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Title: Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II Author: Botta, Carlo Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II" *** STORIA D'ITALIA DAL 1789 AL 1814 SCRITTA DA CARLO BOTTA TOMO II CAPOLAGO _presso Mendrisio_ Tipografia Elvetica MDCCCXXXIII STORIA D'ITALIA LIBRO SETTIMO SOMMARIO Pensieri di Buonaparte. Intenzioni del Direttorio circa le potenze d'Italia. Spoglio delle opere egregie delle belle arti: lusinghe ai dotti ed ai letterati. Tregua col duca di Parma. Come trattato il duca di Modena. Accidenti del Milanese; imposizioni e rapine; mala contentezza dei popoli. Moto pericoloso nel Pavese, massimamente a Binasco ed a Pavia. Sacco di questa città accaduto ai venticinque e ventisei di maggio del 1796. Buonaparte si volta contro Beaulieu, e dopo nuove battaglie, lo sforza a ritirarsi in Tirolo. Niccolò Foscarini nominato dai Veneziani provveditor generale in terra ferma. Sue paure. Minacce, che gli fa Buonaparte. Quel che restava a farsi dai Veneziani in sì pericoloso ed importante caso. Debolezza di Foscarini. Buonaparte in Verona. Minacce contro Verona per aver dato ricovero al conte di Lilla. Il castello di Milano si arrende alle armi Francesi. Rivoluzione di Bologna. Giuramento prestato dai Bolognesi in presenza di Buonaparte. Moto di Lugo, e suoi accidenti. Spavento in Roma. Tregua fra Buonaparte e il papa. Esortazioni del pontefice ai suoi sudditi ed ai Francesi. Sforzi e solenni protestazioni del re di Napoli. Tregua fra il re e Buonaparte. Occupazione di Livorno. Ree intenzioni di Buonaparte rispetto al gran duca di Toscana. Nuovo moto dell'Austria a ricuperazione delle sue possessioni d'Italia: vi manda il maresciallo Wurmser con un esercito assai grosso. Il maresciallo rompe le prime schiere di Buonaparte, fa risolvere l'assedio di Mantova, entra in questa piazza, e la rinfresca d'armi, di soldati e di vettovaglie. Buonaparte raduna i suoi troppo sparsi. Moltiplici battaglie fra i due valorosi emoli. Battaglia di Castiglione combattuta il dì cinque agosto. Wurmser si ritira ai passi del Tirolo; i Francesi lo seguitano. Battaglia di Roveredo succeduta ai quattro settembre. I Tedeschi si ritirano ai più alti passi. Disegni di Buonaparte sopra la Germania; Wurmser gli storna, calandosi di nuovo in Italia per la valle della Brenta. Buonaparte lo seguita. Battaglia di Primolano e di Bassano. Il maresciallo valorosamente combattendo arriva finalmente in Mantova, che è di nuovo cinta d'assedio dai Francesi. Descrizione di Mantova. La Corsica si aliena dall'obbedienza degl'Inglesi, e torna sotto quella di Francia. Conquistato il Piemonte, conculcato il re di Sardegna, e posto il piede nella città capitale degli stati Austriaci in Italia, si apparecchiava Buonaparte a più alte imprese. Suo principal desiderio era di passar il Mincio, e cacciando le genti Tedesche oltre i passi del Tirolo, vietare all'imperatore, che non mandasse nuovi ajuti per ricuperare le Province perdute. Intanto le sue vittorie avevano aperto la occasione al governo di manifestare il suo intento circa il modo di procedere verso le potenze Italiane, e congiunte d'amicizia con la Francia, e neutrali, e nemiche. La somma era, che facendo traffico del Milanese, con darle in preda, secondochè per le occorrenze dei tempi meglio gli si convenisse, o al re di Sardegna, e all'imperatore, si taglieggiassero i principi d'Italia, e da loro quel maggiore spoglio di denaro e di altre ricchezze, che possibil fosse, si ricavasse. Nè in questo mostrava il Direttorio maggior rispetto agli amici che al nemici. Nella quale risoluzione egli allegava per pretesto e la guerra fatta, e l'amicizia finta, e la necessità di assicurare l'esercito. Voleva prima di tutto, che si conquidesse ogni reliquia dell'esercito Alemanno, e che intanto si consumasse il Milanese, sì per pascere i soldati, e sì per farlo meno utile a chi si dovesse o dare, o restituire. «Usate, scriveva il Direttorio a Buonaparte, la occasione del primo terrore concetto dalle nostre armi, ed aggravate la mano sui popoli Lombardi per cavarne denaro. I canali e le altre opere pubbliche di quel paese siano anch'esse un po' tocche dalla guerra; ma si usi prudenza». Nè qui finivano le parole crude rispetto alla miseranda Italia: «Ite, scrivevano, e correte contro il gran duca di Toscana, che è servo degl'Inglesi in Livorno; ite, ed occupate Livorno; non aspettate che vi consenta il gran duca; il sappia quando voi già sarete padrone di quel porto; confiscatevi le navi e le proprietà Inglesi, Napolitane, Portoghesi, e di altri stati nemici della repubblica; sequestrate le proprietà dei sudditi loro; se il gran duca si opponesse, sarebbe perfidia, e sì allora trattate la Toscana come se fosse alleata dell'Inghilterra e dell'Austria; comandate a quel principe, che ordini incontanente, che quanto ai nemici nostri si appartiene, sia in poter nostro posto, e risponda egli del sequestro: pascete le genti della repubblica in Toscana, e date in contraccambio polizze del ricevuto da scontarsi alla pace generale. Fate poi le viste di voltarvi verso Roma e Napoli per metter timore nel pontefice e nel re; assicurate Livorno con un forte presidio, e fate che sia scala a muovere la Corsica per ritorla al giogo della superba casa di Brunsvick-Luneburgo, e ridurla di nuovo sotto il dominio della repubblica». Grande rapacità fu questa veramente, ed incomportevole e barbara, poichè se erano in Livorno proprietà d'Inghilterra, o d'Inglesi e di altri nemici della repubblica, eranvi in vigore della neutralità di Toscana, che la Francia stessa aveva e riconosciuta, ed accordata col gran duca. Questa fu la ricompensa che ebbe Ferdinando di Toscana da quei repubblicani di Parigi, che pure pretendevano sempre alle parole loro la sincerità, e la grandezza, dello avere, primo fra tutti i potentati d'Italia, e riconosciuta la repubblica, e fatta la pace con lei, e dato lo scambio per instanza del Direttorio al suo ministro conte Carletti per avere lui mostrato desiderio di visitare la reale figliuola di Luigi decimosesto testè uscita dal carcere del Tempio per esser condotta in Alemagna. Mandò il gran duca, in vece di Carletti, il principe don Neri Corsini, giovane ingegnoso, di buona natura, e di non mediocre aspettazione. Nè valsero a frastornare dalla felice Toscana la cupidigia dei repubblicani le dolci parole usate dal Corsini medesimo, quando fece il suo ingresso al direttorio, nè le parole magnifiche che gli furono date in risposta dal presidente. Nè io voglio dare a chi mi leggerà il fastidio, questi discorsi raccontando, di udire parole di adulazione inutili da una parte, e promesse d'amicizia infedeli dall'altra. Era Genova stata straziata dalle armi Francesi e dalle armi Tedesche, e poteva avere speranza, ora che la sede della guerra si era allontanata da' suoi confini, di vivere più quietamente. Ma i tempi erano tali, che dove mancavano le cagioni, s'inventavano i pretesti, ed il fine era non di rispettare i neutri deboli, ma di molestargli e di mettergli in preda. Adunque per quella cupidità di voler trarre denaro da Genova, s'incominciò ad insorgere contro il governo Genovese, con dire che le turbazioni seguite contro i Francesi nei feudi imperiali confinanti con lo stato Genovese, e le uccisioni, che pur troppo sui confini dei territorj Piemontese e Genovese accadevano di soldati Francesi, se non erano opera espressa della signorìa, erano almeno troppo più rimessamente che si convenisse, da lei udite e tollerate; che le armi e gli stimoli alla sedizione nei feudi imperiali erano venuti da Genova, e che da Novi venivano le armi e gl'incentivi per assassinare i Francesi ai confini. Per la qual cosa scriveva con una insolenza incredibile Buonaparte al senato ch'era Genova il luogo, donde partivano gli uomini scelerati, che datisi alle strade intraprendevano i carriaggi, ed assassinavano i soldati Francesi, che da Genova un Girola mandava ai feudi imperiali ribellanti armi, e munizioni da guerra pubblicamente, ed ogni giorno i capi degli assassini accoglieva, ancor bruttati di sangue Francese; che parte di questi orribili fatti succedevano sul territorio della repubblica; che pareva, che essa col tacere e col tollerare appruovasse opere tanto scelerate; che il governator di Novi proteggeva i commettitori di tanti atti barbari, perciò arderebbe i comuni dove sarebbe ucciso un Francese; voleva che il governatore di Novi dal suo impiego si cacciasse, Girola da Genova: arderebbe infine le case tutte in cui gli assassini trovassero asilo; punirebbe i magistrati trasgressori della neutralità, osserverebbe bene e puntualmente la neutralità, ma volere che la repubblica di Genova non fosse rifugio di gente malandrina. Allo stesso modo al governatore di Novi, persona moderata e dabbene, scrivendo, lo accusava di essersi fatto ricovero di assassini, e superbamente gli comandava, che arrestasse gli abitatori dei feudi imperiali che fossero nel suo territorio, e se nol facesse, avrebbe a far con lui; poscia vieppiù soldatescamente infiammandosi, ripeteva, arderebbe terre e case, dove gli assassini si ricoverassero. Rispondevano il senato ed il governatore stando in sui generali, perchè l'attribuire a se medesimi opere tanto nefande non era nè verità, nè dignità, ed il non soddisfare ad un soldato vittorioso e sdegnato, era pericolo. Certo è bene, che per quelle strade si commisero contro i Francesi opere di molta barbarie, e certo è altresì, che Buonaparte doveva con quei più efficaci mezzi che potesse, aver cura de' suoi soldati, e porre la vita loro in salvo: ma che queste tanto terribili dimostrazioni ei facesse contro i Genovesi, meno per amor di salute verso i suoi soldati, che per occasione di muover querela contro di loro a fine di denaro, e forse di distruzione, sarà manifesto a chiunque farà considerazione, che questi omicidj ed assassinamenti, di cui con tanta ragione si querelava, non già solamente sul territorio Genovese accadevano, ma ancora, e molto più sul territorio Piemontese; imperciocchè i villici di quei confini tra Novi ed Alessandria, gente allora pur troppo solita al gettarsi alla strada, erano quelli massimamente, che, stando agli agguati, uccidevano i Francesi isolati: nel che intendevano bensì al rubare, ma molto più ancora al saziare nel sangue Francese l'odio che contro quella nazione avevano concetto. Eppure non fece il generale di Francia che un leggiere risentimento, e nissuna minaccia contro il re di Sardegna. La verità era, che nè il governo Piemontese, nè il Genovese erano rei di sì brutti eccessi, ma bensì la sfrenatezza di costume, che porta con se la guerra tanto nei vinti quanto nei vincitori, e l'odio di quei popoli contro il nome Francese. L'insolenza poi di accusare tutto un governo, composto di persone dabbene e temperato per tanti secoli, di prezzolare ed incitar i ladri ed assassini, non poteva procedere se non da un uomo sfrenato. A queste minacce soldatesche succedevano le prepotenze Parigine. Comandava il direttorio a Buonaparte, s'impadronisse o di queto, se i Genovesi consentissero, o per forza, se ricusassero, di Gavi a fine di assicurare l'esercito alle spalle, e di conservarsi la strada della Bocchetta aperta da Genova a Tortona: col medesimo pensiero già si era impadronito della fortezza di Vado; il che quale rispetto sia per la neutralità, ciascuno potrà giudicare. Poscia più oltre procedendo, voleva il direttorio, che come prima avesse l'esercito repubblicano occupato il porto di Livorno, occupasse anche la Spezia, ed ivi quanti bastimenti appartenessero a potentati nemici alla Francia, mettesse in preda. Nè contento a questo, non dimenticato il denaro, nè risguardo alcuno avendo che il fatto della Modesta fosse accaduto non solamente senza saputa, ma ancora con sorpresa del senato di Genova, nè che già fosse stato composto in quattro milioni col governo di Francia, nè che la fermezza del senato nel contrastare alla prepotenza Inglese per serbar la neutralità fosse stata non solo vera, ma anche lodata dal consesso nazionale di Parigi, nè che finalmente molte fossero le molestie che per la serbata neutralità avevano ricevuto i Genovesi dagl'Inglesi, e tuttavìa ricevevano dai Corsi, comandava a Buonaparte, che domandasse vendetta, e milioni di contanti per la straziata Modesta, ed operasse che coloro, che si erano mescolati in tale fatto, fossero come traditori della patria dannati: oltre a ciò voleva e comandava, che si confiscassero e si dessero in mano della repubblica tutte le proprietà pubbliche appartenenti ai nemici, e sotto sicurtà di Genova si sequestrassero tutte quelle che a sudditi di potentati nemici spettassero; cacciasse Genova da' suoi territorj tutti i fuorusciti Francesi; fornisse bestie da tiro e da soma, carriaggi e viveri, e si dessero in contraccambio polizze del ricevuto da scontarsi alla pace generale. Questi comandamenti, che un governo civile avrebbe avuto vergogna di fare ad una potenza del tutto serva, si era risoluto il direttorio di fare ad uno stato, di cui protestava voler riconoscere e rispettare l'indipendenza e la neutralità. Passando ora da Genova a quella primogenita, come la chiamavano, repubblica di Venezia, siccome cresceva nei vincitori con le vittorie la cupidigia dell'oro e del dominare, incominciarono a dire, che volevano che fosse trattata non da amica, ma solamente da neutrale, sotto colore di certi pretesti vecchi, che già sussistevano, poichè non era cambiata la condizione delle cose fra le due repubbliche, quando nell'ingresso del nobile Querini se gli fecero tante carezze. Tra questi pretesti il primo e principale era il passo dato ai Tedeschi pei territorj Veneziani. Poi prosperando vieppiù la fortuna delle armi repubblicane in Italia, insorse il direttorio con volere che Verona desse grossa somma di denaro in presto, a motivo che ella aveva accolto nelle sue mura Luigi XVIII, convertendo per tal modo in colpa un ufficio di pietà. Finalmente, cacciato del tutto Beaulieu oltre Mincio, voleva ed imperiosamente comandava, che Venezia desse in presto dodici milioni, e si voltasse in ricompensa questa detta alla repubblica Batava, che era debitrice di questa somma, a norma dei freschi trattati, alla Francia; il che era un farsi far presto per forza, e pagar a modo suo. Voleva oltre a ciò, e comandava, che si consegnassero alla repubblica tutti i fondi dei potentati nemici che fossero in Venezia, principalmente quelli che spettavano personalmente al re d'Inghilterra, ed inoltre si dessero alla Francia tutte le navi sì grosse che sottili, ed altre proprietà di nemici che stanziassero nel porti Veneziani. Quest'erano le domande fatte dal direttorio alla repubblica Veneta, delle quali direi, ch'io non so s'egli desiderasse che fossero piuttosto negate che concedute, se non sapessi che neanco il concederle sarebbe stato salute per Venezia. Quanto al papa, se volesse trattar d'accordo, si esigesse da lui, imponeva il direttorio, per primo patto, ordinasse subito preci pubbliche per la prosperità e la felicità della repubblica; nel che faceva il direttorio gran fondamento per l'autorità che aveva la sedia apostolica sulla opinione dei popoli sì Francesi, che Italiani. Si venne quinci in sul toccar il solito tasto del denaro, intimando desse venticinque milioni. Si comandasse al tempo medesimo al re di Napoli, che se pace volesse, badasse a cacciar da' suoi stati gl'Inglesi e gli altri nemici della repubblica, mettesse in poter suo tutte le navi loro che nei Napolitani porti fossero sorte, e loro vietasse l'entrarvi, nemmeno con bandiera neutrale. Sapesse poi il re, che col mantenimento dei patti ne andava la salute del regno. Questi superbi comandamenti, che potevano bensì fare i potentati Italiani amici in sembiante di Francia, ma non veri, perchè mescolavano l'oltraggio alla forza, gli rendevano disprezzabili agli occhi del mondo, e davano timore di danni ancor maggiori, quando, distrutta intieramente la potenza dell'Austria, le armi repubblicane avessero inondato tutta l'Italia. Vengo ora ad alcuni potentati minori, che non avevano fatto guerra con le armi alla Francia, perchè non ne avevano, e nemmeno avevano fatto pace, perchè la Francia essendo lontana e l'Austria vicina, temevano di ricevere o ingiuria o danno dai Tedeschi. Non ostante correndo la fama che avessero ricchezze, coloro che reggevano le faccende della repubblica sempre pronti ad abbracciare ogni apparente colore per involare quel d'altrui, avevano a loro volto le proprie cupidità. In conformità di questo voleva il repubblicano governo, che si scuotessero bene i duchi di Parma e di Modena, ma il primo meno rigidamente del secondo per rispetto del re di Spagna, col quale era congiunto di sangue. Quanto al duca di Modena, intenzione dei repubblicani era, che si aggravasse la mano sopra di lui per fargli sborsar denaro in copia, perchè aveva voce di averne, e perchè, avendo sposata l'unica sua figliuola ad un principe Austriaco, si presumeva, o si supponeva, che dipendesse molto dall'Austria. Lallemand, ministro di Francia a Venezia (a questo era serbata dai cieli la sua canuta testa) esortava, che si conculcasse, si pugnesse, si travagliasse per ogni guisa il Modenese duca a fargli dar denaro, perchè ne aveva molto ed era avaro; e più si scuoterebbe, e più contanti darebbe. I frutti della lunga parsimonia di un principe non solamente ordinato allo spendere, buono, e previdente, ma ancora non nemico alla Francia nè per uso, nè per costume, nè per massima, erano destinati a cadere in mano di gente capace a dissipargli in poco d'ora. Intanto, perchè si contaminasse anche lo splendore che veniva all'Italia dalla perfezione delle belle arti, che in lei avevano posto la principal sede, e perchè nissuna condizione di barbarie mancasse a quelle dolci parole di umanità e di libertà, che dai repubblicani di quei tempi si andavano fino a sazietà spargendo, ordinava il direttorio, a petizione di Buonaparte, che si comandasse nei patti d'accordo ai principi vinti, dessero in poter dei vincitori, perchè nel museo di Parigi fossero condotti, quadri, statue, testi a penna, ed altri capi dell'esimie arti, usciti di mano ai più famosi artisti del mondo, affermando, esser venuto il tempo, in cui la sede loro doveva passare da Italia a Francia, e servire d'ornamento alla libertà. Brutta certamente ed odiosa opera fu questa dello avere spogliato l'Italia di tanti preziosi ornamenti; che se il rapire l'oro, l'argento e le sostanze dei campi era uso di guerra, non dirò comportabile, ma utile a nutrire i conquistatori, l'aggiungere alla preda statue e quadri, non poteva essere se non atto di superbia eccessiva, e disegno di vieppiù avvilire i vinti. Rispettarono i Francesi ai tempi andati nelle guerre loro in Italia questi frutti eccellenti dell'umano ingegno: Francesco primo re accarezzava con munificenza veramente reale gli operai, non rapiva le opere. Gli rispettarono nei tempi andati, e gli rispettarono nei moderni i Tedeschi. I repubblicani che allora reggevano la Francia, e che non avevano altro in bocca che parole di umanità, di civiltà, di rispetto verso le proprietà, d'amicizia verso i popoli, fecero quello, che uomini meno parlatori e meno ostentatori di dolci discorsi non avevano fatto. Ma lo spoglio piaceva loro, ad alcuni per l'amore della gloria, ad altri perchè potessero essere sotto gli occhi modelli tanto perfetti di natura abbellita dall'arte; imperciocchè in quei tempi erano sortiti in Francia, massimamente in pittura, artisti di gran valore, i quali ed ammiravano e sapevano imitare lodevolmente gli esempj Italiani: con questo ancora Buonaparte, pe' suoi fini, lusingava la Francia. In Italia poi i repubblicani, non i buoni, ma i malvagi, indicavano le opere preziose da rapirsi, i più dolci andavansi confortando con la speranza che l'Italia, siccome quella che ancora era feconda, ne avrebbe prodotto delle altre ugualmente preziose: i più severi poi, trasportando nelle moderne repubbliche l'austerità delle antiche, se ne rallegravano predicando, che la libertà non aveva bisogno di queste preziosità, e che pane e ferro dovevano bastare a chi repubblicano fosse. Così questi buoni utopisti condotti da una inremediabile illusione, in mezzo agli ori e le gemme, di cui già risplendevano i capi repubblicani di Francia, ed al gran lusso in cui vivevano, andavano continuamente sognando Sparta, e conservandosi austeri ed inflessibili, facevano fede di quanto possa in animi forti e buoni una fissazione, che abbia in se l'immagine del bene. Ma il direttorio, a suggestione sempre di Buouaparte, che sapeva quel che si faceva, voleva, che se le opere più insigni delle arti servivano d'ornamento ai trionfi della repubblica, gl'ingegni celebri gli lodassero, avvisandosi che non sarebbe accagionato di barbarie, se coloro che da lei per costume, per ingegno e per sapere erano i più lontani, si facessero lodatori delle imprese dei repubblicani, a danno ed a spoglio dell'Italia. Voleva conseguentemente, ed imponeva al suo generale, che ricercasse, e con ogni modo di migliore dimostrazione accarezzasse gli scienziati, ed i letterati d'Italia. Indicava nominatamente l'astronomo Oriani, uomo certamente non degno per bontà e per dottrina di essere accarezzato da un governo e da un capitano, che spogliavano la sua patria. Recava il generale ad effetto l'intento del direttorio, parte per vanagloria, parte per astuzia, come mezzo e scala alle future ambizioni. Degli accarezzati alcuni adulavano parlando, altri sprezzavano tacendo, chi mostrò più forza fu l'eunuco Marchesi, che non volle cantare. Egli è tempo oramai di esporre come i raccontati comandamenti, che finora erano solamente intenzioni, siano stati ridotti in atto. Non così tosto ebbe Buonaparte passato il Po a Piacenza, che sorse una trepidazione nella corte di Parma, tanto maggiore quanto il duca aveva rifiutato l'accordo con Francia, che il ministro di Spagna in Torino gli era venuto offerendo con qualche intesa del generalissimo, come prima i Francesi erano comparsi nella pianura del Piemonte. Non solamente una parte del ducato era venuta sotto la divozione dei repubblicani, ma ancora il restante, non avendo difesa, era vicino, e solo che il volessero, a venire in poter loro. Così il duca si trovava del tutto a discrezione dei repubblicani, nè sapeva a quali patti questa gente vittoriosa consentirebbe ad accettarlo in amicizia. Nè stava senza timore, che per opera dei Gallizzanti seguisse qualche turbazione, non già ch'essi fossero o numerosi o potenti, ma il terrore rappresentava alle menti commosse questo pericolo più grave assai, che realmente non era. In tanta e sì improvvisa ruina prese il duca quel partito che solo gli restava aperto, del tentare di assicurar gli stati con un accordo, che quantunque grave e duro dovesse riuscire, sarebbe ciò non ostante men grave, che la perdita di tutto il dominio. Tentò il ministro di Spagna di mitigare l'animo del vincitore; ma egli, che era assai meno sdegnato che avido, non voleva udire le proposte che gli si facevano, e non ammetteva che il duca avesse avuto luogo nel trattato di Spagna. Perciò domandava superbamente l'accordo, che ponesse fine alla guerra, e con l'accordo denari, vettovaglie, e tavole dipinte di estremo valore. Adunque come si suol fare nei casi estremi da coloro che non sono più padroni di loro medesimi, fece il duca mandato amplissimo ai marchesi Pallavicini e della Rosa di trattare, accettando tutte le domande, quantunque immoderate, che si facessero dal vincitore. In primo luogo fu consentita una tregua con mediazione del ministro di Spagna il dì nove maggio in Piacenza. Non aveva il duca nè fucili, nè cannoni, nè altre armi, nè fortezze da dare, ma si obbligava a pagar in pochi giorni sei milioni di lire Parmigiane, che sono a un di presso un milione e mezzo di franchi, e di più a fornire quantità esorbitanti di viveri e di vestimenta pei soldati. Si obbligava oltre a ciò ad allestire due ospedali in Piacenza, provveduti di tutto punto, ad uso dei repubblicani. Consegnerebbe finalmente venti quadri dei più preziosi, fra i quali il San Girolamo del Coreggio. Questi furono i patti che per la intercessione di Spagna ottenne il duca di Parma, i quali di quale natura siano, ognuno per se potrà giudicare. Nientedimeno trovo scritto, che il cavaliere Azara, ministro di Spagna a Roma, opinava che e' fossero molto moderati. Mandava intanto Buonaparte Cervoni a Parma, perchè ricevesse i denari ed i quadri, e vigilasse onde le condizioni della tregua si eseguissero puntualmente. Stretto il duca da tanta necessità mandava le ducali argenterìe alla zecca, perchè vi si coniassero, ed il vescovo le sue. Così usato ogni estremo rimedio, e raggranellato denaro da ogni parte, satisfaceva Ferdinando alle condizioni della tregua. Intanto i fuorusciti Parmigiani e Piacentini, ritiratisi in Milano, laceravano il duca con incessanti scritture, dal che riceveva grandissima molestia. Rappresentavansi spesso questi fuorusciti al generalissimo nelle sue stanze di Milano, ed ei gli accoglieva benignamente, e profferiva loro favori ed impieghi. Di questi alcuni accettavano, ed adulavano; altri repubblicanamente rifiutavano, affermando non volere altro che la libertà della patria loro: questi Buonaparte aveva per pazzi. Al fracasso dell'armi repubblicane tanto vicine risentitosi il duca di Modena, se ne fuggiva a Venezia, portando con se parte de' suoi tesori; il che concitò a grande sdegno i capi della repubblica in Italia, come se il duca fosse obbligato a lasciar le sue ricchezze in Modena per servizio loro. Creò partendo un consiglio di reggenza, che disposto per la necessità del tempo a ricevere qualunque condizione avesse voluta il vincitore, mandava il conte di San Romano a richiedere di pace Buonaparte. Rispose, concedere tregua al duca con patto, quest'erano le instigazioni del canuto Lallemand, che facesse traboccare fra otto dì nella cassa militare sei milioni di lire tornesi, e somministrasse, oltre a ciò, viveri, carriaggi, bestie da soma e da tiro pel valsente di altri due milioni: di più fra quarantott'ore rispondessero del sì, o del no. Fu pertanto conclusa la tregua, in cui si ottennero dal ducale governo la diminuzione di un milione nei generi da somministrarsi, e dieci giorni pel pagamento de' sei milioni. Offerivano quindici quadri dei più famosi maestri. I repubblicani diedero promessa di pagare a contanti quanto abbisognasse loro passando per gli stati del duca. A questo modo fu trattato il duca di Modena, che non aveva mai commesso ostilità contro la Francia, sotto titolo ch'ei fosse feudatario dell'impero d'Alemagna; qualità assai vana, che a niuna soggezione verso il corpo germanico obbligandolo, il lasciava intieramente libero di accostarsi a quale potenza più gli venisse a grado. Di questo non fu mai imputato, e solo si mise in campo questo pretesto, quando giunse il momento dello spoglio. Tornando ora a Milano, dov'era la sede più forte dei repubblicani, e donde principalmente dovevano partire i semi di turbazione per tutta l'Italia, applicò l'animo Buonaparte a due risoluzioni di momento, e queste furono di dar licenza ai magistrati creati dall'arciduca prima che partisse, con surrogar loro magistrati, e uomini o partigiani, o dipendenti da Francia, e di procacciar denaro e fornimenti, che l'abilitassero a continuare il corso delle sue vittorie. Per la qual cosa, in luogo della giunta di stato, creava la congregazione generale di Lombardìa, ed al consiglio dei Decurioni surrogava un magistrato municipale, in cui entrarono volentieri parecchi uomini buoni e di grande stato. Francesco Visconti, Galeazzo Serbelloni, Giuseppe Parini, Pietro Verri. Il generale Despinoy presiedeva il magistrato, ed a lui si riferivano gli affari più gelosi e più segreti. Per supplire intanto alla voragine della guerra, pubblicava Buonaparte sulla conquistata Lombardìa una gravezza di venti milioni di franchi, e faceva abilità ai commissarj, e capi di soldati di torre per forza i generi necessari, con ciò però che dessero polizze del ricevuto accettabili in iscarico della gravezza dei venti milioni. Intenzione sua era, ch'ella cadesse principalmente sui ricchi, sugli agiati, e sul corpi ecclesiastici da sì lungo tempo immuni. Nè fu diversa dall'intenzione la esecuzione: ma i ricchi, sì perchè si sentivano gravati straordinariamente, sì perchè non amavano il nuovo stato, con sinistre insinuazioni creavano odio in mezzo ai loro aderenti, e licenziavano i servitori, che, poco bene disposti in se per natura vecchia, ed avveleniti dalla miseria nuova, andavano spargendo nel popolo, massimamente nel minuto, faville di gravissimo incendio. Volle il magistrato municipale di Milano, posciachè in Milano principalmente abitavano i ricchi, rimediare a tanto male, ordinando che i padroni dovessero continuar a pagare i salarj ai servitori. Ma fu il rimedio insufficiente per la difficoltà delle denunzie. Nè contento a questo, perchè la necessità delle stanze militari, le somministrazioni sforzate di generi di ogni spezie, i caposoldi da darsi, il piatto da fornirsi ai generali, ai commissarj, ai comandanti, agli uffiziali talmente il costringevano, che non era più padrone di se medesimo, stanziava una imposta straordinaria sotto nome di presto compensabile, di denari quattordici per ogni scudo di estimo delle case e fondi Milanesi. Non parlo dei cavalli e delle carrozze che si toglievano, perchè essendo i padroni, come si diceva, aristocrati, pareva che la roba loro fosse diventata quella d'altrui. A questo si aggiungeva l'insolenza militare, consueta in ogni esercito, ma più ancora in questo che in altro, perchè a grandi e replicate vittorie era congiunta una opinione politica ardentissima, e molto diversa da quella dei popoli, fra i quali egli vivea. Dico questo generalmente, e massime dei primi, perchè degli uffiziali subalterni, molti o per gentile educazione, o per bontà di natura in tale guisa si portavano e dentro e fuori delle case del popolo conquistato, che si conciliavano la benevolenza di ognuno, e si era, per consuonanza, talmente addomesticata la natura di questi con quella dei Milanesi, che aveva superato l'impressione prodotta dal terrore delle armi, e dalle molestie di coloro, che in vece di servir di freno, come era richiesto ai gradi loro, con l'esempio e coi comandamenti, servivano di sprone alle male opere che si commettevano. Ma cagione gravissima di esacerbazione nei popoli erano le tolte sforzate di generi, che per uso dei soldati o proprio alcuni facevano nelle campagne; perchè in quei villarecci luoghi, liberi di ogni freno essendo, involavano a chi aveva ed a chi non aveva, e così agli amici, come ai nemici del nome Francese. Aggiungevansi le minacce e le insolenti parole, più potenti assai al far infierire l'uomo, che i cattivi fatti. Le quali cose molto imprudentemente si facevano: perchè oltre all'indegnazione dei popoli si consumava malamente in pochi giorni quello, che avrebbe potuto bastare per molti mesi, ed un paese fioritissimo inclinava rapidamente ad una estrema squallidezza. Ciò rendeva i Francesi odiosi, ma più ancora odiosi rendeva gl'Italiani, che per loro medesimi, o per le opinioni parteggiavano pei Francesi. Nè il popolo discerneva i buoni dai tristi, anzi gli accomunava tutti nell'odio suo, perchè vedeva che tutti ajutavano l'impresa di una gente, che venuta per forza nel loro paese, aveva turbato l'antica quiete e felicità loro. Certamente gridavano, e più assai che non sarebbe stato conveniente, i patriotti Italiani il nome di libertà; ma vana cosa era sperare, che nell'animo dei popoli consumati, ed offesi dall'insolenza militare prevalesse un nome astratto sopra un male pur troppo reale: detestavano una libertà che si appresentava loro mista d'improperj, e di ruberìe. Adunque lo sdegno era grande, la sola forza dominava. Prevalevansi i nobili, offesi nelle sostanze e nell'animo, di queste male contentezze dei popoli. A questi si accostavano gli amatori del governo dell'arciduca, e gli ecclesiastici, che temevano o della religione o dei beni. Spargevano nel contado voci perturbatrici, che sarebbe breve, come sempre, il dominio Francese in Italia; che quella terra era pur tomba ai Francesi, che sempre erano state subite le loro venute, ma più subite ancora le loro cacciate, o gli eccidj; nè permetterebbe Iddio, che gente nemica al nome suo stanziasse lungamente in quell'Italia, sede propria del suo santo vicario; già sventolar di nuovo le insegne d'Austria tra l'Adda ed il Ticino, già calar grossi imperiali eserciti dalle Tirolesi rupi, e già vacillare le armi in mano all'insolente Francese. Ora esser tempo di armarsi, ora di sorgere a difensione di quanto ha l'uomo di più sacro, di più caro e di più reverendo; gradire Iddio, e premiar coloro che hanno la patria più che la vita a cuore: nè doversi dubitar dell'evento, perchè già le repubblicane insegne fuggivano cacciate dalle imperiali aquile. Cresceva il mal contento, se ne aspettavano effetti funestissimi. Portò la fama in quei tempi, che principal autore di queste insinuazioni fosse il conte di Gambarana, uomo attivo e molto avverso ai Francesi. Andava egli seminando e le voci suddette, e di più, che i Francesi volevano far per forza una leva di gioventù Lombarda per mandarla, con le genti Francesi incorporandola, alla guerra contro l'imperatore. Quando gli animi sono sollevati, è pronta la credenza ad ogni cosa: e per quanto i magistrati eletti, e gli altri aderenti dei Francesi si sforzassero di persuadere ai popoli il contrario, non dimettevano punto la concetta opinione, anzi vieppiù vi si confermavano. In mezzo a tutti questi mali umori successe in Milano un fatto veramente enorme che gli fece traboccare e crescere in grandissima inondazione. Era in Milano un monte di pietà assai ricco, dove si serbavano o gratuitamente come deposito, o ad interesse come pegno, ori, argenti, e gioje di grandissimo valore. S'aggiungevano, come si usa, capi di minor pregio, e fra tutti non pochi appartenevano, secondo l'uso d'Italia, a doti di fanciulle povere, e nel monte dai parenti depositate si serbavano al tempo dei maritaggi loro. Sacro era presso a tutti il nome di monte di pietà, non solo perchè era segno di fede pubblica, che sempre incontaminata si dee serbare, ma ancora perchè le cose depositate, la maggior parte, appartenevano a persone o per condizione o per accidente bisognose. Come prima Buonaparte e Saliceti posero piede nella imperial Milano, si presero, malgrado dell'esortazioni contrarie di parecchi generali, le robe più preziose che si trovavano riposte nel monte, e le avviarono alla volta di Genova, avvisando il direttorio, che là erano condotte acciò ne disponesse a grado suo. Di ciò si sparse tosto la fama, magnificandosi con dire, che non si fosse portato più rispetto alle proprietà dei poveri, che a quelle dei ricchi; il che in parte era anche vero. Le quali cose giunte all'insolenza militare, allo strazio che si faceva delle campagne, alle improntitudini dei patriotti, dei quali chi predicava una cosa che il popolo non intendeva, e chi dava materia a credere con l'esempio che la libertà fosse il mal costume, partorirono una indegnazione tale, che dall'un canto prestandosi fede a nuove incredibili, dall'altro non vedendosi o non stimandosi il pericolo, si accese la volontà di far un moto contro i Francesi. Nè fu la città stessa di Milano esente da questa turbazione; perciocchè facendo i repubblicani non so quale allegrezza intorno all'albero della libertà, incitati i popoli a sdegno, correvano a far loro qualche mal tratto, e lo avrebbero anche fatto, se non sopraggiungeva Despinoy con una banda di cavalli, il quale frenando l'impeto loro, gli ebbe tostamente posti a sbaraglio. Ma le cose non passarono sì di queto nei contorni di Milano, massimamente verso Porta Ticinese; perchè viaggiando e Francesi e patriotti Italiani, o soli o con poca compagnìa per quelle campagne, e non essendo pronta, come in Milano, la soldatesca a preservargli, furono da turbe contadine assaltati ed uccisi. Queste uccisioni presagivano uccisioni ancor maggiori, ed accidenti tristissimi. Ma il nembo più grave si mostrava nelle campagne più basse verso il Po ed il Ticino. In Binasco principalmente l'ardore contro i Francesi, e contro i giacobini, come gli chiamavano, era giunto agli estremi: e credendo i Binaschesi, con tutti coloro che dai vicini luoghi erano concorsi in quella terra posta sulla strada maestra a mezzo cammino fra Milano e Pavia, che ogni più crudele fatto fosse lecito contro chi spogliava i monti di pietà, e secondo l'opinione loro conculcava la religione, ammazzavano quanti Francesi o Italiani partigiani loro venivano alle mani. Essendo l'accidente improvviso, molti, anzi una squadra non piccola di Francesi, furono barbaramente trucidati da quella gente, in cui più poteva un intemperante furore, che un desiderio giusto di difendere la patria contro i forestieri, e contro chi gli favoriva. A questo moto dei Binaschesi, moltiplicando sempre più la fama dello avvicinarsi dei Tedeschi, che i capi ad arte spargevano, si riscossero le popolazioni del Pavese, e fecero impeto contro la capitale della provincia, essendo ciascuno armato di fucili vecchi, di pistole, di sciabole, di scuri, di bastoni, o di qualunque altra arma che il caso, od il furore avesse posto loro innanzi. Chi poi non accorreva per la speranza dei soccorsi Tedeschi, che non pochi sapevano esser vana, il facevano per la voce che si era levata fra la gente tumultuaria, che i Francesi si avvicinassero per mettere a sacco Pavia. Già i Pavesi medesimi, irritati ad un piantamento di un albero della libertà, che dagli amatori del nome Francese si era fatto sulla piazza, con atterrare anche nel fatto medesimo una statua equestre di bronzo, che si credeva antica e di un imperator Romano, si erano sollevati la mattina dei ventitre maggio, e correvano la città armati e furibondi. Era la pressa grandissima sulla piazza. Fra le grida, lo schiamazzo e le risa della sfrenata moltitudine, i fanciulli intorno all'albero affollatisi, facevano pruova d'atterrarlo. Crescevano ad ogni ora, ad ogni momento le turbe sollevate: suonavano precipitosamente in Pavia le campane a martello, rispondevano con grandissimo terrore di tutti quelle della campagna. Nascondevansi i patriotti nelle parti più segrete delle case, perchè il popolo gli chiamava a morte: pure più temperato in fatti che in parole, i presi solamente imprigionava. Gli uomini quieti serravano a furia le porte, ed attendevano trepidamente a quello che in un caso tanto pericoloso avesse a portar la fortuna per salute, o per esterminio. I soldati di Francia segregati erano presi: i rimanenti, non erano più di quattrocento fanti, male in arnese, la maggior parte malati o malaticci, a grave stento si ricoveravano nel castello, dove per mancanza di vitto era certamente impossibile che si potessero difendere lungo tempo. Arrivavano in questo punto i contadini, e congiuntisi coi cittadini aggiungevano furore a furore. Alcuni fra i più ricchi, o che temessero per se, perchè sapevano che il popolo infuriato dà ugualmente contro gli amici e contro i nemici, e più volentieri contro chi ha ricchezze che contro chi non ne ha, o che volessero ajutare quel moto, mandavano sulla piazza botti di vino, pane e carni, ed altri mangiari in quantità. In mezzo a tanto tumulto i buoni non erano uditi, i tristi trionfavano: i villani ignoranti, forsennati, e non capaci di pesar con giusta lance le cose, non vedendo comparire da parte alcuna soccorsi in favore degli avversarj, davansi in preda all'allegrezza, e concependo speranze smisurate, già facevano sicura nelle menti loro, non solo la liberazione di Milano, ma ancora quella della Lombardìa, e di tutta l'Italia. Arrivava a questi giorni in Pavia il generale Francese Haquin, il quale non sapendo di quel moto, se ne viaggiava a sicurtà verso l'alloggiamento principale di Buonaparte; nè così tosto ebbe posto il piede dentro le mura, che minacciato nella persona, fu condotto per forza al palazzo del comune, dove già era una banda grossa di soldati Francesi, che disarmati ed incerti della vita o della morte se ne stavano del tutto in balìa di quella gente furibonda. Fu Haquin nascosto dai municipali nella parte più rimota del palazzo, e facevano ogni sforzo per sedare quel cieco impeto, che fremeva loro intorno. Ma ogni parola era vana, perchè il furore aveva cacciato la ragione. Finalmente il popolo sfrenato entrava nel palazzo per forza, e trovato Haquin lo voleva ammazzare; ma i municipali, facendogli scudo dei corpi loro, il preservavano. Nondimeno, ferito da bajonetta in mezzo alle spalle, il traevano per le contrade fra una calca immensa, e chi si avventava, come bestia feroce, contro di lui con orribili minacce, e chi con gli archibusi inarcati il voleva uccidere. Pure prevalse contro tanta furia la virtù dei municipali, che con memorabile esempio, e degno di essere raccontato nelle storie come caso meritevole di grandissima commendazione, amarono meglio esporsi al morir essi, che sofferire che avanti al cospetto loro il generale Francese morisse. Mentre alcuni si adoperavano per la salute di Haquin, altri s'ingegnavano di salvar la vita dei Francesi presi; nè riuscì vano il benigno intento loro. Così non pochi Francesi, riscossi da un gravissimo pericolo, restarono obbligati della vita alla umanità di magistrati Italiani, che privi di armi altro mezzo non avevano per frenare un popolo fuor di se, che le esortazioni, e l'autorità del nome loro. Bene fece poi Haquin ufficio di gratitudine, a Buonaparte, che ritornata Pavia a sua divozione, gli voleva far ammazzare come autori della ribellione, raccomandandogli, e con le più instanti parole pregandolo, perdonasse a uomini già vecchi, a uomini più abili a pregare il popolo concitato, che a concitar il quieto, a uomini non usi a casi tanto strani, e che per una generosità molto insigne, e con pericolo proprio, erano cagione ch'egli e più di cencinquanta soldati Francesi superstiti pregare il potessero di dar la vita a coloro, ai quali erano della vita obbligati. Gran conforto è stato il nostro del poter raccontare l'atto pietoso di questo buono e valoroso Francese in mezzo a tante ruine, a tante stragi, a tante devastazioni, ed a tanti vicendevoli rimprocci, sempre condannabili, perchè sempre esagerati, della perfidia Italiana, e della immanità Francese. Intanto si viveva con grandissimo spavento in Pavia, non già perchè vi si temessero dai più i Francesi, avendo la rabbia tolto il lume dell'intelletto, ma perchè tutti i buoni temevano, che quella furia, per trovar pascolo, si voltasse improvvisamente a danno ed a sterminio della misera città. I giorni spaventevoli, le notti più spaventevoli ancora, ridotta quella sede nobilissima a dover perire o per furore degli amici, o per vendetta dei nemici. Così passarono le due notti dei ventitre ai venticinque: ma già si avvicinava l'esito lagrimevole di una forsennata impresa, quando più la moltitudine, per la dedizione del presidio ricoverato in castello, si credeva sicura della vittoria. Era giunto il giorno venticinque maggio, quando udissi improvvisamente un rimbombar di cannoni, prima di lontano, poi più da presso; e via via più spesseggiando il romore, dava segno che qualche gran tempesta si avvicinasse dalle parti di Binasco. Spargevano, fossero i Tedeschi; ma i più nol credevano, ed incominciavano a trepidar dell'avvenire. I Pavesi soprattutto stavano molto atterriti, perchè all'estremo punto i villani non conosciuti, e di domicilio incerto, se ne sarebbero fuggiti; ma la città, bersaglio certo ad un nemico sdegnato, sarebbe stata sola percossa da quel nembo terribile. Erasi già Buonaparte, lasciato Milano in guardia a' suoi, condotto a Lodi con animo di perseguitare con la solita celerità il vinto Beaulieu, quando gli pervennero le novelle del tumulto di Binasco e di Pavia. Parendogli, siccom'era veramente, caso d'importanza, perchè quest'incendj più presto si spandono che non si estinguono, tornossene subitamente indietro, conducendo con se una squadra eletta di cavalli, ed un battaglione di granatieri fortissimi. Giunto in Milano, considerato che forse le turbe sollevate avrebbero mostrato ostinazione uguale alla rabbia, o forse volendo risparmiare il sangue, si deliberava a mandar a Pavia monsignor Visconti, arcivescovo di Milano, affinchè con l'autorità del suo grado e delle sue parole procurasse di ridurre a sanità quegli spiriti inveleniti. Intanto applicando l'animo a far sicuro con la forza quello, che le esortazioni non avrebbero per avventura potuto operare, rannodava soldati, e gli teneva pronti a marciare contro Pavia. Infatti già marciavano; già incontrati per via i Binaschesi, facilmente gli rompevano, facendone una grande uccisione. Procedendo poscia contro Binasco, appiccato da diverse bande il fuoco, l'arsero tutto: il funesto incendio indicava al mondo, che strage chiama strage, fuoco chiama fuoco, e che male con forche, e con bastoni, e da gente tumultuaria si resiste a bajonette, a cannoni, a battaglioni ordinati. Rimasero lungo tempo in essere le ruine affumicate e le ceneri accumulate dell'infelice Binasco, terribili segni a chi stava ed a chi passava. Erasi intanto l'arcivescovo condotto a Pavia, e fattosi al balcone del municipale palazzo orava instantemente alle genti, che si erano affollate per ascoltarla. Rappresentava la disfatta intiera dei Tedeschi, la vittoria piena dei Francesi, la soggezione universale, l'incendio di Binasco, le repubblicane schiere avvicinantisi pregne di vendetta, Buonaparte già vicino, vincitore di tanti eserciti, e solito piuttosto a compatire a chi s'arrende, che a perdonare a chi resiste. Pensassero a Dio, che condanna ogni eccesso; pensassero alle mogli ed ai figliuoli loro oramai vicini a divenir orfani dei mariti e dei padri condotti al precipizio da un insensato furore; avessero risguardo a quell'antichissima città, sedia di tanti artifizj preziosi, di tanti palazzi magnifici, la quale nè munita, nè difesa da esercito guerriero, sarebbe tosto preda di gente forestiera chiamata a vendetta da un capitano invitto: già fumare Binasco, presto aver a fumare anche Pavia, se più prestassero fede ad una illusione manifesta, che alle parole vere di chi per costume, per grado e per età aveva l'ingannare più in odio, che la morte. Così parlava l'arcivescovo desiderosissimo di salvar la città; ma più poteva in chi lo ascoltava un feroce inganno, che le persuasive parole. Gridarono, non doversi dar orecchio all'arcivescovo, esser dedito ai Francesi, esser giacobino; e così su questo andare con altre ingiurie offendevano la maestà del dabben prelato. Adunque non rimaneva più speranza alcuna alla desolata terra; le matte ed inferocite turbe, accortesi oggimai che lo sperare nei Tedeschi era vano, e che i Francesi già stavano loro addosso, chiusero ed abbarrarono le porte, ed empierono tutto all'intorno le mura di armi e di armati. Ma ecco arrivare a precipizio il vincitor Buonaparte, ed atterrare a suon di cannoni le mal sicure porte. Fessi in sulle prime una tal qual difesa; ma superando fra breve le armi buone e le genti disciplinate, abbandonavano frettolosamente i difensori le mura, e ad una disordinata fuga si davano. Fuggirono per diverse uscite i contadini alla campagna: si nascondevano i cittadini per le case. Restava a vedersi quello che il vincitor disponesse: aspettava Pavia l'ultimo eccidio. Entrava la cavallerìa della repubblica, correva precipitosamente, trucidava quanti incontrava: cento sollevati in questo primo abbattimento perirono. Entrava per la Milanese porta Buonaparte, e postovisi accanto con le artiglierìe volte contro la contrada principale, traeva a furia dentro la città. Quivi fra il romore dei cannoni, fra le grida dei fuggenti e dei moribondi, fra il calpestìo dei cavalli, fra lo strepito delle case diroccanti, tra il fremere dei soldati infiammatissimi alla ruina della terra, era uno spettacolo spaventevole e miserando. Ma se periva chi andava per le vie, non era salvo chi si nascondeva per le case. Ordinava Buonaparte il sacco, dava Pavia in preda ai soldati. Come prima si sparse fra i miseri cittadini il grido del dover andare a sacco, vi sorse tale un pianto, tale un terrore, tale una miseria, che avrebbe dovuto aver forza di piegare a pietà ogni cuor più duro. Ma le soldatesche, avventate di natura ed irritate alla morte dei compagni non si ristavano, e vi commisero opere non solo nefande in pace, ma ancora nefande in guerra. Erano in pericolo le masserizie, erano le persone; e le persone quanto più dilicate ed intemerate, tanto più appetite ed oltraggiate dagli sfrenati saccheggiatori. Le stanze poco innanzi seggio sì gradito di domestica felicità, divenivano campo di dolore e di terrore. I padri e le madri vedevano in cospetto loro contaminate quelle vite, che con tanta cura nodrite avevano illibate e caste; ed il minor dolore che si avessero erano le perdute sostanze. Funesti vestigj si stampavano nei penetrali più santi, della forestiera rabbia. Quanti nobili palazzi desolati! quanti ricchi arredi spersi! quanti utili arnesi fracassati! ma più periva il povero che il ricco; perciocchè perdeva questi il mobile, piccola parte del suo avere, perdeva quello l'uniche sostanze che si avesse. Quest'erano le primizie della libertà. Al che se per Buonaparte si rispondesse, che il sangue de' suoi soldati trucidati, e la sicurtà del suo esercito queste esorbitanze necessitavano, nissuno sarà per negare ciò esser vero; ma ognuno aggiungerà dall'altro lato, che non era stato punto necessario che si espilasse il monte di pietà, nè che s'insultassero le persone, nè che si rubassero le campagne. Perlochè ragion vuole, che questi atti barbari siano dagli uomini imputati alla vera origine loro, siccome le imputa certamente il sommo Iddio, giusto estimatore delle opere dei mortali. Scese intanto la notte del venticinque maggio, e coperse i fatti abbominevoli da una parte, il dolore e la disperazione dall'altra. L'oscurità accresceva il terrore; le miserabili grida che uscivano da luoghi reconditi e bui, facevano segno che vi si venisse ad ogni estremo, di cui più la umanità ha ribrezzo, e terrore. Così fra mezzo ad un confuso tramestio di voci disperate, alle minacce di chi, avuto già molto, voleva ancora aver di vantaggio, all'andar e venire di soldati correnti con preda, od a preda, ai lumi incerti, che di quando in quando splendevano funestamente fra le tenebre, si trapassava quella notte orribile. Nè pose l'alba del seguente giorno fine al pianto ed alle ingiurie. Solo la cupidigia del rapire, che non mai si sazia, continuava più intensa della cupidigia del contaminare, che si sazia, e se il sacco era tuttavìa avaro, non era più lascivo. Ma la luce rendeva più miserabile agli occhi dei risguardanti il guasto che era seguìto la notte; potevano i padroni giudicare di vista quale e quanta fosse stata la ruina loro. Piangevano: la soldatesca intanto od adunatasi nelle vuotate case, od assembratasi nelle riempiute piazze con esultazioni romorose, e con risa smoderate, e col bere, e col tracannare, e col raccontare, e col vantare come suole, con soldatesco piglio quello che aveva fatto, e quello che non aveva fatto, mandava fuori l'allegrezza concetta per una immensa ingiuria vendicatrice di una immensa ingiuria. Tal era l'universale dei soldati: ma noi non vogliamo che lo sdegno, e la compassione da noi sentita per opere tanto enormi, ci faccia dimenticare i pietosi uffici fatti da molti soldati Francesi in mezzo a confusione sì fiera e sì orribile. Non pochi furono visti che abborrendo dalla licenza data da Buonaparte, serbarono le mani immuni dall'avaro saccheggiare; altri più oltre procedendo, fecero scudo delle persone loro ai miserandi uomini, ed alle miserande donne, chiamate a preda od a vituperio dai compagni loro. Sorsero risse sanguinose fra gli uni e gli altri in sì strana contesa, pietosa ad un tempo e scelerata; ed io ho udito raccontare, non senza lagrime di tenerezza, a fanciulle castissime, come della illibatezza loro in sì estrema sventura state fossero a Francesi soldati obbligate. Alcuni così operarono per buona natura, altri tirati da compassione; poichè entrati nelle desolate case con animo di far sacco, visto lo spavento ed il dolore degli abitatori, si ristavano, e da infuriati nemici ad un tratto diventavano generosi guardiani e difenditori. Nè mancarono di quelli, i quali vedendo le donne svenute alle immagini atroci che agli occhi loro si appresentavano, posto in obblìo il primo intento di far preda, intorno ad esse si affaticavano per farle risensare, e riconfortarle, potendo in loro più la compassione che l'avarizia. Altri finalmente furono visti, i quali trasportati dall'impeto comune, e già poste a ruba le magioni altrui se ne venivano carichi di bottino, tornarsene subitamente indietro a far la restituzione delle rapite suppellettili, solo perchè soccorreva loro in mente la miseria di coloro ai quali rapite le avevano. Così, se in mezzo a tanta concitazione alcuni Francesi di perduta natura non si rimasero nè alle preghiere nè alle grida compassionevoli dei saccheggiati, si scoverse in altri od una bontà intemerata, od una compassione più forte dell'ira e della cupidigia: nel che tanto maggior lode loro si debbe, che ebbero a superar l'esempio. Nè si dee passar sotto silenzio, che se si fece ingiuria alle robe ed alla continenza, non si pose però mano nel sangue. Il che non oserò già dire che mi rechi maraviglia; ma bene dirò, che mi par degno di grandissima commendazione, perchè il soldato poteva uccidere non solo impunemente, ma ancora utilmente. Parte anche essenziale di questo fatto fu l'immunità data alle case dell'università, le quali furono da quel turbine preservate, quantunque in se avessero, massimamente il museo di storia naturale, molti capi di pregio, anche per soldati. Questo benigno risguardo si ebbe per comandamento dei capi; e certamente le generazioni debbono con gratitudine riconoscere Buonaparte dello aver fatto in modo che il rispetto verso gli studj e verso i sussidj loro trovasse luogo fra tanti sdegni. Più mirabile ancora fu la temperanza dei capi subalterni, od anche dei gregarj medesimi, che portando rispetto al nome di Spallanzani, e di altri professori di grido, si astennero o pregati leggermente, od anche non pregati dal por mano nelle robe loro. Tanto è potente il nome di scienza, e di virtù, anche negli uomini dati all'armi, ed al sangue! Finalmente il mezzodì del giorno ventisei, siccome era stato ordinato da Buonaparte, pose fine al sacco. Contento il vincitore a quel che aveva fatto, non incrudelì di soverchio contro a coloro, che presi con le armi in mano ancora grondanti di sangue Francese, meritavano, secondo le leggi, come le chiamano, della guerra, che i repubblicani facessero a loro quello, che essi avevano fatto ai repubblicani. Un solo fu fatto passar per le armi in sul primo fervore a Pavia; poi altri tre, che portati all'ospedale, già vi stavano per le ferite avute, con mal di morte. Raccontarono falsamente le gazzette e le storie dei tempi, che i municipali, uomini tutti nobili, fossero stati castigati con la morte, perchè solo furono tolti d'ufficio, e con altri cittadini di maggior credito, in qualità di ostaggi, condotti in Antibo. Calaronsi dai campanili le campane, disarmaronsi le popolazioni, ordinossi che la prima terra che strepitasse, sacco, ferro, e fuoco avrebbe. Pavia percossa da tanta tempesta, se ne stette occupata molto tempo da uno stupore misto tuttavìa di spavento. Ma finalmente un vivere più regolato, quantunque non fosse senza molestia, le maniere piacevoli dei Francesi, soprattutto la mansuetudine di Haquin fecero di modo, che succedendo la sicurezza al terrore, ognuno tornasse all'opere consuete. Cominciavano intanto i Pavesi ad addomesticarsi con quei soldati, che avevano creduto tanto terribili per fama, e pruovato vieppiù terribili per atto. Siccome poi il primo e principale ornamento di Pavia era l'università, così il nuovo reggimento poneva cura, che ed ella si aprisse, ed i professori si accarezzassero. Secondavano il buon volere di chi governava i Francesi medesimi, particolarmente quelli, che non nuovi essendo nelle scienze e nelle lettere, onoravano e con ogni gentil modo accarezzavano Spallanzani, Scarpa, Volta, Mascheroni, Presciani, Brugnatelli, ed altri celebrati uomini, lume e splendore d'Italia. Fra il romore dell'armi sorgeva l'università di Pavia, e l'opera più bella di Giuseppe II imperatore era fomentata ed ajutata da coloro, che avevano cacciato i suoi successori da quelle loro antiche possessioni. Solo dispiacque la elezione procurata e fatta di Rasori alla carica di professore, perchè camminava, come giovane, con soverchio affetto nelle nuove cose, e quei professori, uomini gravi, prudenti e pratichi del mondo, amavano meglio chi si mostrava inclinato al conservare uno stato già pruovato, di coloro ai quali piacevano innovazioni d'effetto incerto. Buonaparte, posato il moto di Pavia, che aveva interrotto i suoi pensieri, s'indirizzava di nuovo a colorire gli ultimi suoi disegni contro Beaulieu, che, come già fu per noi narrato, alloggiava con le reliquie delle sue genti sulla riva sinistra del Mincio, per guisa che essendo padrone dei ponti di Rivalta, di Goito e di Borghetto, aveva facilmente accesso sulla destra. Ora si avvicinavano gli estremi tempi della repubblica Veneziana. La tempesta di guerra, stata finora lontana da' suoi territorj, doveva fra breve scagliarvisi, e due nemici adiratissimi l'uno contro l'altro erano pronti a combattervi battaglie, che ogni cosa presagiva aver a riuscire ostinate e micidiali. Vedeva il senato, che la terraferma quieta allora da ogni perturbazione, sarebbe presto divenuta sedia di guerra, perchè sapeva, che i Francesi si erano risoluti ad andar ad assalire il loro nemico, dovunque il trovassero. Impossibile era il prevedere quali avessero ad essere precisamente gli effetti del duro contrasto, che sulle terre Venete si preparava, ma certo era, che avrebbe portato con se accidenti di somma pernicie, perchè non più si trattava del semplice passo di un esercito che va ad altro destino, e che non avendo alcun timore, non occupa con stanze stabili le terre grosse, nè i luoghi forti; ma bene si era giunto a tale che ambe le parti avendo a combattere fra di loro, avrebbero l'una e l'altra per primo pensiero il procacciarsi i proprj vantaggi, anche a pregiudizio della neutralità Veneziana; perciocchè la salute propria, e la necessità di vincere sono più forti del rispetto, che si dee portare alla dignità ed ai diritti altrui. Non avevano pretermesso i pubblici rappresentanti di Brescia e di Bergamo, principalmente quest'ultimo, cittadino zelantissimo, d'informare diligentemente il governo di quanto accadeva sui confini; e del pericolo che ogni giorno si faceva più grave: ma le instanze loro restarono senza frutto, perchè ed il tempo mancava, ed i partigiani della neutralità disarmata tuttavia prevalevano nelle consulte della repubblica. Ma stringendo ora il tempo, e desiderando il senato, che in un caso di tanta, anzi di totale importanza, le cose di terraferma fossero rette con unità di consiglj aveva tratto a provveditor generale in essa Niccolò Foscarini, stato ambasciadore a Costantinopoli, uomo amatore della sua patria e di sana mente, ma di poco animo, e certamente non atto a sostenere tanto peso; del che diè tosto segno, perchè nell'ingresso medesimo della sua carica già si mostrava pieno di spaventi, e di pensieri sinistri. Sperava il senato che Foscarini avrebbe potuto con la sua destrezza intrattenere convenevolmente i due capi nemici, e dimostrando loro la sincerità della repubblica, ottenere che inferissero il minor male che possibil fosse, a quelle terre innocenti. Confidava altresì che i popoli della terraferma, vedendo in una persona sola un tanto grado e tanta autorità, si confermerebbero vieppiù nella divozion loro verso la repubblica; perchè il mandare un provveditor a posta, affinchè vigilasse sulla salute loro, era testimonio che la repubblica non gli abbandonava. Diessi, come moderatore a Foscarini, il conte Rocco San-Fermo, con quale prudenza non si vede, perchè San-Fermo parteggiava piuttosto pei Francesi, ed era in cattivo concetto presso ai Tedeschi per essere stata la sua casa in Basilea il ritrovo comune dei ministri di Prussia, di Spagna e di Francia, quando negoziavano fra di loro la pace. Avuto così grave mandato, se ne veniva il provveditor generale a fermar le sue stanze in Verona, città grossa, posta sul fiume Adige, e vicina ai luoghi dove aveva primieramente a scoppiare quel nembo di guerra. L'accoglievano i Veronesi molto volentieri, e gli fecero allegrezze, confidando che la sua presenza avesse pure ad operar qualche frutto a salute loro. Ma non conoscevano i tempi: il senato medesimo non gli conosceva: perchè lo sperare in tanta sfrenatezza di principj politici, ed in un affare in cui dalle due parti vi andava tutta la fortuna dello stato, che si sarebbe portato rispetto al retto ed all'onesto, e che un magistrato privo di armi potesse fare alcun frutto, era fondamento del tutto vano. Bene il predicava il procurator Pesaro, armi chiedendo ed armati; ma impedirono così salutifero consiglio le fascinazioni della parte avversaria, ed abbandonossi inerme la repubblica nella fede di coloro, che non ne avevano. Ripigliando ora il filo delle imprese di Buonaparte, era suo pensiero, per rompere le difese del Mincio, di dar sospetto a Beaulieu, ch'egli volesse, correndo per la occidentale sponda del lago di Garda, occupare Riva, e quindi gettarsi a Roveredo, terra posta sulla strada, che dall'Italia porta al Tirolo. Perlochè, passato l'Olio ed il Mela, poneva gli alloggiamenti in Brescia, donde ad arte faceva correre le sue genti più leggieri verso Desenzano; anzi procedendo più oltre, mandava una grossa banda, condotta da Rusca, fino a Salò, terra a mezzo lago sulla sua destra sponda. Per nutrire vieppiù nel nemico la falsa credenza, che sua sola intenzione fosse di sprolungarsi sulla sinistra per correre verso le parti superiori del lago col fine suddetto di mozzar la strada agli Austriaci per al Tirolo, aveva tirato sul centro e sulla destra le sue genti indietro per guisa, che in vece di star minacciose sulla destra del Mincio, si erano fermate alcune miglia lontano dal fiume nelle terre di Montechiaro, Solfarino, Gafoldo e Mariana, e le teneva quiete negli alloggiamenti loro. Era Brescia possessione dei Veneziani. Però volendo Buonaparte giustificare questo atto del tutto ostile verso la repubblica, perchè gli Austriaci avevano passato pei territorj Veneti, ma non occupato le terre grosse e murate, mandava fuori da Brescia il dì ventinove di maggio un bando, promettitore, secondo il solito, di quello che non aveva in animo di attenere, avere, diceva, l'esercito Francese superato ostacoli difficilissimi per venire a torre il grave giogo dell'Austria superba dal collo della più bella parte d'Europa: vittoria, e giustizia congiunte avere compito il suo intento; le reliquie del nemico essersi ritratte oltre Mincio; passare, a fine di seguitarle, i Francesi per le terre della Veneziana repubblica; ma non essere per dimenticare l'antica amicizia, da cui erano le due repubbliche congiunte; non dovere il popolo avere timore alcuno; rispetterebbesi la religione, il governo, i costumi, le proprietà; pagherebbesi in contanti quanto fosse richiesto; pregare i magistrati ed i preti, informassero di questi suoi sentimenti i popoli, affinchè una confidenza reciproca confermasse quell'amicizia, che da sì lungo tempo aveva congiunto due nazioni fedeli nell'onore, fedeli nella vittoria. A questo modo Buonaparte, il dì ventinove di maggio del novantasei, chiamava amica di Francia quella repubblica, che il direttorio, e Buonaparte medesimo già avevano accusato, come di gran reità, dello aver dato ricovero al conte di Lilla; qualificava fedele nell'onore quella nazione, che già avevano accagionato di aver dato il passo alle genti Tedesche. La forza della verità operava da un lato, la cupidigia del rapire e del distruggere dall'altro. Come prima Beaulieu ebbe avviso, avere i repubblicani occupato Brescia, valendosi del pretesto, pose presidio in Peschiera, fortezza Veneziana situata all'origine dell'emissario del lago di Garda, e che altro non è, se non il fiume Mincio. Temeva, che Buonaparte non portasse più rispetto a Peschiera che a Brescia, ed era la prima, se fosse stata bene munita, principale difesa del passo del fiume. Era Peschiera piazza forte, ma il senato, o, per meglio dire, i Savj, persistendo in quella loro eccessiva neutralità, nè sospettando di un turbine tanto impetuoso, l'avevano lasciata senza difesa. Solo sessanta invalidi la presidiavano: aveva bene ottanta cannoni, ma senza carretti, e per munizioni, cento libbre di polvere, ma cattiva; fortificazioni in rovina, ponti levatoj impossibili a levarsi, difese esteriori senza palizzate, strada coperta ingombra d'alberi, non una bandiera da rizzarsi sulle mura per far segno a qual sovrano la fortezza appartenesse. Bene aveva il colonnello Carrera, comandante, rappresentato al provveditor generale la condizione della piazza, domandato soldati, armi e munizioni, avvertito il pericolo dell'indifesa fortezza in tanta vicinanza di soldati nemici. Ma Foscarini, che aveva più paura del difendersi, che del non difendersi, aveva trasandato le domande del comandante. La quale eccessiva continenza gli fu poi acerbamente rimproverata da coloro, in favor dei quali ei l'aveva usata, perciocchè Buonaparte affermava, che se il provveditor generale avesse mandato solamente due mila soldati da Verona a Peschiera, sarebbe stata la piazza preservata; il che era vero: ma se Foscarini non l'aveva fatto, ciò era stato per non offendere il capitano Francese, non per compiacere al capitano Tedesco. Occupatasi Peschiera dagli Alemanni, vi fecero a molta fretta quelle fortificazioni che per la brevità del tempo poterono, rassettando i bastioni e le altre difese cadute in rovina per la vetustà. Intanto Buonaparte, sicuro di aver ingannato il nemico con dargli concetto che volesse spingersi verso la punta superiore del lago, si apparecchiava a mettere ad esecuzione il suo disegno. Era questo di sforzare il passo del Mincio a Borghetto. Non era stato il generale Austriaco senza sospetto, quantunque per le dimostrazioni del suo avversario avesse ritirato parte delle sue genti ai luoghi superiori, che il vero pensiero di Buonaparte fosse di assaltarlo a Borghetto. Però aveva munito il ponte con le opportune difese, avendo ordinato che quattromila soldati eletti si trincerassero sulla destra alla bocca del ponte, e che sulla sponda medesima diciotto centinaja di cavalli stessero pronti a spazzare all'intorno la campagna, ed a calpestare chi s'accostasse. Il resto delle genti alloggiava sulla sinistra accosto al ponte per accorrere in ajuto della vanguardia, ove pericolasse. Muovevansi improvvisamente la mattina i repubblicani da Castiglione, Capriana, Volta e s'indirizzavano al ponte di Borghetto. Successe una battaglia forte, perchè gli Austriaci già tante volte vinti, non si erano perduti d'animo, anzi valorosamente combattendo sostenevano l'impeto dei Francesi. Restavano superiori sulla prima giunta, perchè non essendo ancora arrivate tutte le genti di Francia, che dovevano dar dentro, la vanguardia, che prima aveva ingaggiato la battaglia, fortemente pressata dalla cavallerìa Tedesca, cominciava a crollare ed a ritirarsi. Ma sopraggiungendo squadroni freschi, massimamente cavalli ed artiglierìe, furono gli Austriaci risospinti, nè potendo più resistere alla moltitudine che gli assaltava virilmente da tutte le parti, abbandonata del tutto la destra del fiume, si ricoverarono sulla sinistra. Guastarono un arco del ponte, acciocchè il nemico non gli potesse seguitare. Qui succedeva un tirar di cannoni molto fiero da una parte e dall'altra del fiume, ma senza frutto, perchè nè i Francesi potevano passare per la natura del ponte, nè i Tedeschi si volevano ritirare. Ma erano le battaglie dei Francesi di quei tempi più che d'uomini, e con più costanza e' le sostennero che i loro antichi. Ed ecco veramente che il generale Gardanne, postosi a guida di una mano di soldati coraggiosissimi, si metteva in fiume, non curando nè la profondità di lui, perciocchè l'acqua gli arrivava insino a mezzo petto, nè la tempesta delle palle che dall'opposta riva si scagliavano: già varcava, ed alla sinistra sponda si avvicinava. A tanta audacia il timore occupava gli Austriaci; si ricordarono del fatto di Lodi, rallentarono le difese, fu fatto abilità ai repubblicani, non solo di passare a guado, ma ancora di racconciare il ponte. La qual cosa diede la vittoria compita ai Francesi: e come l'ebbero, così l'usarono; perchè avendo passato, si davano a perseguitar l'inimico, sì per romperlo intieramente, e sì per impedire, se possibil fosse, che gittasse un presidio dentro Mantova, fortezza di tanta importanza. Ma Buonaparte, che sapeva bene e compiutamente far le cose sue, per tagliar la strada al nemico verso il Tirolo, aveva celeremente spedito Augereau contro Peschiera, comandandogli che s'impadronisse a qualunque costo della fortezza, e corresse a Castelnuovo ed a Verona. Così impossibilitati a ricoverarsi in Mantova ed a ritirarsi in Tirolo, gl'imperiali sarebbero stati in gravissimo pericolo. Beaulieu, che aveva pe' suoi corridori avuto avviso dell'intenzione del nemico, conoscendo che poichè i repubblicani avevano passato il Mincio, non poteva più avere speranza di resistere, aveva del tutto applicato l'animo al ritirarsi ai passi forti del Tirolo; nè per lui si poteva indugiare, perchè il tempo stringeva. Laonde, introdotto in Mantova un presidio di dodici mila soldati con molte munizioni sì da bocca che da guerra, s'incamminava con presti passi alla volta di Verona. Gli convenne ancor fare, per dar tempo a' suoi di raccorsi, una testa grossa, e sostenere una stretta battaglia tra Valleggio e Villafranca, sulla sponda di un canale largo e profondo, che congiunge le acque del Mincio con quelle del Tartaro. Infatti mentre si combatteva a riva del canale, Beaulieu faceva spacciare prestamente Peschiera e Castelnuovo, e per tal modo, raccolto in uno tutto l'esercito, si difilava velocemente, avendo la notte interrotto la battaglia del canale verso l'Adige: quindi passato questo fiume a Verona, guadagnava i luoghi sicuri del Tirolo. Augereau trionfante e minaccioso entrava nell'abbandonata Peschiera. Questa fu la conclusione della guerra fatta da Beaulieu in Italia, da cui si rende manifesto, che se le armi Francesi di tanto riuscirono superiori alle sue, debbesi, non a mancanza di valore nei soldati dell'imperatore attribuire, ma bensì all'arte ed all'astuzia militare, per cui il giovane generale di Francia di sì gran lunga superò il vecchio generale d'Alemagna. Del resto fu Beaulieu capitano pratico e risoluto, e la perdita della battaglia di Montenotte, che aperse i passi d'Italia ai Francesi, hassi unicamente a riconoscere da un accidente straordinario; le disposizioni prese da lui innanzi, e durante il fatto furono per ogni guisa eccellenti, e senza l'impensato intoppo di Rampon, è verisimile che la fortuna si sarebbe scoperta favorevole a Beaulieu piuttosto che a Buonaparte. Certamente per poco stette, che il cattivo consiglio di quest'ultimo, nel quale ebbe anche contrarj i suoi migliori generali, dello aver corso a Voltri e fortificato debolmente Montenotte, non fosse cagione della sconfitta dei repubblicani. S'incominciavano intanto a manifestare i maligni segni di quel veleno, che il direttorio e Buonaparte nutrivano contro la repubblica di Venezia, meno forse per odio che per utile; il che peraltro è più odioso. Due erano i principali fini a cui tendevano, dei quali uno accidentale e temporaneo, l'altro da lungo tempo premeditato e perpetuo. Si conteneva il primo in questo, che l'esercito acquistasse per se tutti i mezzi di perseguitar l'inimico e d'impedire il suo ritorno. Era il secondo di turbare lo stato quieto della repubblica Veneta, perchè pel presente si aprissero le occasioni di vivervi a discrezione, e per l'avvenire sorgessero pretesti per darla in preda, secondochè pei tempi si convenisse, a chi l'accetterebbe, come prezzo di pace con la Francia. All'uno ed all'altro fine conduceva acconciamente l'occupazione di Verona, perchè il suo sito, dove sono tre punti, è padrone del passo dell'Adige, ed è a chi scende dall'Alpi Rezie, principale impedimento a superarsi. Da un'altra parte l'acquisto di una piazza tanto principale non poteva farsi dai Francesi senza un grande sollevamento d'animi in quelle provincie. Adunque al fine d'impossessarsi di Verona indirizzò, dopo la vittoria di Borghetto e la presa di Peschiera, Buonaparte i suoi pensieri: e però, siccome quegli che era maestro perfetto d'inganni, incominciò a levare un romore grandissimo, e ad imperversare sclamando, che Venezia per aver dato ricovero ne' suoi stati al conte di Lilla, si era scoperta nemica alla Francia, e che l'aver lasciato occupare Peschiera dagl'imperiali dimostrava la parzialità del governo Veneto verso di loro. E così tempestando, e moltiplicando ogni ora più nello sdegno e nelle minacce, affermava volersene vendicare. Di tratto in tratto prorompeva anzi con dire, che non sapeva quello che il tenesse, che non ardesse da capo in fondo Verona, città, soggiungeva, tanto temeraria, che si era creduta capitale dell'impero Francese. In questo alludeva al soggiorno fattovi dal conte di Lilla, pretendente alla corona di Francia. La quale intemperanza ed assurdità di Buonaparte, sebbene sia raccontata come se fosse un giojello da alcuni scrittori di storie dei nostri tempi, ai quali più piacciono le giattanze di lui che la verità e la ragione, non so se sia o più indegna del grado del capo di un esercito grande, o più ridicola in se stessa; perchè, la Dio mercè, non fu mai nessuno in Verona, nemmeno credo, i matti, se qualcuno ve n'era, che abbia creduto che la città loro fosse diventata capitale dell'impero Francese. Solo credettero aver fatto un'opera pietosa, coll'aver dato ricovero dentro le loro mura ad un principe perseguitato ed infelice. Quanto al fatto di Peschiera, da quello che abbiam narrato di sopra si può giudicare, se posciachè i Veneziani, per non dar sospetto ai due nemici, massime ai Francesi, non avevano voluto munire quella fortezza, fosse la medesima difendevole, e se potessero impedire in un caso tanto improvviso, che i Tedeschi vi entrassero; e poichè Buonaparte si lamentava di questo fatto, saria bene a sapersi, se Peschiera in quello stato in cui era, quando i Tedeschi l'occuparono, più fosse fortezza, che Crema, o Brescia, quando furono occupate dal capitano di Francia. Bene sapeva egli che cosa vi fosse in fondo di tutto questo, stantechè scriveva al direttorio il dì sette giugno, che la verità dell'affare di Peschiera era, che Beaulieu aveva vituperosamente ingannato i Veneziani, avendo loro solamente domandato il passo per cinquanta soldati, e che con questo pretesto si era impadronito della terra. Ma il vero od il falso non arrestavano Buonaparte, e queste querele faceva in primo luogo per accennare, come abbiamo detto, a Verona, nella quale, per esser munita di tre fortezze ed assicurata da una grossa banda di Schiavoni, non poteva entrar di queto senza il consenso dei Veneziani; in secondo luogo per fare dar denaro a Venezia, conciossiachè scriveva egli al direttorio il dì suddetto in proposito di questo medesimo fatto di Peschiera, a bella posta avere aperto questa rottura, perchè se volessero cavar cinque o sei milioni da Venezia, sì il potessero fare. Così ad una brutta sete dell'oro soggettava il capitano repubblicano la verità, il giusto e l'onesto. Gl'imperversamenti e le minacce di Buonaparte pervennero alle orecchie del provveditor generale Foscarini, che le udì con grandissimo terrore. E però per dare al generale repubblicano le convenienti giustificazioni, che dalla sua bocca propria, e non da quella d'altrui voleva udire, si mise in viaggio col segretario San Fermo per andarlo a visitare in Peschiera. Giunto al cospetto del giovane vincitore, e ristrettosi con esso lui e con Berthier, che è da lodarsi per la umanità mostrata in tutte queste occorrenze, se però non era un concerto alla soldatesca tra lui e Buonaparte, protestava ed asseverava, avere sempre la repubblica Veneziana, ed in ogni accidente seguitato i principj della più illibata neutralità. Rispondeva minacciosamente Buonaparte, che non voleva esser convinto, ma bensì intimorire, che male aveva corrisposto Venezia all'amicizia della Francia, che i fatti erano diversi assai dalle parole, che per tradimento avevano i Veneziani lasciato occupar dai Tedeschi Peschiera; il che era stato cagione ch'egli avesse perduto mila e cinquecento soldati, il cui sangue chiamava vendetta; che la neutralità voleva che si resistesse agli Austriaci; che se i Veneziani non bastassero, sarebbe egli accorso; che doveva la repubblica con le sue galere vietar loro il passo pel mare e pei fiumi; che insomma erano i Veneziani amici stretti degli Austriaci. Quindi trascorrendo dalle minacce alla barbarie, rimproverava con asprissime parole ai Veneziani l'aver dato asilo negli stati loro ai fuorusciti francesi, ed al conte di Lilla, nemico principale della repubblica di Francia; procedendo finalmente dalla crudeltà alle menzogne, sclamava, che prima del suo partire aveva avuto comandamento dal direttorio di abbruciar Verona, e che l'abbrucierebbe; che già contro di lei marciava con cannoni e mortai Massena, che già forse le artiglierìe di Francia la fulminavano, e che già forse ardeva; che tal era il castigo che i repubblicani davano pel ricoverato conte di Lilla; che aspettava fra sette giorni risposta da Parigi per dichiarar la guerra formalmente al senato; che Peschiera era sua, perchè conquistata contro gli Austriaci; che di tutte queste cose aveva informato il ministro di Francia in Venezia, quantunque, aggiungeva, queste comunicazioni diplomatiche tenesse in poco conto, acciocchè il senato ne ragguagliasse. Così Buonaparte, che sapeva di certo, e lo scrisse al direttorio, che per fraude, e contro la volontà dei Veneziani erano gli Austriaci entrati in possessione di Peschiera, questo fatto attribuiva a tradimento dei Veneziani. Spaventato in tale modo l'animo del provveditore, stette Buonaparte un poco sopra di se; poscia, come se alquanto si fosse mitigato, soggiunse, che della guerra e di Peschiera aspetterebbe nuovi comandamenti dal direttorio; sospenderebbe per un giorno il corso a Massena, ma il seguente s'appresenterebbe alle mura di Verona; che se quietamente vi fosse accettato e lasciato occupar i posti da' suoi soldati, manterrebbe salva la città, ed avrebbero i Veneti la custodia delle porte, i magistrati il governo dello stato; ma che se gli fosse contrastato l'ingresso, sarebbe Verona inesorabilmente arsa e distrutta. Queste arti usava Buonaparte il dì trentuno maggio per ottenere pacificamente il possesso di Verona. Dal che si vede qual fede prestar si debba al suo manifesto dato da Brescia il dì ventinove del mese medesimo, e quale fosse la sincerità delle sue promesse. Così quella repubblica di Venezia, che due giorni prima era stata chiamata amica della Francese, e dichiarata aver sempre camminato nelle vie dell'onore, era il dì trentuno del mese medesimo divenuta, e già da lungo tempo, non solo infedele, ma perfida e nemica alla Francia, ed il direttorio aveva comandato a Buonaparte, che ostilmente contro una delle città più eminenti del suo dominio e di tutta Italia corresse. Certamente non era questo un procedere degno di un generale di una nazione civile, e che ha nel nemico in odio più la perfidia che la guerra. Tale sarà il giudizio che ne faranno le generazioni sì presenti che future, in cui la virtù sarà sempre più potente che il vizio. Da questa insidia, e da queste minacce si rendeva chiaro, quali dovessero essere le deliberazioni del provveditor Veneto; posciachè, prescindendo anche dagl'indegni oltraggi, quel dire di voler arder sul fatto una città nobilissima del territorio Veneto, quell'affermare che fra sette giorni poteva venir caso ch'ei dichiarasse formalmente la guerra a Venezia, della verità o falsità della quale affermazione non poteva a niun modo il provveditore giudicare, non solo rendevano giusta, ma ancora necessaria una subita presa di armi dal canto dei Veneziani. Quello era il momento fatale della Veneziana repubblica, quello il momento fatale d'Italia e del mondo; e se Foscarini avesse avuto l'animo e la virtù di Piero Capponi, non piangerebbe Venezia il suo perduto dominio, non piangerebbe Italia il principale suo ornamento, non piangerebbe il mondo tante vite infelicemente sparse per fondare il dispotismo di un capitano barbaro. Che se Foscarini non aveva questo mandato dal senato, l'aveva dal cielo, favoreggiatore delle cause pie, e nemico dei tiranni, l'aveva dalla sua nobil patria, l'aveva dal consentimento di tutti i buoni gonfi di sdegno all'aspetto di sì inudita empietà. Non con le umili protestazioni, non col privar Verona delle sue difese doveva Foscarini rispondere a Buonaparte, ma con un suonar di campana a martello continuo, con un predicar alto di preti contro i conculcatori della sua innocente patria, con un dar armi in mano a uomini, a donne, a fanciulli, con un fracasso di cannoni incessabile dalle lagune all'Adige, dalle bocche del Timavo all'emissario di Lecco. Certamente in un moto tanto universale molte vite sarebbero mancate, molte città distrutte, Verona forse data alle fiamme, ma la repubblica fora stata salva. Forse alcuni sentiranno raccapriccio all'udir rammentare di queste battaglie di popoli. Pure le usarono contro i Francesi gli Austriaci, sebbene non prosperamente, nell'ottocentonove, e furono lodati: le usarono contro i Francesi medesimi prosperamente gli Spagnuoli nell'ottocentodieci, i Prussiani nell'ottocentotredici, e furono lodati; le vollero usare i Francesi contro gli Europei nell'ottocentoquindici, e se non furono lodati, non furono neanco biasimati. Ora non si vede perchè non sarebbe stato lodevole ai Veneziani di usarle: che se gli Austriaci, gli Spagnuoli, i Prussiani, ed i Francesi hanno qualche privilegio, quando ne va la indipendenza, anzi l'essere, od il non essere dello stato, di difendersi a stormo, sarìa bene che il mostrassero, affinchè gl'Italiani si acquetino a tanto diseredamento. So che alcuni diranno, che il governo di Venezia era cattivo; ma si risponderà dagli uomini savj, che non tocca ai forestieri il giudicare della natura del governo, e meno ancora il correggerla; nè so se muova più a sdegno che a compassione il pensare, che queste querele dottoresche sulla mala natura del governo Veneto vengono principalmente da quelli, che hanno trovato ottimo il governo del direttorio, che voleva far tagliar la testa ai naufragati, e quello di Buonaparte, che teneva prigioni per corso d'anni, ed anche in vita senza forma di processo gl'innocenti. Fatto sta, che poichè si voleva rendere i popoli Veneziani servi dei forestieri, e' bisognava con risoluzione magnanima fare, che i popoli Veneziani si salvassero da se; ma Niccolò Foscarini, in vece di gridar campane, come Piero Capponi, corse, pieno di paura, a Verona, e diede opera che gli Schiavoni, nei quali consisteva la principale difesa, l'abbandonassero, e che così i magistrati come i cittadini ricevessero pacificamente i soldati di Buonaparte. Il non aver usato il rimedio dei popoli non solo fu fatale per l'effetto, ma fu anche inutile per la fama; imperciocchè ed i partigiani e gli storici pubblicarono a quei tempi, e tuttavìa pubblicano, sebbene bugiardamente, ma per giustificare la sceleraggine commessa contro Venezia, che se Venezia non fece, volle fare lo stormo contro i Francesi, già prima che succedesse la sollevazione di Verona del novantasette, che racconteremo a suo luogo. La qual cosa se fosse tanto vera, quanto veramente è falsa, non si sa che si volesse significare il manifesto di Brescia. So che dagli adulatori di Buonaparte viene, sebbene con la solita falsità, accagionato di aver macchinato questo stormo Alessandro Ottolini, podestà di Bergamo a quei tempi, uomo meritevole di ogni lode per la fedeltà e la sincerità sua verso la patria; ma egli solamente s'ingegnava di mantenere le popolazioni Bergamasche affezionate al nome Veneziano; e se quando s'impadronirono i Francesi di Verona, divenne Ottolini più vigilante e più attivo, e fece opera che le popolazioni si ordinassero, il fece perchè le minacce ed i fatti di guerra del capitano del direttorio a ciò lo sforzarono. Quell'ordinarsi accennava, non un voler nuocere altrui, ma un impedire che altri nuocesse a lui, e se Ottolini si armava, avrebbe fatto meglio l'armarsi molto più. Certamente avrebbe egli mancato del suo dovere verso la patria, se in tanto romore di guerra, non solo imminente, ma presente negli stati di Venezia, non avesse procurato di serbarsi padrone di se medesimo, e capace di mantenere con buoni ordinamenti salva la provincia commessa alla sua fede rispetto ai due nemici, che venivano a rapire le sostanze Veneziane, e ad ammazzarsi tra di loro sulle terre della repubblica. Ma nei tempi scorretti che abbiamo veduto, fu costume il chiamar traditori, ed il perseguitare con ogni sorte di pubblico improperio coloro, che più sono stati fedeli alle loro patrie, come se fosse stato debito loro il servire piuttosto a Buonaparte nemico, che ai principi proprj ed alla patria, ed a quanto ha la patria in se di caro e di giocondo. Così fu infamata la virtù di Alessandro Ottolini e di Francesco Pesaro in Italia, di Stadion in Austria, di Stein in Prussia: così anche furono condotti a morte Palmer di Baviera, Hofer di Tirolo: così finalmente i magnanimi Spagnuoli furono chiamati col nome di briganti. Queste cose chi generoso scrittore fosse, dovrebbe con disdegnosa e riprenditrice penna altamente dannare, non cercar di scusare, ora con le parole ed ora col silenzio, l'inganno, l'ingiustizia, e la tirannide. Come prima si sparse in Verona, per la venuta del Foscarini, che i Francesi vi sarebbero entrati per alloggiarvi, vi nacque nelle persone di ogni condizione e grado uno spavento tale, che pareva che la città avesse ad andare a rovina. Più temevano i nobili che i popolani, perchè sapevano che i repubblicani gli perseguitavano. Il popolo raccolto in gran moltitudine sulle piazze e per le contrade, pieno di afflizione e di terrore accusava la debolezza di Foscarini, e le perdute sorti della repubblica. Lo stare pareva loro pericoloso, l'andarsene misero. Pure il pericolo presente prevaleva, e la maggior parte fuggivano. Fu veduta in un subito la strada da Verona a Venezia impedita da un lungo ingombro di carrozze, di carri e di carrette, che le atterrite famiglie trasportavano con quelle suppellettili, che in tanta affoltata avevano a molta fretta potuto raccorre. Facevano miserabile spettacolo le donne coi fanciulli loro in braccio od a mano, che piangendo abbandonavano una sede gradita per amenità di sito, graditissima per una lunga stanza. Nè minor confusione era sull'Adige fiume; perchè insistevano i fuggiaschi occupati nel caricare sulle navi a tutta pressa le masserizie più preziose dei ricchi, e gli arnesi più necessarj dei poveri: navigavano intanto a seconda per andar a cercare in lidi più bassi, od oltre le acque del mare terre non ancora percosse dalla furia della guerra. Entrarono il dì primo giugno i Francesi in Verona. Quivi Buonaparte lodava l'aspetto nobile della città, i magnifici palazzi, le spaziose piazze, i tempj, le pitture, insomma ogni cosa, e più di tutto, per indurre opinione ch'egli elevasse l'animo alla grandezza Romana, l'Arena, opera veramente mirabile dei Romani antichi. Si rendevano anche padroni di Legnago e della Chiusa. A Verona non solo occuparono i ponti, ma ancora le porte e le fortificazioni. Così si verificava, secondo il solito, la promessa di Buonaparte del voler solo occupare i ponti. Al medesimo modo, pure secondo il solito, mantenne le promissioni da lui fatte nel manifesto di Brescia del voler pagare in contanti tutto ch'ei richiedesse in servigio dei soldati; imperciocchè essendosi sparsi nelle campagne testè felici del Bergamasco, del Bresciano, del Cremasco e del Veronese, vi facevano tolte incredibili, che, non che si pagassero, non si registravano; seguivano mali tratti e scherni ancor peggiori; nè le cose rapite bastavano od erano d'alcun frutto, perchè si dissipavano con quella prestezza medesima, con cui si rapivano. Quindi era desolato il paese, nè abbondante l'esercito, nè mai si fece un dissipare di quanto alla umana generazione è necessario, così grave e così stolto, come in questa terribil guerra si fece. I popoli intanto vessati in molte forme, e cadendo da una lunga agiatezza in improvvisa miseria, entravano in grandissimo sdegno, e si preparavano le occasioni a futuri mali ancor più gravi. A questo tempo si udirono le novelle della dedizione del castello di Milano; il comandante austriaco Lamy, perduta per le vittorie di Buonaparte ogni speranza di soccorso, si arrese a patti il dì ventinove giugno, salve le robe, e le persone, eccettuati solo i fuorusciti Francesi, che dovevano essere consegnati ai repubblicani. Trovarono dentro la fortezza cencinquanta cannoni grossi, sei mila fucili, polvere e palle in proporzione, con molto bestiame vivo. Fu questo acquisto di grande importanza ai Francesi, perchè era il castello come un freno ai Milanesi, e molto assicurava le spalle dei repubblicani. Per solennizzare questa vittoria, si fecero molte feste, balli e conviti, dai repubblicani Francesi meritamente, dai repubblicani Italiani per imitazione. La ruina sotto dolci parole si propagava in altre parti d'Italia; perchè trovandosi Buonaparte, per le vittorie di Lodi e di Borghetto, e così per la ritirata di Beaulieu alle fauci del Tirolo, sicuro alle spalle e sul sinistro fianco, voltò l'animo ad allargarsi sul destro; quivi ricche e fertili terre l'allettavano. Restavano oltre a ciò a domarsi il papa, ed il re di Napoli, e ad espilare il porto di Livorno. Per la qual cosa, spingendo avanti le sue genti, dopo l'occupazione di Modena, s'incamminava alla volta di Bologna, città, forse più di ogni altra d'Italia, piena d'uomini forti e generosi, e che conoscendo bene la libertà, non la misurava nè dalla licenza nè dal servaggio forestiero. Aveva il senato di Bologna anticonosciuto, che per la vittoria di Lodi diveniva il generale Francese signore di tutta la Lombardìa, quanto ella si distende dall'Alpi agli Apennini. Però desiderando di preservare il Bolognese, e massimamente la capitale, dalle calamità che accompagnano la guerra, aveva a molta fretta, dopo di aver creato un'arrota d'uomini eletti con autorità straordinaria, mandato a Milano i senatori Caprara e Malvasia coll'avvocato Pistorini, acciò veduto il generalissimo, il pregassero di aver per raccomandata la patria loro. Al tempo medesimo il sommo pontefice, spaventato dall'aspetto delle cose, siccome quegli, che nell'approssimarsi dei repubblicani vedeva non solo la ruina del suo stato temporale, ma ancora novità perniciose alla religione, specialmente se come nemici allo stato pontificio si accostassero, aveva commesso al cavaliere Azara, ministro di Spagna a Roma, che già era intervenuto alla composizione con Parma, andasse a Milano, e procacciasse di trovar modo d'accordo con quel capitano terribile della repubblica di Francia. Era Azara molto benignamente trattato da Buonaparte, e perciò personaggio atto a far quello che dal pontefice gli era stato raccomandato. Furono dal generale umanamente uditi i senatori di Bologna: parlaronsi nei colloquj secreti di molti gravi discorsi, il fine dei quali tendeva a slegare i Bolognesi dalla superiorità pontificia, a restituire quel popolo alla sua libertà statuita già fin dai tempi della lega Lombarda, e ad impetrare che i soldati repubblicani, passando pel Bolognese, vi si comportassero modestamente. Questi erano suoni molto graditi ai popoli di quel territorio: Buonaparte che sel sapeva, promise ogni cosa, e più di quanto i deputati avevano domandato: partironsi molto bene edificati di lui, e se ne tornarono a Bologna. Intanto le sue genti marciavano. Comparivano il diciotto giugno in bella mostra, e con aria molto militare poco distante da Bologna dalla parte di Crevalcuore. Nel giorno medesimo una banda di cavalli condotta da Verdier entrava, come antiguardo, in Bologna, e schieratasi avanti al palazzo pubblico faceva sembiante d'uomini amici e liberali. Il cardinal Vincenti legato, non prevedendo che fosse giunta al fine in quella legazione l'autorità di Roma, avvisava il pubblico dell'arrivo dei Francesi, e della buona volontà mostrata dai capi. Esortava che attendessero quietamente ai negozj; comandava che rispettassero i soldati; minacciava pene gravi, anche la morte, secondo i casi, a chi o con parole o con fatti gli offendesse. Entrava poi il seguente giorno la retroguardia: arrivavano la notte Saliceti, e Buonaparte. Era costume di Buonaparte, per fare che i popoli si muovessero più facilmente contro i governi loro, e sentissero meno acerbamente il suo dominio, di dare loro speranza di liberargli, e spesso anche gli liberava da quanto essi governi avevano o di più odioso o di più gravoso; perchè in tutti i reggimenti sono sempre di questi tasti, che fanno mal suono ai popoli. Aveva Bologna perduto la sua libertà, od almeno quello che stimava libertà, dappoichè la somma delle faccende dello stato era venuta in mano della chiesa; la qual cosa i Bolognesi sopportavano molto di mala voglia. Oltre a questo era Bologna stata spogliata dai pontefici del dominio di Castel Bolognese, terra grossa situata oltre Imola, e fondata anticamente dai Bolognesi desiderosissimi di ricuperare quell'antica colonia. Nè ripugnavano a questa ricongiunzione i castellani medesimi, ricordevoli tuttavìa del dolce freno col quale erano stati retti. Buonaparte, informato dai deputati di questi umori, come prima arrivava a Bologna, restituiva il possesso di Castel Bolognese, ed aboliva ogni autorità del papa, reintegrando i Bolognesi nei loro antichi diritti di popolo libero ed independente. Nè mettendo tempo in mezzo, comandava al cardinal Vincenti legato, se ne partisse immantinente da Bologna. Indi chiamato a se il senato, a cui era devoluta l'autorità sovrana, gli significava che essendo informato delle antiche prerogative e privilegi della città e della provincia, quando vennero in potere dei pontefici, e come erano stati violati e lesi, voleva che Bologna fosse reintegrata della sostanza del suo antico governo. Ordinava pertanto che l'autorità sovrana al senato intiera e piena ritornasse: darebbe poi a Bologna, dopo più matura deliberazione, quella forma di reggimento che più al popolo piacesse, e più all'antica si assomigliasse: prestasse intanto il senato in cospetto di lui giuramento di fedeltà alla repubblica di Francia, ed in nome e sotto la dipendenza di lei la sua autorità esercesse: i deputati dei comuni e dei corpi civili il medesimo giuramento in cospetto del senato giurassero. Preparata adunque con grande sontuosità la sala Farnese, e salito sur un particolare seggio riceveva Buonaparte il giuramento dei senatori in questa forma: «A laude dell'onnipotente Iddio, della Beata Vergine, e di tutti i Santi, ad onore eziandìo, e riverenza della invitta repubblica di Francia, noi gonfaloniere e senatori del comune e popolo di Bologna giuriamo al signor generale Buonaparte, comandante generalissimo dell'esercito Francese in Italia, che non faremo mai cosa contraria agl'interessi della stessa invitta repubblica, ed eserciremo l'ufficio nostro, come buoni cittadini, rimosso ogni qualunque odio o favore, e tanto giuriamo nella forma patria, toccando gli Evangeli». Prestatosi dal senato il giuramento, si accostarono a prestarlo, presente sempre il generale di Francia, i magistrati sì civili che ecclesiastici; il che fece in tutta Bologna una gran festa, grata al popolo, perchè nuova, e con qualche speranza grata al senato, perchè da servo si persuadeva di esser divenuto padrone, non badando che se era grave la servitù verso il papa, sarebbe stata gravissima verso i nuovi signori. Diessi principio al nuovo stato, secondo il solito, a suon di denaro. Pose Buonaparte gravissime contribuzioni di guerra. Si querelavano i popoli, parendo loro che le contribuzioni fossero opera piuttosto da nemico, che da alleato; conciossiachè con questo nome aveva il generalissimo chiamato la repubblica di Bologna. Pure se ne acquetavano, perchè sapevano che bisogna bene, che i soldati vivano del paese che hanno. Solo si sdegnavano dello scialacquo, perchè conformandosi quietamente al fornire le cose necessarie, non potevano tollerare di dar materia ai depredatori, che i soldati, e gl'Italiani ugualmente rubavano. Poco stante successe, come a Milano, un fatto enorme, che dimostrò vieppiù qual fosse il rispetto, che Saliceti e Buonaparte, ai quali il direttorio aveva dato in preda l'Italia, portavano alle proprietà ed alla religione. Imperciocchè, poste violentemente le mani nel monte di pietà, lo espilarono per far provvisioni, come affermavano, all'esercito. Solo restituirono i pegni che non eccedevano la somma di lire ducento, come se fosse lecito rapire o non rapire, secondo le maggiori o minori facoltà dei rapiti. Ma temendo gli autori di tanto scandalo lo sdegno di un popolo generoso, quantunque attorniati da tante schiere vittoriose, avevano per previsione ordinato che si togliessero le armi ai cittadini. I repubblicani, procedendo più oltre, s'impadronivano di Ferrara, fatto prima venir a Bologna, sotto specie di negoziare sulle faccende comuni, il cardinale Pignatelli legato, e quivi trattenutolo come ostaggio, finchè fosse tornato da Roma sano e salvo il marchese Angelelli, ambasciadore di Bologna. Creato dai vincitori a Ferrara un municipio d'uomini geniali, vi posero una contribuzione di un mezzo milione di scudi romani in contanti, e di trecento mila in generi. Queste angherìe sopportavano pazientemente e per forza Bologna e Ferrara; ma non le potè tollerare Lugo, grosso borgo, posto in poca distanza da Imola; perchè concitati gli abitatori a gravissimo sdegno contro i conquistatori, si sollevarono, gridando guerra contro i Francesi. Pretendevano alle parole loro, e ne fecero anche fede con un manifesto, perchè si accorgevano che soli, e senza un moto generale, non potevano sperare di far effetto d'importanza, la religione, la salvezza delle persone e delle proprietà, la libertà e l'indipendenza d'Italia. Concorsero nel medesimo moto coi Lughesi altre terre circonvicine, e fecero una massa di popolo molto concitata, e risoluta al combattere. I preti gli secondavano, dando a questa moltitudine il nome di oste cattolica e papale. Augereau, come ebbe avviso del tumulto, mandava contro Lugo una grossa squadra di fanti e di cavalli, alla quale era preposto il colonnello Pourailler. Comandava intanto pubblicamente, avessero i Lughesi a deporre le armi e ad arrendersi fra tre ore, e chi nol facesse, fosse ucciso. Aveva in questo mezzo il barone Cappelletti, ministro di Spagna, interposto la sua mediazione, perchè da una parte i Francesi perdonassero, dall'altra i Lughesi, deposte le armi, si quietassero. Ma fu l'intercessione sdegnosamente rifiutata da quei popoli, più confidenti di quanto fosse il dovere, in armi tumultuarie ed inesperte. Per la qual cosa, dovendosi venire, per la ostinazione loro, al cimento dell'armi, i Francesi si avvicinavano a Lugo, partiti in due bande, delle quali una doveva far impeto dalla parte d'Imola, l'altra dalla parte d'Argenta. La vanguardia, che marciava con troppa sicurezza, diede in una imboscata, in cui restarono morti alcuni soldati. Non ostante, volendo il capitano Francese lasciar l'adito aperto al ravvedimento, mandava un uffiziale a Lugo per trattare della concordia. Fu dai Lughesi rifiutata la proposta; narrasi anzi da Buonaparte, che i sollevati, fatto prima segno all'uffiziale che si accostasse, lo ammazzarono, con enorme violazione dei messaggi di pace. Si attaccò allora una battaglia molto fiera tra i Francesi ed i sollevati. La sostennero per tre ore continue ambe le parti con molto valore. Finalmente i Lughesi rotti e dispersi furono tagliati a pezzi con morte di un migliajo di loro, avendo anche perduto la vita in questa fazione ducento Francesi. Fu quindi Lugo dato al sacco; condotte in salvo dal vincitore le donne ed i fanciulli, ogni cosa fu posta a sangue ed a ruba. Fu Lugo desolato; rimasero per lungo tempo visibili i vestigi della rabbia con cui si combattè, e della vendetta che seguitò. Furono terribili le pene date dai repubblicani ai sollevati, ma non furono più moderate le minacce che seguitarono. Comandava Augereau, che tutti i comuni si disarmassero, che le armi a Ferrara si portassero; chi non le deponesse fra ventiquattr'ore, fosse ucciso; ogni città, o villaggio, dove restasse ucciso un Francese, fosse arso; chi tirasse un colpo di fucile contro un Francese, fosse ucciso, e la sua casa arsa; un villaggio che si armasse, fosse arso; chi facesse adunanze di gente armata, o disarmata, fosse ucciso. Tali furono gli estremi della guerra Italica, giusti per la conservazione dell'esercito di Francia, ingiusti per le cagioni ch'egli stesso aveva indotte; perchè il volere che i popoli ingiuriati non si risentano, è voler cosa contraria alla natura dell'uomo. Al tempo medesimo sorgeva un grave tumulto nei feudi imperiali prossimi al Genovesato, principalmente in Arquata, con morte di molti Francesi. Vi mandava Buonaparte, a cui questo moto dava più travaglio che il rivolgimento di Lugo, perchè lo molestava alle spalle, il generale Lannes con un buon nervo di soldati, acciocchè lo quietasse. Conseguì Lannes facilmente l'intento tra per la paura delle minacce, e pel terrore dei supplizj. Le vittorie dei repubblicani, i progressi loro verso la bassa Italia, l'occupazione di Bologna e di Ferrara avevano messo in grandissimo spavento Roma. Ognuno vedeva che il resistere era impossibile, e l'accordare pareva contrario non solo allo stato, ma ancora alla religione. Tanto poi maggior terrore si era concetto, quanto più non si poteva prevedere quale avesse ad essere la gravità delle condizioni, che un vincitore acerbo per se, acerbissimo pel contrasto fattogli, avrebbe dal pontefice richiesto. Nè meglio si poteva antivedere, se avrebbe portato rispetto alla città stessa di Roma, parendo, che siccome sarebbe stato un gran fatto l'occupazione di lei, così Buonaparte cupidissimo di gloria l'avrebbe mandata ad effetto. E quale disordine, quale conculcazione delle cose sacre e profane prodotto avrebbe la presenza d'uomini poco continenti dalle cose altrui, e poco aderenti alla religione, di cui era Roma seggio principale? Per la qual cosa, come in tanto pericolo i privati uomini non avevano più consiglio, così poco ancora ne aveva il governo, perchè le armi temporali mancavano, le spirituali non valevano, il nome di Roma era più sprone che freno, e la dignità papale, che pure aveva frenato ai tempi antichi un capitano barbaro, era venuta in derisione. I ricchi pensavano alla fuga, come se il nemico già fosse alle porte. Gran tumulto, gran folla e gran concorso erano, principalmente a porta Celimontana di gente di ogni sesso, di ogni grado e di ogni condizione, che fuggendo dal minacciato Campidoglio, s'incamminava spaventata verso Napoli. Temevasi la cupidigia del nemico, temevasi la temerità dei cittadini. Intanto Pio VI, che in mezzo al terrore dei suoi consiglieri e del popolo, serbava tuttavìa la solita costanza, aveva commesso al cavaliere Azara ed al marchese Gnudi, andassero a rappresentarsi a Buonaparte, e procurassero di trovare qualche termine di buona composizione, avendo loro dato autorità amplissima di negoziare e di concludere. Buonaparte, in nome per far cosa grata al re di Spagna, che per mezzo del suo ministro si era fatto intercessore alla pace, in realtà, perchè non gli era nascosto che l'imperatore, finchè teneva Mantova, non avrebbe omesso di mandar nuove genti alla ricuperazione de' suoi stati in Italia, e che però sarebbe stato a lui pericoloso l'allargarsi troppo verso l'Italia inferiore, acconsentì, ma con durissime condizioni, a frenar l'impeto delle sue armi contro lo stato pontificio. Laonde concludeva, il dì ventitrè giugno, una tregua coi due plenipotenziarj del papa, in cui fu stipulato, che il generalissimo di Francia, e i due commissarj del direttorio Garreau e Saliceti, per quell'ossequio che il governo Francese aveva verso Sua Maestà il re di Spagna, concedevano una tregua a Sua Santità, la quale tregua avesse a durare insino a cinque giorni dopo la conclusione del trattato di pace che si negozierebbe in Parigi fra i due stati; mandasse il papa, più presto il meglio, un plenipotenziario a Parigi al fine della pace, e perchè escusasse a nome del pontefice gli oltraggi e i danni fatti a' Francesi negli stati della Chiesa, specialmente la morte di Basseville, e desse i debiti compensi alla famiglia di lui; tutti i carcerati a cagione di opinioni politiche si liberassero; i porti del papa a tutti i nemici della repubblica si chiudessero, ai Francesi si aprissero; l'esercito di Francia continuasse in possessione delle legazioni di Bologna e Ferrara, sgombrasse quella di Faenza; la cittadella d'Ancona con tutte le artiglierìe, munizioni e vettovaglie si consegnasse ai Francesi; la città continuasse ad esser retta dal papa; desse il papa alla repubblica cento quadri, busti, vasi, statue ad elezione dei commissarj, che sarebbero mandati a Roma; specialmente, poichè i repubblicanuzzi di quel tempo la volevano far da Bruti, i busti di Giunio Bruto in bronzo, di Marco Bruto in marmo si dessero; oltre a questo cinquecento manoscritti ad elezione pure dei commissarj medesimi cedessero in potestà della repubblica; pagasse il papa ventun milioni di lire tornesi, dei quali quindici milioni e cinquecento mila in oro, od argento coniato o vergato, e cinque milioni e cinquecentomila in mercatanzie, derrate, cavalli e buoi; i ventuno milioni suddetti non fossero parte delle contribuzioni da pagarsi dalle tre legazioni; il papa desse il passo ai Francesi ogni qualvolta che ne fosse richiesto: i viveri di buon accordo si pagassero. Questi furono gli articoli patenti del trattato di tregua concluso tra Pio VI ed i capi dei repubblicani in Italia. Quantunque fossero molto gravi, parve nondimeno un gran fatto, che si fosse potuto distornar da Roma un sì imminente pericolo: fecersi preci pubbliche per la conservata città. Intanto non lieve difficoltà s'incontrava per mandar ad effetto il capitolo delle contribuzioni. Non potendo l'erario già tanto consumato dalla guerra sopperire, faceva il papa richiesta degli ori e degli argenti, sì delle chiese come dei particolari, e quanto si potè raccorre a questo modo, e di più il denaro effettivo, che insino dai tempi di papa Sisto V si trovava depositato in Castel Sant'Angelo, fu dato per riscatto in mano dei vincitori. S'aggiunse che il re di Napoli, vedendo avvicinarsi quel nembo a' suoi stati, aveva ritirato settemila scudi di camera, che erano depositati nel tesoro pontificio, come rappresentanti il tributo della chinea, e che la camera apostolica non aveva voluto incassare, perchè il re aveva indugiato a presentare al tempo debito la chinea. Una così grossa raccolta della pecunia coniata produsse un pessimo effetto a pregiudizio della camera apostolica e dei privati, il quale fu, che le cedole, che già molto scapitavano, perdettero viemaggiormente di riputazione. Così solamente ad un primo romore di guerra, e sul bel principio di una speranza di pace, le cose pubbliche tanto precipitarono in Roma, che già vi si pruovavano gli estremi di una guerra lunga e disastrosa. Tutto questo risguardava alle facoltà sì pubbliche che private, ma il governo di Francia, spaventando il papa, non solamente aveva in animo di cavar denaro pei soldati, ma ancora di tirare il pontefice a far qualche dimostrazione, acciocchè i cattolici di Francia accettassero volentieri le cose fatte, e con la opinione favorevole della maggior parte dei popoli il nuovo stato si confermasse. Era questo motivo di grande importanza in tutta la Francia, ma molto più sulle rive della Loira, dove coloro che avevano l'armi in mano contro il reggimento nuovo, pretendevano alla impresa loro parole di religione. Conseguì Buonaparte questo fine. Il pontefice mandava fuori il cinque luglio un breve indiritto ai fedeli di Francia, col quale paternamente, ma fortemente gli esortava a sottomettersi, e ad obbedire ai magistrati, che il paese loro governavano; affermava essere principio della religione cattolica, che le potestà temporali siano opere della Sapienza divina, che le prepose ai popoli, affinchè le faccende umane non fossero governate dalla temeraria fortuna, o dalla volontà del caso, e le nazioni agitate da onde contrarie; avere perciò Paolo apostolo, non particolarmente di uno special principe, ma generalmente di questa materia parlando, statuito, che ogni potestà da Dio procede, e che chi alle potestà resiste, alla volontà di Dio resiste. Badassero dunque bene, sclamava il pontefice, a non lasciarsi traviare, ed a non dare, sotto nome di pietà, occasione agli autori di novità, di calunniare la religione cattolica, il che sarebbe peccato, che non solo gli uomini, ma Dio stesso con pene severissime punirebbe; poichè sono, continuava, dannati coloro che alla potestà resistono. «Vi esorto adunque, terminava il pontefice, figliuoli carissimi, e vi prego per Gesù Cristo nostro Signore, ad essere obbedienti, ed a servire con ogni affezione, con ogni ardore e con ogni sforzo a coloro che vi reggono, perchè a loro obbedendo, renderete a Dio medesimo quell'obbedienza, di cui gli siete obbligati; ed essi vedendo vieppiù, che la religione ortodossa non è sovvertitrice delle leggi civili, le presteran favore e la difenderanno, in adempimento dei precetti divini, ed in confermazione dell'ecclesiastica disciplina: infine desiderio nostro è che sappiate, figliuoli carissimi, che voi non abbiate nissuna fede in coloro che vanno pubblicando, come se dalla santa sede emanassero, dottrine contrarie a questa». Queste esortazioni del pontefice non partorirono effetto alcuno in Francia, perchè da una parte non rimise punto il direttorio del suo rigore contro i preti cattolici, che non avevano voluto giurare la constituzione del clero, dall'altra i Vendeesi, e coloro che in compagnìa loro combattevano nelle province occidentali della Francia, od in altri luoghi impugnavano o palesemente o segretamente il governo di Parigi, non davano luogo ad alcuna inclinazione alla pace. Nè alcun frutto buono sorse da quest'atto di Pio. Gli uni dicevano che l'aveva fatto per forza, gli altri per debolezza, e nissuno obbediva. Allegavano poi la fermezza dei principj non poter essere scossa, nemmeno dall'autorità del papa. Così gli uomini obbediscono all'autorità delle sentenze, quando è favorevole alle loro opinioni od interessi, non obbediscono quando è contraria. Quindi nasce che il genere umano è più ancor pieno di contraddizioni, che di enormità. La presenza dei Francesi negli stati pontificj aveva bensì atterrito i sudditi, ma non gli aveva fatti posare, e si temevano ad ogni tratto nuove turbazioni. Per la qual cosa il papa esortato dal generale repubblicano, e mosso anche dall'interesse dei popoli, raccomandava con pubblico manifesto, e comandava ai sudditi, trattassero con tutta benignità i Francesi, come richiedevano i precetti della religione, le leggi delle nazioni, gl'interessi dei popoli, e la volontà espressa del sovrano. Tutte queste cose faceva il pontefice in confermazione dello stato. Intanto o perchè la cessazione delle armi si convertisse in pace definitiva, o perchè con una dimostrazione efficace di desiderar di conchiuderla, si pensasse di aspettare con minori molestie occasione di risorgere, s'inviava dal pontefice a Parigi l'abbate Pieracchi con mandato di negoziare, e di stipulare la pace. Tanta variazione avevano fatto in pochi giorni le sorti di Roma, che quel pontefice, il quale poco innanzi esortava con tutta l'autorità del suo grado i principi ed i popoli a correre contro i Francesi partigiani del nuovo governo, come gente nemica agli uomini, nemica a Dio, ora caduto in dimessa fortuna comandava con parole contrarie alle precedenti ai fedeli di Francia ed ai sudditi proprj, che obbedissero, ed ogni più cortese modo usassero ai Francesi ed al governo loro. Il che non fu senza notabile diminuzione dell'autorità del Romano seggio. Nè minore variazione fecero le cose di Napoli, come se fosse destinato dai cieli, che le più forti protestazioni, ed i più validi apprestamenti di difesa, in tempesta tanto improvvisa, altro effetto non dovessero partorire che una più grave diminuzione di riputazione e di potenza. Eransi udite con grandissima ansietà a Napoli le novelle delle vittorie dei repubblicani sul Po e sull'Adda; ma all'ansietà succedeva il terrore, quando vi s'intese la rotta totale dei Tedeschi, e la loro ritirata verso il Tirolo. L'impressione diveniva più grave, quando i soldati di Buonaparte, occupato Reggio e Modena, nè nulla più ostando che entrassero nell'indifesa Romagna, si vedeva il regno esposto all'invasione. Laonde il re volendo provvedere con estremi sforzi ad estremi pericoli, perchè o fosse solo, o dovesse secondare le armi imperiali, gli era necessità di usare tutte le forze, ordinava che trentamila soldati andassero ad alloggiar ai confini verso lo stato ecclesiastico; ma perchè si facesse spalla e retroguardo a tante genti con altre squadre d'uomini armati, comandava, che si tenessero pronte a marciare, e di tutto punto si allestissero, ed in corpi regolati si ordinassero tutte le persone abili all'armi; la quale massa avrebbe aggiunto quarantamila combattenti. Perchè poi si usassero coloro, che consentissero di buona voglia ad accorrere alla difesa del regno, dava loro privilegi e speranza di ricompense onorevoli. Volendo poi favorire anche con l'autorità e con l'armi spirituali, le forze temporali, scriveva ai vescovi ed ai prelati del regno lettere circolari, con cui gli ammoniva, e con parole patetiche gli esortava dicendo, che la guerra che già da tanto tempo desolava l'Europa, e nella quale già tanto sangue e tante lacrime si erano sparse, era non solamente guerra di stato ma di religione; che i nemici di Napoli erano nemici del Cristianesimo; che volevano abolire il principato, come avevano abolito la religione; per questo turbare le nazioni, per questo sollevare i popoli; per questo ridurgli all'anarchìa con le massime, alla miseria con le rapine: saperlo il Belgio, saperlo la Olanda, saperlo tanti paesi e città illustri di Germania e d'Italia, confuse, desolate, spogliate, ed arse dalla rabbia e dall'avarizia loro: invano gemere, invano querelarsi i popoli conculcati; sotto la crudele tirannide non trovar luogo il diritto, non trovar luogo l'umanità; ma la santa religione essere principalmente segno alle lor barbare voglie, perchè tolto di mezzo il suo potente freno si possano violare senza ribrezzo, ed a sangue freddo tutte le leggi sì divine che umane; ma inspirare la religione il coraggio, come insegnar il dovere; amare il cristiano la patria per gratitudine, amarla per precetto. Esortassero adunque i popoli ad impugnar le armi contro un nemico, a cui niuna legge era sacra, niuna proprietà sicura, niuna vita rispettata, niuna religione santa, contro un nemico che dovunque arrivava, saccheggiava, insultava, opprimeva, profanava i templi, atterrava gli altari, perseguitava i sacerdoti, calpestava quanto di più sacro e di più reverendo ha ne' suoi dogmi, nei suoi precetti, e ne' suoi sacramenti divini lasciato alla chiesa sua Cristo Salvatore: non abborrire il re, per amore verso i sudditi, gli accordi, ma volergli giusti ed onorevoli, nè tali potergli conseguire, che con la potenza dell'armi. Combatterebbe egli il primo a guida de' suoi soldati: sperare, che il Re dei re, il Signor dei signori, che ha in sua mano il cuore dei principi, e non cessa d'inspirargli con retti consigli, quando sinceramente invocano il suo santo nome, gli avrebbe dato favore in così santa, in così generosa impresa. Così parlava il re ai vescovi, ed ai prelati del regno. Rivolgendosi poscia ai sudditi, con espressioni molto instanti gli ammoniva dicendo sarebbero vincitori di questa guerra, se a loro stesse a cuore difendere se stessi, il re, i tempj, i ministri del Signore, le mogli, i figliuoli, le sostanze. Dio è con voi, sclamava, Dio vi proteggerà contro le armi barbare. Ma perchè in tempi di tanta costernazione vieppiù per l'amore della religione s'infiammassero i popoli alla difesa, in un giorno prestabilito si conduceva il re, accompagnandolo una gran moltitudine di popolo, alla Basilica, dove, toccando gli altari, e stando tutti, tra la riverenza e lo spavento, intentissimi ad ascoltarlo, disse queste parole: «Grande Iddio, ecco alla vostra presenza colui, che avete constituito al governo di questi miei fedelissimi sudditi. Se vi piacesse mai di levarmi da un tal ministero, alla vostra santissima volontà di buona voglia mi sottometto; ed affinchè si vegga e si sappia, che questa protesta sia stata fatta da me con tutta contentezza d'animo, ecco che mi tolgo dalle spalle la clamide, dalla mano lo scettro, dal capo la corona, e tutte queste reali divise ripongo sulla mensa del vostro altare, vicine appunto al Tabernacolo, dove voi risiedete come in Paradiso. A voi dunque le lascio, a voi le dedico, acciocchè ne abbiate ad essere il custode». Queste dimostrazioni producevano effetti incredibili in un popolo dominato da fantasìa potente. Certamente, se le mani fossero state tanto pronte all'operare, quanto erano le menti ad immaginare, si sarebbero veduti da Napoli effetti notabilissimi a salute di tutta Italia. Partiva Ferdinando da Napoli, indirizzando il viaggio agli alloggiamenti di Castel di Sangro, di San Germano, di Sora, e di Gaeta; fuvvi accolto con segni di grandissima allegrezza dai soldati. Intanto il romore delle occupate legazioni, e le ultime strette in cui era caduto il pontefice, avevano indotto nei consiglieri del re la credenza, che l'accordare fosse più sicuro del combattere. Perlochè non aspettando pure che il papa patteggiasse in definitiva pace, nè consentendo a trattar degli accordi coi repubblicani di concerto con lui, mandavano al campo di Buonaparte il principe Belmonte Pignatelli, affinchè negoziasse una sospensione di offese, proponendosi d'inviarlo poscia a Parigi a concludere la pace col direttorio. Buonaparte, considerato che Mantova si teneva ancora per gli Austriaci, nè che così presto l'avrebbe potuta piegare a sua divozione per la fortezza dei luoghi, pel numero e pel valore dei difensori, e molto più per la stagione calda e molto pregiudiziale alla salute degli oppugnatori, che oggimai si avvicinava, considerato altresì che del tutto non era ancor prostrata la potenza dell'imperatore, udiva con benigne orecchie le proposte del principe. Si concluse tra il generale e lui il cinque di giugno un trattato di tregua, con cui si stipulava, che cessassero le ostilità tra la repubblica, e il re delle Due Sicilie; le truppe Napolitane che si trovavano unite a quelle dell'imperatore, se ne separassero, e gissero alle stanze nei territorj di Brescia, Crema e Bergamo; si sospendessero le offese anche per mare, ed i vascelli del re al più presto dalle armate Inglesi si segregassero; si desse libero passo ai corrieri rispettivi tanto per le terre proprie o conquistate dalla repubblica, quanto su quelle di Napoli. Fatto l'accordo, andarono i Napolitani, lasciati gl'imperiali, alle destinate stanze. Così il papa fu solo lasciato nel pericolo dal governo di Napoli, che pure testè aveva mostrato tanto ardore per la difesa della religione, convenendo, senza che prima la necessità ultima fosse addotta, con coloro che poco innanzi aveva chiamati nemici degli uomini e di Dio. Per questo le sue parole scemarono di fede, non solamente appresso al pontefice romano, ma eziandìo presso i popoli d'Italia. Affermavano che se non si voleva combattere per la religione, e' non bisognava invocarla, e se si voleva combattere per lei, era mestiero di non concludere così presto. Il toccar gli altari il re, ed il toccar la mano di Buonaparte il principe di Belmonte, furono atti troppo l'uno all'altro vicini, da non esservi stato di mezzo piuttosto inconstanza che prudenza. Quei giuramenti tanto solenni, o non bisognava fargli, e richiedevano che si perdesse almeno una provincia prima di stipulare. In questo mezzo tempo si spogliavano dall'acerbo vincitore, di statue, di quadri, di manoscritti preziosi, di oggetti appartenenti a storia naturale Parma, Pavia, Milano, Bologna, e Roma. A questo fine aveva mandato il direttorio in Italia per commissarj Tinette, Barthelemi, Moitte, Thouin, Monge e Berthollet, acciocchè procedessero alla stima ed allo spoglio; dal quale ufficio così poco onorevole per la patria loro, non so come non rifuggisse l'animo loro, massimamente quelle dei tre ultimi, uomini gravissimi, ed in cui certamente assai potevano la umanità e la gentilezza dei costumi. La castità della storia però da noi richiede, che diamo pubblica testimonianza dello aver loro temperato con molta moderazione quanto aveva in se di brutto e di odioso il carico, che era stato loro imposto dalla repubblica. Si avvicinavano intanto i tempi de' rei disegni del direttorio e di Buonaparte contro l'innocente Toscana. Intendevano col comparire armati in questa provincia, spaventare maggiormente il pontefice ed il re di Napoli. Ma i principali fini loro in ciò consistevano, che si cacciassero gl'Inglesi da Livorno, vi si rapissero le sostanze dei neutri, vi si ponessero il segno ed il modo di far muovere la vicina Corsica contro gl'Inglesi che la possedevano: s'ingegnarono di onestare con loro ragioni questo fatto; che gli Inglesi, allegavano, tanto potessero in Livorno che il gran Duca non avesse più forza bastante per frenargli, che il commercio Francese vi fosse angariato, l'Inglese con ogni latitudine protetto, che ogni giorno vi s'insultasse la bandiera della repubblica, che quel Britannico nido fosse fomento ai principi Italiani di far pensieri contrarj agl'interessi ed alla sicurtà di Francia; dovere pertanto la repubblica andare con le sue forze a Livorno per restituire all'independenza propria il duca Ferdinando, e per liberarlo dalla tirannide degl'Inglesi. Il gran duca negò costantemente qualunque parzialità; e che ciò fosse verità, nissuno meglio il sapeva, che i suoi accusatori medesimi. Di ciò fanno fede le parole scritte da Buonaparte stesso al direttorio, che sono quest'esse, che la politica della repubblica verso la Toscana era stata detestabile. Per purgarla andava il generalissimo ad espilar Livorno. Per la qual cosa, come prima ebbe posto piede in Bologna, e confermatovi il suo dominio, metteva ad effetto la risoluzione di correre contro la Toscana per andarsene ad occupar Livorno. Era suo intento di fare la strada di Firenze per mettere maggiore spavento nel papa; del che avendo avuto avviso il gran duca, mandava a Bologna il marchese Manfredini, ed il principe Tommaso Corsini, perchè s'ingegnassero di dissuaderlo dall'impresa, od almeno da lui questo impetrassero, che piuttosto per la via di Pisa e di Pistoja, che per quella di Firenze si conducesse. Negava il generale repubblicano la prima richiesta, consentiva alla seconda. Perlochè, non indugiandosi punto, e con la solita celerità procedendo, perchè il sorprendere improvvisamente Livorno era l'importanza del fatto, già era arrivato con parte dell'esercito in Pistoja. Da questo suo alloggiamento manifestava il vigesimosesto giorno di giugno le querele della repubblica contro il gran duca, e la sua risoluzione di correre contro Livorno. Rispondeva gravemente il principe, non soccorrergli alla mente offesa alcuna contro la repubblica di Francia, o contro i Francesi: l'amicizia sua essere stata sincera, maravigliarsi del partito preso dal direttorio, non opporrebbe la forza, ma sperare che, avute più vere informazioni, sarebbe per rivocare questa sua risoluzione, avere dato facoltà al governatore di Livorno per accordare le condizioni dell'ingresso. Marciavano intanto i Francesi celeremente verso Livorno condotti dal generale Murat, e comparivano, passato l'Arno presso a Fucecchio, con una banda di cavalli alla port'a Pisa. Come prima gl'Inglesi ebbero avviso del fatto, massimamente i più ricchi, lasciato con prestezza Livorno, trasportavano sulle navi, che a cotal fine erano state trattenute nel porto, tutte le proprietà loro: poi quando i repubblicani arrivavano sotto le mura di Livorno, una numerosa conserva di sessanta bastimenti tra piccoli e grossi, e sotto scorta di alcune fregate, salpava da Livorno, verso la Corsica indirizzandosi. Entravano col solito brio ed aspetto militare i Francesi. Poco dopo entrava Buonaparte medesimo, contento allo avere scacciato da quel porto tanto opportuno gli odiati Inglesi, e confidente che fra breve gli scaccerebbe eziandio dalla Corsica, sua patria. Furonvi teatri, applausi, luminarie, non per voglia, ma per ordine e per paura. Il chiamavano Scipione, ed era per continenza delle donne, non per continenza delle ricchezze, per arte di guerra, non per rispetto alla libertà della patria, degno rampollo in tutto di un secolo grande per armi, piccolo per virtù. Incominciavano le opere incomportabili. Si staggivano le Napolitane sostanze, si confiscavano le Inglesi, le Austriache, le Russe; s'investigavano i Livornesi conti per iscovrirle: si disarmavano i popoli, si occupavano le fortezze, e per far colme le insolenze, si arrestava Spannocchi, governatore pel gran duca. Si scuotevano al tempo stesso fortemente i negozianti, affinchè svelassero le proprietà dei nemici, ed eglino per lo men reo partito offerirono cinque milioni di riscatto. Le conquistate merci si vendevano con molte fraudi da coloro che stavano sopra alla vendita, con grave discapito della repubblica conquistatrice, che vinceva i soldati altrui, e non poteva vincere i ladri proprj. Del che si muovevano a grave sdegno, e facevano grandi querele Belleville, console Francese in Livorno, per onestà di natura, Buonaparte per vedere che quel che si succiavano i predatori, era tolto ai soldati. Se ne vergognava anche Vaubois generale, che da Buonaparte era stato preposto al governo di Livorno, e se ne lavava le mani, come di cosa infame. Insomma fu rea nel principio la occupazione di Livorno, ma non fu migliore negli effetti: solo risplendè più chiaramente la virtù di Vaubois e di Belleville. Questi furono i rubamenti di Livorno; accidenti più gravi sovrastavano al gran duca. Era intenzione di Buonaparte, siccome scrisse al direttorio, di torgli lo stato, a cagione ch'egli era principe di casa Austriaca. A questo modo si voleva trattare un principe amico ed alleato della Francia dal generalissimo, e da certi agenti della repubblica, che in Italia non cessavano di accusare la perfidia Italiana e la malvagità di Machiavelli. E perchè questo tradimento di Buonaparte verso il gran duca avesse in se tutte le parti di un atto vituperoso, mandava al direttorio, che conveniva starsene quietamente, nè dir parola che potesse dar sospetto della cosa insino a che il momento fosse giunto di cacciar Ferdinando. Pure Buonaparte scriveva, due giorni dopo, al direttorio, niun governo più traditore, niun più vile essere al mondo del governo Veneziano, come se Venezia avesse in alcun tempo macchinato un'opera tanto vile, quanto quella ch'egli medesimo macchinava contro il principe di Toscana. Nè alle raccontate enormità si rimase la violata neutralità. Eransi alcuni patriotti Sardi, tra i quali il cavaliere Angioi, fuggendo lo sdegno del re, ricoverati a Milano. Comandava Buonaparte, a requisizione del cavalier Borghese, agente del re a Milano, che fossero dati. Il che avrebbe avuto il suo effetto; se Saliceti ed il comandante di Milano non avessero portato più rispetto alla sventura, che agli ordini del loro generale. Questi medesimi Sardi, essendosi poscia ritirati a Livorno, il re ne faceva novella inchiesta a Buonaparte, ed egli già aveva ordinato che se gli consegnassero. Ma dimostratasi da Belleville e Vaubois la medesima generosità d'animo di Saliceti, e del comandante di Milano, furono salvi. Posto che importasse alla sicurezza dei Francesi in Italia l'occupazione di Livorno, che importava alla sicurezza medesima, che fossero dell'ultimo supplizio affetti tre o quattro Sardi? Atto veramente per ogni parte inescusabile fu questo, perchè violava il diritto delle genti, la sovranità del gran duca, le leggi dell'umanità, ed il rispetto che l'uom porta naturalmente a chi è misero. Che se Buonaparte temeva che questi fuorusciti di Sardegna tentassero da Livorno novità in quell'isola a pregiudizio del governo reale, e voleva in questo gratificare al re, perchè non contentarsi di allontanargli da quella sede? Perchè volere mandargli a morte? perchè volere che mani Francesi consegnassero coloro, che non erano diventati rei che per suggestioni Francesi? Mentre in tal modo si espilavano dai repubblicani le proprietà dei nemici loro in Livorno, gl'Inglesi, signori del mare, serravano il porto, ed impedivano il libero commercio. Livorno fiorente e ricco, divenne in poco tempo povero e servo. Nè a questo si rimasero i repubblicani: perchè usando la opportunità, invasero i ducati di Massa e Carrara, ed occuparono tutta la Lunigiana, chiamando i popoli a libertà, e sforzandogli a grosse contribuzioni di denaro. Erano questi paesi caduti per eredità dalla casa Cibo, che gli possedeva anticamente, nella figliuola del duca di Modena, sposata all'arciduca Ferdinando, governatore di Milano. Non si era dal conte di San Romano quando concluse la tregua per Modena, patteggiato per Massa e Carrara. Per questo il generale della repubblica gli trattò da nemico. Questo piccolo dominio, che dopo spenta la repubblica di Firenze dalla potenza di Carlo quinto, non aveva più sentito impressione di guerra, non andò ora esente dalle comuni calamità. Il terrore delle armi repubblicane aveva spaventato tutta Italia; ma parendo a chi le reggeva, che ciò non bastasse a perfetto servaggio, stavano attenti i ministri del direttorio presso i diversi potentati Italiani nello spiare, e nel rapportare il vero ed il falso a Buonaparte, continuamente rappresentandogli i principi della penisola non solamente come avversi alla Francia, ma ancora come macchinatori indefessi di cose nuove contro i Francesi. Avevano in tutto questo per ajutatori, non che i pessimi fra gl'Italiani, anche personaggi di nome, e fra gli altri molto operoso si dimostrava il cavaliere Azara, buona e dolce persona, ma, come buona, assai corriva al lasciarsi prendere all'esca dei lusinghieri discorsi. La gloria guerriera di Buonaparte, unica veramente al mondo, gli aveva talmente occupato l'animo, che non distinguendo più nel capitano di Francia nè vizio nè virtù, il lodava, non che del lodevole, anco del biasimevole. Intanto agli occhi degli agenti di Francia le chimere diventavano corpi, le visite congiure, i gemiti stimoli a ribellione, i desiderj delitti, ed era l'Italiano ridotto a tale, che se non amava il suo male, era riputato nemico. Il papa, secondochè scrivevano questi spaventati o spaventatori, Venezia, il re di Sardegna, il gran duca di Toscana, la repubblica di Genova, tutti conspiravano contro la Francia, tutti s'intendevano con l'Austria, tutti prezzolavano gli assassini per uccidere i Francesi. Certamente lo stipendiar gli assassini sarebbe stata opera nefanda, ma era tanto falsa, quanto l'imputarla era sfrenata. Rispetto al rimanente, erano piuttosto desiderj che macchinazioni, perchè il terrore era tale che non che i desiderj, i pensieri non si manifestavano. Buonaparte, che non era uomo da lasciarsi spaventare da questi rapporti fatti o per adulazione o per paura, era uomo da valersene, come di pretesto, per peggiorar le condizioni dei principi vinti, e per giustificare contro di loro i suoi disegni di distruzione. Gl'Italiani intanto in preda a mali presenti, e segno a calunnie facili, perchè venivan da chi più poteva, non avevano più speranza. Ma già le cose di Lombardia non mediocremente travagliavano, e la condizione dei repubblicani in Italia diveniva di nuovo pericolosa. Aveva l'imperatore ardente disposizione di ricuperare le belle e ricche sue province, non potendo tollerare che fossero scorporate da' suoi dominj, e che l'autorità che si era confermata da sì lungo tempo in quella parte tanto principale d'Europa, gli sfuggisse di mano per passare in balìa dei Francesi. Aveva egli adunque applicato l'animo, tostochè si erano udite a Vienna le ultime rotte di Beaulieu, a voler ricuperar il Milanese; al che gli davano speranza la mala contentezza dei popoli, la fortezza di Mantova, e il numero dei soldati che ancora era in grado di mandare in Italia. Nè indugiandosi punto, affinchè l'imperio de' suoi nemici non si solidasse, la rea stagione non sopravvenisse, Mantova non cedesse, aveva voltato con grande celerità al Tirolo tutte le genti che stanziavano nella Carintia e nella Stiria. I Tirolesi medesimi, gente armigera, e divota al nome Austriaco, fatta una subita presa di armi, si ordinavano in reggimenti armati alla leggiera; nè questo bastando alla difficile impresa, si ricorreva ad un più forte sussidio; conciossiachè l'imperatore, anteponendo la conquista d'Italia alla sicurezza dell'Alemagna, ordinava che trentamila soldati, gente eletta e veterana, che militavano in Alemagna, se ne marciassero velocemente verso il Tirolo per quivi congiungersi con le reliquie delle genti d'Italia, con quelle venute dalla Stiria, dalla Carniola e dalla Carintia, e con le masse Tirolesi: erano circa cinquantamila. Perchè poi ad un'oste tanto grossa e destinata a compire una sì alta impresa, non mancasse un capitano valoroso, pratico e di gran nome, mandava a governarla il maresciallo Wurmser, guerriero di pruovato valore nelle guerre Germaniche. Stavano gli uomini in grande aspettazione di quello che fosse per avvenire, essendo vicini a cimentarsi due capitani di guerra, dei quali uno era forte, astuto ed attivo, l'altro forte, astuto e prudente. Nè gli eserciti rispettivi discordavano; perchè nè la costanza Tedesca era scemata per le sconfitte, nè il coraggio Francese aveva fatto variazione pel tempo. Oltre a questo, se erano ingrossati gl'imperiali, anche i repubblicani avevano avuto rinforzi notabili dall'Alpi. Era il maresciallo Wurmser giunto, sul finire di luglio, in Tirolo, e tosto dava opera al compire l'impresa, che alla virtù sua era stata commessa. La strada più agevole per venire dal Tirolo in Italia è quella, che da Bolzano per Trento e Roveredo porta a Verona, e questa è stata sempre frequentata dai Tedeschi nelle loro calate in Italia. Questa medesima aveva in animo di fare il capitano Austriaco; ma il principal suo fine era di liberar Mantova dall'assedio, donde, fatto un capo grosso all'ombra di quel sicuro propugnacolo, potesse, secondo le opportunità di guerra, o starsene aspettando, o correre subitamente contro il Milanese. E sapendo che i Francesi erano segregati in diversi corpi, gli uni lontani dagli altri per molto spazio, per modo che in breve tempo non avrebbero potuto rannodarsi, si deliberava a spartire i suoi in tre schiere: la prima sotto guida del generale Quosnadowich, doveva, marciando sulla destra sponda del lago di Garda, assaltare Riva e Salò, dove stava a guardia il generale Sauret coi generali Rusca e Guyeux, ma che però non aveva forze sufficienti per resistere. Era pensiero di Wurmser, che questa, occupato Salò, si divallasse, parte per la strada del monte Gavardo a Brescia, parte si conducesse a Desenzano ed a Lonato per congiungersi con la mezza, che veniva scendendo tra la destra dell'Adige e la sinistra del lago. La quale ultima mossa verso Lonato era certamente molto opportuna; ma non appare perchè l'altra dovesse indirizzarsi a Brescia, stantechè così facendo si allontanava dalla mezza e dal Mincio, dove necessariamente erano per seguire le battaglie più forti. Forse Wurmser argomentò, che già fosse venuto in odio ai popoli l'imperio dei Francesi, e perciò, sperando che fossero per tumultuare, volle ajutare la loro volontà col favore di queste genti. Forse ancora, prevalendo di numero, si era persuaso di poter opprimere con la sua forza principale il grosso dei repubblicani, e tagliar loro il ritorno alle spalle. La mezza schiera, o la battaglia condotta dal maresciallo, s'incamminava alla volta di Montebaldo per potere, scendendo vieppiù, assaltare il nervo dei repubblicani tra Peschiera e Mantova. La sinistra confidata al generale Davidowich, insistendo a mano manca dell'Adige, scendeva per Ala e Peri a Dolce, dove, fatto un ponte, varcava il fiume con intento di concorrere più da vicino all'opera della schiera Wurmseriana. Ma una parte di quest'ala sinistra, guidata dal generale Mezaros, continuando a scendere per la sinistra sponda del fiume, s'indirizzava verso Verona, donde potea, secondo le occorrenze, o condursi per Villafranca a Mantova, o non discostandosi dall'Adige, marciare a Portolegnago. Di tutte le parti dell'esercito Francese quella di Massena, che aveva i suoi alloggiamenti a Verona, a Castelnuovo e luoghi circostanti, si trovava in maggior pericolo, perchè là appunto si dovevano accozzare tutte le forze Austriache sulla sinistra del lago. Era giunto al suo fine il mese di luglio, quando in tale modo ordinati marciavano gl'imperiali all'impresa loro. Già erano vicini alle prime scolte dei Francesi, che questi, dispersi tuttavìa nei diversi campi loro, principalmente in quello che cingeva Mantova, non avevano ancora fatto moto alcuno per mettersi all'ordine di resistere a quella nuova inondazione del nemico. Il che dimostra in Buonaparte od una presunzione non ragionevole, o imperfette informazioni de' suoi esploratori. Per verità egli si riscosse poco poscia con mirabile maestrìa dal pericolo in cui si trovava, ma sarebbe stato anche migliore consiglio l'averlo preveduto e prevenuto. Assaltavano gli Austriaci ferocemente l'antiguardo di Massena, governato dal generoso e buono Joubert, che era ai passi di Brentino e della Corona. Fu fortissima e lunga la difesa contro un nemico, che molto superava di numero. Finalmente furono quei forti passi sforzati dagli Austriaci, che, ritirantisi Joubert e Massena velocemente verso Castelnuovo, marciavano contro la Chiusa e Verona. Bene fu fortunato Massena, che gli Austriaci nol seguitassero con quella celerità medesima con la quale ei dava indietro; perchè se il contrario avessero fatto, avrebbero potuto facilmente impadronirsi, prima che vi passasse, delle strette di Osterìa, e tutta la sua schiera sarebbe stata da forze preponderanti o tagliata a pezzi o fatta prigioniera. La qual cosa dimostra viemaggiormente l'improvvidenza di Buonaparte; perchè Massena, lasciato solo in quei luoghi contro al maggior nervo dei Tedeschi, fu obbligato della sua salute ad un fallo certamente non probabile del nemico. Da un'altra parte Quosnadowich, urtato Sauret, che custodiva Salò, l'aveva vinto, non però senza una valorosa resistenza, quantunque i Francesi in questo luogo fossero deboli, e non pari a tanto peso. S'impadronivano gli Austriaci di Salò dopo la fazione, e quivi risplendeva chiaramente la virtù di Guyeux, il quale circondato da ogni banda dal nemico, elesse, piuttosto che arrendersi, di gittarsi dentro una casa, dove sebbene già gli mancassero le munizioni sì da guerra, che da bocca, si difendè con incredibile fortezza due giorni. Occupato Salò, correvano i Tedeschi a Brescia, e se ne impadronivano. Perdettero i Francesi nei fatti di Salò e di Brescia circa due mila soldati tra morti, feriti e prigionieri. I residui dei vinti si ritiravano a Lonato e a Desenzano. Avanzavasi intanto minacciosamente Wurmser medesimo, e già si avvicinava alle cercate rive del Mincio. Così avevano le cose Francesi fatto una grandissima variazione, ed erano cadute in grave pericolo prima che Buonaparte avesse mosso un soldato per opporsi a tanta ruina. Gli giunsero al tempo medesimo le novelle della rotta di Sauret, e della ritirata di Massena. Ordinava incontanente ad Augereau, che già marciava verso Verona per frenar l'impeto, se ancora fosse in tempo, di Mezaros, tornasse indietro prestamente, venisse a Roverbella, rompesse i ponti di Portolegnago, ardesse i carretti dei cannoni più grossi, trasportasse dai magazzini quanto in sì subito tumulto potesse. Arrivava Augereau a Roverbella; scoverse in tutti una grande confusione mista ad un gran terrore. Vi giungeva ancora Buonaparte, al quale Augereau, vedendolo smarrito dalla gravità del caso, rivoltosi, con parole animosissime il confortava. A queste esortazioni tornato Buonaparte quel che era, con un'arte e con un vigore degni di eterna commendazione ordinava quanto alla difficoltà del tempo si convenisse. Avvisandosi che non poteva combattere con vantaggio, se non unito, e che anche unito non era abbastanza forte per cimentarsi con l'esercito Tedesco intero, se gli desse tempo di rannodarsi, come evidentemente Wurmser aveva in pensiero di fare, si risolveva a raccorre le sue genti in uno per correre così grosso contro una parte sola del nemico, innanzi che questa avesse potuto congiungersi con le compagne, perchè la speranza, che non aveva di vincerle unite, l'aveva di vincerle separate. Favoriva questo pensiero l'essere la mezzana e la destra degl'imperiali separate di largo spazio per mezzo del lago, del quale elleno non avevano la signorìa sicura, stantechè i repubblicani lo correvano con barche armate e leggiere. Nè poteva stare lungamente in dubbio, quale delle due parti dei Tedeschi ei dovesse assaltare; perciocchè intenzione primaria di Wurmser fosse di far allargare l'assedio di Mantova, nel qual fine insistendo, non sarebbe così facilmente corso in ajuto di un'altra parte de' suoi che pericolasse. Importava anche assai l'assalire la parte meno grossa, e nel tempo medesimo quella, che in un caso sinistro gli avrebbe potuto troncar la strada verso Milano. Fatte tutte queste considerazioni, si risolveva Buonaparte a far impeto col grosso de' suoi contro di Quosnadowich, che vincitore di Salò e di Brescia turbava ogni cosa a Desenzano, a Lonato, a Ponte-San-Marco, a Montechiaro, e già si accostava per congiungersi con Wurmser; il che, se gli fosse venuto fatto, sarebbe stato la ruina dei repubblicani. Perlochè chiamava a se tutte le sue genti, anche quelle che stavano a campo sotto Mantova, anteponendo con mirabile consiglio il perdere le artiglierìe, che servivano alla oppugnazione della piazza, al perdere l'esercito. Ordinate ed eseguite in men che non si potrebbe credere per la incredibile celerità dei soldati, tutte queste mosse, mandava a corsa considerabili rinforzi a Sauret, perchè ricuperasse Salò, e liberasse Guyeux che tuttavìa si difendeva valorosamente. Comandava a Dallemagne, assaltasse il nemico a Lonato e cacciasselo; imponeva ad Augereau lo rompesse a Ponte-San-Marco ed a Brescia, e verso Salò voltandosi, ajutasse Sauret, e facesse opera di tagliare il ritorno a Quosnadowich. Faceva anche attaccare con una grossa banda un corpo forte di Austriaci, che custodiva Desenzano a riva il lago. Ebbero tutti questi assalti, ancorachè fossero molto sanguinosi, massimamente quello di Desenzano, dove il reggimento di Klebeck, che sostenne con grandissimo valore quasi tutto il peso della giornata, perdè più di mille soldati, quel fine che Buonaparte si era proposto: entrarono vincitori, Sauret in Salò, Dallemagne in Lonato ed in Desenzano, Augereau in Montechiaro ed in Brescia. Quosnadowich, veduto che era alle mani con la maggior parte degli avversarj, che non aveva nuove che Wurmser accorresse in suo ajuto, e che temeva che il nemico, correndo a Riva, gli tagliasse il ritorno verso il Tirolo, si ritirava con passi frettolosi a Gavardo. Per tal modo Buonaparte co' suoi movimenti celeri ed ottimamente ordinati, sbaragliava in poco tempo un'ala intiera di Wurmser, che gli aveva già fatto molto male, ed avrebbe potuto fargliene un maggiore, se si fosse allargata, come aveva intenzione, nelle pianure verso il Milanese. Intanto per assicurare i luoghi abbandonati da Augereau, vi surrogava Massena con tutto il suo corpo di truppe. Mentre tutte queste cose si preparavano e si facevano sulla destra loro, gli Austriaci s'impossessavano di Verona, e Wurmser, difilandosi per la sinistra del Mincio, entrava con un grosso corpo, ed in sembianza di vincitore in Mantova. Il presidio a gran festa guastava le trincee fatte dai Francesi, e tirava dentro le mura meglio di centoquaranta pezzi di grosse artiglierìe, che, trovati nella cittadella di Ancona, nel forte Urbano e nel castello di Ferrara, o presi per forza, o dati loro in mano dal papa in virtù della tregua, vi avevano condotto per battere la piazza. Wurmser, avuta questa vittoria, sapendo i primi prosperi successi di Quosnadowich, ed ignorando i sinistri, dava opera securamente a raccorre vettovaglie e bestiami per provvedere del fodero necessario quella importante fortezza. Ma gli fu breve la sicurezza; conciossiachè gli sopravvennero bentosto le novelle dei disastri accaduti a Quosnadowich; il che lo fece accorgere, che la fortuna Francese era ancora in istato, e tuttavìa più dubbio ciò, ch'ei credeva già sicuro. Considerato adunque che quello non era tempo da starsene, ed avendo ancora forze sufficienti per affrontarsi, con isperanza di vittoria, col nemico, usciva da Mantova, e se ne giva alle stanze di Goito, correndo la campagna co' suoi corridori fino a Castiglione. Era stato preposto alla guardia di questa terra da Buonaparte il generale Valette, che, veduto comparire il nemico, sbigottitosi con pochezza d'animo inescusabile, abbandonava il posto, ed andava con la sua squadra fuggiasca a seminar paura fra i repubblicani, che erano in possesso di Montechiaro. Questo accidente improvviso fece cader l'animo a Buonaparte, che, deponendo il pensiero di più volere assaltar il nemico, voleva ritirarsi sul Po, deliberazione veramente perniciosissima, e che sarebbe stata la rovina di tutta la guerra Italica: l'avrebbe anche mandata ad effetto, se Augereau più animoso di lui non l'avesse impedita confortandolo a rientrare nella sua solita magnanimità, ed a mostrare il viso alla fortuna. Debbe perciò la Francia restar obbligata della gloria acquistata nei campi di Castiglione più che a Buonaparte, ai consiglj di Augereau avanti il fatto, ed al suo valore nel fatto. Ma Buonaparte non ancora ripreso l'animo, e la mente ancor piena del grave pericolo in cui si trovava, stava tuttavìa dubbio e spaventoso, nè sapeva risolversi nè al combattere, nè al ritirarsi. Augereau, che il conosceva, lo esortava ad appresentarsi ad una mostra di soldati. Quando eglino videro il capitano loro, con atti di vivezza, di giubilo, e di estro Francese, con lietissime grida il confortavano a star di buon animo, a non aver timore, a fidarsi in loro: gli conducesse pure alla battaglia; e sclamando, viva Buonaparte, viva la repubblica, facevano echeggiare i colli di Castiglione di quel romore festivo. Or bene sia, disse Buonaparte, accetto il felice augurio, domani vedrete in viso il nemico. In questo mezzo Quosnadowich, che era capitano ardito e pratico, ricevuti alcuni rinforzi alle sue stanze di Gavardo, ed avute le novelle dello avanzarsi di Wurmser verso Castiglione, conoscendo di quanta importanza fosse il fare ogni sforzo per congiungersi con esso lui ad un impeto comune, od almeno il consuonarvi per una diversione, usciva di nuovo in campagna, e prostrato Sauret, che gli stava a fronte, e fattosi signore di Salò, velocemente scendeva con forze poderose verso Lonato. L'antiguardo di Quosnadowich condotto dal generale Ocskay già si era impossessato di Lonato; le cose divenivano pericolosissime pei repubblicani. In questo forte punto Massena arrivava col suo antiguardo vicino a Lonato, e volendo ricuperare quel sito, in cui consisteva la somma della fortuna, perchè se gli Alemanni vi si mantenevano, si difficoltava molto l'impedire la unione di Quosnadowich con Wurmser, mandava il generale Pigeon, ma non con gente a sufficienza, ad assaltare Ocskay. Fu durissimo l'incontro. Pigeon non solamente fu rotto e vinto, ma perdè tre pezzi d'artiglierìe leggieri, e venne prigioniero in mano del nemico. Udito il caso, accorrevano Massena e Buonaparte per rimediare alla fortuna vacillante. Ordinava il generalissimo un grosso squadrone assai fitto, e lo mandava a serrarsi addosso al centro del nemico, il quale insuperbito per la prima vittoria, e credendo, non solo di vincere, ma ancora di prendere tutto il corpo repubblicano, distendeva le sue ali con pensiero di cingere i soldati di Buonaparte. Questa mossa, debilitando il mezzo della fronte, diè del tutto la vittoria ai Francesi; imperciocchè mentre Massena raffrenava l'impeto dell'ali estreme degl'Imperiali con mandar loro incontro quanti feritori alla leggiera potè raccorre, Buonaparte con quel fitto squadrone dava dentro alla mezza schiera. Faceva ella una viril difesa, non senza grave uccisione dei repubblicani; ma finalmente non potendo più reggere a sì impetuoso assalto, sbaragliata cedeva il campo, ritirandosi verso il lago, principalmente a Desenzano. Fu liberato Pigeon; si racquistarono le perdute artiglierìe. I Francesi seguitavano gli Austriaci a Desenzano, e gli avrebbero condotti all'ultima fine, se non era che, sopravvenendo con ajuti mandati da Quosnadowich il principe di Reuss, gli metteva in salvo col condurgli a luoghi sicuri verso Salò. In tutte queste zuffe tanto miste ebbe più parte la fortuna che l'arte, e sebbene i disegni dei generali Tedesco e Francese fossero certi, del primo di calare, del secondo d'impedire che calasse, pare a noi, che Quosnadowich abbia meglio eseguito il suo intento, che Buonaparte, perchè quegli calò quando volle, e questi non l'impedì quando volle; ed anche si può argomentare da tutti i fatti successi sulla destra del lago, che il generale repubblicano abbia più operato a caso, o per necessità, che con proposito deliberato, dominato piuttosto, che dominatore della fortuna. Mentre queste fazioni succedevano sulla sinistra dei Francesi, Augereau, che non voleva che Castiglione fosse perduto, perchè quel sito era il principale impedimento alla unione delle diverse parti dell'esercito Tedesco, indirizzava le sue genti al riacquistarlo; ma già i Tedeschi l'avevano munito con un forte presidio, conoscendo l'importanza della terra, con farvi alloggiare una forte banda di soldati, che era l'antiguardo di Wurmser governato dal generale Liptay. Il castello, i colli vicini, ed il ponte erano guerniti di molti e buoni soldati, tanto più confidenti in se medesimi, quanto Wurmser, spuntando da Guidizzolo, si avvicinava con tutte le sue genti. Ordinava Augereau per modo i suoi, che il generale Beyrand assalisse il corno sinistro degli Austriaci, e per assicurare vieppiù questa parte, comandava al generale Robert, facesse un'imboscata per riuscire alle spalle degli Alemanni. Verdier con un grosso nervo di granatieri era per assaltare nel mezzo il castello medesimo di Castiglione, e nella parte superiore il generale Pelletier si apparecchiava ad urtare la destra del nemico. Ma per provveder meglio ad ogni caso fortuito, ordinava Buonaparte, che la schiera di ultima salute condotta dal generale Kilmaine andasse ad unirsi ad Augereau, perchè fosse più fortemente sostenuta la battaglia. S'incominciava a menar le mani molto virilmente da ambe le parti, era il dì tre d'agosto; animava gli uni la memoria delle vittorie fresche, e la presenza dei loro generali Buonaparte ed Augereau, gli altri il vicino soccorso del maresciallo. Dopo una ostinatissima difesa Liptay, non potendo più reggere, si ritirava: anzi scrivono alcuni, che disperando affatto della giornata, già si fosse risoluto di arrendersi. Ma o che in questo punto si fosse accorto, che i repubblicani non erano tanto numerosi quanto a prima giunta si era persuaso, come si narra da qualche storico, o che, come altri credono, avesse veduto un grosso di cavallerìa Tedesca, che accorreva galoppando in suo ajuto, ripreso animo, ritornava alla battaglia più animoso di prima. Già con incredibile valore combattendo, rendeva dubbia la vittoria, quando Robert, uscendo fuori dall'imboscata, a gran furia lo assaliva. Questo urto improvviso disordinò tanto gli Alemanni, che si ritiravano, lasciando la terra di Castiglione in potestà dei Francesi. Ebbe in questo punto Liptay qualche rinforzo delle prime truppe di Wurmser che arrivavano. Per la qual cosa si fece forte al ponte, che non aveva ancor perduto, e continuava a tempestare con costanza veramente Austriaca. Il contrasto diveniva più sanguinoso di prima, si combatteva fortemente su tutta la fronte. Finalmente i Francesi, spintisi avanti con la solita concitazione, e non essendo ritardati nè dagli urti che ricevevano sul ponte, nè dalla fama che già tutta l'oste Tedesca fosse arrivata, conquistarono il ponte: il che sforzò gl'imperiali a ritirarsi. Ma già i Francesi seguitando il favor della fortuna, rompevano, tanta era la pressa che quivi facevano Beyrand e Robert, l'ala sinistra degli Austriaci, e l'avrebbero anche conculcata del tutto, se una batterìa posta opportunamente sopra di un poggio vicino non avesse raffrenato l'impeto loro. Ciò fu cagione, che tenendo ancora gli Austriaci la posizione loro dietro Castiglione, impedirono ai Francesi l'inoltrarsi nella pianura, che separava l'ala destra dalla sinistra degl'imperiali, e si crearono abilità di sostenere nel medesimo luogo, due giorni dopo, un'altra ostinata battaglia. In questa fazione combattuta con grandissimo valore da ambe le parti, perdettero gli Austriaci fra morti, feriti, e prigionieri quattro mila soldati con venti bocche da fuoco. Nè fu lieta la vittoria ai Francesi; perchè mancarono di loro più di mila soldati eletti, fra i quali a molto onore si nominano Beyrand, Pourailler, Bourgon, e Marmet. Nondimeno le sorti d'Italia stavano ancora in pendente: Wurmser, nel quale si possono lodare una attività ed un vigor d'animo superiori all'età, aveva raccolto tutte le sue genti, e si apparecchiava ad ingaggiare una nuova battaglia, che doveva por fine a quell'acerbissima contesa, ed a quelle pugne sparse, che da più giorni duravano, più sanguinose che terminative. Aveva un novero di venticinque mila soldati di pruovato valore; gli schierava per forma che la sinistra si appoggiasse all'eminenza di Medolano, che si erge fra Guidizzolo e Castiglione, la destra si distendesse fino a Solfarino. Buonaparte ancor egli aveva fatto opera, che tutti i suoi venissero a congiungersi insieme per sostenere un cimento tanto pericoloso. Già la più gran parte era raccolta fra la terra di Castiglione, e la fronte dei Tedeschi, e per tal modo l'ordinava, che l'ala sinistra guidata da Massena potesse assaltare la destra del nemico, Augereau con la mezzana desse dentro al mezzo, e finalmente Verdier con le fanterìe, e Beaumont coi cavalli urtassero la sinistra. Ma il generale della repubblica, che non aveva usato nel raccorre i suoi la medesima celerità che l'emolo suo, quantunque vecchio, usato aveva; e volendo in giornata di tanta importanza rendere per lui sicuro per tutti i mezzi l'esito del conflitto, aveva comandato alla schiera di Serrurier, che era sotto la cura di Fiorella, e stava alle stanze sulle rive del Po a Bozzolo ed a Marcarìa, camminasse celeremente verso Castiglione, e ferisse di fianco la punta sinistra degl'imperiali. Il quale consiglio fu molto a proposito, come si vedrà dal progresso dei fatti che seguirono. Nè parendo per la sagacità sua a Buonaparte, che questi preparamenti bastassero, s'indirizzava a Lonato per vedere, se fosse possibile di far venire altre genti da quella terra al tempo principale. Quivi successe un caso molto mirabile, secondochè narrò Buonaparte, e ripeterono tutti gli storici di quei tempi e dei tempi posteriori, e questo fu, che il generale di Francia, andando a Lonato con persuasione di trovarvi i suoi, ed avendo con esso lui solamente una squadra di dodici centinaja di soldati, vi trovasse in vece un corpo Tedesco grosso di quattromila combattenti tra fanti e cavalli con non pochi pezzi di artiglierìa. Era Buonaparte in gravissimo pericolo, e già il comandante Alemanno gl'intimava, si arrendesse. Ma egli, accorgendosi che in accidente tanto improvviso, dove non valeva la forza, l'audacia doveva supplire, al Tedesco con sicuro volto rivoltosi, gli disse, maravigliarsi bene ch'ei tanto presumesse di se medesimo, che si ardisse chiamar a resa Buonaparte vittorioso nel suo principal campo stesso, e cinto da tutto il suo esercito: andasse, e da parte sua al suo generale recasse, che se subito non s'arrendesse, ed in poter suo disarmato non si desse, pagherebbe colla morte il fio di tanta temerità. Erasi, come narrano gli storici, accorto Buonaparte, raccogliendo nella sua mente tutti i fatti di quei giorni, che quella squadra fosse la gente fuggiasca di Desenzano, che, avendo trovato i passi di Salò chiusi da Guyeux, o andasse errando a casa, o si sforzasse di raggiungere il corpo principale di Wurmser. Vogliono che i Tedeschi intimoriti, deposte le armi, si arrendessero a discrezione. Questo fatto abbellito da graziose parole si rende credibile, se si considera l'audacia Francese, soprattutto quella di Buonaparte, capace di questo, ed anche di molto più; ma si stimerà incredibile, se si pon mente, che qualunque si voglia supporre la bonarietà Tedesca, non può ella però esser tale che scenda all'estremo della semplicità, quale la dimostrerebbe la narrazione di Buonaparte. Pure esso è affermato da tanti storici degni di fede, che noi saremmo disposti a prestarvi credenza, se nell'animo nostro nol rendesse dubbio il considerare, che niuna fama primitiva del medesimo ne suonò a Lonato, che mai non si disse, nè si seppe chi fosse il generale Tedesco che governava la squadra fatta captiva, e il nominarlo avrebbe tolto ogni dubbio; che gli Austriaci in tutte le mosse ed in tutti i combattimenti di quei giorni, non che abbiano mostrato o semplicità, o viltà, diedero segni di somma avvedutezza e di sommo valore; che la colonna ritiratasi a Desenzano dopo l'aspra battaglia di Lonato obbediva ad Ocskai ed al principe di Reuss, l'uno e l'altro soldati da non lasciarsi ingannare nè intimorire così alla prima, e uomini di tal nome, che portava pure il pregio che si nominassero, se in quell'accidente maraviglioso avessero ornato disarmati e vinti il trionfo di Buonaparte; che un grosso di quattromila Austriaci congiunto a quel corpo, che già signore di Ponte-San-Marco, e della strada per a Brescia, non erano tali che non potessero sforzare il passo di Salò, e che avessero paura della piccola quadriglia di Guyeux, che occupava questa terra, considerato massimamente che una non debole mano di Tedeschi alloggiava ancora a Gavardo; che finalmente quel correre liberamente la strada da Brescia a Lonato, quell'occupare fortemente quest'ultima terra e quell'intimare così fiero e così replicato a Buonaparte, che si arrendesse, non dimostrano uomini fuggiaschi e timorosi. Certamente o è falsa la dedizione dei Tedeschi, o sono false le circostanze narrate dagli storici. Ma se il fatto è vero, non so come si possa scusare un generalissimo, che dà dentro alla cieca in una schiera nemica tanto grossa, che l'uscirle di mano fu piuttosto cosa miracolosa che maravigliosa. Adunque Buonaparte non aveva spie? adunque non correva la campagna con gli esploratori? adunque viaggiava così alla sicura in un paese, dove le truppe ed Austriache e Francesi, e le zuffe loro erano tanto miste, e verso quella parte, donde sapeva che Quosnadowich voleva sboccare per unirsi con Wurmser? Certamente una tale sicurezza era molto impertinente al tempo presente, e Buonaparte non era uomo da commettere questi errori; perciò si rende molto dubbio il fatto. Che se poi ad ogni modo è vero, dovrassi il capitano di Francia tanto biasimare dell'imprudenza che lo condusse in poter del nemico, quanto lodare dell'audacia con la quale se ne liberò. Tutte queste fazioni, quantunque di gran momento fossero, non avevano ancora intieramente giudicato la fortuna delle armi fra i due potenti emoli, e restava ancora a determinarsi in una battaglia campale, se le speranze dall'imperatore d'Alemagna poste nella virtù di Wurmser, e tutto quello sforzo per la ricuperazione d'Italia avessero a riuscire o fruttuosi, o vani. Erasi, come abbiam narrato, il maresciallo Austriaco accampato tra Medolano e Castel Venzago a fronte di Castiglione, tra la quale terra e le sue genti se ne stavano schierati i Francesi. Erano i soldati delle due parti stanchi dai lunghi viaggi e dalle frequenti battaglie, e però, sebbene a fronte gli uni degli altri già si trovassero il giorno quattro agosto, nissun motivo fecero per affrontarsi. Piaceva l'indugio a Buonaparte, perchè attendeva alcune genti fresche, e perchè principalmente sperava che Fiorella, in cui era posta la più forte speranza della vittoria, arrivasse in luogo, donde potesse partecipare al combattimento. La mattina del giorno seguente, appena aggiornava, essendo giunto il tempo, che Buonaparte si era prefisso come conveniente alla sua impresa, e non movendosi gl'imperiali, disposti piuttosto ad aspettare che a dar la carica, comandava ad Augereau, ed a Massena, che assaltassero il nemico; ma essendo suo intento che solo s'ingaggiasse la battaglia, ma non si tentasse perancora di sforzar l'inimico, ordinava loro, che, dato il primo urto, e tosto che gli Austriaci uscissero dal campo per seguitargli, si ritirassero. La cosa successe come il capitano Francese l'aveva ordinata; perchè, non così tosto si era incominciato a menar le mani, gli Alemanni, che si sentivano forti, saltando fuori degli alloggiamenti, urtavano gagliardamente i Francesi, che, fatto un po' di resistenza, per ubbidire ai comandamenti del capitano generale, si tiravano indietro. Dalla quale mossa molto a proposito fatta prendendo animo Wurmser, andava distendendo l'ala sua destra verso Castel Venzago con intenzione di circuire la sinistra dei Francesi retta da Massena, e di dar la mano a Quosnadowich, di cui non sapeva le rotte. Quest'era appunto il desiderio di Buonaparte, conciossiachè suo pensiero fosse di urtare piuttosto e sbaragliare la sinistra di Wurmser, perchè conosceva i sinistri casi di Quosnadowich; la fortezza di Peschiera, che era in suo potere, l'assicurava sul suo fianco sinistro, e Fiorella stava in procinto di arrivare sul campo di battaglia contro la punta sinistra dei Tedeschi. A questo fine, mentre Massena ed Augereau sostenevano l'urto degli Austriaci a stanca ed in mezzo, mandava Buonaparte Verdier con un forte polso di granatieri, e con un reggimento di cavallerìa ad assaltare le trincee erette sul colle di Medolano. Ma perchè questo assalto riuscisse meno sanguinoso nel fatto, e più felice nel fine, ordinava che il colonnello Marmont, soldato molto pratico a governar le artiglierìe, posti venti pezzi grossi nella pianura di Medole, fulminasse quel ridotto nemico. Rispondevano furiosamente dal colle di Medolano le artiglierìe Austriache, e ne seguitava un sanguinoso combattimento. In mezzo a tanto rimbombo si faceva avanti con singolar valore Verdier, a cui era compagno Beaumont. Perveniva Verdier al ridotto, e dopo un'asprissima contesa e molto sangue, se ne impadroniva. Al tempo medesimo Beaumont, precipitandosi a corsa verso il villaggio di San Canziano dietro la estremità sinistra degl'imperiali, che già vacillava trovandosi spogliata di quel principale fondamento del ridotto, accresceva terrore ai fuggiaschi, e lo dava ai contrastanti. Nè questo bastando a dare l'ultima stretta, arrivava, tanto bene aveva Buonaparte disposte le cose, in questo punto stesso Fiorella coi soldati di Serrurier, che dando dentro incontanente ai nemici, che non se l'aspettavano, gli sforzava a rotta manifesta. Wurmser per ristorare la battaglia, che era in questo luogo in tanta declinazione, vi mandava in fretta la cavallerìa, che urtando Beaumont e Fiorella, frenava per qualche tempo l'impeto loro. Ma Buonaparte, veduto che era giunto il momento di vincere, fe' caricare con tutto lo sforzo di Massena e di Augereau l'ala destra e la mezzana dei Tedeschi. Spediva altresì in fretta alcuni rinforzi a Fiorella, il quale anche acquistava nuove forze per l'accostamento successivo delle sue genti, che, rimaste indietro, ora a grado a grado arrivavano. Diventava allora la battaglia generale su tutta la fronte, e se il capitano Francese aveva mostrato, sì prima che nel mentre del fatto, maggior perizia dell'antico capitano dell'Austria, i soldati Austriaci si dimostrarono pari pel valore ai soldati Francesi. Fuvvi che fare assai per questi alla torre di Solfarino, che virilmente assalita, fu anche virilmente difesa. Prevalse infine del tutto la fortuna repubblicana, perchè Massena pressava con vantaggio dal canto suo il nemico, Augereau lo vinceva a Solfarino, Verdier, Marmont, Beaumont e Fiorella lo perseguitavano rotto e disordinato a Cavriana. Così tutto l'esercito Alemanno, parte rotto, parte intiero si ritirava al Mincio; il qual fiume prestamente varcato a Valeggio, e la stanchezza dei perseguitatori il preservarono da maggior danno. Questa fu la battaglia di Castiglione combattuta con arte mirabile da Buonaparte, e con gran valore da Augereau. Da questa medesima acquistò poscia quest'ultimo il nome di duca da Buonaparte creatosi imperatore. Scemarono gli Austriaci in questo fatto di meglio di tre mila soldati o morti, o feriti, o prigionieri, di trenta cannoni, di centoventi cassoni, e di munizioni da guerra in proporzione. Non arrivò a mille la perdita dei Francesi; fra loro di soldati di nome mancò il solo generale Frontin. In tutte queste zuffe intricate, miste e sanguinose, che in pochi giorni si attaccarono fra Wurmser, e Buonaparte, piansero i Tedeschi più di ventimila soldati, e circa quattrocento ufficiali. Fecero anche conspicua la vittoria dei repubblicani settanta cannoni presi. Poco meno esiziali furono le armi imperiali ai Francesi, poichè mancarono dalle insegne di Francia meglio di diecimila soldati o morti, o feriti, o caduti in mano degl'Imperiali. La vittoria di Castiglione, che tanto affliggeva la potenza dell'Austria, poneva di nuovo l'Italia in potestà di Buonaparte: perchè Wurmser, quantunque non fosse scoraggiato dalla fortuna contraria, ridotto a poche genti, non poteva più contendere col fortunato suo emolo dell'imperio di quella contrada, destinata oramai ad essere preda dei combattenti, o serva dei vincitori. Buonaparte, conseguita con tant'arte e con tanta fortuna sì gloriosa vittoria, si risolveva a perseguitar celeremente le reliquie del suo avversario, sì perchè non voleva dargli tempo di rifarsi, e sì perchè in aura sì favorevole gli tornavano in mente i vasti pensieri, già molto tempo da lui spiegati al direttorio, di volere andar ad assaltare, valicando i monti del Tirolo, il cuore della Germania, per conculcarvi del tutto, congiunto che fosse con Moreau e Jourdan, che guerreggiavano sul Reno, la potenza dell'Austria. Le fresche vittorie, ed il terrore concetto per loro dai popoli e dai soldati nemici, era occasione favorevole a così gran disegno. Perlochè si accingeva a voler tosto passare il Mincio, per vedere quello che preparasse la fortuna sulla sinistra sponda contro il capitano dell'Austria. A questo fine faceva trarre furiosamente da Augereau con le artiglierìe contro Valeggio per dare in questo luogo riguardo al nemico, mentre Massena sospintosi avanti per Peschiera tenuta tuttavìa da' suoi, sbaragliava, secondandolo virilmente Victor, Liptay, che fu costretto di ritirarsi a Rivoli. Wurmser, veduto da questo fatto che non era più tempo da aspettare a ritirarsi in Tirolo, rinfrescata di nuove genti Mantova, si metteva in viaggio per salire per la valle dell'Adige. Il seguitavano Massena, Augereau e Fiorella. Si appresentava quest'ultimo alle porte di Verona con animo di entrarvi per perseguitare gli Austriaci, che dentro, sebbene in picciol numero, si trovavano, ed in fretta si apprestavano a partire per le rive superiori dell'Adige. Chiedeva Fiorella le si aprissero. Il provveditore Veneto, che temeva che se due nemici tanto sdegnati l'uno contro l'altro, e nel bollor del sangue dei fatti recenti si azzuffassero dentro le mura, ne sarebbe sorto qualche grande sterminio, rispondeva che le aprirebbe, passate due ore. L'intento suo era di dar tempo agli Austriaci di sgombrare, acciocchè Verona non diventasse campo di battaglia. Buonaparte sopraggiunto fulminava le porte coi cannoni, ed entrava vincitore. Successero alcune sparse zuffe coi Tedeschi, non senza terrore dei Veronesi, e se gli Austriaci fossero stati o più numerosi o più animosi seguiva qualche funesto accidente. Ma i repubblicani, mostrando moderazione, eccettuate alcune ingiurie fatte nell'oscurità della notte, conservarono la terra intatta. Entrato per tal modo in Verona il generalissimo di Francia, ed animati di nuovo i suoi con un manifesto, in cui gli paragonava, certo con ragione pel coraggio, ai soldati di Maratona e di Platea, gli conduceva alle fazioni del Tirolo. Saliva col grosso per le rive dell'Adige, contro Wurmser; Sauret in questo mentre, per ordine suo, camminando all'insù della sponda occidentale del lago, andava a ferire Quosnadowich e il principe di Reuss. Dovevano entrambi raccozzarsi in su quel di Roveredo per andarsene poscia ad occupar Trento, metropoli del Tirolo Italiano. Furono da Sauret cacciati gli Austriaci da tutti i posti sul lago per modo che, abbandonata Rocca d'Anfo e Lodrone, si ritirarono ai luoghi superiori di Arco. Dal canto suo Buonaparte, per opera di Massena e di Augereau, superati, non senza sangue, i siti forti di Corona e di Preabocco, e più su di Ala, di Serravalle e di Mori, mentre Vaubois si alloggiava in Torbole, compariva con mostra vittoriosa in cospetto di Roveredo. I Tedeschi già rotti a Mori, e spaventati da un furioso assalto di Rampon in Roveredo, abbandonarono frettolosamente la terra con andare a posarsi nel sito fortissimo, che chiamano il Castello della Pietra, o di Calliano. Solo passo a questa terra a chi viene di sotto, è una stretta forra, che è serrata a destra da monti inaccessibili, a sinistra dall'Adige. La terra medesima poi distendendosi anch'essa dal monte al fiume, serra il passo, ed appresenta verso la profonda forra un grosso muro merlato, che rende assai facile la difesa. Per questa strettura dovevano passare, e questa muraglia, munita dai Tedeschi di grosse artiglierìe, espugnare i Francesi per andare all'acquisto di Trento. Speravano gl'imperiali, se non di arrestare l'impeto del nemico in questo luogo, almeno di starvi forti tanto, che ogni cosa potessero mettere in sicuro alle spalle. Ma quei presti repubblicani, capaci a sostenere le battaglie giuste nei luoghi piani, e molto più capaci ancora a far le guerre spedite e spartite dei monti, ebbero assai presto superati tutti gli ostacoli, che e la natura del sito, e l'arte del nemico aveva loro opposto. Imperciocchè il generale Dammartin, allogate, con incredibile fatica, alcune artiglierìe in un luogo creduto per lo innanzi inaccessibile, donde feriva di fianco la stretta, ed i feritori alla leggiera, destrissimi ed animosissimi, come sono ordinariamente i Francesi, arrampicatisi per luoghi dirupati e precipitosi, togliendo sicurezza a quel forte passo, tempestavano contro i difensori molto furiosamente. Vedutosi da Buonaparte il successo di queste cose, comandava a tre battaglioni di disperato valore, dessero dentro alla forra a precipizio senza trarre, ed assaltassero il castello, che in fine di quella torreggiava. Nè fu meno pronta la esecuzione di quanto fosse risoluto il comandamento; perchè messisi i battaglioni a quello sbaraglio, in meno tempo che uomo non concitato a presti passi farebbe, passarono la forra, menando grande strage degli Alemanni. Spaventati e rotti i Wurmseriani abbandonarono all'audacissimo nemico non solo la strada, ma anche la forte muraglia, ritirandosi a gran fretta a Trento. Nè credendovisi sicuri, e lasciandolo in balìa di se medesimo, e certa preda ai repubblicani, si ritirarono sulla destra del Lavisio sulla strada per a Bolzano. Tale fu l'esito della battaglia di Roveredo, combattuta il dì quattro settembre, nella quale risplende vieppiù chiaramente il valor dei Francesi, già tanto chiaro per le precedenti fazioni. Perdettero gli Austriaci, con venticinque cannoni, tre in quattro mila soldati morti, feriti, o prigionieri. Dei Francesi pochi mancarono, per la speditezza del fatto. Perduto il forte sito di Calliano, restava Trento senza difesa. Infatti il cinque settembre, ritiratosene il giorno precedente il vescovo, principe dell'impero germanico, vi entravano i Francesi vittoriosi, prima Massena, poi Vaubois, il quale, non potendo tollerare sotto gli occhi suoi propri i ladronecci di Toscana, e preferendo i pericoli di morte al veder l'infamia, aveva instantemente chiesto di esser mandato al campo. Divenuto Buonaparte signore di Trento, veniva tosto in sulle lusinghevoli parole, dichiarando, volere, che la città e principato di Trento fossero per sempre liberati dalla superiorità Tedesca, e posti in libertà. Laonde, cacciati tutti coloro che per parte dell'impero germanico vi tenevano i magistrati, vi surrogava i nativi, con eleggergli tra quelli che erano più avversi al dominio Tedesco, o più amatori del nome Francese, o più zelanti di novità. Del rimanente poco importava al generale della repubblica lo stato dei popoli Trentini: bensì gli premeva di sollevare con dolci discorsi i popoli della vicina Germania, affinchè tumultuando contro i principi loro, gli rendessero facile l'impresa di congiungersi coi soldati di Ferino mandati avanti da Moreau con questo intento. Certo era, che chiamata a sedizione la Baviera, l'imperatore d'Alemagna sarebbe stato ridotto in estremo pericolo, o costretto ad accettare patti disonorevoli. Questi erano i pensieri ai quali era venuto Buonaparte, per la vastità della sua mente e per lo stimolo delle vittorie. Gli rompeva questi disegni l'antico Wurmser. Aveva il capitano Austriaco considerato, che Buonaparte si era recato nell'animo, ch'ei fosse per difendere per quei luoghi alpestri con le reliquie de' suoi i passi della Germania. Credeva anzi, che il generale di Francia fosse confidente di venire a capo di questo suo intento; perciocchè si vedeva probabile, che coloro i quali avevano vinto con tanto impeto le strette di Calliano, potrebbero anche facilmente superare gli altri passi del Tirolo. Ma il pratico e tenace Alemanno fece avviso, che quello che combattendo di fronte non avrebbe potuto conseguire, il potrebbe per modo di diversione. Deliberossi adunque con animoso e ben ponderato consiglio di voltarsi di nuovo all'Italia, sperando che per la sua presenza inopinata in questa provincia, aggiuntovi qualche rinforzo che testè gli era giunto dal Norico, avrebbe potuto farvi qualche variazione, od almeno ritirarsi al sicuro nido di Mantova. Qualunque avesse ad essere o prospero od avverso l'esito di questa fazione, bene era certo l'effetto di tirare nuovamente Buonaparte in Italia, e di stornare per questo mezzo quella terribile tempesta dalla nativa Germania. Nasce la Brenta poco lontano da Trento, e correndo nel fondo di una valle profonda tra monti aspri e discoscesi, arriva a Bassano, luogo dove incominciano ad aprirsi le dilettevoli pianure del Padovano e del Vicentino. Questa è la strada che conduce da Venezia a Trento per la più diritta, senza passar per Verona. Adunque il maresciallo, già fin quando si combatteva a Roveredo ed a Calliano, s'incamminava, scendendo a gran passi, per la valle Brentana, intento suo essendo di congiungersi in Bassano con gli ajuti, che venuti dal Norico sotto la condotta dei generali Mitruski e Hohenzollern si erano ridotti ad aspettarlo in quella città. Si era persuaso che il suo avversario, udita la strada presa da lui, non solamente deporrebbe il pensiero di assaltar la Germania, ma ancora scenderebbe a gran passi a seconda dell'Adige per andar a far argine a quel nuovo impeto nelle vicinanze di Verona. Della prima opinione non s'ingannava Wurmser, perchè effettivamente Buonaparte, abbandonata l'impresa di Germania, si rivoltava verso l'Italia; ma bene non prese la via dell'Adige, anzi, sprolungata la destra de' suoi per la valle medesima della Brenta, seguitava frettolosamente, divallandosi ancor esso, le genti Alemanne. Erano guidatori principali di questi presti soldati, secondo il solito, quei due folgori di guerra Massena e Augereau. Questa deliberazione fece Buonaparte per interrompere a Wurmser ogni comunicazione coi corpi che lasciava ai luoghi più alti del Tirolo, e perchè non altra speranza di salute restasse al capitano dell'imperatore, se non quella o di ritirarsi più che di passo alle montagne donde sorge la Piave, o di far opera di condursi a Mantova. Marciarono tanto speditamente i repubblicani, che giunsero gl'imperiali a Primolano, e gli vinsero con presa di molti soldati, non però di quattromila, come fu scritto, che è un'amplificazione di parole molto evidente. Si combattè poscia a Cismone, si combattè a Selagno, e sempre felicemente pei Francesi. Già quel nembo era vicino a scoccare contro Bassano, dov'era il corpo principale di Wurmser. L'assaltarono correndo Augereau a sinistra. Massena a destra, e tosto il ruppero, avendo fatto, in ciò dissimile da se medesimo, invalida difesa, con grande ammirazione e sconforto di Wurmser, che si era confidato nella fortezza di quel passo posto alla sboccatura della valle della Brenta. Ora nissun altro partito restava al maresciallo d'Austria, poichè sì presti l'avevano sopraggiunto i Francesi, se non quello di ritirarsi per far pruova di guadagnare le sicure muraglie di Mantova. Adunque, velocemente marciando, e velocemente ancora seguitato dai repubblicani, passava l'Adige a Porto-Legnago, batteva Massena a Cerea, Buonaparte a Sanguineto, ed entrava coi soldati tutti sanguinosi, ma con aver fatta sanguinosa la vittoria anche al nemico, dentro i ripari della forte Mantova. Questo fu il fine dell'impresa di Wurmser in Italia, e del poderoso esercito che vi condusse. Ne fu afflitta la Germania, ne fu lieta la Francia, ne pendè di nuovo incerta l'Italia del destino che l'aspettasse; perchè nè Mantova era piazza che si potesse facilmente espugnare, nè l'imperator d'Alemagna era tale, che non fosse per fare un nuovo sforzo per riconquistar le rive tanto infelicemente feconde dell'Adda, del Ticino e del Po. Siede Mantova, città antica e nobile, in mezzo ad un lago che il fiume Mincio, calandosi da Goito in una gran fondura, forma, ed in tre parti si divide, separate una dall'altra da due ponti, dei quali il superiore, da presso a porta Molina dipartendosi, dove sono i molini dei dodici apostoli, dà l'adito dalla città alla cittadella posta a tramontana; l'inferiore apre il varco dalla porta di San Giorgio al sobborgo di questo nome situato a levante. La prima parte del lago tra la bocca del fiume, dove entra nel lago medesimo, ed il superior ponte frapposta, chiamasi col nome di lago superiore; la seconda rinchiusa fra i due ponti, con quello di lago di mezzo; e finalmente quella parte che dal ponte inferiore partendo, insino all'emissario si distende, col nome di lago inferiore si appella. Nè tutta la città è circondata da acque libere e correnti; conciossiachè il Mincio, a stanca verso la cittadella precipitandosi, lascia i terreni a dritta o del tutto scoperti, o di poche acque velati, ma limacciosi tutti, ed ingombri di erbe e di canne palustri. Questa è la palude, che si dilata, e circuisce le mura, cominciando da porta Pradella, per cui si ha la via a Bozzolo ed a Cremona, insino a porta Ceresa, per cui si va alla strada di Modena. Così girando da porta Pradella per tramontana e levante fino a porta Ceresa, è Mantova bagnata dalle acque dei tre laghi; e dando la volta dalla medesima porta Pradella per Ponente ed Ostro fino a porta Ceresa, è circondata da un profondo ed instabile marese, eccettuata una parte di terreno più sodo situata a guisa di penisola da porta Postierla a porta Ceresa. Quivi sorge il castello del T, così chiamato, perchè per singolar guisa d'architettura ha forma di questa lettera dell'alfabeto. Si ammirano in lui quelle belle pitture a fresco, che rappresentano la battaglia di Giove e dei Titani, opera tanto celebrata di Giulio Romeno, nativo di Mantova. Questa penisola si congiunge al corpo della città per parecchi ponti: ma i principali aditi alla campagna si aprono pei due suddetti ponti della cittadella, e di San Giorgio, e per mezzo degli argini, che partendo dalle porte Pradella e Ceresa, ed attraversando la palude, menano i viandanti all'aperto. Oltre le anzidette porte sonvene alcune altre minori, o piuttosto uscite che porte, le quali danno sul lago, e sono quelle della Catena, della Pomponassa, di San Niccolò, degli Ebrei, d'Ozzolo, di San Giovanni e del Filatojo. Ma siccome la palude a nissun modo varcabile è difesa più forte del lago, che con le barche si può passare, così per assicurare la piazza là dove guarda il lago, fu eretta a tramontana la cittadella, che chiude il passo a chi venisse da Verona, ed il forte San Giorgio a levante contro chi volesse andar contro alla terra, procedendo da Portolegnago e da Castellara. Non ostante, parti pericolose erano le due estremità della palude, perchè là sono gli argini che accennano alle due porte principali per la via di terra, cioè Pradella e Ceresa. Per questa cagione furono affortificate con bastioni, e con altre opere di difesa. Nè fu lasciata senza munizioni la porta Postierla, la quale, avvegnachè si apra quasi nel mezzo di una cortina, ha per difesa a destra il forte bastione di Sant'Alessi, a sinistra un'alta di muro chiamata la torre di Sant'Anna. Per dare poi maggiore forza a questa parte, principalmente a porta Ceresa, e per impedire soprattutto che il nemico non possa fare un alloggiamento nella penisola del T, furono ordinate alcune trincee con terrati e terrapieni sull'orlo di lei, e nel luogo che chiamano il Migliaretto. Così, oltre le acque e la palude, le principali difese di Mantova consistono nella cittadella, nel forte San Giorgio, nei bastioni di porta Pradella e di porta Ceresa, ed in altri propugnacoli, che da luogo a luogo sorgono tutt'all'intorno nel recinto delle mura, e finalmente nelle trincee del T e del Migliaretto. Tutte queste difese fanno la fortezza di Mantova, ma più ancora l'aria pestilente, che massimamente ai tempi caldi rende quei luoghi insani per le febbri e per le molte morti, e fa le stanze pericolosissime, principalmente ai forestieri, non assuefatti alla natura di quel cielo. Non è però che nel complesso delle raccontate fortificazioni non vi sia una parte di debolezza, perchè nè la cittadella nè il forte San Giorgio sono tali, che possano resistere lungo tempo ad un nemico, che validamente e con le debite arti gli oppugnasse; e chi fosse padrone di questi due forti, potrebbe con evidente vantaggio battere il corpo della piazza, più debole assai da questo lato che da quello della palude. Male altresì la cittadella si chiama con questo nome, poichè non è tale nè per la grandezza nè per la fortezza, che il presidio di Mantova vi si possa ricoverare, nel caso in cui non fosse più abile a tenere la città. La parte poi di porta Pradella, che è pure il lato più forte, e con più diligenza munito, una sola difesa esteriore l'assicura; e quest'è un'opera a corno dominata dall'eminenza di Belfiore. Le sole difese del corpo della piazza in questa parte sono il bastione di Sant'Alessi, stimato da tutti fortissimo, e pure troppo più piccolo, che non bisognerebbe per poter essere guernito del numero di difensori e di artiglierìe necessario, e la mezza luna di Pradella. L'uno e l'altra poi non sono coperti, e le loro scarpe s'innalzano tutte sopra l'orizzonte. Oltre a ciò sono congiunti fra di loro per una cortina lunghissima, e perciò male atta ad essere difesa dai fianchi di quei due bastioni. Vero è che per rimediare a questa debolezza, sono state sospinte oltre il pelo della cortina, a guisa di due frecce, i due ridotti di terra Nuovo e del Chiostro; ma questi due ridotti sono e di sito troppo più ristretto e troppo, meno che si converrebbe, sporgenti, e male anco volti rispetto alla cortina da potere e pel numero dei difensori, e per quello delle artiglierìe, e per la direzione dei tiri acconciamente servirle di difesa. Nè maggior fortezza appare nelle mura di Mantova a mano manca di porta Ceresa, andando verso il lago inferiore, perchè quivi, eccettuato un debole torrione a guisa d'orecchione congiunto alla cortina, e tre piccole e basse punte di bastioni, niuna difesa si ritrova. Sapevanselo i Francesi, che prima dell'arrivo di Wurmser, avevano assaltato questa parte, e già tanto si erano condotti avanti, che, aperta la breccia, stavano in punto di entrarvi. A tutto questo pensando Buonaparte, era venuto in questa opinione, che in venti giorni di trincea aperta si potesse prender Mantova, ed a questa piazza anteponeva, per la fortezza, quella di Pizzighettone. Aveva anche fatto disegno d'impadronirsene per un assalto notturno ed inopinato con attraversare il lago sopra barche, che a tal uopo aveva fatto apprestare. Avvertiva però, che la riuscita di queste fazioni notturne dipende da un gridare o di cani o di oche. Seguita da tutto ciò, che l'oppugnazione da questa parte non è tanto malagevole, quanto porta la fama. A questo si aggiunge, che quello che a prima vista pare constituire il principale fondamento della difesa, ne fa appunto la debilitazione, e questa cagione sono gli stretti argini per cui il nemico debbe necessariamente passare per arrivare alla città; imperciocchè siccome i più efficaci mezzi per ritardar le oppugnazioni e per prolungar la difesa delle piazze sono le sortite forti degli assediati, che rovinano le opere degli assedianti, così questi argini, rendendo le sortite più difficili, nuocono alla difesa; perchè dovendo gli assediati uscire, e passare per un luogo certo, stretto e lungo, facile cosa è agli assedianti di scoprirgli, e di combattergli quando escono, ed innanzi che sopraggiungano loro addosso. La quale facilità è anche più grande a Mantova che in altre piazze, a cagione che per le acque del lago possono agevolmente pervenire al campo degli assediatori i rapportatori e le novelle. Questa natura dei luoghi è cagione, che con poche genti si può fare, se non la oppugnazione, almeno l'assedio di Mantova, perchè il nemico, senza che sia in necessità di circuire tutta la piazza, ponendosi solamente, e facendosi forte alle punte dei ponti e degli argini, verrà facilmente a capo di ridurre il presidio alla necessità di capitolare per mancanza di vitto. Quindi è vero quello ch'era solito dire Buonaparte, il quale se n'intendeva, che con settemila soldati se ne possono bloccar dentro Mantova ventimila. Per la qual cosa si vede, che se nuoce agli assaltatori l'aria infetta di miasmi pestiferi, nuoce ai difensori la fame facilmente indotta. Tutti questi accidenti e di sito e di natura e di arte, operarono a vicenda ed efficacemente o negli assedj, o nelle oppugnazioni di Mantova, come si renderà manifesto dal progresso di queste storie. Era giunto, come abbiam narrato, il maresciallo Wurmser in Mantova con un grosso corpo di genti avanzate alle stragi di Castiglione e di Bassano. Questo sussidio, mentre dava maggior forza alla guernigione già stanca da molte battaglie, e da troppo frequenti vigilie, induceva nondimeno una più grande necessità di vettovaglia. Difettava particolarmente di erba e di strame per pascere i cavalli, che erano, rispetto ai fanti, in numero assai considerabile. Adunque il capitano Austriaco, vedendosi potente per la moltitudine dei soldati, massime di cavallerìa, sortiva spesso, per allungare i pericoli, con grosse cavalcate a foraggiare alla campagna. Il che tanto più facilmente poteva fare, quanto più, essendo tuttavìa padrone della cittadella e di San Giorgio, aveva le uscite spedite, senza essere obbligato di restringere le genti in lunghe file per passare i ponti o gli argini. Queste cose infinitamente cuocevano a Buonaparte, il quale sapendo, che l'Austria, malgrado delle rotte avute, non avrebbe omesso di mandare nuovi soldati in Italia, desiderava di venirne presto alle strette per aver Mantova in mano sua, innanzichè gli ajuti arrivassero. A questo fine, essendo giunto alla metà del suo corso il mese di settembre, comandava a' suoi, andassero all'assalto di San Giorgio, perchè quello era il principale sbocco degli Austriaci alla campagna. Nel tempo medesimo il generale Sahuguet dava l'assalto alla Favorita, sito fortificato dagli Austriaci, e posto a tramontana tra San Giorgio e la cittadella. Attraversò questi disegni il vivido e sagace Wurmser; perchè cacciatosi di mezzo con la cavallerìa, e represso l'impeto dei repubblicani, gli sbaragliava, e se non era la trigesimaseconda, valorosissima fra le brigate Francesi, che sostenne l'urto del nemico, sarebbe seguìto qualche grave danno a Buonaparte. Rimasero i Tedeschi in possessione della Favorita e di San Giorgio; Sahuguet fu costretto a tirarsi indietro malconcio, e con le genti sceme pei morti e pei feriti. Ma l'audace Buonaparte non era uomo da interrompere i suoi pensieri per un piccolo tratto di fortuna contraria. E però avvisandosi che il suo avversario, fatto confidente dalla prosperità della fazione, cercherebbe ad allargarsi viemaggiormente nella campagna, volendo nutrire in lui questa baldanza nuova, ritirava i suoi più lontano dalla piazza. Era il suo fine di tirar Wurmser tanto discosto dal suo sicuro nido, che a lui nascesse la occasione d'impadronirsi improvvisamente di San Giorgio, per vietare all'avversario ogni comodità del paese. Eransi gli Austriaci ingrossati, coll'intenzione di conservarsi libera la campagna, a San Giorgio ed alla Favorita: avevano anzi spinto molto avanti le loro guardie fuori di questi alloggiamenti. Per meglio mandar ad effetto il suo pensiero, aveva Buonaparte comandato ad Augereau, che stanziava a Governolo, salisse per la riva del fiume, ed improvvisamente urtasse il fianco destro dell'inimico. Sahuguet occupava i passi tra la Favorita e San Giorgio; ma non avendo forze bastanti per resistere al nemico potentissimo di cavalli, ordinava a Buonaparte, che a questa schiera si accostasse quella di Pigeon, che veniva da Villanova, perchè dal tagliar la strada fra San Giorgio e la Favorita dipendeva in gran parte l'esito della fazione. Ma perchè Wurmser, avendo che fare sulla sua fronte, non potesse correre contro le ali dei repubblicani che si avanzavano, imponeva a quel pronto e valoroso Massena, urtasse francamente nel mezzo il sobborgo di San Giorgio. Fu l'industria e la virtù del generale di Francia ajutata dal benefizio della fortuna; perchè Wurmser essendosi di soverchio allargato nella campagna, non fu difficile a Pigeon di congiungersi con Sahuguet ad interrompere le strade fra i due nominati luoghi, ed Augereau arrivava tempestando a rompere l'ala dritta degl'imperiali. Il maggior danno fu quello recato da Massena; poichè fu tanto forte l'impeto suo, che prostrando ogni difesa, entrava per viva forza in San Giorgio, e se ne faceva padrone. Nè in alcun modo soprastando, per non corrompere con la tardanza il corso della fortuna favorevole, metteva anche in suo potere il capo del ponte, che dal sobborgo porta alla città. A questo modo gli Austriaci rotti e dispersi, parte furono presi o morti in numero di circa tremila, e parte si ritirarono fuggendo alla cittadella: perdettero venti bocche da fuoco. Questa fazione, avendo posto in poter dei Francesi i luoghi più opportuni all'ossidione, e fiaccando l'ardire degli Austriaci, restrinse molto la piazza; e sebbene di quando in quando il generale dell'imperio, condotto dal proprio coraggio, e tirato anche dalla necessità, per fuggire le molestie della fame, facesse, per andar a saccomanno, sue sortite, non si affidava però più di correre così liberamente la campagna, il che rendè in breve tempo le sue condizioni peggiori; perciocchè cominciava a patire maravigliosamente di vettovaglie. Già sorgevano segni di mala contentezza, che obbligavano Wurmser a star vigilante così dentro, come fuori. Munivano i Francesi con fossi e con trincee il conquistato San Giorgio, e dimostravano grandissima confidenza d'entrar presto in Mantova. Era Buonaparte d'ingegno vastissimo, e di attività tale, che occupato in imprese di grandissimo momento, non ometteva di condurne al tempo medesimo altre di minore importanza. Perlochè, mentre dall'una parte pensava a tener lontani dall'Italia gli Alemanni, ed a conquistar Mantova, dall'altra non trascurava le cose del Mediterraneo, e principalmente quelle della Corsica. Eransi in quest'isola maravigliosamente sollevati gli animi a cagione delle vittorie dei Francesi in Italia; il quale moto tanto si mostrava più grande, quanto più alla contentezza dei prosperi successi delle armi si aggiungeva quella, che principalissimo operatore fosse quel Buonaparte, che quantunque mandato in tenera età a crearsi in Francia, era peraltro nato e cresciuto fra di loro. Per la qual cosa si vedeva, che se le vittorie di Francia in paesi tanto vicini alla Corsica davano in lei nuovo animo alla parte Francese, l'essere acquistate da Buonaparte le dava un capo e un guidatore valoroso. Questi umori erano anche ingrossati dalle insolenze degl'Inglesi, e dalle taglie che avevano poste. Quest'erano le cagioni, per cui la parte Francese in Corsica andava ogni dì acquistando nuove forze e nuovo ardire, mentre la Inglese perdeva continuamente di forza e di riputazione; già il dominio d'Inghilterra vi titubava. Accadevano non di rado nelle più interne regioni dell'isola ingiurie e violenze contro il nome e gli uomini Inglesi, e contro coloro che a loro aderivano. Era l'autorità del vicerè ridotta alle terre forti e murate, poste nei luoghi dove poteva avere accesso il forte navilio d'Inghilterra. Queste cose si sapevano da Buouaparte; e siccome quegli che era sempre pronto ad usare le occasioni, aveva posto piede in Livorno, non solamente col fine di serrare questo porto agl'Inglesi, ma ancora per movere la Corsica a danno loro. Laonde indotto in isperanza di poter tosto farvi rivoltar lo stato a favore della Francia, aveva mandato a Livorno, aspettando tempo d'insorgere più vivamente, un colonnello Bonelli Corso, con alcuni altri soldati del medesimo paese, e provvedutolo di denari, d'armi e di munizioni, gli comandava andasse in Corsica, e con la presenza e con le esortazioni desse speranza di maggiori sussidj. Era il passaggio di mare assai pericoloso, per le navi Inglesi che continuamente il correvano; ma Buonaparte, confidando nell'opera di Sapey, un Delfinate molto sagace ed attivo, che aveva il carico di quel passo, gliene commetteva l'impresa. A questi primi principj crescendo vieppiù le speranze del felice fine, mandava a Livorno, perchè fossero pronti a salpare, i generali Gentili, Casalta e Cervoni, nativi dell'isola, e che potevano pel credito e dipendenza loro ajutare l'impresa. Preponeva ad essa, come capo, Gentili, uomo d'intera fama, e savio per natura e per età. I Corsi fuorusciti per intenzione di Buonaparte concorrevano a Livorno, e si ordinavano in compagnìe. Una compagnìa di ducento più attivi e più animosi degli altri, doveva essere il principal nervo dei conquistatori di Corsica. S'aggiungevano alcuni pezzi d'artiglierìe di montagna, e cannonieri pratichi per governarle. Erano vicine a mutarsi in pro della Francia le sorti della patria di Buonaparte. Avevano molto per tempo gl'Inglesi avuto avviso di tutti questi preparamenti, e stavano vigilanti nell'impedire il passo del mare. Nè parendo loro che ciò bastasse alla sicurezza dell'isola dopo il perduto Livorno, applicarono l'animo al farsi signori di Porto-Ferrajo, terra forte, e principale dell'isola d'Elba. Pervenuto sentore di questo tentativo a Miot, ministro di Francia a Firenze, richiedeva con viva instanza dal gran duca, desse lo scambio al governatore di Porto-Ferrajo, sospetto, secondo l'opinione sua, di essere aderente agl'Inglesi. Il ricercava altresì, mettesse in quel forte un presidio sufficiente ad assicurarlo. Voleva finalmente che si aggiungessero duecento soldati Francesi. Soddisfece alla prima domanda il principe, scambiando il governatore, ma fondandosi sulla neutralità, legge fondamentale della Toscana, accettata dalla repubblica di Francia, e confermata da tutte le potenze amiche e nemiche, non consentì a mandar nuove genti, e molto meno soldati Francesi a Porto-Ferrajo. Si scusò eziandìo allegando, che gl'Inglesi proibivano l'uso del mare, e che perciò non era in sua facoltà, ancorchè volesse, di mandar nuovo presidio in quell'isola. Certamente non si può biasimare Miot dello aver domandato al gran duca quello, che credeva essere sicurtà del suo governo; ma bene gli si può dar carico dello aver usato parole intemperanti parlando della nazione Italiana, quando scrisse, di questo fatto gravemente lamentandosi, a Buonaparte, badasse bene a schivare le minacce vane, principalmente in Italia, dove i popoli accrescevano i mali con la fantasìa, ma tosto trapassavano dal terrore all'insolenza, quando non pruovavano tutto quello che temevano; perchè stava, continuava dicendo Miot, nella natura vendicativa degl'Italiani di veder sempre nei nemici loro la impotenza, non mai la generosità. Quale generosità poi fosse in coloro, che sotto specie di belle parole erano andati ad ingannare ed a spogliare l'Italia, toccherà a Miot lo spiegarlo. Intanto sapranno i posteri come egli parlasse di una nazione illustre, in quel momento stesso in cui ella era miserabil preda di Francesi e di Tedeschi, ridotta per cagione degli uni e degli altri in durissimo servaggio, spogliata de' suoi più preziosi ornamenti, rotta tutta e sanguinosa nelle parti più nobili e più vitali del corpo suo. Intanto non portarono gl'Inglesi maggior rispetto a Porto-Ferrajo, che i Francesi a Livorno portato avessero. In tal modo fu trattato Ferdinando di Toscana dai capi di due potenti nazioni; infelice condizione di un principe, che, non avendo armi, volle fondare la propria sicurezza sulla integrità della vita, in tempi in cui il più potere era stimato ragione. S'appresentavano il dì nove luglio gl'Inglesi in cospetto di Porto-Ferrajo, con diciassette bastimenti, che portavano duemila soldati; richiesero la piazza. Scriveva il vicerè di Corsica al governatore, volere occupar Porto-Ferrajo, perchè i Francesi avevano occupato Livorno, e macchinavano di occupar anche Porto-Ferrajo; ma non volere, negando con le parole quello che faceva coi fatti, solito costume di quella perversa età, offendere la neutralità. I capi della flotta poi minacciavano, se non fossero lasciati entrar di queto, entrerebbero per forza. Avute il gran duca queste moleste novelle, comandava al governatore, protestasse della rotta neutralità, negasse la dimanda, solo cedesse alla forza. Ma già gl'Inglesi procedendo dalle minaccie ai fatti, erano sbarcati sulle spiagge di Acquaviva, luogo di confine fra lo stato di Toscana e quello di Piombino, e marciando per sentieri montuosi, erano giunti in cima al monte che sta a ridosso del forte di Porto-Ferrajo; quivi piantarono una batterìa di cannoni e di obici con le bocche volte contro la città. I soldati scendendo da quei siti erti e scoscesi nella strada che dà l'adito alla terra, stavano pronti ad osservare quello che vi nascesse dentro, per le intimazioni e presenza loro. Mandava Orazio Nelson da parte del vicerè di Corsica intimando al governatore, volere gl'Inglesi Porto-Ferrajo e i forti per preservargli dai Francesi; porterebbero rispetto alle persone, alle proprietà, alla religione; se n'anderebbero, fatta la pace, o cessato il pericolo dell'invasione; se il governatore consentisse, entrerebbero pacificamente, se negasse, per forza. Adunava il governatore gli ufficiali, i magistrati, i consoli delle potenze, i capi di casa più principali, acciocchè quello che far si dovesse, deliberassero. Risolvettero di consentimento concorde, che si desse luogo alla forza, che si ricevessero gl'Inglesi, ma che si protestasse delle seguenti condizioni: non potessero a modo niuno i Toscani essere sforzati a combattere, se qualche forza nemica si accostasse all'isola, provvedessero gl'Inglesi alla vettovaglia; i soldati nelle case particolari non alloggiassero. Accettate le condizioni, entrarono nella Toscana isola gl'Inglesi. Poco dopo s'impadronirono anche dell'isola Capraja, di stato Genovese, meno per sicurezza loro, che per dispetto del senato, contro il quale avevano risentimento, per essersi, come credevano, accostato recentemente alla parte Francese. Acquistate Elba e Capraja, correvano più molesti che prima contro i bastimenti Genovesi, e gli mettevano in preda. In questo mezzo tempo bollivano le cose nella partigiana Corsica perturbata da gravissimi accidenti, ed andavano a versi di Buonaparte. Bonelli condottosi nell'isola, e spargendo voci di prossimi ajuti, e detestando la superiorità Inglese, e spargendo ogni dove faville d'incendio, e turbando ogni villa, ogni villaggio, massime sui monti vicini a Bastìa ed a San Fiorenzo, aveva adunato gente, che apertamente resisteva al dominio del vicerè. A Bastìa, sendovi ancora presenti gl'Inglesi, una congregazione di patriotti, come gli chiamavano, o piuttosto di partigiani di Buonaparte e di Saliceti, nemicissimi al nome di Paoli e d'Inghilterra, avevano preso tanto ardire, che addomandarono al vicerè la libertà dei carcerati, e scrissero a Saliceti, già avesse Bastìa in luogo di città Francese. Vedutosi da Saliceti e da Gentili, che quello era il tempo propizio per restituire la patria loro alla Francia, mandarono innanzi Casalta, con una banda di fuorusciti Corsi affinchè, arrivando a Bastìa, ajutasse quel moto, cagione probabile di cambiamento. Fu opportuno il disegno, non fu infelice il successo; perchè giungeva sul finire di ottobre Casalta, tanta fu la destrezza di Sapey nel procurare il tragitto malgrado del tempo burrascoso e delle navi Inglesi, in vicinanza del porto; e sbarcava le sue genti, alle quali vennero a congiungersi i partigiani in grosso numero. I soldati di Casalta, divenuti forti, occuparono i poggi che dominano Bastìa. Intimava Casalta agl'Inglesi, che tuttavia tenevano il forte, si arrendessero; quando no, gli fulminerebbe. Sopravvennero intanto le novelle che gran tumulti nascevano in tutta l'isola contro il nome Britannico. Gl'Inglesi pertanto si risolvevano ad abbandonar quello, che più non potevano conservare; e precipitando gl'indugi dal forte di Bastìa, perchè avevano paura che i Corsi di Casalta, calando dai monti, impedissero loro il ritorno, lo spacciarono prestamente, e si ricondussero alle navi. Nè fu senza danno la ritirata, o piuttosto fuga loro; perchè soppraggiunti per viaggio dai Corsi, meglio di cinquecento restarono cattivi. Perdettero anche i magazzini; dei cannoni alcuni trasportarono, altri chiodarono. A tale fatto i tumulti crescevano, gli alberi di libertà si piantavano: San Bonifacio, Ajaccio, Calvi chiamavano il nome di Francia. Restava pei patriotti, che si cacciassero gl'Inglesi da San Fiorenzo, dove avevano adunato le maggiori forze, ed anche la fortezza della piazza gli assicurava. Ma il precipizio era tale, che si resisteva senza frutto. Guadagnava Casalta, non però senza difficoltà, le fauci di San Germano, per cui si apre la strada da Bastìa a San Fiorenzo, ed arrivava improvvisamente sopra quest'ultimo luogo cacciandosi avanti gl'Inglesi fuggiti da San Germano. Diedero tostamente opera a vuotare la piazza; vi entrarono con segni d'incredibile allegrezza i Corsi repubblicani. Conquistarono sei pezzi di artiglierìa buona e due mortai, che in tanta fretta i vinti non avevano avuto tempo di trasportare: i soldati sezzai vennero in poter del vincitore. Tuttavia l'armata Inglese stava sorta sull'ancore poco distante da San Fiorenzo in prospetto di Mortella; i soldati avevano fatto un forte alloggiamento sui monti a ridosso di Mortella medesima, non che volessero continuare nell'intenzione di conservare la Corsica, ma solamente per acquare, vettovagliarsi, e raccorre gli sbrancati sì magistrati del regno che soldati, che per luoghi incogniti e per tragetti arrivavano ad ogni ora, fuggendo il furore Corso che gli cacciava. Partiva frattanto da Livorno Gentili, conducendo con se nuove armi e munizioni, ducento soldati spigliatissimi, trecento fuorusciti di Corsica. Arrivato a Bastìa, dato riposo alla truppa, squadronati nuovi Corsi che accorrevano, si metteva in viaggio per a San Fiorenzo, con animo di cacciar gl'Inglesi da quel loro ultimo nido di Mortella. Urtava l'oste Britannica, ne seguitava una mischia mortalissima: fuggirono finalmente gl'Inglesi, ricevendo per viaggio molti danni, e si ridussero, prestamente camminando, e tutti sanguinosi alle navi. Conseguito quest'intento, saliva Gentili sopra certi monti, donde speculando vedeva l'armata Inglese, che continuava a starsene con l'ancore aggrappate in poca distanza: preparava una forte batterìa per fulminarla. Non aspettarono l'ultimo momento; che anzi, date le vele ai venti, si allargarono in alto mare alla volta di Gibilterra, lasciando tutta l'isola in potestà di coloro, che la vollero restituire all'antica madre di Francia. Si ricoverava Elliot vicerè a Porto-Ferrajo, dolente che quella preda si trasferisse di nuovo nella potenza emola all'Inghilterra. Per cotal modo furono spenti in un giro di pochi mesi un parlamento, un reggimento ordinato, un'autorità di un re della Gran Brettagna. Al tempo stesso abbandonarono gl'Inglesi le testè conquistate isole d'Elba e Capraja, brevissimo frutto di violata neutralità. Fatte tutte queste cose, arrivava Saliceti in Corsica con facoltà di perdonare. Veniva annunziando, che la generosa Francia perdonava; che mandato per lei espressamente recava a' suoi compatriotti constituzione e libertà; una insolenza insopportabile, proscrizioni, esigli, carceri essere stati i doni dell'Inghilterra; avere l'Inghilterra ingannato i Corsi con pretesti di religione, come se la Francia fosse nemica alla religione. A questo eravam serbati, sclamava fortemente Saliceti, di vedere gl'Inglesi divenuti amici, e protettori del papa; non essere la Francia nemica alla religione; solo volere la libertà di ogni culto; vedete, gridava, come i traditori, che all'Inghilterra, quale vil gregge, vi venderono, fuggono; vedete come non osano combattere; vedete come prestamente hanno sgombrato da queste terre, che con la presenza e coi delitti loro han voluto rendere disonorate ed infami; or sen vadano essi pure vagando per istrani lidi con la vergogna, e coi rimorsi compagni, e se qualche traditor resta, punirallo la repubblica: questi svelate, questi punite; con ogni altro vivete come con fratelli: unitevi, affratellatevi; giurate sull'are vostre, e per l'ombre dei compagni morti nelle battaglie a difesa della repubblica, giurate odio eterno alla monarchìa. Queste incitate parole, che producevano frutti conformi, dimostravano quanto gli uomini si soddisfacciano meglio delle esagerazioni, che della temperanza. LIBRO OTTAVO SOMMARIO Nuovi pensieri politici, che sorgono nella mente degl'Italiani più savj dopo le vittorie replicate di Buonaparte. Rivoluzioni nel ducato di Modena. Comizj di Bologna. Congresso dell'Emilia. Spaventi del pontefice; pure non consente alla pace. Sue gravi esortazioni ai principi. Pace del re di Napoli colla repubblica di Francia: il principe di Belmonte Pignatelli suo ambasciadore presso al direttorio. Pace tra Francia e Parma. Morte di Vittorio Amedeo III, ed assunzione di Carlo Emanuele IV, re di Sardegna; qualità di questi due principi. Progetti di Buonaparte e del direttorio sul Piemonte. Conte Balbo, ambasciadore del re Carlo Emanuele a Parigi sue qualità, e suo discorso d'introito al direttorio. Nuove tribolazioni di Genova. Gl'Inglesi vengono ad un fatto condannabile, che fa gettarsi Genova del tutto alla parte Francese. Spinola, suo plenipotenziario a Parigi: conclude un trattato col direttorio. Maneggi politici in Italia. Clarke mandatovi dal direttorio: perchè, e con quali istruzioni. Proposizione d'alleanza tra Francia e Venezia. Rifiutata da Venezia, e perchè. Proposizione d'alleanza tra l'Austria e Venezia. Rifiutata dalla seconda, e perchè. Proposizione d'alleanza tra la Prussia e Venezia. Rifiutata da quest'ultima, e perchè. Desolazione dei paesi Veneti per opera sì dei repubblicani, che degl'imperiali. Querele dei Veneziani. Venezia si arma per le minacce fatte da Buonaparte al provveditor generale Foscarini. Sospetti della Francia in questo proposito, e dilucidazioni date dal senato Veneziano. Le vittorie dei repubblicani in Italia erano splendidissime: l'avere ridotto a condizione servile il re di Sardegna, costretto ad accordi poco onorevoli quel di Napoli ed il pontefice, l'avere non solo vinto, ma anche spento due eserciti d'Austria, l'essere disarmata la repubblica di Venezia, e l'aver cacciato dalla Corsica gl'Inglesi col solo sventolar d'un'insegna, davano argomento, che la potenza Francese metterebbe radici in Italia, e che questa provincia sarebbe per cambiare e di signori e di reggimento. Queste condizioni erano cagione che sorgessero ogni dì nuovi partigiani a favore del nuovo stato, e contro il vecchio. Se per lo innanzi la parte Francese solamente seguitavano o coloro che erano presi con esagerazione evidente da illusioni fantastiche di bene, o coloro che in vantaggio proprio disegnavano convertire quei rivolgimenti politici, vedute tante vittorie, si accostavano a voler secondare le mutazioni molti uomini savj e prudenti, i quali opinavano, che, poichè la forza aveva partorito movimenti di tanta, anzi di totale importanza, era oramai venuto il tempo del non dover lasciare portar al caso sì gravi accidenti; che anzi era debito di ogni amatore della patria Italiana di mostrarsi, e di dar norma con l'intervento loro, per quanto fra l'operare disordinato dell'armi possibil fosse, a quei moti, che scuotevano fin dal fondo la tormentata Italia. Prevedevano, che quantunque nella probabilità delle cose avvenire avessero i Francesi a restar signori, si sarebbero tuttavìa, per l'impazienza e l'instabilità, di cui sono notati, presto infastiditi delle cose d'Italia, ed in parte ritirati, e che la signorìa, divenuta semplice autorità, avrebbe avuto natura piuttosto di patrocinio, che di dispotismo. Allora, speravano, le cose si sarebbero ridotte ad uno stato più tollerabile, e forse gl'Italiani avrebbero potuto ordinare una libertà fondata dall'una parte sovra leggi patrie, dall'altra scevra dall'imperio insolente dei forestieri. Si persuadevano che se era scemato il pericolo delle armi Tedesche, era cresciuta la necessità di soccorrere alla patria coi buoni consigli; credevano male accetti essere ai popoli gl'Italiani intemperanti, che avevano prevenuto, o troppo ardentemente, o troppo servilmente secondato i primi moti dei Francesi, e però non doversi a loro abbandonare la somma delle cose. Gravi uomini, pensavano, avere ad essere i fondatori di un vivere libero, non cantatori, o ballerini intorno agli alberi della libertà; nè alcun nuovo stato potersi fondare senza l'autorità degli uomini autorevoli, perchè i nuovi stati non si possono in altro modo fondare che con la opinione dei popoli, che alla lunga fugge gli esagerati, seguita i savj. Costoro adunque consentivano a farsi vivi in ajuto dello stato, quantunque sapessero in quali travagli avessero a mettersi. Questa fu un'epoca seconda nelle rivoluzioni d'Italia, in cui uomini prudenti per la necessità dei tempi, vennero partecipando delle faccende pubbliche. In questo concorsero e nobili e popolani, e dotti ed indotti, e laici ed ecclesiastici, desiderando tutti di cavare da quelle acque tanto torbide fonti puri e salutari per la patria loro. Fra costoro non tutti pensavano alla medesima maniera; perciocchè alcuni più timidi, o di più corta vista, o forse di più ristretta ambizione, amavano i governi spezzati; altri innalzando l'animo a più alti pensieri, desideravano l'unità d'Italia, perchè credevano, che l'Italia spezzata altro non fosse che l'Italia serva. Fra i primi si osservavano i più attempati, fra i secondi i più giovani; i primi moderavano, i secondi incitavano; i primi più manifestamente operavano, i secondi più nascostamente; i primi erano amati ed accarezzati dai francesi, i secondi odiati e perseguitati. Chiamavano questi ultimi, come se fossero gente di molta terribilità, la lega nera, e di questa lega nera avevano i capi dell'esercito più paura che dei Tedeschi, perchè e la potenza di lei di per se stessi alle menti loro esageravano, ed era loro esagerata dagl'Italiani adulatori e rapportatori che credevano, che il dar sospetto ai Francesi facesse stimare più necessarj i servigi loro. Pieni erano gli scritti, piene le parole segrete di questi rapportatori ai generali e commissarj della repubblica, del nome della lega nera, ed io ho veduto di molti sonni turbati da questo fantasma. Egli è vero, che gli addetti a questa setta tanto odiavano i Francesi, quanto i Tedeschi, e bramavano che l'Italia sgombra degli uni e degli altri, alle proprie leggi si reggesse, avvisando, che lo sconvolgimento totale prodotto dalla guerra potesse aprir la occasione a quello, a che non avrebbe mai potuto condurre lo stato quieto. Sapevano che nè i Francesi nè i Tedeschi amavano l'independenza Italiana; perciò volevano servirsi dei primi per cacciare i secondi, poi servirsi della forza dell'Italia unita per cacciare i primi. Ma questo era un ferire a caso, piuttosto che andare ad un disegno certo, perchè, essendo in quei gravissimi accidenti non attiva, ma passiva l'Italia, non era da credersi che vi sorgessero personaggi civili di estrema autorità, nè generali di gran nome, ai quali concorressero con opinione ed impeto comune per la desiderata liberazione i popoli. Pure aspettavano confidentemente il benefizio del tempo, e preparavano, non con ischiamazzi e con grida, ma con un parlare a tempo, ed anche con un tacere a tempo, i semi alle future cose. Di questi non pochi entrarono nei nuovi magistrati creati dai Francesi, che loro diedero autorità, perchè non gli conoscevano; ed essi i comandamenti altieri od avari, o moderavano coi fatti per acquistar favore presso ai popoli, o con parole gli magnificavano per acquistar odio ai Francesi. Creata la setta, entravano anche gli addetti nei magistrati instituiti dai Tedeschi, quando questi riusciti superiori inondarono il paese, e con le medesime intenzioni, ed al medesimo fine indirizzavano le operazioni loro, cioè a creare autorità a se stessi, ed odio ai Tedeschi. Questa, o vera lega che si fosse, o solamente desiderio universale, si era propagata e radicata in tutti i paesi, ed a lei s'accostarono personaggi, a cui non piacevano nè i Francesi nè la libertà, perchè pareva a tutti un dolce ed onorato vivere l'independenza dai forestieri. A questi desiderj mancarono piuttosto i principi, che i popoli Italiani, perchè i principi avevano più paura della libertà, che amore dell'independenza, i secondi più amore dell'independenza, che della libertà. Ma se un principe si fosse abbattuto in Italia, non dico quali gli partorivano i Romani tempi, ma solamente quali nascevano ai tempi di Lorenzo, di Castruccio, e di Giulio della Rovere, avrebbe prodotto, queste opinioni assecondando, ed una Italiana bandiera al vento innalzando, effetti notabilissimi non che in Italia, in tutta Europa. Ma Sardegna era fissa nel desiderio di acquistarsi una provinciuzza Milanese, o Francese, o Genovese, Genova nel commercio, Venezia nella mollezza, Roma nel sacerdozio, Napoli nel volersi una particella delle Marche, Firenze in un felice e pacifico stato; Milano privo del principe proprio ed in preda ai forestieri poteva solo seguitare, non cominciare. Così per troppo godere, o per troppo temere, o per istrettezza di mente, o per fiacchezza d'animo, i principi Italiani trasandarono le occasioni, ed indirizzarono tutti i pensieri loro al difendersi dai Francesi, non avvertendo che il proporsi per fine di tornare allo stato vecchio, indifferente a molti, odiato da alcuni, non poteva far muovere i popoli con quella efficacia, con cui gli avrebbe mossi un disegno nuovo, generoso e grande. Quanto al reggimento interno di ciascuna parte, o di tutta l'Italia, amavano i più, fra coloro di cui parliamo, la repubblica, ma la volevano ridurre al patriziato, istituito con la moderazione della potenza popolare prudentemente ordinata, governo antico e naturale all'Italia; il quale patriziato molto è diverso dalla nobiltà feudataria, frutto di tempi barbari; perchè il primo fa i clienti protetti ed affezionati, la seconda gli fa servi ed avversi. Può e debbe il patriziato consistere con l'egualità dei diritti civili, ma induce necessariamente inegualità di diritti politici, mentre la nobiltà vive con l'inegualità degli uni e degli altri. Nè in quei tempi, in cui tanto si gridava sulle piazze la egualità, si ristavano questi prudenti Italiani ai popolari e servili schiamazzi; perchè da una parte sapevano, che negli stati grandi la democrazìa pura non può sussistere, se non con soldatesche grosse e con tribunali terribili, atti a contenere i popoli nella quiete; i quali soldati e tribunali sono peste mortalissima di ogni libertà e di ogni egualità. Seppeselo la Francia rossa di cittadino sangue, videlo la Guiana piena dei più virtuosi uomini, pruovaronlo le stanze di San Clodoaldo, fatte testimonio di quanto ardisca e di quanto possa coi soldati un audace e fero conquistatore. Dall'altra parte, non ignoravano, che anche nella democrazìa la egualità politica è impossibile, perchè coloro che esercitano i magistrati, non sono in termini di equalità con coloro che ne son privi, nè chi comanda con chi obbedisce. Adunque vedevano, che una sola differenza poteva essere tra il patriziato misto di democrazìa, e la democrazìa pura, e quest'era, che in quello la inegualità politica è perpetua, in questa temporanea. Credevano governo non solo naturale, ma necessario ed inevitabile nelle umane società essere il patriziato; perchè chi è famoso per ricchezza, o per dottrina, o per virtù, o per servigi fatti alla patria, avrà sempre clientela, nè tutte insieme le grida democratiche potranno impedire, stantechè cosa naturale ed insita nell'uomo è il corteggiare i potenti ed il rispettare i buoni. Neanco fa effetto lo spegnere con le mannaje e con gli esigli come suol fare la democrazìa pura, i buoni ed i potenti cittadini; perchè nuovi sottentrano, e se non s'appresentano da se, il popolo se gli crea; tanta è la necessità del patriziato. Ora pensavano, dovere i legislatori prudenti usare, per ordinar bene una società, questa necessità; e poichè è il patriziato inevitabile, volevano che per leggi fondamentali si organizzasse, e non che si lasciasse sorgere, ed operare a caso; perciocchè organizzato essendo, contribuisce all'armonìa dell'umana società, non organizzato la turba. Buono, anzi necessario consiglio essere opinavano, per bene constituire uno stato, usare gli elementi insiti nella natura umana, perchè, quantunque sia l'uomo di origine divina, soggiace non pertanto, come tutti gli altri animali, a certe leggi naturali; e siccome nel domare gli animali usa l'uomo questo modo o quest'altro, secondochè la natura di ciascuna spezie di loro il richiede, così per reggere gli uomini debbono i legislatori adoperare quel modo, che dalla natura della umana spezie è necessitato. Nè è da temersi che questo procedere conduca al dispotismo, perchè l'uomo ha in se una qualità nobile, che gli fa amare le cose generose, ed abborrire le vili e le vituperevoli, nè può volere il proprio danno. Questo ordinare le società secondo la natura è ben altro che ordinarle secondo certi principj astratti e geometrici, e questo è stato altresì l'errore continuo dei legislatori Francesi ai nostri tempi, solleciti sempre dei principj astratti, non degli affetti e passioni naturali. Quali effetti ne siano nati, il mondo dolente se lo ha veduto. Adunque gl'Italiani volevano un patriziato per la conservazione della società, una democrazìa temperata per la conservazione della equalità, l'uno e l'altra per la conservazione della libertà. A questo salutare consiglio si opponevano le operazioni disordinate delle armi sì Francesi che Tedesche, l'assurdo capriccio dei Francesi di quei tempi del voler applicar il modo del loro governo a tutti i paesi che conquistavano, la volontà di Buonaparte nemico della libertà, amico del dispotismo, amatore, anzi ammiratore della nobiltà feudataria, ed odiatore del patriziato paterno; finalmente gl'Italiani, servili imitatori delle cose d'oltremonti, ed incapricciti ancor essi dei governi geometrici. Ma gl'Italiani, veri speculatori e scrutatori delle umane cose, non si sgomentavano, sperando dal tempo e dalla necessità ajuto agl'intendimenti loro; e poichè pareva che per destino l'autorità regia fosse giunta al suo fine, confidavano che la società si sarebbe fermata al governo patrizio, misto di democrazìa, e non scesa al democratico puro. Questi sentimenti a sicurazione e salute d'Italia, principalmente sorgevano nell'Emilia, e più particolarmente in Bologna, ma non potevano impedire che la fazione democratica, pazza e servile imitatrice di quanto si era fatto in Francia, non vi producesse una grande inondazione. Nè essa operava da se, quantunque ne avesse voglia, ma suscitata a bella posta dagli agenti di Buonaparte e del direttorio. Il duca di Modena solo, e senza amici, e quel che era peggio, ricco, o in voce di essere, si trovava senza difesa esposto ai tentativi di quest'uomini fanatici e sfrenati; nè rimaneva per la forza delle opinioni, e degli esempj che correvano, fedele disposizione nei popoli. Furono le prime mosse date da Reggio, città scontenta, per le emolazioni con Modena, del governo del duca. La notte dei venticinque agosto vi si levarono improvvisamente a romore i partigiani della democrazìa. Era il presidio debole, i magistrati timidi, l'infezione grande. Laonde senza resistenza alcuna crescendo il tumulto, in poco d'ora fu piena la città di lumi, di canti repubblicani, di voci festive del popolo, di un gridar continuo di guerra al duca. Piantarono il solito albero, inalberarono le tricolorite insegne. La mattina nissun segno era in piede del ducale governo: Reggio fu, o credessi libero. I soldati del duca impotenti al resistere se ne tornarono di queto a Modena. Si accostarono ai primi motori uomini riputati per ricchezze e per dottrina, sì per dar norma a quell'impeto disordinato, e sì per isperare, che egli, se non era libertà, poteva col tempo divenire: l'allegrezza del popolo somma, e così anche sincera. Certamente i Reggiani amavano la buona e vera libertà, solo s'ingannavano credendo, che potesse sussistere coi conquistatori. Condotto a fine il moto, crearono un reggimento temporaneo con forma repubblicana, moderarono l'autorità del senato, instituirono magnati popolari, descrissero cittadini per la milizia. Questi erano i disegni interni. Ma desiderando di rendere partecipi i vicini di quanto avevano fatto, mandavano uomini a posta nel contado, in Lunigiana, ed in Garfagnana, acciocchè parlando e predicando muovessero a novità. Inviavano Paradisi e Re ad affratellarsi, come dicevano, coi Milanesi; fece Milano feste per la conquistata libertà di Reggio. L'importanza era di far muovere Modena. Nè in questo mancarono a se stessi i Reggiani, perchè spacciarono gente attiva a sollevare con segrete insinuazioni, e con incentivi palesi quella città. Tanto operarono, che già una banda di novatori, portando con se non so che albero, il volevano piantare in piazza: gridavano accorruomo, e libertà. Ma fu presto il governo ad insorgere contro quel moto, e fatta andare innanzi la soldatesca con le armi, risospingeva i libertini non senza qualche uccisione. Rendè Ercole Rinaldo da Venezia solenni grazie ai Modenesi per la conservata fedeltà. Pagherebbe, aggiunse, del suo gran parte delle contribuzioni, scemerebbe le gravezze dei comuni. Questo intoppo interruppe i pensieri di Buonaparte. Ma egli, che non voleva, che gli fossero interrotti, fece con la forza propria quello, che le Reggiane non avevano potuto. Per la qual cosa mandava fuori un manifesto da Milano, pieno di querele contro il duca; non avere pagato ai tempi debiti le contribuzioni di guerra; starsene tuttavia lontano dagli stati; lasciare interi gli aggravj di guerra ai sudditi, nè volervi partecipar del suo; avere somministrato denari ai nemici della repubblica; incitare i sudditi con perniziose arti, e per mezzo di agenti contro Francia; avere vettovagliato Mantova a pro degli Austriaci. Dichiarava pertanto, non meritare più il duca alcun favore dalla Francia; essere annullati i patti della tregua, l'esercito Italico ricoverare sotto l'ombra sua, e ricevere in protezione i popoli di Modena e di Reggio; chiunque offendesse le proprietà, ed i dritti dei Modenesi e dei Reggiani, sarebbe riputato nemico di Francia. Buonaparte non era uomo da minacciare con le parole prima che eseguisse coi fatti. E però non ancora comparso il manifesto, già i suoi soldati s'impadronivano del ducato. Due mila entravano in Modena, prendevano la fortezza, sconficcavano le casse, cacciavano i soldati, afferravano le insegne, chiamavano i popoli a libertà. Al tempo medesimo occupavano Sassuolo, Magnano, ed altre terre del dominio ducale, facendo variare lo stato, e ponendo mano in tutto, che al pubblico si appartenesse. Pure le allegrezze furono molte; piantossi l'albero, contossi, ballossi; furonvi conviti, teatri, luminarie. Fatte le allegrezze, si venne alle riforme; annullaronsi i magistrati vecchi, crearonsi i nuovi, giurossi alla repubblica di Francia; dello stato politico si aspettavano i comandamenti di Buonaparte. Trattati gli affari di Modena e di Reggio, l'ordine della storia richiede, che torniamo al filo interrotto delle cose di Bologna, che non era vacua nè di sospetti nè di fatiche. Aveva il senato fatto, per conservarsi lo stato, quanto pei tempi abbisognava, cattivatosi il generale repubblicano, fatto restituir Castelbolognese, promesso riforme conformi al secolo. Ma l'aristocrazìa era odiosa ai più ardenti instigatori, la democrazìa trionfava. Perlochè voci subdole si spargevano contro gli aristocratici, gli chiamavano tirannelli; si ergevano gli spiriti allo stato popolare puro; il popolo sempr'era di mezzo e lo dicevano sovrano. Imperversavano gridando, che scacciato quel tiranno del papa, così lo chiamavano, era mestiero scacciare anche quei tiranni dei senatori, e tutto dare in balìa del popolo sovrano: il popolo adombrava, perchè non sapeva che cosa tutto questo si volesse significare: i capi repubblicani volevano consuonare con Modena e con Reggio. Vide il senato il tempo tempestoso per le condizioni tanto perturbate del paese, e volle rimediarvi con dare speranza di riforme, non accorgendosi, che se il resistere alla piena era impossibile, il secondarla era insufficiente. Pubblicava, si creasse una congregazione d'uomini dotti e probi, affinchè proponessero un modello di constituzione consentanea ai tempi, ma conforme a quel modo di reggimento, che sussisteva in Bologna prima della signorìa dei pontefici. Non parve compito il disegno, perchè quell'antica forma non piaceva, ed i nominati della congregazione si tacciavano d'aristocrazìa. La verità era, che niuna forma buona, se non la democratica, pareva a coloro che menavano più romore. Compariva intanto il modello della constituzione, tutto democratico e, secondo il solito, levato di peso dalla constituzione Francese, ma contenente molte buone parti: si abolisse la tortura, si abbreviassero i processi, si moderassero le pene. Buoni, oltre a ciò, erano gli ordini politici, quanto alla elezione dei rappresentanti nei nazionali comizj. Io narrerò i comizj di Bologna, ancorchè creda, che questo accidente delle mie storie non parrà di molta importanza, perchè non ebbe nè frutto nè durata, e ad altro non servì, che a contristare gli spiriti prudenti nel veder messa a vicina comparazione la semplicità dei conquistati con l'arti dei conquistatori. Era la chiesa di San Petronio destinata ai comizj, correva il dì quattro decembre; il fine era di accettare, o di rifiutare la constituzione. La milizia urbana in armi ed in arredo, manteneva gli spiriti queti; la secondavano i Francesi in armi, ed in arredo ancor essi. Entravano in quel principal tempio, e fra spettacolo solenne i rappresentanti eletti dal popolo ad accettare, od a ricusare. Era in tutti spirito raccolto, speranza dell'avvenire, desiderio di bene, riverenza alle cose sante. Chiamaronsi i nomi, verificaronsi le credenziali. Chiuse le porte, si venne alla elezione del presidente. Per voti concordi nominarono Aldini, avvocato. Intuonava Aldini, l'inno del Santo Spirito; echeggiava il tempio. Raccolto il partito, trovossi, avere squittinato quattrocento ottanta quattro, quattro cento trenta quattro pel sì, cinquanta per il no. Bandì il presidente, il popolo Bolognese avere accettato la constituzione: lodassero, ringraziassero il sommo Iddio. Intuonossi l'ambrosiano canto, al tempo stesso udissi un suonar di campane, un dar nei tamburi, una musica guerriera, un cantar repubblicano per tutta Bologna. Godeva il popolo per lo avere a memoria dell'antica libertà usato in quel giorno la sovranità; la notte fuochi artificiati, luminarie, teatri, e quanto si usa fare dai popoli contenti nelle grandi allegrezze. Nè con minore caldezza procedevano le faccende in Ferrara. Vi si creavano i magistrati popolari; vi si bandiva la repubblica. Mandavano deputati a Buonaparte per ringraziarlo, ai Milanesi per affratellarsi: tutta l'Emilia commossa chiamava libertà. In questo mentre arrivava Buonaparte a Modena. Concorrevano in folla i popoli per vederlo, Ferraresi, Bolognesi, massime Reggiani, che in questi moti con maggiore ardenza camminavano. Non si potrebbe con parole meritevolmente descrivere il concorso, e la giubbilazione di queste genti cispadane. Scriveva il generalissimo al direttorio, che quello che vedeva con gli occhi suoi, era vero amore di libertà, e che i popoli cispadani erano chiamati a gran destino. La sua presenza in Modena fruttava altro che parole. Chiamati a se i primi, fece loro intendere con un'arte esortatoria, che era in lui molto efficace, che lo star divisi era servitù, lo essere uniti libertà; che le mani inermi sono serve d'altrui, le armate padrone: si unisse adunque tutta l'Emilia in una sola repubblica, e si facesse forte sull'armi. Questi consigli trovavano disposizioni conformi in popoli esaltati. Però si adunavano il dì sedici ottobre in Modena ventiquattro deputati per parte di Bologna, altrettanti per parte di Ferrara, venti per Modena, venti per Reggio. Le parole dette, ed i partiti posti e presi in quest'adunanza generale dell'Emilia furono degni di commendazione; furono lontane le esagerazioni, solo si pensò d'ordinare uno stato libero. Tacquero eziandio pel bene comune le antiche emulazioni fra i diversi membri della lega. Buonaparte medesimo pareva, che volesse diventar savio in mezzo a gente savia. Parlava di quiete per tutti o assenzienti o dissenzienti, abborriva le persecuzioni, detestava i rapitori dei popoli e dei soldati. Decretava il consesso, tutta l'Emilia in una sola repubblica sotto protezione della Francia si unisse; la nobiltà feudataria si abolisse; fossero salve e sicure a tutti i pacifici uomini le proprietà; un magistrato si creasse, che avesse carico di levare, ordinare, armare quattromila soldati a difesa comune; un altro congresso di tutta l'Emilia si tenesse in Reggio il dì venzette decembre; questo secondo congresso statuisse la constituzione, che avesse a reggere la nuova repubblica. Questo muoversi dei Cispadani all'armi molto piaceva a Buonaparte, perchè serviva d'esempio ai Milanesi, che la medesima volontà non dimostravano. In fatti questi ultimi, per non parer da meno, offerirono dodicimila soldati. Già si dava opera a Milano ad ordinare la legione Lombarda, in cui entrarono Italiani di ogni provincia, e la legione Polacca, in cui si scrissero molti Polacchi o disertori, o fuorusciti, e parte anche uomini raccolti di tutta Germania. I Reggiani più infiammati non si contentarono nè delle parole, nè delle mostre. Dato dentro ad una squadra d'Austriaci usciti per fazione militare da Mantova, e tagliati fuori dai Francesi, gli facevano prigioni a Montechiarugolo, non senza fatica e sangue da ambe le parti. Presentarongli in una Modenese festa trionfalmente a Buonaparte, gratissimo dono, perchè ed agguerriva gl'Italiani, e gli faceva intingere contro l'imperatore. Tutte queste cose affliggevano e spaventavano il pontefice, che si vedeva restar solo esposto alle percosse delle armi repubblicane. Aveva fatto quanto per lui si era potuto per adempir le condizioni, ancorchè gravissime fossero, della tregua. La pace che si trattava a Parigi, non veniva a conclusione. Voleva il direttorio, che il papa recedesse da qualunque lega contro Francia, negasse il passo ai nemici, il desse ai Francesi; serrasse i porti agl'Inglesi, rinunciasse a Ferrara, a Bologna, a Castro, a Benevento, a Ronciglione, a Pontecorvo, proibisse l'evirazione dei fanciulli. Quanto alla religione, il direttorio richiedeva, che il papa rivocasse qualunque scritto, od atto emanato dalla santa sede rispetto alle faccende ecclesiastiche di Francia dall'ottantanove in poi. Posto il partito dal pontefice, opinò con consentimento unanime il collegio dei cardinali, doversi rifiutare tutte le pratiche, non potersi accettare i patti, alla forza si resistesse con la forza. Quando così deliberarono, già sapevano essere in ordine una terza mossa Austriaca per l'Italia, e per questa cagione speravano di aver seco congiunte le armi imperiali. Sapeva Pio Sesto a quale pericolo sottoponesse se medesimo, e tutto lo stato ecclesiastico col rifiutare la pace. Perciò non ometteva alcuno di quegli ajuti, che pei tempi confermare lo potessero. Scriveva un breve a tutti i principi cattolici, col quale gravissimamente favellando, gli esortava a non abbandonare dei sussidj loro la santa sede in così imminente pericolo; corressero, ammoniva, in soccorso di quella religione, che con tanta pietà professavano, e che era cagione che i sudditi con tanto amore e soggezione a loro obbedissero; sapere il mondo quale strazio avesse fatto, e tuttavìa facesse il governo di Francia, di questa santa religione e de' suoi ministri, non solamente in Francia, ma ancora in tutti i paesi che restavano aperti alle armi sue; già minacciarsele una totale sovversione in Italia dalle rive contaminate dell'Adda, e del Po; già titubare su quelle dell'Adige, e già innoltrarsi per le nemiche rupi verso il cuore della illibata Austria; considerassero, che non si può la religione spegnere, che non si spenga, o non si turbi immoderatamente lo stato: avere ciò pruovato in Germania, quando opinioni nuove secondate da poche armi vi erano sorte; che sarebbe per accadere presentemente, che nuove e molto più disordinate opinioni, accompagnate da armi tanto formidabili sorgevano? Avere il mondo a scerre tra la pietà, e l'empietà, tra la civiltà e la barbarie, tra la libertà e la servitù; non essere il santo padre per mancare al debito suo; ma soccorrergli poche armi temporali, nè le spirituali, in tanta diminuzione di fede e di religioso costume, avere quella efficacia, che una volta avevano; nel suo ultimo ridotto essere oppugnata la religione; se anche questo si superasse, niuna speranza restare, dovere la umana generazione governata essere dalla cieca forza, dalla disordinata fortuna: sorgessero adunque, esortava, accorressero, pruovassero avere cura di quanto ha posto il cielo quaggiù di più sociale, di più salutevole, di più sacro; darebbe egli tanto vicino al pericolo l'esempio della costanza, nè potere o il romore di sì perniziosa guerra, o l'età sua oramai cadente, o le instigazioni dei male affezionati tanto operare, ch'egli non sorgesse con animo invitto a difesa di quella religione, che scesa da Cristo Dio pel ministero dei santi Apostoli sino a questi miseri tempi incorrotta e pura doveva parimente ai posteri pura ed incorrotta tramandarsi. Queste voci mandava ai principi cattolici il pontefice ottuagenario, primo sostenitore e con le parole e con l'esempio, dell'autorità e della dignità dei principi. Ma le opinioni religiose, massimamente le cattoliche, erano diminuite: in alcuni poi fra i principi il timore superava la religione, in altri l'interesse politico la corrompeva. Solo dall'imperator Francesco veniva qualche speranza, il quale però si muoveva piuttosto per gl'interessi proprj, che per quei del papa. Non aveva il re di Napoli intermesso per mezzo del principe di Belmonte Pignatelli i suoi negoziati a Parigi, ora con più vivezza procedendo, ora allungando il dichiararsi, secondochè gli accidenti d'Italia succedevano o più prosperi, o più avversi alle armi Francesi. Lo stimolavano dall'un de' lati l'Austria e l'Inghilterra a mantenersi in fede, dall'altro il ritraeva il timore dei Francesi saliti a tanta potenza. Il direttorio, che si accorse dell'arte, volle stringere, e fece bene: bensì merita riprensione dello aver tacciato, accennando alle tergiversazioni del principe di Belmonte, d'infame nota la fede Italica, come la chiamò; perchè noi non vediamo come si possa accusare una nazione dell'infedeltà de' suoi governi, e nemmeno vediamo come le arti usate dal principe Napolitano, ora di stringere, ora di allargarsi, possano stimarsi arti fedifraghe, e da chiamarsi con nome odioso; perciocchè di simili arti usano tutti i governi in tutti i loro negoziati politici, e la Francia stessa le usò in ogni tempo, e più ancora a quei del direttorio. L'udire poi accusarsi la fede Italica, come infedele, da coloro che a bella posta cercavano lite ai principi Italiani per cavarne danaro, e per distruggergli, non si potrà certamente senza sdegno da chi libero da ogni anticipata opinione essendo, è solo amatore del giusto e dell'onesto. Intanto tra per la mediazione di Spagna, e per le nuove che ogni dì più si moltiplicavano del venire i Tedeschi verso l'Italia, fu concluso tra Francia e Napoli un trattato di pace il dì dieci ottobre, molto onorevole, secondo i tempi, al re; perchè nè gli si comandava di serrare del tutto i porti alle potenze nemiche della repubblica, nè gli s'imponeva l'obbligo di scarcerare i mescolati in congiure. Le principali condizioni furono, che il re rinunziasse a qualunque lega coi nemici della Francia; si mantenesse puntualmente in neutralità con le potenze belligeranti; vietasse l'entrata nelle sue marine alle navi armate in guerra di esse potenze, così Francesi come di altre nazioni, se più di quattro fossero; si restituissero tutti i beni sì mobili che stabili sequestrati, e confiscati tanto in Francia quanto nel regno a motivo della presente guerra; si stipulasse un trattato di commercio; avesse luogo nella pace la repubblica Batava. Fatto l'accordo, orava pubblicamente il principe di Belmonte in cospetto del direttorio con amichevoli parole. Rispondeva il direttorio con parole magnifiche di fede, di amicizia, di pace. Anche la tregua tra Francia e Parma si convertiva in accordo per verità non troppo superbo pel duca, per la protezione, in cui l'aveva la Spagna, sicchè la pace gli recò minor danno che la tregua: accidente insolito, perchè le paci del direttorio erano per l'ordinario peggiori delle tregue. Udissi a questi giorni la morte di Vittorio Amedeo terzo re di Sardegna, principe che avrebbe avuto in se tutte le parti, che in un reggitore di popoli si possono desiderare, se non fosse stata quella smania di guerra, che notte e dì il tormentava. Quindi consumò l'erario per mantener i soldati, ed i soldati consumarono il paese: lo soggettarono anche alla forza, che sarebbe stata intollerabile, se la natura buona del principe, e le vecchie abitudini di governo regolato non l'avessero temperata. Quand'io considero il destino degli uomini, non posso non maravigliarmi, come spesso eglino s'ingannino in quello, che debbe rendergli o chiari od oscuri nella posterità; perchè il re Vittorio Amedeo, che sempre anelava a voler fare commendabile il suo nome per le armi, il fece per questa parte poco degno di lode; anzi la guerra il fece andare in precipizio, mentre restano, e sempre resteranno le memorie delle onorate cose fatte da lui in pace, e nel riposo de' suoi popoli. In somma Vittorio Amedeo lasciò, morendo, un regno servo, che aveva ricevuto intiero, un erario povero, che aveva ereditato ricchissimo, un esercito vinto, che gli era stato tramandato vittorioso. Così le sue virtù, che furono molte e grandi, contaminate dal vizio della guerra, non partorirono pe' suoi sudditi tutto quel benefizio che promettevano. Successe nel regno a Vittorio Amedeo terzo Carlo Emanuele quarto di questo nome, principe ammaestrato in molte belle discipline, ornato di tutte le virtù che in uomo capir possono, e devotissimo alla religione. Ma con l'animo santo aveva il corpo infermo; perciocchè pativa straordinariamente di nervi, e questo male, al quale non vi era rimedio, gli rappresentava spesso di strane fantasìe, che il facevano parere assai diverso da quello ch'egli era veramente. Per tal modo Carlo Emanuele quarto cominciò a regnare in un regno desolato, fu afflitto continuamente da ombre e da ubbìe singolari, e cessò di regnare più miserabilmente ancora, che non aveva incominciato. Essendo gli stati del re frapposti tra Francia ed Italia, e provveduti tuttavìa di buone armi, sebbene infelicemente usate, molto importava alla prima di averlo per amico; perciò il direttorio niuna cosa lasciava intentata per congiungerselo in amicizia stabile per un trattato di alleanza. Si aggiungeva la tenerezza di Buonaparte pel re, e massimamente pei nobili, perchè a lui parevano buoni stromenti del governare assoluto. Primario intendimento fu sempre di Buonaparte di trasportare il dominio del re dal Piemonte nello stato di Milano, e d'incorporare alla Francia il Piemonte, e l'isola di Sardegna. Questo pensiero stesso ei si volgeva per la mente, quando più con le instigazioni tentava di accalorare lo spirito repubblicano in Milano. Ma non andava a grado del direttorio, o fosse che non avesse ancor deposto il pensiero di restituire, se bisognasse, il Milanese all'imperatore, o fosse che per non so quale ambizione di repubblica credesse, che con tante vittorie potesse alzar l'animo a maggiori cose, con fondare una nuova repubblica negli stati dell'imperatore in Lombardìa. Amava meglio compensare il re a spese della repubblica di Genova. Ambidue cercavano con queste speranze di adescar tanto Carlo Emanuele, ch'ei venisse a concludere con la repubblica la confederazione. E siccome queste pratiche non si potevano tenere tanto segrete, con le altre potenze non le subodorassero, confidavano che l'imperatore intimorito si sarebbe più facilmente inclinato a fare la volontà della repubblica. Ma il re non volle a questo tempo consentire al trattato, perchè gli pareva, che se congiunto fosse in lega difensiva ed offensiva con Francia, sarebbe stato costretto a volgere le sue armi contro il papa, al quale sapeva che i repubblicani macchinavano allora di far guerra. Non gli poteva sofferir l'animo di offendere il capo della chiesa che non gli aveva fatto alcuna ingiuria. Per questa cagione non ebbe per allora effetto il trattato. In questo mentre Carlo Emanuele aveva chiamato ai consiglj dello stato, in vece del conte d'Hauteville, stimato troppo aderente all'Austria, il cavaliere San Damiano di Priocca. Inoltre, avendo il direttorio ripudiato il conte di Revel, come fuoruscito Francese, dall'ambascerìa di Parigi, il re gli aveva surrogato il conte Balbo, uomo di alto legnaggio, di molte lettere, e di non poca dottrina. Del rimanente, quanto al politico, era il conte piuttosto amatore di mettere l'Italia in Piemonte, che il Piemonte in Italia, ed aveva ottimamente conosciuto di che qualità fosse la libertà di quei tempi. Arrivato come ambasciadore di Sardegna a Parigi, gli furono date gratissime parole; ed egli, siccome quegli ch'era accorto e buon conoscitore degli uomini, si mise tosto in sul negoziare, non disperando di trovar modo di far servigj importanti al re fra quei repubblicani amatori di denaro, e di nomi illustri. Intromesso al cospetto del direttorio, disse, non essere mai stato il re suo signore nemico a Francia, nè al governo di lei; tempi fatali avergli posto in mano le armi, nel corso di quella infelice guerra, ma fatta con coraggio e con lealtà, non avere mai cessato di desiderare la pace; essersi, come prima il momento comodo fu giunto, affidato in loro senza riserva alcuna, senz'altra sicurtà, che la sincerità sua propria e la loro; d'allora in poi avere il direttorio rettamente giudicato e dell'animo, e dell'opere sue; consigliarlo il rispetto dell'interesse suo, che era quello stesso del suo popolo, che restasse affezionato alla Francia: naturale adunque essere, soggiungeva, l'amicizia dei due stati; avere lui carico di nudrirla, e perchè nissuna cattiva impressione restasse, avere carico di disdire i fatti accaduti in Piemonte contro l'ultimo ambasciadore di Francia; presentare le sue credenziali; vedrebbero per loro quanta fede avesse il re posta in lui; stimerebbe meritarla, se quella del direttorio meritasse. Rispose magnificamente il presidente, la moderazione del principe di Piemonte (quest'era la qualità di Carlo Emanuele prima della sua assunzione) avere preparato la strada alla stima del popolo Francese verso il re; accrescersi la contentezza del direttorio alle nuove protestazioni; renderebbe il governo di Francia amicizia per amicizia; desiderare, che l'esempio di un re amatore della pace piegasse tutti i nemici della repubblica ad accettarla; rallegrarsi il popolo Francese per le vittorie acquistate ad assicurazione della sua libertà, ma vieppiù essere per rallegrarsi, quando tutte le nazioni vivessero in amicizia con lui; non conoscere la repubblica l'astuzia politica; stipulare i trattati con lealtà, osservargli con fede, difendergli con coraggio; soddisfarsi il direttorio al vedere, che il re l'avesse eletto a nutritore di concordia, sperare si sforzerebbe in adempir bene il quieto mandato. Tali furono i vicendevoli parlari tra Francia e Sardegna. Quantunque il re non potesse amare un governo che l'opprimeva, la sua amicizia politica verso di lui era nondimeno sincera, e non si può dubitare, che suo proponimento fosse di seguitar la Francia piuttosto che l'Austria, perchè credeva, che ciò importasse alla salute ed agli interessi del suo reame. Dall'altro lato il direttorio mostrava il viso benigno al re per aver seco congiunte le sue armi, sebbene avesse disegni di distruzione del governo regio in Piemonte. Ma quel che faceva ricercare il re della sua amicizia in questo momento, cagionava il pericolo della repubblica di Genova: il direttorio tanto odiava l'aristocrazìa, quanto la monarchìa; nè avendo Genova, come il re di Sardegna, la protezione del generale vittorioso, correva pericolo che di tanto si scemasse il suo stato, di quanto si voleva accrescere quello del suo vicino. Vennesi in sui cavilli, e sulle superbe parole. Rincominciaronsi le querele pel fatto della Modesta già composto tante volte. Esortava Faipoult Buonaparte a venire armato a Genova per cacciare dai magistrati gli avversi a Francia, a bandirgli, a cambiare le forme delle deliberazioni del governo. Mandava la signorìa all'alloggiamento di Buonaparte Francesco Cattaneo, uno dei più gravi e più riputati cittadini della repubblica, affinchè s'ingegnasse di mitigare quella superbia; ma si tirava più su con le richieste: serrassero, imponeva, tutti i porti agl'Inglesi, seimila Francesi il golfo della Spezia occupassero, apprestasse la repubblica quanto abbisognasse alla Francia; venti milioni pagasse a compenso dei danni inferiti dagl'Inglesi e dagli Austriaci sui mari; per impedire l'entrata agl'Inglesi nel porto di Genova un presidio Francese la lanterna munisse, gli abitatori della Polcevera si disarmassero. Il senato, siccome quello, a cui le condizioni parevano intollerabili, mandava con autorità d'inviato straordinario a Parigi Vincenzo Spinola, patrizio veduto volentieri dagli agenti Francesi. Si faceva lo Spinola avanti parte con le parole, parte con fatti più efficaci delle parole. Intanto il dì undici settembre venivano gl'Inglesi ad un fatto, che fece precipitar Genova alla parte Francese. Stavano i repubblicani sbarcando da una nave loro sorta sulla spiaggia di San Pier d'Arena armi, ed arnesi ad uso dei loro soldati. Ebbe Nelson, vice-ammiraglio d'Inghilterra, che voleva comandare con insolente arbitrio sui mari, come Buonaparte voleva comandare col medesimo arbitrio su terra, avviso del fatto: perciò, uscito incontanente dal porto di Genova con una grossa nave, e con una fregata, ed allargatosi un poco, e messi in mare i palischermi pieni di gente armata, si fece sopra alla nave Francese, e violentemente la rapì. Fu il caso tanto improvviso che i marinari della repubblica appena trovarono scampo a terra; nè la batterìa Francese piantata sul lido a tutela della nave, nè le artiglierìe della lanterna furono a tempo a rompere il disegno agl'Inglesi. Fu certamente questa una grave prepotenza: pure la batterìa piantata dai Francesi sulla terra neutrale, dava qualche motivo a Nelson di fare quello che fece. Ma fu inescusabile il capitano d'Inghilterra di essere uscito a questa fazione da quell'ospitale ricovero di Genova. Faipoult usando l'occasione, ed acceso in gravissima indegnazione domandava, che Genova intercludesse i porti agl'Inglesi, e desse, in compenso della nave rapita, in mano di Francia tutte le navi loro sorte ne' suoi porti: quando no, sarebbe tenuta del fatto verso la repubblica. Le insolenze d'Inghilterra, e le minacce di Francia fecero facilmente andar innanzi la mutazione nelle deliberazioni di Genova. Per la qual cosa, tacendo, o poco contrastando nelle consulte coloro che inclinavano alla parte Inglese, sorse più potente la parte Francese. Però fu risoluto nel consiglio grande, ed appruovato nel piccolo, che si chiudessero tutti i porti ai bastimenti Inglesi sì da guerra che da commercio; si ritenessero quelli che nei porti stanziassero. Il serenissimo governo, datosi tutto alla parte del nome Francese, pubblicava per giustificare la sua deliberazione, un manifesto, in cui, raccontate tutte le ingiurie ricevute da poi che aveva incominciato la guerra, dagl'Inglesi, concludeva, che, poichè la lunga pazienza ed i frequenti ricorsi erano stati indarno, nè alcuna speranza si aveva che gl'Inglesi fossero per venirne a termini più temperati, si era risoluto ad escludere insino a nuova deliberazione dai porti Genovesi le navi Britanniche, la presenza delle quali, sotto colore di non adempita neutralità per gli altrui fatti violenti, aveva dato occasione a tanti incomodi, ed a tanti pericoli. Intanto si stipulava il dì nove ottobre a Parigi tra il direttorio ed il plenipotenziario Spinola una convenzione, con la quale si fermarono le condizioni, a norma delle quali i due stati dovevano vivere fra di loro. L'accettarono i Genovesi sperando, che con lei sarebbe confermato lo stato. L'accettarono il direttorio e Buonaparte, perchè procurava loro denaro. Fu convenuto fra i due stati, che il decreto del governo di Genova, per cui si serravano i porti agl'Inglesi, avesse la sua esecuzione fino alla pace; proibisse Genova il soccorrere di viveri e di munizioni gl'Inglesi; presidiasse sufficientemente i porti; se non potesse, la Francia la servirebbe di presidj; se la Gran Brettagna intimasse guerra a Genova, la difenderebbe la Francia; annullasse Genova i processi fatti ai sudditi per opinioni, discorsi, o scritti politici; i nobili processati, nel grande e nel piccolo consiglio si redintegrassero, la Francia promettesse di conservare intero il territorio della repubblica, di agevolarle la pace con le potenze Barbaresche; di far libere e franche le terre vincolate per dritti di feudo all'impero Germanico; i Genovesi accettassero la mediazione della Francia per comporre le loro differenze colla Sardegna; pagassero alla Francia, per prezzo dell'amicizia e della conservazione dei territorj, due milioni di franchi e le facessero un presto di altri due milioni. Furono i due milioni di taglia estratti dal banco di S. Giorgio, i due del presto pagati dai più ricchi. Genova debole, e lacerata da due nemici potenti, fu obbligata a comporsi con uno di loro; il che non fu la sua salute: Venezia lacerata ancor essa da due nemici potentissimi, ma più forte, più padrona di se medesima, più vicina all'Austria che alla Francia, più tenace nella neutralità, non volle comporsi, nè ciò fu la sua salvezza, perchè si aveva a far con uomini tali, che il comporsi ed il non comporsi con loro erano ugualmente di rovina. Ma prima di raccontare le Veneziane disgrazie, sarà conveniente che da noi si narrino i maneggi politici, che allora giravano per l'Italia. Le vittorie di Buonaparte avevano dato speranza al direttorio, che l'imperatore d'Alemagna avrebbe concetto pensieri di pace, e che gli manderebbe ad effetto, solo che gli si proponessero condizioni, se non onorevoli, almeno non disonorevoli; conciossiachè principal mira del governo di Francia, alla quale tutte le altre erano subordinate, fosse sempre la pace con l'imperatore, non solamente per la sua potenza, ma ancora per la dignità della casa, e del grado. Parevagli, che ove Francesco avesse accettato le condizioni, la repubblica riconosciuta da un tanto principe, sarebbesi bene radicata, e per così dire, naturata in Europa. Sola l'Inghilterra sarebbe rimasta nemica: ma non avendo più speranza di muovere l'Europa contro la Francia, si conghietturava, che anch'essa sarebbe sforzata al venirne agli accordi. Chiaro appariva, che dalle condizioni dell'Italia, essendo già i Paesi Bassi Austriaci posti in possessione della Francia, pendeva principalmente la pace con l'imperatore. A questo principal fine dirizzando i suoi pensieri il direttorio, aveva mandato in Italia il generale Clarke, personaggio molto dipendente da Carnot, col mandato di veder vicino le cose, e di fare convenienti proposte d'accordo all'Austria. Era Clarke uomo molto atto a questo negozio, non solo per la sua destrezza, ma ancora perchè detestava, e sapevasi, le esagerazioni dei tempi. Inoltre egli pare, che il direttorio, od almeno qualche membro di lui avessero concepito sospetto di pensieri ambiziosi in Buonaparte, e però si erano risoluti a mandare in Italia un uomo, quale loro sembrava Clarke, molto fidato, affinchè investigasse, ed accuratamente rapportasse gli andari del generale Italico. Del che o accortosi, o sospettando Buonaparte, quando se lo vide comparire innanzi, siccome quegli che non amava gl'imperj dimezzati, gli disse a viso scoperto, che se veniva per accordarsi con lui, il vedrebbe volentieri e l'accetterebbe: quando no, se ne poteva tornare. Questa insolenza o non seppe il direttorio, o saputa, per lo meno male, la passò. Clarke, che uomo accorto era, avvisò facilmente dove era, e dove aveva a rimanere la potenza; si piegava perciò facilmente, e da inviato del governo divenne fidato di Buonaparte. Da quel punto nacque fra ambidue quella benevolenza e quella intrinsichezza, che si mantennero in tanti e sì diversi tempi, ed in tante rivoluzioni d'uomini e di cose. Ma venendo al mandato politico di Clarke, quantunque ei dovesse principalmente indirizzarsi all'imperatore, fece opera per viaggio di racconciar le faccende colla Sardegna. Offeriva in nome della repubblica di dare al re Genova co' suoi territorj con patto che egli cedesse alla Francia l'isola di Sardegna, e si unisse in lega con la repubblica, obbligandosi a congiungere all'esercito Italico un numero determinato di soldati. Disordinò anche questo pensiero il rifiuto di Carlo Emanuele del voler entrare in questa lega; perchè, come già rapportammo, detestava grandemente di voltar le sue armi contro il papa. Allora fu fatto il trattato con Genova, col quale il direttorio, non potendo più farla cosa del re, la fece cosa sua. A questo succedeva nei consigli dei reggitori della Francia un altro disegno per opera principalmente di Buonaparte, e questo era, persistendo sempre nella volontà di conservar la possessione dei Paesi Bassi, di dare per compenso all'imperatore la Baviera, e tutti, od alcuni territorj della terra ferma Veneta; e già i capi della repubblica facevano pubblicare nei loro giornali di Parigi, che Venezia era usurpatrice di parecchi territorj imperiali: intendevano principalmente dell'Istria e della Dalmazia. Così abbisognava, per soddisfare all'ambizione del direttorio, e perchè la Francia fosse accomodata dei Paesi Bassi, che ed il duca di Baviera ed i Veneziani fossero spodestati dei loro dominj. A queste proposizioni se ne stava dubbiosa l'Austria, non che non avesse voglia di avere quello d'altrui, ma perchè, parendole il caso strano, il decoro la riteneva, e non aveva ancora perduto la speranza di ricuperare per forza d'armi gli stati d'Italia; perciocchè questi negoziati correvano prima delle ultime rotte di Wurmser. Oltre a ciò, e quest'era il principale motivo che la faceva stare sospesa, sapeva che la Prussia non avrebbe sopportato quietamente, ch'ella riunisse alle sue antiche possessioni in Germania la Baviera tanto opportuna a' suoi disegni, e tanto aumentatrice della sua potenza. Finalmente l'accettare la Baviera, e gli stati Veneti in una condizione di tempi non ancor maturi, come erano quei del novantasei, ed ancor soggetti a grosse e probabili mutazioni, pareva all'Austria cosa troppo insolita, e troppo lontana dal consueto suo andare cauto e prudente. Tutte queste considerazioni operarono tanto nei consigli Austriaci, che non potè avere effetto la dazione della Baviera. Ma quello che faceva la salute della Baviera, faceva la rovina di Venezia; perchè Clarke e Buonaparte, non ostante le vittorie avute contro Wurmser, insistevano maggiormente presso all'Austria per darle in mano i territorj Veneti in compenso della Lombardìa, e dei Paesi Bassi. Conosceva il direttorio la renitenza dell'Austria. Perciò aveva mosso, per vincerla, altre pratiche lontane, per le quali sperava di operare, che il timore superasse a Vienna il pudore. Dipendeva intieramente la Spagna pei consigli, e per l'autorità del principe della Pace, dalla Francia. Dipendeva anche da lei per la necessità delle cose la Porta Ottomana. Venne adunque il direttorio in pensiero, condotto da quel suo fine principalissimo di aver amicizia con l'imperatore, di fare proposizioni di lega difensiva tra la Spagna, la Porta Ottomana, la Francia e la repubblica di Venezia contro l'Austria: presumeva il direttorio, oltre il timore da darsi all'imperatore, che Venezia, stante la costanza del senato a volersene star neutrale, avrebbe ricusato d'entrar nella lega, e però, che se gli sarebbe porta più colorita cagione di dar la repubblica in mano altrui; che se pel contrario Venezia, il che non era verisimile, si fosse mostrata inclinata a collegarsi, avrebbe avuto l'Austria giustificato motivo di accettar quello che le si offeriva. Il Reis Effendi, favellando a Costantinopoli col dragomanno di Venezia, si era lasciato intendere, che in quel totale sovvertimento d'Europa il senato Veneziano non poteva, e non doveva più starsene isolato e da se, ma sì consentire a quelle congiunzioni, che per la sicurtà de' suoi stati fossero necessarie, e che nissuna congiunzione migliore poteva essere, che un'alleanza con la Porta, la Francia, e la Spagna. Poco dopo Verninac, ministro di Francia a Costantinopoli, avuto un segreto colloquio con Ferigo Foscari, bailo della repubblica, gli aveva significato le medesime cose, protestando dell'amicizia della sua repubblica verso quella di Venezia, e non solamente promettendo sicurtà per tutto il territorio Veneto, ma ancora dando speranza di considerabile ingrandimento. Infine in qualità di persona pubblica procedendo, l'ambasciadore dava al bailo uno scritto, acciocchè lo tramandasse al senato, in cui veniva ragionando, che la repubblica Francese oltre modo tenera della quiete generale, e della preservazione degli stati contro i disegni di alcune corti ambiziose, si era risoluta a non istarsene da se in mezzo all'Europa commossa; che a questo fine desiderava congiungere a quella d'altri tutta la forza sua; che confidava che i governi interessati sarebbero disposti a secondarla; che sperava che specialmente il senato Veneziano si mostrerebbe pronto a concorrere a questo fine; che perciò proponeva al senato per mezzo del bailo, e per comandamento espresso del direttorio un'alleanza fra le due repubbliche. Quindi più apertamente spiegandosi, dimostrava, uno e medesimo essere un nemico a Francia ed a Venezia, quest'esser l'Austria perpetuamente cupida delle provincie della terra ferma Veneziana, e del dominio dell'Adriatico; ad essa accostarsi la Russia sua alleata, ambiziosissima dell'impero d'Oriente, impero, che già tentava con le armi, che già macchinavano nel cuor loro i Greci: darebbe volentieri la Russia Venezia in preda all'Austria, perchè l'Austria le desse in preda la Grecia, e l'imperio dei Turchi. Allora qual sicurezza, quale speranza resterebbe al senato di conservar Zante, Cefalonia e Corfù con l'altre isole del mare Ionio? Pensasse il senato, e nella prudenza sua deliberasse, se in casi tanto estremi, non più nascosti ma aperti, non più lontani ma vicini, altro mezzo rimanesse di scampo, che quello della lega, che il direttorio veniva proponendo. Non avendo il bailo mandato per trattare una sì importante materia, rispondeva pei generali, offerendosi solamente di trasmettere lo scritto di Verninac al senato. Le medesime mosse diedero a Madrid il principe della Pace ai nobili Bartolo Gradenigo, e Almorò Pisani, a Parigi il ministro degli affari esteri Lacroix al nobile Alvise Querini, finalmente a Brescia Buonaparte al provveditor generale Francesco Battaglia. Quest'era un concerto per maggiormente muovere la repubblica. Ma il senato non avendo ancora deliberato, perchè i Savj non gli avevano partecipato un affare di tanta importanza, il venzette settembre, quando appunto più vive bollivano le pratiche fra Clarke e gli agenti dell'Austria e che più instanti erano le esibizioni e le esortazioni del primo ai secondi, affinchè consentissero, in premio della pace, a pigliarsi le province Venete, si appresentava in Venezia al serenissimo principe con un memoriale il ministro di Francia Lallemand, col quale, annunziando che la repubblica Francese, desiderosa di stringersi vieppiù in amicizia con l'antica sua amica la repubblica di Venezia, le proponeva di nuovo per mezzo suo quello, che già le era stato proposto e da lui medesimo e da altri ministri di Francia, cioè un'alleanza a difesa ed assicurazione de' suoi stati; conoscere Venezia, ragionava Lallemand, la condizione sua rispetto alla casa d'Austria, sempre cupida dei Veneziani dominj; sapere, esserle stati conservati per l'amicizia di Francia; non isfuggirle l'ambizione della Russia a danno dei Turchi, la quale se venisse a soddisfarsi, tutte le isole Venete sarebbero preda del vincitore; l'avida Inghilterra, certo molto imprudentemente, voler dividere le spoglie d'Oriente con porsi nel Mediterraneo a rovina totale del commercio e della navigazione dei Veneziani; non esser mai per perdonare queste tre potenze al senato il non aver voluto entrare nella lega contro la Francia; già l'Austria apparecchiare la vendetta; già volersi risarcire con Veneziana preda dei danni ricevuti dalla Francia; più onesto che considerato consiglio del senato, essere quello di voler seguitare le antiche consuetudini in tempi tanto rotti; più non esservi nei negoziati politici la probità; saperlo la Polonia divenuta preda degli amici suoi; avere potuto Venezia conservarsi intera, quando era in piè la condizione librata d'Europa; ma fatto lo sbilancio, non potere più sussistere senza appoggio; offerire il direttorio l'alleanza del popolo Francese; essere questo popolo, fatto potentissimo per le sue vittorie, in grado di dare al mondo, e per quiete sua, quell'assetto che gli piacerebbe; stipulerebbe patti proficui e nobili per una nazione alleata; obbligherebbe tutte le sue forze a difenderla, se i suoi vicini s'attentassero di molestarla; se mandasse il senato un negoziatore a Parigi, si concluderebbe un trattato ad unione dei due popoli fondato sulla sincerità e sulla buona fede, sole basi della politica Francese; già prepararsi la pace del continente, già esser vicine a definirsi le sorti d'Italia; ogni cosa dovere sperar Venezia congiunta in alleanza con Francia. In tale modo instava con molta pressa Lallemand in cospetto del serenissimo principe. Aggiungeva poscia, per aprir l'adito alle future cose, che se Venezia per rispetto verso i suoi nemici naturali, che macchinavano la sua ruina, trasandasse la occasione, che le si offeriva, di liberarsi per sempre dall'ambizione dell'Austria, non eviterebbe alcuno di quei pericoli, che le sovrastavano, e non avrebbe più ragione alcuna di richiedere di assistenza una potenza, ch'ella avrebbe trascurato, e che sola la poteva guarentire: dure parole, continuava a dire Lallemand, essere queste a proferirsi, ma non sapere la lealtà Francese risparmiar parole, quando si trattava di avvertire, e di salvare un amico. I motivi di Lallemand ajutava presso al senato il provveditore Francesco Battaglia, il quale, non so se per amor di bene, o per amor di male, si era discostato, accettando le nuove, dalle antiche consuetudini del governo Veneziano. Inoltre conversando egli spesso in Brescia col generalissimo, parte tratto dal nome tanto glorioso del giovane guerriero, parte svolto e raggirato dalla loquela di lui, che per verità era molto persuasiva, si era lasciato condurre a prestar fede alle sue parole melliflue e magnifiche, ed a credere esser falso quello ch'ei vedeva con gli occhi suoi proprj, e vero quello che non vedeva. Mandava continuamente Battaglia a Venezia, ed instantissimamente pregava, si risolvesse il senato ad accettare la lega; con vivissimi colori rappresentava l'energia, la virtù, il valore, e le vittorie dei Francesi trionfatori di tutta Europa; che già l'Europa vinta dalle armi, convinta dalle ragioni e dal merito di quei nuovi repubblicani, non aveva più altro rimedio, che il volere quello, che essi volevano; che i Turchi ed i Veneziani dovevano usare quell'occasione propizia di scuotersi dalla lunga inerzia, che gli aveva occupati, e che gli avrebbe resi certa preda di grandi potenze, che a ciò anelavano; che se, mostrandosi ingrati a tanta lealtà, a tanta beneficenza dell'amica Francia, non avessero afferrato il crine della favorevole fortuna, bene poteva accadere, che ella ai proprj interessi provvedendo, e mossa a sdegno dal rifiuto, ritirasse da loro la mano sua protettrice, e divenissero i Veneziani prezzo di riconciliazione tra nemici potentissimi, dei quali uno voleva essere conosciuto qual era, l'altro preservare i proprj stati da una rovina minacciata: ricordassesi il senato, ed avvertisse, che se le coscienze morali sono mosse dal buono, le politiche sono dall'utile, e che l'innocenza non è stata mai scudo contro la forza. Grave al certo deliberazione era questa, e che importava alla somma tutta della repubblica; perchè se da una parte si vedeva, che il collegarsi con la Francia in mezzo a tanta vertigine di cose avrebbe necessariamente condotto Venezia per sentieri insoliti, non mai battuti da lei, e pieni di un dubbioso avvenire, dall'altra il non collegarsi poteva portar con se una immediata pernicie; ed in questo non si era infinto il ministro di Francia, avendo accennato a quale pericolo si esporrebbe Venezia, se a starsene scollegata, e da se continuasse. Questa materia fu maturamente esaminata in una consulta di tutti i Savj di collegio, e sebbene la sentenza, in cui entrarono, sia stata da molti biasimata, e da alcuni allegata come pretesto valevole di fare a Venezia quello, che le fu fatto, come se uno stato independente fosse obbligato, sotto pena di eccidio, di opinare come uno stato forestiero vorrebbe che opinasse, noi non dubitiamo di affermare, ch'ella fu giusta, onorevole e conveniente ai tempi. Era a considerarsi, e considerarono i Savj da chi, e contro chi, ed in quali circostanze fosse proposta l'alleanza. La proponeva il direttorio, al quale più importava la pace con l'Austria, che l'esistenza di Venezia; che aveva, non era gran tempo, sollecitato il Turco a muoversi contro di lei; il cui disegno era chiaramente d'intimorir piuttosto l'Austria, che di preservar Venezia; che al tempo medesimo proponeva di dar gli stati della repubblica all'Austria medesima; che per mezzo di Clarke aveva testè suggerito al marchese Gherardini, ministro d'Austria a Torino, di far occupare dagli Austriaci la Dalmazia; che offeriva, per prezzo di alleanza, Genova alla Sardegna; che aveva imputato a delitto alla repubblica l'avere dato un pietoso ricovero ne' suoi stati ad un principe perseguitato dalla fortuna; che già prima che le armi Francesi romoreggiassero sui confini Veneziani, aveva concetto il pensiero di cavare, prevalendosi di quel lontano terrore, milioni di denaro dalla repubblica; che questo era quel direttorio stesso, che anche prima che l'esercito suo entrasse in Italia, voleva far espilare la casa di Loreto; che pagava con ingiurie, e con occupazioni violente, e con progetti di tor lo stato, l'amicizia di Ferdinando di Toscana; che si corrucciava, se le monarchìe non seguitavano le massime delle repubbliche, e se le repubbliche non seguitavano le massime della democrazìa. Considerarono anche i Savj, che queste medesime mosse erano date da Buonaparte, cioè dal rompitore delle promesse di Brescia, dal conculcatore degli stati Veneziani, dall'insidiatore della disarmata Peschiera, dal minacciatore della pietosa Verona, dallo spogliatore dei monti di pietà di Milano, di Piacenza e di Bologna. Quale fede porre, quale speranza avere nelle promesse, e nelle protestazioni di costoro? Volere al certo render Venezia colpevole verso l'imperatore per darla in preda all'imperatore; volere al certo distruggere quell'innocenza, che era il principal fondamento della sua salvazione. Oltre a questo maturamente avvertirono i Savj, che l'Austria, innanzi che i repubblicani pervenissero negli stati Veneziani, non aveva mai offeso la repubblica; che dalla lega di Cambray in poi questa potenza non aveva mai manifestato pensieri ambiziosi contro di lei; che sempre aveva portato rispetto a' suoi territorj; che sempre le era stata ajutatrice fedele contro le armi dei Turchi; che sempre si era opposta ai progetti messi avanti da altri e principalmente dalla Francia, di smembramento e di occupazione degli stati Veneti; che segnatamente l'imperatrice Maria Teresa aveva sdegnosamente rifiutato tale proposta fattale dalla Francia per prezzo della pace generale del quarantasette: che l'imperatore Francesco medesimo non aveva pure testè voluto udire le offerte fatte della occupazione della Dalmazia Veneta dal negoziatore Clarke al ministro d'Austria in Torino, e che certamente qualunque fosse stata l'antica fede dell'Austria e della Francia verso la repubblica, d'infinito spazio ai tempi presenti migliore era stata quella della prima, che quella della seconda. Concludevano da tutto questo, che se la fortuna Francese preponderante non permetteva che si pendesse di più verso l'Austria, la maggior fede dell'Austria non permetteva che si pendesse di più verso la Francia. Pensarono finalmente, che se era destinato dai cieli, che la repubblica perisse, doveva ella perire piuttosto innocente che rea, piuttosto per violenza altrui che per colpa propria, piuttosto con compassione che con biasimo del mondo, e senza che ne fosse diminuita la maestà del suo nome. Tutte queste considerazioni appartenevano all'incorrotta fama: altre appartenevano alla sicurezza. Era la repubblica disarmata, nè così presto si sarebbero potute apprestare le armi necessarie all'importanza di una tanta guerra; perciocchè non era da dubitare, che la congiunzione a difensione con Francia non fosse stimata congiunzione ad offensione dell'Austria. Dal che conseguitava, che poco momento poteva arrecare la repubblica con la sua alleanza, e l'effetto inevitabile ne sarebbe stato, che le province Venete poste ai confini Austriaci, ed ancora immuni dalle armi, sarebbero state incontanente occupate in forma di guerra dagl'imperiali per modo che tutti i territorj Veneti, nissuno eccettuato, sarebbero divenuti o campo di feroci battaglie, o stanza di amici intemperanti, o bersaglio di nimici irritati. Nè era da passarsi senza essere avvertito il pensiero, che il farsi alleata del direttorio importava alla repubblica il farsi serva di lui, ed il dover consentire a quanto egli volesse, dar l'ingresso alle genti di Francia in Venezia per la spedizione tanto desiderata di Trieste, dar loro accesso, e copia dell'arsenale sotto colore di voler armar navi contro l'Inghilterra, e tutto questo apparato nuovo e grosso di armate navali dover essere a carico della già consunta repubblica, nè si potevano sperare ajuti di denaro da Francia, perchè gli alleati grossi sogliono prendere, non dar denaro ai piccoli, e fra gli alleati grossi il direttorio era quello, che ne prendeva più, e ne dava meno. Poi di somma importanza era, che la lega con la Francia avrebbe prodotto la guerra con l'Inghilterra; il quale accidente di quanto danno fosse per riuscire ai Veneziani per traffichi di mare, nissuno è che non veda; l'isole Ioniche stesse avrebbero portato gravissimo pericolo; che se per renderle sicure contro i moti dell'Inghilterra, vi si fossero introdotti presidj Francesi, si poteva bene sapere quando vi sarebbero entrati, ma non quando ne sarebbero usciti. Quest'era la guerra di mare; ma quella di terra, avrebbero dovuto farla i Veneziani con quei medesimi modi, coi quali la facevano i repubblicani di Francia, che è quanto a dire con incitare i sudditi Austriaci alla ribellione; ed i territorj, che per premio si promettevano a Venezia, sarebbero stati il frutto d'instigazioni abbominevoli. Il che quanto fosse lontano dalla fede, dalla dignità, e dalla consuetudine della Veneziana repubblica, e quanto potesse macularle, facile è il vedere. Ma in tutto questo negozio, certamente tanto importante quanto geloso, un motivo era più potente di tutti, perchè la repubblica non si scostasse dalla illibata neutralità, e quest'era, che la Francia era lontana e l'Austria non solo vicina, ma confinante per lungo spazio con gli stati Veneti, e che quantunque la fortuna tanto si fosse fino allora dimostrata favorevole alle armi Francesi, poteva accadere ch'ella improvvisamente si voltasse in favor dell'Austria; ed allora quale speranza, quale sicurezza sarebbe rimasta a Venezia, perchè non diventasse preda dell'imperatore? Del quale avvenimento dava ragionevole sospetto l'essere sempre state le stanze dei Francesi subite e corte in Italia. Al postutto, sebbene vi fosse da ogni parte incertezza e pericolo, più prudente consiglio era in un affare, in cui andava la somma tutta dello stato, il fidarsi di un governo antico, regolato e vicino, che di un governo nuovo, sregolato e lontano. Finalmente pareva cosa troppo brutta all'integerrima repubblica, e che non potesse passare senza grande offesa della sua dignità, il dover correre addosso ad uno stato amico, ed ajutare alla sua oppressione, ora che la fortuna lo aveva precipitato in una sì grande avversità. Serbando adunque l'antica consuetudine di Venezia, opinarono i Savj, e fu appruovato dal senato, che signora di se medesima, e da ogni vincolo libera si serbasse la repubblica. Rispondeva il senato gravemente a Lallemand, che grate ed accette gli erano le dimostrazioni amichevoli fatte dal governo della repubblica Francese, che appunto per queste stesse disposizioni amichevoli sperava il senato, che il direttorio non avrebbe voluto condurlo a deliberazioni, che verrebbero a produrre effetti contrarj all'intento; che per antico instituto la repubblica di Venezia lontana dall'ambizione, e solita a temperare se medesima, aveva riposto il fondamento dell'esser suo politico nella felicità e nell'affezione dei sudditi, e nella sincera amicizia verso tutti i potentati d'Europa; del quale giusto ed immacolato procedere si erano sempre, malgrado degl'inviti e delle sollecitazioni contrarie in varj tempi fatte, essi potentati mostrati contenti; che per esso ancora era stata la quiete conservata ai Veneti dominj con utile costante, e contentezza inestimabile dei sudditi; che questa condotta del senato confermata dal corso di tanti secoli felici, non poteva abbandonarsi senza incontrare inevitabilmente il pericolo di guerra; che erano le guerre calamitose a tutte le nazioni, ma assolutamente insopportabili al senato pel suo amore paterno verso i sudditi, per la constituzione fisica e politica de' suoi stati, e per la sicurezza delle nazionali navigazioni. Alle quali cose s'aggiungeva il pericolo funesto di sconvolgere le basi del proprio governo, senzachè derivar ne potesse alcun rilevante appoggio alle grandi nazioni, alle quali egli strettamente si unisse. Terminava il suo grave ragionamento con dire, sperare, che il direttorio, conosciuta la ingenuità, e la verità di queste considerazioni, le avrebbe per accette, e non sarebbe per alienare l'animo, nè in qualunque evento, dalla innocente Venezia, da Venezia risoluta a conservare con ogni studio l'amicizia con Francia. A questo modo si terminarono i negoziati di alleanza tra il senato, e il direttorio. La quale risoluzione, avvegnacchè da alcuni, i quali credono che il senato Veneziano doveva deliberare come conveniva alla Francia, e non come conveniva a Venezia, sia recata come segno di nemicizia contro la Francia medesima, e come pretesto del tradimento fatto a Venezia, non sarà se non lodata da tutti gli uomini prudenti. Bene appruovolla il direttorio stesso, che più di tutti avrebbe dovuto disappruovarla, avendo dichiarato al nobile Querini in Parigi, che il governo Francese sentiva perfettamente come il senato in tale materia, e che mai non l'avrebbe consigliato ad unirsi con la Francia in questa guerra contro la casa d'Austria, conoscendo benissimo a quanti pericoli poteva Venezia esporsi. Alla quale risposta era venuto il direttorio, perchè il nobile Querini l'aveva, in proposito dell'alleanza parlando, interrogato, se egli potesse assicurare, che i Francesi riuscissero a cacciare gli Austriaci per modo che i Veneziani non avessero mai in progresso di tempo a pentirsi dello aver abbandonato la loro neutralità. Rifiutata dal senato l'alleanza con la Francia, restava a considerarsi, se non sarebbe stato utile e sicuro alla repubblica il collegarsi con l'Austria; perchè, se non si poteva temere che la Francia lontana volesse far sue le spoglie di Venezia, bene si poteva dubitare di tale intendimento nell'Austria vicina. Al qual timore davano maggiore forza le recenti offerte fatte degli stati Veneziani dal direttorio all'imperatore, e le parole che incominciavano a metter fuori i comandanti Austriaci in Italia; essere l'Austria male soddisfatta delle opere della repubblica, troppo parziale essersi dimostrata verso i Francesi. L'alleanza con l'Austria avrebbe fermato tutti questi mali pensieri, e non era da credere ch'ella si tirasse indietro, perchè in mezzo alla fortuna avversa l'accessione di Venezia avrebbe recato peso nella somma delle faccende militari. Ma prevalsero i consigli quieti, perchè il senato non voleva pendere più da questa parte che da quella, e non voleva soverchiamente irritare contro di se i repubblicani già padroni di buona porzione de' suoi territorj. Era chiaro altresì, che per la presenza dei due nemici era Venezia giunta a tale che non poteva collegarsi nè con l'uno nè con l'altro senza correre pericolo di totale ruina. Nondimeno, se ella avesse congiunto le sue armi con quelle dell'imperatore, massimamente quando erano queste cose ancora minacciose e forti, avrebbero i Francesi potuto ricevere grave danno. Il non aver ciò fatto pruova la sincerità della repubblica. Ma patti pieni di molta sicurtà venne offerendo a questo tempo medesimo a Venezia una potenza forte per proteggerla, lontana per non darle ombra. Le offerte fatte dalla Francia di dare i dominj Veneti all'Austria non furono tanto segrete che l'altre potenze non le risapessero. Seppele fra le altre la Prussia, a cui più importava la cosa, siccome emola e solita a recare a propria diminuzione ogni aumento dell'Austria. Avvisò, che quello che voleva il direttorio di Francia, avrebbe finalmente avuto effetto, perchè stimava che l'Austria, passate le prime ripugnanze, non fosse di tale moderazione che non consentisse ad accrescere gli stati proprj con quelli d'altrui. Per la qual cosa il barone di Sandoz-Rollin, ministro plenipotenziario di Prussia a Parigi, in un abboccamento avuto col nobile Querini, si fece avanti dicendo, che con dolore infinito vedeva la condizione del senato, e delle Venete province, divenute campo e bersaglio di una crudele guerra; lodò il consiglio del senato dello aver saputo conservare in mezzo a tanto turbine e con tanto costo la sincera neutralità; che migliore contegno non poteva nè immaginare, nè tenere il senato: soggiunse poi però, che non doveva il senato aspettare i tempi sprovveduto d'amici, e collegato con nissuno, nè abbandonare gl'interessi dello stato ad un avvenire certamente molto incerto, e probabilmente tempestoso; che il governo che facevano i Francesi delle terre veneziane con aver violato le leggi le più sante della neutralità, poteva facilmente dar pretesto agli Austriaci di turbare l'attuale quiete e sicurezza della repubblica; che perciò gli pareva, che la prudenza del senato il dovesse indurre a premunirsi di qualche sostegno valevole a guarentire le sue possessioni contro qualunque tentativo della casa d'Austria; che bene conosceva, che non poteva la repubblica collegarsi con la Francia, quando questa non fosse per mantener sempre in Italia ai comandamenti del senato cinquantamila soldati, pronti a difenderla da ogni improvviso assalto; la quale supposizione, soggiungeva, era impossibile a verificarsi. Detto tutto questo, passava Sandoz-Rollin a dire, ch'ei credeva, che la sola potenza con la quale la repubblica avrebbe utilmente e sicuramente potuto stringersi in alleanza, fosse la Prussia, perchè gl'interessi politici del re tanto erano lontani da quei di Venezia, che il senato non poteva a modo nissuno sospettare, ch'ei volesse una tale alleanza procurarsi per qualche sua mira particolare; che anzi era la Prussia la sola potenza, che potesse por freno agli appetiti ambiziosi dell'Austria, e conservare l'incolumità e l'integrità dei dominj veneti; che a lui pareva, tale essere la opportunità e la necessità di quest'alleanza, che non fosse nemmeno da tenersi segreta; perchè la casa d'Austria non poteva recarsi a male, che la repubblica cercasse di guarentirsi da quei sinistri effetti, che a lei potevano derivare dal cambiamento di quei principj che fino allora avevano conservato la buona corrispondenza fra i due stati; che finalmente, quando l'imperatore vedesse, essersi la repubblica collegata veramente con la Prussia, avrebbe deposto il pensiero di tentare cosa alcuna contro di lei. Insistè finalmente il prussiano ministro affermando, che doveva il senato con la sapienza e prudenza sua internar la vista in un avvenire, che non si poteva ben prevedere quale fosse per essere, poichè fatalmente la presente guerra poteva aver dato motivo all'imperatore di chiamarsi scontento dei Veneziani, e di recar loro col tempo qualche grave molestia. Questo parlare profetico, e questa profferta tanto secondo il bisogno, potevano essere la salvazione dell'insidiata Venezia, ed ogni motivo di stato concorreva a far deliberare che si accettasse; perchè nè gli Austriaci, nè i Francesi potevano far peggio attualmente di quel che facevano alla repubblica, nè peggiori disegni macchinare contro di lei, di quelli che macchinavano; il che dimostra, che la lega con la Prussia poteva solo causar bene, non male a Venezia, e che sola poteva medicare i mali presenti. Ben si era fino allora consigliato il senato, seguitando il suo antico costume di non congiungersi nè con questa nè con quella parte; ma certamente fu pur troppo timorosa risoluzione quella di non aver voluto accettare la lega tanto necessaria, e tanto opportunamente esibita dalla Prussia; abbenchè, come trovo scritto, questo fatale rifiuto non sia stato colpa del senato, ma sì piuttosto degl'inquisitori di stato, checchè a ciò fare gli muovesse, e dei Savi, che avuto il dispaccio del Querini, nol rappresentarono, avendo da loro medesimi deliberato di scrivergli, che non entrasse in questo trattato. Della quale deliberazione la posterità tutta, e massimamente la patria loro diventata suddita, da sovrana ch'ella era, gliene avranno biasimo ed indegnazione eterna. Forse a sì strano partito, e ad impedire sì salutifero consiglio si mossero pel rispetto di non volere offendere la Francia, e principalmente l'Austria, e per la speranza, che la sincerità e l'imparzialità della repubblica avessero a condurla a salvamento; semplicità certamente maravigliosa in una Venezia, ed in tempi tanto scapestrati. Bene gli aveva avvertiti Lallemand, con verità dicendo, che la probità politica non era più al mondo. Intanto prima che si tradisse lo stato, si laceravano i sudditi sì dai Francesi che dai Tedeschi con ogni maniera di più immoderata barbarie. Nè più si vanti la libertà di frutti dolci, nè la regolarità degli antichi governi di frutti moderati, nè il secolo decimottavo di umanità; poichè e repubblicani ed imperiali, pretendendo parole soavi di amicizia, rapivano nei miserandi territorj veneti, non solo per necessità, ma anche per capriccio, non solo per forza, ma anche con violenza, non solo con comando, ma anche con ischerno le vite, l'onore, e le sostanze di coloro, che amici chiamavano. Nè più si portava rispetto ad una età che ad un'altra, nè ad un sesso che ad un altro; e quello che non periva per sangue, era contaminato per bruttura; spesso anche il sangue succedeva alla bruttura; perciocchè e' furono veduti vecchi e fanciulli uccisi, perchè non pronti a discoprire dove fossero riposte le sostanze, o le madri, o le figliuole loro, e se gli uomini stati fossero fiere, non sarebbero stati trattati peggiormente dai crudeli dominatori, come i Veneziani furono. Quello poi che era involato per forza, era profuso per iscialacquo; il paese desolato, i soldati sì vincitori che vinti si consumavano per mancamento di ogni genere necessario; chi per ufficio, o per grado aveva debito di provvedere ai soldati, e di ritirargli dalla barbarie, si arricchiva; il perchè si vedevano capi ricchi, soldati squallidi, abitatori spogliati: non che non vi fossero nell'uno esercito e nell'altro uomini incorrotti, che anzi ve n'erano molti, ma non avevano autorità, perchè il malo esempio dominava, e tra i repubblicani erano chiamati aristocrati, come se gli amatori della libertà si debbano conoscere dagli stupri e dalle rapine. Le case s'incendevano, gli alberi fruttiferi si atterravano, le ricolte preziose si sperdevano dagli sfrenati forestieri: i cavalli dei ricchi si rubarono dai repubblicani, perchè, come dicevano, erano cavalli di aristocrati; i cavalli, e gli altri animali da tiro e da soma appartenenti ai villici s'involavano dai repubblicani e dagl'imperiali, perchè erano, come dicevano, animali di spie; e tant'oltre procedè questa rapina, che le mosse militari ne divennero tarde e difficili per la mancanza di bestie. Il male era ancora peggiore nelle bovine, parte scialacquate dalla licenza, parte consumate da un morbo epidemico gravissimo. Pubblicavansi dai generali ordini e regole per frenare tanta rabbia, ma vano era il proposito, perchè quando si veniva alla esecuzione, si andava molto rimessamente, essendo i capi intinti. Buonaparte poi, quantunque facesse qualche dimostrazione in contrario, dava a' suoi la briglia sul collo, e comportava loro ogni cosa, per farsegli più suoi pei disegni avvenire. A questo tempo medesimo gli eserciti di Francia governati sul Reno da Moreau e da Jourdan, assai diversi dal buonapartiano erano per moderazione, e per rispetto ai vinti. In fatti venne in Italia dal Reno la schiera di Bernadotte, che temperatamente portandosi, e con maggior disciplina delle altre procedendo, era cagione, che a gara le città italiche in presidio la chiamassero. Per questo le compagne la chiamavano la schiera aristocratica, e vi furono delle male parole, e dei peggiori fatti in questo proposito. Di tante enormità si lamentava il veneziano senato a Vienna, si lamentava a Parigi; estorquere, gridava a Francesco imperatore, i comandanti imperiali dai sudditi veneti con minacce nella vita, e con dar in cambio semplici ricevute, quantità esorbitanti di provvisioni; avere saccheggiato Villanova con uccisione di parecchi abitatori, avere saccheggiato Salò e Fontanaviva, e molte altre terre del Veronese e del Vicentino; essere la licenza dell'imperiale esercito, ovunque passava, incomportabile, e se nella sua prima giunta a Bassano aveva mostrato qualche moderazione, sapere le desolate sponde dell'inferiore Brenta in quanta sfrenatezza si fosse cangiata la prima temperanza. Nè portarsi da lui maggior rispetto ai particolari innocenti, che allo stato amico: avere ad onta della professata neutralità assaltato i Francesi in Brescia, uccisone alcuni, imprigionatone molti, cacciato i restanti con forza, e con pericolo d'incendio e di sacco di quella popolosa città; avere minacciato di atterrare violentemente le porte di Verona, se presto non gli fossero aperte; avere altresì con volere resistervi dentro ai Francesi fatti più forti, posto a gravissimo ripentaglio tutta la terra; vincitore, saccheggiare per insolenza, vinto per rabbia; se aveva, domandare per ladroneccio; se non aveva, domandare per bisogno: in ambi i casi rapire con violenza; accusare i Francesi per imitargli, accusare i Veneziani, come partigiani dei Francesi per rubargli: le opinioni non fare; segno essere alle cupide soldatesche così i pacifici cittadini, come i parziali di Francia: non fare la dignità; le chiese contaminate, i parochi insultati, le municipali sedi spogliate e rotte, nè sapersi più discernere, se gl'Imperiali volessero la salute, o la perdizione di Venezia; cotali essere le opere degl'imperiali soldati. Le giustissime querele del senato Veneziano porte a Vienna non fruttarono, perchè furono passate o con silenzio sprezzatore, o con promesse inutili. Nè meno lamentevoli voci, nè meno vere gittava per mezzo del nobile Querini a Parigi, i detestabili fatti del buonapartiano esercito nella terraferma veneta narrando: avere saccheggiato la dogana pubblica in Desenzano; avere a Castello Lagusaro rapacemente spogliato le stanze della guardia veneta, minacciato barbaramente nella vita il paroco, ucciso una miseranda vecchia, saccheggiate le case, violate le donne; sperperate essere in fondo le provincie Bresciana e Veronese; Bassano non aver più da vivere; pure non cessare le sforzate tolte, e chi s'indugiava alla Francese impazienza, essere ucciso; fumare da ambi i lati le terre arse dei Lezini monti; Lubiara, Corrodetto, Albarè di Gardezzana, il contado tutto di Verona essere desolati; andare raminghe le genti fameliche per la rapina violenta dei loro averi; trecento famiglie all'estremo ridotte dal sacco errare squallide e nude per iscoscese montagne; Este, e Montagnana soprattutto portare i segni del repubblicano furore; ivi una povera donna, a cui la natura aveva fatto dono infausto di bellezza, e vicina al termine della sua gravidanza essendo, chiamata da soldati brutalissimi agli ultimi oltraggi, avere fra doglie orribili cessato di vivere; il misero marito desideroso di sottrarla dalla sfrenata cupidigia, avere avuto un braccio reciso dagli oltraggiatori dell'infelice moglie; avere il repubblicano esercito di Francia, quale furiosa tempesta, calpestato ogni cosa ad Arcole, a Ronco, a Tomba, a Villafranca, le terre tutte fra l'Adige e il lago; campagne devastate, granai dispersi, cantine vuotate, cavalli, buoi, animali d'ogni spezie rapiti, mobili involati o distrutti, case rovinate od arse, vergini violate, santuarj profanati, vasi sacri rubati, abitanti, alcuni uccisi, inumerabili spogliati e ridotti ad errare raminghi, coi teneri figliuoli loro asilo e sussistenza mendicando. Questi essere gli effetti della presente guerra, i quali parrebbero anche incredibili, se le voci stesse di tutto il Francese esercito non gli attestassero: eppure non esser mai mancata qualunque comodità alle genti Francesi; l'ospitalità la più amichevole essersi per la parte Veneta e sempre, ed in ogni luogo mostrata; avere i generali, gli ufficiali, i commissarj, i famigliari loro, i soldati stessi trovato le case aperte per accorgli amorevolmente, per trattargli umanamente; essersi vedute intiere famiglie di regolari, di vergini sacre, ed anche di semplici particolari cedere ai nuovi ospiti il proprio tetto; chiamargli a parte delle mense e di ogni comodo loro; avere sempre abbondato ogni sorte di provvisioni; avere il governo sempre, e non invano esortato i sudditi a sopportare pazientemente tante calamità; essersi i sudditi con rassegnazione incredibile mostrati obbedienti alle esortazioni, ma ciò non giovare; più si concedeva, più domandarsi; maggior cortesia si usava, maggiore violenza adoperarsi; le più gentili persone svillaneggiate da una soldatesca insolente; ai modi più ingenui corrispondersi con inumani oltraggi; la nobile Verona diventata un quartier sucido di soldati tutta, venire per la forestiera contaminazione a schifo ai Veronesi stessi le antiche e dilette stanze loro: certamente, dappoichè i miserabili uomini trattano la guerra, non mai essersi dimostrata dall'un canto tanta pazienza, non mai dall'altro tanta barbarie, e peggio, che gli oppressori chiamavano la pazienza perfidia, la barbarie libertà. Così periva sotto nome di amicizia la misera Venezia, non solo senza gratitudine da parte di coloro che si succiavano le sue sostanze, ma ancora senza compassione; e per ristoro finalmente fu fatto vendita e compra di lei dai feroci saccheggiatori, non meno cupidi di rapire, che vogliosi di tradire. Dolevasi il senato al direttorio; dolevansi i magistrati a Buonaparte, dolevansi ai Tedeschi capitani: rispondevasi per gli uni e per gli altri non solo freddamente, ma anche ironicamente, esser questi mali inseparabili dalla guerra: esser veramente Venezia infelice; si ordinerebbe, si provvederebbe, e gli ordini, e le provvisioni erano, che diveniva ogni dì più insopportabile l'insolentire dei soldati. Io non so quello, che il mondo corrompitore o corrotto sarà per dire di queste mie narrazioni; questo so bene, che l'universale dei Francesi e degli Austriaci, anzi tutti, eccettuatone solamente quelli, che credono che la gloria consista nell'opprimere le nazioni forestiere, danneranno con tutti i buoni sì detestabili eccessi, e di perpetuo biasimo noteranno coloro che vi ebbero colpa. Nè meglio erano rispettate da coloro, che accusavano Venezia di non esser neutrale, le sostanze pubbliche che le private, come se chi reca ingiuria, avesse a stimarsi offeso, e chi la riceve, offenditore. Verona massimamente era segno alla repubblicana furia. Vi rompeva a capriccio suo Buonaparte le porte delle fortificazioni, toglieva per forza le chiavi della porta di San Giorgio all'uffiziale Veneto, portava via dalle mura le artiglierie di San Marco, poneva le sue là dove voleva, prendeva le armi, prendeva le munizioni ammassate nell'armerìa e nelle riposte Veneziane, demoliva i molini, ardeva le ville della campagna di Verona, quando credeva che a' suoi bisogni importasse; occupava finalmente i forti, vi ordinava mutazioni e lavori, e vi piantava le insegne Francesi. Chiodava poi a Porto-Legnago le artiglierie Veneziane, tagliava i ponti levatoi, rompeva i ponti del fiume; occupava forzatamente il castello di Brescia, e postovi presidio a grado suo il fortificava. Quindi, mandato innanzi a Bergamo Cervoni per ispiare e per sopravvedere i luoghi, quantunque nessuna strada fosse aperta per quelle valli a calate di Tedeschi, occupava improvvisamente con sei mila soldati la città ed il castello di Bergamo, dove attese, come a Brescia, a fortificarsi. Involava, armata mano, una cassa dell'arciduca di Milano depositata in casa del marchese Terzi sul territorio Bergamasco, e finalmente levava le lettere dalle poste Veneziane, aprendole per vedere che cosa portassero; le quali cose tutte erano forse utili alla sicurezza dei Francesi, ma certamente rompevano la neutralità di Venezia, ed autorizzavano questa repubblica a romperla dal canto suo, ed a fare una subita presa d'armi contro chi con tanta violenza, e con violazione sì manifesta del diritto delle genti, turbava il suo vivere quieto. Considerando io l'aspro governo fatto degli stati Veneziani, non so con qual nome chiamare l'enormità di quel Rewbel, uno dei quinqueviri di Parigi, il quale si lamentava che i Veneziani non amassero i Francesi: il che vuol dire, che a posta di quei repubblicani e' bisognava non solo ringraziare, ma anche amare chi crudelissimamente vi straziava. Trattati a questo modo gli stati della repubblica di Venezia sì dagli Austriaci che dai Francesi, apparivano intieramente mutati da quello che erano prima che quella feroce illuvie gli sobbissasse. Le opere più pregiate della umanità perivano perchè divenute segno di scherni barbari; quello che s'era durato un secolo a edificare, un solo momento distruggeva; quello che dalle più estreme regioni si veniva curiosamente visitando, come fregi eccellenti della rispettata Italia, era guasto da chi si vantava di avere a cuore questi preziosi ornamenti del vivere civile; nè la necessità serviva di scusa, perchè per giuoco si guastava, non per vivere, nè per difesa. Quanti sontuosi palazzi sconciati per bruttura, o laceri per ruina! quanti nobili arredi involati o guasti! quante onorate statue mutilate o rotte! Quanti alberi o di dolci frutti carichi, o di peregrina bellezza risplendenti, per trastullo atterrati dalle sfrenate soldatesche venute d'oltre Alpi, o d'oltre il Norico a conculcare l'innocente Italia! Là dove nacque Virgilio, là dove nacque Catullo, là dove nacque l'infelice Bonfadio, là dove in dolce filosofia se n'era stato meditando il dolcissimo Bembo, erano i maggiori segni della moderna barbarie, stampati da chi pretendeva di riformare, o da chi pretendeva di mantenere il vivere sociale. Peggio poi, che a chi si lamentava, si rispondeva che la guerra è migliore della pace, la distruzione della conservazione, la disperazione della tranquillità, e se non si rispondeva con pessime parole, si rispondeva con peggiori fatti; il sangue si mescolava alle ruine. Sorgevano in ogni lato pianti e lamenti, donde poco innanzi solo si udivano i canti di un popolo felicissimo, del quale se di tanto era cambiata la condizione, non era in lui colpa alcuna, poichè la colpa era tutta in una feroce querela nata in lontani paesi fra popoli amatori della guerra. Le amene spiagge del Benaco, le molli sponde della Brenta, ornate le une e le altre di quanto hanno la natura e l'arte di più grazioso e di più magnifico, giacevano ora desolate ed arse. Nè si poteva mostrar compassione, perchè chi la mostrava, era stimato nemico d'Austria o di Francia: le preghiere cagionavano le ingiurie, i pianti gli scherni, la bellezza gli oltraggi, la forza le uccisioni. In mezzo a sì orribile strazio di sostanze e di persone, chiamavansi, per aggiunta, gl'Italiani perfidi e vili, come se sincerità fosse il rubare e l'ammazzare sotto titolo d'amicizia, e se coraggio fosse l'uccidere i deboli ed i traditi. Certo stupiranno i posteri dei mali fatti commessi, ma stupiranno vieppiù delle promesse fatte, e se il secolo avrà nome di crudele, lo avrà ancora più d'ingannatore. Così periva Venezia: che s'ella poi, per un qualche sussidio al suo estremo caso, voleva chiamare a' suoi stipendi un capitano riputato in Europa, se ne sdegnava Vienna, e se voleva ranuare quattro cannoni sul lido, se ne sdegnava Parigi: le accuse di perfidia tosto si proferivano da coloro, che si facevano mezzo principale per distruggere a Venezia la perfidia. Intanto gli atroci fatti inasprivano gli animi, e gli riempivano di sdegno, parte contro il senato, come se senza difesa desse in preda i popoli a nemici crudeli, parte contro i commettitori di tanti scandali. Non mai dai Veneziani si erano amati i Tedeschi, troppo diversi per indole e per lingua, ed anche la prossimità, come suole avvenire, gli alienava: ma in ogni tempo erano stati amatori del nome Francese, ed è certo, che fra tutte le nazioni del mondo la Francese era quella, che la Veneziana con più benevolenza abbracciava. Ma per l'opere ree di Buonaparte, e di chi a lui aderiva, molto si era rimutata questa inclinazione dei Veneziani, e se odiavano i Tedeschi, certamente non amavano i Francesi. Da tutto questo ne nacque, che le popolazioni della terraferma, tocche da quel turbine insopportabile domandavano al senato ordini, armi e munizioni per difendersi con la forza da coloro, presso ai quali l'amicizia era mezzo, non impedimento al danneggiare. Il senato, piuttosto rispettivo che prudente, cercava di mitigar gli animi, e quanto alle armi andava temporeggiando, perchè sperava, che qualche caso di fortuna libererebbe i dominj da ospiti tanto importuni, e perchè temeva che chiamati i popoli all'armi, non fosse più padrone di regolare e frenare i moti incominciati, con grave pregiudizio e pericolo della repubblica. Solo accettava le offerte della provincia Bergamasca, la quale in questo procedeva con più calore delle altre, sì per la natura ardita de' suoi abitatori, e sì per l'autorità del potestà Ottolini. Offeriva trenta mila armati pronti a mettersi a qualunque pericolo per la patria, ov'ella della opera loro abbisognasse. Ma il senato, che conosceva bene la natura dei popoli armati, massimamente in mezzo a tante occasioni di sdegno, temendo che più oltre procedessero, che l'umanità ed il bisogno della patria richiedevano, aveva sottoposto a certo ordine quella moltitudine, partendola in compagnie, e ponendo a reggerle uomini prudenti. Raccomandava al tempo medesimo la moderazione, e non si muovessero, se non quando la necessità e gli ordini del senato gli chiamassero. La quale raccomandazione fu poi imputata al senato dagli storici parziali, come pruova di perfidia, come se avesse dovuto abbandonar senza freno all'impeto suo una moltitudine armata, e giustamente irritata da tante ingiurie. Queste sono deliberazioni, che in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni caso si fanno dai governi, nè si può comprendere come possano fare diversamente. Ma il secolo, e chi loda il secolo, volevano e vogliono, che quello che deliberava il senato Veneziano, o che armasse o che non armasse, o che parlasse o che tacesse, tutto gli fosse imputato a delitto; e più volte Buonaparte gli disse, voi dovete armare, e più volte ancora, voi non dovete armare. Contro chi poi fosse allestito tutto quell'apparato delle Bergamasche armi, facile è il giudicare, poichè certamente era contro coloro, che sotto spezie di amicizia trattavano Venezia da barbari, e sotto spezie anche d'amicizia la volevano tradire. Ma queste armi si apprestarono dopo venuta la barbarie, ed a questa unicamente, ed agli autori suoi debbonsi imputare, se non forse si voglia credere, come odo che alcuni uomini schifosi credono, che Venezia fosse obbligata, per far piacere ai forestieri, di lasciarsi straziare e distruggere, non solo senza difesa, ma ancora senza lamento. Intenzione poi del senato era di non adoperarle, se non quando i distruttori si fossero accinti a mandar ad effetto il pensier loro. Adunque se alcuno sarà per biasimarle, farà segno, ch'ei non sa che cosa siano nè giustizia nè patria. Ritornando ora al filo della storia, seguiteremo a raccontare, che non così tosto il senato ebbe avviso delle minacce fatte da Buonaparte il dì trentuno maggio in Peschiera al provveditor generale Foscarini, si accorse che non vi era più tempo da perdere per apprestar le difese, non già per la terra ferma quasi tutta disarmata ed occupata dai repubblicani, ma almeno pel cuore stesso della repubblica, con assicurare tutte le parti dell'estuario con armi sì terrestri che marittime. Abbiamo narrato, come il generale repubblicano avesse affermato con modi peggio che amichevoli, perchè erano incivili, che aveva ordine dal direttorio di ardere Verona, e d'intimare la guerra ai Veneziani. A tale gravissimo annunzio pervenuto celerissimamente per messo a posta spedito da Foscarini, si adunava il senato a tutta fretta, e con voti unanimi decretava, si comandasse al capitano in golfo, che si riducesse tosto con tutta l'armata della repubblica nelle acque di Venezia; si levassero incontanente in Istria, in Dalmazia, ed in Albania, in quanto maggior numero si potessero, le cerne, ed ai Veneziani lidi si avviassero; i reggimenti stessi già ordinati, che avevano le stanze in quelle province, senza indugio alcuno alla volta di Venezia s'indirizzassero; si chiamassero nelle acque dell'Istria tutte le navi che si trovavano nell'Ionio sotto il governo del provveditor generale da mare, e con queste anche le due destinate a portare il nuovo bailo della repubblica a Costantinopoli. Queste deliberazioni furono prese il dì primo di giugno. Siccome poi l'unità dei consigli è il principale fondamento dei casi prosperi, così trasse il senato, il dì due dello stesso mese, a provveditor delle lagune e lidi Giacomo Nani, dandogli autorità e carico di armare nel modo che più acconcio gli paresse, tutto l'estuario. Gli diede per luogotenente Tommaso Condulmer, affinchè avesse cura particolare delle navi sottili allestite per custodia dei lidi, e delle bocche dei fiumi. Ebbero queste provvisioni del senato presto effetto; perchè in poco tempo si videro fortificati, e presidiati i posti principali di Brondolo, Chiozza, Portosecco, San Pietro della Volta, lido di San Niccolò, Malamocco. A Brondolo specialmente, dove mettono foce i fiumi Adige, Po, e Brenta, furono fatti stanziare i bastimenti più sottili. Già arrivavano, siccome quelle che erano state mandate con molta sollecitudine, in Venezia e nei circonvicini luoghi le soldatesche del mare Ionio, dell'Albania, e della Dalmazia; piene ne erano le case, pieni i conventi dei lidi, piene le isole vicine alla metropoli. Perchè poi l'erario potesse bastare a questo nuovo stipendio, fu posta una tassa sui beni stabili di Venezia, e del dogado a cui diedero il nome di Casatico. Per cotal modo Venezia spinta dalla vicina guerra intimatale da Buonaparte, si apprestava a difendere l'estuario, nel quale consisteva la vita della repubblica. Noi siamo abborrenti per consuetudine e per natura dal biasimare chi scrive, e meno ancora chi scrive storie. Ma l'amore della verità, e la innocenza di Venezia ci spinge a notare, che uno storico dei nostri tempi, lasciandosi trasportare ad una parzialità tanto più degna di riprensione, quanto è diretta contro il tradito ed il misero, si lasciò uscir dalla penna, troppo incomportabilmente scrivendo, che queste provvisioni del senato Veneziano furono fatte prima delle minacce dei Francesi. Eppure è chiaro e manifesto a chi vorrà solamente riscontrar le date, che le provvisioni medesime furono fatte dopo, ed a cagione delle minacce intimate da Buonaparte al provveditor generale Foscarini; imperciocchè minacciò Buonaparte il dì trentuno maggio, deliberò il senato il dì primo, e secondo giugno. Il perchè l'allegazione dello storico è contraria alla verità, e crudele a Venezia; che se poi egli pretendesse che Venezia, sentite le mortali minacce di Buonaparte, non doveva armarsi, staremo a vedere s'ei dirà, che la Francia non doveva armarsi, sentite le minacce di Brunswick e di Suwarow. Quanto poi ai sommi geografi così Francesi, come Italiani, i quali sostengono l'opinione del citato storico, saria bene, che ci dicessero quale maggiore distanza vi sia, o qual maggiore difficoltà di strade tra Peschiera e Venezia che tra Parigi e Roano. Saria anche bene, che ci dicessero, caso che nascesse oggi in Roano un accidente, che minacciasse di totale ruina lo stato della Francia, se il governo non delibererebbe in proposito il dimane a Parigi. Veramente, quando l'uomo vuol impugnare la verità conosciuta, diventa ridicolo. La distruzione della repubblica di Venezia è stata una grandissima sceleraggine, e non fa onore al secolo il volerla giustificare. Sonci poi alcuni in Italia, che dicono, e credo eziandio, che stampano, che Venezia perì, e meritava di perire perchè seguitò le massime del Sarpi. A questo io non so che cosa rispondere, se non forse, che ella ha avuto torto di voler punire colle patrie leggi due ecclesiastici sceleratissimi, e che là doveva esser lecito a chi portava chierica, l'infamare le rispettabili donne, ed il commettere assassinj. Il medesimo storico, a fine di pruovare la parzialità dei Veneziani verso l'Austria, narra come, non così tosto dimostrò l'imperatore desiderio, che la repubblica non conducesse a' suoi stipendi il principe di Nassau, il governo Veneziano se ne rimase. Ma la verità è, che il consiglio di condurre il principe fu dato dal provveditor delle lagune Nani, e che questo consiglio era già stato rifiutato, non già dal senato, al quale non fu mai riferito dai Savi, ma sibbene dai Savi medesimi molto innanzi che l'imperator d'Austria manifestasse il suo desiderio. Mal volentieri mi sono io indotto a parlar di questo fatto, perchè quando anche fosse vero ciò che è falso, non si vede come per una condiscendenza di Venezia verso l'imperatore si dovesse venire alla distruzione e vendita di lei. Al tempo stesso, in cui il senato ordinava l'apparato militare delle lagune, temendo che la Francia s'insospettisse con credere, ch'ei pensasse di portar più oltre di una legittima difesa, in caso di assalto, i suoi provvedimenti, scriveva un dispaccio al governo Francese, col quale andava esponendo, che mentre la repubblica di Venezia se ne viveva tranquilla all'ombra della più puntuale neutralità, e della sincera e costante sua amicizia verso la repubblica Francese, erano gli animi del senato rimasti vivamente traffitti dal colloquio avuto dal generale Buonaparte col provveditor generale Foscarini, dal quale si poteva argomentare un'alterazione nell'animo del direttorio verso Venezia che dal canto suo il senato si persuadeva di non aver dato occasione a tale alterazione che era conscio specialmente di non meritare alcun rimprovero per l'occupazione violenta fatta dall'armi Austriache di Peschiera, contro di cui non era restato alla repubblica disarmata, e solo fondantesi sulla buona fede delle nazioni sue amiche, altro rimedio che la più ampia e solenne protesta, e la più efficace domanda della restituzione, siccome infatti non aveva omesso nel momento stesso di fare; potere lo stesso general Buonaparte rendere testimonio dello aver trovato inermi e tranquille le città Venete, e della prontezza, con la quale i governatori Veneti ed i sudditi somministravano, anche in mezzo alle angustie dei viveri, quanto era necessario al suo esercito. Aggiungeva a tutto questo il senato, essere suo costante volere il conservare la più sincera amicizia colla Francia, e pronto a dare quelle spiegazioni, ed a fare quelle dimostrazioni dei sentimenti propri, che fossero in suo potere per confermare quella perfetta armonìa che felicemente sussisteva fra le due nazioni. Frattanto il ministro Lallemand, e questa fu una nuova ingiuria fatta a Venezia, domandava al senato, perchè ed a qual fine si apprestassero quelle armi, come s'ei non sapesse, che il perchè erano gl'improperj e le minacce di Buonaparte a Foscarini, e che il fine era il difendersi in una guerra, che lo stesso Buonaparte aveva dichiarato voler fare fra pochi giorni a Venezia. Si maravigliava inoltre il ministro, che simili apprestamenti guerrieri allora non si fossero fatti, quando instavano presenti gli Austriaci sul territorio della repubblica, come se egli non sapesse, che l'Austria non aveva mai minacciato di guerra Venezia, come la Francia per mezzo di Buonaparte, aveva fatto. Richiedeva finalmente, si cessassero quelle armi dimostratrici di una diffidenza ingiuriosa, e contraria agl'interessi ed alla dignità della repubblica Francese: il che significava, che si voleva far guerra a Venezia, e che non si voleva ch'ella si difendesse. Rispondeva pacificamente il senato, le armi, che si apprestavano, essere a difesa, non ad offesa; voler solo tutelare l'estuario, non correre la terraferma; pacifica essere Venezia, volere vivere in amicizia con tutti; in mezzo a tanto moto, ad opinioni tanto diverse, a discorsi tanto infiammativi, a moltitudine sì grande di forestieri non conosciuti, che abbondavano nella città, dovere il governo pensare alla quiete ed alla sicurezza del pubblico: a questo fine essere indirizzati i nuovi presidj, ed a fare, che siccome l'intento suo era di non offendere nissuno, così ancora nissuno il potesse offendere sperare, che il governo Francese meglio informato dei veri sensi della repubblica, deporrebbe qualunque pensiero ostile contro di lei, e persevererebbe, ora che la Francia tanto era divenuta potente, in quella stessa amicizia che il senato le aveva costantemente, ed a malgrado di tutte le suggestioni ed instigazioni contrarie, conservata, quando la Francia medesima era pressata da tutte le potenze d'Europa; che finalmente pel senato non istarebbe, che un sì desiderato fine si conseguisse a questo tutti i suoi pensieri, a questo tutti i suoi consigli, a questo tutte le sue operazioni dirizzare. Mostravasi il ministro di Francia appagato della risposta, avendo affermato a Francesco Pesaro, destinato dalla repubblica a conferire con esso lui sulle faccende comuni, ch'egli era grato al senato per la gentile, e soddisfacente risposta fattagli; ch'ella non poteva essere nè più sincera, nè più appagante; che incontanente l'aveva spedita a Buonaparte, e che sperava che una sì solenne manifestazione dei pubblici sentimenti avesse ad essere una pruova irrefragabile di quanto egli aveva sempre rappresentato: insomma ei si chiamò contento intieramente, e tranquillo. A questo modo parlava Lallemand il dieci luglio; eppure questo medesimo giorno, noi lo diremo, giacchè siamo serbati a raccontare queste contraddizioni fastidiose, egli scriveva al ministro degli affari esteri a Parigi, che il senato armava gli stagni col fine di far odiare dal popolo i Francesi; che il generale Buonaparte, richiesto di rimborsi, aveva con ragione risposto, che i Francesi erano entrati nei diritti dei Ferraresi sopra i paesi della repubblica, e che tenevano per cosa propria Peschiera, Brescia e gli altri luoghi occupati. Tanta poi è la forza della verità anche in coloro che vorrebbero servire ad interessi contrari, che il medesimo Lallemand, scrivendo pochi giorni dopo a Buonaparte, affermava che era verissimo, che il governo Veneziano si era mostrato molto avverso alla rivoluzione Francese, ed aveva nutrito con molta cura nel cuore dei sudditi l'odio contro i Francesi; ma che in quel momento era vero del pari, che sincere erano le sue protestazioni di neutralità e di buona amicizia verso la Francia; che le male impressioni lasciando luogo alla considerazione de' suoi veri interessi, lealmente desiderava veder rotto quel giogo Austriaco tanto grave a lui ed a tutta Italia; che per verità non si poteva sperare che si ajutasse con le proprie mani, ma che questo poteva bene la Francia promettersi di Venezia, che non tanto che ella contrariasse coloro che ne la volevano liberare, desidererebbe nell'animo suo felice compimento all'impresa loro; che, quanto all'armare, quantunque dubbiosi potessero esserne i motivi, pareva a lui, che tale qual era, non potesse far diffidare della fede Veneziana; che troppo le armi apprestate erano deboli da dare giustificata cagione di temere; che con gli occhi suoi propri vedeva, che i preparamenti che si facevano, non avevano altro fine, che quello di custodire le lagune ed i lidi vicini, e che insomma tutto quell'apparato non aveva in se cosa, che fosse ostile contro la Francia. Quest'era il testimonio di Lallemand, che ocularmente vedeva. Pure gridossi per questo medesimo fatto dell'armamento delle lagune, guerra e distruzione a Venezia. Così Venezia, segno di tanti inganni, se armava, era stimata nemica, se non armava, perfida; i tempi tanto erano perversi, che anche in chi conosceva la verità, si annidava la calunnia; la pace non le era più sicura della guerra, nè la guerra della pace, e l'estremo fato già la chiamava. Tali quali abbiam narrato, erano i pensieri e le opere di Buonaparte e del direttorio verso la repubblica di Venezia; ma questi insidiosi disegni furono interrotti da una nuova inondazione di armi imperiali in Italia. LIBRO NONO SOMMARIO Negoziati inutili di pace. Stato della repubblica Cispadana: nuovo congresso dei popoli dell'Emilia. Squallore dei soldati francesi in Italia, e ruberie dei pubblicani. Lamenti di Buonaparte in questo proposito. L'Austria ingrossa di nuovo, e fa impresa di riconquistare le sue possessioni d'Italia. Alvinzi suo generalissimo. Nuova e terribil guerra. Feroci battaglie nel Tirolo con la peggio dei repubblicani: lentezza molto fatale all'Austria del generale Davidovich dopo le sue vittorie in questo paese. Disegni di Buonaparte per opporsi a questa nuova inondazione di Tedeschi. Fatti d'arme sulla Brenta. Battaglia di Caldiero. Condizione assai pericolosa di Buonaparte: arte mirabile, colla quale se ne riscuote. Prodigiosa battaglia di Arcole. Battaglia moltiforme di Rivoli. Gli Alemanni rincacciati del tutto dall'Italia. Il generale austriaco Provera fatto prigione con tutti i suoi sotto le mura di Mantova. Celerità maravigliosa di Buonaparte in tutti questi fatti. Guerra contro il Pontefice. Battaglia del Senio. Pace di Tolentino, e sue gravi condizioni a' danni di Roma. Mantova si arrende alle armi repubblicane: lodi di Wurmser. Lusinghe di Buonaparte alla repubblica di San Marino: risposte dei Sanmariniani. Noi dobbiamo continuar nel fastidio di raccontar governi non così tosto creati che spenti, secondochè portava l'utilità od il capriccio del vincitore, di cui sempre più si scoprivano i pensieri indiritti a turbare tutta l'Italia. Abbiamo nel precedente libro descritto, come per quel principal fine dell'aver la pace coll'imperatore, il direttorio di Parigi, e Buonaparte, mandato Clarke, offerivano patti di diversa natura ora all'imperatore medesimo, ora alla repubblica di Venezia, ora a quella di Genova, ed ora al re di Sardegna. L'Austria spaventata dalle calamità, a cui era stata sottoposta, non si mostrava aliena, se non di concludere, almeno di negoziare, e per questo aveva mandato a Vicenza il generale San Giuliano, acciocchè si abboccasse con Clarke. Anche l'Inghilterra, mossa dal pericolo dell'imperatore, e dalla forza della repubblica francese, che ogni dì più pareva insuperabile, si era piegata, benchè mal volentieri, a voler trattare, ed aveva mandato a questo fine lord Malmesbury in Francia. Tutti pretendevano voci di voler rimuovere tanto incendio dall'Europa afflitta, e di aver a cuore lo stato salutifero dell'umanità. Ruppero questi negoziati le vittorie dell'arciduca Carlo in Germania, che compensarono le sconfitte di Beaulieu e di Wurmser in Italia. Imperò gli alleati si fecero più renitenti, e di nuovo convenne venirne al cimento delle armi. Solo la Sardegna, che era ridotta piuttosto in potestà della Francia, che nella propria, aveva concluso un trattato di lega difensiva, avendo il re costantemente ripugnato ad una lega offensiva a motivo della guerra imminente col papa; al quale trattato il direttorio non volle ratificare a cagione della cessione, che vi si stipulava di alcuni territorj imperiali; perchè il re opportunamente valendosi della condizion sua armata, e dell'esser posto alle spalle dell'esercito francese, non cessava di addomandare o restituzione, o ricompenso delle perdute Savoja e Nizza. Il che pazientemente non poteva udire il governo di Francia, per essere quelle province unite per legge di stato alla repubblica. Adunque il direttorio, trovata tanta durezza nell'Austria, nell'Inghilterra, e nel papa, che continuamente si preparava alla guerra, e dubitando che questo modo potesse estendersi più oltre, perchè non si fidava di Napoli, si consigliava di voler provare, se il timore delle rivoluzioni potesse sforzare i potentati a far quello che il timore delle armi non aveva potuto. A questo fine erano indirizzati i moti dell'Emilia, e le instigazioni di Trento. Ma per parlar dei primi, si voleva da Buonaparte, che a quello che da principio aveva potuto parere frutto disordinato della guerra, succedesse uno stato regolato ed un assetto più giusto di constituzione, perchè lo stato disordinato, siccome quello che è temporaneo di natura, lascia da per sè stesso appicco a cambiamento di signoria nativa a signoria forestiera, mentre lo stato ordinato e riconosciuto non può darsi ad altrui senza nota d'infamia. Oltre a ciò sperava il generalissimo di accendere con questo allettativo d'independenza talmente quei popoli già di per se stessi tanto accendibili, che un fanatismo politico avesse a pareggiare gli effetti di quel fanatismo religioso, che per difesa propria s'ingegnava il pontefice di far sorgere in Italia contro i conquistatori. Sapeva che queste opere erano facili ad eseguirsi, perchè in alcuni ingannati operava l'amor della libertà, in altri consapevoli la peste dell'ambizione. Tanta paura aveva quel capitano vittorioso di coloro, che chiamava per isprezzo, non so se mel debba dire per la dignità della storia, pretacci. Bene ordinato era, quanto all'effetto, questo consiglio di opporre popoli accesi a popoli accesi. Ma ei conosceva bene il paese, e gli umori che vi correvano; perchè era solito dire, che in quella Cispadana repubblica erano tre sorti d'uomini: amatori dell'antico governo; partigiani di una constituzione independente, ma pendente all'aristocrazia, e quest'era il patriziato; finalmente partigiani della constituzione francese o della democrazia. Aggiungeva, che egli era intento a frenare i primi, a fomentare i secondi, a moderare i terzi, perchè i secondi erano i proprietari ricchi ed i preti, ch'ei credeva doversi conciliare, perchè rendessero i popoli partigiani di Francia. Quanto ai terzi affermava, esser giovani scrittori, uomini, che, come in Francia, così in tutti i paesi cambiavano di governo, ed amavano la libertà solamente, come diceva, per fare una rivoluzione. Dal che si vede in quale stima egli avesse quelli che professavano la libertà; e per verità non pochi fra di loro diedero tali segni al mondo, che fu manifesto come il giovane di ventott'anni con insolita sagacità avesse bene penetrato la natura loro: questo conoscere gli uomini fu cagione, ch'ei potè fare tutto quello che volle. Erasi inditto il congresso dei quattro popoli dell'Emilia, Modenesi, Reggiani, Bolognesi, Ferraresi il dì venzette decembre, malgrado di Buonaparte, che avrebbe desiderato, che più presto si adunassero per dar cagione di temere al papa in tempo, in cui, bollendo ancora le pratiche, non aveva ancora il pontefice rifiutato la pace. Convennero in Reggio i legati dei quattro Cispadani popoli, trentasei Bolognesi, venti Ferraresi, ventidue Modenesi, ventidue Reggiani. Avevano mandato amplissimo di fare quanto alla salute della repubblica si appartenesse; l'unione massimamente dei quattro popoli in un solo stato procurassero. Solo i Bolognesi avevano nel mandato loro qualche clausola di restrizione, o fosse che Bologna amasse di serbare, per la sua grandezza, qualche superiorità, o fosse che non volesse allontanarsi da quella forma di governo che con tanta solennità aveva pocanzi accettata, perchè prevedeva, che l'accomunarsi nello stato importava l'accomunarsi nelle leggi. Grande era il calore, grande l'entusiasmo di quelli spiriti repubblicani: pareva a tutti essere rinati a miglior secolo. Ordinarono, non potendo capire in se stessi dall'allegrezza, ad alta voce, non a voti segreti si squittinasse. Poi fecero una congregazione d'uomini eletti dalle quattro province, affinchè proponessero i capitoli dell'unione. Fu l'unione accettata con tutti i voti favorevoli. Accrebbero la giubbilazione gli uomini deputati di Lombardia Milanese venuti ad affratellarsi, erano Porro, Sommariva, Vismara da Milano, Visconti da Lodi, Gallinetti da Cremona, Mocchetti da Casalmaggiore, Lena da Como, Beccaria da Pavia: «Poichè erano venuti i buoni tempi Italici, orarono, essere venuti gli uomini Lombardi a congratularsi coi Cispadani popoli dell'acquistata libertà; pari essere i desiderj, pari il destino; chiamare le Francesi vittorie a nuove sorti l'Italia; dovere i popoli Eridanici infiammare con l'esempio loro a nuova vita le altre Italiche genti; l'Italiana patria avere ad essere, non più serva di pochi, ma comune a tutti: ogni giusto desiderio dover sorgere con la libertà, e tanti secoli di crudele servitù concludere una inaspettata felicità: non dubitassero i Cispadani dello aver per amici e per fratelli i Transpadani; una essere la mente, come uni gli animi, ed uni gl'interessi: dimostrerebbero al mondo, che non invano aveva dato il cielo a quei popoli testè pure divisi sotto molesti dominj, ed ora congiunti per l'amore di una comune libertà, il medesimo aere, le medesime terre, le medesime città magnifiche con un forte volere, con un alto immaginare, con un maturo pensare, e se felicissima era la occasione, sarebbe il modo di usarla generoso.» Fu fatto risposta da Facci presidente con gratissime parole: «Corrispondere i Cispadani con pari amore ai benevoli Transpadani; accettare i felici augurj; avere la libertà spento il parteggiare fra i Cispadani, dovere spegnerlo fra tutti gl'Italiani; fuggirebbe dall'Italia la tirannide con tutto il satellizio suo; e poichè era piacciuto a chi regge con supremo consiglio queste umane cose, che principiasse un libero vivere sul Po, dovere gli Eridanici allettare i compagni coll'esempio di una incontaminata felicità». Aprivansi in questo le porte del consesso; il Reggiano popolo, bramoso di vedere e di udire, lietamente entrava. Gravemente Fava da Bologna a nome della congregazione degli uomini eletti intorno all'unione dei quattro popoli favellava. Chiamarono di nuovo con segni d'inudita allegrezza la Cispadana confederazione, chiamarono la unità della repubblica. Fu piena la città di giubbilo; credevano che quel giorno fosse per essere principio di felici sorti. Ed ecco in mezzo a tanta allegrezza sopraggiungere l'aiutante generale Marmont, mandato da Buonaparte ad incitare ed a sopravvedere. Introdotto al cospetto del congresso, gli applausi, le grida, le esultazioni montarono al colmo. Postergata la dignità, tanta era l'ardenza, avevano i legati piuttosto sembianza di energumeni, che di uomini gravi chiamati a far leggi. L'entusiasmo dei Cispadani piaceva a Buonaparte, perchè sperava di cavarne denaro, gente armata, spavento al papa. Infatti aveva il congresso statuito, che una prima legione Italica si formasse; nè questa truppa oziosamente si ordinava: correvano gli uomini volentieri sotto le insegne; il generalissimo gli squadronava, e faceva reggere da' suoi uffiziali. Ma se dall'un lato egli era contento della disposizione degli animi nella repubblica Cispadana, dall'altro non si soddisfaceva della composizione del congresso; perchè avrebbe voluto vedere in lui per quel suo intento di far paura al papa, nobili, preti, cardinali, ed altri cittadini di maggior condizione, che patriotti fossero stimati; e quantunque alcuni e nobili e preti vi sedessero, non era il numero nè il nome di quella importanza ch'egli desiderava. Per questo si lamentava, che Garreau e Saliceti, commissari del direttorio, gli guastassero i suoi disegni, procedendo con soverchio calore in queste instigazioni, e chiamando al reggimento dello stato uomini di poca entità, o troppo risentitamente repubblicani. Spesso ei si querelava con questi commissari, e gli ammoniva con forti riprensioni; ma essi se non apertamente, almeno nascostamente continuavano ad incitare ogni sorte di persone. Scriveva il congresso il dì trenta decembre a Buonaparte: i Cispadani popoli chiamati per amore di lui, e per le sue vittorie a libertà, essersi constituiti in repubblica; direbbegli Marmont suo, quanto fossero degni del nuovo stato; direbbegli quanta forza il nome di lui alla loro risoluzione, ed alla loro allegrezza aggiugnesse. «Accettate, continuavano, o generale invitto, questa nuova repubblica, primo frutto del vostro valore, e della vostra magnanimità. Voi ne siete il padre, voi il protettore: sotto gli auspicj vostri ella sarà salva, sotto gli auspicj vostri non s'attenteranno i tiranni di danneggiarla: noi cominciammo il mandato dei popoli, noi presto il compiremo; ma fate voi, che l'opera nostra sia, come il vostro nome, immortale». Queste lettere del congresso Cispadano furono con lieta fronte ricevute dal conquistatore. Rispondeva, avere con molto contento udito la unione delle quattro repubbliche; l'unione sola poter dare la forza, bene avere avvisato il congresso dello aver assunto per divisa un turcasso: già da lungo tempo l'Italia non aver seggio fra le potenze d'Europa; se gl'Italiani degni sono di rivendicarsi in libertà, se abili sono di ordinare a se stessi un libero governo, verrebbe giorno, in cui la patria loro risplenderebbe fra i potentati d'Europa gloriosamente: pure pensassero, che senza la forza non valgono le leggi; si ordinassero pertanto all'armi; savie essere, ed unanimi le deliberazioni loro; null'altro mancare, se non battaglioni agguerriti, e mossi dall'amor santo della patria; aver loro miglior condizione del popolo Francese, libertà senza rivoluzione, ordini nuovi senza delitti; la unità della Cispadana repubblica simboleggiare la concordia degli animi, i frutti, se avessero per compagna la forza, avere ad essere una repubblica vivente, una libertà benefica, una felicità di tutti. Il congresso annunziava ai popoli la creazione della repubblica: lodava la Francia institutrice di libertà; lodava Marmont testimonio benigno di popoli non indegni dell'amore della sua generosa nazione, annunziatore benevolo delle cose fatte al glorioso capo dell'esercito Italico: esortava i popoli della Cispadana a deporre le antiche invidie ed emolazioni, frutto infausto di funesta ambizione: in petto ed in fronte la libertà, la equalità, la virtù portassero, dell'ajuto della potente repubblica, che gli aveva chiamati a libertà, non dubitassero; guardargli attentamente il mondo, aspettare ansiosamente l'Italia, che a quell'antico splendore, che l'aveva fatta tanto grande, ed onorata presso le nazioni, la restituissero. Così parlava a concitazione degli animi il vincitor Buonaparte. L'esempio della Cispadana partoriva mutazioni notabili in Lombardia; perchè i Milanesi, non volendo parer da meno che i popoli dell'Emilia, facevano un moto, correndo sulla piazza, ed intorno all'albero della libertà affollandosi: gridavano sovranità, e indipendenza, e volevano constituirsi in repubblica Transpadana. Dispiacque il moto all'amministrazione generale di Lombardia, non che ella non amasse l'indipendenza, ma le cose non le parevano ancora di tale maturità, che si potesse venire ad un partito tanto determinativo. Il sentirono peggio ancora il generalissimo, e gli altri capi Francesi. Tanto fu loro molesto questo moto, che Baraguey d'Hillires, generale che comandava alla piazza di Milano, e che conosceva la mente di Buonaparte, ne faceva carcerare gli autori principali, che erano i patriotti più ardenti. Intanto ogni dì più cresceva lo squallore dei soldati vincitori d'Italia; tanta era la voragine, non dirò della guerra, ma dei depredatori. Per rimediarvi andava Buonaparte immaginando nuovi modi per trar denaro dai popoli già sì grandemente smunti ed impoveriti; scosse l'Emilia, scosse la Lombardia; traeva le intime sostanze dalle viscere delle nazioni: pure il peculato era più forte di queste estreme fonti di denaro. Infatti i rubatori, gente frodolenta ed avara, erano una peste invincibile. Buonaparte, che per la mancanza delle cose necessarie vedeva in pericolo le sue operazioni, ne arrabbiava: gli chiamava ladri, traditori, spie; ora ne faceva pigliar uno, ora cacciare un altro; ma nulla giovava, perciocchè tornavano, essendo protetti, perchè molti; e si liberavano, essendo i giudici corrotti, perchè mescolati. L'Italia pativa, i soldati pativano, gli amministratori infedeli trionfavano. In un paese opimo, e da lungo tempo immune da guerra, era penuria di soldo, di pane, di abiti, di scarpe, di strame. Al tempo stesso i provveditori ed i canovieri, incitati dall'ambizione e dalla libidine, tenevano, la maggior parte, gran vita con mense lautissime, e con cavalli pomposi, con cocchi dorati, con caterve di servitori; e ballerine e cantatrici mantenevano, strana foggia di repubblicani. Sapevaselo Buonaparte, che non ne capiva in se stesso dallo sdegno. Scriveva, che il lusso, la depravazione, il peculato avevano colmo la misura. Un solo rimedio ei trovava, e, come credeva, conforme alla sperienza, alla storia, alla natura del governo repubblicano, e quest'era un sindacato, magistrato supremo, che, composto di una o di tre persone, solo due o cinque giorni durasse, ed in questo tempo autorità amplissima avesse di far uccidere un amministratore, qualunque fosse, o con qual nome si chiamasse. «Potè, sclamava dispettosamente Buonaparte, il maresciallo di Berwick far impiccar l'amministrator supremo del suo esercito, perchè vi erano mancati i viveri, ed io non potrò in mezzo all'Italia, paese di tanta abbondanza, quando i miei soldati sono penuriosi, e stremi di ogni cosa, spaventar con le opere, poichè le parole non giovano, questo nugolo di ladri?» Così dentro se stesso si rodeva: ma eran novelle, perchè l'oro d'Italia si dispensava anche a Parigi; perciò i rubatori erano indenni. Solo si soddisfaceva il capitano Italico dei servigi di Collot, abbondanziere delle carni, e di Pesillico, agente della compagnia Cerfbeer. Poi alcuni commissari erano facili alle signature, caso veramente orribile. Affermava Buonaparte nel mese di ottobre, che, eccettuati Deniée, Boinod, Mazade, e due o tre altri, gli altri commissari erano tutti ladri: pregava il direttorio, gliene mandasse dei probi, aggiungendo però la clausola, se fosse possibile trovarne: soprattutto già fossero provvisti di beni di fortuna; desiderava Villemanzy. Aveva particolarmente in grande stima il commissario Boinod, certamente a giusta ragione, perchè era Boinod uomo di costumi integerrimi; ed eziandio con ragione scriveva Buonaparte, che se quindici commissari di guerra, come Boinod, fossero all'esercito, potrebbe la repubblica far un presente di cento mila scudi a ciascuno di loro, e guadagnerebbevi ancora quindici milioni. Tanta era l'ingluvie di coloro, che per ufficio dovevano impedire, che altri non involasse le sostanze dei soldati! L'ira di Buonaparte particolarmente mirava contro un Haller, che credeva mescolato in questi traffichi. Scriveva sdegnosamente il dì diecinove novembre al commissario del direttorio Garreau: essere i soldati senza scarpe, senza presto, senz'abiti; gli ospedali penuriosissimi; giacere i feriti orribilmente nudi sulla nuda terra; pure essersi testè trovati quattro milioni in Livorno; essere in pronto merci di gran valore a Tortona ed a Milano; avere Modena dato due milioni, Ferrara gran valute; ma non essere nè ordine, nè buono indirizzo nella bisogna delle contribuzioni, di cui esso Garreau aveva carico; grave essere il male, dover esser pronto il rimedio: rispondessegli il giorno stesso, se potesse, sì o no, provvedere ai soldati: se no, comandasse all'Haller, spezie di furbo, come diceva, non per altro venuto in Italia, che per rubare, e che si era fatto sovrantendente delle finanze dei paesi conquistati, rendesse conto dell'amministrazion sua al commissario supremo, che era in Milano, e provvedessesi il bisognevole ai soldati volere il governo, che i commissari nei bisogni dell'esercito si occupassero; veder mal volentieri, ch'egli, Garreau, non se ne prendeva cura, lasciando la bisogna in mano di un forestiero, di natura, e d'intento sospetto; Saliceti far decreti da una parte, Garreau farne da un'altra, e con tutto questo non esservi accordo, e manco denaro: soli quindici centinaia di soldati, che sono a Livorno, costare più di un esercito; esservi penuria estrema fra estrema abbondanza. Questi erano i risentimenti del capitano generale. Nè era minore lo sdegno di lui contro la compagnia Flachat, ch'ei qualificava coi più odiosi nomi, senza credito, senza danaro, e senza probità chiamandola; avere, affermava, lei ricevuto quattordici milioni, avere somministrato solamente per sei, e ricusare i pagamenti; per lei essere sequestrate le mercatanzie pubbliche in Livorno; volere, che si vendessero; ma essere sicuro, che per le mene di costoro, quello che sette milioni valeva, sarebbe dato per due: insomma, aggiungeva tutto sdegnoso, essere gli agenti di essa compagnia i più bravi eruscatori d'Europa. Di più, alcuni fra gl'impiegati, non contenti al peculato, far anche le spie, e portare pubblicamente, come i fuorusciti, il bavero verde: di questo non potersi dar pace; servir loro Wurmser, servir la Russia, succiarsi la repubblica. In tal modo Buonaparte riempiva di querele Italia e Francia: intanto andava a ruba l'Italia. Nè uno era il modo del guadagno, nè alcuna spezie di fraude si pretermetteva. I più usavano di non pagare sotto pretesto di non aver fondi, se non con grossi sconti, le tratte, che loro s'indirizzavano o dal governo, o dai particolari creditori; brutto veramente, ed infame traffico era questo; perchè essi erano cagione col non pagare, e con diffidenze artatamente sparse, che le tratte scapitassero, poi le ricevevano a perdita, e più scapitavano, ed a maggior perdita le ricevevano, e più grossi guadagni facevano, autori ad un tempo, e profittatori del male. La peste penetrava più oltre, perchè era cagione che i prezzi a bella posta s'incarissero, ed i contratti si facessero simulati; il male del rubare era il minore, perchè il costume si corrompeva. In queste laide involture si mescolavano anche Italiani, e tra di questi alcuni, che avevano le cariche nei governi temporanei, ed alcuni altresì, che facevano professione di amatori della libertà. Queste cose facevano da se, e per se, o per mezzo d'interposte persone, o intendendosela con gli amministratori infedeli. Con qual nome chiamare costoro, io non saprei; so bene, come gli chiamavano, e chiamano tuttavia, perchè son ricchi, i parasiti ed i giornali, che con parole magnifiche gli encomiavano in quei tempi, ed encomiano ancora ai giorni nostri; sicchè, se una volta era il proverbio, che la guerra fa i ladri e la pace gl'impicca, ora debb'essere quest'altro, che la guerra fa i ladri e la pace gli loda. Hanno costoro gioie, e gioielli, e palazzi in città, e ville in contado, e statue, e quadri, e mobile prezioso, ed ogni sorta di agio, con adulatori in quantità. Tali erano non pochi dei gridatori di libertà dei nostri tempi, ed io ne ho conosciuto alcuni, che stampati in fronte delle ruberie del loro paese, se ne andavano tuttavia predicando con singolare intrepidezza la repubblica e la libertà, anzi credevano, od almeno dicevano, esser loro i veri amatori, ch'elleno avessero. Così, se parecchi tra i Francesi che avevano cura dell'amministrazione involavano, si trovava anche fra gl'Italiani chi teneva loro il sacco; e vi era allora, qual sempre vi è, una gente, che, come i corvi intorno ai cadaveri, aliavano continuamente là dove erano i disastri pubblici, per farne il loro pro ed arricchirsene. Costoro, ed allora si mostrarono più che in altro tempo, sono una singolare generazione d'uomini perchè se è stagione di libertà e' gridano libertà, se è stagione di dispotismo, e' gridano dispotismo, e sempre ridenti, e sempre adulatori, aiutano a spogliar con arte chi già è spogliato dalla forza; nè abborriscono dallo spogliare e dal succiare e dallo straziare, quand'anche il soggetto sia la patria loro, che anzi le miserande sue grida sono incitamento alla ferina cupidigia di quest'uomini spietati. Queste cose vedemmo con gli occhi nostri, nè la religione le impediva, perchè era venuta a scherno, nè la giustizia, perchè era compra. Così tra la forza che ammazzava, e l'arte che rubava, fu sobbissata l'Italia, e peggio, ch'ella era mira di calunnie da parte degli ammazzatori e dei ladri. Chi dava e pigliava gli appalti degli arnesi necessari alla guerra con ingordi beveraggi, ed a prezzi più cari del doppio del genuino valore; chi metteva, minacciando saccheggi, taglie sui paesi, e questi denari spremuti a forza dai popoli si appropriava. Questi prometteva di preservare dalle prede, se si desse denaro a lui: gl'Italiani davano, e qualche volta erano preservati, e qualche volta no: si vendeva il beneficio. Quest'altro faceva tolte di robe per gli ospedali, le usava per se. Diè Cremona cinquantamila canne di tela fine pei malati, e per se gli arrappatori se le pigliarono. Chi vendeva i medicinali dell'esercito, e convertiva il prezzo in suo pro: la corteccia tanto preziosa del Perù principalmente era divenuta materia d'infame ladroneccio. Quanti soldati consunti dalle perniziose febbri perirono, che sarebbero stati salvi, se i rubatori avessero avuto più a cuore le vite loro, che le mense, i teatri, e le meretrici! Nè era cosa che santa o sicura fosse, perchè si faceva traffico dell'asilo dei morenti, e sonsi veduti uomini abbominevoli minacciare di porre ospedali militari nei conventi col solo fine di costringergli a pagar denaro per ricomperarsi da quella molestia: i soldati intanto se ne morivano per le strade, perchè gl'insaziabili segavene s'ingrassassero, ed in ogni più immondo, in ogni più ingordo vizio s'ingolfassero. Le polizze dei passati si davano per chi non era passato, ed anche per chi era morto: i magazzini si empivano di grasce finte, e nissuno aveva, se non chi non doveva avere. I soldati perivano, i paesi pagavano, perchè a quello, che non era somministrato dalle riposte, bisognava bene, e per forza, che i paesi sopperissero. Così chi dava, non aveva, chi non dava, aveva; la brutta usanza fu generale. I capisoldi poi, i premj, le indennità largamente si davano a chi meno le meritava, nè vi era ufficiale, che di chi ministrava fosse amico, che alla menoma rotta non si trovasse ad aver perduto gli arnesi, e grassi compensi non toccasse, mentre gli uomini valorosi, che combattendo virilmente contro il nemico, avevano perduto tutto, richiedevano invano quello, a che la patria era loro obbligata. Cuocevano infinitamente a Buonaparte i raccontati ladronecci, e faceva formare ai rei gravissimi processi dalle diete militari, instando perchè fossero dannati a morte, a motivo, come diceva, che non erano ladri ordinarj, ma tali, che con le malvagie opere loro interrompevano il corso alle sue vittorie, od erano almeno cagione che con più sangue si acquistassero. Ma si lamentava che vi fossero in queste diete dei segreti maneggi, onde i rei se ne andavano od assoluti, o condannati a pene nè proporzionate al delitto, nè capaci di spaventare i compagni. «Voi avete presupposto certamente, scriveva Buonaparte sdegnoso al direttorio, che i vostri amministratori ruberebbero, ma farebbero i servizi, ed avrebbero un po' di vergogna: ma e' rubano in un modo tanto ridicolo e tanto impudente, che s'io avessi un mese di tempo, non ve ne avrebbe un solo che non facessi impiccare. Gli fo legar dai gendarmi, gli fo processar dai consigli militari continuamente. Ma che giova, se i giudici sono compri? Questa è fiera, e tutti vendono. Un impiegato accusato di aver posto una taglia di diciottomila franchi a Salò, fu condannato a due mesi di carcere. Così, come si potran pruovare le accuse? È un concerto: tante vili enormità fan vergogna al nome Francese.» Così si querelava, e così inveiva Buonaparte contro i rubatori, e questa fu l'accompagnatura della libertà in Italia. Ma egli è oramai tempo di far passaggio dall'avarizia degl'involatori al furore degli armati: incominciarono le armi a suonare più orribilmente che prima sulle Italiane terre. Non aveva il direttorio pretermesso alcun ufficio per inclinare l'imperatore alla pace, ora offerendogli compensi di nuovi stati, ora minacciando di sterminio quelli, che ancora gli restavano. A quest'ultimo fine scriveva Buonaparte all'imperatore Francesco, che s'ei non si risolvesse alla pace, colmerebbe per ordine del direttorio il porto di Trieste, e guasterebbe tutte le sue possessioni dell'Adriatico. Ma i prosperi successi dell'arciduca Carlo in Germania avevano ridesto nell'Austria la speranza di sostenere le cose d'Italia, ed anzi di riconquistare gli stati perduti; però non volle consentire agli accordi. Il fondamento di questo nuovo moto era Mantova, perchè tutti i disegni potevano arrivare al fine desiderato, se la sua difesa tuttavia si sostenesse; ed all'opposto sarebbero stati disordinati, se cadesse in possessione dei Francesi. Non era ignoto a Vienna, che il presidio era ridotto all'estremo, dalle malattie e dalla strettezza dei viveri, e che solo si sosteneva per la costanza veramente maravigliosa dell'antico Wurmser. Nè solo il maresciallo vinceva con animo invitto l'urto delle armi nemiche, ma ancora la minaccia barbara e vile fattagli dal direttorio, che, se non desse la piazza in mano della repubblica, sarebbe quando si arrendesse, condotto a Parigi, e giudicato qual fuoruscito Francese. Vide l'Austria, che non era tempo da aspettar tempo, e che il pericolo di Mantova ricercava prestissima espedizione; perciò adunava con celerità mirabile un nuovo esercito di più di cinquantamila combattenti pronto a calare per mettere di nuovo in forse la fortuna Francese, che già tanto pareva stabile e sicura. Certamente fu maraviglioso l'impeto Francese in quei tempi, ma non fu meno maravigliosa la costanza Tedesca. Di tanta mole si mandavano venticinque mila soldati freschi nel Tirolo e nel Friuli, e tanto era l'ardore loro, che davano speranza di vittoria. Infatti nelle battaglie, che poco dopo seguirono, combatterono non solo con valore, ma ancora con furore, siccome quelli che erano cupidi non solo di ricuperare i paesi perduti, ma ancora di scancellare l'offesa fatta alle armi imperiali dalle precedenti sconfitte. L'emolazione altresì verso i soldati di Germania operava efficacemente nelle menti loro, e le vittorie dell'arciduca gli stimolavano. Fu posto al governo di queste fiorite genti il generale d'artiglierìa Alvinzi già pratico delle guerre d'Italia, e nel colmo della riputazione; e siccome quegli che era di natura pronta e speditiva, si sperava che fosse per allontanare da se quella lentezza che era stata cagione delle rotte precedenti. Aveva anche per consigliero un Veiroter, che si era acquistato nome di perito capitano in Germania. Era il disegno di questa nuova mossa non dissomigliante da quello posto in opera pochi mesi prima da Wurmser, con questa differenza però, che ove il maresciallo discese con tutto il pondo per la valle dell'Adige, ed interpose, certamente con imprudente consiglio, tra le due principali parti de' suoi tutta la larghezza del Lago di Garda, Alvinzi ordinava, che una parte guidata da Davidowich scendesse dal Tirolo con venti mila soldati, e conculcati i Francesi, che colà stanziavano alla difesa dei passi, se ne venisse a sboccare per Castelnuovo fra l'Adige e il Mincio. Egli poi con trenta mila combattenti venuti dalla Carniola e dal Cadorino, si proponeva di varcare il Tagliamento, la Piave e la Brenta, combattendo i repubblicani ovunque gli trovasse, e quindi varcato il fiume più grosso dell'Adige dove la occasione migliore si appresentasse, di congiungersi con Davidowich, e di marciare unitamente alla liberazione di Mantova. Già varcati con fatica incredibile i monti della Carniola, e traversati torrenti grossi ed impetuosi, erano, quando il mese di ottobre si avvicinava al suo fine, giunti gl'imperiali sulle sponde della Piave, e si accingevano a dar principio a quella terza guerra, dalla quale pendeva il destino della potenza Austriaca in Italia. Non erano a tanta mole pari pel numero i Francesi; perchè certamente non passavano i quaranta mila, noverati gli assediatori di Mantova. A questi nondimeno debbonsi aggiungere gl'Italiani, ed i Polacchi ordinati a Milano, e nella Cispadana, che, sebbene Buonaparte non se ne servisse per combattere nelle battaglie giuste, erano a lui di grandissima utilità, ed accrescevano la sua forza, perchè tenevano i presidj nelle piazze, contenevano il papa, e facevano il paese sicuro insino alla Romagna ed al Veneziano. Trovavansi allora i Francesi raccolti nelle stanze, perchè Kilmaine con ottomila soldati stava attorno a Mantova, Augereau con altrettanti custodiva le sponde dell'Adige, Massena sempre il primo ad essere esposto alle percosse del nemico, alloggiava sulla Brenta, Vaubois assicurava il Tirolo con dieci mila soldati. In fine una schiera di riserbo, in cui si noveravano circa tre mila soldati tra fanti e cavalli, era distribuita negli alloggiamenti di Brescia sotto la condotta dei generali Macquart e Beaumont. Aveva Buonaparte comandato a Vaubois, impedisse ad ogni modo il passo a Davidowich, e siccome gli assalti sono sempre più fortunati pei Francesi, che le difese, volle che Vaubois medesimo, ancorchè fosse inferiore di forze, non aspettasse il nemico, ma lo andasse ad assaltare nei propri alloggiamenti: soprattutto il cacciasse dai luoghi tra il Lavisio e la Brenta. Egli intanto si apprestava ad arrestare con Massena ed Augereau l'impeto di Alvinzi, che già arrivato sulle rive della Brenta, ed avendola passata, faceva le viste di volersi incamminare verso Verona. Alloggiava Davidowich col grosso delle sue genti a Newmark, mentre la vanguardia occupava il forte sito di Segonzano, reso anche più sicuro dal posto eminente di Bedole, custodito da Wukassowich. Guyeux, obbedendo agli ordini di Vaubois, assaltava San Michele, terra posta oltre il Lavisio, con intento, se la battaglia riuscisse prospera, di correre contro Newmarck. Al tempo medesimo Fiorella urtava le terre di Cembra e di Segonzano. Fu grande la resistenza che incontrava Guyeux a San Michele; perchè gli Austriaci avevano chiuso l'adito alla terra con trincee, ed essendosi posti ai merli, di cui erano guernite le case, attendevano a difendersi virilmente. Tre volte andarono alla carica con grandissima animosità i Francesi guidati dal capitano Jouannes, e tre volte erano con grave uccisione risospinti. Era la fazione di grande importanza, e maggiore anche di quanto annunziassero il numero poco notabile dei combattenti, e la ristrettezza dei luoghi, in cui si combatteva, perchè dall'esito pendeva la conservazione, o la conquista del Tirolo, il potere gli Austriaci od i Francesi incamminarsi alle spalle del nemico per le valle della Brenta, e finalmente la congiunzione, o la non congiunzione delle due schiere Alemanne, capo principalissimo dei disegni fermati a Vienna per la ricuperazione d'Italia. In fine, fattosi dai Francesi un ultimo sforzo, entravano in San Michele, e se ne impadronivano a malgrado che i Tedeschi, ajutati anche da parte dei Tirolesi, avessero continuamente tratto contro di loro con morte di molti, e con ferita del valoroso Jouannes. Bene auguravano i Francesi dei fatti loro in Tirolo, ma non fu loro ugualmente favorevole la fortuna a destra verso Segonzano; il che interruppe tutti i pensieri loro, e da vincitori diventarono vinti. Aveva bene Fiorella, con molta valenzia combattendo, espugnato il castello di Segonzano, ma non avendo, o perchè abbastanza non avesse fatto esplorare i luoghi, o qual'altra cagione che sel muovesse, sloggiato prima l'inimico da Bedole, questi scendendo improvvisamente, lo assaliva sul fianco destro ed alla coda, talmente che fu commessa non poca strage dei suoi, e fu costretto a ritirarsi più che di passo verso Trento. S'aggiunse, che Davidowich medesimo, udite le novelle dell'assalto dato ai Francesi, si era calato col grosso de' suoi a soccorrere la vanguardia; di modo che non fu lasciato altro scampo ai repubblicani, se non volevano essere tagliati tutti fuori, ed a pezzi, che quello di ritirarsi più sotto, lasciando, dopo breve contrasto sotto le mura, la città stessa di Trento in balìa degli antichi signori. Successe questo fatto ai due novembre. Due giorni dopo entrava Davidowich in Trento; rallegrandosene gli abitanti, amatori del nome Austriaco, ed asperati dalle intemperanze dei conquistatori. Vaubois dopo di aver combattuto infelicemente a Segonzano, andava a porsi alla bocca delle strette di Calliano, alloggiamento, intorno al quale si era persuaso, per la sua fortezza, doversi fermare l'impeto dei vincitori. Assicurava alla sinistra il fianco dei Francesi il fiume Adige, la destra custodivano due colli eminenti, sui quali sorgono i due castelli della Pietra, e di Bezeno. Dava fortezza alla fronte un rivo assai profondo, sulle sponde del quale avevano i repubblicani eretto parapetti, e cannoniere munite di artiglierìe. Tenevano in guardia questo forte luogo quattromila soldati eletti, che aspettavano confidentemente l'incontro del nemico. Marciava Davidowich enfiato dalla prosperità della fortuna, grosso, e minaccioso, dopo l'occupazione di Trento, all'ingiù dell'Adige, avendo talmente diviso i suoi che Wukassowich scendeva sulla sinistra del fiume, Ocskay sulla destra. Laudon, condottosi ancor esso sulla destra con soldati più leggieri, camminava più alla larga verso Torbole, con intenzione di dar timore al nemico per la possessione di Brescia. Arrivavano Wukassowich a fronte di Calliano, Ocskay a Nomi. Avrebbe potuto, come alcuni credono, Davidowich, in vece di assaltar di fronte quel luogo tanto munito di Calliano, girato prima alla larga per le eminenze, scendere poscia, e riuscire per la valle di Leno alle spalle del nemico. Ma, qual si fosse la cagione, amò meglio venirne alle mani in una battaglia giusta, confidando nel valore e nella grossezza delle sue genti, massimamente nei feritori Tirolesi, che pratichi dei luoghi più inaccessi, e peritissimi nel trarre di lontano; avrebbero efficacemente ajutato lo sforzo Austriaco. Combattessi il giorno sei di novembre con incredibile audacia, e vario evento da ambe le parti, sforzandosi gl'imperiali di superare il passo, ed insistendo principalmente contro i castelli della Pietra, e di Bezeno. Restarono i repubblicani superiori, fu l'assalto degli Alemanni infruttuoso. Davidowich, veduto che l'impresa si mostrava più dura di quanto aveva pensato, mandava in rinforzo di Wukassowich il generale Spork ed il principe di Reuss, ed operava di modo che per diligenza di Ocskay, si piantassero artiglierìe presso a Nomi sulla destra dell'Adige, ed anche a fronte della strada che da Trento porta a Roveredo. Al tempo medesimo i feritori Tirolesi, postisi qua e là sui vicini gioghi, si apparecchiavano a bersagliare l'inimico. Cominciavasi il giorno sette una ferocissima battaglia, in cui come fu il valore uguale da ambe le parti, così fu varia la fortuna, perchè ora prevalevano i repubblicani, ed ora gl'imperiali. Venne verso le cinque ore della sera il castello di Bezeno in poter dei Croati dopo un lungo ed ostinato combattimento, in cui i Francesi si difesero con sommo valore, e con tutte sorti di armi, perfino coll'acqua bollente, che furiosamente versavano contro gli assalitori. Fu il presidio parte preso, parte tagliato a pezzi. Poco stante cedeva anche il castello della Pietra; ma di nuovo i Francesi se ne impadronivano, e di nuovo ancora lo perdevano. Con lo stesso furore si combatteva nei luoghi più bassi verso Calliano, e fu quel forte passo preso, ripreso, perduto, e riconquistato più volte ora da questi, ora da quelli. Era tuttavìa dubbia la vittoria, quantunque le artiglierìe di Ocskay, ed i feritori Tirolesi non cessassero di fare scempio dei Francesi, quando improvvisamente udissi fra di loro, se per paura, o per tradimento non bene si sa, un gridare, salva, salva, per cui ad un tratto si scompigliava tutto il campo, e si metteva in rotta. Non si perdeva per questo d'animo Vaubois, e raccolti, meglio che potè, i suoi e calatosi vieppiù per le rive dell'Adige, andava ad alloggiare nei siti forti della Corona e di Rivoli. Roveredo intanto, e tutte le terre circostanti tornavano sotto la divozione dell'antico signore. Perdettero in questo fatto i Francesi sei pezzi d'artiglierìa, e nella ritirata per a Rivoli, essendo seguitati dai Tedeschi, altri sei. Perdettero, oltre a questo, non poche munizioni; noverarono due mila soldati uccisi, e mille prigionieri con qualche ufficiale di conto. Furono dalla parte degli Austriaci molto lodati i Croati, e principalmente i cacciatori Tirolesi, ai quali fu l'imperatore obbligato dell'acquisto dei castelli di Bezeno e della Pietra. Mancarono fra gli Austriaci circa cinquecento soldati fra morti, feriti, e prigionieri; desiderarono due cannoni. Questa fu la seconda battaglia di Calliano, non inferiore alla prima, nè a nissuna pel valore, e per l'ostinazione mostrata da ambe le parti. Questa vittoria avrebbe potuto partorire la ruina dei repubblicani, se Davidowich tanto fosse stato pronto a seguitare il corso della fortuna prospera, quanto erano stati valorosi i suoi soldati al combattere; conciossiachè, se pressato avesse, senza mai dargli posa, ed incalzato l'inimico innanzi che avesse avuto tempo di respirare, e di rannodarsi, verisimile cosa è, che avrebbe prevenuto tutti gl'impedimenti, e, superato facilmente la Corona e Rivoli, sarebbe comparso improvvisamente grosso e vittorioso sulle rive del Mincio: il che avrebbe posto in gravissimo pericolo Buonaparte, che era alle mani sulla Brenta con Alvinzi, e dato comodità al generalissimo d'Austria di farsi avanti a congiungere le due parti per correre grosso, ed intiero alla liberazione di Mantova. Ma Davidowich per una tardità o negligenza certamente inescusabile, se ne stava più di dieci giorni alle stanze di Roveredo, con lasciare quasi quiete le armi, e non si moveva per alle fazioni del Mincio, se non quando la fortuna, per la perizia e velocità di Buonaparte, aveva già fatto una grandissima variazione tra la Brenta e l'Adige. Erasi il generalissimo Alvinzi fatto signore del passo della Brenta con occupare Bassano, Cittadella, e Fontaniva, ed avendo avuto avviso delle prime vittorie di Davidowich nel Tirolo, aveva ordinato, che i suoi varcassero il fiume. Sboccava Quosnadowich nella parte superiore da Bassano, e posava le sue stanze a Marostica, ed alle Nove. Liptay correva ad alloggiarsi più sotto tra Carmignano, e l'Ospedal di Brenta: ma siccome quegli, che solo guidava la vanguardia, fu stimato troppo debole, e però fu fatto seguitare dalla battaglia condotta da Provera, che aveva varcato il fiume a Fontaniva. Al tempo stesso Mitruski, padrone del castello della Scala, mandava guardie insino a Primolano per sopravvedere quello, che fosse per succedere nella valle della Brenta, della quale stavano le due parti in grandissima gelosìa. Buonaparte, confidando di compensare con la celerità quello, che gli mancava per la forza, aveva fatto venire a se, oltre le schiere tanto valorose di Massena e di Augereau, le guernigioni di Ferrara, Verona, Monbello e Legnago. Era suo pensiero di assaltare Alvinzi, di romperlo, e, camminando quindi con somma celerità per la valle verso le fonti della Brenta, di riuscire alle spalle di Davidowich, e di sgombrare per tal modo e al tempo stesso, l'Italia ed il Tirolo dalla presenza degli Austriaci; pensiero certamente molto audace, e da non venir in capo, che a lui, che tutto era, per la gioventù e pel vigor dell'animo, coraggio e prestezza. Urtava Augereau Quosnadowich, Massena Provera: ne nasceva il dì sei novembre una sanguinosa zuffa. Dure furono le prime Italiche battaglie, ma questa è stata molto più. Si attaccavano con grandissimo furore Augereau e Quosnadowich, ambi capitani esperti, ambi valorosi: ora cedeva l'uno, ora cedeva l'altro; Alvinzi, che conosceva l'importanza del fatto, mandava continuamente alla sua parte nuovi rinforzi. Fu preso, perduto, ripreso, e riconquistato più volte il villaggio delle Nove, e sempre con uccisione orribile delle due parti. Si combattè, prima con le artiglierìe, poi con la moschetterìa, poi con le bajonette, poi con le sciable, finalmente con le mani e con gli urti dei corpi; valore veramente degno della fama Francese ed Austriaca. Infine restarono i Francesi signori del combattuto villaggio; ma seppe tanto acconciamente Quosnadowich schierare i suoi, che grossi e minacciosi si erano ritirati dal campo di battaglia, nell'alloggiamento che dai monti dei sette comuni si distende per Marostica sino alla Punta, che quantunque urtato e riurtato da Augereau, si mantenne unito, e rendè vano ogni sforzo del suo animoso avversario. Ma dall'altro lato non si combattè tanto felicemente per Provera contro Massena; perchè, sebbene l'Austriaco non fosse rotto, sentissi non ostante tanto gravemente pressato, che stimò miglior partito il ritirarsi sulla sinistra del fiume, rompendo anche il ponte di Fontaniva, acciocchè il nemico nol potesse seguitare. Fessi notte intanto; l'oscurità e la stanchezza, poichè si era combattuto tutto il giorno, piuttosto che la volontà, pose fine al combattere che fu mortalissimo; perchè tra morti, feriti, e prigionieri desiderò ciascuna delle parti circa quattromila soldati. Il generale francese Lanusse, ferito da colpo di arma bianca, cadde in potere dei Tedeschi. Il non aver potuto rompere gl'imperiali in questo fatto, diede a pensare a Buonaparte. Vano era lo sperare di poter riuscire a montare per la valle di Brenta verso il Tirolo. La perdita di Segonzano e di Trento, di cui egli aveva avuto notizia, dava giustificato timore per Verona e per Mantova, e l'ostinarsi a voler combattere un nemico grosso, avvertito, ed insistente in un sito forte, non sarebbe stato senza grave danno; perchè ponendo anche il caso, che la battaglia succedesse prosperamente, il perdere ugual numero di soldati era più pernizioso ai Francesi manco numerosi, che agli Austriaci più numerosi. Dal che si vede, quanto momento avrebbe recato in tanta incertezza di fortuna Davidowich, se si fosse spinto avanti con quel medesimo vigore, col quale aveva combattuto a Galliano, e fosse andato a dirittura a ferire Corona, e Rivoli. Mosso da queste considerazioni si deliberava Buonaparte a levar il campo dalle rive della Brenta per andarlo a porre su quelle dell'Adige nel sito centrale di Verona. Per la qual cosa il dì sette novembre molto per tempo mosse l'esercito verso Vicenza, e non fece fine al ritirarsi, se non quando arrivò sotto le mura di Verona. Il seguitavano il giorno medesimo i Tedeschi, succedeva un aspro combattimento a Scaldaferro. Entravano gl'imperiali il dì otto in Vicenza, il nove alloggiavano a Montebello. Quivi pervenivano ad Alvinzi le desideratissime novelle della vittoria di Calliano; perciò spingendosi più oltre andava a porre il campo a Villanova, terra posta a mezzo cammino tra Vicenza e Verona. Intenzion sua era di aspettare in quest'alloggiamento, che cosa portassero le sorti in Tirolo, e massimamente che Davidowich, superati i forti passi della Corona e di Rivoli, si fosse fatto vedere a Campara ed a Bussolengo; perchè allora si sarebbe mosso egli medesimo verso quella parte che più sarebbe stata conveniente per congiungersi col vincitore del Tirolo. Ordinava intanto varie mosse per dare diversi riguardi al nemico, e per tenerlo sospeso del dove volesse andar a ferire. Apprestava eziandio quantità grande di scale, come se fosse per dare la scalata a Verona. Già aveva mosso la vanguardia, e fatta posare nell'alloggiamento di Caldiero più vicino alla città. Minacciato Buonaparte a stanca ed alle spalle da un generale vittorioso, a fronte da un generale, se non vittorioso, almeno più forte di lui, aveva tutti i partiti difficili: perchè l'aspettare era dar tempo a Davidowich di assalirlo alle spalle, e di far allargare ad un tempo l'assedio di Mantova; l'assaltare era un commettersi all'ultimo cimento per la salute de' suoi, e per la conservazione della sua gloria. Ma non istette lungo tempo in pendente, perchè sapeva, che i consigli timidi fanno i Francesi meno che femmine, i generosi, più che uomini. Si risolveva adunque a voler pruovare a Caldiero, se la fortuna volesse perseverare a mostrarsi benigna verso di lui, ed a cangiarsi in contraria. Usciva da Verona; guidava Massena l'ala sinistra, Augereau la destra. Incontrati i primi corridori nemici a San Michele ed a San Martino, facilmente gli fugava: il giorno dodici novembre era destinato alla battaglia. Eransi molto acconciamente accampati i Tedeschi; perchè l'ala loro stanca s'appoggiava a Caldiero, ed alla strada maestra, che da questa terra si volge a Verona. La destra era schierata sul monte Oliveto, ed occupava il villaggio di Colognola, sito erto, e difficile ad espugnarsi. Le restanti genti di Alvinzi continuavano a stanziare a Villanova in ordine di spignersi avanti, come prima si fosse incominciato a menar le mani a Caldiero. Non così tosto il giorno appariva, che andavano i repubblicani all'assalto. Già Augereau aveva conquistato Caldiero, e preso al nemico cinque cannoni: già Massena si distendeva a sinistra, e, fatti dugento prigionieri, aveva circuito la punta dritta degli Alemanni, passando per Lavagno ed Illasi, quando il tempo, che già era freddo e piovoso, si cambiava improvvisamente in minutissima grandine, che spinta da un vento di levante assai gagliardo, percuoteva nel viso i Francesi, e gl'impediva di vedere, e di combattere con quell'ordine, e con quel valore che si richiedevano. S'aggiunse, che, secondochè era stato ordinato dall'Alvinzi, la grossa schiera Tedesca giugneva correndo da Villanova per modo che tra pel tempo avverso, e l'urto di questa gente fresca, rallentavano i Francesi l'impeto loro, ed incominciavano a declinare. Le cose erano in grave pericolo; perchè il generale Schubirtz mandato dall'Alvinzi, aveva dato addosso con cinque battaglioni, passando per Soave e per Colognola, a Massena; e Provera con quattro battaglioni instava ferocemente contro la destra di Augereau, mentre nel mezzo Alvinzi medesimo rinforzava, e rincuorava i suoi con un nuovo nervo di genti. Già pareva disperata la fortuna Francese, quando Buonaparte spingeva avanti a combattere la sessagesimaquinta, che fin allora aveva tenuta in serbo; rinfrescava ella la battaglia, e la teneva sospesa fino alla sera, instando però sempre gl'imperiali grossi, ed ordinati. Finalmente, pruovato grave danno, levandosi i repubblicani con tutto l'esercito da Caldiero, si ritraevano di nuovo a Verona. Dei morti, feriti, e prigionieri fu uguale la perdita per ambe le parti; ma più grave pei Francesi, per la ferita e prigionia del generale Launay, e per la ferita del colonnello Dupuis, uno del guerrieri più animosi di Francia. Montarono gli uccisi a ducento, i feriti a seicento, i prigionieri a cencinquanta. Era a questo tempo caduta in grande declinazione, e molto pericolosa la condizione dei repubblicani. Poteva Davidowich prostrare improvvisamente i campi della Corona e di Rivoli, e romoreggiare alle spalle di Buonaparte, mentre Alvinzi grosso e vittorioso lo assalirebbe di fronte, ed il manco che potesse avvenire, era la liberazione di Mantova, scopo principale di tanti pensieri. Il dar mano poi al ritirarsi non si sarebbe potuto fare senza fuga, e senza correre sino alla sponda destra dell'Adda, perchè già Laudon incominciava a farsi vedere sui confini del Bresciano. Quale effetto, quale sollevazione fosse per produrre nei popoli italiani un sì grave accidente, facile cosa è il pensare: l'Emilia perduta, il papa vittorioso, Milano titubante, il re di Sardegna con nuovi pensieri, tanti odj liberi, tante ire senza freno facevano temere ai repubblicani ogni più grave estremità. L'animo stesso di Buonaparte, avvengadiochè tanto vigoroso e forte fosse, da tristi pensieri annuvolato, ed in gran malinconia venuto, incominciava a fiaccarsi, e a diffidar della vittoria. Scriveva, avere ricondotto i soldati scalzi, e consumati dalle fatiche a Verona; disperare di Mantova; i più valorosi feriti; gli ufficiali superiori, i generali migliori non poter più sostener le battaglie; quelli, che arrivavano, essere inesperti, ed in loro non aver fede i soldati; l'esercito Italico ridotto a poche genti; gli eroi di Lodi, di Millesimo, di Castiglione, di Bassano o morti, o infermi; non aver più le legioni dell'antica possanza che l'animo, ed il nome; feriti Joubert, Lannes, Lanusse, Victor, Murat, Charlot, Dupuis, Rampon, Pigeon, Menard, Chabran; vedersi il repubblicano esercito, vedersi, e sentirsi abbandonato dalla sua patria nell'estreme regioni d'Italia; la fama delle sue forze avere fin là giovato, ma oggimai pubblicarsi a Parigi, solo essere di trenta mila soldati; i più valorosi mancati di vita, i superstiti avere presto in casi tanto pericolosi a lasciarla; forse esser giunta l'ora estrema di Augereau, di Massena, di Berthier, di lui medesimo; che sarebbe allora per avvenire di tanti bravi soldati? Questo pensiero farlo più cauto, non osar più affrontar la morte, perchè la morte sua condurrebbe all'ultima rovina tanti prediletti compagni; volere fra breve far un ultimo sforzo; se la fortuna il secondasse, fora Mantova sua, e l'Italia con essa. Tali erano le querele di Buonaparte in quell'estremo momento. Ma se si era perduto di animo, non aveva perduto la mente, e tosto trovava modo di riscuotersi: al che gli aprirono occasione le lentezze Tedesche. Ebbe egli in quest'ultimo punto un pensiero, si vede come da un solo concetto spesso pendano i destini degl'imperi, dal quale nacque inopinatamente la sua salute, e quella de' suoi; per lui ancora rincominciossi la non interrotta sequela di fatti, che tanto il fecero glorioso in armi, e tanto potente sopra la terra. Aveva Alvinzi, dopo la giornata dei dodici, in mano sua tutto il destino della guerra; perchè, se subito dopo avuta quella vittoria, usando la diminuzione d'animo, in cui per lei si trovavano i repubblicani, gli avesse acremente e celeremente perseguitati, ogni probabilità persuade o che avrebbe vinto Verona, o che almeno, distendendosi a dritta, avrebbe potuto varcar il fiume in un luogo superiore, ed in tal modo accozzarsi con Davidowich. Ma invece di correre contro il nemico declinante, e di non dargli respitto, soprastava inoperoso due giorni nelle stanze di Caldiero a deliberare con Quosnadowich, Veiroter, e Provera intorno a quello, che fosse a farsi. Voleva Quosnadowich, animoso capitano, che si desse dentro incontanente; ma a questo non voleva risolversi Alvinzi, o che credesse, per troppa confidenza, la guerra già vinta, che volesse aspettare, che Davidowich avesse superato gli alloggiamenti della Corona e di Rivoli. Fatto sta, che Buonaparte usando assai maestrevolmente la occasione, ordinava una mossa, che, convertendo del tutto le sorti, fece che siccome prima Alvinzi era padrone della guerra, dopo, fosse Buonaparte; ed il generale Tedesco, che poteva dare l'indirizzo alle fazioni militari, come conveniente gli fosse paruto, fu costretto ad obbedire a quello, che fosse per dare al generale francese. Il fiume Adige calandosi dalle scoscese montagne del Tirolo corre dirittamente da tramontana a ostro insino a Bussolengo, terra situata alle ultime radici del Montebaldo; ma da questa terra il suo corso incominciava a declinare verso il levante, per guisa che volta le sue onde a scirocco, ed in tal modo calandosi incontra rapido e profondo Verona; quindi passa, seguitando sempre la direzione medesima insino a Zevio, dove giunto essendo, la sua inclinazione diventa maggiore, e corre, non più verso scirocco schietto, ma piuttosto verso levante scirocco: il quale corso ei serba insino ad Albaredo, dove di bel nuovo si volta a scirocco. Questa inclinazione del fiume è cagione, che chi il varcasse a Ronco, luogo situato fra Zevio ed Albaredo, avrebbe Villanova più vicina che Verona. Aveva Alvinzi lasciato a Villanova le più grosse artiglierìe, i carriaggi, le bagaglie, e le munizioni: era anche questa terra sulla principale strada da Verona a Vicenza. Bene considerate tutte queste cose venne Buonaparte in isperanza di sorprendere con un subito passo quell'alloggiamento principale degl'imperiali, e di tagliargli fuori da Vicenza e dai loro sicuri ricetti del Friuli e del Cadorino. E ponendo eziandio che il disegno non sortisse tutto quel fine, ch'ei si proponeva, questo almeno era sicuro di conseguire, che Alvinzi si sarebbe, per combatterlo, necessariamente condotto verso le parti inferiori dell'Adige; il che l'avrebbe allontanato da Davidowich, ed impedito la congiunzione dei due eserciti imperiali tanto temuta, e con tanta ragione dal generale Francese. Confidava Buonaparte, che, varcando di nottetempo l'Adige a Verona, e correndo speditamente sulla sua destra sponda sino a Ronco, e quivi sulla sinistra ripassando, e tuttavia velocemente marciando, sarebbe riuscito ad arrivar addosso a Villanova innanzi che Alvinzi si fosse accorto del pericolo, ed avesse potuto farvi i provvedimenti necessari. Dava favore a questa fazione il considerare, che il Tedesco, non addandosene, non aveva guernito la sinistra del fiume sotto Verona di presidj sufficienti. Solo aveva mandato il colonnello Brigido coi pochi Croati ed Ungari, piuttosto per sopravvedere che per combattere. La notte adunque dei tredici ordinava Buonaparte, e questo fu il pensiero salutifero, a Massena e ad Augereau, varcassero con tutte le genti loro l'Adige a Verona, corressero frettolosamente la destra del fiume sino a Ronco, quivi il rivarcassero sopra un ponte estemporaneo di piatte, e passando per Arcole e per San Bonifacio sovraggiungessero improvvisamente addosso a Villanova. Questa fu veramente una mossa da gran maestro dell'arte, e fra tutte quelle ordinate dai più rinomati capitani sì degli antichi, che dei moderni tempi non vedo alcuna, che più di questa sia non che da lodarsi, da ammirarsi. Riuscirono improvvisi, e senza che gl'imperiali sentore ne avessero, a Ronco i repubblicani, e tosto, fatto un ponte, varcarono. Varcava Augereau primo, Massena secondo: la duodecima fu lasciata a guardia del ponte, la cavalleria sulla destra sponda pronta a passare, ove il bisogno ne venisse. S'incamminava Massena a Porcile per sopravveder ciò, che fosse per nascere dalle parti di Caldiero, Augereau s'addirizzava verso Arcole. L'uno e l'altro dovevano ricongiungersi per marciare unitamente contro Villanova. La natura del paese pose impedimento all'esecuzione dell'intiero intento di Buonaparte, ma però non tanto, ch'ei non conseguisse una somma e gloriosa vittoria e con essa il principal fine del suo proponimento. Ma perchè tutte queste cose s'intendano da chi ci legge, necessario è, che per noi si descriva la natura dei luoghi, che furono sedia di fatti tanto memorabili. Giace Villanova, principal mira di tutto questo moto, sulla sinistra riva di un grosso torrente chiamato Alpone, il quale scendendo impetuosamente dalle montagne dei sette comuni, s'avvicina all'Adige, in cui mette foce tra Ronco, e Albaredo. Questo torrente approssimandosi alle rive del fiume, incontra una bassa fondura, dove serpeggiando e rallentando il corso, forma paludi, o terreni coperti da acque stagnanti. In questi terreni appunto per la bassezza loro sopraffatti dalle acque, ed in mezzo a queste paludi, e pure sulla sponda sinistra dell'Alpone siede il villaggio di Arcole, che i repubblicani dovevano necessariamente attraversare per condursi a Villanova. Due argini principali danno l'adito per questa limacciosa palude, dei quali il primo porta da Ronco ad Arcole, e quindi a Villanova; il secondo partendo dal primo, quando ei si volta verso Arcole, rade più accosto l'Adige all'insu, ed accenna a Porcile, e di là a Caldiero. Biasimano alcuni, per le cose che seguirono, Buonaparte del non aver passato l'Adige più sotto verso Albaredo; il che se avesse fatto, avrebbe evitato il passo dell'Alpone. Altri ancora gli danno carico del non aver passato l'Alpone con gettar un ponte là dove mette nell'Adige; ma siccome la sua risoluzione fu improvvisa, così ei non poteva conoscere tanto al minuto la natura dei luoghi, nè prevedere, che un ignobile torrente, ed un umile ponte di piccolo villaggio fuor di mano dell'esercito Tedesco avessero ad essere un intoppo sì duro al suo intendimento. Bene da dannarsi è la sua ostinazione dello aver voluto per due giorni continui sforzare il passo al ponte d'Arcole; il che fu cagione della morte di tanti valorosi soldati, mentre ei poteva, fin dal primo, quando incontrò tanta resistenza, fare quello, che fece il terzo. Prevedendo poi, che nella depressione di fortuna in cui si trovava, e nelle battaglie che erano imminenti, avrebbe avuto bisogno di tutte le sue forze, si era deliberato, subito dopo il ributtamento di Caldiero, di far venire al campo principale tre mila soldati, di quelli che stavano sopra l'assedio di Mantova. Infatti era il giorno medesimo, in cui Massena ed Augereau avevano varcato l'Adige a Ronco, che fu il quindici del mese, arrivato a Verona Kilmaine con la schiera dei tremila. Utile pensiero, nè ultimo fu questo a conseguire la vittoria. Intanto Augereau già era alle prese col nemico al ponte d'Arcole. Avevano gli Austriaci munito questo ponte con artiglierìe, e con barricate, ed empiuto al tempo medesimo le case vicine, che erano merlate, di eccellenti feritori. Nè questo parendo bastare al colonnello Brigido per le difese, aveva collocato sopra e sotto il ponte sulla sinistra dell'Alpone qua e là spessi feritori alla leggiera, i quali tirando contro l'argine, per cui solo i Francesi potevano aver l'adito ad Arcole, faceva loro l'accostarsi difficile, e micidiale. I primi repubblicani che si affacciarono, furono da una immensa grandine di palle, e di scaglia sfragellati; e certamente non mai guerrieri combatterono con maggior valore nelle battaglie più aspre e più difficili, con quanto i difensori di Arcole combatterono in questo fatto. Disordinati e titubanti si allontanavano i Francesi da un luogo di sì grave tempesta. Ma i capi, che sapevano di qual momento fosse, e che l'impeto in tale caso era più sicuro dell'indugio, gli ricondussero allo sbaraglio. Conoscendo però, che l'esempio era più efficace per fargli andare avanti, che le parole, si fecero essi medesimi guidatori delle colonne, ed appresentarono i primi i valorosi petti loro a quei fulmini tanto terribili. Ma nè il nobile coraggio loro, nè la pietà tanto maravigliosa verso la patria non poterono operare di modo che si superasse quel mortalissimo intoppo. Imperciocchè i Tedeschi traendo spessi e fermi, ed opponendo una costanza invincibile ad un coraggio impetuoso, assottigliavano con tante morti, ed affievolivano con tante ferite le Francesi squadre, che fu loro forza tornarsene indietro disordinate e sanguinose: i granatieri stessi, scelta ed invitta gente, cedettero. Lannes fu ferito, feriti Verdier, Bon, Verne, prodi tutti, e sperimentati capitani di guerra. Ricordavasi in questo punto Augereau del ponte di Lodi, e, dato di mano ad una insegna, si piantava in mezzo al ponte, invitando i compagni a seguitarlo. Il seguitavano laceri e sanguinosi com'erano. Ma i Tedeschi gli sfolgoravano novellamente per tal maniera, che tra morti e feriti l'abbattuta fu in poco d'istante sì grande che i superstiti spaventati, ed Augereau medesimo a tutta fretta si ritiravano. Seguitava un silenzio nelle genti Francesi, segno di scoraggiamento; già i capi temevano che succedessero grida assai peggiori del silenzio; tuonavano tuttavia gli Alemanni con l'artiglierìe, e con l'archibuseria. Così poche genti trincerate a caso in un piccolo villaggio avevano posto in grave pericolo, a cagione della difficoltà dei luoghi, tutta una oste coraggiosa per natura, e confidente per vittorie. Pressava il tempo; la fortuna di Francia in Italia inclinava ad una fatale rovina. Nè poteva dubitarsi, che Alvinzi, subito che avesse avuto avviso del fatto, non fosse per venire con tutta la sua mole in ajuto de' suoi; e come potevano sperare i repubblicani di superar tutti, quando una sola e piccola parte si mostrava insuperabile? Queste cose riandava in mente Buonaparte, nè curando la vita, nè curando la sicurezza dell'esercito in sì estremo frangente, venuto là dove i più animosi lo potevano udire, disse loro ad alta voce: _Or non siete voi più i soldati di Lodi? or dov'è il vostro coraggio!_ Questo parlare di Buonaparte a Francesi non poteva non partorire un grandissimo effetto; si rianimavano anche i più timorosi: tutti gridarono, comandasse pure gli guidasse alla battaglia. Cominciava a sperar bene, si avventava egli il primo, attorniato dai principali verso il formidabil ponte. Intanto, cosa maravigliosa in un accidente tanto spaventoso, non aveva omesso Buonaparte di ordinare quello, che avrebbe potuto, se il terzo assalto, che si preparava, avesse avuto infelice fine, ristorare la fortuna cadente, e dargli in mano Arcole, passo tanto essenziale alla vittoria. Primachè si muovesse al cimento fatale comandava a Guyeux, che se ne gisse a varcar l'Adige al passo di Albaredo, ed evitato per tal modo l'Alpone, desse dentro all'impensata al fianco sinistro di Arcole. Egl'intanto, smontato da cavallo, e dato di mano ad una insegna, e postosi in capo alla stretta fila, che sull'argine insistendo, si avviava al ponte, animava i suoi a seguitarlo. Nè furono lenti, anzi coi corpi loro serrandosi attorno a lui, pietosa cura, i granatieri massimamente, coraggiosi per indole, furibondi per la resistenza, già facevano tremare coi tiri, e col calpestìo numeroso la destra sponda del contrastato ponte. Nè già più si ricordavano della morte di tanti compagni, nè delle ferite proprie, nè del sangue sparso: solo miravano a vincere quella pruova terribile e fatale, Lannes medesimo, quantunque già fievole per due grosse ferite, udito il pericolo di Buonaparte, non se ne volle star a badare, e si mescolava anch'egli nella battaglia. Procedeva avanti quel globo formidabile; già metteva piede sul ponte, quando gli sopraggiunse addosso da fronte e dai fianchi un nugolo sì fitto di Tedesche palle, tanto grosse quanto minute, che rotto e trafitto nelle più vitali parti, fu costretto a dare frettolosamente indietro. Restava ferito Lannes di una terza ferita, restava ferito Vignolle, restava ucciso Muiron, ajutante del generalissimo, a canto a lui. Sboccavano allora gli Austriaci dal ponte, e seguitando la vittoria, menavano, con l'armi corte e bianche, strage di coloro, che scampati alla furia delle artiglierìe, e degli archibusi si ritiravano. In quella feroce mischia era Buonaparte, per esortazione de' suoi, rimontato a cavallo, e già cedeva all'impeto del nemico, quando un furioso caricare di scaglia rotti avendo, lacerati, ed uccisi tutti coloro, che gli stavano intorno, trovossi solo esposto al furore di tutte le armi Austriache. In questo punto medesimo spaventato il suo cavallo da quell'alto romore, e da quel trambusto orrendo, gittava se, ed il suo signore nella vicina palude. Gli Austriaci, perseguitatori dei Francesi, non accorgendosene, oltrepassavano il luogo, dove il guerriero fatale ad Austria si giaceva; pareva del tutto disperata la sua fortuna. Ma il generale Belliard, accortosi del fatto, tanto disse, e tanto fece coi granatieri, amatori del loro capitano supremo, che voltato subitamente il viso, e dato un forte rincalzo ai Tedeschi, gli ributtavano di nuovo fino al ponte, ed impedivano un caso ponderosissimo. Già Buonaparte, al quale fu presto in quell'estremo pericolo, con troppo infelice opera per la sua patria, un soldato Veneziano, che militava nelle schiere di Francia, rimesso a cavallo, fu ricondotto dai soldati pieni di allegrezza per la sua insperata salute, ad un sicuro alloggiamento. Non così tosto aveva Alvinzi avuto le novelle di un fatto tanto straordinario, che costretto ad obbedire a quel nuovo corso di guerra, che con tanta audacia e perizia aveva il suo avversario aperto, abbandonato il pensiero di assaltar Verona, e di congiungersi per allora con Davidowich, ordinava in primo luogo, che tutti gl'impedimenti e le munizioni si ritraessero da Villanova a Montebello; perciocchè ebbe tosto penetrato qual fosse l'intento del capitano di Francia. Poscia dirizzava sei battaglioni di fanti sotto la condotta di Provera a Porcile, e quattordici battaglioni di fanti con sedici squadroni di cavallerìa fidati a Mitruski a San Bonifacio per alla via di Arcole. Viaggiavano queste nuove schiere con molta prestezza, mentre si combatteva al ponte, e qualunque avesse a riuscir l'effetto della presenza loro sul campo di battaglia, già si comprendeva, che Buonaparte aveva conseguito il suo intento di rompere ad Alvinzi il disegno di conquistar Verona, e di unirsi con Davidowich. Già era Provera con la sua squadra giunto a Bionda, pronto a ferire sul fianco sinistro i repubblicani, ma a un duro incontro di Massena fu risospinto fin oltre Porcile. Mentre in tal modo si combatteva ad Arcole ed a Porcile per la maggior parte dell'esercito Francese, erasi Guyeux, passato l'Adige ad Albaredo, andato aggirando sulla sinistra dell'Alpone, e compariva improvvisamente sotto le mura di Arcole al punto stesso, in cui i difensori ne erano usciti per dar addosso alla risospinta schiera di Augereau. Nè fu lungo il combattere, perchè e poco era il numero dei difensori, e la terra da quel lato priva di ogni difesa. Vi entrava facilmente Guyeux; il che fa vedere, quanto agevole vittoria avrebbe conseguito Buonaparte, se avesse in sulle prime egli medesimo fatto quello, che aveva ordinato a Guyeux di fare. Ma gli Austriaci, che conoscevano l'importanza della terra, si muovevano col grosso delle loro forze da San Bonifacio, e prestamente la ricuperavano. Già annottava: Buonaparte, perduta ogni speranza di acquistare Arcole in quel giorno, e temendo, giacchè era vicino l'esercito Tedesco, di essere condotto a mal partito in mezzo all'oscurità della notte, riduceva tutte le sue genti sulla destra dell'Adige, lasciando solamente la duodecima alla guardia del ponte, e la sessagesimaquinta alloggiata in un bosco a destra dell'argine, per cui si va ad Arcole. Due cose mirabili sono a notarsi in questa notte, la prima delle quali si è la costanza di Buonaparte, e dei Francesi del non essersi sbigottiti pei due feroci ributtamenti di Caldiero e di Arcole, e questa è degna di grandissima commendazione; la seconda si è, e questa è certamente degna di molto biasimo, che Buonaparte si sia ostinato, ora che sapeva che tutto l'esercito d'Alvinzi era accorso alla difesa di Arcole, a volere assaltare questa terra pel ponte tanto funesto a' suoi, mentre avrebbe potuto o girare per Albaredo, come aveva fatto Guyeux, o far opera di passar l'Alpone verso la sua foce nell'Adige. Certamente assaltando Arcole pel ponte, era il terreno assai svantaggioso ai repubblicani, e se tanto mortale fu l'assalto dato a quel passo, quando vi erano pochi soldati a guardia, quale si doveva credere che fosse per essere, ora che tutta la possanza del generale Austriaco si era ridotta ad assicurarlo? Infatti l'effetto della seconda e terza battaglia di Arcole dimostrò apertamente, quanto fosse irragionevole l'ostinazione di Buonaparte; perchè ei non riuscì vincitore, se non quando si risolvè a passar verso la sua foce l'Alpone, per andar a ferire Arcole sul suo fianco sinistro. Sorgeva appena il giorno sedici novembre, quando e Francesi, e Tedeschi givano di nuovo con animi infestissimi ad incontrarsi. Avevano i primi di nuovo varcato sulla sinistra dell'Adige, erano i secondi usciti di Porcile e di Arcole per andare a trovar l'inimico. Al tempo medesimo mandava Alvinzi una grossa squadra di cavallerìa a guardare il passo di Albaredo, donde era venuto il pericolo per opera di Guyeux, e muniva tutta la sinistra dell'Alpone di spessi ed esperti feritori alla leggiera. Fu come quello del giorno precedente, durissimo l'incontro dell'armi, combattendosi assai virilmente da ambe le parti. Fu il primo Massena a far piegare la fortuna in favore dei repubblicani, perchè attaccatosi con Provera, che veniva da Porcile, dopo un ostinatissimo conflitto, lo risospingeva sin dentro a questa terra con perdita di molti uccisi, ottocento prigioni, sei cannoni, e quattro bandiere. Il generale Robert assaltava i Tedeschi sull'argine di mezzo, e molti ne buttava nel pantano. Nè se ne stava Augereau ozioso; che anzi opponendo valore a valore, già aveva risospinto gli Alemanni sin dentro ad Arcole, e dava nuovo assalto al ponte. Ma quivi accadeva quello, che era accaduto prima; che con tal furia menarono le mani gl'imperiali condotti da Alvinzi medesimo, ed alloggiati al ponte, nelle case vicine, e lungo la sinistra del contrastato Alpone che i Francesi se ne tornarono indietro dopo di aver patito un orribile macello. Parecchie volte andava alla carica Augereau, altrettante era costretto a cedere con istrazio maggiore: miserabile era la scena di tanti Francesi morti e feriti ammonticchiati sulla bocca del ponte, mentre gli Austriaci, siccome quelli che combattevano da luoghi sicuri, avevano sofferto leggier danno. Sette ufficiali Francesi, o generali, o superiori, furono sconciamente feriti in questa fiera mischia. Chiaro si vedeva l'errore di Buonaparte del volersi ostinare a guadagnare, con far forza di fronte, questo varco. Alcuni accusano Augereau di questa ostinazione, come se Augereau avesse assaltato il ponte non per comandamento di Buonaparte, come se egli si fosse ardito di usare una tanta trasgressione in un affare massime di tanto momento, e sotto gli occhi stessi del generalissimo. Errare è comune destino degli uomini, e nissuno dee dubitare a dire, che anche Buonaparte abbia errato in materia di guerra, perchè anche con qualche errore, sarà egli sempre, e meritamente riputato dagli uomini, sinceri estimatori delle cose, uno dei migliori capitani, che siano comparsi al mondo, e non è punto necessario di maculare la fama altrui per far risplendere la sua, che già tanto in queste guerresche faccende da per se stessa risplende veramente. Finalmente la sorte declinante della battaglia, più che tante infelici morti de' suoi, faceva accorto Buonaparte del commesso errore, e pensando a quello, a che avrebbe dovuto pensare prima, si metteva all'opra del far gettare in copia fascine nell'alveo dell'Alpone verso la sua foce, con isperanza che avrebbero fatto un sodo sufficiente, perchè i suoi soldati potessero passare a man salva. Ma riusciva vano l'intento, perchè la corrente delle acque diveniva per quell'ostacolo tanto impetuosa, che il passare si pruovò più difficile di prima. In questo fortunoso punto succedeva un fatto di grandissimo ardimento, e fu, che il generale Vial, portato da incredibile ardore, volle far pruova di passare a guado con tutto un intiero battaglione, quantunque i soldati avessero l'acqua fino alla gola, ed i Tedeschi continuassero a trarre furiosamente dalla riva opposta. Ma non era ancor giunto alla metà del rivo, che fu obbligato a tornarsene sulla destra a cagione di una fittissima tempesta di scaglia, che gli lanciarono addosso gl'imperiali. Restava ucciso in quest'incontro un Elliot, aiutante di Buonaparte, ufficiale assai riputato pel suo valore. In questo mentre Alvinzi, volendo usar la occasione della diminuzione d'animo prodotta necessariamente nel nemico da tanti e sì mortali ributtamenti, usciva grosso da San Bonifacio, con intento di pruovare, se gli venisse fatto di cacciar i Francesi nell'Adige, od almeno di costringergli a ripassare il ponte di Ronco più frettolosamente, che non l'avevano passato. Il pensiero del generale Tedesco era assai pericoloso pei repubblicani; ma fu pronto al riparo Buonaparte, poichè, siccome gli Austriaci erano obbligati a marciar sull'argine per gire all'assalto, con alcune artiglierie piantate da lui in un luogo opportuno, gli faceva star addietro. Così la strettezza dei luoghi nocque ai Tedeschi, come nociuto aveva ai Francesi, perchè nè gli uni nè gli altri potevano spiegare le ordinanze loro; ma fu di più grave danno ai Tedeschi, perchè essendo più grossi, avevano maggiore speranza, se avessero potuto allargarsi, di vincere l'inimico. Sopraggiungeva in fine la seconda notte, che faceva sosta al sangue ed alle morti. Tornavano gl'imperiali negli alloggiamenti loro di San Bonifacio e di Arcole, i repubblicani si ritiravano sulla destra dell'Adige, lasciata di nuovo la duodecima a guardia del ponte di Ronco. S'avvicinava il giorno, in cui doveva definirsi a chi dei due possenti nemici avesse a rimanere la possessione d'Italia. Non isbigottitosi Buonaparte a tante infelici pruove, e persuaso finalmente, che l'assaltar di fronte il ponte di Arcole era uno sparger sangue dei migliori soldati senza frutto, aveva abbracciato quelle risoluzioni, che sole potevano dargli la vittoria; poichè usando l'oscurità della notte, e la cessazione delle armi, aveva fatto dar opera allo edificar del ponte con cavalletti, ed assi sopra l'Alpone in poca distanza dal luogo dove mette nell'Adige. Si erano accorti i Tedeschi del disegno, e però la mattina dei diciassette, come prima incominciava ad aggiornare, erano usciti da Arcole con intenzione di rituffare la duodecima nell'Adige, e d'impedire che il nemico passasse di nuovo pel ponte di Ronco dalla destra sulla sinistra del fiume. A ciò dava loro maggiore speranza un accidente fortuito, perchè una barca del ponte di Ronco improvvisamente si era affondata. Ma le artiglierìe francesi trassero sì aggiustatamente dalla riva destra, che fu fatto abilità ai soldati di Buonaparte di racconciar il ponte, di conservar la duodecima, e di varcare. Andavasi adunque alla battaglia terminativa: il maggior numero delle genti, e l'esito delle precedenti fazioni facevano i Tedeschi confidentissimi: il nuovo ordine dell'assalto, l'avere facoltà di passare sulla sinistra dell'Alpone, il presidio di Legnago, che già si approssimava, ed il valore di tanti soldati agguerriti mettevano i Francesi in isperanza di diventar possessori della vittoria. Incominciava a colorirsi il disegno di Buonaparte; conciossiachè Massena con piccola parte della sua schiera marciava contro Porcile per operare, che Provera non isboccasse da questo lato; si accostava con la restante ad Arcole per aiutare l'opera della sessagesimaquinta, in faccia al ponte d'Arcole, e della trigesimaseconda, che sotto la condotta di Gardanne si era alloggiata in un bosco vicino all'argine. Era il fine di questi ordinamenti l'impedire, che i Tedeschi non potessero condurre a mal partito le genti repubblicane poste sulla destra dell'Alpone, e non s'impadronissero del passo di Ronco. Ma lo sforzo principale doveva farsi da Augereau, che, passato l'Alpone sul ponte construtto la notte, si avventerebbe, secondato dal presidio di Legnago, contro Arcole da quella parte, dove meno era difendevole. Le cose succedevano come il generale Francese le aveva ordinate; perchè Provera non potè far frutto da Porcile, Augereau varcava l'Alpone, e la sessagesimaquinta condotta da Robert, rincacciava, marciando sull'argine, i Tedeschi insino al ponte di Arcole. Ma gl'imperiali, sboccandone di nuovo più grossi, si scagliavano con tanto impeto contro di lui, che non solo fu risospinta sin là donde si era mossa, ma disordinatamente fuggendo già aveva dato indietro sino al ponte di Ronco. Fu percosso con grave ferita in questo fatto Robert. Seguitavano i Tedeschi questa parte dei Francesi, che fuggiva, credendo di possedere la vittoria, mentre ella effettivamente già loro usciva di mano; imperciocchè Massena, che sapeva bene corre i tempi, ed usargli con vigore, compariva improvviso sulla destra loro, la diciottesima gli percuoteva di fronte, Gardanne uscito dall'agguato gli urtava sul fianco sinistro. Tanti contemporanei assalti disordinavano la schiera Tedesca, di cui parte si ritirava più che di passo verso Arcole, parte fu spinta nella palude vicina, dove divenne miserabile bersaglio delle artiglierìe, e dell'archibuserìa di Francia. Morirono in quest'abbattimento, del quale la principal lode si debbe a Massena, quantità grande di buoni soldati Tedeschi; circa tre mila vennero in poter dei repubblicani. Alvinzi manteneva tuttavia la battaglia contro Augereau, che, varcato il nuovo ponte, si era condotto sulla sinistra dell'Alpone. Nè era facile a Buonaparte di sforzarlo, perchè il Tedesco aveva con lui il miglior nervo delle sue genti, e la sua destra si appoggiava ad una palude, mentre la sinistra era assicurata da luoghi anche pantanosi, e da una fiorita cavallerìa. Durava la battaglia già buon tempo con esito incerto, quando, siccome narrano, sovvenne a Buonaparte uno stratagemma, e fu di mandare una compagnìa di soldati a cavallo, acciocchè girando velocemente dietro il fianco degli Austriaci, andasse a romoreggiar loro alle spalle con le trombe, e con quel maggiore strepito che potesse. Scrivono, che questo carico fu dato dal generale Francese ad un luogotenente Ercole, e che Ercole lo condusse a fine con quella celerità ed avvedutezza, che meglio si potevano desiderare. Certo è bene che, o che il romore improvviso di questo Ercole, od il presidio di Legnago, che già uscendo dalla vicina terra di San Gregorio incominciava a tempestare sul sinistro fianco, ed alle spalle dei Tedeschi, o finalmente la vittoria avuta da Massena contro il destro, sel facessero, gli Austriaci incominciavano a declinare manifestamente, ed infine a cedere il campo, se non con fuga, almeno con ritirata molto presta. Occupavano con infinita allegrezza i Francesi il tanto combattuto Arcole, e vi pernottavano. Ritirava Alvinzi le sue genti ad Altavilla, poscia a Montebello sul Vicentino. Lasciava, ovunque passava, ogni più sfrenato eccesso commettendo i suoi soldati, funesti vestigi sui desolati paesi. Poco meno di tremila Tedeschi furono uccisi nella giornata di Arcole, circa cinque mila prigionieri, tra i quali sessanta ufficiali, diciotto pezzi d'artiglieria, e quattro insegne ornarono il trionfo dei vincitori. Grave esser stata la perdita dei Francesi nissuno potrà dubitare, considerando le spesse ed aspre battaglie, ed i mortali ributtamenti, massime il silenzio del generale repubblicano in questa parte. Ma la vittoria intiera, la mantenuta fama, la conservata Italia, l'aver superato con un esercito vinto e minore, un esercito vincitore e più grosso, l'aver impedito la congiunzione dei due eserciti Tedeschi, l'aver fatto passaggio, per mezzo di una mossa maravigliosa, da una condizione quasi disperata ad una condizione prosperissima, e finalmente la presa di Mantova, che già si vedeva sicura per Francia, di gran lunga compensarono i sopportati danneggiamenti. La battaglia di Arcole, che finchè saranno in onore presso agli uomini il valore e la scienza militare, sarà celebratissima, e stimata uno dei più esimj fatti di guerra, che dalle storie siano tramandati ai posteri, pose per allora in sicuro la fortuna Francese in Italia. Aveva bene Davidowich, calatosi da Ala il dì medesimo in cui Buonaparte vinceva ad Arcole, rotto e fugato Vaubois da Corona poscia da Rivoli, e ridotto in potestà sua il posto importante della Chiusa. Aveva bene anche scacciato Vaubois medesimo dai monti di Campara con presa di undici cannoni, e di due mila prigionieri, fra i quali si noveravano Fiorella e Lavalette; finalmente aveva bene altresì, seguitando il corso della fortuna prospera, occupato Bussolengo, e distendendosi sulla sinistra insino a Castelnuovo, e sulla destra insino in prossimità di Peschiera, minacciato di riuscire alle spalle di Verona, e di correre al riscatto di Mantova. Ma quello, che sarebbe stato fatale ai Francesi, se fosse stato effettuato cinque o sei giorni avanti, non poteva partorire, se non la ruina di Davidowich, effettuato essendo a questo tempo. Il che fa vedere, quanto sia stato funesto alla casa d'Austria, e disonorevole, per non dire colpevole, a Davidowich l'avere soprastato, e consumato invano tutto il tempo utile alle stanze di Roveredo. Non arrivò alle sponde del Mincio, quando era il tempo di arrivarvi, e vi arrivò, quando non era più il tempo. Così piuttosto agli errori de' suoi capitani che alla natura dei soldati restò l'Austria obbligata delle rotte sofferte, e della perduta Italia. Non così tosto ebbe Buonaparte vinto ad Arcole, che si rivoltava con le sue schiere vincitrici contro Davidowich, e trovatolo a Campara lo debellava. Vero è però, che il Tedesco, avendo avuto avviso della calamità di Arcole, stimandosi, come era realmente, impotente al resistere, ebbe combattuto rimessamente, e solo per dar tempo agl'impedimenti di condursi in salvo. Poi vieppiù tirandosi all'insu, si conduceva prima a Dolce, poi ad Ala, seguitato velocemente dai Francesi, che lo danneggiarono nella retroguardia. Nè fuvvi in questa ritirata cosa notabile, se non che una squadra di otto cento Alemanni governati dal colonnello Lusignano, tanto trattenne, valorosamente combattendo, Augereau, che con ottimo intendimento era partito da Verona per riuscire, valicando i monti della Mallara, alle spalle di Davidowich, prima che fosse giunto ad Ala, che rendè vano il disegno dei repubblicani. Essendo diventati novellamente i Francesi padroni di tutto il Veronese, e la stagione correndo molto sinistra, condussero i due avversari i soldati loro alle stanze. Fermossi Davidowich in Ala, Alvinzi in Bassano, con la vanguardia a Vicenza ed a Padova, ed il grosso sulle rive della Brenta. Si avvisò anche di alloggiare un grosso a Primolano per aver in tal modo più vicina, e più spedita la via di comunicare, pel corso della Brenta, con Davidowich. Stanziò Buonaparte nel Veronese, rimandata però la schiera di Kilmaine al campo di Mantova per istringere viemaggiormente l'assedio della piazza, che, siccome priva dell'ajuto d'Alvinzi, credeva aver tosto a venire in sua possanza. Gli Alemanni, ancora quando fossero respinti, non erano però rotti, e se molti buoni soldati erano morti, grave danno avevano anche patito i Francesi; le fazioni di Caldiero, e le vittorie conseguite da Davidowich nello scendere dal Tirolo compensavano le perdite fatte nella battaglia di Arcole. Si vedeva manifestamente, che, ove Alvinzi si fosse riforzato per nuovi ajuti venuti dagli stati ereditarj, sarebbe di nuovo in grado di uscire alla campagna, e di ritentar la fortuna delle armi: di nuovo le Austriache sorti potevano risorgere. Sapeva queste cose Buonaparte; perciò continuamente rappresentava al direttorio, avere bisogno di nuovi soldati, e tosto gli mandassero se a loro stavano a cuore la fama, e la potenza acquistata nelle contrade Italiche. Mandava apportatore delle felicissime novelle a Parigi Lemarrois, suo ajutante di campo. Appresentava le conquistate insegne al direttorio; i segni delle avute vittorie tanto più volentieri furono veduti, quanto maggiore era stata la sollevazione degli animi all'apparato Austriaco. Le lodi del capitano invitto, e dell'esercito Italico andavano al cielo. Decretava la repubblica, le repubblicane bandiere portate da Augereau e da Buonaparte contro gli Alemanni nella battaglia di Arcole, a loro in nazionale ricompensa si donassero. Bene considerato certamente fu questo decreto in quel che diceva, ma non in quel che taceva, perchè Massena aveva vinto gran parte della battaglia. Le armi infelicemente usate dall'Alvinzi non avevano tanto sbigottito l'imperatore, che non confidasse di poter soccorrere con frutto le cose d'Italia. Perochè e le sue genti erano tuttavia quasi intiere, e la divozione dei popoli grande, e la somma della guerra consisteva in una vittoria, alla quale la volubile fortuna avrebbe, quando meno si pensava, potuto aprire il varco. Nasceva altresì la sicurezza dell'Austria dalla risoluzione del pontefice di volere piuttosto incontrare una guerra pericolosa, che accettare condizioni inonorate, e contrarie, siccome credeva, alla purità della fede. Pareva, che l'autorità ed il pericolo della santa sede avessero a muovere gl'Italiani, ove l'Austria apparisse di nuovo grossa in Italia, e qualche vittoria l'assicurasse. Non si dubitava poi che se la fortuna voltasse il viso più benigno a coloro, ai quali fino allora era stata avversa, Napoli non fosse per mutar fede, per la grande entratura che avevano gl'Inglesi in quella corte. Le quali cose molto bene considerate e ponderate dall'Austria, la confortarono a fare un nuovo sforzo anche prima che la stagione si fosse intiepidita. Solo dava timore la piazza di Mantova, che si sapeva essere ridotta agli estremi, e l'averla, o non averla era per ambe le parti l'importanza della guerra. Ma Wurmser non indugiava a torre in questo proposito ogni dubbio; perchè non perdutosi d'animo all'esito infelice delle battaglie d'Alvinzi, tanta era la costanza di questo vecchio, nè alle malattie che infierivano in mezzo a' suoi soldati, nè alle tante morti che gli avevano scemati, si deliberava di trovar modo per qualche improvvisa sortita a procurare a se nuova vettovaglia. Assaltava i giorni diecinove, e ventitre novembre con quasi tutto il presidio i repubblicani a Sant'Antonio, ed alla Favorita, ed avendogli fatti piegare, predava, ed introduceva dentro la piazza non poca quantità di viveri. Avendo poi avuto avviso, che erano arrivate nel porto alcune barche cariche di munizioni da bocca ad uso dei Francesi, usciva nuovamente molto grosso gli undici, e quattordici decembre, e le predava; prezioso sussidio alle sue affamate genti. Oltre le munizioni conquistate, la sortita di Wurmser per la porta Pradella cagionava non poco danno alle trincee fatte dai Francesi. Erasi intanto Alvinzi condotto in Tirolo per consultare con Davidowich sulle faccende comuni, e per fermare i consigli sull'indirizzo a darsi alle nuove armi, che si preparavano. Poco dopo Davidowich, la cui tardità era gravemente spiaciuta all'Imperatore, fu richiamato, ed ebbe lo scambio nel principe di Reuss, capitano pratico dei luoghi, avendo pochi mesi innanzi guerreggiato, non senza lode, con Quosnadowich sulle spiaggie del lago di Garda. Deliberava Alvinzi, al quale l'imperatore serbava fede malgrado dell'infelice successo della guerra testè terminata con la sconfitta di Arcole, che il principale nervo si muovesse, ed il principale sforzo si facesse dal Tirolo, calando per le rive dell'Adige; alla quale deliberazione si era accostato per la difficoltà incontrata di passare questo grosso fiume a Verona. Aveva argomentato, che venendo dal Tirolo, si trovava a campeggiare naturalmente tra l'Adige e il Mincio, ed in grado di correre senza impedimento di fiumi al soccorso della città assediata. Aveva poi ordinato, che la parte di mezzo condotta da Quosnadowich si pruoverrebbe, percotendo verso Verona, di congiungersi con la destra, che era la più grossa, e veniva dal Tirolo, e che al tempo stesso la sinistra guidata da Provera si sforzerebbe di passar l'Adige verso Porto-Legnago. Ma per poter meglio ingannare l'inimico, e tenerlo sospeso del dove avesse a ferire quella nuova tempesta, aveva Alvinzi operato, da una parte, che Laudon con una mano di soldati armati alla leggiera, disceso per la destra del lago, andasse a romoreggiare sino alle porte di Brescia, dall'altra, che un'altra parte di simil gente, partita da Padova, e traversato il Polesine di Rovigo, passasse l'Adige a Boara per mettere in sentore Ferrara e Bologna, dove i Francesi s'ingrossavano per far la guerra al papa. Era lo scopo d'Alvinzi nell'ordinare la mossa contro Brescia il far credere a Buonaparte, ch'ei volesse far campo della nuova guerra le regioni tra il Mincio e l'Oglio, e col correre contro le due legazioni intendeva di dar animo e forza al papa, che già aveva adunato le sue genti sulle rive del Senio. Sperava poi generalmente, che tempestando coi due corni estremi del suo esercito, avrebbe allontanato dalla credenza del generale repubblicano, ch'ei fosse per fare il principale sforzo tra l'Adige e il Mincio. Così come pareva nuovo questo disegno, confidava, che avrebbe suscitato nuovi pensieri di Buonaparte, e messo in sospetto di una maniera di guerra non ancora usata. Per arrivare a questo fine aveva cinquanta mila combattenti, se non tutti sperimentati, almeno tutti ardenti; perchè aveva con se in Tirolo venticinque mila soldati, dieci mila ne aveva Quosnadowich in Bassano, altrettanti Provera a Padova, il resto sulle ali estreme. Maravigliosa cosa è il pensare, come l'Austria, dopo tante rotte, abbia potuto raccorre in sì breve tempo un esercito sì grosso. Ma dal Reno erano venuti più di tre mila soldati, quattro mila dall'Ungheria: gli altri stati ereditari fornivano a proporzione. Risplendè principalmente la fedeltà e l'ardore dei Viennesi in tanta depressione della potenza Austriaca; perchè quattro mila giovani delle prime famiglie, lasciati in sì grave pericolo della patria, gli agi e le morbidezze, e prese le armi, accorrevano bramosamente fra le nevi del Tirolo, e fra i veterani dell'esercito al voler riconquistare al loro signore le perduta Italia. Buonaparte, che stimava l'utile, non il generoso, si faceva beffe di questa gente, giovinastri chiamandogli, e ciamberlani. Ma si vide alla pruova, ch'erano valenti soldati, e che se non era di una spia, e della celerità di un giorno, i vinti sarebbero divenuti vincitori, gli scherniti trionfatori. Erasi il generale repubblicano ingrossato per nuove genti venute di Francia. Non ostante non arrivava il suo esercito al novero di quello d'Alvinzi, poichè passando i quarantacinque mila, non arrivava ai cinquanta. L'aveva egli spartito in cinque schiere principali, una delle quali governata da Serrurier teneva il campo sotto Mantova, l'altra con Augereau stanziava a Verona, distendendosi verso le regioni inferiori dell'Adige, la terza retta da Massena alloggiava pure in Verona, ma spingeva le sue genti innanzi per sopravvedere quello che fosse per annunziare la guerra dalle sponde della Brenta; la quarta, che obbediva a Joubert, surrogato a Vaubois, guardava le fauci del Tirolo, avendo il campo alla Corona, a Rivoli, e nei luoghi intermezzi; la quinta finalmente, quale corpo di ricuperazione, e per assicurare la destra del lago, aveva le sue stanze a Brescia, Peschiera, Desenzano, Salò e Lonato. Da tutto questo si può conoscere, che Buonaparte si era persuaso, che lo sforzo dei Tedeschi avesse a indirizzarsi contro Verona; ma però, siccome astuto e prudente capitano, aveva ordinato i suoi per forma che se la tempesta si scagliasse dal Tirolo, fossero in grado di resisterle, perchè e Joubert era grosso di dieci mila soldati, ed Augereau e Massena potevano arrivare prestamente in soccorso di lui da Verona. Il primo a dar le mosse alla sanguinosa guerra, che siam per raccontare, fu Provera, che partito da Padova il dì sette gennajo, si dirizzava verso Bevilacqua, terra posta sul rivo, che chiamano la Fratta. Era in Bevilacqua il generale Duphot con una squadra, che serviva come antiguardo al presidio di Porto-Legnago. Era intendimento di Provera di tentare il passo dell'Adige poco sopra a quest'ultima fortezza per recarsi quindi al soccorso di Mantova. Il dì otto sul far del giorno il principe Hohenzollern marciava contro Bevilacqua difesa da un piccolo castello: trovato per istrada un grosso corpo repubblicano, che gli voleva far contrasto, dopo un aspro combattimento, lo fugava. Al tempo medesimo il colonnello Placseck sulla sinistra s'impadroniva del posto di Caselle, e sulla destra un capitano Giulay occupava i passi di Merlara e di San Salvaro. Frattanto i Francesi si erano rinforzati a Bevilacqua per le genti fresche venute da Porto-Legnago. Ma assaliti in diverse parti dagli Alemanni, fu loro forza di pensare al ritirarsi, e si ridussero a Bonavigo ed a Porto-Legnago sull'Adige, non senza grave danno, e con perdita di due cannoni. Combattè molto animosamente in questo fatto Duphot, ma con non minor valore combatterono i volontari Viennesi, che furono gran parte della vittoria. Conseguìti questi primi vantaggi, confidava Provera di poter presto passar l'Adige tra Ronco e Porto-Legnago. Era, quando seguirono queste prime battaglie, Buonaparte a Bologna, intento ad ordinar la guerra contro il papa, e non così tosto ne ebbe avviso, che giudicando bene del tempo, comandava a due mila soldati, che già aveva indirizzato contro gli stati della chiesa, retrocedessero, e gissero a congiungersi con Augereau, che difendeva le rive dell'Adige assaltate da Provera. Il che dimostra quanto intempestiva, e troppo presta fosse la mossa del generale Austriaco; perchè avrebbe fatto di mestiero, che si fosse dato tempo ai pontificj di venire avanti tanto che congiunti con gl'imperiali avessero potuto concorrere coi medesimi al fine, che gli uni e gli altri si proponevano. Buonaparte, poichè tanto stringeva il tempo, e le cose se gli dimostravano pericolose, condottosi celeremente, e soprastato alquanto al campo di Mantova per ordinar quello che fosse a farsi in tanto pericolo, s'avviava a Verona la mattina del dodici, dove trovava Massena alle mani coi Tedeschi venuti a Bassano; imperciocchè Alvinzi per tener incerto l'avversario del luogo, dove principalmente volesse ferire, aveva comandato, che al tempo medesimo si urtasse contro tutta la fronte del nemico. Trovavasi l'antiguardo di Massena a San Michele, poco distante da Verona, quando assalito dai Tedeschi fu costretto a ritirarsi dentro le mura. Ma Massena, uscito fuori con tutti i suoi, attaccava la battaglia, che fu molto aspra e sanguinosa. Restava il campo ai Francesi, e prendevano al nemico seicento prigionieri con tre bocche da fuoco. Non fu senza grave danno la vittoria, perchè i repubblicani perdettero a un di presso il medesimo numero di soldati con quattro pezzi d'artiglierìa. Non insistevano maggiormente gl'imperiali, contenti allo aver fatto credere al nemico, che lo volessero assalire fortemente, e grossi in questa parte. Si ritraevano per iscaltrimento indietro alle montagne; anzi una parte guidata da Quosnadowich si conduceva celatamente, e con molta prestezza per la valle della Brenta a rinforzare Alvinzi in Tirolo. Restava la rimanente sotto il generale Bajalitsch. Nè qui si restavano i tentativi degli Austriaci, perchè sulle due ali estreme Provera varcava l'Adige il dì tredici, non però senza molta difficoltà, contrastatogli animosamente il passo da Guyeux. Alvinzi sforzava le strette della Corona con avere obbligato Joubert a ritirarsi sull'alloggiamento forte, e fortificato di Rivoli. Pendeva in tale modo incerto Buonaparte del vero intento dell'avversario; nè sapendo a qual parte volgersi, se ne stava tuttavia a Verona, aspettando che il tempo, e più aperte dimostrazioni degli Austriaci gli dessero maggior lume. Nè tardava ad essere appagato del suo desiderio; perchè, in primo luogo, un Veronese, amatore dei Francesi, e congiunto d'antica amicizia con Alvinzi, si era segretamente condotto a Trento per visitarlo, ed ivi soprastato essendo tre giorni, ebbe trovato modo di copiare tutto il disegno di guerra del generale Austriaco, il quale disegno, tornatosene a Verona, consegnava ad un Pico, che nato in Piemonte, e mescolatosi nelle congiure di quel paese, si era ricoverato in Francia, e seguitando sempre l'alloggiamento principale, si adoperava come esploratore delle operazioni militari del nemico. Da questo Pico fu incontanente il disegno d'Alvinzi dato in mano del generalissimo di Francia. Così ebbe sicura notizia di quanto intendesse fare il generalissimo d'Austria. Giungevano in secondo luogo lettere espresse di Joubert, che portavano, quanto grossi fossero comparsi gli Austriaci alla Corona. Da tutto questo divenne chiaro, che gl'imperiali farebbero il più grosso sforzo per le regioni superiori dell'Adige col fine di andar a percuotere direttamente quelle, che sono poste fra l'Adige ed il Mincio. Buonaparte allora, solito a spingere con incredibile celerità sempre innanzi le occasioni, comandava a Massena, corresse con tutta la sua schiera a Rivoli più prestamente che potesse. Lo stesso ordine mandava a Rey, che se ne stava alle stanze di Desenzano e di Lonato. Egli poi, la notte medesima del tredici, s'incamminava frettolosamente a Rivoli per ivi sostenere la fortuna vacillante. Confidava Alvinzi, che il generale repubblicano, trovandosi alle prese a Verona, e sul basso Adige, non sarebbe accorso sull'alto con tutte le sue forze. Però si persuadeva di aver solo a fronte la schiera di Joubert. Per la qual cosa aveva ordinato talmente i suoi, che una parte urtasse contro il forte passo di San Marco occupato dalla vanguardia di Joubert, e che è la chiave di chi scende dal Tirolo verso Verona; l'altra condotta da Liptay girasse sui monti per Campione per andar a ferire alla schiena il rimanente corpo di Joubert, che alloggiava in Rivoli. Un'altra colonna grossa di quattromila soldati, e governata dal generale Lusignano, girando più alla larga, doveva riuscire più alle spalle dei Francesi, per la valle del Tasso. Arrivava intanto Quosnadowich, e romoreggiava sulla sinistra dell'Adige. Aveva infatti Alvinzi con un urto gagliardo acquistato il passo di San Marco. Ma non era ancora spuntato il giorno del quattordici, che Buonaparte già ingrossato dalle genti più leggieri di Massena, aveva dato dentro a San Marco, e dopo un grave conflitto, se n'era impossessato. Si accorgeva allora Alvinzi, che i suoi pensieri erano stati penetrati, e che in vece di avere a combattere col solo Joubert, gli era forza di sostenere l'impeto della maggior parte dell'esercito repubblicano. Ciò cambiava le sue sorti, perchè quello, che era conveniente combattendo molti contro pochi, non era parimente combattendo molti contro molti, anzi contro più. Tuttavia non diminuendo per questa difficoltà della speranza di vincere, ed essendo già presente il nemico, non aveva più comodità di cambiare l'ordine incominciato della battaglia, e dovette far fronte con mosse non acconce ad un caso inaspettato. Nè sicuro consiglio sarebbe stato il ritirarsi, perchè avrebbe portato con se la perdita di tutta l'impresa, oltrechè in cospetto di un nemico tanto attivo, la ritirata sarebbe stata accompagnata da gravissimi pericoli. Vi era adunque pel generale Austriaco necessità di combattere, e d'incontrar la fortuna, qualunque ella si fosse. Già si combatteva asprissimamente dalle due parti alle cinque della mattina, e siccome gli Austriaci per ordine del loro generale puntavano massimamente contro la sinistra dei Francesi, per secondare le colonne che giravano alle spalle, così quest'ala Francese, ed anche la mezza pativano grandemente, e già, crollandosi, si tiravano indietro disordinate: erano la ottuagesimaquinta, e la vigesimanona. Pareva la fortuna inclinare a favore dei Tedeschi. Mosso Buonaparte dall'estremo pericolo, comandava a Berthier, nel quale e pel valore e per l'esperienza molto confidava, sostenesse con la quartadecima l'inimico in mezzo. Egli poi accorreva alla sinistra, che tuttavia sempre più piegava, e pericolava. Sosteneva la quartadecima un urto ferocissimo. Questo sforzo, e la terribile trigesimaseconda, che arrivava, ristoravano in questo luogo la battaglia, che inclinava. Ma non procedevano con simile prosperità le cose dei Francesi sulla sinistra, che continuava a cedere del campo: era sempre il rischio estremo, quando ecco arrivare a gran tempesta Massena, ed entrare nella battaglia sulla sinistra. Quivi risvegliatasi in lui la solita caldezza, e combattendo con grandissimo valore, fe' strage orribile del nemico, e ricuperò alcuni dei siti perduti sulle eminenze. Mentre Massena rintegrava la fortuna, e guadagnava del campo a sinistra, il mezzo e la destra dei repubblicani acremente incalzati si ritiravano, e già gli Austriaci erano in punto d'impadronirsi dell'eminenza di Rivoli, che era a chi l'avesse in poter suo, la vittoria della giornata. In questo momento compariva sulle alture a man manca Liptay, e mettendosi alla scesa già era vicino a ferire di fianco l'ala sinistra dei repubblicani. Quest'era il momento determinativo della fortuna; perchè, se gli Austriaci, in vece che erano spartiti in parecchi corpi, tanto sulla destra, quanto sulla sinistra dell'Adige, fossero stati ammassati in un solo e grosso per far forza contro Rivoli, cosa è più che probabile, che avrebbero acquistato la vittoria. Ma trovandosi le schiere divise, perchè Alvinzi, credendo di aver a far solo con Joubert, le aveva ordinate piuttosto per circondare, che per combattere, non poterono urtar tutte al medesimo tempo e di concerto, e lasciarono intervalli fra di loro, pei quali poteva il nemico penetrare, ed assaltarle di fianco. Tuttavia, spignendosi avanti con mirabile coraggio, avevano recato in poter loro il fatale Rivoli; ma Buonaparte, veduto che poteva, per la separazione delle colonne nemiche, riunire i suoi in un grosso corpo senza pericolo, il fece, e ricuperava con breve battaglia Rivoli. Pinsero di nuovo avanti i Tedeschi, e dopo una mischia spaventevole, se lo pigliavano una seconda volta. Buonaparte, che vedeva stare ad un punto la fama e la fortuna sua, comandato a Berthier, che trattenesse con la cavallerìa i Tedeschi nel piano, che fra le alture a sinistra, e Rivoli a destra si apre, acciocchè non potessero aiutare i difensori di Rivoli, adunava in un solo sforzo tutti gli squadroni che potè raccorre in quel momento, ed uniti e grossi gli conduceva contro Alvinzi, occupatore per la seconda volta del contrastato passo. Là erano le sorti d'Italia, e di tutta la guerra, là di Mantova si diffiniva. Nè nissuno creda, che dappoichè gli uomini fan guerra, e neanco nelle battaglie più famose dell'antichità, e dei tempi moderni si sia combattuto o più ostinatamente, o più coraggiosamente, come in questo fatto si combattè. Ebbero l'uno assalto e l'altro felice fine pei buonapartiani, perchè e Berthier frenava il nemico nel piano, e Joubert, che in questa giornata lasciò dubbio, se fosse più valoroso soldato, o più esperto capitano, cacciato a forza il nemico da Rivoli, se ne impossessava. Intanto già si era per modo accostato Liptay che incominciava a percuotere l'ala sinistra dei Francesi, non ancor del tutto rimessa in ordine dal precedente scompiglio. Correva pericolo, che quello, che la mezzana e la destra avevano guadagnato, la sinistra perdesse. Se a ciò si aggiunge, che Lusignano già si approssimava, e batteva il campo sulle alture, donde si cala il Tasso, si verrà a conoscere, a quale ripentaglio fossero ridotte, malgrado del riacquistato Rivoli, le Francesi sorti. Ma le ristorava, secondo il solito, quel Massena, il quale, spintosi tra la squadra di Liptay, e l'estremità della mezzana, tanto batteva l'una e l'altra, che le sforzava, non senza grave disordine, al ritirarsi: si ricoverava Liptay a Caprino. Massena poi, prevedendo l'arrivo di Lusignano, andava a porre alcune sue genti su certi colli, pei quali si poteva riuscire dietro a Rivoli. A questo modo la fortuna, che sul principio, e per parecchie ore aveva inclinato a favor degl'imperiali, voltato il viso, guardava propizia i repubblicani; il quale accidente all'opera principalmente di Buonaparte e di Joubert a dritta, di Berthier in mezzo, e di Massena a stanca si debbe attribuire. Rimaneva Lusignano, che poteva ancor disordinare la vittoria, s'ella non avesse avuto, con la rotta di lui, la sua perfezione. Infatti compariva, già erano le nove della mattina, con terribile mostra, dopo di aver varcato i monti di Sperano, di Montegazo e del Lavaletto, nella terra di Pesena, e già s'incamminava più sotto, costeggiando il Tasso, verso Affi. Debole presidio era contro questa colonna la diciottesima, alloggiata a Rocca di Garda. Infatti, dopo un grosso affronto a Calcina, aveva Lusignano continuato il suo viaggio, e già pervenuto sul monte Fiffaro a fianco ed alle spalle di Rivoli, rendeva dubbia la vittoria. Mentre così in una battaglia già tante volte vinta e perduta stavano ancora sospese le sorti, arrivava Rey, che, come abbiam narrato, per ordine di Buonaparte veniva da Desenzano e Lonato, in luogo donde già poteva essere di sussidio a' suoi. Erasi egli, velocemente marciando, condotto sulle alture di Cavaglione custodite da alcune bande di Croati, e fatto dar dentro dai generali Partoneaux e Boyer, facilmente le superava; perchè i Croati, gente nuova e collettizia, nè usa alle battaglie ferme, fatta debole resistenza, si diedero facilmente alla fuga. Superatisi da Rey i monti di Cavaglione, e traversata la valle che gli parte dall'eminenze di Rivoli, aveva trovato modo di aprirsi la strada fino a Massena. Si avventavano allora tutti ad un tempo contro Lusignano, Massena da una parte, Monnier dall'altra, Rey alle spalle, per forma che attorniato da tutte bande, non aveva più altro rimedio, che quello di arrendersi, o di far pruova di aprirsi il varco con le bajonette. Si appigliava volentieri, come uomo di molta prodezza, a quest'ultimo partito. Ma soperchiato dal numero soprabbondante dei nemici, nè avendo con se difesa di artiglierìa, o di cavallerìa, di cui gli assalitori abbondavano, fu costretto a cedere, deponendo le armi, e dandosi con tutti i suoi prigioniero in poter dei repubblicani. Dava questo fatto piena vittoria a Buonaparte, perchè tutta la restante oste d'Alvinzi, sbigottitasi a sì infelice caso, rapidamente verso la parte più alta e più aspra del Tirolo si ritirava. Buonaparte, conseguita tanta vittoria, ed avute le novelle dell'accostarsi di Provera a Mantova, conoscendo quanta variazione potrebbero ancor fare le cose, malgrado della vittoria di Rivoli, se Mantova si rinfrescasse, con celerità uguale a quella, con cui aveva camminato da Verona a Rivoli, correva da Rivoli a Mantova, conducendo con se Massena e la sua schiera, tanto sicuro fondamento alle vittorie. Intanto Joubert, al quale partendo aveva dato il carico di perseguitar l'inimico, mandava sui monti a sinistra Murat coi soldati più veloci, con intendimento di girare alle spalle di Corona, dove pareva che gli Austriaci volessero rannodarsi. Riusciva la fazione, come era stata ordinata dal Francese; perchè rotta da Murat per via una banda di nemici, un terror tale entrava subitamente negli Alemanni, che pensarono meglio a salvar le persone che l'onore. Fu generale la sconfitta, e se si eccettuano dieci battaglioni, ed otto squadroni, che il giorno innanzi aveva Alvinzi spedito a Bassano per assicurare quel passo, nissun reggimento si ritirava, che intiero od ordinato fosse. Vollero fermarsi a fare un poco di fronte a Torbole ed a Mori, dove Laudon e Wukassowich avevano fatto a questo fine alcune trincee; ma la trepidazione dei soldati, una improvvisa comparsa alle spalle di Vial, che per nevi e per dirupi aveva corso un cammino malagevolissimo, e finalmente un assalto inopinato e subito dato a Torbole da quel rischievole Murat, che aveva a questo intento attraversato il lago, sbigottirono gli Austriaci per modo che, tolta ogni difesa, fuggivano a precipizio. Nè fecero fine gli uni al perseguitare, gli altri al ritirarsi, finchè Wukassowich non giunse a Lavisio, dove nelle antiche trincee distribuiva le genti. Entrava Joubert trionfante in Trento con bella e lieta mostra guerriera. Così coloro, che già abbracciavano colla mente la possessione di Mantova, non poterono nemmeno conservare la metropoli del Tirolo, antico e fedele seggio della potenza Austriaca. Spente le speranze dell'Austria nei campi di Rivoli, si ravvivavano alcun poco, ma per breve tempo, nelle regioni vicine a Mantova. Erasi Provera accostato all'Adige coll'intento di varcarlo per accorrere prestamente al sussidio di Mantova. Simulava per ingannare Augereau, che stava schierato sull'altra riva, ora di assaltar Ronco, ora Porto-Legnago, perchè il suo pensiero era di passare ad Anghiari, passo più comodo per certi rilevati, che vi sono sulla sinistra sponda, molto atti a dar facilità di nascondere i soldati, e le artiglierie. Venendo poscia più alle strette, aveva mandato le piatte abili a far i ponti estemporanei sui fiumi, a Nichesola, e pareva, che vi si affaticasse per passare. Ma finalmente, gittatosi improvvisamente ad Anghiari, e fatto star indietro con le artiglierìe i Francesi, che dall'opposta riva lo oppugnavano, vi piantava il ponte e varcava, come abbiam detto, il giorno tredici di gennajo. I volontari Viennesi venuti sulla destra sponda, cacciavano i repubblicani da Anghiari. Non così tosto ebbe Provera effettuato il passo, che, chiamate a se le bande spartite mandate a Bonavigo, a Ronco, ed a Legnago, marciava velocemente alla volta di Mantova; perciocchè nella celerità era riposta la vittoria. Passava per Cerea, Sanguinetto, e Nogara: alloggiava in quest'ultima terra la notte dei quattordici. Il quindici, continuando a viaggiare molto per tempo, e prestamente, passato Castellara, compariva in cospetto di San Giorgio, sobborgo di Mantova. Il seguitavano più che di passo Guyeux, ed Augereau, e sebbene non potessero giungere il corpo principale, davano nondimeno addosso al retroguardo, e tutto lo ridussero, armi, soldati, e munizioni, in potestà loro. Tuttavia era ancor Provera grosso di più di cinque mila soldati. Ma Buonaparte, con celerità, unica quasi nelle storie, marciando, arrivava contra di lui la notte dei quindici, e da ogni parte il circondava. Splendeva il giorno sedici: Wurmser e Provera assaltavano la Favorita, e Sant'Antonio. Fu tanto impetuoso r assalto del maresciallo, che Dumas, posto alla guardia di Sant'Antonio, fu costretto a piegare, lasciando le trincee in mano dei Tedeschi. Mandava Buonaparte un rinforzo di genti fresche a Dumas, con le quali potè raffrenare l'impeto del nemico, ma non tanto che Wurmser non arrivasse sino in cospetto della Favorita: già anzi si accingeva ad assaltar alle terga i repubblicani, che guardavano quelle fortificazioni. Ma non era passato con la medesima felicità l'assalto dato alla fronte della Favorita da Provera, perchè ributtato aspramente da Serrurier, che stava dentro, non potè far frutto. Wurmser combattuto validamente da Victor venuto con le genti da Rivoli, temendo di esser tagliato fuori da Miollis, che poteva uscire da San Giorgio, ed assalito a mano manca da Massena, si riduceva prontamente in Mantova. I Francesi liberati dagli assalti di Wurmser, stringevano viemaggiormente Provera. Percuotevanlo a fronte Serrurier, a stanca Victor, a destra Miollis, e già tempestando alle spalle Augereau, che arrivava da Castellara, gli faceva segno, che l'arrendersi era più sicuro che il combattere. Pure perseverava, volendo, se la malvagità della fortuna lo sforzava a depor le armi, averle almeno usate da guerriero franco e valoroso. Finalmente veduto che Victor già gli aveva tolto i cannoni, e che il reggimento molto bravo dei cavalleggieri di Erdodi, costretto dalla forza sopravvanzante, si era dato in potestà del vincitore, chiedeva i patti, e gli otteneva. Fecero conspicua la vittoria meglio di cinquemila prigionieri, dei quali non poca parte erano i volontari di Vienna. Furono i gregari condotti in Francia; ebbero gli ufficiali abilità di tornarsene sotto fede di non militare contro Francia. Conquistarono in questo fatto i repubblicani, oltre i prigionieri, venti cannoni, e di carriaggi, munizioni e bagaglio una quantità notabile. Grave ed importante vittoria, perchè Mantova restava senza rimedio: tutta l'Italia in balia dei repubblicani; di una parte erano padroni per la presenza, dell'altra pel terrore. Combatterono gli Austriaci in tutte le fazioni, che abbiamo raccontate, con molto valore; nè si può negare, che i disegni dei capitani loro fossero bene ordinati: ma mancarono dell'effetto; primieramente perchè per le rivelazioni fatte da chi ne sapeva quanto Alvinzi, essendo Buonaparte conscio delle intenzioni del nemico, gli fu fatto facile il disegno della battaglia, secondamente per la incredibile celerità sua, e de' suoi soldati, che corsero da Verona a Rivole, poi da Rivole a Mantova, e nell'uno e nell'altro luogo in punto fatale arrivarono. Che se avessero indugiato poche ore solamente a sopraggiungere a Rivole, era per loro perduto quel che guadagnarono e se poche ore altresì avessero soprastato a raggiungere il campo di Mantova, sarebbe Provera entrato dentro la fortezza. Fu accagionato Provera dello aver troppo presto varcato l'Adige, la quale accusa non apparirà senza fondamento, se si avvertirà alla non effettuata congiunzione coi pontifici, ma non parimente, se si farà considerazione delle altre mosse degl'imperiali sulle rive dell'Adige superiore. Del resto il suo mandato era di romoreggiare, e di assaltare sulla sinistra sponda, e di far le viste al passare sulla destra dopo i sei del mese, ma non di passare effettualmente, se non quando avesse udito fauste novelle della mossa d'armi fatta da Alvinzi. Perdettero gl'imperiali in tutte le descritte battaglie, inclusa quella di Provera, tra morti, feriti, e prigionieri circa ventimila soldati con sessanta bocche da fuoco, e ventiquattro bandiere. Tutti i volontari Viennesi furono o morti, o presi: le bandiere loro ricamate per mano dell'imperatrice d'Austria, ornavano il trionfo di Buonaparte. Traversarono la superiore Italia in sembianza di gente cattiva per alla volta di Francia. Non fu loro fatto scherno, nemmeno dai più scapestrati. Ammirarono anzi tutti in loro il valore, ammirarono la carità verso la patria. Scriveva Buonaparte, essere mancati de' suoi tra morti e feriti solamente due mila; il che è lontano dalla verità, perchè furono assai più; e se si noveravano i prigionieri, che però montarono a poca gente, fu perdita di più di seimila soldati. In modo tanto misero si terminava il quarto sforzo dell'Austria a difesa, ed a ricuperazione de' suoi stati Italiani. Se ne fecero grandi allegrezze in Francia, e nell'Italia suddita a Francia; ne stette l'Europa attonita, l'Austria spaventata. Ma Buonaparte non era di natura tale, che volesse lasciare l'opera imperfetta. Per la qual cosa risolutosi a non dar posa al nemico, se non quando ei fosse giunto in luoghi del tutto insuperabili, e vedendo anche avere un campo più largo a cibare i soldati nelle Veneziane pianure, si spingeva oltre perseguitando le reliquie dei vinti. Occupavano, Massena Vicenza, Augereau Padova; poi da questi luoghi partendosi si avviavano, il primo a Bassano, il secondo a Treviso. Riusciva l'impresa molto facilmente ad Augereau, perchè, eccettuati alcuni incontri di cavallerìa, tutto il paese veniva senza ostacolo a sua divozione. Treviso stesso l'accoglieva fra le sue mura. Poi il capitano di Francia più oltre spignendosi, cacciava gli avversari da tutte le regioni della Piave inferiore. Ma più verso i monti, le cose andarono più strette per Massena. Quivi Alvinzi, per gelosia dei passi del Tirolo, aveva alloggiato Mitruski e Bajalitsch con qualche nervo di gente. Massena, che aveva vinto ben altre battaglie che queste, dava dentro al ponte di Carpeneto, dove gli Austriaci volevano far testa, e gli rompeva, per opera massimamente di Menard, non senza grave perdita di soldati e d'artiglierìe. Vinto Carpeneto, gli fu agevol cosa vincere ancora Primolano, essendosi gl'imperiali intieramente ritirati a Feltre, ed ai luoghi più inaccessi della superiore Piave. Per tal modo fu aperta la strada al generale della repubblica di comunicare con Joubert, che uscito di Trento aveva rotto gli Alemanni a San Michele. Non vi fu più allora altro rimedio pei vinti, che di ritirarsi, come fecero, alle regioni più rotte, e quasi del tutto chiuse appresso a Bolzano. I soldati dell'imperatore, abbandonate intieramente le rive della Brenta, e financo le sue sorgenti, si riposarono nelle invernali stanze, avendo la fronte loro distesa dai luoghi più alti della riva destra del Lavisio, passando per le fonti della Piave vicino a Cadore, e per la sinistra di questo fiume sino alla sua foce. Quivi stavano aspettando ciò, che fossero per portare con se la stagione migliore, e la fortuna fino allora vittoriosa dell'arciduca Carlo, che già si vociferava avere ad essere fra breve capo dell'esercito Italico. I Francesi, signori di Bassano e di Treviso, attendevano anch'essi, essendo pel sopravvenire della vernata divenuti i tempi sinistri, dall'un de' lati a riposarsi, dall'altro a ridurre in potestà loro Mantova, a soggezione il papa. Buonaparte, conoscendo, che dopo la rotta tanto compiuta degli Austriaci, era Mantova divenuta sua certa preda, si voltava incontanente contro il pontefice per condurre a fine con le armi quello che aveva incominciato col terrore per la rivoluzione di Modena, e delle due legazioni di Bologna e di Ferrara. Era entrato in Roma uno spavento grande dopo la sconfitta degl'imperiali; se ne stava dubbio il pontefice del partito che avesse ad abbracciare, perchè il calare subitamente e senza che si venisse almeno una volta al ferro, agli accordi, che sarebbero stati molto ignominiosi, e forse contrari alla sedia apostolica, gli pareva risoluzione troppo vergognosa dopo le dimostrazioni fatte; il non acconciarsi col vincitore gli pareva partito pericolosissimo, perchè vano era lo sperare, che le armi pontificie potessero resistere a quell'impeto, che aveva prostrato tante volte gli eserciti potenti ed agguerriti dell'Austria. Pure si deliberava a mostrar il viso alla fortuna, perchè con un vincitore fantastico forse la pace non sarebbe stata peggiore dopo, che prima di un combattimento. Colli dava speranza di poter opporsi con qualche frutto, prendendo i luoghi, e fortificando gli alloggiamenti. Fors'anche credeva Pio, siccome quegli che tanto altamente sentiva di Roma, che Buonaparte non si sarebbe ardito di precipitarla negli estremi. Oltre a tutto questo non s'ignorava pel pontefice, che quantunque il governo di Francia fosse divenuto tanto potente per le armi, una debolezza interna il rendeva vacillante, e questa consisteva nelle credenze cattoliche, che per le persecuzioni, e per le disgrazie erano ripullulate in Francia; il che rendeva necessario il venire ad una composizione con Roma. Sapevaselo Clarke, il quale di ciò scrivendo affermava, avere i Francesi guastato la loro rivoluzione di religione; di bel nuovo essere divenuti cattolici romani; forse aver loro bisogno del papa, affinchè i preti secondassero la rivoluzione politica in Francia. I consiglieri del Vaticano si prevalevano dell'efficacia di queste opinioni, e si mettevano al fermo di non voler accettare le condizioni proposte dal direttorio. Ma a Buonaparte, che ora obbediva al suo governo, ed ora no, piaceva la guerra col pontefice per amplificazione di fama, e le dolci parole, che indirizzava ora al cardinal Mattei, ora al pontefice medesimo, erano piuttosto fraudi che carezze; perciocchè mentre faceva loro profferte d'accordo, e gli lusingava dicendo, che non aveva mai approvato il trattato proposto dal direttorio, e ch'ei farebbe gran cose in favor di Roma, se ella volesse comporsi con Francia, ordinava che Cacault, ministro di Francia appresso al pontefice, ed incaricato di negoziare la pace, andasse astutamente temporeggiando per ingannare, come diceva, la vecchia volpe, parlando del papa, e ciò facesse insino a tanto che il tempo fosse venuto di prorompere a compire i disegni concetti: voleva che Ancona fosse, alla pace, data per sempre alla repubblica; voleva che continuamente si sbigottisse il papale governo con dare speranze artifiziose agli scontenti di far novità. Nè migliore era la fede di Cacault nelle sue dimostrazioni amichevoli; perchè, se gli pareva poco onorevole l'andar a Roma solamente per porvi una taglia ed obbligare forzatamente il pontefice a far la pace, bene gli pareva onorevole l'andarvi per cambiarvi ogni cosa, e per atterrarvi il trono pontificale; e se per volontà del direttorio, e per le condizioni generali d'Europa ciò era impossibile a farsi, essere di bisogno, affermava, lasciare per allora la dispregevol Roma, come diceva, nel suo stato attuale, finchè sicuramente potesse la Francia voltarla tutta sottosopra; insinuava inoltre, che sarebbe stato conveniente il creare tre repubbliche dello stato ecclesiastico, delle quali una fosse di Bologna e Ferrara unite, l'altra di Perugia con la Romagna, la terza di Roma fino alle spiagge del Mediterraneo: osservava con questo, che tutto ciò poteva farsi lasciando il papa, capo della chiesa universale, risedere, come prete, e con la sua corte di preti, e come pontefice là dove volesse, e nel modo in cui risedeva a Roma innanzi che alcuna donazione dei Francesi non l'avesse fatto sovrano di un territorio. Pensava non ostante, che fosse bene per quell'inverno unire solamente la legazione di Ravenna a quella di Bologna e di Ferrara, e formare un nuovo stato del Perugino, del ducato d'Urbino e della Romagna, Roma lasciando, e la sua campagna pestilente a se stesse, perchè la Francia le potrebbe signoreggiare per via del mare. Persuadeva oltre a questo Cacault, che la introduzione della libertà, e di buone repubbliche da Milano fino al regno di Napoli fosse senza dubbio ciò, che meglio poteva far sicuri gl'interessi della Francia in Italia, e tener nel dovere, dall'un dei lati il re di Napoli, dall'altro la potente Alemagna. Il qual disegno non si può negare, che non fosse per riuscire utile alla Francia di quei tempi; ma quale sincerità fosse questa verso il duca di Parma, il gran duca di Toscana, ed il papa medesimo, col quale il direttorio allora negoziava la pace, il mondo lo potrà vedere. Giudicheranno altresì gli uomini prudenti e giusti, se tali macchinazioni non solo non autorizzassero, ma ancora non obbligassero, come a strettissimo dovere il pontefice a fare con le armi e con le alleanze il peggio che potesse agli autori loro. Se si considerano poi le scritture in numero quasi infinito, che ogni giorno si pubblicavano nei paesi conquistati contro il papa e contro le romane cose, non si potrà in alcun modo dubitare dei pensieri sinistri, che il generale repubblicano nutriva contro Roma. Anzi procedeva tant'oltre in questo la sfrenatezza, che sul gran teatro di Milano, a ciò stimolando i capi francesi che comandavano in questa città, si dava un ballo, in cui erano sconciamente scherniti il papa ed i cardinali. Costoro adunque, che con modi parte frodolenti, parte incivili s'ingegnavano d'ingannare e di distruggere il papa, si recavano poi a male, ch'egli tentasse di assicurarsi per mezzo di un'alleanza con l'Austria. Una lettera, che il cardinal Busca, segretario di stato, scriveva al prelato Albani mandato dal papa a Vienna, ed intrapresa da Buonaparte, dava occasione al generalissimo di levar romore, e di sputar fuori il veleno che aveva concetto contro Roma, ancorchè il modo stesso, con cui fu la lettera intercetta, desse e segno al pontefice del rispetto, che portava il generale della repubblica alle neutralità, e fondato motivo di correre all'armi. Erano i dispacci di Roma sotto fede pubblica, e della neutralità Veneziana affidati ai corrieri di Venezia, che gli portavano sino ai confini Austriaci. Uno di questi corrieri fu improvvisamente fatto arrestare alla Mesola il dì dodici gennaio da Buonaparte, e come fu svaligiato, così gli fu trovata la lettera del cardinale. Favellava il segretario di stato dei negoziati introdotti a Vienna per concludere un'alleanza, della condotta del generale Colli, di bande Tedesche da farsi venire in Romagna, del non aver voluto udire le proposizioni d'accordo fatte dalla Francia, mentr'egli negoziava con l'Austria. Quindi sorsero le note di perfidia date da Buonaparte al pontefice, come se questi il quale si trovava in condizione di guerra con la repubblica a cagione del rifiuto fatto di sottoscrivere al trattato proposto dal direttorio, non dovesse cercar rimedi ovunque rinvenire gli potesse. Bene pare a noi, che fosse sincerità il non voler concludere con Francia, mentre ei trattava con Austria. Buonaparte, usando la occasione della lettera intercetta, e liberato dal timore delle armi Austriache, sdegnosamente dichiarava a Bologna; essere rotta la tregua col papa, si apparecchiava a fargli guerra. Allegava, avere il pontefice ricusato l'esecuzione dei capitoli ottavo e nono della tregua; gridato la crociata contro i Francesi; mandato le sue genti a minacciar Bologna; intavolato un trattato con l'Austria; condotto generali e ufficiali Austriaci al suo soldo, ricusato di rispondere alle proposizioni di Cacault. Delle quali cose si può dire, che se Buonaparte pretendeva che il pontefice fosse in condizione ostile contro i Francesi, aveva ogni ragione, ed anche aveva ragione di correre all'armi contro il pontefice, giacchè il pontefice se ne stava armato contro Francia. Ma accusarlo di non aver mandato ad esecuzione certi capitoli della tregua, non può esser altro, se non una seduzione d'intelletto, o un abuso di forza; perchè quei capitoli in ciò consistevano, che il pontefice desse milioni di denari, e vettovaglie ai repubblicani. Ora il trattato proposto, o per meglio dire, imposto dal direttorio al pontefice, non essendo stato accettato, non si sa comprendere, come ei dovesse somministrar mezzi al suo nemico di nuocere a se medesimo. Delle altre accuse date a Pio questo si può affermare, che poichè l'immoderanza del direttorio avea fatto la pace impossibile, e la guerra inevitabile, non solo poteva, ma doveva usare ogni modo per restare assicurato delle cose contro la prepotenza altrui. Intanto Buonaparte intendeva alle sue preparazioni: circa venti mila soldati stavano pronti a correre contro il papa: e perchè Italiani ferissero Italiani, e fra tante calamità non mancasse la guerra civile, erano fra i buonapartiani molti soldati Italiani delle due repubbliche Transpadana, e Cispadana. Buonaparte richiamava da Roma Cacault: il che dimostra quale libertà fosse in un governo, in cui un generale comandava agli ambasciadori. Erano nell'oste destinata a far la guerra al papa cinque legioni di fanti Francesi, due di cavalli, tre battaglioni di fanti Lombardi, altrettanti di Cispadani con pochi cavalleggieri d'ambe le repubbliche. Comparivano inoltre due compagnie di fanti Polacchi raccolte di disertori, e prigionieri Austriaci: questo fu il primo principio di quella legione polacca, che condotta da Dombrowsky si acquistò poscia nome nelle guerre Italiche. Adunava il generalissimo tutte queste genti in Bologna; ne faceva la rassegna sulla piazza della Montagnola, esortandole alla guerra. Comandava, al cospetto suo armeggiassero. Fatta la rassegna, le spingeva oltre contro lo stato ecclesiastico, partite in tre schiere, alle quali aveva preposto Victor, testè fatto chiaro per la vittoria della Favorita. Guidava la prima Lannes, la seconda Fiorella, la terza La-Salcette. Ordinavasi una banda di corridori, e feritori alla leggiera, che composta di Lombardi aveva, sotto il colonnello Robillard, carico di sopravvedere il paese, e d'ingaggiare le prime battaglie. Marciavano il dì primo febbrajo; occupata facilmente Imola, si avviavano alla volta di Faenza per combattere i pontificj, che stavano accampati sulle rive del Senio. Tenevano Lannes e Fiorella la strada maestra per a Castelbolognese; La-Salcette i colli a destra. L'intento loro era di assaltar di fronte il nemico; e nel tempo medesimo, esplorando i luoghi sul fiume, riuscirgli alle spalle. Ma siccome Buonaparte più temeva i popoli, che i soldati, così mandava fuori un bando parte amichevole, parte minaccioso, col quale dall'un canto annunziava alle terre pacifiche pace ed amicizia, dall'altro alle ostili rigore e vendetta. Prima però di raccontar la guerra pontificia, è d'uopo, l'ordine della nostra narrazione seguitando, che per noi si scriva, come e quando Mantova se ne venisse in potere dei Francesi. L'infelice battaglia della Favorita aveva persuaso a Wursmer, che per la carestia dei viveri la dedizione era inevitabile. Ciò non ostante quel suo invitto animo non ancora si sgomentava, deliberato a patire qualunque estremità prima di arrendersi. Eppure le cose sue erano ridotte in angustissimo luogo: il presidio scemato per morti frequenti, infievolito da febbri mortalissime, gli ospedali, le case tutte piene di soldati moribondi, chi non inabilitato dalla malattia, inabilitato dalla disperazione; l'ultima fame già tormentava, oggimai erano consumati tutti gli alimenti, gl'infermi si moltiplicavano ogni momento, mancavano per loro i rimedi. A tale era giunta la penuria della piazza, che un uovo vi si vendeva uno scudo, un pollo quattro, e non se ne trovava; solo pane era di saggina, sola carne la cavallina, fresca e poca pei ricchi, salata e poca pei poveri. S'appiccavano i morbi dai soldati ai cittadini: era in ogni luogo uno squallore, un fetore, una miseria, che male si potrebbe con le parole descrivere. A tale condizione era ridotta la sede dei Gonzaga, la patria di Giulio Romano, perchè Francesi e Tedeschi volevano avere in mano loro quel freno da tener in bocca agl'Italiani. Ecco intanto arrivare le acerbe novelle a Wurmser, essere state predate sul lago dal capitano Sibilla trentadue barche cariche di vettovaglie, che Alvinzi, quando era in possessione delle rive, aveva inviato in soccorso della travagliata Mantova. Questo accidente, che toglieva al capitano dell'Austria la speranza, con la quale si sostentava nell'estremità della fame, il fece accorto, che gli era oggimai necessità di mandar a prendere accordo coi Francesi, poichè certamente il poteva fare senza macchia dell'onor suo. Mandò dunque dicendo a Serrurier, che darebbe la piazza, purchè la guarnigione uscisse libera con armi, bagagli, suono di tamburi, bandiere al vento, tregua di un mese in Italia. Non volle il generale repubblicano consentire a queste domande, parendogli troppo alte; pure finalmente si convenne tra Wurmser e Serrurier in questa sentenza: darebbe il maresciallo la città, la fortezza e la cittadella ai Francesi; uscirebbe il presidio onoratamente secondo gli usi di guerra, deporrebbe le armi fuori della barriera; restasse prigioniero fino agli scambi; uscisse libero Wurmser, e con lui liberi i suoi aiutanti, ducento soldati a cavallo, cinquecento altre persone a sua elezione; solo contro la Francia per tre mesi non militassero; gissene securamente il presidio a Gorizia per Legnago, Padova e Treviso; curassersi umanamente i malati ed i feriti; fosse data venia a ciascuno delle cose fatte, e niun Mantovano potesse esser ricerco, nè molestato per opinioni o per fatti a favor dell'imperatore, condizioni onorate conformi all'onorata difesa. Usciva Wurmser circondato da' suoi liberi soldati: ammiravano in lui la fortezza, e la volontà egregia con un corso di fortuna troppo indegnamente contraria. Debbonsi lodare i vincitori, che con ogni più cortese dimostrazione il vecchio, prode, ed infelice guerriero onorarono. Buonaparte, che poco prima della dedizione era presente al campo, se n'era andato, o per modestia, o per superbia, a Bologna: ma non omise, affetto raro in lui, solito a deprimere gli avversarj, di esaltare il guerriero Austriaco, scrivendo al direttorio, avere con intento proprio voluto dimostrare la francese generosità verso il vecchio Wurmser, generale di settant'anni, segno d'avversa fortuna, d'animo invitto: avere Wurmser, perduto nella battaglia di Bassano l'esercito, concetto il pensiero di ricoverarsi in Mantova lontana a cinque giorni, passato l'Adige, prostrato i repubblicani a Cerea, traversato la Molinella, guadagnato la piazza; essere quinci più volte sortito, sempre infelicemente, sempre valorosamente, sortito essere con soldati consunti da malattie pestilenti: tale essere stato Wurmser: pure sapere, non avere a mancar uomini, soliti a perseguitare cui la fortuna perseguita, che incolperebbero l'incolpabile Wurmser. Quest'erano le generose voci di Buonaparte rispetto a Wurmser vecchio, e valoroso. Entravano i Francesi nella desolata terra. Pietosi miravano nelle case arse o diroccate volti pallidi e sparuti; argomentavano qual fosse stata la costanza e la pazienza dei difensori. Trovavano centoventisei cannoni di sedici libbre di palla, centoquindici di quindici, con altri pezzi minori. Si rallegravano massimamente al vedere settantadue bocche da breccia conquistate dagli Austriaci al tempo, in cui per l'arrivo di Wurmser fu allargato l'assedio; s'aggiunse alla presa artiglierìa una fiorita archibuserìa: acquisto prezioso specialmente fu quello di settantadue piatte ad uso di far ponti estemporanei, le quali giunte a quelle che già avevano i repubblicani, montarono al numero di centotrenta, suppellettile capace a passare qualunque più grosso fiume. Così Mantova combattuta dalla forza e dalla fame, venne in potestà della repubblica, e per questo accidente cambiossi in Italia la servitù Tedesca in servitù Francese. Ora è tempo di ritornare ai travagli che erano in Roma. L'esercito pontificio si era, come abbiam narrato più sopra, accampato sulla destra del Senio, pronto a difendersi, non ad offendere. Corre il Senio precipitandosi dagli Apennini, a fronte di Faenza, e va a metter foce nel destro ramo del Po, che chiamano col nome di Po Primaro. Avevano i soldati del pontefice, che ascendevano al numero di sei in settemila fanti, e cinquecento cavalli, munito il ponte del Senio sopra e sotto con buoni ridotti, e con quattordici pezzi di artiglieria. Un altro pezzo assicurava il ponte medesimo, che guarda quasi per diritto la strada di Faenza. Oltre a ciò avevano cavato un fosso a sinistra del ponte, che oltre il medesimo si sprolungava, empiendolo di feritori alla leggiera, affinchè bersagliassero coloro, che primi si fossero attentati di passare. Avevano, cavando il fosso, alzato sulla sua sponda un ciglione di terra verso il fiume, che a guisa di parapetto gli preservava dalle ferite. La cavalleria alloggiava dietro i ridotti per perseguitar l'inimico oltre il ponte, se fosse rotto, o far sicura la ritirata dei compagni, se fossero vinti. Il generale di Francia, come prima giunse ad un quarto di miglia da Castelbolognese, arrestava il passo a Lannes ed a Fiorella, e mandava avanti Junot con un buon reggimento di cavalleria ad ordinarsi in battaglia a sinistra della strada vicino al ponte, ma oltre il tiro dell'artiglierie pontificie. Robillard schierava, non fitti, ma larghi duecento feritori alla leggiera lungo il fiume sulla riva sinistra. Voleva Victor, che costoro facessero opera di passare a qualche agevole guado, poichè pei tempi secchi era il fiume guadoso in molti luoghi. Non così tosto si affacciarono al fiume, che pioveva loro addosso una tempesta di palle; già piegavano; ma incuorati dai capi, erano tutti soldati di Lombardia, tornavano al cimento, e non solamente sostenevano quel duro bersaglio, ma cacciatisi nel fiume, che correva molto rapido, il passarono. Del quale ardimento sbigottiti i soldati del papa, abbandonavano il fosso per ricoverarsi nei ridotti; al che tanto più volentieri ne vennero, quanto più Victor, accortosi del fatto, e non volendo lasciar soli al pericolo i primi feritori, aveva ordinato alla quinta dei leggieri, che varcasse ancor essa. Ma i pontificj, siccome il fosso era stato scavato per diritto, e perpendicolarmente ai ridotti, nè l'avevano munito con le necessarie traverse, si trovavano esposti a tutto il bersaglio dei feritori nemici; il che gli fece disordinare, e sbigottire vieppiù. In questo punto la cavalleria del papa, mossa da uno spavento repentino, si metteva in fuga. Victor, conosciuto che quello era il tempo buono per vincere, mandava a dar la carica al ponte due compagnie di Lombardi, due di Polacchi. Non contrastarono più lungamente le truppe pontificali il passo, e si ritirarono con grave disordine, e precipitosamente a Faenza. Non poterono tostamente seguitarle i repubblicani per la difficoltà delle strade. Quattordici cannoni vennero in poter dei vincitori. Scrisse Buonaparte, avere ucciso in questo fatto quattrocento pontificj, presone mila. Ma mancarono solamente tra morti e feriti circa trecento cinquanta, e alcuni più di prigionieri. Perdettero i repubblicani circa settanta soldati tra morti e feriti. Morì con dolore di tutti un capitano Fokalla, giovane Polacco di grande aspettazione. Noverossi fra i feriti Lahoz, colonnello dei Lombardi. Narrò il generale repubblicano, non senza scherno, che fra gli uccisi si noverarono preti, che quando ardeva la battaglia, avevano animato i soldati del pontefice a combattere. Bene sarebbe stato meglio, che i preti non si fossero mescolati fra le armi, ma certo questa divozione loro verso Roma, e verso il loro signore, non era atto da essere beffato da nissuno, e manco da colui, che non contento al combattere con le armi, combatteva ancora con le instigazioni, per far levare contro i propri governi e chi aveva inclinazione a tumultuare, e chi non l'aveva. Affermano alcuni storici, avere i pontificj subitamente perduto la battaglia del Senio per la inaspettata ribellione di un reggimento Corso ai soldi del pontefice. Il quale accidente, come troppo grave, noi non saremo nè per affermare, nè per negare, non avendone pruove sufficienti. Superato il Senio, s'appresentavano i repubblicani alle porte di Faenza, le quali atterravano coi cannoni, ed entrarono nella terra abbandonata dal presidio pontificio. Fu notabile in Faenza, città nobile e ricca, la moderazione del vincitore; conservò intatte ed inviolate le proprietà e le persone; anzi Buonaparte, fatti venire a se i preti ed i frati, gli confortava a star di buona voglia, dimostrando volere, che da tutti la religione si rispettasse, ed i suoi ministri si beneficassero. Davansi facilmente, discorrendo i Francesi per tutto il paese come un folgore, Forlì, Cesena, Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia, quantunque il passo di quest'ultima fosse munito di buoni difensori. Si era Colli tirato indietro fino ad Ancona, sperando di poter quivi fare qualche resistenza sì per la cittadella, e sì per un forte alloggiamento munito di trincee, che aveva fatto sopra un monte chiamato nel paese la Montagnola, e che sta a sopracapo della città. Prevedendo intanto il pericolo della Casa di Loreto, intorno alla quale non ignorava i pensieri rapaci manifestati già fin da principio del novantasei dal direttorio, aveva spacciatamente comandato, che posti sui carri gli arredi, e le reliquie più preziose, s'indirizzassero alla volta di Roma. Stava Colli accampato sulla Montagnola con cinque mila soldati, e sette pezzi di buone artiglierie. Ordinava Victor agl'Italiani, ed ai Polacchi, andassero all'assalto: le genti grosse, girando a destra, facevano sembianza di voler riuscire alle spalle dei pontificj. Fu debole la difesa; perchè i soldati di Colli spaventati dalla rotta precedente si ritirarono in gran fretta: appena Colli fu a tempo di vuotare Ancona, e la cittadella. Se ne impadronivano i repubblicani. Il generale della chiesa, come prima potè raccorre i soldati disordinati, andava a porre il campo tra Foligno e Spoleto. La Marca, tutto il ducato d'Urbino, eccettuata la metropoli, la più gran parte dell'Umbria, venivano sotto l'obbedienza della repubblica. Espilavasi Loreto. La statua della madonna, con alcuni altri capi più singolari trascelti dai commissari Monge, Villetard, e Moscati, si avviavano alla volta di Parigi. Del resto si mostrava assai continente Buonaparte, minacciando morte ai soldati che facessero sacco. Anzi sapendo quanta efficacia abbia a legare gli animi degli uomini l'umanità, usava un atto molto pietoso verso i preti di Francia fuorusciti, che nello stato Romano si erano ricoverati: comandava, vivessero sicuri, dessero loro i conventi il vitto, e quindici lire al mese pel vestito, risoluzione degna di grandissima commendazione. Piantava Victor il suo principale alloggiamento a Foligno. Andando tanto impetuosamente in precipizio lo stato pontificio, un alto terrore assaliva Roma. Rammentavano i tempi antichi sotto Attila, i moderni sotto Borbone. Già pareva ai Romani, che quel primo seggio della cristianità dovesse andare a sacco ed a fuoco, per opera di coloro che dai pulpiti, e dai più secreti luoghi erano stati, quai barbari, rappresentati. Nè il romore che si udiva continuo, nè lo scompiglio che si vedeva, erano fatti per riconfortare gli spiriti. L'erario, le suppellettili preziose, le lauretane ricchezze si avviavano a gran pressa a Terracina. Nè i ricchi se ne stavano, perchè ancor essi incamminavano le suppellettili più nobili e più care, e così le persone al medesimo viaggio. I religiosi, sì secolari che regolari, erano presi di spavento; ne erano piene le strade; chi verso Terracina, chi verso Firenze, chi alle montagne si ritirava. In mezzo a sì grave precipizio, uscivano, ad ora ad ora, come suol accadere in simili casi, voci più spaventose ancora, che già i nemici fossero alle porte, e chi diceva di avergli uditi, e chi di avergli veduti. Raddoppiavansi le grida, il terrore, la confusione, la fuga: pareva ad ognuno, che già spenta fosse ogni salute, che già Roma, l'antica madre, rovinasse. S'aggiungeva, che il papa medesimo s'apprestava a partir per Terracina; il che era agli occhi dei popoli spaventati segno d'eccidio imminente, presagio che Dio già abbandonasse, e già portasse altrove quella veneranda sede di Pietro apostolo. In caso tanto lagrimevole e spaventoso, potendo i Francesi a volontà loro correre per tutto lo stato ecclesiastico, non era più luogo ad altra deliberazione, se non di piegarsi a quella necessità, che o sdegno di Dio, o malvagità degli uomini aveva apprestato. Si mostrava costante il pontefice nel non voler consentire a quelle condizioni, che nel modello del trattato imposto dal direttorio erano a lui parute contrarie alle dottrine della sedia apostolica ed alle consuetudini della chiesa; nè mai volle scemare, o a se od agli oracoli suoi, con pusillanimi e disonorevoli ritrattazioni quella fede, e quella dignità che pretendeva a tutte le cose sue, e che erano il fondamento principale della grandezza della Romana chiesa. Così in quest'ultimo urto di fortuna fortemente resisteva. Quanto agl'interessi temporali, preponendo il titolo della salvezza di Roma a qualunque altro rispetto, si preservasse con opportune concessioni, sclamava, la città, alla concordia con Buonaparte si provvedesse. Aveva sempre il generale della repubblica veduto molto volentieri il cardinale Mattei: parve mediatore opportuno a piegare lo sdegno del vincitore. Scrivessegli, deliberarono, richiedendolo della pace, e del trattare umanamente Roma desolata. Spacciarono anche incontanente a Napoli, a Parma, al ministro Azara, perchè intercedessero. Facevano i pregati intercessori l'ufficio; furono uditi benignamente; soprastava la risposta al cardinale. Cresceva tuttavia il pericolo, cresceva il terrore. Destinava il pontefice quattro legati al generale, il cardinale Mattei, monsignor Galoppi, il duca Luigi Braschi, il marchese Camillo Massimi; concludessero ad ogni modo la pace, salva però la religione, e la sedia apostolica. Incontravano per viaggio il corriero portatore delle lettere di Buonaparte al cardinale: erano molto benigne, recatrici di tregua, promettitrici d'accordo, questa fu la prima consolazione di Roma. Avute le novelle, viaggiavano più confidentemente verso Tolentino, dove Buonaparte aveva le sue stanze. S'incontravano al terminarsi della via Flaminia coll'antiguardo repubblicano, in cui erano e Francesi ed Italiani. Maravigliavansi i repubblicani al vedere quelle vecchie fogge d'abiti e di carrozze, che per loro erano nuove, e se ne muovevano a riso. Arrivavano i legati a Tolentino: accolti con dimostrazioni cortesi dal generale, si restringevano tostamente con lui a negoziare in una faccenda, che oggimai non aveva più in se difficoltà d'importanza, perchè nè Buonaparte voleva toccare lo spirituale, nè il papa aveva più, pel terrore e per l'estremità del caso, arbitrio nel temporale, essendo già posto tutto in balìa del vincitore. Sospese intanto per volontà del generalissimo le offese, visitavano Victor e Lannes, prima i campi del Trasimeno, poi le grandezze di Roma. Gli guardava curiosamente il popolo; gli accoglieva molto umanamente il pontefice. Si concludeva il giorno diecinove febbrajo a Tolentino il trattato di pace fra il papa, e la repubblica di Francia. Si obbligava il pontefice a recedere da qualunque lega segreta o palese contro la repubblica; a non dar soccorsi nè d'armi, nè di soldati, nè di viveri, nè di denaro, nè di navi a chi nemico ne fosse; a licenziare i reggimenti nuovi, a serrare i porti ai nemici di Francia, ad aprirgli ai Francesi; al cedere alla Francia Avignone, il Contado, e le dipendenze; al cedere ugualmente le legazioni di Bologna e di Ferrara, con ciò però che non vi si facessero novità pregiudiciali alla religione cattolica; al consentire, che la città, la cittadella, ed il territorio d'Ancona sino alla pace si depositassero ia mano della repubblica. Oltre a questo si obbligava il papa a pagare fra un mese ai Francesi quindici milioni di tornesi, dieci in contanti, cinque in diamanti, fra due mesi altrettanti, parte pure in pecunia numerata, parte in diamanti. Consentiva inoltre a somministrare ottocento cavalli, bestie da tiro altrettante, buoi, bufali, ed altri animali dello stato della chiesa; a dare i manoscritti, i quadri, le statue pattuite nel trattato di Bologna; a disappruovare l'uccisione di Basseville, ed al pagare per ristoro dei danni alla famiglia dell'ucciso trecentomila tornesi; a liberare i prigionieri per cause di stato; a restituire ai Francesi la scuola delle arti in Roma: volle finalmente il vincitore, e consentiva il papa, che il trattato fosse obbligatorio per lui, e pei successori nella cattedra di San Pietro per sempre. Così finiva la Romana guerra. Nei capitoli della pace si vede, che se il papa restò di sotto per denari e per territorj, furono vantaggiate le condizioni attinenti alle materie religiose; perchè furono cassi dal trattato i capitoli delle disdette, delle rivocazioni, e delle ritrattazioni, che il direttorio aveva voluto imporre al pontefice, e che erano stati la cagione del rifiuto e della guerra. Intanto, per pagar la taglia, si richiedevano a Roma gli ori e gli argenti, sì dei religiosi che dei laici, e vi si facevano accatti rovinosi. Il generale invitto, domati i grandi, volle far mostra di rispettare ed onorare i piccoli, o fosse in lui nuova spezie d'ambizione, o qualche radice di affetto buono. Pure riuscì la cosa troppo magnifica per non esser perniziosa tentazione ai modesti. Mandò, trovandosi agli alloggiamenti di Pesaro addì sette febbraio, Monge a certificare la repubblica di San Marino della fratellanza ed amicizia della repubblica francese. Andò Monge sulla cima del monte Titano. Introdotto in cospetto dei padri, disse enfaticamente parlando, dappoichè Atene, Tebe, Roma e Firenze avevano perduto la libertà, quasi tutta l'Europa essere venuta in servitù; solamente in San Marino essersi ricoverata la libertà, ma pur finalmente il popolo francese, del proprio servaggio vergognandosi, essersi vendicato in libertà: l'Europa, posti in non cale i propri interessi, posti in non cale gl'interessi del genere umano, essere corsa all'armi contro di lui; la civil guerra avere aiutato la forestiera; pure essersi avventato lui alle frontiere, avere debellato i suoi nemici: avere trionfato: venuti i suoi eserciti in Italia, avervi vinto quattro eserciti Austriaci, recatovi la libertà, acquistatovi gloria immortale quasi fin sotto agli occhi della Sanmarinese repubblica; avere la repubblica di Francia, abborrente dal sangue, offerto pace, ma averla anche offerta indarno; perseguitare pertanto i suoi nemici, passare presso a San Marino per perseguitarli, ma vivessero sicuri, che Francia era amica a San Marino. A questo passo veniva Monge offerendo alla repubblica da parte del generalissimo territorj di stati vicini. Troppo squisito e magnifico parlare, e troppo inconveniente offerta era questa a quegli uomini semplici ed ammisurati; nè so perchè Monge, che uomo temperato era anch'egli, la facesse. Il torre e l'accettare, erano ugualmente brutti e pericolosi per una repubblica, che era vissa sì lunga età innocente, e pura da quel d'altrui. L'ingiustizia e la rapina erano cose ignote per lei. Buonaparte venne poscia in sull'offerire egli stesso: darebbe quattro cannoni, darebbe fromenti; riceverebbe in sua protezione San Marino, e farebbe portar rispetto ovunque e quandunque a' suoi cittadini. Rispose il consiglio, accetterebbe i cannoni volentieri, accetterebbe anche i fromenti, ma pagandoli; dei territorj contento agli antichi, non volerne nuovi: solo pregare qualche maggior larghezza di commercio, e di ciò richiedere l'eroe invincibile. Il seguito fu, che i cannoni non furono dati, e che non si parlò più di San Marino; ciò successe molto prosperamente per lui. Continuò nella solita quiete e libertà; continuò a rispettare i diritti degli uomini senza vantargli, il che è meglio che il vantargli senza rispettargli; continuarono dall'altra parte intorno al felice monte gli strepiti, e la licenza dei popoli e dei soldati. Rimoveva Buonaparte appoco appoco le sue genti dallo stato ecclesiastico; poscia si conduceva a Bologna intento a nuove imprese, perchè già l'Austria un'altra volta ingrossava. FINE DEL TOMO II. INDICE DEL PRESENTE VOLUME 1796 Pensieri di Buonaparte _pag._ 6 Lettere che gli scrive il direttorio 7 Carletti scambiato e perchè 8 Neri Corsini va in sua vece 9 Pretesti contro Genova 9 Cosa scrive al suo senato Buonaparte 10 Comandamenti del direttorio 12 Pretesti contro Venezia 13 Verona taglieggiata e perchè 13 Pretesti contro al papa e il re di Napoli 14 Contro Parma e Modena 15 Esortazioni di Lallemand 16 Spoglio degli oggetti di belle arti 16 Oriani astronomo 18 Marchesi eunuco 18 Trepidazione nella corte di Parma 19 Fa tregua coi Francesi e a quali patti 20 Quadro del San Gerolamo del Correggio 20 Il duca fa fondere i suoi argenti 20 Il duca di Modena si ritira a Venezia 21 San Romano chiede in suo nome la pace e come la ottiene 21 Nuovo governo in Lombardia da chi composto 22 La Lombardia come aggravata 22 Conte di Gambarana 26 Monti di pietà spogliati e sdegno che ne sorge 27 Moto in Binasco 28 Ed in Pavia 29 Pericolo del generale Haquin e come salvato 30 L'arcivescovo Visconti a Pavia 33 Binasco arso 33 Parole del Visconti ai Pavesi 34 Pavia saccheggiata 35 Generosità di alcuni soldati 38 L'università salvata 39 Spallanzani come rispettato 39 Rasori eletto professore 41 Buonaparte perseguita Beaulieu 41 Tempesta contro la repubblica Veneta 41 Niccolò Foscarini provveditore di terraferma 42 Rocco San Fermo lo accompagna 43 Buonaparte inganna Beaulieu 44 Occupa Brescia e come si giustifica 45 Beaulieu occupa Peschiera 46 Buonaparte sforza il passo del Mincio a Borghetto 47 Il generale Gardanne 48 Augereau prende Peschiera 49 Beaulieu si ritira verso il Tirolo 49 Odio di Buonaparte contro Venezia 50 Sue minacce e romori 51 Foscarini va a trovarlo 51 Cosa scrivesse Buonaparte al direttorio 54 Viltà di Niccolò Foscarini 58 Alessandro Ottolini podestà di Bergamo 58 Uomini illustri infamati dai Francesi 59 Terrore in Verona 60 Occupata dai Francesi 60 Castello di Milano si arrende 61 Caprara, Malvasia e Pistorini mandati da Bologna a Buonaparte 63 I Francesi entrano in Bologna 64 Cardinal Vincenti legato 64 Licenziato da Buonaparte 65 Castel Bolognese restituito a Bologna 65 Giuramento dei Bolognesi 65 Contribuzioni 66 Monti di Pietà derubati 67 Cardinal Pignatelli legato di Ferrara 67 Sollevazione di Lugo 67 Barone Cappelletti s'interpone per lui 68 Lugo saccheggiato 69 Moto nei feudi imperiali di Genova 70 Spavento in Roma 70 Azara e Gnudi mandati dal papa a Buonaparte 71 Tregua col papa e a quali condizioni 71 Breve del pontefice in favore del governo Francese 74 Nessuno effetto di esso 75 L'abate Pieracchi mandato dal papa a Parigi 76 Come fossero udite in Napoli le vittorie di Buonaparte 77 Lettera del re ai vescovi 78 Sua cerimonia all'altare 79 Manda a Buonaparte il principe Belmonte Pignatelli 80 Conclude una tregua 81 Abbandona il papa 81 Persone mandate a spogliare l'Italia di oggetti di belle arti 82 Disegno di Buonaparte contro la Toscana 82 Manfredini e Corsini mandati dal gran duca a Buonaparte 83 Murat conduce i Francesi a Livorno 84 Vi arriva Buonaparte 85 Violenze in Livorno 85 Spannocchi arrestato 85 Cavaliere Angioi, viltà di Buonaparte verso di lui 86 Buonaparte s'impossessa di Massa e Carrara 88 Il cavaliere Azara favorevole ai Francesi 88 L'imperatore manda Wurmser in Italia 90 Come Wurmser disponesse l'esercito 90 Imprevvidenza di Buonaparte 93 Ritirata di Massena 93 Valore di Guyeux 94 I Tedeschi occupano Brescia 94 Quosnadowich battuto 97 Wurmser prende Verona ed entra in Mantova 97 Si avvia a Goito 98 Viltà del generale Valette 98 Buonaparte avvilito e confortato da Augereau 98 Generale Pigeon battuto da Ocskay 100 Ocskay battuto 100 Generale Liptay battuto a Castiglione 101 Fatto curioso di Lonato 105 Battaglia di Castiglione 108 Wurmser si ritira verso il Tirolo 111 I Francesi entrano per forza in Verona 113 Castello di Calliano preso dai Francesi 114 Generale Dammartin 114 I Francesi prendono Trento 115 Nuovi disegni di Wurmser 116 È battuto da Augereau e Massena 118 Si chiude in Mantova 119 Descrizione di questa fortezza 119 Carestia nella fortezza 125 Battaglia della Favorita 125 E di San Giorgio 126 Preso da Massena 127 Cose della Corsica 128 Colonnello Bonelli 129 Sapey 129 Gentili, Casalta e Cervoni 129 Miot ministro di Francia a Firenze 130 Sue parole contro gl'Italiani 131 Nelson prende l'isola d'Elba 132 E la Capraja 133 Bonelli va in Corsica 133 Casalta prende Bastia 134 Gentili prende San Fiorenzo 135 Gli Inglesi scacciati dalla Corsica, dall'Elba e dalla Capraja 136 Nuovi pensieri politici negl'Italiani 138 Lega nera 141 Reggio si solleva 147 Paradisi e Re mandati a Milano 147 Manifesto di Buonaparte contro il duca di Modena 148 Soldati Francesi in Modena 149 Cose di Bologna 149 Suoi comizj 150 Aldini presidente 150 Unione dell'Emilia 153 I Reggiani rompono gli Austriaci 153 Il papa ricusa la pace 154 Chiede soccorso ai principi 155 Pace tra Napoli e Francia 156 E tra Francia e Parma 158 Morte di Vittorio Amedeo III 158 Gli succede Carlo Emanuele IV 159 Fa Priocca suo ministro 161 Manda il conte Balbo a Parigi 161 Cose di Genova 163 Manda Francesco Cattaneo a Buonaparte 163 E Vincenzo Spinola a Parigi 164 Insolenza di Nelson 164 Convenzione tra Genova e Francia 165 Clarke mandato dal direttorio in Italia 167 Che gli dicesse Buonaparte 168 Pensieri ostili di Buonaparte contro Venezia 169 Proposte di Verinac a Federico Foscari 171 Lallemand propone lega tra Venezia e Francia 173 Ajutato da Francesco Battaglia 175 Deliberazioni tra i Savj 176 Risposta del senato 181 La Prussia propone di allearsi con Venezia 184 Ricusata per colpa dei Savj e degl'Inquisitori 187 Repubblicani e imperiali devastano lo stato Veneto 187 Schiera di Bernadotte perchè chiamata aristocratica 189 Lamenti del senato a Vienna 189 Altri del Querini a Parigi 191 Strana pretesa di Rewbel 195 Francesi e Tedeschi come amati dai Veneziani 197 Offerta della provincia Bergamasca al senato 198 Dopo le minacce di Buonaparte il senato provvede alla difesa 199 Giacomo Nani provveditore 200 Tommaso Condulmer 200 Accusa di Pietro Daru contro Venezia ribattuta 201 Principe di Nassau perchè non condotto agli stipendi di Venezia 202 Venezia si scusa col governo Francese 203 Procedere del Lallemand a Venezia 204 Calunnia la repubblica presso il direttorio e la giustifica presso Buonaparte 206 Negoziati inutili di pace 208 Buonaparte ordina la repubblica Cispadana 210 Suo detto sugli umori che erano nella medesima 211 Deputati Lombardi a Reggio 212 Facci presidente 213 Fava da Bologna 214 Buonaparte si compiace del loro entusiasmo e perchè 214 Lettera scrittagli dal congresso Cispadano 215 Sua risposta 215 Moto di libertà in Milano, come represso 217 Squallore dei soldati in Italia 217 Ladronecci nefandi dei provveditori 218 Il maresciallo Berwick gli faceva impiccare 218 Lamenti di Buonaparte di non poterlo fare 218 Abbondanzieri onesti chi fossero 219 Haller, ladro insigne 219 Compagnìa Flachat ancor peggiore 220 Sferza il Sommariva 222 Tela data in Cremona e rubata dai provveditori 223 Buonaparte gli fa processare inutilmente 224 Sue minacce all'imperatore Francesco 225 Costanza di Wurmser in Mantova 226 L'Austria si spedisce a nuova guerra 226 Manda Alvinzi 227 Veiroter 227 Disposizioni di Buonaparte 228 I Francesi vincono a San Michele 229 Perdenti a Segonzano abbandonano Trento 230 Combattimenti a Calliano 231 Ed a Bezeno 232 Tardità di Davidowich 233 Celerità di Buonaparte 235 Lanusse ferito e prigioniero 236 Buonaparte si ritira verso Verona 237 Massena ed Augereau battono gli Austriaci, ma con poco frutto 238 Launay e Dupuis feriti 240 Abbattimento di Buonaparte 240 Tardità di Alvinzi 242 Pensiero salutifero di Buonaparte 244 Descrizione di Villanova e dei bassi di Caldiero 245 Buonaparte richiama truppe da Mantova 246 Battaglia di Arcole 246 Generali feriti 247 Soldati incoraggiti da Buonaparte 248 Pericolo di Buonaparte 250 Salvato da un Veneziano 250 Guyeux prende Arcole 251 Si rinfresca la battaglia 253 Coraggio del generale Vial 255 Elliot ucciso 255 Buonaparte passa l'Alpone 256 Roberto ferito 258 Stratagemma di Buonaparte 259 Alvinzi si ritira 259 Inutili vittorie di Davidowich 260 È rotto e fugato dai repubblicani 261 Lemarrois mandato colla novella della vittoria a Parigi 263 Premio acconsentito ai vincitori 263 Costanza di Wurmser 264 Davidowich richiamato 264 Principe di Reuss mandato in suo luogo 265 Nuove deliberazioni di Alvinzi 265 Fedeltà dei Viennesi 266 1797 Mossa di Provera in ajuto di Mantova 268 Massena batte i Tedeschi a Bassano 269 Disegni di Alvinzi come scoperti 270 Partito che ne cava Buonaparte 271 Battaglia di Rivole 273 Valore di Massena 273 Lusignano si arrende con tutto il suo corpo 277 Sconfitta dei Tedeschi 277 Maravigliosa celerità di Buonaparte 277 Provera si avvicina a Mantova 278 Perde il retroguardo 279 Fatto prigioniero alla Favorita 280 Spavento in Roma 284 Colli, generale del papa 285 Cacault, ministro di Francia presso al pontefice 286 Suoi consigli 286 Ballo del papa in Milano 287 Lettera del cardinal Busca intercettata 288 Buonaparte dichiara la guerra al papa 289 Suo esercito 290 Strettezze di Mantova 291 Wurmser si arrende 292 Come lodato da Buonaparte 293 Battaglia al Senio perduta dai papali 294 Fokalla ucciso 296 Lahoz ferito 296 Faenza e tutta la Romagna si dà al vincitore 297 Colli fa vuotare la casa di Loreto 298 Che poi è espilata nel resto dai Francesi 298 Umanità di Buonaparte verso i preti fuorusciti di Francia 298 Spavento in Roma 299 Il cardinale Mattei scrive a Buonaparte 300 Il papa gli manda un'ambasciata 301 Trattato di Tolentino 301 Buonaparte tenta la repubblica di San Marino e mandavi Monge 303 FINE DELL'INDICE PUBBLICATO IL 4 LUGLIO 1833 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (signoria/signorìa e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II" *** 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