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Title: Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III
Author: Botta, Carlo
Language: Italian
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                           STORIA D'ITALIA

                          DAL 1789 AL 1814


                               SCRITTA
                           DA CARLO BOTTA

                              TOMO III



                              CAPOLAGO
                         _presso Mendrisio_
                        Tipografia Elvetica

                            MDCCCXXXIII



STORIA D'ITALIA



LIBRO DECIMO

SOMMARIO

      Pensieri di Buonaparte dopo le sue vittorie contro Alvinzi.
      L'Austria manda nuove genti in Italia sotto la condotta
      dell'arciduca Carlo. Qualità comparative di Buonaparte e
      dell'arciduca, e lor modo di guerreggiare. S'incomincia una
      nuova guerra. Contrasto dei due generali emoli al Tagliamento,
      e passo di questo fiume eseguito dai repubblicani. L'arciduca
      si ritira cauto e rannodato. Sollevazioni dei popoli del
      Tirolo a favore dell'Austria: Joubert in pericolo; si ritira,
      secondo gli ordini di Buonaparte, per la valle della Drava,
      verso Villaco. Passi della Ponteba, e di Tarvisio. Speranze
      dell'arciduca di vincere a Tarvisio: gli vengono rotte
      dall'insufficiente difesa fattavi da un suo generale. I
      Francesi entrano vittoriosi in Villaco, Lubiana, e Clagenfurt.
      L'arciduca si ritira ai passi più montuosi a difesa della
      metropoli dell'Austria. Modo diverso di guerreggiare dei
      Francesi e degli Austriaci; e perchè i primi avessero il
      vantaggio. Buonaparte in qualche pericolo: pure a Vienna
      prevale la parte della pace; arrivano plenipotenziari al campo
      Francese; tregua, e preliminari di Leoben. Buonaparte fatto
      sicuro dell'Austria si volta contro la repubblica di Venezia;
      opera rivoluzioni nella terraferma Veneta per aver occasione
      di darla all'Austria. Rivoluzioni di Bergamo, Brescia, e
      Crema. Insidie contro Verona. Manifesto supposto del
      provveditor Battaglia. Minacce rabbiose di Buonaparte contro
      Venezia: pacata, e grave risposta del doge. Terribile
      sollevazione di Verona, chiamata le Pasque Veronesi, sue
      cagioni, ed effetti. Predicazioni singolari di un frate
      cappuccino. Verona soggiogata, e come trattata. Buonaparte
      dichiara formalmente la guerra a Venezia. Insidie tese per
      fare, che il maggior consiglio riformi l'antica constituzione.
      Il senato non è propenso a questa innovazione. Consulta
      particolare, ed insolita in casa del doge. Il maggior
      consiglio autorizza i tre legati della repubblica mandati a
      Buonaparte a consentire la riforma degli ordini antichi con
      introduzione di qualche forma democratica. Minacce di
      Buonaparte al patrizio Giustiniani, e generose risposte di
      questo. Macchinazioni in Venezia; nuove insidie contro di lei.
      I patrizi spaventati, e adunati in maggior consiglio
      rinunziano alla sovranità, e consentono al governo
      democratico; il che fu in quel punto la ruina
      dell'antichissima repubblica. Trattato sottoscritto in Milano
      il dì sedici maggio tra Buonaparte, ed i legati Veneziani.
      Rivoluzione totale in Venezia, e nella terraferma.


Due pensieri operavano massimamente a questo tempo nella mente di
Buonaparte, securo omai di poter fare, o buon grado o mal grado del suo
governo, ciò che più volesse. Siccome la fortuna tanto se gli era
dimostrata prospera, così intendimento suo era, posti in non cale i
pensieri del re di Sardegna, di creare un nuovo stato in Lombardia,
acciocchè egli fosse della sua potenza, e del suo nome testimonio
perpetuo. Ma il direttorio, che aveva anche capriccio in questo nuovo
stato, desiderava tuttavia temporeggiarsi pel desiderio che aveva della
pace con l'imperatore. Così il capitano della repubblica andava
continuamente moltiplicando in Milano i segni del voler sottrarre dal
dominio dell'Austria il paese per crearne una repubblica, mentre i
deputati Milanesi mandati a Parigi per pregare libertà, riportavano dal
direttorio solamente parole grate senza effetti. Si proponeva oltre a
ciò Buonaparte, solito a fabbricare ne' suoi concetti grandissimi
disegni, tostochè si diminuisse l'asprezza della stagione, di varcare
con tutto l'esercito le Alpi Giulie, e di far sentire le sue armi nel
cuore della Germania, a fine di obbligare l'imperatore alla pace,
pensiero, che già aveva concetto fin dai tempi delle sue prime vittorie
in Italia, e che solo era stato interrotto dall'incredibile costanza
dell'Austria nel sostituire nuovi eserciti ad eserciti vecchi.
Confortavano massimamente questa sua deliberazione la singolarità, e la
grandezza dell'impresa non più tentata dai Francesi dal secolo di
Carlomagno in poi, l'avere a cimentarsi con l'arciduca Carlo, fratello
dell'imperatore, che aveva recentemente combattuto vittoriosamente le
armi repubblicane sulle sponde del Meno e del Reno, e che era stato
preposto, come ultima speranza, all'esercito Italico; il fare finalmente
quello, dall'Italia venendo, che non avevano potuto fare Moreau e
Jourdan, che avevano guerreggiato sulle terre stesse dell'Alemagna;
perciocchè o l'imperatore Francesco, sbigottito a quel suono tanto
insolito dei Francesi nel cuore degli stati ereditari avrebbe consentito
agli accordi, ed in tale caso acquistava Buonaparte un segnalato favore
in Francia; ovvero il sovrano Alemanno si ostinava nel voler usare le
armi, ed in tale caso il capitano di Francia distendeva i suoi pensieri
sino all'occupazione di Vienna, impresa anch'essa, che avrebbe fatto il
suo nome immortale. In questo poi era suo intento di affrettarsi, sì
perchè, credendo di poter fare da se, non voleva che Moreau, calandosi
per le rive del Danubio, lo ajutasse, e sì perchè aveva a cuore di
assaltare l'arciduca innanzi che le genti di nuova leva, che già
marciavano, avessero ingrossato le reliquie dei vinti. A condurre a fine
queste fazioni due cose principalmente abbisognavano, l'una il non
lasciarsi nissun sospetto alle spalle, l'altra il procacciarsi maggiori
compensi a dare all'imperatore, se questi fosse obbligato a rinunziare
alla Lombardia. L'uno e l'altro fine conseguiva col far rivoluzione nei
paesi Veneti.

Con questi pensieri si accostava Buonaparte alla guerra d'Alemagna.
Reggeva cinquantamila soldati fioritissimi, e veterani tutti
dell'esercito Italico, ed a questi si erano congiunti ventimila venuti
dal Reno sotto la condotta di Bernadotte. Gli aveva per tal modo
distribuiti nelle stanze, che l'ala sua sinistra governata da Joubert e
grossa di più di ventimila soldati molto agguerriti, guardava i passi
del Tirolo sulla sponda sinistra del Lavisio oltre al Trento,
distendendosi da una parte sino ai fonti dell'Adda verso Bormio,
dall'altra sino a quei della Brenta. La mezza schiera condotta da
Massena alloggiava Bassano; l'ala destra, alla quale presiedeva
Buonaparte stesso, e che aveva un novero di trentamila soldati,
alloggiava nel Trivigiano sino alle rive della Piave. Così con le tre
schiere sovrastava Buonaparte ai tre passi, che dall'Italia danno
l'adito all'Alemagna, primamente a quello, che da Bolzano dà, a traverso
del monte Brenner, verso Inspruck, passo aspro e difficile; secondamente
a quello, che dalla Ponteba pei fonti del Tagliamento, e per Tarvisio si
apre verso Villaco; finalmente al terzo, che per cammino più facile e
più diritto porta da Gorizia a Clagenfurt, a Gratz, ed a Vienna. Ma
intenzione di Buonaparte era, poichè inoltrandosi verso Vienna aveva
bisogno di tutte le sue forze, che Massena, occupati prima Feltre e
Belluno sulla Piave, s'impadronisse del passo della Chiusa, e giunto per
tal via nella superior valle del Tagliamento viaggiasse per Ponteba e
Tarvisio alla volta di Villaco. Nè ciò bastando al suo disegno, aveva
ordinato a Joubert, che ove si fosse fatto padrone di Bolzano e di
Brissio, non istesse più a camminare oltre alla volta d'Inspruck, ma che
anzi, vinti i Tedeschi, e voltandosi a destra marciasse per Bruneca, e
Toblaco a Linzo sulle rive della Drava, e per tal modo accostasse le sue
genti a Villaco ed a Clagenfurt. Per tale guisa, rotta tutta la fronte
degli Austriaci, ed adunate tutte le sue genti sulla strada maestra per
a Vienna, sperava, che tra la forza ed il tenore, gli sarebbe venuto
fatto o di costringere alla pace l'imperatore, o di conquistare la
metropoli dell'Austria. Dava nuovo incentivo a questi pensieri il
sapere, che una parte forte in Vienna, fino negl'imperiali consigli,
inclinava alla pace, la quale parte più efficacemente operando, quando
più fosse imminente il pericolo, avrebbe fatto che l'opinione sua
restasse superiore. Questa parte era ajutata dai ministri di Spagna e di
Napoli, che speravano, per mezzo della pace coll'imperatore, veder
vantaggiata la condizione dei sovrani loro. Mescolavansi in questo
maneggio donne di alto legnaggio, alle quali piaceva o l'ambizione
d'intromettersi nelle faccende di stato, o le parole di libertà, o la
gloria di Buonaparte. Tutti questi umori e diligentemente saputi, e
studiosamente nutriti dai repubblicani, erano i fondamenti principali a
cui si appoggiavano le speranze del direttorio, quando mandava Clarke a
trattare gli accordi in Italia. A loro si opponeva per la rettitudine
dell'animo suo l'imperator Francesco. Opponevasi ancora, e molto
gagliardamente Thugut ministro, o che inclinasse alla parte
d'Inghilterra, come pubblicavano i repubblicani, o che credesse, come è
più verisimile, che la pace fosse più pericolosa della guerra. Per
cagione di questo era Thugut divenuto segno di ogni più vile ingiuria
nelle gazzette repubblicane di Francia; nè Buonaparte si ristava, solito
a vituperare chi meglio serviva alla patria, che a lui. Mandava anche
bandi agli Ungari, affinchè si ribellassero contro la casa d'Austria, e
si vendicassero in libertà. Così mescolando le seduzioni alle armi, e le
armi alle seduzioni, e niuna cosa santa ed inviolata avendo,
s'incamminava a sconvolgere la monarchia d'Austria, e il mondo.

Animava i suoi soldati per fargli star saldi alle nuove pruove:
badassero, diceva, che già avevano vinto quattordici campali battaglie,
settanta minori, preso più di cento mila prigionieri, conquistato
cinquecento cannoni leggieri, due mila grossi, piatte per quattro ponti,
si ricordassero, avere senza spesa del pubblico vissuto un anno, mandato
trenta milioni all'erario; per loro avere il museo di Parigi acquistato
quanto di più bello aveva penato trenta secoli l'antica e la moderna
Italia a produrre; le più belle contrade d'Europa essere in potestà
della repubblica; a loro obbligate della libertà la Lombarda, e la
Cispadana repubbliche; vedere per la prima volta l'Adriatico le Francesi
insegne; là oltre, e poco distante mostrarsi la Macedonia antica; il re
di Sardegna e di Napoli, il papa, il duca di Parma, abbandonata la lega,
avere ricerco l'amicizia della repubblica; gl'Inglesi cacciati da
Livorno, da Genova, da Corsica essere testimonj del loro valore; molto
essersi per loro fatto, molto ancora restare a farsi; meritassero
l'affezione della patria confidente nel loro coraggio; solo fra tanti
nemici stare in piè ed in armi l'imperatore, l'imperatore postosi agli
stipendi dei mercanti di Londra, dei perfidi isolani d'Inghilterra, che
non tocchi dai mali della guerra, non tocchi dai mali del continente
trionfavano; avere voluto il direttorio la pace a condizioni oneste;
averle rifiutate la venduta Vienna: gissero adunque, esortava, la pace
cercando nel cuore stesso degli stati ereditari d'Austria; vedrebbero
popoli valorosi fatti infelici dalla guerra col Turco, fatti infelici
dalla guerra con la repubblica; vedrebbero popoli sdegnati contro
ministri corrotti dall'oro d'Inghilterra; la religione onorassero, i
costumi rispettassero, le proprietà proteggessero, alla prode nazione
Ungara la libertà recassero; la casa d'Austria venuta in odio ai popoli
pei violati privilegi, sforzassero a quella pace, ch'essi stessi
volessero, e la riducessero, a quella condizione di seconda potenza, a
cui già si era da se medesima abbassata pei ricevuti salari
d'Inghilterra. Voci molto incitatrici erano queste agli animi di soldati
valorosi, vincitori, e che non conoscendo qual fosse in tanta contesa il
dritto, il giusto, e l'onesto, non altro suono conoscevano, che quello
delle armi.

Dalla parte dell'Austria, che mal volentieri si disponeva a lasciare del
tutto le cose d'Italia abbandonate, le faccende passavano con maggior
moderazione, ma non con maggior coraggio, se si guardano le risoluzioni
di chi reggeva lo stato; imperciocchè, oltre le reliquie dei soldati
vinti, si mandavano alla volta della Carintia, della Carniola, e del
Friuli circa trentamila delle genti del Reno, nuove leve si ordinavano
negli stati ereditari, la nazione Ungara volonterosamente accorreva in
ajuto del sovrano pericolante. Una massa di soldati vecchi e nuovi
alloggiava a Salisburgo pronta a correre ai passi dell'Alpi; un campo si
ordinava a Neustadt, come antemurale alla capitale dell'impero. Tutto
ciò non si faceva senza necessità, perchè grande era la debolezza
dell'esercito Italico, nè era l'animo maggiore delle forze; cinque volte
vinto aveva perduto l'antico ardimento; le compagnìe sceme, i soldati
nuovi non usi all'armi, i vecchi sconfortati dalle sconfitte; nè ordine
stabile era fra loro, nè unità di consiglio; perchè mescolate le
compagnìe, mescolati i soldati, non era più fra loro abitudine comune,
sola madre dell'operare accordato, e della perfetta disciplina. Deboli
le fanterìe, ancora più debole la cavallerìa, nervo tanto principale
degli eserciti Austriaci, perchè il fiore era perito nella Mantovana
guerra. Nè i generali, o gli ufficiali fra di loro s'intendevano, perchè
lo sbigottimento dà luogo al voler provvedere alla salute sua ciascuno
da se, e perciò il disordine, ed eziandio i rimproveri reciproci, come
suole accadere nelle disgrazie, interrompevano l'armonìa. Non ostante in
mezzo a tanta depressione d'animi e di fortuna, riconfortava la sbattuta
oste il pensiero dello avere a guidatore e capo delle nuove imprese
l'arciduca Carlo, principe amatissimo, che recentemente aveva dato segni
di non mediocre perizia, e di singolare ardimento nelle guerre
d'Alemagna. Nondimeno non potevano gli Austriaci per avere ogni
provvedimento debole, perduta Mantova, il fiore della cavallerìa, e
tante battaglie, sperare di riconquistare i dominj loro in Italia. Solo
si confidavano di arrestare ai passi dell'Alpi verso la Germania i
Francesi tanto che, conservato il cuor dell'imperio, potesse Francesco
imperatore o difendersi con vantaggio, o convenire con onore.

Alloggiavano nel Trentino, nel paese di Feltre, e nella Marca
Trivigiana, distendendo la fronte loro dai monti di Bormio insino alla
foce della Piave. Ritirava sul principio di febbraio l'arciduca il
grosso sulla sinistra riva del Tagliamento, e lo alloggiava nel Friuli e
nella Carintia, lasciando tre schiere sulla fronte descritta. Trovavasi
Liptay con una di esse a guardare lo spazio, che corre dalla frontiera
dei Grigioni a Salorno, terra posta sulla sinistra dell'Adige sopra al
Lavisio, e per tal modo stava a difesa del superiore Tirolo. Spiegava la
seconda le sue ordinanze da Salorno a Feltre a traverso i monti che
spartono le acque dell'Adige da quelle della Piave. Obbediva questa al
freno di Lusignano, ed era pronta a venire al cimento con quei soldati
rischievoli di Massena. Finalmente il principe di Hohenzollern con
settemila soldati custodiva il paese da Feltre, scendendo per la
sinistra della Piave fin dove ella mette in mare. Fermava l'arciduca il
suo principal alloggiamento in Udine, capitale del Friuli, perchè
sapeva, che il più forte sforzo dell'inimico si doveva indirizzare verso
Gorizia.

Dipendevano gli animi degli uomini da espettazione di cose grandi nel
vedere due capitani eletti, l'uno negli occhi di tutto il mondo per le
guerre d'Italia, l'altro per quelle d'Alemagna, ed entrambi pari d'età,
entrambi pari di valore, vicini al venire fra di loro al cimento
dell'armi. Ma sebbene l'animo, e la perizia nelle cose di guerra nei due
emoli si pareggiassero, non era la medesima la natura in ambidue, nè la
stessa ancora la condizione dei tempi e dei luoghi, in cui si
ritrovavano. Era l'uno audace ed impetuoso, l'altro temperato e
prudente; guidava il primo genti vittoriose, il secondo genti quasi
tutte vinte; combatteva quegli con l'armi o con le suggestioni,
combatteva questi con l'armi e con l'antica fede; aveva il repubblicano
l'esercito più grosso, il principe minore; andava con la vittoria di
Buonaparte la conservazione dell'impero francese in Italia, andava con
la vittoria di Carlo la conservazione della monarchìa d'Austria, e la
messa di lui era maggiore di quella dell'avversario. Da un altro lato
erano tutto all'intorno, e dietro, più fedeli i popoli al capitano
Austriaco, più avversi al Francese, il che faceva le ritirate più sicure
al primo che al secondo; e se il ritirarsi era più necessario a quello,
era il vincere più necessario a questo. Per la qual cosa altra maniera
di guerra doveva seguitare Buonaparte, ed altra Carlo; perchè la
vittoria del primo consisteva nella celerità, quella del secondo
nell'indugio, ed il non vincere fra breve tempo era per quella parte un
perdere, sostenere per qualche tempo la guerra era per questa un
vincere. La natura adunque dei tempi conveniva alla natura d'ambi i
giovani emoli, e quello che per l'uno e per l'altro era necessità, era
anche inclinazione. Per questo elesse Buonaparte di spignersi
frettolosamente avanti per condurre alla giornata l'avversario ovunque
il trovasse, mentre prese l'arciduca partito di ritirarsi, di farsi
forte ai passi, di tagliare i ritorni, di non tentare senza necessità la
fortuna del combattere, e di operar per modo sì coi soldati che con le
popolazioni, che di altro spazio non fosse il Francese padrone, se non
di quello in cui i suoi soldati insistessero. A questa deliberazione era
anche costretto dal pensare, che, non essendo ancora giunti tutti,
quantunque già fossero in viaggio, i rinforzi che dal Reno,
dall'Ungheria, e dagli stati ereditari aspettava, il tirarsi indietro
era avvicinarsi ai medesimi, e perciò diventare ogni ora più grosso,
mentre a Buonaparte continuamente scemerebbono le forze in proporzione
dello avanzarsi, a cagione dei presidj che doveva e nei luoghi aperti e
nei chiusi lasciarsi alle spalle, per mantenere le strade sicure verso
l'Italia, donde gli venivano i sussidi di soldati e di munizioni.
Certamente buon modo di guerra intraprendeva Carlo, e mancò piuttosto
l'animo in Vienna, che la prudenza nel difensore.

Il primo a dare il segnale delle nuove battaglie fu il generale di
Francia: il dieci marzo si muoveva con la sua destra, e con la mezzana
schiera. Era suo primario intendimento di entrar fra mezzo agli Alemanni
per modo che l'ala loro destra restasse separata dalle altre. Perciò
aveva ordinato, che il principale sforzo in questa prima mossa fosse
fatto dalla mezzana, che raunata sulle rive della Piave obbediva a
Massena; perchè era evidente, che ove egli fosse riuscito ad
impadronirsi della Piave superiore, occupando il paese di Cadore, era
interrotta la strada dal Tirolo al Friuli. Conseguito questo intento
diveniva più facile a Joubert di cacciarsi avanti gl'imperiali fino
all'ultimo varco di Germania, per quindi condursi per la valle del
Puster e della Drava agli ulteriori disegni di Buonaparte. Nè mancava
Massena del debito suo: perchè non così tosto si mosse, che gli
Austriaci, abbandonata la fronte del Cardevolo, ed i luoghi più bassi,
andavano a porsi in sito forte oltre Belluno a fine di propulsare
l'inimico, se tentasse d'innoltrarsi nella valle di Cadore. Seguitavagli
tostamente il Francese, e quantunque Lusignano con grandissimo valore si
difendesse, prevalendo i repubblicani di numero, fu alla fine obbligato,
non giovandogli nè l'avere ordinato i suoi in globo per aprirsi il passo
alla salute, nè un bravo menar di baionette, a por giù le armi con tutta
la sua schiera, e a darsi in potestà del vincitore. Per tal modo meglio
di seicento soldati, Lusignano con loro, vennero in poter dei Francesi;
ma fu maggiore il numero degli Austriaci uccisi in quell'ostinato
conflitto. Al tempo medesimo Serrurier e Guyeux varcavano la Piave a
Vidoro e ad Ospidaletto, ed occupato Conegliano e Sacile si avvicinavano
al Tagliamento. Aveva l'arciduca munito la sponda sinistra di questo,
piuttosto impetuoso torrente che giusto fiume, di trincee con averle
afforzate con artiglierie. Stanziavano anche numerose torme di
cavalleggieri pronte a ributtare l'inimico, ove passasse. Ma queste
erano meglio dimostrazioni per ritardare, che per arrestare l'inimico,
perchè le acque del Tagliamento, non ancora sciolte le nevi sui monti,
si potevano guadare in molti luoghi. Per la qual cosa i Francesi,
schivando i passi muniti, riuscivano facilmente sulla sinistra. Fuvvi
qualche incontro di cavallerìa assai brava, ma i fanti Tedeschi fecero
sperienza di poca virtù, quando la cavallerìa dei repubblicani, varcato
il fiume, gli ebbe assaltati. Al contrario i primi fanti francesi che
avevano passato, percossi vigorosamente dalla cavallerìa tedesca,
avevano contrastato con molta forza. Fu poco notabile in questo fatto la
perdita dei repubblicani. Mancarono degl'imperiali meglio di seicento
soldati tra uccisi e prigionieri: s'aggiunsero alle conquiste dei
vincitori sei cannoni. Venne prigione in mano loro il generale Schultz.

Passato il Tagliamento, ed assicurato Buonaparte sulla sinistra per la
vittoria di Massena, che già da Cadore, valicando dai fonti della Piave
a quei del Tagliamento, si accostava con presti alloggiamenti alla
Ponteba, si stendeva per tutto il Friuli, cacciandosi avanti verso il
Lisonzo le armi Austriache, che debolmente combattendo facilmente gli
cedevano del campo. Già le fortezze di Palmanova e di Gradisca, e già
Gorizia erano in poter suo venute. Quindi allargandosi a destra
s'impadroniva di Trieste abbandonato da' suoi difensori, e fatta una
subita correrìa sopra Idria, faceva sue quelle ricche miniere d'argento
vivo, bottino ricchissimo, ma non tanto quanto portò la fama. Verso
sinistra, procedendo altresì molto risolutamente, prendeva Cividale e
s'incamminava a Chiavoretto, perchè voleva consuonare con Massena nel
carico, che questi aveva d'impossessarsi del passo importante della
Ponteba. Grande era questo suo pensiero; conciossiacchè se Massena
guadagnava il passo della Ponteba, poi quello di Tarvisio, che gli
succede, gli sarebbe venuto fatto di spuntare il fianco destro
dell'arciduca, di separarlo da Kerpen, e da Laudon, d'impedire i
rinforzi, che dal Reno gli pervenivano, e forse ancora di giungere a
Clagenfurt sulla strada per a Vienna innanzi che il generalissimo
Austriaco vi arrivasse. Con ciò conseguiva anche l'altro intento di
assicurarsi la congiunzione delle genti di Joubert, che per la valle
della Drava dovevano venire dal Tirolo. Parte di questi pensieri recava
ad effetto, e parte no, perchè gli venne interrotta dalla celerità e
dalla prudenza dell'avversario.

Ma prima che raccontiamo le importanti fazioni che ne seguirono,
necessaria cosa è il descrivere, come le cose passassero tra Joubert da
un canto, e Liptay, Kerpen e Laudon dall'altro nel Tirolo. Come prima
ebbe avviso Joubert dei prosperi fatti accaduti nel Friuli, si metteva
all'ordine per eseguir le imprese, che alla fede, ed al valor suo aveva
Buonaparte raccomandate. Varcava il Lavisio il dì venti di marzo, non
ostante che i cacciatori Tirolesi posti ai passi, con ispessi tiri ogni
opera facessero per impedirlo: urtava Kerpen, che aveva un forte campo
sulle alture di Cembra, tentando di accerchiarlo a sinistra per
Cavriana. Al tempo stesso per la strada di Bolzano, e a destra
marciavano Delmas, e Baraguey d'Hilliers. Fu valida, ma non lunga la
difesa, pel timore che ebbe Kerpen di essere circuito sulla destra della
sua fronte, però con celeri passi si ritirava a San Michele, donde
gagliardamente anche combattuto dai Francesi viemmaggiormente
indietreggiando, andava a porsi più sopra a Bolzano. Grave danno
patirono in tutti questi fatti gli Austriaci, avendo perduto tra uccisi,
feriti e prigioni circa tre mila soldati. Entravano successivamente,
benchè non senza nuove battaglie e molto sangue, i Francesi in Salorno,
in Peza, ed in Newmarket. La ritirata tanto presta di Kerpen poneva in
grave pericolo Laudon, che alloggiava sulla destra dell'Adige,
perciocchè le raccontate fazioni accadevano sulla sinistra. Nè i
Francesi trasandavano la occasione; anzi, varcato il fiume ai ponti di
Salorno e di Newmarket, assalivano Laudon nel suo campo di Tranen, e lo
rompevano con uccisione di molti, e con circa novecento prigioni, e
parecchie artiglierìe prese. Dopo questa rotta, che faceva impossibile a
Laudon di ricongiungersi con Kerpen, non ebbe altro rimedio, che di
cercar ricovero nelle parti superiori della valle di Merano. Quivi
stette aspettando, che la fortuna gli offerisse nuova occasione di
risorgere.

Seguitavano i Francesi il corso della fortuna vincitrice, ed urtato
Kerpen che aveva fatto un forte alloggiamento alla Chiusa, lo avevano
sloggiato e percosso di modo, che abbandonato anche Brissio, pensava a
ritirarsi a Sterzing, luogo molto scosceso, stretto, rotto, difficile, e
posto nelle montagne del Brenner presso al sommo giogo dell'Alpi, dove
si spartono le acque dell'Adige e dell'OEno, ultima difesa d'Alemagna
contro chi viene dalle terre d'Italia. I Francesi lo assaltavano
audacemente in quel fortissimo alloggiamento; fu dura e sanguinosa la
battaglia; furono costretti a tornarsene indietro, o che l'intoppo fosse
troppo forte, o, come pare più probabile, che l'intento loro fosse
solamente di assicurarsi, non di passare, perchè era pericoloso a
Joubert di condursi sino ad Inspruck, e non conveniente ai disegni di
Buonaparte, che voleva vicina a se, e non lontana, nè separata da alte e
disagevoli montagne quella schiera. Adunque Joubert si fermava a
Brissio, dove poteva a suo grado o stare osservando le cose del Tirolo,
o marciare per Bruneca e Toblaco a Linzo, e di là fino a Villaco per
trovarvi Buonaparte. Ma non tardava a fare la fortuna, che quello, che
era elezione per lui, diventasse necessità.

Chiamava Laudon i Tirolesi all'armi, gli chiamava Kerpen: secondava con
ardenti esortazioni l'opera loro il conte di Lerback, personaggio di
grande autorità, e molto potente nelle cose del Tirolo. I bellicosi
abitatori di quelle montagne al suono di voci tanto gradite correvano
all'armi bramosamente contro i conculcatori della patria loro: nè il
sesso, nè l'età si rimanevano, perchè furono veduti e vecchi, e donne, e
fanciulli, dato di mano alle armi, che il caso od il furore parava loro
davanti, mettersi in piè per difendere le antiche ed amate sedi loro. Nè
la stagione sinistra, nè le alte nevi, nè i grossi ed impetuosi
torrenti, nè ogni disagio di guerra o di vettovaglia gl'impedivano.
Passava tant'oltre quest'improvviso tumulto, che sul principiar di
aprile, risuonando quelle valli d'ogni intorno d'armi e di grida
guerriere, meglio di venti mila combattenti erano in pronto contro
quella gente venuta da lontani paesi per conquistargli. Intanto i
generali Tedeschi, che sapevano, che le moltitudini disordinate sono
piuttosto preda, che danno ad un nemico bene ordinato, avevano
distribuito in battaglioni giusti quella massa tumultuante, e
mescolatovi, per dar polso e regola, alcuni drappelli di regolari.
Principale fondamento facevano nell'opera di costoro, perchè questi
popoli accorsi, sapendo il paese, potevano acconciamente ferire alla
leggiera, opprimere i traviati, mozzar le strade, riuscire improvvisi
alle spalle, bersagliare da lungi e da luoghi erti, soprapprendere le
bagaglie, impedire la vettovaglia, insomma fare ogni cosa avanti, a'
fianchi, e addietro sospetta e pericolosa.

Kerpen e Laudon, fatti forti da questo accalorato stormo, ed ingrossati
anche da qualche battaglione di regolari venuti dall'esercito Renano, si
consigliavano di voler cacciare del tutto dal Tirolo i repubblicani. Con
questo pensiero Laudon, che aveva spogliato d'abitatori la valle di
Merano, ed ordinatigli sotto le insegne, calava minacciosamente da quei
luoghi alti e dirupati, ed andava a battere a mezza strada tra Brissio e
Bolzano, col fine di tagliar il ritorno ai Francesi alle parti disottane
dell'Adige. Gli riusciva l'intento, perchè assaltate con impeto le
vanguardie Francesi, le faceva piegare, e s'impadroniva di Bolzano.
Fatto poscia più audace dal fortunato successo, saliva per le rive
dell'Adige per congiungersi con Kerpen, e per istringere vieppiù
Joubert, che tra l'una schiera e l'altra stanziava a Brissio. Occupava
la Chiusa, poi Steben, tanto ritirandosi i Francesi più in su, quanto
più s'avvicinava Laudon: già Brissio medesimo pericolava. Nè se ne stava
neghittoso in questo mezzo tempo Kerpen, perchè calando con le sue genti
miste di Tirolesi e di Tedeschi da Sterzing, rincacciava i repubblicani
fin sotto le mura di Brissio. Per questo modo a Joubert accerchiato da
tre parti, a tramontana da Kerpen, a ostro ed a ponente da Laudon, non
rimaneva più altro scampo, che a levante per la valle del Puster, poscia
per quella della Drava sino a Villaco. Partitosi da Brissio il dì cinque
aprile, e ritardato l'impeto di Kerpen, che lo voleva seguitare, con
aver rotto il ponte sull'Eisaco, arrivava il giorno otto a salvamento a
Linzo, dove trovava alcuni squadroni di cavalleria, che il
generalissimo, geloso di quel passo, aveva mandati ad incontrarlo.
Poscia marciando sollecitamente in giù per le rive della Drava, e rotte
alcune squadre collettizie all'Ospedale, che volevano serrargli il
passo, conduceva ad effetto a Villaco la congiunzione dei due eserciti.
Ma Laudon non si ristava; che anzi cacciando all'ingiù dall'Adige i
Francesi, entrava vittorioso in Trento e Roveredo. S'allargava anche
sulle sponde del lago a Torbole ed a Riva. Questa mossa, che già faceva
sentir il romore delle armi Tedesche nella pianura frapposta fra l'Adige
e il Mincio, partoriva effetti importanti, e ne avrebbe partorito degli
estremi, se l'imperatore Francesco avesse mostrato, in quest'ultima
fine, maggiore costanza, ed il senato Veneziano maggiore ardimento.

La guerra si avvicinava sugli estremi confini d'Italia per opera di
Massena ad un evento terminativo, per quanto spetta alla difesa degli
stati ereditari d'Austria. Già si è da noi notato, di quanta importanza
fosse il passo della Ponteba. Per questo aveva comandato l'arciduca a
Ocskay, che lo custodiva, ostinatamente il difendesse. Confidando nel
valore de' suoi, veniva in pensiero di sopraccorrere improvvisamente con
forze superiori contro Massena, e di conculcarlo prima che Buonaparte
avesse tempo di soccorrerlo. Il quale intento, se avesse avuto il suo
effetto, l'arciduca avrebbe fatto a Buonaparte quello, che Buonaparte
voleva fare a lui, cioè separare l'ala sua destra dalle genti del
Tirolo, che erano la sua sinistra. A questo fine ebbe tostamente il
generale austriaco adunato alcune truppe già venute dal Reno, e
comandava al tempo medesimo ai generali Gontreuil e Bajalitsch,
marciassero risolutamente a Tarvisio per a Ponteba; gli seguitava di
pari passo, conducendo con se le artiglierie più grosse. L'accidente era
importante, il momento fortunoso. Già marciava l'arciduca quasi sicuro
della vittoria; ma quando più confidava di un prospero fine, gli
sopravvenivano le novelle, certamente ingratissime, che Ocskay, non
facendo alla Ponteba contro Massena quella sperienza che si aspettava di
lui, si era tirato indietro fino a Tarvisio; che anzi velocemente
seguitato dal nemico, aveva anche abbandonato Tarvisio, ritirandosi più
che di passo verso Wurtzen. Quest'accidente tanto impetuoso fece
precipitar l'arciduca ai rimedi: comandava a Ocskay, che tornasse
incontanente, e cacciasse i repubblicani da Tarvisio. Ma il suo intento
non ebbe effetto, perchè Ocskay, troppo accelerando il cammino, già era
arrivato a Wurtzen, terra troppo più lontana che abbisognasse, perché ei
potesse giungere a tempo alla fazione. Non si perdeva d'animo per tanto
sinistro l'arciduca, e, non lasciata indietro diligenza od opera alcuna,
pensava a ricuperar col valore quello, che la timidità aveva perduto. A
questo fine ordinava a Gontreuil e Bajalitsch, seguitassero a marciare,
e restituissero ad ogni modo alle armi austriache il passo di Tarvisio.
Tanto velocemente marciò il primo, guidatore dell'antiguardo, che,
valicato il colle di Ober-Preth, urtava valorosamente in Tarvisio,
cacciavane i repubblicani, e perseguitandogli, gli respingeva sin oltre
al villaggio di Salfnitz, e se fosse stato presto Bajalitsch ad arrivare
per fermare i suoi nella battaglia, l'impresa aveva il suo compimento.
Ma egli, o fosse ritardato dai luoghi aspri, o dagl'impedimenti delle
artiglierìe che voleva condurre con se, non potè arrivare a tempo alla
fazione, per modo che il seguente giorno, che fu ai ventitre di marzo,
Massena, raccolti ed adunati i suoi, e già prevalendo di forze contro
Gontreuil rimasto solo, dava dentro, prima a Salnitz, poscia a Tarvisio,
e da ambi i luoghi cacciava gl'imperiali. Nè valsero il valore di
Gontreuil, che fu molto notabile, nè quello delle sue genti che
combatterono virilmente, nè la presenza dell'arciduca medesimo che era
accorso, e fece in questa battaglia le veci non meno di esperto
capitano, che di animoso soldato, ad arrestare il corso della fortuna
contraria; perchè non solamente fu rotto e ferito Gontreuil, ma fu
cagione, che rotto ancora fosse poco dopo Bajalitsch che arrivava;
conciossiachè Massena vittorioso, rivoltatosi contro questa seconda
colonna, le dava l'assalto sui confini di Raibel. Al tempo medesimo
Guyeux, che si era impossessato per una battaglia di mano del forte
passo della Chiusa di Plezzo, accostatosi ancor esso, l'assaliva alla
coda. La schiera, urtata da tutte le parti da un nemico vittorioso,
ridotta ad un'estrema lassezza pel camminare frettoloso su per quei
monti, nè avendo speranza di soccorso, deposte le armi, si arrendeva.
Quattro generali, quattromila soldati, venticinque cannoni, quattrocento
carri carichi di bagaglie e di munizioni furono i cospicui segni delle
vittorie di Tarvisio e di Raibel. Tali furono i risultamenti della mal
difesa Ponteba, e per aver il nemico preso il vantaggio dei passi, restò
vana la fatica ed il desiderio dell'arciduca.

Perduta la speranza d'offendere, pensava il generale dell'Austria ad
ordinar le difese in modo che fosse fermato quel precipizio, e fatto
abilità alle genti stanziali del Reno di arrivare, alle leve di Croazia,
di Bosnia, d'Austria e di Ungherìa di ordinarsi, ed al campo di Neustadt
di fortificarsi. Schierava a questo fine il generale Seckendorf sulla
strada di Lubiana, città chiamata con vocabolo tedesco Laybach,
acciocchè intendesse alla difesa della Carniola, e delle rive della
Sava; quest'era l'ala sua sinistra. Alloggiava il generale Mercantin
sulle sponde della Drava per sicurezza di Clagenfurt; quest'era la mezza
schiera. Finalmente il principe di Reuss col generale Keim con l'ala
destra avevano fermato le loro genti a San Vito, e nella valle della
Mura. Per tal modo si guardavano i tre principali aditi, per cui si va
dall'Italia nel cuore delle possessioni austriache in Alemagna. Sperava
l'arciduca, abborrendo dal lasciarsi stringere a far giornata, che
questi preparamenti di difesa, le genti del Reno che giungevano, i
popoli che tumultuavano tutt'all'intorno, avrebbero dato cagione di
pensare a Buonaparte, e frenato la sua audacia del volersi internare
negli stati ereditari. Ma il capitano di Francia, che voleva pure che le
sue armi rumoreggiassero in Alemagna, parte per amore di gloria, parte
per isperanza, che chi parteggiava per la pace a Vienna, si mostrerebbe
tanto più vivo quanto più ei fosse vicino, non si rimaneva, che anzi
spingendosi avanti, e già congiunto con lui Joubert, entrava vittorioso
in Villaco, Lobiana e Clagenfurt. Così non restava a superarsi più altro
ostacolo di luoghi a Buonaparte, perchè sulle sponde del Danubio vicine
a Vienna facesse sentire l'impressione delle sue armi, che la falda
settentrionale delle Noriche Alpi, che la Drava dalla Mura dividono,
debole impedimento per la facilità dei passi.

La guerra d'Italia, che prima era piccola parte dei disegni Francesi,
era divenuta, per tanto segnalate e tanto efficaci vittorie, parte
principalissima; ed inaspettatamente il far forza all'imperatore, che si
sperava pel direttorio dall'Alemagna, sorse dall'Italia; opera
certamente, che il direttorio medesimo, nè nissun governo, nè niuna
persona al mondo, se non forse Buonaparte avrebbe potuto non che
credere, immaginare, quando poco più di un anno avanti si combatteva
nella riviera di Ponente sotto l'umile scoglio di Borghetto. Ma per gli
Austriaci combatteva solamente il valore, pei Francesi l'impeto, pei
primi un voler guadagnar i paesi a palmo a palmo, pei secondi un
conquistargli a dirittura, per quelli un guerreggiare pesato, per questi
un guerreggiare audacissimo, per gl'imperiali uno spandere l'esercito
per voler esser dappertutto, pei repubblicani un serrarsi in un luogo
solo per poter irrumpere grossi ed avventati. Si aggiunge, che gli
Austriaci non andavano alle fazioni se non provvisti di tutto punto,
mentre i Francesi vi andavano sprovvisti di ogni cosa, purchè quelle
armi avessero che con se portano i soldati: ciò faceva le mosse degli
Austriaci tarde, quelle dei Francesi preste. Molto ancora nocque ai
capitani d'Alemagna l'essere, secondo il solito, abborrenti dallo
spendere per aver le spie; nel che Buonaparte non guardava a quello che
si spendesse. Nè gran momento in questo non recò il procedere
independente di Buonaparte, perchè faceva da se, e poco si curava dei
disegni e dei comandamenti del direttorio, mentre i capitani Austriaci
erano astretti ai disegni ed agli ordini del consiglio di Vienna, lento
al deliberare, geloso dell'esecuzione: quindi per questi molte buone
occasioni, che la fortuna parava loro davanti, di vincere, si perdevano,
mentre il capitano Francese, che si stimava padrone di fare ciò che
voleva, non ne trasandava nissuna. Finalmente la celerità sua, veramente
mirabile, fu cagione principalissima delle sue vittorie, e bene si può
dire con l'esempio di Buonaparte; che se il mondo è di chi se lo piglia,
molto ancora più le vittorie sono di chi se le piglia. Errò egli qualche
volta, ma compensò con l'audacia il suo errare: errarono ancor essi i
capitani Tedeschi, e si sgomentarono al loro errare. Quindi ebbe
Buonaparte maggiore probabilità di vincere, perchè non solo vinceva
quando operava bene, ma anche quando operava male, e l'audacia sua,
congiunta con un'astuzia e con una perizia straordinaria, il fecero, per
la guerra offensiva, il più compiuto capitano che sia stato mai.

Giunto a Clagenfurt, ed avuto avviso per modo segreto, che i partigiani
della pace a Vienna facevano efficace opera per venire ai fini loro,
pensava di usare il terrore impresso, perchè la parte loro prevalesse
nelle consulte dell'imperatore. A questa deliberazione fu anche indotto
dal sospetto di quello che potesse accadere alle sue spalle; perchè,
sebbene il senato Veneziano fosse debole, erano i popoli della
terraferma gagliardi per lo sdegno concetto alle conculcazioni fatte dai
repubblicani, e minacciavano di far novità contro di loro. Al che erano
anche incitati dalle rivoluzioni di Bergamo e di Brescia accadute per
instigazioni segrete e palesi dei Francesi, e dei loro partigiani. Da un
altro lato, aveva Buonaparte sentito i primi romori di Kerpen e di
Laudon nel Tirolo; e già la Croazia minacciava Trieste. Nè non
gl'importava il simulare il desiderio della pace; perciocchè, se la pace
seguiva a modo suo, otteneva l'intento, se non seguiva, sarebbe paruta
la guerra opera dell'ostinazione altrui. Scriveva adunque il dì trentuno
marzo all'arciduca, l'Europa sanguinosa desiderar la pace, desiderarla,
ed averne fatto dimostrazione il direttorio: solo l'Austria stare armata
sul continente per combattere; instigarla l'Inghilterra; dover forse
continuar ad uccidersi scambievolmente Francesi ed Austriaci, perchè si
facesse il piacer di una nazione non tocca dalle disgrazie della guerra?
«Voi foste, diceva all'arciduca, il salvatore dell'Alemagna, siate anche
il benefattore dell'umanità: anche vincendo, non potrete fare che non ne
sia lacerata l'Alemagna: se questa mia proposta fosse per divenir
cagione, che la vita di un uomo solo si salvasse, bene sarei io più
contento della meritata corona civica, che della fama acquistata in
ulteriori vittorie».

Rispondeva l'arciduca, fare la guerra per debito, desiderare la pace per
inclinazione; a nissuno più che a lui star a cuore la felicità dei
popoli, ma non aver mandato per trattare intorno ad una faccenda di
tanta importanza, ed a se non competente; aspetterebbe i comandamenti
del suo signore. Data la risposta, mandava gli avvisi a Vienna, già
molto turbata per l'avvicinarsi del nemico.

Buonaparte intanto si faceva con prestezza avanti, sperando di far certo
con la vittoria quello, che tuttavia era incerto. Ma l'arciduca, che si
era messo al fermo del voler temporeggiare, fuggendo la necessità del
combattere, si tirava indietro, solo ritardando con grosse fazioni del
retroguardo il perseguitar del nemico. Ritraevasi da San Vito, da
Fraisach, da Newmarket: ritraevasi ancora da Unzmarket sulla Mura, e da
Judenburgo. Occupava Buonaparte i luoghi abbandonati, e si vedeva avanti
le acque, che dall'estrema falda dei Norici monti se ne corrono per la
diritta nel Danubio; già le mura dell'antica ed invita Vienna erano
vicine a mostrarsi a' suoi soldati vincitori; caso veramente di tanta
maraviglia, che da molti secoli addietro non era accaduto l'uguale.

Ma già a Vienna più aveva potuto il timore che la prudenza, ancorchè la
condizione di Buonaparte fosse diventata pericolosa per la subita
comparsa di Laudon nella campagna di Brescia, per l'arrivo di un
colonnello Casimiro a Trieste mandatovi dall'arciduca, e per essere sul
mezzo della fronte l'arciduca medesimo grosso e rannodato, e con tutte
le popolazioni all'intorno, che dimostravano animo stabile nella
divozione verso l'antico signore. Arrivavano all'alloggiamento di
Judenburgo i generali Belegarde e Meerfelt con mandato di sospendere le
offese, e di comporre le differenze. Uditi benignamente dal generale di
Francia, si accordarono, il giorno sette aprile, che si sospendessero da
ambe le parti le offese per sei giorni. Poi, scoprendosi sempre più
inclinato Buonaparte a volere condizioni vantaggiose per l'Austria con
offerire compensi nei territorj Veneti alla perdita dei Paesi Bassi e
del Milanese, fu prolungata la tregua insino a che fossero accordati i
preliminari di pace, che secondo il corso di quei negoziati, si vedevano
non lontani. Infatti, essendosi dato perfezione a tutte le pratiche, si
venne fra i plenipotenziari rispettivi alla conclusione dei preliminari
nella terra di Leoben il dì diciotto del medesimo mese. Alcuni dei
capitoli furono palesi, altri segreti. Fra i primi contenevasi, cedesse
l'imperatore alla Francia i Paesi Bassi, riconoscesse le frontiere della
repubblica, quali le avevano le leggi Francesi definite, consentisse
alla creazione di una repubblica in Lombardia. Stipulavano i segreti,
desse la Francia in poter dell'imperatore l'Istria, la Dalmazia, il
Bresciano, il Bergamasco, parte del Veronese. A questo fine appunto, e
per compir questa fraude, aveva Clarke già molto avanti esortato
l'imperatore ad occupare coll'armi l'Istria e la Dalmazia, ed aveva
Buonaparte, pure molto prima, fatto rivoltar contro il senato Bergamo,
Brescia, e le Veronesi terre: promettevano peraltro i preliminari, che
la repubblica di Venezia si compenserebbe con le legazioni; il che
significava, che si destinavano, senza saputa e senza consenso del
senato Veneziano, ad altra potenza i suoi dominj, e che gli si
offerivano compensi, prima che si sapesse se a lui erano o convenienti
od onorevoli; perchè in questo, non solo si spogliava Venezia de' suoi
stati, ma le si voleva dar compenso con ispogliar di altri stati una
potenza con lei congiunta di amicizia: ed è anche da considerarsi in
queste rivolture schifose lo strazio, e lo scherno, che si faceva di
quella repubblica Cispadana, che appena nata già si voleva ridurre sotto
la sferza di un governo aristocratico, come dicevano, e tirannico, che
era una faccenda grave in quei tempi. Ma essendosi stipulato nei
preliminari, che Mantova si restituisse all'imperatore, il direttorio
non volle consentire questa condizione, certamente gravissima in se
stessa, e per gli effetti che portava con se; conciossiachè il lasciare
un sì forte nido all'Austria in Italia era un fare perpetuamente incerta
la repubblica Lombarda, o Transpadana, che la vogliam nominare, ancora
tanto tenera in quei primi principj, ed un necessitare la presenza
continua di un grosso esercito Francese nell'Italia settentrionale.
Rendevansi anche per la medesima cagione incerte tutte le mutazioni di
stato, che in Italia avevano fatto i Francesi, e questi stati nuovi, ad
una prima presa d'armi, ad un primo romore, ad un primo sospetto, ad una
prima sollevazione d'animi, sarebbero iti tutti sossopra, nè mai
avrebbero potuto por radice, per quel segnale importuno dell'Austria
vicina e forte. Il rifiuto del direttorio fe' sorgere nuovi negoziati,
pei quali finalmente fu consentita Mantova alla repubblica Transpadana,
ma nacque al tempo stesso la necessità di ricompensare quella piazza
all'imperatore col restante dello stato Veneto, colla città stessa di
Venezia, e colla distruzione totale dell'antico governo Veneziano.
Assunse l'opera barbara e frodolenta il direttorio; s'addossò Buonaparte
il carico di mandarla ad effetto, ambi sperando di colorire il
tradimento ordito contro i Veneziani con fingere tradimenti orditi dai
Veneziani contro di loro.

Già abbiamo in un precedente libro raccontato, che Bergamo era stato
occupato da Buonaparte, come istrumento potente a volgere a sua
divozione l'animo dei popoli della terraferma Veneta. Fu del tutto
violento il modo, e contrario a tutti gli usi della neutralità.
Entrarono i repubblicani in Bergamo, Baraguey d'Hilliers gli guidava,
con cannoni ordinati a modo di guerra, con le micce accese,
s'impadronirono delle porte, recaronsi in mano le artiglierìe Veneziane,
intimarono al podestà Ottolini, facesse sgombrar dalla terra tutte le
truppe Venete; se nol facesse, userebbero la forza. In tale guisa
s'insignorirono di Bergamo coloro, che accusavano Venezia della violata
neutralità. Ma questo non era che il principio, ed il fondamento delle
trame che si ordivano. Erasi per opera di Buonaparte creata in Milano
una congregazione segreta, nella quale entravano in gran numero i
repubblicani Italiani, ed il cui fine era di operare rivoluzioni nel
paese Veneziano. Alcuni Francesi vi erano mescolati, che intendevano ai
medesimi fini. Tra questi un Landrieux, capo dello stato maggiore di
cavallerìa, era stato eletto dalla congregazione, qual operator
principale a turbare le cose Venete. Ma egli, o che avesse per onestà di
natura realmente in odio quest'opere pestifere, o che per motivo meno
sincero, come ne lo sospettò Buonaparte, avesse occulto intendimento con
gl'inquisitori di stato di Venezia, fe' sapere o per mezzo loro, o
immediatamente ad Ottolini, che, ove una persona fidata a Milano
mandasse per conferir con lui, le svelerebbe cose, che massimamente
importavano alla salute della repubblica Veneziana. Mandava il
segretario Stefani: trovava in Milano un avvocato Serpieri Romano,
trovava Landrieux, alloggiavanlo segretamente in casa Albani: affermava
Landrieux a Stefani, essere onest'uomo, per questo avere in abbominio le
rivoluzioni, già averne impedito una in Ispagna, volere impedire quella
dello stato Veneto; a ciò muoverlo l'onore della nazione Francese
calpestato da Buonaparte, dal direttorio, dai consigli, orrida tutta,
come diceva, e facinorosa gente; muoverlo ancora i benefizj fatti dalla
repubblica Veneziana all'esercito di Francia, muoverlo l'umanità,
muoverlo il desiderio della pace: avere fra un mese ad esser pace con
l'Austria, se fosse impedita la rivoluzione degli stati Veneti; nel caso
contrario non esservi più modo di conciliazione, non aver più freno
l'ambizione di Buonaparte; abbracciare nell'ambizione sua la sovranità
d'Italia. Soggiungeva poscia, che la rivoluzione dello stato Veneto era
opera della congregazione segreta di Milano, alla quale partecipavano
principalmente Porro Milanese, Lecchi, Gambara, Beccalosi da Brescia,
Alessandri, Caleppio, Adelasio da Bergamo; dovere lui stesso, Landrieux,
essere l'operator principale della rivoluzione, sapere i nomi, le forze,
le macchinazioni dei congiurati, dovere aver principio la rivoluzione in
Brescia, poi dilatarsi in Bergamo ed in Crema; uomini apposta,
seminatori di denaro di ribellione, essere sparsi fra i contadini delle
valli, matura non essere ancora la trama, avere ad essere fra otto o
dieci giorni: erano i nove di marzo. Trattenessesi, esortava, in Milano
Stefani, svelasse il tutto per un procaccio fidato a Battaglia,
provveditore straordinario di Brescia; perchè, affermava, impedita la
rivoluzione in Brescia, s'impedirebbe anche negli altri luoghi; intanto
non si facessero carcerazioni di persone, perchè per questo si
ritarderebbe, non s'impedirebbe l'esito della congiura: sapere il giorno
dell'unione di tutti i congiurati, ne avvertirebbe egli, acciocchè tutti
ad un tratto potessero arrestarsi, e così intieramente si renderebbe
vana la diabolica cospirazione. Protestatosi dallo Stefani, volersene
tornare a Bergamo, rispondeva Landrieux, non convenirsi, bensì andare a
Brescia. Toccatasi dal Veneziano la gratitudine della repubblica
rispondeva il Francese, premio non desiderare per allora, doversi il suo
nome tenere segreto, finchè l'esercito fosse ridotto sulle Alpi per
restituirsi in Francia; se Venezia allora si ricordasse di Landrieux,
ciò gli sarebbe a grado. Trovava modo Stefani di tornare a Bergamo; ebbe
raccontato il fatto ad Ottolini. Scriveva il podestà prestamente al
provveditore straordinario Battaglia. Ma i congiurati, forse per aver
avuto sentore, o lingua degli avvisi dati da Landrieux, furono più
presti a fare, che Ottolini e Battaglia ad impedire.

Era la mattina dei dodici marzo, quando un moto insolito si manifestava
in Bergamo, i congiurati chiamavano il popolo a libertà; predicavano,
ajutare i Francesi l'impresa; divisi in varie squadre giravano per la
città; fermavansi tratto tratto ai capi delle strade, poi di nuovo
marciavano; guardie Francesi raddoppiate alle porte, cannoni condotti
dal castello in piazza, due rivolti al palazzo; interrogato il
comandante Francese dal podestà, che cosa volesse significar questo,
accusava pattuglie insolite di soldati Veneziani e della sbirraglia.
Erano in Bergamo due compagnìe di cavallerìa Croata, due di fanti
d'oltremare, tre d'Italiani, forse con tutto questo trenta sbirri; non
montavano fra tutti a quattrocento: i Francesi quattro mila, se non
mentivano le polizze, perchè per altrettanti forniva i viveri la
provincia. Di quei pochi, col castello in mano, con tutte le artiglierie
in suo potere temeva il comandante. Insomma nasceva il romore, atterriti
gli amatori dello stato vecchio, imbaldanziti gli amatori del nuovo.
Lefevre, comandante per Francia, fatti chiamare a se i deputati alle
provvisioni, intimava loro, avessero a sottoscrivere il voto per la
libertà, ed unione del Bergamasco alla repubblica Cispadana: se nol
facessero, ne anderebbe la vita. In questo mezzo due uffiziali
repubblicani, l'Hermite e Boussion, presiedevano ai voti per la libertà,
ed unione alla Cispadana. Sottoscrivevano, alcuni per amore, molti per
forza. Era un andare e venire, una confusione, un trambusto incredibile.
Scendeva la notte intanto, e rendeva più terribile l'aspetto delle cose.
In questo mentre si creava il municipio; toglievano i repubblicani lo
stendardo Veneto, che ancora sventolava sulle mura del castello. Era
ancor libero Ottolini, instava presso a Lefevre comandante, della
santità dei neutri ammonendolo. Ma Lefevre, deposta in tutto la visiera,
faceva udire questo suono, che il popolo di Bergamo era libero, che per
questo egli aveva fatto torre lo stendardo Veneto, ostacolo alla
libertà; che le intraprese lettere del podestà (quest'erano le lettere
con le quali Ottolini mandava agl'inquisitori di stato la nota dei
congiurati, e che erano state intercette ed aperte da Lefevre) gli
servivano di regola; che però egli, Ottolini, avesse a sgombrar tosto da
Bergamo; quando no, il manderebbe carcerato a Milano. Cacciare dalla
propria sede sotto pena di esilio e di carcere un rappresentante
pubblico di un governo, è oltraggio tale, che niun altro può esser
maggiore, e solo avrebbe bastato, non solamente a giustificare, ma
ancora a necessitare qualunque presa d'armi, ed anzi una formale
dichiarazione di guerra da parte del senato Veneziano contro la Francia,
se questa non satisfacesse, come effettivamente non satisfece. Mentre il
comandante minacciava Ottolini, sopraggiungevano l'Hermite e Boussion, e
con loro i conti Pesenti ed Alborghetti, in divisa e nappa Francese. Di
bel nuovo intimavano ad Ottolini, partisse subito, o sarebbe mandato a
Milano. Partiva il podestà alla volta di Brescia, lasciando Bergamo in
poter dei novatori, i soldati Veneti, prima disarmati, poi mandati a
Brescia.

Il nuovo magistrato municipale mandava fuori un manifesto per informare,
come diceva, il popolo sovrano, che i municipali erano entrati in
ufficio. Scriveva quindi il giorno medesimo in nome del popolo sovrano
di Bergamo alla repubblica Cispadana, avere Bergamo conquistato la
libertà, desiderare collegarla con quella della Cispadana;
l'accettassero in amicizia, dessergli quella del popolo Cispadano.
«Viviamo, continuavano, combattiamo, e moriamo, se fia d'uopo, per la
causa medesima: al medesimo modo debbono vivere i popoli liberi: viviamo
adunque uniti per sempre voi, Francesi, e noi».

Pubblicavansi frequenti scritti, parte serj, parte faceti,
parte schernevoli sul lione di San Marco, sui piombi di
Venezia, sugl'inquisitori di stato, sulla tirannide d'Ottolini,
sull'aristocrazia, sull'oligarchia, e simili altre parole greche; strana
occupazione di menti del condannare in altri ciò che era in se, perchè
dei piombi, e degl'inquisitori si può domandare, che altra cosa fossero
i ministri di polizia del direttorio e di Buonaparte, se non inquisitori
di stato, e se non abbiano fatto arrestare, e tener prigione senza
processo più gente in quindici anni, che gl'inquisitori di Venezia in
tre secoli. Si può anche domandare, se i castelli di Vincenna, di Ham, e
di Pietra Castello non fossero piombi, e se il comandante di Milano non
esercitasse maggior tirannide contro coloro che non amavano lo stato
nuovo, che Ottolini contro quei che non amavano il vecchio. Quanto
all'aristocrazia ed all'oligarchia, gli uomini dritti, e che non si
lascian prendere alle grida, sapranno ben essi con qual nome chiamare
uno stato, come quello era di queste estemporanee repubbliche Italiane,
in cui un comandante militare comandava a pochi gridatori di libertà,
questi pochi molestavano con ischerni, con tasse, con prigionie, e con
esilj l'universale dei popoli. Io temo che da tutto questo chi mi legge
creda, ch'io non sia amico della libertà; ma queste cose io dico
appunto, perchè sono; imperciocchè il peggior male che si sia fatto alla
libertà, è l'aver chiamato col suo nome la tirannide. Trovomi in questo
concorde col generoso Parini: _ed ancor io_, diceva egli, _amo la
libertà, ma non la libertà fescennina_.

Intanto i novatori, non essendo senza sospetto sugli abitatori delle
campagne, mandavano uomini fidati a predicare la libertà, rizzavano
alberi, creavano municipali, gridavano contro l'aristocrazia: i popoli
aombravano, non sapendo che cosa queste strane fogge si volessero
significare. Non si muovevano in favor dello stato nuovo, perchè non
l'intendevano, e non vedevano qual bene avesse in se: neppur si
muovevano in favor del vecchio, perchè il caso improvviso di Bergamo gli
aveva fatti attoniti e temevano i Francesi che vi erano mescolati.
Arrivavano poscia Cispadani, Transpadani, Polacchi, ogni sorte di
patriotti, e facevano un predicare, uno scrivere, un festeggiare
incredibile.

Quivi non si rimanevano le disgrazie della repubblica veneziana.
Rivoltato Bergamo, volevano far mutazione in Brescia per vieppiù
stabilire nella divozione altrui quelle provincie. Non aveva omesso
Ottolini, quando ancora era in ufficio, d'informare il provveditore
straordinario Battaglia della trama che si macchinava contro di questa
città e gli aveva mandato il nome dei congiurati, dei quali non si era
punto ingannato, consigliandolo ad aspettare che tutti fossero uniti, il
che doveva accadere, secondo gli avvisi di Landrieux, il ventuno del
mese, e ad arrestargli, e ad uccidergli. Inoltre il rappresentante
Veneto a Milano Vincenti scriveva continuamente al provveditore
straordinario, stesse avvertito, perchè la congiura era vicina ad aver
effetto; si armasse, non si fidasse del comandante Francese del castello
di Brescia, perchè s'intendeva coi congiurati. Tutte queste cose
turbavano l'animo del provveditore, e lo tenevano sospeso, perchè
l'uccidere i congiurati non gli pareva sicuro in tanta contaminazione di
spiriti, massimamente pensando ch'essi appartenevano alle più principali
famiglie di Brescia. Da un'altra parte il far venire soldati da Verona
gli pareva dar troppo sospetto, temendo dei Francesi; nè anco quei
soldati potevano esser molti. Ristringeva in Brescia le squadre di
cavallerìa sparse nel contado; ma erano poche genti. Chiamava a se i
Lecchi, i Gambara, i Fenaroli, e gli altri amatori di novità, e gli
accarezzava, ma senza frutto. Non sapeva a qual partito appigliarsi; le
artiglierìe in mano dei Francesi; il castello poteva fulminare la città.
Scriveva Battaglia a Buonaparte, col quale aveva qualche entratura
d'amicizia, macchinarsi in Brescia contro lo stato da gente scellerata
sotto nome di protezione Francese; e stantechè tutte le artiglierìe
Venete erano in poter suo, richiederlo, che lo accomodasse di sei od
otto, perchè si potesse difendere: richiederlo, oltre a ciò, vietasse ai
soldati Lombardi il passo per la città, frenasse chi si vantava della
protezione di Francia. Dei cannoni nulla rispondeva Buonaparte; dei
Lombardi e del frenare rescriveva, non doversi perseguitar gli uomini in
grazia delle loro opinioni, non esser delitto se uno inclinava più ai
Francesi che ai Tedeschi, come se in questo caso si trattasse tra
Francesi e Tedeschi, e non tra ribelli ed uno stato al quale egli aveva
tolto i mezzi di difesa: e come se ancora si trattasse di opinioni e non
di fatti, e di congiure contro lo stato. Desiderava finalmente di veder
il provveditore. Accrescevano il pericolo ed il terrore la rivoluzione
di Bergamo. Le cose si avvicinavano all'estremo fine.

Ecco la sera dei diciasette marzo arrivare improvvisamente le novelle,
essere giunti a Cocaglio circa sessanta ufficiali Francesi condotti da
un Antonio Nicolini, Bresciano, ajutante di Kilmaine, ed impedire il
passo ad una squadra di cavallerìa, che da Brescia mandava il
provveditore a Chiari. S'aggiungevano poco stante altri perturbatori,
perchè una massa di circa cinquecento tra Lombardi e Bergamaschi,
guidati da capi Francesi, si erano congiunti coi primi, ed armati con
due cannoni, certamente avuti dai Francesi, perciocchè portavano lo
stemma imperiale d'Austria, viaggiavano verso Brescia. La mattina dei
diciotto già erano vicini: il comandante di Francia faceva in questo
punto aprir le cannoniere del castello, che miravano al palazzo. Dei
congiurati, quasi tutti nobili, chi si era ritirato in castello, chi
andato all'incontro dei Lombardi, e chi sparso in varj luoghi eccitava
il popolo a ribellarsi. Voleva Mocenigo podestà, che si armassero i
soldati della repubblica, e con la forza si resistesse ai ribelli;
Battaglia titubava per paura dei Francesi, dei nobili, e di tutto:
certo, il minor male che si possa dire di lui, è, che ebbe paura: ma
forse l'amicizia che aveva con Buonaparte nocque alla repubblica.
Mandava due uffiziali ai ribelli per udire quello, che si volessero.
Rispondevano, Lecchi il primo, volere per amore o per forza liberare il
popolo Bresciano dalla tirannide Veneta, aspettare in ajuto loro
diecimila soldati, e molti Francesi: badasse bene il provveditore a
quello che si facesse, perchè se resistesse, andrebbe Brescia a fuoco ed
a sangue. A questo suono Battaglia, non so se mi debba dire intimorito,
o peggio, raccoglieva tutti i suoi soldati nei quartieri, e dava ordine
che non resistessero; licenziava al tempo stesso le guardie del palazzo,
e si metteva in tutto a discrezione di coloro che volevano spegnere il
dominio di quel principe, che aveva in lui collocato tanta fede.
Mocenigo, veduto la terra abbandonata da quello che poteva più di lui,
si fuggiva. Intanto il popolo stimolato dai congiurati, e già essendosi
avvicinati alle mura i novatori di fuori, tumultuava, gridando libertà.
Accresceva l'impeto l'apparire di un Pisani, stato molto tempo nei
piombi: le grida contro i Veneziani tiranni montavano al cielo.
Sottomessi gli amatori dell'antica repubblica dal popolo tumultuante,
dalla gente armata che veniva di fuori, dalla connivenza manifesta dei
repubblicani di Francia, dall'attitudine minacciosa del castello pronto
a fulminare, poche, chiuse, ed ordinate a non resistere le soldatesche
Veneziane, fu in poco d'ora Brescia ridotta in potestà dei novatori.
Cercavano Mocenigo per maltrattarlo; ma non fu trovato. Arrestavano
Battaglia, e per poco stette che non Io uccidessero. Lo serravano poscia
in castello, dove era custodito da soldati Francesi, opera certamente
meritevole di ogni riprensione; perchè se era brutta cosa il secondare
la ribellione, bene era peggiore il farsi complice dei ribelli col tener
carcerato un magistrato principalissimo di una repubblica, alla quale la
Francia continuava a protestare amicizia.

Udivansi con grandissimo terrore le novelle di Bergamo e di Brescia a
Venezia. Scriveva il senato, di cui queste cose molto angustiavano
l'animo, le sue querele al ministro Lallemand; le scriveva al nobile
Querini in Francia. Si rispondeva, che non si sapeva capire, che i
Francesi non s'ingerivano, che la Francia era amica a Venezia, che
qualche cosa si doveva pur dare alla natura delle soldatesche. Ma
l'importanza era in Buonaparte, divenuto padrone della somma delle cose
in Italia. Però mandava il senato appresso a lui i due Savj del collegio
Francesco Pesaro, e Gian Battista Corner, affinchè gli dimostrassero,
quanto offendessero la neutralità e la sovranità della repubblica le
cose accadute in Bergamo ed in Brescia per opera dei comandanti
Francesi, e quanto fossero contrarie alle protestazioni di amicizia, che
la repubblica di Francia continuamente, ed anche recentemente aveva
fatte a quella di Venezia. Oltre a ciò di nuovo, ed asseverantemente
protestassero dell'incorrotta fede, e della costante amicizia del senato
verso la Francia; stringesserlo a disappruovare pubblicamente la
condotta dei comandanti delle due città ribellate, ed a restituire i due
castelli, fonti evidenti della ribellione; richiedesserlo in fine, che
consentisse, che il senato con le armi in mano rimettesse sotto
l'obbedienza i ribelli. Trovato in Gorizia il generale repubblicano,
espostogli il fatto dai legati, rispondeva, non abbastanza ancora essere
sicure le sorti della guerra, perchè potesse restituire alla repubblica
i castelli occupati: potrebbe il senato fare quanto gli sarebbe a grado
per sottomettere i ribelli, purchè le genti Francesi, e gl'interessi
loro non ne fossero offesi: del comandante di Bergamo, perchè questi più
di quel di Brescia si era mescolato nella rivoluzione, ordinerebbe,
fosse condotto a Milano e processato; sarebbe, se colpevole, castigato:
allegava essere sincera la fede della Francia verso Venezia. Trapassando
poscia più oltre, si offeriva ad usare le proprie forze per ridurre i
novatori a divozione del senato, e che ove ne fosse richiesto, il
farebbe. Toccava finalmente, che sarebbe bene, che Venezia più
strettamente si congiungesse in amicizia colla Francia.

Covava in tutto questo una insidia: perchè mentre affermava Buonaparte,
essere in potestà del senato il fare quanto gli parrebbe conveniente per
ridurre all'ordine i ribelli, pubblicava Landrieux a Bergamo, forse
volendo, per essersi effettuato quello che forse egli aveva voluto
impedire, ricoprire con mostrar severità i sospetti, che potevano
concepirsi di lui dai repubblicani di Francia e d'Italia, che nissuna
gente armata sarebbe lasciata entrare nè in Brescia, nè in Bergamo, e
che se alcuna vi si appresentasse, questa avrebbe assalito, come nemico,
con tutte le sue forze. Ma le cose da più alta sede pendevano che da
Landrieux, perchè visitato a Parigi dal nobile Querini uno dei cinque
del direttorio, e dettogli, che poichè i Francesi protestavano, non
volersi mescolare nel governo interno delle città Venete, doveva
riuscire cosa indifferente al direttorio, se il senato rimettesse nel
dovere i Bergamaschi, rispondeva risolutamente il quinqueviro, non lo
sperasse, e che finchè fossero in Bergamo truppe Francesi, non l'avrebbe
mai il direttorio permesso. Replicato dal Querini, che di tale divieto
non comprendeva la ragione, soggiungeva il quinqueviro, ciò esser
chiaro, perchè i Francesi essendo più forti dei Veneziani, a loro stava
a comandare in quei luoghi; le quali voci certamente sono da stimarsi
barbare; perchè bene si sa, e pur troppo, che queste cose spesso si sono
fatte; ma l'asseverare con tanta fronte, che sia diritto e giusto farle,
è nuovo del tutto. Terminava il quinqueviro dicendo, che infine non
toccava alla repubblica di Venezia a comandare alla Francese, e che
vedeva bene, che i discorsi del Quirini dimostravano, che il governo
Veneto non si fidava nella lealtà del direttorio, ma che se così fosse,
avrebbe potuto farlo pentire. Da ciò si vede, quale concetto si debba
fare della condiscendenza di Buonaparte. In tale modo si sollevavano dai
capi dell'esercito repubblicano i sudditi contro Venezia, ed a Venezia
si vietava che gli sottomettesse.

Alle gravissime proposte del capitano di Francia si scuotevano i legati,
parendo loro, come era veramente, cosa enorme, pericolosa, e di pessimo
esempio, che soldati forestieri si adoperassero per tornare a divozione
i ribelli della repubblica. Per la qual cosa negavano la offerta,
restringendosi con dire, che poichè i castelli erano in mano dei
Francesi, e servivano di appoggio ai turbatori dell'antico stato, ragion
voleva, acciocchè si pareggiassero le partite, ch'ei facesse qualche
dimostrazione pubblica per disappruovare i moti, che si erano suscitati.
Al che non consentendo rispondeva, che in mezzo all'ardore di quelle
nuove opinioni che molto avevano ajutato le sue armi, sarebbe certamente
incolpato, se ora si dimostrasse avverso a coloro, che si erano scoperti
fautori del nome e delle massime di Francia; che solo a ciò fare si
sarebbe piegato, quando il direttorio precisamente glie l'avesse
comandato. Tornava poscia sul parlare di più stretti vincoli d'amicizia
colla Francia, proponendo per esempio il re di Sardegna, ed affermava,
esser questo il mezzo migliore per frenar le rivoluzioni. Le quali
esibizioni ed esortazioni, chi si farà a considerare fino a qual termine
già fossero trascorse le cose, e le offerte fatte all'imperatore
Francesco, saranno testimonio certo, ch'elle avevano tutt'altro fine,
che la salute di Venezia. Del resto, senza tanti giri di parole, e
serbando anche in sua potestà, per sicurezza del suo esercito, i
castelli di Bergamo e di Brescia, bastava bene che il generalissimo
ordinasse, o che con un cenno solo significasse, che Bergamo e Brescia
ritornassero all'obbedienza di Venezia, che i magistrati instituiti dai
novatori cessassero l'ufficio, e che quei del senato fossero restituiti
al loro, perchè tutte queste cose avessero incontanente la loro
esecuzione. Anzi il solo dichiarare, ch'egli disappruovava quelle due
rivoluzioni, e che contro la sua volontà erano state effettuate, avrebbe
rintegrato subitamente nelle due città ribelli il consueto dominio. Il
non averlo voluto fare dimostra viemaggiormente i disegni sinistri.
Strana esibizione di Buonaparte era questa di voler far tornare
all'obbedienza quelle terre, ch'egli stesso aveva incitato a ribellione;
imperciocchè, senza andar più vagando in questa materia, certa cosa è,
che per ordine espresso di lui furono fatte ribellare ai Veneziani le
città Veneziane, di cui si tratta. Rispondevano i legati della
repubblica, volere il senato l'amicizia di Francia, dell'alleanza
risolverebbe quando, ritratta l'Europa da quell'immenso disordine, e
ricomposta in quieto stato, potrebbe con sicurezza di consiglio
deliberare. A queste parole si alterava gravemente il vincitore; poi
tornando sull'antiche querele, acerbamente rimproverava ai Veneziani il
ricovero dato al conte di Provenza ed al duca di Modena, e l'aver
ricettato i tesori di Modena e d'Inghilterra; a questo passo dimostrava
voglia di por mano su di questi tesori; il che palesava, quanto fosse in
lui lo sprezzo della neutralità.

Mentre il generalissimo di Francia, parte accarezzava, parte minacciava
a Gorizia i legati di Venezia, lusinghiere parole pubblicava Kilmaine,
generale, che reggeva la Lombardia. Biasimava il comandante di Bergamo
del non averlo fatto consapevole degli accidenti seguiti, sperava, non
ne fosse partecipe, gli proibiva di mescolarsene; se il facesse, il
punirebbe, essere neutralità fra le due repubbliche, volere il
generalissimo, volere lui stesso, che se le portasse rispetto. Se questa
lettera di Kilmaine fosse vera o finta, non si sa, perchè è di data
incerta. Del resto l'opera del comandante nell'ajutare la ribellione di
Bergamo, era notoria, non solo in questa città, ma ancora in tutta
Lombardia, e metterla in dubbio era un'astuzia ridicola; nè il
comandante medesimo fu mai tradotto in giudizio.

Come i fatti rispondessero alle parole di Kilmaine, o vere o finte che
si fossero, il dimostrava pochi giorni dopo la rivoluzione di Crema,
opera non solo certa, ma anche evidente delle truppe Francesi; perchè il
giorno ventisette marzo, appresentatasi una squadra di cavallerìa di
Francia alla porta, chiedeva il comandante l'entrata, promettendo di non
inferire molestia, e sarebbe dimani partito per Soncino. Introdotti, si
portarono quietamente quel giorno. Ma il dì seguente comparivano due
compagnie armate della medesima nazione; una verso la porta Ombriano,
l'altra verso quella del Serio, nè così tosto si erano avvicinate alle
mura, che le truppe di dentro aprivano le porte, per modo che, dato il
varco, e per far più presto, scalando alcuni le mura, si facevano
padroni della terra. Correvano quindi a disarmare i soldati Veneziani:
s'impossessavano dei quartieri, occupavano il palazzo pubblico,
minacciavano nella vita con l'armi inarcate il podestà, e, disarmato,
costringevano a dismettere l'ufficio. Occupavano al tempo stesso la
camera, il monte, il fondaco, gli uffici, le cancellerie. Taciute tutte
le altre iniquità usate a Venezia, se questa sola della violenta
occupazione di Crema non bastasse per giustificare il senato a sorgere
subitamente con l'armi in mano contro i Buonapartiani, il diranno tutti
coloro, ai quali sta più a cuore la giustizia, che la forza.

Arrivava a Crema l'Hermite già partecipe del rivolgimento di Bergamo, e
si metteva all'atto di blandire il podestà con parole soavi,
dell'ufficio dolcemente esercitato lodandolo. Somiglianti parole usava
l'ufficiale del direttorio, che, distrutta per forza e per inganno
l'autorità sovrana di Venezia sopra Crema, se ne giva affermando, che i
Francesi erano buoni amici della repubblica di Venezia. Mescolaronsi in
questo moto pochi uomini del paese, fra i quali principalmente
comparirono il marchese Gambazocca, ed i conti Asperti, Locatelli, e
Romini venuti da Bergamo. Creavasi il municipio, piantavasi l'albero,
ballavavisi intorno, appiccavasi una fune al collo del lione di San
Marco, come se fosse tempo da ridere; facevasi la luminaria, gridavasi
libertà. Il podestà fu lasciato partire senza offesa. Così Crema per
opera dei soldati Buonapartiani fu ridotta a divozione dei novatori.
Kilmaine, che aveva scritto la bella lettera pel fatto di Bergamo, se ne
stette tacendo per quel di Crema.

Le rivoluzioni di Bergamo, di Brescia e di Crema facevano sorgere nuovi
pensieri tanto nei capi Francesi, quanto nel senato Veneziano, così come
ancora fra i sudditi, che si conservavano fedeli. Vedevano i primi, che
l'accessione di quelle tre principali città d'Oltremincio era di somma
importanza ai loro ulteriori disegni; perchè oltre al più facile vivere
per la ricchezza di quei territorj, i novatori, che gli secondavano,
divenivano e più audaci e più numerosi. Faceva in questo loro esempio
grandissimo frutto, e nuova gente novatrice, siccome un nembo ne tira un
altro, si accostava. Principale fondamento a tutto questo moto era
Brescia, città ricca, popolosa, abbondante d'uomini fieri e bellicosi.
Quivi ancora gli ottimati, o che amassero la libertà, o che avessero
gelosia contro i patrizi Veneti, o che solamente si fossero lasciati
stravolgere dalla vertigine comune, favorivano la rivoluzione. Nel che
Brescia si diversificava da Bergamo, dove i più fra i ricchi si
mostravano avversi. Accorrevano poi a Brescia Dombrowski co' suoi
Polacchi, Lahoz co' suoi Italiani, e davano incentivi con le parole,
animo con le forze, esempio con l'ordinate schiere. Pavesi, Lodigiani,
Milanesi, Bergamaschi, Napolitani vi arrivavano continuamente, chi con
lingue pronte per orare, chi con penne per iscrivere, chi con armi per
combattere. La sollevazione, l'impeto, la concitazione andavano al
colmo; le minacce e gli scherni che facevano contro i patrizi, erano
incredibili. Già si persuadevano, che alla loro prima giunta dovesse
andar sossopra tutta, ed a ruina la Veneziana repubblica. Lahoz,
Gambara, Lecchi, ed un Mallet, generale di Francia, anch'egli mescolato
in questi moti, trionfavano. Queste cose vedevano con gli occhi loro i
capi dell'esercito Francese, e le passavano: se le sapeva Buonaparte, e
le passava con troppa più sopportazione, che si convenisse alla sincera
fede.

Preparata la strada alla rivoluzione delle altre parti della terraferma
Veneta situate sulla destra del Mincio, per mezzo massimamente della
potente Brescia, innalzavano i sollevati l'animo a maggiori cose,
proponendosi di turbare anche i paesi posti sulla riva destra
dell'Adige, principalmente Verona tanto importante per la sua grandezza,
e per essere passo del fiume. Questo era anche risolutamente l'intento
di Buonaparte; perciocchè più di un mese prima che sorgesse la
sollevazione di Verona, aveva dato ordine a' suoi comandanti in questa
città, che procurassero la rivoluzione medesima con tutte le forze, e
con tutte le arti loro. Nel che con maneggi, parte segreti, parte palesi
il secondavano. Mentre tutti quest'inganni si tramavano, non erano
ancora le cose sicure pei Francesi, che tuttavia si trovavano a fronte
dell'arciduca sulle rive del Tagliamento. Il capitano Pico, che aveva
anche avuto al medesimo tempo carico da Buonaparte di macchinare in
Verona contro i Veneziani, gli rappresentava, che il moto in lei sarebbe
riuscito pericoloso, e di esito molto incerto, stantechè l'arciduca gli
stava ancora davanti molto poderoso: esortava pertanto, aspettasse tempo
più propizio. Rispondeva, gisse pure, e sommuovesse Verona. Poi
soggiungeva, che se la sommossa andasse bene sarebbe libera l'Italia, se
male, la Cisalpina repubblica (con tal nome dopo la conquista di Mantova
aveva chiamato la Transpadana) almeno resterebbe. Dette queste parole,
accommiatava Pico, raccomandandogli, s'intendesse con Beaupoil e con
Kilmaine, e gli desse ragguaglio di tutto che accadesse: desse intanto
ricovero in Mantova ai patriotti che fossero in pericolo, e gli rendesse
sicuri, che sarebbero liberi. Nè in Brescia stavano oziosi i novatori
rispetto a Verona; perchè colà mandavano agenti segreti, parte da
Brescia medesima, parte da Desenzano, parte da Lonato, affinchè
cooperassero alla sollevazione. Così Verona era insidiata da Buonaparte,
da' suoi capitani, dai novatori armati, dai novatori non armati,
Italiani, Polacchi, Svizzeri, e Francesi. Non ostante tutto questo il
canuto Lallemand, ed il giovane Buonaparte sempre protestavano a nome di
Francia dell'incontaminata fede, e della sincera amicizia verso la
repubblica Veneziana.

Le insidie ordite per ribellar Verona erano venute a notizia del governo
Veneto, non solamente per le dimostrazioni tanto palesi dei Bresciani
sollevati, ma ancora per segreti avvisi di alcuni fra quelli stessi che
macchinavano. Pensava pertanto al rimedio contro sì grave pericolo. Vi
mandava, con dar voce di cagioni diverse dai sospetti, parecchi
reggimenti di Schiavoni: vi mandava due provveditori straordinari,
Giuseppe Giovanelli, giovane animoso e prudente, e Niccolò Erizzo, uomo
di natura molto calda, ed amantissimo del nome Veneziano. Ma perchè le
radici della forza erano nel paese, dava facoltà amplissima al conte
Francesco degli Emilj, personaggio ricchissimo e di molto seguito,
acciocchè armasse la gente del contado, promettesse e desse soldi, ogni
e qualunque cosa, che in poter suo fosse, facesse, per isventare le
macchinazioni dei repubblicani. Accettava volentieri il carico il conte
Emilio, e tra l'autorità del suo nome, e l'efficacia delle sue
ricchezze, faceva non poco frutto, soldando gente, provvedendo armi,
ammassando munizioni, traendo a se buoni e cattivi per tenere in piede
l'insidiata repubblica. Faceva compagni alla sua impresa il conte
Verità, ed il conte Malenza co' suoi due figliuoli, uomini anch'essi
molto infiammati nel difendere l'antico dominio dei Veneziani. Il
secondavano efficacemente i preti ed i frati con le esortazioni loro,
alle quali maggior forza accrescevano lo strazio testè fatto del papa, e
lo spoglio di Loreto: gli animi già infieriti per tante ingiurie, di
maggior veleno s'imbevevano per l'oltraggiata religione. Accresceva lo
sdegno l'orribile governo, che facevano delle province le truppe
repubblicane, sì quelle che stanziavano, come quelle che viaggiavano.
Vieppiù innaspriva i popoli una ingiustizia manifesta, perchè i bagagli
rapiti dai Tedeschi in guerra, eran fatti pagare dai comuni. Quel dei
Due Castelli, situato sull'agro Veronese, e composto appena di
cinquecento abitatori, per esservi stato in una sortita da Mantova
rapito dai Tedeschi non so che carro di bagaglio di generali, fu posto
da Buonaparte ad una taglia di cencinquanta mila franchi, taglia tanto
esorbitante per quello piuttosto casale che villaggio, che era anche
ridicola. Perchè poi non la potevano pagare, vi mandava Junot con un
grosso di cavalleria a vivervi a discrezione. Queste enormità si
moltiplicavano; i popoli, che non vedevano altra cagione, che una
insolenza fantastica, od una sete di rapire insaziabile si riempivano di
sdegno. Giuravano di andar all'incontro di ogni più grave pericolo, di
sopportare ogni più crudele disgrazia piuttostochè non vendicarsi, e non
tentare di sottrarsi a sì orribile dominazione. Molto sangue Francese fu
certamente versato, e pur troppo barbaramente a Verona, e fu sangue, la
maggior parte, d'innocenti. Ma gli autori veri e primi di sì cruda
carnificina, non inganneranno punto la giustizia divina, nè il giudizio
dei posteri. Sa Dio, e sapranno i posteri, se contro il Veneziano
governo, o contro Buonaparte, se contro i conculcati o contro i
conculcatori, se contro il conte Francesco degli Emilj, o contro coloro,
che il generalissimo di Francia secondavano nell'opera rea prima di far
ribellar Verona contro il senato, poi di vendere Venezia, se contro chi
non voleva essere tradito, o contro chi voleva tradire sia quel sangue
sparso, e contro chi gridi vendetta.

Dava nuovo animo ai Veronesi il fatto di Salò, perchè, andata contro
questa terra una grossa squadra di Bresciani, mista di Polacchi e di
qualche Francese, fu rotta con non poca strage dai Salodiani, aiutati
dagli abitatori della valle di Sabbia; i quali, siccome quelli che erano
molto affezionati al nome Veneziano, erano accorsi per conservare la
città sotto la divozione dell'antico principe. Quest'erano le masse
ordinate dall'Ottolini ai tempi del suo ufficio in Bergamo. Lodevole
esempio di fedeltà e di ardire dava nella fazione di Salò il
provveditore Francesco Cicogna; dal che si può argomentare quale
mutazione avrebbero fatto le cose di Venezia, se il senato avesse
permesso, che Ottolini desse dentro, quando ancora era tempo, col suo
stormo, e se Battaglia tale fosse stato quali furono Ottolini e Cicogna.
I prigioni fatti a Salò, che arrivarono a più di ducento, furono
condotti a trionfo per Verona, i sudditi carcerati, come rei di stato.
La vittoria dei Salodiani rinvigoriva gli animi sbigottiti in tutta la
terraferma Veneta. Armavansi a gara i popoli, e protestavano della fede
loro verso il senato. Questo moto fu apposto a delitto ai Veneziani da
Buonaparte, e dagli storici adulatori di lui, i quali per altro
confessano, che in quel momento stesso, e già da lungo tempo prima si
trattava di far indenne l'Austria a spese di Venezia. Adunque doveva
Venezia darsi di per se stessa vinta, e disarmata in mano di chi sotto
colore di amicizia la tradiva? Certamente doveva Venezia in
quell'estremo frangente, in cui era caduta, non per colpa propria, ma
d'altrui, difendersi: bene gli uomini generosi, gli amatori massimamente
del nome e del costume Italiano le daranno eterno biasimo del non
essersi abbastanza, ed a tempo difesa, e con dolore vedranno nei ricordi
delle storie scritto i posteri, che l'opera della sua distruzione sia
stata frutto, tanto della debolezza de' suoi reggitori, quanto della
malvagità di amici fraudolenti; poichè fuori di dubbio è, che, passando
anche sotto silenzio le passate occasioni, se dopo la vittoria dei
Salodiani, le disposizioni tanto incitate dei Veronesi, ed i
preparamenti fatti nell'estuario, in un con le vittorie di Laudon nel
Tirolo e con le masse Tirolesi e Croate, avesse il senato fatto una
forte risoluzione coll'unirsi all'Austria, e col dichiarare la guerra
alla repubblica di Francia, si sarebbe trovato Buonaparte in gravissimo
pericolo, e l'antico dominio dei Veneziani sarebbe stato preservato. Ma
l'aver voluto aspettare l'estrema ingiuria, quando già le ingiurie
avevano oltrepassato l'estremo, e l'aver abbandonato i sudditi, quando
volevano difenderla, fu cagione della ruina della repubblica.

Le insidie contro Venezia alle raccontate cose non si rimanevano. I moti
della terraferma erano spontanei, e solo cagionati dalla rabbia concetta
dai popoli infastiditi delle insolenze, e sdegnati dalle ingiurie dei
forestieri. Perciò il senato gli poteva qualificare come opera non sua,
e sempre protestare, quanto spetta alla direzione del governo, della
perfetta neutralità. Ma i capi delle rivoluzioni in Italia, secondando
il talento proprio, e credendo di far cosa grata al generalissimo,
pensarono di fabbricare una menzogna, ed apponendo un atto falso ad uno
dei magistrati più principali far in modo, che il governo Veneziano egli
medesimo paresse colpevole di ree instigazioni contro i Francesi; della
qual fraude nissuna si può immaginare nè più brutta, nè più diabolica.
Inventarono adunque e pubblicarono un manifesto, attribuendolo a
Battaglia, provveditore straordinario per la repubblica in terraferma,
col quale si stimolavano i popoli a correre contro i Francesi, e ad
uccidergli. Fu questo manifesto composto per opera di un Salvadori,
novatore molto operativo di Milano, e rapportatore palese e segreto di
Buonaparte, che poscia creatosi imperatore, l'abbandonò in miseria tale,
che gittatosi in fiume a Parigi terminò con fine disperato una vita poco
onorevole. Tornando al manifesto, fu egli stampato in un giornale a
Milano, intitolato il Termometro politico, giornale che si scriveva in
casa del Salvadori da patriotti molto migliori di lui, ma portati ancor
essi dalla illusione e dalla vertigine di quell'età. Quantunque
astutamente gli sia stata apposta la data dei venti marzo, uscì
veramente ai cinque aprile, tempo opportuno perchè Buonaparte arrivato a
Judenburgo a questo tempo, già offeriva gli spogli della repubblica, e
già fatto sicuro della pace con l'imperatore, non aveva più timore delle
masse Veneziane. Così l'incitare contro i Francesi era pretesto di far
uccidere i Francesi dai Veneziani, i Veneziani dai Francesi, e per
trovar compensi all'imperatore a danni di Venezia. Il non aver fatto il
generalissimo alcun risentimento contro gli autori di un fatto tanto
grave, e che poteva e doveva costar la vita a tanti Francesi, pruova
ch'ei ne fosse soddisfatto.

Il manifesto era quest'esso:

«Noi Francesco Battaglia per la serenissima repubblica di Venezia
provveditore straordinario in terraferma.

«Un fanatico ardore di alcuni briganti nemici dell'ordine, e delle leggi
eccitò la facile nazione Bergamasca a divenir ribelle al proprio
legittimo sovrano, ed a far correre da una moltitudine di facinorosi
prezzolati altre città, e provincie dello stato per sommovere anche quei
popoli. Contro questi nemici del principato noi eccitiamo i fedelissimi
sudditi a prendere in massa le armi, e dissipargli, e distruggergli, non
dando quartiere o perdono a nissuno, ancorchè si rendesse prigioniero,
certo che sì tosto gli sarà dal governo data mano, e assistenza con
denaro, e truppe Schiavone regolate, che sono già al soldo della
repubblica, e preparate all'incontro.

«Non dubiti nissuno dell'esito felice di tale impresa, giacchè possiamo
assicurare i popoli, che l'esercito Austriaco ha inviluppato, e
compiutamente battuti i Francesi nel Tirolo e nel Friuli, e sono in
piena ritirata i pochi avanzi di quelle torme sanguinarie e irreligiose,
che sotto il pretesto di far la guerra ai nemici devastarono i paesi, e
concussero le nazioni della repubblica, che loro si è sempre dimostrata
amica sincera e neutrale, e vengono perciò i Francesi ad essere
impossibilitati di prestar mano e soccorso ai ribelli, anzi aspettiamo
il momento favorevole d'impedire la stessa ritirata, alla quale di
necessità sono costretti.

«Invitiamo inoltre gli stessi Bergamaschi, rimasti fedeli alla
repubblica, e le altre nazioni a cacciare i Francesi dalle città e
castelli, che contro ogni diritto hanno occupato, e a dirigersi ai
commissarj nostri Pier Girolamo Zanchi, e dottor fisico Pietro Locatelli
per avere le opportune instruzioni, e la paga di lire quattro al giorno
per ogni giornata in cui militassero.

«Verona, 20 marzo 1797.

«Francesco Battaglia, provveditore straordinario in terraferma,

«Gian-Maria Allegri, cancelliere di Sua Eccellenza. Per lo stampatore
camerale».

Questo manifesto si spargeva in copia dai patriotti e dai capi Francesi,
massimamente da Landrieux. Nè credendo i macchinatori di questa fraude,
che tutto l'operato fin qui bastasse, perchè i popoli vi prestassero
fede, Lahoz, capo e guida di tutte le genti Lombarde e Polacche, e che
mescolato in queste trame di rivoluzione ne conosceva bene il fondo, gli
avvertiva con bando pubblico, che la neutralità era stata rotta dai
tradimenti di Battaglia, il quale, soggiungeva, pazzamente si era
persuaso, che «Voi altri contadini, privi in tutto di arte militare,
sareste i vincitori dei Francesi, la prima nazione dell'universo pel
coraggio, e la scienza della guerra. Sappiate adunque, che il generale
Buonaparte ha ordinato, che Battaglia sia messo in ferri, ed impiccato;
che saranno pure impiccati coloro, che v'inciteranno alla ribellione; le
vostre case saranno arse, le famiglie desolate: uscite d'errore, e
presto, deponete le armi, portatele al comandante di Brescia; mandategli
deputati; quando no, perirete tutti».

Queste ingannevoli dimostrazioni si facevano dagli autori stessi del
manifesto per far credere ai popoli, ch'ei fosse vero; e quei ferri, e
quelle forche erano trovati bugiardissimi, perchè Battaglia, trovandosi
allora in Venezia, non era in potestà di Buonaparte nè di farlo
arrestare, nè di farlo impiccare. La verità della storia richiede oltre
a ciò, che noi scriviamo, che il provveditore non era nemmeno per venire
in potestà del generale; perchè quando Buonaparte distrusse Venezia,
domandò la prigionia e la morte di tutt'altre persone che di quella di
Battaglia, ancorchè egli fosse il più colpevole di tutti verso i
Francesi, se opera sua fosse stato il manifesto: che anzi Buonaparte
accarezzò Battaglia, e se lo tenne molto caro. Noi sappiamo, che il
provveditore era partigiano di qualche riforma negli ordini dello stato;
ma che Buonaparte avesse altre cagioni di amarlo, noi non vogliamo nè
affermare nè negare, ancorchè troviamo scritto, che questo Veneziano
abbia servito ai disegni del generale Francese più di quanto la libertà,
e l'independenza della sua patria comportassero.

Allontanava da se Battaglia l'infamia del manifesto con ismentirlo: lo
smentiva solennemente il senato. Ma nulla giovava; perchè i tempi erano
più forti delle protestazioni, ed era strana veramente, e
compassionevole cosa il vedere, che gl'innocenti cercassero di
giustificarsi appresso i rei di un delitto, che essi rei contro
gl'innocenti avevano commesso, e che a loro per distruggergli
imputavano; condizione unica per certo, che sia stata al mondo, e degna
veramente della malvagità di quei tempi.

Rivoltate le regioni d'oltre Mincio dall'antico dominio dei Veneziani,
era a Buonaparte spianata la strada alla distruzione di quel nobile ed
innocente stato. Restava, che le sue condizioni divenissero tanto sicure
rispetto agli Austriaci, ch'ei potesse senza pericolo mandar fuori
quello, che già da lungo tempo si era nell'animo concetto. A questo gli
dava occasione la tregua sottoscritta coi legati dell'imperatore il dì
sette aprile a Judenburgo; alla quale conclusione non si venne nè da una
parte nè dall'altra, se non promessi, ed accettati i compensi a spese
della repubblica Veneziana. Solo restava all'Austria qualche residuo di
renitenza al consentire, per accomodar se, ad accettar le spoglie di un
governo, dal quale non aveva ricevuto alcuna ingiuria, col quale era
congiunta d'amicizia, e che anzi a motivo di questa sua amicizia si
trovava ridotto a tali compassionevoli strette. A questo rimediava
Buonaparte col far rivoltare lo stato dei Veneziani, anche sulla
sinistra del Mincio; perchè se ripugnava all'Austria il nuocere a
Venezia sotto il governo antico, bene sapeva che non le ripugnerebbe il
nuocerle sotto il nuovo, odioso a lei pei principj, non congiunto con
lei per alcun vincolo di amicizia. Non così tosto ebbe sottoscritto la
tregua coll'imperatore, che incominciò le dimostrazioni ostili contro i
Veneziani; il che mandò ad esecuzione in vari modi, ma che tutti
tendevano al medesimo fine. Primieramente mandò il suo aiutante Junot
con amare condizioni a fare un violento ufficio a Venezia non senza
grave ferita alla dignità della repubblica. Arrivato Junot altieramente
richiedeva per parte del generalissimo di essere udito incontanente in
pien collegio dal serenissimo principe. Correvano allora i giorni santi;
era il sabato, in cui per antico costume non sedevano i magistrati,
intenti in quel giorno a celebrar nelle chiese i divini misteri.
Avvertivanne Junot; ma egli, giovane impaziente mandato da un giovane
impazientissimo, insisteva dicendo, o l'udissero subito, o appiccherebbe
le cedole della guerra ai muri. Credettero i padri, che il derogare
all'uso antico fosse minore scandalo di quanto era capace di commettere
quel soldato, e consentirono ad udirlo la mattina del sabato. Introdotto
in collegio, dov'erano adunati il doge, i suoi sei consiglieri, i tre
capi della quarantia criminale, i sei savi grandi, i cinque di
terraferma, ed i cinque agli ordini, leggeva, con parlare prima timoroso
per la sorpresa, poi superbissimo per la natura, una lettera, che
scriveva Buonaparte al doge il dì nove aprile da Judenburgo, ed era
quest'essa: «Tutta la terraferma della serenissima repubblica di Venezia
è in armi: in ogni parte sollevati ed armati gridano i paesani morte ai
Francesi, molte centinaja di soldati dell'esercito Italico già sono
stati uccisi; invano voi disappruovate le turbe raccolte pei vostri
ordini. Credete voi, che nel momento in cui mi trovo nel cuore della
Germania, io non possa far rispettare il primo popolo dell'universo?
Credete voi, che le legioni d'Italia sopporteranno pazientemente le
stragi, che voi eccitate? Il sangue de' miei compagni sarà vendicato: a
sì nobile ufficio sentirà moltiplicarsi a molti doppi il coraggio ogni
battaglione, ogni soldato Francese. Con empia perfidia corrispose il
senato di Venezia ai generosi modi usati da noi con lui. Il mio
aiutante, che vi reca la presente, è portatore o di pace, o di guerra.
Se voi subito non dissolvete le masse, se non arrestate, e non date in
mia mano gli autori degli omicidj, la guerra è dichiarata. Non è già il
Turco sulle frontiere vostre, nissun nemico vi minaccia; d'animo
deliberato voi avete inventato pretesti per giustificar le masse armate
contro l'esercito; ma ventiquattr'ore di tempo, e non saran più: non
siamo più ai tempi di Carlo Ottavo. Se, contro il chiaro intendimento
del governo Francese, voi mi sforzate alla guerra, non pensate per
questo, che ad esempio degli assassini, che voi avete armati, i soldati
Francesi siano per devastar le campagne del popolo innocente e
sfortunato della terraferma. Io lo proteggerò, ed egli benedirà un
giorno fino i delitti, che avranno obbligato l'esercito Francese a
liberarlo dal vostro tirannico governo».

Qui non è bisogno aggiungere discorsi per giudicare di così fatta
intimazione. Solo si debbe avvertire che i paesani, che difendevano il
loro sovrano, non si sarebbero mossi, e non avrebbero ucciso i soldati
Francesi, se gl'insidiatori con mandato espresso del generale di Francia
non avessero seminato la ribellione. Del resto alcuni pur troppo furono
uccisi, ma non a centinaia, come la solita buonapartiana gonfiezza ebbe
allegato. Taccio la villania di parlare con tali espressioni ad un
principe, in cui era raccolta tutta la nazione Veneziana. Se questa è
grandezza, come alcuni stimano, io non so che cosa sia piccolezza.

A tale vituperio ed a tanta indegnità una sola risposta era da farsi, se
pure la umanità e la civiltà l'avessero permessa, e quest'era di tuffar
in mare Junot, e di correre subitamente all'armi per veder quello, che
volessero i cieli definire. Bene dovevano i Veneziani, non tuffar Junot,
ma sì impugnar l'armi; ma nè i tempi nè gli uomini erano abbastanza
forti in Venezia. Ridotto il principe di sì antica e nobile repubblica a
condizione tanto abietta, rispose pacatamente, delibererebbe il senato;
avere sempre nodrito sentimenti di lealtà e di amicizia verso la nazione
Francese. Intanto le crudeli calunnie, l'incredibile insulto, le
disgrazie imminenti avevano riempito l'animo dei circostanti d'orrore e
di terrore.

Acerbe lettere scriveva il dì medesimo dei nove aprile il generalissimo
a Lallemand: non potersi più dubitare, che l'armarsi dei Veneziani non
avesse per fine di serrare alle spalle l'esercito di Francia; non aver
mai potuto restar capace del come Bergamo, città fra tutte le altre
degli stati di Venezia dedita al senato, si fosse armata contro di lui;
meno ancora aver potuto comprendere come per calmare quel piccolo
ammutinamento abbisognassero venticinque mila armati, nè perchè quando
si era Pesaro abboccato con lui in Gorizia, avesse rifiutato la
mediazione di Francia per ridurre ad obbedienza i paesi sollevati; gli
atti dei provveditori di Brescia, Bergamo, e Crema, in cui si affermava,
essere la sollevazione opera dei Francesi, essere bugie inventate a
disegno per giustificare in cospetto dell'Europa la perfidia del senato
Veneziano; avere il senato usato la occasione, in cui egli innoltratosi
nelle fauci della Carintia, aveva a fronte il principe Carlo, per mandar
ad effetto una fraude, che sarebbe prima d'esempio, se non fossero
quelle ordite contro Carlo Ottavo, ed i Vespri Siciliani; essere stati i
Veneziani più accorti di Roma, poichè avevano usato il momento, in cui i
soldati erano alle mani con gli Austriaci; ma non aver ad essere i
Veneziani più fortunati di Roma: la fortuna della repubblica Francese
stata a fronte di tutta Europa, non si romperebbe nelle lagune
Veneziane.

Dette queste cose, annunziava le accuse contro i Veneziani: avere una
nave Veneziana, a fine di tutelare una conserva Tedesca, combattuto la
fregata Francese la Bruna; essere stata arsa la casa del console a
Zante, insultato il console stesso; averne mostrato allegrezza il
governatore; diecimila paesani armati, e pagati dal senato avere ucciso
tra Milano e Bergamo cinquanta Francesi; piene essere, malgrado delle
promesse di Pesaro, di soldati Verona, Padova, Treviso; arrestarsi in
ogni luogo gli amici della Francia; porsi a guida degli assassini gli
agenti dell'imperatore; gridarsi per ogni parte morte ai Francesi;
furibondi i predicatori pubblicare da ogni cattedra la volontà del
senato, stimolare contro la Francia; vera ed effettiva condizione di
guerra essere tra Francia e Venezia; saperlo Venezia stessa, che altro
modo non trovava di giustificarsi, che il disappruovare con parole
quelle masse, che coi fatti armava e pagava: domandasse adunque
Lallemand, concludeva, a Venezia, che risolutamente rispondesse, se
avesse pace o guerra con Francia: se guerra, partisse incontanente; se
pace, domandasse che i carcerati per opinione, e di non altro rei che di
amare i Francesi, fossero rimessi in libertà; che tutti i presidj, salvo
gli ordinarj, quali erano sei mesi prima, uscissero dalle piazze di
terraferma; che tutti i paesani si disarmassero, e si riducessero alla
condizione di un mese prima; provvedesse il senato, che le cose fossero
in terraferma tranquille e sicure, e non pensasse solo alle lagune;
gl'incenditori della casa del console a Zante si punissero, e la casa si
ristorasse a spese della repubblica; il capitano che aveva combattuto la
Bruna, si punisse, ed il costo della conserva nemica protetta contro i
patti della neutralità, si rimborsasse: quanto alle turbazioni di
Bergamo e di Brescia, offerisse la mediazione della Francia per ridur di
nuovo le cose allo stato quieto.

Faceva Lallemand l'ufficio, i comandamenti di Buonaparte al senato
rappresentando. Del quale chi vorrà considerare il tempo, e le
circostanze, non potrà non sentirsi commovere a grave sdegno contro chi
il moveva, ed a non poca compassione verso chi era mosso; perchè vi si
accusava la repubblica di Venezia di oltraggi, quando l'estremo
oltraggio già era stato, non solo da lungo tempo meditato, ma
recentemente concluso contro di lei, vogliam dire la vendita de' suoi
stati; si accusava il senato d'incendj, di omicidj, di tiri di cannone
commessi da particolari uomini, che il senato voleva e riparare e
compensare all'accusatore, se veramente egli avesse voluto essere
riparato e compensato: si offeriva la restituzione di Bergamo e di
Brescia, quando appunto Bergamo e Brescia erano state fatte ribellare
dall'offeritore, e nominatamente Bergamo e Brescia date in mano
all'imperatore; si comandava che si disarmassero i popoli Veneziani,
perchè amavano meglio esser Veneziani che Francesi ed Austriaci, ed
appunto si comandava che si disarmassero, perchè il comandatore potesse
meglio, e più comodamente dargli in preda ad un dominio forestiero;
muovevansi lagnanze sui predicatori, come se i predicatori avessero
dovuto inculcare piuttosto la tirannide forestiera che la signorìa
paesana, e non fosse loro lecito il difendere la patria contro un
tradimento; si voleva che il senato mantenesse la quiete nella
terraferma, non con masse incomposte, ma con genti regolari, e poi
quando mandava genti regolari, i comandanti Francesi negavano loro i
passi pei ponti, per le strade, per le fortezze, e gridavano volere
Venezia far guerra alla Francia; si domandava finalmente che il senato
non pensasse solamente alle lagune, ma avesse cura anche della
terraferma, quando già si era accusato, e minacciato il senato, solo
perchè aveva armato l'estuario, per modo che l'armare ed il non armare
era da Buonaparte imputato a delitto al senato. Insomma chi conosce i
patti di Leoben già offeriti molti mesi prima dal generale del
direttorio all'Austria, già concertati nella tregua dei sette, poi
solennemente stipulati nei preliminari dei diciotto, conoscerà
facilmente di che sapessero le parole di Buonaparte. Quel volere poi che
si liberassero i carcerati per opinione, fra i quali si annoveravano non
pochi Bresciani, Bergamaschi e Salodiani, e lo stesso Gambara, presi
combattendo con le armi in mano contro il proprio principe, era
oltraggio di sovranità, incentivo di ribellione.

Rispondeva per bocca del doge il senato a Buonaparte: «Nella somma
amaritudine che ha sentito il senato nel conoscere dalle vostre lettere,
avere l'animo vostro concetto sinistre impressioni sulla ingenuità della
nostra condotta, ci riesce di qualche conforto il vederci aperta la via
di poterle pienamente dileguare con le pronte e precise nostre risposte.
Vuole il senato, ed ha sempre voluto vivere in pace ed amicizia con la
repubblica di Francia, e piacegli in questo punto ratificare
solennemente questa sua risolutissima volontà. Nè potrebbe certamente
una così aperta, e così solenne dichiarazione venir oscurata da
accidenti, che con lei non hanno correlazione alcuna: poichè, sorta la
fatale, e del tutto inaspettata rivoluzione nelle città nostre oltre
Mincio, la fede e l'amore delle popolazioni le fece correre
spontaneamente all'armi col solo intento di frenar la ribellione, e di
respingere le violenze dei sollevati. A questo unico fine implorarono
esse dal proprio governo assistenza, e presidj; che se in tanto
turbamento di cose sorsero alcuni accidenti disgustosi, alla confusione
inevitabile debbono unicamente, non alla volontà del governo
attribuirsi. Tanto è alieno da essi il senato, che, per allontanare
anche il più rimoto pericolo, ha con recente manifesto comandato ai
sudditi, che contro i sollevati non istessero ad usar le armi, se non
nel caso della propria difesa. Ma essendo noi su tale argomento disposti
a secondare con le opportune risoluzioni i vostri desiderj, bene
conoscerà la equità vostra, che al tempo medesimo diventa necessario che
l'amore volontario delle popolazioni fedeli verso di noi, e la comune
nostra tranquillità siano guarentite da insulti esterni, e da
perturbazioni interne. Vuole, ed è pronto il senato a soddisfarvi
dell'altra richiesta, per castigo e consegna di coloro che han commesso
uccisioni sulle persone dei vostri soldati, e sarà per noi
diligentemente ordinato, che siano conosciuti, arrestati e secondo i
meriti loro castigati. Per conseguire più acconciamente, ed a
contentezza d'ambe le parti tutti i raccontati effetti, mandiamo due
legati a voi, dai quali intenderete la somma compiacenza nostra, e
insieme quanto grato ci sarebbe, che voi interponeste l'efficace vostra
autorità presso al vostro governo per ricondurre all'ordine, ed al
primiero stato le città d'oltre Mincio, che si sono da noi allontanate.
Con questo vi confermiamo di nuovo, e protestiamo la costanza, e la
sincerità dei nostri sentimenti verso la vostra repubblica, in un con la
molta osservanza, in cui abbiamo la vostra illustre e riputata persona».

Deputava il senato per alleggerire i sospetti, e per intrattenere
Buonaparte dell'estremo fato della patria, Francesco Donato censore, e
Leonardo Giustiniani, savio alla scrittura uscito. Intanto funeste
novelle consentanee all'aspetto delle cose presenti, ed annunziatrici di
ultima ruina, arrivavano da Vienna e da Parigi. Avvisava l'ambasciador
Grimani, apparir segni che la repubblica avesse ad esser data in preda
all'Austria; in questo adoperarsi la corte di Napoli per istornar la
tempesta da lei; adoperarvisi la Spagna, adulatrice di Francia, e
desiderosa che il duca di Parma acquistasse un incremento di territorio
col titolo di re: avervi anche le mani mescolate il re di Sardegna, in
cui rimaneva l'antica cupidità di allargarsi in Italia; affollarsi tutti
intorno a Francia, adularla, prometterle, esortarla a male opere; non
aver più amici la repubblica debole, esser fatta bersaglio alle potenze,
bramose tutte di prendersi quel d'altrui; starsene cupa e silenziosa
l'Austria; esser disposta ad accettare il prezzo; pure splendere ancora
un raggio di speranza, se si mantenesse intero ed incorrotto l'antico
governo; cambiarlo, aver ad essere la morte della repubblica. Così i
potentati Italiani stessi, in preda ancor essi alla cupidigia del volere
appropriarsi quel d'altrui, non giudicavano quanto fosse a proposito
della salute d'Italia il non lasciar perire Venezia.

Simili cose scriveva il nobile Querini da Parigi, ma come se velate da
maggior dissimulazione alle orecchie sue pervenissero; perchè ora erano
minacciose le parole del direttorio, ed ora dolci; ora accusava Venezia,
ed ora la scusava, e da tante ambagi niuna cosa certa poteva ritrarre
l'ambasciadore Veneto, se non se che si macchinava qualche gran trama
contro la repubblica, e che era pericolo che l'Austria, per
consentimento della Francia, se la rapisse. Ma perchè non mancasse
alcuna lagrimevole condizione in così grave e così vicino pericolo, fu
provato da gente vendereccia di sottrarle denaro sotto promessa di
salute. Un certo Viscovich, di nazione Dalmata, si appresentava al
nobile Querini, dicendo che era in mano sua il salvare la repubblica;
che in quel punto stava deliberando il direttorio, se convenisse
spegnere le rivoluzioni della terraferma con dar mano forte al senato, o
di condurle a compimento con dare fomento ed ajuto ai ribelli; che due
direttori erano in favore della repubblica, due contro, il quinto in
pendente; che quello era il tempo di spendere per la salute comune; che
ove il senato volesse dar sette milioni di franchi, Venezia sarebbe
preservata; che di presente abbisognavano seicento mila franchi pel
direttore titubante, con altri cento mila pei beveraggi
agl'intromettitori. Rispondeva Querini, non avere autorità di obbligare
il pubblico per tanta somma. E brevemente, pressato poi dal Viscovich,
che la cosa era alle strette, che quello non era tempo da perdere, che
se non prometteva, in quel giorno stesso si statuiva la morte della
repubblica, si lasciava tirare a dir del sì per somma sua divozione
verso la patria, e sottoscriveva biglietti per seicento mila franchi
sopra Pallavicini di Genova, con patto che stessero in deposito, finchè
non avesse in sua mano una lettera scritta dal direttorio a Buonaparte,
intimatrice del dover frenare i faziosi della terraferma, e ridurre le
città sotto il dominio. La lettera non potè avere Querini; bensì gli fu
consegnata una carta col titolo in fronte, e colla marca del direttorio
esecutivo, e sottoscrizione del segretario di Barras, per cui si
affermava, che la lettera del descritto tenore era stata scritta dal
direttorio a Buonaparte. Fu il trattato approvato dal governo a Venezia:
mandavasi al console in Genova, s'intendesse con Pallavicini, perchè
obbedisse le cambiali del Querini. Stava in aspettazione l'ambasciatore
di quello che avesse a succedere; ma vedendo le cose della terraferma
andar sempre di male in peggio, richiedeva Viscovich della restituzione
dei biglietti. Negava il Dalmata la restituzione. Furono presentati a
Querini nel mese di luglio in Venezia, dopo il cambiamento dello stato,
acciocchè ne effettuasse il pagamento: gli protestava; fu carcerato, ed
esaminato per ordine del direttorio per querela di aver voluto
corrompere il governo Francese. Questa fu veramente un'arte cupa;
perchè, se vi fu corruzione, e certamente in qualcheduno fu, ella non
andò già da Querini ad altri, ma da altri a Querini.

Intanto un accidente, frutto di una vituperevol fraude da una parte,
accompagnato da una estrema crudeltà dall'altra, famoso al mondo per
l'importanza sua, e pel paragone di un altro fatto rinomato nelle
storie, era vicino a sorgere nella principale città della Veneta
terraferma. Abbiamo già raccontato, come Buonaparte, perchè l'Austria
accettasse da lui, in ricompensa dei Paesi Bassi, e del Milanese, lo
stato Veneziano, si era messo in punto di farlo rivoltare contro il
senato. Insidiò principalmente Verona. I suoi agenti non lasciavano
alcuna cosa intentata, e la popolazione Veronese contaminavano con
promesse agli avidi, con istimoli agli ambiziosi, con mostra di libertà,
con abbominazione di tirannide agli amatori del vivere libero. Il senato
all'incontro avendo avuto sentore, anzi certezza delle trame di Verona,
vi aveva mandato, come già abbiam raccontato, provveditori straordinari,
uomini di fede e di virtù, con un forte polso di genti Schiavone. Vi
arrivavano, oltre a ciò, i villani dei contorni, ai quali erano state
messe in mano le armi: erano una massa considerabile. Stavano ambe le
parti vigilanti, l'una per impedir gli effetti delle suggestioni e delle
sommossioni d'oltre Mincio, l'altra per ajutarli. Gli animi infiammati
dall'un canto, arrabbiati dall'altro, insospettiti tutti, si mostravano
pronti, non solo ad usare le prime occasioni gravi, ma ancora a
prorompere per le più leggieri, ed una voce, un suono, un segno che
uscisse, potevano partorire una generale commozione. In tanta
concitazione reciproca le cagioni potevano nascere ugualmente dall'una e
dall'altra parte. Da tutto questo conoscerà il lettore, che poco rileva
il sapere, se si sia incominciato a far sangue dai Francesi, o dai
Veronesi, perchè proposito dei capi Francesi era di far rivoluzione in
Verona, proposito dei Veronesi d'impedirla: i primi volevano darla
all'Austria, i secondi conservarla a Venezia; e so ben io ciò, che
farebbero i Francesi, o gl'Inglesi, se qualche potenza forestiera
vendesse ad un'altra Lione, o Birmingham.

Era debole il presidio Francese in Verona, nè atto per se a tanta mole;
perchè il generalissimo aveva avuto bisogno di tutte le sue forze contro
l'Austria, ma si sperava nei maneggi secreti, e nell'opera dei novatori,
ed oltre a ciò incominciava a scoprirsi nel Padovano la schiera di
Viotor mandata da Buonaparte a rivoltar lo stato nella terraferma. Si
accostava inoltre Lahoz coi Lombardi, e Polacchi, accostavansi le masse
repubblicane di Brescia e di Bergamo, ed il forte presidio di Mantova
poteva dare da luogo vicino nervo all'impresa. Intanto il capitano
Carrere, comandante di Verona, soldato amantissimo della repubblica, ma
probo e religioso, vedendo il pericolo tratteneva ogni Francese che da
Francia venisse, od in Francia ritornasse, per modo che riuscì a
raccorre circa ottocento soldati. Arrivavano poco stante duecento
Cisalpini, valorosa gente, capitanata in gran parte da Francesi, ed
assai disposta a secondargli. Già segni annunziatori di quanto doveva
succedere si spargevano per le campagne: erano in ogni luogo minacce,
mischie, ed uccisioni. I sollevati dipendenti da Buonaparte uccidevano i
sollevati, che gridavano San Marco; dall'altra parte dei Francesi
isolati, coloro, che s'imbattevano in gente più moderata, erano o
arrestati, od insultati; quei, che incontravano uomini più sfrenati,
erano uccisi. Un prete, figliuolo del conte Malenza, postosi in agguato
con una squadra di mila villani, infestava le strade tra Peschiera e
Verona. Incessantemente si predicava, volere i Francesi fare una
rivoluzione per impadronirsi delle sostanze dei popoli, e singolarmente
del monte di pietà, dove erano grandissime ricchezze. Allegavano
l'esempio del monte di pietà di Milano depredato contro le leggi del
giusto e dell'onesto. Il fatto era pur troppo vero, e la ricordanza di
lui produceva una rabbia incredibile in mezzo a quelle popolazioni già
tanto concitate. Succedevano in Verona stessa ad ogni momento minacce
tra Francesi e Schiavoni, succedevano altercazioni frequenti tra
Francesi e Veronesi, ed allora gli Schiavoni si allontanavano. Le nappe
con l'impronta del Lione, insegna della repubblica di Venezia, davansi a
chi ne bramava. Godeva il provveditore nel vedere animi sì pronti, e
tante difese apprestate. Dava opera ad ordinarle; descriveva i villani
accorsi, raccomandava l'ordine e la quiete, comandava, non offendessero
persona; solo stessero armati, e pronti. Così l'agro Veronese suonava
tutto all'intorno d'armi contrarie, ed armi contrarie erano in atto
d'affrontarsi dentro le mura stesse di Verona. Preparavansi i magistrati
a propulsare qualunque assalto, fatti accorti dai fatti di Bergamo,
Brescia, Crema, ed ancor più dalle novelle certe delle intenzioni di
Buonaparte. Il generale Balland surrogato a Kilmaine nel governo
militare di Verona, sollevato d'animo a tanti romori, scriveva al
provveditore, esortandolo a provvedere, che i disordini cessassero.
Rispondeva il Veneziano, che il farebbe, sempre anzi averlo fatto, ma
toccava rimproverando i maneggi degl'insidiatori, mandati a posta per
sommuovere le province.

Era il dì diciasette aprile, secondo giorno di Pasqua del
millesettecentonovantasette, quando alle ore quattro meridiane scoppiava
ad un tratto la terribil sollevazione Veronese. Incominciava da insulti
e da minori fatti dai soldati Veneziani e dai Veronesi armati, contro le
guardie Francesi sparse in vari luoghi della città. Il comandante
Carrere, veduto quanto il tempo fosse minaccioso, ristringeva i suoi
sulla piazza d'armi, pronto a correre dove bisogna fosse. In cotal guisa
stava armato e raccolto lo spazio di un'ora, quando Balland fece trarre,
erano le cinque della sera, qual segno di guerra, cannonate dai
castelli. A quel rimbombo si conduceva spacciatamente Carrere con la sua
schiera nel Castel-Vecchio, contro il quale già combattevano i Veronesi
dalle case vicine. Il romore inaspettato delle artiglierìe Francesi diè
cagione di credere ai Veronesi già tanto infiammati, che fosse
intenzione di Balland di trattare ostilmente Verona. Nè s'ingannarono
punto; perchè poco dopo traeva furiosamente contro il palazzo pubblico,
che ne fu lacero e guasto in molte parti. Diroccarono al primo trarre le
creste del palazzo degli Scaligeri. Cambiavasi in un momento l'aspetto
della città; perchè vi sorgeva una rabbia, un gridare, un correre contro
i Francesi da non potersi raccontare degnamente con parole. Un suonare
di campana a martello continuo e precipitoso accresceva terrore alla
cosa. Dei Francesi, coloro che si trovavano più vicini ai castelli,
massime al Castel-Vecchio, in loro si ricoveravano a tutta fretta: ma
non fu senza pericolo, perchè rabbiosamente gli seguitava il popolo, che
gli voleva ammazzare, e bersagliandogli dalle finestre con palle, con
sassi, con ogni sorte d'armi faceva loro il ritirarsi difficile e
mortale. Il furore aveva preso non solo gli uomini ed i forti, ma ancora
i vecchi, le donne, i fanciulli, ognuno volendo ricompensare con un
sangue odiato le ingiurie ed i patimenti. Molti dei Francesi in tal modo
fuggenti restarono uccisi, plaudendo all'intorno il popolo inferocito.
Chi non potè ripararsi a tempo nei castelli, cercava salvezza nei più
segreti nascondigli delle case; ma non però tutte, anzi poche erano loro
sicure; perciocchè non pochi, rottasi dai padroni la ospitalità, vi
restarono miseramente uccisi. Alcuni furon gettati nei pozzi, altri
trafitti dai pugnali, altri risospinti fuori delle porte, perchè fossero
segno alla rabbia popolare, che tuttavia fra le grida orribili, fra il
rimbombo delle artiglierìe dei castelli, fra i tocchi incessanti pel
suonare a stormo andava crescendo. Molti amministratori dell'esercito,
molte donne, molti fanciulli, molti ammalati erano in Verona, e questi
furono, la maggior parte, condotti a miserabil morte da un popolo, che
pagava con eccessiva crudeltà contro gl'innocenti le ingiurie, le
ruberìe, le fraudi, i tradimenti usati da chi aveva contro di lui
contaminato il nome di Francia. Era spettacolo pieno di compassione e di
terrore il vedere malati languenti perseguitati da sicarj sanguinosi,
donne atterrite da donne furibonde. Noi vedemmo un portico, tutto lurido
e stillante ancora di sangue di Francesi ammaccati piuttosto che
trafitti da un immenso furore; noi vedemmo spoglie sanguinose tratte da
pozzi e da fogne; noi vedemmo miserabili vestimenta serbate a gloria dai
violenti trucidatori. Ma la pressa, le minacce, la crudeltà, che il
cielo serbi condegno castigo agli autori veri di tanto infinita
barbarie, erano intorno all'ospedal militare. Degli ammalati alcuni
furono uccisi, parecchi malconci e spogliati. Nè le preghiere, nè la
debolezza, nè l'aspetto medesimo della morte già vicina in un
ferocissimo morbo potevano piegare a misericordia questi uomini, nei
quali null'altra cosa d'uomo restava che il volto. Nè veniva meno la
crudeltà per la stanchezza, o per lo sfogo; che anzi sangue chiamava
sangue, e le forze, che mancano spesso al ben fare, non mancavano al mal
fare. Se per assenza di vittime pareva un poco acquetarsi il furore,
tosto si riaccendeva più fiero che prima, ove fosse scoperto un
Francese; e di nuovo si dava mano alle stragi. Non in meno pericolosa
condizione si ritrovavano i patriotti o Veronesi, o forestieri: che anzi
maggiore contro di loro si mostrava la rabbia del popolo, che con più
diligenza gli cercava, e quanti potè aver nelle mani, tanti uccise. Ma i
più si erano ricoverati nei castelli, altri conficcati nel nascondigli
passarono fra la speranza ed il timore parecchi giorni. Ma non tutto fu
barbarie in questo lagrimevole accidente. Non pochi Veronesi, ed il
conte Nogarola medesimo, quantunque fosse uno dei capi degl'insorti,
conservarono, nascondendogli, a molti Francesi la vita, atto tanto più
degno di commendazione quanto nel salvare la vita altrui correvano
pericolo della propria; perchè non è da dubitare, che se il popolo si
fosse accorto della pietà usata, avrebbe condotto all'ultima fine
preservatori e preservati. Spargevasi intanto per le campagne il grido
del caso di Verona: incominciavasi a toccar lo stormo; i villici
accorrevano a torme armate nella tormentata città; e se il vecchio
furore già languiva, l'accostamento del nuovo il rinfrescava. Le grida e
le stragi rincominciavano, nè cessarono le uccisioni, se non quando non
vi fu più uomo da uccidere. Mancata la materia dello ammazzare, si
veniva in sul saccheggiare. Già il ghetto, essendo gli ebrei, oltre
l'antico rancore, riputati partigiani di Francia, andava a ruba: già i
fondachi del pubblico pericolavano, e non fu poco, che i provveditori
potessero impedire, che coloro, i quali sì ferocemente combattevano per
Venezia, le sostanze pubbliche di Venezia non rubassero. Tanto
facilmente passano gli uomini infuriati dalle uccisioni ai latrocinj,
dai latrocinj alle uccisioni. Correva il sangue per le case, correva per
le contrade, i castelli tuonavano, gli Schiavoni infuriavano: anzi uniti
al popolo volevano dar l'assalto a quei nidi, come dicevano, dove si
erano confinati i tiranni d'Italia. Il maggior pericolo era pel
Castel-Vecchio: posto essendo vicino alla città, potevano i soldati ed
il popolo assaltarlo più facilmente; nè le sue difese erano forti,
poichè dava adito al castello un ponte chiuso solamente da un cancello
di ferro, e la porta di debol legno era anche priva di saracinesca.

Il provveditor Giovanelli, in mezzo a tanta confusione e tanti sdegni,
avrebbe voluto, non far deporre le armi, perchè nè la tempera degli
animi Veronesi, nè il trarre continuo dei castelli il permettevano, ma
frenare la barbarie, ed introdurre ordine e misura, là dov'era solamente
confusione e trascorso. Tanto si adoperava in questo lodevole pensiero,
che per poco il popolo non l'aveva per sospetto, e si proponeva,
posposta l'autorità di lui, di voler fare da se. Importava intanto
l'impadronirsi, per aprir l'adito agli aiuti esterni, delle porte, che
tuttavia si trovavano in possessione dei Francesi. Il maggior presidio
era in quella di San Zeno. Il conte Francesco degli Emilj, che
alloggiava nella terra di Castel-Nuovo con due pezzi di cannone,
seicento Schiavoni, duemilacinquecento contadini, e fronteggiava un
grosso corpo di Francesi e d'Italiani, affinchè non corressero contro
Verona, udito il pericolo della sua patria, correva subitamente in suo
aiuto, e dopo un sanguinoso conflitto, fatto prigioniero il presidio,
recava in sua potestà la porta di San Zeno, entrando con tutti i suoi,
il che dava nuovo animo ai cittadini. Facevano lo stesso della porta
Vescovo il capitano Caldogno, e di quella di San Giorgio il conte
Nogarola. Così gli abitatori del contado potevano entrare liberamente a
soccorrere Verona. Giunto il rinforzo del conte degli Emilj, assalivano
i Veronesi più fortemente i castelli, massimamente il vecchio, e più
fortemente dentro di loro si difendevano i Francesi, certi essendo, che
in tanta rabbia popolare, per cui già erano stati morti i non
combattenti, da quella difesa non solo dipendeva la possessione dei
luoghi, ma ancora la salute, e la vita loro.

Il maggior propugnacolo che avessero, era il castello montano di San
Felice. Per questo i Veronesi, principalmente contadini, avevano fatto
un grosso alloggiamento a Pescantina, luogo opportuno per recarsi a
battere quel castello; che anzi più oltre procedendo, avevano piantato
due cannoni in san Leonardo, donde, per essere il sito sopraeminente al
castello, continuamente il fulminavano. Dalla parte loro i Francesi
uscivano frequentemente a combattere fuori dei castelli. Seguivanne
stragi, incendj e ruine. Ardeva parte della città, perchè da castel San
Felice, Balland fulminava, anche con palle roventi; ardevano le vicine
ville intorno, e la tanto florida un tempo, ed ora infelice Verona,
pareva avvicinarsi ad un estremo sterminio. Intanto i villici, che tanto
più s'infierivano, quanto più largo sangue vedevano, non confidando
intieramente nei rimedj, che potessero fare da se medesimi, avevano di
volontà propria spedito corrieri al generale Austriaco Laudon, che, come
abbiam narrato, dopo le vittorie acquistate nel Tirolo, era sceso a
mettere a romore l'alto Bresciano, pregandolo, si calasse subitamente in
soccorso loro. Balland non ometteva di provveder all'avvenire,
conoscendo di quanta importanza fosse all'esercito il conservare in
potestà di Francia quell'alloggiamento. Però aveva dato avviso a Chabran
in Brescia, ed a Kilmaine in Mantova, pregandogli, mandassero
sollecitamente gente soccorritrice al presidio pericolante. Victor
medesimo era stato avvertito da Balland del pericolo. Anche da Bologna
s'accostava una schiera per istringere la città combattente. Giovanelli,
considerato il nembo che da ogni parte gli veniva addosso, quantunque
Erizzo fosse per arrivare con un rinforzo di genti Schiavone, di armi e
di munizioni, aveva aperto una pratica d'accordo con Balland, la quale
però non ebbe effetto, perchè il generale di Francia richiedeva, per
prima ed indispensabile condizione, che i villani deponessero le armi,
si riaprissero le strade alle comunicazioni dell'esercito, il presidio
Veneziano alle poche genti di prima si riducesse. Non erano alieni i
magistrati della repubblica dall'accettar queste condizioni; ma le turbe
di campagna, tuttavia infiammate, non volevano a patto nessuno udire,
che avessero a depor le armi: viemaggiormente s'infuriavano.

Nè erano senza frutto le esortazioni degli uomini di chiesa, che
rappresentavano, essere mescolata con la causa dello stato la causa
della religione. Rammentassero, dicevano, l'oppressione di Roma, gli
scherni di Milano, le abbominazioni di Parigi: osservassero con gli
occhi loro medesimi i preti fuorusciti di Francia, ridotti esuli e
poveri da gente incredula e sfrenata, per non aver voluto contaminare
con ispergiuri e con bestemmie la fede loro: questa medesima sfrenata ed
orribil gente volere adesso fondar l'imperio loro nell'incorrotta
Italia: per questo ingannare gli spiriti, per questo pervertire i cuori,
per questo subornare i magistrati, per questo tradire i governi, per
questo finalmente avere testè conculcato la dignità della sedia
apostolica, primo splendore d'Italia, e principalissimo fondamento della
religione: guardassero qual fosse il seguito dell'irreligiosa gente;
uomini malvagi aiutarla con gli spìamenti, con le parole, con le armi,
con le aderenze; uomini tutti nemici alla religione, perchè senza fede;
nemici alle buone costumanze, perchè senza buoni costumi; nemici ai
governi provvidi, perchè impazienti di ogni freno, che gli rattenga
nelle male passioni loro. Perciò, sclamavano, difendessero fino
coll'ultimo sangue, ove d'uopo fosse, la religione protettrice degli
oppressi, i governi protettori della religione, ed aspettassero per
opera sì pia la gloria del mondo caduco, i premj del mondo sempiterno.

Generavano questi discorsi effetti incredibili; il furore diveniva zelo,
che altro non è che un furore meno fugace. Stupivano massimamente, e
s'infiammavano le genti ad uno spettacolo maraviglioso, che sorse in
mezzo a quella tanto avviluppata tempesta, e questo fu di un frate
cappuccino, che predicava ogni giorno sulla piazza, stando attentissimo
il popolo affollato ad ascoltarlo. Non desumeva questo frate i suoi
argomenti da motivi di religione, ma piuttosto da quanto havvi nella
nazionale indipendenza di più dolce, di più nobile, di più generoso; e
sebbene le sue parole fossero principalmente dirette contro i Francesi,
erano non ostante generali, e chiamando, secondo l'uso antico, barbari
tutti i forestieri, predicava contro di loro guerra, cacciamento e
morte. Preso per testo l'antico adagio, _patientia laesa fit furor_:

«Italiani, diceva egli, di qualunque paese, di qualunque condizione, di
qualunque sesso voi siate, impugnate le armi: esse son pur quelle dei
Scipioni, dei Fabj, dei Camilli; esse son pur quelle degli Sforza, degli
Alviani, dei Castrucci: Italiani, impugnate le armi, impugnate le armi,
e non le deponete, finchè questi barbari, di qualunque favella essi
siano, non siano cacciati dalle dolci terre Italiane. Vedete lo strazio,
che fanno di voi? Vedete che il danno a lor non basta? Vedete, che non
son contenti, se non aggiungono lo scherno? I rubamenti non saziano
questa gente avara; questa gente superba vuole gl'improperj, ed il
vilipendio. Sonvi le querele imputate a delitto; evvi il silenzio
imputato a congiura: o che serviate, o che non serviate, vi apprestano
gl'insulti, o le mannaie, perchè il servire chiamano viltà, il resistere
ribellione. Vi accusano di armi nascoste; vi chiamano gente traditrice,
come se non fosse maggior viltà al più forte l'usare i fucili ed i
cannoni contro i deboli, che ai deboli l'usare contro il più forte gli
stili e le coltella! Adunque poichè di stili e di coltella vi
accagionano, e poichè un risguardo di Dio, protettore degli oppressi, e
l'insopportabile superbia loro vi hanno ora posto i fucili ed i cannoni
in mano, usategli, usategli, e pruovate, che anche gl'Italiani petti
sono forti contro i rimbombi, e le guerriere tempeste. Credete voi, che
siano costoro invulnerabili? Credete voi, che siano più valorosi di voi?
Per Dio, no, non abbiate sì falso pensiero: i valorosi non son perfidi,
ed opera di perfidia sono i fatti recenti. Non sotto spezie di amicizia
fu invasa Genova, insidiata Cavi, conculcato Livorno? Non sotto spezie
di amicizia furono da lor prese le Veneziane fortezze? Non da loro si
sommovono i popoli contro i governi, non da loro si usano i governi per
tiranneggiare i popoli? Ma che parlo? Ricordatevi di Brescia, di Bergamo
e di Crema fatte ribelli al loro signore dai tradimenti di costoro. Non
avete voi testè letto i manifesti nimichevoli contro di voi mandati da
quel Landrieux, primario insidiatore, sotto colore di amicizia, di
quelle misere città? Non vedete voi qui il pubblicato scritto di un
Lahoz, pagato da loro, perchè con mani Italiane versi sangue Italiano?
Non vi muoveste pure or ora a sdegno nel leggere il manifesto inventato
da loro, ed apposto al Battaglia, a quel Battaglia, che, Dio voglia, sia
tanto puro, quanto la causa è santa? Vero, disse il manifesto, e nessuno
il sa meglio che chi lo scrisse; ma vera ancora è l'infame fraude, non a
liberare gli oppressi diretta, ma a dar cagione agli oppressori di
tradire gli oppressi; caso veramente scelerato di sommuovere prima i
popoli, poi di tradirgli per dargli in mano ad insolite tirannidi. Non
ebbimo noi qui nell'innocente Verona i scelerati subornatori venuti per
prezzo da Lonato, da Desenzano, da Brescia? Non abbiamo noi qui capitani
vili, mandati espressamente da Buonaparte sotto pretesto di reggerla, a
contaminar Verona? Non è Buonaparte stesso, non solo nido, ma covo
d'infami fraudi? Vincitore insolente in palese, insidiatore scelerato in
segreto? Sono questi i valorosi, che abbiano a farvi tremare? Tolga Dio
questa credenza, che il valore è virtù, e la perfidia fa, non soldati
valorosi, ma satelliti codardi. Fumano al cospetto vostro le campagne
poc'anzi liete e dilettose della Brenta, ed ora consumate, ed arse dai
barbari. Sono bruttati i tempii, sono spogliate le case, è ogni opera
dell'Italiano ingegno, utile o magnifica, fatta preda di soldatesche
sfrenate. Adunque pei barbari travagliarono i Raffaelli, i Tiziani, i
Paoli? Adunque i Petrarca, gli Ariosti, i Tassi scrissero, perchè i
testi loro gissero in mano di coloro, che non gl'intendono? Adunque diè
il povero l'obolo suo alla Casa santa di Loreto, perchè uomini già fatti
ricchi da tanti rubamenti lo rapissero, ed in prezzo di meretrici, in
prezzo di corruzione contro gl'Italiani stessi il convertissero? Adunque
portò il povero per incorrotta fede nei monti di pietà il risparmiato
frutto di tante veglie, perchè fosse involato da chi non veglia, che nei
bagordi, nei giuochi, nelle fraudi? Ov'è l'Italia adesso? Il suo fiore è
perduto. Dove i costumi? Contaminati da fogge forestiere. Dove le armi?
Tradite pria, poscia disperse, o serve. Dove la lingua? Lordata da
parlari strani. Dove l'arte dello scrivere, già sì famosa al mondo, e
maestra di tanti? O tace, o adula, o imita. Scrittoruzzi da insegne,
scrittoruzzi da giornali, scrittoruzzi da libercoletti son venuti ad
insegnarci lo scrivere, ed il pensare! Oh, vergogna nostra sempiterna,
se con l'armi non vendichiamo il perduto pregio dell'ingegno! Piangono
le Pavesi madri, piangono le Veronesi madri i figli uccisi nelle
battaglie contro i tiranni; piangono le Italiane madri le figlie, prima
ingannate, poscia abbandonate dai vili seduttori, e si querelano indarno
del contaminato onore. E voi ve ne starete? E voi non brandirete le
armi? E voi non spenderete l'ultimo fiato per vendicare, per liberare
Italia da tanto strazio! La vittoria vostra è vittoria comune, perchè a
tutti puzza questo barbaro dominio, ed il primo messo apportatore delle
Veronesi battaglie farà muovere a redenzione tutti i popoli. Sdegnata è
Germania dell'oscurato valor militare, sdegnata Genova della perduta
indipendenza, sdegnata Roma dell'offesa religione, sdegnata Toscana
dell'oltraggiata amicizia, sdegnata Napoli dell'esser fatta stromento
alla servitù d'Italia. Tutti aspettano un valor primo, tutti domandano
una rizzata insegna; tutti agognan sorgere in aiuto della generosa
Verona. La mole intera dell'Italica libertà nelle mani vostre sta:
perchè molti combatteran contro pochi, virtuosi contro viziosi, oppressi
contro oppressori, nè mai vano riesce l'ardor della libertà. Vinti i
Francesi, qual altro barbaro s'ardirà d'affrontare la vincitrice Italia?
Tutti saran cacciati; il sole Italiano non splenderà più che su fronti
Italiane, l'aria non udirà più le ispide favelle; i solchi di questa
terra, tanto ferace madre, non produrran più per altri, che per noi i
dolci frutti loro; le spose intatte non daran più al mondo che forti,
che sinceri, che liberi Italiani. Fu già Venezia ricovero ai liberi
Italiani contro l'inondazione d'antichi barbari; fia Venezia nuova
occasione ai liberi Italiani di cacciare i barbari moderni. Il valore
libererà l'Italia, l'unione preserveralla, e già mi s'appresentano alla
rallegrata mente nuovi secoli per quest'antica madre del mondo. Ma io vi
veggio rossi di sangue! questo è sangue di barbari. Deh, fate voi, che
sia seme di libertà. Ite, correte, uccidete quest'uomini truculenti: il
sangue loro fia segno della salute nostra, nè mai senza sangue
s'acquista la libertà. Ha il sommo Iddio, quando ordinò l'universo,
voluto, o che i tiranni versassero il sangue degli oppressi, o che la
libertà versasse il sangue degli oppressori. Ite, e scegliete tra le
mannaie e gli sparsi fiori, tra la vita e la morte, tra la gloria, e
l'ignominia, tra l'indipendenza e la servitù, tra la libertà e la
tirannide. Il principe vostro, il cielo propizio, sorti fortunate,
l'amore, il furore, le donne, i padri, i figli, l'incominciate
battaglie, queste prime vittorie vi chiamano ad un'alta e non più udita
impresa; e poichè la rotta pazienza vi fe' correre all'armi, fate che
l'armi non siano impugnate indarno».

Queste parole dette, e replicate più volte, destavano negli animi già
tanto concitati degli ascoltanti uno sdegno incredibile. Provocavansi
gli uni gli altri; già i castelli stessi parevano debole ritegno al loro
furore. Mentre tanto disperatamente si combatteva in Verona, succedeva
in Venezia un caso pieno d'insolenza ad un tempo, e di crudele
risentimento, e che se non fu espressamente ordinato da Buonaparte, come
da alcuni fu scritto, servì però molto mirabilmente a' suoi disegni
contro l'innocente repubblica. Aveva il senato comandato, seguendo un
antichissimo instituto, ed a cagione dei romori presenti, che nissuna
nave forestiera, che fosse armata, potesse entrare nell'estuario; il
quale divieto era stato significato a tutti i ministri delle potenze
estere residenti in Venezia, ed il Francese ne aveva, come tutti gli
altri, avuto notizia. Eranvisi uniformati gl'Inglesi stessi, parendo a
tutti giusta e conveniente cosa, come era veramente, che non si dovesse
turbare con la presenza di armi forestiere la sede del governo. Ma ecco
la sera dei venti aprile, avvicinarsi al Lido di san Niccolò un legno
armato in forma di corsaro con intenzione evidente di entrar nel porto.
Si scoverse legno Francese condotto dal capitano Laugier. Domenico
Pizzamano, deputato alla custodia del Lido, gli mandava significando il
divieto del senato, e lo esortava a non rompere una legge sovrana, alla
quale l'Inghilterra medesima aveva obbedito. Il capitano o per insolenza
propria, o per comandamento altrui, non curando le esortazioni del
Pizzamano, e seguitando il suo cammino, sforzava la bocca del porto, e
vi poneva l'ancora con violazione manifesta di una legge Veneziana in
Venezia. Mentre passava per la bocca, traeva di nove colpi di cannone, i
Veneziani narrano, per ingaggiar battaglia, il che non è nè vero, nè
verisimile, ma bensì per salutare, secondo gli usi di mare, la bandiera
Veneziana, pensiero veramente strano del volere con pubblica
dimostrazione rendere onore ad una potenza nel momento stesso, in cui
sotto gli occhi del suo principe la sua sovranità si oltraggiava, ed una
sua principalissima legge apertamente si violava. Il tiro dei cannoni
Francesi, giunto alla violenta entrata nel porto, diè motivo di credere
al comandante Veneziano, che si covasse qualche macchinazione o dentro o
fuori. Perlocchè, allestiti ancor esso i suoi cannoni, traeva, rendendo
fuoco per fuoco, contro il legno Francese. Insino a questo punto il
torto essere stato dal canto del capitano Francese sarà confessato da
tutti, eccettuato da quelli che credono, che i forestieri debbono esser
padroni in casa altrui; e se i Veneziani fossero stati contenti
all'arrestar il legno, e ad obbligarlo, senza fargli altro danno, ad
uscir dal porto, nissun diritto uomo è, cred'io, che non fosse per
istimare la condotta loro, non solo non biasimevole, ma ancora lodevole
e necessaria. Ma le cose non si rimasero a queste prime dimostrazioni,
nè poteva essere, ch'elleno più oltre non procedessero a cagione
degl'incredibili sdegni, che allora passavano tra una nazione e l'altra;
imperciocchè trovatosi Laugier tra legni di Schiavoni, gente avversa al
nome di Francia, e devota a Venezia, giunto il trarre nimichevole tra il
legno ed il forte Sant'Andrea, assaltavano con grandissima forza, e con
arma bianca la nave del capitano Francese, nella quale sfogando troppo
più che all'umanità si converrebbe, l'odio loro, commettevano atti di
un'estrema ferocia. Morirono in questa sanguinosa avvisaglia cinque
Francesi, fra i quali il capitano medesimo. Otto restarono feriti; che
anzi, se gli uffiziali degli Schiavoni non avessero frenato il furore
dei soldati loro, i marinari del legno sarebbero stati fino all'estremo
uccisi. Il legno divenne preda degli assalitori. Lodava il senato con
pubblico decreto Pizzamano, e gli uffiziali; largiva di un caposoldo i
gregari; mandava un sunto del fatto ai legati Donato, e Giustiniani,
acciocchè il rappresentassero a Buonaparte, temendo, non senza cagione,
che da altri gli fosse annunziato con esagerati rapportamenti. Il
ministro di Francia, mostrandosi sdegnato, ricercava il senato, che
carcerasse Pizzamano, arrestasse i complici, restituisse gli arnesi,
risarcisse il legno. Restituissi, risarcissi; delle carcerazioni si
soprassedè sino alla risposta di Buonaparte.

Terrore era in Venezia, e terrore in Verona. Le cose in quest'ultima si
avvicinavano da un funesto mezzo ad una funesta conclusione.
Combattevano tuttavìa i Veronesi col medesimo ardore; ma appunto perchè
quest'ardore era estremo, si doveva temere, che non tardasse a
raffreddarsi. Già i Francesi ingrossavano tutto all'intorno. S'accostava
Kilmaine venuto da Mantova, Chabran compariva sotto le mura verso la
porta di San Zeno, le prime squadre di Victor arrivavano in luogo, donde
presto potevano cooperare alla vittoria. La tregua di Judenburgo
toglieva ogni speranza di Laudon. Si risolvevano adunque i provveditori
a venire a parlamento, prima con Balland per mezzo del colonnello
Beaupoil: ma la pratica non ebbe perfezione, perchè il popolo non volle
udire che avesse a depor le armi, e non fossero esclusi i Francesi dai
castelli; poi con Chabran, col quale andava ad abboccarsi fuori della
porta San Zeno il provveditore Giovanelli. Erano col primo il generale
Chevalier, e Landrieux, col secondo il conte degli Emilj, il conte
Giusti, ed un Merighi, personaggio molto amato dai San Zenati.
Pervenivano intanto le novelle, che Lahoz con una banda di due mila
soldati tra Italiani e Polacchi al soldo della repubblica Cisalpina,
aveva tra Peschiera e Verona conseguito una vittoria contro le leve
campagnuole di quel distretto.

Fu l'abboccamento pieno di risentimento da ambe le parti. Rimproverava
Chabran a Giovanelli i villani armati per disegno espresso del governo
Veneto contro i Francesi, quando stavano a fronte di un nemico potente;
che per questo era stato costretto Buonaparte a fare la tregua, che i
Veneziani se ne pentirebbero. Aggiungeva Landrieux, e qui lascio che il
lettore pensi da se, che i rei disegni del senato contro i Francesi
erano pruovati dal manifesto di Battaglia. Rispondeva Giovanelli
allegando l'amicizia de' Veneziani dimostrata a tante pruove; solo
essersi armati i sudditi per amore verso il principe, e per opporsi ai
ribelli apertamente incitati, e protetti dai Francesi; l'intervenzione
dei Francesi in tutti questi moti viemaggiormente dimostrarsi da ciò,
che i turbatori della pace pubblica si ricoveravano in casa del generale
Balland, come in luogo di sicurezza; quando la città era quieta, avere
contro di lei tratto, prima a polvere, poscia a palla i castelli; per
questo aver voluto i Veronesi difendere le sedi loro, e vendicare il
loro principe in tale violenta guisa oltraggiato. Passavano dai
risentimenti ai negoziati; non si trovava modo di concordia. Chabran
sdegnato minacciava, che entrerebbe per forza, arderebbe, e
saccheggerebbe Verona. Già s'impadroniva di San Leonardo, con che
assicurava il castello San Felice: già batteva fortemente la porta di
San Zeno, dove solo il fosso il separava dal corpo della piazza.
Instavano al tempo medesimo i castelli contro la porta di San Giorgio; e
dal Castel-Vecchio uscivano spesso i Francesi con gran terrore e ruina
dei cittadini. Kilmaine si approssimava da Mantova, sbaragliando le
turbe armate, che gli contrastavano il passo. Già il romore della
Victoriana schiera ormai vicina si udiva nella desolata città. I primi
corridori di Lahoz si facevano vedere alle porte esteriori del
Castel-Vecchio, e niuna cosa poteva impedire che vi entrassero.

Ebbersi in quel momento le novelle dei preliminari di pace; il quale
accidente faceva abilità a Buonaparte di correre con tutto il suo
esercito contro lo stato Veneziano. Accresceva il terrore la sconfitta
delle genti stanziali governate dal Maffei, e che poste alla Croce
Bianca, ed a San Massimo vietavano da quella parte il passo al nemico.
Da tutto questo si vedeva, che era già vinta Verona, quando ancora
combatteva. Perlochè i provveditori pensarono ad accordarsi ad ogni
modo. Convenivasi delle seguenti condizioni: deponessero i villani le
armi, e sgombrassero da Verona; i Francesi la occupassero; tutte le armi
e munizioni si dessero in mano loro: fossero consegnati in castello,
come ostaggi per la sicurtà dei patti, Giovanelli, Erizzo, Giuliari,
Emilj, il vescovo, Maffei, i quattro fratelli Miniscalchi, Filiberi, i
due fratelli Carlotti, San Fermo, e Garavetta: eseguiti i capitoli, si
rendessero gli ostaggi. Volevano i provveditori aggiungere il capitolo,
che fossero salve le vite e le proprietà dei Veronesi, delle truppe, e
dei capi loro; ma Kilmaine, che era sopraggiunto, non volle ratificarlo.
E però, sebbene fossero accettati gli altri capitoli, si rendeva Verona
quasi a discrezione. La qual cosa vedutasi dai provveditori, si
deliberarono di ritirarsi a Padova, lasciando che i magistrati
municipali, quanto fosse in poter loro, alla salute di lei
provvedessero. Fu grande in questi negoziati il dolore, e lo spavento
dei provveditori; perchè non solamente vedevano una popolazione fedele
al nome Veneziano abbandonata a discrezione di un nemico offeso, ma
udivano anche parole espresse, e funeste della vicina distruzione della
repubblica; perciocchè Beaupoil, dalle solite ambagi uscendo, ed almeno
più sincerità degli altri mostrando, disse apertamente, che la
repubblica di Venezia aveva sussistito bastantemente per quattordici
secoli, e che conveniva adattarsi ai tempi, che l'assistenza prestata
alle rivoluzioni di Bergamo e di Brescia non poteva derivare dal solo
arbitrio dei comandanti Francesi, ma bensì da un espresso comando del
generale Buonaparte.

Entravano i Francesi nella sanguinosa Verona. Io non so, se mi debba
raccontare un fatto orribile, e quest'è, che i patriotti Italiani, che
pretendevano parole di libertà, e d'indipendenza alle imprese loro,
cercavano diligentemente, secondando il furore dei capi repubblicani di
Francia, per le case gli autori della resistenza Veronese, e trovati,
gli davano loro in mano, perchè fossero percossi coll'ultimo supplizio.
Scoprivano fra gli altri il frate cappuccino, e lo consegnavano ai
percussori. Gli trovavano in casa la predica, la quale, siccome pareva
scritta in istile più pulito, che a cappuccino si appartenesse, veniva
attribuita al vescovo di Parma Turchi, che era allora in grido di
predicatore eccellente. Creossi un consiglio militare per giudicarlo.
Sostenne il frate in cospetto de' suoi giudici la medesima sentenza.
Condannato nel capo, incontrò la morte con quella medesima costanza, con
la quale aveva vissuto. Conservò la storia il nome di questo forte
Italiano, quantunque per la malvagità dei tempi sia stata la sua morte
piuttosto apposta ad ignominia, che ad onore. Si chiamava frate Luigi
Colloredo, e dopo la venuta dei Tedeschi gli fu posta nella sua chiesa
dei cappuccini una lapida tramandatrice ai posteri della sua eroica
costanza. Furono con lui condotti a morte i conti Francesco degli Emilj,
Verità, e Malenza con alcuni altri di minor nome. Tale fu l'esito della
Veronese sollevazione: la chiamarono le pasque Veronesi a confronto dei
vespri Siciliani; ma se ugualmente crudi ne furono gli effetti, bene le
cagioni ne furono peggiori; perchè a Verona s'aggiunse la perfidia alla
tirannide.

Era la città esposta alla vendetta del vincitore. Le si toglievano le
armi, seguitavano minacce crudeli, e fatti peggiori; si viveva dai
soldati a discrezione; fu espilato il monte di pietà; le più preziose
gioie mandate al generalissimo. Gridavano i popoli a fatti tanto
sacrileghi; Buonaparte ordinava, si restituissero i pegni di minor
prezzo; ma fu indarno, perchè i più erano involati, e chi fu preposto
alla bisogna, per render meno, ne accoppiava due in uno: nè si perdonava
alle doti delle figliuole povere, perchè anche queste furono preda dei
rapitori. Il commissario di guerra Bouquet, eletto commissario sopra il
monte, fu carcerato, e condotto in Francia per essere processato, ma non
si udì mai di pena, o perchè fosse innocente, o perchè avesse operato
per ordine di chi poteva più di lui. Decretava Buonaparte, pagasse
Verona centoventimila zecchini, e di più cinquantamila per caposoldo ai
soldati dei castelli, risarcisse i danni dei soldati e degli ospedali, i
cavalli dei Veronesi si dessero alle artiglierie ed alla cavallerìa;
ancora desse Verona nel più breve spazio fornimenti da vestire i soldati
in quantità considerabile; gli ori e gli argenti sì delle chiese, che
del pubblico si confiscassero in pro della repubblica; i quadri, gli
erbari, i musei tanto del pubblico, quanto dei particolari fossero ancor
essi posti al fisco della repubblica; i privati, che meritassero di
esser fatti indenni, si compensassero coi beni dei condannati.

Ma già la espilazione, prima che si eseguisse per ordine, era stata
mandata ad effetto per disordine. Scriveva Augereau, la confusione dei
poteri, l'esercizio abusivo fattone da parecchi ufficiali superiori
avere colmo l'anarchia e la dissipazione; infatti il monte di pietà di
Verona, in cui erano più di cinquanta milioni di preziose suppellettili,
e così ancora quel di Vicenza (Lahoz aveva fatto rivoltar Vicenza)
essere stati con tale prestezza vuotati, che gli espilatori impazienti
all'indugio dello aprir le porte, le avevano sforzate: e vero fu,
quantunque Augereau non lo scriva, che vi entrarono con le scuri, e coi
sacchi. Sapere, continuava a scrivere, che Victor aveva fatto arrestare
il commissario Bouquet, autore di questo dilapidare; non dubitare, che
se si venisse a processo contro di lui, non mettesse in compromesso
cittadini, che erano nei superiori gradi dell'esercito; non essere le
campagne in miglior condizione della città; gl'incendj, i furti, le
rapine generali, e particolari fatte d'arbitrio, e senza legale autorità
avere spopolato parecchi villaggi, e ridotto famiglie ad errare
disperatamente alla ventura; giunta essere a tal colmo questa peste, che
ufficiali adescati dall'amor del sacco si erano fatti comandanti di
piazza da se medesimi, ed avevano commesso atti, cui la giustizia,
l'onore, e la severità della disciplina militare condannavano; gli
arbitrj di Verona essere ancora più orribili: tolte sforzate esservi
state fatte per iscritto sino a franchi sessantamila, e negate le
ricevute; rubatevi per otto giorni interi le botteghe; regnarvi il
terrore; esservi cessato ogni commercio, essere Verona deserta; alcuni
ufficiali essersi impadroniti di merci spettanti a' negozianti, sotto
colore che calasser per l'Adige; le migliori case saccheggiate attestare
il furore dei saccheggiatori. Nissuno più di lui, continuava Augereau,
odiare i Veneziani, nissuno più di lui bramar di vendicare il sangue
Francese, ma nissuno più di lui odiare l'ingiustizia e la persecuzione;
se i Francesi erano stati rei d'ingiustizia e di persecuzione a lui
toccare il consolare i Veneziani, a lui toccar fare, ch'essi
dimenticassero, ch'erano obbligati di una parte dei loro mali a' suoi
compatriotti. Fatte queste querele richiedeva Augereau da Buonaparte,
moderasse le contribuzioni, ne rendesse il contado partecipe.

Da chi avrà attentamente considerato le cose fin qui da noi raccontate,
sarà facilmente scorto, che nissuno buon partito restava a pigliarsi
alla repubblica di Venezia, se alcuno restava, era quello dell'armi.
Forse i Veneziani, armando vieppiù fortemente l'estuario, e difendendo
Venezia con quell'istessa costanza, colla quale i loro maggiori avevano
una volta difeso Padova contro l'imperator Massimiliano, avrebbero ancor
potuto far sorgere in Europa qualche spiraglio di salute; perchè ancora
l'Inghilterra era intera, e l'imperatore consentiva per forza ai patti
di Leoben, non che non gli piacesse l'acquisto degli stati Veneziani, ma
perchè abbominava i principj sovvertitori di ogni vecchio stato, sui
quali si fondava la repubblica di Francia. Ma qualunque fosse l'evento,
era più onorevole partito per Venezia il perire con l'armi in mano, che
con negoziati già conosciuti inutili prima che s'intavolassero.

Giunte a Buonaparte le novelle di Verona e del Lido, fingeva un
grandissimo sdegno con acerbissime parole lamentandosi del sangue
Francese sparso, e protestando volerne aver vendetta. Adunque vedendo,
che era venuto il tempo prefisso, e con tant'arte preparato, scriveva al
ministro Lallemand queste furibonde parole: «S'insultano a Venezia i
colori nazionali, e voi vi siete ancora! Pubblicamente vi si assassinano
i Francesi, e voi vi siete ancora! Per me, io dichiaro, e protesto non
voler udire proposta di conciliazione, se prima non sono arrestati i tre
inquisitori di stato, ed il comandante del Lido: si carcerino, e poi
venite a trovarmi».

Faceva Lallemand l'ufficio. La serva Venezia arrestava i tre
inquisitori, ed il comandante; posersi in fortezza in una delle isole
delle lagune; gli avogadori del comune incominciavano a far loro il
processo. Liberavansi (perchè anche questo esigeva il generalissimo) i
carcerati per opinioni, o fatti politici, fra gli altri i ribelli di
Salò, Verona, Bergamo, Brescia e Padova. Partivane Lallemand, partivanne
i Francesi, solo restava Villetard, segretario della legazione, come
agente eletto ad operare la mutazione di governo.

Viaggiavano intanto i due legati Francesco Donato, e Leonardo
Giustiniani alla volta degli alloggiamenti di Buonaparte. Il trovarono
in Gradisca: introdotti escusavano la repubblica: aver voluto Venezia
amicizia colla Francia repubblicana già prima che gli eserciti di lei
inondassero l'Italia; averla riconosciuta, quand'era pericolo il
riconoscerla; avere costantemente rifiutato ogni proposta fattale dai
confederati ai danni della Francia; avere aperto spontaneamente agli
eserciti di lei, e senza che a ciò fosse astretta da alcun trattato,
come era con l'imperatore, gli stati suoi; averle fatto copia delle sue
fortezze, delle armi, delle munizioni; avere obbligato i sudditi a
somministrare per somme grandissime quanto fosse necessario al vivere
dei soldati, ed avere in questo anche sopperito l'erario. Come esser
probabile, affermavano, che uno stato illanguidito da danni sì gravosi,
consumato da dispendio sì enorme, mutilato per l'alterazione di tante
città, volesse far guerra alla Francia tanto potente, ora ch'ella aveva
obbligato alla pace quasi tutta l'Europa: volere il Veneziano governo la
pace, ma bene non volerla i sediziosi ed i ribelli, perchè trovavano
nella guerra immensi profitti, ed il compimento dei loro fatali disegni:
da ciò derivare le tante invenzioni di supposti fatti, le carte false,
come quella di Battaglia, le gelosie dei comandanti Francesi,
l'alterazione dei popoli. Del rimanente non venir loro per muover
querele, ma bensì per purgarle, e fare tutte quelle opere, che
s'appartenevano all'incorrotta fede: ad ogni sua richiesta
pruoverebbero, tutti i sospetti dei comandanti esser opera dei raggiri,
e delle fraudi dei sollevati: rispetto poi all'avvenire, esser pronto il
senato a punire i rei d'assassinio, purchè gli fossero dati indizi dei
fatti, dei luoghi, e delle persone: essere ugualmente pronto ad accettar
la mediazione per ridurre le città ribellate all'obbedienza, e a
disarmare i sudditi, purchè si disarmassero anche le popolazioni
sollevate, e si preservassero le fedeli dagl'insulti loro.

Non valsero le escusazioni, e le profferte a vincere la durezza del
generalissimo. Rispose, che voleva, che tutti i carcerati si
liberassero, anche quei di Verona perchè erano addetti a Francia, che
non voleva più piombi, ed andrebbe egli a rompergli; che non voleva più
inquisizione, barbarie dei tempi antichi; che le opinioni dovevano esser
libere; che i Francesi erano stati assassinati in Venezia, e nella
terraferma, e che i Veneziani gli avevano fatti assassinare; che i
soldati gridavano vendetta, e ch'ei la voleva fare; che bene aveva il
senato tante spie che bastassero per potere scoprire i rei; che se il
senato non aveva mezzi per frenare i popoli, era imbecille, e non doveva
più sussistere; che non voleva alleanze con Venezia, nè progetti; che
voleva comandare; che non temeva gli Schiavoni; che sarebbe andato in
Dalmazia; che insomma, se il senato non puniva i rei, non cacciava il
ministro d'Inghilterra, non disarmava i popoli, non liberava i prigioni,
non eleggeva tra Francia ed Inghilterra, egl'intimerebbe la guerra a
Venezia; che al postutto i nobili di provincia dovevano partecipare
nell'autorità suprema; che il governo Veneziano era vecchio, e doveva
cessare; ch'ei sarebbe un Attila per lo stato Veneto; se non avevano
altro a dire, se n'andassero.

Udivano per soprassoma delle angustie loro in questo tempo i legati le
novelle del fatto del Lido, e con accomodate parole il rappresentarono a
Buonaparte. Rispondeva, che non gli voleva vedere, che non gli voleva
udire, bruttati com'erano di sangue Francese, se prima non gli davano in
mano l'ammiraglio, il comandante del Lido, e gl'inquisitori di stato.
Aggiungeva, che erano mentitori per aver cercato di colorir con menzogne
un fatto atroce: se gli togliessero d'avanti, sgombrassero tosto dalla
terraferma; quando no, avrebbero a far con lui.

Adunque l'antico insidiatore della Veneziana repubblica dichiarava, il
dì secondo di maggio, la guerra a Venezia. Avere, intimava, il governo
Veneto usato l'occasione della settimana santa, mentre l'esercito
Francese era impegnato nelle fauci della Stiria, per mettere in armi, e
col fine di tagliargli le strade, quarantamila Schiavoni; mandar Venezia
armi, e commissari straordinari in terraferma, arrestare gli amici di
Francia, fomentare i nemici; risuonare le piazze, i caffè, ogni luogo
pubblico di male parole, e di mali fatti contro i Francesi; chiamarvisi
giacobini, regicidi, atei; avere ordine i popoli di Padova, Vicenza, e
Verona di armarsi a stormo per rinnovare i vespri Siciliani: gridare gli
ufficiali Veneti, che si apparteneva al Lione Veneto di verificare il
proverbio, che l'Italia fosse la tomba dei Francesi; predicare i preti
dai pulpiti, gli scrittori con le stampe la crociata; assassinarsi i
Francesi in Padova, assassinarsi in Castiglione dei Mori, assassinarsi
sulle strade postali da Mantova a Legnago, da Cassano a Verona; impedire
i soldati Veneti il libero passo alle truppe della Francia, suonarsi
campana a martello a Verona, trucidarvisi i convalescenti; assaltare i
Veronesi con l'armi in mano i presidj Francesi ritirati ai castelli;
ardersi la casa del console a Zante; trarsi da una nave Veneta contro la
fregata di Francia la Bruna per salvare una conserva Austriaca; fumare
il Lido di Venezia del sangue del giovine Laugier. Per tutte queste cose
voleva, ed ordinava, che il ministro di Francia partisse da Venezia; che
gli agenti di Venezia sgombrassero dalla Lombardia e dalla terraferma;
che i suoi generali trattassero come nemiche le truppe Veneziane, ed
atterrassero il Lione di San Marco da tutte le città della terraferma.

A tutte queste querele chi dritto mirava, ed amava la giustizia,
rispondeva pei Veneziani, che, eccettuati gli assassinj non mai
escusabili, opera dei particolari, non del governo, e frutto in gran
parte delle insolenze soldatesche, essendo la vendetta passione innata
all'uomo, Venezia, tacendo anche le ribellioni suscitate a posta nella
terraferma, era autorizzata a far peggio dal dritto delle genti a
cagione dei patti di Leoben, venditori della repubblica. Aggiungevano,
che solo era da biasimarsi del non aver dichiarato, e fatto la guerra
con tutte le sue forze alla Francia, guerra della quale aveva tante, e
sì giuste cagioni. Gli autori, cui muove piuttosto la parzialità che la
giustizia, scrivono, che Venezia fu traditrice; certo ella fu, ma di se
stessa, non d'altrui.

La dichiarazione di guerra fatta da Buonaparte, non pareva a lui poter
bastare per arrivare al suo fine del cambiar la forma del governo
Veneziano. Per arrivarvi aveva con tanto veementi parole intimorito i
legati Veneziani, toccato loro il capitolo del cambiamento di governo: a
questo medesimo fine aveva ordinato a Baraguey d'Hilliers, che si
accostasse coi soldati alle rive dell'estuario, e d'ogni intorno
tempestasse, come se volesse farsi strada alla sede stessa della
repubblica: a questo fine ancora Villetard, e gli altri repubblicani
rimasti in Venezia, menavano un romore incredibile contro
l'aristocrazìa, come se ella fosse la maggior peste che sia al mondo,
esaltavano la democrazia, accennavano che il solo mezzo di placare lo
sdegno di Buonaparte era di ridurre il governo alla democrazìa: a questo
fine altresì dai medesimi continuamente si animavano, e si concitavano
contro le antiche forme gli amatori di novità, ed eglino confortati
dall'aspetto delle cose ai disegni loro tanto favorevoli, più
apertamente insidiavano, e minacciavano lo stato: al medesimo intento
finalmente si spargevano ad arte voci di congreghe segrete, di congiure
occulte, di armi preparate. Il terrore era grande, le fazioni accese, i
malvagi trionfavano; dei buoni, i più si ristavano per timor
dell'avvenire, volendo accomodarsi al cambiamento, che si vedeva in
aria; pochi coraggiosi procuravano la salute della repubblica.

Non ostante tutto questo, le trame ordite facevano poco frutto nel
senato, in cui sedeva la somma dell'autorità, perchè egli era o per
prudenza, o per consuetudine, o per ostinazione risoluto a voler
perseverare nelle massime dell'antico stato; già aveva ordinato, che
diligentemente, e fortemente si munisse l'estuario. Prevedevano i
novatori, che ove fosse commesso al senato di proporre alterazioni negli
antichi ordini della constituzione al consiglio grande, in cui si era
investita la sovranità, e dal quale solo simili alterazioni dipendevano,
non mai il senato vi si sarebbe risoluto. Per la qual cosa coloro, che
indirizzavano tutti questi consigli segreti, si deliberarono di trovar
modo per evitare l'autorità del senato, allegando, che ad accidenti
straordinari abbisognavano rimedj straordinari. I savi attuali, dei
quali Pietro Donato aveva qualche entratura con Villetard, operarono in
modo che si facesse un'adunanza illegale, e contraria agli ordini della
repubblica nelle stanze private del doge, la sera dei trenta aprile.
Interveniva il doge Manin, i suoi consiglieri, i tre capi delle
quarantie, i savi attuali, i savi di terraferma, i savi usciti, ed i tre
capi del consiglio dei Dieci. Si trattava in quest'adunanza di ciò, che
si convenisse fare in sì luttuosa occorrenza per la salute della
repubblica. Il principal fine era di rappresentar le cose in maniera,
che il consiglio grande autorizzasse l'alterazione degli ordini antichi.

Il doge venezianamente favellando, cominciava il suo discorso in questi
termini: «La gravità, e l'angustia delle presenti circostanze chiama
tutte elle a proponer el miglior mezzo possibile per presentar al
supremo maggior conseio el stato, nel qual se trovemo per le notizie,
che sta sera ne avanza Alessandro Marcello, savio de settimana. Prima
peraltro, ch'elle fazza palese la loro opinion, le abbia la bontà de
raccoglier brevemente quel che xe per esponerghe el cavalier Dolfin».

Assumendo le parole il cavalier Dolfin, ragionava, che fosse molto a
proposito alle cose della repubblica l'obbligarsi Haller, col quale egli
aveva amicizia, ed era, secondo che egli opinava, molto innanzi
nell'animo di Buonaparte, per mitigare il vincitore. La quale proposta
dimostra a quanto abbassamento fosse condotta quell'antica, e gloriosa
repubblica; poichè era parere di uno dei principali statuali, già
ambasciadore in Parigi, che si aspettasse la sua salute in sì ponderoso
momento dall'intercessione di un pubblicano.

Non erano ancora gli animi dei circostanti tanto abietti, che non
deridessero la vanità del partito posto dal Dolfin. Seguitavano diversi
pareri. Voleva Francesco Pesaro, generosamente opinando, che non si
alterasse a modo alcuno la constituzione, e si facessero le più efficaci
risoluzioni per difender fino all'estremo quell'ultimo ridotto della
potenza Veneziana. Disputava dall'altra parte Zaccaria Vallaresso, si
desse autorità ai legati di trattare con Buonaparte dell'alterazione
degli ordini. Mentre si stavano esaminando i partiti posti, ecco per
Tommaso Condulmer, sopraintendente alle difese dell'estuario, arrivar
novelle, che già i Francesi dalle rive dell'estuario tentavano di
avvicinarsi a Venezia. Parve, s'udisse il romor dei cannoni. Si
suscitava gran terrore fra gli adunati: il serenissimo principe, tutto
paventoso più volte su e giù per la camera passeggiando, lasciava
intendere queste parole: _sta notte no semo sicuri nè anche nel nostro
letto_. Per poco stava, che per suggerimento di Pietro Donato, e di
Antonio Ruzzini, non si cedesse, e non si trattasse della dedizione;
cosa, che farebbe credere, che i Veneziani fossero divenuti meno che
uomini, se veramente in questo fatto solo operava la paura. Vinceva
peraltro ancora in questo la fortuna della repubblica; perchè
opponendosi gagliardamente al partito Giuseppe Priuli, e Niccolò Erizzo,
si mandava al Condulmer resistesse alla forza con la forza. Non ostante,
operando il timore e le instanze dei novatori, fu preso partito, che il
doge medesimo esponesse al maggior consiglio la condizione della
repubblica; proponesse la facoltà di alterar la constituzione, si
convocasse il maggior consiglio il dì seguente primo di maggio. Fatta
questa risoluzione, desiderio principale di Buonaparte, e mentre ella
tuttavia si stava dal segretario Alberti distendendo, il procurator
Pesaro lagrimando disse in dialetto Veneziano queste memorande parole:
_vedo, che per la mia patria le xe finìa: mi non posso sicuramente
prestarghe verun ajuto: ogni paese per un galantuomo xe patria, nei
Svizzeri se pol facilmente occuparse_. Poi cesse da Venezia, sapendo,
che Buonaparte domandava la sua morte. Felice Francesco Pesaro, se, come
disse, così avesse fatto, e se trapassando ritirato e dolente la
restante sua vita nell'Elvetiche montagne, avesse lasciato al mondo
l'esempio di un amore di patria, scevro da ambizione, che se stesso,
Venezia, Italia avrebbe perpetuamente onorato!

Era la mattina del primo maggio, quando la repubblica Veneziana doveva
cadere da per se stessa nell'agguato, che le era teso. Era il palazzo
pubblico circondato per ogni parte da genti armate, i cannoni presti, le
micce accese, apparato insolito da tanti secoli in quella quieta
repubblica. Custodivano per antico rito gli arsenalotti le interiori
stanze del palazzo: i capi di strada pieni d'uomini in armi. Si
maravigliava il popolo, ignaro della cagione, a quel romor soldatesco;
la città tutta occupava un grandissimo terrore: quei luoghi medesimi,
che per sapienza di governo, per benignità di cielo, per fortezza di
sito erano stati sempre pieni di gente allegrissima per natura,
civilissima per costumi, ora risuonavano d'armi e d'armati, e quelle
armi, e quegli armati accennavano, non a salvamento, ma a distruzione
della patria.

Convocati i padri al suono delle solite campane (non senza lagrime io
queste cose racconto) e adunatisi in maggior consiglio, rappresentava
con gravissime parole il doge la funesta condizione, a cui era ridotta
la repubblica, infelicissima, ma innocente; avere ella sempre, dappoichè
la rivoluzione Francese aveva spaventato il mondo, vissuto in uguali
termini d'amicizia con tutti; nè mai aver voluto pendere più da questa
parte, che da quella; ciò aver richiesto da lei l'antica sua
consuetudine; ciò gl'interessi suoi più preziosi, perchè se si fosse
fatta aderente ai principi confederati contro la Francia, le navi
Francesi avrebbero messo a ruba il commercio tanto florido dei
Veneziani, e se avesse prestato le orecchie alle proposte Francesi, la
potentissima casa d'Austria confinante con Venezia per terra e per mare,
da Crema fino all'Albanìa, avrebbe potuto occupar gli stati
dell'imprudente repubblica, sarebbesi in ambi i casi turbata quella
quiete, per cui tanto fiorivano l'agricoltura ed il commercio: essersi
avuto speranza, che le forze unite dell'Austria stessa, del re di
Sardegna, e degli ausiliari Napolitani impedissero la venuta dei
Francesi in Italia, e però non essersi seguitati gli esempi dei maggiori
dell'apprestar armi ed armati per allontanar dalle province Venete
perturbazioni, che non si mostravano probabili. A questa medesima
risoluzione aver dato forza lo stato dell'erario, ancor consunto dalla
guerra col Turco, dalle tre neutralità armate in Italia, dai contagi di
Dalmazia, dalle riparazioni dei fiumi, dalla spedizione contro Tunisi:
essersi creduto pericoloso l'impor nuove gravezze in un tempo
massimamente, in cui ognuno si faceva lecito di esaminare, e di
censurare ogni azione di chi comanda: da questi fondamenti essere
derivate le risoluzioni fatte, la blandizie usata, il riconoscimento
della repubblica Francese, l'avere accolto un suo ministro a Venezia, e
mandato un ministro Veneziano a Parigi, le provvisioni apprestate agli
eserciti d'ambe le parti; dai medesimi essere anche proceduta la
moderazione raccomandata ai sudditi, anche in mezzo a tante cagioni di
sdegno, quando già i Francesi, rotta ogni barriera, avevano inondato le
terre della repubblica: per questo avere mandato sovente al supremo
comandante dei Francesi ragguardevoli cittadini, acciocchè il tenessero
bene edificato, e difendessero la repubblica presso a lui contro le
accuse, e le minacce continue de' suoi soldati. Qui, alteratasi dal
dolore la voce del serenissimo principe, fu da lui continuato a dirsi,
essere oramai giunto il fatale momento, in cui la Francia, cacciati con
replicate vittorie gli Austriaci dall'Italia, e costrettigli alla pace,
chiusi i porti del Mediterraneo agl'Inglesi per mezzo della pace con
Napoli, trionfato sul Reno, avendo per alleate la Olanda e la Spagna,
poteva senza risguardo alcuno, e senza diversione usare tutte le sue
forze contro i Veneziani: debole, ed umile nazione essere i Veneziani a
paragone di tante altre nazioni vinte, e soggiogate dalla Francia:
quando bene il profondo segreto, in cui si tenevano i preliminari di
Leoben, non desse giusta cagione di sospettare di qualche grande
calamità contro gli stati della repubblica, non potere lei ingannar se
stessa a segno di sperare potersi difendere o contro assalti vivi, o
contro lungo assedio; già stringersi per mare Venezia, già legni armati
Francesi correre l'Adriatico; invano credersi, le difese apprestate
nell'estuario, avutosi anche riguardo al sito naturale di Venezia,
quando ogni sussidio, ogni soccorso da ogni parte mancasse, potessero
durar lungo tempo contro un nemico tanto audace e tanto fortunato; una
resa inevitabile dover concludere un assedio lungo, e misto di mali
estremi per un popolo avvezzo ad abbondar di tutto. Tale essere la
condizione della repubblica, combattuta da un amico divenuto nemico dopo
tanta ospitalità usata verso di lui, appetita da un amico, per cui si
erano sofferte tante disgrazie, insidiata forse da cittadini perversi,
per cui il sovvertire era uso, piacere, massima, e speranza; essersi
abbattuta in un secolo, in cui l'innocenza è derisa, la fede non
creduta, i diritti nulla, la forza tutto; solo le stragi e le vittorie
aversi in onore; la virtù non attendersi, se non per contaminarla. Che
potere Venezia, a cui solo erano scudo l'innocenza e la virtù? Cedessero
adunque, cedessero, esortava, ad una necessità ineluttabile, e poichè
l'estremo dei tempi era giunto, in quell'estremo tempo pensassero, che
meglio era recidere qualche ramo, sebbene essenziale, che l'albero
tutto; che cosa di poco momento era una modificazione, purchè si
conservasse la repubblica; che bisognava a guisa di provvidi marinari
far getto di una parte del carico per salvar la nave. Gli pregava
pertanto, e scongiurava, per quanto avessero cara la patria, per quanto
avessero care le famiglie, per quelle mura stesse tanto magnifiche e
tanto dilette, per la nobile Venezia, per la salute di lei, per quanto
aveva in se di dolce, d'augusto, e di reverendo un'antica congiunzione
d'amore e d'interessi, udissero benignamente quello, che erano per
proporre alla sapienza loro i savi a fine di far abilità ai zelanti
legati eletti a trattare col supremo dispositore delle cose Francesi in
Italia, di qualche alterazione negli ordini fondamentali della
repubblica.

Queste compassionevoli parole del doge ingenerarono terrore, dolore, e
pianto negli ascoltanti. Favellava nella medesima sentenza Pietro
Antonio Bembo, che fu poi uno dei municipali eletti da Villetard. Posto
il partito, e raccolti i voti, fu appruovato con cinquecento novantotto
favorevoli, e ventuno contrari. Lodava il doge la virtù del maggior
consiglio, esortava ad aver costanza, a non disperare della repubblica,
a tener credenza del partito deliberato: poscia tra il dolore, la
mestizia, ed il terribile aspetto dell'avvenire si scioglieva il
consiglio.

Il crudo capitano intanto perseguitava Venezia. Calava Buonaparte
furibondo dalle noriche Alpi, e la circuiva d'ogni intorno. Villetard,
ed i suoi aderenti l'insidiavano dentro. Piacemi in tanta depressione di
spiriti e viltà d'animi, il raccontare, la costanza mostrata in Treviso
in cospetto del generalissimo da Angelo Giustiniani, provveditore di
quella provincia. Sdegnato il generalissimo accusava i Veneziani di
perfidie, di tradimenti, di assassinj; minacciava sterminio, domandava
il sangue di Pesaro, degl'inquisitori, del comandante del Lido.
Rispondeva Giustiniani, le enormità d'oltremincio e di Verona essere
state provocate dalle insolenze de' suoi soldati, sempre essere stata
passiva Venezia, e con somma generosità, e con insopportabile dispendio
avere mantenuto per sì lungo tempo l'esercito di Francia; amico fedele,
non avere mai usato tante occasioni propizie per congiungersi con gli
eserciti dell'imperatore a danno dei Francesi; non che avesse concitato
i sudditi contro i soldati di Francia, avergli anzi sempre tenuti in
freno, anche quando la fortuna si mostrava favorevole alle armi
Tedesche; di ciò far fede la esperienza, di ciò gli ordini del senato
inculcatori sempre di pazienza, di moderazione, di assistenza verso le
genti Francesi; del fatto del Lido essere stata cagione la impertinenza
dell'armatore, rompitore superbo delle municipali leggi, la resistenza
medesima si sarebbe usata contro un armatore di qualunque altra nazione,
che a disprezzo tanto insolente della sovranità fosse trascorso.

A queste risposte Buonaparte, in atto di furioso Giustiniani guardando,
gl'intimava, se gli togliesse davanti, sgombrasse dalla terraferma; se
no, l'avrebbe fatto ammazzare.

Replicava Giustiniani, il senato avere commesso alla sua fede Treviso,
non potere, nè volere partir da Treviso, se non per ordine del senato;
che non lo spaventava il morire; che, poichè egli aveva sete di
Veneziano sangue, pigliassesi il suo, ed il restante risparmiasse. Tanta
fermezza faceva, secondo il solito, piegare Buonaparte. Entrava in
sull'accarezzarlo, dicendogli, che sapeva, ch'egli aveva governato con
integrità e dolcezza il Trivigiano: veniva finalmente sul promettergli,
che nella ordinata distruzione delle proprietà, e delle case dei nobili
Veneziani, le sue sarebbero preservate, offerta certamente vile in
un'occorrenza tanto miserabile della patria Veneziana, e degna di chi la
faceva. Non si rimaneva per questo il Veneziano, imputandosi ad ingiuria
la promessa mansuetudine. Generosamente pertanto al capitano di Francia
parlando, gli dichiarava, che, poichè egli trovava lui e la sua condotta
immune di colpa, confessasse ancora, essere innocente il senato, dai
comandamenti del quale, qual riverente figliuolo, riconosceva quanto
aveva fatto; ch'egli era stato amico dei Francesi, perchè il senato era;
che se loro fosse stato nemico il senato, anch'egli sarebbe stato;
conciossiachè egli era sempre stato, e sarebbe fedele esecutore dei
voleri della sua patria, per pruovare l'innocenza della quale con
documenti irrefragabili, gli si offeriva in ostaggio in qualunque luogo
gli piacesse mandarlo. Aggiungeva, che non sarebbe eroe Buonaparte, se
non l'accettasse. Quanto alla immunità offerta de' suoi beni: rifiutare
sdegnosamente l'infame dono, poichè, perduta la patria, tutto era
perduto per lui, ed eterno rossore avrebbe, se le proprietà sue fra le
ceneri fumanti de' suoi concittadini illese restassero. Quivi
scignendosi la spada, la metteva a' piè del conquistatore. Buonaparte
già fin d'allora uso ad avere intorno adulatori, nè sapendo che cosa
volesse dir Giustiniani con quel suo amor di giustizia e di patria, tra
attonito, beffardo e dispettoso, lo lasciava andare. Atto, e parlare
generoso fu questo di Angelo Giustiniani, e degno che trapassi alla
posterità mediante l'instrumento delle lettere. Pure il secolo vile
griderà Buonaparte grande, Giustiniani matto.

Intanto i macchinatori non si ristavano in Venezia, non contenti al
cambiamento parziale autorizzato dal consiglio grande. Spargevano voci
insidiose, non potersi resistere, dovere lo stato accomodarsi al secolo
con un totale cambiamento negli ordini primitivi; potere Venezia vivere
ancora gloriosa lungo tempo; antiquate essere le sue forme, alcune
inutili, alcune dannose, alcune ridicole; popolo, popolo vuol essere;
non patriziato, non aristocrazia; la ragione avere a governar gli stati;
i diritti essere per natura uguali, dover essere uguale l'autorità;
nuovi secoli sorgere alla rigenerata umanità; nuova libertà nascere, non
di pochi potenti, comandanti a molti schiavi, ma di tutti sovrani
comandanti a nissuno schiavo. Quindi la cosa ritraevano a Venezia:
detestavano Pietro Gradenigo, lodavano Baiamonte Tiepolo; i piombi, i
molinelli, il canale Orfano con frequenti discorsi memoravano,
gl'inquisitori di stato abbominavano. Capi a costoro erano un Giovanni
Andrea Spada, di fresco uscito dai piombi, antico daziero, e come trovo
scritto da alcuni, antico esploratore e rapportatore degl'inquisitori,
ed un Tommaso Pietro Zorzi, di professione droghiere. Seguitavano, ma
più celatamente, e più con desiderii dimostrati che con opere attive, un
Gallino da Padova, un Giuliani da Desenzano, un Sordina da Corfù,
finalmente un Dandolo da Venezia, uomo assai chiaro per fama, per
dottrina, per eloquenza, e per un certo splendore d'animo e di corpo,
che molto il rendevano osservabile. S'aggiungevano, come suol avvenire,
donne amatrici di una politica libertà, che non intendevano; ma siccome
elle avevano l'animo volto al bene, così formavano nelle facili fantasie
loro una immagine di libertà, piena di ogni bene, spoglia di ogni male.

Ma trattando di coloro, che tenevano lo stato, alcuni per debolezza non
erano capaci di risoluzione generosa, ed obbedivano al tempo: tal era il
doge Manin, fievole per natura, perduto di consiglio. Altri per
ambizione, o per opinione secondavano il moto. Notavansi principalmente
fra costoro Pietro Donato, conferente eletto ad abboccarsi coi ministri
esteri dopo la partenza di Pesaro, e Francesco Battaglia, stato
provveditore in terraferma, e uno degli avogadori del comune. Quale pro
sperasse quest'ultimo poter derivare da coloro, che gli avevano usato
quel tratto del manifesto, io non lo so. Andavano con Donato e
Battaglia, Alessandro Marcello, Antonio Ruzzini, Zaccaria Vallaresso,
Alvise Pisani, Giacomo Grimani, Pietro Bembo, Daniel Dolfino, ed altri
fra i savi attuali ed usciti. Nè da loro dissentiva Tommaso Condulmer,
sopraintendente alle difese delle lagune, grande fondamento alle
macchinazioni loro, perchè aveva la forza in mano, e le chiavi di
Venezia. S'accostavano a tutti questi promotori di novità, parte
ingannati, parte ingannatori, non pochi altri che credevano, che una
mutazione nelle forme politiche avesse a ritrar la repubblica da
quell'abisso in cui era precipitata; gente sincera e semplice, che non
aveva giudicato ciò che significassero gli avvenimenti dati da Vienna e
da Parigi per gli ambasciadori Grimani e Querini, le ribellioni di
terraferma, la necessità di compensar l'Austria, le fraudi non troppo
coperte di coloro che governavano lo stato in Francia, le armi in
Italia. Aveva contrastato a tutti questi gagliardamente Francesco
Pesaro; poi quando cesse dalle faccende della patria, anzi dalla patria
stessa, e che Battaglia per piacere a Buonaparte domandava il suo
sangue, contrastavano la maggior parte dei savj di terraferma. Fra di
loro più animosi si mostravano, e più vivi Giuseppe Priuli e Niccolò
Erizzo, i cui nomi saranno sempre cari a chi sono care la patria e la
indipendenza.

Principalissimo fondamento ai disegni dei novatori era Villetard,
segretario del ministro di Francia, il quale, sebbene fosse stata dal
generalissimo intimata solennemente la guerra ai Veneziani, continuava a
starsene, come persona pubblica, a Venezia; ed anzi teneva alzato alla
sua porta lo stemma della repubblica di Francia, testimonianza sensibile
della rotta irregolarità di quei tempi, e della debolezza del governo
Veneziano. Era Villetard giovane molto infiammato nelle opinioni di quei
tempi, ma d'animo integerrimo, ed amico vero della libertà: i suoi
maneggi in Venezia piuttosto da un grande errore di mente, che da
perversità di cuore procedevano; perciocchè certo è, ch'ei si muoveva a
voler cambiare il governo Veneto, perchè credeva in ciò servire alla
libertà, in una forma collocandola, con la quale non poteva sussistere:
le geometrie politiche gli avevano stravolto l'intelletto; ma
certamente, s'egli avesse penetrato, o per meglio dire creduto o vero o
possibile il disegno di Buonaparte di cambiar Venezia per poterla dare
in preda all'imperatore, ne sarebbe stato abborrente, come abborrenti ne
sarebbero anche stati i novatori Italiani, che si adoperavano nel
procurar queste mutazioni.

Adunati, ed ordinati per tal modo tutti gli amminicoli di distruzione,
restava ad ordinarsi il modo di usargli, perchè sortissero l'effetto
proposto; del che i capi non istavano lungo tempo in forse. Villetard,
Donato e Battaglia continuamente instavano presso il governo, acciocchè,
riformando gli ordini, e riducendogli alla forma democratica, pensasse
finalmente alla salute sua. Spaventavano rapportando, che il numero
degli scontenti, e dei novatori era incredibile, che cresceva ogni dì
più, che già erano sedicimila, e che già si congiurava a rovina dello
stato. Di ciò d'ogni intorno apparire segni; già vedersi girare le nappe
tricolorite; già udirsi voci e nascoste, e palesi di libertà; già dal
vicino continente, da Padova massimamente, arrivare gli scritti
incitatori, ed annunziatori di sinistri eventi; cambiate già essere in
fondo da una fortuna insuperabile le parti estreme, e circonvicine della
Veneta repubblica; doversi ancora, gridavano, cambiare il cuore, ed agli
ordini nuovi delle parti estreme uniformarlo.

Tutte queste rapportazioni partorivano effetti maravigliosi in animi
ammolliti da lunga pace, ed insoliti a sì terribili rimescolamenti. I
raggiratori, veduto il tempo propizio, e temendo che la riforma si
arrestasse a mezza strada, e che solo il governo si allargasse, ma non
scendesse fino alla forma democratica, si misero in sul fare maggiori
spaventi, ed in sul volere, che del tutto il patriziato si abolisse; tal
era la mossa data dal generalissimo. Di questo negozio arrivavano cenni
da Milano, dove Buonaparte si era condotto coi due legati Veneti, ai
quali era stato aggiunto per terzo Alvise Mocenigo. Recavano le Milanesi
novelle, la salute della repubblica consistere nell'abolizione del
patriziato, e nella creazione della democrazia pura. Di questo
scrivevano, come di volontà assoluta di Buonaparte, i Veneti legati; di
questo quell'Haller, che si era fatto da pubblicano uomo di stato.
Perchè poi non mancasse a questa fraude anche la parte del ladroneccio,
si dava voce, che seimila zecchini di beveraggio, senza dir per chi,
avrebbero fatto gran forza. Adunque tra gli spaventi e le speranze, tra
le minacce e le promesse, si piegava la consulta del doge, e con lei il
maggior consiglio ad ampliare il mandato ai legati, acciocchè potessero
consentire all'annullamento del patriziato, ed alla creazione della
democrazia. Fu anche fatto abilità al Savio cassiere di rimettere
all'ebreo Vivante, perchè gli trasmettesse a Milano, i sei mila zecchini
in tante paste d'oro e d'argento, che ancora si ritrovavano nella zecca.
Se tutte queste insidie, e rapine fatte a Venezia nell'ultima fine della
sua vita da uomini fraudolenti ed avari, non muovono a sdegno ed a
compassione, bisognerà confessare, che la natura nostra sia del tutto
diversa da quella, di cui si vanta.

Avendo Venezia ceduto, vieppiù insorgeva Buonaparte. Non si soddisfaceva
del tutto del mandato fatto ai legati di consentire al cambiamento
totale della forma del governo: desiderava, che il maggior consiglio di
per se stesso rinunziasse alla sovranità, abolisse il patriziato, e
creasse la democrazìa. Gli pareva questa mutazione più solenne, e più
sicura. Desiderava al tempo stesso di occupare co' suoi soldati Venezia,
e far apparire, che l'occupazione di una città tanto nobile e tanto
importante in Europa fosse spontaneamente chiamata da dentro, non
violentemente prodotta da fuori. In questo si proponeva anche altri fini
di non poco momento, ed erano l'entrare di queto, l'avere intiero ed
intatto l'arsenale, e tutto, che fosse del pubblico, il poter volgere
tutte le forze del territorio Veneto contro l'imperatore, se la pace non
si effettuasse, e contro l'Inghilterra, che tuttavia perseverava in
condizione ostile; finalmente il poter trafficare della città stessa con
l'Austria, dandogliela in vece di Mantova e di Magonza, che ad ogni modo
la Francia voleva conservare in sua possessione. Per la qual cosa,
mentre Villetard, e chi operava con lui tendevano insidie al governo in
Venezia per ispegnerlo, Buonaparte negoziava molto apertamente fra i
conviti e le feste, un trattato coi legati della repubblica in Milano.

All'indurre il gran consiglio a cambiare lui medesimo la forma del
governo, ed all'introduzione di un presidio Francese indirizzavano
Villetard, ed i Veneti che il secondavano, tutti i loro pensieri. Per
questo si rendeva necessario il privare Venezia delle sue difese con
disarmare i legni, e con allontanare gli Schiavoni, che vi alloggiavano
in numero circa di dodicimila. Per questo Morosini, che aveva il carico
di preservare quell'antica sede della sua patria, spargeva, che i
congiurati crescevano di numero e di forza, che oggimai non si potevano
più frenare, che nuovi soldati abbisognavano. Intanto da persone a posta
si accusava la fede degli Schiavoni, si affermava, voler loro far un
moto per saccheggiare. Dava favore a questi spaventi Condulmer,
affermando, non essere le difese apprestate nelle lagune abili ad
arrestar i Francesi, ove si risolvessero a passarle per assaltar
Venezia; già esser grossi a Mestre, già da Fucina minacciare, già
Brondolo, e Chioggia pericolare dalle armi loro.

Quando più operava nell'animo dei patrizi il terrore, parendo ai
congiurati, che fosse il momento propizio, si appresentavano, per
suggestione di Villetard, alle camere del doge Spada e Zorzi, facendo
una gran pressa di essere uditi per cosa che, come dicevano, importava
alla salute della repubblica. Furono destinati ad udirgli Pietro Donato,
e Francesco Battaglia. Quest'era un concerto, perchè Donato, e Battaglia
avevano avuto colloquio con Villetard al tempo medesimo dei due
congiurati Spada e Zorzi, e sapevano quanto a narrare avessero.
Rapportavano, essere stati con Villetard, avere udito da lui, che niun
altro rimedio restava alla repubblica, che quello di cambiare
incontanente la forma del governo con l'abolizione del patriziato. Si
ordinava dal consesso, contrastanti però Erizzo e Priuli, e la maggior
parte dei Savi di terraferma, a Donato, ed a Battaglia, visitassero il
segretario di Francia, e intendessero da lui quello, che vero fosse dei
detti di Spada, e di Zorzi. Tornati, riferivano, Villetard, non per modo
di richiesta, ma di consiglio, avere dimostrato, importare alla salute
della repubblica, come intenzione espressa di Buonaparte, che si
abolisse nel giorno stesso il patriziato, s'instituisse la democrazìa, e
di più le seguenti condizioni si effettuassero: si carcerasse il conte
d'Entraigues, agente del re Luigi, e tutti i suoi ricordi si dessero in
mano del generalissimo; si liberassero i carcerati per opinione; gli
Schiavoni partissero; si surrogasse una guardia nazionale; si
pubblicasse un manifesto per voce del governo; si creasse un municipio
di trentasei Veneziani di ogni classe; le città di terraferma, e
dell'isole Venete s'invitassero a mandar deputati in Venezia a fine di
comporvi un consesso generale di governo temporaneo; tutti i delitti
politici si condonassero; vi fosse libertà di stampare, sì veramente che
del passato nè quanto alle persone, nè quanto al governo non si
parlasse; si chiamassero i Francesi a presidiar la città con quattromila
soldati, ed occupassero l'arsenale, il castello Sant'Andrea, Chiozza, e
tutte le isole circonvicine, che fossero a grado del generalissimo; con
questo l'assedio si togliesse; la guardia nazionale custodisse la
camera, ed altri posti d'onore. Il doge Manin fosse presidente del
municipio, Andrea Spada vice-presidente; Querini si richiamasse da
Parigi; si mandassero deputati a Buonaparte per annunziar la nuova forma
del governo; si spacciasse col fine medesimo alle repubbliche Batava,
Cispadana, Transpadana, e Genovese.

A questi capitoli aveva voluto aggiungere Villetard l'abolizione della
pena di morte; ma contrastato da Battaglia, se ne rimase. Altre
condizioni aveva anche proposto Villetard, come giovane, e molto vivo in
queste faccende, si aprissero i piombi a vista di popolo, l'albero di
libertà si piantasse in piazza San Marco, si ardessero ai suoi piedi le
insegne dell'antico governo. Ma Battaglia più prudente, e meglio
avveduto delle cose del mondo, considerato che l'importanza del fatto
consisteva nel ridurre il governo alla democrazìa, e nell'occupazione di
Venezia dai Francesi, e che le dimostrazioni proposte più futili che
utili, avrebbero potuto contrariare la deliberazione nel maggior
consiglio, lo dissuase.

Accordati tutti questi capitoli fra i deputati della consulta del doge,
ed il segretario di Francia, restava, che il maggior consiglio gli
approvasse. Per questo Donato, e Battaglia avevano persuaso a Villetard,
il quale voleva, che senza soprastamento si mettesse mano all'opera,
aspettasse tre o quattro giorni, affinchè potessero fare le pratiche
necessarie per indurre il maggior consiglio alla risoluzione.
Incominciavano il maneggio con le solite promesse, e coi soliti
spaventi: fra le altre insidie si mandava attorno una lettera di Haller,
apportatrice delle risoluzioni di Buonaparte, che cessassero i dritti
ereditarj, che si creasse la democrazìa, che si fondasse il governo
rappresentativo: se nol facessero volontariamente, verrebbe egli a farlo
per forza. Di notte tempo Spada svegliava all'improvviso Battaglia
(quest'era una macchina concertata) gli mostrava la lettera, la mattina
molto per tempo la recava alla signorìa. Il perchè la signorìa non abbia
fatto gettar in canale lo Spada, che contro le leggi della repubblica
andava, e veniva da un ministro estero, fu perchè la signorìa, e la
consulta straordinaria del doge era parte debole, parte ingannata, parte
d'accordo coi novatori. Intanto gli Schiavoni, sola sicurezza contro gli
assalti e forestieri ed interni, erano stati fatti imbarcare, e già se
ne stavano sulle navi, aspettando il vento prospero per alla volta di
Zara; le lagune disarmate da Condulmer. Così Venezia, che aveva
conquistato Costantinopoli, cacciato d'Italia un re di Francia, ed un
imperatore d'Alemagna, ridotta ora inerme, ed abbandonata, collocava la
sua fede, e la sua speranza in un nemico, che sotto spezie di amicizia
la tradiva.

Era il giorno dodici di maggio destinato da chi regge queste umane cose
alla distruzione della Veneziana repubblica. Era adunato il maggior
consiglio, gli arsenalotti, ma pochi li custodivano; le navi
difenditrici ritirate dall'estuario si accostavano vuote al Lido; si
vedeva un avviluppamento degli ultimi Schiavoni, che s'imbarcavano; il
popolo atterrito, nè ben sapendo che significassero quei sinistri
presagi, si raccoglieva in folla intorno al palazzo: i congiurati di
dentro discorrevano per ridurre il maggior consiglio a spegnere l'antico
governo; i congiurati di fuori spargevano mali semi. Aiutava le fraudi
loro la risoluzione del primo maggio favorevole al modificare le antiche
forme. La setta democratica trionfava.

Orava il doge pallido, e tremante sui pericoli presenti: parlava delle
congiure, dei desiderj di Buonaparte, dell'inutile resistenza e delle
promesse date, se si riformasse: proponeva infine il governo
rappresentativo. Mentre si stava deliberando, ecco udirsi
improvvisamente alcune scariche d'archibusi fatte per festa, e per forma
di saluto nell'atto del partire degli Schiavoni, che nel sottoposto
canale s'imbarcavano; rispondevano, ugualmente per festa, e per forma di
saluto coi tiri loro i Bocchesi alloggiati a san Zaccaria. Un subito
spavento prendeva gli adunati padri; credettero, che fossero i
congiurati intenti ad ammazzare il doge, e tutto il ceto patrizio,
siccome n'era corsa la fama per le congiure; si aggiravano per la sala
privi d'animo e di consiglio. Gridavano confusamente, e con gran pressa,
_parte parte_, che in lingua Veneziana significava, _squittinisi,
squittinisi_. Posto il partito, si vinceva con cinquecento dodici voti
favorevoli, venti contrari, cinque non sinceri. A fine di preservare
incolumi, diceva il decreto, la religione, le vite, e le sostanze degli
amatissimi sudditi della città di Venezia, e di allontanare l'imminente
pericolo di novità violente, ed altresì sulla fede, che fossero i giusti
riguardi avuti verso il ceto patrizio, e verso tutti i partecipi dello
stato, e con questo che la sicurtà della zecca e del banco fosse
guarentita, conforme ai partiti già presi il primo, e quarto giorno di
maggio; accettava il maggior consiglio il governo rappresentativo,
purchè a questo fossero conformi i desiderj del generalissimo di
Francia; ed importando, che in nissun momento senza tutela la patria
comune restasse, si faceva carico ai magistrati di provvedervi. A questo
modo i patrizi Veneti dell'antichissima loro autorità si dispogliarono,
non con dignità in una tanta disgrazia, ma minacciati da due sudditi
d'oscuro nome, ed aggirati da due colleghi infedeli; non per armi
perirono, ma per insidie; non per imprudenza animosa, ma per imprudenza
debole; non per assalto di un nemico aperto, ma per fraude di un amico
disleale. Non mancò il popolo al governo, ma il governo al popolo, e
morì una pianta con le radici buone, perchè era la testa guasta, nè
ebbero i patrizi il conforto dello aver perduto lo stato per virtù
soperchiata, perchè coraggio non mostrarono, e la cautela fu vizio.
Epperò, se i buoni ebbero compassione a Venezia pel destino, la
biasimarono per la debolezza; i tristi la schernirono. Ma certamente
esempio terribile fu, e di funestissimi presagi pieno, quel tradire gli
stati per prepararne la rapina. Il lagrimevole caso di Venezia turbò
tutto il gius pubblico d'Europa, e fu peggiore di quel di Polonia,
perchè in questo fu più violenza che fraude, in quello più fraude che
violenza. I popoli presteranno difficilmente fede ai principi, quando ei
dicono di essere i restitutori dei dritti, e degli stati legittimi, se
prima non restituiscono Venezia. Forse alcuno dirà, che conviene
all'Austria l'avere Venezia, ed al re dei Paesi Bassi l'avere il
Brabante Austriaco: a questo sto cheto. Quanto all'Italia, perì con
Venezia il principale fondamento della sua indipendenza, ed il più forte
propugnacolo contro la potenza Alemanna. Era Venezia contro l'Alemagna
quello, che era il re di Sardegna contro la Francia. Quella perì per
fraude, questo per forza: si perdè l'indipendenza, non s'acquistò la
libertà, l'Italia fu serva.

Poichè i patrizi ebbero preso il partito di rinunziare all'autorità
propria, e di rimettere lo stato nelle mani di Buonaparte, tale un
timore gli assalse in quelle stanze piene tuttavia delle immagini dei
loro forti antenati, e di quanto fu da essi fatto di grande, e di
glorioso sì in pace che in guerra, che non sapendo più nè dove
restassero, nè dove gissero, si abbandonarono, come perduti, ad ogni
affetto più disperato. Si ritraevano alcuni alle stanze private del
doge, che tutto smarrito aveva dato ordine, che di tutti i ducali segni
si dispogliassero: altri usciti all'aperto per ritirarsi alle case loro,
lagrimando, e gridando, _non è più Venezia, non è più san Marco_,
facevano uno spettacolo miserabile in mezzo alle turbe affollate, che
ancora non ben sapevano, quale e quanta sciagura sovrastasse alla patria
loro. I novatori, che pensavano, essere avvenuto quello che aspettavano,
e tra questi un vecchio generale Salimbeni, soldato della repubblica,
trepidando dall'allegrezza gridavano: _viva la libertà_. Ma il popolo,
che prima era stato incerto, nè poteva recarsi nell'animo tanta
abbiezione dalla parte dei patrizi, saputo il fatto, si accendeva di una
furia incredibile ed incominciava minaccioso a fare una gran
tumultuazione, chiamando unitamente il nome di san Marco. Cresceva la
folla, a cui si erano fatti compagni pochi Dalmati non ancora imbarcati.
Accorrevano le donne, i vecchi, ed i fanciulli, e con le voci davano gli
ultimi segni del loro amore verso l'antica, e veneranda patria.
Sventolavansi dalle finestre le bandiere di san Marco; tre si rizzavano
sulle antenne piantate in cospetto alla chiesa di san Marco.
Cominciavano le turbe rabbiose a correre gridando, e schiamazzando, e
dove passavano, mettevansi a grado a grado fuori delle finestre le
dilette bandiere. Ma non può il popolo sollevato star lungo tempo sui
generali, anzi tosto dà nei particolari o d'amore, o d'odio. Avvertito,
che in una delle contrade per alla piazza abitava un pizzicagnolo, che
aveva fatto certe dimostrazioni a favor di un uscito dai piombi, correva
alle sue case, ed in men che non si dice, sperdeva, o rompeva ogni
mobile: poi trovatagli una nappa di tre colori addosso, gliela
conficcava in fronte; già uno Schiavone stava in atto di mozzargli il
capo, quando il mal arrivato, per iscampo della vita, prometteva di
palesare i rei delle congiure. Nè così tosto usciva dalla sua bocca il
nome di qualcuno, che una mano di popolo partiva per mettere a sacco la
casa del nominato. Saccheggiavansi per tale modo Zorzi, Gallino, Spada,
Zatta libraio. Fu avuto rispetto ai palazzi dei ministri, anche a quello
di Francia. Villetard, non sapendo fino a qual termine potesse
trascorrere quel furor popolare, si era nascosto dal ministro di Spagna.
Là scriveva a quel governo, ch'egli medesimo aveva distrutto, che
frenasse quell'impeto; là scriveva, la sollevazione essere opera degli
agenti d'Inghilterra e di Russia, massimamente di Entraigues, quantunque
nè l'Inghilterra, nè la Russia, nè Entraigues non vi avessero a fare
cosa del mondo: la cagione era la distruzione del governo Veneziano
procurata da Villetard medesimo; e bastavano bene le ingiurie fatte ai
Veneziani, senza che vi fosse bisogno degli stimoli di Russia e
d'Inghilterra. Villetard e Donato, ai quali più di ogni altro importava
il calmar quel furore, facevano opera, che si adunassero alcune
compagnie di soldati Italiani, e presidiavanne il ponte di Rialto. Vi
conduceva Bernardino Reynier due cannoni, coi quali tratto, ed ucciso
tre o quattro popolani, poneva fine a quell'incomposto accidente.
Usavano Villetard, Donato e Battaglia la occasione, e preparato e
mandato il navilio a Mestre la notte dal sedici al diciassette maggio,
levavano, sotto il comandamento di Baraguey d'Hilliers, quattromila
soldati Francesi. La mattina molto per tempo si scoprivano schierati
sulla piazza di san Marco: soldati ed armi forestiere non mai viste in
Venezia da quindici secoli. Creossi il municipio, si promisero cose, che
non si attennero, lusingossi con le parole, gravitossi coi fatti, e
tanto si continuò l'inganno, che la ricca e potente Venezia fu data,
spogliata ed inerme, in preda all'imperator d'Alemagna. Da questo
imparino i popoli, che la giustizia non è più fra gli uomini, che gli
stati non si possono preservare che con le armi, e che il credere alle
lusingherie ed alle promesse dei forestieri è un volere ingannarsi da
se, per essere non solo preda, ma ancora scherno e segno di calunnie da
parte dei forestieri medesimi.

Avevano Buonaparte, ed i legati Veneziani, ai quali, come abbiam
narrato, erano state ampliate le commissioni, in Milano le preste
novelle degli accidenti di Venezia, specialmente della rinunzia fatta
nel giorno dodici dai patrizi, e della dissoluzione dell'antico governo
aristocratico. Evidente cosa era, che avendo cessato di sussistere chi
aveva dato il mandato, non vi era più luogo nè a negoziati, nè a
conclusione di trattato. Ciò non di meno le pratiche si continuarono,
dal canto dei Veneziani, perchè pareva loro, che una solenne
asseverazione di Buonaparte di voler confermare la repubblica non
potesse essere senza qualche effetto, dal canto del generale, perchè
paresse del tutto volontaria, anzi richiesta la occupazione di Venezia.

Adunque con questi due diversi fini si stipulava da ambe le parti il
giorno sedici maggio in Milano un trattato di pace e d'amicizia, tra la
repubblica Francese e la Veneziana; cessassero tra di loro tutte le
offese; rinunziasse da parte sua il gran consiglio al suo diritto di
sovranità, ordinasse l'annullazione dell'aristocrazìa ereditaria,
riconoscesse la sovranità dello stato consistere nell'universalità dei
cittadini: a tutte queste cose consentisse con patto che il nuovo
governo guarentisse il debito pubblico, il vivere dei patrizi poveri, le
provvisioni a vita: la repubblica Francese concedesse, siccome ne era
stata richiesta, una schiera di soldati a Venezia, acciocchè vi
conservasse intero l'ordine e la tranquillità, vi tutelasse le persone e
le proprietà, procurasse la esecuzione delle prime risoluzioni del
governo nuovo; questi soldati partissero da Venezia, tostochè il nuovo
governo dichiarasse non averne più bisogno; le altre truppe Francesi
sgombrassero gli altri territori Veneti, tostochè la pace del continente
fosse conclusa: si facesse sollecitamente il processo agl'inquisitori di
stato, ed al comandante del Lido; la repubblica Francese perdonasse ad
ogni altro Veneziano. Questi erano i capitoli mostrabili: i segreti
contenevano altri effetti importanti: si accorderebbero le due
repubbliche pel cambio di territorj, la Veneziana pagasse alla Francese
tre milioni di tornesi, somministrasse una valuta di altrettanti in
arnesi di marinerìa, le desse tre navi di fila con due fregate fornite
di tutto punto, consegnasse a' commissari a ciò destinati venti quadri,
e cinquecento manoscritti a scelta del generalissimo: la repubblica
Francese s'interponesse a pace comune tra la Veneziana, e la reggenza di
Algeri.

Di tale forma furono i capitoli del trattato concluso in Milano tra
Buonaparte, e i Veneziani. A loro fu aggiunto quest'altro, e ciò se
ancora resta luogo alla maraviglia, farà certamente maravigliare il
lettore, che le due parti ratificassero nel più breve spazio il
trattato. Il ratificarono intatti i municipali di Venezia,
persuadendosi, non si vede come, nè perchè, che tutta l'autorità della
repubblica, e del maggior consiglio in loro fosse investita. Negava
Buonaparte la ratificazione, allegando, essere da parte dei mandatari
Veneziani cessato il mandato, perchè era estinto il mandatore, il che
era vero. Ma siccome già sapeva, quando stipulava, che era spento il
mandatore, fu il suo stipulare fraude, per fare che i Veneziani
ammettessero in Venezia i suoi soldati. Ma questi già essendo entrati, e
l'antico governo, col quale l'Austria aveva congiunzione di amicizia,
già essendo spento, il che era l'importanza del tutto, ei rifiutò la
ratifica per non legarsi a niuna obbligazione col nuovo.



LIBRO UNDECIMO

SOMMARIO

      Insidie contro Genova. Grave sedizione in questa città per
      opera dei novatori. I carbonari, ed altra parte del popolo
      insorgono contro i novatori, e gli vincono. Sdegno, e risposte
      funeste di Buonaparte: manda generali, e soldati per intimorir
      il governo col fine di obbligarlo a cambiare l'antica forma
      dello stato. Si fa la mutazione: legati Genovesi vanno a
      trovar Buonaparte per accordare con lui il modo del nuovo
      reggimento. Si crea un governo temporaneo. Umori, e sette in
      Genova. Constituzione foggiata a modo di quella di Francia.
      Mala contentezza dei popoli: terribile sommossa nel Bisagno, e
      nella Polcevera. Condizioni del Piemonte. Il re fa nuove
      dimostrazioni d'amicizia verso la Francia. Astute
      insinuazioni, e progetti d'ordinazione politica dell'Italia
      fatti dall'ambasciador Piemontese a Parigi. Trattato di
      alleanza tra il re, e la repubblica Francese. Moti sediziosi,
      e supplizi in Piemonte: morte lagrimevole di Carlo Tenivelli,
      storico insigne: sue lodi.


La forza aveva insidiato Venezia; le chimere di una libertà fallace le
diedero il tracollo. La medesima forza, e le chimere medesime usando
Buonaparte contro Genova, la tirava ancor essa all'ultimo eccidio.
Vedevano, e sentivano il governo, ed il generale di Francia, che a voler
diminuire l'autorità dell'Austria in Italia, era necessario il cambiare
i governi antichi in nuovi; perchè giudicavano, che i primi avrebbero
consuonato con Austria, i secondi con Francia. Tale necessità diveniva
agli occhi loro tanto maggiore, quanto più, fatta l'Austria padrona
dello stato Veneto, aveva modo d'ingerirsi, e di travagliare più
efficacemente l'Italia. Poi a qualunque modo era sorto l'uso di
sovvertir gli stati parte per capriccio, parte per ischerno, e parte
anche, credo, per modo di trattenimento. Per tutte queste ragioni, non
ancora terminata, ma già prossima a terminarsi la tragedia di Venezia,
scriveva Buonaparte a Faipoult, ministro di Francia a Genova, ed
operatore attivo dei disegni del generale, che la rovina di Venezia
doveva partorire necessariamente la rovina dell'aristocrazìa di Genova;
ma che ancora non era tempo di scoprirsi, usando in questo, secondo il
suo solito, la natura della volpe prima di quella del lione. Sapeva, che
il governo Genovese non avrebbe gagliardamente contrastato, quantunque
in lui fosse più vigore, che in quello di Venezia, sì perchè alcuni fra
i senatori erano abbacinati dai fantasmi dei tempi, e sì perchè nel ceto
medio era molta opinione contraria, credendo molti, che la democrazìa
fosse da anteporsi all'aristocrazìa, come se i modi di reggimento
politico indotti in Italia a quei tempi fossero democratici.
Aggiungevansi i capitali Genovesi investiti in gran parte in Francia, ed
i traffichi tra Francia e Genova frequentissimi, cose molto tenere, e
capaci a far calare i Genovesi ad un primo romore d'armi. Infine pei
passi frequenti delle genti di Francia sulle riviere, erano sorte in
esse le opinioni nuove. Savona titubava e per questo, e per le antiche
emolazioni. Alcune fortezze, e molti siti del Genovesato erano in mano
dei Buonapartiani. Nè a questo contenti il direttorio, e Buonaparte,
avevano operato, che Rusca e Serrurier appoco appoco, e sotto altri
colori le schiere loro accostassero a Genova, e che l'ammiraglio Brueys
comparisse con navi grosse e sottili nelle acque delle riviere.

Genova pericolava; ma molte erano le insidie interne. Spargevansi
artifiziosamente voci, che la Francia voleva dare la riviera di ponente
al re di Sardegna, e si affermava, che una tale calamità solo si poteva
allontanare con ridurre il governo a forma più consimile a quella di
Francia. Queste voci Faipoult, magnificando la fede della sua
repubblica, e quasi sdegnandosi, asseverava essere false e calunniose.
Buonaparte ed egli richiedevano nuovi presti di parecchi milioni alla
signorìa, consumata ed odiosa ai popoli, se gli concedesse, accusata
d'inimicizia verso Francia, se gli negasse. Il farla vile fu anche parte
dell'insidia; perchè un consiglio militare Francese adunatosi nella sede
stessa della repubblica processava, e condannava al bando da tutti i
territorj di Genova il marchese Agostino Spinola, come reo delle
turbazioni sorte contro i Francesi nei feudi imperiali. Non era più
sovranità dove un tribunale forestiero dannava un cittadino: mancava col
buon concetto la forza dello stato. Nè l'opera dei novatori di dentro si
trascurava. A questi erano capi alcuni Genovesi, alcuni forestieri. Fra
i primi osservabile era massimamente lo speziale Morando, uomo
precipitoso, e di estremi pensieri, e che credeva che ogni cosa fosse
lecita per arrivare a quella libertà ch'ei si figurava in mente. Fra i
secondi più vivo e più operativo si mostrava un Vitaliani da Napoli, il
quale, sebbene non tanto veemente fosse, quanto Morando, era non
pertanto assai più di lui pericoloso, perchè aveva facile favella alla
Napolitana, efficacia a persuadere maravigliosa, bel porgere, e bella
persona, ed era entrante molto e manieroso. Forestiero si mescolava
nelle cose Genovesi a dissoluzione della repubblica, e con patente
d'impiegato dell'ambascerìa di Francia tendeva agguati ad una potenza, a
cui la Francia protestava amicizia. Erano costoro favoriti da Faipoult
più nascostamente per la sua qualità pubblica, da Saliceti a questi fini
venuto a Genova, più apertamente. Vociferava Saliceti, doversi, poichè
l'aristocrazia di Venezia si era spenta, spegnere anche quella di
Genova. I novatori sicuri omai dell'esito, s'adunavano, s'indettavano,
s'accordavano, s'apprestavano; più il termine s'avvicinava, e più
palesemente operavano. Incitamenti continui andavano dall'ambasciata di
Francia a Morando, e solo si aspettava che Venezia fosse perita del
tutto per far perir Genova. Avvertito il governo, creava inquisitori di
stato con ampia facoltà, e per opera loro carcerava Vitaliani. Se ne
risentiva gravemente Faipoult, richiedeva la sua indennità, come di
Francese. Per tal modo non solamente si voleva che si macchinasse, ma
ancora, che si macchinasse impunemente. La signorìa essendo sforzata,
rimetteva il Napolitano in libertà. Vitaliani e Morando con somma
attività si adoperavano. A loro si faceva compagno un Filippo Doria o
per ambizione, o per opinione. Tutto era contaminato, l'esca apprestata,
le occasioni si aspettavano. I giornali di Milano, comandando ciò, o
permettendo Buonaparte, continuamente straziavano l'aristocrazìa
Genovese, e con infiammate parole provocavano i popoli contro di lei. Di
tanta mole era per chi tanto poteva, il distruggere la piccola
repubblica di Genova. Si pruovava nell'estremo caso ad insorgere,
gl'inquisitori di stato facevano carcerare due dei più audaci e temerari
novatori, sperando, che il timore potesse frenare quella gente
incitatrice. Fu indarno, poichè tanto favore l'ajutava dentro e fuori.
Questa fu scintilla a suscitare ad incendio il fuoco che covava. Non
così tosto giungeva ai congiurati la novella della carcerazione dei
compagni, che furiosamente dato all'armi o proprie, od a questo fine
apprestate in casa Morando ed avendo Morando medesimo con Vitaliani e
con Filippo Doria a guida, facevano improvvisamente, era il giorno
ventuno di maggio, un tumulto terribile. Si rallegrava Faipoult, che la
rivoluzione nascesse in Genova per opera dei Genovesi, perchè in quella
rivoluzione ei voleva ben essere, ma non parere. Essere, scriveva a
Buonaparte, creato un filo a poter muovere facilmente i collegi, i
consigli, e ad operare la riforma inevitabile di Genova più o meno
prestamente, secondochè meglio o come a Buonaparte si convenisse, o per
modo che il mondo vedesse, che la Francia, non ingerentesi nella
constituzione politica di un popolo amico ed independente, non vi aveva
posto mano che come protettrice della quiete di questo popolo stesso, e
per allontanare da lui tutte le disgrazie di una rivoluzione. Venuti da
Faipoult due legati del senato, Gian Luca Durazzo, e Francesco Cataneo,
il pregavano, che facesse dimostrazione di non secondare i novatori, ed
operasse, che la frenesìa dei giornali Milanesi contro Genova cessasse.
Dava loro la volta sotto sulla prima richiesta, speranza per la seconda.
Si metteva poscia sull'esortargli a riformare essi medesimi lo stato, ed
a biasimargli dei tridui e delle novene, come di dimostrazioni dirette
ad odio dei Francesi: cercava infine di temporeggiare, perchè gli
accidenti di Venezia finissero. I congiurati con ischiamazzi orribili, e
con grida spaventose, cantando a tratto tratto la marsigliese (fu questa
una canzone con musica molto espressiva, che incitò potentemente in
quell'età gli spiriti ad opere straordinarie) s'incamminavano al palazzo
ducale. Aggiungevansi per istrada, come suole avvenire, nuovi
congiurati, e fra il popolo i più tristi, e chi più ambiva il sangue o
il sacco. A tanto romore si adunava una calca incredibile fra quelle
strette vie di Genova; serravansi a furia le botteghe; i buoni
fuggivano, od erano tratti dalla tempesta. La folla tumultuosa giunta al
palazzo, dov'era raccolto il senato, con minacciose grida addomandava i
carcerati. Rispondevano con molta costanza i padri, a buona ragione
sostenersi, si farebbe giustizia, fra breve paleserebbero al popolo
l'intento loro. I sollevati avrebbero voluto sforzare il palazzo; il
vietavano le guardie; si rimanevano, perchè in quel primo impeto non
avevano nè armi sufficienti, nè accordo, nè numero che bastasse.
Traevano alle case del ministro di Francia, sperando che gli ajuterebbe.
Gli confortava dicendo, s'interporrebbe, e le dimande loro al senato
esporrebbe. Fatti più sicuri cambiavano il furore in allegrezza, e
sparsi per le piazze, e nei ritrovi sì pubblici che privati, facevano
grandi festeggiamenti. La sera, sforzato il teatro, vi commettevano
remore, anche con oltraggi dei pacifici cittadini. Riscaldati dal vino e
dalle cose fatte, passavano la notte, che era una delle estreme della
loro antica e veneranda patria, fra l'allegrezza dei piaceri presenti, e
la cupidigia dei tumulti avvenire.

Sorgeva ai ventidue l'alba, che doveva addurre a Genova un giorno
funestissimo. Prorompevano dai ritrovi loro i congiurati, e ad ogni
momento, e ad ogni passo ingrossandosi per l'accostamento di nuovi
compagni, facevano una turba assai numerosa. S'aggiungevano ai Genovesi
non pochi Lombardi, venuti ancor essi all'alito delle rivoluzioni; nè
mancavano Francesi, ancorchè fossero in minor numero. Inalberavano,
perchè non mancasse ai fatti anche il segno della ribellione, sui
cappelli chi la nappa Lombarda, e chi la Francese, ambedue tricolorite,
questa col turchino, quella col verde. Gridavano, viva il popolo, viva
la libertà. S'avviavano al palazzo di Faipoult, dove ammassati
diventavano più terribili per impeto, e per numero. Il senato senza
difesa pel caso improvviso, si era perduto d'animo, ed aspettava, invece
di operare.

Il popolo fedele al principe non si muoveva, perchè sorpreso a
quell'accidente insolito non aveva ancor ripreso gli spiriti, e forse
non credeva, che i sollevati volessero trascorrere agli estremi. Andando
loro il moto a seconda, ardivano cose maggiori, ed orrende. Traevano
alle prigioni della mal paga, sentina infame d'indebitati e di falliti,
e rotte le porte non senza qualche violenza sanguinosa, e liberati ed
armati i prigionieri, se gli facevano compagni ai disegni loro. Cresceva
il furore: quel che dava la massima dell'esser lecito tutto per
acquistar la libertà, secondava la natura sempre precipitosa del male al
peggio. Impadronitisi della darsena, davano la libertà ai condannati, e
poste loro le armi in mano correvano con l'infame satellizio di ladri, e
d'assassini a disfare uno dei più illustri governi del mondo: tempi
atroci, in cui la misera Genova era insidiata occultamente dai potenti
dominatori d'Italia, ed impugnata apertamente dai suoi cittadini misti
ai mancatori di fede, ed ai galeotti! esempio da piangersi eternamente
che si sia cercata la libertà non solo coi rei propositi, ma ancora con
operatori scelerati.

Tornando alle opere Morandiane, fatto i sollevati concorso sulla piazza,
e preso maggior animo da quei primi successi, bandivano con allegria, e
romore incredibile, essere spenta l'aristocrazìa, Genova libera, i
poveri esenti dai tributi, cassi gli antichi magistrati, creati i nuovi.
Ma ancora temevano le porte in mano del governo, ed i popoli del Bisagno
e della Polcevera deditissimi al nome del principe ed all'antica
repubblica. Però credendo non esser compiuta l'opera, se allo aver
acquistato l'interno non aggiungevano l'assicurarsi delle porte delle
mura, spedivano, a ciò consigliati da Morando e da Doria, i più audaci
ed i meglio armati, ad occupar l'arsenale, il ponte reale, la lanterna,
le porte di San Tommaso e di San Benigno. Il che veniva loro agevolmente
fatto, sorpresi essendo e pochi i difensori.

Intanto s'era il senato raccolto timoroso, e non pari a tanto estremo.
Consultavano discordi, statuivano spaventati. Mandavano legati a
Faipoult, perchè lo pregassero, s'interponesse a concordia, ed
offerissero riforme negli ordini antichi. Piaceva la profferta al
Francese, per essergli aperta l'occasione, e condottosi al senato, con
efficacissime parole esortava i padri, cedessero al tempo,
s'accomodassero al secolo, riformassero lo stato, verso gli ordini
democratici l'allargassero, questa sola via di salute restare.
Stanziavano, poichè oggimai era tolto ogni modo di deliberare sanamente,
si traessero quattro patrizi, i quali convenendo con quattro deputati
del popolo, fra di loro accordassero come e quanto la forma antica
dovesse scendere alla democrazìa. S'eleggevano i patrizi, gli eletti del
popolo non comparivano; riuscì vano il tentativo. La massa dei novatori
infuriata correva al ducale palazzo, e contro di lui piantava un
cannone, sforzandosi di entrarvi; ma cessava vedutolo ben custodito.
Risuonavano intanto le grida, viva la libertà, morte agli aristocrati;
pareva ormai spenta l'antica repubblica. Trionfavano Vitaliani, Morando,
Doria, nè pareva che vi fosse più rimedio per reprimere la ribellione.

Ma ciò, che non aveva fatto il senato senz'animo e senza forza, il
faceva il popolo, parte per odio contro i novatori, parte per amore
verso l'antico stato, parte per riverenza alla religione, perchè
temevano lei aversi ad oltraggiare in Genova, come credevano esser stata
oltraggiata in Francia. Si adunava, correndo da ogni lato,
principalmente dal porto, una gran massa di popolo minuto, carbonari e
facchini massimamente, ed opponendo all'improvviso grida a grida, nappe
a nappe, armi ad armi, rendevano dubbia una vittoria, che già pareva
certa. Facevano risuonare per tutta la città voci festose ad un tempo, e
minacciose, gridando viva Maria, viva il principe, viva la religione,
morte ai giacobini, che con questo nome chiamavano i novatori: rizzavano
intanto sui cappelli per nappa una piccola immagine di Maria: per questo
chiamava Buonaparte i preti genovesi vile e scelerata gente. Solo lodava
l'arcivescovo. Gli amatori del governo antico, siccome quelli che
avevano a combattere coi libertini bene armati, anche di artiglierìe a
cagione della presa dell'arsenale, avvisavano d'impadronirsi
dell'armerìa, nella quale essendo entrati, distribuite a ciascuno le
armi, con ardore inestimabile si mettevano a correre contro la parte
contraria. A loro si accostavano i soldati regolari rimasti fedeli alla
repubblica, e fra questi alcuni, che sapevano maneggiar le artiglierìe.
Infelice città, che vedeva rinnovarsi nel suo grembo, le spente da lungo
tempo, e sempre feroci fazioni. Si attaccava una battaglia asprissima,
dove i padri combattevano contro i figliuoli, i fratelli contro i
fratelli; ed il suono delle armi civili, già da lungo tempo insolito, si
udiva da lungi nei più secreti recessi dei liguri Apennini. Traevano le
artiglierìe furiosamente, si mescolava l'archibuserìa; da vicino si
ammazzavano coi ferri, e quando non avevano ferro, con le mani. Maggiore
era la pressa nei luoghi occupati dai libertini, perchè gli avversari,
essendo nella possessione di essi posta tutta l'importanza del fatto,
gli volevano a tutta forza sloggiare, massime alle porte, all'arsenale,
ed al ponte reale, dove Filippo Doria combatteva valorosissimamente.
Durava la battaglia parecchie ore: prevaleva finalmente la parte del
senato, ricuperati, non senza molta fatica e sangue, dagli uomini fedeli
a lui tutti i posti. Il quale fatto saputosi dai Morandiani, era cagione
che precipitosamente abbandonassero l'impresa. La maggior parte
fuggirono, o nelle private case si nascosero: i più animosi ristrettisi
insieme, si facevano sforzatamente strada al ponte reale, che si teneva
ancora per loro mediante il valore di Filippo Doria. Gli seguitavano i
vincitori, e s'accendeva a questo ponte una battaglia ostinatissima,
combattendo dall'un de' lati la disperazione, dall'altro il furore, ed
il numero ognor crescente delle genti. Erano finalmente oppressi i
Morandiani con ferite, e morte di molti: morì Doria medesimo. Usavano i
vincitori molta crudeltà, come nelle guerre civili. Il cadavere del
Doria fu lunga pezza ludibrio a quegli uomini infieriti. Nacquero fra
questo sanguinoso scompiglio fatti parte tremendi, parte ridicoli. Uno
schiavo turco, che i novatori avevano liberato, quando si erano
impadroniti della darsena, e condotto con loro, ed ammaestrato a gridar
_viva il popolo_, incontratosi in una folla di carbonari, e non sapendo
più oltre, diede tal grido, e ne fu malconcio orribilmente. Gli dissero,
che bisognava gridar _viva Maria_, ed ei si mise a gridare, _viva
Maria_; ma trovatosi di nuovo fra quel garbuglio in mezzo ad una truppa
di novatori, questi, sentito il _viva Maria_, il maltrattarono per forma
che per poco non l'amazzarono. Il pover uomo tutto pesto, nè sapendo
connettere accidenti tanto strani, andava gridando, che i cristiani
erano diventati matti, ed avea ragione. Perirono in mezzo a quella furia
parecchi Francesi, parte mescolati coi sollevati, parte non mescolati,
perchè avendo i Morandiani inalberato chi la nappa Francese, chi la
Lombarda, di lontano simile alla Francese, erano tenuti complici, ed
ammazzati dagli avversari tutti coloro che portavano le nappe
tricolorite. Ciò fu in mal punto, perchè Buonaparte ne prese occasione
per disfar il governo. Del resto i Morandiani fecero da se, e messi su
dai forestieri; i carbonari da se, e solo spinti da odio e da fedeltà:
ma più da odio che da fedeltà: nè nel fatto loro il senato ebbe
ingerenza alcuna, salvato piuttosto dal popolo, che da se. Si vegliava
la notte fra il dolore dei morti, il terrore dei vivi: s'accendevano i
lumi alle case da chi per gioia, da chi per paura, perchè i carbonari
minacciavano. Il senato vincitore per opera altrui, di nuovo s'adunava
per consultare sulle turbate cose. Mostravasi Giacomo Brignole doge al
popolo, da cui era veduto, e salutato con grandissimi segni di
allegrezza. Faipoult, veduto che la forza dei novatori era stata
indarno, tornava sull'esortare, e più accesamente di prima insisteva
sulla necessità delle riforme.

Si stava intanto per la signorìa in grandissima apprensione del come
l'avrebbe sentita Buonaparte; perciocchè presso a lui stando il dominio
di tutta Italia, a volontà sua vivevano, o morivano gli stati. Gli
scriveva il doge in nome del senato lettere molto sommesse di rammarico,
e di scusa pei Francesi uccisi. Arrivavano, portate da Lavallette,
aiutante del generalissimo, risposte funestissime: Buonaparte non era
uomo da non usar bene la occasione; non potere, scriveva, la repubblica
Francese tollerare gli assassinj, e le vie di fatto di ogni sorte
commesse contro i Francesi in Genova da un popolo senza freno, suscitato
da coloro, che avevano fatto ardere la Modesta, e maltrattare i
cittadini Francesi; se fra ventiquattr'ore i carcerati non si
liberassero, se coloro, che il popolo contro di loro avevano provocato,
non si carcerassero, se la feccia di quel popolazzo non disarmasse, aver
vissuto la Genovese aristocrazìa, e partirsi da Genova il ministro della
repubblica: stare la vita dei senatori per quella dei Francesi in
Genova, tutto lo stato per le proprietà loro. Con queste parole superbe
ed oltraggiose parlava Buonaparte ad un governo venerabile per
l'antichità, e capo di un popolo ingegnoso e forte. Ma i carbonari non
avrebbero uccisi i Francesi, se i Morandiani, il capo dei quali era
stato munito di patente Francese dal ministro di Francia, non avessero
essi primieramente incominciato la ribellione e la uccisione degli
uomini fedeli all'antico stato. Quel ritoccar poi della Modesta in
questo fatto, era cosa del tutto insopportabile. Del resto, tale fu la
forza della verità, che Faipoult attestava ed affermava a Buonaparte,
che il governo Genovese aveva fatto in quell'accidente quanto per lui si
era potuto, per evitar i disordini; che in facoltà sua non era di
comandare a coloro, che, non che gli obbedissero, gli comandavano e li
difendevano: che delle uccisioni dei Francesi i patriotti erano stati
cagione per aver inalberato i tre colori; che senza questa insolenza
democratica niun Francese avrebbe perduto la vita; che i democrati soli
avevano messo in pericolo i Francesi; ch'essi avevano fatto oltraggio
alla repubblica Francese per aver usurpato i suoi colori nazionali;
ch'essi finalmente avevano operato pazzamente per l'impeto sregolato,
infamemente per l'apertura delle carceri e delle galere. Da tutto questo
si vede, che Genova era del tutto innocente del sangue Francese, e che
la collera di Buonaparte, vera o finta che si fosse, per la morte dei
Francesi, non contro di lei, ma contro quelli che avevano voluto fare la
rivoluzione, avrebbe dovuto sfogarsi.

Quest'era la condizione di Genova. Il senato sbigottito, e servo della
moltitudine, e diviso per le opinioni, perchè la parte Francese, che
desiderava le riforme, aveva acquistato maggior favore per gli accidenti
presenti. Inoltre ei si trovava tra il non poter inveire contro il
popolo, perchè lo avea salvato, ed il dover inveire, perchè gli agenti
del direttorio gridavano vendetta. La moltitudine armata, fatta la buona
opera di redimere il principe, prorompeva, come suole, in opere ree,
oltraggiando e manomettendo gli onesti cittadini, solo perchè gli aveva
per sospetti. Taccio, che la casa di Morando spogliarono da capo in
fondo; ma già incominciavano a spogliar le case, non solo
degl'innocenti, ma ancora dei benemeriti; ogni cosa piena di terrore.
Insisteva più acerbo che mai Faipoult, perchè si scarcerassero i
Francesi, si arrestassero gli uccisori, si dichiarasse, non aver i
Francesi avuto parte nella ribellione. Temendo poi che solo si punissero
gl'infimi assenti, e si salvassero i capi presenti, richiedeva con
imperio insolente dal senato, forse non ricordandosi, o fors'anche
ricordandosi di avere scritto a Buonaparte, che era innocente,
carcerasse, e ad arbitrio di Buonaparte serbasse Francesco Maria
Spinola, Francesco Grimaldi, inquisitori di stato, e Niccolò Cataneo
patrizio, per avere provocato, secondo le allegazioni di Lavallette, in
ogni possibil modo gli atroci fatti contro i Francesi, e per essere
stati autori principali delle risoluzioni prese negli ultimi tempi;
sconce ambagi, che coloro, cui Faipoult aveva dichiarato un giorno prima
innocenti, fossero dichiarati un giorno dopo rei. Certamente erano
Spinola, Grimaldi e Cataneo rei, non d'alcuna morte di Francesi, ma bene
dell'amare la patria loro, e del volerla preservare dalla tirannide
forestiera. Infuriava Lavallette, e secondava Faipoult. Affermava, che i
carbonari erano stati pagati, perchè uccidessero i Francesi, e che i
Francesi per ordine espresso erano stati assassinati. La qual cosa se
fosse tanto vera, quanto è falsa, pruoverebbe, che gl'inquisitori di
Genova fossero piuttosto pazzi, che feroci; perchè in tanta potenza
della Francia in tutta Europa, principalmente in Italia, non si vede che
cosa importasse la morte di cinque o sei Francesi isolati ed inermi, se
non a far sobbissar Genova. Il versar sangue poi solo pel piacere di
versarlo, s'imparava solamente alla scuola di Buonaparte. Orrore,
dolore, terrore prendeva i senatori alla richiesta. Resistevano in
prima, poi spinti dall'ultima necessità, arrendendosi facilmente quei
della parte Francese, a loro malgrado consentirono.

Dell'altra richiesta dei prigioni fu soddisfatto senza molto contrasto a
Buonaparte; liberavansi i Francesi. Ma più cedeva Genova, e più Faipoult
moltiplicava le domande: ottenuta la libertà dei compatriotti,
addomandava quella dei Lombardi, non per altro venuti, che per
sovvertire lo stato, e presi con le armi in mano mescolati coi ribelli.
Consentiva per forza il senato: portarongli i compagni a trionfo per
quella città, che testè avevano bruttato di sangue. Del disarmamento,
faccenda tanto necessaria, quanto difficile, consentiva facilmente, e
dava anche un premio di due lire a chi portasse le armi all'armerìa del
pubblico. Restava, che a petizione di Faipoult pubblicamente
dichiarasse, non essere stati i Francesi mescolati nella ribellione; al
che non si lasciava piegare. Bene mandava fuori un manifesto esortatorio
ai popoli, acciocchè avessero i Francesi in grado di amici, affermando,
che la salute di Genova dall'amicizia di Francia si poteva solo, ed
unicamente aspettare. La quale esortazione dispiacque oltre modo al
popolo, che soltanto vedeva le trame, e non conosceva il modo di
passarle per la politica.

Il fine principale a cui miravano tante arti, spaventi e minacce, non
era punto nè la liberazione di pochi carcerati, nè l'incarcerazione di
pochi magistrati, cose tutte nè stimate da Buonaparte d'importanza, nè
usate se non per mezzi. Bensì ei voleva la mutazione, affinchè dalla
nuova forma fossero esclusi gli amatori dell'indipendenza, e gli
aderenti dell'Austria, ed inclusi i partigiani di Francia. Perlochè,
vintesi dagli agenti del generalissimo le prime domande, insorgevano con
maggior calore, richiedendo il senato, riducesse lo stato a forma più
democratica, e facesse abilità ai legati che si volevano mandar al
generalissimo, di accordar con lui il cambiamento che si desiderava.
Rappresentavano, non altro modo esservi di quietare gli spiriti, se non
quello di chiamare anche i popolari al dominio; considerassero, con
quanta fatica e quanto sangue s'era poc'anzi l'antica forma potuta
conservare, solo perchè non era più consentanea alle opinioni dei più;
doversi dare sfogo a questi nuovi umori, se non si voleva che
inondassero con rovina della repubblica; per questo solo atto
acquisterebbe il senato nella liberata Italia somma autorità, e
loderebbe Milano Genova, quel Milano, che allora la scherniva; con
questo solo atto si renderebbe sicura la integrità della repubblica, che
allora era dubbia; ciò desiderare la repubblica Francese, ciò volere
Buonaparte; ciò fatto, sperimenterebbegli Genova così facili ed
amichevoli, come allora gli trovava ritrosi ed avversi; divenuti essere
odiosi i privilegi; il rinunziarvi, e l'accomunarsi esser da savio,
perciocchè altro non era che perdere una chimera con acquistare una
realtà; parecchie volte aver Genova mutato modo nel corso dei secoli,
ora allargandolo al popolare, ora restrignendolo all'aristocratico
secondo i tempi; che ora tornasse al popolare, essere non solo
necessario, ma ancora non insolito: cedessero adunque, ed in quella sola
risoluzione vedessero la salute della repubblica.

Queste esortazioni fortissime in se stesse, operavano gagliardamente.
Pure trovavano non poca difficoltà; perchè molti dei senatori vedevano
in quei reggimenti democratici non amore, nè gratitudine per la
rinunziazione dei privilegi, ma scherni e persecuzione, nè cambiando era
andare dall'aristocrazìa alla democrazìa, ma bensì dal dominio consueto
al dominio di una parte prepotente. Atterriva anche l'esempio di
Venezia, che già si vedeva passare, pel cambiamento fatto, non alla
libertà ed alla concordia, ma prima alla servitù di una parte, poi alla
servitù forestiera. Così si stava in pendente, e, come accade nei casi
dubbj e pericolosi, si amava lo stare, solo perchè lo stare era
consueto.

Mentre si deliberava nel piccolo consiglio di quanto si dovesse fare in
quella occorrenza di suprema, anzi di unica importanza per la patria,
comparivano le prime squadre di Rusca, le quali, sparsesi prima per la
Polcevera, si distendevano poscia insino alle porte di Genova. Si udiva
eziandìo, che Serrurier poco lontano succedeva con le sue, e che da
Cremona si muovevano nuovi soldati per dar rinforzo a Rusca ed a
Serrurier, ove da per se non bastassero. Erasi appresentata alcuni
giorni innanzi alla bocca del porto l'armata di Brueys; ma per la
istanza del senato, e per la tempera del popolo, che non l'avrebbe
lasciata entrare quietamente, aveva Faipoult operato, che l'ammiraglio
se ne tornasse verso Tolone; del che, qual debole e timoroso, fu poscia
aspramente biasimato da Buonaparte. Sebbene però l'armata Francese si
fosse ritirata, si sapeva, che andava volteggiandosi ora a vista, ed ora
poco lontana dalla riviera di ponente, e poteva dar animo, e fare spalla
facilmente ai novatori della riviera, ed a quei della metropoli. Nè fu
l'esito diverso dal prevedere; perchè tra la presenza di Rusca nella
Polcevera, alcune squadre di soldati Francesi sparsi nella riviera, e la
prossimità di Brueys, si tumultuava in vari luoghi, non senza sangue;
gli abitatori delle ville e delle montagne combattevano acremente i
novatori. Ciò non ostante questi ultimi erano rimasti superiori in
Savona, città principale in quelle piagge, e già in ella, e nel Finale,
e nel porto Maurizio avevano piantato l'albero, che chiamavano della
libertà. Il senato minacciato da una setta potente nella sua sede
medesima, attorniato da soldati forestieri, lacerato dalla guerra
civile, stretto continuamente dagli agenti di Francia, che sempre
parlavano dello sdegno del direttorio, e di Buonaparte, non aveva più
libertà di deliberare.

Cedevano i padri, perchè il contrastare era impossibile. Statuivano, si
riformerebbe lo stato; la mutazione, quantunque in termini generali, al
popolo si annunzierebbe. Mandavano poi legali a Buonaparte, con facoltà
di accordare con lui la forma futura degli ordini politici, i nobili
Michel Agnolo Cambiaso, Luigi Carbonara, Gerolamo Serra, i due primi
amatori di un governo popolare più largo, l'ultimo di uno più stretto,
ma uomini tutti di singolare ingegno, ed anche di natura buona e forte,
se fati migliori avessero conceduto, che la bontà e la fortezza
potessero giovare alla patria. Partivano i deputati per Montebello,
alloggiamento di Buonaparte. Partivano anche, conseguito l'intento, alla
volta medesima Faipoult e Lavallette, per informar il generale
dell'adempimento delle commissioni loro, e per consigliarlo intorno alle
persone, che per gl'interessi di Francia si convenisse introdurre nel
nuovo reggimento.

Il doge, i governatori, ed i procuratori della repubblica avvertivano il
pubblico, mandarsi legati a Buonaparte, perchè ai pericoli esterni, ed
alle turbazioni interne di Genova provvedesse. Lodavano la lealtà di
Faipoult, conforme, dicevano, a quella della gran nazione; sperare, con
l'ajuto della divina provvidenza, poter facilmente compire un'opera
conducente a conservazione della repubblica, ed a contentamento di
tutti, e sulla quale a tempo debito si sarebbe chiamata a consiglio
tutta la nazione: se ne vivessero intanto quieti, esortavano, e non
corrompessero con moti inopportuni una occasione, dalla quale
dipendevano il riposo, e la felicità di tutti.

Spedivano al tempo stesso il nobile Stefano Rivarola a Parigi,
comandandogli, in una faccenda di tanto momento per la repubblica,
s'ingegnasse con ogni possibil modo di fare, che la forma antica, il
meno che fate si potesse, si alterasse, e la integrità dei territorj in
sicuro si ponesse.

Il direttorio di Francia era per le cose d'Italia piuttosto servo, che
padrone di Buonaparte, e però a Montebello piuttosto che a Parigi si
doveva definire il destino di Genova. Combattevano a questo tempo in
Buonaparte due diversi pensieri, la necessità delle cose, e la volontà
di secondare, pe' suoi fini particolari, i desiderj dei principi. Il
primo lo sforzava a far le rivoluzioni, perchè l'operare senza posa era
per lui mezzo di non lasciar illanguidire la fama, che si era
acquistata; il secondo lo spingeva a far sicure le monarchie, a rivoltar
solo le repubbliche, e queste o spegnere, o lasciarle dare nella
democrazìa meno che potesse. Questi consigli operando in lui
efficacemente, erano cagione, che, cambiando gli antichi ordinamenti di
Genova, non gli lasciasse scendere sino alla pura ed inquieta
democrazìa, e che la somma delle cose confidasse, non a gente fanatica e
spaventevole ai re, ma bensì a uomini temperati e savi, che o per
necessità consentivano al cambiamento, o volevano la democrazìa mista e
con leggi, non pura e senza leggi. Questi pensieri consuonavano con
quelli dei legati, ed anche la volontà del vincitor Buonaparte non era
contrastabile. Per la qual cosa non fu lungo il negoziare, e addì cinque
giugno si concludeva un accordo per mezzo loro tra la repubblica di
Francia, e quella di Genova, pei principali capitoli del quale si
statuiva, che il governo rimettesse alla nazione, così richiedendo la
felicità della medesima, il deposito della sovranità, che gli aveva
confidato; ch'ei riconoscesse, la sovranità stare nell'universalità dei
cittadini; che l'autorità legislativa si commettesse a due consigli
rappresentativi, uno di trecento, l'altro di cencinquanta consiglieri;
che la potestà esecutiva fosse investita in un senato di dodici, e a cui
presiedesse un doge; il doge, ed i senatori dai consigli si eleggessero;
ogni comune avesse ad esser retto da ufficiali municipali, ogni
distretto da ufficiali distrettuali; le potestà giudiziali e militari, e
così pure le divisioni dei territorj secondo il modello da farsi da una
congregazione a posta si ordinassero, con ciò però, che la religione
cattolica salva ed intera si serbasse; i debiti del pubblico si
guarentissero; il porto franco, ed il banco di San Giorgio si
conservassero; ai nobili poveri, per quanto possibil fosse, si
provvedesse; che ogni privilegio per abolito si avesse; che intanto si
creasse un reggimento temporaneo di ventidue, ed a cui il doge
presiedesse; che questo reggimento prendesse il magistrato il dì
quattordici di giugno. Statuisse delle indennità dei Francesi offesi nei
giorni ventidue e ventitrè maggio; finalmente la repubblica Francese
perdonasse a tutti, che l'avessero offesa nei giorni suddetti, e
mantenesse l'integrità dei territorj della repubblica Genovese.

Mandava Buonaparte questi capitoli al doge con lettere portatrici di
dolci parole, mostrando molta affezione verso la repubblica, e
consigliando, fossero savj, fossero uniti, e non dubitassero della
protezione della Francia. Eleggeva al reggimento temporaneo Giacomo
Brignole, doge, Carlo Cambiaso, Luigi Carbonara, Gian Carlo Serra,
Francesco Cataneo, Giuseppe Assereto da Rapallo, Stefano Carega, Luca
Gentile, Agostino Pareto, Luigi Corvetto, Francesco Maria Ruzza,
Emanuele Balbi, Gian Battista Durand del porto Maurizio, capitano
Ruffino di Ovada, Agostino Maglione, Gian Antonio Mongiardini, Francesco
Pezzi, Bertuccioni, Gian Battista Rossi, Luigi Lupi, Gian Maria de
Alberti, Bacigalupi, Marco Federici della Spezia.

Quando il generalissimo di Francia creava questa nuova signorìa, aveva
in pensiero, non solamente di dare autorità a uomini prudenti, e lontani
da voglie estreme, ma ancora mescolando uomini di diverse condizioni, di
mostrare che la sovranità non cadeva più in pochi, ma bensì in tutti,
cosa che avrebbe dovuto far quietare, contentando le ambizioni, molti
umori. Ma nelle rivoluzioni le ambizioni sono incontentabili, e come se
le faccende pubbliche potessero maneggiarsi continuamente dalla
moltitudine, il restringerle in pochi magistrati era riputato
aristocrazìa: gli esclusi gridavano tirannide, gente pericolosissima,
perchè pretendeva parole di amore di patria.

Incominciava appena a farsi giorno, che già le piazze e le contrade
erano piene di gente, accorrendo da una parte il popolo tratto dalla
novità del caso, dall'altra i libertini portati dall'allegrezza, e dal
desiderio di far certe dimostrazioni, che credevano libertà, ed erano
vanità in se, scherno ad una parte dei loro concittadini, imitazione
servile dei forestieri, segni di tirannide, semi di future discordie. Il
popolo stesso, solito a seguitare così il bene come il male ad un posto
segnale, se prima traeva per curiosità, dopo, e visto il giubbilar dei
libertini, incominciava a trarre per allegrezza, ed era uno spettacolo
mirabile il vedere tutta quella città mossa a gioia, che ancora non
faceva un mese, si era veduta mossa a sangue. _Viva la libertà, muoja
l'aristocrazìa, viva Francia, viva Buonaparte_, gridavano le Genovesi
voci: gli alberi della libertà non solo sulle piazze e principali
contrade, ma ancora sulle piazzuole e nei vicoli a tutta fretta si
piantavano; i balli, canti, ed i discorsi che si facevano loro intorno,
erano eccessivi. A questo, alcune donne, e non delle infime, certi
berrettini di libertà, che così gli chiamavano, che avevano tessuti
nascostamente, di tre colori nei giorni precedenti, distribuivano in
pubblico, ed i libertini con molto romore se gli appiccavano sul petto.
Le quali cose se abbiano mosso a riso Buonaparte tanto astuto
conoscitore e tanto cupo sprezzatore dell'umana natura, non è da
domandare: godeva in se del compito inganno. Morando era fuori di se
dalla contentezza, sebbene non del tutto si soddisfacesse dei membri del
governo temporaneo, parendogli aristocrati anzi che no. Vitaliani
predicava, e per gridar forte che facesse il popolo, non gli pareva mai,
che gridasse abbastanza. I nobili o si nascondevano nelle più segrete
case, o fuggivano dalla città, e ne avevano ben anche il perchè; che ad
un primo trarre, il popolo mosso, e stimolato dai novatori più vivi, gli
avrebbe manomessi. In mezzo a tanto fracasso poteva nascer bene, come
male, ma più facilmente male che bene. I patriotti scrivevano nel gergo
gonfio, servile, e schifoso di quei tempi, che «superbo dei riacquistati
diritti scorreva per le vie il genio della Liguria, e scrivea sulla
fronte ai liberi cittadini la bella immagine di un fortunato avvenire».
Ed ancora: «Oh, sublime maestoso spettacolo d'un popolo intero, che dopo
aver trascorso dei secoli di servitù, curvo, ed umiliato sotto un giogo
di ferro, si leva subitamente ritto sui piedi, e scosso l'infame peso
delle irrugginite catene ne getta i rotti avanzi in faccia ai
detronizzati tiranni!» Così parlavano: Buonaparte ne faceva le risa a
Montebello, e gli chiamava pazzi da legare. Gian Carlo Serra, e suo
fratello Gerolamo, che non erano uomini da riscaldarsi troppo, ed
avevano l'animo piuttosto da storico che da poeta, s'erano lasciati
ancor essi trasportare all'entusiasmo, e scrivevano cose di fuoco a
Buonaparte.

La servile imitazione verso le tragicomedie della rivoluzione Francese
dominava; ed ecco una calca di gente trarre con grida al ducale palazzo,
i patriotti la guidavano, con animo di levarne il libro d'oro, infame
catalogo, come dicevano, volume esecrato dell'antica aristocrazìa. Si
custodiva il libro assai gelosamente in un luogo appartato del palazzo
d'onde non si estraeva se non quando il nome di qualche nuova famiglia,
chiamata a nobiltà, vi si scriveva. La plebe, rotte a forza le porte
dell'archivio, se lo portava con incredibili scede e giullerìe sulla
piazza dell'acquaverde, e quivi acceso un fuoco, lo ardeva, e le grida,
e le risa, e gli scherni furono molti. Non pochi, perchè non mancassero
neanche le puerilità, ferivano a punta di bajonetta o di sciabola
l'odiato libro, e con questo si credevano di aver morto l'aristocrazìa:
i circostanti applaudivano. Insomma il popolo mosso, se non fa tragedie,
vuol comedie. Ardevano col libro d'oro anche la bussola del doge, e
l'urna, dove s'imborsavano i nomi dei senatori per gli squittinj. Vi si
arrosero altri stemmi gentilizj raccolti a furia di popolo da diversi
luoghi; cose tutte, che si facevano piuttosto per ingiuria di persone,
che per amore di libertà: poi piantavano sulle ceneri delle reliquie
aristocratiche, come dicevano, il solito fusto, e gli applausi, e le
musiche, e i discorsi andavano al colmo.

Arso il libro d'oro, trascorreva il popolo, anche i carbonari vi si
mescolavano, ad un atto assai più biasimevole, e questo fu di rompere,
ed atterrare la statua di Andrea Doria, che per memoria ed onore delle
sue virtù, e de' suoi meriti verso la patria i Genovesi antichi avevano
eretta nella corte del palazzo ducale; e se chi stava dentro a guardia
fosse stato men pronto a serrare le porte contro l'invasata moltitudine,
avrebbe rotto anche le altre statue del Doria, che si vedevano nella
sala del gran consiglio. Che cosa poi pretendessero le ingiurie fatte ai
morti illustri, ed il disprezzo di servigi eminenti fatti alla patria,
ciascuno potrà da per se stesso giudicare, ed erano novatori noti
solamente per parole ed incapricciti di certi governi geometrici non
ancora pruovati, o pruovati soltanto per esilj, per persecuzioni, e per
morti crudeli, che un Andrea Doria oltraggiavano.

Dalle ingiurie si trapassava ad insolenze criminose; perchè sospettando,
che fossero ancora sostenuti nelle carceri alcuni fra coloro, che erano
stati arrestati nei giorni ventidue e ventitrè maggio, vi correvano a
folla, ed avendole sforzate, davano comodità di fuggirsi a parecchi
malfattori, contaminando in questo modo il nuovo governo con lo stesso
fatto, col quale avevano già assaltato l'antico; tristi principj di
libertà, e di stato civile.

Tal era la condizione di Genova, che il governo, composto la maggior
parte di uomini buoni e savj, dipendeva da Buonaparte, anche serviva
alle opinioni dei tempi; dal che nasceva, che voleva ordinare, non la
libertà che si convenisse a Genova, ma quella che era foggiata a modo di
Francia, come se nissun'altra forma buona di vivere libero potesse
essere, se non quella dei forestieri. Era oltre a questo, una parte
assai viva, che chiamavano dei patriotti, la quale non contenta ad un
vivere moderato, avrebbe voluto, piuttosto, credo per imitazione
servile, che per malvagità di natura, ma certamente per pensieri
immoderati, non la forma ordinata in Francia col direttorio, ma la
precedente. Erano costoro intoppo insuperabile ad ogni forma buona,
siccome quelli, che ogni reggimento regolare libero o non libero, ma più
se libero, laceravano con gl'improperj insidiavano con le congiure,
assaltavano con le sollevazioni. Mescolavasi finalmente a questi umori
la parte aristocratica vinta, la quale, impotente a far moto
d'importanza a cagione della forza Francese presente, e del nome di
Buonaparte, teneva non pertanto con le molte sue dipendenze gli animi di
non pochi sospesi, ed avversi allo stato nuovo. Si accostavano a questa
parte i più fra le genti di chiesa, che argomentando, da quello che si
era fatto in Francia, a quello che si farebbe in Genova, o della
religione, o dell'autorità, o dei beni loro temevano.

Come prima ebbero i nuovi magistrati preso l'ufficio, mandavano fuori un
manifesto, ringraziando Buonaparte della benevolenza mostrata verso la
repubblica, lodando i privilegiati della rinunziazione dei privilegi,
commendando i preti dello aver usato l'autorità loro a stabilimento
della libertà; invitavano i popoli della riviera ad unirsi, e ad
affratellarsi con Genova; esortavano tutti a vivere quieti e concordi;
allegavano, sperare, potere con l'ajuto divino rendere più felici le
condizioni del popolo, e perchè il popolo potesse giudicare per se del
buon animo loro, promettevano di palesare al pubblico le laboriose loro
occupazioni. Venivano a congratularsi, ed a parlare encomj
dell'acquistata libertà le città principali delle riviere; l'allegrezza
si diffondeva; la fratellanza e la concordia fra le varie parti della
dizione Genovese parevano pigliar radice. Accresceva l'allegrezza il
sentire, che i feudi imperiali avevano fatto dedizione di se medesimi a
Genova, e mandato deputati. Poi per esser odioso quel nome di feudi, gli
chiamarono Monti Liguri. Erano volentieri accettati nella società
Genovese, lodati, e ringraziati i deputati.

Ordinavasi intanto il corpo municipale di Genova, soggetto molto geloso,
perchè i municipj delle metropoli, ad esempio di quello di Parigi,
volevano far a gara, e contrastare di potenza coi governi. I capi
dell'esercito repubblicano, talvolta per capriccio, talvolta per altri
fini più reconditi, soffiavano su di queste faville: semi tutti di
discordia, e di anarchìa. Prendevano i municipali il magistrato il dì
primo di luglio con non mediocre apparato, e non mancavano i soliti
discorsi. Un prete Cuneo, che procedeva con molto calore in queste
faccende, ed era stato mescolato nei moti precedenti, diceva loro: «Oh,
Bruto, mio caro Bruto, prestami, io te ne prego, prestami per un momento
il tuo pugnale grondante ancora del sangue del tiranno, onde scriver
possa sulle pareti di questa sala, sotto gli occhi del governo
provvisorio, i nomi santi di libertà, e d'uguaglianza». Poscia il prete
lodava i municipali. E' bisognerà bene che i leggitori d'oggidì mi
comportino la libertà di dire tutto quello, che si disse, perchè
l'intento mio è di scrivere storie, non tacere, nè parlare per
adulazione.

L'affare più importante, che si esaminava nelle consulte Genovesi, era
quello di formar il modello della nuova constituzione. Perlocchè,
conformandosi ai patti di Montebello, creava il governo la
congregazione, che questo modello dovesse ordinare. A questo fine si
chiamavano e dalla città, e dalla riviera, e d'oltremonti uomini di
riputato valore. Gottardo Solari, Benedetto Solari vescovo di Noli, Gian
Carlo Serra, Tommaso Langlade, Giuseppe Cavagnaro, Sebastiano Biaggini,
abbate Niccolò Mangini, Leonardo Benza, abbate Giuseppe Levreri, Gian
Battista Rebecco, Filippo Busseti. S'adunavano bene spesso, ma
servilmente procedendo modellavano alla Francese, e secondo i
comandamenti di Buonaparte. Serra s'intendeva col generalissimo, ed
aveva più dominio degli altri. N'era imputato dai patriotti, che
incominciavano a mostrarsi mal soddisfatti di lui, chiamandolo
aristocrata. Pure la sentiva bene e saviamente. Voleva, che non si
offendesse la religione, che si allargasse il senato, come troppo poco
numeroso, che si restringessero i consigli, come troppo numerosi; che
non si perseguitasse nissuno nè in fatti, nè in parole per opinioni
antiche, che gli esagerati si frenassero; che nissun ritrovo pubblico e
politico si tollerasse, salvo il caso, in cui si volesse scuoter gli
animi a congiungere in un sol corpo tutte le parti d'Italia; al quale
fatto come cosa degna del suo gran nome esortava il generalissimo. Ma
non se ne soddisfaceva Buonaparte, nemico, come il direttorio,
dell'unione Italica. Gli piacevano gli altri pensieri di Serra, e come
se fossero suoi, ne scriveva lettere al governo Genovese. Della qual
cosa molto il lodava Serra stesso, desiderosissimo di scrivere la storia
di Buonaparte; alla quale opera non gli mancava già l'ingegno, che anzi
l'aveva molto capace, ma bene la libertà dell'animo; imperciocchè quella
gloria Buonapartiana gliel'aveva offuscato.

Incominciavano a prepararsi i semi delle future discordie. Si faceva
principio dalla religione, non che toccassero le opinioni dogmatiche, ma
soltanto la disciplina. I popoli confondevano l'una cosa coll'altra, i
cherici non che gli disingannassero, gli mantenevano nel falso concetto.
Prevalevano i desiderj delle riforme Leopoldine, a ciò stimolando il
Solari, vescovo di Noli, personaggio d'autorità pel grado, per la
dottrina, pei costumi, e molto ardente nelle sentenze Pistojesi.
Comandava il governo, che non fosse lecito ai vescovi di promuovere,
senza sua licenza, alcuno agli ordini sacri, se non coloro, che già
suddiaconi, o diaconi essendo, desiderassero ricevere il diaconato, od
il pretato, e parimente senza suo beneplacito, nessuno potesse, o uomo o
donna si fosse, vestir l'abito di nessuna regola di frati o di monache;
ordinamenti certamente molto prudenti, ma presi in mala parte dai più,
perchè la setta contraria al nuovo stato se ne prevaleva. Poi decretava,
che ogni cherico o regolare, o secolare che si fosse, se forestiero,
dovesse fra certo termine, e con certe condizioni uscire dai territorj.
Parevano questi stanziamenti molto insoliti in tanto e sì lungo dominio
delle potestà ecclesiastiche; ma bene più insolito e più strano appariva
quell'altro precetto, che fu pensiero di Serra, col quale si ordinava,
che uomini deputati dal governo a tempo, e dopo i divini ufficj,
predicassero la democrazia alle genti. Fu questo un gran tentativo; non
succedeva bene, perchè in molti luoghi i deputati non fecero frutto, in
altri furono scherniti, in alcuni scacciati. Si sollevarono
universalmente gli animi religiosi contro questa novità; i nemici dello
stato crescevano: novello argomento, che nelle umane faccende chi vuol
far troppo, fa poco.

Questo quanto alla religione: si moltiplicavano per altre ragioni gli
sdegni. Oltrechè con gl'incessabili discorsi e scritti non si lasciavano
mai quietare i nobili, fu preso decreto, che si mandasse a Parigi, come
ministro della repubblica, l'avvocato Boccardi, e si richiamasse Stefano
Rivarola, si richiamasse ancora Cristoforo Spinola, ministro a Londra:
se non obbedissero, i beni loro fossero posti al fisco; intanto si
sequestrassero. Il motivo fu, che Rivarola e Spinola, in ciò gittando
grida incredibili i patriotti, erano stimati agenti, e spie della spenta
aristocrazìa; e di più si opponeva loro lo aver fatto stampare per mezzo
di Lacretelle in un giornale di Parigi acerbe invettive contro i fatti
accaduti in Genova nel giorno ventidue di maggio. L'atto rigoroso
offendeva i nobili, vieppiù gli animi s'innasprivano. Questo era
riprensibile, ma bene del tutto intollerabile fu un altro atto, con cui
si ordinava, che i principali autori della convenzione fatta a Parigi da
Vincenzo Spinola, per la quale la repubblica si era obbligata a pagare
quattro milioni di tornesi alla Francia, fossero tenuti in solido a
restituire la detta somma all'erario, e se non la restituissero, fossero
i beni loro posti al fisco. Erano in questa faccenda interessate le
principali famiglie, specialmente i Doria, i Pallavicini, i Durazzo, i
Fieschi, i Gentili, i Carega, gli Spinola, i Lomellini, i Grimaldi, i
Catanei, personaggi che tiravano con loro una dipendenza grandissima.
Decreto fu questo veramente incomportabile, perchè chi aveva fatto, ed
appruovato quella convenzione (perciocchè anche il minor consiglio
l'aveva ratificata) aveva facoltà di farla, e quel far guardar la legge
indietro è cosa contro ogni giustizia, e di pessimo esempio. Tant'è, che
sebbene il decreto sia stato preso tardi, si vociferava nel pubblico,
che si volesse prendere, e gli scapestrati democrati menavano un romore
senza fine, perchè si prendesse. Ciò faceva maggiormente inviperire gli
animi degli scontenti, i quali vedendo di non trovare dopo la mutazione
alcun riposo nè per le sostanze, nè per le persone, pensavano a
vendicarsi, non che si consigliassero di far congiure, e moti popolari,
perchè troppo erano sbigottiti a voler ciò tentare, ma spargevano ad
arte voci sinistre nel popolo, ed aspettavano le prime occasioni per
insorgere. Mescolavano il falso col vero: vero era, che Buonaparte aveva
domandato parecchi milioni pel vivere delle sue genti: questo anzi era
stato uno dei principali motivi della mutazione. Il governo poi,
trovandosi ancor debole in quei principj, e non avendo altre radici che
i discorsi vani dei democrati, ed il patrocinio forestiero, andava lento
alle tasse, e perciò aveva trovato il rimedio di quell'iniquo balzello.
Genova per tal modo aveva pagato per comperar quiete quattro milioni, ed
aveva trovato sovvertimento: poi si era fatto restituire da uomini
privati i quattro milioni per comperar di nuovo quiete, poichè i primi a
nulla erano valsi. Qual quiete poi si sia comperata questa seconda
volta, diranlo a suo luogo le presenti storie.

A tutto questo si aggiungevano le rapine dei Barbareschi tanto più
moleste, quanto più si aveva avuto la speranza data espressamente, che
cambiato il reggimento, la Francia avrebbe tutelato dagli assalti dei
Barbari le navigazioni dei Genovesi. A questo modo, sclamavano, la nuova
repubblica vive? A questo modo preservano i Francesi Genova? Gonfie
parole, ed esili fatti son dunque tutto, che si è acquistato? Francesi
dentro, Algerini fuori! a che pro servire a Faipoult, a che pro servire
a Buonaparte, se l'Africano ci assassina? Questi discorsi, che toccavano
l'intimo delle sostanze Genovesi a cagione dell'interruzione del
commercio, accrescevano ogni ora più la mala contentezza, e già, come
suol avvenire, tornando indietro col pensiero, desideravano l'antico
stato.

Motivo potente di mal umore era altresì quello, che due generali
Francesi, Casabianca e Duphot, fossero venuti a reggere, e ad ordinare i
soldati, segno certo, essere perita la independenza. Ciò significava
inoltre, che Buonaparte o non si fidava dei Genovesi, o gli stimava
inabili alle cose militari; dal che nasceva, che chi pensava altamente,
si teneva mal soddisfatto. I nemici degli ordini presenti se ne
prevalevano, mostrando la patria perduta, e serva. Dava maggior forza
alle insinuazioni loro l'essersi udito, che si voleva, si smantellassero
le fortezze di Savona e di San Remo, soli propugnacoli dell'independenza
verso Francia. Vedevano anche levarsi i cannoni dalle porte della
metropoli, il che interpretavano come di voglia di aprir l'adito più
facile, e più sicuro ai forestieri per invadere il cuore stesso della
repubblica. Gridavano, doversi insorgere contro reggitori fatti servi
dei forestieri. I nobili, i preti, e gli aderenti loro, che non erano
pochi, fomentavano questi mali umori. Nel che tanto più alla sicura si
adoperavano, quanto più si erano dati a credere, avere appoggio nel
grembo stesso dell'autorità suprema; la qual opinione dall'un de' lati
dava loro maggior ardire, dall'altro aumentava la debolezza di chi
reggeva. Erano allora i reggitori divisi in due sette, dell'una delle
quali compariva capo Serra, dell'altra Corvetto, Ruzza, e Carbonara.
Amava Serra un reggimento più stretto, e pendente all'aristocrazìa,
voleva, che meglio si rispettassero i preti, faceva professione di
amatore ardente dell'indipendenza del paese, forse, come affermava la
setta contraria, per ambizione, si mostrava avverso ai patriotti
invasati di pensieri estremi, Faipoult nè corteggiava, nè amava, nè
lodava, voleva tirar a se tutte le affezioni aristocratiche, ed
aggiungervi quelle di una moderata libertà, sopra tutto amava Genova più
che la Francia. Gli avversarj s'intendevano meglio con Faipoult, alcuni
per ambizione, preferendo il dominare con l'appoggio dei forestieri alla
libertà della patria, altri a buon fine credendo, che, poichè i cieli
avevano destinato che i Francesi divenissero padroni di Genova, miglior
partito era per arrivar a bene il vezzeggiargli, che l'aspreggiarli,
perchè, volere o non volere, i Francesi dominavano. Ma la maggior
dipendenza di questa parte verso Francia, dall'un canto la faceva
odiosa, dall'altro la rendeva dipendente più che non sarebbe stato
necessario, dai democrati più ardenti, i quali non amavano Serra, anzi
il chiamavano tiranno, e nuovo duca d'Orleans. Questi semi pestiferi
erano pullulati, ne prendevano animo i nemici della mutazione, e si
apprestavano a far novità. Già si udivano sinistri suoni dalle valli di
Bisagno, e di Polcevera. Era la cagione, od il pretesto la nuova
constituzione, violatrice, come spargevano, della religione, e che, come
si era data intenzione, si doveva accettare il dì quattordici settembre.
Per far posar gli animi, annunziavano, essere prorogata l'accettazione,
e si torrebbe quanto potesse offender la coscienza dei fedeli.

In questo mezzo tempo Corvetto e Ruzza erano stati mandati a Buonaparte
per consultar con lui degli articoli, che avevano fatto adombrare i
popoli. Ma gli umori popolari più presto si muovono, che s'arrestano.
Dava loro l'ultima pinta l'essersi fatti arrestare tanto in città,
quanto nel contado alcuni nobili, che si credevano pericolosi, cinque
Durazzi, due Doria, due Pallavicini, tre Spinola, un Ferrari, uomini per
nome e per ricchezze di molta dipendenza. Incominciavano il dì quattro
settembre a tumultuare le popolazioni di Bisagno. Suonavano le campane a
martello, i curati esortavano, e guidavano i sollevati, si facevano
adunanze nelle ville dei nobili; poi crescendo il numero ed il furore,
armati di armi diverse, ma con animi concordi fatta una gran massa,
s'incamminavano infuriati verso la capitale. L'accidente portava con se
molto pericolo, perchè si temeva, che avesse corrispondenza viva dentro
le mura; non era tempo da starsi. Duphot con una squadra di Francesi e
di democrati andava loro all'incontro: il principal nervo consisteva
nelle artiglierìe, di cui i sollevati mancavano, ed esse compensavano il
minor numero. Seguitava una mischia molto aspra in Albaro. Vi si
perdevano di molte vite da ambe le parti, ma più da quella dei villici,
perchè in loro era minore l'arte delle battaglie, e la scaglia gli
straziava. Pure resistevano lungo tempo con molta rabbia; un frate
Pezzuolo, ed un Marcantonio da Sori, giovane animosissimo, gli
guidavano, ed incoraggivano. Quest'era guerra civile, e della peggiore
spezie, perchè i forestieri vi si mescolavano. Prevalevano finalmente
l'arte e la disciplina contro il numero ed il furore: andavano in fuga i
sollevati; alcuni furono presi, altri in mezzo alla mescolata fuga
crudelmente uccisi. Tornavano i soldati di Duphot in Genova vincitori,
sanguinosi, e non senza preda.

Non era ancora del tutto spenta la sedizione di Bisagno, che un nuovo
romore di guerra già si faceva sentire dalla Polcevera. Gli abitatori di
questa valle, mossi dall'esempio dei Bisagnani, e dalle instigazioni di
alcuni ecclesiastici, si levavano ancor essi in gran numero, e correvano
contro la capitale. Poi a loro si accostavano non pochi fra coloro, che
avanzati alle stragi di Bisagno, passando per luoghi montuosi, si erano
condotti in Polcevera per ajutare quel secondo moto, che credevano aver
a riuscire a miglior fine che il loro. Il pericolo appariva grave. Già
la moltitudine armata, assai più numerosa di quella dei Bisagnani,
accostatasi, s'impadroniva per una battaglia di mano del forte della
Sperona, che posto in sito eminente signoreggia Genova, ed è come un
freno parato contro di lei. Poi più avanti procedendo, occupava tutto il
secondo cinto delle mura, restando solo esente la batterìa di San
Benigno. Una prima squadra di soldati Liguri e Francesi mandata in quel
primo tumulto contro di loro, vedutogli bene armati, e bene fortificati,
se ne rimaneva, e tornavasene. Il timore assaliva chi reggeva, pareva
vicina la dedizione; perchè anche dentro, essendovi poco presidio,
principiavano a scoprirsi i segni della sedizione. Mandava il governo
quattro legati ad intendere che cosa volessero, ed a trattar con loro di
un accordo. Vi si arrogevano Gerolamo Durazzo, e Luigi Corvetto,
personaggi di grande autorità presso i Polceveresi. L'arcivescovo
eziandio ad esortazione dei capi dello stato, pubblicava una lettera
pastorale, con la quale spiegava ai popoli, che a niun modo si aveva
intenzione di offendere la religione o di pregiudicare ai preti. Furono
i legati coi deputati eletti dai sollevati, e concludevano un accordo in
tre capitoli, per cui si statuiva, che sarebbe la religione cattolica,
apostolica e romana conservata, che si serberebbero intatti i beni della
chiesa, che si perdonerebbe ogni offesa ai sollevati, che si
rimetterebbero in libertà i carcerati: con questo promettevano i
Polceverini di tornarsene quietamente alle case loro. Presa questa
speranza, cessava il governo ogni apparato di guerra. Ma ecco che dai
più ardenti Polceverini si spargeva, che i giacobini erano gente infida,
e che solo avevano promesso il perdono per meglio far le vendette.
Novellamente s'inferocivano e prese impetuosamente le armi, assaltavano
il posto principalissimo di San Benigno. In questo punto Duphot,
vincitore di Albaro, che per l'indugiarsi del trattato, aveva avuto
tempo di raccorre, e di ordinare tutti i suoi, ajutato fortemente dal
colonnello Seras, soldato molto animoso, traversava la città, e correva
contro la turba degl'insorti. Seguitava una feroce mischia, come di
guerra civile. Combattevano valorosamente Duphot e Seras, vecchi
soldati: non resistevano meno valorosamente i paesani, nuovi soldati;
durava quattr'ore la battaglia; furono non pochi i morti, non pochi i
feriti: superava infine la veterana disciplina: i paesani cacciati dai
posti, voltavano le spalle, e seguitati con molta pressa dai
repubblicani perdevano gran gente. Cinquecento, essendo presi, empievano
le carceri di Genova.

La fama della doppia vittoria di Albaro, e di San Benigno, e le forze
mandate sedavano i moti, che già erano sorti a Chiavari, ed in altre
terre della riviera di levante, come altresì nei feudi imperiali, o
Monti Liguri, che gli vogliam nominare. Ogni cosa si ricomponeva in
quiete, ma per terrore, non per amore; ma truce e minacciosa, non lieta
e consenziente.

Avuta la vittoria, si pensava alla vendetta. Creavasi un consiglio
militare, perchè nelle forme più pronte e più sommarie avesse a
giudicare i ribelli. Sette od otto, ma di oscuro nome, dannati a morte,
tignevano col sangue loro il suolo dell'atterrita Genova: non pochi
erano mandati al remo. Si apprestava il destino medesimo ad altri:
Faipoult avvertiva Buonaparte, che si dannavano soltanto gl'ignobili;
osservava specialmente, che per decreto dei reggitori era stato sospeso
avanti il tribunale militare il processo di un Brignole, figliuolo
dell'ultimo doge, sospetto di qualche accordo coi sollevati. Qualificava
Serra per sospetto di mali pensieri, e di patrocinio verso i rei di non
riconoscere i meriti di Duphot, e d'impedire i fornimenti dei soldati.
Accennava in somma, ch'ei fosse avverso in ogni cosa ai Francesi, e
persuasore, che si andasse grettamente nel pagar le liste di Duphot, e
de' suoi ufficiali per la spedizione contro i ribelli. Chiamavalo uomo
pericoloso, dissimulatore, ambizioso: stimava la quiete del pubblico in
pericolo, finchè Serra stesse al governo. I due Serra, giuntosi Gerolamo
col fratello, dal canto loro accusavano Faipoult e Duphot di essersi
fatti protettori di una parte turbatrice, e pervertitrice di ogni buon
ordine politico, e d'impedire che la quiete tornasse alla travagliata
Genova. Già le mannaje dei sicarj, dicevano, stare sul collo degli
uomini dabbene; già volere Faipoult vietare, che il consiglio militare
termini al più presto i giudizj, acciocchè quell'apparato di terrore
lungo tempo ancora sovrasti così ai buoni, come ai cattivi, e niuno
possa vivere sicuro dopo le calamità recenti; volere Faipoult, che si
tenessero i nobili in carcere, anche innocenti; niun altro mezzo di
salute e di riposo esservi, che quello di mandar via Duphot, e di
contenere nelle funzioni del suo ufficio Faipoult; senza ciò
nascerebbero necessariamente la debolezza dello stato, l'anarchia, i
disordini, il sangue. Per tale guisa gli animi s'invelenivano; ed era
vero che Faipoult addomandava imperiosamente al governo, che annullasse
il decreto, pel quale aveva ordinato, che la commissione militare
terminasse al più presto le sue operazioni. Addomandava oltre a ciò che
i nobili carcerati, anche innocenti, quali ostaggi si conducessero nel
castello di Milano. Il qual ultimo desiderio a me pare, che sappia molto
della natura degl'inquisitori tanto lacerati di Venezia; ma il biasimare
gli altri dei propri difetti fu vizio dell'età.

In questo arrivava a Genova con nuovi soldati mandati da Buonaparte, a
cui le turbazioni Genovesi davano sospetto, il generale Lannes, il quale
non curandosi nè di governo, nè di Faipoult, nè di preti, nè di frati,
nè di nobili, nè di plebei, nè di patriotti, nè di aristocrati, e solo
alla forza mirando, si alloggiava alla soldatesca nella città, e se ne
faceva padrone.

Intanto i legati accordatisi con Buonaparte intorno ai cambiamenti della
constituzione della repubblica Ligure, la conducevano a compimento, e
lui permettente, era pubblicata. Fossevi un consiglio dei giovani, uno
degli anziani, e un direttorio; dividessesi la repubblica in quindici
spartimenti, che chiamavano del Centro, di Bisagno, del Golfo Tigulio,
della Cerusa, del Lemmo, dei Monti Liguri orientali, dei Monti Liguri
occidentali, delle Palme, dell'Entella, della Vara, del Letimbro, della
Maremola, della Spezia, del Capo Verde, e della Polcevera; dei
magistrati giudiziali, distrettuali, e municipali si statuisse a modo di
Francia. Era questo un modello tutto Francese. Nè occorreva, stantechè
solo il copiare era permesso, che il signor di Talleyrand, ministro
degli affari esteri in Francia, prendesse cura, come ne aveva il
pensiero di mandare ad insegnar in Italia l'arte dello stato, uomini
politici di grido, e fra gli altri un Beniamino Constant, giovine per
verità di molto ingegno, ma che credeva, la libertà non poter
consistere, che nelle forme di quei tempi. A tanto di umiltà era
condotta l'Italia dal superbo vincitore, che voleva mandare ad
ammaestrarla giovani scrittori, che privi d'esperienza, volevano
applicare certi modelli astratti di fogge politiche ad ogni sorte di
nazioni, non considerando le diversità che sorgono dalla diversità
dell'indole, degli usi, dei costumi, delle opinioni, e delle abitudini.
In somma la Genovese constituzione fu data, non presa. Pure fra le armi
serrate, ed i soldati apprestati fu sottoposta ai comizj popolari.
L'appruovavano centomila voti favorevoli, diciassettemila contrarj.
Facevansi feste, cantavansi inni, erano nel teatro allegrìe assai.
Nominavansi i due consigli, e dai consigli il direttorio. Eleggevansi a
questo Luigi Corvetto, Agostino Maglione, Niccolò Littardi, Ambrogio
Molfino, Paolo Costa; creavano Corvetto presidente. Era Corvetto,
siccome Italiano, ingegnoso, e giusto estimatore delle cose del mondo;
il che constituisce la prudenza, fra tutte le virtù più necessaria in
chi è chiamato a governar gli uomini. Era in lui la natura dolcissima,
ma che però non ricusava quanto la sicurezza dello stato richiedesse.
Continente di quel del pubblico, benefico del suo verso gli amici, era
Corvetto uomo piuttosto da essere ricerco nei tempi buoni, che degno di
servire nei tempi tristi. Sul principiare dell'anno seguente prendevano
il magistrato tutti i nuovi ordini, e s'instituiva la constituzione. Poi
partitosi Faipoult, gli veniva sostituito un Sottin. A questo modo
periva l'antica repubblica di Genova, feroce, animosa, sanguinosa, ed
impaziente, non molle, non umile, non lacrimosa, come la Veneziana. Era
certamente il fato ineluttabile; ma bene è eternamente da piangersi, che
la perdita dell'indipendenza Italiana sia stata aiutata dalle mani
d'uomini Italiani. So, che alcuni dicono, che coloro i quali in queste
faccende si mescolarono, non solo in Genova, ma ancora in tutte le altre
parti d'Italia, rattemperavano con le speranze di un felice avvenire la
tristizia dei fatti presenti; il che è vero, nè io sarò per dannargli
mai; anzi molti fra di loro, i quali puri furono ed innocenti, pregio e
lodo sommamente, e predico, come uomini virtuosissimi e coraggiosissimi,
per non aver disperato della patria in casi tanto luttuosi, e per aver
dato alla salute di lei, per quanta salute potesse essere in sì lontane
e deboli speranze, il riposo loro, le fatiche dei migliori anni, e quel
che più importa, perfino l'illibata fama, corrotta in mezzo a tanto
avviluppamento da schifose calunnie; ma so ancora che non pochi
camminavano con troppo affetto verso i forestieri, e che invece di
obbedir loro con sopportevole dignità, gli ajutavano con eccessiva
condiscendenza.

Periva per mano dei vincitori Genova, perchè ricca, e con pochi soldati;
si conservava il Piemonte, perchè povero, e con soldati. Essendo ancora
le cose dubbie coll'imperatore, importava alla Francia l'avere in suo
favore i soldati del re, se di nuovo si dovesse tornare sull'armi. Poi,
quantunque il direttorio molto l'avesse in odio, Buonaparte se ne
compiaceva, invaghito per indole propria dei governi assoluti, ed
allettato dalle adulazioni dei nobili Piemontesi, i quali avevano bene
penetrato la sua natura, e sapevano in qual modo si potesse, non che
mansuefare, inlacciare quel soldato indomito. Pure non era possibile,
che le massime che correvano, i rivoltamenti della vicina Genova, i
giornali, le predicazioni, le trame di Milano non partorissero in
Piemonte effetti pregiudiziali alla quiete dello stato.

Quando prima fu fermata la tregua di Cherasco tra la Francia ed il
Piemonte, i ministri del re, ed il re medesimo, anteponendo la salute
dello stato all'inclinazione propria posero ogni cura nel nodrire
l'amicizia con Francia, ed a questo fine indirizzarono tutti i loro
pensieri. Per questo il duca d'Aosta tratteneva con lettere amichevoli
Buonaparte: per questo si mandavano San Marsano, e Bossi per tenerlo
bene edificato a Milano. Per questo medesimo nell'atto stesso della
tregua di Cherasco, e per averla sborsava il re più di trecento mila
lire. Nè furono vane le pratiche, poichè sussisteva il re, mentre i
vicini rovinavano. La principale difficoltà a superarsi in questa
bisogna, perchè quel, che si era conseguito per un tempo, divenisse
durabile, in questo consisteva, che si persuadesse al direttorio, che il
re per interesse proprio doveva star aderente alla Francia, e che la
Francia anche per interesse proprio doveva avere per aderente il re.

A questo fine, e perchè un trattato di alleanza si stipulasse, aveva,
come già abbiam narrato, Carlo Emanuele mandato suo ambasciadore a
Parigi il conte Balbo. Perchè poi potesse il conte più facilmente entrar
di sotto aveva fra le mani molto denaro, o mandato a Parigi dalla zecca,
o voltato a quella città dai banchieri più ricchi di Torino. Delle quali
cose molto sagacemente valendosi, si aveva acquistato molta entratura.
Poi facendosi avanti con progetti politici, massimamente di ordinamenti
delle cose Italiane, insisteva e dimostrava che, a volere che la potenza
e l'autorità dell'Austria fossero per sempre allontanate dall'Italia,
desiderio principale della Francia, era necessario contentare il re di
Sardegna, compensargli con nuovi acquisti Savoia e Nizza, farlo insomma
potente e grande; ma perchè non fosse scemata autorità alle sue parole,
come d'uomo che parlasse per se, aveva operato, che Francesi dei primi
coi quali si era accordato, queste medesime cose per bocca, e come per
motivo proprio rappresentassero. Per tal modo si proponeva al
direttorio, fra gli altri, per mossa del Balbo, ma per mezzo di Francesi
che avevano parte nello stato, un ordinamento per l'Italia superiore,
pel quale l'Austria sarebbe stata o esclusa perpetuamente dall'Italia, o
frenata in quei termini che le si stabilissero per la pace. Cedessero
Vintimiglia, la Bordighera, e San Remo col marchesato di Dolceacqua in
potestà della Francia; si avesse il re Finale, Savona, Parma, e
Piacenza; acquistasse la repubblica Ligure Carosio, i feudi imperiali,
Pontremoli e Fivizzano, Pietrasanta, Fordinovo, Massa e Carrara; dessesi
alla repubblica Cisalpina il ducato di Guastalla, al duca di Parma la
Toscana; finalmente il gran duca di Toscana si compensasse con un
elettorato ecclesiastico in Germania. A questo modo, si discorreva, il
dipartimento dell'Alpi Marittime acquisterebbe grandezza, e popolazione
proporzionate a quelle degli altri dipartimenti, e limiti più naturali,
e frontiera assai più facile ad essere difesa: Savona essere il porto
naturale del Piemonte; male aver pensato, e contro natura i Genovesi
nell'avere colmato questo porto; con ciò aver essi fatto pregiudizio al
commercio di tutte le nazioni, massimamente a quel della Francia: se
quel porto si concedesse al Piemonte, potrebbero facilmente il riso, le
canape, e principalmente le sete Piemontesi arrivar per mare a
Marsiglia, e quinci pel Rodano con pochissima spesa a Lione, e si
schiverebbero in tal modo i trasporti sempre costosi, spesso pericolosi
per le Alpi: che se ai casi di guerra si pensasse, potere facilmente
Savona se fosse in mano di uno stato tanto debole, quanto Genova era
veramente, divenir preda dell'Austria ad un primo suo impeto nella
Cisalpina; che se pel contrario al re fosse data, si potrebbe da lui
difendere, e perciò diventerebbe l'antemurale dell'Alpi Marittime con
compire la frontiera militare di Cuneo. Mondovì e Ceva, che nulla poteva
contro la Francia per essere quelle fortezze, una volta inespugnabili,
ora smantellate, ma molto potrebbe per la Francia contro l'Austria, se
questa un dì ritornasse tanto potente in Italia, che facesse suo servo
il re di Sardegna, caso, che la Francia con tutti i suoi pensieri, e con
tutte le sue forze doveva impedire. In questa guisa, compensato il re
delle perdite fatte, quieterebbe l'animo, e tornato potente come prima,
avrebbe un esercito in pace di quarantamila soldati, in guerra di
sessantamila, con questa differenza, che se innanzi dipendeva
dall'Austria, dopo dipenderebbe dalla Francia, e suo necessario naturale
alleato sarebbe, per essere i suoi stati tutti aperti, ed indifesi verso
di lei. Da un altro lato essere la repubblica Cisalpina un composto di
elementi eterogenei, e divisa in parti: la parte Austriaca esservi più
numerosa, e più forte di quella dei patriotti; avere la Cisalpina al suo
governo uomini nuovi e senza energia; senz'armi buone, senza spirito
militare, senza concordia, troppo più debole impedimento, che si
converrebbe, essere contro i pensieri ambiziosi dell'Austria;
pentirebbesi la Francia dello aver indebolito il Piemonte, vera e
naturale difesa, vero cinto esteriore della Francia contro la potenza
dell'Austria. Di ciò far fede Buonaparte medesimo, continuamente
scrivendo che la repubblica Cisalpina non sarebbe in grado di resistere
ad un solo reggimento di cavallerìa Piemontese, e che il re con un solo
de' suoi battaglioni, ed uno de' suoi squadroni era più forte di tutta
la Cisalpina unita.

Nè apparire che cosa importasse l'aggrandire la Cisalpina, perciocchè
più s'accrescono i corpi eterogenei, e maggiori diventano le probabilità
della dissoluzione. Ciò risguardare principalmente gli stati di Parma, i
quali, se si unissero alla Cisalpina, siccome all'unione molto
ripugnanti, altro effetto non partorirebbe che quello di avvantaggiare
le sorti dell'Austria, e preparare la servitù d'Italia sotto il dominio
dell'imperiale scettro di Germania. La libertà d'Italia dover nascere
dall'esclusione degli Austriaci, nemici naturali della Francia, non
dall'indebolire gli stati neutri, ed alleati naturali di lei. Restare
adunque inutile il dare il ducato di Parma alla Cisalpina; doversi dare
a chi non è forte abbastanza per dar timore agli amici della Francia, a
chi è forte abbastanza per farsi portar rispetto; perdere, è vero,
Genova qualche territorio, ma conseguirne altri alla sua integrità
meglio conducenti, ed uscire oltre acciò da ogni servitù imperiale, ed
acquistare titoli più sicuri sui feudi imperiali; non potersi, senza
sollevar tutta Europa, unir Genova alla Cisalpina, non potersi per la
ragione medesima, nè senza pregiudizio degl'interessi commerciali, nè
senza far forza ai limiti naturali unirla alla Francia, quantunque a
questo partito spignessero gli aristocrati scontenti allo essere esclusi
per la nuova costituzione dai primi luoghi dello stato; doversi
pertanto, ove Genova si volesse disfare, darne parte al re di Sardegna,
parte alla Francia, o tutta darla al re, che cederebbe in iscambio alla
Francia l'isola di Sardegna; opportunissima essere al dominio Francese
la Sardegna, ricca per se, ricchissima, se venisse in mano di Francia.
Di nissun momento essere Massa e Carrara alla Cisalpina, per essere
spiaggia importuosa, e solamente povero rifugio di barche pescherecchie,
di grande Guastalla per essere a cavallo del Po, per signoreggiare la
navigazione del fiume, e per far sicura la comunicazione fra le due
parti della repubblica situate sulle due opposte rive; torsele
conseguentemente una misera parte, unita a lei per poca terra, darsele
una parte ricca, opportuna, ed a lei per limiti naturali congiunta;
sottomettere al dominio del duca di Parma la Toscana piacere alla
Spagna, principalmente alla regina, di sangue Parmense. Per esso
pareggiarsi vieppiù la potenza delle due emole prosapie di Parma e di
Napoli, offerirsi alla prima la occasione di riguadagnarsi lo stato dei
Presidj, internati nella Toscana, e sui quali pretendeva Napoli
sovranità; soddisfarsi Madrid delle condizioni stipulate nel trattato
d'alleanza, ed avere perciò la Francia più fondata ragione di richiedere
dal re Carlo, facesse maggiori sforzi, acconsentisse più volentieri ad
ulteriori accordi; quel tumore delle menti Spagnuole avere a compiacersi
di un più alto titolo; e se Roma fosse per cambiar di sovrano, doversi
lei dare piuttosto ad un principe di parte Spagnuola, e per conseguente
unito alla Francia, che al re di Napoli, ed al gran duca di Toscana
tanto congiunti di sangue, o di parentela, o d'opinione colla parte
Austriaca. Ragionavasi ancora, che con questo si verrebbe a torre
all'imperio d'Inghilterra il porto tanto importante di Livorno. Oltre a
tutto ciò toccava il conte Balbo, e chi parlava per lui, che l'avere
l'Austria acquistato il paese Veneto, la faceva più grande in Italia;
essere perciò necessario crearvi nuova potenza contro nuova potenza, con
dare alla repubblica Cisalpina un governo savio e forte, e con
allontanare dall'Italia il principe Austriaco di Toscana, e con
sostituire a lui un principe, che potesse entrar nella lega Italica
destinata a frenare in Italia la potenza dell'imperatore; parere
somigliante al vero, che avessero a sopprimersi in Alemagna gli
elettorati ecclesiastici, e crearsi in luogo loro tre elettorati laici,
dei quali uno sarebbe probabilmente protestante; da ciò ne nascerebbe,
che l'Austria pruoverebbe l'autorità sua diminuita nel corpo Germanico,
e volentieri vedrebbe, che uno degli elettorati nuovi cedesse in capo di
un principe del suo sangue: il quale ordine crescerebbe il numero degli
elettorati insino a nove, come erano innanzi che i due della casa
palatina si riunissero in un solo. Pure per questo non acquisterebbe
l'Austria la pluralità dei voti, che restar doveva in avvenire in favore
della Francia. Meglio ancora sarebbe se l'elettorato di Colonia a questo
ramo d'Austria, cioè al gran duca di Toscana, si concedesse, perciocchè
la Francia avrebbe in tal caso sulla sinistra sponda del Reno un pegno,
che in accidente di guerra potrebbe agevolmente occupare.

L'ambasciadore Piemontese, avendo trovato la materia tenera, e volendo
dimostrare, che con la grandezza del re era congiunta la sicurtà e il
beneficio di Francia, procedeva più avanti, forse poco prudentemente,
perchè in ciò andava a ferire l'edifizio prediletto di Buonaparte.
Argomentava, e certamente con verità, che le nuove repubbliche Italiane
non potevano di per se stesse sussistere; che la parte dell'Austria vi
era la più forte, ch'essa proromperebbe tostochè i Francesi levassero le
forze loro, che erano il solo freno che la tenesse lontana da quei
paesi: che forse la parte stessa democratica era prezzolata dall'Austria
per impedire, che la Lombardia non fosse data al re di Sardegna; che se
l'Austria conducesse i suoi disegni a compimento, sarebbe il re casso
dal novero delle potenze d'Europa, e la Francia avrebbe, in vece di un
amico fedele e che anche fatto più potente non potrebbe pregiudicarle,
un vicino pericoloso, e nemico naturale del nome Francese. Necessaria
cosa essere adunque, che si compensassero al re le perdite fatte, e che
se gli assicurassero gli stati; il che meglio e più fermamente non si
poteva fare che col metterlo in possesso della Lombardìa: offerire il re
alla Francia un testimonio irrefragabile della sincerità sua, e della
sua avversione verso il giogo Austriaco in questo, che dappoichè, dopo
gl'inutili tentativi di ben quattro anni, erano i Francesi penetrati in
Piemonte, ed era stato il re liberato dalla dominazione Austriaca, aveva
egli tostamente fatto la risoluzione di gettarsi alla parte Francese, e
presto l'Italia intiera era venuta in potestà loro: se il re non avesse
giudicato conveniente di fidar tutte le cose sue ad un'intima
connessione dei veri e reali interessi della Francia co' suoi, se per
questa ragione non avesse accettato le durissime condizioni, alle quali
fu posto; e se solamente, come poteva, perchè intatte ancora, e fornite
di tutto punto erano, avesse atteso a difendere le sue fortezze, nè
l'abilità, nè la fortuna di Buonaparte, nè il valore de' suoi soldati
sarebbero stati bastanti a fare, che la vittoria alle armi Francesi si
assicurasse; il che esser vero Buonaparte stesso pensava, e l'aveva
affermato più volte.

Queste Piemontesi insinuazioni, che tendevano, secondo il costume dei
tempi, a spodestare altrui, erano astutissime, siccome quelle che sempre
toccavano quel tasto prediletto alle orecchie dei Francesi tanto
desiderosi della declinazione dell'Austria in Italia, e dell'aumento
della potenza propria. Perciò erano udite volentieri, non già dal
direttorio, sempre invasato da' suoi pensieri di rivoluzione, ma da chi
stava a lato a lui, e molto con lui poteva. Le avvalorava anche con sue
lettere Buonaparte. Scriveva egli al ministro degli affari esteri, male
conoscersi i popoli Cisalpini a Parigi; non portar la spesa, che si
facessero ammazzare quaranta mila Francesi per loro; errare il ministro
in pensando, che la libertà potesse far fare gran cose ad un popolo,
come affermava, molle, superstizioso, commediajo, e vile; volere il
ministro, ch'egli, Buonaparte, facesse miracoli; ma non saperne fare,
non avere nel suo esercito un solo Italiano, se non forse quindici
centinaja di piazzaruoli raggranellati a stento sulle piazze di diverse
città d'Italia, ribaldaglia piuttosto atta a rubare, che a far guerra:
il re di Sardegna solo con un suo reggimento esser più forte di tutta la
Cisalpina; non permettesse, diceva, che qualche avventuriere, o
fors'anche qualche ministro gli desse a credere, che ottanta mila
Italiani fossero in armi; bugiardi essere i giornalisti Parigini,
bugiarda la opinione in Francia rispetto agl'Italiani: se i ministri
Cisalpini gli dicessero, aggiungeva Buonaparte, ch'egli avesse
all'esercito più di quindici centinaja dei loro, e più di due mila
destinati a mantener il buon ordine in Milano, rispondesse loro, che
dicevano bugia, e gli sgridasse, che lo meritavano; certe cose esser
buone a dirsi nei caffè, e nei discorsi, ma non ai governi: romanzi
esser quelle, che son buone a dirsi nei manifesti, e nei discorsi
stampati; doversi ai governi parlar di un altro suono, perchè le falsità
gli sviano, e le male strade gli fan rovinare; non l'amore degl'Italiani
per la libertà e per l'equalità aver ajutato i Francesi in Italia, ma sì
la disciplina dell'esercito, il valore dei soldati, il rispetto per la
repubblica, il contenere i sospetti, il castigare gli avversi; avere ad
essere un abile legislatore quello, che potesse invogliar dell'armi i
Cisalpini; esser loro una nazione snervata e codarda: forse col tempo si
ordinerebbe bene la loro repubblica insino a metter su trenta mila
soldati di tollerabil gente, massime se conducessero qualche polso di
Svizzeri, ma per allora non vi si potere far su fondamento. Nè maggior
capitale potersi fare dei patrioti Cisalpini e Genovesi doversi aver per
certo, che se i Francesi se ne gissero, il popolo gli ammazzarebbe
tutti. Adunque, concludeva, se ausiliarj di niun conto sono e Genovesi e
Cisalpini, nissun miglior partito restare alla Francia per avere un
ausiliario buono in Italia a diminuzione della potenza Austriaca, che lo
stringere amicizia col re di Sardegna, e fermare con lui un trattato
d'alleanza.

Infatti un trattato di tal sorte tra Francia e Sardegna già si era
negoziato, quando ancora l'imperatore combatteva in Italia, e tuttavia
erano gli eventi della guerra dubbj. Infine era stato concluso il dì
cinque aprile da parte della Francia pel generale Clarke, da quella
della Sardegna pel ministro Priocca. I primi e principali capitoli
erano, fosse l'alleanza offensiva e difensiva prima della pace del
continente, solamente difensiva dopo; non obbligasse il re a far guerra
ad altro principe, che all'imperatore di Germania, ed il re se ne stesse
neutrale con l'Inghilterra; guarentivansi reciprocamente le due parti i
loro stati d'Europa, e si obbligavano a non dar soccorso ai nemici sì
esterni che interni, fornisse il re nove mila fanti, mille cavalli,
quaranta cannoni; obbedissero questi soldati al generalissimo di
Francia; partecipassero nelle taglie poste sui paesi vinti in
proporzione del numero loro: quelle poste sugli stati del re cessassero;
niuna parte potesse fare accordo col nemico comune, se non comune; si
stipulasse un trattato di commercio; la repubblica di Francia, come più
possibil fosse, avvantaggiasse, alla pace generale, o del continente le
condizioni del re di Sardegna.

Questo trattato, che prometteva giorni più lieti e più sicuri al
Piemonte, ed avrebbegli anche adotti, se meno perversi fossero stati gli
uomini, o meno avversi i tempi, conteneva una condizione
principalissima, e di tutto momento pel re, e quest'era la guarantigia
degli stati contro i nemici sì esterni che interni, gli uni e gli altri
pericolosi, i primi per la forza, i secondi per quella sequela delle
cose Milanesi e Genovesi. Debbono i Piemontesi averne una perpetua
gratitudine a Priocca per aver saputo far sorgere di mezzo a tanta
tempesta una speranza così grande di salute; perchè, se il vantaggio
dello avere per ausiliari diecimila Piemontesi non era da sprezzarsi per
la repubblica di Francia, bene era molto maggiore pel sovrano del
Piemonte la stipulata sicurezza degli stati, e per questa parte era il
trattato più glorioso al principe, che alla repubblica. Restava, che i
consigli di Francia ratificassero il trattato, perchè già il direttorio
l'aveva appruovato. Qui sorsero parecchie cagioni d'indugio, prima da
parte del governo regio, che desiderava, che la ratificazione fosse
susseguente alla pace con Roma, e che il suo ministro a Vienna ne fosse
uscito e condotto in salvo, poi per parte della Francia, perchè a questo
tempo stesso erano stati fermati i preliminari di Leoben; e siccome la
principal condizione dell'alleanza consisteva nel far guerra di concerto
contro l'Austria, pareva, che il ratificare, ed il pubblicare il
trattato potesse sturbare le pratiche di fresco aperte con l'imperatore.
Ma il re, sentiti i preliminari di Leoben, insisteva ostinatissimamente
per la ratificazione, perchè aveva timore delle turbazioni interne, e
sospettava, giacchè l'imperatore era stato costretto a chiedere i patti,
che il direttorio si ritirasse da lui, e si stipulassero nei sorti
negoziati cose contrarie ai suoi interessi. Temeva di restar solo
esposto ai risentimenti dell'Austria, tanto più formidabili, quanto egli
con maggiore sincerità e calore si era gettato alla parte Francese. Per
questo Balbo usava ogni opera a Parigi, e con ragioni forti, e con mezzi
più forti ancora che le ragioni, acciocchè il trattato si appresentasse
per la ratificazione dal direttorio ai consigli. Secondava Buonaparte
con le lettere i tentativi del conte. Badassero bene, scriveva, non
essere punto sicure le cose coll'imperatore; ad ogni momento potersi
rompere la guerra; se non ratificasse al trattato, per questo solo
diventerebbe il re di Sardegna nemico, perchè si persuaderebbe, e con
ragione, che la Francia volesse al tutto la sua rovina; per la medesima
ragione, e dovendo tenere il re in grado di avverso alla Francia,
sarebbe egli, Buonaparte, necessitato a mettere un presidio di due mila
soldati in Cuneo, altrettanti in Tortona, altrettanti in Alessandria;
avere conseguentemente l'esercito ad esser diminuito di sei mila
combattenti necessari a custodire le piazze Piemontesi, e di più, di
altri sei mila necessari a guernire le Milanesi: quest'erano i castelli
di Milano e di Pavia, e la fortezza di Pizzighettone. Per tal modo, se
non si ratificasse per parte della Francia il trattato, si perderebbero
dieci mila Piemontesi, ottimi soldati, e dieci mila Francesi, destinati
a tener sicure le spalle dell'esercito Italico, e ad allontanare
accidenti sinistri in caso di sconfitta. Perchè non voler mandare ad
effetto quello, che si era stipulato? Forse per lo scrupolo di
collegarsi con un re? Essersi bene la Francia collegata coi re di Spagna
e di Prussia. Forse il desiderio di sovvertire il Piemonte? Ma perciò
fare senza strepito, senza mancar di fede al trattato, anche senza
offendere la buona creanza, miglior mezzo essere (quest'era veramente
pensiero Buonapartiano) il mescolare ai soldati di Francia diecimila
soldati Piemontesi, fiore e parte eletta della nazione, e fargli
partecipi delle vittorie Francesi; sei mesi dopo sarebbe il re di
Piemonte detruso dal trono. Stringere la Francia con le sue forti
braccia, qual gigante, e serrare, e soffocare un pigmeo: tal essere la
necessità delle condizioni Piemontesi. Se ciò non s'intendesse,
soggiungeva, non saper che farci, e se alla politica savia e vera, che
si conveniva ad una grande nazione chiamata a gran destino, e che ha a
fronte nemici potentissimi, si sostituissero le ciarle democratiche, non
saper che farci, e niuna cosa potersi fare, che buona fosse.

A queste cose vere, e con sincerità fraudolenta dette da Buonaparte,
rispondeva dal canto suo cose vere, e con sincerità apparente dette,
Carlo Maurizio di Talleyrand: non volere il direttorio ratificare il
trattato concluso col re di Sardegna; implicar contraddizione il far
patti solenni con una monarchia, la di cui prossima distruzione potrebbe
esser l'effetto di quanto la Francia aveva operato in Italia: sarebbene
il direttorio accusato dello stesso procedere machiavellico, col quale
aveva proceduto il re di Prussia verso la Polonia. Di più, il capitolo
del trattato, che più stava a cuore al re di Sardegna, quello essere,
per cui se gli faceva sicurtà del suo regno; ma non potere la Francia
dare ai re questa sicurtà contro i popoli; un tale patto condurrebbe la
Francia a far la guerra a quelli stessi principj pei quali aveva essa
combattuto sino allora, ed ai quali era della maggior parte delle sue
vittorie obbligata; diventerebbe il Piemonte posto tra la Francia e
l'Italia, ambedue libere, quello che il suo destino volesse: ma non
poter altro in ciò fare la Francia, che lasciare andar le cose al loro
naturale corso. Conseguitarne da tutto questo, che l'esercito Italico
non avrebbe i diecimila Piemontesi; ma niuna cosa poter impedire, che
Buonaparte avesse dal Piemonte quanti soldati volesse; non mancarvi
uomini disposti a combattere per la libertà sotto le insegne
Buonapartiane; tutti i novatori, tutti i sovvertitori accorrerebbero,
solo che Buonaparte muovesse la Cisalpina ad arruolargli, a soldargli, a
fornirgli: avrebbesi a questo modo, continuava a dire Talleyrand, il
piccolo esercito, che il re dovrebbe dare in virtù del trattato, e
nissun obbligo si avrebbe ad un principe di casa Borbone (scrivo
Borbone, perchè così trovo scritto). Forse il re medesimo si
compiacerebbe di queste chiamate, siccome di quelle, che lo
libererebbero da gente inquieta e pericolosa: questo consiglio utile
alla Francia ritarderebbe la rivoluzione Piemontese: ma non importare,
sì veramente che la Cisalpina pagasse: pagar già molto la Cisalpina, ma
all'ultimo non esser che denaro: aver bene la Francia comprato la
libertà più caro prezzo.

Ma o che Balbo avesse trovato modo di ammollire queste durezze, forse
mostrate appunto, perchè ei trovasse modo di ammollirle, o che le cose
di guerra pressassero, e prevedesse il direttorio una nuova rottura
coll'Austria, il trattato d'alleanza con la Sardegna era mandato dal
direttorio ai consigli, e questi il ratificarono. Così, rescriveva un
quinqueviro di Parigi a Buonaparte, avrebbe adempiti i suoi desiderj, e
potrebbe stare a sicurtà sulle truppe Sarde; potrebbe mandar ad effetto
i disegni, che sopra di esse aveva concetto, dar loro nuovi ufficiali, e
preparare per tal mezzo quello, che in altro modo bisognerebbe
effettuare, se la pace si facesse; conciossiachè in quest'ultimo caso,
continuava a discorrere il quinqueviro, sarebbe forse incomodo impaccio,
se il governo Francese si trovasse vincolato per una ratificazione, alla
quale avrebbe acconsentito pel solo rispetto della guerra. Quest'era la
lealtà del direttorio nel momento stesso, in cui stringeva, non che
amicizia, alleanza col re di Sardegna. Che fede fosse questa io non lo
so; questo so bene, che non era fede Italica. Da questo si vede, in
quale conto si debbano tenere le protestazioni di lealtà, che in nome
del direttorio andavano facendo, nelle loro allocuzioncelle accademiche,
i suoi ministri in occasione degl'introiti loro ai re d'Italia, e
principalmente a quel di Sardegna.

Mentre così, come abbiam raccontato, il governo repubblicano di Francia
studiava modo di usare le forze del re di Sardegna durante la guerra, e
di distruggerlo durante la pace, i semi venuti di Francia, e pullulati
con tanto vigore in Milano ed in Genova, incominciavano a partorire i
frutti loro in Piemonte. Principiavasi dalle congiure segrete,
procedevasi alle ribellioni aperte. Davano incentivo a queste mosse,
oltre le opinioni dei tempi, le condizioni infelici di quel paese;
imposizioni gravissime, quantità esorbitante di carta moneta, che
scapitava del cinquanta per cento, moneta erosomista anch'essa in copia
eccessiva, e disavanzante del dieci per cento; a questo i gravami dei
soldati repubblicani o di stanza nel paese, o di passo, le leve di
genti, sì pei regolari che per le milizie molto onerose, l'orgoglioso
procedere dei nobili, certamente intempestivo, stantechè da lui
principalmente nasceva la mala contentezza dei popoli, e contro di loro
specialmente si dirizzavano le opinioni. A tutto questo non portava
rimedio nè la natura temperata del re, nè la santità della regina, nè i
consigli prudenti dei ministri. Era la quiete di Torino raccomandata al
conte di Castellengo, uomo tanto deforme di corpo, quanto svegliato
d'animo. Amatore del bene solo pel buon ordine, odiatore del male solo
pel mal ordine, indovinava gli uomini, e gli sapeva frenare. Cercatore
di mercati assiduo, esploratore notturno di conventicoli, scopritore
acutissimo di volti infinti, si vedeva che in lui più poteva la natura
che l'arte, ancorachè l'arte potesse moltissimo, e se per debito spiava,
spiava molto più per inclinazione. Della nobiltà non si curava, dei re
poco, della libertà si rideva, della non libertà parimente, i patriotti
perseguitava piuttosto per vanagloria dell'arte, che per opinione.
Insomma ei fu uomo, non dirò già più tristo dei tempi, ma bene tanto
astuto, quanto i tempi avviluppati, e se campo più largo alle abilità
sue avesse avuto, che il Piemonte non era, avrebbe lasciato una gran
pruova di quanto possa a far muover gli uomini a posta d'uomo il
conoscergli. Fu accusato di sangue, di ruberìe, di ricchezze illecite.
Punì qualcheduno, ma sospinto dalla rabbia altrui; fu continente da quel
d'altri, morì coi beni paterni non aumentati. Un Bonino, cameriere del
marchese di Cravanzana, ed un Pasio, materassajo, furono sostenuti, come
di aver voluto assaltare a mano armata il re sulla strada per alla
Venerìa a fine di fare una rivoluzione. Credevano trovar molta gente,
trovarono nissuno. Si disse, un Santini, spia di Castellengo, avergli
messi su, poi traditi; ma non fu vero, e Castellengo non era uomo da
simili giuochi, non che avesse scrupolo, che veramente non aveva, ma gli
parevano inezie sanguinose per niente. Intanto l'astio delle due parti
vieppiù s'inacerbiva. Insolentivano i soldati regj a Novara con lacerar
di forza certe nappe d'oro, che i giovani Novaresi portavano sui
cappelli: fuvvi gran tumulto, e qualche ferita. Tumultuava il popolo a
Fossano, pretendendo il caro dei viveri, e faceva oltraggio alle case
del conte San Paolo, uomo dotto e buono, ma lo chiamavano usurajo: poi i
sollevati prendevano certi cannoni; il che non era più tumulto per le
vettovaglie, ma ribellione: a Torino s'incominciava a gridar il nome di
libertà, preso principio dalla bottega di un panattiere, che non voleva
vender pane. Questi erano cattivi segni di un peggior avvenire; ed
appunto in Genova era nata la rivoluzione. Accresceva il terrore ed il
livore mi caso molto lagrimevole; che un medico Boyer con un compagno
Berteux si arrestavano come rei di congiure. Era Boyer giovane virtuoso,
e di famiglia ornata ancor essa di tutte le virtù, che possono capire in
mortali uomini. Era egli certamente amico di libertà, ma per lei, non
per lui: aveva l'animo innocente, e dell'innocenza prima; il mal fare
odiava più che la morte, ed il mal fare degli altri il muoveva piuttosto
a compassione che a odio; tanto era la natura sua dolce e comportevole.
Amici e nemici piangevano le sue disgrazie. Egli solo, come se l'animo
suo albergasse in altra miglior regione che questa non è, non rimetteva
dalla dolcezza e serenità consuete. Eppure tanto amore lasciava
nell'estremo supplizio!

I tumulti intanto si dilatavano. Già Racconigi, Carignano, Chieri e
Moretta, terre vicine a Torino, contro il dominio regio si muovevano. In
Asti soprattutto succedeva un fatto terribile, perchè i novatori, prese
improvvisamente le armi, combattevano i soldati regj, che in numero di
mila cinquecento vi stanziavano, e gli facevano prigioni con
insignorirsi intieramente, non solo della città, ma ancora del castello.
Poi chiamavano a libertà le terre vicine, in aiuto i patriotti lontani:
Canale ed Alba romoreggiavano da vicino, Mondovì da lontano. Poco stante
si udiva di nuovi romori a Biella, che oppugnata da una banda di
novatori guidati da un conte Avogadro, e venuti parte da Cambursano e da
Pollone, parte dalla valle di Mosso, fu tosto ridotta in estremo
pericolo; perchè mentre i soldati regj combattevano gli assalitori da
una parte, gli altri sforzavano il comandante ad arrendersi con dare in
mano loro armi, e vettovaglie. Al tempo medesimo nella già tentata
Novara prevalevano i regj, ma fu più insidia che onorevole vittoria;
conciossiachè i soldati a ciò spinti da parecchi ufficiali, andavano
facendo molte grida di libertà per fare scoprir i libertini: un solo fu
colto all'agguato, perchè gridò, e non così tosto ebbe gridato, che
restò ucciso. Nissun altro si scopriva, perchè avevano conosciuto
l'inganno. Ma il moto, come suole avvenire, non poteva terminarsi di
leggieri: i soldati correndo alla scapestrata incominciavano a mettere a
sacco le case di coloro, che erano in voce di desiderar le novità; poi
saccheggiavano le case degli aristocrati, e stava per poco che la città
non andasse tutta a ruba. Un Seminoli, che fabbricava orologi, un
Martinez gioielliere ne andavano con la peggio. Ho per testimonj uomini
gravi, i quali raccontano, essersi veduto il dì seguente un ufficiale
portar in dito l'anello della moglie del saccheggiato Martinez. La qual
cosa io nè affermo, nè nego; basta bene, che il farlo veramente, ed il
dirlo falsamente erano degni ugualmente di quei tempi.

Così con varia fortuna ardeva la guerra civile in Piemonte, accesa dal
popolo pel timore delle vettovaglie, dai novatori per amore di libertà,
o per odio dei nobili, dai nobili per fede verso il re, o per odio
contro i novatori. Si trepidava in ogni luogo, perchè in ogni luogo si
faceva sangue, o si temeva che si facesse. Già si sospettava di Torino;
ma ottomila fanti, e duemila cavalli chiamati in fretta per sussidio
della regia sede, e posti a campo sullo spaldo della cittadella
minacciosamente, erano mantenitori di quiete. Ed ecco sulle porte stesse
della città regia udirsi un romor confuso d'armi e d'armati: erano i
Moncalieresi, che levatisi a romore, e sovvertita in Moncalieri
l'autorità regia, già si mostravano sulle rive del Sangone con animo di
andar più oltre a tentar Torino. Eransi i Moncalieresi a ciò mossi
principalmente dai romori di Asti e di Carignano, e dalla stretta dei
viveri, parte vera, parte esagerata dagli spaventi popolari, parte con
vivi colori descritta dai novatori, levati a sedizione, e corsi sulla
piazza per cui si ascende al castello, creavano tumultuariamente una
immagine di reggimento popolare, non conoscendo bene nè che cosa si
volessero, nè qual pericolo portassero in tanta vicinanza della sede
della metropoli ottimamente munita d'armi e di munizioni. Sogliono i
popoli sollevati nei primi impeti loro, prima che i tristi abbiano fatto
i loro maneggi per tirar le cose a se, ricorrere, e far capo a
personaggi autorevoli per dottrina e per virtù; il che lascia poi la
solita coda dei martirj dei buoni, non solo abbandonati, ma ancora dati
in mano ai persecutori da quei popoli medesimi, che gli avevano fatti
capi delle imprese loro. Viveva a questi tempi in Moncalieri un uomo
dottissimo, e tanto buono quanto dotto, dico Carlo Tenivelli, autore
elegante di storie Piemontesi. Questi, alieno dalle opinioni dei tempi,
avverso per natura, siccome quegli che Italianissimo era, da quanto
venisse d'oltre Alpi, ed oltre a ciò di costume molto indolente e non
curante, non avendo attività alcuna se non per iscrivere storie, non
aveva a niun modo mente a muover cose nuove, e molto meno quelle che si
assomigliassero alle Francesi. Divoto alla casa di Savoja, dedito, anche
con singolare compiacenza, ai nobili, non era uomo, non che a fare, a
sognar rivoluzioni. Per me, quando considero la natura sua, e quella del
La Fontaine, celebrato favolatore di Francia, mi pare, che non mai chi
crea tutto, abbia creato due nature tanto l'una all'altra somiglianti,
quanto quelle di Tenivelli e di La Fontaine, solo ed unicamente in ciò
differenziandogli, che l'uno era formato per aver ad essere uno storico
egregio, l'altro un favolatore eccellente. Suonavano l'armi e le grida
tutto all'intorno, e dentro della mossa Moncalieri, che Tenivelli non se
ne addava, tutto con la mente immerso nelle solite lucubrazioni. Ma i
sollevati avvisandosi, che il buon Tenivelli tornasse in acconcio di ciò
che desideravano, tanto buono egli era, ed alla mano con tutti, lo
andavano a levare di casa, e per forza il portavano in piazza, senza che
egli ancora si avvedesse, che cosa volesse significare tanta novità.
Insomma condottolo sulla piazza, e fattolo montar sulle panche, gli
dicevano: _Fa, Tenivelli un discorso in lode del popolo_, ed egli, che
eloquentissimo era, faceva un discorso in lode del popolo: poi gli
dicevano: _Tenivelli tassa le grasce, che son troppo care_, ed ei
tassava le grasce con tanta bontà, con tanta innocenza, che mi vien le
lagrime in pensando al fine, che il fato gli apprestava. Tassate le
grasce, ed usatosene anche copiosamente dai sollevati, s'incamminavano,
come dicemmo, verso il Sangone per alla volta di Torino. Scrivono
alcuni, che Tenivelli gli guidasse, ma non fu vero; e se fosse stato,
sarebbe certamente stato guida poco acconcia, siccome quegli, che mezzo
cieco essendo, appena vedeva lume.

In sì pericoloso frangente, in cui quasi tutto il Piemonte romoreggiava
per la guerra civile, e che il suono dell'armi contrarie si udiva per
fin dalle mura della real Torino, il governo non si perdeva d'animo,
scoprendosi in questo, qual differenza sia fra uno stato enervato, qual
era quel di Venezia, uno stato male armato, qual era quel di Genova, ed
uno stato forte e bene armato, qual era quel del Piemonte. Il giorno
stesso, in cui Moncalieri si muoveva contro Torino, creava il re con
un'apposita legge, giunte militari, le quali con l'assistenza dei
giudici ordinari sommariamente e militarmente giudicassero i ribelli.
Poi premendo che si mettesse tosto il piede su quelle prime faville di
Moncalieri, il che era più facile, e più pronto per la vicinanza, e pel
gagliardo presidio che alloggiava nella capitale, ordinava ai soldati,
in ciò insistendo massimamente il conte di Sant'Andrea, recentemente
creato governator di Torino, buon soldato, e che sapeva quanto i buoni
soldati valessero contro i popoli tumultuanti, andassero contro i
ribelli, e gli vincessero. Non poterono i sollevati sostenere l'impeto
delle compagnìe regie, e in poco d'ora si disperdettero; tornava
Moncalieri sotto la consueta divozione.

Il buon Tenivelli, non solo non pensando, ma nemmeno sospettando, che
quel che aveva fatto, fosse male, non che delitto, se ne veniva
quietamente in Torino, e quivi tornava sui soliti studj, come se gli
accidenti di Moncalieri fossero cose dell'altro mondo, o di un altro
secolo. Passava arrivando tra file di soldati minacciosi, che nol
conoscevano, e grande era la sicurtà sua: tanta era in lui l'astrazione
e la fissazione negli studj, tanta la bontà, tanta l'ignoranza degli
affari di questo mondo. Ma gli amici gli dicevano: _Tenivelli, che hai
fatto? o fuggi, o ti nascondi, se no, tu sei morto_. Non la sapeva
capire: tornava nella solita astrazione. In fine il nascondevano in casa
di un soldato Urbano, che faceva professione di libertà; il soldato per
prezzo di trecento lire il tradiva. Fu arrestato, condotto a Moncalieri,
e condannato a morire dalla giunta militare. Lettagli la sentenza, non
cambiava nè viso, nè parole. L'innocenza della vita il confortava, non
era coraggio il suo, perchè il coraggio suppone uno sforzo, ma una
mansuetudine, una equalità d'animo, tali che l'aspetto della vicina
morte in modo alcuno non turbava. Introdotti gli amici piangevano, ed ei
gli confortava. Raccoltosi, scriveva una lettera a sua sorella, il suo
unico e diletto figliuolo Carlo, ancor fanciullo, raccomandandole. Poi
con la verità paragonando il fallo che gli era imputato, e che a sì
cruda ed a sì acerba morte il traeva, ed in mente recandosi tutta la
vita sua, e quel che aveva fatto, e quel che aveva scritto, e più ancora
quello che aveva in animo di fare e di scrivere ad onore del re e dei
nobili, ed a gloria di una patria, che già aveva illustrato con gli
scritti ed onorato con le virtù, rimetteva alquanto, in sì estrema
sventura, dalla consueta mansuetudine, e scriveva, un'ora prima che
andasse a morte, un sonetto pieno di spirito poetico, di pietà verso
Dio, di sdegno contro i suoi percussori. Condotto sulla piazza di
Moncalieri, gli fu rotto l'intemerato petto dalle palle soldatesche.

Va, mio maestro, che conforto emmi della tua morte il poter raccontare
ai posteri le tue virtù, e se nell'altra vita conservano le anime presso
il pietoso Iddio memoria, siccome credo, di quanto hanno operato nella
presente, non tu ti pentirai, spero, dello avermi ammaestrato, nè io mi
pentirò dello aver collocato nella più intima, e più ricordevol parte
dell'animo mio i tuoi puri e santi erudimenti; imperciocchè ama il
cielo, e ricompensa così l'amore dei maestri, come la gratitudine dei
discepoli. Tu mi desti più che i parenti miei non mi diedero, poichè non
la vita del corpo, ma quella dell'anima coi civili insegnamenti mi
desti; e morendo ancora per atroce caso, mi mostrasti, come si possa
concludere una innocente vita con una generosa morte. Così e vivendo e
morendo a me fosti di utili precetti, gli uni pur troppo amorevoli, gli
altri pur troppo funesti, fonte, ond'io durante questo mortal corso
apprendessi nella prospera fortuna a temperarmi, nell'avversa a
confortarmi, e se chi leggerà queste mie storie, potrà giudicare, ch'io
non mi sia del tutto indegno discepolo di un tanto maestro, tu ne
goderai nel celeste tuo seggio, ed io mi crederò di non aver impiegato
indarno il tempo e le fatiche mie.

Continuavano intanto nelle città sommosse gl'insulti al governo regio.
Il re, per rimediare ad un male tanto pericoloso, e per temperare un
furore che ogni ora più andava crescendo, comandava, volendo dar adito
al pentimento, e forza contro i renitenti, che si perdonassero le offese
a chi ritornasse alla quiete ed alla fedeltà, e che i sudditi si
armassero contro i ribelli. Riusciva questo rimedio utile per l'effetto,
feroce per l'esecuzione: perchè i contadini, gente ignorante e fanatica,
commettevano enormità degne di eterne lagrime, non portando più rispetto
agli aristocrati che ai democrati, nè più ai nobili che ai plebei.
Sanguinosa era per ogni parte la terra del Piemonte. Pure da questo
editto conseguiva il governo gran parte dell'intento; perchè i novatori,
interrotte le strade, non potevano più nè accordarsi, nè accorrere gli
uni in ajuto degli altri.

Siccome poi per pretesto principale di tanti movimenti sfrenati si
allegava la carestia dei viveri, ed anche era andata la stagione molto
sinistra pel grano e per le biade, si facevano provvisioni sull'annona,
e fra le altre, che nissuno potesse negar grano, o qualunque biada al
pubblico, ove le volesse comprare al prezzo comune: ancora, che gli
affitti dei terreni coltivati a riso le diecimila lire, que' dei terreni
coltivati a grano e ad altre biade, le cinquemila non potessero passare;
il qual consiglio era diretto ad impedire i monopolj, fonti di caro nei
viveri, di sdegno nei popoli.

Oltre la scarsezza, principal cagione del caro che si pruovava, era il
disavanzo dei biglietti di credito verso le finanze, e della
cartamoneta, e così ancora quello della moneta erosa ed erosomista, gli
uni e le altre cresciute in quantità soprabbondante, vera peste del
Piemonte. Si sforzava il governo, premendo tanto i tempi, a rimediare ad
un pregiudizio sì grave con obbligare, insino alla somma di cento
milioni, con pubblico editto ai possessori dei biglietti, per sicurezza
del loro credito, i beni degli ordini di Malta, di San Maurizio e
Lazzaro, e quei del clero sì secolare che regolare, eccettuati i
benefizj vescovili e parrocchiali. Nè questo bastando a tanta pernicie,
diminuiva, poco dopo, il valore della moneta erosa ed erosomista, e al
tempo medesimo creava, con autorità del papa, una tassa di cinquanta
milioni sul clero; sopprimeva, pure con autorità del pontefice, i
piccoli conventi, e le chiese collegiali. Ordinava inoltre, che si
esponessero all'asta pubblica le abbazìe, ed altri benefizj di patronato
regio, e che i fondi di commercio pagassero il dieci per centinajo, gli
stabili il quattro. Poi la tassa sul clero, insolito a portar i carichi
dello stato, non riscuotendosi, ordinava che la sesta parte dei beni
ecclesiastici e militari forzatamente si vendesse. Dai rimedj stessi si
può argomentare della grandezza del male. Pure pochi credevano, che
fossero per bastare, e forse nemmeno quelli che gli usavano.

Miravano questi provvedimenti alle rendite dello stato, ed al far
tollerabile il vitto del popolo; altri se ne facevano per mansuefar le
opinioni, buoni in se perchè giusti, ma insufficienti perchè i novatori
a niuna cosa, che venisse dal re, volevano star contenti. Toglieva il re
con nuovo editto a' nobili la facoltà che avevano di nominare i giudici
delle terre, e voleva che le spese dei processi criminali, che prima
delle sentenze erano a carico loro, abuso enormissimo, si addossassero
alle finanze. Statuiva ancora, che le bandite, ed i forni costretti
fossero, ed intendessersi soppressi, e così ancora fossero, ed
intendessersi soppresse le primogeniture ed i fidecommissi, e che i beni
feudatarj si convertissero in allodiali, e si soggettassero alle tasse.
Creava infine nuovi luoghi di monti, volendo che in loro si potessero
investire i biglietti di credito, e la moneta erosomista.

Con tali consigli sperava di poter fare appoggio allo stato che
pericolava. Ma due rimedj assai più efficaci di questi gli apprestava il
cielo, che per istrano destino voleva che la monarchìa Piemontese non
cadesse, se non dopo che avesse pruovato tutte le amarezze di una lunga
e penosa agonìa. Fu il primo l'ajuto dei propri soldati, l'altro
l'amicizia di Buonaparte. Le truppe regie virilmente combattendo, e
condotte dal conte Frinco, ricuperavano Asti. Già Biella, Alba, Mondovì,
Fossano, e Racconigi nell'antica obbedienza rimettevano: già Carignano,
Moretta, ed altri luoghi vicini a Torino ritornavano per forza al
consueto dominio, e già non si aveva più timore, che le valli di
Pinerolo abitate dai Valdesi, sulle quali non si stava senza qualche
sospetto, tumultuassero, solo alcune teste di novatori più ostinati o
più coraggiosi, facevano qua e là qualche resistenza. Ma toglievano loro
intieramente l'animo le lettere di Buonaparte scritte al marchese di San
Marsano mandato a Milano ad implorare ajuto alle cose pericolanti, e che
a considerato fine furono pubblicate dal governo regio. Recavano le
Buonapartiane lettere, che la repubblica di Francia, era
soddisfattissima del governo del re, che non solamente non doveva sua
maestà aver timore della Francia, ma che il generalissimo era parato a
fare quanto sapesse desiderare per assicurarla, e per restituir la
quiete ad una corte, che aveva dato testimonianze vere de' suoi buoni
sentimenti verso la Francia; che alcun pensiero non aveva di mandar in
Piemonte la legione Lombarda, di cui il re temeva per esservi dentro
molti novatori Piemontesi, e che si mostrava incitatrice a cose nuove;
che solo aveva in animo di mandar un battaglione Polacco, ma che neanco
questo manderebbe, se al re dispiacesse; che già quel Ranza, promovitore
di scandali in Piemonte coi suoi scritti, aveva fatto arrestare; che
finalmente era desideroso di testimoniare a sua maestà l'amicizia, che
la repubblica di Francia aveva per lei, ed il desiderio suo proprio in
contribuire che ella vivesse contenta e felice. Così Buonaparte diede
volentieri al re di Sardegna quel sussidio, che con pretesti vani aveva
ostinatamente negato a Venezia. Della quale differenza la cagione sia
manifesta a chi si farà a considerare le cose da noi fin qui raccontate.

Qual fosse l'amicizia della repubblica di Francia verso il re di
Sardegna, di sopra si è veduto, e si vedrà anche maggiormente in
appresso. Quanto all'ufficio di Buonaparte, era buono e lodevole, e
sarebbe stato anche più, se prima che entrasse in Piemonte, e dopo che
vi era entrato, non avesse, secondando le intenzioni del direttorio, con
parole ed esortazioni efficacissime stimolato i democrati a muoversi, ed
a far rivoltar lo stato, mostrando anche loro lettere di un quinqueviro
che risolutamente affermavano, non essere mai la repubblica di Francia
per far la pace col re, ed anzi essere intenzione di lei di torgli lo
stato. Queste furono le parole del generalissimo, questi gli scritti del
quinqueviro: per le une e per gli altri avevano dato i democrati
Piemontesi il denaro loro al capitano di Francia per ajutare il suo
ingresso in Piemonte, ed ei se lo aveva preso, e ne aveva fornito i
soldati delle cose più necessarie. Intanto le lettere di Buonaparte
partorirono l'effetto che se ne aspettava. I novatori, già rotti dai
soldati regj, ed ora caduti dalle speranze degli ajuti di Francia,
posarono intieramente. Domati i democrati, si faceva passo dalle
battaglie ai supplizj: erano giusti, perchè contro i ribelli, ma sì
frequenti, che parevano piuttosto vendetta che giustizia. Di quattordici
si prendeva l'estremo supplizio a Biella; un abbate Boffa fu del numero;
di più di trenta in Asti, degli avvocati Testa, ed Arò, dei fratelli
Berruti, e di un Celotto di men chiaro nome; nè Moncalieri stava senza
sangue, oltre quel di Tenivelli. Vidersi più di dieci giustiziati a
Racconigi; poi si soprastava per intercessione del principe di
Carignano, dolente di veder quella sua terra piena di sangue. Notossi
fra i giustiziati un giovane Goveano di natali onesti, ed apparentato
con famiglie di buona condizione. A questo tratto fu molto biasimato,
anzi lacerato il governo, come di una cosa enorme, e questa fu, che il
re avendo ordinato, che si perdonassero ed in dimenticanza si mandassero
i fatti di Racconigi, fu il supplizio susseguente al perdono.
Affermavano in contrario i difensori del giudizio, che Goveano, non per
delitti politici, ma per comuni era stato condannato dal consiglio di
guerra. Ma questi delitti comuni, alla realtà dei quali da una parte
ripugna la natura onesta del giovane, dall'altra dà fede l'autorità di
una sentenza, in occasione dei delitti politici, e per loro erano nati,
e con loro talmente mescolati, che meramente politici e formanti con
essi un medesimo corpo avrebbero dovuto stimarsi da chi avesse più
mirato ad una giusta sopportazione, che al rigore; e le perdonanze si
debbono piuttosto allargare che restrignere. Certamente il fatto di
Goveano portò con se un gran terrore, ed una gran compassione, e la fede
molto meglio si sarebbe serbata, se si fosse perdonato a Goveano;
imperciocchè tra delitti politici e non politici commessi a Racconigi,
non si era fatta distinzione nell'editto del perdono, e l'infelice
giovane già ridottosi in Francia sui primi fervori, si era, per sua
fidanza nelle reali parole, restituito nella sua patria. Certo fu
Goveano colpevole di grandi enormità contro lo stato, poichè era stato
capo di ribelli; ma la fede di un monarca debb'esser più forte di
qualunque reato. Il peggio che si potesse giustamente fargli, era,
poichè sulla fede del re era venuto, che sulla fede medesima là fosse,
dond'era venuto, ricondotto. A Chieri le palle soldatesche ammazzarono
venti persone in un giorno; l'avvocato Roccavilla fu fatto passar per
l'armi a Saluzzo, l'avvocato Fuggiani a Moncalieri. Tanti supplizj
frenavano pel presente, preparavano rivoluzioni per l'avvenire;
avrebbero raffermo uno stato intatto, indebolivano uno stato scosso,
insidiato, e circondato da ogni parte da esempj pestiferi.

La moltiplicità dei supplizj non isvolgeva gli animi dall'infelice
Boyer, perchè chiaro per la santità dei costumi, chiaro per le
dipendenze della famiglia, faceva tutta la generazione intenta a lui.
Una giunta mezzana tra militare e civile il processava. Pareva a tutti,
essendo i soldati fedeli, incredibile che due giovani, se non fossero
del tutto scemi, avessero concetto il disegno d'impadronirsi, come
n'erano imputati, nella capitale stessa del regno delle armerìe reali e
della cittadella. S'offerivano testimonj pronti al carcere per le
difese, insistevano per pruovare, essere impossibile il delitto. Non
furono ammessi, perchè si sospettava, che i testimonj amassero meglio
servire alle amicizie ed alle opinioni, che alla verità. Pure
quell'avere negato le difese parve a tutti, se non se agli arrabbiati,
ed era veramente cosa incomportabile. Fu il condannar più crudele per
l'occasione offerta di salvar un giovane, al quale tutti inclinavano con
amor singolare. Castellengo fra i giudici, Priocca fra i ministri
opinavano per la mansuetudine, il primo, perchè gli pareva che il sangue
di quel giovane non importasse, il secondo per questo stesso ed anche
per compassione. Fu Boyer col suo compagno Berteux sentenziato a morte:
ambidue giustiziati sugli spaldi della cittadella. Leggo nei ricordi dei
tempi, che il conte di Sant'Andrea, governatore di Torino, pascesse da
una casa vicina la sua vista del giovane moriente: il che, non avendone
certezza, lascio in dubbio. Se non fosse dei tempi, affermerei esser
falso, perchè Sant'Andrea non era uomo di desiderj immani. Bene fu vero,
che alcune dame e cavalieri, a tanto di durezza conducono le civil
discordie, si lasciarono trasportare al volersi godere un piacer tanto
crudo. La morte del Boyer contristava tutta la città, e la rendeva
attonita e paventosa lungo tempo.



LIBRO DUODECIMO

SOMMARIO

      Pensieri di Buonaparte. Parti ed illusioni in Milano.
      Creazione della repubblica Cisalpina. Società di pubblica
      instruzione, e discorsi che vi si fanno. Il generalissimo dà
      una constituzione alla Cisalpina. Magnifica festa celebrata
      nel campo del Lazzaretto a Milano. Le potenze riconoscono la
      nuova repubblica. Omelìa del cardinal Chiaramonti, vescovo
      d'Imola, in lode della democrazìa. Visconti, ambasciatore
      della Cisalpina a Parigi, suo discorso al direttorio, risposta
      del presidente. Ultimo vale di Buonaparte alla Cisalpina.
      Cupezze di lui, e come inganna i potenti per arrivare alla
      somma dell'autorità in Francia. Trattato di Campoformio.
      Miserie d'Italia. Stato di Venezia democratica. Le truppe
      dell'imperatore occupano l'Istria, la Dalmazia, e l'Albania
      Veneta. Fraudi di Buonaparte per impadronirsi del navilio
      Veneziano, e dell'isole del mare Ionio. Spedizione dei
      Francesi in Levante. Espilazione, e spoglio dei paesi Veneti.
      Festa giojosa ad un tempo, e compassionevole in Venezia.
      Congresso in Bassano per la unione delle città Venete,
      inutile, e perchè. Brutta proposizione fatta da Buonaparte ai
      municipali di Venezia. Generosi sentimenti dei municipali, e
      di Villetard, segretario della legazione di Francia; sdegno
      barbaro di Buonaparte. Venezia consegnata dai repubblicani
      agl'imperiali.


Buonaparte vincitore dell'Italia e dell'Austria, desiderava, che un
testimonio solenne si fondasse in Italia, il quale, oltre gli scritti,
che morti sono, tramandasse ai posteri la memoria viva de' suoi illustri
fatti, e del suo valore. Quest'era, come abbiam narrato, uno stato
nuovo, che fosse a lui obbligato della sua origine, e della sua
conservazione. Oltre a ciò, non essendo ancora le cose della pace del
tutto ferme, poichè ad ogni momento si poteva prorompere nuovamente
all'armi, voleva, che sorgesse in mezzo alle monarchìe d'Italia, e
contro l'imperatore medesimo una repubblica, che fondata sui principj
nuovi, desse loro cagione continua di spavento. Parevagli ancora, che la
fondazione della nuova repubblica avesse, nella opinione dei popoli, a
compensare la distruzione di una vecchia, e che la Cisalpina potesse
cancellare il biasimo incorso per la Veneziana. Forse in tutto questo,
oltre la gloria e le minacce, covava un pensiero più recondito nel caso,
in cui per opera o d'altrui, o sua, venisse a mutarsi la forma del
governo in Francia, riducendosi di nuovo all'antica, cioè alla
monarchìa; poichè quel nuovo stato Italiano avrebbe potuto divenire per
esso lui, o asilo, o ricompensa; conciossiachè il tornare al grado
privato stimava contro la fama, ed era certamente contro la natura sua,
checchè in contrario affermasse in certi momenti di dispetto, al
direttorio. I Cincinnati, ed i Washington erano stimati da lui uomini di
bassi pensieri, d'animo poco generoso, siccome quelli i quali
collocavano la patria fuori di loro, ed in altrui, mentr'ei la collocava
tutta in se.

Per le quali cose, come prima ebbe fermato i patti di Leoben, e dato
ordine a quanto più pressava nel suo esercito, se n'era tornato a
Montebello, donde poteva e vegliar le pratiche della pace, e dar moto
alle faccende Cisalpine. Continuavano nella Cisalpina le provocazioni di
moti incomposti nei paesi circonvicini, le quali erano, o palesi nei
giornali, nei ritrovi politici, nelle condotte ai soldi Cisalpini di
soldati Piemontesi, Austriaci, Polacchi, Papali, e Napolitani, che nelle
legioni Lombarda e Polacca si descrivevano, o segrete per gli uomini
mandati a posta, per lettere, per arti di ogni sorte, in cui vivamente
si travagliavano i fuorusciti di ogni contrada d'Italia, massimamente i
Piemontesi ed i Napolitani, i primi pericolosi per la natura tenace, i
secondi pericolosi per la natura loquace. Le cose che si scrivevano a
quei tempi in Milano contro i re e contro il papa, sarebbe lunga
faccenda raccontare. Quel Salvadori, ed un Porro che fu poi ministro di
polizia, e morì due anni dopo nella morìa di Nizza, erano i capi delle
arti provocatrici, e stimolavano scrittori, che anche senza stimolo
andavano volentieri a questo cammino. Fra i giornali Italiani il
_Termometro politico_ era il primo, e ciò, ch'ei scrisse sulla
rivoluzione di Genova, e su i moti del Piemonte, è fuori d'ogni
moderazione. Diede negli eccessi principalmente quando con
infiammatissime parole esortava, che si gettassero al vento le ceneri
dei reali di Savoja serrate nelle tombe di Superga, con surrogarvi
quelle dei patriotti morti nell'Astigiana rivoluzione. Queste erano
esorbitanze pazze e stravaganti; l'esagerazione stessa serviva di
rimedio. Ma era in Milano un motivo assai più efficace, e quest'era un
ritrovo pubblico, che chiamavano società di pubblica instruzione, dove
con appositi discorsi si ammaestravano i popoli, che concorrevano ad
ascoltare, nelle nuove dottrine, e donde scritti innumerevoli partivano
al medesimo fine e nella Cisalpina largamente si diffondevano.
Apparivano, e risplendevano molto principalmente in questo ritrovo
politico uomini dotti, e leali operatori per fin di bene, ma servi ancor
essi delle illusioni dei tempi. Piacemi in questo riferire un solo
discorso, poichè l'andar particolarizzando sarebbe troppo lunga
narrazione, e fia quello di un giovane dotto, ed amico sincero di
libertà: aveva egli l'animo buono, e come buono, non sospettava in
altrui quel male che non aveva in se. Esposti prima con molto acume, per
cui massimamente valeva, i modi con cui gli uomini s'aggregano
primitivamente in società, giva per tale forma nella sala della società
della pubblica instruzione la domenica dei sette maggio favellando. «Sì,
popoli della nuova Gallia Cisalpina, voi segnate negli annali del mondo
un'epoca singolare, un'epoca, per cui le città dell'Italia non avranno
più ad invidiare a quelle della Grecia la sorte, che portò nel loro seno
la libertà. Gli Eraclidi, que' barbari di Tessaglia, che si aprirono
strada nel Peloponneso, non scesero già per liberare, ma per ispogliare
ed opprimere i popoli Greci. Forzati questi ad armarsi per resistere al
nemico esterno, poterono bensì rovesciare i troni dei loro re, ma ciò
non seguì che a costo di lunghi e gravi patimenti. Non fu che per la
morte di Xanto e di Codro, che Tebe ed Atene si resero libere. Non fu
che per una serie di eccessivi malori, che tutte le città cospirarono
alla rovina dei despoti, si unirono tutte per sostenersi a vicenda, e
guarentirsi la libertà, e sorse il mal ragionato federalismo della
repubblica Acaica; e non fu che dopo una fatale continuata esperienza,
che le buone leggi comparvero in Sparta, ed Atene; poichè all'epoca
della rivoluzione mancarono di Licurghi, e di Soloni quelle città.

«Ora confronta tu stesso, Insubre popolo, con quella di Grecia la tua
rigenerazione. Quanto è più fortunata, e più lieta! le armate Francesi
non sono già state le orde rapaci degli Eraclidi; non sono già elleno
discese dall'Alpi per devastare le nostre terre, per abbattere le nostre
mura, per distruggerci col ferro e col fuoco. Sono esse comparse nelle
pianure ridenti d'Italia per fraternizzare coi popoli, per rovesciare i
troni dei nostri tiranni, per allontanare da questi lidi i veri
Eraclidi, i barbari del Nord, che non ebbero, e non potranno avere
giammai, nè il diritto di farsi occupatori nostri, nè il merito di
unirsi a noi. La naturale loro posizione, i costumi, le leggi, la
lingua, gli stessi loro ceffi gli divideranno sempre da noi, e gli
conserveranno eterno obietto dell'odio nostro. Noi non siamo stati
sforzati ad armarci, ed a combattere nemmeno contro gli schiavi della
tirannide; i valorosi repubblicani di Francia hanno combattuto, e vinto
per noi. Sulle tracce della constituzione Francese, o per dir meglio,
del codice di natura, noi sapremo meglio forse di Licurgo e di Solone
donarci in breve le nostre leggi. Avremo in appresso noi pure i nostri
Milziadi, i Leonida, i Temistocli, i Cimoni, la gloria dei quali è già
stata oscurata dai capitani Francesi, e sapremo rinnovare noi pure le
già tante volte dalle Franche falangi ripetute giornate di Maratona,
delle Termopili, di Salamina. Più grande di Publicola il condottiere
dell'armata d'Italia ha ben meritato di ottenere fra le tue mura l'onore
del trionfo; ma le tue allegrezze non verran funestate dai funerali di
Bruto; nè tarderanno a sorgere fra' tuoi soldati i Servilj, i Fabricj, i
Papirj, i Scipioni: che più? Le Clelie animose, le ferme Virginie si
moltiplicheranno pure nelle tue donzelle».

Poi questo buon Italiano, descritta la libertà Siciliana data da
Timoleonte, ed esortati gl'Italiani a vivere lontani dall'ozio e dalle
discordie, con queste voci la sua orazione terminava: «Conosci, o
popolo, la tua forza; la lega che dagl'Italiani si organizzò contro
Brenno, e contro il Barbarossa, te ne darà l'idea vantaggiosa. Vivi alla
libertà, a quella libertà, che, abbandonate le amene sponde del Cefiso e
del Peneo, e fermatasi per qualche secolo sulle mal sicure rive del
Tebro, dopo essere stata sì lungamente ne' boschi e ne' deserti
nascosta, comparve di nuovo per grandeggiar sulla Senna, e per brillar
con successo intorno al Po, da dove tutto scorrerà un giorno il bel
paese, _che Apennin parte, e 'l mar circonda e l'Alpe_».

A queste parole applaudivano romorosamente i buoni Milanesi,
maravigliando, che fra loro avessero a nascere così presto i Temistocli,
i Scipioni, e massimamente le Clelie e le Virginie. Quest'erano appunto
le cose, che, come diceva Buonaparte, il quale aveva il cervello fermo,
mentre girava agli altri, son buone a mettersi nei romanzi.

Quali effetti partorissero questi incentivi in Piemonte e nel
Genovesato, già abbiam raccontato. Il ducato di Parma a grave stento si
manteneva per la protezione di Spagna, alla quale per allora la Francia
non voleva pregiudicar. Continuava la Toscana nel suo tranquillo stato,
sebbene la presenza dei soldati repubblicani, la pressa insolita per le
contribuzioni, e le arti Cisalpine vi avessero prodotto qualche
impressione. Lucca, corrotti con denari, e fattisi benevoli alcuni
agenti repubblicani dei primi, si manteneva negli ordini antichi,
non senza grandissime querele dei patriotti Cisalpini, che
quell'aristocrazìa ardentemente detestavano. Del resto si contaminava
Roma stessa, dove si scoversero congiure per cangiar lo stato, ed in cui
si mescolarono francesi ed Italiani, nobili e plebei, cristiani ed
ebrei. Condotti dall'occupamento del secolo avevano parlato molte cose,
e nessuna operato, per modo che Giuseppe Buonaparte, che a quei tempi
sedeva in Roma, gli ebbe a chiamare Bruti in pensiero, femminelle in
atto. Certo non avevano nè seguito sufficiente, nè mezzo di esecuzione.
Nondimeno il pontificio governo se ne sbigottiva, e gli animi si
sollevavano. A Napoli covavano crudi fatti sotto velame quieto:
oltreacciò mandavansi truppe di soldati verso le frontiere Romane: il
governo macchinava ingrandimento; perciocchè vedendo, che si faceva
vendita di stati, Napoli ne voleva per se, e domandava con molta
instanza ai Francesi Fermo ed Ancona in Italia, Corfù, Cefalonia, e
Zante nella Grecia. Le quali richieste erano non senza riso udite dal
direttorio e da Buonaparte, più inclinati a sovvertire gli stati deboli,
che ad ingrandirgli. Da ciò si vede che la sete del prendersi quel
d'altrui era venuta non solo alle repubbliche, ma ancora alle monarchìe.
Nella Valtellina, provincia suddita ai Grigioni, nascevano più che
parole, o congiure o desiderj; i popoli vi tumultuavano a mano armata,
protestando voler essere uniti alla Cisalpina. Fuvvi qualche sangue: poi
dai Grigioni, e dai Valtellini fu fatto compromesso nella repubblica
Francese. Pronunziò Buonaparte il lodo, stante che non erano comparsi a
dir le loro ragioni i legati dei Grigioni, che avessero i popoli della
Valtellina a divenir parte della Cisalpina. Per tale sentenza Chiavenna,
Sondrio, Morbegno, Tirano e Bormio, terre principali di quella valle,
con tutti i distretti, sottratte dalla divozione di gente Tedesca, si
congiungevano con gente Italiana. Così dalla parte d'Italia si apriva ai
repubblicani la strada nelle sedi più recondite delle nazioni Elvetiche,
grande ajuto ai disegni che si avevano.

Buonaparte intanto, al quale piacevano le dicerìe dei patriotti per
sommuovere gli stati altrui, ma non erano ugualmente a grado per fondare
un suo governo, perchè sapeva che con modi di simil forma non si reggono
i popoli, aveva applicato l'animo ad ordinare la Cisalpina con una
constituzione regolare. Erasi fino allora retta la Lombardia col freno
di un'amministrazione generale, potestà non solo serva del
generalissimo, ma ancora di qualunque più sottoposto commissario o
comandante, ed il raccontare tutte le sue condiscendenze sarebbe troppo
lunga bisogna. Non era padrona dei tempi, ma i tempi la dominavano: il
frenare i democrati era stimata taccia aristocratica, il non frenargli
tornava in diminuzione della sua autorità, ed in fonte di licenza. Nelle
diverse città i comandanti forestieri facevano a modo loro, e secondochè
avevano natura più o meno quieta, od opinioni più o meno sregolate, in
questo luogo tenevano, in quell'altro allargavano la briglia, e lo stato
si reggeva più strettamente, o più largamente. Laonde quello non era
governo nè civile, nè libero, nè comune, ma bensì un reggimento
incomposto, difforme, ed a volontà di forestieri. Dal che ne conseguita,
che poco più poteva l'amministrazione generale, che empir con le tasse
ordinarie e straordinarie l'erario dell'esercito Buonapartiano, e dare
caposoldi, e piatti costosi ai generali ed ai comandanti: perciò era
veduta non senza disprezzo e indegnazione dai popoli.

Buonaparte, che era solito a gettar via gli stromenti, che per servir
lui, erano divenuti odiosi, si risolveva a far mutazione. Oltrechè
gl'importava massimamente, a volere che la Cisalpina fosse uno stato da
se, e conosciuto dagli altri stati d'Europa, che il reggimento
temporaneo vi cessasse, e vi s'introducesse il durevole ed il
constituito, per quanto a quei tempi conseguire si potesse. Per la qual
cosa avendo dato vita alla Cisalpina nei patti di Leoben, le volle dar
ordine con leggi a Montebello. Primieramente creava una congregazione di
dieci personaggi rinomati per sapienza e per costume, a cui commetteva
il carico di formare il modello della constituzione Cisalpina. Notavansi
fra gli eletti cinque Milanesi, un Cremonese, un Reggiano, un Modenese,
un Bergamasco. Vi aggiungeva un Tirolese da lungo tempo professore in
Pavia. Questi era il Padre Gregorio Fontana, uomo maraviglioso per la
profondità e la vastità della dottrina, e certamente fra i dotti
dottissimo. Non amava egli travagliarsi dello stato, non avendo
ambizione, ma Buonaparte lo cercava per vanagloria, e per un suo fine,
volendo farsi scabello dei nomi più chiari per salire a quell'altezza
che ambiva. Interveniva spesso alla congregazione. Pareva, che dovesse
sorgere qualche gran fatto da un Buonaparte, e da un Fontana. Ne usciva
una copia della constituzione Francese con poche mutazioni, e di niun
momento; opera degna di copisti, non di quegli uomini eletti. Per tale
forma si consumava l'autorità dei nomi senza frutto, e gli stromenti
dell'introdurre un vivere ben composto si corrompevano. Restava, che
quello che si era fatto in nome, si recasse in atto. Eleggeva Buonaparte
quattro Cisalpini al direttorio: furono quest'essi: Serbelloni, che fu
duca, e che camminava con molto affetto in queste novità, Moscati,
medico compitissimo, e non ostante tanto compito in ogni altro genere di
filosofia, quanto in medicina, Paradisi, autore assai celebrato per
bello scrivere, e malveduto dagli Austriaci per aver voce di essersi
mescolato attivamente nei moti di Reggio; finalmente Alessandri,
operatore principale delle mutazioni nelle terre Veneziane oltre Mincio.
Siccome poi non si potevano così presto eleggere i rappresentanti, che
nei due consigli legislativi dovevano sedere, creava Buonaparte quattro
congregazioni, l'una di constituzione con Fontana, Mascheroni, Longo,
Oliva, Loschi, Goldaniga; l'altra di giurisprudenza con Bazetta, Negri,
Taverna, Spannocchi, Villa, Perseguiti; la terza di finanze con Melzi,
Vandelli, Formigini, Nicoli, Forni, Carissimi; la quarta di guerra con
Visconti, Lahoz, Porta, Triulzi, Gazzari, Caleppi, uomini, se non tutti,
certamente la maggior parte, migliori dei tempi. Conservassero, voleva,
il mandato insino a che fossero creati, ed entrassero in ufficio i
consigli legislativi. Finalmente per compir quanto ai supremi ordini
politici dello stato si apparteneva, il capitano di Francia chiamava
ministro di polizia Porro, di guerra Birago, di finanza Ricci, di
giustizia Luosi, di affari esteri Testi. Al tempo medesimo nominava
segretario del direttorio Sommariva.

Tessuto con parole di molta superiorità pubblicava un manifesto da
servir per principio alla Cisalpina repubblica. La repubblica Cisalpina,
andava ragionando, essere stata lunghi anni sotto l'imperio
dell'Austria, averla contro l'Austria conquistata la repubblica
Francese; eppure rinunziare lei la conquista, e volere, che la Cisalpina
fosse libera, independente, riconosciuta dalla Francia e dall'Austria,
riconosciuta da tutta l'Europa; nè contento il direttorio esecutivo
della repubblica Francese allo aver usato l'autorità sua, e le vittorie
dei soldati repubblicani, perchè sorgesse, e sicura vivesse, volere
ancora per singolar tratto della sua amorevolezza, e per preservarla
dalle rivoluzioni dare al popolo Cisalpino la propria constituzione,
parto prediletto di una nazione illuminatissima; essere la libertà il
maggior bene, le rivoluzioni il maggior male; dovere adunque il popolo
Cisalpino far passo da un reggimento soldatesco ad un reggimento civile;
perchè questo passo senza discordie fosse, e senza sedizioni, avere il
direttorio esecutivo giudicato dovere per suo mezzo, e per questa volta
nominarsi i magistrati supremi della repubblica nuova, insino a che,
trascorso un anno, il popolo stesso secondo gli ordini della
constituzione gli nominasse; già da secoli non essere più buone
repubbliche in Italia, l'amore sacro della libertà esservi spento, la
più bella parte dell'Europa vivere serva dei forestieri; esser debito
della repubblica Cisalpina il dimostrare col senno, e col vigor suo, e
coi buoni ordini de' suoi eserciti, non avere la moderna Italia
degenerato dall'antica, e vivere ancora in lei spiriti degni della
libertà, per questo avere lui nominato e le quattro congregazioni, e il
direttorio, e i ministri.

Destinavansi il dì nove luglio, ed il campo del Lazzaretto fuori di
porta Orientale, vasto e magnifico, al pubblico e solenne ingresso della
Cisalpina repubblica. Accorrevano chiamati alla solennità piena di tanti
augurj i deputati di tutti i municipj, di tutti i drappelli delle
guardie nazionali, di tutti i reggimenti assoldati della repubblica. Era
nei giorni, che precedevano la festa, in tutta la città una folla, ed un
andar e venire di popoli contenti; pareva, che non solo la nobile
Milano, ma ancora tutta l'Italia a nuovo destino andasse. Aprivasi alle
nove del destinato giorno il campo della Confederazione (che così dal
fatto chiamarono il Lazzaretto) e vi accorrevano giulivamente, ed a
pressa meglio di quattrocentomila cittadini. Suonavano le campane a
gloria, tiravano i cannoni a festa; innumerevoli bandiere tricolorite
col turchino, o col verde sventolavansi all'aria, e le grida, e il
tumulto, e le esultazioni per l'infinita contentezza andavano al colmo.
I democrati non capivano in se dall'allegrezza, e dicevano le più strane
cose del mondo. Pareva, ed era veramente un gran passo da quella vita
morta dei Tedeschi a quella vita viva dei Francesi; la magnifica Milano,
città di per se stessa e per naturale indole allegrissima, ora tutta più
che fatto non avesse mai, sin dall'intimo fondo suo si commuoveva, e si
rallegrava. Entrava nel campo il direttorio coll'abito verde ricamato
d'argento alla Cisalpina: il seguitavano i magistrati, e gli uomini
eletti della città; gli uni e gli altri magnifico spettacolo. Nel punto
dell'ingresso spesseggiavano vieppiù con le salve le artiglierìe, i
popoli applaudivano, le bandiere si sventolavano: celebrava
l'arcivescovo sull'altare apposito la messa; in questo mentre a quando a
quando rimbombavano le artiglierìe. Dopo il santo sacrificio benediva
l'arcivescovo ad una ad una le presentate bandiere. Seguitava un
concerto strepitosissimo, e pure melodioso d'inni, di suoni, di _viva
repubblicani_. Sorgeva in mezzo l'altare della patria; aveva sui lati
iscrizioni secondo il tempo: sopra, un fuoco acceso, simboleggiatore
dell'amore della patria, a' piedi urne con motti dimostrativi del
desiderio e della gratitudine verso i soldati Francesi, e Cisalpini
morti nelle battaglie per la salute della repubblica. Quest'erano le
Cisalpine allegrezze e cerimonie. Assisteva Buonaparte seduto in
ispecial seggio alla festa, al quale, come a vincitore di tante guerre,
ed a fondatore della repubblica, risguardavano principalmente i popoli
circostanti. Nè piccola parte dell'onesto spettacolo erano gli uomini
delegati di Ferrara, di Bologna, dell'Emilia, di Mantova stessa,
ancorchè non ancora fosse unita alla repubblica, venuti ad esser
presenti a quella solennità, non solo inconsueta, ma non vista mai nel
corso dei secoli, grande testimonianza d'amore, e di concordia Italiana.

Serbelloni, presidente del direttorio, dal luogo suo levatosi, e sopra
un più elevato seggio postosi, in cotal modo, fattosi silenzio in mezzo
agli adunati popoli, a favellare incominciava: «Noi fummo un tempo
liberi, e queste medesime terre repubblicane furono: la diversità fatale
delle troppo facili opinioni ci ridusse, e ci mantenne per molti secoli
in estera e spesso variata servitù. Rammentiamoci, o cittadini, la lunga
serie dei cessati infortunj, ed il passato ci sia d'utile esempio per
l'avvenire. Sparisca, come lampo, ogni spirito di parte, che finora
possa averci divisi, e perfino gli odiosi nomi, fonte inesausta di
civili discordie, siano mandati in dimenticanza. Serbiamo con indelebile
memoria pel ricevuto benefizio una gratitudine eterna verso la Francese
repubblica, che col valore, e col sangue de' suoi soldati ci procurava
la libertà, e gratitudine ancora eterna sia in noi verso l'immortale
Buonaparte, che emolo dell'Africano Scipione, ci tolse con le sue
vittorie a servitù, e diè forma con la vastità de' suoi lumi politici al
nostro libero governo. Ciò crediamo, ciò inculchiamo nel più profondo
degli animi nostri, che a voler mantenere, e conservare la prosperità di
una repubblica democratica, ha ad essere fra di noi virtù nei padri,
educazione nei figliuoli, costume e costanza d'animo nei cittadini,
leggi ed interessi in tutto il territorio uniformi. Accendiamoci di un
amor santo di patria, giuriamo concordemente di viver liberi, o di
morire. Il direttorio della Cisalpina repubblica lo giura il primo, e ve
ne dà l'esempio».

A questo passo il presidente, sguainata la spada, ed i suoi colleghi,
levati i cappelli, ad alta voce giuravano. Giuravano al tempo stesso gli
uomini deputati, giuravano i capi dei reggimenti, giurava l'adunato
popolo intiero: i viva, le grida, i plausi, il batter delle mani, il
lanciare i cappelli, lo sventolar delle bandiere facevano uno spettacolo
misto, romoroso ed allegro.

Ciò detto, continuava orando il presidente, «manterrebbe col sangue, e
con la vita, se fosse d'uopo, il direttorio la constituzione e le leggi.
Sovvengavi, terminava, o cittadini, sovvengavi, che questa terra che
abitiamo, è la terra dei Curzj, degli Scevola, dei Catoni; imitiamo
quelle grandi anime, in ogni umano caso imitiamole, e lascino ogni
speranza di vincerci i nostri nemici, e insieme l'Europa s'accorga, che
qui l'antica Roma rinasce».

Qui rincominciavano i plausi, ed i cannoni strepitavano. A questo modo
s'instituiva la repubblica Cisalpina, mandata da un principio che pareva
eterno, ad un dubbio e corto avvenire. Furonvi tutto il giorno corse di
carri e di cavalli, suoni, balli, festini in ogni canto, poi la sera
bellissime luminarie sì dentro, che fuori del teatro. Insomma fu una
grande e solenne allegrezza; e queste feste non in altra città del mondo
riescono tanto liete e tanto magnifiche, quanto nella bella, e splendida
Milano.

Perchè poi la memoria di un giorno tanto solenne nella mente dei posteri
si conservasse, decretava il direttorio, che si rizzassero nel campo
della Confederazione ad onore di ciascuna schiera dell'esercito Francese
otto piramidi quadrangolari; sur un lato di ciascuna piramide si
scolpisse un segno eterno della gratitudine e dell'amicizia del popolo
Cisalpino verso la repubblica Francese, e l'esercito d'Italia;
s'inscrivessero su due altri lati i nomi di quei forti uomini, che
avevano dato la vita per la patria loro, e per la libertà Cisalpina
nelle battaglie; che l'ultimo lato si serbasse intatto per iscolpirvi,
ove fosse venuto il tempo, i nomi di quei prodi cittadini, che
fortemente combattendo avrebbero procurato col sangue loro salute, e
libertà alla patria Cisalpina.

Contaminava l'allegrezza dei patriotti l'essersi fatta serrare dal
direttorio la società di pubblica instruzione. Si trovò pretesto
dell'essere contraria agli ordini della constituzione.

Continuava Buonaparte ad usare l'autorità suprema per ordinare la
repubblica. Nominava i giudici, gli amministratori dei distretti o dei
dipartimenti, e que' dei municipj. Si faceva poi più tardi ad eleggere i
membri dei due consigli, cioè del consiglio grande, o dei giovani, e del
consiglio dei seniori, o degli anziani.

I popoli all'intorno, che se ne vivevano o con governi deboli, o con
governi temporanei e tumultuarj, veduto le forme più regolari e più
promettenti della Cisalpina, e quell'affezione particolare che il
capitano invitto le portava, si davano a lei l'uno dopo l'altro.
Bologna, Imola e Ferrara furono le prime a mostrar desiderio
dell'unione, le due ultime più ardentemente per invidia a Bologna, la
prima più a rilento per la memoria dell'antica superiorità. La giunta
Bolognese titubava; ma tanti furono i maneggi dei patriotti più accesi,
e l'intromettersi dei Cisalpini, che ne fu vinta la sua durezza, ed
accedeva anch'essa alla prediletta repubblica; accostamento di
grandissima importanza, perchè era Bologna città grossa, e piena
d'uomini forti e generosi. Unite le legazioni, pensava Buonaparte a
compire il direttorio, vi chiamava per quinto un Costabili Containi di
Ferrara.

Principalmente accrebbe la grandezza Cisalpina l'unione della forte
Brescia, membro tanto principale della terraferma Veneta. Fu tratto
presidente del consiglio grande Fenaroli, nativo di questa città, il
quale, avuta principal parte nelle precedenti mutazioni, si mostrava
molto ardente per la conservazione dello stato nuovo.

Mantova, perchè ancora di destino incerto, se ne stava in pendente di
quello che si avesse a fare. Ma poi quando si seppe, che pel trattato di
Campoformio l'Austria si spogliava della sua sovranità sopra di lei,
s'incorporava con animo pronto anch'essa alla Cisalpina. I Cisalpini
poi, fatto di per se stessi impeto nell'oltre Po Piacentino, consentendo
facilmente i popoli, l'aggregavano alla loro società.

Ampliata la repubblica per tutte queste aggiunte, Buonaparte la divideva
in venti spartimenti, che chiamava dell'Olona con Milano, città
capitale, del Ticino con Pavia, del Lario con Como, del Verbano con
Varese, della Montagna con Lecco, del Serio con Bergamo, dell'Adda ed
Oglio con Sondrio, del Mela con Brescia, del Benaco con Desenzano, del
Mincio con Mantova, dell'Adda con Lodi, del Crostolo con Reggio, del
Panaro con Modena, dell'Alpi Apuane con Massa, del Reno con Bologna,
dell'Alta Padusa con Cento, del Basso Po con Ferrara, del Lamone con
Faenza, del Rubicone con Rimini. Per tal modo in men che non faceva
cinque mesi dappoichè era stata creata, in questa larghezza si
distendeva la Cisalpina, che conteneva in se la Lombardia Austriaca, i
ducati di Mantova, di Modena e di Reggio, Massa e Carrara, Bergamo,
Brescia, e Crema coi territorj loro, la Valtellina, e le tre legazioni
di Bologna, di Ferrara e dell'Emilia, parte del Veronese, e l'oltre Po
Piacentino. Poco dopo Pesaro, città della Romagna, fatta mutazione, si
dava alla Cisalpina. Per questo fatto i Romani confini si restrignevano.

L'unione delle legazioni alla Cisalpina aveva in se non poca
malagevolezza, perchè questi popoli, soliti a vivere sotto il dominio
della Chiesa, ripugnavano alle innovazioni, che loro pareva che fossero
state fatte nelle cose attinenti alla religione. Questa mala contentezza
si era vieppiù dilatata, quando si domandarono i giuramenti ai
magistrati. Fu loro imposto di giurare osservanza inviolabile alla
constituzione, odio eterno al governo dei re, degli aristocrati, ed
oligarchi, di non soffrire giammai alcun giogo straniero, e di
contribuire, con tutte le forze al sostegno della libertà ed
uguaglianza, ed alla conservazione e prosperità della repubblica. Per
mitigare le impressioni contrarie concette dal popolo, intendevano i
magistrati alle persuasioni, ma come d'uomini la maggior parte troppo
dediti alle nuove opinioni, elle facevano poco frutto. Tentaronsi gli
ecclesiastici, e fra gli altri il cardinale Chiaramonti, vescovo
d'Imola, che poi fu papa sotto nome di Pio settimo. Il suo testimonio, e
le sue esortazioni, come d'uomo di vita integerrima e religiosa, erano
di molto momento. Pubblicò egli adunque il giorno del Natale del
presente anno un'omelìa, in cui parlava in questa guisa ai fedeli della
sua diocesi: «La libertà, cara a Dio ed agli uomini, è una facoltà che
fu donata all'uomo, è un dominio di poter fare o non fare, ma sempre
sotto la legge divina ed umana. Non esercita ragionevolmente la sua
libertà chi si oppone alla legge baldanzoso e ribelle; non esercita
ragionevolmente la sua libertà chi contraddice a Dio, ed alla temporale
sovranità, chi vuol seguire il piacere e lasciare l'onestà, chi si
attiene al vizio ed abbandona la virtù.... La forma di governo
democratico adottata fra di noi, o dilettissimi fratelli, no, non è in
opposizione colle massime fin qui esposte, nè ripugna al vangelo: esige
anzi tutte quelle sublimi virtù, che non s'imparano che alla scuola di
Gesù Cristo, e le quali, se saranno da voi religiosamente praticate,
formeranno la vostra felicità, la gloria, e lo splendore della vostra
repubblica».

Fatto poscia un vivo elogio delle virtù degli antichi Romani, il
cardinale passa a dire:

«Se le morali virtù così resero cospicua la latina libertà, con quanta
maggior ragione dobbiamo noi riputar necessaria la virtù nella presente
democrazìa, noi, che non viviamo invescati dal lezzo, e dall'ambizione
di sognar deità, noi che santificò il Verbo di Dio fatto uomo.... Le
morali virtù, che non sono poi altro, che l'ordine dell'amore, ci
faranno buoni democratici, ma di una democrazìa retta, e che altro non
cura, che la comune felicità, lontana dagli odj, dall'infedeltà,
dall'ambizione, dall'arrogarsi gli altrui diritti, e dal mancare ai
propri doveri. Quindi ci conserveranno l'uguaglianza intesa nel suo
retto significato, la quale dimostrando, che la legge si estende a tutti
gl'individui della società e nel diriggergli, e nel proteggergli, e nel
punirgli, ci dimostra ancora in faccia alla legge divina ed umana, quale
proporzione debba tenere ogni individuo nella democrazìa tanto rapporto
a Dio, quanto rapporto a se stesso ed ai suoi simili.

«Ma i perfetti doveri dell'uomo non si possono compire nella sola virtù
morale, e l'uguaglianza, che fa l'armonia e il bene della società,
desidera altre molle per la sua sussistenza, e per la sua perfezione. Il
Vangelo di Gesù Cristo ci fu dato come un complesso di leggi, onde
rendere gli uomini veramente perfetti anche in società, onde sistemare
quell'uguaglianza che ci faccia felici nel presente giro dei giorni
mortali, e più felici nell'aspettata eternità. La storia della filosofia
ci dimostra la mancanza di tal progetto, la storia del Vangelo ce ne
dimostra l'esecuzione e il compimento....

«Decidete quanto conferiscano i precetti del Vangelo, le tradizioni
degli apostoli, e dei gran filosofi padri, e dottori cristiani a
conservare la pace, a far risplendere la vera grandezza dello stato
democratico, a fare di tanti uomini, dirò così, tanti eroi di umiltà, di
prudenza nel governare, di carità nel fraternizzare fra loro stessi, e
con Gesù Cristo.... Il luminoso oggetto della nostra democrazìa
dev'essere di stabilire la massima possibile unione di sentimenti, di
cuori, di forze fisiche e morali, onde ne derivi una soave fratellanza
nella società....

«Eccovi, o dilettissimi fratelli, uno sparuto abbozzo degli evangelici
dettami. Vedete ivi quale possanza, qual influsso risplenda per la
massima virtù dell'uomo, per la civile uguaglianza, per la regolata
libertà, per quell'unione insomma d'amore e di tranquillità, che fa la
sussistenza, e l'onore della democrazìa. Forse per la durevole felicità
degli altri governi basterà una virtù comune, ma nella democrazìa
studiatevi di essere della massima possibile virtù, e sarete i veri
democratici: studiate, ed eseguite il Vangelo, e sarete la gioja della
repubblica;... la religione cattolica sia l'oggetto più prezioso del
vostro cuore, della vostra divozione, e di ogni altro vostro sentimento.
Non crediate, che ella si opponga alla forma del governo democratico. In
questo stato vivendo uniti al vostro divin Salvatore, potete concepire
una giusta fiducia dell'eterna salute, potete operare la felicità
temporale di voi stessi, e dei vostri simili, e procurare la gloria
della repubblica e delle autorità constituite.... Sì, miei cari
fratelli, siate buoni cristiani, e sarete ottimi democratici».

Queste parole con tanta soavità dette da un uomo così eminente per
dignità, e così venerato per la santità dei costumi, calmavano gli
spiriti, raddolcivano i cuori, e preparavano radici al nuovo stato.

Ordinata la Cisalpina, restava che le potenze amiche alla Francia la
riconoscessero in solenne modo, come potentato Europeo. Vi si adoperava
Buonaparte cupidamente, recando a gloria propria che non solo vivesse la
creazione sua, ma ancora assumesse la condizione di vero stato. In
questa bisogna il mezzo più facile era anche il più efficace; quest'era
che la Francia riconoscesse quella sua figliuola primogenita, come la
chiamavano.

A questo fine mandava il direttorio Cisalpino per suo ambasciadore a
Parigi un Visconti, che stato prima uno dell'amministrazione generale di
Lombardia, ed amato da Buonaparte, ma stimato da lui troppo vivo nelle
opinioni dei tempi, non era stato eletto fra i quinqueviri, nè fra i
magistrati subalterni; pure pareva, che in grado privato più non potesse
vivere.

Fu veduto a Parigi molto volentieri il Visconti, ed in pubblica udienza,
presenti tutti i ministri di Francia, e gli ambasciadori delle potenze
amiche, il dì venzette agosto, solennemente udito. Parlava
magnificamente dei benefizj della repubblica Francese, della gratitudine
della Cisalpina; esprimeva, unico, e primo desiderio dei Cisalpini
essere il farsi degni della illustre nazione Francese; di loro non
potere aver ella amici nè più affezionati, nè più fedeli; comune avere
le due repubbliche la vita, comuni gl'interessi, comune ancora dover
avere la felicità, nè senza i Francesi volere, o poter essere i
Cisalpini felici; le vittorie del trionfator Buonaparte già aver
procurato pace, e quiete alla Cisalpina; desiderare, che la Francia
ancor essa quella pace si godesse, e quella felicità gustasse, che le
sue vittorie, e la sublime di lei constituzione le promettevano. Queste
cose scritte in Francese, poi tradotte in pessimo Italiano nei giornali
dei tempi, diceva Visconti. A cui magnificamente, ed anche tumidamente,
secondo i tempi, rispondeva il presidente del direttorio, piacere alla
repubblica Francese la creazione, e l'amicizia della Cisalpina; non
dubitasse, che viverebbe libera e felice lungo tempo. Poi parlava di
serpenti, che mordevano Buonaparte, quindi di maschere portate prima,
poi deposte dai nemici delle due repubbliche. Sapere il direttorio, che
quest'uomini velenosi, e perfidi volevano distruggere la libertà sulla
terra; ma la Francia esser sana e forte, e fortificarsi ogni giorno più
per una corona intorno di popoli liberi, e governati da leggi consimili.
Appresso parlava il presidente di moderazione e di temperanza, non di
quelle degli animi vili, e timorosi, ma di quelle degli animi ben
composti, e forti. «No, prorompeva, immortali guerrieri, non fia, che
l'opera vostra accompagnata da tanti miracoli, e da tanta gloria, non
lasci un segno durevole in Italia nella conservazione di uno stato
libero, e di un alleato fedele della vostra patria. No, popoli della
Cisalpina, voi non avrete gustato i primi frutti della vostra
indipendenza per tornar a vivere in servitù. Il destino vostro non
girerà a modo di coloro, che con male parole, e con discorsi bugiardi
insidiano alla libertà. Il serpe frodolento romperà i denti sulla lima,
nè il pigmeo distruggerà l'opera del gigante. In Italia sono gli
eserciti vincitori, sonvi i forti generali, evvi il trionfator
Buonaparte. Il direttorio amico alla Cisalpina vuol fondare con ogni suo
sforzo, a malgrado delle congiure e delle calunnie, la libertà di lei;
stessero pur sicuri i Cisalpini, e confidassero nella grandezza e nella
lealtà della nazione Francese, nel coraggio e nel valore dei suoi
soldati, nella rettitudine e nella costanza del direttorio: niuno più
acceso, niuno più ardente desiderio avere il direttorio di questo, che i
Cisalpini vivessero felici, e liberi». Questi detti minacciosi toccavano
l'Austria, che nei negoziati di pace, che allora pendevano, veduto che
Buonaparte aveva ritratto l'esercito, ed avendo lei stessa con nuove
leve ricomposto le sue genti, stava sul tirato, e metteva in mezzo
condizioni, che parevano esorbitanti, massimamente quella di volersi
ricuperar Mantova.

Un parlare tanto risoluto sbigottiva le potenze minori, che, o già serve
del tutto della repubblica di Francia, o da lei interamente dipendenti,
non avevano altra elezione che quella di obbedire. Per la qual cosa non
esitavano il re di Spagna, quei di Napoli e di Sardegna, il gran duca di
Toscana, la repubblica Ligure, ed il duca di Parma a mandar
ambasciatori, o ministri, o simili altri agenti a Milano, acciocchè
tenessero bene edificato, e bene inclinato quel nuovo stato tanto
prediletto di Buonaparte. In questo ancora ponevano l'animo allo
investigare in mezzo a tante gelosìe ed a tanti timori, quello, che
succedesse a Milano in pro od in pregiudizio degli stati loro; perchè a
Milano si volgevano allora le sorti di tutti gli stati d'Italia. Perciò
i patriotti gridavano, che questi ministri erano spie per rapportare,
stromenti per subornare. Gli laceravano con gli scritti, gli
oltraggiavano con le parole, talvolta ancora coi fatti gli
maltrattavano; esorbitanze insopportabili. Principalmente i fuorusciti
delle diverse parti d'Italia, raccolti in gran numero in Milano, non si
potevano tenere. Buonaparte se ne sdegnava, e dava loro spesso sulla
voce, e talvolta sulle mani, ma essi ripullulavano, e straboccavano più
molesti da un altro lato, per forma che non vi era requie con loro.

Introdotti al direttorio Cisalpino oravano i ministri esteri con parole
di pace e d'amicizia, a cui secondo il solito, ed anche meno del solito
credeva nè chi le diceva nè chi le udiva: così con questi inorpellamenti
s'ingannavano a vicenda, o piuttosto non s'ingannavano, perchè gli uni e
gli altri ottimamente sapevano, che cosa ci fosse sotto.

Esitava il papa al mandare un ministro, perchè gli pareva, che i
Cisalpini avessero posta la falce nella messe religiosa. Ma dettesi
certe parole da Buonaparte, e fattogli un motivo addosso dai Cisalpini,
che armatamente si erano impadroniti della fortezza di San Leo, e
minacciavano di andar più avanti con l'armi pericolose, e coi manifesti
più pericolosi ancora, si piegava ancor egli. L'Austria, riputando che
fosse dignità l'indugiare, non s'inclinava a mandar un ambasciatore a
Milano, pretendendo, ed allegando ciò che era vero, che la Cisalpina,
anche come già si trovava constituita legalmente in repubblica ordinata,
non era stato franco, e indipendente, perchè e le sue fortezze erano in
mano dei Francesi, ed i comandanti Francesi pubblicavano di propria
autorità in tutta la Cisalpina, e nella sede stessa di Milano ordini, e
manifesti, ed anzi i magistrati nissun ordine e manifesto pubblicavano,
se non dopo che fossero veduti ed appruovati dai comandanti Francesi.

Accettati i ministri delle potenze estere, aveva il direttorio Cisalpino
mandato i suoi agenti politici a sedere presso le potenze medesime, e
coi medesimi fini di onorare con le parole, e di spiare coi fatti.
Vedevano Torino, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Parma i legati
Cisalpini. Bene pe' suoi fini aveva scelto gli uomini suoi la Cisalpina,
perchè erano tutti, o la maggior parte, giovani di spiriti vivi, ed
accesi nelle opinioni che correvano, ma pure, se non prudenti, almeno
astuti, e senza intermissione operativi. L'aggiunta di tante nuove
provincie al centro Cisalpino aveva dato nuova forza al disegno
dell'unione Italica, ed i ministri Cisalpini fomentavano questo disegno
medesimo con ogni arte negli stati Italiani, presso cui risiedevano.
Solo Marescalchi, di famiglia principalissima di Bologna, che era stato
mandato ambasciadore a Vienna, non faceva frutto, perchè nè l'imperatore
l'aveva voluto riconoscere nella sua qualità pubblica, nè era d'animo
volto al propagare; perchè gli piaceva una libertà placida e molle, non
una libertà inquieta e sdegnosa, ed anche, quantunque fosse d'ingegno
non molto acuto, sapeva misurare le cose, non con la immaginazione, ma
con la ragione. Serviva piuttosto per evitar il non servire, che per
servire, uomo da esser tirato, non da tirare altrui.

Soprastava ad arrivare il ministro di Francia a Milano, non perchè non
fosse il direttorio Francese amico, ma perchè l'inviato doveva arrivarvi
con molta materia apprestata, come sarem per narrare in appresso.

Chiamava intanto Buonaparte, oramai vicino ad aver compito con gli
ordinamenti politici quell'opera, che con le armi aveva fondato, i
legislatori Cisalpini, centosessanta pel consiglio grande, ottanta per
quello degli anziani. Onorati nomi vi risplendevano per sapere, per
antichità, per ricchezze, per amore di libertà. Eranvi un Quadrio, un
Giovio, un Melzi, un Birago, un Cicognara, un Compagnoni, un Savoldi, un
Cagnoli, un Monga, un Venturi, un Lamberti, un Polfranceschi, un
Martinengo, un Fenaroli, un Lecchi, un Lattanzi, un Colonia Ebreo, un
Arese, un Reina, un Beccaria, un Somaglia, un Bossi, un Castiglione, un
Tassoni, un Cavedoni, un Aldini, un Guglielmini, un Aldrovandi, un
Mascheroni, un Mangili, un Bellisomi, un Malaspina, un Alpruni, un
Fontana, uno Scarpa, tutti tre professori molto celebrati di Pavia, un
Castelbarco, un Pallavicini.

A tutti questi aggiungeva Francesco Gianni, giovane di singolare spirito
poetico dotato, e cantor suo favoritissimo. Era il poeta nato in Roma;
ma la Cisalpina, considerato, quest'esse furono le parole della legge,
che il cittadino Francesco Gianni aveva principalmente applicato i
poetici suoi talenti a celebrare il genio della libertà Italiana, ed
encomiare l'invitta armata Francese, con che nelle attuali circostanze
si veniva a vieppiù promuovere lo spirito pubblico, gli dava con solenne
ed apposita legge la naturalità.

I consigli adunati ardentemente procedendo, si accostavano alle opinioni
dei democrati più vivi, il che, dall'un de' lati dispiaceva a Buonaparte
a cagione della natura sua inclinata allo stringere, dall'altro gli
piaceva per dar timore all'Austria, che pareva allora voler prendere
novelli spiriti.

Ordinata al modo che abbiam narrato la Cisalpina, il capitano vincitore
scriveva le seguenti parole per ultimo vale a' suoi popoli, «Il dì
ventuno novembre fia pienamente in atto la vostra constituzione; e
saranno altresì organizzati il vostro direttorio, il corpo legislativo,
il tribunale di cassazione, e le altre amministrazioni subalterne. Voi
siete fra tutti i popoli il primo, che senza fazioni, senza rivoluzioni,
senza stragi libero divenga. Noi vi diemmo la libertà; voi sappiate
conservarla. Voi siete, trattone solo la Francia, la più popolata, la
più ricca repubblica; vi chiama il destin vostro a gran cose in Europa:
secondate le vostre sorti con far leggi savie e moderate, con eseguirle
con forza e con vigore; propagate le dottrine, rispettate la religione.
Riempite i vostri battaglioni, non già di vagabondi, ma sì di cittadini
nodriti nei principj della repubblica, ed amatori della sua prosperità.
Imbevetevi, che ancor ne avete bisogno, del sentimento della vostra
forza, e della dignità, che ad uomo libero si appartiene. Divisi fra di
voi, domi per tanti anni da un'importuna tirannide, voi non avreste mai
potuto da voi stessi conquistare la libertà, ma fra pochi anni potrete
anche soli difenderla contro ogni nemico qual ch'egli sia; proteggeravvi
intanto contro gli assalti dei vostri vicini la gran nazione; col nostro
sarà lo stato vostro congiunto. Se il popolo Romano avesse usato la sua
forza, come la sua il Francese, ancora sul Campidoglio si anniderebbero
le Romane aquile, nè diciotto secoli di schiavitù e di tirannia
avrebbero fatte vili e disonorate le umane generazioni. Per consolidare
la libertà vostra, e mosso unicamente dal desiderio della vostra
felicità, io feci quello, che altri han fatto per ambizione, e per la
sfrenata voglia del comandare. Io feci la elezione di tutti i
magistrati, e sonmi messo a pericolo di dimenticare l'uomo probo con
posporlo all'ambizioso; ma peggio sarebbe stato, se aveste fatto voi
stessi le elezioni, perchè gli ordini vostri non ancora erano compiti.
Fra pochi giorni vi lascio. Tornerommene fra di voi, quando un ordine
del mio governo, od i pericoli vostri mi richiameranno. Ma qualunque sia
il luogo, a cui siano ora per chiamarmi i comandamenti della mia patria,
questo vi potete promettere di me, che sono, e sempre sarommi ardente
amatore della felicità, e della gloria della vostra repubblica».

Queste dolci parole del capitano invitto molto riscaldavano gli animi.
Parevano veramente altri tempi, parevano altri destini. Quest'erano le
operazioni palesi di Buonaparte: altre di uguale, anzi di maggiore
importanza se ne stava macchinando in segreto. Erano a quei tempi al
mondo quattro cose, che a tutte le altre sovrastavano, la gloria molto
risplendente di Buonaparte, il timore, che avevano i re, che quella
repubblica Francese non gli conducesse tutti a ruina, la repubblica
Francese stessa fondata in una nazione, che per la natura sua non può
vivere in repubblica, e finalmente una casa di Borbone, esule sì, ma con
molte radici in Francia, fatte ancor più tenaci, e più profonde per le
enormità dell'insolita repubblica. Si desiderava pertanto e dentro della
Francia da non pochi uomini temperati, e fuori da tutte le potenze, che
la repubblica si spegnesse, ed il consueto reggimento, per quanto
gl'interessi nuovi il permettessero, col mezzo dei Borboni si
ristorasse. Nè essendosi questo fine potuto conseguire coll'armi civili
delle Vendea, nè coll'armi esterne di tutta l'Europa, perchè la nazione
Francese, che forte ed animosa è, non aveva voluto lasciarsi sforzare,
si pensava, che i maneggi segreti, le promesse, le corruttele, e le
adulazioni potessero avere maggior efficacia. A questo fine, e con
questi mezzi si era operato che le nuove elezioni ai consigli
legislativi cadessero in uomini, che amassero meglio la monarchìa dei
Borboni, che la repubblica, ed in ciò si era fatto non poco effetto.
Siccome poi a tutti i moti è necessario un capo di chiaro nome, così
avevano al consiglio dei giovani eletto il generale Pichegru, capitano
rinomato per le sue vittorie in Alemagna ed in Olanda. Con lui
concorrevano molti altri personaggi famosi o per armi o per dottrina, o
per segnalati fatti nelle rivoluzioni politiche di Francia. Nel
direttorio stesso Barthelemi favoriva il disegno per natura e per
opinione, ed i desiderj suoi fino ai Borboni si estendevano; che
certamente aveva dato questi segni di se nella sua ambascerìa in
Isvizzera. Il favoriva, siccome pare, anche Carnot, o che volesse la
monarchìa dei Borboni, il che è incerto, o che solamente disegnasse,
come uomo di acutissimo pensiero, ridurre, spenti gli uomini immoderati,
quello stato di repubblica scorretta e tumultuaria a forma più stretta e
più ordinata. Seppesi questo maneggio dai tre quinqueviri, che non vi
erano mescolati, e si misero all'ordine per isturbarlo, perchè amavano
la repubblica, e temevano la monarchìa. È quivi per altro debito nostro
riferire, che a questo tempo alcune pratiche segrete si erano introdotte
tra Barras, uno dei tre, ed alcuni agenti di Luigi decimottavo, per le
quali il quinqueviro aveva dato speranza, e s'era anche obbligato a
favorire la rinstaurazione dei Borboni sotto condizione di dimenticanza
del passato, e promessa di premio in denaro; ma con la medesima
sincerità procedendo, dobbiamo notare, che sebbene sia vero, che queste
pratiche siano esistite, Barras sdegnosamente, e con termini molto
espressivi negò d'aver voluto procurare la mutazione del governo allora
sussistente, ed asseverò, avere prestato orecchio agli agenti dei
Borboni col solo fine di conoscere, e sventar le loro trame: vogliono
anzi alcuni, che gli volesse condurre in luogo dove potessero essere
arrestati. Pubblicò di più, aver ciò fatto con saputa e consentimento
espresso de' suoi colleghi del direttorio, ai quali a questo fine aveva
comunicato il negozio. Dà verisimile colore a quest'ultima allegazione
l'averla lui pubblicata quando gli sarebbe stato utile dire il
contrario, se fosse stato vero, ed il citare, per pruova della verità
del fatto, il testimonio dei ministri di quel tempo, de' suoi colleghi
del direttorio, ed anzi i registri segreti di questo magistrato supremo
della repubblica, in cui, siccome affermò, vi era un decreto che
l'autorizzava a condurre queste pratiche. Comunque ciò sia, era allora
l'esercito d'Italia in bocca di tutti, e quanto da lui veniva era
ricevuto in Francia con grandissimo o amore o terrore, secondo le
opinioni e le passioni, per la qual cosa coloro, che contrastavano a
questo proposito, facevano avviso, che le mosse contrarie dovessero aver
principio dall'esercito Italico. A questo dava favore Buonaparte per la
sua emolazione verso Pichegru, prevedendo nell'esaltazione del vincitore
dell'Olanda la depressione del vincitore dell'Italia. Per tutte queste
ragioni uscivano dalle diverse schiere dell'Italico minacce fierissime
contro i nemici della libertà, come gli chiamavano, contro gli amatori
del nome reale, contro i minacciatori della constituzione. Parlavano del
voler marciare in Francia con le armi vincitrici per castigare i
ribelli, descrivevano con patetiche parole le orribili congiure ordite
nella patria loro contro la libertà, mentre essi col sangue, e con
disagi innumerevoli la libertà, e la patria difendevano. Non
isperassero, minacciavano, che il sangue sparso, che le acquistate
vittorie, che la conseguita gloria fossero indarno; quelle mani stesse,
che avevano vinto l'Austria, vincerebbero facilmente, e farebbero tornar
in nulla quei branchi di faziosi. Al solo mostrarsi degl'Italici soldati
oltre l'Alpi, presi di spavento si disperderebbero quei vili sommovitori
di congiure. Non dubitasse punto il governo, che l'esercito Italico
tanto amasse la libertà, quanto la gloria, e che la prima con la
medesima costanza, col medesimo valore difendesse, coi quali aveva
acquistato la seconda: verrebbero, vedrebbero, ed anche senza battaglie
vincerebbero.

Da questi conforti, e da questo appoggio fatto sicuro il direttorio,
veniva a quelle risoluzioni, che resero tanto famoso il dì diciotto
fruttidoro, anno quinto della repubblica, o il dì quattro settembre del
novantasette: per esse si carceravano, ed in istrane e pestilenziali
regioni si mandavano Barthelemi, Pichegru, e gli altri capi della
congiura. Alcuni, e fra questi Carnot, fuggiti alla diligenza dei
cercatori, trovarono in forestiere terre scampo contro chi gli chiamava
a prigione ed a morte. Questo fu il moto di fruttidoro, pel quale
affortificatosi il direttorio coll'esclusione dei dissidenti, e
coll'unione dei consenzienti, e fattosi padrone dei consigli, recava in
sua mano la somma delle cose, e pareva, che vieppiù avesse confermato la
repubblica.

Tornato vano questo tentativo, i confederati, massimamente l'Austria,
che si trovava più vicina all'incendio, e che, essendo alle strette con
Buonaparte, aveva meglio conosciuto la sua natura, si gettarono ad un
altro cammino per arrivare al fine della distruzione della formidabile
repubblica. Si negoziava a questo tempo la pace coll'Austria; gli agenti
Austriaci vennero dicendo a Buonaparte, guardasse le ruine d'Europa, e
della sua patria stessa; una repubblica fondata solo con le mannaje,
conservata solo con le bajonette, sopportatrice dei malvagi,
perseguitatrice dei buoni; non isperasse di fuggir egli stesso la
repubblicana invidia; più illustri erano i fatti suoi, più magnifici i
benefizj verso la patria, e più inevitabile credesse l'atroce fine che
l'aspettava. Considerasse, che sono inesorabili le repubblicane
emolazioni, e che sempre la gratitudine delle repubbliche è
l'ingratitudine. Se i più chiari cittadini erano stati all'estrema fine
condotti in Francia, solo perchè chiari erano, che sarebbe del più
chiaro fra tutti? Ricordassesi le recenti trame ordite contro di lui, le
proprie querele, ed il livore del direttorio già vicino a prorompere,
quand'era ancora l'opera sua necessaria in guerra: che sarebbe in pace?
Forse era nato egli e fatto per essere stromento di faziosi, e
mentecatti? Forse a servir ad avvocati, e notaruzzi ambiziosi? Con le
grida, e coi patiboli s'hanno a governar gli stati? Guardassesi intorno,
entrasse in se, si paragonasse ad altri, e vedrebbe, che siccome era
unica la sua gloria al mondo, così unico doveva essere il fine, che a se
doveva proporre, che già dalle volgari vie militari si era discostato
nelle faccende di guerra, e che debito gli era di discostarsi dalle
volgari vie anche nelle faccende civili: a ciò chiamarlo, lacera e rotta
tutta l'Europa; a ciò medesimo chiamarlo la misera umanità ingannata
dalle lusingherìe, straziata dai delitti: vedeva egli certamente, ed
anche più volte aveva accennato, essere la repubblica un governo
impossibile in Francia. A che dunque dubitare, a che indugiare? l'Europa
infelice, la Francia infelicissima domandare da lui altre sorti,
domandare da lui la rinstaurazione dell'antica monarchìa dei Borboni,
domandare la rintegrazione dei diritti Europei: assai avere spaziato la
forza, assai la usurpazione, assai l'anarchìa: domare questi mostri
esser suo destino: al solo segnale dei Borboni, quando l'opportuno
instante fosse venuto, seguiterebbonlo in Francia tutti i buoni,
seguiterebbonlo tutti gli sdegnati, seguiterebbonlo tutti gl'infelici
condotti all'ultimo caso dalla presente tirannide. Favorirebbelo
l'Europa tutta, tirata da sì grande impresa, mossa da sì bella speranza
dopo tanto conquasso. Seconderebbonlo i principi, l'Austria la prima, e
la Russia tanto attiva fomentatrice dei Borboni. Parlare di ricompense a
chi già aveva acquistato maggior gloria, che altr'uomo avesse acquistato
mai, e che solo con un gran civile fatto poteva la propria gloria
ampliare, essere superflua, e fors'anche offenditrice cosa: pure o che
in grado privato la venerazione, o che in grado pubblico l'autorità
desiderasse, ciò gli sarebbe, e più ampiamente, che non desiderasse,
conceduto. Desse pertanto opera ad impadronirsi della somma delle cose
in Francia; che a ciò l'ajuterebbero i potentati, solo che promettesse
di fare la gran rimessa all'antico e legittimo signore. Muovessesi
adunque Buonaparte unico ad opera unica; rispondesse col fatto al
destinato dalla provvidenza, posciachè non senza intervento divino tante
volte avevano suonato le armi sue vincitrici.

Queste esortazioni muovevano quell'animo ambizioso. Ma da Borboni a
repubblica ei non faceva divario, gli uni e l'altra aveva ugualmente in
dispregio, ed anche la felicità, o le disgrazie umane nol toccavano.
Bensì, siccome quegli che sagacissimo era, e di prontissimo intelletto,
avvisava in un subito, che quello, che gli si offeriva, poteva aprirgli
la strada all'altissime sue cupidità. Si mostrava pertanto disposto a
fare quanto si richiedeva da lui, proponendosi nell'animo, e questo fu
il più solenne inganno, che mai sia stato fra gli uomini, di favorirsi
del consentimento e cooperazione dei principi, per arrivare alla potestà
suprema in Francia; non già per dispogliarsene in favor di chicchessia,
ma per serbarla ed anzi vieppiù consolidarla in se medesimo, ed
ampliarla.

Vogliono alcuni, che Barras quinqueviro avesse l'animo volto a favor dei
Borboni già insin da quando aveva procurato la elezione di Buonaparte al
governo supremo dell'esercito Italico, e che a questo fine appunto
l'abbia procurata, argomentando, che il giovane di Corsica, in cui egli
aveva scoperto mente atta a qualunque più ardua impresa, e natura nemica
ai reggimenti popolari, il dovesse secondare nel mandar ad effetto il
suo intendimento. Danno corpo a questa opinione le pubblicazioni fatte
dagli agenti dei Borboni, la contraddicono quelle fatte da Barras: le
une e le altre noi abbiamo rapportate, affinchè chi ci legge, possa
dalle medesime prender conghiettura della verità in cose tanto
avviluppate quanto importanti.

Dato in tal modo intenzione ai confederati, ed accordatosi con loro del
ristaurare in Francia l'antico governo dei Borboni, non formidabile ai
principi per essere conforme ai loro proprj, cominciava Buonaparte a
fare qualche dimostrazione, che della sua sincerità potesse far
testimonianza. Avea egli fatto arrestare contro ogni dritto delle genti
in Trieste, e condurre gelosissimamente custodito nel castello di Milano
il conte d'Entraigues, agente molto fidato di Luigi decimottavo.
Parlavano a quei tempi tutti i giornali della carcerazione del conte, e
ne favellavano come di cosa, che sommamente importasse alla salute della
repubblica. Gli trovavano, siccome fu pubblicato per opera di
Buonaparte, scritti, che discoprivano le macchinazioni di Pichegru, e
degli altri amatori del nome reale. Inoltre si facevano constare per un
rigoroso esame dato al conte, sebbene egli il verbale costantemente
sempre abbia negato, molto maggiori cose in pregiudizio della
repubblica, ed in pro dei Borboni, che gli scritti non palesavano. Tal
era il rigore di quell'età, che, se non ci fosse stato di mezzo qualche
grave motivo, avrebbe tosto Buonaparte dato a giudicare ad un consiglio
militare, o mandato il conte in Francia, dove sarebbe stato o sottoposto
all'ultimo supplizio, o carcerato per sempre. Ma quando ognuno temeva di
veder il conte giunto all'estrema fine, diede ammirazione agli uomini
l'udire, che il generalissimo aveva comandato a Berthier, che il facesse
comodamente alloggiare nel castello, e che la moglie il potesse
visitare. Gli comandava ancora, che se non trovasse stanza comoda nel
castello, il lasciasse sotto buona guardia in città, e gli rendesse
tutti gli scritti, salvo quelli, che toccavano gli affari politici:
questi erano le congiure di Pichegru. La maraviglia più si cambiava in
istupore per coloro, che non conoscevano l'intrinseco del fatto, e le
cagioni, quando si seppe, che il conte si era fuggito dal castello, e
più ancora, quando portò la fama, ch'ei fosse già arrivato con felice
viaggio nelle terre dell'imperatore Paolo di Russia, succeduto alla sua
madre Caterina. La verità del fatto fu, che Buonaparte desideroso di far
chiari gli alleati della sincerità sua col fidare le cose segrete
trattate a Montebello ad uomo confidente della Russia, e di Luigi
decimottavo, aveva procurato la libertà ad Entraigues, e mandatolo in
Russia portatore delle sue promesse. Infatti a queste novelle si piegava
Paolo con divenire molto meno acerbo verso la Francia. Al tempo stesso i
negoziati di Udine e di Montebello si fecero assai più morbidi, per modo
che non tardarono ad avvicinarsi alla conclusione; conciossiachè i
principi credevano, facilitando il sentiero a Buonaparte per arrivare
alla somma potenza in Francia, abilitarlo a mandar ad effetto le cose,
che da lui si promettevano. Tutti questi disegni molto gli arridevano, e
quantunque fosse uomo di natura molto coperta, e di pensieri cupissimi,
tuttavìa si lasciava di quando in quando uscir di bocca certi motti, che
disvelavano la sua intenzione, e le fatte macchinazioni. Ed io ho udito
parecchie volte raccontare a Villetard, giovane candidissimo, che
trovandosi a passeggiare a Montebello con Buonaparte, e con Dupuis, che
poi fu morto generale in Egitto nella sommossa del Cairo, sostando
improvvisamente dal passeggiare, il generalissimo aveva loro detto: _che
direste voi s'io diventassi re di Francia?_ Al che, siccome a me
raccontava il medesimo Villetard, rispondeva Dupuis, che professava un
ardente desiderio dello stato repubblicano, che sarebbe il primo a
piantargli un coltello nel petto; il quale tratto non fu udito senza
riso da Buonaparte.

Nè questi erano i soli segni delle meditate cose. Sorgevano a Montebello
i costumi, e le abitudini regie: ivi le udienze altiere da una parte,
umili dall'altra; ivi le adulazioni smoderate, ed il silenzio
rispettoso, non interrotto che dalle interrogazioni; ivi le sorelle del
vincitore corteggiate a modo di corte, ivi i ministri dei principi
esteri, e quei della Cisalpina accolti alla reale. Certamente null'altro
mancava di re che il nome, e questo nome stesso veniva naturalmente
sulle labbra dei cortigiani, ma vi periva per amore o per timore, ma
piuttosto per timore, che per amore della repubblica. A chi era uso a
scrutare le umane vicende, appariva manifestamente, essere in Buonaparte
natura a volere, e ad usare l'imperio, nè ciò con leggi, ma sopra le
leggi, non come cittadino, ma come padrone: il fato il fece per l'età, e
l'età per lui.

Frattanto le promesse segrete, ch'egli aveva fatte, e la necessità, in
cui si trovava il direttorio di rammollire con un solenne fatto i
risentimenti nati in Francia per la terribile rivoluzione dei quattro
settembre, operavano di modo che, rimosse da ambe le parti tutte le
durezze, si veniva il giorno diciassette ottobre alla conclusione nella
villa di Campoformio, di un trattato di pace, in cui un governo nuovo
distruggeva un governo antico, ed un governo antico consentiva, e
s'arricchiva delle spoglie di un governo antico ed amico, disonoratosi
l'uno per aver rapito, poco onoratosi l'altro per aver accettato le
rapine, se però non iscusano quest'ultimo le affermazioni magnifiche del
primo dell'averlo ridotto alla necessità di accettar la pace, qualunque
ella fosse. Oltre a ciò lasciava l'Austria in libera preda della
repubblica Francese, non dirò il Piemonte, perchè forse ella se ne
teneva male soddisfatta per la stretta congiunzione di lui con la
Francia dopo la tregua di Cherasco, e la pace di Parigi, ma bensì il
papa, ed il re di Napoli, che in nessun modo l'avevano offesa, e che
anzi si trovavano condotti in dure strette, ed in gravissimo pericolo
per avere sino agli estremi seguitato la sua parte. Certamente nissuna
sicurezza stipulava l'Austria nel trattato nè pel papa, nè per Napoli.
Fu il trattato di Campoformio principio di quelle brutte e crudeli
stipulazioni, che desolarono poi per circa vent'anni la miseranda Europa
con l'esempio di sommuovere prima i popoli, poi di dargli in preda ad
insolite signorìe.

Fermarono fra di loro l'Austria e Buonaparte, che la repubblica Francese
si avesse i Paesi Bassi, che l'imperatore consentisse, che le isole
Venete dell'Arcipelago, e dell'Ionio, e così ancora tutte le possessioni
della Veneta repubblica in Albanìa, cadessero in potestà della Francia;
che la repubblica Francese consentisse, che l'imperatore possedesse con
piena potestà la città di Venezia, l'Istria, la Dalmazia, le isole
Venete dell'Adriatico, le bocche di Cattaro, e tutti i paesi situati fra
i suoi stati ereditarj, ed il mezzo del lago di Garda, poi la sinistra
sponda dell'Adige insino a Porto-Legnago, e finalmente la sinistra
sponda del Po; che la repubblica Cisalpina comprendesse la Lombardia
Austriaca, il Bergamasco, il Bresciano, il Cremasco, la città e fortezza
di Mantova, Peschiera, e tutta la parte degli stati Veneti, che è posta
a ponente e ad ostro dei confini sovra descritti; che si desse nella
Brisgovia un conveniente ricompenso al duca di Modena; che finalmente i
plenipotenziarj di Francia e d'Austria convenissero in Rastadt per
accordare gl'interessi dell'imperio d'Alemagna.

A questi articoli palesi altri furono aggiunti di non poca importanza,
pei quali l'imperatore consentiva, che la Francia acquistasse certi
territorj Germanici insino al Reno, e dalla parte sua prometteva la
Francia di adoperarsi, acciocchè l'Austria aggiungesse a' suoi dominj
una parte del circolo di Baviera; il che non si poteva effettuare se non
con pregiudizio del duca.

Fu il trattato di Campoformio pieno di rapina, ma non fu meno pieno di
scherno, ancor peggiore della rapina; conciossiachè di che sappiano
quelle parole, che la repubblica Francese consentiva, che l'imperatore
possedesse Venezia, vedranlo non senza sdegno coloro, che
considereranno, se sarebbe stato possibile ai Veneziani di non diventar
imperiali, e se la Francia avrebbe permesso, che imperiali non
diventassero, e se i generali, ed i soldati di Buonaparte abbiano, sì o
no, consegnato eglino medesimi con le proprie mani la compassionevole
Venezia nuda ed inerme, ai generali ed ai soldati dell'imperatore.
Questo essere e non voler parere, parrà a tutti, come pare a me, un
pudore molto ipocrito.

Pure questa è quella pace, di cui favellando Carlo Maurizio Talleyrand,
tutto ammirativo sclamava: _questa è una pace da Buonaparte_; il che gli
sarà da ognuno facilmente conceduto. Poi non potendo Talleyrand medesimo
capire in se stesso per l'ammirazione, per l'amicizia, pel rispetto, per
la riconoscenza, come diceva, verso Buonaparte, e se qualche altra più
efficace cosa possono significare le più ammirative parole, scriveva:
_forse avremo qualche improntitudine d'Italiani, ma è tuttuno_; brutto,
incivile, e crudele scherno! Certamente coloro, cui Buonaparte tradiva,
e Talleyrand scherniva, erano, i più, uomini ricchi di nome, di
sostanze, e di virtù, i quali cedendo agli stimoli, e credendo alle
promesse degli agenti di Francia, s'erano in tal condizione posti, che
nella patria loro spenta non potevano più dimorare senza pericolo, e nel
duro esilio trovavano gl'insulti di chi era cagione del loro infortunio.
Parlare poi con tanta leggerezza di un caso di tanto momento, quale si
era quello della distruzione di uno stato così antico, così principale,
ed a cui l'Europa era obbligata di gran parte della sua civiltà, e della
sua preservazione dalla barbarie Ottomana, qual era veramente quel di
Venezia, dimostra una totale indifferenza verso il bello ed il brutto,
il buono ed il cattivo, il decente e l'indecente.

Fatto il trattato di Campoformio, ed ordinata a suo modo la Cisalpina,
se ne partiva Buonaparte dall'Italia per andare a Rastadt. Quale, e
quanto da quella diversa la lasciasse, che nel suo primo ingresso
l'aveva trovata, facilmente concepirà colui, che nella mente andrà
riandando i compassionevoli casi nei precedenti libri da noi raccontati.
Le difese dell'Alpi prostrate; un re di Sardegna, prima libero, ora
servo; una repubblica di Genova, prima independente per istato, ricca
per commercio, ora disfatto, ed in licenza convertito l'antichissimo
governo, fatta provincia, e sensale di Francia; un duca di Parma
ingannato dalle speranze di Spagna, e taglieggiato da agenti
oscurissimi: un duca di Modena, prima cacciato, poi rubato; un papa
schernito, e spogliato; un regno di Napoli poco sicuro, e per poca
sicurezza crudo; un'antichissima repubblica di Venezia, già lume del
mondo, e gran parte della civiltà moderna, condotta all'ultima fine,
prima dagl'inganni, poi dalla forza; il mansueto e generoso governo di
Firmian cambiato in un governo soldatesco, servo di soldati forestieri,
tributario di governo forestiero, e là, dove una volta addottrinavano le
genti con dolci e sublimi precetti filosofici i Beccaria, ed i Verri,
farla da maestri i Beauvinais, ed i Prelli. A questo le opere di Tiziano
e di Raffaello rapite; i nobili abituri fatti stanze deformi di soldati
strani; una lingua bellissima contaminata con un gergo schifoso; tutti
gl'ingegni volti all'adulazione, le ambizioni svegliate, le virtù
schernite, i vizi lodati, e per arrota, il che fu il pessimo dei mali,
uomini virtuosi perdenti la buona fama per essersi mescolati, o per
forza o per un generoso dedicarsi alle patrie loro, nelle opere malvage
dei tempi. In tanto male nissun lume di bene; perchè nè quei governi
potevano durare, nè a quali governi avessero a dar luogo si vedeva,
perchè i fondamenti privati erano corrotti, i fondamenti pubblici
forestieri, e se fosse mancata o la mano Francese, o la mano Tedesca,
nissuno poteva congetturare, che cosa fosse per sorgere, di modo che non
si scorgeva, se la independenza non fosse per diventare condizione
peggiore della servitù. A tal era condotta l'Italia, che lo stare per se
senza anarchìa, lo stare coi forestieri senza servitù non poteva. Così
corrotte le speranze, e cambiati i tempi, erano succeduti ai benefizj di
Giuseppe, di Leopoldo, di Beccaria, e di Filangieri una rapina
incredibile, una tirannide soldatesca, un sovvertimento confuso, un
dolore acerbissimo di vedere, forse per sempre, allontanato quel bene,
che essi avevano tanto vicino, e tanto soave alle menti nostre
rappresentato. In somma fu la bella Italia contaminata, e peggio, che
chi le faceva le membra rotte, e sanguinose, le lacerava anche la fama.
In somma la giustizia e l'innocenza non son più buone ad altro, in
questo pazzo ed ingannatore mondo, che a farsi soperchiare dai più
potenti, e chi non ha montagne di cannoni, di sciabole, e di soldati,
s'aspetti ad essere oppresso, rubato, e calunniato. Con le sue belle
parole sepolcro imbianchito è la vecchia Europa.

Restava, che le stipulazioni di Campoformio circa Venezia si recassero
ad effetto. Ma prima di raccontare la gran consegna fatta di quella
nobil sede dai repubblicani di Francia ad un principe Alemanno, sarà
bene andar rammemorando, quali accidenti, quali umori, quali disegni
sorgessero nelle varie parti dell'antico stato Veneto, e nella metropoli
stessa, innanzichè i patti di Campoformio si pubblicassero, e dappoichè,
spento l'antico governo aristocratico, vi si era introdotto il nuovo, al
quale non so qual nome dare, se non quello di tirannico e di servo. Non
così tosto furono instituiti i municipali di Venezia, che divisi fra di
loro per servile imitazione anche nelle discordie, si davano alle parti,
chi seguitando i modi dei democrati Francesi più ardenti ai tempi della
rivoluzione, e chi accostandosi a pensieri più miti e più temperati.
Capi ai primi erano Giuliani e Dandolo. Sovrastavano fra i secondi per
ricchezze, e per carità patria Vidiman e Joblovitz: quelli si chiamavano
da alcuni veri patriotti, da altri giacobini; i secondi presso alcuni
avevano nome di veri amatori della libertà, presso altri aristocrati.
Giuliani e Dandolo, massimamente il primo, continuamente spingevano il
magistrato a determinazioni rigorose contro i nobili. Giuliani più
rottamente procedendo non risparmiava nemmeno i Francesi, verso i quali
non mostrava mai adulazione di sorte alcuna, mentre Dandolo andava loro
a versi, e gli accarezzava. Il buono e virtuoso Vidiman, lontano del
pari dall'adulazione verso i forestieri, che dalla persecuzione contro i
compatriotti, mirava solamente al giusto ed all'onesto. Seguitavano
queste parti i Veneziani, pochi con Giuliani e Dandolo consentendo,
molti, fra i quali i nobili, per lo minor male si accostavano a Vidiman
ed a Joblovitz. Sedevano i municipali pubblicamente nella sala del gran
consiglio, dove le discussioni, e le contese erano grandi tra l'una
parte e l'altra, e trascorrevano qualche volta a manifesta contenzione.
Così Venezia anche posta al giogo forestiero parteggiava; tutti però in
questo consentivano, ch'ella intiera si conservasse. A questo fine si
rendeva necessario, che le provincie di terraferma, e quelle
dell'oltremare non si separassero dall'antica madre; e perciò, come
prima i municipali ebbero preso il magistrato, spedivano delegati, e
lettere a tutte le città del dominio Veneto, dando loro parte della
felice rivoluzione, come la chiamavano, sorta in Venezia, ed invitandole
ad accomunarsi, ed incorporarsi con esso lei. Ma i patriotti della
terraferma, attribuendo a Venezia cambiata le medesime mire, che si
attribuivano a Venezia antica, e chiamandola tiranna, e dominatrice
avida ed insolente, ricusavano le sue proposte. Pei maneggi loro le
città protestavano, questa di voler andar unita alla Cisalpina, quella
di voler restare da se. E stantechè Venezia aveva conservato, sebbene
nel libro aperto dell'Evangelista avesse fatto scrivere i diritti
dell'uomo, l'antico stemma del lione, gl'insulti, gli scherni, le
esecrazioni della gente matta democratica della terraferma andavano
all'infinito. Insomma una nimistà generale, piuttostochè desiderio di
unione, prevaleva in tutta la terraferma contro Venezia. Godeva
Buonaparte, godevanne i suoi agenti, perchè vedevano nella discordia
altrui la più facile esecuzione dei pensieri loro contro quelle
miserande reliquie della repubblica Veneziana; anzi quelle faville con
ogni mezzo fomentavano. Perchè poi gli odj già tanto intensi vieppiù
s'invelenissero, gli rinfiammavano non solo colle parole, ma ancora con
gli scritti. Victor generale, che aveva le sue stanze in Padova,
esortava con lettere pubbliche, e con parole molto veementi i municipali
di questa città a far atterrare le insegne di San Marco, ed a diffidarsi
dei municipali di Venezia, a cui attribuiva intenzioni molto sinistre,
accusandogli di trame aristocratiche.

I democrati, massime un Savonarola, che procedeva con più calore degli
altri, facevano quello, e più di quello, a che gli aveva esortati
Victor, tutte le immagini di San Marco col leone, avessero o no fra le
rampe i diritti dell'uomo, sdegnosamente mandando in pezzi, e con questo
si andavano persuadendo di aver acquistato la libertà. Nè a frenare un
furore tanto pazzo bastavano le risoluzioni dei municipali Veneziani, i
quali decretavano, che si cambiasse del tutto l'antico stemma della
repubblica, il leone si annullasse, e le insegne della moderna libertà
in luogo suo vi campeggiassero. Avevano queste condiscendenze l'effetto
solito di quelle, che sogliono farsi per forza, e negli estremi casi;
che pruovando nel conceditore più debolezza che volontà, non sono mai
prese a grado, e l'autorità di lui fanno andar in diminuzione. Ma appoco
appoco vieppiù crescendo il furore contro Venezia, si lacerava senza
posa il suo nome nelle gazzette Cisalpine; anzi i Padovani trascorrevano
tant'oltre, che si consigliarono di voler torre ai Veneziani l'uso delle
acque dolci dei loro territorj, cosa, che solo contro ad un nemico, e
forse nemmeno contro a chi fosse nemico in guerra, non si sarebbe usata.

Diminuiva Venezia, ad onta delle orazioni democratiche del Giuliani e
del Dandolo, di riputazione; ma ancor più di potenza, essendole occupati
o sotto spezie di sicurezza di stati, o sotto spezie di amicizia i suoi
dominj verso levante. Marciava l'Alemanno da Trieste per virtù dei patti
segreti di Leoben, e degli accordi oramai fatti, e che in formale
trattato si stipularono poscia in Campoformio, ad occupare le Venete
province dell'Istria e della Dalmazia. Ordinava sul principiar di giugno
il Terzi, generalissimo dell'Austria interiore, al generale Klenau,
occupasse nell'Istria Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, Ossero, e
Rovigno; al colonnello Casimiro, capitano di nome pel fatto della presa
di Trieste, presidiasse tutti i luoghi d'importanza del littorale
Istriaco, e di più delle vicine isole di Veglia, Cherso, Arbo, e Pago
s'impadronisse. Ad ambidue veniva di leggieri fatta l'occupazione,
perchè gl'Istriotti a quelle novità democratiche non si erano potuti
accomodare, ed ancorchè fossero affezionati al nome Veneziano, si
piegavano facilmente all'obbedienza Austriaca, perchè l'imperio
Francese, sotto il quale era caduta l'antica patria loro, stimavano
odioso. Parlarono con pubblici bandi i commissarj imperiali della bontà
di Francesco imperatore, dell'obbligo suo di preservar i suoi stati da
moti insoliti, del suo desiderio di allontanar dall'Istria l'inquieto
vivere dell'anarchìa. Proteggerebbe i quieti, punirebbe gli scandalosi,
manterrebbe a tutti le persone, e le proprietà sicure.

Mentre queste cose succedevano nell'Istria, sanguinosi accidenti
atterrivano la Dalmazia. Erano i popoli di questa provincia avversi per
antica consuetudine al nome Francese, e dalle nuove opinioni per
lontananza, e per poco commercio di lettere molto alieni. Erano anche
giunte a loro con veri e forti colori dipinte le espilazioni, e le ruine
d'Italia, onde all'odio antico si veniva a congiungere uno sdegno
recente. A questo si aggiungeva, che i soldati della loro nazione, che
in Verona, ed in Venezia, ed in altre piazze Venete erano stati di
presidio, si ricordavano della poca stima, anzi delle derisioni, che
verso di loro avevano usato i repubblicani troppo intemperanti nella
vittoria. Udite poi le Veneziane cose, e come e quanto i municipali di
Venezia trascorressero nelle opinioni, e nei costumi nuovi, si erano
concitati a gravissimo sdegno, dichiarando apertamente, che non
avrebbero più comportato, che s'ingerissero nelle loro faccende. Già
minacce annunziatrici di crudeli fatti sorgevano in ogni luogo contro
gli aderenti o veri o supposti dei reggimenti nuovi. I primi a muoversi
furono i villani, ed i montanari di Trauno e di Sebenico, i quali, scesi
a furia, commettevano atti di un'estrema barbarie. Quei, che fungeva le
veci di console di Francia, quantunque fosse Dalmata, era crudelmente
ucciso, e con lui tutta la sua famiglia. Le case di un Calafatti e di un
Gavagnini, deputati eletti dai municipali di Venezia ad ordinare a modo
nuovo la Dalmazia, erano saccheggiate; i parenti dei delegati
perseguitati, e parte uccisi. Nè più si guardava a nobili, o a preti, od
a soldati, che ad altri, perchè solo che fossero in voce di essere
aderenti ai Francesi, erano ammazzati. La mala usanza si propagava dal
continente nelle isole vicine, ed ogni luogo era pieno di terrore, di
ferite, di uccisioni, e di sangue. Nè poteva frenare il corso di tanta
barbarie Querini governatore, per l'antica Venezia, della provincia,
quantunque molto vi fosse amato, perchè più poteva il furore, che le
esortazioni, ed i suoi soldati, non che fossero stromenti del dominare,
s'erano fatti compagni al popolo per conculcare. Partivano da Trieste e
da Fiume alla volta di Zara quattromila soldati imperiali condotti da
Roccavina, Lusignano e Casimiro. Trattenevano i venti per qualche tempo
Roccavina, ma Casimiro con prospera navigazione arrivava a Zara sul
finire di giugno, poi sul cominciar di luglio s'accostava a lui con le
altre genti di Roccavina. Accettavano lietamente i Zaratini gli
Austriaci, parte per opinione, parte per sicurtà contro l'anarchìa.
S'impadronivano gl'imperiali dei forti, abbassavano le bandiere Venete,
inalberavano le proprie. Prometteva l'imperatore con pubblico bando
pace, e sicurtà a tutti, minacciava i turbolenti, affermava, venire per
ispegnere l'anarchìa, e per mettere in sicuro gli antichi ed
irrefragabili suoi diritti sopra la provincia. Giuravano fede
all'imperatore tutti i magistrati, e circa due mila soldati Veneti, che
si trovavano in quella fortezza per presidio. Quivi si vedeva uno
spettacolo generoso e lagrimevole; poichè allorquando si venne all'atto
del consegnarsi dai soldati il vessillo di San Marco in mano del
generale Austriaco, prorompevano in dirotto pianto: a loro rispondevano
con altrettante lagrime i circostanti. Alcuni furono visti in
quell'estremo atto baciarlo, ed abbracciarlo sospirosamente più volte; i
Panduri, fra gli altri, gente creduta barbara, davano tanti segni di
dolore e di disperazione, come trovo scritto, che i capitani Austriaci
concedevano loro di poter continuare nell'uso antico di portarsi i
Veneziani vessilli. Per tal modo, mentre uomini civili ed ammaestrati
con gentili dottrine, la patria loro non solo adducevano in forestiera
servitù, ma ancora nell'estremo suo caso con improperj più che barbari
schernivano, uomini idioti e da nissuna civile disciplina informati, la
patria stessa infelice e spenta, con dolore e con lagrime proseguivano.

Spento a Zara il governo Veneto, restava, che nella rimanente provincia
si annullasse. A questo fine partitosene per la via di terra Casimiro,
occupava Spalatro, Clissa, e Singo. Roccavina per quella di mare entrava
in Sebenico, dove era accolto con molta allegrezza, perchè la ferocia
dei villani scesi dalla montagna vi aveva più che altrove infuriato, e
ad ogni ora faceva le viste d'infuriare vieppiù. Scendeva quindi dai
monti con una mano di Ungari e di Transilvani il conte di Warstensleben,
e si univa col Roccavina. Allora gl'imperiali, fatti più forti, e
condotti da Roccavina medesimo si avviavano a farsi signori dei siti
importantissimi delle Bocche di Cattaro, stati anche ceduti da
Buonaparte a nome della Francia. S'accomodavano quietamente i Bocchesi,
non però senza dimostrazioni di vivo desiderio dell'antico governo, alle
nuove sorti. La Dalmazia tutta, e l'Albania Veneta entravano sotto il
dominio dell'imperatore, importante accessione a' suoi stati per
l'opportunità dei porti, per l'abbondanza del commercio, per l'indole
bellicosa degli abitatori, e finalmente per la perizia loro nelle
faccende di mare. Solo Perasto, Risano, e Geganowich, comuni dei
Bocchesi, facevano qualche resistenza, ma sopraffatti dalla superiorità
Austriaca cedevano, e si sottomettevano. A questo modo si andava
sfasciando appoco appoco, e con universale ruina, l'antichissimo imperio
dei Veneziani.

A novità di tanto momento, quale si era la occupazione delle provincie
del Levante, si risentivano i municipali di Venezia, e facevano instanze
presso a Buonaparte, e al direttorio per sapere che cosa volesse
significare, e domandando, che la Francia intercedesse, perchè l'antico
dominio si restituisse; il che a chi fosse contar le sue ragioni, il
lettore potrà da se stesso indovinare. Querelavasene con Buonaparte
Battaglia, imperciocchè è da sapersi, che quest'antico provveditore di
Brescia era stato chiamato con la solita superiorità da Buonaparte ai
municipali Veneziani, acciocchè appresso a lui risiedesse quale ministro
loro. Della missione di questo nobile Veneziano al generalissimo ne
facevano molti stridori i municipali Dandolo e Giuliani; ma il generale
era più forte di loro, e voleva quel che voleva. Querelavasi anche
gravemente della Dalmata rapina San Fermo mandato dai municipali, anche
per opera di Buonaparte, a sedere presso il direttorio a Parigi. Ne
ottenevano entrambi buone parole: non dubitassero, o che la Francia
sforzerebbe con le armi l'Austria a rilasciare le provincie occupate, o
procurerebbe coi trattati, che Venezia con nuove possessioni si
compensasse, ora dando speranza, che i paesi della terraferma, anche
quei d'oltre Mincio, le si restituirebbero, ed ora che le sarebbero date
in compenso le legazioni. A comprendere quale nuova spezie di lealtà
fosse questa, avrà bastato il raccontarla; conciossiachè a Montebello
già si fosse convenuto il dì ventisei di maggio coi plenipotenziari
imperiali Buonaparte di dar Venezia all'imperatore; al che aveva
consentito il direttorio il dì tre di giugno. Intanto Battaglia e San
Fermo scrivevano buone nuove, ed i municipali se le credevano, o
facevano vista di crederle, e ne dimostravano grandi allegrezze.

Era necessario, a volere che si spianasse la strada alla esecuzione dei
patti di Campoformio, già prima che fossero fermati in debita forma, che
le isole del Levante Veneto venissero in potestà dei Francesi. Per la
qual cosa Buonaparte aveva operato, che con accordo dei municipali si
facesse una spedizione di forze navali e terrestri a Corfù, isola per la
grandezza e per la fortezza molto principale in quelle spiagge; e perchè
una forza preponderante vi fosse, ed anche perchè vi erano fornimenti di
marinerìa di molta importanza, aveva, per mezzo del direttorio, dato
ordine, che al tempo medesimo da Tolone l'ammiraglio Brueys si avviasse
all'isola stessa con la sua armata. Erano a quei tempi le isole del
Levante Veneto rette con dolce e giusto freno dal nobile Vidiman,
fratello del municipale, e come egli, di vera e più che ordinaria carità
fornito verso la Veneziana patria: uomo certamente per virtù cittadina
molto singolare; umano con gli avversi, dolce con gli amici, giusto con
tutti, ritraeva il suo procedere più dell'antico, che del moderno, ed
aveva con tanta efficacia, e senza alcuno sforzo, ma solamente pel suo
buon naturale operato, che quelle immaginazioni greche tanto vivaci e
mobili, malgrado delle parole incentive che suonavano da Francia e da
Italia, fermamente si conservassero affezionate al nome Veneziano.
Quando poi i tempi già tanto stretti andavano per Venezia a cagione
della presenza dei repubblicani negli stati di terraferma, prima però
che l'antico governo fosse annullato, penuriando l'erario di denaro, nè
potendo supplire alle spese sì civili che militari delle isole,
offeriva, e dava Vidiman del suo alla repubblica, oltre tutto il suo
vasellame d'argento, otto mila ducati Veneti, del che gli rendeva il
senato pubbliche e solenni grazie. Nè questi bastando al grosso
dispendio soldava a benefizio del pubblico con privato obbligo altri
quaranta mila ducati, e con questi si andava sostentando in quei tempi
difficili lo stato delle isole. Quando poi incominciavano ad arrivare a
Corfù i romori del cambiamento succeduto a Venezia, ancorchè grandissima
molestia ne ricevesse, siccome quegli che per opinione e per
consuetudine era dedito all'antica repubblica, nondimeno pensando, che
se era perduto lo stato vecchio, gli rimaneva, se non una patria, almeno
un paese, al quale era suo debito servire, s'ingegnava con ogni sforzo
di calmare gli spiriti, per fargli perseverare nella loro fede ed
affezione verso Venezia, qualunque avesse ad essere il suo destino. Nel
che faceva grandissimo frutto a cagione dell'amore, che generalmente gli
era portato.

Finalmente per la via di Otranto gli pervenivano lettere dei municipali
di Venezia, che recavano le novelle della rivoluzione, dell'essersi
distrutta l'aristocrazìa, ed allargato il governo alla democrazìa.
Aggiungevano, nominerebbe un dì il popolo i suoi rappresentanti; ma che
intanto, per impedire la cessazione dei magistrati, si era creato nei
municipali un governo a tempo; avrebbero i municipali gli abitatori
delle isole, e dei luoghi del Levante in luogo di fratelli; manderebbero
due commissari per metter all'ordine il nuovo stato; Vidiman sarebbe il
terzo; verrebbero con una forte armata, e con sei mila soldati. Tacevano
se i soldati avessero ad essere Veneziani, o Francesi. Preparasse
adunque, esortavano, con la prudenza e destrezza sua gli animi; spiasse
bene, e raffrenasse coloro che fossero di genio aristocratico; usasse a
quiete di tutti l'opera delle persone prudenti e religiose di ogni rito;
sopratutto impedisse, che gli uomini inquieti e torbidi prorompessero in
qualche discordia o tumulto: in lui riposarsi, terminavano, con animo
tranquillo i municipali, ed intieramente rimettersi nella fermezza,
nell'avvedutezza, nella temperanza e nella esperienza sua. In sì solenne
e tanto terminativo accidente di quanto egli aveva di più caro e più
onorato su questa terra, adunava Vidiman i primari magistrati sì civili
che militari, e leggeva loro il municipale dispaccio, esortandogli alla
sopportazione ed all'obbedienza. Furonvi rammarichi ed alte querele; ma
mostrarono rassegnazione, ignari ancora a che cosa gli serbassero i
fati.

Frattanto si facevano a Venezia gli apparecchj necessari per la
spedizione di Levante. Il fondamento era da parte del direttorio di
spirar tanta confidenza ai municipali, che credessero, mandarsi le forze
Francesi per mantener quelle possessioni nella divozione di Venezia, e
per riacquistar anche, ove fosse venuto il tempo proprio, la Dalmazia:
con queste coperte intendevano Buonaparte e il direttorio al far uscire
da Venezia, col fine d'impadronirsene, quella parte dell'armata
Veneziana, che sull'ancore se ne stava nel porto. Perlocchè si
appresentava Baraguey d'Hilliers con tutti gli ufficiali Francesi da
mare, che dovevano governare l'armata, in una solenne adunata, ai
municipali, con parole meliflue protestando dell'amicizia del
direttorio, chiamando la repubblica col suo nuovo governo sorella, e
promettendo, che tutte le forze Francesi si adoprerebbero, perchè ella
fosse restituita all'antica sua grandezza. Qui lascio, che gli storici
Buonapartiani lodino a posta loro, e saria bene, che ci spiegassero,
quale offesa da questo momento in poi abbia fatto Venezia a Francia,
perchè meditasse di essere spenta, e data in preda all'imperatore. Si
destinava a governar le genti da terra il generale Gentili. Obbediva
l'armata al capitano di nave Bourdè, uomo assai perito, e non di
pensieri immoderati, e molto amato da Buonaparte. Consisteva l'armata in
due navi di fila Venete, due fregate pure Venete, e due brigantini
Francesi. Molte navi atte a trasportar soldati l'accompagnavano; furono
empiute di Francesi, la maggior parte della settuagesima nona, soldati
tanto valorosi, quanto bene disciplinati, e che modestamente portandosi
in Corfù temperarono in favor del nome Francese l'acerbità del dominio
forestiero. Volle Buonaparte, poichè si trattava di andar in Grecia, che
s'imbarcasse Arnauld, letterato di grido, il quale venuto in Italia per
veder il paese, ed esaminare quelle rivoluzioni, dopo di essersi qualche
tempo dimorato in Venezia, era divenuto vago di visitare la Grecia. In
lui aveva il generalissimo posto molta fede per avere i rapporti sulle
antichità dei paesi, sui costumi e sulle leggi dei popoli. Ancora, se
discoprisse qualche cosa di gentile e di vago, o quadro fosse, o statua,
o manoscritto, sì l'indicasse acciò se lo potesse rapire.

Sapevano i municipali a quali angustie fosse ridotto Vidiman a Corfù per
la mancanza del denaro, e credendo anche allettare i popoli, se
arrivando i primi agenti della mutata Venezia, portassero con se denaro
per dar le paghe già da tanto tempo corse, imbarcavano a governo degli
amministratori, che mandavano nelle isole, seimila zecchini.

Appariva il dì ventotto giugno nel porto dei Corfiotti l'armata
apportatrice dei soldati stranieri. Vidiman, e gl'Isolani molto si
maravigliarono al vedere insegne ed uomini Francesi, in luogo d'insegne
e d'uomini Veneziani: pareva loro, che altro suonassero le parole, ed
altro i fatti, nè sapevano intendere un caso tanto strano. Gentili
scriveva dalla nave capitana a Vidiman, essere venuto, a ciò richiesto
dai municipali di Venezia, a rinforzar le guernigioni, ad assicurare
Corfù e le altre isole del levante, a trattare con esso lui delle cose
risguardanti la sicurezza e la quiete dello stato. Il ricercava intanto,
preparasse in fortezza gli alloggiamenti pe' suoi soldati, quelle Greche
isole per la prima volta venivano in possessione di Francia.

Suonavano a festa il dì ventinove di giugno gli stromenti da guerra; i
nuovi repubblicani sbarcavano. Quegli uomini Greci si maravigliavano in
veder quegli uomini nuovi, e tanto guerrieri. Venivano i magistrati a
far riverenza agl'insoliti signori. Il vescovo Greco, (che la maggior
parte di quegl'isolani sono di questo rito), in cotal guisa parlava a
Gentili: «Francesi, voi trovate in quest'isola un popolo ignorante delle
scienze e delle arti, che illustrano le nazioni; ma non l'abbiate per
questo a vile: egli può tornare qual fu un tempo; apprendete, e ciò
dicendo sporgeva la Odissea, apprendete da questo libro, disse, in qual
conto voi dobbiate tenerlo».

Non così tosto ebbe Gentili sbarcato le sue genti, che le alloggiava
nella fortezza, e così recava in sua mano la facoltà di fare a sua
volontà qualunque cosa ei volesse. Poi non da alleato, ma da padrone
procedendo, s'impadroniva dei magazzini del pubblico, e di tutte le
artiglierìe, che erano belle, ed in numero considerabile. Meglio di
cinquecento cannoni, la maggior parte di bronzo, venti obici, petrai, e
mortaj o di bronzo o di ferro centoventuno, cinquanta migliaja di
polvere, venti casse di fucili, palle e bombe in proporzione,
ricchissima preda.

A Gentili succedeva Bourdè, che poneva le mani addosso ai magazzini di
mare, ed a sei navi di fila, e tre fregate Veneziane, due buone, il
Volcano, e la Fama, le altre in cattivo arnese. Gentili intanto i
seimila zecchini mandati da Venezia per soccorre alle cose Veneziane
nelle isole, recava in suo potere per dar le paghe a' suoi soldati, ed
agli amministratori venuti con lui.

Posto il piede, e confermato il dominio Francese nell'isola principale
di Corfù, mandavano Gentili e Bourdè forze di terra e da mare, a prender
possesso di Cefalonia e di Zante, e dell'isola più lontana di Cerigo,
che fu l'antica Citera, certo molto difforme dallo stato antico, perchè
poco altro ella è ora, che uno scoglio arido e deserto. Poi Gentili ed
Arnauld, fattisi dar liste di candidati dai primari abitanti, creavano i
municipali di Corfù, fra i quali per un'arte, che sa piuttosto di
derisione, e già l'avevano usata col doge di Venezia, nominavano
Vidiman, già spogliato di ogni altra autorità. Così con disfare ogni
vestigio di governo Veneto, con divertire ad uso dei soldati Francesi la
pecunia pubblica, con torre a Venezia quanto aveva nelle isole di
ricchezza e di forza, pretendevano gli agenti del direttorio e di
Buonaparte di conservarle quelle possessioni. A questo modo ancora si
eseguivano i comandamenti di Buonaparte, il quale scrivendo a Bourdè nel
mese di giugno, gli ordinava, si appresentasse con Baraguey d'Hilliers,
e col ministro di Francia ai municipali di Venezia, e loro dicesse, che
la conformità dei principj che a quei dì reggevano la repubblica
Francese e quella di Venezia, e la mano forte, che la prima dava alla
seconda, richiedevano, che prontamente le forze marittime di Venezia si
allestissero, perchè di concerto le due repubbliche si potessero
mantener in possessione dell'Adriatico, e dell'isole del Levante, e
tutelassero il loro comercio; e che già a questo fine egli aveva mandato
genti per assicurare alla repubblica Veneziana la possessione di Corfù.
Gli avvertisse finalmente, che quello era il tempo di mettere in pronto,
e di armare virilmente il navilio Veneziano. Queste ed altre simili cose
voleva Buonaparte, che Bourdè accompagnato da solenne apparato dicesse.
Le quali chi mi leggerà, considerando, e così ancora le stipulazioni di
Montebello del ventisei di maggio di sopra da noi accennate, verrà
facilmente a conoscere qual fraude fosse questa di gettare in quel tempo
parole di conservazione per Venezia. Ma la fraude era doppia, perchè al
momento stesso comandava a Bourdè, che con questo pretesto, e con
procurare tuttavia di vivere in buon accordo, s'impadronisse di ogni
cosa, e tirasse ai servigi di Francia i marinari, e gl'impiegati della
marinerìa Veneziana. Imponeva finalmente al medesimo Bourdè, che
mettesse in pronto tutte le navi Veneziane sì grosse che sottili, e le
incorporasse all'armata Francese, e mandasse a Tolone ogni qualunque
provvisione Veneta. Così Venezia era rapita in Venezia medesima, in
terraferma Italiana e Slava, e nelle isole sì dell'Adriatico, che
dell'Ionio e dell'Egeo.

Stabilitasi nel modo raccontato la dominazione Francese in Corfù, vi
nascevano più vive, che mai vi fossero state, le parti; perchè alcuni
fomentavano lo stato nuovo, altri si conservavano addetti al vecchio.
Capi dei primi erano i Teotochi, massimamente il vecchio, personaggio
venerabile per l'età e per le virtù, e di molto seguito nell'isola; capo
ai secondi si mostrava l'avvocato Scordilli, uomo ancor esso
risplendente per virtù e per ingegno. E siccome gli odj nelle isole sono
molto gravi, così gli aderenti di una parte non risparmiavano nissuna
parola, che fosse ingiuriosa contro la parte avversaria. Sarebbero anche
molto volentieri venuti ai fatti, se la forza Francese preponderante non
gli avesse raffrenati.

Intanto Gentili, recatasi la somma delle cose in mano, continuava,
quantunque fosse assai cagionevole della persona, a starsene a Corfù;
Bourdè se ne tornava con le sue navi a Venezia. Arnauld, visto che non
poteva eseguire il mandato di Buonaparte dell'indicar gli spogli delle
chiese, dei musei e delle librerìe pubbliche, perchè statue, quadri,
manoscritti preziosi non ve n'erano, visitati, come scriveva, i giardini
di Alcinoo, e la pietra lavandaja di Nausicae, chiamati i Corfiotti
superstiziosi, ignoranti e vili, ed i Greci ladri, perfidi ed
inospitali, eccettuando solamente i Mainotti, forse perchè sapeva che
Buonaparte gli accarezzava, scritto finalmente che la libertà aveva solo
settatori fra il popolo tiranno, cioè fra i Turchi, se ne partiva per
l'Italia per andarsene a visitare la tomba di Virgilio. Così Arnauld
giudicò i Greci nè amatori, nè degni di libertà: solo aveva per la
libertà qualche speranza nei Turchi.

Con magistrati temporanei si governavano le cose in Corfù fino alla pace
di Campoformio. Poi vi fu mandato da Buonaparte un Corbigny, che
ordinava le isole a modo di Francia, partendole in tre spartimenti, dei
quali quello di Corfù chiamava di Corcira, quello di Cefalonia, d'Itaca,
e quello di Zante, del mar Egeo. Alla presa del magistrato orava in
piazza il Teotochi, presidente eletto del magistrato distrettuale, con
qualche veemenza sulle cose nuove. L'emolo Scordilli lo chiamava vecchio
pazzo.

La presenza dei Francesi in Corfù vi partoriva due effetti molto
notabili. Il primo fu, che i Corfiotti non si ammazzavano più fra di
loro, come eran soliti fare quasi ogni giorno innanzi che i Francesi vi
arrivassero, il secondo, che i soldati Francesi, temperatamente
portandosi, si accomunavano con gl'isolani, e cambiavano in affezione
l'odio, che prima avevano contro il nome Francese. Imparavano i
Corfiotti l'industria, e le singolari arti; si facevano maritaggi, mezzo
sempre d'intimo congiungimento fra le nazioni; ed io ho veduto, ed udito
un soldato Francese, già imparata la lingua del paese, orare, non senza
facondia, in greco volgare in cospetto dei tribunali contro la sua
moglie greca, donna bellissima, che si voleva separare da lui per
divorzio: vinceva, e serbavasi con molta contentezza la donna. In tale
mansueta forma si viveva in Corfù con utile degl'isolani, finchè vi
venne Sordina, municipale di Venezia, a metter su i ritrovi politici, e
ad orare, ed a far romore in tribuna; il che accrebbe i risentimenti, e
rinvigoriva gli odj, perchè la gente savia vedeva in quei ritrovi le
consuetudini tumultuarie e sanguinose di Francia, quantunque vi
favellasse spesso, ed a buon fine, e con parole temperate un generale
Francese per nome Villelongue, uomo tanto dotto ed eloquente, quanto
gentile ed onesto.

Venezia già serva di Francia era destinata a divenir fra breve serva
d'Austria. Ma prima che raccontiamo il compimento delle macchinazioni
ordite, è per noi necessario narrare quanto antecedentemente in essa sia
accaduto. Dominava con imperio assoluto Baraguey d'Hilliers, parte da
se, parte in conformità degli ordini di Buonaparte. Alloggiava in casa
Pisani con fasto grande, e con carico gravissimo di quella famiglia; i
municipali non deliberavano, se non sentito lui; i posti principali
erano custoditi dai Francesi; i municipali, chi per forza, chi per
prudenza, chi per adulazione servivano a Baraguey. Villetard, siccome
giovane e confidente, si travagliava per ordinare il nuovo governo
democratico, ed in ciò si trovava posto in difficile condizione; perchè
gli spogli scemavano autorità alle sue parole, e pareva a tutti, come
era veramente, che cattivo principio di libertà fosse quello che si
vedeva. Ne sentiva egli dolore grandissimo, perchè ed amava la libertà,
e camminava in quelle bisogne con animo sincero. S'incominciava a dar
mano agli spogli delle opere gentili insino a tanto che arrivasse tempo
al toccare le più utili. Quanto di più bello e di più prezioso avevano
prodotto gli scarpelli, od i pennelli, o le penne greche, latine ed
italiane, era rapito dagli strani amici. Le gallerìe, le librerìe, i
tempj, i musei sì pubblici che privati diligentemente si scrutavano, e
violentemente si sfioravano. A questo modo nove chiese in Venezia, una
in Verona, parecchie in altri luoghi della terraferma restarono stampate
dei vestigj della cupidità forestiera.

Il palazzo pubblico di Venezia, massimamente in quelle stanze stesse,
dove con tanta prudenza, e per tanti secoli dei negozj attinenti alla
patria avevano deliberato i padri, e dove allora i municipali vantavano
la libertà di Venezia, e la generosità del vincitore, fu dei più
preziosi ornamenti espilato. Con pari rabbia fu la gallerìa privata dei
nobili Bevilacqua in Verona da mani violente tocca e spogliata. Le opere
di Bassano, di Paolo Veronese, di Tiziano, di Tintoretto, di Pordenone,
di Bellini, di Mantegna tanto care ai Veneziani e per bellezza propria,
e per essere di mano di artisti paesani, dai luoghi loro deposte se ne
andavano ad ornare forestieri, e lontani lidi. Mani Italiane furono
costrette dalla forza ad ajutare lo spoglio d'Italia. Molte statue e
bassi rilievi antichi, sì di marmo che di bronzo, di grandissimo pregio,
e tre vasi etruschi di egregio lavoro erano tolti dalla librerìa
pubblica di Venezia, e della gallerìa Bevilacqua. Nè i camei, opere
preziose, si risparmiavano; e fra di loro quello tanto famoso, che
rappresentava Giove Egeo. Sessantanove medaglie greche o romane, parte
in argento, parte in bronzo erano levate dai privati musei dei Muselli,
e dei Verità di Verona. Dei manoscritti con grandissimo dolore
degl'Italiani dalla sola libreria di Venezia più di duecento greci, o
latini, o italiani, o arabi, o in carta pergamena, o in carta usuale, o
in carta di seta saziavano le voglie dei repubblicani d'oltremonti.
Pregiavano principalmente i Veneziani due manoscritti arabi in carta di
seta, perchè dati in dono dal cardinal Bessarione alla repubblica, e
questi ancora piansero e desiderarono, in forestiera terra trasportati.
Sentivano la comune spogliagione le librerìe pregiatissime dei monasteri
di Venezia, di Treviso, e di San Daniele in Friuli, dai quali atti delle
mani vincitrici mancarono settantasei testi a penna preziosissimi, fra i
quali otto anteriori al secolo decimoterzo. Alle medesime espilazioni
andavano soggette le stampe tenute tanto care degli Aldi, la Magontina
nominatamente, opera del 1459, le quali con somma gelosìa si custodivano
nelle librerìe di Venezia, Treviso, Padova, Verona e San Daniele. I
carri e le barche Veneziane erano piene di Veneziane spoglie. Queste
preziosità erano state tolte dalle interiori mura dei tempj, dei musei,
e delle librerìe. Restava il più bello e più glorioso segno della
grandezza Veneziana, che sull'anteriore faccia del principal tempio di
Venezia dimostrava, quale fosse stato anticamente il valore di quella
generosa nazione. I cavalli di bronzo, opera, come si narra, di Lisippo,
dati prima in dono a Nerone da Tiridate, re d'Armenia, poi trasportati
da Costantino a Bisanzio, e conquistati finalmente pel valore dei
Veneziani congiunti ai Francesi, che ebbero in sorte altre
Costantinopolitane spoglie, e mandati a Venezia dal doge Pietro Zani,
accrescevano, involati essendo, il dolore pubblico della gente
Veneziana. Spiaceva al letterato Arnauld, che questi cavalli restassero
a Venezia: spiacevagli altresì, che i leoni conquistati dal valore del
Morosini nel Pireo, continuassero a starsene nella sede loro, segni
della Veneziana gloria. Ne gli spiacque, e ne scrisse a Buonaparte.
Cavalli, e leoni furono per suo comandamento condotti in Francia. Il che
venne fatto in cospetto dei Veneziani con tanto dolore loro, che,
instupidite le menti, parevano piuttosto attonite che dolorose. Come
queste cose Arnauld, che faceva professione di amare la libertà e
l'independenza della sua patria, suggerisse a Buonaparte, io non ne
posso restar capace, perchè a me pare, che nissuno possa sinceramente
amare la libertà e la indipendenza della propria patria, se non porta
rispetto alla libertà ed all'independenza delle patrie altrui. So, che
alcuni dicevano, e tuttavia dicono, che questi spogli si eseguivano in
virtù del trattato di Milano. Ma Buonaparte non aveva voluto ratificare
questo trattato, e perciò la Francia lo doveva aver per nullo. Che se
poi ad ogni modo si voleva aver per valido, bel modo di eseguirlo
certamente era quello di mandar ad effetto tutte le sue peggiori
condizioni contro Venezia, e di non osservar quelle che erano in suo
favore, massimamente la sua conservazione, condizione che era pure la
più principale, anzi la sostanziale del trattato, perciocchè non si
possono stipular trattati con una potenza, che si crede nulla, nè
accordare condizioni di futura esecuzione con una potenza, che si vuol
distruggere.

Non solo gli ornamenti e le ricchezze Veneziane si trasportavano, ma
quelle ancora commesse alla fede dei neutri avidamente s'involavano.
Erasi il duca di Modena, come abbiamo detto, fuggendo la furia dei
repubblicani, ricoverato in Venezia; poi già romoreggiando le armi loro
d'ogn'intorno, e prevedendo la dedizione, si era per sua sicurezza
ritirato sulle terre d'Austria. Ma lasciava un suo tesoro, perchè
credeva, in ciò scostandosi dalla sua solita provvidenza, che o non
sarebbe scoverto, o se scoverto, sarebbe tenuto inviolato per la
neutralità del luogo. Occupata Venezia dai Buonapartiani, gli agenti del
direttorio ebbero sentore del deposito, e parendo loro che fosse lor
venuto un bel destro, alla fama di quei zecchini nascosti tostamente si
calavano, e circondato improvvisamente con soldatesche armate il palazzo
in San Pantaleone, dove aveva abitato il duca, cercarono il tesoro, in
ogni parte diligentemente investigando. Ciò fu indarno; perchè era stato
deposto in casa del ministro d'Austria. Perlochè, fatto armatamano
improvviso insulto contro di essa, e ricercato in ogni canto, trovarono
il denaro, e via se lo portavano: furono, come portò la fama, circa
duecentomila zecchini. I Modenesi erano venuti a Venezia per averselo;
ma e' furon novelle. Gli agenti gli serbarono, dissero, per la cassa
militare.

Le espilazioni delle opere d'ingegno si effettuavano con grande apparato
di soldati, perchè sebbene fossero i piè dei Veneziani in ceppi, si
temeva, che ad un bel levarsi, il popolo prorompesse, e rivendicasse
alla patria con qualche solenne precipizio degl'involatori le gloriose
spoglie. Accresceva il timore il pensare, che le rapine di Venezia
rinfrescavano la memoria delle altre rapine d'Italia. Per ogni lato si
fremeva nel vedere questi spogli. Pubblicavasi a questi giorni in Italia
con le stampe un libro, che aveva in titolo i _Romani in Grecia_ e che
fu generalmente creduto opera di un Barzoni. In questo scritto l'autore,
sotto spezie dei Romani in Grecia simboleggiando i Francesi in Italia, e
così paragonando la tirannide di Flaminio a quella di Buonaparte,
eccitava i popoli Italiani allo sdegno, alla vendetta, alla
rivendicazione. Ne riceveva molta molestia il generalissimo, e ne
cercava per ogni dove l'autore e le copie. Ma più il perseguitava, e più
era letto, e non pochi tra i Francesi, che avversavano Buonaparte, o per
generosità naturale, o per odio, o per invidia, lodavano e promuovevano
lo scritto. Villetard fra gli altri il chiamava pieno pur troppo di
allusioni veridiche sui ladronecci commessi da alcuni individui indegni
del nome Francese. Girava attorno lo scritto al momento degli spogli, e
siccome quello che accusava i municipali del caro del pane, che
paragonava l'Italia ad un vasto cimitero tutto squallido e bruttato
d'infiniti cadaveri, e che stimolava i popoli a correre armati contro i
Francesi, partoriva un effetto incredibile. Se ne querelava Villetard
coi municipali; se la passarono con dire, che la stampa era libera, e,
quanto alle ingiurie contro a loro, che le avevano in dispregio. Ma
Buonaparte non l'intendeva a questo modo: voleva, che l'autore si
rinvenisse. Si viveva pertanto fra la rabbia ed il timore, quando
dimorandosi una sera Villetard in caffè sotto le quarantìe, se gli
faceva avanti in un atto amico Barzoni. L'allontanava da se con aspre
parole il Francese, dicendo, maravigliarsi, che colui, che chiamava a
morte i Francesi, avesse fronte di accostarsi amichevolmente a chi gli
rappresentava in Venezia. In questo Barzoni, trattosi di seno una
pistola, e contro Villetard dirizzatola, lo voleva uccidere. Nasceva pel
fatto in quel ritrovo un gridare, un fuggire, un accorrere incredibile.
Si ritirava o intimorito, o sbalordito Barzoni, e vi fu calca: furono
presto i soldati ad accorrere a quel romore inopinato. Per ammansare lo
sdegno di Buonaparte, scriveva Villetard a Monge, scusasse il fatto col
generalissimo, allegando, che il povero Barzoni, preso da un ardente ed
infelice amore per una giovane gentildonna, era fuori di mente. Il
pregava altresì, tanto era buono quel Villetard, operasse presso al
generalissimo, onde si contentasse, ch'ei desse un passaporto a Barzoni,
acciocchè se ne andasse a passare in paesi forestieri quella sua ira
tanto gonfia contro i Francesi. Rescriveva furiosamente Buonaparte,
essere un assassinamento; volere, che il reo si castigasse. Non ostante
gli dava Villetard il passaporto: il giovane Barzoni fuggendo in paesi
esteri la collera di chi tanto poteva, si riduceva per ultimo nell'isola
di Malta, quando ella venne in potestà degl'Inglesi, e quivi si stette
lungo tempo, scrivendo un giornale contro la tirannide Buonapartiana.
Asperava questo fatto vieppiù gli animi da ambo le parti: insino ai
municipali era venuto in odio quel forestiero dominio.

Cercavasi intanto di coprire con segni di allegrezza le apparenze tristi
e funeste. Esita l'animo nostro a raccontare una festa solenne ordinata,
e festeggiata da coloro, che sapevano qual fato sovrastasse a Venezia.
Pure la racconterò per impietosire i posteri, se essi saranno migliori
di noi; conciossiachè niuna cosa più muova a compassione che
un'allegrezza procurata a chi è destinato a morte. Correva il dì della
Pentecoste, quando la piazza di San Marco si vedeva tutt'addobbata a
festa pel piantamento dell'albero della libertà. Mani Veneziane avevano
eretto a capo della piazza dalla parte opposta a San Marco un'ampia
loggia, a cui si saliva per due scale laterali ornate di vaghi fiori, e
di arbusti odoriferi. Era la facciata della loggia un magnifico
colonnato d'ordine Toscano con doppie cornici, e belle statue corredato.
Da ambi i lati della loggia sorgevano due adorni palchi con colonne, con
ghirlande, con insegne repubblicane. Quivi dovevano sedere i musici
della cappella ducale, dismessi dal celebrare le antiche glorie della
repubblica libera, chiamati ora a celebrare i vergognosi principj della
repubblica serva. Due altre logge adorne, e belle si vedevano in mezzo
alla piazza, e davanti alle procuratìe, con orchestre pure a lato; i
fregi, gli arazzi, le divise, gli emblemi, conformi ai tempi. Gli archi
delle procuratìe, e così ancora la chiesa di San Marco comparivano alla
vista dei circostanti carchi ed adorni di festoni tricolorati. In vedere
un tanto apparato non pochi erano i motti di quegli ameni e spiritosi
Veneziani, dimentichi, fra mezzo a quelle illusioni festevoli, dei tanti
infortunj loro. Steso a terra in mezzo della piazza giaceva il fusto
ancor fronzuto dell'albero, che non so come, nè perchè col nome della
libertà si chiamava. Ed ecco alle diciassette Italiane comparire con
solenne comitiva di tutti i suoi ufficiali Baraguey d'Hilliers.
L'incontravano i municipali in abito, coi cappelli, con le sciabole di
moda. Quinci poscia essendosi congiunti col corteggio del generale, si
ordinavano a processione. Le campane tintinnivano, gli strumenti
suonavano, i democrati dall'allegrezza gridavano: che cosa si pensasse
Baraguey d'Hilliers, che sapeva l'avvenire, io non lo so. Intanto giva
la processione; soldati Italiani precedevano, seguitavano due fanciulli
vagamente vestiti, poi una coppia di un giovane e di una giovane, che si
dovevano sposare, poi un vecchio ed una vecchia con istromenti
d'agricoltura. Veniva dietro la guardia nazionale in addobbo; indi
Baraguey in addobbo ancor esso, e i consoli delle nazioni, e i
magistrati sì civili che militari, e i capi delle arti coi simboli delle
arti loro. Mostravansi alla coda del corteggio, seguitati da musica
militare i municipali. Toccavano i due fanciulli il fusto, ed in un
batter d'occhio fra le grida ed i suoni festivi era rizzato nelle sue
radici in mezzo alla piazza: sopra le radici deponevano i due vecchi i
rurali strumenti. Compariva in questo una berretta rossa sulla punta
dell'albero, e la moltitudine applaudiva. Io vidi, trovandomi allora a
sedere nella destra loggia, Baraguey, ed il presidente dei municipali
gettare terra, e versar acqua sulle radici dell'innalzato albero, ed a
quell'atto, tanto il cielo mi fu amico, che non proruppi, benchè ne
avessi voglia, perchè mi erano in abbominazione i tradimenti. Le
orchestre suonavano, le musiche militari rispondevano, le campane
rimbombavano, i cannoni tuonavano, le tricolorite bandiere si
sventolavano. Fatto silenzio, orava l'arciprete Valier municipale, con
magnifiche parole commendando la generosità Francese, e la rigenerazione
Veneziana. Poscia entrati in San Marco, cantavano l'inno delle grazie, e
facevano il maritaggio del giovane e della giovane. Restava, che ad
onore dello stato nuovo si vilipendesse il vecchio. Per la qual cosa,
uscito il corteggio da San Marco ed in piazza tornatosi, dove
promiscuamente e Francesi, e Veneziani intorno all'albero già ballavano,
ardevano il libro d'oro, e le altre insegne ducali: in quel mentre orava
enfaticamente l'abbate Collalto: l'albero della libertà al salutifero
legno della croce paragonando. Continuossi a ballare il giorno, ballossi
ancora la notte; si recitava in musica una bella, e magnifica opera nel
bellissimo teatro della Fenice. Il cuore umano non ha affetto, nè
l'immaginazione figura, nè la lingua espressione per rappresentare
degnamente quello, che si dovrebbe rappresentare pensando, quale materia
covasse sotto tali rallegramenti. Certo, feste e rallegramenti più
crudeli di questi non furono al mondo mai. Ricordomi, e fia l'ultima
volta che in queste lagrimevoli storie io favelli di me, che trovandomi
in palco di una nobile donna Contarini, se la memoria non falla, sposata
ad un Correr di Santa Fosca, che fu almirante delle navi, ed a casa il
quale io mi godeva a quei giorni una dolce e cordiale ospitalità, in
vedere quelle apparenze ed in pensare al fatto, sentiimi come quasi
dividere, a lacerare in due dentro me stesso, e paragonaimi a
quell'orrendo accoppiamento di corpi vivi e di cadaveri, che per
supplizio di rei e di innocenti faceva, a guisa di diporto, quel tiranno
dell'antichità. Pure m'infinsi, perchè il discoprirmi sarebbe stato
pericoloso; e forse da coloro, con cui mi conversava, non creduto.

Per tal modo si piantava l'albero in Venezia da Baraguey d'Hilliers. Al
tempo stesso Bernadotte, che conosceva a che fosse serbata Venezia,
proibiva con animo sincero, che in Udine si piantasse. Guyeux al
contrario metteva una taglia di centomila lire sur un piccolo comune del
Padovano, sotto pretesto, che l'albero vi fosse stato tagliato; doloroso
avviluppamento d'accidenti strani per l'infelice Venezia, a cui in
proposito di un medesimo fusto figurativo la sincerità dell'uno non
giovava, l'improntitudine degli altri pregiudicava.

Continuava Buonaparte nelle sue arti di mostrarsi propenso ai Veneziani,
e di dar loro speranza della conservazione del dominio. Nè contento alle
chimere, con cui andava pascendo il legato Battaglia, e Dandolo, e
Zorzi, e gli altri municipali, che andavano e venivano da lui, volle
fare una dimostrazione tanto più brutta, quanto ella era di civiltà, e
di cortesìa. Dimostrava non potere, per le molte e gravi faccende che il
travagliavano, visitare, come desiderava, per se stesso Venezia, ma
mandarvi la donna sua, perchè in lei vedessero i Veneziani, così appunto
si spiegava, quanta fosse l'affezione che loro portava. Veniva la moglie
in Venezia: le adulazioni dei repubblicani di quei tempi sì Veneziani,
che Francesi, furono oltre misura. Traevano per comandamento del
generalissimo i cannoni a festa, e ad onore di privata donna, e queste
cose non solamente si comportavano, ma ancora si lodavano; potevano i
prudenti uomini augurar dell'avvenire. Accolta nella sala dei municipali
era segno d'applausi infiniti: deputavano due dei loro ad intrattenerla,
ed a farle onoranza. Furonvi festini, balli, canti, allegrezze di ogni
sorte: alla Giudecca una gran cena, al canal grande una luminaria, nè
mancovvi la regata, spettacolo gradito dei Veneziani. Credevano i
municipali di aver vinto la pruova, perchè la donna dava parole dolci, e
pareva loro Buonaparte non avrebbe mandato una persona gradita in una
città tradita. Ma s'ingannavano, perchè nol conoscevano, o nol volevano
conoscere. Dandolo, e gli altri municipali trionfavano, e sempre stavano
accanto alla donna, e dal suo volto pendevano. Solo Giuliani
repubblicano se ne stava bieco, ed alla traversa. Infine, dimoratasi
quattro giorni, il quinto se ne partiva con assai ricchi presenti. Io
non affermerò, perchè non lo so di certo, che le sia stata data una
collana ricchissima di grosse perle, tratta espressamente dal tesoro di
San Marco, in cui era custodita ad uso sacro. Nondimeno l'ho dovuto
avvertire, perchè lo trovo scritto negli annali dei tempi. Certamente se
non questo, ebbesi ed accettò la donna di molti altri presenti. Fu
brutto il dare, fu ancor più brutto l'accettare, non dico dal canto di
lei, perchè forse ignorava le insidie del marito contro Venezia, ma dal
canto di lui che le sapeva, e che ordiva.

Non ostante tutte le promesse e le dimostrazioni favorevoli, non
vivevano coloro, che avevano in mano la somma delle cose in Venezia,
senza qualche sospetto, però oltre i maneggi ed i denari, trattavano di
unirsi strettamente alle città di terraferma, che, come abbiam narrato,
molto ripugnavano al dominio Veneziano. Laonde operavano, che le
principali mandassero deputati a Bassano per trattar dell'unione. Vi
mandava Verona un Monga, Padova un Savonarola, Brescia un Beccalozzi: vi
mandava Venezia Giuliani, perchè essendo natìo di Desenzano, si sperava,
che potesse più facilmente conciliarsi ed accomunar i dissidenti. Non
arrivavano i deputati di Udine, perchè Bernadotte, per umanità e
sincerità, impediva che deputasse. Vi mandava Buonaparte, che in
sembianza favoriva il disegno, Berthier, affinchè e presiedesse il
congresso, e con arte distornasse il progetto d'unione. Vi furono molte
parole e contenzioni. Verona voleva esser capo della terraferma, Padova
andava alla medesima volta, i Bassanesi piuttosto ai Padovani aderivano
che ai Veronesi, i Vicentini piuttosto ai Veronesi che ai Padovani,
Treviso stava in favor dei Veneziani, i deputati d'Oltremincio
propendevano verso la Cisalpina. Non ostante si vedeva tra mezzo a
questi dispareri, che per la necessità del caso, i deputati sarebbero
finalmente restati d'accordi sull'unione. Però Berthier, che non aveva
potuto turbare il disegno con le arti, il rompeva con l'autorità,
disciogliendo il congresso, e pubblicando, che circa l'unione i deputati
non si erano potuti accordare; il che era vero, ma era colpa di lui, non
di loro.

Riuscito vano questo tentativo, pensavano i Veneziani a ricercare il
direttorio e Buonaparte della unione loro alla Cisalpina; ne facevano
anche inchiesta formale al direttorio Cisalpino. Davano i primi buone
parole; Battaglia e San Fermo le scrivevano ai municipali, confortando
per tal modo i Veneziani con la speranza di aversene almeno a restar
Italiani. Rispondeva il direttorio Cisalpino con ambagi e con superbia;
barbaro, e stolido insulto alla compassionevole Venezia.

In questo mentre si era concluso il trattato di Campoformio; Buonaparte
se ne tornava a Milano. Il suo parlar diverso, e le voci che già si
levavano, atterrivano i popoli. Interrogato a Vicenza, qual fosse il
destino dei Veneti, rispondeva, nè la Francia nè lui avere alcun diritto
sopra di loro. Qui soggiungeva un Tiene Vicentino, che sarebbero pronti
a spendere ogni più preziosa cosa per conservar l'indipendenza.
Replicava, nulla ancora essere deciso; nè la Francia, nè egli non
sarebbero mai per operare cosa alcuna contro di loro, nè per disporre di
un popolo, sopra del quale non avevano nissun diritto. Ma giunto a
Verona, già più vicino al suo sicuro nido di Milano, e perchè si credeva
che la parte Austriaca vi fosse potente, interrogato delle Veneziane
sorti da un De Angeli, presidente del governo, faceva sentire questo
suono, che Verona era ceduta all'Austria. Dissegli allora il presidente,
_perchè non lasciarci piuttosto sotto i Veneziani? Perchè dopo tante
promesse di libertà venderci all'Austria?_ A questo tratto rispondeva il
capitano atroce a uomini, ai quali egli aveva tolte le armi: _ebbene,
difendetevi_. Riprendeva il presidente le parole, e magnanimamente
rispondendo, tuonava a questo modo: _Vattene, traditore, e sgombra da
queste terre: rendici le armi che ci hai tolte, e ci difenderemo_.
Taceva il barbaro a tale rincalzata attonito, e si ritirava non
vergognoso, ma avvilito, in altra camera. Spargevasi intanto il grido;
la città piena di dolore, di trepidazione e di spavento. Udiva le grida
disperate dei cittadini dolenti il venditore; se ne partiva frettoloso
per Milano.

L'ora estrema di Venezia era giunta. Scriveva da Milano Buonaparte a
Villetard: pel trattato di pace essere i Francesi obbligati a vuotare la
città di Venezia, e perciò potersene l'imperatore impadronire; ma non
doverla vuotare che venti, o trenta giorni dopo le ratificazioni; potere
tutti i patriotti, che volessero, spatriarsi, ricoverarsi nella
repubblica Cisalpina, in cui godrebbero dei diritti di cittadinatico;
avere facoltà per tre anni di vendere i beni loro; essere
indispensabile, che si creasse un fondo, il quale potesse alimentare
quelli fra i patriotti, che si risolvessero a lasciar il paese loro, e
non avessero facoltà sufficienti per vivere; essere la repubblica
Francese parata a soccorrergli, se ne avessero bisogno, con la vendita
dei beni d'allodio che possedeva nella Cisalpina; esservi a Venezia
molte munizioni navali, o di guerra, o di commercio, che appartenevano
al governo Veneziano; essere indispensabile, che la congregazione di
salute pubblica, (quest'era una congregazione di municipali), le
trasportasse, più presto il meglio, a Ferrara, perchè quivi potessero
essere vendute in pro dei fuorusciti; quanto fosse per esser utile alle
opere navali di Tolone, tosto s'imbarcasse per Corfù, e se ne facesse
stima, onde del ritratto si soccorressero i fuorusciti; i cannoni e le
polveri si vendessero alla Cisalpina; accordassesi Villetard con un
Roubault, e con un Forfait, e con la congregazione di salute pubblica
per vedere a qual pro si potessero condurre una nave, ed una fregata
recentemente disarmate, otto galeotte, sei cannoniere, un argano da
inalberare, le piatte, il Bucintoro, e le barche dorate, i barconi, i
palischermi grossi, e sei navi da guerra, sei fregate, sei brigantini,
sei cannoniere, e tre galere sui cavalletti.

Aggiungeva Buonaparte a Villetard, badasse bene a tre cose: la prima,
lasciar nulla, che potesse servire all'imperatore per creare un navilio;
la seconda, trasportar in Francia quanto fosse utile alla nazione; la
terza, usare quanto si vendesse, nel miglior modo possibile, perchè più
fosse profittevole ai fuorusciti: insomma ogni altra opera facesse, che
il tempo e l'occorrenza richiedessero per assicurar le sorti dei
Veneziani, che si volessero ricoverare in Cisalpina: finalmente fosse
suo obbligo di pensare, di concerto con la congregazione di salute
pubblica, e coi deputati delle città di terraferma, alla salute dei
fuorusciti loro.

Avuto Villetard questo mandalo, duro per lui per essere stato autore
della rivoluzione Veneziana, duro pei Veneziani per la perduta patria,
nella sala delle adunanze recatosi, e ragionato prima delle condizioni
dell'Europa, che, secondo lui, rendevano pericolosa alla Francia una
nuova guerra sul continente, in cotale guisa ai municipali favellava:
«Cittadini, voi già anteponeste all'interesse vostro l'interesse della
patria: un altro maggiore sforzo, un altro più nobile sacrifizio vi
resta a fare, e quest'è il dare l'interesse della vostra patria stessa
all'interesse di tutta l'Europa. Già udiste le funeste voci
sollecitamente sparse dai nemici vostri: esse risparmiano almeno ai
vostri amici, che questo infausto mandato ricevuto hanno, il dolore di
adempirlo con altro, che con lagrime. Ma, cittadini, i nemici vostri
sono anche nemici nostri; essi calunniato hanno la Francia, come se ella
trafficasse di carne umana, affinchè voi contro la libertà, e contro i
difenditori suoi parte di quell'odio voltaste, che alla tirannide, ed a'
suoi sostenitori portate. No, per Dio, no; che la Francese repubblica
questa vendita infame lascia ai re: ella perseguita i re, ella protegge
gli uomini liberi, ovunque gli trovi. Ma la sua protezione, e la sua
vendetta là debbono terminarsi, dove nascerebbe la offesa dei suoi
propri concittadini. I soldati della repubblica ora troppo sparsi,
meglio fomenteranno ristretti nella Cisalpina, la novella libertà. I
territorj Veneti, forse la città stessa di Venezia resteranno aperti
alle imperiali genti, fors'elleno gli occuperanno. Alcuni fra di voi,
come gli Ottomani fanno, sono pronti a piegar il collo al fato
inesorabile. Altri, come i Veneti, gloriosi avoli loro, sonsi risoluti a
lasciar le insensate mura per trasportar sulle navi la patria, ed ogni
uomo libero con lei. Evvi finalmente chi elegge il morire sotto le mura
diroccate piuttosto che lasciarle in mano degli strani. Non io presumerò
di giudicare qual fia il meglio fra una rassegnanza stoica, fra una
ritirata onorevole, fra un sacrificio generoso. Bene ho a dirvi, dopo di
aver purgato la mia patria dal veleno della calunnia, ch'ella offre
ricovero, ed asilo a coloro, che perduta l'antica Venezia vorranno
fondarne una nuova su lidi inaccessi alla tirannide. La Cisalpina
repubblica per intercessione della Francia, e per amore della libertà vi
apre il grembo; ivi il titolo di cittadini avrete, ivi una sede alla
novella Venezia, o che vi piaccia presso alle terre forti, o nelle
popolose città, o sotto gli umili tuguri, dove abitano gli uomini
virtuosi e liberi, fondarla: potrete i Veneziani beni con voi Veneziani
trasportare, che così a favor vostro stipulava la potentissima
repubblica. Per tale guisa la generosa Francia, non potendo in tanta
lontananza assicurare il libero stato ai Veneziani in Venezia,
assicurava almeno il viver libero a coloro, che preferiscono la libertà
alle lagune!»

Dette queste parole il giovane Villetard, pallido, tremante e lagrimoso
si tacque. Poi gli esortava, in nome anche di Buonaparte, che
ordinassero quanto era necessario, perchè Venezia sottentrasse intera e
salva al nuovo dominio. La rabbia, l'indegnazione, il furore agitavano
il consenso. Ora era il silenzio, ora mormori di maledizione. Il buon
Vidiman, che già il cuore funesto aveva per la morte del fratello,
antico governatore delle isole, che non aveva potuto sopravvivere alle
rapine Corciresi, visto accostarsi la morte della patria a quella del
fratello, se ne stava un pezzo attonito e sbattuto. Poi ritrovando in se
quella forza d'animo, che più gli uomini temperati hanno, che gli
sfrenati, faceva risoluzione di andarsene all'esilio, non già per adular
Buonaparte, o per correr dietro a nuove ambizioni, ma per viversene
umile ed ignoto, là dove ancora virtù si pregiasse. Fortunato Veneziano,
anche nelle disgrazie, poichè la virtù non solo consola, ma a gran
misura felicità, da te impareranno i posteri, se avranno vita queste
carte ch'io vergo, e divozione verso la patria, ed integrità di costume,
ed amore della libertà, e costanza nell'esilio; e forse tempo verrà, che
essi anteporranno l'esule ed umile Vidiman al glorioso Buonaparte,
distruttore di patrie innocenti.

Riprendeva le parole Villetard, ed offeriva in nome del generalissimo,
ed a scampo della loro vita nel vicino esilio, le Veneziane spoglie. A
questa offerta veramente Buonapartiana la natura Italiana si scosse, e
mostrossi intiera. Ritenessesi, rispondevano concordi, gl'infami doni;
non essi aver consentito a governare un dì la patria loro in tempi
infelicissimi per dividersene le spoglie; sapere, come si preferisca la
povertà all'infamia, gli esempi che correvano, non avere fin là
contaminato le anime Veneziane: poter esser traditi, perchè per tradire
basta la potenza, ma non avviliti, perchè per non essere avvilito basta
la virtù, intrinseco e durevol pregio, non esteriore e caduco, come la
potenza; prendessesi pure la Francia le Veneziane spoglie, ma non
cercasse di chiamar a parte del furto i Veneziani; aver essi perduto la
patria, non voler anco perdere l'onore; se si pascevano i potenti delle
rubate ricchezze, volere gli esuli pascersi della buona coscienza, nè
non esser mai per consentire, che quelle mura e quelle acque, tante
volte testimonj di virtuosi fatti, gli vedessero far fardelli di
Veneziane ricchezze; sapere, per aver voluto servire alla Francia ed
alla patria, aver incorso l'odio di molti compatriotti, ma sperare, che
quest'ultimo atto della vita pubblica loro, gli purgherebbe, ed a tutti
dimostrerebbe, che se furono troppo confidenti, non furono almeno
colpevoli. Ciò detto, se ne stavano fremendo con segni di grandissima
indegnazione.

Di questo sdegno, e di questo rifiuto scriveva Villetard a Buonaparte
con la seguente lettera, la quale io sono, come un'altra scritta dal
medesimo Villetard, obbligato di riferire alla distesa, perchè un
recente autore di una storia di Venezia, badando piuttosto a scusare
Buonaparte del fatto di Venezia, che a rendere a ciascuno il suo debito
secondo il vizio o la virtù, le passò sotto silenzio, contentandosi di
rapportare la lettera del generalissimo, la quale anche qui sotto si
troverà trascritta. Della quale omissione io non posso restar capace,
perchè, se desiderio dello storico era il non lodar Italiani di un fatto
che dinotava magnanimità, mi pare, che almeno avrebbe dovuto lodare il
Francese Villetard di un procedere, che se stesso e la Francia sua
patria in sì brutto accidente onorava.

«E' bisogna, scriveva Villetard al generalissimo, ch'io avessi tanta
fermezza stoica, quanto amor patrio, perchè io il doloroso carico, che
mi deste, accettassi. Era presto, per quanto in me fosse, di adempirlo;
ma bene io meco stesso mi rallegro almeno, di aver trovato nei
municipali di Venezia animi troppo alti per voler cooperare a quello,
che per mezzo mio loro avete proposto. Cercheranno eglino altrove una
libera terra, ma preferiranno, se necessario fia, la povertà
all'infamia. Non consentiranno, che altri possa dir di loro, che abbiano
durante alcuni giorni, usurpato la sovranità della nazione loro per
metterla in preda. Per un tal procedere pruoveranno almeno, che non
meritano i ceppi che si stan loro preparando. Gemono, è vero, su cotesti
ceppi, bestemmiano, è vero, la nazion Francese: un rifiuto unanime di
volere nella ruina della loro patria mescolar le mani, seguitava i
vostri comandamenti. Gemono, perchè otto anni di rivoluzione non ancora
gli hanno assuefatti alle disgrazie, bestemmiano, perchè ancora non
hanno imparato le dottrine Machiavelliche; non s'ardiscono, perchè
ancora non sono tanto corrotti che non abbominino la sfrontatezza
politica. Pure ed il titolo di cittadini della Cisalpina, ed i benefizj
della nazione Francese recheransi ad onore; se non fia lor d'uopo
comperargli per quello che a lor pare un delitto, e voi siete troppo
grande per non fare giusta stima di questa loro scrupolosità. Non resta
adunque, o generale, altro modo di giovar loro che di ordinare in
Venezia il governo meramente militare, pel quale voi a nome della
Francia richiederete quello, ch'eglino a nome della sovranità del
popolo, che in loro aveva la sua fede posta, ricusano di fare».

Buonaparte, il quale tanto meno comportava di esser biasimato del male,
quanto più amava di farlo, e parendogli, che fosse piuttosto pazzìa che
altro il non voler rubare la propria patria, nè consegnarla in mano dei
forestieri, rescriveva a Villetard queste rabbiose e barbare parole.

«Ebbi, cittadino, la vostra lettera dei tre annebbiatore; nulla compresi
al suo contenuto. Forse non bene i miei concetti vi spiegai. Non ha la
repubblica Francese vincolo alcuno di trattato, che ci obblighi di
anteporre ai nostri interessi, ed ai nostri vantaggi quei della
congregazione di salute pubblica, o di verun altro uomo di Venezia. Non
mai la repubblica Francese fece la risoluzione di far la guerra per gli
altri popoli. Vorrei sapere, qual sia il precetto o di filosofia, o di
morale, che comandi, che si sacrifichino quarantamila Francesi contro il
desiderio espresso della nazione, e l'interesse vero della repubblica
Francese. So, e sento, che nulla costa ad un branco di ciarloni, che
meglio contrassegnerei chiamandogli pazzi, di volere la repubblica
universale. Vorrei, che questi signori facessero con me una guerra
d'inverno. Inoltre la nazione Veneziana più non è. Divisi in tanti
interessi, effeminati e corrotti, tanto codardi quanto ipocriti, i
popoli d'Italia, e spezialmente il Veneziano, poco son fatti per la
libertà. Se il Veneziano è in grado di pregiarla, la occasione gli è
aperta per pruovarlo: ch'ei la difenda. Non ebbe nemmeno il coraggio di
conquistarla contro alcuni vili oligarchi; non seppe per qualche tempo
difenderla nella città di Zara, e forse, se in Alemagna fosse entrato
l'esercito, noi avressimo veduto, se non rinnovellarsi le tragedie di
Verona, almeno moltiplicarsi gli assassinj che sull'esercito i medesimi
effetti partoriscono. Del rimanente la repubblica Francese non può dare,
come par che si creda, gli stati Veneziani; non è già punto perchè
questi stati per dritto di conquista non appartengono in realtà alla
Francia, ma perchè non è massima del governo Francese di dare alcun
popolo. Adunque allora quando l'esercito Francese sgombrerà il paese,
potranno i diversi suoi governi fare quelle risoluzioni, che più
crederanno utili alla patria loro. Vi diedi carico di conferire con la
congregazione di salute pubblica intorno alla evacuazione, che è
possibile, che l'esercito faccia, acciocchè potessero appigliarsi ai
partiti più utili e pel paese, e per gl'individui che eleggessero
ritirarsi nei paesi uniti alla repubblica Cisalpina, e riconosciuti, e
guarentiti dalla Francese. Voi parimente avete lor fatto a sapere, che
coloro, i quali amassero seguitare l'esercito Francese, avrebbero tutto
il tempo necessario, perchè possano vendere i loro beni, qualunque abbia
ad essere il destino del loro paese, e di più, ch'io sapeva, che era
intento della repubblica Cisalpina di conferir loro il titolo di
cittadini. Il mandato vostro là debbe terminarsi. Del resto, ei faranno
a posta loro quanto vorran fare. Voi avete loro abbastanza detto, perchè
sentano che tutto ancora non è perduto, che quanto accadeva era
l'effetto di un gran disegno: che se gli eserciti Francesi continuassero
a far la guerra prosperamente contro una potenza, che è stata il nervo
ed il cofano di tutta la lega, forse Venezia col tempo potrebbe divenire
unita alla Cisalpina. Ma veggo che son codardi, e che non san far altro
che fuggire: ebbene, che e' fuggano; non ho bisogno di loro».

A questo modo parlava Buonaparte di coloro, che per cagione di lui
perdevano un'antica e nobil patria, che per cagione di lui andavano
raminghi ed esuli, che per cagione di lui avevano in tempi tanto
sinistri accettato il doloroso carico di servire al paese loro ed alla
Francia. A questo modo parlava di loro, solo perchè avevano rifiutato le
offerte sue infami, ed abborrito dal contaminarsi le mani nella dazione,
e nell'ultimo ladroneccio della infelice patria loro. Da tutto questo
anche si vede, con quale sincerità abbia narrato questo accidente
l'autore della recente storia Veneziana, poichè non al rifiuto di
appropriarsi le spoglie della patria, e di consegnarla essi stessi in
poter dell'imperatore, come avrebbe dovuto dichiarare apertamente, ma
non so quale altra protestazione dei Veneziani, senza spiegare qual ella
fosse, egli attribuisce la collera di Buonaparte. Quando non si adorano
le opere generose, e non si ha un orror santo per le vili, non so perchè
si scrivano storie.

Rispondeva il generoso Villetard alla lettera del furibondo Buonaparte
queste nobili parole: «Non loquaci, non pazzi, non vili, o codardi
uomini sono coloro, dei quali nell'ultima mia vi favellava; nè voglion
essi che col sangue Francese si faccia loro una repubblica universale.
Conosco, come voi, le frasi, conosco la politica, conosco il coraggio di
questi sognatori di universali repubbliche: ma parecchi padri di
famiglia sono, ma vecchi uomini sono, ma negozianti sono, che atterriti
dalla novella della evacuazione del paese loro, e dell'invasione dei
soldati dell'imperatore, che ne debbe seguitare, creduto hanno di non
aver più diritto di governare quando governare più non potevano che a
loro proprio profitto, e che di un'autorità temporanea, non confermata
ancora dalla nazione, investiti solamente si conoscevano. Abbiate del
resto per certo, che da radice di probità e di altezza d'animo, pur
troppo a' nostri giorni rare, procede il rifiuto di espilare a profitto
della parte democratica la Veneziana nazione».

Ma per toccare il fondo della risposta di Buonaparte, se non aveva la
Francia nissun obbligo di trattato verso Venezia, non si vede perchè il
generalissimo invocasse un trattato quando si trattava di rubarla;
perchè, se non più onorevole, almeno più sincero sarebbe stato il
chiamar rubare il rubare, e non chiamarlo pigliarsi le cose promesse dai
trattati. Da un altro canto s'intende benissimo, che Buonaparte non era
obbligato a far ammazzare quarantamila Francesi per conservar Venezia
libera; ma s'intende anche benissimo, che non era colpa dei Veneziani,
se la Francia voleva serbar per se i Paesi Bassi, e la sponda sinistra
del Reno, e Magonza, e la Lombardìa Austriaca, e Mantova, e Corfù. Che
Venezia pagasse per altri si vede, perchè pagò; ma che vi fosse
obbligata, è argomento nuovo, e degno dei tempi. Taccio gl'incentivi
dati ai Veneziani verso la libertà dal direttorio, da Buonaparte, e dai
suoi generali, ed agenti, perchè sono vituperj a chi voleva dar Venezia
in preda all'imperatore. Rivoltare per tradire era certamente opera
nefanda.

In tanto precipizio dell'antica patria, pensarono i municipali, poichè
la forza dominava, che la volontà almeno si esprimesse. Adunarono i
popolari comizj, affinchè deliberassero, se i Veneziani volevano
conservar la libertà. Nissun oratore parlò in cospetto del popolo; i
soli desiderj spontanei operavano, soli sacerdoti raccolsero i voti: fu
il voto per la libertà. I municipali deputavano Sordina, Carminati,
Dandolo e Giuliani, acciocchè andassero a Parigi, portassero al
direttorio il voto, e lo pregassero, che permettesse, che i Veneziani
s'armassero per difendere la libertà. Coi medesimi fini mandavano
un'altra deputazione a Buonaparte a Milano; ma ei fece arrestar in
viaggio i deputati, orribile comandamento. Così, se i Veneziani non
s'armavano, gli chiamava vili, se volevano armarsi, gli trattava da rei,
e si vede di che fosse pregno quel capitolo inserito nel trattato di
Campoformio, che la repubblica Francese consentiva, che l'imperatore
d'Alemagna possedesse Venezia. Il dir consentire, quando si sforza, mi
pare un'astuzia piuttosto ridicola e stomacosa, che altro.

Serrurier, non temendo di maculare lo splendore de' suoi fatti,
accettata da Buonaparte la suprema autorità in Venezia, ed il mandato di
fare la gran consegna, svaligiati prima, secondo i comandamenti avuti, i
fondachi pubblici del sale, e del biscotto, spogliato avarissimamente
l'arsenale, rotte o mutilate le statue bellissime, che in lui si
miravano, fatto salpare le grosse navi, affondate le minori, rotte a
suon di scuri le incominciate, arso in San Giorgio, a fine di cavarne le
dorature, il Bucentoro, reliquia veneranda per la memoria dell'antiche
cose, e per le opere eccellenti di scoltura che l'adornavano, rovinata e
deserta ogni cosa che allo stato appartenesse, consegnava agli Alemanni,
lietissimi di tanto maravigliosa conquista, la città di Venezia. Faceva
il popolazzo qualche allegrezza, onde si accresceva il dolore
universale; i democrati, o fuggiti, o nascosti; dei patrizi, i più
piangevano, alcuni andavano alle ambizioni nuove. Francesco Pesaro, mi
vergogno, e mi sento addolorare in dirlo per la contaminata fama di lui,
riceveva, come commissario imperiale, i giuramenti.

Così perì Venezia. Ora, quando si dirà Venezia, s'intenderà di Venezia
serva: e tempo verrà, e forse non è lontano, in cui, quando si dirà
Venezia, s'intenderà di rottami e d'alghe marine, là dove sorgeva una
città magnifica, maraviglia del mondo. Tali sono le opere Buonapartiane.



LIBRO DECIMOTERZO

SOMMARIO

      La tempesta si volge contro il papa: macchinazioni in Roma per
      farvi una rivoluzione. Caso funestissimo dell'uccisione del
      generale Duphot. La Francia dichiara la guerra al pontefice.
      Berthier marcia contro Roma, e se ne impadronisce. Atto rogato
      dal popolo Romano in Campo Vaccino per vendicarsi in libertà.
      Pio Sesto esposto a indegni scherni. I repubblicani lo
      sforzano a lasciar Roma, e lo conducono in Toscana.
      Espilazioni, e spogli di Roma. Risentimenti armati, che ne
      fanno i Romani. Risentimenti e querele, che ne fanno gli
      ufficiali Francesi gelosi dell'onore dell'esercito. Si
      bandisce la repubblica Romana, e le si dà una costituzione.
      Provvisioni di Pio Sesto circa i giuramenti.


Gli eccidj si moltiplicavano; continuavasi a spogliar Roma in virtù del
trattato di Tolentino; nella quale bisogna con molta efficacia si
travagliavano i commissarj del direttorio. E perchè non mancasse in
mezzo agli spogli l'adulazione, essendo venuto a notizia loro, che la
moglie di Buonaparte desiderava per se alcune belle statue di bronzo, le
comperarono, e con le involate a grado di lei le incassarono. Succedeva
ad una adulazione di cortesia un'adulazione lagrimevole; perchè,
saputisi dal papa il desiderio, e la compera, ne pagava tosto il prezzo,
che furono tremila e settecento scudi Romani, perchè la donna se le
avesse senza costo. Oltre a ciò il misero papa, oramai vicino alla sua
ora estrema, credendo, certamente con molta semplicità, di aver a fare
con uomini esorabili, apparecchiava una collana di preziosi camei,
perchè fosse offerta da sua parte in dono alla signora. Parvero queste
cortesie, e questi omaggi fatti in un momento, in cui ogni cosa era a un
di presso giunta al suo fine in Roma, nobili al Cacault, ministro del
direttorio. Forse era nobile l'offerirgli, ma se fosse nobile
l'accettargli in quel momento, lascio giudicar a coloro, che conoscono
la civiltà e l'onestà del procedere. Le casse intanto piene delle Romane
spoglie poste sui carri, partivano dalla desolata Roma. Se le vedeva il
popolo Romano, e le rimirava con grandissima indegnazione.

Il romano erario era casso pel pagamento delle contribuzioni stipulate
nel trattato di Tolentino; le romane cedole scapitavano dei due terzi
per centinaio, e non v'era fine al disavanzo che ogni dì cresceva: ogni
cosa in iscompiglio, si avvicinava la dissoluzione. Sapevaselo Cacault e
per questo non voleva che si facesse una rivoluzione violenta per
ispegnere il governo papale, ma bensì, che si lasciasse andare di per se
stesso alla distruzione. Solo gli doleva il pensare, che nella borsa
segreta e particolare del papa, e del suo nipote, vi fossero ancor
denari; e però s'ingegnava a fare, che il pontefice comperasse per tre
milioni la terra della Mesola, sperando, come scriveva a Buonaparte, che
il trarre quel denaro dallo stato ecclesiastico avesse ad esser cagione,
che il fallimento totale delle cedole, che ne seguirebbe, partorirebbe
una gran ruina, e necessariamente opererebbe una rivoluzione. I
democrati non incitava Cacault, nè aveva partecipazione nelle loro
macchinazioni, perchè gli stimava gente dappoco, e credeva che il popolo
non gli volesse. Bensì ricercava il papa della libertà dei carcerati; il
che veniva in grande diminuzione della riputazione del governo
pontificio, condizione funestissima, perchè il tollerargli era
pericoloso per l'esempio, il carcerargli pericoloso per la necessità del
liberargli. Crescevano la penuria, ed il caro delle vettovaglie; i
popoli male si soddisfacevano. A questo contribuivano non poco le tratte
dei grani, che il papa era sforzato, perchè richiesto con imperio, a
concedere ad alcuni fra gli agenti sì militari che civili della
repubblica. Erano queste tratte cose molto pregne, perchè portavano con
se assai guadagno. Il papa, oltre la sua età cadente, si trovava infermo
di paralisia. S'aggiungevano spaventi, come se il cielo fosse sdegnato
contro Roma. La polveriera del castel Sant'Angelo s'accendeva la vigilia
di San Pietro con orribile fracasso; furonvi molte morti, e parecchi
edifizj rovinati, il Vaticano sì fortemente scosso, che la volta della
cappella Sistina fe' di molti peli, e parte diroccava con danno
considerabile del famoso Giudizio di Michelagnolo.

S'incominciavano i cavilli, annunziatori di distruzione. Aveva il
pontefice fatto disegno di condurre a' suoi soldi il generale Provera. A
ciò fecero tosto un gran tempestare gli agenti del direttorio,
richiedendo con supremo comandamento, e pena la guerra, dal pontefice,
che licenziasse incontanente, e fuori de' suoi stati mandasse il
generale Austriaco. Tal era il rispetto, che il direttorio vincitore
portava all'independenza di uno stato sovrano, e col quale aveva
congiunzione d'amicizia pel trattato di Tolentino.

Alle cagioni politiche, le quali operavano contro il papa, se ne
aggiungeva una di una natura molto singolare, e quest'era il pensiero
nato in Francia, del voler fondare la religione naturale, che col nome
di teofilantropìa chiamavano. Fu a quei tempi questo pensiero attribuito
specialmente al quinqueviro Lareveliere Lepeaux; ma sebbene ei
l'appruovasse, come mezzo conducente a risvegliare nel cuore degli
uomini gli affetti dolci e sociabili, non ne fu però il principale
autore. I fautori di questo novello rito miravano ad allontanare la
necessità della religione rivelata, e principalmente della cattolica; il
perchè si mostravano avversi al papa, come capo e direttor supremo di
quanto a quest'ultima religione s'appartiene, e con tutti gli sforzi
loro la di lui rovina procuravano.

Era a Cacault succeduto nell'ufficio di ministro di Francia a Roma,
Giuseppe Buonaparte, fratello maggiore del generale, uomo di natura
assai rimessa, ma siccome indolente e debole, così facile a lasciarsi
aggirare da chi voleva piuttosto fare, che aspettare la rivoluzione.
Inoltre sapeva qual fosse il desiderio del suo governo, ed anche ebbene
mandato espresso, di mutar lo stato in Roma, con questo però, ch'ei
facesse le viste di non parervi mescolato. Per la qual cosa era la sua
casa piena continuamente di novatori, ai quali dava segrete speranze. Ma
siccome nè era soldato, nè d'indole risoluta, mandarono, per dargli
spirito, ed ajutarlo a perturbar Roma, i generali Duphot e Sherlock, il
primo dei quali si era mostrato assai vivo in quelle faccende dei
sovvertimenti Genovesi. Aveva il governo papale avviso delle trame che
si macchinavano; e però faceva correre, principalmente di nottetempo, le
contrade di Roma da spesse pattuglie, e teneva diligentissime guardie.
Ma era fatale, che i tempi soverchiassero la prudenza, e dacchè i
ministri di potenze estere, il cui nome suona pace ed amicizia,
divenivano seminatori di ribellione, non si potevano più pareggiare le
partite. S'avvicinava l'anno milasettecentonovantasette al suo fine,
quando nasceva in Roma un caso funestissimo, dal quale scorsero
improvvisamente con precipitosa piena quelle acque, che già tanto
soprabbondando minacciavano di allagare. La notte dei venzette decembre
i soldati urbani givano diligentemente osservando, che cosa accadesse o
non accadesse. Trovavano qua e là raccolti in cerchiellini uomini
appostati, che portavano nappe alla Francese, la maggior parte sudditi
del papa; pure Francesi ancora vi si trovavano, ma in picciol numero. I
soldati prudentemente usando, intimavano loro di sgombrare: erano
obbediti. Parve il caso d'importanza al governator di Roma. Ordinava più
diligenti e più grosse guardie; comandava a tutti i corpi, vegliassero.
A notte più buja incontravano le guardie un'altra affollata di genti
armate; erano i democrati. Dissero loro, si separassero. Qui nascevano
dalla parte degli affollati minacce e derisioni. Seguitava una mischia
confusa; un democrato fu morto, due urbani feriti. Il sangue chiama
sangue, il terrore già dominava la città. Faceva motto di cotesto il
segretario di stato all'ambasciadore Giuseppe, che in quel mentre si
divertiva ad una festa di ballo. Rispondeva, farebbe, che i suoi non si
mescolassero in quei tumulti, ma non giovava; perchè, o il volesse egli,
o nol volesse, si adunavano il dì ventotto nella villa Medici circa
trecento democrati, cui ancora non avevano fatti accorti nè la vendita
Veneziana, nè la servitù Cisalpina. Era Duphot fra di loro, e con la
voce, e coi gesti, e coll'alzar il cappello gli animava a novità:
inalberavano l'insegna tricolorita, e facevano un gridare, ed un
tramestìo incredibile. Sapeva il governo l'accidente, e per rimedio
mandava bande di fanti e di cavalli, che tanto più facilmente
disperdevano quegli uomini riscaldati dalle opinioni e dal vino, poichè
avevano desinato in copia, quanto altri democrati, che con esso loro
dovevano congiungersi, trattenuti da un ordine contrario di Sherlock,
non potevano arrivare. Correvano i dispersi, come a luogo sicuro, e come
a fonte d'allettamenti al palazzo Corsini, dove aveva le sue stanze
l'ambasciatore di Francia. In esso, e nei luoghi vicini si ricoveravano,
donde fatti più baldanzosi chiamavano ad alta voce la libertà, e
gridavano di volerne piantar le insegne sul Campidoglio.

Roma tutta si spaventava. Mandava il papa contro quella gente fanatica i
suoi soldati, i quali, prese le strade per al palazzo Corsini,
rincacciavano verso di lui a luogo a luogo i resistenti novatori. Fra
quella mischia i pontificj traendo d'archibuso, ferivano alcuni
democrati. Il terrore gli occupava: cercavano rifugio nel palazzo
dell'ambasciatore, ne empievano il cortile, gli atrj, le scale. Si
formavano, così comandati essendo, i soldati del pontefice per rispetto
a quell'asilo fatto sicuro dal diritto delle genti. Ma i capi mandavano
pregando l'ambasciadore, che sulle somme scale era comparso, frenasse
omai quei ribelli, e gli esortasse a partirsene. Qui, o che
l'ambasciatore non potesse, o che non volesse fare più efficace
dimostrazione, si conteneva dicendo: a lui sarebbero tenuti di quanto
occorresse, ma non gli confortava a partire. I democrati intanto,
prevalendosi della sicurezza del luogo, con parole e con gesti agl'irati
soldati insultavano. Pure non ancora questi prorompevano. Arrivava un
reggimento di dragoni mandato dal pontefice per sussidio a tanto
tumulto. Questa nuova gente, non potendo più tollerare le ingiurie,
fatto impeto, entrava a precipizio nel cortile del palazzo, minacciando
con le armi impugnate morte a chiunque incontanente non isloggiasse.
Nasceva una mischia, un gridare, un fremere misto, che meglio si può
immaginare che descrivere. A sì feroce strepito l'ambasciatore, cui
accompagnavano Duphot e Sherlock, mostratosi, s'ingegnava di calmare con
le parole, e coi gesti il tumulto: chiamava a parlamento i capi dei
soldati. Ma nè i democrati cessavano dagli oltraggi, nè i dragoni
pontificj, siccome quelli che si erano infieriti, potevano pazientemente
udire cosa alcuna: rispondevano, non volere altro accordo, se non
quello, che i ribelli incontanente sgombrassero dal palazzo. Preso
allora Duphot da empito sconsigliato, siccome quegli che giovane subito
ed animoso era, sguainata la spada, si precipitava dalle scale, e
messosi coi democrati gli animava a volere scacciar i soldati pontificj
dal cortile. In tale forte punto (a questo serbavano i cieli l'infelice
Roma, che un fortuito e provocato accidente ponesse cagione della sua
distruzione), i dragoni viemmaggiormente inferociti, traevano. Morivano
parecchi furiosi, ne riportava Duphot una ferita mortale, per cui dopo
morì. Dei democrati, udito il suono delle armi, e veduto il sangue
sparso, i più si salvavano fuggendo pel giardino del palazzo; i più
audaci restavano. Era il cortile squallido, e funesto per la presenza
dei feriti e degli uccisi. Caso veramente fatale fu questo; perchè rei
certamente verso il governo papale erano coloro, che avevano permesso, e
forse macchinato espressamente, che la sede dell'ambasciata di Francia
diventasse un fomite di ribellione contro di lui, ma del pari
inescusabili sono i dragoni pontificj dello avervi fatto impeto dentro,
e se il papa avesse subito fatto arrestare i capi di questo reggimento,
per me non so di che l'ambasciatore si avrebbe potuto dolere. Bene
dovevano i soldati circondare il palazzo, ma non entrarvi armatamente, e
farvi sangue; perciocchè, se chi v'era dentro mancava di fede, e violava
la santità del luogo, non era per questo autorizzato il governo
pontificio a violarla: bene soltanto ci si doveva assicurare con farvi
stanziare tante truppe all'intorno, che bastassero, e negoziare al tempo
stesso con l'ambasciatore per allontanare i ribelli.

Scriveva risolutamente l'ambasciatore al cardinale segretario di stato,
comandasse ai soldati, che si ritirassero dai contorni del palazzo.
Rispondeva rappresentando, quanto fosse difficile la condizione, in cui
versava il governo del papa, poichè il ritirare, ed il non ritirare i
soldati era ugualmente pericoloso, quello pei ribelli, che nelle stanze
del palazzo di Francia se ne stavano tuttavia minacciando, questo per
l'intimata nimicizia di Francia: l'ambasciador solo poter cambiar le
sorti; sperarlo il cardinale, perchè generosa era la nazione, cui
l'ambasciadore con tanta dignità rappresentava; avere il cardinale
medesimo per ben dodici anni in mezzo a lei vissuto, e nissuno meglio di
lui averla e conosciuta, ed apprezzata. Fuvvi chi tentando di mitigare
l'animo dell'ambasciatore, il voleva indurre a far uscire dalla sua sede
i nemici del governo, alla quale richiesta non solamente non volle
acconsentire, cagionando, che essi l'avevano preservato contro una nuova
tragedia Basviliana, ma ancora, più sdegnato che mai, rescriveva,
doversi alfin sapere, se coloro, che indirizzavano segretamente i Romani
consigli, avessero ancora a macchinar tradimenti sotto l'ombra della
pace contro la repubblica; a loro non importare, perchè avevano saputo
evitargli, tanti infortunj del popolo Romano generati dalla guerra fatta
contro Francia; spirare ancora, e nelle pontificali truppe aver grado
gli assassini di Basville; punisse il Romano governo gli autori dei
Romani disastri, punisse gli assassini di Basville; a questi soli segni
potere Francia conoscere la Romana fede; per questi soli potersi tra
Francia e Roma conservare l'amicizia: badasse il cardinale segretario
all'acclusa lista; leggerebbevi i nomi degli assassini di Basville, un
abate Beltrami, autor principale della Basviliana tragedia, un Pulcini
caporale, che lo feriva di bajonetta, un barbiere che lo feriva di
stilo; abitare in Roma tuttavia, comparire alla luce impunemente
quest'insanguinati sicarj.

Il governo di Roma, oramai ridotto ad un passo, in cui era del pari
pericoloso il ricusare con giustizia, od il consentire con ingiustizia,
si atteneva alla parte migliore, rispondendo, che Roma non aveva mai
seguitato i consigli dei nemici della Francia; che il primo suo
pensiero, il più efficace suo desiderio era di vivere con lei in termini
d'amicizia; che quanto agli uccisori di Basville, se n'era a tempo
debito fatto processo; che coloro, che erano stati per giudizio convinti
rei del fatto, avevano pagato col debito supplizio le pene, e che
finalmente coloro, che l'ambasciatore notava nella sua lista, o in Roma
non dimoravano, o erano stati per esami giuridici, e per sentenze
solenni conosciuti innocenti.

Si turbava fortemente a queste parole l'ambasciatore, e, chiesti i
passaporti, protestava di volersene partire; il che era segno di guerra.
Offeriva in sì estremo frangente il governo pontificio con sommesse
parole di satisfare per l'accidente occorso (protestando però di nuovo,
e risolutamente affermando, non avervi colpa), alla repubblica Francese,
in quel modo ch'ella stessa avrebbe potuto e chiedere e desiderare.
Aggiungeva il cardinale segretario, pregare l'ambasciadore a
considerare, che in mano sua era posta la conservazione di quanto il
generalissimo suo fratello aveva generosamente conceduto alla Romana
corte. Ma l'ambasciadore, non avuto risguardo alle offerte di
satisfazione, nè alle preghiere del papa, nè deponendo il pensiero di
fare una dimostrazione ostile, tutto sdegnato, o che il fosse, o che il
facesse, se ne partiva pei cavalli delle poste in tutta fretta verso
Toscana. Sclamava, viaggio facendo, in ogni luogo contro i tradimenti
Romani, come gli chiamava, parlava di vendette terribili, incitava i
popoli a ribellione. Come poi giungeva a Parigi, rapportato il fatto nel
modo più conforme al suo intento, ed a quello del direttorio, stimolava
la Francia alla guerra contro Roma. Ordinava il pontefice rimedi
spirituali di preghiere, di digiuni, di penitenze per ovviare alla ruina
imminente: apprestava il direttorio le armi. Già un nido di ribellione
contro il pontefice era formato per opera dei repubblicani in Ancona,
cosa, che da per se sola avrebbe potuto rendere il pontefice
giustificato, se avesse, già molto prima, significato la guerra alle due
repubbliche, Francese e Cisalpina, perciocchè in quell'alzata delle
Anconitane bandiere contro il papa avevano posto le mani sì i presidj
Francesi, che i Cisalpini. Già Pesaro si ribellava, già Sinigaglia, ed
altre terre vicine tumultuavano, e già il grido della repubblica
Anconitana, infelice cagione di sommosse, di ribellioni, di
repubblichette loquaci e serve, spesseggiava sui fianchi dell'orientale
Apennino. Se n'era il pontefice doluto col direttorio; ma le sue querele
furono passate di leggieri da coloro, che perseverando nella loro
pessima intenzione, volevano, non la conservazione, ma la distruzione
sua. Parigi intanto veniva fulminando: il sangue di Basville e di Duphot
chiamar vendetta; doversi disfare quel nido di assassini; l'ultima ora
esser giunta della Romana tirannide; a quest'opera d'umanità esser
serbata la Francia; vedrebbe il mondo, quanto avesse la repubblica a
cura i suoi cittadini, che vivi gli proteggeva, uccisi gli vendicava.
Tali erano le amplificazioni dei tempi, e le turbe seguitavano. Ma a chi
vorrà bene considerare la cosa, parrà certamente, che pur troppo atroce
fatto fu l'uccisione di Duphot, e da essere pianto eternamente; ma gli
parrà ugualmente, che l'accagionarne il governo del papa, e farne
pretesto di sua distruzione, fosse nè ragionevole nè giusto, perchè io
non ho mai, nè credo che altr'uomo che sia stato o sia al mondo, abbia
udito dire, che Pio Sesto, ed il cardinale Doria Pamfili, suo segretario
di stato, fossero assassini, e l'accusargli di assassinio era cosa non
solamente enorme, ma iniqua. Il direttorio, imputando a disegno espresso
del pontefice ciò, che era l'effetto fortuito di provocazioni
straordinarie, mandava comandando a Berthier, marciasse incontanente con
tutto l'esercito a passi presti contro Roma.

Avutisi da Berthier questi comandamenti, quantunque se ne vivesse molto
di mala voglia per essergli venute a noja le rivoluzioni, si metteva in
assetto per mandargli ad esecuzione. Commesso l'antiguardo a Cervoni,
che, come di nazione Corso, sapeva la lingua del paese, gli comandava
che si alloggiasse in Macerata: dava il governo della battaglia a
Dalemagne per modo che d'un solo alloggiamento si tenesse discosto
dall'antiguardo. Alloggiava il retroguardo a Tolentino con Rey, con
mandato di osservare le bocche d'Ascoli, per le quali si va nel regno di
Napoli, e di fare sicure le strade degli Apennini fra Tolentino e
Foligno. Lasciava finalmente con grosso presidio in Ancona Dessolles con
avvertimento di sopravvedere con bande sparse il paese, e tenerlo
purgato dai contadini Urbinati, che portando grande affezione alla sedia
apostolica, erano sempre inclinati a far moto in suo favore. Metteva
alle stanze di Rimini quattromila Polacchi sotto la condotta di
Dombrowski, e con questi anche le legioni Cisalpine, le quali nessuna
cosa santa ed inviolata avendo, commisero atti, di cui quei popoli si
erano mossi a grandissimo sdegno: le avrebbero anche condotte all'ultima
uccisione, se non fosse sopraggiunto Berthier coi soldati di Francia.
Così il sacco, e la rapina erano usati in Italia non solamente dai
forestieri, ma ancora dagl'Italiani.

Incamminandosi alla distruzione del governo pontificio, mandava fuori
Berthier da Ancona il dì ventinove gennajo un manifesto con queste
parole: che già le rive del Tevere si godevano le dolcezze di una pace,
che aveva concluso una crudele guerra, ma che l'implacabile ed
ingannevole governo di Roma cospirava cercando di turbare la quiete
delle nazioni, e per arra dei futuri mali commetteva un vilissimo
delitto; che egli insultava alla moderazione ed alla generosità mostrata
dalla repubblica nel trattato di Tolentino; ch'ei doveva pertanto con
atto uguale alla sua perfidia satisfare alla repubblica; che un esercito
Francese si muoveva ora contro Roma, ma che solo si muoveva per punire
gli assassini del prode Duphot, che solo si muoveva per punire quegli
assassini medesimi ancor rossi del sangue dell'infelice Basville; che
solo si muoveva per castigar coloro, che si erano arditi disprezzare il
carattere e la persona dell'ambasciadore di Francia; che la Francia
sapeva, essere il popolo Romano innocente di tanta immanità e perfidia;
che l'esercito di Francia il terrebbe indenne, e sicuro da ogni
oltraggio.

Poscia Berthier, rivoltosi al soldati, solennemente gli ammoniva, che
solo marciavano per vendicare i delitti commessi contro la repubblica,
per punire il governo di Roma, ed i suoi vili assassini; considerassero,
che come giusta, così immaculata doveva essere la vendetta;
avvertissero, che il popolo Romano non si era mescolato nelle
sceleraggini di chi il reggeva; l'amassero pertanto, il proteggessero;
sapessero, che la repubblica comandava loro, che rispettassero le
persone, le proprietà, i riti, ed i tempj di Roma; darebbersi pene
asprissime a chi si desse al sacco; degni di Francia, degni di
repubblica, degni di loro medesimi si dimostrassero.

Ciò detto, muoveva le schiere al destino loro. Per tal modo la
potentissima repubblica si scagliava contro la religiosa Roma, e contro
un papa già quasi disarmato, e cui faceva sicuro piuttosto la
venerazione che la forza. Le genti repubblicane, preso Loreto, con aver
fatto prigioniero il presidio pontificio, e commessovi qualche sacco,
posto a taglia Osimo, che si era levato a favor del papa, varcati
prestamente gli Apennini, all'appetita Roma si approssimavano. Era in
questo estremo punto l'aspetto della città vario, e per ogni parte
pericoloso: alcune condizioni risguardavano le passate cose, alcune le
presenti; generavansi sette ed umori molto diversi. Il trattato di
Tolentino con avere spogliato il papa della miglior parte de' suoi
stati, e con averlo sforzato a consentire a certe moderazioni nelle
discipline ecclesiastiche, gli aveva tolto gran parte della riputazione
e della riverenza, che prima gli portavano, considerato massimamente che
tali concessioni aveva fatte ad un governo, che con tanto ardore e
pertinacia aveva perseguitato con l'armi sì spirituali che temporali. Il
vedere poi la magnifica Roma spogliata, per soddisfare al vincitore, de'
suoi ornamenti più preziosi, partoriva sdegno ne' suoi popoli, non
solamente contro gli spogliatori, ma ancora contro il pontefice,
giudicando essi sempre dagli effetti, non dalle cagioni, siccome quello,
che pareva loro, che avesse o con imprudenza provocato, o non con
prudenza contentato un nemico irresistibile. Oltre a tutto questo si
trovava il pontefice ridotto alla necessità, per le stipulazioni del
trattato, ad aggravare con nuove tasse i sudditi a fine di poter bastare
alle somme esorbitanti che era tenuto di sborsare alla repubblica.
Quindi ne era nato, che speso tutto il tesoro di San Pietro, si era
dovuto por mano negli ori ed argenti dei privati, gittar nuove cedole
con maggiore scapito così delle vecchie come delle nuove, ed ordinare
una tassa del cinque per centinajo su tutti i beni. Cagione
principalissima poi di mal umore, anche negli aderenti del pontefice e
delle Romane opinioni fu questa, che si venne alla vendita del quinto
dei beni ecclesiastici, il che parve gran attentato contro le immunità
ecclesiastiche. Si lamentavano i cherici, che il pontefice avesse
commesso ne' suoi stati quel medesimo, che con sì solenni parole aveva
condannato, ed in Francia, ed in Cisalpina, ed in altri paesi, in cui si
era posta la falce in questa messe. Fu questa risoluzione molto dannosa
al pontefice, perchè gli tolse il favor di coloro, sui quali
principalmente si fondava la sua potenza. La casse piene di gentilezze
antiche, quelle, che contenevano i denari estorti con tanta difficoltà
dal pubblico e dal privato, da Roma continuamente partendo, e la
sembianza, e il fatto di uno spoglio indefesso ai Romani rappresentando,
accrescevano la mala contentezza, e rendevano il papa spregiato ed
odioso. Nè era nascosto, che le gioje stesse per la valuta di parecchi
milioni, perchè con la pecunia numerata non si era potuto soddisfare ai
patti di Tolentino, erano state poste in balìa del vincitore. Procedeva
dalle angustie dell'erario, che il papa aveva molto rimesso da quelle
pompe, e da quella magnificenza, con le quali era stato solito vivere, e
che gli avevano conciliato l'affezione ed il rispetto delle popolazioni.
Mancato questo splendore, da cui piuttosto, e molto più che dalla virtù
e santità della vita misurano i Romani la eccellenza del principe, si
cambiava l'affetto in disprezzo.

Meritava egli certamente il pontefice più compassione che odio; ma
sogliono i popoli solamente compassionare i principi nelle estreme
miserie di cacciamenti o di prigionìe, e quando la compassione è
divenuta inutile: finchè regnano, quand'anche infelicemente regnano, il
disprezzo o l'odio, piuttostochè la pietà pubblica, gli persegue;
perciocchè il disprezzare o l'odiare i principi è stimato dai popoli
compenso dell'obbedire. In tanta mutazione d'animi le antiche querele si
rinnovavano. Del duca Braschi, nipote del pontefice, si motivava,
arricchito oltre modo con monipolj contro il pubblico, con ispogliamenti
contro i privati: memoravasi la parsimonia di Ganganelli verso i suoi
nipoti, e con la prodigalità di Braschi verso i propri paragonavasi, e
quello a questo di gran lunga anteponevano. Meglio fora stato,
esclamavano, contenersi nella temperanza Ganganelliana, che vivere,
prima profusa vita per elezione, poi misera per necessità. I servitori
soprattutto, di cui tanto abbonda Roma, diminuiti i salarj, si
lamentavano: e siccome quelli, che, secondo il solito, senza freno sono,
facevano un parlare perniziosissimo. Tanto più essi erano di perduta
speranza, quanto più le magnificenze Braschesche, le quali si erano
dilatate in tutta la corte, ne avevano oltre modo accresciuto il numero,
e più erano sprofondati nell'ozio, più si trovavano lontani dal far la
risoluzione di guadagnarsi con onorate fatiche un'onorata vita. Si
arrogavano i discorsi dei politici, e degli amatori dell'antica
disciplina della chiesa. Argomentavano i primi dalla necessità di avere
in tempi difficili e pericolosi un governo d'uomini prudenti, e
conoscitori delle umane cose, non di preti soliti a giudicarne con le
preoccupazioni, e con le astrazioni religiose. Affermavano, poichè si
era giunto a tale che le armi spirituali, perduta l'efficacia loro, più
non giovavano, doversi lo stato commettere al freno di coloro, che
attamente delle passioni umane giudicando, sapevano per uso adoperare
prudentemente i rimedj politici e temporali degli stati infermi: se Roma
spirituale periva, vociferavano, doversi almeno salvare Roma temporale.
I secondi dimostravano a che aveva condotto lo stato Romano la potenza
spirituale eccessiva, e temerariamente usurpata, ed ambiziosamente usata
dai pontefici, e l'esser loro stati esaltati alla potenza terrena.
Andavano dicendo, essere tempo di usare il tempo per ridurre i costumi
trascorsi della chiesa alla semplicità antica, e la potenza dei papi ai
limiti primitivi, per reintegrare i vescovi in quella pienezza di
potestà, che viene loro dal fondatore stesso della religione, per
restituire ai principi l'independenza, che a loro s'appartiene di
diritto, e che tanto è necessaria pel buon governo degli stati; questo
benefizio aver a nascere da tanti sovvertimenti, nè senza un pietoso
fine avere l'infinita sapienza aggravato la mano sui popoli della terra.
Le dottrine Pistojesi, mostrandosi più apertamente, acquistavano maggior
credito, ed i fautori loro nutrivano speranza, che lo stato della chiesa
si avesse a ridurre in similitudine ai tempi che furono prossimi a quei
degli Apostoli. Ma i democrati, che non amavano meglio una religione
riformata, che uno stato regolato, confortati da apparenze tanto nemiche
al papa, ed avendo ardente desiderio della vittoria dei Francesi,
pigliavano novelli spiriti, e più vivamente operando, minacciavano
prossima ruina al reggimento antico. Sentivano, e vedevano i reggitori
della turbata Roma queste cose, ma meglio desideravano, che potessero
porvi rimedio. Pure mandavano fuori provvisioni contro lo sparlare, ma
il tempo era più forte di loro, e la proibizione accresceva la licenza.
Aveva lungo tempo in Roma la maldicenza tenuto luogo di libertà, ed i
Romani cuori umilmente obbedivano, purchè le Romane lingue si potesser
sfogare: sicchè gridavano, esser tolta loro quella libertà, di cui
avevano goduto sino ai tempi, e sin dai tempi strettissimi di Alessandro
e di Sisto, crescere la tirannide con la miseria, pagare i popoli con la
servitù gli errori del governo, diventata essere la condizione Romana
insopportabile. A queste voci i fedeli s'intimorivano, gli avversi
s'incoraggivano, gli odj s'inviperivano. Così lo stringere, e rallentare
il freno era parimente esiziale al papa, crollavasi lo stato già prima
che Francia gli desse l'ultima pinta. Il misero pontefice abbandonato su
quei primi romori da quasi tutti i cardinali, trovava un debole conforto
di parole nel cardinale Lorenzana, protettore del reame di Spagna, nel
principe Belmonte Pignatelli mandato a lui dal re di Napoli, e
finalmente nel cavaliere Azara, ministro di Spagna, solito a creare con
efficacia nei governi di quei tempi inclinazioni verso la repubblica di
Francia, poi ad intromettersi senza frutto, quando il momento era giunto
della distruzione loro. Vedutasi dal papa la ruina inevitabile, ordinava
ai capi de' suoi soldati, facessero nissun moto di resistenza, e si
ritirassero con quel passo, con cui i Francesi si avvicinavano; pensava
intanto alla quiete di Roma, ingrossando il presidio, perchè non voleva,
che l'anarchìa precedesse la conquista.

Il dì dieci febbrajo molto per tempo si mostravano i repubblicani sui
Romani colli: ammiravano una tanta città. Tagliavano trincee, piantavano
cannoni. Per accordo stipulato per parte del papa da Azara, e da alcuni
cardinali, entravano nella magnifica Roma il giorno medesimo, e fatto
sloggiare, il che fu uno spettacolo miserando, dal castel Sant'Angelo il
presidio pontificio, l'occupavano. Prendevano anche, condotti da
Cervoni, i principali posti della città. Poi, accompagnato da' suoi
primi uffiziali, e scortato da grosse squadre di cavallerìa, entrava il
dì undici trionfando Berthier. Al tempo medesimo i manifesti
promettitori di rispetto alle persone, alle sostanze, ai riti, alla
religione si affiggevano su per le mura; dei quali, se più speranza o
timore concepissero i Romani, è dubbio. Alloggiava Berthier nel
Quirinale, mandava Cervoni al Vaticano per far riverenza al pontefice,
assicurandolo della persona e dell'antica sovranità. Scriveva il dì
medesimo del suo ingresso a Buonaparte, che un terrore profondissimo
occupava Roma, e che lume nissuno di libertà appariva da nissun canto;
che un solo democrata era venuto a trovarlo, offerendogli di dar libertà
a due mila galeotti. Dava speranze, e faceva promesse d'ajuto ai
novatori, piuttosto per ordine che per voglia. Queste promesse, e questi
incitamenti sortivano l'effetto; il giorno quindici di febbrajo,
correndo l'anniversario dell'incoronazione del pontefice, che a quel dì
medesimo compiva ventitrè anni di regno, si levava subitamente per tutta
Roma un moto grandissimo di gente, che chiamava la libertà, e mossa fin
su quel primo principio da servile imitazione, traendo seco non so qual
fusto di pino, s'incamminava a calca verso Campo Vaccino. La folla, le
grida, la veemenza crescevano ad ogni passo. Molti correvano per vedere,
alcuni per aiutare, nissuno per contrastare; perchè le pattuglie
repubblicane che giravano, impedivano ogni moto contrario. Giunta che fu
quella immensa tratta dirimpetto al Campidoglio, crescendo vieppiù le
grida e lo schiamazzo, a fronte del famoso colle rizzava l'albero con
una berretta in cima, e viemaggiormente infiammandosi a tale vista,
gridava _libertà_, _libertà_! Nè contenti a questo, i capi givano ad
alta voce interrogando gli astanti, se volessero viver liberi: risuonava
tutto Campo Vaccino del sì. Seguitavano i capi a domandare, _è volontà
questa del popolo Romano_? Di nuovo risuonava Campo Vaccino del sì.
Cinque notai richiesti rogavano l'atto, siccome il popolo Romano sovrano
e libero aveva rivendicato i suoi diritti, che libero e franco si
dichiarava, che al governo del papa rinunziava, che in repubblica voleva
libero vivere, e libero morire. Qui le grida, gli strepiti, il gittar
dei cappelli, l'abbracciarsi, il confortarsi, il pianger dalla gioia, il
ridere per pazzia, che sorsero, non son cose che da umana penna si
possano agevolmente descrivere. Poi i motti contro i preti, contro il
papa, e contro i cardinali, e le ipotiposi sui vizi, parte veri, parte
anco esagerati della corte Romana, andavano all'eccesso. Gli atti e gli
scherzi che si fecero, non son da raccontarsi. Solo dirò, che un padre
di due bellissime fanciulle, venuto con loro sulla piazza pubblica, si
toglieva primieramente, romoreggiando dalla gioia il popolo all'intorno,
il proprio nome, con quello di Tesifonte chiamandosi; poscia le proprie
figliuole sbattezzava. Ambiva quindi, e voleva essere chiamalo
_cittadino Tesifonte_; disordinati segni di più disordinato avvenire.

Rogato l'atto, scritto in ischifosa e servil lingua Italiana, tradotta
dal Francese, si eleggevano dal popolo convocato uomini a posta, perchè
l'atto medesimo portassero a Berthier, e gli raccomandassero la novella
repubblica. Eravi solennità: entrava a guisa di trionfatore per la porta
del Popolo il generale di Francia, con magnifico corteggio dietro ed
intorno di splendidi ufficiali, e di cento cavalli eletti da ciascun
reggimento. Suonavano con grandissimo strepito gli stromenti della
musica militare; l'affollato popolo applaudiva. Non così tosto compariva
alla porta del Popolo, che era presentato di una corona dai capi in nome
del popolo Romano. L'accettava, protestando ch'ella di ragione
apparteneva a Buonaparte, le cui magnanime imprese avevano preparato la
libertà Romana; che per lui la riceveva, che per lui la serberebbe, e
che a lui in nome del popolo Romano la manderebbe. Salito in Campidoglio
bandiva la repubblica Romana solennemente, la riconosceva in nome della
Francia, lodava la libertà, chiamava i Romani figliuoli di Bruto e di
Scipione. Queste cose si facevano, veggendo ed udendo dalle stanze del
deserto Vaticano il canuto ed infermo pontefice. Erano tutto il restante
giorno, e la seguente notte canti, balli, e rallegramenti di ogni forma.

La Cisalpina repubblica a questi sovvertimenti si rallegrava. Scriveva
il direttorio nella solita lingua servile per mezzo del presidente, ai
legislatori Cisalpini, che la patria di Bruto era libera, che i suoi
discendenti avevano solennemente proclamati i diritti dell'uomo, che il
sacro albero rigeneratore dei popoli aveva messo le sue radici sul
Campidoglio, che la ragione era stata vendicata de' suoi oltraggi, che
Roma finalmente non aveva più tiranni; che vi si era creato un governo
provvisorio composto di bravi, ed illuminati repubblicani; che il
vescovo di Roma era guardato dalle truppe Francesi, e che il popolo
quanto inebbriato del sentimento della sua libertà, altrettanto si
manteneva dignitoso, saggio e tranquillo. Quest'erano le poesie, o per
parlare con Buonaparte, i romanzi dei tempi.

Fra mezzo a tanta mina continuava a starsene nelle sue stanze del
Vaticano papa Pio Sesto con qualche apparato di sovranità, tuttochè già
servo fosse; conciossiachè ed usava la sua spirituale potestà, ed i
ministri celebravano gli uffici divini, e gli ufficiali di casa il
servivano, e le guardie Svizzere il custodivano. Ma in quella stato di
Roma non poteva più un papa sussistere, nè per lui per le dignità, nè
pei repubblicani per la sicurezza. Inoltre l'opera del direttorio doveva
consumarsi intiera. S'incominciavano a mandar carcerati in Castel
Sant'Angelo, o confinati nelle proprie case alcuni cardinali, ed altri
personaggi di nome e d'autorità. Toglievasi quindi dal Vaticano la
guardia Svizzera con dolore vivissimo del pontefice, che non se ne
poteva dar pace; vi surrogavano la guardia Francese. Qui io vorrei
tacermi: ma l'amore della verità mi sforza a dire, che il venerando Pio,
ridotto in caso di sì estremo abbassamento, non andava esente, da parte
di alcuni repubblicani di Francia, da scherni tali, che l'ammazzarlo
sarebbe stato poco maggior mancamento. Agli scherni succedeva l'esilio:
Cervoni, avutone comandamento da Berthier, introdottosi nelle stanze del
pontefice, in nome della repubblica Francese gl'intimava, che si
dispogliasse della sovranità temporale, si contentasse della spirituale.
Rispondeva Pio, avere la sua temporale sovranità ricevuto da Dio, e per
libera elezione degli uomini, non potere, nè volere rinunziarvi; alla
età sua di ottant'anni potersi bene fare mali grossi, ma non lunghi;
essere parato a qualunque strazio; essere stato creato papa con piena
potestà; volere per quanto in lui fosse, papa morire con piena potestà;
usassero la forza, poichè in mano l'avevano, ma avvertissero che se
avevano in poter loro il corpo, non avevano parimente l'animo, il quale
in più libera regione spaziando, di accidenti umani non temeva; esservi
un'altra vita per lui oggimai vicina; in lei nulla gli empi, nulla i
prepotenti potrebbero.

Restava, poichè l'animo non avevan potuto vincere, che vincessero il
corpo. Il pubblicano dell'esercito, che al suono delle Romane finanze
era prestamente accorso, appresentatosi al pontefice, gl'intimava, tempo
due giorni, da Roma si partisse. Rispondeva Pio, non potere resistere
alla forza; ma volere, che il mondo sapesse, che sforzato il proprio
gregge abbandonava. Strane venture di tempi, che i repubblicani
andassero a Roma predicando di voler punire gli assassini di Basville e
di Duphot, e conservare il papa, e che gli assassini non punissero, ed
il papa non conservassero; conciossiachè del castigo degli uccisori di
Basville e di Duphot, occupata Roma, non si fece più parola.

Il dì venti febbrajo sforzavano i repubblicani il papa a partire.
Lasciava Pio l'antica sede, cui non era per rivedere più mai.
L'accompagnavano solamente, miserande reliquie di corte tanto sontuosa,
oltre alcuni addetti ai servigi domestici, monsignor Inico Caracciolo di
Martina, suo maestro di camera, e l'abbate Marotti, professor di
rettorica nel collegio Romano, suo segretario eletto. Uscito da porta
Angelica s'incamminava verso Toscana. Lo scortavano e guardavano
diligentemente soldati repubblicani a cavallo. Accorrevano dai luoghi
vicini e dai lontani i popoli riverenti ad inchinare il pontefice
captivo: muovevangli a rispetto ed a compassione la dignità, l'età, la
malattia, la sventura. Per tal modo vecchio, infermo e prigioniero
lasciava Pio Roma, caso non più veduto, dappoichè Borbone ne cacciava
Clemente; lasciava Roma, cui aveva abbellito con opere magnifiche, e che
doveva fra breve essere spogliata di quanto la durezza dei patti
Tolentiniani vi aveva lasciato d'intero e d'intatto; lasciava Roma, già
padrona per opinione del mondo, ora serva per opinione, e per bajonette
di nuove repubbliche. Singolare città, che, o padrona o serva, o
magnifica o saccheggiata, ebbe sempre per destino di provare i due
estremi, in cui gli umani casi si concludono. Trovava il pontefice
ricovero, contuttochè sempre gelosamente fosse custodito, nel convento
degli Agostiniani di Siena, e conforto negli ossequj del gran duca, e
nelle lettere consolatorie scrittegli da tutta la cristianità. Si
dimostrarono in questo pietoso ufficio singolari i vescovi fuorusciti di
Francia, massimamente quelli che dimoravano in Inghilterra. Il tentavano
spesso i repubblicani, perchè rinunziasse alla potestà temporale; il che
egli constantissimamente sempre ebbe negato. Per questa cagione si
ordinava, che più strettamente si custodisse, e se gli ristringeva la
facoltà di veder gente: rigore tanto più da condannarsi, quanto più era
di nissun frutto, ed aveva per fine una rinunzia per forza. Succedeva
poscia un caso spaventoso, che tremava per terremoto il convento, come
se Dio volesse provare sino all'ultimo la costanza del desolato
pontefice; piombavano a croscio le volte, le mura si sfasciavano,
distrutta parte della casa, gli fu forza sloggiare: raccolto prima nel
palazzo Venturi, poi nella villa Sergardi, si riduceva finalmente ad
abitare nella Certosa di Firenze. Ma la sua presenza sul continente,
particolarmente in paese sì vicino a Roma, dava sospetto ai
repubblicani. Perlochè ordinavano, che si trasferisse in Cagliari di
Sardegna. Rappresentavano le benigne persone che continuavano ad avergli
affezione, che nè la sua età, nè le infermità permettevano, che a quel
viaggio marittimo si accomodasse. Anche il re di Sardegna che abborriva
dal divenir custode di un papa, custodia ed odiosa in se, e pericolosa
per l'amicizia che aveva allora con Francia, faceva opera di esimersi.
Infine era Pio lasciato stare nella Certosa insinocchè, venuti in Italia
tempi pericolosi pei repubblicani, lo trasferivano in Francia.

Roma, priva del pontefice, perdeva anche per sacco, parte violento parte
frodolento, le sostanze e gli ornamenti più preziosi del suo stato. Nè
in questo gli spogliatori portavano più rispetto alle sacre che alle
profane cose, alle private che alle pubbliche, perchè le une e le altre
involavano con uguale cupidigia, nè le rapine duravano solamente, come
le antiche, tre o quattro giorni, che anzi non si terminarono se non con
le stanze dei repubblicani; o per meglio dire neanco allora, perchè
venute dopo di loro le truppe regie di Napoli, rinnovarono con brutta
imitazione le rapine ed il sacco. Ma per favellar dei repubblicani, che
a questo tempo erano signori di Roma, cominciava lo spoglio da alcuni
capi sì militari che civili; scendeva per l'esempio nei soldati. Solo
incorrotti si mantennero la maggior parte degli ufficiali di mezzo, i
quali, come si dirà, a conservazione dell'onore offeso, ne fecero un
solenne risentimento. Giravano all'arrivo dei Francesi nello stato
Romano ventisette milioni di cedole, peso incomodissimo, e vera peste sì
del privato, che del pubblico avere. Fu ridotto al quarto il valore
loro, dolorosa, ma salutifera ferita a chi le aveva in sua possessione.
Sarebbe stata questa una legge da lodarsi per ogni parte, se subito dopo
non fosse stata promulgata, che gli agenti del direttorio avevano speso
per le loro provvisioni sì pubbliche che private, quella copia di
cedole, che avevano trovato nelle casse papali, e che non era di poco
momento. Aggiungesi da alcuni, e se vero fu, come pare, sarebbe il caso
molto più enorme, che poco innanzi alla promulgazione della legge, e
quando già si era fatto risoluzione di promulgarla, furono stampate a
fretta cedole per un valsente di sei milioni, e tostamente, per compre
fatte, gittate nel pubblico. Che maneggi fossero questi, il lettore lo
penserà da se. Si levava un grido universale contro gli autori di sì
vituperoso inganno; ma le armi erano più forti dei gridi, e chi più
poteva, tutto ardiva.

Oltre le cedole, le Romane finanze consistevano in una quantità di beni
assai considerabile, che appartenevano allo stato, e questi in nome
della repubblica Francese occupavano i suoi agenti, non che quelli, che
per essere di privato patrimonio di papa Pio, potevano, se non con
ragione, almeno con pretesto cadere in potestà di Francia; conciossiachè
il direttorio si protestava solamente nemico del papa, non dello stato
Romano, al quale anzi professava amicizia. Ponevansi al fisco della
repubblica, deliberazione certamente enorme, i beni del collegio della
Propaganda, quelli del Sant'Officio e dell'Accademia ecclesiastica, le
Paludi Pontine, le tenute della Camera apostolica. Ciò spettava agli
stabili; ma i mobili non si risparmiavano: qui fuvvi, non che
confiscazione, sacco. Quanto di più nobile e di più prezioso adornava i
palazzi del Vaticano, e del Quirinale, fu involato. Fu la cupidigia
degli agenti del direttorio veramente barbara. Dal Vaticano, edifizio
magnifico per undicimila camere, furono tolti, non solamente tutto il
mobile a servigio di persone, ricca e preziosa suppellettile, non
solamente gli arredi mirabili di busti, di quadri, di statue, di camei,
di marmi, di colonne, ma perfino i serrami ed i chiodi, per forma che
l'Instituto nazionale di Roma, che per non so qual derisione fu poco
poscia creato, volendo sedervi dentro, ebbe a pensare a far rimettere e
porte, e toppe, e chiodi dove un appetito insaziabile gli aveva tolti.
Così quella sede nobilissima di Romani pontefici, quella veneranda
depositerìa delle opere di Raffaello e di Michelagnolo,
quell'ornatissimo ricovero di quanto Grecia ed Italia avevano prodotto
di più prezioso, di più gentile, di più grazioso, si appresentava agli
occhi dei risguardanti atterriti quale deserto e saccheggiato abituro. E
queste cose faceva, non la guerra ma la pace, non la nimicizia ma
l'amicizia, non la barbarie ma una vantata civiltà. Seguitava sempre i
passi dell'esercito una compagnìa di sensali, che s'intendeva coi rapaci
pubblicani, ed era pronta a pagare a loro per vile prezzo le ricchezze
acquistate, sicchè le nazioni vinte s'impoverivano, la Francia
vincitrice non s'arricchiva, i soldati non avevano le paghe, e ad ogni
tratto sdegnosi minacciavano di ammutinarsi. Ma i rapitori chiamavano in
aiuto la militar disciplina, come se più i soldati fossero obbligati
all'obbedire, che i pubblicani all'onestà. Le masserizie più vili, alle
quali i capi non abbadavano, si vendevano agii ebrei non per pattuito,
ma per imposto prezzo.

Fu, come il Vaticano, spogliato Montecavallo, fu spogliato Castel
Gandolfo, fu spogliata la nobil sede di Terracina. Come gli arnesi più
squisiti, così il più misero vasellame di cucina furono involati, nè più
risparmiati i sacri che i profani arredi, perchè i vasi sacri della
cappella Sistina, e delle altre cappelle pontificie ebbero a pruovare i
toccamenti dei profani involatori; gli abiti sacerdotali stessi si
diedero alle fiamme per cavarne i metalli preziosi, coi quali erano
tessuti. Passava il sacco dai palazzi dello stato e del papa a quei de'
suoi parenti, ed anzi a quelli di coloro, o principi Romani o cardinali
che si fossero, che più si erano dimostrati costanti nel far argine alle
dottrine, che avevano servito di mossa, e tuttavia servivano di
fondamento alla rivoluzione. Il palazzo di città, quei del principe, e
del cardinale Braschi, quello del cardinale York furono con uguale
avarizia depredati. Soprattutto miseramente guasto e devastato fu quello
della villa Albani, di cui era signore il cardinale, e principe di
questo nome. Quanto in lui si trovava di più prezioso per materia o per
lavoro, fu tocco e rapito dalle avare mani dei forestieri: contro Albani
si scagliavano particolarmente, perchè l'avevano conosciuto affezionato
al pontefice, e mantenitore della opinione, che più nell'Austria che
nella Francia, che più nell'imperatore Francesco, che nel direttorio, il
papa avesse a fidarsi, come se nelle faccende di uno stato indipendente
non avessero ad esser libere le opinioni di chi consiglia, se però non
si voglia dire, che si amano meglio i traditori che i fedeli, meglio chi
consiglia con perfidia che chi con sincerità. Il giardino stesso
dell'Albani fu guasto e deserto; gli aranci, e le altre piante odorifere
o rare vendute a vile prezzo. Quest'era più furto che conquista; perchè
Albani era persona privata, e non certamente nè papa, nè stato, e con
qual diritto avesse ad essere svaligiato, sarebbe bene, che gli
addottrinanti di quel secolo ce l'insegnassero. Non posso io già, nè
voglio passar sotto silenzio una rapina, che gli avari pubblicani
preposti dal direttorio alle finanze d'Italia volevano ad ogni modo fare
di un ricchissimo ostensorio, tutto tempestato di diamanti, che di
proprietà privata essendo di casa Doria, in Sant'Agnese, chiesa di
giuspatronato della medesima famiglia, ogni anno all'adorazione dei
fedeli si esponeva; lo stimavano ottantamila scudi. E perchè il generale
Saint-Cyr, che aveva l'animo tanto ornato di temperanza, quanto alcuni
altri l'avevano contaminato di avarizia, si era opposto, ne ebbe le male
parole, e fu anche richiamato dal direttorio. La rapacità che si usava
in Roma e nei contorni, si dilatava in tutto lo stato Romano, ed ogni
sostanza sì pubblica che privata vi era posta a mercato. Sorse fra gli
altri un caso miserando, che facendosi il giorno ventitre febbraio le
esequie solenni dell'ucciso Duphot per tutta la città, alcune pattuglie
repubblicane, dico alcune, perchè le più si serbarono continenti, rotto
ogni freno di onestà e di disciplina, e non considerato, che l'ufficio a
loro imposto era di conservar intatti il buon ordine e le sostanze,
entrarono nelle chiese, e da loro involarono i vasi e gli arredi
destinati alla celebrazione degli uffizi divini. Nè dal sacco andarono
esenti le chiese appartenenti alle nazioni Spagnuola ed Austriaca,
sebbene l'una alleata, l'altra amica della repubblica vivessero a quel
tempo. Perchè poi nissuna spezie di miseria e di compassione mancasse a
Roma in questo giorno, vi fu la sera gran luminaria alla cupola e nella
piazza del Vaticano; ballossi allegramente al Quirinale. Uditosi nelle
province della Romana dizione il sacco delle chiese di Roma, alcune
delle provinciali chiese furono ancor esse al modo medesimo poste in
preda. Al sacco succedevano le tasse, le quali qualche volta si
convertivano in sacco segreto assai più vile del primo. Erano enormi, ma
vi era modo di riscatto nascosto, e qualche volta a bella posta si
mettevano, perchè i modi del riscatto si usassero. Si tassava la sola
famiglia Chigi di più di ducentomila scudi; l'incisore Volpato di più di
dodicimila, e fra dodici ore avesse a pagargli. Talvolta si minacciavano
le confische per aver denaro; talvolta si addomandava denaro per avere o
quadri, o statue, od altre simili gentilezze preziose. Per tal modo
Roma, già consumata dal trattato di Tolentino, fu del tutto spogliata
per la presenza dei repubblicani.

Non ostante tanti spogli e tante rapine, se ne viveva l'esercito
bisognoso di ogni cosa, e mentre le cassette piene di cose preziose, che
appartenevano agli agenti del direttorio, s'incamminavano alla volta di
Francia, o segretamente, od anche apertamente, perchè a tale di
sfrontatezza si era venuto, i soldati non avevano le paghe corse da
molti mesi, e laceri, e scalzi, e privi di ogni bene, accusavano
l'ingordigia di coloro, che preposti al vitto, ed al vestimento loro,
credevano, dover convertire in benefizio proprio le ricchezze dei paesi
conquistati con le fatiche, e col sangue loro. Gli ufficiali subalterni,
ai quali stava a cuore l'onore di Francia, ed infinitamente cuocevano i
raccontati disordini, accordatisi fra di loro ed in gran numero nella
chiesa della Rotonda adunatisi, facevano un forte scritto, e
l'indirizzarono a Massena, surrogato a Berthier. Addomandavano i soldi
corsi dei soldati, chiamavano vendetta contro i depredatori, per l'onore
dell'esercito offeso. Lo sdegno loro principalmente mirava contro
Massena per le estorsioni da lui fatte, come dicevano, in tutti i paesi
Italiani venuti sotto il di lui governo, massimamente nel Padovano. Nè
minor avversione mostravano contro Haller, cui principalmente accusavano
dell'Italiane espilazioni, e della Francese miseria. Fecero anche
risoluzione di arrestarlo, e di porre a sigillo le sue carte. Massena,
siccome quegli che non soleva portare pazientemente, non che le accuse,
i contrasti, facendosi scudo della disciplina, intimava agli ufficiali
adunati che incontanente si segregassero: quando no, gli costringerebbe
con la forza. Rispondevano, preferir la morte all'infamia, prender Dio
in testimonio della purità delle intenzioni loro. Mandavano nuovi
deputati a Massena. Non fecero frutto, perchè il generale più aspramente
che prima rimproverandogli dell'aver rotto l'obbedienza, gli minacciava
di forza e di castigo. I pubblicani, vedendo quel nembo, o fuggivano, o
si nascondevano, e per ogni forma si consigliavano di salvar il bottino.
Gli ufficiali, ai quali questa volta si erano accostati alcuni generali
dei primi, gelosi parimente dell'onore dell'esercito, di nuovo si
adunavano il dì sette marzo nella chiesa medesima della Rotonda, e con
più forti parole dimostravano al generale, doversi giustificar
l'esercito dei ladronecci commessi, e dar le paghe ai soldati.

Massena intanto era uscito di Roma ordinando, lasciato solamente un
presidio di tremila soldati in Castel Sant'Angelo, ed in altri luoghi
forti, che tutto l'esercito il seguitasse. Sperava partendo, e
distribuendo in diverse stanze i soldati alla campagna, di poter far
risolvere l'intelligenza degli uffiziali. Obbedivano, ma ciascun corpo
creava uffiziali eletti, con mandato di vegliare, acciocchè gl'interessi
loro non ricevessero danno. Gli uffiziali eletti, raccoltisi in
Campidoglio, scrivevano lettere a Berthier, pregandolo di ripigliare il
freno delle genti, e protestavano a Massena di non volergli più
obbedire. Fece ogni opera, ma invano, per riguadagnarsi l'affezione
loro. Laonde, vedendosi in voce di tutti, nè più potendo comandare a
coloro che il chiamiavano coi più odiosi nomi, pensò al ritirarsi, e se
ne andava, lasciato il governo a Saint-Cyr, e a Dallemagne, in Ancona,
donde tutto dolente, e sconfortato scriveva a Buonaparte, pregandolo a
dargli favore presso il direttorio, affinchè lo mandasse ambasciatore a
qualche potenza.

I Romani, osservato lo scompiglio delle genti Francesi, ed essendo
sdegnati per tante vessazioni, nè potendo più oltre portare sì dura
servitù, perchè ora mai un popolo di quasi due milioni di anime era
ridotto alla fame, tentavano un movimento più temerario che considerato.
I primi a romoreggiare furono i Transteverini, gridando _viva Maria_.
Avviatisi verso San Pietro in grosso numero, uccidevano una guardia
Francese, s'impadronivano di Ponte Sisto, e delle strade, che mettono
capo in esso. Al tempo medesimo le campagne tumultuavano; Velletri,
Albano, Marino, Cività di Castello si muovevano; la mossa era grave. Già
i Francesi erano uccisi alla spicciolata, e già le più grosse squadre si
trovavano in pericolo. Ma essendo gente valorosa, usa all'armi ed ai
tumulti improvvisi, poste dall'un de' lati le dissensioni loro,
muovendogli il pericolo comune, si ordinavano tostamente alle battaglie
contro quei popoli spinti piuttosto da furore, che da disegno bene
ordinato. Vial muovevasi contro la gente tumultuaria in Roma, Murat
contro quella del contado. Fu fatto in queste battaglie molto sangue,
perchè i Francesi coi loro squadroni agguerriti combattevano virilmente,
ed i Romani, mossi da furore e da zelo religioso, menavano ancor essi la
mani aspramente. Infine prevalendo la disciplina e l'opera delle
artiglierìe bene governate dai repubblicani, di cui mancavano i Romani,
acquistarono i primi con molta preponderanza il vantaggio. Dispergevansi
gli avversarj, e si nascondevano chi per le case, e chi per le campagne.
Fecero i contadini ritiratisi ai monti una testa grossa; ma Murat,
penetrando coi soldati armati alla leggiera in quei riposti ricoveri,
gli sperperava. Di cencinquanta prigioni, parte furono mandati al remo,
parte giustiziati con le palle soldatesche. Roma piena di terrore,
d'orrore e di sangue, lagrimosamente si querelava. Si toglievano con
diligente cura le armi ai popoli. Accagionaronsi, come fautori di questo
moto, o fosse verità o pretesto, i cardinali, ed altri prelati sospetti
d'affezione verso il papa. S'intimò ai primi, o rinunziassero alla
dignità cardinalizia, o andassero carcerati. Rinunziarono Antici ed
Altieri; ricusarono Antonelli, Giuseppe Doria, Borgia, Roverella, la
Somaglia, Carandini, Archetti, Mauri, Mattei; fu dato bando ai due
ultimi dalle terre della repubblica Romana. Gli altri, prima posti in
carcere, poi condotti a Civita vecchia, ed imbarcati su navi sdrucite,
furono mandati a cercar ricovero in paesi stranieri. Il cardinal
Rezzonico, come infermo di mal di morte, fu lasciato stare: Albani, che
più d'ogni altro desideravano di avere in poter loro, fu fatto correre
dai cavalli leggieri, che il seguitavano, ma giunse a salvamento nel
regno. In questo modo quanto aveva la chiesa cattolica di venerando per
età, per dignità, per dottrina, era disperso e calpestato. Non solo
enormi, ma pazze cose erano queste, perchè il torre rispetto a uomini
rispettati portava con se, quando che fosse, il vilipendio di coloro che
non gli rispettavano, perchè la licenza è male contagioso, e si appicca
facilmente dagli uni agli altri.

Gli accidenti Romani fin qui narrati sapevano di tumulto e di
confusione, siccome quelli, che sulle prime succedevano alla militare
conquista. Restava, che la oppressione e la servitù si ordinassero sotto
ingannevole forma di governo regolare, come se fosse intento dei
conquistatori di fare scherno alla libertà, e di metterla in odio a
tutti coloro che l'amavano. A questo fine aveva il direttorio mandato a
Roma quattro suoi commissarj, che furono Faipoult, Florent, Daunou, e
Monge, uomini, che facevano professione di amare la libertà.
Deliberarono fra di loro di dar una constituzione alla repubblica
Romana. Pareva un gran caso quel delle leggi, che avessero da uscire da
una Francia per una Roma per mezzo di uomini rinomati e mandati a bella
posta da Parigi, massime da Daunou e da Monge, ambidue venerandi per
ingegno, per dottrina e per virtù. Ed ecco pubblicarsi un corpo di
constituzione, il quale altro non era, che sotto nomi Romani la
constituzione Francese; imperciocchè sotto nome di consolato, di senato,
di tribunato, di tribunale di alta pretura a di alta questura, vi era un
direttorio, un consiglio degli anziani, un consiglio dei giovani, un
tribunal di cassazione, e commissarj dei conti. A questi si aggiungevano
gli altri fastidj servili delle amministrazioni centrali per ciascuno
spartimento della repubblica, e di una amministrazione centrale per ogni
cantone. Si noverarono otto spartimenti, del Tevere, del Cimino, del
Circeo, del Clitunno, del Metauro, del Musone, del Trasimeno, e del
Tronto. Avevano per capitali Roma, Anagni, Viterbo, Spoleto, Macerata,
Sinigaglia, Perugia, e Fermo. Erano questi i magistrati; le leggi, come
quella di Francia. Nel che, oltre il copiar servile, gli uomini prudenti
osserveranno, quanto inetto fosse il dare nomi medesimi a cose diverse,
e quanto dannoso alla libertà il servirsi di nomi antichi, che suonavano
potenza e libertà, in uno stato di oppressione, e di servitù. Ne fu
tolta autorità a parole venerate. Dalle leggi passava l'imitazione
insino agli abiti; perchè i magistrati furono ordinati vestirsi alla
francese, mutato solo pei consoli, senatori, e tribuni il color rosso in
nero; la forma simile a quella dei quinqueviri, degli anziani, dei
cinquecento di Francia.

Si crearono consoli per la prima volta Liborio Angelucci da Roma, Ennio
Quirino Visconte da Roma, Giacomo Dematteis da Frosinone, Panazzi
d'Ancona, Reppi d'Ancona. Ma variarono molto nella breve vita della
repubblica Romana i consoli, perchè si scambiavano ad un primo capriccio
del generale, o del commissario di Francia. Fu instituito segretario del
consolato un Bassal, il quale già mandato da Buonaparte a fomentare la
rivoluzione di Venezia, se n'era ora venuto a fomentar quella di Roma.
Chiamaronsi ministri un Torriglioni, un Camillo Corona, un Mariotti, un
Bremond Francese.

Come se gli spogli, le tasse violente, i comandamenti non solo
imperiosi, ma ancora capricciosi abbastanza non avvertissero i Romani
della servitù, inserirono i quattro commissarj nella constituzione
Romana questo capitolo, che fu il trecentesimo sessagesimonono, che si
avesse a fare, al più presto, un trattato d'alleanza tra la repubblica
Romana e la Francese; che insino a che questo trattato fosse ratificato,
tutte le leggi fatte dai due corpi legislativi Romani non potessero
essere nè pubblicate, nè eseguite senza l'approvazione del generale
Francese che stava al governo di Roma; che il generale medesimo potesse
di sua propria autorità fare tutte quelle leggi, che a lui paressero
necessarie, conformandosi non ostante alle instruzioni del direttorio.

La constituzione Romana aveva posto a difficile partito coloro, che
occupavano le cariche ancora sussistenti del governo precedente, e
generalmente tutti coloro, che, sentendo tuttavìa a norma delle antiche
massime, erano pure obbligati, per le necessità loro, a servire allo
stato nuovo. Era nella constituzione un capitolo, che ordinava di giurar
odio alla monarchìa, fedeltà ed attaccamento alla repubblica. Papa Pio
aveva udito dal suo secesso della Certosa di Firenze, che il governo
della repubblica esigeva questo giuramento da tutto il clero, e dai
parochi di Roma. Volendo per regola delle coscienze definire questa
materia, e parendogli, che non si convenisse ai ministri della religione
il giurar odio ad alcuna forma di governo, scrisse un breve a monsignor
Passeri, vice gerente di Roma, ammonendolo non esser lecito prestar
puramente, e semplicemente il giuramento suddetto, ed ordinandogli di
notificare agi'intimati questa sua decisione pontificia e di avvertire,
che l'eseguissero. Ma siccome, continuava a discorrere, interessava
anche moltissimo, che la repubblica fosse persuasa della rettitudine
delle massime del clero di Roma relativamente al repubblicano governo
conformi in tutto agl'insegnamenti della cattolica religione, così
statuiva, che ciascuno potesse con sicura coscienza giurar fedeltà e
soggezione alla repubblica, che attualmente comandava, essendo stato
unanime insegnamento de' Santi Padri, e della chiesa, che sia dovuta
fedeltà e subordinazione a chi, secondo le varietà dei tempi, ha in mano
le redini del governo, o sia a chi attualmente comanda. Definì inoltre,
che ciascuno potesse giurare di non prender parte in qualsivoglia
congiura, trama, o sedizione pel ristabilimento della monarchìa, e
contro la repubblica; e potesse altresì giurare odio all'anarchìa,
essendo questa uno stato di disordine. Finalmente deliberò, che si
potesse giurare fedeltà ed attaccamento alla constituzione, salva
peraltro la cattolica religione. Pensava papa Pio, che i magistrati
della repubblica non avrebbero rigettato questa formola, giacchè era in
tutto conforme, come si esprimeva, all'atto del popolo sovrano dei
quindici febbrajo del 1798, con cui il popolo riunito innanzi a Dio, ed
al mondo tutto, con un sol animo, ed una sola voce aveva dichiarato,
voler salva la religione, quale di presente venerava ed osservava, cioè
la religione cattolica. Ma partito da Roma monsignor Passeri, e
succedutogli nella carica di vice gerente l'arcivescovo di Nassanzio,
quest'ultimo di propria autorità, e contro le intenzioni del papa, diede
una seconda instruzione, per cui i professori del collegio Romano e
della sapienza si credettero autorizzati a prestare, come fecero, il
giuramento tale qual era prescrito dalla constituzione, solo facendo
verbalmente qualche protestazione. Udì gravemente il papa
quest'accidente, e rescrivendo all'arcivescovo, lo ammonì di nuovo delle
sue intenzioni, gli comandò, richiamasse la seconda instruzione, e si
lamentò, che per lei, e per l'esempio dei professori soprannominati
sembrasse, che Roma già maestra di verità, si fosse fatta maestra
dell'errore. Savie, prudenti, e conducevoli alla quiete dello stato
erano queste sentenze di Pio. Da loro si può dedurre un utile
ammaestramento, e quest'è, che la religione è, e debb'essere tutta
spirituale, e che non le è lecito l'ingerirsi nella forma del governo
politico delle nazioni. Intanto questa faccenda dei giuramenti, per
l'ordinario tanto gelosa, si rammorbidì facilmente sì per la prudenza
del papa, come per la sopportazione dei magistrati della repubblica, nè
produsse, come si temeva, o movimenti, o persecuzioni d'importanza.

Creata la repubblica Romana, si spegneva l'Anconitana, la quale non era
stata mai altro, che un appicco contro il papa, l suoi territorj, salvo
San Leo, s'incorporarono alla Romana.

Il dì venti marzo si celebrava nella vastissima piazza del Vaticano, la
confederazione della repubblica Romana a guisa di quella, che fu da noi
descritta della Cisalpina. Furonvi archi trionfali, sinfonìe,
illuminazioni, canti, balli; magnifica festa, ma con molto schiamazzo, e
molte satire alla Romanesca. Saliva con grande apparato sul Campidoglio
Dallemagne, chiamava i senatori, apriva il senato, spiegava al vento la
Romana bandiera. Poi instituiva il tribunato, quindi i consoli sulla
piazza del Vaticano; bandiva la constituzione, dichiarava Roma libera; i
consoli dall'alto della scalea giuravano. Si coniava poscia, pure
Romanescamente al solito, la medaglia adulatoria, bella assai, e con
questi motti: _Berthier restitutor urbis, e Gallici salus generis
humani_.


FINE DEL TOMO III.



INDICE DEL PRESENTE VOLUME


  1797

  Nuovi pensieri di Buonaparte                           _pag._ 6
  Si accosta all'Alemagna                                       8
  Thugut, ministro Austriaco                                   10
  Parole di Buonaparte ai soldati                              11
  Disposizioni dell'Austria                                    12
  Debolezza morale del suo esercito                            13
  Carlo arciduca viene in Italia                               13
  Disposizione dell'esercito Austriaco                         14
  Differenza tra Carlo e Buonaparte                            15
  Lusignano si arrende prigione ai Francesi                    17
  Francesi passano la Piave                                    17
  E il Tagliamento                                             17
  Schulz generale prigioniero                                  18
  Joubert in Tirolo                                            19
  Rompe Laudon                                                 20
  Kerpen si ritira a Sterzing                                  20
  Joubert prende Brissio                                       21
  Tirolesi all'armi                                            21
  Progressi di Laudon                                          22
  Joubert si ritira a Linzo                                    23
  Laudon prende Trento e Roveredo                              23
  Ocskay custodisce male la Ponteba                            24
  È battuto da Massena                                         24
  Vittoria di Tarvisio e di Raibel                             26
  L'arciduca pensa a difendersi                                26
  Differenza nel combattere de' Francesi e Tedeschi            28
  Buonaparte a Clagenfurt                                      29
  Scrive all'arciduca                                          30
  Risposta che ne riceve                                       30
  Trattato di Leoben                                           31
  Clarke a che avesse esortato l'imperatore                    32
  Tradimento che si ordisce contro Venezia                     33
  Baraguay d'Hilliers s'impadronisce di Bergamo                34
  Podestà Ottolini                                             34
  Congregazione segreta in Milano                              34
  Landrieux                                                    34
  Segretario Stefani                                           34
  Avvocato Serpieri                                            34
  Membri della congregazione segreta                           35
  Battaglia provveditore                                       35
  Rivoluzione in Bergamo                                       36
  Lefevre comandante                                           37
  Scaccia Ottolini da Bergamo                                  38
  Rivoluzione di Brescia                                       40
  Vincenti                                                     40
  Incertezze del Battaglia                                     41
  Scrive a Buonaparte                                          41
  Antonio Niccolini conduce gente contro Brescia               42
  Mocenigo podestà                                             42
  Minaccie di Lecchi                                           43
  Battaglia cede                                               43
  Mocenigo fugge                                               43
  Pisani stato molto tempo nei piombi                          43
  Querele del Senato                                           44
  Pesaro e Corner mandati a Buonaparte                         44
  Risposta di questi                                           45
  Minaccia di Landrieux                                        45
  Risposta di uno del direttorio al nobile Querini             46
  Lusinghe di Kilmaine                                         48
  Rivoluzione di Crema                                         49
  L'Hermite a Crema                                            50
  Gambazocca, Asperti, Locatelli, Romini                       50
  Differenza tra Brescia e Bergamo                             51
  Insidie contro Verona                                        52
  Il capitano Pico                                             52
  Schiavoni mandati a Verona                                   53
  Giovanelli ed Erizzo provveditori                            53
  Conte Francesco degli Emili                                  53
  Conte Verità e conte Valenza                                 54
  Due Castelli come taglieggiato                               54
  Fatto di Salò                                                55
  Cicogna provveditore                                         55
  I popoli Veneti si armano                                    56
  Falso manifesto attribuito al Battaglia                      57
  Salvadori n'è l'autore                                       57
  Termometro politico, giornale                                58
  Minaccie di Lahoz                                            60
  Dimostrazioni ostili di Buonaparte contro Venezia            62
  Junot mandato a Venezia                                      62
  Lettera di Buonaparte al doge                                63
  Risposta del doge                                            65
  Altre insolenti calunnie di Buonaparte                       65
  Sue proposte alla repubblica fatte da Lallemand              67
  Risposta del senato                                          69
  Francesco Donato e Leonardo Giustiniani mandati a
    Buonaparte                                                 70
  Avvisi dell'ambasciatore Grimani                             70
  Altri del Querini                                            71
  Vissovich e sue fraudi                                       71
  Ingiustizia del direttorio contro Querini                    73
  Fermenti nel Veronese                                        74
  Capitano Carrere                                             75
  Prete Malenza                                                75
  Generale Balland                                             76
  Sollevazione di Verona                                       76
  Giovanelli provveditore                                      80
  Capitano Caldogno e conte Nogarola                           81
  Predica di Luigi Colloredo cappuccino                        84
  Laugier vuole entrare con legno armato nel porto di
    Venezia                                                    90
  Domenico Pizzamano                                           90
  Il legno Francese assaltato dagli Schiavoni                  91
  Trattative per Verona                                        92
  Verona si arrende                                            95
  Il cappuccino Colloredo decapitato                           96
  Rapine dei Francesi in Verona                                96
  Bouquets commissario di guerra                               97
  Verona taglieggiata                                          97
  Lahoz fa rivoltar Vicenza                                    97
  Furibonda lettera di Buonaparte                              99
  I tre inquisitori e il comandante del Lido carcerati        100
  Donato e Giustiniani a Buonaparte                           100
  Risposta che loro dà                                        101
  Intima guerra a Venezia                                     103
  Apprestamenti di Venezia                                    105
  Adunanza in casa del doge Manin                             106
  Parole del doge                                             106
  Il cavalier Dolfin                                          106
  Francesco Pesaro                                            107
  Zaccaria Vallaresso                                         107
  Giuseppe Priuli e Niccolò Erizzo                            107
  Parole del procurator Pesaro                                108
  Il doge in gran consiglio                                   109
  Pietro Antonio Bembo                                        112
  Fermezza di Angelo Giustiniani                              113
  Commozioni in Venezia                                       115
  Giovan Andrea Spada                                         115
  Tommaso Pietro Zorzi                                        116
  Gallino, Giuliani, Sordina, Dandolo                         116
  Doge Manin                                                  116
  Pietro Donato                                               116
  Francesco Battaglia                                         116
  Tommaso Condulmer                                           116
  Priuli, Erizzo                                              117
  Villetard mette astio in Venezia                            117
  Perfidia di Buonaparte                                      121
  Capitoli di Venezia                                         122
  Terrore nel gran consiglio                                  125
  L'aristocrazìa abolita in Venezia                           126
  Dolore del popolo                                           128
  Sorte di un pizzicagnolo                                    128
  I Francesi in Venezia                                       129
  Trattato di pace tra la repub Francese e Veneziana          130
  Buonaparte scrive a Faipoult a Genova                       134
  Rusca, Serrurier, Brueys si accostano a Genova              135
  Genova in pericolo                                          135
  Agostino Spinola bandito                                    135
  Speziale Morando                                            136
  Vitaliani da Napoli                                         136
  Saliceti a Genova                                           136
  Filippo Doria                                               137
  Tumulto in Genova                                           137
  Le prigioni dischiuse                                       140
  Sollevazione del popolo                                     142
  Caso di uno schiavo turco                                   143
  Giacomo Brignole doge                                       144
  Intimazioni di Buonaparte a Genova                          145
  Ridomanda la mutazione del governo                          149
  Rusca verso Genova                                          150
  Serrurier                                                   150
  Brueys dinanzi al porto                                     151
  Cambiaso, Carbonara e Serra a Buonaparte                    152
  Pensieri di Buonaparte                                      153
  Capitoli tra Francia e Genova                               153
  Capi del nuovo governo                                      155
  Vitaliani predica la libertà                                156
  I nobili si nascondono                                      156
  Giancarlo e Gerolamo Serra                                  157
  Libro d'oro abbruciato                                      157
  Statua di Andrea Doria                                      158
  Condizione di Genova                                        159
  Feudi imperiali chiamati Monti Liguri                       160
  Prete Cuneo                                                 161
  Persone chiamate a comporre la Costituzione                 162
  Solari, vescovo di Noli                                     163
  Riforme religiose in Genova                                 163
  Avvocato Boccardi mandato a Parigi                          164
  Rivarola e Spinola richiamati da Parigi e da Londra         164
  Decreto estorsivo come sentito                              164
  Rapine de' Barbareschi contro Genova                        166
  Casabianca e Duphot generali Francesi in Genova             166
  Sette in Genova                                             167
  Nobili arrestati                                            168
  Popolazioni di Bisagno si levano                            168
  Duphot va ad incontrarli                                    169
  Frate Pezzuolo e Marcantonio da Sori                        169
  Sollevazione in Polcevera                                   169
  Il governo tratta coi sollevati                             170
  I sollevati sono battuti da Duphot e Seras                  171
  Faipoult accusa Serra a Buonaparte e Serra accusa
    Faipoult e Duphot                                         172
  Generale Lannes a Genova                                    173
  Nuova costituzione di Genova                                173
  Beniamino Constant                                          174
  Sottin sostituito a Faipoult                                175
  Faccende di Piemonte                                        176
  Insinuazioni del conte Balbo a Parigi                       177
  Lettere di Buonaparte sugli Italiani                        184
  Trattato tra Francia e Sardegna e opposizioni che incontra  186
  Talleyrand                                                  189
  Conte di Castellengo                                        192
  Donino e Pasio arrestati                                    193
  Moti a Novara e a Fossano                                   193
  Boyer e Berteux arrestati                                   194
  Altri moti in Racconigi, Carignano, Chiari e Moretta        194
  E in Asti                                                   194
  Conte Avogadro a Biella                                     194
  Moncalieri si solleva                                       196
  Carlo Tenivelli, storico, suoi casi                         196
  Condannato a morte                                          199
  Provvisioni sul caro dei viveri                             201
  Diritti feudali soppressi                                   203
  I sollevati rimessi in obbedienza                           203
  Lettere di Buonaparte                                       204
  Ranza arrestato                                             204
  Supplizj in Piemonte                                        205
  Goveano fatto morire contro la fede                         206
  Beyer e Berteux mandati al supplizio                        207
  Pensieri di Buonaparte                                      209
  Moti tra i Cisalpini, Termometro politico                   211
  Società di pubblica istruzione                              212
  Discorsi che vi si fanno                                    212
  Condizione degli stati d'Italia                             215
  Giuseppe Buonaparte e suo detto sui Romani                  215
  Tumulti in Valtellina                                       216
  Buonaparte dà una costituzione alla Cisalpina               217
  Padre Gregorio Fontana                                      218
  Serbelloni, Moscati, Paradisi e Alessandri preposti al
    governo della Cisalpina                                   219
  Altre persone e corpi governativi                           219
  Festa nel Lazzaretto                                        220
  Parole di Serbelloni                                        222
  Giuramento dei popoli                                       223
  Decreto del direttorio Cisalpino                            224
  Società di pubblica instruzione fatta chiudere              225
  Bologna, Imola, Ferrara si uniscono alla Cisalpina          225
  Altre aggregazioni                                          226
  Cardinal Chiaramonti                                        227
  Predica in favore della democrazìa                          227
  Visconti ambasciatore della Cisalpina a Parigi              231
  La Cisalpina riconosciuta da varj stati                     233
  Marescalchi mandato a Vienna                                235
  Consigli della Cisalpina da chi composti                    236
  Francesco Gianni                                            236
  Lettera di Buonaparte alla Cisalpina                        237
  Insidie dei re contro la Francia                            239
  Pichegru                                                    239
  Barthelemì, Carnot                                          240
  Barras                                                      240
  Il diciotto fruttidoro, i congiurati o fugati, o mandati
    in esilio                                                 242
  L'Austria tenta Buonaparte                                  242
  Buonaparte inganna i principi                               245
  Disegni di Barras                                           245
  Conte d'Entraigues arrestato                                246
  Fugge da Milano                                             247
  Espressione di Buonaparte che discuopre la sua ambizione    248
  Trattato di Campoformio                                     249
  Impertinenti detti di Talleyrand                            251
  Condizione di Venezia                                       254
  Giuliani e Dandolo                                          254
  Vidiman e Jablovitz                                         254
  Victor generale                                             256
  Savonarola                                                  256
  Padovani negano l'acqua dolce a Venezia                     257
  I Tedeschi s'impadroniscono dell'Istria                     257
  Moti in Dalmazia                                            258
  Sollevazione di Traù e di Sebenico                          259
  Querini                                                     259
  Zara in mano degli Austriaci                                260
  Affezione de' soldati al vessillo di san Marco              260
  Tutta la Dalmazia in potere de' Tedeschi                    261
  Querele dei municipali                                      261
  I Francesi pensano ad aversi le isole Joniche               263
  Brueys                                                      263
  Vidiman governatore di Corfù                                263
  Baraguey d'Hilliers                                         265
  Generale Gentili                                            266
  Bourdè, capitano di nave                                    266
  Arnauld                                                     266
  Francesi sbarcano a Corfù                                   267
  Rapine                                                      268
  Le altre isole in poter dei Francesi                        268
  Schifose menzogne di Buonaparte                             269
  Teotochi e Scordilli capi di parte                          270
  Rapporto di Arnauld                                         271
  Effetti dell'arrivo dei Francesi in Corfù                   271
  Sordina, arriva a Corfù                                     272
  Baraguey d'Hilliers domina in Venezia                       272
  Venezia spogliata dai Francesi                              273
  Cavalli di Lisippo                                          275
  Leoni del Pireo                                             275
  Tesoro del duca di Modena                                   276
  I _Romani in Grecia_ del Barzoni                            277
  Barzoni vuole uccidere Villetard                            278
  Generosità di Villetard                                     279
  Festa funerea a Venezia                                     279
  La stessa festa proibita da Bernadotte in Udine e perchè    282
  Crudeltà di Guyeux                                          282
  Giuseppina Buonaparte a Venezia                             283
  Pratiche dei Veneziani per unirsi colla terraferma          284
  Berthier rompe il congresso                                 285
  Venezia vuole unirsi alla Cisalpina                         285
  Detti obliqui di Buonaparte                                 286
  Tiene Vicentino                                             286
  De Angeli e Buonaparte                                      286
  La vendita di Venezia fatta manifesta                       287
  Generosa risoluzione di Vidiman                             290
  Lettera di Villetard a Buonaparte                           292
  Risposta di Buonaparte                                      294
  Altra lettera di Villetard                                  296
  Deliberazione dei Veneziani                                 298
  Serrurier e suoi atti barbari                               298
  Consegna Venezia agli Austriaci                             300
  Spogliazioni di Roma                                        300
  Cacault, ministro del direttorio in Roma                    301
  Il papa vuol condurre a' suoi soldi il generale Provera     302
  Teofilantropia cosa fosse                                   303
  Giuseppe Buonaparte ministro a Roma                         303
  Duphot e Sherlock                                           304
  Tumulto in Roma                                             306
  Duphot ucciso                                               307
  Giuseppe Buonaparte parte da Roma                           310
  Il direttorio dichiara la guerra al papa                    311

  1798

  Berthier marcia contro Roma                                 311
  Suo manifesto                                               312
  Umori in Roma                                               314
  Duca Braschi                                                316
  Cardinale Lorenzana                                         318
  Principe Belmonte Pignatelli                                319
  Cavaliere Azara                                             319
  I repubblicani entrano in Roma                              319
  Albero della libertà in Campo Vaccino                       320
  Atto del popolo Romano che si dichiara libero               320
  Condizione del pontefice                                    322
  È menato prigioniero                                        324
  Terremoto in Siena                                          325
  Rapine in Roma e nei contorni                               326
  Villa Albani saccheggiata                                   329
  Ostensorio ricchissimo                                      330
  Esequie a Duphot                                            331
  Miserie dell'esercito                                       332
  Estorsioni di Massena e di Haller accusate                  332
  Ripiego di Massena                                          333
  Gli ufficiali gli negano obbedienza                         333
  Insurrezione dei Romani                                     334
  Cardinali perseguitati                                      335
  Commissarj Francesi a Roma                                  336
  Costituzione Romana                                         336
  Breve lodevolissimo del papa                                338
  L'arcivescovo di Nassanzio cambia di sua autorità il
    breve                                                     340
  Festa della confederazione in Roma                          341


FINE DELL'INDICE


PUBBLICATO IL 16 AGOSTO 1833



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (anarchia/anarchìa e simili), correggendo senza
annotazione minimi errori tipografici.





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