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Title: Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V Author: Botta, Carlo Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V" *** STORIA D'ITALIA DAL 1789 AL 1814 SCRITTA DA CARLO BOTTA TOMO V CAPOLAGO _presso Mendrisio_ Tipografia Elvetica MDCCCXXXIII STORIA D'ITALIA LIBRO DECIMOTTAVO SOMMARIO Accidenti fierissimi, e pieni di sangue nel regno di Napoli. Estremo coraggio delle due parti. Il cardinal Ruffo si fa padrone di Napoli. Uccisioni crudelissime che vi seguono. I castelli si arrendono al cardinale, ed agli alleati con patto, che siano salve le vite, e le sostanze dei repubblicani. Nelson sopraggiunto rompe la fede; supplizj lagrimevoli: si ristaura in tutto il regno l'autorità regia. Lo stato Romano viene in potestà dei confederati, eccettuata Ancona. Singolar risoluzione di Lahoz, generale Italiano, e sua morte. Bella difesa del generale Monnier in Ancona: finalmente si arrende con patti onorevoli. Tutta l'Italia a divozione dei confederati. L'ordine della storia mi chiama adesso a cose maggiori: molto sangue civile versato dalle bajonette, molto dalle mannaje; Italiani straziati da forestieri, Italiani straziati da Italiani; pensieri smisurati da ambe le parti; la crudeltà sotto nome di giustizia, un coraggio estremo in casi estremi; il valore contaminato dalla perfidia; Russi, Tedeschi, Turchi, Inglesi, Napolitani, Romani, Toscani in un viluppo; aquile bianche con un becco, aquile nere con due becchi, leopardi con le rampe, la repubblicana donna, la Nostra Donna, la Ottomana luna, la croce dei cristiani sulle bandiere; l'inferiore Italia tutta sdegnata, furibonda, sconvolta, sanguinosa; discorsi civili, opere barbare, proteste d'umanità, età da Genserico; e chi vanta i tempi moderni, non so di qual razza sia. Ferdinando, Carolina, Acton eransi ritirati in Sicilia, lasciando Napoli in mano dei Francesi, che badavano ai fatti loro, ed ai Napolitani, amatori della libertà, che sognavano la repubblica. Ma non se ne stava il governo regio senza speranza, che le sue cose avessero presto a risorgere, perchè non ignorava la forte lega, che si era ordita in Europa contro la Francia, e sapeva, che i dominj dei Francesi nei paesi forestieri, massimamente in Italia, sono sempre brevi. Egli medesimo si era congiunto per trattati d'alleanza con le potenze, che facevano o volevano far la guerra ai Francesi. Già fin dall'anno ultimo aveva stipulato con l'Austria, che in caso di guerra e d'invasione di territorj, Napoli avesse ad ajutar l'imperatore con quarantamila soldati, l'Austria Napoli con ottantamila; e se quando il re corse contro i Francesi a Roma, l'imperatore non accorse in suo ajuto, ciò fu, perchè, essendo il re l'aggressore, non era caso d'invasione, e perciò non d'alleanza; nè l'Austria aveva preste le armi, come ella avrebbe desiderato. Aveva anche il re contratto amicizia con la Gran Brettagna per un trattato, pel quale il re Giorgio si obbligava a tenere una grossa armata nel Mediterraneo a tutela e conservazione degli stati Napolitani, e il re Ferdinando si dichiarava obbligato a tener aperti i porti alle navi Inglesi, a dare all'Inghilterra tre mila marinari, ed a congiungere con l'armata Britannica quattro navi di fila, quattro fregate, e quattro altri legni più sottili. Poi Nelson vittorioso molto confortava le Siciliane speranze. Medesimamente per un trattato concluso con l'imperatore Paolo, si era la Russia obbligata a mettere sulla campagna in ajuto del re nove battaglioni di fanti, e ducento Cosacchi, gli uni e gli altri da aumentarsi in caso di pericolo prossimo, ed il re si obbligava dal canto suo a sborsare a Paolo centottantamila rubli pel viaggio, e a dare il vivere, quando fossero giunti nel regno, a quei settentrionali soldati. Perchè poi quella repubblica Francese, che era per se stessa una tanto strana apparenza, avesse a produrre nel mondo accidenti ancor più strani, il re Ferdinando aveva fatto alleanza coi Turchi, con avergli il gran Signore promesso, che manderebbe ad ogni sua richiesta, e senza alcun suo aggravio diecimila Albanesi in suo ajuto. Quest'erano le promesse, e le capitolazioni dell'Europa civile, e dell'Europa barbara in favor di Ferdinando: gli scorticatori delle teste Francesi dovevano venir ad usare l'immanità loro sotto il dolce clima delle Napolitane contrade. A questo dava favore e facilità la conquista di Corfù fatta dai Russi e dai Turchi, quando appunto gli ajuti loro erano divenuti più necessarj al re Ferdinando. Era arrivato il tempo propizio a riconquistare il regno per la ritirata di Macdonald da Napoli. Non aveva la repubblica messo forti radici nel regno, sì pel duro dominio dei repubblicani di Francia, sì per le astrazioni di quelli di Napoli, e sì finalmente per gl'ingegni mobili dei Napolitani. Sperava adunque Ferdinando negli ajuti degli alleati, e nelle inclinazioni dei popoli. Per conservarsi la grazia dei primi aveva in Sicilia tenuto Acton in istato, per muovere i secondi mandato Ruffo in Calabria. Già abbiamo narrato, come il cardinale, creato l'esercito cogli aderenti proprj, poi ingrossato coi nemici dei repubblicani, aveva mosso a romore, e ricondotto alla obbedienza le due Calabrie quasi tutte, la terra di Otranto, la terra di Bari, ed il contado di Molise. Gente feroce ogni giorno a gente feroce si accostava, i più per sete di vendetta, o per avidità di sacco, pochi per amore del nome regio. Uomini scelerati si segnavano con la croce di Cristo, in ogni luogo invece degli alberi della libertà, piantavano le croci, venerato e santo segno, posto in mezzo al sangue ed alle rapine. Erano accorsi con le bande loro al cardinale, Proni, Mammone, Sciarpa, frà Diavolo, Decesari, dei quali io non so dir altro, se non che deploro la causa regia di avergli avuti per difensori. Un'altra mossa popolare era sorta, che molto ajutava il cardinale, per instigazione del vescovo di Policastro, contro il governo repubblicano, la quale su le rive del Mediterraneo correndo, minacciava Salerno e Napoli. Anche il conte Ruggiero di Damas correva le campagne con uomini speditissimi, e sollevava a furore quelle popolazioni tanto facili ad esser concitate. Il cardinale, vedutosi forte, elevava l'animo a maggiori imprese. Perlochè, volendo torre alla capitale del regno quel pingue granajo della Puglia, e facilitare anche in quelle spiagge gli sbarchi dei Turchi e dei Russi, s'incamminava contro Altamura, perchè andando all'impresa di Puglia, non voleva lasciarsi dietro quel seggio di forti repubblicani. Fattosi sotto le mura, ed intimata la resa, gli fu risposto audacemente da quei di dentro, che niun'altra risposta volevano dare, se non di armi. Amavano veramente la repubblica, ed erano uomini di gran cuore: l'arrendersi poi non sarebbe stato meno pericoloso che il combattere, per la natura della gente sfrenata, con la quale avevano a fare. Diede il cardinale furiosamente la batterìa, e quantunque gli Altamurani virilmente si difendessero, aperta la breccia, vi entrarono i cardinalizj per estrema forza, e recarono in mano loro la terra. Qui le cose che successero, io che già tante orribili ne ho descritto, ripugno a raccontare. Solo dirò, che se Trani ed Andria furono sterminate dai repubblicani, con uguale immanità fu sterminata la miseranda città di Altamura. Usossi il ferro, usossi il fuoco, e chi più incrudeliva, era miglior tenuto, e chi mescolava gli scherni, le risa, gli orribili oltraggi contro la pudicizia alle preghiere supplichevoli, ed alle lamentazioni disperate dei tormentati o degli immolati, era da quegli uomini disumanati applaudito. Queste cose si facevano in cospetto di un cardinale di santa chiesa, o lui comandante, o lui tollerante, o lui contrastante, degno di eterno biasimo nei due primi casi per l'atto, degno ancora di riprensione nell'ultimo per non avere abborrito dal continuar a reggere gente, a cui era diletto lo stuprare, il rubare, il tormentare, l'uccidere. Da tante crudeltà volle Iddio, o piuttosto gli uomini sfrenati che in nome suo parlavano, che fosse accompagnata la restituzione della monarchìa e della religione in Napoli: quest'erano le opere dell'esercito, che col nome di cristiano s'intitolava. Ad uguale sterminio fu condotta la città di Gravina prossima ad Altamura, e posta sulla strada per la Puglia. Conseguita la vittoria d'Altamura, andava il cardinale a porre le sue stanze ad Ariano nel principato ulteriore. Quivi le città principali di Puglia, spaventate dal caso d'Altamura e di Gravina, spente le insegne della repubblica, e seguitando scopertamente il nome del re, concorrevano coi deputati loro a giurare obbedienza. Vennervi i delegati di Lucera, Manfredonia, Andria, Bari, Ascoli, Venosa, Bitonto, Barletta, Trani: tutto lo stato della repubblica rovinava, e ritornavano con grandissimo impeto della fortuna a Ferdinando tutte le terre, e le fortezze più principali. Solo Foggia, capitale, assai fiorente, ricca, popolosa e piena di amatori dello stato democratico, ancora si teneva; ma l'essere tornata tutta la provincia a divozione del re, diè facilità ai Russi, Inglesi ed Ottomani di sbarcare, come fecero, sulle rive del golfo di Manfredonia nel novero di circa milaquattrocento condotti dal cavaliere Micheroux; marciarono contro Foggia, e la ridussero in poter loro. Correva un giorno di fiera, quando vi entrarono: i popoli spaventati al vedere quelle genti strane, che avevano nome di valorose e di feroci, sparsero tosto le sinistre novelle pei paesi circonvicini. Il terrore dominava, e se qualche luogo era rimasto fedele alla repubblica, questo concorreva prestamente con gli altri all'obbedienza verso il vincitore. Parte dei soldati forestieri si congiunsero col cardinale in Ariano, e parte andarono a trovare sulle rive del Mediterraneo il vescovo di Policastro, che aveva combattuto infelicemente contro i repubblicani. Venne con questa seconda schiera Micheroux medesimo, che valorosamente guerreggiando pel suo signore, aveva in odio la ferocia delle turbe indisciplinate, e si sforzava, ancorchè fosse indarno, di frenarle. I rinforzi condotti da Micheroux, rendettero superiori i regj; anzi tanto s'avvantaggiarono, che non ostante che i repubblicani con frequenti e forti battaglie cercassero di arrestargli, arrivarono, conquistati i passi importanti d'Eboli e di Campistrina, sotto le mura di Salerno, e se ne impadronirono. Già tutte le province avendo obbedito o per amore o per forza alla fortuna del vincitore, la guerra si avvicinava a Napoli. Il cardinale, per istringerla, era venuto, calandosi da Ariano, a porsi a Nola, mentre Micheroux si era alloggiato a Cardinale. Eransi anche i regj fatti padroni della Torre del Greco. Da un'altra parte Aversa, rivoltatasi dalla repubblica, aveva chiamato il nome del re. Questo accidente interrompeva le strade da Napoli a Capua, in cui Macdonald partendo, aveva lasciato un presidio di duemila soldati. La medesima ubbidienza seguitava l'Abruzzo, perchè Proni, sollevato prima l'Abruzzo superiore, dove ad eccezione di Pescara, in cui si era rinchiuso il conte Ettore di Ruvo, ogni cosa veniva in poter suo, scendeva a far levare l'inferiore. Veramente tanto vi fece con la forza e con le persuasioni, che l'autorità regia vi fu rinstaurata sino prossimamente a Gaeta, munita di un presidio Francese. Per tale guisa furono tagliate tutte le strade tra Napoli e Roma. In questo mentre comparivano le navi Inglesi in cospetto, e mostrarono ai repubblicani, che la strada del mare era loro interdetta come quella di terra, e che nissun'altra speranza rimaneva loro, se non quella di un disperato valore, poichè nella clemenza del vincitore non potevano in modo alcuno fidare. Avevano innanzi agli occhi il prospetto di Procida isola, nido allora d'immanità più orribili, che non furono infami le libidini, che Capri posta in faccia a lei vide ai tempi antichi. Dominava in Procida sotto l'obbedienza del conte di Turn, uno Speciale, uomo crudele, il quale quanti repubblicani gli erano mandati prigionieri dal continente, tanti tormentava con supplizj, ed il più sovente con la morte. S'aggiungeva a spavento dei repubblicani, che in Napoli si era ordita una congiura in favor del re da due fratelli Bacher, Tedeschi, che vi avevano aperto un traffico. Scoperti da una gentildonna, amatrice dello stato nuovo, per nome San Felice, furono carcerati. Trovaronsi in casa loro nappe rosse, e bandiere reali. I repubblicani entrarono in gran sospetto, perchè temevano che vi fosse maggior inclinazione, e che una parte potente macchinasse congiure. In estremo tanto pericoloso, in cui non si trattava più di vincere o di perdere, ma di vivere o di morire, il governo della repubblica ed i repubblicani facevano ora più, ora meno di quanto i tempi richiedessero. Già aveva qualche tempo prima, come abbiamo narrato, il governo decretato, che non solamente fossero e s'intendessero aboliti i diritti dei feudi, ma che i baroni mostrassero a quale titolo possedessero i boschi e le bandite, e chi non potesse mostrarne, fosse spodestato, ed i beni si spartissero fra coloro, a danno dei quali i medesimi diritti fossero stati usati. Toglieva il diritto di mulenda, voleva che si vendessero i beni nazionali, rimedj insufficienti, perchè usati all'estremo, e perchè la ragione, e nemmeno l'utile possono prevalere contro il furore. I sospetti intanto, anche fra gli uomini della stessa parte, come avviene nelle disgrazie, davano il tracollo allo stato già cadente. Questi sospetti accennavano agli uomini stessi che entravano nel governo, perchè vi erano stati chiamati dai Francesi, parendo ai più ardenti repubblicani, che in chi era stato dipendente dai forestieri, non si potesse aver fede sufficiente in quegli estremi della Partenopea repubblica. Erano sorti in Napoli, come abbiam detto più sopra, parecchi ritrovi politici, dove, secondo il solito chi manifestava opinioni più estreme, era più applaudito, e miglior cittadino creduto. Tanto montò la cosa, e tanta fu la potenza che questi ritrovi si arrogarono, che uno di essi domandò al governo, che tutti coloro che erano stati nominati dai Francesi, cessassero dal magistrato, ed in vece loro si surrogassero buoni, leali e independenti Napolitani. Perchè poi non potesse venir fatto inganno, misero in campo anche questa, che un magistrato di censura si creasse, che avesse diritto e carico di scrutinare i membri del direttorio, e quei del corpo legislativo, e chi fosse stimato sospetto cassasse, e proponesse in luogo loro cittadini puri ed incorrotti. Accettò il governo oggimai servo la proposta, e per essa divenne ancor più servo. Così scioglievasi la società per la intemperanza, già prima che si disfacesse per la forza; fu creato il magistrato, un canonico Luparelli d'Adriano fatto suo capo. Questi creavano, quelli cacciavano, il governo era in mano loro. Instituissi intanto un tribunale, il cui ufficio fosse di giudicare il crimenlese, e di cui in nominato presidente Vincenzo Lupo. Entrarono con lui i repubblicani più vivi. Decretava il direttorio, che quando tirassero tre volte i cannoni dei castelli, chi a guardia nazionale, od a ritrovi politici non fosse ascritto incontanente si ritirasse alle sue case sotto pena di morte, e sotto la medesima pena serrasse le finestre; e chi nol facesse, e fosse trovato per Napoli dopo i tre tiri, quando non s'appartenesse a guardia nazionale, od a ritrovi politici, fosse disarmato, arrestato, ed incontanente, come nemico della patria, ammazzato. Ai tiri medesimi le guardie nazionali, o chi fosse addetto ai ritrovi, tostamente accorresse al quartier generale: i quinqueviri, i legislatori, i ministri andassero ai seggi loro, e chi nol facesse, fosse ammazzato. Queste cose si facevano con terrore infinito della città. Ma i repubblicani più vivi, e quelli che avevano in odio ed in sospetto ogni freno ed ogni governo, viemaggiormente si infierivano. Si era formato con consentimento del governo, nella casa dell'accademia dei nobili, un ritrovo, in cui convenivano repubblicani più moderati per discorrere fra di loro intorno alla salute della patria, e propria. Il loro fine principale, vedendo il precipizio delle cose, era di accordarsi, acciocchè nell'ultimo caso trovassero modo di salvar se, e quelli che sentivano con loro. I capi di quest'adunanza erano uomini assennati, e le loro intenzioni volte al bene. Ma vennero a congiungersi con loro, ed essi il consentirono per quell'intento di salvare quanti repubblicani potessero, gli altri ritrovi sparsi per la città, e composti di patriotti più ardenti e più immoderati. Ne nacque, che costoro acquistarono il predominio, e spinsero l'adunanza della casa dei nobili ad eccessi condannabili. Sul bel principio mandarono dicendo al corpo legislativo, che Pignatelli di Monteleone, e Bruno di Foggia, entrambi di esso corpo, erano aristocrati, perchè avevano reso partito contro la legge dei feudi; perciò volevano, che, chiesta licenza, se n'andassero, e non guardassero indietro; quando no, gli avrebbero ammazzati. Deputati a portar quest'insolente imbasciata furono Luigi Serio, e Gaetano Rossi. Gli accompagnavano cinquecento arrabbiati con le coltella in mano, intuonando che venivano per ammazzar Pignatelli e Bruno, se colle buone non se n'andassero. Fuvvi dentro un gran contrasto, perchè chi voleva cedere, chi resistere, nè potendo accordarsi se ne volevano riparar alle case. Ma gli uomini con le coltella intimavano loro, badassero a far l'ufficio. Poi non contenti al Pignatelli e al Bruno, rintuonarono, che il Doria ministro di marina, come vile per avere domandato i passaporti, avesse congedo ancor esso; quando no, l'ammazzerebbero. Non vi era luogo ad elezione: e però i tre accusati presero congedo da loro medesimi. Altri magistrati accusavano, e quanti ne accusavano, tanti erano esclusi, l'adunanza dell'accademia dei nobili dominava: regnava un'orribile anarchìa. Poi per far vedere, che se atterrivano gli altri, non avevano paura essi, immaginarono un registro, dove tutti, come membri dell'adunanza, avessero a scrivere i nomi loro. Scrissergli in effetto. I più savi consentirono, perchè avendo i nomi di tutti, speravano di potergli avvertire, quando fosse venuta la necessità del doversi salvare, per non cadere nelle mani dei regj. Questo registro divenne poscia, quando i regj si fecero padroni di Napoli, un libro di morte, perchè, trovato, furono giudicati senza remissione tutti coloro, che l'avevano segnato coi loro nomi. In questo mentre niuna cosa lasciavano intentata per infiammare il popolo. Tutti che portavano il nome di Ferdinando, si sbattezzavano con dire, che non volevano avere in se cosa, che gli assomigliasse ad un tiranno. Cassio, Bruto, Timoleone, Armodio, Catone, ed altri simili nomi andavano per le bocche di tutti. Chi invocava Masaniello, chi il gigante di palazzo: il Sebeto negl'innumerevoli versi parlava, e prediceva gran destino alla Partenopea repubblica. Le tragedie di Alfieri, e le più forti, si recitavano in presenza di un concorso infinito di uditori, e tratto tratto ecco alzarsi un predicatore: quest'era spesso una persona civile, e spesso ancora un idiota, o un prete, o un frate, o un laico. Badate, diceva costui, rivoltandosegli in un momento tutte le genti intente ad udirlo, badate, diceva, o cittadini, che questo caso è caso nostro, o fosse di Bruto, o fosse di Virginia, o fosse di Timoleone. Tutti applaudivano; poi si continuava a recitar la tragedia. Ed ecco un altro predicatore sorgere, e dire, che bisognava ammazzar tutti i tiranni: le Napolitane grida andavano al cielo: così tra il predicare e il recitare si arrivava allo spegnere dei lumi. Fuori poi i discorsi erano ancor più strani, che nel teatro: le novelle che si spargevano, sentivano anch'esse dello stravagante. Gli accidenti favorevoli si esageravano, gli avversi si tacevano; la repubblica era giunta al suo fine, e molti predicavano, ed alcuni credevano, che fosse per essere eterna. Eleonora Fonseca scriveva un monitore, giornale, in cui pubblicava continuamente vittorie di repubblicani, sconfitte di regj, arrivi di flotte soccorritrici di Francia. In piazza di mercato una società, che filantropica si chiamava, aveva a cielo aperto rizzato una scuola per ammaestrar lazzaroni, e per far loro capire, che dolce e bella cosa fosse la repubblica. Per riuscir meglio nell'intento, si mettevano alla medesima condizione con loro, ed ora questa, ed ora a quella taverna andando, se ne stavano con quegl'incolti plebei a piè pari mangiando e bevendo. Usavano i filantropi anche la religione, predicando continuamente, che il vescovo d'Imola Chiaramonti aveva con solenne lettera pastorale inculcato, che le massime democratiche erano massime del Vangelo, e che per esser buoni democrati bastava esser buoni cristiani. Per questo avevano fatto opera, che un Michelagnolo Ciccone, frate, trasportasse il Vangelo in volgar Napolitano, e le massime democratiche principalmente inculcasse. Esortaronsi i parochi ed i preti a raccomandare queste massime dai pulpiti, e il fecero. Un Benoni, frate francescano, uomo nè senza dottrina nè senza eloquenza, in mezzo alla piazza reale, ed a piè dell'albero della libertà, con un crocifisso in mano predicava ogni giorno, facendo continue e vivissime invettive contro il re, contro la famiglia reale, contro la monarchìa. Chiamava ne' suoi discorsi Gesù Cristo, e i Santi; affermava con parole efficacissime che tutti furono democrati, che sempre avevano predicato l'uguaglianza e la fratellevole carità: che sull'uguaglianza e sulla carità fraterna erano fondati tutti gli ordini monastici, massimamente quello del serafico padre san Francesco: e quivi infiammandosi dava col crocifisso la benedizione ai popoli. L'arcivescovo di Napoli ordinava preci per la repubblica; decretava, che nissuno, che avesse macchinato la rovina dello stato repubblicano, potesse ottener l'assoluzione, se non in articolo di morte; chiamava nelle sue pastorali Ruffo scellerato, impostore, nemico di Dio e degli uomini. In mezzo a tutto questo, essendo giunto il tempo solito del mese di maggio, si fece con molta pompa la processione del Santo. I democrati mandarono dicendo ai custodi, pregassero molto bene, perchè san Gennaro facesse il miracolo, ed essi molto bene pregarono, ed il sangue in men che non fa due minuti, si squagliò: gridarono i lazzaroni, san Gennaro esser fatto democratico. Ma i rimedi finora raccontati riuscivano insufficienti senza le buone armi. In questo i repubblicani avevano molta fede in Mantoné, ministro della guerra, uomo di animo fortissimo, repubblicano gagliardo, e che appunto pel suo coraggio smisurato errò; egli era per mandato del governo ordinator supremo di quanto s'appartenesse all'armi, ed alla difesa della repubblica. Chiamò a se gli ufficiali e soldati, che erano stati ai servigi del re, offerendo loro vitto e soldo, finchè fossero descritti in corpi regolari. Ma non potendo l'erario bastare a tanto dispendio, oltre le tasse, che per quanto si poteva senza mal umore dei popoli si riscuotevano, poneva mano a rimedi straordinarj. A persuasione di lui, e per ordine del governo s'invitarono gli amatori dello stato nuovo ad offerir doni in oro, od argento coniato o vergato, in sovvenimento della repubblica: fecersi capi di quest'impresa due gentildonne molto ragguardevoli, tanto per la virtù dell'animo, quanto per le forme del corpo; andavano per le case, raccomandavano la repubblica. Di queste pietose donne non tace il nome la storia; furono le duchesse di Cassano, e di Popoli. Raccolsero tanto denaro, che bastò per ordinar tre legioni di veterani; si aggiunsero per maggior sicurezza alcuni nuovi soldati fra coloro, che amavano la repubblica. Dieronsi la prima a reggersi a Schipani, la seconda ad Ettore di Ruvo, la terza ad un Belpuzzi, che aveva veduto le guerre di Buonaparte. Marciavano Schipani contro Sciarpa, Ettore contro Proni, Belpuzzi contro Ruffo. Per sicurezza poi di Napoli, Mantoné ordinava meglio la guardia urbana, e tentava di accalorarla in favore della repubblica. Le diede armi e bandiere con pompa solenne, e per generale primo Bassetta, per secondo Gennaro Serra, per terzo Francesco Grimaldi e Antonio Pineda, uomini valorosi, e nei quali con tutto l'animo confidava. Per avvezzarla agli usi di guerra, la faceva armeggiare ogni giorno. Commetteva alla fede del generale Federici la custodia di Napoli, a Massa Castelnuovo, al principe di Santa Severina castel dell'Uovo. Buoni ordinamenti erano questi, ma la guerra più forte di loro; nè Mantoné o che non sel credesse egli pel gran coraggio che aveva, o che s'infingesse per non ispaventare, non aveva fatto provvedimenti più gagliardi. E siccome era sempre riuscito vincitore contro i regj, che si erano mossi contro la repubblica prima che il cardinale si muovesse, aveva questo moto il cardinale in piccolo concetto, e non pensava, che fosse per avere un fine diverso da quello, che i primi avevano avuto. Per la qual cosa si persuadeva, che le legioni create fossero bastanti a frenare i regj nelle provincie, e ritornarle sotto l'obbedienza del governo popolare. Ma ebbe la guerra assai diverso successo; perchè Belpuzzi, conoscendo la impossibilità di far fronte ai regj, che d'ogn'intorno uscendo dai boschi, e calando dalle montagne, l'infestavano, abbandonata l'impresa, se n'era ritornato a Napoli. Ferocemente aveva combattuto negli Abruzzi Ettore di Ruvo, ma assalito ed attorniato da un numero di nemici molto superiore, fu costretto a cercar ricovero contro il furore dei sollevati dentro le mura di Pescara. Schipani rotto da Sciarpa, per ultimo rifugio si era ritirato a Napoli. Così Ruffo vincitore in ogni parte, inondando con le sue genti tutto il paese all'intorno, si era avvicinato alla capitale. Vide allora Mantoné, che i moti del cardinale erano per risolversi non in romori, ma in effetti, che la fortuna minacciava, e che i rimedi ordinari più non bastavano. Preparavasi ad uscir egli stesso contro il nemico con sei mila soldati; creò primieramente per custodia di Napoli una legione di fuorusciti Calabresi, i quali, perchè parteggiavano per la repubblica, cacciati a furia dalle case loro per le armi di Ruffo, si erano riparati nella capitale, uomini fieri, bellicosi, arrabbiati per le ingiurie recenti. I loro compatriotti, che militavano col cardinale, si mostravano disposti a far cose enormi pel re, ma essi erano risoluti a farne per la repubblica delle ugualmente enormi. Erano nel novero di due mila: e perchè ognuno fosse chiaro di quanto valevano, e di quanto si proponevano, pubblicarono, fra le altre, queste parole: «Noi vogliamo sangue; noi cerchiam morte; darla, o riceverla è per noi tuttuno: solo vogliamo, che la patria sia libera, e noi vendicati». Rispondeva loro Mantoné: «Compiacersi nel vedere quei moti generosi degli animi loro, nè poter perire la repubblica, che eroi, come eglino, aveva per difensori». Erano preti, laici, nobili, plebei, poveri per fortuna, poveri per esiglio; nè volevano dare od avere perdono. Mantoné diè loro in guardia il quartiere di Castel nuovo. Poi detto al principe di Roccaromana, che si dimostrava molto dedito al nuovo governo, creasse un reggimento di cavalli nei contorni di Napoli, egli il faceva. Partiva Mantoné da Napoli, non senza esimio apparato per impressionar quel popolo, di cui l'immaginare è tanto forte. Era la contrada di Toledo, per dove le partenti truppe passavano, tutta parata in addobbo: la guardia nazionale a piedi schieratasi in fila, quella a cavallo sulla piazza, i regolari rimpetto a Castel nuovo. Seguitavano i prigionieri fatti nella conquista di Castellamare, che preso ai tempi precedenti per una fazione improvvisa dai regj, e dagl'Inglesi, era stato con mirabile prontezza ripreso da Macdonald. Si vedevano le insegne polverose e lacere dagli stromenti di guerra, che ai dì più felici per loro avevano i cattivi portate: suonavano a festa le trombe, suonavano i tamburi. I prigioni con le mani legate al dorso, aspettavano pallidi e tremanti la morte. Le bandiere si gettavano a piè dell'albero della libertà: i prigioni condotti a quel tronco, si apprestavano all'ultimo momento; la lugubre scena muoveva i cuori a compassione; aspettavasi ognuno vedere balzar a terra le teste tronche, quand'ecco un gridarsi grazia da ogni lato: soldati e cittadini ugualmente nel pietoso grido si accendevano. Gli scampati da morte certa, a vita certa risorti, ringraziavano con atti di gratitudine le accolte turbe, baciando l'albero, e _viva la libertà_ gridando. Incontanente da compassionevoli e pie donne fu fatta questua, acciocchè coloro, cui la benignità dei repubblicani aveva salvato, potessero ritornare, come loro fosse a grado, alle patrie loro. L'atto umano pareva promettere dolce destino alla repubblica, perchè la pietà abbellisce i pensieri dell'uomo, e dà speranza, perchè sa di meritar premio. Restava, che, com'era il disegno, si ardessero le insegne regie, ma i democrati impazienti le laceravano a gara, e diedero i pezzi in mano a ciascun soldato: i soldati gli appendevano alle punte delle bajonette, gridando tutto all'intorno in quel mentre infinite voci, _muojano i tiranni_, _viva la repubblica_! Mantoné, condotte le repubblicane squadre alla campagna, sbaragliava e fugava facilmente i corridori dell'esercito regio; ma quando più oltre si fu spinto, si accorse, che per lui, nè pe' suoi altro scampo non restava, se non quello di tornarsene prestamente là, dond'era venuto. Il suo ritorno in Napoli costernava le genti: per ultima speranza aspettavano quello che fosse per partorire il valore di Schipani; ma ebbero tosto le novelle, ch'egli, che per aver udito la ritirata di Mantoné, si era condotto alla torre dell'Annunziata, combattuto quivi aspramente dai Russi, dai regj, e da una parte de' suoi soldati medesimi mutatisi a favore del re, era stato preso, dopo di aver veduto lo sterminio quasi intiero de' suoi compagni. Sentissi a questo momento ancora, che Roccaromana aveva bene levato ed ordinato, siccome dal ministro ne aveva avuto il carico, il reggimento di cavalli, ma che invece di farlo correre in ajuto dei repubblicani, l'aveva condotto al cardinale, dal quale aveva avuto le grate accoglienze. Il precipizio era evidente: tolta tutta la campagna, ed insultando già da ogni parte le genti del cardinale vincitore, tutta la difesa della repubblica, e di tanti uomini che avevano seguitato la sua fortuna, era ridotta nella sola città di Napoli, non sicura, nè per concordia di cittadini, nè per nervo di soldati. Non si trattava più di vincere, ma solo di conseguir patti, onde, sfuggita la morte, si acquistasse facoltà di andar esulando per terre inconsuete e lontane. Decretava il direttorio, essere la patria in pericolo. Ritiravasi col corpo legislativo ai castelli Nuovo, e dell'Uovo: quel di Sant'Elmo più forte, e che dominava Napoli, era in mano del presidio Francese lasciatovi da Macdonald: un terrore senza pari occupava le menti. La legione Calabra sola non si spaventava, perchè dal vivere al morire, purchè si vendicasse, non faceva differenza. Parte stanziava in Napoli, parte presidiava il castello di Viviena, per cui Ruffo doveva passare per venir a dar l'assalto alla città dal lato del ponte della Maddalena. Si risolvevano i repubblicani a morire da uomini forti: Spartani volevano essere, e Spartani furono: ma gli Spartani avevano uno stato ed una patria, essi non avevano più nè l'una ne l'altra. Perciò perirono senza frutto, in ciò molto più da ammirarsi, che gli Spartani non furono, perchè erano sicuri, che quell'invitta virtù non solamente non sarebbe proseguita con laude nel paese loro, ma ancora vi avrebbe incontrato il biasimo. Udissi tutt'ad un tratto nella spaventata Napoli un romore, come di tuono; tremò la terra; pure il Vesuvio non buttava: veniva dal forte di Viviena. Lo aveva il cardinale con tutte le sue forze assaltato: vi si difenderono i Calabresi, non come uomini, ma come lioni. Pure i regj, combattendolo da tutte parti con le artiglierìe, l'avevano smantellato, e non una, ma più brecce, e piuttosto una ruina di tutte le mura apriva l'adito ai vincitori. Entraronvi a forza ed a furia: gente disperata ammazzava gente disperata, nè solo i vinti perivano. Nissuno s'arrendè, tutti furono morti: date, a chi gli uccideva, innumerevoli morti. Restavano una mano di pochi: la rabbia gli trasportava; feriti ferivano, minacciati ferivano, ammoniti dello arrendersi ferivano. Pure l'estrema ora giungeva. Anteponendo la morte di soldato alla morte di reo, nè sofferendo loro l'animo di venir in forza di coloro, che con tanta rabbia abborrivano, un Antonio Toscano, che gli comandava, e che già stava con mal di morte per le ferite e pel sangue sparso, strascinossi a stento, e carpone al magazzino delle polveri, e con uno stoppaccio acceso postovi fuoco, mandò vincitori, vinti, e rovinate mura all'aria: atto veramente mirabile, e degno d'eterna memoria nei secoli. Tutti perirono; questa fu la cagione del tuono, e dello spavento di Napoli. Ruffo, espeditosi dall'intoppo del forte, passava, e si accingeva a dar l'assalto alla capitale da tre bande, al ponte della Maddalena, al canto di Forìa, ed a Capodimonte; ma il principale sforzo era alla Maddalena. I repubblicani carcerarono come ostaggi alcuni sospetti, e condussero in castel Nuovo, ed in Castel dell'Uovo un fratello del cardinale, ed i parenti degli ufficiali dell'esercito regio. Passarono per le armi i fratelli Bacher con quattro lazzaroni mescolati in congiure. Poi partiti in tre schiere se ne givano contro Ruffo. Writz gli conduceva alla Maddalena, Bassetta a Forìa, Serra a Capodimonte. Caracciolo con le navi sottili accostatosi al lido, batteva di fianco le genti del re. Animavansi con vicendevoli conforti l'un l'altro: quella essere l'ultima fatica loro, o morte, o vittoria; dover lasciare un testimonio al mondo di quanto possa la virtù, che vuole la libertà; vita di servi non esser vita; non esser morte lo scampare dalla servitù; e se dai fati contrarj era fisso, che l'opera loro non potesse più giovare alla libertà ed alla patria, gioverebbe almeno la memoria. Con queste voci diedero dentro ai regj: sorse una furiosissima zuffa alla Maddalena: repubblicani e regj eleggevano piuttosto il morire, che il cedere. Dalla parte dei primi Luigi Serio, vecchio di sessant'anni, combattendo nella prima fronte con un suo nipote, e con una gioventù indomita, che animava con l'esempio e coi conforti, fu morto, e con lui il nipote ed i giovani. Writz, Svizzero, valorosamente travagliandosi con tutte le sue forze in pro dell'adottiva patria, ora qual generale comandando, ed ora qual soldato combattendo, faceva dubbia la vittoria. Finalmente ferito di piaga mortale, e portato in castel Nuovo, quivi mandava fuori l'ultimo spirito. I repubblicani, massimamente quei Calabresi inferociti, non punto sbigottitisi alla morte del loro prode e fedele capitano, continuavano a menar le mani, ed a tener lontani dalle dilette mura le genti regie. Dal canto loro Bassetta e Serra ottimamente facevano il debito loro. Non inclinava ancora la sorte da alcun lato, perchè prevalevano i repubblicani di rabbia, ed avevano il vantaggio del luogo: i regj sopravanzavano di numero, e di truppe regolari. Mentre così stava dubbia la lance, ecco sorgere grida di _viva il re_ alle spalle dei democrati. Erano una moltitudine di lazzaroni, che stimolati dai partigiani del governo regio, si levarono a romore. Rivoltaronsi addosso a loro i repubblicani, e gli ammazzarono tutti. Ma Ruffo, usando l'occasione che gli si era aperta, perchè i nemici assaliti alle terga avevano rimesso dalle difese, entrava per viva forza, ed inondava la città, solo a lui contrastando quei Calabresi indomabili. Quivi il raccontare le cose che seguirono, parrà certamente impossibile, se si farà a considerare quella rabbia immensa, le ingiurie fatte, il sangue sparso, il sangue caldo, la natura estrema di quei popoli, l'immanità della più parte dei combattenti, da nissuna civiltà temperata. Primieramente, il castello del Carmine, che domandava i patti, fu preso per assalto, e tutto il presidio senza pietà passato a fil di spada. Carnificina più grande e più orribile si faceva per le contrade. Vi si uccidevano gli uomini a caccia per diletto, come se fossero stati fiere; nè età, nè sesso, nè condizione, nè grado si risparmiavano. Uccidevansi i repubblicani per odio pubblico, i non repubblicani per odio privato; nè quei carnefici si contentavano di uccidere, che ancora volevano tormentare. Varj erano i generi delle morti: il ricco ammazzato sugli atrj de' suoi palazzi, il povero sulle scalee, e sulle porte delle chiese: chi era lacerato, vivente ancora, a brani a brani, chi strangolato, chi arso. Ardevano qua e là orribili roghi, e gli uomini gettati a furia dentro, vi si abbruciavano. Godevano i barbari, a guisa di veri cannibali, e facevano le loro tresche, le loro grida, le loro danze festevoli intorno. Un prete venuto con Ruffo, si vantava di aver mangiato carni di repubblicani abbrustolite. Si spargeva voce ad arte da coloro che si dilettavano degli oltraggi e del sangue, che i repubblicani avevano sui corpi loro stampata l'immagine della libertà. Per questo, prima di uccidergli, i meno impetuosi all'ammazzare, gli spogliavano, e così spogliati in mezzo agl'improperj ed alle battiture gli conducevano per la città. Donne virtuose e pudiche, e pel grado loro ragguardevolissime, furono barbaramente e fra gli scherni di una ignobil plebe condotte a questo supplizio, in cui il manco era il dolore del corpo. Vedeva Ruffo queste cose, e non volle o non potè frenarle. Cercavano e chi era reo, e chi era innocente di repubblica, scampo a furore tanto barbaro. Chi fuggiva in abito di donna, e questo ancora nol salvava; chi fuggiva sotto cenci da lazzarone, e non si salvava. Ma quelli, a cui la fortuna aveva aperto uno scampo per le contrade, gliel toglieva per le case; conciossiachè i padroni ne gli cacciavano, sapendo, che se gli ricettassero, le case loro sarebbero saccheggiate ed incese, ed essi uccisi. Vidersi fratelli chiuder le porte ai fratelli, spose a sposi, padri a figliuoli. Fuvvi un padre, il quale per dimostrare il suo amore pel re, scoperse, e diè in mano il proprio figliuolo alla furibonda plebe, comperando in tal modo la salute propria col sangue della sua creatura. Risospinti dalle case i miseri perseguitati si nascondevano nelle fogne, donde di notte tempo e di soppiatto uscivano, cacciati dalla fame e dalla puzza. Se ne accorsero i lazzaroni; si mettevano in agguato alle bocche, come se aspettassero fiere al varco, e quanti uscivano, tanti ammazzavano. Felice chi moriva senza tormenti. Come se la ferocia di quella plebe senza freno avesse bisogno di maggiore stimolo, le si fe' credere, che i repubblicani avessero risoluto d'impiccare, se avessero potuto, la sera del giorno precedente tutti i lazzaroni. Fu olio a fiamma. Cercarono diligentemente in tutte le case; e sfortunata quella, in cui fosse rinvenuta o corda, o spago, o simili: dicevano, essere i capestri apprestati; onde senz'altro dire tormentavano, saccheggiavano, uccidevano. Un Cristoforo macellaro, che per uso del suo mestiere aveva corde in casa, fu straziato con orribili tormenti, poi la sua testa tronca portata a dileggio di popolo sopra la punta di una bajonetta per la città: l'avevano cinta tutta di corde, e gridavano, esser miracolo di sant'Antonio (correva appunto la festa di questo santo) perchè si era dato voce, che il santo fosse stato quello, che avesse rivelato a scampo dei lazzaroni il tradimento dei capestri. Dichiararono sant'Antonio protettore di Napoli, e degradarono san Gennaro come giacobino, e protettor di giacobini. Pensi il lettore quale immagine di città fosse quella, in cui una plebe barbara correva per le contrade e per le case, mescolando gli scherni alle crudeltà, ed in cui si ardevano uomini vivi, e le carni loro si mangiavano. Qualche consolazione arreca all'animo sconfortato dal vedermi un volto simile a quello di queste fiere, il pensare che atti generosi sorsero in mezzo a tale desolazione; perchè non mancarono padroni di casa che a pericolo degli averi e delle persone loro scamparono da morte le vittime destinate. Durò lo stato orribile due giorni. Infine si risolvè il cardinale, o perchè la umanità finalmente il movesse, o perchè volesse attendere all'assedio del castelli, fazione impossibile a tentarsi in tanto scompiglio, a frenare il furore dei suoi; Napoli atterrita per le morti, diventò lagrimosa pei morti. Restavano ad espugnarsi i castelli, a questa espugnazione applicò l'animo il cardinale, piantò una batterìa nella contrada di Toledo per battere i repubblicani, che avevano un alloggiamento a San Ferdinando, una all'Immacolata per battere castel Nuovo, ed una terza alla punta di Posilippo per battere quel dell'Uovo, che sebbene sia poco altro che una vecchia casa a guisa di fortezza, è di gran momento pel suo sito; perciocchè chi ne è padrone può battere con vantaggio, ed impadronirsi di castel Nuovo. Veduto il pericolo, i repubblicani che erano dentro a castel dell'Uovo si accordavano con quelli di castel Nuovo, e di Sant'Elmo per fare tutti uniti una fazione notturna contro la batterìa di Posilippo. Accozzavansi le due colonne uscite da castel Nuovo e da castel dell'Uovo, ma quando giunsero alla strada che salendo mette a Sant'Elmo, scambiarono in mezzo all'oscurità della notte per nemici quella dei loro compagni, che scendeva della fortezza. Si diè mano da ambe le parti al trarre, furonvi parecchi morti di qualità dalle due bande: ciò fu cagione di molto spavento. Finalmente riconosciutisi gli amici con gli amici, e riunitisi, e ripreso animo, se ne andarono con incredibile audacia alla fazione. Tanto fu l'ardire e la prestezza loro, che uccise le guardie, e sopraggiungendo improvvisi alla batterìa, la presero, arsero i carretti, chiodarono i cannoni, e tornarono sani e salvi ad incastellarsi. Le truppe di Ruffo sorprese, e spaventate a sì inopinato accidente, si davano alla fuga; già il cardinale aveva messo all'ordine i carri, e la sua carrozza stessa per andarsene. Ma accortosi della pochezza del nemico, e che i repubblicani già si erano riparati ai castelli, se ne rimase, continuando nell'opera dell'espugnazione. Dalla parte loro i repubblicani conobbero, che stante il numero soprabbondante dei nemici che gli combattevano, e le popolazioni contrarie, niuna speranza rimaneva loro della vittoria. Perciò consultarono fra di loro, se dovessero tentar la fuga con aprirsi con le armi in mano il varco fra i nemici. Un Renzi, vecchio ufficiale di molto valore, e il principe de Gennaro altro ufficiale di gran cuore, che s'apparteneva ancor esso alla truppa assoldata, opinava pel tentativo. Una contraria sentenza manifestarono altri, o meno confidenti nella impresa loro, o più nella clemenza del vincitore. Con questi assentiva massimamente Ignazio Ciaja, che solito ad abbellire colla innocente e placida fantasia tutte le umane cose, abbelliva ancora quell'estrema sventura. A costoro non sofferiva l'animo il lasciar fra le mani di un nemico crudele i vecchi, le donne, ed i fanciulli, che avevano in sì lagrimevol caso seguitato la fortuna loro. Prevalse la opinione di questi ultimi, nè si fece più motivo alcuno per iscampare: solo attesero, il meglio che poterono, alla difesa dei castelli, ed a star pazienti ad aspettare che cosa portassero i fati a salute od a rovina loro. La fazione della punta di Posilippo, la ferocia dei repubblicani Calabresi, l'atto disperato del comandante di Viviena, ed il coraggio smisurato dimostrato in tutti i fatti dei democrati avevano dato molto a pensare a Ruffo: si era persuaso, che senza molto sangue, e forse senza lo sterminio di tutta la città non avrebbe potuto riuscir a fine della sua impresa. Il castel Sant'Elmo avrebbe potuto, dominando Napoli, ruinarlo da capo in fondo. Questo castello era per verità in mano dei Francesi, e particolarmente del comandante Mejean, col quale il cardinale aveva avuto qualche pratica, e sopra cui se ne viveva con molta sicurtà. Ma vi erano anche non pochi Napolitani, amatori della repubblica, i quali, uomini disperati essendo, ed in caso disperato ritrovandosi, potevano facilmente fare qualche risoluzione molto pregiudiziale a Mejean medesimo, ed alla città. Oltre a ciò avevano i repubblicani in mano loro nei castelli i prossimi congiunti del cardinale, nè poteva restar dubbio, stante la rabbia loro, e le mortali ingiurie corse fra le due parti, che nell'ultimo furore non gl'immolassero, ove l'estremo dei tempi fosse arrivato. Finalmente consideravano gli alleati, massimamente gl'Inglesi, che cooperavano alla conquista di Napoli col cardinale, che si erano ricevute novelle dell'essere uscita al mare la flotta di Brest, e comparsa allo stretto di Gibilterra, donde le era facile navigare nelle acque di Napoli, e condurre a mal partito le navi Inglesi, che stanziavano all'isola di Procida, e nel mare vicino. Considerate, e maturamente ponderate tutte queste cose, stimando, che non si convenisse mettere i repubblicani nell'ultima disperazione, si deliberarono gli alleati ad offerir loro patti, perchè i castelli e la città si conservassero salvi, e fosse rimosso il pericolo, che sovrastava al navilio d'Inghilterra. Il cardinale per mezzo del comandante di Sant'Elmo mandò dicendo ai repubblicani, che se volessero patteggiare, vi si sarebbe volentieri risoluto. Rappresentò loro Mejean quello, che era vero, cioè che oramai ogni difesa era inutile, e che migliore e più savio partito era il serbar la vita a tempi migliori per la repubblica, che il perire senza frutto per lei: accettassero i patti, esortava, che loro si venivano offerendo. I repubblicani, consultato fra di loro, inclinarono l'animo al partito più ragionevole, e risolvendosi al trattare, proposero in un modello scritto le condizioni per mezzo delle quali promettevano di lasciare castel Nuovo, e castel dell'Uovo, non potendo stipulare per Sant'Elmo, come in potestà di Francia. Parvero sulle prime al cardinale le condizioni superbe, penava al ratificarle. Infine strignendo il tempo, temendo vieppiù della vita de' suoi congiunti, e moltiplicando gli avvisi dello avvicinarsi della flotta Francese, con pari consentimento degli alleati si risolvette ad accettarle. Furono quest'esse: fossero Castelnuovo, e castel dell'Uovo dati in potere dei comandanti del re delle due Sicilie, e dei suoi alleati il re d'Inghilterra, l'imperatore di tutte le Russie, e la Porta Ottomana, e così parimente ad essi fossero consegnate le munizioni da guerra e da bocca con le artiglierìe, ed altri arnesi, che si trovassero nei forti; uscisse il presidio onorevolmente a modo di guerra; le persone e le proprietà, sì mobili che stabili, di ognuno che si appartenesse ai due presidj, si serbassero salve ed inviolate; potessero le persone medesime ad elezione loro imbarcarsi sopra bastimenti di tregua, che loro sarebbero forniti, per essere trasportate a Tolone, o potessero ancora rimanersi in Napoli, dove nè esse nè le famiglie loro potessero a modo niuno essere molestate; le medesime condizioni fossero, e s'intendessero concedute a tutti coloro fra i repubblicani che nelle battaglie succedute fra loro, e le truppe del re, o de' suoi alleati fossero stati fatti prigionieri; l'arcivescovo di Salerno, i cavalieri Micheroux e Dillon, ed il vescovo d'Avellino ditenuti nei castelli, si consegnassero al comandante di Sant'Elmo, e vi restassero come ostaggi, insino a tanto che si avessero le novelle certe dell'essere i repubblicani arrivati a Tolone; tutti gli altri ostaggi o prigioni per ragion di stato, si rimettessero in libertà, tosto che la capitolazione fosse sottoscritta; non isgombrassero i repubblicani dai castelli, se non quando ogni cosa fosse presta all'imbarcargli. Fu la capitolazione approvata, e sottoscritta dal cardinal Ruffo in qualità di vicario generale del regno, da un Kerandy per l'imperatore di tutte le Russie, da un Bonieu per la Porta Ottomana, e da un Foote pel re d'Inghilterra. Non s'indugiò a dar mano all'esecuzione dei patti. Da una parte gli ostaggi nominati dai repubblicani si condussero in Sant'Elmo, dall'altra entrarono i regj nei due castelli. Il cardinale, a nome del re, e come vicario generale del regno di qua dal Faro, pubblicò per tutto il reame un editto, per cui perdonava ogni colpa e pena ai repubblicani, promettendo piena ed intiera salute a tutti coloro che restassero, e facoltà d'imbarcarsi per Marsiglia a tutti quelli che amassero meglio, lasciando la patria, andarsi a vivere in lontane e forestiere contrade. Mandava espressamente il trattato a Pescara, in cui tuttavia si teneva Ettore di Ruvo, affinchè cedesse la piazza a Proni, e se ne venisse con tutti i suoi a Napoli, scortato per sua sicurezza dai regj. I repubblicani intanto s'imbarcavano. Due navi portatrici di quei di Castellamare, avendo avuto facoltà di uscire, già erano arrivate a salvamento nel porto di Marsiglia. Le altre aspettavano la facoltà medesima, e i venti prosperi. In questo punto ecco arrivare Nelson: aveva egli udito, essere la flotta Francese ricoverata ne' suoi porti; trovandosi per questo esente da timore, passato prima per Palermo, e levatone il re, il ministro Acton, Hamilton, ambasciadore d'Inghilterra, ed Emma Liona, sua donna, dico sua per non dire non sua, aveva voltato le vele verso i lidi d'Italia. Non così tosto dalla sanguinosa Napoli si scoprivano le navi d'Inghilterra, che il cardinale mandava a Nelson deputati, per informarlo delle cose fatte, e dei patti stipulati. Rispose l'ammiraglio, non doversi il trattato concluso coi ribelli mandare ad esecuzione, se prima il re non l'avesse appruovato; risposta veramente incomportabile. Certamente i repubblicani erano rei d'atroci ingiurie verso il re, ma pure avevano pattuito con coloro, che il re medesimo e l'Europa quasi tutta avevano mandato con facoltà di pattuire. Certo nel trattato nissuna riserva di ratifica era stata fatta, ma egli era finale ed assoluto. S'aggiunge, che i patti erano stati offerti dal cardinale e dai confederati, e non domandati dai repubblicani. Il non osservargli dava al fatto dell'avergli offerti, apparenza d'insidia. Di tale risoluzione fu molto dolente il cardinale, che non voleva essere disprezzatore delle sue promesse, e per fare che la fede data si osservasse, andò egli medesimo a bordo della nave dell'ammiraglio, con efficacissime parole esortandolo a consentire. Ma l'Inglese, come se temesse, che la umanità e la fede contaminassero le vittorie, non si lasciò piegare; anzi non potendo rispondere agli argomenti ed alla facondia del cardinale, scusandosi con dire che non sapeva la lingua Italiana, prese la penna, e scrisse da vittorioso la crudele sentenza. Perchè poi non resti ignoto ai posteri il quanto di vituperio sia stato mescolato in queste sanguinose rivolture, io non posso omettere dal debito di narrare, che Emma Liona era presente, quando Nelson contrastava al cardinale, ed ordinava le uccisioni. Se qualcheduno fra chi mi leggerà, sarà per dire, ch'io dico cose troppo gravi, attenda, che nè voglio, nè debbo, nè posso tacerle; perchè se i vizj si biasimano negli umili, non so perchè non si debbano biasimare nei grandi: che se i grandi pretendono che non è bene che si dicano i loro peccati, dirò, che sarebbe molto meglio, che non gli commettessero. So che la moderna adulazione trascorse tant'oltre, che si va affermando, che ogni virtù è in chi è ricco, o potente, o glorioso, ed ogni vizio in chi è il contrario: per me credo, che la verità in tutto debba aver luogo, e che più debbano pubblicamente biasimarsi i grandi quando fan male, che gli umili, perchè i vizj dei primi sono più negli occhi degli uomini, e servono d'esempio. Nelson trapassando dal detto al fatto, ed entrando nel porto con la flotta, dichiarava prigionieri i repubblicani usciti in virtù della capitolazione dai castelli, sì quelli che già si erano imbarcati, e non ancora partiti, e sì quelli che non peranco si erano riparati alle navi. Perchè poi dubbio alcuno non potessero avere del destino che gli aspettava, gli fece incatenare due a due, e riporre in fondo alle navi. Nè contento al tenergli, gli lasciava bersaglio ad ogni oltraggio, e stremava loro i viveri. Pure noveravansi fra di loro uomini, se si eccettuano le opinioni ed i fatti politici in cui consisteva la colpa loro, molto ragguardevoli per dottrina, per legnaggio, e per virtù. Bastava bene ammazzargli, senza trattargli come vili assassini di strada. A tanto di barbarie si è lasciato trasportare un ammiraglio d'Inghilterra. Furono questi portamenti di Nelson dannati da tutti gli uomini diritti e dabbene, perchè, oltrechè se non si voleva trattare coi ribelli, necessaria cosa era il dichiararlo prima, non dopo la capitolazione, sapeva l'ammiraglio, che non senza compenso ed utile sì del re, che degli alleati, e particolarmente dell'Inghilterra era stata la dedizione dei castelli, perchè per lei e furono conservati intieri i castelli, e conservata salva Napoli, e rimosso il pericolo che i Francesi, dei quali egli medesimo stava in apprensione, arrivando con l'armata loro, non conducessero a qualche mal termine le cose dei confederati. Adunque i repubblicani avevano ricompro le vite loro con la concessione di questi vantaggi, i confederati avevano consentito, ed a queste condizioni medesime, e non altrimenti erano entrati in possessione dei castelli. Brutto certamente procedere si è quello di accettare, e di usare i vantaggi stipulati in una convenzione bilaterale, e di non volerne accettare ed adempire i carichi; ma più brutto è, quando il non adempirgli importa umano sangue. Lodisi da chi vuole il vincitore di Aboukir e di Trafalgar; ma noi, a cui più piace il giusto e l'umano che l'ingiusto ed il glorioso, non possiamo non mandarlo alla posterità, se non come uomo che ruppe fede agli uomini per ammazzargli. Il re, che era sul vascello inglese il Fulminante, non sofferendogli l'animo di vedere i supplizi che si preparavano, se ne tornava in Sicilia. Rimase il campo libero a chi voleva sangue. Conquistati i castelli di castel Nuovo e di castel dell'Uovo attesero gli alleati all'acquisto di Sant'Elmo, il quale oppugnato gagliardamente qualche giorno venne in mano loro, essendosi il comandante Mejean arreso a patti. Stipulossi fra le due parti, che la guernigione Francese sarebbe prigioniera di guerra del re, e de' suoi alleati; che non servisse contro di loro, finchè non fosse scambiata; che sotto fede si conducesse sopra bastimenti regj in Francia. Quanto ai sudditi del re, che si trovavano nel forte, si convenne che si consegnassero in mano degli alleati. Mejean non potrà sfuggire il carico di aver consentito a quest'ultimo capitolo; perchè se primo suo pensiero era, e doveva essere di salvar i Francesi suoi compagni, e se a tali estremi era giunto che della salute dei repubblicani, che si eran rimessi nella sua fede, non potesse richiedere gli alleati, debito suo era almeno, seguitando l'esempio dei comandanti di Torino, d'Alessandria, e di Cuneo, lasciare che gli alleati quegli uomini da immolarsi si prendessero da per se stessi, non obbligarsi col suo nome sottoscritto a consegnargli. Maggiore biasimo eziandio meritano Tommaso Trowbridge, capitano comandante la nave Inglese il Culloden, e il capitano Baillie, comandante le truppe dell'imperatore delle Russie, per avere richiesto e stipulato, che i repubblicani si consegnassero agli alleati; perchè farsi dar uomini per dargli in mano al boja, era cosa del tutto indegna di uffiziali di Russia e d'Inghilterra. Potevano bene stipulare, ed avrebbe bastato, che fossero dati in mano degli agenti Napolitani. Si aggiunse a patti crudeli una esecuzione più crudele. I repubblicani travestitisi a modo di soldati Francesi, per istare alla fortuna, se non fossero riconosciuti, di salvarsi, essendo riconosciuti, ed anzi indicati da chi gli doveva preservare, vennero in poter di coloro che tanto agognavano il sangue loro; spettacolo miserabile, che commosse a compassione molti degl'inimici. S'arrendevano in questo alle armi regie Capua e Gaeta, non fatta difesa alcuna d'importanza. Così tutto il regno tornò all'antica divozione, ma rotto, sanguinoso, pieno d'incendj, di rapine, di sdegni e di vendette. Incominciavansi i supplizj, l'infuriata plebe imitava; l'uccidere per tribunali era accompagnato dall'uccidere per anarchìa. Non a età si perdonava, non a sesso, non a grado. Le donne come gli uomini, giovanetti di sedici anni come vecchi di settanta furono uccisi sui patiboli: fanciulli di dodici condannati all'esilio, e dove in nome della legge giuridicamente non si poteva condannare, arbitrariamente si condannava. Un Fiori, un Guidobaldi già altrove nominato, un Damiani, un Sambuci, e massimamente uno Speciale, già stato ordinatore dei supplizj di Procida, erano gli stromenti della barbarie. Piange ancora Napoli, e piangerà lungo tempo i tremendi effetti del furor di costoro, e di coloro a cui piacevano. I più chiari, i più virtuosi s'immolavano i primi. A tanta immanità si aggiungeva nei repubblicani rabbia a coraggio per modo che dissero, e fecero morendo cose degne di eterna memoria. Fora troppo lunga e lagrimevole istoria il raccontare tutti i supplizj; toccheremo solo i principali, e da essi potranno i posteri argomentare, quanta virtù sia stata tolta a Napoli dalle discordie civili. Mario Pagano, al quale tutta la generazione risguardava con amore e con rispetto, fu mandato al patibolo dei primi: era visso innocente, visso desideroso di bene; nè filosofo più acuto, nè filantropo più benevolo di lui mai si pose a voler migliorare quest'umana razza, e consolar la terra. Errò, ma per illusione, ed il suo onorato capo fu mostrato in cima agli infami legni, sede solo dovuta ai capi di gente scellerata ed assassina. Non fe' segno di timore, non fe' segno di odio. Morì qual era vissuto, placido, innocente e puro. Il piansero da un estremo all'altro d'Italia con amare lagrime i suoi discepoli che come maestro e padre, e più ancora come padre che come maestro il rimiravano. Il piansero con pari affetto tutti coloro che credono che lo sforzarsi di felicitare la umanità è merito, e lo straziarla delitto. Non si potrà dir peggio dell'età nostra di questo che un Mario Pagano sia morto sulle forche. Domenico Cirillo, medico e naturalista, il cui nome suonava onoratamente in tutta l'Europa, non isfuggì il destino di chi ben ebbe amato in tempi tanto sinistri. Richiesto una prima volta di entrare nelle cariche repubblicane aveva negato perchè gl'incresceva l'allontanarsi delle sue lucubrazioni tanto gradite di scienze benefiche e consolatorie. Gli fecero una seconda volta suonare agli orecchi il nome, e la necessità della patria. Lasciossi, come buon cittadino, piegare a queste novelle esortazioni. Eletto del corpo legislativo, nè cosa vi disse, nè vi fece, se non alta, generosa e grande; ed il gridar per vezzo contro i re e contro gli aristocrati stimava indegno di lui per ragione, il propor cose a pregiudizio d'altri indegno di lui per affetto. La dottrina l'ornava, la virtù l'illustrava, la canizie il rendeva venerando. Ma i carnefici non si rimanevano, perchè il tempo era venuto che una illusione proveniente da fonte buona coll'estremo sangue si punisse, ed alla virtù vera non si perdonasse. Se gli offerse la grazia, purchè la domandasse, non perchè virtuoso, dotto, e da tutto il mondo onorato fosse, ma perchè aveva servito della sua arte Nelson ed Emma Liona. Rispose sdegnato, non volere domandar grazia ai tiranni, e poichè i suoi fratelli morivano, volere morire ancor esso; nè desiderio alcuno portar con se di un mondo che andava a seconda degli adulteri, dei fedifragi, dei perversi. La costanza medesima che mostrò coi detti, mostrò coi fatti: perì per mano del carnefice, ma perì immacolato e sereno, e tra Nelson e lui fu in quella suprema ora gran differenza perchè l'uno saliva nel suo preparato seggio in cielo, l'altro restava nel suo disonorato seggio in terra. Francesco Conforti, per dottrina nelle scienze morali e canoniche a nissuno secondo, a quasi tutti il primo, uomo che una lunga vita aveva vissuto o nelle sue segrete stanze a studiare, o sulle pubbliche cattedre ad insegnare, fe' testimonio al mondo col suo miserando fine che niuna cosa è più inesorabile della rabbia civile e che la gratitudine non ha luogo fra gli sdegni politici. Era Conforti defensore vivissimo delle immunità del regno contro le pretensioni della corte di Roma, e molte cose per comandamento e con singolar satisfazione del governo aveva scritto intorno a questa materia; ma il beneficio si dimentica più presto dell'ingiuria. Preso e legato dagli sbirri in Capua, gli diè di mano il boja in Napoli. Speciale gli mandò dicendo, scrivesse per le immunità del regno, e gli si sarebbe perdonato. Scrisse, e patì morte sul patibolo. Il sapere era incentivo alla ferità di quello Speciale, sitibondo di sangue. Vincenzo Russo, giovane singolarissimo per altezza d'animo, e per eloquenza e per umanità, portò con gli altri supplizio dello aver creduto che gli uomini si potessero condurre con nuove forme di reggimento politico ad un più felice vivere, e dello avere con la lingua, per cui tanto poteva, e con la mano che con ugual vigore secondava la lingua, quella condizione cercato che nella sua mente benevola si era a benefizio degli uomini concetta. Fu preso combattendo contro le genti regie al ponte della Maddalena: il diritto regio domandava la sua morte; l'illusione sua il doveva far compatire, la capitolazione dei castelli conservare. Prevalse il partito più fiero; dopo gli strazj infiniti che nella sua prigione furono fatti di lui, e cui sopportò con costanza ineffabile, fu dato in preda al carnefice. Non mutò volto, non fe' atto alcuno indegno di lui; serbò, non solo la equalità dell'animo, ma ancora la serenità. Pareva che non a morte, ma a miglior vita andasse, e certo andava. Giunto là dov'ei doveva dare il sospiro estremo, rivoltosi alle circostanti e feroci turbe che l'insultavano: «Questo disse, non è per me luogo di dolore, ma di gloria: qui sorgeranno i marmi ricordevoli dell'uomo giusto e saggio: pensa, o popolo, che la tirannide ti fa ora velo agli occhi, e inganno al giudizio: ella ti fa gridar _viva il male_, _muoja il bene_; ma tempo verrà, in cui le disgrazie ti renderan la mente sana; allora conoscerai, quali siano i tuoi amici, quali i tuoi nemici. Sappi ancora che il sangue dei repubblicani è seme di repubblica, e che la repubblica risorgerà, quando che sia, e forse non è lontana l'ora, come dalle sue proprie ceneri la Fenice, più possente e più bella di prima». Mentre così diceva, il boja lo strangolò. Nè giovò a Pasquale Baffi la dolcezza incredibile della sua natura, la straordinaria erudizione, l'essere uno dei primi grecisti del suo tempo, nè l'avere pubblicato una traduzione, col testo dei manoscritti greci di Filodemo trovati sotto le ceneri di Ercolano. Letterato di primo grado, fu dannato anch'egli all'ultimo supplizio da chi non aveva altre lettere che del saper sottoscrivere una sentenza di morte. Data la condanna, un suo amico, affinchè con morte volontaria sfuggisse la violenta, gli offerse oppio. Ricusò il funesto dono, sdegnosamente affermando, non essere in potestà dell'uomo il far getto volontario della propria vita; voler andare all'incontro del suo destino, comunque crudele fosse; non ispaventarlo la morte, non disonorarlo il patibolo; Dio esservi rimuneratore delle buone opere; nell'altra vita prima opera meritoria essere il conformarsi di buon grado alla volontà sua; appresso a lui non avere accesso gli odj, non le intemperanze dei tiranni; giusto essere Iddio, e mansueto e pietoso, ed accorre nel grembo suo volentieri gli uomini giusti, mansueti e pietosi; venisse pure il carnefice, il troverebbe rassegnato e pronto. In cotal modo filosofando e bene amando, Pasquale Baffi morì. Fu Mantonè, antico ministro di guerra, condotto alla presenza di Speciale, e quante volte era interrogato da lui, tante rispondeva: «Ho capitolato». Avvertito, apprestasse le difese, rispose: «Se la capitolazione non mi difende, avrei vergogna di usare altri mezzi». Condannato a morte, camminava, col capestro al collo, in mezzo a' suoi compagni, con fronte alta e serena: poi volti gli occhi intorno, e scortigli tutti, non vedendo fra di loro Bassetta: «Oh, disse, perchè con noi non è»? Fugli risposto, aversi salvata la vita col disvelare e denunciare repubblicani nascosti, o non conosciuti. «Ah, soggiunse, assassino vile de' tuoi fratelli! siatemi voi testimonj, ch'io la viltà sua aveva scoverto, e il volli far uccidere pochi giorni sono. Ma vi so dire ch'ei non godrà lungo tempo il frutto de' suoi tradimenti: ei morrà infame, poichè onorato non ha saputo morire». Così detto, Mantonè, tra sdegnoso e generoso, co' suoi compagni che costanti al par di lui la sua costanza ammiravano, se ne marciava al patibolo. Salite, senza mutare nè viso nè atto le fatali scale, dimostrò che l'uomo quantunque percosso dalla fortuna, è più forte di lei, e che non lo spaventa la morte. I raccontati supplizj, siccome d'uomini, partorirono maraviglia insieme e pietà in coloro che non ancora di ogni affetto umano si erano dispogliati; ma più maraviglia che pietà. Il seguente, siccome di donna, mosse più a pietà che a maraviglia: pure a grandissima maraviglia strinse i circostanti. Eleonora Fonseca Pimentel, donna ornata di ogni genere di letteratura, ed ancor più di virtù, da Metastasio lodata, e da lui anche amata, fu, per avere scritto il Monitore Napolitano, condannata a perder la vita sulle forche piantate in piazza di mercato. Chiamata al supplizio, domandava e beveva caffè, poi marciava in sembianza di donna maggiore della disgrazia. Giunta al luogo che era per lei l'ultimo in cui viva insistere dovesse, incominciò a favellare al popolo; ma i carnefici, temendo di tumulto, le ruppero tostamente il femminile e tenero collo con le corde loro, e troncaronle ad un tratto le eloquenti parole. Non tutti i condannati morirono sul patibolo, ma chi più crudelmente, chi meno. Un Velasco, minacciato da Speciale, che il farebbe morire sulle forche, rispose: _Vile carnefice non avrai tu la mia vita_. Ciò detto, diè un salto per la finestra, e si sfracellò per terra. Narrasi d'un Niccolò Fiani, che già stando sul punto di salire al patibolo, uomini barbari se l'abbian preso e fatto a pezzi, e strappatogli il cuore, abbiano il cuore, e le sparse viscere, e le lacerate membra portato a trionfo per la città. Un Pasquale Battistessa impiccato, e portato in chiesa, ivi diè segni di vita. Rapportato il compassionevole caso a Speciale, mandò dicendo, il finissero: come Speciale aveva comandato, così fu fatto. Io non so se mi narri storie d'uomini o di fiere. Morirono in Napoli per l'estremo supplizio e tutti con invitto coraggio Ignazio Ciaja, Ercole d'Agnese, cittadino di Francia, ma originario di Napoli, Giuseppe Logoteta, dotto e virtuoso uomo, Giuseppe Albanese, Marcello Scotti letterato eruditissimo, ed autore del catechismo dei marinarj, un Troisi, sacerdote piissimo e dottissimo, con molti altri, ornamento e fiore delle Napolitane contrade. Fu anche affetto coll'ultimo supplizio Ettore di Ruvo, condotto, come abbiam detto, da Pescara a Napoli sotto fede del cardinale. Morì, qual era vissuto, indomito, animoso, ed imperturbabile. Come nobile, fu condannato ad aver il capo mozzo. Volle essere decapitato supino, per veder la mannaia, che gli doveva tagliar il collo. La terra di Napoli era fumante di sangue, le acque del mare ne furono parimente penetrate e tinte. Il principe Francesco Caraccioli, primo onore e primo lume della Napolitana marinerìa, amato dal re, stimato dal mondo, dopo più di otto lustri impiegati ai servigi del regno, fece ancor esso una compassionevole fine. Si era Caraccioli, ed in questo certamente il suo fallire fu enorme, perchè il re gli era affezionato, molto travagliato in favore dello stato nuovo. Fatta la capitolazione dei castelli, e vedendola rotta, si era ritirato a Calvirano, pregando il duca di questo nome, acciocchè per sicurezza della sua vita minacciata dai regj, che da ogni parte il circondavano, gli fosse mediatore presso il cardinale, allegando, sperare, che l'avere obbedito per forza alcuni giorni alla repubblica Francese, non sarebbe per prevalere a quarant'anni di fedelissimo servizio. Non avuta risposta favorevole, se ne fuggiva ai monti. Scoperto da un suo domestico, fu condotto, legate le mani al dorso, e indegnamente maltrattato da villani ferocissimi (sì deplorabili mutazioni di fortuna partoriscono le rivoluzioni) a Nelson, che tuttavia stanziava nel porto di Napoli. Convocava l'ammiraglio incontanente a bordo della sua nave il Fulminante un consiglio militare, composto di uffiziali di marina Napolitani, e presieduto dal conte di Thurn, a cui diede facoltà ed ordine di giudicare, se Francesco Caraccioli fosse reo di ribellione contro il re delle due Sicilie per avere combattuto la fregata Napolitana la Minerva. Allegò l'accusato per discolpa, averlo fatto per forza, ma nol potè pruovare. Dannavalo il consiglio a morte. Nelson comandava, s'impiccasse all'antenna della Minerva, il suo corpo si gettasse al mare. Il misero principe pregava dicendo, essere vecchio, non aver figliuoli che fossero per piangere la sua morte, per questo non desiderare la vita: solo pesargli il morire da malfattore; pregare, il facessero morire da soldato. Le compassionevoli preghiere non furono udite. Volle il condannato pregare d'intercessione la donna, che era a bordo del Fulminante; ma Emma Liona non si lasciò trovare. Il capestro adunque, come piacque all'Inglese, strangolò il principe Caraccioli; il suo corpo gettato al mare. Così fu mandato a morte da Nelson un principe Napolitano, prima suo antico compagno in pace, poi suo nemico generoso in guerra: ed il giudizio di morte venne da una nave del re Giorgio. Poi, che vuol significare quella pressa di giudizio e di morte? Non era il re vicino? Non a lui si doveva ricorrere? Perchè intercludere la strada alla grazia? Si temè l'amore, non il rigore del re. Da un'altra parte, perchè gettare il corpo ai pesci? Non era vicino il lido? Non pronti i parenti e gli amici a raccogliere le amate reliquie? Adunque un principe Caraccioli, un servitor del regno per quarant'anni, un ammiraglio di Napoli, un uomo che per un sì lungo corso d'età era stato ed amato e riverito da Europa, non trovò sepoltura, se non nella bocca dei voraci mostri del mare! Non saziò la sua morte il crudo Inglese, volle ancora, che s'incrudelisse contro quell'onorato volto, contro quelle membra insensibili! Queste sono le glorie di Nelson nel golfo di Napoli. Grande fu la strage nella capitale, sì pei giudizj, sì per la rabbia popolare. Non fu minore nelle province: perironvi in modo sempre violento, spesso crudele, quattromila persone, quasi tutte eminenti o per dottrina, o per legnaggio, o per virtù; carnificina orribile. Io già feci, scrivendo queste storie, sì frequenti accoppiamenti d'idee dolci e terribili o di virtù e di patiboli, o di fede e di tradimenti, o d'innocenza e di vizj, che non so se il lettore me ne comporterà ancora un altro. Pure, se fia ch'ei debba muovere a sdegno ed a compassione i nostri posteri, io il mi racconterò. Domenico Cimarosa, cui tutta la generazione proseguiva con infinito amore per le sue mirabili melodìe, ed a chi chiunque non era straniero alla delicatezza del sentire, era obbligato di tanti affetti soavi pruovati, di tante tristi ed annuvolatrici cure scacciate, non trovò grazia appo coloro che reggevano le cose di Napoli con le ire, e le ire coi supplizj. Pregato, egli aveva composto la musica per un inno repubblicano, opera di un Luigi Rossi. Venuta Napoli in mano dei sicarj di Ruffo, furono primieramente le sue case saccheggiate, anzi il suo gravicembalo, fonte felicissimo di canti amabili, gittato per le finestre a rompersi sulle dure selci; poi egli medesimo cacciato in prigione, dove stette ben quattro mesi, e vi sarebbe stato anche di più, se i Russi ausiliarj del re non fossero giunti a Napoli. Saputo il caso, e non avendo potuto ottenere dal governo Napolitano, al quale l'avevano domandata, la sua liberazione, generale ed ufficiali corsero al carcere, e l'Italico cigno liberarono. Così in una Italia, in una Napoli la salute venne a Cimarosa dall'Orsa. Mi vergogno per l'Italia, rendo grazie alla Russia. Pure il misero Domenico, quantunque fosse posto in libertà, tra per l'afflizione dell'animo, ed i patimenti del corpo al tempo della sua carcerazione, se ne morì poco dopo a Venezia, dove era stato chiamato per comporre un'opera. Riconquistata la sanguinosa Napoli, premiava il re con magnifici doni coloro, che l'avevano tornata a sua divozione. Investì il cardinale Ruffo della badìa di Santo Stefano, che ha una valuta all'anno di cinque mila ducati di regno: davagli oltreacciò il possesso in proprio di un'altra tenuta con rendita di circa cinquemila ducati. Queste furono le dimostrazioni del re utili al cardinale. Del resto ei non ebbe più grazia, e gli fu tolto il governo delle faccende, a ciò instigando il re Acton per gelosia, Nelson per dispetto, perchè il cardinale aveva voluto che si osservassero i patti. Fu a Palermo eretto un tempio alla gloria, nel quale entrando in mezzo a plausi infiniti Nelson, gli fu posta dal principe Leopoldo, figliuolo del re, una corona d'alloro in capo. Il presentava il re con una spada gioiellata, duca di Bronte chiamandolo. Diegli inoltre una rendita di sei mila once di Napoli. Nè mancarono i presenti per Hamilton ambasciadore; Emma Liona ebbe ancor essa i suoi. Essendo, nel modo che abbiamo raccontato, caduta nelle due estremità d'Italia la potenza dei Francesi, restava ancor in poter loro la Romana repubblica, ma non sì, che non si vedesse vicina la inevitabile rovina loro anche in questa parte. Suonavano dentro, e d'intorno le armi dei confederati, o regolari o collettizie. Avevano gli Aretini sempre infiammati nell'impresa loro contro i Francesi, in ciò secondati anche dai Cortonesi, avendo le due città in così grave occorrenza posto in disparte le antiche emolazioni, fatto un moto importante sulle rive del Trasimeno, e sforzato Perugia ed il suo forte alla dedizione. A questo modo si erano posti in mezzo, onde i Francesi rimasti alla guardia di Roma e dei luoghi circonvicini non potessero più comunicare coi loro compagni, che se ne stavano assediati in Ancona. Lo stato Romano quasi tutto tumultuava e tornava all'obbedienza pontificia. Ufficiali antichi del pontefice, preti, frati, canonici, le rabbiose popolazioni stimolavano e guidavano, e se fu insolente in quelle regioni il dominio dei repubblicani, non fu meno sfrenato quello dei pontificj che risorgevano. Le vendette non solo si facevano contro le insegne inanimate della repubblica, ma ancora contro i corpi viventi dei repubblicani. Furonvi al solito uccisioni, rapine, ingiurie a uomini e a donne, con tutte l'altre pesti indotte dei popoli mossi a romore. In questa guisa i Francesi ed i soldati della repubblica Romana furono sforzati a ritirarsi ai luoghi forti, lasciando gli avversarj signori della campagna. Da un'altra parte nè Froelich, che aveva nella Romagna il governo delle genti, nè il re di Napoli, dopo la ricuperazione del regno, avevano trasandato le Romane cose. Ad essi accostavansi gli Inglesi con qualche squadrone di genti da terra, e con navi condotte dal capitano Trowbridge nelle acque di Civitavecchia. Diversi, secondo la diversità degli umori e degl'interessi delle potenze, erano i pensieri di ciascuna. L'Austria intendeva a conquistare per se, Napoli a questo medesimo fine, ed a fare la corona libera dalle molestie della corte di Roma. Agl'Inglesi poi pareva, che molto memorabil caso fosse, che venissero a rimettere un papa nel suo cattolico seggio. Adunque la repubblica Romana era chiamata a ruina da tutte le parti. Nè il generale Garnier, che ne stava alla custodia, perduto avendo ogni speranza di soccorso, e mancando di genti, poteva resistere a tanta piena. Froelich faceva impeto in primo luogo contro Civitacastellana, ed avendola occupata facilmente, s'incamminava a Roma. Dalla parte bassa salivano i Napolitani condotti da un Burcard Svizzero, e turbavano tutto il paese sulla sinistra del Tevere. Erano con loro gl'Inglesi di Trowbridge, che, procurata prima la resa di Capua e di Gaeta, se ne venivano alla conquista di Roma. Usciva Garnier alla campagna, piuttosto per non capitolare senza combattere, che per combattere, per vincere. Fuvvi un duro e lungo incontro tra i repubblicani sì Francesi che Romani da una parte, ed i Napolitani dall'altra, presso a Monterotondo. Ritiraronsi i Napolitani ai luoghi più alti e montuosi. Non erano ancora i soldati di Garnier riposati dalla fatica della battaglia di Monterotondo, che gli conduceva contro Froelich; ma sebbene con molto valore combattesse, fu costretto a ritirarsi nelle mura di Roma, restando in suo potere le sole fortezze di castel Sant'Angelo, Corneto, Tolfa e Civitavecchia. Questo fatto diè cagione di risorgere anche ai Napolitani dall'altra parte. Perlochè riavutisi dalla rotta di Monterotondo, s'avviarono di nuovo contro Roma. Posero gli Austriaci le loro prime guardie alla Storta, i Napolitani a Portaromana, ed a Pontemolle. Consideratosi da Garnier il precipizio delle cose, e pensando che il cedere a tempo sarebbe non solamente la salute de' suoi, ma ancora quella dei repubblicani di Roma, che avevano seguitato la fortuna Francese, aveva introdotto una pratica d'accordo con Trowbridge, quale fu condotta a perfezione, e sottoscritta da ambe le parti il dì venticinque settembre. Le principali condizioni furono le seguenti: uscissero i Francesi da Roma, Civitavecchia, Corneto e Tolfa con ogni onore di guerra; serbassero le armi, non fossero prigionieri di guerra; si conducessero in Francia od in Corsica; i Napolitani occupassero castel Sant'Angelo e la Tolfa, gl'Inglesi Corneto e Civitavecchia; i Romani, che volessero imbarcarsi coi presidj Francesi, e trasportare le proprietà loro, il potessero fare liberamente, e quei che rimanessero, e che si fossero mostrati affezionati alla repubblica, non si potessero riconoscere nè delle parole, nè degli scritti, nè delle opere passate, e fossero lasciati vivere quietamente, sì veramente che vivessero quietamente, e secondo le leggi. Penò qualche tempo Froelich a consentire all'accordo, parte per dispetto, perchè Garnier aveva amato meglio trattare con gl'Inglesi e coi Napolitani che con lui, parte e molto più, perchè per esso si venivano a troncare le speranze concette delle conquiste. Commise ancora il generale Austriaco qualche ostilità; ma finalmente, veduto che senza troppo scoprirsi, e dar sospetto, che i pensieri dell'Austria non si terminassero nella ricuperazione delle cose perdute, non poteva turbare l'accordo, vi accomodò l'animo, e voltate le bandiere verso l'Adriatico, se ne giva all'assedio d'Ancona, sola piazza che nello stato Romano ancora si tenesse pei repubblicani. S'imbarcarono i Francesi a Civitavecchia, e con essi tutti coloro fra i Romani, che stimarono più sicuro l'esiglio, che il commettersi alla fede di un governo provocato con tante ingiurie. Burcard occupò primo la città, poscia vi venne don Diego Naselli, dei principi d'Aragona, mandato da Ferdinando con potestà suprema militare e politica, per ridurre a qualche sesto le cose scomposte dalla rivoluzione, innanzichè il governo pontificio vi fosse restituito. Creò un superiore magistrato con titolo di suprema giunta del governo, a cui chiamò i principi Aldobrandini e Gabrielli, ed i marchesi Massimi e Ricci. Aggiunse un tribunale di giustizia sotto nome di giunta di stato, a cui chiamò per presidente il cavaliere don Jacopo Giustiniani, e per avvocato fiscale monsignor Giovanni Barberi. Ufficio di questo tribunale fosse, che la quiete dello stato non si turbasse, e chi la turbasse, fosse castigato. La suprema giunta notò i beni venduti ai tempi della repubblica, come nazionali, ed abrogò le vendite fatte, riserbando agli spossessati il ricorso dei compensi: contenne il libero scrivere, frenò la licenza del vestire sì degli uomini che delle donne, e richiamò ai luoghi loro le suppellettili rapite o vendute del Vaticano e delle chiese, rimborsando però il valore a chi le avesse comperate. Inibì l'ingresso e la dimora in Roma a tutti che avessero avuto cariche nella repubblica, e bandì da tutto lo stato Romano i cinque notaj Capitolini, che avevano rogato l'atto della sovranità del popolo, e della deposizione del sommo pontefice. Oltreacciò i beni dei repubblicani furono generalmente sequestrati, poi confiscati, e quindi molti di loro ridotti a crudele miseria. Gran numero di coloro che avevano partecipato nel governo precedente, dopo di essere stati esposti ad infinite vessazioni ed insulti, furono gettati in carcere, fra i quali merita particolar menzione il conte Torriglioni di Fano, che era stato ministro dell'interno, uomo di alto merito e d'illibati costumi; gli antichi consoli Zaccaleoni e Dematteis, uomini rispettabili, condotti a dorso d'asino in via del Corso in mezzo agli scherni di una scatenata plebaglia. Tutte queste enormità violavano la capitolazione, ed erano incomportabili; perchè se la impunità di chi aveva errato pareva scandalosa al governo di Roma, assai più scandaloso, e di peggiore esempio era il rompere la fede data. Del resto non si fece, come a Napoli, sangue per giudizj; moderazione degna di molta lode. Ma la sfrenatezza delle soldatesche Napolitane suppliva in questo, perchè oltre al rubare nelle botteghe e nelle strade, il giorno come la notte, uccisero anche parecchie persone, che vollero difendersi dalla loro rapacità. Questi delitti andavano impuniti. Un povero fabbro, per aver voluto, contro il divieto di alcuni uffiziali Napolitani, usare del diritto che aveva per contratto legale, di attinger acqua ad una fontana nel palazzo Farnese, fu dai medesimi condannato alla pena del bastone per cui morì: la sventurata sua moglie se ne morì di dolore. Roma offesa dai Napolitani, era compresa da un alto terrore. Le vittorie di Kray e di Suwarow avevano posto in mano degli alleati la valle del Po, quelle di Ruffo, e le mosse dei sollevati di Toscana, tolto al dominio dei Francesi e dei repubblicani il regno di Napoli, lo stato Romano e la Toscana. Sulla destra degli Apennini, altra sedia non avevano più i Francesi, che Genova con la riviera di Ponente, sulla sinistra Ancona. Conservavano gelosamente i repubblicani il Genovesato, perchè siccome prossimo ai loro territorj, poteva facilmente servir loro di scala al riacquistarsi il Piemonte e l'Italia. Ma Ancona tanto lontana non poteva più avere speranza di far frutto importante, ed il volervisi tenere più lungo tempo era piuttosto desiderio di buona fama, e gelosia di onore, che pensiero di arrecar qualche momento nelle sorti della guerra. Tuttavia non si smarriva d'animo il generale Monnier, che stava al governo della piazza con un presidio, che tra Francesi, Cisalpini e Romani, non passava tre mila soldati, e forse nemmeno arrivava a questo numero. Erano in questa parte d'Italia le condizioni della guerra le seguenti. Occupava Monnier col suo presidio Ancona, non sì però rinserrato, che non uscisse fuori di quando in quando a combattere, di sotto fino a Ripatransone ed Ascoli, di sopra sino a Fano ed a Pesaro. Ma siccome il suo più sicuro ricetto era Ancona, così alle antiche aveva, con somma diligenza ed arte, aggiunto nuove fortificazioni. Muniva con qualche trincea e forza d'artiglierìe la montagnola, che domina la strada per a Sinigaglia. Più vicino alla piazza affortificava con un ridotto frecciato, palizzato, affossato, ed armato di ventiquattro pezzi d'artiglierìa il monte Gardetto, il quale siccome quello che signoreggia la cittadella ed il forte dei Cappuccini, era di grandissima importanza, ed il principale mezzo di difesa; perchè se il nemico ne fosse impadronito, avrebbe fatto vano il resistere degli assediati. Aveva anche munito il monte Santo Stefano, che più da vicino che il Gardetto batte la cittadella. Perchè poi l'adito fosse intercluso al nemico di avvicinarsi a questi due monti, nella conservazione dei quali consisteva quella della piazza, guerniva anche di trincee e d'artiglierìe i monti Pelago e Galeazzo, che sono come propugnacoli naturali, od opere avanzate ai monti Gardetto e Santo Stefano. Nè lasciava senza batterìa il monte Ciriaco, che posto a riva il mare difende il molo d'Ancona. Sul molo stesso ed al fanale piantava cannoni, perchè siccome non gli era ignoto che i collegati l'avrebbero assaltato anche dalla parte del mare, desiderava di assicurarsi dagl'insulti loro. A questo medesimo fine piantava molte batterie al Lazzaretto, magnifica opera del pontificato di Pio VI. A questo modo la piazza d'Ancona, la quale, ancorchè munita di una forte cittadella, non ha in se molta fortezza per esser dominata dalle eminenze vicine, era per la diligenza usata da Monnier divenuta fortissima: non si poteva venire agli approcci della piazza, se prima non erano sforzate le fortificazioni esteriori, effetto difficile a conseguirsi per la natura dei luoghi. Non mancavano dall'altra parte mezzi di espugnazione ai confederati. Una flotta Turca e Russa governata dall'ammiraglio Woinowich, e comparsa nelle acque d'Ancona, ora bloccava la bocca del porto, perchè nuovo fodero non vi arrivasse, ora faceva sbarchi di gente sui lidi circonvicini. Quest'era la flotta, che già vincitrice di Corfù, intendeva al conquisto di Ancona, ponendo sull'Italiche terre coi Turchi e coi Russi i barbari dell'Epiro. Ad essa veniva a congiungersi un navilio sottile d'Austria per poter meglio accostarsi a terra, ed infestare le spiaggie marittime. Dalla parte del Regno gli abitatori delle rive del Tronto si erano levati a romore, e condotti da un Donato de' Donatis, da preti e da frati, ed accompagnati da qualche nervo di genti ordinate, correvano tutto il paese, e minacciavano di stringere il presidio d'Ancona dentro le mura. Dalla parte poi della Romagna tumultuavano anche i popoli contro i repubblicani: Pesaro e Fano, voltate le armi contro di loro, facevano un moto di molta importanza. Sinigaglia stessa, quantunque più vicina ad Ancona, titubava. Niuna cosa più restava sicura ai repubblicani, che le Anconitane muraglie. Eransi le popolazioni di Pesaro e di Fano mosse da se stesse, e per opera principalmente de' nobili, e della gente di chiesa; ma s'aggiunse loro, sussidio efficacissimo, l'opera ed il nome del generale cisalpino Lahoz. Era Lahoz stato stromento potente ai Francesi per turbare l'antico stato d'Italia. Amico al generale Laharpe aveva militato con lui, e come egli, nodriva l'animo volto a libertà. Abborriva anche, come il suo amico, dal sacco su quei primi fervori; ma molto poi aveva rimesso della sua virtù, massime quando faceva la guerra ai governi, ed a uomini che si chiamavano col nome detestato di aristocrati. Servendo con molta efficacia alle mire di Buonaparte contro la repubblica Veneziana, aveva nella terraferma operato a rovina di lei, con aver chiamato i popoli con parole veementi e con fatti sregolati a ribellione. Era anche stato in Cisalpina ardente cooperatore, perchè la repubblica si creasse un esercito grosso e bene disciplinato, avvisando, che in mezzo alle strette congiunzioni degli stati Europei, là non poteva essere nè libertà, nè independenza, dove non erano forti armi. Ma in questo aveva fatto poco frutto, ripugnando la natura quieta dei popoli, e distogliendogli il mal governo che di loro facevano i nuovi signori. Grande irritamento all'animo suo altiero ed Italiano erano le rapine, e le insolenze di coloro, che venuti con dolci parole in Italia, l'avevano sobbissata con amari fatti. Siccome assai diverso era stato l'effetto dalle promesse, così ancora in lui avevano principiato a pullulare nuovi pensieri, parendogli, che non si dovesse serbar fede a chi non l'aveva serbata. Così Lahoz rodeva di rabbia, e dava luogo nella sua mente ad insoliti pensieri contro Francia. Quando poi vennero i tempi infelici, continuò, a malgrado che ne avesse, ma per la occasione non propizia, a serbar fede, ed a seguitare le insegne della repubblica; ma l'animo gonfio si manifestava fuori, e spesso gli uscivano di bocca parole aspre e minacciose contro il dominio dei Francesi. Entrarono eglino in sospetto di quello che macchinasse, e appoco appoco gli andavano levando autorità e riputazione. Era egli al governo militare dello spartimento della Cisalpina, che si chiamava col nome del Rubicone: quivi, tumultuando d'ogn'intorno i popoli, e parendogli occasione favorevole, incominciava ad insorgere. Sparlava di Francia e delle sue leggi, governava, e quanto al civile e quanto al militare, da se medesimo la provincia, non aspettato i comandamenti di Montrichard a cui era subordinato: Montrichard medesimo, e le azioni sue continuamente lacerava: permetteva ai preti le processioni fuori delle chiese, cosa contraria alle leggi della repubblica: si addomesticava con molta famigliarità coi preti, coi frati, e coi nobili, e con loro continuamente parlava del nome Italiano. Montrichard seppe questi maneggi, e però, siccome il caso era d'importanza, gli toglieva l'autorità sul Rubicone, mandando Hullin per arrestarlo. E siccome con Lahoz pareva implicato Pino, altro generale della Cisalpina, ed amico di lui, ordinava che anch'egli fosse dismesso dall'autorità, ed arrestato. Giustificossi facilmente Pino dai sospetti, per modo che restandone i generali di Francia del tutto con l'animo purgato, il ricevettero di bel nuovo in grazia, ed egli continuò a militare con fede e con valore sotto le insegne loro, e fu uno dei più egregi difensori d'Ancona. Ma Lahoz, avuto avviso degli ordini dati per ritenerlo, si era schivato, e mandando fuori apertamente quello, che si aveva concetto nell'animo, gittossi coi popoli sollevati a guerreggiare contro Francia. Tentò anche l'animo degli Austriaci, che conoscendo di quanta utilità fosse per essere l'opera sua a rinforzo loro, l'accettarono molto volentieri, quantunque fosse disertore del reggimento Belgiojoso, ed avesse inferito molti danni all'Austria. Così Lahoz, che aveva seguitato una immagine ingannatrice di libertà coi Francesi, seguitava ora una immagine parimente ingannatrice d'independenza con gli Austriaci. Certamente non piaceva meglio l'independenza d'Italia agli Austriaci, che piacesse ai Francesi la sua libertà, ed in questa strana deliberazione di Lahoz debbesi piuttosto riconoscere lo sdegno di un animo altiero ed irritato, che l'amore della libertà e dell'independenza, che male potevano nascere da Russi, da Tedeschi, da Albanesi, e da popoli sollevati. Comunque ciò sia, o che Lahoz abbia a stimarsi traditore dei Francesi, o amatore dell'independenza d'Italia, andò a congiungersi con le popolazioni d'Urbino e di Fossombrone, che colle armi in mano perseguitavano a morte ed a sterminio Francia, e chi al nome di Francia si aderiva. A tutte queste genti, contro le quali col suo tenue presidio doveva combattere Monnier, si aggiunsero a tempo opportuno quelle, che Froelich conduceva dallo stato Romano. Lahoz, incitate e meglio ordinate le squadre dei sollevati sulle rive del Metauro e dell'Egino, prendendo a destra dei monti, che chiamano della Sibilla, se ne andava su quelle del Tronto per quivi abboccarsi con Donato de' Donatis, alle bande del quale molte altre già si erano accostate, particolarmente quelle che avevano per condottieri i nobili Scaboloni, Cellini, e Vanni. L'arrivo di un generale tanto riputato per perizia di guerra e per valor di mano, molto confortava questi capi, perchè speravano, che per opera di lui quelle genti indisciplinate e tumultuarie si convertirebbero in esercito regolato ed obbediente. Infatti Lahoz le distribuiva in compagnie, le indrappellava, le squadronava, le rendeva sperimentate negli usi del muoversi, del marciare, del combattere. Concorrevano cupidamente tratti dal nome suo gli Abruzzesi, e fecero massa tale, che da Ascoli passando per Calderola, Belforte, Camerino, Tolentino e Fabriano, si distendevano con guardie non interrotte sino a Fossombrone e Pesaro, cignendo per tal modo tutto il paese all'intorno d'Ancona. Monnier, non volendo lasciarsi ristrignere nella piazza, usciva fuori alla campagna per combattere fazioni, che non potevano portare che danno per lui, perchè aveva poche genti, e non modo di ristorare i soldati perduti con nuovi, mentre i collegati per avere i mari aperti, e le popolazioni sollevate in lor favore, potevano facilmente aggiugnere genti a genti. Ma qual cosa si debba pensare di questa risoluzione di Monnier, ne seguitava una guerra minuta e feroce, a distruzione d'uomini e di paesi, usandosi dai soldati immoderatamente la licenza. Ascoli, Macerata, Tolentino, Belforte, Fano, Pesaro, ed altre città della Marca, belle tutte e magnifiche, prese e riprese per forza parecchie volte, ora dall'una delle parti, ed ora dall'altra, pruovarono quanto la licenza militare ha in se di più atroce e di più barbaro. Finalmente successe quello, che era impossibile che non succedesse, cioè che moltiplicando sempre più le genti collettizie di Lahoz, e le regolari dei collegati, e venute in mano loro Iesi, Fiume, Fiumegino, Sinigaglia, Montesicuro, Osimo, castel Fidardo, e perfino Camurano, terra posta a poca distanza d'Ancona, fu costretto Monnier a serrarvisi dentro, ed a far difesa dei suoi le mura fortificate di lei. I Turchi ed i Russi, senza metter tempo in mezzo, s'impadronirono della montagnola, donde più oltre procedendo, tosto piantarono una batteria di diciasette cannoni, con la quale bersagliavano il forte dei Cappuccini, il monte Gardetto, e la cittadella. Furono da questi tiri molto danneggiati gli edifizj della cittadella, restaronne i bastioni rotti, le caserme inabitabili. Al tempo stesso ventidue barche armate di cannoni fulminavano dalla parte del mare contro il lazzaretto, il molo, il forte dei Cappuccini, e contro le tre navi che già furono della repubblica di Venezia, il Beyrand, il Laharpe e lo Stengel, e che Monnier aveva fatto sorgere in sur un'ancora alla bocca del porto. Lahoz, cacciati i repubblicani da monte Pelago, se n'era fatto padrone, e quinci con trincee si approssimava a monte Galeazzo; che anzi fatto un subito impeto contro di esso, vi si era alloggiato, ma venuto Monnier con un grosso de' suoi, lo aveva rincacciato dentro le trincee scavate fra questi due monti. Tali erano le condizioni dell'Anconitana guerra, nè si vedea, che gli alleati potessero così presto restar superiori, perchè quei di dentro si difendevano egregiamente, e di quei di fuori, i Russi erano pochi, i Turchi ed i sollevati per l'imperizia loro, e la mala attitudine dei loro instrumenti militari facevano poco frutto nell'espugnazione della piazza. Ma in questo punto sopraggiungeva Froelich co' suoi Tedeschi, e rendeva tosto preponderanti le sorti in favor dei collegati. Si alloggiava in Varano, e voleva recarsi ad una gagliarda fazione contro il monte Galeazzo, confidando anche, per mandarla ad esecuzione, nell'ajuto dei collettizi di Lahoz. L'intento suo era, acquistando quel posto, di battere più da vicino il monte Gardetto; conciossiachè nella presa di quest'eminenza consisteva principalmente la vittoria d'Ancona. Due volte l'aveva Lahoz con singolare ardimento assaltato, e due volte ne era stato con molta uccisione de' suoi risospinto. Ma Monnier, avendo conosciuto che finalmente, se il nemico stesse più lungamente padrone di monte Pelago, e delle trincee che vi aveva fatte, e che si distendevano verso monte Galeazzo, impossibile cosa era ch'egli potesse conservarsi la possessione di questo monte medesimo, sortiva assai grosso la notte dei nove ottobre per andar all'assalto delle trincee dei sollevati. Si combattè tutta la notte gagliardamente, presero i repubblicani il ridotto principale, chiodarono i cannoni, portarono via le bandiere. Ma un secondo ridotto tuttavia resisteva, sgarando tutti gli sforzi di Monnier. Già il giorno incominciava a spuntare; si conoscevano in viso i combattenti, quando Lahoz impaziente di quella lunga battaglia, usciva dall'alloggiamento, e dava addosso agli assaltatori. Siccome poi era uomo di molto coraggio, precedendo i suoi, gli animava a caricar l'inimico. Quivi era presente Pino, per lo innanzi suo amico fedele, ora suo nemico mortale: scorgevansi, scagliavansi l'uno contro l'altro, sfidavansi a singolare battaglia, tristissimo spettacolo ad Italiani. Ed ecco in questo un soldato Cisalpino prender di mira Lahoz conosciuto, e ferirlo mortalmente di palla di moschetto. Furongli i repubblicani addosso, così ordinando Pino, ed avendolo ferito di nuovo, gli tolsero le armi e lo spennacchio, che a guisa di trionfo portarono in Ancona. Avrebbero anche portato il corpo, che credevano morto, se non fossero stati presti i sollevati ed i Tedeschi a soccorrerlo. Fatto giorno, e muovendosi gli Austriaci contro Monnier, si ritirava il Francese con tutti i suoi in Ancona, lasciando nel nemico una impressione vivissima del suo valore. Fu condotto Lahoz all'alloggiamento di Varano. Quivi sopravvisse tre giorni, e tra il dolore delle ferite e l'angoscia dell'animo si andò, prima della ultima ora, colle seguenti parole esprimendo: «Che bene il tormentavano le ferite, ma che molto più il tormentava il pensiero, che gli uomini potessero credere, ch'egli avesse tradito la sua patria, e fosse divenuto nemico della libertà. Nè traditore, nè nemico essere della patria e della libertà, e niuno poter avere così scelerato concetto di lui, se non chi le parole vane ai fatti veri anteponesse. Quando, continuava, i Francesi penetrarono in Piemonte, riputandogli io liberatori d'Italia, le aquile imperiali abbandonando, andaimi a porre sotto le loro tricolorite insegne; ma nè mano, nè cuore, nè mente io vendeva ai Francesi: a loro m'accostava libero di me stesso, perchè pretendevano parole di voler difendere e i diritti degli uomini, e l'independenza nostra. Parevami, che alle Francesi legioni tutti coloro accostare si dovessero, che più amavano la libertà che la servitù. Amommi Laharpe, perchè generoso mi conobbe, ed a pensieri generosi intento: accettommi in grado d'onore Buonaparte, accettommi Joubert, cui gli uomini non potran mai piangere tanto, che non meriti di esser pianto molto più: nè mi fu avaro di affezione e di stima Moreau, Moreau illustre pei prosperi fatti, più illustre per gli avversi; nè m'ebbe a schifo Pino, nè m'ebbe in odio Monnier, contro i quali pure testè io combattei. La pace venditrice di popoli conclusa a Campoformio, la tirannide usata in Cisalpina da Trouvé e da Rivaud mi fecero accorto, che si pensava al trafficare, non a liberare l'Italia. Aggiunsersi occulti sdegni per non meritati oltraggi. Sentiimi trafitto da ferite acerbissime. Vennemi allora in mente il pensiero, e portailo oltre lungo tempo, di cacciare dalla onoranda Italia e Tedeschi e Francesi, perchè noi stessi di noi signori diventassimo. Sapevami, che questo alto disegno già da lunga età s'annidava nel cuore, e nelle viscere tutte degl'Italiani, e parevami che un propizio destino mi chiamasse ad effettuarlo. Dei Francesi io disperava, perchè, oltrechè di essi già l'esperienza si era fatta, l'Italia tutta insorgeva contro di loro. Voll'io quest'Italiani moti prima incitare, poi moderargli, finalmente dirizzargli al grande effetto della liberazione della nostra generosa ed universale patria. Ma pur troppo io vedo, che l'Italiana repubblica si può piuttosto immaginare, che sperare. Troppo siamo noi tra di noi divisi per istati, troppo per leggi, troppo per costumi, troppo per opinioni, nè gl'Italiani usi al giogo da tanti secoli hanno l'antico valore conservato. Combattono animosamente per superstizioni, mollemente per libertà, i popolani mirano al sacco ed alle vendette, i magnati all'ozio ed all'interesse. Nissuna parte sana è più, e chi mira più su che i luoghi della tirannide, o vive vilipeso, o muore ammazzato. Così men muoro ancor io; ma bene tu mi sarai testimonio, o Decoquel» (perciocchè queste parole diceva ad un Decoquel, capitano di Cisalpina, suo amico antico, e che fatto prigioniero dai Tedeschi nell'ultimo fatto se ne stava a lato del moribondo), «tu mi sarai testimonio, ch'io amatore dell'Italia men vissi, e che amatore dell'Italia men muojo». (MANGOURIT, _Défense d'Ancône_, t. II.) Ciò detto, passava da questa all'altra vita. Froelich, piantate le artiglierìe in luoghi opportuni, e con esse battendo impetuosamente i monti Galeazzo e Santo Stefano, se ne insignoriva. Poi procedendo più oltre con le trincee, si avvicinava al monte Gardetto. Poscia usando il favore di questa vittoria, dava il dì due novembre un furioso assalto a quest'ultimo sito, e correva anche contro la porta Farina, mentre i Russi e gli Albanesi assaltavano la porta di Francia. Sostenne Monnier l'urto con grandissimo valore, e cacciando ne' suoi primi alloggiamenti il nemico, fece vedere, quanto potessero pochi soldati estenuati e stanchi, quando hanno e coraggio proprio, e buona condotta di capo valoroso. Cessarono allora dagli assalti i collegati, solo battevano con le artiglierìe la piazza. Crollavansi alle fulminate palle i bastioni della cittadella, rompevansi le artiglierìe degli assediati, la piazza già difettava di vettovaglie; Froelich compariva grosso e minaccioso a fronte del monte Gardetto. Mandava dentro a fare un'ultima chiamata a Monnier il generale Skal, portatore delle sinistre novelle dei repubblicani rotti in tutta Italia, specialmente delle novità di Napoli, di Roma e di Toscana. Monnier, avendo fatto quanto l'onore dell'armi, e la dignità della sua patria da lui richiedevano, inclinò finalmente l'animo al trattare, protestando però, volere solamente arrendersi alle armi Austriache, non a quelle dei Russi, o dei Turchi, o dei sollevati. Patti onorevoli seguitarono una difesa onorevole. Uscisse il presidio con ogni onore di guerra, avesse sicurtà di passare in Francia per dove volesse, fino agli scambj non militasse contro gli alleati, si desse a Monnier una guardia d'onore di quindici cavalieri e di trenta carabine; nissuno di qualunque nazione o religione si fosse, particolarmente gli Ebrei, o in Ancona, o fuori nei dipartimenti del Tronto, del Musone e del Metauro, potesse essere riconosciuto, o castigato, od in qualunque modo molestato nè per fatti, nè per iscritti, nè per parole in favore della repubblica, e chi volesse seguitare il presidio con le sostanze e con la famiglia, il potesse fare liberamente. Fu, e sarà questa capitolazione, egregio e perpetuo testimonio del valore e della generosità di Monnier. Così fra tutti i comandanti di fortezze in Italia, solo Mejean, castellano di Sant'Elmo, abbandonò i repubblicani, e quelli che si erano aderiti ai Francesi: tutti gli altri ottennero, od almeno domandarono la salvazione di coloro, che combattendo, o consentendo coi Francesi avevano contro di se concitato l'odio degli antichi signori. Attraversava il presidio Anconitano, ammirato e riverito da tutti, l'Italia, tornandosene in Francia per la strada della Bocchetta. Venuta Ancona in potere dei confederati, i Turchi, ed i Russi si diedero al sacco; quelle misere terre già conculcate e peste da sì lunga guerra prima della vittoria, furono condotte all'ultimo sterminio dopo di lei. Froelich, siccome quegli che era uomo di giusta e severa natura, faceva castigare aspramente gli avari e crudi conculcatori; il che accrebbe i mali umori e le cause di disunione, che già passavano tra la Russia e l'Austria. LIBRO DECIMONONO SOMMARIO Stato della Francia dopo le rotte d'Italia. Mala contentezza, e querele dei popoli contro il governo; loro desiderio universale di Buonaparte. Egli arriva dall'Egitto, e, distrutto il direttorio, reca in sua mano la somma delle cose col titolo di primo consolo. Indirizza i suoi pensieri alla conquista d'Italia, si accorda coll'imperator Paolo di Russia, ma non può coll'imperator Francesco, nè col re Giorgio. Suoi vasti concetti. Assedio di Genova, e generosa difesa fattavi dentro da Massena; resa della piazza. S'avvicina il tempo, in cui l'Europa messa a soqquadro, ed a terrore dalla sfrenata licenza sotto nome di libertà, debbe far trapasso alla potestà assoluta sotto nome d'imperio; secolo turbolento, ambizioso e superbo, che tormentò gli uomini coi due peggiori estremi, poi loro lasciò la coda dello essere inabili ai benigni e liberi reggimenti. Era il direttorio constituito in assai difficile condizione. Bollivano molte parti in Francia, e tutte si volgevano contro di lui. La nazione Francese, impaziente delle disgrazie per natura, ancor più impaziente per la memoria delle vittorie, dava imputazione, per appagamento proprio, a' suoi reggitori delle rotte ricevute, e della perduta Italia. Moltiplici querele si muovevano in ogni parte contro di loro, e il meno che si dicesse, era, che non sapevano governare; perchè chi gli accagionava di tradimento, e chi del tenere il sacco a coloro, che con le ruberìe avevano ridotto i soldati alla penuria ed impossibilità del vincere. Quell'impeto, che era sorto pei tre nuovi quinqueviri, già era per le ultime rotte svanito. Dominava nei consiglj legislativi, secondo il solito, la perversa ambizione del voler disfare il governo per arrivare ai seggi del direttorio; dal che nasceva, che eglino così nel bene come nel male il direttorio contrariassero, nè vi fosse più modo alcuno di governare. I soldati nuovamente descritti non marciavano, i veterani disertavano per la strettezza dei pagamenti, le contribuzioni non si pagavano, ogni nervo mancava; la guerra civile lacerava le provincie occidentali, la discordia le meridionali; chi voleva le opinioni estreme, chi le mezzane; molti che sapevano molto bene quello, che si volessero, e molti ancora che nol sapevano, desideravano una mutazione. Nè questa mutazione era evitabile, perchè nissun governo può resistere in Francia alle sconfitte accompagnate dalla libertà dello scrivere e del parlare. La fazione soldatesca, che mal volentieri sopportava che il paese fosse retto dai togati, ed alla quale nissun governo piace se non il soldatesco, guardava intorno, se qualche bandiera chiamatrice di novità, ed alla quale potesse, come a centro comune, concorrere, all'aria si spiegasse, proponendosi di sottomettere, prima il governo col nome della libertà, poi il popolo col nome di gloria. Tutte queste cose vedevansi gli uomini savi, nemici della licenza; vedevanle i faziosi, amici della tirannide, e tutti pensavano al ridurle ai disegni loro. In questa congiuntura di tempi, sovveniva agli uni ed agli altri il nome di Buonaparte, tanto glorioso per Francia, tanto temuto dai forestieri. Esso solo, dicevano, potere ritornar a sanità, e ridurre in porto le cose dello stato afflitto, esso rinverdire la gloria della desolata repubblica, esso ricuperare le tanto predilette regioni dell'infelice Italia. O fosse tradimento, o fosse incapacità, essere oscurato il nome Francese per immoderate disfatte, e già l'Europa tante volte vinta avventarsi contro le proprie terre di coloro che l'avevano vinta; esso solo, il conquistatore d'Italia, a se medesimo sempre consentaneo, avere alle repubblicane bandiere in lontani e barbari lidi conservato la vittoria; la fama dei prosperi fatti di Egitto consolare in parte gli animi attristati dalla calamità d'Europa; vedersi adesso, quanto un uomo solo possa per la salute degli stati da eccessive forze assaliti, e poichè morto era Joubert, e che Moreau e Massena non bastavano, perchè non richiamarsi in sussidio della patria cadente Buonaparte l'unico? Essere negli altri coraggio, essere ingegno, ma l'animo superatore di ogni fortuna, ma il pensiero comandatore, e piegatore di ogni volontà in un solo e generoso ed alto fine, in Buonaparte solo albergarsi: lui solo essere mezzo a moderare, e quasi un freno a tanti dispareri e sospetti: pruovassesi adunque quanto potesse una mente tanto potente, una felicità tanto costante: con Buonaparte Italico aver prosperato la repubblica, senza Buonaparte Italico essere caduta, con Buonaparte Italico ed Egiziaco avere a risorgere. A questo modo nasceva in Francia un desiderio accesissimo del capitano invitto. A lui si volgevano gli amatori della gloria militare, perchè il credevano capace d'instaurarla; i corrotti dall'appetito del comandare e del far sacco, perchè confidavano, che ai soliti imperj e depredazioni gli potesse ricondurre; i nemici della licenza, perchè sapevano ch'ei non l'amava, e che era uomo da poterla spegnere; gli odiatori della guerra civile, perchè speravano che l'avesse a terminare; i repubblicani ardenti, perchè non dubitavano che disfacesse il direttorio; i repubblicani quieti, perchè pensavano che avesse ad indurre un vivere libero senza eccesso; i dotti ed i letterati, perchè si promettevano di esser bene trattati da lui; i filosofi, perchè non ignoravano ch'ei sentiva molto liberamente nelle cose religiose, ed il riputavano amico della libertà civile; i fautori segreti dell'autorità regia, perchè avevano a loro medesimi persuaso, siccome le voci ne erano corse, e ne era stato qualche pratica, ch'egli fosse per consentire alla ritornata dei Borboni, e per restituire l'antica signoria loro in Francia. Ognuno come redentore il guardava, ognuno desiderava che tornasse a redimere la patria afflitta. Queste affezioni erano sorte nei popoli, parte per le disgrazie, parte per lo splendore delle vittorie, parte per le arti astutamente usate da lui e da' suoi fautori, talmente che ciascuno credeva, ch'ei fosse per fare ciò che ciascuno desiderava. Tanta è l'efficacia dei discorsi versipelli nelle discordie civili, perchè le sette o non comunicano, o non si prestano credenza fra di loro, e può chi sta sopra a tutte, lusingarle, aggirarle, ingannarle a suo grado, e sicuramente tutte. Se il savio fra i matti può tanto, è facile comprendere quanto possa l'astuto, che è un savio raddoppiato, e Buonaparte fu astutissimo. Insomma la materia era ben disposta a ricevere le Buonapartiane impronte. Adunque già fin da quando si erano udite le prime sciagure d'Italia, era sorto fra i desiderosi di cose nuove il pensiero di far tornare Buonaparte dall'Egitto, il qual pensiero si rinfrescò maggiormente, e si mandò ad effetto quando portò la fama, essere morto Joubert, combattendo nella battaglia di Novi. In questo disegno entrarono Sieyes quinqueviro, perchè vedeva, siccome uomo oculatissimo, che lo stato non poteva più durare con quella maniera di reggimento, Barras quinqueviro per la congiunzione antica, e forse per le speranze Borboniche, i generali superstiti dell'esercito Italico, eccettuato Massena, il quale non era punto affezionato a Buonaparte, ed i fratelli Giuseppe e Luciano Buonaparte che aspiravano al dominio. Molto accomodato a' suoi fini era il procedere di Luciano: affermava con gli amici, non potersi vivere con quella constituzione, doversene creare un'altra: col pubblico rammentava, e con vivi colori pingeva, prima le glorie, poi le sconfitte d'Italia; lamentava la Cisalpina oppressa dalla tirannide di Trouvé e di Rivaud; lodava e patrocinava l'Italia; predicava la libertà di Francia, conculcata, come diceva, da un direttorio prepotente ed arbitrario. Così, allettando, chiamava a se, ed al nome del suo fratello i gelosi della libertà e della gloria Francese, i desiderosi della libertà Italica, i cupidi delle spoglie Italiche. Viaggiavano le vele, erano quelle di un bastimento Greco, portatrici dei desiderj comuni verso l'Egitto, correndo la state del presente anno. L'avviso fu ed accetto, ed opportuno. Buonaparte, che conosceva ottimamente per la sua mente pronta e vasta, per la perizia somma nelle faccende di stato, e per la cognizione profonda che aveva di questa umana razza, quanto piena fosse la fortuna che si parava davanti, e quanto fosse propizia la occasione di condurre ad effetto i suoi pensieri smisurati, parendogli eziandio, che un mezzo opportuno gli si offerisse di sottrarsi dall'Egitto, dove le cose sue cominciavano a declinare, cupidissimamente si avviava alle sue nuove e straordinarie sorti. Salpava dagli Egiziani lidi, conducendo con se i suoi compagni più fidati di guerra, perchè aveva bisogno delle mani e delle armi loro; i dotti ed i letterati più famosi, perchè si voleva servire, come di ajuto molto potente, dell'autorità, delle lingue, e degli scritti loro. Arrivava improvviso a Frejus: improvviso ancora, disprezzate le leggi di sanità, perchè non voleva che la fama del suo arrivo si raffreddasse, partendo, giungeva nel volubilissimo Parigi, che bramosamente l'aspettava. Io non mi starò a raccontare le allegrezze che si fecero in tutta Francia, quando si sparse la voce del suo ritorno: basta, che le genti corsero a lui da ogni parte, come a trionfatore, a salvatore, a redentore: già Francia era sua, quantunque uomo privato, e generale senza esercito fosse. Lione sopratutto tripudiava per un'insolita allegrezza, città ancor sanguinosa per l'imperio poco anzi spento dei truculenti giacobini, sdegnata per le leggi soldatesche, che contro di lei tuttavia vigevano. Toccò, passando, i tasti più teneri; favellò di pace, di prospero commercio, di ferite civili da racconciarsi da un giusto e mansueto governo. I Lionesi contenti speravano ed amavano. A Parigi, ogni opinione, ogni affezione si voltava a lui: dava buone parole a tutti, ma insomma pendeva al moderato, sapendo che tal era il desiderio universale. I letterati massimamente, o poeti, o non poeti, con ogni maniera più adulatoria si studiavano di compiacergli, e con infinite lodi innalzavano insino al cielo il suo nome. Il lusinghevole uso si propagava largamente: tutta Francia risuonava d'encomj; la libertà era perduta già prima che nata. Cacciò Buonaparte a punta di bajonette i consigli legislativi, cacciò il direttorio, i soldati pagati dal governo si voltarono contro il governo: ebbe paura sulle prime, poi fece paura agli altri; chiamò pazzo chi credesse, che la realtà potesse prevalere alle repubbliche in Europa, poi spense tutte le repubbliche, e creò in ogni luogo la realtà. Conosce Europa il dì nove novembre, da cui poteva nascere un vivere moderato e libero, e che non pertanto partorì un reggimento duro, tirato, dispotico, e soldatesco. S'accorse tostamente Sieyes, che aveva trovato un padrone, non un compagno, Barras un uomo che il volle allontanare da se, non un amico che il riconoscesse dei benefizj, uno finalmente, che anteponeva la potestà assoluta, alla quale aspirava, all'antiche congiunzioni, ed alla gratitudine. Incominciano le trilustri insidie. Buonaparte, dubitando che i Francesi non fossero per tollerare pazientemente la grandissima mutazione che preparava, e parendogli che a sostentare la sua immensa cupidità bisognassero fondamenti straordinari, apprestava con infinita accortezza allettamenti potentissimi. Fu maravigliosa l'arte sua nel vincere le battaglie, ma assai più maravigliosa fu nell'adescar le genti. A duro giogo le traeva; ma esso solo sapeva il fine. Spinte da gradite apparenze di lieto avvenire, da lusinghevoli speranze di contentati desiderj concorrevano cupidamente là, dov'ei voleva farle concorrere; nè mai frutti tanto amari si annidarono sotto sì dolci scorze. Pace dentro, pace fuori gli parvero i più forti fondamenti della sua potenza: i Francesi stanchi ed afflitti da sì lunghe guerre, pace sopratutto desideravano, purchè disonorata non fosse, del che non temevano con Buonaparte capo. A questi fini indirizzava egli principalmente i suoi pensieri. Speciale intoppo alla cittadina concordia gli parevano, ed erano veramente gli spiriti esagerati, i quali non potendo per ambizione riposare sotto alcuna potestà, nemmeno possono quando sono giunti essi alla potestà suprema, posciachè tirannicamente procedendo, decimano prima i popoli, poi se medesimi, e tutti i fondamenti dello stato fan rovinare; non gli era ignoto, che il nome di costoro era odioso in Francia; perciò fece avviso, che molto fosse, per operare a fine di concordia, il cacciare questi commettitori di scandali, di risse e di sangue: per la qual cosa, senza rimanersene ai formali giudizj, nè differendo contro di loro i rimedj severissimi, gli allontanava confinandogli in terre estreme o forestiere. Purgata la Francia da questi uomini turbolenti, pensava al ribandire dal lungo esiglio coloro, che avevano seguitato la parte del re, od almeno detestato le esorbitanze, che ai tempi più acerbi della rivoluzione si erano commesse in Francia. Pochi furono eccettuati dal clemente editto, piuttosto per lasciare un appicco a nuove grazie, che per altro fine. Rientravano gli esuli, non sotto i tetti proprj, non nei beni loro posti al fisco, ma a rivedere i monti, i fiumi, le valli, e l'aere natio; il che era pur parte di felicità. Gradivano infinitamente queste cose agli amatori del nome reale, e ne auguravano delle maggiori. Della contentezza loro godeva il consolo, volendo arrivare alla dominazione assoluta coll'appoggio dei regj, e dei repubblicani. In questi pensieri tanto più volontieri si confermava, quanto non dubitava, che sarebbero andati a grado delle potenze Europee, siccome quelle che vi vedevano l'intenzione data da lui nei campi di Leoben e di Campoformio, di voler rimettere i Borboni, desiderio primo e principale dei principi, massimamente dell'imperatore Paolo. Sperava, nella cupezza sua, che con questi mezzi acquisterebbe pace con Europa, e tanta potenza in Francia, che senza pericolo potesse finalmente scoprirsi dello aver preso il dominio per se, non per altri. Il reggimento statuito da lui in Francia, in cui parti principalissime erano il senato ed il corpo legislativo, non gli dava apprensione, perchè del senato lo assicuravano le ricchezze, del corpo legislativo le ambizioni. L'avere poi ridotto le amministrazioni delle province ad uno invece di molti fece gli ordini meglio eseguiti, l'erario pingue: ogni cosa si volgeva alla monarchìa. Correndo i soldi, i magistrati obbedivano, i soldati marciavano: tutti benedicevano il consolo. Credere, che i principj astratti prevalgano alle borse piene, è cosa da pazzo. A tutti questi maneggi gran momento arrecavano gli scienziati ed i letterati, siccome quelli che avevano molta autorità sui popoli, massimamente in Francia, dove erano uniti in certa spezie di congregazione, non per legge, ma per uso. Per la qual cosa il consolo gli accarezzava, gli arricchiva, gl'ingrandiva. Adulava l'instituto, e l'instituto lui. In questo non tutti andavano allo stesso modo. Alcuni s'accostavano a lui per gli allettamenti, altri per fin di bene, credendo, o che egli andasse per se, o che il potessero tirare colle persuasioni a volere la libertà. Piacemi fra questi nominare Cabanis, nel quale se fosse maggiore o il ben pensare, o il ben dire, o il bene scrivere, o il ben fare, io distinguere non saprei: certo tutte queste qualità erano in lui molto eminenti. Questo edifizio degli scienziati e dei letterati molto il puntellava, parendo a tutti, che a chi piacevano gli uomini civili, dovesse anche piacere la civiltà, e con lei la libertà, la quale sarebbe il compimento, e quasi il fiore della civiltà, se gli avari e gli ambiziosi non la guastassero. Grande flagello, da che aveva principiato la rivoluzione, era sempre stata la guerra della Vendea, nella quale con infinito furore combattendo e repubblicani e regj, avevano sterminato popolazioni intiere, desolato paesi altre volte fioritissimi, commesso quello che solo commettono nelle civili discordie, e forse neanco in queste gli uomini arrabbiati gli uni contro gli altri. La forza non l'aveva potuta spegnere, perchè irritava, le tregue nemmeno, perchè mal fide: ormai si nominava guerra interminabile. S'accorgeva il consolo, quanta grazia acquisterebbe fra i popoli, se pacificasse quelle terre rosse di tanto sangue Francese: applicovvi l'animo, venne a capo dell'impresa. Fra il terrore del suo nome, l'apparato de' suoi soldati, le promesse di osservar la fede, le speranze segretamente date di voler procedere più oltre, vennero i capi della Vendea ad una onesta composizione: la concordia tornava sulle rive dell'insanguinato Ligeri; Parigi maravigliato vedeva i capi della Vendeese guerra. Ammiravano i popoli il consolo pacificatore, uguale nel far le guerre, uguale nel far le paci. Forti amminicoli a quanto macchinava, pensava che fossero gli uomini di chiesa tanto maltrattati dal direttorio. Volle tirargli, e il fece agevolmente. Diè patria ai preti fuorusciti, libertà ai carcerati, sicuro vivere ai nascosti. Queste cose faceva apertamente, molte altre prometteva segretamente: i preti tutti, anche quelli che col crocifisso in mano avevano concitato le Vendeesi popolazioni contro i repubblicani, amavano e fomentavano la sua grandezza. S'aggiunse, che onorò con pietosi uffizj Pio sesto, papa morto, che aveva perseguitato vivo. Ordinava per lui solenni esequie in Valenza di Delfinato; il chiamava giusto, virtuoso, santo; affermava, avere per forza, e per mali consigli fatto guerra a Francia. Questo favellare maravigliosamente piaceva a coloro, che sentivano ancora di religione, massimamente ai ministri di lei. Già non solo vincitore e riformator generoso del governo, ma ancora instaurator pio dell'antica religione di Francia il chiamavano. Vacando il trono pontificale per la morte di Pio sesto, eransi a questo tempo adunati i cardinali in conclave a Venezia per intendere alla elezione del nuovo pontefice. Temeva il consolo, che si creasse, dovendo la elezione farsi in luogo suddito all'Austria, un pontefice troppo aderente a questa casa con pregiudizio degl'interessi di Francia e proprj. Perciò andava moltiplicando ne' suoi segni di affezione verso la religione, e nutriva con grandi speranze i ministri di lei. Si poteva facilmente pronosticare da questi primi favori, ch'ei voleva venirne, quanto alle faccende ecclesiastiche, ad ordini legittimi e definitivi. Ciò era cagione che i cardinali raccolti in Venezia non disperassero di Francia, e non consentissero ad innalzare al pontificato un cardinale, che si fosse dimostrato troppo contrario a lei. Si aggiungeva a favore di Francia e del consolo, che non senza grave sospetto stavano i cardinali intorno alle intenzioni dell'Austria rispetto al patrimonio della chiesa. Le dimostrazioni da lei fatte di aver voluto far correre a Roma Froelich, lo avere lui penato a ratificare la convenzione conclusa tra Garnier, gl'Inglesi ed i Napolitani, e molto più il desiderio, anzi la volontà evidentemente scoperta dall'Austria di serbarsi le legazioni, gli avevano messi in sentore. Perlocchè desideravano di assicurarsi dell'Austria per mezzo dell'amicizia di Francia. Questi umori erano astutamente fomentati dal consolo e gli dettero facilità di fermare le cose di Roma. Oramai si era accorto, che invece di combattere contro l'Europa e la santa sede, era arrivata la stagione, in cui egli poteva combattere, della santa sede servendosi, contro l'Europa; e siccome si era pruovato, che il gridare libertà senza religione aveva avuto cattivo fine, si risolveva a gridare libertà con religione insino a tanto che le radici della sua potenza essendo ferme, potesse spegnere la prima, e muovere a suo talento la seconda: tutto si volgeva a sua grandezza. Ma primo ed universale desiderio della Francia tanto rotta e sanguinosa, era la pace. Questa inclinazione assecondava il consolo, non che sperasse di ottenerla con tutti, ma l'offerirla a tutti gli pareva confacente a' suoi pensieri. Questo ad ogni momento inculcava, per questo essere venuto dall'Egitto, abborrire la guerra, abborrire i conquistatori, pregare Iddio, che gli concedesse tanto di vita, che potesse dar pace alla Francia, pace all'Europa afflitte; solo per questo desiderar di vivere, la guerriera gloria essergli venuta a tedio, solo piacergli la pacifica. Questi discorsi faceva con sì efficaci parole, e con fronte tanto pietosa, che tutto il mondo credeva che fossero sinceri. Pensava, che a' suoi fini molto valesse, e fosse molto ricercata dalle cose presenti, se non la pace, la offerta almeno della pace all'Inghilterra. Scriveva una molto bene elaborata lettera al re Giorgio: la guerra avere forse ad essere eterna? Non esservi forse alcun modo di finirla con qualche onesta composizione? Due nazioni grandi e potenti dovere forse porre in non cale la ricchezza dello stato, la felicità delle famiglie? Non sentir loro, non toccar con mano, la pace siccome è la cosa più desiderata di tutte, così ancora essere la più gloriosa? Sapere, che la Francia, e l'Inghilterra potevano per la potenza loro ancora molto tempo straziarsi, ma sapere ancora, che il destino di tutte le nazioni pendeva dal fine di una guerra, per cui tutto il mondo ardeva. Rispose acerbamente per bocca del ministro Grenville il re Giorgio, avere la Francia desolato la terra, avere i medesimi principj e le medesime cagioni a partorire i medesimi effetti; essersi servita dei trattati di pace, dei trattati d'alleanza a distruzione degli amici, e degli alleati suoi; non sapersi, se il governo nuovo prodotto da una rivoluzione nuova fosse per cangiar d'opere, ed offerisse maggiore sicurtà a chi trattasse con lui; non potersi fidare in proteste generali di desiderj pacifici; non vane parole, ma l'esperienza sola poter convincere altrui, che altro si voleva adesso, da quello che si era voluto prima; desiderare il re la pace, ma sicura per se, sicura pe' suoi alleati; solo, e fidato mezzo di sicura pace essere il rimettere in Francia quella stirpe di principi, che per tanti secoli l'avevano governata con prosperità dentro, con dignità fuori; nondimeno ciò accennare solamente il re alla Francia, non richiedernela; non volere, nè pretendere prescrivere forma di reggimento, o capi ad una nazione grande e potente; solo volere la sicurezza sua, solo volere la sicurezza de' suoi alleati; essere per venir volentieri ad un accordo, quando giudicasse di poter convenire con sicurezza, ma per ancora non conoscersi sufficientemente i principj del nuovo governo, non congettura probabile potersi fare dalla stabilità sua. A questo modo furono abbandonati i ragionamenti della concordia tra Francia ed Inghilterra. Pure ciò conseguì il consolo, che la continuazione della guerra s'imputasse non a lui, ma al re Giorgio. Erano tra Francia ed Inghilterra odio vivo, interessi diversi, vicinanza gelosa, pace difficilissima: molto diverse condizioni passavano tra Francia e Russia. Era l'Austria alleata naturale dell'Inghilterra, la Russia per caso. Ciò si sapeva il consolo; neanco ignorava quali freddezze corressero allora tra Francesco e Paolo. L'avere l'Austria voluto por piede in Roma, il non aver voluto rimettere il re di Sardegna, l'essere stati i suoi soldati aspramente trattati da Froelich, l'avere l'arciduca Carlo abbandonato, correndo verso il Reno, Suwarow in grave pericolo nella Svizzera, il manifestare in ogni cosa il desiderio di un dominio universale in Italia, avevano raffreddato l'ardore di Paolo, e fattolo indispettire contro il suo alleato, ancorachè egli medesimo non avesse avuto l'animo alieno dallo avere un seggio sicuro, per servirsene come di emporio e di scala, nel regno di Napoli, effetto, che aveva tentato di conseguire per recenti negoziati col re Ferdinando. Questa mala disposizione dell'imperatore Paolo verso l'imperatore Francesco astutamente fomentava Buonaparte, vivamente rappresentando al primo l'ambizione del secondo: volere, diceva, oltre gli stati di Venezia, datigli in compenso dei Paesi Bassi, tenersi ancora lo stato di Milano, e Mantova, ambidue conquistati in gran parte col valore, e col sangue dei soldati Russi, nè contento a questo, appetire le tre legazioni del pontefice; avere altresì capriccio sul Piemonte, e per questo avere ostato a Suwarow, quando voleva restituire al suo antico seggio il re Carlo Emanuele; quanto a lui non fare altro disegno sopra l'Italia, se non quello di ridurla alle condizioni di Campoformio, di render sicura la independenza del pontefice e del re di Napoli, di dare sesto conforme, ed ordini più monarcali alla Cisalpina, di rimettere in Piemonte il re di Sardegna, quando non si trovasse altro mezzo di un onesto compenso. Quanto all'Inghilterra, rammentava il suo insolente dominio sui mari, la generosità di Caterina dell'averlo voluto frenare, la libertà del Baltico, e la franchigia dei neutri ai tempi di guerra con magnifiche parole commendando. Aggiungeva a tutte queste insinuazioni certe espressioni, che indicavano a Paolo la sua intenzione di dar compimento alle pratiche incominciate per mezzo del conte d'Entraigues della rinstaurazione dei Borboni. A sì fatte promesse e protestazioni si lasciava muovere Paolo: il consolo, per fargli dar la volta intieramente, pagava, provvedeva di tutto punto, e rimandava liberi al loro signore i soldati Russi fatti prigionieri nelle guerre di Svizzera e d'Olanda. Parve atto generoso, ed arra conveniente dei disegni avvenire. Da tutte queste cose mosso il sovrano di Russia, voltando lo sdegno, siccome quegli che era subito nelle sue risoluzioni, da Francia contro Inghilterra, nè vedendo, perchè era di animo sincero, quello che covasse sotto alle lusinghevoli parole del consolo, il riceveva nella sua amicizia, e si riduceva alla sua volontà, dichiarando, non voler più partecipare nella lega, e richiamava in Russia le sue genti, che ancora stanziavano in Germania. Poscia, accendendolo vieppiù le speranze dategli, rinnovava contro la potenza marittima dell'Inghilterra i patti della lega del Nord, cacciava da Pietroburgo gli agenti del re Giorgio, imputando agl'Inglesi l'esito infelice della spedizione d'Olanda. Così Paolo, scostandosi dall'amicizia d'Austria e d'Inghilterra, si precipitava in quella di Francia. Parve a tutti, ed era veramente questa mutazione di grandissima importanza, e fu forte sostegno all'esaltazione del consolo. Rappacificatosi Buonaparte coll'imperatore Paolo, pensava a confermarsi l'amicizia della Prussia. Non gli accadde di sforzarsi molto in queste faccende, perchè, pieno sempre in tutte le sue azioni d'incredibile simulazione e dissimulazione, ora con dare intenzione del non essere alieno dal riporre i Borboni, ed ora col rappresentare l'ambizione dell'Austria, ottenne facilmente che Federigo Guglielmo, perseverando nell'amicizia fermata in Basilea, consentisse alle ultime mutazioni fatte in Francia, e lui come capo del governo francese riconoscesse. L'Austria restava sola sul suo continente contro la Francia. Tentava il consolo l'animo dell'imperatore Francesco, offerendogli di tornare alle stipulazioni di Campoformio, con quel di più, che si negozierebbe per sicurezza delle monarchìe, e delle possessioni Austriache in Italia. Ripugnava l'Austria al rinunziar del tutto ai frutti delle ultime vittorie, e le pareva cosa enorme, conservando gli stati Veneti, che gli erano stati dati in ricompensa del Brabante, il non conservare lo stato di Milano, antica sua possessione, riconquistata principalmente per gli sforzi e pel sangue de' suoi soldati. Nè si fidava punto delle promesse di Buonaparte, siccome quella, che avendo avuto con lui molti e spessi negoziati, conosceva di che sapesse. Non gli sfuggiva oltre a ciò, che il rimettere Buonaparte nello stato di Milano, importava il rendere incerta e vacillante la possessione degli stati Veneti, e che con un uomo tanto attivo, glorioso e superbo, qual era veramente il consolo, non poteva senza pericolo consentire allo spartimento con esso lui della signorìa d'Italia. In mezzo a tutti questi pensieri si accostarono le instigazioni dell'Inghilterra molto intenta a difficoltare queste pratiche, perchè vedeva nel mondo quieto la sua ruina. Offeriva denaro, e cooperazione sulle coste di Francia. Per le quali cose, e considerato altresì, che i veterani di Buonaparte erano periti o di peste in Egitto, o di ferro in Italia, si risolveva Francesco a ricusare la concordia, ed a voler pruovare, che cosa seco portasse la fortuna della guerra. Godeva Buonaparte parimente dell'offerta, e della rifiutata pace, perchè non aveva sincero desiderio di convenire coll'Austria. Così fermando la maggior parte del mondo in suo favore, confermava in Francia i contenti, cattivava gli scontenti, e parte con fatti, parte con isperanze conseguiva, che l'universale dei Francesi amasse il suo governo, desiderasse la sua grandezza, e volentieri si disponesse a fare quanto ei desiderasse: precipitavano i popoli a tutte le sue volontà. Tutta Francia correva alle nuove sorti, e se Buonaparte generale l'aveva fatta gloriosa in guerra, tutti confidavano, che Buonaparte consolo la farebbe e gloriosa in guerra e felice in pace. Quanto alla guerra ottimamente considerati furono i suoi consigli: mandava nuove genti, quasi tutte veterane, a Moreau confermato da lui al governo dei Renani, il quale doveva sostenere il pondo degli Austriaci in Germania. Dall'altro lato, avendo sempre più i pensieri accesi alla ricuperazione d'Italia, inviava in Liguria Massena, acciò facesse pruova di tener lontano il nemico dalle frontiere di Francia, e conservasse il possesso di Genova, fino a tanto che egli medesimo con un forte esercito arrivasse nelle pianure d'Italia. Congregava molti soldati veterani, e molti nuovi in Digione, donde pensava, secondochè gli mostrasse il tempo e le occasioni, o di condursi in Germania, se Moreau abbisognasse del suo ajuto, od in Italia se il generale dei Renani combattesse felicemente. Di questo aveva grande speranza per la perizia di Moreau, e la fortezza delle genti accolte sotto a lui. Per la qual cosa il suo principale intento era di condurre le genti adunate in Digione, che col nome di esercito di riserva chiamava, nei campi d'Italia, pieni ancora della fama di tante sue vittorie. A questo modo adunque ordinava la guerra contro l'Austria, che nel corno destro estremo guidasse i repubblicani Massena, nel sinistro Moreau, nel mezzo prima Berthier, poi egli stesso. Certamente nè pruovati, ne più eccellenti, nè più famosi capitani di questi non erano mai stati al mondo, e da loro aspettavano gli uomini maravigliati fatti maravigliosi. Essendo la guerra imminente gridava con la vincitrice voce Buonaparte a' suoi soldati: «Quando promisi la pace, in nome vostro la promisi: voi siete quegli uomini medesimi, che conquistaste la Olanda, il Reno, l'Italia, voi quelli stessi, che già vicini, sforzaste alla pace la spaventata Vienna. Soldati, avete voi ora ben altro carico, che quello di difendere le frontiere vostre: ite, invadete, conquistate i nemici territorj. Voi foste già tutti a molte guerre, voi sapete che per vincere, e' bisogna soffrire: in poco d'ora non si possono ristorare i danni di un cattivo governo. Dolce sarammi, a me, primo magistrato della repubblica, il poter dire alla Francia attenta, questi sono i più disciplinati, i più bravi sostegni, che si abbia la patria. Sarò, soldati, quando fia venuto il tempo, sarò con voi. Accorgerassi l'Europa, che voi siete quella valorosa stirpe, che già tante volte a maraviglia la costrinse». Così aggiungendo impeto a valore, faceva uomini fortissimi alle battaglie. L'esercito Italico afflitto dalle disgrazie titubava; i soldati rompevano i freni dell'obbedienza: già la stagione si rendeva propizia. Buonaparte vincitore mandava loro dicendo: «Non odono le legioni le voci dei loro ufficiali; lasciano la diecisettesima sopra tutte, le insegne. Adunque son morti tutti i bravi di Castiglione, di Rivoli, di Newmarket? Avrebbero essi eletto il perire, piuttostochè abbandonar le insegne. Voi parlate di provvisioni manche: che avreste fatto, se come la quarta, e la vigesima seconda leggiere, la diciottesima, e la trigesima seconda grosse, fra deserti, senza pane, senz'acqua, a mangiar ridotte carni di sozzi animali, trovati vi foste? La vittoria, dicevano, ci darà pane, e voi disertate le insegne! Soldati dell'esercito Italico, un nuovo generale vi governa: quando più splendeva la gloria vostra, ei fu sempre il primo fra i primi. In lui fidatevi, con lui andrete a nuove vittorie. Sarammi, così comando, dato conto di quanto ogni legione farà, massime la diecisettesima leggiere, e la sessagesima terza grossa: ricorderannosi della fede, che già ebbi in loro». Queste parole maravigliosamente accendevano quegli animi valorosi. Era l'esercito Italico, in cui si noveravano poco più di venticinque mila soldati, distribuito nelle stanze al modo che segue. La destra governata dal generale Soult, da Recco in Riviera di Levante per monte Cornua e Torriglio, e dalla Bocchetta per Campofreddo, Stella, Montelegino in riviera di Ponente sino a Cadibona e Savona si distendeva; presidiava Gavi e Genova, in cui alloggiava il generalissimo Massena. La sinistra, che obbediva al generale Suchet, custodiva la riviera di Ponente da Vado fino al Varo con presidj posti nei principali luoghi di monte San Giacomo, Settepani, Santo Stefano, Madonna della Neve, Montecalco, Montegrosso, e nei sommi gioghi dell'Alpi Marittime; fronte certamente troppo lunga per potersi guardare convenientemente con sì poche genti. Ma Genova necessitava i consigli dei Francesi, perchè importava ai disegni ulteriori del consolo, ch'ella si tenesse lungamente, e voleva Massena conservarsi un campo largo per le tratte delle vettovaglie, di cui penuriava, il che l'aveva fatto risolvere a non cedere le riviere, se non quando a ciò fosse sforzato. Da un'altra parte Melas, il quale, abbenchè fosse guerriero avveduto e sperimentato, e forse appunto perchè era, non poteva persuadere a se medesimo, che le genti raccolte in Digione fossero una tempesta, che avesse a scagliarsi contro l'Italia, parendogli impossibile, che dopo tante rotte avessero potuto i repubblicani in così poco tempo raccorre genti, ed armi sufficienti per fare un moto di tanto momento su quei campi stessi dove e donde erano stati, pochi mesi innanzi, da lui vinti e cacciati. Non misurava egli bene la prontezza di Buonaparte, nè la docilità dei Francesi a correre là dove il nome suo e la sua voce gli chiamavano. Laonde ei se ne viveva troppo alla sicura su quanto potesse succedere alle spalle, e sul suo destro fianco. Ciò fu cagione, che tutto intento al cacciare il nemico dalle riviere e da Genova, egli indirizzò tutto lo sforzo contro un'ala estrema delle forze Francesi, contro passi difficili, contro rocche sterili, lasciando per tal modo aperto il campo all'avversario allo scendere nelle grasse e facili pianure della Lombardìa con tutto il pondo della mezzana parte delle sue forze. Dagli accidenti, che si racconteranno, sarà manifesto, che Melas commise un gravissimo errore, perchè fosse appunto quello che Buonaparte desiderava che facesse; il che tanto è vero, ch'io sto per credere, che l'aver lasciato le riviere di Genova con presidio sì debole, tanto disteso la sua fronte, e continuato nella possessione della capitale della Liguria, siano stati piuttosto astuzie di Buonaparte per allettar Melas con la facilità dell'impresa a portar la guerra in questi luoghi, che errore od impotenza. Ad ogni modo non si vede, quale grande momento potesse recare all'Austria l'impadronirsi di Genova, che non poteva, e forse non voleva, e delle riviere, che certamente nè poteva, nè voleva conservare. La speranza poi, che il comparire delle Austriache insegne sulle frontiere di Francia fosse per farvi muovere i popoli contro Buonaparte, era del tutto vana, e certamente tale parrà a chi abbia conosciuto la natura di quei tempi. Non in Francia, nè sulle rocche Liguri, ma nelle grasse pianure del Piemonte e della Lombardìa si aveva a giudicare la lite, se a discrezione di Francia o d'Austria dovesse restare esposta l'Italia. Perciò gli Austriaci, che erano padroni dei passi, gli doveano guardare gelosamente, ed anche star grossi nella pianura, non andarsi a sprolungare in un estremo punto del campo di guerra. Andando Melas dall'uno lato contro Genova, dall'altro contro Nizza, voltava le spalle a Buonaparte, che veniva da Digione, caso di guerra molto singolare, che dinotava nel generale Austriaco, o troppa confidenza in se medesimo, o troppa ignoranza dei disegni già pubblicamente accennati dell'avversario, o troppo falsa misura di quanto questi potesse fare in breve tempo con que' suoi Francesi tanto confidenti in lui, tanto pronti alle armi, tanto impazienti delle rotte, tanto gelosi dell'onor militare. Gli Austriaci, che molto prevalevano pel numero a Massena, erano per modo alloggiati, che tutto il territorio Ligure fasciando, da Sestri di Levante per la sommità degli Apennini opposte a quelle, che occupavano i Francesi, si distendevano fino al colle di Tenda. Governavano a sinistra Otto, poi seguitando a destra Hohenzollern, a Novi, rimpetto a Gavi, ed alla Bocchetta; il generalissimo Melas al Cairo; Esnitz a Ceva all'incontro di Suchet, e finalmente sulla estrema punta destra Morzin fra Cuneo e le falde del colle di Tenda. Accingendosi Melas ad invadere il Genovesato, preambolava con parole dolci ad aspri fatti. «Genovesi, diceva, io vengo nella vostra patria, non per conquistare, nè per soggiogarvi, ma per combattere un nemico, che uguaglianza e libertà promettendovi, vi ridusse, come tanti altri disgraziati popoli, alla miseria ed alla disperazione. L'imperator mio signore non desidera conquiste, solo vuole levarvi dal collo il giogo al quale vi ha posti un intemperante conquistatore; ei vuole che siano salve le proprietà, salva la religione, salvi e felici i popoli. Ei lo vuole, ed ei lo fa: guardate le provincie dalle nostr'armi restituite a libertà. Nè meno tenero egli è della vostra patria. Chiamerò in nome suo al governo i più virtuosi, i più savj cittadini che siano fra di voi. Liberi saranno i porti, libero il commercio, vera ed unica fonte della prosperità vostra: la miseria cambierassi in ricchezza, l'oppressione in libertà; io vincitore, di ciò v'affido e v'assicuro». Un Azzeretto Genovese, prima ai soldi di Francia, poi a quei d'Austria, faceva similmente in questi giorni preparazione per turbare le cose di Genova. Impetuosamente procedendo, pur troppo acerbe ed immoderate parole gettava contro i Francesi in un suo manifesto, ed esortava i suoi compatriotti a combattergli, ed a vendicarsi in libertà. Le armi dovevano definire, ed alle armi si veniva, perchè non si fece pei Genovesi alcun movimento in favor della lega, secondo le speranze date dal fuoruscito Azzeretto. Aveva Melas condotto il grosso de' suoi alle stanze delle Carcare, intendimento suo essendo di spignersi avanti, cacciando gli avversarj dai sommi gioghi a Savona, per separare e disgiugnere in tale modo l'ala sinistra dei Francesi dalla mezza, e dalla destra che combatteva nella riviera di Levante. Ottenuto il quale intento, gli si spianava la strada, essendo questo l'ultimo fine de' suoi pensieri, a serrare Massena dentro Genova, ed a costringerlo alla dedizione. Ma perchè il generale di Francia non potesse far correr gente dalla riviera di Levante in ajuto di quelle che dovevano sostenere l'assalto su quella di Ponente, ordinava a Otto, che assaltasse i Francesi alloggiati sotto la condotta di Miollis, a Recco, Torriglio, Scafera, Sant'Alberto, monte Cornua, monte Becco, e monte delle Fascie. Melas voleva al tempo stesso che Hohenzollern desse dentro ai posti della Bocchetta, e ad ogni modo gli conquistasse. Spuntava appena il giorno dei sei aprile, che i Tedeschi, partendo dalle Carcare divisi in tre schiere, s'incamminavano alle ordinate fazioni. La mezzana condotta da Mitruschi, marciando per Altare e per Torre, si avvicinava a Cadibuona, posto molto fortificato dai Francesi, e chiave e momento principale di tutta quella guerra. Il generale San Giuliano colla sinistra faceva opera d'impadronirsi di Montenotte per quinci accennare contro Sassello, dove alloggiava un grosso corpo di repubblicani. Finalmente la destra, che obbediva ad Esnitz ed a Morzin, passando per le Mallare, ed avvicinandosi alle fonti della destra Bormida, aveva carico di sforzare i passi del monte San Giacomo. Questi assalti con molt'arte ordinati a questo fine tendevano, che per gli Austriaci si occupasse Savona; perchè per tal modo restava smembrato Suchet da Massena. Si combattè dapprima da ambe le parti molto valorosamente a Torre, avendo gli Austriaci il vantaggio del numero, i Francesi del luogo. Finalmente superarono i primi quell'antiguardo, e tutto lo sforzo si ridusse sotto le trincee di Cadibuona. Quivi fu molto duro l'incontro, e la battaglia si pareggiò lungo tempo: ma finalmente fe' dare il crollo in favore delle armi imperiali la mossa di un valoroso battaglione di Reischi, il quale, assaltate di fianco le trincee, costrinse i repubblicani alla ritirata, non senza tale disordine delle ordinanze, che se non fosse stato presto Soult a sopraggiungere con ajuti freschi, sarebbero stati condotti a molta ruina. Ma non potè nemmeno la presenza e l'opera di Soult ristorare la fortuna; perchè gli Austriaci, seguitando l'impeto della vittoria, obbligarono il nemico a ricoverarsi, girando a stento per quelle sommità di monti, al monte Ajuto, munito ancor esso di qualche fortificazione. Volle Melas torre quel nuovo ricetto al nemico, mandò all'assalto Lattermann e Palfi con cinque battaglioni di granatieri, e col reggimento di Spleny. Gli uni e l'altro fortemente urtando, i primi da lato, il secondo da fronte, sloggiarono i Francesi da quel forte sito, e se ne impadronirono. Fecero i repubblicani una nuova testa a Montemoro: Melas, combattendogli da fronte, e girando loro alle spalle ed ai fianchi, dall'una parte verso Vado, dall'altra vesso Arbizzola, e dando perciò loro timore di essere tagliati fuori, gli costrinse a dar indietro col ritirarsi disordinatamente a Savona. Seguitarongli, pressandogli molto alle terga, i vincitori, e con essi alla mescolata entrarono nella città. Soult, non standosene ad indugiare, introdotta nella fortezza quanta vettovaglia potè in quell'improvviso e pericoloso accidente, si ritirava a Varaggio, dopo di aver combattuto piuttosto da vincitore che da vinto gl'imperiali, che già erano scesi ad Arbizzola. Riuscirono molto micidiali quest'incontri alle due parti: i Francesi patirono di vantaggio, trovandosi in minor numero. Frattanto Esnitz aveva assaltato monte San Giacomo custodito da Suchet, che virilmente vi si difendette qualche tempo. Ma le rotte di Cadibuona e di monte Ajuto, colla occupazione di Savona, rendendo le sue condizioni molto pericolose, fe' sgombrare i suoi da quel forte sito, abbandonando anche gl'importanti posti di Settepani, Santo Stefano, e la Madonna della Neve. Fece una valida resistenza a Melogno Seras: poi fu costretto a ritirarsi, ma minaccioso e contrastante, le mosse retrograde degli altri seguitando. Entrarono gli Austriaci vittoriosi in Vado. Suchet per le terre di Finale, Gora, Bardino, la Pietra, e Loano indietreggiava fino a Borghetto. Nè meno felicemente si era combattuto per gli Austriaci in riviera di Levante, ed alla Bocchetta; perchè Otto assaltando con molto impeto monte Cornua, dopo grave contrasto, il superava. Superarono medesimamente gli Austriaci monte delle Fascie, costringendo i Francesi a ritirarsi insino a Quinto. I posti di Torriglio e di Scafera vennero anche in potestà degl'imperiali, essendosi ritirati i repubblicani, che gli difendeveno, a Prato. Così la Sturla sotto, il Bisagno sopra separavano i due nemici, e gli Austriaci dall'eminenza del monte delle Fascie vedevano, ed erano veduti da Genova; il che era cagione di terrore agli addetti alla parte Francese, di conforto a coloro che parteggiavano per gli Austriaci e per l'antico governo. Fortissimo era l'alloggiamento dei Francesi alla Bocchetta, e molto ardua la sua espugnazione, avendo voluto assicurarsi di quella strada facile ed aperta contro il nemico, che venisse dai piani della Lombardia. Gli assaltava Hohenzollern coi due reggimenti di Kray e d'Alvinzi condotti dal generale Rousseau, e l'una dopo l'altra, non senza però molto contrasto e sangue, si recava in mano, conquistando tutte le trincee e le artiglierìe che le guernivano. Per questa fazione acquistarono gli Austriaci il passo nella valle della Polcevera, con la facoltà di stringere più da vicino Genova. Rannodaronsi i Francesi a Pontedecimo. Massena, che prevedeva che non avrebbe potuto tenersi lungamente in Genova, se gl'imperiali fossero troppo vicini alla mura, perchè più presto gli sarebbero mancate le vettovaglie, fece pensiero di allargarsi. Siccome poi era uomo generoso e d'animo invitto, non contentandosi al volersi acquistare un campo più largo, benchè fosse molto inferiore pel numero dei soldati al nemico, si deliberava a far opera di rompere gli Austriaci sulle alture sopra Savona per ricongiungersi con l'ala governata da Suchet. A questo fine gli mandava dicendo, che attendesse ad assaltar il nemico, ed a ricuperare i luoghi perduti di Settepani, Melogno e San Giacomo. Perchè poi Otto non potesse mandar soccorsi a Melas, ordinava a Miollis, che si sforzasse di cacciar gli Alemanni dal monte delle Fascie, dal monte Cornua, e da altri luoghi circonvicini. Riusciva a Miollis felicemente l'impresa. Fecero gli Alemanni grave perdita in questo fatto di morti, feriti e prigionieri. Ma l'evento della guerra, ed il destino di Genova erano per giudicarsi nella riviera di Ponente. Pensava Massena a riuscire, rotti i Tedeschi sui monti, nelle vicinanze del Cairo, dove Suchet doveva venire a congiungersi con lui, se avesse potuto superar le alture, sopra le quali i nemici si erano fortificati. Marciava Massena inferiormente più accosto al mare per assaltar Montenotte, Soult superiormente, e a destra per impadronirsi di Sassello, quindi del monte dell'Armetta, poi di Mioglio, e del ponte Invrea. Quivi avrebbe potuto unirsi a Massena venuto da Montenotte. Così uniti speravano di poter marciare verso il Cairo, confidando anche di trovarvi Suchet. Soult, percosso in sul primo giungere un corpo Austriaco, che posto a Nostra Donna dell'Acqua il poteva battere sul suo fianco destro, ed avendo vinto, e cacciato sino alle sponde del torrente Piotta oltre i monti, superava ogni ostacolo, s'impadroniva di Sassello, e più oltre procedendo recava in poter suo la cresta importante del monte Armetta. Ripreserla i Tedeschi, racquistaronla i Francesi dopo un gagliardo scontro: in questi impetuosi e spessi affrontamenti si spargeva molto sangue. Restava superiore Soult, che in tutti questi fatti sostenne le voci di capitano forte, ed esperimentato alla guerra. Nè più altro impedimento gli restava a superare per arrivar al compimento del suo disegno per al Cairo, se non se i posti di Mioglio, e di ponte Invrea. Vi sarebbe anche riuscito, come pare non potersi dubitare, se la fortuna si fosse scoperta tanto favorevole a Massena, quanto si era scoperta a lui. Ma le cose succedettero sinistramente nella parte condotta dal generalissimo. Si era Melas mosso, non presumendo che tanta audacia s'allignasse nei Francesi, che potessero far pensiero di attaccarlo, per andare ad assaltar Voltri col fine di congiungere le sue genti con quelle di Hohenzollern, e di serrare Genova. Trovò che i Francesi lo avevano prevenuto, che Soult già tanto si era inoltrato, che il suo fianco sinistro non era più sicuro, e che correva pericolo, che le due ali di Massena e di Suchet si unissero sulle rive della Bormida; il che gli sarebbe stato di gravissimo pregiudizio. Gli sopravvennero in questo punto le ingratissime novelle, che la squadra di San Giuliano, ferita con molta gagliardìa da Soult alla Veirera, aveva patito molto danno, e retrocedendo frettolosamente era stata costretta a ritirarsi a ponte Invrea. In questo pericoloso punto Melas, non turbata la mente, nè diminuito l'animo, si appigliava prestamente ad un partito, che solo il poteva riscuotere dal mal passo in cui era ridotto. Avvisò che l'evento della battaglia pendeva dalla schiera di Massena, e che se gli fosse venuto fatto di obbligarla a ritirarsi rotta e sconquassata, sarebbe stato Soult obbligato a tornare indietro. Riuscì la fazione, come l'aveva preveduta. Riscontratosi con un corpo assai grosso di Francesi a Stella, lo rompeva, non senza molta uccisione. Poi seguitandolo fino a Croce, e combattendo di bel nuovo in questo secondo sito lo sbaragliava. Al tempo medesimo Lattermann, viaggiando sulla spiaggia, s'impadroniva di Varaggio, che era stato l'alloggiamento principale, donde poco innanzi Massena era partito per andare alla fazione di Montenotte. Penò molto Massena, dopo questa rotta, a condursi a sicuro luogo in Cogoletto; perchè gli fu forza, essendo la strada a riva il mare in potestà di Lattermann, camminare per luoghi erti e montuosi. Melas, conoscendo, che il non dar respiro a Massena, era un vincere Soult, mandava prestamente Lattermann ad assalir Cogoletto. I granatieri di San Giuliano ferirono con molta forza i Francesi già stanchi e diradati, e già gli facevano piegare. Gli bersagliavano al punto stesso gl'Inglesi accostatisi al lido colle loro barche armate di artiglierìe. Finalmente venne a precipitarsi contro di loro la cavalleria Austriaca. Pressati da tutte bande, non poterono resistere, e disordinati si ritirarono precipitosamente ad Arenzano, ma piuttosto per modo di posata, che d'alloggiamento stabile. Massena, non credendosi sicuro in questa terra, si tirava più indietro sino a Voltri. Quivi poneva il campo, non per dimorarvi, perchè Lattermann, che si avanzava vittorioso da fronte, e Hohenzollern, che romoreggiava dalla superiore Polcevera, ciò gli toglievano, ma solamente per aspettarvi Soult, che percossi invano con assalto ponte Invrea e Mioglio, e udito il caso sinistro di Massena, si ritirava a presti passi. Infatti si raccozzarono i due generali della repubblica a Voltri. Melas, riunite tutte le sue forze, gli ne cacciava, e perseguitandogli aspramente con facelle accese, perchè era sopraggiunta la notte, gli costringeva a varcare la Polcevera pel ponte di Cornigliano, a ripararsi del tutto dentro le mura di Genova, ed a desistere da qualunque assalto alla campagna. Suchet, combattuto prosperamente a Settepani, a Melogno, ed in altri luoghi circonvicini di quei monti, ma ributtato con grave uccisione da San Giacomo, fu costretto a tornarsene indietro, senza aver potuto compir l'impresa. Mentre che le cose dell'armi procedevano in questa forma a Voltri, Otto aveva rincacciato Miollis dai monti Cornua e delle Fascie, per modo che il Francese impotente al resistere aveva preso partito di ritirarsi nella valle del Bisagno, e sulla destra sponda della Sturla. Così Massena privato della campagna, si era ridotto a difender Genova, ed i luoghi più vicini. Presidiava Miollis il forte Richelieu, ed il monte del Vento, distendendosi oltre il Bisagno sino al forte dello Sprone. Verso Ponente il generale Gazan teneva la riva sinistra della Polcevera fino a Rivarolo, ed inoltrando l'ala sua destra fino al monte dei Due Fratelli, ed al forte Diamante, si congiungeva con Miollis. Massena con la grossa schiera alloggiava in città. Intanto le frontiere della republica sull'Alpi Marittime restavano esposte all'impeto Tedesco. Piantava il generalissimo d'Austria il suo alloggiamento in Sestri di Ponente; ma non volendo lasciar indebolire la fama dei recenti fatti, nè dare tempo a Suchet di ricevere rinforzi, si accingeva a cacciare per forza il generale di Francia da tutta la riviera di Ponente. Vinselo in una fazione improvvisa a Torìa: recatosi in mano il colle di Tenda, il minacciava alle spalle, e sul fianco sinistro. Suchet, che era capitano esperto, avendo fatto quanto per lui si poteva colle poche forze che gli restavano, per ritardar il corso al nemico, si ritirava sulle terre dell'antica Francia oltre il Varo. Solo lasciava guernigioni sufficienti nei forti di Ventimiglia e di Montalbano, affinchè il paese di Nizza non rimanesse tutto in preda all'avversario. Il seguitava l'Allemanno, ed impossessatosi di tutta la contea di Nizza, compariva sulla sinistra del fiume. Alloggiavano gli Austriaci ascendendo dal mare sino ad Aspramonte. I Francesi, per impedire il passo al nemico, avevano fortificato assai gagliardamente con trincee e terrapieni un capo di ponte, ed alloggiato all'incontro nei siti più guadosi; la principale stanza loro era a San Lorenzo. Vennero quivi ad annodarsi alcuni reggimenti, sebbene deboli, di regolari; chiamavano le guardie nazionali della Provenza. Sapendo poi, che il miglior mezzo per vincere è l'essere informato dei disegni del nemico, aveva Suchet provveduto, che un telegrafo piantato sul forte di Montalbano, lo accontasse ad ora ad ora delle mosse di Melas. Ciò fu cagione, che non così tosto il Tedesco faceva un apparecchio, il Francese si apprestasse a combatterlo. In questo tempo ebbersi le novelle che il forte di Ventimiglia si era arreso alle armi imperiali, arrendevasi altresì al generale San Giuliano il castello di Savona. Intanto si combatteva aspramente sulle rive del Varo. Due volte i Tedeschi assaltarono con singolare audacia il ponte, la prima volta Melas medesimo, la seconda Esnitz; due volte furono con uguale valore risospinti. Risplendettero in questi fatti la perizia di Suchet, e la prodezza del generale Rochambeau. Risplendè anche molto chiaramente l'ingegno, e la virtù del generale Campredon, che aveva fortificato il ponte. In tale modo con somma sua lode, ed utilità grande della repubblica, difendeva Suchet il territorio di Francia, e secondava l'opera immensa concetta dal consolo. Già il canuto e vittorioso Melas si accorgeva, che era caduto nell'insidia tesagli dal giovane guerriero, e che, non che fosse tempo di conquistar la Provenza, gli era forza pensare di conservare, se ancor potesse, l'Italia. Erangli giunti i primi avvisi del calarsi Buonaparte dalle Pennine Alpi: ebbe sulle prime il fatto in poco concetto: errò nel credere, che il consolo fosse uomo da comparir debole sulle sommità delle Alpi; avrebbe anzi dovuto persuadersi, che dov'era Buonaparte, là fosse tutta la fortuna della guerra, là covasse la ruina dell'Austria. Mandava sui primi romori una schiera in Piemonte pel colle di Tenda; ma quando s'accorse, che se la fama era stata grande, il fatto era più grande ancora, si risolveva a torsi velocemente da quell'estremo ed infruttuoso campo, dove combatteva, per condursi in quei luoghi, nei quali vincitore avrebbe a far con vincitore. Ordinava Melas ad Esnitz, che aveva lasciato alla guerra contro Suchet, prestamente si tirasse indietro, e venisse od a raggiungere Otto, che instava contro Genova, se Genova ancora si tenesse, o lui stesso nei piani d'Alessandria, se la capitale della Liguria già avesse ceduto alle armi d'Austria. Ritiravasi Esnitz, seguitavalo velocemente Suchet. Serratogli ogni passo pel Genovesato, si riparava l'Alemanno per la valle d'Ormea nelle Piemontesi contrade; il Francese spintosi avanti stringeva il castello di Savona. A questo tempo consisteva la guerra in due accidenti principalissimi: l'assedio di Genova, e la scesa di Buonaparte in Italia: l'uno era strettamente congiunto coll'altro. Otto faceva ogni sforzo per impadronirsi della piazza, bramando di poter correre alla guerra definitiva nei campi d'Alessandria. Massena, che per coraggio e per l'arte de' suoi uffiziali, e dei patriotti fuorusciti del Piemonte, che andavano e venivano a portar novelle, traversando con estremo pericolo loro gli alloggiamenti dei Tedeschi, era bene informato di quanto accadesse sulle Alpi Pennine, desiderava più lungamente che possibil fosse tenerla, per la ragione contraria. Nacquero da questa sua ostinazione fatti molto memorandi, e tali che raramente si leggono nei ricordi delle storie. La città capitale della Liguria, posta a guisa di anfiteatro, dond'ella fa magnifica mostra, sul dorso dell'Apennino tra la Polcevera e il Bisagno, è chiusa da due procinti di mura, uno più largo, l'altro più stretto. Sono questi due procinti muniti di bastioni e di cortine consenzienti alla natura del luogo aspra, scoscesa e disuguale. Il primo incominciando dalla riva destra del Bisagno in riviera di Levante sotto alle porte Romana, e Pila, s'innalza sul dorso del monte sino al forte dello Sprone, donde volgendosi a ponente, e fasciando la città, dopo di essersi rizzato in un forte, che chiamano la Tanaglia, presso alla Crocetta, se ne va a terminare presso alla Lanterna, ed al molo nuovo. Il secondo partendo da levante gira accosto, e ferma le mura; ma s'interrompe a mezza strada, e non arriva sino al molo nuovo. La parte più difendevole è il forte dello Sprone, ma siccome è sottoposto a più alti gioghi, e da loro dominato, così fu d'uopo piantarvi due forti, uno sul monte dei Due Fratelli, l'altro più in su, a cui per la sua forma fu dato il nome di forte del Diamante. Chi ha in mano questi due forti, si può stimar padrone di Genova, perchè stanno sopra a tutte le altre fortificazioni. La parte più debole del procinto trovandosi al luogo più basso verso la foce del Bisagno, si pensò a munire con forti le eminenze vicine, cioè con quello di Quezzi il monte del Vento, con quello di Richelieu il monte Manego, e finalmente con quello di Santa Tecla la eminenza di questo nome. Nè ciò bastando alla difesa di questa parte, si fecero trincee sui monti vicini dei Ratti, delle Fascie, e di Becco. Tali erano le difese di Genova, quando stava in propria balìa: elle bastavano, perchè con breve assedio non si poteva prendere, i lunghi erano impossibili per le emolazioni delle potenze. Consistevano le difese vive di Massena in diecimila soldati Francesi; aveva con se Soult, Gazan, Clauzel, Miollis, Darnaud. Accostavansi a queste forze circa due mila Italiani di nazione diversa, ordinati da Massena in corpo regolare sotto la condotta di un Rossignoli Piemontese, uomo di natura molto generosa, di gran cuore, ed amantissimo della libertà. Le corroborava la guardia nazionale di Genova, fedele, parte per amore di Francia, parte per odio d'Austria, parte per paura del sacco, se qualche accidente contrario alla quiete sorgesse. Queste genti unite insieme non componevano certamente un presidio sufficiente per un sì vasto circuito. Inoltre vi si viveva in molta apprensione per le vettovaglie, massime di grani. Gl'Inglesi governati da Keit, impedivano le provvisioni di Corsica e di Marsiglia. Del governo, che era allora in Genova, poche cose dirò. Non era nè più libero, nè più servo dei precedenti, e vi era stata fatta una gran mutazione di forma, poichè, spento il direttorio in Francia, la moda empirica e servile volle che si spegnesse anche in Liguria: creossi, in luogo del direttorio, una commissione di governo. Lodossi il cambiamento, pure secondo la corrente servile. Questo con buona volontà, ma sommessa ed umile, perchè il pericolo e le lunghe disgrazie avevano rotto gli animi, secondava Massena. La forza che investiva Genova era molto varia. Il principal nervo consisteva in Tedeschi; ma con loro andavano congiunte torme numerose di villani sì Genovesi delle due riviere, che Monferrini, i quali non mossi da alcun desiderio buono, ma dall'odio, dalla vendetta, e dall'amor del sacco, erano accorsi alle voci di Azzeretto, uomo che era stato incomposto e rotto, quando militava coi Francesi, ed ora si mostrava incomposto e rotto, militando coi Tedeschi. Nè piccolo momento recavano alla oppugnazione le navi Inglesi e Napolitane, non solamente con intraprendere i viveri sul mare, ma ancora coll'ajutare, fulminando le spiaggie, gli sforzi degli Austriaci, principalmente verso il Bisagno, dove i luoghi avevano contro il mare minore difesa, che verso la Polcevera. Fece Otto, che soprantendeva all'assedio, il dì ventitre aprile una grossa fazione sulla sinistra della Polcevera. Il reggimento di Nadasti, cacciati prima i Francesi da Rivarolo, s'impadroniva anche di San Pier d'Arena. Ma uscito Massena colla vigesima quinta gli rincacciava. Sapevano gli assalitori, che la parte più debole della piazza era verso levante. Però si deliberarono a darvi un assalto, tentando di occupar le eminenze. Il dì trenta aprile, prima che aggiornasse, givano all'assalto per modo che Hohenzollern e Palfi si lanciavano contro il monte dei Due Fratelli, il colonnello Frimont, scendendo dal monte delle Fascie, si avventava contro il monte dei Ratti, il forte di Quezzi, ed il forte Richelieu, Rosseau si scagliava contro Santa Tecla, Azzeretto tempestava co' suoi villani intorno al Diamante; Gottesheim, passata la Sturla, s'avvicinava a San Martino d'Albaro, ed alle mura della città. Per consuonar con tutti questi moti a levante, Otto attaccava Rivarolo a ponente. Riuscirono a buon fine quasi tutti gli assalti dei Tedeschi: guadagnarono il monte dei Ratti, quello dei Due Fratelli, il forte Santa Tecla; già circondavano i forti di Richelieu e del Diamante; Gottesheim, acquistata la metà di San Martino, instava per acquistar l'altra. Era un gran pericolo pei Francesi, perchè se i Tedeschi avessero conservato i luoghi conquistati, Genova non aveva più rimedio. Massena si metteva al punto di rimettere la fortuna. Mandava Soult al conquisto dei Due Fratelli, Darnaud al rincalzo di Gottesheim, Miollis contro Santa Tecla e Quezzi. Vinsero tutti: gl'Italiani del Rossignoli, i primi, riconquistarono i Due Fratelli. Massena infaticabile, invitto, impaziente, animato dal prospero successo usciva nuovamente alla campagna il dì undici maggio. Il suo fine era di cacciar i Tedeschi dal monte delle Fascie, perchè da quella eminenza potevano calarsi a rovina delle difese più prossime alla piazza. Ordinava l'assalto per modo che Soult girasse a dorso del monte, Miollis lo attaccasse da fronte. Combattè infelicemente il secondo, favorì la fortuna l'impresa del primo recando in sua mano, dopo una battaglia molto feroce, il conteso monte. Nol conservarono lungamente i repubblicani, perchè Hohenzollern e Frimont mandati da Otto il ricuperarono. Massena intanto raccoglieva viveri alla campagna, breve ed insufficiente ristoro. Volle quindi acquistare il monte Creto, come sito dominatore, e passo comune da levante a ponente. Mandava alla fazione due grosse squadre, la destra condotta da Soult, la sinistra da Gazan. I Tedeschi fortificati stavano a diligente guardia. Fu furioso l'assalto, valorosa la resistenza; pure andava superando la fortuna dei Francesi, quando sopravvenne un temporale grossissimo; abbujossi l'aria, straordinariamente piovve; i combattenti sforzati a ristarsi. Rasserenato il cielo, ricominciarono a menar le mani; l'accidente diè tempo a Hohenzollern ad arrivare con genti fresche: ruppe i repubblicani, e gli sforzò a tornar dentro le mura. Combattessi in questa fazione con incredibile rabbia a corpo a corpo: fu Soult, mentre animosamente confortava i suoi alla carica, ferito sconciamente nella gamba destra, e fatto prigione. Questa infelice spedizione pose fino al sortire di Massena; perchè perduti i suoi migliori soldati, era troppo indebolito per uscire alla campagna. Pure tanto ancora gli restava di forza, che gli alleati nol potessero sforzare; ma quello che l'armi degli avversarj non potevano operava la fama. Stando io per descrivere qual fosse l'aspetto di Genova in questi ultimi giorni dell'assedio, non posso non deplorare il destino di un popolo Italiano ridotto agli estremi casi, non perchè per lui si trattasse di esser libero, o servo, ma perchè si definisse a chi dei due, o d'Austria o di Francia, avesse a servire: città desolata per le rapine, pel sangue, per la fame, per la peste. Keit per mare non lasciava entrar viveri, Otto per terra; le provvisioni fatte scarse, le scarse dissipate. Fuvvi fame prima che mancassero i viveri: prima si scorciarono i cibi, poi si corruppero, infine si mangiarono i più schifi e sozzi, non solo i cavalli ed i cani, ma ancora i gatti, i sorci, i pipistrelli, i vermi, e beato chi ne aveva. Eransi gli Austriaci impadroniti dei molini di Bisagno, di Voltri e di Pegli, nè si poteva più macinare. Rimediossi per un tempo coi molini a mano, con quei da caffè massimamente, perchè erano presti; l'accademia consultò dei migliori: s'inventarono ingegni, ruote e molini nuovi. Con certi più grossi un uomo solo poteva macinare uno stajo di grano al giorno. In ogni strada, su per ogni bottega si vedevano girar molini. Nelle case private fra le adunanze famigliari, si macinava; le donne il facevano per vezzo. Infine mancò del tutto il grano: cercaronsi altri semi per supplirvi. Quei di lino, di panico, di cacao, di mandorlo furono i primi; riso ed orzo più non se ne trovava. Gli stritolati e strani semi, prima abbrustoliti, poi misti col miele, e cotti parvero delicatura. Rallegravansi i parenti e gli amici con chi avesse potuto sostentare un giorno di più se e la famiglia con lino, o panico, o tre granelli di cacao. La crusca, materia tanto ribelle alla nutrizione, si macinava ancora essa, e cotta con miele serviva di cibo, non per ispegnere, ma per ingannare la fame: le fave stimate preziosissime: felice, non chi viveva, ma chi moriva. Erano i giorni tristi per la fame e per le lamentazioni degli affamati; le notti più tristi ancora per la fame, e per le spaventate fantasìe. Mancati i semi, pensossi all'erbe. I romici, i lapazj, le malve, le bismalve, le cicorie selvatiche, i raperonzoli diligentemente si ricercavano, e cupidamente, come piacevolezze di gola, si mangiavano. Si vedevano lunghe file di gente, uomini di ogni condizione, donne nobili e donne plebee, visitare ogni verde sito, massime i fertili orti di Bisagno, e le amene colline d'Albaro, per cavarne quegli alimenti, cui la natura ha solamente alle ruminanti bestie destinati. Sopperì un tempo il zucchero: zuccheri rosati, zuccheri violati, zuccheri candi, ogni maniera di confetti andavano attorno, rivenditori e rivenditrici pubblicamente gli vendevano, con fiori e con serti gli eleganti loro cestellini adornando: strano spettacolo in mezzo a quei volti pallidi, scarni e moribondi. Tanto possente cosa è l'immaginazione dell'uomo, che si compiace in abbellire eziandio quanto havvi di più lagrimevole e di più terribile; rimedio di provvidenza che non ci vuol disperati. Basta: e' furon viste donne e gentil donne nutritesi con sorci la mattina, mangiarsi tregge delicate la sera. L'aspetto della miseria estrema non ispegne la malvagità in chi è malvagio; del che troppo manifesto e troppo orribile esempio si ebbe in quelle ultime strette di Genova; conciossiachè uomini privi di ogni senso di umanità, per un vile guadagno non abborrirono dal mescolar gessi in luogo di farine nei commestibili che vendevano, per modo che non pochi avventori ne restarono avvelenati, morendosene con dolori mescolati di fame, e di veleno. Durante l'assedio, ma prima della fine ultima, una libbra di riso si pagava lire sette, una di vitello quattro, una di cavallo soldi trentadue, una di farina lire dieci, o dodici, le uova lire quattordici la serqua, la crusca, soldi trenta ciascuna libbra. Poi venendo maggiore la stretta, una fava si vendeva due soldi, un pane biscotto di once tre dodici franchi, e non se ne trovava. Maggiori agevolezze dei particolari non vollero Massena, nè gli altri generali: apparecchiavano come i plebei; lodevole fatto, e molto efficace a fare star forti gli altri a tanta sventura. Poco cacio, legumi rari erano quanto nutrimento si dava a chi languiva per malattie o per ferite negli ospedali. Uomini e donne tormentate dalle ultime angoscie della fame e della disperazione, empievano l'aria dei loro gemiti e delle loro strida. Talvolta così gridando, e le fameliche viscere con le rabbiose mani di lacerare tentando, morti per le contrade cadevano. Nissuno gli ajutava, perchè ognuno pensava a se: nissuno anche a loro abbadava, perchè la frequenza aveva tolto orrore al fatto. Pure alcuni fra gli spasimi e stridi spaventevoli, e con scosse e contorte membra davano l'ultimo sospiro in mezzo alle popolari folle. Fanciulli abbandonati da parenti morti, o da parenti disperati imploravano con atti, con pianti, e con voci miserabili la pietà di chi passava. Nissuno gli ajutava, ed aveva loro compassione, perchè il dolore proprio aveva spento il compassionare l'altrui. Razzolavano quell'innocenti creature bramosamente nei rivoletti delle contrade, nelle fogne, negli sfoghi de' lavatoj, per vedere se qualche rimasuglio di bestia morta, o qualche avanzo di pasto di bestia vi si trovasse, e trovatone, se gli mangiavano. Spesso chi si corcava vivo la sera, era trovato morto la mattina, i fanciulli più frequentemente degli attempati. Accusavano i padri la tarda morte, ed alcuni con le proprie mani violentemente se la davano. Ciò facevano i cittadini, ciò facevano i soldati. Dei Francesi alcuni, anteponendo la morte alla fame, da per se stessi si ammazzavano, altri le armi a terra sdegnosamente gettavano protestando non più esser abili, per la perduta forza, a portarle. Altri una disperata dimora abbandonando, nel nemico campo se ne andavano, Inglesi ed Austriaci di quella pietà, e di quei cibi richiedendo, che tra Francesi e Genovesi più non ritrovavano. Crudo poi, ed oltre ogni dire orribile spettacolo era quello dei prigionieri di guerra Tedeschi ditenuti su certe barcacce sorte nel porto; perchè la necessità ultima delle cose aveva operato che ad essi nutrimento di sorte alcuna già da alcuni giorni non si compartisse. Mangiarono le scarpe loro, mangiarono le pelli dei soldateschi zaini; già con occhi torvi guardavano, se non avessero a mangiarsi i loro compagni. Si venne a tale che si tolsero loro le guardie Francesi, perchè si temette, che sforzati dal famelico furore non si avventassero contro a loro, e sbranatele, non se le divorassero. Tanta era la disperazion loro, che tentarono di forar le barche per andar a fondo, amando meglio perire affogati dalle acque, che straziati dalla fame. S'aggiunse, come accadde, alla orrenda fame la mortalità pestilenziale. Febbri pessime le genti all'altra vita con morti spessissime si portavano sì negli ospedali del pubblico, sì negli ultimi casolari dei poveri, e sì nei superbi palazzi dei ricchi. Mescolavansi sotto il medesimo tetto i generi delle morti: chi moriva arrabbiato dalla fame, chi stupido dalla febbre, chi pallido per difetto di nutritiva sostanza, chi livido per petecchiali macchie. Niuna cosa esente da dolore, niuna da paura; chi viveva, o aspettava la morte o vedeva morire i suoi. Tal era lo stato della una volta ricca ed allegra Genova, del quale il pensier peggiore era questo, che il soffrir presente non poteva riuscire ad alcun utile suo nè per la libertà, nè per l'independenza. Era rotta la costanza di tutti: solo Massena non si piegava, perchè aveva la mente fissa nel pensiero di ajutar l'impresa del consolo, e di serbare intatta la fama acquistata di guerriero indomabile. Infine venendogli onorevoli proposte da Keit, e non potendo più bastare quei sozzi e velenosi cibi, che per due giorni tanta era l'estremità del vivere, inclinava l'animo ad un accordo, ma più da vincitore che da vinto. Si accordarono (volle Massena, che l'accordo s'intitolasse convenzione, non capitolazione, e fu forza compiacerlo della sua domanda) che uscisse Massena, che uscissero i suoi uffiziali e soldati in numero circa di ottomila, liberi della fede e delle persone loro; per la via di terra potessero ritornare in Francia, e chi non potesse per terra, fosse trasportato dagl'Inglesi per mare ad Antibo, o nel golfo di Juan; i prigionieri Tedeschi si restituissero; nissuno potesse essere riconosciuto pei fatti passati, e chi se ne volesse andare, fosse in libertà di farlo; dessersi viveri, si avesse cura degl'infermi; Genova a dì quattro giugno si consegnasse alle forze Austriache ed Inglesi. Infatti il nominato giorno le prime occuparono la porta della Lanterna, le seconde la bocca del porto. Poi entravano trionfando con tutto l'esercito Otto, con tutta l'armata Keit, possessione ottenuta per lunga guerra, poi fatta breve per grossa guerra. I democrati più vivi se ne andarono coi Francesi, fra gli altri Morando, l'abate Cuneo, l'avvocato Lombardi, i fratelli Boccardi. Suonaronsi le campane a festa, cantaronsi gl'inni, accesersi i fuochi dei partigiani per amore, più ancora dagli avversi per paura, tutto secondo il solito. Ricomparvero in copia il pane, le carni, gli ortaggi, le grasce, e chi vi si abbandonò senza freno su quel primo fervor della fame, se ne morì: così chi non era morto per lunga inanizione, se ne moriva per improvvisa satolla. Vollero i trecconi e i rivenduglioli starsene sul tirato pei prezzi, a cagione dell'ingordigia del guadagno; ma il popolo infuriato diè loro una tal mano, che presto s'accorsero, che male si stimola la fame. Pruovaronsi i villani dell'Azzeretto a porsi in sul sacco contro i democrati, come dicevano, perchè saccheggiavano anche gli aristocrati; ma Hohenzollern posto a guardia della città da Otto, con militare imperio gli frenava. Creava il capitano Tedesco una reggenza imperiale e reale, a cui chiamava Pietro Paolo Celesia, Carlo Cambiaso, Agostino Spinola, Gian Bernardo Pallavicini, Gerolamo Durazzo, Francesco Spinola di Gian Battista, e Luigi Lambruschini. Frenava la reggenza le vendette prossime a prorompere, comandamento lodevole; veniva sul toccar le borse, comandamento inevitabile, ma crudele nella misera Genova. Del rimanente nissun cenno, nè da parte di Hohenzollern, nè da quella di Melas per l'independenza, nè per la rinstaurazione dell'antico governo; il che dava qualche sospetto. Ciò non ostante gli aristocrati gridavano _viva l'imperatore_ per odio contro i democrati, siccome i democrati avevano gridato _viva Francia_ per odio contro gli aristocrati; servi, ciechi e pazzi gli uni e gli altri, che non vedevano, che dai loro odj privati nasceva la ruina della patria, e la signorìa forestiera. LIBRO VIGESIMO SOMMARIO Il consolo passa con ordine mirabile il gran San Bernardo, vince a Marengo, l'Italia superiore in suo potere. Governi provvisorj del Piemonte, di Genova e di Milano. Conclave in Venezia: assunzione del cardinal Chiaramonti al pontificato, e sua rinstaurazione in Roma. Arti di Buonaparte con lui. Malta presa dagl'Inglesi. Moti di Toscana. Nuova guerra tra Austria e Francia. Battaglia del Mincio tra Bellegarde e Brune, ritirata del primo. Passaggio del monte della Spluga eseguito con mirabile coraggio ed arte da Macdonald. Nuovi successi prosperi dei Francesi. Pace con Napoli, Austria e Spagna. Tutto il mondo, salvo l'Inghilterra, in concordia con Francia. Buonaparte intanto, cambiatore di sorti, si avvicinava, l'imperio d'Austria in Italia inclinava al suo fine. Aveva il consolo con maravigliosa celerità ed arte adunato il suo esercito di riserva in Digione, donde accennava ugualmente al Reno ed all'Italia. Ma avendo Moreau combattuto prosperamente in Germania contro Kray, gli fu fatto abilità di condursi su quei campi, in cui tuttavia vivevano i segni e le memorie delle sue fresche vittorie; cosa, che gli era cagione di somma incitazione, perchè la gloria lo stimolava, ed era sicuro di trovarvi forti aderenze. Adunque mentre lo sconsigliato Melas se ne stava martirizzandosi contro le sterili rocche dell'estrema Liguria, si avvicinava Buonaparte alle Alpi, tutto intento alle fazioni d'Italia. Varj, molti, e potenti modi aveva di condurre a prospero fine la sua impresa: soldati prontissimi a volere qualunque cosa egli volesse, generali esperti e valorosi, artiglierìe formidabili, cavallerìa sufficiente. Aveva apprestato per pascere i soldati sull'erme solitudini delle Alpi, biscotto in grande abbondanza, e per tirar su e giù secondo i casi le artiglierìe per quei sentieri rotti, stretti, ed ingombri di nevi e di ghiacci, certi carretti a modo dei traini sdrucciolevoli, che si usano in quei paesi per scendere dai nevosi gioghi. Nè questo fu il solo trovato di Buonaparte e di Marmont, che soprantendeva alle artiglierìe, per facilitar loro il passo per luoghi fino allora alle medesime inaccessi, perchè scavarono, a guisa di truogoli, tronchi di alberi grossissimi a fine di potervele posar dentro, come in un letto proprio, e per tal modo trasportarle a dorso di muli a traverso le montagne. Denaro sufficiente aveva rammassato per le necessità de' suoi fin oltre l'Alpi; poi si confidava nell'Italia. Per muovere le opinioni degl'Italiani aveva chiamato a se la legione Italiana capitanata da un Lecchi, la quale fuggendo il furore Tedesco per le rotte di Scherer, si era riparata in Francia, bella e buona gente. Per conoscere poi i luoghi, conduceva con se gl'Italiani, che più ne erano pratichi, e siccome l'intento suo era di varcare il gran San Bernardo, così si consigliava specialmente con un Pavetti di Romano in Canavese, giovane di natura molto generosa, e che camminava con molto affetto in queste bisogne della libertà. Rammentava quindi il consolo, essendo gran maestro dell'allettare, che tornava in Italia per fondare in Cisalpina una regolata libertà, dar la pace a Napoli ed a Toscana, ristorar la religione, proteggere i preti, rimettere sul debito seggio il pontefice di Roma. A tutti poi parlava di pace, di umanità, di fin di mali, di un secolo che doveva incominciare a salute ed a felicità d'uomini. Passò per Ginevra: mostrovvisi tanto mansueto, e disposto a voler ridur le cose a forme buone e consentanee alle antiche, che gli aristocrati Ginevrini presi alle dolci parole, pigliarono animo a favellar dell'independenza, e della restituzione dell'antico stato, essendo a quel tempo Ginevra unita a Francia, e parte di lei; ma la cosa non allignò; che anzi rispose loro per forma che s'accorsero che se amava prendere, amava anche serbare. Poi tornò sulle mansuetudini, e che sarebbe contento morire, purchè la pace vedesse. Appariva sì mogio, sì pallido e sì macilento, che pareva a tutti, che stracco il corpo e l'animo per tante sue fatiche a pro di Francia e d'Europa, dovesse far tosto pace, se pure la voleva vedere. Poi lusinghevolmente procedendo, domandava di Saussure, di Bonnet, di Senebier; tacque di Rousseau. Disse, voler rimettere in onore le scienze e le lettere calpestate dalla guerra. Maravigliavansi i Ginevrini, vedendo tanto amore di dottrine pacifiche in un soldato, perchè non penetravano l'umore, nè si accorgevano, ch'egli, siccome quegli che voleva far andar il secolo a ritroso, il voleva secondare, finchè ne fosse padrone. Grande e magnifico era il disegno di Buonaparte per riconquistar l'Italia. Suo proponimento era di varcare col grosso dell'esercito il gran San Bernardo col fine di calarsi per la valle di Aosta nelle pianure Piemontesi. Ma perchè altre genti con questa parte consuonassero, e giunte al piano potessero e muovere i popoli a romore contro l'Austria, e congiungersi con lui a qualche importante fatto, aveva ordinato che il generale Thureau dalla Morienna e dall'alto Delfinato, pei passi dei monti Cenisio e Ginevra, con una squadra di tre in quattromila soldati si calasse a Susa, e più oltre anche, secondo le opportunità, procedesse per dar timore al nemico intorno alla sicurezza di Torino, e per ajutare lo sforzo, ch'egli intendeva di fare sulle sponde della Dora Baltea. Al tempo medesimo comandava al generale Moncey, che pel San Gottardo scendesse a Bellinzona con un'eletta schiera di circa dodicimila soldati, col pensiero di mettere a romore i paesi, che nelle parti superiori al piano di Lombardia si comprendono fra il Ticino e l'Adda. Parendogli altresì, che fosse necessario di turbar le contrade fra il Ticino e la Sesia, imponeva al generale Bethancourt, che facesse opera di varcare il Sempione, e di precipitarsi per Domodossola sulle sponde del lago Maggiore là dove, restringendosi, apre di nuovo l'adito alle acque correnti del Ticino. Siccome poi non ignorava quante e quali difficoltà ostassero al passo di un grosso esercito pel gran San Bernardo, commetteva ad un corpo di circa cinquemila soldati, che passasse il piccolo San Bernardo, ed andasse a raccostarsi col grosso nella valle di Aosta. Tutte le raccontate genti insieme unite sommavano circa a sessantamila combattenti. Così il consolo tutta la regione dell'Alpi abbracciando, che si distende dal San Gottardo al monte Ginevra, minacciava invasione al sottoposto plano del Piemonte e della Lombardia. Dall'altra parte sperava che Massena, tenendo fortemente Genova, e Suchet la riviera, avrebbero trattenuto Melas, finchè egli potesse arrivare a combatterlo sui fianchi ed alle spalle. Magnifica, come abbiamo detto, e maravigliosa opera fu questa del consolo, ma che gli poteva venire rotta con grande precipizio, se Moreau avesse combattuto infelicemente sul Reno, o se Melas più accorto, o più attivo, o meglio informato fosse stato. Lusingati con discorsi di umanità, di pace, e di civiltà quei Ginevrini tanto ingentiliti, se ne giva il consolo alla stupenda guerra. Erano le genti già adunate tutte a Martigny di Vallese sul Rodano, terra posta alle falde estreme del San Bernardo. Guardavano con maraviglia, e con desiderio quelle alte cime. Diceva loro Berthier, quartiermastro: «Vincono i soldati Renani gloriose battaglie: contrastano gl'Italici con valore estremo ad un nemico sopravanzante di numero. Accendetevi, e riconquistate, emolandogli, oltre l'Alpi, quelle terre già testimonie del Francese valore. Soldati nuovi, ecco che suona il segno delle battaglie: ite, e pareggiate i veterani tante volte vincitori: da essi imparate a sofferire, da essi a superare le fatiche inseparabili della guerra. Vi segga sempre in mente questo pensiero, che solo col valore, solo colla disciplina si vincono le guerre. Soldati, Buonaparte è con voi; vien'egli a vedere i nuovi trionfi vostri: a Buonaparte pruovate, che siete sempre quegli uomini valorosi, che condotti da lui sì famoso nome e sì luminosa gloria acquistaste. La Francia, e la umanità di pace vi richieggono: voi pace alla Francia ed alla umanità con le forti destre date». Questo parlare infinitamente infiammava quegli animi già da per se stessi tanto incitati e valorosi. Partivano il dì diciasette maggio da Martigny per andarne a conquistar l'Italia. Maraviglioso l'ardore loro, maravigliosa l'allegria, maraviglioso ancora il moto ed il fervore delle opere. Casse, cassoni, truogoli, obici, cannoni, carretti ruotati, carretti sdrucciolevoli, carrette, lettiche, cavalli, muli, bardature, arcioni, basti da bagaglie, basti da artiglierìe, impedimenti di ogni sorte, e fra tutto questo soldati affaticantisi, ed ufficiali affaticantisi al par dei soldati. S'aggiungevano le risa e le canzoni: i motti, gli scherzi, le piacevolezze alla Francese erano quelle poche, e gli Austriaci ne toccavano delle buone. Non a guerra terribile, ma a festa, non a casi dubbi, ma a vittoria certa, pareva che andassero. Il romore si propagava da ogni banda: quei luoghi ermi, solitari e da tanti secoli muti, risuonavano insolitamente e ad un tratto per voci liete e guerriere. L'esercito strano e stranamente provvisto, al malagevole viaggio saliva per l'erta alla volta di San Pietro fin dove giunge la strada carreggiabile. Pure spesso erte ripidissime, forre sassose, capi di valli sdrucciolenti si appresentavano; i carri, i carretti, le carrette pericolavano. Accorrevano presti i soldati a braccia, sostenevano, puntellavano, traevano, e più si affaticavano, e più mettevano fuori motti, facezie e concetti, parte arguti, parte graziosi, parte frizzanti: così passavano il tempo e la fatica. I tardi Vallesani, che erano accorsi in folla dalle case, o piuttosto dai tuguri e dalle tane loro, vedendo gente sì affaticata e sì allegra non sapevano darsi pace; pareva loro cosa dell'altro mondo. Inviolati, e pagati per ajuto, il facevano volentieri. Ma più bisogna faceva un Francese, che tre Vallesani. Le parole e i motti, che i soldati dicevano a quella buona gente per la tardità delle opere e per le fogge del vestire, io non gli voglio dire. Così arrivavano i repubblicani a San Pietro, Lannes colla sua schiera il primo, siccome quello che per l'incredibile ardimento il consolo sempre mandava, lui non solo volente, ma anche domandante, alle imprese più rischievoli e più pericolose. Quivi si era arrivato ad un luogo, in cui pareva che la natura molto più potesse che l'arte od il coraggio; perciocchè da San Pietro alla cima del gran San Bernardo, dove è fondato l'eremo dei religiosi a salute dei viaggiatori in quei luoghi d'eternale inverno, non si apre più strada alcuna battuta. Solo si vedono sentieri stretti e pieghevoli, su per monti scoscesi ed erti. Rifulse la pertinacia del volere e la potenza dell'umano ingegno. Quanto si rotolava, fu posto ad essere tirato, quanto si tirava ad essere portato. Posersi le artiglierìe grosse nei truogoli, i truogoli sugli sdruccioli, e dei soldati, chi tirava, chi puntellava, chi spingeva: le minute sui robusti e pratichi muli si caricarono. Così, se Jan Jacopo Triulzi montò, e calò con grosse funi di roccia in roccia per le barricate nella stagione più rigida dell'anno le artiglierìe di Francesco primo, tirò Buonaparte quelle della repubblica sui carri sdrucciolevoli, e sulle bestie raunate a quest'intento. Seguitavano le salmerie al medesimo modo tirate e portate. Era una tratta immensa: in quelle volte di ripidi sentieri ora apparivano, ora scomparivano le genti: chi era pervenuto all'alto, vedeva i compagni in fondo, e con le rallegratrici voci gl'incoraggiava. Questi rispondevano, ed al difficile cammino s'incitavano. Tutte le valli all'intorno risuonavano. Fra le nevi, fra le nebbie, fra le nubi apparivano le armi risplendenti, apparivano gli abiti coloriti dei soldati; quel miscuglio di natura morta e di natura viva era spettacolo mirabile. Godeva il consolo, che vedeva andar le cose a seconda de' suoi pensieri, e soldatescamente parlando a questo ed a quello, che in ciò aveva un'arte eccellente, gl'induceva a star forti, ed a trovar facile quello, che era giudicato impossibile. Già s'avvicinavano al sommo giogo, ed incominciavano a scorgere l'adito, che in mezzo a due monti altissimi aprendosi, dà il varco verso la più sublime cima. Salutaronlo, qual fine delle fatiche loro, con giojose voci i soldati, e con isforzi maggiori intendevano al salire. Voleva il consolo che riposassero alquanto: _Di cotesto non vi caglia_, rispondevano, _badate a salir voi, e lasciate fare a noi_. Stanchi, facevano dar nei tamburi, ed al militare suono si rinfrancavano, e si rianimavano. Infine guadagnarono la cima, dove non così tosto furono giunti, che l'uno con l'altro si rallegrarono, come di compiuta vittoria. Accrebbe l'allegrezza il vedere mense appresso all'eremo rusticamente imbandite per opera dei religiosi, provvidenza del consolo, che aveva loro mandato denari all'uopo. Ebbero vino, pane, cacio; riposaronsi fra cannoni e bagaglie sparse, fra ghiacci e nevi agglomerate. I religiosi s'aggiravano fra i soldati con volti dipinti di sedata allegrezza: bontà con forza su quel supremo monte s'accoppiava. Parlò Buonaparte ai religiosi della pietà loro, di voler dare il seggio al papa, quiete e sostanze ai preti, autorità alla religione: parlò di se e dei re modestamente, della pace bramosamente. I romiti buoni, che non avevano nè cognizione, nè uso, nè modo, nè necessità dell'infingere, gli credevano ogni cosa. Quanto a lui, se tratto da quell'aria, da quella quiete, da quella solitudine, da quella scena insolita, si lasciasse, mutandosi, piegare a voler fare per affezione quello che faceva per disegno, io non lo so, nè m'ardirei giudicare; perchè da un lato efficacissima era certamente l'influenza di quella pietà, e di quei monti, dall'altro tenacissima incredibilmente, e sprezzatrice dell'umane cose la natura di lui. Fermossi a riposare nel benigno ospizio un'ora. Quando parve tempo, comandava si partisse. Voltavano i passi là dove l'Italico cielo incominciava a comparire. Fu difficile e pericolosa la salita, ma ancor più difficile e pericolosa la discesa; conciossiachè le nevi tocche da aria più benigna incominciavano ad intenerirsi, e davano mal fermo sostegno. Oltre a ciò la china vi era più ripida che dalla parte settentrionale. Quindi accadeva, che era lento lo scendere, e che spesso uomini e cavalli con loro, sfuggendo loro di sotto le nevi, nelle profonde valli erano precipitati, prima sepolti che morti. Incredibili furono le fatiche ed i pericoli: poco s'avvantaggiavano. Impazienti del tardo procedere, ufficiali, soldati, il consolo stesso, scegliendo i gioghi dove la neve era più soda, precipitosamente si calavano sdrucciolando fino a Etrubles. Era un pericolo, e pure era una festa: tanto diletto prendevano, e tante risa facevano di quel volare, di quell'essere involti chi in neve grossa, e chi in polverìo di neve. Quelli che erano rimasti al governo delle salmerìe, arrivarono più tardi per gl'incontrati ostacoli. Riuniti a Etrubles, gli uni con gli altri si rallegravano dell'esser riusciti a salvamento, e guardando verso le gelate e scoscese cime, che testè passato avevano, non potevano restar capaci del come un esercito intero con tutti gl'impedimenti avesse potuto farsi strada per luoghi orribilmente disordinati da sconvolgimenti antichi, e potentemente chiusi da perpetui rigori d'inverno. Ammiravano la costanza e la mente del consolo, delle future imprese felicemente auguravano. Pareva loro, che a chi aveva superato il San Bernardo, ogni cosa avesse a riuscire facile e piana. Intanto le aure soavi d'Italia incominciavano a soffiare: le nevi si squagliavano, i torrenti s'ingrossavano, le morte rupi si ravvivavano e si rinverdivano. I veterani conquistatori riconoscevano quel dolce spirare: gridavano Italia: con discorsi espressivi ai nuovi la descrivevano: nei veterani si riaccendeva, nei nuovi si accendeva un mirabile desiderio di rivederla, e di vederla; la esperienza ricordava il vero, la immaginazione il rappresentava e l'ingrandiva; le volontà diventavano efficacissime: già pareva a quegli animi forti ed invaghiti, che l'Italia fosse conquistata; solo pensavano alle vittorie, non alle battaglie. La vittoria consisteva nella celerità; perciocchè quelli alpestri luoghi erano sterili, il passo del San Bernardo difficile, nè si doveva dar tempo a Melas di arrivare al piano prima che l'esercito vi arrivasse. Importava altresì che il romore già sparso della ritornata dei Francesi non si rallentasse. Perciò il consolo si calava tostamente per le sponde della Dora, e con assalti di poca importanza dati all'antiguardo condotto da Lannes, mandato avanti a speculare il sito del paese, s'impadroniva facilmente della città d'Aosta e della terra di Chatillon. Ma un duro intoppo era per trovare nel forte di Bard posto sopra un sasso eminente, che, come chiave, serra la strada in quella stretta gola, che quivi forma, restringendosi, la valle. Aveva Pavetti proposto facile al consolo l'oppugnazione di questa rocca, essendo in lui sommo desiderio, che i Francesi passassero per la valle d'Aosta, acciocchè il suo paese fosse il primo ad essere restituito, come credeva, a libertà. Ma il fatto pruovò, che un umile sasso poteva divenire ostacolo ad una gran fortuna. Fatta la chiamata, rispose coraggiosamente il Tedesco, non voler dare la fortezza. S'avvicinarono i Francesi: entrarono facilmente nella terra di Bard, posta sotto al forte; poi andarono all'assalto; ricevuti con ferocia, abbandonarono l'impresa. Rinnovarono parecchie volte la batteria, ma sempre con poco frutto. Si sdegnavano i capi, e di un'infinita impazienza si travagliavano nel vedere, che una piccola presa di gente, poichè il presidio non sommava che a quattrocento soldati, ed un'angusta roccia interrompessero il corso a tante vittorie. Pareva loro troppo grave ed insopportabil cosa, che un piccolo Bard arrestasse coloro, cui non avevano potuto arrestare nè la poderosa Mantova, nè i ghiacci eterni dell'enorme San Bernardo. Sapevano che il loro movimento era presentito al piano, e che Melas, lasciata l'inutile impresa del Varo, con presti passi accorreva per puntellare la fortuna pericolante. Nè la valle d'Aosta, sterile e povero paese, era abile a pascere tante genti, massime in quel caso non preveduto: già sorgevano i primi segni della penuria. Pensavano al rimedio, e nol trovavano. Batterono la rocca dalle case della terra, batterono con un cannone tirato sul campanile. Ma essendo il luogo ben difeso, e di macigno, non facevano frutto. Avvisarono, se potessero passare, continuando il forte in possessione dell'inimico. S'innalzava con irregolari gioghi a sinistra della terra di Bard il monte Albaredo, che dai superiori luoghi domina la fortezza, negl'inferiori ne è dominata. Fecero i Francesi, essendo primo autore di questo consiglio Berthier, pensiero di trovar passo per questo monte. In men che non fa due giorni, cavarono gradi nei siti più duri ed erti, alzarono parapetti sugli orli dei precipitosi, gittarono ponti sui precipizi per modo che fu loro aperta la strada al passare, oltre il tiro dei cannoni della fortezza. Fu quest'opera molto maravigliosa, e degna di essere raccontata nelle storie. Gli uomini sicuramente varcavano. Restavano le artiglierìe e gl'impedimenti, che non potevano avviarsi per una strada tanto ripida e stretta. Lannes, che già era arrivato sino ad Ivrea, correva pericolo di essere assalito dagli Alemanni, mentre ancora era privo delle artiglierìe, armi tanto necessarie nelle battaglie dei nostri tempi. Un nuovo assalto dato al forte dal pertinace consolo, aveva avuto sinistro fine. Grave pericolo sovrastava, perchè i tempi non pativano indugio, quando Marmont si avvisava di un nuovo stratagemma. A fine d'impedir il rumore dei carretti, distendeva letame per la contrada principale di Bard, avviluppava con istrame i cerchi delle ruote, e tirando alla dilunga, velocemente e di notte tempo operava, che le artiglierìe riuscissero felicemente oltre alla terra. S'accorgeva il castellano dell'arte usata dagli avversari, e folgorava con grandissimo furore fra il buio della notte; ma la oscurità da una parte, la celerità dall'altra furono cagione, che i repubblicani patirono poco danno in questa straordinaria passata: con tutte le armi allestite e pronte si apprestavano ad inondare il Piemontese dominio. Poco stante Chabran divallatosi dal piccolo San Bernardo costringeva alla dedizione il comandante di Bard, salvo l'avere e le persone, e con fede di non militare sino agli scambi. Mentre a questo modo il grosso dei soldati di Francia sboccava per Ivrea, non erano state oziose le genti più lontane, anzi concorrendo dal canto loro all'adempimento del principale disegno, erano pervenute ai luoghi ordinati dal consolo. Era Bethancourt sceso dal Sempione, e fattosi padrone di Domodossola. Moncey venuto a Bellinzona accennava a Lugano, ed alle sponde del Ticino e dell'Adda. Thureau poi più prossimamente romoreggiando alla capitale del Piemonte, era comparso a Susa, e camminando più avanti, si era mostrato ad Avigliana, avendo fatto una buona presa di Austriaci, che si erano pruovati a serrargli il passo dall'erto ed eminente sito, sul quale stava, prima della guerra, fondata la fortezza inespugnabile della Brunetta. Tale tempesta da tutte parti sovrastava, per l'invitto pensiero del consolo, a quel tratto di paese, che si comprende fra la Dora riparia e l'Adda. Ma il principale sforzo sorgeva da Ivrea. Si proponeva il consolo di marciare a stanca celeremente per arrivar più presto, che per lui si potesse, a Milano. Confidavasi, nè senza ragione, di trovar quivi seguito, viveri e ricchezze; e siccome sopraggiungeva improvviso, così sperava di poter sorprendere e sopraffare i corpi sparsi degli Austriaci, che a tutt'altra cosa pensavano fuori che a questa. Aveva anche fondamento di credere, che gli sarebbe venuto fatto, accostandosi all'Adige, di tagliar fuori Melas dal suo sicuro ricetto del Tirolo. Molto bene considerate erano queste cose, e meglio ancora fu quella di mandar Lannes verso Chivasso, per indurre in Melas la persuasione, ch'ei fosse per far impeto contro Torino. Ordito in tal modo il disegno, lo mandava ad esecuzione. Temendo gli Autriaci di Torino, avevano accostato un antiguardo al ponte della Chiusella, a dirittura del quale avevano piantato quattro bocche da fuoco per non lasciar guadagnare questo passo al nemico. Essendo questo ponte molto stretto e lungo, dura impresa era il superarlo. Avvicinatosi Lannes, ordinava ai più valorosi, il passassero velocemente. Fecerne pruova; ma i cannoni Tedeschi fulminarono sì furiosamente a scaglia, e dai fianchi i feritori leggieri tempestarono con sì fatta grandine, che i Francesi tornarono indietro laceri e sanguinosi. Nuovamente cimentatisi, nuovamente perdevano. Rinnovò due altre volte la pruova Lannes, e due altre volte ne uscì colla peggio. Ostinavasi, ma non aveva rimedio. Pavetti allora, che ottimamente conosceva i luoghi, perchè la battaglia si commetteva quasi sotto alle mura di Romano, sua patria, fece accorto il generale di Francia, che a sinistra del ponte era un passo facilmente guadoso, offerendosi di condurre egli medesimo la fazione. Guadò con felice ardimento il fiume: si mostrava improvviso sulla destra del nemico; diè mano a bersagliarlo aspramente; restava mortalmente ferito dalle sue armi l'Austriaco Palfi, che vicino al ponte se ne stava animando i suoi. Questo accidente diè cagione di vincere ai Francesi, perchè gli Austriaci sforzati a dar indietro, lasciarono libero il passo del ponte. Rannodaronsi col retroguardo sull'altura di Romano, e vollero far testa; ma assaliti dai Francesi cresciuti d'animo e di forza, abbandonarono il campo. Nè miglior esito ebbe uno sforzo fatto da Keim con la cavalleria, nel piano che si frappone tra Romano e i colli di Montalenghe; onde fu aperta la strada a Lannes fino a Chivasso, dove trovò conserve considerabili di vettovaglie, opportuno ristoro alle sue stanche genti. Avendo conseguito Lannes l'intento di far correre Melas a Torino, volgeva improvvisamente le insegne a mano manca, e camminava con passo accelerato a seconda della sinistra del Po alla volta di Pavia. Tutto lo sforzo dei Francesi accennava a Milano. Marciavano Murat, Boudet e Victor contro Vercelli; marciava sull'istessa fronte più basso Lannes, e superiormente spazzava il paese la legione Italiana di Lecchi, che da Chatillon di Aosta per la via di Grassoney camminando, era venuta a Varallo, poi ad Orta, donde aveva cacciato il principe di Loano, che vi stava a presidio con una mano di Tedeschi. Tutta questa fronte di un esercito bellicoso, spingendosi avanti, guadagnava Vercelli, dove passava la Sesia: poi contrastava invano Laudon, che era accorso, entrava in Novara, e s'apprestava a varcar il Ticino. L'ala sinistra intanto s'ingrossava per essersi Lecchi congiunto a Sesto Calende con Bethancourt disceso da Domodossola. Laudon postosi a Turbigo intendeva ad impedire il passo del fiume; ma Murat, che guidava l'antiguardo, dato di mano a certe barche lasciate a Galiate, guadagnava la sinistra sponda, e cacciava da Turbigo, non senza però qualche difficoltà, il generale Tedesco. Al tempo medesimo la sinistra ala si rinforzava vieppiù per la giunta delle genti di Moncey, che venute sui laghi di Lugano e di Como, avevano incontrato Lecchi a Varese. Per queste mosse ottimamente eseguite, come erano state ottimamente ordinate, già era la capitale della Lombardia posta in potestà dei Francesi. Entrava in Milano il dì due di giugno con le più elette schiere Buonaparte vincitore. Io non sono per raccontare le allegrezze che vi si fecero, perchè nelle rivoluzioni il governo ultimo è sempre stimato il peggiore, il nuovo il migliore. Nè la signoria dei Tedeschi vi era stata mansueta, non perchè troppo grave fosse di sua natura, salvo i confinati alle bocche di Cattaro, ma perchè avendo voluto rimettere del tutto le cose nello stato pristino, aveva turbato infiniti interessi ed opinioni. Eransi i reggitori persuaso, che fosse impossibile che i Francesi tornassero; e però a seconda di questa credenza governandosi, prepararono le occasioni ad altre rivoluzioni. Riordinava Buonaparte la Cisalpina repubblica. Volle, che i riti della religione Cattolica pubblicamente si celebrassero, e la religione si rispettasse, e chi il contrario facesse, severamente, anche colla pena di morie, se il caso il richiedesse, fosse punito; che fossero salve le proprietà di tutti, che i fuorusciti rientrassero, che i sequestri si levassero, che le cedole del banco di Vienna si abolissero, e valor di moneta più non avessero. Lasciati in Milano questi fondamenti della sua potenza, applicava di nuovo i pensieri alla guerra, che quantunque bene principiata fosse, non era ancor terminata. Melas sulla destra del Po si conservava tuttavia intiero, nè sapeva il consolo ancora, che Massena fosse stato costretto a cedere in Genova alla fortuna dei confederati. Per questo motivo, credendosi più sicuro di quanto egli era veramente, aveva fatto correre da' suoi il Lodigiano, il Cremonese, il Bergamasco, il Cremasco, nei quali paesi erano stati veduti con molta contentezza: poi suo intento era di passare subitamente il Po; ed in questo modo mozzare a Melas ogni strada al ritirarsi. Lannes frattanto, per una subita correria, aveva preso Pavia: trovovvi munizioni abbondanti da bocca, e quantità considerabile di armi. Melas, che per la perdita di Milano aveva conosciuto, quanto la sua condizione fosse pericolosa, ed il nemico forte, avvisandosi che il suo scampo non poteva più venire se non da una battaglia risoluta, e da una vittoria piena, voleva tirar la guerra nei contorni di Alessandria, per cagione dell'appoggio che quivi aveva della cittadella, e del forte di Tortona. Venuto adunque in Alessandria, chiamava a se Esnitz arrivato dalla riviera, mandava Otto divenuto libero per la dedizione di Genova, a Piacenza, affinchè s'ingegnasse d'impedire il passo del fiume ai Francesi. Ma Murat fu più presto di Otto; perchè, sebbene fortemente fosse combattuto, passava, e s'impadroniva di Piacenza. Al medesimo punto Lannes varcava a Stradella; e si poneva a campo a San Cipriano. Otto ritirava i suoi a Casteggio ed a Montebello. Combattessi in questi due luoghi il dì nove giugno una battaglia asprissima, segno ed augurio di un'altra assai più aspra, più famosa, e più piena di futuri accidenti. Occupava Otto col grosso delle sue genti Casteggio, avendo piantato su certi colli a destra forti batterie, e collocato a sinistra più al piano i suoi cavalli. Una piccola squadra di ultimo soccorso stanziava a Montebello. Urtarono i Francesi condotti da Watrin con grandissimo impeto i Tedeschi, fu loro risposto con uguale costanza; vario fu per molte ore l'evento, perchè parecchie volte i repubblicani s'impadronirono dei colli eminenti a Casteggio, e parecchie volte ne furono risospinti. Finalmente gl'imperiali restarono superiori per opera massimamente della cavalleria, la quale sbucando da certe siepi, di cui si era fatta quasi una fortezza, aveva dato la carica al nemico. Watrin si ritirava rotto e sanguinoso, e sarebbe stata perduta la battaglia pei Francesi, se non fossero sopraggiunti battendo, e mandati da Lannes i generali Chambarlhac e Rivaud. Venendo quest'ultimo a parte della mischia, frenava l'impeto dei vincitori, ed incuorando i soldati di Watrin gli menava di nuovo contro il nemico insultante: pure si difendevano i Tedeschi ostinatamente. In questo fortunoso punto arrivava con una grossa squadra di buoni soldati Lannes, ed entrando impetuosamente, come sempre soleva, nella battaglia, sforzava il nemico a piegare, e cacciandolo del tutto da Casteggio, l'obbligava a ritirarsi a Montebello. Quivi Otto più fiero di prima rinnovava la battaglia, e faceva di nuovo le sorti dubbie; che anzi le sue già principiavano a prevalere, quando Buonaparte, che era sopraggiunto, ordinava a Victor, caricasse con sei battaglioni la mezzana schiera del nemico. In questo punto divenne furiosissimo l'incontro, perchè gli Austriaci difendevano il ponte con numerose artiglierìe che buttavano a scaglia, ed i Francesi con le bajonette andavano alla carica per ispuntargli. Durò un pezzo questo combattimento di fuoco e di ferro: si vedeva che i soldati di Otto stavano alla dura molto fortemente. All'ultimo arrivarono sugli estremi del campo i generali Geney e Rivaud, e fecero inclinare la fortuna in favore di Francia, perchè per le mosse loro si trovava Otto quasi circondato da ogni banda. Si ritirava in Voghera, lasciato un presidio di circa mila soldati nella fortezza di Tortona. Morì in questo fatto, e fu presa gran gente agli Austriaci, ma la metà meno di quanto portarono gli scritti di Berthier. Morì anche gran gente ai Francesi; e poco meno che agli Austriaci; pochi restarono prigionieri. Questa fu la battaglia di Casteggio, che durò dalle sei della mattina sino alle otto della sera. Superata l'asprezza dell'Alpi con arte e costanza, corsa la Lombardia con prestezza, fatto risorgere il nome di Cisalpina in Milano, sollevati a gran cose gli animi dei popoli con una impresa inusitata, restava che per una determinativa battaglia i presi augurj si adempissero, e si confermasse in Buonaparte il supremo seggio di Francia, e l'imperio assoluto d'Italia. Assai presto fu l'acquisto di questo paese fatto da Kray, Suwarow, e Melas: restava che si vedesse, se il capitano di Francia non fosse abile a riconquistarlo più presto ancora. Aveva Melas, come abbiam narrato, raccolti i suoi nel forte alloggiamento tra la Bormida ed il Tanaro sotto le mura d'Alessandria. Grosso di circa quarantamila soldati, fornitissimo di artiglierìe, fiorito di cavallerie sceltissime, provvisto di veterani, era molto abile a combattere di tante sorti. Nè mancava in lui l'ardire, o l'arte, nè la memoria delle recenti vittorie. Sapeva altresì, di quanto momento fosse la battaglia che soprastava. Dall'altra parte il consolo combatteva su quelle Italiche terre, già piene di tanta sua gloria; i suoi ufficiali giovani, confidenti e valorosi con incredibile ardimento anelavano al confermare i gloriosi destini di Francia; i soldati, alcuni veterani, molti nuovi non avevano tanto uso di battaglie quanto i Tedeschi, ma l'ardore e la confidenza supplivano a quanto mancasse all'esperienza. Di numero erano inferiori agli avversari, e di cavallerìe, e di artiglierìe. Giravano adunque assai dubbie le sorti. Melas, ancorchè fosse sorpreso da tanta e sì improvvisa piena, e vinto alla Chiusella ed a Casteggio, pareva non ostante possedere maggiore probabilità della vittoria. Nè si potrebbe bastantemente lodare l'arte e la prestezza, colle quali, quando ebbe piena contezza dell'intento del consolo, aveva adunato il suo esercito nei campi d'Alessandria. Doveva il consolo presumere, perchè non ignorava che l'avversario aveva fortificato con trincee ed artiglierìe le rive della Bormida, e scelto luogo propizio al combattere, che appunto in quel campo volesse dare la battaglia. Pure avvisando, certamente contro ogni probabilità, che Melas volesse ritirarsi verso Genova, aveva mandato il generale Desaix, testè arrivato dall'Egitto, a Rivalta sulla strada per Acqui; che anzi questi, obbediente ai comandamenti, già aveva spinto la schiera di Bondet più vicino ad Acqui. Grave errore fu questo, perciocchè ei doveva rannodarsi, non ispartirsi, trovandosi col nemico sì vicino e sì grosso; per lui stette ad un punto, che tutta la fortuna di Francia perisse nei campi di Marengo. Oltre a ciò, e per una risoluzione nè ragionevole nè sana, aveva mandato la schiera di Monnier, che con quella di Boudet componeva l'ala sinistra governata da Desaix, a Castelnuovo di Scrivia, per modo che tutta quest'ala si trovava spartita e scomposta in un momento di tanta importanza. Occupava Melas con un antiguardo il villaggio di Marengo posto oltre Bormida nella vicinanza d'Alessandria. Il consolo, fattolo assaltare da Gardanne, lo recava in suo potere, avendo i Tedeschi fatto astutamente debole resistenza. Il quale accidente avrebbe dovuto far accorto Buonaparte, che pensiero di Melas non era di girsene lontanamente a Genova, ma bensì di cimentar la fortuna vicino ad Alessandria. Tuttavia, essendo tenacissimo ne' suoi concetti, persisteva nel credere che i Tedeschi volessero incamminarsi verso la Liguria. Finalmente gli esploratori, che gli recavano le novelle da Rivalta e dalle rive del Po, il tolsero d'inganno, certificandolo che la gran lite era per deffinirsi nell'Alessandrino, non nella Liguria. Ordinava a Boudet ed a Monnier, che prestamente si ricongiungessero coll'esercito principale: pure trovandosi già lontani, potevano arrivare a sorte terminata. Il dì quattordici giugno alle cinque della mattina Melas varcava, fulminando, l'augurosa Bormida. Esnitz coi fanti leggieri, e col maggior nervo delle cavallerìe, muovendosi a sinistra degli imperiali, marciava contro Castel-Ceriolo per la strada che porta a Sale, perchè intento del generalissimo Austriaco era di riuscire alle spalle dei Francesi da quella parte per tagliargli fuori da Pavia e da Tortona, donde avevano corrispondenza con l'altre loro genti alloggiate sulla sponda sinistra del Po. Keim, coi soldati di più grave armatura muoveva l'armi contro il villaggio di Marengo, per cui passa la strada per Tortona; quest'era la schiera di mezzo. Una terza, che era la destra sotto la condotta di Haddick con un grosso di granatieri ungari guidati da Otto, doveva fare sforzo, seguitando la destra sponda della Bormida all'insù, per riuscire a Fregarolo, e consentire verso Tortona con la mezzana. Si prevedeva, e quest'era il pensiero delle due parti, che si sarebbe conteso massimamente della possessione di Marengo, perchè quello era il sito, alla conservazion del quale indirizzavano i Francesi tutti i loro movimenti. Precedeva le camminanti squadre d'Austria un apparato formidabile di artiglierìe, che furiosamente tuonando significavano, quanto duro e quanto micidiale fosse per essere l'incontro. A tanto impeto non erano i Francesi pari in quel primo tempo della battaglia, perchè Monnier si trovava lontano a destra, Desaix a sinistra, per improvvidenza del consolo. Adunque tutte le difese loro consistevano nella schiera di Victor, che occupava assai grossa Marengo, ed in quella di Lannes, che aveva la sua sede a destra della strada di Tortona. A queste genti si aggiungevano circa novecento soldati della guardia del consolo, i cavalli condotti dal giovane Kellerman, quei di Champeaux, e finalmente quelli di cui aveva il governo Murat: i primi facevano spalla ai fanti di Victor, i secondi a quei di Lannes, ed in ultimo i terzi posti sulla punta estrema a destra di tutta la fronte, custodivano la strada che accenna a Sale. Così l'ordinanza dei Francesi partendo dalla Bormida, e da lei scostandosi obliquamente, e passando per Marengo, si distendeva sin verso a Castel-Ceriolo. Keim incontrava Gardanne mandato da Victor a Pietrabuona, piccolo luogo posto tra Marengo e la Bormida, e con una forza prepotente lo prostrava. Si ritiravano disordinatamente le reliquie verso Marengo. Sarebbero anche state intieramente circondate e prese se Victor non avesse tosto mandato Chambarlhac a riscattarle. Vennero avanti i Tedeschi, ed ingaggiarono con Victor una battaglia orribile: commiservi ambe le parti fatti di stupendo valore. Piegò finalmente la fortuna in favor di coloro, che avevano più numerose genti, e più fiorite artiglierìe: entrava vittoriosamente Keim in Marengo. Non per questo si era Victor disordinato; che anzi grosso, intiero e minaccioso novellamente si schierava dietro a Marengo. Venne a congiungersi con lui sulla destra sua punta Lannes, il che fece rinfrescare la battaglia più feroce di prima. S'attaccò Keim con Lannes, Haddick con Victor, e chi considererà la natura sì di quei generali, come di quei soldati, si persuaderà facilmente, che mai in nissuna battaglia sia stato speso più valore e maggior arte, che in questa. Secondava potentemente l'urto di Lannes contro Keim Champeaux co' suoi cavalli, nella quale mischia gravemente ferito passò di questa vita alcuni giorni dopo. Kellermann con la sua squadra ajutava anche efficacemente Victor, cariche a cariche continuamente aggiungendo e moltiplicando. Ciò non ostante Victor, per essere entrato nella battaglia il primo, e per avere Gardanne molto patito nell'affronto di Pietrabuona, stanco e diradato cedè finalmente il luogo, e si ritirò, quanto più potè prestamente, e non senza qualche moto disordinato, a San Giuliano. Lannes allora nudato sul suo sinistro fianco dell'appoggio di Victor fu costretto rinculare ancor esso; il che diè cagione a Keim di guadagnare vieppiù del campo, e di credersi sicuramente in possessione della vittoria. Frattanto Esnitz coi fanti leggieri aveva occupato Castel-Ceriolo, e coi cavalli si andava allargando col pensiero di mostrarsi alle spalle delle due schiere repubblicane, che indietreggiavano; il quale disegno, se avesse avuto effetto, dava senza dubbio alcuno la vittoria agl'imperiali. Solo rimedio a tanto pericolo aveva il consolo nei novecento soldati della sua guardia, e nei cavalli di Murat, certamente non capaci a far fronte alla numerosa cavallerìa di Esnitz. Mandava adunque avanti i novecento. Qui io non so, se più mi debba lodare l'opera loro, o biasimare quella di Esnitz. Fatto sta che l'Alemanno, quantunque gli avesse circondati da ogni banda, non gli potè mai rompere, o che egli non abbia fatto tutto quello che poteva, o che i novecento abbiano fatto più di quello che potevano. Avrebbe potuto Esnitz, se l'avesse voluto, tanto era forte pel numero delle sue truppe leggieri, sicuramente lasciarne una piccola parte contro questa consolare guardia, e gittarsi con l'altra a furia dietro le cedenti squadre di Francia. Ma neanco questo fece, ostinandosi a combattere con tutte le sue genti contro piccola parte di quelle del nemico. Questa mollezza, o errore di Esnitz, e questo valore dei consolari diedero comodità a Monnier di arrivare da Castel Nuovo, donde chiamato dal consolo veniva a prestissimi passi. S'incontrava arrivando nelle genti di Esnitz; sebbene elleno da tutte le parti il circondassero, si aperse la strada, ajutato gagliardamente dai consolari. Il generale Cara-San-Cyr, cacciati i Tirolesi da Castel-Ceriolo, se ne faceva padrone, e tostamente con tagliate e barricate vi si affortificava. Dievvi dentro Esnitz per ricuperarlo, e non gli venne fatto: pure la fortuna il favoriva, perchè aveva in questo punto obbligato alla ritirata i consolari, e l'altra parte dei soldati di Monnier. Ma invece di seguitare alla dilunga i cedenti, si ostinava all'acquisto di Castel-Ceriolo. Cara-San-Cyr sempre il respinse, e tanto il tenne lontano, che ora Cara-San-Cyr fu salvamento de' suoi, come prima erano stati i novecento; questi diedero tempo nella pertinace resistenza loro a Monnier di arrivare, egli il diede a Desaix. Melas in questo mezzo tempo, volendo usare l'occasione favorevole, che la fortuna gli parava davanti, aveva spinto innanzi la sua ala destra, massimamente i cinque mila Ungari, affinchè andassero a disfare quella nuova testa che i Francesi mostravano di voler fare a San Giuliano. Pareva che a quest'effetto bastassero Keim vincitore, ed Esnitz mezzo vinto e mezzo vincitore. Ma per assicurarsi meglio del fatto, e per provvedere ai casi dubbj che Desaix, arrivando, avrebbe potuto arrecare, mandava di lungo spazio avanti i cinquemila, dei quali come di corpo autore di vittoria, aveva preso il governo Zach, quartiermastro di tutto il campo Austriaco. Erano le cinque della sera: già da più di dieci ore si combatteva: gli Austriaci vincitori si rallegravano; tenue speranza, e solo in Desaix rimaneva ai Francesi di risorgere. Gli Alessandrini credevano avere Austria già del tutto vinto, siccome quelli che spaventati in sul mattino dal rimbombo di tante armi, l'avevano poscia udito allontanarsi appoco appoco, per modo che alla fine niuno, o debole suono di battaglia perveniva agli orecchi loro. Il consolo stesso disperava, nè mostrò in questo punto della battaglia mente serena, od animo costante, o modo alcuno degno di colui che aveva concetto il mirabile disegno di questa seconda invasione d'Italia. Solamente, e già quasi privo di consiglio stava agognando l'arrivo di Desaix. Mentre fra molto timore e poca speranza si esitava, ecco arrivare al consolo le novelle, che la prima fronte della Deseziana schiera compariva a San Giuliano. Riprese subitamente gli spiriti: altr'uomo che egli in fortuna quasi disperata, come era quella, in cui si trovava, si sarebbe servito della forza che arrivava, solamente per appoggio alla ritirata; ma l'audace ed onnipotente consolo la volle usare per rinnovar la battaglia e per vincere. Metteva l'esercito in nuova ordinanza per modo che da Castel-Ceriolo obliquamente distendendosi sino a San Giuliano, alloggiava Cara-San-Cyr sul luogo estremo a destra, poi a sinistra verso San Giuliano procedendo Monnier, quindi Lannes, poi finalmente in quest'ultima terra a cavallo della strada per a Tortona Desaix. I cavalli di Kellerman a fronte, e fra Desaix e Lannes avevano il campo. Non avendo fatto Esnitz co' suoi fanti e cavalleggieri contro l'ala destra dei Francesi quell'opera gagliarda, e quel frutto che Melas aspettava da lui, aveva il generalissimo d'Austria mandato i cinquemila Ungari condotti da Zach contro l'ala sinistra, sperando che questo nodo di genti fortissime l'avrebbe potuta rompere, e tagliarle la strada verso Tortona. La colonna di cinquemila, in cui si conteneva tutto il destino della giornata, in se medesima ristretta, baldanzosamente marciava contro i Deseziani. Desaix, lasciatala approssimare senza trarre, quando arrivò a tiro, la fulminò con le artiglierìe, che Marmont aveva collocato sulla fronte, poi scagliava contro di lei tutti i suoi. A quel duro rincalzo attoniti sulle prime si fermarono gli Ungari: poi ripreso nuovo animo, qual mole grossa, ed insuperabile, marciavano. Nè le genti Francesi, siccome più leggieri, quantunque tutto all'intorno vi si affaticassero, gli potevano arrestare. Era questo un caso simile a quello di Fontenoy. Desaix, che punto non si era sbigottito a quel pericolo, postosi a fronte de' suoi, stava sopravvedendo il paese per iscoprire, se gli accidenti del terreno gli potessero offrire qualche vantaggio, quando ferito in mezzo al petto da una palla d'archibuso, si trovò in fin di morte. Disse queste ultime parole al giovane Lebrun, figliuolo generoso di generoso padre: «Andate, e dite al consolo, che me ne muojo dolente di non aver fatto abbastanza per vivere nella memoria dei posteri». Sottentrava al governo, in vece di Desaix, Boudet. Non si perdè questi d'animo per sì amaro caso, non si perdettero d'animo i suoi soldati; che anzi stimolando quegli uomini già di per se stessi valorosi il desiderio di vendetta, con incredibile furia si gettarono addosso ai cinquemila. Nè gli Ungari cedevano: era un combattere asprissimo e mortalissimo. Già piegavano i repubblicani, disperate parevano le sorti; volle fortuna, che la salute di Francia nascesse prossimamente dall'estrema rovina. Era Kellermann destinato dai cieli al gran riscatto. Effettivamente, mentre Boudet instava ancora da fronte, quantunque rinculasse, Kellermann assaltava con tutto il pondo de' suoi cavalli il sinistro fianco dell'Ungara mole, e siccome quella che era spartita in manipoli, tra l'uno e l'altro ficcandosi, totalmente la disordinava. Snodata, perduti gli ordini, tra se medesima e coi francesi intricata e ravviluppata, non le restava più nè disegno nè modo di difendersi. Laonde, insistendo sempre più valorosamente contro di essa Kellermann, e tornando alla carica Boudet rianimato dal favorevole caso, fu costretta a darsi intiera, deposte le armi, al vincitore. Così quello che non avevano potuto fare nè le fanterìe, nè le artiglierìe, fecero le cavallerìe, al contrario di quanto successe in Fontenoy, dove le artiglierìe fecero quello che le fanterìe, e le cavallerìe non avevano potuto operare. Commise, siccome pare, grave errore Zach nello essersi troppo innoltrato fra le schiere Francesi; il che fu cagione, che quando fu sì aspramente assalito, gli altri squadroni non furono a tempo di soccorrerlo; ma troppo era confidente della vittoria. Il sinistro caso degli Ungari fe' superar del tutto la fortuna dei Francesi; perchè spingendosi avanti, si serrarono addosso ai nemici privi di quel principale sostegno, e gli costrinsero alla ritirata, con grave sbaraglio ed uccisione. Pensò tostamente Melas a far dare il segno della raccolta per andarsi a ritirare vinto là, dond'era la mattina partito con tanta speranza di vincere: solo fece una testa grossa a Marengo per dar tempo alle ritirantisi squadre di arrivare. Ricoverossi oltre la Bormida: riassunsero i Francesi gli alloggiamenti, che avevano occupati prima della battaglia. Morirono degl'Imperiali meglio di quattromila soldati, tutti forti e veterani, che avevano veduto le guerre d'Italia; furono feriti settemila, vennero prigionieri in poter del vincitore circa ottomila. Mancarono dei Francesi tremila uccisi, quattromila feriti: pochi restarono cattivi, perchè i più quando fu vinta improvvisamente la giornata, furono liberati dai compagni. Questa battaglia, che cambiò le sorti d'Europa, e la fece andare pel medesimo verso per quattordici anni, fu piuttosto guadagnata dai Francesi che da Buonaparte, avendo essi col valore loro emendato gli errori del capitano. Principali operatori della vittoria furono Cara-San-Cyr per aver preso e conservato Castel Ceriolo, Victor per aver fortemente combattuto a Marengo contro Keim, Boudet per avere opposto un duro intoppo alla mole Ungara, finalmente, e sopratutto quell'accorto e prode Kellermann, che usando il momento opportuno, non dubitò di dar dentro co' suoi cavalli a quella massa intera e grave, che solo col peso pareva, che fosse per prostrare quanto le si parasse davanti. Si rallegravano i compagni del glorioso fatto con lui, ma venuto in cospetto del consolo, questi con la solita aria di sussiego e superiorità parlando nè informandosi punto di quanto era successo, gli disse: _Avete dato anzi una bella carica che no_. Sdegnato il giovane guerriero, rispose: _Bene godo che la prezziate, giacchè vi mette la corona in capo_. Il consolo, che non amava l'essere scoperto prima che si scoprisse egli, l'ebbe per male, e sempre dimostrò l'animo alieno dal figliuolo del maresciallo, non avendolo mai nè onorato nè promosso quanto meritava. Dall'altra parte aveva Melas ottimamente ordinato i suoi alla battaglia, e l'ordine suo pare a noi, che in nissun modo riprendere si possa. Debbesi principal lode di valore a Keim, che ruppe, e costrinse prima Victor, poi Lannes alla ritirata: ebbe merito di valore Zach, ma biasimo d'imprudenza, e di troppa confidenza nello essersi spinto troppo avanti. Quanto ad Esnitz, e' non pare che abbia fatto tutto quello che Melas gli aveva commesso, e che si era promesso di lui. Ostinossi in dare assalti a piccoli corpi, ed a piccole terre forti e munite, il che non è debito delle truppe armate alla leggiera, e non corse la campagna ai fianchi ed alle spalle del nemico; il che era debito delle truppe di tal sorta, e ne aveva carico da Melas. Rimaneva ancora, dopo la battaglia, al generalissimo d'Austria forza bastante per resistere lungo tempo nel forte sito, in cui si era riparato. Il quale consiglio avrebbe potuto tanto più facilmente mandar ad esecuzione, quanto più abbondando di cavallerìa aveva facoltà di correre il paese per raunar vettovaglie. Ma o che il terrore concetto per la recente rotta, o l'arti di Buonaparte, che continuamente protestava voler aderire ai patti di Campoformio, e ridurre i paesi dipendenti da lui a forma di governo più tollerabile e meno minacciosa pei principi, sel facessero, non si mostrò renitente, e chiese i patti. Furono gloriosi per la Francia, ingloriosi per l'Austria, stupendi per l'Europa. Sospendessersi, fino a risposta da Vienna, le offese; l'imperiale esercito se ne gisse a stanziare tra il Mincio, la Fossa Maestra ed il Po; occupasse Peschiera, Mantova, Borgoforte, e sulla destra del fiume Ferrara; medesimamente ritenesse la possessione della Toscana: il repubblicano possedesse il paese fra la Chiesa, l'Oglio e il Po: il tratto tra la Chiesa ed il Mincio fosse esente dai soldati d'ambe le parti: le fortezze di Tortona, di Alessandria, di Milano, di Torino, di Pizzighettone, d'Arona e di Piacenza si consegnassero ai repubblicani; Cuneo ancora, i castelli di Ceva e di Savona, Genova, ed il forte Urbano cedessero in loro possessione: niuno per opinioni dimostrate, o per servigi fatti agli Austriaci potesse essere riconosciuto o molestato; i Cisalpini carcerati per opinioni politiche si rimettessero in libertà: qual fosse la risposta di Vienna, le ostilità, se non dopo avviso di dieci giorni, non si potessero ricominciare; durante la tregua, niuna delle parti potesse mandar gente in Germania. Tali furono i patti conclusi in Alessandria: una vittoria Francese distrusse i frutti di venti vittorie Tedesche, o Russe. La tregua prolungata più volte di comune consenso di dieci in dieci giorni, fu finalmente per nuova ed espressa convenzione accordata fino ai venticinque novembre. Buonaparte vincitore di Marengo aveva in sua mano le sorti d'Europa liete o tristi, la pace o la guerra, la civiltà o la barbarie, la libertà o la servitù dei popoli: gloria civile l'aspettava uguale alla guerriera; ma l'ultima, ed un desio fiero, ed indomabile di comandare, non lasciarono luogo alla prima, caso deplorabile per sempre. Fu ricevuto a Milano qual trionfatore. Il chiamavano uomo unico, eroe straordinario, modello impareggiabile con tutte quelle altre lodi, che l'adulazione Italiana meglio sapeva inventare; con pari adulazione rispondeva Francia. I buoni Milanesi esultavano dicendo, essere venuto a dar di nuovo la libertà al suo diletto popolo Cisalpino. Parlò a Milano molto di pace, molto di religione, molto di lettere, molto di scienze. Creovvi una consulta con potestà legislativa, una commissione di governo con potestà esclusiva. Vi arrose un ministro straordinario di Francia, chiamando a questa carica un Petiet, che era stato ministro di guerra ai tempi del direttorio. Riapriva con allegrezza di tutti i buoni l'università di Pavia, che il Tedesco sospettoso aveva chiusa: ordinava stipendj onorevoli ai professori; vi chiamava i più riputati, i più dotti, i più virtuosi uomini. Fiorì vieppiù per questi ordini la università; pareva rinascessero i tempi di Giuseppe; ma il dominio militare in cui si viveva, avvertiva i popoli che l'età era diversa. Intanto il suo procedere non sapeva dell'antico. Non accarezzava più gli amatori ardenti di rivoluzioni, anzi da se gli allontanava; chiamava a se coloro che erano in voce di aristocrati, purchè fossero di natura moderata, e ricchi, e di buona fama. Melzi, Aldini, Birago, il dottor Moscati, Scarpa, il vescovo di Pavia, Gregorio Fontana, Marescalchi, Mascheroni molto volontieri vedeva. Ai democrati più fervidi non piacevano questi andari, e fra di loro il chiamavano aristocrata, ed anche tiranno; ma in palese, quale Dio, sempre il predicavano. In tutti i fatti di lui, ed in tutte le parole avevano i nuovi capi di Cisalpina fede grandissima, e si promettevano l'independenza della patria. Del resto, quantunque il procedere paresse più civile, e le sembianze più oneste, il prendere, e il dilapidare era lo stesso, ricominciò la Cisalpina a travagliare del male antico. Presero i nuovi eletti il magistrato. Lodò Petiet con elaborato discorso Francia, lodò il consolo, parlò di Beccaria, favellò di libertà, d'independenza, di destini alti e magnifici: con adorno artifizio onorò l'Italia, chiamandola maestra di lettere, di filosofia, di politica, ed affermando non essere fatta per esser tributaria di un principe straniero: rispose colle medesime lodi il presidente della consulta. Riordinata la Cisalpina, se ne tornava il consolo in Francia. Passò per Torino: alloggiò in cittadella; non si lasciò vedere, non volendo lasciarsi tirare alle promesse per rispetto di Paolo, che sempre favoriva il re. Anzi fu certo, che, sebbene avesse l'animo molto alieno, aveva nondimeno, dopo la vittoria di Marengo, offerto l'antico seggio a Carlo Emanuele, purchè nuovamente rinunziasse alla Savoia ed alla contea di Nizza. Tornò altresì sull'antico pensiero, per potersi serbar il Piemonte, che appetiva con grandissimo desiderio, di dare al re la Cisalpina, sì veramente che rinunziasse al Piemonte. Le quali proposte non furono accettate dal principe, parte per motivi di religione, parte per non voler concludere senza il consentimento de' suoi alleati, di Paolo massimamente, e dell'Inghilterra. Nè voleva dar appicco all'Austria, nel caso che le cose di Francia nuovamente sinistrassero, acciocchè ella s'impadronisse del Piemonte, e se lo serbasse; ed ancorchè non avesse cagione di lodarsi di lei, nondimeno abborriva dal vestirsi delle spoglie altrui. Non ostante le profferte ed i negoziati, creava in Piemonte, come in Cisalpina, non per terminare, ma per minacciare, una consulta, ed una commissione di governo, a cui chiamò molti uomini riputati per dottrina, e per pacatezza d'opinione. Nominò Galli, Bottone di Castellamonte, Braida, Avogadro, Cavalli, e Rocci alla commissione di governo, poi alla consulta il vescovo di Novara, Capriata, i due professori Regis e Pavesio, preti ambidue dotti e pacifici, Tosi, Botta, Lombriasco, un altro Avogadro, Bay, Paciaudi, Nizzati, Chiabrera. Creava ministro straordinario presso a questo governo, prima il generale Dupont, poi per riconoscere i meriti del vincitore di Fleurus, Jourdan. Era a questo tempo l'aspetto del Piemonte oltre ogni dire miserabile: una estrema carestìa, un rapir di soldati al tempo dei confederati l'avevano messo in estrema penuria. Nè erano mancate le angherìe, e le soperchierìe, e le ingordigie dei commissarj imperiali: la insolenza era stata minore, ma la rapacità uguale. I Piemontesi non sapevano più nè che cosa sperare, nè che cosa temere, nè che cosa desiderare, stantechè i cambiamenti di dominio non producevano un cambiamento di fortuna. Maledicevano il destino, che gli aveva fatti piccoli fra due grandi. Nè questa era per loro la somma delle tristi fortune; perchè i biglietti di credito, che sempre più scapitavano, lunga e luttuosa peste del paese, avevano posto in confusione tutti gli averi: ogni civile faccenda si fermava; il prezzo dei viveri eccessivo, i poveri, che non avevano biglietti, perchè i minori erano di venti lire, smoderatamente pativano. Infine, tanto sopravvanzò questo male, che fu forza venirne all'ordinare che non si spendessero più che a valor di commercio, e si pubblicarono le scale del cambio. Ma le piaghe erano fatte, rimaneva la coda dei contratti anteriori. Penò molto la consulta, quantunque in lei abbondassero gli avvocati dotti e sottili, ad assestar questa faccenda, e quando si assestò, nissuno contento, ancorchè la legge fosse giusta. Questa fu gran radice di mali umori. Nè gran momento di sventura non recava il peso gravissimo del dover mantenere i soldati di Francia, sì quelli che passavano, come quelli che stanziavano, peso da non poter esser portato dalle finanze Piemontesi. Voleva Massena, chiamato dal consolo generalissimo in Italia, che il Piemonte gli desse per sostentazione dei soldati, un milione al mese, e mantenesse i presidj. Poi successe Brune a Massena: accordossi, che col milione mensuale le casse Francesi mantenessero esse; ma ecco pagarsi il milione, ed i soldati non mantenersi: era il Piemonte obbligato a supplire; perchè se non si dava loro il necessario, e' se lo prendevano da se. Volle Jourdan, che buono era e dabbene, rimediare, ma i trappolatori ne sapevano più di lui; non se ne poteva dar pace: non vi era rimedio. S'aggiungevano i comandamenti fantastici; perchè ora si voleva che una fortezza Piemontese si demolisse a spese del Piemonte, ed ora, che la medesima si riattasse: ora s'addomandavano i piombi della cupola di Superga, il che, prima cosa, avrebbe fatto rovinar l'edifizio per le acque, ed ora si voleva che si demolissero i bastioni che sopportano il giardino del re, opera inutile, perchè la città era già tutto all'intorno smantellata. Se non era la costanza di chi governava ad opporvisi, Superga ed il giardino, gradito passeggio dei Torinesi, perivano. Chi domandava denari pel vivere dei soldati, chi pel vestito, chi per gli ospedali, chi per le artiglierìe, chi pei passi, chi per le stanze: erano le richieste capricciose, i consumi eccessivi, le finanze impotenti; ogni cosa in travaglio e confusione. Altri tormenti, oltre i raccontati, travagliavano i Piemontesi, e rendevano impossibile ogni buon governo; questi erano la incertezza sulle sorti future del paese. Sapevansi le offerte fatte dal consolo al re: ciò faceva camminar a ritroso i partigiani regj, a rilento i repubblicani: quelli speravano, questi temevano: tra l'ordinar peritoso e l'obbedir lento nasceva l'anarchìa. Il consolo non si era voluto scoprire: interrogato, si ravviluppava nelle ambagi. Alcuni dagli stimoli da lui dati ai repubblicani Piemontesi, acciò si mostrassero, argomentavano ch'ei non volesse più dare il Piemonte al re; alcuni altri da questo stesso giudicavano, che il volesse dare. I democrati insultavano gli aristocrati, gli aristocrati si ridevano dei democrati; i primi speravano la repubblica, i secondi si tenevano sicuri del regno. Questi prevalevano, perchè non pochi fra i capi venuti di Francia per ingerirsi, non senza cagione, nelle faccende dell'amministrazione militare, e che se ne vivevano alle mense dei magnati, o per adulazione, o per certo vezzo di voler comparire dell'antico tempo, laceravano continuamente quei che servivano allo stato nuovo. Chi si dava per antico conte, chi per antico marchese, chi, per lo manco, per visconte, o per barone; nè s'accorgevano in quanto disprezzo venissero essi medesimi appresso ai nobili Piemontesi, tanto acuti ed esperti conoscitori della natura altrui. Intanto questi discorsi toglievano forza al governo. Quelli stessi che più da lui domandavano, il riducevano alla condizione di poter men dare. Era in questo procedere leggerezza ed ingratitudine, ma non disamorevolezza od odio, perchè non erano capaci nè di amare nè di odiare. Io non so, se in mezzo a cose tanto gravi mi debba parlare delle pazzie dei democrati, che non vedevano in qual trappola fossero. Pure non tacerò, che era tornato in Piemonte quel Ranza. Le cose che diceva e che stampava, non son da domandare; e peggio, che queste medesime cose aveva dette, standosene carcerato in Vigevano in poter dei Russi, e le avrebbe anche stampate, se avesse potuto. Ora scriveva contro i preti, ora contro i frati, ora contro gli aristocrati, ora contro i democrati, ora contro il governo, ora contro i governati, e fece un giorno, traendo il popolo a folla, non so qual falò in piazza Castello dello scritto di un frate suo avversario. Buttava nel pubblico ogni giorno sue miracolose gazzette, ed ogni giorno ancora appiccava suoi cedoloni alle mura egli stesso, e quando si sentiva voce, che era Ranza, il popolo correva a calca per vedere. Incominciò, a dire, che vivevano troppi aristocrati in Piemonte: ripreso, venne in sul dire che tutti erano aristocrati. Il governo che non aveva penetrato l'umore, il volle frenare; ma e' furon parole, perchè tornò sul dire che tutti erano aristocrati, e quei del governo i primi. Basta, per lo men reo partito, e' fu lasciato dire. Ma le opinioni si pervertivano; la maldicenza trovava forte corrispondenza nell'invidia, e non si poteva più governare. Io ho voluto parlare, e forse il feci troppo più lungamente che si convenisse, di questo Ranza: ma il volli fare, perchè mi pare, che di questi Ranza ne siano molti in Europa, e molti più in quei paesi di lei, che sono, o si credono liberi. Lasciata incerta la sorte del Piemonte, sorgevano e s'inviperivano le sette. Chi voleva essere Francese, chi Italiano, chi Piemontese. Gli amici si odiavano, i nemici sì accordavano, nissun nervo di opinione. Accrebbe l'incertezza ed i mali umori un atto del consolo, con cui diede il Novarese sì alto che basso alla Cisalpina. Prina, Novarese, che era allora ministro di Piemonte, fu primo suggeritore e confortatore di questo smembramento della sua patria; ciò dico per dimostrare quale sincerità, e quale lealtà fosse in quei tempi. La sinistra novella sollevò gli animi maravigliosamente in Piemonte, perchè si pensò, che Buonaparte volesse restituire il rimanente al re. Il governo protestò: il consolo, che sapeva ciò che si faceva, si maravigliava che si sperasse, che si temesse, che si protestasse. Pure non si scopriva; i timori, le sette, e le angustie del governo crescevano. Era segno il Piemonte ad ogni più fiera tempesta. Fra sì funesta intemperie ebbe il governo, che allora, sotto nome di commissione esecutiva surrogata alla commissione di governo, era composto di Bossi, Botta, e Giulio, un consolatorio pensiero, e questo fu di stanziar beni di una valuta di cinquecento mila franchi all'anno a benefizio dell'università degli studj, dell'accademia delle scienze, del collegio, e di altre dipendenze, ordine veramente benefico e magnifico, di cui solo si trovano modelli negli stati uniti d'America per munificenza del congresso, ed in Polonia per munificenza dell'imperatore Alessandro. Fu questo conforto piccolo pei tempi; perchè le disgrazie sormontavano. Continuossi a vivere disordinatamente, discordemente, servilmente, famelicamente in Piemonte, finchè venne il destro a Buonaparte d'incamminarlo a più certo destino. Le sorti di Genova del pari infelici, parte pei medesimi motivi, parte per diversi. Per la capitolazione d'Alessandria abbandonava Hohenzollern Genova, non senza aver prima, per comandamento di Melas, esatto dai sessanta negozianti più ricchi un milione, come diceva, in presto ad uso dei soldati. I Francesi condotti da Suchet, entrarono nella desolata città il dì ventiquattro giugno. Quante sventure e quanti dolori abbiano in se queste frequenti mutazioni di dominio, ciascuno può giudicare. Trattaronla i Francesi duramente, come se uscendo dalle mani dei Tedeschi fosse sana ed intiera: l'avevano trattata duramente i Tedeschi, come se quando era uscita dalle mani dei Francesi fosse fiorita e ricca. Il consolo, come in Cisalpina ed in Piemonte, creava una commissione di governo con tutte le potestà, salvo la giudiziale e la legislativa: creava una consulta con la potestà legislativa: creava finalmente appresso al governo Ligure un ministro straordinario, chiamandovi il generale Dejean. Diede il magistrato della commissione a Gian Battista Rossi, Agostino Maglione, Agostino Pareto, Girolamo Serra, Antonio Mongiardini, Luigi Carbonara, Luigi Lupi, uomini risplendenti per virtù, e che nelle faccende presenti camminavano con moderazione. Nè minori pregi d'animo si notavano in coloro che chiamava alla consulta, Luigi Corvetto, Emanuele Balbi, Girolamo Durazzo, Cesare Solari, Giuseppe Fravega, Niccolò Littardi, Giuseppe Deambrosis, con molti altri fino al numero di trenta. Nella presa del magistrato sorsero le solite adulazioni, maggiori però da parte del ministro straordinario, che del governo. Parlò il ministro della lealtà e generosità del consolo, impegnò la fede di Francia, che alla pace generale soliderebbe la libertà e l'independenza della Ligure repubblica. Dolci parole alle orecchie Genovesi; ma quest'altre che toccò, incominciavano a saper d'amaro. Furono, che se la guerra si riaccendesse, e' bisognerebbe pensare a trovare soldi. Molto poi lodevolmente inculcava il ministro, si dimenticassero le offese, si perdonasse ai traviati: così volere l'interesse dello stato. Rispose Rossi, presidente, non senza dignità, ma con lingua Italiana sconcia e servilissima: essere quel giorno fra i felici felicissimo per la repubblica; avrebbero cura della quiete e della libertà della patria; desiderare i Liguri, come navigatori e commercianti, la pace; del resto povera essere la repubblica, poveri i cittadini; recar conforto le promesse fatte, e le qualità del ministro. Più certo, e più chiaro era il destino di Genova, che quel del Piemonte; perciocchè la Francia prometteva independenza. Ciò fu cagione, che fosse maggior forza nel governo Ligure che nel Piemontese, e che le parti avverse meno si ardissero di contrastargli. Favellò gravemente Dejean alla consulta, quando la instituì: badassero alla sperienza, deponessero i principj astratti, le teorie pericolose, infausti semi di rivoluzioni. Dal che si vede, che Dejean aveva bene penetrato la mente del consolo, e che il consolo molto sagacemente, e molto veramente giudicava della natura umana. Erano, come abbiam detto, quei della commissione di governo uomini pacifici e dabbene. Pure mossi dalle grida dei democrati, stanziarono una legge d'indennità, della quale il minor male che si possa dire, è, ch'era contraria ai capitoli d'Alessandria. Si risarcissero dai briganti e nemici della patria (così chiamavano i fautori dell'antico stato e dell'Austria) i danni ai danneggiati; se non avessero di che risarcire, risarcissero per loro i comuni; radice pericolosa era questa di enormi arbitrj. Ammonì gravemente Dejean i reggitori dell'errore, rammentò i patti d'Alessandria, e la volontà del consolo. Non istettero i Genovesi in capitale al passo; il ministro del re di Francia crebbe di riputazione; rallegrossi il consolo dell'occasione aperta di mostrar generosità e tutela verso i partigiani del reggimento antico. Con questi accidenti si viveva il governo povero obbligato a sopperire allo stato, ed ai soldati forestieri: Keit dominava i mari, e serrava i porti: Genova sempre in servitù, o periva di fame, o periva per ferro: contristava vieppiù la città venuta a crudeli strette per la forza, la malattia pestilenziale, che, non che cessasse, montava al colmo. Duemila perirono in un mese. Brevemente, la condizione dei tre stati contermini era questa: in Piemonte fame, peste di carta pecuniaria, incertezza d'avvenire; in Cisalpina abbondanza di viveri, erario sufficiente, maggiore speranza, se non di stato libero, almeno di stato nuovo; in Genova fame, peste, e povertà d'erario. Nel resto in tutti tre servitù; i governi fattori di Francia. Intanto la fortuna preparava a Buonaparte il più efficace fondamento che potesse desiderare a' suoi disegni, fondamento più potente delle armi, più potente della fama. Morto Pio sesto pontefice nella sua cattività di Francia, era stato assunto al pontificato nel conclave di Venezia il cardinal Chiaramonti, sotto nome di Pio settimo. Temeva dell'Austria, sperava in Francia, il consolo confidava di ridurlo a' suoi pensieri con accarezzar la religione. Ciò produsse effetti di grandissima importanza. Ricevettero i Romani con molte dimostrazioni di allegrezza le novelle della creazione del pontefice. Erano in servitù dei Napolitani: speravano, che il signore proprio avesse a liberargli dal signore alieno. Partiva papa Pio il dì nove di giugno da Venezia, e dopo travagliosa navigazione arrivava ai venticinque a Pesaro. Mandati avanti con suprema autorità per ricevere lo stato dagli agenti del re Ferdinando, e per dar qualche assetto alle cose sconvolte, i cardinali Albani, Roverella, e della Somaglia, entrava in Roma il terzo giorno di luglio in mezzo alle consuete allegrezze dei Romani. Provvide alla Chiesa colla creazione di nuovi pastori, allo stato con quello di nuovi magistrati; ridusse ogni cosa, quanto possibil fosse, alla forma antica. Fu mansueto l'ingresso, mansueto il possesso, i partigiani della repubblica salvi. Stanziò che i beni venduti al tempo del dominio Francese alla Chiesa apostolica ritornassero, salvo il rimborso del quarto ai possessori. Nè molto tempo corse, che volendo provvedere dall'un de' lati alla camera, dall'altro all'interesse dei comuni e dei particolari, tolse alcune tasse, nuove ne pose. Volle che i comuni si liberassero dai debiti, sulla camera pontificia trasferendogli, salvo i debiti contratti per l'annona, e gl'interessi corsi dei debiti anteriori: liberava i comuni dai luoghi di monte sullo stato investendogli, ma al tempo medesimo statuiva, che finchè l'erario non fosse ristorato, solo i due quinti dei frutti dei monti si pagassero. Comandava, che i quattro quinti si corrispondessero ai possessori dei monti vacabili, e che i luoghi di monte sì perpetui che vacabili fossero esenti da ogni qualunque tassa o contribuzione. Aboliva le gabelle privilegiate, dico quelle dei bargelli, del bollo estinto, dei cavalli morti, o le trasferiva a beneficio dei comuni. L'opera poi delle contribuzioni indirizzava a più generale ed uniforme condizione: creava due tasse, abolito ogni privilegio e consuetudine antica che fosse contraria. Chiamò l'una reale, l'altra dativa. Quattro erano le parti della prima, un terratico di paoli sei per ogni centinajo di scudi d'estimo pei fondi rustici, una imposizione di due paoli per ogni centinajo di scudi di valuta sui palazzi e case urbane, un balzello di scudi cinque sui cambj per ogni centinajo di scudi di frutti, una contribuzione di valimento, che doveva sommare alla sesta parte di tutte le rendite dei capitali naturali e civili, rustici ed urbani sopra coloro, che consumassero le loro rendite fuori di stato. La dativa consisteva nella gabella del sale sforzato, in quella della mulenda, o macinato, ed in quella di tre paoli per ogni barile di vino che s'introducesse in Roma, salva la esenzione pei padri di dodici figliuoli, e pei religiosi mendicanti. Buoni ordini furono questi, fatti anche migliori dal beneficio dei repubblicani di aver cassa del tutto la carta pecuniaria. Non omise il consolo di considerare le Romane cose. Prevedeva, che come la pace coi re era per lui grande mezzo di potenza, così maggiore sarebbe la pace colla Chiesa. Quando poi seppe, che il cardinale Chiaramonti era stato esaltato al supremo seggio, concepì maggiori speranze, perchè il conosceva fornito di pietà sincera, e però più facile ad esser tirato. Era gran cosa quella che veniva offerendo il consolo, perchè il ristorare la religione cattolica in Francia importava non solamente la restituzione di un gran reame alla Santa Sede, ma ancora la conservazione pura ed intatta degli altri: conciossiacosachè non era da dubitare, che se la Francia avesse perseverato nell'andare sviata in materia di religione, anche gli altri paesi sarebbero stati, o tardi o tosto, contaminati dall'esempio. Per la qual cosa papa Pio settimo prestava benigne orecchie a quanto il consolo gli mandava dicendo. Adunque, tentati prima gli animi da una parte e dall'altra, si venne poscia alle strette del negoziare, e finalmente alla conclusione, come sarà per noi nel seguente libro colla solita nostra ingenuità raccontato. Buonaparte dominava la terra, Nelson il mare. Quando arrivarono nel regno di Napoli le novelle della vittoria d'Aboukir, conceputasi dei Maltesi la speranza, che preponderando l'Inghilterra nel Mediterraneo, non potessero più i Francesi mandar nuovi soccorsi all'isola, si sollevarono in ogni parte contro i conquistatori, e gli costrinsero a ridursi nella Valletta, che essendo fortissima per natura e per arte, non poteva facilmente essere espugnata. Governava il presidio Vaubois; ma i soldati, che sul principiar dell'assedio sommavano circa a quattromila, erano scemati per modo dalle malattie, che non passavano i due mila. S'aggiungevano i marinari delle navi il Guglielmo Tell, la Diana, e la Giustizia avanzate alla ruina di Aboukir, che posti a terra, e capitanati dall'ammiraglio Decrès, cooperavano alle difese. Erano comparse al cospetto dell'isola alcune navi Portoghesi condotte dal marchese di Nizza, le quali tosto diedero opera a bloccare il porto. Nè soprastette lungo tempo Nelson ad arrivare colla vincitrice armata, e tolse, se alcuna ancor restava, ogni speranza di redenzione agli assediati. Concorse il re Ferdinando alla espugnazione sì col mandar due fregate, sì col provveder d'armi e di munizioni i sollevati, e sì finalmente coll'impedire che dalla Sicilia non si portassero vettovaglie. Un grosso corpo di Inglesi posto a terra impediva, cooperando coi Maltesi, ai repubblicani l'uscire dalle mura. Fece più volte, ma invano, Nelson la chiamata a Vaubois. S'incominciava a patire maravigliosamente dentro di vitto, d'abiti, e di denaro, le malattie si moltiplicavano. Non per questo rimetteva Vaubois della solita costanza, nè allentava la diligenza delle difese. Per provvedere ai cambj costrinse i principali isolani a dargli carte d'obbligo da scontarsi dalla Francia alla pace generale, e con queste pagava i soldati. Per vestirgli si fe' dar tele e drappi; per pascergli, farine; spianava pane, obbligava gl'isolani a venir levare le farine da lui; moltiplicava i conigli ed il pollame, per modo che molto tempo bastarono. Infieriva lo scorbuto; il combattevano con coltivare a molta cura nei luoghi più acconci gli ortaggi. Un Niccolò Isoard di Malta, maestro di musica, componeva opere, e recitavano, e cantavano, e ballavano. Pure la fame pressava. Provavasi il governatore a mandar in Francia per soccorso il Guglielmo Tell, ma i vigilanti e lesti Inglesi se lo pigliarono. Stava attento, e provvedeva con mirabile accortezza a tutti gli accidenti. Fecero i Maltesi di fuori congiure con quei di dentro: Vaubois le scopriva; davano assalti, e gli risospingeva; pruove mirabili in chi si moriva di fame e di morbo. In cospetto degli assediati tre navi Tolonesi cariche di tre mila soldati, e di munizioni sì da bocca che da guerra, venivano in poter di Nelson. Ogni giorno, anzi ogni ora la fame cresceva. Mandava fuori le bocche disutili, gl'Inglesi, barbaramente, come se vi fosse pericolo di vicino soccorso, le rincacciavano. Parecchi morirono di fame sotto le mura, gli altri più morti che vivi furono di nuovo ricettati dai Francesi. Prevedeva Vaubois avvicinarsi l'ultima fine. Mandava al mare per preservarle, se fosse possibile, le due fregate la Diana e la Giustizia: la prima fu presa, la seconda arrivò a salvamento nei porti di Francia. La fame sopravvanzò il valore. Vennesi a resa, ma onorevole, il dì cinque settembre: fosse il presidio prigioniero di guerra fino agli scambj, e condotto in Francia a spese d'Inghilterra; nissun Maltese di quanto avesse o detto o fatto in favor dei Francesi potesse essere molestato. Così un forte presidio di veterani dell'esercito Italico fu perduto per Francia, un'isola fortissima, freno e sicurezza del Mediterraneo venne in poter di Inghilterra, le reliquie dell'Egiziana ruina distrutte, o cattive, accrebbero il trionfo di Nelson. Fu glorioso certamente il vincitore di Malta, ma non fu inglorioso il difensore; perciocchè nè maggior valore, nè maggior costanza, nè maggior perspicacia si poteva desiderare in Vaubois. Abbandonato da tutti, contrastò due anni; non le armi il vinsero, ma quel flagello che toglie all'uomo sempre la forza, spesso la volontà del resistere. Mentre l'Inghilterra, che già per la possessione di Gibilterra aveva la chiave del Mediterraneo, si sforzava di acquistarvi una stanza sicura per la espugnazione di Malta, ordinavano concordemente la Russia e la Porta Ottomana le condizioni delle possessioni Ioniche. Statuirono, che dai notabili del paese sotto forma di repubblica fossero governate, e che la repubblica fosse, come quella di Ragusi, vassalla della Porta; che la sua superiorità conoscesse, e per solenne legazione mandata a posta a Constantinopoli le pagasse ogni anno un tributo di settantacinque mila piastre, e con ciò s'intendesse libera, ed esente da ogni altra imposizione verso la Turchìa; la repubblica delle Sette Isole avesse i medesimi privilegj che Ragusi, e formasse una constituzione, alla quale le due potenze ratificherebbero; se fosse necessario, durante la presente guerra, e non più, potessero la Russia e la Porta mandarvi genti, e navi armate per presidio; i vascelli della repubblica godessero la libera navigazione del mar Nero, la Russia guarentisse l'integrità della repubblica, e procacciasse che fosse riconosciuta dalle potenze sue alleate; Prevesa, Parga, Vonizza, e Butintrò, terre poste sulla terraferma dell'Epiro, cedessero in potestà della Porta, con ciò però che fossero tenute solamente ad obbedienza simile a quella dei cristiani Valacchi e Moldavi, e non maggiore; i Maomettani non vi potessero possedere; i cristiani per due anni non pagassero nissuna tassa, potessero riedificare le chiese loro, mai non rendessero alla Porta tributi maggiori di quelli, di cui erano obbligati a Venezia. Diedero gl'isolani forma al loro governo con creare un senato composto dai notabili, in cui era investita la potestà legislativa, ed un presidente, in cui sedeva la esecutiva. A questo modo le Veneziane isole arrivarono in mezzo a tante guerre ad una condizione, non solo tollerabile ma buona, ed in lei vissero parecchi anni assai felicemente: vennero poi nuove guerre e nuove ambizioni nuovamente a turbarle. La sospensione delle ostilità non rallentava gli apparecchi di guerra nè dall'una parte nè dall'altra. Buonaparte, che mentre si combatteva in Germania ed in Italia, non aveva mai intermesso di ordinar nuove genti, ne aveva già adunato un numero di non poca importanza, e le mandava ad ingrossare, ora l'esercito Germanico, ed ora l'Italico. Un grosso corpo specialmente ne aveva rannodato, il quale posto sotto la condotta di Murat, e stanziando nei contorni di Digione, accennava ad ambidue. Dal canto suo l'Austria non ommetteva di levar nuovi soldati, massimamente dall'Ungheria, e gl'inviava a rinforzar quelli che alloggiavano ai confini. L'esercito vinto a Marengo si conservava tuttavia intiero, ed era pronto a contendere di nuovo della vittoria. Ma non piccolo fondamento alle future cose faceva la corte di Vienna sulle mosse di Toscana, che posta pei capitoli d'Alessandria fuori del dominio Francese, e conseguentemente in quello dell'Austria, seguitava i desiderj dell'imperatore. Grande odio annidava ancora in Toscana contro i repubblicani, perchè e troppo oltre era trascorso, ed i religiosi non cessavano di fomentarlo. Al medesimo fine indirizzava gli animi la reggenza creata in nome del gran duca. Il marchese Sommariva mandato dall'imperatore, perchè desse forma a quelle masse incomposte, le ingrossasse e le armasse, con indefessa autorità attendeva a compir l'ufficio che gli era stato commesso. Siccome la pace e la guerra erano ancora incerte, non si può affermare che questo procedere del governo Toscano ed Austriaco fosse contrario ai patti. Ma quelle genti, siccome quelle che non avevano nè ubbidienza nè ordine, ed erano mosse da odio contro i repubblicani, ruppero i confini, e romoreggiando sui monti, che dividono la Toscana dal Bolognese e dal Modenese, vi facevano molti insulti. Questi moti diedero qualche apprensione ai repubblicani. Per la qual cosa usando la occasione, non solamente richiedevano la Toscana e Sommariva, che frenassero, e punissero i violatori dei confini, ma ancora dissolvessero le masse dei contadini armati. Non fece Sommariva risposta che piacesse, e continuava a scorrere il paese a suo piacimento. Ciò diede occasione, muovendolo anche l'esca di Livorno, al consolo di far risoluzione di occupare sforzatamente la Toscana. A questo fine mandò comandando a Dupont, varcasse prestamente gli Apennini, e s'impadronisse di Firenze, a Monnier andasse a combattere e a disfare in Arezzo quel nido infesto di sollevati, a Clement, marciasse più sotto, e Livorno in poter suo recasse. Nè fu diverso l'esito dalle intenzioni; perchè il primo occupava facilmente la capitale della Toscana, e l'ultimo, partendosi da Lucca, arrivava a Livorno, dove pose le mani addosso a circa cinquanta bastimenti Inglesi, e ad una quantità grandissima di fromenti. Le cose non successero di queto dalla parte di Arezzo. Gli Aretini, non udita alcuna proposta, si risolvevano ad una ostinata resistenza. I Francesi bersagliarono con cannoni e con granate reali duramente la città ed il castello, ma quei di dentro si difendevano virilmente. Cara-San-Cyr, il forte occupatore e difensore di Castel Ceriolo, si affaticava indarno: gli Aretini con tiri a scaglia, con granate, con pietre tenevano gli assalitori lontani. Il generale repubblicano mandava i suoi ad un primo assalto; già con fuochi artificiali avevano bruciate alcune porte; ma essendo fortificate con forti lastre di rame, e terrapienate, furono costretti ad abbandonar l'impresa, non senza molto strazio e sangue loro. Il seguente giorno, che fu ai diecinove ottobre, avendo meglio ordinato la fazione, si accostarono la mattina molto per tempo con le scale alle mura, vi salirono sopra, ed impadronitisi delle porte, le apersero ai loro compagni. Allora tutta la mole repubblicana, fatto impeto nella città, la occupò, non però senza nuovi contrasti e nuovo sangue; perchè dalle finestre, dai tetti, dalle feritoje aperte a quest'uopo in tutte le case, gli abitatori, secondati anche da qualche nodo di genti regolari Toscane, piovevano addosso ai repubblicani ogni sorta d'armi. Finalmente prevalse il valore ordinato alla rabbia disordinata: Arezzo venne tutta in mano di chi l'assaltava. Seguitò una strage, una insolenza, un sacco tale, quale si doveva aspettare da soldati irritati per ingiurie nuove, che avevano risuscitata la memoria delle antiche. Pochi si salvarono, ritirandosi al castello: poco dopo chiesero i patti e gli ottennero. Il terrore concetto pel caso di Arezzo fe' risolvere in gran parte le masse Toscane. Quiete apparente succedeva; ma covavano pessimi umori, prossimi a prorompere, se una nuova occasione si appresentasse. Il paese più pacifico d'Italia preservava più di ogni altro ostinatamente nel desiderio di guerra. Sommariva coi Tedeschi si ritirava nel Ferrarese. Le cose si volgevano novellamente a guerra tra Francia ed Austria. Non aveva voluto l'imperatore ratificare ai preliminari di pace stipulati a Parigi il dì otto luglio tra il conte San Giuliano mandato da lui espressamente, ed il ministro Taleyrand, e pei quali il consolo aveva promesso di compensarlo con nuovi acquisti in Italia. Anzi l'imperatore non solamente non aveva voluto consentire al trattato, ma si era anche mostrato sdegnato contro il San Giuliano, come se avesse trapassato la sua volontà. Stimolava a questi giorni instantemente l'Inghilterra l'imperatore alla guerra, perchè avendo rifiutato la pace, abborriva dal restar sola contro la Francia, nè poteva ancora accomodar l'animo al pensiero, che i Paesi Bassi avessero a restar in possessione della potenza emola a lei: offeriva adunque sussidj di denaro, ed ajuti di forze dalla parte di Napoli. Dall'altra parte l'imperatore non sapeva risolversi ad abbandonar la possessione di Mantova, parendogli che fossero mal sicuri i suoi nuovi acquisti in Italia, finchè quella fortezza fosse in potestà di uno stato dipendente intieramente dalla Francia. Quantunque poi si trovasse privato della forte cooperazione dell'imperatore Paolo, confidava di poter fare fortunata guerra da se stesso, ricordandosi delle recenti vittorie di Verona e di Magnano, e considerando che si era perduta la giornata di Marengo un sol momento, dopo che era stata vinta sei ore, nè per difetto di valore ne' suoi soldati. Erano gli eserciti avversi ordinati a questo tempo nel seguente modo. Al Germanico di Francia condotto da Moreau stava a fronte il Germanico d'Austria governato da Kray; all'Italico di Francia che obbediva a Brune, l'Italico d'Austria cui era preposto Bellegarde. Fra i due, e per congiungere l'uno coll'altro, si trovavano posti in mezzo nei Grigioni un Francese governato da Macdonald, nel Tirolo un Austriaco capitanato da Hiller. Così Moreau con Kray, emoli antichi, Macdonald con Hiller, Brune con Bellegarde avevano a combattere. La sollevazione del paese Toscano, che aveva obbligato Brune a smembrar parte delle sue forze, ed a mandarla oltre il suo fianco destro, aveva debilitato il restante. Laonde pensò il consolo a mandarvi nuove genti con comandare a Macdonald, che lasciati grossi presidj nei Grigioni, si calasse, prima dai Grigioni nella Valtellina, poscia dalla Valtellina sulle sponde dell'Oglio e dell'Adige, quello per rinforzar Brune, dove alloggiava, questo per riuscire alle spalle di Bellegarde, ed obbligarlo a ritirarsi indietro dalla fronte del Mincio, dove allora aveva le sue stanze. Aspro e difficile comandamento era quello del consolo; perchè il traversare nella stagione già molto trascorsa (s'avvicinava la fine d'ottobre), il monte asprissimo della Spluga per arrivare in Valtellina, quel della Priga parimente pericoloso per arrivare in val Camonica bagnata dall'Oglio, e finalmente il Tonale, che dà l'adito all'Adige superiore, era opera piuttosto portentosa che umana. Nè valeva il fresco esempio del San Bernardo, perchè la stagione era più aspra, ed i monti più difficili. Forse la posterità troverà in questa intenzione di Buonaparte più audacia che prudenza, e maggiore confidenza nei soldati, che cognizione dei luoghi. Ciò non ostante non si perdeva d'animo Macdonald, stimolandolo il fatto del San Bernardo, e volendolo emolare. L'antiguardo condotto da Baraguey d'Hilliers, siccome quello che era e partito più presto, e più vicino a quei monti, parte varcando la Spluga, parte il monte dell'Ora, riusciva, non senza aver superato ostacoli gravissimi, sulla destra a Chiavenna, sulla sinistra a Sondrio. Acquistava per tal modo Baraguey l'imperio della Valtellina, e facilitava la strada allo scendere di Macdonald. I Valtellini al veder comparire quelle genti si maravigliavano, come se venissero dal cielo; tanto pareva loro impossibile, ch'elle per quei luoghi, ed in quella stagione fossero passate. Restava l'opera più difficile a compirsi a Macdonald. Arrivato a Tusizio, donde si sale al monte eternamente incappellato di nevi e di ghiacci, pareva, che la natura fosse divenuta insuperabile. Tanto erano alte le nevi, tanto chiusa la strada già di per se stessa sdrucciolevole, stretta, rotta, e precipitosa, pure, come al San Bernardo, si posero le artiglierìe sui traini, le provvigioni sui muli, marciavano, ma con difficoltà grandissima. Arrivava l'antiguardo condotto dal generale Laboissiere al villaggio di Spluga, donde restava a salirsi l'erta precipitosa, che porta al sommo giogo. Mettevansi in viaggio, e con penosi passi, ed infinito anelito procedendo, alla bramata cima già si approssimavano, quando ecco levarsi un levante furiosissimo, che innalzando un immenso nembo di nevosa polvere, e negli occhi dei soldati gittandolo, rendeva impossibile ogni passo. La forza della veemente bufera furiosamente soffiando sul dorso delle nevi ammonticchiate sopra quei sdrucciolenti gioghi, levava un'orribile sommossa di neve, che con incredibile velocità e fracasso nelle sottoposte valli piombando, portò con se a precipizio quanto le si era parato davanti. Trenta soldati precipitati nell'abisso perirono; gli altri atterriti, le strade chiuse. Aggiunse la sopravvegnente notte nuovo orrore al fatto: tornarono a Spluga. Laboissiere, che separato da' suoi, precedeva con le guide, a male stento, e quasi morto aggiungeva alla cima; trovovvi benigno ospizio appresso ai religiosi, che come quei del San Bernardo, attendono con pietà sì eroica alla salute dei viaggiatori. Pareva disperata l'impresa, e sarebbe stata, se non fosse arrivato Macdonald, il quale spinto da ardente desiderio di emolare il consolo, e prevedendo che lo stare importava la distruzione per la mancanza dei viveri, con accesissime esortazioni tanto fece, che le stanche ed atterrite genti di nuovo s'incamminavano. Precedevano quattro forti buoi a pestar le nevi; seguitavano quaranta palajuoli ad appianarle ed a fare il sentiero; i zappatori venendo dopo l'assodavano; due compagnìe di fanti a destra ed a sinistra perfezionavano pel sicuro passo ciò che ancora si trovava imperfetto. A questi s'attergavano le altre genti, fanti e cavalli: le artiglierìe e le bestie da soma viaggiavano alla coda; quest'era l'antiguardo. Arrivava sulla cima all'ospizio, con infinita allegrezza si ricongiungeva col salvato Laboissiere. Poi seguitando il cammino per la pianura del Cardinello, giungeva a campo Dolcino. Allo stesso modo varcavano il dì secondo e terzo di dicembre due altre squadre di fanti, di cavalli, e d'artiglierìe: il tempo freddo e sereno, le nevi indurite in ghiaccio facilitavano il passo. Solo alcuni soldati per la forza di quell'insolito rigore o morivano gelati, o perdute le estremità con le membra monche restavano. Crudo era il viaggio, ma speranza di terminarlo felicemente, quando il dì quattro (rimaneva a varcarsi il retroguardo in cui si trovava Macdonald), si levava una spaventevole bufera, che e gli uomini col soffio violentissimo arrestava, e sotto monti di lanciata neve gli seppelliva, ed ogni traccia che fatta si fosse di strada, intieramente scassava. La disperazione entrava negli animi: le guide, uomini del paese, atterrite attestavano l'impossibilità del passare, e l'opera loro ricusarono. Era per perire Macdonald sotto monti di neve, come era perito Cambise sotto monti d'arena. Ma vinse la virtù sua e dei compagni: queste sono opere piuttosto da giganti che da uomini. Incoraggiò le guide, incoraggiò i soldati. Accorreva, e gridava: «Francesi, ha l'esercito di riserva vinto il San Bernardo, vincete voi la Spluga: superate per gloria vostra quello, che la natura ha voluto fare insuperabile: i destini vi chiamano in Italia; ite e vincete, prima i monti e le nevi, poscia gli uomini e l'armi». La lunga tratta delle squadre desolate riprendeva il cammino. Imperversava vieppiù la bufera: spesso le guide piene di un alto terrore tornavano indietro, spesso gli uomini sepolti, spesso dispersi spesso la stretta foce della sublime valle si trasformava in monte di neve; là era un muro bianco e sodo, dove prima era l'aperta; chiusa ogni strada. S'aggiungeva un freddo intensissimo, maggiore, quanto più si saliva, e che gli animi attristava, e prostrava, e le membra con renderle inutili aggrezzava. Le nevose ed estemporanee mura spesso si rinnovavano, l'inesorabile inverno spaziava largamente, e dominava; le Rezie Alpi in atto di sorbirsi gli audaci Francesi. Rifulse in tanto estremo caso mirabilmente, quanto possa questa portentosa umana natura; perchè non restandosi Macdonald nè i suoi a quel mortale pericolo, aprivano ciò che era chiuso, spianavano ciò che era montuoso, rompevano ciò che era ghiacciato, assodavano ciò che era cedevole, sgretolavano ciò che era sdrucciolente, coprivano o riempivano ciò che era abisso. Per tale modo, quantunque un rovinoso inverno gli chiamasse a distruzione ed a morte, l'inverno vincevano, e contrastando a quanto hanno di più terribile e di più insuperabile i furibondi elementi, riuscivano nella Valtellina valle a salvamento. Rallegravansi dell'acquistata vita l'uno con l'altro, perchè si erano creduti morti: godevasi Macdonald il raccolto frutto dell'invitta costanza. Imprese son queste che pajono impossibili, e più a coloro che le hanno effettuate. Non le crederebbe la posterità, se il secolo nostro, tanto abbondante raccontatore, non uno, ma cento testimonianze non fosse per tramandarne; nè ricorda alcuna storia o antica o moderna fatto più maraviglioso, o più erculeo di questo. Da lui si vide con qual nemico avessero a fare gli Austriaci; perchè certamente non si sarebbero eglino mai posti a fatti sì rischievoli; il valore era pari da ambe le parti, maggiore l'audacia da quella dei Francesi. Chiamanla alcuni temerità; pure la fortuna è amica degli audaci, ed il mondo è di chi se lo piglia. Sebbene la prima parte dell'impresa fosse compita, restavano ad effettuarsi le due altre, che avevano anch'esse gran momento di difficoltà; quest'erano il passo dalla Valtellina nella valle Camonica, cioè dall'acque dell'Adda a quelle dell'Oglio, ed il passo dalla Valtellina nel Trentino, cioè dall'acque dell'Adda a quelle dell'Adige. Apriva il primo il monte Priga, il secondo il monte Tonale. Non ebbe prospero fine il tentativo contro quest'ultimo, perchè gli Alemanni vi si erano fortemente trincerati, e sebbene Macdonald due volte con grande vigorìa gli combattesse, ajutati dalla stagione, dalla fortezza del luogo, e dal proprio valore il risospinsero. Da un'altra parte sortiva esito felice il passo della Priga. Traversato, non senza gravi difficoltà e pericoli, quell'aspro monte, vedevano i repubblicani le acque dell'Oglio, e passato Breno, si raccoglievano a Pisogna, terra posta sulla settentrional punta del lago d'Iseo, cui l'Oglio con le sue acque forma e nodrisce. Vi trovavano la legione Italiana di Lecchi, e vettovaglie fresche, provvidenza di Brune, che ve le aveva mandate a ristoro di quelle stanche ed eroiche genti. Erasi sul fine di novembre disdetta la tregua, e denunziate le ostilità da una parte e dall'altra, ma non si venne tosto alle mani in Italia, perchè Brune non voleva principiar la guerra innanzi che Macdonald, occupato allora nel passo dei monti, fosse venuto a congiungersi con lui. Nè stava senza timore che il suo fianco destro pericolasse, stantechè Dupont, dopo la conquista della Toscana, era ritornato con la maggior parte delle truppe al campo principale, lasciato solamente in quel paese Miollis con tre o quattromila soldati. Oltre a ciò il re di Napoli, stimolato dagl'Inglesi, e volendo cooperare coll'Austria, aveva radunato un'esercito campale sotto la condotta del conte Ruggiero di Damas; il quale traversato lo stato pontificio, già s'avvicinava alla Toscana. Perciò il generale di Francia stava aspettando che Macdonald si accostasse, e che i soldati novelli, che già erano arrivati in Piemonte, gli pervenissero. Nè meno desiderava indugiar la guerra Bellegarde, volendo aspettare che Laudon e Wukassowich fossero scesi dal Tirolo. Inoltre trovandosi alloggiato in sito forte per natura e per arte, amava meglio essere assaltato, che assaltare. Avvicinandosi oggimai la fine dell'anno, ed essendo giunto Macdonald sui campi, donde poteva cooperare con Brune, e volendo il generalissimo secondare i movimenti di Moreau in Germania, che con armi prospere minacciava il cuore dell'Austria, si deliberava a dar principio alle ostilità: assaltati impetuosamente i corpi che Bellegarde aveva posto alle stanze sulla destra del Mincio, gli sforzava a rivarcare il fiume. Restava ch'egli medesimo il passasse, difficile opera, perchè gli Austriaci forti di numero e di sito, si erano risoluti a difendere gagliardamente il fiume. Erano i Francesi partiti in tre schiere: la superiore, cioè la sinistra governata da Moncey, guardava a Peschiera, la mezzana, a cui presiedeva Suchet, stava rimpetto a Borghetto, la inferiore o la destra guidata da Dupont alloggiava alla Volta, e si distendeva sino a Goito. Fece Brune pensiero di varcare al passo di Mozambano, perchè quivi le rive essendo meno paludose facilitavano lo accostarsi, ed il combattere più fermamente nei luoghi occupati. Perchè poi il passo gli riuscisse più facile, avvisò di ingannar il nemico con fargli credere, ch'ei lo volesse passare più sotto tra la Volta e Pozzuolo. Con questo fine ordinava a Dupont, facesse qualche forte dimostrazione di voler varcare in questo luogo, e tanto vi tempestasse, che Bellegarde si persuadesse, che quest'era il passo veramente, che i Francesi avevano intenzione di effettuare, non dubitando, che per questo timore vi avrebbe il generale Tedesco mandato gran parte delle sue genti, e perciò, nudando il suo destro fianco, dato più facile esecuzione al disegno di Mozambano. Ciò non ostante voleva Brune, e così aveva comandato a Dupont, che si contentasse di una dimostrazione sulla riva sinistra, non vi prendesse alloggiamento stabile, non v'ingaggiasse battaglia giusta. Correva il giorno venticinque decembre, cui il generalissimo di Francia aveva destinato al passaggio del Mincio. Fu il primo Dupont a mandar ad effetto la fazione che gli era stata commessa. Passava primieramente coi soldati leggieri sulle barche trovate a caso, poi, accomodate le piatte, construiva il ponte, e varcava con la maggior parte delle genti, che erano le due squadre di Watrin e di Monnier. S'impadroniva, dopo breve contrasto, della terra di Pozzuolo, e senza aver rispetto alle condizioni delle cose, vi fermava le sue stanze; felice ad un tratto, ed infelice pensiero, perchè se l'impadronirsi di Pozzuolo era fatto importante, la circostanza era tale, che avrebbe potuto partorire la difazione intiera dei Francesi, e per poco stette, che non abbia fatto quest'effetto. Sarebbe stato e miglior partito per non deviare dalla volontà del generalissimo, e più sicuro per Francia, che Dupont, acquistata la facoltà del passare, attendesse, prima di effettuare il passo, che Brune avesse ancor egli varcato a Mozambano. Ne sorse un gravissimo pericolo; perchè Brune avendo trovato le strade molto sinistre, non potè mettersi all'impresa il giorno venticinque; il che fu cagione che Bellegarde, che alloggiava col grosso a Villafranca, terra poco lontana, corse subitamente con tutto il pondo de' suoi contro Dupont. Si difese virilmente il Francese, ancorchè Bellegarde si fosse scoperto con quasi tutto il suo esercito in battaglia; fecero i suoi soldati quanto in accidente sì pericoloso per uomini valorosi si poteva fare. Ma tanto preponderava il nemico, combattendo colla maggior parte delle sue forze contro una piccola di quelle dell'avversario, che già Dupont, non essendo potente a resistere col suo corpo solo, cedeva, e si vedeva vicino ad essere rituffato nel fiume, portando in tal modo la pena dell'aver preso animo, contro gli ordini del capitano generale, di fermarsi, e far grossa battaglia sulla riva opposta del fiume. Sarebbe adunque stata l'ala destra dei Francesi conquisa intieramente e rotta, se non fosse giunto improvvisamente un non pensato soccorso. Suchet, che dall'eminenze della Volta scopriva quanto Dupont fosse pressato dal nemico, consigliandosi piuttosto con la necessità dell'accidente, che con gli ordini di Brune, perciocchè il generalissimo gli aveva ordinato che andasse ad ajutare il passo di Mozambano, frettolosamente marciava al mal auguroso Pozzuolo. L'arrivo di Suchet ristorava la fortuna della giornata oramai perduta. Tuttavia gli Austriaci grossi e sicuri sul loro destro fianco facevano una battaglia forte, e molto ostinata. Tre volte s'impadronirono di Pozzuolo, e tre volte ne furono risospinti. Infine fu costretto Bellegarde a tirarsi indietro a Villafranca, lasciando i repubblicani in possessione di Pozzuolo. Patì molto in questa battaglia; perciocchè gli mancarono circa cinquemila soldati tra morti e feriti; tremila prigionieri attestarono quanto spesso le fini delle battaglie siano diverse dai principj. Tre bandiere, undici cannoni ornarono il trionfo dei vincitori. Non fu però senza strage la vittoria ai Francesi: duemila soldati mancarono o per morte, o per ferite; pochi vennero in potestà di Bellegarde. Il seguente giorno, come aveva destinato, passava Brune il fiume a Mozambano per guisa tale che tutto l'esercito di Francia si trovava condotto sulla sinistra del Mincio. Bellegarde, considerato il successo della fazione di Pozzuolo, nè volendo avventurarsi a battaglie campali in quella facile largura tra il Mincio e l'Adige, ancorchè molto prevalesse di cavallerìa, accomodava le sue deliberazioni agli esiti delle cose, e ritirava le genti sulla sinistra dell'Adige, solo lasciando sulla destra alcuni corpi, non per signoreggiare il paese, ma soltanto per meglio difendere il passo del fiume. Brune, fatto più ardito dalla vittoria, applicava l'animo a cacciare l'avversario oltre Verona, ed a far sentire l'impressione delle armi Francesi nel Vicentino, nel Padovano, e nel Trivigiano. Ciò meditando, a modo tale ordinava la fazione, che piuttosto sopra Verona che sotto effettuasse il passo, perchè in questa guisa procedendo, Macdonald poteva più facilmente cooperare con lui, ed aveva speranza d'impedir la congiunzione di Laudon, e di Wukassowich, che già scendevano dal Tirolo. Per la qual cosa, avvicinandosi col grosso all'Adige, mandava Moncey con un corpo sufficiente verso Corona e Rivoli, affinchè serrasse la strada a Laudon ed a Wukassowich, e nel caso in cui eleggessero di rivoltarsi là, dond'erano venuti, gli perseguitasse anche all'insù. Sapeva che Macdonald procedendo pei monti superiori, ed entrando dalla valle dell'Oglio in quella del Mela, da questa in quella della Chiesa, e pervenendo alla superior coda del lago di Garda, si proponeva di riuscire per montagne scoscese e rotte, sopra a Trento. La quale mossa, se avesse avuto il suo effetto, Laudon e Wukassowich, combattuti sopra da Macdonald, sotto da Moncey, non avrebbero più avuto scampo. Succedeva felicemente il pensiero di Brune, rispetto al passo del fiume, perchè facilmente gli veniva fatto di varcarlo a Bussolengo, luogo già tanto famoso pei successivi passaggi, ora di Francesi, ora di Tedeschi. Bellegarde, informato del viaggio di Macdonald, aveva fatto debole dimostrazione per impedire il transito ai repubblicani, e si ritirava, lasciato solamente nel castello di San Felice di Verona un presidio, che poco dopo s'arrese, sulle rive della Brenta. Al tempo stesso accortosi, quanto la guerra fosse pericolosa a Laudon ed a Wukassowich, aveva loro comandato, che risalissero più presto che potessero l'Adige, e per la valle della Brenta con frettolosi passi venissero a congiungersi con lui nei contorni di Bassano. In questo punto pervennero le novelle, che dopo la vittoria di Hohenlinden guadagnata da Moreau contro l'arciduca Giovanni, era stata conclusa a Steyer il giorno venticinque decembre, una tregua tra il generale Francese e l'arciduca Carlo. Propose Bellegarde a Brune un trattato simile di sospensione di offese; ma esigendo conforme alle istruzioni, che gli si cedesse, oltre Peschiera, Ferrara, Ancona e porto Legnago, anche Mantova, il trattato non potè aver effetto, e si continuò la guerra. Le cose pressavano molto nel Tirolo. Moncey e Macdonald intendevano a serrare da ogni parte Wukassowich e Laudon, per impedir loro la facoltà del ritirarsi. Ma il primo alloggiato superiormente al secondo, e prestamente obbediendo a Bellegarde, entrato per Pergine nella valle della Brenta, schivava il pericolo, e sicuramente per la sponda di questo fiume camminava alla volta del suo generalissimo; il secondo pel contrario si trovava in molto ardua condizione, imperciocchè già si era condotto tanto innanzi, che era disceso fin sotto a Roveredo, e non poteva più tornare indietro per Trento innanzichè Macdonald vi arrivasse. Era oltre a ciò aspramente combattuto da Moncey dalla parte inferiore per modo, che cacciato all'insù da un sito all'altro aveva anche abbandonato al vincitore la possessione di Roveredo. Al tempo stesso Macdonald, superata la resistenza, che Davidowich con un po' di retroguardo di Wukassowich aveva fatto a Trento, s'impadroniva di questa capitale del Tirolo Italiano. Era adunque tolto ogni scampo a Laudon per la strada maestra, nè altra speranza gli restava, che quella di condursi per le strette ripide e malagevoli di Caldonazzo, a Levico. Il passo era impossibile ad eseguirsi per sentieri tanto difficili, massime pei cavalli, per le bagaglie, e per l'artiglierìe, se vivamente i Francesi l'avessero perseguitato. Mandò dicendo a Moncey, essere conclusa una tregua, cosa non vera, tra Brune e Bellegarde; il richiedeva dell'osservazione: prestò fede il Francese, e si astenne dal combattere. Laudon intanto, usando l'occasione e frettolosamente marciando, arrivava a salvamento a Levico, donde calandosi con viaggio prospero, si avvicinava a Bellegarde. Diede Moncey all'insù di Roveredo, Macdonald all'ingiù da Trento: incontraronsi fra le due città i due generali della repubblica, dolenti ambidue, che per inganno fosse loro stata tolta l'occasione di un segnalato fatto a propria gloria, e ad utilità della patria. Rammaricossene più spezialmente Macdonald, per avere incontrato indarno tanti pericoli e fatiche. Restava che compisse un'altra parte del suo disegno, piacendogli le imprese grandi ed audaci: quest'era di montar l'Adige fino a Bolzano ed a Brissio, poi di entrare nella valle della Drava per riuscire alle spalle di Bellegarde, e tagliargli la strada al suo ricetto d'Austria. Infatti già era arrivato col suo antiguardo a Bolzano, combattendovi gagliardamente il generale Auffenberg, che vi stava a difesa con quattromila soldati: non la guerra, ma la pace impedì a Macdonald l'esecuzione del suo animoso pensiero. Eransi Wukassowich e Laudon ricongiunti con Bellegarde, che ancora poteva tener in pendente la fortuna; ma non volle più avventurare le sorti, avendogli interrotto la speranza le novelle allora pervenute della sospensione di Steyer. Per la qual cosa si ritirava dalla Brenta, riducendosi sulle sponde della Piave. Il perseguitava Brune: era il fine della guerra. A petizione del generale d'Austria si concluse il dì sedici gennajo a Treviso un trattato di tregua coi capitoli seguenti: si sospendessero le offese; le due parti non potessero rompere il trattato, se non dopo quindici giorni di disdetta; le piazze di Peschiera e di Sermione, i castelli di Verona e di Legnago, la città e la cittadella di Ferrara, la città e il forte d'Ancona si consegnassero ai Francesi; Mantova restasse bloccata dai repubblicani a ottocento braccia dallo spalto con facoltà al presidio di procacciarsi viveri di dieci in dieci giorni; i magistrati Austriaci si rispettassero, la tregua durasse trentatrè dì, compresi i quindici; nissuno per fatti od opinioni politiche potesse essere molestato. Non piacque al consolo l'accordo di Treviso, perchè non giudicava a suo proposito, che l'Austria possedesse Mantova. Mandò adunque minacciando, trovandosi in condizione vittoriosa, all'Austria, che se non gli desse Mantova, sarebbe di nuovo interrotta la concordia, e non avrebbe per rate nè la convenzione di Steyer, nè quella di Treviso, e rincomincierebbe la guerra. Fu forza all'imperatore il consentire, e per un nuovo accordo fatto a Luneville, fu quella principalissima fortezza data in mano dei Francesi. La sospensione di Treviso ridusse alle strette il re di Napoli, perchè per lei potevano i Francesi più espeditamente attendere alla ricuperazione dei paesi perduti. Il conte Ruggiero, volendo cooperare con Bellegarde, si era mosso coi Napolitani, e, traversato lo stato Romano, era entrato in Toscana, alloggiandosi in Siena. Dall'altro lato il marchese Sommariva con qualche squadrone di Tedeschi, e coi fuorusciti Aretini, s'era ancor egli fatto avanti, ed aveva levato a romore le parti superiori del gran ducato. Al quale moto sollevati gli Aretini, siccome quelli che mal volentieri sopportavano il nuovo dominio, di nuovo erano corsi all'armi, ed avevano condotto in grave pericolo Miollis, che con poche genti custodiva la Toscana. Messi in confusione e sconquasso i confini, s'incamminavano Sommariva da una parte, il conte Ruggiero dall'altra all'acquisto di Firenze, dove il generale Francese aveva la sua principale stanza. Queste cose accadevano sul principiar dell'anno. Disperando Miollis, perchè si sentiva più debole pel poco numero de' suoi soldati, misti di Francesi, Cisalpini, e Piemontesi, di far fronte ad un tratto ai due nemici, s'appigliò prudentemente al partito di combattergli separati, usando celerità. Marciavano primieramente contro i Napolitani condotti dal conte. Guidava il generale Pino l'antiguardo di fanti Cisalpini, e di cavalli Piemontesi. Affrontava tra Poggibonzi e Siena una grossa colonna di cinque o sei mila fanti Napolitani, e valorosamente urtando con le bajonette, gli voltava in fuga. Volle il conte far testa in Siena; ma Pino guidato dal proprio valore, da quello de' suoi, dal fervore della vittoria, dava dentro incontanente, e fracassate coi cannoni le porte, vittoriosamente vi entrava. Ritirossene il conte; poi fece opera di rannodarsi sui poggi vicini, ma pressando viemmaggiormente i Cisalpini ed i Piemontesi, fu costretto ad abbandonar tostamente i territorj Toscani, ritirandosi in quei di Roma per l'oscurità della notte. Il marchese, udito il sinistro caso del conte, ritraeva prestamente i passi, e giva a ricoverarsi in Ancona. In tal modo Miollis pel valore de' suoi, e per la provvidenza propria riduceva di nuovo in arbitrio di Francia le cose di Toscana, e teneva in timore il sinistro fianco di Bellegarde. Quest'erano le condizioni di Toscana quando, conclusa la sospensione di Treviso, nella quale non fu compreso il re di Napoli, le cose del regno restarono esposte a grandissimo pericolo; perchè Murat, siccome gli era stato comandato dal consolo, già venuto con le nuove reclute in Italia, s'incamminava a gran passi contro la Toscana e la Romagna per invadere il regno. Ai soldati di Murat s'accostava al medesimo fine una forte squadra dell'esercito vittorioso di Brune: ogni cosa cedeva alla riputazione della vittoria. Il resistere pel re era impossibile, la sua ruina certa. La salute, caso da non essere presentito, gli venne dal settentrione. Carolina regina, che quantunque fosse di natura pur troppo risentita, e si lasciasse tropp'oltre trasportare dallo sdegno, aveva mente forte, e non dava molta fede alle matte credenze, ed alle parole gonfie degli stravolti nemici di Francia, si era risoluta, voltando tutto l'animo alle speranze Russe, e non isperando in altro modo congiunzione con Francia, di andar a Pietroburgo per pregare l'imperatore Paolo ad intromettersi, come mediatore, tra il consolo e Ferdinando. Piacque la fede a Paolo: già rappattumato col consolo, mandava in Italia il generale Lewashew, affinchè s'intromettesse a concordia fra le due potenze. Si soddisfece Buonaparte del procedere di Paolo, perchè in primo luogo vedevano le nazioni, principalmente gl'Italiani, che uno dei più potenti principi del mondo, non solo riconosceva il suo governo, ma ancora aveva amicizia con lui; in secondo luogo vedeva egli medesimo il regno di Napoli sottratto dalla divozione Inglese, e ridotto nuovamente nella propria. Fecersi a Lewashew venuto in Italia onorevoli accoglienze in ogni parte, parendo che rilucesse nella persona sua tutta la grandezza di Paolo: i popoli si maravigliavano, che la Russia tanto nemica a Francia, le fosse ora divenuta amica, e paragonando i tempi di Suwarow con quei di Lewashew, ammiravano la potenza e la felicità del consolo. Venne per parte del re il cavaliere Micheroux a trovare Murat a Foligno: non istettero a negoziar lungo tempo, essendo le due parti sommamente desiderose di convenire, una per piacere a Paolo, l'altra per paura di Buonaparte. Fu adunque il dì diciotto febbrajo, accordata tra Francia e Napoli, con corroborazione dell'autorità della Russia, una tregua, i principali capitoli della quale furono, che i soldati regj sgombrassero dallo stato Romano, che i repubblicani occupassero Terni, ma che la Nera non oltrepassassero; che tutti i porti di Napoli e di Sicilia si serrassero contro gl'Inglesi e contro i Turchi; che ogni comunicazione cessasse tra Porto-ferrajo e Porto-longone nell'isola d'Elba, fintantochè gl'Inglesi non avessero sgombrato da Porto-ferrajo; che Dolomieu si liberasse dalle carceri di Messina, che si restituissero gli ufficiali ed i generali Francesi; che si obbligasse il re ad udire favorevolmente le raccomandazioni di Francia per coloro, che fossero o banditi, o carcerati per opinioni politiche. Ebbe questo trattato subito effetto: vuotò il conte Ruggiero il territorio della Chiesa: prevenendo le instanze del consolo, aboliva i tribunali straordinarj, e condonava ogni pena pel crimenlese. Murat tra per vanagloria ad entrar qual liberatore in Roma, e per adescare ai futuri disegni venutovi dentro, e concorrendo a lui il popolo, si condusse a far riverenza al pontefice. Ogni cosa si componeva a concordia: più poteva a Vienna il terrore, che le Inglesi esortazioni. Negoziavasi a Luneville per l'Austria dal conte Luigi Cobentzel, per la Francia da Giuseppe Buonaparte, l'uno e l'altro avendo mandato e possanza di concludere. Dopo qualche contenzione, pigliarono forma, che il trattato definitivo di pace fosse sottoscritto il giorno nove di febbrajo. I capitoli principali, quanto all'Italia, furono quelli stessi del trattato di Campoformio, solo variossi pei confini: l'Adige, principiando dove sbocca dal Tirolo insino alla sua foce, fosse confine tra la Cisalpina e gli stati d'Austria; la destra parte di Verona, e così quella di Portolegnago spettassero alla Cisalpina, la sinistra all'Austria; si obbligava l'imperatore a dare la Brisgovia al duca di Modena in ricompensa del perduto ducato; rinunziasse il gran duca alla Toscana ed all'isola d'Elba, e la Toscana e l'isola si dessero all'infante duca di Parma; il gran duca si ricompensasse con stati competenti in Germania; conoscesse, e riconoscesse l'imperatore le repubbliche Cisalpina e Ligure, e rinunziasse ad ogni titolo, sovranità e diritto sopra i territorj della Cisalpina; consentisse alla unione dei feudi imperiali colla repubblica Ligure. Del Piemonte nulla si stipulava, perchè Buonaparte voleva serbarsi o una occasione per pigliarlo per se, od un appicco per piacere a Paolo. Il re di Napoli ridotto alla necessità di obbedire alla forza lontana di Paolo, ed alla vicina di Buonaparte, si quietava anche col consolo, convenendo in un trattato di pace a Firenze il dì vent'otto di marzo sottoscritto per parte di lui da Micheroux, per parte della Francia da Alquier. Convenissi come nella tregua, e di vantaggio, che il re rinunziasse primieramente, e per sempre a Porto-longone, ed a quanto possedesse nell'isola d'Elba, secondamente cedesse alla Francia, come cosa propria, e da farne ogni voler suo, gli stati dei presidj ed il principato di Piombino; ancora perdonasse ogni delitto politico commesso fino a quel giorno; restituisse i beni confiscati, liberasse i detenuti, potessero gli esuli tornare nel regno sicuramente, e fosse loro restituita ogni proprietà; da ambe le parti si dimenticassero le offese. Le cose si fermarono anche con nuova composizione colla Spagna, essendosi stipulato un trattato a Madrid il dì ventuno marzo da Luciano Buonaparte per parte di Francia, e dal principe della Pace per parte di Spagna. S'accordarono le due parti, che il duca di Parma rinunzierebbe al ducato in favore della repubblica di Francia, che la Toscana si darebbe al figliuolo del duca con titolo di re; che il duca padre si compenserebbe con rendite e con altri stati; che la parte dell'isola d'Elba che apparteneva alla Toscana, spetterebbe alla Francia, e che la Francia ne ricompenserebbe il re d'Etruria collo stato di Piombino; che la Toscana s'intendesse unita per sempre alla corona di Spagna; che se il re d'Etruria morisse senza prole, succedessero i figliuoli del re di Spagna. Così in men che non fa un anno, ogni ostacolo cedendo ai Buonapartiani fati, vinse il consolo Austria ed Italia. Poscia, essendo in tutti, parte pei medesimi, parte per diversi rispetti la medesima intenzione alla pace, composte tutte le controversie, contrasse amicizia coll'imperatore Paolo, s'accordò coll'imperatore Francesco, e rinnalzò Francia da bassa ad eminente fortuna. LIBRO VIGESIMOPRIMO SOMMARIO Il consolo s'accorda con Roma, e rinstaura la religione cattolica in Francia. Concordato. Discussioni nei consigli del papa su di questo atto. Articoli organici aggiunti dal consolo, e querele del pontefice in questo proposito. Ordini Francesi introdotti in Piemonte, che accennano la sua unione definitiva colla Francia. Menou mandato ad amministrar questo paese in vece di Jourdan. Murat in Toscana. Suo manifesto contro i fuorusciti Napolitani. La Toscana data al giovane principe di Parma con titolo di regno d'Etruria. Il consolo insorge per arrivare a più ampia autorità, ed a titolo più illustre. Fa per questo sue sperienze Italiane, e chiama gl'Italiani a Lione. Quivi il dichiarano presidente della repubblica Italiana per dieci anni con capacità di esser rieletto. Constituzione della repubblica Italiana. Genova cambiata, e sua nuova constituzione. Monumento in Sarzana ad onore della famiglia Buonaparte, natìa di questa città. Il Piemonte formalmente unito alla Francia. Carlo Lodovico, infante di Spagna, re d'Etruria per la morte del principe di Parma. Descrizione della febbre gialla di Livorno. Le bilustri trame di Buonaparte arrivano al loro compimento; si fa chiamar imperatore. Pio settimo condottosi espressamente in Parigi, lo incorona. Le cose della religione cattolica erano in gran disordine in Francia. L'assemblea constituente aveva interrotto la unione con la sedia apostolica rispetto alla instituzione pontificia dei vescovi, qual era stata accordata tra Leone decimo, e Francesco primo, e tolto i beni alla chiesa con appropriargli alla nazione. I governi che vennero dopo, massimamente il consesso nazionale, non solamente distrussero gli ordini statuiti dall'assemblea, ma spensero ancora ogni ordine religioso, perseguitarono i ministri della religione, ed alcuni anche sforzarono, cosa nefanda, a rinegare il proprio stato, e le proprie opinioni. Il direttorio continuò a perseguitare i preti, ora confinandogli nell'esiglio, ora serrandogli nelle prigioni, e sempre impediendo loro, massime ai non giurati, che liberamente e pubblicamente celebrassero i riti divini. Fra tante amarezze dell'anime pie, qualche consolazione recavano i preti giurati colle esortazioni, e coi conforti loro: ad essi la Francia debbe restar obbligata della conservazione della fede; della conservazione medesima la sedia apostolica debbe sentir loro obbligo, sebbene abbia cagione di dolersene per la diminuzione da loro introdotta, e pertinacemente sostenuta con le parole, con le opere, e con gli scritti, nella giurisdizione della cattedra di San Pietro. Conservarono eglino la fede, che è la radice, senza la quale ogni religione, non che ogni disciplina ecclesiastica, sarebbe impossibile. Ma la religione senza un culto ordinato, e senza riti accordati con la pubblica autorità, e da lei riconosciuti e protetti, non potrebbe sussistere lungo tempo, la cattolica meno di ogni altra, solita a cattivar gli animi con le pompe e solennità esteriori. Ciò si vedevano gli uomini prudenti, nei quali era entrata la persuasione, che le credenze religiose sono un ajuto efficace alle leggi civili: quest'istesso vedevano gli uomini religiosi, che si dolevano, che quello che nelle menti e nei cuori loro pensavano ed amavano, non potessero in ordinato e pubblico modo manifestare. Era adunque nato un desiderio in Francia di veder ristorati i riti della religione cattolica, e molti Francesi in questo desiderio tanto più s'infiammavano, quanto più difficile sembrava la rintegrazione. Certo pareva, che ove una prima insegna di Cristo si fosse rizzata, là sarebbero concorsi cupidamente, e con amore avrebbero abbracciato coloro, che rizzata l'avessero. Buonaparte non era uomo da non vedersi queste cose, meno ancora da non usarle per edificare la sua potenza, e per arrivare a' suoi fini smisurati. Per questo aveva dato parole di pace, di religione, di rispetto, e d'amicizia verso il papa, quando ritornò, dall'Egitto arrivando, in Francia; per questo tenne i medesimi discorsi quando andò alla seconda conquista d'Italia; per questo le medesime protestazioni accrebbe quando vittorioso nei campi di Marengo se n'era tornato nella sua consolar sede di Parigi. Adunque divenuto libero dai pensieri, che più nella mente sua pressavano, della guerra, applicava viemaggiormente l'animo al negoziare col papa, col fine di venirne con lui ad un aggiustamento in materia religiosa. Offeriva di dare stato, culto, e comodi pecuniari alla religione cattolica, ed ai suoi ministri. Aggiungeva le solite lusinghe, favellando con accomodate parole della mansuetudine, e della santità del Chiaramonti, vescovo d'Imola. Nè tralasciava le consuete dimostrazioni del suo amore verso la religione, e verso i Francesi. Alcuni accidenti ajutavano queste pratiche, altri le disajutavano. Dava favore al consolo un concilio nazionale di vescovi giurati che dipendentemente da un altro tenuto nel novantasette, con suo consentimento espresso era per adunarsi in Parigi il dì di San Pietro. Non solamente ei non impediva che questi vescovi parlassero, ma gl'incitava anche a parlare, quantunque fossero giurati, e contrarj a quella pienezza di potestà, che i papi pretendono spettarsi alla sedia apostolica. Della quale facoltà largamente usando, mandavano circolari esortatorie ai vescovi, e preti loro compagni della chiesa gallicana, acciocchè imitando, come dicevano, quella carità, di cui Gesù Cristo aveva lasciato il precetto e l'esempio, venissero al destinato giorno ad unirsi nel concilio di Parigi. Compissesi, confortavano, l'opera incominciata nel concilio del novantasette, dessesi occasione ed incitamento al rinnovare queste nazionali e sante assemblee presso tutte le altre nazioni della cristianità, assemblee tanto raccomandate, e tanto commendate dalla veneranda cristiana antichità; nodrissesi speranza, che fossero esse il principio di un concilio ecumenico, la di cui convocazione già da più secoli interrotta, sebbene il concilio di Costanza avesse prescritto che ogni dieci anni si convocasse, era santa e necessaria cosa rintegrare. Mandavano al tempo stesso pregando il papa, col quale già il consolo negoziava per venirne allo statuire con lui precetti contrarj, inviasse suoi deputati per certificarsi, quale e quanta fosse la purità della fede loro: con lui si lamentavano di essere stati prima condannati che uditi da Pio sesto; affermavano, per opera loro non essere stato interrotto il corso della potestà episcopale: forse, sclamavano, poter essere loro imputato a peccato l'avere somministrato i sussidj, ed i conforti della religione a sì copioso numero di diocesi, e di parrocchie abbandonate dai pastori loro? Allegavano, che la facoltà di teologia, e di diritto canonico di Friburgo in Brisgovia aveva profferito una sentenza tutta a loro favorevole, sebbene non provocata; imploravano il parere di tutte le altre università cattoliche, offerendosi pronti a dire ed a scrivere quanto loro fosse addomandato a dilucidazione della controversia. Protestavano finalmente, essere figliuoli obbedienti della Chiesa una, santa, cattolica, apostolica, e romana; e con parole efficacissime testimoniavano, nel grembo suo voler vivere, nel grembo suo morire. Trattavasi in queste controversie principalmente della elezione dei vescovi, cioè quanto al temporale, se la elezione fatta dal popolo fosse valida, come quella fatta dai re e da altri capi di nazioni, e quanto allo spirituale, se, perchè il filo della successione episcopale non fosse interrotto, fosse necessaria l'instituzione del pontefice Romano, o se bastasse quella fatta da un altro vescovo. Trattavasi poi anche di quest'altro punto, se gli ecclesiastici dovessero vivere per le sole obblazioni dei fedeli, o se dovessero possedere beni in proprio, e se dottrina eretica fosse il mantenere che la potestà temporale, pei bisogni generali dello stato potesse por mano senza il consenso del Romano pontefice nei beni della chiesa. Non era punto nè incerta, nè ignota la opinione dei vescovi giurati adunati in Parigi intorno alle annunziate questioni, poichè ognuno sapeva, che sentivano contro le dottrine della Romana sede. Nè solo queste opinioni in Francia erano sorte, ma a loro non pochi uomini dottissimi, e di ogni religiosa virtù ornati in Italia si erano accostati; conciossiachè, tacendo del Ricci, vescovo di Pistoja, che più vivamente di tutti procedeva, nella medesima sentenza erano venuti i professori Degola, Zola, Tamburini, Palmieri, e con loro Gautier, prete Filippino di Torino, Vailua canonico d'Asti, con molti altri sì Toscani, che Napolitani, che dal Ricci, o dai fratelli Cestari avevano le medesime dottrine imparato. Non dubitava Gautier di affermare, quale principio incontrastabile, che le elezioni dei vescovi sono di diritto divino, od almeno di apostolica constituzione, che sì fatto modo di elezione venne statuito dagli apostoli stessi, e servì di esemplare alla disciplina praticatasi universalmente nella chiesa nei secoli posteriori intorno ad un articolo di tanta importanza: allegava il Filippino a confermazione della sua dottrina, che l'elezione di San Mattia era stata fatta, non da San Pietro solamente, ma da tutti i discepoli adunati nel cenacolo, che sommavano a centoventi: finalmente usciva con dire, che se in fatto il pontefice Romano usava da più secoli la facoltà di instituire i vescovi, per mera usurpazione ne usava. Da tutto questo concludeva, che il papa doveva riconoscere, e confessare per veri e legittimi vescovi coloro, ch'erano stati creati in conformità degli ordini stabiliti dall'assemblea constituente di Francia. Voleva adunque Gautier, ed esortava i vescovi, andassero, non ammessa scusa alcuna, o pretesto in contrario, al concilio di Parigi per ingerirsi in quella gran causa, perchè pareva a lui, che chiunque diritto e senza prevenzione mirasse, avesse a venire in questa sentenza, che l'innocenza, la ragione, la giustizia, secondo i sani principj dei canoni stessero intieramente in favore dei pastori ordinati a norma della constituzione del clero di Francia; che essi veri e legittimi pastori fossero, siccome quelli che erano stati eletti dal popolo cristiano, ed appruovati e constituiti nelle loro chiese dai rispettivi metropolitani secondo i canoni primitivi dalla venerazione di tutto l'universo confermati, e contro i quali nissuna consuetudine potrebbe prevalere. A queste opinioni con l'autorità sua, e con gli scritti dava favore Benedetto Solaro, vescovo di Noli, mostrando gran desiderio di recarsi al concilio Parigino. Pure da un'altra parte la Romana curia ardentemente impugnava le medesime dottrine: Pio sesto pe' suoi brevi dei dieci marzo e tredici aprile del novantuno, le aveva solennemente condannate, affermando, e costantemente asseverando, che la potestà di compartire la giurisdizione ecclesiastica secondo la disciplina da più secoli venuta in costume, e dai concilj, ed ancora dai concordati confermata, non apparteneva neppure ai metropolitani; che anzi questa potestà era alla fonte, dond'era derivata, ritornata, siccome quella che unicamente nell'apostolica sede ha la sua stanza, che presentemente al Romano pontefice spettava il provvedere di vescovi ciascuna chiesa, come spiega il concilio di Trento; dal che ne conseguitava che niuna legittima instituzione di vescovi può esservi, eccetto quella che dalla sedia apostolica si riceve; così avere statuito la Chiesa universale debitamente adunata in concilio; così avere constituito il concordato concluso tra Leone decimo pontefice, e Francesco primo re di Francia; dal che si vedeva, che sebbene solamente dal secolo decimoquinto i pontefici successori di San Pietro instituissero nelle sedi loro i vescovi, incontrastabile nondimanco era in questa materia il diritto loro, perciocchè vicarj di Cristo essendo, in se tutta avevano raccolta la potestà data da Dio in terra pel governo della chiesa; e se i vescovi erano posti a reggere le chiese particolari, ciò solamente potevano fare, quando dal supremo ed universal pastore ne avevano ricevuto il mandato. A queste dottrine della curia Romana, come le chiamavano, non potevano star forti, nè udirle pazientemente gli avversarj, e con parole e con iscritti e con allegazioni di testi, e con sequele di ragionamenti continuamente le combattevano. Nè ciò facendo, del tutto modestamente procedevano: perciocchè, quantunque usassero discorsi artifiziosamente umili verso il pontefice, mescolavano nondimeno motti acerbi, e sentenze ancor più acerbe, quando favellano della potestà pontificia, e le disputazioni, come di teologi, s'innasprivano. Insomma, siccome per la constituzione civile del clero ordinata dall'assemblea constituente pareva loro avere vinto una gran causa, così con tutti i nervi, e con tutte le forze loro tentavano di riconfermare la conseguita vittoria. Queste contese teologiche molto piacevano al consolo, e gli dimostravano una grande opportunità, perchè non dubitava che il papa, temendo ch'ei non fosse per gettarsi in grembo agl'impugnatori della santa sede, avrebbe mostrato più docilità nel concedere ciò che desiderava; perciò questi umori non solo favoriva, ma incitava. Questi erano gli accidenti favorevoli al consolo; ma per natura, e per uso, e per massima amava egli molto più il governo stretto e monarcale del papa, che il governo largo e popolare degli avversarj, e gli pareva che gli ordini papali, rispetto alla potestà unica ed universale, fossero un grande, utile e maraviglioso pensamento. Chiamava i giansenisti gente di molta fede, e di ristretti pensieri; nè gli pareva che la constituzione del clero, siccome cosa antiquata e cagione di molte disgrazie, si potesse utilmente rinfrescare. Un nuovo e vivace pensiero, e più conforme ai desiderj dei popoli, gli pareva che abbisognasse. Da un'altra parte cadevano in questa materia molte e gravi difficoltà. La principale forza del consolo era posta ne' suoi soldati e non istava senza qualche timore, che quell'apparato religioso, al quale da sì lungo tempo erano disavvezzi, e quel comparir di preti, cui avevano e con fatti perseguitato, e con motteggi lacerato, non paresse avere agli occhi loro qualche parte di ridicolo, cosa di somma importanza in Francia. Temeva altresì su quei primi principj la setta filosofica, nemica al papa, assai più potente di quella che impugnava la larghezza dell'autorità pontificia. Egli aspettava dalla prima gran favore e gran sussidio. Ma più di tutto questo travagliava l'animo suo la faccenda dei beni della chiesa venduti dai precedenti governi; perchè l'ottenere del papa la confermazione di queste vendite era di sommo momento, e sapeva che il pontefice ripugnava al fare in questo proposito alcuna espressa dichiarazione. Pure la tranquillità dei possessori era fondamento indispensabile della sua potenza. Non pochi dei giurati erano di gran nome, e di qualche autorità, e il consolo gli voleva vezzeggiare: ma l'impetrare dal papa, che non solamente gli assolvesse, e nel grembo suo gli riaccettasse, ma ancora, come desiderava, che ai primi seggi della gallicana chiesa gli sollevasse, appariva intricato, e malagevole argomento. La medesima difficoltà sorgeva per gli ecclesiastici della parte contraria, che avevano conservato i seggi loro anche ai tempi dell'esiglio, ed ai quali non avrebbero forse voluto rinunziare, parte per insistenza nell'antiche opinioni, parte per affezione alla famiglia reale di Francia. Nè mediocre impedimento alla definizione del trattato recava il capitolo della celebrazione dei riti cattolici; perciocchè essendo i medesimi andati in disuso da sì lungo tempo, non era senza pericolo di scandalo, in mezzo a popolazioni iniette di usi e di opinioni contrarie, il volere che tutto ad un tratto pubblicamente, e secondo tutti gli usi della chiesa si celebrassero: si temeva che nascessero enormità, dalle quali i fedeli ricevessero maggiore offensione, che edificazione. Ripugnava adunque il consolo, malgrado che il papa insistesse per ogni larghezza di culto pubblico, a questa condizione, volendo indugiare a tempo più propizio i desiderj di Roma. Non ostante tutte queste malagevolezze in un negozio di tanta importanza, essendo nelle due parti grandissimo desiderio di convenire, mandava Pio settimo a Parigi il cardinale Ercole Consalvi, suo segretario di stato, Giuseppe Spina arcivescovo di Corinto, ed il padre Caselli, teologo consultore della santa sede. Dal canto suo dava il consolo facoltà di trattare e di concludere a Giuseppe Buonaparte, a Cretet, consigliere di stato, ed a Bernier, curato di San Lodo di Angeri. Da questi si venne il dì quindici luglio al trattato definitivo tra la santa sede, e la repubblica di Francia, atto piuttosto di unica che di molta importanza, poichè per lui si restituiva alla chiesa cattolica una parte nobilissima d'Europa, e si ridava la pace a tanti uomini di coscienza timorata e pia. Il fece il papa per motivi religiosi, il consolo per mondani; nè troppo ei se n'infinse; il che fu non senza scandalo, perchè gli uomini religiosi abbominavano, che la religione si usasse per mezzo, non per fine, antica, fondata, ed inutile querela. Confessatosi dal governo francese; che la religione cattolica, apostolica e romana era professata dalla maggior parte dei Francesi, e confessatosi altresì da Sua Beatitudine, che dalla sua rintegrazione in Francia era per derivarle un grande benefizio ed un grande splendore, convennero e stipularono le due parti, che la religione cattolica, apostolica e romana avrebbe libero e pubblico esercizio in Francia, a quelle regole conformandosi, che il governo giudicherebbe necessarie per la quiete dello stato: s'accorderebbero la santa sede ed il governo ad ordinare una nuova circonscrizione delle diocesi: esorterebbe il pontefice i vescovi titolari a rinunziare alle sedi loro, e se nol facessero, con la elezione di nuovi titolari provvederebbe; nominerebbe il consolo tre mesi dopo la pubblicazione della bolla di Sua Santità gli arcivescovi, ed i vescovi secondo la nuova circonscrizione, e conferirebbe il papa l'instituzione canonica secondo le regole constituite per la Francia innanzi che il governo vi si cambiasse: le sedi vescovili, che in progresso vacassero ugualmente con nominazioni fatte dal consolo, si riempissero, e l'instituzione canonica, conforme al capitolo precedente, dal papa si conferisse; giurassero i vescovi, e gli altri ecclesiastici, prima dell'ingresso loro, fedeltà alla repubblica, e promettessero di svelare qualunque trama contraria allo stato; pregassero nelle chiese per la repubblica e pei consoli; i vescovi non potessero fare nuove circoscrizioni di parocchie, nè nominare parochi, se non a beneplacito del governo; le chiese non vendute si restituissero ai vescovi. Dichiarava inoltre il papa, avuto riguardo alla pace ed alla rintegrazione della religione in Francia, che nè egli, nè i suoi successori non sarebbero mai per molestare gli acquistatori dei beni ecclesiastici alienati, e che per conseguente la proprietà di essi beni, i diritti e le rendite annessevi, fossero e restassero incommutabilmente in loro, nei loro eredi, e negli aventi causa da essi. Obbligossi il governo di Francia a dare congrui assegnamenti ai vescovi ed ai parochi, a provvedere che i fedeli di Francia potessero legare alle chiese per benefizio della religione. Confessò e riconobbe il papa, essere nel consolo gli stessi diritti e prerogative, di cui appresso alla sedia apostolica godevano gli antichi sovrani di Francia. Se accadesse, che un consolo acattolico arrivasse al seggio supremo in Francia, i suoi diritti e prerogative, e così ancora la forma delle elezioni dei vescovi si regolassero per un nuovo accordo. Concluso il concordato, dissolveva tostamente il consolo, non avendone più bisogno, il concilio nazionale di Parigi. Così gli sforzi dei vescovi e preti giurati, per astuzia del consolo, servirono alla rintegrazione dell'autorità papale piena in Francia. Questa convenzione mandata a Roma per la ratifica del papa, vi destò gravi e pertinaci controversie. I teologi più stretti e più dediti alle massime della curia Romana, apertamente biasimavano i plenipotenziarj dello avere troppo largheggiato nelle concessioni, e grandemente offeso i diritti e le prerogative della chiesa cattolica. Il papa medesimo, siccome quegli che molto timorato era, e delle prerogative della santa sede zelantissimo, se ne stava in forse, non sapendo risolversi al ratificare. I capitoli, su i quali cadevano principalmente le controversie, erano, primieramente quello che statuiva, doversi il pubblico esercizio del culto regolare dalla potestà temporale senza nissun intervento dell'ecclesiastica, secondamente quello, per cui si dichiarava da parte del pontefice la proprietà incommutabile a favore degli acquistatori dei beni ecclesiastici. Pareva ad alcuni, che il sostenere che la potestà laica possa di per se, e senza l'intervento della potestà ecclesiastica far regole pel culto pubblico, quandanche fosse per ragione della quiete dello stato, e che ad esse regole sia la chiesa obbligata ad uniformarsi, fosse proposizione non solamente contraria ai canoni, ma ancora più che sospetta di eresìa, siccome quella che è contraria al detto dell'apostolo, che i vescovi sono posti dallo Spirito Santo al governo della chiesa di Dio. Allegavano, che non vi è chiesa senza culto, che chi regola il culto regola la chiesa, e che chi regola regge. O è dunque falso, concludevano, che i vescovi siano destinati dal divino Spirito a reggere la chiesa, il che è eresia, o è indubitato, che i vescovi soli, e non i laici debbono reggere il culto, il che è dogma. A queste ragioni vieppiù si peritava papa Pio, e stava dubbio del partito al quale dovesse appigliarsi. Deliberò, prima di risolversi, di consigliarsi coi teologi più dotti di Roma: richiese del parer loro il cardinale Albani, e frate Angelo Maria Merenda dei predicatori, commissario del sant'officio. S'accordarono ambidue, che il papa, salva coscienza, potesse ratificare. Il Merenda principalmente, molto sottilmente di questa materia ragionando, statuiva, che se si trattasse di stabilire una bolla, un canone, una definizione, od una massima in materia di dottrina, il dire, che la potestà laica possa regolare il culto senza l'intervento della potestà ecclesiastica, e che alle sue regole debbano gli ecclesiastici uniformarsi, sarebbe proposizione eretica; ma non parimente quando si trattasse, come nel caso presente, di trattato, convenzione, o accordo, che si facesse coll'intento d'introdurre una regola, per cui si rintegrassero e si repristinassero la religione e l'ecclesiastica disciplina, in un paese del quale erano da molti anni miseramente sbandite, benchè da più secoli, come in loro propria sede vi dimorassero, e gli abitatori suoi fossero stimati veri e legittimi figliuoli primogeniti della chiesa. Sapersi, quanto fosse la parte acattolica potente in Francia, quanto disusata la religione, quanto facili a nascervi gli scandali: però le circostanze dei luoghi e dei tempi richiedere, che per evitare i danni maggiori che da un rifiuto nascerebbero, per non privare un gran numero d'innocenti di quegli spirituali sussidj, che potevano con la condizione presente concordarsi, per avviare insomma l'importantissimo affare della religione di un paese, che nel miglior modo che si potesse la desiderava, poteva, e doveva il sommo pontefice risolversi alla ratificazione; nè all'uomo prudente appartenersi il far gitto di tutto, quando si può conseguire una parte: nè a patto alcuno potere il pontefice di tale atto venir censurato, perchè soltanto faceva una concessione, la quale dalla sua autorità procedendo, non dava nissun diritto alla potestà secolare: avere voluto il divino Redentore, che in tempi avversi usassero gli apostoli la prudenza del serpente, e la semplicità della colomba; il quale precetto, siccome spiega San Tommaso, significare, che, siccome il serpente nel pericolo s'avviticchia, e nasconde il capo per salvarlo, così la chiesa deve studiarsi di salvar la fede, che è il capo e il fondamento, su cui rimane la chiesa medesima edificata; e siccome colomba, ella deve con la dolcezza, e con la lenità sforzarsi di mitigar l'ira degli avversarj. Il cardinale Albani a questo parere tanto più volentieri si accostava, quanto più sapeva, che i plenipotenziarj di Francia avevano dato promesse certe per iscritto, che le modificazioni e restrizioni della pubblicità del culto non in alcuna parte sostanziale, ma solamente nelle processioni esteriori, nelle sepolture, ed in altri somiglianti casi consistevano. Quanto poi al capitolo che concerneva i compratori dei beni ecclesiastici venduti, manifestarono Albani e Merenda una opinione del pari conforme, e del pari favorevole alle stipulazioni, parendo loro, che secondo i termini in cui era espresso, non per altro Sua Santità riconoscesse i compratori, come proprietarj dei beni alienati, se non in conseguenza delle promesse che loro faceva di non molestargli, nè per se, nè pe' suoi successori; dalla qual promessa ne veniva loro assicurato il quieto e pacifico possesso, dal quale sorgeva necessariamente il diritto incommutabile di proprietà. Non era adunque, pensavano, che Sua Santità riconoscesse negli acquistatori l'anzidetto diritto di proprietà independente dalla sua concessione; che anzi il diritto stesso di proprietà, siccome il capitolo esprimeva, era una sequela della condonazione implicitamente contenuta nella promessa di non molestare i possessori, condonazione, che il papa loro faceva colla pienezza dell'apostolica suprema sua autorità. Che se, aggiungevano i due consultatori della santa sede, le due parti del capitolo fossero state concepite con ordine inverso, e si fosse detto che il papa dichiarava, dovere la proprietà dei beni ecclesiastici alienati rimanere immutabilmente presso gli acquistatori, e che in conseguenza non avrebbero essi mai ricevuto molestia nel possesso di tali beni da parte della santa sede, una dichiarazione di tal sorta sarebbe stata di grave censura degna, perchè con lei si sarebbe appruovato in certo modo l'errore già dai sacri concilj Lateranense secondo, e Constanziense condannato in Arnaldo da Brescia, Marsilio da Padova, Giovanni da Garduno, e nei Valdesi, Viclefiti, ed Ussiti: ma trovandosi le due parti del capitolo collocate, come sono, il capitolo era irreprensibile, poichè la proprietà risultava dalla condonazione del papa, non la condonazione dalla proprietà. Stante adunque le dilucidazioni date dal cardinale e dal commissario, non soprastette più lungamente Pio settimo a dare il suo assenso, e ratificò il concordato. Scrisse al tempo stesso brevi ai vescovi titolari, acciocchè alle loro sedi rinunziassero. Alcuni rinunziarono, la maggior parte, massimamente quelli che si erano riparati in Inghilterra, ricusarono. Dei giurati Primat, le Blanc de Beaulieu, Perrier, Lecoz, Saurin, supplicato al papa che loro perdonasse, e nelle sedi destinate dal consolo gl'instituisse, impetrarono. Rimossi per tale guisa tutti gli impedimenti, pubblicava il consolo il giorno di Pasqua dell'ottocentodue il concordato. Scriveva ai vescovi una circolare, in cui con parole asprissime ingiuriava i filosofi: poi rivolgendosi ai francesi con Buonapartico stile discorreva, che da una rivoluzione prodotta dall'amore della patria erano sorte le discordie religiose, e per esse il flagello delle famiglie, gli sdegni delle fazioni, le speranze dei nemici; uomini insensati avere atterrato gli altari, spento la religione; per loro avere cessato quelle divote solennità, in cui l'un l'altro aveva per fratello, in cui tutti sotto la mano di Dio creatore di tutti si stimavano fra di loro uguali; per loro non udire più i moribondi quella voce consolatrice, che chiama i cristiani a miglior vita; per loro Dio stesso parere sbandito dalla natura; dipartimenti distrutti dall'ire religiose, forestieri chiamati a danni della patria, passioni senza freno, costumi senz'appoggio, sciagure senza speranza, dissoluzioni di società; solo la religione avere potuto portarvi rimedio; averlo lui voluto, averlo nella sapienza sua voluto il pontefice, averlo i legislatori della repubblica appruovato; così essere sorto il concordato; così essere spenti i semi delle discordie, così svanire gli scrupoli delle coscienze, così superarsi gli ostacoli della pace. Dimenticassero, esortava, i ministri della religione le dissensioni, le disgrazie, gli errori; con la patria la religione gli riconciliasse; con la patria gli ricongiungesse; i giovani cittadini all'amore delle leggi, all'obbedienza dei magistrati informassero; consigliassero, predicassero, inculcassero, che il Dio della pace era per anco il Dio degli eserciti, e che, impugnate l'armi sue insuperabili, combatteva a favor di coloro, che la libertà della Francia difendevano. Grande allegrezza ricevettero i fedeli in Francia per la rintegrata religione. Gioinne anche maravigliosamente Roma, ma non fu il contento del pontefice senza amarezza; conciossiachè il consolo aveva accompagnato la pubblicazione del concordato con certe regole di disciplina ecclesiastica sotto forma di decreto, che, secondo le Romane opinioni, offendevano le prerogative della santa sede, o restrignevano l'autorità dei vescovi, o difficultavano l'ingresso allo stato ecclesiastico. Voleva che nissuna bolla, o breve, o rescritto qualunque della Romana corte potessero, senza il beneplacito del governo, essere pubblicati, od eseguiti in Francia; la quale proibizione rispetto ai brevi della penitenzierìa parve cosa insolita, e poco decorosa per la santa sede. Voleva che nissuno senza il beneplacito potesse assumere la qualità di nunzio, legato, vicario, o commissario apostolico; che i decreti dei sinodi forestieri, ed anzi quelli dei concilj generali non si potessero pubblicare, se non previa appruovazione del governo; che nissun concilio o nazionale o metropolitano, che nessun sinodo diocesano senza permissione tenere si potesse; che le funzioni ecclesiastiche fossero gratuite, salve le obblazioni dei fedeli; che vi fosse ricorso al consiglio di stato per gli abusi; che s'intendessero abusi ogni contravvenzione alle leggi della repubblica, od alle regole stabilite dai canoni in Francia, ogni offesa delle libertà, franchigie, e costumanze della chiesa gallicana, ogni atto commesso nell'esercizio del culto, che od offendesse l'onore dei cittadini, o turbasse arbitrariamente le loro coscienze, o tendesse all'oppressione, all'ingiuria, allo scandalo. Voleva parimente, che i vescovi non potessero ordinare alcun ecclesiastico, se non possedesse almeno una rendita di trecento franchi, e se non fosse arrivato all'età di venticinque anni. Nè minore offesa aveva recato l'articolo statuito pure dal consolo, che i professori dei seminarj fossero obbligati a sottoscrivere la dichiarazione del clero di Francia del milaseicentottantadue, e ad insegnare la dottrina dei quattro articoli, dottrina incomportabile a Roma, almeno quanto spetta ai tre ultimi. Tutte queste regole, che appartenevano alla disciplina ecclesiastica, quantunque fossero giuste e necessarie sì per la sicurezza della potestà temporale, come pel buon ordine dello stato, ed usate già dai tempi antichi non solamente in Francia, ma ancora in altri paesi d'Europa, e massimamente in Italia, facevano mal suono alle Romane orecchie; ma il consolo ne aggiunse un'altra veramente intollerabile, perchè toccava la giurisdizione, e questa fu, che i vicarj generali delle diocesi vacanti continuassero ad usare l'autorità vescovile, anche dopo la morte del vescovo, e fino a tanto che successore non avesse. Parve cosa troppo enorme; perciocchè i vicarj generali altro non sono, che i mandatarj del vescovo, ed ogni facoltà loro, come di mandatarj, cessa pel fatto della morte del mandatore. Bene dottrina più sana è quella, che sino alla creazione del successore ogni autorità sia investita nel capitolo della chiesa cattedrale, e che i vicarj capitolari eletti da lui la eserciscano. Se ne dolse il papa, e non punto calse al consolo ch'ei se ne dolesse. Orava in concistoro Pio settimo, descrivendo con singolare facondia i negoziati introdotti, le stipulazioni fatte, lo stato della Francia. Ecco, diceva, i templi dell'Altissimo di nuovo aperti; l'augusto nome di Dio, e de' suoi santi sulle loro fronti scritto; i ministri del santuario per le sacre cerimonie in un coi fedeli intorno agli altari accolti, le greggi novellamente sotto la tutela dei legittimi pastori ridotte, novellamente i sacramenti della chiesa con libertà e con riverenza ministrati, novellamente solidato il pubblico esercizio della cattolica religione, novellamente spiegato all'aura lo stendardo della croce, novellamente il giorno del Signore santificato; ecco novellamente il capo della chiesa, col quale chiunque non raccoglie, dissipa, riconosciuto; ecco finalmente uno scisma deplorabile, che per la vastità della Francia, per la celebrità de' suoi abitatori, per la chiarezza delle sue città minacciava gran pericoli, e gran ruine alla cattolica religione, ecco questo deplorabile scisma dissipato e spento. Tali sono i vantaggi, tali i benefizj, tale la salute, che il santo giorno della redenzione, in cui, pubblicato il concordato, la Francia empiè di compunti e venerabondi fedeli i tempj, ha partorito. Poscia il pontefice, in se medesimo raccoltosi, continuò dicendo: «Non è però, venerabili fratelli, che l'animo nostro non sia in mezzo alla sua contentezza da qualche amara puntura trafitto. Sonsi col concordato, noi non consapevoli, pubblicati certi articoli, di cui è debito nostro, seguitando le vestigia del nostri antecessori, di addomandare e le modificazioni, e le mutazioni: di ciò richiederemo il consolo; ciò speriamo dalla sapienza e dalla religione sua, dalla sapienza e dalla religione della nazione Francese, che da tanti secoli tanto ha di questa religione meritato, e che oggidì novellamente con sì acceso desiderio l'abbraccia. Volle il governo di Francia, che la religione in Francia si ristorasse: non può non volere quanto la sua santa constituzione richiede, quanto la salutare disciplina della chiesa ricerca». Infatti instò il papa, perchè gli articoli si riformassero; ma il consolo, che, ottenuto il concordato, voleva essere padrone della chiesa, non che la chiesa fosse di lui, rispondeva ora con sotterfugj, ora con minacce, nè mai il pontefice potè venire a capo del suo intendimento. In tale conformità continuarono le faccende religiose in Francia, finchè nuove condiscendenze del pontefice, e nuove ambizioni del consolo mandarono ogni cosa in ruina ed in conquasso. A questo modo travagliava Roma con Francia. Intanto cambiamenti notabili fin dal varcato anno erano accaduti in Piemonte. Aveva il consolo cupidigia di serbar questo paese per se. Ma indugiava a risolversi, ed occultava cautamente le sue intenzioni. Aveva anzi veduto volentieri il marchese di San Marsano mandato a Parigi per negoziare della restituzione del Piemonte. Le incertezze e le ambagi del consolo, le offerte palesi fatte al re dopo la battaglia di Marengo, e la presenza del marchese a Parigi tenevano in pendente l'opinione dei popoli in Piemonte, e toglievano ogni modo di buon governo. Ognuno guardava verso Firenze, Roma, o Napoli, dove abitava, ora in questa, ora in quella, il re Carlo Emanuele. Appresso a lui vivevano molti nobili Piemontesi o de' più ricchi, o de' più capaci. Si aggiungeva Vittorio Alfieri, nato in Asti di Piemonte, uomo di quell'ingegno smisurato, che ognuno sa, padre della tragedia Italiana, e da essere eternamente, non che venerato, adorato da chi venera ed adora le Italiane muse. Avendo egli odiato e maledetto i re, quando erano in fiore, si era poi messo ad odiare ed a maledire le repubbliche, quando erano venute in potenza, e ciò meno forse pel male che in quelli od in queste era, che pel genio in lui naturale di andar sempre a ritroso. Adunque in Firenze standosene, continuamente fulminava contro la condizione delle cose Piemontesi. L'autorità di un uomo sì grande operava con efficacia, e vieppiù rompeva ogni nervo del governo. Sorsero le sorti fatte più certe della Cisalpina e della Liguria, mentre si tacquero quelle del Piemonte, onde chi sperava pel re ebbe cagione di più sperare, chi temeva di più temere. In tali intricate occorrenze avvenne di verso Borea un caso di grandissima importanza, perchè nella notte dei ventitrè marzo dell'ottocentouno morì di morte violenta Paolo, imperatore di Russia; della quale non così tosto fu avvisato il consolo, che trovandosi libero dalle instanze di lui, e volendo preoccupare il passo alle intenzioni di Alessandro suo figliuolo e successore, fece un decreto, il quale, sebbene ancora non importasse la unione definitiva del Piemonte alla Francia, accennava però manifestamente, che sua volontà fosse, che la unione si effettuasse: constituiva il decreto il Piemonte secondo gli ordini di Francia. Perchè poi non paresse all'imperatore Alessandro, che il signore della Francia troppo impertinentemente avesse operato nel prendere, prima di consigliarsi con lui, una deliberazione di tanta importanza, diede al decreto una data anteriore al giorno, in cui gli pervennero le novelle della morte di Paolo. Sperava che Alessandro, trovata all'assunzione sua la cosa fatta, non difficilmente sarebbe per consentirvi. Importava il decreto dato ai due di aprile dell'ottocentouno, che il Piemonte formerebbe una divisione militare della Francia, che fosse partito in sei dipartimenti, che le leggi della repubblica rispetto agli ordini amministrativi e giudiziali vi si pubblicassero ed eseguissero, che le casse al primo giugno fossero comuni, che un amministrator generale con un consiglio di sei reggesse, che Jourdan restasse eletto amministrator generale. Si crearono sei dipartimenti, dell'Eridano con Torino, di Marengo con Alessandria, del Tanaro con Asti, della Sesia con Vercelli, della Dora con Ivrea, della Stura con Cuneo. Ma il consolo, che principiava a non amare i nomi antichi, cambiò quello del primo, non più dell'Eridano, ma del Po chiamandolo, e credè con ciò di aver fatto un bel tratto. Mandava Jourdan a Parigi per ringraziare, e per promettere obbedienza deputati; furono quest'essi, Bossi uno dei consiglieri, Baudisson, professore dell'università, i nobili d'Harcourt, Alfieri di Sostegno, della Rovere, e Serra. Furono veduti molto volentieri, massime i nobili, perchè il consolo gli voleva allettare. Solo Fouché, ministro di polizia generale, trascorse in presenza loro con parole eccessive contro i preti e contro gli aristocrati: il che fe' ridere, e stringere nelle spalle i deputati. Intanto il consolo si studiava a conciliarsi l'animo di Alessandro, ed a congiungerselo in amicizia; e siccome astutissimo ch'egli era, e sprofondato in tutte le arti di Francia, d'Italia, e d'Egitto, avendo udito che il novello imperatore era di natura generosa, e tendente al governar gli uomini piuttosto con dolcezza che con severità, se gli mise intorno da tutte parti tentandolo. Avere voluto la Provvidenza, diceva, arbitra delle umane cose, che un principe d'animo nobile e buono fosse salito al sovrano seggio delle Russie; avere voluto da un'altra parte, che un generale di qualche nome avesse recato in se la somma dell'autorità in Francia, generale, al quale e le filosofiche dottrine e la religione piacevano, che sapeva qual moderazione convenisse alle prime, quale tutela alla seconda: sarebbe felice il mondo, se Francia e Russia potentissime s'accordassero tra loro al medesimo fine; rotta, sanguinosa, desolata essere la umanità; ricordarsi delle ferite, non bene avvisare i rimedj; il dispotismo da una parte, l'anarchìa dall'altra; se Alessandro e Buonaparte nello stesso disegno convenissero, darebbesi dolce norma in Europa alla potestà assoluta, freno insuperabile alla licenza; aversi ad ordinare Italia, Svizzera, Olanda; parlasse Alessandro, del desiderio suo avvisasse, e fora pago l'intento suo; principiare il secolo, dover principiare con nuove e fortunate sorti; questi essere gli augurj, queste le arre date dal cielo a Buonaparte e ad Alessandro: dover loro mostrare, ad onta di tanti secoli infelici, che vi è modo di condurre gli uomini a felicità; dover mostrare, che calunniano l'umanità coloro che la odiano; dover mostrare che la filosofia non inganna, che la religione non perseguita, che la libertà non dissolve; dover mostrare che tutte insieme unite potevano far sorgere un vivere fortunatissimo; a sì lieto fine volere lui usare tutta la volontà, e tutta la forza sua; se le volesse usare anche Alessandro, direbbero i posteri, che non indarno sperarono i filosofi, che più avventurose stelle avessero a splendere sulle misere generazioni un giorno. Ai dolci suoni, alla magnificenza e giocondità delle parole, come benevolo, si calava Alessandro, non sospettando quanto veleno in se nascondessero. Intanto il consolo, fatto sicuro dell'amicizia di Russia, insorgeva, e mentre Alessandro si pasceva di speranze lusinghiere, ei dava mano alle realtà, incamminandosi al dominio del mondo. Cominciando dal Piemonte, che stimava esser necessario congiungersi per avere senza impedimenti di mezzo la signorìa d'Italia, comandava, che il decreto dei due aprile fosse in ogni sua parte mandato ad effetto. L'Austria impotente per le disgrazie, l'Inghilterra per la lontananza, nè consentirono, nè contrastarono, persuase oramai, che se non arrivava qualche improvviso accidente che le ajutasse, indarno erano i consigli umani. Arrivarono a Torino i commissarj Parigini ad ordinar lo stato, chi per le finanze, chi pel fisco, chi pel lotto, chi per le poste, chi per gli studj, chi pei giudizj. L'antica semplicità degli ordini amministrativi di quel paese degenerava in forme complicate, i nuovi costarono a molti doppi più cari. Bene si migliorarono gli ordini giudiziali sì civili che criminali per l'acquistata prontezza, immenso benefizio, che consolava della perduta independenza. Ciò, quanto alle cose scritte: quanto alle arti subdole, non so se provvide, ma certamente furono strane. Voleva il consolo ridurre lo stato in forma di monarchìa: i repubblicani di Francia, eccettuati i più furibondi, che aveva confinati in carcere, o banditi in lidi lontani, il secondavano, nè egli era avaro verso di loro di carezze e di ricchezze. Quanto ai repubblicani Italiani, due mezzi gli si paravano davanti, o di vezzeggiargli, come quei di Francia, o di spegnergli, non già coll'ammazzargli, perciocchè sapeva che l'età non comportava sangue, come la Borgiesca, ma col tôrre loro l'autorità e la riputazione. Elesse quest'ultima; al che diede anche favore la ricchezza degli avversarj, che mandavano doni, presenti e denari nelle corrotte Tulierie: il che era cagione, che a quello, a che di propria volontà inclinava, fosse anche stimolato da altri. Tolse adunque le cariche a molti, nè solamente gli cassava, ma ancora dando favore e stimolo ai nemici loro, operava, che il nome e la fama ne fossero straziati e vilipesi; intricate infamie, perchè perseguitava chi l'aveva ajutato, vezzeggiava chi il disprezzava. Buon procedere sarebbe stato questo, quanto all'utile, se mai non avessero potuto arrivare i tempi grossi, ma non al contrario, perchè per esso si perdevano gli amici, e non si acquistavano i nemici; ma il consolo sognava sempre prosperità. Restava Jourdan, che era stimato repubblicano. Deliberossi a tôrre anche questo capo ai repubblicani, quantunque ei si fosse portato molto rimessamente con loro: partì Jourdan lodato dal consolo, desiderato dai Piemontesi. Arrivava Menou in Torino in luogo di Jourdan. Raccontar le lepidezze, e gli arbitrj che vi fece questo Menou, sarebbe troppo lunga bisogna, e forse troppo più piacevole, che la gravità della storia comporti. Bene non mi posso tenere dal considerare il consiglio del consolo, che per instaurare, come diceva, gli ordini della monarchìa in Piemonte, vi mandava un Menou di Francia, e per instaurarvi, come anche diceva, la religione di Cristo, vi mandava un Menou d'Egitto. Forse voleva atterrire con qualche odore di Turchìa; ma è un pessimo modo di terrore il rendersi ridicolo. Basta, accidente strano e non più udito era quello di veder le carezze che Menou faceva ai nobili, e quelle che i nobili facevano a Menou, dal canto suo umili e dimesse, dal canto loro astute e superbe; ed ei se le godeva, ed erane contentissimo. Diceva che il governo il voleva, il che era vero: ma il governo dà l'autorità, non la discrezione, e Menou non ne aveva. A questa guisa passarono i tempi fra i Subalpini infino alla unione definitiva, partigiani di Francia perseguitati, partigiani di Sardegna accarezzati, partigiani d'Italia usati come stromenti di calunnie e di vendette, il giardino del re diformato da una succida baracca ad uso di una Turca. A questo modo incominciava il promesso legale dominio nel generoso e sfortunato Piemonte. Il consolo teneva il Piemonte per Menou, la Toscana per Murat. Voleva, come a suo cognato, aprire a Murat l'adito alle grandezze; nè Murat era di cattiva natura, solo aveva poco cervello, e l'animo molto vanaglorioso: per questo, quantunque fosse buono, si piegava volentieri alle voglie del consolo, quali elle si fossero. La parte dell'esercito ch'egli governava, mandata primamente in Italia per rinforzare l'ala destra di Brune, e per alloggiare in Toscana, fu, dopo la pace di Luneville, mandata nello stato Romano con star pronta ad assaltare il regno di Napoli. Conclusa poi la pace col re, entrava nel Regno sin oltre a Taranto, in nome per isforzare il governo ad osservar il trattato, ed i perdoni verso i novatori, in fatto per minacciar gl'Inglesi, e per vivere a spese del Regno. Quanto allo stato Romano, concluso il concordato, Murat ritirava le genti, che vi aveva, in Ancona per tener quel freno in bocca al pontefice; si coloriva il fatto col pretesto degl'Inglesi. Così gl'Inglesi occupavano quanto potevano in Italia e nelle sue isole per impedire, come dicevano, il predominio e la tirannide dei Francesi; questi facevano lo stesso per impedire, come protestavano, il predominio e la tirannide degl'Inglesi; fra entrambi intanto l'Italia non aveva nè posa nè speranza. Murat girando per Toscana, e stando in Firenze, ed ora andando a Pisa, ed ora a Livorno, ed ora a Lucca, riceveva in ogni luogo, come cognato del consolo, onorevoli accoglienze; cagione per lui d'incredibile contentezza. Si mostrava cortese ed affabile con tutti: nè amava le rapine, manco il sangue: purchè il lodassero, se ne viveva contento. Pure trascorse ad un atto, credo per volontà del consolo, nel quale non so se sia o maggior barbarie, o maggior ingratitudine, o maggior insolenza. Comandava con bando pubblico, che tutti gl'Italiani, erano la maggior parte Napolitani, esuli dalle patrie loro per opinioni politiche, dovessero sgombrare dalla Toscana, e ritornare nei propri paesi, in cui, secondochè affermava, potevano, in virtù dei trattati, vivere vita sicura e tranquilla: chi fosse contumace a questo comandamento, fosse per forza condotto ai confini ed espulso. E perchè niuna parte di bruttezza mancasse a quest'atto, prese, per farlo, occasione da un tumulto popolare nato in Firenze nel mentre che si conduceva all'estremo supplizio un soldato Toscano reo d'assassinio contro un soldato Francese, come se i fuorusciti fossero in paese ospitale rei di ribellione alle leggi ed alla giustizia, o s'intendessero cogli assassini. Sì per certo, questo mancava alla malvagità del secolo, che coloro, i quali erano per le instigazioni di Francia venuti in odio ai loro antichi signori, fossero, come gente di mal affare, cacciati inesorabilmente dagli eletti ricoveri loro da un generale di Francia. Potevano i ladri e gli assassini di altri paesi ritirarsi in Toscana, quietamente dimorarvi, solo gli amatori del nome di libertà, uomini, se ingannati, certamente ingenui e dabbene, non potevano esservi ricettati, nè trovarvi riposo e salute, da quei medesimi cacciati, per cagione dei quali erano a quelle miserabili strette condotti. Nè credo che abuso di forza più intollerabile di questo sia stato mai, di far legar uomini innocenti per condurgli là, dove non volevano andare. Ma non sola la Toscana cacciava fuori i miseri. Mentre Murat espelleva gli esuli da questo paese, la repubblica Cisalpina gli mandava via da' suoi territorj con la solita giunta, che chi nel termine di dieci giorni non obbedisse, fosse condotto per forza ai confini. Quest'erano le arre, che i Buonapartidi davano ai re. Accadde poi un caso degno di molta compassione; perchè i fuorusciti Napolitani svelti per forza dal Toscano nido, quando furono arrivati a Roma, non avevano i passaporti che da loro si richiedevano, per modo che non potevano nè stare, nè andare, nè tornare. Da questo imparino prudenza coloro, che hanno smania di far rivoluzioni, e di fidarsi dei forestieri. Solo in Piemonte trovarono gli esuli ricovero lieto e sicuro. Murat contento al comandar in Toscana, fu contentissimo d'instituirvi un re. Era l'infante principe di Parma arrivato in Parma, dove stava aspettando i deputati del novello regno. Vennervi a complimentarlo e riconoscerlo come re d'Etruria, quest'era il titolo che gli si dava, Murat, Ippolito Venturi, Ubaldo Ferroni. Assunse il nome di Lodovico primo; nominò suo legato a ricevere il regno Cesare Ventura. Murat annunziando l'assunzione di Lodovico parlava di civiltà e di dottrina ai Toscani, lodava i Medici ed i Leopoldi, esortava i regnicoli ad avere i Francesi in luogo di un popolo amico, che tanto sapeva rispettare presso i popoli esteri i principj monarcali, quanto era fortemente addetto in casa propria ai principj repubblicani. Cesare Ventura prendeva possesso del regno. Favellarono nella solennità Francesco Gonnella, notajo dello stato, Tommaso Magnani, avvocato regio, Orlando del Benino, senatore, tutti lusinghevolmente per le cose, francescamente per le parole. Vidervisi due donne complimentate da Gian Battista Grifoni, l'una sorella del consolo, l'altra vedova del ministro di Spagna. Venne Lodovico a Firenze; resse con dolcezza, le Leopoldiane vestigia calcando. Era tempo di constituzioni transitorie, fatte non perchè durassero, ma perchè servissero di scala ad altre. Mandava il consolo, qual suo legato, Saliceti a riformar Lucca, oppressa dall'imperio dei forestieri, e straziata dalle discordie civili. Parve bello ed acconcio trovato per ritrarre i paesi, a satisfazione delle potenze, verso i loro ordini antichi, l'introdurre nei nuovi i nomi vecchi, come se le parole avessero a prevalere sulle cose. Fecero i Lucchesi le solite feste a Saliceti: chi agognava lo stato, il corteggiava; chi più aveva gridato contro gli aristocrati, più gli accarezzava; a loro principalmente il commissario di Francia si volgeva. Se i democrati si risentivano, rispondeva esortando, portassero i tempi pazientemente, perchè così voleva il consolo. Soggiungeva, meglio conservarsi la libertà con l'aristocrazìa e la democrazìa mescolate insieme, che con la democrazìa pura. Cominciavasi a parlar di aristocrazìa per far passo alla monarchìa. Constituiva Saliceti la repubblica di Lucca con un collegio, o gran consiglio di duecento proprietari più ricchi, e di cento principali negozianti, artisti e letterati: avesse questo consiglio la facoltà di eleggere i primi magistrati; fossevi un corpo d'anziani con la potestà esecutiva; presiedesselo un gonfaloniere eletto a volta dai colleghi, una volta ogni due mesi; un consiglio amministrativo, nel quale gli anziani entrassero, e quattro magistrati di tre membri ciascuno; esercesse le veci di ministri; proponessero gli anziani le leggi, e le eseguissero; una congregazione di venti eletti dal collegio le discutessero e le statuissero; rappresentasse il gonfaloniere la repubblica, le leggi promulgasse, gli atti degli anziani sottoscrivesse. I cantoni del Sercio con Lucca, del Littorale con Viareggio, degli Apennini con Borgo a Mozzano componessero la repubblica. Per la prima volta trasse Saliceti i magistrati supremi. Ordini buoni erano questi, ma il tempo gli guastava. Le sorti della Toscana erano congiunte con quelle di Parma. Essendo il duca padre mancato di vita, cesse la sovranità del ducato nella repubblica di Francia. Mandava il consolo il consiglier di stato Moreau di San Mery ad amministrarlo. Resse San Mery, che buona e leale persona era, con benigno e giusto freno. Era egli, se non letterato, non senza lettere ed amatore sì di letterati, che d'opere letterarie: ogni generoso pensiero gli piaceva. Solo procedeva con qualche vanità, e siccome le vanità particolari sono intollerabili alle ambizioni generali, venne in disgrazia del consolo. Non potè constituire in Parma ordini stabili, perchè il consolo, che serbava il paese per se, non volle aver sembiante di lasciarlo ad altri. Due qualità contrarie erano nel consolo, pazienza maravigliosa nel proseguire cautamente, anche pel corso di molti anni, i suoi disegni, impazienza di conseguire precipitosamente il fine, quando ad esso approssimava. Riconciliatosi col papa, vinta l'Austria, ingannato Alessandro, confidente della pace coll'Inghilterra, si apparecchiava a mandar ad effetto ciò, che nella mente aveva da sì lungo tempo concetto, e con tanta pertinacia procurato. Voleva che le prime mosse venissero dall'Italia, perchè temeva che certi residui di opinioni, e di desiderj repubblicani in Francia non fossero per fargli qualche mal giuoco sotto, se la faccenda non si spianasse con qualche precedente esempio. Sapeva che nella nostra razza imitatrice, cosa molto efficace è l'esempio, e che gli uomini vanno volentieri dietro alle similitudini. Deliberossi adunque, prima di scoprirsi in Francia, di fare sue sperienze Italiane, confidando che gl'Italiani, siccome vinti, avrebbero l'animo più pieghevole. Così con le armi Francesi aveva conquistato Italia, con le condiscendenze Italiane voleva conquistar Francia. Le rappresentazioni che sanno di teatro, sempre piacquero agli uomini, massimamente a Buonaparte. Sapeva che le cose insolite allettano tutti, spezialmente i Francesi nati con fantasia potente. Perciò volle alle sue Italiane arti dare pomposo cominciamento. Spargevansi ad arte e dai più fidi in Cisalpina voci, che la repubblica pericolava con quei governi temporanei; ch'era oggimai tempo di constituirla stabilmente, e come a potenza independente si conveniva; che ordini forti erano necessarj, perchè diventasse quieta dentro, rispettata fuori; che niuno era più capace di darle questi necessarj ordini di colui, che prima l'aveva creata, poi riscattata; non potersi più lei constituire con gli ordini dati dall'eroe Buonaparte nel novantasette, perchè avviliti dalla invasione, ricordatori di discordie, sospetti per democrazìa ai potentati vicini. Aver pace Europa, averla Italia, non doversi più la felice concordia turbare con ordini incomposti; volersi vivere in repubblica, ma non troppo disforme dai governi antichi conservati in Europa; sola potenza essere la Cisalpina in Italia, che a favor di Francia stando, fosse in grado di tener in freno l'Austria tanto potente per l'acquisto dei dominj Veneziani, nè essere la repubblica per acquistare la forza necessaria, se non con leggi conducenti a stabilità; varj essere gli umori, gl'interessi, le opinioni, le abitudini delle Cisalpine popolazioni, nè Veneziani, Milanesi, Modenesi, Novaresi, Bolognesi nel medesimo desiderio concorrere, nè la medesima cosa volere; rimanere i vestigi dell'antiche emolazioni; parti separate, e non consenzienti non poter comporre un corpo unito e forte, se un governo stretto, se una mano gagliarda in uno e medesimo volere non le costringessero: richiedere adunque un reggimento nuovo, concorde e virile la pace d'Europa, richiederlo la quiete della Cisalpina, richiederlo le condizioni felici, alle quali era chiamata. Mentre questi semi si spargevano nel pubblico, Petiet coi capi della Cisalpina negoziava, affinchè i comandamenti imperativi del consolo avessero a parere desiderj e supplicazioni spontanee dei popoli. Maturati i consigli, a Parigi pel disegno, a Milano per l'esecuzione, usciva un decreto della consulta legislativa della repubblica: ordinava, che una consulta straordinaria si adunerebbe a Lione in Francia, e suo ufficio sarebbe l'ordinare le leggi fondamentali dello stato, ed informare il consolo intorno alle persone che nei tre collegj elettorali dovessero entrare; sarebbe l'assemblea composta dai membri attuali della consulta legislativa, da quei della commissione, eccettuati tre per restare al governo del paese, da una deputazione di vescovi e di curati, e dalle deputazioni dei tribunali, delle accademie, della università degli studj, della guardia nazionale, dei reggimenti della truppa soldata, dei notabili dei dipartimenti, delle camere di commercio. Sommò il numero a quattrocento cinquanta. Risplendevanvi un Visconti, arcivescovo di Milano, un Castiglioni, un Montecuccoli, un Oppizzoni, un Rangoni, un Melzi, un Paradisi, un Caprara, un Serbelloni, un Aldrovandi, un Giovio, un Pallavicini, un Moscati, un Gambara, un Lecchi, un Borromeo, un Trivulzi, un Fantoni, un Belgiojoso, un Mangili, un Cagnoli, un Oriani, un Codronchi, arcivescovo di Ravenna, un Belissomi, vescovo di Cesena, un Dolfino, vescovo di Bergamo. Andarono a Lione chi per amore, chi per forza, chi per ambizione; grande aspettazione era in Cisalpina; in Francia le menti attentissime. Pareva un fatto mirabile, che una nazione Italiana si conducesse in Francia per regolare le sue sorti. Il governo Cisalpino esortava con pubblico manifesto i deputati: gissero a fondare gli ordini salutari della repubblica in mezzo alla maggior nazione, in cospetto dell'autore, e del restitutore della Cisalpina; nissuno l'ufficio ricusasse: mostrassero con le egregie qualità loro, quanto la Cisalpina nazione valesse; a lei amore e rispetto conciliassero; ogni pretesto di calunnia togliessero; nel Lionese congresso livore nissuno, odio nissuno, parzialità nissuna, recassero; al mondo disvelassero, buonamente, nobilmente, affettuosamente verso la patria procedendo, esser loro quei medesimi Cisalpini, che nell'inevitabile tumulto di tante passioni, nell'avviluppamento di tante vicende, nell'alternativa di politici eventi tanto contrarj, mai non attesero a vendette, a discordie, a fazioni, a persecuzioni, a sangue; pruovassero, che non invano aveva il Cisalpino popolo nome di leale e di buono; pruovassero, che se a sublime grado fra le nazioni erano destinati, a sublime grado ancora meritavano di essere innalzati; dovere a se stessa dei proprj ordini restare la Cisalpina obbligata; solo se medesima potrebbe accagionare, se tanti lieti augurj, se tante concepite speranze fossero indarno. Questi nobili consentimenti verso la Cisalpina patria, e questa rinunziazione di ogni affetto parziale ed interessato predicava un Sommariva, presidente del governo. Trovarono in Lione il ministro Taleyrand, che aveva in se raccolti tutti i pensieri del consolo; trovarono Marescalchi, che riconosciuto da Francia per ministro degli affari esteri della Cisalpina, guardava dove accennasse in viso Taleyrand, e il seguitava. L'importanza era, che vi fosse sembianza di discutere liberamente quello, che già il consolo aveva ordinato imperiosamente. Già aveva sparso sue ambagi: volere la felicità della Cisalpina; volere consigliarsi con gli uomini savj di lei; niuna cosa più desiderare, che la independenza e la salute sua; amarla come sua figliuola prediletta, stimarla principal parte della sua gloria. L'arte allignava; bene si disponeva la materia. Partivansi i deputati in cinque congregazioni, che rappresentavano i cinque popoli; esaminassero la constituzione già data dal consolo per Petiet a Milano, e come per leggi organiche si potesse mandar ad esecuzione. Discutevasi a Lione dai mandatarj; la licenza soldatesca straziava intanto i mandatori; un inesorabile governo con le tasse gli conquideva. Dolevansi e delle perdute sostanze, e degli innumerevoli oltraggi, e della durissima servitù: le grida degli straziati a Milano furono soffocate dalle grida dei festeggianti a Lione. A Lione si discorreva, e si obbediva. Allungato il farne pubblica dimostrazione quanto potesse parere dignità e sufficienza di discussione, arrivava il consolo: era l'undici gennajo; Lionesi e Cisalpini a gara accorrevano. Era spettacolo grande a chi mirava la scorza, compassionevole a chi dentro, perchè là si macchinava di spegnere per legge la libertà, che già innanzi era perita per abuso. Ognuno maravigliava la dolcezza, e la semplicità del consolo: pareva loro, che fossero parte di grandezza; le adulazioni sorgevano. I repubblicani, se alcuno ve n'era, si rodevano, ma s'infingevano, non tanto per non esser tenuti faziosi, quanto per non esser tenuti pazzi o sciocchi; che già con questi nomi cominciava a chiamargli l'età. Buonaparte metteva mano all'opera; chiamava i presidenti delle congregazioni, e con loro discorreva intorno alla constituzione: ora approvava, ora emendava, ora domandava consiglio. Contradditor benigno, e docile alle risposte, pareva, che da altri ricevesse quello che loro dava. Chi conosceva l'intrinseco, ammirava l'arte; chi l'ignorava, la molestia. Infine dai discorsi permessi si venne alla conclusione comandata: fu appruovata la constituzione; parve buono e fondamentale ordine quello dei collegi elettorali: nominolli per la prima volta il consolo su liste doppie presentate dalle congregazioni. Ma non s'era ancor toccato il principal tasto, per cui mezza Italia era stata fatta venire in Francia. Meno una constituzione, che un esempio si aspettava dagl'Italiani. Trattavasi di nominare un presidente della Cisalpina. Importava la persona, importava la durata del magistrato: a Buonaparte non piacevano i magistrati a tempo. Fu data l'intesa ai Cisalpini, perchè il chiamassero capo della repubblica, e gli dessero il magistrato supremo di presidente per dieci anni, e potesse essere rieletto quante volte si volesse. Avevano queste due deliberazioni qualche malagevolezza, parte coi Cisalpini, parte con le potenze, per la evidente dipendenza verso Francia, se il consolo fosse padrone della Cisalpina. Importava anche il confessare, che niun Cisalpino fra i Cisalpini fosse atto a governare: alcuni andavano alla volta di Melzi. I ministri di Buonaparte fecero diligenze coi partigiani, ora lodando Melzi, ora asseverando, che avrebbe grande autorità nei nuovi ordini. Ebbero le arti il fine desiderato. Appresentaronsi colla deliberazione fatta i Cisalpini al consolo, nella quale era tanta adulazione di lui, e tanta depressione di loro medesimi, che non credo che nelle storie vi sia un atto più umile, o più vergognoso di questo. Confessarono, e si sforzarono anche di pruovare con loro ragioni, a tanto di viltà gli aveva ridotti, che nissun Cisalpino era, che idoneamente gli potesse governare. Gradì il consolo nelle umili parole i proprj comandamenti: disse, che domani fra i convocati Cisalpini in pubblica adunanza sederebbe. Accompagnato da ministri di Francia, dai consiglieri di stato, dai generali, dai prefetti, e dai magistrati municipali di Lione fra le liete accoglienze ed i plausi festivi dei Cisalpini, in alto seggio recatosi così loro favellava: «Hovvi in Lione, come principali cittadini della Cisalpina repubblica appresso a me adunati: voi mi avete bastanti lumi dato, perchè l'augusto carico a me imposto, come primo magistrato del popolo Francese, e come primo creator vostro riempire io potessi. Le elezioni dei magistrati io feci senza amore di parti o di luoghi: quanto al supremo grado di presidente, niuno ho trovato fra di voi, che per servigi verso la patria, per autorità nel popolo, pel sceveramento di parti abbia meritato, ch'io un tal carico gli commettessi. Muovonmi i motivi da voi prudentemente addotti; ai vostri desiderj consento. Sosterrò io, finchè fia d'uopo, la gran mole delle faccende vostre. Dolce mi sarà fra tante mie cure l'udire la confermazione dello stato vostro, e la prosperità dei vostri popoli. Voi non avete leggi generali, non abitudini nazionali, non eserciti forti: ma Dio vi salva, poichè possedete quanto gli può creare, dico popolazioni numerose, campagne fertili, esempio da Francia». Questo favellare superbo del consolo fu da altissimi plausi e di Francesi e di Cisalpini seguitato. La servitù era dall'un de' lati mitigata dall'imperio sopra i forestieri, dall'altro amareggiata dal vilipendio; pure lietissimamente applaudivano i servi doppi come se onorati, e liberi fossero. Dimostrarono desiderio che la repubblica (quest'era un concerto coi più fidi) non più Cisalpina, ma Italiana si chiamasse, cosa molto pregna massimamente in mano di Buonaparte. Consentì facilmente il consolo. Riprese, adulando, le parole Prina Novarese, il quale essendo di natura severa ed arbitraria, molto bene aveva subodorato il consolo, ed il consolo lui, e si voleva far innanzi al dominare. Piacque, e per rimunerazione fu fatto grande. Chiamarono gl'Italici ad alta voce il consolo presidente per dieci anni, e rieleggere si potesse. Ebbe Melzi luogo di vice-presidente. Era Melzi uomo generoso, savio, molto amato dagl'Italiani: pendeva all'assoluto, ma piuttosto per grandezza, che per vanità. Restava che si ordinasse la constituzione. Cominciossi dagli ordini ecclesiastici. Fosse la religione cattolica, apostolica e Romana, religione dello stato; ciò non ostante i riti acattolici liberamente si potessero celebrare in privato; nominasse il governo i vescovi, gl'instituisse la santa sede; nominassero i vescovi ed instituissero i parochi, il governo gli appruovasse; ciascuna diocesi avesse un capitolo metropolitano ed un seminario; i beni non alienati si restituissero al clero; si definissero le congrue in beni pei vescovi, pei capitoli, pei seminarj, per le fabbriche, fra tre mesi; si assegnassero pensioni convenienti ai religiosi soppressi; non s'innovassero i confini delle diocesi; per gl'innovati si domandasse l'appruovazione della santa sede; gli ecclesiastici delinquenti con le pene canoniche fossero dai vescovi puniti; se gli ecclesiastici non si rassegnassero, i vescovi ricorressero al braccio secolare; se un ecclesiastico fosse condannato per delitto, si avvisasse il vescovo della condanna, acciocchè quanto dalle leggi canoniche fosse prescritto, potesse fare: ogni atto pubblico, che i buoni costumi corrompesse, od il culto, od i suoi ministri offendesse, fosse proibito; niun paroco potesse essere sforzato da nissun magistrato a ministrare il sacramento del matrimonio a chiunque fosse vincolato da impedimento canonico. A questo modo fu ordinata la chiesa Italiana nella Lionese consulta. Alcuni capi, ancorchè laudabili e sani, toccavano la giurisdizione ecclesiastica, e sarebbe stato necessario l'intervento del pontefice. Nondimeno con acconcio discorso a nome di tutto il clero Italico assentiva l'arcivescovo di Ravenna, assentimento non necessario, se l'autorità civile aveva dritto di fare quello che fece, non sufficiente, se l'intervento dell'autorità pontificia era necessario. Ma il consolo su quelle prime tenerezze d'amicizia col papa non aveva timore, e sapeva che l'ardire comanda altrui. Quanto agli ordini civili, i tre collegi dei possidenti, dei dotti, e dei commercianti erano il fondamento principale della repubblica: in loro era investita l'autorità sovrana. Ufficio dei collegi fosse nominare i membri della censura, della consulta di stato, del corpo legislativo, dei tribunali di revisione e di cassazione, della camera dei conti. Ancora accusassero i magistrati per violata constituzione, e per peculato; finalmente i dispareri nati tra la censura ed il governo per accuse di tal sorte definissero. Sedessero i possidenti in Milano; i dotti in Bologna, i commercianti in Brescia: ogni biennio si adunassero. Magistrato supremo era la censura; componessesi da nove possidenti, da sei dotti, da sei commercianti; sedesse in Cremona; desse per se, e giudicasse le accuse date per violata constituzione e per peculato; cinque giorni dopo la fine delle adunanze dei collegi si adunasse; dieci giorni, e non più sedesse. Ordine buono era questo, ma l'età servile il rendeva inutile. Fosse il governo della repubblica commesso ad un presidente, ad un vice-presidente, ad una consulta di stato, ai ministri, ad un consiglio legislativo. Avesse il presidente la potestà esecutiva, il vice-presidente nominasse; fossero i ministri tenuti d'ogni loro atto verso lo stato. Ufficio della consulta fosse l'esaminare ed il concludere le instruzioni pei ministri presso le potenze, e l'esaminare i trattati. Potesse nei casi gravi derogare alle leggi sulla libertà dei cittadini, ed all'esercizio della constituzione: provvedesse in qualunque modo alla salute della repubblica. Se dopo tre anni qualche riforma giudicasse necessaria in uno o più ordini della constituzione, sì la proponesse ai collegi, ed i collegi definissero. Aveva il consiglio legislativo facoltà di deliberare intorno ai progetti di legge proposti dal presidente, e di consigliarlo sopra quanti affari fosse da lui richiesto. Il corpo legislativo statuisse le leggi proposte dal governo, ma non discutesse, nè parlasse: solo squitinasse. Tali furono i principali ordini della constituzione dell'Italiana repubblica, forse i migliori, massime i tre collegi ed il magistrato di censura, che Buonaparte abbia saputo immaginare. Letta ed accettata la constituzione, se ne tornava il consolo, traendo a calca e con acclamazioni il popolo, nel suo Lionese palazzo. Poscia, ricevute le salutazioni degl'Italici, e nominati i ministri, si avviava, contento del successo del suo Italiano sperimento, al maraviglioso e maravigliato Parigi. Fecersi molte allegrezze nell'Italiana repubblica per la data constituzione, e per l'acquistato presidente le adulazioni montarono al colmo, fastidiose per uniformità. Presersi solennemente i magistrati secondo gli ordini nuovi; Melzi, prendendo il suo, parlò magnificamente del consolo, modestamente di se, acerbamente dei predecessori; toccò principalmente delle corruttele. Il lusso fu grande; Melzi viveva da principe, ma non con grandezza affettata. Essendo il presidente lontano, pareva l'indipendenza maggiore; i soldati si descrivevano, ed in buoni reggimenti si ordinavano. Prina, ministro di finanza, talmente rendè prospera la rendita dello stato, che non ostante il tributo annuo che pagava alla Francia, erano le casse piene, i pagamenti agevoli. Le lettere e le scienze fiorivano, ma più le adulatorie che le libere. Chi voleva favellare con qualche libertà, era posto dove nissuno il poteva più udire. La consulta di stato, che per questo era stata creata, siccome quella che era docilissima, sapeva fare star cheto chi avesse voglia di parlare. Seppelo Ceroni, giovane d'ingegno vivo e generoso, che per qualche verso, che toccava d'independenza, andò carcerato, poi esiliato; con lui si trovarono nelle male peste Teuillet, generale Italiano, Cicognara, ed alcuni altri, solo per aver lodato i versi di Ceroni. Le quali cose udite dagli altri poeti e letterati, si misero in sul più bello dell'adulare. Diceva Buonaparte, che era tempo di mettere il freno; nel che aveva tutta la ragione; ma il male fu, che il mise ugualmente sul favellar bene, e sul favellar male. Molte cose si scrissero in quell'età; nissuna che avesse nervo, se non forse qualche imprecazione contro l'Inghilterra, perchè le imprecazioni contra di lei erano diventate parte d'adulazione. Nissuna cosa si scrisse che avesse dignità, serpeggiando l'adulazione per tutto; nissuna che avesse novità, perchè la lingua ed i pensieri erano levati di peso dalla lingua e dai libri Francesi, e neanco dai buoni, ma dai più cattivi; i più insipidi libricciattoli, le più informi gazzettacce servivano d'esemplare. Buon modo aveva trovato Buonaparte presidente perchè gli scrittori non facessero scarriere; questo fu di arricchirgli, e di chiamargli ai primi gradi. Pareva loro un gran fatto, ed accettando il lieto vivere, tacevano, o adulavano. Tuttavia qualche volta il mal umore gli assaliva, e negl'intimi simposj loro si sfogavano, e si divertivano a spese del presidente di Parigi. Il sapeva e ne rideva, perchè non gli temeva. Insomma la letteratura fu servile, le finanze prospere, i soldati ordinati, l'independenza nulla. Pure un certo sentimento dell'essere e del vivere da se nasceva, e si propagava negli animi, che col tempo avrebbe potuto fruttare. Melzi, uomo di natura tutta Italiana, e che amava l'Italia, nodriva questi pensieri con arte; il che giunto alla grandezza del suo procedere aveva molta efficacia. Questi andamenti non piacevano al presidente; e però nol teneva più in quella grazia, in cui l'aveva per lo innanzi. Fra tutto questo sorgevano opere di singolare magnificenza; il foro Buonaparte, come il chiamavano, fondossi nel luogo dove prima s'innalzavano le mura del castello di Milano. Fu questo un maraviglioso disegno, che molto ritraeva della Romana grandezza. Diessi mano al finirsi il duomo di Milano da tanto tempo imperfetto, e tanto fu promossa l'opera, che in poco d'anni vi si fece più lavorìo, che in parecchi secoli. Rendevasi la libertà impossibile, si acquistava la bellezza. Tutte queste cose, e quel nome di repubblica Italiana, singolarmente allettavano i popoli della penisola. Così vissesi qualche tempo in lei, finchè nuovi disegni di Buonaparte l'incamminarono a nuovi pericoli, ed a nuovi destini. A questo nome di repubblica Italiana, ed all'essersene Buonaparte fatto capo, s'insospettirono le potenze, massimamente l'Austria, alla quale stavano per le sue possessioni più a cura le Italiane cose. L'imperatore Alessandro stesso, che già aveva concetto qualche sinistra impressione per la grande autorità che il consolo si era arrogata nella Svizzera, vieppiù si alienava da lui pei risultamenti della Lionese consulta, e le cose della Russia colla Francia già si scoprivano in manifesta contenzione. Il consolo, che non voleva essere arrestato a mezzo viaggio, tentò di mitigare questi mali umori col pubblicare una scrittura, colla quale si sforzava di mostrare, che la Francia, conservando l'Italiana repubblica, non aveva preso troppo per se, nè tanto quanto avevano per se stessi preso gli altri potentati. Fatta comparazione della potenza della Francia prima della rivoluzione alla presente, discorreva, che prima ella aveva autorità negli stati del re di Sardegna per la vicinanza, e per le pretensioni dell'Austria sul Monferrato, in Venezia per la necessità in cui era questa repubblica di trovare appoggio contra la vicina ed ambiziosa Austria, nel regno di Napoli pel patto di famiglia. Ma che ora Venezia apparteneva all'imperatore, e che il patto di famiglia era rotto. Concludeva che l'Austria sarebbe stata padrona dell'Italia, se la Francia non si fosse attribuita una nuova forza per l'accessione della repubblica Italiana. Tacque del Piemonte, come se il tacere più valesse che l'appropriarsi. Nelle altre parti d'Europa, seguitava, la Polonia preda e nuova forza delle maggiori potenze, la Turchia inutile, la Svezia impotente, l'acquisto dei quattro dipartimenti del Reno non compensare nè far giusto contrappeso per lo spartimento della Polonia. Toccò poi anche la fine di Tippo Saib, grande aumento all'Inghilterra; moderatissimi essere i desiderj della Francia; avere restituito in pace quello, che aveva conquistato in guerra; ma non volere, col debilitar troppo se stessa, derogare alla sua dignità, ed alla consueta sua potenza; solo volere che nissuno preponderasse in Germania, nissuno in Italia; non voler dominare altrui, ma non voler anco esser dominata; a chi bene considerasse, essere evidente, ch'ella non aveva pei nuovi acquisti conseguito nuova forza, solo avere conservato l'antica. Genova sentiva ancor troppo pel recente governo di democrazìa: volle il consolo venirne alla solita scala dell'aristocrazìa. Il supplicarono, affinchè desse loro una costituzione: consentiva facilmente. I governatori di Genova lietamente annunziavano le felici novelle ai loro concittadini: essere arrivati al compimento dei desiderj loro: darebbe forma alla repubblica chi aveva dato pace all'Europa; avere dovuto la grande opera acquistare immortalità da un eroe: averlo essi di ciò pregato spinti dall'amor patrio, e dai patrj esempi; sperarne sorti felicissime; esserne sorta una constituzione annunziatrice della religione, conservatrice della libertà; essere il reggimento dello stato commesso a chi aveva, a chi industriava, a chi sapeva; esser posti in sicuro i diritti dei cittadini; restare che la pubblica saviezza tutelasse la pubblica felicità. Dimostrasse, aggiungevano, la nazione Ligure fra le Italiane nazioni a nissuna seconda in memorie illustri, che non erano spenti in lei i semi dell'antiche virtù, e che non degenere dagli avi era degna di conservare un nome grave di tanta gloria. Questo scritto dei reggitori Genovesi, disteso in lingua e stile assai più purgato, che le sucide scritture Cisalpine, Toscane e Napolitane, non era, quanto alla forma, senza dignità. Da Genova già erano venuti molti buoni esempi, ora veniva anche quella della limpidezza del parlare. Importava la constituzione, che un senato reggesse con potestà esecutiva la repubblica: presiedesselo un doge: dividessesi in cinque magistrati: il magistrato supremo, quello di giustizia e legislazione, quello dell'interno, quello di guerra e mare, quello di finanza. Trenta membri il componessero. Ufficio suo fosse presentare ad una consulta nazionale le leggi da farsi, eseguire le fatte; eleggesse il doge sopra una lista triplice e presentata dai collegi. Il doge presiedesse il senato ed il magistrato supremo: stesse in carica sei anni; rappresentasse, quanto alla dignità ed agli onori, la repubblica; sedesse nel palazzo nazionale; la guardia del governo gli obbedisse; un delegato del magistrato supremo in ogni suo atto l'assistesse. Fosse il magistrato supremo composto del doge, dei presidenti degli altri quattro magistrati, e di quattro altri senatori: il senato gli eleggesse; gli s'appartenesse specialmente l'esecuzione delle leggi e dei decreti; pubblicasse gli ordini e gli editti che credesse convenienti; tutti i magistrati amministrativi a lui subordinati s'intendessero; reggesse gli affari esteri; avesse facoltà di rivocare i magistrati da lui dipendenti, di sospendere per sei mesi i non dipendenti, anche i giudici dei tribunali; provvedesse alla salute sì interna che esterna dello stato; vegliasse che la giustizia rettamente e secondo le leggi si ministrasse; sopravegghiasse alle rendite pubbliche, agli affari ecclesiastici, agli archivi, alla pubblica istruzione; comandasse all'esercito. Quest'ordine del magistrato supremo rappresentava nella nuova constituzione l'antico piccolo consiglio, che i Genovesi chiamavano consiglietto; in lui era tutto il nervo del governo. L'autorità del doge era, come negli antichi ordini, piuttosto onorifica che efficace: contro di lui manifestamente si vedeva la gelosìa degli antichi governi aristocratici d'Italia. Quest'era il governo della repubblica Ligure. Restava a dichiararsi, in qual modo si attuasse. Stanziò il consolo, che vi fossero i tre collegi dei possidenti, dei negozianti, dei dotti, dai quali ogni potestà suprema, o politica, o civile, o amministrativa, come da fonte comune, derivasse. Eleggessero ogni due anni i collegi un sindacato di sette membri: in potestà del sindacato fosse censurare due membri del senato, due della consulta nazionale, due di ogni consulta giurisdizionale: due di ogni tribunale, e chi fosse censurato, immantinente perdesse la carica. Le giurisdizioni o distretti nominassero ciascuno una consulta giurisdizionale, le consulte giurisdizionali i membri della consulta nazionale eleggessero: sedesse in questa la potestà legislativa. Il dì ventinove di giugno entrava in ufficio il nuovo governo in cospetto di Saliceti, ministro plenipotenziario di Francia. Orò Saliceti con parole acconce, ma in aria al solito, e teoretiche. Ringraziato dal senato, il consolo rispondeva: amare la Francia i Liguri, perchè in ogni fortuna avevano i Liguri amato la Francia, non temessero di niuna potenza, la Francia gli aveva in tutela: dimenticassero le passate disgrazie, spegnessero gli odii civili, amassero la constituzione, le leggi, la religione; allestissero un navilio potente, rinstaurassero l'antica gloria del nome Ligure: sarebbesi sempre delle prospere cose dei Liguri rallegrato, dell'avverse contristato. Seguitavano le adulazioni. Decretava il senato, che a Cristoforo Colombo per avere scoperto un nuovo mondo, ed a Napoleone Buonaparte per avere pacificato l'universo, ampliato i confini della Liguria, stipulato i suoi interessi, riordinato le sue leggi, due statue marmoree, una a ciascuno, nell'atrio del palazzo nazionale s'innalzassero, e l'opera alla cura del magistrato supremo, alla emolazione degli artisti, all'amor patrio di tutti i Liguri si commettesse e raccomandasse. Oltre a questo i Sarzanesi, accalorandosi sempre più questo negozio delle adulazioni, supplicarono al nuovo governo, fosse loro lecito fondare nella loro città un monimento a memoria della famiglia Buonaparte, che in lei, come affermavano, avea avuto origine; allegavano avere avuto i Buonapartidi per tre secoli prima del cinquecento sede e cittadinanza in Sarzana; chiara esservi stata la famiglia loro sì per le cariche, sì per le attinenze; dal connubii loro essere nato il cardinale Filippo, fratello uterino che fu di Niccolò quinto, papa di gloriosa memoria. Fu udito benignamente il supplicare dei Sarzanesi, e concesse loro volentieri la facoltà del monimento. Mentre Menou trasordinava in Piemonte, i reali di Sardegna andavano esuli per l'Italia. Il re Carlo Emanuele, deditissimo alla religione, perseguitato da fantasmi malinconici, ed avendo per le sofferte disgrazie in poco concetto le cose umane, si deliberò di rinunziare al regno, acciocchè da ogni altra mondana sollecitudine rimoto, solamente ai divini servigi, ed alla salute dell'anima vacare potesse; rinunziazione senza fasto, che dimostrò al mondo, che, se l'ambizione è tormento a se stessa, la moderazione rende felice l'uomo così negli alti, come negli umili seggi. Per la rinunziazione di Carlo Emanuele venne il regno in potestà di Vittorio Emanuele suo fratello, che allora dimorava nel regno di Napoli. Riuscì la signorìa di Vittorio assai più dolce di quanto portasse la opinione, perciocchè siccome si era mostrato dedito all'armi, si dubitava che da guerriero fosse per governare. Nondimeno, mentre in ogni parte d'Europa per la prepotenza delle soldatesche a gran fracasso rovinavano le reggie, governò quietamente Vittorio Emanuele con pochi soldati l'isola di Sardegna: nè di ciò furono reconditi i consigli; la giustizia e la mansuetudine gli diedero forza e successo. Il consolo, che aveva indugiato ad unire formalmente il Piemonte alla Francia, venne finalmente a questa deliberazione, non perchè Alessandro consentisse, ma perchè le cose sue colla Russia già tendevano a manifesta discordia. Le sue minacce contro il corpo Germanico, l'autorità militare che continuava ad arrogarsi negli stati del papa, in Toscana, e nel regno di Napoli, la signorìa della Svizzera sotto nome di mediazione, la presidenza dell'Italica, le non adempite promesse pei compensi del re di Sardegna, avevano mostrato ad Alessandro, che Buonaparte meglio amava prendere che dare. Avvisava il consolo, che fra quegli umori già tanto mossi, il non unire il Piemonte non ristorerebbe l'amicizia, l'unirlo non accrescerebbe l'inimicizia. Per la qual cosa decretava il dì undici settembre il suo senato, che i dipartimenti del Po, della Dora, di Marengo, della Sesia, della Stura e del Tanaro, fossero e s'intendessero uniti al territorio della repubblica Francese. Principiò l'unione del Piemonte la sequela dell'Italiane aggiunte, quella opportuna per Francia, queste fantastiche e capricciose. Si fecero per la unione allegrezze in Piemonte; dai nobili volentieri, perchè per le carezze del consolo e di Menou vedevano, che il dominio interrotto dalle intemperanze democratiche di nuovo veniva loro in mano, dal popolo non senza sincerità, perchè sperava che col reggimento legale fosse per cessare il dominio incomposto del capitano d'Egitto. Continuossi a vivere qualche tempo in Italia, eccettuata la parte Veneta, dal Piemonte fino a Napoli con due governi, l'uno di nome, l'altro di fatto. In Piemonte piuttosto Menou che Buonaparte regnava, in Parma piuttosto Buonaparte che San Mery, a Genova piuttosto il consolo che il senato, in Roma piuttosto il consolo che il papa, in Toscana piuttosto Murat che Lodovico, in Napoli piuttosto Napoleone che Ferdinando. Rotte e superbe erano spesso le intimazioni a tutti questi Italiani governi. Solo Menou faceva quel che voleva, e dominava a suo arbitrio. Il consolo gli comportava ogni cosa, e solo che l'Egiziano gli toccasse che erano democrati coloro che si querelavano, tosto l'appruovava ed il lodava. Pagava il Piemonte le tremende ambagi d'Egitto. Gli altri obbedivano, chi per paura, chi per le ambizioni. A questo tempo morì di febbre acuta il re Lodovico d'Etruria. Per la sua morte fu devoluto il trono nell'infante di Spagna Carlo Lodovico, il quale per essere minore d'età fu commessa la reggenza alla vedova regina, Maria Luisa. Ma qual regno fosse devoluto all'infante bene dimostrarono i comandamenti pubblicati nel tempo della sua assunzione da Murat in Livorno, dando questa città, come dichiarata d'assedio, nel governo de' suoi soldati. Mandava inoltre il generale buonapartico truppe a Piombino, ed in tutto il littorale Toscano per impedire ogni pratica cogl'Inglesi, arrestava gl'Inglesi, prendeva le loro navi sorte nel porto, e molestava co' suoi corsari, che uscivano da Livorno, i traffichi Inglesi. Queste cose faceva, perchè, dopo breve pace, era sorta nuova guerra con la Gran Brettagna. Prendeva in mezzo a queste insolenze forestiere nel mese d'agosto possessione del regno Carlo Lodovico sotto tutela della regina madre. Giurarono fedeltà il senato Fiorentino, i magistrati, i deputati delle principali città. Furonvi corse di cocchi, emblemi, luminarie, fuochi artificiati, e le solite poesie elogistiche. Non solamente si lodava Carlo Lodovico, ma ancora Murat ed il consolo, gli chiamavano instauratori d'independenza, dolci e giusti governatori di popoli. Le Toscane cose vieppiù turbava un insolito e doloroso accidente, conciossiachè sorse in sul finire dell'autunno del milleottocentoquattro nella egregia città di Livorno una pestifera infermità, alla quale diede occasione, siccome pare, la state che trascorse in quell'anno, sotto il dominio continuo di venti australi, oltre al solito calda e piovosa. La quale infermità da alcuni chiamata febbre gialla, da altri vomito nero, nomi l'uno e l'altro che a lei molto bene si confanno, pei segni strani che l'accompagnano. Incominciò ad infierire nelle parti più basse, più fitte e più sucide della città, per modo che a questi toglieva la vita in sette giorni, a chi in cinque, a chi in tre, ed a chi ancora nel breve giro di un giorno. Dire quali e quanti fossero gli effetti, che, in chi ella s'appiccava, ingenerasse, fora materia assai lunga e difficile, perchè chi assaliva ad un modo e chi ad un altro, ed era molto proteiforme. Pure sormontavano sempre i due principali segni, che il corpo, massimamente il busto, e prima e dopo morte, giallo divenisse, e certo sozzume nero a guisa della posatura del caffè in copia lo stomaco recesse. Nè più facilmente nei cagionevoli, che nei sani s'accendeva il mortale morbo; perciocchè si vedevano spesso giovani gagliardi passarsene dallo stato il più florido di salute fra brevissimo tempo in fine di morte. Nè uno era nei diversi tempi l'aspetto del morbo, tre particolarmente notandosene: in sul primo poco aveva, che dalle solite ardenti febbri il differenziasse: l'insulto primo accompagnava un ribrezzo di freddo, massimamente lungo il dorso ed alla regione dei lombi, doleva acerbamente il capo, ma più alle tempia ed alla fronte, che altrove, dolevano in singolar modo le membra alle giunture, gli occhi accesi e come pieni di sangue; duri e presti i polsi: la pelle ardeva di calore intensissimo, nè godeva l'ammalato del benefizio del ventre, e delle orine. Augurio funesto erano principalmente un molesto senso alla forcella dello stomaco, ed una inclinazione al vomitare. Questo primo tempo concludeva una grande insidia, per modo che quando più pareva al malato, ai parenti ed agli amici vicina la guarigione, più vicina era la morte. Tutto il mortifero apparato s'attutiva ad un tratto, e cessata la febbre, se un leggieri sudore ed una somma debolezza si eccettuavano, sano si mostrava il corpo, ed a perfetta salute inclinante. Ma ecco improvvisamente, e dopo il breve spazio di poche ore, sorgere nuova e più fiera tempesta; che la molestia della bocca dello stomaco diveniva dolore acerbissimo, e dalla regione del ventricolo a quella del fegato si estendeva; nè il toccare queste parti, ancorchè leggierissimo fosse, era a modo alcuno sopportabile all'ammalato. Abborriva da ogni cibo e da ogni bevanda; gli occhi rossi, gialli si facevano, gialle ancora le orine e giallo il corpo, la faccia ed il collo più di ogni altra parte il giallore vestivano. Lo stomaco impaziente vomitava ogni presa vivanda, benchè leggierissima fosse; ovvero pretta bile, o bile mista a vermini buttava. A questo si aggiungevano oppressione ai precordi, sospiri frequenti, purgamenti del corpo fetidissimi, liquidi, e come di color di cenere. Nè regola certa più restava ai medicanti per giudicar del male; perchè i polsi ad ogni momento variavano; ora tardi, ora celeri, ora piccoli, ora spiegati, ora urtanti, ora languidi, ora depressi, mostravano che se insorgeva qualche volta natura, invano ancora insorgeva, superando la prepotente forza del morbo. In mezzo a tanto tumulto, come se chi era per morire meglio dovesse vedere la sua morte, libera si conservava la mente ed intiera. Succedeva tantosto l'ultimo tempo più vicino a morte, in cui tremavano le membra, i reciticci divenivano, non più di muchi o di bile, ma di materia nera fetidissima, come di sangue putredinoso e marcio. Trasudava anche, e spesso in gran copia dalle gengive, e dalle fauci questo nero sangue; e così ancora dalle narici, e dal fondamento, e dall'utero copiosamente usciva: ogni cosa si volgeva a putredine ed a mortificazione. Bruttavano la pelle o macchie nere a guisa di piccoli punti, o larghi lividori a guisa di pesche, massimamente in quei luoghi a cui si appoggiava il corpo. Facevano la bocca disforme ed orrida, le labbra turgidissime e nere: gli occhi lagrimosi e tristi ogni vivo lume perdevano; quindi il delirio, od il letargo fra le convulsioni, ed un mortale freddo di membra la vita troncavano. Chi moriva nel primo, chi nel secondo, chi nel terzo tempo. Ma quando prima la malattia invase, più morivano nel primo che nell'ultimo; più nell'ultimo, che nel primo, ma non molti, quando già trascorsi essendo circa due mesi, o fosse per l'abitudine dei corpi, o fosse per la diminuzione delle cagioni, già era stata ammansita la ferocia del funesto influsso. Pessimi presagi erano la violenza della prima febbre, i dolori acutissimi delle membra, massime al petto, l'affanno sommo, la prostrazione delle forze, il vomito pertinace e nero, il comparire sulle prime il giallore, l'aggravarsi lo spirito, il chiudersi la via delle orine, il singhiozzo: ottimi la moderata febbre, il vomito raro e mucoso senza putridume, il giallore tardo, la transpirazione libera, il corpo lubrico, ma di bile, non di sangue, e il non tremare, e il non prostrarsi. Per le orine trovava per ordinaria via la natura a discacciare il veleno mortifero; imperciocchè quando copiose ed intensamente gialle fluivano, annunziavano l'esito felice. Ma non una era la maniera del guarire; conciossiachè si è veduto lo uscire improvvisamente e copiosamente sangue dalla bocca e dalle narici, chiamare inaspettatamente a vita chi già pareva preda d'inevitabil morte. Furono viste femmine guarite dal correre improvviso di mestrui abbondanti: fu visto lo sconciarsi della concetta creatura, ed il copioso versarsi del sangue che ne conseguitava, redimere la sofferente madre dalla fine imminente. Crudo era il male, e nemicissimo alla vita: funeste vestigia, anche già quando se n'era ito, nei corpi lasciava: lunghe, tristi, penose si vedevano le convalescenze: chi restava stupido lungo spazio, chi tremava, chi spaventato da funeste fantasime passava malinconici i giorni, spaventose le notti, miserabili segni che stata era vicina la morte. Strana ed orrenda contaminazione di corpi, che spesso, oltre le raccontate alterazioni, insolite apparenze induceva: a questo veniva in odio l'acqua, come se da cane arrabbiato morso fosse: a quello la vista si pervertiva, o doppio, o più grande del solito vedendo: a quest'altro gonfiavano straordinariamente le parotidi: a chi venivano bollicine piene di umore corrosivo in pelle, ed a chi pioveva sangue dagli orecchi. Escoriavasi la pelle, come se dal fuoco bruciata fosse, in quei luoghi dove la suffusa bile si spargeva: trascolava dai vescicatorj una linfa intensamente verde, simile piuttosto al sugo di cicoria che ad altro, la quale sì caustica e sì pungente natura aveva, che la pelle delle toccate membra dolorosamente infiammava, e tostamente cancrenava. Più feroce infierì il male contro i giovani robusti, più mite contro i deboli, contro i vecchi, contro le donne. Ma le gravide quasi tutte, che prese ne furono, morirono: i fanciulli passarono quasi tutti indenni. L'intemperanza di ogni genere, specialmente il darsi al bere eccessivo del vino e degli spiriti, ed il gozzovigliare, ed il trascorrere nei cibi cagionavano e più certa malattia, e più certa morte. Ogni cosa poi sozza così dentro come fuori; imperciocchè negli sparati cadaveri le narici si vedevano imbrattate di nero sangue, e la morta bocca recere ancora, tanto n'era pieno il corpo, quel sucidume nero e fetido, che nelle ultime ore della vita da lei pioveva. Pieno ancor esso, e zeppo e gonfio di questo medesimo putridume infame e nero si trovava il ventricolo, roso oltre a ciò da serpeggiante cancrena, e rosi gl'intestini; la rete chiamata dai medici omento, rosa del tutto, mostrava quanta forza di distruzione l'orribile malore avesse. Un fluido rosso e giallastro, come di bile mista a sangue, il cavo torace ingombrava; e sangue nero e putredinoso tutti aveva pieni i polmoni, cospersi ancor essi di macchie livide e cancrenose; livido ed infiammato il setto trasverso; livida e di corrotto sangue piena la milza; livido, molle, putredinoso e di colore, come se cotto fosse, il fegato, sul quale, e così sul ventricolo pareva essersi specialmente scagliata con tutti i suoi effetti più tremendi la pestilenza. Insomma o putridume sanguinolente, o sangue nero, o infiammazione vicina a sfacelo, o distruzione intiera di parti in quel luogo, e nelle più vitali viscere si discoprivano. Nè perchè la funesta corruttela tali mortiferi effetti producesse, lungo tempo richiedevasi; che anche in coloro, i quali nel breve spazio di ventiquattr'ore restavano morti, si scorgeva che uno sfacelo universale, che un'aura venefica aveva il corpo tutto invaso, ed allo stato di morte ridotto, che tale vide, tale descrisse con singolar medica maestrìa questa esiziale infermità il dottor Palloni, mandato dal Toscano governo a vedere, se alcun senno, od umano provvedimento contro la medesima valesse. Nè solamente i visceri, che più vicini e concorrenti all'opificio della digestione, quali sono per esempio il fegato ed il ventricolo, ma ancora i più segregati e più lontani erano da lei tocchi e contaminati; posciachè la vescica, che serve di ricettacolo alle orine, vuota si rinveniva e di strisce sanguinose listata: il cerebro stesso, fonte principale di vita, ed i suoi proteggitori invogli col sozzo aspetto di vasi sanguigni strapieni, e con le cavità bruttate di un fluido sviato e giallastro alla vista si appresentavano. Corrotta era a bile, corrotta e sparsa per tutto il corpo dei miseri contaminati. Pessimi il quinto e settimo giorno; pure notati di morti frequenti anche il primo, il secondo ed il terzo; in alcuni, ma rari, indugiò la morte insino al decimoterzo, od al decimoquarto. Varj furono gli argomenti usati dai medici per domare la dolorosa infermità; ma i più semplici, come suole, riuscirono anche i più vantaggiosi. Tenere il ventre libero col calomelano e con la gialappa, buono; buono promovere il sudore; buonissime le limonee con qualche piccola dose di tartaro emetico; utili i fomenti caldi, in cui fosse stata cotta senape. Nè mancò di sovvenire efficacissimamente agli ammalati l'acido nitrico, massimamente quando si usava in sulle complessioni deboli, e quando, essendo già molt'oltre trascorso il male, le emorragìe, il vomito nero, ed altri segni la incominciata dissoluzione del corpo indicavano. Deteriorava pei vescitatorj la condizione degli ammalati; pure giovarono in qualche caso applicati alla regione del sottoposto ed infestato fegato. Le orine soppresse la digitale purpurea giovava. Ma forte e sopra tutti supremo rimedio mostrossi l'aria pura, e spesse volte rinnovata, della quale tanta era l'efficacia, che per lei, anche a piccola distanza, si distruggeva la venefica qualità, ed il fomite stesso del male. Dall'altro canto si vedeva, che per l'aria pregna di esalazioni animali si trasportava da uomo a uomo facilmente il morbo, e più fieramente l'infettato tormentava. Serve di argomento a compruovare questo accidente, che le contrade più piene d'immondizie, e meno ventilate della città, e le case dei poveri furono le più miseramente contaminate. Al contrario le contrade spaziose, e le case commode, pulite e di aria aperta e libera o andaronne esenti, o non peggiorovvi, o non vi appiccossi da corpo a corpo la corruzione; che anzi nel contaminato individuo si contenne, gli assistenti, i parenti, i medici, i ministri di Dio immuni lasciando. La quale cosa questa malattia dalle altre contagiose febbri, e specialmente dalla peste d'Egitto differenzia, il cui veleno largamente e lontanamente si appicca. Nè in contado si propagava, abbenchè continuamente infinite persone, ed infinite mercanzie da contrada a contrada, e dalla città nel contado si trasportassero e si diffondessero. Nè l'uomo sano, ancorchè nella vicinanza degli ammalati vissuto fosse, mai ad altri la infezione, se prima egli medesimo tocco dalla malattia stato non fosse, comunicava; nè per gl'individui sani delle contaminate famiglie, nè per gli arnesi loro, nè per le altre suppellettili delle case giammai fuori la corruzione si avventava; e sì pure che le monete, le carte, le merci tutte in un continuo giro, ed in un indistinto commercio dentro e fuori della città versavano. L'abitudine, per un mirabile e non conosciuto artifizio dei nostri corpi, al malefico influsso gradatamente avvezzandogli, gli salvava. Infatti pel funesto male che tanti fra la minuta gente toglieva di vita, un solo ministro di Dio, tre soli ministri di salute perirono, quantunque e gli uni e gli altri frequentissimamente, e con tutta cura agl'infettati assistessero. E quanta fosse la forza del rinnovato aere a domare l'acume del veleno, confermò visibilmente il provvedimento dato da chi reggeva nell'ospedale di San Iacopo, il quale quasi a riva il mare situato, ed ottimamente a salute edificato, di un'aria libera, sfogata e purissima godeva; conciossiachè non così tosto gl'infetti, ancorchè languidi, oppressi, e già quasi vinti fossero dalla malattia, la soglia di quel salutifero edifizio toccavano, ed in lui riposti erano, che i vitali spiriti in loro si rinvigorivano mirabilmente, e dalle angosce più crudeli subitamente ad un confortevole stato passavano. Toscano pregio fu rimedio all'inquilino morbo, perchè oltre alla purezza procurata dell'aria, la pulitezza delle case, la nettezza delle vestimenta, la mondezza dei corpi, qualità tanto eminenti nel Toscano paese, sovvennero agl'infermi, e per sanargli bastarono le consuete abitudini. Nè anco in così nemico tempo si scoverse quel fine crudele di schifare, e di fuggire gl'infetti per acquistar salute: a tutti rimasero i debiti sussidi o per la carità dei parenti, o per l'amorevolezza degli amici, o per la pietà dei cherici, o per la provvidenza del pubblico; dei quali vantaggi debbono i Livornesi o ad una maggiore civiltà, od a più celesti inspirazioni restare obbligati. Adunque se oltre una naturale disposizione dei corpi, a restare contaminato dal morbo abbisognavano o la vicinanza, o il contatto dell'uomo ammalato, o delle robe che a suo uso avevano servito nel corso della malattia, se l'aria stagnante e chiusa, e zeppa di animali effluvi la dava, se l'aria aperta o sfogata o l'allontanava o l'alleggiava, se le persone sane, benchè vissute in prossimità degl'infetti, e le merci da loro tocche, solo che al puro e ventilato aere esposte fossero, l'infezione fuori della città non trasportavano, e se finalmente il medesimo aere ventilato e puro il malefico fomite presso al suo fonte stesso, cioè all'ammalato, distruggeva ed annientava, si deduce, che, o l'accidente mortifero di Livorno, quantunque avesse in se raccolti tutti i segni di quel morbo, che alcuni febbre gialla, altri vomito nero appellano, era nondimeno molto dal medesimo diverso, opinione non verisimile, perciocchè i segni indicano identità di natura, o che il terrore e la mossa immaginazione l'hanno in altri paesi fatto parer diverso da quello ch'egli è veramente, tassandolo di contagio, quando veramente contagioso non è a modo delle malattie, che i medici chiamano specialmente con questo nome, come per cagion d'esempio la peste di Egitto. Nè dimorerommi io a dire come in Livorno stato fosse recato; perchè, se il vi recasse, come corse fama, un bastimento venuto da Vera Croce, è incerto, siccome ancora è incerto, se da altro contagio qualunque, o se da mera disposizione del cielo piovoso e caldo, come alcuni credono, e pare più verisimile, ingenerato e sorto fosse. Certo è bene, ch'ei fu contaminazione schifosa ed abbominevole, e che funestò per numerose morti Livorno, spaventò le città vicine, tenne lunga pezza dubbiosa ed atterrita l'Europa per la fama delle province devastate in America. Queste cose ho voluto raccontare con quella maggiore semplicità che per me si è potuto, acciocchè la nuda verità meglio servir potesse a far conoscere per forza di comparazione, la natura ed i rimedi di un male, che omai minaccia di voler accrescere la soma di tutti quelli che già pur troppo affliggono la miseranda Europa. Ordinate col consentimento del papa le faccende religiose in Francia, si rendeva necessario che il consolo le acconciasse coll'intervento pontificio nell'Italica; imperciocchè il pontefice non aveva tralasciato di muovere querele intorno alle deliberazioni prese senza che la potestà sua fosse non che consenziente, richiesta, nell'Italiana constituzione. Il consolo per un suo gran fine voleva gratificare al papa. Per la qual cosa, dopo alcune pratiche tenute a Parigi tra il cardinal Caprara, legato della santa sede, e Ferdinando Marescalchi, ministro degli affari esteri della repubblica Italiana, fu concluso il dì sedici settembre, in nome del pontefice e del presidente un concordato, l'importar del quale fu quasi in tutto conforme al concordato di Francia. Ma bene ne ampliò le condizioni a favore della potestà secolare Melzi vice-presidente, nodrito nelle dottrine leopoldiane. Decretava, che la facoltà di vestire e di ammettere alla professione religiosa fosse ristretta agli ordini, conventi, collegi monasteri, che per istituto fossero dediti all'istruzione ed educazione della gioventù, alla cura degl'infermi o ad altri simili uffizi di speciale e pubblica utilità; che per vestire, o far professione religiosa individuale, e per la promozione agli ordini sacri, il beneplacito del governo si richiedesse; che la libera comunicazione dei vescovi colla santa sede non importasse nè devoluzione di cause da trattarsi in via contenziosa avanti i tribunali, nè dipendenza alcuna dall'autorità spirituale nelle cose di privata competenza dell'autorità temporale; che le bolle, i brevi, ed i rescritti della corte di Roma non si potessero recare in uso esteriore e pubblico senza il beneplacito del governo; che solamente i sacerdoti, gl'iniziati negli ordini sacri, i chierici ammessi nei seminari vescovili, ed i vestiti o professi negli ordini religiosi fossero esenti dal servizio militare; che il governo non darebbe mano forte per l'esecuzione delle pene esterne ordinate dall'autorità ecclesiastica per correggere gli ecclesiastici delinquenti, e gli appellanti dalle medesime, se non se in caso di abuso manifesto, ed osservati sempre i confini ed i modi della rispettiva competenza; finalmente, che la vigente disciplina della chiesa nella sua attualità, salvo il diritto della tutela e giurisdizione politica, si mantenesse. Sane e salutari e necessarie guarentigie erano queste in pro ed a conservazione dell'autorità secolare; imperciocchè la religione cattolica ha più che qualunque altra, modo d'influire per mezzo de' suoi ministri, che sono uomini, nelle deliberazioni dei reggitori dei popoli, e verso di lei debbonsi da questi usare cautele efficaci, perchè siano salvi la libertà ed i diritti della potestà temporale. Ma le sentì molto gravemente il pontefice, e vivamente se ne dolse col presidente. Egli si temporeggiava alle risposte, e nelle solite ambagi avviluppandosi, nè dava, nè toglieva speranza di ammendazione. Intanto, quantunque il concordato Italico, e massime il decreto del vice-presidente fossero più accetti a chi amava le dottrine Pistojesi, e le riforme di Leopoldo, che ai papisti, servirono ciò non ostante a tranquillare le coscienze timorate del popolo, il quale avendo sempre perseverato nella fede, e nella riverenza verso il papa, vedeva malvolentieri le dissensioni con Roma: ed ora della ristorata concordia si rallegrava. I magistrati, i preti, i filosofi, i soldati, il popolo predicavano il presidente unico: il buonapartico nome a tutti sovrastava, ed a tutto. Ma già le bilustri trame del consolo si avvicinavano al loro compimento. Glorioso per guerra, glorioso per pace, nissun nome nè negli antichi, nè nei moderni tempi alle allucinate generazioni pareva uguale al suo. Ancora spesseggiava il suono nelle bocche degli uomini, e fresca era negli animi la memoria delle sue maravigliose geste in Italia e prima e dopo le Egiziache fatiche. Avere lui, si ricordavano, subitamente l'umile fortuna della repubblica innalzato al più alto grado di gloria e di potenza; senza di lui essere ricaduta, con lui risorta; i mostri, così scrivevano, avere prevalso, lui lontano; essere stati vinti, quasi da Ercole secondo, lui presente: con esso lui lontano la guerra avere seguitato la pace, con esso lui presente la pace avere seguitato la guerra; nè solo con l'Austria avere procurato la concordia, ma ancora con la Russia, con l'Inghilterra, con la Turchia, col Portogallo, col duca di Vittemberga, col principe d'Oranges: i barbari stessi avere a beneficio di Francia pattuito con lui, Algeri e Tunisi essere tornati all'antica amicizia di Francia; nè più spaventare i Francesi cuori l'aspetto delle Africane crudeltà; potere le Francesi navi liberamente e securamente attendere ai traffichi loro nel Mediterraneo, nè i Libici ladroni più oltre insultare alle insegne della repubblica; avere lui solo spenta la civile discordia; lui solo restituito la patria agli esuli, lui solo restituito onore a papa Pio sesto, ed alle sue venerate ossa dato riposo; avere a pace delle coscienze, a conservazione dei costumi, a salute delle anime convenuto con papa Pio settimo; per lui essere restituita a luogo suo la generosità e la fedeltà Francese verso la sedia apostolica: lui avere stornato i Vaticani folgori dalla religiosa Francia; lui averla riconciliata con se stessa e con la cristianità; ciò quanto al politico ed al religioso: quanto al prospero, a lui essere obbligate le finanze dell'abbondanza loro, a lui i magistrati dei pagati stipendi, a lui i soldati delle diligenti paghe, a lui i viandanti delle racconce strade, a lui i naviganti dei ristorati canali, a lui i commercianti degli aperti mari: ogni cosa tornare all'antico splendore; i palazzi laceri dal tempo o dalla rabbia degli uomini, ristorarsi, nuovi edifizi innalzarsi: la Francia bella per natura, divenir più bella per arte; dileguarsi le ruine, segni abbominevoli delle passate discordie: sorgere moli, segni magnifici di generoso governo: tali essere i frutti della pace, tali quei della concordia; essere finita la rivoluzione, e con lei serrata l'officina di tante disgrazie: rotta, esser vero, di nuovo essere dall'infedele ed ambizioso Britanno la guerra; ma già correre sulle coste dell'Oceano le vendicatrici schiere, già apprestarsi le conquistatrici antenne, già Londra stessa esser mal sicuro nido ai corsari dominatori del mare; presto aversi a vedere quanto potessero a benefizio dell'umanità contro gli avari e superbi tiranni, che soli fra tutti restavano a domarsi, la Francia potente, ed il fortunato consolo; minacciare, esser vero, la Russia, essere appresso a lei efficaci le arti, e le profferte d'Inghilterra; ma lontano essere Alessandro, nè spoglio d'umanità, nè i dispareri poter durare tra chi a bene intende: così avere il consolo dato a Francia pace sicura, ed occasione di vittoria. Di tanti obblighi nissuno premio poter essere, non che maggiore, pari. Queste cose si dicevano, ed ancor più si scrivevano. Il consolo non abborrendo dal scelerato proposito di ridurre in servitù una nazione, che con una piena di tanto amore si versava verso di lui, pensò essere arrivato il tempo di dar compimento a' suoi disegni. Perciò, allettati gli amatori del nome reale con la patria, i soldati coi donativi, i preti col concordato, i magistrati con gli onori, il popolo coi commodi, si accinse ad appropriarsi la parola di quello, di cui già aveva la sostanza, accoppiando in tal modo il supremo nome alla suprema potenza. Restava che i repubblicani assicurasse: il fece con l'uccisione del duca d'Anghienna. Diè le prime mosse il tribunato: il senato non s'indugiò a seguitare parte per paura, parte per ambizione: il dì diciotto maggio chiamava Napoleone Buonaparte, imperator dei Francesi. Questo atto, ancorchè inaspettato non fosse, empiè di maraviglia il mondo. I pazzi reali s'accorsero, che Buonaparte non era uomo, come aspettavano, che volesse fare il Monk: i pazzi repubblicani videro, che non era uomo da voler fare, come si promettevano, il Cincinnato, questi più inescusabili di quelli; perchè, tacendo anche gli altri suoi andari, quell'aver detto al consiglio dei Giovani il dì nove novembre del novantanove, che la realtà non poteva più vincere in Europa la repubblica, avrebbe dovuto fargli accorti, ch'ei voleva fare che la realtà vi vincesse la repubblica. Poi, siccome il secolo era tutto di piacere, nulla di coscienza, come bene sel conobbe Buonaparte, i reali dimenticarono tosto la realtà, i repubblicani la repubblica, e gli uni e gli altri trassero cupidamente agl'imperiali allettamenti. Pochi dall'una parte e dall'altra si ristarono; il secolo gli chiamò pazzi. Delle potenze d'Europa l'Inghilterra, che non s'era mai ingannata sulle qualità di Buonaparte, contrastava, ma invano; contrastava anche invano il lontano ed ingannato Alessandro: la Turchìa, per timore della Russia, si peritava; l'Austria doma taceva; la Prussia, che tuttavia per le sue emolazioni verso l'Austria continuava ad ingannarsi, non solamente aveva consentito, ma ancora esortato. Quest'era stato uno dei principali fondamenti dell'ardimento di Napoleone. Primario confortatore a questi consigli era il marchese Lucchesini ministro del re Federigo a Parigi. Luigi decimottavo, re di Francia, che fino a questo tempo, forse per qualche speranza, aveva più temperatamente che degli altri governi Francesi, parlato e scritto di Buonaparte, a questo estremo atto di assunzione di potenza, per cui ogni aspettazione di buon fine era tolta, grandemente risentendosi, con gravissime parole contro l'usurpazione fin dall'ultimo settentrione, dove esule dai suoi regni se ne stava, protestò. Il Piemonte si confortava della perduta independenza per la unione con chi comandava; Genova ingannata sperava almeno di conservar l'antico nome; la repubblica Italiana, giacchè era perduta la libertà, si prometteva almeno la potenza; la Toscana, che meglio di tutti giudicava delle faccende presenti, non sapeva nè che sperasse, nè che temesse; bene si doleva che i Leopoldiani tempi fossero perduti per sempre; Napoli, già servo il regno di qua dal Faro, stava in dubbio se almeno potesse conservar libero quello oltre il Faro. Il papa era spaventato dalla grandezza di Napoleone; ma egli si confortava con le promesse, con le adulazioni, ed ancor più con le richieste; imperciocchè vedendo, che, poichè alle antiche consuetudini se ne tornava, non aveva titolo legittimo, nè volendo ammettere la dottrina della sovranità del popolo, perchè l'ammetterla era un confessare che chi faceva poteva disfare, ed ei non voleva esser disfatto, il pontefice con grandissime istanze, non purgate da qualche minaccia, richiedeva, che a Parigi se ne venisse per consecrarlo imperatore. Parevagli che la consecrazione del papa gli desse nell'opinione degli uomini quello, che per altre parti gli mancava. Era certamente un gran fatto, che il capo supremo della chiesa, in età già grave, in stagione sinistra, la lontana e straniera terra se n'andasse per legittimare con la santità del suo ministerio quello che tutti i principi d'Europa chiamavano o apertamente, o occultamente una usurpazione. Per indurre il papa a questa deliberazione, Napoleone gli prometteva, che se già molto aveva fatto a benefizio della religione e della Santa Sede in Francia, molto più era per fare, ove il papa consentisse alla consecrazione. Si trovava il pontefice da queste domande molto angustiato, perchè dall'una parte desiderava di satisfare a Napoleone, sperando di farne nascere frutti profittevoli alla religione; dall'altra il confermare con la efficacia del suo ufficio gli effetti della prepotenza militare, gli pareva duro e disonorevole consiglio. Tanto poi più se ne stava sospeso, quanto e Luigi decimottavo, e l'imperatore di Germania, e quel di Russia, e il re medesimo d'Inghilterra più o meno manifestamente il confortavano al non offendere con un atto tanto strepitoso la maestà reale, ed i principj, sopra i quali tutte le moderne sovranità si trovavano fondate. Non si commettesse, dicevano, abbandonando gli amici antichi, alla fede di un amico nuovo; la forza soldatesca non santificasse; la ruina d'Europa non appruovasse; considerasse, fugaci essere le cose violente, rovinare di per se stesse le eccessive; pensasse dopo quel nembo facilmente dileguantesi dovere avere bisogno dei patrocinj antichi; non più trattarsi di salvare la religione già salva, ma di salvare i seggi antichi: o legittimità o usurpazione, o temperanza o tirannide, o leggi o soldati, o civiltà o barbarie, di ciò trattarsi. Avvertisse finalmente quanto enorme sarebbe, se il pontefice di Roma, se il capo della cristianità si muovesse a santificar il sommo grado in chi usava la religione per fraude, le promesse per inganno, le armi per sovvertimento; vedesse la serva Italia, osservasse la tremebonda Germania, riflettesse alla soggiogata Francia, e giudicasse se gli fosse lecito, la dignità apostolica sua contaminando, onestare con sì solenne dimostrazione ciò, che tutte le leggi divine ed umane condannavano. Queste esortazioni grandemente muovevano il pontefice. Ciò non ostante non gli sfuggiva, poichè al benefizio della religione aveva l'animo intento, che la religione, per essere in Francia la parte avversa tanto potente, per esservi la instaurazione tanto recente, per essere Napoleone imperatore in tutte le cose sue tanto arbitrario e tanto subito, maggiore pericolo vi portava, se a Napoleone non consentisse, che in Austria e negli altri paesi cattolici della Germania, se ai desiderj di Francesco imperatore non si uniformasse. Quanto alla Spagna, piuttosto suddita che uguale alla Francia, per la divozione del principe della Pace ai Buonapartidi, sapeva il pontefice, che la sua risoluzione a favor di Napoleone vi sarebbe stata udita volentieri. Da un altro lato il signore di Francia tanto si dimostrava amorevole e lusinghiero verso la Santa Sede, che il papa venne in isperanza, non solamente di tenerlo nei termini, ma ancora di volgerlo in quella parte alla quale ei volesse. Confidava massimamente di poter conseguire qualche utile modificazione negli articoli organici annestati da Napoleone al concordato di Francia, e da Melzi a quello d'Italia. Desiderava altresì, e sperava d'indurre Napoleone a dare qualche larghezza di più al culto esteriore, al quale effetto erano corsi prima non pochi dispareri, perchè Napoleone intendeva il culto pubblico ad un modo, e Pio ad un altro. Nè dubitava punto che la presenza sua in Francia efficacemente non avesse ad operare, perchè la religione meglio si conoscesse, e meglio si amasse. Aveva anche difficoltà a persuadersi, che una sì lunga e grave fatica, ed una tanta condiscendenza in un affare di tanto momento per Napoleone, non fossero per ispirare al cuore di lui, quantunque di soldato fosse, affetti più miti, e maggiore agevolezza verso il Romano seggio. Tutte queste cose molto bene e maturamente considerate, e co' suoi cardinali parecchie volte ponderate, implorato anche l'ajuto divino, siccome quegli che piamente da lui ripeteva ogni evento o prospero od avverso, si deliberava a voler fare quello, che da tanti secoli non si era veduto che alcuno fatto avesse. Per la qual cosa risolutosi del tutto a voler posporre al benefizio della religione ogni altro umano rispetto, convocati i cardinali il dì ventinove ottobre con queste gravi ed affettuose parole loro favellava: «Da questo medesimo seggio, venerabili fratelli, noi già vi annunziammo, siccome il concordato con Napoleone imperatore dei Francesi, allora primo consolo, era stato da noi concluso; da questo stesso vi partecipammo la contentezza che aveva ripieno il nostro cuore, nel veder volte novellamente, per opera del concordato medesimo, alla cattolica religione quelle vaste e popolose regioni. D'allora in poi i profanati tempj furono aperti e purificati, gli altari riedificati, la salvatrice croce innalzata, l'adorazione del vero Dio restituita, i misteri augusti della religione liberamente e pubblicamente celebrati, legittimi pastori a pascere il famelico gregge conceduti, numerose anime dai sentieri dell'errore al grembo della felice eternità richiamate, e con se stesse, e col vero Dio riconciliate: risorse felicemente da quella oscurità in cui era stata immersa, alla piena luce del giorno in mezzo ad una rinomata nazione la cattolica religione. «A tanti benefizj di gioja esultammo, e le esultazioni nostre a Dio nostro signore dall'intimo del nostro cuore porgemmo. Questa grande e maravigliosa opera non solamente ci riempiva di gratitudine verso quel potente principe, che usò tutto il potere e l'autorità sua per fare il concordato; ma ancora ci spinse, per la dolce ricordanza, ad usare ogni occasione che si aprisse, per dimostrargli, tale essere verso di lui l'animo nostro. Ora questo medesimo potente principe, il nostro carissimo figliuolo in Cristo Napoleone imperatore dei Francesi, che con le opere sue sì bene ha meritato della cattolica religione, viene a noi significandoci, ardentemente desiderare di essere coi santi olj unto, e dalle mani nostre l'imperiale corona ricevere, acciocchè i sacri diritti, che sono in così alto grado per collocarlo, siano col carattere della religione impressi, e più potentemente sopra di lui le celesti benedizioni appellino. Richiesta di tal sorte non solo chiaramente la religione sua, e la sua filiale riverenza verso la Santa Sede dimostra; ma siccome quella che accompagnata da espresse dimostrazioni e promesse, da speranza che sia la fede sacra promossa, e che siano le dolorose ingiurie riparate; opera, che già ha egli con tanta fatica e con tanto zelo in quelle fiorite regioni procurato. «Voi vedete pertanto, venerabili fratelli, quanto giuste e gravi siano le cagioni, che ad intraprendere questo viaggio c'invitano. Muovonci gl'interessi della nostra santa religione, muoveci la gratitudine verso il potente imperatore, muoveci l'amore verso colui che con tutta la forza sua adoperandosi, ebbe in Francia alla cattolica religione libero e pubblico esercizio procurato, muoveci il desiderio, che d'avanzarla viemaggiormente in prosperità ed in dignità ci dimostra. Speriamo altresì, che quando al cospetto suo giunti saremo, e con lui volto a volto favelleremo, tali cose da lui a benefizio della cattolica chiesa, sola posseditrice dell'arca di salvazione, impetreremo, che giustamente con noi medesimi dello avere a perfezione condotto l'opera della nostra santissima religione congratularci potremo. Non dalle nostre deboli parole tale speranza concepiamo, ma dalla grazia di colui, di cui, quantunque immeritamente, siamo il vicario sopra la terra, dalla grazia di colui, che per la forza dei sacri riti invocato essendo, nei bene disposti cuori dei principi discende, specialmente quando padri dei popoli si mostrano, specialmente quando all'eterna salute intendono, specialmente quando di vivere e di morire veri e buoni figliuoli della cattolica chiesa deliberano. Per tutte queste cagioni, venerabili fratelli, e l'esempio seguitando di alcuni nostri predecessori che la propria sede lasciando, in estere regioni per promuovere la religione, e per gratificare ai principi, che della chiesa bene meritato avevano, peregrinarono, ci siamo ad intraprendere il presente viaggio deliberati, avvengadiochè da tale risoluzione avessero dovuto allontanarci la stagione sinistra, l'età nostra grave, la salute inferma. Ma non fia che a tali impedimenti ci sgomentiamo, solo che voglia Iddio farci dei nostri desiderj grazia. Nè fu il negozio, prima che ci risolvessimo, da ogni parte ed attentamente non considerato. Stemmo dubbj, ed incerti un tempo; ma con tali assicurazioni si fece incontro ai desiderj nostri l'imperatore, che ci rendemmo certi, essere il nostro viaggio a pro della religione per riuscire. Voi ciò sapete, che su di ciò a voi chiesi consiglio: ma per non preterire quello che ogni altra cosa avanza, sapendo benissimo, che conforme al detto della divina sapienza, le risoluzioni dei mortali, anche di quelli che per dottrina e per pietà più riputati sono, di quelli altresì, il cui parlare, quale incenso, alla presenza di Dio sen sale, sono deboli e timide ed incerte, le nostre fervorose preghiere al padre di ogni sapere indirizzammo, instantemente richiedendolo, che ci sia fatto abilità di solo fare quello che a lui piacer possa, solo quello che a prosperità ed incremento della sua chiesa tornare prometta. Ecci Dio, al quale coll'umile nostro cuore tante volte supplicammo, al quale nel suo sacro tempio le supplici nostre mani alzammo, dal quale e benigna audienza ed ajuto propizio in tant'uopo implorammo, testimonio, che niun'altra cosa vogliamo, a niun'altra intendiamo, che alla gloria ed agli interessi della cattolica religione, alla salute delle anime, all'adempimento dell'apostolico mandato, a noi, quantunque immeritevoli, commesso. Di questa medesima sincerità nostra voi stessi, venerabili fratelli, a cui tutto apersi, siete testimonj. Adunque quando un negozio sì grande con l'ajuto della divina assistenza vicino è a compirsi, qual vicario di Dio, Salvator nostro, operando, questo viaggio, al quale tante e sì ponderose ragioni ci confortano, imprenderemo. «Benedirà, speriamo, il Dio d'ogni grazia i nostri passi, ed in questa epoca nuova della religione con uno splendore di accresciuta gloria si manifesterà. Ad esempio di Pio sesto di riverita memoria, quando a Vienna d'Austria si condusse, abbiamo, venerabili fratelli, provveduto, che le curie, e le audienze siano e restino secondo il solito aperte; e siccome la necessità del morire è certa, il giorno incerto, così abbiamo ordinato, che se durante il viaggio nostro a Dio piacesse di tirarci a lui, si tengano i pontificj comizj. Infine da voi richiediamo, voi instantemente preghiamo, che vi piaccia per noi sempre quell'affezione medesima conservare, che finora ci mostraste, e che noi assenti, l'anima nostra all'onnipotente Iddio, a Gesù Cristo nostro Signore, alla gloriosissima sua Vergine madre, al beato apostolo Pietro, acciò questo nostro viaggio, e felice sia nel corso, e prospero nel fine, raccomandiate. La quale cosa, se, come speriamo, dal fonte di ogni bene impetreremo, voi, venerandi fratelli, che di ogni consiglio nostro e di ogni nostra cura foste sempre partecipi fatti, della comune contentezza ancora voi parteciperete, e tutt'insieme nella mercè del Signore esulteremo, e ci rallegreremo». Giunto il pontefice sulle Francesi terre, fu per ordine dell'imperatore, ed ancor più per la pietà dei fedeli in ogni luogo con riverenza veduto. A Parigi, anche quelli che non credevano nè al papa, nè alla religione, si precipitavano a gara, o per moda, o per vanità, o per adulazione, alla sua presenza per esprimergli con parole sentimenti di rispetto. Incoronava Napoleone il dì due decembre. Il fece l'imperatore aspettare nella chiesa di Nostra Donna in Parigi un'ora prima che vi arrivasse: vollero, quando il pontefice si mosse alla volta di lui, i pii circostanti applaudire al venerando vecchio; furonne da Napoleone con imperioso e forte segno impediti: partito da Nostra Donna il consecrato ed incoronato Napoleone, fu lasciato Pio, come un uom del volgo, avviluppato ed impedito fra l'immensa folla del popolo concorso; tristi presagi dei casi avvenire. Napoleone consecrato diè nel campo di Marte solennemente le imperiali aquile a' suoi soldati: le auliche insegne della repubblica, che avevano veduto le Renane, Italiche, Egiziache vittorie, lasciate nel fango, che era in quel giorno altissimo. Tanto i soldati di tutti già erano divenuti soldati di un solo! Disprezzar la gloria era segno, che non si sarebbe rispettata la libertà. Andarono i magistrati, ed i capi dell'esercito a rendere omaggio all'incoronato loro signore. Cervoni, antico compagno, vedendolo non più così scarso del corpo, com'era una volta, con esso lui della prospera salute si rallegrava. _Sì_, rispose il sire, _ora sto bene_. LIBRO VIGESIMOSECONDO SOMMARIO Buonaparte creatosi imperatore di Francia, pensa a farsi chiamare re d'Italia. Gl'Italiani gli si rappresentano a Parigi, e il fanno pago di questo suo desiderio. Va a Milano per incoronarsi re. Genova cambiata, ed unita a Francia. Festa che danno i Genovesi all'imperatore e re. Dichiarazione di Scipione de' Ricci vescovo di Pistoja, al papa, ed accoglienza che il pontefice gli fa a Firenze. Astute insinuazioni dei gesuiti ai principi, e loro rinstaurazione nel regno di Napoli. Nuova guerra tra la Francia da una parte, l'Austria e la Russia dall'altra, e sue cagioni. Massena generalissimo di Francia, l'arciduca Carlo generalissimo d'Austria in Italia. Battaglia di Caldiero. Strepitose vittorie di Napoleone in Germania. L'arciduca si ritira dall'Italia: pace di Presburgo. Napoleone toglie il regno a Ferdinando di Napoli, e per qual cagione. Giuseppe, fratello di Napoleone, re di Napoli. Si fa sangue nelle Calabrie. Battaglia di Maida tra Francesi ed Inglesi. Accidenti delle bocche di Cattaro, e ferocia della guerra Dalmatica. La Dalmazia e Ragusi riunite al regno Italico. La natura di Napoleone era irrequieta, disordinata, solo costante nell'ambizione. Però lungo tempo non stava nel medesimo proposito, sempre mutando per salire. Pareva, e fu anche solennemente, e con magnifiche parole detto da lui e da Melzi, che gli ordini statuiti in Lione per l'Italica fossero per essere eterni; ma non ancora erano corsi due anni, che già manchi, insufficienti, non conducenti a cosa che buona e durevole fosse, si qualificarono. Importava a chi s'era fatto imperatore, che re ancora si facesse. Erano, non senza disegno, stati invitati gl'Italici a condursi a Parigi per cagione di assistere, in nome della repubblica, alle imperiali cerimonie ed allegrezze. Vi andarono Melzi vice-presidente, i consultori di stato Marescalchi, Caprara, Paradisi, Fenaroli, Costabili, Luosi, Guicciardi; i deputati dei collegi e dei magistrati Guastavillani, Lambertenghi, Carlotti, Dambruschi, Rangone, Caleppi, Litta, Fe, Alessandri, Salimbeni, Appiani, Busti, Negri, Sopransi, Valdrighi. L'imperatore si lasciò intendere che il chiamassero re, e condannassero gli ordini Lionesi: disponendosi la somma delle cose non solo con un comando, ma ancora con un cenno di Napoleone, il fecero volontieri. Melzi certamente non nato a questi vituperj, appresentandosi il giorno diciasette marzo con gli altri deputati in cospetto di Napoleone salito sul trono nel Castello delle Tuilerie, in tali accenti con lingua e concetti servili favellava. «Voi ordinaste, o Sire, che la consulta di stato, e i deputati della repubblica Italiana si adunassero, e l'affare il più importante pe' suoi destini presenti e futuri, cioè la forma del suo governo considerassero. Al cospetto vostro io m'appresento, Sire, per compire appresso a voi l'onorevole carico d'informarvi di quanto ella fece e di quanto ella desidera. Primieramente l'assemblea molto bene ogni cosa considerando, venne in questa sentenza, che impossibile è, se troppo non si vuole dagli accidenti dell'età nostra discordare, le attuali forme conservare. Ebbero le Lionesi constituzioni tutti i segni di ordini provvisorj: accidentali furono, perchè agli accidenti dei tempi fossero rispondenti, nè in se alcun nervo avevano, per cui gli uomini prudenti e durata e conservazione promettere si potessero. Non che la ragione, l'evidenza stringono urgentemente a cambiarla. La qual cosa concessa, e confessata vera, come vera è realmente, la via da seguitarsi semplice diventa e piana: i progressi delle cognizioni, i dettami dell'esperienza la monarchia constituzionale, la gratitudine, l'amore, la confidenza il monarca ci additano. Voi conquistaste, o Sire, voi riconquistaste, voi creaste, voi ordinaste, voi fino a questo dì l'Italiana repubblica governaste; quivi ogni cosa le vostre gesta, la vostra mente, i vostri benefizi rammenta: un unico desiderio poteva essere fra di noi: un unico desiderio è sorto. Noi non preterimmo di maturamente considerare quanto nelle future cose profonda sapienza vostra indicava; ma per quanto gli alti e generosi pensieri vostri coi nostri più bramati interessi s'accordino, facilmente abbiamo a noi medesimi persuaso, che le condizioni nostre tanto ancora non sono mature, che possiamo aggiungere a quest'ultimo grado della politica independenza. L'Italiana repubblica, così porta l'ordine naturale delle cose, debbe ancora per qualche tempo restare impressa della condizione degli stati novellamente creati. Un primo nembo, quantunque leggieri, che l'aere oscurasse, sarebbe per lei d'affanni e di timore cagione. Nella qual condizione, quale maggiore sicurezza, quale più fondata speranza di felicità potrebbe ella, Sire, che in voi trovare? Voi siete ancora necessaria parte di lei. Solo nell'alta sapienza vostra sta, solo a lei s'appartiene il vedere il preciso termine della dependenza tra le gelosie esterne, e i pericoli nostri. Interrogati amorevolmente, rispondiamo sinceramente. Questo è il desiderio nostro, che a voi significhiamo, questa la preghiera, che a voi indirizziamo, che vi piaccia quelle costituzioni darne, in cui i principj già da voi pubblicati, dall'eterna ragione richiesti, alla quiete delle nazioni necessari, statuiti siano e confermati. Siate contento, o Sire, di accettare, siate contento di compire le preghiere, e i desiderj dell'Italica consulta. Per questa mia bocca instantemente tutti ve ne ricercano, e ve ne scongiurano. Se voi benignamente ci esaudite, agl'Italiani diremo, che voi con più forte legamento vi siete alla conservazione, alla difesa, alla prosperità dell'Italiana nazione congiunto. Così è, Sire, voi voleste che la Italiana repubblica fosse, ed ella fu: fate ora, che la Italiana monarchìa sia felice, e sarà». Terminato il favellare, e fattosi avanti Melzi, l'atto dell'Italiana consulta espresse: il governo della repubblica Italiana fosse monarcale, ed ereditario: Napoleone primo re d'Italia si dichiarasse: le due corone di Francia, e d'Italia in lui solo, non ne' suoi discendenti o successori, potessero essere unite: insino a tanto che gli eserciti Francesi occupassero il regno di Napoli, i Russi Corfù, gl'Inglesi Malta, le due corone non si potessero separare: pregassesi Napoleone imperatore, passasse a Milano per ricevere la corona, e statuire leggi definitive pel regno. Rispose Napoleone con voce forte, ma chioccia, come l'aveva, aver sempre avuto il pensiero di creare libera e independente la nazione Italiana; dalle sponde del Nilo avere sentito le Italiane disgrazie; essere, mercè del coraggio invitto dei suoi soldati, comparso in Milano, quando i suoi popoli d'Italia ancora il credevano sulle spiagge del mare Rosso; ancora tinto di sangue, ancora cosperso di polvere, sua prima cura essere stata l'ordinare l'Italiana patria: chiamarlo gl'Italiani a loro re; volere loro re essere, volere questa corona conservare, ma solo fintantochè gl'interessi loro il richiedessero: deporrebbela, quando fosse venuto il tempo, sopra un giovane rampollo volentieri, al quale del pari che a lui sarebbero a cuore la sicurezza e la prosperità dei popoli Italiani. Nè questa fu la sola dimostrazione, ch'ei fece in questo proposito. Entrò il giorno seguente l'imperatore in senato. Taleyrand, ch'era uomo molto ambidestro, e capace di pruovar questa con molte altre cose ancora, pruovò, che per allora l'unione della corona d'Italia a quella di Francia era necessaria. Lessesi l'accettazione: poi Napoleone prese a favellare, pretendendo parole di moderazione e di temperanza. «Noi vi chiamammo, o senatori, disse, per darvi a conoscere tutto l'animo nostro intorno agli affari più importanti dello stato. Potente e forte è l'impero di Francia, ma più grande ancora la moderazione nostra. La Olanda, la Svizzera, l'Italia tutta, la Germania quasi tutta conquistammo: ma in fortuna tanto prospera misura e modo serbammo. Di tante conquistate province quello solo ritenemmo, che necessario era a mantenerci in quel grado d'autorità e di potenza, nel quale fu sempre la Francia posta. Lo spartimento della Polonia, le province tolte alla Turchìa, la conquista dell'Indie, e di quasi tutte le colonie hanno a pregiudizio nostro dall'un dei lati fatto ir giù la bilancia: l'inutile rendemmo, il necessario serbammo, nè mai le armi per vani progetti di grandezza, nè per amore di conquista impugnammo. Grande incremento alla fertilità delle nostre terre avrebbe recato l'unione dei territorj dell'Italiana repubblica: pure dopo la seconda conquista, l'independenza sua a Lione confermammo; ed oggidì più oltre ancora procedendo, il principio della separazione delle due corone statuiamo, solo il tempo di lei, quando senza pericolo pei nostri popoli d'Italia effettuare si possa, assegnando. Accettammo, e sulla nostra fronte l'antica corona dei Lombardi posammo: questa rattempreremo, questa rinstaureremo, questa contro ogni assalto, finchè il Mediterraneo non sia restituito alla condizione consueta, difenderemo, e questo primo Italico statuto a poter nostro sano e salvo conserveremo». Creava l'imperatore Eugenio Beauharnais, figliuolo dell'imperatrice sua moglie, principe: poi, suo figliuolo adottivo chiamandolo, vicerè d'Italia il nominava. Creava Melzi guardasigilli del regno. Decretava, anderebbe a Milano, e la corona reale, la domenica ventisei di maggio, prenderebbe. Messosi in viaggio con grandissimo seguito di cortigiani, perchè voleva far illustre questa sua gita con apparato molto superbo, e più che regio, e festeggiato con grandissimi onori per tutta Francia, arrivava Napoleone il dì venti aprile a Stupinigi, piccola ed amena villa dei Reali di Sardegna, posta a poca distanza da Torino. Quivi concorsero a fargli onoranza i magistrati; Menou verso di lui umilissimo si mostrava. Ad alcuni parlò benignamente, ad altri superbamente, secondochè era da Menou Egiziaco susurrato. Riprese con parole aspre l'arcivescovo Buronzo, accusandolo di serbar tuttavia fede al re di Sardegna: tolse dalla carica Pico, presidente del tribunale, e lo voleva anche far ammazzare, perchè, come diceva, l'aveva tradito nelle faccende Veneziane. Infine trascorse in parole sdegnosissime contro i giacobini, chiamandogli scelerati, e più quelli che l'avevano servito: in ciò era stimolato particolarmente da Menou, che parlava come se non fosse mai stato giacobino egli. Aggiunse il sire, che gli avrebbe fatti arar dritto, e chi non avesse arato dritto, avrebbe a far con lui. Tutte queste cose disse, e fece con modi tanto plebei, che tutti restarono persuasi, che se aveva la forza non aveva la dignità, e che novizio ancora, male sapeva portare il nuovo imperio. Vennero a trovarlo a Stupinigi i deputati di Milano per fargli omaggio, re loro, rigeneratore loro, padre loro chiamandolo. Rispose onorevolmente, gli avrebbe in luogo di figliuoli: raccomandò loro, fossero virtuosi, l'attiva vita, la patria, e l'ordine amassero. Dell'ordine parlava per dar contro ai giacobini, credendo che questa fosse buona arte per adescare i re. Terminò minacciosamente dicendo, che se alcuno avesse concetto gelosia pel regno d'Italia, aveva una buona spada per disperdere i suoi nemici; il che era vero. I buoni Milanesi stupivano a quelle sì vive dimostrazioni, ed argomentavano, che il placido e grasso vivere fosse giunto al fine. Visitato Moncalieri, corse la collina di Torino: esaminata Superga, entrò trionfalmente nella reale città. Abitò il palazzo del re, con molto studio e diligenza a questo fine restituito ed addobbato dal conte Salmatoris. Correvano i popoli Piemontesi a vedere l'inusitato spettacolo: si maravigliavano, non del caso, che già ne avevano veduti tanti, ma della superbia. Arrivava in questo mentre papa Pio a Torino, tornando da Francia. Fu fatto alloggiare nella reggia con Napoleone: stettero molte ore ristretti insieme: Pio sperava. Napoleone lusingava, pubblicamente stretto accordo mostravano, l'imperatore ne godeva, perchè sapeva qual effetto sulla opinione dei popoli partorisse l'amicizia di un papa. Visitò le pubbliche singolarità, con incredibile imperturbabilità parlando di quel che sapeva, e di quel che non sapeva: ma che dicesse bene, o che dicesse male, tutti sempre applaudivano. Parlò con facilissima loquela di musica, di medicina, di leggi, di pittura: volle vedere la tavola d'Olimpia, pinta da Ravelli, pittore di nome. Lodò l'opera, ma notò qualche difetto: tutti fecero le maraviglie del quanto se ne intendesse. Il papa festeggiato, anche da Menou Abdallah, se ne partiva alla volta di Parma. Dai discorsi civili si venne alla rappresentazione delle armi. Volle Napoleone vedere i gloriosi campi di Marengo, e quivi simulare una sembianza di battaglia. Rizzossi un arco trionfale sulla porta d'Alessandria per a Marengo con gli emblemi delle Italiche, Germaniche, Egiziache vittorie. Sul campo stesso del combattuto Marengo l'imperial trono s'innalzava. Compariva Napoleone in una carrozza molto splendida, e tirata da otto cavalli: non conobbe, quanto più grande sarebbe stato, se in quei medesimi luoghi si fosse rappresentato con modestia e da soldato; ma la vanità guastava la gloria. Stavano i soldati schierati, molti memori delle portate fatiche in questi stessi Marenghiani campi: Francesi, Italiani, Mamalucchi, sì fanti che cavalli: s'accostavano le guardie nazionali, tutte in abito, ed in bellissimo ordine disposte: magnifica comparsa poi facevano le guardie d'onore Milanesi venute a Marengo per onoranza del nuovo signore. Stavano appresso gli ufficiali di corte, i ciamberlani, le dame, i paggi, e molti generali in abiti ricchissimi. Splendeva il sole a ciel sereno: i raggi ripercossi, e rimandati in mille differenti guise da tanti ori, argenti, e ferri forbiti, facevano una vista mirabile. Una moltitudine innumerevole di popolo era concorsa: l'Alessandrina pianura risuonava di grida festive, di nitriti guerrieri, di musica incitatrice. Napoleone glorioso venuto al trono, e postovi l'imperatrice a sedere, scendeva dall'imperiale cocchio; e montato a cavallo s'aggirava per le file degli ordinati soldati. Le grida, gli applausi, i suoni di ogni sorta più vivi e più spessi sorgevano, ed assordavano l'aria. Terminate la rassegna e la mostra, ivi a sedersi sull'imperiale seggio ancor egli, essendo in lui conversi gli occhi della moltitudine, tutti imperatore e vincitore di Marengo con altissime voci salutandolo. Seguitava la battaglia simulata fra due opposte schiere, moderando le mosse e gli armeggiamenti Lannes, che dopo i nuovi ordini imperiali era stato creato maresciallo. Durò dalle dieci della mattina sino alle sei della sera con diletto grandissimo di Napoleone; la quale terminata, dispensò a parecchi soldati o magistrati le insegne della legion d'onore, nuovo allettamento pe' suoi disegni creato da lui novellamente, siccome quegli che ottimamente conosceva i repubblicani de' suoi tempi. Sceso poscia dal trono gettava le fondamenta di una colonna per testimonianza alle future genti della Marenghiana vittoria: ivi si fermarono le gloriose ricordanze. Arrivava Napoleone con tutti i grandi della corona il dì sei maggio a Mezzana-Corte sulla sponda del Po, dove passato il fiume sopra non so quale estemporaneo Bucintoro, fra le innumerevoli acclamazioni dei popoli, che sulle due opposte rive tripudiavano, sulle terre del suo Italico regno entrava. L'aspettavano in solenne pompa, il ricevettero, il lodarono il prefetto dell'Olona, il guarda-sigilli Melzi, il maresciallo Jourdan, che stava al governo dei soldati francesi alloggiati nel regno Italico. Rispose secco in un momento, in cui massimamente il suo cuore sarebbe dovuto aprirsi, e spander fuori da tutte le vene fonti d'affezione. Giunto a Pavia, fece sua stanza nel palazzo del marchese Botta, ad uso di palazzo imperiale destinandolo, buon grado o malgrado che ne avesse il marchese, che per verità poco si curava di questo Napoleonico onore. Guardie d'onore, studenti addobbati, folle di popolo, arazzi spiegati, fiori sparsi, lumi accesi, applausi infiniti testificavano l'allegrezza dei Pavesi verso chi gli aveva avaramente, e crudelmente posti a sacco. Vide volentieri l'università, che l'ebbe con queste parole, per voce del rettore, e dei professori decani, lodato: «Voi assicuraste due volte colla vittoria, o sire, la sorte d'Italia, e due volte fra i travagli delle armi stendeste la mano generosa alle scienze profughe e mal sicure. Allora fu, che questo tempio sacro alla sapienza venne da voi rialzato all'antico splendore. Chiamati noi sotto l'ombra del vostro scudo all'onorato ministero del suo culto, fummo ognora penetrati da profonda riconoscenza. Il popolo Francese vi pose in capo la corona imperiale; ma gli Italiani vi prepararono quella degli antichi loro re: essi ve la offersero, voi l'accettaste, e la fronte piena d'alti pensieri si fregierà di un duplice diadema. Questo è l'istante, che apre libero il campo alla nostra gratitudine, e che ci guida a depositare a' vostri piedi l'omaggio solenne della nostra comune esultazione. Voi, cui circondano le pacifiche non meno, che le guerriere virtù, accogliete il rispettoso nostro discorso, e vogliate esserci padre, e nume tutelare. Apprenda da voi la posterità, che il genio delle armi unito a quello delle scienze e delle arti forma la felicità delle nazioni. Venite adunque fra noi, benefico e magnanimo eroe: per voi si diffonderanno vieppiù tutte le fonti del sapere. Già l'Italia, l'illustre patria de' Virgili, de' Galilei, de' Raffaelli ingrandisce le sue speranze sotto i potenti vostri auspicj. Il cielo vi formò per le grandi cose, e poichè tutto vi diede, vi conceda ancor lunghi e sereni giorni, onde compiere l'opera della vostra beneficenza, e gli alti destini, che ci avete preparati». Io ho voluto riferire questo discorso elogistico dell'università di Pavia, perchè, sebbene del tutto non sia purgato, è nondimeno a comparazione delle laide e deformi Italiane scritture di quei tempi, limpido e puro di parole, e di stile non isconveniente al soggetto. Fu magnifico l'ingresso di Napoleone in Milano. Entrava per la porta Ticinese, a cui fu dato nome di Marengo. Gli appresentarono i municipali le chiavi posate sopra un bacile d'oro. Dissero, essere chiavi della fedel Milano; i cuori aversegli già da lungo tempo acquistati. Rispose, serbassero le chiavi; credere, amarlo i Milanesi, credessero, lui amargli. Pervenuto, traendo e gridando lietissimamente una foltissima calca di popolo, al Duomo, il cardinal Caprara, arcivescovo, fattosegli incontro sulla soglia, giurava rispetto, fedeltà, obbedienza e sommessione, augurava conservazione di sì gran sovrano, invocava gl'incliti protettori della magnifica città Ambrogio e Carlo, acciocchè a lui, ed a tutta la sua famiglia salute piena, e contentezza perenne dessero. Terminate le cerimonie del tempio, il palazzo dei duchi ornato a festa, e tutto esultante per l'acquistata grandezza accoglieva il novello re. Ed ecco che, saputo ch'era andato a Milano per la corona, il venivano a trovare i deputati dell'Italiche e dell'estere città. Vennevi Lucchesini portatore dei Prussiani onori, e delle Prussiane arti: recava da parte del re Federigo l'aquila nera, e l'aquila rossa a Napoleone: fregiatosene il sire, compariva con loro al cospetto de' suoi schierati soldati. Queste cose si facevano per pungere l'Austria, perchè a questo tempo il re Federigo, a ciò confortato da Lucchesini e da Hagwitz, si era risoluto, con quale prudenza e felicità il mondo stupidito se l'ha veduto, a secondare in tutto e per tutto i disegni di Napoleone imperatore. Vennevi Cetto, inviato di Baviera, Beust, inviato dell'arcicancelliere dell'impero Germanico, Alberg mandato da Baden, Benvenuti balì mandato dall'ordine di Malta: mandovvi la montagnosa Vallesia il landamanno Augustini: mandovvi l'adusta Spagna il principe di Masserano, Lucca un Cotenna ed un Belluomini, Toscana un principe Corsini ed un Vittorio Fossombroni: tutti venivano ad onoranza, ed a raccomandazione appresso al potente e temuto signore. Maggior materia era sotto i deputati della Ligure repubblica. Aveva mandato il senato Genovese Durazzo doge, cardinale Spina arcivescovo, Carbonara, Roggieri, Maghella, Fravega, Balbi, Maglione, Delarue, Scassi, senatori. A loro maggiori carezze, più squisiti onori si facevano. Studiavansi il ministro Marescalchi, ed il cardinale Caprara a soddisfar loro con mense, con udienze, con complimenti. Le medesime gentilezze usavano i ministri di Francia: ad ogni piè sospinto veniva dato dell'altezza serenissima al doge, e di ambasciatori straordinari ai senatori. Il signore stesso sempre gli guardava con viso benigno, e si allargava con loro in melliflue parole. Brevemente, fra tanto festeggiare non erano i Liguri legati la minor parte della comune allegrezza. Le quali cose considerando coloro, che la natura di Napoleone non conoscevano, chiamavano i Liguri fra tutti gli uomini felicissimi, e felicissime sorti argomentavano per la piccola repubblica. Ma quelli a cui era noto l'umore, stimavano che vi fosse sotto qualche disegno, e dubitavano di qualche mal tratto. I Liguri legati stessi, quelli almeno che non erano nella trama, perciocchè alcuni vi erano, di tanti onori ed accattamenti si maravigliavano, e gli animi non avevano del tutto sgombri da timore. Ammessi all'udienza del signore, il videro sereno e lieto. Con esso lui dell'acquistato imperio si rallegrarono, il commercio della prediletta Liguria instaurasse, supplicarono. Rispose umanamente, conoscere l'amore dei Liguri, sapere aver soccorso gli eserciti di Francia in tempi difficili; non isfuggirli le angustie loro; prenderebbe la spada e gli difenderebbe: conoscere l'affezione del doge, vederlo volentieri, veder volentieri con lui i Liguri senatori: anderebbe a Genova; senza guardie come fra amici v'anderebbe. Dopo l'udienza furono veduti ed accarezzati dall'imperatrice, e da Elisa principessa, sorella che era di Napoleone, sposata ad un Baciocchi, creato principe anch'egli. Tutti mostravano dolce viso ai Liguri legati nella Napoleonica corte. Presa in Monza la ferrea corona, e non senza solenne pompa a Milano trasportata, si apriva l'adito all'incoronazione. La domenica ventisei di maggio, essendo il tempo bello, ed il sole lucidissimo, s'incoronava il re. Precedevano Giuseppina imperatrice, Elisa principessa in abiti ricchissimi; ambe risplendevano di diamanti, dei quali in Italia meno che in qualunque altro paese avrebbero dovuto far mostra. Seguitava Napoleone portando la corona imperiale in capo, quella del regno, lo scettro, e la mano di giustizia in pugno, il manto reale, di cui i due grandi scudieri sostenevano lo strascico, in dosso. L'accompagnavano uscieri, araldi, paggi, ajutanti, mastri di cerimonie ordinari, mastro grande di cerimonie, ciamberlani, scudieri pomposissimi. Sette dame ricchissimamente addobbate portavano le offerte; ad esse vicini con gli onori di Carlomagno, d'Italia, e dell'imperio procedevano i grandi ufficiali di Francia e d'Italia, e i presidenti dei tre collegi elettorali del regno. Ministri, consiglieri, generali accrescevano la risplendente comitiva. Ed ecco Caprara cardinale affaccendatissimo, e rispettoso in viso, col baldacchino, e col clero accostarsi al signore, e sino al santuario accompagnarlo. Non so se alcuno in questo punto pensasse, avere da questo medesimo tempio Ambrogio santo rigettato Teodosio tinto del sangue dei Tessalonici; ma i prelati moderni non la guardavano così al minuto con Napoleone. Sedè Napoleone sul trono, il cardinale benediceva gli ornamenti regj. Saliva il re all'altare, e presasi la corona, ed in capo postolasi, disse queste parole, che fecero far le maraviglie agli adulatori, cioè a tutta una generazione: _Dio me la diede, guai a chi la tocca_. Le divote volte in quel mentre risuonavano di grida unanimi d'allegrezza. Incoronato, givasi a sedere sopra un magnifico trono alzato all'altro capo della navata. I ministri, i cortigiani, i magistrati, i guerrieri l'attorniavano. Le dame specialmente, in acconce gallerìe sedute, facevano bellissima mostra. Sedeva sopra uno scanno a destra Eugenio vicerè, figliuolo adottivo. A lui siccome a quello a cui doveva restare la suprema autorità, già guardavano graziosamente i circostanti. Onorato e speciale luogo ebbero nell'imperial tribuna il doge, ed i senatori Liguri; stavano con loro quaranta dame bellissime e pomposissime. Giuseppina ed Elisa in una particolar tribuna risplendevano. Le volte, le pareti, le colonne sotto ricchissimi drappi si celavano, e con cortine di velo, con frange d'oro, con festoni di seta s'adornavano. Grande, magnifica, e maravigliosa scena fu questa, degna veramente della superba Milano. Cantossi la solenne messa, giurò Napoleone; ad alta voce dagli araldi gridossi: «Napoleone primo imperatore dei Francesi, e re d'Italia è incoronato, consecrato, e intronizzato; viva l'imperatore e re». Le ultime parole ripeterono gli astanti con vivissime acclamazioni tre volte. Con questo splendore, e con quel di Parigi oscurò e contaminò Buonaparte tutte le sue Italiane glorie; conciossiachè a colui, che od in pace, od in guerra, non per la patria, ma per lui s'affatica, anzi questo nell'abbominevole suo animo si propone, di servirsi dei servigj fatti a lei per soggettarla, e porla al giogo, il mondo e Dio faran giustizia; sono queste azioni scelerate, non gloriose. Se piacquero all'età, dico, che l'età fu vile. Terminata la incoronazione andò il solenne corteggio a cantar l'inno ambrosiano nell'ambrosiana chiesa. La sera, Milano tutta festeggiava: fuochi copiosissimi s'accesero, razzi innumerevoli si trassero, un pallone aereostatico andava al cielo; in ogni parte canti, suoni, balli, tripudj, allegrezze. A veder tante pompe si facevano concetti d'eternità; già gli statuali si adagiavano giocondamente sui seggi loro. Mentre con lusinghe e con onori s'intrattenevano in Milano il doge, ed i Liguri legati, per un concerto con gli aderenti più fidi, un empio fatto si tramava. Sollevava Napoleone a cose nuove la travagliata Liguria. Vi si spargevano prima parole, poi aperti discorsi intorno alla necessità dell'unione con Francia. Questo avevano significato le parole di Napoleone, quando pochi giorni prima favellando al suo senato in Parigi aveva detto, nissuna nuova provincia dover essere aggiunta al suo impero. Allegavasi per suggestione e comandamento di lui da uomini prezzolati nelle Liguri province, allora essere stata perduta la independenza, quando fu fatta la rivoluzione; d'allora in poi essere stata sotto diversi nomi, e reggimenti diversi Genova serva; aver lo stato più pesi, che portar possa da se; potergli portare facilmente congiunto con Francia; sperarsi invano che il potente non manomettesse il debole; di ciò manifeste testimonianze aver dato l'Austria, che venne come amica, la Francia come alleata; ripugnare la natura umana, sempre superba, ai moderati desiderj, nè la giustizia regnare in chi troppo può; essere cangiate le sorti d'Europa; preponderare oltre modo la Francia, già abbracciare stringere da ogni parte pel Piemonte unito, e pell'Italico regno obbediente l'esile Liguria; che starsi a fare, che non si domanda l'unione a Francia! Giacchè non più si può comandare da se, savio consiglio essere il comandare con altrui; le umili Genovesi insegne non rispettarsi sui mari dai barbari buttati fuori dalle caverne Africane, rispettarsi le Francesi, i Napoleonici segni avere a render sicuri i Liguri navilj; così una sola deliberazione politica essere per fare ciò che le antiche armi della repubblica più non potevano. A queste parole si aggiungevano le adulazioni sulla felice condizione di esser posti al freno di Napoleone eroe. Le giurisdizioni domandavano l'unione con Francia, supplicava il senato Napoleone, la decretasse. Avendo le arti e i comandamenti del signore di Francia e d'Italia sortito l'effetto loro, acciocchè dai Genovesi s'implorasse quello, che l'imperatore aveva ordinato che implorassero, comparivano al suo cospetto in Milano il dì quattro giugno i Liguri legati. Girolamo Durazzo doge, serbato dai cieli a veder ii fine della sua nobil patria, ed al quale erano state celate le arti usate in Liguria, dopochè egli era venuto a Milano, tutto pallido e sgomentato in cotal guisa orava: «Portano i Liguri legati ai piedi di Vostra Maestà Imperiale e Reale i voti del senato e del popolo Ligure. Prendendo il carico di rigenerar questo popolo, voi vi addossate anche quello di farlo felice. A questo solo il possono condurre la sapienza ed il valor vostro. Le mutazioni introdotte nei popoli vicini, da loro intieramente segregandoci, rendono la condizione nostra infelice, e necessariamente richieggono la nostra unione con questa Francia, che voi tanto glorificate. Questi sono i desiderj del popolo Ligure, questi ei manda ad esprimere all'augusto cospetto vostro, questi per noi vi prega di esaudire. Le ragioni che a questa deliberazione ci muovono, pruovano all'Europa, ch'ella non è l'effetto di alcun impulso straniero, ma bensì il necessario risultamento della nostra condizione presente. Degnatevi, o Sire, udire benignamente la voce di un popolo, che nel tempi più difficoltosi sempre si mostrò affezionato alla Francia: unite all'imperio vostro questa Liguria, primo campo delle vostre vittorie, primo grado del trono, sopra il quale vi siete per la salute di tutte le civili società seduto. Siate, supplichiamovene, verso di noi tanto benigno, che consentiate a darci la felicità, che dall'esser vostri sudditi deriva: nè più devoti, nè più fedeli potrebbe la Maestà Vostra trovarne.» Dettesi queste umili parole dal miserando doge, e porti i suffragi del Ligure popolo al signore, rispondeva Napoleone: essere da lungo tempo venuto a parte delle faccende del Liguri, a buon fine sempre averle indirizzate; essersi accorto, che per loro era impossibile, che qualche cosa degna dei padri loro facessero: l'avara Inghilterra chiudere a piacer suo i porti, infestar i mari, visitar le navi: le Africane rapine andare ogni ora più crescendo: essere servitù nell'independenza Ligure: essere necessità ai Liguri di unirsi ad un popolo potente: adempirebbe i loro desiderj, gli unirebbe al suo gran popolo volentieri, memore dei servigi prestati: tornassero nella loro patria: visiterebbegli fra breve, suggellerebbe la felice unione in Genova. Lessersi i voti. A cagione che la Liguria non ha forza sufficiente per mantenere la sua independenza, che gl'Inglesi non riconoscono la repubblica, che chiuso è il mare dai Barbari, la terra dalle dogane, supplicare il senato all'imperatore e re, la Liguria al suo impero unisse. Seguitavano le condizioni: si soddisfacesse dallo stato ai creditori Liguri, come a quei di Francia: si conservasse il porto franco di Genova; nell'accatastare si avesse riguardo alla sterilità delle terre Liguri, ed al caro delle opere; si togliessero le dogane e le barriere tra la Francia e la Liguria; si descrivessero i soldati solamente all'uso di mare; si regolassero per modo i dazi sugli introiti e sulle tratte, che i proventi e le manifatture della Liguria ne sentissero beneficio, le cause sì civili che criminali si terminassero in Genova, od in uno dei dipartimenti più vicini dell'impero; gli acquistatori dei beni nazionali fossero indenni e sicuri nel possesso, e nella piena proprietà di loro. Avviluppossi Napoleone, rispondendo, nelle ambagi, perchè dei patti della dedizione solo voleva osservar quelli ch'ei voleva, non quelli che volevano i Liguri. Intanto desiderando mitigare l'acerbità del fatto con un uomo di temperata e prudente natura, mandava a Genova il principe Lebrun, arcitesoriere dell'impero, perchè lo stato nuovo ordinasse a seconda delle leggi Francesi. Restava, che con le feste si celebrasse la perduta patria. Arrivava Napoleone il dì trenta di giugno a Genova, tratto dal diletto di udire le Genovesi adulazioni, e di vedere popoli servi. Tutta la città si muoveva per vederlo. Veniva dalla Polcevera: l'incontrava la cavallerìa a Campo Marone; le campane suonavano a gloria, i cannoni rimbombavano, le fregate e i legni minori sorti nel porto esultando mareggiavano: chi traeva alle ambizioni si componeva nei sembianti; le Genovesi donne attentamente il guardavano per giudicare di che cosa sapesse; del popolo chi si maravigliava, chi diceva arguzie da marinaro. Succedevano le adulazioni dei magnati. Michel Angelo Cambiaso, creato sindaco da Lebrun, si appresentava con le chiavi: Genova superba per sito, essere ora superba per destino, disse: darsi ad un eroe: avere gelosamente e per molti secoli custodito la sua libertà: di ciò pregiarsi; ma ora molto più pregiarsi, le chiavi della città regina in mano di colui rimettendo, che savio e potente più di ogni altro valeva a conservargliela intatta e salva. Rispose benignamente, restituì le chiavi. Spina, cardinale arcivescovo, sulla soglia della chiesa di San Teodoro aspettandolo, col sacro turibolo l'incensava. Luigi Corvetto presidente del consiglio generale, venuto alla presenza del signore, favellava, avere lui liberato il buon popolo di Genova, averlo in figliuolo adottato; essere quivi in mezzo a' suoi figliuoli, dimenticare il Genovese popolo le passate calamità; ogni altro affetto in questo solo affetto comporsi dello amore dell'imperatore e re; per questo essere i Genovesi sudditi deditissimi; per questo i doveri più sacri affortificarsi dalle affezioni più dolci: non isdegnasse, pregava, la semplicità delle parole loro: eroe, sovrano, e padre, in buon grado accettasse il tributo dell'ammirazione, dell'amore, e della fedeltà loro. Poscia a nome proprio, e di Bartolomeo Boccardi, uomo di non mediocre ingegno, e stato sempre dedito alla parte Francese, Luigi Corvetto medesimo pregava felicità per la sua patria, chiamando Napoleone più grande di Cesare, e confortandolo a cambiare l'antica cesarea divisa in quest'altra _venni, vidi, felicitai_. Piacque la squisita lusinga: Luigi Corvetto fu creato consiglier di stato. Bene ne occorse ai Liguri, che, perduto l'antico nome, trovarono in Corvetto chi affettuosamente gli amava, chi prudentemente gli consigliava, e chi utilmente appresso al signor del mondo gli avvocava, non a sdegni, nè ad antichi rancori in tempi tanto solenni servendo, ma solamente al benefizio dei suoi compatriotti risguardando. Queste smodate lodi a viso scoperto con tanta franchezza si ascoltava Napoleone, ch'io non so qual fronte fosse la sua. Alloggiava al palazzo Doria a quest'uopo diligentissimamente preparato. Terminati i complimenti si veniva alle feste. Incominciossi dal mare. Faceva magnifica mostra un tempio, che di Nettuno, o Panteon marittimo chiamarono: eretto sopra un tavolato di navi, senza però che ciò apparisse, perciocchè pareva fondato sopra un verdeggiante suolo, se ne andava sulle marine acque per forza d'ignoti ordigni galleggiando. Una gran cupola aveva per colmo, sedici colonne d'ordine Jonico il sostentavano, le immagini dei marini Dei l'adornavano. Sulle due facce interna ed esterna della cupola si leggeva una inscrizione, parto del padre Solari, la quale significava, i Liguri augurare a Napoleone imperatore e re l'imperio del mare, come già si aveva quello della terra. Opera bella ed ingegnosa fu questo tempio: sopra di lei, condotta che fu in mezzo al porto, sedeva Napoleone, i circostanti festeggiamenti rimirando. Quattro isolette, che rappresentavano quattro giardini cinesi adorni di palme, cedri, limoni, melaranci, melagrani, rinfrescati da zampilli di acque limpidissime, coperti da una cupola listata di più colori, ed adornata da quantità mirabile di campanelli, che messi in moto dal continuo aggirarsi della macchina con dolce concento tintinnavano continuamente, givano con morbide giravolte ora qua, ora là a galla ondeggiandosi. Un numero innumerabile di battelli, burchietti, schifetti, liuti, gondolette in varie guise ed elegantemente ornate, facevano che alla instabilità del mare nuova instabilità di barche e di vele si aggiungesse, e mille variati aspetti ad ogni momento agli occhi dei risguardanti si raffigurassero. S'apriva la regata, o vogliam dire, gara di navi in numero di sei: partite dalle tre porte di mare, due da ciascuna con velocità maravigliosa contesero della vittoria, vinse la bandiera del ponte di Spinola: gli applausi e le grida festose montavano ai cielo. Fecesi notte intanto: diventò più bello lo spettacolo. Lumiere di cristallo, che fra le colonne del galleggiante tempio stavano sospese, subitamente accese gittavano sulle incostanti acque, che con lampi di vario colore gli rimandavano, raggi di abbondante e rallegratrice luce. Le cupolette dei giardini anch'esse illuminate consentivano con la sopravvanzante luce del tempio. Fuochi in aria a forma di stelle, secondochè insegna Vitruvio, si volteggiavano intorno al tempio, ed ai quattro giardini cinesi. Le agili barchette, poste fuori anch'esse i lumi loro, facevano apparire giri, guizzi, e baleni, che con la piena luce dei tempio, e delle isolette da un canto si confondevano, dall'altro a chi d'in sulle spiagge di lontano mirava, l'oscurità della notte con la immagine d'innumerevoli e vaganti stelle tempestavano. Alla dolce vista consuonava un soave ascoltare: imperciocchè dalle cinesi isolette uscivano suoni e concenti giocondissimi mandati fuori dai petti, e dagli appositi strumenti di musici vestiti alla Cinese. Al tempo stesso le mura della città risplendevano per una immensa luminaria; i palazzi e le case quasi tutte avevano anch'esse i lumi accesi a festa: tutto l'anfiteatro della superba Genova con maraviglioso splendore rispondeva ai marini splendori. La torre della Lanterna accesasi ad un tratto da innumerevoli lumi con bel disegno ordinati, trasse a se gli occhi dei festeggianti spettatori, che con intense grida applaudirono. Accrebbe la maraviglia, che bentosto prese a buttar fuoco dalla cima a guisa di volcano, come se veramente volcano fosse. Nè i fuochi artificiati furono la parte meno notabile del magnifico rallegramento; poichè due bellissimi tempj di fuoco sorsero improvvisamente dalle due punte dei moli, ed altri fuochi con mirabile artificio apprestati, ora si tuffavano nelle acque, ed ora più vivi che prima fossero, ne uscivano. Così fra il molle ondeggiare, il vago risplendere, il giocondo suonare, nasceva una scena, a cui niuna può esser pari in dolcezza ed in grandezza. Stette in queste allegrezze Napoleone sino alle dieci della sera: poi sceso dal marino tempio se ne giva al magnifico palazzo di Girolamo Durazzo, dove trovò nuovi e squisiti onori, nuova e squisita adulazione. Festeggiavano con maggior pompa la servitù, che mai avessero festeggiato a libertà, il che non dee recar maraviglia; la libertà piace a tutti, e nissuno vuol piacere a lei; il dispotismo piace a nissuno, e tutti vogliono piacere a lui. Diessi un festino sontuoso a Napoleone nel palazzo pubblico in quel luogo stesso, dove i maggiori della spenta repubblica tante volte prudentemente e fortemente sulle più gravi faccende di lei avevano deliberato. Intervennero Giuseppina di Francia, Elisa di Piombino. Fu allegra la festa; se mescolata di antiche ricordanze, io non lo so. Cantossi l'inno Ambrosiano nella cattedrale di San Lorenzo. Quivi giurarono nelle parole dell'imperatore l'arcivescovo, ed i vescovi. Poi dispensò le insegne della legion d'onore, più eccelse a Durazzo, Cambiaso, Celesia, Corvetto, Serra, Cattaneo, arcivescovo Spina: presentò con dorate gioje Cambiaso, Durazzo, Corvetto, Gentile: questi furono i premj, e i segni della spenta patria. Comandò che si restituisse la statua d'Andrea Doria; quest'affronto mancava ad Andrea atterrato dai giacobini, rinnalzato da Napoleone. Contento allo aver fatti servi, e veduto comportarsi da servi i Genovesi, se ne tornava Napoleone per Torino ai suo imperiale Parigi. Rimase al governo di Genova il principe Lebrun, il quale temperatamente secondo la natura sua procedendo, diede norma allo stato nuovo riducendolo alla forma di Francia: ordinò con prediletto pensiero l'università degli studj; vedeva i professori volentieri: tra il bene operare ed il buon ricompensare cresceva il zelo ed in chi ammaestrava, ed in chi era ammaestrato; l'università Genovese diventò fiorente. Passarono alcuni mesi tra l'introduzione degli ordini Francesi, e la unione alla Francia: finalmente orando Regnault di San Giovanni d'Angely, decretava il dì quattro ottobre il senato, che i territorj Genovesi fossero uniti al territorio di Francia. A questo modo finì uno dei più antichi stati, non che d'Italia, d'Europa. Gl'innorpellamenti non mancarono nella bocca di Regnault: fra tutti fu lepidissimo il suo trovato, che la Francia distruggeva l'independenza di Genova, questo appunto significavano le sue parole, perchè l'Inghilterra non la rispettava. Fu lieto il principio; per la potenza di Napoleone tornarono in patria i Genovesi, schiavi della crudele Africa. La repubblica di Lucca anch'essa periva: così si verificava il detto di Napoleone, che le monarchìe non potevano vincere le repubbliche. Diè primieramente Piombino ad Elisa sorella, poi Lucca e Piombino a Bacciocchi ed Elisa. Fossevi in Lucca un senato: soldati non vi si scrivessero, ma tutti fossero soldati; tassa e tributo nissuno vi si pagasse se non per legge. Le cariche, salve le giudiziali, non si potessero conferire se non ai Lucchesi; principi di Lucca fossero Bacciocchi ed Elisa: nella nobile Lucca Bacciocchi dominava. Animato dall'osare, viemmaggiormente osava Napoleone: avviava Parma all'unione con Francia: le leggi Francesi vi promulgava; già le ambizioni Parmigiane si voltavano alla fonte Parigina, Moreau di san Mery secondava l'imperatore piuttosto per piacere a lui, che a se, perchè amava il comandare assai più che a modesto ed attempato uomo si convenisse; ma dolce era il cielo, dolci gli abitatori, dolce il comandare. Mentre con trionfale pompa scorreva per l'Italia Napoleone, e gl'Italiani stati rovinavano, tornava nella sua Romana sede il pontefice Pio. Parlò agli adunati cardinali delle cose fatte e delle cose sperate, molto beneficio per la religione, e per la Romana chiesa dal suo Parigino viaggio promettendosi. Ordinate le faccende religiose in Francia, aveva desiderato di compor quelle, che più vicino a lui avevano romoreggiato, e gettato anzi larghe radici in tutte le parti d'Italia: quest'erano le differenze tra la santa sede, e Ricci vescovo di Pistoja. Aveva papa Pio sesto gravemente censurato con la sua bolla _auctorem fidei_ le proposizioni del sinodo di Pistoja, massimamente l'ottuagesima quinta; colla quale il sinodo dichiarava aderirsi alle quattro proposizioni del clero di Francia. Quando poi la Toscana se ne viveva sotto la reggenza imperiale fondatavi dai Tedeschi, era stato il Ricci confinato nella sua villa dì Rignano. L'arcivescovo di Firenze instantemente il confortava, e gravemente anche l'ammoniva, si ritratasse. Il vescovo, stando sui generali, affermava, non avere mai avuto le opinioni, che uomini perversi gl'imputavano: essere di mente, come di cuore e di coscienza cattolico. Frattanto morto Pio sesto, ed assunto al trono pontificale Pio settimo, scriveva, per mezzo del prosegretario Consalvi, nuove lettere al nuovo pontefice, protestando della sua riverenza verso l'autorità pontificia, fondata, come diceva, su quella sacra scrittura, della sua adesione a tutte le verità cattoliche, e dell'integrità della sua fede ortodossa. Queste cose scriveva parte perchè, salva qualche restrizione mentale in lui, erano vere, parte perchè la reggenza di Toscana, che procedeva molto vivamente, lo spaventava: erano tempi molto diversi dai Leopoldiani. Non soddisfecero le lettere. Gli si scrisse da Roma, o in modo formale e speciale gli errori del sinodo ritrattasse, o il papa rigorosamente procederebbe contro di lui con le censure. Gli fe' poi sentire da Toscana, che se non accedesse senza indugio alcuno alle domande di Roma, sarebbe stato portato in castel Sant'Angelo, per modo che non vedrebbe più lume. Quest'erano le intimazioni della reggenza. In su questo, vennero novellamente i Francesi ad occupar la Toscana. Compose allora il vescovo una nuova e più lunga apologìa, nella quale ad una ad una esaminando le ottantacinque proposizioni, le affermava ortodosse. Sulla ottuagesimaquinta, e rispetto a quanto s'attiene alla dichiarazione del clero di Francia, protestava, non credere aver fatto ingiuria a quell'illustre chiesa, la sua dottrina accettando: avere il gran Bossuet, al quale la comunione cattolica per tanti segnalati servigj restava obbligata, i quattro articoli difesi e mantenuti: non avergli lui nel suo sinodo, come dogmi addottati, ma come un mezzo potente e sacro per mostrare i limiti, che dividevano le due potestà ecclesiastica e secolare. Rispetto poi alle regole di disciplina, essersi creduto, come vescovo, asseverava, tenuto a riformar gli abusi: di ciò averne fatto il concilio di Trento espresso precetto. Le medesime protestazioni di obbedienza e di fede fece il vescovo, e le mandò al pontefice, quando passando per Firenze, se n'andava in Francia all'incoronazione. Ma papa Pio, tornando da Parigi, e ripassando per la capitale della Toscana, fece sapere a Ricci, che l'abbraccerebbe volentieri, se prima volesse sottoscrivere una dichiarazione. Voleva, che il Pistojese vescovo dichiarasse, accettare con rispetto puramente, e semplicemente di cuore e di spirito tutte le constituzioni apostoliche emanate dalla santa sede contro gli errori di Baius, Giansenio, Quesnel, e loro discepoli dai tempi di Pio quinto sino ai presenti, e specialmente la bolla dogmatica _auctorem fidei_, che dannava le ottantacinque proposizioni estratte dal sinodo Pistojese; ripruovare e dannare tutte e singole le proposizioni sopradette nella conformità e significati espressi nella bolla; desiderare, perchè fosse lo scandalo corretto, che la dichiarazione si rendesse pubblica; protestare finalmente voler vivere e morire nella fede della chiesa cattolica, apostolica, romana con sommessione perfetta, ed obbedienza vera a nostro signore papa Pio settimo, ed a' suoi successori, vicari di Gesù Cristo. Ricci stretto dai tempi, e temendo che il rifiuto gli fosse apposto a pertinacia, sottoscrisse. L'aspettavano il papa, e la regina nel palazzo Pitti: il pontefice gittatosegli al collo, l'abbracciava, e fattolo sedere accanto a lui, molto l'accarezzava, della presa risoluzione con esimie espressioni commendandolo. Passate le prime caldezze, consegnava il vescovo nelle mani del pontefice uno scritto, l'importanza del quale era, che per mostrare la obbedienza e sommessione sua alla santa sede aveva volentieri sottoscritto; ma stantechè tutta la sua coscienza riandando, nissuna altra dottrina vi trovava, se non quella che era definita dalla bolla di Pio sesto, per obbligo di verità e di coscienza era obbligato dichiarare, come dichiarava, non mai avere o creduto, o sostenuto le enunziate proposizioni nel senso eretico giustamente condannato dalla bolla, avendo sempre avuto l'intenzione, che se qualche espressione equivoca fosse trascorsa, questa incontanente fosse ritrattata e corretta. Pregare conseguentemente, soggiungeva, il pontefice, accettasse benignamente questa rispettosa dichiarazione, come un'effusione del suo cuore. Appruovò Pio questa seconda dichiarazione, affermando, non dubitare della purezza cattolica di Ricci, e ne farebbe fede al concistoro. Ciò detto, con nuove dimostrazioni accarezzava il vescovo. Scrissegli Pio da Roma lunghe ed affettuose lettere: avere Ricci, affermava, per aver posposto l'amor proprio alla verità, ed alla cristiana obbedienza, ad essere tramandato con gloria alla posterità, ed il suo nome collocato fra quello degli uomini più illustri. Il lodò nell'allocuzione al concistoro; ma il governo Toscano non lasciò stampar l'allocuzione, perchè non si riaccendessero i fuochi spenti, e le disputazioni non si rinnovassero. A questo modo Pio, vittorioso di Napoleone, trionfava anche di Ricci, due avversari potenti, uno per la forza dell'armi, l'altro per la forza delle opinioni. Tuttavia vi rimasero in Italia semi e radici contrarie. I discepoli di Ricci non solamente perseveravano nelle medesime sentenze, ma predicavano, Ricci non avere apertamente ritrattato. In fatti egli è certo, che il vescovo nelle sue giustificazioni per tal modo, sebbene copertamente, favellò, che facilmente si scorgeva, nodrire opinione avversa all'infallibilità del papa, ed a quella pienezza di potestà, che i curialisti di Roma attribuiscono al Romano seggio. Mentre pel concordato con Francia aveva il pontefice dato sesto alle faccende religiose di quel regno, un altro pensiero mandava ad effetto, dal quale confidava che dovesse risultare molto benefizio alla sedia apostolica; e siccome per l'accordo fatto con Napoleone aveva posto freno alla setta filosofica, così con un'altra deliberazione voleva medicare dalle radici il male, che credeva provvenire dalla setta che l'impugnava, pretendendo le massime e gli usi della chiesa primitiva. La giurisdizione dà ai pontefici Romani nei paesi esteri la potenza esterna, le informazioni e le insinuazioni la segreta. In quest'ultima bisogna molto efficace opera prestavano i gesuiti, perciocchè dall'una parte in virtù degli ordini loro ogni cosa che spiassero, facevano con diligenti informazioni nota al loro generale in Roma, e questi al governo pontificio; dall'altra consigliando i principi, ed ammaestrando la gioventù, tiravano e chi reggeva e chi era retto là dove volevano, soliti a voltar a fini mondani i mezzi della religione. Ordine potentissimo era questo per comandare ai re ed ai popoli, e che dinota in chi primamente il concepì, un capo gagliardo, ed una cognizione profonda delle cose umane. Napoleone stesso col suo disordinato ed incomposto procedere, non ebbe mai, per farsi padron del mondo, pensiero così forte qual ebbero un fraticello di Spagna, ed un preticello di Roma. Adunque i gesuiti, poichè, quantunque spenti, il loro spirito viveva, gran maestri del saper accomodare i consigli ai tempi, con sagacità maravigliosa spargevano; per questo appunto esser nate le rivoluzioni, per questo la rovina dei reali seggi, per questo imperversare una libertà scapestrata, per questo l'anarchia dissolvere ogni buon ordine, perchè era stata soppressa la società loro; per questo la filosofica e la giansenistica piena avere tutto allagato: a sì potenti e sì ostinati nemici i re soli senza il papa, nè il papa solo senza i re, nemmeno i re ed il papa insieme congiunti non poter resistere, se non s'accosta l'opera ajutatrice, e tanto efficace dei gesuiti: sedurre la filosofia gli animi ardenti ed allegri con torre il freno alle passioni, sedurre il giansenismo gli animi ardenti e rigidi con un'apparenza di santimonia e di austerità: non esser padroni i re dell'ammaestrare i giovani a seconda dei pensieri loro, non esser padrone il papa di piegar uomini male ammaestrati: necessario essere l'ajuto di coloro, che radici buone sanno porre negli spiriti, e di quanto gli spiriti concepiscono, e di quanto le mani fanno, possono essere, e sono diligentemente informati: conspirare il volgo contro i potenti, doversi accordare i potenti per resistere al volgo; nè un modo qualunque al grand'uopo poter bastare; richiedersi il più alto, il più stretto, il più generale: soli a questo fine valere i gesuiti; doversi loro chiamare ad instaurazione della società sciolta, a salute dei principi pericolanti, a rannodamento dell'Europa disordinata: o gesuiti, o rivoluzioni da rivoluzioni; nè altro modo di salvamento trovarsi che in loro. Queste cose spargevano, come se il mondo non sapesse, ch'eglino solo allora si facevano i difensori dei sovrani, quando i sovrani si facevano servi di loro. Lo spavento è mal consigliero, perchè fa velo al giudizio. Alcuni principi mossi dall'artifizioso parlare desideravano i gesuiti, non pensando che per diventar padroni dei popoli, si facevano servi di altrui. Nè anco in questo vi era sicurezza alcuna, poichè solamente le monarchìe cattoliche, in cui vivevano i semi e le radici gittate dai gesuiti, rovinarono per rivoluzioni, non le protestanti, dov'erano ignote le dottrine e le arti loro. Del resto nissuno più apertamente e più tenacemente dei gesuiti sostenne la dottrina, che fosse lecito uccidere certi re. Supplicava il re Ferdinando di Napoli al papa, acciocchè per ammaestrare la gioventù del suo reame nelle rette e salutevoli dottrine, come diceva, vi rinstaurasse, siccome già in Russia aveva fatto, la compagnia di Gesù. Il pontefice facilmente gliene consentiva; un Gabriello Gruber la ordinava; misera condizione degli uomini, che non san trovar rimedio ad un eccesso, se non coll'eccesso contrario. Così fu principiata la risurrezione dei gesuiti dannati da un papa, e da tutti i re, e fu principiata da un re, attivo cooperatore della soppressione, e da un papa uscito dai benedettini, nemici acerrimi dei gesuiti; opera, come strana nel principio, così immensa nel risultamento. Se ciò fia con utile dell'umana società i nostri nepoti il vedranno; ma se si debbe giudicare del futuro dal passato, pensieri sinistri debbono annuvolar la mente degli uomini savj, che amano la quiete degli stati, l'independenza dei principi, la libertà dei popoli. Mentre il pontefice s'ingegnava di confermare la potenza novellamente riacquistata, nuove ferite si apprestavano alla sanguinosa Europa. L'assunzione di Napoleone al trono imperiale di Francia, aveva sollevato gli animi di tutti i potentati, e dato loro cagione di temere nuovi sovvertimenti, e nuova servitù. Solo la Prussia se ne contentava e se ne rallegrava, perchè credeva, che più stabile fondamento all'ingrandimento dei suoi stati fosse la nuova potenza di Napoleone, che l'antica dell'Inghilterra e della Russia. Due cose massimamente si scorgevano nell'esaltazione ed incoronazione di Napoleone; era la prima, che per loro si veniva a torre ogni speranza del veder restituiti i Borboni, l'altra che avendo acquistato l'autorità imperiale, aveva ridotto in mano sua maggiore forza a far muovere i popoli della Francia dovunque egli volesse; nè che fosse per usarne moderatamente, da nissuno si confidava, manco dall'Austria. Oltre a questo si pensava, che non fosse prudente di dar tempo a Napoleone, onde mettesse radici sul suo imperio. Si portava opinione, che i repubblicani di Francia, e gli amatori del nome Borbonico a quell'imperiale capriccio di Napoleone si fossero risentiti, e divenuti meno inclinati ad ajutarlo, quando si venisse ad una nuova mossa d'armi. Si conosceva ch'egli non era uomo da non usare efficacemente la sua fresca potenza per solidarla, e che se gli si desse tempo, sarebbe stato non che difficile, impossibile il frenarlo. Nè egli pel desiderio ardentissimo del comandare troppo s'infingeva. Il suo procedere già era da imperatore d'Occidente. Questo voler significare, argomentavano, quegl'onori di Carlomagno offerti il giorno dell'incoronazione tanto a Parigi, quanto a Milano, questo la corona ferrea dei Lombardi, questo i motti che metteva fuori già fin d'allora, che l'Italia fosse vassalla del suo impero. Aggiungevansi nella mente dell'imperatore Alessandro alcune ragioni particolari di tenersi mal soddisfatto dell'imperator Napoleone, delle quali la principale consisteva nella uccisione del duca d'Anghienna, giovane di sua età, e da lui specialmente conosciuto, ed amato. Da questi motivi era sorto nelle principali potenze d'Europa il desiderio di una nuova collegazione a difensione comune, ed a conservazione degli antichi stati contro la Francia, il cui fine era o di accordarsi con Napoleone, se qualche termine di buona composizione a beneficio dell'independenza dei consueti sovrani con lui si potesse trovare, o di venire con esso lui al cimento dell'armi, quando ancora era tenero su quel suo sovrano seggio. Nè l'Inghilterra mancava a se stessa, non solo per l'antica nimicizia, ma ancora pel pericolo che pareva sovrastare al cuore stesso del suo stato; conciossiachè avesse Napoleone raccolto un esercito molto grosso sulle coste della Picardìa e della Normandìa, minacciando d'invasione i tre regni. Nè era privo di un sufficiente navilio, avendo allestito, oltre alla grosse navi di guerra, una quantità considerabile di legni minori. Secondavano le intenzioni dell'imperatore con calore grandissimo i popoli di Francia con proferte di denari e di navi. Guglielmo Pitt, che a questo tempo reggeva i consiglj del re Giorgio, aveva questo moto in poco concetto, conoscendo, che pel prepotente navilio d'Inghilterra difficile era l'approdare, più difficile l'acquistare piè stabile nell'isola, prima che le sorti fossero definite. Ciò non ostante l'apparato di Francia travagliava la nazione, ed interrompeva i traffichi. Per la qual cosa intendeva con tutto l'animo a suscitar nuovi nemici, e ad ordinare una nuova lega contro la Francia. A questo fine, e già fin del mese d'aprile era stato concluso a Pietroburgo tra la Russia e l'Inghilterra un accordo, col quale si erano obbligate ad usare i mezzi più pronti ed efficaci per formare una lega generale, e che per conseguire quest'intento adunassero cinquecentomila soldati, non compresi i sussidj d'Inghilterra; il fine fosse d'indurre, o costringere il governo di Francia alla pace, e ad una condizione in Europa, in cui nissuno stato preponderasse sopra gli altri; evacuasse Napoleone l'Annoverese e la settentrionale Germania, rendesse independenti l'Olanda e la Svizzera, restituisse il re di Sardegna con qualche accrescimento di territorio, desse sicurezza al re di Napoli, sgombrasse da tutta Italia, compresa l'isola d'Elba. Già la Svezia e l'Austria erano entrate in questa lega. Prima però che all'aperta rottura si venisse, sì per vedere se ancora qualche modo di onesta composizione vi fosse, e sì per aver comodità di fare i necessarj apprestamenti, e di dar tempo agli ajuti di Russia di arrivare, si deliberarono gli alleati a mandare a Parigi il barone di Novosiltzoff, perchè le proposte loro vi recasse, e di un accordo conforme l'imperator Napoleone sollecitasse. Già era l'inviato dei confederati giunto a Berlino, quando sopraggiunsero le novelle dell'unione di Genova all'imperio di Francia; accidente contrario alle dichiarazioni di Napoleone, ed agli interessi dell'Austria in Italia. Arrestossi a tale improvvisa notizia Novosiltzoff, donde, fatto sapere all'imperatore Alessandro il fatto, era tostamente richiamato a Pietroburgo. Per questo medesimo accidente, e pel caso di Lucca, che poco dopo si seppe, l'Austria più strettamente si congiungeva con la Russia. Incominciarono i discorsi politici soliti a precedere le guerre. Mandò dicendo l'Austria a Napoleone, desiderare cooperar con la Russia e con l'Inghilterra al fine di un onesto e securo pacificamento d'Europa: ciò avere desiderato prima della unione di Genova e di Lucca, ciò ancora e molto più desiderare dopo. A tali mortificazioni si risentiva Napoleone: rispondeva, poco sperare dalla Russia, e dall'Inghilterra; l'Austria potere sforzarle a consigli pacifici, perchè per venir contro Francia dovevano passare pe' suoi territorj: ma non potersi fidar dell'Austria; armare lei in Polonia, ingrossare fuor di misura in Italia, empiere il Tirolo di soldati: se pur pace volesse, tirasse indietro dal Tirolo Italiano e Tedesco i reggimenti novellamente mandati, cessasse ogni fortificazione nuova; restituisse al pacifico numero i soldati posti alle stanze nella Stiria, nella Carintia, nel Friuli, e nei territorj Veneti; dichiarasse all'Inghilterra, volersene star neutrale. Da questi discorsi si vedeva, che poca speranza restava di pace; nè Napoleone era uomo capace di disfare per minacce ciò che aveva fatto, nè l'Austria si voleva tirar indietro dalle sue risoluzioni, sapendo che Alessandro già aveva avviato verso i suoi confini due eserciti ciascuno di cinquanta mila soldati. Insorgeva adunque più vivamente ed a Napoleone rappresentava il suo desiderio d'amicizia con Francia, di pace di tutta Europa; ma essersi violato per gli ultimi accidenti in Italia il trattato di Luneville, promettitore d'independenza per la Italiana repubblica; essersi con nuove rovine di stati independenti spaventata l'Italia: non dovere una sola potenza arrogarsi il diritto di regolare da se gl'interessi delle nazioni con esclusione delle altre; richiedere la Francia dell'osservazione dei patti; richiederla della dignità e dei diritti delle altre potenze; offerire a norma delle condizioni stipulate la concordia, offerirla ora, che con le armi ancora non si contendeva, offerirla quando già si combattesse, e sempre essere parata a convenire, salvi i trattati conclusi, e l'independenza delle nazioni. Seguitarono queste protestazioni altri discorsi sul medesimo andare da ambe le parti, nei quali e il desiderio di pace, ed il rispetto pei dritti altrui si pretendevano. Intanto le armi si apprestavano. L'imperatore di Francia, che con la celerità aveva sempre vinto, vedendo la nuova lega ordita contro di lui, e la guerra inevitabile, stando coll'animo riposato dal canto della Prussia, che accecata dalla cupidigia di avere l'altrui, falsamente giudicava della natura di Napoleone, ordinò incontanente all'esercito raccolto sulle coste di Francia verso l'Inghilterra, marciasse in Alemagna, soccorresse alla Baviera minacciata dall'Austria, ributtasse la forza colla forza. Poco dopo, descritti nuovi soldati, si avviava egli medesimo verso i campi d'Alemagna, sapendo quanta mole della guerra fossero il suo nome ed il suo valore. Dal canto suo l'Austria commetteva all'arciduca Ferdinando, giovane animosissimo, l'esercito Germanico, dandogli per moderatore della sua gioventù il generale Mack, nel quale l'imperatore Francesco, piuttosto per industri parole che per egregi fatti, aveva molta fede. Dalla parte d'Italia, le condizioni delle cose militari erano le seguenti. L'Austria, considerato quanta efficacia fosse per avere il nome dell'arciduca Carlo, lo aveva preposto all'esercito Italico, schierato sulle rive dell'Adige. I forti passi del Tirolo erano dati in guardia all'arciduca Giovanni con una grossa schiera congiungitrice dei due eserciti Germanico ed Italico. Si era fatto disegno, che a queste forze si accostasse sbarcando in qualche parte d'Italia, un grosso ajuto di Russi e d'Inglesi, che allora erano raccolti nelle isole di Corfù e di Malta. Ma Napoleone, contuttochè principal cura avesse delle cose di Germania, non pretermise quelle d'Italia, e poichè seppe che l'arciduca Carlo era stato posto al governo della guerra, avendo più fede nella fortuna di Massena che in quella di Jourdan, surrogava il capitano Italico al capitano Germanico. Mandava intanto nuovi soldati, per modo che tra Francesi ed Italiani Massena aveva un esercito fiorito, ed uguale pel numero all'Alemanno, che sommava circa a ottanta mila soldati. Stavasi Massena alloggiato sulla destra dell'Adige, pronto a tentar il passo, come prima fosse dato il segno della battaglia. L'imperatore di Francia, che in tutte le sue guerre poco curandosi delle estremità, ed amando le guerre grosse piuttosto che le sparse, badava sempre al cuore, perchè sapeva che a chi n'andava il cuore, ne andavano anche le estremità, fece disegno d'ingrossare sull'Adige, con mandarvi quella parte che sotto Gouvion San Cyr alloggiava nel regno di Napoli. Il che, perchè con sicurtà potesse eseguire, aveva con sue pratiche, e per mezzo del marchese del Gallo, ambasciadore del re a Parigi, indotto Ferdinando a sottoscrivere un trattato di neutralità. S'obbligava per quest'accordo il re a starsene neutrale durante la presente guerra, a respingere colla forza ogni tentativo fatto contro la sua neutralità, a non permettere che alcuna truppa nemica sbarcasse, o ne' suoi regni entrasse, a non ricettare ne' suoi porti alcuna nave nemica, a non commettere i suoi soldati, o le sue piazze ad alcun ufficiale o Russo, od Austriaco, o d'altra potenza nemica, ed in questo capitolo s'intendessero anche compresi i fuorusciti Francesi; il che particolarmente accennava al conte Ruggiero di Damas. Dalla parte sua Napoleone, fidandosi, come si spiegava, nelle obbligazioni e promesse del re, consentiva a sgombrar il regno dei suoi soldati, ed a consegnare i luoghi occupati agli ufficiali Napolitani. Si obbligava oltre a ciò, e prometteva di conoscere, ed aver per neutrale nella guerra presente, il regno delle due Sicilie. San Cyr marciava verso l'Adige. I discorsi secondo il solito precedevano le armi, moderati dal canto dell'arciduca, più vivi da quello del capitano Napoleonico. Quando poi già le armi suonavano in Alemagna, e già la Baviera era invasa dagli Austriaci, il principe Eugenio, vicerè d'Italia, pubblicava con parole aspre contro l'Austria la guerra. Avere Vienna contro il popolo Francese, contro il popolo Italiano risoluto la guerra: la casa d'Austria, prevalendosi della nobile sicurezza e confidenza di Napoleone imperatore, invadere i territorj di un principe dell'impero, solo perchè fedele ai trattati, amico ed alleato si era conservato all'imperator dei Francesi, ed al re d'Italia: ma non dubitassero, continuava dicendo, Napoleone guidare gli eserciti; sopra di loro lui riposarsi, sopra di lui riposassero, combattere a favor suo Iddio sempre terribile agli spergiuri; combattere la sua gloria, la sua mente, la sua giustizia, il suo valore, combattere finalmente la fedeltà e l'amore de' suoi popoli; saranno, terminava, i nemici vinti. Già si combatteva aspramente in Germania, quando ancora si riposava dall'armi in Italia; imperciocchè a petizione dell'arciduca, che desiderava, prima di combattere, sapere a qual via s'incamminassero gli accidenti della guerra Germanica, si era fatto tra lui e Massena un accordo, perchè le offese non si potessero cominciare prima dei diciotto ottobre. Grande errore degli Austriaci fu questo, perchè cercar definizione di fortuna in un sol luogo, potendo in molti, non fu mai prudente consiglio. Aggiunge gravezza all'errore la congiunzione di San Cyr con Massena, alla quale per l'indugio si poteva dar luogo prima del combattere. Non commise simile errore Napoleone, che con incredibile velocità dalle spiagge marittime della Picardìa alle sponde del Danubio viaggiando, arrivò, e combattè gli Austriaci innanzi che i Russi giungessero sul campo di battaglia in ajuto loro. Dall'errore dell'Austria nacque, che l'arciduca fu, pei fatti di Germania, prima superato che combattuto. Già vincevano le Napoleoniche stelle. L'imperatore dei Francesi arrivando in Alemagna innanzi che gli Austriaci avessero avuto tempo di riuscir oltre i passi della Selva Nera, e di fortificargli, si avventava, in ciò mostrando, oltre la celerità, una grandezza di militari concetti straordinaria, contro il nemico tante volte vinto. Trovossi Mack in pochi giorni cinto da ogni parte, segregato da Vienna, ridotto dentro le mura di Ulma. Aveva vinto Napoleone una prima battaglia a Vertinga, una seconda a Gunsburgo. Due accidenti principalmente gli avevano aperto l'adito a queste vittorie, l'aiuto dei Bavari, e l'aver calpestato, stimando più il vincere che l'osservanza della fede, la neutralità della Prussia a Bareit e ad Anspach: il primo fu cagione che i Francesi riuscissero sulla destra ad Augusta ed a Monaco, sulla sinistra a Novoburgo, Ingolstadt e Ratisbona, quinci e quindi alle spalle degli Austriaci. Per tale guisa non solamente furono serrati gli Austriaci, ma fu ancora Mack separato dall'arciduca Giovanni. Spuntava appena il giorno diciotto ottobre, termine della tregua, che sapendo già Massena, essersi venuto alle mani in Germania con prospero successo de' suoi compagni, si deliberava a cominciar la guerra. Alle quattro della mattina, dando due assalti uno sotto, l'altro sopra Verona, si accingeva a sforzare sul mezzo il passo. Imponeva a questo fine a Duhesme ed a Gardanne, che assaltassero il ponte: era murato e rotto; ma Lacombe San Michele, generale d'artiglieria, con un petardo, esponendosi a grave pericolo perchè i Tedeschi fulminavano dalla riva sinistra, rompeva il muro, ed il generale Chasseloup con pari valore riattava il ponte. Passarono i soldati armati alla leggiera: ma fortemente pressati dai Tedeschi correvano grandissimo pericolo. Non indugiò Gardanne a venire in soccorso loro col grosso delle sue compagnìe, e rinfrescò la battaglia. Si combatteva con molto valore e con vario successo da ambe le parti. L'arciduca che aveva il suo campo a San Martino, mandò tostamente nuovi soldati in soccorso de' suoi donde nasceva un più vivo e più generale combattere; Duhesme ancor egli era passato con tutta la sua schiera. Per quel giorno non fu compiuta pei Francesi, ancorchè avessero il vantaggio, la vittoria, e fu loro forza di tornarsene ad alloggiare sulla destra del fiume, conservando però in poter loro la signorìa del ponte. Mancarono in questi fatti dalla parte dei Tedeschi circa tre mila soldati tra morti, feriti e prigionieri, con qualche perdita di cannoni. Nè fu senza sangue la vittoria pei Francesi scemati di un migliajo di combattenti. Massena, o che il ritenesse il forte sito dell'arciduca, o che volesse aspettare che San Cyr l'avesse raggiunto, o che desiderasse prima di cacciarsi avanti, udire i fatti ulteriori di Germania, se ne stette più giorni senza fare alcun motivo d'importanza. In questo gli sopraggiunsero desideratissime novelle: avere tutto l'esercito di Mack, salvo una piccola squadra fuggita sotto la condotta dell'arciduca Ferdinando, deposto le armi, ed essersi dato, il dì diciassette ottobre, vinto e cattivo in mano di Napoleone; il che importava l'annichilazione quasi intiera delle forze Austriache in Alemagna. Napoleone imperatore aveva in questi fatti per arte e per fortuna superato Buonaparte generale e consolo. Cambiavansi le sorti dell'Italica guerra. Fu l'arciduca obbligato a debilitarsi con mandar parte de' suoi in ajuto dell'imperio pericolante del fratello. Sgomentaronsene i Tedeschi, presero animo i Francesi. Massena udito il maraviglioso caso di Ulma, si risolveva, senza frappor tempo in mezzo, ad assaltar l'avversario nel suo forte alloggiamento di Caldiero. Il giorno ventinove ordinava il passo del fiume. Duhesme e Gardanne erano destinati a varcare per l'acquistato ponte, Seras a stanca al passo di ponte di Polo, Verdier a destra più sotto tra Ronco ed Albaredo, luoghi già tanto famosi pei casi di Arcole. Duhesme e Gardanne, passato il ponte, si erano allargati a destra, Seras passato più sopra seguitava ad altro disegno le falde dei monti, ed occupando le alture di val Pantena, che signoreggiano il castello di San Felice, che con le artiglierìe aveva molto nojato i Francesi al passo del ponte, aveva obbligato i Tedeschi a sgombrare da Veronetta. Ciò diede abilità ad altre squadre di passare, massimamente ai cavalli, per modo che gli Austriaci cacciati da tutti i siti, e perfino da San Michele, si ritirarono con grave perdita, sempre però animosamente combattendo, oltre San Martino. I Francesi pernottarono in Vago. Si risolveva l'arciduca a far fronte a Caldiero, piuttosto coll'intento di non cedere la possessione d'Italia senza combattere in una giusta battaglia, che colla speranza di cambiare le condizioni della guerra già troppo preponderanti in favor di Napoleone. Si ordinava la mattina del giorno trenta l'arciduca alla battaglia, sprolungandosi a destra fin sopra alle eminenze di San Pietro rimpetto al villaggio di Fromegna, e distendendosi a sinistra verso l'Adige fin oltre a Gambione. Questi siti erano diligentemente fortificati. Perchè poi in un caso sinistro vi fosse luogo a far risorgere la fortuna, aveva adunato la cavallerìa, ed un grosso corpo di ventiquattro battaglioni di granatieri verso Villanova al bivio, dove la strada di Verona in due partendosi porta da un lato a Monigo, dall'altro a Vicenza. Il generale di Francia aveva partito i suoi in tre schiere: la mezzana condotta da Gardanne, la destra da Duhesme, la sinistra da Molitor. Un grosso ordinato alle riscosse, e composto dai granatieri di Partonneaux, e dai cavalli di D'Espagne e di Monnet, se ne stava accampato in poca distanza alle spalle. Massena, avendo inteso che le fazioni ordinate di Seras e di Verdier avevano avuto il fine ch'egli si era proposto, si deliberava ad attaccare la battaglia. Il primo a far impeto fu Molitor: assaltò furiosamente, e furiosamente ancora fu risospinto. Fecersi avanti Gardanne e Duhesme, e ben tosto si cominciò a combattere su tutta la fronte da ambe le parti. Gardanne spingendosi avanti con estrema forza, faceva piegare la fortuna in favor suo; perchè, cacciati da luogo a luogo i Tedeschi, ancorchè fortemente contrastassero, s'impadroniva, avventandosi con le bajonette, di Caldiero. La qual cosa vedutasi dalle due ali estreme, si scagliarono ancor esse con forza contro il nemico, ed il costrinsero a piegare: ma rannodatosi sulle eminenze, vi faceva una ostinata difesa; tuttavia la giornata inclinava del tutto a favor dei Francesi. Erano le quattro della sera: l'arciduca mandò avanti il retroguardo, che, come narrammo, serbava alla ricuperazione della battaglia; ne era reintegrata, e le cose si mantenevano in modo bilanciate che non più in una, che in un'altra parte pendevano. Massena, veduto il nuovo rincalzo, mandava innanzi anch'esso il suo retroguardo: la zuffa divenne acerbissima e mortale; perchè così i granatieri ed i cavalli Tedeschi, come i granatieri ed i cavalli Francesi, che novellamente erano entrati nella mischia, facevano egregiamente il debito loro. Prevalse finalmente la cavallerìa di Francia: resistevano ancora i granatieri dell'arciduca, ma quei di Partonneaux, dato mano alle bajonette, con tale vigorìa gl'incalzarono, che gli obbligarono a dar indietro. Così i Tedeschi, lasciando la vittoria in potestà di chi poteva più di loro, cedettero del campo, e si ritirarono alle batterie, che l'arciduca aveva piantate sopra le eminenze che torreggiano oltre Caldiero. Fu notabile questo fatto d'armi per la somiglianza dei disegni orditi dai due avversi capitani, perchè ambidue ordinarono le ordinanze con una prima fronte, e con una schiera di riserbo, ed ambidue in lei posero un grosso nervo di granatieri, ed un battaglione fiorito di cavallerìa. Perderono gli Austriaci trenta cannoni, e tremila cinquecento soldati: i Francesi circa millecinquecento. Si portarono egregiamente tutti i generali di Massena: si dolse l'arciduca di Wukassowich, che trovandosi a campo a Campagnola, e standovi, come pare, a mala guardia, si lasciò fare un assalto improvviso addosso, il che disordinò i disegni del generalissimo d'Austria: tal'è l'incertezza delle guerriere sorti; imperciocchè questo era quel Wukassowich, che meritò tante lodi in queste storie di perito, animoso, e vigilante capitano. Mentre si combatteva a Caldiero, aveva l'arciduca mandato a sua destra verso i monti una colonna di cinquemila soldati sotto la condotta d'Hillinger col proposito di circuire e di combattere i Francesi alle spalle. Questa mossa aveva ordinato, o che non sapesse che Seras assai forte marciava su quelle medesime terre, o che credesse potere più lungo tempo resistere a Caldiero. Ne nacque un grave accidente a danno delle forze Austriache. Seras oltre procedendo, ed intromettendosi tra Hillinger e l'arciduca, tagliò fuori la squadra segregata, e la ridusse alla necessità dell'arrendersi. Il fatto di Caldiero, la calamità d'Hillinger, gli ordini dell'imperatore suo fratello non lasciarono più luogo ad elezione nell'arciduca. Per la qual cosa la notte del primo novembre principiò a tirarsi indietro per la strada di Vicenza: poi continuando, non senz'arte, a cedere del campo, conduceva le sue genti più intere che le perdite prime, e la presta ritirata potessero promettere, sulle sponde della Sava, ponendosi alle stanze di Lubiana. Il seguitarono velocemente i Francesi: raccolsero alcuni corpi, ma piccoli, disbrancati, e grossi magazzini di viveri, principalmente in Udine e Palmanova. A questo modo i fertili paesi delle terraferma Veneta, conquistati di nuovo dalle armi vincitrici di Napoleone, furono tolti all'Austria. Solo la città di Venezia restava in poter dei Tedeschi. Era in questo mezzo tempo arrivato da Napoli San Cyr. Massena trovandosi in necessità di seguitare a seconda l'arciduca nelle montagne della Carniola e della Carintia, non voleva, per timore di qualche sbarco di Russi e d'Inglesi, lasciare senza difesa i lidi Veneziani. Ordinava pertanto a San Cyr, che si allargasse, e custodisse le spiagge dalle bocche dell'Adige sino a Venezia. Questa provvidenza ebbe felice successo, non contro i tentativi di mare, che nissuno fu fatto, ma contro uno di terra. Napoleone, volendo prostrare le forze d'Austria, che tuttavia tenevano le alte rupi del Tirolo e del Voralberga, aveva mandato da Augusta Ney contro l'arciduca Giovanni, Augerau contro Jellacich. Ney, guadagnato celeremente il passo di Scharnitz, occupava il Tirolo Tedesco; poi guadagnato con la medesima prestezza il passo di Sterzing, s'impadroniva del Tirolo Italiano, ritiratosene, o piuttosto fuggitosene a grave stento l'arciduca per ricoverarsi nella Carniola. Augerau cacciossi avanti Jellacich cedente da Voralberga: il capitano Tedesco, trovate le strade del Tirolo chiuse da Ney, fu costretto alla dedizione. La conquista del Tirolo partorì un altro effetto di grande importanza. Un grosso di settemila fanti e mille cavalli, sotto la condotta del principe di Roano, costretto a calarsi per le sponde della Brenta verso i piani bagnati da questo fiume, incontratosi a Castelfranco con San Cyr, dopo un furioso conflitto, fu obbligato, ad arrendersi. Dopo questo fatto Massena securo alle spalle, vieppiù innoltrava la sua fronte, e fermava gli alloggiamenti in Lubiana, ritiratosene l'arciduca per internarsi nella Croazia, e di là nel principato di Sirmio in Ischiavonia tra la Drava e la Sava. Seras occupava Trieste. I soldati di Massena e di Ney si congiunsero a Villaco ed a Clagenfurt: i due eserciti di Francia Germanico ed Italico si congregarono alle future imprese del Danubio. Grandi, audaci, ed ottimamente composte furono tutte queste mosse di Napoleone: il fine rispose alla maestrìa, colla quale erano state concette. L'apparato bellico dell'Austria, in men che non fece un mese, fu distrutto, e l'imperator Francesco, privo quasi interamente delle forze proprie, non aveva più altro rimedio che gli ajuti della Russia, sufficienti prima delle rotte, insufficienti dopo: l'Italia sgombra, come ai primi tempi di Napoleone, da uomini Alemanni. Ambiva Napoleone di per se stesso gli stati altrui, e facilmente senza cagione o pretesto se gli appropriava: molto più volentieri se gli appropriava, quando se ne gli dava cagione. Di ciò con estremo suo eccidio ebbe pruova il re di Napoli. Aveva Ferdinando, siccome per noi si è narrato, stipulato la neutralità; ma quando appunto la guerra si definiva in favor di Francia in Germania, e nell'Italia superiore, essendo già corso oltre il suo mezzo il mese di novembre, arrivavano nel golfo di Napoli due navi Inglesi con molte onerarie, sopra le quali erano quindici mila soldati, dodici mila Russi venuti da Corfù, tre mila Inglesi venuti da Malta. Sbarcarono soldati, armi e munizioni tra Napoli e Portici, annunziando venire non solo per proteggere il regno, ma ancora per correre verso l'Italia superiore in ajuto degli Austriaci. Non fece il re, non bene considerando quel che potesse portare seco il tempo futuro, alcuna dimostrazione nè protesta per impedire lo sbarco di queste genti nemiche a Francia. L'ambasciador di Napoleone, viste le insegne del nemico, molto acerbamente si risentiva, e calati gl'imperiali stemmi dalla fronte del suo palazzo, richiedeva il re dei passaporti, e l'infedele terra, come diceva, abbandonando, se ne partiva alla volta di Roma. Per mitigarlo mandava fuori il governo un editto, per cui prometteva ai Francesi, Italiani, Liguri, e ad altre nazioni unite all'impero Francese, che sarebbero le proprietà loro, ed i traffichi securi e salvi. Fu la dimostrazione indarno, perchè non solo nissuna protestazione conteneva contro il moto dei confederati, ma nemmeno portava alcun dispiacere di quello, che la Francia aveva sentito sì gravemente. Gli effetti che ne seguitarono, e che per molti anni tolsero al re la possessione del regno di qua dal Faro, saranno da noi fra breve raccontati. Vinceva Napoleone nei campi di Osterlizza una campale battaglia. Vinti i Russi ausiliarj, fu talmente prostrata l'Austria, che fu costretta a consentire a durissimi patti. Si fermarono a Presburgo d'Ungherìa il dì ventisei decembre. Consentiva l'imperator d'Alemagna e d'Austria a tutte le unioni dei territorj italiani: riconosceva le risoluzioni prese dall'imperator di Francia rispetto a Lucca ed a Piombino, riconosceva l'imperator di Francia, come re d'Italia, con ciò però che, seguìta la pace generale, le due corone, a seconda delle promesse fatte dall'imperator Napoleone, l'una dall'altra fossero separate, nè mai in perpetuo potessero esser riunite: dava in potestà dell'imperatore medesimo di Francia tutti gli stati dell'antica repubblica di Venezia a lui ceduti pel trattato di Campoformio, e consentiva, che fossero uniti al regno d'Italia, riconosceva ancora nei duchi di Virtemberga e di Baviera la qualità, ed il titolo di re: cedeva a quest'ultimo, oltre parecchi paesi situati sulle sponde del Danubio, il Tirolo, compresi i principati di Brissio e di Bolzano, le sette signorìe di Voralberga, e parecchi altri paesi sulle rive del lago di Costanza: dal canto suo l'imperator Napoleone guarentiva l'interezza dell'impero d'Austria; consentiva, che Salisburgo già dato all'arciduca Ferdinando di Toscana, al medesimo impero si unisse, e si obbligava ad intromettersi appresso al re di Baviera, perchè cedesse Visburgo all'arciduca in compenso di Salisburgo. Si mandava ad effetto il trattato. Venezia e gli antichi suoi territorj, dopo otto anni di dominio Austriaco, tornavano sotto quello di Francia. Venne Law Lauriston a prenderne possesso da parte del re d'Italia. Confortava i Veneziani a star di buon animo, promettendo loro felicità, e chiamandogli figliuoli di Napoleone; bella consolazione per certo a tanti mali. Il dì diecinove gennajo arrivarono in Venezia per fondarvi la terza servitù, i soldati di Napoleone, gli mandava Miollis, destinato dai cieli a commettere in Italia duri fatti con molli parole. Arrivava il dì tre di febbrajo in Venezia Eugenio vicerè, testè sposato ad Amalia di Baviera. Fecersi i soliti rallegramenti, i quali, siccome quelli che o costretti erano dalla forza, o procurati dall'adulazione, muovevano piuttosto a compassione che a gioja. A questo tempo si rinfrescavano le Napolitane ruine. Napoleone vittorioso pensava a soddisfare all'ambizione ed alla vendetta. Già sull'uscire del precedente anno aveva pubblicato, parlando a' suoi soldati, queste parole: «Da dieci anni io feci quanto per me si potè, per salvare il re di Napoli, e da dieci anni ei fece quanto per lui si potè per perdersi. Dopo le battaglie di Dego, di Mondovì, e di Lodi deboli forze gli restavano per resistermi: fidaimi nelle sue parole, anteposi la generosità alla forza. Risolvè poscia Marengo la seconda lega; aveva il re, di tutti il primo, incominciato la guerra; da suoi alleati abbandonato a Luneville, solo e senza difesa rimase. Implorò perdono, gliel concedei. Voi a Napoli già vicini avevate in poter vostro il regno; i tradimenti io sospettava, le vendette poteva fare; novella generosità amaimi; che sgombraste il regno, ordinaivi; la terza volta restommi della salute sua la casa dei reali di Napoli obbligata. Perdonerò io la quarta ad una corte senza fede, senza onore, senza ragione? No; ceda dal regno la Napoletana famiglia; non può ella col riposo d'Europa, coll'onore della mia corona sussistervi. Ite, marciate, precipitate nell'onde quei deboli battaglioni dei tiranni del mare; seppure a loro basterà l'animo di aspettarvi: ite, e mostrate al mondo, come da noi si puniscano gli spergiuri; ite, e fate ch'egli presto s'accorga, che nostra è l'Italia, che il più bel paese della terra ha oramai gettato via dal collo il giogo d'uomini perfidissimi: ite, e mostrate che è la santità dei trattati vendicata, che sono le ombre de' miei soldati, sopravvissuti ai naufragi, ai deserti, a cento battaglie, ed alle uccisioni nei porti della Sicilia, mentre tornavano dall'Egitto, placate e paghe. Guideravvi mio fratello: partecipe della mia potenza, partecipe de' miei consigli, in lui fidatevi, come io in lui mi fido». A queste aspre e superbe parole del terribile vincitore d'Osterlizza tenevano dietro consenzienti fatti. Giuseppe fratello con esercito poderoso marciava contro il regno; gli aveva dato Napoleone, conoscendolo irresoluto e solito a lasciarsi portare dalla volontà degli altri, per compagno e sostenitore de' suoi consigli Massena. Pruovossi Ferdinando di stornare la tempesta, con mandar Ruffo cardinale appresso allo sdegnato signore per iscusare il fatto dello sbarco. Adducesse, comandava, essere gli alleati stati troppo forti, lui troppo debole, nè aver potuto impedire; pregasse concordia, promettesse ammende, offerisse sicurtà. Nè vedeva il re, che Napoleone più serviva all'ambizione che alla vendetta; imperciocchè quanto allo sbarco, vi si poteva rimediare con qualche perdita di provincie o di denaro, senza venirne alla radice ed all'intiera distruzione del regno. Quanto all'ombre dei soldati, aveva Napoleone, dopo la uccisione, fatto amicizia col re; il che aveva dimostrato in quale conto avesse il sangue e l'ombre loro. Nè si vede perchè il re mandasse Ruffo cardinale a placar Napoleone, se non forse perchè credeva, che per qualche somiglianza di natura fossero facilmente per accordarsi. Mostrossi Napoleone inesorabile; gli piaceva Napoli; preparava reali seggi ai fratelli; voleva, per le sue cupidità, fermare in ogni luogo stati dipendenti intieramente da lui. Quando pervennero a Ferdinando le novelle della volontà di Napoleone, si ristrinsero insieme i suoi consiglieri per deliberare su quanto la necessità del caso richiedesse. Pensava ad abbandonar Napoli, e desideravano che i Russi ed Inglesi si mettessero a qualche forte passo degli Abruzzi, per vietare ai Francesi l'entrata nel regno. Ma l'imperatore Alessandro, che amava meglio la salute de' suoi soldati, essendo anche l'impresa molto dubbia, aveva comandato per un corriero espresso, che tostamente s'imbarcassero, ed in Corfù tornassero. La ritirata dei Russi, che erano la più grossa parte rendè necessaria anche quella degl'Inglesi. Gli uni e gli altri partirono, quelli per Corfù, questi per Sicilia, lasciato Ferdinando nell'ultima ruina. Veduto che il regno andava senza indugio in manifesta perdizione, si risolvette nel consiglio, che il re si ritirasse in Sicilia, che seco conducesse la famiglia, i ministri, e quanti soldati e denari potesse. Già il nemico insultava da Ferentino, già si apprestava ad invadere le provincie. Si deliberò altresì, che il figliuolo primogenito del re andasse in Calabria per animare quelle popolazioni armigere, e sempre addette a chi più accesamente le instiga. Era in questa provincia rotta e sanguinosa il conte Ruggiero con qualche banda di regolari; si sperava, che i popoli congiungendosi a loro, avrebbero potuto tener vivo il nome regio fintantochè qualche favorevole accidente desse occasione di risorgere. Lasciava Ferdinando la real sede il dì ventitrè di gennajo. Così finì allora il suo regno, regno pieno, per la sfrenatezza dei tempi, di casi lamentevoli ed atroci; ma non pertanto cessarono le opere crudeli, come se fosse fatale che perpetuo sangue vi si versasse, o che il regno, o che la repubblica vi dominassero, o che forestieri d'Inghilterra o che forestieri di Francia la potestà del comandare vi esercessero. Partito Ferdinando sul vascello reale l'Archimede, fu lasciata una reggenza composta dal generale Naselli, dal principe di Canosa, da don Michelagnolo Cianciulli, e da don Domenico Sofia. Era la città paventosa delle cose avvenire; si temeva del popolo, dei Francesi, dei Calabresi. Accrebbe il terrore un grave tentativo dei carcerati al serraglio, che se avesse avuto effetto, Napoli sarebbe andata a ruina. Marciavano intanto i Francesi alla conquista. Giuseppe fulminato vendetta contro la corte, e promesso dolcezza al popolo, se si sottomettesse, velocemente viaggiava contro la capitale. Correva a destra, a riva il mare, Regnier, nissun ostacolo in nessun luogo incontrando, salvo in Gaeta, piazza forte di sito, e custodita dal principe di Assia, capitano valoroso. Intimato di resa, rispose negando. Assaltarono i Francesi il bastione di Sant'Andrea, e se lo presero, non senza sangue. L'altra parte si difendeva egregiamente; ma essendo i Napoleoniani grossi, lasciato genti all'oppugnazione, passarono. Massena a sinistra senza impedimento alcuno camminando, poichè Capua già si era data, arrivava ai quattordici di febbrajo sotto le mura dell'appetita città. S'arresero castel Nuovo, castel dell'Uovo, castel del Carmine, e castel Sant'Elmo. Entrava Duhesme il primo con una scelta fronte di soldati leggieri sì fanti che cavalli. Faceva il dì seguente il suo ingresso Giuseppe a cavallo con molto seguito di generali, e con tutte le ordinanze in bellissima mostra. Smontò al palazzo reale; trovollo squallido, e spogliato dai fuggitivi. Addì sedici visitava la chiesa di San Gennaro; udita la messa di Ruffo Cardinale, presentava il Santo con doni, primizie del futuro regno. Tornatosi nella reggia sede dava le udienze ai magistrati, vedeva con viso benigno la reggenza di Naselli; ma tosto la cassava per crearne un'altra; fecene capo Saliceti. Erano nella serva Italia certe persone perpetue, alcune perchè Napoleone le amava, altre perchè le disamava; Vignolle, Menou, Miollis, Saliceti. Per far denaro si mantennero le tasse vecchie, se ne imposero delle nuove; per far sicurezza, si tolsero le armi ai cittadini, e si venne sul suono di far morire soldatescamente chi le portasse. Queste minacce già tante volte fatte, ed anche eseguite da ambe le parti, dimostrano, qual dolcezza di vivere fosse allora in Italia. Intanto le Calabrie non quietavano. Si era il duca di Calabria accostato con un corpo di soldati uscito con lui da Napoli al conte Ruggiero, che con una squadra riempiuta di soldati Siciliani, Tedeschi, Napolitani, e con qualche misto di raunaticci, parte buona, parte pessima, aveva fatto un alloggiamento fortificato sulle rive del Silo nel principato di Salerno. Arso il ponte, schierava i suoi sulla riva. Parve il caso d'importanza; vi fu mandato Regnier. Andò il Francese all'assalto, mandò i Napolitani in rotta, perseguitò i vinti fino a Lagonero. Rannodaronsi i regj a Campotenese; venne loro sopra Regnier il dì nove marzo, e con un forte assalto gli risolvette facilmente in fuga. A stento salvossi il conte con mille soldati tra fanti e cavalli. Il Francese vittorioso s'inoltrava nella Calabria ulteriore; occupato Reggio, muniva di presidio la fortezza di Scilla, posta alla punta d'Italia, dove è più vicina alla Sicilia; il che dava e freno e sospetto agl'Inglesi, che in Messina si erano raccolti a difesa dell'isola. Per la vittoria di Campotenese tutto il corpo Napolitano guidato da Rosenheim fu fatto prigioniero. Rodìo, che aveva veduto le guerre di Ruffo, e con lui e per lui aveva combattuto, perseguitato aspramente da Lecchi, fu preso nelle montagne di Pomarico. Sperava Regnier di pigliarsi Michele Pezza, che il volgo chiamava fra Diavolo, uomo facinoroso mandato da Palermo a sollevare i popoli; ma per l'audacia propria, e per conoscere il paese, gli sfuggì di mano, tornandosene a Gaeta. Molti de' suoi seguaci, gente da strada ed efferata, come egli, presi nelle montagne di Rocca Guglielma, Monticelli, e Sant'Oliva, furono incontanente dati a morte. Da un'altra parte Duhesme, oltratosi nella Basilicata, cacciava i nemici da Bernarda e da Torre, ed entrava in Taranto, città opportuna pel suo sito ad accennare ugualmente a Corfù ed alla Sicilia. Alcuni rimasugli dei vinti si erano rannodati a Castrovillari, ma combattuti da Regnier furono dispersi. Vi andarono presi un Tchudi ed un Ricci, capitani di qualche grido, e molto affezionati al nome del re. Sbaragliati i regolari, sorgevano, parte per la mutazione del governo, parte per gl'instigamenti di Sicilia, parte per amore della vendetta, parte per cupidigia del sacco, in diverse parti della Calabria bande collettizie di soldati spicciolati, e di uomini facinorosi, che mettevano la provincia a terrore, a ruba ed a sangue. In questi orribili ravvolgimenti perdeva chi aveva, acquistava chi non aveva; i buoni solamente perivano; i scellerati trionfavano. La ferocia d'uomini quasi ancora selvaggi era stimolata da uomini feroci per consuetudine; il male s'appiccava, e dominava in ogni parte. Spargevansi voci, che la regina fomentasse questi moti; il che era vero per qualche capo e per la guerra, non per le masse dei scelerati e per gli eccessi. I Francesi ed i partigiani loro accrescevano questi romori, e davan loro più credito coll'intento di seminar viemaggiormente rancori, ed odj contro quel governo, che da loro era stato cacciato. Da questi accidenti nasceva, che non solamente il desiderio di Ferdinando diminuisse continuamente nelle popolazioni quiete, e negli uomini facoltosi, ma ancora con minor avversione si vedesse il dominio dei Francesi, avvisando ciò che era vero, che, siccome potenti e speditivi, avrebbero posto freno a quella peste degli assassinj e delle ruberìe. Questi umori non ignorava Napoleone. Però giudicando, che fosse arrivato il momento propizio per mandar fuori quello che si aveva già da lungo tempo concetto, nominava Giuseppe re delle due Sicilie. Annestava la solita condizione, che le due corone di Francia e di Napoli non potessero mai essere posate sul medesimo capo. I principi consentivano, i popoli adulavano. Solo Carolina di Sicilia non si lasciava tirare alla debolezza universale, l'acerbità dell'animo con l'altezza compensando. Per questo Napoleone la chiamava Fredegonda, ed ella chiamava lui assassino di principi, e tiranno Corso. Finalmente vi cadde ancor essa, non per adulazione, nè per abiezione d'animo, ma per odio contro gl'Inglesi; perchè, come diremo a suo luogo, venne un tempo, in cui non piacendole il comandare frenato alla foggia degli ordini d'Inghilterra, desiderò, come più conforme alla sua natura, il comandare assoluto di Napoleone; per questo prese consiglio di accostarsi a lui. La creazione del re Giuseppe fu sentita con qualche allegrezza in Napoli, ma più dai nobili che dai popolani. Furonvi luminarie, spari, feste, teatri, canzoni, sonetti al solito; e di questi sonetti, chi ne aveva più fatto per Carolina, più ne faceva per Giuseppe. Vi furono anche non insolite, ma indecenti cose. Il marchese del Gallo, ambasciadore di Ferdinando a Parigi, rivoltatosi subitamente alla fortuna di Napoleone, divenne ambasciadore di Giuseppe, poi incontanente suo ministro degli affari esteri. Di tanto anteponevano gli uomini, anche i nobili, l'ambizione all'onore! Nè miglior natura mostrò il duca di santa Teodora, ambasciadore di Ferdinando in Ispagna, poco prima mandato da lui a mansuefare il vincitore: accettò carica nella corte di Giuseppe. Aveva certamente il duca l'animo esacerbato pel supplizio di Caraccioli, suo parente; ma sarebbe stato più onorevole il non accettar cariche da Ferdinando, che il non tenergli fede. Ruffo cardinale esultando ricevè Giuseppe sotto il baldacchino. Vide l'età Maury cardinale fare fallo ai Borboni di Francia, per profondersi a Napoleone, vide Ruffo cardinale abbandonare i Borboni di Napoli per inchinarsi a Giuseppe. Scusavansi con dire, avere amato le cose, non le persone; il che sarà loro da ognuno facilmente conceduto. Tutti errarono, pontefice, imperatori, re, cardinali, vescovi, preti, nobili, popolani. Almeno imparassero i potenti a non giudicar gli uomini a norma di una perfezione, che non è nel mondo, ed a conoscere la debolezza propria in quella d'altrui. Ma tal è la superbia umana, che chi più può, si persuade anche d'esser migliore, e tal è anche qualche volta la perversità di lei, che alcuni credono, e vogliono far dimenticare i falli proprj col punirgli in altrui. La Turchìa stessa, a cui Napoleone aveva voluto torre quel granajo dell'Egitto, adulava. Il giorno dell'assunzione di Giuseppe il suo inviato in Napoli cacciò fuori sulla fronte del suo palazzo, in mezzo a non so qual luminaria, questo motto in lingua Turca e Francese: _l'Oriente riconosce l'eroe del secolo_. Vero è, che quest'era piuttosto adulazione Francese e Napolitana, che Turca. Napoleone rideva a queste mostre, e vieppiù disprezzava la natura umana. Le vittorie di Lagonero e di Campotenese, avendo rotto le forze regie in Calabria, tutto il paese era venuto, salvo alcuni moti incomposti, a divozione dei Francesi. Solo Gaeta e Civitella di Tronto resistevano. Poca speranza restava al re di far frutto, sebbene sapesse che non mancavano mali semi contro il nuovo signore, se gl'Inglesi sbarcando sulle terre Calabresi non avessero somministrato qualche forte soccorso di battaglioni ordinati. Ma grandemente ripugnava ad una spedizione in terra ferma Stuart, che essendo succeduto a Craig nel governo dei soldati Britannici in Sicilia, continuava a starsene nelle stanze di Messina. Gli pareva che il principal fine degl'Inglesi fosse la conservazione della Sicilia. Nè ignorava che la spedizione sarebbe pericolosa per l'isola, se riuscisse infelicemente, di nissun frutto per la terra ferma, a cagione dell'eccessiva forza dei Francesi, se riuscisse felicemente. Fortunato capitano non sarebbe lodato; infortunato biasimato. Ma era a questo tempo giunto in Sicilia un uomo, a cui piacevano le imprese avventurose: questi era Sidney Smith, che, arrestata la fortuna prospera di Buonaparte in Oriente, si era persuaso di poterla arrestare anche in Occidente. Stimolato dalla propria natura, dalle preghiere di Ferdinando, e dalle instigazioni della regina, che non poteva vivere se non ricuperasse ciò che le era stato tolto, continuamente esortava Stuart alla fazione. Ma la prudenza dell'uno superava l'audacia dell'altro, e niuna cosa si risolveva. Si deliberava Sidney a fare qualche sforzo da se colle forze marittime per far vedere a Stuart, che la materia era meglio disposta ch'ei non credeva. Per la qual cosa partiva dalla Sicilia con qualche nave grossa da guerra e molte annonarie, con intento di andar a visitare le coste di Napoli. Due fini principalmente il muovevano; il primo di rinfrescar Gaeta, il secondo d'incitare, e di provvedere d'armi e di munizioni le Calabrie. S'appagava del suo primo intento; anzi lasciava nelle acque della piazza un'armatetta di navi sottili, affinchè cooperasse alle difese. S'impadronì dell'isola di Capri; la qual possessione il rendeva signore del golfo di Napoli. Poscia radendo i lidi a seconda verso scirocco, ora qua ora là si mostrava, e con la presenza, colle esortazioni, colle somministrazioni vi manteneva vivo il nome di Ferdinando. Vi scoverse inclinazioni favorevoli, ma non sufficienti perchè potessero fare da se. Tornossene in Sicilia: con intente esortazioni tanto fece che il prudente Stuart si lasciò muovere a tentare qualche fatto su quella tribolata e tumultuosa terra. Sbarcava sul principiar di luglio con circa cinque mila soldati sulle coste del golfo di sant'Eufemia: chiamava, ma con poco frutto, le popolazioni a levarsi. Stava sospeso, stante la freddezza dei popoli, se dovesse tornare alle navi, o persistere sulla terra ferma, quando gli pervennero le novelle, che Regnier con un corpo di circa quattro mila soldati aveva posto il campo a Maida, terra distante dieci miglia dal mare. Udì al tempo stesso, che una nuova schiera di tre mila soldati accorreva in soccorso di Regnier, perciocchè la nuova della venuta degl'Inglesi già si era sparsa nelle vicinanze. Si deliberava pertanto di assaltare il nemico innanzi che il soccorso si fosse congiunto con esso lui. Era il generale di Francia accampato sul pendìo di una collina boscata sotto il villaggio di Maida, soprastando alla pianura di sant'Eufemia: folte selve rendevano i suoi fianchi sicuri. Scorreva alla sua fronte il fiume Amato, che sebbene in ogni luogo fosse guadoso, tuttavia per avere le sue rive ingombre di paludi, difficoltava assai il passo agli Inglesi. Forte, come si vede, e quasi inespugnabile era il sito di Regnier, e se vi avesse aspettato l'inimico, la sua vittoria sarebbe stata certa. È da notarsi, che la dimora degl'Inglesi in quei luoghi non poteva esser lunga, perchè essendo il paese paludoso, esala, massime nella stagione estiva, miasmi pestilenziali, radice di malattie molto mortali. Ma Regnier, o nel proprio valore troppo confidando, o di quello del nemico troppo debolmente giudicando, consentì al commettere all'arbitrio della fortuna un'impresa certa. Calavasi adunque dalla bene promettente collina, varcava il fatale fiume, e s'innoltrava nella pericolosa pianura. Forse, oltre la confidenza di se stesso e de' suoi, che per verità valorosi soldati erano, a questo partito il mosse l'avere con se qualche squadra di cavallerìa, della quale l'Inglese mancava. Arrivavano in questo mentre i tre mila; il quale accidente accrebbe nei Francesi l'opinione del vincere. Si fece dalla sua parte avanti l'esercito d'Inghilterra: le due emule nazioni venivano al cimento. Incominciò la battaglia, correva il dì sei di luglio, dall'affronto incomposto e sparso dei soldati armati alla leggiera: poi si venne alla zuffa delle genti grosse. Trassero poche volte con gli archibusi: mossi dall'emolazione, ed impazienti del combattere da lontano, s'avventarono colle bajonette in canna gli uni contro gli altri. La mischia spaventosa: vivi erano i Francesi, stabili gl'Inglesi. I primi, o perchè, avendo creduto di andarne a sicura e facile vittoria, restassero stupefatti all'inopinato rincalzo, od altra cagione che sel facesse, cominciarono, dopo un breve menar di mani, massimamente sulla sinistra loro, a piegare, poi andavano in fuga. Gli seguitarono velocemente gl'Inglesi, ed aspramente gli pressavano, non poca uccisione facendone. Volle Regnier ristorare la fortuna con assaltare colla cavallerìa la sinistra del nemico, ma fecero gl'Inglesi sì immobile resistenza coi tiri e colle bajonette, che fu costretto a rimanersene. Si pruovava allora, poichè coll'assaltar di fronte non aveva fatto frutto, di girare co' suoi cavalli intorno alla punta della medesima ala degl'Inglesi, e di urtarla di fianco ed alle spalle; con che sperava d'indurre qualche scompiglio nell'ordinanza. Già i cavalli circuivano; la battaglia pericolosa per gl'Inglesi, quando un nuovo reggimento partito da Messina, e testè sbarcato a Sant'Eufemia, arrivò sul campo, e postosi dietro un po' di riparo che il terreno offeriva, fece fronte ai cavalli, e coi tiri spesseggiando, non solamente arrestò l'impeto loro, ma ancora gli costrinse alla ritirata più rotti che intieri. Dopo questo fatto i soldati di Regnier si posero in fuga scomposti e sbaragliati, cercando ciascuno salute senza ordine o norma, come meglio avvisava. Fu compiuta la vittoria degl'Inglesi. Errò Regnier nell'essere sceso al piano: errò nell'aver troppo disteso le ordinanze. Morirono dei Francesi settecento, due mila vennero in poter dei vincitori, parte sul campo della battaglia, parte a Monteleone, dove si erano ridotti. Ornò massimamente la vittoria la presa del generale Compère. Dei dispersi, che furono un grosso numero, molti venuti in mano dei Calabresi, furono crudelmente ammazzati: alcuni condotti cattivi al cospetto di Stuart restarono salvi. La vittoria di Maida diè nuova cagione ai Calabresi di levarsi a romore: ad uso barbaro ammazzavano quanti venivano loro alle mani. I Francesi dal canto loro irritati contro uomini, che a nissun uso civile attendevano, saccheggiavano ed ardevano tutte le terre che loro si scoprivano contrarie, uccidendo i terrazzani, e nissun rispetto avendo o al sesso, o all'età. La Calabria tutta fumava d'incendi e di sangue. Furono i Francesi obbligati a sgombrarne. I sollevati, fatti padroni delle coste, stabilmente vi si alloggiavano nei siti principali, donde comunicando con Sidney Smith, che in questa bisogna si dimostrava attivissimo, e da lui ricevendo armi e munizioni, le tramandavano nell'interno del paese, e somministravano continua esca a quel grave incendio. Amantea, Scalea, l'isola di Dina sulle coste della Calabria citeriore, erano tenute dai Calabresi: Maratea, Sapri, Camerota, Palinuro, ed altre terre del golfo di Policastro a loro parimente obbedivano. Massa di cruda ribaldaglia erano queste, nè io sarò mai per lodare quelli che le fomentavano: scelerati, la più parte, i gregari, scelerati i capi. Pane di Grano, uno dei primi, era un prete infame condannato per delitti a galera: Fra Diavolo, che imperversava più vicinamente a Napoli, uomo convinto di più latrocini, ed assassinii: ladri ed assassini a costoro si accostavano. Gl'Inglesi non gli potevano frenare, ancorchè Stuart per l'umanità sua molto vi si affaticasse. I Francesi, dove potevano, acerbamente si vendicavano, furore e crudeltà a furore ed a crudeltà opponendo. Il trionfo di Maida poco durava. S'ingrossavano di nuovo i Napoleoniani: gli assassini erano cattivo fondamento; il capitano d'Inghilterra si ritirava in Sicilia, solo lasciando un presidio nel forte di Sicilia, di cui si era impadronito. S'accalorava l'oppugnazione di Gaeta. Già per molti mesi l'aveva virilmente difesa il principe d'Assia: vi morirono molti buoni Francesi, fra gli altri il generale Vallelongue, uomo, in cui la dolcezza e l'integrità della vita pareggiavano la scienza ed il valor militare, l'uno e l'altro singolari. Il principe ferito gravemente fu portato in Sicilia. Gli assedianti impedivano le sortite con aver tirato una trincea dalla spiaggia di Mola sino all'altra estremità dell'istmo. Impedivano colle batterie i soccorsi di mare; una breccia molto grande era aperta nel muro della cittadella sino a piè della controscarpa: i terribili granatieri di Francia pronti all'assalto. Si diede la fortezza il dì diciotto luglio. Anche in questo fatto mostrò il generale Campredon molta perizia nell'arte d'oppugnar le piazze, ed a lui principalmente restò Napoleone obbligato dell'acquisto di Gaeta. Solo, siccome quegli che la voleva sempre fare da maestro, perchè gli altri si studiassero di fare, non che bene, meglio, si lamentò che Campredon vi avesse consumato troppa polvere. La resa di Gaeta avvantaggiò le condizioni dei Francesi nel regno. La forte schiera che l'aveva oppugnata, andava a ricuperar le Calabrie; e stantechè il nome di Massena era di molto terrore, gli fu dato il governo della spedizione. Perchè un uomo terribile avesse potestà terribili, decretava Giuseppe, fossero e s'intendessero le Calabrie in istato di guerra: i magistrati civili e militari obbedissero a Massena: creasse commissioni militari pei giudizi, ed i giudizi si eseguissero senz'appello in ventiquattr'ore: i soldati vivessero a carico dei paesi sollevati: i beni degli assassini e dei capi dei ribelli si ponessero al fisco; i beni degli assenti ancor essi si confiscassero; chi non essendo scritto alla guardia provinciale, fosse trovato con armi, si desse a morte; i conventi che non dichiarassero i religiosi complici si sopprimessero. Andava Massena alla spedizione; seguitarono dalle due parti crudeltà inusitate. Lavria, Sicignano, Abetina, Strongoli incesi: i Napoleoniani trucidavano i Calabresi nelle battaglie, nelle imboscate, nei giudizi; i Calabresi ammazzavano i Napoleoniani, e gli aderenti loro nelle case, negli agguati, nelle battaglie: il furore partoriva morti, le morti furore: gli uomini civili divenivan barbari, i barbari vieppiù s'imbarbarivano. Il Crati, fiume principalmente in cui furono gettati a mucchi i cadaveri degli uccisi, portò con le acque sue al mare i rossi segni della bestiale rabbia degli uomini. Durò lunga pezza la carnificina: pure i Napoleoniani per la disciplina e per gli ordinati disegni prevalevano. Il terrore e le uccisioni frenarono, non quietarono la provincia: semi orrendi vi covavano, che ora in questo luogo, ora in quell'altro ripullulavano, e facevano segno, che più potevano l'odio e la rabbia che i supplizi: nè mai potè Giuseppe venir a capo dei sollevamenti Calabresi, ancorchè usasse rimedi asprissimi, e qualche volta anche dolcezza coi perdoni. Orrendi casi io raccontai, ma più orrendi, se mi fia dato di terminare queste storie, sarommi per raccontare, dai quali si vedrà, che se la dolcezza mescolata con la crudeltà non fece frutto per pacificare le Calabrie, una crudeltà pura il fece: feroce razza di Calabria, che non potè costringersi alla quiete, se non con lo sterminio. Risoluzioni infedeli, atti soperchievoli, guerra barbara insanguinavano una costa dell'Adriatico: simili accidenti insanguinavano l'altra: di sì lagrimevoli frutti fu pregno il tradimento fatto a Venezia. Erano le Bocche di Cattaro, il più sicuro ricovero che si avessero i naviganti nell'Adriatico, state cedute alla Francia pel trattato di Campoformio, con tempo di sei settimane ad esserne messa in possessione. Spirato il termine, e non comparsi gli ufficiali di Francia a prenderne possessione, un agente di Russia, col quale concordavano, siccome Greci, gran parte dei Bocchesi e dei Montenegrini, selvaggi abitatori delle vicine montagne, sollevò il paese, predicando, che, poichè il tempo buono della consegnazione era trascorso, i Francesi erano scaduti, ed il paese padrone di se stesso. I comandanti Austriaci di Castelnuovo e degli altri forti, l'intendevano ad un altro modo, e volevano serbar la fede. Arrivava in questo mentre il marchese Ghisilieri commissario d'Austria, per far la consegnazione; ma non che il suo mandato eseguisse, perchè già i Francesi si approssimavano, consentì a sgombrar il paese, lasciandolo in potere dei natìi, dei Montenegrini, e dei Russi. Sgombrarono di mala voglia i comandanti Austriaci, e sdegnosamente anche protestarono della violazione dei patti. Nè meno sdegnosamente udì Vienna il fatto; fu il marchese dannato a carcere perpetua in una fortezza di Transilvania. La fede violata in Cattaro diè occasione a fede violata in Ragusi. I Napoleoniani, non potendo più occupare Cattaro, s'impadronirono di Ragusi, nissuna ragione contro quella pacifica ed innocente repubblica allegando, ma solamente il pretesto di preservarla dalle scorrerìe dei Montenegrini. Certo i soldati Napoleonici difesero Ragusi, dico la città, perciocchè i Montenegrini orribilmente saccheggiavano il territorio; ma Napoleone spense la repubblica congiungendola all'Italico regno; singolar modo di preservazione. Sorse una guerra varia. Lauriston tenuto in assedio in Ragusi dai Montenegrini era soccorso da Molitor, che gli vinceva risospingendogli ai loro nidi delle montagne. Pure stavano ancora minacciosi, ed infestavano con spesse scorrerìe il paese, quando Marmont, con astuzia militare avendogli indotti a venir al piano, con istrage grandissima prostrava tutte le forze loro. Guerra orribile fu questa: i Montenegrini ammazzavano i prigioni, e gittavanne le teste tronche fra le file dei compagni inorriditi: i Napoleoniani perseguitavano sui monti loro i Montenegrini, e quando non gli potevano avere per essersi nascosti nelle tane, ne gli cacciavano con fuoco e fumo, come se fiere fossero, per uccidergli. Cantava queste vittorie con gloriose promulgazioni, secondo la natura sua, Dandolo, che era per Napoleone provveditore generale della Dalmazia. Sì per certo, questo mancava allo scandalizzato mondo, che dopo di aver veduto Pesaro commissario Austriaco in Venezia, vedesse Dandolo provveditore Napoleonico in Dalmazia. FINE DEL TOMO V. INDICE DEL PRESENTE VOLUME 1799 Pensieri della corte di Sicilia _pag._ 6 Suo trattato colla Gran Brettagna 7 E coll'imperatore Paolo 7 E colla Porta 7 Cardinale Ruffo in Calabria 8 Proni, Mammone, Sciarpa, Fra Diavolo, Decesari 8 Vescovo di Policastro 8 Il cardinale assalta Altamora e la distrugge 9 Gravina distrutta 10 Lucera ed altre città si arrendono 10 Russi, Inglesi ed Ottomani sbarcano a Manfredonia 10 Micheroux gli conduce 10 Entrano in Foggia 10 Salerno presa dai regj 10 Aversa si dichiara pel re 10 Proni negli Abruzzi 12 Inglesi innanzi a Napoli 12 Speciale, chi fosse 12 Congiura dei fratelli Bacher 12 Scoperta dalla San Felice 13 Angustie dei repubblicani in Napoli 13 Ritrovi di Napoli, domanda di uno di essi 14 Canonico Luparelli 14 Vincenzo Lupo 14 Legge crudele 14 Ritrovo dell'accademia dei nobili 15 Minaccia Pignatelli di Monteleone e Bruno Foggia 15 E il ministro Doria 16 Nome di Ferdinando abolito 16 Fanatismo politico 17 Eleonora Fonseca, scrive un monitore 17 Frate Michelangelo Ciccone traduce il Vangelo in volgar Napolitano 18 Fra Benoni predica in piazza 18 Arcivescovo di Napoli 18 San Gennaro fatto democratico 19 Mantonè 19 Duchesse di Cassano e di Popoli 20 Schipani, Ettore de Ruvo e Belpuzzi escono alla guerra 20 Ordinamenti di Mantonè 20 Belpuzzi, Ruvo e Sciarpa sono rotti 21 Ruffo s'avvicina alla capitale 21 Fuorusciti Calabresi 21 Principe di Roccaromana 22 Prigionieri salvati da morte dal popolo 23 Mantonè esce alla guerra ma poi ritorna in Napoli 23 Schipani fatto prigione 24 Diserzione di Roccaromana 24 Forte di Viviena assaltato 25 Antonio Toscano 25 Bacher condannato a morte 26 Assalto e difesa di Napoli 26 Luigi Serio 26 Writz Svizzero 27 Crudeltà di Ruffo in Napoli 28 San Gennaro degradato e in suo luogo posto Sant'Antonio 30 Assalto ai castelli 31 Deliberazione nei castelli 32 Mejean comandante Francese 32 Pensieri di Ruffo 33 I castelli capitolano 34 Nelson rompe la capitolazione 36 Mejean si arrende e sua infamia 39 Capua e Gaeta si arrendono 40 Speciale ed altri carnefici 41 Supplizio di Mario Pagano e Domenico Cirillo 41 Di Francesco Conforti 43 Di Vincenzo Russo 43 Pasquale Baffi 44 Mantonè 45 Tradimento di Sassetta 45 Supplizio di Eleonora Fonseca Pimentel 46 Generoso fine di Velasco 46 Niccolò Fiani 46 Gio. Battistessa 47 Altri supplizi 47 Ettore Ruvo 47 Francesco Caraccioli 47 Numero delle vittime 49 Cimarosa come liberato 50 Ricompense al cardinale Ruffo ed a Nelson 51 Repubblica Romana in pericolo 51 Garnier capitola 54 Froelich assedia Ancona 55 Nuovo governo in Roma 55 Conte Torriglioni 56 Zaccaleoni e Dematteis 56 Crudeltà dei Napolitani 56 Monnier in Ancona 57 Ammiraglio Woinowich 59 Donato de Donatis 59 Diserzione di Lahoz 59 Generale Pino 61 Scaboloni, Cellini e Vanni 62 Guerra minuta intorno Ancona 63 Ancona battuta dagli alleati 64 Froelich sotto Ancona 65 Lahoz ucciso, sue estreme parole 66 Skal mandato ad intimare la resa di Ancona 69 Monnier si arrende 69 Mejean unico dei comandanti Francesi, infame 70 Stato della Francia 71 Opinione in favore di Buonaparte 73 Sieyes e Barras favoriscono Buonaparte 75 Luciano Buonaparte 75 Buonaparte arriva in Francia 76 S'impadronisce del governo 77 Richiama gli esuli 79 Cabanis 80 Buonaparte pacifica la Vendea 81 Alletta i preti 81 Onora la memoria di Pio VI 81 Conclave in Venezia 82 Buonaparte offre la pace all'Inghilterra 84 Sua lettera al re Giorgio 84 Risposta 84 Dissapori tra Russia ed Austria 85 Buonaparte si guadagna Paolo imperatore 86 Paolo si volta contro gli alleati 87 Buonaparte riconosciuto dalla Prussia 87 Tenta l'Austria, ma indarno 88 Buonaparte provvede alla guerra 89 Conferma Moreau all'esercito del Reno 89 Manda Massena a Genova 89 Sue parole ai soldati 90 Disposizione dell'esercito Francese in Italia 91 Errori di Melas 92 Disposizione dell'esercito Austriaco 94 Parole di Melas ai Genovesi 94 Azzeretto fuoruscito Genovese 95 Battaglia di Cadibuona e di monte Ajuto 96 Savona presa dagli Austriaci 97 Altre fazioni in riviera di Levante favorevoli agli Austriaci 98 1800 Disposizioni di Massena 99 Melas ridotto a cattivo passo a Voltri 101 Costringe Massena a ritirarsi 102 Miollis combattuto da Otto 103 Suchet si ritira oltre il Varo 104 Ventimiglia preso dai Tedeschi 104 Melas ingannato da Buonaparte 105 Descrizione di Genova 106 Massena con quali forze difende Genova 107 Rossignoli capitano Piemontese 107 Azzeretto sotto Genova 108 Otto governa l'assedio 109 Soult ferito e prigione 111 Fame e malattie in Genova 111 Prezzo dei viveri in Genova 113 Massena rende Genova 116 Reggenza creata dai Tedeschi 117 Buonaparte scende dal San Bernardo 118 Lecchi guida la Legione Italiana 119 Buonaparte a Ginevra 120 Disegno di Buonaparte 121 Parole di Berthier ai soldati 122 Spirito dei soldati Francesi 123 Loro viaggio pel San Bernardo 124 Giungono all'Ospizio 126 Forte di Bard 128 Artificio di Berthier per iscansarlo 130 Altro stratagemma di Marmont 130 Il forte di Bard si arrende a Chabran 131 Lannes mandato a Chivasso 132 Pavetti consiglia Lannes 132 Buonaparte a Milano 134 Riordina la Cisalpina 134 Lannes prende Pavia 135 Pensieri di Melas 135 Murat s'impadronisce di Piacenza 135 Battaglia di Casteggio 136 Otto si ritira vinto a Voghera 137 Errore di Buonaparte nel dividere l'esercito 139 Desaix, Bondet e Monnier spartiti a diverse fazioni 139 Gardanne prende Marengo 139 Battaglia di Marengo 140 Keim riprende Marengo 142 Champeaux ucciso 142 Stretta di Buonaparte 143 Errori di Esnitz 143 Arrivo di Monnier 143 Cara-San-Cyr 143 La vittoria pende a favore di Austria 144 Arrivo di Desaix 145 Partito che prende Buonaparte 145 Desaix ucciso 146 Kellermann decide la vittoria 146 Zach e i suoi Ungaresi si arrendono 147 Melas si ritira 147 Perdite 147 Detto di Buonaparte a Kellermann 148 Melas patteggia una tregua 149 Buonaparte come ricevuto a Milano 150 Qual governo vi stabilisca 151 Petiet ministro di Francia 151 Offerte di Buonaparte al re di Sardegna 152 Governo che stabilisce in Piemonte 153 Stato del Piemonte 153 Ranza tornato in Piemonte 156 Sette in Piemonte 157 Prina consiglia lo smembramento del Novarese 157 Stato di Genova 158 Pestilenza a Genova 161 Pio VII creato pontefice 161 Giunge a Roma 162 Vaubois comanda la Valletta di Malta 164 È assediato da Nelson 165 Nicolò Isoard maestro di musica in Malta 165 Vaubois si arrende 166 Isole Joniche fatte dipendenti dalla Turchia 167 Nuovi apparecchi di guerra 168 Marchese Sommariva in Toscana 169 Buonaparte manda Dupont a impadronirsi della Toscana 169 Manda Monnier contro Arezzo e Clement contro Livorno 169 Navi Inglesi sorprese 170 Gli Aretini si difendono 170 Arezzo presa e saccheggiata 171 L'Inghilterra stimola l'imperatore 171 Forma degli eserciti Francesi ed Austriaci 172 Brune comanda l'esercito d'Italia 172 Macdonald varca lo Spluga 173 Baraguey d'Hilliers scende in Valtellina 173 Come i Francesi varcassero lo Spluga 174 Bufera 174 Laboissiere giunge sulla cima ed è accolto dai religiosi 174 Nuovo pericolo di Macdonald 175 Giunge nella Valtellina 177 Le ostilità incominciano 178 Ruggiero di Damas condusse i Napolitani contro Francia 178 Brune pensa a passare il Mincio 179 Errore di Dupont nel prendere Pozzuolo 180 È assaltato da Bellegarde 181 È soccorso da Suchet 181 Bellegarde rotto si ritira sulla sinistra dell'Adige 182 Moreau vince a Hohenlinden l'arciduca Giovanni e stabilisce una tregua 183 1801 Bellegarde propone a Brune una tregua e perchè ricusata 184 Laudon inganna Moncey 185 Tregua tra Brune e Bellegarde 186 Sommariva e Ruggiero di Damas mettono in moto la Toscana 187 Pino mette in fuga i Napolitani 187 Murat va contro Napoli 188 Carolina va a Pietroburgo e implora la protezione di Paolo 189 Paolo manda Lewashew in Italia 189 Tregua tra Francia e Napoli 189 Trattato di Luneville 190 Altro trattato tra Francia e Napoli 191 E tra Francia e Spagna 191 Stato della religione in Francia 194 Buonaparte la favorisce 196 Concilio di Parigi 196 Seguaci di monsignor Ricci in Italia 198 Benedetto Solaro vescovo di Noli 199 Pio VI condanna le dottrine dei vescovi giurati 199 Pensieri di Buonaparte su queste contese teologiche 201 Sua opinione sui giansenisti 201 Cardinali Consalvi, monsignor Spina, e il padre Caselli mandati dal papa a Parigi 203 Giuseppe Buonaparte, Cretet e Bernier conchiudono il concordato 203 Concilio nazionale di Parigi disciolto 205 Contrarietà a Roma pel concordato 205 Decisione del cardinale Albani e del padre Merenda 207 Pio ratifica il concordato 209 Circolare del consolo ai vescovi 210 1802 Sue regole di disciplina ecclesiastica 211 Parole del papa in concistoro 213 Pensieri del consolo sul Piemonte 215 Marchese di San Marsano in Parigi 215 Vittorio Alfieri 215 Paolo imperatore di Russia strozzato 216 Nuova costituzione data al Piemonte 216 Deputati Piemontesi a Parigi 217 Buonaparte tenta Alessandro 217 Tende alla monarchìa 219 Jourdan levato dal governo di Torino, e Menou mandato in suo luogo 220 Murat come si governa col papa e col re di Napoli 222 Suo decreto contro gli esuli Italiani 222 Fa lo stesso la Cisalpina 223 Re di Etruria 224 Saliceti mandato a riformar Lucca 225 Morte del duca di Parma 226 Moreau di san Mery mandato a governar Parma 226 Artifizj di Buonaparte in Italia 226 Consulta di Lione e persone mandatevi 229 Buonaparte a Lione 231 È nominato presidente della Cisalpina 232 Risposta di Buonaparte 233 La Cisalpina mutata in repubblica Italiana 234 Prina 234 Melzi vicepresidente 234 Nuova costituzione; ordini ecclesiastici 234 Ordini civili 235 Primo ministro di Finanza 237 Ceroni esiliato 238 Teuillet e Cicognara 238 Opere di magnificenza 239 Sospetti delle potenze 239 Scrittura di Buonaparte 240 Nuova costituzione a Genova 241 Saliceti ministro a Genova 243 Statua a Colombo e a Buonaparte 244 Famiglia Buonaparte originaria di Sarzana 244 Carlo Emanuele abdica in favore di Vittorio Emanuele 245 Buonaparte unisce il Piemonte alla Francia 245 Condizione degli stati d'Italia 246 1803 Lodovico re di Etruria muore 247 Reggenza di Maria Luisa 247 Murat governa la Toscana 247 1804 Febbre gialla di Livorno 248 Dottore Palloni 253 Concordato per l'Italia 258 Buonaparte tende alla corona 260 Duca d'Anghienna ucciso 262 Napoleone imperatore de' Francesi 262 La Prussia ve lo incita 262 Marchese Lucchesini ministro di Prussia 264 Protesta di Luigi XVIII 264 Pio VII chiamato a Parigi 265 Opposizioni delle corti 265 Discorso di Pio in concistoro 268 Come trattato da Buonaparte 272 Detto di Buonaparte a Cervoni 273 1805 Deputati Italiani a Parigi 275 Discorso di Melzi 275 Napoleone dichiarato re d'Italia 277 Parole di Napoleone in Senato 279 Eugenio vicerè d'Italia 280 Melzi guarda sigilli 280 Napoleone in Piemonte 280 Colloquio del papa e di Napoleone a Torino 281 Finta battaglia a Marengo 282 Lannes maresciallo 283 Napoleone a Pavia 284 Discorso del rettore dell'università 284 Napoleone a Milano 285 Caprara arcivescovo 285 Lucchesini a Milano 286 Altri ambasciatori 286 Napoleone come tratta i legati Liguri 287 Incoronazione 288 Napoleone unisce la Liguria alla Francia 290 Discorso del doge Durazzo 292 Principe Lebrun a Genova 292 Napoleone a Genova 292 Luigi Corvetto 295 Bartolomeo Boccardi 295 Napoleone ritorna a Parigi 299 Lebrun come governa Genova 299 Fine della repubblica di Lucca 300 Pio ritorna a Roma 300 Ricci vescovo di Pistoja 301 Sua ritrattazione 303 Gesuiti 305 Sono rinnovati 307 Gabriele Gruber 307 Risentimento delle potenze contro Napoleone 308 Guglielmo Pitt 309 Trattato di Pietroburgo 310 Barone di Novosiltzoff mandato a Parigi 310 Dichiarazioni dell'Austria 311 Arciduca Ferdinando comanda l'esercito Austriaco 313 Generale Mack 313 Arciduca Carlo coll'esercito d'Italia 313 Arciduca Giovanni 313 Massena comanda l'esercito d'Italia 313 Re di Napoli si dichiara neutrale 314 San Cyr marcia verso l'Adige 315 Manifesto del vicerè 315 Errore dell'arciduca 315 Vittorie di Napoleone 316 Massena assalta Verona 317 Mack si arrende con tutto l'esercito 318 Battaglia di Caldiero 319 L'arciduca si lagna di Wukassowich 321 Hillinger si arrende a Serras 321 Ritirata degli Austriaci 322 Principe di Roano si arrende a San Cyr 323 Il re di Napoli rompe la neutralità 324 Napoleone vince ad Osterlizza 325 Pace di Presburgo 325 Le provincie venete unite al regno d'Italia 326 Parole di Napoleone contro il re di Napoli 326 1806 Giuseppe marcia contro Napoli 327 Cardinal Ruffo mandato a Napoleone 328 Re di Napoli abbandonato dagl'alleati 329 Ferdinando si ritira in Sicilia 329 Francesi assaltano Gaeta 330 Entrano in Napoli 330 Saliceti capo della reggenza a Napoli 331 Ruggiero di Damas rotto 331 Rodio preso 332 Frà Diavolo 332 Moti in Calabria 332 Giuseppe re delle due Sicilie 333 Marchese del Gallo 334 Cardinal Ruffo 334 Inviato Turco a Napoli 335 Stuart comanda le forze Britanniche in Sicilia 335 Sidney Smith in Sicilia 336 S'impadronisce di Capri 336 Sbarco d'Inglesi in Calabria 337 Battono Regnier a Maida 337 Generale Compère prigione 339 I Calabresi si sollevano 340 Pane di Grano e frà Diavolo 340 Gl'Inglesi ritornano in Sicilia 341 Principe d'Assia ferito in Gaeta 341 Gaeta si arrende 341 Campredon come ripreso da Napoleone 341 Massena mandato in Calabria 341 Crudeltà 342 Bocche di Cattaro si sollevano 343 Marchese Ghisilieri condannato e perchè 343 I Francesi s'impadroniscono di Ragusi 344 Marmont spegne i Montenegrini 344 Dandolo provveditore 344 FINE DELL'INDICE. Correzione Dalla pagina 99 in avanti invece dell'anno 1799 leggasi 1800. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (signoria/signorìa e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.