percossi d'orrore, non pensano a brandire le armi,
ma raccolgono il ferito e lo trasportano in un monastero, dove spira fra
le lagrime e i propositi di vendetta dei parenti colà riparati. I
Caloprini fuggono, chiedono asilo alla corte di Ottone II, che coglie
tale pretesto per assediare Venezia da ogni parte, perchè non le
giungessero vettovaglie e dovesse arrendersi. Venezia resiste e nel 983
si viene alla pace di Verona.

Più tardi, i Caloprini per intercessione dell'imperatrice Adelaide,
ottengono il perdono e il ritorno in patria. Ma gli odî non sono spenti
nei Morosini. Una sera, seduti in una barca, tornavano dal palazzo
ducale alle loro case, tre giovani Caloprini, allorchè, d'improvviso,
assaliti dai Morosini son trucidati con tal furore da farne schizzare il
sangue sulle rive vicine. I corpi sanguinosi dei trafitti furono portati
da un servitore fedele alla povera madre e alle vedove mogli.

Strano tempo e strane antitesi! L'odio a canto all'amore, la ferocia
alla mitezza; e sconsigliati impeti di plebe a canto a sottili e accorti
provvedimenti; e qui levarsi su nel limpido azzurro le bianche chiese e
là intorbidar l'aria il fumo degli incendi vendicatori; e dotar
monasteri dopo esser corsi alla rapina; e appendere a piè degli altari
le spoglie dei nemici; e innalzar preci dopo uccisioni e stragi. Ma sol
che lo straniero minacciasse ed offendesse la patria, le discordie
tacevano e tutti insieme i cittadini correvano alle armi, animati da un
volere comune.

È di questo tempo il celebre ratto delle spose veneziane, che ispirò la
poesia e le arti. È leggenda, è storia? I più vecchi cronachisti,
l'Altinate e il diacono Giovanni, vissuto tra il cadere del secolo X,
Martino da Canale, che narrò nel XIII, non ne parlano. Certo, a
quell'avvenimento vero e leggendario si dee l'origine d'una delle più
pittoresche feste veneziane. Non la storia soltanto, anche la fantasia
ha i suoi diritti: e l'indagine fredda non ha potuto cancellare dalle
pagine della storia questa tradizione di coraggio e di valore. Era
costume veneto, l'adunarsi delle fidanzate nella chiesa di Olivolo, il
dì secondo di febbraio, perchè dal vescovo fossero le loro nozze
benedette. Biancovestite, coi capelli disciolti, ornate di molti
gioielli, tenevano in mano una cassetta (_arcella_), contenente la dote.
I pirati slavi approdarono di soppiatto in Olivolo, irruppero nella
cattedrale, rapirono le donne, gli uomini e, secondo alcuni, anche il
vescovo e i preti, e si diressero verso Caorle, a un porto, chiamato
ancora _delle donzelle_, per dividersi le fanciulle e la preda. Ma i
Veneziani, rimessi dal primo sbigottimento, armarono in fretta alcune
barche e guidati dal doge, raggiunsero a Caorle i corsari, li
assalirono, li sconfissero e ritolsero loro le spose e il bottino. In
memoria di questo avvenimento fu instituita la festa così detta delle
Marie. Singolarissima e fastosa. La descrivono, tra altri, un documento
del 1142 e la Cronaca di Martino da Canale. Quei documenti parlano di
ricche compagnie di damigelle portanti vassoi e fiale d'argento, e
precedute da trombettieri, di lunghe file di chierici vestiti di
sciamiti d'oro e di damasco. Insieme col doge si recavano tutti al
tempio di Santa Maria Formosa. Dodici fra le più belle e le più giovani
donzelle, le Marie, acconciate molto riccamente con drappi d'oro e
corone di pietre preziose, erano presentate al doge e festeggiate poi
lungo il Canal grande. La festa durava dal 25 gennaio al 2 febbraio, fra
baldorie, regate e spettacoli d'ogni maniera. Così una delle prime e più
solenni feste civili dei Veneziani fu un omaggio alla donna.

Meno gentile, ma non meno singolare sarà la festa commemorante la
vittoria sopra Ulrico patriarca d'Aquileia. I Veneziani vittoriosi
trassero prigione il patriarca con dodici de' suoi canonici, _avendoli_,
dice Marin Sanudo, il principe dei veneti cronisti, _a farli tajar la
testa_. Ma, ad istanza del papa, furono rimandati, pur che il patriarca
dovesse inviare ogni anno, nel giovedì grasso, un toro e dodici maiali —
simbolo di scherno del patriarca e de' suoi canonici — per servir di
spettacolo alla moltitudine. E la festa del Giovedì grasso, in cui si
uccidevano il toro e i maiali, si rinnovò ogni anno con grandi
allegrezze e matte baldorie.

Il sommo della veneta potenza, nel periodo delle origini, fu raggiunto
sotto il dogato di Pietro Orseolo II. Ei ricondusse la quiete nella
fervida città, aggrandì, non impetuosamente, ma per gradi, lo Stato,
riescì, col valore, colla sagacia, colla costanza, ad accrescere e
consolidare la propria potenza. La mente avea fine ed aguzza nel trovare
ingegni a tenersi bene in arcione tra il Cesare bizantino e l'Imperatore
tedesco. Trionfò dei pirati narentani, guerreggiò gli Slavi, conquistò
la signoria delle città marittime della Dalmazia, tramandando ai
successori il titolo di doge della Dalmazia, liberò l'Adriatico dai
Saraceni, che l'infestavano. A buon dritto potè il doge, in appresso,
commemorando tali conquiste, sposare il mare con la cerimonia più
splendida di tutte le feste veneziane. Nè le arti della pace erano
trascurate dal gran doge. Compì una parte della basilica di San Marco
nel 1006, e quel turrito palazzo ducale, dove ospitò l'imperatore Ottone
III, che ammirò, a quel che ne dice il diacono Giovanni, cappellano del
doge Pietro, la bella e decorosa fabbrica. Dopo un secolo, sotto
Ordelafo Faliero, si gettavano le basi di quell'Arsenale, che fu il più
vasto d'Europa, e che ricordano tutti, più ancora che pei suoi fasti,
per la stupenda descrizione di Dante — tanta è la potenza dell'arte.

Nel secolo XI, può dirsi veramente fondata la marittima signoria di
Venezia, e l'Adriatico incominciò da questo tempo a considerarsi come un
lago della repubblica. _La libertà e il vero spirito dell'antica Roma
qui continuavano in tutto il loro vigore_. Questo giudizio non è di
qualche storico piaggiatore, ma d'una delle anime più nobilmente fiere,
che sieno mai passate pel mondo: Ildebrando. Di tanto fe' degna Venezia
ardor di speranze e tenacia d'intendimenti. E il meraviglioso espandersi
della possanza guerresca e civile si accompagna all'avanzamento dei
commerci. Alle inquietudini interne, alle agitazioni civili succede la
forte serenità. Vivissimo il commercio. Nelle vecchie carte si parla
sovente di carichi di mercanzie pel valore di 150,000 ducati d'oro, di
navi _cum raxon de drapi, telle et altre cosse de valor de ducati
200,000_. E si noti che erano in gran parte piccoli legni, perchè tutti
voleano trafficare, tanto che il governo prescrisse con decreto le
proporzioni più piccole di uno scafo per avventurarsi in mare.

Nè men fiorenti le arti e le industrie. — Venezia ha, fin dai secoli più
remoti, fonderie di metalli, fabbricatori d'organi, officine di
tessitura, di tintoria, di vetreria, fabbriche di sete, lini, velluti,
broccati. Le antiche chiese, specie quelle di Grado e di Torcello,
scintillavano di mosaici. Negli Annali di Eginardo, si ricorda, all'anno
826, Giorgio, prete veneziano, chiamato in Aquisgrana, per la sua
abilità nel costruire organi. Orso I Partecipazio, asceso al trono
dogale nell'864, mandò in dono a Costantinopoli dodici campane, e Pietro
Orseolo II, fatto doge nel 991, fe' regalo a Ottone III di una tazza di
fino lavoro di due troni rivestiti di lamine d'avorio e di una tazza
d'argento. Non si può dire che in egual fiore fosse la cultura
letteraria, se due documenti sono da due dogi, Pietro Tradonico e
Tribuno Memo, firmati così: _Signum manus domini excellentissimi Petri
ducis_ e _Signum manus Tribuni ducis_. Ma fra quel pratico e operoso
popolo di navigatori e di trafficanti non potevano aver culto se non le
arti, che al dolce unissero l'utile. E tali arti andarono a mano a mano
meravigliosamente avanzando.

Martino da Canale, narrando l'incoronazione di Lorenzo Tiepolo, nel
1256, descrive con pittoresca efficacia la sontuosa processione delle
Arti veneziane: primi venivano i fabbri col loro gonfalone e con
ghirlande in capo: poi i pellicciai riccamente addobbati di armellino e
vaio, di sciamito e zendado. Seguivano, cantando, accompagnati da
trombe, portando coppe d'argento, i tessitori; i sarti in veste bianca a
stelle vermiglie: i fabbricanti di drappi d'oro e di porpora, con
cappucci dorati in testa e belle ghirlande di perle; e via via i
lanaiuoli, i barbieri, i vetrai, gli orefici. Gli orafi specialmente
raggiungeano la dignità d'arte più squisita in quei piccoli capilavori
di imagini, imitate dai bizantini, in quegli ornamenti d'oro e perle, di
cui è perfino menzione nel testamento del doge Giustiniano Partecipazio
dell'829, e in quelle catenelle d'oro, preferito ornamento sì delle
gentildonne come delle popolane venete. Cito questo lieve, ma non
insignificante particolare. Nel 1225, Federico II, il grande sovrano e
il grande artista, ordina a un orafo di Venezia una _zoia_, un gioiello.

In questo periodo delle origini, la città ha un aspetto singolarissimo.
Questa maravigliosa zattera di sabbia e di fango è indefinibilmente
strana per forma e non rassomiglia ad alcun altro paese. Il Sannazaro,
nel tempo in cui Venezia, un po' invecchiata, incominciava a porgere
ascolto benigno alle bugie dei poeti, scrisse un epigramma, che gli
fruttò cento scudi per ciascun verso (i versi erano però sei soltanto) e
nel quale, comparando Roma a Venezia, conchiude col dire che quella fu
fabbricata dagli uomini, questa dagli dei.

    _Illam homines dices, hanc posuisse deos._

Nulla di più poeticamente menzognero. Venezia fu fatta dai Veneziani. Il
nume indigete erano la forza, l'operosità, il vigore, il coraggio,
l'ardore di quei profughi intrepidi. Per voi, ad esempio, o signori, la
patria è un dono, uno splendido dono di Dio — pei Veneziani è l'opera
dell'industria umana. Entro questo vostro divino anfiteatro di colline,
rigate dai canali freddi e molli, fra la magnifica pompa della verzura e
dei fiori, palpita una dolce vita, dove hanno sorrisi tutte le cose,
viventi nella felicità di un'armonia serena, armonia dei colori e della
luce, del suolo e dello spazio. Qui l'opera dell'uomo è un sublime
commento all'opera della natura, e l'arte temperata al sentimento
dell'aere circostante, assume una elegante semplicità e compostezza di
linee, una nobiltà morale di forme che riposa l'animo e contenta
l'occhio. La cupola del Brunelleschi, il campanile, la loggia dei Lanzi,
Orsanmichele sono come il compimento di Bellosguardo, di Fiesole, di
Monte Oliveto, di San Miniato, e le linee del paesaggio con quelle degli
edifizî si fondono nel comune accordo. Venezia invece, eretta sur un
labirinto di secche e di paludi, sovra un piano di acque e di alghe,
dovea rispecchiar nell'aspetto, fin dall'origine sua, i capricci
imaginosi dell'uomo, non già l'impero della natura esteriore. Guardate
San Marco, il prodigio dell'architettura veneziana! È una sublime
bizzarria. I rosoni, i rabeschi, gli intrecci, i pinacoli slanciantisi
al cielo, presentano l'aspetto di una lussureggiante vegetazione di
pietra. Le arcate a trifoglio, le aguglie traforate, l'innesto dell'arco
acuto sul bizantino, tutta l'opera fine, con la sua ricca veste di
sculture e di cesellature, colle sue armonie e co' suoi disaccordi,
sembra una vasta sinfonia nel marmo. Nessuna licenza è vietata; simboli
di tristezza macilente e di florida giovinezza, figure misticamente
rigide e mondanamente voluttuose, vergini e martiri assorti in visioni
serafiche, e angeli e beati, vivificati da idee terrene, mostri e
chimere del paganesimo a canto ai santi del cattolicesimo. — Tale
Venezia. — Percorrendo il Canal grande, ci passano dinanzi fantastiche
architetture bizantine, palazzi di stile arabo-archiacuto simili a trine
di marmo, edifici del Rinascimento corretti e severi, moli maestose
della decadenza dalle bugne massicce, dalle cornici ponderose. Qui
l'architettura non ha tradizioni e, tra gli splendori del cielo e le
iridescenze delle acque, cresce mobile, varia, fantastica, come le tinte
dei tramonti, come i riflessi delle lagune. Nessuna città è passata per
più diverse forme.

L'imaginazione può compiacersi senza allontanarsi dal vero, a
raffigurarsi così l'aspetto di Venezia adolescente. Quelle sporgenze dal
fondo lagunare, su cui era sorta la città, si chiamavano con varî nomi:
_dossi, scanni, barene, tombe, velme_. Eretta una casa sopra una palude,
si chiedeva al governo di estendervisi con interrimenti. E il tributo
per la concessione, era alcune volte un bel paio di guanti di camoscio
pel doge. I canali (_rivuli_), che s'incrociavano in ogni parte e si
chiudevano per sicurezza con catene, erano fiancheggiati da alberi. Si
attraversavano i ponti di legno di brevissimo arco, senza gradini, si
seguivano strade lungo i canali, chiamate _fondamenta_ o _junctoria_, si
entrava in certe piazzette anguste (_campielli_), per certi chiassuoli
stretti (_calli_) e si riesciva all'aperto dinanzi a qualche largo
specchio d'acqua (_piscina_), a seni, a sbocchi, oppure fra verdi prati
(_herbidi piani_), dove pascevano armenti, o in mezzo a folti boschetti.
La piazza di San Marco si chiamava _brolio_, ossia orto, perchè
ricoperta d'erba e piantata d'alberi. Apparivano qua e là saline in
muratura, e incassati tra argini e canali stendevano i raggi delle loro
ruote i molini, chiamati _acquimoli_. Si camminava sul nudo terreno: i
cavalli correvano per la città, e i porci dei monaci di sant'Antonio
grufolavano continuamente per le vie — _sub specie et reverentia Sancti
Antonii vadunt per civitatem_ — diceva un decreto del Maggior Consiglio.
Le case erano, nei primi tempi, coperte di tavolette di legno o di
paglia e alcune non aveano altra via che d'acqua. Ogni magnificenza era
riservata ai pii edifici e alla dimora del capo dello Stato. E fra le
case e sopra i tetti, nettamente intagliate nel pieno azzurro, vele,
antenne, cordami. Poi prospetti lontani di altre case e di altre vele, e
sullo specchio tranquillo della laguna le svelte navi — le _zalandrie_,
i _dromoni_, le galee — il cui solo nome, il solo ricordo, ci svegliano
nella mente la visione della gloriosa epopea marinaresca delle città
italiane. Squadre intere di navigli, che toccavano i porti dell'Asia e
dell'Africa e scorrevano i mari del Nord; naviganti che, con la
sicurezza della forza e il presentimento della gloria, spingeano la
prora così fra le acque su cui si riflette il sole d'oriente, come fra
le sconfinate solitudini brumose del settentrione; marinai che passavano
a traverso mari inesplorati e toccavano terre ignote, fra gli ostacoli
della natura e i più perversi ostacoli degli uomini, fra grida alzantisi
nello spazio a osannare al trionfo e urla imprecanti inutilmente alla
morte — intrepide avanguardie del progresso umano, della civiltà
moderna, della gloria italiana.

Una sola città avrebbe potuto rivaleggiar con Venezia e metterne in
dubbio il primato: Amalfi. Alla città surta là dove il monte cala, lieto
di verzura e fiorente di messi, al mare, accorrevano d'ogni fatta
stranieri. La descrizione di Amalfi fatta da uno scrittore, a cui la
poesia non fa velo alla verità del giudizio, Guglielmo Apulo, non ha
nulla da invidiare alle condizioni di Venezia nei tempi più prosperi.
Straricca di tesori e frequente di popolo: le case piene d'argento, di
stoffe d'oro, di tessuti di seta. I suoi marinai, noti in tutto il
mondo, san farsi strada sulle onde, in mezzo ai venti e alle tempeste.
Le merci che escono da Alessandria d'Egitto e dalla città d'Antioco
sull'Oronte, affluiscono tutte alla spiaggia d'Amalfi. Non v'ha porto in
Arabia, nella Libia, in Africa, o nei paesi della Sicilia, che non sia
stato visitato dall'Amalfitano. Ma fu luce rapidissima, come fu
passeggero lo splendore di Napoli, Gaeta, Sorrento, signore dei mari,
ben prima che dalle ruine dell'antica grandezza greco-romana
risorgessero le repubbliche di Pisa, di Genova e di Venezia. In sui
primordi del secolo XII, la libertà e la prosperità amalfitana furono
spente dalla violenza di quegli eroici avventurieri normanni, a cui
nulla omai più resisteva in Italia, nulla, tranne Venezia, la quale con
la giovanile energia delle sue forze, dopo una fierissima guerra, durata
tre anni con varia fortuna e finita nell'agosto del 1085 colla presa di
Durazzo, salvò dai Normanni il decrepito Impero bizantino, ottenendone
in compenso privilegi importantissimi, nuovi possedimenti, libertà
assoluta di traffico e perfino un quartiere distinto in Costantinopoli
stessa.

Qui Venezia si trova di fronte ad altre due città marittime, che
andavano anch'esse crescendo in potenza, e alle quali la fortuna della
rivale non poteva non destare sospetti e antagonismi, scoppiati poi in
sanguinose discordie.

Pisa non era una nuova venuta. I documenti della sua nobiltà risalivano
all'antica civiltà etrusca, alla grandezza romana. Risorta dopo
l'invasione barbarica, ebbe a combattere i Saraceni. Ma il valore delle
armi non si scompagna agli accorti maneggi del commercio e ai provvidi
ordinamenti civili. Il dominio della contessa Matilde fu più di nome che
di fatto e non impedì il libero svolgimento della libertà, fecondatrice
di ricchezza e benessere materiale. E quanta fosse la sua floridezza
commerciale, provano le parole del monaco Donizone, il quale, nel suo
ascetico fanatismo, vede i navigatori pisani trasformati in mostri
marini e la città insozzata da male generazioni di Pagani, Turchi,
Libici, Parti, e le sue spiaggie corse dai Caldei.

Dopo aver combattuto contro la vicina Lucca, Pisa combattè pel possesso
della Sardegna contro Genova.

Difficili i primi passi di Genova, umili le origini: trafficare coi
porti vicini, combattere i predatori saraceni e normanni. A poco a poco,
a nuovi commerci nuovi lidi. Fin dal 958, essa gode della sua libertà,
non funestata mai da capricci superbi di conti, di marchesi, di duchi,
ai quali tutti il trattato di Berengario II e di Adalberto vietano di
porre piede nella città. Prosperano le compagnie cittadine belligere e
trafficanti. Da prima, insieme coi Pisani, Genova strappa ai Mori la
Sardegna, ma ben presto le armi consociate diventano fratricide, e la
guerra fra le due città dura sessant'anni.

Ad accrescere la ricchezza e le rivalità delle città marinare d'Italia
giungono le crociate.

È opinione comune che tra le prodezze irreflessive, ma generose delle
crociate, Pisa, Genova e, in ispecie, Venezia, non abbiano cercato che
l'interesse ed abbiano fatto servire una grande idealità religiosa ad
ottener dovizie materiali, ad aprir nuovi scali al commercio. Certo, fra
quei tre popoli non apparve l'ascetismo feroce, nè il principio di
autorità dogmatica, soccorritore del feudale e del dinastico, ma la
religione fu sentita e intesa fra quelle genti, nè fu ipocrito pretesto
di mercantili speculazioni. Vi sono popoli credenti e pratici a un
tempo, come l'inglese e il veneziano. Sono sinceri in tutti e due gli
atteggiamenti della loro esistenza, e perchè sinceri colgono i frutti di
ambedue queste attitudini dello spirito. Il missionario inglese, quando
con la Bibbia, tradotta in tutti gli idiomi asiani e africani, s'avanza
in regioni ignote a spargere la santa semente del verbo di Dio, è
profondamente sincero e devoto al suo ideale fino a rifiutare per esso
la vita. Ma, superate le difficoltà, egli è egualmente convinto di
servire alla sua patria mutando l'evangelista in negoziante, segnando la
via ai cotonieri del Lancashire e qualche volta, e Dio gli perdonerà, ai
fabbricatori di _brandy_ del suo paese. Così Venezia: devota a Cristo,
si sentiva bensì accesa di zelo religioso per la liberazione del Santo
Sepolcro, e, all'infuori di ogni pensiero mondano, palpitava nella
isoletta di Rialto, come il grande signore di Francia e di Lamagna nel
suo maniero. Ma a canto all'imagine di Gesù crocifisso, i signori dei
mari intuivano tutti i nuovi orizzonti di traffichi e di colonie e vi si
fisavano con amoroso zelo. E in quel connubio di palpiti cristiani e di
mercantili disegni, si accordavano la religione con l'industria,
l'ascetico col mercadante, e l'imagine di Gesù liberato si adornava di
tutte le opulenze della nuova vita economica. Così erano, o signori,
anche i vostri antenati. Credenti, mercadanti e diplomatici a un tempo,
mistici e positivisti, i lucri guadagnati negli arditi commerci
consegnavano alla divinità e dai banchi uscivano gli artefici, che
erigevano i vostri insigni monumenti. Così la nostra storia prova come
sia vano, sterile e oseri dire irreligioso, un ascetismo monastico
orientale, che si consuma ne' suoi malaticci idealismi, e come, alla sua
volta, conduca a ruina una sete di lucro, che non si temperi, non si
legittimi e direi quasi non si purifichi in queste aure salubri della
idealità. Quanto diversi, o signori, dai coloni italiani del nostro
tempo, i quali, senza ideali religiosi e senza disegni di utili
operosità, si avventurano in luoghi, che nè i nostri antichi apostoli,
nè i concittadini di Marco Polo e di Colombo avrebbero eletto a sede di
colonie. Il che dimostra appunto, perchè ci fa difetto il modo di
scegliere con infallibile rettitudine di giudizî, quanto ci manchi e
quanto siamo lontani dalla sana idealità e dall'avveduta operosità dei
nostri maggiori. Oh! non disputavano a Venezia sulla fecondità e
sull'avvenire delle grandi colonie che occupavano, come non disputavano
a Genova su quelle del mar di Marmara e del mar Nero. Le opime spoglie
che ne traevano non consentivano i dubbi dolorosi, che s'odono nei
nostri parlamenti.

Ma, siamo giusti, ciò che ai nostri maggiori mancava era il senso della
concordia. I vicini interessi e le comuni imprese fecero scoppiare più
fieri i dissidî fra Pisa, Genova e Venezia.

Intanto da una straordinaria impresa era agitata quest'ultima città.
Quando Innocenzo III tentò ravvivare la santa guerra, i crociati
francesi si rivolsero, per ottenere il navilio, a Venezia. Era allora
doge Enrico Dandolo, vecchio ottuagenario, a cui gli anni e la debole
vista accresceano l'ardimento e l'energia; indole tenace e impetuosa e
nello stesso tempo astuta e dissimulatrice. Egli accettò le proposte, ma
prima di accingersi all'impresa, volle avere l'approvazione del popolo,
ch'ei fe' radunare nella chiesa di San Marco, _la plus belle que soit_,
come la chiama Goffredo di Villehardouin, uno di quei crociati. I
cavalieri di Francia dalle armi corrusche, i veneti patrizî dalle vesti
gravi e maestose dell'Oriente, il popolo dalle fogge variopinte, si
adunarono sotto le cupole dorate dai scintillanti mosaici, fra quella
strana architettura di colonne superbe sovrapposte a colonne, tra le
effigie mirabili e i marmi preziosi.

Il vecchio doge, in luogo eminente, indossava una tunica purpurea, un
manto affibbiato con borchia d'oro e un corto bavero d'ermellino. Parlò
Goffredo di Villeardouin pregando Venezia ad accompagnare i baroni
francesi a vendicare l'onta di Gesù. La voce di quel guerriero
entusiasta si alzava trionfante come un inno, ricercava le fibre più
intime di quei cuori, finiva addolcendosi in una prece, nella quale
passava il puro alito della fede. Allora da più di diecimila petti un
grido s'alzò sotto le vôlte dorate della chiesa e il doge e i legati
francesi giurarono sulle loro spade. Ma quando furono pronte le navi,
non trovando i baroni di Francia, tutta la somma stabilita pel
passaggio, Enrico Dandolo propose loro, in luogo di soddisfare intero il
debito, di riconquistare insieme coi Veneziani la città di Zara
ribellata. La proposta fu accettata, e, dopo poco tempo, Zara cadeva.
Durante l'assedio si presentava ai crociati Isacco, imperatore di
Costantinopoli, spodestato da un usurpatore, chiedendo aiuto per
ricuperare il trono. Papa Innocenzo, che avea con ogni possa cercato
d'impedire l'impresa di Zara, scagliando perfino i fulmini apostolici,
ora secretamente favoriva la spedizione di Costantinopoli, vagheggiando
l'unione della Chiesa anche in Grecia. Avea finito col trovare gli
opportuni ripieghi sacerdotali, concludendo con un pensiero degno della
politica odierna: _necessitas, maxime cum insistitur opere necessario,
multum et in multis excusat_. E poi troppo recenti erano le greche
perfidie contro la repubblica di San Marco, perchè ogni veneziano non
sentisse in cuore il desiderio della vendetta. Non erano ancor vive le
generazioni che aveano veduto il fedifrago imperatore gettar un giorno
in carcere tutti i Veneziani, che avea potuto prendere ne' suoi stati? E
il valore dei Veneti, condotti da Vitale Michiel non era stato reso
impotente dalle inique arti dei Greci? E non si era tentato di perdere
coll'inganno più infame lo stesso Enrico Dandolo, che in Costantinopoli
avea tentato di salvare l'onore della patria? Non erano le leggi e i
trattati arbitrariamente violati dalla corte bizantina? D'altra parte, e
i documenti attestano ciò, il Pontefice e il Doge si accordavano nel
pensiero che la sommessione di Costantinopoli potesse agevolare il
conquisto di Terrasanta. Fu stabilita l'impresa e compiuta; ma poco
stante, in seguito a nuove rivoluzioni e intrighi di palazzo, i crociati
vennero a rottura coi Greci, e Costantinopoli fu presa per la seconda
volta. Quando il gonfalone di San Marco sventolò sulle mura di
Costantinopoli, i Greci fuggirono spaventati, fra il confuso rumor
d'armi e di grida, unito al frastuono orrendo di urla, di gemiti, di
pianti. E il Papa, plaudendo agli eventi fortunati, scriveva ai vescovi,
abati e duchi dell'esercito: _sane a domino factum est istud et est
mirabile in oculis nostris_. E dimenticò Terrasanta.

“Dalla creazione in poi non v'ebbe più larga preda„ scrisse il
Villehardouin. Immense ricchezze e preziosi oggetti d'arte furono
salvati nella generale rapina, e trasportati in patria dai Veneziani:
quadri, statue, gemme con cui arricchirono la pala d'oro e il tesoro di
San Marco, e i quattro celebri cavalli di rame dorato che, trasportati
da Chio, dall'imperatore Teodosio II, a ornare l'ippodromo di Bisanzio
furono posti sul pronao della basilica veneziana.

La forza di Venezia imperava ormai sull'Oriente. All'interno potea dirsi
secura, coi nuovi ordinamenti politici, per mezzo dei quali si svolgeva
la sua attività, colla legge che impera e custodisce, colla concordia
che fortifica e rafferma. Sottratta già da lungo tempo al popolo la
dogale elezione, chiuso a chi non fosse nobile, il governo, s'era
consolidato quel reggimento di ottimati, grande anomalìa fra due cose
normali, il governo cioè di tutti e quello di un solo che tutto eguaglia
in una comune tirannide, quel reggimento di ottimati che salvò
l'indipendenza veneziana. Costituzione non certo desiderabile oggi, ma
per quei tempi ammirabile, e che illuminò del suo raggio uno dei periodi
più gloriosi della libertà fiorentina, quando, tenendo gli occhi fissi a
Venezia, fra Girolamo Savonarola, Paolo Antonio Soderini, Francesco
Valori e altri magnanimi volevano garantire la nuova indipendenza,
affidando la somma delle cose ai migliori dei cittadini, ai
_benefiziati_, e instituendo il Consiglio grande. Il tentativo fallì,
poichè la tenacia del volere non fu pari all'altezza degli intendimenti.

Delle due forti rivali di Venezia, Pisa in breve non fu più da temersi.
La sua potenza s'infranse allo scoglio della Meloria e sulla bella e
sventurata città aleggiò l'arte, supremo conforto. Quando l'età delle
forti imprese si oscura, s'inalba luminosa quella delle arti.

Restava Genova, nè il vessillo di San Giorgio volle per lungo tempo e a
niun patto piegare dinanzi a quello di San Marco. Lunghe e accanite le
guerre, brevi le tregue, per ripigliar lena a nuove battaglie,
combattute con varia fortuna.

Nel 1256, i Liguri spogliano le navi veneziane nel porto d'Acri e
saccheggiano il quartier veneziano. Lorenzo Tiepolo corre alla vendetta,
con gran numero di navi e coll'aiuto dei Pisani, spezza la catena del
porto, preda e arde le navi nemiche, penetra nella città, incendia il
quartiere dei Genovesi ed espugna il castello di Mongioia. Invano i
Genovesi tentano riannodare le forze: il Tiepolo, presso a Tiro, li
sbaraglia una seconda volta; poi non lungi da Acri stessa, li sconfigge
nuovamente con più sanguinosa battaglia.

Nel 1261, la gelosia ligure rialza il trono greco a Costantinopoli. Vi
si oppone Venezia e ne vien nuova guerra, finita colla rotta dei
Genovesi nelle acque di Trapani.

Una fiera rivincita prese Genova a Curzola, quando, sotto il comando di
Lamba Doria, un minor numero di galee vinse i Veneti condotti da Andrea
Dandolo. Il Doria trasse seco a Genova 5000 prigioni. Marco Polo fra
questi. Lo sfortunato ammiraglio di Venezia die' di cozzo nell'albero
della sua nave e morì....

Ma a che oggi riandare la serie di questi gloriosi delitti? Nel
camposanto di Pisa, in quella dimora di morti, dove palpita tanta parte
di storia italiana, stanno appese, non già trofeo di ire fraterne, ma
segno perenne di fraterno affetto le catene del porto di Pisa, dai
Genovesi prese e donate ai Fiorentini. Nell'affetto sereno della patria
unificata, Firenze e Genova vollero restituite a Pisa quelle catene,
come augurio d'invitta concordia fra le città italiane, pegno e
segnacolo di un'êra novella.

Ora una luce irradiano quei torbidi ricordi di storia italiana, luce di
fraternità e di pace.



LE ORIGINI DEL COMUNE DI MILANO

DI

ROMUALDO BONFADINI


Lo studio delle origini — è bene saperlo prima di mettersi in via —
rappresenta per lo spirito piuttosto una fatica che un diletto.

La scarsità delle fonti, la cronologia difficile, l'ermeneutica
capricciosa obbligano a lunghe indagini, a laboriose induzioni, per
istabilire quello che si suole chiamare la verità storica e che, nella
maggior parte dei casi, si limita ad essere la congettura più
verosimile. E d'altra parte, urtano così fieramente coi nostri i
costumi, i sentimenti, le leggi di quell'epoca buia, che il piacere dei
paragoni scompare, e la stessa immaginazione si stanca a cogliere e
ricomporre la continuità dei contorni in quelle figure, di cui la storia
non può dare generalmente che tratti incompleti, interrotti, sfumati nel
tipo morale e nelle particolarità dell'azione.

Però, v'è un aspetto del problema che può mitigar la fatica di questo
studio. È una soddisfazione di pensiero che non può sembrar vana al
filosofo, se anche lascia indifferente l'artista. Poichè nello studio
delle origini assai più che nello spettacolo delle decadenze l'orgoglio
dell'umanesimo trova ragion di affermarsi.

Le origini non sono altro, storicamente, che i periodi nei quali le
istituzioni umane, di qualunque natura, passano dallo stadio anarchico
ad una forma organica. Ora, difficilmente questa trasformazione si
manifesta, senza l'impulso della virtù. Virtù d'uomo o virtù di popolo;
genio di individui o istinto di moltitudini; energia d'iniziative,
quand'anche macchiate dalla fatalità del delitto, o devozioni di
concordia, quand'anche rese inefficaci da difetto di previdenza.

Il fenomeno può dirsi costante, in quanto si riferisca alle origini dei
poteri pubblici, siano monarcati, comuni e repubbliche. Sembra quasi che
la Provvidenza abbia voluto imprimere a questi periodi, che rasentano in
certo modo lo sforzo della creazione, quel carattere di grandezza che
necessariamente segue o circonda i creatori. Così, non si può pensare
alle origini della monarchia francese senza risalire a quel Carlo
Martello, che rimane nelle fantasie popolari come il tipo del guerriero
nazionale invincibile. Ruggero il normanno e Umberto Biancamano dominano
della loro fiera e simpatica personalità le origini dei due maggiori
principati italiani. Nè la fondazione della monarchia spagnuola può
disgiungersi da quel generoso nucleo di patrioti, raccoltisi con Pelagio
sui monti baschi a costituire il battaglione sacro della resistenza
nazionale. Nè la storia grande della repubblica di Venezia può farci
obliare quell'energico esodo di pescatori che giurano di mantenere,
sulle palafitte di Rialto, la loro libertà insidiata dalle orde
conquistatrici della terra-ferma.

È sopratutto nel secolo undecimo che l'Italia vede sorgere a vita
organica parecchie delle sue agglomerazioni politiche. Prima del mille,
qualche tentativo di ricostituzione serve quasi unicamente a confermare
lo stato di dissoluzione in cui langue tutta la penisola. Non s'è ancora
dimenticata l'ultima violenza delle invasioni barbariche ed ecco
sopraggiungere a disgregare ogni compagine sociale la preoccupazione del
finimondo. Le lotte civili, accanite negli ultimi tempi, vanno perdendo
d'intensità, non perchè scemi l'abitudine delle offese, ma perchè tutti
sono intenti al pericolo della fine suprema, che le profezie popolari
hanno segnalato.

Come il feudo era stato lo strascico della conquista, così il beneficio
ecclesiastico diventa lo strascico lasciato dalla paura del finimondo.
Le autorità secolari, che non possono garantire la vita eterna, perdono
d'influenza; ne acquistano a dismisura le autorità chiesastiche, nelle
cui mani stanno le chiavi del perdono e della salvezza. Così il potere
politico viene a poco a poco assunto dagli arcivescovi, contro i quali
non hanno più forza i conti e i duchi, lasciati dai conquistatori
stranieri a rappresentanti dell'impero feudale nelle città. Le donazioni
arricchiscono preti e monasteri, che dalla ricchezza traggono facile
stimolo alla corruzione. Ed ecco preparate le due questioni che nel
secolo undecimo agiteranno l'Italia. La lotta per le investiture e la
riforma disciplinare del clero. Nè dal mille è lontano Gregorio VII, che
di entrambe le questioni sarà nel tempo stesso il più formidabile
campione e la più illustre vittima.

Senonchè il pauroso millenio è superato senza catastrofi e il mondo
comincia ad acquetarsi nel pensiero della propria continuazione. Che
cosa accade? che i pochi, fatti potenti dalla superstizione, mirano a
rassodare e rendere più completo il loro dominio; che i molti, costretti
a vivere dopo aver creduto di morire, rimpiangono la cecità loro e le
sostanze stremate; che il disagio turba profondamente le classi
popolari, le quali escono dalla crisi, sentendosi sul collo il giogo
rinnovato di due tirannie. Intanto ricompaiono le discordie intestine,
le lotte feudali, che soltanto il timore della distruzione universale
aveva frenate. Le ingordigie e le violenze si danno ad eccessi tanto
maggiori quanto più lunga è stata l'epoca della loro forzata inazione.
In questa ridda di passioni scompare ogni benessere di plebi, ogni
generosità di ottimati; la legge è fatta ludibrio nelle mani di ogni
forte; e il forte di oggi diventa lo sconfitto del giorno dopo. Tutto
questo ha un solo risultato, una sola caratteristica, un solo nome: è
l'anarchia.

Di qui nasce, nel secolo undecimo, quella reazione salutare che dà vita
ai principati ereditari ed alle repubbliche comunali. Così l'una come
l'altra forma organica è accetta alle moltitudini, delle quali
ordinariamente soltanto il caso dispone. Poichè non bisogna illudersi
che alle costituzioni cittadine del secolo undecimo abbia spinto un
prepotente bisogno di libertà. Il bisogno prepotente era l'ordine, era
la fine dell'anarchia. Dove il genio o la prepotenza d'un uomo bastasse
a dare questa sicurezza di governo organico, le popolazioni accettavano
anche la tirannia d'un solo, purchè le liberasse dalla tirannia dei
molti. Se l'uomo mancava, o il genio non faceva perdonare la prepotenza,
le moltitudini cercavano alla libertà il modo di vincere l'anarchia. Ma
ci sono voluti dei secoli — forse ce ne vorranno ancora — perchè la
libertà, accettata come il veicolo di un beneficio, diventasse un
beneficio per sè. Quelle moltitudini, che nel secolo undecimo avevano
saputo disciplinare gli ordigni della libertà, non esitarono a romperli,
quando appena un'impressione momentanea portava verso altri orizzonti
l'animo loro. La storia può essere interpretata, ma alla storia non può
sostituirsi il desiderio. Il vero è che nei nostri grandi Comuni, se
della libertà mancò rare volte l'intelligenza, quasi sempre mancò
l'amore. Il vero è che nel sagace desiderio dell'ordine, le moltitudini
italiane oscillarono spesso e spontaneamente fra i poteri autonomi e i
principati sovrani. Poichè non sempre furono i tiranni che strozzarono
le libertà; qualche volta le libertà si sono umiliate ai tiranni.

                                 *

Una riprova di queste induzioni la si troverebbe con poco sforzo nella
storia di uno dei maggiori municipi d'Italia; di quello che per la sua
giacitura ha subìto prima degli altri, e forse più gravemente d'ogni
altro, lo storico avvicendamento delle invasioni, delle liberazioni e
delle tirannidi.

Intendo parlare di Milano.

Al principio dell'undecimo secolo Milano era forse una delle più
popolose città d'Europa, e, senza forse, la più popolosa d'Italia. Era
già stata a quell'epoca due volte nella polvere e due volte sugli
altari. Nel secolo quarto, come sede del Vicario d'Italia, era
considerata la seconda città dell'impero Romano. Il ferocissimo Uraja,
condottiero dei Goti, vi sterminò più di 30 mila abitanti e fece della
marmorea città un mucchio di rovine. Per tre secoli Milano sparisce
quasi dalla storia e perde quei privilegi, che invece usurpano, come più
floride, Pavia e Monza. La sola influenza che vi rimane grande è quella
dell'arcivescovo; influenza che, per l'indole sua, subiva poco le
fluttuazioni della prosperità materiale, conservando quel principato
diocesano che si estendeva sopra 24 vescovati suffraganei e sopra un
territorio che andava da Genova a Coira, da Mantova a Torino.

Ed è un arcivescovo, che nel secolo nono ritorna a floridezza e
splendore le condizioni di Milano, venute lentamente migliorando sotto
il regime dei Longobardi e dei Franchi. Ansperto da Biassono,
probabilmente uscito dall'antichissima famiglia dei Gonfalonieri,
governò per tredici anni, dall'868 all'881, la sede milanese; vi
esercitò potere largo e benefico; mantenne contegno vigoroso contro le
pretese di un pessimo Papa, Giovanni VIII; e rialzò, completandola,
l'antica cerchia murata, già eretta dall'imperatore Massimiliano e
demolita dai Goti. Questo bastò perchè fra gli abitanti della Lombardia,
atterriti dalle frequenti scorrerie degli Ungheri e dall'imperversar dei
banditi, si determinasse un vasto moto di emigrazione verso la città,
dove quelle nuove e solide difese garantivano la vita e gli averi.
Rapidamente la popolazione di Milano aumentò; sicchè nel secolo undecimo
poteva calcolarsi, secondo il Cibrario, a trecentomila abitanti.

Questa però era prosperità materiale; che non toglieva l'anarchia delle
prevalenze politiche, il mutabile avvicendarsi degli ordinamenti, la
moltiplicità dei despotismi e delle giurisdizioni, la tradizione
ostinata delle civiche turbolenze.

Cominciava l'incertezza nella stessa persona del sovrano legale. Ogni
morte di principe dava occasione a più guerre, ed ogni volta si mutava
la base elettorale o la forma di consacrazione del nuovo Re.

Dopo Carlo il Grosso, la successione dinastica di Carlo Magno in Italia
era finita. Con un po' di concordia, le conseguenze della conquista
avrebbero potuto mitigarsi e dar luogo all'instaurazione d'una monarchia
nazionale. Invece, due Berengarj, un Guido, un Rodolfo, un Ugo, un
Lotario, un'Ermenegarda, riempiono di lotte e di supplizi un secolo
intero; dopo il quale, invitati dagli stessi pretendenti, i Re di
Germania scendono a rioccupare il feudo italico. Nell'888 Berengario era
stato coronato in Pavia, nel 961 Ottone I si fa coronare in Milano.

Questa mutazione di famiglia dinastica non impedisce che rimangano,
sotto i nuovi principi, cogli antichi poteri, i rappresentanti degli
antichi regimi.

Già i Longobardi avevano destinato un Duca a governare la città; e
questo teneva il suo tribunale in un palazzo apposito, che si chiamava
la curia del Duca, il cui nome, corrotto, vive ancora in una delle
località milanesi più note, il _Cordusio_. I Franchi vi sostituirono un
Conte, o piuttosto dei Conti, poichè sminuzzarono il territorio milanese
e divisero dalla città i circondari rurali, di cui ciascuno ebbe il suo
Conte, e si chiamarono a poco a poco il _contado_. Poi venne l'epoca
della maggiore preponderanza degli arcivescovi; i quali, assenziente
l'imperatore Germanico, si sostituirono ai Conti nel governo temporale
delle città murate e degli abitanti immediatamente finitimi, distinti
allora, per rispetto a quella sacra dominazione, col nome di _Corpi
santi_.

Senonchè l'appetito veniva anche allora col cibo. L'arcivescovo di
Milano, vistosi divenuto quasi un monarca, lottò coi monarchi, e pretese
aver egli facoltà di consacrare quei principi da cui veniva poi
investito dell'autorità sua. Indi la ragione di nuove lotte e di nuove
incertezze nella sovranità. Si cominciò a distinguere, nella stessa
persona, la qualità d'Imperatore Romano da quella di Re d'Italia. A Roma
si otteneva la corona imperiale dal Papa; la corona reale doveva
ottenersi a Milano dal successore di Ambrogio. Naturalmente, se questi
Imperatori erano forti, combattevano le pretese dell'arcivescovo; se
erano deboli, le subivano. E vediamo infatti che nell'876 Ansperto da
Biassono presiede in Pavia una Dieta di vescovi e di conti, che elegge a
re d'Italia Carlo il Calvo, già incoronato a Roma. E nel 1027, Corrado
il Salico riconosce esplicitamente questo nuovo diritto, dicendo in Roma
ai prelati che assistevano all'incoronazione: “sicut privilegium et
Apostolicae Sedis consecratio imperialis, item Ambrosianae Sedis
privilegium est electio et consecratio regalis[2].„

  [2] Arnolfo, libro II, c. III.

A Milano poi — come, del resto, in ogni altra città considerata sotto
l'alto dominio feudale — la giurisdizione del principe si esercitava a
periodi intermittenti, mediante magistrati speciali, eletti in ogni
occasione dal principe stesso, e che passavano sotto la comune
denominazione di _missi dominici_. Era specialmente affar loro
amministrar la giustizia, sedere arbitri fra le contese private dei
cittadini, reprimere i violenti, difendere, dicevasi, i deboli. In ciò
la loro autorità s'intralciava con quella dei duchi, dei conti, dei
vescovi, e le decisioni contradditorie aumentavano le amarezze e gli
sdegni. Nè questi _missi dominici_ scendevano sempre dalle Alpi a
portare la parola imperiale. Più volte quest'autorità si delegava
dall'Imperatore a un conte, all'arcivescovo, a questo o quell'altro
patrizio importante della città.

Che poi questi giudici avessero, indipendente da ogni altra, la forza
necessaria per far eseguire i loro giudicati, non appar chiaro dai
documenti dell'epoca. Se le parti s'acquietavano, il giudice imperiale
poteva dirsi fortunato; se non s'acquietavano, chi aveva più forza si
sottraeva agli obblighi imposti, e la sentenza non eseguita diventava un
disordine, qualche volta un tumulto di più. A buon conto, per le
uccisioni, che erano pur troppo allora i delitti più frequenti e più
comuni, durò lungamente in vigore una legge di Carlo Magno, conservata
dai successori, mediante la quale l'uccisore poteva liberarsi da ogni
noia, col tribunale, pagando il _vidrigildo_ (wehrgeld), ossia
l'ammontare del valore, a cui era stimata la persona uccisa. È facile
vedere a che conseguenze poteva tirare una disposizione di così ingenua
barbarie. Non erano i ricchi quelli che valevano meno, e non erano i
popolani quelli che potessero permettersi il lusso di simili pagamenti.

Si aggiunga a queste cause di profondo turbamento materiale e morale
l'organismo interno delle classi nobili, dei discendenti dall'antica
razza conquistatrice.

Passato il primo ed aspro periodo dei _duchi_, di fattura longobarda, e
a potere interamente dispotico, i Franchi, ai quali era toccato in sorte
regno più vasto e dominazione quasi europea, dovettero moltiplicare i
loro _conti_, e tollerare necessariamente quella maggiore suddivisione
di territori e di attribuzioni che corrispondeva alla minore intensità
del dominio.

Elettivi dapprima, per sola e mutevole volontà del principe, come furono
generalmente tutti i titolari feudali, fino alle leggi di Corrado il
Salico, i più potenti cominciarono a poco a poco a rendere la carica
ereditaria nella loro famiglia. Così a Milano s'era insediata la
famiglia d'Este, i cui antichi progenitori rendevano giustizia, di padre
in figlio, nel palazzo ducale longobardo, la _Curia ducis_. E questi, o
mossi da precoce sentimento d'italianità, o, più verosimilmente, dal
desiderio di aumentare, a spese di un sovrano più debole, la loro
autonomia, s'erano fatti sostenitori, dopo la morte di Ottone III, di
quel valente e infelice Ardoino d'Ivrea, che fu, prima di Vittorio
Emanuele II, l'ultimo personaggio italiano, sulla cui fronte si sia
posata una corona di re d'Italia.

Così la famiglia dei conti di Milano provocò le ire di Enrico II, re di
Germania, debellatore di Ardoino. Parecchi membri di essa furono
arrestati e trasportati in Germania, dove seminavano germi di nuove
dinastie; ed essendosi contemporaneamente innalzato il potere degli
arcivescovi, questi trasmisero ad altra famiglia di loro fiducia la
gerenza degli affari spettanti alla contea. Indi, l'istituzione e
l'aumento di dignità dei vice-conti o Visconti, che pure a quell'epoca
appaiono nella corte arcivescovile e che, succedendosi ereditariamente
essi pure nell'alta intimità coi sommi prelati milanesi, mettono le basi
a quella potenza che, trecent'anni dopo, manderà così estesi e così
tetri bagliori.

Senonchè nè il re, nè l'arcivescovo, nè il conte avrebbero potuto
reggersi frammezzo a tante incertezze di eventi e di plebi, se ai loro
privilegi non avessero cercato appoggio — oseremo quasi dire complicità
— nei privilegi di quella classe nobiliare, che ripeteva l'origine sua
dall'aristocrazia barbarica e dal primo spartimento delle terre, fatto
in odio degli antichi elementi romani.

Di lì un primo strato di altissima nobiltà cittadina, che nelle storie è
chiamata dei Capitani. Non molti e potentissimi, possedevano nella città
vasti palazzi e torri merlate, munite a difesa e ad offesa. Avevano
clientele assai numerose, vassalli dentro e fuori le mura, tenevano
squadre di armigeri, s'erano addossata la custodia delle varie porte
della città. Anche in essi il feudo era divenuto ereditario, o per
concessione di principe o per lunga tolleranza di usurpazione.

Ma col rapido movimento della popolazione, specialmente dopo la riforma
edilizia di Ansperto, quel primo strato di aristocrazia apparve
insufficiente alla sicurezza dei privilegiati. Trecentomila popolani,
ormai fattisi agiati colle arti e coi commerci, non subiscono
impunemente la dominazione di trecento ottimati. Questi sentirono dunque
il bisogno di allargare ad altre famiglie discendenti dagli antichi
conquistatori una parte dei vantaggi fino allora esclusivamente goduti
dai Capitani. Il feudo aumentò di estensione, perdendo d'intensità. E
così vennero costituendosi i Valvassori; nobiltà intermedia fra la plebe
e i feudatari maggiori; che stavano coi Capitani, quando il popolo
romoreggiava contro questo eccesso di privilegiati, ma che ai Capitani
tennero più volte il broncio, perchè non potevano ottenerne quella
concessione che i Capitani stessi avevano per sè carpita al supremo
signore feudale, cioè la trasmessione ereditaria del beneficio. Nè qui
si fermava lo sminuzzamento della classe nobiliare; poichè tra i
Valvassori e la plebe sorsero i Militi; un altro stato di popolazione
che s'imbrancava fra i minori privilegiati; tratti dall'amor dell'ozio
che genera la prepotenza verso le classi inferiori e che di solito
s'allea mirabilmente colla servilità verso le superiori.

                                 *

Qual fosse, in tanto viluppo di arbitrii e di diritti, la confusione
delle cose in allora, potrete agevolmente desumerla dalla confusione
d'idee ch'io cortamente ho provocato nelle vostre menti con questa
faticosa esposizione di poteri, di vincoli e di magistrature. Nessun
altro nome infatti adopera un biografo contemporaneo, Vippone, per
dipingere in pochi tratti quella situazione: “eodem tempore magna et
modernis temporibus inaudita _confusio_ facta est Italiæ....„

Pure, è proprio da quella confusione che venne una reazione di bene, od
almeno di quel bene che nel più cupo medio evo era possibile sognare per
popolazioni laboriose e tranquille.

Una serie di eventi, succedutisi in un periodo di dieci anni, valse a
togliere Milano dalla lunga inerzia di servitù e prepararle quel regime
di comunale indipendenza che un secolo dopo doveva mostrarsi, colla Lega
Lombarda, così maturo e robusto.

L'uomo che a siffatto movimento diede l'impulso primo e che seppe per
alcun tempo vigorosamente capitanarlo — forse inconscio delle sue ultime
conseguenze — fu il celebre arcivescovo Ariberto d'Intimiano,
probabilmente rampollo della illustre famiglia De' Capitani d'Arsago.

Piccolo di statura e grande di animo, coltissimo pe' tempi suoi, d'un
intelletto audace, d'una volontà ferrea e di smisurata ambizione,
Ariberto d'Intimiano fu eletto a governare la diocesi milanese, dopo la
morte di Arnolfo, nel 1018. E subito apparve quello che era, un uomo
determinato a tenere un gran posto nella storia del suo paese; avido di
lotte e pronto a sostenerle energicamente contro tutti; atto al comando
e desideroso di esercitarlo senza colleghi; innovatore audace e
profondo, che a sostegno della propria tirannia non esitava ad impugnare
le armi della libertà, ma che di questa tirannia propria aveva così alto
concetto da non permettergli di sopportarne alcun'altra, venisse da
Imperatori o da Papi.

I Papi, egli li accetta, purchè non si mescolino agli affari della sua
Diocesi. Quanto agli Imperatori, vuol farli lui. E però, quando si
estingue, colla morte di Enrico II, la famiglia imperiale di Sassonia, e
fra i principi italiani ricomincia una gara di ambizioni e di
candidature dinastiche, egli si reca difilato in Germania, dove quegli
elettori avevano acclamato a loro sovrano Corrado di Salico, duca di
Franconia; e, ricevuto a Costanza cogli onori dovuti alla sua dignità,
senz'altro riconosce il nuovo principe e lo incorona colle sue proprie
mani come re d'Italia[3].

  [3] Vedi Arnolfo, libro II, c. II.

Con sì altera disinvoltura non si era usato mai fino allora nominare dei
re. Pure, quando Ariberto ritornò, ed in un'assemblea di notabili
italiani, convocata nei prati di Roncaglia, diede notizia della nomina
così fatta da lui, nessuna voce si alzò a mettere in dubbio il diritto
dell'arcivescovo o quello del re. I popolani milanesi riconobbero in
Ariberto un padrone, e lo accettarono con gioia, pensando ch'egli
avrebbe saputo liberarli dall'unica tirannia lontana e dalle molte
vicine. Gli ottimati videro con qualche amarezza che un uomo della loro
schiatta e da essi sollevato al principato ecclesiastico facesse così
buon mercato delle tradizioni e dei privilegi loro. _Suum considerans,
non aliorum animum_, scrive indispettito il cronista Arnolfo, che ai
nobili apparteneva.

Nondimeno, quando Corrado scese nel 1026 in Italia, Milano lo accolse
splendidamente, malgrado o forse anzi perchè Pavia gli aveva chiuso le
porte in faccia. Ariberto rinnovò in favor suo la cerimonia
dell'incoronazione, nella basilica di Sant'Ambrogio; lo accompagnò a
Ravenna ed a Roma, dove il Papa gli pose in capo una terza corona,
quella dell'Impero; e, sopravvenuta un'estate di straordinario e
micidiale calore, lo ospitò largamente per due mesi, con tutta la sua
corte, nelle fresche villeggiature episcopali dell'alta Lombardia.

Partito Corrado, e rimasto Ariberto più che mai potente e popolarissimo
nel paese, incominciò a svolgere quello che ora si direbbe il suo
programma politico; vale a dire un'azione personale piena di scatti, di
audacie, di prepotenze; diretta ad abbassare le influenze limitrofe per
estollere gigante la propria; oscillante fra Cesare e la democrazia; ma
coll'evidente promessa che le due potestà non dovessero avere altro
rappresentante, altro programma, altri interessi che i suoi.

Perciò assume contegno di provocazione contro le città vicine, Pavia,
Lodi, Cremona; usurpando loro diritti e terre; battendone le forze e
umiliandone l'indipendenza. Per ciò largheggia di conforti e di grani,
durante una terribile carestia; e visita, con amore e con affettazione,
i tuguri popolari, dove lascia elemosine e semina gratitudine. Per ciò
offre aiuti militari a Cesare, ingolfatosi in una guerra di successione
per la Borgogna; e si unisce a Bonifacio, marchese di Toscana, per
ispingere attraverso le Alpi un contingente italiano, che Umberto
Biancamano guida su per la valle d'Aosta, e che, sceso nella valle del
Rodano, decide efficacemente la contesa in favor di Corrado. Per ciò si
bilica fra le parti cittadine, sostenendo i Capitani contro i
Valvassori, e Cesare contro i Capitani, e i plebei contro Cesare. Per
ciò protegge l'autonomia del clero ambrosiano contro le velleità
unificatrici del pontefice romano; e, scomunicato per le sue resistenze,
egli, arcivescovo, si ride della scomunica, in un tempo in cui a
quest'arma, di mistica onnipotenza, non osavano resistere i maggiori
principi della cristianità.

In ogni questione dell'epoca, Ariberto d'Intimiano porta l'elemento
delle sue passioni, del suo spirito battagliero, del suo intelletto
sovrano; ogni evento pubblico sente le traccie di quella personalità
romorosa, inquieta, assorbente; che ha inspirazioni spesso alte e
virili, ma che non esita a mutare alleati, principii e combinazioni,
secondo le necessità di quella preponderanza individuale, che è la base
della sua azione politica, la meta a cui tutto subordina.

Di questo sistema si svolgono intere le fasi nel decennio corso fra il
1035 e il 1045, chiudendosi con un risultato che nè a Cesare, nè ai
Capitani, nè ad Ariberto era balenato nell'animo.

Era infatti nel 1035 che i discordi interessi dei Valvassori e dei
Capitani scoppiavano ad aperta ostilità. Reduci dalla guerra di Borgogna
con maggior sentimento delle proprie forze e dei proprii diritti, i
Valvassori accentuarono più vivaci contro i Capitani le loro pretese
alla trasmissione ereditaria dei loro feudi. Alle ripulse altere
opposero altera resistenza e insorsero armati per le vie. La plebe
stette cheta od aiutò mollemente. Sicchè i Capitani ebbero per loro le
formidabili influenze dell'arcivescovo e riuscirono a cacciare i
Valvassori fuori delle mura. Ma lì il pericolo, invece di cessare,
divenne più grave. Afforzati cogli aiuti del _contado_, pronto sempre a
reagire contro la tirannide cittadina, i Valvassori ottennero anche il
concorso dei Lodigiani, indispettiti contro Ariberto per le usurpazioni
dei loro diritti. Bisognò dunque combattere in aperta campagna, e in
soccorso di Ariberto venne con forte schiera il vescovo di Asti,
Olderico, zio della famosa contessa Adelaide, che al figlio di Umberto
Biancamano avrebbe poi data la gloriosa discendenza della dinastia di
Savoia. La battaglia ebbe luogo a Campo Malo, fra Milano e Lodi; la
strage fu grande d'ambo le parti e il successo indeciso; ma, essendo
rimasto trafitto il vescovo Olderico, la confusione fu tale che i
combattenti ritornarono tutti nella città, rioccupando Valvassori e
Capitani le loro case, e rimanendo coll'armi al braccio, senza che
l'antico dissidio fosse placato o risolto.

Per placarlo o per risolverlo, Ariberto invitò allora l'imperatore
Corrado, del quale supponeva l'animo a sè favorevole, pei ricordi
dell'incoronazione e pel valido aiuto prestatogli nella campagna contro
i Borgognoni.

Corrado scese infatti in Italia, ma con altre idee. Questa Milano,
sempre irrequieta e ribelle, voleva domarla. Udita la querela sorta fra
le varie classi dei nobili, aveva detto ai suoi cortigiani in Germania
“se l'Italia è così affamata di leggi, coll'aiuto di Dio, io la
sazierò„[4]. Ed entrava in Milano, deliberato a fondarvi dominio nuovo,
mediante il duplice abbassamento dei grandi vassalli e del potere
vescovile.

  [4] Si Italia modo esaurit legem, concedente Deo, bene legibus
  hanc satiabo. VIPPONE, apud Pertz, vol. II.

Ma del mutato animo suo ebbe sentore Ariberto; e gli si rivelò subito
potente avversario, quanto gli era stato dapprima efficacissimo amico.
Aveva Corrado manifestato il proposito di emancipare la diocesi di Lodi
dalla sovranità che su essa esercitava l'arcivescovo di Milano. D'altra
parte, una vaga tradizione, creata da secoli, dava privilegio al popolo
milanese di non ricevere nelle sue mura nessun sovrano, fuorchè per
causa d'incoronazione.

Fosse l'una o fosse l'altra ragione, — o fossero entrambe, — o fosse,
abilmente lumeggiata, la paura della comune oppressione, certo è che il
giorno dopo l'ingresso di Corrado cogli armigeri suoi, un tumulto
popolare scoppiò improvviso a Milano.

Più che tumulto, bisognerebbe dire rivolta; giacchè proprio contro la
persona dell'imperatore s'acuirono le minaccie e gli sdegni; ed egli fu
costretto, dissimulando l'ira, ad uscire dalla città, recandosi nel suo
campo presso Pavia.

Lì, con proposito di violenta reazione, convocò la Dieta del Regno, e si
pose ad amministrare la giustizia; il che voleva dire, il più delle
volte, ordinare supplizii[5].

  [5] Landolfo.

L'arcivescovo di Milano non volle sembrare intimidito dai precedenti, e
si recò audacemente a prendere il suo posto nella Dieta. Ma l'agguato
non si fece aspettare. Investito violentemente da un feudatario tedesco
per non so che ragioni concernenti la _corte_ o borgata di Lecco,
Ariberto chiese tempo a rispondere, probabilmente per raccogliere
documenti; ma essendogli negato l'indugio, ricusò fieramente di
giustificarsi; e l'imperatore, che altro non aspettava, ordinò
senz'altro l'immediato arresto dell'arcivescovo. Non fu senza esitazione
— pel rispetto inspirato dall'uomo e dalla carica — che quest'ordine
venne eseguito. E Ariberto, dato in custodia a Poppone, patriarca di
Aquileia, e a Corrado, marchese di Verona, fu condotto a Piacenza, dove
restò prigioniero.

Credeva l'imperatore di avere fiaccata l'insolenza dei Milanesi, ma si
accorse presto, con danno suo, di avere semplicemente posta la mano in
un nido di vespe.

Incredibile fu la commozione che produsse in Milano la notizia di questo
fatto. Le divisioni di parte scomparvero quasi per incanto. La rottura
dell'alleanza fra Cesare e l'arcivescovo, fece di quest'ultimo il
rappresentante naturale dell'indipendenza. Milano cessò da quel momento
di essere città ghibellina. Diventò guelfa, e rimase tale, con poche
alternative, fino al 1859.

I due cronisti milanesi dell'epoca, Arnolfo e Landolfo, descrivono colla
stessa foga, quantunque appartenenti ad opposte opinioni, il dolore e
l'indignazione della loro città.

Furono due mesi di lutto, durante i quali le gentildonne e le popolane
si stemperarono in pianti, in elemosine, in preghiere, in processioni;
mentre gli uomini ordinavano in fretta le pubbliche cose, scombuiate
dalla mancanza della mano che era solita a muoverle.

Pensarono dapprima a trattare collo stesso imperatore, offrendogli
ostaggi per la liberazione dell'arcivescovo; ma Corrado, poco
suscettibile di scrupoli, trattenne gli ostaggi senza liberare Ariberto.
Allora i Milanesi spedirono legati in Francia per suscitare nemici a
Corrado ed offrire la corona d'Italia a Oddone di Sciampagna. E intanto
altri fra i più nobili cittadini s'erano diretti ai conti e ai vescovi
delle altre parti d'Italia, sollecitando una lega che avrebbe avuto per
iscopo immediato la liberazione del grande arcivescovo, e per iscopo
ultimo l'emancipazione dei comuni italiani dall'alto dominio germanico.

S'era nel più fitto di queste pratiche, quando, con immensa gioia del
popolo milanese, ricomparve Ariberto, libero in mezzo a' suoi. Gli era
bene riuscito uno stratagemma. Per mezzo d'un monaco, suo fedelissimo,
Albizzone, s'era fatto inviare nel carcere dall'abbadessa d'un monastero
di San Sisto, consacrata da lui, gran copia di provvigioni e di
ghiottornie. Posta ogni cosa a disposizione de' suoi custodi, questi,
com'era facile prevedere, s'ubbriacarono saporitamente; e, durante il
loro sonno, potè Ariberto, aiutato dal previdente Albizzone, uscire dal
carcere, attraversare il Po in una barca, e giungere, fanatizzando
tutti, a Milano.

Qui comincia l'epoca più pura e più grande nella vita di Ariberto da
Intimiano. La lotta che Milano sostenne nel 1037 contro Corrado il
Salico, lotta di cui Ariberto capitanò tutto lo svolgimento e quasi
tutti gli episodî, non è inferiore nè di magnanimità nè di gloria a
quella che sostenne un secolo dopo contro Federico Barbarossa. Direi
anzi che in questa furono più alti gli animi, più compatte le volontà. E
se di quella i risultati politici furono italianamente maggiori, non
bisogna dimenticare che a Legnano ed alla pace di Costanza avevano
contribuito, oltre Milano appena rifatta, le forze della Lega Lombarda,
gli aiuti dei marchesi di Dovara e di Romano, le influenze di papa
Alessandro III e della repubblica di Venezia. Nulla invece di tutto ciò
confortava Milano nel 1031. Quando Corrado, irritato per la fuga del suo
prigioniero e sitibondo di vendetta, venne a porre il suo esercito
intorno a Milano, aveva per sè quei contingenti delle città lombarde e
quelle influenze papali che triplicavano l'isolamento materiale e morale
della minacciata città.

Questa però, piena di fede nell'uomo energico che governava nel tempo
stesso i suoi interessi materiali e i suoi sentimenti religiosi, si
atteggiò a disperata difesa contro un'offesa implacabile.

Le mura di Ansperto, e le trecento torri da cui facevano buona guardia i
suoi difensori, impedirono che i nemici penetrassero nella città; ma
Corrado, in ciò non peggiore de' suoi precursori e dei continuatori
suoi, fece il deserto nei sobborghi e nel contado. “Eo tempore„ scrive
Vippone fedelissimo suo “imperator Mediolanenses nimium aillixit; et
quoniam urbem antiquo opere et maxima multitudine munitam capere non
poterat, quod in circuito fuerat igne et gladio consumpsit.„

Il 19 maggio, Corrado tentò l'assalto. Non solo fu ributtato, ma i
Milanesi, uscendo audacemente dai terrapieni, si azzuffarono coi
Tedeschi in una battaglia campale, dove si distinse pel suo coraggio un
Eriprando Visconti.

Riuscitagli male la violenza, l'imperatore sperò nell'insidia; e, senza
convocare nessuna Dieta, promulgò dal suo campo quelle leggi che da
Germania aveva promesse; mediante le quali, emancipando i piccoli feudi
dai maggiori vassalli, gettava un tizzone di discordia fra gli alleati
dell'arcivescovo, i Capitani e i Valvassori.

Il tizzone si spense senza dar fiamma. Il sentimento patriottico,
quantunque allora si trattasse di patria piccola, era già più forte
d'ogni seduzione straniera. Ariberto rispose a quei decreti, mutando
radicalmente le basi della pubblica difesa; disciplinando al servizio
delle armi i popolani; i quali trassero dalla nuova dignità del
combattere gli elementi di una virtù civile, ormai da secoli soffocata
nei loro animi.

L'imperatore cercò allora, contro l'indomito prelato, l'appoggio della
tiara pontificale; e si abboccò a Cremona con papa Benedetto IX, di
sciagurata memoria. Da quel convegno uscirono per Ariberto due fulmini;
la sua deposizione dalla sedia arcivescovile alla quale fu nominato un
prete Ambrogio, e più tardi la scomunica pontificia: l'affetto dei
Milanesi mantenne ad Ariberto la dignità episcopale, che invano Ambrogio
cercò carpirgli; e la pessima riputazione di Benedetto IX impedì che
alla sua condanna ecclesiastica si attribuisse il consueto prestigio.
Quanto a Corrado, si trovò pagato della stessa moneta. Chi lo aveva di
moto proprio incoronato, di moto proprio lo scoronò. Ariberto fece
togliere dagli atti pubblici ogni data imperiale, dichiarò Corrado
decaduto dalla dignità regia in Italia, ed invitò Oddone di Sciampagna
ad assalire l'imperatore in Germania.

Questi allora, imbestialito per un'audacia che si sentiva impotente a
punire, e costretto a ricondurre oltre l'Alpi un esercito stremato dalle
battaglie, dalle epidemie e dalle faticose marcie lungo la penisola,
radunò tutti i principi vassalli dell'Italia settentrionale e fece loro
giurare di devastare ogni anno il territorio milanese, affinchè la
ribelle città, non domata dalle armi, dovesse arrendersi per la
sofferenza e per la fame.

I principi giurarono; e nel successivo anno 1039 mantennero la parola,
presentandosi con forze nuove e imponenti nelle vicinanze della città.
Ma Ariberto non aveva perduto il suo tempo. Durante i mesi d'inverno, la
riforma politica e militare da lui ideata s'era svolta in maggiori
proporzioni. Ai popolani del contado aveva fatto balenare quelle stesse
idee di patria, di resistenza e di emancipazione, colle quali aveva
affascinato i popolani della città. Armi ed ordigni di difesa s'erano
fabbricati in gran numero, e l'arcivescovo ne distribuiva a tutti,
disciplinando, come oggi si direbbe, a _leva in massa_ tutta quella
moltitudine, chiamata dalla voce di un forte, che era nel tempo stesso
Davide e Samuele, a riacquistare quella libertà che gli avi imbelli
avevano perduta: “pro libertate aquirenda præliante, quam olim parentes
ejus ob nimiam hominum raritatem amiserant„[6].

  [6] Landolfo, lib. II, cap. 26.

Nè bastava. Poichè Ariberto, profondo conoscitore dei suoi tempi e del
popolo suo, comprese che a radicare l'idea nuova ed astratta della
patria in quelle menti avvezze a forme simboliche, era mestieri
identificarla in un simbolo nuovo. Ed inventò il _Carroccio_; singolare
e primordiale istromento di guerra, destinato a diventar subito popolare
in tutte le italiane città; curioso emblema di superstizione, di fede,
di poesia popolare e di disciplina guerresca; immagine fantastica della
religione e della patria, strette a comune difesa; carro di vittoria e
altare di pace, intorno a cui si combatteva con energia, si moriva con
entusiasmo.

Così risollevati a nuova vita materiale e morale, i popolani lombardi
provvidero energicamente alla difesa dei loro abituri; e la sconfitta
dei grandi vassalli imperiali sarebbe stata disastrosa, se non fosse
giunta notizia della morte dell'imperatore Corrado in Utrecht; notizia
che bastò a far cessare la lotta ed a sciogliere l'esercito dei
coalizzati feudali.

                                 *

Qui comincia la terza ed ultima fase del rinnovamento politico milanese.

L'insurrezione dei Valvassori aveva scosso nel sentimento pubblico il
prestigio del feudalismo; la difesa contro l'Impero aveva reso popolare
il bisogno dell'indipendenza; non mancava che un movimento diretto ad
assicurarsi l'esercizio delle libertà comunali. Questo movimento tardò
tre anni, ma dal 1042 al 1045 mutò radicalmente la costituzione politica
di Milano.

Un valvassore, per privata contesa, aveva ucciso un plebeo. Non era
fatto strano, e novanta volte su cento, prima d'allora, sarà rimasto
impunito. Ma la plebe non era più il gregge pauroso e servile, che
accettava la sferza del padrone, chiunque si fosse. Aveva combattuto
insieme ai nobili contro Cesare, e acquistato quindi un certo sentimento
di eguaglianza civile. Non sopportò più di riconoscere in tanti
concittadini quel diritto di oppressione che negli antichi Duchi le era
parso quasi legittimo[7]. Aveva imparato tre anni prima l'uso delle
armi; le impugnò nuovamente, e scese nelle vie, deliberata a combattere
le classi nobiliari e mettere fine alla loro anarchica prepotenza[8].

  [7] .... durius habens dominium suorum civium quam Ducum quondam
  suorum.... Landolfo seniore (lib. II, c. 26).

  [8] .... ab illorum dominio sese defendere ac liberare disposuit
  (Id. ibid).

Fu una lotta epica; durata tre anni, e che finì, dice Arnolfo, “con una
profonda mutazione nello stato della città e della Chiesa.„

La guerra civile non era mai apparsa in Milano così feroce, col suo
sinistro codazzo di stragi, di vendette e di devastazioni. Fino dai
primi giorni, il furore fu tale che non si dette quartiere. I popolani
dovevano essere certamente dieci volte più numerosi dei nobili; ma
questi avevano per sè le armature complete, i cavalli in assetto di
guerra, le feritoie dei loro palazzi di pietra, la più profonda
cognizione degli ordini militari. Sicchè, malgrado la sproporzione
numerica, i primi combattimenti non erano riusciti favorevoli
all'insurrezione; la quale probabilmente sarebbe stata repressa e
domata, se un uomo, uscito da tutt'altre schiere, non le avesse dato il
potente aiuto del suo valore e della sua virtù.

L'uomo si chiamava Lanzone; non è facile darvene notizie maggiori, per
quanto si tratti di uno dei più grandi caratteri del secolo undicesimo.

S'è saputo, o s'è congetturato solamente dugent'anni dopo, che
appartenesse alla famiglia Da Corte, famiglia prolungatasi
nell'aristocrazia lombarda fino all'epoca degli Sforza. Un solo cronista
s'è occupato con qualche precisione di lui; fortunatamente è un cronista
vissuto a Milano nella seconda metà del secolo undecimo, Landolfo il
Vecchio; ed è su quelle indicazioni, confermate nelle particolarità
sostanziali dal cauto e severo linguaggio di Arnolfo, che una critica
perspicace e affettuosa ha potuto, negli ultimi tempi, trarre l'uomo dal
mito e riprodurre, innanzi ai contemporanei, che le potrebbero utilmente
copiare, le fattezze di questo magnanimo del tempo antico.

Può dunque ritenersi per assodato:

Che Lanzone apparteneva alla più alta nobiltà feudale (nobilis et
Capitaneus altus) ed alla più importante magistratura del Ducato, come
_giudice del sacro palazzo_;

Che, determinato a impedire lo sterminio di cui la parte aristocratica
minacciava, vincendo, la plebe ribelle, si gettò nel tumulto contro i
proprî amici, assetati di vendetta, e fu eletto per unanime fiducia
Capitano del popolo;

Che, riprendendo l'offensiva, seppe guidare le schiere insorte con tanto
vigore e tanta sagacia da obbligare i nobili, di qualunque grado, ad
uscire nascostamente colle loro famiglie, dalla città;

Che avendo i nobili fuorusciti, coll'aiuto dei conti della Martesana e
del Seprio, posto l'assedio intorno a Milano, questa sotto la guida di
Lanzone, resistette per quasi tre anni a tutti gli orrori della guerra e
della carestia, combattendo quasi ogni giorno ed opponendo ad offese
formidabili sapienti difese;

Che, mosso da un duplice concetto, militare e politico, Lanzone si recò,
sullo scorcio del 1043, in Germania, dove stipulò coll'imperatore Enrico
il Nero un trattato d'alleanza, basato sopra un eventuale intervento di
milizie tedesche in Milano;

Che, ritornato fra i combattenti e ripensando al pericolo di questo
intervento, aperse trattative coi nobili fuorusciti, comunicando loro il
patto di alleanza e persuadendoli della impossibilità in cui si
sarebbero trovati di resistere ad un duplice assalto;

Che, avuta facoltà da entrambe le parti, di proporre condizioni di pace,
esortò i nobili a rinunciare per sempre al dominio della città, a
rientrare pacificamente nei loro palazzi, accordando e ricevendo ampia
amnistia per le reciproche violenze di guerra, e impegnandosi a
discutere tranquillamente con tutti gli altri cittadini i comuni
interessi;

Che, accettate queste condizioni, i nobili si rassegnarono a smettere le
loro pretese alla supremazia politica e ritornarono, in dimessa
attitudine, nella città;

Che, per iniziativa di Lanzone, furono subito discussi, in un comitato
di arbitri, gli ordinamenti necessari per attivare, sulle nuove basi, il
governo della città; ordinamenti che poterono essere intralciati,
interrotti e ripresi, ma che finirono per ottenere la formale adesione
dell'imperatore Enrico III; il quale li sanzionò e li fece entrare nel
diritto pubblico del Regno alla solenne Dieta che tenne nei prati di
Roncaglia il 5 maggio dell'anno 1055.

Così sorse in Milano il comune autonomo, che ebbe poi non breve e non
ingloriosa esistenza. Certo, istituzioni consimili non hanno mai una
data precisa di battesimo storico. Ned io vorrei discutere se proprio
l'anno di nascita del comune milanese sia il 1042, nel quale i nobili
furono cacciati dalla città, o il 1045, nel quale rientrarono,
assoggettandosi ai nuovi patti, o il 1055, nel quale gli Statuti
comunali furono riconosciuti dalla suprema rappresentanza del Regno, o
magari il 1066, nel quale pare che questi statuti fossero pubblicati.

Se non vivessimo noi in tanta luce di pubblicità multiforme, forse fra
dieci secoli i nostri posteri disputerebbero se l'anno del risorgimento
italiano sia stato il 1848 o il 1859 o il 1860 o il 1866 o il 1870. Le
grandi mutazioni organiche hanno fasi e fremiti e oscillazioni, che
abbisognano di tempo per tradursi nella soluzione tranquilla. Ma nè
dieci, nè venti, nè trent'anni rappresentano in questi casi più che un
momento storico. E quando dall'unità dei pensieri e degli sforzi si
rileva chiaro uno di questi momenti, poco importa se la loro durata non
coincide esattamente col numero dei giorni nei quali la terra suol
compiere la sua evoluzione intorno al sole.

Nel fato di Milano, oltre il momento storico, anche il processo storico
appare evidente.

Dapprima la conquista barbarica, che distrugge lo Stato e vi sostituisce
il regime anarchico della feudalità.

Poi, con Ottone I, il despotismo intelligente, che è il periodo
primordiale del rinascimento politico. Il popolo vede un tiranno solo
più forte dei molti di cui si lagnava; e ingenuamente gli batte le mani,
come ad un liberatore. È il trionfo della politica ghibellina.

Succede, con Ariberto, il potere arcivescovile. Il despota v'è ancora;
ma, oltre ad essere intelligente, è indigeno, è vicino, è mite per
l'indole sua, comincia a trarre dalle forze e dalle volontà popolari
elementi di amministrazione e di governo. E il popolo accetta il dominio
di Ariberto con entusiasmo, persuaso che valga, più di quello del
lontano imperatore, a frenare le intemperanze rinascenti dei vecchi
despotismi feudali. È il trionfo della politica guelfa.

Ma ad Ariberto non basta l'animo di continuare l'iniziata opera di
emancipazione; e, dopo la vittoria contro Corrado, ricade nella
tradizionale alleanza coi feudatari maggiori.

E allora il popolo, fatto maturo dall'esperienza e dai casi, reclama la
libertà come unica guarentigia di ordine e di benessere. Compare
Lanzone, che non è nè guelfo nè ghibellino, che nell'ordine dei
progressi politici è più grande di Ariberto e di Ottone, e che della sua
immensa popolarità si giova per annullare sè stesso e per sostituire al
potere personale l'universalità dei cittadini, disciplinati a comune
sovrano. Il genio sparisce; ma la sua necessità è minore, perchè è sorta
l'istituzione. L'emancipazione civile ha raggiunto la sua ultima
formola.

Che poi, malgrado questa e malgrado la magnanimità di Lanzone, periodi
di anarchia o di dominio personale abbiano ancora turbata per qualche
tempo la risurrezione politica della cittadinanza milanese, ciò non
basta a sfatare la benefica rivoluzione compiutasi in quel momento
istorico. Il diritto è stato riconosciuto; la legge è stata promulgata.
La violenza, dopo ciò, rimane, se anche vincitrice, un fatto
transitorio, di cui la legge e il diritto non tardano a ottenere
riparazione. Anche il ladro ruba; ma il giudice che lo condanna dimostra
come la proprietà fosse inviolabile prima del furto e tale rimanga dopo.

Più di otto secoli sono corsi dagli avvenimenti che vi ho ricordato, ed
è lecito chiedersi se a quelli proprio risalgono gli albori della
moderna vita italiana.

A me pare indubbiamente che sì.

Il carattere italico, la reazione del romanesimo contro la lunga iliade
di spogliazioni e di umiliazioni inflittegli dalle razze teutoniche,
appare evidente, a misura che gli antichi servi, assaporando nuove forme
e nuove ragioni di vita, si raccozzano dappertutto per iscuotersi di
dosso il giogo degli antichi padroni. Ogni comune è una patria; ma da
ogni comune si sprigiona un sentimento nuovo, che vorrebbe quasi trarre
dal ricordo del potente organismo a cui tutti avevano appartenuto, gli
elementi d'una solidarietà che ancora non s'è fatta nazionale, ma che
già respinge e sconfessa dominî non nazionali.

Già ad Ariberto era parso e giustamente un principio di rivincita, che
armigeri italiani si recassero oltre l'Alpi a spiegare vittoriose quelle
bandiere che erano state tante volte calpestate al di qua. E Lanzone, ai
nobili che vuol convertire all'idea comunale, parla addirittura
“dell'esempio che dovrebbero dare ai loro eguali _in tutta l'Italia_„.
Qui, il discendente dei conquistatori goti o longobardi è già divenuto
_civis romanus_ e sente l'orgoglio di essere figlio e difensore di
quella terra che i suoi avi hanno riempiuto di desolazioni e di stragi.

Un passo di più ed avremo Cola da Rienzi, sublime fantastico, che purga
Roma di baroni, e di banditi, ricostituendo, nel più fitto delle
tirannidi indigene, il Tribunato dell'antica Repubblica. Poi,
dugent'anni dopo, vedremo un gran politico fiorentino ritornare al sogno
del desposta intelligente, purchè si chiuda nel pugno tutta l'Italia e
spenga, con milizie italiane, i principotti indipendenti innalzatisi
sugli indipendenti comuni. Passeranno altri cent'anni, e udremo la
scuola politica dei letterati inneggiare all'Italia coi sonetti del
Filicaja e colle canzoni di Gabriele Chiabrera. E ancora dugent'anni
dopo, il Mazzini scriveva al discendente di Umberto Biancamano: “Fate
l'Italia, e saremo con voi.„ Sarà toccato in sorte alla nostra
generazione di vedere il meriggio di quegli albori del mille; Vittorio
Emanuele II che ricompone in Roma l'asse ereditario usurpato da Odoacre;
Lanzone, che rigetta ad un tempo l'autorità di Cesare e quella di
Ariberto, e chiama il popolo italiano a ricostituirsi in comune
indipendente.

Questo filo conduttore di una italianità, che attraverso i secoli viene
sempre più accostando fra loro gli uomini d'azione e gli uomini
d'intelletto, ci aiuta a difenderci dalle eccessive induzioni di una
scuola storica, di cui Carlo Hegel è il più formidabile campione.

Secondo i critici di siffatta scuola, non è dall'idea romana, o latina,
o italica che è sorto il comune lombardo del secolo undecimo; bensì da
una evoluzione intima del concetto germanico, che a poco a poco innalza
le plebi romane, beneficandole coll'autonomia.

Non è qui nè da me che può essere utilmente discussa una questione così
profonda. Però mi sia lecito dire che il voler attribuire propositi di
emancipazione popolare a quegli stessi elementi dominatori che dieci
anni prima avevano promulgato il codice del feudalismo, addita piuttosto
lo sforzo dell'ingegno che la severità della logica. Queste lancie
d'Achille, atte a guarire le piaghe che cagionano, perdono un po' di
fede al difuori della poesia mitologica.

Sarà meno scientifico, ma è certo più semplice il criterio che
attribuisce ordinariamente agli oppressi qualche merito nella sconfitta
degli oppressori.

E la Germania ha una parte troppo gloriosa nella storia del mondo perchè
non debba permetterci di ascrivere a virtù di resistenza italiana
piuttosto che a virtù d'iniziativa tedesca una rivoluzione comunale che
si è manifestata collo sgominare due eserciti tedeschi, quello di
Corrado il Salico e quello dell'imperatore Barbarossa.



LE ORIGINI DELLA MONARCHIA IN PIEMONTE

DI

ROMUALDO BONFADINI


Chi volesse trovare in Europa qualche analogia possibile, in
qualsivoglia argomento, tra le condizioni odierne e quelle di nove
secoli fa, si accingerebbe a ben duro e disperato mestiere.

Mutata l'indole dei governi e dei sodalizi religiosi; rinnovate le
teorie del diritto e le basi della legislazione; divenuti predominanti
migliaia d'interessi, onde allora non si sospettava pur l'esistenza;
capovolte addirittura le fondamenta del consorzio civile, ci abbisogna
uno sforzo gigantesco d'immaginazione per riprodurre anche in minima
parte, dinanzi al nostro sguardo intellettuale, i fenomeni di una
umanità, che sembra avere coll'umanità contemporanea quella stessa
parentela, di cui una scienza evoluzionista moderna si compiace trovare
le traccie, per esempio, fra un chimpanzé ed una bella signora.

Non parliamo poi dello stato territoriale, della geografia politica
dell'Europa. Appena si salvano i nomi grossi e complessivi d'Italia, di
Germania, di Britannia. Regni sostituiti a repubbliche e repubbliche a
regni; città non ancor nate e città da un pezzo sparite. V'era una
Spagna senza Spagnuoli, v'erano degl'Ungheri senza un'Ungheria, v'erano
i Franchi prima che la Francia apparisse. I popoli, così teneri ora dei
loro confini e dei loro territori, erano qua e là sbalestrati da
convulsioni capricciose; i Normanni diventavano Siculi; i Saraceni
s'appollaiavano sulle creste degli Abruzzi e delle Alpi Cozie. Cento
rivoluzioni hanno scombuiato conquiste e conquistatori, hanno menato
nella loro rapina Stati, famiglie e dominii; sicchè oggi, quasi nel
1900, nulla appare più falso di ciò che era l'unico vero nel mille.

V'era però una stirpe, che ha resistito all'onda dei secoli e al
vituperio dei nomi. V'è una famiglia sovrana — l'unica in Europa — che
ha questo privilegio di poter guardare da qualcuno de' suoi castelli
reali il territorio circostante, e di poter dire che dal mille in poi
hanno continuato ad esercitare su quello autorità principesca i suoi
antenati, legittimamente succedutisi colla propria discendenza e col
proprio nome.

Questa famiglia — l'avete senz'altro indovinato — è la famiglia dei
principi italiani; i quali non trovano, nelle valli di Susa e di Aosta,
nessun nome che rompa, fosse per un giorno, l'eco tradizionale del loro
grido dinastico; i quali firmano nel 1890 _Umberto di Savoia_ come
firmavano nel 1003 _Hubertus comes_ “in agro savogensi„; i quali, con
privilegio sovrano, battevano moneta nel mille ad Aiguebelle, come
battono moneta a Roma nel 1890.

È forse questa antichità e continuità di dominio che ha fatto delle
origini della dinastia di Savoia l'argomento caro ad un nugolo di
scrittori, impeciatisi nell'esame di pergamene, che a ciascuno parevano
conferma di sistemi diversi e di induzioni opposte.

Io non trascinerò — non temete — le vostre mani gentili entro i
polverosi scaffali dove quelle pergamene hanno riposato per tanti secoli
inesplorate. Ma, costretto dalla fatalità mia e dalla vostra a
sostituire qui il brillante oratore[9] che avrebbe dato ai suoi veri
tutto il fascino dell'estetica e della poesia, cercherò di non dare alla
storia maggiore severità di quella che si accompagna necessariamente
alla fisonomia dell'epoca ed alla precisione dei fatti.

  [9] Era stato incaricato di svolgere questo argomento il cavalier
  Giuseppe Giacosa, il quale si trovò in quei giorni impedito da
  malattia.

                                 *

Fra i popoli migratori che, nella prima metà del medio evo, scesero da
regioni ignorate nel mezzogiorno d'Europa, i Borgognoni furono senza
contrasto i meno numerosi e i più miti. Guerrieri per difesa, piuttosto
che per conquista, la sorte li aveva spinti nel grande bacino del Rodano
dove s'erano acclimatati. In lotta coi Franchi e più volte sconfitti,
non lo furono però mai tanto compiutamente da far perdere al territorio
da essi occupato il nome della loro razza e l'impronta delle loro leggi.
Fra queste, una specialmente apparve mirabile per ispirito di politica
tolleranza e fu la _legge Gombetta (Gundobada)_, che pare sia stata
liberamente discussa in pubblica assemblea[10]. Per quella legge, nessun
vinto era obbligato ad accettare il diritto pubblico dei vincitori.
Ciascuno dichiarava di voler vivere sotto la legislazione che preferiva;
sicchè i giudici erano obbligati, prima di pronunciare sentenze, a
chiedere ai convenuti sotto che rito intendevano di essere giudicati.

  [10] Leges communi tractatu compositae.... omnium voluntate....
  coram positis optimatibus nostris (Preambolo alla legge Gombetta).
  St. Génis, _Histoire de Savoie_.

Questa larghezza di regime civile, di cui non appare nessun esempio nei
paesi caduti in balìa dei Longobardi o dei Franchi, permise alle
popolazioni di razza italica, rimasto sui versanti alpini della Savoia e
della Provenza, di stringere con invasori così moderati rapporti assai
più amichevoli di quelli che permetteva agli abitanti della valle del Po
il ferreo regime sotto cui erano mantenuti.

Così si spiega una certa fusione fattasi più presto che altrove, fra gli
antichi elementi romani e i nuovi elementi della stirpe borgognona. La
feudalità fu istituita anche in Borgogna, come dappertutto dove
passarono gli eserciti dei Carolingi; ma non ebbe lì quel carattere
acerbo di sovrapposizione dei conquistatori sui vinti. Sicchè la
diversità di razza non impedì che sorgessero a potenza e dignità feudale
anche famiglie discendenti da stirpe italica; le quali continuavano a
reggersi in ogni altra parte dei diritti civili e pubblici, secondo la
legislazione romana, garantita dalle istituzioni organiche del popolo
borgognone.

Fra queste famiglie, una appare già illustre e potentissima alla corte
di Borgogna, negli ultimi anni del decimo secolo e nei primissimi
dell'undecimo. E di questa famiglia i più antichi documenti dell'epoca
ci rivelano capo e personaggio preponderante negli affari politici del
Regno un conte Umberto, che la cronaca di Hautecombe designa
coll'aggiunta _blancis manibus_; vuoi perchè una speciale gentilezza
fisica distinguesse il gran gentiluomo; vuoi perchè, secondo la
versione, forse un po' cortigiana, di alcuni scrittori, la sua
indiscutibile riputazione di onestà fosse così alta da doverlo celebrare
come bianco e puro di mani in mezzo a tanti potenti che le macchiavano
nella preda o nel sangue.

È da questo Umberto Biancamano che discende, per genealogia accertata e
non interrotta più la famiglia di principi, che ci onora della sua
rettitudine e che noi onoriamo del nostro affetto.

Che se voi desideraste sapere intorno a siffatto capostipite, più
antiche notizie; se mi chiedeste, come Farinata all'Alighieri: _chi fur
li maggior sui_, potrei rispondervi con cinque congetture, non vi darei
una sola certezza. Al di sotto del Biancamano, tutto a poco a poco
diventa facile, chiaro, ricco di particolari e di prove; al di sopra
tutto è buio, ipotesi, immaginazione. Come il Nilo, la casa di Savoia
nasconde le sue scaturigini in una regione fantastica, dove i nuovi
Argonauti non giungono a penetrare. Però ciò non impedisce al gran fiume
di versare, innanzi alla sua foce, i larghi beneficii del suo limo
fecondatore; come non ha impedito alla nobile dinastia di avvincere a sè
stessa col prestigio del bene quei “volghi dispersi„ che non avevano un
nome, e che non le chiedono d'onde venga, ma sanno dove va.

Non mancarono gli storici cortigiani. Alcuni, pur di trovare un re ed un
eroe al vertice della piramide, fecero risalire gli antenati del
Biancamano a quel sassone Vitichindo, che mise per un istante in forse
la gloria di Carlo Magno. Altri si fermarono al re, se non all'eroe, e
innestarono la casa di Savoia su quel tronco laterale della dinastia
franco-borgognona, che ebbe in Lodovico il Cieco un così inetto e così
infelice imperatore. Altri finalmente posero ad obbiettivo delle loro
ricerche un'origine nel tempo stesso regia ed italiana, facendo
discendere il conte Umberto da quella razza dei Berengari d'Ivrea, che
furono, per la loro violenza, così disformi dal tipo umano e leale dei
principi di Savoia.

Oggidì tutte queste opinioni sono sfatate. E non è neanche necessario,
per esserne persuasi, di svolgere i cinquanta volumi, in cui queste
ipotesi sono discusse, affermate ed escluse. Il che prova, per
incidenza, come non debba temersi quel pericolo, che fra alcuni anni non
basti la vita di uno studioso ad approfondire neanche uno dei rami dello
scibile umano. No, la scienza è rimedio a sè stessa; ricerche nuove, pur
di piccola mole, bastano a rendere inutili i volumi, farraginosi di
ricerche antiche; sintesi logiche e verità elementari si sostituiscono
con autorità indisputata alle faticose lungaggini di analisi non
ravvivate dal lume critico. Basta ai nostri contemporanei — e i nostri
posteri saranno in ciò più fortunati di noi — assai meno tempo di quello
che dovessero impiegarvi gli antenati nostri, per accertare storicamente
la verità e le proporzioni dei fatti. Ogni scrittore coscienzioso
abbrevia la via; sicchè la scienza che è stata aristocratica fino ai
padri nostri, potrà essere democratica fra cinquant'anni.

Ecco perchè quattro o cinque volumi pensati, dei più moderni, bastano a
sostituire, in questo argomento, le voluminose compilazioni dei tempi
andati, e a persuaderci che, fino a nuove scoperte di documenti
difficili a presagire, il padre di Umberto Biancamano resterà, come
Giove, col capo avvolto fra le nubi.

Nè di questa relativa impotenza dell'indagine storica possono sembrare
eccezionali i motivi.

A buon conto, quanto più ci avviciniamo all'epoca delle invasioni
barbariche, tanto più scema il numero degli scrittori e la probabilità
che le carte siano sopravvissute alle ingiurie del tempo. Appena si
riesce ad accertare l'ordine cronologico dei Papi e dei Sovrani, intorno
ai quali si concentrava l'attenzione e l'adulazione dei cronisti. Di
Umberto Biancamano anzi si conosce assai più che non si conosca di
personaggi anche maggiori dell'epoca sua.

D'altronde, nell'incendio di Susa, avvenuto per opera del Barbarossa nel
1174, si vogliono distrutti gli archivi privati della casa di
Savoia[11], nei quali stavano probabilmente i pochi documenti autentici
e gli alberi genealogici della famiglia. Costretti a rifare questi
ultimi per debito d'ufficio e per vanità di dottrina, i cronisti
famigliari non poterono raccogliere carte equipollenti che fino ad
Umberto I e dovettero ricorrere, per completarli, al metodo pericoloso
delle induzioni. Ma allora si trovarono di fronte alle difficoltà
ermeneutiche ed alla confusione dei nomi. Gli Umberti, gli Adalberti,
gli Oddoni, gli Amedei, i Rodolfi, le Adelaidi e le Ermengarde suonavano
frequenti al di qua come al di là delle Alpi. Uno storico che s'aggiri
in mezzo a questi nomi per trarne identità di personaggi e di epoche, ci
arieggia troppo quel Polifemo cieco, che palpa il vello dei montoni,
sotto il cui ventre s'è rattrappito Ulisse. Le probabilità d'ingannarsi
sono infinite; perchè nessun cronista credeva importante di dare intorno
al proprio personaggio particolari di date o di parentele o di età, che
naturalmente non erano ignote al piccolo numero di uomini pei quali
scriveva. Ogni cronista chiudeva le proprie aspirazioni e le proprie
indagini nei confini del proprio Stato; parlava de' suoi Umberti e de'
suoi Oddoni, come se altri non ne esistessero sulla superficie del
globo. Tra quei piccoli principati v'erano relazioni di commercio o di
violenze, non ve n'erano di indole intellettuale o letteraria. Sicchè
nessuno pensava di identificare con particolari estrinseci personalità
notissime nell'ambiente in cui si scriveva, a beneficio di ragionamenti,
di paragoni o di ricerche future, di cui non si poteva neanche
sospettare la possibile utilità.

  [11] Scrittori recenti e autorevoli, come il Carutti, mettono in
  dubbio questa distruzione degli archivi. L'asserisce il Guichenon;
  il quale anzi la commenta con un brano di tanta ingenuità, che non
  sappiamo resistere alla tentazione di riprodurlo, come esempio
  dell'eccesso a cui può giungere, in uno spirito colto e buono la
  voluttà cortigiana.

  “Ce malheur (l'incendio di Susa) _n'eut pas été trop grand_, si
  Frédéric, pour se venger, se fut _contenté_ d'exercer sa colère
  _sur des habitants_, sur des pierres et sur des meubles; mais
  l'excès de sa passion l'ayant porté a s'en prendre à des titres et
  à des papiers d'une si grande consequence..... il est mal aisé de
  s'empêcher de déclamer contre cette action qui tient de la
  barbarie.„ Libro II, cap. 8.

È perciò che quei rispettabili eruditi, a cui duole di non poter
ispingere più in alto la loro curiosità genealogica, arrivano talvolta
agli assurdi ed agli anacronismi, brancicando fra i montoni senza
mettere la mano sul mitico Ulisse. Ed è ciò che voi ed io fortunatamente
eviteremo; persuasi che oggimai troppo onore viene dai fatti certi alla
famiglia di cui studiamo i primordi, perchè si possa sperare di
accrescerlo, tuffandoci nelle ipotesi.

                                 *

Torneremo dunque, se non vi dispiace, al conte Umberto dalle bianche
mani. E lo vedremo, in cinquant'anni di storia, crescere di riputazione,
d'autorità e di fortuna, senza potergli rimproverare nessuna di quelle
azioni, che sarebbero giudicate riprovevoli dal nostro criterio morale,
tanto più austero di quello che allora prevaleva.

Alla corte di Rodolfo III re di Borgogna teneva l'ufficio di
Conestabile; forse la più alta carica militare e politica che i tempi
permettessero ad un vassallo feudale. Nel 1003 lo vediamo conte di
Salmourenc nel territorio viennese; nel 1017 possiede la contea di Nyon
sul lago di Ginevra; nel 1024 è già conte di Aosta, valle cisalpina che
però apparteneva in supremo dominio ai re transalpini di Borgogna.

Questa marcia ascendente del conte Umberto verso gli onori e i
possedimenti non si deve a nessuna di quelle violente occupazioni, così
consuete ai forti dell'epoca sua; ma unicamente a vincoli di
parentaggio, a donazioni reali, giusta ricompensa della sua condotta,
che fu in ogni occasione leale e vigorosa.

Lo dimostrò sopratutto nella crisi dell'anno 1032, in cui avvenne, per
la morte di Rodolfo III, privo di prole, la dissoluzione del vecchio
reame di Borgogna.

Rodolfo III, detto l'Ignavo, per rendere giustizia alle sue qualità
intellettuali e morali, aveva regnato per circa 38 anni, ed aveva
sposato in seconde nozze una regina Ermengarda, che pare fosse donna
degna di più virile consorte.

La storia di questo regno non è infatti che una lunga lotta fra il
debole monarca e la folla dei suoi baroni, che, prevedendo la fine della
dinastia, volevano trarne partito per affrancarsi da ogni vincolo
d'investitura.

In una situazione di questa fatta, sarebbe stato facile al conte Umberto
di volgere le influenze dell'alta sua carica contro Rodolfo e convertire
in un principato indipendente e più vasto i possedimenti che a titolo
feudale teneva. Invece stette egli risolutamente dalla parte del debole.
Il Conestabile di Borgogna fu il più assiduo compagno di Rodolfo III, il
più fedele e il più energico consigliere della regina Ermengarda. E
quando il vecchio sovrano morì nel 1032 e il suo nipote Oddone di
Sciampagna sorse a reclamare l'invidiato retaggio[12] il conte Umberto
rispettò il testamento, che chiamava al trono di Borgogna il re di
Germania, stretto parente di Rodolfo III; e scortò personalmente la
vedova regina, insidiata nella sua libertà, fino a Zurigo, dove
l'imperatore Corrado accolse entrambi con grande effusione e splendidi
donativi.

  [12] Vedi il Frézet, pag. 61.

Alla guerra che mosse allora Corrado contro l'usurpatore dell'eredità di
Rodolfo, non è certo che il conte Umberto abbia partecipato. Ben vi
concorse, e con altissimo grado, nel seguente anno 1034, in cui Oddone,
rotti gli accordi, riprendeva le armi e raccoglieva contro il successore
imperiale tutte le forze de' suoi congiunti e dei baroni alleati suoi.

Fu allora che Umberto Biancamano, già illustre sul versante borgognone
delle Alpi per gli alti fatti e le regie parentele, apparve anche sul
versante italiano personaggio di molta autorità e di intera fiducia.

Poichè a lui, come al più rinomato capitano d'allora, affidarono il
comando di un forte nerbo di truppe i due potenti alleati
dell'imperatore in Italia, Bonifacio marchese di Toscana ed Ariberto
arcivescovo di Milano.

I quali pare che conducessero personalmente il loro esercito fino ad
Aosta, ai piedi del Gran San Bernardo, e che lì ne assumesse il conte
savoiardo la direzione. Certo, capitano e soldati si condussero, in
quella guerra, con molto e fortunato valore. Se dobbiamo credere ad uno
storico non italiano, il signor Frézet[13], fu anzi in una battaglia
comandata dal conte Umberto che Oddone di Sciampagna restò prigioniero e
fu condotto a' piedi dell'imperatore Corrado, il quale generosamente gli
perdonò.

  [13] _Histoire de la maison de Savoie_, pag. 61, vol. 1.

Ciò non tolse che poi, con una seconda slealtà, questo Oddone scendesse
in campo nuovamente contro Corrado, approfittando dei torbidi scoppiati
tre anni dopo in Lombardia. E qui si trovò a fronte di Gozelone, duca di
Lorena, il quale lo affrontò e lo uccise. Ma da questa lotta per la
successione borgognona uscì Umberto Biancamano con altro e largo aumento
di gloria e di potere.

La parte ch'egli sosteneva aveva trionfato. La Borgogna era divenuta ciò
che il testamento di Rodolfo III aveva ordinato, un dominio aggiunto ai
re di Germania. Ma questi, in continua lotta cogli Slavi, cogli Ungheri
e coi Comuni italiani, non potevano dedicare troppo tempo alla
pacificazione ed all'ordinamento del nuovo dominio. Dovettero quindi
affidare ad altri l'importantissimo ufficio, e nessuno parve a ciò più
adatto del conestabile Umberto, l'intelligente e fedele amico della
regina Ermengarda, nel quale gli avvedimenti politici s'equilibravano
colle virtù militari. Così il valoroso conte, che era già stato il
consigliere di Enrico II per gli affari di Borgogna, divenne co' suoi
successori, Corrado II ed Enrico III, il depositario della loro
autorità, quasi l'_alter ego_ del principe nei territori del regno
aggiunto. Non si vede infatti che, fino alla sua morte, altri personaggi
esercitino in Borgogna azione delegata eguale o maggiore della sua.
Soltanto dopo che il suo nome scompare dalle carte e dagli eventi
dell'epoca, s'istituisce in Borgogna un organismo nuovo di Rettorato o
Vicereame, il cui primo titolare politico nell'anno 1057 è Rodolfo,
conte di Reinfelden.

È in questo ventennio, fra il 1035 e il 1055, che la casa Umbertina
grandeggia e comincia a pigliare andamenti e diritti di sovranità
indipendente. I favori imperiali piovono su di essa, a misura che il
loro capo consolida, colla sua forte e savia amministrazione, la
riunione della Borgogna all'Impero. Quindi, l'alto dominio sulla valle
di Maurienne, la contea di Belley, il Chiablese, la Tarantasia, i
castelli di Morat e di Chillon, una gran parte del basso Vallese vengono
ad aggiungersi, per donazione di principe, agli antichi possedimenti del
conte Umberto. La famiglia savoina viene sempre più risalendo i versanti
occidentali delle Alpi; pensiero giusto e politico dei re di Germania, i
quali, avendo più volte a combattere nemici così nella valle del Rodano
come in quella del Po, sentono l'utilità di lasciare le chiavi del
passaggio fra queste due valli nelle mani d'un custode fedele e potente,
che non se le lascerà togliere nè da insidie nè da minaccie.

Assicurato da questa fiducia, il Biancamano non ha più che a lottare
contro giurisdizioni vescovili, per lo più sprovvedute di titoli
legittimi, e usurpate durante il lungo e fiacco dominio dell'ultimo re,
ed egli le combatte in due modi: mostrandosi più forte dei vescovi,
allorchè questi spingono l'audacia fino ad assumere contegno di
ribellione; mostrandosi più generoso di loro, nei territorî dove la
doppia giurisdizione coesiste.

Così egli è costretto a combattere colle armi Everardo, vescovo di San
Giovanni nella Morienna, che aveva chiuso in faccia alle milizie
imperiali le porte della città. Questa venne presa d'assalto e data alle
fiamme; ma, temperando gli ordini crudeli ricevuti dall'imperatore,
Umberto non permise che l'onore e la vita degli abitanti restassero in
balìa della soldatesca sfrenata, come allora avveniva regolarmente dopo
ogni successo di questa natura.

Contemporaneamente egli largheggiava in beneficenze, in erezione di
chiese e di conventi, in donazioni a monasteri e a comuni; e siccome i
prelati dell'epoca erano d'ordinario più tenaci nell'acquistare che nel
donare, la popolarità di Umberto si veniva fondando sopra due fra i
sentimenti umani più universali: il rispetto che impone la forza, la
simpatia che inspira la generosità.

Anche ne' suoi concetti di governo, il Biancamano mostrava una larghezza
d'intelletto, che lascia presagire l'avvicinarsi della civiltà. Quel suo
rispetto per la vita e per l'onore dei vinti lo stacca nobilmente da
tutta la tradizione contemporanea, che pur troppo avrebbe trasmessa ad
altri secoli la crudele indifferenza dei Principi verso i più sacri
diritti dell'umanità. E già si affaccia alla mente di Umberto il germe
prezioso della pubblica economia; perchè appare mescolato alle
trattative condotte qualche anno prima fra la Borgogna e il savio re
Canuto di Danimarca, per istringere fra i due paesi un trattato che
guarentisse ai commercianti libertà di passaggi e di scambî.

Queste le glorie, le fortune, le opinioni del conte Umberto dalle
bianche mani. Senonchè finora sul nostro personaggio non vediamo
scendere quel fato che lo farà progenitore della dinastia italiana. Egli
possiede bensì in Italia, ma infinitamente meno che nella Savoia e nella
Borgogna. Egli è soprattutto un alto rappresentante dei re di Germania
nella valle del Rodano. È un principe borgognone ed ha sposato Ancilia,
una figlia dei principi del Vallese. Occupa la sommità delle Alpi e
dispone dei tre passaggi allora più facilmente usati, il Moncenisio, il
piccolo San Bernardo e il gran San Bernardo. Ma nulla addita che il suo
avvenire lo porti a scendere piuttosto il versante orientale che il
versante occidentale di queste cime. Finalmente nel 1045 il fato
smaschera le sue batterie. Cupido s'incarica di combattere, e, come al
solito, di battere Marte. La guerra di Borgogna avrebbe potuto
determinare una dinastia francese: un matrimonio determina la dinastia
italiana.

                                 *

Tra le famiglie giunte rapidamente a grande Stato sul versante alpino
opposto a quello così largamente dominato dal conte Umberto, era la più
illustre, per vastità di possessi e rinomanza di imprese, quella di cui
era capo Olderico Manfredi, marchese di Torino.

A differenza della famiglia Umbertina, era di origine forestiera, poichè
discendeva da un soldato germanico, Arduino, venuto a cercar fortuna in
Italia sui primi anni del secolo antecedente. E la fortuna era venuta,
insieme all'onore, poichè la famiglia Arduinica era stata fra le più
risolute nel combattere e nello scacciare dalle Alpi i Saraceni: impresa
che creava in quel tempo, e giustamente, la nobiltà delle stirpi e
l'aureola degli eroismi.

Alla fine del 900 troviamo già Olderico Manfredi, signore di Torino e di
Susa, proprietario, per eredità materna, di vasti dominî, posti nel
marchesato di Mantova, e sposo a Berta, figlia di un altro marchese,
Oberto d'Este, signore di Genova. Vent'anni dopo, la fine drammatica del
re Arduino mette a disposizione del re di Germania il vastissimo
marchesato d'Ivrea; e questo, per singolare benevolenza di Corrado il
Salico, viene aggiunto ai dominî di Olderico Manfredi, il quale si trova
così divenuto il maggior proprietario delle valli insubri e
probabilmente l'unico personaggio investito di due marchesati in Italia.

Poichè non era piccola dignità nè piccola cura in quei tempi l'essere
marchese.

Più dei duchi e più dei conti, dei quali ho avuto occasione
d'intrattenervi a proposito di Milano, i “marchesi„ rappresentavano
quella massima forma di sovranità che era possibile esercitare, dopo e
sotto l'autorità suprema dell'impero feudale.

A Milano, e in genere nelle città di pianura, prevalevano i conti; ma
alle falde delle Alpi e degli Appennini, d'onde calavano d'ordinario i
nemici, prevaleva l'istituzione dei marchesati, i quali raggruppavano
sotto essi parecchie contee, ed erano propriamente grandi autorità
militari, destinate a contenere, a frenare o a respingere i primi
assalti di nuovi invasori. Perciò la dignità marchionale, pur essendosi
tramutata in ereditaria, come le altre dignità feudali, non era però mai
trasmessa alle donne, nelle quali non si supponeva sufficiente il genio
militare. E infatti, non sono marchese, ma contesse, quell'Adelaide e
quella Matilde, alla cui grandezza ed autorità politica s'inchinarono in
quel tempo i più potenti uomini dell'Europa.

Non erano stati che tre in origine i marchesati istituiti da Carlo Magno
in Italia: quello del Friuli, quello di Spoleto e quello di Toscana. A
dieci erano saliti verso la fine del secolo decimo; e di questi il
territorio corrispondente al Piemonte odierno ne comprendeva soli
quattro: quello di Torino, quello d'Ivrea, quello di Genova, affidato
agli Obertenghi, e quello di Savona, occupato dagli Aleramici, intorno
alla cui leggenda ha scritto un dramma così soave quel simpatico ingegno
di Leopoldo Marenco.

È facile dunque immaginarsi che potenza e che riputazione dovesse avere
il capo di una famiglia, nella quale si trovavano congiunti due
marchesati. Senza notare che fratello ad Olderico Manfredi era il
signore del potente comitato di Asti, quel vescovo Alrico, che doveva
più tardi mescolarsi nelle guerre civili di Milano e perire fra quelle
stragi.

Per Ivrea e per Susa i dominî di Olderico Manfredi si riattaccavano, al
di qua e al di là delle Alpi, con quelli del conte Umberto Biancamano;
sicchè poco dovettero tardare le due illustri famiglie a stringere fra
esse rapporti amich_e_voli; i quali, per fortuna loro e nostra,
riuscirono ad un matrimonio fra Oddone, quarto figlio del conte Umberto,
ed Adelaide, primogenita del marchese Olderico.

Questa unione, avvenuta, pare, nel 1045, pose il suggello alla grandezza
politica della casa Umbertina. Questa cominciò a poco a poco a staccarsi
dalle sue valli indigene per salire alla sommità delle Alpi e di là
scendere, come disse il poeta, colle onde del Po. Da conti in Borgogna
preferirono diventare marchesi in Italia; vuoi perchè l'antica
tradizione romana flagellasse involontariamente il sangue di chi era
diventato borgognone solamente a metà; vuoi perchè il sorriso del nostro
cielo e la speranza di più gentile dominio traessero quei robusti
guerrieri verso ipotesi del futuro, che il futuro non ismentì.

Dal matrimonio di Oddone colla contessa Adelaide, rimasta erede del
vasto dominio della sua famiglia, uscirono tre figli e due figlie. Uno
dei primi andò vescovo e si appartò dalle famigliari vicende. Pietro ed
Amedeo governarono dopo la morte del padre; ma, premorti entrambi alla
madre, la loro fama rimase assorbita dall'attività e dall'autorità
personale che questa seppe esercitare fino alla morte.

Le due figlie furono entrambe imperatrici di Germania e destinate a
combattersi. L'una, Berta di nome, sposò quell'Enrico IV della casa di
Franconia, che doveva giungere a celebrità piuttosto per la sua
abbiezione a Canossa che pe' suoi trionfi a Roma. L'altra, Adelaide,
impalmava quel Rodolfo di Rheinfeld che abbiamo visto succedere a
Umberto Biancamano nella somma autorità di Borgogna, e che appunto i
ribelli tedeschi, impauriti dalla scomunica di Gregorio VII, acclamarono
per qualche tempo imperatore, contro Enrico IV, ramingo e scoronato.

Bastano questi eccelsi parentadi a dimostrare che importanza avesse già
raggiunta in quell'epoca la famiglia dei conti di Savoia.

Il vecchio conestabile era ancor vivo, quando la piccola Berta, nipote
sua, fu promessa al fanciullo erede del trono germanico. Nessuno dei due
sposi aveva ancora raggiunta l'età di sei anni; sicchè il matrimonio
effettivo non ebbe luogo che dodici anni dopo, nel 1067. Ma allora il
Biancamano era già sceso nella tomba, che vollero sicura ed onorata
nella loro cattedrale i cittadini di Saint-Jean di Maurienne. Singolare
omaggio reso al capostipite dei Savoia da quella città che, per ordine
suo, aveva dovuto essere pochi anni prima presa d'assalto! Omaggio che
vale da solo parecchi di quei monumenti, nei quali non è riconoscenza o
perdono di popoli, ma lusso di marmi e vanità di artisti!

                                 *

Il secondo eroe della casa di Savoia è certamente la contessa Adelaide;
che, in nome dei figli, e più dei figli, e senza i figli, governò il
vasto Stato fino al 1091, nel quale anno, quasi ottuagenaria, mori.
Donna di alti spiriti, di fermo consiglio e di virile risolutezza, che
assai rassomiglia all'amica ed emula sua, la contessa Matilde di
Toscana. Cara ai maggiori prelati dell'epoca, come Ildebrando e san Pier
Damiano, che le scrivevano affettuosissime lettere, mescolava ai terreni
interessi la pietà religiosa, in quella misura soltanto che non turbasse
l'intera guarentigia dei primi. Delle libertà comunali non ebbe il
sentore; anzi, non esitò a far scempio della città di Asti, appena le
parve che questa mirasse a scuotere l'alto dominio della famiglia sua.
Ma in verità, richiedere dai principi d'allora incoraggiamento ad
emancipazioni politiche sarebbe una esigenza che nessun salto storico
potrebbe giustificare. Bastava che allora i principi fossero giusti,
umani, generosi, e ad Adelaide queste virtù non mancavano. Sarebbe poi
toccato all'erede e nipote suo, Umberto II, di aiutare, alcuni anni
dopo, la costituzione di comuni indipendenti; ed è ancora una gloria per
la casa di Savoia, che, nel corso dei secoli, sia stata in Italia la
prima famiglia sovrana a mettersi per questa via.

Adelaide era già vedova da sedici anni, e da altrettanti governava, in
nome de' suoi figli, lo Stato, quando scoppiava acuta nell'alta Italia
la crisi delle relazioni fra il Papato e l'Impero.

Gregorio VII, spinto dalla logica della sua dottrina, aveva scomunicato
l'imperatore Enrico IV, e con fiera novità, prosciolto i sudditi suoi
dal loro giuramento di fedeltà. Dal canto suo, Enrico IV, spinto dal
desiderio di conservare il suo trono, aveva fatto manifestare al
terribile Pontefice il suo desiderio di trattare con lui in qualche
città di Germania.

I Papi allora erano grandi, ma non esitavano a viaggiare fuori del loro
Stato.

Gregorio VII era già arrivato nei dominî della contessa Adelaide,
diretto alle Alpi, quando udì che l'Imperatore s'era mosso egli pure per
varcarle nella direzione opposta. Incerto sulle intenzioni imperiali,
retrocedette e venne a chiudersi nel castello reggiano di Canossa, che
la contessa Matilde aveva posto a sua disposizione. E intanto la
contessa Adelaide riceveva i messaggi dell'imperiale suo genero, coi
quali la supplicava a concedergli il passaggio attraverso alle Alpi, di
cui essa era signora.

L'Imperatore infatti, traccheggiato da' suoi rivali tedeschi, s'era
visto chiusi i passi delle Alpi elvetiche e carniche; aveva dovuto
scendere a sghembo nella Borgogna; e di lì era stato costretto a
chiedere l'assenso della nobile suocera, che poco innanzi egli aveva
fieramente offesa co' suoi tentativi di divorzio dalla virtuosa Berta.

Questa però rimase anello di conciliazione fra il marito e la madre,
come la madre stette poco dipoi autorevole mediatrice fra l'Imperatore
ed il Papa.

L'incontro degli eccelsi congiunti ebbe luogo sulle rive del Lemano
verso gli ultimi giorni del 1076. E furono giornate terribili per geli e
tormente quelli in cui la splendida comitiva superò il Gran San Bernardo
per giungere a Torino. Parecchi servi perirono assiderati; e perchè lo
stesso destino fosse risparmiato alla contessa ed alla imperatrice sua
figlia, dovettero entrambe essere avvolte in pelli di buoi appena
uccisi, e portate in siffatto abbigliamento al piede della montagna.

Enrico IV aveva fretta di abboccarsi col suo formidabile antagonista;
sicchè non tardò a partire per Canossa, accompagnato dalla moglie Berta,
dalla suocera Adelaide, dal cognato Amedeo, dal conte Azzo d'Este e
dall'abate Ugo di Cluny.

L'episodio che allora si svolse nel famoso castello non ha d'uopo
d'essere per la centesima volta raccontato. Rimane nella memoria dei
posteri come un duplice eccesso, che, secondo l'indole degli eccessi,
non giovò a nessuno e nessun bene fruttò. Un immenso orgoglio a fronte
di una immensa umiliazione: ecco lo spettacolo che diedero di sè ai
contemporanei i due uomini che avrebbero dovuto, in tanto infuriare di
passioni e di eventi, mantenere al loro dissidio le forme austere della
dignità.

Più degli uomini furono in quell'episodio prudenti e savie le donne;
Adelaide specialmente, che usò di tutta la sua autorità sull'imperatore
di cui era madre e sul pontefice, a cui come figlia era cara, per
attutire gli sdegni, sollecitare gli accordi e preparare riconciliazioni
durevoli.

Non riuscì a quest'ultimo scopo, poichè l'indole umana si ribella ai
ricordi della violenza. Enrico IV e Gregorio VII, si separarono col
bacio sulle labbra e col fiele nel cuore. Entrambi finirono la loro
vita, lontani da quel potere che per entrambi era stato cagione di tanto
eccesso. Gregorio VII moriva a Salerno, ospite d'uno fra quei Principi
temporali[14], sui quali egli aveva preteso di esercitare così
orgogliosa supremazia. Enrico IV moriva di crepacuore a Liegi, deposto e
perseguitato dal figlio suo; triste vendetta delle ingiurie e dei
patimenti, fra cui aveva vissuto Berta di Savoia, moglie dell'uno e
madre dell'altro!

  [14] Roberto Guiscardo.

Così accade ai violenti, sui quali, presto o tardi, scende quella
giustizia, riparatrice, che non teme nè le tiare nè le corone.

E che ai violenti non piegasse la fronte Adelaide di Savoia, memore
forse o forse presaga della fierezza che alla sua stirpe incombeva, lo
dimostra un altro episodio, che precedette di pochi anni la sua morte.

Mentre Enrico IV, vincitore a sua volta di Gregorio VII, occupava Roma e
v'insediava un altro Papa, s'era recata la contessa Adelaide a fargli
visita; e al seguito suo s'era aggiunto, cercando protezione, un monaco,
Benedetto, abate di San Michele alla Chiusa, che aveva tenuto nell'Alta
Italia contegno favorevole al Papato contro l'Impero.

Caduto questo monaco, per insidie tesegli, nelle mani degli sgherri
imperiali, si stava per farne strazio, coll'esplicito assenso di Enrico,
quando Adelaide, saputo il fatto, si presentò immediatamente
all'Imperatore, reclamando la libertà dell'abate ch'essa aveva
guarentito contro ogni offesa. Le prime ripulse del genero non
iscoraggiarono la contessa, che dalle preghiere passò alle minaccie. E
l'Imperatore, il quale conosceva più che altri la potenza della suocera
sua, e temeva di vedersi impedito il cammino da un esercito ch'essa
avrebbe potuto radunare al piè delle Alpi, non osò prolungare la
resistenza e fece restituire al monaco la sua libertà.

Con questi modi e con questa indipendenza Adelaide regnava; e seguiva in
ciò scrupolosamente le tradizioni del conte Umberto, che ai deboli ed
agli oppressi era stato sempre largo del favor suo. Le stirpi hanno come
i paesi, una costante fisonomia; e come non riuscireste a trovare, fra
tutti gli Stuardi, un filantropo, non vi sarebbe possibile scovare un
tiranno, fra tutti i principi di Savoia.

                                 *

Quando la gran contessa morì, una specie di guerra di successione
scoppiò fra gli eredi, presunti o legittimi, e mise a brani lo Stato.

È un fatto che la storia non può dissimulare e che produsse conseguenze
durate per qualche secolo.

Ma ho già avuto qui l'occasione e l'onore di dire che nei fenomeni
storici di lunga evoluzione non è già qualche soluzione di continuità
che possa scemarne la verità o la logica. La vita umana è continuamente
interrotta dal sonno; eppur si ritrova, alla fine d'ogni intervallo,
piena di unità e di efficacia. Nè la vita dei popoli è in ciò diversa
dalla vita degli individui. Subisce alternative di stanchezza o di
sconfitta, dopo le quali il pensiero direttivo o l'istinto ripigliano lo
svolgimento di prima. Se ciò non fosse, sarebbe disperato lo sforzo di
cercare nella storia virtù di esperienza o insegnamenti di civiltà. La
storia diventerebbe un tumulto di fatti, una successione di violenze, in
mezzo alle quali nessun pensatore potrebbe trovare barlume di una legge
progressiva dell'umanità.

Chi pensa, per esempio, che la storia di Roma antica non abbia uno
svolgimento di mirabile continuità, perchè i Galli poterono spingere il
loro Brenno entro le antiche mura, ed accamparvisi come padroni?

Chi crede che non cominci da Rodolfo d'Habsburg la stirpe imperiale
d'Austria, perchè dopo suo figlio, un'altra casa di Lussemburgo ha
potuto dare due o tre sovrani alle popolazioni germaniche, lacerate
dalla guerra civile?

Lo stesso fato dominò nei primi tempi la casa di Savoia; ma essa afferrò
il fato con robuste braccia e lo vinse.

Morta Adelaide, parve per qualche tempo che la fortuna avesse
abbandonato al di qua delle Alpi, la casa Umbertina.

Il marchese Bonifacio del Vasto, lontano parente di quella casa, mosse
subito le sue forze contro Asti ed Albenga. Corrado, figlio
dell'Imperatore e nipote della defunta Adelaide, occupò le migliori
terre della contea di Torino. Lo stesso Enrico IV varcò le Alpi e scese
con un esercito sopra Montebello. E, incuorati da siffatte usurpazioni,
alcuni fra i maggiori Comuni, come Torino e Chieri, innalzarono bandiera
d'autonomia e cercarono ritornare al dominio nominale dei vescovi, che
non sempre rispettavano le libertà onde erano proclamati custodi.

Contro queste usurpazioni e queste riscosse era solo a lottare Umberto
II, figlio di Amedeo, rimasto giovanissimo a governare quegli Stati,
retti fino allora da mani così gagliarde e da esperienze così provette.

E cominciò allora un secolo di contestazione e di lotte, nelle quali la
casa di Savoia, ora avanzando, ora retrocedendo, non perdette mai il
rispetto alle sue tradizioni e la fede nel suo avvenire cisalpino. Non
abbandonò le prische sedi, poichè nelle valli savoiarde e svizzere
battagliò lungamente, mutando ed acquistando terre e castella; ma tenne
l'occhio fiso al dominio italiano, che dopo il matrimonio con Adelaide
Manfredi, era diventato il pernio della potenza e la seconda patria
della dinastia Umbertina.

Per molti lustri, il successo rimane dubbio, i contrasti son fieri; v'è
un'epoca, in cui la famiglia si spezza in due rami, e sembra che
scompaia l'unità della tradizione dinastica. Ma la virtù e la sagacia
suppliscono a qualche difetto di fortuna o di energia. Non sempre giova
affrontare la bufera alpina a viso eretto. Questa vi avvolge e vi
trascina giù pei burroni. Se invece, curvandovi, lasciate passare
l'uragano, rimanete al vostro posto e potete rizzarvi più forte e più
sicuro di prima.

È quello che hanno fatto tante volte i principi di Savoia, riprendendo,
da Susa o da Ivrea, il cammino verso quelle pianure che l'uragano
flagellava innanzi al loro passi. Finchè poi, una serie di principi
vigorosi e fortunati, Tommaso I, Pietro II, Amedeo V ricuperavano,
aumentandolo, l'antico patrimonio della contessa Adelaide; preparando
quella grandezza militare e politica, di cui toccò il vertice più tardi
il grande Emanuele Filiberto.

Fu però negli anni più aspri e più laboriosi di questa fondazione
politica che si svolsero i primi germi del programma, a cui la casa di
Savoia avrebbe dovuto i suoi trionfi italiani. Vi sono in ciò dei
presagi storici, che possono sembrare combinazioni all'osservatore
superficiale, ma che forzano il pensatore alla meditazione.

È infatti Umberto II, che, proprio nel più fitto della guerra di
successione, riconosce l'indipendenza di Asti e stringe accordi con essa
per combattere predominî feudali. È Amedeo III che, dopo il 1130,
concede a Susa il primo statuto di franchigie comunali. È Umberto III
che, nel 1175, prepara i primi accordi tra Federico Barbarossa e le
libere città lombarde. Poi, nel 1215, Tommaso I stringe, per la prima
volta, accordi politici con Milano contro il marchese di Monferrato. E
finalmente, cinquant'anni dopo, Pietro II si trova in Svizzera di fronte
a Rodolfo, allora semplice conte di Habsburg, e duramente lo batte;
singolare e provvidenziale contesa, che cominciava proprio tra il primo
fondatore della casa d'Austria e il ristauratore della casa di Savoia,
quella secolare rivalità di cui abbiamo visto forse l'ultimo atto nella
guerra del 1866.

Vanti non piccoli questi, della dinastia che ci regge; poichè, se è
facile mostrare generosità e benevolenza, durante i periodi in cui la
fortuna accarezza, lo accentuare, nell'epoca dei pericoli, quelle idee e
quei propositi che poi governeranno l'epoca della prosperità, è
previdenza che non a tutti sorride, — è saviezza che molti avrebbero
dimenticata, sotto il pretesto della sventura.

Ora, è proprio la sventura il crogiuolo in cui s'affinano le anime
grandi. Ed è questa l'aristocrazia specialissima della famiglia, di cui
studiamo le origini; aristocrazia che innalza il carattere di Umberto
Biancamano quando s'incammina a Zurigo, custode della detronizzata
Ermengarda, e che innalza il carattere di Carlo Alberto, quando
s'incammina ad Oporto, per salvare colla dignità della stirpe l'avvenire
d'Italia.

Quelle disposizioni dei primi Umberti a favore dei Comuni, appena usciti
dall'infanzia feudale; quel desiderio di creare in pieno medio evo
solidarietà politiche colla Lombardia o colla Toscana; quell'istinto che
metteva contro Rodolfo d'Habsburg i soldati d'un principe di Savoia,
preannunciano fin dai secoli oscuri le qualità che renderanno popolare,
nei tempi moderni, la dinastia: vale a dire, la fede nei principi
liberali, l'accortezza nelle alleanze, il proposito dell'indipendenza,
la virtù militare, che non odia i nemici, ma non li conta.

Se questa non è legge istorica, non sappiamo qual sia; e in verità è
difficile pensare che altri istituti, altre compagini umane possano
vantare fra le loro origini e la fine dei loro svolgimenti eguale
coerenza di tradizioni.

Umberto Biancamano, nel secolo XI protegge i suoi nemici contro
l'abitudine del saccheggio. Pietro II nel secolo XIII adotta per motto
suo: _la sovranità viene da Dio, quando è esercitata a beneficio dei
popoli_. Vittorio Amedeo II nel secolo XVII spezza il suo collare
dell'Annunciata per dividerne i brani fra il popolo afflitto dalla
carestia. Umberto I nel secolo XIX si tuffa nei contagi omicidi per dare
ai popolani sofferenti quel conforto che viene dalla calma, dal
coraggio, dalla fiducia.

L'unità dei pensieri e l'unità d'istinti non potrebbero avere, io credo,
più perfetta dimostrazione.

                                 *

Del resto, ad altre dimostrazioni e ad altre unità si presterebbe
l'argomento, se volessimo discendere dai primi agli ultimi della
famiglia Umbertina, o risalire dagli ultimi ai primi.

Ma, dopo avermi tollerato come istorico, non vorrei mi accusaste di
scendere a cortigiano. Ora, i cortigiani che sono ordinariamente
accaniti ad inventare le origini delle dinastie, sono, anche più
ordinariamente, accaniti a parteciparne le decadenze.

Dio mi tolga dunque, ora e sempre, dal numero e dall'abbiezione.

Discorrere delle Case sovrane è stato difficile, finchè le ragioni
dell'intelletto erano soverchiate dalla prepotenza dei privilegi.
Allora, nessuna logica correggeva gli eccessi; poichè il mondo si
divideva in dominati e dominatori; e, secondo l'influsso di questa
situazione personale, la storia diventava o adulazione o calunnia.

Il regime liberale, rendendo ai principi l'affetto dei popoli, ha reso
nel tempo stesso agli scrittori l'indipendenza e l'imparzialità del
giudizio.

Oggidì che il sovrano s'è sprofondato nelle moltitudini e vive della
loro vita, adularlo sarebbe ipocrisia, offenderlo sarebbe viltà.

Però lo scrivere di regnanti non è facile ancora, per quanto la
difficoltà abbia mutato natura. Non è facile, perchè avviene talvolta
che i cortigiani impauriti e le democrazie soddisfatte si uniscano in un
solo e intollerante grido di plauso, attraverso al quale sembri
importuna la voce severa di chi ama e teme.

Questa difficoltà è assai minore, com'è minore il pericolo, quando si
tratti di famiglie dinastiche la cui storia rimonti alle origini della
civiltà.

In questi casi la voce dei secoli può sostituire efficacemente quelle
voci contemporanee, che diventassero troppo fioche o troppo obliose; e
nella ricca e varia indole dei numerosi antenati possono i regnanti
contemporanei trovare quel senso della misura che è la suprema saggezza
dei reggitori di popoli.

Perciò mi fu grato parlarvi delle origini d'una famiglia gloriosa nei
fasti della patria; i cui principi seppero essere quasi tutti energici
senza tirannia, buoni senza debolezza, amanti di libere istituzioni
senza sminuire la dignità del loro sangue.

Se questa famiglia avesse illustrato col suo dominio qualunque altro
popolo d'Europa, i suoi ricordi desterebbero sempre nello storico il
sentimento dell'ammirazione.

Ma quando nello storico si confondono il cittadino ed il suddito,
l'ammirazione si tramuta in un complesso di affetti maggiori e diversi.
L'indagine del passato non basta più a soddisfare l'intelletto; che
vorrebbe lanciarsi nell'avvenire e cercarvi il segreto delle
inquietudini e delle speranze patriottiche.

Le une e altre autorizza la storia nel suo viaggio di lungo corso.

Ma se il progresso politico non è ridotto ad una formola menzognera,
questa storia dovrebbe quind'innanzi subire meno che nel passato la
legge dei violenti ed il capriccio dei casi; dovrebbe quind'innanzi
riposar meno sul contrasto che sull'armonia degli interessi molteplici.

Ora, chi pensi quante volte questi interessi hanno trovato efficace
difesa presso popoli pieni di fiducia e presso principi degni
d'inspirarla può dare nell'avvenire il passo alle speranze sulle
inquietudini.

Poichè — voi me lo insegnate, o signore, — quando l'amore può essere nel
tempo stesso un orgoglio, diventa il più forte e il più durevole dei
sentimenti umani.



LE ORIGINI DELLA MONARCHIA A NAPOLI

DI

RUGGERO BONGHI


_Signore e signori,_

Dante Alighieri, lo rammentate, dice, non ricordo ben dove:

    Sempre a quel ver che ha faccia di menzogna,
    Dee l'uom chiuder le labbra quanto puote,
    Perocchè senza colpa fa vergogna.

Se questo precetto va seguito sempre, io avrei dovuto pregare gli
ordinatori di queste letture, di volermi assegnare soggetto diverso da
quello, che, ben mio malgrado, mi son visto imporre; giacchè esso è tale
che, considerato sì nelle sue cause remote e sì nei suoi effetti lungo i
secoli, ha tanto di meraviglioso, che, quando io ve n'abbia discorso
parrà a voi piuttosto favola che storia; un soggetto, per soprappiù, che
s'aggira intorno a cosa mai esistita sino a tempi tanto prossimi che
molti di noi hanno convissuto più o meno con essa, eppure tanto passata,
che duriamo fatica a ricordarla noi, e dureremo anche maggior fatica a
imprimerla nella memoria o nella fantasia dei nostri figliuoli: la
monarchia napoletana.

Di fatti, chi di voi, cui non fosse noto, penserebbe, che, per
raccontarvi le origini di questa monarchia perita per sempre, io deva
forzarvi a riportare la vostra immaginativa sin su all'ottavo secolo
d.C. e trarvi meco sino alle coste della Norvegia: e mostrarvele,
queste, pullulanti di navi, e le navi spiccarsene di qua, di là, e
scorazzar per i mari che bagnano le spiaggie della Danimarca, della
Germania, dell'Inghilterra, della Francia, e cacciarsi nei fiumi, che vi
mettono foce, e penetrare più che possono, entro terra, e mettervi a
ruba e a sacco ogni cosa, e uccidervi o portar via uomini, rapire o
violare e trucidare donne, fanciulli, e tornare a casa, ricche di preda
e di gloria? Eppure, o signore, è così. Portano un illustre nome nella
storia cotesti pirati del settentrione: Vikingi, checchè questo nome
voglia dire, abitanti o assalitori di rade. Alle lor vittime parevano
corsari del mare; essi se ne dicevano re. E re erano. Per due o tre
secoli i popoli rivieraschi non ebbero difesa contro di loro. Nè quelli
soli delle regioni nominate dianzi. Giacchè entrarono nell'Atlantico, e
visitarono a quel gentil loro modo le spiaggie occidentali della
Francia, della Spagna; entrarono nel Mediterraneo e visitarono le
nostre. Udite questa. Sentirono in una delle loro scorrerie parlare di
Roma, della ricca, della grande Roma: a Roma, a Roma, fu il loro grido
subito. Quivi avrebbero messe le mani sulla maggior somma di ricchezza
al mondo. Quando, costeggiando le spiaggie orientali della Spagna e le
meridionali della Francia, furono giunti, discendendo quelle
dell'Italia, a Luni, vi fecero sosta poco discosto dalla foce della
Magra, sui confini della Liguria e della Etruria, cui aveva già reso
celebre e prosperoso il porto suo, quello che ora è detto della Spezia.
Era ancora città popolosa e ricca, quantunque fosse già sul declinare,
quando verso il principio della seconda metà del nono secolo cotesti
Vikingi vi approdarono. E a essi, una città che dopo scorsi cinque altri
secoli Dante avrebbe portato a esempio delle città _ite_, anzi di quelle
che non ci dovevano far parere _cosa nuova nè forte_,

    Udir come le schiatte si disfanno
    Poscia che le cittadi termine hanno,

a essi parve Roma: tanto grande n'era il porto. Li comandava un Hasting,
e si traeva dietro un dugento navi di quelle ch'essi chiamavano
_suckhar_, serpenti, _trakur_, dragoni, nomi di agguato e di spavento.
Ai Lunesi la notizia di così triste arrivo pervenne mentre celebravano
nella cattedrale la festa del Natale e ne furono, sì, sgomenti, ma non
tanto che non corressero a chiuder le porte e s'armassero a difesa.
Hasting mandò loro a dire che non nutriva nessuna cattiva intenzione,
lui; sbalestrato dai venti, aspettava di potere andar via; per ora
implorava soltanto che gli si lasciasse vettovagliare la ciurma, e per
sè, poichè si sentiva morire, il battesimo; nient'altro. S'ebbe vino,
pane, ogni cosa; e, quanto al battesimo, entrasse pure in città e
venisse in chiesa a farvisi battezzare. Si lasciò portare: non era in
grado, diceva, di camminare; tanto si sentiva in fin di vita; e non
v'era segno di verace e tormentosa agonia che non desse. Fu cerimonia
solenne; il vescovo volle celebrare la funzione lui; gli fece da compare
il conte. Ed egli scongiurava: “Pochi giorni mi restano, seppellitemi
qui, in questo luogo che m'è sì caro; seppellitemi da cristiano.„ Fu
riportato alla nave. A breve andare, si sparse voce che, diffatti, egli
era morto. I suoi lo allogarono nella bara, rivestito del giaco e colla
spada al fianco; e fecero così gran corrotto, e con così alti lamenti e
grida che più non avrebbero fatto se fosse morto davvero. E se ne
andarono colla bara alle porte della città, e quivi, piangendo,
scongiurando, chiesero che lor si aprissero, e si desse riposo al
cadavere del lor capitano, del lor padre, del loro fratello colà dov'era
risorto a vita di spirito. E i cittadini acconsentirono. Apriron le
porte, ricevettero il morto con grande onore. Le campane suonavano a
stormo; preti e signori, ricchi e poveri accompagnavano
processionalmente. Il vescovo cantò la messa funebre, lui. Ma ecco che,
quando fu finita ogni cerimonia, quando si fu per alzare la bara, il
morto ne saltò fuori. Com'egli era armato, così erano tutti i suoi, che
erano entrati in città e in chiesa in sua compagnia. Avevan nascosto
corazze e spade sotto le cappe. Fecero infinita strage. I primi ad avere
mozzato il capo furono il vescovo e il conte compare. Poi, usciti di
chiesa, misero a ruba la città; poi la campagna. Non seppero, se non
dopo compita l'opera, che la città non era Roma. Tornarono di dove eran
venuti; e io non ve ne avrei discorso sin qui, se l'avvenimento, che può
anche non essere in tutto vero, non mostrasse le qualità principali e
costanti della stirpe, sinchè durò intatta: nessuna più temeraria, più
astuta, più crudele al bisogno, più soverchiatrice e più ingorda di
essa.

Come e perchè cotesto sciame di corsari uscisse dalla terra natìa e si
spandesse da per tutto, è facile intendere; si trovavano troppi a casa,
e la casa, per giunta, era povera. Tedeschi di stirpe, e certo cacciati
dalla spinta di altre genti o della stessa loro famiglia o di diversa in
quella estrema penisola, dovevano forse ricordare con desiderio le
spiaggie perse da secoli. E vi ritornavano con desiderio. Ma non vi
ritornavano quali n'erano partiti. Nella nuova lor patria il fragore dei
ghiacciai e il tono delle valanghe, durante la lunga notte polare
rischiarata soltanto dalla fiamma sparsa dall'aurora boreale; il muggire
dell'onde sbattute dalla tempesta sulle spiaggie cavernose dei seni di
mare, le folte e scure selve, e la state che scoppia a un tratto, e
riveste le roccie e le creste dei monti della betula odorosa e verde,
mentre il sole sale sempre più alto e gitta i suoi arcobaleni sulle
cascate spumanti; e il bagliore dei raggi che si riflettono dai campi di
ghiaccio, e la luce verdognola, cangiante, che ne riempie le grotte
cristalline, destavano nei lor petti una meraviglia mesta e pensosa.
Tutta la lor credenza religiosa n'era colorita e formata. L'universo si
figuravano fosse colmato tutto dall'albero dell'esistenza, il frassino
Yggdrasil, che vien su del Nifl, il regno dei morti. A' suoi piedi
sgorga gorgogliando la fonte del Mimer, e laggiù nel regno buio stanno a
sedere tre Norne, tre Parche, sorelle, l'età passata, la presente e la
futura, che ne innaffiano le radici e filano i fili dei fati umani.
L'impero della terra è diviso tra gli Asi, i buoni Iddii, che
rappresentano la luce e il calor della state, e gli Iotuni, mostri
giganteschi, che figurano il gelo, la tenebra, la tempesta di neve.
Quegli abitano in su nell'Asgard; questi in giù, al buio nello Iotum.
Principale tra gli Asi è Odino, il signore del cielo e della terra,
cogli occhi di foco; il padre degli uccisi in battaglia, che gli
accoglie presso di sè nel Walhalla. E v'era altri Asi appena meno
potenti. E non mancava loro il conforto, cui niente oltrepassa, la
compagnia della donna; Frigga, moglie di Odino, Freya, la dea tutelare
dell'amore, Iduna, la custode dei pomi di cui gli Asi vivono in una
giovinezza eterna, divinatrice del futuro. Ma a cotesti benefici Iddii
stanno di contro i perversi, mostri terribili: il lupo Feuris, il
serpente Midgard, e Hel. Come padre degli Asi fu Allfadur, così degli
Iotuni fu Loki. Padre e figliuoli, Odino vinse e variamente punì; ma
quando il bellissimo Baldur, figliuolo di Odino e di Frigga, morì, la
fortuna degli Asi cominciò a declinare. Aveva pur presentito la madre
che sarebbe morto! Aveva chiesto a tutti gli elementi, a tutti, a tutte
le creature, a tutte, di non recargli danno: e l'avevan giurato. Pure
quel furbo di Loki le trasse di bocca, che una sola creatura, una sola,
non l'aveva giurato: un arboscello, il vischio. E Loki persuase il cieco
Hodur di colpire Baldur con un rametto di vischio. E il bellissimo
Baldur cadde a terra spento; e Nanna, la moglie, che si struggeva per
lui di un infinito amore, lo seguì. E la stessa sorte toccherà agli Asi
tutti, il giorno che perirà la terra; dovranno dileguarsi e sparire, nel
crepuscolo degli Dii. Tre inverni, non interrotti da nessuna state, si
seguiranno l'un l'altro; si ottenebrerà il sole; una sciagura incalzerà
l'altra; per l'intiero mondo infurierà la guerra. Surtur, il principe
del fuoco, verrà da mezzogiorno a passo a passo; il cielo si fenderà; e
attraverso le suo fenditure gli spiriti del fuoco irromperanno. Sotto i
lor passi il ponte del cielo rovinerà. Nel settentrione il lupo Feuris
si sprigionerà dalla sua catena. La nave Negilfari, tratta dalle unghie
dei morti, sarà condotta dal gigante Hymir verso Oriente, e di quivi si
avvicinerà l'esercito dei cattivi spiriti, menati da Loki. I giganti di
ghiaccio e il cane dell'inferno Garmer s'affretteranno al ritrovo. Tutti
converranno nelle pianure Oscornar. Ed ecco il custode del cielo
Heimdall soffiar nel suo corno; e gli Dii marciare a battaglia, e tutti
gli eroi seguirli, quanti ne son periti dal principio dei tempi. Il
frassino Yggdrasil vacilla, divelto dalle radici. L'aquila gigantesca
divora crocidando i cadaveri dei caduti; il serpente Midgard,
divincolandosi, vien fuori dal mare sputando veleno. Thor, sì, l'uccide;
ma l'uccisore alla sua volta è soffocato dal veleno vomitato dal suo
nemico. Feuris ingoia Allfadur, ma anch'egli muore. Loki e Heimdall si
trucidano l'un l'altro. Gli astri si spengono; fiamme dissolvono la
compagine della terra. E la terra si sprofonda nel mare; ma dal mare una
nuova terra emerge; gli Asi si destano da morte, e con loro sorge un
uman genere ringiovanito.

Vi parrà, che in questo intreccio di fantasie cosmogoniche e religiose
nulla vi sia di cui ci si giovi. Nulla, di certo; forse vi avrete
raccolto qualche eco di racconti già uditi, stranamente confusi con
invenzioni nuove; ma ciò al soggetto nostro non preme. Al soggetto
nostro preme osservare che, come le religioni sogliono, anche questa dei
Vikingi o dei Norvegi era atta ad aprirne gli spiriti e lasciarli
spaziare più in là e più in su, a metter loro davanti il contrasto del
bene e del male; ad arricchirli di qualche idealità avvivatrice.
Difatti, se gli abbiamo visti, i Vikingi, astuti e soperchiatori, pure
non era sola la preda che li allettava a' pericoli, bensì ancora gli
abbagliava la gloria, com'essi la intendevano, la vaghezza del nuovo.
“Chi vuole„, dicevano, “col suo coraggio acquistare gloria, deve persino
innanzi a tre nemici non trarsi indietro; soltanto avanti a quattro può
fuggire senza vergogna.„ E il premio che s'aspettavano, era, dopo morte,
il banchettar con Odino lassù e con quanti altri eroi erano morti prima
o dopo. Nè volevano la battaglia, la morte, priva di canto. Le corti dei
principi, dei capi, le navi stesse, mentre scorrevano il mare, eran
piene dei lor cantori, gli Scaldi, ai quali spettava celebrare nei versi
le imprese dei valorosi. Nessuna persona più accetta di loro nei palazzi
dei grandi. Cantavano poesie loro, poesie di loro antecessori avanti ad
essi. Ne ricevevano in ricambio ricchi doni. I cortigiani avevano
obbligo d'imparare a mente i versi cantati e diffonderli. Non tutto,
vedete, nei paesi e nei tempi barbari è men civile che nei paesi e tempi
civili.

Così vaghi di glorie e di avventure accrebbero la loro e la nostra
cognizione della terra. Nel 861 Nadodd fu gettato da una terribile
tempesta sulle coste di una terra ignota; la chiamò come la vide, _terra
di_ _neve_, ne tornò sgomento della natura selvaggia, in mezzo a cui
s'era visto; ma uno svedese, Gardar Svafarson, vi approdò da capo più
tardi e la chiamò _Gardarsholm_, isola di Gardar. Altri, cacciati o da
timori o da speranze o da voglia di libero vivere, scoversero l'Islanda,
Ingolfshodi; traevano il nome o dal proprio loco o dalla natura
visibile. Nè qui si fermarono. Verso la fine del decimo secolo Eirek il
rosso, sbandito dalla patria per un omicidio, allestì una nave
gigantesca col disegno di veleggiare verso mezzogiorno; non mosse solo,
ma accompagnato da audaci. Nel 982 vide distendersi dinanzi a lui una
lunga costa, coronata da un ghiacciaio; non sostò nè mutò rotta; sinchè
non ebbe incontrata una regione, che per essere di state verdeggiava
tutta e la chiamò Groenlandia, e vi chiamò altri. Fra questi un Bjarni,
in un viaggio con una propria nave, si trovò una volta a vagare molti
giorni e notti senza sapere dove fosse. Da molti giorni non vedeva il
sole, quando gli si mostrò una terra, che nè a lui nè a' suoi compagni
parve la Groenlandia. Non vi si ancorò; navigò più oltre; e dopo due
giorni e due notti gli sorsero davanti due strisce di costa, delle quali
la seconda mostrava grandi monti di ghiaccio. E neanche qui si sentì
invogliato a sbarcare; avanzò; e, menato via da un forte libeccio,
scoverse dopo quattro giorni una quarta terra e vi discese. Quivi trovò
il padre Herjulf, che senza sua saputa vi dimorava, e accolto
lietamente, vi rimase il resto della vita. Che terre erano queste?
L'ultima, si congettura fosse la costa del Massachusetts; la seconda, la
Nuova Scozia; la terza, non è ben chiaro; forse il nuovo Fundland. Così
avrebbero rinvenuto l'America un cinque secoli e più prima di Colombo,
se gli uomini vedessero davvero le cose, prima di esser maturi a vederle
e a giovarsene. Nè Bjarni restò poi solo. Un Leif, figliuolo di
quell'Eirek, scoperse il Labrador e rivide la Nuova Scozia, che chiamò
Terra del vino poichè vi abbondavano rigogliose le viti; nel 792 vi
tornò il fratello Thorwald, e pose la sua sede in quella che fu poi
chiamata isola di Rhode; e se ne spiccò per spiare il paese verso
settentrione, ma fu viaggio funesto. Giunto, si crede, alla montagna di
Gurnet nel golfo di Plymouth, l'uccisero. Ed altri seguirono; ma questi
bastano a mostrare un aspetto di questa indole Vikinga, il più adatto a
spiegare la loro azione sul mondo.

Giacchè i Vikingi amavano di uscire di casa e andare a risiedere persino
in regioni ignote e selvaggie, come non avrebbero sentita la voglia di
prender dimora in regioni relativamente civili alle cui spiaggie
approdavano o per i cui fiumi s'internavano? Una delle prime di queste
era la Francia nella sua costa settentrionale, lì dove era a quei tempi
chiamata Neustria. Risalivano la Senna: bruciavano a dritta e a manca.
Parigi gli attirava. Vi penetrarono nel 857; ne bruciarono le chiese: ne
misero a ruba le case: la città si riscattò a denaro, ma v'eran rimasti
cinque anni. Ventotto anni dopo vi tornarono forti di settecento navi.
Il fiume n'era ricoperto per un tratto di due miglia. Ma la città,
istruita dalle precedenti invasioni, s'era afforzata. Fu variamente,
gagliardamente attaccata, ma anche gagliardamente difesa. Così l'anno
dopo. Come alla battaglia di Regillo, Castore e Polluce erano apparsi in
aiuto a' Romani, così a' Parigini venne in aiuto tutto un esercito
celeste. Il capo dei Vikingi stanco accondiscese ad andar via per
denaro; gliene fu dato: andò. Ma non tutti i suoi lo seguirono; parecchi
restarono; e ritentarono gli assalti. Nè si mossero, sinchè Carlo il
Grosso non si fu avvicinato con un esercito, non già per usarlo a
cacciarli via colla forza, ma per pagare la ritirata anche a questi.
Eran rimasti dieci mesi; ma non perchè Parigi avea lor resistito, se ne
tornavano a casa. Anzi si spandevano per le regioni a settentrione di
Parigi, e vi si stanziavano. Già nel principio del decimo secolo la
popolazione v'era di Vikingi in gran parte. Anzi la difendevano contro
altri Vikingi, meglio che i Franchi non avevano fatto contro loro. Nel
911 un Rollo, o Rollone, — uomo di tale corporatura che non c'era
cavallo che lo reggesse, ond'era costretto ad andare sempre a piedi,
sicchè ne aveva avuto soprannome di _camminatore_, — chiese a Carlo il
Semplice licenza di stabilirvisi addirittura, e l'ebbe. Così quella
parte di Neustria che i Vikingi occuparono con lui, mutò nome, e si
chiamò quind'innanzi Normandia; giacchè i Vikingi eran detti altresì
Northmen, uomini del Nord, o, come noi diciamo, senza più intendere il
nome, Normanni.

La cessione di quel tratto di terra lungo la Senna dall'Epta e dall'Eure
al mare non fu fatta da Carlo volentieri: ma l'arcivescovo di Rouen non
potette ottenere da Rollone a miglior patto che si ritirasse dai confini
della Borgogna, dov'era giunto, e vi aveva vinto il Duca. Già questo
patto, così duramente imposto, mostra in quali condizioni fosse allora
la Francia. Mentre i Normanni la disertavano a settentrione, facevan
peggio i Saraceni a mezzo giorno. La debolezza del Principe,
l'indisciplina e l'insubordinatezza dei grandi, la mala sicurezza di
tutti vi avevano disciolto ogni ordine. La leggenda — quella stessa che
l'Ariosto ha verseggiata — fece poi di tutti i Carli della dinastia
Carolingia, dal Magno al Semplice, uno solo; e dei Normanni e dei
Saraceni un sol popolo, i Pagani; sicchè questi e non quelli fu cantato
ponessero l'assedio a Parigi. Una storia piena di confusione e di
disordine fu dalla leggenda confusa e disordinata peggio. Ma Rollone
sapeva chi egli era, e che forza sarebbe stata la sua. Quando in
Saint-Clair venne a colloquio con Carlo, gli porse la mano, ed
essendoglisi fatto segno, che dovesse baciargli il piede, vi si ricusò.
Dette però ordine a un Normanno di farlo in sua vece; e questi tirò
tanto in su il piede del Re, che lo gittò rovescioni per terra. Ecco
come il nuovo nasce, e tratta il vecchio; è insolente di sua natura.

Intanto i Vikingi, i Normanni, i Pagani bianchi, _Fiun Gail_, i Pagani
neri, _dubh Gail_, i Madjus, com'eran variamente chiamati da popolazioni
cristiane o musulmane, s'eran già cominciati a convertire al
cristianesimo. Il loro sentimento religioso non era forte: come prima
non s'eran mai proposto di propagare la fede di Odino, così parvero
abbracciare la fede di Cristo piuttosto per ragion politica, che per
salvare le anime. L'arcivescovo di Rouen riuscì a battezzare Rollone e i
suoi seguaci, e Rollone mutò il nome in Roberto. A ogni modo nè la fede
mutata nè la nuova sede assicurata e tranquilla tolse ai Normanni
l'antica voglia di vagare per mare e per terra in cerca di nuove
avventure. Una di queste ci preme.

Nel quinto secolo d. C. un cittadino di Siponto, la Manfredonia di ora,
ai piedi del Gargano, ebbe tanta grazia da Dio, che in una grotta non
discosto dalla cima del monte vide l'arcangelo Michele, quel medesimo
che, nella battaglia coll'angelo Lucifero, lo incalzò per modo colla
spada di fuoco da precipitarlo addirittura in inferno. L'8 maggio 493
l'arcangelo apparve di nuovo al vescovo di Siponto Lorenzo e gli ordinò
che dedicasse quella grotta a lui. Fu fatto; e maravigliosa accoglienza
trovò il nuovo culto in tutto l'Occidente. In Normandia gli fu
consacrata una cappella presso Avranches, su una roccia bagnata dal
mare, e ogni anno un infinito numero di pellegrini vi accorreva a
venerare l'arcangelo. Era naturale, che in molti sorgesse il desiderio
di peregrinare al proprio luogo in cui era apparso, al luogo che la
pietà dei fedeli aveva arricchito di doni, ed era perciò diventato preda
a vicenda di Longobardi, di Saraceni, di Greci. Vi si poteva passare chi
volesse andare in Terra Santa: e questo, il maggiore dei pellegrinaggi,
non era stato mai smesso. Covava negli animi per Terra Santa il foco che
divamperà di lì a un secolo.

Ora, un Normanno dei principali, Gisalberto Butterico, poco oltre il
1000, s'avviò pellegrino al Gargano. Non lasciava la patria senza
cagione; aveva ucciso il visconte Guglielmo, seduttore di una sua
figliuola; voleva scansare la pena che Riccardo II, il terzo successore
di Rollone, gli avrebbe di certo inflitta, poichè portava amore
all'ucciso. Menava seco i suoi quattro fratelli, Rainulfo, Asclittino,
Osmundo e Rodolfo, e altri compaesani, di molti. Bisogna accennare,
nelle mani di chi stesse a quei tempi la regione che costoro
attraversavano.

Quanta parte dell'antica popolazione, vissuta qui mentre l'Impero Romano
durò, scampasse agli strazi delle invasioni barbariche, non si può dire;
e neanche se e quanti Goti sopravvivessero alle guerre e alle conquiste,
Bizantina prima, Longobarda poi. Certo alla popolazione Romana più o
meno numerosa e alla gente gota, s'erano oramai sovrapposti Longobardi,
Greci, Saraceni. Questi ultimi cacciati sin dal 916 dal loro nido al
Garigliano, dove erano rimasti asserragliati trentaquattro anni, non
avevano mai smesso di molestare l'una o l'altra parte del territorio
napoletano, ma non erano riusciti a stabilirvisi; occupavano, sì, a
riprese città persino importanti, ma combattuti da indigeni, da Greci,
da Longobardi, non vi duravano; però, restano tuttora — nè tutti sulle
spiaggie — nomi di luoghi che li ricordano e attestano una più o meno
lunga dimora. Venivano per lo più dalla Sicilia, già conquistata da essi
via via a cominciare dalla prima metà del nono secolo, o di più lontano,
dall'Africa, e trovavano alleati nelle discordie cristiane, alimentate
dal numero dei principati Longobardi, dalla condizione incerta e
mutevole dei possessi Greci, dalle ambizioni e dalle ingordigie di
tutti: e tra tutti e più legittime, ma non meno disordinatrici, le
gelosie di più di un comune, rivendicatosi o desideroso di rivendicarsi
a libertà. Già, quanto a' principati Longobardi dopo morto Pandolfo
Capodiferro nel 981, il ducato di Benevento si era disciolto da capo in
tre; un ducato di Benevento, sminuito, un principato di Capua e uno di
Salerno. Dal primo s'eran distaccate altresì le contee dei Marsi e di
Chieti, che prima gli erano appartenute, ed avevan già fatto parte del
Ducato di Spoleto. Dalla spiaggia del Tirreno i dominî di questi
principati si distendevano entro terra sino alle falde del Gargano e
alla catena Appennina: ma qui si trovavano a contesa coi Greci, che,
possedendo la spiaggia Adriatica, e, di giunta, la Calabria, gli
affrontavano da Oriente e da Mezzogiorno. E a' principali Longobardi il
possesso stesso della spiaggia Tirrena era interrotto da ducati minori,
il cui magistrato supremo era elettivo, e che riconoscevano una cotal
sovranità preeminente all'imperatore di Costantinopoli; quantunque
l'elezione non uscisse di solito da una famiglia, e la preminenza
imperiale fosse diventata in tutto una forma vuota di effetto. Tali
erano Gaeta, Napoli, Amalfi, Sorrento.

D'altra parte i Greci avean diviso il lor _tema_ d'Italia come lo
chiamavano per ricordo dell'antico potere, in due governi: quel di
Puglia e quel di Calabria; e davano nome di _Catopano_ al governatore
del primo — o che questo sia una corruttela di capitano o che voglia
dire _sopra tutto_, — di Stratego a quel del secondo.

Felice, come vedono, condizione di popolo doveva essere questa; ma
peggio di una realtà così intricata e violenta doveva aduggiarlo
un'ombra. Due secoli prima, papa Leone III, coi suffragi del popolo di
Roma, aveva, a parer suo, ritornato in vita l'impero Romano nella
persona di Carlo Magno, incoronandolo e segnandolo colle sue mani di
sacerdote. Una confusione di idee aveva dato motivo a una creazione
siffatta; e le tenne dietro una gran confusione di fatti. Chi guardi al
successo, potrebbe sospettare, che appunto il Papato sperava di pescare
nel torbido; ma queste astuzie a lunga vista sono per lo più congetture
vane. Bisogna cercare il motivo del Papa in tutt'altro, e, certo, in
ciò, che l'Impero restaurato da Roma per le mani del sacerdozio si
sarebbe surrogato all'impero di tutt'altra origine che s'intitolava da
Bisanzio, e sarebbe stato del sacerdozio Romano e della sua primazia un
appoggio continuo e sicuro. A ogni modo quell'impero d'Occidente,
rinnovato prima nei Franchi, e trasmesso da quello ai Tedeschi,
pretendeva diritti almeno su tutte le terre già appartenute all'impero
Romano, finito nel 476. Ma a quali diritti? Non si sapeva, e il Papa lo
sapeva meno di tutti. Certo, a quelli, che secondo il suo vigor d'animo
e di braccio, ciascun imperatore avesse saputo mantenere, esercitare o
rinnovar colla spada. Intanto, nelle provincie di cui parliamo, questa
mal definita autorità imperiale era riconosciuta dai ducati Longobardi;
mentre era sconosciuta dai minori ducati e dai Greci, che avevano una
loro propria autorità imperiale, la Bizantina.

Quando quei Normanni venivano, appunto queste due autorità imperiali
eran per cozzare di nuovo; e contro la Bizantina cozzavano già i popoli
delle Puglie. Pare che di tutti cotesti reggitori i peggiori fossero i
Greci; giacchè erano anche i più civili, e quando _al mal volere e alla
possa s'aggiunge l'argomento della mente, nessun riparo_, dice ancora
Dante, _vi può far la gente_. Melo e il suo cognato Datto, due cittadini
Baresi, erano a capo di molto popolo insorti contro essi nel 1009; ma
davanti al catapano Bizantino, venuto da Costantinopoli con molto
esercito, non avevan potuto tenere il campo, e s'eran dovuti rinchiudere
in Bari; poi Bari stessa fu presa; ed essi fuggirono a mala pena, e
s'ebbero a ricoverare Melo, in Capua, Datto in Monte Cassino. Benedetto
VIII, un Papa dei buoni, eletto nell'anno stesso che vide la sconfitta
di cotesti due patrioti, li favoriva; com'egli cacciò i Saraceni da
Luni, così avrebbe voluto cacciare i Greci dalla spiaggia Adriatica. A
questa impresa gli parvero buono aiuto quei Normanni nominati dianzi.
Gli si erano presentati in Roma; egli aveva assolto Butterico
dell'omicidio commesso. Le lor persone aitanti, le lor sembianze
guerriere gli davano luogo a sperar bene. Gli mandò a Melo: e, questi,
raccolto di nuovo un esercito, riaccese la guerra. Il 1017 egli e i
Normanni vinsero nel maggio il catapano Andronico, ma ne furono
sconfitti nel giugno; non però per modo, che, se ebbero a desistere dal
marciare a Bari, non potessero persistere a conquistar terre più a
settentrione, nella Puglia, e sconfiggere alla loro volta un catapano
Contoleone venuto di fresco. Seguirono altre zuffe; la contesa finì per
allora, come un'altra più celebre, a Canne. Quivi, nel 1018, l'esercito
di Melo, di cui i Normanni erano il principal nerbo, e l'esercito
Bizantino, un'accozzaglia di assoldati di nazioni barbare, anzichè di
Greci, — e v'era persino dei Russi, che si batterono meglio di tutti, —
comandata da Basilio Botojanne, si affrontarono. A' Normanni non bastò
il valore smisurato per vincere; il numero li soverchiò. Molti rimasero
morti nella battaglia: chi fu fatto prigione; altri si rifugiarono
presso duchi, e conti Longobardi. Melo corse a Bamberga a chiedere
soccorso ad Enrico II imperatore. Trovò alla corte di questo anche il
Papa e il normanno Rodolfo. L'imperatore dette a Melo per cominciare il
titolo di Duca di Puglia, non potendo dargli la Puglia stessa: ma Melo
nell'aprile del 1020 morì. Il Papa tornò a Roma: Rodolfo restò
aspettando. E l'Imperatore per parte sua aspettava d'avere composte le
cose in Germania, dove anch'egli aveva un suo proprio ribelle, per fare
la spedizione d'Italia; giacchè i progressi dei Bizantini, vincitori a
Canne, erano tali da mettere l'autorità imperiale in pericolo di restare
nel mezzogiorno senza terre che la riconoscessero, e minacciavano
persino il Papa in Roma. Nel 1021 Enrico II fu in grado di scendere nel
suo regno d'Italia. Celebrato il Natale in Ravenna, se ne spiccò
dividendo il suo esercito in tre parti, l'una comandata da lui, le altre
due da due arcivescovi. Dei duchi Longobardi uno solo gli era rimasto
fedele, Landolfo V di Benevento; punì gli altri due; Pandolfo cacciò da
Capua, e installò in sua vece un altro Pandolfo, Conte di Teano; a
Guaimaro di Salerno chiese il figliuolo in ostaggio. Poi prese a gran
fatica Troja, — città poco innanzi fondata da Greci con questo vanitoso
nome; — e infine si risolvette a tornarsene a casa. La peste gli
decimava l'esercito, sorte comune degli eserciti forestieri nell'Italia
meridionale per più secoli. Se non gli disfacevano gli uomini, li
disfacevano le febbri. Dei Normanni altresì tornò in patria la maggior
parte; ma molti restarono. E sopratutto restò l'impressione del lor
valore nella fantasia dei popoli che gli avevano visti combattere, come
in essi stessi quella del paese in cui avevan combattuto, e perso e
vinto battaglie. Non avevan potuto, di certo, in quella prima prova,
appropriarselo, ma se fossero stati più, pensavano, l'avrebbero fatto;
ed era terra grassa e promettente. Intanto, i duchi e i principi
Longobardi si ripartirono tra di sè quelli che non andaron via.
Servivano come soldati di ventura alle lor guerre reciproche. Le quali
nessuno, credo, narrerà mai tutte; e io non ne narrerò nessuna. Chè
tutta questa non è storia, ma stoppa. Preme soltanto ricordare che a un
Normanno valoroso, per nome Rainulfo, il Duca Sergio di Napoli, nel
1029, dette una sua figliuola per moglie, la vedova contessa di Gaeta, e
per dote un territorio tra Napoli e Capua, la Contea di Aversa. Nel bel
mezzo dei suoi possessi il conte Rainulfo elevò un castello. Così un
primo Normanno si stabilì, si afforzò, mise radici.

Signori, se v'è storia, la quale provi che gli uomini fanno le cose, e
non le cose gli uomini; e che dottrine molto recenti le quali disperdono
la persona umana nell'ambiente in cui vive, son false, è quella che io
v'ho narrata sinora e sto per narrarvi; giacchè si vede la mano
dell'uomo, per il volere e l'arbitrio che la dirige, fazionarla essa.
Nel Cotentin, in Normandia, non lontano da Coutances in quello ch'è ora
il dipartimento della Manica, viveva un cavaliere, Tancredi di
Altavilla. Ebbe due mogli: l'una, Moriella, gli dette cinque figliuoli,
Guglielmo, Drogone, Umfredo, Goffredo, Serlone; l'altra, Trasenda,
sette, Roberto, Mangero, Guglielmo, Alfredo, Umberto, Tancredi, Ruggero.
La sostanza famigliare, non che bastare ai figliuoli, appena bastava al
padre. E il padre dette a ciascuno una spada e un cavallo; e gli mandò
con Dio; cercassero per il mondo gloria e fortuna. I tre primi,
Guglielmo, ch'ebbe soprannome Braccio di ferro, Drogone e Umfredo
giunsero verso il 1038 alla corte del giovine Guaimaro di Salerno,
succeduto al padre, che aveva già prima adoperato guerrieri Normanni.
Avevan condotti seco trecento cavalieri. Presero servizio
coll'imperatore greco Michele, che voleva ritogliere la Sicilia agli
Arabi. Fecero questo patto: avrebbero ricevuto in compenso metà della
preda e della terra. E da prima l'impresa riusciva; quel Guglielmo
faceva prodigi: ma Giorgio Maniace, il generale greco, non teneva il
patto. Sicchè i tre figliuoli di Tancredi si partirono da lui in
collera, e venuti sul continente, cercarono prender vendetta dei Greci.
Al che furono aiutati da un Arduino Longobardo, anch'egli offeso da
Maniace, e dal conte Rainulfo d'Aversa. La guerra cominciò nel 1041, e,
per difesa che i Greci facessero, dovettero pure abbandonare a' Normanni
e ad Arduino quasi tutte le città possedute da loro, e il Gargano per
giunta. Nel 1042 i Normanni elessero a lor capo Guglielmo Braccio di
ferro, e questi già si chiamò Conte di Puglia; e della nuova contea si
lasciò investire da Guimaro di Salerno e da Rainulfo di Aversa; dei
quali il primo, diventato molto potente, si fece in questa congiuntura
Principe Duca, e il secondo s'ebbe il Gargano e i dintorni. Ad Arduino
spettò, secondo i patti, la metà degli acquisti. Dodici altri Normanni,
che Rainulfo aveva messo insieme con Guglielmo a capo dell'impresa,
ottennero ciascuno un particolar dominio. Questi accordi conclusero in
Melfi, che sarebbe rimasta città comune a tutti.

Guglielmo morì nel 1046; i Normanni gli elessero a successore il
fratello Drogone; e Guimaro ne confermò la scelta. Davvero di dove
questi traesse il diritto d'investire e di confermare, non si vede: ma
egli s'era impossessato di Amalfi e di Capua, e aveva fatto d'un suo
fratello il Duca di Sorrento, e come aveva dato in moglie a Guglielmo la
figliuola di questo, così dava in moglie a Drogone la figliuola sua. Una
minor forza, dunque, cercava nella ricognizione d'una forza maggiore, la
ricognizione del diritto suo; e forse, questa maggior forza del Duca di
Salerno ritrovava la sua legittimità propria e quella degli altri,
nell'autorità imperiale che aveva inizialmente investito lui. Del che,
però, non si sarebbe mostrato persuaso l'imperatore Enrico III, quando
nel 1047 venne in Campania: giacchè lo costrinse a render Capua al
principe spossessato e a rinunciare al titolo di Duca. Invece investì di
sua mano Drogone e Rodolfo, succeduto a Rainolfo di Aversa e suo nipote.

Così la casa dei Normanni s'allarga; ma per ora son dominî distaccati i
loro; cresciuti sì di numero, ma sconnessi. E ora, una inimicizia
inaspettata scoppia. I primi Normanni eran venuti coll'assenso del Papa;
ma ora lor diventa avversa la politica papale. Leone IX, Papa sin dal
1048, non poteva di certo prevedere, ch'essi avrebbero costituito,
accanto allo Stato della Chiesa, uno Stato forte: il che al papato non è
mai piaciuto; e ora vedeva, che eran già più forti di quanti principi e
popoli esistevano prima di loro nello Stato attiguo. Forse, anzi certo,
neanche l'Imperatore li gradiva, come quelli che non avevano aspettato
l'investitura sua per intitolarsi Conti: e tra l'Imperatore ed il Papa
correvano allora intelligenze strette. A ogni modo il pomo della
discordia parve fosse Benevento. L'Imperatore aveva fatto dono al Papa
di questa città; ma del territorio di essa n'aveva investito Drogone.
Così il primo ducato Longobardo pagava la pena di aver parteggiato, alla
calata dell'Imperatore, per i Greci contro lui ed il Papa. E Drogone,
quanto a sè, avrebbe ben voluto che i suoi Normanni non facessero danno
ai cittadini; ma non eran facili a tenere a segno. Entravano in città, e
la taglieggiavano e in ogni altra maniera la offendevano. Drogone, non
che essere in grado d'impedirlo, fu ucciso lui a tradimento in una
chiesa, mentre Leone IX raccoglieva un esercito contro di lui. La
campagna che seguì, ebbe questa fine che il Papa, quantunque si
collegasse con Argiro, — un figliuolo di Melo, che mutata parte più
volte, era riuscito a diventar Catapano Bizantino e a ritogliere Bari a'
Normanni, — il Papa, dico, fu vinto e fatto prigione presso Civitella,
il 18 giugno 1053. Non mai prigioniero fu fatto segno di maggiori onori;
ma in compenso dovette a' vincitori accordare la signoria della Puglia,
della Calabria e della Sicilia. Di dove gli veniva il diritto di dare
roba non sua? Questo diritto papale di dare, come si accordava col
diritto imperiale di dare? Non se lo chiedevano. Andava negli spiriti
sorgendo e radicandosi l'idea di una doppia autorità universale, senza
che insieme sorgesse nessun preciso concetto dei limiti tra le due, o
che l'una su ciò consentisse coll'altra.

Umfredo, fratel di Drogone e suo successore alla contea di Puglia, e
Riccardo, Conte di Aversa, avean capitanato i Normanni in questa felice
impresa. Intanto era disceso di Normandia un altro dei fratelli di
Umfredo; però del secondo letto, Roberto. Questi più alto della persona,
che la più parte dei suoi compagni di Normandia, colla bionda
capigliatura disciolta, largo di spalle, voce sonora e imperiosa, pareva
nato a comandare; e di fatti col valore smisurato congiungeva una
qualità, non meno necessaria, l'astuzia; onde appunto ebbe soprannome
Guiscardo. Visse più anni piuttosto da bandito che da cavaliere, — se le
due parole a quei tempi avevano diverso senso, — in un castello di san
Marco, a mura di legno, non lontano da Bisignano, in provincia di
Cosenza. Di quivi si calava a far preda, occupando con agguati città o
assalendo cittadini e forestieri. Drogone il fratello glielo aveva
donato, e insieme concessogli il diritto di conquistarsi la Calabria. Un
altro Normanno, un Girardo, gli offrì una sua zia in moglie e dugento
cavalieri in aiuto. Roberto accettò tutto, zia e cavalieri; e, chiesto
licenza a Drogone, sposò Alderade, che così si chiamava la zia. Così
uniti si assoggettarono gran parte del paese. Intanto nel 1055 moriva
Umfredo, e lasciava figliuoli in età non adatta al comando. Il principio
di eredità non era già così prevalso come fece poi; si sceglieva il
successore nella famiglia; ma non era già ammesso che il principato si
dovesse necessariamente trasmettere di padre in figliuolo o figliuola.
Sicchè i Normanni elessero Roberto a successore di Umfredo; e Roberto,
senza darsi pensiero d'essere designato dal padre morente a tutore del
figliuol minorenne Abelardo, nominò sè Duca di Puglia e di Calabria.
Nicolò II glielo confermò; e il Guiscardo gli si obbligò a difender la
Chiesa. Fu più difficile ottener l'obbedienza dei Baroni: nè gli costò
poco o breve sforzo. Così si costituì tra i Normanni un principato già
grosso: ma quella conferma chiesta a' Papi, e ottenuta, di un possesso
acquistato con le armi, che pareva investirlo di diritto, in realtà lo
rendeva vacillante e gli scalzava la base di diritto proprio.

E si vide subito. Ho nominato dianzi un Riccardo Conte di Aversa. Pure,
a Rainulfo era succeduto Rodolfo: come ora invece di questo è conte
Riccardo? In un semplicissimo modo, parrebbe; Rodolfo era, bensì, morto
nel 1047; ma Riccardo non ne era il figliuolo. Egli era bensì cognato
del Guiscardo e nipote di Rainulfo; ma non eran titoli questi che
rendessero il suo titolo alla contea migliore di ogni altro. Però
nessuno più bello di lui; nessuno di più gentile aspetto; nessuno
cavaliere più ardito. E a' Normanni questi eran titoli che superavano
ogni altro. E l'elessero. Se non che egli era in carcere; ve l'aveva
gittato Drogone per punirlo, dopo averlo vinto, della gran molestia che
dava, battagliando, a vicini e a lontani. Ora, doveva per prima cosa
uscirne. Guaimaro glielo ottenne; ma non appena Conte Riccardo si vide
padrone di Aversa, volle conquistar Capua. E ci riuscì nel 1058 malgrado
i Capuani. E così finì il secondo ducato Longobardo.

Nè qui Riccardo si fermò. Un suo genero e vassallo Guglielmo di
Monstarola gli si ribellò, e si rifugiò da papa Alessandro II e lo
riconobbe a suo signore. Riccardo mosse nel 1066 contro Roma stessa e
osò intimare guerra al Papa. E il Papa ricorse per aiuto a re Errico di
Germania, che fu poi Errico IV, l'Errico di Canossa, ancor sedicenne. Il
Re non si mosse; però il suo scudiere, Duca Goffredo di Lorena e di
Toscana, fece sua la causa del Papa. Ma poichè nè Goffredo si sentiva
abbastanza forte per mettere alla ragione Riccardo, nè Riccardo era
abbastanza sicuro di potergli resistere, fu conclusa una pace. E qui si
vede come la potenza dei Papi s'intromettesse già tra i Baroni del paese
vicino e si facesse fomite di ribellioni e guarantigia di ribelli.

La potenza dei Papa era sul crescere, anzi per raggiungere il sommo dei
suoi ideali e delle sue speranze: che già Ildebrando, quel meraviglioso
uomo che nel 1073 divenne lui Papa e si chiamò Gregorio VII, governava
sin da Vittore II, cioè da diciotto anni, la Chiesa. E nella sua mente
piena d'ardore, di coraggio e di costanza aveva, secondo la inclinazione
e la scienza dei tempi, maturato il concetto, che la Chiesa,
indipendente nella sua azione, nei suoi dignitari, nei suoi beni da ogni
autorità imperiale o regia, dovesse sola esser fonte di tutto, e
soprapporsi a tutto, come autorità ch'essa era, proveniente senza
intermezzo da Dio. Non mai era stata tentata rivoluzione maggiore di
questa; e più disperata di riuscita nella integrità, almeno, del suo
disegno. Poniamo che il Papato ne avesse il diritto, dove avrebbe
trovato la forza sufficiente a incuterne il rispetto? Era un disegno
squilibrato, ma in questo squilibrio necessario tra l'ideale sognato e
il reale resistente fu l'attrattiva sua.

Però prima di vederlo codesto uomo smisurato apparir sulla scena nostra,
— la minore, del resto, delle scene in cui apparve, — dobbiamo ricordare
la maggior impresa, che intanto Roberto compiva. Un altro suo fratello
era giunto, nel 1057, da Normandia, il minore di tutti, Ruggero, con tre
sorelle, per giunta, e la madre. Anch'egli bell'uomo e da far colpo; se
non superava Roberto in valore, lo superava in bontà di cuore e
amabilità di tratto. Da prima, ebbero i due fratelli qualche dissapore;
poi, nel 1060, Roberto si risolvette a dare al fratello il comando di
una parte del suo esercito, e commettergli la conquista definitiva della
Calabria. Insieme posero l'assedio a Reggio: e la città, quantunque si
difendesse bravamente, fu presa. E così Roberto era giunto all'estremo
punto della penisola; ma egli era già stato dal Papa investito
dell'isola di rimpetto. Ruggero non ne era in minor desiderio di lui. La
Sicilia era allora in mano dei Saraceni, che v'avevano posto piede nel
827, più di due secoli innanzi, e l'avevan tolta ai Greci, che l'avean
tolta ai Goti, come questi a' Romani, e i Romani di nuovo a' Greci e a'
Fenicii, e gli uni e gli altri, rivaleggiando, ai Siculi indigeni o
piuttosto venuti d'Italia; e chi sa a qual altro popolo questi invasori
primissimi l'avranno sottratta!

L'impresa fu tentata prima da Ruggero solo nel settembre del 1060,
seguito da non più di dugento cavavalieri. Mal riuscita, fu ritentata
nel febbraio del 1061 da lui e da Roberto insieme, sollecitati da un
Saraceno due volte infedele. Non la narrerò, quantunque sia piena
d'interesse; e mi contenterò di dire, che Palermo, città che durante il
dominio Saraceno era diventata la principale dell'isola, dopo resistito
a fortissimi attacchi, si arrese nel 1072. La Chiesa vi surrogò la
Moschea, come due secoli prima la Moschea vi aveva surrogata la Chiesa:
ma come nella prima mutazione non erano stati esterminati i Cristiani e
Greci, così ora nella seconda non furono esterminati i Maomettani e
Saraceni. Anzi questi rimasero numerosi nell'isola, e diventarono per
soprappiù istrumento e forza di governo ai principi Normanni e Svevi.
Però, per quanto la tolleranza meriti lode, se anche si prescinda da'
fini politici, anzichè morali che la dettarono, se nelle vicende che
seguirono i Maomettani ebbero gran parte a mantenere il regno ai
principi Normanni e Svevi, si può dubitare se la prevalenza lasciata
talora a' Musulmani nel governo e nell'esercito, giovasse a dar solidità
allo Stato che i Normanni crearono e gli Svevi ereditarono.

Colla presa di Palermo non fu tutta compita l'occupazione dell'isola nè
questa tranquillata tutta. Ma oramai la conquista e la pacificazione
erano un processo sicuro; e dei Greci, dei Longobardi, — come vi si
chiamavano tutti gl'Italiani, — dei Saraceni che non fossero tornati in
Africa, degl'indigeni si sarebbe a mano a mano fatto un popolo solo;
giacchè è propria qualità delle isole il macerare insieme le stirpi che
le abitano, anche se molte e diverse. Intanto i due fratelli, per
principiare, presero tra loro quest'accordo, che sarebbero loro
appartenuti in comune, metà per uno, Palermo, Messina e Val Demone nel
settentrione dell'isola; e a Ruggiero la metà delle altre regioni
dell'isola o conquistate o tuttora da conquistare; e l'altra metà
insieme al lor nipote Serlone e ad un altro parente degli Altavilla,
Arisgoto di Pozzuoli. Non era combinazione da durare un pezzo. Serlone,
del resto, un valoroso, a breve andare morì ucciso con perfidia da un
Saraceno; Ruggiero ne piangeva; Guiscardo gli gridò: “Piangere, si
conviene alle donne; agli uomini vendicarsi.„ Questo tratto dipinge la
diversa natura dei due.

E Roberto e Ruggiero, aumentati ciascuno di potere, crebbero altresì di
titoli. Ruggiero, già Conte di Calabria sin dal 1062, quantunque la
possedesse solo a metà con Roberto, s'intitolò altresì Conte di Sicilia
e vi rimase a finir la conquista; l'altro, Roberto, al suo titolo di
Duca di Puglia e di Calabria, — perchè il Conte di Sicilia apparisse
vassallo con questo secondo titolo, come lo era con quello di Conte di
Calabria, — aggiunse l'altro di Duca di Sicilia e tornò sul continente.
Quivi, nel 1071 egli aveva, dopo lungo assedio, ritolto Bari a' Greci;
ma gli bisognò, tornato da Palermo, riconquistare Trani, e rimettere a
dovere i Baroni ribollenti sempre, come quelli che venuti uguali in
Italia, non vedevano perchè dovessero omaggio e obbedienza a un di loro,
quale era Roberto, e neanche al più nobile di tutti nella regione natia.
Allora tumultuavano, perchè Roberto voleva che facessero la dote alla
sua figliuola che andava sposa a Ugo margravio d'Este. Continuava così
Guiscardo ad elevarsi colle parentele. L'anno innanzi ne aveva sposata
un'altra all'imperatore d'Oriente.

E ingrossava insieme lo Stato. Sin dal 1058 aveva con un pretesto
repudiata Alderade, la compagna de' suoi poveri anni, e chiesta in
moglie a Gisolfo Principe di Salerno la sorella Sigelgaite, donna di
alto animo, che nelle imprese del marito prese non piccola parte. Tre
virtù, dice un cronista, erano in lui: ricchezza, chè nessuno era più
ricco; pietà, che nessuno era più pio; cavaliere, che nessuno era più
cavaliere; e tre virtù in lei, nobiltà di sangue, bellezza di forme e
intelligenza di spirito. Il fratello ne accordò la mano per paura; ma
l'esser diventato cognato di Guiscardo non lo salvò. Chè questi nel 1078
gli tolse colle insidie e colle armi il Principato di Salerno e lo
sbandì. Aveva già nel 1073 occupato con improvviso assalto Amalfi, e tra
le due date Sorrento. Così il terzo ducato Longobardo cadeva; e insieme
con esso due dei ducati minori.

E colla fortuna gli cresceva l'ardire. Quando l'ultimo duca di Benevento
morì nel 1078 senza figliuoli, si rifecero vive le pretensioni opposte
del Papa e dei Normanni sulla città. Il Guiscardo, che fidava per le sue
nelle armi, vi pose, senz'altro, l'assedio. Ma il Papa, ch'era Gregorio
VII, aveva anch'egli un'arme sua, molto affilata a quei tempi: lo
scomunicò. Il Guiscardo non si sentiva nella guerra contro il Papa
confortato dal consenso de' suoi; il fratello Ruggiero si profondeva in
attestazioni di devozione al Papa; Riccardo di Capua, ammalato per modo,
che morì nell'anno, gli chiedeva l'assoluzione, e restituiva alla Chiesa
tutto il mal tolto. Il Guiscardo scese a patti. Nel giugno del 1078 Papa
e Duca vennero a colloquio in Aquino. Il Duca si riconobbe vassallo del
Papa e promise di difenderne i possessi contro chi si sia; e il Papa lo
investì per vessillo — il che, si dice, fu fatto per la prima volta —
dei ducati di Puglia, di Calabria, di Sicilia, di Salerno, di Amalfi, a
patto che ne pagasse censo. Così si confermò tra il Papa e i Normanni e
i lor successori, se ne avrebbero avuti, una relazione, che già s'è
vista nascere; e che lungo quasi tutta la storia della monarchia, di cui
vi espongo l'origine, sarà gravida di guai.

Papa Gregorio non era per sè nemico ai Normanni. L'impresa di Sicilia,
come impresa di Cristiani contro a Musulmani e intesa a render l'isola
ai primi, gli andava, di certo, a genio. Era un caso di quel ripiglio di
spirito cristiano, che già si vedeva da più anni in Ispagna, e che in
breve avrebbe divampato nelle Crociate. D'altronde, egli ritrovava nei
Normanni una forza incomoda forse perchè molto vicina, ma anche, perchè
molto vicina, adatta a prontamente soccorrerlo contra l'autorità
imperiale, tra la quale e la papale imperversava più che mai la guerra
per la libertà della collazione dei beneficî ecclesiastici, così
ostinatamente pretesa da una parte, così ostinatamente negata
dall'altra. Nel 1078 Errico IV si andava già rilevando dalla umiliazione
subita a Canossa due anni innanzi, e i fatti andavano provando che la
vittoria, quivi ottenuta da Gregorio, non era stata in realtà tanta
quanta era parsa. In questa rete di circostanze confuse, certo il meglio
era per Gregorio e il Guiscardo di ritornare amici; e perchè a Guiscardo
avrebbe dovuto parere fantastico lo sperare che Gregorio avrebbe finito
col coronare lui imperatore d'Occidente in Roma?

Intanto meditava diventarlo in Oriente. Gliene dava occasione questo,
che la sua figliuola Elena, maritata nel 1097 a Costantino, figliuolo
primogenito di Michele VII, era stata rinchiusa in un monastero da un
Niceforo Botoniate, che, impossessatosi di Costantinopoli, aveva fatto
prigione lei, il marito, il suocero, già per opera di altri sbalzato dal
trono. Il Guiscardo mosse con una gran flotta a liberar la figliuola, a
buttar giù Niceforo, a metter sul trono dei Comneni non quel povero
Michele, ma sè. Gregorio VII ve l'incoraggiava. Prese Corfù; pose
l'assedio a Durazzo in Albania; ma non vi entrò che nel febbraio del
1082; chè prima ebbe a vincere nell'ottobre del 1081 una sanguinosa
battaglia. I Greci eran venuti ad affrontarlo comandati da un Comneno,
Alessio, che già aveva scacciato Niceforo e s'era alleato coi Veneziani,
perchè sciogliessero l'assedio di Durazzo da mare, mentr'egli l'avrebbe
sciolto da terra. Alla vittoria del Guiscardo aveva avuta una piccola
parte Sigelgaite: colla lancia levata ricacciava nelle file dei
combattenti i guerrieri fuggenti di Puglia. Ma Alessio non s'era
sgomento; raccoglieva nuove forze a difesa. E i Baroni di Puglia, sempre
insofferenti del giogo, minacciavano allearsi con lui contro il lor
duca; e Gregorio oramai implorava da Roma che ritornasse, venisse in
soccorso della Chiesa minacciata. Difatti Errico non cessava di creargli
antipapi, e nel 1081 discendeva armato in Italia. Anche qui un'altra
donna difendeva principalmente Gregorio, Matilde di Toscana, la gran
Contessa. Il Guiscardo si persuase che gli bisognava ritornare in
Italia; però, non ismise il disegno di un impero normanno di Oriente;
lasciò a compierlo Boemondo, l'unico figliuolo avuto da Alderade.
L'impresa infine fallì. Il Guiscardo tornato nelle Puglie ebbe prima a
reprimervi insurrezioni di Baroni; poi a correre in aiuto al Papa.
Errico aveva occupato Roma nel 1084; s'era fatto incoronare imperatore
da un suo Papa; aveva tratto il popolo dalla sua; e Gregorio s'era
dovuto rinchiudere in Castel Sant'Angelo. Guiscardo nel maggio s'accostò
a Roma con un esercito di seimila cavalli e trentamila fanti;
l'imperatore fuggì. Entrato in città non senza pericolo, ne fece
scempio: le rovine di Roma sono in gran parte opera sua. Gregorio
liberato lo seguì al suo ritorno nelle Puglie, e andò a morire il 25
maggio 1085 a Salerno. Dette a sè morendo questa testimonianza ch'egli
avesse amato la giustizia e odiato l'iniquità, e perciò morisse esule.
Che si risichi di morire esule, amando la giustizia, è vero; ma ch'egli
avesse amato la giustizia sempre, è forse men vero.

A breve andare lo seguì il Guiscardo, un uomo di ferro dietro l'altro.
Egli aveva ripigliato il suo disegno dell'impero di Oriente. Nel
settembre del 1084 era ripartito da Brindisi con una flotta di
centoventi navi; conduceva seco i suoi tre figliuoli Boemondo, Ruggiero
e Guido. Fece rotta per Corfù; ebbe a difendersi contro la flotta
veneziana che gl'impediva il passaggio; pure approdò e riconquistò
l'intera isola. Si proponeva di marciare contro Costantinopoli nella
primavera del 1085. Ma ecco che nei dintorni di Corfù lo coglie una
febbre così micidiale che n'è ucciso in pochi giorni, il 17 luglio 1085.
Sigelgaite ne raccolse il cadavere in una nave; e sbattuta dalla
tempesta, salvò a mala pena sè e il morto. Pure, venuta infine a
spiaggia, ne seppellì il cuore ed i visceri ad Otranto; il corpo
imbalsamato nella chiesa della Santa Trinità di Venosa, dov'erano già i
fratelli di lui. Esercito e flotta tornarono, ma come quello era stato
grandemente scemato dalla peste, così questa fu dalla bufera.

Roberto Guiscardo fu, certo, uno dei più grandi uomini del suo tempo e
fondò la potenza normanna. Ma v'ho detto via via, dove fossero le
magagne di questa potenza; e n'avete potuto vedere infine un'altra; nata
da avventure, resta troppo passionata di avventure. Egli lasciava un
solo fratello, Ruggiero; di Alderade un figliuolo, di Segelgaite due.
Aveva nominato erede il primo dei due ultimi, Ruggiero. Fu nuova
magagna. Ruggiero non aveva forza d'animo e di sangue pari al padre, e
la successione gliela contese Boemondo. Nel 1088, Ruggiero, il conte di
Calabria e di Sicilia, lo zio li rappattumò: Ruggiero sarebbe stato il
Duca di Puglia; Boemondo avrebbe ritenuto una parte di Calabria,
Taranto, Otranto e alcune altre terre. In più altre occasioni Ruggiero
zio venne in aiuto a Ruggiero nipote per confermargli lo stato contro
ribellioni incessanti di Baroni o di città. Nel 1091 gli conquistò
Capua, contro il popolo, che n'aveva cacciato Riccardo II, succeduto a
Giordano, figliuolo di Riccardo I. Il nipote gli accordò in compenso
quella metà di Palermo e di altre città che aveva ereditata da suo padre
Roberto. Così Ruggiero zio rimaneva solo padrone dell'isola di Sicilia e
della inferiore Calabria, il cui possesso aveva unito nelle sue mani
prima. E la conquista della Sicilia aveva compito in quello stesso anno
colla reddizione di Val di Noto; v'eran bisognati trent'anni. S'era
d'allora in poi o prima cominciato a chiamare il Gran Conte; e di ogni
vincolo di vassallaggio della contea di Sicilia al Ducato di Paglia non
fu più parlato. Bramoso di gloria e di possanza tentò in quello stesso
anno l'impresa di Malta, non per appropriarsela, ma per liberare i molti
prigionieri cristiani che i Saraceni vi tenevan rinchiusi. Pacificato il
paese soggetto a lui e al nipote, al che bisognò all'uno e all'altro
riprovarsi ancora più volte, morì nel 1101, anch'egli, come il
Guiscardo, a 70 anni.

Non era stato, a me pare, minor uomo di lui. Non men valoroso nè meno
uomo di guerra, aveva sortito natura più intellettuale e gentile. Una
cronista, Anna Comneno, dice di lui, ch'egli parlasse con una grazia
meravigliosa; avesse concetti rapidi e profondi: si mostrasse sempre
gaio, affabile a tutti. Un tratto suo basti di allorchè egli stava
ritentando l'impresa di Sicilia. Aveva ripassato lo stretto con
dugentocinquanta cavalieri, quando gli giunse notizia di una persona
giunta per lui in Calabria. Era Giuditta figliuola del Conte di
Grentemesnil, che discendeva dai duchi di Normandia. Ruggiero, che aveva
appena trent'anni, si era già qualche anno innanzi innamorato della
fanciulla. Ed ora essa memore di lui e ricordata da lui, se n'era venuta
in Calabria colla sua sorella Emma. Il Conte non fu più visto nel campo;
corse all'amata subito. E la sposò in Mileto con splendide feste,
quantunque fosse tuttora povero lui. L'amava molto allora, e l'amò molto
sempre; pure non s'indugiò troppo con lei; ritornò dall'amata ai nemici.
Giuditta gli premorì di molti anni; gli era premorto altresì
giovanissimo un figliuolo Guglielmo: e otto anni prima, con infinito
dolor suo, un altro figliuolo Giordano. Morta Giuditta, egli aveva
sposato una Eremburge figliuola del Conte di Mortone, e dopo morta
questa, nel 1091, un'Adelasia figliuola di Bonifacio Marchese di
Monferrato, della quale rimanevan figliuoli un Simone di otto anni, un
Ruggiero di sei. Sicchè la parte dei dominî normanni, meglio composta
insieme e più solida, doveva ora essere esposta a una delle più
difficili prove, la reggenza di una donna. Pure condotta sino al 1105 a
nome di Simone, poi, questo morto, a nome di Ruggiero, fu reggenza
tranquilla; il che prova in che ferma condizione il Gran Conte lasciasse
l'isola, e che buona e intelligente donna fosse Adelasia. Nel 1112
Ruggiero assunse il governo. Egli era stato allevato con cura, tra dotti
arabi e cristiani; e i primi, che erano allora avanti a tutti in
cognizione di scienze, gliene avevano arricchita la mente. Aveva
mostrato per tempo un vivace spirito e un'insolita voglia d'imparare;
caritatevole per modo che nessuno ricorreva a lui invano. Donava tutto
il denaro che si trovava addosso; e se più non ne aveva, non dava requie
alla madre insino a che non ne lo provvedesse; insieme, indole maschia,
guerriera, e già vivente il padre, soleva dire al fratello Simone:
“Lasciami la corona e le armi e io in ricambio ti farò Vescovo o Papa di
Roma.„

Intanto nel 1111 era morto così Ruggiero suo cugino, il figliuolo del
Guiscardo, come altresì l'altro figliuolo Boemondo, il quale, uno,
com'egli fu, degli eroi della prima crociata, s'era fondato in Antiochia
un principato. Al primo era succeduto il figliuolo Guglielmo: al secondo
anche il figliuolo, chiamato del pari Boemondo. Le condizioni dei
possessi dei Normanni sul continente erano sin dal principio del secolo
tristi. La potenza dei duchi sfatata, e scarsa a contenere i Baroni
impazienti di ogni soggezione. La sovranità eminente del papa rimaneva
senza efficacia nelle mani dei successori di Gregorio VII, Vittore III
(1086-88), Urbano II (1088-1098), Pasquale II (1099-1117), Gelasio II
(1118), Calisto II (1119-1123), sbattuti e raminghi essi stessi. Se però
ad altri questo era male, a Ruggiero di Sicilia era bene. Gli dava
occasione di mescolarsi delle cose del continente, come aveva fatto suo
padre, ma con più frutto. Già nel 1121 era passato in Calabria con un
esercito e aveva abbattuto castella di ribelli e ripreso città; sicchè
il duca Guglielmo gli fece cessione dei suoi diritti eventuali sul
paese. Poichè Boemondo II se ne rimaneva in Palestina nella sua
Antiochia, nè si dava cura dei suoi stati d'Italia, Ruggiero ne prese
cura lui e se gli appropriò. Più tardi ricomprò a Guglielmo di Puglia
con una notevole somma di denaro il diritto di successione al ducato,
nel caso che morisse senza figliuoli. E il 26 giugno del 1027 Guglielmo
morì appunto senza figliuoli. Ruggiero che in quei giorni apparecchiava
una spedizione contro i Musulmani di Spagna dopo riuscitagliene a male
un'altra contro i Musulmani d'Africa, desistette; chè trovò di maggiore
importanza assicurarsi il possesso del ducato di Puglia, al quale non
aveva se non quel tanto di diritto, che poteva dargli il contratto
stipulato con Guglielmo. Bisognava l'assenso dei Baroni e delle città, e
prevedeva che in quelli e in queste avrebbe trovato grandi ripugnanze. E
in fatti ne trovò; ma più colle buone che colle tristi, più colla
persuasione che colle armi le vinse; e i Baroni delle Puglie e delle
Calabrie lo proclamarono Duca.

Il che non piaceva punto a papa Onorio II succeduto (nel 1124) a Calisto
II. La Germania, divisa in sè medesima, non dava in quel momento paura:
vi spuntava la guerra tra guelfi e ghibellini. D'altronde nel 1125
Calisto aveva a Vormazia concluso un concordato coll'imperatore Enrico V
circa i diritti rispettivi della Chiesa e dell'Impero nella collazione
dei benefizi ecclesiastici; un componimento equo, parrebbe, considerati
i tempi, ma che appunto perchè moderato, s'attrasse i vituperi di chi
voleva che nulla cedesse la Chiesa e di chi voleva che nulla cedesse
l'Impero, e se gli attrae tuttora ai giorni nostri da chi vuol
persuadere, che si deva ritenere sconfitto quello dei due, che non
ottenne tutto. Checchè sia di ciò, il Papato aveva oramai maggiore agio
a riguardare alle cose del mezzogiorno; e a condurvisi secondo gli
interessi propri. I quali Onorio credeva che fossero chiaramente questi:
impedire che troppo grosso Stato si costituisse vicino al suo, mantenere
in condizione di vassallo il Ducato di Puglia. Ora Ruggiero offendeva
l'uno o l'altro, unendo alla Contea di Sicilia tutti i possessi normanni
del continente, e intitolandosi duca di Puglia e di Calabria da sè, anzi
mutando, come fece appena tornato in Sicilia coll'assenso dei baroni
siciliani, quello di Gran Conte in quello di Duca dell'Isola. Non
bisognava indugiare: Onorio II si recò, quindi, in Capua e scomunicò il
temerario; Ruggiero gli mandò ambasciatori a calmarlo; Onorio glieli
rimandò via. E venne a Troja e scomunicò da capo, e predicò la crociata
contro di lui, e condonò i peccati a tutti quelli che avessero preso le
armi contro di lui; anzi provocò a ucciderlo. E fece meglio. Convocò i
Baroni, e chiese loro, con infocate parole, d'insorgergli contro, e
n'ebbe promessa dai più potenti, e persino da Rainulfo di Alife cognato
di Ruggiero. Nè ad altre ambascierie di Ruggiero dava ascolto, e nemmeno
la profferta di riconoscere il Ducato di Puglia da lui, lo piegò. Già
questa condotta prudente di Ruggiero mostra che forza avessero a quei
tempi armi tanto spuntate oggi, che non si adopererebbero senza dar
cagione di riso. Una donna venne a Ruggiero in aiuto, una donna morta,
ma santa. Il corpo di sant'Agata, che quel Maniace, nominato dianzi,
aveva rapito da Catania e portato in Costantinopoli, un prete calabrese
e un francese lo riportarono da Costantinopoli a Catania appunto allora.
Poteva una santa ritornare nei dominii di uno scomunicato, se la
scomunica fosse stata legittima e valida? Di certo, no. Il disfavore
quindi, che dall'inimicizia del papa proveniva a Ruggiero nelle menti
popolari, fu contrastato e dissipato dal favore che gli dimostrava una
santa. E Ruggiero non indugiò a giovarsi dell'inaspettato aiuto: ripassò
lo stretto, nel 1028: riconquistò più città, ed avanzò sempre, sinchè si
trovò di fronte all'esercito del papa al fiume Bradano nella pianura di
Pado Petroso. Mentre i due avversari esitavano a venire alle mani,
l'esercito del papa si dileguava: poichè s'era al colmo della state, mal
tolleravano le fatiche del campo soldati e Baroni. Il papa vistosi a mal
partito, senza darsi per inteso dei Baroni, che aveva attirati a così
brutto gioco, mandò a offrire a Ruggiero che l'avrebbe rilevato dalla
scomunica e investito del Ducato di Puglia a Benevento. Accettato con
gioia. E Onorio si ritrasse verso Benevento, e Ruggiero seguì. Ma nella
città questo prudente non volle entrare. Dovette il papa venirne fuori,
e presso il ponte maggiore compiere l'investitura solenne.

In tutta la regione che fu poi il Regno di Napoli, si reggeva oramai
indipendente dai Normanni solo il ducato di Napoli, — ducato durato 500
anni, molto più a lungo di ciascuna delle dinastie che l'hanno seguito;
— giacchè il ducato di Gaeta era già caduto in mani normanne. Non era
legittima aspettazione, ragionevole ambizione, che oramai tutta questa
regione si costituisse a regno, e il duca Ruggiero diventasse re? Poichè
egli ebbe represso di nuovo l'insolenza ribelle dei Baroni, e in
un'assemblea a Melfi ottenuto l'assenso a un Editto che restava un
ordine qual si sia in un paese disertato tutto da moti di violenza
continua e instabile, se ne tornò in Sicilia sul finire del 1029. Quivi
maturò dentro di sè il pensiero di farsi re. Chi dei re di Europa più
potente di lui? I suoi Baroni di Sicilia ve lo incoraggiavano. Ma che
contrasto non avrebbe trovato nel Papa! Ed ecco che al fortunato muore
Onorio, e la successione n'è contestata tra Innocenzo II e Anacleto.
Quando i papi erano due, s'era sicuri di ottenere dall'uno quello che
s'era sicuri di vedersi rifiutato dall'altro. Anacleto furò le mosse ad
Innocenzo, o forse questi che contava appoggiarsi sulla Germania e n'era
stato riconosciuto, come altresì dalla Francia e dall'Inghilterra, non
avrebbe potuto attenersi al partito che l'altro seguì. Certo, Innocenzo
lasciò intendere che non avrebbe secondato Ruggiero nella sua ambizione
regia; onde questi trovò soltanto canonica l'elezione di Anacleto, come
Anacleto trovò legittima l'ambizione del duca. Sicchè vennero a
colloquio in Avellino nell'estate del 1130; e il 27 settembre tra il
Papa e il Duca fu concluso in Benevento un concordato che non solo
conferiva al Normanno nome e diritti di re, ma altresì gli accordava che
si sarebbe potuto far coronare re da arcivescovi del regno a sua scelta.
E Napoli sarebbe stata anche sua, e Capua, e delle milizie di Benevento
avrebbe usato a sua posta. Sarebbe bisognato solo ch'egli e i suoi
successori avessero riconosciuto il regno della Sede pontificia e
pagatogliene censo. Ruggiero tornato a Palermo convocò i Baroni
siciliani a parlamento, comunicò l'accordo col Papa, e ne chiese il
parere: tutti assentirono. E il cardinal Conti, legato del Papa, vi
lesse un breve, già combinato in Benevento tra Anacleto e Ruggiero, in
cui quello, indirizzandosi a questo, gli annunciava che per la virtù
della potenza sua e la sua munificenza verso la Chiesa egli s'era
risoluto di farlo re, lui e i suoi successori, di Sicilia, di Calabria e
di Puglia; e tali li faceva in forza dell'autorità sua; ed elevava la
Sicilia a prima provincia del regno. Poi confermava tutte le concessioni
fatte dai suoi predecessori ai predecessori del Re: tra le quali v'era
pure la legazione di Sicilia, accordata da Urbano II al Gran Conte.
Ripeteva il dono di Napoli e del Principato di Capua. E v'era espresso
il patto che il Re dovesse mantenere fede al Papa, e pagare alla Chiesa
romana un tributo annuo di seicento _schifat_. Non vi si diceva però,
che il Re sarebbe decaduto, se non avesse mantenuto il patto; bensì che
sarebbe caduto in anatema chi vi si fosse opposto.

La cerimonia della coronazione fu celebrata in Palermo nella vecchia
cattedrale dal cardinal Conti il 25 dicembre del 1130. Una infinita
folla accorse da ogni parte a goderne lo spettacolo. La magnificenza ne
fu meravigliosa; ma io ne dirò questo solo: non un sacerdote, ma un
laico, il principe Roberto II di Capua, mise la corona sul capo al Re.

Ruggiero regnò altri ventiquattro anni. Il suo impero si distese sulle
coste di Africa. L'Oriente attirò anche lui. E che avesse sopra l'Italia
ambizioni più larghe del territorio, sopra cui regnò, lo prova il titolo
che talora aggiunse agli altri suoi, _Italiæ rex_: titolo contro di cui
i Pisani nel 1136 protestarono non con vane parole, ma con una flotta,
quantunque senza felice successo. Non fu uomo minore del padre e dello
zio; anzi maggiore per sapienza di governo e larghezza di mente. Un
cronista lo dice con verità provvido, sapiente, discreto, di sottile
ingegno, di gran consiglio, inclinato a usare piuttosto la ragione che
la forza. E fu certo il più gran re dei suoi tempi; poichè Guglielmo
d'Inghilterra era morto nel 1087, prima che Ruggiero nascesse.

A me è stato chiesto di esporvi le origini di quella che fu prima la
monarchia di Sicilia e di Puglia, poi delle due Sicilie, poi Napoletana;
io non oltrepasserò il mio soggetto: pure quel nome che m'è venuto sulle
labbra di Guglielmo il Conquistatore mi ferma, e mi consiglia a fermarmi
ancora per un momento. Anche Guglielmo era Normanno, un bastardo di
Roberto I, il quinto duca di Normandia. Intraprese la conquista, come fu
chiamata, dell'Inghilterra nel 1066, quando già Roberto Guiscardo s'era
fatto duca di Puglia e di Calabria. Si racconta anzi, che si sentisse
punto di emulazione a udire le alte gesta del Guiscardo. Ora perchè la
monarchia inglese, che fu l'opera di Guglielmo, ha avuto una storia
tanto diversa da quella della monarchia napoletana, che dove nella prima
è tutta l'unità e la potenza di un poema epico, nella seconda è tutta la
sconnessione e la fiacchezza di una serie di episodi? Certo,
nell'undecimo e nel duodecimo secolo la monarchia napoletana era assai
più potente, e risplendeva d'ogni pregio di forza e di civiltà assai più
dell'inglese. Come e quando la relazione s'è invertita? La monarchia
inglese ha avuto variazioni e molte nella sua dinastia, contese civili,
feroci e lunghe nella sua storia; la monarchia napoletana n'ha avuto di
dinastie sei, e tutte di diversa nazione: Svevi, Angioini, Aragonesi,
Spagnuoli, Borboni. Perchè in quella la dinastia, per effetto delle
mutazioni stesse cui si è piegata, si è mantenuta; in questa nessuna
dinastia ha gittato radici? Perchè?

E poichè questa dimanda sulla vita e sull'efficacia delle dinastie, mi è
occorsa alla mente, ditemi ancor questo. Nel principio dell'undecimo
secolo, quando quell'omicida del Butterico venne per il primo co' suoi
fratelli e con seguito di cavalieri in Italia, e fu primissima origine
dei fatti onde nacque nel primo terzo del duodecimo secolo la monarchia
napoletana, viveva nel settentrione d'Italia a cavaliere delle Alpi un
picciolissimo conte, un Umberto Biancamano, il cui primario possesso era
il contado di Salmorene nel Viennese, un contado, che contava,
nientemeno, ventidue castelli. Vi aggiunse forse, del suo vivente, dal
1003 al 1056, in tutto o in parte, i contadi di Noyon, di Moriana, di
Savoia, di Bellay, il Ciablese e la Tarantasia. Nessuno potrebbe oggi
misurarvi per l'appunto i suoi dominî; ma, certo, la loro estensione
doveva appena pareggiare quella d'una delle provincie che fecero parte
del regno di Ruggiero. Nel 1130, quando questi fu coronato Re nel duomo
di Palermo, i discendenti di Umberto erano, sì, più potenti signori di
un secolo innanzi, ma di gran lunga, di gran lunga meno potenti di lui.
Il quinto successore di Umberto, conte sin dal 1103, Amedeo III,
possedeva in soprappiù solo una parte della Contea di Torino, e altresì
un tratto di terra, forse il Bugey, donato da Enrico IV imperatore al
marchese Pietro e al conte Amedeo II nel 1074 per avergli conceduto il
passo: e in quello stesso anno ripigliava per poco la città di Torino
che gli si era ribellata. Che differenza tra i possessi di cotesto conte
alpigiano, malamente connessi insieme, attraversati e separati da
altissimi monti, diversi per qualità di popolazione, con quel mirabile
complesso dei possessi isolani e continentali del re Ruggiero? Questi
assunse il titolo di Re d'Italia; fu il primo dei principi del
mezzogiorno a farlo, ma non fu l'ultimo; però nè egli nè alcuni dei suoi
successori compì l'impresa cui il titolo accennava. Perchè? E perchè
invece la compirono i discendenti di Umberto, tra i cui ascendenti v'era
forse stato qualcuno che l'avesse preso prima di Ruggiero, ma eran parsi
per tanto tempo poi così lontani dal potervi pretendere? Certo, l'unità
regia d'Italia doveva esser fatta dall'uno o dall'altro dei due regni
che si costituirono a così grande diversità di data, l'uno dalla
dinastia normanna nel 1130, l'altro da quella di Savoia nel 1713; ed è
curioso che al Duca di Savoia, così si chiama fin dal 1416, il titolo di
Re venisse dall'acquisto della Sicilia, appunto perchè il Ruggiero aveva
di quest'isola fatto un regno. Nell'Italia Centrale e neanche nella
Valle del Po, per diverse ragioni, si sarebbe potuto aggruppare,
addensare un nocciolo di forza, sufficiente a compire l'impresa di una
nuova unità politica dell'Italia come si sia. Dove il soverchio di
vigoria aveva esausto i potenti comuni del medio evo, dove ogni vita
politica s'era via via assiderata ed estinta, dove ogni possanza di armi
era venuta meno. Ma se è così, perchè dal regno del settentrione è
venuta l'unità all'Italia, e il regno del mezzogiorno n'è stato
disfatto? Perchè?

Questi e molti altri perchè mi si affollano alla mente, e il rispondervi
sarebbe soggetto di maggior interesse, che non è stato forse quello di
cui vi ho discorso. Ma richiedono che di questo si fosse discorso prima;
e a ogni modo vogliono esser trattati in pieno e con penetrante e
imparziale esame. Troverete, di certo, altri che ve li esponga così; e a
me non resta se non di pregarvi a benedire la storia tale e quale si è
fatta e si è conclusa; poichè dalla triturazione di tanti uomini e cose
n'è uscito infine questo; che in voi io non saluto e ringrazio Toscani,
nè voi avete sopportato in me un napoletano: ma un italiano, per
desiderio vostro, vi ha parlato, e Italiani, per bontà loro, l'hanno
udito.



LE ORIGINI DEL PAPATO E DEL COMUNE DI ROMA

DI

ARTURO GRAF


_Signore e Signori_,

Nel gennaio dell'anno 1077 seguiva in Italia uno dei fatti più
memorabili che narrino le storie del mondo. Per tre giorni di seguito,
nella corte del Castel di Canossa, un imperatore tedesco aspettava,
vestito del saio dei penitenti, a capo scoperto, a piè nudi, che il
papa, dal quale era stato scomunicato e maledetto, volesse ammetterlo
alla sua presenza, largirgli l'assoluzione e il perdono.
Quell'imperatore aveva nome Enrico IV; quel papa Gregorio VII.

Com'era possibile ciò? per quali ragioni, per quali vie era cresciuta
così formidabilmente la potestà di colui che pur si diceva servo dei
servi di Cristo? Gregorio sognò di far soggette alla potestà dei
pontefici tutte le potestà della terra; quale forza d'idee, quale
concorso di eventi, suscitaron quel sogno, e per poco non fecero che
diventasse realtà?

Per intenderlo bisogna risalire alle origini, bisogna rifar nello
spirito il corso della storia. Nella quale nulla è di miracoloso e
d'inesplicabile; ma concatenazione infinita di cause e di effetti, e
logico esercizio di forze ineluttabili.

Vediamo prima di tutto perchè e come sorgesse il papato, quella
preminenza, cioè, che il vescovo di Roma acquistò sopra gli altri
vescovi; e perchè e come sorgesse e si fermasse in Roma, e quivi, e non
altrove, dovesse sorgere e fermarsi. Sarò parco nel ricordo dei fatti,
come l'indole e la misura del mio dire richiedono, e mi studierò di
trarne fuori l'anima che li fa muovere e ne dà ragione.

Per lungo tempo le comunità cristiane particolari, le singole Chiese,
trionfando delle persecuzioni, anzi traendo da esse nuovo vigore e vita
novella, s'andarono moltiplicando per entro al mondo pagano, senza che
l'una prevalesse, a dir proprio, alle altre. Ciò non dimeno le comunità
di più antica fondazione, o fondate in città più cospicue, e in specie
quelle che avevano, o si credeva avessero avuto, a primo istitutore
alcuno degli apostoli, dovevano di necessità esser tenute in maggior
concetto e primeggiare in qualche maniera. Il desiderio della
cattolicità, ossia della universalità, della quale è già cenno, sino
forse dal primo secolo, in una epistola di Sant'Ignazio, vescovo di
Antiochia; il bisogno di opporre a comuni nemici una comune difesa, e di
serbare intera, incorrotta, uniforme la dottrina di Cristo, nel che era
la forza e la salvezza di tutti; tendevano già per sè stessi, con lento
ed inconsapevole lavoro, a costituire certe forme di preminenza, tanto
più durature e capaci d'incremento quanto più utili. Le comunità non
vivevano vita separata; vivevano anzi in una perpetua comunione di
pensieri, di parole e di opere, ricorrendo le une alle altre, ogni qual
volta nascesse un dubbio in materia di dottrina o di disciplina, ogni
qual volta avessero bisogno di consiglio o di aiuto. Così stringevano
fra loro vincoli d'interesse e di fratellanza, e, come avviene,
tendevano spontaneamente a raccogliersi e ordinarsi intorno ad un
centro.

In origine il primato spettò di pien diritto a Gerusalemme, dove il
Redentore aveva insegnato ed era morto, e dove gli apostoli avevano
ricevuto lo Spirito Santo prima di separarsi e muovere all'opera della
predicazione. Se la storia fosse governata da preconcetti ideali,
inflessibili ed inviariabili, Gerusalemme avrebbe dovuto essere la
Chiesa madre dell'orbe cristiano, e la natural sede del pontificato;
invece di fronte a lei sorsero: Antiochia, ch'era stata il centro della
predicazione di San Paolo; Alessandria, che aveva ricevuto la nuova fede
da San Marco: Roma, che due apostoli avevano consacrata col sangue, ed
era la metropoli del mondo. Il primato di Costantinopoli era ancora di
là da venire. Per un certo tempo Roma non fu maggiore delle altre Chiese
maggiori; ma non tardò molto a crescere sopra tutte le altre. E così
doveva avvenire.

Fu veramente San Pietro in Roma? vi sofferse egli veramente il martirio?
È questo un dubbio che diede materia a infinite dispute, un dubbio che
la critica sino a questi giorni non potè risolvere, e che forse non
potrà risolvere mai. Se non vi fu, dovette certo desiderare di andarvi,
perchè le forze del cristianesimo nascente già tendevano verso Roma, a
cui tutto tendeva; perchè il mondo non poteva esser fatto seguace di
Cristo, se prima al mite giogo di Cristo non si piegava la città ch'era
capo del mondo, e perchè all'entusiasmo dei primi cristiani un tale
trionfo doveva sembrare sopra tutti gli altri glorioso e magnifico. Sia
come si voglia, certo è che, in Roma, la credenza alla venuta e
all'insegnamento del principe degli apostoli nella città, appar viva
sino dal principio del secondo secolo, e che se questa era leggenda, era
leggenda necessaria, di cui si scorgono immediatamente gli effetti. La
Chiesa fondata da San Pietro e da San Paolo doveva non solo, per
ragionevole presunzione, possedere la dottrina nella maggior sua
integrità e purezza, ma avere ancora sopra tutte l'altre Chiese quello
stesso primato che sopra tutti gli altri apostoli Cristo aveva conferito
a San Pietro. I Papi furono dunque legittimi successori di San Pietro,
appunto perchè successori di lui furono papi.

Il sentimento di questo primato s'andò facendo sempre più vivo ed
universale, e più saldo il proposito di farlo valere. Ireneo, vescovo di
Lione, e martire nei primi anni del secolo terzo, risolutamente
affermava in un suo scritto contro gli eretici Valentiniani, che tutte
le Chiese debbono conformarsi alla Chiesa di Roma in ragione della
preminenza che le spetta, e non molti anni dopo Cipriano, vescovo di
Cartagine, diceva in una delle sue epistole: “V'è un solo Dio, e un solo
Cristo, e una sola Chiesa, e una sola cattedra, fondata per le stesse
parole del Signore su Pietro„; e chiamava in un'altra epistola sua la
Chiesa di Roma “radice e matrice della Chiesa cattolica„. Già Vittore I
(192-202) aveva asserita la sua prerogativa; mezzo secolo più tardi,
Stefano I (253-257), escludendo dalla comunion dei fedeli alcuni
vescovi, che in certa question di battesimo, non consentivano con le
dottrine di Roma, derivava il suo diritto dal diritto di Pietro, in cui
era fondata la Chiesa, e di cui egli era il legittimo successore. La
tomba del principe degli apostoli diventò come il Palladio, nonchè di
Roma cristiana, del papato.

La dimora e il martirio di San Pietro in Roma, o la opinione di quella
dimora e di quel martirio, dovevano, senza dubbio, conferire
potentemente al primato della Chiesa di Roma e del vescovo di essa; ma
non credo che per sè potessero produrlo ed assicurarlo. Il soggiorno,
l'insegnamento, la morte di Gesù in Gerusalemme, non bastarono a
conferir quel primato a Gerusalemme, anzi non bastarono nemmeno, nel
tempo che seguì, a riscattarla dalla dominazione degli infedeli. Se San
Pietro avesse insegnato e fosse morto in alcun'altra città dell'Oriente
e dell'Occidente; e poniam pure che fosse delle maggiori, quella città
non sarebbe divenuta per questo, ecclesiasticamente parlando, madre
delle altre, e non sarebbe divenuta sede del papato. A tale officio era
serbata Roma. Senza Roma, assai probabilmente non vi sarebbe stato
papato, o sarebbe stato un papato assai diverso da quello che fu; e
senza papato, o con un papato diverso, è assai dubbio se vi sarebbe
stata cattolicità. Sembra strano a dire, ma non è men vero che ad
instaurare la Chiesa cattolica, e a fondare pei secoli la potestà dei
papi, ci volle tutta la forza di Roma pagana.

Ho già detto che le forze cristiane tendevano a Roma naturalmente,
perchè Roma era il cuore e il capo del mondo; perchè tutto, da tutte le
parti del vastissimo impero, tendeva a Roma, e concorreva in Roma. Si
ricordi come le altre religioni erano confluite verso la città
imperiale, desiderose di assidervisi e di acquistarvi come un nuovo
lustro e una nuova consacrazione. I cristiani detestavano Roma, figurata
nell'Apocalisse come la bestia dalle sette teste, e la chiamavano col
nome ingiurioso di Babilonia; ma non sapevano e non volevano staccarsi
da lei. Dove tanti elementi e tante forze concorrevano, la vita si
faceva più intensa ed operosa, e l'organismo di quella Chiesa
vigoreggiava e cresceva, come vigoreggia e cresce nell'organismo animale
un membro in cui più operose e più intense si raccolgano le energie
della vita.

Roma era la sede dell'impero, e doveva, anche per ciò, diventare la
suprema sede del cristianesimo: l'imperatore che avversava e
perseguitava la nuova religione, l'imperatore doveva, senza volerlo,
suscitare il papa. In fatto era naturale che il vescovo il quale si
trovava in più immediata opposizione con Cesare, e che di Cesare, più da
vicino, sfidava i decreti e la maestà, dovesse acquistare, nel concetto
dello universe genti cristiane, una maggiore importanza, una maggior
dignità, e l'una e l'altra tanto maggiori, quanto meno efficaci contro
la Chiesa governata da lui gli editti di Cesare. Al qual proposito è pur
da notare che la ostilità degli imperatori giovò anche in altro modo al
papato; giacchè se gl'imperatori fossero stati sin dal principio
cristiani, e amici e tutori dei vescovi di Roma, assai probabilmente, o
prima o poi, in una o in un'altra maniera, si sarebbero mutati di amici
e tutori in padroni, avrebbero usurpato molte attribuzioni e molti
offici di quei vescovi, avrebbero, con altre parole, ucciso il papato
sul nascere. Più e più fatti dei tempi posteriori, e l'esempio
memorabile dei patriarchi di Costantinopoli, divenuti schiavi e
strumenti degl'imperatori loro, non lascian dubbio di ciò.

Ma sopratutto conferì Roma alla istituzione e perpetuazione del papato
con quel carattere di universalità che le era proprio, con quel suo
vanto di eternità, che così spesso risuona sulle labbra degli scrittori
pagani, e per quel convincimento suo proprio e di altri, anzi di tutti,
allora e dopo, attraverso ai secoli, attraverso a tutti i rivolgimenti,
le vicissitudini, le ruine della storia, che in lei, e solamente in lei,
fosse la sorgente prima di ogni diritto e di ogni sovranità. Roma
_caput_ _terrarum_ e _caput rerum_, doveva pur essere _caput Ecclesiæ_.
La cattolicità religiosa non sarebbe stata possibile senza quell'altra
cattolicità, civile e politica, che da Roma, e nel suo nome s'era
diffusa nel mondo. La religione di Cristo, non nazionale, come la
giudaica, non chiusa entro i termini di una patria, non legata
necessariamente a un ciclo storico, ma liberale e universale, preposta
per tutti i tempi a tutte le patrie e a tutti i popoli, ebbe, a dispetto
degli oltraggi e delle persecuzioni, grandissimo aiuto e grandissimo
incremento da quella Roma intorno a cui e sotto alla cui potestà s'erano
congregate e fuse le genti. La religione di Cristo presuppone un
concetto capitale e nuovo, quello di umanità; e tale concetto appunto
Roma aveva suscitato ed elaborato, e tradotto ancora, per quanto
concedevano i tempi, in un fatto. Senza Roma il Cristianesimo non
avrebbe potuto sorgere, o, sorto, non avrebbe potuto diffondersi.

Tanto è ciò vero che gli stessi cristiani cominciarono, appena
sopravvenuti tempi migliori, a considerare Roma come un proprio
istrumento della Provvidenza, e a dire che a lei era stato commesso da
quella il glorioso officio di preparare il mondo alla venuta del
Redentore, e di spianare le vie alla diffusione della nuova dottrina.
Prudenzio, nato verso il mezzo del quarto secolo, Prudenzio che giudica
Roma la più magnifica delle opere della Provvidenza, dice nel suo poema
contro Simmaco: O Roma, vuoi tu sapere perchè sei salita tant'alto? e
perchè tutto il mondo soggiaccia al tuo freno? Dio, volendo consociar
tutti i popoli, e stringere in un concorde amore tutti gli animi, li
fece soggetti al tuo impero, perchè non possono le genti congiungersi
degnamente con Cristo, se prima un unico spirito non le congiunga fra
loro. In conformità di tali idee scrisse Paolo Orosio i sette libri
delle sue storie _contro i pagani_, sforzandosi di provare che tutta la
storia passata di Roma, la sua gloria e la sua potenza, altro non erano
che una preparazione del Cristianesimo. Questo concetto ebbe ancora il
medio evo, e si vede espresso da Dante in quei noti versi del secondo
canto dell'_Inferno_, dove, ricordata Roma e ricordato l'impero, dice:

    La quale e il quale, a voler dir lo vero,
      Fûr stabiliti per lo loco santo
      U' siede il successor del maggior Piero;

e soggiunge che Enea, nell'inferno, ove gli era stato concesso di
penetrare,

    Intese cose che furon cagione
    Di sua vittoria e del papale ammanto.

Ancora il nome di Roma doveva favorire potentemente l'opera della
propagazione della fede, alla quale per secoli attesero i papi con
instancabile zelo; perchè i popoli, assuefatti a ricevere da Roma la
legge politica, dovevano essere naturalmente proclivi a ricevere da lei
anche la legge religiosa; e tutti sanno quanto il nome e la maestà della
metropoli del mondo potesse sullo spirito degli stessi barbari invasori.
Da altra banda, i popoli da sì lungo tempo piegati alla signoria
politica di Roma, dovevano facilmente ancora piegarsi alla signoria
ecclesiastica che in lei si veniva formando, e, senza quasi avvedersene,
aiutarla e promuoverla. Tale e tanto fu quel glorioso nome di Roma, che
valse, per secoli, a dar sembianza, e persino qualche spirito di vita, a
un fantasma, a quello che il Petrarca diceva _nome vano senza soggetto_,
al restaurato impero d'Occidente: come non avrebbe esso giovato a un
organismo pien di vigore e di vita qual era il papato?

Così è che, per tutte queste ragioni, la potestà dei romani pontefici
andò di mano in mano crescendo, finchè divenne preminenza incontestata
ed assoluta; ma fu instaurazione lenta e lunga, turbata da numerose
vicende e da gravi peripezie. Il maggiore pericolo a quella preminenza
venne (chi il crederebbe!) dai primi imperatori che abbracciarono il
cristianesimo. Nota è la storia di Costantino, sebbene non al tutto
palesi e chiare sieno le ragioni del suo operare. Vinto Massenzio,
Costantino promulgò l'anno 313 il famoso editto di Milano, che sanciva
la piena libertà religiosa, senza favorire delle due religioni nemiche,
la pagana e la cristiana, più l'una che l'altra. E in questa parità si
durò dieci anni, e furono molti, perchè non era condizione che potesse
durare a lungo. Appena ebbe maturato nell'animo il proposito di dare
all'impero maggiore unità e salvezza, Costantino fu condotto a
vagheggiare quella uniformità religiosa di cui per lo innanzi non si era
curato. Vinto Licinio, egli, che pur si fregiava del pagano titolo di
_pontifex maximus_, egli che non si fece battezzare se non presso a
morte, cominciò a favorire il cristianesimo, a perseguitare il
paganesimo. In sulle prime non s'immischiò nelle facende interne della
Chiesa di cui s'era fatto tutore; ma non andò molto che vi s'intromise
assai più del dovere, e convocò sinodi, fra i quali il famoso ecumenico
di Nicea, esiliò vescovi, e li ripristinò nell'ufficio ond'erano stati
privati. La potestà laica invadeva il dominio della potestà
ecclesiastica, e, come sempre, dalla commistione e dalla confusione
delle due potestà nascevano turbazioni e disordini, onde s'aveva a
risentire tutta la compagine della Chiesa.

Sotto parecchi degl'imperatori che seguirono le cose andarono
peggiorando, perchè su questo sdrucciolo era difficile fermarsi. Il
beneficio di Costantino fu pagato a caro prezzo. Non solo si videro
imperatori favorir l'eresie e promuovere le contese; ma se ne videro di
quelli che usurparono il posto e l'ufficio dei vescovi. Riappariva
l'imperatore _pontifex maximus_ sotto sembianze cristiane. Costanzo, che
convoca concilii, che decreta in materia religiosa come in materia
civile, che impone simboli, quasi fosse il legittimo interprete dello
Spirito Santo, e che nel sinodo di Milano del 355 getta in viso ai padri
stupiti ed esterrefatti il memorabile placito: _Canone è la mia
volontà_; Costanzo, cui il più perseguitato dei vescovi, Atanasio di
Alessandria, dà il nome di Anticristo, che tre secoli innanzi era stato
dato a Nerone, è imperatore e papa ad un tempo, e caccia in esilio
l'altro papa Liberio, quando questi ardisce di levarglisi a fronte e di
contrastargli. Tali, ed altre simili intrusioni e soperchierie, erano
del resto provocate continuamente dalle stesse fazioni che tenevano in
subbuglio la Chiesa, e non meno dagli avversarii che dai propugnatori
dell'ortodossia, i quali tutti, quando più non isperavano di vincere
colle ragioni, o coi sofismi e le calunnie, volentieri si volgevano per
aiuto a chi aveva la forza e non era malcontento di adoperarla. Le
fazioni cercavano di aver dalla loro l'imperatore, e l'imperatore,
com'era naturale (e non sempre forse fu male), cercava di assodare e
rendere assoluto il dominio suo facendosi arbitro delle coscienze,
avocando a sè la suprema autorità spirituale.

Il papato corse allora grave pericolo; ma tante erano del rimanente le
condizioni che il favorivano, tanti gli aiuti che gli venivano da ogni
banda, e tanta avvedutezza e costanza ebbero i vescovi di Roma, che il
pericolo fu superato e la vittoria ottenuta. Già il concilio di Sardica,
sino dall'anno 347, aveva riconosciuta e proclamata la preminenza del
vescovo di Roma; nel sinodo di Costantinopoli, del 381, il vescovo di
Roma fu dichiarato primo in dignità, quello di Costantinopoli secondo.
Verso la fine del secolo VI, e dopo, a più riprese, gl'imperatori
bizantini tentarono di dichiarare ecumenico veramente il loro patriarca,
che già più volte aveva usurpato quel nome e di sostituirlo al papa di
Roma, troppo lontano e troppo riottoso; ma ogni loro conato fu inutile.

Valentiniano, dopo la breve riscossa che il paganesimo ebbe con Giuliano
l'Apostata, ripristinò la libertà dei culti; ma con Teodosio il
cristianesimo diventò stabilmente religione dello Stato. La chiesa
d'Occidente, in opposizione con quella d'Oriente, sempre più tendeva ad
escludere da ogni giurisdizione sua il potere civile, ed a rendere
autonomo il supremo ministero ecclesiastico. Gli avvenimenti incalzavano
e favorivano quella tendenza. Per un complesso di cause e di condizioni
che non tocca a me rintracciare, l'organismo dello Stato in Occidente
s'andava sempre più indebolendo, e s'avviava alla morte; e di quanto lo
Stato s'indeboliva, di tanto s'afforzava la Chiesa, sempre più
emancipata da quella incomoda soggezione. Tutte le menti e le volontà e
le virtù che altrove oramai non avevano modo di esercitarsi, voltavansi
spontaneamente alla Chiesa, si raccoglievano in lei. Ciò che era vivo
cercava la vita, e la vita era nella Chiesa, e la morte dello Stato era
necessariamente accelerata dal defluir delle forze verso la Chiesa.
Questo non era un caso nuovo nella storia. A poco a poco la gerarchia
ecclesiastica s'instaura, le chiese per la pietà dei fedeli
straordinariamente arricchiscono, la monarchia spirituale dei papi si
fonda. Leone I, che meritò il nome di Grande, ebbe immensa autorità;
fece, nel 453, tornare addietro Attila; mitigò, nel 455, gli orrori
della irruzione di Genserico. I barbari distruggevano l'impero
d'Occidente; ma, convertiti già al cristianesimo, rispettavano la
Chiesa, s'inchinavano dinanzi al suo pontefice. Mentre Teodorico
sconfiggeva Odoacre, e si apparecchiava a farsi padrone d'Italia,
Gelasio I rispondeva alle prepotenze dell'imperatore Anastasio con una
lettera famosa, ove l'autorità dei vescovi è separata risolutamente
dall'autorità dei principi, anzi è fatta maggiore con argomenti che i
successori di lui non mancheranno di ripetere. E quando, nel 524, il
pontefice Giovanni, primo di questo nome, andò, forzato da Teodorico, a
Costantinopoli, per farvi cessare la persecuzione contro gli Ariani,
l'imperatore Giustino mosse, col popolo, solennemente a riceverlo, gli
si gettò ai piedi, e volle essere di bel nuovo incoronato da lui.

Intorno a quel tempo ancora, senza che si possa dire con precisione
quando, cominciò l'uso di serbare al solo vescovo di Roma il nome di
papa, nome che per lo innanzi non aveva significato alcuno di
prerogativa, e soleva darsi a tutti i vescovi indistintamente, ed anche
ai semplici chierici. Così pure il nome di pontefice, che fu da prima
comune a tutti i vescovi, diventò proprio dei vescovi di Roma, e
significativo del loro primato.

Ma la potestà dei papi non cresceva e non si assodava senza molte
vicissitudini e scadimenti repentini, così volendo la turbata e violenta
condizione dei tempi. Le elezioni suscitavano cupidigie, si lasciavano
dietro rancori, e non sempre eran libere, e spesso furono occasione di
turbolenze e di scandali.

Nei primi secoli la elezione del papa spettava, come quella di tutti i
vescovi in generale, al clero ed al popolo; ma i principi non tardarono
a intromettervisi in varii modi, indicando norme e procedure,
arrogandosi di decidere in caso di contestazione, pretendendo di
confermare l'eletto, o, a dirittura, di designar colui su cui dovevano
raccogliersi i voti.

Ai tempi di Atalarico e di Amalasunta la confermazione regia costava
3000 monete d'oro. Teodato da prima restituì la libertà della elezione,
poi impose Silverio. Nè per questo rispetto, come per altri, fu la
dominazione greca migliore di quella dei Goti. Non solo gl'imperatori
s'ingerirono nelle elezioni, ma deposero i papi non graditi da loro.
Silverio fu deposto ed esiliato, e in esilio morì, credesi, di fame. La
condizione dei papi non fu allora migliore di quella dei patriarchi di
Costantinopoli, anzi fu peggiore per più rispetti: le elezioni si fecero
senza nemmeno più consultare i Romani.

Vennero i Longobardi, e s'impadronirono della più gran parte d'Italia:
gl'imperatori d'Oriente non v'ebbero quasi più che una parvenza di
dominio, e la Chiesa fu sottratta anche una volta al loro pessimo giogo.
Ma tutto ciò non avvenne in un giorno. Salì sulla cattedra di Pietro un
papa, riconosciuto come uno dei maggiori che la Chiesa abbia avuto,
Gregorio Magno, soprannominato il _Console di Dio_, il quale spese la
vita in riforme d'ogni maniera, e nella costante rivendicazione dei
diritti inerenti al suo ministero. Egli s'oppose vigorosamente alla
pretensione del patriarca di Costantinopoli di fregiarsi del titolo di
ecumenico; tenne testa all'imperatore, che non senza riposti
intendimenti favoriva quella pretensione; e fra Greci e Longobardi, fra
pericoli e difficoltà d'ogni sorta, seppe procacciare alla Chiesa una
notabile indipendenza. Sotto i successori suoi le cose mutarono di bel
nuovo in peggio, di bel nuovo gravò su Roma e la Chiesa il despotismo
degl'imperatori; ma durante la lunga e fastidiosa contesa pel culto
delle immagini, tutto l'Occidente s'oppose all'Oriente, e i papi
insorsero contro la prepotenza degli autocrati di Bisanzio. Vero è che
alle prepotenze di costoro tennero dietro quelle dei Longobardi, più
infesti assai perchè più vicini.

Non è punto facile formarsi un giusto concetto dell'autorità dei
pontefici in questo tempo e del rispetto ond'essi godevano. Il mutare
continuo delle fortune, il cozzare violento dei più disparati interessi,
la ruina degli ordini appena instaurati, eran cagione che la stessa
istituzione del papato non potesse acquetarsi in una forma stabile di
diritto e di consuetudine. I principii ideali erano abbastanza
determinati e saldi, ma spesso erano offesi e manomessi nella persona
reale del pontefice che gl'incarnava. Si venerava il papa astratto; si
deponeva, s'ingiuriava, si mutilava il papa concreto; e la ruvidezza
delle coscienze, e la barbarie dei costumi, non lasciavano scorgere la
mostruosità della contraddizione. Quello stesso Liutprando, che menava
per la briglia il cavallo del papa Zaccaria, aveva forzato Gregorio III
e i Romani a invocare contro di lui l'aiuto di Carlo Martello e dei
Franchi.

I Franchi vennero, con Pippino prima, con Carlo Magno poi, e distrussero
il regno dei Longobardi e posero fine all'odiata loro dominazione. Il
giorno di Natale dell'anno 800, Carlo Magno ricevette in Roma, nella
basilica del principe degli apostoli, dalle mani di Leone III, la corona
imperiale. Cessava così ogni ragione degl'imperatori bizantini sopra
Roma e sopra l'Italia; risorgeva dopo tre secoli l'Impero d'Occidente.
Leone III non poteva immaginare allora che l'impero e il papato dovevano
diventare nemici più tardi, e riempiere il mondo dello scandalo e del
rumore delle loro secolari contese.

Non ridirò le vicende e le fortune del papato nel tempo degl'imperatori
franchi, e poi nel tempo degli Ottoni, storia avviluppata e lunga, sopra
alcun punto della quale bisognerà ch'io ritorni. La restaurazione
dell'impero non era senza pericoli del papato, perchè non era possibile
che gl'imperatori non chiedessero, o non usurpassero, diritti e
prerogative tali da menomare più o meno l'autorità e la libertà dei
pontefici. E cominciò Carlo Magno a darne l'esempio, Carlo Magno, di cui
il papa fu un vero e proprio vassallo. Ma non era possibile, da altra
banda, che il danno crescesse oltre a certa misura, e che l'impero
sopraffacesse durevolmente il papato, perchè l'impero era e rimaneva,
essenzialmente, una finzione, e il papato era una cosa viva e reale, e
piena di forza. L'autorità imperiale si dissolveva come appena mancasse
un uomo di grande e vigoroso animo per tenerla insieme e sorreggerla,
mentre l'autorità papale era assai più nella istituzione che negli
uomini. E a crescer forza alla istituzione vennero in buon punto, verso
il mezzo del IX secolo, le famose Decretali del falso Isidoro, che a
nuove pretensioni dei papi recarono il suffragio di antiche, simulate
risoluzioni, e furono di sì gran peso e di tanta efficacia allora e poi,
che da esse appunto si suole far cominciare una nuova età nella storia
del papato. Così, a dispetto dei rigori degli Ottoni, a dispetto delle
brutture e delle violenze per cui è celebre quel tristo periodo della
storia di Roma che va sotto il nome di pornocrazia, l'autorità dei
pontefici andò, sebbene interrottamente, crescendo. Scomunica ed
interdetto erano diventati armi terribili. Il 18 giugno del 1053 i
Normanni vinsero a Civitate Leone IX, che in armi s'era mosso contro di
loro, e lo fecero prigioniero; ma come udirono ch'egli si piegava a
levare l'interdetto con cui li aveva colpiti, gli si gettarono ai piedi,
e gli fecero ressa d'attorno per baciargli le mani. Poco dopo si
compieva, per opera di Cerulario, la separazione, già cominciata con
Fozio, della Chiesa greca dalla latina; ma l'autorità dei pontefici, se
veniva a mancare in Oriente, cresceva sempre più in Occidente.

E ad assicurare vie meglio tale autorità una grande innovazione fu
introdotta nel 1059 da Niccolò II, inspirato in ciò e in altro da
quell'Ildebrando che doveva esser papa a sua volta col nome di Gregorio
VII. Da tempo immemorabile la elezione dei pontefici era, come abbiamo
veduto, occasion di raggiri, di soprusi, di turbamenti d'ogni maniera. I
pontefici non potevano sperare indipendenza e libertà piena per sè e per
la Chiesa, se prima non liberavano da qualsiasi ingerenza straniera la
propria elezione. Guidato da tale pensiero, Niccolò II fece votare dal
Concilio Lateranense di quell'anno un decreto, in virtù del quale la
elezione del pontefice fu deferita al collegio dei cardinali, mentre
all'imperatore, al rimanente del clero, al popolo, non fu lasciato altro
diritto che quello dell'approvazione. L'importanza e la forza di tale
provvedimento furono subito avvertite da chi n'era leso. Non molto dopo,
al decreto conciliare fu contrapposta una falsificazione dettata
evidentemente da spirito imperiale, falsificazione che assegnava
all'imperatore un posto fra i _præduces_, o promotori della elezione.

E il 22 di aprile dell'anno 1073 fu eletto dai Cardinali, consenziente
tutto il clero, plaudente il popolo, Gregorio VII, il quale era già
stato l'amico e il consigliere di parecchi pontefici, e il vero
operatore delle riforme consentite da loro. Gregorio VII meditò la
monarchia universale teocratica. Volle sciolto il clero, sciolte le
corporazioni religiose da ogni dipendenza dalle potestà laiche, e proibì
le investiture; strinse con mano vigorosa tutte in un fascio le forze
della Chiesa; scomunicò Enrico IV; svincolò i sudditi suoi dal debito di
fedeltà. Pensava e dichiarava che il potere dei re è frode diabolica;
che colui a cui era stata concessa potestà di aprire e di serrare le
porte del cielo doveva essere giudice della terra; che il papa ha
diritto di deporre gli imperatori; che le insegne imperiali appartengono
a lui solamente; che i popoli tutti devono prostrarglisi ai piedi.
Gregorio VII e i primi successori suoi fecero della potestà dei papi la
potestà massima del medio evo, una potestà che accoglieva dentro di sè,
e da cui scaturiva, come da sorgente, ogni autorità ecclesiastica, ogni
autorità laica.

In fatto, la Chiesa allora è tutta nel papa, o è un'emanazione del papa.
I vescovi hanno perduto ogni autonomia, e non serbano altra autorità che
quella che è delegata loro dal pontefice, di cui sono fatti gli
strumenti. La infallibilità è dei pontefici, e non dei concilii, i quali
non hanno altro officio che di approvare. Innocenzo III non si contenta
più di chiamarsi, come i suoi predecessori, vicario di Pietro, ma vuol
essere chiamato vicario di Cristo, e afferma che ciò che il pontefice
vuole e opera, vuole e opera come Dio, non come uomo. Si vede subito
quali conseguenze possono essere tratte da un'affermazione così fatta.
La volontà del papa è la volontà stessa di Dio, e perciò non è lecito
contraddirla nè discuterla. Agostino Trionfo, nella sua _Summa de
potestate ecclesiastica_, composta a richiesta di Giovanni XXII, giunse
a dire che non si può appellare dal giudizio del papa al giudizio di
Dio, essendo l'appello solamente possibile da un giudice inferiore a uno
maggiore, e papa e Dio essendo una cosa sola.

Per ciò che spetta alla potestà laica l'ordine è a dirittura invertito.
A tempo degli Ottoni noi vediamo il pontefice dipendere dall'imperatore,
e porgere all'imperatore, il quale, in sostanza, è arbitro delle
elezioni, il giuramento di fedeltà. Ora è l'imperatore che dipende dal
papa, è fatto una creatura del papa. Innocenzo III ripete ciò che aveva
detto Gregorio VII, ciò che ripeterà qualche anno più tardi Innocenzo
IV: la potestà laica non può essere legittima se non derivi dalla
ecclesiastica. L'imperatore non può ricevere la corona se non dal papa,
e non è imperatore se da lui non la riceve. I regni sono dati dal papa
in feudo a chi li governa. La relazione vicendevole dei due poteri è
chiarita con la famosa comparazione dei due luminari, del sole ch'era il
papa, della luna ch'era l'imperatore. Queste dottrine trionfavano.
Ottone IV, incoronato da Innocenzo III, si fece chiamar re dei Romani
per la grazia di Dio e del papa; Pietro d'Aragona riceveva in feudo il
suo regno e si riconosceva tributario e vassallo della Chiesa; Giovanni
Senza Terra deponeva la corona per riprenderla, in più legittima forma,
dalle mani del legato Pandolfo. L'inquisizione e i nuovi ordini
monastici aiutavano potentemente l'assolutismo dei papi.

Questo assolutismo, la commistione dei due poteri e dei due reggimenti
ch'esso portava con sè, ebbero avversari ardenti e risoluti, suscitarono
biasimi e rampogne senza fine. Basta ricordar l'Alighieri, che oppose
all'eccessive pretensioni dei papi il suo trattato _De Monarchia_, e in
molti luoghi del poema avventa contr'esse i fulmini dell'ira sua. Certo,
quella commistione fu causa di molte sciagure o di pervertimenti
irreparabili; ma lo storico imparziale deve pur riconoscere ch'essa era
necessaria e inevitabile. Le pretensioni di pontefici come Gregorio VII
ed Innocenzo III sono la logica conseguenza di certe premesse, dalle
quali si svolgono come la pianta dal seme.

Gesù Cristo aveva in mente e voleva la separazione delle due potestà,
spirituale e temporale, quando pronunziava le memorabili parole: _Date a
Cesare ciò che è di Cesare; date a Dio ciò che è di Dio_. Dopo lui,
molti vollero, e molti si adoperarono a ottener quel medesimo, finchè ai
giorni nostri fu proclamata, come provvedimento ottimo di ragione e di
diritto, la separazione totale della Chiesa e dello Stato. Se non che,
tale separazione, quanto è facile in teorica, altrettanto è difficile in
pratica, e se potrà effettuarsi ora, o in avvenire, certo non poteva
effettuarsi in passato. Notisi che gli stessi concetti fondamentali sono
qui molto difficili da fermare e da circoscrivere; che non si può dire,
con precisione dove finisca lo spirituale e dove il temporale cominci; e
che essendo, così dell'uno come dell'altro, subbietto ed obbietto
l'uomo, di necessità debbono spirituale e temporale entrar l'uno
nell'altro. Ond'è che noi vediamo, o la potestà laica cercare di
sopraffar la ecclesiastica, o questa cercare di sopraffar quella. Non
sempre, del resto, ci fu frode o violenza: più d'una volta l'una potestà
consentì, o a dirittura chiese l'ingerenza dell'altra; più di una volta
sì fatta ingerenza fu resa necessaria dalla condizione dei tempi, dalle
storiche vicende.

Giustiniano, il quale pure usurpò non pochi diritti e offici dei papi,
volle, nondimeno, che i vescovi dirigessero la elezione dei più cospicui
officiali della diocesi; che vigilassero il loro operato e l'uso che si
faceva del pubblico denaro; che soprintendessero alle fabbriche e alle
prigioni; avessero in tutela i minori. Promulgando la prammatica
sanzione, egli conferì loro anche la elezione della più parte degli
ufficiali provinciali e la vigilanza dei loro atti.

Sopraggiunti tempi calamitosi, nella confusione e nella ruina degli
ordinamenti antichi, la potestà civile dei vescovi, e più quella dei
papi, dovettero andare necessariamente crescendo. Quando l'Italia,
abbandonata alle proprie sue forze dagl'imperatori d'Oriente, ebbe a
difendersi, come potè, dalle violenze dei Longobardi, spesso ogni
autorità si raccolse nei vescovi, come in coloro che soli erano in grado
di assumerla. “Sono tante le faccende pubbliche,„ scriveva Gregorio
Magno ai patriarchi dell'Oriente “cui deve attendere qui chi ha nome di
vescovo, da lasciar dubbio se egli abbia officio di pastore d'anime o di
principe secolare„. Lo stesso Gregorio, che per tutto il tempo del suo
papato dovette accudire, com'egli pur dice, ai chierici, ai monasteri,
ai poveri, al popolo e, per giunta, ai Longobardi, lo stesso Gregorio fu
principe e papa ad un tempo, e con ragione poteva egli scrivere in altra
sua lettera: “Sono già ventisette anni che in questa città noi viviamo
tra le spade dei Longobardi; e non è da dire quanto tributo debba ogni
giorno questa Chiesa porgere loro, perchè ci sia conceduto di vivere.
Avvertirò solo che come in Ravenna è un tesoriere imperiale che provvede
alle spese quotidiane, così in questa città sono io fatto tesoriere loro
per ogni occorrenza.„ Estraniandosi sempre più Roma dall'impero,
Gregorio III fece restaurare a proprie spese le mura della città.

In questi fatti non è usurpazione di poteri, ma naturale accessione,
richiesta dagli avvenimenti. Se i papi avessero voluto allora attendere
al solo ufficio pastorale, astenendosi da ogni ingerenza nei civili
negozii, avrebbero aggravato i pericoli e i mali ond'erano afflitte in
più particolar modo le popolazioni d'Italia. La nuova potestà veniva
loro, più che da altro, dallo scadimento e dalla defezione della potestà
laica ordinaria. Più tardi fu la stessa potestà laica quella che nei
pontefici riconobbe un'autorità diversa dalla spirituale. Come nei primi
secoli della Chiesa si videro più d'una volta le parti chiamar giudici
delle loro contese gl'imperatori, attribuendo loro, per la speranza di
vincere, un'autorità spirituale che quelli non avevano; così più tardi
si videro principi chiamar giudici i papi in cause civili e politiche,
attribuendo loro, per la speranza medesima, una autorità che quelli non
avrebbero dovuto avere. Esempio memorabile a tale riguardo è quel di
Pippino, seguito poi da altri in gran numero. L'anno 751, Pippino,
figlio di Carlo Martello, e maggiordomo di quell'ombra di re che fu
Childerico III, mandò a Roma il vescovo Burgardo e il cappellano
Folrado, con missione d'interrogare il papa Zaccaria circa i re di
Francia, “i quali non avevano più in quel tempo regal potestà; se ciò
fosse bene o non fosse„. Non v'è dubbio che il papa avrebbe dovuto
rispondere alla subdola domanda con affermare esplicitamente il diritto
del re legittimo; ma premuto ogni giorno più dai Longobardi, non potendo
sperare aiuto se non dai Franchi, e non lo potendo ottenere se non a
patto di avere amico Pippino, fece atto di cattivo sacerdote, ma di buon
politico, e mandò a rispondere a Pippino “esser meglio che il nome di Re
si desse a colui il quale aveva la potestà, anzichè a colui che non
avendo la potestà, riteneva il nome„. E così “per non turbar l'ordine,
per l'apostolica sua autorità ordinò che Pippino fosse re„. Childerico
fu deposto, e Pippino, unto re dai vescovi di Gallia, ne tolse il luogo.
Tre anni dopo, Stefano III, volendo assicurar meglio il fatto, e dargli
maggior solennità, consacrò di bel nuovo Pippino, e insieme con lui la
moglie Bertrada, e i figliuoli Carlo e Carlomanno, conferendo a quello e
a questo il titolo di patrizii dei Romani; e benedisse i signori Franchi
presenti, ammonendoli sotto minaccia d'interdetto e di scomunica, di non
più mai eleggersi un re d'altra schiatta. Passato mezzo secolo, Carlo
Magno riceveva da un altro pontefice la corona del rinnovato impero.

Come dunque non avrebbero i papi attribuito a sè medesimi il diritto di
creare i principi e disporre dei regni, se tale diritto era ammesso ed
invocato da coloro appunto che avrebbero dovuto negarlo e combatterlo? e
che cosa si poteva ragionevolmente opporre ai papi, e alle pretensioni
loro sopra l'impero, quando, in sostegno di quelle pretensioni medesime,
i papi recavano innanzi il fatto irrecusabile che per opera loro era
avvenuta la traslazione della sovranità imperiale, prima dai Greci ai
Franchi, e poi dai Franchi ai Tedeschi? Che i papi, da altra banda,
cercassero di approfittarsi di ogni occasione favorevole per accrescere
la potestà propria, è cosa naturale, e consentanea alla umana natura. Ma
non si creda che quel crescere della potestà papale oltre i confini che
pareva le dovessero essere più legittimamente assegnati, fosse sola
conseguenza degli avvenimenti storici e di storiche congiunture, della
debolezza degli uni e dell'avidità degli altri; era pure, come ho
accennato, conseguenza logica, logico svolgimento di certi principii, di
certe idee, consustanziali alla stessa dottrina cristiana.

Che cosa è, secondo tale dottrina, la vita terrena? Non altro che un
avviamento e una preparazione alla vita eterna. Qual è il fine
dell'uomo? Raggiungere, conformando la vita terrena alla legge di Dio,
la eterna felicità; al qual ultimo fine debbono essere coordinate le
istituzioni tutte del viver civile e politico, leggi, magistrature,
principati. Chi è che ha la retta cognizione della legge divina e
l'officio di bandirla e di farla trionfare? La Chiesa, e quando la
Chiesa sarà tutta accentrata nel papa, il papa. Voi vedete subito come
si deduca l'ultima conseguenza: il papa, illuminato dalla verità,
assistito dallo Spirito Santo, dee governare il mondo e i suoi principi,
come la mente governa il corpo: ogni diritto che contrasti col suo, il
quale s'immedesima con quello dell'intero genere umano, chiamato da
Cristo ad aver parte nel regno dei cieli, è un diritto irrazionale e
illegittimo. Il papa deporrà il principe che, a suo giudizio, non aiuti
i sudditi suoi al conseguimento di quell'unico fine, e disporrà dei
regni della terra, delle insegne e degli onori reali nel modo che al
conseguimento di quell'unico fine gli parrà più conforme e dicevole. Io
non dico già che in quella rivendicazione di alta sovranità civile e
politica per parte dei papi non entrassero molte volte la cupidigia e la
frode; ma dico che quella rivendicazione stessa non sarebbe stata
possibile senza il concorso di fatti e di condizioni che i papi non
avevano creati, e senza il suffragio di principii che erano tenuti
universalmente per veri. Per certo Gregorio VII e alcuni dei successori
suoi ebbero piena fede nel diritto che asserivano.

Ma i papi, non solo esercitarono un diritto di alta sovranità sui
principi temporali; furono principi temporali essi medesimi, ed ebbero
un regno, la cui storia, intralciata e lunga, è intimamente congiunta
con la storia della loro autorità spirituale. Chi dice che il dominio
temporale nocque molte volte all'ufficio del supremo apostolato, e lo
involse in interessi disonesti e biechi, non dice se non il vero; ma
erra chi crede che l'acquisto di quel dominio sia stato necessariamente
e sempre frutto di arti frodolente, di audaci menzogne e di sfacciate
usurpazioni. Arti e menzogne ed usurpazioni ci furono come in ogni altra
cosa umana; ma s'ha a dire di quell'acquisto ciò che dello sconfinamento
dell'autorità papale ricordato pur ora: esso fu cominciato, poi
promosso, da fatti storici ineluttabili e da più ineluttabili credenze e
dottrine.

Le origini prime di quello che poi fu detto Stato della Chiesa sono
molto antiche. Cristo insegnò il disprezzo dei beni di quaggiu;
consigliò a chi aveva fede in lui di distribuire ogni suo avere ai
poveri e di seguirlo, e disse espresso che il suo regno non era di
questo mondo. La Chiesa primitiva non ebbe ricchezze, ma visse di
oblazioni, le quali servivano a sostentamento dei ministri, dei
pellegrini, dei poveri, e alle spese del culto. Il trionfo della fede,
l'organarsi e l'assodarsi della gerarchia, dovevano, anche per questo
rispetto, mutare profondamente la condizione delle cose. Le singole
chiese arricchirono, e quelle stesse ragioni che fecero di Roma la
principal Chiesa dell'orbe cristiano, fecero pure di Roma la Chiesa più
ricca. La famosa donazione di Costantino è una favola; ma gli è fuor di
dubbio che Costantino fu assai liberale con la Chiesa di Roma,
arricchita da lui di templi, di suppellettili preziose, di fondi rustici
e urbani. L'esempio di Costantino fu imitato dai successori suoi, e da
innumerevoli privati cui era stata concessa facoltà di donare, o di
lasciare per testamento i loro beni alla Chiesa. Molte fra le più ricche
famiglie di Roma gareggiarono in quest'opera, guidate da un pensiero che
non poteva non sembrare in tutto ragionevole e giusto a coloro che
avevano la fede e l'entusiasmo della fede; giacchè chi meglio della
Chiesa avrebbe potuto far dei beni di quaggiù un uso conforme agli
ammaestramenti degli Evangeli? chi meglio di lei adoperare a buono e
legittimo fine ciò che di solito è fomite e strumento di peccato? Così è
che allo sfasciarsi dell'impero d'Occidente il patrimonio di San Pietro,
com'ebbe a chiamarsi, comprende vastissime possessioni, non solo in
Italia, ma in Gallia ancora, in Dalmazia, in Africa, in Asia. Anche le
altre Chiese maggiori avevano allora patrimonii più o meno cospicui,
sebbene senza paragone minori di quello che aveva la Chiesa di Roma.

I papi amministravano il patrimonio, riscotevano le copiosissime
rendite, ma non avevano sopra di esso diritto di sovranità, diritto che
spettava, secondo le regioni ov'erano poste le terre, o ai re franchi o
all'imperatore d'Oriente. Se non che, date le condizioni generali dei
tempi; dato il progressivo e irreparabile sfiacchimento della potestà
degl'imperatori bizantini in Italia, e il crescere della potestà dei
pontefici, non era possibile che o prima o poi questi non pensassero a
sostituire all'apparente sovranità degl'imperatori la reale sovranità
propria. E una sostituzione così fatta ebbe favore dalle popolazioni
italiane, che minacciate e strette da nemici formidabili, e non protette
da sovrani di nome e per giunta lontani, non vedevano chi meglio del
papa, che avevano in casa, potesse farsi tutore degl'interessi e delle
ragioni loro. La sovranità spirituale dei pontefici attirava dunque a
sè, naturalmente ed irresistibilmente, anche questa sovranità temporale.

Il primo nucleo di uno Stato della Chiesa, propriamente detto, procurò,
e sembra strano a dire, Liudprando, il re di quei Longobardi che tante
noie diedero ai papi, e contro a cui i papi invocarono l'aiuto
vittorioso dei Franchi. Nel 728 Liudprando cesse e donò poco tempo dopo
che se n'era fatto padrone, la città di Sutri agli apostoli Pietro a
Paolo, non tenendo conto alcuno dell'imperatore a cui essa apparteneva
di diritto. Era papa allora Gregorio II, il quale, avendo il popolo
cacciato il duca, che appunto rappresentava in Roma l'imperatore, fu
davvero signore di quello che dicevasi ducato romano. Nel 741 lo stesso
Liudprando fece dono a papa Zaccaria di parecchie altre città. Maggiore
accrescimento ebbe pochi anni più tardi il nascente Stato della Chiesa
per la donazione di Pippino, e per quelle di Desiderio e di Carlo Magno;
così che, nei primi anni del secolo IX, esso comprendeva, oltre l'antico
ducato romano, l'esarcato di Ravenna quasi intero, la Pentapoli e una
parte rilevante del ducato di Toscana. Il patrimonio di San Pietro
cresceva, ma non cresceva di pari passo la signoria dei pontefici sopra
di esso, presa in mezzo e premuta da altri diritti. Gl'imperatori
franchi, a cominciare da Carlo Magno, si riserbarono l'alta sovranità, e
la esercitarono, sebbene non sia possibile sempre vedere entro quali
limiti si contenesse, e come si conciliassero le due potestà
degl'imperatori e dei papi. Certo ai papi quella soggezione doveva
tornare assai poco gradita, ed essi dovevano porre ogni studio a
scemarla. In ciò ebbero aiutatori efficaci gli stessi degeneri
successori di Carlo Magno: Carlo il Calvo non esercitò più su Roma e le
altre terre del patrimonio che una parvenza di autorità.

Fu molto disputato circa il tempo in cui cominciò ad aver corso la
famosa favola della donazione di Costantino, e le contrarie opinioni non
si sono mai potute mettere d'accordo. Chi la vuole immaginata a tempo di
Carlo, chi di Pippino, e chi prima e chi dopo. L'opinione più probabile
è forse quella che la fa sorgere ai tempi di Niccolò I, degno precursore
di Gregorio VII; di quel Niccolò di cui il cronista Reginone, suo
contemporaneo, ebbe a dire che comandò ai re ed ai tiranni, e come
signore del mondo impose loro la sua volontà. Nessun mezzo si sarebbe
potuto escogitare più acconcio di quella favola a sopraffare l'ultimo
resto dell'incomoda sovranità imperiale, mentre lo scadimento stesso di
quella sovranità agevolava e favoriva la diffusione della favola e le
permetteva d'acquistar credito. Convertendosi alla fede di Cristo, e
ricevendo il battesimo, Costantino aveva ceduto in perpetuo a papa
Silvestro, ed ai suoi successori, Roma, l'Italia e tutto l'Occidente, e
in conformità di tale cessione aveva trasferita in Bisanzio la sede
dell'impero. Come dunque s'arrogavano quei nuovi imperatori un qualsiasi
diritto di sovranità sopra le terre della Chiesa? Non erano piuttosto
essi, che si atteggiavano a sovrani, i feudatari dei pontefici, e non
dovevano riconoscere da questi, insieme con la corona imperiale, anche
la investitura? Liudprando, Pippino, Desiderio, Carlo Magno, non
donarono nulla alla Chiesa, ma le restituirono ciò che indebitamente e
malvagiamente le era stato tolto. Più tardi s'andò anche più in là, e fu
considerata come una restituzione la stessa donazione di Costantino.

L'apocrifo atto acquistò grandissima autorità e fu ai papi di
grandissimo giovamento. Invano, nel 999, l'imperatore Ottone III lo
dichiarava menzogna sfacciata: durante tutto il medio evo esso fu tenuto
in conto di autentico, e allegato ogni qual volta se ne offerse
opportunità. Su di esso, e su le donazioni egualmente autentiche di
Lodovico il Pio, di Ottone I e di Arrigo II, si fondava nel 1059 Niccolò
II per dare in feudo a Roberto Guiscardo la Puglia, la Calabria e la
Sicilia, quest'ultima ancora da strappare ai Greci ed ai Saraceni, e per
investire del principato di Capua Riccardo conte di Aversa. Dante
rimproverava con aspre parole a Costantino la _dote_ funesta che aveva
pervertita la Chiesa di Cristo; ma solo due secoli più tardi l'Ariosto
poteva por quella dote nel mondo della luna, ove tutto è raccolto

    Ciò che si perde, o per nostro difetto,
    O per colpa di tempo o di fortuna.

La donazione o, se così vogliamo chiamarla, restituzione che la contessa
Matilde, la gloriosa amica e fautrice di Gregorio VII, fece de' suoi
dominii alla Chiesa accrebbe di molto ancora il patrimonio di questa.
Gli è assai probabile che Matilde abbia inteso donare i soli suoi
possessi allodiali, non quelli che teneva in feudo dall'imperatore, e di
cui non poteva disporre; ma è certo da altra banda che l'atto di lei fu
cagione di nuove dispute e di nuove contese fra imperatori e papi.
Innocenzo III riuscì ad aver ragione anche in ciò, e fu signore di uno
Stato affatto indipendente, e come tale riconosciuto dallo stesso
imperatore, Stato che comprendeva, oltre il territorio che da Ceprano si
distende sino a Radicofani, il ducato di Spoleto, la marca d'Ancona,
l'antico esarcato di Ravenna sino al Po, la contea di Brettinoro, i
dominii della contessa Matilde.

Abbiam veduto i papi crescere a poco a poco; acquistar diritto di
preminenza su tutti gli altri vescovi; assicurarsi la libertà; mutarsi
di vicarii di Pietro in vicarii di Cristo; attrarre sempre più a sè la
potestà diffusa nel corpo della Chiesa; assumere quasi carattere di
divinità; stendere sul mondo un'autorità formidabile, la quale, essendo
tutta spirituale in principio, si fa arbitra d'interessi e di diritti
affatto temporali, si sovrappone ad ogni autorità laica, e la nega, o
l'ammette solo come un'emanazione di sè stessa. Abbiam veduto le
ricchezze affluire nella Chiesa, e i papi amministrare vastissime
possessioni, diventare feudatari dei re, emanciparsi da ogni esterna
sovranità, cingere da ultimo la corona dei principi secolari e
indipendenti. Abbiam veduto tutto ciò aver suo principio in Roma,
crescere in Roma, intorno a Roma e per Roma. Molti fatti, molte idee,
molte forze concorsero a formare il papato; ma, se Roma non fosse stata,
nemmeno il papato sarebbe stato, o come ho avvertito, sarebbe stato un
papato assai diverso da quello che fu.

Ebbene, qui s'offre all'attenzione vostra un fatto assai strano. In Roma
sempre ebbero i papi i più acerbi nemici loro; in Roma corsero i più
gravi pericoli; Roma fu il trono e la gogna loro, il luogo della loro
glorificazione e del loro martirio. Niccolò Machiavelli ebbe a fare
l'osservazione che i papi, i quali fuori di Roma avevano grandissima e
indisputata autorità, ne avevano pochissima in Roma. Tale osservazione,
verissima, era già stata fatta assai prima, in pieno medio evo. Quello
stesso Gregorio VII che si condusse a' piedi un imperatore, non fu egli
assalito in chiesa da Cencio nel bel mezzo delle funzioni del Natale,
percosso, trascinato pei capelli? E quanti papi prima di lui, e dopo di
lui, non furono in Roma, e nello stesso loro palazzo, e nelle chiese
maggiori, assaliti, oltraggiati, percossi, spogliati delle insegne del
pontificato, minacciati di morte? Quanti non si salvarono con patti
vergognosi o con fughe precipitose? Quell'Urbano II che poteva con una
parola sollevare l'Europa in armi, e precipitarla contro gl'infedeli al
riscatto di Terra Santa, nulla poteva in Roma, e fu più d'una volta
ridotto a campar di elemosine. Pasquale II fu preso a sassate durante la
processione di Pasqua, e costretto a fuggirsene. Lucio II morì d'una
sassata che lo colse mentre tentava di espugnare il Campidoglio. Persino
Innocenzo III dovette cercare scampo nella fuga. E chi potrebbe noverare
tutti i papi cui Roma chiuse superbamente in sul viso le porte?

L'eterna Città fece pagar caro ai pontefici il vanto e il beneficio che
venivano loro da lei. Era in essa un fermento inestinguibile, uno
spirito prevaricatore e protervo che veniva d'alto e di lontano, e mai
non chetava. La ribellione vi ribolliva e rimuggiva in perpetuo, e fu
per secoli la forma ordinaria della sua vita. Roma ricordava d'aver
signoreggiato il mondo; Roma ricordava d'essere stata la fonte d'ogni
diritto e d'ogni sovranità, e voleva continuare ad essere, e non voleva
obbedire, e non obbediva a lungo mai a nessuna potestà, nemmeno a quelle
ch'essa stessa creava. L'impero era lei,

    _Roma caput mundi regit orbis frena rotundi:_

quel popolo s'inebbriava ancora al suono terribile del suo nome e
sognava sogni smisurati. Roma voleva l'impero e voleva il papato; ma
come ornamenti suoi li voleva, nè l'imperatore nè il papa riceveva come
signori assoluti. Li voleva entrambi, perchè a costituire la suprema
sovranità che credeva suo dritto, era necessario il concorso di
entrambi; ma come l'una delle due potestà minacciava di crescer troppo e
di soperchiare, essa aiutava l'altra. Però, tra l'impero e il papato noi
vediamo per secoli una Roma sempre in sommovimento, sempre in armi,
vinta spesso, non domata mai, che pugna per salvare l'autonomia propria,
e si afferma comune, e si afferma repubblica, e non dà pace nè a sè
stessa, nè altrui. Da tale sua condizione vien fuori una storia
meravigliosa ed oscura, quale nessun'altra città nel mondo ebbe o avrà
mai; storia di violenze, di errori, di tradimenti, di entusiasmi, di
vittorie, di sconfitte, di peripezie d'ogni maniera, senza fine e senza
tregua. Simile a quel vortice spaventoso del mare di cui favoleggiò
l'età di mezzo, pel quale passavano a mano a mano le acque tutte che
sono sulla faccia della terra, Roma riceveva dentro di sè le forze
tumultuanti del mondo, e fra le sue mura esse venivano agli urti
supremi, alle supreme battaglie.

La storia del comune di Roma è in parte oscura, in parte disforme da
quella degli altri comuni italiani, sorti in condizioni molto diverse
dalle sue. Le vecchie istituzioni, sebbene alterate, sebbene affralite,
durarono in essere sotto i Goti ed i Greci; ma si perdettero nel tempo
della lotta contro i Longobardi, quando popolo e papa si allearono
contro il comune avversario, e insieme si adoperarono a scuotere il
giogo degl'imperatori d'Oriente. Il senato si dilegua e sorge un comune
nuovo in cui al potere civile prevale il militare. In sul principiare
del secolo VIII si menziona per la prima volta il ducato romano. Il
territorio della città si è allargato, e il popolo si sforza d'avere un
duca di sua elezione, e ci riesce. L'antico prefetto imperiale sparisce
ancor esso, o muta officio e carattere, diventa un giudice criminale. Il
potere civile si fonde col militare, e sono entrambi nelle mani del
duca, che abita sul Palatino e ha sotto di sè una popolazione spartita
in quattro classi, e l'esercito, che è formato del fiore della
cittadinanza e prende parte nella elezione del papa. Il papa non è
sovrano; ma ha sotto di sè numerosi officiali, dirige una vasta
amministrazione, fruisce d'ingenti entrate, esercita il potere civile
quante volte gliene è data opportunità, e l'autorità sua di tanto cresce
di quanto l'imperiale scema.

Con la distruzione del regno dei Longobardi le cose mutarono in parte, e
in parte rimasero come per lo innanzi. Alla sovranità nominale
degl'imperatori d'Oriente si sostituì la sovranità reale di Carlo Magno,
e il papa fu, sotto di esso, capo dello Stato, ma più di nome che di
fatto. A limitare il potere suo c'era da un lato il messo imperiale,
c'era dall'altro la nobiltà, la quale formava l'esercito, e moveva a suo
grado il popolo, ed era, per dir così, l'elemento primo ed incoercibile
della repubblica. Leone III, quello stesso Leone che a Carlo Magno,
quasi in segno di sudditanza, mandava le chiavi della tomba di San
Pietro, e il gonfalone di Roma, e chiedeva un messo imperiale che
venisse a ricevere il giuramento di fedeltà dei Romani, operando come
signore di Roma, durò gran fatica a reggersi e a serbarsi illeso in
mezzo al furore delle fazioni che straziavano la città, e fu ascritto a
miracolo. Gli avversarii suoi lo assaltarono nel bel mezzo di Roma, lo
rovesciarono da cavallo, tentarono, dicesi, di strappargli la lingua e
gli occhi; e v'è chi afferma che ci riuscirono, e che per grazia di Dio
riacquistò l'una e gli altri.

Era incominciato quel terribile giuoco delle fazioni che, per secoli,
doveva insanguinar la città, riempierla di tumulto e d'orrore. Cresceva
fra quelle tragiche mura una nobiltà la più superba, la più tracotante
che mai siasi veduta, al papa tanto più infesta, quanto più fiacco ed
incerto il potere imperiale che poteva, se non domarla, frenarla. Col
dissolversi dell'impero franco, l'audacia sua giunse al colmo, adescata
ed aizzata da quella stessa istituzione del papato che avrebbe dovuto
esser principio di pace e di ordine. Non v'era famiglia di patrizii che
non agognasse di vedere un de' suoi coronato della tiara; e non v'era
pontefice che non si facesse puntello e scudo delle armi de' suoi
partigiani. La repubblica, una repubblica turbolenta e malvagia di
nobili combattenti fra loro, crebbe di bel nuovo sui papi. Roma fu in
balìa di donne senza pudore e senza pietà, e i papi furono loro
creature, poi del secondo Alberico, sin verso il mezzo del secolo
decimo, degni di chi li poneva sul trono come di chi li rovesciava. La
Chiesa non ricorda tempi più tristi di questi, nè maggiori vergogne. Il
papato in quella burrasca non naufragò perchè troppe altre forze lo
sorreggevano.

Intanto, aiutato da quello Alberico, che più cose nuove ordinò, il
popolo cominciava a levarsi a fronte della nobiltà, di cui era stato
insino allora strumento; ad affermar sue ragioni; a far armi; recando
nuovo fomite di dissidio, in quel tumulto; accelerando, con sue
mutazioni, le peripezie e le catastrofi; avviluppando più sempre quella
intricata matassa di cupidigie, di gelosie, di odii, di torti e di
diritti. Con Ottone I la spenta sovranità imperiale prese a rivivere, ma
insidiata, combattuta. Ai 3 di gennaio del 964 nobili e popolo insorgono
a furia, e benchè vinti rimangono poi padroni della città. L'imperatore
indi a poco si parte; Leone VIII, eletto per volere dell'imperatore,
fugge. Segue una inenarrabile storia di subiti mutamenti, di
usurpazioni, di pugne, di rappresaglie, di stragi. Roma diviene il campo
dove le due parti contrarie, la nazionale e l'imperiale, combattono una
guerra micidiale e fraudolente, non mai finita. Ciascuna elegge il suo
papa, e si sforza di tor di mezzo il papa della parte avversaria.
Benedetto VI fu strangolato in carcere; dopo otto mesi di pontificato,
Giovanni XIV morì in Castel Sant'Angelo, non si sa bene se di fame o di
veleno; il cadavere di Bonifacio VII fu crivellato di lanciate,
trascinato ignudo per le vie, gettato e abbandonato dinanzi al così
detto cavallo di Costantino; Giovanni XV e Gregorio V furono cacciati da
Giovanni Crescenzio il quale signoreggiò Roma molt'anni, finchè fu vinto
e fatto decapitare da Ottone III.

Là le vittorie imperiali abbassavano per qualche tempo la frazione
contraria, non fondavano stabilmente la pace e l'ordine. Il patriziato,
in cui erano penetrati numerosi elementi feudali, cresce, benchè diviso,
d'insolenza e di forza. Roma si copre di torri e di propugnacoli; il
Colosseo, le terme, gli archi, i templi dell'antichità diventano
fortezze e ripari. Si leva sull'altre famiglie nobili la famiglia dei
conti di Tuscolo, arbitri molt'anni del papato e di Roma. E il disordine
aumenta, aumenta la corruzione: nel 1015 tre pontefici si contendono la
tiara.

Se non che in quegli anni di perpetuo scompiglio era cresciuto di forze,
e aveva acquistato coscienza del suo diritto anche il popolo, e nel 1143
insorse e imitò l'esempio d'altri comuni vendicatisi a libertà. Dichiarò
cessato il potere temporale dei papi e restaurata la repubblica;
ricostituì il senato; ma vietò quasi del tutto ai nobili di sedervi;
riavocò a sè ogni sovranità usurpata da altrui. Due anni dopo venne in
Roma Arnaldo da Brescia, e infervorò vie più gli animi, predicando
contro la corruzione dei chierici, richiamando la Chiesa alle
istituzioni e ai costumi dei tempi apostolici e Roma all'antica sua
gloria. Arnaldo morì per questo peccato, e le sue ceneri furono gettate
nel Tevere, e quel sogno di rinnovata repubblica si dileguò con esse.

Ma riapparve più tardi e i papi non ebbero così presto quieto e sicuro
dominio sulla città riottosa. Quel sogno era la visione di un passato
incancellabile; era la figurazione di una speranza che sempre rinasceva
negli animi, li consolava e incitava. Leone IV la significò in un verso,
quando sulla porta principale della nuova città che da lui prese il nome
faceva scrivere:

    _Roma caput orbis, splendor, spes, aurea Roma._

Come la stessa città delle genti, quel sogno sembrava immortale: esso
turbò i sonni a molti pontefici; esso accese e sollevò gli animi di Cola
di Rienzo e di Stefano Porcari. Francesco Petrarca n'era irradiato
quando ricordava

    L'antiche mura ch'ancor teme ed ama
    E trema 'l mondo quando si rimembra
    Del tempo andato e indietro si rivolve.

Dileguato quel sogno, Roma quetò, e non fu più per secoli, se non un
comune amministrativo. Essa obbedì ai pontefici; ma come la potestà loro
cresceva su di essa, così scemava sul mondo; e intanto per essi e per
lei maturavano nel remoto dei tempi novelli destini.



GLI ORDINI RELIGIOSI E L'ERESIA

DI

FELICE TOCCO


_Signore e Signori,_

Di settimana santa è bene entrare in chiesa e riandare col pensiero la
storia delle più antiche eresie, non fosse altro per sapere se resti in
noi qualche vestigio degli antichi errori. E se fastidio vi prenderà di
questa corsa vertiginosa per l'ampio giro di più che due secoli, non
incolpate me, vittima innocente, ma chi scelse insieme e il subbietto
della conferenza e il conferenziere, cadendo senza dubbio in eresia
doppia e doppiamente infelice. E dico male subbietto, chè l'argomento
nostro non ne ha uno, ma due non che disparati siffattamente opposti che
molti di voi si saranno dimandati con meraviglia a quale bell'umore sia
caduto in mente di metterli insieme. Nè avete torto perchè gli ordini
religiosi furono sempre tenuti per il più saldo presidio di quella
stessa Chiesa, che l'eresia tendeva da più parti di sovvertire, anzi
alcuni di questi ordini sursero appunto per combattere corpo a corpo e
perseguitare a morte gli eretici. Nè fa d'uopo citare i frati
predicatori o domenicani, che in grazia di un bisticcio etimologico non
disdegnavano di chiamarsi cani del Signore, _domini canes_, e quali
bracchi, fiutanti da lontano l'eresia, sono infatti effigiati in uno dei
grandi affreschi del Cappellone degli Spagnuoli.

Ma non ostante questi contrasti, che certo a nessuno verrà in mente di
revocare in dubbio, altri potrebbe scoprire qualche non lontana analogia
tra il movimento ereticale e la riforma degli ordini monastici,
principalmente in quel torno di tempo, di che io debbo intrattenervi,
vale a dire nel corso dei secoli decimosecondo e decimoterzo. In primo
luogo gli ordini monastici non dissimulavano la loro posizione al clero
secolare, il quale nella confusione ognor crescente del principato
civile con la dignità ecclesiastica, sempreppiù si allontanava dai
precetti del Vangelo; e non solo il papa aveva un dominio temporale, ma
molti vescovi, specie in Germania, erano anche principi dell'impero; e
non di rado quella mano che doveva levarsi a benedire collo stesso segno
di croce amici ed inimici, brandiva la spada contro gli stessi fedeli.
Di siffatto tralignamento mondano e del fasto e della corruzione del
clero si facevano denunziatori e giudici principalmente i fondatori di
nuovi ordini religiosi che predicavano doversi le anime schive e
disdegnose ritrarre nel silenzio dei chiostri, per praticare quelle
virtù evangeliche, che nel fragore delle armi e nel lusso di una vita
mondana e vescovi e prelati avevano smarrite. L'ostilità tra il clero
secolare e i nuovi ordini religiosi, principalmente al sorgere dei frati
mendicanti, crebbe a tal segno che un eminente professore
dell'Università parigina, Guglielmo di Sant'Amore, pubblicò contro di
loro un'amara invettiva, intitolata: “Dei pericoli dei tempi novissimi„,
dove rimbeccando i novatori, sosteneva il vero flagello della Chiesa
essere appunto quei sodalizi frateschi, che scemando il prestigio delle
antiche istituzioni, tornavano come minaccia ed offesa permanente alle
più alte autorità ecclesiastiche. Il papa Alessandro IV impose silenzio
all'audace polemista, e solennemente condannò il libro pericoloso, ma la
lotta non ismise per questo, e più tardi fu rinnovata con ben altro
successo.

Ma oltre a questo carattere polemico, un altro tratto è da rilevare
nelle riforme degli ordini religiosi, che con rapida vicenda si
succedevano tra il secolo decimosecondo e il decimoterzo; ed è il
rigoroso ascetismo. L'ordine principale della Cristianità, fondato nel
secolo VI da San Benedetto, non avea portato quei frutti che il pio
fondatore ne sperava. Certo a nessuno può cadere in mente di negare i
meriti dell'ordine benedettino, che in tempi di buia ignoranza seppe
conservare la tradizione della coltura, e glorificò il lavoro manuale
quando da tutti era tenuto a vile, e più volte difese i vinti dalle
prepotenze dei barbari vincitori; ma non si può d'altra parte
contrastare che avendo quell'ordine accumulate enormi ricchezze, deviò
siffattamente dalla semplicità ed operosità primitiva che non mancavano
nell'ordine stesso voci di severe rampogne, e molti tentativi di riforma
si alternarono a brevi intervalli.

Tralascio le riforme di San Romualdo che nel 1012 fondò l'ordine dei
Camaldolesi, e quella di San Brunone che nel 1085 fondò l'ordine dei
Certosini, perchè l'uno e l'altro, pur conservando la regola di San
Benedetto, fecero ritorno alla disciplina più austera degli antichi
eremiti della Tebaide. Ma anche quelli che più strettamente si tennero
all'istituzione benedettina, come Guglielmo di Aquitania che fondò la
celebre abbazia di Clugny nel 909, e più tardi San Bernardo che nel 1115
aperse quella ancor più celebre di Chiaravalle, intendevan tutti di
richiamare i loro confratelli ad una più rigida osservanza della Regola.

Nè diverso fu il pensiero del calabrese abate Gioacchino, che ancor più
severa riforma aveva inaugurata nelle alpestri solitudini di San
Giovanni in Fiore, e maggiori e più copiosi frutti se ne imprometteva,
perchè nell'ardente fantasia vedeva prossima una terza età del mondo, in
cui non solo l'ordine benedettino, ma la cristianità tutta andrebbe
radicalmente riformata.

Di queste teorie gioachinitiche discorreremo a suo tempo. Per ora
tornando al nostro proposito, dico che i due caratteri del movimento
riformatore dei cenobii, l'opposizione contro il clero non pure secolare
ma regolare e il rigido ascetismo, sono altresì le molle più potenti
dell'eresia medioevale. Perchè non s'ha da credere che l'eresia
medioevale nella maggior parte delle sue forme si opponga alla Chiesa
stabilita per vendicare, poniamo, o la libertà della coscienza o
l'autonomia dello Stato, o per ridare alla natura ed alla vita quei
diritti, che l'ascetismo le aveva tolti. Tutto al contrario l'eresia
medioevale è più ascetica dello stesso Cattolicismo. E per questo lo
combatte e l'assale da più parti, perchè non lo crede abbastanza
agguerrito contro i tre nemici dell'anima, il mondo, il demonio e la
carne. Questa comunanza d'intendimenti tra i riformatori e gli eretici,
per quanto parziale e momentanea, rende ragione del fatto stranissimo
che alcune eresie prendano le mosse da movimenti al principio non
ereticali, anzi protetti e incoraggiati dalla Chiesa. Così i Patarini,
che negli editti di Federico II sono accomunati colla peggior genìa di
eretici, nel secolo XI non erano altro se non il clero minore milanese,
che sotto l'inspirazione dei papi insorgeva contro gli abusi e le
rilassatezze del clero maggiore. Anche oggi si chiama a Milano dai
Patari una contrada, dove abbondano i patari, o rivenduglioli di roba
usata. L'italiano _rigattiere_ non esprime tutto il disprezzo che si
collega col _patari_ o _patee_. E appunto patari o patarini furono
denominati i membri del basso clero che ardivano di muover guerra
all'alto, nome che sulla bocca degli uni poteva suonare scherno o
dileggio, ma sulla bocca degli altri era titolo di gloria o per lo meno
di cristiana umiltà. Certo è che il basso clero accusava l'alto di due
vizii capitali: il concubinato e la simonia. Intorno alla prima di
queste due accuse bisogna però bene intendersi, perchè non è da credere
che tutto l'alto clero milanese conducesse vita dissoluta. Per lo
contrario molti sacerdoti credevano di aver menato moglie
legittimamente, e di non essere divenuti per questo peggiori degli
altri. Perchè il celibato dei preti non è un articolo di fede, ma una
misura disciplinare, dalla quale la Chiesa stessa talvolta si allontana,
come anche oggi rispetto ai sacerdoti di rito greco. E a qualunque
tempo, più meno antico, questa misura rimonti, certo è che la Chiesa
milanese per lunga consuetudine se n'era dipartita, e si contava in
Lombardia sì gran numero di preti ammogliati, che lo stesso Leone IX
riconosceva non esser lecito mettere sul lastrico tante povere donne,
non di altro colpevoli se non di aver seguito un uso inveterato del loro
paese. Ed anche sull'altro capo d'accusa bisognava osservare, che la
simonia (così chiamata da quel Simone Mago, che voleva comprare a
contanti la dignità apostolica) era un male non della Chiesa milanese
soltanto ma di tutta la Cristianità. I beneficii ecclesiastici davano
così larghi profitti, che quanti avevano il diritto di conferirli,
volendo prendervi qualche parte, li solevano dare al migliore offerente;
nè dopo secoli di lotta si riuscì a sradicare il male. Ma se la Chiesa
milanese poteva addurre in suo favore vecchie consuetudini ed esempi di
tutti i paesi, non aveano torto i papi a imporre al clero quello che
credevano più utile nell'interesse della cristianità. E potevan ben
pretendere che la milizia di Cristo non da altre cure fosse distratta,
nè altre famiglie riconoscesse fuor del consorzio dei fedeli a lei
affidato, e che i beneficii ecclesiastici fossero dati al più degno non
al migliore offerente. Al che aggiungete la Chiesa romana mal soffrire
che l'arcivescovo di Milano, divenuto come a dire principe della città,
aspirasse ad un'autonomia non conciliabile con la rigida gerarchia del
cattolicesimo, e non vi parrà strano che sia scoppiata terribile la
lotta tra il clero minore, obbediente ai cenni di Roma, e il clero
maggiore forte delle sue clientele e degli antichi diritti.

Molte vittime caddero dalle due parti e tra gli altri i capi stessi dei
patarini Arialdo ed Erlembardo, che ben presto furono levati sugli
altari. Ma cessato il moto patarinico, e fiaccata la potenza degli
arcivescovi milanesi, non cessarono per questo gli scandali, e almeno
per la simonia le cose continuarono come prima, che per isvellere il
male dalla radice bisognava togliere al clero i lauti beneficii, e la
potestà secolare con quelli congiunta, a cominciare dalle somme cime
sino agli ultimi gradini della gerarchia. Quest'audace riforma fu
proclamata altamente da Arnaldo da Brescia e dagli Arnaldisti, i veri
continuatori del movimento patarinico. Ma ormai le sorti erano mutate, i
nuovi Patarini non obbedivano ai cenni di Roma come gli antichi, e furon
dichiarati eretici, e il loro capo, non che levato sugli altari, fu
gettato nel Tevere. Nè io negherò che in qualche punto dommatico gli
Arnaldisti non si allontanassero dalla fede, come nel sostenere che la
dignità sacerdotale immediatamente si perda quando chi l'eserciti ne sia
indegno, e che i sacramenti somministrati da un prete concubinario o
simoniaco non abbiano valore; ma anche su questo punto i Patarini
antichi non pensavano diversamente dai nuovi, e certo è che gli uni e
gli altri volevano informata la vita del clero a più rigoroso ascetismo.

Quello che i Patarini chiedevano al clero, altri eretici, o i cosìdetti
Catari, lo volevano esteso a tutti i fedeli. Ben per tempo il nome di
Patarini si scambiò con quello di Catari o Catarini come si diceva
presso di noi. Ma originariamente ed etimologicamente i due nomi erano e
sono distinti. I Catari sono una setta venutaci dalla Bulgaria (e però
furono detti anche bulgari o _bougres_), di cui si sentì per la prima
volta parlare nell'alta Italia quando non erano ancora cominciate le
agitazioni patariniche, e si dicevano Catari dal greco καθαρὸς (puro)
che da noi divenne _catàro_ o anche _cazàro_ e in Germania si trasformò
in _Ketzer_, usato d'allora in poi a significare _eretico_ per
antonomasia. I Catari si chiamavano così in quanto si vantavano di non
esser lordi delle colpe che osavan rimproverare alla Chiesa cattolica.
Ammettevano anch'essi essere tre i nemici dell'uomo, il mondo, la
carne e il demonio, ma i due primi credevano fossero creati
dall'ultimo. Imperocchè seguendo l'antica dottrina manichea, ponevano
due spiriti eterni e lottanti fra di loro, lo spirito del bene, o Dio
buono, e lo spirito del male, o Demonio. Ciascuno dei due Dii avrebbe
creato a modo suo, il Dio buono le anime nella loro purità nativa a lui
rassomiglianti, il Dio malvagio invece i corpi e tutte le cose visibili.
Insegnavano inoltre, seguendo le antiche tradizioni pitagoriche, che un
bel giorno le creature del buon Dio deviarono dal dritto sentiero e
precipitando dal cielo vestirono la carne, dando così principio a
quell'iliade di mali che non avrà mai fine, finchè non sarà dato loro di
ritornare al Cielo onde partirono. E concludevano: l'unico mezzo di
conseguire sì eccelso fine essere questo, sequestrarsi dal mondo, opera
del malvagio Dio, e mortificare la carne fonte di ogni corruzione. Nè
soltanto ai preti ma benanco a tutti i fedeli interdicevano il
matrimonio, perchè mettere al mondo nuovi figliuoli è come costringere
le anime a rientrare un'altra volta nella prigione della carne. Se tale
strana religione avesse potuto attecchire, la conseguenza sarebbe stata
questa, che il primo giorno del suo trionfo sarebbe stato l'ultimo della
umanità, perchè la generazione, che accettando in buona fede il
catarismo, ne avesse seguite scrupolosamente le massime, non avrebbe
avuto discendenti, e si sarebbe verificato così quel suicidio cosmico,
che qualche filosofo contemporaneo ha osato di spacciare come una grande
novità. Pur troppo in fatto di stranezze e di pazzie si può dire con
l'Ecclesiaste: _nulla di nuovo sotto il sole_.

Il Catarismo è certamente agli antipodi del Cristianesimo, perchè l'uno
è rigorosamente dualista, l'altro monoteista; l'uno proscrive il
matrimonio, l'altro lo proclama un sacramento: l'uno infine crede di
compiere ed inverare l'Ebraismo, l'altro condanna il vecchio Testamento,
e crede il Dio terribile e vendicativo degli Ebrei non essere se non il
Dio malvagio degli antichi Parsi. Ed è molto strano come in pieno Medio
Evo, quando la fede era più viva, e la Chiesa aveva riportato o stava
per riportare, le più splendide vittorie sugli avversarii suoi, è
strano, ripeto, come una credenza così anticristiana, e che per giunta
fa violenza alla natura umana, abbia potuto trovare tanti proseliti.
Eppure è così. Il Catarismo si diffuse in tutta l'Europa, e l'Italia
nostra, tenuta da noi stessi per il paese meno adatto alle innovazioni
religiose, ne era per così dire il centro. Tutte le classi partecipavano
alla nuova fede, e le donne non meno degli uomini. Di qui, da Firenze,
partì una donna coraggiosa ed intrepida alla volta di Orvieto, ove una
calda parola trasse molti alla nuova fede. E cosa più strana ancora, un
altro paese che rivaleggiava coll'Italia per il favore dato al
Catarismo, fu appunto quella Provenza, dove fioriva il culto della nuova
lingua e della nuova poesia, e dove tutti i trovatori cantavano e
sfinivano di amore anche quando non ne sentivan punto. In mezzo a tanto
sorriso di cielo e a cosiffatta gaiezza di vita pur trovò modo di
prosperare la più tetra ed ascetica delle religioni, la quale si diffuse
così largamente nelle diocesi di Tolosa, di Carcassona e di Albi, che il
nome stesso di albigese divenne a così dire sinonimo di cataro. E fu
duopo di lunga e sanguinosa crociata, e di una inquisizione ancor più
terribile della guerra stessa, per ispiantare l'eresia da quel paese
dove aveva messe sì profonde radici. Le ragioni di questo fatto
meraviglioso sono molte, ma non temiate che io abusi della pazienza
vostra per isvolgerle tutte. La principale è questa, che i Catari non
ostante le opposizioni si credevano cristiani, più cristiani ancora, dei
cattolici. E sapevano a mente il nuovo Testamento, e lo traducevano in
volgare perchè tutti l'intendessero. Ed ogni loro opinione avvaloravano
con citazioni bibliche per ridurre al silenzio gli avversari loro. Essi
credevano anzi di interpretare nel vero spirito i precetti evangelici.
Così nell'Evangelo è detto essere _più agevole che un cammello passi per
la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio,_ ed essi
esagerando e frantendendo aggiungevano: nessuna eccezione potersi dare,
e poniamo anche che il ricco adoperi buona parte delle sue sostanze a
benefizio degli altri, non tornerà per questo nel grembo di Dio buono,
perchè la povertà assoluta è di rigore, e possedere e amare le ricchezze
torna lo stesso come attribuire un pregio alle cose di questo mondo, che
quale opera del malvagio Dio non ne hanno alcuno. E se nell'Evangelo è
scritto: _voi avete udito che fu detto agli antichi: non uccidere, ma io
vi dico che chiunque s'adira contro a suo fratello senza ragione, sarà
sottoposto a giudizio,_ essi aggiungevano: non potersi uccidere in
nessun modo, nè in guerra, nè in nome della legge, e la Chiesa che
bandisce crociate e condanna al rogo i suoi nemici, non seguire i
precetti di Cristo, che dice: _Amate i vostri nemici, benedite coloro
che vi benedicono, fate bene a coloro che vi odiano e pregate per coloro
che vi fanno torto e vi perseguitano._ Inoltre questi astuti eretici non
tutte le loro dottrine svelavano a tutti, ma solo quelle che più
facilmente s'accoglievano, e che servivano a staccarli dalla Chiesa, il
resto poi veniva da sè. Nè a tutti i seguaci della lor fede chiedevano
gli stessi sacrifizii, ma sapevano ben distinguere tra perfetti e
credenti, i quali ultimi potevano ben dirsi Catari senza rinunziare alla
loro famiglia o alla loro proprietà. Con tali espedienti la fede catara
appariva meno ostica, e guadagnava ogni giorno seguaci, massime per le
virtù eroiche e gli atti di coraggio degli intrepidi _perfetti_, che
perseguitati da tutte le parti non cedevano, e piuttosto che smentire la
loro fede, salivano animosamente il rogo. Una condotta austera, una vita
di stenti e di abnegazioni continue è il miglior mezzo per guadagnare le
anime. Si racconta il caso di una fanciulla caduta in sospetto d'eresia,
a cui fu ingiunto di assistere al supplizio dei correligionari suoi.
Quando il capo di essi, Arnaldo di nome, entrando nelle fiamme, aperse
le braccia per benedire i suoi fratelli, la fanciulla svincolatasi dagli
sgherri che le stavano ai fianchi, si lanciò nel rogo, sagrificando alla
nuova fede la sua bella e fiorente giovinezza.

Non meno disposti a dare la vita alla fede loro si mostravano altri
eretici, che hanno ben poco di comune coi Catari, i Valdesi, così
chiamati da Pietro Valdo, un mercante di Lione che seguendo il precetto
di Cristo, _se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai e donalo ai
poveri,_ distribuì le male accumulate ricchezze tra i suoi concittadini,
e vestito un povero saio andò accattando di porta in porta, e predicando
dappertutto la parola del Signore. Questo movimento al principio non era
anticattolico, tanto che ad uno dei seguaci di Pietro Valdo, a Durando
di Huesca, fu agevole di staccarsi dal novatore e farsi riconoscere e
benedire da papa Innocenzo III come capo di un nuovo sodalizio
cattolico. Nè alcuna parte del domma o della liturgia cattolica il Valdo
voleva attaccare, ma solo tornare la Chiesa alla sua purità primitiva.
Senonchè per questo capo i Valdesi non usavan diverso linguaggio dei
Catari e Arnaldisti. Da quel giorno, essi dicevano, che Silvestro ebbe
l'infausta donazione di Costantino (spuria donazione a cui allora tutti
prestavan fede), da quel giorno l'avidità di ricchezze non fu mai
satolla, nè mai si estinse la sete di dominio, e la Chiesa vestita di
porpora, e incoronata di gemme prese le sembianze della gran peccatrice
dell'Apocalisse (17.1). Queste roventi parole uscivano talvolta anche da
labbra ortodosse, e i Ghibellini tutti solevano adoperarle da Pier delle
Vigne al nostro Dante di cui è nota la terzina:

    Ahi Costantin di quanto mal fu matre

e l'altra ancor più vibrata:

    Di voi, Pastor, s'accorse il Vangelista.

Ma i Ghibellini, più che una setta ereticale, formavano un partito
politico, perchè il non credere alla necessità del potere temporale, non
era allora e non è oggi un'eresia, e perfino nelle lotte più ardenti tra
la Chiesa e l'Impero i Papi non osarono mai di sollevare all'altezza di
un domma religioso una questione sostanzialmente politica.

I Valdesi però eran più radicali dei Ghibellini, e benchè si dicessero e
credessero nel cuor loro sinceri cattolici, pure interpretavano la
parola evangelica in senso molto più rigido ed unilaterale che non fosse
consentito dalla tradizione cattolica, e si attribuivano il diritto di
predicarla senza averne ricevuto alcun mandato dalle autorità
ecclesiastiche. Ben per tempo quindi furono ripresi dal vescovo di Lione
e dal papa Alessandro III, e più tardi Lucio III li scomunicò, nè
Innocenzo III revocò il decreto del suo predecessore. Espulsi così dalla
Chiesa, i Valdesi non potevano continuare se non a patto di scegliere
nel proprio seno chi facesse le veci dei sacerdoti cattolici. E così
semprepiù allontanandosi dall'ortodossia, proclamavano aver la facoltà
di spezzare il pane eucaristico chiunque di loro sia di cuor puro, e in
luogo della confessione auricolare valer meglio una confessione in
pubblico a tutta la comunità dei fedeli; non essere necessario un luogo
speciale per rivolgere la sua preghiera al Cielo; e infine anticipando
la riforma, negavano potersi il sacrifizio eucaristico applicare ai
defunti, e toglievano di mezzo il purgatorio. Per tal guisa l'eresia
valdese tornava non meno pericolosa della catara, e si diffondeva da per
tutto con maggiore facilità.

Contro tutte queste eresie, la catara, l'arnaldistica, la valdese, non
valevano più nè le vecchie armi delle scomuniche e degli interdetti, nè
le nuove ancor più terribili della tortura, del rogo. Più si
perseguitavano gli eretici, e più si ringagliardiva la loro fede, e
molti andavano incontro alla morte lieti e cantando degli inni, come nei
primi tempi delle persecuzioni cristiane. Per vincere o almeno svigorire
la propaganda di questi intrepidi e convinti novatori, bisognava opporle
un'altra propaganda non meno operosa ed efficace. Non era più il caso di
chiudersi nel silenzio degli eremi o nella quiete dei conventi. Per
combattere le dottrine degli eretici bisognava imitarne le pratiche e le
virtù ed accettare la povertà evangelica da loro inculcata, e ramingare
come loro, accattando dovunque la vita e dovunque predicando la parola
del Vangelo. Così nacquero gli ordini mendicanti. Il primo a bandire
come suprema regola la povertà assoluta fu San Francesco di Assisi, il
fondatore di un nuovo sodalizio di frati, che per umiltà si dissero
minori, ma ben presto per i servigi resi alla Chiesa apparvero maggiori
fra tutti. E certo il prestigio di questi nuovi apostoli della povertà
fu tale, che anche altri ordini religiosi ebbero ad adottarne le
massime. E si dichiararono mendicanti i seguaci di San Domenico o frati
predicatori, che da principio avevano abbracciata la regola agostiniana;
mendicanti i diversi ordini, che da Alessandro IV furono riuniti in un
solo sotto il nome di Eremiti di Sant'Agostino; mendicanti infine i
Carmelitani, il cui ordine fondato nel 1156 dal crociato Bertoldo, nel
1245 trasformò i suoi romitaggi in cenobii. Nella vita povera ed umile
parve in quei giorni consistere la perfezione evangelica, e si faceva a
gara a chi potesse condurla con maggior rigore.

Ma non diversamente da tutti gli altri ideali anche quello della povertà
assoluta doveva rompere contro non pochi ostacoli. E l'ordine religioso,
che più tenacemente degli altri gli restò fido, ebbe a patire i più
crudeli disinganni, e ne andò travolto in dissensi e lotte funeste, le
quali composte per poco dall'autorevole voce di San Francesco, non
tardarono a divampare alla di lui morte, e più ancora al tempo del
generalato di frate Elia. Questi, già stato vicario di San Francesco nel
governo dell'ordine, volle erigere in onore di lui un tempio che per
mole e splendore vincesse tutti. E radunate le offerte, che piovevano in
gran copia da ogni parte della Cristianità, dette così vigoroso impulso
ai lavori, che in breve tempo sorse quella mole grandiosa, detta a
ragione il tempio dell'arte rinata. Ivi infatti l'architettura seppe
trarre dallo stile gotico nuovi e meravigliosi effetti; ivi Cimabue
dipinse quegli affreschi, che segnarono il principio della riscossa
contro le tradizioni bizantine e gli detter fama di _tener lo campo
nella pittura_; ivi Giotto tentò più arditi voli, _sì che la fama di
colui oscura_. Ma le meraviglie dell'arte nuova non sedussero gli
entusiasti della povertà, che se avessero potuto avrebbero colle loro
stesse mani distrutto quell'insigne monumento, dove tante ricchezze di
marmi o d'oro eran profuse. E fieramente rimproveravano a frate Elia di
essersi allontanato dalla regola di San Francesco, che vieta
rigorosamente il lusso così nella cella dei frati come nella casa del
Signore; e di avere accettato lasciti e doni, vietati ai seguaci del
santo mendico, e allentati i freni della disciplina, permettendo ai
frati di non vestire il saio di tela di sacco, sdruscito e rattoppato, e
di aver gettato via il bastone del pedestre pellegrino, per cavalcare su
ben pasciute e ben bardate giumente. Così si formarono nel sodalizio
francescano due partiti, l'uno degl'intransigenti, l'altro dei moderati;
l'uno che volea rispettata la regola nella sua rigidità, l'altro che
permetteva temperamenti secondo i bisogni e le convenienze dell'ordine.
La lotta fra i due partiti fu lungamente e fieramente combattuta. Il
moderato rimproverava all'intransigente di mirare alla rovina
dell'ordine, il quale se avesse acconsentito a seguitare la vita oscura
dei primi tempi, sarebbe stato ben presto sopraffatto dagli ordini
rivali, non guardanti così per la sottile. E il partito intransigente di
rimando ritorceva il rimprovero contro i suoi avversarii, accusandoli di
togliere all'ordine il suo carattere proprio, e quell'aureola di
santità, di povertà e di umiltà, principale cagione delle sue fortune. I
moderati che alla salute dell'ordine del convento principalmente
intendevano, presero il nome di _Conventuali_, gl'intransigenti, quando
le dottrine dell'abate Gioacchino furon da loro conosciute ed adottate,
presero altro nome. Perchè secondo le divinazioni a cui accennammo del
profeta calabrese il mondo deve passare per tre età, la prima fu il
regno del Padre, la seconda è quella del Figlio, la terza sarà dello
Spirito Santo. Nella prima dominava l'antica legge, legge del terrore e
dell'odio tra i popoli di cui un solo era l'eletto e gli altri
consacrati all'ira di Jeova; nella seconda domina la nuova legge di
carità e di fratellanza, ma più a parole che a fatti; nella terza infine
la nuova legge riporterà il suo pieno trionfo e sarà intesa non secondo
la lettera ma nel vero suo spirito. Gli uomini, che pur vivendo nella
seconda età anticipano nei loro costumi e coi loro voti la futura,
debbono a ragione dirsi _spirituali_. E spirituali si chiamarono
gl'intransigenti francescani.

Non occorre dire che questi intransigenti si misero con molto amore a
studiare e commentare le opere principali di Gioacchino. E uno di loro,
fra Gherardo di San Donnino, non senza la collaborazione di un generale
stesso dell'ordine, fra Giovanni da Parma, le ripubblicò a nuovo con
introduzione e commenti addimandandole con nome non ignoto a Gioacchino,
l'_Evangelo eterno_, vale a dire l'Evangelo inteso nel suo vero spirito,
e che non perirà come quello letterale dell'età seconda. Questi nuovi
intransigenti, che mescolavano le dottrine della povertà assoluta con le
mistiche dell'abate Gioacchino, miravano come si vede ben più alto degli
antichi. Perchè Gioacchino avea profetato essere per cessare nella terza
età tutte le distinzioni tra clero e laicato, e tutti i figli d'Adamo
dover comporre una società sola informata alla più austera castità e
alla povertà più rigorosa. Dalle quali profezie gl'intransigenti
minoriti non tardarono a inferire che fra non molto la regola loro,
distendendosi ed imperando su tutti, avrebbe trasformato la cristianità
intera in un vasto cenobio francescano. Fortuna per noi che il profeta
calabrese e i suoi seguaci non ebbero la vista lunga, e che il loro
sogno non s'avverasse nè nel 1260, l'anno fatale indicato da Gioacchino,
nè per i secoli che gli successero; e non è probabile per fermo che sia
mai per avverarsi.

Ammesse queste idee apocalittiche, non parrà strano che dal labbro dei
minoriti uscissero contro il clero le stesse rampogne che correvano di
bocca in bocca fra gli eretici del tempo. E la Chiesa se ne insospettì,
nè solo condannò l'Evangelo eterno, ma fece rinchiudere il suo autore in
una perpetua prigione, e il generale frate Giovanni, deposto dal suo
ufficio, fece relegare come in esilio in un lontano ed ignorato
monastero. Ma non per questo furono soppresse le idee spiritualistiche,
le quali ebbero nuovi e arditi difensori in frate Pier di Giovanni Olivi
per la Provenza, e per l'Italia in frate Ubertino da Casale, quello
stesso ricordato da Dante, là ove dice il vero religioso francescano non
essere

    ... nè da Casal nè d'Acquasparta
    Là onde vengono tali alla scrittura
    Che l'uno la fugge, l'altro la coarta.

Dante librandosi sui due partiti opposti, lo spirituale rappresentato da
Ubertino, e il moderato dal generale Matteo d'Acquasparta (più tardi
cardinale e legato del papa a Firenze) li condanna entrambi. E
giustamente mette le surriferite parole in bocca a Bonaventura, perchè
questo santo francescano, successo nel generalato a fra Giovanni da
Parma, fu capo d'un terzo partito, che accettava in parte le dottrine
sulla povertà assoluta, ma respingeva affatto le idee Gioacchinitiche e
le conseguenze che ne derivavano. A questo partito si accostarono in
Italia alcuni degl'intransigenti medesimi, i quali, sebbene anch'eglino
avessero fede nelle profezie di Gioacchino, le mettevano in seconda
linea, e quello su cui fortemente insistevano era soltanto la stretta
osservanza della regola. E non che pretendere che tutto il mondo
abbracciasse l'assoluta povertà, confessavano invece che una gran parte
dei minoriti stessi non si sarebbe mai piegata ad adottarle. Domandavan
quindi d'essere riconosciuti come una corporazione a parte, e sottratti
al dominio dei conventuali. Così la pensavano alcuni frati di Toscana
capitanati da frate Enrico di Ceva, ed altri di Romagna guidati da fra
Liberato e frate Clareno. E par che tutti fossero conosciuti sotto il
nome di fraticelli, in quanto per umiltà e nello spirito della regola
francescana si credevano ancor _minori_ dei _minori_, e portavano degli
abiti corti o di rozzo panno, e vivevano una vita austera di stenti e di
sacrifizii.

In seguito alla quale scissura l'ordine francescano andò diviso non più
in due ma in tre parti: i moderati o Conventuali, i seguaci dell'Olivi o
Spirituali, e i seguaci di frate Enrico e di fra Liberato o fraticelli.
Il destino di questi partiti fu diverso. Quando dopo alternative di
trionfo e di disfatte gl'intransigenti furono percossi fieramente da
papa Giovanni XXII, che ordinò di sottoporli all'Inquisizione e di
punire i ricalcitranti col rogo, la maggior parte dei frati si disdisse.
Non in tutti era la stoffa eroica dei quattro di Marsiglia, arsi vivi
nel 1317 per non aver voluto sconfessare le loro dottrine, e a poco a
poco le credenze spiritualistiche cessarono nel primo ordine
francescano, ma si conservarono intere nel terzo, i cui membri vivendo
nel seno delle proprie famiglie erano meno esposti ai sospetti ed alle
minacce.

I terziari in Francia si chiamavano anche beghini e in Italia bizochi o
pinzocheri, e d'allora in poi gli spirituali si tramutarono in beghini,
nè altro nome di lì innanzi fu loro dato, nè altro si trova nei processi
inquisitori che furono aperti contro di loro. È strana la storia delle
parole beghino, pinzochero e bigotto, e vale la pena per il proposito
nostro di toccarla almeno di volo. Al principio si dicevano beghine le
donne raccolte nei ricoveri fondati al tempo delle Crociate da Ugo Le
Bégue. Non prestavano voti solenni, e ciascuna abitava la propria
casetta di una o due camere, nè si riunivano se non in determinate ore
per le preci da recitare in comune. Anche oggi esistono simili case nel
Belgio, disposte in bell'ordine intorno a un oratorio centrale, e si
dicono anche oggi _beguinages_. Nel secolo XIII dopo la creazione degli
ordini mendicanti, quando si pensò a restringere il numero delle
corporazioni religiose cresciuto a dismisura, le beghine e i beghini
surti sul loro esempio si ascrissero all'ordine terziario o di San
Francesco o di San Domenico. E poichè il numero degli ascritti al
francescano era maggiore, beghino divenne presso a poco sinonimo di
terziario francescano, come in Italia e in Toscana le parole di
oscurissima etimologia bizochi e pinzocheri. Più tardi si diffusero
presso i beghini e i bizochi le idee poco ortodosse degli spirituali
minoriti nel mezzogiorno della Francia e in Italia, e degli Almariciani
o fratelli del libero spirito nel Belgio e nella vicina Germania, e
allora beghina e bizoco o pinzochero divenne presso a poco sinonimo di
eretico, come appare dalle bolle di scomunica di Bonifacio VIII, di
Clemente V e di Giovanni XXII. E la stessa sorte toccò al nome
_begutten_, o _begotten_ trasformazione tedesca dello stesso vocabolo
beghine. Oggi bigotta, beghina e pinzochera non vuol dire più la
terziaria o francescana o domenicana che sia, nè l'eretica spirituale o
begarda, ma invece si adopera per indicare la donnicciuola più
superstiziosa che religiosa, che vive più in chiesa che in casa, e
snocciolando rosarii non è mai stanca di biascicar preci senza
intenderle.

Più fortunosa ancora è la storia della parola fraticello. Al principio,
come vedemmo, s'applicava per antonomasia a quella parte dei
Francescani, che volean vivere conforme alla più rigida regola, ed erano
tenuti in tale voce di santità, che due di loro, frati Liberato e il
Clareno furono beatificati dalla Chiesa, e le loro idee sulla necessità
della separazione delle due parti rivali dopo molte persecuzioni
trionfarono alla fine nel 1368 per opera di Paolo dei Trinci, il vero
fondatore dei frati dell'osservanza. In seguito fraticelli furono detti
quegli eretici che al paro dei beghini credevano: il papa non potere nè
dichiarare nè attenuar la regola, perchè, dicevano, la regola è
intangibile come il Vangelo di Cristo, e fu rivelata a San Francesco
dallo stesso Spirito Santo. Infine, quando Giovanni XXII per tagliare il
male dalla radice, con bolla del 1323 dichiarò solennemente non essere
la povertà nè la sola nè la vera virtù evangelica, furon detti
fraticelli coloro che resistendo al papa sostenevano non essere a lui
lecito di revocare le sentenze dei suoi predecessori, e cadere in
iscomunica e non dovergli obbedire in nessun modo quando tanto osi.
Questi fraticelli, non ostante le più attive persecuzioni, di cui avanza
un noto ricordo nella descrizione del supplizio di fra Michele da Calci,
perdurarono per molto tempo, ed a Firenze principalmente attecchirono
così tenacemente che il Comune fu obbligato d'inserire nei suoi statuti
uno speciale capitolo contro di loro. Tutto questo movimento vi mostra
di nuovo a chiare note come sia breve il passo dal più rigido ascetismo
all'eresia.

E la stessa conclusione s'ha da trarre ove s'attenda ad un'altra eresia
medioevale, quella degli _apostolici_ fondati da Gherardo Segalelli e
continuata da fra Dolcino da Novara. Questi eretici pensavano la vita
degli ordini mendicanti non essere conforme a quella degli apostoli, che
non si riunivano in cenobi, nè formavano una vera comunità, ma ciascuno
di essi senza pane e senza tetto andava per la sua via di città in città
predicando l'Evangelo. Nè vestivano di nero ma di bianco, nè si radevano
la barba ma la portavano lunga ed incolta, e nei loro pellegrinaggi non
impedivano che le donne si accompagnassero con loro, anzi parecchi di
essi menavan seco le mogli e i figliuoli. Per queste ragioni il
Segalelli, e più ancora fra Dolcino, pur accettando le idee
Gioacchinitiche, sostenevano non essersi inaugurata cogli ordini
mendicanti un'êra nuova della storia, ma in essi invece dover finire
l'antica, alla cui corruzione tutti, i minoriti non meno degli altri,
prendevano larga parte. E non dubitavano di profetare che fra non molto
s'inaugurerà una quarta età del mondo col trionfo dei nuovi apostoli,
che il nemico dei papi, Federico d'Aragona, salendo sul soglio
imperiale, dovea porre a capo di tutti i Cristiani. A differenza degli
altri eretici contemporanei gli Apostolici sembra non inculcassero nè
tenessero in gran pregio il celibato. E il loro stesso capo fra Dolcino,
convertita in Trento un'educanda _umiliata_ a nome Margherita, la fece
sua sposa e l'ebbe sempre al suo fianco intrepida ed amorevole compagna.
Non fa d'uopo dire che la setta degli Apostolici fu perseguitata non
meno vigorosamente delle altri rivali. E quattro dei più riottosi e lo
stesso capo, il Segalelli, furono bruciati vivi nel 1300, e frate
Dolcino potè appena campare con tremila dei suoi negli aspri e
invalicabili gioghi di Val Sesia, dove per parecchi anni tenne testa
alla crociata che a nome di Clemente V il vescovo di Vercelli gli aveva
bandita contro. Senonchè alla fine i Crociati non potendo sopraffare gli
eretici col ferro, si decisero di prenderli per fame, facendo il vuoto
intorno a loro e distruggendo per larga distesa i campi e i villaggi,
dove avrebbero potuto rifornirsi di viveri. Così i giorni di resistenza
erano contati, ed a ragione Dante con postuma profezia cantava:

    Or di' a fra Dolcin dunque che s'armi
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Sì di vivanda che stretta di neve
    Non rechi la vittoria al Novarese.

La vittoria infatti, dopo tanti rovesci non si fece lungamente aspettare
ai Crociati, che dato l'ultimo assalto, molti degli eretici passarono a
fil di spada, ed altri trassero prigioni, tra i quali lo stesso fra
Dolcino e Margherita, che anche negli ultimi momenti non volle da lui
separarsi. Ed entrambi senza proferire un grido patirono le più crudeli
torture, ed ebbero le carni a brani a brani dilacerate da tenaglie
roventi, e più morti che vivi furono dati alle fiamme.

Nello stesso anno 1260 in cui erano sorti gli Apostolici, e da tutti si
aspettava trepidando la tremenda catastrofe profetata da Gioacchino, un
altro moto ebbe principio, quello dei Flagellanti. Anche prima di quel
tempo s'erano adoperate le fustigazioni sulla nuda carne dapprima
soltanto come pena pubblica per certe specie di misfatti, e poscia come
specie di espiazione o mortificazione volontaria. E fin dal 1233 si
narra di gente che, uscendo dalle prediche di Sant'Antonio da Padova si
percuoteva sulle pubbliche vie per penitenza dei proprii peccati.
Numerose torme di devoti vestite di bianco andavano in processione da
una città all'altra, flagellando le nude spalle, e cantando pie _laudi_
non nel latino della Chiesa, ma negl'idiomi volgari. Dovunque
capitavano, ogni negozio e pubblico e privato era sospeso, i partiti
politici facevano tregua e promettevano di riconciliarsi in perpetuo, e
di null'altro si davan cura e uomini e donne fuorchè del far penitenza
in attesa delle terribili calamità che doveano precedere il rinnovarsi
del mondo. Il _pœnitentiam agite_ o volgarmente penitenzagite era
stato anche il grido del Segalelli, e non tarderà molto che la Chiesa
avrà in sospetto queste insolite e spasmodiche esplosioni del sentimento
religioso, e se non i primi, certo i posteriori flagellanti furono
accusati di eresia e sottoposti anch'essi all'Inquisizione.

Intorno allo stesso tempo infine si propagò un'altra setta ereticale,
quella dei Guglielmiti che riguarda più da presso voi, mie longanimi
uditrici, come l'unico esempio che s'abbia in quell'età di sovvertimento
religioso iniziato dal sesso gentile. A capo di questa setta fu una
donna di sangue regale a nome Guglielma, figlia della regina Costanza di
Boemia e venuta in Milano per diffondere la sua dottrina. Ai suoi fedeli
si annunziava come l'incarnazione dello Spirito Santo, sceso anche lui
come il Figliolo sulla terra per fondare la nuova religione spirituale,
che dovrà tenere dietro al Cristianesimo. La banditrice di queste
dottrine, fornita di parola eloquente e di non comune coltura, seppe
guadagnare alla sua causa parecchi seguaci, fra i quali alcuni preti e
una Menfreda o Maifreda parente a quel che pare dei Visconti. Forse a
cagione del nobile lignaggio e delle potenti amicizie e delle condizioni
politiche del Milanese non fu molestata Guglielma finchè visse, e nel
1281 quando morì le furono resi solenni onoranze. Ma quando Maifreda
pensò di succederle nell'apostolato, e non dubitò di celebrare la messa
e di spezzare il pane eucaristico ai suoi fedeli, l'Inquisizione se ne
mescolò. E non solo Maifreda e un suo compagno, Andrea Seranita,
perirono sul rogo, ma furono bruciate e disperse al vento le ossa di
Guglielma, che da più di diciotto anni riposavano in ricco mausoleo
nell'abbazia di Chiaravalle.

Ed ora dopo che i nomi e le dottrine di tante sette ereticali abbiamo
ricordate, ci sia lecito domandare qual valore ha tutto questo moto
religioso nella storia dell'umanità? Che non fosse un moto superficiale
lo prova il fatto della sua lunga durata e dei terribili espedienti a
cui si dovè ricorrere per distruggerlo. Noi guardiamo il Medio Evo sotto
una falsa luce quando lo presentiamo come l'êra della più rigida ed
universale unità di fede che siasi data al mondo. Tutto al contrario
quando la fede è viva, come fu nel Medio Evo, quando il problema
religioso agita migliaia di anime, le soluzioni che se ne porgono, non
sono nè possono essere uniformi. Anche nella religione come in tutte le
opere dello spirito, più ancora che in quelle della natura, la lotta è
una condizione di vita. Ed aspra e terribile fu la lotta che sostennero
le diverse sette ereticali, e nessuna dette quartiere all'altra, e tutte
produssero a dovizia e martiri ed eroi. Perchè dunque il movimento
religioso del Medio Evo non perdurò? Perchè le sette ereticali l'una
dopo l'altra, disparvero pressochè tutte in un oblio tanto più profondo,
quanto più rigogliosa ed agitata fu la loro vita? La ragione principale
a prescindere da parecchie altre che carità per voi mi vieta di esporre,
sta in quello che dissi fin dal principio, che cioè la maggior parte
delle sette ereticali del Medio Evo era informata ad uno spirito
d'intolleranza ed esagerazione ascetica e qualunque di esse fosse stata
vittoriosa, avrebbe mosso alla famiglia, allo Stato e alla coltura una
guerra più rovinosa e implacabile che alla Chiesa stessa. Per dirla in
una parola sola, l'eresia medioevale, procedendo a ritroso del progresso
dello spirito umano, ragion voleva che nel rifiorire dell'umanesimo, non
che prosperare, andasse ferita a morte. All'intristire delle sette
ereticali del Medio Evo una sola eccezione si conosce, e ci è porta
dalla Chiesa valdese, la quale però solo per questo seppe sfuggire al
fato inesorabile della storia che, messi da parte i vecchi ideali di
povertà e di astinenza, non dubitò di attingere nuovo spirito e
indirizzo nuovo dalla nascente Riforma.



LE ORIGINI DELLA LINGUA ITALIANA

DI

PIO RAJNA


L'argomento che mi rassegno a trattare tocca signore e signorine più da
vicino di quel che forse non credano. No davvero — guai a me se neppur
ci pensassi! — per via dell'opinione, tutta mascolina, che attribuisce
alla donna una predilezione particolare per l'esercizio di quel prezioso
strumento che è la lingua. I motivi miei sono di natura ben differenti.
Mi s'affaccia quel luogo della _Vita Nuova_ (§ XXV), dove Dante afferma
che “lo primo che si mosse a dire siccome potea volgare si mosse perchè
volle fare intendere le sue parole a donna„ — alla donna del suo cuore —
“alla quale era malagevole ad intendere le parole latine.„ Che se qui
s'ha a fare con un'idea personale, dove la critica inesorabile anche coi
grandi e coi massimi, trova che al vero è frammisto l'errore, Dante non
immagina nè argomenta — ripete ed osserva — quando per bocca di Guido
Guinizelli designa coll'epiteto di “materno„ il nostro linguaggio,
insieme con uno de' suoi stretti parenti d'oltralpe:

    O frate, disse, questo ch'io ti scerno
      Col dito (e additò uno spirto innanzi)
      Fu miglior fabbro del parlar materno.

                                (_Purg._, XXVI, 115.)

“Parlar materno„: quello che il bambino impara dalle labbra di chi, dopo
avergli dato la vita, “vegghia „, per dirla ancor con Dante, “a studio
della culla„ sua, ne regge i primi passi, ne desta con pazienza
instancabile le facoltà intellettive. Così la nuova favella ci viene
innanzi doppiamente illuminata dal sole dell'amore: dell'amore nella più
intensa e nella più santa delle sue manifestazioni.

Dichiaratamente nelle parole della _Vita Nuova_, tacitamente eppure in
modo altrettanto sicuro in quell'epiteto di “materno„, che suppone di
necessità qualcosa che materno non sia, di fronte al volgare sta la
lingua latina. Se ne sta maestosa, superba di una nobiltà due volte
millenaria, che nell'ordine suo non ha assolutamente l'uguale. La sua
storia è la storia stessa di Roma. Al pari di Roma e insieme con lei il
latino prese le mosse da principii umili ed oscuri, e a poco a poco
arrivò ad una grandezza da sbalordire. Non era già nemmeno all'origine
il linguaggio di Roma soltanto. Prima ancora che presso alle rive del
Tevere sorgessero sul Palatino i tugurii destinati a diventare un giorno
i palazzi dorati degl'imperatori, la favella che qui aveva a rimbombare
sonava in altre parti del Lazio, più salubri e più fertili. E il Lazio
continuò sempre a parlar latino, e il latino non cessò mai di chiamarsi
così, vale a dire per l'appunto “lingua del Lazio„. Ma cosa importa mai
ciò? Solo in quanto era la lingua di Roma, il latino si venne estendendo
fuori del suo proprio territorio. La conquistatrice del mondo fu Roma,
non il Lazio, che al pari del resto dovett'essere domato e conquistato
ancor esso. E il latino che si propagò, fu il latino quale s'era venuto
foggiando e modificando dentro nella città, la quale, alla stessa
maniera come nel rimanente, dettò la legge anche per ciò che riguarda il
linguaggio. Però il parlare elegante fu detto “sermo urbanus„, parlar
cittadino, intendendo per “urbs„ la città per eccellenza: Roma, e
nient'altro che Roma.

È una storia meravigliosa quella della conquista romana: compiuta passo
passo attraverso a fiere dissensioni interne ed a rivolgimenti non
pochi, con una tenacia ed una coerenza rare a trovarsi negli individui,
e che qui viene ad aversi in un popolo, per una serie interminabile di
generazioni. Ma non è troppo meno meravigliosa neppure la storia della
propagazione del latino. La conquista linguistica tien dietro alla
politica: la rafferma, e le mette il suggello. E le due conquiste hanno
un'intima analogia. Politicamente, la conquista viene ad essere come un
immenso dilatarsi della città, e l'effetto suo finale si riassume nella
qualità di cittadino romano conferita alle genti che s'erano via via
soggiogate, soffocando a poco a poco il sentimento, così vivo un tempo,
delle molteplici nazionalità. _Urbem fecisti qui prius orbis erat_, — tu
facesti città ciò che prima era il mondo, — dice al principio del quinto
secolo un Gallo, Rutilio Namuziano (1, 66), con un gioco di parole che
racchiude un concetto sublime. E nell'ordine linguistico, abbiamo il
linguaggio di questa nostra medesima città che si va facendo comune a
una immensa estensione di terre, e che colla sua voce tonante prima
impedisce che s'odano, e poi riduce ad ammutire una moltitudine infinita
di parlate, e non già unicamente di parlate rozze ed incolte. Solo il
greco, grazie alla portentosa civiltà di cui era stato ed era tuttavia
strumento ed espressione, potè mantenersi prospero, pur dovendo
rassegnarsi ancor esso a vedersi mozzati quei rami che sporgevano ben
rigogliosi sul suolo occidentale.

Questa meravigliosa unificazione della favella fu possibile appunto per
via della trasformazione che il sentimento della nazionalità venne a
subire dovunque, se non in tutti; le genti più disparate si condussero a
parlare a somiglianza dei Romani, non solo perchè ciò riusciva
praticamente utile sotto molti rispetti, ma anche per il motivo che il
chiamarsi Romano — Romano, si badi bene, non Latino, nè altra cosa — era
per ciascuno argomento d'orgoglio. Dentro ad ogni animo s'avevano, più o
meno in confuso, sentimenti analoghi a quelli coi quali ineggia a Roma
Claudiano, un nativo della greca Alessandria; a Roma “della quale„, egli
dice (_De cons. Stil._, III, 131), “nulla in terra di più eccelso
ricopre il cielo;.... madre dell'armi, madre delle leggi, che stende su
tutti il suo impero, prima culla al diritto. Quest'è colei che nata in
angusti confini, mosse all'uno e all'altro polo, e allargò le mani
quanto è il corso del sole;.... quest'è colei che sola accolse nel suo
grembo i vinti, e carezzò il genere umano con un unico nome, madre, non
signora; e chiamò concittadini coloro che aveva soggiogato; e le cose
lontane congiunse con vincolo pio. All'opera sua pacificatrice noi tutti
dobbiamo che in paese straniero siam come in patria: che ci è lecito
mutar sede; che.... penetrare in ciò ch'era un tempo spaventosa
solitudine, è divenuto un gioco; che ora beviamo il Rodano, ora
l'Oronte; che tutti siamo un sol popolo.„ _Quod cuncti gens una sumus!_
Del linguaggio Claudiano non parla: ma quanto sia grande l'efficacia sua
nel fare che si senta di essere un popolo solo, sa l'Italia unita, e
meglio ancora sapeva l'Italia divisa e fatta a minuzzoli.

Così al quinto secolo dell'êra volgare il mondo presenta uno spettacolo
davvero invidiabile. Il bel sogno di una lingua universale, ben prima
che dall'inventore e dagli adepti del volapük vagheggiato da
intelligenze veramente sovrane, si poteva dire allora una realtà. La
favella che s'ode sul Tevere, s'ode sul Danubio, sulla Senna, sull'Ebro,
lungo le spiagge settentrionali dell'Africa; quella favella è intesa
negli stessi dominii dell'ellenismo, ai quali d'altronde sono state
sottratte le coste e le isole italiane, e le colonie galliche ed
iberiche, dove il latino non giunge, o non è civiltà, o sono civiltà
appartate e ignorate. E gli effetti di questa condizione di cose si
mantennero poi lunghissimamente, grazie sopra tutto al cristianesimo,
che nell'unità romana trovò una preparazione indispensabile all'opera
sua; e che, innestandosi su di essa, cooperò quanto mai a perpetuare il
latino, qual lingua del culto e della coltura, procacciandogli anche
nuove e ben ragguardevoli espansioni. E lingua del culto essa rimane
tuttavia per quella chiesa che chiama sè stessa “cattolica„, cioè
universale; e ad essere lingua della coltura non rinunzia che
lentissimamente, e ben a malincuore. È un danno di sicuro sotto certi
rispetti; ma è tuttavia una necessità inevitabile. L'amore della vetusta
e poderosa rocca dove gli antenati abbian gioito e sofferto, e dalle cui
feritoie abbiano respinto un tempo Dio sa quanti fieri assalti, non
persuaderà nessuna nostra gentildonna a ridurre là dentro la propria
vita, a meno di trasformare siffattamente ogni cosa da snaturarla
affatto. Da quelle mura, da quelle vôlte scende un gelo che mette un
brivido nelle ossa. Le seggiole, le cassapanche, gl'inginocchiatoi, i
letti su cui posarono le membra le castellane del secolo dodicesimo e
tredicesimo, paiono strumenti di tortura alle nipoti; le quali
d'altronde non trovano tra quelle pareti di che soddisfare a un'infinità
di bisogni, che l'età moderna ha creato ed imposto.

Questo mio discorrervi del latino e della sua propagazione, viene — ben
lo capite — dall'idea di uno stretto legame colla lingua che diciam
nostra, ed anzi in genere colle cosidette lingue romanze: l'italiano, il
francese, il provenzale, il catalano, lo spagnuolo, il portoghese, il
rumeno, e, se non vi adontate, anche l'umile romancio, che tutti, colla
loro stretta somiglianza, rendono ancora l'immagine dell'umanità romana,
e ce ne consentono sempre in parte i benefici. E un legame è così
potente da essersi sempre visto e conosciuto da chiunque, anche in età
tuttora inesperte, ebbe a fissare poco o tanto l'attenzione su questo
soggetto. Di tempo in tempo non mancarono tuttavia certuni, che, senza
proprio mettere fuor dell'uscio il latino, non disposto davvero a
tollerare un trattamento siffatto, lo accompagnarono fin presso la
soglia. Costoro si fecero paladini delle lingue che dal latino si dicono
sopraffatte, costringendo a prendere le loro parti quella sciagurata
creatura che è l'etimologia: una gran dama ridotta spesso a servire a
tutte le voglie. Così mentre vi parlo, quasi immagino di veder qui
apparire Pier Francesco Giambullari, a rintronarci gli orecchi
coll'etrusco, ch'egli beninteso, conosceva anche meno assai — ed è tutto
dire! — di quel che si conosca noi moderni. Ma le beffe toccategli da
Lasca forse lo avranno indotto, se non a mutar idea — giacchè un erudito
che consenta a disdirsi è un po' difficile da trovare — a credere
prudente il tener chiusa la bocca. A ogni modo poi a lui dovrebb'essere
difficile il ricomporre e dare un aspetto presentabile alle sue ossa,
ridotte chi sa in quale stato dentro alla sepoltura più che trisecolare
di Santa Maria Novella. Vero che il modo di risorgere pare averlo
trovato un contemporaneo di Pier Francesco, Gioacchino Perion, che
analogamente sostenne greca — facendosi puntello di Marsiglia, greca di
origine e per più secoli — la derivazione del francese, e l'anima del
quale dev'essere passata nel bollente abate Espagnolle “du clergé de
Paris„, che da alcuni anni scaraventa volumi dietro volumi nel viso di
quella che presume di essere la scienza moderna. Povero Perion! Egli non
deve tuttavia essere troppo contento di questo suo ritorno nel mondo.
Prima o poi bisognerà bene che si stanchi di non destar altro che risa e
che s'accorga di far la figura di un guerriero di Carlo Magno, che con
lancia e mazza tutto vestito di ferro, si gettasse nel fitto di una
nostra battaglia. Continui del resto, se così gli piace, il signor
Espagnolle a rallegrarci colle sue etimologie, degne di tener compagnia
a quelle che per il suo dialetto ebbe ad escogitare il “Varon Milanes„:
“Biot. _Nudo_, _povero_. È tratto dal greco Βιοτος (_sic_),
quale significa la vita e per questo si chiama Biot uno qual ha la vita
solamente....„ “Bobaa. Si usa co' figliuoli piccoli e significa _male_.
Credo veramente sia stato tolto dal greco, ancorchè sia alquanto
corrotto, imperciocchè Βολαῖ appresso i greci _dicuntur dolores
qui sentiuntur in partu_.„ Ma per verità faccio torto al Varon dandogli
un compagno siffatto; che egli è ben lontano dal farneticare quanto
l'abate parigino, del quale d'altronde non ha nemmeno per ombra la
sicumera e la spavalderia.

Abbandoniamo alla loro sorte questi timonieri, che in una notte cupa
guidano la nave a capriccio, dopo aver sdegnosamente gettato in mare la
bussola. Quanto a noi, teniamoci sulla terra dove ci troviam davanti una
strada, resa sempre più solida, sempre più ampia, dalle assidue fatiche
dei lavoratori che si succedono numerosissimi.

Rispetto dunque alla derivazione sostanzialmente latina delle lingue
romanze in generale, e dell'italiana segnatamente, cui nessuno contrasta
il vanto d'essere tra le sorelle quella che più da vicino ritrae le
sembianze materne, non può esserci dubbio se non in chi abbia la
disgrazia di esser cieco d'occhi o di mente. Gli è solo quando si viene
alle particolarità, che dei dissensi erano lecitissimi in addietro e che
in parte sono leciti ancora. Un tempo prevaleva il concetto che i nuovi
linguaggi fossero usciti da una corruzione prodottasi nel latino quando
sopraggiunsero le orde barbariche, e quando la civiltà romana si venne
offuscando e spegnendo. Era naturale, date le conoscenze d'allora, che
si immaginassero le cose in questa maniera; e coloro che pensavan così
ragionavan per solito con miglior logica di taluno, che sostenendo
invece parlato di già l'italiano dal popolo di Roma fin dai tempi della
repubblica, ebbe a scroccarsi (porta in pace la verità, ombra di
Leonardo Aretino!) fama di precursore. Forse che la corruzione del
latino non appariva evidente? Si ficchino gli occhi dentro alle
pergamene notarili del medioevo che ci son pervenute a decine e decine
di migliaia, e che paiono portarci la voce, nonchè d'ogni secolo, d'ogni
anno, d'ogni mese, e pressochè d'ogni giorno. Che sorta di latino è mai
quello! Per non dir nulla del vocabolario, la grammatica è ita tutta a
soqquadro; i casi, le terminazioni, i suoni, la sintassi, ballano una
ridda assolutamente pazza; nessuno sa più, o vuol più sapere quale sia
il suo ufficio, e in cambio di contentarsi di quello, adempie
indistintamente qualsivoglia funzione; insomma, suppergiù uno spettacolo
quale s'avrebbe se un bel giorno ciascuno di noi si destasse dimentico
affatto di ciò ch'egli è; e la moglie mettesse, non solo
metaforicamente, ma proprio anche in realtà, i calzoni del marito; e il
marito entrasse nelle gonnelle della moglie, e così vestito corresse
alla chiesa a dir messa; e il magistrato scendesse in toga a spazzare le
strade, per poi ritornarsene a render giustizia colla granata fra le
mani. O non è questo il caos donde avrà poi ad uscire il nuovo ordine?

Non è, nè poco nè punto. In fatto di lingue realmente parlate il caos
non esiste. Anche il più barbaro, anche il più incolto tra i linguaggi è
regolare nella sua struttura, e irregolare apparisce unicamente a chi
s'è fitto in capo l'idea di volerlo diverso da quel che è. Bensì avviene
— e ciò soprattutto per l'appunto nelle lingue colte, o per opera loro —
che si producano parziali disordini: ma questi non sono tali da turbar
l'armonia dell'insieme più di quel che facciano in musica certe
dissonanze. Perfino nei casi in cui due linguaggi si compenetrino e si
mescolino intimamente, l'uno assume il predominio, l'altro gli si
subordina, ed è un assetto, non uno scompiglio, che viene ad aversi. I
signori anarchici potranno mandare all'aria tutte le istituzioni
sociali; ma nel dominio della favella, del pari che nella natura,
bisognerà che si rassegnino a lasciar imperare dispoticamente la legge.

Però, nessun dubbio che il parlare dei nostri antichi, e nel sesto, e
nel settimo, e nell'ottavo secolo, e giù giù fino al milledugento, non
fosse in sè stesso regolarissimo, non altrimenti da quel che sia ora.
Variamente regolare: non conforme cioè da luogo a luogo, per l'appunto
com'è anche adesso; ma ciò fa meno che nulla, e di ciò s'avrà da toccare
più tardi. Era regolare il linguaggio che usciva dalle labbra dei
cittadini di Venezia, di Amalfi, di Genova, di Pisa, che insieme con
loro correva i mari, intrecciava commerci, stabiliva fattorie,
conquistava terre vicine e lontane; era regolare il linguaggio di
ciascuna delle città lombarde che si stringevono in lega contro il
Barbarossa; regolare il linguaggio delle generazioni oscuramente
gloriose che avevano fecondato e propagato i germi di quelle libertà
comunali, di cui allora s'intraprese la difesa e si conseguì il trionfo;
regolare il linguaggio del popolo di Milano, raccolto a combattere
dattorno al carroccio di Eriberto; e come parlavano una favella regolare
gl'Italiani che si rivendicavano comunque a grandezza e libertà e che
sapevano restituire ai molteplici frammenti della gemma lo splendore che
un tempo era stato nella gemma intera, una favella regolare parlavano
ben anche coloro che s'erano lasciati asservire dai Franchi, asservire
dai Longobardi, e che inermi s'erano ridotti via via in uno stato di
abbiezione.

Quanto alla confusione caotica offertaci dalle carte, non è già una
lingua, bensì unicamente l'effetto dello sforzo di servirsi di una
lingua, che si conosce come Dio vuole. Corrisponde al francese, che
parecchie volte ebbe a richiamare un sorriso sulle vostre labbra, o
signore, all'indirizzo di qualche mal capitato; al tedesco che a me
accade di usare trovandomi in regioni germaniche; all'italiano dei
visitatori stranieri delle nostre gallerie e dei nostri monumenti, e un
pochino altresì a quello che s'ode da bocche lombarde, piemontesi,
liguri, veneziane, napoletane e da quanti insomma, me compreso, non
ebbero fortuna di nascere in questa terra benedetta. Ma fate che il
tedesco parli tedesco, inglese l'inglese, bergamasco il bergamasco,
genovese il genovese, e ciascuno di loro discorrerà corretto, sì da
poter essere nel suo genere un vero testo di lingua. Non altrimenti quei
notai che ci fanno così inorridire coi loro spropositi, eran gente che
nella vita comune, quando nulla li costringeva ad usare un linguaggio
oramai loro estraneo e quando potevano esprimersi liberamente nel loro
particolare dialetto, non commettevano nessuna sgrammaticatura e non
avrebbero fatto la ben minima offesa alla più umile tra le lettere
dell'alfabeto. Sicchè quel loro scrivere ci dice solo due cose: da un
lato, la loro ignoranza del latino, e in genere il difetto d'ogni
coltura, una volta che il latino ne era il solo strumento; dall'altro,
la differenza ben ragguardevole che doveva esserci tra il latino e la
loro favella nativa.

Ma perchè mai costoro non ricorrevano dunque al partito così semplice di
scrivere come parlavano? Forse per quel benedetto vizio che trascina noi
tutti a far ciò che non sappiamo, e che ha per effetto di renderci
ballerini goffi, cantanti stonati, conferenzieri infelici! — Non per
questo, o signori; bensì per la ragione stessa per cui al contadino
lombardo, che, sapendo appena tenere la penna in mano, dall'America o
dall'Australia dà conto di sè alla famiglia, dotta al pari di lui, non
passa nemmeno per il capo di valersi del dialetto suo proprio. Dalla sua
penna il dialetto stillerà ciò non ostante sulla carta: ma suo malgrado
e in una forma mista, ibrida, che se non è italiana, è tuttavia lontana
altrettanto dall'essere schiettamente dialettale. Già, volendo scrivere
il dialetto, egli si troverebbe di fronte ad una difficoltà, da parer
forse lieve finchè solo ci si pensi, ma gravissima invece non appena si
provi: la difficoltà del rappresentare colle lettere i suoni che facili
e spontanei escono dalla bocca. Ma contro questo muro, così arduo da
scalare, egli non arriva nemmeno a dar di cozzo, perchè nella sua mente
scrittura e italiano son due cose da non potersi scindere; quei pochi
scarabocchi che imparò fanciullo nella scuola del villaggio, li imparò
tracciando parole italiane; ogni volta che si mise a decifrare qualcosa
di scritto o stampato — l'avviso esposto al pubblico sulla parete della
casa comunale, il vecchio volume delle Vite dei Santi o la storia di
Bertoldo, il _Secolo_ riportato di città dal suo vicino — fu sempre
coll'italiano ch'egli ebbe a combatterla. Così, un linguaggio che ha
adempiuto a funzioni letterarie mentre era vivo, continua ad adempierle
anche dopo morto; il cadavere mummificato del re defunto è lasciato sul
trono per generazioni e generazioni, e a lui i sudditi continuano a far
riverenza, finchè a poco a poco il bisogno di un signore effettivo e che
possa muovere braccia e gambe, non porti a ribellarsi a quel mero
simulacro. Figuriamoci quanto durevolmente, qui da noi soprattutto, vale
a dire in patria, si dovesse continuare a prestar omaggio al latino, che
aveva dietro di sè un passato così splendido di gloria! Poi, quel tanto
di coltura che rimaneva, e che per scarso che fosse in generale, era ben
lontano dal ridursi a ciò che s'immaginerebbe guardando solo ai notai,
si trovava nelle mani della Chiesa: della Chiesa, cui una lingua da
potersi dire universale riusciva indispensabile, e che questa lingua
aveva trovato nel latino da secoli. Per tal modo nel latino la vita
s'era spenta da un pezzo, e ancora nessuno s'era accorto della morte
sua. Bisognerà venire fino al tempo di Dante, perchè dell'atto di morte
si stenda la minuta, salvo l'esserci poi ancora per quasi due secoli chi
s'arrabbatti per buttare quella minuta sul fuoco. E per Dante stesso
gl'Italiani saranno “Latini,„ e “Volgare Latino„ il loro linguaggio
abituale.

Il loro linguaggio! Ma donde era mai uscito questo linguaggio, se le sue
origini sono latine, e nondimeno esso non è una degenerazione del latino
classico? — Per rispondere bisogna che prenda le cose più di lontano di
quel che sarebbe nei vostri desiderî. Ringraziatemi tuttavia ch'io non
le prenda più di lontano ancora! Quel titolo insidioso di _Origini_ me
ne darebbe il diritto; giacchè quando si discorre di origini ci si trova
nelle condizioni di chi salga un monte, di cui crede via via di vedere
la sommità. Si trascina lassù, e arrivatoci, vede sopra di sè un'altra
cima, che, superata, gli giocherà poi anch'essa il medesimo tiro. E il
monte per lo più è così alto, che il povero ascensore cade a terra
sfinito avanti che gli sia dato di scorgere la cima vera. E quand'anche
poi gli riuscisse alla fine di raggiungerne il piede, essa sorgerebbe
sopra di lui qual roccia inaccessibile, colla vetta perpetuamente
avvolta tra le nubi. Così in questo caso sarei nei miei diritti, se,
chiamato a discorrervi delle origini della lingua italiana, mi mettessi
a parlare delle origini del linguaggio umano.

Non è dunque discrezione il contentarsi ora (non me ne contentai prima!)
di muovere dagli ultimi tempi della Roma repubblicana e dai primordi
dell'imperiale, salvo lo spingere più addietro unicamente qualche
occhiata fugace? Siamo al periodo classico della letteratura latina: a
quello in cui rifulgono Cicerone, Cesare, Livio. Dando ascolto al
parlare di questi grandi, dovremmo subito avvertire una diversità dal
linguaggio delle loro storie, delle orazioni, delle epistole medesime.
La diversità viene in parte da quella tendenza che porta inevitabilmente
chi scrive, anche quando non vorrebbe, ad essere più raffinato che non
sia discorrendo; in parte si deve a ciò, che la lingua scritta è di sua
natura essenzialmente conservativa, e però tende a mantenere una
condizione di cose rispondente al parlare di un tempo trascorso; in
parte è l'effetto di una speciale elaborazione che le lingue subiscono
nella tradizione letteraria, e che già fino dal principio le condusse ad
essere fissate tanto o quanto differenti da quel che fossero nell'uso,
come son fissate le sembianze di una donna non troppo favorita dalla
natura per mano di un artista abile e compiacente. Quest'ultimo punto ha
davvero nella storia del latino un'importanza ragguardevole, sebbene
lontana dall'essere chiarita quanto si desidererebbe. In forza
dell'elaborazione letteraria si restituirono in tutta la loro pienezza
certi suoni, che nel parlare erano oscillanti, o divenuti addirittura
quasi muti. Colori sbiaditi, e anche pressocchè svaniti del tutto,
furono resi alla loro vivezza originaria. Si fece qualcosa di analogo a
quel che si farebbe quand'anche si cominciasse ora soltanto a scrivere
il fiorentino. Poichè si dice _la hasa_, ma _accasa_, _in casa_, si
scriverebbe _casa_ dovunque, come tutti facciamo, senza tener conto
della sorte toccata in certi incontri a quella prima lettera,
gravissimamente malata in Firenze, e morta di già a Pisa e a Livorno,
dove la gente bassa non ha più la _su' hasa_, ma soltanto la _su' asa_.

Sicchè, una prima distinzione dal latino scritto al parlato. Ma poi il
latino parlato era necessariamente vario di esso stesso. Tra il
fiorentino di quante tra voi, o signore gentili, son nate all'ombra del
Cupolone, e quello del popolino di “San Friano„, la differenza non è
piccola. Differenza di suoni, di forme, di vocaboli. O come mai non
sarebbe stato il medesimo a Roma, dove le disparità sociali non erano
minori davvero che presso di noi, e dove il patriziato e la plebe
continuarono a trovarsi a fronte, sicchè si può dire che tutta la storia
interna sia storia della lotta tra queste due classi? Però dal latino
scritto non differiva troppo profondamente quello della gente nobile e
colta; e perchè questa, conservatrice in tutto, tendeva a conservare
anche in fatto di lingua; e perchè la lingua letteraria s'era modellata
su quella de' suoi antenati; e anche perchè sul parlar suo i libri
esercitavano efficacia. Ma le differenze venivano via via aggravandosi
mano mano che si scendesse, e finivano per essere massime quando s'era
fra l'ultimo proletariato. Quindi una moltitudine infinita di varietà,
non altrimenti da quel che s'abbia fra di noi, dove qualcosa di
particolare, per quanto non s'avverta, viene ad esserci nel parlare
d'ogni famiglia, d'ogni singola persona. Queste innumerevoli varietà, e
neppure i loro estremi, non costituiscono neanche per ombra differenti
linguaggi; il latino tutte quante le abbraccia; per sfumature
insensibili noi passiamo da un verde cupo a un verde chiaro, ma il
colore fondamentale è sempre il medesimo.

Ebbene: le lingue cosidette romanze sono — con un arricchimento di voci
straniere e specialmente germaniche non dissimile da quello che s'era
avuto anche per l'addietro, segnatamente da fonte greca — la
continuazione non mai interrotta del latino parlato, e in generale, non
del latino aristocratico e neppure di quello dell'infima plebe, bensì
del popolo di condizione media, accessibile del resto così alle azioni
che vengon dall'alto come a quelle che muovon dal basso. Che proprio sia
così, dice la ragione, dacchè è l'uso dello scrivere, non già del
discorrere, che si viene affievolendo; e confermano mille e mille prove,
in quanto ogni spiraglio che s'apre per un verso o per l'altro sul
latino popolare, ci fa scorgere attinenze coi linguaggi neolatini ignote
al latino delle scritture. Questo latino popolare a poco a poco si venne
in sè stesso trasformando: lentamente prima, finchè la civiltà romana
stette in piedi, abbondarono le scuole, e la letteratura potè avere
un'efficacia ritardatrice; più rapidamente d'assai, una volta che tutto
ciò venne meno. Il fiume che prima si moveva tardo, prese a correre
precipitoso, trovandosi arrivato ad un forte pendio. In questo senso, e
non già in nessun altro, si può dire che la formazione dei nuovi
linguaggi venga a cadere tra il sesto secolo ed il nono od il decimo.

Ma questi linguaggi diversificano tra di loro. O come mai, se sgorgano
da una stessa sorgente? — Trasportato fuori di Roma, il latino dovette
sonare alquanto differente a seconda che se lo appropriavano popolazioni
avvezze ad una favella o ad un'altra: a quel modo che suona diverso
l'italiano, nonchè in bocca francese, inglese, tedesca, in quella dei
nativi di ogni nostra città, di ogni nostro villaggio. La continuità
dell'azione romana, la forte unità, ed i mille contatti, attenuarono per
un certo tempo gli effetti di questa condizione di cose, e poterono
anche dar luogo a una convenienza maggiore e più durevole assai di ciò
che a prima giunta si penserebbe; ma diversità s'ebbero e si mantennero.
Orbene: queste diversità, fattesi assai maggiori una volta che l'impero
cadde in isfacelo e l'unità fu spezzata e accresciuta dal tempo che
permette alla gocciola di scavare la pietra, sono la prima causa che ha
dato origine alla moltiplicità delle lingue e dei dialetti. Insieme se
n'ebbero bene anche altre; ma di fermarci a considerarle da vicino, a
noi manca qui il tempo.

Se v'ho inflitto il supplizio di questa esposizione, col cuore del
chirurgo che taglia le prime sue.... cioè, non sue gambe, non vorrò
certo che v'insudiciate col buttarvi a terra per accostare l'orecchio al
suolo, e sentire il rumore, qui tenue e confuso, più là invece ben
distinto, del torrente che scorre sotto invisibile; e nemmeno,
s'intende, vi farò correre il rischio di slogarvi i piedi e scorticarvi
le mani per venire colà, dove, tra un ammasso confuso di rottami di
rocce, spiando intentamente, si vede spumeggiare qualcosa nel fondo. In
altre parole, non verrò raccogliendo le tracce innumerevoli del volgare
dai monumenti stessi della latinità e dalle scritture dei primi secoli
del medioevo, dove il volgare si rivela, per lo più inconsciamente,
collo spropositare continuo, ma non di rado anche consciamente,
sopratutto nelle denominazioni dei luoghi.

Alla fine, se Dio vuole, un filo d'acqua esce fuori; un filo d'acqua
soltanto, ma più che bastevole per rivelare in modo non dubbio a tutti
quanti i sensi la presenza del sospirato elemento. È il 960, e siamo a
Capua, nel tribunale del giudice Arochisi. Davanti a lui stanno
Rodelgrino Aquinate, e Aligerno abate di Montecassino, contendendo per
la proprietà di certe terre tenute dal monastero. L'abate ha condotto
con sè dei testimoni: Teodemondo, diacono e monaco, Mario, chierico e
monaco, Gariperto, chierico e notaio. E ciascuno di costoro,
separatamente e successivamente, tenendo in mano una pergamena dove sono
indicati i confini delle terre contestate proferisce queste parole: “Sao
ke kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette
parte sancti Benedicti.„ Signori facciamo un inchino ben profondo. È
questa, nella sua gretta povertà, la prima proposizione risolutamente e
volutamente volgare, sia pure con uno sprazzo di latinità ancor essa, in
cui accadde d'imbattersi. La mascherina che finora aveva sempre falsata
la voce, ha avuto un momento di abbandono e ci si è manifestata per ciò
che essa è. Se prima si ostinava a parlare una favella non sua, e della
favella sua vera ci faceva accorti soltanto collo spropositare continuo,
coi costrutti, e con parole e frasi staccate, ora s'è proprio lasciata
andare per un momento a discorrere nel suo linguaggio nativo.

Di questo abbandono par tuttavia che la maschera si penta; e, salvo
qualche ripetizione di quelle parole medesime o press'a poco, noi siam
costretti a starcene in ascolto forse un secolo — un secolo che non ha
per buona sorte il potere d'invecchiarci — perchè il fatto si rinnovi. E
fortunati noi, che insieme col privilegio dell'eternità ci troviamo
avere pur quello, quind'innanzi ancor più necessario, di passare colla
rapidità del pensiero da un luogo all'altro! Per stavolta tuttavia
basterà che ci si trasporti a Roma, sotto le vôlte della basilica
inferiore di San Clemente, sepolta fra le macerie nel 1084 per le
devastazioni di Roberto Guiscardo, e ricomparsa alla luce vent'anni fa.
Fu dunque avanti quell'anno fatale che un cotal “Beno de Rapiza„,
insieme colla moglie Maria, fece ornare le pareti di pitture, che
rappresentano scene della vita del santo titolare, e la traslazione, a
quel che sembra, del corpo di San Cirillo. Tra queste pitture ce n'è
una, dove si vedono tre uomini adoperarsi a trascinare un fusto di
colonna, ed un quarto, rivestito di manto, in atto di comando. Accanto
alle figure si leggono parole che i personaggi hanno da pronunziare:
“Fàlite dereto codo palo, Carvoncelle! — Albertel, trái! — Fili de....
cani, traìte.„ Ho detto “fili de cani„; ma veramente l'espressione non
sarebbe questa; giacchè, ciò che nel secolo XI si poteva scrivere sulle
mura di una chiesa, ritraendo i fasti di un santo, non si potrebbe
sempre nel XIX ripetere in presenza di signore.

Da Roma un volo alla Sardegna; non già perchè vi ci attirino certe
famigerate Carte d'Arborea, che all'olfatto di chiunque abbia un po' di
naso danno odor di tutt'altro che di muffa. Ma di muffa, e di quella
buona, sa il privilegio che tra il 1080 e il 1085 il “judice Mariano de
Lacon„ concede agli “homines de Pisas, per ca„, egli dice, “li sso ego
amicu caru e itsos a mimi„, determinando che nessun comandante che vada
a reggere una certa terra “n'apat comiatu de levàrelis toloneum„. Come?
Si tratta di esenzioni di tributi? Ahimè: scappiam più che di fretta,
chè questi son discorsi proibiti per orecchie italiane!

Ritorniamocene alla terra ferma, e ripieghiamo le ali sopra non saprei
qual punto dell'Umbria, delle Marche, lì d'attorno. Poichè la Pasqua è
imminente, molti sentiranno il bisogno di accostarsi ad un
confessionale. Ed eccomi qui pronto a dar l'imbeccata al penitente o
alla penitente, pur sapendoli ben lontani dall'esser lordi di nessuno
tra certi peccatacci, di cui, s'io ridicessi tutto quel che mi sussurra
un mio suggeritore, dovrei fare la lunga enumerazione: “Domine, mea
culpa! Confessu so ad me senior Dominideu, et ad ma (t) donna sancta
Maria.... de omnia mea peccata ket io feci da lu battismu meo usque in
ista bora, in dictis, in factis, cogitatione, in locutione.... Me accuso
de lo Corpus Domini, k'io indignamente lu acceppi.... Me accuso de lo
genitore meo et de la genitrice mia, et de li proximi mei, ke ce non
abbi quella dilectione ke me senior Domnideo commandao, ecc., ecc.!„
Come si vede il volgare, è chiazzato di latino, cosa che nella chiesa
troppo ben si capisce. Viene ad aversi — e per ragioni non dissimili —
un impasto di linguaggio analogo al dialetto, che stando alle commedie
di Carlo Maria Maggi, solevano parlare nel secolo passato le dame
milanesi:

_Donna Quinzia._

    Don Leli, che la sort
    Sia tant inviperì
    Contro la nostra Casa;
    Che il noster sanguu tant limpid fin'adess
    S'abbia da intorbidar con altra sfera,
    L'è düra; ma giacchè col fier destin
    Contrastar non si può,
    Convien, stringend i ogg, mandarla giò.

                             (_Consigli di Meneghino_, Atto I, sc. I).

Finora non s'è avuto che prosa. Chiamiamo versi, per modo di dire,
quelli che si leggevano un tempo sopra l'arcata del coro del Duomo di
Ferrara:

    Li mille cento trenta cenqe nato
    Fo questo templo a San Gogio donato
    Da Glelmo ciptadin per so amore;
    E mea fo l'opra Nicolao scolptore.

Versi potranno esser chiamati con qualche maggior ragione quelli del
cosidetto Ritmo Cassinese: forse (pur troppo non s'è ancora trovato
l'appiglio per una datazione sicura) il più antico tra i nostri
documenti volgari che mostri in chi lo compose una certa quale
intenzione e pretesa letteraria. L'interpretazione dà molto filo da
torcere; ma nella somma non par dubbio che per via di un dialogo tra due
personaggi alquanto enimmatici, l'uno dei quali s'è mosso dall'oriente,
l'altro dall'occidente, si miri a staccar gli uomini dalla terra ed a
volgergli alle cose celesti:

      Quillo d'oriente pria — altia l'occlu, sillu spia,
    Addemandaulu tuttabia, — como era, como gia.
    “Frate meu, de quillo mundu bengo:
    Loco sejo et ibi me combengo.„

      Quillu, auditu stu respusu, — cuscì bonu 'd amurus
    Dice: “Frate, sedi josu! — non te paira despectusu;
    Ca multu fora coleiusu — tia fabellare ad usu.
    Hodie mai plu non andare,
    Ca te bollo multu addemandare.„

Ma se qui si vuol “multu addemandare„, di rimanercene a sentire a noi
manca il tempo; chè ci arriva il suono di un altro dialogo assai più
animato, tra gente che desta molto più la nostra curiosità: il trovatore
Rambaldo di Vaqueiras — colui che “Trovò per Beatrice in Monferrato„, il
compagno d'avventure del prode e cavalleresco marchese Bonifazio — e una
popolana di Genova. Il trovatore prega d'amore costei nel tuono ch'egli
è solito usare colle nobili castellane: ma le risposte che riceve sono
ben diverse da quelle a cui è avvezzo. Ascoltiamo un momento. Tradurvi
il provenzale di Rambaldo avrebbe ad esser superfluo. O quando mai un
uomo innamorato, o che tale si finge, ha saputo dire a una donna
qualcosa di nuovo, che tutti e tutte non conosciate a menadito?

      “Donna genta et eissernida,
    Gaia e pros e conoissens,
    Vaillam vostre cauzimens,
    Quar jois e jovens vos guida,
    Cortezia e pretz s sens
    E totz bos ensenhamens;
    Per q'ieus soi fizels amaire
    Senes totz retenemens,
    Francs, humils e mercejaire;
    Tant fort me destreinh em vens
    Vostr'amors que m'es plazens!
    Per que sera jauzimens
    S'eu sui vostre bevolens
                E vostr'amics.„
      “Jajar, voi semegliai mato,
    Che cotal razon tegnei:
    Mal vignai e mal audei!
    Non avè sen per un gato:
    Perchè trop me descbazei,
    Che mala cossa parei
    Nè non faria tal cossa,
    Se sia figlio de rei.
    Credi vo che e' sia mossa?
    Per mia fè, non m'averei!
    Se per amor vo restei,
    Ogano morrè de frei.
    Troppo son de mala lei
                Li provenzal!„

E Firenze? — Oh, anche la voce di Firenze ci arriva presto. E qual voce!
“M. CC XI. Aldobrandino, Petro e Buonessegnia Falkoni no dino dare
katunu in tuto libre. lij. per livre diciotto d'imperiali mezani,
arrazione di trenta e cinque meno terza, ke demmo loro tredici di anzi
kalende luglio, e dino pagare tredici di anzi kalende luglio: se più
stanno, a .iiij. denari libre il mese, quando fusse nostra volontade.„
Sicuro: il più antico testo fiorentino è finora il frammento di un
registro di non sappiamo quali prestatori o banchieri, che vediamo
esercitare il mestiere loro, oltrechè in Firenze, a Bologna, per la
fiera di San Procolo, o come qui si dice, “San Brocoli.„ Come si vede,
si prelude assai bene alla condizione di cose per cui più tardi tante
mogli fiorentine “Era_n_ per la Francia nel letto disert_e_„, ma in pari
tempo la città cresceva a meravigliosa ricchezza. Che se di lontano
s'ode altresì lo scroscio della fragorosa rovina del Peruzzi e dei
Bardi, di sotto a quella rovina la prosperità di Firenze riuscirà bene a
sollevarsi.

Non seguitiamo più oltre la rassegna. Era opportuno tender l'orecchio ai
passi mattinieri che rompevano il silenzio della notte ed annunziavano
il giorno; ma ora l'oriente s'imporpora, la vita si ridesta, il rumore
si fa assordante ed altro ci vorrebbe per badare ad ogni cosa. L'Italia
tutta man mano si leva in piedi; ogni volgare, poco o tanto, o bene o
male, o in verso o in prosa, si vien cimentando. Una folla di gente,
sconosciuta per la massima parte, ma tra cui si riesce anche a coglier
dei nomi — quel Cielo da non so che, stato fino a ieri Ciullo d'Alcamo,
Patecchio da Cremona, Uguccione da Lodi, Pietro di Bescapè, fra
Bonvicino dalla Riva, fra Giacomino da Verona, il veneziano fra Paolino,
Ristoro d'Arezzo — ci si stringe dintorno e minaccia di soffocarci.
Ciascuno fa ressa, presentando scritture romane, umbre, toscane, venete,
lombarde, liguri, e che altro so io: svariatamente insomma dialettali,
come in generale sono stati dialettali i pochi saggi avuti finora.

Sta bene: i dialetti dunque si vengono scrivendo ogni giorno più. Ma noi
non ci si contenta di sapere di loro: si vuol anche saper della lingua.
— Per giungere ad essa la strada da percorrere era più lunga ed ardua
d'assai. La lingua, signori miei, è un ideale; e quanto sia faticosa per
l'uomo la ricerca di un ideale, tutti più o meno sappiamo per prova. E
anche la semplice rappresentazione delle cose riesce tutt'altro che
agevole. Come non avrebbe ad essere difficile render conto della lingua
al secolo XIII, se, dopo settecento anni di letteratura, ancora non siam
ben d'accordo cosa questa lingua abbia ad essere?

Cominciamo dal determinar bene la questione. Dicendo _lingua_ per
contrapposto ai _dialetti_, noi intendiamo l'universale di fronte al
particolare; l'unità di contro alla moltiplicità; in termini più chiari,
una forma di linguaggio che si adotti per gli usi del parlar colto e
dello scrivere dagli abitatori di tutta una regione, rinunziando per
cotali usi alla svariatezza delle proprie favelle domestiche.

Orbene: nell'Italia del medioevo un ufficio siffatto continuò per gran
tempo ad adempierlo il latino, e il latino soltanto. Volete avere
un'idea delle condizioni di allora? Ve la possono dare facilmente le
condizioni nostre stesse. Supponete l'Italia molto più ignorante che ora
non sia, e quindi, facendo astrazione dalla Toscana, mettete il latino
al posto dell'italiano. Era esso il linguaggio dei libri, delle scuole,
delle occasioni solenni; esso il linguaggio che ravvicinava e accomunava
da un capo all'altro dell'Italia, per non guardar fuori di casa nostra,
i nativi di qualsivoglia provincia. Ma poi bisognava bene che si avesse
sentore anche di un'unità di favella differente da questa. Le parlate,
varie quanto si vogliano, avevano pur sempre, nella massima parte almeno
della penisola colla Sicilia per giunta, un'affinità così stretta, da
sentirsi membri di una stessa famiglia. Era l'unità del genere, o della
specie; quell'unità che vi fa comprendere sotto la comune designazione
di uomo individui tanto differenti tra di loro. Così l'unità del
linguaggio esiste come a dire in ispirito, prima di essersi potuta
tradurre in atto.

Ma di cotale unità non s'ha meramente il sentore: si prova il bisogno.
Di un linguaggio che non sia già proprio di questa o quella città, ma
che possa dirsi comune, ogni paese che la natura o la storia abbian
foggiato veramente in un tutto, prova vivissima la necessità. Ora, se a
questa necessità provvedeva abbastanza il latino finchè l'Italia
sonnecchiava o alle funzioni più elevate della vita partecipavano
relativamente pochi, così non era più, una volta che la vita s'era fatta
ben altrimenti intensa, con carattere schiettamente laico ed
essenzialmente democratico.

Tutto ciò in un ordine astratto e mai definibile. Concretamente, s'ha il
gran rimescolio prodotto dai commerci, dalle istituzioni religiose,
civili e scientifiche, dalle leghe, dalle guerre, dalle paci. I frati
che lontano dalla loro patria si trovano a predicare a popolazioni cui
sarebbe vano rivolgere la parola in latino, i pellegrini che accorrono
alla tomba degli Apostoli e ad altri Santuari, la moltitudine raccolta
insieme alle fiere, i podestà che con un loro seguito vanno ad
esercitare fuor di casa l'ufficio di supremi reggitori, la folla dei
giovani che trae da ogni parte alla dotta Bologna e ivi s'affratella,
son tanti fattori di ravvicinamento tra le varie parlate, le quali
imparano così a conoscersi a vicenda e acquistano scambievole
familiarità. E i canti che anche allora probabilmente erravano da questa
a quella provincia, e i proverbi che erravan del pari, gli uni e gli
altri subendo bensì nel loro vagabondare una trasformazione, ma una
trasformazione imperfetta, portavano all'opera che si veniva compiendo
un contributo tutt'altro che disprezzabile. E un contributo stragrande
veniva a portarlo il latino stesso, in quanto dappertutto il volgare,
nella bocca, e più assai poi sotto la penna della gente più o meno
colta, tendeva a tenerglisi stretto a' panni. Ne seguivano convenienze
senza bisogno d'accordo: a quel modo che anche oggi il milanese e il
bergamasco di chi ha la familiarità coll'italiano, si assomigliano
maggiormente che il milanese e il bergamasco del popolo rozzo.

Questi non son che bagliori; bagliori, che rendono lo nostre antiche
scritture dialettali assai meno dissimili di quel che sarebbero se
fossero specchio ben fedele delle singole parlate. Ma di bagliori noi
non ci si contenta: vogliamo arrivare a veder la luce. E la luce, per
uno spiraglio, cominciò a penetrare ancor essa di buon'ora. La scuola
poetica, che si suole dir sicula, ma che abbraccia gente di ogni nostra
regione, fu la prima manifestazione letteraria comune a tutta Italia.
Ebbene: stretti com'erano gli uni e gli altri dal pensiero e dall'arte,
imitatori degli stessi modelli provenzali, raggruppati dattorno a una
medesima corte, cui appartenevano o guardavano, quei poeti ebbero ad
avvicinarsi molto tra di loro anche nell'espressione. Quindi, non una
piena uniformità, ma una minore difformità che non s'avesse fuori di
lui. Cosa incomparabilmente più facile da conseguirsi, in quanto, non
solo tutti poetavano unicamente d'amore, ma poetavano movendosi in una
cerchia di idee convenzionali singolarmente angusta.

Così l'apparenza di un linguaggio letterario comune incominciò ad
aversi; e quell'apparenza potè ancora per un certo tempo sembrare
realtà, e realtà da appagarsene pienamente, nientemeno che a Dante. Ma
egli s'ingannava; e il massimo sfatatore delle sue proprie convinzioni
aveva ad essere lui stesso.

Al rigoglio meraviglioso di vita civile, politica, economica che nel
secolo XIII prese ad agitare la Toscana, cominciò a corrispondere un
rigoglio non meno meraviglioso anche in fatto di arte. E l'arte della
parola ebbe ancor essa cultori in gran numero. Alle cause generali del
fenomeno, s'aggiungeva questa: che la Toscana capiva di avere nel suo
linguaggio uno strumento ben opportuno del pensiero; e a ragione
davvero, dacchè nessuna parlata italiana possiede un'egual somma di
pregi esteriori ed intrinseci. Di questa coscienza può esserci indizio
quell'arido frammento di un libro fiorentino di banco di cui v'ho letto
qualche linea. Già nel 1211 — anzi, già qualche decennio più addietro, a
dir poco, dacchè è troppo chiaro che il fatto non principia di lì —
Firenze osava bravamente servirsi del suo volgare per usi che hanno pure
un carattere pubblico. E a questa coscienza di forze corrispondeva
altrove una coscienza di debolezza. In quasi tutta l'Italia
settentrionale, vale a dire nella regione che per molti rispetti non
aveva nulla di certo da invidiare alla Toscana, i dialetti si sentivano
poco italiani — poco latini pertanto — e, vergognandosene in certo modo,
si sforzavano nelle scritture di conseguire coll'artifizio ciò che la
natura aveva loro tolto, e si venivano così ad accostare al tipo di cui
le parlate toscane erano l'esemplare più puro, e geograficamente il più
prossimo a loro. Il più prossimo ed ecco qui uscir fuori una ragione
molto importante ancor essa. La situazione centrale tornava essa pure di
grandissimo vantaggio per la Toscana, e la rendeva più atta d'ogni altra
provincia a esercitar l'impero su tutta la penisola.

La Toscana aveva dunque già molto in suo favore, e già tendeva ad
arrogarsi il predominio ed a vederlo accettato, quando apparve la gran
figura di Dante. Questi cominciò dall'essere, nonchè uomo del tempo suo,
uomo oso dir del passato. Scrivendo la _Vita Nuova_, — intorno al 1292,
— egli non si perita di riprovare coloro “che rimano sopra altra materia
che amorosa.„ Il povero volgare, in cambio di poter spaziare libero
dovunque, dovrebbe contentarsi di starsene chiuso dentro un recinto. Ma
le mura di quel recinto non tardarono ad esser scavalcate anche dallo
stesso Dante, che però, quando appresso, al principio dell'esilio, si
dette a comporre il _De vulgari eloquentia_, segnò confini d'assai più
vasti. Nè qui egli si fermò. Pochi anni più tardi, mosso tra l'altre
cose da un santo sdegno contro i “malvagi uomini d'Italia che commendano
lo volgare altrui„ — il provenzale e il francese — “e lo proprio
dispregiano„, si servirà nel _Convivio_ del volgare nostro per trattare
le più astruse e sottili quistioni scientifiche; e a proposito di questo
volgare proromperà, al termine di una lunga difesa o panegirico, in
quelle parole fatidiche: “Questo sarà luce nuova, sole nuovo, il quale
sorgerà ove l'usato tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre
e in oscurità per lo usato sole che a loro non luce.„ Il sole di cui si
presagisce il tramonto è il latino. Come si vede, il nuovo linguaggio ha
acquistato piena coscienza di sè. La fanciulla che finora se n'era stata
timida in gonnelle corte accanto alla madre, s'è accorta che quelle
gonnelle non fanno più per lei, e si rifiuta di portarle più a lungo. La
madre continuerà ad essere circondata di affetto e venerazione; ma si
rassegni ad esser matrona, e non presuma più di adempiere lei le parti
giovanili.

Che la predizione del _Convivio_ si avverasse prontamente, fu opera
dello stesso Dante, il quale giusto allora veniva innalzando uno dei
monumenti più portentosi dell'arte e del pensiero umano: la _Divina
Commedia_. Questa, imponendosi d'un tratto all'ammirazione universale
degl'italiani, decise, senza possibilità di opposizioni efficaci, la
questione della lingua. Ed essa veniva col fatto a risolverla in favore
del toscano non solo, ma proprio del fiorentino, sbaragliando e
dissipando, checchè Dante potesse forse ancora addurre in loro difesa,
le teoriche artifiziose e le troppo sottili distinzioni del _De vulgari
eloquentia_. Ho detto che la lingua è un ideale. La ricerca dell'ideale
aveva stavolta quel più lieto fine che possa mai avere nella vita. Si
rinunziava a cercare più oltre, per stendere le braccia ad una fanciulla
sfolgoreggiante di salute e leggiadria, che, se non era l'ideale, era
più e meglio di esso. Certo ci vollero ancora due secoli perchè la
decisione voluta dalla _Commedia_ avesse pieno effetto; nè cessarono mai
del tutto le resistenze, parte irragionevoli e meschine, ma parte anche
ragionevolissime, e tali da dover dissuadere noi pure dell'acquetarci
nella formola troppo angusta che alcuni — sia pure autorevolissimi —
propugnano. Ma, considerando bene, tutto ciò riguarda semplici
particolari. Quanto alla sostanza, nessun dubbio che la lingua
letteraria dell'Italia non sia stata, non sia, e non voglia quanto mai
desiderarsi che abbia ad essere anche in futuro, la favella di Firenze.

Abbia ad essere: poichè importa moltissimo che il nostro linguaggio non
perda il privilegio invidiabile di poter attingere alle fonti vive del
parlar popolare; e importa altrettanto che queste fonti siano quelle
medesime da cui esso sgorgò e di dove attinse in passato. Solo così il
linguaggio potrà mantenersi durevolmente limpido e fresco. Ora, un certo
qual pericolo sovrasta. L'Italia s'è ricomposta, ha conseguito una
capitale, e quella capitale non è, nè poteva esser Firenze. Essa è
invece la città su cui s'impernia tutta la vita italiana: come s'è
visto, insieme colla vita politica, colla civile, colla religiosa, anche
la vita linguistica. C'è luogo quindi a temere che il centro di gravità
tenda a spostarsi. Contro un pericolo siffatto non vedo quale altro
rimedio possa esserci all'infuori di un fervore di vita intellettuale,
che mantenga a Firenze, così mirabilmente disposta dalla natura e dalla
storia, il carattere di Atene italiana. A quest'opera, sommamente
salutare e benefica, non solo per la patria piccina, ma anche per la
grande, tutti possono efficacemente contribuire. Contribuisca anzitutto
ciascuno col coltivare la mente sua propria. E cooperatrice
efficacissima, anzi indispensabile senz'altro, è a dire la donna. Chè,
ivi non è coltura durevole e schietta, dove la donna non è colta; la
donna, prima educatrice delle nuove generazioni; stimolatrice insieme e
riposo dell'ingegno umano; allettamento e anima di quei ritrovi, per
opera dei quali il pensiero e la parola — ce lo dica la Francia del
passato — possono meglio che con qualsivoglia altro mezzo ingentilirsi e
affinarsi. Ma badi bene la coltura di non lasciarsi salire in groppa
quella odiosa strega che è la pedanteria. Se questo avesse a seguire,
bisognerebbe correre a sbarrare le strade e chiudere il passo anche a
lei. Meglio allora sempre per la donna rimanersene coi pregi che si
trova aver da natura.


APPENDICE.

   Sarà, credo, opportuno, ch'io non lasci vagare stampata questa
   mia conferenza, senza dire aperto cosa pensi di certe opinioni
   messe fuori di recente, alle quali vedo farsi un'accoglienza, che
   non avrei immaginato quando parlavo al pubblico della sala
   Ginori.

   Nel 1884, quell'insigne romanista che è Ernesto Monaci, sostenne,
   in un articolo ingegnoso pubblicato nella _Nuova Antologia_ (15
   agosto), che il vero focolare della nostra prima scuola poetica,
   fosse, nonostante il nome consacrato dall'uso già ai tempi di
   Dante, Bologna, non la Sicilia. Ivi si sarebbe primamente fissata
   anche la nostra lingua letteraria. Alcuni anni appresso il prof.
   Augusto Gaudenzi — uno studioso che dalla sua rocca della storia
   del diritto può, bene armato e arredato, far proficue scorrerie
   in altri dominii — prima in una rivista (_L'Università_, III, 204
   seg.), poi soprattutto in un libro (_I suoni, le forme e le
   parole dell'odierno dialetto della città di Bologna_, Torino,
   Loescher, 1889), riprese la seconda parte dell'idea del Monaci,
   determinandola in modo considerevolmente diverso; e alla teorica
   mise per fondamento dati suoi proprii, e antiche scritture, di
   cui egli stesso era stato ritrovatore sagace. Stando a lui, la
   lingua letteraria avrebbe la sua culla nelle scuole di arte
   notarile dell'Università bolognese.

   Non è senza meraviglia che alle deduzioni del Gaudenzi ho visto
   assentire, dando conto del libro, due cultori valentissimi degli
   studi linguistici: il Salvioni (_Giornale storico della
   letteratura italiana_, XVI, 378) e il Meyer-Lübke
   (_Literaturblatt für germanische und romanische Philologie_, XII,
   25). Almeno, che il Meyer-Lübke assenta, mi par chiaro da certe
   frasi e dalla mancanza di ogni obbiezione; quanto al Salvioni, il
   suo assenso è esplicito, con certi allontanamenti tuttavia.
   Mentre cioè per il Gaudenzi la lingua prevalsa a Bologna fu la
   toscana, per il Salvioni invece, più ragionevolmente di certo,
   era un contemperamento delle varie parlate italiane. Con ciò egli
   ritorna all'idea primitiva del Monaci; ma non si perita di dire
   che il Gaudenzi “dimostra il fatto in modo ben più sicuro.„

   Ora, dove stia codesta dimostrazione, per mia parte confesso
   proprio di non capire. Se i testi del Gaudenzi sono assai
   notevoli e se è da essere riconoscentissimi a chi ce li ha dati,
   i ragionamenti che muovono da essi si trascinano innanzi a fatica
   di congettura in congettura e non reggono a un esame, per poco
   attento che sia. Bologna, gran fucina di coltura, ha di certo
   anche nella storia della nostra lingua un'importanza
   ragguardevole; ma ridurre dentro di essa soltanto la formazione
   del volgare illustre, è un rimpicciolire il problema; quanto poi
   al metterne per l'appunto la nascita nelle scuole di notariato è
   un immiserire le cose in modo addirittura compassionevole. Nè si
   capisce che si dia tanto peso a Guido Fava, che, se fu bolognese,
   scrisse la maggior sua opera in Toscana, e non si pensi a
   Buoncompagno, che, toscanissimo e insegnando lettere a Bologna,
   tra tante sue opere non ce ne lasciò nessuna in volgare. Ai
   documenti del Guadenzi basterebbe contrapporne due soli: da un
   lato l'iscrizione di Ferrara, che molto tempo prima ci dà esempio
   di un volgare scritto che non è davvero il ferrarese, pur
   contenendo elementi dialettali, ed uno emiliano caratteristico;
   dall'altro, i frammenti fiorentini del 1211, di cui s'è vista la
   portata cronologica. E dov'è la ricca fioritura di carte volgari,
   di cui, se la teoria del Gaudenzi fosse vera, noi avremo bene
   diritto di far domanda, soprattutto alla sua Bologna? Se il
   volgare deve per solito servire ai notai solo per le spiegazioni
   verbali alle parti contraenti, non sappiam davvero che importanza
   abbia da avere questo ordine di fatti per la fissazione della
   lingua scritta.

   Ben altro ci sarebbe a dire; ma rimetto l'esposizione a miglior
   tempo. Intanto mi basta di aver levato la voce per mettere in
   guardia contro di ciò che a me pare un errore non meno grave che
   nuovo.



LE ORIGINI DELLA LETTERATURA ITALIANA

DI

ADOLFO BARTOLI


Non congiunti più da nessuna affinità psicologica al Medioevo, riesce
difficile a noi sentire quello che fosse, nei suoi aspetti bizzarri e
multiformi, l'età delle febbri ascetiche e degli entusiasmi
cavallereschi, dei barbari e dei santi, dei feudatari e dei servi, delle
crociate e dei tornei; quella lunga e lugubre età nella quale il
pensiero umano sembra vicino al suo ultimo disfacimento, e che è pure
l'ingenuo tempo dei sogni e delle fole. Se una caratteristica possiamo
cogliere in quel caotico agitarsi di elementi tanto diversi, questa sola
sarà, che una puerilità universale ha invase le menti, che gli uomini
sono divenuti fanciulli. La ragione sembra essersi coperta del lenzuolo
funebre, per discendere nel sepolcro, dove dormirà molti secoli. I suoi
radianti fulgori sono spenti. Il mondo colle sue gioie, la natura colle
sue bellezze non parlano più al cuore degli uomini; le più alte
aspirazioni dello spirito sono giudicate un peccato; il cielo incombe
sulla terra, e nell'immane abbraccio la soffoca. Si è perduto quasi il
concetto della successione dei tempi: ai funerali di Alessandro il
Macedone si fanno assistere i frati colle croci e i turiboli; Catilina
sente la messa a Fiesole; Orfeo è un contemporaneo di Enea, Sardanapalo
un re della Grecia, Giuliano l'Apostata un cappellano del papa. Tutto in
quel mondo prende un colorito fantastico. Gli uomini dell'antichità come
i contemporanei, se appena si sollevino dal livello comune, hanno tosto
la loro leggenda, la loro storia poetica, che la tradizione abbellisce,
ingrandisce, trasforma, e dove s'abbracciano fraternamente gli
anacronismi più grossolani e le più strane invenzioni. Si confonde la
storia di San Gregorio Magno con gli incerti ricordi di Edipo; si crede
che il Barbarossa viva nascosto nel fondo di una foresta, e si aspetta
che torni per liberar Terrasanta; di Virgilio si fa un mago; si narra
che papa Gerberto ha stretto un patto col diavolo.

E pure da una tale prodigiosa credulità, da questo stato infantile
dell'umano intelletto, che caratterizza il Medioevo, derivarono appunto
i frutti della letteratura romanza. Come proprio dei fanciulli è l'amare
tutto ciò che sappia di meraviglioso; come in essi è prepotente il
desiderio dei racconti, tanto più graditi quanto più uscenti dai limiti
del verosimile, così un popolo fatto latino dalla conquista,
ringiovanito poi dal connubio colle fantasiose stirpi germaniche, e
dalla loro antichissima epica eccitato, innestava sull'epopea merovingia
l'epopea nuova, celebrando Clotario e Dagoberto, Carlo Martello e
Carlomagno. E così sulla terra di Francia risuonava il primo cauto
romanzo, che poi, traverso ai secoli, dispiegandosi, come albero
rigoglioso ed immenso, in mille e mille rami, toglieva argomento dalle
leggende intorno agli antenati di Carlo, intorno alla sua giovinezza,
alle sue guerre, ai prodi compagni delle sue imprese. Nè solo dalle
leggende Carolingie il trovèro francese attingeva materia pei suoi canti
infiniti. Tutto in quell'epoca di trasformazione, di inconsciente
poesia, di balda giovinezza de' cuori, prendeva un colorito uniforme;
tutto era guardato traverso un velo di fantastico tessuto: la guerra di
Troja, come le imprese di Alessandro Magno; le prodezze di Arturo, come
gli amori di Tristano, come i miracoli di Sant'Eulalia e di
Sant'Alessio. Si accoppiava quindi alla solennità religiosa feudale
della canzone di gesta, il cavalleresco romanzo d'avventura; si
intrecciava al canto epico il romanzo allegorico dell'amore
simboleggiato nella Rosa, mentre, quasi araldi dell'avvenire, ghignavano
beffardi il poema della Volpe e il procace Fabliau.

Tutta questa lussureggiante fioritura romanza sbocciava e si allargava
nella Francia settentrionale e centrale, dal settimo al tredicesimo
secolo.

E nella Francia meridionale intanto più presto che altrove si apriva uno
spiracolo di luce nel buio del Medioevo. Sotto quel limpido cielo, in
mezzo a quella inebbriante natura ed a quelle popolazioni facili ad ogni
impressione, avide di piaceri e di feste, agitate da un forte sentimento
della vita; in quelle città intelligenti e fiere, dove la libertà si
sviluppava così nobilmente, dove i pregiudizi occidentali erano
distrutti dalle intime relazioni coi Musulmani e cogli Ebrei, dove
regnavano sovrani lo spirito cavalleresco, l'amor della gloria, la
difesa del debole, il culto per la donna, la liberalità, la
magnificenza, nella Francia meridionale sorgeva un'altra letteratura,
che cantava l'amore, la gioia, la cortesia; che affratellava in una
specie di democrazia poetica il povero al ricco, il vassallo al signore;
che univa in nozze ideali il popolo all'aristocrazia. Il poeta
Provenzale, il trovatore, è sopratutto un artista, un artista lirico,
che spesso mette in musica le sue proprie poesie, e da sè stesso
cantandole, si accompagna col suono; che vive nei castelli dei principi
e dei nobili, ne rallegra i conviti e le feste, riceve doni di cavalli,
di bardamenti, di armi, di vesti; si aggira per le sale sontuose del
maniero feudale, sogguardato dalla bella castellana, che sa di essere
amata da lui, e se ne compiace nel suo segreto, ed aspira come un
profumo il suo canto. Fra codesti trovatori ci sono i più potenti baroni
della Provenza, ed insieme paggi, servi, soldati, giovani poveri e
avventurosi. C'è Guglielmo Conte di Poitiers gran corteggiatore di
donne, che oggi ama e domani abbandona; grande scettico che ride dei
vescovi, e corre in Terrasanta a capo di trecentomila crociati; prode
soldato che vive d'armi e d'amore, di canto e di cortesia. C'è Bernardo
di Ventadorn, il figliuolo dell'uomo che scaldava il forno nel castello
feudale, che ama prima la moglie del suo signore, e poi in Normandia la
celebre Eleonora di Poitiers, e alla corte di Tolosa una bella italiana,
Giovanna d'Este. C'è Goffredo Rudel che s'innamora, senza averla mai
vista, della contessa di Tripoli, traversa il mare per lei, giunge
malato e muore, muore felice perchè ha potuto per un istante contemplare
la bellissima donna e riceverne un dono. Ci sono cento e cento altri, di
questi cavalieri poeti, di questi guerrieri innamorati, di questi servi
ardimentosi, che dal secolo XI al XIII fanno eccheggiare delle loro
canzoni quella terra benedetta dalla natura.

Che cosa accadeva frattanto in Italia? Quando già le due letterature
della Francia erano giunte al loro più alto sviluppo, in Italia si
continuava a scriver latino. Sebbene anche qui si parlasse da tempo
immemorabile una lingua volgare, questa lingua che pur serviva alla
preghiera e all'amore, che era pure strumento ad esprimere i più cari ed
intimi sentimenti dell'anima, pareva sdegnosa di assorgere a più elevato
ufficio. La lingua della letteratura seguitava ad essere il latino, non
solo nel VII, nell'VIII, nel IX e nel X secolo, ma anche nell'XI e nel
XII.

Le ragioni di questo fatto sono complesse, ma si possono tutte
riassumere in una sola, nell'influenza esercitata sugli Italiani dal
grande nome di Roma. Per essi le memorie classiche fanno parte della
loro vita: ogni città pone la sua gloria nel ricongiungersi
all'antichità; Pisa, Genova, Verona si dicono fondate dai compagni di
Enea: Firenze si crede edificata da Cesare e chiamata la _piccola Roma_;
Padova si vanta di possedere le ceneri di Antenore; Venezia di essere
stata costruita e abbellita colle pietre, colle colonne, colle vasche
avanzate alla distruzione di Troja.

Roma, anche vinta, soggioga i suoi vincitori. Eruli, Ostrogoti,
Longobardi, si succedono, ma non penetrano la società, non la
trasformano: Teodorico invade Roma, ma la sua reggia resta più romana
che gota. Questa fu certo per noi una sventura politica. Mentre la
Gallia rinnovata dai suoi stessi invasori diventava la Francia, e la
Bretagna diventava l'Inghilterra, e l'Iberia la Spagna; noi soffrimmo
tutti i danni delle invasioni, senza che questi fossero compensati dalla
creazione di nessuna forza novella. Se Teodorico o Liutprando fossero
stati il Clovi dell'Italia, chi sa quale diversa condizione si sarebbe
preparata al nostro paese, chi sa quanti dolori, quanti martirii, quante
umiliazioni di meno registrerebbe la nostra storia. Ma così non accadde.
Noi fummo appena spruzzati del sangue barbarico, e rimanemmo Romani:
Romani nelle idee, nei sentimenti, nelle leggi ed anche nella lingua
come strumento letterario. Onde agli Italiani mancò quella infanzia
d'intelletto e di cuore che fu per altre genti latine fonte
d'ispirazione poetica. Là l'evoluzione letteraria si operò nel popolo e
per il popolo, e fu spontanea, viva, feconda. Noi avevamo tutto un
glorioso passato che ci gravava le spalle, che ci faceva esser maturi
quando gli altri eran fanciulli, che ci dava i pregi della virilità, ma
ci privava della vivacità infantile. Noi eravamo i continuatori di una
civiltà antica di secoli, non i cominciatori di una civiltà nuova. La
storia imperava tiranna su noi, e poco ci commovevano le prodezze dei
paladini o la rotta di Roncisvalle o le bianche mani d'Isotta. Noi non
avevamo, come gli altri popoli d'Europa, un eroe fantastico, nel quale
s'incarnasse idealmente la nazionalità italiana. I nostri eroi
seguitavano sempre ad essere i vecchi Scipioni. Noi eravamo pratici: le
nostre città marittime si arricchivano coi commerci, nelle nostre
Università si studiava il diritto romano, i nostri Comuni combattevano
per la loro libertà: pratici e sempre un po' increduli, sempre con un
po' di paganesimo nelle ossa. Il nostro scetticismo non ci concedeva di
creare leggende, e le leggende degli altri popoli accoglievamo
freddamente, non aggiungendovi nulla di nostro, anzi spogliandole spesso
del loro colorito poetico, riducendole in prosa, ed in prosa latina.
Perchè quello che accadeva per il contenuto, accadeva pure per la forma.
La lingua latina non era per gli Italiani quello che per gli altri
popoli, sui quali passò vincitrice l'aquila romana. Quei nostri padri
antichi amavano il latino come loro lingua nazionale: esso faceva parte
del loro sentimento di patria, era un ricordo della gloria passata, il
segnacolo della loro grandezza, il labaro delle memorie e delle
speranze. Gli Italiani del Medioevo scrivendo il latino, potevano
illudersi nella credenza di aver messi in fuga i Barbari; e abbandonare
quella lingua che aveva accompagnati nel loro giro trionfale i
conquistatori del mondo, che aveva risuonato solenne e terribile nel
Foro, che aveva servito alle immortali creazioni di Virgilio, doveva
parere come perdere un'altra volta la patria.

Questo tenersi stretti al latino era poi potentemente favorito in Italia
dalla Chiesa, che ne aveva fatto la sua lingua officiale, e non
permetteva intromissione di volgare nei suoi riti; era favorito dalle
magistrature e dagli scrittori. E così la chiesa, le leggi, la scienza,
le condizioni sociali e intellettuali, le memorie del passato e le
aspirazioni del presente, tutto cospirava a ritardare l'apparizione
della nuova letteratura.

Vero è che quella povera lingua dei poeti, degli storici, degli
ascetici, quella miserrima lingua della liturgia e delle leggi, era
piuttosto che un latino, un volgare latinizzato: vero è che già quasi
appartiene alla letteratura italiana il canto del nono secolo per
l'imprigionamento dell'imperatore Lodovico II, e quello dei soldati
modenesi del decimo; e che in latino volgare noi abbiamo una ricchissima
letteratura di poemi, di canti storici, di cronache, d'inni sacri. Ma,
insomma, il volgare schietto, la lingua parlata non osa ancor farsi
avanti, diventare lo strumento dell'arte nuova. Siamo già alla fine del
dodicesimo secolo, e nulla ancora apparisce.

Però, i semi si vanno gettando. Le due letterature della Francia saranno
quelle che determineranno il primo sviluppo della letteratura italiana.
Prima di arrischiarsi al loro volgare, gli Italiani scriveranno in
provenzale e in francese.

Numerosi legami unirono già anticamente la Gallia meridionale
all'Italia, e come l'Italia diede alla Provenza le sue istituzioni
politiche, così questa ci mandò un alito della sua poesia. Molti furono
i trovatori che nel secolo XII e nel successivo vennero in Italia,
aggirandosi per le corti feudali dei marchesi di Monferrato, dei
Malaspina, degli Estensi; visitando la Lombardia, la Marca Trevigiana,
Como, Verona, Firenze. Il Monferrato divenne una seconda Provenza. I
trovatori più famosi visitarono quella corte. Pier Vidal, dopo aver
percorsa la Catalogna, l'Aragona, la Castiglia, dopo avere sposata a
Cipro una greca ed avere sperato di assidersi sul trono imperiale di
Costantinopoli, arrivava nel Monferrato, ed ivi scriveva verso il 1195
una poesia, dove palpita un certo sentimento di nazionalità italiana.
Press'a poco nel tempo stesso si avviava verso l'Italia un altro celebre
trovatore, figliuolo di un povero cavaliere della Contea di Orange,
Rambaldo di Vaqueiras. Fermatosi a Genova, s'abbatteva in una donna, e
la richiedeva di amore, ma ne era respinto, e componeva intorno a ciò
una canzone bilingue, che può considerarsi come uno dei documenti più
antichi dove rimanga vestigio di un dialetto italiano: ve ne lesse due
strofe il professor Rajna parlandovi delle origini della lingua
italiana. — Rambaldo, proseguendo il suo viaggio, giungeva appresso alla
corte di Monferrato, dove lo attendeva la protezione del marchese
Bonifazio e l'amore della sua avvenente sorella Beatrice, ch'egli
cantava in molte poesie, sotto il nome di _Bel Cavaliere_, avendola una
volta furtivamente veduta esercitarsi colle armi del fratello.

Spuntò per le Provenza un giorno terribile. Serpeggiava là una di quelle
eresie medievali, che volevan ridurre gli uomini allo stato di angeli.
Se ne indignarono i difensori dell'ortodossia papale che aspiravano ad
essere i padroni delle coscienze; e contro i poveri Albigesi fu bandita
da Innocenzo III una crociata, alla quale accorsero migliaia di
avventurieri che avean tutto da guadagnare e niente da perdere. Costoro,
a cui il papa concedeva perdoni, indulgenze, e, più appetitoso premio,
l'affrancazione dai debiti, costoro che intravvedevano i ricchi castelli
da saccheggiare con tutto quello che tien dietro al saccheggio, si
rovesciarono sulla Provenza come torrente devastatore. In una sola città
si scannarono più di sessantamila persone, vecchi e giovani, uomini e
donne, persino bambini lattanti. Questi sgozzatori domandavano al Legato
del Papa come potessero distinguere i fedeli dagli eretici, e costui
rispondeva: ammazzateli tutti, che saprà dopo distinguerli Dio. Si
trucidava dappertutto, nelle case, per le vie, anche sui gradini degli
altari. Tutta la Provenza fu inondata di sangue, e su quella terra
insanguinata divamparono le tetre fiamme dei roghi che l'Inquisizione
accendeva.

I lieti cantori dell'amore, atterriti, fuggivano, e molti di essi
prendevano la strada d'Italia, dove si stabilivano come in patria
novella. Se prima essi accorrevano alle nostre terre in cerca di fortuna
e di amore, dopo la nefanda strage venivano frementi d'ira a cercar la
vendetta, e sperandolo vendicatore, si affollavano intorno a Federigo
II, tanto in Sicilia come negli altri luoghi dove egli teneva sua corte.

Ai Provenzali poi, che empivano dei loro canti d'amore o di sdegno
l'Italia, si accompagnavano non pochi italiani che scrivevano poesie
provenzali. Alberto Malaspina non solo accoglieva i poeti occitanici nei
suoi castelli di Lunigiana e del Tortonese, ma egli stesso tenzonava con
altri trovatori. Maestro Ferrari da Ferrara rallegrava dei suoi versi la
corte Estense e quella di Gherardo da Cimino. Lanfranco Cigala di Genova
in una fiera serventese rampognava il marchese Bonifazio di Monferrato
della sua instabilità politica; un altro genovese, il Calvo, gridava
contro le discordie della sua patria; un veneziano, Bartolomeo Zorzi,
difendeva contro Genova la sua Venezia; un piemontese, Nicoletto da
Torino, celebrava le imprese di Federigo II; un altro piemontese, Pier
della Carovana, esortava alla concordia le città strettesi nella seconda
lega Lombarda; un mantovano, Sordello, dopo avere rapita al marito
Cunizza, la sorella del terribile Ezzelino, dopo aver corse mille
avventure d'amore, assorgeva ai più alti argomenti politici, faceva
sentire la sua libera parola ai principi e ai popoli.

In tal guisa l'Italia tutta risuonava della poesia occitanica, la quale
imponeva la propria lingua ai poeti dei paesi dove essa si stabiliva; in
tal guisa trovatori della Provenza e trovatori italiani, si mescolavano
nelle nostre corti, cantavano le nostre donne, i fatti della nostra
storia, le imprese dei nostri principi. Ed al tempo stesso faceva
sentire la sua influenza tra noi anche la poesia della Francia
settentrionale; onde, come ci furono Italiani che scrissero in
provenzale, così ci furono pure altri Italiani che scrissero in una
lingua che è un francese italianizzato.

Il canto provenzale diede impulso alla nostra lirica; il canto francese
alla poesia narrativa e morale. La prima si sviluppò nell'Italia del
mezzogiorno e del centro; la seconda, nell'Italia settentrionale.

La più antica lirica italiana è quella, che, sorta circa nel secondo o
terzo decennio del secolo tredicesimo, si chiamò della scuola Siciliana,
perchè ebbe il suo focolare alla corte di Federigo II; e di essa fecero
parte non Siciliani soli, ma anche Pugliesi e Toscani: i più famosi, lo
stesso imperatore Federigo, Enzo suo figlio e Pier della Vigna suo
ministro.

Federigo II fu, giova qui ricordarsene, una delle più grandi figure
storiche del suo secolo. Egli promosse la scienza, protesse i dotti,
difese la libertà dei culti, emancipò i servi, fondò biblioteche ed
università. Questo imperatore che viveva di guerra, di amore e di
scienza, mezzo orientale e mezzo romano, chi crederebbe non dovesse
portare nella poesia tutto l'impeto delle sue passioni? Chi non
crederebbe che, pure ispirandosi ai canti dei trovatori, non dovesse
preferir quelli nei quali bolliva lo sdegno contro il suo terribile
nemico, il papato? E chi non crederebbe ancora che Pier della Vigna,
autore di versi latini ferventi d'ira contro i frati, non facesse
sentire nei suoi versi volgari qualche cosa delle passioni che gli
agitavano il petto? qualche cosa delle vicende a cui si trovò mescolato?

Eppure niente di questo. Federigo II come il suo ministro, come tutti
gli altri rimatori della sua scuola, non furono che languidi imitatori
della poesia amorosa dei Provenzali, e al pari di tutti gli imitatori,
riuscirono peggiori dei loro modelli. Misera cosa, invero, quella nostra
antichissima poesia, scarna, estenuata, gelida, anemica. Nessun impeto
di passione l'agita mai, niun accento individuale vi si può cogliere.
Tutte quelle migliaia e migliaia di rime somiglian tra loro, paiono una
processione interminabile di pallide ombre che ci sfili davanti nel
crepuscolo d'una giornata nebbiosa. La vita, la natura, l'amore, non
danno mai un sussulto di verità a quei verseggiatori noiosi e monotoni,
che spogliati di ogni personalità, scrivono tutti secondo un tipo
comune, girano e rigirano intorno all'eterno tema dell'amore con giuochi
di parole e di concetto, e con un frasario puramente di convenzione;
sbadigliano i loro sospiri a donne che non son donne ma larve; e paurosi
di ogni libero volo, si tengono strettamente afferrati ai loro modelli,
come vacillanti bambini alla gonna materna. L'arte della scuola Sicula
è, come ha detto un moderno, il balbettare infantile della decrepitezza;
e non poteva essere che così. Lo spirito cavalleresco onde era
sbocciata, come fiore a pomposi colori, la poesia provenzale, agonizzava
oramai in tutta l'Europa; la stessa arte trovadorica era giunta a un
periodo di estrema decadenza. La scuola Sicula al difetto
dell'imitazione aggiungeva dunque quello di essere un frutto fuor di
stagione, venuto troppo tardi e avvizzito prima di maturare.

Ma la spinta era data. Se Federigo e i poeti della sua corte amano di
trastullarsi fabbricando stentatamente le stanze delle loro canzoni
dietro le orme dei Provenzali, altri in quella stessa Sicilia risuonante
di quel vaniloquio poetico, porge l'orecchio alla natura immortale, e
compone versi d'amore vigorosamente sentito. La donna sbiadita,
incorporea, insignificante dei rimatori della scuola cortigiana, si
muterà così in una donna nelle cui vene corre vivido il sangue, sulle
cui guancie brillano accesi i colori della salute. La povera castellana
venuta di Provenza in Sicilia a morir d'etisia, cederà il posto alla
donna del popolo non aduggiata dalle ombre crepuscolari di nessuna
scuola, ma cresciuta sotto gli allegri e liberi raggi del sole, pioventi
su lei gioventù e robustezza: un po' troppo veramente plebea e
petulante, che non ha imparato certe raffinatezze e certe ipocrisie
dell'educazione; ma che si presenta sulla scena dell'arte italiana come
la prima che abbia fisonomia, atteggiamenti, parole, non presi in
prestito da nessuno.

Di un'arte popolare sviluppantesi nel mezzogiorno d'Italia insieme
all'arte cortigiana, ci restano varii documenti: il lamento di una donna
che vede partire l'amante per Terrasanta, il pianto di una fanciulla
abbandonata, e, più notabile degli altri, un contrasto tra un uomo e una
donna, dove scattano parole e concetti molto vivaci, dove parla una
passione irruente, senza sottintesi, senza mezzi termini, e che prova
non essere il _realismo_ un'invenzione del nostro secolo. Chi sia
l'autore di questa poesia non sappiamo. I critici che si sono occupati
di storia letteraria lo hanno chiamato ora Ciullo d'Alcamo ora Cielo dal
Camo, e ci hanno scritto intorno pagine e pagine senza fine. Non sono
molti anni che ci fu in Italia una vera alluvione di queste
Ciullomachie. Ma l'alluvione per fortuna è passata, e la poesia resta:
una poesia fresca di sentimento, rude nel suo contenuto e nella sua
forma dialettale, che non ha grande importanza per sè stessa, ma che ci
prova come accanto alla poesia artistica d'imitazione straniera,
un'altra ne sorgesse indigena e originale, la quale s'ispirava alla
realtà ed era eco del sentimento popolare.

Se nel centro d'Italia e nel mezzogiorno la nostra letteratura s'iniziò
con poesie amorose, diversi affatto furono gli atteggiamenti presi
dall'arte nascente nella parte settentrionale del nostro paese. Neppur
là, invero, dovevano mancare i canti d'amore, e qualche povero avanzo ne
è giunto fino a noi. Ma son poca cosa, e più triviale anche del
contrasto Alcamese, tanto triviale che non sarebbe lecito a me dirvene
neppur gli argomenti. Nel nord dell'Italia la più antica poesia preferì
il genere civile, morale, religioso, didattico: non fu lirica, ma
narrativa. Nella regione veneta si ebbe come uno strascico delle canzoni
di gesta francesi; e si imitò l'epopea della Volpe; Girardo Patecchio di
Cremona scrisse (non oso dire poetò) sulle noie della vita e sui
proverbi di Salomone; Ugoccione da Lodi diede ammaestramenti religiosi e
morali in un poemetto d'oltre, pur troppo! duemila versi; un altro
poemetto compose Pietro da Barsegapè sul vecchio e nuovo Testamento;
Giacomino da Verona descrisse l'Inferno e il Paradiso; Bonvesin da Riva
scrisse molte poesie di generi diversi.

Giacomino e Buonvicino furono i maggiori di questi poeti settentrionali,
che adoperarono una lingua avente a base i dialetti veneti, ma forbiti
con intenzione letteraria.

I due poemetti di Giacomino da Verona, frate dell'ordine di San
Francesco, furono certamente scritti per essere recitati al popolo, a
quel popolo stesso che tanto si piaceva delle storie romanzesche, e che
pendeva dalle labbra del giullare quando gli cantava le imprese di
Oliviero e di Rolando.

Il suo paradiso, o com'egli la chiama, la _Gerusalemme celeste_, ha
merli di cristallo, corridoi d'oro, porte di margherite, e alla sua
guardia sta un cherubino colla spada di fuoco. Per mezzo alla divina
città corre un bel fiume, le cui acque danno giovinezza eterna, sulle
cui rive verdeggiano alberi dalle foglie d'oro e d'argento, e crescono
fiori ch'empiono di dolce profumo tutto il paradiso.

Magra descrizione; ma come poteva essere altrimenti? Dove trovare i
mezzi per rappresentare ciò che trascende la natura e il pensiero? Lo
stesso più grande artista non ha a sua disposizione altri colori che
quelli della terra: e Giacomino, poveretto! era tutt'altro che un grande
artista.

Più viva è la pittura ch'egli fa dell'Inferno: una città di fuoco e di
zolfo bollente, con acque amare e velenose, con ortiche e spine, coperta
da un cielo di bronzo, nella quale se fosse gettata tutta l'acqua del
mare, incontanente arderebbe come cera colata. Il re della dolente città
si chiama Lucifero, e i demoni sono da Giacomino dipinti in quella forma
che se li figurava la fantasia del popolo, con le corna, con le mani
pelose, neri come il carbone. Egli li fa urlar come lupi, abbaiar come
cani, li arma di lance, di forche, di bastoni, di tizzoni accesi. Chi
attizza il fuoco, chi batte il ferro, chi strugge il bronzo, chi spezza
le ossa ai dannati; i quali poi colle mani e coi piedi legati sono
condotti innanzi al re della morte, e gittati quindi in un pozzo
profondo, ond'esce un fetore che ammorba tutto l'inferno. Ed accanto
alla tragedia anche un po' di commedia. Ad un dannato capita addosso uno
dei cuochi di Lucifero; ghermitolo, lo mette ad arrostire infilato in
uno spiedo, e lo condisce con acqua, sale, fiele, aceto e veleno,
servendolo poi come ghiotto boccone al signor dell'Inferno, il quale lo
trova mal cotto e lo rimanda al cuoco perchè lo arrostisca meglio in
quel fuoco che arde eternamente.

Tragedia e commedia insieme, dicevo, che nelle povere turbe intente ad
ascoltare quei canti, avranno un giorno suscitato brividi di terrore e
convulsioni di risa; e che a noi oggi fanno tristamente pensare quanto
in basso fosse caduto il pensiero, e quanto faticoso cammino abbia
dovuto fare la civiltà per giungere a redimere gli uomini da questa
morbosa condizione del loro spirito.

Il milanese Buonvicino, anch'egli frate, di quell'ordine degli Umiliati
la cui storia si collega così strettamente con l'Arte della Lana, una
delle glorie di Firenze, Buonvicino ci ha lasciato molte poesie, alcune
di argomento leggendario, altre di argomento morale, come i contrasti
tra la rosa e la viola, tra la mosca e la formica e tra i dodici mesi
dell'anno; ed una finalmente di genere civile, le cinquanta cortesie
della tavola. Fu già osservato non essere senza curiosità il vedere
questo frate, che fu maestro di grammatica, autore di una cronaca della
sua città e poeta religioso, farsi anche maestro di costumanze civili.

Volete voi sentire qualche precetto di quel galateo del secolo XIII,
qualcheduna di queste curiosità del banchetto, vecchie di quasi
settecent'anni? Se sei invitato a pranzo, dice Buonvicino, non correr
troppo presto a prendere il tuo posto a tavola; e poi sta pulitamente al
desco, cortese, adorno, allegro; non incrociare le gambe, non appoggiare
i gomiti, non mangiare troppo nè troppo poco, nè con fretta eccessiva;
non empirti soverchiamente la bocca. Se ti vien offerta la coppa per
bere, prendila con due mani per non versare il vino. Se mentre sei a
tavola sopravviene qualcheduno, guardati dall'alzarti. Cerca mangiando
di non far rumore coi denti. Se stranuti o se tossi, voltati dall'altra
parte. Non inzuppare il pane nel vino, non biasimar le vivande, non
guardare nel piatto degli altri, non ti stuzzicar i denti colle dita,
non toccare col pollice la sommità del bicchiere, e giù giù altri
precetti, altri consigli, altre regole per non esser, come egli dice,
villano.

E così questa letteratura dell'alta Italia, dopo aver intrattenute sulle
piazze le plebi avide di racconti, entrava col frate milanese anche
nella casa del cittadino, per insegnare a lui, alle sue donne, ai suoi
figliuoli le pulitezze del viver civile, annunziandoci l'avanzarsi di
quella società borghese, che già strappava al Medioevo gli ultimi
brandelli della sua mistica corona.

Abbiamo veduto quel che accadeva nel mezzogiorno e nel settentrione.
Avviciniamoci al centro.

Gli inni sacri latini furono moltissimi nel Medioevo, ed alcuni
improntati di molta forza. Chi non ricorda il _Dies irae_ coi suoi cupi
suoni, colle sue lugubri immagini, col suo metro stesso che sembra
martellare nell'anima il terribile ricordo della fine del mondo? Chi non
ricorda lo _Stabat mater_, quella pietosa poesia dell'amore materno,
dove il dolore è così vero, così grande ed espresso con tanta
semplicità?

Sotto l'influenza del movimento religioso che si operò in Italia nel
secolo XIII, l'inno latino passò alla forma volgare, e si ebbe così un
nuovo genere di poesia che si svolse principalmente nell'Umbria, la
patria di San Francesco e del Beato Jacopone da Todi, San Francesco,
l'innamorato di Dio e della natura, che chiamava fratelli il sole, i
lupi, gli uccelli, che amava la musica; il santo dalle idee
cavalleresche, che volle avere una dama a cui servire e si scelse la
povertà; il trovatore di Cristo, che chiamava i pii compagni dell'opera
sua _giullari_ del Signore e _paladini della Tavola rotonda_, dicono che
rapito in estasi dettasse ad un suo compagno quello che fu detto il
Cantico del Sole.

E vero giullare di Dio fu un seguace del poverello d'Assisi, Ser Jacopo
Benedetti da Todi, il quale narrasi avesse per moglie una bella, giovane
e ricca gentildonna, che recatasi un giorno ad una festa nuziale, fu
travolta cogli altri nella rovina della sala ove danzavasi; onde
trasportata a casa moribonda non potè nascondere al marito un pungente
cilizio, che, nascosto sotto le splendide vesti, le lacerava le carni.
Quella vista fu per Ser Jacopo come un ammonimento di Dio: da quel
giorno, donate ai poveri tutte le sue ricchezze, e copertosi di stracci,
si diede alla vita della penitenza, e tant'oltre si spinse da
compiacersi d'esser mostrato a dito, d'esser deriso, d'esser seguito da
una folla che gli urlava dietro a dileggio: Jacopone, Jacopone! Diventò
sua passione l'esser pazzo per amore di Dio, e fece pazzie incredibili,
come quella di mostrarsi in pubblico con un basto d'asino sulle spalle e
il morso in bocca, camminando carponi come le bestie, o di cospargersi
il corpo di trementina e avvoltolarsi nelle piume, che rimanendogli
appiccicate davano a quel disgraziato un aspetto del quale non saprebbe
immaginarsi il più ridicolo. Per questa passione dell'amore divino il
povero frate andò delirando anni ed anni, condannandosi ai più duri
patimenti. Per l'amore divino egli odiava sè stesso, godeva di essere
vilipeso, chiedeva a Dio tutti i mali, tutti i dolori, tutti i tormenti:
la febbre, l'idropisia, la podagra, la lebbra, il mal caduco, chiedeva
d'esser fatto cieco, sordo, e muto, e che il suo corpo fosse ridotto
fetente e che la sua sepoltura fosse nel ventre di un lupo! Rinnegava il
padre, i parenti, gli amici, aspirava a spogliarsi della sua umanità,
raccomandava la sua fama all'asino che raglia. Noi possiamo figurarci
quale poesia uscisse da quell'anima così profondamente esaltata: una
poesia che scoppia in parole, in accenti, in gemiti, in singhiozzi, che
è un'ebbrezza continua, quasi un furore erotico. Jacopone, poeta
popolare, porta nell'arte sua la sensualità del popolo, e veste
d'immagini sensibili, di colori infuocati il mistico amore dell'anima
sua. Egli si esalta fino a chiamare i suoi rapimenti _danza dello
spirito_, e grida questi, non dirò versi ma singulti di sfrenata
passione:

    Ciascuno amante che ama il Signore
    Venga alla danza cantando d'amore,
    Di amore ardente il cor tutto infocato
    Sia trasformato in grande fervore.
    Infervorato dell'ardente foco,
    Come impazzito che non trova loco,
    Cristo abbracciando, non l'abbracci poco,
    Ma in questo gioco se li strugga il core.
    Lo cor si strugga com'al foco il ghiaccio,
    Quando col mio Signor dentro m'abbraccio,
    Gridando amor, d'amor sì mi disfaccio,
    Con l'amor giaccio com'ebrio d'amore.

Pare davvero di essere, non sul limitare del manicomio, ma dentro
addirittura.

Pazzo o no, ad ogni modo, certo è che il frate di Todi ha impeti lirici
forti e sinceri; è certo ancora che il suo misticismo lo trascina a
guardare anche alle cose del mondo, a farsi severo giudice dei religiosi
e dei prelati del tempo suo, a chiamare al suo tribunale lo stesso papa
Bonifazio VIII. Il quale gettò in una tetra prigione lo sventurato, lo
fece incatenare, gli fece soffrire la fame; ed anche nel carcere, tra i
ferri, affamato il delirante asceta seguitò a cantare, e chiamò quei
tormenti la sua più grande consolazione.

L'arte di Jacopone è sicuramente ruvida e sbrigliata; ma come poeta
popolare (dice nel suo eccellente studio sul Todino il mio dotto e caro
amico Alessandro d'Ancona) “egli ha duplice importanza, perchè ci mostra
quali sentimenti fervevano ai suoi tempi nel seno delle plebi e qual
forma potevano assumere nel canto. Sia ch'ei tratti i misteri della
religione in forma lirica o drammatica, sia che esalti la povertà
francescana o vituperi i nemici di quella, egli ha una forza ingenita
che mal gli si potrebbe negare. Come quel gigante della favola che
acquistava vigore toccando la terra, Jacopone è poeta non per arte ma
per natura, ogni qualvolta attinga alle vivide fonti del sentir
popolare, e ripeta le voci che scorrono pei campi e mormorano nelle
selve dell'Umbria„.

Abbiamo lasciato la lirica d'arte agonizzante di clorosi in Sicilia; la
ritroviamo galvanizzata da Guittone d'Arezzo, che con faticoso sforzo
tenta di rinnovarla latineggiandola; la ritroviamo che filosofeggia a
Bologna, la città della dottrina, pensosa ed astrusa sulle labbra di
Guido Guinizelli.

Ma la Toscana ormai attira la nostra attenzione. Ecco tuttavia della
letteratura francese, apparisce quivi una schiera di poeti che insegnano
moralizzando, e vestendo d'allegorie i propri insegnamenti. Un Ser
Durante riduce in sonetti il Romanzo della Rosa, e scrive il suo
Tesoretto Brunetto Latini; altri da vecchi libri francesi mette insieme
l'_Intelligenza_, e Francesco da Barberino compone i due trattati dei
_Documenti d'amore_, e _del Reggimento e dei costumi di donna_.

Messer Francesco di Barberino di Valdelsa, un dotto giureconsulto, un
uomo d'alto affare, visse lungamente in Provenza, e là probabilmente
concepì queste due opere, che sono una specie di enciclopedia morale, e
che ci serbano curiose memorie dei costumi del tempo. Delle infinite
cose ch'egli insegna, lasciate ch'io ve ne dica alcune, o signore, di
quelle che riguardano la donna. È un altro Galateo anche questo, come
quello di Fra Buonvicino.

Il Barberino incomincia da dettare i suoi precetti per la fanciulla, e
vuole, con ragione, ch'ella stia sempre colla madre, che non vada mai
sola tra uomini, che tenga gli occhi bassi, che sappia tacere a tempo, e
quando parla, parli temperatamente e a voce bassa, che sia ordinata nel
mangiare e bene acconcia nel vestire. Vuole pure che, se ella sia
richiesta di canto, prima di acconsentire si faccia un poco pregare; che
rida senza far rumore, e che anche il pianto sia senza voce. Tutto
questo però è d'obbligo per la donzella figliuola d'imperatore o di re.
S'ella invece avrà la fortuna di essere figlia d'un semplice cavaliere o
d'un giudice o d'un notaio, allora le sarà lecito ridere e cantare e
andare attorno, e menare allegrezza in balli e canti; allora dovrà
imparare a cucire, a filare ed anche a fare un po' da cucina.

Una terribile questione si presenta al pensiero di messer Francesco.
Sarà bene che la fanciulla impari a leggere e a scrivere? Egli
candidamente confessa che non sa risolversi: ma dopo aver ragionato un
pezzetto su questo arduo argomento, conclude che nel dubbio è meglio
scegliere la via più sicura; e questa via più sicura è ch'ella impari
altre cose, e lasci andare il leggere e lo scrivere come inutile e
pericoloso.

Alla promessa sposa ordina il Barberino di star sempre nascosta, e che
le sembri noia il solo esser veduta, e che mostri paura d'ogni vista
umana. Se le accade di uscire alcuna volta colla madre, non deve
salutare alcuno, ma camminare tutta raccolta, cortese, soave,

    Facendo piccol passi e radi e pari.

Che se poi alla fanciulla cominci a passare il tempo da marito, allora
occorre raddoppiar le cautele: non affacciarsi mai alla finestra, non
legger libri di novelle nè di canzoni, sceglier cibi adattati, e
finalmente raccomandarsi alla misericordia di Dio.

Rivolgendo i suoi insegnamenti alla donna maritata, il nostro autore
prende le mosse dalla cerimonia del matrimonio e vuole che la fanciulla
si faccia due o tre volte ripetere la domanda del consentimento prima di
rispondere, come vuole che mangi prima in camera sua, per mostrar poi di
non aver appetito al banchetto nuziale.

Potrei seguitare ancora per molto a riferirvi i precetti del Barberino,
ma la via lunga mi sospinge, ed i libri suoi, del resto, come quelli
degli altri rimatori di questo ciclo allegorico-morale, nella storia
dell'arte non segnano certo un progresso. Sono un ultimo strascico
dell'imitazione straniera, un limaccioso rivoletto che va a perdersi nel
fiume reale della nostra letteratura.

La quale s'avvia oramai per nuovi e fioriti sentieri, annunziatori della
vicina grandezza. Eccovi un gruppo di toscani, poeti giocosi e satirici:
i lontani antenati del Pistoja, del Berni, del Lasca. È l'arte borghese
che s'ingentilisce e si afferma. L'amore cavalleresco coi suoi inutili
sospiri, con le sue donne valenti e fini, tutte uguali tra loro, tutte
insignificanti, vuote, irrigidite, cede il passo ad altri ideali. Lo
scherzo comincia a diventare un elemento della vita, e la risata del
buonumore prorompe dalle labbra del cittadino del libero e fiorente
Comune, dove si vive d'allegria e di fiorini, dove si ingrassa
genialmente da epicurei e si muore stoicamente da eroi, dove si hanno i
presentimenti del mondo moderno e le virtù dell'antico. Curiosi tempi
delle zuffe sanguinose e feroci combattute per le vie della città, e dei
balli giulivi sulla piazze; dei lieti ritrovi, delle feste del maggio,
delle sollazzevoli brigate, ed insieme degli improvvisi corrucci, e
delle truci vendette.

A Siena, narrano gli storici, dodici giovani nobili e ricchi, avendo
sentito da un predicatore annunziar vicina la fine del mondo, decisero
prima che il mondo finisse di godersi quanto più potessero,
scioperatamente, la vita; si ritrassero in un palazzo con gran
moltitudine di servi e di cavalli, recando ognuno diciottomila fiorini,
e là in sontuosi pranzi e allegre cene, gittando dopo il banchetto dalla
finestra i ricchi vasi, i coltelli d'oro e d'argento, regalando
splendidamente ogni ospite che si presentasse al loro palazzo, cuocendo
le vivande colle punte de' garofani, consumarono in meno d'un anno
duecentomila fiorini d'oro.

Questa brigata

        . . . . . . . . . . in che disperse
    Caccia d'Ascian la vigna e la gran fronda.
    E l'Abbagliato il suo seno proferse,

ebbe il suo poeta, Folgore da San Gimignano, il quale insegnò a quegli
scapestrati ciò che dovessero fare nei varii mesi dell'anno: di gennaio,
per esempio,

    Uscir di fori alcuna volta il giorno,
    Gittando della neve bella e bianca
    A le donzelle che staran d'attorno;

di maggio

    . . . . . rompere e fiaccar bigordi e lance.
    E piover da finestre e da balconi
    In giù ghirlande e in su melarance;

di luglio, mangiare

    Di quella gelatina smisurata,
    E starne arrosto e giovani fagiani,
    Lessi, capponi, capretti sovrani,
    E, cui piacesse, la manza e l'agliata.

Anche Firenze ebbe le sue allegre brigate, sebbene non così pazze come
quelle di Siena. Udite ciò che narra il vecchio Villani: “Negli anni di
Cristo 1283 si fece nella contrada di Santa Felicita oltr'Arno, onde
furono a capo i Rossi con loro vicinanza, una nobile e ricca compagnia,
vestiti tutti di robe bianche con uno Signore detto dello Amore. Per la
qual brigata non s'intendea se non in giuochi ed in sollazzi e balli di
donne, di cavalieri, popolani ed altra gente assai onorevole, andando
per la città con trombe e molti stromenti, stando in gioia ed allegrezza
a gran conviti di cene e desinari. La quale corte durò presso a tre
mesi, e fu la più nobile e nominata che mai si facesse in Firenze e in
Toscana.„

Or quello stesso Folgore che aveva insegnato ai Senesi i sollazzi dei
dodici mesi dell'anno, a un'allegra brigata di Fiorentini insegnò quello
che dovessero fare per ogni giorno della settimana; e la gaia settimana
in questo modo si chiude:

      A la dimane, all'apparir del giorno
    Vegnente, che domenica si chiama,
    Qual più gli piace damigella o dama
    Abbiane molte che gli sien d'attorno;
      In un palazzo dipinto ed adorno
    Ragionare con quella che più ama.
    Qualunque cosa che desia e brama
    Vegna in presente senza far distorno.
      Danzar donzelli, armeggiar cavalieri,
    Cercar Fiorenza per ogni contrada,
    Per piazze, per giardini e per verzieri,
      E gente molta per ciascuna strada,
    E tutti quanti il veggian volentieri.
    Ed ogni dì, di bene in meglio vada.

Come queste poesie di Folgore ci ritraggono la vita spensierata dei
giovani della fine del tredicesimo secolo, così altre poesie, nello
scherzo mordaci, ci diranno di quel tempo gli sdegni. Sentite con quali
tocchi vivi è disegnata da Rustico di Filippo questa caricatura:

      Quando Dio messer Messerin fece,
    Ben si credette far gran meraviglia,
    Chè uccello e bestia ed uom ne soddisfece,
    Che a ciascheduna natura s'appiglia.
      Che nel gozzo, anitrocco il contraffece,
    E nelle reni giraffa somiglia,
    Ed uom sembra, secondo che si dece,
    Nella piacente sua cera vermiglia.
      Ancor rassembra corvo nel cantare,
    Ed è diritta bestia nel savere,
    E ad uom è somigliato al vestimento.
      Quand'egli il fece, poco avea che fare,
    Ma volle dimostrar lo suo potere,
    Sì strana cosa fare ebbe in talento.

E sentite che satira profonda sia nascosta in questi consigli che ad un
_Gingillino_ del suo tempo dà Pucciarello da Firenze:

      Per consiglio ti do di passa passa,
    Voltar mantello a quel vento che viene:
    Chi innalzar non si può, molto fa bene
    Se lo suo capo flettendo s'abbassa.
      E prendi a esempio arboscel che si lassa,
    Quando inondazion gli sopravviene,
    Ello s'inchina, e così si mantiene
    Finchè la piena, dura ed aspra, passa.
      Però quando ti vedi stare abbasso,
    Sta cieco, sordo e muto, e sì non meno
    Ciò ch'odi e vedi, taci e nota appieno,
      Finchè Fortuna ti leva da basso:
    Poi taglia, stronca, mozza, rompi e batti,
    E fa che mai non torni a simil'atti.

Ma di questo genere giocoso-satirico della nostra antichissima
letteratura è principe un Senese, che veramente sugli altri com'aquila
vola. Cecco Angiolieri, che qualcheduno ha chiamato un capo ameno, e che
io direi piuttosto un grande infelice, ebbe un padre duro ed avaro, una
madre cattiva, una moglie brutta e vecchia, che consumava il suo tempo a
impiastricciarsi il viso col belletto ed a lisciarsi i capelli. Ed egli
che era nato poeta, spensierato, prodigo, allegro, egli, in quella casa
della tristezza e dell'avarizia, diventò un perverso figliuolo ed un
pessimo marito, non amò, com'ei stesso dice, che le donne, la taverna e
il giuoco; concepì odio per il padre e la madre, e dei suoi odii e dei
suoi amori cantò in modo che le sue parole sono qualche volta una
sacrilega bestemmia, qualche altra un pianto dirotto. Io ebbi, egli
dice, il dolore per padre, per madre la miseria, la malinconia per
balia; le mie fasce furono i malanni; tutto m'è andato sempre al
rovescio:

    Ma sì mi posso un cotal vanto dare,
    Che s'io toccassi l'or, piombo il farei;
    E se andassi al mar, non crederei
    Gocciola d'acqua potervi trovare:

unico mio rifugio sarebbe la morte:

    Io ho sì tristo il cor di cose cento,
    Che cento volte il dì penso morire,

Nell'Angiolieri c'è una mescolanza continua di dolore e di scherzo, di
lacrime e di spensieratezza, di tragico e di comico. Accanto a un
sonetto che è un capolavoro di poesia burlesca, schizza fuori una
quartina, una terzina, un verso che pare un muggito di bestia feroce.
Così, per esempio, egli mette in canzonatura un tale tornato di Francia
ricco e burbanzoso, e poi caduto in basso:

      Quando Ner Piccolin tornò di Francia
    Era sì caldo di molti fiorini,
    Che gli uomin gli parevan topolini,
    E di ciascun si facea beffe e ciancia;
      Ed usava di dir: mala miscianza
    Possa venire a tutti i miei vicini,
    Quando sono appo me sì picciolini
    Che mi fôra disnor la loro usanza.
      Or è per lo suo senno a tal condotto,
    Che non ha niun sì picciolo vicino
    Che non si disdegnasse farli motto:
      Ond'io metterei 'l cuor per un fiorino,
    Ch'anzi che sian passati mesi otto,
    S'egli avrà pur del pan, dirà: buonino!

Ed ecco quello stesso poeta che si è burlato così piacevolmente di Neri
Piccino, scrivere del proprio padre queste orribili parole:

      E poi m'è detto ch'io nol debbo odiare;
    Ma chi sapesse bene ogni sua traccia,
    Direbbe: il cor gli dovresti mangiare.

Perdonatemi, o signore, se vi ho letto questi versi che nelle vostre
anime gentili debbono destare ribrezzo ed orrore. Ma io doveva pure
delinearvi la scapigliata e truce figura dell'Angiolieri, che è senza
dubbio uno dei poeti più caratteristici e più originali che abbia la
nostra letteratura del secolo XIII. E molte cose ho taciute, moltissime,
che pure avrebbero meglio lumeggiato quello strano uomo e quel poeta, il
quale alla distanza di tanti secoli fa pensare ad Enrico Heine. Molte
cose ho lasciate nel silenzio, ma non posso lasciare anche quello che è
il capolavoro del povero Cecco; un sonetto nel quale egli dice ciò che
vorrebbe essere e ciò che vorrebbe potere:

      S'io fossi fuoco, io arderei lo mondo;
    S'io fossi vento, io lo tempesterei;
    S'io fossi mare, io lo allagherei;
    S'io fossi Dio, lo manderei in profondo.
      S'io fossi papa, allor sarei giocondo,
    Che tutti li Cristian tribolerei;
    S'io fossi imperator, sai che farei?
    A tutti mozzerei lo capo a tondo.
      S'io fossi morte, io anderei da mio padre;
    S'io fossi vita, fuggirei da lui;
    E similmente farei a mia madre.
      S'io fossi Cecco, com'io sono e fui,
    Torrei per me le giovani leggiadre,
    Le brutte vecchie lascerei altrui.

Quali suoni si alternano in questi versi! Par di sentire uno scroscio di
fulmine, un urlo di turbine, a cui succeda lo sghignazzar d'un dannato.
I due motivi mescolandosi fanno come un'armonia diabolica, in mezzo alla
quale suonano stridule risa e colpi di singhiozzo. Ma il fatto è che lo
sventurato poeta piange qui lacrime cocenti; e che questo sonetto è una
delle più forti espressioni artistiche dell'odio che abbia la
letteratura italiana.

E se voi riflettete, o signori, che questa letteratura, quando
l'Angiolieri scriveva, non aveva, tutt'al più, che un'ottant'anni di
vita; se riflettete al cammino da lei percorso in così breve spazio di
tempo, vedrete come questo fatto prodigioso non possa trovare
spiegazione che nelle speciali condizioni del pensiero italiano; in
quelle condizioni che poterono ad una letteratura appena nascente dare
il suo scrittore più eccelso.

Ho nominato Dante Alighieri: Dante che si trova per un momento mescolato
a quei poeti giocosi e satirici, Dante che fu in corrispondenza poetica
coll'Angiolieri, Dante che scambiò con Forese Donati, il fratello di
Corso e di Piccarda, alcuni mordaci sonetti, rivendicati al gran padre
Alighieri da Isidoro del Lungo, il sapiente difensore della Cronaca
Diniana contro le jattanze indigene e straniere.

Correvano gli ultimi anni del secolo XIII. Firenze era, come altri
disse, la prima potenza denaresca d'Europa. I commerci, le industrie, le
feste, le arti, le rivoluzioni, le guerre, tutto contribuiva a fare di
questa nobil figliuola di Roma il centro del movimento economico,
politico ed artistico d'Italia. Qui fini ed arguti gli ingegni, forti i
cuori, operose le braccia; qui persistenti le tradizioni romane; qui una
forte costituzione democratica; qui il senno pratico e la leggiadria dei
costumi; qui una lingua ricca di suoni e di forme. In mezzo a codesta
società cresce Dante Alighieri; cresce disdegnoso ed altero, coll'anima
bollente di passioni, estatico un giorno davanti a un angelo dipinto da
Giotto, curvo domani sulle pergamene di un codice di Boezio o di Arnaldo
Daniello; intento oggi a guardare con occhi cupidi una bella donna che
passa, raggiante un'altra volta di gioia al cospetto di un'immagine
celeste che gli balena nella fantasia; sorridente ai versi che gli
dirige il suo Guido Cavalcanti o il suo Cino, livido di disprezzo quando
legge le insolenze di Cecco Angiolieri, al quale par che risponda egli,
il superbo giovine, quel verso scritto al senese da un altro fiorentino:

    Tu mi pari più matto che gagliardo.

Nella giovinezza di Dante ci fu certo un periodo di gravi disordini, e
ne resta documento nella sua corrispondenza poetica con Forese, nelle
febbrili canzoni a una donna ch'egli chiama Pietra, nella confessione
fattane da lui stesso nella Divina Commedia. Ed anche quando tenzoneggia
d'ingiurie col Donati, od espande i suoi bollori erotici per la crudele
che gli squarta il cuore, la zampa del leone si sente.

Ma non sono queste le poesie che fanno a Dante aprire il secondo e
glorioso periodo della nostra letteratura. Se la tirannia dell'argomento
non me lo vietasse, io vi parlerei di quella scuola lirica da lui stesso
chiamata del _dolce stil nuovo_ da lui stesso definita in questi versi
famosi:

    . . . . . . io mi son un che quando
    Amore spira, noto, ed a quel modo
    Che detta dentro, vo significando.

Una lirica nei suoni dolcissima, nella forma aerea, diafana,
impalpabile, che pare una musica celeste, un cantico di Serafini, un
sospiro dell'anima; una lirica che sale su, in alto, come una preghiera
devota, che è un'estasi dello spirito innamorato della più pura e più
celeste idealità femminile.

Anche Dante ebbe prima le sue titubanze. Alcune delle sue liriche
risentono tuttavia qualche cosa della maniera dei Provenzali e di quella
del Guinizelli, ch'egli salutò padre suo nell'arte. Ma poi spiccato il
volo divino nel campo infinito dell'ideale, parve transumanarsi, e dalle
sue labbra sgorgarono le note più soavi che abbia la lirica umana di
tutti i tempi e di tutti i paesi. La donna si mutò in angiolo, e con
angelica lingua fu salutata dal suo poeta:

      Tanto gentile e tanto onesta pare
    La donna mia, quand'ella altrui saluta,
    Ch'ogni lingua divien tremando muta,
    E gli occhi non ardiscon di guardare.
      Ella sen va, sentendosi laudare,
    Benignamente d'umiltà vestuta,
    E par che sia una cosa venuta
    Di cielo in terra a miracol mostrare.
      Mostrasi sì piacente a chi la mira
    Che dà per gli occhi una dolcezza al core,
    Che intender non la può chi non la prova.
      E par che dalle sue labbra si muova,
    Uno spirto soave e pien d'amore
    Che va dicendo all'anima: sospira.

    . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

      Ogni dolcezza, ogni pensiero umile
    Nasce nel core a chi parlar la sente,
    Ond'è beato chi prima la vide.
      Quel ch'ella par quando un poco sorride,
    Non si può dicer nè tenere a mente,
    Si è nuovo miracolo gentile.

Miracolo nuovo sono in verità questi versi, nei quali è, come il
Carducci ha detto, dell'afflato divino.

E colla lirica Dantesca i nuovi destini della letteratura italiana furon
segnati.

Povere le nostre origini, poverissime, se paragonate colla ricchezza
d'altri popoli, all'Italia toccò la gloria d'infondere nei varii generi
letterari il sacro aroma che dona l'immortalità, il soffio avvivatore
dell'arte. Le scarne e torbide visioni oltremondane divennero sotto la
mano di Dante il più grande poema delle letterature moderne; la greggia
novella si avvolse maestosa nel peplo Boccaccesco; la lirica ebbe nel
Petrarca il suo cesellatore stupendo; la monotona canzone di gesta si
tramutò nelle meraviglioso fantasie dei Pulci e dell'Ariosto. E Firenze,
la vostra bella Firenze, ha il vanto di essere stata alla letteratura
d'Italia madre e nutrice: essa che le diede la sua lingua, che nel
secolo quattordicesimo fu il focolare del pensiero e dell'arte, e che
poi, accordando gli esempi antichi al sentimento moderno, assimilando le
forme classiche all'arte volgare, si fece il tempio di Vesta delle
tradizioni paesane; essa, la gran signora dell'intelligenza, che prodigò
regalmente al mondo i tesori del Rinascimento. Si direbbe quasi che di
questi solenni destini fosse presago quel povero rimatore Siculo, che,
quando appena spuntavano i primi e pallidi albori della nostra
letteratura, mandava alla Toscana il suo saluto:

    Va, canzonetta mia,
    Salutami Toscana,
    Quella ched è sovrana,
    Ed in cui regna tutta cortesia.



LE UNIVERSITÀ E IL DIRITTO

DI

FRANCESCO SCHUPFER


_Signore e Signori!_

Vi ricorda di avere negli anni della vostra infanzia udito favoleggiare
di una principessa d'altri tempi, che la virtù malefica di un mago aveva
improvvisamente immersa in un profondo letargo? La bella dormente durò
così cento, ducento, trecento anni, senza che il tempo potesse nulla su
lei, finchè un prode e gentile cavaliero, rotto l'incanto, la ridonò
alle gioie della vita o dell'amore.

Così suona la leggenda, che mi è tornata al pensiero appunto oggi, che
il cortese invito di questa benemerita Società promotrice di pubbliche
letture, mi conduce a parlarvi _delle università e della scienza del
diritto_ negli albori della vita italiana.

Perchè anch'esse hanno la loro leggenda.

Erennio Modestino, prefetto dei vigili nel 244 dopo Cristo, avrebbe
chiusa la serie dei grandi giureconsulti romani. Lo studio e la scienza
del diritto, dopo essersi sollevati a straordinaria altezza, sarebbero
decaduti. Dirò meglio: quella gioconda primavera della giurisprudenza,
che aveva illustrato il regno dei Severi, si sarebbe come spenta
improvvisamente già sotto i Romani, per far luogo ad un periodo molto
lungo, che avrebbe vissuto di sole memorie.

Ora non vi dirò quali cause potrebbero aver determinato cotesto
fenomeno: certo esso ha del prodigioso, ed anche più prodigioso è il
modo con cui si sarebbe venuti alla riscossa. La scienza giuridica
sarebbe caduta in un letargo mortale appunto nel momento del suo
maggiore rigoglio, per risorgere novecent'anni dopo in tutta la sua
bellezza e freschezza in Bologna per opera d'Irnerio il fortunato
cavaliero.

È una leggenda simile all'altra; dissimile soltanto in ciò, che molti ci
hanno creduto, e forse ancora ci credono. Ma oggimai la fede è scossa.

In verità, anche nei secoli buî, che formano il medio evo, in cui la
forza cieca prevale, e in cui parrebbe che non ci fosse posto per la
scuola e per la scienza, l'una e l'altra continuano; e siccome eran due
civiltà che si disputavano il campo: la civiltà romana e la civiltà
langobarda, non farà meraviglia di trovare scuole di diritto romano e
scuole di diritto longobardo, scienza romana e scuola langobarda, l'una
e l'altra con la sua impronta e co' suoi caratteri speciali, e l'una e
l'altra dar la mano a Bologna, che forte delle vecchie tradizioni,
riuscirà nondimeno a metterci qualcosa di suo, molto del suo, ed
affermarsi in modo, da parer quasi che altre scuole ed altra scienza non
ci fossero state prima di essa. In sostanza Bologna non rappresenta per
noi una risurrezione; ma obbedisce alla grande legge dell'evoluzione,
che governa il mondo.

Pertanto è mio proposito di ricercare oggi quali fossero le scuole di
diritto che sopravvissero alla caduta dell'impero e studiarne l'attività
scientifica: insieme vedremo come sorgesse Bologna, e che cosa abbia
preso da esse, e che cosa, alla sua volta, abbia dato alla storia della
civiltà.

                                 *

Comincio dell'osservare, che, già sotto i Romani, certe nozioni di
diritto solevano impartirsi insieme con le materie del _trivium_, specie
con la rettorica, all'occasione del _genus judiciale_. Le scuole del
medio evo non fecero che continuare, anche per questo riguardo, le
tradizioni antiche; e così in quei primi secoli — nel VI come nell'XI —
il diritto forma oggetto di studio in tutte le scuole laiche superiori,
unitamente alla grammatica, alla dialettica, alla rettorica, che erano
appunto le arti liberali del trivio. Ne fanno fede Venanzio Fortunato
nel secolo VI, Alcuino e Teodulfo nei tempi di Carlomagno. Al secolo XI
si riferisce una notizia di Milone Crispino sul beato Lanfranco, da cui
si rivela che, fino dagli anni puerili, era stato istruito nelle scuole
delle arti liberali e delle leggi secolari, secondo l'uso della sua
patria. Medesimamente la _Pugna Oratorum_ di Anselmo Peripatetico, della
metà del secolo XI, mostra che Anselmo, oltre ad essere addestrato nella
rettorica e nella dialettica, era anche versato nel diritto, e che lo
studio delle leggi romane andava tuttavia congiunto con la rettorica.
Anselmo affida appunto alla rettorica la rappresentanza della
giurisprudenza; e lo stesso risulta da alcune poesie del tempo. Una
dice, parlando della rettorica:

    _Jus civile, forum, curules ipsa perornat;_

E un'altra:

    _Civiles causas judicat esse meas._

Specialmente meritano d'essere ricordati i versi che Wipo, un borgognone
della diocesi di Losanna, diresse nel 1041 ad Arrigo III. Il cappellano
imperiale contrappone il buon uso italico d'insegnare di buon'ora ai
giovani le arti liberali, compresa la giurisprudenza, alla crassa
ignoranza dei Tedeschi de' suoi tempi, che ci mettevano ben poca cura ad
istruirsi, tranne se volean darsi alla carriera ecclesiastica:

    _Hoc servant Itali post prima crepundia cuncti_
    _Et sudare scholis mandatur tota juventus,_
    _Solis Teutonicis vacuum nel turpe videtiur,_
    _Ut doceant aliquem, nisi clericus accipiatur._

Soltanto non convien credere che codeste scuole d'arti approfondissero
molto lo studio della giurisprudenza. Si tenevano più o meno sulle
generali; e così accade che perfino i migliori, come Anselmo
Peripatetico, non potessero gareggiare coi giuristi di professione.

D'altra parte c'erano anche scuole speciali di diritto romano.

Quella di Roma si è mantenuta anche nei secoli barbarici. Certo,
esisteva nel secolo VI; e lo deduciamo dall'editto di Atalarico sullo
stipendio dei professori, e da un brano della prammatica sanzione del
554, in cui Giustiniano ordina di pagare, come per l'addietro, le
_annonæ_ ai grammatici, agli oratori, e anche ai giureperiti. Lo stesso
Giustiniano indica chiaramente la scuola di Roma come una delle tre
scuole ufficiali dell'impero. Nè può dirsi ch'essa si perdesse così
subito.

È però giunto un momento, in cui il posto di Roma è stato preso da altre
scuole, che già prima eran venute in fama. Alludo specialmente a
Ravenna, dove già da lungo tempo esisteva uno studio di grammatica e
rettorica. E in breve i vanti di Ravenna doveano ecclissare quelli di
Roma, tanto più che le relazioni di Ravenna con l'Impero eran più
dirette. Odofredo racconta, che lo studio era stato altra volta a Roma,
ma che poi era passato insieme coi libri legati nella Pentapoli e a
Ravenna, che in Italia avea tenuto il secondo posto. E anche cerca di
precisare il tempo: _propter bella quæ fuerunt in Marchia_, a cagion
delle guerre che ci furon nella Marca; ma non è ben chiaro, nè si sa,
quali propriamente fossero. Il Fitting pensa alle guerre della seconda
metà del secolo XI, che si combatterono appunto fino alle porte di Roma,
e nella stessa Roma, contro Gregorio VII, dal 1081 al 1084. Certo una
frase del cardinale Atto (morto nel 1083) mostra che, ai tempi di
Gregorio VII, gli studi in Roma eran veramente decaduti; ma il cardinale
ne attribuisce la causa alle condizioni poco salubri della città, per lo
che si durava fatica a trovare professori che volessero dimorarvi.
Insieme si vede, che c'erano altri studi, i quali avevano offuscato
quello di Roma.

Comunque la scuola di Ravenna era molto frequentata e fiorente già verso
la metà del secolo XI; e lo deduciamo da una notizia che si trova in
Pier Damiani. Il quale riferisce una sua disputa, che nell'estate del
1045, avrebbe avuto appunto coi giuristi di quella città, e ne risulta
che il diritto romano era seriamente insegnato, e che gli insegnanti
erano giudici ed avvocati. La scuola tendeva a mitigare l'impedimento
della cognazione, stabilito dai canoni, ed è su questo tema che si
aggirò la discussione. Pier Damiani stava per la interpretazione
canonica. Insieme è osservabile che la opinione dei giuristi ravvennati,
nonostante la confutazione di Pier Damiani, si fece largo sempre più sì
da costringere il Papa a portarla davanti al Concilio lateranese del
1063, e combatterla poi in una sua costituzione diretta ai vescovi, agli
ecclesiastici e ai giudici d'Italia. Ciò mostra il grado ascendente
della scuola. Inoltre i capitoli pubblicati da Arrigo III a Rimini,
l'anno 1047, accennano ad alquanti _legisperiti_, nei quali era sorto il
dubbio, se i chierici dovessero prestar giuramento, o delegare questo
ufficio ad altri. Quei legati ricordavano una legge, che Teodosio
Augusto aveva indirizzato a Tauro prefetto del pretorio; e la
circostanza del luogo, non lontano da Ravenna, dove Arrigo pubblicò la
sua legge, può far credere che la disputa si agitasse colà. E anche un
altro documento attesta in favore di questa scuola. È un nuovo segno di
vita, che essa dà, ancora nel 1080, col libello, che Pietro Crasso,
ravennate, mandò ad Arrigo IV, perchè se ne servisse nel sinodo di
Bressanone. È una scrittura che mostra molta erudizione in chi l'ha
dettata, specie una profonda conoscenza del diritto romano.

Un'altra scuola appartiene pure a questi tempi: vo' dire la scuola
langobarda di Pavia, che non può essere trasandata nella storia del
pensiero giuridico italiano.

Essa nacque da piccoli germi. I fattori che concorsero a formarla sono:
la Curia palatina, che si stabilì a Pavia sullo scorcio del secolo X; e
la scuola di grammatica, della quale si hanno traccie fino dai tempi di
Re Cuniberto, ma che propriamente deve essersi rialzata sotto gli
Ottoni, quando, sedate le lunghe e antiche turbolenze, gli animi
riversarono negli studi la loro gagliardia. La scuola di diritto si
svolse appunto dal seno della Curia palatina; ma l'antica scuola di
grammatica vi ha apparecchiato il terreno. Se più vuolsi, furono i
giudici palatini, o alcuni di essi, che, senza lasciare la pratica,
cominciarono ad insegnare. Infatti Sigifredo, uno dei più antichi
glossatori della scuola, era _judex sacri Palatii_; e parimenti lo erano
Bonfiglio, Armanno, Walfredo; ma anche altri fungevano da giudici o
patrocinavano cause. Le _Expositio_ dà loro il nome di _judices_ e
_causidici_. D'altra parte, erano uomini venuti su nella vecchia scuola
di lettere; ed è questa loro educazione, che probabilmente li ha spinti
a consacrarsi allo studio ed all'insegnamento del diritto. Certo è: se
riescono a ripulirlo, e ad elevarlo a teoria, fu nel soccorso della
grammatica, della dialettica, della ragione umana imparate in quella
scuola; e senza essa neppur la scuola di diritto avrebbe potuto
attecchire. Così Walcauso è chiamato _rethor_ nella collezione che va
sotto il suo nome:

    _. . . . . rectis quod strinxit rethor habenis
    Walcausus meritus._

Il glossatore Sigifredo, che ricordammo dianzi, era versatissimo nella
rettorica, oltre che nel diritto. Lanfranco, lo abbiamo già detto, era
stato educato fino dalla puerizia _in scholis liberalium artium_.

Aggiungo una osservazione! Per comprendere come questa scuola sia sorta,
non dobbiamo dimenticare che correva una età, in cui tutto, o quasi
tutto si trovava abbandonato alla iniziativa individuale, specie in
Italia, il paese delle grandi iniziative. Eravamo ancora molto lungi dai
tempi odierni, in cui tutto si suole attendere dal governo, e di tutto
lo si rende responsabile! D'altra parte c'erano stati sempre maestri,
che aveano insegnato privatamente verso retribuzione. La qual cosa non
vuol dire, che tutti sieno riusciti a fondare stabilmente una scuola.
Per lo più la scuola nasceva e tramontava con l'uomo; ma a volte
riesciva a mettere radice. Qualche individuo esercitò un fascino troppo
potente, perchè altri non ne seguisse l'esempio nel medesimo luogo; e
allora non era difficile che la scuola acquistasse un carattere
durevole. Così accade a Pavia.

Quant'è alle origini, sono d'avviso che risalgano ai tempi di Ottone I.
Le glosse alle leggi langobarde fanno distinta memoria di una
giurisprudenza surta in una età, omai remota, durante cui la teoria del
diritto pratico avea ricevuto solida forma. L'età in discorso
corrisponde, senza fallo, a quella degli Ottoni; primamente, perchè i
suoi giureconsulti avean veduto le pratiche osservate nei giudizi di
Leone vescovo di Vercelli, che fu nel seguito di Ottone I e vescovo
palatino di Ottone III; e poi perchè non conoscono altre leggi
langobarde di età posteriore, nè son più citati nelle glosse di questo
leggi. I loro successori della seconda metà del secolo li qualificano
col nome di _antiqui judices_, _Antiqui causidici_, o anche _Antiqui_
semplicemente, e talvolta _Antiquissimi_, senza dire chi fossero. Lo
studio poi continuava ancora nel secolo XII; e nonostante la grande
fama, in cui era venuta Bologna, lo si frequentava volentieri, e ci si
veniva anche da lontane regioni. Un formulario di lettere, compilato a
Pavia tra il 1119 e il 1124, ne riferisce una di uno scolaro allo zio,
che comincia così: _Vestre paternitati, patruelium piissime, innotescat
me exulem Papie studio legum.... vel dialetice.... alacrem aderere._ Lo
scolaro, manco a dirlo, si rivolgeva al piissimo zio per quattrini.

Del resto non conosciamo che pochi giureconsulti di codesto studio
pavese. I principali sono: Walcauso, Bonfiglio, Guglielmo e Lanfranco;
ma se ne ricordano anche altri.

La scuola di Pavia esisteva già quando sorse Bologna; ma anche il nuovo
studio bolognese vien formandosi a poco a poco, appunto sulla base degli
elementi che erano concorsi a formare quello di Pavia. Certamente
Bologna aveva, anch'essa, la sua scuola di grammatica e di rettorica:
anzi è da credere che già sullo scorcio del secolo X e sul principio
dell'XI fosse salita in fama, perchè ci si veniva anche da altre parti
d'Italia. San Guido, che poi fu vescovo d'Acqui, vi si recò sul
principio del secolo XI, e così San Bruno, vescovo di Segni, nella
seconda metà. Ma la scuola continua anche dopo, frequentatissima.
Riferisco solo due testimonianze tra molte che potrei ricordare. Il
poeta, che cantò le gesta di Federico I, parlando di Bologna, dice
appunto, che era un centro di studî, dove gli scolari accorrevano a
frotte da tutte le parti del mondo, per impararvi le _variæ artes_. E
Acerbo Morena spiega la cosa: _pollebat equidem tunc_ _Bononia in
literalibus studiis pre cunctis Ytalie civitatibus_. Insieme c'erano a
Bologna molti giudici e causidici e dottori di leggi, prima ancora che
ci fosse la scuola di diritto. Un Leo _notarius et judex_ si ha già in
una carta del 982; e molti se ne incontrano nel secolo XI: un Alberto
_legis doctor_, un Iginolfo, anche _legis doctor_ ed _aulæ regiæ judex_,
Pepone _legis doctor_, un Pietro di Monte Armato _judex_, un Rusticus
_legis doctus_, per tacere di altri. Ciò che più importa è il vedere,
come questi dottori e giudici fossero venuti su nella scuola di
grammatica. Lo stesso Irnerio, il grande Irnerio, aveva prima insegnato
_in artibus_, e fu soltanto dopo che cominciò a studiare nei libri
legali e ad insegnare in questi. Anzi Odofredo, accennando a certa sua
tendenza sofistica, che mostra, qua e là, nello interpretare le leggi,
l'attribuisce all'essere egli stato _loicus et magister in artibus_. La
troppa energia dialettica fa a volte di questi scherzi. Un altro indizio
non disprezzabile degli studii e della coltura di questi giuristi, è il
vedere come amassero di quando in quando dar la stura alla loro vena
poetica (mi si passi la parola), e chiudessero i loro atti con qualche
verso. Un Angelo _causidicus_ compie nel 1116 un atto di donazione, e
finisce così:

    _Angelus his metris causidicus ista peregi_
    _Notarii signo subscribens more benigno._

E due anni dopo:

    _Angelus his metris causidicus ista peregi_
    _Notarii signo subscribens robore summo._

Ora, questi giudici e dottori bolognesi, che certamente nella scuola di
grammatica e rettorica aveano, insieme ad altre discipline, studiato
anche il diritto, han cominciato, alla lor volta, a tener scuola di
legge, precisamente come a Pavia. Nè la scuola è sfuggita a Odofredo, il
quale, parlando di Pepone, dico appunto: _cepit auctoritate sua legere
in legibus_. Nè importa se l'insegnamento sarà stato in sulle prime
saltuario. Oggi era Pepone, domani sarà stato Irnerio: leggevano come e
quando credevano; e gli scolari ne continuavano l'opera. Così veniva a
stabilirsi una tradizione scientifica, e la tradizione vuol già dir
scuola: solo più tardi vi si aggiungerà uno speciale ordinamento.

La scuola stessa non è nata con Irnerio. Certamente Pepone lo ha
preceduto nell'insegnamento delle leggi; e quantunque Odofredo sentenzii
che _nullius nominis fuit_, una qualche fama deve averla goduta, se nel
1076 lo troviamo in un placito della duchessa Beatrice, e appunto
cotesta carta rivela altre contemporanee. Ma ci sono anche altri indizî
di una scienza preirneriana: soltanto non si fanno nomi. Tutto induce a
credere che alcuni giureconsulti ci sien stati a Bologna prima ancora
d'Irnerio; ma nessuno li ricorda. È una scienza che non ha nome; ed è a
mala pena che quello di Pepone, più fortunato degli altri, abbia potuto
salvarsi. Subito dopo Pepone è nominato Irnerio, giudice anch'egli, che
oltre ad insegnare a Bologna, figura più volte nei placiti matildini e
imperiali e in altre carte, dal 1113 al 1125. Dopo non se n'ha più
traccia; ma intanto il suo nome aveva ecclissato tutti gli altri.
Odofredo, che pur avea detto di Pepone _nullius nominis fuit_,
soggiunge, parlando di Irnerio, che _fuit maximi nominis et fuit primus
illuminator scientie nostre_, sì da meritarsi il nome di _lucerna
juris_. Odofredo ne loda specialmente l'ingegno sottile e la forza
dialettica. Ciò che più importa, Irnerio ha lasciato dei discepoli, che
hanno anche insegnato, ed assicurato così le sorti della scuola per
tutti i tempi avvenire. Soltanto non si sa di sicuro chi sieno. Ottone
Morena fa menzione di quattro dottori famosi, che avrebbero insegnato a
Bologna circa la metà del secolo XII, e avuto comuni le ingerenze nei
più grandi affari del tempo: Bulgaro, Martino Gosia, Jacopo di Porta
Ravegnana ed Ugo. Secondo il Morena sarebbero stati gli immediati
scolari d'Irnerio: anzi egli stesso li avrebbe qualificati così in un
distico diventato famoso:

    _Bulgarus os aureum, Martinus copia legum,_
    _Mens legum est Ugo, Jacobus id quod ego._

Ma forse si tratta, più ch'altro, di una tradizione. Checchè ne sia di
ciò, è certo che la scuola si elevò per essi ad una straordinaria
altezza, e continuò poi per altre due generazioni. Mi restringo a
ricordare alcuni nomi: Rogerio, Piacentino, Giovanni Bassiano, Pillio,
Vacario della prima generazione; Azone e Ugolino della seconda. E se ne
potrebbero ricordare anche altri. In realtà è una lunga sequela di
illustri giureconsulti; e son notevoli i passi che si son fatti di
generazione in generazione: i glossatori venuti dopo non mancano di
trarre partito da quelli che li han preceduti; ma d'altronde le fonti
continuano ancora a studiarsi, e l'autorità dei nomi non è d'impaccio ad
alcun progresso. Ugolino però è l'ultimo dei glossatori, le cui glosse
abbiano una reale importanza. Dopo lui la scuola decade. Si cominciarono
a tenere nello stesso conto le fonti e le illustrazioni, e tutte, buone
e non buone, senza discernimento nè esame, e si finì con lo studiarle,
più che non si facesse delle fonti stesse, e farne uso, anche là dove
non si dovea. La stessa glossa di Accursio è opera di decadenza,
quantunque non ci sia stato forse altro glossatore, che sia salito in
maggior fama.

Tali erano le scuole sugli albori della vita italiana. Resta che ne
vediamo la produzione scientifica, che deve, per così dire, mostrarcele
in azione, rivelandone l'operosità durante i secoli, di cui discorriamo.

                                 *

Ci tengo a ripeterlo, che la scienza giuridica dei Romani non è decaduta
improvvisamente, come si crede dai più; e ad ogni modo non è vero che le
tenebre state di lunga durata. Un barlume di luce appare nel secolo IV e
nel V. Allora la letteratura latina si è migliorata sensibilmente per
sollevarsi fino alla filosofia elegante e solida di Boezio ed alla
erudizione illuminata di Cassiodoro: come avrebbe la giurisprudenza
potuto sfuggire all'impulso delle lettere, della filosofia e della
teologia? In realtà si è rialzata alquanto; e ne abbiamo la prova in
alcune opere di cotesti tempi, dovute probabilmente alla scuola di Roma.
Ricordo i Sommari del Codice Teodosiano, l'_Interpretatio_ del
Breviario, il _Liber Gaii_, la Glossa torinese: tutti lavori, che non
rivelano molta originalità e potenza di mente, ma che d'altronde son
chiari e precisi; e nei due ultimi si può anche scorgere un progresso.
Tuttavia sotto Giustiniano la scienza corse un serio pericolo; perchè
l'imperatore, a impedire che la sua opera legislativa potesse venire
offuscata e turbata dalla verbosità dei commenti, ordinò ripetutamente
che nessuno dovesse farsi a commentare il testo. Soltanto permise di
tradurre letteralmente la legge in greco per comodo dei suoi sudditi, e
indicarne sommariamente i titoli, e citare le opinioni dei giureconsulti
antichi, purchè si accordassero col nuovo diritto: ogni altra
riproduzione e illustrazione del testo doveva esser punita con la pena
dei falsarî. Ora, il divieto di Giustiniano paralizzava l'attività della
scuola proprio nel momento in cui, pei grandi mutamenti introdotti nella
legislazione, se ne dovea sentire più forte il bisogno; e la scienza
giuridica ne fu seriamente minacciata. Nondimeno la scuola, pur facendo
mostra di acconciarsi alla volontà imperiale, reagì come potè, ancora
durante il regno di Giustiniano, e continuò poi sempre. L'Epitome di
Giuliano, la _Summa perusina_, la Glossa pistoiese, le glosse che, nel
corso del secolo X, furono aggiunte a quella di Torino, appartengono a
questa prima fioritura giuridica medievale. E così si arriva al secolo
XI, quando la scienza giuridica è già in pieno rigoglio, tanto è vero
che alcune produzioni han potuto mantenersi ancora per lungo tempo
accanto agli scritti della scuola bolognese. Anzi, come istradamento
alla scienza del diritto, son di gran lunga superiori ad essi. Vogliamo
alludere specialmente al _Brachylogus_ ed alle _Exceptiones legum
Romanorum_, usciti, a quanto pare, l'uno e l'altro dalla scuola
ravennate. Anche il libello di Pietro Crasso è un modello del genere.
Così, già per opera delle scuole di Roma e di Ravenna, la storia della
scienza, da Costantino a Irnerio, si presenta in una nuova luce; e
nondimeno lo splendore di Bologna non ne rimane punto ecclissato. Non ci
sarà più nulla di meraviglioso; ma è certo che lo studio del diritto
romano è diventato a Bologna più speciale e quindi più intenso. Dopo
tutto ogni scuola ha la sua impronta, e anche quelle che stiamo
esaminando han la loro, ben diversa da quella che troveremo a Bologna.

In generale c'è questa tendenza tanto nella scuola di Roma, quanto in
quella di Ravenna, di mettere la vecchia legge imperiale alla portata
dei tempi nuovi e temperarne le durezze. Essa si rivela già nelle
lettere di Gregorio Magno; nè altrimenti il Brachilogo altera a bella
posta il diritto giustinianeo per adattarlo alle condizioni dei tempi, e
anche informarlo ad una maggiore equità. E non c'è dubbio che siasi
proposto una cosa e l'altra. Il giurista si atteggia qua e là veramente
a successore degli antichi _prudentes_, la cui autorità non era minore
di quella dei Cesari. Come il Principe vuole, e così anche il
giureconsulto dee volere; e in realtà egli assume l'aria di legislatore:
modifica il diritto, e non ne dà neppure la ragione, restringendosi a
dire: vogliamo la tal cosa, concediamo la tal altra. Lo che non
significa che egli proceda a casaccio. Si vede chiaro, che egli modifica
il diritto giustinianeo, o perchè non gli pare pienamente conforme a
giustizia, o perchè lo crede inopportuno, o anche perchè contraddice al
diritto del paese. E non ne fa mistero: _sin vero æquitas juri scripto
contraria videatur, secundum ipsam judicandum est_. Lo stesso modo
s'incontra nelle _Exceptiones legum Romanorum_. Anche qui il giurista si
è messo a foggiare il diritto più o meno liberamente con riguardo
all'equità ed alla opportunità, e lo dice egli stesso nel prologo: _Si
quid inutile ruptum æquitative contrarium in legibus reperitur nostris
pedibus subcalcamus, quicquid noviter inventum ac tenaciter servatum
tibi.... revelamus_. Anzi ritorna più volte sui principî della giustizia
e dell'equità che antepone alla legge. Egli osserva, che quando la
_justitia_ e la _consuetudo_, cioè la vera giustizia intrinseca e il
diritto positivo vigente, contrastavano tra loro, non ci potean essere
che gli idioti che si pronunciassero per la consuetudine: i
_legisperiti_ davano la preferenza alla giustizia, che concordava sempre
con la verità. Insieme proclama il diritto, che aveano i giudici, di
decampare dalle leggi per ragioni superiori, appunto come il Brachilogo;
ma lo attribuisce solo ai più autorevoli e timorati di Dio, che non
fossero facili a essere subornati per grazia o per denaro. Il giurista
dice che se ciò poteva farsi anche coi sacri canoni, che pur aveano
maggiore autorità, perchè non si avrebbe potuto con le leggi secolari?
Così accadde che più principî estranei al diritto romano penetrassero in
questo libro; e d'altra parte non vorrei nè pur dire che l'autore
s'inchini sempre agli usi vigenti: anzi talvolta vi si oppone per
tornare ai vecchi principî.

Una nuova tendenza della scuola appare dal libello di Pietro Crasso, ed
è di estendere i principî del diritto privato alle questioni di diritto
pubblico. Il libello stesso ne offre più applicazioni. Una riguarda i
rapporti di Arrigo IV col Papa. L'autore comincia dall'osservare che
Papa Gregorio teneva la sede pontificia _Julia et Plautia lege
contempta_; e nè tampoco poteva richiamarsi a quella costituzione del
Codice, che proibiva al figlio di famiglia di agire contro il padre,
perchè non poteva dirsi padre di Arrigo, essendosi comportato tutt'altro
che paternamente con lui, e anzi lo aveva emancipato, scomunicandolo,
tendendogli d'ogni maniera insidie, e perfino attentando a' suoi giorni.
Anzi perciò potrebbe dirsi incorso nella _Lex de parricidiis_. Lo stesso
Crasso si occupa poi dei rapporti di Arrigo coi Sassoni; e anche qui la
scrittura formicola di motivi privati. Per provare che avean fatto male
a deporlo, si richiama nientemeno che alle Istituzioni, che riconoscono
il diritto ereditario, e anche ad alcuni principî del Codice, che
pareggiano la consuetudine alla legge. Insieme avverte, che chi invade
violentemente una cosa, senza aspettare che il giudice decida, è
obbligato a restituirla, e anche a pagarne il valore, giusta la L. 7 C.
_unde vi_ 7. 4. E così dovea essere coi Sassoni, che avean deposto
Arrigo.

L'opera dei giureconsulti pavesi non è meno importante, sebbene sotto un
altro punto di vista. Cominciano dal raccogliere le leggi
cronologicamente e sistematicamente, e finiscono con lo illustrarle.
Dettano glosse e formule, e anche compilano alcuni lavori indipendenti,
e questioni e trattati, sul possesso, sul diritto successorio, sul
duello giudiziario, ecc., esponendo i principî del diritto langobardo
che vigeva nell'alta Italia, in modo sistematico, con la scorta di varie
leggi, qua e là paragonando il diritto romano e germanico tra loro.
Specialmente l'_Expositio_, una specie di glossa perpetua alla Lombarda
è opera di molto valore. L'autore non si contenta di interpretare le
singole leggi, ma ritesse, per così dire, la storia dommatica di esse:
espone le opinioni degli altri giureconsulti, le loro dispute, e il modo
con cui si studiavano di conciliare i passi discordi. Insieme rivela una
grande dimestichezza col diritto romano, che studia nelle fonti.

In generale solo il gius romano poteva sollevare in Italia la
letteratura giuridica; e infatti le glosse della scuola di Pavia
acquistano subito, mercè esso, una maggiore importanza. Se più vuolsi,
possiamo notare fin dalle prime uno spirito tutto italiano, che anima
quei giureconsulti pavesi, ereditato forse dalla vecchia scuola di
grammatica. Comunque, non c'è dubbio, che lo studio pavese, tutto
dedicato a illustrare le leggi langobarde, riconosce subito l'autorità
del gius romano, e il suo valore sussidiario come diritto comune. Anzi
la scuola di Pavia si è resa tanto più eccellente, quanto più si è
addentrata nello studio di quel diritto. Gli _antiqui judices_
conoscevano certamente le Istituzioni giustinianee, ma non pare che
conoscessero altro: certo non aveano ancora addestrato lo spirito in
modo da sollevarlo oltre la materialità della legge. Talvolta si trovano
come impacciati nel conciliare i vari passi: ad ogni modo la loro
interpretazione è sempre letterale e pedestre. Aggiungo, che se gli
_Antiqui_ si giovarono del diritto romano, lo fecero solo per supplire i
difetti del langobardo, nei casi, a cui questo non provvedeva: allora vi
ricorrevano come a legge generale; se no, no. Invece Guglielmo conosce
anche il Codice, e la sua interpretazione è già più larga. Egli non si
appaga più della lettera della legge, nè si crede in obbligo di star
ligio ad essa; ma ne abbraccia lo spirito, e, con la scorta del diritto
romano, cerca d'introdurvi qualche principio più sano di giustizia e di
equità. In questo senso combatte gli Antichi e Bonfiglio. Ma sopratutto
si rivela questo indirizzo nell'autore della _Expositio_. Egli
approfitta di tutte le fonti, allora conosciute: le Istituzioni, i primi
nove libri nel Codice, il Giuliano, e non trasanda neppur il Digesto. Nè
si contenta di colmare le lacune del diritto langobardo colle leggi
romane; ma come Guglielmo e Lanfranco, e anche più di essi, lo trae
addirittura ai principî romani, interpretandolo con la loro scorta,
abbandonando l'analogia desunta dal diritto patrio per surrogarvi quella
delle leggi romane, sostituendo perfino le disposizioni romane alle
langobarde.

Insieme interessa di vedere come questi lombardisti citassero le leggi.
Abbandonano le indicazioni generiche e i numeri per appigliarsi ai
titoli e alle parole iniziali, sia pei testi langobardi, sia pei romani;
e anche questa è una cosa che ha la sua importanza. È un metodo, che
rivela nuovamente la grande conoscenza, che aveano delle fonti, e che
dovea far fortuna.

Lo studio di Bologna, lo abbiamo già avvertito, non sorge di punto in
bianco a ridestare o iniziare un movimento scientifico spento da secoli.
Anche lo studio bolognese ha i suoi precursori e non può dirsi che
riaccenda per il primo, dopo tanta caligine medievale, la lampada della
scienza. Certamente la tradizione ci ha la sua parte. A cominciare dalla
scuola di Roma, e venendo giù fino alla scuola di Ravenna e a quella di
Pavia, c'era oggimai tutta una tradizione, più o meno scientifica,
dovuta alla scuola: il terreno poteva dirsi apparecchiato già da lungo
per ricevere la nuova sementa. Lo studio di Bologna è, in verità, il
frutto di una lunga evoluzione storica; nè la letteratura giuridica
medievale è andata perduta per Bologna.

E già l'età dei manoscritti, contenenti opere del periodo prebolognese,
fa toccare con mano che la tradizione di quella letteratura giuridica è
penetrata nelle nuove scuole. Infatti, perchè si sarebbero trascritte se
non fossero state lette e studiate e diffuse? Soggiungiamo, che i più di
quei codici appartengono ai secoli XII e XIII; sicchè non c'è dubbio: la
vecchia scienza vive ancora per qualche secolo accanto alla nuova, e
soltanto a poco a poco vien balzata di seggio, quando la nuova ne ha già
tratto partito. Ma c'è di più. Confrontando la letteratura giuridica e
anche i metodi dei due periodi si trova che c'è realmente un legame
molto intimo. Io non esito a dire, che lo studio di Bologna si riattacca
per una parte a Ravenna e per l'altra a Pavia: a Ravenna sopratutto per
la materia giuridica, a Pavia per i metodi.

Certo, la materia giuridica è venuta ai glossatori dell'antica scienza
medievale dal diritto romano. Alcune glosse preirneriane sono passate di
peso nel grande apparato accursiano; e la stessa coincidenza può
trovarsi in talune definizioni. Qua e là continua l'eco di qualche
distinzione, e persino qualche controversia giuridica formulata e
discussa nel periodo prebolognese è tuttavia viva nella scuola di
Bologna. Lo stesso Pietro, autore delle _Exceptiones_, è citato da
Accursio in più luoghi e anche da altri. Un trattato de _natura
actionum_ si trova adoperato dal Piacentino. La _Lectura super
actionibus_ di Pietro Crasso, autore del Libello, è ancora ricordata
nello statuto della università dei giuristi di Bologna negli anni
1317-1346. Il Brachilogo ha certamente ispirato l'_Epitome incerti
auctoris_, e parimenti presenta delle analogie col _Liber juris
florentinus_.

Insieme vediamo applicati qua e là i principî di diritto privato a
rapporti pubblici, nè più nè meno che si era fatto a Ravenna. Una glossa
esamina la questione se il Papa abbia la giurisdizione temporale nelle
terre dell'Impero che si credevano formar parte della donazione
costantiniana; e ricorre volentieri a testi di diritto privato. Un'altra
volta Federigo I studia certa pretesa accampata dal Papa sui palazzi dei
vescovi, perchè non fossero tenuti a ricevere i nunzî imperiali; e
certamente furono i giureconsulti bolognesi a suggerirgli di distinguere
se il palazzo sorgeva nel suolo proprio del vescovo o in quello
dell'Impero; perchè in tal caso anche il palazzo dovea appartenere
all'Imperatore, giusta il principio che _omne quod inædificatur solo
cedit_. Era una regola di diritto privato che Federigo applicava al
diritto pubblico. Anche il modo, con cui lo stesso Federigo procedette
contro la eroica Milano, impaziente di freno, trova la sua spiegazione
nei principî di diritto privato applicati alla ragion pubblica. Più
tardi Federigo II vorrà provare che avea tutto il diritto di riprendere
le terre imperiali donate al Papa, e lo farà osservando, che il donante
poteva riprendere le cose donate se il donatario era ingrato. Altre
volte i giureconsulti giustificano con la teoria della usucapione la
giurisdizione e altri diritti sovrani, che le città accampavano contro
l'Imperatore. Tale era la dottrina di Bartolo; nè altrimenti ragionavano
Giasone, Angelo Panormitano e Jacopo.

Aggiungo che i glossatori custodivano la memoria degli _ordinamenti
scolastici giustinianei_. Dirò meglio: l'ordinamento di Giustiniano si
riproduce a Bologna e continua a lungo, perchè tale era ancora ai tempi
di Accursio. Nè le illustrazioni dei testi hanno un carattere diverso.
Era quel tanto di scienza, che Giustiniano avea permesso, e i glossatori
non hanno osato di varcarne i limiti. Si tratta di _Glosse_ e tutt'al
più di _Summae_, più o meno estese; e fu soltanto in seguito, che la
Somma si trasformò in trattato e la Glossa in apparato e commento. È il
merito di Bartolo, che primo ripigliò lo svolgimento ampio dei testi,
cercandone le ragioni, e deducendone le più alte conseguenze,
alterandone anche il concetto per adattarlo alle nuove esigenze dei
tempi.

Dall'altra parte abbiamo il centro giuridico langobardo, che esercitò
pure la sua influenza su Bologna.

Certo, le collezioni langobarde eran note alla scuola, e si citavano dai
professori di gius romano, e formavano oggetto di lezioni. Parimenti i
legisti di Bologna ricordano spesso le opinioni dei Pavesi e le
discutono. Ciò che più importa, ne accettano i metodi, e con essi si
fanno a studiare le fonti. In sostanza, tanto la scuola di Pavia quanto
quella di Bologna studiano le fonti molto minutamente, rivolgendosi, più
ch'altro, alle particolarità, come non pare che siasi fatto mai a
Ravenna. Perciò anche il lavoro scientifico dei Bolognesi fu assorbito
in gran parte dalla glossa, come lo era stato quello dei Pavesi, e l'una
glossa e l'altra si somigliano. Uno dei cómpiti che i Lombardisti han
sciolto con singolare fortuna fu quello di cercare i passi paralleli,
che confermassero la legge o vi derogassero; e appunto questa tendenza
trova il suo compimento in Irnerio, che, redigendo le Autentiche, non
faceva che andare un passo più avanti dei Lombardisti, i quali si erano
contentati di rimandare alla legge derogatoria. Anche le tabelle, che si
trovano aggiunte a qualche codice di diritto langobardo, a guisa di
alberi genealogici, in cui un rapporto generale di diritto vien distinto
nei suoi singoli casi, doveano, sviluppandosi, condurre presto o tardi a
quelle opere della scuola di Bologna, che si conoscono col nome di
_Distinctiones_; per non dire di lavori affatto simili usciti dalla
scuola dei glossatori. Medesimamente la _Expositio_ della scuola
langobarda prelude alla glossa di Accursio: certo, l'una e l'altra
riassumono i resultati delle due scuole, tenendo conto delle discussioni
dottrinali. Infine si sa che i glossatori si attengono, nel citare le
leggi, alle rubriche dei titoli ed alle parole iniziali delle leggi,
astenendosi dai numeri. È una pratica che si ricollega al ritorno, che
avean fatto alle fonti; ma già prima essa aveva dominato nella scuola di
Pavia.

                                 *

Nondimeno sta il fatto che la scuola di Bologna ecclissò in breve tutte
le altre; e interessa di vedere quali cause possano aver conferito a
portarla così presto a tanta altezza.

Alcune sono affatto estrinseche.

Certamente molto si deve alla positura della città. Perchè già nel Medio
Evo Bologna era un gran centro del commercio mondiale. Situata nel mezzo
di quattro provincie: la Lombardia, la Marca Veronese, la Romagna e la
Tuscia, si capisce che dovea presto esercitare una grande attrazione per
le industrie e i traffici d'ogni specie, e rendere la vita comoda e
aggradevole. Certo, era una delle città più ricche e fiorenti, sicchè la
chiamavano _la grassa_; e specie i giovani doveano trovarcisi bene.
Anche il poeta anonimo, delle gesta di Federigo I, quando arriva a
parlare degli scolari di Bologna, non manca di avvertire ciò.
L'Imperatore li interroga: perchè preferiscano questa ad altre terre, e
uno di essi risponde:

    _. . . . hanc terram colimus, rex magne, refertam_
    _Rebus ad utendum multumque legentibus aptam._

La cronaca del prevosto Burcardo di Ursperg accenna anche alla influenza
esercitata dalla contessa Matilde. Sarebbe stata essa che avrebbe
spronato Irnerio ad insegnare. E non si trattava soltanto di ragioni
scientifiche, che certo la contessa, per la sua coltura, avrebbe potuto
comprendere e apprezzare meglio di altri; ma anche di ragioni pratiche.
Nella sua grande devozione per Gregorio VII, essa certamente non potea
veder di buon occhio i giuristi della scuola di Ravenna, che fino allora
erano stati adoperati nei giudizi della Tuscia, dacchè Ravenna era
diventata la sede e il centro della opposizione contro le tendenze
papali. Molto meno le doveva piacere che i suoi sudditi fossero
costretti di portarsi a Ravenna per studiarvi legge. Così si rivolse a
Bologna, che nella lotta per le investiture aveva, a quanto pare, tenuto
per il Papa, e vagheggiò l'idea che l'insegnamento cominciato da Pepone
potesse venire continuato. Infine ciò che le premeva era di emanciparsi
da Ravenna: soltanto ha sbagliato il conto.

Insieme giovò a Bologna la larga protezione che Federico Barbarossa
accordò allo studio sin da' suoi primordi. Era di nuovo una protezione
tutta politica, perchè l'Imperatore vi avea trovato un forte alleato.
Correano tempi difficili per l'Impero; tempi di lotte gigantesche che
minacciavano di travolgerne la sacra maestà romana. Da un lato la Chiesa
che gli si voleva imporre col prestigio della grazia divina; dall'altro
i Comuni lombardi, che ne aveano usurpato, uno dopo l'altro, i diritti,
e pur rispettandone la maestà ideale, miravano a ridurla veramente ad
una mera ombra o parvenza di potere. Eran momenti difficili; e
l'Imperatore non poteva avere un migliore alleato che nella lettera del
diritto romano, come l'avea inteso Giustiniano, e come, dopo tanti
secoli, l'intendevano nuovamente i dottori di Bologna. Ora, io ci tengo
a dichiararlo altamente: io odio la lettera morta, la lettera che vuole
imporsi alla vita, e non corrisponde a nessuna realtà della vita; ma
capisco come un imperatore del Medio Evo, che si vantava continuatore
dell'antico Impero e chiedeva seriamente ch'esso non avesse cambiato mai
nè d'autorità nè di forme, potesse appigliarsi alla lettera morta della
legge, che gli dava ragione, senza curarsi della vita, che s'era tutta
rinnovellata dattorno a lui, e che gli dava torto.

Bologna ottenne veramente un largo privilegio da Federigo, e un carme di
quel tempo ce n'ha lasciata la descrizione, che può metter conto di
riassumere: è una bella pagina di vita medievale.

Era la Pentecoste dell'anno 1155, e Federigo si trovava accampato presso
Bologna, quando gli uscirono incontro i cittadini portandogli doni e
distribuendo gran copia di cose ai soldati. Insieme con essi vennero
anche i dottori e gli scolari, tutti ansiosi di vedere il Re Romano;
numerosa turba, che dimorava a Bologna, affaticando dì e notte nelle
varie arti. Il Re li accolse placidamente, e parlò con essi informandosi
con benignità di molte cose. Domandò loro come fossero trattati in
quella città, e perchè la preferissero ad altre; se i cittadini, come
che fosse, li molestassero, e tenesser le promesse senza frode, e li
avesser cari, ed osservassero le leggi dell'ospitalità? Un dottore
rispose ordinatamente, mostrando quali fossero i costumi e la vita beata
degli scolari. Noi, disse, o gran Re, abitiamo questa terra piena di
tutte cose necessarie alla vita e molto adatta ai lettori. Affluisce qui
da tutte le parti una turba desiderosa di apprendere; qui portiamo il
nostro oro e argento, i pallî, le vesti, e prendiamo in affitto le case
che ci convengono, nel mezzo della città. Comperiamo tutto a giusto
prezzo, tranne l'acqua, che è d'uso comune. Diamo opera notte e giorno
intensamente agli studi; e nel tempo, che passiamo qui, questa ci sembra
dolce fatica. Confesso — seguita a dire il dottore — che i cittadini ci
onorano in molte cose, salvo in una; perchè a volte ci molestano,
costringendo questo o quello a pagare senza che abbia ricevuto nulla, e
pegnorandolo per debiti non suoi. Imperocchè dopo aver prestato denaro
ai nostri compaesani, lo ripetono da noi, che non ci siamo per nulla
tenuti. E dunque ti domandiamo, o padre, di correggere questo perverso
costume, e fare una legge, perchè i lettori qui possano esser sicuri.
Allora il Re, consultati tutti i Principi, promulgò un editto a tutela
dei lettori: che cioè nessuno debba quinci innanzi impedire coloro che
si davano agli studi, e sia che stessero o partissero o tornassero; e
non fossero costretti a pagare pei loro compaesani, se non vi erano per
nulla tenuti. Insieme pregò i cittadini di onorare gli scolari, e
serbare intatti i diritti della ospitalità senza frode; e dopo pochi
giorni, risarcite le forze, mosse il campo per visitare le città della
Tuscia.

Bologna stessa finì col prendere parte alle grandi lotte del secolo; e
questa fu non ultima causa che l'aiutò a salire. La contesa tra il
Sacerdozio e l'Impero si è agitata appunto a Bologna nel campo
scientifico, prima ancora di passare nuovamente in quello delle armi,
per chiudersi con la vittoria di Legnano e con la pace di Costanza. Già
sul principio del secolo XII la lotta scientifico-giuridica si
combatteva a Bologna in nome del diritto romano da un lato, del diritto
canonico dall'altro, invocati entrambi ed applicati a risolvere
quistioni, che in sostanza avrebbero dovuto rimanere estranee all'uno e
all'altro diritto. Un gruppo di _legisperiti_, capitanati da Irnerio, ha
discusso nel 1118 a Roma sulla elezione del Papa e favorito lo scisma,
che dovea protrarsi poi ancora per qualche anno. Nel 1158 troviamo i
suoi discepoli, invitati da Federico Barbarossa, a Roncaglia. Si
trattava di sapere quali fossero i diritti della corona, e di affermarli
solennemente in confronto delle città italiane, che li avevano usurpati:
quei giuristi si pronunciarono per l'imperatore in danno della patria; e
n'ebbero taccia di traditori! È una taccia che han meritata, e che pesa
sulla loro memoria; ma ci guarderemo dal credere che lo facessero per
sentimento servile. Gli è che obbedivano al sistema: l'ambizione
cosmopolita degli antichi Cesari era, si può dire, ricomparsa in quei
grandi discepoli d'Irnerio! Dall'altro lato c'era Graziano, c'era il
Bandinelli l'amico di S. Bernardo, l'austero abate, c'era tutta una
folla di canonisti, che, forti della grazia divina e della autorità
delle leggi ecclesiastiche, si fecero a combattere i civilisti, i quali
finirono con l'avversare addirittura il diritto canonico. Sono note le
parole irriverenti di Pietro Bellapertica, grande dispregiatore dei
canonisti intorno alla metà del secolo XIII. Dal canto suo la Chiesa
reagì, fino a bandire il diritto romano dalle scuole. Così la lotta tra
il Sacerdozio e l'Impero si riproduceva nel dominio della
giurisprudenza; ed io non so, ma dubito forte, che l'antagonismo abbia
maturato conseguenze fatali. Certamente ne derivò un divorzio solenne
tra l'idea del diritto e quella della religione; e gli uomini, non ben
pagani nè ben cristiani, finirono coll'essere balzati fuori dal mondo
morale. Intanto però la scuola s'era mischiata nelle dispute, e ciò
bastò ad alzarla, se non altro per un momento, nella estimazione dei
contemporanei. Per un momento gli sguardi dei migliori e sommi ingegni
si fissarono su Bologna, la grande lottatrice.

Bologna però deve anche molto a sè stessa. Una nuova causa, e questa
volta tutta intrinseca del suo splendore, sta nel _rinnovato_ studio del
diritto romano, e nel _nuovo_ indirizzo, ch'esso venne acquistando per
opera dei Bolognesi. Vorrei anzi dire che ne è la causa percipua; e non
c'è dubbio che abbiamo a che fare con una vera _rinnovazione_. Certo,
gli studi del diritto romano destavano nel secolo XI un grande interesse
più ancora che nei secoli precedenti. Era infine un diritto, che, per
effetto di circostanze diverse, tendeva ad assurgere alla dignità di una
legge comune in Italia e fuori. E per il momento si trattava di una
restaurazione pura e semplice, che s'imponeva in tutto e da per tutto,
anche a scapito delle condizioni reali del paese. Le quali, certamente,
non mancheranno poi di reagire; ma intanto dovevan piegare la testa. Il
diritto romano trionfava; ed era il diritto romano puro; cioè il diritto
quale era uscito dalla officina di Giustiniano, che, per una ragione o
per l'altra, tendeva a imporsi alla nuova società uscita dalle crociate,
non badando alle trasformazioni, che essa aveva subìto nel corso dei
secoli. Specie gli imperatori favorivano cotesta risurrezione pei loro
fini. Se vogliamo, era un indirizzo diametralmente opposto a quello che
vedemmo dominare da ultimo nella scuola di Ravenna; e non vogliam dire
che fosse migliore, ma ad ogni modo avea il merito di corrispondere alle
esigenze del momento. Era naturale che la scuola, che lo seguiva, se ne
avvantaggiasse, e facesse in breve oscurare i vanti di tutte le altre. E
fu il caso con Bologna.

Quell'indirizzo poi comprendeva più cose. Certo, si deve a Bologna se il
diritto romano rimase alla perfine separato dalla dialettica e dalla
rettorica, due discipline con le quali era stato unito per lungo tempo,
in tutto il medio evo. E questo è già un merito. Insieme si ritornò alla
compilazione giustinianea, che si considerava come un diritto vivo,
destinato ancora a reggere il mondo. L'epitome di Giuliano, e altri
rimaneggiamenti del Codice e delle Istituzioni, a cui il medio evo più
antico avea cercato la norma del vivere civile, dovettero cedere il
posto ad uno studio più paziente e accurato e coscienzioso di tutte le
parti del _Corpus Juris_. Anzi è stato uno studio fatto
indipendentemente dalla vita, senza alcun contatto con essa; e ciò dette
fin dalle prime un carattere tutto dottrinario e teorico all'attività
della scuola. Il solo diritto vero, il solo che dovesse trovare
applicazione, era, a' suoi occhi, il diritto romano; e tutti i suoi
sforzi son diretti a questo scopo: studiare e illustrare il diritto
romano nella sua purezza, quale l'avea foggiato l'imperatore
Giustiniano. Nè importava che, nei secoli venuti dopo, le condizioni
della civiltà si fossero mutate e rimutate più volte; e i bisogni e gli
interessi e i rapporti fossero altri; e il diritto stesso avesse dovuto
piegarsi più volte alle esigenze della vita: Irnerio e la sua scuola non
conoscevano, non volevano, che il diritto romano, il puro diritto
romano, tutto il diritto romano; e lungi dal piegarsi alle esigenze
della pratica, che in sostanza erano le esigenze della vita,
pretendevano anzi che la pratica e la vita avessero obbligo di adattarsi
al diritto romano ed alla scuola. In questo senso aveva ragione l'autore
della Cronaca Urspergense di dire: _domnus Wernerius libros legum qui
dudum neglecti fuerant, nec quisquam in eis studuerat.... renovavit._

Soltanto non vorrei asserire che siffatta tendenza fosse divisa da
tutti. L'indirizzo della scuola era quello; ma si capisce che la pratica
non potesse sempre acconciarvisi di buon grado, e a volte finisse col
reagire. In realtà la pratica sbugiardò più volte le teorie della
scuola. Ciò che più importa alla storia della giurisprudenza è il
vedere, come in seno alla scuola stessa ci sia stato qualcuno che cercò
di tener conto della _equità_ e darle la preferenza sulla morta lettera
della legge. Voglio alludere a Martino, che, per questo riguardo,
ripiglia le tradizioni della scuola ravennate. E anche Piacentino, e
Alberigo di Porta Ravegnana, e Pillio, seguono Martino; ma i più gli si
mostrano avversi. La stessa glossa d'Accursio lo trasanda quasi affatto.
Certamente i tempi non correvano favorevoli al suo indirizzo.

Del resto appunto quel ricorso alle fonti e la tendenza tutta
dottrinaria della scuola han dato buoni frutti. Certamente la scienza ne
guadagnò e ne guadagnò la scuola. La legge fu meglio approfondita, e
anzi lo fu in modo, di cui da lungo si eran perdute le traccie. Ed era
naturale! Non distratti da altro, con l'occhio tutto intento al testo,
non vedendo che questo, non volendo saperne che di questo, non poteva
non essere che i glossatori ne cogliessero gl'intimi segreti e ne
indovinassero lo spirito; e si formasse in breve l'opinione, che chi
volea studiare diritto non potesse studiarlo che a Bologna.

Una epistola di Pietro Blesense accenna già a ciò. Essa è diretta ad un
chierico inglese, e veramente lo sconsiglia dallo studiare
giurisprudenza, che era una cosa piuttosto ardua e difficile e
pericolosa per la salute dell'anima, e lo sprona a darsi invece alla
teologia; ma si capisce che, volendo studiare giurisprudenza, avrebbe
dovuto recarsi a Bologna.

E mi si conceda anche un'altra citazione tolta da queste medesime
lettere di Pietro Blesense, che mostra il vero fascino, che lo studio
del diritto romano esercitava su le menti, cosa che forse farà inarcare
le ciglia a più d'uno, e anche mostra la memoria gratissima, che lo
scolaro, a quei tempi, conservava per l'_alma mater_, che prima lo aveva
nudrito col latte della scienza. Pietro Blesense avea verso il 1160
studiato legge a Bologna e poi si era ridotto a Parigi a studiarvi
teologia; ma anche in mezzo agli studî teologici, tornava volentieri
agli antichi amori, e, scrivendone all'amico, non gli nasconde quanti
amari sacrifici gli avesse costato il cambio. Ecco un brano della
lettera: _Vester vobisque devotissimus operam theologiæ Parisiis
indulgeo, Bononiensis castra militiæ crebro suspirans, quæ vehementer
amata citius et premature deserui_. Più sotto passa a discorrere della
legge; e dalle sue parole trapela nuovamente un vergine entusiasmo
giovanile per questa legge laica, così attraente, così seducente, in
confronto della severa legge teologica, a cui s'era dato. La legge
romana lo aveva addirittura affascinato. D'altronde non s'era ancora
tanto impelagato nello studio delle leggi divine, che non gli avanzasse
un po' di tempo per darsi alla letteratura del Codice e del Digesto, e
lo facea per mero suo sollazzo e non per uso. La lettera continua
osservando il grave pericolo, che c'era pei chierici di studiar legge,
tanto essa assorbiva tutto l'uomo, da lasciargli poco agio o voglia per
le cose divine. — A me non resta che augurare agli studenti dei nostri
giorni, che tutti i loro amori possano somigliare a codesti ardenti e
casti dello scolaro bolognese del secolo XII.

Intanto Bologna, mercè il suo studio, si meritò presto il soprannome di
_dotta_. Già il poeta, che cantò la guerra tra Milano e Como, la chiama
così: _docta Bononia_. Col tempo poi la cosa diventò proverbiale, e il
nome di Bologna finì con l'essere indissolubilmente unito a codesta sua
speciale missione d'insegnare: _Bononia docet_.

Ed ora, vorrem dire che Bologna sia meno grande, perchè non spezzò il
filo delle vecchie tradizioni, ma si riattaccò ad esse e ne fece suo
pro'? Certamente lo studio di Bologna si riannoda al passato; ma insieme
porta anch'esso il suo contributo alla storia: lo porta al pari di Roma
e di Ravenna, al pari di Pavia, e s'afferma e s'impone e appare
improvvisamente circonfuso di splendida luce, quale non si era vista per
molti secoli, quale forse non si vedrà più. Chiaro è: come al banchetto
della vita, così a quello della scienza, c'è posto per tutti — intendo
gli uomini di buona volontà. Dopo tutto, è una cosa che conforta il
vedere che la parola della scienza non va perduta, ma resta, anche in
mezzo alle mille vicende e traversie e tristizie dei tempi. Simile alle
stelle che nel mare Egeo sornuotavano a indicare dove stava sprofondata
la lira di Saffo, anch'essa sornuota a tutto; e le nuove generazioni la
raccolgono, e amorosamente la custodiscono, e aggiungendovi, o anche non
aggiungendovi nulla del proprio, la trasmettono, vigili lampadofore,
alle generazioni venture.

  _Signore e Signori!_

Il progresso umano è soltanto a questo patto.



LA FILOSOFIA E LA SCIENZA NEL PERIODO DELLE ORIGINI

DI

GIACOMO BARZELLOTTI


_Signore e Signori._

Ernesto Renan in uno dei suoi _Nuovi studi di storia religiosa_ dice:
“Quella gran notte la quale si stende dalla rovina della civiltà antica
al risplendere della civiltà moderna, non è, come molti se la sono
figurata, un'ombra tutta uniforme, ma presenta a un occhio attento linee
assai chiare, d'un disegno facile a scorgersi. La notte non dura
realmente che fino al secolo undecimo. Allora ha luogo un rinascimento
in filosofia, in poesia, in politica, in arte. Di questo rinascimento la
parte prima, che spetta principalmente alla filosofia e a quel
pochissimo di scienza che allora le era unita, può dirsi si accolga
tutta nella Scolastica, nella filosofia del Cristianesimo e della
Chiesa, che si estende anche in occidente per tutto là ove arriva la
grande azione intellettuale e la fede della comunità religiosa guidata
da Roma.„

Il momento storico che io debbo descrivervi e che va dall'entrare del
secolo undecimo fino a Dante, è come l'albeggiare primo e incerto della
coltura italiana che ne precorre il pieno giorno glorioso, già quasi al
suo colmo sul finire del secolo decimoterzo. A guardarlo ora, nelle
lontananze della storia della mente e dell'anima del nostro popolo,
cotesto primo momento del suo risorgere rende immagine di quello che
sono sotto il nostro bel cielo d'Italia, là in quella potente natura dei
paesi meridionali, così fosca nelle sue tempeste, ma anche così
mirabilmente precoce nei suoi risvegli di primavera, quelle mattinate
quando a un alito fecondo di vita che la invade tutta, il sereno rompe
dai monti e dalla marina e il sole appena spuntato fa già quasi sentire
tutta la sua forza. È come una vittoria faticosa, contrastata ma rapida
della stagione nuova sull'inverno che si dilegua, dopo una lotta tra il
vento e le nubi dense, abbassate, sotto a cui l'aspetto del mare,
mutabile, come un bel volto meridionale a ogni soffio della passione,
cangia di momento in momento dal ceruleo fosco della tempesta
all'azzurro chiaro scintillante di luce. Noi assistiamo dal lido a
questa vittoria crescente del sereno e del sole che avventa fasci di
strali luminosi e fende e respinge sempre più le grandi masse di nubi,
sino a che tutta la curva del golfo di Napoli si apra all'occhio in
piena luce tra la punta di Sorrento e quella di Posilippo.

A questo rasserenarsi della natura in un paese meridionale fa pensare,
lo spettacolo che dà di sè lo spirito italiano risorgente dopo il mille
appena un alito di libertà, d'ideali religiosi e civili e di nuove forze
sociali vi spira dentro.

I due ultimi secoli declinanti verso il mille, specie il decimo, che fu
detto a ragione _un'età di ferro_, avean veduto in Italia l'estremo
della violenza corrotta e dell'abbiezione, cui aveva potuto trascorrere
una feudalità come la nostra, mista degli elementi di tante invasioni
soprappostisi gli uni agli altri, discorde in sè stessa, agitantesi in
perfide gare di dominio tra, da un lato, gli ultimi fiacchi Carolingi, i
Berengari, gli Ottoni e i primi imperatori ghibellini, tutti impotenti a
contenerla, e dall'altra parte il Papato. Il quale, scaduto dal primo
suo grande ufficio di tutore dei popoli e da quello che si era assunto
sotto Carlo Magno di restaurare la dignità dell'Impero, era divenuto
ormai poco più e anche meno di un feudo baronale di un dogato romano.
Nella notte dei tempi delle Teodore e delle Marozie, l'Italia,
minacciata al nord dagli Ungheri, corsa, occupata al mezzogiorno dai
Saraceni, era scesa anche più basso nelle miserie civili che non quando
alla deposizione di Carlo il Grosso una dieta di signori e di prelati
aveva detto _nessuna voce poter bastare ad esprimere ciò che il paese
aveva sofferto_.

E pure in codesto buio era rimasto ancora qualche barlume. Se gli studi
classici greci e la conoscenza di quella lingua erano, si può dire,
spariti dall'occidente d'Europa, un sentore della coltura antica e dello
studio del latino classico s'era potuto però conservare nelle scuole dei
grammatici non mai morte. Le enciclopedie di Cassiodoro, di Claudiano
Mamerto, di Capella, d'Isidoro, di Beda l'avevano come fatta passare
essicandola in rozzi estratti, che pur ne rendevano ancora, se non lo
spirito, in parte però i materiali e le forme.

E la Chiesa facendo sue tante di codeste forme, accogliendo, in
occidente, il latino come lingua sacra, molto aveva salvato del sapere e
del pensiero antico nelle opere dei Padri, della tradizione grammaticale
e letteraria nelle scuole unite alle parrocchie, alle cattedrali e nei
seminari. Nelle biblioteche benedettine dove, come narra Benvenuto da
Imola, qualche volta cresceva l'erba, s'eran distrutti, è vero, col
raschiarli, non pochi codici antichi; ma spesso anche aveva brillato
nelle veglie di qualche pallido monaco curvo sui libri una lampada che,
come quella del pensatore, secondo la bella espressione di Gian Paolo
Richter “avrebbe rischiarato il mondo.„

Il papato fin da quando mettendosi dalla parte del popolo respinse da
noi il moto bizantino degli Iconoclasti, aveva concorso a salvare
l'avvenire delle arti. E nella tradizione ecclesiastica del diritto
canonico, nelle immunità vescovili strappate agl'imperatori, e da cui in
più luoghi avean cominciate le franchigie delle città, molti germi di
coltura e di consuetudini più umane in età così violente s'eran potuti
preservare. Anche fuori del breve giro delle sette arti, da cui di rado
osava uscire il sapere medievale, una parte delle dottrine naturali e
matematiche coltivate dai Greci s'era con le scienze _occulte_ trasmessa
a noi dagli Arabi. Siciliani, se non altro, di nascita erano un
traduttore della _Materia medica_ di Dioscoride vissuto nel decimo
secolo, e nella prima metà del duodecimo sotto Ruggero il Normanno
l'ammiraglio Eugenio interprete dell'_Ottica_ di Tolomeo. Era compilato
in Sicilia per ordine del Re Normanno, e, come crede l'Amari, da uomini
forse la più parte italiani, il celebre libro di geografia detto il
_libro di Ruggero_ e attribuito ad Edrisi. E accanto a questi studi che
poi doveano giovar tanto ai primi viaggiatori e navigatori d'Italia, un
altro ne era sempre sopravvissuto per tradizione tutta nostra, quello
del _Diritto romano_, ultimo splendore dell'occaso italico, come lo
chiama il Carducci, e che sembra ritardare resistendo in faccia ai Goti
l'oscurità barbarica, sembra interromperla balenando nella legislazione
dei Longobardi. A Roma nella scuola imperiale d'arti e di
giurisprudenza, a Pavia nella scuola regia longobarda, a Ravenna
nell'interpretazione dei libri di Giustiniano, poi a Bologna da Pepone
ad Irnerio, il diritto teneva vivo tra noi quanto di più alto ci era
rimasto della romanità spenta, per poi uscir dalle scuole e mescolarsi
alle contese tra la Chiesa e l'Impero e prestare all'una e all'altro
armi di cui poi dovean valersi, venendo su tra quelle contese, i nostri
comuni.

Ma intanto, se non _comuni_, città in parte almeno indipendenti erano
cominciate a sorgere qua e là anche innanzi e dopo l'entrare del secolo
undecimo; prime le marinare: Genova a riparo dei monti, Venezia fatta
sicura dalle lagune e ben presto signora dell'Istria e della Dalmazia,
Pisa, coi suoi navigli, uniti poi a quelli di Genova, in caccia dei
Saraceni; nel mezzogiorno Gaeta e Amalfi, che già nel secolo X fioriva
di commerci, e Salerno insigne per la sua scuola, che già aveva medici
di grido prima del mille.

In codeste forme di reggimento politico, mezzo tra il feudale e il
popolare, non s'era ancora però potuta comporre una società nuova, una
società vera. Quando essa, quasi a un tempo, cominciò a venir su in più
parti d'Italia, e prima nelle città lombarde coll'incremento del
_comune_, più tardi ordinato sotto i consoli, dal confondersi e
contemperarsi del sangue e delle forze delle classi soggette, dei
vassalli inferiori, de' borghesi, degli artigiani con la vecchia nobiltà
feudale, e ne scoppiò un fermento, un rigoglio nuovo di vita popolare
nascente, contro al cui urto doveva poi rompersi a Legnano la furia
dell'Imperatore, allora, o signori, in quelle origini della forma di
società civile che fu nostra e fatta dal genio nativo del nostro popolo,
vediamo concorrere tutte insieme a produrla e più a farla poi fiorire di
arti e di alta coltura quelle che sono state, che saranno sempre le
prime condizioni di qualsiasi grandezza umana nelle cose morali e
sociali: non la indipendenza e la libertà politica sole, che non
bastano, ma sopratutto il forte consentire delle volontà individuali in
un grande intento comune, il loro eroico obliarsi in qualche grande idea
impersonale, tale da oltrepassare la vita e i suoi interessi e i suoi
piaceri, e farla gettar via, al bisogno, con gioia per ciò che vale più
di lei.

Questo era il lievito da cui fermentò, penetrata tutta di una grande
idealità di pensiero e d'arte, la coltura dei comuni italiani. Sorti fra
le lotte di due grandi potestà, che parlavano e combattevano così l'una
come l'altra in nome di un'idea, essi paiono, in quest'ultimo tratto del
deserto medievale, avviarsi esploratori di una civiltà nuova con
l'occhio volto a due grandi miraggi storici: a quello dell'Impero, come
di tutto un passato di signoria sui popoli da restaurare qui da noi; a
quello della Chiesa teocratica, quale l'aveva pensata e riformata un
nostro, Ildebrando, come di una grande dittatura delle menti e degli
animi, di una romanità restaurata nel campo della coscienza. Miraggi, se
si vuole, l'uno e l'altro che per secoli sviarono la storia italiana da
quel cammino sicuro dell'unità e della concentrazione nazionale per cui
già nel secolo undecimo s'eran messi altri popoli d'Europa. Ma quante
grandi contemplazioni di pensiero geniale, quante visioni di arte
ispirata fruttarono codesti miraggi da sant'Anselmo d'Aosta a Tommaso
d'Aquino, dal cantico al sole di Francesco d'Assisi, dall'_Itinerarium_
di san Bonaventura, alla _Monarchia_, al _Convito_ e al _Paradiso_ di
Dante! Anzi non peraltro io credo che l'Italia, sebbene la sua lingua
sia stata scritta tanto più tardi delle altre lingue romanze, le abbia
precedute nella maturità precoce della sua letteratura, se non perchè
qui da noi sotto questo suolo pieno di così grandi memorie non mai
spente, campo delle maggiori lotte morali e storiche di quel tempo,
covava, lasciatemi dir così, una maggiore semenza fecondatrice d'ideali
ispiratori del pensiero e dell'animo umano. La riforma dei chiostri, che
precede ed inizia l'opera di Ildebrando e la contesa per le investiture;
— poichè solo nella solitudine e nel raccoglimento l'uomo si è sempre
apparecchiato ad agire potentemente sugli altri; — questa riforma muove
da Cluny onde esce anche Gregorio VII; ma l'impulso più potente viene
dall'Italia, da grandi solitari come san Romualdo, san Giovan Gualberto,
da pensatori eloquenti come Lanfranco e san Pier Damiano. Uno dei centri
più importanti di tal moto di riforma fu, nella seconda metà del secolo
XI, la nostra Firenze; dove il rogo di Pietro Igneo precedeva nel 1068
il nascere della Repubblica, allo stesso modo che, dice il Villari,
doveva nel 1498 precederne la morte il rogo di Girolamo Savonarola. E
allora e anche più tardi dopo che col suo svolgersi in forme più larghe
la storia dei comuni e dei popoli d'Italia trae più della sua materia
dagli interessi economici, sociali e politici dal laicato, il motivo
ideale delle sue iniziative più grandi resta per un pezzo in un ordine
di pensieri che accenna al di là e al disopra della vita. N'è prova la
pittura che è tutta, si può dire, fino al cinquecento un'epopea sacra
figurata; n'è prova quella mirabile fioritura di monumenti
ecclesiastici, primavera dell'arte di cui l'Italia si cuopre tutta nei
secoli duodecimo e decimoterzo, mentre le prime ispirazioni alla
letteratura appena nascente vengono dalla pietà e dal sentimento mistico
e si esprimono in _cantici_ e _laudi_, in leggende e vite di santi.
Certo quell'impeto di fede armata che trascinò gran parte d'Europa nelle
Crociate investì appena l'Italia. I nostri comuni ebbero da quelle
imprese più che altro occasioni a guadagni e commerci nuovi, a viaggi
avventurosi fecondi di contatti intellettuali con l'Oriente. Ma
s'ingannerebbe chi argomentasse da ciò che quella intensità d'eroismo
religioso non abbia tramandato anche da lontano molto del suo calore ne'
cuori italiani. Quanto se ne siano accese le fantasie lo mostra la
parte, minore certo che in altre letterature, ma pur sempre notevole che
ebbero nella nostra, specie ne' racconti, le avventure dei Crociati. E
il sentimento popolare che li accompagnò veleggianti _verso il glorioso
acquisto_ dovette vibrare anche fra noi intenso, se tanti secoli dopo
potè fare quasi da corpo della risonanza all'eco profonda che la
_Gerusalemme_ del Tasso ha destato in tutta la nazione.

L'idea religiosa cristiana era, adunque, in quel sorgere della nostra
coltura, e rimase poi fino a Dante, sino a che questa tocca, si può
dire, con lui quasi la sua maturità, il vero motivo dominatore del
pensiero e dell'ingegno del nostro popolo e degli uomini che più ne
rendono in sè il tipo; l'idea cristiana, non però côlta e sentita
soltanto, come pur fu nei fervori del gran moto francescano e dell'arte
primitiva, in tutta la sua ingenuità, nuda e quasi paurosa di forme e
molto meno nella rigidità ascetica, nell'immensità cupa del fanatismo
dommatico mistico dei suoi seguaci di altre nazionalità, dei precursori
tedeschi e inglesi della Riforma.

Anche avuto pur sempre riguardo alla ricchezza di forme e di elementi
ideali con cui la varietà d'indole delle stirpi d'Italia, dalle lombarde
alle meridionali, si riflette nella storia della nostra coltura, una
cosa è certa: che la nota caratteristica tradizionale delle
manifestazioni durevoli del genio italiano è un'alta serenità
d'equilibrio tra il sentimento, il pensiero e l'immaginativa, tra il
moto caloroso della ispirazione e la compostezza della forma; è in somma
quasi un abito ereditario di forte disciplina, impresso in noi da Roma,
e che ci fa cercar sempre nell'idea, nella forma, nelle linee, nella
parola un senso come di misura e di riposo monumentale e d'intima
armonia di tutta l'anima umana con sè stessa e con la natura, una
decenza come di chi medita, parla e scrive in cospetto di tutti e ha
bisogno di sentir ripercossa la verità e l'efficacia dell'opera sua in
un intento comune, in un forte consenso sociale.

Questa doveva essere l'impronta del pensiero e dell'arte del cinquecento
tornato alle fonti e agli ideali classici. Ma la corrente
dell'immaginare e del sentire che lo penetra tutto, deriva dal fondo
della vena nativa dell'intelletto italiano, quale si mostra sin dal suo
primo sgorgare nel trecento e prima e risale altissima nella Divina
Commedia.

Essa è già tutta, nonostante le deviazioni che possono imprimerle gli
eccessi di qualche asceta mistico e le fantasie apocalittiche di qualche
visionario come Giovacchino di Fiore o Giovanni da Parma,
nell'atteggiamento di forte disciplina e di larga comprensione organica
che la Scolastica dà per opera, in grandissima parte, d'ingegni italiani
o sorti in Italia, alle idee religiose e alla teologia del Medio Evo da
Anselmo d'Aosta a Tommaso d'Aquino.

I quali esprimono, il primo, quello che oggi si direbbe il programma
della Scolastica nel suo libro _Cur Deus homo?_ il secondo, la sintesi
di essa e di tutta la filosofia medievale nella _Summa theologica_, e
segnano, l'uno, l'aprirsi, l'altro il culminare della curva immensa
tracciata dal pensiero speculativo dei Dottori della Chiesa a
circoscrivere entro i limiti del _credo_ di lei tutto il mondo della
coscienza, della società e della storia.

Tra i termini storici segnati da codesti due grandi nomi italiani tra la
seconda metà del secolo XI e quella del XIII stanno la giovinezza e la
maturità della Scolastica. Nel primo periodo storico quell'accordo tra
il contenuto del Cristianesimo e la forma nazionale che essa cerca di
soprapporgli per trarne fuori un sistema d'idee ordinato e ben definito,
comincia nel_ credo ut intelligam_, (io credo per comprendere) di
sant'Anselmo, e muove dalla sua celebre dimostrazione dell'esistenza di
Dio e dall'interpretazione filosofica che egli dà del dogma della
Trinità e di quello dell'Incarnazione. Nel secondo periodo, che comincia
col secolo XIII e con Alessandro d'Hales e Alberto Magno, maestro di san
Tomaso, il sistema della Scolastica si svolge intero in una sintesi
immensa (_Summa_), la quale comprende tutti i possibili punti di
contatto che l'arte dialettica ormai adulta ha saputo trovare e fissare
tra il domma e la ragione che cerca di compenetrarlo di sè, senza però,
si badi, alterarne di un atomo i dati e i presupposti fondamentali.

Al di là dell'unico centro, se posso dir così, d'equilibrio tra il peso
di codesti dati del domma, che prevarrebbe da sè, e quello della ragione
che vuole invece preponderare lei — centro che il sistema di san Tommaso
ha saputo trovare secondo i criterii de' suoi tempi e su cui, come su
taglio sottilissimo di squisita bilancia da saggiatore, egli riuscì a
far gravitare una mole d'idee che stupisce — non sarà poi possibile al
pensiero medievale spostarsi di un punto di più senza che codesto
equilibrio sapiente si alteri, il dissidio tra il domma e la ragione
filosofica, fatta sempre più esigente, diventi inconciliabile e la fede
sia rimandata nel proprio campo, e il pensiero laico già nascente
seguiti da sè senza tutela il suo cammino verso il Rinascimento.

E notate. Questo spirito intimo di critica e di libertà d'esame del
contenuto del domma, che poi sul finire della Scolastica (nella seconda
metà del secolo XIV) cresce ed attira a sè quanto di forza viva delle
menti si va ormai ritirando da lei, s'era già mostrato in germe ne'
filosofi che l'avevano iniziata, specie nel primo e in uno dei più
arditi tra tutti, in Scoto Erigena, che per uno strano caso pare abbia
avuto comune la razza e la patria (l'Irlanda) con Giovanni Duns Scoto,
col grande avversario dei Tomisti, dalle cui dottrine comincia poi la
dissoluzione finale della Scolastica.

Vissuto nel IX secolo dopo la grande restaurazione delle scuole
medievali fatta da Carlomagno, e educato in quelle irlandesi che allora
serbarono maggiori elementi di cultura e ne fecero parte anche a noi,
l'Erigena aveva ne' suoi cinque libri _De Divisione naturae_ concepito
la creazione, al modo degli Alessandrini e sulle orme del falso Dionigi
Areopagita, come una grande scala di emanazioni digradanti dall'alto
dell'unità primitiva e divina, che tutto accoglie in sè, giù giù per
classi di esseri sempre men generali ed estesi, dagli universali dei
generi superiori esistenti in sè, alle specie, poi agli individui e alle
proprietà loro; in quello stesso ordine in cui nella nostra mente, lungo
la scala dell'astrazione, le idee più generali e più semplici precedono
le particolari e complesse.

Così s'era accennata e spuntava proprio alla radice del sistema della
Scolastica per poi aduggiarlo tutto di una vegetazione di dispute senza
fine, quella dei _Realisti_ e dei _Nominalisti_. Essa doveva prendere
occasione da un celebre passo dell'_Introduzione_ di Porfirio alla
_Logica_ d'Aristotele, tradotto da Boezio, ove è detto “di non voler
affermar nulla de' _generi_ e _delle specie_, della _differenza_, della
_proprietà_, degli _accidenti_, se siano o no sostanze, o esistano solo
nelle menti, se siano o no cose corporee, e se siano separate dagli
oggetti sensibili o invece non separabili da questi.„ A tale questione
avevano già accennato l'Erigena e i primi scolastici, ma essa sorse poi
e crebbe sempre più per un intimo bisogno che il pensiero umano ha
sentito in tutti i tempi di proiettare al di fuori di sè l'ombra di sè
stesso e dei suoi processi mentali, dandole quasi corpo e solidità nelle
cose e sostituendo ad esse le idee, le astrazioni. È in fondo la stessa
concezione idealistica della natura che faceva dire a Benedetto Spinoza
“l'ordine delle idee va di pari passo con l'ordine delle cose.„ Essa è
stata in ogni tempo, anche in tempi prossimi a noi, in filosofia
l'analogo di quello che nelle religioni dei popoli primitivi e fanciulli
è l'animazione della natura, embrione rozzo dello _spiritismo_. Essa fa
di Scoto Erigena uno dei più arditi precursori dei grandi panteisti
moderni tedeschi, degli Schelling, degli Hegel.

Ma non tutti i _realisti_ trasportavano l'ordine e il processo delle
idee astratte nella realtà dando loro natura di sostanze e di essenze,
preesistenti o almeno superiori per grado o per gerarchia di potenza
causale alle cose particolari e concrete. Così pensavano i _realisti_
estremi platoneggianti, che poi scrissero sulla loro bandiera:
_universalia ante rem_.

_Ma i realisti temperati_ — scusatemi, signori e signore, se io vi debbo
portare ancora per qualche momento con me traverso il prunaio di questa
terminologia, non più noiosa però nè più vana di certe terminologie
delle infinite parti parlamentari d'oggi — _i realisti temperati_
professavano la dottrina aristotelica che le idee universali (essere,
sostanza, causa, ecc.) hanno bensì come tali esistenza reale, ma solo,
diremmo, incorporata negli individui e combattevano sotto questa parola
d'ordine: gli universali sono nelle cose: _universalia in re_. La
dottrina _nominalistica_ sosteneva invece non darsi esistenza reale che
degli individui; le specie e i generi essere non altro che forme comuni
astratte di concepire e di designare collo stesso vocabolo i punti e le
proprietà simili di più oggetti individuali date a noi dall'esperienza e
dall'osservazione: essere, in altre parole, concetti e nome di classi. E
secondo che alcuni tra i _nominalisti_ si riferivano alla esistenza del
concetto astratto delle somiglianze nella nostra mente, si dissero
_concettuali_ (dottrina a cui si avvicinò Abelardo); e secondo che non
ammettevano altro di comune tra le cose raccolte in classi generali che
il nome, si chiamarono _nominalisti_ veri e propri. Gli uni e gli altri
ebbero per grido di battaglia: _universalia post rem_; gli universali
sono dopo le cose.

Se non che questa controversia famosa, che è come il nodo primo di tutte
le altre infinite delle scuole medievali, non scende nel campo aperto di
queste e non vi porta con sè schiere di dialettici, armeggianti l'una
contro l'altra a colpi di sillogismo e qualche volta anche di pugnale,
se non assai più tardi, alla metà del secolo XI. Allora Roscellino, un
bretone, il Maestro d'Abelardo, l'avversario di sant'Anselmo d'Aosta,
espresse a voce dottrine che contro il suo volere lo fecero designare
dalla Chiesa e condannare come capo di una setta di _nominalisti_.
Anselmo col _patos_ eloquente dei grandi dottori cristiani, lo chiama
_eretico della dialettica_, e vedremo perchè. Guglielmo di Champeaux,
suo discepolo, nato nel 1070, morto nel 1121, vescovo di Chalons sur
Marne, amico del gran Bernardo da Chiaravalle, contrappose a quella di
Roscellino una dottrina realistica che faceva contenuta tutta l'essenza
comune del genere in ogni individuo. Il quale non veniva così per lui a
distinguersi dagli altri che per mere varietà accidentali; in modo che —
gli opponeva Abelardo — una stessa sostanza presente tutta in individui
diversi avrebbe perciò attributi repugnanti fra loro. La stessa cosa, la
stessa sostanza verrebbe allora a trovarsi presente nel tempo stesso in
luoghi diversi. “Se tutto l'essere dell'uomo esiste in Socrate, non
esisterà in chi non è Socrate. Ma, siccome esiste anche in Platone, così
ne seguirebbe che Platone sarebbe Socrate, e che Socrate si troverebbe
in un solo e medesimo momento anche là dove è Platone.„ Se — giudicatene
voi, o signore, — se Abelardo non avesse avuto per innamorare Eloisa
ragioni e discorsi un po' più attraenti di questi, c'è da credere che
egli non sarebbe riuscito a farla sua. Perchè, è vero, anche il cuore ha
pure a momenti la sua logica, ma è di quelle con cui la filosofia e
qualche volta anche, pur troppo! il buon senso non hanno proprio nulla
da fare.

Sottigliezze dunque che ci fanno sorridere e pure chiudono in sè in
germe dottrine che anche oggi dividono pensatori acutissimi e positivi.
Per esempio, la opinione sostenuta dallo Stuart Mill nella sua classica
_Logica_ che le idee universali e persino i principii supremi della
nostra mente siano ottenuti solo per associazione e per astrazione di
elementi simili raccolti poi e fissati nel concetto soggettivo,
designato o, come dicono i logici inglesi, _connotato_ nel vocabolo, nel
termine generale, è un vero e proprio nominalismo. Ma tornando agli
scolastici, il sorriso ci cessa sulle labbra subito, e se si pensa
quanta serietà, quanta importanza aveva per quelle menti e quelle anime
dominate da una fede potente, l'intimo motivo teologico e religioso che
era travestito sotto le strane forme di quei problemi. È che tutta
quella vegetazione apparentemente così vana di fronde dialettiche poteva
celare, celava spesso un verme velenoso per le anime. L'eresia vi
strisciava dentro. Nelle varie forme di soluzioni di una questione, che
poteva parere delle più innocenti, si aprivano vie diverse che potevan
riuscire a interpretazioni non ortodosse dei misteri del Cristianesimo,
tra gli altri di quelli dell'Eucarestia e della Trinità. Codeste
interpretazioni avevano avuto quasi tutte i loro antecedenti nelle sette
combattute dai Padri della Chiesa. Ma poichè si ripetevano e in forme
nuove secondo i tempi, i Dottori proseguivano l'opera dei Padri,
confermavano e fissavano con nuove determinazioni razionali il senso del
domma per sottrarlo alle fluttuazioni pericolose delle opinioni
individuali. E questa parte, sostenuta più in ispecie dai grandi
scolastici italiani, da sant'Anselmo a san Tommaso contro gli _eretici
della dialettica_, è più che due terzi forse della grande opera storica,
disciplinatrice delle menti, compiuta dalla scolastica.

Ne abbiamo un esempio a proposito del _nominalismo_ di Roscellino, nella
fiera polemica sostenuta contro di lui da sant'Anselmo d'Aosta. Una
conseguenza del _nominalismo_, per cui solo gli individui esistono nella
realtà, era che le tre persone della Trinità dovessero esser pensate
come tre sostanze individuali e quindi come tre _dei_, tre _eterni_,
diceva Roscellino. Anselmo sosteneva la realtà eterna e l'unità
sostanziale dell'essere divino e diceva: “Chi non comprende come più
uomini siano nella unità della loro specie un uomo solo, come potrà
capire in che modo nel mistero della natura divina più persone, ciascuna
delle quali è Dio, siano un Dio solo? E chi ha mente così oscurata da
non discernere che il proprio cavallo non è il color suo, come potrà
arrivare a distinguere l'essere unico di Dio dalla pluralità di
relazione tra le persone divine?„ L'ironia qui, come vedete, tocca quasi
la satira.

La preoccupazione assidua, insistente, l'idea fissa della tradizione
scolastica medievale era dunque, o signori, questa: serbare intatto
nell'artificioso tessuto di argomentazioni, a cui collaboravano migliaia
d'intelletti fatti più acuti dal raccoglimento forzato della vita
claustrale, l'ordito su cui quella tela sottile e pericolosa doveva
esser condotta, dato dalla fede che era il sostegno delle coscienze e di
tutto l'edifizio sociale e civile dei tempi. E le difficoltà e i rischi
di cotesto geloso lavoro di forma razionale su una materia già data e
intangibile, erano centuplicati dall'intrecciarsi che facevano con
quell'ordito di dommi fila maestre di tutt'altra materia. Poichè accanto
all'autorità della fede e dei libri santi ce ne era un'altra, che faceva
essa pure da testo, quella della tradizione dei filosofi antichi e
specie di Aristotele. Era un'autorità già di per sè stessa repugnante
almeno in gran parte all'altra, resa poi per di più incerta, oscura,
disputabile da quel pochissimo che nell'occidente d'Europa durante la
prima parte del medio evo era restato vivo degli scritti dei filosofi
antichi. Di Platone non era sopravvissuta che una parte del _Timeo_
nella traduzione di _Calcidio_, e i lineamenti veri delle sue dottrine
trasparivano appena agli occhi degli studiosi di sotto alle ombre e ai
ritocchi che vi avevan fatto i neoplatonici e sant'Agostino. Degli
scritti logici di Aristotele non furon conosciuti fin quasi alla metà
del XII secolo che le _Categorie_ e l'_Interpretazione_ tradotte da
Boezio. I libri degli _Analitici_ e la _Topica_ furon diffusi a poco a
poco in occidente dal 1128 in poi, quelli della _Metafisica_, della
Fisica e dell'_Etica_ ci furono fatti conoscere prima dagli Arabi e
dagli Ebrei, poi il testo ne fu portato da Costantinopoli, e se ne fece
una traduzione latina che però non fu per lungo tempo apprezzata più
delle altre condotte sui testi arabi. Solo dopo che è venuto a poco a
poco in contatto più largo con la forma della grande tradizione
filosofica antica, alla cui efficacia, sebbene modificata profondamente
dal Cristianesimo, la cultura medievale non riesce a sottrarsi,
l'organismo della Scolastica si spiega tutto in un sistema di dottrine
che abbracciano ogni parte della filosofia e Alberto Magno e san Tommaso
scrivono le loro _Summæ_.

La Scolastica vien su così a un tempo col crescere e coll'allargarsi di
quel primo moto di coltura comune a gran parte d'Europa destato nel nono
secolo dalla dominazione mezzo feudale e teocratica di Carlo Magno. E
anche dopo che le forze dell'Impero si accentrano in mano ai Tedeschi,
resta per un pezzo viva in quelli che erano stati i maggiori focolari di
codesta coltura, nei paesi di stirpe anglo-sassone e franca. Solo più
tardi si estende maggiormente fra i popoli latini e germanici, e così
prima come poi non esce dalle mani del clero. Guardata tutta insieme,
essa è la più grande collaborazione intellettuale che forse abbia mai
avuto la storia, e nasce dal bisogno, sentito allora da tutta la società
medievale, di raziocinare il domma, di comporlo a dottrina, in una forma
in cui la mente comune a quella società avesse potuto adagiarsi tutta
d'accordo con le condizioni sociali e morali de' tempi, con tutti i suoi
abiti tradizionali di pensiero e di sentimento.

Mai forse un codice di legislazione più stretta e più inflessibile nei
suoi principii fu accettato da menti umane, e in tempi più repugnanti da
ogni legislazione ne' costumi e nella vita; tempi in cui se
l'individualità vera del lavoro e della produzione intellettuale non si
può dire ancora apparsa, come nota il Burckhardt, in quella forma che
poi prende ne' tempi moderni, era però in pieno rigoglio di vita
un'altra individualità, la barbarica, ribelle a ogni altro freno così
del pensare come del sentire che essa stessa non avesse provato il
bisogno d'imporsi da sè. Ora un tal freno in età, così propensa com'era
quella alla fede, non poteva esser dato se non da un grande sistema
d'idee religiose assolute, inflessibili, ferree, in cui la mente di lei,
come in una pesante cotta di maglia, che noi non potremmo nè anche più
alzare, si moveva spedita e ne prendeva anzi nell'opera una dirittura
rigida e quasi ferrata, un impeto come di braccio che, appunto perchè
tutto coperto di acciaio, ripiombi più pesante. Il chiudersi in una
autorità creduta infallibile era così proprio a quelle menti, che
persino i ribelli alla Chiesa, gli eretici, gli scolastici dissenzienti,
e non furono pochi, rinnegavano un'autorità in nome di un'altra. Tra gli
scolastici i primi in specie, meno stretti alle parole e alle decisioni
della Chiesa, che non quelli del periodo successivo e dell'ultimo, si
appellano pure quasi tutti all'autorità de' Padri e la mettono a pari
con quella delle scritture, anche là dove i maggiori tra i Padri
esercitavano gli uni contro gli altri una grande libertà d'esame.

Chi comprenda bene in tutto il suo valore storico la grande egemonia che
la Chiesa romana esercitò su tutta la società medievale, specie dopo la
riforma dei chiostri e il trionfo del potere teocratico contro l'Impero,
comprenderà come e perchè il moto delle dottrine scolastiche abbia
finito con l'essere astratto in ogni sua parte nell'orbita dell'unità
del pensiero e della tradizione della Chiesa. Essa rappresentava nel
processo storico della sua formazione la necessità fatale del convergere
di tutte le forze e di tutti gli ideali del Cristianesimo a un'unità
organica di tipo vitale, da cui il bisogno del conservarsi, intimo alle
istituzioni come ai corpi, doveva spingerlo a non deviar mai. E perciò
la Chiesa con l'autorità immensa che le veniva da un istinto, dirò così,
di altissimo _buon senso religioso_, aveva nel suo primo svolgimento
storico escluse da sè o contenute per mano dei Padri le forze
eccentriche che avrebbero portato l'organismo della fede al di fuori del
tipo storico più atto a farla vivere. E così ora con l'autorità dei
Dottori recide da sè le eresie, le sette che contraddicono a codesto
tipo, e sopra tutto contiene, tra le forze più vive che esso chiude in
sè, quello che vien più dalla sua radice e che lo alimenta più, ma che
anche potrebbe farlo più deviare. È la forza della libera ispirazione
del sentimento mistico individuale, intima alla primitiva coscienza
cristiana e dominante nelle prime comunità apostoliche, continuata poi
sempre lungo tutto il medio evo per una via sua, accanto e sotto la
rigida unità della tradizione ecclesiastica, come corrente sottomarina
che poi sboccherà fuori irresistibile nella _Riforma_.

Ora anche questa grande forza, che nelle sette medievali — ve ne ha
discorso il mio amico Felice Tocco — devia dal tipo storico centrale
della tradizione della Chiesa, ci apparisce invece disciplinata sotto la
forte unità della Scolastica in quella delle sue due principali
direzioni che è stata chiamata _mistica_, appunto perchè in essa valse
come impulso e come guida unica al vero e alla salute, non, come
nell'altra, il pensiero metodico, raziocinante, ma il sentimento
ascetico, l'ispirazione, il rapimento dell'estasi, l'impeto
dell'assorbimento, e, come dicevano, della morte in Dio.

È la direzione tracciata in tutto il secolo duodecimo alle menti avide
di spiritualità e a cui i grandi pensieri, i pensieri migliori
_venivano_, direbbe Chamfort, _dal cuore_, nella scuola di san Bernardo
di Chiaravalle (1091-1153), del grande avversario di Abelardo, e da Ugo
e da Riccardo di San Vittore. Per san Bernardo la maggior beatitudine
umana è nel misterioso ascendere dell'anima verso il cielo, nel suo
rimpatriare da questo carcere del corpo nella pura regione degli
spiriti, nell'abbandonarsi e perdersi in Dio. Solo per questa via, egli
pensava, nella quale però l'anima non entra se non per dono della
Grazia, ci si può immergere fino alle profondità più inesplorate del
vero ed esser rapiti al di fuori di noi.

Ugo da San Vittore diceva: _la incorrotta verità delle cose non potersi
trovare per via di ragionamento_. E per lui e per Riccardo si
distinguono tre forme di attività della cognizione: la cogitazione,
rispondente all'immaginare, e che ha per termine le cose sensibili, la
meditazione e il discorso della mente che passa di concetto in concetto,
e la contemplazione che senza moto d'idee coglie in sè l'oggetto della
mente in modo immediato. La contemplazione ha più gradi e nel più alto
di tutti, ch'è _sopra la ragione_ ed è quanto all'intensità un'_alenatio
mentis_, lo spirito s'incontra faccia faccia cogli arcani che
oltrepassano ogni nostra potenza conoscitiva e col massimo tra questi,
col mistero della Trinità. Ricordate, o signori, la fine stupenda del
paradiso di Dante, quando egli è sul punto d'immergersi nel mistero
della visione di Dio, e

    “all'alta fantasia qui mancò possa?„

E non molto prima il poeta aveva veduto tra gli spiriti, accolti intorno
a quello di Tommaso d'Aquino, anche “la luce„ di Bonaventura da Bagnorea
(1221-1274), del grande mistico francescano, che nella storia della
Scolastica fa parte di questa famiglia di spiriti serafici, di sublimi
visionari della filosofia, e nel _Soliloquio_, che è un dialogo
dell'uomo con l'anima sua, va dietro ad Ugo, nell'_Itinerario della
mente in Dio_ segue le orme di Riccardo di San Vittore e nelle
_meditazioni_ mistiche sulla vita di Cristo rammenta san Bernardo di
Chiaravalle.

San Bonaventura si serbò per altro con temperanza e con equilibrio
grande di mente scevro dagli eccessi più pericolosi del misticismo.
Sebbene, come tutti gli scolastici del suo tempo, abbia subito
l'efficacia dell'aristotelismo, contrappose però ad Aristotele Platone,
la cui dottrina gli parve più conciliabile con quella della Chiesa;
professò come ideale della vita altamente cristiana, la povertà e la
renunzia ascetica, ma non ne fece obbligo a tutti, bastando pei più il
primo grado della virtù che sta nell'osservanza dei precetti della
religione. Così egli espresse anche nell'indirizzo delle sue dottrine
quel sano intuito del giusto mezzo serbato dal moto francescano fra le
follie ascetiche di altre riforme predicate nel medio evo e dopo, e le
astuzie e i compromessi pratici in cui poi andarono a sviarsi nel loro
troppo intimo contatto con la vita e la politica altri ordini religiosi
sorti a difesa della Chiesa nella grande restaurazione cattolica nel
secolo XVI. Il moto francescano, che meritò dal Machiavelli, lodatore
non sospetto, l'elogio di aver salvata la Chiesa caduta un'altra volta
abbasso nel secolo XIII, riuscì in tutto il suo complesso, se non
guardiamo agli eccessi tanto meno evitabili nelle cose umane quanto più
esse hanno dell'eroico, opera di alto senno e di pensiero civile nella
vita morale del clero e del popolo italiano d'allora; fu per certi
rispetti _un metodismo_ italiano, ma con questo di più dell'inglese: con
l'impulso, coll'ispirazione potente che esso diede alla spiritualità
della letteratura e dell'arte nostra. Ernesto Renan ha dimostrato come
le profezie e le aberrazioni mistiche apocalittiche dell'_Evangelo
eterno_ siano nate nel secolo XIII, ed abbiano preso alimento anche dopo
solo dalla parte più esaltata dell'ordine francescano, che dopo la morte
del fondatore interpretò a modo suo il pensiero ispiratore delle riforme
di lui. E del resto, anche fatta la loro parte a tutti gli eccessi dei
mistici francescani, basterebbero a farceli dimenticare e quasi benedire
le pure idealità dei dipinti di Giotto in Assisi e la prosa dei
_Fioretti_ e il canto del _Paradiso_, ove Dante esalta san Francesco,
_sposo della povertà_. Di questa vena di sentimento mistico, che sgorga
dal fondo primitivo della coscienza cristiana, sono in tutto il medio
evo e poi derivazione e continuazione tanti libri ascetici, il cui
modello più squisito resterà sempre il libro dell'_Imitazione di
Cristo_; libri cercati ormai da pochi, ma destinati però ad aver sempre
lettori, perchè rispondono ad uno stato dell'anima umana, che, a
leggerli, fa loro quasi da sfondo; come, o signori, alla dolcezza
indefinibile di certe Madonne e di certi santi del Perugino e di
Raffaello e di Leonardo fanno da sfondo quelle cerulee lontananze di
paesaggi umbri, appena appena ondulati, corse da fili d'acque chiare,
seminate di betule sottilissime e ove si sente che a certi giorni anche
a chi non ama la vita deve parere un sollievo il passarla a meditare.
Sono di quelle vedute delle quali Enrico Federigo Amiel, uno scettico
della stessa famiglia di quei mistici medievali, nel suo ammirabile
_Journal intime_ diceva così bene: “Questo paesaggio è uno stato
dell'anima.„

Io vi confesso, o signori, che ho provato sempre un'intima simpatia per
queste grandi anime mistiche piene di visioni, per questi _ammalati di
Dio_. Oggi molti incontrandoli nella storia, li guardano con compassione
perchè, dicono, hanno del malato, non spirano in sè forza. Di questa
parola si abusa oggi quasi più che non si sia abusato sempre della cosa
che essa significa. Io ho paura che noi ora per un eccesso di reazione
ai languori del romanticismo, rischiamo un po' troppo di prendere per
unico tipo di forza l'Ercole Farnese; di scambiare la viva, la ricca
energia del carattere con l'aridità del cuore e del sentimento; ho paura
che dimentichiamo nei nostri ideali d'educazione troppo positiva come il
voler chiudere tutto l'uomo in certe nostre formule date, non riesca ne'
più de' casi che ad immiserirlo, e che anche da giovanetti visionari,
pieni d'idealità, quali erano Aurelio Agostino e il Dante della Vita
Nuova, son venuti su uomini di vigore indomabile, tanto più atti a
trasfonder sè stessi negli altri, quanto più accoglievano nell'animo una
potenza più ricca, più varia e feconda di elementi umani. Il secolo XVII
non vide caratteri più virili e più forti di quelli degli asceti e dei
mistici solitari di _Porto Reale_ che, come nota il Renan, attingevano
vigore e fermezza appunto in quel tetro concetto della fatalità della
Grazia da cui erano dominati.

Ma, o signori, è anche vero che le grandi idealità del sentimento e
l'intimità della ispirazione mistica non potrebbero avere una parte
troppo larga nella coltura e nella vita di un popolo senza scemargli
nerbo e sicurezza d'intuito del vero e della realtà. Gli eccessi e le
utopie di riforma predicate dalle sette cristiane medievali avrebbero
sovvertito l'ordine civile e la Chiesa, ed essa non terrebbe anche nella
storia delle idee e della filosofia e della politica di quel tempo,
cogli effetti di quella forte disciplina accentratrice che seppe portare
nel regime delle menti, il luogo che certo le spetta, se l'ideale dei
suoi santi e dei suoi filosofi, dei suoi uomini rappresentativi, come li
chiamerebbe l'Emerson, fosse stato quel frate dei _Fioretti_ che vive
sempre rapito in contemplazioni, occupato sempre di sante inezie e che
per _vilificarsi_ si mette una volta per strada a girare sopra sè stesso
tanto da cadere per terra preso dal capogiro. A queste follie sacre
resiste sempre la parte sana delle tradizione ecclesiastica, che ispira
tutta la filosofia medievale, e che come ha i suoi impulsi quasi sempre
da Roma, così prende più che altro impronta da ingegni e da menti
italiane. Al misticismo degli asceti e dei visionari che essa non
respinge, ma contiene in giusti limiti, la Chiesa coi suoi maggiori
rappresentanti in filosofia contrappone quello che ho già chiamato qui
un alto buon senso religioso. Esso è la regola sottintesa da cui prende
norma il temperato razionalismo (così lo chiamano parecchi storici della
filosofia) professato con differenze non sostanziali dai due sommi
scolastici italiani, da sant'Anselmo e da san Tommaso.

Il primo ammette che la fede preceda la ragione e determini coi suoi
principii i punti, da cui alla ricerca del vero la mente umana non può
deviare affidata solo alle proprie forze, ma concede molto anche a
queste, e come nel suo famoso _argomento ontologico_ sull'esistenza di
Dio vuol dimostrare che la realtà d'un essere _del quale non può
pensarsi il maggiore_, è implicita necessariamente nel concetto che ne
ha ogni uomo, così nel suo scritto il _Monologio_ si appoggia a sole
prove di ragione per costruirvi sopra la dottrina teologica della
_Trinità_ e nell'altro libro _Cur Deus homo?_ cerca di dar forma
razionale a quella della _Redenzione_. In questo libro che è, dice Kuno
Fischer, il programma della _Scolastica_, sant'Anselmo sostituisce
all'antico e rozzo concetto, che anche alcuni Padri avevano della
_Redenzione_, quasi di un _riscatto_ delle anime umane ritolte da Dio al
demonio, il concetto giuridico di una _soddisfazione_, che non poteva
esser data alla giustizia divina se non dai meriti infiniti di Cristo,
offertosi per ciò a morte in luogo dell'uomo, insufficiente per parte
sua a riparare l'offesa infinita della colpa d'origine. È la dottrina
che poi la Chiesa ha fatta sua[15].

  [15] Mi par notevole l'impronta, che questo concetto _giuridico_
  della _soddisfazione_ prende dalla tradizione intellettuale del
  nostro paese, ove le dottrine del diritto romano non si spensero
  mai interamente, e risorsero poi nel secolo XII, quello nel
  principio del quale moriva sant'Anselmo.

Da sant'Anselmo d'Aosta, che anche prima di Abelardo applica la
dialettica ai dommi fondamentali della fede, sino a Pier Lombardo, il
maestro delle sentenze, autore della celebre _Somma_, rimasta per secoli
nelle scuole come libro di testo per la teologia; da Alessandro di Hales
ad Alberto Magno, che la fanno entrar tutta poco a poco, pure
eccettuando sempre alcuni dommi, nella forma della dimostrazione
metodica, e aprono e segnano così, specie il secondo, la via a san
Tommaso; la Scolastica, in questa sua elaborazione più che secolare di
tanto materiale d'idee su un disegno che esce a poco a poco dall'opera
di molte menti, fa pensare a una di quelle grandi cattedrali del medio
evo, lavoro di più generazioni d'operai e di capimastri e di artisti,
condotto non col rigore di un disegno unico, ma con unità e continuità
d'ispirazione e di fede comune, e che vien su lento sino a che sorge il
grande architetto che lo corona e ne volta la cupola immensa. Agli archi
più antichi, più aerei e, direi così, più ideali di questo grande duomo
delle menti medievali, ove esse non potevano entrare a pensare se non
dopo aver pregato, aveva fatto da céntina l'idealismo platonico. Più
tardi, e più specie nella Somma di san Tommaso, alla curva gigantesca e
massiccia di tutto il sistema della teologia voltato da lui, fa invece
da céntina quello di Aristotele, interpretato dagli Arabi, e che con la
sua concezione della natura, ascendente tutta di forma in forma verso
l'atto puro, verso l'intelletto _primo che tutto muove_, si adatta più
al senso della dottrina teistica della Chiesa, e in questo suo prestarsi
a lei ne esce trasformato. E da vero la costruzione della _Somma di san
Tommaso_ per l'ampiezza, per l'eleganza delle linee nella distribuzione
delle grandi masse d'idee che ha in sè, non meno che pel lavoro
finissimo di ricamo intellettuale con cui ne sono trattate le parti, è
una grande e mirabile opera d'arte. Concepita da un ingegno
religiosissimo e vôlto per abito di disciplina potente più a confermare
con la ragione e a comprendere ciò che allora si credeva che ad
innovare, essa, per quanto ora non basti più al nostro pensiero, è uno
tra i maggiori esempi del come tutto un mondo d'idee in cui si è mossa e
ha respirato l'intelligenza di una società e di un'epoca intera, abbia
potuto passare traverso una sola mente e imprimersene tutto e prenderne
in ogni parte forma, ordine, misura, trasparenza razionale. Stupisce e
spaventa l'acume con cui il santo, divenuto a un tratto di architetto
grande quasi intarsiatore e miniatore d'idee, penetra nelle parti più
profonde ed ardue del domma, — per esempio, nel concetto della
Concezione Immacolata di Maria — e rasenta di un pelo il punto, oltre il
quale si vede che mente d'uomo non potrà più seguirlo. E pure egli è
così cauto, così equilibrato sempre! Le asperità di alcuni dei dommi più
tremendi del Cristianesimo primitivo, tra gli altri di quello
agostiniano della predestinazione, sono temperati da lui con la scorta
del grande buon senso della tradizione ecclesiastica, che oramai, pur
senz'aver l'aria di piegarsi, si adatta alle nuove esigenze dei tempi
mutati. Il rigore del concetto _indeterministico_ dell'assoluto arbitrio
divino, a cui più tardi si spingeranno Duns Scoto e i Nominalisti,
preparando così la fine della _Scolastica_, cede nella _Somma_ al
concetto più razionale del determinarsi del volere in armonia con
l'intelletto divino all'atto del creare le cose. Nel vasto disegno del
sistema la natura apparisce tutta, dice il Fischer, come un ordine di
gradi che salgono verso l'ordine soprannaturale della _Grazia_
compartita nei _Sacramenti_, e l'estro religioso del teologo tocca il
colmo nel trattato sulla natura degli angeli, che a leggerlo fa venire
le vertigini. Ma nelle altre parti della dottrina tomistica, e
specialmente in quelle relative all'uomo e alla vita civile e politica,
spicca una temperanza e un senso pratico, degno d'un uomo d'azione più
che d'un teologo e di un frate.

È che, o signori, egli aveva in sè una vena di grande uomo d'azione e di
fine conoscitore delle cose e della vita; ingegno che ebbe forse in sè
per eredità qualche goccia di sangue normanno e tedesco, ma che
sopratutto teneva dalla tempra fra latina e italo-greca delle menti
meridionali la vivacità potente e l'ampiezza dell'immaginativa
filosofica temperata da un intimo senso di misura e di intuito del vero
umano. Ingegno, lasciatemelo dire un'altra volta, italiano nel più alto
senso della parola, affine più che non paia a prima vista, a quello
dell'Alighieri, di cui una delle qualità dominanti è il saper sempre
tener fermo il piede nel vero anche quando sembra spingersi più alto con
la fantasia, sapere all'ampiezza e alla profondità della concezione
speculativa far rispondere sempre la determinatezza scultoria della
visione poetica. Voi sapete quanto Dante, che si può chiamare il poeta
della Scolastica, debba alle dottrine di san Tommaso; Dante che attinse
ispirazioni e immagini da Boezio e nel concetto e nella distribuzione
delle pene prese molto da Aristotele, ma la filosofia di Aristotele e
gran parte della cosmologia e tutta la teologia del poema e massime il
_Paradiso_ concepì con la mente di san Tommaso, e quasi direi lucidò dal
disegno della _Somma_.

E ora noi, o signori, giunti così a Dante, cioè alla seconda metà del
secolo XIII, quando con l'opposizione di Duns Scoto e della sua scuola
alle dottrine di san Tommaso s'inizia quel moto di scissura assoluta tra
la ragione e la teologia dommatica, che poi farà morire la filosofia
medievale, noi ora qui ci arrestiamo. Dante che, come nota bene Giosuè
Carducci, osò nel _Convito_ e anche nella _Commedia_ trarre la filosofia
dalle scuole religiose e introdurla nella vita civile, apre o almeno
prenunzia, non fosse che con questa delle sue grandi iniziative, i tempi
nuovi. E pure egli è ancora alle origini, è sull'alba della nostra
letteratura, ma vi spunta come un sole che appena comparso la fa
splendere più che se fosse un pieno meriggio.

Nella scolastica e nella teologia si accentrava tutta la scienza
medievale dominata in ogni sua parte dall'idea religiosa. Qualche
barlume di notizie e di cose e di fatti naturali apparisce pure qua e là
a mano a mano che, per opera più che altro dei nostri viaggiatori, si
comincia a diradare un po' l'ombra da cui era stata avvolta la scienza
della natura in quell'alienarsi dell'intelletto umano dall'esperienza e
dall'osservazione diretta dei fatti. Ma quanto fosse povero e misto
d'errori e di favole puerili il contenuto delle cognizioni positive
anche nel secolo XIII, basta a mostrarlo il _Tesoro_ di _Brunetto
Latini_, maestro di Dante, che attinse alle enciclopedie scientifiche
più in onore a quei tempi, specie allo _Speculum majus_ di Vincenzo di
Beauvais, all'_Image du monde_ di Gautier de Metz; basta a mostrarlo lo
strano libro di Ristoro d'Arezzo sulla _Composizione del Mondo_. Ingegni
larghi e comprensivi come quello di Alberto Magno, divinatori come
quello di Rogero Bacone, poterono abbracciare tutta la scienza naturale
del tempo, e il grande monaco inglese potè proclamare la necessità
dell'esperimento in Fisica e accennare a scoperte fatte più secoli dopo.
Ma la via per cui era ormai l'intelletto de' tempi loro era tutt'altra,
e doveva esser percorsa tutta prima che alla grande voltata storica del
Rinascimento apparisse già in cospetto l'età moderna.

E a ogni modo fatta pure una giusta parte a quello che le prime
iniziative intellettuali dei nostri anche nelle scienze esatte —
Leonardo Fibonacci è dei primi del duecento — possono avere anticipato
delle scoperte e del sapere venuto poi, valore e importanza vera per la
storia della nostra coltura filosofica non ha nel tempo a cui ho
accennato se non solo quel tanto dell'opera della mente italiana che si
spende nell'imprimere un forte indirizzo di accentramento e di
disciplina tradizionale alla Scolastica. Lasciate che prima di finire io
richiami ancora la vostra attenzione su questo fatto: _lo spirito del
popolo italiano novatore a un tempo e conservativo_, come lo disse
Giosuè Carducci, si mostra già con fisonomia tutta sua nel sorgere della
nostra coltura anche per ciò, che l'Italia riceve, è vero, nei primi
tempi della Scolastica impulsi e uomini da altri paesi, dall'Irlanda,
dalla Francia, dalla Germania, ma più tardi e nel maggior fiorire di
quella dà alla tradizione centrale ortodossa e alle cattedre di Parigi e
agli arcivescovadi inglesi gl'ingegni più larghi e più sani, gli animi
più retti che onorino la Chiesa e la storia. Fatto notevole che attesta
il persistere e il prevalere tra noi della stirpe e della tradizione
latina. Come nei primi svolgimenti delle scuole del diritto, come più
tardi nelle dottrine politiche, così allora nelle religiose e
filosofiche lo spirito italiano, pure osando molto, osò e innovò con
senno moderatore, con un sano e largo e pratico intuito del vero e del
reale; si attenne, affine anche in ciò allo spirito inglese, a quella
tra le parti, l'una in contrasto di ideali con l'altra nella grande
tradizione civile dei popoli, che è stata sempre sicura di aver per sè
il consenso della parte più sana e più vera dell'animo umano. Le utopie
settarie, pazze, trascendenti, che pure han luogo anche nella nostra
storia ci vennero quasi tutte di fuori. Quelle che nacquero tra noi
andaron per lo più a dare frutti lontano. Gli eretici e i visionari
esaltati che hanno avuto seguito, sono stati, come Arnaldo da Brescia, o
almeno furon creduti, come il Savonarola, riformatori politici. Di
grandi ribelli gloriosi, avversi all'autorità falsa e tirannica e
all'ignoranza, noi ne abbiamo avuti, se non più, non meno certo di altre
nazioni; ma i più grandi, e, oso dire, i più nostri pel consenso della
simpatia universale che provocarono nella coscienza nazionale, furono
intelletti come Galileo, che ebbero di tutte le facoltà costituitive del
genio la più alta forse di tutte: il sommo del buon senso.

E badate io non voglio dire che la potenza sublime dell'utopia, l'impeto
delle grandi speculazioni, la idealità e la libertà ispirata della
coscienza religiosa che rifà a sè stessa dal fondo la propria fede, non
siano come la parte alata dell'ingegno di un popolo che lo leva alto là
ove col pensiero si respira aria più pura: e che l'essere finora mancata
troppo questa parte alla coscienza religiosa del nostro popolo sia stato
un bene per noi. No, io dico solo che nella storia della Scolastica
l'Italia porta di questo felice contemperarsi d'audacia innovatrice e di
tendenza a conservare e a comprendere, propria al suo grande spirito, la
parte migliore, più sana e più forte che prende persona in uomini come
Anselmo d'Aosta, Tommaso d'Aquino e Dante.

In codesto tratto di storia corsa da noi, nulla mi par così notevole
agli occhi di quella psicologia della mente d'Europa che si va oggi
sempre più formando, come il veder già disegnarsi sotto la superficie
uguale del pensiero scolastico, contenuto dall'autorità dell'ossequio
alla Chiesa, tutte quelle che poi saranno le correnti più vive del
pensiero moderno, e aver già in sè ciascuna il getto primo di quelle
attitudini e abiti di mente nazionali e di razza che poi esse porteranno
seco nella coltura comune d'Europa. La forma d'intelligenza che Amiel
chiamava _matematica_ e che egli dà ai Francesi, portati sempre ad
applicare la logica delle astrazioni _a priori_ alle cose e alla vita, è
già tutta nel _concettualismo_ razionalistico di Pietro Abelardo,
egoista voluttuoso e freddo che fa di sè centro all'amore per Eloisa ed
al mondo, che ragiona e sillogizza la passione e non le si sacrifica
mai, e che rammenta a una certa aria di famiglia un Rousseau o un Saint
Preux o uno Chateaubriand d'allora, come nella sua filosofia ha già i
germi di quella del Cartesio. E quel Rogero Bacone, che ha nella sua
cella accanto al breviario le storte e i fornelli dell'alchimista, che
alterna le astrazioni di uno scolastico e i fervori di un mistico
ispirato con le fini osservazioni analitiche pei fenomeni naturali, è
già un precursore dei filosofi e dei naturalisti inglesi dei secoli XVII
e XVIII, spiriti liberissimi e religiosi ad un tempo, potenti
nell'indagine minuta, positiva dei fatti e inclinati a fantasie
idealistiche. E ancora in quell'Eckhart tedesco della seconda metà del
secolo XIII, seguace di Alberto Magno e domenicano anche lui, che
modifica in senso mistico e quasi panteistico la dottrina del suo
maestro sull'unità di spirito dell'anima umana con Dio, e si allontana,
se non dalla lettera, dal senso della tradizione romana che lo condannò;
in Eckhart senti già la prima parola dei riformatori protestanti, senti
già i _pietisti_ e balena il misticismo teosofico dello Schelling che
s'ispirò anche da lui. E finalmente, o signori, non vi pare abbia, a un
tempo, e del Don Giovanni e del Don Chisciotte della Scolastica quel
Raimondo Lullo spagnuolo del secolo XIII, autore della fantastica _Ars
magna_? Del quale si racconta che, giovane dissoluto, ardente negli
amori, mentre inseguiva una sera la donna da lui più desiderata persino
sotto gli archi solitari di un chiostro, ella, ad un tratto, s'era
voltata e s'era scoperta parte del seno divorato da un cancro; e allora
Lullo lasciando moglie, figli, ricchezze s'era fatto frate minore; anima
fervida di cupo entusiasmo, intelletto geniale e fantastico di sognatore
delirante, tra il mago e l'apostolo, che percorre l'Europa facendo nelle
corti esperienze d'alchimia e predicando l'insegnamento delle lingue
orientali per convertire gl'infedeli, e va più volte e persino
vecchissimo in Terrasanta finchè non ottiene il martirio.

Di tanto moto di vita non resta ora nella Scolastica che una tradizione
formale di dottrine quasi ossificata per decrepitezza, e che si ritira
più e più in sè da ogni contatto col pensiero laico dei nostri tempi. La
Chiesa però non solo tiene a questa tradizione ma la vuol viva nelle sue
scuole e riattinta sopra tutto alle dottrine di san Tommaso, di cui una
celebre enciclica di Leone XIII raccomandava lo studio come ritorno
desiderabile della mente del clero ai principii della filosofia
cristiana. E la sua parola sembra non sia caduta vana. I libri dei Padri
e dei Dottori scolastici e più in particolare quelli della tradizione
tomistica, seguita nella sostanza anche dai Gesuiti, non furono, mi si
dice, da un pezzo mai così ricercati come ora dagli ecclesiastici,
specie dagli stranieri. Nelle pubbliche vendite che se ne fanno a Roma
gli enormi _in folio_ polverosi di quelle edizioni vanno via a ruba
comprati ad alti prezzi dalle università, dalle biblioteche dei seminari
e delle chiese cattoliche di America, d'Irlanda e di Germania, che fanno
a gara a provvedersene per gli studi dei chierici.

Ma è un vero risveglio di studi? A molti segni la risposta parrebbe non
potere esser dubbia. L'alto clero romano non solo non compra più libri
moderni ma lascia vender gli antichi; e ogni passo che fa oggi
nell'insegnamento filosofico e teologico la tradizione centrale
rappresentata da Roma, è un suo chiudersi sempre più in sè, è un
alienarsi dal laicato e da ogni pur lontano sentore d'idee scientifiche
moderne. Ieri appena uno scrittore, mi pare, della _Civiltà Cattolica_
voleva trovare in san Tommaso persino la chimica. Se san Tommaso, che ai
suoi tempi professò e spinse all'estremo la compenetrazione delle verità
religiose con la ragione, e studiò e riferì con onestà scrupolosa, in
tutta la loro forza, le obiezioni che allora si facevano alle dottrine
ortodosse, se san Tommaso tornasse oggi al mondo, io credo che
riconoscerebbe più di sè stesso e della sua filosofia, in Antonio
Rosmini condannato da Roma, e che solo ai nostri tempi ha ravvivata la
Scolastica, e nel liberale e colto clero di Lombardia suo seguace, che
non ne' loro avversari.

Chi segua con attenzione i segni dei nostri tempi e delle condizioni
morali d'Italia, da qualunque parte vengano, non può restare
indifferente, o signori, a quelli che danno di sè la coltura e
l'indirizzo intellettuale filosofico della Chiesa. Il problema se e come
sia possibile in avvenire una trasformazione delle dottrine del
cattolicismo romano d'accordo col pensiero e coi bisogni morali del
laicato e delle classi più culte; questo problema c'è — chi può negarlo?
— ed è dei più vitali ed importanti tra quelli che s'impongono alla
nuova vita e alla coscienza del nostro paese. L'Italia laica, pensante
vi porterà, lo spero, un giorno o l'altro per risolverlo, non apostasie
che sarebbero anacronismi, contrarie a tutta la nostra tradizione e
all'istinto del popolo, non mere negazioni infeconde, ma molto di quel
sano _buon senso_ pratico che ha pur la parte sua anche in materia di
religione. Poichè, se è vero che le vie di quella fede alta, madre di
forti caratteri e di larghe menti e di moralità operosa, di cui vive
ogni popolo grande, non sono state punto chiuse dalla scienza — la quale
respinge più indietro l'arcano delle cose ma non lo toglie — è anche
vero che tra codeste vie la più dritta sarà sempre quella in cui l'uomo
potrà entrare con tutto sè stesso: con in cuore gli impeti di un'anima
credente nel bene e nell'ideale, ma anche con gli occhi volti alla buona
scorta di un sapere largo, rigoroso, disinteressato.



LE ORIGINI DELL'ARTE NUOVA

DI

ENRICO PANZACCHI


_Signore e Signori!_

Io credo di non ingannarmi affermando che, quando da principio voi
conosceste il concetto generale che doveva ispirare, regolare e
contenere in una certa unità le Conferenze che si sarebbero tenute in
questo luogo, la vostra mente volò subito al tema bello e attraentissimo
che la Commissione Direttiva — pur troppo! — volle affidare a me ed alla
mia povera parola, per la quale caldamente invoco tutta la indulgenza
del vostro buon volere. — Ho detto che non credo d'ingannarmi perchè ho
più volte fatto l'esperimento in me e in altri che quando si torna col
pensiero a quei “primi albori„ della vita italiana, dopo il lungo
letargo del medio evo, con la nostra immaginazione ci pare subito di
sentire come un soffio caldo e potente di rinnovamento artistico, ci
pare di vedere una vasta rifioritura d'arte che da lontano ci rallegri
coi suoi bellissimi colori. — Il rimanente di quel grandioso e complesso
fatto storico che è il rinascimento italiano, o non lo pensiamo o lo
penseremo poi, o lo vediamo come in una penombra e quasi nei piani
inferiori del quadro. Gli storici coscienziosi e corretti intervengono e
ci dicono: ma badate; voi commettete un grande errore di prospettiva
storica! L'arte non è mai, per quanto importante essa sia, elemento
primigenio e principalissimo nel sorgere di una civiltà. Tanto è vero
che vi sono popoli i quali risorsero a nobile vita civile senza arte
grande; o l'ebbero molto più tardi, come gli Inglesi e gli Spagnuoli, o
l'ebbero in parca misura. — Tutto vero, o signore, quello che dicono gli
storici; ma è altresì innegabile una legge dello spirito nostro per la
quale noi siamo tratti a sintetizzare e quasi a simboleggiare tutta
un'epoca per certi suoi caratteri dominanti. Quando pensiamo l'antica
Roma, noi vediamo subito fasci consolari e lotte di patriziato e di
plebe, vediamo legioni armate moventi alla conquista del mondo. — Invece
quando pensiamo al risorgimento italico e massime Toscano dinanzi alla
nostra fantasia si delineano subito delle magnifiche fabbriche marmoree
sorgenti in luogo dei tristi manieri medioevali, vediamo per la città un
popolo festante ed orgoglioso del canto dei suoi poeti e dei quadri dei
suoi pittori; pensiamo a Dante Alighieri e a Guido Cavalcanti, a Niccolò
Pisano e a Giotto di Bondone; pensiamo alla Cattedrale di Pisa ed a
Santa Maria del Fiore. Insomma quest'epoca è sintetizzata nell'arte; la
bandiera che precedette gli Italiani nel glorioso loro esodo fuori delle
tenebre del medio evo è la bandiera dell'arte, e senza l'arte il
rinascimento italico pare che noi non potremmo nè spiegarlo, nè
immaginarlo.

E di questo argomento, o signore, io dovrò intrattenervi. Una voce
autorevole ed amica mi ha detto che al mio discorso sono prescritti dei
limiti che io non potrò varcare. Ha detto questa autorevole ed amica
voce che muovendo dal medio evo dovrò fermarmi al dugento, al puro
dugento. Quegli stessi avvenimenti i quali, pure avendo la loro origine
cronologica in questo secolo, si svolsero caratteristicamente e si
compierono nel secolo che vien dopo, sono rigorosamente banditi dal mio
discorso.

Io starò a questo limite. Confesso che così la parte forse più attraente
del mio tema viene ad essere resecata, ma si tratta di un principio ed
io piego la fronte, consolandomi con la memoria di quel detto eroico:
perano le colonie ma si salvino i grandi principii!

Ed anche con questa limitazione, o signore, il mio tema è vastissimo,
sterminato; e io fin d'ora prevedo che sarà passata l'ora che mi è
assegnata per parlare ed io avrò appena segnato nel vasto quadro qualche
linea, avrò appena abbozzato qualche contorno di figura. — Una ragione
di più perchè io, senza altri preamboli, entri subito nel mio soggetto.

Che cosa è, o signore, esteticamente parlando, il medio evo? Non si può
parlare del risveglio artistico che si manifestò nel dugento senza
risalire, un poco o molto, all'epoca precedente. Lasciamo da parte le
quistioni politiche, sociali, religiose: limitiamoci a considerare il
medio evo nel puro aspetto dell'arte.

Per me, lo dico subito, il medio evo è un'epoca essenzialmente
inestetica. I rivendicatori di quest'epoca insorgono contro questa mia
affermazione e adducono fatti numerosi e importanti per provare il
contrario, ma io credo che essi vadano equivocando e che confondano il
vero medio evo con dei fatti che costituiscono appunto la negazione e il
principio della cessazione di quell'epoca. Figuratevi che vi sono alcuni
i quali mettono fra le glorie del medio evo anche la _Divina Commedia_!
Procedendo di questo passo, chi sa davvero fin dove si arriva, o
signore! E perchè, domando io, non si comprende ancora il _Canzoniere_
del Petrarca, il _Decamerone_ del Boccaccio? Perchè non ancora Poliziano
e Leon Battista Alberti, la giovinezza di Michelangiolo e quella di
Leonardo da Vinci? Tanto, se si deve stare alle nozioni, che
impartiscono nelle scuole certi compendi di storia, il medio evo non
cessa se non quando Colombo scopre l'America o i Turchi si decidono a
entrare in Costantinopoli!!

Queste cose i ragazzi, pur troppo, se le bevono. Ma non è così che si
può qualificare un'epoca; non è entro una delimitazione puramente
cronologica che è possibile confinarla. Bisogna che noi ci portiamo nel
fitto, nel cuore di quell'epoca triste, nel lungo tratto di tempo che
va, per esempio, dalla calata dei Longobardi fino alla prima metà del
secolo XI, superati d'appena i terrori del Mille e le aspettazioni
paurose dell'imminente finimondo.

In quest'epoca, che secondo la tradizione popolare d'accordo col retto
criterio storico, costituisce il vero medio evo, o signore, io non
riesco a vedere gli elementi dell'opera d'arte. — L'opera d'arte degna
di questo nome, resulta dall'accordo di quei certi elementi che, secondo
la bella frase di Leonardo da Vinci, formano una “divina simmetria„.
Bisogna da un lato che l'idea discenda dalla sua vaga astrazione e
comunque si umanizzi; bisogna, dall'altra parte, che la materia si elevi
e si affini. Da questo umanarsi dell'idea e da questo elevarsi della
materia nasce un accordo, un contatto, magari un urto simpatico che fa
scattare la divina scintilla. — Ora se voi penetrate nel vero spirito
del vero medio evo, che cosa trovate voi invece? Trovate per l'appunto
un dissidio, e spesse volte un conflitto aperto e rude tra questi
elementi dalla cui unione la buona opera d'arte dovrebbe scaturire.

Da una parte il medio evo è troppo idealista, d'altro lato è troppo
materiale; da un canto avete l'ascetismo, il misticismo, l'estasi e le
inani sottigliezze del pensiero umano spinte dalla Scolastica agli
estremi limiti. Dall'altra avete il regno violento della forza ed il
grido perpetuo dei forti: guai ai vinti! A ogni pagina di quella triste
epoca vi ricorrono alla mente le parole che Alessandro Manzoni metteva
in bocca al moribondo Adelchi, l'eroe rappresentativo di quella epoca:

                          ..... Una feroce
    Forza il mondo possiede, e fa nomarsi,
    Dritto: la man degli avi insanguinata
    Seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno
    Coltivata col sangue; e omai la terra
    Altra messe non dà....

Le grandi potestà del medio evo, Chiesa e Impero, adoperavano ognuna i
propri argomenti per porre un'armonia in codesto grande conflitto che dà
il carattere e forma come il dramma vivo del medio evo; ma siccome
queste due supreme potestà erano esse pure in conflitto tra di loro,
tante volte avviene che invece di comporre scompongono, invece di far
cessare la discordia la producono in forma più acuta e più violenta.
Oggi avete Arrigo IV ignudo e tremante alle porte di Canossa; domani
avete Gregorio VII che muore in esilio “per avere amata la giustizia e
odiata l'iniquità„. E sempre da capo avrete il medesimo conflitto, non
componibile mai, sino alle scomuniche di Leone X e al sacco di Roma pei
lanzi di Carlo V.

Data questa atmosfera, la vera e completa opera d'arte era impossibile.
— Non vi sono fiori in quella devastata landa, o sono così gracili che
appena nati muoiono; o sono così misticamente pallidi che il loro colore
non può giungere fino ai nostri occhi di carne. Ricordatevi una
similitudine di Dante nel _Purgatorio_:

    Come per sostentar solaio o tetto
    Per mensola talvolta una figura
    Giunger si vede le ginocchia al petto....

Ebbene, in questa cariatide Dantesca a me par di veder raffigurata in
qualche modo la vera arte medioevale. Vi è qualche cosa di faticoso, di
triste, di pesante nella significazione di quell'arte. Nell'architettura
voi notate troppo spesso o una sproporzione geometrica tra le masse
ornamentali e le masse organiche, o una sproporzione statica fra la
pesantezza e la solidità, oppure avrete l'eccesso opposto. Lo stile
ogivale, in favore del quale il romanticismo nel nostro secolo suscitò
tanti entusiasmi, ha una singolare istoria, che sarebbe tempo di
rivedere con criteri più sereni e più esatti. Invece principiamo, al
solito, a generare degli equivoci con una inesatta appropriazione di
nomi. Quando l'architettura gotica o ogivale, uscita dall'Ile-de-France,
si stende ai paesi del Reno e viene in Italia, s'incontra con le
tradizioni romaniche, si congiunge ad esse e in esse trova correzione e
temperanza. Allora sorgono degli edifici davvero ammirabili che danno
alla architettura una nuova pagina gloriosa. Ma quando il gotico non è
che medioevale e non si espande che per forze proprie e si abbandona a
tutte le sue passioni, per le linee verticali, allora abbiamo, come ben
disse Giulio Michelet, una specie di vera scolastica architettonica, con
tutti i suoi errori, le vanità e le sottigliezze decadenti,
rappresentati da quelle selve di guglie e tabernacoli, contro le quali
non debbono parere poi tanto ingiuste le invettive, che, a nome del
luminoso genio del Cinquecento, gli volgeva contro il buon Vasari.

Della pittura è lo stesso. Entrate in quelle tenebrose chiese del vero
medio evo, alzate gli occhi agli absidi, guardate quelle figure che
hanno qualche cosa fra il grandioso e l'elefantesco, e la mente vostra
rimane troppo indecisa se quella sia grandiosità vera o piuttosto una
macchinosità inelegante. Manca anzitutto a quelle pitture la completa
individuazione, condizione indispensabile dell'opera d'arte figurativa.
Infatti gli artisti hanno sempre bisogno di aggiungere alla figura un
simbolo che la distingua e la determini. Lo stesso dissidio e la stessa
indeterminatezza voi notate cercando la espressione morale di quelle
figure. Che vi dicono essi? Quegli enormi Redentori vi destano
nell'animo un turbamento irrequieto, un sentimento che non sapete
definire. La mano di Gesù si alza a benedirvi, ma i suoi occhi sono così
torvi, la sua faccia è così corrugata, che voi rimanete in forse se
quello sia veramente un gesto di benedizione o di maledizione....
Insomma, se non fate degli scambietti di storia ma rimanete entro la
cerchia del vero medio evo, voi ci troverete lo sforzo, il tentativo, la
velleità dell'opera d'arte; l'opera d'arte vera e completa non mai. A
tutte le opere d'arti medievali si potrebbe applicare una frase dantesca
e chiamarle “automata in difetto„. — Quell'agile e complessa fusione che
darà per risultato la “divina simmetria„ è ancora di là da venire; è
ancora troppo lontana.

E come poteva essere altrimenti, o signore? Guardiamo un poco. Il medio
evo è pieno di terrori, di tristezze, di scoramenti. È inutile che io
vada qui enumerando le cause storiche che danno alla psicologia dei
popoli occidentali di quell'epoca questo carattere; ma è fuori di dubbio
che l'arte per vivere, per fiorire ha bisogno di amore, di giocondità e
di speranze. Bisogna guardare a questa vita con un certo fiducioso
compiacimento perchè l'arte fiorisca. La negazione pessimista, sia essa
mistica o atea, è un vento di deserto che impedisce all'opera d'arte di
nascere, oppure, nata appena, la mortifica e la brucia.

E poi nel medio evo predomina troppo la fantasia del brutto. Il
predominio del diavolo che è incarnazione di tutte le deformità e di
tutte le bruttezze fisiche e morali, ha uno strano, un soverchio
ascendente nella vita intellettuale e fantastica degli uomini e delle
donne del medio evo. Il Diavolo è da per tutto. La vita è tutta una
specie d'infestazione diabolica, è tutta un tessuto di tentazioni, di
persecuzioni, d'insidie, di scherni, d'insudiciamenti diabolici. Sapete,
o signore, quando il mondo cristiano cesserà di essere inestetico e
quando si formerà una temperatura favorevole all'arte? Quando, secondo
la leggenda narrata da Giorgio Vasari, il Diavolo comparirà in sogno ai
pittori e si lamenterà con loro e dirà che è tempo di smettere, di farlo
così brutto; e che egli non è poi tanto brutto come lo si dipinge!...
Egli è, o signore, che l'epoca inestetica simboleggiata in questa
leggenda comincia a passare, egli è che una grande redenzione artistica
va facendosi nel mondo; e in quella redenzione anche il Diavolo sarà
beneficamente coinvolto. E Belzebù, e Berlicche e tutta quella
iconografia diabolica che infesta e domina il medio evo darà luogo a
delle visioni meno tristi e meno deformi. Avremo in seguito la, ancora
brutta, ma pur grandiosa concezione dantesca:

    L'imperator del doloroso regno;

e poi ascendendo ancora arriveremo al Satana della Gerusalemme liberata:

    Orrida maestà nel fero aspetto....

I suoi occhi splendono “come infausta cometa„ ma anche quella delle
comete è luce siderale. E ascendendo sempre arriveremo alla concezione
di Giovanni Milton. Il brutto e ridicolo Diavolo delle tregende, lo
sconcio Berlicche sconciamente baciato dalla strega nei sábbati,
scomparirà a poco a poco dall'orizzonte dell'arte cristiana. Sottentrerà
Lucifero, l'angelo peccatore, l'angelo caduto, ma che pure nella fronte
fulminata serba, se non un raggio, almeno un vago riflesso della sua
primitiva bellezza.

E altra causa, o signore, delle condizioni inestetiche del medio evo voi
la dovete trovare nell'abbiettamento del corpo umano che il medio evo
prescriveva. Dopo il Diavolo il grande nemico del medio evo, tenetelo
bene a mente, è sempre il corpo umano; anzi il Diavolo stesso non
avrebbe presa e dominio sopra di noi, se non l'acquistasse per mezzo del
nostro corpo. Questo predicava con tutte le sue voci l'ascetismo
medievale. Ora, o signore, io credo di non essere nè ingiusto, nè
irriverente verso di lui. Ebbe anch'esso certamente il suo lato buono
nel grande poema dell'umanità. Il corpo umano nelle civiltà pagane aveva
troppo esultato, aveva troppo tripudiato, aveva troppo tiranneggiato col
fascino delle sue forme; troppo aveva sacrilegamente abusati i misteri
dell'amore e della morte.... Bisognava che gli fosse inflitta una lunga
penitenza: questa penitenza gl'inflisse l'ascetismo cristiano; e fu
forse giustizia. Ma voi dovete ancora comprendere che in un'epoca in cui
questo corpo umano era considerato come il grande nemico, dove
continuamente bisognava pensare a domarlo, a invigilarlo, a correggerlo
e sopratutto a nasconderlo, l'arte si vedeva tolto un grandissimo
elemento alle sue rappresentazioni. Quale differenza coi Greci! Essi
invece avevano per la bellezza corporea una specie di culto, la
consideravano come una benedizione degli Dei e quasi l'equiparavano alla
virtù. I bei corpi ignudi lucenti di puro olio d'oliva e lottanti nelle
palestre, erano degni di ammirazione, di premio, quasi di culto; e
allora si capisce che Fidia e Cleomene cogliessero dal vivo quelle belle
forme e le trasportassero nella giovinezza immortale del pario e del
pentelico come una seconda apoteosi.

Questo, o signori, non poteva accadere nel medio evo, perchè avrebbe
troppo avuto odore di peccato. — Anzi notate un fatto. Visitate certe
chiese medievali: entrate per esempio nella bella chiesa di Santo
Stefano a Bologna, esaminate la cattedrale di Ferrara, quella di Modena,
parecchie chiese in Lombardia; in questa stessa Firenze recatevi in
quelle chiese che meglio vi danno il carattere dell'epoca e osservate
una curiosa progressione. Quando la scultura si ferma al puro mondo
vegetale, voi la vedete, malgrado la rozzezza della tecnica, dare dei
saggi di una non ispregevole abilità e anzi assurgere ogni tanto a forma
di rara bellezza. Se dal campo dell'ornamentazione, per via di steli,
foglie e fiori, passate in quello tolto dal regno animale, anche qui non
di rado v'imbatterete in alcuni pregevoli risultati. Invece quando la
scultura entra a cimentarsi con la figura umana, ecco che essa ricade in
tutta la sua impotenza e il goffo e il brutto vi regnano sovrani. Alcuni
crederanno di spiegare questo progresso negativo adducendo essere molto
più facile all'artista ritrarre un elegante convolvolo vegetale o un
serpente, un grifo, un leone che una figura umana. Ma la spiegazione è
insufficiente. Quando l'arte ha potere di cogliere e ritrarre fedelmente
le linee esteriori dei corpi, per quanto questi mutino, una certa
abilità dovrà sempre dimostrarla. Nel caso nostro invece non abbiamo
solo gradazione, ma salto a dirittura. La scultura non sembra più
un'arte quando ritrae la forma dell'uomo e della donna. Perchè? Il
perchè adeguato non si ritrova se non si pensa che l'artista medievale,
o consapevole o per abito o per istinto, mettesse nel suo lavoro qualche
cosa di quel disprezzo pauroso del corpo (_contemptus corporis_) che
l'ascetismo predicava di continuo e prescriveva.

Stando le cose in questi termini, e tali essendo le condizioni
dell'arte, si domanda: come potè la civiltà occidentale, e la civiltà
italiana in ispecie, uscire da queste condizioni inestetiche e rifornire
gli elementi di vita alle arti belle? Come potè la calda e luminosa
concezione del bello rivivere negli intelletti e dagl'intelletti passare
nelle mani ubbidiente?

Sulle rive della Brettagna raccontano che, al tempo dei tempi, il mare
inghiottì una città. Quella città sprofondata nell'acqua era tutta
morta? No. La leggenda continua che quando la calma del meriggio è
profonda, quando è profondo il silenzio della notte, i pescatori sentono
uscire di giù dall'acqua dei suoni di campane, come indizio che la vita
non si è interamente spenta in quella città sepolta. È il caso della
civiltà in Italia. “L'anima italiana„ per dirla con Gébart, anche nel
più fitto dell'età di mezzo, non cessò mai interamente di vivere nelle
condizioni e nei caratteri che aveva impresso in lei la civiltà
greco-latina.

La storia, o signore, non ci presenta solo un grande arringo in cui
vengono a conflitto il Vero e il Falso, il Bene e il Male; è ancora un
campo glorioso alle lotte del Bello e del Brutto; e certe razze hanno
portato in queste lotte una predestinazione di glorie incomparabili.

La Grecia tiene il primo posto. Accettò i miti dell'Oriente, ma col suo
potente genio estetico vi esercitò sopra una selezione di bellezza.
Escluse più che potè il deforme; e i miti bestiali si tramutarono in Dei
raggianti di giovinezza e di beltà. Anche quando non respinse l'orrido e
il mostruoso gli diede forma artistica; quando ritenne qualche elemento
bestiale seppe mitigarlo e innestarlo con grazia incomparabile. Esempi
la Sirena e il Centauro.

L'“anima italiana„ all'uscire del medio evo si mostrò non indegna
sorella della greca; e questo avvenne perchè i germi e i ricordi
dell'antica civiltà non furono mai in lei nè spenti nè oscurati del
tutto.

Si potrebbe occupare una lunga conferenza, o signore, raccontando tanti
particolari e tanti aneddoti della storia provante che di tanto in tanto
il fantasma dell'antica bellezza ripullulava negli animi di quegli
uomini accasciati dalla tristezza, dall'ascetismo e dalle grandi
calamità della storia. Quel fantasma era considerato come il Nemico, era
cacciato via come il Maligno; ma questo Nemico e questo Maligno avevano
delle seduzioni irresistibili; e talvolta il povero monaco apriva la
finestra dell'anima a questo seducente fantasma.

E si vide anche in alcune testimonianze di grandissimo significato.

Il genio latino, per quanto combattuto e devastato dalle influenze
anti-estetiche medievali, riuscì a conservare belli certi tipi che
sovrastavano alla sua vita ideale; e sopratutto il tipo del Cristo
Redentore.

Non so se sia mai stata segnalata tutta la importanza che ha questo
fatto nella storia morale ed estetica dell'Occidente cristiano. È certo
che anche sulla faccia di Cristo, su questo tipo consolatore del genere
umano, cercò di estendersi l'ombra fredda della bruttezza. Quando si
stava per entrare nel medio evo ci fu grande dissidio nella Chiesa. I
Padri Orientali e sopratutto quelli d'Africa sostenevano che Cristo era
stato singolarmente brutto fra tutti gli uomini; e così argomentavano
non senza una certa concezione audace e grandiosa, basandosi sopra certi
testi biblici: che Gesù Cristo essendo venuto a redimere il genere umano
avesse voluto pigliare sopra di sè tutte le colpe e tutte le miserie del
vecchio Adamo, compresa la bruttezza corporea. Ma contro questa teoria
insorse il genio italo-greco e l'istinto estetico della Chiesa latina. E
la Chiesa latina fece trionfare invece il concetto che corporeamente
nella figura di Cristo si erano accumulate tutte le perfezioni,
basandosi anch'essa sopra un testo biblico: _speciosus forma præ filiis
hominum_. E notate un altro fatto: la figura di Cristo storicamente non
ci viene tramandata da nessuno; nè dagli Evangelisti, nè dagli Apostoli.
Le pie donne che lo seguirono e lo confortarono, “Maddalena che amò,
Maria che pianse„ non ci hanno tramandate le sembianze di Cristo; e
cominciarono nondimeno a correre e stabilirsi in mezzo alla Chiesa
d'Occidente delle notizie precise sulle sembianze di lui: la statura
elegante e maestosa, le mani lunghe e sottili, i capelli biondi,
inanellati e spartiti al sommo della fronte, il volto ovale, gli occhi
tagliati a mandorla, cerulei, pieni di dolcezza.... È ben questo il bel
profeta che traeva le turbe, che consolava le donne, e che faceva sì che
i pargoli andassero a lui! Chi ci ha lasciato questo ritratto? Notatelo.
Un latino, il proconsole Lentulus, che ai giorni di Cristo vivea presso
Erode e scriveva al Senato romano. La lettera di Lentulus è senza dubbio
apocrifa, ma nel caso nostro prova più che molti documenti autentici;
prova che anche in questo la latinità agì potentemente sull'indole e lo
svolgimento del Cristianesimo. E fu una vittoria importantissima del
Bello sul Brutto. Così rimase fissato e ci fu conservato quel tipo di
Cristo, che potè variare in alcune modalità, ma rimase identico nella
sostanza attraverso i secoli: dall'umile arte delle catacombe, lungo il
medio evo, sotto il pennello di Giotto, sotto la stecca di Donatello;
così placidamente bello nella calma della morte come nella _Pietà_ di
Michelangiolo; così umanamente triste nella _Cena_ di Leonardo da Vinci;
così trasfigurato dalla gloria nell'ultimo quadro di Raffaello; così
potente di pensiero e di volontà nella figura del Cristo taumaturgo del
Rembrandt; così tragico nel _Cristo morto_ di Holbein; così elegiaco e
amabilmente sentimentale nelle teste di Wandick; così romantico in
quelle di Guido Reni.

Ai nostri giorni pur troppo degli artisti italiani e forestieri, tratti
da non so quali considerazioni archeologiche ed etnografiche, hanno
voluto rimpastare il tipo di Cristo, e ci hanno dato un non so che di
siriaco, di cananeo, di samaritano.... Forse, quanto alla storia,
saranno più vicini al vero. Ma la coscienza popolare ha respinto questa
innovazione ed io dico che ha avuto le sue buone ragioni di respingerla.
La coscienza popolare ha capito che, in ogni caso, non è per
considerazioni archeologiche ed etnografiche che l'umanità ama di veder
ancora riprodotte le sembianze del Cristo; ed ha detto agli artisti:
ridateci il nostro bel Cristo latino quale ha attraversato incolume
tante vicende di storia umana, quale ha seguitato a consolare i nostri
padri, quale è stato per tanti secoli dall'umanità amato ed adorato!

Ora voi capite subito che questo fu un grande coefficiente per la
conservazione e ricostituzione dell'ideale estetico presso le nazioni
cristiane. Data la bellezza di Giove, tutto l'Olimpo greco doveva
parteciparne; dato bello il tipo di Cristo, tutte le gerarchie del
Cristianesimo dovevano riflettere alcun che della sua bellezza; e se voi
esaminate i quadri dei più antichi pittori voi trovate che in tutte le
figure degli Apostoli, degli Evangelisti, dei Profeti viene come a
riverberarsi, quasi aria di famiglia, un raggio della bellezza
splendente nel volto di Cristo.

Ma questo certo non avrebbe bastato. Ripeto che ciò che rese possibile
il risorgimento artistico in Italia ed in Toscana fu l'immanenza dei
ricordi della bellezza classica. Una leggenda rabbinica, resuscitata e
commentata molto ingegnosamente da Ernesto Rénan, racconta che nel medio
evo il popolo di Roma (e notate che quando si diceva Roma s'intendeva
tutta la latinità) sotto le macerie che ingombravano la città eterna
teneva nascosta una bellissima statua di donna nuda; che questa
bellissima statua era conservata con mistero; che la sua esistenza era
tenuta gelosamente nascosta alle potestà civili ed ecclesiastiche; ma
che i Romani di tanto in tanto per consolarsi delle dominanti miserie,
delle continue devastazioni, degli spettacoli di reità che venivano loro
da ogni parte, scendevano in quel sotterraneo e si fermavano lungamente
a contemplare questa bella statua, e la baciavano e la bagnavano delle
loro lacrime. — A me par di vedere, o signore, in questo culto di una
bellezza sepolta il ricordo inestinguibile, che durò sempre in fondo
alla fantasia del popolo latino, di quell'arte stupenda che Roma aveva
saputo redare dalla Grecia, e che per molti rispetti aveva saputo così
spontaneamente, così validamente, con tanta genialità, checchè ne dicano
alcuni, assimilarsi.

Ebbene, che cosa abbisognava perchè l'arte risorgesse? Abbisognava che
ciò che era fantasia prendesse parvenza di realtà; bisognava che questa
“bella statua„ uscisse dalle tenebre delle catacombe e splendesse
novellamente alla luce del sole d'Italia; bisognava che, o collettiva o
individuale, sorgesse un'opera di ricostituzione, di ripristinamento. —
L'Italia non poteva risorgere all'arte se non rinvigorendo questo
ricordo classico al punto di renderlo, come per opera di spirituale
contagio, così attuoso che da quelle stesse mani che avevano conservato
l'antico capolavoro uscisse se non il capolavoro completo, almeno una
degna opera artistica.

E così accadde, o signore. L'opera, prima che collettiva, fu
individuale. Dove sorse l'uomo che operò questo miracolo? Chi fu
l'evocatore della bella statua antica? Se fosse nato a Roma, coloro che
trattano la storia dell'arte con molta ingegnosa filosofia ma con dei
procedimenti che qualche volta somigliano un po' troppo ai processi
buoni per la botanica e per la chimica, avrebbero esclamato: vedete!
L'uomo è nato a Roma, nè poteva nascere altrove che a Roma. Invece la
storia, che spesso si compiace di schernire certe generalità, ci narra
che quest'uomo nacque in una città tutta dedita ai traffici ed alla
combattuta vita del mare. Niccolò Pisano! Ecco l'uomo che evocò il
fantasma della classica bellezza addormentata per tanti secoli e tenuta
gelosamente sepolta nelle catacombe dal popolo di Roma.

Niccolò Pisano è uno dei nomi che suonano più gloriosi nella storia
dell'arte poichè, ripeto, la sua è opera grandemente individuale. V'è un
salto, e si potrebbe dire anzi un abisso fra quel che egli fa e quel che
facevano gli artisti di poco precedenti o contemporanei a lui. Guardando
alla sua opera, non vediamo neanche quella preparazione e quel certo
rapporto di avviamento che pur notiamo nei più prossimi Bizantini i
quali, nella pittura, precedettero, apparecchiarono Cimabue e ne
accompagnarono l'opera. Si è costretti a riconoscere che quest'uomo fu
privilegiato dalla natura di doni singolarissimi. Quanti erano passati
davanti ai ruderi dell'antichità, quanti avevano veduto il mito di
Meleagro e di Ercole e di Fedra e di Ippolito balzare, sorridere
inutilmente dai vecchi sarcofaghi! Pare che tutti avessero sugli occhi
una specie di cateratta artistica! Invece Niccolò Pisano ruppe questa
cateratta e con uno slancio d'arte ammirevole, che non ha forse esempio
nella storia artistica di altri tempi, portò la scoltura dalle forme
rozzissime a quelle forme sue, che se non sono perfette, se accusano
l'inesperienza della tecnica, ritraggono però tutti gli elementi
dell'arte antica, e chiudono i germi di tutti i capolavori futuri, fino
a Michelangelo, al Bernini, al Bartolini. Per convincervene voi
dovreste, con questo intendimento di comparazione, fare un viaggio in
qualunque direzione di questa vostra privilegiata terra di Toscana.
Muovere per esempio da Pistoia a vedere l'architrave della porta di San
Giorgio e poi fermarvi un momento a Groppolo a vedere la statua
dell'Arcangelo Michele, archeologicamente preziosissima, ma deforme. Poi
passare a Lucca ad esaminare la celebre vasca di San Frediano e
finalmente giungere a Pisa.... Ma che dico? Quando sarete a Pisa vi
convincerete che quel viaggio è stato inutile. Non c'era bisogno di
muoversi. Là in quella città di mercanti e di marinari abbiamo, nello
spazio di pochi metri quadrati, raccolti e messi un di fronte all'altro
tutti gli elementi per un confronto vero, concludentissimo. Vedete là
una specie di triangolo: la Cattedrale, il Battistero, il Camposanto.
Cominciate con esaminare nella porta della Cattedrale che cosa fosse la
scultura in un periodo di poco precedente a quello inaugurato dal grande
Niccolò. Quanta goffezza nella scultura di quelle porte, quanta
deformità!... Appena qua e là qualche movenza ingenua, appena qualche
concetto spirituale che vi ferma e vi soddisfa. Volete vedere il
miracolo? Fate solamente pochi passi; partite dalla Cattedrale, entrate
nel Battistero ed esaminate il pulpito. Se i documenti non
testimoniassero, vi parrebbe impossibile che a poca distanza di tempo la
scoltura avesse potuto fare un passo così enorme. E donde ha tratto le
forze esteriori per farlo? Fate ancora alcuni passi; andate nel bel
Camposanto ed esaminate con qualche attenzione il sarcofago della
contessa Beatrice, che fu madre della contessa Matilde. Guardate il mito
di Fedra e d'Ippolito e subito il mistero vi è svelato. Le sembianze di
Fedra sono diventate le sembianze di Maria, le sembianze degli altri
personaggi del sarcofago si riproducono nel pulpito di Niccolò. Vi sono
figure di vecchi che ricordano filosofi antichi, vi sono teste di
cavalli che vi fanno pensare alle quadriglie degli antichi trionfi.
Insomma è una evocazione, una risurrezione, pel tempo e per le
circostanze del tutto maravigliosa!

Ma si domanda: questa epoca così gloriosamente iniziata da Niccolò
Pisano, poteva considerarsi come piena e definitiva per il risorgimento
della nuova arte italica? Non lo credo. Intanto notate che l'impulso di
Niccolò, per quanto fosse vigoroso, fu di poca durata ed ebbe un seguito
relativamente scarso. I suoi allievi e successori immediati poco
aggiungono all'opera sua. Per tutta Italia, oltre Pisa, a Lucca, a
Arezzo, a Bologna, a Roma, a Napoli, si ammirano i monumenti della
scultura rinnovata per opera del grande artista pisano; ma nè il
figliuolo Giovanni, nè fra Guglielmo da Pisa, nè fra Guido da Como, nè
lo stesso Andrea e Tommaso e Nerio fanno muovere all'arte dei grandi
passi. È fuor d'ogni dubbio che per un periodo di oltre cinquant'anni
abbiamo nell'arte una specie di sosta. Attività materiale grande, ma
progressi scarsi. Più che d'una corsa in avanti si tratta di un moto
circolare sempre dintorno al medesimo centro. Non è più il marasma di
prima, ma una stasi incerta e irresoluta di cui, sulle prime, non
sappiamo renderci conto.

Ma la ragione non è difficile a trovarsi, o signore. L'opera di Niccolò
Pisano non poteva dare la forma definitiva e l'andamento completo al
risorgimento artistico in Toscana, perchè in sostanza l'arte sua è
un'arte di reminiscenze, è un'arte di pura tradizione. Con essa il Genio
italico si riannoda al suo passato glorioso. Era moltissimo ma non
bastava. Bisognava fermare i piedi sicuri sul presente e divinar
l'avvenire.

Per un'arte nuova facevano mestieri degli elementi nuovi, degli elementi
che ritraessero la ragion loro in modo più diretto dalle condizioni
della storia contemporanea e dalla natura. Pensate solo a questo, o
signore; la donna più morbosamente amorosa dell'antichità, Fedra, che
appena Euripide aveva osato portare, tardi, sulle scene della Grecia;
Fedra doveva dare per mezzo dell'artista cristiano le sue sembianze alla
madre di Cristo, alla personificazione cristiana di tutte le idealità
della donna. Questo, voi lo vedete bene, nell'arte metteva i germi di un
altro conflitto che, a lungo andare, ci avrebbe forse ripiombati in un
altro caos artistico e in una impotenza somigliante a quella dalla quale
eravamo appena usciti. Era necessario che il movimento artistico di
Toscana si sdoppiasse, o meglio che il primo fosse seguito da un secondo
più efficace perchè più comprensivo. E per tutta Toscana voi sentite
come scorrere un soffio caldo e primaverile: vedete Arezzo, Pisa, Siena,
Lucca, Firenze che vi danno idea di amazzoni gagliarde in gara fra di
loro. Corrono, corrono e ognuna vuole arrivar prima!... Arezzo ha il suo
Margheritone, Pisa ha il suo Giunta, Siena ha Guido, Firenze ha Cimabue.
Già si prevede che, come il periodo precedente ebbe inizio dal risveglio
della scultura, in questo secondo la pittura dominerà; la pittura che si
stende con ala più vasta nell'orizzonte dell'arte. Si prevede ancora che
in questa nobilissima gara la vittoria rimarrà a Firenze; a Firenze che,
fra le città italiane, era una di quelle che conservavano in minor
numero ricordi e avanzi dell'antica arte classica: fatto importantissimo
questo, già notato dallo stesso Benvenuto Cellini; e che doveva
grandemente influire sull'indirizzo più libero, sul carattere più
originale, sulla schietta modernità insomma dell'arte e che s'andava
maturando e batteva alle porte dell'avvenire.

Dunque, riassumendo: Pisa doveva dare al rinascimento dell'arte italica
l'elemento tradizionale e lo diede con l'opera di Niccolò e dei suoi
scolari; lo diede vigorosissimo, lo diede in modo da render ben
meritevole la fama gloriosa che il Pisano si è acquistato nella storia.
Ma bisognava entrare in un periodo nuovo; e Firenze vi entrò con un
vigore e con una fortuna che sconfisse tutte le altre città toscane in
gara con lei. Le esagerazioni storiche del Vasari sono già state cribate
e ridotte al loro giusto valore. Vasari vide con occhio troppo toscano e
forse troppo fiorentino quando entrò nei particolari; ma nella grande
linea storica il buon aretino si mantenne nel vero. Firenze doveva
essere la sede, doveva essere il faro da cui sarebbe partita la nuova
luce. Tutto contribuiva nel conferire a Firenze questa privilegiata e
gloriosa missione storica. Il suo popolo era libero, forte, ricco,
fidente di sè, guardava con sicurezza al futuro. Era sopra tutto
istruito, come nessun altro popolo in quel tempo. Erano i giorni, o
signore, in cui i poeti si sognavano di esser messi per incantesimo in
una barca insieme ai loro più cari amici ed alle loro care donne e di
veleggiare a lungo senz'altra cura, sotto un cielo e sopra un mare
tranquillo, ragionando e sognando d'amore. Giovanni Villani ci narra che
nel 1283 per un lungo tratto di tempo tutta la città rimase nel grazioso
“dominio d'Amore„. Era una vita spirituale e gioconda. La parte umana
che doveva dare il primo elemento all'arte s'innalzava, si affinava, si
ingentiliva. L'altro elemento, l'elemento mistico cristiano, alla sua
volta si rendeva sempre più acconcio alla composizione della definitiva
opera d'arte.

Sopra una verde collina dell'Umbria un povero uomo pregava Dio; ma lo
pregava in una forma insolita dando alla sua preghiera un'insolita
intonazione. Chiamava partecipe alla sua prece, al suo inno, il sole, la
luna, le stelle, le montagne, le piante, i fiori, le rondini e le
colombe dell'aria: voleva che tutte le creature viventi si unissero a
lui in una gara immensa di lode amorosa rivolta al Creatore. Da una
parte adunque il divino, non dirò no che si abbassasse, ma si rendeva
più mite, più dolce, accennava più affabilmente verso questa povera vita
umana; l'umano si elevava, si affinava, si ingentiliva.... Insomma,
eravamo prossimi, eravamo alle viste di quella “divina simmetria„; a
quell'accordo degli elementi materiali e ideali che il medio evo aveva
con tanto disagio e inutilmente cercata, da cui doveva balzare luminosa
e gloriosa la perfetta opera d'arte.

Mancava l'uomo, e quest'uomo l'aveste voi, e discese, umile pastore,
dalle montagne che circondano la vostra Firenze: Giotto. Ho detto il
nome del più grande forse fra gli artisti di tutti i tempi, e di tutte
le civiltà. Egli non esordì come Niccolò, copiando il sarcofago antico,
ma disegnando, in mezzo alla pace de' suoi boschi, una delle sue
pecorelle, simbolo gentile del poetico naturalismo, che egli doveva
inaugurare. Wolfango Goethe nell'olimpica serenità dell'anima sua lo
avrebbe chiamato _Euphorion_, il figlio di Elena bellissima e di Fausto
pensoso; colui che doveva sintetizzare e fondere gli elementi plastici
dell'arte antica e gli elementi spirituali e sentimentali dell'arte
moderna e cristiana. Come lo chiameremo noi?... Noi ci contenteremo di
prendere in prestito da Dante, il suo grande amico, una frase, e lo
chiameremo il maestro e l'autore del “dolce stile nuovo„ della pittura e
dell'arte toscana.

E qui, signore, io sono arrivato ai limiti nei quali debbo fermarmi. —
Saluto il bellissimo tema che sarà tratto con forma più degna della mia
dal mio successore un altro anno, e in cui si rispecchia così pura
gloria italiana, la quale, in tanta parte, è gloria vostra, o
Fiorentini.



EPILOGO

DI

ERNESTO MASI


_Signore!_

È un ufficio modesto quello che io ho da compiere, ma che sapendo
compiere con chiarezza e brevità, potrebbe, secondo il famoso precetto
d'Orazio, riescir utile e piacevole insieme.

A significarlo con evidenza sento che, a guisar d'esordio, una buona
similitudine, presa in prestito da qualche poeta, mi tornerebbe assai
bene, ma per quanto la cerchi, non mi vien fatto trovarla adatta, come
vorrei. Mi ricorre alla memoria soltanto la dantesca solita:

    E come quei che con lena affannata
    Uscito fuor del pelago alla riva
    Si volge all'acqua perigliosa e guata.

Ma la _lena affannata_, che sarebbe la vostra, o signore, _l'acqua
perigliosa_, che sarebbe la materia delle conferenze passate.... Oibò!
non conviene per nessun conto! Dico dunque senz'altro che ricordarvi le
principali cose discorse finora, accennarne qualche generalità
comprensiva dei molti particolari, che vi furono esposti, additar
qualche nesso, qualche correlazione fra l'uno e l'altro argomento e
riepilogare le conclusioni più importanti, potrebbe riescir utile e
piacevole insieme, appunto come dopo un lungo viaggio (questa volta la
similitudine è un po' vecchietta, ma per compenso convenientissima)
s'ama riandare, fantasticando, le cose vedute, non però in modo da
rifarcene in mente una ridda vertiginosa di monti e di foreste, di laghi
e di piazze, di chiese e di palazzi, di musei e di campanili, ma
riordinando dentro di noi e scegliendo con discrezione quello che in
natura ci parve più bello, in storia più caratteristico, in arte più
fecondo di consolanti idealità da mettere in serbo per la vita.

Prometto troppo. Me n'accorgo. Ma non mi manca almeno la buona volontà
di mantenere e non di tutte le promesse, che a questo mondo si fanno, si
può sempre assicurare altrettanto. — Ad ogni modo, proviamo!

Dei varii periodi, nei quali si vuole dividere la storia del Medio Evo
italiano, vi fu principalmente parlato dei secoli XI e XII, con qualche
scorsa nei periodi anteriori e nei susseguenti, ora per indicare la
cagione degli avvenimenti, ora per mostrarne le conseguenze e chiarir
bene così da che profonda notte si usciva a quelli che si convenne
chiamare, _gli albori della vita italiana_. Albori di vita italiana? O
perchè? Era dunque morta questa vita? Quand'è che nella storia si muore
e si rinasce? No, signore; nè si muore, nè si rinasce in realtà, bensì
anche nella storia annotta e si brancola talvolta nel buio, poi un po'
di luce torna a risplendere e ci si rimette in cammino. La dominazione
romana del resto era il mondo, non l'Italia soltanto. Un'idea e una
forza, irresistibili entrambi, il cristianesimo e i barbari, sfasciano
quella potente, quella sapiente unità, annientano quella universale
dominazione. Allora l'un popolo si getta sull'altro, e questa convivenza
forzata di razze diverse sul medesimo suolo, l'una che padroneggia,
l'altra che serve, sino a che col mescolarsi e coll'accomunare le loro
forze rispettive danno origine ad una civiltà nuova sotto la luce
dell'idea cristiana, è il fatto elementare, per dir così, della storia
medievale europea; un fatto non mai accaduto prima in così larghe
proporzioni; un fatto, che non può ripetersi dopo, e che
contraddistingue perciò il Medio Evo da tutte le altre età della storia.
— La fusione fra invasori ed indigeni, fra dominatori e dominanti,
accade fuori d'Italia più facile. Ben gli aveva Roma già curvati una
volta gli uni e gli altri sotto il medesimo giogo! Ma in Italia romanità
e barbarie non si fondono con uguale facilità, nonostante il
cristianesimo, che fu gran fattore di tali fusioni. Tutto resiste e
impedisce. Più di tutto forse l'idea romana, stata perciò paragonata,
per quella specie di fato perpetuo, che diviene nella nostra storia, ad
una di quelle stelle tanto grandi e tanto lontane, che il loro raggio
non ci giunge se non dopo diecine di secoli, sicchè, se ora venisse a
spegnersi, la si vedrebbe splendere ancora per molte migliaia di anni.
Così è. La vecchia Roma è finita, ma il pensiero di lei sopravvive e
domina tutti per lungo corso di storia, barbari, latini, papi, comuni,
pensatori, tribuni, cronisti, poeti, persino la casalinga donnetta del
primitivo Comune Fiorentino, che

    .... traendo alla rocca la chioma,
    Favoleggiava con la sua famiglia
    De' Troiani, di Fiesole e di Roma.

Quando col pensiero fisso alla libertà e indipendenza dell'Italia, anche
i libri di storia erano per metà di politica[16], usava discutere se
dato che i Longobardi avessero potuto occupare e reggere tutta l'Italia,
non si sarebbe fin d'allora formato dell'Italia uno stato nella nuova
forma romano-barbarica, come la Francia e la Spagna, ed il Machiavelli
accusava fieramente i Papi d'averlo impedito e dietro a lui tanti altri
dibattevano la medesima questione, che con ragione il Mamiani giudicava
aver lo stesso valore che “cercare quello che accaderebbe al mondo se
l'aria avesse manco di ossigene, o il mare di salsedine o la terra
ponesse a fare il suo giro sole dodici ore in cambio di
ventiquattro„[17]. Se una filosofia della storia è possibile (cosa di
cui molti dubitano) è fondandola unicamente sui fatti, quali furono, non
quali alcuno potrebbe desiderare che fossero stati. E stando ai fatti,
all'anarchia dei duchi Longobardi fu pure un progresso e un ordine dato
la feudalità franca, il cui capo, invasato anch'esso dall'idea romana,
ricostituisce la dignità imperiale cessata in occidente da oltre tre
secoli, fra le ingenue acclamazioni del popolo italiano, che non
sospetta neppure di dover essere la prima vittima di questa
ricostituzione; alla quale, morto Carlomagno, sottentra un'anarchia
feudale, confusa, impotente, buona a nulla, anche quando l'un
pretendente sopraffà l'altro, perchè Berengario osa intitolarsi re
d'Italia, allorchè non ne signoreggia tanta, se non quanta è compresa
fra l'Adige e il Po. — Anche a quest'anarchia viene a metter ordine,
dopo oltre settant'anni, una seconda restaurazione imperiale, ma intanto
nel consorzio umile, modesto, quasi inavvertito della corporazione
d'arte, all'ombra del campanile della parrocchia, sotto l'autorità
ecclesiastico-feudale del Vescovo, a cui gli imperatori di casa Sassone
concedono via via il potere degli antichi Conti[18], si ridesta e si
svolge già tanto di nuova vita italiana, che lo storico Sismondi non
dubitò di glorificare quegli Imperatori tedeschi, come i veri fondatori,
i veri padri dei nostri Comuni. Lo furono essi in realtà? — A questa
quistione, o signore, avete sentito accennare più volte, ma poichè
trattavasi della storia speciale dei principali Comuni, era naturale che
per accenno soltanto fosse toccata. Or bene, le linee più generali di
tale questione son queste[19].

  [16] BALBO.

  [17] CARLO TROYA, in _Prose Lett._, pag. 396.

  [18] Mi attengo ai fatti, che hanno carattere più generale. In
  realtà questo passaggio dell'autorità del Vescovo al Comune non è
  una regola senza eccezione. Ne ha in Lombardia; ne ha molte più in
  Toscana.

  [19] È riassunta da: FRANCESCO LANZANI, _Storia dei Comuni
  Italiani dalle origini al 1313_. — VILLARI, _Il Comune Italiano e
  la storia civile di Firenze_ (Politecnico 1886). — HEGEL, _Storia
  della costituzione dei Municipi italiani_. — HAULLEVILLE,
  _Communes Lombardes_. — SCUPPER, _La Società Milanese all'epoca
  del risorgimento del Comune_, in Archiv. giurid. 1869. Vol. 3.º —
  A. AMATI, _Ariberto e Lanzone_.

Il nostro Comune medievale è una vecchia istituzione romana, che ha
resistito all'urto delle invasioni barbariche e che ha perdurato durante
l'ordinamento feudale (il quale ordinamento non è altro in sostanza che
la barbarie disciplinata per mezzo del possesso territoriale), ovvero è
una istituzione nuova, una istituzione importata, in una parola una
istituzione tedesca?

Ma se era indigena, antica, romana, perchè avea aspettato a rivelarsi di
nuovo che la feudalità avesse pur dato un assetto qualsiasi alle
barbarie, e fosse già passata per tutte le sue vicende storiche e avesse
trionfato dappertutto e avesse provveduto a tutte le necessità della
vita civile, politica, pubblica e privata?

E se per contrario era nuova, importata da fuori, tedesca insomma, al
pari della feudalità, se le sue origini erano da ricercarsi nell'indole
degli invasori, nello sciolto individualismo germanico e nelle
istituzioni provenienti dalla conquista, come mai sorgeva essa in
assoluta opposizione a quest'indole e a queste istituzioni, sicchè il
suo trionfo non dovesse essere che a prezzo d'abbattere i castelli
feudali e d'assoggettare i discendenti degli invasori alle leggi del
Comune? Il Comune insomma è cosa nostra, è un diritto, di cui il popolo
italiano non smarrì mai la coscienza, o è un effetto del vassallaggio
del regno feudale italico al regno feudale di Germania?

Sì l'una che l'altra opinione ebbero sostenitori di grandissima
autorità. Ma oramai prevale, come avrete avvertito, una opinione media
fra questi due estremi, un'opinione, che è la più conforme all'indirizzo
tutto positivo degli studi storici moderni, perchè tien conto nella
soluzione del problema, non di un ordine di fatti soltanto, ma quanto è
possibile, di tutti i fatti della storia. Ora il germanismo, la
feudalità, la Chiesa, l'Impero, tutti questi sono elementi storici, che
concorrono a comporre la vita civile e politica del Medio Evo. Sotto
molteplici travestimenti, e con adattamenti diversi, ora vigoroso e
visibile, ora debole e quasi perduto di vista, l'antico municipio latino
ha bensì perdurato sotto a tutto quel pondo immane di nuove
sovrapposizioni, ma com'era possibile che risorgesse del tutto
all'infuori estraneo affatto a quegli elementi, in onta ai quali era
sopravvissuto? La storia non procede così. Da tutti quegli elementi di
vita medievale e insieme dalla conservata tradizione romana nasce dunque
il Comune, di cui avete veduto, o signore, i tipi principali in Milano,
Venezia, Firenze, e non soggiungo Roma, perchè Roma sta da sè,
impigliata più d'ogni altro Comune nella vecchia idea romana della
dominazione universale e colla presenza del Papato, di cui vi fu narrato
il crescere dell'enorme dominazione spirituale (non certo utopistica
questa, perchè sorpassò di gran lunga l'antica dominazione romana), e vi
fu narrato altresì il sorgere e progredire della dominazione temporale,
cagione principale forse che rese così straordinariamente confusa,
tempestosa, anarchica in permanenza, assai più di quella d'ogni altro
Comune, la vita del Comune romano. — Milano è il tipo del Comune
svoltosi nel regno feudale. — Fra i Comuni marittimi, specie i
meridionali, che sottrattisi alla dominazione Longobarda o sotto la
debole e lontana sovranità bizantina sono i primi a sorgere e i primi a
scomparire, fra i Comuni marittimi Venezia sta sola, Venezia che morirà
per ultima di tutte le repubbliche italiane e che costituisce come un
lungo episodio della storia nazionale, estraneo a tutte le forme
principali del movimento politico dell'Italia[20]. — Firenze infine, il
più tardivo degli stessi Comuni toscani e insieme il più glorioso di
tutti i Comuni italiani, riassume in sè tutte le forme della vita
comunale, ma ad una ad una le elimina tutte per rimanere il gran tipo
del Comune democratico, dove neppure avete più, come in Milano, vero
governo a Comune, a cui cioè nobili e popolani partecipino ugualmente,
ma dopo alterne vicende di governo di nobili, e di governo di nobili e
popolo, questo all'ultimo sormonta e crea, ripeto, il gran tipo del
Comune democratico. Tant'è che a Firenze il moto comunale si svolge
lungo tempo senza che apparisca nessuna spiccata individualità storica,
che non sia tutto il popolo, mentre a Milano, la città d'Italia, dove si
può dire che il moto, il quale dà origine alle libertà comunali, proceda
più manifesto e più regolare, avete una grande successione di grandi
uomini, nei quali sarebbe quasi possibile accentrare la sua storia.
Milano infatti, la maggior sede arcivescovile di Lombardia, con
giurisdizione amplissima, grandi ricchezze, con rito distinto, quasi un
altro Papato di fronte al Romano, è delle prime città, che passano dalla
podestà comitale a quella del Vescovo ed in Sant'Ambrogio, l'eroe
eponimo milanese al IV secolo, s'intravvedono già le prime linee di
quella potenza, che dopo terribili vicende ricomparisce in Ansperto di
Biasonno nel IX secolo, in Landolfo di Carcano nel X e finalmente in
Ariberto d'Intimiano nell'XI, la solenne figura, che in pieno Medio Evo
ha ispirazioni e ardimenti politici degni del Conte di Cavour e attorno
alla quale vedeste aggrupparsi l'insurrezione dei vassalli minori contro
i capitani o vassalli maggiori, come in Lanzone, il nobile ribelle al
proprio ordine, il vassallo maggiore, che fa causa comune colla plebe,
vedeste accentrarsi il moto glorioso, che riescì all'unione dei vassalli
minori con la plebe, e quindi alla libertà del Comune.

  [20] LANZANI, Op. cit.

Ma siamo nel regno feudale, e nè Ariberto, nè Lanzone, nè capitani, nè
vassalli minori, nè plebe, nè Comune, nessuno sogna neppure di
ribellarsi all'Imperatore o di disconoscere soltanto l'autorità del
_Sacro Impero Romano e Germanico_, appunto perchè il Comune è una
istituzione italiana, che rigermoglia su terreno feudale[21]. E Ariberto
incorona due volte di sua mano Re d'Italia Corrado il Salico e lo
accompagna a Roma, perchè si cinga la corona imperiale, e il primo
pensiero di Lanzone è di rivolgersi all'Imperatore Enrico il Nero, e
quando Lanzone ha intimoriti i nobili fuorusciti, e gli ha rimessi in
città, e ha perequati i diritti di tutti, e ha costituito il Comune, fa
ancora sanzionare questi nuovi ordini nella Dieta Imperiale di
Roncaglia. Che se dalla lotta gloriosa, che Ariberto e Milano sostengono
contro Corrado il Salico nel 1037, scendete, oltre a cent'anni dopo alla
prima lega Lombarda e a Federigo Barbarossa, vedrete bensì che il popolo
italiano lotta per mantenere e ricuperare contro l'Imperatore quello che
i risorti Comuni chiamano le _buone consuetudini_, stabilite già dagli
Imperatori della casa di Sassonia, allargate da quelli della casa di
Franconia e all'ombra delle quali i Comuni stessi si sono ricostituiti;
ma se entro le mura della città si smantellano a furor di popolo le
rocche imperiali, se le città collegate momentaneamente, combattono in
campo aperto contro i feudatari italiani e tedeschi e contro le milizie
feudali, che attorniano l'Imperatore, niuno si sogna neppure di non
riconoscere la sua autorità nelle Diete, niuno si sogna, quand'anche
l'Imperatore è respinto dalle mura cittadine, di non riconoscerlo come
giudice ed arbitro fra città e città, di non rispettarlo come il monarca
legittimo, che legittimamente porta la corona dei re nazionali e più
ancora come il monarca romano, che porta la corona d'Augusto, di Trajano
e di Costantino.

  [21] LANZANI, Op. cit.

Permettetemi di ricordarvi in proposito i mirabili versi del Carducci,
che, poetizzando una pagina del Quinet, rappresenta epicamente questo
che il Quinet chiama _il fascino del diritto imperiale_[22].

  [22] QUINET, _Révolutions d'Italie_.

Siamo nella notte del Sabato santo del 1175, l'esercito della Lega
Lombarda cinge da ogni parte l'esercito del Barbarossa, che ha dovuto
levar l'assedio da Alessandria, e gli chiude ogni possibilità di scampo
così dal lato delle Alpi, come da quello di Pavia. — L'imperatore è
perduto. — Lo circondano costernati, avviliti, pensando già di non poter
più uscir vivi da queste strette, il sire di Hohenzollern, stupito di
dover morire per la vil mano di bottegai armati come i cavalieri; il
Vescovo di Spira, che amaramente rimpiange il buon vino, i giocondi
canonici, le torri della sua gotica cattedrale in Germania; il biondo
Conte Palatino Ditpoldo, che in fantasia rivede i suoi castelli sul Reno
e la bella Tecla sospirante d'amore al lume della luna; l'arcivescovo di
Magonza che vorrebbe almeno esser certo i tesori rubati in Italia
avessero varcato sicuramente le Alpi; il Conte del Tirolo, che si
dispera dovere ormai il suo cane e il suo povero figliuolo andarsene
alle caccie senza di lui:

      Solo, a piedi, nel mezzo del campo, al corridore
    Suo presso, riguardava nel ciel l'Imperatore,
    Passavano le stelle su'l grigio capo. Nera
    Dietro garria col vento l'imperial bandiera
      A' fianchi di Boemia e di Polonia i regi
    Scettro e spada reggevano del Santo Impero i fregi.
    Quando stanche languivano le stelle, e rosseggianti
    Nell'alba parean l'Alpi, Cesare disse: “Avanti!„
      A cavallo, o fedeli! Tu, Wittelsbach, dispiega
    Il sacro segno in faccia della lombarda lega.
    Tu intima, o araldo: “Passa l'Imperator romano,
    Del divo Giulio erede, successor di Traiano.„
      Deh come allegri e rapidi si sparsero gli squilli
    Delle trombe teutoniche fra il Tanaro ed il Po,
    Quando in conspetto a l'aquila gli animi ed i vessilli
    D'Italia s'inchinarono e Cesare passò![23]

  [23] CARDUCCI, _Sui campi di Marengo_.

Venezia sola è posta fuori del tutto da questo fascino del diritto
imperiale. Avete visto, o signore, come nacque, mentre l'Impero
d'Occidente cadeva, come crebbe, come si ordinò questa meravigliosa
città, meritevole d'esser detta figlia di Roma assai più di quanto
vantino le cronache medievali per tutte le altre città italiane, perchè
di Roma ereditò la sapienza e la perseveranza politica e perchè
cittadini romani erano i profughi, che la fondarono cercando uno scampo
alla furia dei barbari sulle lagune e sulle isolette del golfo veneto.
Vi esercitarono bensì i Goti una specie di alto dominio, l'impero
d'Oriente una supremazia formale e non più, ma ciò accade nel primo
periodo appena della sua esistenza e non avendo mai lo straniero potuto
mettervi il piede, essa sola non sarà mai vassalla nè d'Impero nè di
Chiesa, essa sola non sarà nè guelfa nè ghibellina, nessun Imperatore
Germanico oserà chiederle giuramento di fedeltà: non avrà in sè
mescolanza di due razze di vincitori e di vinti, che si combattano fra
di loro[24]; le sue discordie intestine non faranno che riaffermare i
suoi ordinamenti, che al 1297 saranno definitivi e dureranno per altri
cinquecent'anni in punto.

  [24] QUINET, Op. cit.

Più travagliato e meno durevole destino ebbero le sue rivali sul mare,
Amalfi, Pisa, Genova, ma esse dividono con lei la gloria di quella
primavera italica del risorgimento comunale.

Niuno però dei Comuni marittimi nè Amalfi, nè Pisa, nè Genova può
paragonarsi a Venezia, monumento unico d'italiana energia fin nella sua
materiale costruzione, e che ha tutto di esclusivamente suo, origine,
leggende, cittadinanza, sovranità, leggi, ordini civili, nobiltà,
popolo, cerimonie, feste sacre e profane, i suoi santi persino, perchè
tutta veneziana è la leggenda di San Marco, che detronizza il bizantino
San Teodoro e diviene il protettore, il simbolo, il grido di guerra di
Venezia. L'avete udita questa leggenda in tutti i suoi particolari. Non
vi dispiaccia riudirla da un poeta, non senza molte buone ragioni messo
presto fuori di moda, ma la nobiltà dei cui sentimenti raccomanda
ancora, io credo, al ricordo delle signore gentili. I suoi versi
compendiano altri fatti, ch'io non avrei tempo a ricordarvi
partitamente:

    Veleggiando venia verso Aquilea
    Un dì l'Evangelista....
    Quando il nocchiero improvvido, dall'ôra
    Sospinto in grembo d'una pigra e trista
    Laguna si perdea
    Tra un labirinto d'isolette....
    All'appressarsi del naviglio sacro,
    Unico abitatore,
    Volando emerse di colombi un nembo
    Dal turbato lavacro.
    Il Pio guardò quell'isole dal lembo
    De la sua poppa lungamente. In core
    Gli sfolgorò del vaticinio il lampo
    E profetò che un giorno
    Tra quella d'acque squallida vallèa
    In trionfal ritorno
    All'avello condotto esser dovea.
    E come ei tacque su le canne apparve
    Lo spettro d'una chiesa bizantina,
    Che tremolò per l'etere e disparve;
    E d'eco in eco per lo tacit'arco
    Dell'adriatica marina
    Grido immenso volò: “Viva San Marco!„
    Si laggiù poserai....
    Laggiù, o celeste, poserai ma cinto
    Da selva di lucenti
    Colonne e sul tuo portico regale
    Scintilleranno....
    I destrieri di Corinto.
    Al nome tuo, venturo inno di guerra....
    Prigioniere verran di Palestina
    A riflettersi mille arabe lune
    Dentro le tue lagune;
    E su le torri dell'infido Greco
    Un vecchio ardente e cieco
    Guiderà la vittoria,
    A piantar fra i nemici il tuo vessillo
    Logoro dalla gloria,
    Verranno i re da regïon lontane
    Le tue belle a sposar repubblicane;
    E su quella palude
    D'alighe immonde sorgeran portenti
    Di templi, di trofei, di monumenti[25].

  [25] ALEARDI, _Le città italiane marinare e commercianti_.

E sia, ammiriamo pure Venezia. Ma voi sapevate prima, o signore, e
sempre più vi sarete confermate, che se si vuole penetrare veramente nel
vivo della storia del Medio Evo italiano, vedere atteggiate e
combattenti tutte le passioni di quella età, saggiate tutte le forme
politiche; se si vuol conoscere come dalla lotta lontana delle due
podestà che dominano il Medio Evo, Papato ed Impero, come
dall'affievolirsi dell'organizzazione feudale si svolga la libertà del
Comune popolare e a che tradizioni questo comune riattacchi le sue
origini, e perchè contenga quasi due popoli in uno e perchè la lotta a
morte fra questi due elementi che lo compongono costituisca il destino e
il segreto della sua storia; se si vuole infine sapere perchè vi sia una
storia di un grande Comune italiano, che è tipo e modello di quasi tutte
le altre, bisogna guardare a Firenze, a questo _cuore d'Italia_, come fu
chiamata, che all'infausto cosmopolitismo imperiale o papale di Roma
potrà per sua gloria contrapporre il cosmopolitismo dell'arte, della
poesia, della scienza, il privilegio della lingua, e persino fra le
tumultuose tragedie della sua vita interiore i primi germi dello Stato
moderno.

Nelle ingenue leggende delle sue origini vedeste già adombrate, forse
con senso più profondo che non apparisca, le divisioni etniche, che
divamperanno più tardi in lotte furibonde; le quali lotte e divisioni,
in quel Comune, che tarda tanto a svolgersi e si svolge quasi
inavvertito, quasi inconscio di sè, strappando a brandelli il suo potere
della potestà Margraviale della contessa Matilde; in quel Comune,
composto nella maggior parte di operai, di artigiani, e di qualche
nobile decaduto, che per miseria s'inurba; in quel Comune che stretto
nelle sue associazioni d'arti e mestieri si regge e progredisce con
queste senza bisogno di potere centrale, cominciando, direbbe il
Romagnosi, il suo incivilimento in ordine inverso, cioè dall'industria
per giungere al possesso territoriale; in quel Comune, dico, come
risulta ancor più evidente dalla sua storia ulteriore, quelle divisioni
e le lotte, che ne conseguono, rimangono sempre esse nel fondo di tutte
le sue vicende o possono dirsi quasi la legge storica, che illumina da
cima a fondo tutto quell'incomposto arruffio. Il quale non spossa le
forze del Comune, anzi sembra aumentarle, poichè appena le interne
discordie danno qualche tregua, si guerreggiano le terre vicine e si
allarga lo Stato; uno Stato che è tutto nella città principale, la quale
non si aggrega, ma domina feudalescamente i vicini e che all'Impero
chiede sopratutto di lasciarlo sottentrare nei diritti e nel potere
degli antichi feudatari; altra prova, se mai occorresse, che il nostro
Comune medievale è bensì romano d'origine, ma dalla temperie barbarica e
feudale, in cui è risorto, profondamente modificato. Così è che le due
parti combattentisi entro il Comune pigliano i due nuovi nomi, come dice
Dino Compagni, di Guelfi e di Ghibellini, ma il loro contrasto
preesisteva a questi nuovi nomi, nella stessa guisa che il prorompere di
queste lotte si verifica in Firenze assai prima del fatto del
Buondelmonte, a cui gli storici lo sogliono riferire, e non è se non un
incidente di quella torbida vita del Comune fiorentino, di cui
parrebbero un mistero inesplicabile non solo il progredire, ma anche il
durare e l'esistere, se non si sapesse donde viene, ove va, se una
medesima legge storica non ci scorgesse a comprendere gli Ordinamenti di
Giustizia del 1293, la vittoria dei Ciompi nel 1378, gli eccessi che
spianano a poco a poco la via alla lunga insidia dei Medici, nel tempo
stesso che i forti e grandi sentimenti di quel popolo, le sue umane
riforme, la sua carità operosa, l'ardente sua fede ci spiegano l'altro
mistero che fra discordie e tumulti così feroci e continui la civiltà
più complessa spicchi tal volo e veggansi nelle chiese, nei quadri, nei
primi saggi della pittura nascente affollarsi angeli, cherubini,
madonne, apparizioni candide, innocenti, che sembrano discese dal cielo
a predicar la pace fra gli uomini, e fra tanto imperversare di odii
l'arte, religiosissima ancora, sforzasi, quasi in espiazione, a
moltiplicare dovunque gli emblemi dell'amore.

Potremmo noi mai sperare di dominare egualmente col nostro pensiero, di
assoggettare egualmente ad una legge storica qualunque la confusione
permanentemente anarchica della storia del Comune di Roma? Ben è
spiegabile, anche con soli argomenti umani, come la potestà del Vescovo
di Roma si muti e si espanda via via nell'enorme e universale potenza
del Papa; ben può la critica, la quale cominciò fin dal secolo XV a
sfrondare le leggende congegnate a fine politico ed a saggiare la
falsità dei documenti, sui quali si pretendevano fondare quelle
leggende, dirci come sorse e si piantò formidabile in Roma anche la
potenza temporale del Papa; ma quanto al Comune, e benchè esso assuma
talvolta nel corso della sua storia le forme e le istituzioni degli
altri Comuni, non mai gli riesce trovarvi la forza e la stabilità per lo
meno relativa, che gli altri vi hanno trovato, e lo spettacolo delle sue
convulsioni perpetue è tutto quello che ci apparisce di lui. Egli è che
esso non sorge come gli altri, non si viene formando come gli altri, e
per l'influenza dell'Impero e la presenza del Papato sente spesso ora
dall'uno ora dall'altro quasi assorbita la propria esistenza. La cui
prima apparizione è forse quando Roma resiste ai Longobardi con
le forze unite del Papa e del popolo o si palesa in una forma
aristocratico-militare, la quale abbraccia con tale ampiezza tutti gli
ordini dei cittadini, che il nome stesso d'esercito serve ad indicare il
popolo intiero. Dal VII all'XI secolo il Comune di Roma si direbbe
costituito a un dipresso nelle forme degli altri nostri Comuni medievali
e precorrerli quasi tutti. Se non che Roma ha il Papa, il cui potere
s'afforza via via sempre più, e che, se fa causa comune col popolo, lo
domina; se mai teme d'esserne sopraffatto, gli oppone la forza e
l'autorità dell'Impero o a questo o a quello la monarchia napoletana,
contrappeso all'Impero, che il Papa baderà bene a non lasciarsi, finchè
può, sfuggire di mano. L'Impero alla sua volta, o è potente e domina
Papa e Comune, o è debole, vacante, assente o conteso fra molti, ed ecco
nobiltà e popolo romano arrogarsene i diritti; pretensione eterna, che
esercitata dal popolo o dai nobili si personifica in Alberico, in
Brancaleone, in Crescenzio, in Arnaldo, in Cola di Rienzo, gli eroi
episodici del Comune di Roma, sviato sempre dal fissarsi in una forma
qualsiasi da quelli che il Giusti chiamò i _grilli romani_, cessati
soltanto allorchè Martino V, fondatore definitivo del regno temporale
dei Papi nel secolo XV, ebbe annientato in Roma ogni vestigio di libertà
comunale. Ma chi bada alla storia del Comune di Roma? Sopraffatti dal
gran nome di Roma, gli storici stessi, col pensiero fisso nel destino
mondiale dell'eterna città, badano al Papato, all'Impero, poco o nulla
al Comune, che penosamente si dibatte fra le strette mortali dei due
colossi, opponendo all'uno e all'altro i suoi ricordi classici colla
pretensione poco giustificata nel fatto che Roma non solo sia il centro
della Chiesa e dell'Impero, ma non debba in realtà sottostare nè all'una
nè all'altro e sia anzi la fonte e l'origine dei diritti di
entrambi[26].

  [26] _Vedi Enciclopedia Britannica_. Roma S. II. — VILLARI,
  _History of the Roman Republic in the Middle Ages_.

Nel riandare di volo gli argomenti, dei quali vi fu parlato, ho alterato
un po' l'ordine del programma, ma aggruppare del tutto i ricordi di
questa agitata vita comunale e distogliersene del tutto per guardare ad
un paesaggio alpino e vederci sorgere la potenza e la gloria di Casa
Savoia è come riposar l'occhio e il pensiero, quantunque anche là lo
studio delle origini si perda nelle nebbie della leggenda. Di fatto
quell'Umberto, detto nelle cronache dalle _bianche mani_ e che si ha pel
capo stipite di Casa Savoia, chi è desso? donde è venuto? è straniero,
italiano, gallo-romano o latino? Nacque di sangue regio o no? A che
giova, si dirà, affannarsi dietro tali ricerche? Ma appunto quando il
destino d'una dinastia o d'un popolo poggia molto in alto sorgono il
desiderio e il bisogno di magnificarne le origini sempre più. Se il
documento manca, la tradizione soccorre, la tradizione, che è leggenda
ancor essa, appunto come la leggenda degli Eneadi progenitori si
ricongiunge alle origini del popolo Romano, quando questo è già grande,
e già distende la sua potenza nel mondo. Ognuno allora raccoglie ed
elabora di suo i frammenti raccolti, cosicchè anche per Umberto
Biancamano sono numerosi i sistemi tentati per ispiegare la sua figura
mezzo storica e mezzo leggendaria. Ma sull'uno o l'altro di tali sistemi
non occorre ormai affaticarsi di più. I nostri principi non pretendono
alla corona dei Cesari Tedeschi, nè ad un nono elettorato dell'Impero.
La corona di ferro l'hanno cinta perchè se la sono meritata; di Umberto
Biancamano, sfumate ormai le faticose industrie degli storici cortigiani
e le ingenue combinazioni degli eruditi fantastici, si sa oggi di più e
nel tempo stesso si sa di meno, ma si sa di certo che Casa di Savoia è
sorta, cresciuta e s'è illustrata per la sua propria virtù[27]. Con
tuttociò scarsa è l'azione italiana di Casa Savoia e del Piemonte
durante l'età dei Comuni. Questo moto comunale si propagò anche in
Piemonte, perchè era l'espressione delle condizioni sociali di tutta
Italia, ma Casa di Savoia, in cui perdurano più a lungo e più salde che
altrove le forme feudali, gli si contrappone, mentre poi la sua, come
oggi si direbbe, missione italiana è ritardata dallo scindersi la sua
potenza tra i due rami di Savoia e d'Acaia, i quali non si ricongiungono
che al 1418. Casa di Savoia rimane fida in sostanza all'idea ghibellina,
ma l'augurio di sua futura fortuna è appunto in quella vita strettamente
feudale, che le mantiene lo spirito militare e cavalleresco anche quando
altrove è illanguidito, ond'è che nella seconda metà del secolo XIV
vedesi di nuovo nel Conte Verde la baldanza spensierata e lo spirito
avventuroso dei primi Crociati, e n'ha, per così dire, in premio la
prima vera ingerenza italiana di Casa Savoia nella pace di Torino del
1381, con cui ha fine la cosidetta guerra di Chioggia tra Genova e
Venezia. Ma verranno i giorni di vera gloria italiana per questi
guerrieri chiusi ora nei loro castelli di Savoia, come le aquile nei
nidi delle Alpi, mentre tutt'altro destino è riserbato a quell'altra
monarchia che per opera d'avventurieri stranieri sorge all'altro estremo
d'Italia, quasi contemporanea a quando la luce della storia comincia a
diradare le nebbie della leggenda in cui sono ravvolte le origini di
Casa Savoia.

  [27] CARUTTI, _Il conte Umberto Biancamano_, in Archivio storico
  italiano, Serie IV, tom. I e II.

Dura ancora in parecchi libri di storia l'usanza d'arrecare la
fondazione del gran regno dell'Italia meridionale ai quaranta pellegrini
Normanni, reduci da Terra Santa, che capitati a caso a Salerno verso il
1016, e sdegnati d'un sopruso che i Saraceni voleano far patire a quel
principe longobardo Guaimaro, gittano a un tratto sarrocchino,
cappellaccio e bordone, brandiscono le loro spade, vendicano Guaimaro e
se ne vanno senza voler accettare alcuna ricompensa. Ma poi narrate ai
loro compatriotti le meraviglie e le ricchezze dei paesi veduti gli
invogliano di conquistarli o, come altri pretendono, è lo stesso Guimaro
che li richiama. La critica moderna, se non nega addirittura quel fatto,
lo anticipa però di parecchi anni non solo, ma mostra che non ha alcuna
correlazione colla vera conquista Normanna. I Normanni compariscono
bensì nell'Italia meridionale tra il 1016 e il 1017, ma come ausiliari
di Pugliesi insorti contro la signoria Bizantina, i quali Pugliesi sono
favoriti così dal Papa (speditore dei Normanni da Roma) come dal
principe longobardo di Salerno. E domata dai Bizantini l'insurrezione
Pugliese, prostrate a Canne le forze dei due capi degli insorti, Melo e
Datto, i Normanni si disperdono come mercenari qua e là. Questo l'umile
principio della loro fortuna, movendo dal quale, e astuti, fedifraghi,
quanto valorosi, in poco più di cent'anni sfolgorano i rottami di tutte
quelle vecchie istituzioni longobarde, greche, comunali che ingombravano
ancora il largo campo delle loro ambizioni e delle loro cupidigie e
fondano un regno durato bene o male, e in mezzo a tanta instabilità
d'italiane fortune, oltre a sette secoli, poichè fin d'allora comprese
quasi tutto il territorio che fu il regno delle due Sicilie fino al
1860[28].

  [28] GIUSEPPE DE BLASIIS, _La insurrezione Pugliese e la conquista
  Normanna nel secolo XI_. — MICHELE AMARI, _Storia dei Musulmani di
  Sicilia_. Vol. II e III. — MICHELANGELO SCHIPA, _Storia del
  Principato Longobardo di Salerno_.

Più del riandare le straordinarie vicende della conquista normanna, più
del ricordarvi i nomi de' suoi eroi da Roberto il Guiscardo al primo ed
al secondo Ruggero, importerebbe al mio tema notare le conseguenze, che
ebbe tale conquista nella storia italiana e le relazioni che passarono
tra il nuovo regno fondato dai Normanni e le altre parti d'Italia.

Furono varie, moltissime, nè potrei sperare neppure di accennare le più
notevoli, senza trapassare di troppo i limiti cronologici, che a queste
conferenze furono per ora segnati. Per farvi osservare quelle di ordine
più generale diciamo intanto che col nuovo regno meridionale tutta
quell'immensa regione fu sottratta per sempre a due delle forme
politiche principali, che dalla fine del secolo X fino quasi al XV
dominano la storia italiana, alla sovranità cioè del ricostituito Impero
occidentale ed al regime comunale, mentre poi qualche vestigio di questo
durò colà più che altrove e vi prese anzi a lungo andare, più che
l'antica forma di partecipazione diretta al governo dei nostri Comuni
medievali, quella, direi, più moderna (benchè feudale di origine) di
partecipazione rappresentativa di alcuni ordini, di alcuni ceti almeno,
se non di popolo intiero.

Ma un'altra correlazione e conseguenza importante, e più circoscritta ai
tempi, dei quali ci occupiamo, è quella, che accennai già parlando del
Papato e del Comune di Roma, vale a dire che avendo i Normanni ottenuta
dal Papa l'investitura della loro sovranità nel continente e nella
Sicilia, la Chiesa potrà anch'essa apparire così e per la prima volta
quale suprema sovranità feudale, e ciò alla vigilia della sua prima
lotta contro l'Impero, e se ne varrà con un intuito politico chiaro,
fermo, sicuro, perseverante per contrabbilanciare tutte le ambizioni
dell'Impero, poi, quando i Papi avranno fatto passare la corona Normanna
dagli Svevi agli Angioini, per determinare il trionfo definitivo della
parte guelfa o papale in tutta l'Italia, trionfo tale che, dopo la
battaglia di Benevento del 1266, dir parte guelfa e dir Comune di
Firenze sarà tutt'uno[29].

  [29] LANZANI, DE BLASIIS, AMARI, SCHIPA, Opere cit. — ISIDORO DEL
  LUNGO, _Dino Compagni e la sua Cronica_.

Così, o signore, vi fu tracciato nelle sue linee maggiori tutto il gran
quadro storico, entro al quale all'uscire dalla notte della barbarie
doveva ridestarsi la vita italiana. — Ma essa è ancora ai primi passi. —
È per questo che nel tempo, che avete attraversato, la parte puramente
storica ha dovuto di necessità prevalere e vi si è più dovuto parlare di
barbari e di feudatari, di Papato e d'Impero, di vassalli maggiori e
minori, di Borgognoni e Normanni, e di quelle prime, quasi misterioso
aggregazioni, entro alle quali si vien formando il Comune, di quello che
vive propriamente della vita, che ricomincia a essere vissuta fra mezzo
a tutte quelle istituzioni storiche del primo Medio Evo; vi si è dovuto
parlare insomma, se mi è permesso di esprimermi così, più del contenente
che del contenuto. Egli è, o signore, che, affinchè il popolo italiano
ricominci a vivere quella che giustamente fu chiamata la _seconda sua
storia_, affinchè

    Dagli atrii muscosi, dai fôri cadenti,
    Dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
    Dai solchi bagnati di servo sudor,

si ridesti finalmente quella massa confusa di gente, che il poeta ha
chiamato:

    Un volgo disperso, che nome non ha.

bisogna che un moto profondo di totale disgregamento agiti tutta quella
società, che gli pesa sul capo, e lo preme, lo stringe, lo soffoca da
ogni lato, poichè è appunto tra quel disgregamento, che ripiglia anima,
vita, libertà quel nuovo protagonista, che non ha più nome, ma ne avrà
in breve uno “nella storia d'Italia eternamente memorando„ il nome di
popolo. Quella società, come avete veduto, o signore, non cede il posto
così di leggieri e senza lungo contrasto, non piega il capo rassegnata,
come nella tragedia manzoniana Ermengarda, la figlia dell'ultimo re
Longobardo, non d'altro rea che di discendere da quella progenie
d'oppressori,

    Cui fu prodezza il numero,
    Cui fu ragion l'offesa
    E dritto il sangue e gloria
    Il non aver pietà;

non sente il distacco dalle cose terrene e gli amari sconforti di
Adelchi morente, che esorta il padre a non rammaricarsi del regno
perduto, dicendogli:

    Gran segreto è la vita e nol comprende
    Che l'ora estrema. Ti fu tolto un regno,
    Deh nol pianger: mel credi. Allor che a questa
    Ora tu stesso appresserai, giocondi
    Si schiereranno al tuo pensier dinanzi
    Gli anni in cui re non sarai stato, in cui
    Nè una lagrima pur notata in cielo
    Fia contro a te nè il nome tuo saravvi
    Con l'imprecar dei tribolati asceso,
    Godi che re non sei, godi che chiusa
    All'oprar t'è ogni via: loco a gentile,
    Ad innocente opra non v'è: non resta
    Che far torto o patirlo....

Oh no! Tuttociò è buono e bellissimo in poesia! Ma nè Imperatore, nè
Papa, nè feudalità laica o ecclesiastica, nè nobili discendenti dai
barbari hanno voglia di rassegnarsi come Ermengarda o di rigettare, come
Adelchi morente, quasi inutile ingombro e vanità, la potenza. Hanno
usurpato ed usurpano e contro tutti difendono le loro usurpazioni, tanto
più contro il Comune, il solo che non usurpa, ma rivendica. Sta qui il
segreto della vita dei secoli XI e XII, e questa vita rimarrebbe davvero
un segreto a chi trascurasse le premesse storiche, nelle quali le sue
origini sono contenute.

È una storia lunga, faticosa, intricata; è un cammino aspro, buio, che
ora sale a generalità, che sono altezze vertiginose, ora si sprofonda in
minuzie, che sono frane, scoscendimenti e rottami; un cammino in cui
s'inciampica negli spinai, ci si urta a sporgenze imprevedibili, sicchè
le vostre guide, in questa specie di spirituale alpinismo, hanno spesso
dovuto scusarsi di condurvi a traverso tali labirinti e semioscurità
crepuscolari, sempre col timore che vi stancaste di troppo, e
contentandosi di rischiararvi alla meglio la via, appunto

        “....come quei che va di notte
    Che porta il lume dietro a sè non giova,
    Ma dopo sè fa le persone dotte.„

E voi resistete, o signore, impavide, coraggiose; ma deve avervi, io
penso, alleggerite le fatiche del viaggio, intravvedere, dopo tanto giro
di storia, i germi della vita nuova, che spuntano, sentire, origliando,
“come un brulicare di vita ancor timida e occulta, che poi (voi lo
sapete) scoppierà, come dice il Carducci, in lampi e tuoni di pensieri e
di opere.„ Ma per ora sono sintomi di vita, pronostici, auguri; per ora
non c'è nulla di definito, di determinato; è tutta una vita in
formazione, e quanto più la fioritura sarà splendida e ricca, tanto più
s'indugia sotterra. Per ora non si può penetrare molto innanzi; non si
può cogliere che poco o nulla di intimo, di veramente psicologico e
caratteristico, dove tutto è in travaglio di nascimento, a cominciare
dalla lingua. Però non è già più tutta storia morta soltanto.

È vita, o almeno principio necessario di vita, e forse la prima
manifestazione di essa nel nostro Medio Evo, quel rinascere della
scienza del diritto, regolatrice della giustizia fra gli uomini, che,
perdurata nelle scuole di Roma imperiale e di Ravenna bizantina, resiste
in faccia ai Goti, penetra da Pavia longobarda la legislazione dei
barbari, si scioglie in Bologna dalle anguste strettoie di prima,
dall'esser confusa cioè colle altre arti, che formano l'enciclopedia
medievale del _trivio_ e del _quadrivio_, e fonda in Bologna una
istituzione mondiale.

È vita quel lento formarsi dell'umile volgare latino, che sarà poi la
lingua italiana, il cui svolgimento (sbattuta giù ormai una gran
frasconaia d'ipotesi vane) apparisce alla critica moderna più come un
capitolo di storia naturale che di storia letteraria, tanto son vari gli
inseguimenti e delicati gli intrecci di quei germogli delle lingue
romanze, che si distaccano dal gran tronco latino; tanto ne aduggia il
crescere l'ombra lunga e larghissima, che quel tronco getta intorno a
sè; tanto è difficile vincerla e superarla; tante sono le circostanze
esteriori, che là affrettano, qua ritardano il mutarsi del germoglio in
arbusto e dell'arbusto in albero ricco di fronde e di fiori; mutamento
ritardato più che altrove in Italia, dove la lingua ascende tardi ad
ufficio veramente letterario, ma dove per compenso s'imbattè in chi,
appena s'è mostrata, la ghermisce con mano onnipotente e subito la ferma
e la determina per sempre.

È vita, e di quella che più tocca da presso l'anima e il destino
dell'uomo, quella fede religiosa, che non è vero incomba torpida,
uniforme, stagnante sul Medio Evo italiano, ma che appunto perchè è
robusta, sincera, fervente, non agghiacciata dal soffio di precoci
indifferenze e scetticismi, s'agita anzi terribilmente, fra le
pretensioni e le lotte gigantesche della potestà suprema, che la
rappresenta e la regge, e le scandalose mondanità, le violenze della
feudalità ecclesiastica, ed esagera gli ascetismi, talvolta sino alla
follia, ora come perfezionamento della dottrina più schietta, ora come
contrapposto alle rilassatezze della disciplina, sicchè da una fonte
comune si veggono scaturire le democrazie dei nuovi ordini religiosi e
le eresie, quelle avute in sospetto dalla Chiesa stessa, in cui difesa
son sorte, queste sterminate ovunque si mostrano, ma le une e le altre
composte d'uomini, che

    Maledicenti a l'opre de la vita
    e de l'amore.... deliraro atroci
    congiungimenti di dolor con Dio
    su rupi e grotte:
    discesero ebbri di dissolvimento
    a le cittadi, e in ridde paurose
    al Crocefisso supplicarono, empi,
    d'esser abbietti;[30]

  [30] CARDUCCI, _Alle fonti del Clitumno_.

abbiettamenti, eccessi, deliri, che non impediranno però le grandi
ispirazioni, che solo un pensiero operoso e un sentimento profondo e
sincero possano dare.

È vita quella stessa povera letteratura italiana, il cui sorgere,
dovendo per forza camminar parallelo al formarsi della lingua volgare,
procede barcollante da prima in una debolezza, che non si sa se è
d'infanzia o di vecchiaia, nè forse riescirebbe a spogliarsi
dell'involucro latino, se non venissero a darle mano le due letterature
della Francia settentrionale e meridionale, l'una che attinge dal
meraviglioso delle leggende Carolingie, l'altra che in faccia alle
mortificazioni dell'ascetismo medievale ricanta la gioia, la vita,
l'amore; le dolci note, che riecheggieranno nelle corti aleramiche del
Monferrato, fra la varia cultura e lo scetticismo scientifico della
corte di Sicilia, nelle scuole di Bologna e finalmente in Toscana e in
Firenze, dove in un attimo, si può dire, la letteratura italiana sorge
gigante e s'incorona d'una gloria immortale.

È vita quella stessa filosofia scolastica, che ha nient'altro che in
Dante il suo poeta, e che, fra la scarsa, misera e fantastica vita
scientifica del Medio Evo, rappresenta un tentativo gigantesco di
accordo fra la filosofia e il domma, fra la ragione e la fede;
tentativo, che raggiunge il suo punto culminante in San Tommaso
d'Aquino, tipo sublime dell'ingegno italiano, organico e temperante,
dopo del quale ricomincia la scissura fra scotisti e nominalisti da un
lato, tomisti dall'altro, e procede fino allo sciogliersi della
scolastica nella critica razionalistica del Rinascimento.

È vita finalmente (e che vita!) il sorgere dell'arte nuova, che dopo la
scura tregenda, le cupe immagini bizantine, i deliri architetturali del
più fitto Medio Evo, dopo aver svincolate le sue forme diverse
dall'anonima schiavitù, che le confonde tutte nell'architettura del
tempio gotico, si afferma risoluta, franca, individuale, abbenchè
tardiva ancor essa al pari della letteratura, perchè l'una e l'altra,
sono nella civiltà un effetto, un prodotto, che non si determina senza
cagioni proporzionate.

Ora come dall'anonima congerie delle corporazioni medievali questi primi
albori di rinascimento, ai quali per quest'anno gli studi di queste
conferenze si sono fermati, incominciano a sceverare e a svolgere il
concetto dell'unità dello Stato, come dall'asfissia teologica
incominciano a liberare le scienze morali, delle quali il pensiero laico
s'impossessa con Dante, così sciolgono anche le arti da
quell'aggruppamento forzato, così ciascuna ripiglia la propria
individualità, affermantesi in Niccola Pisano, che tenta il primo
riallacciamento del vecchio ideale greco-latino col nuovo ideale
cristiano; in Giotto, l'artista divino, che, al pari di Dante Alighieri,
intuisce quasi perfetto tutto l'ideale del Rinascimento.

Siamo sulla soglia, o signore, di questo grande avvenimento mondiale,
che in Italia non ha bisogno d'aspettare che i Turchi, pigliando
Costantinopoli, sperperino la coltura bizantina e ce la mandino esule e
pellegrina a rifarci il sangue, o che Colombo slarghi il mondo e l'anima
dell'uomo colla scoperta dell'America. No; un paese, che costituisce i
Comuni, che in poco d'ora ha Dante, Giotto, la Divina Commedia e Santa
Maria del Fiore non aspetta nulla da nessuno.

Appena la libertà, il pensiero, l'arte, la poesia ridanno pregio alla
vita; appena collo scomporsi della società feudale si dirada quel buio
mortificante del vero Medio Evo, che è rappresentato dalla poetica
leggenda del finimondo, a cui avete sentito accennare più volte,
l'Italia senza aspettar nulla da nessuno si alza dal sepolcro, come il
Lazzaro quatriduano, e sorge, e cammina.

Oh non è un vanto cotesto, o se lo è, vi si mescolano a raumiliarci
troppi presentimenti dolorosi. Oh non dubitate! Pagheremo cara questa
precocità; pagheremo caro questo privilegio di gloria!

Ma non anticipiamo su nulla.

Se, come sento, il programma dell'anno venturo dovrà riprendere e
compiere intiero lo studio dei secoli XIII e XIV, vi sarà ancora un
grande, un immenso quadro storico da disegnare, ma su questo fondo
prospettico le individualità si staccheranno sempre più vigorose e più
vive e verrà quindi da sè la necessità di far meno storia e più vita.

E poichè questa vita, benchè torbida, agitatissima, dovrà sempre più
concentrarsi in questa vostra cara e gloriosa Firenze, dove splende il
gran triumvirato toscano, dove Dante chiude il Medio Evo e inaugura la
civiltà nuova col poema già moderno di spirito e di lingua, il Petrarca
col suo ideale d'antica coltura, il Boccaccio col pieno, libero e
giocondo sentimento della vita reale, per cui la commedia umana si
contrappone alla commedia divina, così vi sarà caro e gradevole sempre
più conoscer bene tra che popolo vissero questi grandissimi, e
riscontrare la storia coi monumenti non solo, ma entrare nella penombra
solenne di quelle chiese, dove i vostri avi pregarono, nei banchi, nei
fondachi, dove i mercanti accumulavano tesori, nelle officine, dove
accanto agli arnesi del mestiere l'artigiano teneva le sue armi per
essere pronto ad accorrere sotto il gonfalone dell'arte sua al primo
tocco di campana; vi sarà caro e gradevole sempre più penetrare in
quelle antiche dimore, in quei palazzi anneriti, merlati, dove i vostri
avi amarono, odiarono, combatterono, e scorrerne le stanze, i cortili,
le scale, tentando figurarvi qual viso, qual discorso, qual costume
avessero i loro antichi abitatori, appunto “come talvolta vedendo un
elmo antico tutto rugginoso ed alzandone la visiera, la fantasia (diceva
Massimo d'Azeglio) tenta dipingersi il maschio ed ardito volto, che
dovette un tempo riempierne il vano„.


FINE.



INDICE.


                                                              Pag.

  Olindo GUERRINI     _Preludio_                                 1
  Pasquale VILLARI    Le origini del comune di Firenze          15
  Pompeo MOLMENTI     Venezia e le repubbliche marinare         47
  Romualdo BONFADINI  Le origini del comune di Milano           77
  Romualdo BONFADINI  Le origini della monarchia in Piemonte   103
  Ruggero BONGHI      Le origini della monarchia a Napoli      132
  Arturo GRAF         Le origini del papato e del comune
                        di Roma                                171
  Felice TOCCO        Gli ordini religiosi e l'eresia          204
  Pio RAJNA           Le origini della lingua italiana         227
  Adolfo BARTOLI      Le origini della letteratura italiana    257
  Francesco SCHUPFER  Le università e il diritto               287
  Giacomo BARZELLOTTI La filosofia e la scienza nel periodo
                        delle origini                          317
  Enrico PANZACCHI    Le origini dell'arte nuova               350
  Ernesto MASI        _Epilogo_                                371



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (natia/natìa, propri/proprî e simili), correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Gli albori della vita Italiana - Conferenze tenute a Firenze nel 1890" ***

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