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Title: Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI
Author: Botta, Carlo
Language: Italian
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                           STORIA D'ITALIA

                          DAL 1789 AL 1814


                               SCRITTA
                           DA CARLO BOTTA

                               TOMO VI



                              CAPOLAGO
                         _presso Mendrisio_
                        Tipografia Elvetica

                            MDCCCXXXIII



STORIA D'ITALIA



LIBRO VIGESIMOTERZO

SOMMARIO

      Guerra di Napoleone col re di Prussia; gran ruina di
      quest'ultimo. Adulazioni degl'Italiani verso Napoleone.
      Trattato di Fontainebleau, che toglie il Portogallo ai
      Braganzesi. Toscana tolta alla stirpe di Spagna, ed unita alla
      Francia sotto l'autorità di Elisa, sorella di Napoleone.
      Operazioni della giunta creata in Toscana. Descrizione delle
      miserie d'Italia. Opere magnifiche di Napoleone. Toglie la
      Spagna ai Borboni. Giovacchino re di Napoli, Giuseppe di
      Spagna. Giovacchino va ad assumere il regno, feste che gli si
      fanno, principj, e natura del suo governo. Setta dei
      Carbonari, come, quando, dove e perchè nata, e quali erano i
      suoi riti. Napoleone si volta contro il papa, unisce le Marche
      al regno Italico, occupa Roma, fa oltraggio al papa:
      protestazioni fortissime di Pio settimo. Dolorose vicende
      nelle Marche per motivo dei giuramenti richiesti ai magistrati
      ed agli ecclesiastici.


Il re Federigo sentiva i frutti delle gratitudini Napoleoniche. Vinta
l'Austria per avere la Prussia imprudentemente tenuta la neutralità,
insorgeva Napoleone a vincere la Prussia, dopo di aver prostrato
l'Austria. Usò le insidie, le insolenze e le usurpazioni per farla vile
agli occhi del mondo; poi assalti più aperti per farla risentire, non
dubitando di vincerla. Invase l'Hannover, ed operò ch'ella l'accettasse
in proprietà, dono funesto per la riputazione, funesto per gli effetti.
Offese la Germania nel caso del duca d'Anghienna; non risentissi la
Prussia. Portò pazientemente il re l'incoronazione Italica, l'unione di
Genova, il fatto di Lucca, le non ottenute promesse al re di Sardegna:
portò pazientemente la carcerazione dei legati d'Inghilterra sui
territorj Germanici, le taglie poste sulle città anseatiche, le
violazioni delle terre d'Anspach e di Bareit. Di mezza Germania si
faceva signore Napoleone per la confederazione del Reno: consentiva il
re Federigo, ed accettava l'offerta di una confederazione a suo favore
della settentrionale Germania; ma Napoleone confortava segretamente i
principi, acciò non vi consentissero. Nè più modo alcuno serbando,
toglieva Fulda al principe d'Orangia, congiunto di parentela col re,
toglieva al re la fortezza di Vesel, e le abbazìe di Essen, Verden ed
Elten. Prometteva alla Prussia la Svedese Pomerania, ed al tempo stesso
con solenne trattato si legava colla Russia per impedire, che la Prussia
della Pomerania s'impadronisse: il dato ed accettato Hannover offeriva
al re d'Inghilterra, se pace con lui volesse. Nuovi soldati Napoleoniani
marciavano in Germania. Conobbe il re con quale amico avesse a fare, e
corse all'armi: corse altresì al ferro Napoleone. Bene il poteva usare,
posciachè il re veniva armato contro di lui; ma gl'improperj che fece
dire e stampare contro la regina, furono tali, che ogni uomo, che del
tutto non sia lontano dalla civiltà, non potrà non sentirne sdegno e
fastidio. Io vidi a questo tempo immagini di tal natura nei luoghi
pubblici in mostra, che mi pareva aggirarmi, non nell'incivilito Parigi,
ma sì piuttosto in una città rozza e selvaggia. Luisa era donna, regina,
ed amatrice della sua patria, ed all'armi gli amatori della sua patria
incitava: per questo diventò bersaglio agli oltraggi di un barbaro.
Queste gravi parole contro Napoleone appruoveranno coloro, che con sì
devoto e patrio affetto hanno alzato gli altari alla Domremese vergine;
di quelli, che fanno scherno dei difensori delle loro patrie, non è da
prender pensiero.

Vinse la fortuna di Napoleone. Fu la Prussia prostrata a Iena, fu
prostrata a Maddeburgo ed a Prenslavia. Berlino, capitale dei regno, le
fortezze tutte, dominando uno scompiglio ed un terrore estremo, vennero
in potere del vincitore. Questo fine ebbero le armi animosamente mosse
dal re Federigo per stimolo proprio, e per quelli d'Alessandro di
Russia. Arrivava Alessandro imperatore con le sue schiere in ajuto del
vinto amico; ma Napoleone sopravvanzava d'ardire, di forza e di arte. Fu
asprissima la battaglia di Eylau, e d'esito incerto. Incrudelita la
stagione, ritiraronsi i Francesi di qua della Vistola, i Russi di là
della Pregel. Intiepiditosi il tempo al nuovo anno, s'avventavano gli
uni contro gli altri Francesi e Russi: vari furono i combattimenti,
sanguinosi tutti; infine nei campi di Fridlandia conflissero con
ordinanza piena i due nemici. Quivi cadde la fortuna Russa. Napoleone
vincitore ai confini di Alessandro sovrastava: addomandava Alessandro i
patti. Narrano che i due imperatori nelle conferenze più segrete tra di
loro si spartissero il mondo: avessesi Napoleone quella parte che è
compresa da un lato tra una linea tirata dalla foce della Vistola sino
all'isola di Corfù, dall'altro tra le spiagge del Baltico, dell'Oceano,
del Mediterraneo e dell'Adriatico: avessesi Alessandro il rimanente.
Quale di questo sia la verità, convennero sulle sponde del Niemen in
trattato aperto: riconobbe Alessandro il nome e la autorità regia in
Giuseppe Napoleone, come re di Napoli, ed in Luigi Napoleone, come re
d'Olanda; consentì, che un regno di Vestfalia si creasse, ed in Girolamo
Napoleone, fratello minore di Napoleone, s'investisse, accordò che un
ducato di Varsavia si creasse, e che duca ne fosse Federigo Augusto di
Sassonia: riconobbe la Renana confederazione: stipulò per articolo
segreto, che le bocche di Cattaro si sgombrassero dai Russi, e si
consegnassero in potestà di Napoleone. Convenne in fine, che le sette
isole Ioniche cedessero in possessione del medesimo, stipulazione
enorme, perchè la independenza loro era stata accordata tra la Russia e
la Porta Ottomana, nè poteva l'opera di due parti essere disfatta da una
sola.

I fatti di guerra di Napoleone superavano per grandezza quanti dalle
lingue o dalle penne degli uomini siano stati mandati alla memoria dei
posteri. L'avere vinto con sì grossa e presta guerra l'Austria, poi poco
dopo con sì grossa e presta guerra la Prussia, finalmente con grossa e
non lunga guerra la Russia, pareva piuttosto accidente favoloso che
vero. Volgevano gli uomini maravigliati nelle menti loro la potenza ed
il valore degli Austriaci, la gloria ancor fresca di Federigo, le
imprese mirabili di Suwarow con la sparsa fama dell'invincibilità dei
Russi, nè potevano restare capaci, come una sola nazione ed un solo
capitano avessero potuto soldati tanto valorosi, capitani tanto rinomati
quasi prima vincere che vedere. Temeva ed adorava il mondo Napoleone, i
principi i primi, anche i più potenti, i popoli i secondi. Non v'era più
luogo all'adulazione; perchè le lodi, per smisurate che fossero,
parevano minori pel vero, nè i poeti più famosi, quantunque con ogni
nervo vi si sforzassero, potevano arrivare a tanta altezza. I poeti il
chiamavano Giove, i preti braccio di Dio, i principi fratello e signore.

Un mezzo solo gli restava per accrescere la gloria acquistata; quest'era
di usarne moderatamente; che se avesse frenato le lingue dell'età
adulatrice, e precipitantesi a servitù, bene avrebbe meritato che le
adulazioni lodi si chiamassero; ma amò meglio dilettarsi pruovando
quant'oltre potesse trascorrere la viltà degli uomini, che fare generoso
se ed altrui. Lascio le adulazioni Francesi, Austriache, Prussiane,
Russe, solo parlerò dell'Italiane. A questo fine dell'adulare erano
stati chiamati a Parigi i deputati del regno Italico. Gamboni, patriarca
di Venezia, favellava, introdotto all'udienza nell'imperial sede di San
Clodoaldo, con servilissimo discorso al signore. Venire gl'Italiani a
far tributo ai suoi piedi dell'ammirazione, dei desiderj, dell'amore,
della fedeltà loro; godere per essere i primi a potere questo debito
adempire verso l'eroe, verso il principe potente ed amatissimo, nissuno
più degl'Italiani amarlo, nissuno con pari gratitudine venerarlo: avere
lui redento la Francia, ma creato l'Italia: avere gl'Italiani pregato il
cielo per la salute sua nei pericoli, ringraziarlo ora per le vittorie,
ringraziarlo per la pace: benignamente udisse le supplichevoli preghiere
dei sottomessi ed amorosi Italiani: gisse, venisse, vedesse quell'Italia
da tanto bassamento alzata, da tanta abiezione ricompra, a tanto
fortunate sorti avviata. Questo desiderare, questo instantemente
supplicare, questo sperare dalla paterna benevolenza sua, questo essere
la più compita, la più suprema felicità loro.

Rispose, gradire i sentimenti de' suoi popoli d'Italia: con piacere
avergli veduti combattere valorosamente sulla scena del mondo: sperare,
che sì fausto principio avrebbe consenziente fine. In questo luogo egli,
che aveva contaminato con ischerni una valorosa donna, solo perchè
contro di lui la sua patria aveva amato e difeso, venne in sul dire, che
le donne Italiane dovevano allontanare da se stesse gli oziosi giovani,
nè permettere che più languissero negl'interni recessi, o comparissero
al cospetto loro, se non quando portassero cicatrici onorevoli.
Soggiunse poscia, vedrebbe Venezia volentieri, sapere quanto i Veneziani
l'amassero. Sorse in corte un gran parlar di lode pel discorso di
Napoleone: tutti il predicarono per molto bello. Quella parte
massimamente che aveva toccato dell'amor dei Veneziani verso di lui, era
molto commendata.

Accarezzato dai monaci del Cenisio; festeggiato dai Torinesi testè
liberati da Menou, al quale era succeduto, come governator generale, il
buon principe Camillo Borghese, arrivava Napoleone trionfante nella
reale ed accetta Milano. Le feste furono molte; i soldati armeggiavano,
i poeti cantavano, i magistrati lusingavano, i preti benedicevano.
Trattò Melzi molto rimessamente, perchè non ne aveva più bisogno; perchè
poi fosse meglio rintanato, il creò duca di Lodi. Dolsimi in queste
storie di molte funeste cose, e di molte ancora dorrommi, ma di niuna
più mi doglio o dorrommi, che dello aver veduto contaminato dai soffi
Napoleonici un Melzi.

Ed ecco che Napoleone arriva a Venezia. Luminaria per tutta la città; di
notte il canal grande chiaro come di giorno; la piazza di San Marco più
chiara del canale; regata, balli, teatri, e quel che è peggio, plausi di
voci e di mani. Si mostrò lieto, e contento in volto. Ciò non ostante
aveva paura di essere ucciso; Duroc, gran maestro del palazzo, fu più
diligente del solito nel visitar cantine e cisterne. Alcuni Veneziani si
aggirarono intorno al signore con fronte lieta e serena. L'età portò,
che brutto e splendido servire più piacesse, che vita onorata ed oscura.

Tornato a Milano udiva i collegi, ed ai collegi parlava. Accusò gli
antenati, parlò di patria degenere dall'antica; affermò molto aver fatto
per gl'Italiani, molto più voler fare; ammonigli, stessero congiunti con
Francia; ricordò loro, che da quella ferrea corona si promettessero
l'independenza. Corsa trionfalmente la Lombardìa, nuovi Italici pensieri
gli venivano in mente, e gli mandava ad esecuzione: sotto il suo dominio
da ruina nasceva ruina. Aveva, a cagione che il principe reggente di
Portogallo si era ritirato dal voler fare contro gl'Inglesi tutto quello
ch'egli avrebbe voluto, per un trattato sottoscritto a Fontainebleau con
un ministro di Spagna, tolto il Portogallo a' suoi antichi signori, che
vi erano ancora presenti, e dato in potestà di nuovi. Per esso si
accordarono la Francia e la Spagna, che la provincia del Portogallo tra
Mino e Duero, colla città di Porto, cedessero in proprietà e sovranità
del re d'Etruria, ed egli assumesse il nome di re della Lusitania
settentrionale; che l'Algarve si desse al principe della Pace con titolo
di principe dell'Algarve, che il Beira ed il Tramonti, e l'Estremadura
di Portogallo si serbassero sequestrate sino alla pace; che il re
d'Etruria cedesse il suo reame all'imperator dei Francesi; che un
esercito Napoleonico entrasse in Ispagna, e congiuntosi con lo Spagnuolo
occupasse il Portogallo. Covava fraude contro Portogallo, fraude contro
Spagna per l'introduzione dei Napoleoniani. I Braganzesi, avuto notizia
del fatto, e non aspettata la tempesta, s'imbarcarono pel Brasile sopra
navi proprie ed Inglesi. Napoleone levò un gran romore della partenza,
ed imputò loro a delitto l'essere fuggiti, come diceva, con Inglesi,
come se in servitù di lui fossero stati obbligati a restare.

Il dì ventidue novembre i ministri di Spagna e di Francia, nelle stanze
di Maria Luisa, regina reggente di Toscana, entrando, le intimarono,
essere finito e ceduto a Napoleone il suo Toscano regno, e che in
compenso le erano assegnati altri stati da godersegli col suo figliuolo
Carlo Lodovico. Fu a questa volta taciuta la parola perpetuamente; il
che se indicasse sincerità o dimenticanza, io non lo so. Restava, che ad
un comandamento fantastico succedesse una umiltà singolare. Significava
la regina a' suoi popoli, essere la Toscana ceduta all'imperator
Napoleone; ad altri regni andarsene: ricorderebbesi con diletto del
Toscano amore, rammaricherebbesi della separazione, consolerebbesi
pensando, passare una nazione sì docile sotto il fausto dominio di un
monarca dotato di tutte le più eroiche virtù, fra le quali, per servirmi
delle stesse parole che usò la regina, dette così com'erano alla
segretariesca, fra le quali campeggiava singolarmente la premura la più
costante di promuovere ed assicurare la prosperità dei popoli ad esso
soggetti. Non seguitò la regina reggente in Toscana le vestigia
Leopoldiane, anzi era andata riducendo lo stato a governo più stretto, e
più compiacente a Roma. Arrivò il generale Reille a pigliar possesso in
nome dell'imperatore e re; i magistrati giurarono obbedienza; cassaronsi
gli stemmi di Toscana, rizzaronsi i Napoleonici: arrivava Menou Egiziaco
a scuotere le Toscane genti; Napoleone trionfatore, tornando a Parigi,
tirava dietro le sue carrozze quelle di Maria Luisa, e di Carlo
Ludovico.

L'asprezza di Napoleone, e la natura rotta e precipitosa di Menou
mitigava in Toscana una giunta creata dal nuovo sovrano, e composta di
uomini giusti e buoni, fra i quali era Degerando, che solito sempre a
sperare, a supporre, ed a voler bene, credeva che l'imperatore fosse
fatto a sua similitudine. Avevano il difficile carico di ridurre la
Toscana a forma Francese. Erano in questa bisogna alcune cose
inflessibili, alcune pieghevoli. Si noveravano fra le prime gli ordini
giudiziali, amministrativi e soldateschi: furono introdotti nella nuova
provincia senza modificazione: degli ultimi non potevano i Toscani darsi
pace, parendo loro cosa enorme, che dovessero andar alle guerre
dell'estrema Europa per gl'interessi di Francia, o piuttosto del suo
signore. S'adoperava la giunta, non senza frutto, a far che la nuova
signorìa meno grave riuscisse. Primieramente la tassa fondiaria,
opinando in ciò molto moderatamente Degerando, fu ordinata per modo che
non gettasse più del quinto, nè meno del sesto della rendita. Non
trascurava la giunta le commerciali faccende. Pel cielo propizio volle
tirarvi la coltivazione del cotone, e per migliorar le lane diede favore
al far venir pecore di vello fino nelle parti montuose della provincia
Sanese. Delle berrette di Prato, dei capelli di paglia, degli alabastri,
e dei coralli di Firenze e di Livorno, parti essenziali del Toscano
commercio, con iscuole apposite, con carezze, e con premj particolar
cura aveva. Domandò a Napoleone, che permettesse le tratte delle sete
per Livorno, provvedimento utilissimo, anzi indispensabile per tener in
fiore le manifatture dei drappi, e la coltivazione dei gelsi nella nuova
provincia. Richiese anche dal signore, che concedesse una camera di
commercio a Livorno, a guisa di quella di Marsiglia, acciocchè i
Livornesi potessero regolare da se, e non per mezzo dei Marsigliesi, le
proprie faccende commerciali: non solo buona, ma sincera e
disinteressata supplica fu questa della giunta, perchè dava contro
Marsiglia. Per queste deliberazioni si mirava a conservar salvo il
commercio del Levante con Livorno.

I commodi di terra pressavano nei consigli della giunta, come quei di
mare. Supplicava all'imperatore, aprisse una strada da Arezzo a Rimini,
brevissima fra tutte dal Mediterraneo all'Adriatico; ristorasse quella
di Firenze a Roma per l'antica via Appia, dirizzasse quella da Firenze a
Bologna pel Bisenzio e pel Reno, terminasse finalmente quella, che
insistendo sull'antica via Laontana, da Siena porta a Cortona, Arezzo e
Perugia. Nè gli studj si omettevano; consiglio degno del dotto e dabben
Degerando. Ebbero quei di Pisa e di Firenze con tutti i sussidj loro
ogni debito favore: ebberlo le accademie del Cimento, della Crusca, del
Disegno, dei Georgofili: feconda terra coltivava Degerando, e la feconda
terra ancora a lui degnamente rispondeva, dolci compensi di un amaro
signore.

Arrivava gennajo intanto: cessava la giunta l'ufficio, dato da Napoleone
il governo di Toscana ad Elisa principessa, gran duchessa nominandola.
La quale Elisa o per natura, o per vezzo, simile piuttosto al fratello,
che a donna, si dilettava di soldati, gli studj e la Toscana fama assai
freddamente risguardando. A questo modo finì la Toscana patria, passata
prima da repubblica nei Medici per usurpazione, poi dai Medici negli
Austriaci per forza dei potentati, ai quali piacque quella preda per
accomodar se medesimi, dileguatasi finalmente e perdutasi del tutto
nell'immensa Francia.

Similmente, ed al tempo stesso Napoleone univa all'impero il ducato di
Parma e Piacenza, dipartimento del Taro chiamandolo. Restavano ai
Borboni di Parma le speranze del Mino e del Duero.

Non so, se chi avrà fin qui letto queste nostre storie, avrà quanto
basta, posto mente alle miserie d'Italia. Il Piemonte due volte
repubblica, due volte regno, tre volte sotto governi temporanei,
calpestato dagli agenti repubblicani sotto il re e sotto il primo
governo temporaneo, straziato dagli agenti imperiali, Russi ed Austriaci
sotto il secondo, conculcato dagli agenti consolari sotto il terzo:
sorti sempre incerte, predominio di opinioni diverse, interessi rovinati
ora di questi, ora di quelli, affezioni tormentate: quando una radice di
sanazione incominciava a spuntare in una ferita, violentemente era da
maggior ferita svelta: la dolorosa vece più volte rinnovossi; squallido
diventato un paese fioritissimo; aspettavasi la libertà; un dispotismo
disordinato e sfrenato sopravvenne; molti anni durò, finalmente in
dispotismo metodico cambiossi. Parevano più certe le sorti; pure ancora
restavano nelle menti i vestigi dei passati mali, e le non riparate
rovine attestavano le spesse e violenti mutazioni. Genova tre volte
cambiata sotto forma di repubblica, spaventata continuamente dal romore
delle presenti armi, conculcata dagl'Inglesi per mare, dai Francesi, dai
Russi e dai Tedeschi per terra, ora in nome dei diritti dell'uomo, ed
ora in nome del governo legittimo, desolata dall'assedio, desolata dalla
pestilenza, obbligata a spendere per violenza quello, che aveva
acquistato per industria, non aveva più forma alcuna di corpo sano:
dieci secoli d'independenza, dopo quindici anni di martirio si
terminarono nella dura soggezione di un capitano di guerra. Milano
ricca, prima spogliata dai repubblicani, poi dai loro nemici, prima
repubblica senza nome, poi repubblica ora con un nome ed ora con un
altro, quindi provincia Tedesca sotto nome di reggenza imperiale, poi
provincia Francese sotto nome di regno Italico, sempre conculcata,
sempre serva, cedè finalmente in potestà di colui, che credeva il più
prezioso frutto delle sue conquiste essere il poter risuscitare la
corona di ferro di Luitprando, ed il serpente dei Visconti. Di Venezia
poche cose dirò, poichè dopo tante stragi, tanti oltraggi, tante
espilazioni, o provincia Francese, o provincia Tedesca, conobbe di che
sapessero le due servitù. Perivano ogni giorno più i segni della
generosità di Dutillot nella tormentata Parma, che accarezzata sotto il
duca in parole pei fini di Spagna, taglieggiata in fatto per un'avarizia
indomabile, vessata in fine dai Napoleonici capricci sotto San Mery, e
molto più ancor sotto Junot, s'incamminava, da servitù in servitù
passando, a sperimentare quanto valessero a sanare le ricevute ferite il
concorrere ed il ricorrere al lontano Parigi. La Toscana ebbe più gran
miscuglio di correrìe e di saccheggi stranieri, di sollevazioni
intestine, di reggimenti temporanei, ora repubblicani tumultuarj, ed ora
imperiali tumultuarj, parecchie reggenze sotto vario nome, re giovani e
re bambini, ora capitani da guerra con somma autorità, ora principi
Austriaci, ora principi Borbonici, ed ora Elisa principessa: soldati
Napolitani, Francesi, Russi, Tedeschi, Italiani, incomposta e
pestilenziale illuvie: i tempi Napoleonici guastavano i Leopoldiani.
Roma rossa di sangue di legati Francesi, rossa di Romano sangue versato
a difesa delle patrie leggi, rossa d'Italiano sangue non versato a
difesa dell'Italiana patria, saccheggiata, conculcata, straziata da
tutti, non sapeva più chi amico, o chi nemico chiamar potesse. Francesi,
Tedeschi, Russi, Cisalpini, Napolitani, e, se Dio ne salvi, Turchi, con
la cupidigia e con le armi loro a vicenda l'assalirono: i tempj
profanati, i sacri arredi involati, i musei posti a ruba, le pitture di
Raffaello guaste dalle soldatesche barbare; pure e questi e quelli
dicevano volere la Romana felicità. Vide Roma un governo papale servo,
una repubblica serva, un governo papale con ingannevoli apparenze
restituito: vide un papa vinto, un papa tributario, un papa cattivo, un
papa ito all'incoronazione del suo nemico: vide preti adulatori di
Turchi, papisti adulatori d'Inglesi, repubblicani veri adulatori di
repubblicani falsi, amatori di libertà adulatori di tiranni: fuvvi
illusione da una parte, fraude dall'altra, e tra l'illusione e la fraude
nacque un inganno, una chimera, un pensare a caso tale che è pur forza
il confessare, che sia forte negli uomini l'istinto di star insieme,
perchè senza di lui la Romana gente o si sarebbe dispersa a vivere nelle
selve o vissuta insieme solo per ammazzarsi con le proprie mani. Credo
che più tormentosi sperimenti sopra le infelici nazioni non siano stati
fatti mai, come quelli che sopra i Romani furono fatti. L'aver
sopravvissuto pare miracolo. Ma se maggiori mali soffrire non potevano,
a maggiori scandali erano serbati dai cieli, siccome sarà da noi a suo
luogo con dolente e disdegnosa penna raccontato. Pareva che la monarchìa
avesse a portar più rispetto ai monarchi, ma fece peggio che la licenza.
Così se ne viveva Roma desolata: povero l'erario, poveri i particolari:
gli ornamenti perduti, gli animi divisi, ogni cosa piena di vendetta.
Non so con quali parole io mi accinga a favellar di Napoli, perchè gli
uomini simili al cielo, le benevolenze estreme che toccano la illusione,
le nimicizie estreme che toccano la ferocia: congiure, guerre civili,
guerre esterne, incendj, rovine, tradimenti, supplizj di gente virtuosa
e di gente infame, ma più di virtuosa che d'infame. A questo atti
eroici, coraggi indomiti, amicizie fedelissime anche nelle disgrazie,
temperanza cittadina anche nella povertà, pensieri dolcissimi di
fortunata umanità, desiderj purissimi del ben comune: ora regno
ottenebrato da congiure, ora repubblica contaminata da rapine ora regno
pieno di tormenti, ora regno pieno di rapine e di tormenti. Ferdinando
due volte cacciato, una volta tornato; una repubblica serva dei
Francesi, un regno servo degl'Inglesi, una repubblica stabilita a forza
da un soldato, un regno restituito a forza da un prete, quella con
immensa strage di lazzaroni, questo con immensa strage dei repubblicani:
quelli stessi che adulato avevano Championnet repubblicano, o Ferdinando
re, adulare Giuseppe re, e da un'altra parte la croce di Cristo sul
campo medesimo unita alla luna di Macometto, tutte queste cose fanno una
maraviglia tale, che quando saranno chiusi gli occhi e le orecchie di
coloro che le videro e le udirono, nissuno sarebbe più per crederle, se
non fosse la stampa, che ne moltiplica i testimonj.

Nissun ordine buono poteva sorgere da farragine sì dolorosa: perchè ogni
fondamento civile era disordinato, ed i soldati si creavano per altri.
Narrano alcuni che almeno questo accidente buono nascesse nel regno
Italico, che lo spirito militare si risvegliasse, e che buoni soldati si
formassero a benefizio d'Italia. Certamente buoni soldati si creavano
sotto la disciplina Napoleonica; ma mandati a battaglie forestiere, come
amassero l'Italia, e come imparassero a difenderla, io non so vedere; se
forse non si voglia credere, che il rovinare i paesi d'altri, ed il
distruggere le patrie altrui siano pei soldati salutiferi esempj.

La servitù s'abbelliva. In questo Napoleone fu singolarissimo. Opere
magnifiche, opere utilissime sorgevano. Milano massimamente di tutto
splendore splendeva. La mole dell'Ambrosiano tempio cresceva, il foro
Buonaparte si disegnava, e da qualche principio già si conosceva quanto
grandiosa opera avesse a riuscire, se fosse stato condotto a termine.
Eugenio vicerè fomentava i parti più belli dei pittori, degli scultori,
degli architettori; la corte pruomovitrice di servitù, era anche
pruomovitrice di bellezza. Nuovi canali si cavavano, nuovi ponti
s'innalzavano, nuove strade si aprivano. Nè le rocche, nè i dirupi
ostavano; l'umana arte stimolata da Napoleone ogni più difficile
impedimento vinceva. Sorsero sotto il suo dominio, e per sua volontà due
opere piuttosto da anteporsi, che da pareggiarsi alle più belle ed utili
degli antichi Romani; queste sono le due strade del Sempione, e del
Cenisio, le quali aprendo un facile adito tra le più inospite ed alte
roccie d'Italia alla Francia, attesteranno perpetuamente all'età future,
in un colla perizia ed attività dei Francesi, la potenza di chi sul
principiare del secolo decimonono le umane sorti volgeva. Beato egli, se
non avesse corrotto il benefizio colla servitù!

Era arrivato il tempo, in cui i disegni Napoleonici dovevano colorirsi a
danno del re di Spagna; i mezzi pari al fine. Il mettere discordia nella
famiglia reale, il far sorgere sospetto nel padre del figliuolo,
dispetto nel figliuolo verso il padre, il seminar sospetti sopra la
conjugal fede della regina, e al tempo stesso accarezzare chi era
soggetto dei sospetti, e farne stromento alle sue macchinazioni, il
contaminar la fama di una principessa morta, l'esser del sangue di
Carolina di Napoli rinfacciandole, accusar un principe di Spagna delle
Caroliniane insidie, perchè più amava la Spagna che la Francia, fare che
a Madrid e ad Aranjuez ogni cosa fosse sospetta di fraudi e di
tradimenti, e la quieta e confidente vita del tutto sbandirne, furono
arti di Napoleone. La subitezza Spagnuola le ruppe col far re
Ferdinando, e dimetter Carlo; ma Napoleone ravviava le fila: l'accidente
stesso di Aranjuez, che pareva dovere scompigliargli la trama, gli diede
occasione di mandarla ad effetto. Trasse con le lusinghe il re Carlo in
sua potestà a Bajona: restava, che vi tirasse il re Ferdinando; e il vi
tirò. Rallegrossi allora dell'opera compita. Fe' chiamar dal padre il
figliuolo ribelle, fe' chiamar dalla madre il figliuolo bastardo, dalle
gazzette meditatore scelerato della morte del padre, costrinse il padre
ed il figliuolo a rinunziare al regno in suo favore, mandò il padre poco
libero a Marsiglia, il figliuolo prigione a Valençay; nominò, ribollendo
in lui la cupidità sfrenata dell'esaltazione de' suoi, Giuseppe re di
Spagna, Murat re di Napoli. A questo fine era stato concluso il trattato
di Fontainebleau, promessa grandezza al re di Spagna, introdotti i
Napoleoniani in Ispagna. Ma le cose sortirono effetti diversi da quelli
ch'ei si era promesso. Sorsero sdegnosamente gli Spagnuoli contro le
ordite sceleraggini, e combatterono i Napoleoniani. Napoleone e i suoi
prezzolati scrittori gli chiamarono briganti, gli chiamarono assassini:
quest'infamia mancava a tanti scandali.

Napoleone obbligato a mandar soldati contro Spagna, ed a scemargli in
Germania, temeva di qualche moto sinistro. Una nuova dimostrazione
dell'amicizia di Russia gli parve necessaria. Fatte le sue esortazioni,
otteneva, che Alessandro il venisse a trovare ad Erfurt. Quivi furono
splendide le accoglienze pubbliche, intimi i parlari segreti: stava il
mondo in aspettazione e timore nel vedere i due monarchi potenti sopra
tutti favellare insieme delle supreme sorti. Chi detestava l'imperio
dispotico di Napoleone, disperava della libertà d'Europa, perchè essendo
le due volontà preponderanti ridotte in una sola, non restava più nè
appello, nè ricorso, nè speranza. Chi temeva dell'insorgere progressivo
della potente Russia, abborriva ch'ella fosse chiamata ad aver parte in
modo tanto attivo nelle faccende d'Europa; conciossiachè le abitudini
più facilmente si contraggono, che si dismettono, ed anche l'ambizione
del dominare non si rallenta mai, anzi cresce sempre, ed è insanabile.
Rotto era e capriccioso il procedere di Napoleone, e però da non durare,
mentre l'andare considerato e metodico della Russia dava più fondata
cagione di temere. Le scene d'Erfurt erano per Napoleone più d'apparato
che d'arte, per Alessandro più d'arte che d'apparato.

Giovacchino Murat, nuovo re di Napoli, annunziava la sua assunzione ai
popoli del regno: avergli Napoleone Augusto dato il regno delle due
Sicilie; due primi e supremi pensieri nudrire, essere grato al donatore,
utile ai sudditi: volere conservar la constituzione data
dall'antecessore: venire con Carolina, sua sposa augusta, venire col
principe Achille, suo reale figliuolo, venire coi figliuoli ancor
bambini, commettergli alla fede, all'amore loro: in esso consistere la
contentezza dei popoli, in esso la sua benevolenza. Principiarono le
Napoletane adulazioni. Il consiglio di stato, il clero, la nobiltà
mandarono deputati a far riverenza ed omaggio a Giovacchino re. Il
trovarono a Gaeta; in nome suo giurarono. Napoli intanto esultava.
Inscrizioni, trofei, statue, archi trionfali, ogni cosa in pompa. Una
statua equestre rizzata sulla piazza del Mercatello rappresentava
Napoleone Augusto. Un'altra sulla piazza del palazzo raffigurava, sotto
forma di Giunone, Carolina regina. Perignon, maresciallo di Francia,
lodato guerriero, appresentava a Giovacchino le chiavi di Napoli.
Generali, ciamberlani, scudieri, ufficiali, soldati, chi colle spade al
fianco, chi colle chiavi al tergo, ed un popolo numeroso e moltiforme,
chi portando rami d'alloro, e chi d'ulivo. Firrao cardinale col
baldacchino, e con gli arredi sacri riceveva Giovacchino sulla porta
della chiesa dello Spirito Santo: condottolo sul trono a tal uopo molto
ornatamente alzato, cantava la messa, e l'inno Ambrosiano. Terminata la
cerimonia, per la contrada di Toledo piena di popolo, a cui piaceva la
gioventù e la bellezza del nuovo re, andava Giovacchino a prender sede
nel reale palazzo. Pochi giorni dopo, incontrata dal re a San Leucio,
faceva lieto e magnifico ingresso Carolina regina: risplendeva, come lo
sposo, di tutta gioventù e bellezza. Guardavano la venustà delle forme,
miravano il portamento dolce ed altero, cercavano le fattezze di
Napoleone fratello: gridavanla felice, virtuosa, augusta.

Furono felici i primi tempi di Murat. Occupavano tuttavia gl'Inglesi
l'isola di Capri, la quale, come posta alle bocche del golfo, è freno e
chiave di Napoli dalla parte del mare. La presenza loro era stimolo a
coloro, che non si contentavano del nuovo stato, cagione di timore agli
aderenti, e ad ogni modo impediva il libero adito con manifesto
pregiudizio dei traffichi commerciali. Pareva anche vergognoso, che un
Napoleonide avesse continuamente quel fuscello negli occhi, da parte
massimamente degl'Inglesi, tanto odiati, e tanto disprezzati. Aveva
Giuseppe per la sua indolenza pazientemente tollerato quella vergogna;
ma Giovacchino, soldato vivo, se ne risentiva, e gli pareva necessario
cominciar il dominio con qualche fatto d'importanza; andava contro
Capri. Vi stava a presidio Hudson Lowe con due reggimenti accogliticci
d'ogni nazione, e che si chiamavano col nome di Reale Corso, e di Reale
Malta. Erano nell'isola parecchi siti sicuri, le eminenze di Anacapri,
ed il forte Maggiore, con quelli di San Michele e di San Costanzo.
Partiti da Napoli e da Salerno, e governati dal generale Lamarque
andavano Francesi e Napolitani alla fazione dell'isola. Posto piede a
terra per mezzo di scale uncinate, non senza grave difficoltà perchè
gl'Inglesi si difendevano risolutamente, s'impadronirono di Anacapri: vi
fecero prigioni circa ottocento soldati di Reale Malta. Conquistato
Anacapri, che è la parte superiore dell'isola, restava, che si
ricuperasse l'inferiore. Dava ostacolo la difficoltà della discesa per
una strada molto angusta a guisa di scala scavata nel macigno, dentro la
quale traevano a palla ed a scaglia i forti, specialmente quello di San
Michele. Fu forza alzar batterìe sulle sommità per battere i forti,
l'espugnazione andava in lungo. Arrivavano agli assediati soccorsi
d'uomini e di munizioni dalla Sicilia. Ma la fortuna si mostrava
prospera al Napoleonide, perciocchè i venti di terra allontanavano
gl'Inglesi dal lido. Il re, che stava sopravvedendo dalla marina di
Massa, fermatosi sopra la punta di Campanella, e veduto il tempo
propizio, spingeva in ajuto di Lamarque nuovi squadroni. Gli Inglesi,
rotti già in gran parte e smantellati i forti, si diedero al vincitore.
L'acquisto di Capri piacque ai Napolitani, e ne presero buon augurio del
nuovo governo.

Erano nel regno baroni, repubblicani, e popolo. I baroni al nuovo re
volentieri si accostavano, perchè si contentavano degli onori, nè
stavano senza speranza di avere, od a ricuperare gli antichi privilegi,
perciocchè malgrado delle dimostrazioni contrarie i Napoleonidi
tendevano a questo fine, od almeno ad acquistarne dei nuovi. I
repubblicani erano avversi a Giovacchino, non perchè fosse re, che di
ciò facilmente si accomodavano, ma perchè si ricordavano, che gli aveva
cacciati e fatti legare come malfattori in Toscana. Dava anche loro
fastidio la vanità incredibile di lui, siccome quegli che indirizzava
ogni suo studio e diligenza a vezzeggiare chi portasse un nome
feudatario. Per questo temevano, che ad un bel bisogno gli desse in
preda a chi desiderava il sangue loro; ma egli con qualche vezzo se gli
conciliava, perchè avevano gli animi domi dalle disgrazie. Il popolo,
che non meglio di Giovacchino si curava che di Giuseppe, si sarebbe
facilmente contentato del nuovo dominio, purchè restasse tutelato dalle
violenze dei magnati, ed avesse facile e quieto vivere. Ma Giovacchino
tutto intento a vezzeggiar i baroni, trascurava il popolo, il quale
vessato dai baroni e dai soldati, si alienava da lui. Era anche segno
che volesse governare con assoluto imperio, il tacere della
constituzione, che si credeva aver voluto dare Giuseppe in sul partire.
Inoltre ordinò che si scrivessero i soldati alla foggia di Francia. Ciò
fe' sorgere mali umori negli antichi possessori dei privilegi; nè meglio
se ne contentava il popolo, perchè gli pareva troppo insolito. Siccome
poi le provincie non quietavano, e che massimamente le Calabrie secondo
il solito imperversavano, scrisse le legioni provinciali, una per
provincia, ordine già statuito da Giuseppe, ma da lui rimessamente
eseguito. Così tutto in armi; chi non le portava come soldato pagato,
era obbligato a portarle come guardia non pagata. Veramente, quand'io
considero gli ordini d'Europa, mi maraviglio; perchè mi pare che negli
stati, in cui la metà e più della rendita pubblica va nel pagar soldati,
gli stati debbono guardar i cittadini, e che un cittadino che paga in
tasse ed in figliuoli soldati quanto lo stato gli domanda, perchè lo
guardi, debb'esser guardato dallo stato: pure veggo, che dopo avergli
dato e tasse, e figliuoli, è ancora obbligato a cingersi la sciabola per
guardarsi da se. Queste sono le libertà e le felicità europee.

Giovacchino, come soldato, comportava ogni cosa ai soldati: ne nasceva
una licenza militare insopportabile. Seguitava anche quest'effetto, che
il solo puntello che avesse alla sua potenza, erano i soldati, e che
nissuna radice aveva nell'opinione dei popoli. Le insolenze soldatesche
si moltiplicavano. Non solo ogni volontà, ma ogni capriccio di un capo
di reggimento, anzi di un ufficiale qualunque dovevano essere obbedite,
come se fossero leggi: chi anzi si lamentava, era mal concio, e per poco
dichiarato nemico del re. Molto, e con ragione si erano doluti i popoli
delle insolenze dei baroni, ma quelle dei capitani di Giovacchino erano
maggiori. Rappresentavano i popoli i loro gravami, domandando protezione
ed emenda. Ma le soldatesche erano più forti delle querele, e si notava
come gran caso, che chi si era lagnato non fosse mandato per la
peggiore. Nascevano nelle province un tacere sdegnoso, ed una
sopportazione desiderosa di vendetta. Nè in miglior condizione si
trovava Napoli capitale. La guardia reale stessa che attendeva alla
persona di Giovacchino, oltre ogni termine trascorreva. Nissuna quiete,
nissun ordine poteva esser pei cittadini, nè nel silenzio della notte,
nè nelle feste del giorno; perchè solo un ufficiale della guardia il
volesse, tosto turbava con importuni romori, minacce ed insolenze i
sonni ed i piaceri altrui. Il re comportava loro ogni cosa. I mandatarj
dei magistrati civili, che s'attentavano di frenare sì biasimevoli
eccessi, erano dai soldati svillaneggiati, scherniti e battuti; e
sonsene veduti di quelli, che arrestati per aver fatto il debito loro,
dalle sfrenate soldatesche, e condotti sotto le finestre del palazzo
reale, furono, veggente il re, segni di ogni vituperio. Quest'era lo
stato di Napoli, quest'un governar peggiore che di Turchia. Troppo era
fresco il dominio di Murat, a fare che un tal procedere non fosse non
solamente barbaro, ma ancora pericoloso.

I mali umori prodotti dalle enormità commesse dai soldati di Murat
davano speranza alla corte di Palermo, che le sue sorti potessero
risorgere nel regno di qua dal Faro. Infuriava tuttavia la guerra civile
nelle Calabrie, nè gli Abruzzi quietavano. Erano in questi moti varie
parti, e vari fini; alcuni di coloro che combattevano contro
Giovacchino, e che avevano combattuto contro Giuseppe, erano aderenti al
re Ferdinando, altri amatori della repubblica. Taccio di coloro, e non
erano pochi, che solo per amore del sacco e del sangue avevano le armi
in mano. Non sarà, credo, narrazione incresciosa a chi leggerà queste
storie, se io racconterò come, e per qual cagione la setta dei carbonari
a questi tempi nascesse. Alcuni dei repubblicani più vivi, ritiratisi
durante le persecuzioni usate contro di loro, nelle montagne più aspre,
e nei più reconditi recessi dell'Abruzzo e delle Calabrie, avevano
portato con se un odio estremo contro il re, non solamente perchè loro
persecutore era stato, ma ancora perchè era re. Nè di minore odio erano
infiammati contro i Francesi, sì perchè avevano disfatto la repubblica
propria, e quelle d'altrui, sì perchè gli avevano anche perseguitati.
Non potevano costoro pazientemente tollerare, che in cospetto loro, non
che di Ferdinando, di Giovacchino, non che di Giovacchino, di regno si
favellasse. Così tra aspri dirupi e nascoste valli vivendosi, gli odj
loro contro i re e contro i Francesi fra immense solitudini
continuamente infiammavano. Ma sulle prime isolati, ed alla spartita
vivendo, nissun comune vincolo gli congiungeva, intenti piuttosto ad
arrabbiarsi, che a vendicarsi. Gl'Inglesi, che custodivano la Sicilia,
ebbero notizia di quest'umore, ed avvisarono che fosse buono per turbare
il regno contro i Francesi. Pertanto gli animarono a collegarsi fra di
loro, affinchè con menti unite concorressero ai medesimi disegni, e
creassero nuovi seguaci. Per accendergli promettevano gl'Inglesi qualche
forma di constituzione. Sorse allora la setta dei carbonari, la quale
acquistò questo nome, perchè ebbe la sua origine, e si mostrò la prima
volta nelle montagne dell'Abruzzo e delle Calabrie, dove si fa una
grande quantità di carbone. Molti ancora fra questi settarj sapevano, ed
esercevano veramente l'arte del carbonajo. Siccome poi non ignoravano,
che a voler tirar gli uomini, niuna cosa è più efficace che le apparenze
astruse e mirabili, così statuirono pratiche e riti maravigliosi.
Principal capo ed instigatore era un uomo dotato di sorprendente facoltà
persuasiva, che per nome si chiamava Capobianco. Avevano i carbonari
quest'ordine comune coi liberi muratori, che gli ammessi passavano
successivamente per varj gradi fino al quarto; che celavano i riti loro
con grande segretezza; che a certi statuiti segni si conoscevano fra di
loro; ma in altri particolari assai erano diversi i carbonari dai liberi
muratori; conciossiachè, siccome il fine di questi è il beneficare
altrui, e di banchettar se stessi, così il fine di quelli era l'ordine
politico degli stati. Avevano i carbonari nel loro procedere assai
maggior severità dei liberi muratori, perchè non mai facevano banchetti,
nè mai fra canti e suoni si rallegravano. Il loro principal rito in ciò
consisteva, che facessero vendetta, come dicevano, dell'agnello stato
ucciso dal lupo, e per agnello intendevano Gesù Cristo, e pel lupo i re,
che con niun altro nome chiamavano, se non con quello di tiranni. Se
stessi poi nel gergo loro chiamavano col vocabolo di pecore, ed il lupo
credevano essere il monarca, sotto il quale vivevano. Opinavano altresì
che Gesù Cristo sia stato la prima e la più illustre vittima della
tirannide, e protestavano volerlo vendicare con la morte dei tiranni.
Così come adunque i liberi muratori intendono a vendicar la morte del
loro Iramo, i carbonari intendevano a vendicare la morte di Cristo. In
questa setta entravano principalmente uomini del volgo, sulla
immaginazione dei quali gagliardissimamente operavano, con vivi colori
rappresentando la passione, e la morte di Cristo, e quando nelle loro
congreghe i riti loro adempivano, avevano presente un cadavere tutto
sanguinoso, che dicevano essere il corpo di Gesù Cristo. Quale effetto
in quelle Napolitane fantasie sì terribili forme partorissero, ciascuno
sel può considerare. Erano i segni loro per conoscersi vicendevolmente,
quando s'incontravano, oltre alcuni altri, il toccarsi la mano ed in
tale atto col pollice segnavano una croce nella palma della mano l'uno
dell'altro. Quello, che i liberi muratori chiamano loggia, essi baracca
chiamavano, e le assemblee loro col nome di vendite distinguevano, ai
carbonari veri alludendo, i quali scendendo dalle montagne andavano a
vendere il carbone loro pei mercati in pianura. Sentivano, come abbiamo
detto, molto fortemente di repubblica: niun altro modo di reggimento
volevano, che il repubblicano, ed in repubblica già si erano ordinati
apertamente nelle parti di Catanzaro sotto la condotta di quel
Capobianco, che abbiamo sopra nominato. Odiavano acerbamente i Francesi,
acerbissimamente Murat per essere Francese e re, ma non per questo erano
amici di Ferdinando, perchè piuttosto non volevano re. Nati prima
nell'Abruzzo e nelle Calabrie, si erano propagati nelle altre parti del
regno, e perfino nella Romagna avevano introdotto le pratiche loro, e
creato consettarj. In Napoli stessa pullulavano: non pochi fra i
lazzaroni della secreta lega erano consapevoli e partecipi.

Vedendo Ferdinando, che la potenza dei carbonari era cosa d'importanza,
si deliberava, a ciò massimamente stimolato da Carolina sua moglie e
dagl'Inglesi, di fare qualche pratica acciocchè se possibil fosse,
concorressero co' suoi proprj aderenti al medesimo fine, che era quello
di cacciar i Francesi, e di restituirgli il regno. Principale mezzano di
queste pratiche era il principe di Moliterno, che, tornato
d'Inghilterra, dove si era condotto per proporre a quel governo, che
dichiarasse l'unione e l'independenza di tutta Italia, se vi voleva far
frutto contro i Francesi, le quali proposte non volle l'Inghilterra
udire, non fidandosi del principe, per essere stato repubblicano, si era
in Calabria fatto capo di tutti gli antichi seguaci del cardinal Ruffo,
e vi teneva le cose molto turbate contro Giovacchino. Parlava
efficacemente dell'unione e independenza dell'Italia, ed in queste
dimostrazioni era ardentemente secondato dalla regina, che si persuadeva
di potere con questo allettativo, non solamente ricuperare il regno, ma
ancora acquistare qualche altra parte importante. Pareva Moliterno
personaggio atto a questi maneggi coi carbonari, perchè ai tempi di
Championnet era stato aderente della repubblica, ed anzi per questa sua
opinione proscritto dalla corte di Napoli. I carbonari, sì perchè erano
aspramente perseguitati dai soldati di Murat, sì perchè Moliterno
sentiva di repubblica, e sì perchè finalmente molto si soddisfacevano di
quella unione e independenza d'Italia, prestavano favorevoli orecchie
alle proposte del principe e della regina. Ciò non ostante stavano di
mala voglia, e ripugnavano al venire ad un accordo con gli agenti regj.
Per vincere una tale ostinazione, il governo regio di Palermo dava
speranza ai carbonari, che avrebbe loro dato una constituzione libera a
seconda dei desiderj loro. Per questi motivi, e massimamente per questa
promessa, consentirono ad unirsi con gli aderenti del re a liberazione
del regno dai Francesi. A queste risoluzioni vennero la maggior parte
dei carbonari; ma i più austeri, siccome quelli che abborrivano da ogni
qualunque lega con coloro che stavano ad un servizio regio, continuarono
a dissentire, e questa parte discordante fu quella, che ordinò quella
repubblica di Catanzaro, che abbiamo sopra nominato.

L'unione dei carbonari coi regj diede maggior forza alla parte di
Ferdinando in Calabria; ma dal canto suo Giovacchino, in cui non era la
medesima mollezza che in Giuseppe, validamente resisteva, massime nelle
terre murate, cooperando alla difesa i soldati Francesi guidati da
Partonneaux, i soldati Napolitani, e le legioni provinciali. Ogni cosa
in iscompiglio: la Calabria non era nè del re Ferdinando nè del re
Giovacchino; le soldatesche ed i sollevati ne avevano in questa parte ed
in quella il dominio. Seguitavano tutti gli effetti della guerra
disordinata e civile, incendj, ruine, saccheggi, stupri, e non che
uccisioni, assassinj. I fatti orribili tanto più si moltiplicavano,
quanto più per l'occasione della guerra fatta nel paese, uomini di mal
affare di ogni sorta, banditi, ladri, assassini, a cui nulla importava
nè di repubblica, nè di regno, nè di Ferdinando, nè di Giovacchino, nè
di Francesi, nè d'Inglesi, nè di papa, nè di Turco, ma solo al sacco ed
al sangue intenti, dai più segreti ripostigli loro uscendo, commettevano
di quei fatti, dai quali più la umanità abborrisce, e cui la storia più
ha ribrezzo a raccontare. Così le Calabrie furono da questo momento in
poi, e per due anni continui fatte rosse da sangue disordinatamente
sparso, finchè lo spavento cagionato da sangue ordinatamente sparso le
ridusse a più tollerabile condizione.

Le ruine si moltiplicavano; la Spagna ardeva, l'Italia, e la meridional
parte della Germania sotto l'imperio diretto di Napoleone, l'Austria
spaventata, la Prussia serva, la Russia divota, la Turchìa aderente, la
terraferma Europea tutta obbediente a Napoleone o per forza, o per
condiscendenza. Un solo principe vivente nel cuore d'Italia, debole per
soldati, forte per coscienza, resisteva alla sovrana volontà. Napoleone
spinto dall'ambizione, ed acciecato dalla prosperità aveva messo fuori
certe parole sull'imperio di Carlomagno, suo successore nei dritti e nei
fatti intitolandosi, come se gl'impiegati di Francia, che da lui
traevano gli stipendj, avessero potuto, imperatore dei Francesi
chiamandolo, dargli il supremo dominio e l'effettiva possessione, non
che della Francia, di tutta l'Italia, di tutta la Spagna, di tutta la
Germania, di quanto insomma componeva l'impero d'Occidente ai tempi di
quel glorioso imperatore.

Adunque con quell'insegna di Carlomagno in fronte s'avventava contro il
papa. Non poteva pazientemente tollerare che Roma, il cui nome tant'alto
suona, non fosse ridotta in sua potestà. Gli pesava, che ancora in
Italia una piccola parte fosse, che a lui non obbedisse. Dal canto suo
il papa si mostrava renitente al consentire di mettersi in quella
condizione servile, nella quale erano caduti chi per debolezza e chi per
necessità quasi tutti i principi d'Europa. Così chi aveva armi cedeva,
chi non ne aveva resisteva. Pio settimo, non che resistesse, fortemente
rimostrava al signore della Francia acerbamente dolendosi, che per gli
articoli organici, e pel decreto di Melzi fossero stati i due concordati
guasti a pregiudizio della sedia apostolica, ed anche a violazione
manifesta dei decreti dei concilj, e del santo vangelo stesso. Si
lamentava che nel codice civile di Francia, introdotto anche per ordine
dell'imperatore in Italia, si fosse dato luogo al divorzio tanto
contrario alle massime della Chiesa, ed ai precetti divini.
Rimproverava, che in un paese cattolico, quale si protestava essere ed
era la Francia, con legge uguale si ragguagliassero la religione
cattolica, e le dissidenti, non esclusa anche l'ebrea, nemica tanto
irreconciliabile della religione di Cristo.

Di tutte queste cose ammoniva l'imperatore, dell'esecuzione delle sue
promesse a pro della cattolica religione richiedendolo. Ma Napoleone
vincitore dell'Austria, della Prussia e della Russia, non era più quel
Napoleone ancor tenero ne' suoi principj. Per la qual cosa volendo ad
ogni modo venir a capo del suo disegno del farsi padrone di Roma, o che
il papa vi fosse, o che non vi fosse, mandava dicendo al pontefice, che
essendo egli il successore di Carlomagno, gli stati pontificj, siccome
quelli che erano stati parte dell'impero di esso Carlomagno,
appartenevano all'impero Francese; che se il pontefice era il signore di
Roma, egli ne era l'imperatore; che a lui, come a successore di
Carlomagno, il pontefice doveva obbedienza nelle cose temporali, come
egli al pontefice la doveva nelle spirituali, che uno dei diritti
inerenti alla sua corona era quello di esortare, anzi di sforzare il
signore di Roma a far con lui, e co' suoi successori, una lega difensiva
ed offensiva per tutte le guerre presenti e future; che il pontefice,
essendo soggetto all'imperio di Carlomagno, non si poteva esimere
dall'entrare in questa lega, e dall'avere per nemici tutti coloro che di
lui Napoleone fossero nemici. Aggiungeva, che se il pontefice a quanto
da lui si esigeva non consentisse, aveva egli il diritto di annullare la
donazione di Carlomagno, di spartire gli stati pontificj e di dargli a
chi meglio gli paresse; che nella persona del pontefice separerebbe
l'autorità temporale dalla spirituale; che manderebbe un governatore con
potestà di reggere Roma, e che al papa lascerebbe la semplice qualità di
vescovo di Roma.

Quest'estreme intimazioni fatte al pontefice, che non aveva dato a
Napoleone alcuna cagione di dolersi di lui, e che anzi con tutta
l'autorità sua l'aveva ajutato a salire sul suo seggio imperiale,
dimostrava in chi le faceva, una risoluzione irrevocabile. Rispondeva il
pontefice, esser caso maraviglioso, che il sovrano di Roma, dopo dieci
secoli di possessione non contestata, fosse necessitato a far le sue
difese contro colui, che pocanzi aveva consecrato imperatore; sapere il
mondo, che il glorioso imperatore Carlomagno, la cui memoria sarà sempre
benedetta nella chiesa, non aveva dato alla santa Sede le province di
dominio pontificio: sapere che già dai tempi molto anteriori a
Carlomagno, erano esse state possedute dai pontefici Romani per la
dedizione libera dei popoli abbandonati dagli imperatori d'Oriente;
sapere, che nel progresso dei tempi l'esarcato di Ravenna, e della
Pentapoli, che queste medesime province comprendeva, essendo stato
invaso dai Longobardi, l'illustre e religioso Pipino, padre di
Carlomagno, lo aveva loro tolto dalle mani per un atto di donazione
solenne a papa Stefano attribuendolo; che quel grande imperatore,
l'ornamento e l'ammirazione dell'ottavo secolo, non che avesse voluto
rivocare il pietoso e generoso atto di Pipino suo padre, l'aveva anzi
confermato, ed appruovato sotto papa Adriano; che, non che avesse voluto
spogliare la Romana Sede delle sue possessioni, non altro aveva fatto,
nè voluto fare che restituirgliele ed aumentargliele; che tant'oltre era
proceduto, che aveva comandato espressamente nel suo testamento a' suoi
tre figliuoli di difenderle colle armi; che a' suoi successori nissuna
potestà, nissun diritto aveva lasciato di rivocare quanto Pipino suo
padre aveva fatto a favore della cattedra di San Pietro; che solo ed
unico suo intento era stato di tutelar i pontefici Romani contro i loro
nemici, e non obbligargli a dichiararsi contro di loro; che dieci secoli
posteriori, che mille anni di possessione pacifica rendevano inutile
ogni ricerca anteriore, ogni interpretazione posteriore; che finalmente
supponendo eziandìo che i pretesi diritti di Carlomagno non fossero
senza fondamento, non aveva l'imperator Napoleone trovato nè la santa
Sede, nè il papa in quella condizione, in cui gli aveva trovati
Carlomagno; conciossiachè avesse l'imperator Napoleone trovato la santa
Sede libera, suddita a nissuno, in piena ed intiera sovranità di tutti i
suoi stati fin da dieci secoli addietro senza interruzione alcuna, e che
inoltre le sanguinose vittorie da lui acquistate contro altri popoli non
gli davano il diritto d'invadere gli stati del pontefice, poichè sempre
il pontefice era vissuto in pace con lui.

Troppo seriamente rispondeva il pontefice alle allegazioni di Napoleone,
perchè niuno meno le stimava, che Napoleone stesso. Certamente se a quel
modo si rivangassero tutte le ragioni antiche, o vere o finte, ma
consumate dalla vecchiezza, nissuna possessione certa più vi sarebbe, ed
il mondo andrebbe tutto in un fascio. Instava adunque minacciosamente
l'imperatore col pontefice, entrasse nella confederazione Italica coi re
d'Italia e di Napoli, e per nemici avesse i suoi nemici, e per amici gli
amici. Ma avendo il papa costantemente ricusato di aderire, si era
ridotto a richiedere che il pontefice facesse con lui una lega difensiva
ed offensiva, e medesimamente tenesse i suoi amici per amici, i suoi
nemici per nemici: quando no, lo stimerebbe intimazione di guerra,
avrebbe il papa per nemico, Roma conquisterebbe. La condizione proposta,
non che migliorasse, peggiorava quella del pontefice; perciocchè solo
scopo della confederazione fosse l'unirsi contro gl'infedeli, e contro
gl'Inglesi, mentre la lega difensiva ed offensiva importava, che il papa
dovesse far guerra a qualunque principe o stato, che fosse in guerra
coll'imperatore; dal che ne poteva nascere nel papa la necessità, non
solamente di far guerra ad un principe cattolico, ma ancora di unirsi ad
un principe non cattolico per far guerra ad un cattolico, condizione del
tutto insopportabile alla Sedia apostolica. A questi motivi aggiungeva
il pontefice, che se si videro papi far leghe e guerre contro principi
cattolici, non si leggeva però nelle storie, ch'eglino si fossero
obbligati perpetuamente ad incontrar nimicizia e ad aver guerra con
chiunque, a cui piacesse ad altri intimare nimicizia e guerra, senza che
dei motivi potessero giudicare, e solo perchè ad altri piacesse
assumersi nemicizie e guerre. Sclamava poscia papa Pio, sentire l'animo
suo orrore e dolore, ricordandosi essere stato richiesto dall'imperatore
di un trattato d'alleanza, pel quale avrebbe egli dovuto obbligarsi a
tener per nemici tutti i suoi nemici, e a dichiarar la guerra a quanti
l'imperatore, od i suoi successori, in perpetuo dichiarata l'avessero.
Non esser questo armare il padre contro i figliuoli? Non i figliuoli
contro il padre? Non mescolare in infinite questioni la chiesa di Dio,
in cui come in proprio santuario, seggono la carità, la pace, la
dolcezza, e tutte le virtù? Non volere, che il sommo pontefice non più
Aaron sia, ma Ismaele, uomo crudo e selvaggio? Non volere che alzi la
mano contro tutti, e che tutti l'alzino contro di lui? Non volere che
drizzi le nimichevoli insegne contro i suoi fratelli? A questo modo
forse nella chiesa di Dio introdursi la pace? A questo modo la pace che
il divino salvatore lasciò agli apostoli, ai pontefici loro successori,
ed a lui? Cercasse l'imperatore questa pace, che è la pace dei savj,
pace migliore delle armi dei guerrieri: la pace dei savj cercasse, dei
savj, che sono la salute del mondo: quella sapienza cercasse, per cui un
re prudente è il sostegno del suo popolo, che se cercare non la volesse
per se, lasciassela almeno, quale eredità propria, ai pontefici, ai
quali l'aveva data Cristo redentore. Essere il pontefice padre comune di
tutti i fedeli, a loro obbligato di tutti i sussidj spirituali, nè
potere più continuargli a coloro che fossero sudditi di un principe,
contro il quale in virtù della lega fosse stato tirato a guerra. Doppia
qualità nel Romano pontefice risplendere, sovranità temporale, e
sovranità spirituale, non potere per motivi temporali offendere la
primaria sua qualità, la spirituale, nè recar pregiudizio a quella
religione, di cui egli era capo, propagatore, e vindice.

Avendo papa Pio con sì gravi querele esposto l'animo suo a Napoleone,
andava protestando, che se per gli occulti disegni di Dio l'imperatore
volesse consumar le sue minacce, impossessandosi degli stati della
Chiesa a titolo di conquista, non potrebbe sua santità a tali funesti
avvenimenti riparare, ma protesterebbe come di usurpazione violenta ed
iniqua. Dichiarerebbe inoltre, che non già l'opera del genio, della
politica e dei lumi (imperciocchè di queste parole appunto si era
servito Napoleone, favellando degli ordinamenti della Romana sede)
sarebbe distrutta, ma bensì l'opera dello stesso Dio, da cui ogni
sovranità procede: adorerebbe sua santità profondamente i decreti del
cielo, consolerebbesi col pensiero che Dio è il padre assoluto di tutti,
e che tutto cede al suo divino volere, quando arriva la pienezza dei
tempi da lui preordinata. Queste profetiche parole diceva Pio a
Napoleone. L'imperatore perseverò nel dire, che a questo principio mai
non consentirebbe, che i prelati non fossero sudditi del sovrano, sotto
il dominio del quale e' sono nati, e che intenzion sua era, che tutta
l'Italia, Roma, Napoli e Milano, facessero una lega offensiva e
difensiva per allontanar dalla penisola i disordini della guerra. Questa
sua ostinazione corroborava col pretesto che la comunicazione non doveva
e non poteva essere interrotta, nè in pace, nè in guerra per uno stato
intermedio, che a lui non s'appartenesse, tra i suoi stati di Napoli e
di Milano. Inoltre voleva e comandava, che i porti dello stato
pontificio fossero, e restassero serrati agl'Inglesi. Alle quali
intimazioni aveva il pontefice risposto, oltre che se Napoleone si aveva
preso Napoli, Toscana e Milano, non era certamente colpa del papa, che
nelle guerre anteriori tra Francia, Austria e Spagna lo stato pontificio
era sempre stato intermedio senza che queste potenze se ne dolessero, e
prendessero pretesto per torre lo stato ai sovrani di Roma, e nel caso
presente la interruzione non sussisteva, essendo lo stato Romano
occupato dai soldati dell'imperatore, che con ogni libertà, e con
intollerabile aggravio della camera apostolica andavano e venivano dal
regno d'Italia al regno di Napoli, e così da questo a quello: che quanto
al serrare i porti agl'Inglesi, sebbene fosse da temersi che ciò non
potesse essere senza qualche pregiudizio dei cattolici che abitavano
l'Irlanda, l'avrebbe nondimeno il pontefice consentito, per amor della
concordia, all'imperatore.

Napoleone, al quale sempre pareva che la corona imperiale fosse manca,
se non fosse padrone di Roma, si apprestava a disfar quello, che aveva
per tanti secoli durato fra tante rivoluzioni e d'Italia e del mondo.
Perchè poi la forza fosse ajutata dall'inganno, accompagnava le sue
risoluzioni con parole di umanità e di desiderio di libertà per la
potestà secolare. Non esser buoni i preti, diceva, per governare:
immersi nei loro studj teologici non conoscere gli uomini: avere Roma
abbastanza turbato il mondo: non comportare più il secolo le Romane
usurpazioni; avere i lumi fatto conoscere a quale stima debbano esser
messi i decreti del Vaticano: ad ognuno oggimai esser noto, quanto
assurda cosa fosse il mescolare l'imperio col sacerdozio, il temporale
con lo spirituale, la corona con la tiara, la spada con la croce: avere
Gesù Cristo detto, che il regno suo non era di questo mondo: non dover
essere di questo mondo il regno del suo vicario: pel bene della
cristianità, non perchè vi seminassero discordie e guerre, avere
Carlomagno dato ai papi la sovranità di Roma: poichè ne volevano
abusare, doversi la donazione annullare: non più sovrano, ma solamente
vescovo di Roma fosse Pio: a questo modo, e nel tempo stesso provvedersi
ai bisogni della religione ed alla quiete universale. Così Napoleone si
era servito della religione contro la filosofia per farsi imperatore,
poi si servì della filosofia contro la potenza pontificia per farsi
padrone di Roma, stimolando a vicenda, secondochè le sue ambizioni
portavano, i preti contro i filosofi, i filosofi contro i preti.
Prevedendo che un gran numero di fedeli in Francia, abbracciando la
giustizia della causa del pontefice, avrebbero sentito mal volentieri le
sue risoluzioni contro di lui, e che le avrebbero chiamate persecuzione,
parola di molta efficacia fra i cristiani, si voltava a lusingare
secondo l'arti sue, i Francesi, con pruovarsi di accrescere la dignità e
l'autorità della nazione nelle faccende religiose. Pensava che i
Francesi, avendo il predominio temporale, avrebbero anche amato lo
spirituale. Perciò instantemente richiedeva, anche colla solita minaccia
di privarlo della potenza temporale, se non consentisse, il papa, che
riconoscesse in lui il diritto d'indicare alla santa Sede tanti
cardinali, quanti bastassero, perchè il terzo almeno del sacro collegio
si componesse di cardinali Francesi. Se il papa consentiva, acquistava
Napoleone preponderante autorità nelle deliberazioni, e massimamente
nelle nomine dei papi: se ricusava, avrebbe paruto alla nazione Francese
che egli le negasse ciò, che per la sua grandezza credeva meritarsi. Non
potere, rispose il pontefice, consentire ad una domanda, che vulnerava
la libertà della Chiesa, ed offendeva la sua più intima constituzione: a
chi non era noto, essere i cardinali la più principale, e la più
essenzial parte del clero Romano? Il primo dover loro essere il
consigliare il sommo pontefice. A chi appartenersi, a chi doversi
appartenere la elezione degli uomini atti a tanta dignità, atti a tanto
carico, se non a colui che da loro debb'essere consigliato? Hanno i
principi della terra i loro consiglieri, da loro eletti; alla sola
Romana Chiesa, al solo Romano pontefice fia questa facoltà negata?
Essere i cardinali non solamente consiglieri, ma ancora elettori del
papa. Ora quale libertà poter essere nella elezione, se un principe
secolare un numero sì grande d'elettori potesse nominare? Se a Napoleone
si consente, gli altri principi non la pretenderanno eglino? Non sarebbe
allora il pontefice Romano posto del tutto in balìa dei principi del
secolo? Convenirsi certamente, che di ogni cattolica nazione siano
eletti cardinali, ma la convenienza non esser obbligo: sola norma, sola
legge dover essere al papa il chiamar cardinali coloro, che più per
virtù, per dottrina, per pietà risplendono, di qualunque nazione siano,
qual lingua parlino. Sapere il pontefice, che il suo rifiuto sarebbe
volto dai malevoli a calunnia, come se il santo padre non avesse nella
debita stima il clero di Francia; ma chiamare Dio e gli uomini in
testimonio de' suoi affetti diversi: conoscergli il clero stesso,
conoscergli l'imperatore, conoscergli il mondo, che già vedeva sedere
nel sacro collegio, oltre due Genovesi ed un Alessandrino, sei cardinali
Francesi; un altro dotto e virtuoso prelato volervi chiamare; di ciò
contenterebbesi chi contentabil fosse; ma non poter il santo padre
contentar altri di quello, di cui non si contenterebbe egli stesso.

Non si rimoveva l'imperatore dalla presa deliberazione; mandò di nuovo
dicendo al papa, o gli desse il terzo dei cardinali, o si piglierebbe
Roma. Tentato di render Pio odioso ai Francesi, il volle fare
disprezzabile al mondo. Imperiosamente intimava al pontefice, cacciasse
da Roma il console del re Ferdinando di Napoli. Rispondeva Pio, ch'egli
non aveva guerra col re, che il re possedeva ancora tutto il reame di
Sicilia, che era un sovrano cattolico, e che egli non sarebbe mai per
consentire a trattarlo da nemico, cacciando da Roma coloro, che a Roma
il rappresentavano.

L'appetita Roma veniva in mano di colui, che ogni cosa appetiva. Se vi
fu ingiustizia nei motivi, fuvvi inganno nell'esecuzione. S'avvicinavano
i Napoleoniani all'antica Roma, nè ancora confessavano di marciare
contro di lei. Pretendevano parole di voler andare nel regno di Napoli:
erano seimila; obbedivano a Miollis. Nè bastava un generale per
opprimere un papa; Alquier, ambasciadore di Napoleone presso la santa
Sede, anch'ei vi si adoperava. Usava anzi parole più aspre del soldato,
e ritraeva di vantaggio del suo signore. Era giunto il mese di gennajo
al suo fine, quando Alquier mandava dicendo a Filippo Casoni cardinale,
segretario di stato, che seimila Napoleoniani erano per traversare,
senza arrestarvisi, lo stato Romano; che Miollis prometteva, che
passerebbero senza offesa del paese, e che il generale era uomo di tal
fama, che la sua promessa doveva stimarsi certezza. Mandava Alquier con
queste lettere l'itinerario dei soldati, dal quale appariva, che
veramente indirizzavano verso il regno di Napoli il loro cammino, e non
dovevano passare per la città. Di tanta mole era l'ingannare un papa!
Pure si spargevano romori diversi. Affermavano questi, che andassero a
Napoli, quelli, che s'impadronirebbero di Roma. Il papa interpellava
formalmente, per mezzo del cardinal segretario, Miollis, dicesse e
dichiarasse apertamente, e senza simulazione alcuna, il motivo del
marciare di questi soldati, acciocchè sua santità potesse fare quelle
risoluzioni, che più convenienti giudicherebbe. Rispondeva, avere
mandato la norma del viaggio dei soldati, e sperare, che ciò basterebbe
per soddisfare i ministri di sua santità. Il tempo stringeva: i
comandanti Napoleonici marciando, e detti i soliti motti e scherni sui
preti, sul papa, e sui soldati del papa, minacciavano, che entrerebbero
in Roma, e l'occuperebbero. Novellamente protestava il papa, fuori delle
mura passassero, in Roma non entrassero; se il facessero, l'avrebbe per
caso di guerra, ogni pratica di concordia troncherebbe. Già tanto vicini
erano i Napoleoniani, che vedevano le mura della Romana città. Alquier
tuttavia moltiplicava in protestazioni col santo padre, affermando con
asseverazione grandissima, che erano solamente di passo, e non avevano
nissuna intenzione ostile. I Napoleoniani intanto, arrivati più presso,
assaltarono a armata mano il dì due febbrajo la porta del popolo, per
essa entrarono violentemente, s'impadronirono del castel Sant'Angelo,
recarono in poter loro tutti i posti militari, e tant'oltre
nell'insolenza procederono, che piantarono le artiglierìe loro con le
bocche volte contro il Quirinale, abitazione quieta del pontefice. La
posterità metterà al medesimo ragguaglio le promesse di Alquier, ed il
suo invocar la fede di un generale da una parte, dall'altra quello
sdegnarsi di Ginguenè, ambasciatore del direttorio a Torino, al solo
pensare, che il governo Piemontese potesse sospettare, che i Francesi
fossero per abusare contro il re della possessione della cittadella.
Perchè poi niuna parte di audacia mancasse in questi schifosi accidenti,
Miollis domandava per mezzo di Alquier, udienza al santo padre; ed
avendola ottenuta, si scusò con dire, che non per suo comandamento le
bocche dei cannoni erano state volte contro il Quirinale palazzo, come
se l'ingiuria fatta al sovrano di Roma, ed al capo della cristianità
consistesse in questa sola violenza, che certamente era molto grave.
Della occupazione frodolenta ed ostile di Roma, che era pure
l'importanza del fatto, non fece parola.

Gli oltraggi al papa si moltiplicavano. L'accusava Napoleone dello aver
dato asilo ne' suoi stati a Napolitani briganti, ribelli, congiuratori
contro lo stato di Murat; per questo affermava, aver occupato Roma: il
papa stesso accagionava di connivenza. Alquier gliene fece querele,
quasichè non sapesse, che i soldati di Napoleone già da lungo tempo
erano padroni dello stato ecclesiastico, che di propria autorità, e
contro il diritto delle genti vi avevano arrestato e carcerato uomini
sospetti, o non sospetti, e che il governo pontificio stesso, ogni qual
volta che ne era stato richiesto, aveva ordinato arresti, e carcerazioni
d'uomini sospetti a Francia. Del rimanente voleva Alquier, non so se per
pazzìa, o per ischerno, che il papa avesse, e trattasse ancora, come
amiche, le truppe, che violentemente avevano occupato la sua capitale, e
la sede del suo governo, e fatto contro il pacifico ed inerme suo
palazzo quello, che contro le fortezze nemiche ed armate solo si suol
fare. A questo tratto non potè più contenere se medesimo il pontefice:
sdegnosamente scrisse all'ambasciadore Napoleonico, non terrebbe più per
amici quei soldati, che rompendo le più solenni promesse, erano entrati
in Roma, avevano violato la sua propria residenza, offeso la sua
libertà, occupato la città ed il castello, voltato i cannoni contro la
propria abitazione, e che inoltre con intollerabile peso si aggravavano
sopra il suo erario, e sopra i suoi sudditi. A questo aggiungeva, che
essendo privato della sua libertà, e ridotto in condizione di carcerato,
non intendeva più, nè voleva negoziare, e che solo allora si
risolverebbe a trattare delle faccende pubbliche con Francia, che
sarebbe restituito alla sua piena e sicura libertà.

Le amarezze del papa divenivano ogni giorno maggiori. Il comandante
Napoleonico intimava ai cardinali Napolitani Ruffo-Scilla, Pignatelli,
Saluzzo, Caracciolo, Caraffa, Trajetto, e Firrao nel termine di
ventiquatt'ore partissero da Roma, e tornassero a Napoli. Se nol
facessero, gli sforzerebbero i soldati. Quindi l'intimazione medesima,
termine tre ore a partire, fu fatta dal soldato medesimo ai cardinali
nati nel regno Italico, che furono quest'essi: Valenti, Caradini,
Casoni, Crivelli, Giuseppe Doria, Della-Somaglia, Roverella, Scotti,
Dugnani, Braschi-Onesti, Litta, Galeffi, Antonio Doria, e Locatelli.
Risposero, stare ai comandamenti del pontefice; farebbero quanto
ordinasse.

A tanto oltraggio il pontefice, quantunque in potestà d'altri già fosse
ridotto, gravemente risentissi. Scrisse ai cardinali, si ricordassero
degli obblighi e dei giuramenti loro verso la santa Sede, imitassero il
suo esempio, sofferissero piuttostochè contaminarsi, non potere sua
santità permettere che partissero; proibirlo anzi a tutti ed a singoli
in virtù di quella obbedienza che a lui giurato avevano. Raccomandava, e
comandava loro, prevedendo che la forza gli avrebbe indegnamente divulsi
dal suo grembo, che se a qualche distanza di Roma fossero lasciati, non
continuassero il viaggio; vedesse il mondo che la forza altrui, non la
volontà loro, gli sveglieva da Roma.

La sovranità del papa a grado a grado dai violenti occupatori si
disfaceva. Commettevano il male, non volevano che si sapesse. Soldati
Napoleoniani furono mandati alla posta delle lettere, dove, cacciate le
guardie pontificie, ogni cosa recarono in poter loro. Postovi poscia
soprantendenti e spie, non solamente s'impadronivano degli spacci, ma
ancora, secondochè loro aggradiva, aprivano e leggevano le lettere,
enorme violazione della fede sì pubblica che privata, e del diritto
delle genti. Al medesimo fine invasero tutte le stamperie di Roma per
modo che nulla, se non quanto permettevano essi, stampare si potesse.
Quindi nasceva che nelle scritture che ogni giorno si pubblicavano,
massimamente nelle gazzette, le adulazioni verso Napoleone, e gli
scherni contro il papa erano incessabili. Il papa stesso non potè
pubblicare colle stampe una sua allocuzione ai cardinali del mese di
marzo, e fu costretto a mandarne le copie attorno scritte a penna, ed
autenticate di suo pugno.

Tolta al papa la forza civile, si faceva passo al torgli la militare.
Incominciossi dalle arti con subornare i soldati, le Napoleoniche glorie
e la felicità degl'imperiali soldati magnificando. Esortavansi
instantemente i papali ad abbandonar le insegne della chiesa, ed a porsi
sotto quelle dell'imperio. Pochi consentirono; i più resisterono.
Riuscite inutili le instigazioni, toccossi il rimedio della forza;
l'atto cattivo fu accompagnato da parole peggiori. Parlava Miollis il dì
ventisette marzo ai soldati del papa: essere l'imperatore e re contento
di loro, non esser più all'avvenire per ricever ordini nè da femmine, nè
da preti; dovere i soldati esser comandati da soldati; stessero sicuri,
che non mai più tornerebbero sotto le insegne dei preti; darebbe loro
l'imperatore e re generali degni per bravura di governargli. Questi
erano scherni molto incivili. Del rimanente, che le femmine ed i preti
abbiano comandato a soldati, in quel modo che il diceva il generale
Napoleonico, poichè nè il papa, nè i cardinali, nè alcuna donna di Roma
erano generali, o colonnelli, si è veduto (il che però io non sarò mai
per lodare) in tutti i tempi ed in tutti i paesi, anche in Francia, e
nel regno ultimo d'Italia. Miollis stesso vide peggio, poichè vide Elisa
principessa, e Carolina regina, Napoleonidi, far rassegne e mostre, e
comandar mosse d'imperiali soldati. Un Frici colonnello, mancando nella
fede, si accomodò coi nuovi signori: fu accarezzato. Un Bracci
colonnello ricusò: fu carcerato, poi bandito. Carcerati altri tre, e
mandati, per aver conservato la fede loro, nella fortezza di Mantova. A
questo modo stimavano e ricompensavano i Napoleoniani gli uomini fedeli
ai loro principi ed alle loro patrie. I soldati furono per forza
costretti alle insegne Napoleoniche, e mandati prima in Ancona, poscia
nel regno Italico per essere ordinati secondo le forme imperiali.

Restava il santo padre nel suo pontificale palazzo con poche guardie,
piuttosto ad onore che a difesa. Vollero i Napoleoniani che quest'ultimo
suo ricetto fosse turbato dalle armi forestiere, non contenti, se non
quando il sommo pontefice fosse in vero carcere ristretto. Andavano il
dì sette aprile all'impresa del prendere il pontificale palazzo;
s'appresentavano alla porta: il soldato svizzero, che vi stava a
guardia, rispose che non lascerebbe entrar gente armata, ma solamente
l'uffiziale che le comandava. Parve soddisfarsene il capitano
Napoleonico: fatto fermar i soldati, entrava solo; ma non così tosto fu
lo sportello aperto e l'ufficiale entrato, che aggiungendo la sorpresa
alla forza, fece segno a' suoi che entrassero. Entrarono: volte le
baionette contro lo svizzero, occuparono l'adito. S'impadronirono,
atterrando romorosamente le porte, delle armi delle papali guardie; i
più intimi penetrali invasero. Intimarono al capitano della guardia
Svizzera, sarebbe ai soldi e sotto le insegne di Francia: ricusò
costantemente. Le medesime intimazioni fecero alle guardie delle
finanze, e perchè ricusarono, le condussero carcerate in castello.
Intanto altri corpi di Napoleoniani giravano per la città: quante
guardie nobili incontrarono, tante arrestarono.

Di tanti eccessi querelavasi gravissimamente il pontefice con Miollis;
ma le sue querele non muovevano il generale Napoleonico; che anzi negli
eccessi moltiplicando, faceva arrestare da' suoi soldati monsignor
Guidobono Cavalchini, governator di Roma, ordinando che fosse condotto a
Fenestrelle, fortezza alle fauci dell'Alpi sopra Pinerolo, che fondata
dai re di Sardegna a difesa d'Italia, era ora per volontà di Napoleone
divenuta carcere degl'Italiani, che anteponevano la fede alla fellonìa.
Accusarono Cavalchini dello aver negato di ministrar giustizia secondo
le leggi e regole del paese; del quale fallo, se era vero, il papa solo,
non i forestieri, doveano giudicare. I napoleoniani portarono il prelato
dentro i cavi sassi dell'orrido Fenestrelle.

A questi tratti il pontefice, fatto maggiore di se medesimo, in istile
grave e profetico a Napoleone le sue parole rivolgendo: «Per le viscere,
diceva, della misericordia di Dio nostro, per quel Dio, che è cagione,
che il sole levante venne dall'alto a visitarci, esortiamo, preghiamo,
scongiuriamo te, imperatore e re Napoleone, a cambiar consiglio, a
rivestirti dei sentimenti che sul principiar del tuo regno manifestasti:
sovvengati, che Dio è re sopra di te: sovvengati, ch'ei non eccettuerà
persona; sovvengati, ch'ei non rispetterà la grandezza d'uomo che sia;
sovvengati, ed abbi sempre alla mente tua davanti, ch'ei si farà vedere,
e presto, in forma terribile, poichè quelli che comandano agli altri,
saranno da lui con estremo rigore giudicati».

Napoleone cieco, e dall'inevitabile suo destino tratto, non attendeva
alle spaventose e fatidiche voci del pontefice. Decretava il due aprile,
che, stantechè il sovrano attuale di Roma aveva costantemente ricusato
di far guerra agl'Inglesi, e di collegarsi coi re d'Italia e di Napoli a
difesa comune della penisola; stantechè l'interesse dei due reami, e
dell'esercito d'Italia e di Napoli esigevano che la comunicazione non
fosse interrotta da una potenza nemica; stantechè la donazione di
Carlomagno, suo illustre predecessore, degli stati pontificj era stata
fatta a benefizio della cristianità, non a vantaggio dei nemici della
nostra santa religione; stante finalmente che l'ambasciadore della corte
di Roma appresso a lui aveva domandato i suoi passaporti, le province
d'Urbino, Ancona, Macerata e Camerino fossero irrevocabilmente e per
sempre unite al suo regno d'Italia: il regno Italico il dì undici maggio
prendesse possessione delle quattro province, vi si pubblicasse ed
eseguisse il codice Napoleone; fossero investite nel vicerè amplissime
facoltà per esecuzione del decreto.

Già innanzi che questo decreto fosse preso, e quando ancora i negoziati
colla santa sede erano in pendente, aveva Napoleone nelle quattro
province, non solamente usato l'autorità sovrana con manifesta
violazione di quella del pontefice, ma ancora commesso atti di vera
tirannide. Vi aveva mandato con titolo ed autorità di governatore il
generale Lemarrois, il quale non così tosto vi fu giunto, che cassò
dalla porta d'Ancona le arme del papa; sostituì quelle dell'imperatore,
diede e tolse ordini ai magistrati della provincia, e tant'oltre
trascorse, che fece arrestare e condur prigione nel castello di Pesaro
monsignor Rivarola, governator di Macerata pel pontefice.

Il giorno stesso dei due aprile l'imperatore, conoscendo quanti prelati
natii delle provincie unite fossero in Roma ai servigi del pontefice, e
volendo privare il santo padre del sussidio di tanti servitori ed amici,
decretava, che tutti i cardinali, prelati, uffiziali ed impiegati
qualsivogliano appresso alla corte di Roma, nati nel regno d'Italia
fossero tenuti, passato il dì venticinque di maggio, di ridursi nel
regno; chi nol facesse, avesse i suoi beni posti al fisco: i beni già si
sequestrassero a chi non avesse obbedito il dì cinque giugno. Questa
deliberazione tanto più era da biasimarsi, quanto con lei s'impediva al
pontefice, oltre l'esercizio dell'autorità temporale, la quale sola
l'imperatore affermava voler annullare, ancora quello della spirituale,
poichè il pontefice da se, e senza consiglieri ed impiegati, non poteva
adempire nè l'uno nè l'altro ufficio. Taccio la crudeltà di voler torre
sotto pena anche di confiscazione di beni, ad antichi e vecchi servitori
sussidj di vita, dolcezza di abitudini, uso di un aere consueto. Nè so
comprendere quale nuova dottrina sia questa, che l'uomo onorato non sia
padrone di viversene dove più le pare e piace, e che chi è nato in un
luogo debba, come se fosse una pianta, dimorarvi perpetuamente.

Nè solo la violenza del voler torre i servitori al papa si usò contro
coloro, che erano nati nel regno Italico, ma ancora contro quelli che,
sebbene venuti al mondo in Roma, possedevano uffizj spirituali in quel
regno. Il dì quindici luglio soldati Napoleoniani entrarono nel
pontificale palazzo, e minacciosamente introdottisi nelle stanze del
cardinal Giulio Gabrielli, segretario di stato e vescovo di Sinigaglia
suggellarono il suo portalettere, e il diedero alla guardia di un
semplice soldato. Poscia soldatescamente comandarono al cardinale,
uscisse da Roma, termine due giorni, e se n'andasse al suo seggio di
Sinigaglia. Si opprimeva e scacciava per tal modo da coloro, che di ciò
fare niuna legittima facoltà avevano, un uomo nato in Roma, d'illustre
legnaggio, di conosciuta innocenza, un vescovo, un cardinale, un primo
ministro del papa. Accrebbe gravità al caso l'essergli stata fatta
l'intimazione nel palazzo pontificale, ed al cospetto stesso del
pontefice. Tanta violenza ed oltraggio commisero i Napoleoniani contro
il cardinale, perchè obbediendo agli ordini del suo signore, aveva dato
instruzioni per direzioni delle coscienze, a chi ne aveva bisogno.
Sclamò il papa, questi essere delitti; i Napoleoniani non vi abbadarono.

Eugenio vicerè con solenne decreto del venti maggio spartiva le quattro
provincie in tre dipartimenti, del Metauro, del Musone, e del Tronto
chiamandogli. Avesse il primo Ancona per metropoli, il secondo Macerata,
il terzo Urbino. Fosse in Ancona ad ulteriore ordinamento di questi
territorj un magistrato politico: chiamovvi Lemarrois presidente, e due
consiglieri di stato.

Si esigevano nelle province unite i giuramenti di fedeltà
all'imperatore, d'obbedienza alle leggi e constituzioni. Il pontefice,
che non aveva riconosciuto l'unione, e che anzi aveva contro la medesima
protestato, non consentiva ai giuramenti pieni. Inoltre fra le leggi a
cui si giurava obbedienza, era il codice Napoleone, nel quale, secondo
l'opinione del pontefice, si contenevano capitoli contrarj, massime pei
matrimonj, ai precetti del vangelo, ed ai decreti dei concilj,
particolarmente del Tridentino. Perciò aveva scritto ai vescovi,
decretando che fossero illeciti i giuramenti illimitati, implicando
infedeltà e fellonìa verso il governo legittimo, e che solo si potesse
promettere, e giurare di non partecipare in alcuna congiura, o trama, o
sedizione contro il governo attuale, ed altresì di essergli fedele ed
obbediente in tutto, che non fosse contrario alle leggi di Dio e della
Chiesa. Ingiungeva ancora, che questo giuramento stesso niuno prestasse,
se non astretto dall'ultima necessità, e quando il ricusarlo potesse
portare con se qualche grave pericolo o pregiudizio. Protestava, che non
intendeva per questa sua condiscendenza e permissione, dismettere o
rinunziare i suoi diritti sopra i suoi sudditi, e gli altri che gli
competevano, i quali tutti voleva conservare intieri ed illesi.
Comandava inoltre, che niuno accettasse cariche od impieghi, dai quali
ne nascesse la riconoscenza dell'usurpazione. Dichiarava finalmente, sua
volontà essere, che i vescovi ed altri pastori ecclesiastici non
cantassero i cantici spirituali, e particolarmente l'Ambrosiano, perchè
non si conveniva, che in tanta afflizione della Chiesa, e fra tante
opere violente ed ingiuste commesse contro di lei, si dessero segni di
allegrezza nei tempj santi.

La volontà del pontefice manifestata ai vescovi nella materia dei
giuramenti gli constituiva in molto difficile condizione; perchè dall'un
de' lati Napoleone non voleva rimettere della sua durezza, dall'altro i
vescovi ripugnavano a trasgredire i comandamenti del capo supremo della
Chiesa. Posti fra le pene spirituali e le temporali, non sapevano a qual
partito appigliarsi: ed era venuta la cosa tra la confiscazione e
l'esilio da una parte, e il trasgredire dall'altra. Nè non meritava
considerazione il pensare, quanto all'esilio, a quale mancanza di
sussidj e di conforti spirituali verrebbero esposti i fedeli, se i
pastori eleggessero quello, che il papa loro comandava. Napoleone
intanto fulminava, e per mezzo del suo ministro dei culti intimava, che
chi non andasse a Milano per giurare, avrebbe bando e confiscazione di
beni. Vinse nei più la volontà del pontefice: e però già il cardinal
Gabrielli, vescovo di Sinigaglia, i vescovi d'Arcolo Cappelletti, e di
Castiglione di Montalto con altri loro compagni, erano in punto d'esser
presi e trasportati in lontane regioni, con quell'aggiunta della
confiscazione. A mitigare la durezza del tempo, ed a procurare loro
qualche conforto giunse opportunamente Eugenio vicerè, mandato dal
padre, che temeva gli effetti della resistenza ecclesiastica. Videro il
giovine principe i vescovi, e con lui ristrettisi udirono da lui lodarsi
gli scrupoli e la costanza loro nel non voler far quello, a che
ripugnavano la coscienza propria e gli ordini del moderatore sovrano
della Chiesa. Gl'informava, intenzione essere dell'imperatore, che si
sospendessero per qualche giorno le esecuzioni rigorose: mandassero
intanto i loro deputati al santo padre, e procurassero d'impetrare da
lui, che i giuramenti si prestassero con alcuna modificazione. Le
modificazioni alle quali consentiva l'imperatore erano di tre sorti;
primieramente, fossero dispensati i vescovi dal viaggio di Milano ed in
cospetto dei prefetti prestassero i giuramenti; secondamente, non
sarebbe da loro richiesto altro giuramento, che quello statuito nel
concordato ed appruovato dal pontefice, nel quale non si parlava nè di
leggi, nè di costituzioni; terzamente, fosse loro lecito, innanzichè
pronunziassero la forma del giuramento, esprimere, con quanta pubblicità
volessero, che non volevano e non intendevano pronunciarla, se non nel
senso diritto e puramente cattolico; dal che si sperava, che e il
governo resterebbe appagato, e le coscienze illese. Non si lasciò il
pontefice piegare ad alcuna modificazione. Da ciò ne nacque, che alcuni
vescovi giurarono, fra gli altri l'arcivescovo d'Urbino, cosa sentita
con molto sdegno dal papa: gli altri che ricusarono, andarono soggetti
alle pene.

Circa l'accettazione degli impieghi ed uffizi civili, ed
all'amministrazione dei sacramenti a coloro, che gli avessero accettati,
aveva il pontefice statuito, che incorressero le censure coloro, che
accettassero quegl'impieghi ed uffizi, i quali tendessero a ruina delle
leggi di Dio e della Chiesa; gli altri fosse lecito accettare per
dispensa del vescovo. Ma Napoleone, seguitando la sua volontà
inflessibile ed arbitraria, ed a lei posponendo ogni altro rispetto,
voleva che i vescovi pubblicamente dichiarassero, esser lecito per le
leggi della Chiesa servire in qualunque carica od impiego il governo, e
che a chi il servisse, amministrerebbero i sacramenti. Non obbedirono:
affermavano, che se l'imperatore diceva sue ragioni per impadronirsi
delle provincie, il papa diceva anche le sue per conservarle, e che alla
fine a loro non s'apparteneva il definire sì gran contesa: che però
senza taccia d'infamia e di prevaricazione, non potevano dichiarare
lecito indistintamente ogni ufficio ed impiego; che l'amministrazione
de' sacramenti, e nominatamente l'assoluzione dei peccati e delle
censure ecclesiastiche, intieramente dipendevano dall'autorità superiore
del pontefice; che se i subordinati oltrepassassero i termini posti da
lei, l'assoluzione sarebbe nulla e di niun valore, non solamente nel
foro esteriore, ma ancora a cospetto di Dio; che queste non erano
opinioni che potessero ancora venir in controversia, ma dogmi
inconcussi, dogmi di quella religione che dominava nel reame d'Italia
per confessione stessa dell'imperatore; che se il papa era stato
spogliato di una parte del suo dominio temporale, rimaneva intiera e
piena la sua potestà spirituale; che a lui solo spettava la facoltà di
definire in queste materie il lecito e l'illecito, e di allargare o di
restringere la giurisdizione dei prelati inferiori; che pertanto sarebbe
attentato scismatico e distruttivo dell'unità cattolica, il contraddire
pubblicamente i suoi giudizi; essere parati, attestavano, a promuovere e
mantenere con tutti i mezzi, che fossero in facoltà loro, la quiete
dello stato, ma non voler arrogarsi una giurisdizione che a loro non
competeva, e che non potrebbero, se non se sacrilegamente ed inutilmente
usare. Così era nelle quattro province un conflitto tra armi ed
opinioni, armi forti ed opinioni inflessibili: gli uomini distratti tra
la coscienza e gl'interessi non sapevano più dove volgersi: prigioni a
chi s'allontanava dalle armi, maledizioni a chi s'allontanava dalle
opinioni, discordia, dolore e miseria per tutti. Tal era la condizione
delle Marche, una volta sì prospere e sì felici, ora cadute ed infelici.
Quanto al papa bene aveva operato Pio settimo col protestare, come fece,
con tanta energia contro la usurpazione della sua sovranità: ma nel
restante avrebbe dovuto imitare la prudenza, e la paterna sopportazione
di Pio sesto, suo glorioso antecessore. L'usare inflessibilità, mentre
era inutile, contro Napoleone, esponeva i sudditi a calamità
innumerabili. Il protestare contro l'usurpatore era ufficio
indispensabile di sovrano, ed anche bastava per conservar incolumi i
suoi diritti; il sopportare con agevolezza e mansuetudine la faccenda
dei giuramenti era ufficio di padre verso i suoi figliuoli.

Pubblicava Pio una solenne protesta:

«Il decreto pubblicato, diceva, d'ordine dell'imperatore e re Napoleone,
che subitamente ci spoglia del dominio libero ed assoluto delle province
della Marca d'Ancona, dominio, di cui per consentimento di tutti,
durante dieci secoli e più, hanno sempre i nostri predecessori goduto,
non solamente contro di noi fu fatto, contro di noi per tanti anni da
tanti dolori trafitti, da tante tempeste battuti per cagione di colui,
che con quella maggiore amorevolezza che per noi si è potuto,
abbracciato abbiamo, ma ancora contro la Chiesa Romana, contro la Sedia
apostolica, contro il patrimonio del principe degli apostoli. Nè
sappiamo, se in questo decreto sia maggiore l'oltraggio della forma, o
la iniquità del fatto. Per certo, se in così grave accidente tacessimo,
ciò fora meritamente a mancanza del nostro apostolico dovere, a
violazione dei giuramenti nostri imputato. Che se poi vogliamo por mente
ai motivi del decreto, facilmente ci persuaderemo, maggiore obbligo
legarci a rompere il silenzio, perciocchè ingiuriosi sono, e contaminano
la purità e l'integrità delle nostre deliberazioni. L'oltraggiare ed il
mentire sonsi aggiunti all'ingiustizia. Che un principe inerme e
pacifico, che non solo non dà cagione di dolersi di lui ad alcuno, ma
che ancora allo stesso imperatore dei Francesi ebbe con tanti manifesti
segni la sua affezione dimostrato, i propri interessi e quelli de' suoi
sudditi anche offendendo, sia spogliato de' suoi dominj per non aver
creduto, che gli fosse lecito di obbedire agli ordini di colui, che
gl'ingiungeva di abbandonare la sua neutralità con tanta fede e scrupolo
conservata, e di far lega di guerra contro coloro, che a modo nissuno
turbato nè offeso l'avevano, già per se sarebbe una grandissima
ingiustizia; che se poi un principe, che fosse signore di un grande
impero avesse giustissime cagioni di ricusare una lega nemica, qual cosa
si dovrebbe dire, e pensare del sommo pontefice, vicario in terra
dell'autor primo di pace, obbligato in forza del suo apostolato supremo
al ministerio di padre comune, ad un uguale amore verso tutti i fedeli
di Gesù Cristo, ad un eguale odio contro tutte le nimicizie? Passa il
decreto per dissimulazione artifiziosa sotto silenzio questi obblighi
nostri, queste voci della coscienza nostra, obblighi e voci, che tante
volte, e per lettere nostre, e per bocca dei nostri legati, candidamente
e sinceramente all'imperator Napoleone rappresentammo. Ma l'ingiustizia
sua procede anche più oltre, posciachè ci rimprovera l'esserci noi da
quest'alleanza astenuti, per non essere obbligati a volgere le armi
contro gl'Inglesi esclusi dalla comunanza cattolica. Nella quale
ingiustizia contiensi una grande ingiuria: poichè sa egli, quantunque il
taccia, quante volte gli protestammo, non poter entrare in una lega
perpetua per non essere costretti a guerra contro tanti principi
cattolici, a quanti a lui piacesse di far guerra ora e per sempre.
Dogliamoci inoltre, come di offesa grave ed odiosa, ch'ei ci accusi di
rifiutar l'alleanza, affinchè la penisola resti facilmente esposta agli
assalti dei nemici. Sallo, e chiamiamo in testimonio e giudice tutta
l'Europa, che vede da tanti anni le Italiane spiagge occupate da soldati
Francesi, sallo, e chiamiamo in testimonio e giudice l'imperatore
stesso, che tace la condizione da noi offerta, ch'ei mettesse in tutt'i
porti ed in tutti i lidi nostri i suoi presidj. Havvi in questo silenzio
più ingratitudine ancora, che menzogna, posciachè ei non ignora punto,
quanto danno ridonderebbe ai sudditi nostri dalla chiusura dei porti, e
quanto sdegno contro di noi ne prenderebbero i suoi nemici. Ma se per
onestare la sua usurpazione, offende la verità del pari che la
giustizia, incredibile da un altro canto è la maraviglia da noi
concetta, che pel fine medesimo non gli abbia ripugnato l'animo al
servirsi della donazione di Carlomagno. Noi non possiamo restar capaci,
come l'imperatore, dopo lo spazio di dieci secoli, s'attenti di
risuscitare, e di attribuirsi la successione di Carlomagno, nè come la
donazione di Carlomagno risguardi i dominj usurpati della Marca
d'Ancona.

«Stante adunque che per le ragioni finora raccontate egli è chiaro e
manifesto, che per forza di un attentato enorme i diritti della Romana
Chiesa sono stati dall'ultimo decreto di Napoleone violati, e che una
ferita ancora più profonda è stata a noi ed alla santa sede fatta,
acciocchè tacendo non paja ai posteri, che noi l'iniquissimo delitto
commesso con violazione di tutte le regole della rettitudine e
dell'onore, quanto pure merita non abbiamo (il che sarebbe perpetua
vergogna nostra) a sdegno ed abborrimento avuto, di nostro proprio moto,
di nostra certa scienza, di nostra piena potenza dichiariamo, e
solennemente, ed in ogni miglior modo protestiamo, l'occupazione delle
terre, che sono nella Marca d'Ancona, e la unione loro al reame
d'Italia, senza alcun diritto e senza alcuna cagione per decreto
dell'imperator Napoleone fatte, ingiuste essere, usurpate, nulle:
dichiariamo altresì, e protestiamo, nullo essere, e di niun valore
quanto sino al giorno d'oggi si è fatto per esecuzione del detto
decreto, e quanto potrà essere d'ora in poi sulle terre medesime da
qualunque persona fatto e commesso: vogliamo inoltre e dichiariamo, che
anche dopo mille anni, e tanto quanto il mondo durerà, quanto vi si è
fatto, e quanto sarà per farvisi, a patto niuno possa portar pregiudizio
o nocumento ai diritti sì di dominio, che di possessione sulle medesime
terre; perchè sono, e debbono essere di tutta proprietà della nostra
santa Sedia apostolica».

Così Pio venuto in forza altrui parlava a Napoleone, e contro di lui
protestava. Così ancora Napoleone, dopo di avere carcerato i reali di
Spagna, carcerava anche il papa, e dopo di aver usurpato la Spagna,
usurpava anche Roma. Alessandro di Russia in questo mentre appunto
lasciava a posta la sua imperial sede di Pietroburgo per girsene a
visitarlo in Erfurt, Francesco d'Austria vi mandava il general San
Vincenzo per accarezzarlo.



LIBRO VIGESIMOQUARTO

SOMMARIO

      Nuova guerra coll'Austria. L'arciduca Giovanni generalissimo
      degli Austriaci, il principe Eugenio, vicerè, generalissimo
      dei Francesi in Italia. Loro manifesti agl'Italiani.
      L'arciduca vince a Sacile, e s'avanza verso Verona. Mossa
      generale dei Tirolesi contro i Francesi e i Bavari; qualità di
      Andrea Hofer. Natura singolare della Tirolese guerra.
      L'Austria perisce, prima nei campi tra Ratisbona e Augusta,
      poi in quei di Vagria. L'arciduca si ritira dall'Italia. Pace
      tra la Francia e l'Austria. Matrimonio dell'arciduchessa Maria
      Luisa con Napoleone. Fine della guerra del Tirolo; morte di
      Hofer. Napoleone unisce Roma alla Francia e manda il papa
      carcerato a Savona. Il papa lo scomunica. Descrizione di Roma
      Francese, e quello che vi si fa. Che cosa fosse la propaganda.
      Pratiche di Carolina di Sicilia con Napoleone. Infelice
      spedizione di Giovacchino in Sicilia. Manhes generale mandato
      a pacificar le Calabrie, le pacifica, e con quali mezzi.


Era in Europa rimasta accesa la materia di nuove calamità. L'Austria
depressa dal vincitore aspettava occasione di risorgere, alleggerendo le
disgrazie presenti per la speranza del futuro. Nè solo la spaventavano i
patti di Presburgo, pei quali tanta potenza le era stata scemata, ma
ancora i cambiamenti introdotti da Napoleone, non che in altre parti
d'Europa, nel cuore della Germania, e sulle frontiere stesse
dell'Austria. La spaventavano gli attentati palesi, la spaventavano le
profferte segrete, poichè Napoleone le esibiva ingrandimento nella
distruzione di uno stato vicino ed amico, il che le dava cagione di
temere, che se i tempi od i capricci cambiassero, avrebbe esibito
ingrandimento ad altri nella distruzione dell'Austria. Ma la potenza
tanto preponderante di Napoleone per la soggiogazione della Prussia e
per l'amicizia della Russia, non lasciava speranza all'Austria di
riscuotersi; però risolutasi al tirarsi avanti col tempo, ed
all'anteporre il silenzio alla distruzione, aspettava, che il rotto
procedere di Napoleone fosse per aprirle qualche via di raffrenare la
sua cupidità, e di procurare a se medesima salvamento. Le iniquità
commesse contro i reali di Spagna, che a tanto sdegno avevano commosso
gli Spagnuoli, e che obbligavano il padrone della Francia a mandar forti
eserciti per domargli, le parvero occasione da non doversi
pretermettere. Per la qual cosa, non abborrendo dall'entrare in nuovi
travagli, e dall'abbracciar sola questa guerra, si mise in sull'armare,
con fare che le compagnìe d'ordinanza non solo avessero i numeri interi,
ma la gente fiorita e bene in ordine; inoltre ordinava, e squadronava
tutta quella parte delle popolazioni, che era atta a portar le armi. Si
doleva Napoleone di sì romorosi apparecchj, affermando, non pretendere
coll'imperator d'Austria alcuna differenza: rispondeva Francesco essere
a difesa, non ad offesa. Accusava il primo gli Austriaci ministri, e non
so quale Viennese setta, bramosa di guerra, come la chiamava, e
prezzolata dall'Inghilterra. Rinfacciava superbamente a Francesco,
l'avere conservato la monarchìa Austriaca, quando la poteva distruggere;
gli protestava amicizia; lo esortava a desistere dall'armi. Ma l'Austria
non voleva riposarsi inerme sulla fede di colui, che aveva incarcerato
per fraude i reali di Spagna. La confederazione Renana, la distruzione
dell'impero Germanico, Vienna senza propugnacolo per la servitù della
Baviera, Ferdinando cacciato da Napoli, il suo trono dato ad un
Napoleonide, l'Olanda data ad un Napoleonide, Parma aggiunta, la Toscana
congiunta, la pontificia Roma occupata, davano giustificata cagione
all'Austria di correre all'armi, non potendole in modo alcuno esser
capace, che a lei altro partito restasse che armi, o servitù. Solo le
mancava l'occasione; la offerse la guerra di Spagna, all'impresa della
quale era allora Napoleone occupato, e la usò. Ma prevedendo che quello
era l'ultimo cimento per lei faceva apparati potentissimi. Un esercito
grossissimo militava sotto la condotta dell'arciduca Carlo in Germania.
Destinavasi all'invasione della Baviera, la quale perseverava
nell'amicizia di Napoleone. Se poi la fortuna si mostrasse favorevole a
questo primo conato, si aveva in animo di attraversare la Selva Nera, e
di andare a tentare le Renane cose. Per ajutare questo sforzo, ch'era il
principale, Bellegarde, capitano sperimentatissimo, stanziava con un
corpo assai grosso in Boemia, pronto a sboccare nella Franconia,
tostochè i casi di guerra il richiedessero. Grandissima speranza poi
aveva collocato l'imperatore Francesco nel moto dei Tirolesi, sempre
affezionati al suo nome, e desiderosi di riscuotersi dalla signoria dei
Bavari. Era questo moto di grave momento sì per la natura bellicosa
della nazione, e sì per tener aperte le strade tra i due eserciti di
Germania e d'Italia. Sollecita cura ebbero gli ordinatori di questo
vasto disegno delle cose d'Italia; perciocchè vi mandarono con un'oste
assai numerosa, massimamente di cavalli, l'arciduca Giovanni, giovane di
natura temperata, e di buon nome presso agl'Italiani. Stava Giovanni
accampato ai passi della Carniola e della Carintia, in atto di sboccare
per quei di Tarvisio e della Ponteba sulle terre Veneziane. Concorreva
sull'estrema fronte a tanto moto con soldati ordinati, o con cerne del
paese Giulay dalla Croazia e dalla Carniola, province, in cui egli aveva
molta dipendenza. Questo nervo di guerra parve anche necessario per
frenare Marmont, che con qualche forza di Napoleoniani governava la
Dalmazia. Stante poi che nelle guerre principale fondamento è sempre
l'opinione dei popoli, aveva Francesco con ogni sorta di esortazioni
confortato i suoi, della patria, dell'independenza, dell'antica gloria,
delle dure condizioni presenti, del futuro giogo più duro ancora
ammonendogli: il nome Austriaco risorgeva; concorrevano volentieri i
popoli alla difesa comune. Bande paesane armate stavano preste in ogni
luogo ai bisogni dello stato; maravigliosa fu la concitazione, nè mai
più promettenti sorti per l'Austria aveva veduto il mondo, come non mai
ella aveva fatto sì formidabile preparazione.

A questi sforzi, se Napoleone era pari, non era certamente superiore.
Fece opera di temporeggiarsi, offerendo la Russia per sicurtà della
quiete. Ma da quell'uomo astuto e pratico ch'egli era, non ingannandosi
punto sulle intenzioni della potenza emola, e certificato della mala
disposizione di lei, che gli parve irrevocabile, si preparava alla
guerra con mandar in Germania ed in Italia quanti soldati poteva
risparmiare per la necessità d'oltre i Pirenei. Ciò non di meno
Francesco, che con disegno da lungo tempo ordito si muoveva, stava
meglio armato, e più pronto a cimentarsi. Pensò Napoleone ad andar egli
medesimo alla guerra Germanica, perchè vedeva che sulle sponde del
Danubio erano per volgersi le definitive sorti e che nissun altro nome,
fuorchè il suo, poteva pareggiare quello del principe Carlo. Quanto
all'Italia, diede il governo della guerra, in questa parte importante,
al principe Eugenio, mandandogli per moderatore Macdonald. Si riposava
l'esercito Italico di Napoleone nelle stanze del Friuli, occupando la
fronte a destra verso la spiaggia marittima Palmanova, Cividale ed
Udine, a sinistra verso i monti San Daniele, Osopo, Gemona, Ospedaletto
e la Ponteba Veneta sin oltre alla strada per Tarvisio. Le altre schiere
alloggiavano a foggia di retroguardo a Pordenone, Sacile, Conegliano
sulle sponde della Livenza. Un altro corpo, che in due alloggiamenti si
poteva congiungere col primo, ed era in gran parte composto di soldati
Italiani agli stipendi del regno Italico, stanziava nel Padovano, nel
Trevisano, nel Bassanese e nel Feltrino. Accorrevano a presti passi dal
Bresciano e dalla Toscana nuove squadre ad ingrossare l'esercito
principale: l'Italia e la Germania commosse aspettavano nuovo destino.

L'arciduca Carlo mandò dicendo al generalissimo di Francia, andrebbe
avanti, e chi resistesse, combatterebbe. L'arciduca Giovanni, correndo
il dì nove aprile, al medesimo modo intimò la guerra a Broussier, che
colle prime guardie custodiva i passi della valle di Fella, per cui
superate le fauci di Tarvisio, si acquista l'adito a Villaco di
Carintia. Preparate le armi, pubblicavansi i discorsi. Sclamava Eugenio
vicerè, parlando ai popoli del regno, avere l'Austria voluto la guerra:
poco d'ora doversene star lontano da loro: girsene a combattere i nemici
del suo padre augusto, i nemici della Francia e dell'Italia: confidare
che sarebbero per conservare, lui lontano, quello spirito eccellente,
del quale avevano già dato con le opere sì vere testimonianze: confidare
che i magistrati bene e candidamente farebbero il debito loro, degni del
sovrano, degni degl'Italiani popoli mostrandosi: dovunque e quandunque
ei fosse, essere per conservar di loro e stabile ricordanza ed
indulgente affetto.

Dal canto suo l'arciduca Giovanni, prima di venire al ferro, non se ne
stava oziando con le parole, giudicando che potessero sorgere per tutta
Italia per le varie inclinazioni dei popoli, gravi e favorevoli
movimenti:

«Udite, diceva, Italiani, udite, e nei cuor vostri riponete, quanto la
verità, quanto la ragione da voi richieggono. Voi siete schiavi di
Francia, voi per lei le sostanze, voi la vita profondete. È l'Italico
regno un sogno senza realtà, un nome senza effetto. Gli scritti soldati,
le imposte gravezze, le usate oppressioni a voi bastantemente fan segno,
che niuna condizione di stato politico, che niun vestigio d'independenza
vi è rimasto. In tanta depressione voi non potete nè rispettati essere,
nè tranquilli, nè Italiani. Volete voi di nuovo Italiani essere?
Accorrete colle mani, accorrete coi cuori, ai generosi soldati di
Francesco imperatore congiungetevi. Manda egli un poderoso esercito in
Italia: non per sete di conquista il manda, ma per difendere se stesso,
ma per restituire l'independenza a tante europee nazioni, di cui la
servitù tanto è per tanti segni certa, quanto per tanti dolori dura.
Solo che Iddio secondi le virtuose opere di Francesco imperatore, e de'
suoi potenti alleati, fia novellamente Italia in se stessa felice, fia
da altri rispettata: avrà novellamente il capo della religione i suoi
stati, avrà la sua libertà. Una constituzione alla natura stessa, al
vero stato politico vostro consentanea, sarà per prosperare le italiche
contrade, e per allontanar da loro ogn'insulto di forza forestiera.
Promettevi Francesco sì fortunate sorti: sa l'Europa, essere la sua fede
tanto immutabile, quanto pura; il cielo, il cielo vi parla per bocca di
lui. Accorrete, Italiani, accorrete: chiunque voi siate, o qual nome
v'aggiate, o qual setta amiate, purchè Italiani siate, senza temenza
alcuna a noi venite. Non per ricercarvi di quanto avete fatto, ma per
soccorrervi e per liberarvi siamo in cospetto dell'Italiane terre
comparsi. Consentirete voi a restarvi, come ora siete, disonorati e
vili? Sarete voi da meno che gli Spagnuoli, eroica gente, che altamente
dissero, e che più altamente fecero che non dissero? Meno che gli
Spagnuoli amino, amate voi forse i vostri figliuoli, la vostra
religione, l'onore e il nome della vostra nazione? Abborrite voi forse
meno ch'essi, il vergognoso giogo a cui v'han posti coloro, che con
belle parole v'ingannarono, che con tristi fatti vi lacerarono?
Avvertite, Italiani, e negli animi vostri riponete ciò, che ora con
ragione e con verità vi diciam noi, che questa è la sola, questa
l'ultima occasione che a voi si scopre di vendicarvi in libertà, di
gettar via dai vostri colli il duro giogo che su tutta Italia s'aggrava:
avvertite, e negli animi vostri riponete, che se voi ora non vi
risentite, e se neghittosi ancora vi state ad osservare, voi vi mettete
a pericolo, quali dei due eserciti abbia ad aver vittoria, di non essere
altro più che un popolo conquistato, che un popolo così senza nome, come
senza diritti. Che se pel contrario con animi forti vi risolvete a
congiungere con gli sforzi dei vostri liberatori anco i vostri, e se con
loro andate a vittoria, avrà l'Italia novella vita, avrà suo grado fra
le grandi nazioni del mondo, e risalirà fors'anche al primo, come già il
primo si ebbe. Italiani, più avventurose sorti or sono nelle mani vostre
poste, in quelle mani che in alto alzando le faci indicatrici di
dottrina, di civiltà, di arti tolsero il mondo alla barbarie, e dolce, e
mansueto, e costumato il renderono. Milanesi, Toscani, Veneziani,
Piemontesi, e voi tutti popoli d'Italia, sovvengavi dei tempi andati,
sovvengavi dell'antica gloria: e tempi e gloria potranno rinstaurarsi, e
rinverdirsi più prosperi e più splendidi che mai, se fia che voi un
generoso cooperare ad un pigro aspettare anteponiate. Volere, fia
vittoria; volere, fia tornarvi più lieti e più gloriosi, che gli
antenati vostri ai tempi del maggiore splendor loro non furono».

A questo modo l'arciduca spronava gl'Italiani, acciò non avessero a
disperarsi di vedere la patria loro rimanere in altro grado che
d'ignominiosa e perpetua servitù. Ma le sue esortazioni non partorirono
effetti d'importanza, perchè coloro che avevano le armi in mano,
parteggiavano, come soldati, per Napoleone: gl'inermi odiavano bensì la
signoria Francese, ma non si fidavano di quella dell'Austria, nè che la
vittoria di lei fosse per essere la libertà d'Italia pareva lor chiaro:
tutti poi spaventava la ricordanza ancor fresca del caso di Ulma. Nè
appariva che fosse per nascere alterazione tra Napoleone ed Alessandro,
la quale sola avrebbe potuto dare speranza probabile di buon successo.

Addì dieci d'aprile la tedesca mole piombava sull'Italia. L'arciduca,
varcata la sommità dei monti al passo di Tarvisio, e superato, non però
senza qualche difficoltà per la resistenza dei Francesi, quello della
Chiusa s'avvicinava al Tagliamento. Al tempo stesso, con abbondante
corredo di artiglierìe e di cavallerìa passava l'Isonzo, e minacciava
con tutto lo sforzo de' suoi la fronte dei Napoleoniani. Fuvvi un feroce
incontro al ponte di Dignano, perchè quivi Broussier combattè molto
valorosamente. Ma ingrossando vieppiù nelle parti più basse gli
Austriaci, che avevano passato l'Isonzo, Broussier si riparò per ordine
del vicerè sulla destra; che anzi, crescendo il pericolo, andò il
principe a piantare il suo alloggiamento in Sacile sulla Livenza,
attendendo continuamente a raccorre in questo luogo tutte le schiere, sì
quelle che avevano indietreggiato, come quelle che gli pervenivano dal
Trevisano e dal Padovano. Stringevano i Tedeschi d'assedio le fortezze
di Osopo e di Palmanova. Eugenio, rannodati tutti i suoi, eccetto quelli
che venivano dalle parti superiori del regno Italico e dalla Toscana, si
deliberava ad assaltar l'inimico, innanzi che egli avesse col grosso
della sua mole congiunto le altre parti che a lui si avvicinavano. Del
quale consiglio, non che lodare, biasimare piuttosto si dovrebbe il
principe; poichè sebbene l'arciduca non avesse ancora tutte le sue genti
adunate in un sol corpo, tuttavia sopravvanzava non poco di forze, e non
che fosse dubbio il cimento, era da temersi che gli Austriaci sarebbero
rimasti superiori; che se conveniva all'arciduca, siccome fornito di
maggior forza, il dar dentro, non conveniva al principe, che l'aveva
minore: doveva Eugenio in questo caso anteporre la prudenza all'ardire.

Erano i Francesi ordinati per modo nei contorni di Sacile, che Seras e
Severoli occupavano il campo a destra, Grenier e Barbou nel mezzo,
Broussier a sinistra: le fanterìe e le cavallerìe del regno Italico
formavano gran parte della destra. Fu quest'ala la prima ad assaltar i
Tedeschi, correva il dì sedici aprile: destossi una gravissima contesa
nel villaggio di Palsi, da cui e questi e quelli restarono parecchie
volte cacciati e rincacciati: i soldati Italiani combatterono
egregiamente. Pure restò Palsi in potestà dell'arciduca: e già i
Tedeschi minacciosi colla loro sinistra fornitissima di cavallerìe,
insistevano; la destra dei Francesi molto pativa; Seras e Severoli si
trovavano pressati con urto grandissimo, ed in grave pericolo. Sarebbero
anche stati condotti a mal partito, se Barbou dal mezzo non avesse
mandato gente fresca in loro ajuto. Avuti Seras questi soldati di
soccorso, preso nuovo animo, pinse avanti con tanta gagliardìa, che
pigliando del campo scacciò il nemico, non solamente da Palsi, ma ancora
da Porcia, dove aveva il suo principale alloggiamento. L'arciduca,
veduto che il mezzo della fronte Francese era stato debilitato pel
soccorso mandato a Seras, vi dava dentro per guisa che per poco stette,
che non lo rompesse intieramente. Ma entrava in questo punto
opportunamente nella battaglia Broussier, e riconfortava i suoi, che già
manifestamente declinavano: Barbou eziandìo si difendeva con molto
spirito. Spinse allora l'arciduca tutti i suoi battaglioni avanti: la
battaglia divenne generale su tutta la fronte. Fu la zuffa lunga, grave
e sanguinosa, superando i Tedeschi di numero e di costanza, i Francesi
d'impeto e d'ardire. Intento sommo degli Austriaci era di ricuperar
Porcia; ma contuttochè molto vi si sforzassero, non poterono mai venirne
a capo. In quest'ostinato combattimento rifulse molto egregiamente la
virtù del colonnello Giflenga, mentre guidava contro il nemico uno
squadrone di cavalli Italiani. Fuvvi gravemente ferito il generale
Teste, guerriero molto prode. Durava la battaglia già da più di sei ore,
nè la fortuna inclinava. Pure finalmente rinfrescando sempre più
l'arciduca con nuovi ajuti la fronte, costrinse i Napoleoniani a
piegare, non senza aver disordinato in parte le loro schiere, e ucciso
loro di molta gente. Patì molto la cavallerìa di Francia; fu anche
danneggiata fortemente la schiera di Broussier, che servendo di
retroguardo alle altre mezzo rotte e ritirantisi, ebbe a sostenere tutto
l'impeto del nemico vincitore. Se la notte, che sopraggiunse, non avesse
posto fine al perseguitare del nemico avrebbero i Francesi e gl'Italiani
pruovato qualche pregiudizio molto notabile. Perdettero in questa
battaglia di Sacile i Napoleoniani circa due mila cinquecento soldati
tra morti, feriti e prigionieri: non mancarono dei Tedeschi più di
cinquecento. Dopo l'infelice fatto non erano più le stanze di Sacile
sicure al principe vicerè. Per la qual cosa si ritrasse, seguitato
debolmente dai Tedeschi, sempre lenti perseguitatori dei nemici vinti, e
perciò perdenti molte buone occasioni, sulle sponde dell'Adige. Quivi
vennero a congiungersi con lui i soldati di Lamarque, che già
stanziavano nelle terre Veronesi, e quelli che sotto Durutte dalla
Toscana erano venuti. Nè piccola cagione di dare novelli spiriti ai
Napoleoniani fu l'arrivo di Macdonald. Fu egli veduto con allegra
fronte, ma con animo poco lieto da Eugenio, che stimava aver a passare
in lui la riputazione di ogni impresa segnalata. Passò l'arciduca la
Piave, passò la Brenta, tutto il Trivigiano, il Padovano e parte del
Vicentino inondando. Assaltava in questo mentre Palmanova, ma con poco
frutto: tentò con un grosso sforzo il sito fortificato di Malghera per
aprirsi la strada alle lagune di Venezia; ma non sortì effetto. Si
apprestava non ostante ad andar a trovar il nemico sulle rive
dell'Adige, sperando di riuscire nella superiore Lombardìa, dominio
antico dei suoi maggiori. Non trovò nelle regioni conquistate quel
seguito che aspettava. Vi fu qualche moto in Padova, ma di poca
importanza; si levarono anche in arme gli abitatori di Crespino, terra
del Polesine; e fu per loro in mal punto; perchè Napoleone tornato
superiore per le vittorie di Germania, fortemente sdegnatosi, gli
soggettò all'imperio militare, ed alla pena del bastone per le
trasgressioni. Supplicarono di perdono. Rispose, perdonare, ma a prezzo
di sangue; gli dessero, per essere immolati, quattro di loro. Per
intercessione del vicerè, che tentò di mollificare l'animo
dell'imperatore, fu ridotto il numero a due; questi comperarono
coll'ultimo supplizio l'indennità della patria.

Intanto l'arciduca Carlo, varcato l'Oeno, aveva occupato la Baviera; e
col suo grosso esercito s'incamminava alla volta del Reno. Ogni cosa
pareva su quei primi principj dar favore allo sforzo dell'imperatore
Francesco. Ma parte molto principale era la sollevazione dei Tirolesi.
Annidavansi negli animi di questo popolo armigero e virtuoso molte male
soddisfazioni. Assuefatti da lungo tempo al mansueto dominio della casa
d'Austria, molto mal volentieri sopportavano la signorìa dei Bavari,
come non consueta, e come, se non per antico costume, almeno per gli
esempj freschi, e fors'anche pei comandamenti Napoleonici, dura e
soldatesca. S'aggiungeva, che il re di Baviera aveva abolito l'antica
constituzione del Tirolo, riducendo la forma politica alla potestà
assoluta, anche in materia di tasse. S'accordarono parte segretamente,
parte palesemente per secondare con ogni nervo l'impresa dell'antico
loro signore. L'Austria gli aveva fomentati, mandando per le montagne di
Salisburgo nel Tirolo Jellacich con un corpo di regolari.

Il giorno stesso in cui l'arciduca Carlo aveva passato l'Oeno, e
l'arciduca Giovanni le strette di Tarvisio, i Tirolesi mossi da una sola
mente e da un solo ardore, si levarono tutti improvvisamente in armi, e
diedero addosso alle truppe Bavare e Francesi, che nelle terre loro
erano poste a presidio. Fecero capo al moto loro un Andrea Hofer,
albergatore a Sand nella valle di Passeira. Non aveva Andrea alcuna
qualità eminente, dico di quelle alle quali il secolo va preso: bensì
era uomo di retta mente, e d'incorrotta virtù. Vissuto sempre nelle
solitudini dei Tirolesi monti, ignorava il vizio e i suoi allettamenti.
I Parigini ed i Milanesi spiriti, anche i più eminenti, correvano alle
lusinghe Napoleoniche, povero albergator di montagna, perseverava Hofer
nell'innocente vita. Allignano d'ordinario in questa sorte d'uomini due
doti molto notabili, l'amore di Dio, e l'amore della patria: l'uno e
l'altro risplendevano in Andrea. Per questo la Tirolese gente aveva in
lui posto singolare benevolenza e venerazione. Non era in lui ambizione;
comandò richiesto, non richiedente. Di natura temperatissima, non fu mai
veduto nè nella guerra sdegnato, nè nella pace increscioso, contento al
servire od al principe, od alla famiglia. Vide vincitori insolenti, vide
incendj di pacifici tuguri, vide lo strazio e la strage dei suoi; nè per
questo cessò dall'indole sua moderata ed uguale: terribile nelle
battaglie, mite contro i vinti, non mai sofferse che chi le guerriere
sorti avevano dato in sua potestà, fosse messo a morte: anzi i feriti
dava in cura alle Tirolesi donne, che e per se, e per rispetto di Hofer
gli accomodavano di ogni più ospitale servimento. Distruggeva Napoleone
le patrie altrui, sdegnoso anche contro gli amici: difendeva Hofer la
sua, dolce anche contro coloro, che la chiamavano a distruzione ed a
morte. Lascio io volentieri le illustri penne della vile età nostra
lodare i colpevoli fatti dei potenti; ma non mi sarà, credo, negato,
ch'io col mio basso ed oscuro stile mi diletti spaziando nel raccontare
le generose opere di coloro, ai quali più arrise la virtù che la
fortuna.

Adunque la nazione Tirolese, al suo antico signore badando, ed avendo a
schifo la signorìa nuova, uomini, donne, vecchi e fanciulli da Andrea
Hofer ordinati e condotti, insorsero, e dalle più profonde valli, e dai
più aspri monti uscendo, fecero un impeto improvviso contro i Bavari ed
i Francesi. Assaltati in mezzo a tanto tumulto i Bavari a Sterchinga, a
Inspruck, a Hall, e nel convento di San Carlo, non poterono resistere, e
perduti molti soldati tra morti e cattivi, deposero le armi, erano circa
diecimila, in potestà dei vincitori rimettendosi. Nè miglior fortuna
incontrò un corpo di tremila Napoleoniani Francesi e Bavari, che in
soccorso degli altri arrivava, sotto le mura di Vildavia. Quindi quante
squadre comparivano alla sfilata o degli uni o degli altri, tante erano
sottomesse dai sollevati. Nè luogo alcuno sicuro, nè ora vi erano per
gli assalitori; perchè da ogni parte, e così di notte come di giorno, i
Tirolesi uscendo dai loro reconditi recessi, e viaggiando per sentieri
incogniti, siccome quelli che ottimamente sapevano il paese, opprimevano
all'improvviso gl'incauti Napoleoniani. Fu questa una guerra singolare e
spaventosa, conciossiacchè al romore delle armi si mescolava il rimbombo
delle campane, che continuamente suonavano a martello, e le grida dei
paesani sclamanti senza posa, _in nome di Dio_, _in nome della
santissima Trinità_. Tutti questi strepiti uniti insieme, e dall'eco
delle montagne ripercossi facevano un misto pieno di orrore, di terrore,
e di religione.

Quest'erano le voci di una patria santa ed offesa. Chi con le carabine
trapassava da lontano i corpi degli offenditori, chi con sassi
sparsamente lanciati gli tempestava, chi con enormi massi strabalzati
gli ammaccava. Hofer composto in volto, e torreggiante per l'alta e
forte sua persona in mezzo a' suoi, e solo da loro conosciuto per lei,
non per l'abito conforme in tutto a quello dei compagni, appariva ora
incitante contro gli armati, ora raffrenante verso gl'inermi, uccisore
ardentissimo di chi resisteva, difensore magnanimo di chi si arrendeva.
Dovunque, e quandunque andava, era una volontà sola per combattere, una
volontà sola per cessare, e più poteva l'autorità del suo nome in quegli
animi bellicosi, che in soldati ordinatissimi l'uso della disciplina, ed
il timore dei soldateschi castighi. I fanciulli fecero da adulti, i
vecchi da giovani, le femmine da uomini, gli uomini da eroi; nè mai più
onorevole e giusta causa fu difesa da più unanime e forte consenso.
Camminavano i vinti, erano una moltitudine considerabile, per la strada
di Salisburgo verso il cuore dell'Austria, gratissimo spettacolo a
Francesco. I Tirolesi vincitori sulle terre Germaniche, passate le
altezze del Brenner, vennero nelle Italiane, e mossero a romore le
regioni superiori a Trento. Propagavasi il romore da valle in valle, da
monte in monte, e la Trentina città stessa era in pericolo. Certo era,
che quando l'arciduca Giovanni fosse comparso sulle rive dell'Adige, la
massa Tirolese sarebbe calata a fargli spalla; il che avrebbe partorito
un caso di grandissima importanza per tutta Italia: quest'era il disegno
dei generali Austriaci. L'imperatore Francesco, sì per ajutare la
caldezza di questo moto, e sì per dimostrare che non aveva mandato in
dimenticanza quelle popolazioni tanto affezionate, mandava in Tirolo
Chasteler, un generale per arte e per valore fra i primi dell'età
nostra, acciocchè nelle cose di guerra consigliasse Hofer. Mandava
altresì, come abbiam notato, un corpo di regolari usi alle guerre di
montagna, sotto la condotta di Jellacich, capitano esperto e conoscitore
del paese. Come prima le insegne ed i soldati dell'Austria comparirono,
sentirono i Tirolesi una contentezza incredibile. Entrarono gl'imperiali
a guisa di trionfo; tante erano le dimostrazioni d'allegrezza che i
popoli facevano loro intorno. Le campane suonavano a gloria, le
artiglierìe, e le archibuserìe tiravano a festa: i vincitori popoli
applaudivano: abbracciavano, s'abbracciavano, erano pronti a ristorare i
soldati d'Austria con le più gradite vivande di quei monti: giorni
felicissimi per l'eroico Tirolo.

Qui finirono le allegrezze dell'Austria; poichè nel colmo più alto delle
sue maggiori speranze, Napoleone fatale giunto sulle terre Germaniche, e
recatosi in mano il governo della guerra, vinse in pochi giorni tre
grossissime battaglie a Taun, a Abensberga, a Ecmul. Per questi
accidenti, fu costretto l'arciduca Carlo a ritirarsi sulla sinistra del
Danubio, e restò aperta la strada sulla destra ai Napoleoniani per
Vienna. Produssero anche le rotte dell'arciduca un altro importante
effetto, e questo fu, che oltrandosi Napoleone alla volta di Vienna, fu
forza all'arciduca Giovanni il tirarsi indietro dall'Italia; affinchè
non gli fosse impedita la facoltà di ritornarsene in Austria, e perciò
non solo l'Italia si perdeva per lui, ma ancora il Tirolo. Così per le
vittorie acquistate dall'imperator dei Francesi tra Augusta e Ratisbona
si cambiò la condizione della guerra. Chi aveva assaltato, era costretto
a difendersi; chi era stato assaltato, aveva acquistato facoltà di
assaltare; l'Italia si perdeva per l'Austria. Vienna pericolava, e niuna
speranza restava a chi aveva mosso la guerra, che quelle dell'Ungherìa,
della Moravia e della Boemia.

Quando pervennero all'arciduca Giovanni le novelle delle perdite del
fratello, s'accorse, e n'ebbe anche comandamento da Vienna, che quello
non era più tempo da starsene a badare in Italia, e che gli era mestiero
accorrere in ajuto della parte più vitale della monarchìa. Ordinava
adunque il suo esercito, che già era trascorso oltre Vicenza, alla
ritirata, solo proponendosi di fare qualche resistenza ai luoghi forti
per poter condurre in salvo le artiglierìe, le munizioni e le bagaglie;
opera difficile e pericolosa, con un nemico a fronte tanto svegliato e
precipitoso. Ritiravasi l'arciduca, perseguitavalo il principe. Fuvvi
qualche indugio alla Brenta per la rottura dei ponti. Fermaronsi gli
Austriaci sulle sponde della Piave, e si deliberarono a contendere il
passo. Erano alloggiati in sito forte, distendendosi colla destra sino
al ponte di Priuli, stato a bella posta arso dall'arciduca, e colla
sinistra a Rocca di Strada, sulla via che porta a Conegliano. Numerose
artiglierìe rinforzavano la fronte che occupava le vicine eminenze in
faccia al fiume; i luoghi bassi erano assicurati da alcune torme di
cavalli. S'apprestavano i Francesi al passo, sforzandosi di varcare a
quello di Lovadina, che è il principale. Non ostante che i Tedeschi
furiosamente tempestassero coll'artiglierìe poste nei luoghi eminenti,
Dessaix venne a capo dell'intento. Poi passò il vicerè, sopra e sotto a
Lovadina, con la maggior parte dell'esercito. Ordinò tostamente i
soldati sotto il bersaglio stesso dei nemici, che con palle, e cariche
continue di cavallerìa l'infestavano. Pareggiossi la battaglia, che
continuava con grandissimo furore da ambe le parti; perchè i Francesi
volevano sloggiare gli Austriaci dalle alture, gli Austriaci volevano
rituffar i Francesi nel fiume. Non risparmiavano nè il principe nè
l'arciduca, in questa terribile mischia, a fatica od a pericolo, ora
come capitani comandando, ed ora come soldati combattendo. Era il
conflitto tra la Piave e Conegliano; fossi profondi munivano la fronte
Tedesca. Diedero dentro i Francesi, Abbé a destra, Broussier in mezzo,
Lamarque a sinistra: secondavangli Pully, Grouchy, Giflenga. Dopo
ostinato affronto i soldati dell'arciduca furono costretti a piegare: la
fortuna si scopriva a favor del principe. Restava a superarsi il molino
della Capanna, dove i Tedeschi ostinatamente si difendevano. Lamarque
ajutato da Durutte, superati velocemente i fossi, e caricando con le
bajonette, s'impadroniva finalmente di quel forte sito; il che fece del
tutto sopravvanzare le sorti di Francia. Si ritirarono gli Austriaci,
non senza disordine nelle ordinanze, a Conegliano. Poi pressando vieppiù
il nemico, cercarono salvamento in Sacile. Fu molto grossa questa
battaglia, e molto vi patirono i Tedeschi: tra morti, feriti e
prigionieri, i perduti sommarono circa a diecimila. Morirono fra gli
altri, o vennero in potestà del vincitore, i generali Wolskell, Risner e
Hager. Perdettero quindici cannoni, trenta cassoni, molte munizioni e
bagaglie. Dei Napoleoniani mancarono tra morti e feriti circa tremila.
Principal onore in questo fatto riportarono dalla parte dei Francesi,
oltre il principe, Dessaix e Pully: da quella dei Tedeschi, oltre
l'arciduca, Wolskell, che finì poco dopo per le ferite l'ultimo dì della
sua vita con molto rincrescimento de' suoi, perchè era veramente
valoroso, e perito capitano di guerra.

Continuava l'arciduca a ritirarsi, il principe a seguitarlo. Passò il
Francese facilmente la Livenza, difficilmente il Tagliamento. Inondando
i Napoleoniani con la cavalleria il piano e le valli, scioglievano
l'assedio d'Osopo e di Palmanova. Divise il vicerè i suoi in due parti,
mandando la prima alla volta dei passi di Tarvisio verso la Carintia, la
seconda sotto la condotta di Macdonald verso la Carniola. L'intento era
di sospingere con quella, occupando la Carintia e la Stiria, il nemico
sino ai recessi dell'Ungherìa, e di congiungersi in tal modo coi
Napoleoniani di Germania; con questa di accennare Lubiana, e di
cooperare con Marmont, che a gran passi si accostava venendo dalla
Dalmazia. L'uno e l'altro disegno riuscirono a quel fine, che il
capitano di Francia si era proposto; conciossiachè Dessaix e Seras
prendendo continuamente dei monti, e cacciandosi avanti per le valli di
Ponteba, di Pradele, della Fella, e della Dogna i Tedeschi, si
avvicinavano al sommo giogo, che disparte le acque del Mediterraneo da
quelle del mar Nero. Incontrarono un primo intoppo nei forti di
Malborghetto e di Pradele. Tentò Seras di corrompere con danari il
comandante di Malborghetto. Ricusò il Tedesco contrattazione tanto
abbominevole: anzi combattendo valorosamente, e confortando con gravi e
virili parole i compagni alla difesa del forte, ed alla salute della
patria, vi finì una onorata vita con una gloriosa morte. Duolmi di non
aver conosciuto il nome di questo virtuoso Austriaco, poichè mi sarebbe
stato caro il mandarlo ai posteri in queste mie storie. Ottenevano
finalmente i Napoleoniani i due forti: superava il vicerè il passo di
Tarvisio, ed entrava vincitore nella Carintia, alla volta di Judenburgo
di Stiria incamminandosi. Jellacich cacciato dal Tirolo per le armi del
maresciallo Lefevre, mandatovi da Napoleone dopo le vittorie di
Ratisbona, perdè quasi tutti i suoi a San Michele di Stiria. Seras,
passati i monti di Someringa, ed arrivato a Scottvien, si congiungeva
con le prime scolte dell'esercito Germanico.

Mentre queste cose accadevano sulla sinistra del vicerè, Macdonald sulla
destra aveva occupato, passando per Monfalcone e Duino, Trieste. Da
questo luogo si era incamminato verso la Carniola per impadronirsi di
Lubiana, città capitale, cooperare con Marmont, e quindi per la strada
maestra che da Lubiana porta a Gratz, condursi in quest'ultima città col
fine di essere in grado di menar nuovi soldati a Napoleone. L'arciduca
Carlo teneva ancora il campo grosso e minaccioso. Trovava Macdonald un
duro intoppo in Prevaldo; ma parte di fronte assaltandolo, e parte
girando ai fianchi, l'acquistava. Colla medesima arte di accennare ai
fianchi ed alle spalle costringeva alla dedizione quattromila Austriaci,
che difendevano Lubiana, e vi entrava trionfando. Acquistata così nobile
vittoria, se ne giva, lasciati in Carniola presidii sufficienti, a
Gratz. Quivi fermossi aspettando, che Marmont lo venisse a trovare dalla
Dalmazia. Come prima il generale dei Dalmatici ebbe avviso, che
l'arciduca Giovanni, costretto dalla necessità della guerra d'Alemagna,
si era mosso dal Vicentino per ritirarsi dall'Italia, si era messo in
cammino per andar a congiungersi a cose maggiori col grosso dei
Napoleoniani. Partitosi adunque da Zara, e superati i Tedeschi, che gli
vollero contendere il passo al monte di Chitta ed a Gracazzo, si
approssimava alla terra di Gospizza, forte di sito per le molte acque
che la circondano, e per esservisi il nemico molto ingrossato. Erano, la
più parte, Croati. Fuvvi un combattere molto fiero sì in una battaglia
stabile, e sì alla campagna sparsa. Vinse, dopo molto sangue, la fortuna
dei Napoleoniani. S'apersero, per la vittoria di Gospizza, facili le
strade al capitano di Francia, perchè da un incontro in fuori, ch'egli
ebbe col retroguardo nemico ad Ottossa, non gli fu più oltre contrastato
il passo. Occupò successivamente Segra e Fiume, e trovati i compagni in
Istria, s'incamminava a gran giornate a Gratz. A questo modo tutto
l'antico Illirico venne in potestà di Francia. Il vicerè, raccolte tutte
le squadre, e solo lasciate le guernigioni necessarie nei luoghi più
opportuni, passava i monti di Someringa, e per la valle dell'Arabone, o
Giavarino, che i moderni chiamano Raab, verso il Danubio calandosi,
andava a farsi partecipe delle imprese del padre. L'enfasi Napoleonica
quivi si spiegava: «O bene v'avvenga, diceva in uno scritto mandato
fuori a posta, e siate ben venuti, o soldati miei dell'esercito Italico:
sorpresi da un nemico perfido prima che le vostre colonne fossero unite,
fino all'Adige ritraeste i passi; ma quando ordinaivi di marciare
avanti, e quelli essere i campi d'Arcole ricordaivi, voi vinceste venti
battaglie, voi conquistaste venticinque mila prigioni, voi seicento
cannoni, voi dieci bandiere: nè la Sava, nè la Drava, nè la Mura, nè le
strette di Tarvisio, nè gli aspri gioghi della Someringa vi arrestarono:
quel Jellacich, primo autore dell'uccisione dei nostri nel Tirolo,
pruovò di che sapessero le baionette vostre: voi feste pronta giustizia
di quelli avanzi fuggiti dallo sdegno del grande esercito: o bene
v'avvenga, e siate ben venuti, o voi soldati, che operaste, che quegli
Austriaci d'Italia, che per poco d'ora ebbero contaminato con la loro
presenza le mie provincie, vinti, dispersi ed annientati, servissero
d'esempio della verità di questa divisa. _Dio me la diede, guai a chi la
tocca_; sono, o soldati, contento di voi». A queste intonazioni di
Napoleone si stringevano nelle spalle gli uomini savi e temperati, i
quali, per amore anche della grandezza di lui, avrebbero desiderato
maggior moderazione; ma Napoleone non conobbe la grandezza della
modestia.

Il giorno quattordici di giugno, anniversario della vittoria di Marengo,
vinceva il principe Eugenio sotto le mura di Giavarino una grossissima
battaglia contro l'arciduca Giovanni, che saliva per le sponde del
Danubio in ajuto del suo fratello Carlo. Fu questa battaglia bene, e con
arte egregia combattuta dal vicerè. Nè io voglio defraudare dalla dovuta
laude l'arciduca, che in mezzo a tanto tumulto, a tanti spaventi, a
tanto precipizio dello cose Austriache, conservò la mente immota, e le
schiere ordinate. Combattè coi retroguardi valorosamente, tenne
rannodati gli antiguardi, e dopo tante battaglie, ed una ritirata di
tanto spazio, risorse più potente di prima nei campi di Giavarino, e se
non fosse stata la prestezza del vicerè, avrebbe forse cambiato da
tristi in liete le sorti del fratello augusto. Piacemi in questo luogo
dire, di Eugenio e di Giovanni favellando, che giovani ambidue, se
furono d'età pari, furono anche di valore; ma Giovanni più modesto per
la natura della casa, Eugenio più borioso per gli sproni del padre,
degno l'uno di difendere la propria patria, non degno l'altro di
distruggere le patrie d'altrui.

Il dì sei di luglio periva la mole Austriaca nei campi di Vagria. Quivi
fu prostrato l'arciduca Carlo: Napoleone divenne padrone di quell'antica
e grande monarchìa. Si trovò facilmente forma di concordia per la
depressione d'una delle parti: consentì l'imperatore Francesco a
condizioni durissime di pace. Consentì anche, prevalendo in lui ad ogni
altro rispetto la salute dello stato, a quello che era più duro ancora
che tutte le altre condizioni, dico al congiungere la propria figliuola
Maria Luisa in matrimonio a colui, che era la ruina della sua casa, e
che principiante e durante la guerra, l'aveva chiamato coi nomi più
vituperosi. Il dì quattordici ottobre si stipulava in Vienna, per lo
stabilimento delle cose comuni, dal signor principe di Champagny per
parte di Napoleone e dal principe di Lichtenstein per parte di
Francesco, il trattato di pace. Cedeva l'imperatore Francesco
all'imperator Napoleone, oltre molti altri paesi in Germania ed in
Polonia, la contea di Gorizia, il territorio di Monfalcone, la contea e
la città di Trieste, il ducato di Carniola con le sue dipendenze nel
golfo di Trieste, il circolo di Villaco nella Carintia, con tutti i
paesi situati sulla riva destra della Sava, dal punto in cui questo
fiume esce dalla Carniola, fin dove tocca le frontiere della Bosnia,
nominatamente una parte della Croazia provinciale, sei distretti della
Croazia militare, Fiume, ed il littorale Ungherese, l'Istria Austriaca
col distretto di Castua, Picino, Buccari, Buccarizza, Portore, Segua, e
le isole dipendenti dai paesi ceduti, e tutti gli altri territorii
qualsivogliano situati sulla destra del fiume, il filo delle acque del
quale avesse a servire di limite fra i due stati: perdonasse Napoleone
ai Tirolesi, Francesco ai Polacchi: l'Austria cessasse ogni relazione
coll'Inghilterra. Napoleone sempre intento a torre la riputazione a'
suoi amici per tor loro poscia lo stato, fece inserire nel trattato un
capitolo, per cui l'Austria si obbligava a cedere all'imperatore
Alessandro di Russia, che era stato, contro ogni ragione, oziosamente
riguardando il processo di questa guerra, nella parte più orientale
dell'antica Galizia un territorio, che contenesse quattrocento mila
anime, non inclusa però la città di Brodi; il quale capitolo accettò
Alessandro, benchè fosse spoglia di un amico, che ne ricevette
grandissima molestia. Di questa stipulazione non merita riprensione
l'Austria, siccome quella che vi consentì per forza. Dello sforzatore
poi e dell'accettatore, chi abbia meritato maggior biasimo, facilmente
il giudicheranno i posteri. Questo fine sortirono la presa d'armi, ed il
poderoso apparato di guerra dell'Austria, e questa concordia fu
obbligata d'accettare. L'Europa viemaggiormente si confermava in servitù
di Napoleone.

L'Austria percossa da tanto infortunio quietava per la pace: ma era
dolorosa la sua quiete. Oltre la perduta potenza, l'infestava
l'insolenza del vincitore, e l'aggravavano le grossissime imposizioni.
Soli i Tirolesi non cedevano al terrore comune, e con l'armi in mano
continuavano a difendere quel sovrano, che già deposte le sue, aveva
dato molte nobili parti del suo dominio, e loro stessi in potestà del
vincitore. Il principe Eugenio dalle sue stanze di Villaco gli esortava
a posare, ma invano. Più volte combattuti dai Francesi, dai Sassoni e
dai Bavari, più volte batterono, e più volte anco battuti, più volte
risorsero. Vinti, si ritiravano alle selve impenetrabili, ai monti
inaccessibili: vincitori, inondavano le valli, e furiosamente cacciavano
il nemico. Vinti, erano trattati crudelmente dai Napoleoniani;
vincitori, trattavano i Napoleoniani umanissimamente; e siccome gente
religiosa, vinti, con segni di grandissima divozione pregavano dal cielo
miglior fortuna alla patria, vincitori, coi medesimi segni il
ringraziavano. E' furono visti, dopo di aver superato con incredibile
valore i soldati di Lefevre, e restituito a libertà coloro, che si erano
arresi, scorrente ancora il sangue, e presenti i cadaveri dei
compatriotti e dei nemici, gettarsi al punto stesso, dato il segno da
Hofer, coi ginocchi a terra, ed in tale pietosa attitudine, tra
lacrimosi e lieti rendere grazie a Dio dell'acquistata vittoria.
Echeggiavano i monti intorno dei divoti ed allegri suoni mandati fuori
da religiosi e forti petti. Infine sottentrando continuamente genti
fresche a genti uccise, abbandonati da tutto il mondo, anzi quasi tutto
il mondo combattendo contro di loro, cessarono i Tirolesi, non dal
volere, ma dal potere, e nei montuosi ricetti loro ricoveratisi
aspettavano occasione, in cui più potesse la virtù che la forza. Il
bavaro dominio si restituiva nel Tirolo Tedesco, cedè l'Italiano in
possessione del regno Italico.

Sul finire del presente anno Andrea Hofer si ritirava con tutta la sua
famiglia ad un povero casale fra montagne e nevi altissime, dolente per
la patria, tranquillo per se. Ma Napoleone era sitibondo del suo sangue.
Perciò, fattolo con tutta diligenza cercare e ricercare, gli riuscì di
trovarlo nel suo recondito recesso. Batterono alla porta i Napoleoniani
soldati, era la notte dei venzette gennaio dell'ottocento dieci.
L'aperse Hofer: veduto che era venuto in forza altrui, con semplicità e
serenità mirabile: «Son io, disse, Andrea Hofer, sono in poter di
Francia: fate di me ciò che v'aggrada; ma vi piaccia risparmiare la mia
donna e i miei figliuoli: son eglino innocenti, nè de' fatti miei
obbligati». Così dicendo, diessi in potestà dei Napoleoniani. Diedesi
con lui un giovinetto di fresca età, figliuolo di un medico di Gratz,
venuto, così muovendolo la virtù del Tirolese, a trovarlo, ed a
dedicarsegli o a vita o a morte. Condotto a Bolzano, l'accompagnavano la
madre, ed un figliuolo di tenera età. Ultimo destino gli soprastava. Fu
il figliuolo lasciato stare a Bolzano, la madre mandata a Passeira ad
aver cura di tre altri figliuoli ancor bambini, i quali, se ora avevano
il padre prigioniero, presto il dovevano aver morto. Pure non se
n'accorgevano per la fanciullezza; il che muoveva viemmaggiormente a
compassione. Accorrevano i popoli smarriti dovunque i Napoleoniani con
Andrea legato passavano, o nel Tirolo Tedesco o nell'Italiano che si
fosse, alzando per dolore gli occhi al cielo, e lacrimando, e sclamando,
e la memoria del diletto ed infelice loro capitano benedicendo. Le palle
soldatesche ruppero in Mantova il patrio petto d'Andrea, lui non che
intrepido, quieto in quell'estrema fine. Ostò ad Andrea l'età perversa:
fu chiamato brigante, fu chiamato assassino. Certo, se le lodi sono
stimolo a virtù, lagrimevole e disperabil cosa è il pensare al destino
di Hofer.

Acquistata tanta vittoria dell'Austria, e deponendo ogni simulazione,
non conobbe più freno Napoleone: l'antica cupidigia di Roma gli veniva
in mente. Piacquegli per maggiore scorno dell'Austria, che sul
principiar della guerra aveva favellato di liberare e restituire il
papa, decretare il dì diciassette maggio in Vienna stessa queste cose:
considerato, che quando Carlomagno imperatore dei Francesi, e suo
augusto antecessore, diede in dono ai vescovi di Roma parecchi paesi,
gliene cedè loro a titolo di feudo col solo fine di procurare sicurezza
a' suoi sudditi, e senza che per questo abbia Roma cessato di esser
parte del suo impero; considerato ancora, che da quel tempo in poi
l'unione delle due potestà spirituale e temporale era stata, ed ancora
era, fonte e principio di continue discordie, che pur troppo spesso i
sommi pontefici si erano serviti dell'una per sostenere le pretensioni
dell'altra, e per questo le faccende spirituali, che per natura propria
sono immutabili, si trovarono confuse colle temporali sempre mutabili, a
seconda dei tempi; considerato finalmente, che quanto aveva egli
proposto a conciliazione della sicurtà de' suoi soldati, della quiete e
della felicità de' suoi popoli, della dignità e della integrità del suo
impero colle pretensioni temporali dei sommi pontefici, era stato
proposto indarno, pretendeva, voleva ed ordinava, che gli stati del papa
fossero, e restassero uniti all'impero Francese; che la città di Roma
prima sede della cristianità, e tanto piena d'illustri memorie, fosse
città imperiale e libera, e che il suo reggimento avesse forme speciali;
che i segni della Romana grandezza, e che ancora in piè sussistevano, a
spesa del suo imperiale tesoro fossero conservati e mantenuti; che il
debito del pubblico fosse debito dell'impero; che le rendite del papa si
amplificassero sino a due milioni di franchi, e fossero esenti da ogni
carico e prestanza; che le proprietà e palazzi del santo padre non
fossero soggetti ad alcun aggravio di tasse, ed a nissuna giurisdizione
o visita, ed oltre a questo godessero d'immunità speciali; che
finalmente una consulta straordinaria il primo di giugno prendesse
possessione a suo nome degli stati del papa, ed operasse, che il governo
secondo gli ordini della constituzione vi fosse recato in atto il primo
giorno dell'ottocentodieci. Nè mettendo tempo in mezzo, chiamava il
giorno stesso del diciassette maggio alla consulta Miollis, creato anche
governatore generale e presidente, Saliceti, Degerando, Janet, Dalpozzo,
e per segretario un Balbo, figliuolo del conte Balbo di Torino.

A questo modo veniva Roma in potestà immediata di Napoleone, ed i papi,
dopo una possessione di mille anni, furono spodestati del dominio
temporale. Ad atto così grave ed insolito sclamava Pio, e con la sua
pontificale voce a tutto il mondo gridava: «Adunque sono adempite le
tenebrose trame dei nemici della sedia apostolica? Adunque dopo la
violenta ed ingiusta invasione della più bella e più considerabil parte
dei nostri dominj, spogliati siamo, sotto indegni pretesti, e con
ingiustizia somma, della nostra sovranità temporale, con cui la
independenza spirituale nostra è strettamente congiunta! Fra questa
persecuzione barbara consolaci e confortaci il pensiero dello essere in
sì grave calamità caduti, non per offesa alcuna da noi fatta
all'imperatore dei Francesi, od alla Francia, alla Francia stata sempre
nostro amore e nostra cura prediletta, nè per alcun intrigo di mondana
politica, ma per non aver voluto tradire nè i nostri doveri, nè la
nostra coscienza. Se non lece a chiunque la religione cattolica professa
di dispiacere a Dio per piacere agli uomini, molto meno conviensi a chi
di questa medesima religione è capo, ed insegnatore supremo. Obbligati
inoltre verso Dio, obbligati verso la chiesa a trasmettere ai successori
nostri intatti ed intieri i nostri diritti, noi protestiamo contro di
questa nuova e violenta spogliazione, e nulla dichiariamo, e di niun
valore la occupazione testè fatta dei nostri dominj. Ricusiamo, e con
ferma ed assoluta risoluzione rifiutiamo ogni rendita o pensione, che
l'imperatore dei Francesi pretende fare a noi, ed ai membri del nostro
collegio. Taccia d'infame obbrobrio in cospetto della chiesa
incontreressimo, se il vitto ed il viver nostro accettassimo dalle mani
dell'usurpatore dei nostri beni. Rimettiamocene nella provvidenza,
rimettiamocene nella pietà dei fedeli, contenti al terminare per tale
guisa nella mediocrità questa vita oggimai piena di tanti dolori, e di
tanti affanni. Prosterniamci noi, e con umiltà perfetta i decreti
impenetrabili di Dio adoriamo: prosterniamci, ed a favore dei nostri
sudditi la sua divina misericordia invochiamo, dei nostri sudditi,
nostro amore e nostra gloria, i quali, fattosi da noi quanto nella
presente occorrenza dal debito nostro era richiesto, esortiamo ad amar
la religione, a conservarsi in fede, a pregare, ed instantemente con
pianti e con gemiti scongiurare, tra il vestibolo e l'altare prostrati,
il supremo padre della luce, acciocchè si degni cambiare in meglio i
consiglj perversi di coloro, da cui sono i nostri persecutori mossi».

Il giorno appresso, in cui mandava fuori dal suo pastorale petto queste
lamentazioni, fulminava papa Pio la scomunica contro l'imperator
Napoleone, e contro tutti coloro che con lui avessero cooperato
all'occupazione degli stati della chiesa, e massimamente della città di
Roma. Fulminò altresì l'interdetto contro tutti i vescovi, e prelati sì
secolari che regolari, i quali non si conformassero a quanto aveva
statuito circa i giuramenti, e le dimostrazioni pubbliche verso il nuovo
governo.

Data la sentenza, si ritirava nei penetrali del suo palazzo, attendendo
a pregare, ed aspettando quello che la nemica forza fosse per ordinare
di lui. Fe' chiudere diligentemente le porte, e murare gli aditi del
Quirinale, acciocchè non si potesse pervenire nelle interne stanze sino
alla sua persona, se non con manifesta violazione del suo domicilio.
Informarono i Napoleoniani il loro padrone dello sdegno del papa, e
della fulminata sentenza: pregarono, ordinasse ciò che avessero a farsi.
Rispose, rivocasse il papa la scomunica, accettasse i due milioni,
quando no, l'arrestassero, ed il conducessero in Francia. Duro comando
trovò duri esecutori. Andarono la notte dei cinque luglio sbirri,
masnadieri, galeotti, e con loro, cosa incredibile, generali, e soldati
Napoleoniani alla violazione della pontificia stanza. Gli sbirri, i
masnadieri ed i galeotti scalarono il muro alla panattiera dov'era più
basso, ed entrati aprirono la porta ai Napoleoniani, parte gente d'armi
parte di grossa ordinanza. Squassavansi le interne porte, scuotevansi i
cardini, rompevansi i muri: il notturno romore di stanza in istanza
dell'assaltato Quirinale si propagava: le facelle accese, che parte
dileguavano, parte vieppiù addensavano l'oscurità della notte,
accrescevano terrore alla cosa. Svegliati a sì grande ed improvviso
fracasso, tremavano i servitori del papa: solo Pio imperterrito si
mostrava. Stava con lui Pacca cardinale, chiamato a destino peggiore di
quello del pontefice, per avere in tanta sventura e precipizio serbato
fede al suo signore: pregavano, e vicendevolmente si confortavano. Ed
ecco arrivare i Napoleoniani, atterrate o fracassate tutte le porte,
alla stanza dell'innocente e perseguitato pontefice. Vestivasi a fretta
degli abiti pontificali: voleva che rimanesse testimonio al mondo della
violazione, non solamente della sua persona, ma ancora del suo grado e
della sua dignità. Entrò per forza nella pontificia camera il generale
di gendarmerìa Radet, cui accompagnava un certo Diana, che per poco non
aveva avuto il capo mozzo a Parigi per essersi mescolato in una congiura
contro Napoleone con lo scultore Ceracchi, ed ora si era messo, non
solamente a servir Napoleone, ma ancora a servirlo nell'atto più
condannabile, che da lungo tempo avesse commesso. Radet pensando agli
ordini dell'imperatore, venne tostamente intimando al papa, accettasse i
due milioni, rivocasse la scomunica; altrimenti sarebbe preso e condotto
in Francia. Ricusò, non superbamente, ma pacatamente, il che fu maggior
forza, il pontefice la profferta. Poi disse, perdonare a lui, esecutor
degli ordini: bene maravigliarsi, che un Diana, suo suddito, s'ardisse
di comparirgli avanti, e di fare alla dignità sua tanto oltraggio; ciò
non ostante, soggiunse, anche a lui perdonare. Fattosi dal papa il
rifiuto trapassava a protestare, dichiarando nullo, e di niun valore
essere quanto contro di lui, contro lo stato della chiesa, e contro la
Romana sede aveva il governo Francese fatto e faceva; poi disse, essere
parato: di lui facessero ciò che volessero: dessergli pure supplizio e
morte, non avere l'uomo innocente cosa di che temere si abbia. A questo
passo, preso con una mano un crocifisso, coll'altra il breviario, ciò
solo gli restava di tanta grandezza, in mezzo ai vili uomini rompitori
del suo palazzo, ed ai soldati Napoleoniani, che non avevano abborrito
dal mescolarsi con loro, s'incamminava dove condurre il volessero. Gli
offeriva Radet, desse il nome dei più fidi, cui desiderasse aver
compagni al suo viaggio. Diedelo, nissuno gli fu conceduto. Fugli per
forza svelto dal grembo Bartolomeo Pacca cardinale. Poi fu con presto
tumulto condotto, assiepandosegli d'ogn'intorno le armi Napoleoniche,
nella carrozza che a questo fine era stata apparecchiata, e con molta
celerità incamminato alla volta della Toscana. Solo era con lui Radet.
Mentre gl'indegni fatti notturnamente si commettevano nel pontificale
palazzo, Miollis sorto a vegliar l'impresa, se ne stava ad udire i
rapporti che ad ogni momento gli pervenivano, nel giardino del
contestabile, non so se a caso o a disegno, passeggiando. Certo, in tale
accidente il nome di contestabile faceva un suono spaventevole,
perciocchè ricordava Clemente settimo. Non era senza sospetto il
generale Napoleonico di qualche romore. Per questo aveva scelto la
notte, comandato prestezza, chiamato due mila Napolitani sotto colore di
mandargli nella superiore Italia.

Stupore, ed orrore occuparono Roma, quando, nato il giorno, vi si sparse
la nuova della commessa enormità. Portavano i carceratori il pontefice
molto celeremente pei cavalli delle poste per prevenir la fama. Tanto
temeva il padrone di tutte armi una religiosa opinione. Transmettevansi
l'uno all'altro i gendarmi di stazione in stazione il cattivo e potente
Pio. Quel di Genova, temendo di qualche moto in riviera di Levante,
l'imbarcava sur un debole schifo, che veniva da Toscana. Addomandò il
pontefice al carceratore, se fosse intento del governo di Francia di
annegarlo. Rispose negando. Posto piede a terra, il serrava
nell'apprestate carrozze in Genova: pena di morte, se i postiglioni non
galoppassero. Sostossi in Alessandria, come in luogo sicuro per le
soldatesche a desinare. Poi traversossi il Piemonte con velocità di
volo: a Sant'Ambrogio di Susa, il carceratore apprestava i cavalli per
partire con maggior celerità, che non era venuto. Lasso dall'età, dagli
affanni, dal viaggio, l'addomandava il pontefice, se Napoleone il voleva
vivo o morto. Vivo, rispose. Soggiunse Pio, adunque starommi questa
notte in Sant'Ambrogio. Fu forza consentire. Varcavano il Cenisio:
gl'Italiani popoli non avendo potuto per la velocità venerare il
pontefice presente, il venerarono lontano, pietosamente visitando i
luoghi dove aveva stanziato, per dove era passato: sacri gli chiamavano
per isventura, sacri per dignità, sacri per santità. Semi di distruzione
di Napoleone erano questi; già le profezie di Pio si avveravano, già la
pienezza dei tempi si avvicinava. Pacca fedele fu mandato, come se fosse
un malfattore, nel forte di Pietracastello presso a Belley, funesta
stanza d'ogni innocente, che non piaceva a Napoleone. Fu lasciato il
papa fermarsi qualche giorno in Grenoble, poi messo di nuovo in viaggio.
Come se altra strada non vi fosse, fu fatto passare a Valenza di
Delfinato, stanza di morte di Pio sesto, atto tanto più incivile, quanto
non necessario. Per Avignone, per Aix, per Nizza di Provenza il
condussero a Savona, strano viaggio da Roma per Francia a Savona. Ma
celavasi la partenza, celavasi il viaggio: salvo coloro, che presenti
vedevano il pontefice, niuno sapeva; perchè delle lettere dei privati
poche parlavano, delle gazzette niuna, dove fosse, nè dove andasse. I
Francesi colla medesima riverente osservanza l'onorarono, con cui
l'avevano onorato gl'Italiani; il trattarono i prefetti dei dipartimenti
con servimento e rispetto: così aveva comandato Napoleone.

Napoleone vincitore dell'Austria tornava in Francia nella imperial sede
di Fontainebleau. I deputati Italiani, tal era stato il concerto e
l'ordine, già l'aspettavano per le adulazioni, Moscati, Guicciardi e
Testi pel regno Italico; Zondadari cardinale, arcivescovo di Siena, e
grand'elemosiniere di Elisa principessa, Alliata, arcivescovo di Pisa,
un Chigi, un Lucci, un Mastiani, un Dupuy, un Benvenuti, un Tommaso
Corsini per la Toscana, il duca Braschi, il principe Gabrielli, il
principe Spada, il duca di Bracciano, il cavaliere Falconieri, il conte
Marescotti, il marchese Solombri, il marchese Travaglini per Roma.
Moscati orando, ringraziò delle date leggi, Zondadari della data Elisa.

Per Roma vi fu maggior magniloquenza. Braschi, oratore della città dei
sette colli, favellò dei Scipioni, dei Camilli, dei Cesari, del padre
Tevere. «Sussiste ancora, soggiunse Braschi, nipote che era di Pio sesto
perseguitato, sussiste quel Campidoglio, sul quale ascesero tanti
illustri conquistatori: sussiste, e addita a voi, sire, gloriose
vestigia, e seggio degno del vostro nome immortale. Quivi risorge, quivi
si rinverde quel serto d'alloro, che Nerva depose nel tempio di Giove.
Voi solo potete con l'ombra vostra renderlo sicuro da qualunque insulto
nemico, come l'aquila di Trajano dalle offese del Germano, del Parto,
dell'Armeno, e del Dace il preservava.»

Braschi a Napoleone signore parlò di Cesare, di Nerva, e di Trajano:
avrebbe anche potuto toccare di qualche altro, e non avrebbe spiaciuto a
Napoleone, che accusava Tacito di aver calunniato Nerone. Ma come e
perchè parlasse di Camillo e di Scipione, io non lo so; perciocchè
Napoleone era solito dire, che i tempi di Roma da Tarquinio a Cesare
erano episodio, e che i veri e legittimi tempi Romani solo erano gli
scorsi sotto i re, e sotto gl'imperatori: così non re dei Romani, ma di
Roma chiamò poscia il figliuolo, che ebbe da Maria Luisa Austriaca. A
tanto di pazzia era giunto quest'uomo, che dopo di aver distrutto le
repubbliche moderne, voleva anche distruggere le antiche. Pure i moderni
repubblicani fecero cose di fuoco, e guerre incredibili per lui. Dal
canto loro i re, per quel suo odio contro le repubbliche, il
fomentarono, e se lo tennero caro credendo, ch'ei fosse venuto loro in
concio ad un bel bisogno. Ma gliene cosse loro, e il mondo lo sa, ed
eglino i primi per modo che io spesso ne risi, e più spesso ancora ne
piansi.

Rispose il sire ai Romani, sempre pensare alle famose geste dei loro
antenati: passerebbe l'Alpi per dimorarsi qualche tempo con esso loro:
gli imperatori Francesi suoi predecessori avergli scorporati
dall'impero, e dati in feudo ai loro vescovi, ma il bene de' suoi popoli
non ammettere più alcuna divisione. Sotto le medesime leggi, sotto il
medesimo signore aver a vivere Francia ed Italia: del resto, aver loro
bisogno di un braccio potente, e lui avere questo braccio, e volerlo
usare a benefizio loro: ciò non ostante non intendere, che alcun
cambiamento fosse fatto nella religione dei loro padri; figliuolo
primogenito della chiesa non voler uscire dal suo grembo: non avere mai
Gesù Cristo creduto necessario dotare San Pietro di una sovranità
temporale: la Romana sede essere la prima della cristianità, essere il
vescovo di Roma capo spirituale della chiesa, lui esserne l'imperatore,
volere dar a Dio ciò che è di Dio, a Cesare ciò che è di Cesare.

Ora ho io a descrivere Roma Francese. La Romana consulta, come prima
prese il magistrato, pensò alla sicurezza del nuovo stato, sapendo
quanti mali umori, e quante avverse opinioni covassero: parvegli bene
spiare sul bel principio i pensieri più segreti degli uomini: ordinava
la polizia; creonne direttor generale Piranesi, uomo molto atto a questo
carico; direttori particolari Rotoli, il conte Gherardi, Visconti,
Delup-Verdun, Pesse, e Timetei, uomini nei quali i Francesi avevano
fede. Ciò quanto ai detti ed ai fatti segreti: quanto agli scritti,
anche segreti, fu tolta agl'impiegati del papa la posta delle lettere, e
data al direttore della posta di Francia. Nè la cosa fu solo in nome;
perchè con dannabilissima licenza si aprivano e si leggevano le lettere,
massime quelle che s'indirizzavano a Savona, dov'era il papa. Si usava
in questo un rigore eccessivo. I duchi d'Otranto e di Rovigo, e tutti
gli agenti loro fino agli ultimi erano in questa bisogna affaccendati,
che dentro alle Romane lettere spiassero. Ne lessero delle innocenti, ne
lessero delle colpevoli contro la nuova signorìa; ne lessero anche delle
ridicole, perchè i belli umori, che ve n'erano in Roma molti, malgrado
delle disgrazie, scrivevano a posta lettere indiritte a Savona piene di
beffe contro chi le spiava, e contro il maledetto modo di spiarle.
Importava che a confermazione della quiete si unisse la forza alle
notizie, nè potendo i soldati di Francia essere in ogni luogo, si
crearono le guardie, urbana in Roma, provinciali nelle province, legioni
chiamandole. Della legione di Roma fu eletto capo il conte Francesco
Marescotti, uomo dedito a Francia. Questi ordini furono buoni per
impedire i moti politici, non a frenare gli uomini di mal affare, che
infestavano l'agro Romano, e le vicinanze stesse di Roma. Trapassossi a
partire il territorio con fare i due dipartimenti, di cui chiamarono
l'uno del Tevere, l'altro del Trasimeno; nominaronsene a tempo i due
prefetti, un Gacone ed un Olivetti. Trassersi gli ufficiali municipali:
furono le elezioni di gente buona e savia: faceva la consulta presto, ma
faceva anche bene, salvo quella peste della polizia, e gli ordini
fiscali, entrambi inesorabili: in questo Napoleone non rimetteva mai
dalla sua natura. Ostava alla nuova amministrazione dei comuni l'ordine
del buon governo, il quale creato da Sisto quinto, ed attuato da
Clemente ottavo, aveva l'ufficio di amministrar i comuni, nè senza
grande umiltà loro. La consulta l'abolì; sostituivvi le forme Francesi.
Il consiglio municipale di Roma chiamò senato: elessevi personaggi di
gran nome, i principi Doria, Albani, Chigi, Aldobrandini, Colonna,
Barberini, i duchi Altieri, Braschi, Cesarini, Fiano. Braschi docile a
quanto Napoleone volesse, fu nominato maire, o vogliam dire sindaco di
Roma. Così andavano persuadendosi, che con un maire di fatto alla
Francese, ed un senato di nome alla Romana, Roma sarebbe contenta.
Intanto si scrivevano i soldati per le guerre forestiere, anche nella
città imperiale e libera di Roma. Nè le leggi civili e criminali di
Francia si omettevano; che anzi per ordinazione della consulta si
promulgavano sì quanto alle persone, sì quanto alle cose, sì quanto ai
dritti, e sì quanto agli ordini giudiziali. Fu chiamato presidente della
corte d'appello Bartolucci, un uomo di mente vasta e profonda, di non
ordinaria letteratura, e di giudizj e di stato molto intendente.
Conosceva Napoleone, predicava la sua ruina inevitabile. Chiamato
consigliere di stato a Parigi, vi diede saggi di quell'uomo dotto e
prudente ch'egli era.

Le casse intanto più di ogni altra cosa premevano: Janet ne aveva cura.
Conservò la imposizione dativa, che doveva gettare un milione e mezzo di
franchi, la tassa del sale, il cui ritratto si supputava circa ad un
milione, ed il dazio sulla mulenda, che si estimava ad una valuta di
circa cinquecento mila franchi. Fra il lusso dei primi magistrati, la
miseria del paese, i debiti di ognuno, il frutto di queste tasse non
poteva bastare a dar vita alla macchina politica. Miollis si godeva
quindicimila franchi al mese, come governator generale, e diecimila
franchi pure al mese, come presidente della consulta. Se poi, oltre a
tutto questo, toccasse i suoi stipendi di generale di Francia con tutte
le sue giunte, io non lo so. Lemarrois, comandante della divisione,
aveva per se quindicimila franchi al mese, e per la sua polizia
quattromila, pure al mese. I membri della consulta avevano ciascuno
tremila franchi al mese. Ma Salicetti non se ne volle stare al
ragguaglio dei colleghi, ed ottenne quattromila ciascun mese. Questi
aggravi seguitavano le lunghe disgrazie di Roma. Pure buon uso faceva la
consulta di un'altra parte del denaro del pubblico. Propose a Napoleone,
e da lui impetrò anche facilmente, che si pagasse sufficiente denaro
alla duchessa di Borbone parmense, ed a Carlo Emanuele re di Sardegna,
che tuttavia se ne viveva in Roma tutto intento alle cose della
religione; nobile atto, e da non tralasciarsi nelle storie.

La parte più malagevole del Romano governo era l'ecclesiastica: aveva il
papa, già fin quando le Marche erano state unite al regno Italico,
proibito i giuramenti: confermò questa proibizione per lo stato Romano
nell'atto stesso della sua partenza di Roma. Richiedeva Napoleone del
giuramento anche gli ecclesiastici. Ne nacque uno scompiglio, una
disgrazia incredibile. Consisteva la principale difficoltà nel giurare
la fedeltà, dell'obbedienza non dubitavano. Ripugnavano alla parola di
fedeltà, perchè credevano, che importasse il riconoscere l'imperator
Napoleone come loro sovrano legittimo; al che giudicavano di non poter
consentire, non avendo il papa rinunziato. Nè si poteva pretendere, che
uomini privati, dediti solamente agli uffici religiosi, la maggior parte
senza letteratura, alcuni anche senza lettere, investigassero tutte le
antiche storie per giudicare da loro medesimi, se la donazione o di
Carlomagno o di Pipino fosse valida o no, assoluta o restrittiva, e se
fossero validi o no i motivi, con cui Napoleone l'impugnava. Solo questo
sapevano, che il papa era sovrano di Roma da più di dieci secoli, come
tale riconosciuto da tutto il mondo, e da Napoleone stesso. Ancora
sapevano che il papa, non che avesse rinunziato, aveva fortemente e nel
miglior modo possibile protestato contro la spoliazione.

Imprendeva a giustificare i giuramenti Dalpozzo, uno della consulta,
uomo di gran sapere e di maggiore ingegno. Andò discorrendo, la legge
divina prescrivere la obbedienza ai magistrati statuiti dalle leggi
dello stato, non avere questo precetto altra limitazione, se non quella
che è sempre e di pieno diritto sottintesa, quella cioè, che non si
debbe prestare obbedienza alle cose in se stesse, ed assolutamente
illecite: non potere l'autorità ecclesiastica derogare nè in tutto nè in
parte ad un precetto divino: conseguitarne adunque evidentemente, che
debbesi al sovrano un giuramento puro e semplice d'obbedienza e di
fedeltà senza alcuna esplicita restrizione: avere l'antico sovrano di
Roma preteso proibire ogni giuramento da quello in fuori, di cui diede
egli stesso la formola: non potersi certamente questa proibizione
stimare precetto della Chiesa, e che quand'anche fosse, ella non
obbligherebbe i sudditi ad esporsi, per osservarla, allo sdegno del
sovrano, ed alle pene che il rifiuto del giuramento seguiterebbero,
perciocchè le leggi della Chiesa, secondo le regole comuni, non
obbligano mai sotto grave incomodo; ma nel fatto una tale proibizione
altro non essere, che un mezzo concetto dallo spodestato principe di
Roma con mire del tutto umane, cioè per turbare il possesso al nuovo
governo, e per ricuperare il dominio temporale: non avere in questo il
papa operato come capo della Chiesa, nè come vicario di colui, che
disse, non essere il regno suo di questo mondo, e che insegnò co' suoi
precetti e col suo esempio, che sempre si debbe obbedire ai magistrati
stabiliti: adunque, ed unicamente dalla confusione delle due potestà
temporale e spirituale in una sola mano, essere nata la opinione erronea
che oggidì importava oltre modo di distruggere, pel buon ordine e per la
quiete pubblica; le formole del giuramento prescritte agli abitatori
dello stato Romano essere quelle stesse, che erano in vigore in tutto
l'imperio Francese e nel regno Italico, e secondo le quali più di
quaranta milioni di sudditi cattolici non esitavano punto a prestar
giuramento ogni qual volta che l'occasione s'appresentava. La formola
particolare prescritta ai vescovi ed ai curati, essere stata accordata
nel concordato tra il governo Francese ed il papa Pio settimo: i dubbi
sparsi nel popolo, che giurando obbedienza alle constituzioni
dell'impero, si venisse ad appruovare il divorzio, e così ancora altre
insinuazioni di simil sorta, non avere fondamento: sotto il nome di
constituzioni dell'impero venire le leggi politiche, che constituiscono
la forma del governo, e queste leggi sempre essere distinte dalle leggi
civili: oltre a questo, non essere il divorzio comandato dalla legge
civile: solo per esse permettersi a coloro, che credevano poterlo usare
secondo i loro principj religiosi: già parecchi vescovi dello stato
Romano, già un gran numero di curati, di canonici e di altri religiosi,
tacendo dei magistrati civili, avere dato un esempio di sommessione e
d'obbedienza, ch'altri doveva seguitare: importare che tale esempio si
propagasse e dilatasse; volere il governo, ed in ciò porre grandissima
cura, che gli ecclesiastici, i quali già si erano uniformati, o
sarebbero per uniformarsi a' suoi ordini, fossero onorati con manifesti
segni di soddisfazione e di confidenza.

Sani ed irrefragabili erano i principj del Dalpozzo, quanto
all'obbedienza, e siccome gli ecclesiastici non dubitavano di giurarla
al nuovo stato, e di più di giurare di non partecipar mai in nissuna
congiura o trama qualunque contro di lui, così un governo giusto e buono
avrebbe dovuto contentarsene. Ma Napoleone esigeva il giuramento di
fedeltà, sì perchè gli pareva che un tal giuramento implicasse la
riconoscenza di sovrano legittimo, ed in tal modo effettivamente, come
abbiam detto, l'intendevano l'intimatore e gl'intimati, sì perchè
volevano fare scoprir i renitenti, per avere un pretesto di
allontanargli da Roma, dove gli credeva pericolosi. Vi era, in questo,
troppa scrupolosità da una parte, troppo rigore dall'altra. Perciocchè
gl'intimati potevano intendere la parola fedeltà non oltre il senso
dell'obbedienza, e Pio VI medesimo nel novantotto aveva definito, che si
potesse giurare fedeltà a quel governo, che era stato creato dagli
occupatori del suo stato, e che era incompatibile con la sua sovranità
temporale, cioè, alla repubblica. Del resto, noi non intendiamo dannar
coloro, che sinceramente credendo di non potere, senza trasgressione,
prestar il giuramento, anteposero la coscienza al carcere ed all'esilio,
la materia aveva in se molta difficoltà. La Romana consulta procedeva
cautamente. Operando alla spartita, cominciò dai vescovi. Alcuni
giurarono, altri ricusarono. Giurarono quei di Perugia, Segni e Anagni:
ricusarono quei di Terracina, Sezze, Piperno, Ostia, Velletri, Amelia,
Terni, Acquapendente, Nocera, Assisi, Alatri. Aveva il vescovo di Tivoli
giurato; ma pentitosi e condottosi a fare il pontificale nella chiesa
del Carmine il giorno di San Pietro, con molte lagrime fece, dopo il
Vangelo, la sua ritrattazione: i gendarmi se lo pigliarono, ed in Roma
carcerato alla Minerva il portarono. Tutti i non giurati, suonando loro
d'intorno le armi dei gendarmi Napoleonici, chi in Francia, chi a
Torino, chi a Piacenza, chi a Fenestrelle furono condotti. Fu anche
portato via da Roma, come non giurato e troppo divoto al papa, un
Baccolo Veneziano, vescovo di Famagosta, uomo molto nuovo, e di natura
facetissima. I carceratori non sapevano darsene pace, perciocchè più lo
sprofondavano nell'esilio e nella miseria, e più rideva e si burlava di
loro, tanto che per istracchezza il lasciarono andare come pazzo. Ma ei
tornava in sul dire e in sullo scrivere cose tanto singolari a Genova, a
Milano, a Venezia, che era forza ai Napoleoniani di spiare continuamente
quello che si facesse. Insomma era questo Baccolo una gran molestia agli
spiatori di Napoleone, e diè che fare a tutti dal duca di Rovigo fino
all'umile Olivetti, ch'era stato surrogato a Piranesi: solo che udissero
nominar Baccolo, tosto si scuotevano e risentivano. Spedita la faccenda
dei vescovi, richiederonsi dei giuramenti i canonici. Sperava Janet, che
giurerebbero facilmente, avendo grossi benefizj e morbida vita. Molti
giurarono; molti ancora non giurarono. Dei due capitoli di San Giovanni
e di San Pietro in Roma, tutti ricusarono, salvo Vergani e Doria. Quei
di Tivoli e di Viterbo, tre soli eccettuati, giurarono. Giurarono quei
di Subiaco, ad instigazione dei Tivolesi; ma si ritrattarono. Ricusarono
quei di Canepina, ricusarono quei di Cori: i gendarmi s'affaccendavano.
Molto maggiore difficoltà avevano in se i giuramenti dei curati,
massimamente di quei di Roma, uomini d'innocente vita, e d'evidente
vantaggio dei popoli, non solamente pei sussidj spirituali, ma ancora
pei temporali. Rappresentò la consulta, che in questo opinava
saviamente, che s'indugiasse. Napoleone, che per la sua natura pertinace
amava meglio usare ogni estremo, che allentare un punto solo delle sue
deliberazioni, mandò loro dicendo, che voleva i giuramenti da tutti, ed
obbedissero. Nelle province la maggior parte ricusarono; i gendarmi se
gli portarono. Dei Romani, i più si astennero: tre giurarono, quei della
Traspontina, di Santa Maria del Carmine fuori di porta Portese, della
Madonna della Luce in Trastevere: i renitenti portati via, o se infermi
ed impotenti all'esilio, serrati in San Calisto; i consenzienti
accarezzati. Nasceva dagli esilj una condizione lagrimevole, che gli
ufficj divini per la mancanza dei pastori s'interrompevano. Napoleone,
posta la falce nella messe ecclesiastica, a suo modo vi rimediava.
Sopprimeva di propria autorità i vescovati e le parrocchie dei vescovi,
e dei parochi non giurati, e secondochè gli aggradiva, gli univa ai
vescovati e parrocchie dei giurati, turbando in tale modo di per se, la
giurisdizione spirituale come voleva, ed a chi voleva.

A questo tempo furono soppressi nello stato Romano i conventi sì di
religiosi, che di religiose; i forestieri mandati al loro paese, i
paesani sforzati a depor l'abito. Mandaronsi i soldati a far uscire le
monache, tempo ventiquattr'ore: le valide d'età e di salute mandate alle
case loro, le vecchie ed inferme in quattro conventi. L'aspetto di Roma
a questi giorni compassionevole: gendarmi, che si portavano vescovi,
canonici, parochi giovani, parochi vecchi, sani o malati, o dal contado
a Roma, o da Roma all'esilio. Piangevano gli esuli, piangevano le
famiglie degli esuli: i Romani colli risuonavano di querele e di pianti.

Intendeva la consulta a consolare la desolata Roma. Ciò s'ingegnava di
fare ora con ordinamenti convenienti al luogo, ora con ordinamenti non
convenienti, e sempre con animo sincero e buono. Pensava alle scienze,
alle lettere, all'agricoltura, al commercio, alle arti. Ordinò, che con
denaro del pubblico si procacciassero gli stromenti necessari alla
specola del collegio Romano; condusse a fine i parafulmini della
basilica di San Pietro stati principiati da papa Pio, ebbe speciale cura
delle allumiere della Tolfa, e delle miniere di ferro di Monteleone
nell'Umbria, nelle quali si era cessato di cavare ai tempi delle ultime
guerre civili, quantunque il ferro sia assai più arrendevole e dolce di
quello dell'isola d'Elba. Gente perita, denaro a posta addomandava; due
allievi Romani mandava alla scuola delle mine, due a quella della
veterinaria, due a quella delle arti e mestieri in Francia, semi di
utili scienze nell'ecclesiastica Roma.

Temevasi che la presenza dei Francesi in Italia, massimamente in Toscana
e nello stato Romano, giunta a quella loro lingua tanto snella e comoda
per gli usi famigliari, avesse a pregiudicare alla purezza ed al candore
dell'Italiana favella; timore del tutto vano, perciocchè quale cosa si
potesse ancora corrompere in lei, non si vede. Tuttavia Napoleone, il
quale, non so per quale strana fantasia, aveva unito Toscana e Roma alla
Francia, ed introdottovi negli atti pubblici l'uso della lingua
Francese, aveva, già fin dall'anno ultimo, decretato premi a chi meglio
avesse scritto in lingua Toscana. La consulta di Roma a fine di
cooperare con quello che l'imperatore aveva comandato, a ciò muovendola
Degerando, statuiva, che la lingua Italiana si potesse in un con la
Francese usare negli atti pubblici; benevola, ma strana permissione in
Italia. Volle altresì, che l'accademia dagli Arcadi si ordinasse in modo
che e la letteratura Italiana promuovesse, e la lingua pura ed
incorrotta conservasse con premi a chi meglio l'avesse scritta o in
prosa o in versi, l'Arcadia sedesse sul Gianicolo nelle stanze di
Sant'Onofrio. Ordinamento conforme alla fama antica, alle influenze del
cielo, alla natura degli uomini, alle Romane usanze fu quello
dell'accademia di San Luca, chiamata, per conforto di Degerando, a più
magnifico stato. La consulta le dava più copiosi sussidi, l'imperatore
più convenienti stanze, e dote di centomila franchi.

Parlando io dei benefizi delle lettere, non voglio passar sotto silenzio
l'amorevolezza usata dalla consulta verso il convento di San Basilio di
Grottaferrata, unico residuo dell'antico ordine di San Basilio, che
primo fra le tenebre del medio evo portò in Europa la cognizione della
lingua Greca, e con lei lo studio delle lettere. Nel coro e negli uffizi
avevano questi monaci conservato la lingua ed il canto Greco, ma
piuttosto per tradizione orale, che per lettera scritta. Ogni vestigio
del canto Greco si sarebbe spento, se il convento fosse stato soppresso,
ed i monaci dispersi. Supplicato l'imperatore dalla consulta, conservò
il convento. Ciò non ostante l'ordine si spense, perchè il secolo a
tutt'altro portava, che a farsi frate, ed a cantar greco.

Colla medesima mansuetudine opinò la consulta del convento dei
Camaldolesi di Montecorona, Benedettini riformati di san Romualdo. Mi
fia dolce raccontar qualche particolarità di Montecorona, poichè in
quella tranquilla sede riposerassi alquanto l'animo stanco ed inorridito
dalla rappresentazione di tanti tradimenti, espilazioni e morti.
Conservava Camaldoli sincera e pura, dopo tanti secoli, la regola di san
Romualdo. Tengono i Camaldolesi del cenobita e dell'eremita. Come
cenobiti, vivonsi solitari, come romiti, attendono alle opere manuali sì
agrarie che domestiche, senza differenza alcuna di padri o di fratelli,
di superiori o d'inferiori. Servonsi tra di loro a vicenda, usano la
ospitalità, esercitano la carità: la vita loro, anche ai tempi
Napoleonici, pacifica e dolce: divoti a Dio, divoti al sovrano, divoti
agli uomini, pregavano, obbedivano, soccorrevano. Siede il convento
sulla sommità di un monte, ha all'intorno folta foresta, dista da
Perugia a quattordici miglia: deserti una volta, campi fioriti adesso
per opera delle cenobitiche mani. Naturarono su per quegli aspri monti
l'abete; fecerne selva vastissima, magnifici fusti per le più grosse
navi. È il convento stimolo a virtù, fonte di proventi, ricovero
d'uomini fastiditi del mondano lezzo, ospizio di viaggiatori, largimento
di soccorsi: è vita di deserto, testimonio di pietà. Rovinavano i regni,
odiavansi gli uomini, infiammavansi gli appetiti, ammazzavansi le
generazioni: Montecorona quieto, dolce, umano e benefico perseverava; e
se la caduta del papa pose in forse la conservazione di lui, molto è da
deplorarsi che l'ambizione dei tempi sia arrivata a turbare quelle sante
solitudini. Bene meritò degli uomini infelici e pii la Romana consulta,
a ciò movendola Janet, coll'avere addomandato la conservazione di quel
pietoso secesso.

Emmi caro lo spaziare alquanto sull'ordine della propaganda. Napoleone
imperatore, al quale piacevano le cose che potevano muovere il mondo,
volle, mettendola in sua mano, conservare la propaganda: Degerando,
siccome quegli che si dilettava di erudizione letteraria e di gentilezza
di costumi, con l'autorità sua la favoreggiava. Dalla narrazione delle
cose appartenenti a quest'ordine chiaramente si verrà a conoscere, ch'ei
non meritava nè le lodi dei fanatici, nè gli scherni dei filosofi.
Ancora vedrassi quanta sia la grandezza degli Italiani concetti. Era
principal fine di questo instituto la propagazione della fede cattolica
in tutte le parti del mondo; ma l'opera sua non era talmente ristretta a
questa parte, che non mirasse a diffondere le lettere, le scienze, e la
civiltà fra genti ignare, barbare e selvagge; che anzi una cosa ajutava
l'altra, poichè la fede serviva d'introduzione alla civiltà, e questa a
quella. Poteva anche mirabilmente ajutare la diplomazia e la politica:
ciò massimamente aveva piaciuto a Napoleone; perciocchè un capo solo
reggeva, e muoveva infiniti subalterni posti in tutte le parti del
mondo. Il trovato parve bello a Napoleone, nè era uomo da non volersene
prevalere, e siccome aveva usato la religione per acquistare la signoria
di Francia, così voleva servirsi della propaganda per acquistar quella
del mondo. Seppeselo Degerando, il quale scriveva, che per quanto alla
politica s'apparteneva, la propaganda, recando in quelle lontane regioni
coi semi del nostro culto i nostri costumi, le nostre opinioni, le
radici delle idee d'Europa, la narrazione del regno il più glorioso,
qualche cognizione delle nostre leggi e delle nostre instituzioni,
preparando gli spiriti a certi avvenimenti, che solo s'apparteneva alla
vastità dell'imperial mente a concepire, procacciando amici tanto più
fidati, quanto più stretti da vincoli morali, e così ancora offerendo
tanti, e così variati mezzi di corrispondenza in contrade, in cui il
governo manteneva nissun agente, procurandoci notizie esatte sulla
natura dei paesi, nei quali i missionarj soli potevano penetrare,
aprendo finalmente una via, e quasi un condotto a farvi scorrer dentro
coi lumi civili le influenze di un sistema la cui grandezza doveva
abbracciare tutto il mondo, era un edifizio piuttosto di unica che di
somma importanza. Queste cose erano di per se stesse molto chiare, e se
alcuni filosofi, massimamente Francesi, tanto hanno lacerato Roma per
avere, come dicevano, fatto servire la religione alla politica, si vede
ch'essi non furono alieni dall'imitarla; poichè, divenuta Francia
padrona di Roma, indirizzarono i loro pensieri al medesimo fine. Certo è
bene, che Napoleone di nissuna cosa più si compiacque, che di questa
propaganda: ora per dire qual fosse, ella fu creata dal papa Gregorio
decimoquinto; e da lui commessa al governo di una congregazione di
quattro cardinali, e di un segretario. Suo ufficio era mandar missionarj
in tutte le parti del mondo. Gregorio la dotò di rendite del proprio, e
d'assegnamenti considerabili sulla camera apostolica; le conferì
immunità e privilegi; volle che ciascun cardinale nella sua esaltazione
le pagasse un censo. Ma Urbano ottavo, considerato, che se era utile il
mandare missionarj Europei a propagar la fede, maggiormente utile
sarebbe il mandarvi uomini del paese convertiti ed ammaestrati nelle
pratiche Romane, aggiunse il collegio della propaganda, in cui a spese
pubbliche erano ricoverati ed ammaestrati giovani forestieri, massime di
origine orientale, acciocchè fatti grandi e addottrinati, ritornassero
nei propri paesi a secondare i missionarj apostolici.

Sommava il numero degli allievi per l'ordinario a settanta; i Cinesi,
essendo loro riuscito contrario l'aere di Roma, furono trasportati in un
seminario e collegio fondati per questo fine a Napoli. Innocenzo
duodecimo, ed altri pontefici furono liberali verso la propaganda di
nuovi benificj: uomini privati altresì con donazioni, e legati
l'arricchirono. Le diede monsignor Vires il bellissimo palazzo in Roma:
il cardinale Borgia, morto a Lione nell'ottocent'uno, le lasciò una
parte de' suoi beni. Quattro erano gli ordini della propaganda,
destinati alla propagazione della parola del Vangelo: occupavano il
primo i vicarj apostolici, o arcivescovi, o vescovi, o prefetti delle
missioni, il cui carico era lo scrivere le lettere, e la direzione delle
fatiche apostoliche. Subordinati ai vicarj collocavansi nei secondi i
semplici missionarj. Venivano in terzo luogo i collegi, le scuole, i
monasteri. Cadevano nel quarto i semplici agenti amministrativi ed
economici. La propaganda diede principio alla sua opera col fondare
arcivescovi e vescovi nelle antiche chiese, due patriarchi, l'uno pe'
Caldei, l'altro pei Siriaci, vescovi e vicarj apostolici nelle isole
dell'Arcipelago, nell'Albanìa, nella Servia, nella Bosnia, nella
Macedonia, nella Bulgaria, nella Mesopotamia, nell'Egitto, a Smirne, ad
Antiochia, ad Anticira. Mandava due vescovi, vicarj apostolici, a
Constantinopoli, uno pel rito Latino, l'altro per l'Armeno. Un gran
numero ne destinava in Persia, nel Mogol, nel Malabar, nell'India oltre
e qua del Gange, nei regni di Siam, di Java, di Pegù, in Cochinchina,
nel Tonchino, nelle diverse province della China. Nè ometteva, parendole
che fosse messe d'importanza, gli stati uniti d'America. Vicarj
apostolici, e vescovi mandati dalla propaganda, seminavano le dottrine
del Vangelo in quelle regioni d'Europa, che dalla chiesa Romana
dissentivano. Questi tentativi e questi sforzi della comunanza
cattolica, stimolavano le dissidenti a pruovarsi ancor esse a propagare
la religione e la civiltà fra le nazioni ancor barbare e selvagge.
Mandarono pertanto, gl'Inglesi massimamente, agenti loro nell'Indie
Orientali, e nelle isole del mare Pacifico, dalla quale pietosa opera
molte nazioni furono dirozzate, e ridotte alla condizione civile. E se i
papi mescolarono la politica, come fu scritto, in questi conati
religiosi, resterà a vedere, se la Russia e l'Inghilterra siano esenti
da questa pecca. Per ajutare i vescovi ed i vicarj apostolici, s'erano
instituiti a luogo a luogo, e più numerosi là dove i Cattolici vivevano
in più gran numero, i prefetti ed i parrochi: questi avevano sede fissa
e gregge permanente: i missionarj, che erano il secondo grado,
comprendevano nel mandato loro vaste province, conducendosi ora in
questo luogo ed ora in quello, ma sempre nella provincia destinato a
ciascun di loro, secondochè i bisogni della fede da loro richiedevano.
La elezione dei missionarj si faceva ordinariamente fra i sacerdoti del
clero secolare. Era a loro raccomandato, e specialmente comandato dalla
propaganda, che a niun modo nè sotto pretesto qualsivoglia si
mescolassero o s'intromettessero negli affari temporali, meno ancora nei
politici dei paesi, cui erano destinati ad indagare e ad ammaestrare.
Solamente era solita la propaganda ad insegnarvi le scienze profane e le
arti utili, affinchè con esse potesse volgere a se gli animi, e
cattivarsi l'attenzione, e la benevolenza degli uomini ignari di quelle
incolte regioni. Dipendevano i missionarj del tutto da lei, ed ella gli
spesava con le sue rendite. Aveva creato sei scuole, o collegi in
Egitto, quattro nell'Illirio, due in Albania, due in Transilvania, uno a
Constantinopoli, parecchi in diverse contrade non cattoliche d'Europa.
Erano questi collegi mantenuti col denaro della congregazione: mille
scudi all'anno pagava ai vescovi d'Irlanda per le scuole cattoliche di
quel regno; i collegi Irlandese, Scozzese, Greco, e Maronita di Roma da
lei medesimamente dipendevano. Finalmente ciascun ordine di religiosi
aveva un collegio separato pe' suoi missionarj, così questi stessi
missionarj avevano dipendenza dalla propaganda, in quanto spettava alla
bisogna delle missioni. Gli allievi dei collegi, ciascuno secondo il suo
merito, erano creati sul finire degli studi o vescovo, o prefetto, o
curato, o semplice missionario. Gli agenti o procuratori a niuna bisogna
religiosa attendevano, ma solamente, essendo distribuiti nei luoghi più
opportuni, al mandar le lettere e i fondi necessari per tener viva
dappertutto macchina sì vasta.

Quanto alla congregazione in Roma, aveva cinque parti, la segreterìa,
dove si scrivevano le lettere, ed a questa parte appartenevano anche
gl'interpreti; gli archivi, che comprendevano la librerìa ed il museo,
entrambi pieni di cose curiosissime; la stamperìa tanto celebre per la
varietà e la bellezza de' suoi caratteri; il collegio degli allievi; la
computisterìa: in quest'ultima si tenevano i conti, e le ragioni della
congregazione. Le rendite sommavano a trentatremila trecento novantasei
scudi romani all'anno, che sono centosettantottomila seicentosessanta
franchi. I fonti erano i luoghi de' monti, i livelli pagati da Napoli,
da Venezia, e dai corpi religiosi, e finalmente i censi dei cardinali
novellamente creati. Ma la ruina universale aveva addotto la ruina di
quest'instituzione, con avere o del tutto annientato parte delle
rendite, o ritardato la riscossione delle sussistenti: s'aggiunse la
rovina del palazzo devastato nel mille ottocento. Adunque ella
sussisteva piuttosto di nome che di fatto, quando Napoleone s'impadronì
di Roma; poi, i frutti dei monti non si pagavano, la computisterìa per
comandamento imperiale sotto sigilli, gli archivi portati a Parigi.
Volle Degerando rimetterla in istato, e che si aprissero intanto i
pagamenti: l'imperatore stesso aveva dichiarato per senatus-consulto,
volere la sua conservazione, e doterebbela coll'erario imperiale. Ma
distratto primieramente dai gravi pensieri delle sue armi, poscia dai
tempi sinistri che gli vennero addosso, non potè nè ordinare la
macchina, come era necessario, nè far sorgere quel zelo a propagazione
degl'interessi politici, che per amore della religione, per le
esortazioni dei papi, e per la lunga consuetudine era sorto nei membri
della congregazione a tempi pontificii. Così sotto Napoleone ella non fu
di alcuna utilità nè per la religione, nè per la politica: solo le sue
ruine attestavano la grandezza dell'antico edifizio, e la rabbia degli
uomini che l'avevano distrutto. Portati via gli archivi per arricchirne
Parigi, si voleva privar Roma anche dei tipi delle lingue orientali, che
si trovavano raccolti nella sua stamperìa: eranvi i tipi di ventitrè
lingue d'Oriente. Domandava la stamperìa imperiale di Parigi, che le si
mandassero le madri per supplire con loro ai punzoni alterati. Grave
perdita sarebbe stata questa per Roma, dove l'erudizione, e la
letteratura orientale erano, come in sede propria, coltivate. Pregò
Degerando, che o si gittassero con le madri i punzoni a Roma, o si
mandassero a Parigi, non tutte ma solamente quelle dei punzoni alterati.
Fu udito benignamente; a lui restò la città obbligata della
conservazione di opere di gran valore per la erudizione e per le
lettere.

Le opere di musaico, peculiar pregio di Roma, perivano; perchè pei danni
passati poco si spacciavano, ed anche mancavano i fondi per le spese
degli smalti e degli operai. La principale manifattura, che serviva di
norma alle altre, era attinente a San Pietro, e si sostentava colle
rendite della sua fabbrica: per la necessità dei tempi, mancando la più
gran parte delle rendite, non che il musaico si conservasse, pericolava
la basilica. Fu proposto di commetterlo all'erario imperiale, ma perchè
Napoleone, che non amava lo spendere a credenza, non si tirasse
indietro, fu d'uopo alla consulta l'inorpellare la cosa con dire, che il
musaico pagato dall'imperatore non servirebbe più solamente ad abbellire
San Pietro, ma che protetto dal più grande dei monarchi, adornerebbe il
palazzo del principe, ed i monumenti dell'imperiale Parigi. «Che bel
pensiero sarebbe, diceva la consulta, l'immortalare con opere di musaico
il quadro dell'incoronazione dipinto da David, e gli altri tre, che
dalle maestrevoli mani di questo grande artista erano per uscire?» A
questi suoni Napoleone si calava, e pagava. Restava che, poichè si era
provveduto all'opera, si avesse cura degli operai. Essendo la lavorerìa
loro addossata al colle del Vaticano, ed in parte sotterranea, e perciò
molto malsana, troppo spesso infermavano, e sovente il vedere perdevano.
Oltre a ciò gli armadi e gli scaffali, in cui si conservavano gli
smalti, infracidavano, le tele dipinte che si portavano a copiarsi,
dall'umidità si guastavano. A questo modo era testè perito con rammarico
di tutti un bel quadro del pittore Camuccini. Decretò la consulta,
trasportassersi gli opificii nelle stanze del Sant'Officio.

Concedutosi dall'imperatore un premio di ducentomila franchi ai
manifattori di Roma, volle la consulta, che fossero spartiti a chi
meglio filasse o tessesse la seta o la lana, a chi meglio conducesse le
opere dei merletti, a chi meglio addensasse i feltri, a chi meglio
conciasse le pelli, a chi meglio stillasse l'acquarzente, a chi meglio
lavorasse di maioliche, o di vetri, o di cristalli, o di carta, a chi
più, e miglior cotone raccogliesse sulle sue terre, a chi piantasse più
ulivi, a chi ponesse più semenzai di piante utili. Si venne anche sul
capriccio dello zucchero dell'uve, e della saggina di Caffrerìa. Ma papa
Pio, che conosceva Roma ed i Romani suoi, si stringeva nelle spalle,
quando udiva queste novelle, e dal suo carcere di Savona sclamava, che
bene e con frutto si sarebbero favoreggiate in Roma le manifatture
attinenti alla erudizione ed alle belle arti, ma che sarebbe tempo ed
opera perduta il dar favore alle altre: perciocchè la natura degli
uomini, le consuetudini, le opinioni, il cielo stesso ripugnavano.

I musei espilati ai tempi torbidi ora con cura si conservavano: i
preziosi capi d'arte, che adornavano i conventi, ed erano molti e belli,
diligentemente si custodivano. Fu anche creata a conservazione loro
dalla consulta una congregazione d'uomini intendenti, e giusti
estimatori, che furono Lethier pittore, Guattani, de Bonnefond, l'abbate
Fea, e Tofanelli, conservatore del Campidoglio.

Conservando Roma odierna, si poneva mente a scoprire l'antica: almeno
così desiderava la consulta; la Francia potente e ricca il poteva fare.
Si ordinarono le spese del cavare nei luoghi più promettenti. Sarebbesi
anche, come pare, fatto gran frutto, se i tempi soldateschi non avessero
guastato l'intenzione.

Discorreva Napoleone di voler visitar Roma sua. Se di fatto non voleva
andarvi, l'essere aspettato faceva a' suoi fini: la consulta pensava al
trovar palazzi che fossero degni dell'imperatore. Castelgandolfo le
parve acconcio per la campagna; il Quirinale per la città: il Quirinale
grande e magnifico per se, sano per sito, e con bell'apparenza da parte
di strada Pia: ogni cosa all'imperial costume si accomodava. Nè la
bellezza, o la salubrità si pretermettevano. Disegnavano di piantar
alberi all'intorno, di aprir passeggiate, specialmente alla porta del
Popolo da riuscire a Trinità del Monte, di trasportar i sepolcri fuori
delle mura, di prosciugar le paludi. Le Pontine massimamente pressavano
nei consigli imperiali. Prony Francese, Fossombroni Italiano, idraulici
di gran nome, e di scienza pari al nome, le visitavano, e fra di loro
consultavano. Si fece poco frutto a cagione dei tempi contrari; e se le
Pontine non peggiorarono sotto il dominio Francese, certo non
migliorarono.

Così vivevasi a Roma, con un sovrano prigioniero a Savona, con un
sovrano prepotente a Parigi, con dolori presenti, con isperanze
avvenire, diventata, stravagante caso, provincia di Francia, non poteva
nè conservare le forme proprie, nè vestirsi delle aliene; tratta in
contrarie parti lagrimava, e si doleva, nè poteva la consulta,
quantunque vi si affaticasse, di tante percosse consolarla e
racconfortarla.

Nuovi, strani e lamentevoli casi mi chiamano nel Regno. Era venuto a
noia a Carolina di Sicilia, che voleva comandare da se, il dominio
degl'Inglesi, nè sperando di riconquistare il regno di terraferma,
desiderava almeno di essere padrona di quello che le restava. Napoleone,
che conosceva bene gli umori degli uomini, e quelli delle donne ancora,
aveva penetrato quel di Carolina, e per mezzo di sue pratiche le
persuase, ch'era pronto a secondare le sue intenzioni. Vennesi ad un
negoziato tra l'imperatore e la regina, il fine del quale era, che il re
aprisse i porti di Sicilia ai soldati di Napoleone, e promettesse che
gli occupassero, sì veramente che l'imperatore ajutasse il re a cacciar
gl'Inglesi dalla Sicilia. Mentre questi negoziati pendevano, entrò in
Murat il desiderio di conquistar la Sicilia sperando che la durezza del
governo Caroliniano, procurandogli aderenze negli scontenti, gli
aprirebbe l'occasione di far frutto con le spalle loro. Già le truppe
Francesi si erano condotte nella Calabria ulteriore; al che aveva
consentito Napoleone per dar gelosìa agl'Inglesi, acciocchè non
potessero correre contro Corfù. Ad esse si erano accostati i Napolitani,
la costa di Calabria da Scilla a Reggio piena di soldati. Vi
concorrevano altresì le forze navali del regno, non senza aver prima
combattuto onorevolmente contro le navi d'Inghilterra, che per vietar
loro il passo le avevano assaltate nel golfo di Pizzo, al capo Vaticano,
e sulle spiaggie di Bagnara. S'ingiungeva a tutti i comuni posti sul
littorale del Mediterraneo, che somministrassero legni armati in guerra
per l'impresa di Sicilia. Murat, che a Scilla voleva imitar Napoleone a
Bologna di mare, spesso imbarcava, e spesso anche sbarcava le genti per
addestrarle. Ognuno credeva che la spedizione si tenterebbe: i più
confidavano nella fortuna di Napoleone, affermando, che finalmente poi
lo stretto di Messina, non era più difficile a passarsi, che il Reno od
il Danubio. Ma siccome il nervo principale della spedizione consisteva
nei Francesi, così aveva Murat pregato l'imperatore, affinchè ordinasse
che eglino cooperassero coi suoi Napolitani alla fazione. Napoleone, che
a questo tempo negoziava colla regina, nelle sue solite ambagi
ravviluppandosi, rispose nè appruovando nè disdicendo, contento al moto,
o che riuscisse o che solo spaventasse. Nissun ordine mandò a' suoi,
acciocchè si congiungessero con quei del re. Ma Giovacchino acceso per
se stesso da incredibile cupidità all'acquisto di Sicilia, e
persuadendosi di trovarvi gran seguito e facile mutazione, volle tentar
la fazione da se, e con le sole sue forze. Cinque mila Napolitani, fra i
quali era il reggimento di Reale-Corso, partivano di nottetempo dalle
vicinanze di Reggio e di Pentimela, e s'avviavano alla volta di Sicilia,
con intento di approdare tra Scaletta e Messina. Al tempo stesso Murat,
standosene sulla reale gondola riccamente addobbata, dava opera ad
imbarcare le genti Francesi, come se anch'elleno dovessero andare alla
conquista, ancorchè sapesse, ed elle meglio di lui, che non
s'attenterebbero. Ma avevano consentito ad ajutar l'impresa con un po'
di romore, e con quelle vane dimostrazioni. Sbarcarono nel destinato
luogo i Napolitani condotti dal generale Cavagniac; ma non così tosto
posero piede sulle terre Siciliane, che invece di correre uniti a
qualche fatto importante, si sbandarono per vivere di sacco. La qual
cosa veduta dai paesani e dalle milizie, accorsero coll'armi ed in
folla, ed oppressero facilmente quegli uomini sfrenati e dispersi: chi
non fu morto, fu preso; alcuni dei presi, uccisi per la rabbia civile.
Accorrevano gl'Inglesi al romore dalle stanze di Messina; ma arrivarono
quando già la vittoria era compita. Dopo questo fatto, che non fu senza
diminuzione della riputazione del re, deposta, non senza querela contro
Napoleone, la speranza conceputa, ritirava Giovacchino i soldati verso
Napoli, e con pubblico scritto annunziava, essere terminata la
spedizione di Sicilia, il che era verissimo. Ma rimasero nell'ulteriore
Calabria miserabili vestigia del furore dei Napoleoniani. Tra il guasto
fatto per accampare, e quello dei soldati scorrazzanti per le campagne,
ne furono guastate vaste tenute d'ulivi e di viti, sole ricchezze che il
paese si avesse. Così il regno di là dal Faro non fu conquistato, quello
di quà desolato.

Intanto i negoziati tra Napoleone e Carolina non poterono tanto restar
segreti, che non venissero a cognizione degl'Inglesi, ne intrapresero
anche le lettere certissime. Ciò fu cagione, che Carolina a loro, e
principalmente a lord Bentinck mandato in Sicilia a confermarvi il
dominio della Gran Bretagna, tanto venisse in odio, che per allontanarla
del tutto dalle faccende, la confinarono in una villa lontana a qualche
miglio da Palermo, e poco dopo l'obbligarono anche a partire dalla
Sicilia, accidente molto singolare e strano, che sarà da noi raccontato
a suo luogo.

Partito l'esercito, i facinorosi della Calabria di nuovo uscendo dai
loro ripostigli, ripullulavano, ed ogni cosa mettevano a ruba ed a
sangue. Niuna strada, non che maestra, rimota, niun casale sparso, niun
campo riposto erano più sicuri. Divisi in bande e sottomessi a capi, si
erano spartite le province. Carmine Antonio, e Mescio infestavano coi
loro seguaci Mormanno e Castrovillari; Benincasa, Nierello, Parafanti e
Gosia il distretto di Nicastro ed i casali di Cosenza; Boia, Giacinto
Antonio, ed il Tiriolo la Serra stretta, ed i borghi di Catanzaro;
Paonese, Massotta, e il Bizzarro le rive dei due mari, e la estremità
dell'ulteriore Calabria. Spaventò il Bizzarro specialmente, e lungo
tempo, la selva di Golano, e le strade da Seminara a Scilla. Questi
erano gli effetti dell'antiche consuetudini, e delle guerre civili
presenti. Si temeva, che alla prima occasione i capi politici contrarj
al governo, i carbonari massimamente ed i loro aderenti, di nuovo
prorompessero a moti pericolosi. Si sapeva che i carbonari, sempre
nemici dei Francesi, quantunque se ne stessero quieti, fomentavano, non
le ruberìe e gli assassinj, che anzi cercavano di frenargli, ma
l'incitazione e l'empito, per voltarlo, quando che fosse, contro quella
nazione, che tanto odiavano. Si rendeva adunque per ogni parte
necessario a Murat l'estirpar del tutto quella peste dei facinorosi di
Calabria, e lo spegnere, se possibil fosse, la setta tanto importuna dei
carbonari. Varj per questo fine erano stati i tentativi ai tempi di
Giuseppe, varj altresì ai tempi di Murat, ma sempre infruttuosi, non
tanto per la forza della parte contraria, e per la difficoltà dei
luoghi, quanto pei consigli spartiti, e la mollezza delle risoluzioni. A
ciò fare era richiesto un uomo inesorabile contro i malvagi ed
un'autorità piena per punirgli. Un Manhes generale, ajutante di campo di
Murat, che già aveva con singolar energìa pacificato gli Abruzzi, parve
al re uomo capace di condur a buon fine l'opera più difficile delle
Calabrie. Il vi mandò con potestà di fare come e quanto volesse. Era
Manhes di aspetto grazioso, di tratto cortese, non senza spirito, ma di
natura rigida ed inflessibile, nè stromento più conveniente di lui
poteva scegliere Giovacchino per conseguir il fine che si proponeva.
Arrivava Manhes nelle Calabrie, a questo solo disposto, che le Calabrie
pacificasse; del modo, qualunque ci fosse, non si curava: ciò si pose in
pensiero di fare, e fecelo, ferocia a ferocia, crudeltà a crudeltà,
insidia ad insidia opponendo; e se questi rimedj sono necessari, che
veramente erano in Calabria, per ridurre gli uomini a sanità, io
veramente dell'umana generazione mi dispero. Primieramente considerò
Manhes, che l'operare spartitamente avrebbe guastato il disegno; perchè
i facinorosi fuggivano dal luogo in cui si usava più rigore, in quello
in cui si procedeva più rimessamente: così cacciati e tornanti a vicenda
da un luogo in un altro, sempre si mantenevano. Secondamente andò
pensando, che i proprietarj, anche i più ricchi, ed i baroni stessi che
vivevano nelle terre, ricoveravano, per paura di essere rubati e morti,
quest'uomini barbari. Dal che ne nasceva, che se non si trovava modo di
torre loro questi nascosti nidi, invano si sarebbe operato per
ispegnergli. S'aggiungeva che la gente sparsa per le campagne, per non
essere manomessa da loro, dava loro, non che ricovero, vettovaglie; e
così fra il rubare, il nascondersi ed il vagare era impossibile il
sopraggiungergli. Vide Manhes convenirsi, che con qualche mezzo
straordinario, giacchè gli ordinari erano stati indarno, si
assicurassero gli abitatori buoni, i briganti s'isolassero. Da ciò ne
cavava quest'altro frutto, che i giudizj sarebbero stati severi,
operando contro i delinquenti l'antica paura, ed i danni sopportati.
Ferro contro ferro, fuoco contro fuoco abbisognava a sanare tanta peste,
e medicina di ferro e di fuoco usò Manhes. Per arrivare al suo fine
quattro mezzi mise in opera: notizia esatta del numero dei facinorosi
comune per comune, intiera loro segregazione dai buoni, armamento dei
buoni, giudizj inflessibili. Chi si diletta di considerare le faccende
di stato, ed i mezzi che riescono e quelli che non riescono, vedrà nelle
operazioni di questo prudente e rigido Francese, quanto i mezzi suoi
quadrassero col fine, e ch'ei non andò per le chimere e le astrazioni,
come fu l'uso dell'età. Ordinò che ciascun comune desse il novero de'
suoi facinorosi, pose le armi in mano ai terrazzani, partendogli in
ischiere, fe' ritirare bestiami e contadini ai borghi più grossi, che
erano guardati da truppe regolari, fe' sospendere tutti i lavori
d'agricoltura, dichiarò caso di morte a chiunque, che ai corpi armati da
lui non essendo ascritto, fosse trovato con viveri alla campagna, mandò
fuori a correrla i corpi dei proprietarj armati da lui comune per
comune, intimando loro, fossero tenuti a tornarsene coi facinorosi o
vivi o morti. Non si vide più altro nelle selve, nelle montagne, nei
campi, che truppe urbane che andavano a caccia di briganti, e briganti
che erano cacciati. Quello che rigidamente aveva Manhes ordinato,
rigidamente ancora si effettuava. I suoi subalterni il secondavano, e
forse non con quella retta inflessibilità ch'egli usava, ma con crudeltà
fantastica e parziale. Accadevano fatti nefandi: una madre, che ignara
degli ordini, portava il solito vitto ad un suo figliuolo che stava
lavorando sui campi, fu impiccata. Fu crudelmente tormentata una
fanciulla, alla quale furon trovate lettere indiritte a uomini sospetti.
Nè il sangue dei carbonari si risparmiava. Capobianco loro capo, tratto
per insidia, e sotto colore d'amicizia nella forza, fu ucciso. Un curato
ed un suo nipote entrati nella setta, furono dati a morte, l'uno
veggente l'altro, il nipote il primo, il zio il secondo. Rifugge l'animo
a me, che già tante orrende cose raccontai, dal raccontare i modi
barbari che contro di loro si usarono. I carbonari spaventati dalle
uccisioni, perchè molti di loro perirono nella persecuzione, si
ritirarono alle più aspre montagne.

I facinorosi intanto, o di fame, per essere il paese tutto deserto e
privo di vettovaglie, perivano, o nei combattimenti, che contro gli
urbani ferocemente sostenevano, morivano, o preferendo una morte pronta
alle lunghe angosce o da sè medesimi si uccidevano, o si davano
volontariamente in preda a chi voleva il sangue loro. I dati o presi,
condotti innanzi a tribunali straordinari composti d'intendenti delle
provincie, e di procuratori regj, erano partiti in varie classi; quindi
mandati a giudicare dai consigli militari creati a posta da Manhes.
Erano o strangolati sui patiboli, o soffocati dalla puzza in prigioni
orribili: gente feroce e barbara, che meritava supplizio, non pietà. Nè
solo si mandavano a morte i malfattori, ma ancora chi gli favoriva, o
poveri, o ricchi, o quali fossero, o con qual nome si chiamassero;
perciocchè, se fu Manhes inesorabile, fu anche incorruttibile. Pure, per
opera di chi aveva natura diversa dalla sua, si mescolavano a pene
giuste fatti iniqui. Succedevano vendette che mi raccapriccio a
raccontare. Denunziati dai facinorosi, che per ultimo misfatto usavano
mortali calunnie, alcuni innocenti furono presi e morti. Talarico di
Carlopoli, capitano degli urbani, devoto e pruovato servitore del nuovo
governo, accusato, per odio antico, da un facinoroso, piangendo ed
implorando tutti la sua grazia, fu dato a morte. Non è però da tacersi,
ch'ei fu condannato dalla corte di Cosenza sopra l'accusa datagli dal
procuratore del re d'aver avuto segrete intelligenze coi briganti.
Parafanti, donna, per essere, come si disse, stata moglie del facinoroso
di questo nome, arrestata con tutti i suoi parenti, e dannata con loro
all'ultimo supplizio, perì. Posti in fila nel destinato giorno,
l'infelice donna la prima, i parenti dietro, preti e boja alla coda,
marciavano, in una processione distendendosi, ch'io non so con qual nome
chiamare. Eransi poste in capo ai dannati berrette dipinte a fiamme,
indosso vesti a guisa di San Benito; cavalcavano asini a ritroso ed a
bisdosso. A questo modo s'accostarono al patibolo: quivi una morte
crudele pose fine ad una commedia fantastica ed orribile. Nè davano
solamente supplizi coloro, che a ciò fare erano comandati, ma ancora i
paesani spinti da rabbia e da desiderio di vendetta infierivano contro i
malfattori: insultavano con ischerni ai morti, straziavano con le unghie
i vivi, dalle mani dei carnefici togliendogli per uccidergli. Furono i
Calabri facinorosi sterminati da Manhes fino ad uno. Chi non morì pei
supplizi, morì per fame. I cadaveri di molti nelle vecchie torri, o
negli abbandonati casali, od anche sugli aperti campi si vedevano
spiranti ancor minacce, ferocia e furore: la fame gli aveva morti. Dei
presi, alcuni ammazzavano le prigioni prima dei patiboli. La torre di
Castrovillari angusta e malsana, videne perire nell'insopportabile tanfo
gran moltitudine.

La contaminazione abbominevole impediva ai custodi l'avvicinarsi; i
cadaveri non se ne ritiravano, la peste cresceva, i moribondi si
brancolavano per isfinimento e per angoscia sui morti, i sani sui
moribondi, e se stessi, come cani, con le unghie e coi denti laceravano.
Infame puzza di putrefatti cadaveri diventò la Castrovillarese torre:
sparsesi la puzza intorno, e durò lunga stagione; le teste e le membra
degl'impiccati appese sui pali di luogo in luogo, rendettero lungo tempo
orrenda la strada da Reggio a Napoli. Mostrò il Crati cadaveri mutilati
a mucchi: biancheggiarono, e forse biancheggiano ancora le sue sponde di
abbominevoli ossa. Così un terror maggiore sopravvanzò un terror grande.
Diventò la Calabria sicura, cosa più vera che credibile, sì agli
abitatori che ai viandanti: si apersero le strade al commercio,
tornarono i lavori all'agricoltura; vestì il paese sembianza di civile,
da barbaro ch'egli era. Di questa purgazione avevano bisogno le
Calabrie, Manhes la fece: il suo nome saravvi e maladetto e benedetto
per sempre.



LIBRO VIGESIMOQUINTO

SOMMARIO

      Papa Pio prigione in Savona, e come trattato. Sue discussioni
      con Napoleone circa l'esecuzione del concordato, e
      l'instituzione dei vescovi. Ragioni addotte dalle due parti
      contro, ed in favore della facoltà dei pontefici Romani del
      delegare l'autorità spirituale ai vescovi. Prelati Francesi
      mandati a trattar col papa a Savona. Il papa non si mostra
      alieno dal dar l'instituzione fra sei mesi ai vescovi
      nominati, o di consentire, che fosse data in nome suo dai
      metropolitani, solo astenendosi da questa concessione pei
      vescovi suburbani. Concilio di Parigi. Breve del 20 settembre.
      Il papa ricusa costantemente di rinunziare alla sovranità
      temporale. Minacce che gli si fanno. Come e quando condotto da
      Savona a Fontainebleau.


Aveva Napoleone per mezzo del concordato confermata la sua potenza; sì
soddisfacendo al desiderio dei popoli, e sì tenendo coll'imperio degli
ecclesiastici in freno la parte contraria, alla quale non piaceva quella
sua immoderata cupidigia di dominare. Nè trovò in questo la materia
renitente: gli ecclesiastici non solamente accorrevano chiamati, ma
ancora si offerivano non chiamati, molti per amore della religione, e
molti ancora per ambizione, e speranza dei premj. Restava che la
religione Romana stessa domasse con depressione dell'autorità
pontificia: aveva in ciò un desiderio molto ardente, siccome quegli che
era impaziente di ogni potenza forte che a lui fosse vicina. A questo
fine, occupate le Marche, si era avvicinato alla pontificia sede di
Roma, e sotto colore delle cose di Napoli, mostrava spesso i suoi
soldati agli attoniti Romani. A questo fine ancora aveva occupato la
Romana città, e trasportato il papa in condizione cattiva a Savona,
retribuzione certamente indegna di tanti benefizj. S'accomodavano gli
accidenti a' suoi pensieri: perchè, allettati con le ricchezze, e colla
potenza i prelati più ragguardevoli, si accorgeva facilmente, che, se
per lo innanzi gli era venuto fatto di voltare il papa contro Porto
Reale e contro Voltaire, poteva presentemente voltare i prelati contro
il papa. Più oltre anzi mirava; e già si motivava, che a lato dell'altar
maggiore delle chiese Anconitane la sua immagine si dovesse esporre alla
divozione dei fedeli. Da un papa prigione ad un papa spento, da un papa
spento ad un autocratore in tanta forza e grandezza pareva facile il
passo. Liberato per le vittorie del Danubio da ogni timore, si accingeva
all'insolito e pericoloso tentativo. I Russi ed i Britannici modi gli
venivano in mente, e gli pareva gran fatto, che quello che Alessandro e
Giorgio erano, egli non fosse. Ma non considerava che la opinione
cattolica è inflessibile ed indomabile, e che ancor più impossibile è il
cambiarla, che lo spegnerla: gli ordini papali poi alla natura sua
stessa, e per così dire, alle viscere sue più vitali sono inerenti
secondo la credenza della maggior parte dei fedeli.

Era arrivato papa Pio prigione a Savona il dì quindici agosto
dell'ottocentonove, se per caso o pensatamente, perciocchè quello era
giorno festivo di Napoleone, il lettore giudicherà. Gli furono date
sull'arrivare le stanze in casa di un Sansoni, sindaco della città.
Accorrevano d'ogni intorno i popoli per vedere il pontefice. Pure gli
agenti imperiali osservavano, non senza contentezza, che o fosse timore
o fosse opinione, era quivi la moltitudine meno fervorosa, e minore
fanatismo, così il chiamavano, mostrava verso il sovrano pontefice, che
in Francia, e che la presenza del papa cattivo non alterava punto la
obbedienza verso il governo. Parlossi lungamente nei consigli imperiali,
se si dovesse permettere che il papa comparisse in cospetto del
pubblico, sì coll'uffiziare pontificalmente in chiesa, e sì col dare le
benedizioni. Si temeva lo sdegno aperto degli uomini, se vedessero il
papa prigioniero, le ire secrete ancor più pericolose, se nol vedessero.
Prevalse l'opinione che il papa si mostrasse: ma i soldati erano
numerosi nelle Savonesi terre, le spie ancor più numerose, il castello
pronto a ritorlo alle genti. Insino a che Napoleone comandasse, erano
vietate le udienze al papa, ed a nissuno si permetteva che gli
favellasse, se non presenti le guardie. Poco dopo il principe Borghese,
governatore del Piemonte e del Genovesato, avutone comandamento da
Parigi, ordinava, che il palazzo dove abitava il papa, trasferito nelle
stanze nuove del prefetto, si circondasse di guardie, avesse un solo
luogo per uscire, non si permettesse a nissuno di entrare; il papa non
desse nissuna udienza; su quanto facesse nelle interiori stanze
diligentemente si vigilasse e sopravvigilasse; fra i suoi servitori e
segretarj segretamente s'inframmettessero uomini dediti a Sua Maestà.
Ordinava oltre a ciò Napoleone per mezzo di un Vincent, soprantendente
sull'Italica polizia a Parigi, che si guardasse bene agli atti di chi
venisse a visitar il papa, e di più, che ogni lettera che gli fosse
indiritta, si copiasse e mandasse al ministro della polizia generale, e
che medesimamente tutte quelle che da Sua Santità, o da chi appresso a
lei serviva, fossero scritte, si copiassero e mandassero al ministro
medesimo.

Del resto Borghese principe, e Vincent soprantendente volevano e
comandavano, che il papa fosse intieramente libero della persona, il
che, se pure qualche cosa significa, a chi considera gli ordini
precedenti, vuol dire ch'ei non fosse legato con corde. A questo si
voleva, perchè si temeva di qualche concistoro segreto, che nissun
cardinale in Savona, salvo lo Spina, potesse dimorare: fosse vietato
allo Spina stesso di parlare al pontefice, se non presenti le guardie,
anzi desiderando mandargli certe delicature di cibi, non gli era
permesso, se non con licenza del governo. Un umile uomo, che Ostengo
aveva nome, ed era ai servigi del pontefice, per avere scritto un
viglietto con lettere di piombo di vetro, fu cacciato nelle segrete, nè
gli furono concessi i giudici. Esitava il papa a nominar le persone che
dovessero attendere a' suoi servigi, essendo stimolato a farlo da chi
aveva mezzo di frenare così gl'infedeli, come i fedeli. Temeva che
l'amor suo fosse ad altri cagione di disgrazie, nè in ciò s'ingannò.
Pure nominò il prelato Doria-Pamfili, maestro di camera, Soglia
cappellano, Porta medico, Ceccarini chirurgo, Moiraghi e Morelli
ajutanti di camera, un Campa giovane di florerìa, ed alcuni altri di
minor condizione. Se ne viveva il pontefice nel suo Savonese carcere con
molta semplicità, nè mai si mostrava sdegnarsi, quantunque avesse tante
cagioni di sdegnarsi. Vedeva volentieri il conte Chabrol, prefetto di
Montenotte, perchè il conte usava con lui molto umanamente, temperando
con dolci modi l'acerbità degl'imperiali comandamenti; della quale
dolcezza ed umanità ne ebbe anche le male parole da Parigi. Offertogli,
se gli piacesse passeggiare a diporto per la campagna, s'intendeva con
le guardie, rispondeva, non poter divertirsi quando la chiesa piangeva.
Mandava Napoleone imperatore il conte Sarmatoris di Cherasco a metter
grandi mense, a fare addobbi, a mostrar magnificenze, a condur servidori
in livrea attorno al papa, e pel papa. Con qual nome chiamare questo
imperiale scherno contro il pontefice prigioniero, io non so. Nè so
nemmeno perchè Sarmatoris conte, che buon uomo era, accettasse un carico
tanto derisorio. Si appresentava lusingando, e con le imperiali
profferte. Toccò, sperare, poichè Sua Beatudine aveva aggradito i suoi
servigi a Parigi, sarebbe per aggradirgli anche in Savona. Rispose
pacatamente, esser cambiati i tempi: allora come a principe e sovrano
essersi convenuto l'apparato esteriore, ora come a prigioniero disdirsi:
fuori del suo seggio, in paese straniero, stretto da guardie armate,
privo de' suoi servitori e consiglieri più intimi e più fidi;
prigioniero essere, prigioniero tenersi, da prigioniero voler essere
trattato: sciogliessero prima le catene che le pontificie membra
strignevano, nella sua pontifical sede il rimettessero, i suoi cardinali
gli rendessero, ed accetterebbe i sovrani onori: del resto
provvederebbero i fedeli, provvederebbe Iddio, che mai non abbandona i
servi suoi devoti. Le medesime cose asseriva, ma con maggiore forza,
come a soldato, a Cesare Berthier, generale mandato a Savona da
Napoleone per ajutar le spie coll'armi.

Giovami spaziare alquanto sui sentimenti del papa carcerato. Fulminava
Ugo Maret da Parigi, tentava di spaventarlo. Si facesse, comandava, bene
capire al papa ed a' suoi famigliari, che dopo la scomunica, il cui fine
evidente era di eccitar i popoli alla ribellione, e di far ammazzare con
le coltella sua maestà l'imperatore, aveva il governo pontificio fatto
l'estremo di sua possa, e consumate tutte le sue armi; se gli facesse
osservare, quanto pregno fosse quel capitolo della pace, col quale
l'imperatore d'Austria si era obbligato a riconoscere tutte le mutazioni
fatte, o da farsi in Italia, se gli facesse riflettere, che ugualmente
dai trattati d'Amiens e di Tilsit si deduceva, che l'imperatore
Napoleone poteva fare quanto gli piacesse e paresse, per impedire che il
papa s'intrommettesse negli interessi terreni, e nell'amministrazione
interna de' suoi stati: spesso facessero salire alle sue orecchie questo
suono, che le cose temporali non hanno comunanza alcuna colle
spirituali, che i sovrani da Dio acquistano la potenza loro, non dai
papi, che la chiesa gallicana aveva accettato come dottrina invariabile,
le dichiarazioni dell'assemblea del clero del 1682, e che finalmente una
scomunica era contraria a tutti i principj della chiesa gallicana: se
gli ricordasse, che Pio sesto, ancorachè al suo pontificale seggio fosse
stato tolto, ed i suoi stati invasi, ancorachè a' tempi di lui la
religione fosse sbandita di Francia, ed il sangue dei vescovi scannati
bruttasse gli altari, non era venuto a quell'estremo passo di usare
un'arma, che la religione, la carità, la politica e la ragione del pari
condannavano. Così Ugo Maret predicava in nome di Napoleone imperatore
la religione e la carità a papa Pio. Ma il prigioniero in contesa tanto
disuguale, in cui gli avversari ajutavano le ragioni loro con tutto
l'apparato delle Europee armi, non se ne stava tacendo, ed opponeva
costanza a forza. Dello aver voluto eccitare i popoli alla ribellione,
asseverantemente negava, poichè in tale forma aveva scritto l'atto della
scomunica, che la sommessione e l'obbedienza alle potestà temporali, la
salute delle persone, e la conservazione delle sostanze ne fossero
specialmente raccomandate; che non era stato badando se fulminando la
scomunica consumasse tutte le armi sue, e tutta la potenza, che solo
aveva inteso a far il debito suo, e che del resto per la salute della
chiesa si rimetteva nella provvidenza di Dio; che finalmente la politica
ecclesiastica non era punto come quella dei governi; che là si trattava
sempre secondo la verità e la giustizia, qua secondo le passioni umane.
Aggiungeva che se presto non si acconciassero le faccende e l'imperatore
colla santa sede non convenisse, vedrebbe il mondo quanto papa Pio fosse
capace di fare, nè più oltre spiegava i suoi pensieri, le quali ultime
parole tenevano in sentore continuo i palazzi delle Tuillerie e di San
Clodoaldo. Raccomandavasi di nuovo alle spie si affaccendassero.

Nè a queste protestazioni si ristava il papa, nè all'accordo dei
potentati d'Europa. Si mostrava persuaso, che non più si trattava di
separar le cose temporali dalle spirituali, ma bensì di ruinare le une
per mezzo delle altre; che i potentati se ne pentirebbono, che già i
tentativi erano stati pregiudiziali a quelli che gli avevano fatti,
massimamente all'Austria; che del resto, ed intanto in occorrenza di tal
forma, come capo e rettor supremo di quanto allo spirito ed alla
religione s'apparteneva, non doveva e non voleva starsene ozioso; che
anzi un suo debito e volontà era di usare contro i perniziosi disegni
tutta la sua pontificale potenza, riposandosi colla speranza in Dio, che
supplirebbe a quanto la debolezza sua non poteva effettuare. Affermava
poscia, che i sovrani sono eletti dai popoli, e che dopo la loro
elezione tengono la loro potenza da Dio; che male si era interpretato
l'uso, che una volta avevano i vescovi ed i papi, di mettere nelle
cerimonie delle sagre la corona in capo ai sovrani; conciossiachè
quest'atto null'altro volesse significare, se non se che, stantechè la
potenza, dopo la elezione fatta dagli uomini, veniva da Dio medesimo,
egli stesso era quello, che per mano de' suoi ministri incoronava i
sovrani. Quest'erano le dottrine della scuola Romana spiegate
massimamente, dopo il celebre Gravina, dallo Spedalieri, siccome da noi
fu raccontato nel libro secondo delle presenti storie. Che certamente,
ed egli il sapeva, soggiungeva il pontefice, le cose di quaggiù sono
sempre solite a trascorrere oltre i termini della natura loro, e che per
questo spesso divenivano necessarie le riforme, cambiando, e mutandosi
continuamente i tempi e gli usi; che in questo Roma aveva sempre
mostrato molta agevolezza, consentendo di buon grado alle riforme
medesime; che solo si rendeva necessario di non operare a caso ed alla
spartita, ma bensì con procedere pensato e metodico; che così l'Austria,
dopo alcuni errori a lei funesti, aveva con somma sua utilità operato
sotto Pio sesto di santa memoria; che del rimanente egli biasimava, ed
altamente dannava quel desiderio sfrenato d'innovazioni, che a quei
tempi regnava, desiderio, che invece di riformare ordinando, contaminava
rovinando.

Quanto alle quattro proposizioni del clero gallicano, affermava, che
erano opinioni ancora in pendente, e che Innocenzo undecimo, al quale si
atteneva per dritto pontificio di giudicare, era stato in un punto di
condannarle; che il clero di Francia, siccome quello, che era, non tutta
la chiesa, ma solamente una parte di lei, non aveva diritto di giudicare
da se della potestà della sedia apostolica, nè di limitarla, nè di
modificarla, che del rimanente non aveva difficoltà di ammettere la
prima, che in ciò consiste, che Dio diede alla santa sede il governo
delle cose spirituali, non delle temporali; che i re ed i principi non
sono soggetti nelle temporali alla potestà ecclesiastica, e che non si
possono per l'autorità delle chiavi di san Pietro deporre, nè dal
giuramento di fedeltà esimere i sudditi. Ma quindi passando papa Pio a
quello che era il soggetto della controversia, distingueva il diritto di
deporre i sovrani, e di dispensare i sudditi dal giuramento di fedeltà,
da quello di fulminare una scomunica contro i principi, quando eglino
secondo le leggi, ed i canoni della chiesa l'hanno incorsa; che
conseguentemente qui non cadeva la dottrina della chiesa gallicana, nè
che mai la chiesa di Francia aveva preteso, che il papa non avesse
autorità di fulminare la scomunica contro chi l'avesse meritata, che
egli aveva bensì scomunicato Napoleone, ma non deposto, nè sciolto i
sudditi dal giuramento; che se poi per effetto della scomunica alcuni
dei sudditi di lui rimettessero della divozione e fedeltà loro, ciò non
al pontefice giusto castigatore, ma al principe colpevole prevaricatore,
doveva unicamente attribuirsi; che tale dottrina, bene il sapeva, era
del tutto consentanea ai pensieri di Bossuet, quantunque non in tutto
con lui consentisse, e che bene era persuaso, che se tutto il clero di
Francia fosse assembrato, la dottrina medesima accetterebbe ed
approverebbe; che a lui non era ignoto, che ai tempi andati avevano
qualche volta i vescovi ed i papi liberato i sudditi dal giuramento, ma
solamente quando il sovrano era stato deposto dagli stati del regno e
dai grandi, per modo che la dispensa dal giuramento altro non era, se
non se la conseguenza di una deposizione fatta da coloro, ai quali
aspettava il diritto di farla. Pertanto la deposizione non proveniva
dalla dispensa, ma bensì la dispensa dalla deposizione, opera non dei
papi, ma d'altrui. Venendo poi all'esempio allegato di Pio sesto, si
spiegava con dire, che la tempesta aveva sorpreso improvvisamente quel
generoso pontefice, e quando già vecchio e paralitico non aveva più in
lui spirito, che intiero fosse; che perciò la debolezza del corpo già
più vicino a morte che a vita, aveva in lui nociuto alla prontezza
dell'animo; che se dal costume di tutta la sua vita si avesse a
giudicare, non si poteva dubitare, che alle novità introdotte da
Napoleone nelle cose ecclesiastiche, ed alle usurpazioni di lui nel
patrimonio di San Pietro si sarebbe più presto e più acerbamente
risentito ch'egli stesso non aveva fatto; che per verità Clemente
settimo era stato condotto a duro passo, ma che fu persecuzione che
presto ebbe fine, e che quelli stessi che l'avevano perseguitato e
cacciato dalla sua apostolica sede, si erano raumiliati, ed avevano da
lui chiesto perdono; come le parole avevano suonato, così essere
succeduti i fatti, poichè tantosto fu rimesso nella sua Romana cattedra,
e restituito alla pienezza dell'apostolica potestà, mentre Napoleone
nella durezza e persecuzione sua ostinatamente perseverando, non solo
faceva alcuna dimostrazion di volersi ritirare da quanto aveva fatto in
pregiudizio dell'autorità ecclesiastica, e dalle sue usurpazioni contro
il patrimonio di San Pietro, ma ancora pertinacemente affermava ed
apertamente dichiarava, volere di per se stesso e senza intervento
dell'autorità pontificia, turbare le sedi vescovili e parrocchiali, e
far violenza al pontefice sulle nomine dei vescovi, e tener Roma suddita
in sua mano.

Tornando quindi all'esempio di Pio sesto, aggiungeva, che egli non aveva
avuto a fare col direttorio, che fuori della Chiesa essendo, alle leggi
della Chiesa nè obbediva, nè si protestava obbediente, ma che egli, Pio
settimo, aveva a far con Napoleone imperatore, il quale nella sua
qualità di figliuolo primogenito della Chiesa, qualità, che
continuamente assumeva e di cui si vantava, si trovava soggetto a tutte
le sue regole e leggi; apparire, nè il taceva, che mai nissuno de' suoi
antecessori era stato ridotto a quelle ultime strette in cui era egli; e
quanto al patrimonio di San Pietro aveva giurato di difenderlo sino a
sparsione di sangue, e che così si era risoluto di fare; che i canoni
avevano decretato, che chi esso patrimonio offendesse e toccasse,
incorresse incontanente nelle censure ecclesiastiche, che ad esse
Napoleone imperatore si era confessato soggetto, poichè aveva fatto
professione di cattolico; ch'egli le censure medesime fulminando, aveva
adempito quell'obbligo al quale per le ecclesiastiche leggi consentite
da tutta la Chiesa era tenuto, che non solamente il doveva fare, ma che
non poteva non farlo, bene dolersi, e nell'interno del paternale suo
animo compiangere, che le prese deliberazioni potessero offendere la
Francia, sua figliuola prediletta, e sopra la quale con tanto amore si
era versato; ma giudicherebbe ella se fosse per amare meglio un papa
prevaricatore, o un papa osservatore de' suoi doveri, un papa innocente
ed oppresso, od un imperatore colpevole e persecutore: della elezione
non conservare dubbio alcuno; ricordarsi ancora con infinita allegrezza
le grate accoglienze, l'affezionato concorso dei popoli, quando in quel
nobile reame se n'era andato ad un ministerio, che ogni altra cosa
portendeva, piuttosto che ruine: ricordarsi come fra quell'immenso
apparato d'armi e di soldati avesse trovato luogo, per la Francese
pietà, un umile preticciuolo inerme, solamente perchè la comunanza dei
fedeli nella persona sua rappresentava; ricordarsi che dove
concorrevano, se non supplici, almeno umili i primi potentati d'Europa,
una opinione solamente fondata sul consenso dei popoli devoti a Dio,
devoti al suo vicario in terra, devoti all'apostolica sedia tanto avesse
potuto, ch'egli non potente fra mezzo ai più potenti, il principale e
più onorato seggio si vendicasse: gisse pure onorata, gisse contenta,
gisse felice la Francia; che quanto a lui, memore della pietà
dimostrata, ogni cosa fuori dell'impossibile avrebbe e consentito ed
operato, perchè ella quella pace di coscienza si godesse, che pei meriti
suoi le era giustissimamente dovuta.

Desiderava Napoleone, solito a fare prima le cose, poi a volere che gli
si consentissero, che il senatus-consulto dell'unione dello stato Romano
al suo impero sortisse il suo effetto, anche per consentimento del papa.
Non gli era nascosto, che ove il pontefice accettasse le condizioni
proposte, facendosi abitatore di Parigi e suo pensionario, avrebbe
dovuto finalmente consentire a quanto egli volesse nell'argomento della
giurisdizione ecclesiastica; perciocchè la forza del pontefice tutta era
fondata sull'opinione, e quando diventasse vile in cospetto degli
uomini, avrebbe perduto coll'opinione quell'antico suo fondamento; che
certamente avrebbe avuto parte di viltà, se in vece di viversene padrone
con isplendore a Roma, o carcerato con onore in Savona, avesse
accomodato l'animo a vivere suddito in Parigi. Per la qual cosa gli
agenti imperiali continuamente e con esortazioni vivissime cercavano di
muoverlo, acciocchè rinunziasse al dominio temporale, accettasse i
milioni, abitasse il palazzo arcivescovile di Parigi. Certamente pareva
a quei tempi la potenza di Napoleone inconquassabile: le paci di Tilsit
e di Vienna, il matrimonio coll'arciduchessa, esercito invitto,
vincitore, innumerabile, la fondavano. Niuna speranza rimaneva al
pontefice di risorgere; il sapeva, il credeva, il diceva, ma vinse la
coscienza: ricusò Pio le imperiali proposte. Che sapeva ben egli,
affermava, ciò che volevano fare; che questi disegni, e se n'era
accorto, già fin d'allora covavano, quand'egli era andato a incoronar
Napoleone a Parigi; che già fin d'allora vi si racconciava il palazzo
arcivescovile per la stanza dei papi; che vedeva chiaramente che era
nato il pensiero di far i papi viaggiatori, e fors'anche primi
elemosinieri degl'imperatori: papi di Francia volersi, non papi di
Cristianità: del resto non volere, protestava, il palazzo di Parigi:
sarebbe un nuovo carcere: non la potestà temporale, ma San Pietro avere
fissa la sua sede in Roma; avere ciò dimostrato colla sua venuta in
quella veneranda città, averlo dimostrato colla sua dimora, averlo
dimostrato col suo martirio; il sangue dell'apostolo avere indicato, e
santificato il luogo dell'apostolica sedia; volere Pio successore
quella, o nissuna: non disfarebbe col consenso suo Pio ciò, che Cristo
stesso Salvatore per mezzo di Pietro aveva fatto, che nè giuramento
presterebbe, nè pensione accetterebbe; sarebbe vile agli occhi suoi,
vile al mondo, se quel prestasse, se questa accettasse: essere il
senatus-consulto la servitù della Chiesa: volersi mandar ad effetto le
macchinazioni dei filosofi, rendere il papa tanto suddito, quanto i
vescovi in Francia: che si mirava evidentemente alla distruzione della
religione; che non potendo assaltarla di fronte, perchè la impresa era
troppo difficile, la volevano assaltar di fianco: non mai i sacerdoti
del paganesimo essere stati tanto dipendenti dalla potestà temporale,
quanto i preti d'oggidì; volersi anche mettere sotto il giogo il papa:
presumere che tali disegni non provenissero dal consiglio ecclesiastico
raunato in Parigi, perchè se ciò fosse, tosto il separerebbe dalla
comunione sua: in mezzo a tante turbazioni, o tanti sovvertimenti
sperare, che Dio fosse quello che avesse a salvare la sua Chiesa: che
del resto non poteva più riconoscere, qual figliuolo primogenito,
l'usurpatore dei beni della santa sede, che già, e pur troppo aveva
sopportato, che già gli era venuta a schifo la sua pazienza; che la sede
di Roma non poteva operare come gli altri sovrani; ch'ei potevano
rinunziare secondo gli accidenti a parte dei loro diritti col pensiero
di riacquistargli, quando che fosse, ma che doveva il papa operare in
coscienza; i trattati di Roma spirituale essere santi, e di buona fede
ripieni.

Così papa Pio tormentato dai Napoleonici i suoi pensieri spiegava.
Quanto poi a quello ch'egli in quei tempi tanto per lui lagrimevoli
desiderasse fare, i ricordi dell'età non lasciano luogo a dubitazione.
L'animo suo era di addomandar sempre i beni temporali della santa sede,
ma di non mai far cosa che tendesse a volergli riacquistare per forza:
solo questo chiedeva e richiedeva, che libero fosse, e libero lasciato
tornare a far il papa nella sua Roma; che farebbe anche il papa in una
grotta, che farebbelo nelle catacombe; che se alla parsimonia ed ai
pericoli della primitiva Chiesa gli fosse duopo tornare, con piena
rassegnazione vi tornerebbe, nè ciò fora anco grave a chi non mai tanto
felice era stato, quanto, quando semplice fraticello essendo, in un
umile chiostro le dottrine teologiche insegnava.

In cotal modo si raffermava, quanto alle sue particolari sorti, l'animo
del pontefice; ma bene piangeva, ed amaramente deplorava le novelle
discordie. Deploravale principalmente perchè laceravano le viscere più
intime e più vitali della cristianità cattolica: deploravale perchè
impedivano l'unione, della quale aveva allora speranza delle parti
dissenzienti; imperciocchè aveva concetto il pensiero, che alcuni paesi
addetti alle dottrine di Lutero avessero presto a ritornare nel grembo
della chiesa. Solo disperava dei Calvinisti, siccome quelli ch'egli
riputava più induriti, e che avevano voluto introdurre nel governo
ecclesiastico gli ordini democratici.

Quest'erano le tribolazioni di Pio settimo. Ma ecco oggimai avvicinarsi
il tempo, in cui la sua virtù doveva esser messa a più duri cimenti.
Posciachè si era tentato di spaventarlo coi soldati, di osservarlo colle
spie, di sgomentarlo colla segregazione, di scuoterlo con le minacce, si
faceva passaggio ad assalirlo con le dottrine, e con le persuasioni di
coloro, che o per antica amicizia, o pel carattere di cui erano vestiti,
si credeva potessero avere molta autorità nelle sue deliberazioni. La
mancanza dell'ufficio pontificale, che il papa ricusava di compire già
da parecchj anni, principiava a farsi sentire fortemente nella
cristianità cattolica, la condizione peggiorava ogni giorno. Molte sedi
vescovili, ricusando il papa le bolle d'investitura, erano vacanti tanto
in Francia, quanto in Italia ed in Germania. Altre vacanze si scoprivano
alla giornata, ed era per estinguersi l'episcopato. L'imperatore, avendo
dato favore col concordato all'opinione cattolica, vedeva non potersi
esimere dal ricorrere all'autorità pontificia. Pensò sulle prime di usar
l'autorità del cardinal Caprara, arcivescovo di Milano, e legato della
santa sede a Parigi, di cui conosceva la condiscendenza. Scrisse il
cardinale supplicando al papa, desse le bolle per le sedi vacanti ai
vescovi nominati dal consiglio dei ministri dell'imperatore. Aggiunse
che Napoleone consentiva, che in esse il pontefice non facesse menzione
delle nomine imperiali, purchè egli non v'inserisse la clausula del moto
proprio, od altra equivalente.

Rispose risolutamente il pontefice, maravigliarsi, che Caprara queste
cose proponesse: esser evidente ch'ei non poteva accomodarvi l'animo:
non mai la cancelleria apostolica avere ammesso simili instanze da parte
dei laici: del resto, a chi concederebbonsi le bolle, se alle instanze
del consiglio dei ministri si concedessero? Non esser loro l'imperatore
medesimo? Non gli organi de' suoi ordini, non gli stromenti della sua
volontà? Ora dopo tante innovazioni funeste alla religione fatte
dall'imperatore, contro le quali egli si era sì spesso e sì inutilmente
querelato, dopo tante vessazioni commesse contro tanti ecclesiastici
dello stato pontificio, dopo l'esilio dei vescovi e della maggior parte
dei cardinali, dopo la carcerazione di Pacca cardinale, dopo
l'usurpazione del patrimonio di San Pietro, dopo di essere stato
assalito lui medesimo da uomini armati nei penetrali stessi del suo
pontificale palazzo, dopo di essere stato forzatamente in terra sotto
strette guardie condotto per modo che i vescovi di parecchi luoghi non
avevano potuto avvicinarsi a lui, o parlargli senza testimonj, dopo
tanti attentati sacrileghi, tacendone anche, per amor della brevità,
altri infiniti, contro i quali i concilj generali e le constituzioni
apostoliche fulminavano l'anatema, che altro avere lui fatto, se non
uniformarsi, com'era suo dovere, ai decreti di questi concilj, se non
obbedire ai termini di queste constituzioni? Come adunque potrebbe
oggidì riconoscere nell'autore di tante violenze il diritto di nominar i
vescovi, come consentire ch'egli l'usasse? Il potrebbe forse senza farsi
reo di prevaricazione, senza contraddire a se medesimo, senza dare, con
iscandalo gravissimo, materia ai fedeli di credere, ch'egli sbattuto e
vinto dalle disgrazie, a tanto di abiezione fosse venuto, che potesse
tradire la sua coscienza, e fare quello, ch'essa con terribil voce
l'ammoniva di dannare? Pesasse bene, e queste ragioni ponderasse, non
secondo la sapienza umana, ma prostrato nel santuario il cardinale, e
vedrebbe, quanto vere, quanto inconcusse, quanto incontrastabili
fossero. Chiamare tuttavia Dio in testimonio di quanto egli in mezzo a
sì crudeli tempeste desiderasse provvedere alle sedie vacanti della
chiesa di Francia, di quella chiesa di Francia, suo primo amore, e suo
supremo diletto: con quanto piacere abbraccerebbe egli un consiglio, che
gli permettesse di soddisfare ad un tempo ed al suo pastorale uffizio,
ed a' suoi doveri sacrosanti! ma come potere, come risolversi solo e
senza soccorso in un affare di tanta importanza? Toltigli essere tutti i
consiglieri suoi, toltagli la facoltà di comunicare con loro, nissuno
restargli, da cui pigliar lume in sì spinosa discussione. Se vera
affezione avesse l'imperatore alla cattolica chiesa, incominciasse dal
riconciliarsi col suo capo: togliesse le innovazioni funeste,
rendessegli la sua libertà, la sua sede, i suoi ufficiali;
restituissegli il patrimonio, non suo ma di san Pietro; riponesse sulla
cattedra dell'apostolo il suo capo supremo, il suo capo di cui ella era
vedova e priva dopo la Savonese cattività; rimandassegli i quaranta
cardinali dal suo grembo divelti pei crudi comandamenti suoi;
richiamasse alle diocesi loro tanti esuli vescovi: pregare
incessantemente e ferventemente fra tante sue tribolazioni quel Dio, che
tiene in sua mano tutti i cuori, incessantemente e ferventemente
pregarlo per l'autore di tanti mali: esaudisselo, piacessegli spirare al
duro cuore di Napoleone più salutevoli consiglj; ma se per segreto
giudizio di chi tutto sa e tutto puote, altrimenti accadesse,
piangerebbe egli le presenti calamità, certo e sicuro che nissuno a lui
imputare le potrebbe.

In questo mezzo tempo Napoleone per intimorire il papa, e farlo
consentire a quanto egli desiderava, con dargli sospetto che se non
consentisse, ei farebbe da se, aveva convocato un consiglio
ecclesiastico a Parigi chiamandovi i cardinali Fesch e Maury,
l'arcivescovo di Tours, i vescovi di Nantes, di Treveri, d'Evreux, di
Vercelli, ed un Emery, prete superiore del seminario di San Sulpizio a
Parigi. L'imperatore, per mezzo del ministro dei culti Bigot di
Préameneu, personaggio di buona e posata natura, ma che ciò non ostante
procedeva con molto calore in questa faccenda contro il papa, propose
loro certi quesiti, acciocchè gli dichiarassero. Erano questi prelati, o
tutti o la maggior parte, nemici dei seguaci di Porto Reale; ma la
fortuna, e la Napoleonica ambizione gli avevano condotti a questo duro
passo, o di opinare, circa la potestà della sedia apostolica, conforme
alle dottrine di quella famosa scuola, o di dispiacer a Napoleone. Una
sola risposta dovevano e potevano dare, ed era quest'essa: che si
rimettesse il pontefice nella condizione in cui era quando concluse il
concordato, ed allora se ricusasse le bolle, opinerebbero; ma non la
diedero, perchè quelli non erano tempi da Ambrogi. Certamente se il papa
debbe essere assicurato contro i principi in materia religiosa e
spirituale, i principi debbono essere assicurati contro il papa in
materia politica e temporale. A quest'ultimo fine mirava la necessità
nel papa nel dar le bolle in un dato tempo, salvo i casi d'impedimenti
canonici nei nominati; ma la prigionìa del pontefice rendeva impossibile
ogni negoziato, e Napoleone voleva non solamente la independenza per se,
ma ancora la servitù negli altri. Il governo della chiesa, portavano i
quesiti, è egli arbitrario? Può il papa per cagioni temporali ricusare
il suo intervento negli affari spirituali? Conviensi, che solamente
prelati e teologi trascelti nei piccoli luoghi del territorio Romano
giudichino degl'interessi della chiesa universale? Conviensi, che il
concistoro, consiglio particolare del papa, sia composto di prelati di
tutte le nazioni? Quando no, l'imperatore non ha in se raccolti tutti i
diritti, che ai re di Francia, ai duchi del Brabante, e ad altri sovrani
dei Paesi Bassi, ai re di Sardegna, ai duchi di Toscana, e simili
s'appartenevano? Ancora, ha Napoleone imperatore, o i suoi ministri
violato il concordato? Essi migliorata, o peggiorata la condizione del
clero di Francia dopo il concordato? Se il sovrano di Francia non ha
violato il concordato, può il papa di suo proprio arbitrio, ricusare
l'instituzione agli arcivescovi e vescovi nominati, e perdere la
religione in Francia, come l'ha perduta nell'Alemagna senza vescovi da
dieci anni? Non avendo il governo di Francia violato il concordato, se
dal canto suo il papa ricusa di eseguirlo, intenzione di sua maestà è,
ch'esso si abbia e si tenga per abrogato: ma in tale caso, che conviensi
fare pel bene della religione?

A questi quesiti, che risguardavano specialmente la Francia e l'Italia,
se ne aggiunse un altro per l'Alemagna, desiderando l'imperator
Napoleone sapere, quale cosa gl'incombesse di fare per la salute della
religione in questa parte d'Europa, a lui, che era il cristiano il più
potente di tutti, signore dell'Alemagna, erede di Carlomagno, vero
imperatore d'Occidente, figliuolo primogenito della chiesa. Ancora ha
bisogno la Toscana di nuove circoscrizioni di diocesi, e se il papa non
vuol cooperare, che farà sua maestà?

Ancora, e finalmente éssi questa bolla di scomunica stampata e sparsa
per tutta Europa: che farà Napoleone imperatore per impedire, che in
tempi di turbazioni e di calamità, non diano i papi in questi eccessi di
potenza tanto contrari alla carità cristiana, quanto all'independenza,
ed all'onore del trono?

Intanto Napoleone costretto dalla necessità, perchè la vacanza delle
sedi episcopali turbava la coscienza dei fedeli, essendo a ciò
consigliato da coloro che appresso a lui trattavano delle faccende
ecclesiastiche, si deliberava ad usare un rimedio, che poteva dargli,
secondo che credeva, tempo ad aspettar tempo, e conclusione definitiva
delle differenze nate colla santa sede. Aveva egli udito, che dopo la
morte del vescovo la giurisdizione episcopale si trasferiva nel capitolo
della chiesa cattedrale, e che a questo s'apparteneva il nominare vicarj
generali, che governassero la diocesi durante la sede vacante. Oltre a
ciò fu fatto sapere a Napoleone, che i capitoli investiti alla morte del
vescovo della potestà episcopale, conferivano, secondo gli antichi usi
di Francia, la potestà medesima all'ecclesiastico nominato dal sovrano
alla sede vacante. Quest'ultimo pensiero gli fu suggerito dal consiglio
ecclesiastico. Ma al tempo medesimo il consiglio aveva mitigato il
concetto con dire, che lo spediente proposto non poteva essere che
transitorio, che solo per l'ultima necessità, e per non lasciar perire
l'episcopato in Francia dovevano i capitoli delegare la giurisdizione ai
nominati, che, cessata la necessità, si rendeva necessario tornare ai
metodi consueti; che sebbene i vescovi nominati e delegati avessero
potestà di reggere le diocesi, non potevano esercire tutta la pienezza
dell'autorità episcopale, perciocchè, se avevano la giurisdizione, non
avevano l'ordine; i vescovi instituiti possono fare certe funzioni, che
i vescovi delegati non possono; che pure era richiesto per la salute dei
fedeli, e pel perfetto delle diocesi, che l'autorità episcopale tutta
intiera in loro si raccogliesse; che del resto non pareva conveniente,
che lungo tempo i vescovi esercessero le facoltà loro, e governassero le
diocesi come semplici delegati dei capitoli; altro maggior decoro, altra
maggiore independenza essere richiesta ad un vescovo perchè si possano
aspettare dal suo ministerio i debiti frutti.

Certamente non piaceva neppur a Napoleone, che era d'indole assoluta,
questa condizione, che i vescovi, come delegati esercessero, perchè
voleva, che i capi fossero padroni, non servi. Ciò nondimeno il
guadagnar tempo gli pareva cosa d'importanza. Deliberossi pertanto,
insino a che da Savona migliori novelle gli pervenissero, a servirsi del
temperamento proposto dal consiglio ecclesiastico. Erano in Francia e
nell'Italia Francese diocesi vacanti da lungo tempo, in cui governavano
i vicarj capitolari. A volere che i capitoli delegassero l'autorità
vescovile ai nominati dall'imperatore, era d'uopo che i vicarj
rinunziassero: conciossiachè non vi potessero essere due delegati. A
questo fine indirizzava i pensieri il governo Napoleonico; dal che
nacquero accidenti di non poca importanza. Aveva Napoleone nominato
vescovo d'Asti in Piemonte il prelato Dejean, fratello d'un suo
ministro. Richiesti del rinunziare, i vicarj del capitolo ricusarono.
Avute le novelle, Napoleone sdegnosamente decretava: fosse il capitolo
d'Asti ridotto a sedici, i beni spettanti ai canonicati soppressi
cadessero in potestà dei fisco, i renitenti fossero arrestati e
processati, come di crimenlese. Aggiungeva Bigot di Préameneu, che sua
maestà si era risoluta ad unire al fisco i beni dei vescovati, dove
sorgessero erbe di ribellione. Aveva Napoleone nominato Osmond vescovo
di Nancy, uomo di nobile tratto e di pulitissima favella,
all'arcivescovato di Firenze. Scrisse risolutamente il pontefice al
vicario capitolare, comandando che non rinunziasse, che era Osmond
illegittimo secondo i canoni. Seguitarono effetti conformi: non ebbe mai
Osmond quieto vivere in Firenze.

Ma a quest'amarezza serbava il cielo Napoleone imperatore, che il
prigioniero di Savona gli turbasse i suoi pensieri nella capitale stessa
del suo impero. Aveva egli nominato arcivescovo di Parigi il cardinale
Maury, surrogandolo al Fesch, che nominato ancor esso alla medesima sede
non aveva voluto accettare. Maury, parendogli un bel seggio il Parigino,
l'accettò. Seppelo il santo padre per avviso mandato dal cardinal
Dipietro, che confinato a Semur faceva una mirabile polizia a suo modo.
Scrisse un breve ai vicarj capitolari di Parigi della colpevole audacia
del cardinale, e del debito loro gravemente ammonendogli. Essere,
rammentava, il cardinale Maury un intruso, essere irremissibile la sua
temerità; calcare lui i sacri canoni, calcare le decretali dei papi,
calcare tutte le leggi dell'ecclesiastica disciplina: avessero i vicari
per nulli tutti gli atti che il cardinale facesse: niuna qualità, niuna
giurisdizione l'intruso avere, tutte a lui essere negate, tutte tolte:
essere legato Maury alla chiesa di Montefiascone; niuno poternelo
sciorre, che la santa sede: le sue risoluzioni gli comunicassero, e
dell'esecuzione l'ammonissero. Intanto Maury, che non era uomo da
sgomentarsi così alla prima, nè solito a cambiarsi in viso pei rabbuffi,
scriveva al papa informandolo della sua nomina, ed accettazione
dell'arcivescovil sede di Parigi. Rispose il pontefice, maravigliarsi
dell'audacia sua, ma maggior dolore ancora sentirne, che maraviglia:
inaspettato e deplorabile accidente, sclamava, ch'egli tanto da se
stesso disforme fosse divenuto, che ora quella causa della chiesa
abbandonasse, che sì degnamente aveva patrocinata nei calamitosi tempi
della rivoluzione. Adunque, continuava, la podestà civile questo punto
vincerà, che ella al governo delle chiese chi più le pare e piace,
instituisca? Adunque sarà cassa la libertà ecclesiastica, le elezioni
invalide, il scisma presente? Tali essere gli effetti, tali i
risultamenti dell'esempio detestabile che egli dava. Pertanto comandava
al cardinale, pregavalo, scongiuravalo, incontanente cessasse dal
governo della Parigina chiesa, si ritirasse dagl'imperiali doni: quando
no, procederebbe rigorosamente contro di lui.

Non erano le opinioni conformi nel capitolo di Parigi; chi amava meglio
l'imperio che la chiesa, e chi la chiesa meglio che l'imperio. Più erano
i primi che i secondi; quelli avevano accettato Maury, questi gli
contrastavano. Degli ultimi Paolo Dastros, canonico e vicario generale,
preso occasione del mandare al vescovo di Savona certe dispense, aveva
supplicato al papa, affinchè il consigliasse di quello che si avesse a
fare nelle congiunture presenti. Il santo padre rispondendo, tornava in
sul chiamare Maury intruso, disubbidiente, uomo di audacia
intollerabile: ordinava, ed in virtù della santa obbedienza comandava a
Dastros, incontanente mostrasse al cardinale la sua lettera, e
gl'imponesse da parte sua, che dalla temeraria impresa si ritirasse.

Seppesi Rovigo, che sapeva tutto, queste cose; le disse all'imperatore.
Sdegnossene Napoleone: prima cosa, fatto arrestare a furia Dastros, il
cacciò nelle segrete al solito: poi fece rimproveri e minacce tali a
Portalis, consigliere di stato, perchè le lettere del papa a Dastros
erano venute sotto sua coperta, che il povero giovane se ne tornò tutto
smarrito e lacrimoso a casa. Ma le Savonesi cose pressavano. Scrutaronsi
diligentemente dalla polizia Napoleonica i fogli ai servitori del papa;
a Paolo Campa, a Giovanni Soglia, a Carlo Porta, al prelato Doria, al
prelato Maggiolo, ad Andrea Morelli, a Moiraghi, a Targhini, cuochi, e
valletti. Trovarono lettere del papa per le Astigiane, Fiorentine, e
Parigine controversie; trovarono lettere di Dipietro al papa, trovarono
suppliche per dispense, modi di condursi ai Romani, descrizioni ed
attestazioni di miracoli. Le ferrate porte di Fenestrelle sorbirono
Morelli, Soglia, Moiraghi, ed un Ceccarini chirurgo, ed un Bertoni
valetto: anche un Petroncini domestico del Doria, fu cacciato nelle
segrete. Porta se la passò con una buona ammonizione, e che, se vi
tornasse, mal per lui: speravano che scoprirebbe qualche cosa degli
affari del papa. Doria fu mandato a starsene co' suoi a Napoli, e
badasse a non guardar indietro. Nè Dipietro potè fuggire lo sdegno
imperiale: preso a Semur, cambiò l'esilio in carcere.

Dispersi i minori, Rovigo e Napoleone pensavano a quello che fosse a
farsi del pontefice; perchè, se gli altri avevano fatto fallo a
Napoleone, il papa, pensavano, l'aveva fatto maggiore, e maggiore anche
da lui veniva il pericolo. Non sapevano darsi pace, come tra quelle
folte tenebre che avevano con tanta cura addensate intorno al pontefice,
avesse trovato uno spiraglio a vedere, ed a far veder lume: il prefetto
di Montenotte sentì qualche sprazzo della collera suprema. Incominciava
a fulminare con grandissimo sdegno contro il papa Bigot di Préameneu:
sapere l'imperatore, che il papa aveva scritto al capitolo di Firenze,
acciocchè non conferisse la potestà all'arcivescovo nominato; recarsi
l'imperatore quest'atto a grave offesa. Adunque vuole il papa tutto
sovvertire e mandar sossopra? Adunque non vuol nemmeno che le diocesi
siano transitoriamente amministrate dai prelati, che l'imperatore
giudica degni della sua confidenza, ed ai quali secondo l'uso i capitoli
conferiscono le potestà al tempo delle sedi vacanti? Adunque danna il
papa uno stato transitorio, che è in facoltà sua di far cessare, dando
le bolle, incontanente? Crede egli, che Sua Maestà sia subordinata ad un
capitolo, per forma che il vicario ch'esso capitolo ha eletto, non abbia
bisogno di essere riconosciuto dall'imperatore, e che, se riconosciuto
non è, o cessasse d'essere, ei conservi il diritto di far funzioni, che
sono ad un tempo stesso e temporali e spirituali? Un vescovo
canonicamente instituito non può nominare un vicario generale senza
l'intervento di un decreto imperiale: come può il capitolo avere maggior
diritto che il vescovo? I sudditi dell'imperatore, che il capitolo
compongono, non renderebbersi forse colpevoli, se un vicario altro che
quello che il loro sovrano loro indicasse, o nominassero o mantenere
volessero? Questo vicario capitolare non dovrebbe egli forse per la pace
della chiesa cessare di per se medesimo l'ufficio, o se questo motivo,
più sacro certamente dell'autorità arbitraria del pontefice, a ciò fare
nol risolvesse, la volontà del sovrano non gli torrebbe forse ogni
potenza dell'atto, o se ribelle si costituisse, non dovrebbe egli portar
la pena della sua ribellione? Avere veduto il papa i sovvertimenti
prodotti dalle instruzioni ch'ei non aveva diritto di dare sulla formola
del giuramento d'un suddito al suo sovrano; nè poter non preveder
quelli, che potrebbero nascere dalla sua lettera al capitolo di Firenze.
Nissuna violenza, nissun oltraggio del papa l'imperatore lascerebbe
impunito: essere tuttavia parato l'imperatore a venirne a giusti termini
d'accordo, solo che il papa, scrivendogli, il facesse certo della sua
volontà. Ma se al contrario da una parte perseverasse nel voler lasciar
le chiese senza capi instituiti, dall'altra nell'impedir i capitoli, e
nel mettergli in caso di ribellione contro il sovrano loro, non vedrebbe
più Sua Maestà in questi atti le funzioni del governo pontificale, che
tutte sono di pace e di carità, non vedrebbe più sotto un titolo
rispettabilissimo, che un nemico protervo; obbligo suo sarebbe di torgli
ogni mezzo di nuocere coll'interdirgli ogni comunicazione col clero del
suo impero, e con isolarlo, qual ente pericoloso: non potere il prelato
Doria aspettarsi altro destino, che quello di Pacca cardinale. Le quali
ultime parole dette, non so per qual rispetto, non di Pio, ma di Doria,
chiaramente significavano, che di Doria si dicevano, perchè Pio come
dette di se le riputasse.

Crebbero a dismisura gli sdegni, quando si scoverse l'affare di Dastros.
Sclamava il Parigino ministro, la pontificia lettera esser fonte di
ribellione; girare il papa le incendiarie faci all'intorno; parlare di
concordia, suscitare la discordia. Poi per bocca imperiale comandava al
prefetto di Montenotte, badasse bene a non lasciare trapelar lettere, nè
per dentro, nè per fuori della papale stanza, e non mancasse; parlasse
più risolutamente al papa; gl'intuonasse alle orecchie, che dopo la
fulminata scomunica, ed il procedere suo a Roma, che tuttavia continuava
a Savona, l'imperatore il tratterebbe come meritava; che tanto era
oramai il secolo oltre nei lumi, che sapeva distinguere le dottrina di
Gesù Cristo da quelle di Gregorio settimo.

I fatti seguitavano le minacce. Per dispetto, e per speranza di ottener
concessioni col terrore, ordinava l'imperatore, che ogni apparato
esteriore si sbandisse dall'abitazione pontificia: trovarono i rigidi
comandamenti diligenti esecutori. Camillo Borghese principe toglieva le
carrozze al papa, toglievagli Sarmatoris e gli altri servitori,
sopprimeva ogni segno di rispetto, gl'interdiceva penna ed inchiostro,
gl'intimava per ordine di Napoleone imperatore, che gli era fatta
inibizione di comunicare con alcuna chiesa dell'impero, nè con alcun
suddito dell'imperatore sotto le pene di disubbidienza tanto per lui,
quanto per loro; che cessava di essere l'organo della Chiesa colui che
predicava la ribellione, colui che aveva l'anima tinta di fiele; che
poichè niuna cosa il poteva far savio, se gli faceva a sapere, che sua
Maestà abbastanza era forte, perchè potesse far quello che i suoi
antecessori avevano fatto, e deporre un papa.

Si credeva a Parigi che i comandamenti ripetuti avessero maggior forza.
Per la qual cosa Bigot di Préameneu novellamente inculcava, si intimasse
a Pio, che per cagion sua i cardinali, ed i vicari generali perdevano la
libertà, i canonici le prebende; che queste occulte trame erano indegne
di un papa; ch'egli sarebbe cagione delle disgrazie di tutti coloro, che
avrebbero a far con lui; che dichiarato nemico dell'imperatore doveva
quietamente starsene, e poichè da sè si chiamava carcerato, operare come
se fosse carcerato, nè avere con nissuno pratica o corrispondenza; che
gran disgrazia era per la Cristianità lo avere un papa così ignorante di
quanto è dovuto ai sovrani: che del resto, non sarebbe la pace dello
stato turbata, e che il bene si farebbe senza di lui.

Oltre i comandamenti del ministro dei culti, e del principe governatore
del Piemonte, perciocchè tutto il governo Napoleonico era mosso contro
il prete di Savona, intuonava dalle sponde dell'investigatrice e
dispotica Senna la polizia, si guardasse bene dentro e fuori della
pontificia abitazione; si stillasse tutto, si spiasse tutto; niuna cosa,
per minima che fosse, trapelare, o, per usare le parole stesse, filtrare
potesse, senza che la polizia la sapesse; si guardasse attentamente al
grande, si guardasse colla medesima gelosìa al minuto; non si prestasse
fede di tutto a tutti, ma solo ai più fidi; se alcuno mentisse, fosse
punito; se alcuno dicesse la verità, fosse ricompensato; vigilante fosse
la investigazione, e continua, ma invisibile, fosse anche proteiforme;
fossero gli agenti di tutte le lingue, di tutte le forme, di tutti i
mestieri, varj ed infiniti i pretesti, ma sempre naturali, perchè il
lambiccato svela l'arte; si usasse ogni astuzia, ogni strattagemma, ogni
scaltrimento; superassersi in astuzia, queste parole stesse portavano le
lettere, i preti, anche i più maliziosi; si avesse l'occhio massimamente
alle strade da Savona a Torino, perchè là era il marcio; si guardasse
addosso ai pedoni molto diligentemente, e per ogni parte si
ricercassero; non mancherebbero i pretesti per non dar sospetto; ora si
motivasse di un vagabondo, ora di uno scappato di galera, qui si
cercasse un soldato fuggitivo, là un truffatore condannato, poi un po'
di scusa velerebbe il segreto: le Savonesi terre desolate dalla polizia.
Voleva ancora, essa polizia, si procurasse, che pei concorsi d'uomini o
di alta o di bassa condizione, gli autorevoli e di buona favella
intendessero alle persuasioni, dicendo, che l'imperatore aveva ragione,
il papa torto; che più amava l'imperatore la religione, che il papa
l'amasse. Insinuava altresì, che le sacristìe ed i confessionali
farebbero servizj grandi, se si facesse sentire ai curati instrutti, ed
ai preti giurati, che la loro obbedienza e sommessione erano conosciute,
e che sarebbero anche premiate; se qualche canonico, o se qualche
regolare passato a vita secolare compiangesse o titubasse, se gli
facesse tosto suonare all'orecchie l'interesse personale, la perdita
delle pensioni, e che la polizia sapeva tutto; se qualcheduno
ricalcitrasse, si mettesse in luogo dove gli passerebbe voglia;
finalmente con ogni sorta di cortesi dimostrazioni, tanto in pubblico,
quanto in privato si accarezzassero, ed al ministro dei culti si
raccomandassero gli ecclesiastici che si mostrassero più fedeli, che
usassero l'autorità loro per ridurre i compagni a fedeltà, e che
predicassero che ogni potestà temporale viene da Dio, e che il Vangelo
insegna e raccomanda l'obbedienza e la sommessione verso i principi;
ponessesi mente ad operare che tutti gli spiriti s'imbevessero di
quest'opinione, che l'imperatore non tornava mai indietro, che per la
sua munificenza infinita sempre premiava chi fedelmente e devotamente il
serviva, ma che per la sua giustizia mai non perdonava a chi denigrasse,
a chi ricalcitrasse, a chi dissidj e discordie seminasse.

Queste che abbiamo raccontate, furono le cautele poste in opera dai
Napoleonici per murare il papa, e per fare, che nissuno sapesse, o
dicesse, o facesse altro che quello che piaceva a Napoleone. Arti
veramente perfette erano queste, e da servir per esemplare a chi ama il
comandare da se. L'imperatore veduto che nè le persuasioni, nè le
minacce, nè gli spaventi, nè la strettezza del carcere non avevano
potuto piegare l'animo del pontefice, e credendo, per le opinioni dei
popoli, di non potere da se, e senza che gli estremi mezzi prima si
fossero tentati, fare questa gravissima mutazione, che i vescovi di
Francia, e di tutti i paesi sudditi a lui più non ricevessero la
instituzione canonica della sede apostolica, si era risoluto ad usare
più efficacemente il sussidio del consiglio ecclesiastico adunato in
Parigi. Opinava, che il parere di ecclesiastici di grado o di dottrina,
fosse per operare fortemente in favor suo sulla mente dei popoli, caso
che per la necessità delle cose si avesse a rompere quel legame, che
congiungeva l'episcopato Francese alla Chiesa di San Pietro.

Inoltre, a ciò consigliato, e stimolato principalmente dal consiglio
ecclesiastico, si era deliberato a convocare un concilio nazionale a
Parigi; acciocchè considerasse la necessità presente, e proponesse i
mezzi di rimediarvi. Dava favore a questo suo pensiero, oltre la maggior
autorità di un concilio, la speranza che i vescovi Italiani chiamati
all'assemblea, siccome nutriti, la maggior parte, nelle dottrine che
abbracciate in Italia da molti dotti canonisti, avevano negli ultimi
tempi trovato una principal sede in Pistoia, avrebbero deliberato in
favor d'un'opinione, che, quanto alla trasmissione dell'episcopato,
pareva conforme agli usi antichi della Chiesa primitiva.

Ordinate in tal modo le cose, e sicuro di quello che dovesse avvenire,
Napoleone stimolava il consiglio ecclesiastico; acciocchè desse
principio a quanto si era ordinato. In primo luogo rispondeva il
consiglio, non senza molt'arte, a quesiti fatti con maggior arte. Quanto
all'articolo, se il governo della Chiesa fosse arbitrario, dichiarò che
non era; che quanto alla fede, la santa scrittura, la tradizione, ed i
concili servivano di regola; e quanto alla disciplina, l'universale
reggevano i decreti della Chiesa universale, la particolare quelli delle
Chiese particolari; il che il consiglio non diceva senza cagione.
Aggiunse, che la disciplina particolare era sempre stata rispettata
dalla Chiesa universale, piena di carità e di condiscendenza. Ragionò,
che Dio aveva dato a san Pietro, ed a' suoi successori il primato
d'onore e di giurisdizione; ma i consiglieri ecclesiastici, procedendo
con questa generalità, e non venendo a nissuna particolarità, non si
spiegavano, in che cosa consistesse questo primato di giurisdizione,
perchè in ciò appunto stava tutta la difficoltà della materia venuta in
controversia; che Dio diede al tempo stesso agli apostoli, continuavano
i consiglieri, la facoltà di reggere le Chiese, con subordinazione però
al capo degli apostoli: dal che ne risultava, che ove questa
subordinazione non si offendesse, avevano i successori degli apostoli
pieno mandato di governar le Chiese.

Non potere, statuirono, il papa ricusare il suo intervento negli affari
spirituali per cagione dei temporali, quando questi di tale natura non
siano, che non impediscano il pontefice di far uso della sua autorità
liberamente, e con piena independenza: convenirsi, che nel concistoro
intervengano cardinali di ogni nazione, ma dello speciale modo non
convenirsi deffinire, dovendosi lasciare qualche libertà al papa nella
elezione de' suoi consiglieri; nè in ciò potersi andar più oltre che il
concilio Basileense ebbe prescritto, cioè eleggesse il papa cardinali di
tutte le nazioni, quanto più comodamente fare si potesse, e secondochè
se ne trovassero dei degni. Ma prelati tostamente contraddissero a
questa soluzione, nè potevano fare altrimenti, dichiarando, veramente
avere l'imperatore raccolti in se stesso tutti i diritti del richieder
cardinali, che competevano ai re di Francia, ai principi del Brabante,
ai sovrani della Lombardìa, del Piemonte, e della Toscana; dal che ne
conseguitava, che, eccettuati i cardinali degli stati ereditarj
d'Austria, dovendo presto aggiungersi i diritti di Spagna, tutti i
cardinali gli avrebbe nominati egli; e che independenza di papa e di
concistoro fosse quella, ponendo eziandìo che il papa si restituisse a
Roma, ed al dominio temporale, nissuno è, che nol veda.

Il concordato, opinarono, non essere stato violato in niuna essenziale
parte dell'imperatore; qui i prelati si trovarono a un duro cimento,
perchè sapevano che il papa aveva protestato contro gli articoli
organici di Francia, e più ancora contro quei d'Italia. Trovarono per
iscampo, che parecchj articoli, di cui s'era il pontefice querelato,
erano massime ed usi della chiesa gallicana. Assai migliorata essere,
risposero, la condizione del clero in Francia dopo il concordato, ed in
questo avevano i prelati ogni ragione, nè tanto non dissero, che non
potessero dire molto più.

Per sentenziare se il papa di suo proprio arbitrio potesse rifiutare le
instituzioni, i prelati s'aggirarono per molti ragionamenti;
imperciocchè in questo giaceva tutto il nodo della difficoltà: che il
concordato, esposero, era un contratto sinallagmatico tra il capo dello
stato, e il capo della chiesa, pel quale ciascuno di loro si era
obbligato verso l'altro; che era anche un trattato politico di sommo
momento per la nazione Francese, e per la chiesa cattolica, che per lui
Sua Maestà era investita del diritto di nominare gli arcivescovi ed i
vescovi, di cui prima godevano i re di Francia pel concordato concluso
tra Leone decimo e Francesco primo, ed era riserbato al papa quello di
dare l'instituzione canonica agli arcivescovi e vescovi nominati da Sua
Maestà, secondo le forme accordate, rispetto alla Francia, prima del
cambiamento di governo, ma che il papa, non di proprio arbitrio, ma
secondo i canoni doveva dare la instituzione, che a termini del
concordato del millecinquecento quindici egli era obbligato a dar le
bolle, od allegare motivi canonici del suo rifiuto; a volere ch'egli
potesse rifiutare senza cagione, ed arbitrariamente le bolle, e
bisognerebbe supporre, che da nissun trattato fosse obbligato, neanco da
quello al quale aveva solennemente ratificato, e potesse mancar della
fede data all'imperatore, alla Francia, ed alla Chiesa tutta, alla quale
il concordato dell'ottocento uno assicurava la protezione del più
potente sovrano del mondo. Aggiungevano i prelati, sapersi il papa
queste cose, confessare la verità dei narrati principj, ma negare le
instituzioni pei motivi addotti nella sua lettera al cardinal Caprara:
insussistenti essere questi motivi, non avere l'imperatore alcuna offesa
di importanza fatta al concordato: dei motivi politici non poter loro
giudicare; diverse essere le temporali cose, diverse le spirituali; il
senatus-consulto, che unì Roma alla Francia, non avere offeso l'autorità
spirituale del papa, nè il temporale dominio essere necessario
all'esercizio della potestà pontificia; non avere la presa di Roma
violato il concordato, nè il concordato aver dato sicurtà al papa di
Roma; non come principe temporale, ma come capo della Chiesa avere quel
solenne atto stipulato; il principe non esser più, ma essere il
pontefice, e la pontificia autorità rimanersi intatta; avere potuto il
papa protestare, potuto richiamarsi della Romana possessione, ma non
potere usar mezzi per ridurre in atto le proteste ed i richiami, non
iscomunicare; dichiarare l'imperatore, che nulla voleva innovare nella
religione; protestarsi che voleva l'esecuzione dei patti convenuti; non
potere per motivi temporali tirarsi il papa indietro; nè Clemente
settimo da Carlo quinto oltraggiato essere venuto a tale estremo.
Restava che i prelati parlassero della libertà violata, della perfetta
segregazione del pontefice; posciachè il papa di tali ingiurie si era
doluto nella sua lettera al Caprara, e sopra di esse principalmente
fondava il rifiuto delle bolle. A questo passo con brevissime parole
osservarono, che facilmente l'imperatore s'accorgerebbe di tutta la
forza e giustizia delle lagnanze del papa. Con questo freddo discorso
favellarono prelati cattolici, prelati che da Pio tenevano i seggi loro,
dell'atroce caso del pontefice, nè in ciò sono a modo alcuno scusabili;
conciossiachè, posto eziandio, che circa la questione canonica
l'imperatore avesse ragione, il papa torto, il fatto solo della
carcerazione del pontefice rendeva dal canto loro ogni opinare
impossibile. Il concordato, che era un vero trattato, supponeva equalità
di condizione nelle due parti, e libertà di deliberazione sì nell'una
che nell'altra: ma quale libertà di deliberazione fosse in un papa
prigioniero, e quale equalità di condizione tra un papa carcerato ed un
imperatore carcerante, ciascuno potrà facilmente da per se stesso
giudicare. Certamente debbe stare inconcussa la libertà dei principi,
debbonsi troncar le strade agli abusi pontificj, e chi arrivasse a
stabilir bene questo punto, meriterebbe bene del mondo cattolico, anzi
di tutta l'umanità. Ma la carcerazione del pontefice turbava ogni cosa,
e prima di trattare la questione canonica, si doveva definir quella
della liberazione.

La materia, quanto più si va oltre, tanto più si stringe. Non potere,
risposero i prelati, aversi il concordato per abrogato, perchè non era
già esso una transazione meramente personale fra l'imperatore e il papa,
bensì un trattato che costituiva parte del dritto pubblico di Francia,
ed in cui si contenevano i principj fondamentali, e le regole del
governo della chiesa gallicana; importare adunque, che, quandanche il
papa perseverasse, in quanto a lui si atteneva, nel non volerlo
eseguire, la sua esecuzione continuamente si addomandasse, e della
medesima il sovrano pontefice si richiedesse: ma se il papa tuttavia
perseverasse nel ricusar le bolle, doversi protestare contro questo
rifiuto illegale, ed appellarne o al papa meglio informato, o al suo
successore. Quivi i prelati erano arrivati all'estremo passo; perchè o
che il concordato come abrogato, o solamente come sospeso si riputasse,
un rimedio diveniva necessario. Ora, stantechè la religione cattolica
non può sussistere senza l'episcopato, e l'episcopato non si può avere
senza la instituzione canonica, nè senza la giurisdizione unita
all'ordine, e stante ancora che la chiesa gallicana, parte tanto nobile
e tanto essenziale della Cristianità cattolica, venuta, non per sua
colpa, in queste fatali strette, non doveva e non poteva nè abbandonare
se stessa, nè lasciarsi perire, nè non trovar modi di conservazione, i
prelati opinarono, e così all'imperatore rappresentarono, che si
ricercasse quanto negli antichi tempi della chiesa, ed in quelli più
vicini si fosse praticato. Descrissero, nei primi secoli della Chiesa, i
vescovi essere stati nominati dai suffragi dei vescovi conprovinciali,
dal clero, e dal popolo della chiesa che del vescovo abbisognava; essere
stata la elezione confermata dal metropolitano, o se del metropolitano
si trattasse, dal concilio della provincia: nella serie dei tempi
posteriori poi, avere gl'imperatori, o gli altri principi cristiani
grandemente partecipato nelle nomine dei vescovi: di grado in grado non
essersi più chiamati alle elezioni il popolo ed il clero della campagna,
e devolute essere le elezioni al capitolo della chiesa cattedrale, ferma
sempre però stando la necessità del consenso del principe, e della
conferma del metropolitano, o del concilio provinciale: la disusanza di
queste assemblee, le contese frequenti, che nascevano dalle elezioni, la
difficoltà di terminarle sui luoghi, il vantaggio che trovavano i
principi di trattare immediatamente col papa, avere introdotto l'uso di
promuovere queste cause innanzi alla santa sede, e per tal modo essere i
sovrani pontefici appoco appoco venuti in possessione del confermare la
maggior parte dei vescovi: tale essere stata la condizione delle
cose ai tempi del concilio Basileense, di cui la Chiesa di Francia
accettò i decreti relativi alla nomina, ed alla confermazione dei
vescovi, e statuiti per la sanzione prammatica di Bourges nel
millequattrocentotrent'otto; per lei essersi mantenute le elezioni
capitolari, e la confermazione, o instituzione lasciata ai
Metropolitani: così colla prammatica di Bourges essersi rimediato alla
mancanza dell'instituzione pontificia: essere poscia circa un secolo
dopo, sorto il concordato fra Leone decimo e Francesco primo, dal quale
la nomina del re fu sostituita alla elezione capitolare, e la conferma,
od instituzione canonica riservata al papa: per tale forma essersi
trasfusa la potestà dell'instituzione dai metropolitani, e dai concilj
provinciali nel sovrano pontefice, e le elezioni capitolari nel capo
temporale dello stato. Ora adunque, ristringendo il discorso loro,
dicevano i prelati, poichè la necessità non ha legge, e la conservazione
della chiesa gallicana da ogni umana e divina legge è non solo
raccomandata, ma comandata, volersi, persistendo il papa nei rifiuti,
tornare all'antico dritto dei metropolitani, non per sempre nè
definitivamente, ma temporaneamente e transitoriamente, insino a che
piacesse a chi muove a posta sua gli umani cuori, voltar quello del
pontefice in meglio verso di quella grande, affezionata, e zelante
gallicana chiesa: la prammatica disusata di Bourges avere ad essere il
rimedio dei mali presenti. Grave ed enorme passo era questo: però
aggiunsero al parer loro i prelati, opinare, che si convocasse un
concilio nazionale: non volere i prelati giudicare anticipatamente delle
risoluzioni del concilio, ma presumere, che nel caso in cui egli
sentenziasse di risuscitare la prammatica, supplicherebbe prima il
pontefice, e scongiurerebbelo, che della gallicana chiesa gli calesse,
ed a lei la vita coi vescovi ridonasse; ma se nè le preci, nè le
supplicazioni potessero vincere l'ostinazione del pontefice,
decreterebbe il concilio, per ultima necessità, e per non perire, che la
prammatica si rinnovasse.

Intanto le dottrine dei partigiani dell'antica disciplina vieppiù si
spargevano, le Italiane contrade principalmente ne risuonavano. Coloro
che a queste opinioni erano addetti, credevano essere venuto il tempo
ch'elleno avessero a prevalere, si rallegravano della diminuzione
dell'autorità pontificia, ed affermavano ch'ella era medicina non
solamente utile, ma ancora necessaria al corpo infermissimo, come il
chiamavano, della Chiesa. La ricordanza del milleottocentuno, e ciò, che
era accaduto al concilio di Parigi in quell'anno, non gli rendevano
accorti del procedere e delle intenzioni di Napoleone: che il corpo,
spargevano, dei vescovi esercenti, rappresentasse la Chiesa, e fosse per
rappresentarla finchè ella durasse; che attentato condannabile dei papi
degli ultimi tempi fosse l'aver voluto diminuire e frenare la potestà
divina dei vescovi; che la potestà inerente al carattere dei vescovi
immediatamente, e senza che nissuna umana potestà potesse arrogarsi il
diritto di alterarla, derivasse da Gesù Cristo; che non mai potesse la
giurisdizione episcopale perire, che i concilj prima del mille non
avessero mai voluto riconoscere per veri e legittimi vescovi, se non
quelli che dai rispettivi metropolitani erano stati ordinati; che così
avevano statuito, così definito i concilj Niceni, tanto venerati in quei
primi e purissimi tempi della cristiana comunità; che le massime
contrarie solamente dai concilj Lateranensi, concilj quasi domestici dei
papi, erano state introdotte; che insomma, continuavano, i metropolitani
dovessero dare la giurisdizione ai vescovi; che l'arrogarsi i papi di
volerla dar soli, fosse usurpazione; che avesse Dio dato a Pietro il
primato d'onore, e la potestà suprema di regolare e mantener sana la
disciplina, sana la fede in tutte le chiese che la universale
compongono, ma non il privilegio di giurisdizione nel caso di cui si
tratta: che la potestà di giurisdizione, per quanto spetta alla
transmissione della potestà ecclesiastica, fosse in ciascun vescovo, per
diritto ed ordinazione divina, piena, come piena era nel supremo
pontefice; così avere ordinato Cristo Redentore nel dare ai vescovi la
facoltà di reggere le chiese, così richiedere la sicurezza degli stati,
e l'independenza della potestà temporale. È giusto forse, sclamavano, è
conveniente, è consentaneo alla divina volontà, che i papi possano, con
mettere l'interdetto, o a continuazione dell'episcopato ricusando,
turbare le coscienze dei fedeli, sconvolgere le province, e i regni? Non
è assurdo il supporre, che Dio non abbia dato a ciascuna società il
mezzo di conservarsi sana e salva da se stessa? E che sicurezza, e che
salute può esservi, se elleno da un forestiero dipendono? Varj e diversi
essere stati i modi immaginati dai principi per preservare gli stati
proprj dai pericoli, che a loro sovrastavano pei decreti della Romana
sede, ora prammatiche, ora appelli, ora concordati: ma tutti essere
stati insufficienti, perchè sempre si lasciò sussistere la radice del
male, cioè l'eccessiva ed illegittima potenza dei papi: ripullulare i
pericoli e le turbazioni ad ogni Romano capriccio, concepir timore gli
animi ad ogni elevazione di papa, un cardinale di più o di meno nel
pontificio concistoro poter mandar sossopra una provincia intiera:
essere oggimai tempo di strigarsi da questi fino allora inestricabili
lacci; la Romana tirannide doversi conculcare, ora che un principe
potentissimo il voleva; restituissesi all'episcopato tutta la sua
dignità, tutta la sua potenza; l'independenza da Roma sarebbe la libertà
universale; sarebbe altresì la purezza delle dottrine cattoliche;
perciocchè l'avere mescolato le cose temporali con le spirituali, che fu
fonte di tanti scandali, e di un deplorabile scisma, essere stato opera
di Roma; fosse la religione tutta spirituale, e non turberebbe gli
stati, nè darebbe cagione ai malevoli di denigrarla, e più imperio
avrebbe e quelli stessi che in lei non credevano, rispettata
l'avrebbero: la cristianità cattolica tuttavia piangere la perduta
Germania, la perduta Inghilterra; tale doloroso smembramento alla
prepotenza di Roma, alle usurpazioni dei papi, alle temporali cupidigie
loro doversi certamente ed unicamente scrivere: tornassesi adunque,
predicavano, a quel sistema, che stabilito da Cristo e dagli apostoli
aveva durato per tanti secoli nella primitiva Chiesa, che gli uomini più
pii, più dotti, più esemplari avevano sempre inculcato, e coi più
intensi desiderj loro chiamato: da lui solo poter derivare la purezza
della religione, e la incolumità degli stati. Vivevano ancor fresche,
massime in Italia, le onorate memorie di Leopoldo e di Ricci: non pochi
ecclesiastici, anche di prima condizione, e per dottrina e per virtù
compitissimi, vi seguitavano le medesime vestigia, e sostenevano le
medesime dottrine; non per ambizione nè per desiderio di servire a chi
allora tutti servivano, e principalmente gli avversari loro, ma per
convinzione propria, per ritirar la Chiesa, come credevano, all'antica
sua constituzione, per riformarne gli abusi, per rinstaurare e
confermare la libertà dei principi offesa dalla potenza immoderata dei
papi.

Queste sparse dottrine piacevano a Napoleone, perchè gli davano
occasione d'intimorire il papa e speranza di ridurlo a sua volontà; nè
dispiacevano agli arcivescovi ed ai vescovi amatori dell'independenza:
quel Romano giogo già pareva loro grave ed intollerabile; quel diventar
papi essi sommamente a loro arrideva. Le cose andavano a satisfazione di
Napoleone in quanto si atteneva agli ecclesiastici dei suoi stati.

Vinceva il papa non solamente per la costanza, ma ancora per la
disgrazia, sempre potente nel cuore degli uomini. Nè i suoi teologi
tacevano, benchè Napoleone si fosse sforzato di por loro un duro freno
in bocca. Difendevano la sedia apostolica e Romana, non solamente contro
le dottrine di Porto Reale e di Pistoja, ma ancora contro le allegazioni
del consiglio ecclesiastico. Avere, andavano ragionando, Cristo
fondatore sopra Pietro fondato tutto l'edifizio della religione; a lui
avere dato primato d'onore, a lui primato di giurisdizione, per lui
tutta l'autorità della Chiesa, e per lui solo potersi e doversi
tramandare, e trasfondere in altrui: avere per verità Cristo salvatore
posto i vescovi a governar la Chiesa, ma non per se medesimi, nè
independentemente da Pietro, ma per mandato suo, e sotto la sua
dipendenza: Pietro essere il fonte di tutti i rivi, lui il fonte di ogni
ecclesiastica potestà; avere per la necessità dei tempi in quei primi
secoli, fra una religione contraria, fra le persecuzioni continue, fra
un popolo padrone del mondo, che altri Dei confessava ed adorava, fra
tante nazioni diverse, e nel vasto campo d'Asia, d'Africa e d'Europa,
avere prima gli apostoli per instituzione divina, poscia i vescovi per
instituzione apostolica usato la loro autorità senza mandato espresso di
Pietro, ma però lui consenziente, imperciocchè non è da credersi, che
per condurre una così gran mole, gli apostoli ed i loro successori non
si siano accordati, acciocchè a questo ed a quello, senza confusione e
senza conflitto, questa o quella provincia fosse di consenso comune
devoluta: ciò non ostante rimanere fisso ed inconcusso questo principio,
che Pietro aveva un mandato ordinario e perpetuo, gli apostoli un
mandato straordinario e caduco da finirsi in loro, o nei successori loro
immediati; che quello aveva avuto un mandato per istabile fondamento, e
perpetuo governo della Chiesa, questi un mandato temporaneo per la
necessità dei tempi; che, cessata questa necessità, tornava il mandato
sparso negli apostoli e loro successori immediati al fonte comune, vale
a dire ai successori di Pietro; che così la Chiesa nata da un solo
tornava in un solo: mirabile, e divino artifizio. Del rimanente anche
nella più rimota antichità apparire i segni della trasfuzione del
mandato di Pietro nei rettori delle altre chiese del mondo: l'ordine
stesso dei metropolitani confermare questa verità; perchè a quei tempi
antichissimi era il mondo diviso, per rispetto alla cristianità, in
Oriente ed Occidente; due erano nel primo i metropolitani, quei di
Alessandria e di Antiochia, uno nel secondo, quel di Roma; comunicavano
il mandato ecclesiastico; cioè l'ordine e la giurisdizione, la qualità e
il luogo, i due metropolitani d'Oriente ai vescovi delle loro rispettive
province, il metropolitano d'Occidente, successore di san Pietro, a
quelli d'Occidente; ma i primi da Pietro nell'origine prima avevano
ricevuto le potestà loro: imperciocchè aveva governato egli stesso la
chiesa d'Antiochia, ed a lei dato un successore, quando venne a fondare
e governare quella di Roma: rispetto alla chiesa d'Alessandria, avere
Pietro mandato a governarla san Marco, suo discepolo, ma se la origine
scopre il mandato, gli accidenti posteriori il confermano; perchè i
Romani pontefici, successori di Pietro, ai metropolitani d'Oriente
mandavano il pallio, segno della conferita autorità; essi metropolitani
addomandavano la comunione ai pontefici di Roma, e senza la ottenuta
comunione non si credevano legittimi. Sonsi anche veduti Romani
pontefici deporre metropolitani d'Oriente, o patriarchi, perchè con
questo nome poscia si chiamarono: a tutti questi segni, affermavano i
curialisti di Roma, riconoscersi la superiorità Romana fin dai tempi
primitivi; dal che si deduce la pienezza e la perpetuità del mandato nei
papi, la dipendenza e la delegazione nei metropolitani. Ne conseguita
altresì, che poichè tutta l'autorità spirituale consiste nella facoltà
del trasmettere il mandato di Cristo, il diritto di confermare e
d'instituire tutti i vescovi della Chiesa è supremo, e divino e
conseguentemente inalienabile, imperscrittibile, non soggetto a
interruzione, ad eccezione, e cessazione alcuna, e che a lui niuna
potenza che sia, nemmeno quella della Chiesa può portar diminuzione, che
se qualche modificazione fu introdotta in qualche tempo, massime nei
primitivi, ciò o per determinazione, o per consentimento dei sommi
pontefici avvenne.

Rispetto poi alla Francia particolarmente, i Romani teologi insistevano
dicendo, assai più manifesta essere la trasmissione del mandato di san
Pietro nelle chiese di questo reame, che in qualunque altro; perchè i
papi, rispetto a lui, non solamente erano papi, ma ancora metropolitani,
essendo metropolitani d'Occidente, e se qualche metropolitano
particolare pel miglior governo delle chiese di questa vasta provincia
fu creato, lui essere stato creato per autorità pontificia: della
nominazione ed instituzione di vescovi fatte dai papi nelle Gallie,
anche senza l'intervento dei metropolitani, e dell'autorità regia
stessa, aversene esempj, e se si vedono nominazioni, vedersi anche
deposizioni; il che dimostra la pienezza dell'autorità pontificia in
Francia in tutti i tempi.

Nè più si ristavano i difensori dell'apostolica sedia all'argomento
addotto della prammatica di Bourges, perchè lei nulla e di niun valore,
per essenziale vizio della sua origine, predicavano, siccome quella, che
per l'autorità secolare ed incompetente del re era stata concertata e
pubblicata: che se poi nulla la chiamavano per vizio originario, nulla
maggiormente la predicavano per decreto della Chiesa universale, perchè
il quinto concilio Lateranense l'aveva abrogata, annullata, ed anzi
dichiarata scismatica. Ora mettendo anche caso, che non fosse viziata
d'origine, e che tutta si potesse riferire all'autorità ecclesiastica,
cioè ad un concilio nazionale di Francia, l'autorità di un concilio
nazionale può forse prevalere a quella di un concilio universale? Può la
decisione di una parte più forza avere che la decisione del tutto? Forse
nei concilj particolari risiede la infallibilità? Forse non negli
ecumenici? La chiesa gallicana stessa, il clero del 1682 è forse mai
trascorso a dire una simile enormità? Non ha egli forse definito al
contrario, che la infallibilità risiede nel concilio universale unito al
papa? Se questo è vero, come è verissimo, come si potrà sostenere la
proposizione, che la prammatica di Bourges non sia scismatica? Come ciò
sostenere il clero di Francia senza contraddire a se medesime? La
lateranense condanna pruovare l'errore del consiglio ecclesiastico, e la
necessità del mandato pontificio per acquistare la giurisdizione
episcopale. Del resto avere il concordato di Leone decimo e Francesco
primo abolito la prammatica, nè potersi a modo niuno risuscitare; avere
il concilio tridentino, cioè la Chiesa universale, appruovato il
concordato medesimo, e l'autorità pontificia, come indispensabile per
l'instituzione canonica dei vescovi, in solenne modo confermata e
definita. Nè valere il dire, che il concilio tridentino non sia stato
accettato in Francia, quanto alla disciplina, perchè il mandato
immortale dei successori di san Pietro non è regola di disciplina, bensì
instituzione divina, e perciò attinente al dogma. Oltre a ciò il re di
Francia, cioè la potestà secolare sola non volle accettare, cioè
pubblicare il concilio di Trento, ma il clero gallicano l'accettò
veramente, e presso ai re continuamente insistè, perchè il
pubblicassero.

Nè maggior valore avere, continuavano, l'allegazione della necessità,
perchè egli è evidente, che per ministrare un rimedio straordinario,
anche nel caso di necessità, si richiede la facoltà di ministrarlo:
senza una tale facoltà il rimedio sarebbe veleno, e darebbe morte, non
vita. Ora certamente il clero gallicano non ha facoltà di modificare,
molto meno di annullare quello, che supponendo eziandio che non fosse
d'instituzione divina, è stato dichiarato, definito e decretato dalla
Chiesa universale: in simili casi, non da se, ma dalla provvidenza si
debbono aspettare i rimedj.

Dicono e sostengono i prelati del consiglio ecclesiastico, che il
governo della Chiesa non è arbitrario, che il papa debbe uniformarsi ai
canoni, e ne appellano al concilio. Ma quando il papa per venirne
all'esecuzion del concordato fatto con Napoleone, non avuto riguardo
alcuno ai canoni, usava un'autorità insolita ed inudita, e non ostante,
come dichiarò egli medesimo, i concilj, anche i generali, deponeva
senza accusa e senza processo tutti i vescovi di un regno, cioè
della Francia, questi medesimi prelati, ora tanto gelosi delle
gallicane libertà, non esse libertà invocarono, non dei papali
arbitrj si lamentarono, non al concilio appellarono; che anzi
benignissimamente, e volonterosissimamente si assisero su seggi dei
deposti, ed ora si servono dell'autorità, che il papa, a pregiudizio
dei deposti, loro diede, per impugnarlo e per predicare, che niuna
potestà è independente dai canoni. Allora non domandarono un concilio
ecumenico, allora non l'assenso della Chiesa, quando si trattava di
acquistar cariche, emolumenti ed onori: ma se allora errarono, e sono
inconcussi i canoni, inconcusse le libertà gallicane, come non sono
eglino o ignoranti, o impostori, poichè per errore e partecipazione
loro non vi sarebbe più in Francia, da dieci anni indietro,
giurisdizione legittima, e tutti i vescovi, e tutti i curati intrusi
vi sarebbero? Rinunziarono per l'adesione loro al concordato, alle loro
libertà, riconobbero implicitamente la superiorità del papa sui canoni,
riconobbero la sua infallibilità, ed ora l'impertinente viso loro alzano
contro quel medesimo papa, di cui predicarono sì altamente la potenza!
Credono essi adunque, che il papa debba, a grado della cupidigia e
dell'ambizione loro, ora condannare ciò che appruovava, ed ora
appruovare ciò che condannava? Si lamentano del procedere arbitrario
del papa? Adunque credono, che solo il loro imperatore, da essi tanto
adulato, abbia questa facoltà al mondo di essere arbitrario? Piacciono
loro gl'imperiali capricci, non piacciono le pontificali sentenze:
nemici del loro capo innocente sono, adulatori del loro tiranno sono:
amano meglio uno scomunicato, che un papa.

A ciò, e che voglion significare, continuavano gli avvocati
dell'apostolica sede, quelle parole, che i vescovi rappresentano la
Chiesa universale? Sono eglino forse, i vescovi, i deputati dei fedeli?
Forse il mandato di governar la Chiesa, non lo hanno da Dio sotto la
superiorità del successore di san Pietro? Non sono eglino i mandatarj
del popolo, ma i deputati del signore. Che può dare di spirituale il
popolo? Chi ha dato al popolo la facoltà di reggere la chiesa di Dio?
Certo nissuno. L'avvilupparsi in parole subdole giova ai nemici della
santa sede. Infatti, che voglion dir essi con quelle parole, che la
potestà inerente al carattere dei vescovi da Gesù Cristo immediatamente
deriva, senza che nessuna umana potestà si possa arrogare il diritto di
alterarla in alcun modo? Ma chi non sa, solo che abbia toccato i primi
principj della scienza canonica, che altra cosa è il potere dell'ordine,
ed altra il potere della giurisdizione? Per l'ordine possono i vescovi
conferire la cresima, conferire l'ordine, consecrar le chiese, consecrar
gli altari; possonlo sempre validamente, quantunque non sempre
legittimamente: per la giurisdizione, quando l'hanno ricevuta dalla
santa sede, possono governar le chiese, far regole pel governo loro,
appruovar confessori, decretare segregazione di fedeli, e statuire altre
simili cose che si appartengono al governo della chiesa confidata loro
dal papa. L'ordine è indelebile, la giurisdizione caduca: questa si dà e
si toglie da chi ha dritto di dare e di tôrre, nè alcuno di questi
audaci impugnatori della sedia apostolica sarà tanto audace, affermavano
i teologi di Roma, che pensi e dica, che un vescovo, a cui il papa ha
tolto la facoltà di governare una data chiesa, la possa ancora governare
legittimamente; il che pruova la necessità del mandato pontificio. Non
perisce la giurisdizione episcopale! ma non perisce ella, continuavano a
sclamare i Romani canonisti, in un vescovo eretico, non in un vescovo
scismatico, non in un vescovo scomunicato? Chi s'ardirà sostenere la
contraria sentenza? Da quanto si è ragionato, opinavano, segue, che
l'autorità stessa dei metropolitani era delegata, e derivata dai sommi
pontefici: tal essere, aggiungevano, la monarchìa cristiana stabilita da
Cristo Salvatore, tali gli ordini cattolici, che non si possono
impugnare senza eresia; conciossiachè e le memorie antiche, ed il
concilio tridentino ugualmente gli confermano.

Del rimanente, a qual fine si narrano tutte queste cose, e che voglion
significare? Siano pur salve le gallicane libertà. Forse ne conseguita,
che fuori di Francia abbiano ad aver forza, e ad obbligare le genti?
Serbinsi in Francia, se tal è l'umore di quel clero e di quei popoli; ma
con quale diritto, e con quale ragione volerle trasportare in Italia?
Forse per l'Italia stipulava il clero gallicano del 1682? E chi lo dice,
e chi lo fa? un decreto di Napoleone, un senatus-consulto di
Napoleonici! adunque perchè Napoleone disse, voler Torino, Genova,
Milano, Firenze e Roma, tosto hanno queste provincie a diventar soggette
delle gallicane libertà, e l'assemblea del 1682 tenuta in Parigi ha ad
esser legge per loro? dov'è il mandato di Napoleone per turbare le
ecclesiastiche cose in Italia, massimamente in Roma? Chi s'ardirà dire,
che un decreto civile abbia effetti ecclesiastici?

Molte cose si son dette, e molte ancora si dicono, si continuava a
discorrere dalla parte di Roma, sull'abuso dell'autorità pontificia.
Certamente errarono i pontefici, che turbarono le province per rispetti
temporali, come errarono i principi, che le turbarono per rispetti
spirituali: da qual parte in questo sia maggiore il torto, e più si sia
errato, non è questo il luogo di dire, e le storie il narrano. Bene non
si sa vedere, quali sinistri effetti abbia prodotto negli stati della
casa d'Austria, ed in tutta l'Italia, e così anche nella Spagna, e nel
Portogallo, l'autorità del papa dell'istituire i vescovi. Neppure si sa
vedere qual male sia nato da questa stessa autorità, poichè di questa
sola è nato dissidio, e si tratta, in Francia, in Inghilterra, ed in
altri paesi della cristianità; imperciocchè, se si eccettuano le
discordie nate ai tempi di Luigi decimoquarto, le quali veramente
versavano su questo punto della instituzione, non si scorge che alcuna
da questa medesima cagione sia nata. Altre ed assai più ampie radici
ebbero le controversie Germaniche, dalle quali sorse l'eresia di Lutero.
Similmente per altre maggiori questioni, e da quella dell'instituzione
assai diverse discordò Arrigo ottavo dalla santa sede, donde risultò la
separazione dell'Inghilterra. Senza entrare nei meriti di quelle antiche
o dolorose cause, nè diffinire da qual parte fosse la ragione o il
torto, questo è certo, che l'instituzione ne è stata o innocente, o
piccola parte. Del resto, qual segno, quale apparenza era, che Pio
settimo fosse per abusare della facoltà dell'instituzione a fine di
turbare lo stato quieto della Francia? Come sarebbe potuto cadere in lui
la volontà di turbare la Francia di Napoleone, in lui, che nella sua
vecchia età, per aspri monti, nella stagione più rigida dell'anno, a
malgrado dei principi d'Europa, contro la sentenza di molti cardinali se
n'era andato a Parigi per incoronarlo? Qual presagio aveva dato Pio di
se, che altri potesse credere, che volesse assumere o in Francia od
altrove un'autorità eccessiva, una dominazione intollerabile? Dicono,
guardate nell'avvenire; ma per guardar nell'avvenire, e' bisogna prima
guardar nel passato: guardate in questo, e vedrete, dove sia stato
l'incomportabile dominio. Nè qui si parla di libertà ecclesiastica,
perchè questo discorso non potrebbe piacere a prelati che la vogliono
dar in preda all'imperio: solo si osserverà, quale sarà essa per
diventare, se la nomina dei vescovi ai principi secolari, e
l'instituzione loro ai metropolitani, o ad altri vescovi sudditi di essi
principi si appartenessero. Correggevasi la nomina dei principi
dall'instituzione pontificia: se l'una e l'altra sono in mano loro,
quella immediatamente, questa per mezzo di prelati sudditi, la religione
è serva, ed in caso di voglie a lei contrarie, anche in materia di fede,
dei principi, non rimarrebbe altro scampo a' suoi ministri, che
l'abbominazione dell'eresia, o i tormenti del martirio. Resiste papa
Pio, resiste ad un'incomportabile tirannide: la Chiesa debbe restargli
obbligata per sempre, i principi ancora, poichè vinto il papa, la
cristianità, il mondo è servo: trattare il papa la libertà di tutti.

Già il disegno ordito contro un papa carcerato, era pronto a colorirsi:
i soldati e le spie facevano l'opera loro in Savona, i prelati
s'accingevano a farla da Parigi. Erano quindici o cardinali, o
arcivescovi, o vescovi, Fesch, Maury, Caselli cardinali, gli arcivescovi
di Tours, di Tolosa, di Malines, i vescovi di Versailles, di Savona, di
Casale, di Quimper, di Monpellieri, di Troja, di Metz, di Nantes e di
Treveri. S'aggiunse il vescovo di Faenza. Comandava l'imperatore, che
mandassero una deputazione a muovere il papa a Savona. Elessero
l'arcivescovo di Tours, ed i vescovi di Nantes e di Treveri. Il concilio
nazionale convocato in Parigi pel dì nove giugno, parte ancor egli della
macchina imperiale per intimorire il papa, stava pronto a proporgli i
termini d'accordo voluti dall'imperatore. Comandava Napoleone ai
deputati, che annunziassero al papa, essere convocato il concilio,
essere abrogato il concordato a cagione che il papa, una delle parti
contrattanti, ricusava di osservarne le clausole; dovere in avvenire i
vescovi, come avanti al concordato di Francesco primo, essere instituiti
secondo le forme che saranno regolate dal concilio, ed appruovate
dall'imperatore: tuttavia mandare l'imperatore i prelati con facoltà di
negoziare a Savona; ma queste facoltà non usassero, se non nel caso in
cui trovassero il pontefice disposto a convenire: due convenzioni
doversi fare, l'una independente dall'altra, e con atti separati: nella
prima si trattasse dell'instituzione dei vescovi, ed in questa
consentirebbe l'imperatore a tornarne all'esecuzione del concordato, con
ciò che però il papa instituisse i vescovi già nominati, ed in avvenire
le nomine fossero comunicate al papa, a fine di conseguirne
l'instituzione canonica; e che se il papa non avesse instituito nel
termine di tre mesi, fosse la nomina comunicata al Metropolitano, il
quale dovesse instituire il suffraganeo, e questi ugualmente instituisse
l'arcivescovo, se si trattasse dell'arcivescovo. Nella seconda voleva
l'imperatore, che si accordassero gli affari generali, ferme stando le
condizioni seguenti: il papa tornasse a Roma, se consentisse a prestare
il giuramento prescritto dal concordato; se ricusasse il giuramento
potesse risiedere in Avignone: quivi avrebbe gli onori sovrani, quivi
due milioni per onoranza e per vivere, quivi residenti delle cristiane
potenze, quivi finalmente libertà di governar le faccende spirituali, ma
tutto sotto condizione espressa, che promettesse di fare niuna cosa
nell'impero, che fosse contraria ai quattro articoli del 1682. Se il
papa accettasse le narrate condizioni, l'imperatore proponeva molte
speranze e faceva molte offerte: s'inclinerebbe volentieri ad accordarsi
col papa, sì pel libero esercizio delle sue funzioni spirituali, come
per fondare nuovi vescovati, tanto in Francia, quanto nei Paesi Bassi:
farebbe inoltre ogni sforzo per proteggere i religiosi della terra
santa, per riedificare il santo sepolcro, per dar favore alle missioni,
per ordinare la dataria, per restituire gli archivj pontificj; ma prima
e soprattutto si tagliasse interamente la speranza al papa di ricuperare
la sovranità temporale di Roma; se gli facesse sentire, che il concilio
era convocato, e la chiesa di Francia capace di fare quanto
richiedessero la salute delle anime, ed il bene della religione.

Gran fede aveva Napoleone in se, nei prelati, nella forza, poichè si
potè persuadere, che un papa a tanto di abiezione potesse venire, che
consentisse a tornar suddito là, dove aveva regnato sovrano, che
consentisse a giurare obbedienza e fedeltà a Napoleone imperatore con
quello stesso giuramento, che sovrano essendo, aveva, come sovrano,
coll'imperatore medesimo accordato e statuito; che consentisse a
servirgli, per obbligo di giuramento, di delatore e di spia, non
eccettuati nemmeno i casi di confessione. Che Napoleone una tale
proposizione abbia fatto, certo nissuno sarà per maravigliare; ma che
prelati, che portavano in fronte il nome di cattolici, abbiano assunto
il carico di significarla, se muove a maraviglia, muove ancora più a
sdegno.

I deputati ecclesiastici arrivati a Savona con le cose digerite, ed
avuto licenza dal ministro dei culti di favellare al papa, posciachè
appunto di questa licenza abbisognavano, se gli appresentarono, e con
rispettosi modi s'ingegnarono di renderselo benevolo. Introdotti, ed
accolti con significazione grande di amore, vennero nel primo giorno e
nei seguenti sul negoziare. Militando sempre le difficoltà della sua
carcerazione, rispose, nissuna deliberazione poter fare, nissuna bolla
dare, se prima non fosse restituito alla sua libertà, poichè nella
condizione, in cui era, privo de' suoi consiglieri naturali, privo de'
suoi teologi, privo di libri, di carta, di penne, privo infino del suo
confessore, che aveva domandato indarno, nè potendo prendere alcuna
informazione sulla idoneità dei soggetti nominati, non potea nulla, non
che concedere, esaminare. Non ostante queste prime caldezze del
pontefice, speravano i prelati, che appoco appoco o per fastidio della
situazione presente, o per timore della condizione avvenire, o
finalmente per disperazione di poter cambiare i destini Napoleonici,
l'animo suo si sarebbe mitigato, consentendo, se non a tutto, almeno a
parte di quanto si domandava. Il modo del negoziare era artifizioso dal
canto dei delegati; maggiormente ancora artifiziose erano le fondamenta,
sulle quali voleva l'imperatore che si negoziasse. Tutta l'importanza
del fatto in questo consisteva, che si provvedesse all'instituzione dei
vescovi con fare, che quando in un dato tempo il papa non gli avesse
instituiti, i metropolitani avessero facoltà d'instituirgli. Faceva
anche un gran momento, che se il papa avesse convenuto coll'imperatore,
l'avrebbe purgato dalla scomunica, se non esplicitamente, almeno
implicitamente, e pel fatto stesso.

Il papa assalito e conquiso da ogni parte, ritirandosi dalla sua
risoluzione di non voler trattare, se prima non fosse libero, incominciò
a manifestare le sue intenzioni. Quanto al giuramento, risolutamente
negò; quanto alle quattro proposizioni, dalla prima non si mostrò
alieno, le tre altre costantemente rifiutò, siccome quelle che gli
parevano condannabili. Aggiunse che se accettasse, la Chiesa il
chiamerebbe vile, e traditore per fastidio di cattività, che il nome suo
ne sarebbe contaminato, che ne concepirebbe un'amarezza incredibile; che
del resto, per amor della quiete, nulla avrebbe operato in contrario. Ma
venendo al principal soggetto del negoziato, cioè all'instituzione,
sclamava, che il termine di tre mesi fosse troppo breve; se consentisse,
l'imperatore sarebbe giudice dell'idoneità dei soggetti; che in ultimo
il metropolitano sarebbe giudice dei rifiuti della santa sede; che
troppo eccessiva mutazione era questa; che un pover uomo, com'era egli,
solo e senza consigli non poteva assumersi di farla. Ricordava altresì,
e con parole efficaci ed affettuosissime protestava, che sarebbe troppo
enorme deviazione, se rinunziasse ai diritti particolari sui vescovi
d'Italia, che la sua coscienza ripugnava, che altri sovrani avrebbero
domandato le medesime prerogative ed eccezioni, che potrebbe darsi che
si nominassero soggetti indegni, o di opinioni sospette nella fede, che
la santa sede non sarebbe più la santa sede, che perirebbe il mandato
dato da Dio a san Pietro, che nascerebbe l'anarchìa nella Chiesa,
ch'ella del tutto si governerebbe a piacere della potestà secolare.

Gli rappresentavano i deputati i mali imminenti della Chiesa, le perdite
irreparabili delle prerogative della santa sede, le calamità di tanti
suoi aderenti. Rispondeva Pio, alzando gli occhi al cielo, e sclamando,
pazienza: nol permettere la coscienza, non avere con chi consigliarsi,
il capo della Chiesa essere in vincoli. Per far novella pruova di
vincere gli scrupoli e la costanza del pontefice, i deputati pregarono
il vescovo di Nantes, siccome quegli che aveva maggior dottrina e
fermezza in queste materie, che gli altri, distendesse uno scritto da
presentarsi al papa. Il fece in lingua Francese, il tradusse in Italiano
il vescovo di Faenza. Era la sostanza, che, poichè Napoleone non voleva
cedere, il papa doveva di necessità cedere egli. Insomma i deputati in
questo loro scritto ammonivano, e fortemente richiedevano il papa della
clausola dei metropolitani: pretendevano che non era necessaria una
lunga discussione, nè bisogno di consiglieri per decidere, se la santa
sede conserverebbe o perderebbe per sempre, rispetto ai vescovi di
Francia, il diritto d'instituzione. Intendevano per vescovi di Francia,
non solamente quei di Francia, ma ancora quelli del regno d'Italia, del
Piemonte, di Parma, di Toscana, e dello stato Romano stesso. Offerivano
finalmente, vedesse Sua Beatitudine, se nei luoghi vicini fosse qualche
prelato, in cui avesse fede: specificavano dello Spina, come se in quei
tempi e nel carcere di Savona qualcheduno potesse libero essere, e
liberamente consigliare.

Mossero oltre la cattività e la segregazione, i ragionamenti dei
deputati l'animo del pontefice per l'aspetto dei mali avvenire, e
sebbene sempre fosse titubante, ed ora si ritraesse, ed ora tornasse,
cominciava a non mostrarsi alieno dall'accordar con loro la clausola
domandata: solo voleva allargare il tempo dell'instituzione da darsi dai
metropolitani sino a sei mesi, che l'imperatore avesse un termine
necessario per le nomine, siccome egli l'aveva, parendogli, che se
questa necessità s'imponesse a lui, non al principe, l'equalità fra le
due parti fosse rotta; nel che aveva ragione, anche secondo i deputati;
conciossiachè se l'interruzione dell'episcopato non debbe essere in
potestà del papa, non debb'esser nemmeno in potestà dei principi.

Restava l'impedimento della scomunica, per la quale l'imperatore era
stato separato dal consorzio della Chiesa. A questo passo i deputati,
che già vedevano incerto e vacillante il pontefice, siccome quelli che
bene avevano imparato alla scuola Napoleonica i tempi morbidi per
incalzare, e temendo di dare causa d'indegnazione a Napoleone, se non
riuscissero a fare la sua volontà a Savona, si gettarono tutti addosso a
Pio, e il pressarono, e l'aggirarono, e gli diedero di mano da tutte
parti. Che cosa essere, dicevano, questa scomunica? Non autentica in
Francia, non accettata nè da accettarsi mai; non mai la Francia si
scosterebbe dalle massime gallicane: pessimi effetti avere lei prodotti
fra i popoli, anche fra le persone più aderenti, e divote alla sedia
apostolica: a tutti esserne doluto, come di cosa molto pregiudiciale al
papa ed alla Chiesa; i cardinali, non solo i rossi, ma ancora i neri
(con questo nome chiamavano i cardinali o esiliati o carcerati) non
avere mai cessato di comunicare _in divinis_ con Sua Maestà, aver loro
cantato in memoria delle imperiali vittorie, avere cantato ogni festa
nell'imperiale cappella. Già il pontefice titubava: per espugnarlo del
tutto, i deputati se gli pararono innanzi, ammonendolo, che partivano:
badasse bene ai mali soprastanti: solo, sarebbene tenuto verso Dio e
verso gli uomini: per lui essere stato, che le piaghe della Chiesa non
si sanassero: partivano; farebbe il concilio; avrebbe nuove da Parigi.

Insomma il papa tentato da ogni parte, e separato dal consorzio del
mondo, promise di venire ad un accordo, il cui importare fosse questo,
che Sua Santità, considerato i bisogni, ed i voti delle chiese di
Francia e d'Italia a lui rappresentati dai deputati, e deliberatosi a
mostrare con un nuovo atto la sua paterna affezione verso le chiese
medesime, darebbe l'instituzione canonica ai soggetti nominati da Sua
Maestà con le forme convenute nei concordati di Francia e del regno
d'Italia; che si piegherebbe ad estendere con un nuovo concordato le
medesime disposizioni alle chiese di Toscana, di Parma e di Piacenza;
che consentirebbe che s'inserisse nei concordati una clausola, per la
quale prometterebbe di spedir le bolle d'instituzione ai vescovi
nominati da Sua Maestà in un certo determinato tempo, ch'egli stimava
non poter essere minore di sei mesi; e caso ch'ella differisse più di
sei mesi, per altri motivi che per quelli dell'indegnità personale dei
soggetti, investirebbe, spirati i sei mesi, della facoltà di dar in suo
nome le bolle, il metropolitano della chiesa vacante, o, mancando lui,
il vescovo più anziano della provincia ecclesiastica. Aggiunse, che Sua
Santità a queste concessioni aveva inclinato l'animo per la speranza
concetta nei colloquj avuti coi vescovi deputati, ch'elleno fossero per
appianar la strada ad accordi, che ristorerebbero l'ordine e la pace
della Chiesa, e restituirebbero alla santa sede la libertà,
l'independenza, e la dignità che le si convenivano. Fu aggiunto allo
scritto contenente queste promesse del pontefice, i deputati affermarono
per consenso di lui, il papa per sorpresa, un capitolo concepito in
questi termini, che i diversi aggiustamenti relativi al governo della
Chiesa, ed all'esercizio dell'autorità pontificia, sarebbero materia di
un trattato particolare, che Sua Santità era disposta a negoziare,
tostochè a lei fossero restituiti i suoi consiglieri, e la sua libertà.

Il pontefice, pensando alla larghezza delle concessioni fatte, e
ricorrendogli alla mente le solite dubitazioni, non ebbe dormito tutta
la notte. Massimamente gli dava grande angustia il capitolo aggiunto,
temendo, che per lui si fosse obbligato a venire ad un negoziato,
trattato, o compromesso intorno al governo della Chiesa, ed
all'esercizio dell'autorità pontificia, quanto alla parte spirituale.
Per la qual cosa, presa il giorno seguente la penna, restituitagli a
tempo pel negoziato, scrisse di proprio pugno sullo scritto queste
stesse parole: che con sorpresa aveva veduto aggiunte alla bozza delle
domande, che gli erano state fatte, le parole, _i diversi aggiustamenti_
con quello che seguitava sin alla fine del capitolo. Continuò, sempre di
proprio pugno scrivendo, che le dette domande erano state da lui
ammesse, nè come un trattato, nè come un preliminare, ma solamente per
dimostrare il suo desiderio di soddisfare alle provvisioni delle chiese
di Francia, allorquando, le cose bene considerate, si potesse di loro
convenire in un modo stabile, obbligandosi a fare le dette provvisioni
transitoriamente, e caso che ciò non si volesse o potesse, si obbligava
a trattare di un altro modo di provvisioni. Questa sua protesta non
contentando ancora l'animo del pontefice, fatti a se chiamare il
prefetto, ed il gendarme Lagorsse, gendarme che era del palazzo
pontificale, asseverantemente affermò loro, che non ammetteva l'ultima
frase dello scritto accordato tra lui ed i vescovi. Dichiarò loro oltre
a questo, che il giorno precedente, non avendo dormito tutta la notte,
era come se fosse mezzo ebbro, e che conseguentemente non aveva potuto
fare in quel giorno alcuna promessa; che del rimanente non intendeva
essersi obbligato nè per un trattato, nè per preliminari di un trattato,
che desiderava che ciò fosse chiaramente conosciuto, perchè non voleva
esporsi a strepitarne, nè a parere mancar di parola; che del resto, se
divenisse necessario, farebbene romore, e voleva che fosse bene inteso,
che di nulla dal canto suo si era definitivamente convenuto. Poco
importava ai vescovi deputati, che questa giunta fosse o no nello
scritto consentito dal papa, perciocchè l'importanza del fatto era
nell'instituzione da darsi dal papa o dai metropolitani, nel caso
d'indugio da parte della santa sede. Per la qual cosa consentirono
facilmente al cassare dallo scritto quest'ultima parte, ed il mandarono
al ministro da Torino.

Non senza allegrezza annunziarono i deputati all'imperiale governo le
concessioni fatte dal papa: al tempo stesso lo accertarono, che pareva
impossibile l'indurre il santo padre a promettere per iscritto, che
nulla tenterebbe contro le tre ultime proposizioni del clero del 1682;
che solo assicurava, sua intenzione essere di nulla tentare; che ancora
era impossibile che prestasse il giuramento, o che rinunziasse al
dominio temporale; quanto a' due milioni dichiarare non volergli
accettare, poco bastargli per vivere, e di poco voler vivere:
soccorrerebbelo, diceva, la pietà dei fedeli. Fra mezzo a tutto questo i
deputati si accorsero, e ne informarono il governo, che fissa ed
inconcussa deliberazione del pontefice sopra tutte le altre era questa,
che non voleva consentire che l'imperatore nominasse i soggetti
destinati alle sedi vacanti negli stati pontificj, ed affermava, che dei
medesimi a lui solo si appartenesse la nomina e l'instituzione. Come,
sclamava con infinita commozione il santo padre, i titoli dei cardinali
vescovi, i titoli delle chiese più suburbane saranno, o in parte o in
tutto, distrutti senza il consenso della santa sede! Volersi adunque,
ch'ei consenta ad un concordato, nel quale l'imperatore nominerebbe a
tutti questi vescovati, anche a quelli che di accordo comune sarebbero
conservati! Bene terribil cosa sarebbe questa, soggiungeva, se in tutta
la cristianità il papa non potesse di suo proprio moto nominare un solo
vescovo, e nulla avesse in suo potere per ricompensare i suoi servitori,
che bene e fedelmente l'avessero servito nella pontificale
amministrazione.

Grande allegrezza sorse, per le agevolezze promesse dal pontefice,
negl'imperiali palazzi in cui si stava aspettando con molto desiderio
quello, che fosse per partorire l'andata dei prelati a Savona: piacque a
tutti la scomunica abolita, la instituzione assicurata. L'imperatore
domato in parte il papa, si spinse avanti a soggiogarlo del tutto.
Insorse adunque con maggiori richieste, volendo, che quanto nelle
instruzioni date ai deputati aveva ordinato, avesse il suo effetto per
modo che nissuna eccezione di vescovi si potesse fare, il papa
rinunziasse al dominio temporale, e se ne tornasse servo a Roma, o se
n'andasse più servo ancora ad Avignone, ed accettasse lo stipendio
imperiale. A questo fine si deliberava di usar il concilio. Mandò
primieramente al pontefice alcuni cardinali, non già i neri, ma i rossi,
e di questi neanco tutti, ma solo quelli che gli parvero meno alieni dal
secondar le sue intenzioni, Roverella, Dugnani, Fabrizio Ruffo: grande
fondamento poi faceva principalmente sul cardinal Bajana, siccome quello
che era molto entrante, e di risoluta sentenza, e sempre era stato nel
concistoro consigliatore di deliberazioni quiete verso l'imperatore.
Aggiunse monsignor Bertazzoli, arcivescovo in partibus d'Edessa, timida
ed accomodante persona, congiunto per antica famigliarità col pontefice,
ed in grandissima fede e favore appresso a lui.

Così Napoleone minacciava, Bajana parlava risolutamente, Bertazzoli
persuadeva con preghiere e con lagrime. Intanto il ministro dei culti
comandava, che nissuna persona che fosse al mondo, salvo i mandatarj, il
prefetto, e Lagorsse gendarme, potesse parlare al papa. Fecero bene i
mandatarj la parte loro: solo Dugnani e Ruffo diedero in qualche
scappata, favellando della libertà del papa: ma furono dette loro certe
parole, che fu loro forza pensare ad ogni altra cosa piuttosto che a
questa, di procurare la libertà del carcerato. Intanto il concilio di
Parigi faceva un decreto conforme alle ultime promesse del santo padre:
portasselo a Savona una deputazione del concilio, acciocchè il papa
ratificasse, e desse un breve conforme. Furono deputati, e portatori
della conciliare deliberazione l'arcivescovo di Tours, l'arcivescovo di
Malines, il vescovo di Faenza nominato patriarca di Venezia,
l'arcivescovo di Pavia, i vescovi di Piacenza, d'Evreux, di Treveri, di
Nantes e di Feltre. Gli vide umanamente e volentieri il papa: ottennero
facilmente il dì venti settembre il breve, che appruovava il decreto
conciliare: le sedi arcivescovili e vescovili, più di un anno non
potessero vacare; l'imperatore nominasse, il papa instituisse; se fra
sei mesi non avesse instituito, il metropolitano, od il più anziano
instituissero essi. Solo ai notati capitoli aggiunse il pontefice il
seguente, che, spirati i sei mesi, e se alcun impedimento canonico non
vi fosse, il metropolitano, o il più anziano, innanzi che instituissero,
fossero obbligati a prendere le informazioni consuete, e ad esigere dal
consecrando la professione di fede, e tutto, che dai canoni fosse
richiesto. Volle finalmente, che instituissero in nome suo espresso, od
in nome di colui che suo successore fosse, e tantosto trasmettessero
alla sedia apostolica gli atti autentici della fedele esecuzione di
queste forme. L'avere statuito un termine alle instituzioni pontificie,
oltre il quale se il papa non avesse instituito, potessero instituire i
metropolitani, era cosa piuttosto di estrema che di grande importanza
per la sicurezza e quiete degli stati, e in questo aveva Napoleone bene
meritato della potestà secolare; imperciocchè in così stretta
congiunzione delle cose temporali e spirituali possono nascere
facilmente tra le due potestà gravi controversie, per terminar le quali
a suo vantaggio Roma potrebbe usare contro i principi il rimedio
nell'interruzione dell'episcopato per mezzo della negazione delle
instituzioni. Il termine prefisso di cui si tratta, suppliva, in quanto
spetta all'independenza della potestà temporale, agli ordini spenti
dell'antica disciplina, o legittimi che si fossero e d'instituzione
divina secondo l'opinione di molti dotti teologi, o solamente tollerati
per tacita od espressa delegazione dai successori di san Pietro secondo
l'opinione della curia Romana. Beato Napoleone, se ciò avesse domandato,
ed ottenuto dal pontefice per amor della libertà, non per cupidigia
della dominazione! Beato egli ancora, se in ciò si fossero contenuti i
suoi pensieri! Ma quanto maggiore si mostrava la condiscendenza del
pontefice, tanto più egli osava. Bajana, l'arcivescovo di Tours con
tutti gli altri si serrarono addosso al prigioniero, acciocchè
consentisse alle altre richieste dell'imperatore. Facilmente si vede,
quale libertà ecclesiastica potesse ancora sussistere, se il papa
prestasse il giuramento, se vivesse in Roma o in Avignone cinto dai
soldati Napoleoniani, e salariato dall'imperatore, se l'imperatore
nominasse tutti o quasi tutti i cardinali, se tutti i dispacci del papa
si tramandassero per le poste imperiali. Certamente in questo i prelati
facevano piuttosto la parte di avvocati dell'imperio, che della Chiesa,
e procuravano la libertà intiera della potestà secolare. I principi
avrebbero dovuto restar loro obbligati, se tale fosse stata la lor
intenzione qual era il fatto. Del resto qui era un caso straordinario,
dal quale non si poteva argomentare agli ordinarj; perciocchè tutte le
potestà secolari erano a questo tempo serve di una sola, la quale, per
l'intiera soggiogazione della potestà ecclesiastica, diventava padrona
assoluta del mondo. Caso strano, ma vero: la libertà ecclesiastica era
parte e sostegno della libertà universale, e caduta quella, che di tutti
i freni era il solo che fosse rimasto, anche questa se n'andava in
precipizio per dar luogo ad una universale tirannide.

A tutta la tempesta che gli si faceva intorno, domandava primamente il
papa la sua libertà: al che rispondevano i deputati conciliarj (il narro
perchè la posterità conosca l'età), ch'egli era libero. Del giuramento,
del rinunziare ai vescovi di Roma, del tornare a Roma, o dell'andar ad
Avignone in qualità di suddito con fermezza grandissima negava. Il dolce
Bertazzoli, che aveva paura, non se ne poteva dar pace: pietosamente
sclamava: «Speriamo in Dio, obbidienza al governo, ho speranza,
preghiamo Dio»: e così tra queste speranze e questa obbedienza il buon
prelato passava tempo, ma nulla fruttava col pontefice: anzi finalmente
il papa gl'intimò, non gli parlasse più di faccende. Napoleone, veduto
che non si approdava a nulla, volle pruovare, se una solenne e subita
minaccia potesse far effetto. Comandò ai deputati, ed il fecero, che si
appresentassero al pontefice, e ad aperte parole gli dichiarassero,
esser loro per ordine dell'imperatore in sul partire da Savona, lui
essere cagione che l'imperatore si ritirasse dai concordati, lui operare
che i vincoli della chiesa gallicana colla santa sede si rompessero, lui
fare che di tanto notabile diminuzione della cattedra di san Pietro
potessero giustamente i posteri, e massimamente i suoi successori,
accagionarlo; pensasse bene, quello essere l'ultimo momento, Romana
chiesa perduta, imperio trionfante. Aggiungevano molte altre cose sul
benefizio che riporterebbe ciascuna delle parti dalla condiscendenza del
papa. Rispose, non potere contro coscienza, Dio provvederebbe, non
curarsi di quanto dicesse il mondo, manco di quello che cardinali e
prelati contaminati a Parigi dicessero. Partirono disconclusi.

Per ultimo cimento, e per ordine risoluto del ministro dei culti, il
prefetto, venuto in cospetto del pontefice, gravemente lo ammoniva
dell'importanza del fatto, delle calamità sovrastanti, dei pentimenti,
che ne avrebbe, dell'opinione di tutto il clero, anzi del mondo,
contraria alla sua. Aggiunse, che se non si piegasse, ed in meglio non
voltasse le sue risoluzioni, aveva carico di notificargli cosa, che
porterebbe grave ferita al suo cuore. Rispose, nol permettere la
coscienza; che Dio mostrerebbe la sua potenza. Il prefetto gli
significava allora da parte del governo, che il breve dei venti
settembre non essendo stato ratificato, l'imperatore teneva i concordati
per abrogati, e non soffrirebbe più, che il papa intervenisse
nell'instituzione canonica dei vescovi.

Le minacce di lontano non avendo prodotto impressione, si volle far
pruova, se da vicino fossero più fruttuose. Oltre a ciò già i tempi
incominciavano a stringere, e i fati a dar di mano a Napoleone: quel
papa renitente e lontano dava qualche timore. Deliberossi l'imperatore a
tirarlo in Francia, dove potesse e vederlo e minacciarlo egli medesimo.
La segretezza parve più sicura della pubblicità, la notte più del
giorno. Diessi voce, che Lagorsse, capitano di gendarmi, che doveva
accompagnare il papa cattivo nel suo viaggio, fosse venuto in disgrazia
dell'imperatore, per essersi mostrato troppo agevole ed amico con Porta,
medico del papa, e che il principe Borghese il chiamasse a Torino per
udire da lui gli imperiali comandamenti. Tant'oltre andò la simulazione,
che i Savonesi ingannati compativano Lagorsse, e davano attestati di
buona vita a copia per discolparlo: la cosa allignava. L'ingegnere, capo
dei ponti e strade, apprestava ogni cosa alla partenza. La notte dei
nove giugno era scurissima per accidente; al tocco della mezzanotte,
messogli addosso una sottana bianca, un cappello da prete in capo, la
croce vescovile in petto, lui non ripugnante, anzi serbante serenità,
spignevano il capo della cristianità nella carrozza apprestata, e
l'incaminavano alla volta di Alessandria. Spargevano che fosse il
vescovo d'Albenga, che andasse a Novi. Passarono per Campomarone non per
Genova, per sospetto della città. Niuna cosa cambiata in Savona: ogni
giorno, e durò ben quindici dopo la partenza, i magistrati andavano in
abito al palazzo pontificale per far visita al pontefice, come se fosse
presente: i domestici preparavano le stanze, apparecchiavano e
sparecchiavano le mense, andavano a mercato per le provvisioni,
cuocevano le vivande: Fenestrelle in vita, se parlassero. Le guardie
vigilavano al palazzo, i gendarmi attestavano a chi il voleva udire, ed
a chi nol voleva, avere testè veduto il papa con gli occhi loro o nel
giardino, o sul terrazzo, o in cappella; Suard, luogotenente di
Lagorsse, che era consapevole del maneggio, compiangeva il povero
Lagorsse per aver perduto le grazia dell'imperatore. Chi non sapeva
parlava, chi sapeva non parlava. Ma si voleva che niuno parlasse: un
pover uomo della riviera ebbe a dire, per sua disgrazia, che aveva
veduto il papa a Voltri: gli fu intimato si ritrattasse: quando no, mal
per lui: si ritrattò, e fu lasciato andare con le raccomandazioni: fece
proponimento di non nominar mai più papa. I Napoleonici stavano in
sentore, se mai qualche voce in Savona, o nei luoghi vicini sorgesse: i
magistrati scrivevano, ogni cosa essere sicura; nissuno addarsi. Insomma
già era il pontefice a dugento leghe, che ancora si credeva che fosse in
Savona. Tanto erano perfettamente orditi i disegni del Napoleonici!
Arrivava il pontefice a nuovi soldateschi insulti in Fontainebleau: poco
dopo arrivava anche Napoleone. Caso fatale, che là, dove otto anni prima
era Pio arrivato trionfante, ora prigioniero arrivasse, e di là dove ora
Napoleone signore del mondo arrivava, prigioniero due anni dopo se ne
partisse.



LIBRO VIGESIMOSESTO

SOMMARIO

      Accidenti di Sicilia. Constituzione data dal re Ferdinando ai
      Siciliani ai tempi di Bentinck. La regina Carolina, costretta
      dagl'Inglesi, si ritira dalla Sicilia, e muore a Vienna.
      Guerra tra Francia e Russia. Sono giunti i tempi fatali per
      Napoleone. Perisce la sua potenza in Russia. Fa un nuovo
      sforzo, e comparisce sui campi di Germania. È prostrato a
      Lipsia: tutta la Germania sdegnata insorge contro di lui.
      Concordato di Fontainebleau. Pratiche di Giovacchino,
      d'Eugenio, di Bentinck per le sorti d'Italia. Eugenio sulla
      Sava; l'Italia assalita da parecchie parti. S'avvicina il fine
      della tragedia.


Regnava in Napoli Giovacchino Napoleonide, in Sicilia Carolina
d'Austria. Molto operava Napoleone nel regno di qua dal Faro per la sua
potenza, molto gl'Inglesi in quello di là dal Faro per la presenza;
molti, e varj furono gli effetti ed in chi regnava di nome, ed in chi
regnava di fatto, ma una la cagione, cioè l'ambizione. Tanto è dolce
agli uomini, ed anche alle donne il comandare! Parte degli accidenti che
seguirono, già furono da noi raccontati, parte accennati: ora è ragione,
che coll'ulterior narrare quelli si terminino, questi maggiormente si
spieghino; poi presto verrassi al fine di questa mia troppo lagrimevole
narrazione. Da più rimoto principio si ha per noi da cominciare. Era
Giovacchino, siccome quegli che si nutriva facilmente con vane speranze,
tutto intento a turbare le cose di Sicilia sì colle dimostrazioni
guerriere, sì colle instigazioni, e colle spie. Carolina dal canto suo,
in ciò ajutata dagl'Inglesi, si era in tutto dirizzata a questo disegno,
che la denominazione dei Napoleonidi nel regno di terraferma mal quieta
e mal sicura rendesse. Il sangue sparso a copia nelle Calabrie, i fiumi
biancheggianti di umane ossa attestavano le Napolitane e le Palermitane
instigazioni, e già furono da noi in queste carte vergati. Raccontammo
ancora, come i tentativi armati di Giovacchino finissero: resta, che il
seguito delle Siciliane mutazioni, facendo principio dall'esito delle
insidie dei Napoleonidi, da noi si descriva, crudi accidenti e degni dei
tempi. Tentavano principalmente i Napoleonidi Messina, per la vicinanza
ed importanza del luogo. Vi avevano segrete intelligenze con alcuni
uomini di umile condizione, il cui fine era operare moti contrarj al
governo. I congiurati, come gente di basso stato, non avevano alcuna
dipendenza d'importanza, ma si temeva ch'essi fossero gli agenti
d'uomini più potenti, non potendosi restar capace come i Napoleonidi,
per fare una rivoluzione in Sicilia, adoperassero gente di così piccole
condizioni, come calzolari, marinari e pescatori. Per la qual cosa per
iscoprire fin dove il vizio si stendesse, il governo mandava da Palermo
sul luogo un marchese Artali, uomo non solo inclinato a fare quanto il
governo volesse, ma capace ancora di far degenerare la giustizia in
sevizia. Terribile fu il suo arrivo, terribile la dimora. Pose in
carcere non solamente i rei, ma ancora i sospetti, e non che plebei e
poveri, magnati e ricchi. Condotti i carcerati in sua presenza, faceva
loro udire, che sarebbe meglio per loro che confessassero; quando no,
avessero a sapere ch'egli era Artali marchese, che ministrerebbe
giustizia alla Palermitana, che avrebbero ceppi ai piedi, manette alle
mani, che gli farebbe tirare sulla colla, arroventare coi ferri, che
solo che una sua parola parlasse, conoscerebbe Messina ch'egli era
Artali. I fatti poi consenzienti, anzi peggiori delle parole; perchè
serrati in una segreta così bassa e stretta, che nè stare in piedi nè
giacere alla distesa potevano, eran lasciati per ben cinquanta giorni a
dimenticanza, solo un misero panicciuolo al giorno essendo loro
ministrato. Sorgeva l'acqua tutto all'intorno, il suolo aspro di acuti
sassi. Non lume avevano nè aria: fra breve venne l'aria pestilente. A
questi erano lacerate le carni con nerbi, a quelli scottate con ferri; a
questi davansi droghe da procurar loro sogni spaventevoli, da cui
solamente erano svegliati con brace accesa, o con piastrelle
arroventate. Fuvvi chi ebbe le membra tirate dalla colla orribilmente, e
chi la pelle tagliata fino al cranio da funicelle strettissimamente
avvinte. Scioglievansi, perchè le carni davano in mortificazione:
temevano i carnefici, che la morte togliesse le vittime ai nuovi ed
apprestati tormenti. Fora pur troppo dolorosa narrazione l'andar
raccontando minutamente il lungo e moltiforme martirio. Solo dirò, che
le Messinesi carceri furono come le Verrine: la Siciliana terra
rispondeva alla Napolitana, furore a furore, crudeltade a crudeltà
opponendo: infausto cielo, che vide quanto possa l'eccessiva natura
dell'uomo. Di Manhes e di Artali parlando, mostrano le Calabresi terre,
mostrano le Siciliane la terribile natura loro; ma il primo fu
inesorabile, il secondo crudo; quegli pacato, questi sdegnoso; l'uno
sanò un paese, l'altro fece un paese infermo e pregno di vendetta.
Messina tutta piangeva, tremava, fremeva; niuna cosa più sicura a
nissuno: imprecavano e chi comandava e chi tollerava; un gran vituperio
ne nasceva per gl'Inglesi andati là per difendere le popolazioni, e che
le vedevano straziare. Gridarono i Messinesi, venne avviso della
tragedia a Giovanni Stuart, generale dei soldati Britannici. Mandò un
lord Forbes a visitare le segrete dolorose: gli diede per compagno
parecchi chirurghi, perchè sapeva che abbisognavano, per sanare le
vestigia impresse dal furore dei carnefici. Seppesi queste cose il
governo del re Giorgio: gliene fu fatta anche fede indubitata. Non so se
gl'importasse dei tormentati: bene gli calse dell'odio che ne veniva
contro il governo Siciliano, e contro l'Inghilterra: indebolivasene la
difesa dell'isola. Di gran momento era agl'Inglesi la conservazione
della Sicilia, sì per se medesima, come pel sito opportuno a difendere
Malta, ed a percuotere nel cuore del regno di Napoli. Non poca molestia
dava loro il vedere, che l'imperio violento della regina, perciocchè a
lei massimamente attribuivano i popoli la direzione delle faccende,
tendeva ad alienare gli animi da lei e dagli alleati; perciò pensarono
ai rimedj. Per verità i Siciliani, che con molta allegrezza avevano
veduto la corte venire in Sicilia nel novantotto, ora mutatisi
intieramente, alla medesima erano avversi. Della qual mutazione, oltre i
rigori eccessivi, molte e gravi furono le cagioni. Morto Acton, col
quale la regina principalmente si consigliava, era stato chiamato
ministro delle finanze il cavaliere Medici, uomo, come già abbiam detto
altrove, di singolare destrezza d'ingegno, ma che amava il governare
assoluto. Per questo aveva piaciuto alla regina, e la regina a lui.
Della sua elezione si mostrarono male soddisfatti i Siciliani, sì per
questa stessa sua natura molto tirata, come perchè Napolitano era. A
queste male soddisfazioni se n'aggiunsero delle altre di non poco
momento. La regina che sapeva, che a volta a volta tornava al re il
desiderio di prendersi nel governo tutto l'imperio che gli si conveniva,
aveva fatto opera, per fermare questi rigogli, che fosse eletto a primo
ministro il duca d'Ascoli, nel quale Ferdinando aveva molta affezione, e
che molto ancora da lei dipendeva. Confidava in questo di essere del
tutto padrona dell'animo del re sì per l'imperio proprio, come per
quello del duca. Ma oltre che Ascoli era uomo d'intelletto incapace a
sopportare tanto peso, e neppure gli dispiacevano i piaceri di cui tanto
si dilettava Ferdinando, avvenne che appresso a lui acquistò grande
autorità una donna, che chiamava col nome di sua amica. Costei traendo,
contro il dovere, ad utilità propria il credito del duca, fu cagione che
un gran romore si levasse contro di lui con diminuzione del suo nome
presso i popoli. Il mal umore si accese anche contro la corte,
massimamente contro la regina, che per tenersi il duca benevolo,
accarezzava l'amica di lui.

Cagione molto forte di disgusto furono i Napolitani venuti colla corte
in Sicilia. Costoro, se pochi si eccettuano, o messisi a grandeggiare
fra un popolo povero, od a far le spie fra un popolo sdegnato,
accrescevano l'odio naturale dei Siciliani contro i Napolitani, e gli
umori già mossi viemaggiormente pervertivano. Il denaro del pubblico,
cavato a grande stento dai sudditi spolpati, si profondeva con grave
scandalo in Napolitani o Calabresi, parte insolenti, parte viziosi,
immoderati tutti nella quantità delle spese: intanto i soldati quasi
nudi, e colle paghe corse da mesi ed anche da anni, attestavano colla
miseria loro la pessima amministrazione del regno. Nè la corte rimetteva
dal consueto lusso, come se il regno solo oltre il Faro potesse da se
solo sopperire a quella voragine, alla quale appena bastarono i due
regni uniti. Quindi accadeva, che sebbene alcune terre appartenenti alla
corona col fine di sostenere le esorbitanti spese si vendessero,
nondimeno sempre l'erario penuriava, e mentre la corte spendeva e
spandeva, ogni servizio del pubblico mancava. Le strade massimamente,
per le quali il parlamento aveva conceduto proventi particolari, rotte e
malconce dimostravano, che ciò che per loro si era dato, in altri usi si
convertisse. S'aggiunsero a sprofondar l'abisso gli enormi dispendj
fatti per le fazioni della Calabria, per la difesa di Gaeta, per le
spedizioni contro Castellamare, e contro le isole di Procida, d'Ischia e
di Capri. Già si era dato fondo alle ricchezze portate via nella fuga di
Napoli, avvegnachè fossero di non poca entità, e le cose erano ridotte a
tale, che la regina per ultimo sussidio, mandò ad impiegar le gioje
dotali e sopraddotali per cavarne diecimila once, che sono circa
cinquemila luigi di Francia. Crescevano gli sdegni, pensando che
l'Inghilterra pagava alla corte di Sicilia trecentomila sterlini
all'anno di sussidio, nè potevano i popoli restar capaci come tant'oro
Napolitano, Siciliano ed Inglese in una e medesima voragine senza
nissuno, o con debole frutto si gettasse: ricchezza certa, dispendio
enorme, povertà rea, dicevano. Gl'Inglesi stessi perdevano di
riputazione appresso ai popoli e per l'uso, e per l'abuso del sussidio.
Adunque, i Siciliani gridavano, fan le spese gl'Inglesi alla Sicilia,
perchè ne siano pagate le Napolitane spie, i Calabresi sicari? Adunque
gli sterlini di Londra vengono a Palermo, perchè l'amata d'Ascoli, ed il
dispotico dominio di Medici ne siano protetti e sicuri? Adunque perchè
un duro giogo sul collo dei Siciliani, miseri colla corte assente, ancor
più miseri colla corte presente s'aggravi, i Britannici salari sulle
Siciliane terre sono chiamati? Adunque perchè dei Napoleonidi ogni ora
si tema, tanti domestici e forestieri tesori si profondono?
Incominciavano gl'Inglesi ad accorgersi, che avevano a fare con un
alleato, il quale dopo di aver procurato odio a se, il procurava anche a
loro. Già se ne gettavano motti aperti nei giornali di Londra: il
governo stesso pensava ai rimedj. Il fine era questo, che si togliesse
alla regina l'autorità che si era arrogata nelle faccende, e che la
parte popolare si accarezzasse, si conciliasse, si fortificasse.

Ma prima che gl'Inglesi comandassero, si sperava in un rimedio
domestico: quest'era il parlamento Siciliano. Lo aveva il re convocato
nell'ottocentodieci. Aveva Medici dato molte speranze di questo
parlamento, come se fosse per essere molto liberale di sussidj: donativi
gli chiamano in Sicilia. Era Medici uomo molto ingegnoso ed
inframmettente, nè mancava di ardimento: perciò sempre confidente in
quanto imprendesse a fare, sperava di volgere a suo grado il parlamento.
Fece suoi brogli appresso ai rappresentanti, questi sono il braccio
demaniale, nè senza frutto. Alcuni degli eletti liberamente dalle città
tirò a se colle promesse e coi doni, altri fece eleggere a sua posta;
che anzi ottenne che parecchie città, bruttissimo vizio della
constituzione Siciliana, dessero il mandato parlamentario ad una
medesima persona. Erano moltiplici questi rappresentanti, ed al favore
di Medici obbligati, e da lui dependenti. Si era anche destramente
insinuato, ed aveva acquistato credito nel braccio ecclesiastico: non
pochi vi erano inclinati a secondare i suoi disegni. Bene considerate
erano tutte queste cose da Medici; ma errò per altra parte in due modi,
perchè credendosi sicuro dei due bracci, demaniale ed ecclesiastico,
omise di accarezzare il baronale più potente di tutti, ed oltre a questo
usò l'opera di certe persone, le quali, avvengadiochè fossero dotate di
singolare abilità, erano nondimeno venute in odio ai popoli, perchè nel
parlamento dell'ottocentosei si erano adoperate con molto calore,
acciocchè si aumentassero i dazj. I baroni, parte per amor di bene,
parte per odio di Medici, che gli aveva o trascurati od aspreggiati,
fecero tra di loro un'intelligenza per isturbare i disegni al ministro.
Fra gli avversarj, per essere stato offeso ed allontanato dalla corte
per opera di lui, risplendeva il principe di Belmonte, uomo assai ricco,
di famiglia nobilissima, e di molta dipendenza in Sicilia: nè l'ingegno
mancava in lui, nè la liberalità; perchè amico ai letterati, cortese ai
forestieri, mostrava che di buoni frutti non era sterile la Sicilia.
Quest'erano le sue virtù: i vizj, un orgoglio intollerabile. Assunse
impresa di vendicarsi di Carolina e di Medici. I baroni si collegarono
con Belmonte. Il ministro s'accorse, che se era stato buono il tirare a
se i dipendenti, sarebbe stato meglio il tirare gl'independenti. L'esito
fu, che il parlamento concedè un piccolo aumento di donativi, ma
interpose tante difficoltà alla distribuzione e riscossione loro, che fu
impossibile di esigergli. Maggiori segni sorsero del mal umore
parlamentario, perchè, essendo solito il parlamento a domandare molte
grazie al re, grazie, che si concedevano a ragguaglio della largizione
dei donativi, a questa volta i baroni domandarono, come per modo
d'ironia, la grazia di sua maestà: l'esempio fu efficace; anche i due
altri bracci risposero nella medesima sentenza: solo gli ecclesiastici
richiesero il re, facesse prigioni separate pei preti. I Siciliani,
secondo la natura dei popoli che sempre pagano mal volentieri, e peggio
quando sono entrati in opinione che chi maneggia il denaro loro lo
sparge, alzarono voci di plauso in tutta l'isola a favor dei baroni: pel
contrario con discorsi acerrimi laceravano il nome di Medici, e di
coloro che nel parlamento l'avevano secondato.

Fu molto memorabile il parlamento Siciliano dell'ottocentodieci, di cui
abbiamo fin qui toccato. Imperciocchè le terre obbligate a feudo furono
ridotte all'allodio, ed aboliti molti baronaggi, consentendo volentieri
e con singolar lode i baroni ad una riforma, che recava loro, quanto
alle rendite, notabile pregiudizio. A ciò si aggiunse, che per la più
acconcia distribuzione dei dazj, si crearono nuovi ordini di gabelle, e
le terre, affinchè il terratico fosse stanziato con più equalità, si
accatastarono, facendo stima dai contratti d'affitto, o dalle
confessioni dei possidenti sul fruttato di dieci anni; dal che ne sorse
un censo o catasto, che, sebbene imperfetto, diè non pertanto qualche
utile norma in una faccenda intricatissima. Migliorò anche il parlamento
gli ordini giudiziali, cosa in quei tempi di estrema necessità, per la
frequenza intollerabile che era invalsa dei furti e delle rapine; perchè
siccome per lo innanzi i capitani di tutte le città e villaggi erano
obbligati a compensare del proprio i rubati, il che di rado aveva
effetto, essendo per lo più i predetti capitani uomini poveri, che
amavano meglio o fuggire o andar carcerati, che pagare, così il
parlamento creò tante compagnìe di gendarmi, quanti erano i distretti,
volendo, che ciascuna compagnìa purgasse il distretto proprio dai ladri,
e fosse tenuta dei furti che vi succedessero. Le strade ed i casali
sparsi, che prima erano molto infestati, diventarono più sicuri, i
popoli lodavano il parlamento del prudente consiglio, i baroni sorgevano
in maggior credito pel favor dell'opinione. La regina, che si recava a
diminuzione di potenza il favore acquistato dal parlamento e dai baroni,
mal volentieri sopportava questa variazione. Medici, o che il facesse da
se, perchè sapeva che e come Napolitano, e come aderente alla regina,
aveva perduta la grazia dei Siciliani, o che Carolina gliel comandasse,
rinunziò alla carica di ministro delle finanze. Creossi in sua vece il
principe di Trabia, come Siciliano, per conciliare: s'intendeva
piuttosto di commercio che di stato. Piacque un tempo, dispiacque fra
breve, perchè pensava a tôrre le spese inutili, ed a formare migliori
ordini per la camera. Intanto le tasse a mala pena si riscuotevano, ogni
cosa in ruina. Per ultimo rimedio si chiamava un secondo parlamento. Diè
maggiore agevolezza nel riscuotere le tasse; negò più grossi donativi:
ogni promessa o minaccia della corte indarno; i baroni non si lasciarono
piegare nè alle lusinghe delle parole, nè alle profferte d'onori: lo
stato periva, e' bisognava uscirne. Un Tommasi chiamato nelle consulte
regie trovò questi due rimedj: pagassesi una tassa dell'uno per
centinajo del valsente di tutti i contratti, stromenti e carte private
che si facessero dai particolari, e perchè nissuno potesse far fraude,
si mandò ordine ai notaj, ed ai banchi pubblici di Palermo e di Messina,
che avessero cura dell'esecuzione. L'altro trovato del Tommasi fu, che
si vendessero alcuni beni stabili appartenenti a luoghi pii, a
possessori forestieri, ed alla religione di Malta: perchè la vendita non
riuscisse vana per mancanza di avventori, si facesse per mezzo di lotto.
Non fu consentaneo alle speranze l'effetto dei due decreti; perchè
essendo gli umori mossi e l'opinione avversa, i rimedj si cambiavano in
veleni. Primieramente la nazione recandosi a dispetto e ad oltraggio un
atto, che stimava essere arbitrario e contro gli ordini della
constituzione, fece risoluzione, che tutti gli atti privati, come
vendite di beni sì stabili che mobili, affitti, pigioni, pagamenti, e
tutt'altro contratto, dove la natura del negozio il permettesse, di
buona fede e senza rogito di notajo si facessero. Quanto al lotto,
malgrado del guadagno ingordo che vi si poteva fare, nissuno accorse
alle polizze, e riuscì vano il tentativo. Tanto quei popoli amarono
meglio pericolare nelle sostanze e rinunziare al lucro, che sottoporsi
ad una tassa, che riputavano illegale e contraria agli statuti del
regno, onorata risoluzione dei Siciliani. La regina dispensò le polizze
ai suoi cortigiani, magistrati, partigiani ed aderenti, debole sussidio
in tanta angustia.

Questa condizione non era tale, che lungo tempo potesse durare senza
variazione. La regina non rimetteva dal solito procedere, da lodarsi per
costanza, da biasimarsi pei mezzi e pel fine. I baroni instavano, nè
erano uomini da non usar bene il tempo. Gl'Inglesi ci mettevano la mano,
perchè vedevano che gli andamenti di chi reggeva precipitavano le cose
in favor dei Francesi per la mala soddisfazione dei popoli; e giacchè
avevano pruovato che i consigli dati alla regina non avevano prodotto
frutto, si erano risoluti a prevalersi della nuova inclinazione d'animi
che era sorta. Tutti volevano comandare, regina, Inglesi, baroni, chi
per superbia, chi per interesse, chi per desiderio di regolate leggi. In
questo nacque un accidente, dal quale doveva avere la sua origine il
cambiamento delle Siciliane sorti. Fecersi avanti i baroni, cui più
muovevano il fastidio dell'imperio Caroliniano, e la voglia di veder
ridotto a migliore forma il governo, e si appresentarono con una
rimostranza al re, supplicandolo della rivocazione dei due decreti, come
contrarj alla constituzione Siciliana fino allora inviolata nel diritto
di porre le contribuzioni. Portarono la medesima rimostranza alla
deputazione del regno, la quale dal parlamento eletta, sedeva secondo i
Siciliani ordini, tra l'una tornata e l'altra dal parlamento. Capo di
questa mossa fu il principe di Belmonte. La regina, che non era donna da
lasciarsi sopraffare dai venti contrarj, non solamente non si piegò a
questo assalto dei baroni, ma persuase ancora al re, che gli facesse
arrestare e condurre in luogo, dove fosse loro mestiero di pensar ad
altro piuttosto che a rimostrare. Furono arrestati, condotti in varie
isole, serrati in prigioni diverse, e trattati con sevizia cinque dei
primarj baroni del regno, che furono quest'essi: il principe di Belmonte
sopraddetto, i principi d'Aci, di Villarmosa, di Villafranca, e il duca
d'Angiò. Parlossi anche nelle più segrete consulte della regina, che si
uccidessero: i suoi aderenti più stretti, credendo di andarle a versi,
domandavano la morte loro. Ma Medici, col quale principalmente ella
restringeva i suoi consigli, contraddisse, allegando, che un fatto tanto
grave sarebbe certamente occasione di rivoluzione.

Queste cose davano gran sospetto agl'Inglesi, perchè nulla di certo si
potevano promettere da un moto popolare, nè maggior fede avevano nella
regina, dappoichè per lo sposalizio di Maria Luisa nell'imperator dei
Francesi era divenuta parente di Napoleone; e siccome quelli che
ottimamente conoscevano la natura di lei, sapevano che ella si sarebbe
gettata a qualunque più strano partito, ed anche all'amicizia di
Napoleone, purchè continuasse a comandare, nè era solita a guardare più
in viso Inghilterra che Francia; tanto era l'indole sua altiera ed
indomita! Adunque gl'Inglesi, non potendo più comandare con la regina,
nè fidandosi del popolo, si vollero pruovare, trattando restrignimento
coi baroni, di comandare per mezzo loro.

A questo fine, richiamato a Londra lord Amherst, ambasciatore
d'Inghilterra alla corte di Palermo, mandarono in sua vece lord Bentink,
uomo di natura molto risoluta: pretendeva parole di libertà. Ora s'ha a
vedere una testa forte contro una testa forte. Non così tosto pervenne
Bentink in Palermo, che si mise a negoziare strettamente con la regina,
ammonendola dei pericoli che correvano, rappresentandole la necessità di
cambiar di condotta, e proponendo la riforma degli abusi introdotti
nell'amministrazione e nella constituzione del regno. Insisteva
principalmente, amarissimo tasto a Carolina, affinchè si rivocassero i
due decreti, e si richiamassero dalle carceri e dall'esilio i cinque
baroni. Aggiungeva, che se ella non si uniformasse ai desiderj
dell'Inghilterra, ei direbbe e farebbe gran cose. La regina, non usa a
sentirsi parlare di questo suono, meno ancora a sopportarlo, non che si
piegasse, viemaggiormente si ostinava, e lei essere padrona in Sicilia,
non Bentink, affermava. Pure l'Inglese la stringeva; e voleva venirne
alla conclusione. A cui finalmente la regina per vederne la fine e
levarselo d'innanzi, gli ebbe a dire apertamente, con quale diritto
s'ingerisse nelle faccende del regno, e quale audacia fosse la sua di
uscire dai termini del suo mandato? Dove fosse, richieselo, e
mostrasselo il mandato d'intromettersi nel governo del regno di Sicilia.
Badasse bene a farla da ambasciatore, non da padrone, molto manco da re;
che Carolina d'Austria non era donna da divenir serva di chi era mandato
a farle riverenza, non a comandarle. Sentissi Bentink toccar sul vivo,
perchè veramente aveva avuto dal re Giorgio potestà di consigliare, non
di comandare. Tuttavia non si tirava indietro, e con pertinacia
contrastando, disse, che se non aveva mandato, lo anderebbe a cercare: e
come disse, così si metteva in punto di fare. Carolina, veduto il
pericolo, pensò ad essere una seconda volta con Bentink, non che volesse
rimuoversi dal suo proposito, perciocchè perseverava nella medesima
durezza, ma sperava di rimuovere l'avversario. Consentiva, non senza
qualche difficoltà, l'Inglese all'abboccamento: all'ultimo trattandosi
l'affare tra due ostinati, non si potè venire ad alcuna conclusione, per
forma che l'ambasciadore disse alla regina per ultima risposta, _o
constituzione, o rivoluzione_. Nè interponendo dilazione, partì, andò a
Londra, in tre mesi tornò con mandato amplissimo. Ma i ministri
d'Inghilterra, avvisandosi che le parole non basterebbero, diedero a
Bentink potestà suprema sopra tutte le truppe Inglesi raccolte
nell'isola, acciocchè quello che pei consigli non potesse, colla forza
il potesse. Tentò Bentink di nuovo la regina colle persuasioni, di nuovo
la regina nella risoluzione di voler fare da se, e non a posta d'altri o
Inglesi si fossero o parlamento, persisteva. Minaccioso allora venne sul
dire, arresterebbe il re, arresterebbe la regina, gli manderebbe in
Inghilterra, lascerebbe in Palermo a governare il regno, il figliuolo
del principe ereditario don Francesco, fanciullo di due anni, con
assistenza di una reggenza, alla quale chiamerebbe, come capi, il duca
d'Orleans, ed il principe di Belmonte. Perchè poi le sue parole avessero
l'efficacia necessaria, dodicimila soldati Inglesi, che stanziavano
sparsi in varj e lontani luoghi dell'isola, chiamò nelle vicinanze di
Palermo. La regina, veduto un caso tanto estremo, nè ancora rimettendo
della sua costanza, chiamati i suoi più fidi a consiglio, e con loro i
ministri, sull'afflitte cose se ne stava deliberando. Disse, non esser
punto per cedere ad una prepotenza forestiera. Chiamassero i soldati,
volere contro la forza difendersi colla forza. Le fu tosto ridotto in
considerazione, poco sicure essere le truppe per la miseria, ad esse
mancare le vestimenta, ad esse i viveri, ad esse insino le armi; non
potervisi far capitale; là andrebbero dove una prima mostra di pane a
loro si facesse. La regina, cedendo alla fortuna, ma non vinta
nell'animo, si ritirava ad un suo casino poco distante dalla città.
L'evento finale si avvicinava, si rompevano le trame Napoleoniche in
Sicilia, la parte Inglese trionfava, contrade infelicissime, che non
potendo vivere da se, cercavano di sostentar le cose loro col patrocinio
altrui. Bentink, recatosi in mano la somma dell'autorità, operò
primieramente, temendo non il re per se, ma la regina per mezzo del re,
che Ferdinando, sotto colore di malattia, rinunziasse alla potestà
reale, ed investisse di lei pienamente il principe ereditario suo
figliuolo con titolo di vicario generale del regno. Bentink fu eletto
capitano generale della Sicilia, accoppiando in tal modo in se l'imperio
militare e sopra i soldati del re Giorgio, e sopra quelli del re
Ferdinando.

Atti primi e principali del nuovo reggimento furono il richiamare i
baroni carcerati, il licenziare i ministri della regina, l'abolire il
dazio dell'un per centinajo, il chiamare ministri Belmonte degli affari
esteri, Villarmosa delle finanze, Aci della guerra e marina. Volevano
alcuni, che si apprestassero gli esili, le carceri, i supplizj contro
coloro che si erano mostrati aderenti a chi aveva sino allora retto lo
stato, massimamente contro le spie, tanto più detestate, quanto la
maggior parte erano forestieri venuti dall'altra parte del Faro. Ma i
nuovi ministri, conoscendo che il modo di governare tanto sarebbe
migliore, quanto più si discosterebbe dal precedente, prudentemente
procedendo, si risolvevano ad usare mansuetudine: puniti pochi più in
odio al popolo, mandavano i rimanenti in dimenticanza. Volevano
cambiamento, non rivoluzione: protestavano non voler andare a forme
insolite e nuove, solamente tornare alle antiche, adattandole alle
condizioni presenti. Fece il popolo grandi allegrezze per la mutazione:
quell'esser liberato dalle spie, gli pareva un gran fatto: dicevano
rinascere le sorgenti di Sicilia.

Intanto il principe vicario convocava il parlamento. Era il mandato dei
membri, provvedessero, che la Sicilia avesse un buono e libero governo,
rimediassero agli abusi, creassero nuovi ordini di constituzione. Erano
in quest'assemblea partigiani della regina, come amatori del governo
assoluto, e come obbligati a lei per potenza, o per ricchezze, o per
onori, ma il tempo era loro contrario. Erano partigiani di statuti
liberi, pendendo molti verso le forme Inglesi ed a questi era il tempo
favorevole. Erano infine, ma in poco numero, partigiani Francesi: questi
si accostavano agli aderenti della regina, e poichè non potevano
predicare apertamente il dominio assoluto per l'opinione contraria,
pubblicavano dottrine di una libertà eccessiva, sperando che dalla
licenza nascerebbe il dispotismo.

I baroni avevano maggior autorità degli altri. Bentink era accesissimo
in questo, che promulgasse libertà e statuti generosi in ogni luogo.
Incominciossi dagli ordini supremi della constituzione. Statuirono che
la religione cattolica, apostolica, romana fosse sola religione del
regno; che il re la professasse; quando no, s'intendesse deposto; la
potestà legislativa fosse investita nel solo parlamento, e solo il
parlamento ponesse le tasse; i suoi decreti appruovati dal re avessero
forza di legge; l'appruovare, od il vietare del re in questa forma si
esprimesse, _piace al re o vieta il re_; la potestà esecutiva fosse
investita nel solo re, e sacra ed inviolabile la sua persona; i giudici
avessero intiera independenza dal re e dal parlamento; i ministri
fossero tenuti di ogni atto, e fosse in facoltà del parlamento
l'esaminargli, il processargli, il condannargli pel crimenlese; due
camere componessero il parlamento, una dei comuni, o dei rappresentanti
del popolo, l'altra dei pari del regno; i rappresentanti fossero eletti
dal popolo a norma di certe forme prestabilite; fossero Pari del regno
chiunque avesse avuto seggio nel braccio ecclesiastico o baronale, o
chiunque il re chiamasse a tale dignità; stesse in facoltà del re il
convocare il parlamento, ma fosse obbligato di convocarlo ogni anno; la
nazione desse al re dote splendida, e con ciò i beni della corona
cedessero in amministrazione della nazione; niun Siciliano potesse
essere turbato nè nelle proprietà nè nella persona, se non conforme alle
leggi sancite dal parlamento; s'instituissero forme giudiziali pei Pari
del regno; la camera dei comuni sola avesse facoltà di proporre i
sussidj, o vogliam dire i donativi; il parlamento vedesse quali e quante
parti della constituzione della gran Brettagna convenissero alla
Sicilia, ed esse ad utilità comune si accettassero.

Questi furono i capitoli principali della constituzione Siciliana data
da lord Bentink circa gli ordini primitivi dello stato. Ne concepirono i
popoli grande contentezza, perchè quella equalità di dritti, e quella
sicurezza delle persone, sono condizioni che piacciono a tutti. Furono
inoltre dal parlamento per motivo espresso dei baroni statuiti certi
patti fondamentali, dai quali ne veniva un grande sgravio ai popoli, e
il nome dei baroni salì in onore, certo meritamente, appresso ai
Siciliani. Perciò all'allegrezza comune cagionata dai capitoli
principali, s'aggiunse una maraviglia non senza molta parte di
gratitudine per certi capitoli aggiunti, essendone posto il partito dai
baroni. Il fecero per generosità d'animo, il fecero per conciliarsi i
popoli. Offerirono spontaneamente, e fu dal parlamento statuito, che il
sistema feudatario fosse e restasse abolito in Sicilia, che tutti i
privilegi provenienti dall'origine medesima fossero cassi, e tutte le
terre libere ed allodiali. Fossero altresì abolite le investiture, i
rilievi, le devoluzioni al fisco, ed ogni peso che derivasse da feudo.
Quanto alle angherie, o siano dritti angarici, potessero i comuni od i
particolari riscattarsene sotto condizione di debito compenso. A voler
comprendere quanta agevolezza ed amore del ben pubblico fossero in
queste offerte e decreti dei baroni Siciliani, basterà far
considerazione, che gran parte delle loro rendite consisteva in questi
dritti feudatarj: furonvi famiglie, che a cagione delle rinunzie
perdettero insino a settantamila franchi d'entrata. L'annullazione
massimamente delle bandite, o vogliam dire dei dritti proibitivi di
caccia riservandone soltanto l'uso, a guisa degli ordini Inglesi, sulle
terre circondate da mura, diede la vita a molti villaggi condotti
all'ultima ruina dalle fiere o regie o baronali. Dirò anzi in questo,
perchè dimostra lo spirito di quella nazione, che il re, al quale
incresceva l'astenersi dalle solite cacce, fece opera di persuader ai
villani, che abitavano vicini a' suoi parchi e foreste, che
rinunziassero alla libertà largita dal parlamento: ne ebbe ripulsa.

Giubbilavano i Siciliani dell'ottenuta libertà, la generosità dei
baroni, ed i nuovi ordini con somme lodi esaltando. Restava, che il re,
cioè il principe vicario appruovasse. Fuvvi qualche soprastare. Si
disse, che la regina stringesse il figliuolo affinchè vietasse:
mormorossi, ch'ella per por le cose in confusione, macchinasse
sollevazioni in Palermo. Si andava oltre a ciò vociferando un caso più
orrendo, e fu, ch'ella con un artifizio di polvere chiusa in grossa e
forte boccia, aggiuntovi scheggia ed altri stromenti mortalissimi, e
gettato, ed acceso improvvisamente nella stanza del parlamento, si fosse
sforzata di mandar l'assemblea a confusione ed a ruina. Certo scoppiò il
ferale ordigno, ma all'entrare di una finestra, per modo che dal terrore
in fuori, non fece effetto. Queste cose si dicevano della regina, non
perchè se le facesse, ma perchè la credevano capace di farle.

Duro pareva a chi regnava, lo spogliarsi dell'autorità; infine tanto
operarono Bentink, il parlamento, ed i segni della impazienza popolare,
che il principe vicario dichiarò, piacergli i capitoli. Ne fu lodato da
molti, biasimato da pochi. La regina, non potendo più resistere,
costretta anche da Bentink, che conoscendo quel suo spirito indomabile,
ed avendo l'animo alieno dal confidarsi di lei, malvolentieri la vedeva
vicina alla sede del governo, si ritirava a Castelvetrano, terra
distante a sessanta miglia da Palermo. Aspettava Bentink la stagione
propizia per mandarla a Vienna, certo e sicuro, che, finchè ella
restasse nell'isola, il nuovo stato non potrebbe quietare, non che
radicarsi e fiorire.

Ed ecco che nel mese di gennajo dell'ottocento tredici il re (corse fama
in quel tempo, che Carolina regina, avendo l'animo sempre pieno di mala
soddisfazione, di nottetempo e celeremente venendo da Castelvetrano,
fosse andata a trovarlo, e ad esortarlo a recarsi di nuovo la somma del
governo in mano) compariva all'improvviso in Palermo, e fatti a se
chiamare i ministri, dichiarava, che essendo tornato in salute, suo
intento era di riassumere l'autorità regia. Parve caso strano, e che
potesse portar con se accidenti molto gravi. Bentink, avvertito a tempo,
mandò prestamente suoi messi a chiamar le soldatesche, che alloggiavano
nei paesi circostanti. Tanta fu la celerità usata, che a mezza notte
dodicimila Inglesi, armati di tutto punto, come in presente guerra,
entrarono in Palermo, e rendettero le cose sicure al nuovo stato. Fu
assai subito Bentink in questa faccenda, e se avesse tardato non sarebbe
più stato a tempo; perchè già i partigiani dell'antico reggimento
alzavano la testa, e si vantavano di aver vinto la novella
constituzione. Era intento di Ferdinando di cambiare i ministri, non
terminare la constituzione, annullare i capitoli accordati, rimettere in
piede lo stato antico, richiamare la regina: il fine ultimo consisteva
nel liberarsi dall'imperio d'Inghilterra, e dalle molestie dei
democrati. Si cantarono con pompa nel duomo le prime grazie
all'Altissimo per la salute ricuperata del re. Si aspettavano plausi:
nissuno si scoprì. Se da una parte si sopportava mal volentieri il
dominio degl'Inglesi, dall'altra si temeva quello della regina, e dei
Napolitani. Intanto il capitano generale aveva condotto a fine i suoi
preparamenti: soldati in armi occupavano Palermo; un romor di cannoni e
di mortaj tirati per le contrade faceva un terrore grandissimo. I
Palermitani gridavano che guerra fosse quella; e si lamentavano che si
fosse dato occasione a quest'insolito apparato. Mandava Ferdinando il
comandante domandando a Bentink, che cosa significasse quella mostra
guerriera. Rispose venezianamente l'Inglese, avere udito la ricuperata
salute del re, volere anche di lui palesare la sua contentezza; quelle
armi e quei soldati essere venuti ad allegrezza e ad onoranza. Stette
alquanto sopra pensiero il Siciliano, perchè gli pareva che il parlare
di Bentink fosse piuttosto da burla che da vero. Poi gli disse, se
avesse pensato agli accidenti che potevano nascere. Il capitano del re
Giorgio rispose, che il re Ferdinando l'aveva chiamato suo capitano
generale, che a lui aveva affidato la quiete di Palermo e del regno; che
per adempire l'incarico aveva apprestato quelle armi e quei soldati.
Ferdinando in questo mentre caduto in malattia o per accidente fortuito,
o per angustia d'animo, riconfermò il figliuolo nella carica di vicario
generale, e tornossene in villa, portando con lui diminuzione di
riputazione per un tentativo male cominciato, e peggio terminato.

Volle Bentink usar l'occasione dello sgomento concetto per l'esito
infelice, facendo opera di persuadere al re, che rinunziasse
intieramente all'autorità regia in favor del figliuolo: mandò anche
soldati per ajutar le parole coi fatti, a romoreggiare tutto all'intorno
della villa abitata da Ferdinando, ma egli non si lasciò tirare a questa
risoluzione, perchè i fuorusciti Napolitani, tutti o la maggior parte
seguaci della regina, il dissuadettero efficacemente da questa finale
rinunzia. Temevano, nè senza ragione, che se il principe vicario fosse
divenuto re, pei consigli dei baroni Siciliani, che in lui molto
potevano, ed erano nemici al nome loro, gli conducesse a qualche mal
partito. Non potevano tornare nella patria loro, che tuttavia si trovava
in potestà dei Napoleonidi, e se fosse loro stata vietata la Sicilia,
non avrebbero più avuto alcun ricovero o scampo.

Intanto il tentativo fatto per riassumere l'autorità regia, rendè del
tutto chiaro Bentink dell'animo della regina. Laonde, temendo non poco
ch'ella facesse qualche precipitazione, si persuase che era meglio
vedere una regina esule, che in pericolo l'autorità d'Inghilterra. Fatte
adunque le sue diligenze, costrinse Carolina ad abbandonar la Sicilia.
Dal che nacque, che portata dai venti e dall'avversa fortuna in istrani
e barbari lidi, non potè, se non con disagi incredibili, rivedere la sua
Vienna, riabbracciare i parenti, e respirare l'aere natìo, donde solo
poteva sperar conforto della perduta potenza. Ma non fu lungo il
sollievo, perchè presa da subita malattia, passò poco tempo dopo da
questa all'altra vita. A questo modo fini di vivere Carolina d'Austria e
di Sicilia, prima desiderosa di ridurre il governo a forme più larghe,
poi sostenitrice tenacissima di governo stretto, prima favorevole ai
filosofi, poi nemica acerbissima di loro, contrastatrice violenta un
tempo di Napoleone imperatore per la soverchia potenza di lui, poi sua
aderente per troppo amore della potenza propria; conservata
dagl'Inglesi, poi fatta esular da loro; questo solo lasciò incerto, se i
tempi, o ella cambiassero; che anzi se si dee, non da qualche atto della
vita, ma da tutti della natura di alcuno giudicare, parrà certo, ch'ella
piuttosto costante e forte, che volubile e debil donna chiamare si
debba. Nè in mezzo alle tante ambizioni moderne la sua cupidigia del
dominare io riprenderei, se non l'avesse condotta ad una rigidezza
eccessiva. Di questo, nè io, nè, credo, altri sarà mai per iscusarla per
ragione alcuna, nemmeno per l'orrendo caso della regina sorella;
conciossiachè, se di vendetta in vendetta sempre dovesse andare il
mondo, non si vede, che allo straziarsi colle unghie, ed al mangiarsi
coi denti gli uomini al fine non dovessero pervenire. Mise chi ci creò
nei nostri cuori la pietà verso i miseri, ed il piacere del perdonare ai
rei, acciocchè l'umana razza s'arrestasse in mezzo al corso del
tormentare umane membra, e del versare umano sangue; e se una pazzìa
incomprensibile, od un desìo spaventevole ci vi spinge, almeno una
salutevole pietà ci rattenga dal correre sino all'estremo termine di
lui.

Rintegrato il principe vicario nel regno, e partita la regina,
insistendo i ministri, massimamente Bentink, che interveniva a tutte le
consulte, continuò il parlamento le sue politiche fatiche. Diessi
compimento alla constituzione; si mise in atto, rimanendone i popoli con
molta satisfazione. Così fu felice il principio; il seguito non
corrispose. Nacque tostamente la peste dei governi liberi, dico le
insolenze popolari: nacque il vizio dei paesi comandati dai forestieri,
dico i favori conceduti dai dominatori ai più vili, ai più ignoranti, ai
più ridicoli uomini: la parte popolare più forte, e sempre intemperante
ne' suoi desiderj, principiò a non serbar più modo verso i nobili,
contro di loro con parole e con fatti imperversando. Era in questo
procedere, non che cecità per l'avvenire, ingratitudine del passato,
perchè dei nobili, chi era stato autore della constituzione, e chi
l'aveva accettata volentieri. Per la qual cosa eglino, non trovando più
sotto l'imperio di lei rispetto e quieto vivere, diventarono avversi, e
desiderarono il cambiamento di quello, che coi desiderj, e colle opere
avevano mandato ad effetto. Pessime furono la maggior parte delle
elezioni alla camera dei comuni, fatte principalmente per maneggio di
Bentink, più avendo potuto nel suo animo i servigi particolari fatti a
lui medesimo, che quelli fatti o da farsi al pubblico. La viltà degli
eletti portò disprezzo al consesso: da spie e ligi di Carolina, a spie e
ligi di Bentink non facendo i popoli differenza, concepirono la
opinione, che gli scritti di penna non sono altro che scritti di penna,
e che gli atti ed i risultamenti sono sempre i medesimi, cioè di dare a
chi meno merita, e di tôrre a chi più merita; chi aveva disprezzo, chi
odio, chi freddezza verso la nuova constituzione, e tutto in un fascio
mettevano Carolina, Acton e Bentink. Torno sull'antica mia querela, che
le leggi portanti a libertà in Europa son sempre guaste dal cattivo
costume, massimamente dall'ambizione. S'arrose a questo, che i dazj
posti ai tempi del parlamento Bentiniano secondo gli ordini della
constituzione, avanzarono di gran lunga quelli che si pagavano prima, ed
in virtù degli antichi statuti del regno. Del quale effetto la cagione
si fu, parte la necessità del pagare i soldati altrui, parte quella di
supplire con nuovi dazj alle rendite dei dritti feudatarj soppressi. A
questi aggravj si risentivano i popoli, che generalmente piuttosto dal
non pagare, che dal fare gli squittinj giudicano della libertà. Le
persuasioni degli uomini in carica non fruttavano, perchè gli stimavano
complici; gli altri scontenti: perivano i fondamenti della recente
constituzione, e le cose del nuovo governo molto s'indebolivano. Ciò
nondimeno durò qualche tempo; perchè, morta la regina, niuno era rimasto
che le potesse dare un primo urto. Ma non così tosto il re Ferdinando,
pei casi dell'ottocento quattordici, tornossi a sedere sul trono di
Napoli, che con un cenno solo l'aboliva non solamente senza sommossa di
popoli, ma ancora senza mala contentezza. Dal che ne seguita, che non le
magnifiche parole, ma solo la felicità presente possono essere stabile
fondamento alle constituzioni. I popoli di metafisica non sanno, e la
felicità loro misurano, non da quello che odono, ma da quello che
sentono.

Insomma Ferdinando disse, che la constituzione era stata data per forza,
Bentink che era stata chiamata di volontà, Castelreagh andò per le
ambagi. Vero fu, che fu desiderata prima, poco amata dopo, colpa più dei
popolani che dei nobili, più dei forestieri che dei paesani. Del resto,
anche qui si vide il vizio dello aver commesso in quest'Europa ciarliera
ed ambiziosa la potestà popolare, cioè la potestà che debbe servire di
moderatrice al governare e di guarentigia al popolo, ad assemblee
numerose. Nella natura attuale degli Europei, questo è un pessimo
rimedio, nè so quello che diventerebbe l'Inghilterra stessa se non
avesse i borghi compri: per un vizio enorme solamente, cioè per questi
borghi ella vive. L'antica sapienza Italiana seppe trovare migliori
rimedj; e se quello che nelle constituzioni degl'Italiani antichi, ed
anche in qualcheduna dei moderni, era solamente un principio non
ordinato, o male ordinato, con buoni statuti si ordinasse, il che
sarebbe non che difficile, agevole, sarebbero sicuri la libertà e
l'imperio.

Mentre Guglielmo Bentink dominava in Sicilia, Edoardo Pellew
signoreggiava i mari Mediterraneo ed Adriatico. Era la terra in mano di
un solo, il mare in mano di un solo. Nacquero accidenti, ora in questo
mare, ora in quell'altro, ma di poco momento per la superiorità tanto
notabile di una delle parti, e la depressione dell'altra. Predarono
gl'Inglesi già sin dall'ottocentundici molte onerarie al capo Palinuro.
Nell'Adriatico poi, per istringere il presidio di Ragusi,
s'impadronirono presso a Ragonizza, di una conserva di navi, anch'esse
cariche di vettovaglie. Fatto di maggior importanza fu una battaglia
navale combattuta aspramente nelle acque di Lissa, una delle isole
antemurali dalla Dalmazia. Vinse la fortuna Britannica: le fregate
Francesi la Corona, e la Bellona vennero in poter degl'Inglesi; la Flora
si condusse in salvo, la Favorita andò di traverso. Per questa fazione
Lissa cadde in potestà degl'Inglesi. Vi fecero una stanza ferma, ed un
nido sicuro, dove e donde potevano ritirarsi ed uscire a dominar
l'Adriatico. Fu per Napoleone dato avviso al pubblico della fazione di
Lissa, ma a modo suo, servendosi del nome del generale Giflenga che era
stato presente alla battaglia. Se non si poteva dire che l'imperatore
perdesse quando vinceva, molto meno si poteva quando perdeva. Giflenga
stette queto, perchè non poteva parlare, quantunque il fatto fosse assai
diverso del come fu nella patente lettera di lui descritto.

Già i fati assalivano Napoleone; l'ambizione, che mai non dormiva in
lui, gli toglieva l'intelletto. Dome la Francia, la Germania, l'Italia,
non poteva capirgli nell'animo che di tutta Europa signore non fosse. La
Russia e l'Inghilterra gli turbavano i sonni; quella amica poco fedele,
questa nemica costantissima; nè poteva pazientemente sopportare, che
queste due potenze gli fossero ostacolo al salire dove i suoi desiderj
fossero, non dico sazj, perchè a ciò la natura sua smisurata ripugnava,
ma più soddisfatti: mezza Europa non gli bastando, come non mai si
fermava la sua cupidigia, la voleva tutta. Parevagli che due grandi
imperj, quali erano il suo e quel d'Alessandro, non potessero sussistere
insieme nel mondo. Per questo aveva dilatato i suoi confini insino alla
Russia, per questo unito alla Francia Amburgo e Lubecca, per questo
fortificato Danzica, per questo creato il ducato di Varsavia, per questo
teneva ostinatamente stretta ne' suoi artigli la miseranda Prussia,
piuttosto ombra di potenza che potenza. Nè ignorava, quanti sdegni
contro lui covassero, massimamente in Germania, pel suo insopportabile
dominio: l'estrema forza della Russia gli nutriva. Questi pensieri,
giunti alla cupidigia dell'esser solo, tanto più gli turbavano la mente,
quanto più prevedeva che non poteva domar l'Inghilterra, se prima non
domasse la Russia. Qui anche covava, secondochè appare, un pensiero
grandissimo, nè a lui ostava, per mandarlo ad effetto, l'amicizia che
allora aveva col sultano di Turchìa. Napoleone vincitore della Russia
mirava al farsi padrone di Costantinopoli per rintegrare nella sua
persona l'imperio d'Oriente, ed anzi tutta la pienezza del Romano
impero. Appetiva anche le Indie Orientali a distruzione
dell'Inghilterra, e ad acquisto di fama pari a quella d'Alessandro
Macedone. Nè che io narri cose fantastiche alcuno sarà per dire: perchè
dell'andare per cammino terrestre nelle Indie non solamente si parlò in
quei tempi, ma eziandio ne furono prese deliberazioni, e i luoghi
esplorati, e le stanze notate, e la lontananza accertata, e tenute
pratiche colla Persia. Anzi gli adulatori già spargevano, che l'impresa
non aveva in se tanta difficoltà quanta il volgo credeva. Solo ostava la
Russia: per questo Napoleone ambiva di soggiogarla, confidando che il
vincerla gli metterebbe in seno l'imperio del mondo. Sapevaselo
l'Inghilterra, che continuamente stava ai fianchi d'Alessandro,
acciocchè dalle infauste e mortali mani si strigasse. A questo fine
aveva anche mandato un ambasciatore straordinario ad Ispahan, affinchè
tenesse il sofì di Persia bene edificato verso l'Inghilterra.

Dall'altro lato la Russia, che vedeva il cimento inevitabile, pensava
che il più presto sarebbe stato il meglio: mezzo mondo era vicino a
marciare in guerra contro mezzo mondo; i due imperi apprestavano l'armi
con tutte le forze loro. Favoriva l'uno un esercito fioritissimo,
massime di Francesi usi a vincere in tante guerre, una esperienza di
tanti anni, una perizia finissima, una fama maravigliosa di capitano
invitto in chi tanta mole da se solo muoveva: il favorivano la maestria
delle insidie nel corrompere, e l'arte squisita di adescar gli uomini:
il favorivano la guerra di Turchìa già suscitata contro la Russia,
quella di Persia prossima a suscitarsi.

In pro della Russia inclinavano altre sorti: le regioni lontane, e solo
assaltabili di fronte, la vastità loro, i deserti immensi, i freddi
orrendi. A ciò una infinita divozione dei popoli verso l'imperatore
Alessandro, e la costanza de' suoi soldati, dei quali si prevedevano i
primi impeti buoni, gli ultimi migliori. Nè gran peso non recava la
potenza dell'Inghilterra, che a lei si sarebbe congiunta. Efficace ajuto
ancora, per la diversione e per l'esempio, recava alle cose di
tramontana la guerra di Spagna e di Portogallo. Le Spagnuole geste
risuonavano nel cuore dei Prussiani, ed accendendo ogni animo anche più
quieto, gli chiamavano alla liberazione della patria. Gli Spagnuoli,
dicevano, gente in questi ultimi tempi poco usa alle guerre, avere volto
il viso e l'armi contro il comune tiranno, i Prussiani famosi giacersene
inoperosi ed inonorati: cattolici assuefatti all'obbedienza servile
insorgere e combattere; protestanti più usi alla libertà, quietamente e
pazientemente obbedire: niuna in Ispagna maravigliosa fama essere, avere
in Prussia, i più, veduto, in tutti vivere Federigo II: la spada sua
lasciata a rispetto del vincitore, essere stata dal medesimo tradotta a
scherno, vile trionfo di capitano barbaro: essa chiamare i Prussiani a
vendetta: sorgere dalla tomba la voce di Luisa oltraggiata, rimproverare
ai Prussiani la loro ignavia. Nè la restante Germania quietava.
L'Austria stessa tanto temperata titubava, aspettando il tempo propizio.
Che anzi la Baviera, sempre aderente alla Francia per emolazione e paura
dell'Austria, seguitava la medesima inclinazione. Tanto era venuta a
fastidio la potenza Napoleonica, conculcatrice sì degli amici, come dei
nemici, e forse più ancora dei primi che dei secondi. Quanto all'Assia,
oltre la comune servitù, era sdegnata dal procedere puerile e superbo di
Girolamo Napoleonide. Così nissun voleva star ozioso a vedere l'esito
della guerra, e tutti aspettavano l'occasione di scoprirsi. Quest'erano
le speranze della Russia.

Quanto all'Italia, gli umori vi erano diversi, nè sì grande il suo
momento, per esser troppo lontana dai campi in cui si dovevano
combattere le battaglie, nè dava timore di un moto alla Spagnuola.
Inoltre nelle regioni superiori di lei la lunghezza del dominio
Napoleonico vi aveva, parte assuefatto gli animi, parte posto in
dimenticanza gli antichi sovrani. Nella inferiore poi le crudeltà
commesse vi avevano alienato gli spiriti, e se i popolani, specialmente
nelle province, non amavano Giovacchino, i nobili l'amavano, grande
sussidio al suo governo. Roma e Toscana nel mezzo fremevano ma
impotenti; i Piemontesi, uomini armigeri, si contentavano di quelle
guerriere sorti. Del regno d'Italia, la parte Milanese dipendeva
piuttosto con lieto animo, che mal volentieri dal capitano invitto, per
avere una capitale fioritissima, un nome ed un esercito proprio,
magistrati ed impiegati del paese, una immagine d'independenza. Del
resto la gloria militare di Napoleone quivi aveva cominciato, quivi
continuato, i pubblici segni magnifici; eravi sorta una certa nazionale
altezza. La parte Veneziana avversa; ma che sperare avesse, e per cui
combattere non sapeva. Solo sapeva che per se non poteva combattere:
niuna speranza avevano i Veneziani della loro nobil patria, o preda
sempre, o compenso di preda.

Risolutisi i due potenti imperatori al venirne al cimento dell'armi, ed
al contendere fra di loro dell'imperio del mondo, cominciarono, come si
usa, a gareggiar di parole, allegando l'uno contro l'altro piccoli
fatti, certamente molto abietti, e molto indegni di tanta mole. Essi
sapevano il motivo vero della guerra: tutto il mondo se lo sapeva,
quest'era l'impossibilità del vivere insieme sulla vasta terra.
Napoleone come più impaziente e più ambizioso, tirandolo il suo fato,
assaltava primo; infierì la guerra in regioni rimotissime; desolò prima
le sponde del Boristene, poi quelle del Volga: combatterono i Russi a
Smolensco, combatterono a Borodina sulla Moscova: prendeva Napoleone
Mosca, la prendeva ed insultava: folle che non vedeva che Dio già gli
dava di mano! Era fatale, che sui confini dell'Asia perisse la fortuna
Napoleonica; arse Mosca, immensa città; cagione e presagio di casi
funesti. Una rotta toccata da Murat avvertiva Napoleone che il nemico si
faceva vivo, e che quello non era più tempo da starsene nel fondo delle
Russie. Gli restava l'elezione della strada al ritirarsi. Pensò di
ridursi, passando per Caluga e Tula, a svernare nelle province
meridionali della Russia: vennesi al cimento terminativo di
Malo-Jaroslavetz, in cui mostrarono un grandissimo valore i soldati del
regno Italico. Quivi perirono le speranze di Napoleone, quivi si
cambiarono le sorti del mondo, quivi rifulse principalmente la virtù di
Kutusoff, generalissimo di Alessandro. Napoleone ributtato con
ferocissimo incontro, fu costretto a voltarsi di nuovo alla desolata
strada di Smolensco: il Russo gelo spense l'esercito: piange e piangerà
eternamente la Francia, piange e piangerà l'Italia il suo più bel fiore
perduto per l'ambizione d'un uomo, che con la sua superbia volle tentare
il cielo; il cielo mostrò la sua potenza; questa fu la pienezza dei
tempi profetizzata da papa Pio. Imparino moderazione e giustizia gli
ambiziosi, che si dilettano delle miserabili grida degli straziati
uomini.

Al suono delle rotte Napoleoniche, la Prussia, procedendo impetuosamente
contro l'insopportabile signore, nè aspettato nemmeno d'intendere la
volontà del re, insorgeva, e si vendicava cupidissimamente in libertà.
Napoleone ritornava nella sua sede di Parigi; ma pei recenti fatti molto
era rallentata la fama della sua gloria militare. Murat, sbalordito da
accidenti tanto straordinarj, abbandonato l'esercito se ne veniva a
Napoli; presene il governo Eugenio vicerè. Aveva Murat mala satisfazione
di Napoleone, ed era maravigliosamente commosso contro di lui, perchè
gli aveva attraversato i suoi disegni sopra la Sicilia, e perchè non gli
era ignoto, ch'egli aveva negoziato con Carolina di cose pregiudiziali
al suo dominio Napolitano. Dall'altra parte gli alleati, massimamente
gl'Inglesi, si erano deliberati a pretendere ed a metter fuori certe
voci che sapevano essere gradite agl'Italiani, sperando con esse di
commuovere facilmente tutta la penisola; quest'erano che oggimai era
venuto il tempo di dare all'Italia l'essere independente. Pingevano con
vivi colori la tirannide di Napoleone, e con immagini lusinghevoli si
sforzavano di voltare gli animi a questo pensiero della liberazione.
Bentink o tentativamente o sinceramente che sel facesse, si spiegava di
questo disegno con parole incitatissime, e dimostrava la Gran Brettagna
parata a secondarlo. Conosceva Giovacchino tutti questi umori. Per
questo, tornando da Mosca, passò per Milano, dove più che in altri paesi
d'Italia questi desiderj si erano accesi, a fine di scoprire che cosa
portassero i tempi. Ma siccome leggieri uomo ch'egli era, quantunque
portasse ancora impressi in volto i segni del passato terrore, si mise a
far gran promesse, ch'egli farebbe e direbbe, e che era tempo da far
l'Italia independente, e che egli era uomo da farla, e che la farebbe.
Con questi vanti, che pure lasciavano semi, se ne tornava nel regno.
Bentink, conosciuto l'uomo, e volendo concordarlo con gli alleati per
turbare fin dalla bassa Italia le cose a Napoleone, il confortava ad
assumere le insegne di campione dell'Italica libertà. Lodava il suo
valore, le armi, i soldati: l'empieva di speranze; affermava, che, dove
egli consentisse a congiungergli con quei de' confederati, si
toglierebbe ogni dubbio sull'esito finale dell'impresa, che il turbatore
e tiranno del mondo sarebbe vinto, che i confederati il saluterebbero
re, che sempre il suo trono di Napoli vacillerebbe, se non fosse
conosciuto, e riconosciuto dall'Inghilterra e dalla Russia, che a voler
esser tenuto e conservato re novello in mezzo a tanti re antichi, e nel
cospetto stesso del naturale e legittimo sovrano, a cui era sempre
parata l'azione sopra il regno di Napoli, abbisognava il consenso libero
di tutti, e che perciò era necessitato a fondarsi con nuove
congiunzioni. Che momento recare, che ajuto porgere a lui ancora
potevano Napoleone vinto, ed i suoi gelati soldati? Badasse bene, che
colla conservazione propria ne andava la salute e la libertà d'Italia:
sarebbe il suo nome immortale, cambierebbe l'odioso nome di re intruso
in quello di re legittimo e liberatore. Impugnasse adunque quelle
Napolitane armi, si separasse dall'amicizia di Napoleone, assumesse
quella degli alleati, bandisse, ed asseverasse l'independenza Italiana.
Offerirgli l'Inghilterra la volontà pronta ad ajutarlo, e siccome comune
sarebbe l'impresa, che avrebbe facilmente felice successo, così comuni
ancora sarebbero l'onore e il frutto. A questo modo Bentink tentava
Murat, affinchè venisse a questa congiunzione; il negozio andò
tant'oltre, che l'Inglese già si era condotto non a Messina, per non dar
sospetto a Ferdinando, ma a Catania a fine di avere maggior comodità di
certificarsi dell'animo del novello re, di attendere alla pratica, e di
concludere l'accordo. Nè era senza speranza di venirne a conclusione,
quando Giovacchino ricevè lettere da Napoleone; portavano, magnificate
le cose, che i soldati scritti in Francia con volontà obbedientissima
marciavano, che gli eserciti s'ingrossavano, che i popoli gli
deliberavano con pronto animo grosse sovvenzioni di denari, che la
Francia sarebbe presto uscita a campo più formidabile che mai; che
insomma il nome e la fortuna dell'imperatore risorgevano. Queste
novelle, aggiunta anche la natura facilmente mutabile di Murat, furono
cagione ch'egli tagliò inopinatamente ogni pratica, e si deliberò a
perseverare nell'aderirsi a Napoleone. Bentink l'ebbe per male, e rimaso
senza speranza di averlo congiunto seco, s'indispettì talmente che non
ostante che per mitigare con qualche onesto modo l'animo suo,
Giovacchino gli mandasse poi in presente una ricca e forbita sciabola,
l'Inglese non volle più trattar con lui, nè udire le nuove proposte
ch'ei gli venne facendo, quando sopraggiunsero i tempi grossi per
Napoleone in Germania. Il che fu cagione che Murat deposto ogni pensiero
dell'independenza d'Italia, si voltò finalmente tutto verso l'Austria,
sperando in tal modo di fondare la propria grandezza sulla dipendenza
altrui.

Napoleone, che riavutosi dagli accidenti di Russia era rientrato in sè
medesimo, ed attendeva e provvedeva gagliardamente ad ogni cosa,
essendogli diventato buon maestro il timore, e considerato che il
rendersi benevolo il papa, e l'accordarsi con lui, avrebbe fatto
fondamento grande ai suoi pensieri, e molto giovato a tener fermi nella
sua dominazione in sì grave pericolo gli animi degl'Italiani, si
ritirava dalle domande di Savona, ed inclinando alla concordia concluse
un concordato il dì venticinque gennajo in Fontainebleau. I principali
capitoli furono, che sua santità esercerebbe l'ufficio del pontificato
in Francia e nel regno d'Italia, in quel modo e conformità che i suoi
antecessori l'avevano esercite; che manderebbe ai potentati i suoi
ministri, e da loro ne riceverebbe, con le solite immunità e privilegi
del corpo diplomatico; che gli si renderebbero i beni non venduti, e che
i venduti gli si compenserebbero con una rendita di due milioni di
franchi all'anno; il papa, fra sei mesi dalla notificata nomina
dell'imperatore instituirebbe canonicamente, in conformità del
concordato, ed in virtù del presente indulto, i nominati agli
arcivescovadi ed ai vescovati dell'impero di Francia, e del regno
d'Italia; che il metropolitano prenderebbe le informazioni preliminari;
se fra sei mesi il papa non avesse instituito, il metropolitano
instituirebbe egli, o se di metropolitano si trattasse, l'anziano dei
vescovi l'instituirebbe; che le sedi mai più di un anno non potessero
vacare; che il papa nominerebbe, tanto in Francia quanto in Italia, a
sei vescovati, che di comune consenso si sceglierebbero; che i sei
vescovati suburbani si restituirebbero, e che il papa ad essi
nominerebbe; che i beni non venduti a loro si restituirebbero, ed i
venduti si ricupererebbero; che i vescovi assenti dallo stato Romano si
rintegrerebbero nelle loro sedi; che di mutuo consentimento si
ordinerebbero i vescovati della Toscana e del Genovesato; si
conserverebbero, dove il papa sederebbe, la propaganda, la
penitenzierìa, gli archivj; che sua maestà rimetterebbe nella sua grazia
quei cardinali, vescovi, preti, e laici, che ne erano caduti; che
s'intenderebbe, che il santo padre consentiva ai sopra narrati capitoli
a cagione dello stato attuale della chiesa, e della speranza datagli
dall'imperatore, che soccorrerebbe con la sua potente protezione ai
numerosi bisogni che stringevano la religione nei tempi presenti. La
sede futura del papa lasciossi in pendente; chi parlava di Avignone, chi
di Roma. Se in questo trattato, oltre le concessioni ottenute, il papa
ricuperò, come pare verisimile, per un capitolo segreto, la sua Roma, ei
sarà manifesto che il carcerato vinse il carceratore. Affrettossi
Napoleone di pubblicare l'accordo di Fontainebleau, e ne levò anche,
sapendo di quale importanza fosse, un gran grido. Querelossi il
pontefice della affrettata pubblicazione gravemente perchè avrebbe
voluto, che allora solamente fosse pubblicato quando avesse avuto in
ogni parte la sua esecuzione.

La benignità della stagione permetteva oggimai il guerreggiare:
Napoleone, fatta con gran prestezza una nuova congregazione di soldati,
e promettendosi più che mai del futuro, ricompariva forte ed audace sui
campi Germanici. Combattè i Russi, combattè i Prussiani in duri
incontri; combattè anche con estremo valore gli Austriaci voltatisi
contro di lui per gli sdegni antichi, e per le disgrazie nuove. Ma la
rotta di Lipsia pose fine alla sua potenza: la Germania intera, mutato
procedere con la fortuna, corse con impeto infinito a libertà: i popoli
Alemanni facevano a gara in quest'impresa, che santa chiamavano, e
coll'armi in mano delle lunghe ingiurie si risentivano. Le Francesi
terre sole furono ricovero al vinto Napoleone. Così il lungo fastidio
dell'imperio Napoleonico, e lo sdegno universale avevano tolto di mezzo
le difficoltà, che altre volte avevano disturbato il desiderio comune.
Una gran tempesta cambiatrice di destini sovrastava all'Italia. Aveva
Napoleone, che non si era punto ingannato dell'avvenire, mandato il
principe Eugenio in Italia, perchè ordinasse le cose alla imminente
guerra. Era il principe veduto con qualche amore dai popoli del regno,
non che si mostrasse acceso nel desiderio dell'independenza, che anzi in
questo era assai docile nel servire alla volontà del padre, ma perchè
era di natura facile e temperata. Pure in quest'ultimo caso tanto si
mostrò acerbo nell'eseguire il mandato di Napoleone, sì nel far correre
i soldati delle nuove leve, sì nel riscuotere i denari dai popoli, che
l'amore convertissi in odio. Prima però di narrare i successi dell'armi
in Italia, è mestiero descrivere i maneggi politici, che specialmente
rispetto a lei si trattavano in questi tempi. Primieramente quando
ancora Napoleone era a Dresda, gli alleati, ai quali l'Austria già si
era accostata, gli proponevano che restituisse le provincie Illiriche,
che ristorasse a libertà le città anseatiche, che consentisse a
nominare, d'accordo con gli alleati, sovrani independenti pei regni
d'Italia e d'Olanda. Domandavano altresì, che evacuasse la Spagna, e
rimandasse il papa a Roma: susseguentemente credendo, che per le rotte
avute si fosse renduto più facile alla concordia, il richiedevano, senza
però, che questa fosse condizione indispensabile, che rinunciasse alla
confederazione Renana, ed alla mediazione della Svizzera. Quello spirito
altiero, che sempre si empiva di pensieri vani, e presumeva della sua
fortuna sopra il consueto degli uomini ragionevoli, non volle piegar
l'anima; risolutamente ricusò le proposte. Quanto all'Italia, corse fama
che i confederati, non avendo potuto persuadere il desiderio loro a
Napoleone, si voltassero a tentar l'animo d'Eugenio vicerè, offerendogli
di riconoscerlo re del regno d'Italia, se volesse congiungersi con loro
ad impresa comune per la liberazione d'Europa: cosa, che il principe non
avrebbe potuto fare senza voltar le armi contro la Francia, e contro il
padre. Vogliono che Eugenio rispondesse, non esser padrone di se
medesimo, non avere la potestà sovrana; solo essere delegato e
mandatario, non potere senza taccia d'infamia, non che accettare, udire
le proposte; non avrebbero gli alleati nè stima nè fede in lui, se a
quello che da lui richiedevano acconsentisse. Se fu vera, bella risposta
fu certamente questa, e se Eugenio avesse perseverato sino alla fine
nella medesima illibatezza di posporre l'utile all'onesto, non
potrebbero i posteri dargli biasimo d'importanza.

Ma peggiorando vieppiù per la rotta di Lipsia le condizioni
dell'imperator Napoleone in Germania, Eugenio cominciò a pensare ai casi
suoi, e procedendo con dubitazione, frutto o della lunga servitù, o di
disegni più cupi, o di affezione verso Francia, metteva fuori parole che
dinotavano in lui la volontà di abbracciar l'independenza: essere
cambiati i tempi, spargevano i suoi più fidi; dover essere l'Italia
independente, ma unita a Francia, non unita ad Austria, non ad
Inghilterra; ciò volere, ciò desiderare Napoleone; salvassersi le sorti
di Francia, fossero quelle d'Italia quali e quante dovevano essere.
Napoleone tocco da sventura, non essere più Napoleone trionfatore; lui
la prosperità avere fatto rigido signore dei popoli, lui l'avversità
fare spontaneo comportatore di libertà; pigliassero gl'Italiani quella
occasione, che la fortuna offeriva loro di vendicarsi a libertà sotto il
potente e temperato dominio della Francia.

Spaziavano poscia i fomentatori di questi pensieri sull'odioso, come
dicevano, dominio dell'Austria; venirne l'Austria con brame di vendetta,
venirne con fini d'assoluta potenza; il lungo dominio avere immedesimato
col nuovo governo le persone e gl'interessi; non potere questa comunanza
rompersi, il che l'Austria farebbe, senza infiniti dolori e ruine; altra
essere la natura dei Francesi, altra quella dei Tedeschi; quella più
uniforme agl'Italiani, questa più disforme; del resto, potere
gl'Italiani stare, se l'independenza fondassero, senza i Francesi; il
dominio Austriaco nel regno non potersi fondare senza la presenza dei
soldati: eleggessero gl'Italiani tra lo essere stato proprio, o
provincia altrui: quei magnifici palazzi novellamente sorti, quei
valorosi soldati sì numerosamente formati, quei magistrati sì
indissolubilmente radicati, quelle abitudini sì generalmente allignate,
quel nome d'Italia sì lungamente in fronte portato, assai indicare che
proprietà di se, non d'altrui, che insegne libere, non serve, che
denominazione propria, non forestiera, doveva il regno, doveva l'Italia
avere, nè comandare agl'Italiani altri che gl'Italiani: essere Eugenio,
non Italiano di nascita, ma Italiano di elezione e d'affetto: offerirsi
parato a fare quanto in lui fosse per dimostrare ai popoli, quanto la
libertà, e l'independenza loro amasse, purchè in termini non
pregiudiziali a Francia si consistesse: essere in lui sperienza di
stato, sperienza d'armi, età giovenile, ma matura, corpo forte ed
esercitato; le moleste cose averle volute Napoleone rigido, le dolci
lui; e chente fosse il principe, averlo dimostrato con quella sua
risoluzione stessa di conservarsi fedele nell'avversa fortuna a colui
dal quale era stato innalzato nella prospera.

Queste insinuazioni dei fidati di Eugenio producevano pochi effetti,
perchè i contrari al nuovo stato non si lasciavano svolgere,
massimamente nell'imminenza dei pericoli presenti, i favorevoli poco
confidavano nelle promesse Francesi. Costoro vedevano occupare tuttavia
il primo luogo nella grazia del principe, intromettersi nei consigli più
segreti, e l'autorità solo arrogarsi coloro, che nella servitù verso
Napoleone più erano stati sprofondati, che al nome d'independenza sempre
si erano spaventati, che delle più dure deliberazioni, e dei più rigidi
comandamenti dell'imperatore e re erano stati i principali autori, ed i
più attivi esecutori. Sapevano ch'essi erano sempre stati consigliatori
di amare risoluzioni contro coloro, che per generosità d'animo, e per
amore di franchigia, della lor patria altamente sentendo, erano divenuti
sospetti: l'aver pruovato il loro giogo acerbo nuoceva alla causa che
pretendevano. Due uomini principalmente erano venuti in odio dei popoli
nel regno Italico, il conte Prina, ministro delle finanze, carissimo a
Napoleone per la sua natura sottile ed inesorabile nel riscuoter le
tasse, ed il conte Mejean, segretario del principe, uomo di tratto
cortese e soave, ma che, come di scuola Napoleonica, credeva, che a
voler che gli uomini siano bene governati, convenga metter loro un duro
freno in bocca. Questi discorsi davano grandissimo nocumento alle cose
del vicerè: alcuni però speravano, che, rimossa quella mano di Napoleone
dalle viscere del regno, si avessero anche a rimuovere quei due
consiglieri acerbi, e ad avere più in considerazione i consigli di
quelli, che più amavano la moderazione e la libertà d'Italia. Tanto poi
si era fatto per l'attività del vicerè, che si era creato un esercito
giusto, composto parte di Francesi raccolti dai presidii e dagli scritti
dell'Italia Francese, parte di soldati del regno, alcuni veterani, molti
novelli. Il vedere queste genti dava qualche sicurtà ai popoli, se non
di vincere, almeno di negoziare, e non si disperava dello stato franco.
La tempesta intanto di verso il mare, e di verso il Tirolo e l'Illirio
si avvicinava.

Eugenio confermandosi più l'un dì che l'altro ne' suoi disegni e nelle
sue titubazioni e vacando sempre ai negozi cogli antichi consiglieri,
aveva dato ordine al suo ministro di polizia, che scrivesse una
circolare a tutti i prefetti, esortandogli a far sorgere destramente nei
popoli il pensiero, che fosse arrivato il tempo di fondar
l'independenza: insinuassero altresì, ch'egli si sarebbe fatto capo
dell'impresa, e che Napoleone imperatore l'avrebbe veduta volentieri. Ma
poscia, avendo paura di se stesso, e temendo che il moto, che si voleva
suscitare, tornasse in pregiudizio della Francia, diede ordine che le
lettere s'intrattenessero. Così tra il volere e il disvolere non
riusciva a nulla, non accorgendosi che chi si mette a simili imprese,
non solamente non può regolarle a volontà sua, ma non deve nemmeno
curarsi che a volontà sua si possono regolare. A volere fondar la
franchezza d'Italia, che era un fatto grandissimo, e' bisognava volerla
senza mescolanza di altro affetto, e il voler serbare fedeltà a
Napoleone ed a Francia, quando il fine della liberazione d'Italia
esigesse altri pensieri, se era cosa onorevole, era certamente puerile.
A chi si getta a questi partiti straordinarj è d'uopo il non pensare
alle indiavolate cose che ne possono seguire. Odo che si dice, che a
queste cose gli uomini onesti non possono consentire. A questo sto
cheto; solo dico, che, se così è, gli uomini onesti non si debbono
gettare a tali partiti, e nemmeno far vista di volervisi gettare. Questo
poi so di certo, che Eugenio, o fosse onestà, o fosse mancanza di cuore,
perdè l'impresa.

Giovacchino anch'egli si era travagliato di questa materia, quando ebbe
veduto le cose di Napoleone andare in fascio in Germania. Ma varj ed
incerti erano i suoi pensieri. Sul principio, quantunque non amasse il
vicerè, ed emolasse la sua grandezza, gli aveva mandato proponendo:
dividessersi fra di lor due l'Italia, facesserla independente; ch'essi
soli, se operassero d'accordo, la potevano preservare dai Tedeschi; che
non si sarebbe recato alcun pregiudizio alla Francia, la quale avrebbe
avuto l'Italia per alleata. Aggiungeva, che in caso di deliberazione
contraria da parte del vicerè, ei sarebbe obbligato di fare quelle
risoluzioni che avrebbe stimate più convenienti alla salute sua.

Prestò il vicerè poco orecchio alle proposte del re di Napoli, o che non
si fidasse di lui per le antiche emolazioni, o che volesse far da se, o
che temesse di pregiudicar Napoleone e la Francia. Caduto Giovacchino
dalle speranze di Eugenio, si era deliberato, già insin da quando aveva
condotto l'esercito nella Marca d'Ancona, ad appiccare nel regno
d'Italia qualche pratica segreta: anzi giungendo i suoi vanti a quei dei
Napolitani, pareva che volesse far gran cose. Il generale Pino, antico
amico di Lahoz, e soldato di pruovato valore, era venuto in qualche
disfavore in corte, sì perchè si sapeva ch'egli era amatore dei viver
patrio, sì perchè erano tra lui e Fontanelli, ministro della guerra,
emolazioni di fama e di potenza. Vivevasene, dopo le prime battaglie
dell'Illirio e del Friuli, che nel seguente libro racconteremo, in
condizione privata, alle faccende pubbliche non badando, se non per
saperle. Parve stromento opportuno al re di Napoli; il fece tentare;
prometteva di condurre i suoi Napolitani all'impresa. Molti entrarono
nell'intelligenza. I capi, disperando del vicerè, come troppo Francese,
si gettavano alle parti di Giovacchino, il quale come più audace e meno
cauto, era capace di fare qualche strepitosa alzata d'insegne. I
congiurati tanto operarono, che Pino fu mandato al governo militare di
Bologna, luogo atto a poter consuonare coi Napolitani, che, già occupate
le Marche, si trovavano vicini.

Mandò Giovacchino un Pignatelli ad abboccarsi con Pino a Bologna. Il
richiedeva, che col nome, ed autorità sua, che era grande fra i soldati
italiani, ne tirasse a se quanti potesse, ed improvvisamente si
scoprisse, quando il re si mettesse a cammino per assaltare l'Italia
superiore. Queste trame non si poterono ordire tanto copertamente, che
Fontanelli, che già sospettava del governator di Bologna, non ne avesse
qualche sentore; perciò diede lo scambio a Pino. Giovacchino si trovò
ingannato della speranza concetta di fare un moto nel regno d'Italia
malgrado del principe vicerè. Andossene Pino a Verona, dove il principe,
quando fu risospinto dai confini per le armi Austriache, aveva ridotto i
suoi alloggiamenti. Veduto con poca lieta fronte dal principe, anzi
interrogato, come sospetto, dal ministro di polizia Luini, se ne venne
molto di mala voglia, e dimostrando dispiacenza grandissima, a Milano.
Quivi visse privatamente, ed anche oscuramente sino alla commozione, che
terminò con funesto fine un regno più lietamente incominciato.
Giovacchino si gettava alla parte dell'Austria.

Le armi potenti seguitavano le macchinazioni impotenti. Aveva
l'imperatore Francesco, che con grandissima prontezza si era allestito
alla guerra, mandato un forte esercito, in cui si noveravano meglio di
sessantamila buoni soldati, ai confini, per modo che cingeva tutto il
regno Italico da Carlobado di Croazia insino al Tirolo. Obbedivano tutte
queste genti al generale Hiller, uomo di grande sperienza per essere già
molt'oltre con gli anni, e vecchio ancora di milizia. Militavano con lui
non pochi generali di nome, tra i quali principalmente si notavano
Bellegarde e Frimont, capitani esperti nell'Italiche guerre. Mandava
fuori Hiller un suo militare manifesto, con cui, descritte primieramente
le forze e le vittorie della lega, esortava gl'Italiani a levarsi contro
il tiranno a generale liberazione d'Europa conquassata sì lungamente da
tanti movimenti, ed a cooperazione dei poderosi eserciti che accorrevano
in ajuto loro da ogni banda.

Quest'era il nembo che minacciava il regno Italico dai paesi di
Settentrione, e d'Oriente. Vers'ostro i confini non gli erano sicuri;
perchè gli alleati, facendo grande fondamento sulle sollevazioni dei
popoli, si erano accordati, che, mentre gli Austriaci l'assalterebbero
dalla parte loro, gl'Inglesi, o coi soldati proprj, o con soldati di
ogni paese, massimamente Italiani raccolti in Malta ed in Sicilia, o
finalmente con qualche mano di Austriaci, infesterebbero i due littorali
dell'Adriatico, tanto dalla parte della Dalmazia e dell'Istria, quanto
da quella d'Italia. Sapevano, che massimamente nella Dalmazia e
nell'Illirio s'annidavano male disposizioni contro la dominazione
Napoleonica, nella prima per le crudeltà usate da qualche generale, e
per la cessazione del commercio, nel secondo per l'antica affezione alla
casa d'Austria, e per la superbia di Junot governatore, che già
pazzamente vi procedeva prima che pazzo diventasse. Intendevano anche a
percuotere nei lidi Italiani, entrando per le bocche del Po, per far
diversione in favor dello sforzo principale, che calava dalle Alpi
Rezie, Giulie, e Noriche. Avevano anche speranza, sebbene il vedessero
incerto e titubante, che Giovacchino di Napoli si sarebbe congiunto a
loro, sì perchè allora sempre più precipitavano le cose di Napoleone, sì
perchè si persuadevano, che avrebbe creduto un gran fatto, che i governi
antichi con lui trattassero, lui riconoscessero, ed in luogo di alleato
accettassero. Le forze del re di Napoli erano di grande momento
all'Austria, perchè andavano a ferire il regno Italico a fianco ed alle
spalle, e dove aveva minor difesa; perchè dei futuri casi, nissuno, e
nemmeno Napoleone previdentissimo avrebbe potuto immaginare questo, che
Giovacchino di Napoli fosse un giorno per muovere le armi contro il
regno Italico di Napoleone di Francia.

Nè dovevano restare senza disturbo le sponde del Mediterraneo, perchè
gl'Inglesi, essendo oramai certi delle intenzioni di Giovacchino, si
proponevano di far impeto con quei loro soldati moltiformi, e racimolati
da ogni paese, nella Toscana, provincia che credevano, non senza
ragione, avversa al nuovo stato e desiderosa di tornare all'antico.
Venivano con loro Bentink e Wilson generale colle loro pubblicazioni di
libertà e d'indipendenza, dico Bentink, che intendeva la libertà, ma
pendeva al tirato, essendo di natura piuttosto signoreggevole, e Wilson
che amava la libertà, ma pendeva al largo, essendo di natura piuttosto
tribunizia. Avevano essi trovato non so che bandiere con suvvi scritto
il motto _Independenza d'Italia_, e dipinte due mani che si toccavano in
segno d'amicizia e di colleganza. A questo modo suonava d'ogn'intorno un
forte nembo al regno Italico, ed a tutta Italia. Le antiche ricordanze
dell'Austria, le nuove parole di libertà, l'allettatrice mostra della
padronanza propria, gli epifonemi di pace, di concordia, di felicità, le
promissioni di tasse temperatissime, e di abolizione delle leve
soldatesche si mettevano in opera per far muovere l'Italia; ma
gl'Italiani, che già ne avevano vedute tante, non credevano nè agli uni
nè agli altri.

Il vicerè forbiva ancor egli le sue armi. Aveva circa sessanta mila
soldati, nei quali erano i veterani Italiani venuti di Spagna, i soldati
di nuova leva, e la guardia reale Italiana, bella e valorosa gente;
sommavano gl'Italiani circa ad un terzo. I Francesi anch'essi, o
raccolti prestamente dai presidj, o chiamati dalla Spagna, con celeri
passi accorrevano al sovrastante pericolo. Gli partiva in tre principali
schiere; la prima, che obbediva a Grenier, aveva le sue stanze sulle
rive del Tagliamento e dell'Isonzo, terre tante volte già combattute, e
tante volte ancora gloriosamente conquistate dai Francesi; la seconda
retta da Verdier alloggiava a Vicenza, Castelfranco, Bassano e Feltre.
La terza, quest'era l'Italiana, posava a Verona ed a Padova: la
governava Pino, non ancora stato al governo di Bologna. Una parte di lei
sotto l'obbedienza dei generali Lecchi e Bellotti era mandata a
custodire l'Illirio: la cavallerìa stanziava a Treviso. Per vigilare
intanto sugli accidenti del Tirolo, parte che dava grandissima gelosia,
una schiera di soccorso alloggiava in Montechiaro: quando poi divenne il
pericolo più imminente, fu mandata, sotto il governo di Giflenga, a
combattere in Tirolo contro un corpo d'Austriaci condotto dal generale
Fenner. Secondavano tutto questo sforzo dalla Dalmazia, ma piuttosto per
difendere che per offendere, pel picciol numero dei soldati, i presidj,
la maggior parte Italiani, di Zara, Ragusi e Cattaro. Ora, diventando ad
ogni momento la guerra più imminente, pensò il vicerè a spingersi più
innanzi, andando a porre il campo principale a Adelsberga, terra poco
distante dalla sponda destra della Sava sulla strada per a Carlobado di
Croazia, e per a Lubiana di Carniola. Al tempo stesso, allargandosi alla
sinistra, mandava una forte squadra a custodire i passi di Villaco e di
Tarvisio, avendo avuto avviso che Hiller, fatto un assembramento molto
grosso a Clagenfurt, minacciava di farsi avanti, sì per isforzare quei
forti passi, e sì per condursi, montando per le rive della Drava, alle
regioni superiori dell'affezionato Tirolo.

Quest'era l'ultima fine della tragedia che si rappresentava da venti
anni addietro, toltone pochi intervalli pieni ancor essi, se non di
sangue, almeno di rancori, e di minacce, e d'ambizione, nella dolorosa
Italia. Straziata dagli uni, straziata dagli altri, tutti pretendevano
promesse di felicità per lei; e peggio, che l'una parte e l'altra si
lamentavano ch'ella non si muovesse a favor loro, come se fosse obbligo
di lei di rendere amore per dolore. Ora infine si aveva a definire a chi
dell'Austria o della Francia dovesse rimanere l'imperio d'Italia; se
dovessero prevalere le nuove o le antiche sorti; se il dominio acerbo di
Napoleone si dovesse mitigare o no; se l'Austria tornasse a Milano
mansueta, come n'era partita, o se sdegnosa per le ingiurie; se Francia
od Austria dovessero far dimenticare con le dolcezze di pace le
insolenze e le rapine di guerra; se venti anni di novità dovessero o
produrre secoli simili a loro, od immergersi, senz'altri segni che
quelli delle storie, nel corso rintegrato dei secoli consueti; se a
favellar Francese o Tedesco dovessero apparar gl'Italiani; se finalmente
le parole soavi, che si dicevano agl'Italiani, fossero per loro o pei
padroni; che l'allettare i popoli colle lusinghe per soggettargli fu
sempre, ma più nei nostri tempi che in altri, astuzia di coloro che
intendono ad appropriarsi l'altrui.



LIBRO VIGESIMOSETTIMO

SOMMARIO

      Gli Austriaci condotti da Hiller cingono con forze potenti
      tutto il regno Italico. I Dalmati ed i Croati insorgono contro
      i Francesi. Eugenio si tira indietro. Battaglia di Bassano.
      Eugenio sull'Adige. Mala soddisfazione dei generali e soldati
      Italiani verso di lui. Nugent coi Tedeschi romoreggia alle
      bocche del Po. Giovacchino si scopre contro Napoleone e fa
      guerra al regno Italico. Battaglia del Mincio tra Eugenio e
      Bellegarde. Bentink sbarca a Livorno, parla d'independenza
      agl'Italiani, prende Genova, e promette ai Genovesi la
      conservazione dello stato. Sopraggiungono novelle funestissime
      per Napoleone; avere i collegati occupato Parigi, lui essere
      ridotto colle reliquie de' suoi battaglioni in Fontainebleau,
      avere rinunziato, avere accettato per ultimo ricovero l'Elba
      isola. Eugenio pattuisce con Bellegarde, e si ritira in
      Baviera. Stato degli spiriti in Milano. Tutti vogliono
      l'independenza, ma chi con Eugenio re, chi con un principe
      Austriaco. Discussioni nel senato in questo proposito.
      Sommossa popolare; il senato è disciolto; si convocano i
      collegi, che creano una reggenza, e mandano deputati a Parigi
      all'imperator Francesco per domandar l'independenza con un
      principe Austriaco. Esito della loro missione. Genova data al
      re di Sardegna. Conclusione dell'opera.


Gli Austriaci cignendo con largo circuito tutta la fronte dell'esercito
Italico, avevano un grandissimo vantaggio, il quale ed all'occorrenza
presente, ed alla natura loro sempre circospetta molto bene si
conveniva. Sicura era la loro ala destra pei fatti succeduti in
Germania, ed ultimamente per l'adesione della Baviera alla lega dei
principi uniti contro Napoleone. In questo ancora molto momento recavano
i Tirolesi pronti ad insorgere contro il nuovo dominio, per modo che
l'Austria stessa per rispetto della Baviera, nuovo alleato, era
costretta a tenergli in freno, acciocchè non facessero qualche
incomposta variazione. Ma la inclinazione loro rendeva sicuro il loro
paese alle forze Austriache, e dava sospetto al vicerè, perchè potevano
offenderlo a mano manca ed alle spalle. Nè meno avvantaggiata condizione
avevano gli Austriaci sulla loro sinistra: posciachè sapevano che le
popolazioni Dalmate e Croate, essendo infense ai Francesi ed
agl'Italiani loro confederati, erano pronte a sorgere contro i presenti
dominatori; popolazioni armigere, e però di non poca importanza,
massimamente in una guerra, alla quale i popoli, non che i soldati, si
chiamavano. Hiller s'avvisava di condurre per modo la guerra, che
facendosi innanzi con le sue ali estreme, mentre il grosso seguitava nel
mezzo a seconda, ma più tardamente e più prudentemente, desse
continuamente timore al vicerè di essere circuito ed assaltato alle
spalle. Questa forma di guerreggiare doveva necessariamente far
prevalere la fortuna degli Austriaci, perchè procedendo cautamente nel
mezzo, non davano agli avversarj occasione di venire ad una battaglia
campale, dalla quale solamente potevano sperare, se la vincessero, di
redimersi da quel pericoloso passo, al quale erano ridotti. Da questo
anche ne risultava, che si richiedeva, a voler riuscire a buon fine, nel
capitano Francese maggior prudenza che audacia, piuttosto arte di andar
costeggiando l'inimico per impedirgli la campagna, e difficoltargli, in
quanto si potesse fare senza tentar la fortuna, i passi, che coraggio
d'affrontarlo; insomma piuttosto volontà di conservar l'esercito
intatto, in qualunque luogo ei si fosse, che desiderio d'avventurarlo,
perchè in lui, non nei paesi occupati, consisteva la salute, o se non la
salute, almeno le condizioni più onorevoli del regno. Ma il vicerè,
siccome giovane, figliuolo di Napoleone, e tocco ancor egli dal vizio
dei tempi, cioè di far chiaro il suo nome con fatti sanguinosi,
disprezzando il consiglio più salutifero, amò meglio fare sperienza
della fortuna, consumando inutilmente i soldati in piccole fazioni, che
poco o nulla importavano alla somma della guerra, che fuggendo
l'occasione di combattere, ritirargli intieri a' luoghi più sicuri, ed
interi ancora conservargli insino a che la fortuna avesse definito, che
cosa volesse farsi di Napoleone in Germania ed in Francia. Quel sangue
Francese ed Italiano, sparso nell'ultima Croazia e nell'estrema
Carniola, accusano Eugenio o d'ambizione, o d'imperizia, o d'imprudenza.

Correvano i Dalmati, inclinava verso il suo fine agosto, contro i
presidj, i Croati contro gl'Italiani. Zara, Ragusi e Cattaro tenuti da
deboli guernigioni, romoreggiando nimichevolmente i popoli d'intorno, e
tenendo infestata la campagna, cedettero facilmente. Una presa di
Croati, avvalorata da qualche battaglione d'Austriaci, urtando contro
Carlobado, facilmente se ne impadroniva. Gli Austriaci ed i Croati più
oltre procedendo, s'insignorirono di Fiume, ritiratosene il generale
Janin, impotente al resistere. I Croati, che erano stati arruolati sotto
le insegne Francesi, dai loro signori segregandosi, ritornavano alle
antiche insegne d'Austria. Mentre a questo modo felicemente si
combatteva per gli Austriaci verso l'Adriatico, mandavano pel corso
della superiore Drava grossi squadroni verso il Tirolo sotto la condotta
di Fenner. Giunti a Brissio scendevano per le rive dell'Adige, con
intento di andar a battere nelle Veronesi e nelle Bresciane regioni. Al
tempo stesso si veniva alle mani sul mezzo: fu preso e ripreso Crinburgo
con molto sangue da ambe le parti. In questi fatti mostrò molt'arte e
molto valore Pino, molto valore e poca arte Bellotti: combattè
felicemente il primo a Lubiana, infelicemente il secondo a Stein. Sorse
un gravissimo contrasto a Villaco, donde gli Alemanni volevano aprirsi
l'adito al passo di Tarvisio per scendere a seconda della Fella nel
cuore del Friuli. Erano i Francesi accorsi al pericolo, e dopo un feroce
combattere, in cui la città fu presa e ripresa parecchie volte, e
finalmente arsa per opera dei Tedeschi, restarono vincitori: corse il
vicerè con molta virtù in soccorso della città consumata. Gli Austriaci,
seguitando il consiglio loro, si allargavano sulle corna. Trieste, preso
e ripreso più volte, venne in potestà loro; già tutta l'Istria loro
obbediva. Dalla parte superiore precipitandosi dalle Alpi Tirolesi
minacciavano di far impeto contro Belluno, e più alle spalle le armi
loro suonavano nelle regioni vicine a Trento. Conoscendo ed usando il
vantaggio, avevano passato la Sava a Crinburgo ed a Ramansdorf, per dove
facevano sembianza di condursi, per Tolmino, nelle regioni superiori del
Friuli. Anche contro Villaco preparavano un grande assalto.

Non era più in potestà del vicerè il resistere, ed appariva che se più
oltre si fosse ostinato starsene sulle sponde della Sava e della Drava,
correva pericolo che gli fosse vietato il ritorno. Avevano gli avversarj
maggior numero di soldati, ed i popoli amici: erano al vicerè minori
forze, ed i popoli avversi. Fermossi prima sull'Isonzo qualche giorno,
poscia sulla Piave, combattendo sempre valorosamente, sempre
inutilmente. A questo modo l'Illirio, staccato per la forza dell'armi
Napoleoniche dal suo antico ceppo d'Austria, se ne tornava per la forza
dell'armi di Francesco imperatore alla consueta dominazione. I costumi a
niun rispetto si convenivano coi Francesi, poco con gl'Italiani. Oltre a
ciò vi aveva Napoleone conservato i dritti feudatarj, dandogli in preda
a' suoi soldati, o magistrati più fidi: piacquero a quegli antichi
repubblicani, e gli riscuotevano con duro imperio, senza lasciar neppure
scattar un soldo.

Le stanze della Piave non si potevano conservare. Già gli Austriaci
scesi a Bassano sotto la guida del generale Eckard vi avevano fatto una
testa grossa, ed insistendo alle spalle davano timore di estrema rovina
al vicerè, se presto non si ritirasse. Quivi comparve evidente
l'imprevidenza del principe del non essersi ritirato più maturamente;
perchè per avere la ritirata sicura, fu costretto di combattere a
Bassano una battaglia molto grave. Durò due giorni, il trentuno ottobre
ed il primo novembre. Rifulse in questo fatto egregiamente il valore di
Grenier. Vinse la fortuna Francese ed Italiana. Entrarono i vincitori, e
pernottarono nella sanguinosa città. Perdettero i Tedeschi circa un
migliajo di soldati, nè fu senza sangue la vittoria agli Eugeniani,
perchè i Tedeschi combatterono acerbamente. Acquistò Eugenio facoltà di
ritirarsi più quietamente sull'Adige: marciava indietro, parte per
Padova, parte per Vicenza, andando ad alloggiarsi a Verona, ed a
Legnago. In mezzo a questa ritirata, grave in se stessa, e che
portendeva cose ancor più gravi, perchè già più della metà del regno
Italico era signoreggiata dalle armi Austiache, i soldati Francesi ed
Italiani, ma più i primi che i secondi, si portarono molto lodevolmente,
astenendosi dalle rapine e dagli oltraggi; procedere tanto più da
commendarsi, che la maggior parte credevano, che più non sarebbero
tornati là, donde venivano. Nè è da tacersi, che i Tedeschi a questo
tempo stesso, se si eccettuano le parti rannodate, in cui erano preste
le munizioni, vivevano di rapina, ora qua ora là scorrazzando,
secondochè gli portava o la necessità della guerra, o la cupidità del
sacco; frutti tante volte calpestati della feconda Italia, tante volte
riprodotti, tante volte ricalpestati. Resta, che siccome la sua bellezza
e fertilità destano gli appetiti forestieri, desiderino gl'Italiani, che
ella fera e selvaggia diventi; perchè forse i deserti preserveranno
quello, che l'innocenza non preserva.

Sulle Veronesi sponde incominciavano a manifestarsi fra gl'Italiani mali
semi contro il vicerè; colpa piuttosto sua che di loro. Eugenio o che
prevedesse dai nugoli minacciosi che giravano attorno, che più gli
convenisse mostrarsi Francese che Italiano, o che troppo facili orecchie
prestasse ad alcuni, che presso a lui in molta grazia e suoi consiglieri
più intimi essendo, intendevano ad innalzar se medesimi a pregiudizio
degl'Italiani, si era lasciato uscir di bocca, già insino in Prussia
dopo le disgrazie di Russia, parole di cattivo concetto verso i generali
Italiani. Nè il suo disprezzo nelle semplici parole contenendosi, era
trascorso sino agli atti: delle quali cose tenendosi eglino molto
offesi, siccome quelli che erano parati a tollerare alcuna ingiuria o
indegnità, massimamente Pino, che siccome di maggior nome, sentiva più
vivamente degli altri, avevano appoco appoco sparso una mala contentezza
fra i soldati: dal che ne seguivano nel campo sinistre mormorazioni, ed
anche atti aperti di sdegno contro il principe. Le disgrazie inasprivano
viemaggiormente le ferite in quegli animi fieri e bellicosi.
Gl'imputavano il contaminato onore dell'armi Italiane, ed il sangue
inutilmente sparso. Già il nome di forestiero, pessimo augurio, nelle
bocche dei soldati andava sorgendo, ed i consiglieri detestavano.

Intanto non rimetteva in Eugenio il desiderio di farsi famoso in guerra
per battaglie inutili, sangue con fama cambiando. Corse il Tirolo; vi
fece fazioni onorate, ma senza frutto: liberò Brescia dal nemico, ma
indarno: ruppelo in una grossa e bene combattuta battaglia a Caldiero,
ma tornossene poco dopo là, dond'era venuto: il nemico, che era stato
rincacciato sin oltre all'Alpone, venne fra breve a rinsultar San
Michele di Verona. Appena la fronte dell'Adige, fiume grosso, e munito,
sotto dalla fortezza di Legnago, sopra dai castelli di Verona, si poteva
tenere: tanto superava pel numero delle genti il nemico. Dal che si
conclude con evidenza che era necessità al vicerè, non di assaltare, ma
di difendersi, non di uscire dai luoghi sicuri, ma di annidarvisi, non
di far guerra viva, ma di temporeggiarsi e di aspettare.

Ogni ruina si accumulava sull'Italia: ecco un secondo nembo
approssimarsi al Po, non più pel dominio di Venezia o d'Alfonso, ma per
quello di Francia o d'Austria; nè questo nembo fia l'ultimo da
raccontarsi, ancorchè sia prossimo il fine della mia tragedia. Aveva il
generale Austriaco Nugent combattuto virilmente in Croazia ed in Istria,
contro gl'Italiani che occupavano quella parte del regno. Ma quivi ogni
cosa era oggimai divenuta sicura a lui, sì per la ritirata di Eugenio,
come perchè le fortezze di Lubiana e di Trieste si erano arrese all'armi
Tedesche. Sola restava dell'antico Austriaco, o Veneziano dominio in
mano del vicerè la città di Venezia. Per la qual cosa Nugent, preso
ordine con Bellegarde, chiamato generalissimo in Italia in luogo di
Hiller, e messosi sulle navi a Trieste, era venuto sbarcare a Goro con
una grossa mano d'accogliticci, Inglesi, Istriotti, Croati, e fuggitivi
Italiani. Nè volendo indugiare, perchè sapeva che il tempo è nemico
degli assalti inopinati, si spingeva tostamente innanzi, e s'impadroniva
di Ferrara, abbandonata dai pochi difensori che vi erano dentro. Quivi
correva il paese co' suoi soldati leggieri, chiamando in ogni luogo i
popoli a sollevazione. L'importanza del fatto era, che si congiungesse
con le schiere d'Austria, che, venute col grosso dell'esercito, già si
erano condotte a Padova. A questo fine, Nugent, passato il Po con una
parte de' suoi, e preso alloggiamento in Crespino, si era accostato
all'Adige. Dall'altro lato Bellegarde, per consentire coi movimenti di
Nugent, aveva avviato a Rovigo una presa di tremila soldati sotto la
condotta del generale Marshall.

Come prima il vicerè ebbe avviso del tentativo di Nugent, aveva
speditamente mandato un corpo sotto il governo del generale Decouchy a
Trecenta, acciocchè facesse opera d'impedire la congiunzione delle due
squadre nemiche. Al tempo stesso Pino, che governava Bologna, assembrava
quante genti poteva, e le spingeva avanti alla guerra Ferrarese.
Ripresesi Ferrara, ma indarno, per gli accidenti che seguirono. Aveva
bene Decouchy, fortemente combattendo, cacciato Marshall da Rovigo con
non poca strage, e costretto a ritirarsi al ponte di Bovara Padovana. Ma
gli Austriaci continuamente ingrossavano coll'intento di congiungersi
con Nugent, che tuttavìa era in possessione di Crespino. Mandava perciò
il vicerè nuovi ajuti col generale Marcognet verso il basso Adige,
acciocchè cooperassero al fine comune con Decouchy. Uscirono i Tedeschi
da Bovara Padovana: Decouchy e Marcognet gli assaltavano. Sorgeva
un'ostinata zuffa: combatterono i Francesi felicemente a destra,
infelicemente a sinistra: si ritirarono i Tedeschi nel loro sicuro nido
di Bovara Padovana; ma colto il destro, che offerivano loro la notte e
la mala guardia a cui stavano i Francesi, con un impeto improvviso gli
ruppero; e gli costrinsero a ritirarsi, prima a Lendinara ed a Trecenta,
poi a Castagnaro. Riacquistarono Rovigo: fu tolto ogni impedimento alla
congiunzione di Nugent e di Marshall. Nugent, fatto sicuro per la
congiunzione, s'incamminava a Ravenna, e da Ravenna a Forlì. Usava le
armi, usava le instigazioni. «Assai, scriveva agl'Italiani, assai foste
oppressi, assai posti ad un giogo insopportabile: ora più liete sorti vi
aspettano; restituite coll'armi in mano la patria vostra: avete tutti a
divenire una nazione independente». Poi faceva un gran romore con
promettere, che non si scriverebbero più gli annuali soldati, che le
consumatrici tasse si allevierebbero. Intanto i suoi saccheggiavano
aspramente il Ferrarese ed il Bolognese, poco lieto principio
all'independenza, che si prometteva.

Ora un nuovo inganno, ed una terza illuvie hommi a raccontare; ma questi
furono di un Napoleonide. Trovavasi Giovacchino di Napoli molto
perplesso, e siccome le novelle di Germania, di Francia e d'Italia
giravano fauste od infauste, si appigliava a questa parte od a quella, a
questo partito od a quell'altro. Molto in lui poteva il desiderio di
conservare il suo reale seggio, molto la paura di Napoleone. Perciò
procedendo con la sua naturale varietà, aveva negoziato, come già abbiam
descritto, ora coll'Austria, ora con Bentink, ora con Eugenio, qualche
volta con tutti insieme, nè s'accorgeva che tutti il conoscevano.
Intanto, già sicuro dell'Austria e dell'Inghilterra, ma non ancora
sicuro di se medesimo, si avviava verso l'Italia superiore. Già occupava
Roma, già occupava le Marche, nè ancora l'animo suo scopriva. Pretendeva
parole d'amicizia verso il regno Italico. Le casse del regno, contro il
quale si apprestava a muovere le armi, sotto spezie di amicizia,
addomandava, e gli si aprivano, e vi attigneva denari; richiedeva il
regno di vettovaglie, di vestimenta, di armi, ed il regno gliene
somministrava. Lasciato passare in Ancona ed in Roma amichevolmente dai
presidii Francesi, gettava gioconde e pacifiche parole di Francia, e di
Napoleone. Non so a che cosa pensasse: ma certamente la dissimulazione
era grande, e peggiore anche del fine che si proponeva. Infine veduta la
ritirata del vicerè, udite le novelle dell'avvicinarsi i confederati
molto grossi al Reno per invadere la Francia, ed aspettato Bentink
oramai vicino a tempestare in Toscana, rimossa finalmente ogni
dubitazione, si risolveva a scoprirsi del tutto, ed a fare quello che il
mondo non avrebbe potuto pensare, e di che si perturbò più di ogni altra
cosa Napoleone. Fermava i suoi casi coll'Austria, stipulando con lei un
trattato, per cui l'imperatore Francesco si obbligava a mantenere in
Italia, insino a che durasse la guerra, almeno cinquantamila soldati, ed
il re Giovacchino a mantenerne almeno ventimila, con ciò promettevano e
s'obbligavano entrambi ad operare d'accordo, e ad accrescere il numero
delle rate rispettive, se bisogno ne scadesse; oltre a ciò Francesco
guarentiva a Giovacchino ed ai suoi eredi la possessione dei dominj
attualmente tenuti da lui in Italia, e prometteva d'intromettersi, come
mediatore, affinchè gli alleati si facessero sicurtà della medesima
possessione.

Bellegarde annunziava pubblicamente agl'Italiani la congiunzione di
Giovacchino colla lega, ammonendoli delle perdute speranze dei
Napoleonici. Giovacchino scoprendosi nemico in quei paesi, dov'era
entrato e stato accolto come amico, sforzava il generale Barbou, che
custodiva in nome di Francia la fortezza d'Ancona, e Miollis, che teneva
Castel Sant'Angelo, alla dedizione. Tutto lo stato Romano veniva
all'obbedienza dei Napolitani, i quali, e Giovacchino con loro, ora del
papa favellando, ed ora dell'independenza d'Italia, non sapevano ciò che
si dicevano. Bene ovunque passavano ogni cosa rapivano, ripassata
seconda pei miseri Ferraresi e Bolognesi. I vanti poi che si davano, e
le millanterìe che facevano, erano grandi.

Il primo ad uscir fuori fu il re medesimo con dire ai suoi soldati,
avvertissero bene, che insinoachè egli aveva potuto credere che
Napoleone imperatore combatteva per la pace e per la felicità della
Francia, aveva a favor suo combattuto: ma che ora si era chiarito di
tutto, e che bene sapeva che Napoleone non voleva altro che guerra; che
tradirebbe gl'interessi della sua antica patria, quei de' suoi stati,
quei de' suoi soldati, se tosto non separasse le sue armi dalle
Napoleoniche, se non le congiungesse a quelle dei principi intenti con
magnanimo disegno a restituire ai troni la loro dignità, alle nazioni la
loro independenza: due sole bandiere esservi, ammoniva, in Europa;
sull'una leggersi le parole religione, costume, giustizia, moderazione,
leggi, pace, felicità; sull'altra persecuzioni, artifizj, violenze,
tirannide, guerra, e lutto di famiglie, scegliessero. Queste cose diceva
Giovacchino Napoleonide. Carascosa, Napolitano generale, arrivando a
Modena, più enfaticamente parlava agl'Italiani: prometteva loro
independenza a nome di Giovacchino, che già era accordato coll'Austria
per ajutarla a soggettare il regno Italico.

Le forze preponderanti di Bellegarde, i progressi di Nugent sulla sponda
destra del Po, lo accostamento del re di Napoli alla lega, e la presenza
delle sue numerose schiere nel Modenese, toglievano al vicerè ogni
possibilità di conservare gli alloggiamenti dell'Adige. Fatti pertanto
gli apprestamenti necessarj, si tirava indietro e andava a porsi alle
stanze assai più sicure del Mincio. Il dì otto febbrajo usciva
ottimamente ordinato a campo per combattere in una campale battaglia
Bellegarde. La principale schiera, in cui risplendeva la guardia reale,
sortendo da Mantova, s'incamminava alla volta di Valeggio: la
cavallerìa, traversato il fiume a Goito, accennava a Roverbella, e
perchè il nemico fosse anche infestato alle spalle, il generale Zucchi
colle genti più leggieri muoveva i passi verso l'isola della Scala. Per
non lasciare poi libero campo a Bellegarde dalla parte superiore, il
vicerè ordinava a Verdier, che congiuntosi prima con Palombini, varcasse
il Mincio a Mozambano, e gisse ad urtare il nemico a Valeggio. Ognuno
passato il fiume, correva ai luoghi destinati, quando la fortuna per un
accidente improvviso ridusse il disegno bene ordinato ad un moto
disordinato. Nel momento stesso in cui Eugenio si proponeva di assalire
Bellegarde sulla sinistra del Mincio, si era Bellegarde risoluto ad
andare a trovare Eugenio sulla destra. Dal quale impensato accidente
nacque, che il vicerè, in luogo di trovare tutto l'esercito nemico a
Roverbella, non ebbe più a combattere che col suo retroguardo, per modo
che la vanguardia Francese era venuta alle mani col retroguardo Tedesco.
Appoco appoco, e l'una dopo l'altra tutte le schiere delle due parti, sì
quelle che avevano passato, come quelle che erano rimaste sulla
sinistra, ingaggiavano la battaglia; combattevano furiosamente. Avevano
i Francesi e gl'Italiani il vantaggio; ma per poco stette, che una rotta
di cavallerìa dalla parte loro non mandasse le cose alla peggio. Pure,
fatto un nuovo sforzo, si rannodavano, e si pareggiò la battaglia.
L'esito fu, che Bellegarde fu costretto a tornarsene sulla sinistra del
Mincio, ma intero e ristretto; il che obbligò anche il vicerè a
ritirarsi tutta la sua forza sulla destra.

Intanto Eugenio si accorgeva, che non era più in sua facoltà d'indugiar
a soccorrere alle cose di oltre Po, che per l'invasione dei Napolitani
diventavano ogni ora più difficili. Aveva già provveduto che con qualche
maggiore fortificazione si munisse Piacenza, alla guardia della quale
aveva preposto con soldati di nuova leva, e con qualche veterana banda
Italiana i generali Gratien e Severoli. Ma aggravandosi il pericolo vi
mandava con qualche ajuto di nuove genti Grenier, nella perizia del
quale consisteva massimamente la condotta, e la somma della guerra in
quegli estremi momenti. Formava l'antiguardo del nemico Nugent co' suoi
Tedeschi, Istriotti ed Italiani; il retroguardo Giovacchino co' suoi
Napolitani. Come prima Grenier arrivava, rincacciava con forte rincalzo
all'ingiù Nugent, e lo sforzava a tornarsene più che di passo al Taro.
Quivi, essendo sopraggiunti i Napolitani, faceva vista di volersi
difendere, ma tanto fu audace e destro Grenier, che, passato in tre
luoghi il fiume, di nuovo sforzava gli avversarj alla ritirata sino
all'Enza. Nugent però, sperando di arrestare l'impeto di Grenier, si era
fermato con tremila soldati a Parma. Il Francese, urtando la città da
ogni parte, vi entrava per viva forza, ritirandosene a tutta fretta
colla minor parte de' suoi soldati il Tedesco. Combattessi in questo
fatto molto aspramente a ferro ed a fuoco, con gran terrore dei
cittadini. Il re di Napoli, tornato più grosso, e sforzato finalmente il
passo del Taro, già s'avvicinava a due miglia a Piacenza. Quivi
l'arrestavano, non la forza degli avversarj, ma più alte e più
strepitose sorti.

Pellew e Bentink comparivano in cospetto di Livorno: avevano molte e
grosse navi con seimila soldati da sbarco, Italiani, Siciliani, Inglesi.
Il governatore vuotò la città per patto: vi entrarono gl'Inglesi il dì
otto marzo. Suonavano le armi, suonavano le parole, si scrivevano i
manifesti, si sventolavano le bandiere dell'Italiana independenza.
Bentink in questo si mostrava molto acceso, Wilson il secondava.

Bentink a questo modo parlava con pubblico manifesto agl'Italiani: «Su,
diceva, Italiani, su; ecco che siam qui per ajutarvi; ecco che siam qui
noi per levarvi dal collo il fero giogo di Buonaparte. Dicanvi il
Portogallo, la Spagna, la Sicilia, la Olanda quanto a generosità intenda
l'Inghilterra, quanto l'interesse non curi. Libera è la Spagna pel suo
valore, libera per l'assistenza nostra. Per l'uno e per l'altra ella
condusse a fine un'opera fra le belle bellissima. Cacciato dai felici
suoi campi il Francese, fermovvi la sua sede l'independenza, fermovvela
la libertà. Sotto l'ombra dell'Inghilterra fuggì la Sicilia le comuni
disgrazie; poscia per beneficio di un giusto principe da servitù a
libertà passando, ora dimostra quanto un vivere non soggetto, a gloria
ed a felicità conferisca. L'Olanda ancor essa intende a libertà. Or sola
l'Italia rimarrassi in ceppi? Or soli gl'Italiani le sanguinose spade
gli uni contro gli altri volteranno per fare che la patria loro sia
serva di un tiranno? A voi spezialmente questo discorso s'indirizza, o
guerrieri dell'Italia, a voi, in cui mano ora sta il compire la generosa
impresa. Questo da voi non si chiede, che a noi venghiate: solo le voci
nostre vi ammoniscono, che i vostri diritti rivendichiate, che a libertà
vi restituiate. Applaudiremo lontani, accorreremo chiamati, e se le
vostre congiungerete alle forze nostre, fia che l'Italia risorga alle
sue antiche sorti, fia che di lei suoni quant'ora della Spagna suona».
In questa forma l'Inglese allettava gl'Italiani: drappellava intanto le
insegne delle mani giunte, sperando con queste parole e dimostrazioni di
far muovere i popoli.

Ma siccome quegli che era uomo audace ed operoso, tosto giungeva alle
parole i fatti. Ebbe avviso a Livorno, che Genova si guardava solamente
da duemila soldati. Parvegli occasione propizia, perchè era sito di
unica importanza, sì per la sua grandezza, sì per la comodità dei porto,
e sì per l'agevolezza che acquista chi ne è signore, di scendere nelle
pianure del Piemonte e della Lombardìa. Inoltre abbondava di armi e di
munizioni navali. Pertanto Bentink si accingeva ad espugnarla. Suo
pensiero era di mandar le fanterìe per le strade difficili del
littorale, le munizioni pei bastimenti sottili, le armi e gl'impedimenti
più gravi per le navi grosse. Giunto a Sestri di Levante, udiva che
nuovo soccorso era entrato per custodir Genova, per forma che il
presidio sommava a seimila soldati, presidio insufficiente alla vastità
delle fortificazioni, ma bastante a rendergli molto dura l'impresa: il
reggeva Fresia. Si era egli, per opporsi agli sforzi di Bentink,
ordinato per modo che distendendosi dai forti Richelieu e Tecla,
occupava col centro il villaggio di san Martino, e quindi arrivava colla
destra, per uno spazio intricato di giardini e di ville, sino al mare.
Non aveva l'avversario speranza di poter impadronirsi della piazza per
una lunga oppugnazione con sì pochi soldati: pure molto gl'importava,
che, in mezzo a tanti romori, e per non lasciargli raffreddare, Genova
si prendesse. Da questo conseguitava, che gli era necessità
d'insignorirsene per un assalto vivo. A questo ordinava i suoi, che
mostravano un grandissimo ardore, ed una prontezza incredibile a fare
quanto egli volesse. Mandava gl'Italiani condotti dal colonnello
Ciravegna, soldato pratico ed animoso, che ancor egli sventolava le
bandiere dell'independenza, a far opera contro una punta di monte, che
sta a sopraccapo ed a fronte del forte Tecla. Spediva un'altra parte
degl'Italiani contro il forte Richelieu, mentre un Travera colonnello,
dal monte delle Fascie scendendo, con Greci e Calabresi, se ne giva a
guadagnare un'eminenza, che al forte medesimo sovrasta. Quest'era lo
sforzo che faceva a dritta e nelle parti di sopra; ma sotto e più
accosto al mare mandava i fanti Inglesi, sotto la condotta dei generali
Montresor e Macfarlane, con ordine di sgombrare, quanto possibil fosse,
gl'impedimenti del paese, e di assaltar l'inimico. Succedevano i fatti a
seconda de' suoi pensieri. Ciravegna, che combatteva sulla punta estrema
a destra, spintosi avanti con singolar valore, cacciava il nemico
dall'altura, e s'impadroniva di tre cannoni di montagna, il quale
accidente vedutosi dai difensori del forte Tecla, l'evacuarono, in
potestà del vincitore lasciandolo. Anche l'eminenza superiore al forte
Richelieu fu presa dai Greci e Calabresi. Gl'Italiani ancor essi
s'avvicinavano al forte. Non volendo il presidio aspettare l'ultimo
cimento, si arrese a patti. Sulla sinistra dei confederati si sostenne
la battaglia più lungo tempo, sì per la natura dei luoghi opportuna alle
difese, come per la valorosa resistenza dei difensori: pure gl'Inglesi
guadagnavano del campo. Finalmente gli assediati, vedendo che per la
perdita dei forti Tecla e Richelieu correvano pericolo di esser presi
alle spalle, fecero avviso di ritirarsi del tutto dentro le mura,
lasciando le difese esteriori in poter dei confederati. Già per opera di
Bentink si piantavano le batterìe per fulminare la città. In questo ad
accrescere il terrore, arrivava sopra Genova Edoardo Pellew con tutta la
sua armata, attelandosi a fronte di Nervi. Ai piccoli cannoni di Bentink
si aggiungevano i grossi, e le bombarde di Pellew, per modo che
nell'assalto che si vedeva imminente, ogni cosa presagiva un successo
prospero a chi assaltava. Si venne in sul convenire: Fresia s'arrese il
dì diciotto aprile.

Bentink, acquistata la possessione di Genova, d'allettamento in
allettamento passando, faceva sorgere speranze di franco stato nei
Genovesi. Forse credeva che i confederati avrebbero avuto più rispetto a
questa condizione, se fosse e fatta sperare con parole e cominciata col
fatto, che s'ei fosse stato sul severo, e non avesse parlato d'altro che
di conquista. Ordinava pertanto un governo preparatorio: voleva ch'egli
reggesse i dominj Genovesi secondo gli ordini della constituzione del
novantasette, e insino a che si statuissero quelle modificazioni, che
l'opinione, l'utilità, lo spirito della constituzione del 1576
richiedessero: che il governo si spartisse in due collegj, come nella
forma antica; che durasse in ufficio sino al primo gennajo
dell'ottocentoquindici, tempo in cui i collegj ed i consiglj fossero
adunati a norma della constituzione. Questi erano i fatti del capitano
d'Inghilterra: i motivi poi pubblicamente detti suonavano, che,
stantechè i soldati d'Inghilterra retti da lui avevano scacciato dalle
terre di Genova i Francesi, e che importava che alla quiete ed al
governo dello stato si provvedesse, considerato ancora, che a lui
pareva, che universale desiderio della nazione Genovese fosse il tornare
a quell'antica forma, alla quale era stata sì lungo spazio obbligata
della sua libertà, prosperità e independenza, e considerato finalmente,
che a questo fine indirizzavano i pensieri e gli sforzi loro i principi
collegati, che ognuno fosse rintegrato ne' suoi antichi dritti o
privilegj, voleva, ed ordinava che quello, che i popoli Genovesi
desideravano in conformità dei principj espressi dai collegati, si
risolvesse in atto e si mandasse ad effetto. Alle quali cose dando
esecuzione, chiamava al governo Girolamo Serra in qualità di presidente,
e con lui Francesco Antonio Dagnino, Ipolito Durazzo, Carlo Pico, Paolo
Girolamo Pallavicini, Agostino Fieschi, Giuseppe Negretto, Giovanni
Quartara, Domenico Demarini, Luca Solari, Andrea Deferrari, Agostino
Pareto, Grimaldo Oldoini.

Da tutto questo si vede, se i Genovesi non dovevano concepire speranza
di conservare l'onorato nome, e l'essere antico della patria loro; o se
qualcheduno dalle parole di Bentinck avesse dedotto questo corollario,
che Genova avesse fra breve ad esser data in potestà del re di Sardegna,
certamente sarebbe stato tenuto piuttosto scemo di mente che falso
loico. Ma Castelreagh trovò non so che dritto di conquista, e l'utilità
della lega, motivi appunto di senatusconsulti Napoleonici. Bene era
spegnere Napoleone, e meglio sarebbe stato il non imitarlo.

Già tutta l'Italia era sottratta dall'imperio di Napoleone: solo restava
la parte che si comprende tra il Mincio, il Po e le Alpi. Ma la somma
delle cose per lei si aveva piuttosto a decidere sulle rive della Senna,
che su quelle del Po. Già sinistri romori si spargevano per Napoleone:
poscia le certe novelle arrivavano, essere i confederati, conducendo con
esso loro tutto lo sforzo d'Europa, entrati trionfalmente in Parigi,
compenso dato da chi regge il cielo a chi regge la terra delle
conquistate Torino, Napoli, Vienna, Berlino e Mosca. Era oltre a ciò
vociferazione in ogni luogo, che Napoleone errasse colle reliquie
dell'esercito per le Sciampagnesi campagne. A ciascuna ora a cose
immense aggiungeva la fama cose immense; nè ugual peso di umane moli si
era agitata nel mondo, dappoichè Scipione vinse Annibale, Belisario
Totila, Carlo Martello i Saraceni, Subieschi i Turchi. Poco stante si
udiva, restituirsi i Borboni in Francia, Napoleone ridotto in
Fontainebleau rinunziare all'imperio, dire l'ultimo vale a' suoi
veterani soldati, accettare per estremo ricetto l'umile rupe d'Elba
isola. Raccontare ai contemporanei sì fatti accidenti fora opera
superflua, poichè la piena fama ne risuona ancora frescamente nelle
orecchie loro: raccontargli degnamente ai posteri, fora opera superiore
all'eloquenza, nè io mi vi accingerei, che conosco l'umile mio stile, ed
il mio tarpato ingegno. Solo dirò, che per le armi più si fece che si
sperasse, che colle parole più si promise, che si attenesse, che la
prosperità fe' dimenticare le affermazioni della paura, e che le vecchie
voglie sormontarono le necessità nuove. Pure si liberò l'Europa da una
volontà sola, e da un dominio soldatesco; e chi guarderà indietro insino
al principio di queste storie, e tutti gli accidenti da noi raccontati
andrà nella memoria sua riandando, sentirà meraviglia, terrore, pietà,
dolore, e contentezza insieme. Gli uomini straziati, le opinioni
stravolte, le società sconvolte, la forza preponderante, la giustizia
offesa, l'innocenza condannata, le adulazioni ai malvagi, le
persecuzioni ai buoni, la licenza sotto nome di libertà, la barbarie
sotto nome di umanità, la politica sotto nome di religione, e con queste
virtù civili eminenti, ma rare, esempi lodevoli, ma scherniti, valore di
guerra egregio, ma in favore del dispotismo, l'Europa infine divenuta
scherno e vilipendio a se stessa. Se rinsavirà, non si sa, perchè ancor
si sente la puzza degli andamenti Napoleonici: vive l'ambizione in chi
comanda, vive in chi obbedisce, e se fia possibile l'unire la libertà al
principato, è incerto. Da tutta questa lagrimevole tela, come dai
ricordi antichi, almeno questo utile ammaestramento si avrà, che chi,
come Buonaparte, da suddito si fa padrone della sua patria per farla
serva, o il ferro ancide, o la forza atterra.

Come prima pervennero in Italia le novelle della presa di Parigi, e
della rinunziazione di Napoleone, pensò il vicerè a pattuire per la
sicurezza delle genti Francesi, nè si conveniva, che poichè i Borboni,
ai quali erano le potenze amiche, si trovavano rintegrati in Francia, i
Francesi combattessero contro di loro. Inoltre desiderava il vicerè, con
facilitare le condizioni ai Borboni ed ai potentati, avvantaggiare le
proprie, e fare in modo che gli alleati usassero contro a lui meno
inimichevolmente la vittoria. A questo fine, uscito da Mantova, si
abboccava con Bellegarde, l'uno e l'altro accompagnati da pochi soldati.
Convennero che si sospendessero le offese per otto giorni, che intanto i
soldati Francesi che militavano col vicerè, passate le Alpi,
ritornassero nell'antiche sedi di Francia; che le fortezze di Osopo,
Palmanova, Legnago, e la città di Venezia si consegnassero in mano degli
Austriaci; che gl'Italiani continuassero ad occupare quella parte del
regno, che ancora era in poter loro; che fosse fatto facoltà ai delegati
del regno di andar a trovare i principi confederati per trattare di un
mezzo di concordia, e che se i negoziati non riuscissero a felice fine,
le offese tra gli alleati e gl'Italici non potessero ricominciare, se
prima non fossero trascorsi quindici giorni, da che i primi si fossero
scoperti delle intenzioni loro. La convenzione di Schiarino-Rizzino, che
in questo luogo appunto si concluse addì sedici aprile, spegneva del
tutto il regno Italico. Perchè, segregati i Francesi dagl'Italiani,
nasceva una tale disproporzione di forze tra gl'Italiani ed i Tedeschi,
che il capitolo, il quale dava quindici giorni di indugio alle ostilità,
era piuttosto derisione che sicurezza.

Era giunto il momento dell'ultimo vale fra gli antichi compagni: i
soldati di Francia salutavano commossi, abbracciavano piangenti i
soldati d'Italia: a loro migliori sorti auguravano; ultimo grado di
disgrazia chiamavano, che la disgrazia gli separasse; offerivano gli
umili abituri loro in Francia; venissero; si ricorderebbero dell'avuta
amicizia, delle comuni battaglie, della con le medesime armi acquistata
gloria; fuorichè Italia non sarebbe, tutto parrebbe loro Italia, la
medesima amicizia, la medesima fratellanza troverebbero; voler essi con
le povere facoltà loro pagare all'Italia il debito di Francia. Così con
militare benevolenza addolcivano i soldati di Francia le amarezze dei
soldati d'Italia. Questi all'incontro ai loro partenti compagni andavano
dicendo: gissero contenti, che se l'Alpi gli separerebbero, l'affezione
e la ricordanza dei gloriosi fatti insieme commessi gli
congiungerebbero; conforto loro sarebbe il pensare, che chi conservava
la patria si ricorderebbe di chi la perdeva; la disgrazia rinforzare
l'amicizia; avere per questo l'amore dei soldati Italiani verso i
soldati Francesi ad essere immenso; vedrebbero quello che in
quell'ultimo eccidio fosse per loro a farsi per satisfazione propria, e
per onore dell'insegne Italiche; ma bene questo credessero, e nel più
tenace fondo dell'animo loro serbassero, che, come gli avevano veduti
forti nelle battaglie, così gli vedrebbero forti nelle disgrazie: queste
speravano di mostrare al mondo, che se più patria non avevano, patria
almeno di avere meritavano. Che Eugenio, e che Napoleone a noi,
dicevano? Gloriosi, gli servimmo, benefici, gli amammo, infelici, fede
loro serbammo: ma per l'Italia i nomi diemmo, per l'Italia combattemmo,
per l'Italia dolore sentimmo: il dolerci per sì dolce madre fia per noi
raccomandazione perpetua a chi con animo generoso a generosi pensieri
intende.

Partivano i Francesi, alla volta del Cenisio e del colle di Tenda
incamminandosi: gli ultimi segni di Francia appoco appoco dall'Italia
scomparivano; ma non iscomparivano nè le ricordanze di sì numerosi anni,
nè il bene fatto, nè anco il male fatto, quello a Francia, questo a
pochi Francesi attribuendosi: non iscomparivano nè i costumi
immedesimati, nè le parentele contratte, nè gl'interessi mescolati: non
iscomparivano nè la suppellettile dell'accresciuta scienza, nè gli
ordini giudiziali migliorati, nè le strade fatte sicure ai viandanti, nè
le aperte fra rupi inaccesse, nè gli eretti edifizj magnifici, nè i
sontuosi tempj a fine condotti, nè l'attività data agli animi, nè la
curiosità alle menti, nè il commercio fatto florido, nè l'agricoltura
condotta in molte parti a forme assai migliori, nè il valor militare
mostrato in tante battaglie. Dall'altro lato non iscomparivano nè le
ambizioni svegliate, nè l'arroganza del giudicare, nè l'inquietudine
degli uomini, nè l'ingordigia delle tasse, nè la sottigliezza del
trarle, nè la favella contaminata, nè l'umore soldatesco: partiva
Francia, ma le vestigia di lei rimanevano. Non venti anni, ma più secoli
corsero dalla battaglia di Montenotte alla convenzione di
Schiarino-Rizzino. La memoria ne vivrà, finchè saranno al mondo uomini.

Il vicerè, acconce le cose sue coll'Austria, già feceva pensiero di
ritirarsi negli stati del re di Baviera, col quale era congiunto di
parentado pel matrimonio della principessa Amalia. Ma ecco arrivar
novelle, o vere o supposte, che Alessandro imperatore consentirebbe a
conservargli il regno, sì veramente che i popoli il domandassero.
Accettava Eugenio le liete speranze: fecersi brogli; incominciossi
dall'esercito ridotto in Mantova. L'intento parte ebbe effetto, parte
no; ma l'importanza consisteva in Milano capitale. Viveva in questo
momento il regno diviso in tre sette: alcuni desideravano il ritorno
dell'Austria con niuna o poca differenza dall'antica forma: gli altri
pendevano per l'indipendenza, ma chi ad un modo, e chi ad un altro:
conciossiachè chi l'amava con aver per re il principe Eugenio, e chi
l'amava con avere per re un principe di un altro sangue, quand'anche
fosse di casa Austriaca; quest'era la parte più potente. Aveva mandato
il vicerè certamente con poca prudenza, il conte Mejean a Milano a
trattare coi capi del governo, affinchè in favore di lui si
dichiarassero. Molto anche vi si affaticava un Darnay, direttore delle
poste, personaggio poco grato ai popoli. Ad accrescere disfavore alla
cosa s'aggiunse, che a secondare le intenzioni del vicerè si erano
intromessi, per opera di Mejean, e per inclinazione propria, i
Transpadani, o Estensi, come gli chiamavano: Bolognesi, Ravennati,
principalmente Modenesi e Reggiani, erano venuti in disgrazia dei
Milanesi, perchè questi si erano persuasi che nelle faccende eglino si
fossero arrogata molta maggior parte di quanto si convenisse. Melzi
favoriva il disegno, il propose in senato. Vi sorse un gravissimo
contrasto, principalmente intorno a quella parte in cui si trattava del
principe Eugenio. Paradisi, ed altri Estensi, uomini d'inveterata fama,
di gran sapere e di molta autorità, con efficacissime parole instavano
in favor del principe. Nei cambiamenti politici, dicevano, più
facilmente ottenersi il meno che il più; essere consueto l'imperio
d'Eugenio, già dai principi d'Europa riconosciuto: solo volersi, che
fosse independente da Francia, e questo appunto essere il fine della
presente deliberazione; abbenchè intorno a questo non occorresse,
allegavano, molto travagliarsi, perchè spento Napoleone, la franchezza
del paese nasceva da se, e chi volesse credere, che Eugenio da Francia
Borbonica ancora dipendesse, come da Francia Napoleonica, massimamente
se tra la Lombardìa e la Francia s'interponesse il Piemonte tornato,
come già si motivava, sotto il dominio dei principi di Savoja,
meriterebbe di essere tenuto piuttosto scemo, che acuto. Adunque
l'indipendenza, continuavano, essere non solo sicura, ma ancora
necessaria con Eugenio: queste considerazioni la natura stessa dettare,
le Parigine novelle confermare. Se un altro principe si addomandasse,
che sicurtà si avrebbe d'impetrarlo? In deliberazioni di tanto momento,
meglio dover fidarsi i collegati in chi è già per loro provato, da loro
conosciuto, che in chi per loro fosse ignorato: nell'uscire da
sconvolgimenti tanto stupendi, in tanta tenerezza di un fresco ordine in
Europa, come sperare che in un regno d'Italia, pieno di umori diversi,
importante per la sua situazione, un principe di natura ignota sia per
essere accordato? Udire all'intorno, continuavano a discorrere gli
oratori favorevoli al vicerè, susurrarsi il nome di un principe
Austriaco: ma quivi appunto avvertissero bene, e bene considerassero gli
avversarj, massime coloro che favellavano di libertà e di signorìa
paesana, a qual partita si mettessero. Da un principe Austriaco adunque
aspettavano il viver libero e franco, da un principe Austriaco congiunto
di sangue coll'antico sovrano del regno, nodrito nelle massime del
comandare assoluto, timoroso necessariamente di Vienna, sovrano di
Milano solamente in apparenza? Di chi sono questi soldati, che ora ci
minacciano? Austriaci. Quali soldati in Milano il condurrebbero?
Austriaci. Quali soldati sulle frontiere nostre sovrasterebbero?
Austriaci. Conoscono essi queste terre, le conoscono e le bramano. Se
mancheran le cagioni, non mancheranno i pretesti, e ad ogni piè sospinto
l'illuvie Tedesca inonderà il regno: cagioni e pretesti saranno, il non
obbedire puntualmente e sommessamente a quanto da Vienna si sarà
comandato. Ora quale independenza vi possa essere con un timore perpetuo
non si vede. A chi ricorrerebbero questi partigiani d'Austria, a chi
ajuto domanderebbero? Forse all'Inghilterra avara, che fa traffico di
tutti? ai principi assoluti d'Europa, che più temono una constituzione
che un esercito? alla Francia indebolita, e che non vuol camminare se
non con Napoleone, e che con Napoleone più camminare non può?
concorrerebbero al principe Austriaco tutti gli amici dell'antico
reggimento d'Austria, concorrerebbero gli amatori dell'imperio
illimitato, concorrerebbero i malcontenti, e se gl'interessi nuovi, se
la libertà nascente, se le opinioni radicate da vent'anni in mezzo a
tanto diluvio di elementi contrarj si potessero conservare salve, ogni
uomo prudente potrà giudicare. Chi sarebbe naturalmente, e quasi per
intima necessità nemico della libertà dei regno? Certo sì veramente
l'Austria. A qual modo puossi la libertà difendere dagli assalti
forestieri? Certo sì veramente coi soldati e colle armi. Ora, chi
affermare potrebbe, che un principe Austriaco fosse per apprestar armi e
soldati Italici per ostare alle cupidigie dell'Austria? parere, anzi
esser certo, che il regno di un principe Austriaco sarebbe, non
independenza, ma dipendenza, non libertà, ma servitù, non quiete, ma
discordia e turbazione. Vienna, non Milano reggerebbe. Con Eugenio re
ogni via appianarsi, con un principe forestiero non Austriaco ogni
difficoltà crescersi, con un principe Austriaco molte difficoltà torsi,
ma fondarsi la servitù. Valessero adunque, concludevano, le virtù di
Eugenio, valesse il suo amore per l'Italia, valesse la contratta
abitudine di lui, valessero i felici augurj testè venuti da Parigi:
essere pazzìa in tante tenebre non seguitar quel lume solo, che la
fortuna appresentava davanti. Se qualcheduno desiderasse di viaggiar
senza filo in un laberinto, senza bussola in mare, senza lume in un
abisso, sì il facesse; ma nè desiderarlo, nè volerlo fare gli Estensi, i
quali credevano, che con danno sempre si fa spregio della fortuna.

Dalla parte contraria acerbissimamente contrastavano i senatori
Guicciardi e Castiglioni, principalmente quest'ultimo, che con molto
empito procedeva in queste cose, e mescolava doglianze gravissime degli
Estensi: a loro si accostavano molti altri Milanesi di nome, di
ricchezza e d'alto legnaggio. Non potere restar capaci, dicevano, come
con Eugenio si potesse aver la independenza, come si potesse aver la
libertà. Sarebbe Eugenio più ligio, e più dipendente dall'Austria, che
un principe Austriaco stesso: perchè non avendo parentela, nè
connessione con altro potentato d'Europa di primo grado, là sarebbe
obbligato a cercare per l'interesse della conservazione propria gli
appoggi, dove gli troverebbe: nè altro potrebbe esservene per lui che
nell'Austria, perchè in lei sola potrebbe sperare, come vicina e
potente, di lei sola temere. Credere forse gli avversarj, ch'ei nol
farebbe per altezza d'animo? Ma oltrechè non mai i principi credono di
derogare alla dignità loro, in qualunque modo soggettino i popoli,
purchè gli soggettino, quali sono i segni del pensare onorato d'Eugenio?
Forse lo aver dato la metà del regno in potestà di Bellegarde? Forse i
secreti abboccamenti avuti con lui, di cui più si sa, che non si dice?
Forse lo avere spogliato il reale palazzo di Milano? Forse i donativi
promessi per queste stesse perniziose e fatali trame? Forse Mejean e
Darnay qua mandati a subornar gli spiriti, Mejean e Darnay, non solo
sostenitori acerbi e tenacissimi di tirannide, ma ancora denigratori
assidui di quanto havvi nel regno di più alto, di più nobile, di più
generoso? Forse la elevazione dell'animo di Eugenio pruova lo sprezzo
fatto di quei soldati, di cui egli era capitano pagato e richiedente?
Gl'Italiani fatti scherno di un giovane di prima barba, e che nome non
ha, se non da chi ne ha uno odiosissimo! Dicano l'altezza d'Eugenio le
prezzolate ed udite spie, dicanla gli esilj dei più generosi cittadini,
dicala la tirannide sul parlare e sullo scrivere usata. Non è punto da
dubitare adunque, che siccome egli non abborrirebbe per natura dal più
dimesso partito, così ancora per necessità il piglierebbe, e più sarebbe
certamente governato austriacamente il regno da Eugenio, che da un
principe Austriaco. Certo sì, che i comandamenti arriverebbero da
Vienna, non dal reale palazzo di Milano. Di ciò già manifesti segni
essere le umili cortesìe usate a Bellegarde, le cedute fortezze, i messi
mandati al campo dell'imperatore Francesco, i messi mandati alle
Parigine trattazioni; dimostrarlo quelle medesime proposte, che allora
andavano su per le panche senatorie. Che se poi di Austriaco principe si
trattasse, ancorchè questo fosse l'estremo partito che solo la necessità
dovrebbe indurre, non visse beata e da se medesima la Toscana sotto un
principe Austriaco lungo tempo? Duri e renitenti certamente essere i
principi Austriaci, sclamavano i sostenitori di questa sentenza, al
giurare liberi patti, ma esserne anche fedeli osservatori, se giurati
gli abbiano; i Napoleonidi non del pari, perchè corrivi al giurare,
corrivi al violare, delle promissioni non si curano, se non per
l'utilità. Udite, udite, vociferavano, che di Prina si parla per
mandarlo delegato, che di Paradisi si parla per mandarlo delegato! Sì
per certo, Prina, amatore tanto tenero di libertà, Paradisi, che a
qualunque più pericoloso partito si getterebbe piuttosto che sentir
odore Austriaco, e ben sanne il perchè! Questi sono i mezzi
dell'independenza, questi i difensori della libertà. Del resto le
nazioni, non le parti o le sette fanno le mutazioni degli stati, nelle
importanti ed uniche occorrenze. Chi potrà affermare, che gl'Italiani
vogliano Eugenio per re? Forse i soldati che lo odiano? Forse i
cittadini che non l'amano? Il chiamarlo sarebbe stimato macchinazione di
pochi, non volontà di tutti, nè tanto sono i principi collegati
ignoranti degli umori che corrono, che queste evidenti cose non
sappiano.

Tutta la nobiltà Milanese Eugenio impugna, ed un vivere libero pretende:
tutto il popolo mosso, che a queste mura grida intorno e minaccia, solo
perchè ha udito susurrare della confermazione di Eugenio, della
continuazione, se non del dominio, almeno delle consuetudini di Francia.
Generose armi stanno in mano de' principi collegati, generose cagioni
gli muovono, a generose cose intendono, nè questo momento ad alcun'altra
età si rassomiglia. Proponete loro, non quello che pochi vogliono, ma
quello che vogliono tutti, proponete loro una risoluzione grande, non la
domanda di un principotto, docile allievo di un tiranno, proponete loro
un vivere largo e generoso, non una vita piena di spie e di carceri, e
sarete esauditi. Questo vogliono gl'Italiani, questo vogliono i principi
alleati, questo vogliono i cieli che non han sommosso il mondo, perchè
continui a regnare in Milano Napoleone Buonaparte sotto nome di Eugenio
Beauharnais. No, sclamavano vieppiù infiammandosi, non vogliamo Eugenio,
no, non vogliamo Prina, nè Mejean vogliamo, nè Darnay: bensì vogliamo un
principe, che collegato di sangue con qualche ceppo potente d'Europa,
non abbia bisogno di adulare e di concedere per sussistere: vogliamo un
principe, che giuri libertà per conservarla, non per ispegnerla;
vogliamo un principe, che conosca, e sappia, e senta quanto nobile sia
questo Italico regno, quanto generosi questi Italici abitatori, quanto
alte sorti a lui ed a loro siano dai cieli favorevoli preparate: assai e
pur troppo di Francia avemmo, assai e pur troppo di Napoleonici capricci
pruovammo: ora in tanta aspettazione di cose, in tanta sollevazione di
mondo, altrove si volgano gl'Italiani consigli, che l'avere sofferto dee
dar luogo al godere; non a nuovo sofferire.

Decretava il senato, che si mandassero tre legati ai confederati,
supplicandogli, ordinassero che cessassero le offese: domandassero i
legati, che il regno d'Italia fosse ammesso a godere l'independenza
promessa, e guarentita dai trattati, testificassero quanto il senato
ammirasse le virtù del principe vicerè, e quanta gratitudine pel suo
buon governo avesse.

Seppesi la deliberazione. Fece la parte contraria, che abborriva dal
nome di Eugenio, un concerto. Entraronvi i capi principali dell'armi, le
case più eminenti di Milano, principalmente Alberto Litta, che
accarezzato da Buonaparte, non aveva mai voluto accettar cariche,
preferendo un vivere privato onorevole ad un vivere pubblico abietto.
S'aggiunsero i negozianti più ricchi, e fra gli scienziati e letterati i
meno paurosi. Il nome dell'independenza era in bocca a tutti, l'amore
nel cuore; nè mai in alcun moto che abbian fatto le nazioni in alcun
tempo nelle più importanti faccende loro, tanto ardore e tanta unanimità
mostrarono, quanta gl'Italiani in questa. Domandavano che si
convocassero i collegi elettorali. Era il venti aprile quando, essendo
il senato raccolto nella sua solita sede, una gran massa di gente,
gridando, a lui traeva: era il cielo nuvoloso e scuro, pioveva
leggermente, una apparenza sinistra spaventava gli spiriti tranquilli. I
commossi non si ristavano. Eranvi ogni generazione d'uomini, plebe,
popolo, nobili, operai, benestanti, facoltosi. Notavansi principalmente
fra l'accolta moltitudine Federigo Confalonieri, i due fratelli Cicogna,
Jacopo Ciani, Federigo Fagnani, Benigno Bossi, i conti Silva,
Serbelloni, Durini e Castiglioni. Le donne stesse, e delle prime,
partecipavano in questo moto gridando ancor esse _patria e independenza,
non Eugenio, non vicerè, non Francesi_; una donna De-Capitani, una
marchesa Opizzoni, ed altre non poche. Era tutta questa gente volta a
bene, ed il male, non che avesse fatto, non l'avrebbe neppure pensato.
Ma come suole, incominciavano ad arrivare e da Milano e dal contado
uomini ribaldi, che volevano tutt'altra cosa piuttostochè
l'independenza. Queste parole scritte andavano attorno: «Hanno la Spagna
e l'Alemagna gittato via dal collo il giogo dei Francesi; halle l'Italia
ad imitare.» Gonfalonieri a tutti avanti gridava: «Noi vogliamo i
collegi elettorali, noi non vogliamo Eugenio». Fuggirono i senatori
partigiani del principe, il senato si disciolse. Entrò il popolo a furia
nelle sue stanze, il conte Gonfalonieri il primo, e tutto con estrema
rabbia vi ruppero e lacerarono. Gridossi da alcuni uomini di mal affare
mescolati col popolo, Melzi, Melzi, e già si mettevano in via per
andarlo a manomettere. Un amico di lui gridò, Prina: era Prina più
odiato di Melzi, ed ecco, che corsero a Prina, e flagellatolo prima
crudelmente, l'uccisero con insultar anco al suo sanguinoso cadavere
lungo tempo. Cercarono di Mejean e di Darnay; non gli trovarono. La
folla frenetica, messa le mani nel sangue, le voleva mettere nelle
sostanze. Già le case si notavano, già le porte si rompevano, già le
suppellettili si recavano; la opulenta Milano andava a ruba. A questo
passo i possidenti ed i negozianti, ordinata la guardia nazionale
frenarono i facinorosi, e preservarono la città.

Il vicerè che tuttavia sedeva in Mantova, uditi i moti di Milano,
indispettitosi, diè la fortezza in mano degli Austriaci: atto veramente
biasimevole, del quale perpetuamente la posterità accuserà Eugenio;
imperciocchè gli uomini giusti e grandi non operano per dispetto, nè
Mantova era d'Eugenio, ma degl'Italiani: miserabili calate dei
Napoleonidi. Napoleone tutto stipulava per se, nulla pe' suoi a
Fontainebleau, Eugenio non solo nulla stipulava pe' suoi, ma ancora
tutto quel maggior male fece loro, partendo, che potè. Partiva da
Mantova per la Baviera, le Italiche ricchezze seco portando. Per poco
stette, che le memorie di Hofer nol facessero uccidere in Tirolo, nuovo
dolore mandatogli dal fato, che chiamava a distruzione i Napoleonidi.

I collegi elettorali, adunatisi, crearono una reggenza. Decretarono che
le potenze alleate si richiedessero dell'independenza del regno, di una
constituzione libera, e di un principe Austriaco, ma independente:
alzavano le loro speranze le parole pubblicate dai confederati del
volere l'independenza delle nazioni. S'appresentarono Fè di Brescia,
Gonfalonieri, Ciani, Litta, Ballabio, Somaglia di Milano, Sommi di
Crema, Beccaria di Pavia, legati, a Francesco imperatore a Parigi.
Esposte le domande, rispose, anche lui essere Italiano: i suoi soldati
avere conquistato la Lombardia: udirebbero a Milano quanto loro avesse a
comandare. Entrarono gli Austriaci in Milano il dì ventotto aprile:
Bellegarde ne prendeva possessione in nome dell'Austria il dì ventitrè
di maggio. Così finì il regno Italico.

Continuava Genova in potestà d'Inghilterra; vivevano i Genovesi
confidenti della conservazione dell'antica repubblica. Gli confortavano
la rintegrazione promessa dagli alleati di ciascun nel suo, e le
dimostrazioni Bentiniane. Ma ecco il congresso di Vienna decretare,
dover Genova cedere in potestà del re di Sardegna.

A questa novella il governo temporaneo nel seguente modo favellava ai
popoli Genovesi: «Informati, che il congresso di Vienna ha disposto
della nostra patria, riunendola agli stati di Sua Maestà il re di
Sardegna, risoluti da una parte a non lederne i dritti impreteribili,
dall'altra a non usar mezzi inutili e funesti, noi deponiamo
un'autorità, che la confidenza della nazione, e l'acquiescenza delle
principali potenze avevano comprovata.

«Ciò, che può fare per i diritti e la restaurazione de' suoi popoli un
governo non d'altro fornito che di giustizia e ragione, tutto, e la
nostra coscienza lo attesta, e le corti più remote lo sanno, tutto fu
tentato da noi senza riserva, e senza esitazione. Nulla più dunque ci
avanza, se non di raccomandare alle potestà municipali, amministrative e
giudiziali l'interino esercizio dell'ufficio loro, al successivo governo
la cura dai soldati che avevamo cominciato a formare, e degl'impiegati
che hanno lealmente servito, a tutti i popoli del Genovesato la
tranquillità, della quale non è alcun bene più necessario alla nazione.
Dalla pubblica alla privata vita ritraendoci, portiamo con esso noi un
dolce sentimento di gratitudine verso l'illustre generale, che conobbe i
confini della vittoria, ed un'intiera fiducia nella provvidenza divina,
che non abbandonerà mai i Genovesi.»

Queste furono le ultime protestazioni, le ultime querele, e le ultime
voci dell'innocente Genova. Il giorno susseguente, che fu addì venzette
dicembre, un Giovanni Dalrymple, comandante dei soldati del re Giorgio,
ne assunse il governo: la diede poscia in mano ai legati del re Vittorio
Emanuele.

Così l'Italia, dopo una sanguinosa e varia catastrofe di vent'anni,
dalla quale dieci terremoti, e non so quanti volcani sarebbero stati per
lei migliori, si ricomponeva a un di presso nello stato antico. Tornava
Vittorio Emanuele in Piemonte, Francesco in Milano, Ferdinando in
Toscana, Pio in Roma: passò Parma dai Borboni agli Austriaci; conservò
Giovacchino il real seggio di Napoli, ma non per durare; le Italiane
repubbliche spente: l'acume del secolo trovò, che la legittimità è nel
numero singolare, nel plurale no. Solo fu conservato l'umile San Marino,
forse per un tratto d'imitazione di più degli andari Napoleonici: la sua
esiguità e povertà non eccitavano le cupidità di nissuno. Cedè Venezia a
Francesco, Genova a Vittorio. Nè furono i governi di Francesco, di
Vittorio, di Ferdinando e di Pio sdegnosi: solo non misurarono la
grandezza delle mutazioni fatte nelle menti e nel cuore degli uomini, da
sì grandi e sì lunghi accidenti, imperciocchè se esse mutazioni erano,
come alcuni pretendono, malattie, richiedevano convenienti rimedj.
Giudicheranno i posteri, se i mali che seguirono, debbano agl'infermi od
a chi gli doveva sanare, attribuirsi. Felici Giuseppe e Leopoldo,
principi santissimi, che vollero consolar l'umanità colle riforme, non
ispaventarla coi soldati! Nè ai principi Italiani noi qui parlando,
intendiamo accennare instituzioni all'Inglese, alla Francese od alla
Spagnuola, le quali a modo niuno si convengono all'Italia; ma bensì
riforme che facessero sorgere, a maggior quiete e felicità dei popoli di
questa penisola, siccome già abbiam notato nel precedente libro,
instituzioni peculiari accomodate alla natura degl'Italiani, cosa del
pari facile a concepirsi, che sicura ad eseguirsi. Oltre a ciò la
nobiltà esiste in Europa, ed è indestruttibile. E' bisogna pertanto
farne stima in un ordinamento sociale tendente allo stato libero, come
di un elemento necessario, e darle, come a corpo constituito, quella
parte di potestà politica che le si conviene, perchè sia contenta, e non
tenti usurpazioni nelle altre potestà della macchina sociale. Ciò
eseguito, fia necessario da un altro lato inibirle l'ingresso, e
qualunque ingerenza nella potestà popolare, instituita, quanto
all'Italia, a modo antico, ma bene e prudentemente inteso, non a modo
moderno, che non può esser buono. La divisione tra la nobiltà ed il
popolo è nella natura stessa delle cose, e debb'essere ancora nella
legge politica. Questa è condizione indispensabile sì per la libertà, e
sì per la quiete dello stato, e ad esse niuna cosa è più perniziosa che
una nobiltà in aria, ed una potestà popolare composta di conti e di
marchesi. Questi principj sono veri, e possibili ad esser ridotti
all'atto, o che si viva in monarchìa, o che si viva in repubblica. La
chimera dell'equalità politica ha fatto in Europa più male alla libertà
che tutti i suoi nemici insieme. L'equalità debb'essere nella legge
civile, non nella politica. I principj astratti ed assoluti, in
proposito d'ordinamento sociale, son fatti solamente per indicare i
fondamenti delle cose, non per esser posti in atto senza modificazione;
perchè le passioni, che sono la parte attiva dell'uomo, generano
movimenti disordinati, che bisogna frenare. Sono essi principj in
economia politica ciò, che sono i geometrici nella meccanica, le
passioni, in quella, ciò che l'attrito delle macchine, ed altri
accidenti prodotti dalla natura della materia, in questa; e così come si
tien conto dell'attrito nell'ordinar le macchine, si dee tener conto
delle passioni nell'ordinar la società. L'effetto che si desidera, è la
libertà, cioè l'esatta e puntuale esecuzione della legge civile uguale
per tutti, ed un'uguale protezione della potestà sociale per ciascuno,
sì quanto alle persone, come quanto alle sostanze. Purchè si ottenga
questo fine, non si dee guardare alla qualità dei mezzi, e mezzi di
diversa natura, secondo la diversità delle nazioni, vi possono condurre.
Chi risolvesse bene questo problema, «sino a qual segno ed a qual parte
dell'equalità politica si debba rinunziare per meglio assicurare la
libertà, e l'equalità civile», farebbe un gran servizio all'umanità. Ma
di ciò più ampiamente altri più capaci di noi.

Noi intanto, terminata questa gravosa fatica, alla quale piuttosto per
desiderio altrui che nostro ci mettemmo, qui deponiamo la penna, e qui
diamo riposo alla mente oggimai troppo travagliata e stanca.


FINE DEL TOMO VI ED ULTIMO.



INDICE DEL PRESENTE VOLUME


  1806

  Guerra colla Prussia                                   _Pag._ 5
  È vinta a Jena                                                7
  Battaglia di Eylau                                            7

  1807

  I Russi vinti a Fridlandia                                    8
  Napoleone ed Alessandro si spartiscono il mondo               8
  Trattato del Niemen                                           8
  Adulazione verso Napoleone                                    9
  Gamboni patriarca di Venezia a Parigi                        10
  Camillo Borghese governa Torino                              10
  Napoleone scende in Italia                                   10
  Il Portogallo tolto alla casa di Braganza                    12
  Il re di Etruria mandato in Portogallo                       13
  Menou in Toscana                                             13
  Degerando                                                    14
  Giunta di Toscana e suo governo                              14
  Elisa gran duchessa del ducato di Toscana                    16

  1808

  Parma unita alla Francia                                     16
  Condizione dell'Italia                                       16
  Opere magnifiche di Napoleone                                20
  Napoleone insidia la Spagna                                  21
  Il re Carlo mandato a Marsilia                               22
  Ferdinando di Spagna prigione a Valençay                     22
  Giuseppe re di Spagna                                        22
  Gioacchino Murat re di Napoli                                22
  Napoleone si abbocca con Alessandro ad Erfurt                23
  Gioacchino a Napoli                                          23
  Cardinale Firrao                                             24
  Capri in mano degli Inglesi                                  25
  Hudson Lowe                                                  25
  Capri ripresa dai Napolitani                                 25
  Modo con cui governa Gioacchino                              27
  Carbonari, loro origine                                      29
  Allettati dal re Ferdinando e da Carolina                    32
  Principe di Moliterno                                        32
  Disordini in Calabria                                        34
  Napoleone disturba il papa                                   35
  Nuove domande al papa                                        44
  Miollis va a Roma                                            46
  Alquier                                                      46
  Cardinale Casoni                                             46
  Francesi entrano in Roma                                     47
  Cardinali Napolitani e del regno d'Italia intimati
    a partire                                                  49
  Violenze de' Francesi                                        50
  Frici e Bracci colonnelli                                    51
  Miollis s'impadronisce del Vaticano                          52
  Monsignor Cavalchini                                         53
  Parole del papa a Napoleone                                  53
  Parte dello stato pontificio unito al regno d'Italia         54
  Generale Lemarrois                                           54
  Monsignor Rivarola                                           54
  Cardinal Gabrielli                                           56
  Il papa non acconsente al giuramento                         57
  Modificazione di Eugenio                                     58
  Ostinazione del papa                                         59
  Sua protesta                                                 61

  1809

  Pensieri dell'Austria                                        66
  Suoi apparecchi                                              67
  Arciduca Carlo                                               68
  Bellegarde                                                   68
  Arciduca Giovanni                                            69
  Giulay                                                       69
  Marmont                                                      69
  Apparecchi di Napoleone                                      70
  Eugenio governa la guerra d'Italia                           70
  L'arciduca Giovanni dichiara la guerra                       71
  Suo manifesto                                                71
  Assedia Osopo e Palmanova                                    75
  Seras, Severoli e Barbou                                     76
  Colonnello Giflenga                                          77
  Teste ferito                                                 77
  Battaglia di Sacile                                          77
  Eugenio si ritira all'Adige                                  77
  Lamarque e Durutte                                           77
  Macdonald                                                    77
  Abitatori di Crispino si sollevano                           78
  Arciduca Carlo entra in Baviera                              78
  Jellacich mandato in Tirolo                                  79
  Sollevazione de' Tirolesi                                    79
  Andrea Hofer                                                 79
  I Bavari si arrendono ai Tirolesi                            81
  Chasteler mandato in Tirolo                                  82
  Vittorie di Napoleone                                        83
  L'arciduca Giovanni si ritira dall'Italia                    83
  Battaglia a Conegliano                                       85
  Il vicerè si avvicina a Vienna                               87
  Macdonald                                                    87
  Marmont combatte in Dalmazia                                 88
  Parole di Napoleone agli Italiani                            89
  Battaglia di Giavarino                                       90
  Battaglia di Vagria                                          90
  Pace tra Francia ed Austria, cessioni di quest'ultima        91
  I Tirolesi continuano                                        92
  Fine di Andrea Hofer                                         93
  Decreto di Vienna che unisce Roma all'impero francese        95
  Miollis al governo di Roma                                   96
  Protesta del papa                                            96
  Scomunica Napoleone                                          98
  È arrestato                                                  99
  Cardinale Pacca                                              99
  Generale Radet                                               99
  Diana                                                        99
  Ceracchi                                                     99
  Il papa è condotto a Savona                                 101
  Pacca mandato a Pietra Castello                             102
  Deputati Italiani in Francia                                102
  Opinione di Napoleone su Tacito                             102
  Governo di Roma francese                                    105
  Stipendi                                                    107
  Faccenda dei giuramenti                                     108
  Dalpozzo                                                    109

  1810

  Vescovi                                                     112
  Baccolo vescovo di Famagosta                                112
  Canonici                                                    113
  Curati                                                      113
  Soppressione dei conventi                                   114
  Buone opere della consulta                                  114
  Convento di san Basilio di Grottaferrata                    116
  Convento di Camaldoli                                       116
  La Propaganda                                               117
  Imitata dagli eterodossi                                    121
  Missionari                                                  121
  Stamperia della Propaganda                                  124
  Opere di musaico                                            124
  Napoleone vuole visitar Roma                                126
  Carolina di Sicilia si disgusta degl'Inglesi e stringe
    pratiche con Napoleone                                    127
  Gioacchino tenta la Sicilia                                 128
  Carolina esiliata dalla corte                               130
  Briganti in Calabria                                        130
  Manhes generale                                             131
  Capobianco ucciso                                           134
  Talarico di Carlopoli                                       135
  Parafanti                                                   135
  Immagini di Napoleone nelle chiese di Ancona                139
  Pio VII prigione a Savona                                   140
  Cardinale Spina                                             141
  Ostengo                                                     141
  Conte Chabrol                                               142
  Conte Sarmatoris                                            142
  Cesare Berthier                                             143
  Ugo Maret                                                   143
  Pensieri di Napoleone sul papa                              150
  Pio pensa a riunire gli eterodossi                          153
  Disordini nella Chiesa                                      154
  Cardinal Caprara                                            154
  Concilio di Parigi                                          157
  Ripiego di Napoleone                                        160
  Nuovi disordini                                             161
  Maury arcivescovo di Parigi                                 162
  Dastros messo nelle segrete                                 164
  Querele e minacce di Napoleone                              165

  1811

  Consiglio ecclesiastico                                     172
  Opinioni de' Giansenisti Italiani                           179
  Teologi che difendono il papa                               183
  Concilio nazionale a Parigi                                 194
  Proposte di Napoleone al papa                               195
  Pio cala ad accordi                                         200
  Sua sinderesi                                               202
  Nuove richieste di Napoleone                                204
  Sue minacce                                                 208
  Pio condotto in Francia                                     210

  1812

  Accidenti di Sicilia                                        212
  Marchese Artali                                             213
  Sua crudeltà                                                214
  Giovanni Stuard                                             215
  Cavaliere Medici                                            216
  Duca d'Ascoli                                               216
  Intrighi di Carolina                                        216
  Disordini in Sicilia                                        217
  Parlamento                                                  219
  Principe di Belmonte                                        220
  Riforma in Sicilia                                          221
  Medici rinuncia                                             222
  Secondo parlamento                                          222
  Ripieghi di Tommasi                                         222
  Baroni arrestati                                            224
  Disegni degl'Inglesi                                        225
  Bentink in Sicilia                                          225
  Sue minacce a Carolina                                      227
  Carolina si ritira dagli affari                             228
  Nuova costituzione                                          229

  1813

  Sospetti sulla regina                                       232
  Il re riassume l'autorità                                   233
  Si ritira di nuovo                                          235
  Carolina cacciata dalla Sicilia muore a Vienna              236
  La costituzione come abolita                                238
  Inglesi prendono Lissa                                      240
  Smisurati pensieri di Napoleone                             240
  Odio contro di lui                                          243
  Guerra colla Russia                                         245
  Frodi di Bentink                                            247
  Trattative di Murat                                         247
  Napoleone si accorda col papa                               249
  Pratiche tra i principi                                     252
  Pensieri in Italia                                          253
  Titubanza di Eugenio                                        256
  Simile di Gioacchino                                        257
  Hiller generale austriaco eccita i popoli alla
    ribellione                                                260
  Bentink e Wilson proclamano l'indipendenza dell'Italia      261
  Esercito del vicerè                                         262
  Condizione dell'esercito austriaco                          265
  Imprudenza del vicerè                                       267
  Dalmati e Croati insorgono                                  267
  Il vicerè si ritira                                         269
  Battaglia di Bassano                                        269
  Italiani disgustati del vicerè                              271
  Nugent prende Ferrara                                       273
  Gioacchino si volta contro Napoleone                        274
  Battaglia al Mincio                                         277
  Inglesi prendono Livorno                                    279

  1814

  Manifesto di Bentink                                        280
  Prende Genova                                               281
  Ordina il governo libero                                    283
  Sofisma di Castelreagh                                      284
  Gli alleati in Parigi                                       285
  Convenzione di Schiarino-Rizzino                            287
  Congedo dei Francesi                                        288
  Pratiche di Eugenio per farsi re                            290
  Tumulto in Milano                                           298
  Prina ucciso                                                299
  Tradimento di Eugenio                                       299
  Legati all'imperatore                                       300
  Genova unita al Piemonte                                    300


FINE DELL'INDICE.



TAVOLA DELLE MATERIE CONTENUTE NEI SEI TOMI

(I numeri romani indicano il tomo, gli arabici le pagine).


A

_Abdicazione_ sforzata del re di Sardegna, Tom. IV, pag. 137.

_Aboukir_ (battaglia d') IV, 20.

ABRIAL. Mandato dal Direttorio a Napoli, IV, 210. Vi crea un governo, e
quale, _ivi_. Sua generosità verso i discendenti del Tasso, _ivi_.

_Acqui_ (moto incomposto d') contro il governo repubblicano in Piemonte,
IV, 220.

ACTON, ministro di Napoli. Sue insinuazioni alla regina, I, 270.

_Adige_. Descrizione del suo corso, II, 242.

_Alba_ (sommossa d') I, 343. Si solleva contro i Francesi, IV, 261.

_Albani-Villa._ Come spogliata, III. 329.

_Albani_, cardinale. Suo parere sul concordato del 1801, V, 207.

ALBAREY (marchese d'). Suo discorso nel consiglio del re di Sardegna a
persuasione della continuazione della guerra colla Francia, I, 284.

ALCIATI. Suo fatto contro i sollevati del Piemonte, IV, 114.

_Alessandria_ (Cittadella di) oppugnata dagli alleati, IV. 340.

ALESSANDRO, Imperator di Russia. Sua discordia con Napoleone, V, 309. È
vinto e fa la pace con lui, VI, 8. Il va a visitare a Erfurt, 23. Sua
guerra con Napoleone, 242. Vince, 245.

ALÌ, pascià di Ianina. Sua natura, IV, 286. Assalta i Francesi a
Nicopoli, e gli vince, 288. Come tratta i prigionieri, 294.

_Alleati._ Minacciano Genova, I, 222. Loro speranze e timori, 239. Loro
situazione sulla riviera di Ponente, 262. Loro disegni, 264. Perdono la
battaglia di Loano, 292. Tentano l'animo del re di Sardegna, 364. Come
ordinati in Italia sul principio del 1796, 297 e 321. Loro conforti a
Buonaparte, III, 239.

_Altamura_, città del regno di Napoli, presa dal cardinal Ruffo, e come
trattata, V, 9.

ALVINZI, generalissimo d'Austria II, 227. Combatte prosperamente a
Caldiero, 237. Sua condizione vittoriosa, 240. È vinto ad Arcole, 246.
S'apparecchia a nuova guerra, 264. Suoi disegni penetrati, e per opera
di chi, 270. È vinto a Rivole, 274. Si ritira alla parte più aspra del
Tirolo, 277.

AMORE (cavalier di sant'), condannato a morte a Torino e perchè, I, 209.

_Ancona_, difesa dai Francesi, oppugnata dagli alleati, V, 55. Si
arrende, 69.

_Andria_, città della Puglia. Presa d'assalto, e come trattata, IV, 201.

ANGIOI, cavaliere. Suo moto in Sassari per ottener gli _stamenti_, I,
277. Suoi pericoli in Livorno, II, 86.

ANGIOLI. _Ved._ DE ANGIOLI.

ANSELMO, generale di Francia. Invade il paese di Nizza, I, 98.

AOSTA (duca d'). Accompagna il re suo padre nella spedizione di Nizza.
Sue qualità, I, 171. Come sottoscriva l'atto d'abdicazione del re suo
fratello, IV, 138. Diventa re per la seconda abdicazione di suo
fratello, V, 245.

_Aosta_ (valle d'), tentata dai Francesi, I, 201.

_Arciduca_, CARLO. Mandato dall'imperatore a governar l'esercito
italico, III, 13. Come lo dispone, 14. Sue qualità, e modo di far la
guerra, 15. Si ritira dal Tagliamento, 17. Spera di vincere alla Ponteba
ed a Tarvisio, e perchè gli venga rotto il disegno, 24. Sue risoluzioni
dopo di questo sinistro, 26. Come risponda ad una lettera di Buonaparte,
30. Generalissimo in Italia, V, 313. È vinto a Caldiero, 319.
Generalissimo in Germania, VI, 68. Perde le battaglie di Taun,
Abensberga, e Ecmul, 83. E quella di Vagria, 90.

_Arciduca_, FERDINANDO, obbligato a lasciar Milano, e sue provvisioni
prima di lasciarlo, I, 373.

_Arciduca_, GIOVANNI, generalissimo d'Austria in Italia, VI, 69. Suo
manifesto agli Italiani, 71. Vince a Sacile, 77. Si ritira dall'Italia,
83. Perde la battaglia di Giavarino, 90.

_Arcole_ (battaglia d'), I, 246 e seg.

_Ardente_ (battaglia del colle) I, 207.

ARENA Ved. SALICETI.

_Arezzo_, città di Toscana, si solleva contro i Francesi, IV, 307. Come
minacciata da Macdonald, 310. Presa d'assalto dai Francesi, V, 171.

ARGENTEAU, generale Austriaco; suoi errori nella battaglia di Loano, I,
296. Ed in quella del Dego, 331.

ARNAULD, letterato di Francia, va a Corfù, III, 266. Come pensa dei
Greci, 271. Quali esortazioni faccia a Buonaparte rispetto a Venezia,
275.

ARTALI, marchese, suo procedere in Messina, VI, 213 e seg.

_Assemblea nazionale_ di Francia. Vedi _Francia_.

ASSIA (principe d') difende Gaeta contro i Francesi, V, 330.

AUGEREAU, generale di Francia, combatte valorosamente alla battaglia di
Loano, I, 297. Conforta Buonaparte sbigottito, II, 95 e 99. Grave
battaglia tra lui, e Quosnadowich sulla Brenta, 233. Suo valore nella
battaglia d'Arcole, 254. Sue generose querele sul modo con cui è
trattata Verona, III, 87.

_Austria_. Sua costanza maravigliosa, II, 266. Stato miserabile del suo
esercito in Italia, III, 12. Vi manda l'arciduca Carlo a governarlo, 13.
Manda legati per trattar la pace con Buonaparte, 31. Sue nuove
disposizioni contro la Francia, IV, 224. Si oppone al ritorno del re in
Piemonte, 277. Nuova discordia tra lei e la Francia, V, 311. Nuova
guerra, VI, 66.

_Austriaci_. Lor modo di guerreggiare rispetto a quel dei Francesi, IV,
28. Occupano le provincie Venete del Levante, 257. Ed i Grigioni, 225.
Come ordinati verso l'Italia nell'ultima guerra contro Napoleone, VI,
259. Occupano Milano, 300.

AZZERETTO, fuoruscito Genovese. Sue esortazioni a' suoi compatriotti, V,
95. Assalta Genova con turbe collettizie, 108.


B

BACCIOCCHI, nominato principe di Lucca da Napoleone, V, 300.

BAFFI, _Pasquale_, suo supplizio in Napoli, V, 44.

BAGDELONE, generale di Francia. Come prenda il piccolo S. Bernardo, I,
200.

BALBO, conte, ambasciatore del re di Sardegna a Parigi, e suo discorso
al direttorio, II, 161. Sue astute insinuazioni al governo Francese,
III, 177. Si adopera efficacemente per la rivocazione di Ginguenè,
ambasciator di Francia a Torino, e l'ottiene, IV, 125. Non riconosce il
governo nuovo. Sue qualità, 216.

BALLAND, generale comandante in Verona al momento della sollevazione dei
Veronesi, III, 76.

BARAGUEY D'HILLIERS, generale di Francia, s'impadronisce di Bergamo III,
34. Sua condotta in Venezia, III, 265 e 272. Vi pianta l'albero della
libertà, 280.

_Barbereschi._ Danni che fanno a Genova, III, 166.

_Barbetti._ Loro operare sulle montagne di Nizza, I, 262.

_Bard_ (forte di). Come osta ai Francesi, V, 128.

_Bari_ (terra di). Si solleva contro il governo repubblicano, IV, 192.

_Baroni_ del regno di Napoli, come trattati, IV, 185. Baroni in Sicilia
contrari al ministro Medici e perchè, VI, 220. Loro atto e come
trattati, 223 e 224. Loro generosità, 231.

BARRAS. Sue pratiche cogli agenti dei Borboni, III, 240.

BARTHELEMI. Ministro di Francia in Isvizzera. Suoi negoziati, I, 302.

BARZONI. Suo libro contro i Francesi, III, 277.

_Basilea_ (pratiche per la pace di) I, 301.

_Bassano_, congresso di, III, 284.

BASSEVILLE, segretario della legazione di Francia a Roma, come
ammazzato, I, 215.

_Battaglia_ navale del capo di Noli, I, 258. Battaglie di San Giacomo e
di Melogno, 265. Di Loano, 292. Di Montenotte, 321. Di Magliani, 327.
Del Dego, 332. Di Mondovì, 341. Di Fombio e di Codogno, 363 e 365. Del
ponte di Lodi, 368. Di Lonato, II, 99. Di Castiglione (prima) 101. Di
Castiglione (seconda), 108. Di Roveredo, 114. Di Primolano e Bassano,
118. Di Calliano, 231. Di Caldiero, 237. D'Arcole, 246. Di Rivole, 273.
Del Senio, 294. Del Tagliamento, III, 17. Della Ponteba, e di Tarvisio,
24 e 26. D'Aboukir, (navale), IV, 20. D'Ornavasso, 87. Di Verona, 231 e
235. Di Magnano, 239. Di Cassano, 246. Di Nicopoli, 288. Della Trebbia,
321, 323 e 327. Di Novi, 368. Di Savigliano, 386. Della Chiusella, V,
132. Di Casteggio, 136. Di Marengo, 140. Del Mincio, 179 e seg. Di
Campotenese, 331. Di Maida, 337. Di Sacile, VI, 77. Di Giavarino, 90. Di
Malo-Jaroslavetz, 245.

BATTAGLIA, _Francesco_, provveditor dei Veneziani a Brescia. Sue
insinuazioni a Venezia, II, 175. Come senta la rivoluzione di Bergamo,
III, 41. Scrive a Buonaparte, e qual risposta ne riceva, _ivi_. Sua
condotta nella rivoluzione di Brescia, 43. Carcerato dai novatori,
_ivi_. Manifesto appostogli con fraude e perchè, 57. Opinione sopra di
lui, _ivi_. Smentisce il manifesto, 58. Suoi maneggi in Venezia per
cambiarvi l'antico governo, 116.

BEAULIEU, generalissimo dei confederati in Italia e sue qualità, I, 305.
Sue disposizioni per impedire ai Francesi l'invasione d'Italia, 319. È
vinto a Montenotte, 321. A Magliani, 327. A Fombio ed a Codogno, 363 e
365. Al ponte di Lodi, 368. Mette presidio in Peschiera, fortezza dei
Veneziani, II, 46. Vinto a Valeggio. Si ritira nel Tirolo, 49.

BELLEGARDE, generale Austriaco. Perde una battaglia al Mincio contro
Brune, e si ritira, V, 182. Sua tregua con Brune, 186. Sua convenzione
di Schiarino-Rizzino col vicerè, VI, 287. Entra in Milano e l'occupa in
nome dell'Austria, 300.

BELMONTE PIGNATELLI. Inviato di Napoli a Parigi, conclude la pace, II,
156.

BELMONTE, di Sicilia, principe. Capo della parte dei baroni, e suoi
atti, VI, 220, 224 e 228.

BENONI, frate. Sue prediche democratiche a Napoli, V, 18.

BENTINK. Mandato dall'Inghilterra in Sicilia e perchè, VI, 225. Induce
il re a rinunziare all'esercizio dell'autorità regia, investendone il
figliuolo, 228. Constituzione, che dà per mezzo del parlamento alla
Sicilia, 229. Come calma un moto del re contrario alla constituzione,
233. Suoi conforti a Murat a favor dell'independenza d'Italia, 246. Sue
esortazioni agl'Italiani, 261. Suo manifesto, 280. Prende Genova, 281.
Di che dia speranza ai Genovesi, 283.

_Bergamaschi._ Si ordinano in compagnie armate, II, 198.

_Bergamo_ (rivoluzione in) da chi procurata, III, 36.

BERTHIER. Combatte valorosamente a Rivole, II, 273. Marcia contro Roma,
III, 311. Se ne impadronisce, 319.

BIGOT DE PREAMENEU ministro dei culti di Napoleone, sue lettere contro
il papa, VI, 165 e 168.

_Bisagno_ (sollevazione di) contro Genova, III, 168.

_Bologna._ Occupata dai Francesi, II, 64. Suoi comizi, 150. Buonaparte
vi prepara la guerra contro il papa, 289.

BONELLI, fuoruscito corso, solleva la Corsica contro gli Inglesi, II,
133.

BORGHESE, principe, governatore del Piemonte. Suoi ordini circa il papa
prigioniero a Savona, VI, 140 e 168.

BOSSI, Carlo, membro del governo provvisorio del Piemonte. Sue qualità,
IV, 218. Procura l'unione del Piemonte alla Francia, _ivi_.

BOTTON di Castellamonte, intendente generale della Savoja. Sue qualità,
I, 94.

BOUDET. Suo valore nella battaglia di Marengo, V, 146 e 147.

BOURDÈ, capitano di vascello, mandato a Corfù, e con qual missione, III,
266.

BOURGES (Prammatica di) invocata dal consiglio ecclesiastico di Parigi,
VI, 178.

BOYER, medico. Giustiziato in Piemonte e perchè, III, 194 e 207.

_Braganza_ (Casa di) spodestata da Napoleone, VI, 12.

BRANDALUCIONI, ufficiale d'Austria. Suoi eccessi nel Canavese, IV, 265.

BRASCHI, duca, deputato di Roma. Come parli a Napoleone, VI, 103.

_Brescia_ (rivoluzione di) e da chi procurata, III, 42.

_Brigido_, colonnello d'Austria. Come contrasti ai Francesi in Arcole,
II, 244.

BRUEYS, ammiraglio di Francia. Vinto ad Aboukir, IV, 22 e 26.

BRUNE, generale di Francia a Milano, IV, 67. Suoi pensieri contro il re
di Sardegna, 98. Gli domanda la cittadella di Torino, 103. Suo manifesto
ai sollevati Piemontesi, 110. Vince la battaglia del Mincio, e passa
questo fiume, V, 179. Sua tregua con Bellegarde, 186.

BULGARI, nobile corfiotto. Dà favore ai Russi, IV, 288.

BUONAPARTE, _Giuseppe_. Ambasciatore di Francia a Roma, III, 303. Entra
trionfalmente in Napoli, 330. Creatovi re da suo fratello Napoleone,
333. Re di Spagna, IV, 22.

BUONAPARTE, _Napoleone_. Surrogato a Scherer nella carica di
generalissimo dei repubblicani, e perchè, I, 316. Sue qualità, _ivi_.
Sue disposizioni per invadere l'Italia, 318. Vince a Montenotte, 321. A
Maglioni, 327. Al Dego, 334. Mezzi che usa per costringere alla pace il
re di Sardegna, 339. Vince a Mondovì, 341. Suoi sentimenti favorevoli
per la casa di Savoja, 354. Sua prima allocuzione a' suoi soldati, 355.
Inganna Beaulieu, e passa il Po a Piacenza, 360. Vince a Fombio ed a
Codogno, 363 e 365. Al ponte di Lodi, 368. Entra in Milano, e come, 377.
Sua seconda allocuzione ai soldati, 378. Sue minacce a Genova, II, 10.
Occupa Brescia, e suo manifesto dato da questa città, 45. Minaccia il
provveditor generale Foscarini, 51. Entra in Verona, 60. Occupa Bologna
e quello che vi fa, 64. Occupa Ferrara, 67. Sue operazioni per opporsi a
Wurmser, 95. Si sbigottisce per le mosse di Wurmser; Augereau ed i
soldati il confortano, _ivi_ e 99. Si trova in grave pericolo a Lonato,
e come se ne libera, 105. Vince a Lonato, _ivi_. Vince a Castiglione,
108. Vince a Roveredo, 114. Seguita Wurmser per la valle della Brenta,
118. Vince a Primolano ed a Bassano, _ivi_. È vinto; poi vince sotto le
mura di Mantova, 125. Solleva la Corsica sua patria, e la toglie
agl'Inglesi, 128. Dichiara la guerra al duca di Modena e gli fa rivoltar
lo stato, 148. Arriva in Modena e quel che vi fa, 152. Sue intenzioni
rispetto al re di Sardegna, 158. Come giudichi dei popoli Cispadani,
211. Come risponda al congresso della Cispadana, 215. Sue querele contro
i rubatori dell'esercito, 218. Si oppone ad Alvinzi e con quali forze,
228. Si ritira a Verona, 237. Combatte con infelice successo a Caldiero,
238. Sua pericolosa condizione e sinistre parole, 240. Si riscuote con
mirabile artifizio, 244. Vince ad Arcole, 246. Ed a Rivole, 273. Prepara
la guerra contro il papa, 289. Sue generose lodi di Wurmser, 293. Sua
umanità verso gli ecclesiastici dello stato pontificio, 298. Fa la pace
col papa a Tolentino, 301. Manda Monge a fare onorevole ufficio alla
repubblica di S. Marino, 303. Suoi pensieri nell'ordinar una nuova
guerra contro l'Austria, III, 6. Come disponga l'esercito, 8. Suo bando
ai soldati, 11. Paragonato all'arciduca Carlo, 15. Passa il Tagliamento,
17. Entra vittorioso nelle metropoli della Stiria, della Carniola, e
della Carintia, 29. Scrive all'arciduca, 30. Suo pericolo, 31. Conclude
una tregua, poi i preliminari di pace coll'Austria, _ivi_. Rivolta la
terraferma veneta, 33 e 62. Come risponda ai legati mandati a lui dal
senato Veneziano, 45 e 101. Insidia Verona, 52. Manda Junod a fare un
violento uffizio a Venezia, 62. Sue parole furibonde contro di lei, 101.
Le dichiara la guerra, 103. Vuol cambiare l'antico governo di lei, con
qual fine, e con quali mezzi, 104. Suo crudo parlare a Giustiniani, 113.
Vuole che il gran consiglio di Venezia abolisca il patriziato e si
spogli della sovranità e perchè, 120. Ottiene questo suo intento e come,
125. Suo trattato con Venezia, 130. Sue insidie contro Genova, 133. Fa
una mutazione nel governo di lei, e quale, 153. Dà favore al re di
Sardegna, e come, 186 e 187. Sua opinione sui Cisalpini, 185. Ordina la
Cisalpina, 216. Suo ultimo vale alla Cisalpina, 237. Sue macchinazioni
per arrivare alla somma potestà in Francia, 239. Manda la sua moglie a
Venezia e come vi è trattata, 283. Suoi discorsi a Verona, 286. Sue
lettere a Villetard segretario della legazione di Francia a Venezia,
187. Consegna Venezia agli Alemanni, 298. Accetta la condotta della
spedizione di Egitto, e con quai fini, IV, 8. Parte per l'Egitto, e
prende Malta, 14 e 16. Sbarca in Egitto e s'insignorisce di Alessandria,
20. Quanto desiderato in Francia dopo le rotte d'Italia, V, 73. Vi
arriva e con quale allegrezza ricevuto dai popoli, 76. Distrugge il
governo del direttorio, e si fa primo consolo, 77. _Vedi Consolo._

BURCARD, generale di Napoli, occupa Roma, V, 54.

BURONZO DEL SIGNORE, arcivescovo di Torino. Sue pastorali in lode del
governo repubblicano, IV, 262.

BUSCA, cardinale, segretario di stato a Roma. Sue lettere intercette da
Buonaparte, II, 288.


C

CACAULT, ministro di Francia a Roma. Sue insinuazioni contro il papa,
II, 286. III, 301.

_Cagliari_ di Sardegna assaltata dai Francesi, e come si difende, I,
147.

_Calabresi_, repubblicani. Loro coraggio indomito, V, 20.

_Calabrie._ Si sollevano contro il governo repubblicano, IV, 192. Fatti
sanguinosi in quel paese, 332, 337 e 340. Con quali mezzi pacificate e
da chi, VI, 131.

_Caldiero_, battaglia di, II, 338. V, 319.

_Calliano_, battaglia di, II, 231.

_Campoformio_, trattato di, III, 249.

_Campotenese_, battaglia di, V, 331.

_Canavese_, sollevato da un Brandalucioni, ed accidenti parte ridicoli,
parte tremendi che vi si vedono, IV, 265.

CAPOBIANCO. Capo dei carbonari in Calabria, VI, 29. Perisce, e come,
134.

CAPO D'ISTRIA. Famiglia nobile in Corfù, favorevole ai Russi, IV, 286.

CAPRARA, cardinale. Conclude un concordato a nome del papa per la
repubblica Italiana, V, 258. Sua lettera al papa, VI, 155.

_Capua._ Assediata dai Francesi, IV, 158. È loro consegnata, 166.

CARACCIOLI, _Francesco_, principe. Giustiziato in Napoli e perchè, V,
47.

CARAFFA, _Ettore_, principe di Ruvo, fuoruscito Napolitano: sue qualità,
IV, 167. Sua spedizione in Puglia, 196. Preso, condotto a Napoli, e
punito coll'ultimo supplizio; suo estremo coraggio, V, 47.

_Carbonari._ Si sollevano in Genova contro i novatori, e conservano
l'antico stato, III, 142.

_Carbonari._ Setta nel regno di Napoli, come nata, suoi riti e fini, VI,
29. Perseguitati dal re Giovacchino, 131.

_Cardinali._ Come trattati, III, 335.

CARLETTI, conte. Inviato a Parigi dal granduca di Toscana, I, 249.
Conclude la pace, 258. Suo discorso al consesso nazionale, e risposta
del presidente, _ivi_. Rivocato e perchè, II, 8.

CARLO, arciduca, Ved. _Arciduca_.

CARLO EMANUELE, re di Sardegna. Assunto al trono, sue qualità, ed in
quale stato trovi il regno, II, 159. Manda il conte Balbo suo
ambasciatore a Parigi, 161. Offerte che gli fa la Francia per
congiungerselo in amicizia, 167. Suo procedere e suoi fini con
Buonaparte, e colla Francia, III, 176. Suo trattato colla Francia, 186.
Congiure e sollevazioni in Piemonte e come vi rimedia, 194. Doma i
sediziosi, 203. Sue condizioni nel 1798, IV, 65. Come risponda
all'ambasciator di Francia, 70. Sua costanza e suo editto contro i
novatori, 76. La repubblica Ligure gli dichiara la guerra e perchè, 98.
Cessa la guerra e perchè, 109. I Francesi gl'invadono ostilmente il
regno, 132. Sua prima potestà, 135. Sua rinunzia al regno, 137. Parte
dal Piemonte e sua illibatezza nel partire, 142. Sua seconda protesta,
144. Sua abdicazione in favore del fratello, V, 245.

_Carmagnola_, città del Piemonte. Si solleva contro i Francesi; crudeltà
che commettono i suoi abitanti e come ne sono puniti, 260.

CAROLINA, regina di Napoli. Suo sdegno contro i novatori, I, 271.
Pacifica il regno col consolo e come, V, 189. Tratta con Napoleone, e di
che, VI, 127. Viene in sospetto degli Inglesi, 130 e 225. Come risponda
all'intimazione di Bentink, 226. Si ritira da Palermo e perchè, 228. Va
ad abitar Castelvetrano, e perchè, 233. Suo tentativo per riassumere
l'autorità, _ivi_. Costretta dagl'Inglesi ad abbandonar la Sicilia,
arriva a Vienna, e muore: sue qualità, 236.

_Carrosiani._ Assaltano le truppe regie in Piemonte, IV, 94. Fanno un
moto nella Fraschea, e macello che ne segue, 112.

_Carrosio._ Nido di repubblicani Piemontesi, IV, 294. Preso, poi
abbandonato dai regj, 296.

CARTEAU. Generale contro i Marsigliesi, I, 173.

CASABIANCA. _Ved._ SALICETI.

_Cassano_, battaglia di, IV, 246.

_Casteggio_, battaglia di, V, 136.

_Castel-Bolognese_, restituito ai Bolognesi, II, 65.

CASTELCICALA (principe di). Membro di una giunta sopra le congiure di
Napoli, I, 271.

CASTELLENGO, conte, vicario di polizia a Torino. Sue qualità, III, 192.
Mandato a Grenoble, e che vi fa, IV, 214.

_Castello di Milano._ Si arrende ai Francesi, II, 62.

_Castiglione_, battaglia di, II, 101 e 108.

CATERINA DI RUSSIA. Stimola alla guerra contro la Francia, I, 76.

_Cattaro_ (bocche di). In potere dell'Austria, III, 260.

_Cenisio_, monte. Sua descrizione, I, 202. Preso dai Francesi, 203.

CERVONI. Suo detto all'imperator Napoleone, e risposta di lui, V, 273.

CHABOT, generale di Francia, difende Corfù, e le altre possessioni
Ioniche contro gli alleati, IV, 286. Ricusa le offerte infami di Alì
pascià di Iannina, 287. Difende egregiamente Corfù, 296. Poi è costretto
alla resa, 301.

_Chambery._ Buona natura del suo popolo, I, 97.

CHAMPIONNET, generalissimo di Francia in Roma, respinto dai Napolitani,
IV, 42. Poi gli respinge, 150. Gli scaccia del tutto e riconquista Roma,
155. Marcia contro Capua, 158. Condizione pericolosissima in cui si
trova, 165. Suo accordo coi deputati del regno, 166. I lazzaroni usciti
da Napoli lo combattono aspramente e lo mettono in gravissimo pericolo,
168. Pure finalmente gli vince, 173. Assalta e prende Napoli, 177. Vi
crea un governo provvisorio, 178. Sue operazioni per consolidare la sua
impresa, 182. Rivocato, e perchè, 190. Preposto all'impresa contro il
Piemonte superiore, 356 e 377. È vinto a Savigliano, 383. Muore a Nizza,
391.

CHASTELER, generale d'Austria. Ha principal parte nella vittoria di
Cassano ed in qual modo, III, 247. Mandato in ajuto dei Tirolesi, VI,
82.

CHIARAMONTI, cardinale e vescovo d'Imola. Sua omelia in lode della
democrazia, III, 227. Creato papa, V, 161. _Ved_. Pio VII.

_Chiusella_, battaglia della, IV, 132.

CICCONE, frate. Trasporta il Vangelo in volgar Napolitano e perchè, V,
18.

CICOGNA, provveditore dei Veneziani a Salò. Lodato e perchè, III, 55.

CICOGNARA, ministro di Cisalpina a Torino, IV, 67. Che scritto porga
all'ambasciator di Francia Ginguenè, 85.

CIMAROSA, _Domenico_. Carcerato in Napoli e perchè, liberato e da chi,
V, 50.

CIRILLO. Suo supplizio in Napoli, e sua virtù, V, 41.

_Cisalpina_, repubblica. Sua creazione, III, 217. Festa magnifica per
questa creazione nel campo del Lazzaretto, 220. Suoi decreti 224. Fa
chiudere la società di pubblica istruzione 225. Le potenze la
riconoscono ed essa invia ministri presso le medesime 233 e 235. Suo
trattato d'alleanza colla Francia, IV, 47. Sua constituzione
violentemente riformata da Trouvé e da Rivaud agenti di Francia, 53 e
58. Sdegni prodotti da queste riforme, 57. Invasa, e distrutta dai
confederati, 252. Ristabilita dal primo consolo, V, 134. Chiamata quindi
Repubblica Italiana, 234. Poi Regno Italico, 277.

_Cisalpini_. Come giudicati da Buonaparte, III, 184. Fanno un moto
contro il papa, 234. Vedi _Italiani_.

_Cispadana_, repubblica, II, 153 e 210. Suo congresso, 212. Arma
soldati, 214. Sue lettere a Buonaparte e risposta di lui, 215.

_Cittadella_ di Torino, rimessa ai Francesi, IV, 109 e 111. Pericolosi
disordini sotto le sue mura, 117. Schifosa mascherata che n'esce, 119.
Presa dagli alleati, 275.

CLARKE. Mandato dal Direttorio in Italia e con quali fini, II, 167.
Tratta la pace col generale San Giuliano, ministro dell'imperatore, 208.
Conclude un trattato d'alleanza col re di Sardegna, III, 186.

CLAUZEL, generale di Francia. Tratta l'abdicazione del re di Sardegna,
IV, 137. Sua condiscendenza verso la famiglia reale, 138.

CLEMENT, generale francese. Difende Cuneo contro gli alleati, IV, 392,
s'arrende, 393.

_Clero_, alto. Suoi costumi in Francia nel 1789, I, 62.

COLEGNO (cavalier di) comandante di Chambery. Sue qualità, I, 93.

COLLI, generale del re di Sardegna. Come si ritiri, II, 207 e 339,
generale del pontefice. Vinto al Senio, 285 e 294, si ritira dietro a
Foligno, 298.

COLLOREDO _Luigi_, cappuccino, predica in Verona contro i forestieri,
III, 84. Dannato all'ultimo supplizio e sua costanza, 96.

_Conclusione_ dell'opera, VI, 304.

_Concordato_ tra il consolo e Pio settimo, IV, 193. Altro tra il
presidente della repubblica Italiana e Pio settimo, 258. Altro concluso
a Fontainebleau, VI, 249.

CONDULMER. Preposto alla difesa delle lagune di Venezia, II, 200. Come
pensi di dette difese, III, 116.

_Confederati._ Vedi _Alleati_.

_Confederazione_ (festa della) a Milano, III, 220. Nuova contro la
Francia, e sue cagioni, IV, 5, 37, 224, e V, 310.

CONFORTI. Suo supplizio in Napoli, V, 43.

_Consiglio_ supremo creato da Suwarow in Piemonte, sue operazioni, IV,
171.

CONSOLO, primo. (_Ved._ BUONAPARTE). Sue arti maravigliose dopo la sua
creazione, V, 79. Scrive al re d'Inghilterra, 84. S'accorda
coll'imperator Paolo, 86. Come animi i soldati alla guerra contro
l'Austria, 90. Suoi discorsi in Ginevra, 120. Suo mirabile passaggio del
Gran San Bernardo, _ivi_ e seg. Vince a Marengo, 140. Suoi ordinamenti
circa l'università di Pavia, 151. Crea governi provvisorj in Cisalpina,
a Genova, ed in Piemonte, 151, 152 e 153. Unisce parte del Piemonte alla
Cisalpina, 157. Accarezza papa Pio settimo, 163. Fa la pace
coll'Austria, 190. E con Napoli, 191. Suo concordato con Pio settimo,
193. Altro concordato, 238. S'avvicina al compimento del suo supremo
desiderio, 260. È chiamato imperatore, 262. _Ved._ NAPOLEONE.

_Consulta_ creata a Roma da Napoleone. Da chi composta e sue operazioni,
VI, 93 e 105.

CONTINO, accusato d'assassinio. L'ambasciatore di Francia a Torino
domanda la sua liberazione e perchè, V, 83.

_Corfiotti._ Come ricevano i Francesi, III, 267. Si sollevano contro di
loro, IV, 288.

_Corfù_, isola. Viene in poter del Francesi, III, 264. Sette ed umori in
essa, 270. Assaltata dai Turchi e Russi, IV, 286 e 296. Si arrende, 301.
Come ordinata in repubblica sotto tutela della Porta Ottomana, V, 167.

CORNER. Legato per Venezia a Buonaparte, III, 44.

_Corsica._ Disegni degli alleati e di Paoli sopra di lei, I, 128. Si
solleva contro i Francesi, 146. Sua constituzione, 227. Esorbitanze dei
Corsi contro i Genovesi, 229. Si sollevano contro gl'Inglesi e gli
cacciano, II, 136.

CORSINI _don Neri_, mandato dal Gran Duca di Toscana come ministro a
Parigi in vece del Carletti, II, 9.

CORVETTO. Membro del governo riformato di Genova mandato a Buonaparte,
III, 168. Presidente. Sue qualità, 174. Suo complimento a Napoleone, V,
295. Fatto consiglier di stato, _ivi_.

_Cosseria_ (fatto d'arme di) I, 326.

COSTA, cardinale, arcivescovo di Torino. Consiglia la pace al re, I,
346.

_Crema_, fatta ribellar dai Francesi, III, 49.

_Cuneo._ Assediato, e preso dagli alleati, IV, 392 e 393.

CUNEO, prete repubblicano, III, 161.


D

_Dalmazia_ (crudeltà della guerra in) V, 344.

DALPOZZO, uno della consulta di Roma. Come giustifichi i giuramenti
prescritti agli ecclesiastici, VI, 109.

DAMAS, conte Ruggiero di. Sbarca ad Orbitello con truppe Napolitane, IV,
150. Costretto a ritirarsi combatte, capitola con onore, e si rimbarca,
156. Si accosta al cardinale Ruffo a rinstaurazione della potestà regia
in Napoli, V, 8. Sua guerra in Toscana e come respinto da Pino, 187.

DANDOLO, municipale di Venezia, III, 254. Sue promulgazioni in Dalmazia,
V, 344.

DASTROS (affare di) vicario generale della diocesi di Parigi, VI, 163.

DAUNOU. Mandato a dar una constituzione a Roma, III, 336.

DAVIDOWICH, generale d'Austria. Caccia i Francesi dall'alto Tirolo, II,
230. Vince a Galliano, 231. Sua lentezza dopo la vittoria, molto fatale
all'Austria, 253 e 260.

DE ANGIOLI, presidente a Verona. Come risponda a Buonaparte, III, 286.

DEGERANDO. Membro della giunta in Toscana e quello che vi fa, VI, 14.
Membro della consulta in Roma, dà favore alla Propaganda, 117.

_Dego_ (battaglia del) I, 331.

_Deposizione_ dei principi, fatta dai papi, come spiegata da Pio
settimo, VI, 147.

DESAIX, generale di Francia, ucciso a Marengo, V, 146.

DEVINS. Generalissimo degli alleati in Piemonte, sue qualità e disegni,
I, 130. Vince a San Giacomo, ed a Melogno, 265. Sue disposizioni per la
battaglia di Loano, 292. Afflitto da grave malattia lascia l'esercito,
294. Rivocato con surrogazione di Beaulieu, 305.

D'EYMAR, ambasciatore di Francia a Torino invece di Ginguenè, IV, 126.

_Dieta_ militare convocata dai Francesi prima della battaglia di Novi, e
pareri che vi sorgono, IV, 361. Simile, convocata nella medesima
occasione dai confederati, e pareri che vi sorgono, 365.

_Direttorio_ Cisalpino. Riformato da Trouvé, IV, 58. Costretto dai
confederati a lasciar Milano, 254.

_Direttorio_ Francese. Come risponda alle proposte di pace fatte
dall'Inghilterra, I, 302. Sua domanda al senato Veneziano rispetto al
conte di Lilla, 309. Si risolve del tutto all'invasione d'Italia, 315.
Suoi disegni sopra di lei e suo desiderio di rapina, _ivi_ e II, 7.
Ordina lo spoglio dei capi d'opera di belle arti in Italia, 16.
Condizioni di pace che vuol imporre al pontefice, 154. Taccia a torto la
fede Italica, 156. Fa pace con Napoli e con Parma, _ivi_ e 158. Come
risponda all'ambasciator di Sardegna, 161. Suo trattato con Genova, 165.
Offerte che fa al re di Sardegna per congiungerselo in alleanza, 167.
Offerte che fa all'Austria per aver la pace con lei, _ivi_. Con qual
fine proponga un trattato d'alleanza a Venezia, 173. Come senta il
rifiuto di lei di entrar in quest'alleanza, 182. Opera rivoluzioni nella
terraferma Veneta, e con qual fine, III, 33. Suo trattato d'alleanza col
re di Sardegna, 186. Fa il diciotto fruttidoro, 242. Suo costume nei
paesi conquistati, IV, 46. Suo trattato d'alleanza colla Cisalpina, 47.
Sua riforma nella costituzione Cisalpina, e sdegni che ne nascono, 53.
Sue ragioni, 61. Sue risoluzioni rispetto al Piemonte, 89. Mutazione
fatta in lui dopo le rotte d'Italia nel 1799, 353. Suoi nuovi pensieri
circa l'Italia, 355. Distrutto da Buonaparte, V, 77.

_Discolato_, che cosa fosse in Lucca, I, 52.

_Doge_ di Genova. _Ved._ Durazzo.

_Doge_ di Venezia, III, 106. Suoi sentimenti nell'ultima fine della
repubblica, 109.

_Dolceacqua._ Preso dai Francesi, I, 194.

DONATO (censore). Mandato dal senato Veneziano a Buonaparte, III, 70.
Come gli parli, e quale risposta ne ottenga, 101. Suoi maneggi per
cambiare il governo Veneto, 116.

DORIA (_Andrea_). Sua statua atterrata dai novatori, III, 158.

DORIA (_Filippo_). Uno dei capi della rivoluzione in Genova, III, 137.
Ucciso e come, 143.

DRAKE, ministro d'Inghilterra a Genova. Sue superbe intimazioni ai
Genovesi, I, 161 e 223.

DUHESME, generale di Francia. Sua spedizione in Puglia, IV, 197.
Combatte nella battaglia di Savigliano, 389.

DUMAS, generale di Francia, prende il Moncenisio, I, 203.

DUPHOT, generale di Francia in Genova. Vince i sollevati, III, 166 e
169. Ucciso a Roma, come e da chi, 307.

DUPONT, generale Francese. Come combatta alla battaglia del Mincio, V,
180.

DURAZZO, doge di Genova. Va a Milano, V, 287. Suo discorso a Napoleone
per domandar l'unione di Genova alla Francia, 292.

DUTILLOT, primo ministro in Parma. Sua buona amministrazione, e sue
lodi, I, 36.


E

_Eccessi_ dei repubblicani e degli imperiali sui territori Genovese, e
Piemontese, I, 298 e 336. E nella terraferma Veneta, 187 e 195.

_Egitto_ (spedizione d'), IV, 9.

_Elba_, isola, occupata dagl'Inglesi, I, 132. Poi perduta, II, 136.
Ultimo asilo di Napoleone, VI, 285.

ELISA, sorella di Napoleone. Nominata principessa di Lucca e Piombino,
V, 300. Governatrice di Toscana, VI, 16.

ELLIOT, vicerè in Corsica per parte dell'Inghilterra, I, 227. Sue
esortazioni ai Corsi, 228. Obbligato ad abbandonar l'isola, II, 136.

_Emilia_ (l'). Si muove a libertà, II, 147. A qual fine siano
indirizzati i suoi moti, 210. Umori che vi regnano, 211.

EMILII (_degli_), conte Francesco da Verona. Qual carico abbia avuto dai
Veneziani, III, 53. Muove i Veronesi contro i Francesi, 81. Condannato
all'ultimo supplizio, 97.

EMMA LIONA _Hamilton_, a Napoli, V, 37 e 119.

ENTRAIGUES (conte d'), agente del conte di Lilla, I, 312. Fatto
arrestare, poi rilasciare da Buonaparte, e perchè, III, 246 e 247.

ERCOLE RINALDO, duca di Modena. Sue qualità, previdenza e maniera di
governare, I, 55. Come trattato, II, 15. Se gl'invola un suo tesoro in
Venezia, III, 276.

ERIZZO, provveditore dei Veneziani a Verona, III, 53.

_Esercito_ Francese in Italia. Sue minacce contro i nemici del governo
repubblicano in Francia, III, 241.

ESNITZ, generale d'Austria. Come combatta nella battaglia di Savigliano,
IV, 388. Sua guerra in Liguria, V, 98. Suoi errori nella battaglia di
Marengo, 143 e 149.

EUGENIO, _Beauharnais_, creato vicerè d'Italia, V, 280. Suo manifesto
contro gli Austriaci, 315 e VI, 70. Regge l'esercito Francese ed
Italiano in Italia, _ivi_. È vinto a Sacile, 77. Vince sulla Piave, 85.
Ed a Giavarino, 90. Tentativi de' suoi aderenti per farlo nominare re
d'Italia, 253. Sue titubazioni circa l'independenza d'Italia, 256. Come
prepari la guerra, 262. Male disposizioni degl'Italiani verso di lui,
271. Sua convenzione di Rizzino-Schiarlino, 287 e 289. Aspira
inutilmente al regno d'Italia, 289. Parte per la Baviera, 299.

EYMAR. _Vedi_ D'EYMAR.


F

FAIPOULT, ministro di Francia a Genova. Favorisce i novatori, III, 136.
Sue insinuazioni al senato Genovese, 141. Scusa i Genovesi presso a
Buonaparte, 146. Poi gli accusa, 147. Vuole che si riformi lo stato in
Genova, 148. Si lagna di Serra, uno dei membri del Governo, 172.
Cambiato con Sottin, 175. Mandato commissario a Napoli e che vi faccia,
IV, 188. Cacciato da Championnet, _ivi_. Vi torna, 190.

_Febbre gialla_ di Livorno. Sua descrizione, V, 248.

FEDERIGO GUGLIELMO, re di Prussia. Sue deliberazioni rispetto alla
Francia, I, 77. Fa la pace con lei, 261. Vinto da Napoleone, VI, 5.

FERDINANDO, duca di Parma. Sue qualità, I, 38. Suo trattato di tregua
con Francia, II, 20. Sua pace con la medesima, 158.

FERDINANDO, granduca di Toscana. Sue deliberazioni rispetto alla
Francia, I, 80. Fa accordo, ed assicura la sua neutralità con lei, 246.
Manda il conte Carletti suo inviato a Parigi, 249. Allegrezze in Toscana
per la pace, 250. Manda don Neri Corsini a Parigi in vece del Carletti,
II, 8. Ree intenzioni di Buonaparte sopra di lui, 85.

FERDINANDO, re di Napoli. Opinioni e vicende nel suo regno, I, 30, 213,
270 e segg. Sue deliberazioni rispetto alla Francia, 79. Sue
preparazioni di guerra contro di lei, II, 77. Sua tregua con la
medesima, 81. Sua pace, 156. Suo desiderio di acquistar nuovi paesi, e
quali, III, 216. Suo trattato colla Francia, IV, 34. Si risolve alla
guerra contro di lei, 38. Suoi ordinamenti guerrieri, 41. Entra
trionfando in Roma, 44. È costretto a lasciarla, 155. Ed a partire da
Napoli per la Sicilia, 162. Sollevazioni terribili nel regno, 164. Ed in
Napoli stessa, 168. Sue speranze per ricuperare il regno, e suoi
trattati colle potenze, V, 6. Sua pace col consolo, 191, e 192. Suo
trattato con Napoleone, 314. Napoleone gli toglie il regno, e perchè,
324 e 326. Parte per la Sicilia, 329. Nomina il suo figliuolo vicario
generale del regno, VI, 228. Suo tentativo per riassumere l'autorità,
233.

_Ferrara._ Occupata dai Francesi, II, 67. Si muove a stato popolare,
153.

FERRI, _Marco_, discorso di Melchiorre Gioja sotto questo supposto nome
diretto contro Trouvé ambasciatore di Francia in Cisalpina, IV, 54.

_Feudi imperiali._ Si sollevano contro i Francesi, II, 70.

FIORELLA, generale di Francia, difende la cittadella di Torino, IV, 275.
Si arrende, 276.

_Fombio_, (battaglia di), I, 363.

FONSECA, _Eleonora_. Suo monitore Napolitano, V, 17. Sue virtù,
supplizio e coraggio, 46.

FOSCARINI, provveditor generale dei Veneziani in terraferma, II, 42.
Minacciato aspramente da Buonaparte, e quel che gli restava a fare, 54.
Quello che fa, 58.

FRANCESCO, imperator d'Alemagna. Sue deliberazioni rispetto alla
Francia, I, 77. Esortazioni de' suoi ministri al senato Veneziano, 112.
Vuol ricuperare le sue possessioni d'Italia, II, 90. Fa la pace colla
Francia a Campoformio, III, 249. Ed a Luneville, V, 190. Ed a Presburgo,
325. Prepara una nuova guerra contro a Napoleone, VI, 66. Forzato ad
accettar la pace a Vienna, 91. Sua risposta ai deputati del regno
d'Italia, 200.

_Francesi._ Loro modo di guerreggiare rispetto a quel degli Austriaci,
III, 28. Loro benevolenza verso i repubblicani Italiani ricoverati in
Francia, IV, 278.

_Francia._ Stato, opinioni ed inclinazioni di questo paese nel 1789, I,
59. Opinioni e rimproveri vicendevoli delle due parti contrarie, 85.
Stato degli animi in Francia, dopo le rotte d'Italia nel 1799, IV, 353,
V, 71. Stato della religione cattolica in Francia, V, 94. Parlari
tendenti all'assunzione del consolo alla dignità imperiale, 260.

_Fraschea_ (fatto orribile della), IV, 112.

FRESIA, generale Piemontese, combatte con valore, ed è fatto prigioniero
nella battaglia di Cassano, IV, 251. Difende Genova contro Bentink, VI,
281. Costretto ad arrendersi, 283.

FROELICH, generale d'Austria. Come combatta nella battaglia di Novi, IV,
372. Fa guerra nella Romagna, V, 53. Pena al sottoscrivere all'accordo
fatto coi Francesi in Roma, e perchè, 54. Va all'assedio d'Ancona, 55 e
65. La prende, 69.

_Fuorusciti Francesi._ Loro fuga compassionevole dalla Savoja, I, 77 e
103.

_Fuorusciti Sardi._ Come trattati da Buonaparte, II, 86.

_Fuorusciti Napolitani._ Come trattati da Murat, V, 222.


G

GABBRIELLI, cardinale, segretario di stato del papa. Arrestato per
ordine di Napoleone, e perchè, VI, 56.

_Gaeta._ Presa dai Francesi, IV, 158. Assediata dai Francesi, V, 330.

GAMBONI, patriarca di Venezia. Suo parlare adulatorio a Napoleone, VI,
10.

GARAT, ambasciatore di Francia a Napoli, IV, 30. Suo discorso al re,
_ivi_. Conclude un trattato con lui, 35. Rivocato, 36.

GARDANNE. Difende Alessandria contro gli alleati, IV, 340. Obbligato ad
arrendersi, 343. Combatte valorosamente a Caldiero, V, 319.

GARNIER. Difende Roma contro gli alleati, V, 53. Capitola onorevolmente,
54.

GAST, colonnello di Francia. Come difenda Tortona dagli alleati, IV,
379. Si arrende, 380.

_Genova._ Natura del suo governo, e de' suoi popoli, I, 51. Paragone tra
Venezia e Genova, 52. Sue deliberazioni dopo l'invasione di Nizza fatta
dai Francesi, 127. E dopo le intimazioni di Drake, ministro
d'Inghilterra, 161. In pericolo, II, 163. Insultata dagl'Inglesi, 164.
Si getta alla parte Francese, 163. Suo trattato colla Francia, _ivi_.
Insidiata da Buonaparte, III, 135. Sommossa in lei, 137. Battaglie
feroci dentro le sue mura, 142. Perplessità del senato, 146. Suo
manifesto ai sudditi, 148 e 152. Delibera che si muti lo stato, e manda
a questo fine legati a Buonaparte, 152. Si fa la mutazione, e quale,
153. Umori e sette, 159 e 166. Suo corpo municipale, 162. Semi di
discordia, 163. Atto condannabile del suo governo, 164. Sua
constituzione, 173. Sua descrizione, V, 106. Difesa da Massena, ed
oppugnata dagli alleati, 107. Estremità a cui è ridotta, 111. Si
arrende, 116. Mossa a cose nuove da Napoleone, 290. Domanda la sua
unione a Francia, 292. Gran festa per l'arrivo di Napoleone, 296.
Governo provvisorio creatovi da Bentink, VI, 283. Sua protesta, 300.
Data al re di Sardegna, 301.

GENTILI, generale per Francia. Sbarca in Corsica, e ne caccia
gl'Inglesi, II, 129 e 134. Mandato ad occupar Corfù, III, 266.

_Gesuiti._ Perchè soppressi, I, 10. Come piegarono la religione, 57.
Loro astute insinuazioni, V, 305. Ristaurati nel regno di Napoli, 307.

GIANNI, poeta. La Cisalpina gli dà la naturalità, III, 236.

_Giavarino_ (battaglia di), V, 90.

GINGUENÉ, ambasciatore di Francia a Torino, IV, 68. Suo discorso al re,
69. Domanda un indulto a favor dei novatori, 90. Vuol far rivocare il
conte Balbo da Parigi, 92. Sue querele sul passo preso dai regj sulle
terre della repubblica Ligure, 96. E sulla condotta del governo
Piemontese, 99. Conclude un indulto col ministro del re, 102. Domanda al
re la cittadella di Torino, 103. Domanda il cambiamento dei ministri
regj, 122. Scena ridicola in sua casa, 124. È rivocato, 126. Sue
qualità, _ivi_.

GIOVANELLI, provveditor dei Veneziani a Verona, III, 53. Pattuisce per
Verona coi Francesi, 93.

GIULIANI, municipale di Venezia, III, 254.

_Giunta._ Sopra le congiure in Napoli, e suo procedere, I, 271. In
Toscana, e sue operazioni, VI, 14.

_Giuramenti_, prescritti da Napoleone nelle Marche, e loro effetti, VI,
57. Ed in Roma, e quali lagrimevoli effetti ne seguono, 108 e segg.

GIUSEPPE II, imperatore d'Alemagna. Sue lodi, ed utili riforme fatte da
lui, I, 12. Papa Pio sesto il va a trovare a Vienna, 14.

GIUSTINIANI, _Angelo_. Sue generose risposte a Buonaparte, III, 113.

GIUSTINIANI, _Leonardo_. Mandato dai Veneziani legato a Buonaparte, III,
70. Come gli parli, e risposta che ne ottiene, 100.

GOVEANO, giustiziato in Piemonte, e perchè, III, 206.

_Governo provvisorio_ in Piemonte, IV, 140. Sue operazioni, 214. Domanda
l'unione del Piemonte alla Francia, 219. Sua bella provvisione circa
l'università degli studj, V, 158.

_Governo provvisorio_ in Napoli, e sua condizione, IV, 178. Che faccia
all'approssimarsi dei regj, V, 13.

_Governo provvisorio_ in Genova. Sue deliberazioni, V, 158.

_Grecia_ (guerra in), IV, 285.

GRENIER, generale di Francia. Come combatta nella battaglia di
Savigliano, IV, 386.

_Grotta-ferrata_ (convento di). Conservato dalla Consulta di Roma e
perchè, VI, 116.

GROUCHY. Sue operazioni in Piemonte, IV, 130. Sottomette gli Acquesani
insorti, 221. Ferito e preso nella battaglia di Novi, 375.

GUIDOBALDI, Membro di una giunta sopra le congiure di Napoli, I, 271.


H

HADDICK, generale austriaco. Suo valore alla battaglia di Marengo, V,
142.

HAQUIN, generale di Francia. Si trova fra i sollevati di Pavia, e come
n'è trattato, II, 30.

HAUTEVILLE, conte, ministro del re di Sardegna. Congedato e perchè, II,
161.

HERNEY, ministro d'Inghilterra in Toscana. Sue superbe intimazioni al
Granduca, I, 160.

HILLER, generale austriaco, invade l'Italia, VI, 259.

HOFER, _Andrea_, tirolese. Sue virtù, VI, 79. Incita i suoi compatriotti
contro Napoleone, ed in favor di Francesco, 80 e 92. Preso dai
Napoleoniani, 93. Morto da loro, _ivi_.

HOHENZOLLERN, generale d'Austria. Sua guerra nel Modenese contro
Macdonald, IV, 317. Ed in Liguria, V, 96 e 109. Forma un governo
provvisorio e raffrena le vendette in Genova, 117.

HOMPESCH, gran maestro dell'ordine di Malta. Come ceda l'isola ai
Francesi, IV, 17.

HOTHAM, viceammiraglio d'Inghilterra. Vince i Francesi al capo di Noli,
I, 257.


I

IMPERATORE _dell'Allemagna_. Ved. FRANCESCO.

IMPERATORE _dei Francesi_. Ved. NAPOLEONE.

IMPERATORE _di Russia_. Ved. PAOLO E ALESSANDRO.

_Incoronazione_ di Napoleone, come imperatore dei Francesi, V, 262. Come
re d'Italia, 288.

_Instituzione_ canonica dei vescovi. Pareri e discussioni diverse
intorno alla medesima, V, 196 e seg. VI, 178 e 183.

_Italia._ Specchio del suo stato nel 1789, I, 56. Parti, sette e fazioni
che vi regnavano, 138. Si appropinquano le sue calamità, 313. Spoglio di
lei, II, 16 e 66. Calunnie di alcuni agenti di Francia contro i suoi
principi, 89. Nuovi pensieri che vi sorgono per le vittorie dei
Francesi, 138. Moltiformi maniere di rubar lei ed i soldati, 217. In
quale stato la lasci Buonaparte, III, 252. Pensieri che vi nascono per
le riforme violente fatte nella Cisalpina da Trouvé e da Rivaud, IV, 62.
Miserie incredibili, VI, 16.

_Italiani_ s'appresentano a Napoleone per chiamarlo loro re, V, 275.
Loro nuove adulazioni verso lui, VI, 9.


J

JOUBERT. Combatte valorosamente a Rivole, II, 274. Suoi fatti in Tirolo,
III, 21. Combattuto ed accerchiato dai nemici, come e dove si ritiri,
23. Invade il Piemonte e procura l'abdicazione del re, IV, 132. Rivocato
dall'Italia e perchè, 226. Rimandatovi dopo le rotte del 1799, suoi
pensieri rispetto a lei, 356. Arriva al campo di Liguria e sua modestia,
358. Vuol combattere e convoca una dieta militare per deliberare, 361. È
ucciso nella battaglia di Novi, 368.

_Judenburgo_ (tregua di) III, 31.

JUNOD. Mandato da Buonaparte a fare un violento uffizio a Venezia, III,
62.


K

KEIM, generale d'Austria. Combatte valorosamente nelle battaglie di
Verona, IV, 232. Prende la cittadella di Torino, 275. Come combatta
nella battaglia di Savigliano, 390. Come combatta nella battaglia di
Marengo, V, 141 e 149.

KEIT, ammiraglio d'Inghilterra, stringe d'assedio Genova, V, 108.

KELLERMAN, generalissimo di Francia sulle Alpi, e sue preparazioni di
guerra, I, 134. Assedia Lione e s'oppone ai Piemontesi, 169. Gli
respinge, 171. Sue dispozioni sulla riviera di Ponente, 263. Combatte a
San Giacomo ed a Melogno, 265. Si ritira a Borghetto, 268.

KELLERMAN, figlio. Suo valore nello stato romano e sue lodi, IV, 151. Fa
capitolare il conte Ruggiero di Damas, generale dei Napolitani, e sua
umanità, 156. Combatte con molto valore, e contribuisce efficacemente
alla vittoria di Marengo, V, 142 e 146. Parole che gli dice il consolo
dopo il fatto, e sua risposta, 148.

KERPEN, generale austriaco. Fa la guerra nel Tirolo, III, 20.

KILMAINE. Sua lettera in occasione della rivoluzione di Bergamo, III,
48. Sforza i Veronesi a capitolare, 95.

KLENAU, generale d'Austria. Romoreggia sul Po, IV, 237 e 242. Sua guerra
nel Modenese contro Macdonald, 314. Suoi movimenti nella riviera di
Levante, 383.

KRAY, Generale d'Austria in Italia, IV, 225. Vince a Verona, 232. Ed a
Magnano, 239. Assedia Mantova, 259. Allarga l'assedio per cagione delle
mosse di Macdonald nel Modenese, 314. Vi torna, l'oppugna gagliardamente
e la prende, 344. Come combatta nella battaglia di Novi, 368. Lasciato
da Melas sulle rive della Scrivia e della Bormida, e perchè, 384.


L

LACOMBE SAN MICHEL, generale di Francia in Corsica contro Paoli, I, 152.
Ambasciatore di Francia a Napoli, IV, 36.

LAHARPE, generale Francese. Difende Vado, I, 265. È ucciso a Codogno e
sue lodi, 365.

LAHOZ, generale cisalpino. Suo manifesto contro Venezia, III, 60. Volta
l'armi contro i Francesi, e perchè, V, 59. Conduce i collettizi di
Romagna contro Ancona, è ferito mortalmente, 66. Sue ultime parole e sua
morte, _ivi_.

LALLEMAND, ministro di Francia a Venezia e suo ingresso, I, 221. Sue
insinuazioni contro il duca di Modena, II, 16. Che cosa proponga al
governo veneto, 173. Domanda al senato la cagione de' suoi armamenti e
sue contradizioni, 204. Legge al senato lettere acerbissime di
Buonaparte, III, 63. Fa, per mandato del medesimo, un violento uffizio
al senato, 99.

LANDRIEUX. Sue rivelazioni sulle trame che si ordivano contro Venezia,
III, 34.

LANNES. Occupa militarmente Genova, III, 173. Come combatta alla
Chiusella, V, 132. Ed a Montebello ed a Marengo, 136 e 141.

LASALCETTE. Suo valore nella battaglia di Nicopoli, IV, 288. Come
trattato dai Turchi, ed Albanesi, 290 e 295.

LATOUR-FOISSAC. Difende Mantova contro gli alleati, IV, 344. Obbligato
ad arrendersi, 350.

LATTERMAN, generale austriaco. Sua guerra nella riviera di Ponente, V,
97.

LAUDON. Come combatta in Tirolo, III, 20. Romoreggia alle spalle dei
Francesi, 23. Comparisce nel Bresciano, 31. Pressato nel Tirolo, come
scampa, V, 185.

LAUGIER, capitano di una nave francese. Ucciso in Venezia, come e
perchè, III, 90.

LAVALLETTE. Mandato da Buonaparte a fare un violento ufficio a Genova,
III, 145.

LAZZARONI. Loro terribile sommossa in Napoli, e battaglia contro i
Francesi in campagna, IV, 168. Vinti, combattendo di nuovo i Francesi in
Napoli, 173.

LEBRUN, principe arcitesoriere. Ordina Genova alla francese, V, 292.

_Legazioni._ Si danno alla Cisalpina, III, 225.

_Legione calabra._ Suo coraggio indomabile, V, 24.

LEMARROIS. Porta i trofei di Arcole in Parigi. I, 263. Governator
generale della Marca d'Ancona, VI, 54.

_Leoben_ (preliminari di) III, 31.

LEOPOLDO, granduca di Toscana. Sue lodi ed utili riforme fatte da lui,
I, 17. Sua morte, ed effetti di lei, 76.

LERBACK (conte di). Muove i Tirolesi all'armi contro i Francesi, III,
21.

LEWASCHEW, generale russo in Italia, e con qual missione, V, 189.

_Leucio_, San. Singolare colonia fondata dal re Ferdinando di Napoli, I,
32.

_Libertini_, fanno una sommossa pericolosa in Genova, III, 137. Sono
vinti dal popolo e come, 142.

LICHTENSTEIN principe di. Assedia e prende Cuneo, IV, 391 e 393.

_Ligure_, la repubblica. Dichiara la guerra al re di Sardegna, IV, 98.

_Linguadoca._ Moti in questa provincia contro il consesso nazionale, I,
168.

_Lione._ Si solleva contro il governo repubblicano, e suo assedio, I,
168. Si arrende ai repubblicani, e come trattato da loro, 176. Consulta
cisalpina in detta città, V, 229.

LIPTAY, generale d'Austria. Vinto a Castiglione, II, 101. Combatte
valorosamente a Rivole, 273.

_Lissa_, fazione navale di, VI, 240.

_Livorno._ Occupato dai Francesi, II, 84. Espilazioni, 85. Di nuovo
occupato dai Francesi, IV, 229. Febbre gialla e sua descrizione, V, 248.

_Loano_, battaglia di, I, 292.

_Lodi_, battaglia del ponte di, I, 368.

_Lonato_, battaglia di, II, 98. Fatto mirabile accaduto a Buonaparte,
105.

_Lucca._ Natura del suo governo, e de' suoi popoli, I, 52. Sua
rivoluzione, IV, 212. Cambiata da Napoleone, e data ad Elisa e
Bacciocchi, V, 300.

LUCCHESINI, marchese. Suoi consigli al re di Prussia, V, 264. Deputato
dal re di Prussia a Napoleone a Milano, 286.

_Lugo_, si solleva contro i Francesi, ed effetti di questa sollevazione,
II, 67 e 69.

LUIGI XVI. Ved. _Francia_.

LUIGI XVIII. Accettato in grado di ospite dai Veneziani, e sua condotta,
I, 219 e 309. Sua espulsione domandata al senato veneziano dal
direttorio, 319. Come riceva questa nuova ingiuria della fortuna, 312.
Dove si ritiri, _ivi_.

_Luneville_, pace di, V, 190.

LUSIGNANO. Generale austriaco, fatto prigioniero dai Francesi, II, 277.


M

MACDONALD. Combatte valorosamente nello stato romano, IV, 150. Assalta
Capua invano, 165. Succede a Championnet nel governo dell'esercito in
Napoli, 190. Suo manifesto contro la corte di Napoli, 207. Sua
generosità verso i discendenti del Tasso, 210. Parte da Napoli per
l'Italia superiore, 303. Arriva in Roma, 305. Vince alcune città
sollevate in Toscana, ma non può sottomettere Arezzo, 309. Varca gli
Apennini, ed entra nel Modenese, 313. Sue battaglie in questo paese
contro Klenau, Hohenzollern e Otto, 315. Entra in Modena, 317. Si
conduce a Piacenza, 321. Sua prima battaglia alla Trebbia, _ivi_.
Seconda, 323. Terza, 327. Si ritira, 332 e 334. Sue qualità, 335. Suo
mirabile passaggio della Spluga, V, 183. Suoi disegni in Tirolo, e come
gli vengano rotti, 184. Occupa Lubiana, VI, 77.

MACK, generale del re di Napoli. Sua guerra nello stato romano, IV, 41 e
150. È vinto da Championnet e si ritira a Capua, 155. Poi a Napoli, 160.
Finalmente al campo di Championnet, 169. È vinto da Napoleone in
Germania, V, 318.

_Magliani_, battaglia di, I, 327.

_Magnano_, battaglia di, IV, 240,

_Maida_, battaglia di, V, 337.

MALMESBURY. Mandato dall'Inghilterra a trattar la pace in Francia, II,
208.

_Malo-Jaroslavetz_ (cimento terminativo di) fatale a Napoleone, VI, 245.

_Malta._ Presa dai Francesi, IV, 16. Presa dagl'Inglesi, V, 166.

MAMMONE, uomo crudele. Solleva la Campania contro i repubblicani, IV,
194 e V, 8.

MANHES, generale francese. Mandato dal re Giovacchino a pacificar le
Calabrie, ottiene l'intento e per quali mezzi, VI, 131.

MANIN, Vedi _Doge di Venezia_.

MANTONÉ, ministro della repubblica partenopea. Come ordini la guerra
contro il cardinale Ruffo, V, 19. Va contro il cardinale ed è vinto, 23.
Suo supplizio in Napoli ed estremo coraggio, 45.

_Mantova_, sua descrizione, II, 119. Fazioni importanti sotto le sue
mura, 125. Sua condizione miserabile al tempo dell'assedio, 291. Si
arrende alle armi Francesi, 292. Oppugnata gagliardamente e presa dagli
alleati, IV, 344.

_Marche_, unite al regno italico da Napoleone, V, 54.

_Maremme sanesi._ Loro descrizione e lavori fattivi dal gran duca
Leopoldo, I, 21.

_Marengo_, battaglia di, V, 140. Festa a, 272.

MARESCALCHI. Inviato a Vienna della repubblica Cisalpina e sue qualità,
III, 233. Inviato a Parigi, conclude un concordato per la repubblica
Italiana, V, 258.

MARET, _Ugo_. Sue minacce al papa prigioniero in Savona, VI, 143.

MARMONT, mandato da Buonaparte in Cispadana e perchè, II, 214. Suo
viaggio dalla Dalmazia a Gratz, VI, 88.

_Marsiglia._ Si solleva contro il governo repubblicano, ed in ajuto di
Lione, II, 169. Presa e saccheggiata dai repubblicani, 174.

MARTIN, ammiraglio di Francia. Vinto dagl'Inglesi al Capo di Noli, I,
257.

_Mascherata_ molto schifosa, che esce dalla cittadella di Torino, e
pericolo che nasce, IV, 119.

_Massa e Carrara_, ducato di. Occupato dai Francesi, II, 88.

MASSENA, generale di Francia. Sue qualità, I, 193. Prende il ponte di
Nava, 197. Suo invito ai Piemontesi, 198. Con quali parole animi i suoi
soldati, 293. Ha principal parte nella vittoria di Loano, 294. Vince
Provera sulla Brenta, II, 238. Suo valore nella battaglia d'Arcole, 253
e 258. Combatte ferocemente presso a Verona, 269, ed a Rivole, 273.
Vince un fatto importante alla Ponteba ed a Tarvisio, III, 24.
Rimproverato e disobbedito dai suoi ufficiali, 333. Mandato in Liguria
dal consolo, V, 89. Come ordinato, 90. Come combatta fuori delle mura di
Genova, 96 e 98. Come si difenda dentro, 107. Costretto alla resa, 116.
Vince l'arciduca Carlo a Caldiero, 319.

MATHIEU, _Maurizio_. Suo valore nella guerra dello stato romano, IV,
154. Ferito a Capua, 166.

MATTEI, cardinale. Mandato dal pontefice a trattar la pace con
Buonaparte, II, 300 e 301.

MAULANDI, capitano nelle truppe piemontesi. Sue lodi, I, 207.

MAURY, cardinale. Grave riprensione che gli fa il papa, V, 163.

MEDICI, ministro del re Ferdinando in Sicilia. Sue operazioni, VI, 216.
Rinunzia e perchè, 222.

MELAS, generalissimo d'Austria in Italia, IV, 225. Vince a Cassano, 247.
Entra vittorioso in Milano, 255. Vi frena le intemperanze popolari, 256.
Con quale abilità contribuisca alla vittoria di Novi, 371. Vince a
Savigliano, 386. Assedia Cuneo, 391. Ingannato da Buonaparte, V, 92 e
105. Suo bando ai Genovesi, 94. Sua guerra sulle riviere di Genova, 96.
Stringe Genova, 102. Accorre alla difesa della Lombardia, 129 e 135. È
vinto a Marengo, 140. Capitola della resa d'Italia superiore col
consolo, 149.

_Melogno_ (battaglia di) I, 265.

MELZI, vicepresidente della repubblica italiana. Suo decreto ad
esecuzione del concordato concluso con Roma, V, 258. S'appresenta a
Napoleone cogl'Italiani per chiamarlo re d'Italia, 275.

MENARD, generale di Francia. Fa cessare colla sua prudenza un grave
pericolo in Torino, IV, 121.

MENOU, generale francese, amministrator generale in Piemonte, V, 220.

MERENDA, commissario del sant'officio in Roma. Suo parere sul concordato
del 1801, V, 207.

_Messina_ (congiure in) VI, 213.

MICHEROUX, generale del re di Napoli. Come contribuisca alla
rinstaurazione della potestà regia, V, 10.

_Milanesi._ Vanno a congratularsi coi Cispadani, II, 212. Vogliono far
un moto per l'independenza, e come è sentito dai Francesi, 217. Loro
amministrazione generale soppressa e perchè, III, 217.

_Milano._ Viene in poter dei repubblicani, I, 374. Opinioni, sette ed
umori che vi regnano, 375. Festa della confederazione che vi si celebra,
III, 220. Riconquistato dai confederati, 255. Magnifica festa per
l'incoronazione di Napoleone, V, 288. Discussioni nel suo senato circa
l'independenza del regno, VI, 290 e segg. Commozione popolare, 298.
Occupato dagli Austriaci, 300.

_Mincio_ (battaglia del) V, 173.

MIOLLIS, generale di Francia a Lucca, IV, 212. Sua guerra in riviera di
Levante, V, 103. Vince i Napolitani in Toscana, 169. Come occupa Roma,
VI, 46. Presidente della consulta di Roma, 96.

MIOT, ministro di Francia a Firenze. Come parli degl'Italiani, II, 130.

_Modena._ Moto in lei contro il duca, II, 147. Congresso, 152.

_Modenese_, guerra nel, tra i Francesi e gli alleati, IV, 313 e segg.

_Modesta._ Fregata francese presa dagl'Inglesi con uccisioni di molti
nel porto di Genova, I, 162.

MOLITERNO, principe. Eletto capo dal popolo di Napoli, IV, 170. Macchina
di dar Napoli ai Francesi, 172. Assicura loro la possessione dei
castelli, 175. Sue operazioni in Calabria, VI, 32.

_Mondovì_, battaglia di, I, 341. Si solleva contro i Francesi, IV, 260.

MONFERRATO, duca di. Governa le truppe piemontesi in Savoia e sue
qualità, I, 171. Difende la valle d'Aosta, 200.

MONGE. Mandato da Buonaparte a fare un onorevole ufficio presso la
repubblica di San Marino, II, 303. Mandato a dare una constituzione a
Roma, III, 336.

MONNIER, generale di Francia. Sua forte difesa in Ancona, V, 57.
S'arrende con onore, 69. Suo valore nella battaglia di Marengo, 143.

_Montecorona_, convento di. Sua descrizione, VI, 116.

_Montenegrini._ Loro guerra coi Francesi, V, 344.

_Montenotte_, battaglia di, I, 321.

MONTESQUIOU, generale di Francia, invade la Savoia, I, 94.

MORANDO. Uno dei capi della rivoluzione di Genova, III, 136. È vinto dai
carbonari, 142.

MOREAU. Suo valore nelle battaglie di Verona, IV, 230 e 231. Ed in
quella di Magnano, 238 e 239. Assunse il comando supremo dell'esercito
in vece di Scherrer, 245. È vinto a Cassano, 249. Si ritira al Ticino,
250. Poi ad Alessandria, 238. Vince i Russi a Bassignana, 249. Si ritira
a Cuneo, poi oltre gli Apennini, 261 e 262. Suoi pensieri per resistere
agli alleati, 303 e 312. Scende dagli Apennini, soccorre Tortona e vince
gli Austriaci a San Giuliano, 336. Di nuovo si ritira alle montagne di
Liguria, 338. Destinato al Reno, ma resta al campo di Liguria per
instanza di Joubert, 358. Perde la battaglia di Novi, 374.

MURAT. Come combatta a Marengo, V, 141. Nominato re di Napoli da
Napoleone, VI, 22. Prende possesso del regno, 23. Prende l'isola di
Capri agl'Inglesi, 25. Spirito del suo regnare, 27. Tenta invano una
spedizione contro la Sicilia, 128. Suoi vanti per l'independenza
d'Italia, 247. Sue pratiche al medesimo fine, 257. S'accorda
coll'Austria e fa guerra a Napoleone, 275.

_Musaico_ (opere di). Come incoraggiate in Roma dalla consulta, VI, 124.

_Museo Pio-Clementino._ Ved. PIO SESTO.


N

NANI, provveditore delle lagune, e lidi a Venezia, II, 200.

NAPOLEONE (_vedi_ CONSOLO) incoronato imperator dei Francesi, V, 262.
Vuol farsi chiamare re d'Italia: gli Italiani il fanno pago di questo
suo desiderio, 275. Risposta che loro fa, 278. Suo discorso al senato di
Francia, 279. Suoi discorsi in Torino, 281. Gran festa a Marengo, 282.
Incoronato re a Milano, 288. Unisce Genova alla Francia, 290. Va a
Genova e feste che gli si fanno, 292. Cambia Lucca dandola a Baciocchi
ed alla sorella Elisa, 300. Unisce Parma, _ivi_ e VI, 16. Minaccia
l'Inghilterra, 309. S'incammina a nuova guerra contro l'Austria, 313. Fa
un accordo con Napoli, 314. Vince in Germania, 316 e 318. Fa la pace a
Presburgo, 325. Suo terribile manifesto contro il re di Napoli, 326.
Crea suo fratello Giuseppe re di Napoli, 333. Unisce la Toscana alla
Francia, VI, 13 e 16. Sue opere magnifiche, 20. Toglie la Spagna ai
Borboni e nomina re suo fratello Giuseppe, 22. Nomina Murat re di
Napoli, _ivi_. Si volta contro il papa, 35. Gli contende la possessione
delle Marche, e vuole che il papa faccia una lega difensiva ed offensiva
con lui, 36 e 40. Vuole aver facoltà d'indicar la nomina del terzo dei
cardinali, 44. Occupa con inganno Roma, 46. Unisce le Marche al regno
italico, 54. Di nuovo in guerra coll'imperator Francesco, 70. Suo parlar
borioso ai soldati dopo la vittoria, 89. Vincitore a Vagria, costringe
Francesco alla pace, 90. Unisce Roma alla Francia, 95. Scomunicato dal
papa, 98. Fa carcerare il papa, poi condurlo a Savona, 99 e 101. Riceve
i Romani e come loro parli, 102. Suoi disegni sopra la religione, 139.
Proposizioni che fa al papa, 194 e 205. Il fa condurre a Fontainebleau,
210. Sua guerra contro la Russia, 240. È vinto, 243. Fa un nuovo
concordato col Papa a Fontainebleau, 249. Rotto a Lipsia, 251. Perisce e
va all'isola d'Elba, 285.

_Napoli._ Tumulto orribile, IV, 164 e 168. San Gennaro vi fa il miracolo
in presenza dei Francesi, 182. Male disposizioni verso il governo nuovo,
185. Suo stato quando cominciò ad esser minacciato dai regii, V, 13.
Preso, 26. Crudeltà orribili che vi si commettono, 28. Supplizi
lagrimevoli, 41. Occupato dai Francesi, 330. Giuseppe re, 333. Murat re,
VI, 22.

_Napolitani._ Loro condotta nello stato romano, IV, 148. Loro natura,
179. Loro eccessi in Roma, V, 56.

NASELLI, generale del re di Napoli, sbarca a Livorno, IV, 150. Costretto
a rimbarcarsi, 160. Occupa Roma e quello che vi fa, V, 55.

_Nava_, ponte di. Combattimento ostinato tra Francesi e Piemontesi, I,
197.

NELSON. Vince ad Aboukir, IV, 20. Trasporta il re di Napoli in Sicilia,
163. Rompe la fede in Napoli ed è cagione di supplizi lagrimevoli, V,
36. Come onorato e premiato dal re Ferdinando, 51. Prende Malta, 165.

_Nicopoli_, battaglia di, IV, 288.

_Nizza_, contea di, invasa dai Francesi, I, 98,

_Nizzardi._ Loro opinioni, e procedere, I, 152.

_Nobili_ in Francia. Loro opinioni nel 1789, I, 62. Piemontesi, loro
arti con Buonaparte, 353.

_Novi_, battaglia di, IV, 368.

NUGENT, generale austriaco, romoreggia e fa guerra sul Po inferiore, VI,
273.


O

OCSACOW, ammiraglio di Russia oppugna e prende Corfù, IV, 297.

OCSKAY, generale d'Austria. Fa debole difesa alla Ponteba ed a Tarvisio
con grave danno dell'Austria, III, 24.

OLIVIER. Sua spedizione in Calabria, IV, 196.

_Oneglia_, presa dai Francesi, I, 195.

_Ordini feudali._ Come nati, I, 8.

_Ornavasso_ (battaglia d') tra Piemontesi, repubblicani e regii, IV, 87.

ORSINI, cardinale. Sue opinioni singolari, I, 41.

OSTERMAN, ministro di Russia. Come parli del re di Sardegna, I, 350.

_Otranto._ Si solleva contro il governo repubblicano, IV, 192.

OTT, generale d'Austria. Sua guerra nel Modenese contro Macdonald, IV,
311. E nel Piemontese, 386. E nel Genovesato, V, 96 e 109. È vinto a
Casteggio, 136. Suo valore nella battaglia di Marengo, 140.

_Ottimati_ (setta degli), I, 144.

OTTOLINI, potestà di Bergamo pei Veneziani. Arma la provincia e perchè,
II, 58 e 198. Cacciato dalla sede e da chi, III, 38.


P

_Pace_ di Tolentino, II, 301. Di Campoformio, III, 249. Di Luneville, V,
190. Di Presburgo, 325. Di Vienna, VI, 91.

PACCA, cardinale. Separato per forza da Pio VII, VI, 99. Relegato nel
Forte di Pietracastello, 102.

Pagano, Mario, membro del governo provvisorio di Napoli, IV, 180. Sue
qualità, _ivi_. Suo modello di constituzione, 183. Suo supplizio, VI,
41.

_Pallanza._ Moto in questa città contro il re di Sardegna, IV, 73.

PAOLI. Suoi disegni contro la Corsica, I, 128. Sue esortazioni ai Corsi,
149. Suoi eccessi contro i Genovesi, 229. Chiamato a Londra e perchè,
275.

PAOLO, imperator di Russia, fa la pace col primo consolo, V, 87.

PARINI. Suo motto sulla libertà, III, 40.

_Parlamenti_ in Francia. Loro opposizione al re, I, 66.

_Parlamento_ di Sicilia. _Vedi_ Sicilia.

_Parma._ Opinioni ed utili riforme nel suo ducato, I, 36. Ceduta alla
Francia, V, 192. Unita a lei, 300 e VI, 16.

_Partigiani_ dell'antica disciplina della Chiesa. Loro opinioni e
ragioni, VI, 179. Dell'autorità di Roma; loro opinioni e ragioni, 183.

_Patrizi veneti._ Come si spoglino della loro sovranità, III, 126.

_Patriziato_ misto alla democrazia, desiderato dagl'Italiani, II, 143.

PAVETTI passa col Consolo il gran San Bernardo, V. 119. Ajuta
efficacemente la vittoria dei Francesi alla Chiusella, 132.

_Pavia_ (sommossa e sacco di), II, 29. Complimento dell'università di
Pavia a Napoleone, V, 284.

_Peculato_ all'esercito d'Italia descritto II, 218 e III, 332.

PERRONE, conte, governatore della Savoia. Sue qualità, I, 93.

PESARO, procuratore di San Marco in Venezia. Suo discorso al senato
veneziano per persuadere la neutralità armata, I, 116. Inviato a
Buonaparte, III, 44. Suoi sentimenti nell'ultima fine della repubblica,
108.

_Pescara._ Presa dai Francesi, IV, 161.

_Peschiera._ Occupata dagli Austriaci, e suo stato, II, 46.

PICO, capitano incaricato da Buonaparte di far ribellar Verona contro i
Veneziani, III, 52.

_Piemonte._ Stabilità della sua monarchia, I, 45. Opinioni in questo
paese nel 1789, 46. Congiure che vi si fanno, e lodi de' suoi
magistrati, 221. Stormo in massa, _ivi_. Nuove sollevazioni e supplizi,
IV, 89, 93 e 114. I Francesi l'invadono, ed obbligano il re a rinunziare
il regno, 133 e 137. Sue condizioni dopo la mutazione di governo, 214.
Ripreso dagli alleati, e suo stato sotto di loro, 252 e 253. Suo stato
dopo la vittoria di Marengo, V, 153. Riunito alla Francia, 219 e 246.

_Piemontesi._ Scendono in Savoia per correre in ajuto a Lione, I, 170.
Respinti dai Francesi, 175. Assaltano la contea di Nizza, e sono
respinti, 177.

PIGNATELLI, principe, creato Vicario del regno di Napoli, IV, 162. Sua
debolezza ed accordo che fa un Championnet, 166.

_Pilnitz_ (vera natura del trattato di) I, 75.

PINO, generale di Cisalpina. Difende Ancona contro gli alleati, V, 31 e
65. Respinge i Napolitani dalla Toscana, 187. Divenuto sospetto al
vicerè e perchè, VI, 259.

PIO SESTO. Suo viaggio a Vienna e sue esortazioni all'imperatore
Giuseppe secondo, I, 14. Perchè eletto papa, 40. Sue qualità, _ivi_.
Prosciuga parte delle paludi Pontine, 42. Suoi abbellimenti in Roma, 44.
Sue deliberazioni rispetto alla Francia, 80. Suoi provvedimenti, 215.
Domande che gli fanno i repubblicani di Francia, II, 14 e 153. Rifiuta
la pace col direttorio, 154. Sue gravi esortazioni ai principi, _ivi_.
Tratta coll'Austria, 288. Buonaparte gli fa la guerra, 289. È vinto al
Senio, 294. Sua costanza in tanto pericolo, 300. Manda legati a
Buonaparte per trattar la pace, 301. Conclude la pace e con quali
condizioni, _ivi_. Sua generosità, III, 301. Cagioni che operano contro
di lui, 302. Suoi pericoli per l'uccisione di Duphot, 308. La Francia
gli dichiara la guerra, 311. Vede entrar i Francesi in Roma, 319. Come
trattato, 322. Fatto partir da Roma e ricoverato in Toscana, 324 e 325.
Sue instruzioni circa ai giuramenti, 338. Condotto in Francia dove
muore, IV, 230.

PIO SETTIMO, _Vedi_ CHIARAMONTI. Sua creazione, V, 161. Sue
deliberazioni dopo il suo ingresso in Roma, 162. Suo concordato col
consolo, 205. Altro col presidente della repubblica italiana, 258. Sta
sospeso alla domanda di Napoleone dell'essere incoronato imperatore da
lui, 265. Vi si risolve finalmente, 268. Sua allocuzione ai cardinali in
questo proposito, _ivi_. Suo viaggio in Francia, ed incoronazione di
Napoleone, 272. Torna in Italia, 281. Riceve in grazia il de Ricci,
vescovo di Pistoia, e come, 302. Rinstaura i gesuiti nel regno di
Napoli, 307. Ricusa di entrare in una lega difensiva ed offensiva con
Napoleone, VI, 39. Sue ragioni, _ivi_. Ricusa di riconoscere in
Napoleone il diritto d'indicare la nomina del terzo dei cardinali, 45.
Suoi lamenti sull'occupazione di Roma fatta dai napoleoniani, 50. È
sforzato il suo palazzo, 52. Sue provvisioni in ordine ai giuramenti
nelle Marche, 56. Sua protesta contro l'unione delle Marche al regno
italico, 61. Sua protesta contro l'unione di Roma alla Francia, 96.
Scomunica Napoleone, 98. Preso, e condotto in Francia, poi a Savona,
_ivi_. Come risponda alle minaccie dell'imperatore Napoleone, 145. Come
pensi sulle quattro proposizioni del clero gallicano, 146. Come spieghi
la scomunica, 147. E le deposizioni dei principi fatte dai papi, _ivi_.
Suoi sentimenti verso la Francia, 149. Rifiuta le offerte di Napoleone,
151. Come risponda al cardinal Caprara, 155. Tentato dai deputati
ecclesiastici a Savona, 193. Concessioni che fa all'imperatore, 200.
Suoi rifiuti, 203. Breve del venti settembre 1811, 206. Nuove molestie
che gli si danno, 207. Condotto a Fontainebleau, 210. Suo concordato di
Fontainebleau, 249.

_Pistoia_ (dottrine di) I, 25.

PITT, ministro d'Inghilterra. Come ordisca una nuova confederazione
contro la Francia, IV, 7.

PIZZAMANO. Fatto tra lui ed il capitano Laugier al lido di Venezia, III,
90.

_Polcevera_, sua sollevazione contro Genova, III, 169.

_Polizia di Parigi_, come fulmini contro il papa, VI, 168.

_Pontine_, paludi. Loro descrizione, storia e prosciugamento fatto da
papa Pio sesto, I, 42.

_Porto Ferraio_, occupato dagl'Inglesi, I, 131. Poi perduto, 136.

_Portogallo_, tolto ai Braganzesi da Napoleone, VI, 12.

_Prammatica._ Vedi BOURGES.

PRECY, mandato dai Lionesi in Piemonte per accordare i disegni con gli
alleati, I, 131.

_Prelati_ del consiglio ecclesiastico di Parigi. Come rispondano ai
quesiti dell'imperatore, VI, 171. Mandati a Savona per trattar col papa,
193.

_Presburgo_ (pace di) V, 325.

_Preti giurati._ Loro opinioni in Francia, V, 194.

_Preveza_, feroce mischia in essa tra Francesi e Turchi, IV, 288.

_Primolano_ (battaglia di) II, 118.

PRIOCCA, ministro del re di Sardegna. Sue istanze perchè la Francia
dichiari le sue intenzioni circa il Piemonte, IV, 78. Come risponda a
Ginguenè, ambasciatore di Francia, circa i fuorusciti e gli stiletti,
81. Suoi principii sul passo sui territorii neutri, 97. Come risponda a
certe querele dell'ambasciator di Francia, 99. Negozia e conclude un
indulto con lui a favore degl'insorti, 102 e 110. Sue proteste contro la
domanda della cittadella di Torino, 108. Consente a metterla in
possessione dei Francesi, 109. Come difenda il governo pel fatto della
Fraschea, 116. Sua generosa rassegnazione ed amor patrio, 123. Suo
manifesto nell'invasione ostile fatta dai Francesi del Piemonte, 135. Va
a porsi nella cittadella in mano loro, 141. Sue lodi, _ivi_. Mandato a
Grenoble, 214.

_Procida_, isola. Supplizi che vi si fanno, V, 12.

PRONI, uomo feroce, solleva l'Abruzzo contro i repubblicani, IV, 195, e
III, 8.

_Propaganda_ (instituzione della) Sua descrizione, VI, 117.

_Proposito_ dell'opera, I, 6.

_Provenza._ Moti in questa provincia contro il consesso nazionale, I,
168.

PROVENZA (conte di) _Vedi_ Luigi XVIII.

PROVENZA, generale d'Austria. Vinto da Massena sulla Brenta, II, 235.
Vince Duphot a Bevilacqua, 268. È vinto a Mantova, 278.

PRUSSIA, re di. Fa la pace colla repubblica di Francia, I, 261. Fomenta
l'assunzione di Napoleone alla dignità imperiale, V, 262.

_Prussiani_, insorgono contro Napoleone, VI, 246.


Q

QUERINI, inviato della repubblica di Venezia a Parigi, I, 253. Suo
discorso al consesso nazionale e risposta del presidente, 254. Sue
querele al direttorio per le rivoluzioni della terra ferma Veneta e come
gli si risponda, III, 44. Si tenta di sottrargli denaro sotto specie di
salute della repubblica, 72.

_Quesiti_ dell'imperator Napoleone al consiglio ecclesiastico, VI, 158.

QUOSNADOWICH, generale d'Austria. Vince a Salò, e sulla destra del lago
di Garda, II, 94. Costretto a ritirarsi da Buonaparte, 98. Scende di
nuovo e s'impadronisce di Lonato, 99. Poi lo perde, 100. Grave battaglia
tra di lui e Augereau sulla Brenta, 235.


R

_Raab._ Vedi _Giavarino_.

RAMPON. Suo bel fatto, I, 321. Sue lodi, 333.

RANZA. Suo procedere in Alba, I, 343. Sepellisce la costituzione
Cisalpina, IV, 58. Torna in Piemonte V, 156. Sue intemperanze in
Piemonte, III, 136.

_Reggio._ Si muove contro il governo ducale, II, 147 e 153. Suo
congresso, 312.

REGNAULT DE SAINT-JEAN D'ANGELY. Stromento principale della presa di
Malta, IV, 15 e 19.

REGNIER, generale di Francia, vince la battaglia di Campotenese, V, 331.
Perde quella di Maida, 337.

_Religione_ cattolica. Suo stato in Francia, V, 194.

_Repubblica._ Vedi _Cisalpina_. _Cispadana. Corfù. Francesi e Francia.
Genova. Ligure. Lucca. Napoli. San Marino. Venezia._

_Repubblicani Piemontesi_ vinti dai regii a Ornavasso, IV, 87. Come
trattati a Domodossola ed a Casale, 89 e 93. Vinti e straziati nella
Fraschea, 114. Come trattati in Piemonte dagli alleati, 273.

_Repubblicani Italiani_ si ricoverano in Francia, e benevolenza dei
Francesi verso di loro, IV, 278. Loro discorsi ai consigli legislativi
di Francia, 280.

_Repubblicani Napolitani._ Come si consiglino all'approssimarsi dei
regii, V, 13. Con quanto valore si difendano dal cardinal Ruffo, 20.
Capitolano con lui, 34. Loro supplizi, 41.

REWBEL, quinqueviro di Francia. Suo detto enorme rispetto ai Veneziani,
II, 195.

REY. Combatte egregiamente a Rivole, II, 276.

RICCI (Scipione de') vescovo di Pistoia. Sue opinioni, I, 25, 27 e 28.
Suo abboccamento col papa e ritrattazione, V, 202.

RIVAROLA. Mandato dai Genovesi a Parigi e perchè, III, 152, richiamato
164.

RIVAUD. Sue operazioni in Cisalpina, IV, 59.

RIVAUD, generale. Contribuisce efficacemente alla vittoria di Casteggio,
V, 136.

_Rivole_ (battaglia di), II, 273.

_Ritrovi politici in Napoli._ Che male facciano, IV, 186. V, 14.

ROCCO SAN FERMO mandato dai Veneziani a Basilea e con qual fine, I, 218.

_Roma_ (Corte di). Sue opinioni, I, 27. Stato di essa nel 1798, 39.
Spavento in Roma per le vittorie dei Francesi, II, 70. Presa, e come
trattata dai Francesi, III, 319. Presa e come trattata dai Napolitani,
IV, 44. Ripresa dai Francesi, 155. Di nuovo presa dai Napolitani ed
eccessi che vi commettono, V, 55. Pio settimo vi arriva, e sue prime
deliberazioni, 162. Roma occupata dai Napoleoniani, VI, 47. Unita alla
Francia, 95.

_Romani._ Loro moto per la libertà in Campo Vaccino, III, 320. Loro
sommossa contro i Francesi, 334. Loro disposizioni verso i Napolitani,
149. Loro deputati a Parigi, come parlino a Napoleone, VI, 102.

_Romani in Grecia._ Libro scritto contro i Francesi e da chi, III, 287.

_Roveredo_ (battaglia di) II, 113.

RUFFO, cardinale, solleva le Calabrie contro il governo repubblicano,
IV, 193, e V, 8. Prende Altamura e crudeltà che vi commettono i suoi, 9.
Sottomette la Puglia, _ivi_. Viene a Nola per istringer Napoli, 10.
Prende Napoli, 28. Capitola col repubblicani padroni dei castelli, 34.
Esorta Nelson a serbar la fede data, 36. Come riconosciuto dal re
Ferdinando, 51. Riceve il re Giuseppe napoleonide sotto il baldacchino,
334.

_Russia._ Discordia tra lei e la Francia, V, 309 e VI, 241.

RUSSO, _Vincenzo_. Suo supplizio in Napoli, V, 43.


S

_Sacco_ di Pavia, II, 35.

_Sacile_, Battaglia di, V, 77.

SALICETTI, commissario di Francia in Corsica e sue esortazioni ai Corsi,
I, 150. Altre esortazioni di lui, 136.

_Salò_ (fatto d'armi di) III, 55.

_Sant'Agata._ Fatto d'armi ostinato tra Francesi e Piemontesi, I, 195.

SANT'ANDREA, _Thaon di_, governatore di Torino, scampa per la sua
prudenza, la città da un gran pericolo, IV, 121.

_San Bernardo_ (il piccolo) preso dai Francesi, I, 200.

_San Bernardo_ (il gran) passato dai Francesi condotti dal consolo, V,
123.

SAN-CYR, _Gouvion_, generale di Francia. Sua continenza in Roma, IV,
330. Come combatta nei contorni di Novi, 384. Marcia da Napoli verso
l'Adige, V, 315. Vince un bel fatto a Castelfranco, 323.

SAN-CYR, _Cara_. Suo valore nella battaglia di Marengo, V, 144 e 148.

SANDOZ-ROLLIN, ministro di Prussia a Parigi. Quale proposizione faccia
ai Veneziani, II, 184.

_San Giacomo_ (battaglia di) I, 265.

SAN GIULIANO, ministro dell'Imperatore. Di che cosa tratti con Clark
ministro di Francia, II, 208.

_San Marino_, repubblica di. Natura del suo governo e dei suoi popoli,
I, 54. Trattata onorevolmente da Buonaparte e sua risposta alle offerte
di lui, II, 303.

_San Severo._ Si solleva contro i repubblicani, preso e come trattato,
IV, 196 e 199.

_Saorgio_, minacciato dai Francesi, I, 194. Preso, 210.

_Sardi._ Come si difendano dai Francesi, I, 147.

SARMATORIS, conte, sue offerte al papa a Savona, V, 142.

_Sassari_ di Sardegna. Fa qualche moto e dimanda gli stamenti, I, 277.

_Savigliano_ (battaglia di) IV, 386.

_Savoia_, invasa dai Francesi, I, 94. Miserabile fuga dei fuorusciti
Francesi da lei, 103.

_Savoiardi._ Loro opinioni e procedere, I, 132 e 171.

_Savona._ Importanza del suo esito e disegni dei belligeranti sopra di
lei, I, 263. Papa cattivo in Savona, V, 140.

SCHERER, generalissimo di Francia sulla riviera di Ponente, I, 291.
Conforta il suo governo a far l'impresa d'Italia, _ivi_. Vince la
battaglia di Loano, 292. Scambiato da Buonaparte e perchè, 316. Nominato
generalissimo in Italia, IV, 229. Incomincia nuova guerra, 228. Occupa
la Toscana e come, 229. È vinto a Verona, 234. Suo errore, 236. È vinto
a Magnano, 237. Si ritira sull'Adda, e lascia il comando a Moreau, 245.

_Schiarino-Rizzino_ (convenzione di) tra il vicerè d'Italia ed il
generale austriaco Bellagarde, VI, 287.

SCHIPANI, mandato dal governo Napolitano in Calabria e sue qualità, IV,
198 e 205. Rotto dai regii, V, 20 e 24.

SCIARPA, uomo feroce, solleva la provincia di Salerno contro i
repubblicani, IV, 194 e V, 8.

_Scomunica._ Come spiegata da Pio settimo, VI, 147.

SEMONVILLE, mandato ambasciatore dal governo di Francia al re di
Sardegna, rifiutato dal re, I, 90.

_Senato._ Vedi _Bologna_, _Genova_, _Milano_, _Venezia_.

_Senio_ (battaglia del) II, 294.

SERBELLONI, presidente del Direttorio Cisalpino. Suo discorso nella
festa della confederazione, III, 222.

SERRA, membro del governo provvisorio di Genova, imputato dai patriotti
e perchè, III, 162 e 167, e da Faipoult, e perchè, 172. Accusa Faipoult
e perchè, _ivi_.

SERRA, _Gerolamo_, presidente del governo provvisorio ordinato da
Bentinck in Genova, VI, 284.

_Serravalle_, fortezza del Piemonte presa dai Liguri, IV, 99. Presa dai
confederati, 352.

SERRISTORI, ministro del gran duca di Toscana. Come risponde alle
superbe intimazioni di Hervey, ministro d'Inghilterra, I, 161.

SERRURIER. Consegna Venezia agli Alemanni, III, 200. Fa rivoluzione in
Lucca, 211. Combatte con valore, ed è fatto prigioniero nella battaglia
di Cassano, 247 e 251.

SICILIA. Suo parlamento come composto, I, 35. Il re Ferdinando vi si
ritira, IV, 162. Accidenti avvenutici, V, 212. Cagioni di mala
contentezza, 217. Parlamento e suoi atti, 219. Constituzione data da
esso, 230. Cause che fanno perire questa constituzione, 239.

_Siciliani._ Loro onorata risoluzione, VII, 221.

SIDNEI SMITH. Suoi fatti nel regno di Napoli, V, 336 e seg.

SILVA, marchese. Suo discorso nel consiglio del re di Sardegna per
persuader la pace colla Francia, I, 279.

_Società_ di pubblica instruzione in Milano. Sua composizione e discorsi
che vi si fanno, III, 222. Fatta chiudere, 225.

SOMMARIVA (marchese di). Muove i Toscani contro i Francesi, V, 169. È
vinto, si ritira, 187.

_Sorrento_, preservato dal sacco per la memoria del Tasso, IV, 210.

SOULT. Combatte valorosamente nella riviera di Ponente, V, 100. Ferito e
fatto prigioniero, III.

SPADA. Suoi maneggi per cambiare il governo di Venezia, III, 115.

_Spagna._ Fa la pace colla repubblica Francese, I, 277. Tolta ai Borboni
da Napoleone, V, 21. Giuseppe re di Spagna, 22.

SPEDALIERI. Sua opera singolare, I, 81.

SPINOLA. Inviato straordinario di Genova a Parigi, II, 164. Rivocato e
perchè, III, 164.

_Spluga_, mirabile passaggio eseguito da Macdonald, V, 173.

_Stamenti_ di Sardegna. Che cosa siano, I, 277.

_Stato_ ed opinioni d'Europa nel 1789, I, 89.

STUARD, generale d'Inghilterra. Vince la battaglia di Maida, V, 337.

SUCHET. Sua guerra in riviera di Ponente, V, 99. Come difenda il
territorio Francese, 104.

SUWAROW, generalissimo dei confederati in Italia. Vince a Cassano, VI,
246. Entra in Milano, 256. Respinto da Basignana, 259. Suo manifesto
esortatorio ai Piemontesi, 263. Attende all'espugnazione di Torino, 268.
Vi entra e come ricevuto, 270. Vi crea un governo interinale e quale,
271. Prega il re a tornar nel regno, 277. Si dispone a combattere
Macdonald, 314. Sua prima battaglia contro di lui alla Trebbia, 321.
Seconda, 323. Terza, 326. Perseguita i Francesi vinti, 332. Cinge
d'assedio Alessandria, 340. Vuol combattere a Novi malgrado
dell'opinione contraria degli Austriaci, 366. Vince, 368. Prende
Tortona, 378. Parte per la guerra elvetica, 380. Sue qualità, 381.


T

_Tagliamento_ (passo del), eseguito dai Francesi, III, 17.

TALEYRAND, ministro di Francia. Suoi sentimenti sul Piemonte, III, 189.
Suo motto inconveniente sugl'Italiani, 251. Sue lettere all'ambasciator
di Francia in Torino circa certe congiure in Italia, IV, 89. Suo parere
sulla riunione della corona d'Italia a quella di Francia, V, 278.

TANUCCI, ministro del re Ferdinando. Sua buona amministrazione in
Napoli, I, 33.

_Tenda_ (colle di) preso dai Francesi, e sua descrizione, I, 209

TENIVELLI, storico. Suo supplizio in Piemonte e sue lodi, II, 136.

_Tirolo_ (battaglie nel), III, 16. Moto de' suoi abitatori contro i
Francesi, 21. Altro moto e sua natura singolare, 79 e 92.

TISSOT, capitano Francese. Suo estremo valore a Preveza, ed a Napoli,
IV, 290.

_Tolentino_, pace di, II, 361.

_Tolone._ Si dà ai confederati, I, 174. Oppugnato ed espugnato per un
feroce assalto dai repubblicani, 177. Spoglio che ne fanno i confederati
nell'atto d'abbandonarlo, 183 e 184. Misera condizione dei Tolonesi,
_ivi_.

_Torino_, corte di, _Vedi_ Sardegna. Preso dagli alleati, IV, 270.
Terrore che vi regna, 273. Sua cittadella presa, 275.

_Tortona_, liberata dall'assedio da Moreau, IV, 336. Di nuovo assediata
e presa dagli alleati, 380.

_Toscana._ Suo felice stato sotto Leopoldo, gran duca, I, 17. Occupata
dai Francesi, II, 84 e IV, 229. Sollevazioni terribili contro di loro,
IV, 307 e V, 169. Di nuovo occupata dai medesimi, _ivi_. Nuova guerra in
lei colla meglio dei repubblicani, 187. Ceduta all'infante di Parma, con
titolo di re d'Etruria, 192. Unita a Francia, VI, 13.

TOSCANO, _Antonio_. Sua maravigliosa fortezza a Viviena presso Napoli,
V, 25.

_Trani_, città del regno di Napoli. Si solleva contro i repubblicani,
presa e come trattata, IV, 196 e 202.

_Trebbia._ Prima battaglia tra Macdonald e Suwarow, IV, 321. Seconda,
323. Terza, 326.

_Trento._ Preso dai Francesi, II, 115.

TROUVÉ, ambasciator di Francia in Cisalpina. Suo discorso d'ingresso al
Direttorio, IV, 49. Sua lettera contro i fuorusciti francesi, 50. Sua
riforma nella costituzione cisalpina, 51 e 58. Discorso di Marco Ferri
contro di lui, 54.

TROUGUET, ammiraglio di Francia. Assalta la Sardegna, e come è
combattuto, I, 147.


U

_Ufiziali_ di Francia. Loro solenne risentimento contro i rubatori dei
soldati e dell'Italia, III, 333.

ULLOA, ministro di Spagna a Torino. Offre la mediazione di Spagna al re
di Sardegna, I, 278.

_Utopisti_ in Italia, I, 148.


V

_Vale_, ultimo dei soldati francesi ed Italiani, VI, 288.

_Valenziana_, Trattato di, tra l'imperator d'Alemagna e il re di
Sardegna, I, 181 e 188.

VALLARESSO, _Zaccaria_, savio del consiglio. Suo discorso al senato
veneziano per persuadere la neutralità disarmata, I, 122.

_Valtellina._ Si dà alla Cisalpina, III, 216.

VANNI, marchese, membro di una giunta sopra le congiure in Napoli, I,
272. Congedato e perchè, _ivi_.

_Vaticano._ Come spogliato, III, 326.

VAUBOIS, generale di Francia. Costretto a ritirarsi dal Tirolo e da chi,
II, 231. È vinto a Calliano, 232. Lasciato da Buonaparte a comandar
Malta, IV, 19. Come difenda Malta, e come costretto ad arrendersi, V,
164.

_Venezia_, (repubblica di.) Sua maravigliosa stabilità e natura del suo
governo e de' suoi popoli, I, 49. Comparazione tra Venezia e Genova, 51.
Sue deliberazioni rispetto alla Francia, 74. Sue deliberazioni dopo
l'invasione della Savoia fatta dai Francesi, 115 e 127. Altre sue
deliberazioni, 216. Manda un agente a Basilea, 218. Accetta in grado di
ospite il conte di Provenza e come lo tratta, 219. Accetta il ministro
di Francia Lallemand, 221. Manda il nobile Querini come suo inviato a
Parigi, 253. Prenunzii della sua distruzione, 309. Sua brutta
risoluzione rispetto al conte di Provenza, 312. Domande esorbitanti che
le si fanno dai Francesi, II, 13. Nomina Nicolò Foscarini suo
provveditor generale in terraferma, 42. Le vien proposto un trattato
d'alleanza dalla Francia, e come deliberi, 173. Come deliberi intorno ad
un'alleanza coll'Austria, 183. E colla Prussia, 184. Come trattati i
suoi territori sì dai Francesi che dagli Austriaci, 187. Sue querele a
Parigi ed a Vienna, 189 e 191. Squallore e devastazione della
terraferma, 197. Arma l'estuario e perchè, 199. Come senta le
rivoluzioni della terraferma, III, 44. Manda deputati a Buonaparte,
_ivi_. Fraude usata contro di lei, 57. Come minacciata da Buonaparte per
mezzo di Junod, e sua risposta, 62. Lettere acerbissime di Buonaparte al
senato, e grave risposta di lui, 63 e 69. Manda nuovi legati a
Buonaparte, 70. Le giungono funeste novelle da Vienna e da Parigi, 71.
Grave fatto del capitano Laugier, 90. Buonaparte le dichiara la guerra,
103. Ragioni di Venezia, 104. Adunanza in casa del doge, discorso di
lui, e risoluzione fatta, 106. Allocuzione del doge al gran consiglio,
109. Risoluzione fatta da questo, 112. Macchinazioni in Venezia, 115. Il
gran consiglio consente a modificazioni nella forma dell'antico governo,
119. Il gran consiglio si spoglia della sovranità ed accetta il governo
rappresentativo, 124. Sommossa popolare, 128. Venezia occupata dai
Francesi, 129. Vi si crea un municipio, _ivi_. Suo trattato con
Buonaparte, 130. Suo stato dopo il cambiamento, 254. Disposizione degli
animi nella terraferma verso di lei, 255. Spogli, 273. Festa allegra e
compassionevole ad un tempo, 279. Consegnata dai Francesi agli Alemanni,
300.

_Verona_, insidiata, e da chi, III, 53. Sua terribile sollevazione
contro i Francesi, 76. Predicazioni che vi fa contro i forestieri un
frate cappuccino, 84. Si arrende ai Francesi, ed a quali condizioni, 95.
Suo Monte di pietà espilato, 96. Battaglia di Verona, IV, 234.

_Veronesi._ Molto sdegnati contro i Francesi, e perchè, 55. Fanno una
terribile sollevazione contro di loro, 76.

VICTOR, generale di Francia. Buonaparte lo manda a far guerra al papa,
II, 290. Vince i pontificii al Senio, 294. Sue esortazioni contro
Venezia, III, 256. Come combatta nella battaglia di Savigliano, 386. Suo
valore nella battaglia di Marengo, V, 141 e 148.

VIDIMAN, municipale di Venezia, III, 254. Suo elogio, 290.

VIDIMAN, provveditore di Corfù. Sue qualità, III, 263.

_Vido_, scoglio di, una delle difese di Corfù. Come assaltato e preso
dai Russi e Turchi, IV, 298.

_Vienna._ Umori e parti in essa. III, 10.

_Villanova_, cercata da Buonaparte e perchè, II, 244.

VILLETARD. Segretario della legazione di Francia a Venezia. Sue qualità
e condotta, III, 117. A quali condizioni voglia che si cambi il governo
di Venezia, 121. A chi attribuisca un tumulto popolare nato in Venezia,
129. Come annunzi il loro destino ai Veneziani, 288. Sue generose
lettere a Buonaparte, 292 e 296.

VINCENT, soprantendente dell'italica polizia. Suoi ordini circa il papa
prigioniero a Savona, III, 420.

VISCONTI, _Ennio Quirino_. Sua bella descrizione del museo
Pio-Clementino, I, 44.

VISCONTI, _Galeazzo_, ambasciatore della Cisalpina a Parigi. Suo
discorso al Direttorio e risposta del presidente, III, 231.

VITALIANI, napolitano, mescolato nelle rivoluzioni di Genova, III, 156.

VITTORIO AMEDEO, re di Sardegna. Sue qualità e modo di governare, I, 47.
Propone una lega italica per opporsi ai tentativi dei Francesi, 72. Suo
desiderio di guerra contro la Francia, 78. La Francia gli dichiara la
guerra e perchè, 92. Sue deliberazioni dopo la rotta di Savoia, 107.
Suoi disegni sopra le province meridionali della Francia, 129. Non
s'accorda col generalissimo Devins e perchè, 133. Scende in ajuto di
Nizza, 134 e 171. È respinto, 177. Fa un trattato coll'imperator di
Alemagna per ismembrar dalla Francia le province meridionali, 187. Suoi
provvedimenti sì civili che militari per resistere ai Francesi, 211.
Come riceva la mediazione di Spagna per la pace colla Francia, 278.
Tentato dagli alleati pel caso dell'invasione dei Francesi in Piemonte e
sua animosa risposta, 304. Fa tregua, poi pace colla Francia, e
considerazioni in questo proposito, 348. Sua morte ed in quale stato
lascia il regno, II, 158.

VITTORIO EMANUELE, figlio del suddetto, _Vedi_, _d'Aosta, duca_.

_Viviena_, forte di. Come difeso dai repubblicani di Napoli, III, 22.


W

WALLIS, tenente maresciallo d'Austria, manda soldati in Piemonte, I,
212. Sua perizia nella battaglia del Dego, 233. Perde la battaglia di
Loano, 292.

WICKAM, ministro d'Inghilterra in Isvizzera, sue proposizioni per la
pace, I, 301.

WILSON, generale inglese. Si travaglia per l'independenza d'Italia, VI,
261.

WORSLEY, residente d'Inghilterra a Venezia. Sue moderate insinuazioni al
senato, I, 164.

WUKASSOWICH, colonnello d'Austria. Suo bel fatto al Dego, I, 331. Sue
lodi, 335. Romoreggia sul Bresciano, IV, 237, 242 e 243. Come combatta
nella battaglia di Cassano, 247. Muove a romore il Vercellese ed il
Canavese, 257 e 260. Prende Torino, 268. Pressato dai Francesi nel
Tirolo come scampa, V, 183.

WURMSER, maresciallo, generalissimo degli Austriaci. Suoi disegni per la
ricuperazione d'Italia, II, 90. Fa risolvere l'assedio di Mantova e vi
entra vittorioso, 97. Come ordini i suoi alla battaglia di Castiglione,
104. È vinto nella battaglia di questo nome, 108. Ed a Roveredo, 116.
Rompe a Buonaparte il disegno di condursi in Germania e con qual arte. È
vinto a Primolano ed a Bassano, 118. Si ritira in Mantova, 125. Fa una
sortita e con qual successo, 264. Si arrende e come lodato da
Buonaparte, 292.


Z

ZACH, generale d'Austria. Suo valore ed imprudenza nella battaglia di
Marengo, V, 145 e segg.

_Zara_, capitale della Dalmazia veneta. Come venga in poter
dell'Austria, III, 260.

ZORZI. Suoi maneggi per cambiar il governo veneto, III, 116.


FINE DELLA TAVOLA DELLE MATERIE



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (pazzia/pazzìa e simili), correggendo senza
annotazione minimi errori tipografici.





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