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Title: Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V
Author: Botta, Carlo
Language: Italian
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                           STORIA D'ITALIA

                          DAL 1789 AL 1814


                               SCRITTA
                           DA CARLO BOTTA

                               TOMO V



                              CAPOLAGO
                         _presso Mendrisio_
                        Tipografia Elvetica

                            MDCCCXXXIII



STORIA D'ITALIA



LIBRO DECIMOTTAVO

SOMMARIO

      Accidenti fierissimi, e pieni di sangue nel regno di Napoli.
      Estremo coraggio delle due parti. Il cardinal Ruffo si fa
      padrone di Napoli. Uccisioni crudelissime che vi seguono. I
      castelli si arrendono al cardinale, ed agli alleati con patto,
      che siano salve le vite, e le sostanze dei repubblicani.
      Nelson sopraggiunto rompe la fede; supplizj lagrimevoli: si
      ristaura in tutto il regno l'autorità regia. Lo stato Romano
      viene in potestà dei confederati, eccettuata Ancona. Singolar
      risoluzione di Lahoz, generale Italiano, e sua morte. Bella
      difesa del generale Monnier in Ancona: finalmente si arrende
      con patti onorevoli. Tutta l'Italia a divozione dei
      confederati.


L'ordine della storia mi chiama adesso a cose maggiori: molto sangue
civile versato dalle bajonette, molto dalle mannaje; Italiani straziati
da forestieri, Italiani straziati da Italiani; pensieri smisurati da
ambe le parti; la crudeltà sotto nome di giustizia, un coraggio estremo
in casi estremi; il valore contaminato dalla perfidia; Russi, Tedeschi,
Turchi, Inglesi, Napolitani, Romani, Toscani in un viluppo; aquile
bianche con un becco, aquile nere con due becchi, leopardi con le rampe,
la repubblicana donna, la Nostra Donna, la Ottomana luna, la croce dei
cristiani sulle bandiere; l'inferiore Italia tutta sdegnata, furibonda,
sconvolta, sanguinosa; discorsi civili, opere barbare, proteste
d'umanità, età da Genserico; e chi vanta i tempi moderni, non so di qual
razza sia. Ferdinando, Carolina, Acton eransi ritirati in Sicilia,
lasciando Napoli in mano dei Francesi, che badavano ai fatti loro, ed ai
Napolitani, amatori della libertà, che sognavano la repubblica. Ma non
se ne stava il governo regio senza speranza, che le sue cose avessero
presto a risorgere, perchè non ignorava la forte lega, che si era ordita
in Europa contro la Francia, e sapeva, che i dominj dei Francesi nei
paesi forestieri, massimamente in Italia, sono sempre brevi. Egli
medesimo si era congiunto per trattati d'alleanza con le potenze, che
facevano o volevano far la guerra ai Francesi. Già fin dall'anno ultimo
aveva stipulato con l'Austria, che in caso di guerra e d'invasione di
territorj, Napoli avesse ad ajutar l'imperatore con quarantamila
soldati, l'Austria Napoli con ottantamila; e se quando il re corse
contro i Francesi a Roma, l'imperatore non accorse in suo ajuto, ciò fu,
perchè, essendo il re l'aggressore, non era caso d'invasione, e perciò
non d'alleanza; nè l'Austria aveva preste le armi, come ella avrebbe
desiderato. Aveva anche il re contratto amicizia con la Gran Brettagna
per un trattato, pel quale il re Giorgio si obbligava a tenere una
grossa armata nel Mediterraneo a tutela e conservazione degli stati
Napolitani, e il re Ferdinando si dichiarava obbligato a tener aperti i
porti alle navi Inglesi, a dare all'Inghilterra tre mila marinari, ed a
congiungere con l'armata Britannica quattro navi di fila, quattro
fregate, e quattro altri legni più sottili. Poi Nelson vittorioso molto
confortava le Siciliane speranze. Medesimamente per un trattato concluso
con l'imperatore Paolo, si era la Russia obbligata a mettere sulla
campagna in ajuto del re nove battaglioni di fanti, e ducento Cosacchi,
gli uni e gli altri da aumentarsi in caso di pericolo prossimo, ed il re
si obbligava dal canto suo a sborsare a Paolo centottantamila rubli pel
viaggio, e a dare il vivere, quando fossero giunti nel regno, a quei
settentrionali soldati. Perchè poi quella repubblica Francese, che era
per se stessa una tanto strana apparenza, avesse a produrre nel mondo
accidenti ancor più strani, il re Ferdinando aveva fatto alleanza coi
Turchi, con avergli il gran Signore promesso, che manderebbe ad ogni sua
richiesta, e senza alcun suo aggravio diecimila Albanesi in suo ajuto.
Quest'erano le promesse, e le capitolazioni dell'Europa civile, e
dell'Europa barbara in favor di Ferdinando: gli scorticatori delle teste
Francesi dovevano venir ad usare l'immanità loro sotto il dolce clima
delle Napolitane contrade. A questo dava favore e facilità la conquista
di Corfù fatta dai Russi e dai Turchi, quando appunto gli ajuti loro
erano divenuti più necessarj al re Ferdinando. Era arrivato il tempo
propizio a riconquistare il regno per la ritirata di Macdonald da
Napoli. Non aveva la repubblica messo forti radici nel regno, sì pel
duro dominio dei repubblicani di Francia, sì per le astrazioni di quelli
di Napoli, e sì finalmente per gl'ingegni mobili dei Napolitani.

Sperava adunque Ferdinando negli ajuti degli alleati, e nelle
inclinazioni dei popoli. Per conservarsi la grazia dei primi aveva in
Sicilia tenuto Acton in istato, per muovere i secondi mandato Ruffo in
Calabria. Già abbiamo narrato, come il cardinale, creato l'esercito
cogli aderenti proprj, poi ingrossato coi nemici dei repubblicani, aveva
mosso a romore, e ricondotto alla obbedienza le due Calabrie quasi
tutte, la terra di Otranto, la terra di Bari, ed il contado di Molise.
Gente feroce ogni giorno a gente feroce si accostava, i più per sete di
vendetta, o per avidità di sacco, pochi per amore del nome regio. Uomini
scelerati si segnavano con la croce di Cristo, in ogni luogo invece
degli alberi della libertà, piantavano le croci, venerato e santo segno,
posto in mezzo al sangue ed alle rapine. Erano accorsi con le bande loro
al cardinale, Proni, Mammone, Sciarpa, frà Diavolo, Decesari, dei quali
io non so dir altro, se non che deploro la causa regia di avergli avuti
per difensori. Un'altra mossa popolare era sorta, che molto ajutava il
cardinale, per instigazione del vescovo di Policastro, contro il governo
repubblicano, la quale su le rive del Mediterraneo correndo, minacciava
Salerno e Napoli. Anche il conte Ruggiero di Damas correva le campagne
con uomini speditissimi, e sollevava a furore quelle popolazioni tanto
facili ad esser concitate. Il cardinale, vedutosi forte, elevava l'animo
a maggiori imprese. Perlochè, volendo torre alla capitale del regno quel
pingue granajo della Puglia, e facilitare anche in quelle spiagge gli
sbarchi dei Turchi e dei Russi, s'incamminava contro Altamura, perchè
andando all'impresa di Puglia, non voleva lasciarsi dietro quel seggio
di forti repubblicani. Fattosi sotto le mura, ed intimata la resa, gli
fu risposto audacemente da quei di dentro, che niun'altra risposta
volevano dare, se non di armi. Amavano veramente la repubblica, ed erano
uomini di gran cuore: l'arrendersi poi non sarebbe stato meno pericoloso
che il combattere, per la natura della gente sfrenata, con la quale
avevano a fare. Diede il cardinale furiosamente la batterìa, e
quantunque gli Altamurani virilmente si difendessero, aperta la breccia,
vi entrarono i cardinalizj per estrema forza, e recarono in mano loro la
terra. Qui le cose che successero, io che già tante orribili ne ho
descritto, ripugno a raccontare. Solo dirò, che se Trani ed Andria
furono sterminate dai repubblicani, con uguale immanità fu sterminata la
miseranda città di Altamura. Usossi il ferro, usossi il fuoco, e chi più
incrudeliva, era miglior tenuto, e chi mescolava gli scherni, le risa,
gli orribili oltraggi contro la pudicizia alle preghiere supplichevoli,
ed alle lamentazioni disperate dei tormentati o degli immolati, era da
quegli uomini disumanati applaudito. Queste cose si facevano in cospetto
di un cardinale di santa chiesa, o lui comandante, o lui tollerante, o
lui contrastante, degno di eterno biasimo nei due primi casi per l'atto,
degno ancora di riprensione nell'ultimo per non avere abborrito dal
continuar a reggere gente, a cui era diletto lo stuprare, il rubare, il
tormentare, l'uccidere. Da tante crudeltà volle Iddio, o piuttosto gli
uomini sfrenati che in nome suo parlavano, che fosse accompagnata la
restituzione della monarchìa e della religione in Napoli: quest'erano le
opere dell'esercito, che col nome di cristiano s'intitolava. Ad uguale
sterminio fu condotta la città di Gravina prossima ad Altamura, e posta
sulla strada per la Puglia.

Conseguita la vittoria d'Altamura, andava il cardinale a porre le sue
stanze ad Ariano nel principato ulteriore. Quivi le città principali di
Puglia, spaventate dal caso d'Altamura e di Gravina, spente le insegne
della repubblica, e seguitando scopertamente il nome del re,
concorrevano coi deputati loro a giurare obbedienza. Vennervi i delegati
di Lucera, Manfredonia, Andria, Bari, Ascoli, Venosa, Bitonto, Barletta,
Trani: tutto lo stato della repubblica rovinava, e ritornavano con
grandissimo impeto della fortuna a Ferdinando tutte le terre, e le
fortezze più principali. Solo Foggia, capitale, assai fiorente, ricca,
popolosa e piena di amatori dello stato democratico, ancora si teneva;
ma l'essere tornata tutta la provincia a divozione del re, diè facilità
ai Russi, Inglesi ed Ottomani di sbarcare, come fecero, sulle rive del
golfo di Manfredonia nel novero di circa milaquattrocento condotti dal
cavaliere Micheroux; marciarono contro Foggia, e la ridussero in poter
loro. Correva un giorno di fiera, quando vi entrarono: i popoli
spaventati al vedere quelle genti strane, che avevano nome di valorose e
di feroci, sparsero tosto le sinistre novelle pei paesi circonvicini. Il
terrore dominava, e se qualche luogo era rimasto fedele alla repubblica,
questo concorreva prestamente con gli altri all'obbedienza verso il
vincitore. Parte dei soldati forestieri si congiunsero col cardinale in
Ariano, e parte andarono a trovare sulle rive del Mediterraneo il
vescovo di Policastro, che aveva combattuto infelicemente contro i
repubblicani. Venne con questa seconda schiera Micheroux medesimo, che
valorosamente guerreggiando pel suo signore, aveva in odio la ferocia
delle turbe indisciplinate, e si sforzava, ancorchè fosse indarno, di
frenarle. I rinforzi condotti da Micheroux, rendettero superiori i regj;
anzi tanto s'avvantaggiarono, che non ostante che i repubblicani con
frequenti e forti battaglie cercassero di arrestargli, arrivarono,
conquistati i passi importanti d'Eboli e di Campistrina, sotto le mura
di Salerno, e se ne impadronirono. Già tutte le province avendo obbedito
o per amore o per forza alla fortuna del vincitore, la guerra si
avvicinava a Napoli. Il cardinale, per istringerla, era venuto,
calandosi da Ariano, a porsi a Nola, mentre Micheroux si era alloggiato
a Cardinale. Eransi anche i regj fatti padroni della Torre del Greco. Da
un'altra parte Aversa, rivoltatasi dalla repubblica, aveva chiamato il
nome del re. Questo accidente interrompeva le strade da Napoli a Capua,
in cui Macdonald partendo, aveva lasciato un presidio di duemila
soldati. La medesima ubbidienza seguitava l'Abruzzo, perchè Proni,
sollevato prima l'Abruzzo superiore, dove ad eccezione di Pescara, in
cui si era rinchiuso il conte Ettore di Ruvo, ogni cosa veniva in poter
suo, scendeva a far levare l'inferiore. Veramente tanto vi fece con la
forza e con le persuasioni, che l'autorità regia vi fu rinstaurata sino
prossimamente a Gaeta, munita di un presidio Francese. Per tale guisa
furono tagliate tutte le strade tra Napoli e Roma. In questo mentre
comparivano le navi Inglesi in cospetto, e mostrarono ai repubblicani,
che la strada del mare era loro interdetta come quella di terra, e che
nissun'altra speranza rimaneva loro, se non quella di un disperato
valore, poichè nella clemenza del vincitore non potevano in modo alcuno
fidare. Avevano innanzi agli occhi il prospetto di Procida isola, nido
allora d'immanità più orribili, che non furono infami le libidini, che
Capri posta in faccia a lei vide ai tempi antichi. Dominava in Procida
sotto l'obbedienza del conte di Turn, uno Speciale, uomo crudele, il
quale quanti repubblicani gli erano mandati prigionieri dal continente,
tanti tormentava con supplizj, ed il più sovente con la morte.
S'aggiungeva a spavento dei repubblicani, che in Napoli si era ordita
una congiura in favor del re da due fratelli Bacher, Tedeschi, che vi
avevano aperto un traffico. Scoperti da una gentildonna, amatrice dello
stato nuovo, per nome San Felice, furono carcerati. Trovaronsi in casa
loro nappe rosse, e bandiere reali. I repubblicani entrarono in gran
sospetto, perchè temevano che vi fosse maggior inclinazione, e che una
parte potente macchinasse congiure.

In estremo tanto pericoloso, in cui non si trattava più di vincere o di
perdere, ma di vivere o di morire, il governo della repubblica ed i
repubblicani facevano ora più, ora meno di quanto i tempi richiedessero.
Già aveva qualche tempo prima, come abbiamo narrato, il governo
decretato, che non solamente fossero e s'intendessero aboliti i diritti
dei feudi, ma che i baroni mostrassero a quale titolo possedessero i
boschi e le bandite, e chi non potesse mostrarne, fosse spodestato, ed i
beni si spartissero fra coloro, a danno dei quali i medesimi diritti
fossero stati usati. Toglieva il diritto di mulenda, voleva che si
vendessero i beni nazionali, rimedj insufficienti, perchè usati
all'estremo, e perchè la ragione, e nemmeno l'utile possono prevalere
contro il furore. I sospetti intanto, anche fra gli uomini della stessa
parte, come avviene nelle disgrazie, davano il tracollo allo stato già
cadente. Questi sospetti accennavano agli uomini stessi che entravano
nel governo, perchè vi erano stati chiamati dai Francesi, parendo ai più
ardenti repubblicani, che in chi era stato dipendente dai forestieri,
non si potesse aver fede sufficiente in quegli estremi della Partenopea
repubblica. Erano sorti in Napoli, come abbiam detto più sopra, parecchi
ritrovi politici, dove, secondo il solito chi manifestava opinioni più
estreme, era più applaudito, e miglior cittadino creduto. Tanto montò la
cosa, e tanta fu la potenza che questi ritrovi si arrogarono, che uno di
essi domandò al governo, che tutti coloro che erano stati nominati dai
Francesi, cessassero dal magistrato, ed in vece loro si surrogassero
buoni, leali e independenti Napolitani. Perchè poi non potesse venir
fatto inganno, misero in campo anche questa, che un magistrato di
censura si creasse, che avesse diritto e carico di scrutinare i membri
del direttorio, e quei del corpo legislativo, e chi fosse stimato
sospetto cassasse, e proponesse in luogo loro cittadini puri ed
incorrotti. Accettò il governo oggimai servo la proposta, e per essa
divenne ancor più servo. Così scioglievasi la società per la
intemperanza, già prima che si disfacesse per la forza; fu creato il
magistrato, un canonico Luparelli d'Adriano fatto suo capo. Questi
creavano, quelli cacciavano, il governo era in mano loro. Instituissi
intanto un tribunale, il cui ufficio fosse di giudicare il crimenlese, e
di cui in nominato presidente Vincenzo Lupo. Entrarono con lui i
repubblicani più vivi. Decretava il direttorio, che quando tirassero tre
volte i cannoni dei castelli, chi a guardia nazionale, od a ritrovi
politici non fosse ascritto incontanente si ritirasse alle sue case
sotto pena di morte, e sotto la medesima pena serrasse le finestre; e
chi nol facesse, e fosse trovato per Napoli dopo i tre tiri, quando non
s'appartenesse a guardia nazionale, od a ritrovi politici, fosse
disarmato, arrestato, ed incontanente, come nemico della patria,
ammazzato. Ai tiri medesimi le guardie nazionali, o chi fosse addetto ai
ritrovi, tostamente accorresse al quartier generale: i quinqueviri, i
legislatori, i ministri andassero ai seggi loro, e chi nol facesse,
fosse ammazzato. Queste cose si facevano con terrore infinito della
città. Ma i repubblicani più vivi, e quelli che avevano in odio ed in
sospetto ogni freno ed ogni governo, viemaggiormente si infierivano. Si
era formato con consentimento del governo, nella casa dell'accademia dei
nobili, un ritrovo, in cui convenivano repubblicani più moderati per
discorrere fra di loro intorno alla salute della patria, e propria. Il
loro fine principale, vedendo il precipizio delle cose, era di
accordarsi, acciocchè nell'ultimo caso trovassero modo di salvar se, e
quelli che sentivano con loro. I capi di quest'adunanza erano uomini
assennati, e le loro intenzioni volte al bene. Ma vennero a congiungersi
con loro, ed essi il consentirono per quell'intento di salvare quanti
repubblicani potessero, gli altri ritrovi sparsi per la città, e
composti di patriotti più ardenti e più immoderati. Ne nacque, che
costoro acquistarono il predominio, e spinsero l'adunanza della casa dei
nobili ad eccessi condannabili.

Sul bel principio mandarono dicendo al corpo legislativo, che Pignatelli
di Monteleone, e Bruno di Foggia, entrambi di esso corpo, erano
aristocrati, perchè avevano reso partito contro la legge dei feudi;
perciò volevano, che, chiesta licenza, se n'andassero, e non guardassero
indietro; quando no, gli avrebbero ammazzati. Deputati a portar
quest'insolente imbasciata furono Luigi Serio, e Gaetano Rossi. Gli
accompagnavano cinquecento arrabbiati con le coltella in mano,
intuonando che venivano per ammazzar Pignatelli e Bruno, se colle buone
non se n'andassero. Fuvvi dentro un gran contrasto, perchè chi voleva
cedere, chi resistere, nè potendo accordarsi se ne volevano riparar alle
case. Ma gli uomini con le coltella intimavano loro, badassero a far
l'ufficio. Poi non contenti al Pignatelli e al Bruno, rintuonarono, che
il Doria ministro di marina, come vile per avere domandato i passaporti,
avesse congedo ancor esso; quando no, l'ammazzerebbero. Non vi era luogo
ad elezione: e però i tre accusati presero congedo da loro medesimi.
Altri magistrati accusavano, e quanti ne accusavano, tanti erano
esclusi, l'adunanza dell'accademia dei nobili dominava: regnava
un'orribile anarchìa. Poi per far vedere, che se atterrivano gli altri,
non avevano paura essi, immaginarono un registro, dove tutti, come
membri dell'adunanza, avessero a scrivere i nomi loro. Scrissergli in
effetto. I più savi consentirono, perchè avendo i nomi di tutti,
speravano di potergli avvertire, quando fosse venuta la necessità del
doversi salvare, per non cadere nelle mani dei regj. Questo registro
divenne poscia, quando i regj si fecero padroni di Napoli, un libro di
morte, perchè, trovato, furono giudicati senza remissione tutti coloro,
che l'avevano segnato coi loro nomi.

In questo mentre niuna cosa lasciavano intentata per infiammare il
popolo. Tutti che portavano il nome di Ferdinando, si sbattezzavano con
dire, che non volevano avere in se cosa, che gli assomigliasse ad un
tiranno. Cassio, Bruto, Timoleone, Armodio, Catone, ed altri simili nomi
andavano per le bocche di tutti. Chi invocava Masaniello, chi il gigante
di palazzo: il Sebeto negl'innumerevoli versi parlava, e prediceva gran
destino alla Partenopea repubblica. Le tragedie di Alfieri, e le più
forti, si recitavano in presenza di un concorso infinito di uditori, e
tratto tratto ecco alzarsi un predicatore: quest'era spesso una persona
civile, e spesso ancora un idiota, o un prete, o un frate, o un laico.
Badate, diceva costui, rivoltandosegli in un momento tutte le genti
intente ad udirlo, badate, diceva, o cittadini, che questo caso è caso
nostro, o fosse di Bruto, o fosse di Virginia, o fosse di Timoleone.
Tutti applaudivano; poi si continuava a recitar la tragedia. Ed ecco un
altro predicatore sorgere, e dire, che bisognava ammazzar tutti i
tiranni: le Napolitane grida andavano al cielo: così tra il predicare e
il recitare si arrivava allo spegnere dei lumi. Fuori poi i discorsi
erano ancor più strani, che nel teatro: le novelle che si spargevano,
sentivano anch'esse dello stravagante. Gli accidenti favorevoli si
esageravano, gli avversi si tacevano; la repubblica era giunta al suo
fine, e molti predicavano, ed alcuni credevano, che fosse per essere
eterna. Eleonora Fonseca scriveva un monitore, giornale, in cui
pubblicava continuamente vittorie di repubblicani, sconfitte di regj,
arrivi di flotte soccorritrici di Francia. In piazza di mercato una
società, che filantropica si chiamava, aveva a cielo aperto rizzato una
scuola per ammaestrar lazzaroni, e per far loro capire, che dolce e
bella cosa fosse la repubblica. Per riuscir meglio nell'intento, si
mettevano alla medesima condizione con loro, ed ora questa, ed ora a
quella taverna andando, se ne stavano con quegl'incolti plebei a piè
pari mangiando e bevendo. Usavano i filantropi anche la religione,
predicando continuamente, che il vescovo d'Imola Chiaramonti aveva con
solenne lettera pastorale inculcato, che le massime democratiche erano
massime del Vangelo, e che per esser buoni democrati bastava esser buoni
cristiani. Per questo avevano fatto opera, che un Michelagnolo Ciccone,
frate, trasportasse il Vangelo in volgar Napolitano, e le massime
democratiche principalmente inculcasse. Esortaronsi i parochi ed i preti
a raccomandare queste massime dai pulpiti, e il fecero. Un Benoni, frate
francescano, uomo nè senza dottrina nè senza eloquenza, in mezzo alla
piazza reale, ed a piè dell'albero della libertà, con un crocifisso in
mano predicava ogni giorno, facendo continue e vivissime invettive
contro il re, contro la famiglia reale, contro la monarchìa. Chiamava
ne' suoi discorsi Gesù Cristo, e i Santi; affermava con parole
efficacissime che tutti furono democrati, che sempre avevano predicato
l'uguaglianza e la fratellevole carità: che sull'uguaglianza e sulla
carità fraterna erano fondati tutti gli ordini monastici, massimamente
quello del serafico padre san Francesco: e quivi infiammandosi dava col
crocifisso la benedizione ai popoli. L'arcivescovo di Napoli ordinava
preci per la repubblica; decretava, che nissuno, che avesse macchinato
la rovina dello stato repubblicano, potesse ottener l'assoluzione, se
non in articolo di morte; chiamava nelle sue pastorali Ruffo scellerato,
impostore, nemico di Dio e degli uomini.

In mezzo a tutto questo, essendo giunto il tempo solito del mese di
maggio, si fece con molta pompa la processione del Santo. I democrati
mandarono dicendo ai custodi, pregassero molto bene, perchè san Gennaro
facesse il miracolo, ed essi molto bene pregarono, ed il sangue in men
che non fa due minuti, si squagliò: gridarono i lazzaroni, san Gennaro
esser fatto democratico.

Ma i rimedi finora raccontati riuscivano insufficienti senza le buone
armi. In questo i repubblicani avevano molta fede in Mantoné, ministro
della guerra, uomo di animo fortissimo, repubblicano gagliardo, e che
appunto pel suo coraggio smisurato errò; egli era per mandato del
governo ordinator supremo di quanto s'appartenesse all'armi, ed alla
difesa della repubblica. Chiamò a se gli ufficiali e soldati, che erano
stati ai servigi del re, offerendo loro vitto e soldo, finchè fossero
descritti in corpi regolari. Ma non potendo l'erario bastare a tanto
dispendio, oltre le tasse, che per quanto si poteva senza mal umore dei
popoli si riscuotevano, poneva mano a rimedi straordinarj. A persuasione
di lui, e per ordine del governo s'invitarono gli amatori dello stato
nuovo ad offerir doni in oro, od argento coniato o vergato, in
sovvenimento della repubblica: fecersi capi di quest'impresa due
gentildonne molto ragguardevoli, tanto per la virtù dell'animo, quanto
per le forme del corpo; andavano per le case, raccomandavano la
repubblica. Di queste pietose donne non tace il nome la storia; furono
le duchesse di Cassano, e di Popoli. Raccolsero tanto denaro, che bastò
per ordinar tre legioni di veterani; si aggiunsero per maggior sicurezza
alcuni nuovi soldati fra coloro, che amavano la repubblica. Dieronsi la
prima a reggersi a Schipani, la seconda ad Ettore di Ruvo, la terza ad
un Belpuzzi, che aveva veduto le guerre di Buonaparte. Marciavano
Schipani contro Sciarpa, Ettore contro Proni, Belpuzzi contro Ruffo. Per
sicurezza poi di Napoli, Mantoné ordinava meglio la guardia urbana, e
tentava di accalorarla in favore della repubblica. Le diede armi e
bandiere con pompa solenne, e per generale primo Bassetta, per secondo
Gennaro Serra, per terzo Francesco Grimaldi e Antonio Pineda, uomini
valorosi, e nei quali con tutto l'animo confidava. Per avvezzarla agli
usi di guerra, la faceva armeggiare ogni giorno. Commetteva alla fede
del generale Federici la custodia di Napoli, a Massa Castelnuovo, al
principe di Santa Severina castel dell'Uovo. Buoni ordinamenti erano
questi, ma la guerra più forte di loro; nè Mantoné o che non sel
credesse egli pel gran coraggio che aveva, o che s'infingesse per non
ispaventare, non aveva fatto provvedimenti più gagliardi. E siccome era
sempre riuscito vincitore contro i regj, che si erano mossi contro la
repubblica prima che il cardinale si muovesse, aveva questo moto il
cardinale in piccolo concetto, e non pensava, che fosse per avere un
fine diverso da quello, che i primi avevano avuto. Per la qual cosa si
persuadeva, che le legioni create fossero bastanti a frenare i regj
nelle provincie, e ritornarle sotto l'obbedienza del governo popolare.
Ma ebbe la guerra assai diverso successo; perchè Belpuzzi, conoscendo la
impossibilità di far fronte ai regj, che d'ogn'intorno uscendo dai
boschi, e calando dalle montagne, l'infestavano, abbandonata l'impresa,
se n'era ritornato a Napoli. Ferocemente aveva combattuto negli Abruzzi
Ettore di Ruvo, ma assalito ed attorniato da un numero di nemici molto
superiore, fu costretto a cercar ricovero contro il furore dei sollevati
dentro le mura di Pescara. Schipani rotto da Sciarpa, per ultimo rifugio
si era ritirato a Napoli. Così Ruffo vincitore in ogni parte, inondando
con le sue genti tutto il paese all'intorno, si era avvicinato alla
capitale. Vide allora Mantoné, che i moti del cardinale erano per
risolversi non in romori, ma in effetti, che la fortuna minacciava, e
che i rimedi ordinari più non bastavano. Preparavasi ad uscir egli
stesso contro il nemico con sei mila soldati; creò primieramente per
custodia di Napoli una legione di fuorusciti Calabresi, i quali, perchè
parteggiavano per la repubblica, cacciati a furia dalle case loro per le
armi di Ruffo, si erano riparati nella capitale, uomini fieri,
bellicosi, arrabbiati per le ingiurie recenti. I loro compatriotti, che
militavano col cardinale, si mostravano disposti a far cose enormi pel
re, ma essi erano risoluti a farne per la repubblica delle ugualmente
enormi. Erano nel novero di due mila: e perchè ognuno fosse chiaro di
quanto valevano, e di quanto si proponevano, pubblicarono, fra le altre,
queste parole: «Noi vogliamo sangue; noi cerchiam morte; darla, o
riceverla è per noi tuttuno: solo vogliamo, che la patria sia libera, e
noi vendicati». Rispondeva loro Mantoné: «Compiacersi nel vedere quei
moti generosi degli animi loro, nè poter perire la repubblica, che eroi,
come eglino, aveva per difensori».

Erano preti, laici, nobili, plebei, poveri per fortuna, poveri per
esiglio; nè volevano dare od avere perdono. Mantoné diè loro in guardia
il quartiere di Castel nuovo. Poi detto al principe di Roccaromana, che
si dimostrava molto dedito al nuovo governo, creasse un reggimento di
cavalli nei contorni di Napoli, egli il faceva.

Partiva Mantoné da Napoli, non senza esimio apparato per impressionar
quel popolo, di cui l'immaginare è tanto forte. Era la contrada di
Toledo, per dove le partenti truppe passavano, tutta parata in addobbo:
la guardia nazionale a piedi schieratasi in fila, quella a cavallo sulla
piazza, i regolari rimpetto a Castel nuovo. Seguitavano i prigionieri
fatti nella conquista di Castellamare, che preso ai tempi precedenti per
una fazione improvvisa dai regj, e dagl'Inglesi, era stato con mirabile
prontezza ripreso da Macdonald. Si vedevano le insegne polverose e
lacere dagli stromenti di guerra, che ai dì più felici per loro avevano
i cattivi portate: suonavano a festa le trombe, suonavano i tamburi. I
prigioni con le mani legate al dorso, aspettavano pallidi e tremanti la
morte. Le bandiere si gettavano a piè dell'albero della libertà: i
prigioni condotti a quel tronco, si apprestavano all'ultimo momento; la
lugubre scena muoveva i cuori a compassione; aspettavasi ognuno vedere
balzar a terra le teste tronche, quand'ecco un gridarsi grazia da ogni
lato: soldati e cittadini ugualmente nel pietoso grido si accendevano.
Gli scampati da morte certa, a vita certa risorti, ringraziavano con
atti di gratitudine le accolte turbe, baciando l'albero, e _viva la
libertà_ gridando. Incontanente da compassionevoli e pie donne fu fatta
questua, acciocchè coloro, cui la benignità dei repubblicani aveva
salvato, potessero ritornare, come loro fosse a grado, alle patrie loro.
L'atto umano pareva promettere dolce destino alla repubblica, perchè la
pietà abbellisce i pensieri dell'uomo, e dà speranza, perchè sa di
meritar premio. Restava, che, com'era il disegno, si ardessero le
insegne regie, ma i democrati impazienti le laceravano a gara, e diedero
i pezzi in mano a ciascun soldato: i soldati gli appendevano alle punte
delle bajonette, gridando tutto all'intorno in quel mentre infinite
voci, _muojano i tiranni_, _viva la repubblica_!

Mantoné, condotte le repubblicane squadre alla campagna, sbaragliava e
fugava facilmente i corridori dell'esercito regio; ma quando più oltre
si fu spinto, si accorse, che per lui, nè pe' suoi altro scampo non
restava, se non quello di tornarsene prestamente là, dond'era venuto. Il
suo ritorno in Napoli costernava le genti: per ultima speranza
aspettavano quello che fosse per partorire il valore di Schipani; ma
ebbero tosto le novelle, ch'egli, che per aver udito la ritirata di
Mantoné, si era condotto alla torre dell'Annunziata, combattuto quivi
aspramente dai Russi, dai regj, e da una parte de' suoi soldati medesimi
mutatisi a favore del re, era stato preso, dopo di aver veduto lo
sterminio quasi intiero de' suoi compagni. Sentissi a questo momento
ancora, che Roccaromana aveva bene levato ed ordinato, siccome dal
ministro ne aveva avuto il carico, il reggimento di cavalli, ma che
invece di farlo correre in ajuto dei repubblicani, l'aveva condotto al
cardinale, dal quale aveva avuto le grate accoglienze. Il precipizio era
evidente: tolta tutta la campagna, ed insultando già da ogni parte le
genti del cardinale vincitore, tutta la difesa della repubblica, e di
tanti uomini che avevano seguitato la sua fortuna, era ridotta nella
sola città di Napoli, non sicura, nè per concordia di cittadini, nè per
nervo di soldati. Non si trattava più di vincere, ma solo di conseguir
patti, onde, sfuggita la morte, si acquistasse facoltà di andar esulando
per terre inconsuete e lontane. Decretava il direttorio, essere la
patria in pericolo. Ritiravasi col corpo legislativo ai castelli Nuovo,
e dell'Uovo: quel di Sant'Elmo più forte, e che dominava Napoli, era in
mano del presidio Francese lasciatovi da Macdonald: un terrore senza
pari occupava le menti. La legione Calabra sola non si spaventava,
perchè dal vivere al morire, purchè si vendicasse, non faceva
differenza. Parte stanziava in Napoli, parte presidiava il castello di
Viviena, per cui Ruffo doveva passare per venir a dar l'assalto alla
città dal lato del ponte della Maddalena. Si risolvevano i repubblicani
a morire da uomini forti: Spartani volevano essere, e Spartani furono:
ma gli Spartani avevano uno stato ed una patria, essi non avevano più nè
l'una ne l'altra. Perciò perirono senza frutto, in ciò molto più da
ammirarsi, che gli Spartani non furono, perchè erano sicuri, che
quell'invitta virtù non solamente non sarebbe proseguita con laude nel
paese loro, ma ancora vi avrebbe incontrato il biasimo. Udissi tutt'ad
un tratto nella spaventata Napoli un romore, come di tuono; tremò la
terra; pure il Vesuvio non buttava: veniva dal forte di Viviena. Lo
aveva il cardinale con tutte le sue forze assaltato: vi si difenderono i
Calabresi, non come uomini, ma come lioni. Pure i regj, combattendolo da
tutte parti con le artiglierìe, l'avevano smantellato, e non una, ma più
brecce, e piuttosto una ruina di tutte le mura apriva l'adito ai
vincitori. Entraronvi a forza ed a furia: gente disperata ammazzava
gente disperata, nè solo i vinti perivano. Nissuno s'arrendè, tutti
furono morti: date, a chi gli uccideva, innumerevoli morti. Restavano
una mano di pochi: la rabbia gli trasportava; feriti ferivano,
minacciati ferivano, ammoniti dello arrendersi ferivano. Pure l'estrema
ora giungeva. Anteponendo la morte di soldato alla morte di reo, nè
sofferendo loro l'animo di venir in forza di coloro, che con tanta
rabbia abborrivano, un Antonio Toscano, che gli comandava, e che già
stava con mal di morte per le ferite e pel sangue sparso, strascinossi a
stento, e carpone al magazzino delle polveri, e con uno stoppaccio
acceso postovi fuoco, mandò vincitori, vinti, e rovinate mura all'aria:
atto veramente mirabile, e degno d'eterna memoria nei secoli. Tutti
perirono; questa fu la cagione del tuono, e dello spavento di Napoli.
Ruffo, espeditosi dall'intoppo del forte, passava, e si accingeva a dar
l'assalto alla capitale da tre bande, al ponte della Maddalena, al canto
di Forìa, ed a Capodimonte; ma il principale sforzo era alla Maddalena.
I repubblicani carcerarono come ostaggi alcuni sospetti, e condussero in
castel Nuovo, ed in Castel dell'Uovo un fratello del cardinale, ed i
parenti degli ufficiali dell'esercito regio. Passarono per le armi i
fratelli Bacher con quattro lazzaroni mescolati in congiure. Poi partiti
in tre schiere se ne givano contro Ruffo. Writz gli conduceva alla
Maddalena, Bassetta a Forìa, Serra a Capodimonte. Caracciolo con le navi
sottili accostatosi al lido, batteva di fianco le genti del re.
Animavansi con vicendevoli conforti l'un l'altro: quella essere l'ultima
fatica loro, o morte, o vittoria; dover lasciare un testimonio al mondo
di quanto possa la virtù, che vuole la libertà; vita di servi non esser
vita; non esser morte lo scampare dalla servitù; e se dai fati contrarj
era fisso, che l'opera loro non potesse più giovare alla libertà ed alla
patria, gioverebbe almeno la memoria. Con queste voci diedero dentro ai
regj: sorse una furiosissima zuffa alla Maddalena: repubblicani e regj
eleggevano piuttosto il morire, che il cedere. Dalla parte dei primi
Luigi Serio, vecchio di sessant'anni, combattendo nella prima fronte con
un suo nipote, e con una gioventù indomita, che animava con l'esempio e
coi conforti, fu morto, e con lui il nipote ed i giovani. Writz,
Svizzero, valorosamente travagliandosi con tutte le sue forze in pro
dell'adottiva patria, ora qual generale comandando, ed ora qual soldato
combattendo, faceva dubbia la vittoria. Finalmente ferito di piaga
mortale, e portato in castel Nuovo, quivi mandava fuori l'ultimo
spirito.

I repubblicani, massimamente quei Calabresi inferociti, non punto
sbigottitisi alla morte del loro prode e fedele capitano, continuavano a
menar le mani, ed a tener lontani dalle dilette mura le genti regie. Dal
canto loro Bassetta e Serra ottimamente facevano il debito loro. Non
inclinava ancora la sorte da alcun lato, perchè prevalevano i
repubblicani di rabbia, ed avevano il vantaggio del luogo: i regj
sopravanzavano di numero, e di truppe regolari. Mentre così stava dubbia
la lance, ecco sorgere grida di _viva il re_ alle spalle dei democrati.
Erano una moltitudine di lazzaroni, che stimolati dai partigiani del
governo regio, si levarono a romore. Rivoltaronsi addosso a loro i
repubblicani, e gli ammazzarono tutti. Ma Ruffo, usando l'occasione che
gli si era aperta, perchè i nemici assaliti alle terga avevano rimesso
dalle difese, entrava per viva forza, ed inondava la città, solo a lui
contrastando quei Calabresi indomabili. Quivi il raccontare le cose che
seguirono, parrà certamente impossibile, se si farà a considerare quella
rabbia immensa, le ingiurie fatte, il sangue sparso, il sangue caldo, la
natura estrema di quei popoli, l'immanità della più parte dei
combattenti, da nissuna civiltà temperata. Primieramente, il castello
del Carmine, che domandava i patti, fu preso per assalto, e tutto il
presidio senza pietà passato a fil di spada. Carnificina più grande e
più orribile si faceva per le contrade. Vi si uccidevano gli uomini a
caccia per diletto, come se fossero stati fiere; nè età, nè sesso, nè
condizione, nè grado si risparmiavano. Uccidevansi i repubblicani per
odio pubblico, i non repubblicani per odio privato; nè quei carnefici si
contentavano di uccidere, che ancora volevano tormentare. Varj erano i
generi delle morti: il ricco ammazzato sugli atrj de' suoi palazzi, il
povero sulle scalee, e sulle porte delle chiese: chi era lacerato,
vivente ancora, a brani a brani, chi strangolato, chi arso. Ardevano qua
e là orribili roghi, e gli uomini gettati a furia dentro, vi si
abbruciavano. Godevano i barbari, a guisa di veri cannibali, e facevano
le loro tresche, le loro grida, le loro danze festevoli intorno. Un
prete venuto con Ruffo, si vantava di aver mangiato carni di
repubblicani abbrustolite. Si spargeva voce ad arte da coloro che si
dilettavano degli oltraggi e del sangue, che i repubblicani avevano sui
corpi loro stampata l'immagine della libertà. Per questo, prima di
uccidergli, i meno impetuosi all'ammazzare, gli spogliavano, e così
spogliati in mezzo agl'improperj ed alle battiture gli conducevano per
la città. Donne virtuose e pudiche, e pel grado loro ragguardevolissime,
furono barbaramente e fra gli scherni di una ignobil plebe condotte a
questo supplizio, in cui il manco era il dolore del corpo. Vedeva Ruffo
queste cose, e non volle o non potè frenarle. Cercavano e chi era reo, e
chi era innocente di repubblica, scampo a furore tanto barbaro. Chi
fuggiva in abito di donna, e questo ancora nol salvava; chi fuggiva
sotto cenci da lazzarone, e non si salvava. Ma quelli, a cui la fortuna
aveva aperto uno scampo per le contrade, gliel toglieva per le case;
conciossiachè i padroni ne gli cacciavano, sapendo, che se gli
ricettassero, le case loro sarebbero saccheggiate ed incese, ed essi
uccisi. Vidersi fratelli chiuder le porte ai fratelli, spose a sposi,
padri a figliuoli. Fuvvi un padre, il quale per dimostrare il suo amore
pel re, scoperse, e diè in mano il proprio figliuolo alla furibonda
plebe, comperando in tal modo la salute propria col sangue della sua
creatura. Risospinti dalle case i miseri perseguitati si nascondevano
nelle fogne, donde di notte tempo e di soppiatto uscivano, cacciati
dalla fame e dalla puzza. Se ne accorsero i lazzaroni; si mettevano in
agguato alle bocche, come se aspettassero fiere al varco, e quanti
uscivano, tanti ammazzavano. Felice chi moriva senza tormenti. Come se
la ferocia di quella plebe senza freno avesse bisogno di maggiore
stimolo, le si fe' credere, che i repubblicani avessero risoluto
d'impiccare, se avessero potuto, la sera del giorno precedente tutti i
lazzaroni. Fu olio a fiamma. Cercarono diligentemente in tutte le case;
e sfortunata quella, in cui fosse rinvenuta o corda, o spago, o simili:
dicevano, essere i capestri apprestati; onde senz'altro dire
tormentavano, saccheggiavano, uccidevano. Un Cristoforo macellaro, che
per uso del suo mestiere aveva corde in casa, fu straziato con orribili
tormenti, poi la sua testa tronca portata a dileggio di popolo sopra la
punta di una bajonetta per la città: l'avevano cinta tutta di corde, e
gridavano, esser miracolo di sant'Antonio (correva appunto la festa di
questo santo) perchè si era dato voce, che il santo fosse stato quello,
che avesse rivelato a scampo dei lazzaroni il tradimento dei capestri.
Dichiararono sant'Antonio protettore di Napoli, e degradarono san
Gennaro come giacobino, e protettor di giacobini. Pensi il lettore quale
immagine di città fosse quella, in cui una plebe barbara correva per le
contrade e per le case, mescolando gli scherni alle crudeltà, ed in cui
si ardevano uomini vivi, e le carni loro si mangiavano. Qualche
consolazione arreca all'animo sconfortato dal vedermi un volto simile a
quello di queste fiere, il pensare che atti generosi sorsero in mezzo a
tale desolazione; perchè non mancarono padroni di casa che a pericolo
degli averi e delle persone loro scamparono da morte le vittime
destinate. Durò lo stato orribile due giorni. Infine si risolvè il
cardinale, o perchè la umanità finalmente il movesse, o perchè volesse
attendere all'assedio del castelli, fazione impossibile a tentarsi in
tanto scompiglio, a frenare il furore dei suoi; Napoli atterrita per le
morti, diventò lagrimosa pei morti.

Restavano ad espugnarsi i castelli, a questa espugnazione applicò
l'animo il cardinale, piantò una batterìa nella contrada di Toledo per
battere i repubblicani, che avevano un alloggiamento a San Ferdinando,
una all'Immacolata per battere castel Nuovo, ed una terza alla punta di
Posilippo per battere quel dell'Uovo, che sebbene sia poco altro che una
vecchia casa a guisa di fortezza, è di gran momento pel suo sito;
perciocchè chi ne è padrone può battere con vantaggio, ed impadronirsi
di castel Nuovo. Veduto il pericolo, i repubblicani che erano dentro a
castel dell'Uovo si accordavano con quelli di castel Nuovo, e di
Sant'Elmo per fare tutti uniti una fazione notturna contro la batterìa
di Posilippo. Accozzavansi le due colonne uscite da castel Nuovo e da
castel dell'Uovo, ma quando giunsero alla strada che salendo mette a
Sant'Elmo, scambiarono in mezzo all'oscurità della notte per nemici
quella dei loro compagni, che scendeva della fortezza. Si diè mano da
ambe le parti al trarre, furonvi parecchi morti di qualità dalle due
bande: ciò fu cagione di molto spavento. Finalmente riconosciutisi gli
amici con gli amici, e riunitisi, e ripreso animo, se ne andarono con
incredibile audacia alla fazione. Tanto fu l'ardire e la prestezza loro,
che uccise le guardie, e sopraggiungendo improvvisi alla batterìa, la
presero, arsero i carretti, chiodarono i cannoni, e tornarono sani e
salvi ad incastellarsi. Le truppe di Ruffo sorprese, e spaventate a sì
inopinato accidente, si davano alla fuga; già il cardinale aveva messo
all'ordine i carri, e la sua carrozza stessa per andarsene. Ma accortosi
della pochezza del nemico, e che i repubblicani già si erano riparati ai
castelli, se ne rimase, continuando nell'opera dell'espugnazione. Dalla
parte loro i repubblicani conobbero, che stante il numero soprabbondante
dei nemici che gli combattevano, e le popolazioni contrarie, niuna
speranza rimaneva loro della vittoria. Perciò consultarono fra di loro,
se dovessero tentar la fuga con aprirsi con le armi in mano il varco fra
i nemici. Un Renzi, vecchio ufficiale di molto valore, e il principe de
Gennaro altro ufficiale di gran cuore, che s'apparteneva ancor esso alla
truppa assoldata, opinava pel tentativo. Una contraria sentenza
manifestarono altri, o meno confidenti nella impresa loro, o più nella
clemenza del vincitore. Con questi assentiva massimamente Ignazio Ciaja,
che solito ad abbellire colla innocente e placida fantasia tutte le
umane cose, abbelliva ancora quell'estrema sventura. A costoro non
sofferiva l'animo il lasciar fra le mani di un nemico crudele i vecchi,
le donne, ed i fanciulli, che avevano in sì lagrimevol caso seguitato la
fortuna loro. Prevalse la opinione di questi ultimi, nè si fece più
motivo alcuno per iscampare: solo attesero, il meglio che poterono, alla
difesa dei castelli, ed a star pazienti ad aspettare che cosa portassero
i fati a salute od a rovina loro.

La fazione della punta di Posilippo, la ferocia dei repubblicani
Calabresi, l'atto disperato del comandante di Viviena, ed il coraggio
smisurato dimostrato in tutti i fatti dei democrati avevano dato molto a
pensare a Ruffo: si era persuaso, che senza molto sangue, e forse senza
lo sterminio di tutta la città non avrebbe potuto riuscir a fine della
sua impresa. Il castel Sant'Elmo avrebbe potuto, dominando Napoli,
ruinarlo da capo in fondo. Questo castello era per verità in mano dei
Francesi, e particolarmente del comandante Mejean, col quale il
cardinale aveva avuto qualche pratica, e sopra cui se ne viveva con
molta sicurtà. Ma vi erano anche non pochi Napolitani, amatori della
repubblica, i quali, uomini disperati essendo, ed in caso disperato
ritrovandosi, potevano facilmente fare qualche risoluzione molto
pregiudiziale a Mejean medesimo, ed alla città. Oltre a ciò avevano i
repubblicani in mano loro nei castelli i prossimi congiunti del
cardinale, nè poteva restar dubbio, stante la rabbia loro, e le mortali
ingiurie corse fra le due parti, che nell'ultimo furore non
gl'immolassero, ove l'estremo dei tempi fosse arrivato. Finalmente
consideravano gli alleati, massimamente gl'Inglesi, che cooperavano alla
conquista di Napoli col cardinale, che si erano ricevute novelle
dell'essere uscita al mare la flotta di Brest, e comparsa allo stretto
di Gibilterra, donde le era facile navigare nelle acque di Napoli, e
condurre a mal partito le navi Inglesi, che stanziavano all'isola di
Procida, e nel mare vicino. Considerate, e maturamente ponderate tutte
queste cose, stimando, che non si convenisse mettere i repubblicani
nell'ultima disperazione, si deliberarono gli alleati ad offerir loro
patti, perchè i castelli e la città si conservassero salvi, e fosse
rimosso il pericolo, che sovrastava al navilio d'Inghilterra. Il
cardinale per mezzo del comandante di Sant'Elmo mandò dicendo ai
repubblicani, che se volessero patteggiare, vi si sarebbe volentieri
risoluto. Rappresentò loro Mejean quello, che era vero, cioè che oramai
ogni difesa era inutile, e che migliore e più savio partito era il
serbar la vita a tempi migliori per la repubblica, che il perire senza
frutto per lei: accettassero i patti, esortava, che loro si venivano
offerendo. I repubblicani, consultato fra di loro, inclinarono l'animo
al partito più ragionevole, e risolvendosi al trattare, proposero in un
modello scritto le condizioni per mezzo delle quali promettevano di
lasciare castel Nuovo, e castel dell'Uovo, non potendo stipulare per
Sant'Elmo, come in potestà di Francia. Parvero sulle prime al cardinale
le condizioni superbe, penava al ratificarle. Infine strignendo il
tempo, temendo vieppiù della vita de' suoi congiunti, e moltiplicando
gli avvisi dello avvicinarsi della flotta Francese, con pari
consentimento degli alleati si risolvette ad accettarle. Furono
quest'esse: fossero Castelnuovo, e castel dell'Uovo dati in potere dei
comandanti del re delle due Sicilie, e dei suoi alleati il re
d'Inghilterra, l'imperatore di tutte le Russie, e la Porta Ottomana, e
così parimente ad essi fossero consegnate le munizioni da guerra e da
bocca con le artiglierìe, ed altri arnesi, che si trovassero nei forti;
uscisse il presidio onorevolmente a modo di guerra; le persone e le
proprietà, sì mobili che stabili, di ognuno che si appartenesse ai due
presidj, si serbassero salve ed inviolate; potessero le persone medesime
ad elezione loro imbarcarsi sopra bastimenti di tregua, che loro
sarebbero forniti, per essere trasportate a Tolone, o potessero ancora
rimanersi in Napoli, dove nè esse nè le famiglie loro potessero a modo
niuno essere molestate; le medesime condizioni fossero, e s'intendessero
concedute a tutti coloro fra i repubblicani che nelle battaglie
succedute fra loro, e le truppe del re, o de' suoi alleati fossero stati
fatti prigionieri; l'arcivescovo di Salerno, i cavalieri Micheroux e
Dillon, ed il vescovo d'Avellino ditenuti nei castelli, si consegnassero
al comandante di Sant'Elmo, e vi restassero come ostaggi, insino a tanto
che si avessero le novelle certe dell'essere i repubblicani arrivati a
Tolone; tutti gli altri ostaggi o prigioni per ragion di stato, si
rimettessero in libertà, tosto che la capitolazione fosse sottoscritta;
non isgombrassero i repubblicani dai castelli, se non quando ogni cosa
fosse presta all'imbarcargli. Fu la capitolazione approvata, e
sottoscritta dal cardinal Ruffo in qualità di vicario generale del
regno, da un Kerandy per l'imperatore di tutte le Russie, da un Bonieu
per la Porta Ottomana, e da un Foote pel re d'Inghilterra. Non s'indugiò
a dar mano all'esecuzione dei patti. Da una parte gli ostaggi nominati
dai repubblicani si condussero in Sant'Elmo, dall'altra entrarono i regj
nei due castelli. Il cardinale, a nome del re, e come vicario generale
del regno di qua dal Faro, pubblicò per tutto il reame un editto, per
cui perdonava ogni colpa e pena ai repubblicani, promettendo piena ed
intiera salute a tutti coloro che restassero, e facoltà d'imbarcarsi per
Marsiglia a tutti quelli che amassero meglio, lasciando la patria,
andarsi a vivere in lontane e forestiere contrade. Mandava espressamente
il trattato a Pescara, in cui tuttavia si teneva Ettore di Ruvo,
affinchè cedesse la piazza a Proni, e se ne venisse con tutti i suoi a
Napoli, scortato per sua sicurezza dai regj.

I repubblicani intanto s'imbarcavano. Due navi portatrici di quei di
Castellamare, avendo avuto facoltà di uscire, già erano arrivate a
salvamento nel porto di Marsiglia. Le altre aspettavano la facoltà
medesima, e i venti prosperi. In questo punto ecco arrivare Nelson:
aveva egli udito, essere la flotta Francese ricoverata ne' suoi porti;
trovandosi per questo esente da timore, passato prima per Palermo, e
levatone il re, il ministro Acton, Hamilton, ambasciadore d'Inghilterra,
ed Emma Liona, sua donna, dico sua per non dire non sua, aveva voltato
le vele verso i lidi d'Italia. Non così tosto dalla sanguinosa Napoli si
scoprivano le navi d'Inghilterra, che il cardinale mandava a Nelson
deputati, per informarlo delle cose fatte, e dei patti stipulati.
Rispose l'ammiraglio, non doversi il trattato concluso coi ribelli
mandare ad esecuzione, se prima il re non l'avesse appruovato; risposta
veramente incomportabile. Certamente i repubblicani erano rei d'atroci
ingiurie verso il re, ma pure avevano pattuito con coloro, che il re
medesimo e l'Europa quasi tutta avevano mandato con facoltà di pattuire.
Certo nel trattato nissuna riserva di ratifica era stata fatta, ma egli
era finale ed assoluto. S'aggiunge, che i patti erano stati offerti dal
cardinale e dai confederati, e non domandati dai repubblicani. Il non
osservargli dava al fatto dell'avergli offerti, apparenza d'insidia. Di
tale risoluzione fu molto dolente il cardinale, che non voleva essere
disprezzatore delle sue promesse, e per fare che la fede data si
osservasse, andò egli medesimo a bordo della nave dell'ammiraglio, con
efficacissime parole esortandolo a consentire. Ma l'Inglese, come se
temesse, che la umanità e la fede contaminassero le vittorie, non si
lasciò piegare; anzi non potendo rispondere agli argomenti ed alla
facondia del cardinale, scusandosi con dire che non sapeva la lingua
Italiana, prese la penna, e scrisse da vittorioso la crudele sentenza.
Perchè poi non resti ignoto ai posteri il quanto di vituperio sia stato
mescolato in queste sanguinose rivolture, io non posso omettere dal
debito di narrare, che Emma Liona era presente, quando Nelson
contrastava al cardinale, ed ordinava le uccisioni. Se qualcheduno fra
chi mi leggerà, sarà per dire, ch'io dico cose troppo gravi, attenda,
che nè voglio, nè debbo, nè posso tacerle; perchè se i vizj si biasimano
negli umili, non so perchè non si debbano biasimare nei grandi: che se i
grandi pretendono che non è bene che si dicano i loro peccati, dirò, che
sarebbe molto meglio, che non gli commettessero. So che la moderna
adulazione trascorse tant'oltre, che si va affermando, che ogni virtù è
in chi è ricco, o potente, o glorioso, ed ogni vizio in chi è il
contrario: per me credo, che la verità in tutto debba aver luogo, e che
più debbano pubblicamente biasimarsi i grandi quando fan male, che gli
umili, perchè i vizj dei primi sono più negli occhi degli uomini, e
servono d'esempio. Nelson trapassando dal detto al fatto, ed entrando
nel porto con la flotta, dichiarava prigionieri i repubblicani usciti in
virtù della capitolazione dai castelli, sì quelli che già si erano
imbarcati, e non ancora partiti, e sì quelli che non peranco si erano
riparati alle navi. Perchè poi dubbio alcuno non potessero avere del
destino che gli aspettava, gli fece incatenare due a due, e riporre in
fondo alle navi. Nè contento al tenergli, gli lasciava bersaglio ad ogni
oltraggio, e stremava loro i viveri. Pure noveravansi fra di loro
uomini, se si eccettuano le opinioni ed i fatti politici in cui
consisteva la colpa loro, molto ragguardevoli per dottrina, per
legnaggio, e per virtù. Bastava bene ammazzargli, senza trattargli come
vili assassini di strada. A tanto di barbarie si è lasciato trasportare
un ammiraglio d'Inghilterra. Furono questi portamenti di Nelson dannati
da tutti gli uomini diritti e dabbene, perchè, oltrechè se non si voleva
trattare coi ribelli, necessaria cosa era il dichiararlo prima, non dopo
la capitolazione, sapeva l'ammiraglio, che non senza compenso ed utile
sì del re, che degli alleati, e particolarmente dell'Inghilterra era
stata la dedizione dei castelli, perchè per lei e furono conservati
intieri i castelli, e conservata salva Napoli, e rimosso il pericolo che
i Francesi, dei quali egli medesimo stava in apprensione, arrivando con
l'armata loro, non conducessero a qualche mal termine le cose dei
confederati. Adunque i repubblicani avevano ricompro le vite loro con la
concessione di questi vantaggi, i confederati avevano consentito, ed a
queste condizioni medesime, e non altrimenti erano entrati in
possessione dei castelli. Brutto certamente procedere si è quello di
accettare, e di usare i vantaggi stipulati in una convenzione
bilaterale, e di non volerne accettare ed adempire i carichi; ma più
brutto è, quando il non adempirgli importa umano sangue. Lodisi da chi
vuole il vincitore di Aboukir e di Trafalgar; ma noi, a cui più piace il
giusto e l'umano che l'ingiusto ed il glorioso, non possiamo non
mandarlo alla posterità, se non come uomo che ruppe fede agli uomini per
ammazzargli. Il re, che era sul vascello inglese il Fulminante, non
sofferendogli l'animo di vedere i supplizi che si preparavano, se ne
tornava in Sicilia. Rimase il campo libero a chi voleva sangue.

Conquistati i castelli di castel Nuovo e di castel dell'Uovo attesero
gli alleati all'acquisto di Sant'Elmo, il quale oppugnato gagliardamente
qualche giorno venne in mano loro, essendosi il comandante Mejean arreso
a patti. Stipulossi fra le due parti, che la guernigione Francese
sarebbe prigioniera di guerra del re, e de' suoi alleati; che non
servisse contro di loro, finchè non fosse scambiata; che sotto fede si
conducesse sopra bastimenti regj in Francia. Quanto ai sudditi del re,
che si trovavano nel forte, si convenne che si consegnassero in mano
degli alleati. Mejean non potrà sfuggire il carico di aver consentito a
quest'ultimo capitolo; perchè se primo suo pensiero era, e doveva essere
di salvar i Francesi suoi compagni, e se a tali estremi era giunto che
della salute dei repubblicani, che si eran rimessi nella sua fede, non
potesse richiedere gli alleati, debito suo era almeno, seguitando
l'esempio dei comandanti di Torino, d'Alessandria, e di Cuneo, lasciare
che gli alleati quegli uomini da immolarsi si prendessero da per se
stessi, non obbligarsi col suo nome sottoscritto a consegnargli.
Maggiore biasimo eziandio meritano Tommaso Trowbridge, capitano
comandante la nave Inglese il Culloden, e il capitano Baillie,
comandante le truppe dell'imperatore delle Russie, per avere richiesto e
stipulato, che i repubblicani si consegnassero agli alleati; perchè
farsi dar uomini per dargli in mano al boja, era cosa del tutto indegna
di uffiziali di Russia e d'Inghilterra. Potevano bene stipulare, ed
avrebbe bastato, che fossero dati in mano degli agenti Napolitani. Si
aggiunse a patti crudeli una esecuzione più crudele. I repubblicani
travestitisi a modo di soldati Francesi, per istare alla fortuna, se non
fossero riconosciuti, di salvarsi, essendo riconosciuti, ed anzi
indicati da chi gli doveva preservare, vennero in poter di coloro che
tanto agognavano il sangue loro; spettacolo miserabile, che commosse a
compassione molti degl'inimici.

S'arrendevano in questo alle armi regie Capua e Gaeta, non fatta difesa
alcuna d'importanza. Così tutto il regno tornò all'antica divozione, ma
rotto, sanguinoso, pieno d'incendj, di rapine, di sdegni e di vendette.
Incominciavansi i supplizj, l'infuriata plebe imitava; l'uccidere per
tribunali era accompagnato dall'uccidere per anarchìa. Non a età si
perdonava, non a sesso, non a grado. Le donne come gli uomini,
giovanetti di sedici anni come vecchi di settanta furono uccisi sui
patiboli: fanciulli di dodici condannati all'esilio, e dove in nome
della legge giuridicamente non si poteva condannare, arbitrariamente si
condannava. Un Fiori, un Guidobaldi già altrove nominato, un Damiani, un
Sambuci, e massimamente uno Speciale, già stato ordinatore dei supplizj
di Procida, erano gli stromenti della barbarie. Piange ancora Napoli, e
piangerà lungo tempo i tremendi effetti del furor di costoro, e di
coloro a cui piacevano. I più chiari, i più virtuosi s'immolavano i
primi. A tanta immanità si aggiungeva nei repubblicani rabbia a coraggio
per modo che dissero, e fecero morendo cose degne di eterna memoria.
Fora troppo lunga e lagrimevole istoria il raccontare tutti i supplizj;
toccheremo solo i principali, e da essi potranno i posteri argomentare,
quanta virtù sia stata tolta a Napoli dalle discordie civili.

Mario Pagano, al quale tutta la generazione risguardava con amore e con
rispetto, fu mandato al patibolo dei primi: era visso innocente, visso
desideroso di bene; nè filosofo più acuto, nè filantropo più benevolo di
lui mai si pose a voler migliorare quest'umana razza, e consolar la
terra. Errò, ma per illusione, ed il suo onorato capo fu mostrato in
cima agli infami legni, sede solo dovuta ai capi di gente scellerata ed
assassina. Non fe' segno di timore, non fe' segno di odio. Morì qual era
vissuto, placido, innocente e puro. Il piansero da un estremo all'altro
d'Italia con amare lagrime i suoi discepoli che come maestro e padre, e
più ancora come padre che come maestro il rimiravano. Il piansero con
pari affetto tutti coloro che credono che lo sforzarsi di felicitare la
umanità è merito, e lo straziarla delitto. Non si potrà dir peggio
dell'età nostra di questo che un Mario Pagano sia morto sulle forche.
Domenico Cirillo, medico e naturalista, il cui nome suonava onoratamente
in tutta l'Europa, non isfuggì il destino di chi ben ebbe amato in tempi
tanto sinistri. Richiesto una prima volta di entrare nelle cariche
repubblicane aveva negato perchè gl'incresceva l'allontanarsi delle sue
lucubrazioni tanto gradite di scienze benefiche e consolatorie. Gli
fecero una seconda volta suonare agli orecchi il nome, e la necessità
della patria. Lasciossi, come buon cittadino, piegare a queste novelle
esortazioni. Eletto del corpo legislativo, nè cosa vi disse, nè vi fece,
se non alta, generosa e grande; ed il gridar per vezzo contro i re e
contro gli aristocrati stimava indegno di lui per ragione, il propor
cose a pregiudizio d'altri indegno di lui per affetto. La dottrina
l'ornava, la virtù l'illustrava, la canizie il rendeva venerando. Ma i
carnefici non si rimanevano, perchè il tempo era venuto che una
illusione proveniente da fonte buona coll'estremo sangue si punisse, ed
alla virtù vera non si perdonasse. Se gli offerse la grazia, purchè la
domandasse, non perchè virtuoso, dotto, e da tutto il mondo onorato
fosse, ma perchè aveva servito della sua arte Nelson ed Emma Liona.
Rispose sdegnato, non volere domandar grazia ai tiranni, e poichè i suoi
fratelli morivano, volere morire ancor esso; nè desiderio alcuno portar
con se di un mondo che andava a seconda degli adulteri, dei fedifragi,
dei perversi. La costanza medesima che mostrò coi detti, mostrò coi
fatti: perì per mano del carnefice, ma perì immacolato e sereno, e tra
Nelson e lui fu in quella suprema ora gran differenza perchè l'uno
saliva nel suo preparato seggio in cielo, l'altro restava nel suo
disonorato seggio in terra. Francesco Conforti, per dottrina nelle
scienze morali e canoniche a nissuno secondo, a quasi tutti il primo,
uomo che una lunga vita aveva vissuto o nelle sue segrete stanze a
studiare, o sulle pubbliche cattedre ad insegnare, fe' testimonio al
mondo col suo miserando fine che niuna cosa è più inesorabile della
rabbia civile e che la gratitudine non ha luogo fra gli sdegni politici.
Era Conforti defensore vivissimo delle immunità del regno contro le
pretensioni della corte di Roma, e molte cose per comandamento e con
singolar satisfazione del governo aveva scritto intorno a questa
materia; ma il beneficio si dimentica più presto dell'ingiuria. Preso e
legato dagli sbirri in Capua, gli diè di mano il boja in Napoli.
Speciale gli mandò dicendo, scrivesse per le immunità del regno, e gli
si sarebbe perdonato. Scrisse, e patì morte sul patibolo. Il sapere era
incentivo alla ferità di quello Speciale, sitibondo di sangue. Vincenzo
Russo, giovane singolarissimo per altezza d'animo, e per eloquenza e per
umanità, portò con gli altri supplizio dello aver creduto che gli uomini
si potessero condurre con nuove forme di reggimento politico ad un più
felice vivere, e dello avere con la lingua, per cui tanto poteva, e con
la mano che con ugual vigore secondava la lingua, quella condizione
cercato che nella sua mente benevola si era a benefizio degli uomini
concetta. Fu preso combattendo contro le genti regie al ponte della
Maddalena: il diritto regio domandava la sua morte; l'illusione sua il
doveva far compatire, la capitolazione dei castelli conservare. Prevalse
il partito più fiero; dopo gli strazj infiniti che nella sua prigione
furono fatti di lui, e cui sopportò con costanza ineffabile, fu dato in
preda al carnefice. Non mutò volto, non fe' atto alcuno indegno di lui;
serbò, non solo la equalità dell'animo, ma ancora la serenità. Pareva
che non a morte, ma a miglior vita andasse, e certo andava. Giunto là
dov'ei doveva dare il sospiro estremo, rivoltosi alle circostanti e
feroci turbe che l'insultavano: «Questo disse, non è per me luogo di
dolore, ma di gloria: qui sorgeranno i marmi ricordevoli dell'uomo
giusto e saggio: pensa, o popolo, che la tirannide ti fa ora velo agli
occhi, e inganno al giudizio: ella ti fa gridar _viva il male_, _muoja
il bene_; ma tempo verrà, in cui le disgrazie ti renderan la mente sana;
allora conoscerai, quali siano i tuoi amici, quali i tuoi nemici. Sappi
ancora che il sangue dei repubblicani è seme di repubblica, e che la
repubblica risorgerà, quando che sia, e forse non è lontana l'ora, come
dalle sue proprie ceneri la Fenice, più possente e più bella di prima».
Mentre così diceva, il boja lo strangolò. Nè giovò a Pasquale Baffi la
dolcezza incredibile della sua natura, la straordinaria erudizione,
l'essere uno dei primi grecisti del suo tempo, nè l'avere pubblicato una
traduzione, col testo dei manoscritti greci di Filodemo trovati sotto le
ceneri di Ercolano. Letterato di primo grado, fu dannato anch'egli
all'ultimo supplizio da chi non aveva altre lettere che del saper
sottoscrivere una sentenza di morte. Data la condanna, un suo amico,
affinchè con morte volontaria sfuggisse la violenta, gli offerse oppio.
Ricusò il funesto dono, sdegnosamente affermando, non essere in potestà
dell'uomo il far getto volontario della propria vita; voler andare
all'incontro del suo destino, comunque crudele fosse; non ispaventarlo
la morte, non disonorarlo il patibolo; Dio esservi rimuneratore delle
buone opere; nell'altra vita prima opera meritoria essere il conformarsi
di buon grado alla volontà sua; appresso a lui non avere accesso gli
odj, non le intemperanze dei tiranni; giusto essere Iddio, e mansueto e
pietoso, ed accorre nel grembo suo volentieri gli uomini giusti,
mansueti e pietosi; venisse pure il carnefice, il troverebbe rassegnato
e pronto. In cotal modo filosofando e bene amando, Pasquale Baffi morì.
Fu Mantonè, antico ministro di guerra, condotto alla presenza di
Speciale, e quante volte era interrogato da lui, tante rispondeva: «Ho
capitolato». Avvertito, apprestasse le difese, rispose: «Se la
capitolazione non mi difende, avrei vergogna di usare altri mezzi».
Condannato a morte, camminava, col capestro al collo, in mezzo a' suoi
compagni, con fronte alta e serena: poi volti gli occhi intorno, e
scortigli tutti, non vedendo fra di loro Bassetta: «Oh, disse, perchè
con noi non è»? Fugli risposto, aversi salvata la vita col disvelare e
denunciare repubblicani nascosti, o non conosciuti. «Ah, soggiunse,
assassino vile de' tuoi fratelli! siatemi voi testimonj, ch'io la viltà
sua aveva scoverto, e il volli far uccidere pochi giorni sono. Ma vi so
dire ch'ei non godrà lungo tempo il frutto de' suoi tradimenti: ei morrà
infame, poichè onorato non ha saputo morire». Così detto, Mantonè, tra
sdegnoso e generoso, co' suoi compagni che costanti al par di lui la sua
costanza ammiravano, se ne marciava al patibolo. Salite, senza mutare nè
viso nè atto le fatali scale, dimostrò che l'uomo quantunque percosso
dalla fortuna, è più forte di lei, e che non lo spaventa la morte. I
raccontati supplizj, siccome d'uomini, partorirono maraviglia insieme e
pietà in coloro che non ancora di ogni affetto umano si erano
dispogliati; ma più maraviglia che pietà. Il seguente, siccome di donna,
mosse più a pietà che a maraviglia: pure a grandissima maraviglia
strinse i circostanti. Eleonora Fonseca Pimentel, donna ornata di ogni
genere di letteratura, ed ancor più di virtù, da Metastasio lodata, e da
lui anche amata, fu, per avere scritto il Monitore Napolitano,
condannata a perder la vita sulle forche piantate in piazza di mercato.
Chiamata al supplizio, domandava e beveva caffè, poi marciava in
sembianza di donna maggiore della disgrazia. Giunta al luogo che era per
lei l'ultimo in cui viva insistere dovesse, incominciò a favellare al
popolo; ma i carnefici, temendo di tumulto, le ruppero tostamente il
femminile e tenero collo con le corde loro, e troncaronle ad un tratto
le eloquenti parole.

Non tutti i condannati morirono sul patibolo, ma chi più crudelmente,
chi meno. Un Velasco, minacciato da Speciale, che il farebbe morire
sulle forche, rispose: _Vile carnefice non avrai tu la mia vita_. Ciò
detto, diè un salto per la finestra, e si sfracellò per terra. Narrasi
d'un Niccolò Fiani, che già stando sul punto di salire al patibolo,
uomini barbari se l'abbian preso e fatto a pezzi, e strappatogli il
cuore, abbiano il cuore, e le sparse viscere, e le lacerate membra
portato a trionfo per la città. Un Pasquale Battistessa impiccato, e
portato in chiesa, ivi diè segni di vita. Rapportato il compassionevole
caso a Speciale, mandò dicendo, il finissero: come Speciale aveva
comandato, così fu fatto. Io non so se mi narri storie d'uomini o di
fiere.

Morirono in Napoli per l'estremo supplizio e tutti con invitto coraggio
Ignazio Ciaja, Ercole d'Agnese, cittadino di Francia, ma originario di
Napoli, Giuseppe Logoteta, dotto e virtuoso uomo, Giuseppe Albanese,
Marcello Scotti letterato eruditissimo, ed autore del catechismo dei
marinarj, un Troisi, sacerdote piissimo e dottissimo, con molti altri,
ornamento e fiore delle Napolitane contrade. Fu anche affetto
coll'ultimo supplizio Ettore di Ruvo, condotto, come abbiam detto, da
Pescara a Napoli sotto fede del cardinale. Morì, qual era vissuto,
indomito, animoso, ed imperturbabile. Come nobile, fu condannato ad aver
il capo mozzo. Volle essere decapitato supino, per veder la mannaia, che
gli doveva tagliar il collo.

La terra di Napoli era fumante di sangue, le acque del mare ne furono
parimente penetrate e tinte. Il principe Francesco Caraccioli, primo
onore e primo lume della Napolitana marinerìa, amato dal re, stimato dal
mondo, dopo più di otto lustri impiegati ai servigi del regno, fece
ancor esso una compassionevole fine. Si era Caraccioli, ed in questo
certamente il suo fallire fu enorme, perchè il re gli era affezionato,
molto travagliato in favore dello stato nuovo. Fatta la capitolazione
dei castelli, e vedendola rotta, si era ritirato a Calvirano, pregando
il duca di questo nome, acciocchè per sicurezza della sua vita
minacciata dai regj, che da ogni parte il circondavano, gli fosse
mediatore presso il cardinale, allegando, sperare, che l'avere obbedito
per forza alcuni giorni alla repubblica Francese, non sarebbe per
prevalere a quarant'anni di fedelissimo servizio. Non avuta risposta
favorevole, se ne fuggiva ai monti. Scoperto da un suo domestico, fu
condotto, legate le mani al dorso, e indegnamente maltrattato da villani
ferocissimi (sì deplorabili mutazioni di fortuna partoriscono le
rivoluzioni) a Nelson, che tuttavia stanziava nel porto di Napoli.
Convocava l'ammiraglio incontanente a bordo della sua nave il Fulminante
un consiglio militare, composto di uffiziali di marina Napolitani, e
presieduto dal conte di Thurn, a cui diede facoltà ed ordine di
giudicare, se Francesco Caraccioli fosse reo di ribellione contro il re
delle due Sicilie per avere combattuto la fregata Napolitana la Minerva.
Allegò l'accusato per discolpa, averlo fatto per forza, ma nol potè
pruovare. Dannavalo il consiglio a morte. Nelson comandava, s'impiccasse
all'antenna della Minerva, il suo corpo si gettasse al mare. Il misero
principe pregava dicendo, essere vecchio, non aver figliuoli che fossero
per piangere la sua morte, per questo non desiderare la vita: solo
pesargli il morire da malfattore; pregare, il facessero morire da
soldato. Le compassionevoli preghiere non furono udite. Volle il
condannato pregare d'intercessione la donna, che era a bordo del
Fulminante; ma Emma Liona non si lasciò trovare. Il capestro adunque,
come piacque all'Inglese, strangolò il principe Caraccioli; il suo corpo
gettato al mare. Così fu mandato a morte da Nelson un principe
Napolitano, prima suo antico compagno in pace, poi suo nemico generoso
in guerra: ed il giudizio di morte venne da una nave del re Giorgio.
Poi, che vuol significare quella pressa di giudizio e di morte? Non era
il re vicino? Non a lui si doveva ricorrere? Perchè intercludere la
strada alla grazia? Si temè l'amore, non il rigore del re. Da un'altra
parte, perchè gettare il corpo ai pesci? Non era vicino il lido? Non
pronti i parenti e gli amici a raccogliere le amate reliquie? Adunque un
principe Caraccioli, un servitor del regno per quarant'anni, un
ammiraglio di Napoli, un uomo che per un sì lungo corso d'età era stato
ed amato e riverito da Europa, non trovò sepoltura, se non nella bocca
dei voraci mostri del mare! Non saziò la sua morte il crudo Inglese,
volle ancora, che s'incrudelisse contro quell'onorato volto, contro
quelle membra insensibili! Queste sono le glorie di Nelson nel golfo di
Napoli.

Grande fu la strage nella capitale, sì pei giudizj, sì per la rabbia
popolare. Non fu minore nelle province: perironvi in modo sempre
violento, spesso crudele, quattromila persone, quasi tutte eminenti o
per dottrina, o per legnaggio, o per virtù; carnificina orribile.

Io già feci, scrivendo queste storie, sì frequenti accoppiamenti d'idee
dolci e terribili o di virtù e di patiboli, o di fede e di tradimenti, o
d'innocenza e di vizj, che non so se il lettore me ne comporterà ancora
un altro. Pure, se fia ch'ei debba muovere a sdegno ed a compassione i
nostri posteri, io il mi racconterò. Domenico Cimarosa, cui tutta la
generazione proseguiva con infinito amore per le sue mirabili melodìe,
ed a chi chiunque non era straniero alla delicatezza del sentire, era
obbligato di tanti affetti soavi pruovati, di tante tristi ed
annuvolatrici cure scacciate, non trovò grazia appo coloro che reggevano
le cose di Napoli con le ire, e le ire coi supplizj. Pregato, egli aveva
composto la musica per un inno repubblicano, opera di un Luigi Rossi.
Venuta Napoli in mano dei sicarj di Ruffo, furono primieramente le sue
case saccheggiate, anzi il suo gravicembalo, fonte felicissimo di canti
amabili, gittato per le finestre a rompersi sulle dure selci; poi egli
medesimo cacciato in prigione, dove stette ben quattro mesi, e vi
sarebbe stato anche di più, se i Russi ausiliarj del re non fossero
giunti a Napoli. Saputo il caso, e non avendo potuto ottenere dal
governo Napolitano, al quale l'avevano domandata, la sua liberazione,
generale ed ufficiali corsero al carcere, e l'Italico cigno liberarono.
Così in una Italia, in una Napoli la salute venne a Cimarosa dall'Orsa.
Mi vergogno per l'Italia, rendo grazie alla Russia. Pure il misero
Domenico, quantunque fosse posto in libertà, tra per l'afflizione
dell'animo, ed i patimenti del corpo al tempo della sua carcerazione, se
ne morì poco dopo a Venezia, dove era stato chiamato per comporre
un'opera.

Riconquistata la sanguinosa Napoli, premiava il re con magnifici doni
coloro, che l'avevano tornata a sua divozione. Investì il cardinale
Ruffo della badìa di Santo Stefano, che ha una valuta all'anno di cinque
mila ducati di regno: davagli oltreacciò il possesso in proprio di
un'altra tenuta con rendita di circa cinquemila ducati. Queste furono le
dimostrazioni del re utili al cardinale. Del resto ei non ebbe più
grazia, e gli fu tolto il governo delle faccende, a ciò instigando il re
Acton per gelosia, Nelson per dispetto, perchè il cardinale aveva voluto
che si osservassero i patti. Fu a Palermo eretto un tempio alla gloria,
nel quale entrando in mezzo a plausi infiniti Nelson, gli fu posta dal
principe Leopoldo, figliuolo del re, una corona d'alloro in capo. Il
presentava il re con una spada gioiellata, duca di Bronte chiamandolo.
Diegli inoltre una rendita di sei mila once di Napoli. Nè mancarono i
presenti per Hamilton ambasciadore; Emma Liona ebbe ancor essa i suoi.

Essendo, nel modo che abbiamo raccontato, caduta nelle due estremità
d'Italia la potenza dei Francesi, restava ancor in poter loro la Romana
repubblica, ma non sì, che non si vedesse vicina la inevitabile rovina
loro anche in questa parte. Suonavano dentro, e d'intorno le armi dei
confederati, o regolari o collettizie. Avevano gli Aretini sempre
infiammati nell'impresa loro contro i Francesi, in ciò secondati anche
dai Cortonesi, avendo le due città in così grave occorrenza posto in
disparte le antiche emolazioni, fatto un moto importante sulle rive del
Trasimeno, e sforzato Perugia ed il suo forte alla dedizione. A questo
modo si erano posti in mezzo, onde i Francesi rimasti alla guardia di
Roma e dei luoghi circonvicini non potessero più comunicare coi loro
compagni, che se ne stavano assediati in Ancona. Lo stato Romano quasi
tutto tumultuava e tornava all'obbedienza pontificia. Ufficiali antichi
del pontefice, preti, frati, canonici, le rabbiose popolazioni
stimolavano e guidavano, e se fu insolente in quelle regioni il dominio
dei repubblicani, non fu meno sfrenato quello dei pontificj che
risorgevano. Le vendette non solo si facevano contro le insegne
inanimate della repubblica, ma ancora contro i corpi viventi dei
repubblicani. Furonvi al solito uccisioni, rapine, ingiurie a uomini e a
donne, con tutte l'altre pesti indotte dei popoli mossi a romore. In
questa guisa i Francesi ed i soldati della repubblica Romana furono
sforzati a ritirarsi ai luoghi forti, lasciando gli avversarj signori
della campagna. Da un'altra parte nè Froelich, che aveva nella Romagna
il governo delle genti, nè il re di Napoli, dopo la ricuperazione del
regno, avevano trasandato le Romane cose. Ad essi accostavansi gli
Inglesi con qualche squadrone di genti da terra, e con navi condotte dal
capitano Trowbridge nelle acque di Civitavecchia. Diversi, secondo la
diversità degli umori e degl'interessi delle potenze, erano i pensieri
di ciascuna. L'Austria intendeva a conquistare per se, Napoli a questo
medesimo fine, ed a fare la corona libera dalle molestie della corte di
Roma. Agl'Inglesi poi pareva, che molto memorabil caso fosse, che
venissero a rimettere un papa nel suo cattolico seggio.

Adunque la repubblica Romana era chiamata a ruina da tutte le parti. Nè
il generale Garnier, che ne stava alla custodia, perduto avendo ogni
speranza di soccorso, e mancando di genti, poteva resistere a tanta
piena. Froelich faceva impeto in primo luogo contro Civitacastellana, ed
avendola occupata facilmente, s'incamminava a Roma. Dalla parte bassa
salivano i Napolitani condotti da un Burcard Svizzero, e turbavano tutto
il paese sulla sinistra del Tevere. Erano con loro gl'Inglesi di
Trowbridge, che, procurata prima la resa di Capua e di Gaeta, se ne
venivano alla conquista di Roma. Usciva Garnier alla campagna, piuttosto
per non capitolare senza combattere, che per combattere, per vincere.
Fuvvi un duro e lungo incontro tra i repubblicani sì Francesi che Romani
da una parte, ed i Napolitani dall'altra, presso a Monterotondo.
Ritiraronsi i Napolitani ai luoghi più alti e montuosi. Non erano ancora
i soldati di Garnier riposati dalla fatica della battaglia di
Monterotondo, che gli conduceva contro Froelich; ma sebbene con molto
valore combattesse, fu costretto a ritirarsi nelle mura di Roma,
restando in suo potere le sole fortezze di castel Sant'Angelo, Corneto,
Tolfa e Civitavecchia. Questo fatto diè cagione di risorgere anche ai
Napolitani dall'altra parte. Perlochè riavutisi dalla rotta di
Monterotondo, s'avviarono di nuovo contro Roma. Posero gli Austriaci le
loro prime guardie alla Storta, i Napolitani a Portaromana, ed a
Pontemolle. Consideratosi da Garnier il precipizio delle cose, e
pensando che il cedere a tempo sarebbe non solamente la salute de' suoi,
ma ancora quella dei repubblicani di Roma, che avevano seguitato la
fortuna Francese, aveva introdotto una pratica d'accordo con Trowbridge,
quale fu condotta a perfezione, e sottoscritta da ambe le parti il dì
venticinque settembre. Le principali condizioni furono le seguenti:
uscissero i Francesi da Roma, Civitavecchia, Corneto e Tolfa con ogni
onore di guerra; serbassero le armi, non fossero prigionieri di guerra;
si conducessero in Francia od in Corsica; i Napolitani occupassero
castel Sant'Angelo e la Tolfa, gl'Inglesi Corneto e Civitavecchia; i
Romani, che volessero imbarcarsi coi presidj Francesi, e trasportare le
proprietà loro, il potessero fare liberamente, e quei che rimanessero, e
che si fossero mostrati affezionati alla repubblica, non si potessero
riconoscere nè delle parole, nè degli scritti, nè delle opere passate, e
fossero lasciati vivere quietamente, sì veramente che vivessero
quietamente, e secondo le leggi. Penò qualche tempo Froelich a
consentire all'accordo, parte per dispetto, perchè Garnier aveva amato
meglio trattare con gl'Inglesi e coi Napolitani che con lui, parte e
molto più, perchè per esso si venivano a troncare le speranze concette
delle conquiste. Commise ancora il generale Austriaco qualche ostilità;
ma finalmente, veduto che senza troppo scoprirsi, e dar sospetto, che i
pensieri dell'Austria non si terminassero nella ricuperazione delle cose
perdute, non poteva turbare l'accordo, vi accomodò l'animo, e voltate le
bandiere verso l'Adriatico, se ne giva all'assedio d'Ancona, sola piazza
che nello stato Romano ancora si tenesse pei repubblicani. S'imbarcarono
i Francesi a Civitavecchia, e con essi tutti coloro fra i Romani, che
stimarono più sicuro l'esiglio, che il commettersi alla fede di un
governo provocato con tante ingiurie. Burcard occupò primo la città,
poscia vi venne don Diego Naselli, dei principi d'Aragona, mandato da
Ferdinando con potestà suprema militare e politica, per ridurre a
qualche sesto le cose scomposte dalla rivoluzione, innanzichè il governo
pontificio vi fosse restituito. Creò un superiore magistrato con titolo
di suprema giunta del governo, a cui chiamò i principi Aldobrandini e
Gabrielli, ed i marchesi Massimi e Ricci. Aggiunse un tribunale di
giustizia sotto nome di giunta di stato, a cui chiamò per presidente il
cavaliere don Jacopo Giustiniani, e per avvocato fiscale monsignor
Giovanni Barberi. Ufficio di questo tribunale fosse, che la quiete dello
stato non si turbasse, e chi la turbasse, fosse castigato. La suprema
giunta notò i beni venduti ai tempi della repubblica, come nazionali, ed
abrogò le vendite fatte, riserbando agli spossessati il ricorso dei
compensi: contenne il libero scrivere, frenò la licenza del vestire sì
degli uomini che delle donne, e richiamò ai luoghi loro le suppellettili
rapite o vendute del Vaticano e delle chiese, rimborsando però il valore
a chi le avesse comperate. Inibì l'ingresso e la dimora in Roma a tutti
che avessero avuto cariche nella repubblica, e bandì da tutto lo stato
Romano i cinque notaj Capitolini, che avevano rogato l'atto della
sovranità del popolo, e della deposizione del sommo pontefice.
Oltreacciò i beni dei repubblicani furono generalmente sequestrati, poi
confiscati, e quindi molti di loro ridotti a crudele miseria. Gran
numero di coloro che avevano partecipato nel governo precedente, dopo di
essere stati esposti ad infinite vessazioni ed insulti, furono gettati
in carcere, fra i quali merita particolar menzione il conte Torriglioni
di Fano, che era stato ministro dell'interno, uomo di alto merito e
d'illibati costumi; gli antichi consoli Zaccaleoni e Dematteis, uomini
rispettabili, condotti a dorso d'asino in via del Corso in mezzo agli
scherni di una scatenata plebaglia. Tutte queste enormità violavano la
capitolazione, ed erano incomportabili; perchè se la impunità di chi
aveva errato pareva scandalosa al governo di Roma, assai più scandaloso,
e di peggiore esempio era il rompere la fede data. Del resto non si
fece, come a Napoli, sangue per giudizj; moderazione degna di molta
lode. Ma la sfrenatezza delle soldatesche Napolitane suppliva in questo,
perchè oltre al rubare nelle botteghe e nelle strade, il giorno come la
notte, uccisero anche parecchie persone, che vollero difendersi dalla
loro rapacità. Questi delitti andavano impuniti. Un povero fabbro, per
aver voluto, contro il divieto di alcuni uffiziali Napolitani, usare del
diritto che aveva per contratto legale, di attinger acqua ad una fontana
nel palazzo Farnese, fu dai medesimi condannato alla pena del bastone
per cui morì: la sventurata sua moglie se ne morì di dolore. Roma offesa
dai Napolitani, era compresa da un alto terrore.

Le vittorie di Kray e di Suwarow avevano posto in mano degli alleati la
valle del Po, quelle di Ruffo, e le mosse dei sollevati di Toscana,
tolto al dominio dei Francesi e dei repubblicani il regno di Napoli, lo
stato Romano e la Toscana. Sulla destra degli Apennini, altra sedia non
avevano più i Francesi, che Genova con la riviera di Ponente, sulla
sinistra Ancona. Conservavano gelosamente i repubblicani il Genovesato,
perchè siccome prossimo ai loro territorj, poteva facilmente servir loro
di scala al riacquistarsi il Piemonte e l'Italia. Ma Ancona tanto
lontana non poteva più avere speranza di far frutto importante, ed il
volervisi tenere più lungo tempo era piuttosto desiderio di buona fama,
e gelosia di onore, che pensiero di arrecar qualche momento nelle sorti
della guerra. Tuttavia non si smarriva d'animo il generale Monnier, che
stava al governo della piazza con un presidio, che tra Francesi,
Cisalpini e Romani, non passava tre mila soldati, e forse nemmeno
arrivava a questo numero. Erano in questa parte d'Italia le condizioni
della guerra le seguenti. Occupava Monnier col suo presidio Ancona, non
sì però rinserrato, che non uscisse fuori di quando in quando a
combattere, di sotto fino a Ripatransone ed Ascoli, di sopra sino a Fano
ed a Pesaro. Ma siccome il suo più sicuro ricetto era Ancona, così alle
antiche aveva, con somma diligenza ed arte, aggiunto nuove
fortificazioni. Muniva con qualche trincea e forza d'artiglierìe la
montagnola, che domina la strada per a Sinigaglia. Più vicino alla
piazza affortificava con un ridotto frecciato, palizzato, affossato, ed
armato di ventiquattro pezzi d'artiglierìa il monte Gardetto, il quale
siccome quello che signoreggia la cittadella ed il forte dei Cappuccini,
era di grandissima importanza, ed il principale mezzo di difesa; perchè
se il nemico ne fosse impadronito, avrebbe fatto vano il resistere degli
assediati. Aveva anche munito il monte Santo Stefano, che più da vicino
che il Gardetto batte la cittadella. Perchè poi l'adito fosse intercluso
al nemico di avvicinarsi a questi due monti, nella conservazione dei
quali consisteva quella della piazza, guerniva anche di trincee e
d'artiglierìe i monti Pelago e Galeazzo, che sono come propugnacoli
naturali, od opere avanzate ai monti Gardetto e Santo Stefano. Nè
lasciava senza batterìa il monte Ciriaco, che posto a riva il mare
difende il molo d'Ancona. Sul molo stesso ed al fanale piantava cannoni,
perchè siccome non gli era ignoto che i collegati l'avrebbero assaltato
anche dalla parte del mare, desiderava di assicurarsi dagl'insulti loro.
A questo medesimo fine piantava molte batterie al Lazzaretto, magnifica
opera del pontificato di Pio VI. A questo modo la piazza d'Ancona, la
quale, ancorchè munita di una forte cittadella, non ha in se molta
fortezza per esser dominata dalle eminenze vicine, era per la diligenza
usata da Monnier divenuta fortissima: non si poteva venire agli approcci
della piazza, se prima non erano sforzate le fortificazioni esteriori,
effetto difficile a conseguirsi per la natura dei luoghi.

Non mancavano dall'altra parte mezzi di espugnazione ai confederati. Una
flotta Turca e Russa governata dall'ammiraglio Woinowich, e comparsa
nelle acque d'Ancona, ora bloccava la bocca del porto, perchè nuovo
fodero non vi arrivasse, ora faceva sbarchi di gente sui lidi
circonvicini. Quest'era la flotta, che già vincitrice di Corfù,
intendeva al conquisto di Ancona, ponendo sull'Italiche terre coi Turchi
e coi Russi i barbari dell'Epiro. Ad essa veniva a congiungersi un
navilio sottile d'Austria per poter meglio accostarsi a terra, ed
infestare le spiaggie marittime. Dalla parte del Regno gli abitatori
delle rive del Tronto si erano levati a romore, e condotti da un Donato
de' Donatis, da preti e da frati, ed accompagnati da qualche nervo di
genti ordinate, correvano tutto il paese, e minacciavano di stringere il
presidio d'Ancona dentro le mura. Dalla parte poi della Romagna
tumultuavano anche i popoli contro i repubblicani: Pesaro e Fano,
voltate le armi contro di loro, facevano un moto di molta importanza.
Sinigaglia stessa, quantunque più vicina ad Ancona, titubava. Niuna cosa
più restava sicura ai repubblicani, che le Anconitane muraglie. Eransi
le popolazioni di Pesaro e di Fano mosse da se stesse, e per opera
principalmente de' nobili, e della gente di chiesa; ma s'aggiunse loro,
sussidio efficacissimo, l'opera ed il nome del generale cisalpino Lahoz.
Era Lahoz stato stromento potente ai Francesi per turbare l'antico stato
d'Italia. Amico al generale Laharpe aveva militato con lui, e come egli,
nodriva l'animo volto a libertà. Abborriva anche, come il suo amico, dal
sacco su quei primi fervori; ma molto poi aveva rimesso della sua virtù,
massime quando faceva la guerra ai governi, ed a uomini che si
chiamavano col nome detestato di aristocrati. Servendo con molta
efficacia alle mire di Buonaparte contro la repubblica Veneziana, aveva
nella terraferma operato a rovina di lei, con aver chiamato i popoli con
parole veementi e con fatti sregolati a ribellione. Era anche stato in
Cisalpina ardente cooperatore, perchè la repubblica si creasse un
esercito grosso e bene disciplinato, avvisando, che in mezzo alle
strette congiunzioni degli stati Europei, là non poteva essere nè
libertà, nè independenza, dove non erano forti armi. Ma in questo aveva
fatto poco frutto, ripugnando la natura quieta dei popoli, e
distogliendogli il mal governo che di loro facevano i nuovi signori.
Grande irritamento all'animo suo altiero ed Italiano erano le rapine, e
le insolenze di coloro, che venuti con dolci parole in Italia, l'avevano
sobbissata con amari fatti. Siccome assai diverso era stato l'effetto
dalle promesse, così ancora in lui avevano principiato a pullulare nuovi
pensieri, parendogli, che non si dovesse serbar fede a chi non l'aveva
serbata. Così Lahoz rodeva di rabbia, e dava luogo nella sua mente ad
insoliti pensieri contro Francia. Quando poi vennero i tempi infelici,
continuò, a malgrado che ne avesse, ma per la occasione non propizia, a
serbar fede, ed a seguitare le insegne della repubblica; ma l'animo
gonfio si manifestava fuori, e spesso gli uscivano di bocca parole aspre
e minacciose contro il dominio dei Francesi. Entrarono eglino in
sospetto di quello che macchinasse, e appoco appoco gli andavano levando
autorità e riputazione. Era egli al governo militare dello spartimento
della Cisalpina, che si chiamava col nome del Rubicone: quivi,
tumultuando d'ogn'intorno i popoli, e parendogli occasione favorevole,
incominciava ad insorgere. Sparlava di Francia e delle sue leggi,
governava, e quanto al civile e quanto al militare, da se medesimo la
provincia, non aspettato i comandamenti di Montrichard a cui era
subordinato: Montrichard medesimo, e le azioni sue continuamente
lacerava: permetteva ai preti le processioni fuori delle chiese, cosa
contraria alle leggi della repubblica: si addomesticava con molta
famigliarità coi preti, coi frati, e coi nobili, e con loro
continuamente parlava del nome Italiano. Montrichard seppe questi
maneggi, e però, siccome il caso era d'importanza, gli toglieva
l'autorità sul Rubicone, mandando Hullin per arrestarlo. E siccome con
Lahoz pareva implicato Pino, altro generale della Cisalpina, ed amico di
lui, ordinava che anch'egli fosse dismesso dall'autorità, ed arrestato.
Giustificossi facilmente Pino dai sospetti, per modo che restandone i
generali di Francia del tutto con l'animo purgato, il ricevettero di bel
nuovo in grazia, ed egli continuò a militare con fede e con valore sotto
le insegne loro, e fu uno dei più egregi difensori d'Ancona. Ma Lahoz,
avuto avviso degli ordini dati per ritenerlo, si era schivato, e
mandando fuori apertamente quello, che si aveva concetto nell'animo,
gittossi coi popoli sollevati a guerreggiare contro Francia. Tentò anche
l'animo degli Austriaci, che conoscendo di quanta utilità fosse per
essere l'opera sua a rinforzo loro, l'accettarono molto volentieri,
quantunque fosse disertore del reggimento Belgiojoso, ed avesse inferito
molti danni all'Austria. Così Lahoz, che aveva seguitato una immagine
ingannatrice di libertà coi Francesi, seguitava ora una immagine
parimente ingannatrice d'independenza con gli Austriaci. Certamente non
piaceva meglio l'independenza d'Italia agli Austriaci, che piacesse ai
Francesi la sua libertà, ed in questa strana deliberazione di Lahoz
debbesi piuttosto riconoscere lo sdegno di un animo altiero ed irritato,
che l'amore della libertà e dell'independenza, che male potevano nascere
da Russi, da Tedeschi, da Albanesi, e da popoli sollevati. Comunque ciò
sia, o che Lahoz abbia a stimarsi traditore dei Francesi, o amatore
dell'independenza d'Italia, andò a congiungersi con le popolazioni
d'Urbino e di Fossombrone, che colle armi in mano perseguitavano a morte
ed a sterminio Francia, e chi al nome di Francia si aderiva.

A tutte queste genti, contro le quali col suo tenue presidio doveva
combattere Monnier, si aggiunsero a tempo opportuno quelle, che Froelich
conduceva dallo stato Romano. Lahoz, incitate e meglio ordinate le
squadre dei sollevati sulle rive del Metauro e dell'Egino, prendendo a
destra dei monti, che chiamano della Sibilla, se ne andava su quelle del
Tronto per quivi abboccarsi con Donato de' Donatis, alle bande del quale
molte altre già si erano accostate, particolarmente quelle che avevano
per condottieri i nobili Scaboloni, Cellini, e Vanni. L'arrivo di un
generale tanto riputato per perizia di guerra e per valor di mano, molto
confortava questi capi, perchè speravano, che per opera di lui quelle
genti indisciplinate e tumultuarie si convertirebbero in esercito
regolato ed obbediente. Infatti Lahoz le distribuiva in compagnie, le
indrappellava, le squadronava, le rendeva sperimentate negli usi del
muoversi, del marciare, del combattere. Concorrevano cupidamente tratti
dal nome suo gli Abruzzesi, e fecero massa tale, che da Ascoli passando
per Calderola, Belforte, Camerino, Tolentino e Fabriano, si distendevano
con guardie non interrotte sino a Fossombrone e Pesaro, cignendo per tal
modo tutto il paese all'intorno d'Ancona.

Monnier, non volendo lasciarsi ristrignere nella piazza, usciva fuori
alla campagna per combattere fazioni, che non potevano portare che danno
per lui, perchè aveva poche genti, e non modo di ristorare i soldati
perduti con nuovi, mentre i collegati per avere i mari aperti, e le
popolazioni sollevate in lor favore, potevano facilmente aggiugnere
genti a genti. Ma qual cosa si debba pensare di questa risoluzione di
Monnier, ne seguitava una guerra minuta e feroce, a distruzione d'uomini
e di paesi, usandosi dai soldati immoderatamente la licenza. Ascoli,
Macerata, Tolentino, Belforte, Fano, Pesaro, ed altre città della Marca,
belle tutte e magnifiche, prese e riprese per forza parecchie volte, ora
dall'una delle parti, ed ora dall'altra, pruovarono quanto la licenza
militare ha in se di più atroce e di più barbaro. Finalmente successe
quello, che era impossibile che non succedesse, cioè che moltiplicando
sempre più le genti collettizie di Lahoz, e le regolari dei collegati, e
venute in mano loro Iesi, Fiume, Fiumegino, Sinigaglia, Montesicuro,
Osimo, castel Fidardo, e perfino Camurano, terra posta a poca distanza
d'Ancona, fu costretto Monnier a serrarvisi dentro, ed a far difesa dei
suoi le mura fortificate di lei. I Turchi ed i Russi, senza metter tempo
in mezzo, s'impadronirono della montagnola, donde più oltre procedendo,
tosto piantarono una batteria di diciasette cannoni, con la quale
bersagliavano il forte dei Cappuccini, il monte Gardetto, e la
cittadella.

Furono da questi tiri molto danneggiati gli edifizj della cittadella,
restaronne i bastioni rotti, le caserme inabitabili. Al tempo stesso
ventidue barche armate di cannoni fulminavano dalla parte del mare
contro il lazzaretto, il molo, il forte dei Cappuccini, e contro le tre
navi che già furono della repubblica di Venezia, il Beyrand, il Laharpe
e lo Stengel, e che Monnier aveva fatto sorgere in sur un'ancora alla
bocca del porto. Lahoz, cacciati i repubblicani da monte Pelago, se
n'era fatto padrone, e quinci con trincee si approssimava a monte
Galeazzo; che anzi fatto un subito impeto contro di esso, vi si era
alloggiato, ma venuto Monnier con un grosso de' suoi, lo aveva
rincacciato dentro le trincee scavate fra questi due monti. Tali erano
le condizioni dell'Anconitana guerra, nè si vedea, che gli alleati
potessero così presto restar superiori, perchè quei di dentro si
difendevano egregiamente, e di quei di fuori, i Russi erano pochi, i
Turchi ed i sollevati per l'imperizia loro, e la mala attitudine dei
loro instrumenti militari facevano poco frutto nell'espugnazione della
piazza. Ma in questo punto sopraggiungeva Froelich co' suoi Tedeschi, e
rendeva tosto preponderanti le sorti in favor dei collegati. Si
alloggiava in Varano, e voleva recarsi ad una gagliarda fazione contro
il monte Galeazzo, confidando anche, per mandarla ad esecuzione,
nell'ajuto dei collettizi di Lahoz. L'intento suo era, acquistando quel
posto, di battere più da vicino il monte Gardetto; conciossiachè nella
presa di quest'eminenza consisteva principalmente la vittoria d'Ancona.
Due volte l'aveva Lahoz con singolare ardimento assaltato, e due volte
ne era stato con molta uccisione de' suoi risospinto. Ma Monnier, avendo
conosciuto che finalmente, se il nemico stesse più lungamente padrone di
monte Pelago, e delle trincee che vi aveva fatte, e che si distendevano
verso monte Galeazzo, impossibile cosa era ch'egli potesse conservarsi
la possessione di questo monte medesimo, sortiva assai grosso la notte
dei nove ottobre per andar all'assalto delle trincee dei sollevati. Si
combattè tutta la notte gagliardamente, presero i repubblicani il
ridotto principale, chiodarono i cannoni, portarono via le bandiere. Ma
un secondo ridotto tuttavia resisteva, sgarando tutti gli sforzi di
Monnier. Già il giorno incominciava a spuntare; si conoscevano in viso i
combattenti, quando Lahoz impaziente di quella lunga battaglia, usciva
dall'alloggiamento, e dava addosso agli assaltatori. Siccome poi era
uomo di molto coraggio, precedendo i suoi, gli animava a caricar
l'inimico. Quivi era presente Pino, per lo innanzi suo amico fedele, ora
suo nemico mortale: scorgevansi, scagliavansi l'uno contro l'altro,
sfidavansi a singolare battaglia, tristissimo spettacolo ad Italiani. Ed
ecco in questo un soldato Cisalpino prender di mira Lahoz conosciuto, e
ferirlo mortalmente di palla di moschetto. Furongli i repubblicani
addosso, così ordinando Pino, ed avendolo ferito di nuovo, gli tolsero
le armi e lo spennacchio, che a guisa di trionfo portarono in Ancona.
Avrebbero anche portato il corpo, che credevano morto, se non fossero
stati presti i sollevati ed i Tedeschi a soccorrerlo.

Fatto giorno, e muovendosi gli Austriaci contro Monnier, si ritirava il
Francese con tutti i suoi in Ancona, lasciando nel nemico una
impressione vivissima del suo valore. Fu condotto Lahoz
all'alloggiamento di Varano. Quivi sopravvisse tre giorni, e tra il
dolore delle ferite e l'angoscia dell'animo si andò, prima della ultima
ora, colle seguenti parole esprimendo: «Che bene il tormentavano le
ferite, ma che molto più il tormentava il pensiero, che gli uomini
potessero credere, ch'egli avesse tradito la sua patria, e fosse
divenuto nemico della libertà. Nè traditore, nè nemico essere della
patria e della libertà, e niuno poter avere così scelerato concetto di
lui, se non chi le parole vane ai fatti veri anteponesse. Quando,
continuava, i Francesi penetrarono in Piemonte, riputandogli io
liberatori d'Italia, le aquile imperiali abbandonando, andaimi a porre
sotto le loro tricolorite insegne; ma nè mano, nè cuore, nè mente io
vendeva ai Francesi: a loro m'accostava libero di me stesso, perchè
pretendevano parole di voler difendere e i diritti degli uomini, e
l'independenza nostra. Parevami, che alle Francesi legioni tutti coloro
accostare si dovessero, che più amavano la libertà che la servitù.
Amommi Laharpe, perchè generoso mi conobbe, ed a pensieri generosi
intento: accettommi in grado d'onore Buonaparte, accettommi Joubert, cui
gli uomini non potran mai piangere tanto, che non meriti di esser pianto
molto più: nè mi fu avaro di affezione e di stima Moreau, Moreau
illustre pei prosperi fatti, più illustre per gli avversi; nè m'ebbe a
schifo Pino, nè m'ebbe in odio Monnier, contro i quali pure testè io
combattei. La pace venditrice di popoli conclusa a Campoformio, la
tirannide usata in Cisalpina da Trouvé e da Rivaud mi fecero accorto,
che si pensava al trafficare, non a liberare l'Italia. Aggiunsersi
occulti sdegni per non meritati oltraggi. Sentiimi trafitto da ferite
acerbissime. Vennemi allora in mente il pensiero, e portailo oltre lungo
tempo, di cacciare dalla onoranda Italia e Tedeschi e Francesi, perchè
noi stessi di noi signori diventassimo. Sapevami, che questo alto
disegno già da lunga età s'annidava nel cuore, e nelle viscere tutte
degl'Italiani, e parevami che un propizio destino mi chiamasse ad
effettuarlo. Dei Francesi io disperava, perchè, oltrechè di essi già
l'esperienza si era fatta, l'Italia tutta insorgeva contro di loro.
Voll'io quest'Italiani moti prima incitare, poi moderargli, finalmente
dirizzargli al grande effetto della liberazione della nostra generosa ed
universale patria. Ma pur troppo io vedo, che l'Italiana repubblica si
può piuttosto immaginare, che sperare. Troppo siamo noi tra di noi
divisi per istati, troppo per leggi, troppo per costumi, troppo per
opinioni, nè gl'Italiani usi al giogo da tanti secoli hanno l'antico
valore conservato. Combattono animosamente per superstizioni, mollemente
per libertà, i popolani mirano al sacco ed alle vendette, i magnati
all'ozio ed all'interesse. Nissuna parte sana è più, e chi mira più su
che i luoghi della tirannide, o vive vilipeso, o muore ammazzato. Così
men muoro ancor io; ma bene tu mi sarai testimonio, o Decoquel»
(perciocchè queste parole diceva ad un Decoquel, capitano di Cisalpina,
suo amico antico, e che fatto prigioniero dai Tedeschi nell'ultimo fatto
se ne stava a lato del moribondo), «tu mi sarai testimonio, ch'io
amatore dell'Italia men vissi, e che amatore dell'Italia men muojo».
(MANGOURIT, _Défense d'Ancône_, t. II.) Ciò detto, passava da questa
all'altra vita.

Froelich, piantate le artiglierìe in luoghi opportuni, e con esse
battendo impetuosamente i monti Galeazzo e Santo Stefano, se ne
insignoriva. Poi procedendo più oltre con le trincee, si avvicinava al
monte Gardetto. Poscia usando il favore di questa vittoria, dava il dì
due novembre un furioso assalto a quest'ultimo sito, e correva anche
contro la porta Farina, mentre i Russi e gli Albanesi assaltavano la
porta di Francia. Sostenne Monnier l'urto con grandissimo valore, e
cacciando ne' suoi primi alloggiamenti il nemico, fece vedere, quanto
potessero pochi soldati estenuati e stanchi, quando hanno e coraggio
proprio, e buona condotta di capo valoroso. Cessarono allora dagli
assalti i collegati, solo battevano con le artiglierìe la piazza.
Crollavansi alle fulminate palle i bastioni della cittadella, rompevansi
le artiglierìe degli assediati, la piazza già difettava di vettovaglie;
Froelich compariva grosso e minaccioso a fronte del monte Gardetto.
Mandava dentro a fare un'ultima chiamata a Monnier il generale Skal,
portatore delle sinistre novelle dei repubblicani rotti in tutta Italia,
specialmente delle novità di Napoli, di Roma e di Toscana.

Monnier, avendo fatto quanto l'onore dell'armi, e la dignità della sua
patria da lui richiedevano, inclinò finalmente l'animo al trattare,
protestando però, volere solamente arrendersi alle armi Austriache, non
a quelle dei Russi, o dei Turchi, o dei sollevati. Patti onorevoli
seguitarono una difesa onorevole. Uscisse il presidio con ogni onore di
guerra, avesse sicurtà di passare in Francia per dove volesse, fino agli
scambj non militasse contro gli alleati, si desse a Monnier una guardia
d'onore di quindici cavalieri e di trenta carabine; nissuno di qualunque
nazione o religione si fosse, particolarmente gli Ebrei, o in Ancona, o
fuori nei dipartimenti del Tronto, del Musone e del Metauro, potesse
essere riconosciuto, o castigato, od in qualunque modo molestato nè per
fatti, nè per iscritti, nè per parole in favore della repubblica, e chi
volesse seguitare il presidio con le sostanze e con la famiglia, il
potesse fare liberamente. Fu, e sarà questa capitolazione, egregio e
perpetuo testimonio del valore e della generosità di Monnier. Così fra
tutti i comandanti di fortezze in Italia, solo Mejean, castellano di
Sant'Elmo, abbandonò i repubblicani, e quelli che si erano aderiti ai
Francesi: tutti gli altri ottennero, od almeno domandarono la salvazione
di coloro, che combattendo, o consentendo coi Francesi avevano contro di
se concitato l'odio degli antichi signori. Attraversava il presidio
Anconitano, ammirato e riverito da tutti, l'Italia, tornandosene in
Francia per la strada della Bocchetta.

Venuta Ancona in potere dei confederati, i Turchi, ed i Russi si diedero
al sacco; quelle misere terre già conculcate e peste da sì lunga guerra
prima della vittoria, furono condotte all'ultimo sterminio dopo di lei.
Froelich, siccome quegli che era uomo di giusta e severa natura, faceva
castigare aspramente gli avari e crudi conculcatori; il che accrebbe i
mali umori e le cause di disunione, che già passavano tra la Russia e
l'Austria.



LIBRO DECIMONONO

SOMMARIO

      Stato della Francia dopo le rotte d'Italia. Mala contentezza,
      e querele dei popoli contro il governo; loro desiderio
      universale di Buonaparte. Egli arriva dall'Egitto, e,
      distrutto il direttorio, reca in sua mano la somma delle cose
      col titolo di primo consolo. Indirizza i suoi pensieri alla
      conquista d'Italia, si accorda coll'imperator Paolo di Russia,
      ma non può coll'imperator Francesco, nè col re Giorgio. Suoi
      vasti concetti. Assedio di Genova, e generosa difesa fattavi
      dentro da Massena; resa della piazza.


S'avvicina il tempo, in cui l'Europa messa a soqquadro, ed a terrore
dalla sfrenata licenza sotto nome di libertà, debbe far trapasso alla
potestà assoluta sotto nome d'imperio; secolo turbolento, ambizioso e
superbo, che tormentò gli uomini coi due peggiori estremi, poi loro
lasciò la coda dello essere inabili ai benigni e liberi reggimenti. Era
il direttorio constituito in assai difficile condizione. Bollivano molte
parti in Francia, e tutte si volgevano contro di lui. La nazione
Francese, impaziente delle disgrazie per natura, ancor più impaziente
per la memoria delle vittorie, dava imputazione, per appagamento
proprio, a' suoi reggitori delle rotte ricevute, e della perduta Italia.
Moltiplici querele si muovevano in ogni parte contro di loro, e il meno
che si dicesse, era, che non sapevano governare; perchè chi gli
accagionava di tradimento, e chi del tenere il sacco a coloro, che con
le ruberìe avevano ridotto i soldati alla penuria ed impossibilità del
vincere. Quell'impeto, che era sorto pei tre nuovi quinqueviri, già era
per le ultime rotte svanito. Dominava nei consiglj legislativi, secondo
il solito, la perversa ambizione del voler disfare il governo per
arrivare ai seggi del direttorio; dal che nasceva, che eglino così nel
bene come nel male il direttorio contrariassero, nè vi fosse più modo
alcuno di governare. I soldati nuovamente descritti non marciavano, i
veterani disertavano per la strettezza dei pagamenti, le contribuzioni
non si pagavano, ogni nervo mancava; la guerra civile lacerava le
provincie occidentali, la discordia le meridionali; chi voleva le
opinioni estreme, chi le mezzane; molti che sapevano molto bene quello,
che si volessero, e molti ancora che nol sapevano, desideravano una
mutazione. Nè questa mutazione era evitabile, perchè nissun governo può
resistere in Francia alle sconfitte accompagnate dalla libertà dello
scrivere e del parlare. La fazione soldatesca, che mal volentieri
sopportava che il paese fosse retto dai togati, ed alla quale nissun
governo piace se non il soldatesco, guardava intorno, se qualche
bandiera chiamatrice di novità, ed alla quale potesse, come a centro
comune, concorrere, all'aria si spiegasse, proponendosi di sottomettere,
prima il governo col nome della libertà, poi il popolo col nome di
gloria. Tutte queste cose vedevansi gli uomini savi, nemici della
licenza; vedevanle i faziosi, amici della tirannide, e tutti pensavano
al ridurle ai disegni loro.

In questa congiuntura di tempi, sovveniva agli uni ed agli altri il nome
di Buonaparte, tanto glorioso per Francia, tanto temuto dai forestieri.
Esso solo, dicevano, potere ritornar a sanità, e ridurre in porto le
cose dello stato afflitto, esso rinverdire la gloria della desolata
repubblica, esso ricuperare le tanto predilette regioni dell'infelice
Italia. O fosse tradimento, o fosse incapacità, essere oscurato il nome
Francese per immoderate disfatte, e già l'Europa tante volte vinta
avventarsi contro le proprie terre di coloro che l'avevano vinta; esso
solo, il conquistatore d'Italia, a se medesimo sempre consentaneo, avere
alle repubblicane bandiere in lontani e barbari lidi conservato la
vittoria; la fama dei prosperi fatti di Egitto consolare in parte gli
animi attristati dalla calamità d'Europa; vedersi adesso, quanto un uomo
solo possa per la salute degli stati da eccessive forze assaliti, e
poichè morto era Joubert, e che Moreau e Massena non bastavano, perchè
non richiamarsi in sussidio della patria cadente Buonaparte l'unico?
Essere negli altri coraggio, essere ingegno, ma l'animo superatore di
ogni fortuna, ma il pensiero comandatore, e piegatore di ogni volontà in
un solo e generoso ed alto fine, in Buonaparte solo albergarsi: lui solo
essere mezzo a moderare, e quasi un freno a tanti dispareri e sospetti:
pruovassesi adunque quanto potesse una mente tanto potente, una felicità
tanto costante: con Buonaparte Italico aver prosperato la repubblica,
senza Buonaparte Italico essere caduta, con Buonaparte Italico ed
Egiziaco avere a risorgere. A questo modo nasceva in Francia un
desiderio accesissimo del capitano invitto. A lui si volgevano gli
amatori della gloria militare, perchè il credevano capace d'instaurarla;
i corrotti dall'appetito del comandare e del far sacco, perchè
confidavano, che ai soliti imperj e depredazioni gli potesse ricondurre;
i nemici della licenza, perchè sapevano ch'ei non l'amava, e che era
uomo da poterla spegnere; gli odiatori della guerra civile, perchè
speravano che l'avesse a terminare; i repubblicani ardenti, perchè non
dubitavano che disfacesse il direttorio; i repubblicani quieti, perchè
pensavano che avesse ad indurre un vivere libero senza eccesso; i dotti
ed i letterati, perchè si promettevano di esser bene trattati da lui; i
filosofi, perchè non ignoravano ch'ei sentiva molto liberamente nelle
cose religiose, ed il riputavano amico della libertà civile; i fautori
segreti dell'autorità regia, perchè avevano a loro medesimi persuaso,
siccome le voci ne erano corse, e ne era stato qualche pratica, ch'egli
fosse per consentire alla ritornata dei Borboni, e per restituire
l'antica signoria loro in Francia. Ognuno come redentore il guardava,
ognuno desiderava che tornasse a redimere la patria afflitta. Queste
affezioni erano sorte nei popoli, parte per le disgrazie, parte per lo
splendore delle vittorie, parte per le arti astutamente usate da lui e
da' suoi fautori, talmente che ciascuno credeva, ch'ei fosse per fare
ciò che ciascuno desiderava. Tanta è l'efficacia dei discorsi versipelli
nelle discordie civili, perchè le sette o non comunicano, o non si
prestano credenza fra di loro, e può chi sta sopra a tutte, lusingarle,
aggirarle, ingannarle a suo grado, e sicuramente tutte. Se il savio fra
i matti può tanto, è facile comprendere quanto possa l'astuto, che è un
savio raddoppiato, e Buonaparte fu astutissimo. Insomma la materia era
ben disposta a ricevere le Buonapartiane impronte. Adunque già fin da
quando si erano udite le prime sciagure d'Italia, era sorto fra i
desiderosi di cose nuove il pensiero di far tornare Buonaparte
dall'Egitto, il qual pensiero si rinfrescò maggiormente, e si mandò ad
effetto quando portò la fama, essere morto Joubert, combattendo nella
battaglia di Novi. In questo disegno entrarono Sieyes quinqueviro,
perchè vedeva, siccome uomo oculatissimo, che lo stato non poteva più
durare con quella maniera di reggimento, Barras quinqueviro per la
congiunzione antica, e forse per le speranze Borboniche, i generali
superstiti dell'esercito Italico, eccettuato Massena, il quale non era
punto affezionato a Buonaparte, ed i fratelli Giuseppe e Luciano
Buonaparte che aspiravano al dominio. Molto accomodato a' suoi fini era
il procedere di Luciano: affermava con gli amici, non potersi vivere con
quella constituzione, doversene creare un'altra: col pubblico
rammentava, e con vivi colori pingeva, prima le glorie, poi le sconfitte
d'Italia; lamentava la Cisalpina oppressa dalla tirannide di Trouvé e di
Rivaud; lodava e patrocinava l'Italia; predicava la libertà di Francia,
conculcata, come diceva, da un direttorio prepotente ed arbitrario.
Così, allettando, chiamava a se, ed al nome del suo fratello i gelosi
della libertà e della gloria Francese, i desiderosi della libertà
Italica, i cupidi delle spoglie Italiche. Viaggiavano le vele, erano
quelle di un bastimento Greco, portatrici dei desiderj comuni verso
l'Egitto, correndo la state del presente anno. L'avviso fu ed accetto,
ed opportuno.

Buonaparte, che conosceva ottimamente per la sua mente pronta e vasta,
per la perizia somma nelle faccende di stato, e per la cognizione
profonda che aveva di questa umana razza, quanto piena fosse la fortuna
che si parava davanti, e quanto fosse propizia la occasione di condurre
ad effetto i suoi pensieri smisurati, parendogli eziandio, che un mezzo
opportuno gli si offerisse di sottrarsi dall'Egitto, dove le cose sue
cominciavano a declinare, cupidissimamente si avviava alle sue nuove e
straordinarie sorti. Salpava dagli Egiziani lidi, conducendo con se i
suoi compagni più fidati di guerra, perchè aveva bisogno delle mani e
delle armi loro; i dotti ed i letterati più famosi, perchè si voleva
servire, come di ajuto molto potente, dell'autorità, delle lingue, e
degli scritti loro. Arrivava improvviso a Frejus: improvviso ancora,
disprezzate le leggi di sanità, perchè non voleva che la fama del suo
arrivo si raffreddasse, partendo, giungeva nel volubilissimo Parigi, che
bramosamente l'aspettava. Io non mi starò a raccontare le allegrezze che
si fecero in tutta Francia, quando si sparse la voce del suo ritorno:
basta, che le genti corsero a lui da ogni parte, come a trionfatore, a
salvatore, a redentore: già Francia era sua, quantunque uomo privato, e
generale senza esercito fosse. Lione sopratutto tripudiava per
un'insolita allegrezza, città ancor sanguinosa per l'imperio poco anzi
spento dei truculenti giacobini, sdegnata per le leggi soldatesche, che
contro di lei tuttavia vigevano. Toccò, passando, i tasti più teneri;
favellò di pace, di prospero commercio, di ferite civili da racconciarsi
da un giusto e mansueto governo. I Lionesi contenti speravano ed
amavano. A Parigi, ogni opinione, ogni affezione si voltava a lui: dava
buone parole a tutti, ma insomma pendeva al moderato, sapendo che tal
era il desiderio universale. I letterati massimamente, o poeti, o non
poeti, con ogni maniera più adulatoria si studiavano di compiacergli, e
con infinite lodi innalzavano insino al cielo il suo nome. Il
lusinghevole uso si propagava largamente: tutta Francia risuonava
d'encomj; la libertà era perduta già prima che nata.

Cacciò Buonaparte a punta di bajonette i consigli legislativi, cacciò il
direttorio, i soldati pagati dal governo si voltarono contro il governo:
ebbe paura sulle prime, poi fece paura agli altri; chiamò pazzo chi
credesse, che la realtà potesse prevalere alle repubbliche in Europa,
poi spense tutte le repubbliche, e creò in ogni luogo la realtà. Conosce
Europa il dì nove novembre, da cui poteva nascere un vivere moderato e
libero, e che non pertanto partorì un reggimento duro, tirato,
dispotico, e soldatesco. S'accorse tostamente Sieyes, che aveva trovato
un padrone, non un compagno, Barras un uomo che il volle allontanare da
se, non un amico che il riconoscesse dei benefizj, uno finalmente, che
anteponeva la potestà assoluta, alla quale aspirava, all'antiche
congiunzioni, ed alla gratitudine.

Incominciano le trilustri insidie. Buonaparte, dubitando che i Francesi
non fossero per tollerare pazientemente la grandissima mutazione che
preparava, e parendogli che a sostentare la sua immensa cupidità
bisognassero fondamenti straordinari, apprestava con infinita accortezza
allettamenti potentissimi. Fu maravigliosa l'arte sua nel vincere le
battaglie, ma assai più maravigliosa fu nell'adescar le genti. A duro
giogo le traeva; ma esso solo sapeva il fine. Spinte da gradite
apparenze di lieto avvenire, da lusinghevoli speranze di contentati
desiderj concorrevano cupidamente là, dov'ei voleva farle concorrere; nè
mai frutti tanto amari si annidarono sotto sì dolci scorze. Pace dentro,
pace fuori gli parvero i più forti fondamenti della sua potenza: i
Francesi stanchi ed afflitti da sì lunghe guerre, pace sopratutto
desideravano, purchè disonorata non fosse, del che non temevano con
Buonaparte capo. A questi fini indirizzava egli principalmente i suoi
pensieri. Speciale intoppo alla cittadina concordia gli parevano, ed
erano veramente gli spiriti esagerati, i quali non potendo per ambizione
riposare sotto alcuna potestà, nemmeno possono quando sono giunti essi
alla potestà suprema, posciachè tirannicamente procedendo, decimano
prima i popoli, poi se medesimi, e tutti i fondamenti dello stato fan
rovinare; non gli era ignoto, che il nome di costoro era odioso in
Francia; perciò fece avviso, che molto fosse, per operare a fine di
concordia, il cacciare questi commettitori di scandali, di risse e di
sangue: per la qual cosa, senza rimanersene ai formali giudizj, nè
differendo contro di loro i rimedj severissimi, gli allontanava
confinandogli in terre estreme o forestiere. Purgata la Francia da
questi uomini turbolenti, pensava al ribandire dal lungo esiglio coloro,
che avevano seguitato la parte del re, od almeno detestato le
esorbitanze, che ai tempi più acerbi della rivoluzione si erano commesse
in Francia. Pochi furono eccettuati dal clemente editto, piuttosto per
lasciare un appicco a nuove grazie, che per altro fine. Rientravano gli
esuli, non sotto i tetti proprj, non nei beni loro posti al fisco, ma a
rivedere i monti, i fiumi, le valli, e l'aere natio; il che era pur
parte di felicità. Gradivano infinitamente queste cose agli amatori del
nome reale, e ne auguravano delle maggiori. Della contentezza loro
godeva il consolo, volendo arrivare alla dominazione assoluta
coll'appoggio dei regj, e dei repubblicani. In questi pensieri tanto più
volontieri si confermava, quanto non dubitava, che sarebbero andati a
grado delle potenze Europee, siccome quelle che vi vedevano l'intenzione
data da lui nei campi di Leoben e di Campoformio, di voler rimettere i
Borboni, desiderio primo e principale dei principi, massimamente
dell'imperatore Paolo. Sperava, nella cupezza sua, che con questi mezzi
acquisterebbe pace con Europa, e tanta potenza in Francia, che senza
pericolo potesse finalmente scoprirsi dello aver preso il dominio per
se, non per altri. Il reggimento statuito da lui in Francia, in cui
parti principalissime erano il senato ed il corpo legislativo, non gli
dava apprensione, perchè del senato lo assicuravano le ricchezze, del
corpo legislativo le ambizioni. L'avere poi ridotto le amministrazioni
delle province ad uno invece di molti fece gli ordini meglio eseguiti,
l'erario pingue: ogni cosa si volgeva alla monarchìa. Correndo i soldi,
i magistrati obbedivano, i soldati marciavano: tutti benedicevano il
consolo. Credere, che i principj astratti prevalgano alle borse piene, è
cosa da pazzo.

A tutti questi maneggi gran momento arrecavano gli scienziati ed i
letterati, siccome quelli che avevano molta autorità sui popoli,
massimamente in Francia, dove erano uniti in certa spezie di
congregazione, non per legge, ma per uso. Per la qual cosa il consolo
gli accarezzava, gli arricchiva, gl'ingrandiva. Adulava l'instituto, e
l'instituto lui. In questo non tutti andavano allo stesso modo. Alcuni
s'accostavano a lui per gli allettamenti, altri per fin di bene,
credendo, o che egli andasse per se, o che il potessero tirare colle
persuasioni a volere la libertà. Piacemi fra questi nominare Cabanis,
nel quale se fosse maggiore o il ben pensare, o il ben dire, o il bene
scrivere, o il ben fare, io distinguere non saprei: certo tutte queste
qualità erano in lui molto eminenti. Questo edifizio degli scienziati e
dei letterati molto il puntellava, parendo a tutti, che a chi piacevano
gli uomini civili, dovesse anche piacere la civiltà, e con lei la
libertà, la quale sarebbe il compimento, e quasi il fiore della civiltà,
se gli avari e gli ambiziosi non la guastassero.

Grande flagello, da che aveva principiato la rivoluzione, era sempre
stata la guerra della Vendea, nella quale con infinito furore
combattendo e repubblicani e regj, avevano sterminato popolazioni
intiere, desolato paesi altre volte fioritissimi, commesso quello che
solo commettono nelle civili discordie, e forse neanco in queste gli
uomini arrabbiati gli uni contro gli altri. La forza non l'aveva potuta
spegnere, perchè irritava, le tregue nemmeno, perchè mal fide: ormai si
nominava guerra interminabile. S'accorgeva il consolo, quanta grazia
acquisterebbe fra i popoli, se pacificasse quelle terre rosse di tanto
sangue Francese: applicovvi l'animo, venne a capo dell'impresa. Fra il
terrore del suo nome, l'apparato de' suoi soldati, le promesse di
osservar la fede, le speranze segretamente date di voler procedere più
oltre, vennero i capi della Vendea ad una onesta composizione: la
concordia tornava sulle rive dell'insanguinato Ligeri; Parigi
maravigliato vedeva i capi della Vendeese guerra. Ammiravano i popoli il
consolo pacificatore, uguale nel far le guerre, uguale nel far le paci.

Forti amminicoli a quanto macchinava, pensava che fossero gli uomini di
chiesa tanto maltrattati dal direttorio. Volle tirargli, e il fece
agevolmente. Diè patria ai preti fuorusciti, libertà ai carcerati,
sicuro vivere ai nascosti. Queste cose faceva apertamente, molte altre
prometteva segretamente: i preti tutti, anche quelli che col crocifisso
in mano avevano concitato le Vendeesi popolazioni contro i repubblicani,
amavano e fomentavano la sua grandezza. S'aggiunse, che onorò con
pietosi uffizj Pio sesto, papa morto, che aveva perseguitato vivo.
Ordinava per lui solenni esequie in Valenza di Delfinato; il chiamava
giusto, virtuoso, santo; affermava, avere per forza, e per mali consigli
fatto guerra a Francia. Questo favellare maravigliosamente piaceva a
coloro, che sentivano ancora di religione, massimamente ai ministri di
lei. Già non solo vincitore e riformator generoso del governo, ma ancora
instaurator pio dell'antica religione di Francia il chiamavano. Vacando
il trono pontificale per la morte di Pio sesto, eransi a questo tempo
adunati i cardinali in conclave a Venezia per intendere alla elezione
del nuovo pontefice. Temeva il consolo, che si creasse, dovendo la
elezione farsi in luogo suddito all'Austria, un pontefice troppo
aderente a questa casa con pregiudizio degl'interessi di Francia e
proprj. Perciò andava moltiplicando ne' suoi segni di affezione verso la
religione, e nutriva con grandi speranze i ministri di lei. Si poteva
facilmente pronosticare da questi primi favori, ch'ei voleva venirne,
quanto alle faccende ecclesiastiche, ad ordini legittimi e definitivi.
Ciò era cagione che i cardinali raccolti in Venezia non disperassero di
Francia, e non consentissero ad innalzare al pontificato un cardinale,
che si fosse dimostrato troppo contrario a lei. Si aggiungeva a favore
di Francia e del consolo, che non senza grave sospetto stavano i
cardinali intorno alle intenzioni dell'Austria rispetto al patrimonio
della chiesa. Le dimostrazioni da lei fatte di aver voluto far correre a
Roma Froelich, lo avere lui penato a ratificare la convenzione conclusa
tra Garnier, gl'Inglesi ed i Napolitani, e molto più il desiderio, anzi
la volontà evidentemente scoperta dall'Austria di serbarsi le legazioni,
gli avevano messi in sentore. Perlocchè desideravano di assicurarsi
dell'Austria per mezzo dell'amicizia di Francia. Questi umori erano
astutamente fomentati dal consolo e gli dettero facilità di fermare le
cose di Roma. Oramai si era accorto, che invece di combattere contro
l'Europa e la santa sede, era arrivata la stagione, in cui egli poteva
combattere, della santa sede servendosi, contro l'Europa; e siccome si
era pruovato, che il gridare libertà senza religione aveva avuto cattivo
fine, si risolveva a gridare libertà con religione insino a tanto che le
radici della sua potenza essendo ferme, potesse spegnere la prima, e
muovere a suo talento la seconda: tutto si volgeva a sua grandezza.

Ma primo ed universale desiderio della Francia tanto rotta e sanguinosa,
era la pace. Questa inclinazione assecondava il consolo, non che
sperasse di ottenerla con tutti, ma l'offerirla a tutti gli pareva
confacente a' suoi pensieri. Questo ad ogni momento inculcava, per
questo essere venuto dall'Egitto, abborrire la guerra, abborrire i
conquistatori, pregare Iddio, che gli concedesse tanto di vita, che
potesse dar pace alla Francia, pace all'Europa afflitte; solo per questo
desiderar di vivere, la guerriera gloria essergli venuta a tedio, solo
piacergli la pacifica. Questi discorsi faceva con sì efficaci parole, e
con fronte tanto pietosa, che tutto il mondo credeva che fossero
sinceri.

Pensava, che a' suoi fini molto valesse, e fosse molto ricercata dalle
cose presenti, se non la pace, la offerta almeno della pace
all'Inghilterra. Scriveva una molto bene elaborata lettera al re
Giorgio: la guerra avere forse ad essere eterna? Non esservi forse alcun
modo di finirla con qualche onesta composizione? Due nazioni grandi e
potenti dovere forse porre in non cale la ricchezza dello stato, la
felicità delle famiglie? Non sentir loro, non toccar con mano, la pace
siccome è la cosa più desiderata di tutte, così ancora essere la più
gloriosa? Sapere, che la Francia, e l'Inghilterra potevano per la
potenza loro ancora molto tempo straziarsi, ma sapere ancora, che il
destino di tutte le nazioni pendeva dal fine di una guerra, per cui
tutto il mondo ardeva. Rispose acerbamente per bocca del ministro
Grenville il re Giorgio, avere la Francia desolato la terra, avere i
medesimi principj e le medesime cagioni a partorire i medesimi effetti;
essersi servita dei trattati di pace, dei trattati d'alleanza a
distruzione degli amici, e degli alleati suoi; non sapersi, se il
governo nuovo prodotto da una rivoluzione nuova fosse per cangiar
d'opere, ed offerisse maggiore sicurtà a chi trattasse con lui; non
potersi fidare in proteste generali di desiderj pacifici; non vane
parole, ma l'esperienza sola poter convincere altrui, che altro si
voleva adesso, da quello che si era voluto prima; desiderare il re la
pace, ma sicura per se, sicura pe' suoi alleati; solo, e fidato mezzo di
sicura pace essere il rimettere in Francia quella stirpe di principi,
che per tanti secoli l'avevano governata con prosperità dentro, con
dignità fuori; nondimeno ciò accennare solamente il re alla Francia, non
richiedernela; non volere, nè pretendere prescrivere forma di
reggimento, o capi ad una nazione grande e potente; solo volere la
sicurezza sua, solo volere la sicurezza de' suoi alleati; essere per
venir volentieri ad un accordo, quando giudicasse di poter convenire con
sicurezza, ma per ancora non conoscersi sufficientemente i principj del
nuovo governo, non congettura probabile potersi fare dalla stabilità
sua. A questo modo furono abbandonati i ragionamenti della concordia tra
Francia ed Inghilterra. Pure ciò conseguì il consolo, che la
continuazione della guerra s'imputasse non a lui, ma al re Giorgio.

Erano tra Francia ed Inghilterra odio vivo, interessi diversi, vicinanza
gelosa, pace difficilissima: molto diverse condizioni passavano tra
Francia e Russia. Era l'Austria alleata naturale dell'Inghilterra, la
Russia per caso. Ciò si sapeva il consolo; neanco ignorava quali
freddezze corressero allora tra Francesco e Paolo. L'avere l'Austria
voluto por piede in Roma, il non aver voluto rimettere il re di
Sardegna, l'essere stati i suoi soldati aspramente trattati da Froelich,
l'avere l'arciduca Carlo abbandonato, correndo verso il Reno, Suwarow in
grave pericolo nella Svizzera, il manifestare in ogni cosa il desiderio
di un dominio universale in Italia, avevano raffreddato l'ardore di
Paolo, e fattolo indispettire contro il suo alleato, ancorachè egli
medesimo non avesse avuto l'animo alieno dallo avere un seggio sicuro,
per servirsene come di emporio e di scala, nel regno di Napoli, effetto,
che aveva tentato di conseguire per recenti negoziati col re Ferdinando.
Questa mala disposizione dell'imperatore Paolo verso l'imperatore
Francesco astutamente fomentava Buonaparte, vivamente rappresentando al
primo l'ambizione del secondo: volere, diceva, oltre gli stati di
Venezia, datigli in compenso dei Paesi Bassi, tenersi ancora lo stato di
Milano, e Mantova, ambidue conquistati in gran parte col valore, e col
sangue dei soldati Russi, nè contento a questo, appetire le tre
legazioni del pontefice; avere altresì capriccio sul Piemonte, e per
questo avere ostato a Suwarow, quando voleva restituire al suo antico
seggio il re Carlo Emanuele; quanto a lui non fare altro disegno sopra
l'Italia, se non quello di ridurla alle condizioni di Campoformio, di
render sicura la independenza del pontefice e del re di Napoli, di dare
sesto conforme, ed ordini più monarcali alla Cisalpina, di rimettere in
Piemonte il re di Sardegna, quando non si trovasse altro mezzo di un
onesto compenso. Quanto all'Inghilterra, rammentava il suo insolente
dominio sui mari, la generosità di Caterina dell'averlo voluto frenare,
la libertà del Baltico, e la franchigia dei neutri ai tempi di guerra
con magnifiche parole commendando. Aggiungeva a tutte queste
insinuazioni certe espressioni, che indicavano a Paolo la sua intenzione
di dar compimento alle pratiche incominciate per mezzo del conte
d'Entraigues della rinstaurazione dei Borboni. A sì fatte promesse e
protestazioni si lasciava muovere Paolo: il consolo, per fargli dar la
volta intieramente, pagava, provvedeva di tutto punto, e rimandava
liberi al loro signore i soldati Russi fatti prigionieri nelle guerre di
Svizzera e d'Olanda. Parve atto generoso, ed arra conveniente dei
disegni avvenire. Da tutte queste cose mosso il sovrano di Russia,
voltando lo sdegno, siccome quegli che era subito nelle sue risoluzioni,
da Francia contro Inghilterra, nè vedendo, perchè era di animo sincero,
quello che covasse sotto alle lusinghevoli parole del consolo, il
riceveva nella sua amicizia, e si riduceva alla sua volontà,
dichiarando, non voler più partecipare nella lega, e richiamava in
Russia le sue genti, che ancora stanziavano in Germania. Poscia,
accendendolo vieppiù le speranze dategli, rinnovava contro la potenza
marittima dell'Inghilterra i patti della lega del Nord, cacciava da
Pietroburgo gli agenti del re Giorgio, imputando agl'Inglesi l'esito
infelice della spedizione d'Olanda. Così Paolo, scostandosi
dall'amicizia d'Austria e d'Inghilterra, si precipitava in quella di
Francia. Parve a tutti, ed era veramente questa mutazione di grandissima
importanza, e fu forte sostegno all'esaltazione del consolo.

Rappacificatosi Buonaparte coll'imperatore Paolo, pensava a confermarsi
l'amicizia della Prussia. Non gli accadde di sforzarsi molto in queste
faccende, perchè, pieno sempre in tutte le sue azioni d'incredibile
simulazione e dissimulazione, ora con dare intenzione del non essere
alieno dal riporre i Borboni, ed ora col rappresentare l'ambizione
dell'Austria, ottenne facilmente che Federigo Guglielmo, perseverando
nell'amicizia fermata in Basilea, consentisse alle ultime mutazioni
fatte in Francia, e lui come capo del governo francese riconoscesse.

L'Austria restava sola sul suo continente contro la Francia. Tentava il
consolo l'animo dell'imperatore Francesco, offerendogli di tornare alle
stipulazioni di Campoformio, con quel di più, che si negozierebbe per
sicurezza delle monarchìe, e delle possessioni Austriache in Italia.
Ripugnava l'Austria al rinunziar del tutto ai frutti delle ultime
vittorie, e le pareva cosa enorme, conservando gli stati Veneti, che gli
erano stati dati in ricompensa del Brabante, il non conservare lo stato
di Milano, antica sua possessione, riconquistata principalmente per gli
sforzi e pel sangue de' suoi soldati. Nè si fidava punto delle promesse
di Buonaparte, siccome quella, che avendo avuto con lui molti e spessi
negoziati, conosceva di che sapesse. Non gli sfuggiva oltre a ciò, che
il rimettere Buonaparte nello stato di Milano, importava il rendere
incerta e vacillante la possessione degli stati Veneti, e che con un
uomo tanto attivo, glorioso e superbo, qual era veramente il consolo,
non poteva senza pericolo consentire allo spartimento con esso lui della
signorìa d'Italia. In mezzo a tutti questi pensieri si accostarono le
instigazioni dell'Inghilterra molto intenta a difficoltare queste
pratiche, perchè vedeva nel mondo quieto la sua ruina. Offeriva denaro,
e cooperazione sulle coste di Francia. Per le quali cose, e considerato
altresì, che i veterani di Buonaparte erano periti o di peste in Egitto,
o di ferro in Italia, si risolveva Francesco a ricusare la concordia, ed
a voler pruovare, che cosa seco portasse la fortuna della guerra. Godeva
Buonaparte parimente dell'offerta, e della rifiutata pace, perchè non
aveva sincero desiderio di convenire coll'Austria. Così fermando la
maggior parte del mondo in suo favore, confermava in Francia i contenti,
cattivava gli scontenti, e parte con fatti, parte con isperanze
conseguiva, che l'universale dei Francesi amasse il suo governo,
desiderasse la sua grandezza, e volentieri si disponesse a fare quanto
ei desiderasse: precipitavano i popoli a tutte le sue volontà. Tutta
Francia correva alle nuove sorti, e se Buonaparte generale l'aveva fatta
gloriosa in guerra, tutti confidavano, che Buonaparte consolo la farebbe
e gloriosa in guerra e felice in pace.

Quanto alla guerra ottimamente considerati furono i suoi consigli:
mandava nuove genti, quasi tutte veterane, a Moreau confermato da lui al
governo dei Renani, il quale doveva sostenere il pondo degli Austriaci
in Germania. Dall'altro lato, avendo sempre più i pensieri accesi alla
ricuperazione d'Italia, inviava in Liguria Massena, acciò facesse pruova
di tener lontano il nemico dalle frontiere di Francia, e conservasse il
possesso di Genova, fino a tanto che egli medesimo con un forte esercito
arrivasse nelle pianure d'Italia. Congregava molti soldati veterani, e
molti nuovi in Digione, donde pensava, secondochè gli mostrasse il tempo
e le occasioni, o di condursi in Germania, se Moreau abbisognasse del
suo ajuto, od in Italia se il generale dei Renani combattesse
felicemente. Di questo aveva grande speranza per la perizia di Moreau, e
la fortezza delle genti accolte sotto a lui. Per la qual cosa il suo
principale intento era di condurre le genti adunate in Digione, che col
nome di esercito di riserva chiamava, nei campi d'Italia, pieni ancora
della fama di tante sue vittorie. A questo modo adunque ordinava la
guerra contro l'Austria, che nel corno destro estremo guidasse i
repubblicani Massena, nel sinistro Moreau, nel mezzo prima Berthier, poi
egli stesso. Certamente nè pruovati, ne più eccellenti, nè più famosi
capitani di questi non erano mai stati al mondo, e da loro aspettavano
gli uomini maravigliati fatti maravigliosi.

Essendo la guerra imminente gridava con la vincitrice voce Buonaparte a'
suoi soldati: «Quando promisi la pace, in nome vostro la promisi: voi
siete quegli uomini medesimi, che conquistaste la Olanda, il Reno,
l'Italia, voi quelli stessi, che già vicini, sforzaste alla pace la
spaventata Vienna. Soldati, avete voi ora ben altro carico, che quello
di difendere le frontiere vostre: ite, invadete, conquistate i nemici
territorj. Voi foste già tutti a molte guerre, voi sapete che per
vincere, e' bisogna soffrire: in poco d'ora non si possono ristorare i
danni di un cattivo governo. Dolce sarammi, a me, primo magistrato della
repubblica, il poter dire alla Francia attenta, questi sono i più
disciplinati, i più bravi sostegni, che si abbia la patria. Sarò,
soldati, quando fia venuto il tempo, sarò con voi. Accorgerassi
l'Europa, che voi siete quella valorosa stirpe, che già tante volte a
maraviglia la costrinse». Così aggiungendo impeto a valore, faceva
uomini fortissimi alle battaglie.

L'esercito Italico afflitto dalle disgrazie titubava; i soldati
rompevano i freni dell'obbedienza: già la stagione si rendeva propizia.
Buonaparte vincitore mandava loro dicendo: «Non odono le legioni le voci
dei loro ufficiali; lasciano la diecisettesima sopra tutte, le insegne.
Adunque son morti tutti i bravi di Castiglione, di Rivoli, di Newmarket?
Avrebbero essi eletto il perire, piuttostochè abbandonar le insegne. Voi
parlate di provvisioni manche: che avreste fatto, se come la quarta, e
la vigesima seconda leggiere, la diciottesima, e la trigesima seconda
grosse, fra deserti, senza pane, senz'acqua, a mangiar ridotte carni di
sozzi animali, trovati vi foste? La vittoria, dicevano, ci darà pane, e
voi disertate le insegne! Soldati dell'esercito Italico, un nuovo
generale vi governa: quando più splendeva la gloria vostra, ei fu sempre
il primo fra i primi. In lui fidatevi, con lui andrete a nuove vittorie.
Sarammi, così comando, dato conto di quanto ogni legione farà, massime
la diecisettesima leggiere, e la sessagesima terza grossa:
ricorderannosi della fede, che già ebbi in loro».

Queste parole maravigliosamente accendevano quegli animi valorosi. Era
l'esercito Italico, in cui si noveravano poco più di venticinque mila
soldati, distribuito nelle stanze al modo che segue. La destra governata
dal generale Soult, da Recco in Riviera di Levante per monte Cornua e
Torriglio, e dalla Bocchetta per Campofreddo, Stella, Montelegino in
riviera di Ponente sino a Cadibona e Savona si distendeva; presidiava
Gavi e Genova, in cui alloggiava il generalissimo Massena. La sinistra,
che obbediva al generale Suchet, custodiva la riviera di Ponente da Vado
fino al Varo con presidj posti nei principali luoghi di monte San
Giacomo, Settepani, Santo Stefano, Madonna della Neve, Montecalco,
Montegrosso, e nei sommi gioghi dell'Alpi Marittime; fronte certamente
troppo lunga per potersi guardare convenientemente con sì poche genti.
Ma Genova necessitava i consigli dei Francesi, perchè importava ai
disegni ulteriori del consolo, ch'ella si tenesse lungamente, e voleva
Massena conservarsi un campo largo per le tratte delle vettovaglie, di
cui penuriava, il che l'aveva fatto risolvere a non cedere le riviere,
se non quando a ciò fosse sforzato.

Da un'altra parte Melas, il quale, abbenchè fosse guerriero avveduto e
sperimentato, e forse appunto perchè era, non poteva persuadere a se
medesimo, che le genti raccolte in Digione fossero una tempesta, che
avesse a scagliarsi contro l'Italia, parendogli impossibile, che dopo
tante rotte avessero potuto i repubblicani in così poco tempo raccorre
genti, ed armi sufficienti per fare un moto di tanto momento su quei
campi stessi dove e donde erano stati, pochi mesi innanzi, da lui vinti
e cacciati. Non misurava egli bene la prontezza di Buonaparte, nè la
docilità dei Francesi a correre là dove il nome suo e la sua voce gli
chiamavano. Laonde ei se ne viveva troppo alla sicura su quanto potesse
succedere alle spalle, e sul suo destro fianco. Ciò fu cagione, che
tutto intento al cacciare il nemico dalle riviere e da Genova, egli
indirizzò tutto lo sforzo contro un'ala estrema delle forze Francesi,
contro passi difficili, contro rocche sterili, lasciando per tal modo
aperto il campo all'avversario allo scendere nelle grasse e facili
pianure della Lombardìa con tutto il pondo della mezzana parte delle sue
forze. Dagli accidenti, che si racconteranno, sarà manifesto, che Melas
commise un gravissimo errore, perchè fosse appunto quello che Buonaparte
desiderava che facesse; il che tanto è vero, ch'io sto per credere, che
l'aver lasciato le riviere di Genova con presidio sì debole, tanto
disteso la sua fronte, e continuato nella possessione della capitale
della Liguria, siano stati piuttosto astuzie di Buonaparte per allettar
Melas con la facilità dell'impresa a portar la guerra in questi luoghi,
che errore od impotenza. Ad ogni modo non si vede, quale grande momento
potesse recare all'Austria l'impadronirsi di Genova, che non poteva, e
forse non voleva, e delle riviere, che certamente nè poteva, nè voleva
conservare. La speranza poi, che il comparire delle Austriache insegne
sulle frontiere di Francia fosse per farvi muovere i popoli contro
Buonaparte, era del tutto vana, e certamente tale parrà a chi abbia
conosciuto la natura di quei tempi. Non in Francia, nè sulle rocche
Liguri, ma nelle grasse pianure del Piemonte e della Lombardìa si aveva
a giudicare la lite, se a discrezione di Francia o d'Austria dovesse
restare esposta l'Italia. Perciò gli Austriaci, che erano padroni dei
passi, gli doveano guardare gelosamente, ed anche star grossi nella
pianura, non andarsi a sprolungare in un estremo punto del campo di
guerra. Andando Melas dall'uno lato contro Genova, dall'altro contro
Nizza, voltava le spalle a Buonaparte, che veniva da Digione, caso di
guerra molto singolare, che dinotava nel generale Austriaco, o troppa
confidenza in se medesimo, o troppa ignoranza dei disegni già
pubblicamente accennati dell'avversario, o troppo falsa misura di quanto
questi potesse fare in breve tempo con que' suoi Francesi tanto
confidenti in lui, tanto pronti alle armi, tanto impazienti delle rotte,
tanto gelosi dell'onor militare.

Gli Austriaci, che molto prevalevano pel numero a Massena, erano per
modo alloggiati, che tutto il territorio Ligure fasciando, da Sestri di
Levante per la sommità degli Apennini opposte a quelle, che occupavano i
Francesi, si distendevano fino al colle di Tenda. Governavano a sinistra
Otto, poi seguitando a destra Hohenzollern, a Novi, rimpetto a Gavi, ed
alla Bocchetta; il generalissimo Melas al Cairo; Esnitz a Ceva
all'incontro di Suchet, e finalmente sulla estrema punta destra Morzin
fra Cuneo e le falde del colle di Tenda. Accingendosi Melas ad invadere
il Genovesato, preambolava con parole dolci ad aspri fatti. «Genovesi,
diceva, io vengo nella vostra patria, non per conquistare, nè per
soggiogarvi, ma per combattere un nemico, che uguaglianza e libertà
promettendovi, vi ridusse, come tanti altri disgraziati popoli, alla
miseria ed alla disperazione. L'imperator mio signore non desidera
conquiste, solo vuole levarvi dal collo il giogo al quale vi ha posti un
intemperante conquistatore; ei vuole che siano salve le proprietà, salva
la religione, salvi e felici i popoli. Ei lo vuole, ed ei lo fa:
guardate le provincie dalle nostr'armi restituite a libertà. Nè meno
tenero egli è della vostra patria. Chiamerò in nome suo al governo i più
virtuosi, i più savj cittadini che siano fra di voi. Liberi saranno i
porti, libero il commercio, vera ed unica fonte della prosperità vostra:
la miseria cambierassi in ricchezza, l'oppressione in libertà; io
vincitore, di ciò v'affido e v'assicuro».

Un Azzeretto Genovese, prima ai soldi di Francia, poi a quei d'Austria,
faceva similmente in questi giorni preparazione per turbare le cose di
Genova. Impetuosamente procedendo, pur troppo acerbe ed immoderate
parole gettava contro i Francesi in un suo manifesto, ed esortava i suoi
compatriotti a combattergli, ed a vendicarsi in libertà. Le armi
dovevano definire, ed alle armi si veniva, perchè non si fece pei
Genovesi alcun movimento in favor della lega, secondo le speranze date
dal fuoruscito Azzeretto.

Aveva Melas condotto il grosso de' suoi alle stanze delle Carcare,
intendimento suo essendo di spignersi avanti, cacciando gli avversarj
dai sommi gioghi a Savona, per separare e disgiugnere in tale modo l'ala
sinistra dei Francesi dalla mezza, e dalla destra che combatteva nella
riviera di Levante. Ottenuto il quale intento, gli si spianava la
strada, essendo questo l'ultimo fine de' suoi pensieri, a serrare
Massena dentro Genova, ed a costringerlo alla dedizione. Ma perchè il
generale di Francia non potesse far correr gente dalla riviera di
Levante in ajuto di quelle che dovevano sostenere l'assalto su quella di
Ponente, ordinava a Otto, che assaltasse i Francesi alloggiati sotto la
condotta di Miollis, a Recco, Torriglio, Scafera, Sant'Alberto, monte
Cornua, monte Becco, e monte delle Fascie. Melas voleva al tempo stesso
che Hohenzollern desse dentro ai posti della Bocchetta, e ad ogni modo
gli conquistasse. Spuntava appena il giorno dei sei aprile, che i
Tedeschi, partendo dalle Carcare divisi in tre schiere, s'incamminavano
alle ordinate fazioni. La mezzana condotta da Mitruschi, marciando per
Altare e per Torre, si avvicinava a Cadibuona, posto molto fortificato
dai Francesi, e chiave e momento principale di tutta quella guerra. Il
generale San Giuliano colla sinistra faceva opera d'impadronirsi di
Montenotte per quinci accennare contro Sassello, dove alloggiava un
grosso corpo di repubblicani. Finalmente la destra, che obbediva ad
Esnitz ed a Morzin, passando per le Mallare, ed avvicinandosi alle fonti
della destra Bormida, aveva carico di sforzare i passi del monte San
Giacomo. Questi assalti con molt'arte ordinati a questo fine tendevano,
che per gli Austriaci si occupasse Savona; perchè per tal modo restava
smembrato Suchet da Massena. Si combattè dapprima da ambe le parti molto
valorosamente a Torre, avendo gli Austriaci il vantaggio del numero, i
Francesi del luogo. Finalmente superarono i primi quell'antiguardo, e
tutto lo sforzo si ridusse sotto le trincee di Cadibuona. Quivi fu molto
duro l'incontro, e la battaglia si pareggiò lungo tempo: ma finalmente
fe' dare il crollo in favore delle armi imperiali la mossa di un
valoroso battaglione di Reischi, il quale, assaltate di fianco le
trincee, costrinse i repubblicani alla ritirata, non senza tale
disordine delle ordinanze, che se non fosse stato presto Soult a
sopraggiungere con ajuti freschi, sarebbero stati condotti a molta
ruina. Ma non potè nemmeno la presenza e l'opera di Soult ristorare la
fortuna; perchè gli Austriaci, seguitando l'impeto della vittoria,
obbligarono il nemico a ricoverarsi, girando a stento per quelle sommità
di monti, al monte Ajuto, munito ancor esso di qualche fortificazione.
Volle Melas torre quel nuovo ricetto al nemico, mandò all'assalto
Lattermann e Palfi con cinque battaglioni di granatieri, e col
reggimento di Spleny. Gli uni e l'altro fortemente urtando, i primi da
lato, il secondo da fronte, sloggiarono i Francesi da quel forte sito, e
se ne impadronirono. Fecero i repubblicani una nuova testa a Montemoro:
Melas, combattendogli da fronte, e girando loro alle spalle ed ai
fianchi, dall'una parte verso Vado, dall'altra vesso Arbizzola, e dando
perciò loro timore di essere tagliati fuori, gli costrinse a dar
indietro col ritirarsi disordinatamente a Savona. Seguitarongli,
pressandogli molto alle terga, i vincitori, e con essi alla mescolata
entrarono nella città. Soult, non standosene ad indugiare, introdotta
nella fortezza quanta vettovaglia potè in quell'improvviso e pericoloso
accidente, si ritirava a Varaggio, dopo di aver combattuto piuttosto da
vincitore che da vinto gl'imperiali, che già erano scesi ad Arbizzola.
Riuscirono molto micidiali quest'incontri alle due parti: i Francesi
patirono di vantaggio, trovandosi in minor numero.

Frattanto Esnitz aveva assaltato monte San Giacomo custodito da Suchet,
che virilmente vi si difendette qualche tempo. Ma le rotte di Cadibuona
e di monte Ajuto, colla occupazione di Savona, rendendo le sue
condizioni molto pericolose, fe' sgombrare i suoi da quel forte sito,
abbandonando anche gl'importanti posti di Settepani, Santo Stefano, e la
Madonna della Neve. Fece una valida resistenza a Melogno Seras: poi fu
costretto a ritirarsi, ma minaccioso e contrastante, le mosse retrograde
degli altri seguitando. Entrarono gli Austriaci vittoriosi in Vado.
Suchet per le terre di Finale, Gora, Bardino, la Pietra, e Loano
indietreggiava fino a Borghetto.

Nè meno felicemente si era combattuto per gli Austriaci in riviera di
Levante, ed alla Bocchetta; perchè Otto assaltando con molto impeto
monte Cornua, dopo grave contrasto, il superava. Superarono
medesimamente gli Austriaci monte delle Fascie, costringendo i Francesi
a ritirarsi insino a Quinto. I posti di Torriglio e di Scafera vennero
anche in potestà degl'imperiali, essendosi ritirati i repubblicani, che
gli difendeveno, a Prato. Così la Sturla sotto, il Bisagno sopra
separavano i due nemici, e gli Austriaci dall'eminenza del monte delle
Fascie vedevano, ed erano veduti da Genova; il che era cagione di
terrore agli addetti alla parte Francese, di conforto a coloro che
parteggiavano per gli Austriaci e per l'antico governo.

Fortissimo era l'alloggiamento dei Francesi alla Bocchetta, e molto
ardua la sua espugnazione, avendo voluto assicurarsi di quella strada
facile ed aperta contro il nemico, che venisse dai piani della
Lombardia. Gli assaltava Hohenzollern coi due reggimenti di Kray e
d'Alvinzi condotti dal generale Rousseau, e l'una dopo l'altra, non
senza però molto contrasto e sangue, si recava in mano, conquistando
tutte le trincee e le artiglierìe che le guernivano. Per questa fazione
acquistarono gli Austriaci il passo nella valle della Polcevera, con la
facoltà di stringere più da vicino Genova. Rannodaronsi i Francesi a
Pontedecimo.

Massena, che prevedeva che non avrebbe potuto tenersi lungamente in
Genova, se gl'imperiali fossero troppo vicini alla mura, perchè più
presto gli sarebbero mancate le vettovaglie, fece pensiero di
allargarsi. Siccome poi era uomo generoso e d'animo invitto, non
contentandosi al volersi acquistare un campo più largo, benchè fosse
molto inferiore pel numero dei soldati al nemico, si deliberava a far
opera di rompere gli Austriaci sulle alture sopra Savona per
ricongiungersi con l'ala governata da Suchet. A questo fine gli mandava
dicendo, che attendesse ad assaltar il nemico, ed a ricuperare i luoghi
perduti di Settepani, Melogno e San Giacomo. Perchè poi Otto non potesse
mandar soccorsi a Melas, ordinava a Miollis, che si sforzasse di cacciar
gli Alemanni dal monte delle Fascie, dal monte Cornua, e da altri luoghi
circonvicini. Riusciva a Miollis felicemente l'impresa. Fecero gli
Alemanni grave perdita in questo fatto di morti, feriti e prigionieri.
Ma l'evento della guerra, ed il destino di Genova erano per giudicarsi
nella riviera di Ponente. Pensava Massena a riuscire, rotti i Tedeschi
sui monti, nelle vicinanze del Cairo, dove Suchet doveva venire a
congiungersi con lui, se avesse potuto superar le alture, sopra le quali
i nemici si erano fortificati. Marciava Massena inferiormente più
accosto al mare per assaltar Montenotte, Soult superiormente, e a destra
per impadronirsi di Sassello, quindi del monte dell'Armetta, poi di
Mioglio, e del ponte Invrea. Quivi avrebbe potuto unirsi a Massena
venuto da Montenotte. Così uniti speravano di poter marciare verso il
Cairo, confidando anche di trovarvi Suchet. Soult, percosso in sul primo
giungere un corpo Austriaco, che posto a Nostra Donna dell'Acqua il
poteva battere sul suo fianco destro, ed avendo vinto, e cacciato sino
alle sponde del torrente Piotta oltre i monti, superava ogni ostacolo,
s'impadroniva di Sassello, e più oltre procedendo recava in poter suo la
cresta importante del monte Armetta. Ripreserla i Tedeschi,
racquistaronla i Francesi dopo un gagliardo scontro: in questi impetuosi
e spessi affrontamenti si spargeva molto sangue. Restava superiore
Soult, che in tutti questi fatti sostenne le voci di capitano forte, ed
esperimentato alla guerra. Nè più altro impedimento gli restava a
superare per arrivar al compimento del suo disegno per al Cairo, se non
se i posti di Mioglio, e di ponte Invrea. Vi sarebbe anche riuscito,
come pare non potersi dubitare, se la fortuna si fosse scoperta tanto
favorevole a Massena, quanto si era scoperta a lui. Ma le cose
succedettero sinistramente nella parte condotta dal generalissimo. Si
era Melas mosso, non presumendo che tanta audacia s'allignasse nei
Francesi, che potessero far pensiero di attaccarlo, per andare ad
assaltar Voltri col fine di congiungere le sue genti con quelle di
Hohenzollern, e di serrare Genova. Trovò che i Francesi lo avevano
prevenuto, che Soult già tanto si era inoltrato, che il suo fianco
sinistro non era più sicuro, e che correva pericolo, che le due ali di
Massena e di Suchet si unissero sulle rive della Bormida; il che gli
sarebbe stato di gravissimo pregiudizio. Gli sopravvennero in questo
punto le ingratissime novelle, che la squadra di San Giuliano, ferita
con molta gagliardìa da Soult alla Veirera, aveva patito molto danno, e
retrocedendo frettolosamente era stata costretta a ritirarsi a ponte
Invrea. In questo pericoloso punto Melas, non turbata la mente, nè
diminuito l'animo, si appigliava prestamente ad un partito, che solo il
poteva riscuotere dal mal passo in cui era ridotto. Avvisò che l'evento
della battaglia pendeva dalla schiera di Massena, e che se gli fosse
venuto fatto di obbligarla a ritirarsi rotta e sconquassata, sarebbe
stato Soult obbligato a tornare indietro. Riuscì la fazione, come
l'aveva preveduta. Riscontratosi con un corpo assai grosso di Francesi a
Stella, lo rompeva, non senza molta uccisione. Poi seguitandolo fino a
Croce, e combattendo di bel nuovo in questo secondo sito lo sbaragliava.
Al tempo medesimo Lattermann, viaggiando sulla spiaggia, s'impadroniva
di Varaggio, che era stato l'alloggiamento principale, donde poco
innanzi Massena era partito per andare alla fazione di Montenotte. Penò
molto Massena, dopo questa rotta, a condursi a sicuro luogo in
Cogoletto; perchè gli fu forza, essendo la strada a riva il mare in
potestà di Lattermann, camminare per luoghi erti e montuosi. Melas,
conoscendo, che il non dar respiro a Massena, era un vincere Soult,
mandava prestamente Lattermann ad assalir Cogoletto. I granatieri di San
Giuliano ferirono con molta forza i Francesi già stanchi e diradati, e
già gli facevano piegare. Gli bersagliavano al punto stesso gl'Inglesi
accostatisi al lido colle loro barche armate di artiglierìe. Finalmente
venne a precipitarsi contro di loro la cavalleria Austriaca. Pressati da
tutte bande, non poterono resistere, e disordinati si ritirarono
precipitosamente ad Arenzano, ma piuttosto per modo di posata, che
d'alloggiamento stabile.

Massena, non credendosi sicuro in questa terra, si tirava più indietro
sino a Voltri. Quivi poneva il campo, non per dimorarvi, perchè
Lattermann, che si avanzava vittorioso da fronte, e Hohenzollern, che
romoreggiava dalla superiore Polcevera, ciò gli toglievano, ma solamente
per aspettarvi Soult, che percossi invano con assalto ponte Invrea e
Mioglio, e udito il caso sinistro di Massena, si ritirava a presti
passi. Infatti si raccozzarono i due generali della repubblica a Voltri.
Melas, riunite tutte le sue forze, gli ne cacciava, e perseguitandogli
aspramente con facelle accese, perchè era sopraggiunta la notte, gli
costringeva a varcare la Polcevera pel ponte di Cornigliano, a ripararsi
del tutto dentro le mura di Genova, ed a desistere da qualunque assalto
alla campagna.

Suchet, combattuto prosperamente a Settepani, a Melogno, ed in altri
luoghi circonvicini di quei monti, ma ributtato con grave uccisione da
San Giacomo, fu costretto a tornarsene indietro, senza aver potuto
compir l'impresa.

Mentre che le cose dell'armi procedevano in questa forma a Voltri, Otto
aveva rincacciato Miollis dai monti Cornua e delle Fascie, per modo che
il Francese impotente al resistere aveva preso partito di ritirarsi
nella valle del Bisagno, e sulla destra sponda della Sturla. Così
Massena privato della campagna, si era ridotto a difender Genova, ed i
luoghi più vicini. Presidiava Miollis il forte Richelieu, ed il monte
del Vento, distendendosi oltre il Bisagno sino al forte dello Sprone.
Verso Ponente il generale Gazan teneva la riva sinistra della Polcevera
fino a Rivarolo, ed inoltrando l'ala sua destra fino al monte dei Due
Fratelli, ed al forte Diamante, si congiungeva con Miollis. Massena con
la grossa schiera alloggiava in città. Intanto le frontiere della
republica sull'Alpi Marittime restavano esposte all'impeto Tedesco.
Piantava il generalissimo d'Austria il suo alloggiamento in Sestri di
Ponente; ma non volendo lasciar indebolire la fama dei recenti fatti, nè
dare tempo a Suchet di ricevere rinforzi, si accingeva a cacciare per
forza il generale di Francia da tutta la riviera di Ponente. Vinselo in
una fazione improvvisa a Torìa: recatosi in mano il colle di Tenda, il
minacciava alle spalle, e sul fianco sinistro. Suchet, che era capitano
esperto, avendo fatto quanto per lui si poteva colle poche forze che gli
restavano, per ritardar il corso al nemico, si ritirava sulle terre
dell'antica Francia oltre il Varo. Solo lasciava guernigioni sufficienti
nei forti di Ventimiglia e di Montalbano, affinchè il paese di Nizza non
rimanesse tutto in preda all'avversario. Il seguitava l'Allemanno, ed
impossessatosi di tutta la contea di Nizza, compariva sulla sinistra del
fiume. Alloggiavano gli Austriaci ascendendo dal mare sino ad
Aspramonte. I Francesi, per impedire il passo al nemico, avevano
fortificato assai gagliardamente con trincee e terrapieni un capo di
ponte, ed alloggiato all'incontro nei siti più guadosi; la principale
stanza loro era a San Lorenzo. Vennero quivi ad annodarsi alcuni
reggimenti, sebbene deboli, di regolari; chiamavano le guardie nazionali
della Provenza. Sapendo poi, che il miglior mezzo per vincere è l'essere
informato dei disegni del nemico, aveva Suchet provveduto, che un
telegrafo piantato sul forte di Montalbano, lo accontasse ad ora ad ora
delle mosse di Melas. Ciò fu cagione, che non così tosto il Tedesco
faceva un apparecchio, il Francese si apprestasse a combatterlo. In
questo tempo ebbersi le novelle che il forte di Ventimiglia si era
arreso alle armi imperiali, arrendevasi altresì al generale San Giuliano
il castello di Savona. Intanto si combatteva aspramente sulle rive del
Varo. Due volte i Tedeschi assaltarono con singolare audacia il ponte,
la prima volta Melas medesimo, la seconda Esnitz; due volte furono con
uguale valore risospinti. Risplendettero in questi fatti la perizia di
Suchet, e la prodezza del generale Rochambeau. Risplendè anche molto
chiaramente l'ingegno, e la virtù del generale Campredon, che aveva
fortificato il ponte. In tale modo con somma sua lode, ed utilità grande
della repubblica, difendeva Suchet il territorio di Francia, e secondava
l'opera immensa concetta dal consolo.

Già il canuto e vittorioso Melas si accorgeva, che era caduto
nell'insidia tesagli dal giovane guerriero, e che, non che fosse tempo
di conquistar la Provenza, gli era forza pensare di conservare, se ancor
potesse, l'Italia. Erangli giunti i primi avvisi del calarsi Buonaparte
dalle Pennine Alpi: ebbe sulle prime il fatto in poco concetto: errò nel
credere, che il consolo fosse uomo da comparir debole sulle sommità
delle Alpi; avrebbe anzi dovuto persuadersi, che dov'era Buonaparte, là
fosse tutta la fortuna della guerra, là covasse la ruina dell'Austria.
Mandava sui primi romori una schiera in Piemonte pel colle di Tenda; ma
quando s'accorse, che se la fama era stata grande, il fatto era più
grande ancora, si risolveva a torsi velocemente da quell'estremo ed
infruttuoso campo, dove combatteva, per condursi in quei luoghi, nei
quali vincitore avrebbe a far con vincitore. Ordinava Melas ad Esnitz,
che aveva lasciato alla guerra contro Suchet, prestamente si tirasse
indietro, e venisse od a raggiungere Otto, che instava contro Genova, se
Genova ancora si tenesse, o lui stesso nei piani d'Alessandria, se la
capitale della Liguria già avesse ceduto alle armi d'Austria. Ritiravasi
Esnitz, seguitavalo velocemente Suchet. Serratogli ogni passo pel
Genovesato, si riparava l'Alemanno per la valle d'Ormea nelle Piemontesi
contrade; il Francese spintosi avanti stringeva il castello di Savona.

A questo tempo consisteva la guerra in due accidenti principalissimi:
l'assedio di Genova, e la scesa di Buonaparte in Italia: l'uno era
strettamente congiunto coll'altro. Otto faceva ogni sforzo per
impadronirsi della piazza, bramando di poter correre alla guerra
definitiva nei campi d'Alessandria. Massena, che per coraggio e per
l'arte de' suoi uffiziali, e dei patriotti fuorusciti del Piemonte, che
andavano e venivano a portar novelle, traversando con estremo pericolo
loro gli alloggiamenti dei Tedeschi, era bene informato di quanto
accadesse sulle Alpi Pennine, desiderava più lungamente che possibil
fosse tenerla, per la ragione contraria. Nacquero da questa sua
ostinazione fatti molto memorandi, e tali che raramente si leggono nei
ricordi delle storie. La città capitale della Liguria, posta a guisa di
anfiteatro, dond'ella fa magnifica mostra, sul dorso dell'Apennino tra
la Polcevera e il Bisagno, è chiusa da due procinti di mura, uno più
largo, l'altro più stretto. Sono questi due procinti muniti di bastioni
e di cortine consenzienti alla natura del luogo aspra, scoscesa e
disuguale.

Il primo incominciando dalla riva destra del Bisagno in riviera di
Levante sotto alle porte Romana, e Pila, s'innalza sul dorso del monte
sino al forte dello Sprone, donde volgendosi a ponente, e fasciando la
città, dopo di essersi rizzato in un forte, che chiamano la Tanaglia,
presso alla Crocetta, se ne va a terminare presso alla Lanterna, ed al
molo nuovo. Il secondo partendo da levante gira accosto, e ferma le
mura; ma s'interrompe a mezza strada, e non arriva sino al molo nuovo.
La parte più difendevole è il forte dello Sprone, ma siccome è
sottoposto a più alti gioghi, e da loro dominato, così fu d'uopo
piantarvi due forti, uno sul monte dei Due Fratelli, l'altro più in su,
a cui per la sua forma fu dato il nome di forte del Diamante. Chi ha in
mano questi due forti, si può stimar padrone di Genova, perchè stanno
sopra a tutte le altre fortificazioni. La parte più debole del procinto
trovandosi al luogo più basso verso la foce del Bisagno, si pensò a
munire con forti le eminenze vicine, cioè con quello di Quezzi il monte
del Vento, con quello di Richelieu il monte Manego, e finalmente con
quello di Santa Tecla la eminenza di questo nome. Nè ciò bastando alla
difesa di questa parte, si fecero trincee sui monti vicini dei Ratti,
delle Fascie, e di Becco. Tali erano le difese di Genova, quando stava
in propria balìa: elle bastavano, perchè con breve assedio non si poteva
prendere, i lunghi erano impossibili per le emolazioni delle potenze.
Consistevano le difese vive di Massena in diecimila soldati Francesi;
aveva con se Soult, Gazan, Clauzel, Miollis, Darnaud. Accostavansi a
queste forze circa due mila Italiani di nazione diversa, ordinati da
Massena in corpo regolare sotto la condotta di un Rossignoli Piemontese,
uomo di natura molto generosa, di gran cuore, ed amantissimo della
libertà. Le corroborava la guardia nazionale di Genova, fedele, parte
per amore di Francia, parte per odio d'Austria, parte per paura del
sacco, se qualche accidente contrario alla quiete sorgesse. Queste genti
unite insieme non componevano certamente un presidio sufficiente per un
sì vasto circuito. Inoltre vi si viveva in molta apprensione per le
vettovaglie, massime di grani.

Gl'Inglesi governati da Keit, impedivano le provvisioni di Corsica e di
Marsiglia. Del governo, che era allora in Genova, poche cose dirò. Non
era nè più libero, nè più servo dei precedenti, e vi era stata fatta una
gran mutazione di forma, poichè, spento il direttorio in Francia, la
moda empirica e servile volle che si spegnesse anche in Liguria:
creossi, in luogo del direttorio, una commissione di governo. Lodossi il
cambiamento, pure secondo la corrente servile. Questo con buona volontà,
ma sommessa ed umile, perchè il pericolo e le lunghe disgrazie avevano
rotto gli animi, secondava Massena.

La forza che investiva Genova era molto varia. Il principal nervo
consisteva in Tedeschi; ma con loro andavano congiunte torme numerose di
villani sì Genovesi delle due riviere, che Monferrini, i quali non mossi
da alcun desiderio buono, ma dall'odio, dalla vendetta, e dall'amor del
sacco, erano accorsi alle voci di Azzeretto, uomo che era stato
incomposto e rotto, quando militava coi Francesi, ed ora si mostrava
incomposto e rotto, militando coi Tedeschi. Nè piccolo momento recavano
alla oppugnazione le navi Inglesi e Napolitane, non solamente con
intraprendere i viveri sul mare, ma ancora coll'ajutare, fulminando le
spiaggie, gli sforzi degli Austriaci, principalmente verso il Bisagno,
dove i luoghi avevano contro il mare minore difesa, che verso la
Polcevera. Fece Otto, che soprantendeva all'assedio, il dì ventitre
aprile una grossa fazione sulla sinistra della Polcevera. Il reggimento
di Nadasti, cacciati prima i Francesi da Rivarolo, s'impadroniva anche
di San Pier d'Arena. Ma uscito Massena colla vigesima quinta gli
rincacciava. Sapevano gli assalitori, che la parte più debole della
piazza era verso levante. Però si deliberarono a darvi un assalto,
tentando di occupar le eminenze. Il dì trenta aprile, prima che
aggiornasse, givano all'assalto per modo che Hohenzollern e Palfi si
lanciavano contro il monte dei Due Fratelli, il colonnello Frimont,
scendendo dal monte delle Fascie, si avventava contro il monte dei
Ratti, il forte di Quezzi, ed il forte Richelieu, Rosseau si scagliava
contro Santa Tecla, Azzeretto tempestava co' suoi villani intorno al
Diamante; Gottesheim, passata la Sturla, s'avvicinava a San Martino
d'Albaro, ed alle mura della città. Per consuonar con tutti questi moti
a levante, Otto attaccava Rivarolo a ponente. Riuscirono a buon fine
quasi tutti gli assalti dei Tedeschi: guadagnarono il monte dei Ratti,
quello dei Due Fratelli, il forte Santa Tecla; già circondavano i forti
di Richelieu e del Diamante; Gottesheim, acquistata la metà di San
Martino, instava per acquistar l'altra. Era un gran pericolo pei
Francesi, perchè se i Tedeschi avessero conservato i luoghi conquistati,
Genova non aveva più rimedio. Massena si metteva al punto di rimettere
la fortuna. Mandava Soult al conquisto dei Due Fratelli, Darnaud al
rincalzo di Gottesheim, Miollis contro Santa Tecla e Quezzi. Vinsero
tutti: gl'Italiani del Rossignoli, i primi, riconquistarono i Due
Fratelli. Massena infaticabile, invitto, impaziente, animato dal
prospero successo usciva nuovamente alla campagna il dì undici maggio.
Il suo fine era di cacciar i Tedeschi dal monte delle Fascie, perchè da
quella eminenza potevano calarsi a rovina delle difese più prossime alla
piazza. Ordinava l'assalto per modo che Soult girasse a dorso del monte,
Miollis lo attaccasse da fronte. Combattè infelicemente il secondo,
favorì la fortuna l'impresa del primo recando in sua mano, dopo una
battaglia molto feroce, il conteso monte. Nol conservarono lungamente i
repubblicani, perchè Hohenzollern e Frimont mandati da Otto il
ricuperarono. Massena intanto raccoglieva viveri alla campagna, breve ed
insufficiente ristoro. Volle quindi acquistare il monte Creto, come sito
dominatore, e passo comune da levante a ponente. Mandava alla fazione
due grosse squadre, la destra condotta da Soult, la sinistra da Gazan. I
Tedeschi fortificati stavano a diligente guardia. Fu furioso l'assalto,
valorosa la resistenza; pure andava superando la fortuna dei Francesi,
quando sopravvenne un temporale grossissimo; abbujossi l'aria,
straordinariamente piovve; i combattenti sforzati a ristarsi.
Rasserenato il cielo, ricominciarono a menar le mani; l'accidente diè
tempo a Hohenzollern ad arrivare con genti fresche: ruppe i
repubblicani, e gli sforzò a tornar dentro le mura. Combattessi in
questa fazione con incredibile rabbia a corpo a corpo: fu Soult, mentre
animosamente confortava i suoi alla carica, ferito sconciamente nella
gamba destra, e fatto prigione.

Questa infelice spedizione pose fino al sortire di Massena; perchè
perduti i suoi migliori soldati, era troppo indebolito per uscire alla
campagna. Pure tanto ancora gli restava di forza, che gli alleati nol
potessero sforzare; ma quello che l'armi degli avversarj non potevano
operava la fama. Stando io per descrivere qual fosse l'aspetto di Genova
in questi ultimi giorni dell'assedio, non posso non deplorare il destino
di un popolo Italiano ridotto agli estremi casi, non perchè per lui si
trattasse di esser libero, o servo, ma perchè si definisse a chi dei
due, o d'Austria o di Francia, avesse a servire: città desolata per le
rapine, pel sangue, per la fame, per la peste. Keit per mare non
lasciava entrar viveri, Otto per terra; le provvisioni fatte scarse, le
scarse dissipate.

Fuvvi fame prima che mancassero i viveri: prima si scorciarono i cibi,
poi si corruppero, infine si mangiarono i più schifi e sozzi, non solo i
cavalli ed i cani, ma ancora i gatti, i sorci, i pipistrelli, i vermi, e
beato chi ne aveva. Eransi gli Austriaci impadroniti dei molini di
Bisagno, di Voltri e di Pegli, nè si poteva più macinare. Rimediossi per
un tempo coi molini a mano, con quei da caffè massimamente, perchè erano
presti; l'accademia consultò dei migliori: s'inventarono ingegni, ruote
e molini nuovi. Con certi più grossi un uomo solo poteva macinare uno
stajo di grano al giorno. In ogni strada, su per ogni bottega si
vedevano girar molini. Nelle case private fra le adunanze famigliari, si
macinava; le donne il facevano per vezzo. Infine mancò del tutto il
grano: cercaronsi altri semi per supplirvi. Quei di lino, di panico, di
cacao, di mandorlo furono i primi; riso ed orzo più non se ne trovava.
Gli stritolati e strani semi, prima abbrustoliti, poi misti col miele, e
cotti parvero delicatura. Rallegravansi i parenti e gli amici con chi
avesse potuto sostentare un giorno di più se e la famiglia con lino, o
panico, o tre granelli di cacao. La crusca, materia tanto ribelle alla
nutrizione, si macinava ancora essa, e cotta con miele serviva di cibo,
non per ispegnere, ma per ingannare la fame: le fave stimate
preziosissime: felice, non chi viveva, ma chi moriva. Erano i giorni
tristi per la fame e per le lamentazioni degli affamati; le notti più
tristi ancora per la fame, e per le spaventate fantasìe. Mancati i semi,
pensossi all'erbe. I romici, i lapazj, le malve, le bismalve, le cicorie
selvatiche, i raperonzoli diligentemente si ricercavano, e cupidamente,
come piacevolezze di gola, si mangiavano. Si vedevano lunghe file di
gente, uomini di ogni condizione, donne nobili e donne plebee, visitare
ogni verde sito, massime i fertili orti di Bisagno, e le amene colline
d'Albaro, per cavarne quegli alimenti, cui la natura ha solamente alle
ruminanti bestie destinati. Sopperì un tempo il zucchero: zuccheri
rosati, zuccheri violati, zuccheri candi, ogni maniera di confetti
andavano attorno, rivenditori e rivenditrici pubblicamente gli
vendevano, con fiori e con serti gli eleganti loro cestellini adornando:
strano spettacolo in mezzo a quei volti pallidi, scarni e moribondi.
Tanto possente cosa è l'immaginazione dell'uomo, che si compiace in
abbellire eziandio quanto havvi di più lagrimevole e di più terribile;
rimedio di provvidenza che non ci vuol disperati. Basta: e' furon viste
donne e gentil donne nutritesi con sorci la mattina, mangiarsi tregge
delicate la sera. L'aspetto della miseria estrema non ispegne la
malvagità in chi è malvagio; del che troppo manifesto e troppo orribile
esempio si ebbe in quelle ultime strette di Genova; conciossiachè uomini
privi di ogni senso di umanità, per un vile guadagno non abborrirono dal
mescolar gessi in luogo di farine nei commestibili che vendevano, per
modo che non pochi avventori ne restarono avvelenati, morendosene con
dolori mescolati di fame, e di veleno.

Durante l'assedio, ma prima della fine ultima, una libbra di riso si
pagava lire sette, una di vitello quattro, una di cavallo soldi
trentadue, una di farina lire dieci, o dodici, le uova lire quattordici
la serqua, la crusca, soldi trenta ciascuna libbra. Poi venendo maggiore
la stretta, una fava si vendeva due soldi, un pane biscotto di once tre
dodici franchi, e non se ne trovava. Maggiori agevolezze dei particolari
non vollero Massena, nè gli altri generali: apparecchiavano come i
plebei; lodevole fatto, e molto efficace a fare star forti gli altri a
tanta sventura. Poco cacio, legumi rari erano quanto nutrimento si dava
a chi languiva per malattie o per ferite negli ospedali. Uomini e donne
tormentate dalle ultime angoscie della fame e della disperazione,
empievano l'aria dei loro gemiti e delle loro strida. Talvolta così
gridando, e le fameliche viscere con le rabbiose mani di lacerare
tentando, morti per le contrade cadevano. Nissuno gli ajutava, perchè
ognuno pensava a se: nissuno anche a loro abbadava, perchè la frequenza
aveva tolto orrore al fatto. Pure alcuni fra gli spasimi e stridi
spaventevoli, e con scosse e contorte membra davano l'ultimo sospiro in
mezzo alle popolari folle. Fanciulli abbandonati da parenti morti, o da
parenti disperati imploravano con atti, con pianti, e con voci
miserabili la pietà di chi passava. Nissuno gli ajutava, ed aveva loro
compassione, perchè il dolore proprio aveva spento il compassionare
l'altrui. Razzolavano quell'innocenti creature bramosamente nei
rivoletti delle contrade, nelle fogne, negli sfoghi de' lavatoj, per
vedere se qualche rimasuglio di bestia morta, o qualche avanzo di pasto
di bestia vi si trovasse, e trovatone, se gli mangiavano. Spesso chi si
corcava vivo la sera, era trovato morto la mattina, i fanciulli più
frequentemente degli attempati. Accusavano i padri la tarda morte, ed
alcuni con le proprie mani violentemente se la davano. Ciò facevano i
cittadini, ciò facevano i soldati. Dei Francesi alcuni, anteponendo la
morte alla fame, da per se stessi si ammazzavano, altri le armi a terra
sdegnosamente gettavano protestando non più esser abili, per la perduta
forza, a portarle. Altri una disperata dimora abbandonando, nel nemico
campo se ne andavano, Inglesi ed Austriaci di quella pietà, e di quei
cibi richiedendo, che tra Francesi e Genovesi più non ritrovavano. Crudo
poi, ed oltre ogni dire orribile spettacolo era quello dei prigionieri
di guerra Tedeschi ditenuti su certe barcacce sorte nel porto; perchè la
necessità ultima delle cose aveva operato che ad essi nutrimento di
sorte alcuna già da alcuni giorni non si compartisse. Mangiarono le
scarpe loro, mangiarono le pelli dei soldateschi zaini; già con occhi
torvi guardavano, se non avessero a mangiarsi i loro compagni. Si venne
a tale che si tolsero loro le guardie Francesi, perchè si temette, che
sforzati dal famelico furore non si avventassero contro a loro, e
sbranatele, non se le divorassero. Tanta era la disperazion loro, che
tentarono di forar le barche per andar a fondo, amando meglio perire
affogati dalle acque, che straziati dalla fame. S'aggiunse, come
accadde, alla orrenda fame la mortalità pestilenziale. Febbri pessime le
genti all'altra vita con morti spessissime si portavano sì negli
ospedali del pubblico, sì negli ultimi casolari dei poveri, e sì nei
superbi palazzi dei ricchi. Mescolavansi sotto il medesimo tetto i
generi delle morti: chi moriva arrabbiato dalla fame, chi stupido dalla
febbre, chi pallido per difetto di nutritiva sostanza, chi livido per
petecchiali macchie. Niuna cosa esente da dolore, niuna da paura; chi
viveva, o aspettava la morte o vedeva morire i suoi. Tal era lo stato
della una volta ricca ed allegra Genova, del quale il pensier peggiore
era questo, che il soffrir presente non poteva riuscire ad alcun utile
suo nè per la libertà, nè per l'independenza.

Era rotta la costanza di tutti: solo Massena non si piegava, perchè
aveva la mente fissa nel pensiero di ajutar l'impresa del consolo, e di
serbare intatta la fama acquistata di guerriero indomabile. Infine
venendogli onorevoli proposte da Keit, e non potendo più bastare quei
sozzi e velenosi cibi, che per due giorni tanta era l'estremità del
vivere, inclinava l'animo ad un accordo, ma più da vincitore che da
vinto. Si accordarono (volle Massena, che l'accordo s'intitolasse
convenzione, non capitolazione, e fu forza compiacerlo della sua
domanda) che uscisse Massena, che uscissero i suoi uffiziali e soldati
in numero circa di ottomila, liberi della fede e delle persone loro; per
la via di terra potessero ritornare in Francia, e chi non potesse per
terra, fosse trasportato dagl'Inglesi per mare ad Antibo, o nel golfo di
Juan; i prigionieri Tedeschi si restituissero; nissuno potesse essere
riconosciuto pei fatti passati, e chi se ne volesse andare, fosse in
libertà di farlo; dessersi viveri, si avesse cura degl'infermi; Genova a
dì quattro giugno si consegnasse alle forze Austriache ed Inglesi.
Infatti il nominato giorno le prime occuparono la porta della Lanterna,
le seconde la bocca del porto. Poi entravano trionfando con tutto
l'esercito Otto, con tutta l'armata Keit, possessione ottenuta per lunga
guerra, poi fatta breve per grossa guerra. I democrati più vivi se ne
andarono coi Francesi, fra gli altri Morando, l'abate Cuneo, l'avvocato
Lombardi, i fratelli Boccardi. Suonaronsi le campane a festa, cantaronsi
gl'inni, accesersi i fuochi dei partigiani per amore, più ancora dagli
avversi per paura, tutto secondo il solito. Ricomparvero in copia il
pane, le carni, gli ortaggi, le grasce, e chi vi si abbandonò senza
freno su quel primo fervor della fame, se ne morì: così chi non era
morto per lunga inanizione, se ne moriva per improvvisa satolla. Vollero
i trecconi e i rivenduglioli starsene sul tirato pei prezzi, a cagione
dell'ingordigia del guadagno; ma il popolo infuriato diè loro una tal
mano, che presto s'accorsero, che male si stimola la fame. Pruovaronsi i
villani dell'Azzeretto a porsi in sul sacco contro i democrati, come
dicevano, perchè saccheggiavano anche gli aristocrati; ma Hohenzollern
posto a guardia della città da Otto, con militare imperio gli frenava.
Creava il capitano Tedesco una reggenza imperiale e reale, a cui
chiamava Pietro Paolo Celesia, Carlo Cambiaso, Agostino Spinola, Gian
Bernardo Pallavicini, Gerolamo Durazzo, Francesco Spinola di Gian
Battista, e Luigi Lambruschini. Frenava la reggenza le vendette prossime
a prorompere, comandamento lodevole; veniva sul toccar le borse,
comandamento inevitabile, ma crudele nella misera Genova. Del rimanente
nissun cenno, nè da parte di Hohenzollern, nè da quella di Melas per
l'independenza, nè per la rinstaurazione dell'antico governo; il che
dava qualche sospetto. Ciò non ostante gli aristocrati gridavano _viva
l'imperatore_ per odio contro i democrati, siccome i democrati avevano
gridato _viva Francia_ per odio contro gli aristocrati; servi, ciechi e
pazzi gli uni e gli altri, che non vedevano, che dai loro odj privati
nasceva la ruina della patria, e la signorìa forestiera.



LIBRO VIGESIMO

SOMMARIO

      Il consolo passa con ordine mirabile il gran San Bernardo,
      vince a Marengo, l'Italia superiore in suo potere. Governi
      provvisorj del Piemonte, di Genova e di Milano. Conclave in
      Venezia: assunzione del cardinal Chiaramonti al pontificato, e
      sua rinstaurazione in Roma. Arti di Buonaparte con lui. Malta
      presa dagl'Inglesi. Moti di Toscana. Nuova guerra tra Austria
      e Francia. Battaglia del Mincio tra Bellegarde e Brune,
      ritirata del primo. Passaggio del monte della Spluga eseguito
      con mirabile coraggio ed arte da Macdonald. Nuovi successi
      prosperi dei Francesi. Pace con Napoli, Austria e Spagna.
      Tutto il mondo, salvo l'Inghilterra, in concordia con Francia.


Buonaparte intanto, cambiatore di sorti, si avvicinava, l'imperio
d'Austria in Italia inclinava al suo fine. Aveva il consolo con
maravigliosa celerità ed arte adunato il suo esercito di riserva in
Digione, donde accennava ugualmente al Reno ed all'Italia. Ma avendo
Moreau combattuto prosperamente in Germania contro Kray, gli fu fatto
abilità di condursi su quei campi, in cui tuttavia vivevano i segni e le
memorie delle sue fresche vittorie; cosa, che gli era cagione di somma
incitazione, perchè la gloria lo stimolava, ed era sicuro di trovarvi
forti aderenze. Adunque mentre lo sconsigliato Melas se ne stava
martirizzandosi contro le sterili rocche dell'estrema Liguria, si
avvicinava Buonaparte alle Alpi, tutto intento alle fazioni d'Italia.
Varj, molti, e potenti modi aveva di condurre a prospero fine la sua
impresa: soldati prontissimi a volere qualunque cosa egli volesse,
generali esperti e valorosi, artiglierìe formidabili, cavallerìa
sufficiente. Aveva apprestato per pascere i soldati sull'erme solitudini
delle Alpi, biscotto in grande abbondanza, e per tirar su e giù secondo
i casi le artiglierìe per quei sentieri rotti, stretti, ed ingombri di
nevi e di ghiacci, certi carretti a modo dei traini sdrucciolevoli, che
si usano in quei paesi per scendere dai nevosi gioghi. Nè questo fu il
solo trovato di Buonaparte e di Marmont, che soprantendeva alle
artiglierìe, per facilitar loro il passo per luoghi fino allora alle
medesime inaccessi, perchè scavarono, a guisa di truogoli, tronchi di
alberi grossissimi a fine di potervele posar dentro, come in un letto
proprio, e per tal modo trasportarle a dorso di muli a traverso le
montagne. Denaro sufficiente aveva rammassato per le necessità de' suoi
fin oltre l'Alpi; poi si confidava nell'Italia. Per muovere le opinioni
degl'Italiani aveva chiamato a se la legione Italiana capitanata da un
Lecchi, la quale fuggendo il furore Tedesco per le rotte di Scherer, si
era riparata in Francia, bella e buona gente. Per conoscere poi i
luoghi, conduceva con se gl'Italiani, che più ne erano pratichi, e
siccome l'intento suo era di varcare il gran San Bernardo, così si
consigliava specialmente con un Pavetti di Romano in Canavese, giovane
di natura molto generosa, e che camminava con molto affetto in queste
bisogne della libertà.

Rammentava quindi il consolo, essendo gran maestro dell'allettare, che
tornava in Italia per fondare in Cisalpina una regolata libertà, dar la
pace a Napoli ed a Toscana, ristorar la religione, proteggere i preti,
rimettere sul debito seggio il pontefice di Roma. A tutti poi parlava di
pace, di umanità, di fin di mali, di un secolo che doveva incominciare a
salute ed a felicità d'uomini. Passò per Ginevra: mostrovvisi tanto
mansueto, e disposto a voler ridur le cose a forme buone e consentanee
alle antiche, che gli aristocrati Ginevrini presi alle dolci parole,
pigliarono animo a favellar dell'independenza, e della restituzione
dell'antico stato, essendo a quel tempo Ginevra unita a Francia, e parte
di lei; ma la cosa non allignò; che anzi rispose loro per forma che
s'accorsero che se amava prendere, amava anche serbare. Poi tornò sulle
mansuetudini, e che sarebbe contento morire, purchè la pace vedesse.
Appariva sì mogio, sì pallido e sì macilento, che pareva a tutti, che
stracco il corpo e l'animo per tante sue fatiche a pro di Francia e
d'Europa, dovesse far tosto pace, se pure la voleva vedere. Poi
lusinghevolmente procedendo, domandava di Saussure, di Bonnet, di
Senebier; tacque di Rousseau. Disse, voler rimettere in onore le scienze
e le lettere calpestate dalla guerra. Maravigliavansi i Ginevrini,
vedendo tanto amore di dottrine pacifiche in un soldato, perchè non
penetravano l'umore, nè si accorgevano, ch'egli, siccome quegli che
voleva far andar il secolo a ritroso, il voleva secondare, finchè ne
fosse padrone.

Grande e magnifico era il disegno di Buonaparte per riconquistar
l'Italia. Suo proponimento era di varcare col grosso dell'esercito il
gran San Bernardo col fine di calarsi per la valle di Aosta nelle
pianure Piemontesi. Ma perchè altre genti con questa parte
consuonassero, e giunte al piano potessero e muovere i popoli a romore
contro l'Austria, e congiungersi con lui a qualche importante fatto,
aveva ordinato che il generale Thureau dalla Morienna e dall'alto
Delfinato, pei passi dei monti Cenisio e Ginevra, con una squadra di tre
in quattromila soldati si calasse a Susa, e più oltre anche, secondo le
opportunità, procedesse per dar timore al nemico intorno alla sicurezza
di Torino, e per ajutare lo sforzo, ch'egli intendeva di fare sulle
sponde della Dora Baltea. Al tempo medesimo comandava al generale
Moncey, che pel San Gottardo scendesse a Bellinzona con un'eletta
schiera di circa dodicimila soldati, col pensiero di mettere a romore i
paesi, che nelle parti superiori al piano di Lombardia si comprendono
fra il Ticino e l'Adda. Parendogli altresì, che fosse necessario di
turbar le contrade fra il Ticino e la Sesia, imponeva al generale
Bethancourt, che facesse opera di varcare il Sempione, e di precipitarsi
per Domodossola sulle sponde del lago Maggiore là dove, restringendosi,
apre di nuovo l'adito alle acque correnti del Ticino. Siccome poi non
ignorava quante e quali difficoltà ostassero al passo di un grosso
esercito pel gran San Bernardo, commetteva ad un corpo di circa
cinquemila soldati, che passasse il piccolo San Bernardo, ed andasse a
raccostarsi col grosso nella valle di Aosta. Tutte le raccontate genti
insieme unite sommavano circa a sessantamila combattenti. Così il
consolo tutta la regione dell'Alpi abbracciando, che si distende dal San
Gottardo al monte Ginevra, minacciava invasione al sottoposto plano del
Piemonte e della Lombardia. Dall'altra parte sperava che Massena,
tenendo fortemente Genova, e Suchet la riviera, avrebbero trattenuto
Melas, finchè egli potesse arrivare a combatterlo sui fianchi ed alle
spalle. Magnifica, come abbiamo detto, e maravigliosa opera fu questa
del consolo, ma che gli poteva venire rotta con grande precipizio, se
Moreau avesse combattuto infelicemente sul Reno, o se Melas più accorto,
o più attivo, o meglio informato fosse stato.

Lusingati con discorsi di umanità, di pace, e di civiltà quei Ginevrini
tanto ingentiliti, se ne giva il consolo alla stupenda guerra. Erano le
genti già adunate tutte a Martigny di Vallese sul Rodano, terra posta
alle falde estreme del San Bernardo. Guardavano con maraviglia, e con
desiderio quelle alte cime. Diceva loro Berthier, quartiermastro:
«Vincono i soldati Renani gloriose battaglie: contrastano gl'Italici con
valore estremo ad un nemico sopravanzante di numero. Accendetevi, e
riconquistate, emolandogli, oltre l'Alpi, quelle terre già testimonie
del Francese valore. Soldati nuovi, ecco che suona il segno delle
battaglie: ite, e pareggiate i veterani tante volte vincitori: da essi
imparate a sofferire, da essi a superare le fatiche inseparabili della
guerra. Vi segga sempre in mente questo pensiero, che solo col valore,
solo colla disciplina si vincono le guerre. Soldati, Buonaparte è con
voi; vien'egli a vedere i nuovi trionfi vostri: a Buonaparte pruovate,
che siete sempre quegli uomini valorosi, che condotti da lui sì famoso
nome e sì luminosa gloria acquistaste. La Francia, e la umanità di pace
vi richieggono: voi pace alla Francia ed alla umanità con le forti
destre date».

Questo parlare infinitamente infiammava quegli animi già da per se
stessi tanto incitati e valorosi. Partivano il dì diciasette maggio da
Martigny per andarne a conquistar l'Italia. Maraviglioso l'ardore loro,
maravigliosa l'allegria, maraviglioso ancora il moto ed il fervore delle
opere. Casse, cassoni, truogoli, obici, cannoni, carretti ruotati,
carretti sdrucciolevoli, carrette, lettiche, cavalli, muli, bardature,
arcioni, basti da bagaglie, basti da artiglierìe, impedimenti di ogni
sorte, e fra tutto questo soldati affaticantisi, ed ufficiali
affaticantisi al par dei soldati. S'aggiungevano le risa e le canzoni: i
motti, gli scherzi, le piacevolezze alla Francese erano quelle poche, e
gli Austriaci ne toccavano delle buone. Non a guerra terribile, ma a
festa, non a casi dubbi, ma a vittoria certa, pareva che andassero. Il
romore si propagava da ogni banda: quei luoghi ermi, solitari e da tanti
secoli muti, risuonavano insolitamente e ad un tratto per voci liete e
guerriere. L'esercito strano e stranamente provvisto, al malagevole
viaggio saliva per l'erta alla volta di San Pietro fin dove giunge la
strada carreggiabile. Pure spesso erte ripidissime, forre sassose, capi
di valli sdrucciolenti si appresentavano; i carri, i carretti, le
carrette pericolavano. Accorrevano presti i soldati a braccia,
sostenevano, puntellavano, traevano, e più si affaticavano, e più
mettevano fuori motti, facezie e concetti, parte arguti, parte graziosi,
parte frizzanti: così passavano il tempo e la fatica. I tardi Vallesani,
che erano accorsi in folla dalle case, o piuttosto dai tuguri e dalle
tane loro, vedendo gente sì affaticata e sì allegra non sapevano darsi
pace; pareva loro cosa dell'altro mondo. Inviolati, e pagati per ajuto,
il facevano volentieri. Ma più bisogna faceva un Francese, che tre
Vallesani. Le parole e i motti, che i soldati dicevano a quella buona
gente per la tardità delle opere e per le fogge del vestire, io non gli
voglio dire. Così arrivavano i repubblicani a San Pietro, Lannes colla
sua schiera il primo, siccome quello che per l'incredibile ardimento il
consolo sempre mandava, lui non solo volente, ma anche domandante, alle
imprese più rischievoli e più pericolose. Quivi si era arrivato ad un
luogo, in cui pareva che la natura molto più potesse che l'arte od il
coraggio; perciocchè da San Pietro alla cima del gran San Bernardo, dove
è fondato l'eremo dei religiosi a salute dei viaggiatori in quei luoghi
d'eternale inverno, non si apre più strada alcuna battuta. Solo si
vedono sentieri stretti e pieghevoli, su per monti scoscesi ed erti.
Rifulse la pertinacia del volere e la potenza dell'umano ingegno. Quanto
si rotolava, fu posto ad essere tirato, quanto si tirava ad essere
portato. Posersi le artiglierìe grosse nei truogoli, i truogoli sugli
sdruccioli, e dei soldati, chi tirava, chi puntellava, chi spingeva: le
minute sui robusti e pratichi muli si caricarono. Così, se Jan Jacopo
Triulzi montò, e calò con grosse funi di roccia in roccia per le
barricate nella stagione più rigida dell'anno le artiglierìe di
Francesco primo, tirò Buonaparte quelle della repubblica sui carri
sdrucciolevoli, e sulle bestie raunate a quest'intento. Seguitavano le
salmerie al medesimo modo tirate e portate. Era una tratta immensa: in
quelle volte di ripidi sentieri ora apparivano, ora scomparivano le
genti: chi era pervenuto all'alto, vedeva i compagni in fondo, e con le
rallegratrici voci gl'incoraggiava. Questi rispondevano, ed al difficile
cammino s'incitavano. Tutte le valli all'intorno risuonavano. Fra le
nevi, fra le nebbie, fra le nubi apparivano le armi risplendenti,
apparivano gli abiti coloriti dei soldati; quel miscuglio di natura
morta e di natura viva era spettacolo mirabile. Godeva il consolo, che
vedeva andar le cose a seconda de' suoi pensieri, e soldatescamente
parlando a questo ed a quello, che in ciò aveva un'arte eccellente,
gl'induceva a star forti, ed a trovar facile quello, che era giudicato
impossibile. Già s'avvicinavano al sommo giogo, ed incominciavano a
scorgere l'adito, che in mezzo a due monti altissimi aprendosi, dà il
varco verso la più sublime cima. Salutaronlo, qual fine delle fatiche
loro, con giojose voci i soldati, e con isforzi maggiori intendevano al
salire. Voleva il consolo che riposassero alquanto: _Di cotesto non vi
caglia_, rispondevano, _badate a salir voi, e lasciate fare a noi_.
Stanchi, facevano dar nei tamburi, ed al militare suono si
rinfrancavano, e si rianimavano. Infine guadagnarono la cima, dove non
così tosto furono giunti, che l'uno con l'altro si rallegrarono, come di
compiuta vittoria. Accrebbe l'allegrezza il vedere mense appresso
all'eremo rusticamente imbandite per opera dei religiosi, provvidenza
del consolo, che aveva loro mandato denari all'uopo. Ebbero vino, pane,
cacio; riposaronsi fra cannoni e bagaglie sparse, fra ghiacci e nevi
agglomerate. I religiosi s'aggiravano fra i soldati con volti dipinti di
sedata allegrezza: bontà con forza su quel supremo monte s'accoppiava.
Parlò Buonaparte ai religiosi della pietà loro, di voler dare il seggio
al papa, quiete e sostanze ai preti, autorità alla religione: parlò di
se e dei re modestamente, della pace bramosamente. I romiti buoni, che
non avevano nè cognizione, nè uso, nè modo, nè necessità dell'infingere,
gli credevano ogni cosa. Quanto a lui, se tratto da quell'aria, da
quella quiete, da quella solitudine, da quella scena insolita, si
lasciasse, mutandosi, piegare a voler fare per affezione quello che
faceva per disegno, io non lo so, nè m'ardirei giudicare; perchè da un
lato efficacissima era certamente l'influenza di quella pietà, e di quei
monti, dall'altro tenacissima incredibilmente, e sprezzatrice dell'umane
cose la natura di lui. Fermossi a riposare nel benigno ospizio un'ora.

Quando parve tempo, comandava si partisse. Voltavano i passi là dove
l'Italico cielo incominciava a comparire. Fu difficile e pericolosa la
salita, ma ancor più difficile e pericolosa la discesa; conciossiachè le
nevi tocche da aria più benigna incominciavano ad intenerirsi, e davano
mal fermo sostegno. Oltre a ciò la china vi era più ripida che dalla
parte settentrionale. Quindi accadeva, che era lento lo scendere, e che
spesso uomini e cavalli con loro, sfuggendo loro di sotto le nevi, nelle
profonde valli erano precipitati, prima sepolti che morti. Incredibili
furono le fatiche ed i pericoli: poco s'avvantaggiavano. Impazienti del
tardo procedere, ufficiali, soldati, il consolo stesso, scegliendo i
gioghi dove la neve era più soda, precipitosamente si calavano
sdrucciolando fino a Etrubles. Era un pericolo, e pure era una festa:
tanto diletto prendevano, e tante risa facevano di quel volare, di
quell'essere involti chi in neve grossa, e chi in polverìo di neve.
Quelli che erano rimasti al governo delle salmerìe, arrivarono più tardi
per gl'incontrati ostacoli. Riuniti a Etrubles, gli uni con gli altri si
rallegravano dell'esser riusciti a salvamento, e guardando verso le
gelate e scoscese cime, che testè passato avevano, non potevano restar
capaci del come un esercito intero con tutti gl'impedimenti avesse
potuto farsi strada per luoghi orribilmente disordinati da
sconvolgimenti antichi, e potentemente chiusi da perpetui rigori
d'inverno. Ammiravano la costanza e la mente del consolo, delle future
imprese felicemente auguravano. Pareva loro, che a chi aveva superato il
San Bernardo, ogni cosa avesse a riuscire facile e piana. Intanto le
aure soavi d'Italia incominciavano a soffiare: le nevi si squagliavano,
i torrenti s'ingrossavano, le morte rupi si ravvivavano e si
rinverdivano. I veterani conquistatori riconoscevano quel dolce spirare:
gridavano Italia: con discorsi espressivi ai nuovi la descrivevano: nei
veterani si riaccendeva, nei nuovi si accendeva un mirabile desiderio di
rivederla, e di vederla; la esperienza ricordava il vero, la
immaginazione il rappresentava e l'ingrandiva; le volontà diventavano
efficacissime: già pareva a quegli animi forti ed invaghiti, che
l'Italia fosse conquistata; solo pensavano alle vittorie, non alle
battaglie.

La vittoria consisteva nella celerità; perciocchè quelli alpestri luoghi
erano sterili, il passo del San Bernardo difficile, nè si doveva dar
tempo a Melas di arrivare al piano prima che l'esercito vi arrivasse.
Importava altresì che il romore già sparso della ritornata dei Francesi
non si rallentasse. Perciò il consolo si calava tostamente per le sponde
della Dora, e con assalti di poca importanza dati all'antiguardo
condotto da Lannes, mandato avanti a speculare il sito del paese,
s'impadroniva facilmente della città d'Aosta e della terra di Chatillon.
Ma un duro intoppo era per trovare nel forte di Bard posto sopra un
sasso eminente, che, come chiave, serra la strada in quella stretta
gola, che quivi forma, restringendosi, la valle. Aveva Pavetti proposto
facile al consolo l'oppugnazione di questa rocca, essendo in lui sommo
desiderio, che i Francesi passassero per la valle d'Aosta, acciocchè il
suo paese fosse il primo ad essere restituito, come credeva, a libertà.
Ma il fatto pruovò, che un umile sasso poteva divenire ostacolo ad una
gran fortuna. Fatta la chiamata, rispose coraggiosamente il Tedesco, non
voler dare la fortezza. S'avvicinarono i Francesi: entrarono facilmente
nella terra di Bard, posta sotto al forte; poi andarono all'assalto;
ricevuti con ferocia, abbandonarono l'impresa. Rinnovarono parecchie
volte la batteria, ma sempre con poco frutto. Si sdegnavano i capi, e di
un'infinita impazienza si travagliavano nel vedere, che una piccola
presa di gente, poichè il presidio non sommava che a quattrocento
soldati, ed un'angusta roccia interrompessero il corso a tante vittorie.

Pareva loro troppo grave ed insopportabil cosa, che un piccolo Bard
arrestasse coloro, cui non avevano potuto arrestare nè la poderosa
Mantova, nè i ghiacci eterni dell'enorme San Bernardo. Sapevano che il
loro movimento era presentito al piano, e che Melas, lasciata l'inutile
impresa del Varo, con presti passi accorreva per puntellare la fortuna
pericolante. Nè la valle d'Aosta, sterile e povero paese, era abile a
pascere tante genti, massime in quel caso non preveduto: già sorgevano i
primi segni della penuria. Pensavano al rimedio, e nol trovavano.
Batterono la rocca dalle case della terra, batterono con un cannone
tirato sul campanile. Ma essendo il luogo ben difeso, e di macigno, non
facevano frutto. Avvisarono, se potessero passare, continuando il forte
in possessione dell'inimico. S'innalzava con irregolari gioghi a
sinistra della terra di Bard il monte Albaredo, che dai superiori luoghi
domina la fortezza, negl'inferiori ne è dominata. Fecero i Francesi,
essendo primo autore di questo consiglio Berthier, pensiero di trovar
passo per questo monte. In men che non fa due giorni, cavarono gradi nei
siti più duri ed erti, alzarono parapetti sugli orli dei precipitosi,
gittarono ponti sui precipizi per modo che fu loro aperta la strada al
passare, oltre il tiro dei cannoni della fortezza. Fu quest'opera molto
maravigliosa, e degna di essere raccontata nelle storie. Gli uomini
sicuramente varcavano. Restavano le artiglierìe e gl'impedimenti, che
non potevano avviarsi per una strada tanto ripida e stretta. Lannes, che
già era arrivato sino ad Ivrea, correva pericolo di essere assalito
dagli Alemanni, mentre ancora era privo delle artiglierìe, armi tanto
necessarie nelle battaglie dei nostri tempi. Un nuovo assalto dato al
forte dal pertinace consolo, aveva avuto sinistro fine. Grave pericolo
sovrastava, perchè i tempi non pativano indugio, quando Marmont si
avvisava di un nuovo stratagemma. A fine d'impedir il rumore dei
carretti, distendeva letame per la contrada principale di Bard,
avviluppava con istrame i cerchi delle ruote, e tirando alla dilunga,
velocemente e di notte tempo operava, che le artiglierìe riuscissero
felicemente oltre alla terra. S'accorgeva il castellano dell'arte usata
dagli avversari, e folgorava con grandissimo furore fra il buio della
notte; ma la oscurità da una parte, la celerità dall'altra furono
cagione, che i repubblicani patirono poco danno in questa straordinaria
passata: con tutte le armi allestite e pronte si apprestavano ad
inondare il Piemontese dominio. Poco stante Chabran divallatosi dal
piccolo San Bernardo costringeva alla dedizione il comandante di Bard,
salvo l'avere e le persone, e con fede di non militare sino agli scambi.

Mentre a questo modo il grosso dei soldati di Francia sboccava per
Ivrea, non erano state oziose le genti più lontane, anzi concorrendo dal
canto loro all'adempimento del principale disegno, erano pervenute ai
luoghi ordinati dal consolo. Era Bethancourt sceso dal Sempione, e
fattosi padrone di Domodossola. Moncey venuto a Bellinzona accennava a
Lugano, ed alle sponde del Ticino e dell'Adda. Thureau poi più
prossimamente romoreggiando alla capitale del Piemonte, era comparso a
Susa, e camminando più avanti, si era mostrato ad Avigliana, avendo
fatto una buona presa di Austriaci, che si erano pruovati a serrargli il
passo dall'erto ed eminente sito, sul quale stava, prima della guerra,
fondata la fortezza inespugnabile della Brunetta. Tale tempesta da tutte
parti sovrastava, per l'invitto pensiero del consolo, a quel tratto di
paese, che si comprende fra la Dora riparia e l'Adda. Ma il principale
sforzo sorgeva da Ivrea. Si proponeva il consolo di marciare a stanca
celeremente per arrivar più presto, che per lui si potesse, a Milano.
Confidavasi, nè senza ragione, di trovar quivi seguito, viveri e
ricchezze; e siccome sopraggiungeva improvviso, così sperava di poter
sorprendere e sopraffare i corpi sparsi degli Austriaci, che a
tutt'altra cosa pensavano fuori che a questa. Aveva anche fondamento di
credere, che gli sarebbe venuto fatto, accostandosi all'Adige, di
tagliar fuori Melas dal suo sicuro ricetto del Tirolo. Molto bene
considerate erano queste cose, e meglio ancora fu quella di mandar
Lannes verso Chivasso, per indurre in Melas la persuasione, ch'ei fosse
per far impeto contro Torino. Ordito in tal modo il disegno, lo mandava
ad esecuzione. Temendo gli Autriaci di Torino, avevano accostato un
antiguardo al ponte della Chiusella, a dirittura del quale avevano
piantato quattro bocche da fuoco per non lasciar guadagnare questo passo
al nemico. Essendo questo ponte molto stretto e lungo, dura impresa era
il superarlo. Avvicinatosi Lannes, ordinava ai più valorosi, il
passassero velocemente. Fecerne pruova; ma i cannoni Tedeschi
fulminarono sì furiosamente a scaglia, e dai fianchi i feritori leggieri
tempestarono con sì fatta grandine, che i Francesi tornarono indietro
laceri e sanguinosi. Nuovamente cimentatisi, nuovamente perdevano.
Rinnovò due altre volte la pruova Lannes, e due altre volte ne uscì
colla peggio. Ostinavasi, ma non aveva rimedio. Pavetti allora, che
ottimamente conosceva i luoghi, perchè la battaglia si commetteva quasi
sotto alle mura di Romano, sua patria, fece accorto il generale di
Francia, che a sinistra del ponte era un passo facilmente guadoso,
offerendosi di condurre egli medesimo la fazione. Guadò con felice
ardimento il fiume: si mostrava improvviso sulla destra del nemico; diè
mano a bersagliarlo aspramente; restava mortalmente ferito dalle sue
armi l'Austriaco Palfi, che vicino al ponte se ne stava animando i suoi.
Questo accidente diè cagione di vincere ai Francesi, perchè gli
Austriaci sforzati a dar indietro, lasciarono libero il passo del ponte.
Rannodaronsi col retroguardo sull'altura di Romano, e vollero far testa;
ma assaliti dai Francesi cresciuti d'animo e di forza, abbandonarono il
campo. Nè miglior esito ebbe uno sforzo fatto da Keim con la cavalleria,
nel piano che si frappone tra Romano e i colli di Montalenghe; onde fu
aperta la strada a Lannes fino a Chivasso, dove trovò conserve
considerabili di vettovaglie, opportuno ristoro alle sue stanche genti.
Avendo conseguito Lannes l'intento di far correre Melas a Torino,
volgeva improvvisamente le insegne a mano manca, e camminava con passo
accelerato a seconda della sinistra del Po alla volta di Pavia. Tutto lo
sforzo dei Francesi accennava a Milano. Marciavano Murat, Boudet e
Victor contro Vercelli; marciava sull'istessa fronte più basso Lannes, e
superiormente spazzava il paese la legione Italiana di Lecchi, che da
Chatillon di Aosta per la via di Grassoney camminando, era venuta a
Varallo, poi ad Orta, donde aveva cacciato il principe di Loano, che vi
stava a presidio con una mano di Tedeschi. Tutta questa fronte di un
esercito bellicoso, spingendosi avanti, guadagnava Vercelli, dove
passava la Sesia: poi contrastava invano Laudon, che era accorso,
entrava in Novara, e s'apprestava a varcar il Ticino. L'ala sinistra
intanto s'ingrossava per essersi Lecchi congiunto a Sesto Calende con
Bethancourt disceso da Domodossola. Laudon postosi a Turbigo intendeva
ad impedire il passo del fiume; ma Murat, che guidava l'antiguardo, dato
di mano a certe barche lasciate a Galiate, guadagnava la sinistra
sponda, e cacciava da Turbigo, non senza però qualche difficoltà, il
generale Tedesco. Al tempo medesimo la sinistra ala si rinforzava
vieppiù per la giunta delle genti di Moncey, che venute sui laghi di
Lugano e di Como, avevano incontrato Lecchi a Varese. Per queste mosse
ottimamente eseguite, come erano state ottimamente ordinate, già era la
capitale della Lombardia posta in potestà dei Francesi. Entrava in
Milano il dì due di giugno con le più elette schiere Buonaparte
vincitore. Io non sono per raccontare le allegrezze che vi si fecero,
perchè nelle rivoluzioni il governo ultimo è sempre stimato il peggiore,
il nuovo il migliore. Nè la signoria dei Tedeschi vi era stata mansueta,
non perchè troppo grave fosse di sua natura, salvo i confinati alle
bocche di Cattaro, ma perchè avendo voluto rimettere del tutto le cose
nello stato pristino, aveva turbato infiniti interessi ed opinioni.
Eransi i reggitori persuaso, che fosse impossibile che i Francesi
tornassero; e però a seconda di questa credenza governandosi,
prepararono le occasioni ad altre rivoluzioni.

Riordinava Buonaparte la Cisalpina repubblica. Volle, che i riti della
religione Cattolica pubblicamente si celebrassero, e la religione si
rispettasse, e chi il contrario facesse, severamente, anche colla pena
di morie, se il caso il richiedesse, fosse punito; che fossero salve le
proprietà di tutti, che i fuorusciti rientrassero, che i sequestri si
levassero, che le cedole del banco di Vienna si abolissero, e valor di
moneta più non avessero. Lasciati in Milano questi fondamenti della sua
potenza, applicava di nuovo i pensieri alla guerra, che quantunque bene
principiata fosse, non era ancor terminata. Melas sulla destra del Po si
conservava tuttavia intiero, nè sapeva il consolo ancora, che Massena
fosse stato costretto a cedere in Genova alla fortuna dei confederati.
Per questo motivo, credendosi più sicuro di quanto egli era veramente,
aveva fatto correre da' suoi il Lodigiano, il Cremonese, il Bergamasco,
il Cremasco, nei quali paesi erano stati veduti con molta contentezza:
poi suo intento era di passare subitamente il Po; ed in questo modo
mozzare a Melas ogni strada al ritirarsi. Lannes frattanto, per una
subita correria, aveva preso Pavia: trovovvi munizioni abbondanti da
bocca, e quantità considerabile di armi.

Melas, che per la perdita di Milano aveva conosciuto, quanto la sua
condizione fosse pericolosa, ed il nemico forte, avvisandosi che il suo
scampo non poteva più venire se non da una battaglia risoluta, e da una
vittoria piena, voleva tirar la guerra nei contorni di Alessandria, per
cagione dell'appoggio che quivi aveva della cittadella, e del forte di
Tortona. Venuto adunque in Alessandria, chiamava a se Esnitz arrivato
dalla riviera, mandava Otto divenuto libero per la dedizione di Genova,
a Piacenza, affinchè s'ingegnasse d'impedire il passo del fiume ai
Francesi. Ma Murat fu più presto di Otto; perchè, sebbene fortemente
fosse combattuto, passava, e s'impadroniva di Piacenza. Al medesimo
punto Lannes varcava a Stradella; e si poneva a campo a San Cipriano.
Otto ritirava i suoi a Casteggio ed a Montebello. Combattessi in questi
due luoghi il dì nove giugno una battaglia asprissima, segno ed augurio
di un'altra assai più aspra, più famosa, e più piena di futuri
accidenti. Occupava Otto col grosso delle sue genti Casteggio, avendo
piantato su certi colli a destra forti batterie, e collocato a sinistra
più al piano i suoi cavalli. Una piccola squadra di ultimo soccorso
stanziava a Montebello. Urtarono i Francesi condotti da Watrin con
grandissimo impeto i Tedeschi, fu loro risposto con uguale costanza;
vario fu per molte ore l'evento, perchè parecchie volte i repubblicani
s'impadronirono dei colli eminenti a Casteggio, e parecchie volte ne
furono risospinti. Finalmente gl'imperiali restarono superiori per opera
massimamente della cavalleria, la quale sbucando da certe siepi, di cui
si era fatta quasi una fortezza, aveva dato la carica al nemico. Watrin
si ritirava rotto e sanguinoso, e sarebbe stata perduta la battaglia pei
Francesi, se non fossero sopraggiunti battendo, e mandati da Lannes i
generali Chambarlhac e Rivaud. Venendo quest'ultimo a parte della
mischia, frenava l'impeto dei vincitori, ed incuorando i soldati di
Watrin gli menava di nuovo contro il nemico insultante: pure si
difendevano i Tedeschi ostinatamente. In questo fortunoso punto arrivava
con una grossa squadra di buoni soldati Lannes, ed entrando
impetuosamente, come sempre soleva, nella battaglia, sforzava il nemico
a piegare, e cacciandolo del tutto da Casteggio, l'obbligava a ritirarsi
a Montebello. Quivi Otto più fiero di prima rinnovava la battaglia, e
faceva di nuovo le sorti dubbie; che anzi le sue già principiavano a
prevalere, quando Buonaparte, che era sopraggiunto, ordinava a Victor,
caricasse con sei battaglioni la mezzana schiera del nemico. In questo
punto divenne furiosissimo l'incontro, perchè gli Austriaci difendevano
il ponte con numerose artiglierìe che buttavano a scaglia, ed i Francesi
con le bajonette andavano alla carica per ispuntargli. Durò un pezzo
questo combattimento di fuoco e di ferro: si vedeva che i soldati di
Otto stavano alla dura molto fortemente. All'ultimo arrivarono sugli
estremi del campo i generali Geney e Rivaud, e fecero inclinare la
fortuna in favore di Francia, perchè per le mosse loro si trovava Otto
quasi circondato da ogni banda. Si ritirava in Voghera, lasciato un
presidio di circa mila soldati nella fortezza di Tortona. Morì in questo
fatto, e fu presa gran gente agli Austriaci, ma la metà meno di quanto
portarono gli scritti di Berthier. Morì anche gran gente ai Francesi; e
poco meno che agli Austriaci; pochi restarono prigionieri. Questa fu la
battaglia di Casteggio, che durò dalle sei della mattina sino alle otto
della sera.

Superata l'asprezza dell'Alpi con arte e costanza, corsa la Lombardia
con prestezza, fatto risorgere il nome di Cisalpina in Milano, sollevati
a gran cose gli animi dei popoli con una impresa inusitata, restava che
per una determinativa battaglia i presi augurj si adempissero, e si
confermasse in Buonaparte il supremo seggio di Francia, e l'imperio
assoluto d'Italia. Assai presto fu l'acquisto di questo paese fatto da
Kray, Suwarow, e Melas: restava che si vedesse, se il capitano di
Francia non fosse abile a riconquistarlo più presto ancora. Aveva Melas,
come abbiam narrato, raccolti i suoi nel forte alloggiamento tra la
Bormida ed il Tanaro sotto le mura d'Alessandria. Grosso di circa
quarantamila soldati, fornitissimo di artiglierìe, fiorito di cavallerie
sceltissime, provvisto di veterani, era molto abile a combattere di
tante sorti. Nè mancava in lui l'ardire, o l'arte, nè la memoria delle
recenti vittorie. Sapeva altresì, di quanto momento fosse la battaglia
che soprastava.

Dall'altra parte il consolo combatteva su quelle Italiche terre, già
piene di tanta sua gloria; i suoi ufficiali giovani, confidenti e
valorosi con incredibile ardimento anelavano al confermare i gloriosi
destini di Francia; i soldati, alcuni veterani, molti nuovi non avevano
tanto uso di battaglie quanto i Tedeschi, ma l'ardore e la confidenza
supplivano a quanto mancasse all'esperienza. Di numero erano inferiori
agli avversari, e di cavallerìe, e di artiglierìe. Giravano adunque
assai dubbie le sorti. Melas, ancorchè fosse sorpreso da tanta e sì
improvvisa piena, e vinto alla Chiusella ed a Casteggio, pareva non
ostante possedere maggiore probabilità della vittoria. Nè si potrebbe
bastantemente lodare l'arte e la prestezza, colle quali, quando ebbe
piena contezza dell'intento del consolo, aveva adunato il suo esercito
nei campi d'Alessandria. Doveva il consolo presumere, perchè non
ignorava che l'avversario aveva fortificato con trincee ed artiglierìe
le rive della Bormida, e scelto luogo propizio al combattere, che
appunto in quel campo volesse dare la battaglia. Pure avvisando,
certamente contro ogni probabilità, che Melas volesse ritirarsi verso
Genova, aveva mandato il generale Desaix, testè arrivato dall'Egitto, a
Rivalta sulla strada per Acqui; che anzi questi, obbediente ai
comandamenti, già aveva spinto la schiera di Bondet più vicino ad Acqui.
Grave errore fu questo, perciocchè ei doveva rannodarsi, non ispartirsi,
trovandosi col nemico sì vicino e sì grosso; per lui stette ad un punto,
che tutta la fortuna di Francia perisse nei campi di Marengo. Oltre a
ciò, e per una risoluzione nè ragionevole nè sana, aveva mandato la
schiera di Monnier, che con quella di Boudet componeva l'ala sinistra
governata da Desaix, a Castelnuovo di Scrivia, per modo che tutta
quest'ala si trovava spartita e scomposta in un momento di tanta
importanza. Occupava Melas con un antiguardo il villaggio di Marengo
posto oltre Bormida nella vicinanza d'Alessandria. Il consolo, fattolo
assaltare da Gardanne, lo recava in suo potere, avendo i Tedeschi fatto
astutamente debole resistenza. Il quale accidente avrebbe dovuto far
accorto Buonaparte, che pensiero di Melas non era di girsene
lontanamente a Genova, ma bensì di cimentar la fortuna vicino ad
Alessandria. Tuttavia, essendo tenacissimo ne' suoi concetti, persisteva
nel credere che i Tedeschi volessero incamminarsi verso la Liguria.
Finalmente gli esploratori, che gli recavano le novelle da Rivalta e
dalle rive del Po, il tolsero d'inganno, certificandolo che la gran lite
era per deffinirsi nell'Alessandrino, non nella Liguria. Ordinava a
Boudet ed a Monnier, che prestamente si ricongiungessero coll'esercito
principale: pure trovandosi già lontani, potevano arrivare a sorte
terminata.

Il dì quattordici giugno alle cinque della mattina Melas varcava,
fulminando, l'augurosa Bormida. Esnitz coi fanti leggieri, e col maggior
nervo delle cavallerìe, muovendosi a sinistra degli imperiali, marciava
contro Castel-Ceriolo per la strada che porta a Sale, perchè intento del
generalissimo Austriaco era di riuscire alle spalle dei Francesi da
quella parte per tagliargli fuori da Pavia e da Tortona, donde avevano
corrispondenza con l'altre loro genti alloggiate sulla sponda sinistra
del Po. Keim, coi soldati di più grave armatura muoveva l'armi contro il
villaggio di Marengo, per cui passa la strada per Tortona; quest'era la
schiera di mezzo. Una terza, che era la destra sotto la condotta di
Haddick con un grosso di granatieri ungari guidati da Otto, doveva fare
sforzo, seguitando la destra sponda della Bormida all'insù, per riuscire
a Fregarolo, e consentire verso Tortona con la mezzana. Si prevedeva, e
quest'era il pensiero delle due parti, che si sarebbe conteso
massimamente della possessione di Marengo, perchè quello era il sito,
alla conservazion del quale indirizzavano i Francesi tutti i loro
movimenti. Precedeva le camminanti squadre d'Austria un apparato
formidabile di artiglierìe, che furiosamente tuonando significavano,
quanto duro e quanto micidiale fosse per essere l'incontro. A tanto
impeto non erano i Francesi pari in quel primo tempo della battaglia,
perchè Monnier si trovava lontano a destra, Desaix a sinistra, per
improvvidenza del consolo.

Adunque tutte le difese loro consistevano nella schiera di Victor, che
occupava assai grossa Marengo, ed in quella di Lannes, che aveva la sua
sede a destra della strada di Tortona. A queste genti si aggiungevano
circa novecento soldati della guardia del consolo, i cavalli condotti
dal giovane Kellerman, quei di Champeaux, e finalmente quelli di cui
aveva il governo Murat: i primi facevano spalla ai fanti di Victor, i
secondi a quei di Lannes, ed in ultimo i terzi posti sulla punta estrema
a destra di tutta la fronte, custodivano la strada che accenna a Sale.
Così l'ordinanza dei Francesi partendo dalla Bormida, e da lei
scostandosi obliquamente, e passando per Marengo, si distendeva sin
verso a Castel-Ceriolo. Keim incontrava Gardanne mandato da Victor a
Pietrabuona, piccolo luogo posto tra Marengo e la Bormida, e con una
forza prepotente lo prostrava. Si ritiravano disordinatamente le
reliquie verso Marengo. Sarebbero anche state intieramente circondate e
prese se Victor non avesse tosto mandato Chambarlhac a riscattarle.
Vennero avanti i Tedeschi, ed ingaggiarono con Victor una battaglia
orribile: commiservi ambe le parti fatti di stupendo valore. Piegò
finalmente la fortuna in favor di coloro, che avevano più numerose
genti, e più fiorite artiglierìe: entrava vittoriosamente Keim in
Marengo. Non per questo si era Victor disordinato; che anzi grosso,
intiero e minaccioso novellamente si schierava dietro a Marengo. Venne a
congiungersi con lui sulla destra sua punta Lannes, il che fece
rinfrescare la battaglia più feroce di prima. S'attaccò Keim con Lannes,
Haddick con Victor, e chi considererà la natura sì di quei generali,
come di quei soldati, si persuaderà facilmente, che mai in nissuna
battaglia sia stato speso più valore e maggior arte, che in questa.
Secondava potentemente l'urto di Lannes contro Keim Champeaux co' suoi
cavalli, nella quale mischia gravemente ferito passò di questa vita
alcuni giorni dopo. Kellermann con la sua squadra ajutava anche
efficacemente Victor, cariche a cariche continuamente aggiungendo e
moltiplicando. Ciò non ostante Victor, per essere entrato nella
battaglia il primo, e per avere Gardanne molto patito nell'affronto di
Pietrabuona, stanco e diradato cedè finalmente il luogo, e si ritirò,
quanto più potè prestamente, e non senza qualche moto disordinato, a San
Giuliano. Lannes allora nudato sul suo sinistro fianco dell'appoggio di
Victor fu costretto rinculare ancor esso; il che diè cagione a Keim di
guadagnare vieppiù del campo, e di credersi sicuramente in possessione
della vittoria. Frattanto Esnitz coi fanti leggieri aveva occupato
Castel-Ceriolo, e coi cavalli si andava allargando col pensiero di
mostrarsi alle spalle delle due schiere repubblicane, che
indietreggiavano; il quale disegno, se avesse avuto effetto, dava senza
dubbio alcuno la vittoria agl'imperiali.

Solo rimedio a tanto pericolo aveva il consolo nei novecento soldati
della sua guardia, e nei cavalli di Murat, certamente non capaci a far
fronte alla numerosa cavallerìa di Esnitz. Mandava adunque avanti i
novecento. Qui io non so, se più mi debba lodare l'opera loro, o
biasimare quella di Esnitz. Fatto sta che l'Alemanno, quantunque gli
avesse circondati da ogni banda, non gli potè mai rompere, o che egli
non abbia fatto tutto quello che poteva, o che i novecento abbiano fatto
più di quello che potevano. Avrebbe potuto Esnitz, se l'avesse voluto,
tanto era forte pel numero delle sue truppe leggieri, sicuramente
lasciarne una piccola parte contro questa consolare guardia, e gittarsi
con l'altra a furia dietro le cedenti squadre di Francia. Ma neanco
questo fece, ostinandosi a combattere con tutte le sue genti contro
piccola parte di quelle del nemico. Questa mollezza, o errore di Esnitz,
e questo valore dei consolari diedero comodità a Monnier di arrivare da
Castel Nuovo, donde chiamato dal consolo veniva a prestissimi passi.
S'incontrava arrivando nelle genti di Esnitz; sebbene elleno da tutte le
parti il circondassero, si aperse la strada, ajutato gagliardamente dai
consolari. Il generale Cara-San-Cyr, cacciati i Tirolesi da
Castel-Ceriolo, se ne faceva padrone, e tostamente con tagliate e
barricate vi si affortificava. Dievvi dentro Esnitz per ricuperarlo, e
non gli venne fatto: pure la fortuna il favoriva, perchè aveva in questo
punto obbligato alla ritirata i consolari, e l'altra parte dei soldati
di Monnier. Ma invece di seguitare alla dilunga i cedenti, si ostinava
all'acquisto di Castel-Ceriolo. Cara-San-Cyr sempre il respinse, e tanto
il tenne lontano, che ora Cara-San-Cyr fu salvamento de' suoi, come
prima erano stati i novecento; questi diedero tempo nella pertinace
resistenza loro a Monnier di arrivare, egli il diede a Desaix. Melas in
questo mezzo tempo, volendo usare l'occasione favorevole, che la fortuna
gli parava davanti, aveva spinto innanzi la sua ala destra, massimamente
i cinque mila Ungari, affinchè andassero a disfare quella nuova testa
che i Francesi mostravano di voler fare a San Giuliano. Pareva che a
quest'effetto bastassero Keim vincitore, ed Esnitz mezzo vinto e mezzo
vincitore. Ma per assicurarsi meglio del fatto, e per provvedere ai casi
dubbj che Desaix, arrivando, avrebbe potuto arrecare, mandava di lungo
spazio avanti i cinquemila, dei quali come di corpo autore di vittoria,
aveva preso il governo Zach, quartiermastro di tutto il campo Austriaco.

Erano le cinque della sera: già da più di dieci ore si combatteva: gli
Austriaci vincitori si rallegravano; tenue speranza, e solo in Desaix
rimaneva ai Francesi di risorgere. Gli Alessandrini credevano avere
Austria già del tutto vinto, siccome quelli che spaventati in sul
mattino dal rimbombo di tante armi, l'avevano poscia udito allontanarsi
appoco appoco, per modo che alla fine niuno, o debole suono di battaglia
perveniva agli orecchi loro. Il consolo stesso disperava, nè mostrò in
questo punto della battaglia mente serena, od animo costante, o modo
alcuno degno di colui che aveva concetto il mirabile disegno di questa
seconda invasione d'Italia. Solamente, e già quasi privo di consiglio
stava agognando l'arrivo di Desaix. Mentre fra molto timore e poca
speranza si esitava, ecco arrivare al consolo le novelle, che la prima
fronte della Deseziana schiera compariva a San Giuliano. Riprese
subitamente gli spiriti: altr'uomo che egli in fortuna quasi disperata,
come era quella, in cui si trovava, si sarebbe servito della forza che
arrivava, solamente per appoggio alla ritirata; ma l'audace ed
onnipotente consolo la volle usare per rinnovar la battaglia e per
vincere. Metteva l'esercito in nuova ordinanza per modo che da
Castel-Ceriolo obliquamente distendendosi sino a San Giuliano,
alloggiava Cara-San-Cyr sul luogo estremo a destra, poi a sinistra verso
San Giuliano procedendo Monnier, quindi Lannes, poi finalmente in
quest'ultima terra a cavallo della strada per a Tortona Desaix. I
cavalli di Kellerman a fronte, e fra Desaix e Lannes avevano il campo.
Non avendo fatto Esnitz co' suoi fanti e cavalleggieri contro l'ala
destra dei Francesi quell'opera gagliarda, e quel frutto che Melas
aspettava da lui, aveva il generalissimo d'Austria mandato i cinquemila
Ungari condotti da Zach contro l'ala sinistra, sperando che questo nodo
di genti fortissime l'avrebbe potuta rompere, e tagliarle la strada
verso Tortona.

La colonna di cinquemila, in cui si conteneva tutto il destino della
giornata, in se medesima ristretta, baldanzosamente marciava contro i
Deseziani. Desaix, lasciatala approssimare senza trarre, quando arrivò a
tiro, la fulminò con le artiglierìe, che Marmont aveva collocato sulla
fronte, poi scagliava contro di lei tutti i suoi. A quel duro rincalzo
attoniti sulle prime si fermarono gli Ungari: poi ripreso nuovo animo,
qual mole grossa, ed insuperabile, marciavano. Nè le genti Francesi,
siccome più leggieri, quantunque tutto all'intorno vi si affaticassero,
gli potevano arrestare. Era questo un caso simile a quello di Fontenoy.
Desaix, che punto non si era sbigottito a quel pericolo, postosi a
fronte de' suoi, stava sopravvedendo il paese per iscoprire, se gli
accidenti del terreno gli potessero offrire qualche vantaggio, quando
ferito in mezzo al petto da una palla d'archibuso, si trovò in fin di
morte. Disse queste ultime parole al giovane Lebrun, figliuolo generoso
di generoso padre: «Andate, e dite al consolo, che me ne muojo dolente
di non aver fatto abbastanza per vivere nella memoria dei posteri».
Sottentrava al governo, in vece di Desaix, Boudet. Non si perdè questi
d'animo per sì amaro caso, non si perdettero d'animo i suoi soldati; che
anzi stimolando quegli uomini già di per se stessi valorosi il desiderio
di vendetta, con incredibile furia si gettarono addosso ai cinquemila.
Nè gli Ungari cedevano: era un combattere asprissimo e mortalissimo. Già
piegavano i repubblicani, disperate parevano le sorti; volle fortuna,
che la salute di Francia nascesse prossimamente dall'estrema rovina. Era
Kellermann destinato dai cieli al gran riscatto. Effettivamente, mentre
Boudet instava ancora da fronte, quantunque rinculasse, Kellermann
assaltava con tutto il pondo de' suoi cavalli il sinistro fianco
dell'Ungara mole, e siccome quella che era spartita in manipoli, tra
l'uno e l'altro ficcandosi, totalmente la disordinava. Snodata, perduti
gli ordini, tra se medesima e coi francesi intricata e ravviluppata, non
le restava più nè disegno nè modo di difendersi. Laonde, insistendo
sempre più valorosamente contro di essa Kellermann, e tornando alla
carica Boudet rianimato dal favorevole caso, fu costretta a darsi
intiera, deposte le armi, al vincitore. Così quello che non avevano
potuto fare nè le fanterìe, nè le artiglierìe, fecero le cavallerìe, al
contrario di quanto successe in Fontenoy, dove le artiglierìe fecero
quello che le fanterìe, e le cavallerìe non avevano potuto operare.
Commise, siccome pare, grave errore Zach nello essersi troppo innoltrato
fra le schiere Francesi; il che fu cagione, che quando fu sì aspramente
assalito, gli altri squadroni non furono a tempo di soccorrerlo; ma
troppo era confidente della vittoria. Il sinistro caso degli Ungari fe'
superar del tutto la fortuna dei Francesi; perchè spingendosi avanti, si
serrarono addosso ai nemici privi di quel principale sostegno, e gli
costrinsero alla ritirata, con grave sbaraglio ed uccisione. Pensò
tostamente Melas a far dare il segno della raccolta per andarsi a
ritirare vinto là, dond'era la mattina partito con tanta speranza di
vincere: solo fece una testa grossa a Marengo per dar tempo alle
ritirantisi squadre di arrivare. Ricoverossi oltre la Bormida:
riassunsero i Francesi gli alloggiamenti, che avevano occupati prima
della battaglia. Morirono degl'Imperiali meglio di quattromila soldati,
tutti forti e veterani, che avevano veduto le guerre d'Italia; furono
feriti settemila, vennero prigionieri in poter del vincitore circa
ottomila. Mancarono dei Francesi tremila uccisi, quattromila feriti:
pochi restarono cattivi, perchè i più quando fu vinta improvvisamente la
giornata, furono liberati dai compagni.

Questa battaglia, che cambiò le sorti d'Europa, e la fece andare pel
medesimo verso per quattordici anni, fu piuttosto guadagnata dai
Francesi che da Buonaparte, avendo essi col valore loro emendato gli
errori del capitano. Principali operatori della vittoria furono
Cara-San-Cyr per aver preso e conservato Castel Ceriolo, Victor per aver
fortemente combattuto a Marengo contro Keim, Boudet per avere opposto un
duro intoppo alla mole Ungara, finalmente, e sopratutto quell'accorto e
prode Kellermann, che usando il momento opportuno, non dubitò di dar
dentro co' suoi cavalli a quella massa intera e grave, che solo col peso
pareva, che fosse per prostrare quanto le si parasse davanti. Si
rallegravano i compagni del glorioso fatto con lui, ma venuto in
cospetto del consolo, questi con la solita aria di sussiego e
superiorità parlando nè informandosi punto di quanto era successo, gli
disse: _Avete dato anzi una bella carica che no_. Sdegnato il giovane
guerriero, rispose: _Bene godo che la prezziate, giacchè vi mette la
corona in capo_. Il consolo, che non amava l'essere scoperto prima che
si scoprisse egli, l'ebbe per male, e sempre dimostrò l'animo alieno dal
figliuolo del maresciallo, non avendolo mai nè onorato nè promosso
quanto meritava.

Dall'altra parte aveva Melas ottimamente ordinato i suoi alla battaglia,
e l'ordine suo pare a noi, che in nissun modo riprendere si possa.
Debbesi principal lode di valore a Keim, che ruppe, e costrinse prima
Victor, poi Lannes alla ritirata: ebbe merito di valore Zach, ma biasimo
d'imprudenza, e di troppa confidenza nello essersi spinto troppo avanti.
Quanto ad Esnitz, e' non pare che abbia fatto tutto quello che Melas gli
aveva commesso, e che si era promesso di lui. Ostinossi in dare assalti
a piccoli corpi, ed a piccole terre forti e munite, il che non è debito
delle truppe armate alla leggiera, e non corse la campagna ai fianchi ed
alle spalle del nemico; il che era debito delle truppe di tal sorta, e
ne aveva carico da Melas.

Rimaneva ancora, dopo la battaglia, al generalissimo d'Austria forza
bastante per resistere lungo tempo nel forte sito, in cui si era
riparato. Il quale consiglio avrebbe potuto tanto più facilmente mandar
ad esecuzione, quanto più abbondando di cavallerìa aveva facoltà di
correre il paese per raunar vettovaglie. Ma o che il terrore concetto
per la recente rotta, o l'arti di Buonaparte, che continuamente
protestava voler aderire ai patti di Campoformio, e ridurre i paesi
dipendenti da lui a forma di governo più tollerabile e meno minacciosa
pei principi, sel facessero, non si mostrò renitente, e chiese i patti.
Furono gloriosi per la Francia, ingloriosi per l'Austria, stupendi per
l'Europa. Sospendessersi, fino a risposta da Vienna, le offese;
l'imperiale esercito se ne gisse a stanziare tra il Mincio, la Fossa
Maestra ed il Po; occupasse Peschiera, Mantova, Borgoforte, e sulla
destra del fiume Ferrara; medesimamente ritenesse la possessione della
Toscana: il repubblicano possedesse il paese fra la Chiesa, l'Oglio e il
Po: il tratto tra la Chiesa ed il Mincio fosse esente dai soldati d'ambe
le parti: le fortezze di Tortona, di Alessandria, di Milano, di Torino,
di Pizzighettone, d'Arona e di Piacenza si consegnassero ai
repubblicani; Cuneo ancora, i castelli di Ceva e di Savona, Genova, ed
il forte Urbano cedessero in loro possessione: niuno per opinioni
dimostrate, o per servigi fatti agli Austriaci potesse essere
riconosciuto o molestato; i Cisalpini carcerati per opinioni politiche
si rimettessero in libertà: qual fosse la risposta di Vienna, le
ostilità, se non dopo avviso di dieci giorni, non si potessero
ricominciare; durante la tregua, niuna delle parti potesse mandar gente
in Germania. Tali furono i patti conclusi in Alessandria: una vittoria
Francese distrusse i frutti di venti vittorie Tedesche, o Russe. La
tregua prolungata più volte di comune consenso di dieci in dieci giorni,
fu finalmente per nuova ed espressa convenzione accordata fino ai
venticinque novembre.

Buonaparte vincitore di Marengo aveva in sua mano le sorti d'Europa
liete o tristi, la pace o la guerra, la civiltà o la barbarie, la
libertà o la servitù dei popoli: gloria civile l'aspettava uguale alla
guerriera; ma l'ultima, ed un desio fiero, ed indomabile di comandare,
non lasciarono luogo alla prima, caso deplorabile per sempre. Fu
ricevuto a Milano qual trionfatore. Il chiamavano uomo unico, eroe
straordinario, modello impareggiabile con tutte quelle altre lodi, che
l'adulazione Italiana meglio sapeva inventare; con pari adulazione
rispondeva Francia. I buoni Milanesi esultavano dicendo, essere venuto a
dar di nuovo la libertà al suo diletto popolo Cisalpino. Parlò a Milano
molto di pace, molto di religione, molto di lettere, molto di scienze.
Creovvi una consulta con potestà legislativa, una commissione di governo
con potestà esclusiva. Vi arrose un ministro straordinario di Francia,
chiamando a questa carica un Petiet, che era stato ministro di guerra ai
tempi del direttorio. Riapriva con allegrezza di tutti i buoni
l'università di Pavia, che il Tedesco sospettoso aveva chiusa: ordinava
stipendj onorevoli ai professori; vi chiamava i più riputati, i più
dotti, i più virtuosi uomini. Fiorì vieppiù per questi ordini la
università; pareva rinascessero i tempi di Giuseppe; ma il dominio
militare in cui si viveva, avvertiva i popoli che l'età era diversa.
Intanto il suo procedere non sapeva dell'antico. Non accarezzava più gli
amatori ardenti di rivoluzioni, anzi da se gli allontanava; chiamava a
se coloro che erano in voce di aristocrati, purchè fossero di natura
moderata, e ricchi, e di buona fama. Melzi, Aldini, Birago, il dottor
Moscati, Scarpa, il vescovo di Pavia, Gregorio Fontana, Marescalchi,
Mascheroni molto volontieri vedeva. Ai democrati più fervidi non
piacevano questi andari, e fra di loro il chiamavano aristocrata, ed
anche tiranno; ma in palese, quale Dio, sempre il predicavano. In tutti
i fatti di lui, ed in tutte le parole avevano i nuovi capi di Cisalpina
fede grandissima, e si promettevano l'independenza della patria. Del
resto, quantunque il procedere paresse più civile, e le sembianze più
oneste, il prendere, e il dilapidare era lo stesso, ricominciò la
Cisalpina a travagliare del male antico.

Presero i nuovi eletti il magistrato. Lodò Petiet con elaborato discorso
Francia, lodò il consolo, parlò di Beccaria, favellò di libertà,
d'independenza, di destini alti e magnifici: con adorno artifizio onorò
l'Italia, chiamandola maestra di lettere, di filosofia, di politica, ed
affermando non essere fatta per esser tributaria di un principe
straniero: rispose colle medesime lodi il presidente della consulta.

Riordinata la Cisalpina, se ne tornava il consolo in Francia. Passò per
Torino: alloggiò in cittadella; non si lasciò vedere, non volendo
lasciarsi tirare alle promesse per rispetto di Paolo, che sempre
favoriva il re. Anzi fu certo, che, sebbene avesse l'animo molto alieno,
aveva nondimeno, dopo la vittoria di Marengo, offerto l'antico seggio a
Carlo Emanuele, purchè nuovamente rinunziasse alla Savoia ed alla contea
di Nizza. Tornò altresì sull'antico pensiero, per potersi serbar il
Piemonte, che appetiva con grandissimo desiderio, di dare al re la
Cisalpina, sì veramente che rinunziasse al Piemonte. Le quali proposte
non furono accettate dal principe, parte per motivi di religione, parte
per non voler concludere senza il consentimento de' suoi alleati, di
Paolo massimamente, e dell'Inghilterra. Nè voleva dar appicco
all'Austria, nel caso che le cose di Francia nuovamente sinistrassero,
acciocchè ella s'impadronisse del Piemonte, e se lo serbasse; ed
ancorchè non avesse cagione di lodarsi di lei, nondimeno abborriva dal
vestirsi delle spoglie altrui. Non ostante le profferte ed i negoziati,
creava in Piemonte, come in Cisalpina, non per terminare, ma per
minacciare, una consulta, ed una commissione di governo, a cui chiamò
molti uomini riputati per dottrina, e per pacatezza d'opinione. Nominò
Galli, Bottone di Castellamonte, Braida, Avogadro, Cavalli, e Rocci alla
commissione di governo, poi alla consulta il vescovo di Novara,
Capriata, i due professori Regis e Pavesio, preti ambidue dotti e
pacifici, Tosi, Botta, Lombriasco, un altro Avogadro, Bay, Paciaudi,
Nizzati, Chiabrera. Creava ministro straordinario presso a questo
governo, prima il generale Dupont, poi per riconoscere i meriti del
vincitore di Fleurus, Jourdan.

Era a questo tempo l'aspetto del Piemonte oltre ogni dire miserabile:
una estrema carestìa, un rapir di soldati al tempo dei confederati
l'avevano messo in estrema penuria. Nè erano mancate le angherìe, e le
soperchierìe, e le ingordigie dei commissarj imperiali: la insolenza era
stata minore, ma la rapacità uguale. I Piemontesi non sapevano più nè
che cosa sperare, nè che cosa temere, nè che cosa desiderare, stantechè
i cambiamenti di dominio non producevano un cambiamento di fortuna.
Maledicevano il destino, che gli aveva fatti piccoli fra due grandi. Nè
questa era per loro la somma delle tristi fortune; perchè i biglietti di
credito, che sempre più scapitavano, lunga e luttuosa peste del paese,
avevano posto in confusione tutti gli averi: ogni civile faccenda si
fermava; il prezzo dei viveri eccessivo, i poveri, che non avevano
biglietti, perchè i minori erano di venti lire, smoderatamente pativano.
Infine, tanto sopravvanzò questo male, che fu forza venirne all'ordinare
che non si spendessero più che a valor di commercio, e si pubblicarono
le scale del cambio. Ma le piaghe erano fatte, rimaneva la coda dei
contratti anteriori. Penò molto la consulta, quantunque in lei
abbondassero gli avvocati dotti e sottili, ad assestar questa faccenda,
e quando si assestò, nissuno contento, ancorchè la legge fosse giusta.
Questa fu gran radice di mali umori. Nè gran momento di sventura non
recava il peso gravissimo del dover mantenere i soldati di Francia, sì
quelli che passavano, come quelli che stanziavano, peso da non poter
esser portato dalle finanze Piemontesi. Voleva Massena, chiamato dal
consolo generalissimo in Italia, che il Piemonte gli desse per
sostentazione dei soldati, un milione al mese, e mantenesse i presidj.
Poi successe Brune a Massena: accordossi, che col milione mensuale le
casse Francesi mantenessero esse; ma ecco pagarsi il milione, ed i
soldati non mantenersi: era il Piemonte obbligato a supplire; perchè se
non si dava loro il necessario, e' se lo prendevano da se. Volle
Jourdan, che buono era e dabbene, rimediare, ma i trappolatori ne
sapevano più di lui; non se ne poteva dar pace: non vi era rimedio.
S'aggiungevano i comandamenti fantastici; perchè ora si voleva che una
fortezza Piemontese si demolisse a spese del Piemonte, ed ora, che la
medesima si riattasse: ora s'addomandavano i piombi della cupola di
Superga, il che, prima cosa, avrebbe fatto rovinar l'edifizio per le
acque, ed ora si voleva che si demolissero i bastioni che sopportano il
giardino del re, opera inutile, perchè la città era già tutto
all'intorno smantellata. Se non era la costanza di chi governava ad
opporvisi, Superga ed il giardino, gradito passeggio dei Torinesi,
perivano. Chi domandava denari pel vivere dei soldati, chi pel vestito,
chi per gli ospedali, chi per le artiglierìe, chi pei passi, chi per le
stanze: erano le richieste capricciose, i consumi eccessivi, le finanze
impotenti; ogni cosa in travaglio e confusione.

Altri tormenti, oltre i raccontati, travagliavano i Piemontesi, e
rendevano impossibile ogni buon governo; questi erano la incertezza
sulle sorti future del paese. Sapevansi le offerte fatte dal consolo al
re: ciò faceva camminar a ritroso i partigiani regj, a rilento i
repubblicani: quelli speravano, questi temevano: tra l'ordinar peritoso
e l'obbedir lento nasceva l'anarchìa. Il consolo non si era voluto
scoprire: interrogato, si ravviluppava nelle ambagi. Alcuni dagli
stimoli da lui dati ai repubblicani Piemontesi, acciò si mostrassero,
argomentavano ch'ei non volesse più dare il Piemonte al re; alcuni altri
da questo stesso giudicavano, che il volesse dare. I democrati
insultavano gli aristocrati, gli aristocrati si ridevano dei democrati;
i primi speravano la repubblica, i secondi si tenevano sicuri del regno.
Questi prevalevano, perchè non pochi fra i capi venuti di Francia per
ingerirsi, non senza cagione, nelle faccende dell'amministrazione
militare, e che se ne vivevano alle mense dei magnati, o per adulazione,
o per certo vezzo di voler comparire dell'antico tempo, laceravano
continuamente quei che servivano allo stato nuovo. Chi si dava per
antico conte, chi per antico marchese, chi, per lo manco, per visconte,
o per barone; nè s'accorgevano in quanto disprezzo venissero essi
medesimi appresso ai nobili Piemontesi, tanto acuti ed esperti
conoscitori della natura altrui. Intanto questi discorsi toglievano
forza al governo. Quelli stessi che più da lui domandavano, il
riducevano alla condizione di poter men dare. Era in questo procedere
leggerezza ed ingratitudine, ma non disamorevolezza od odio, perchè non
erano capaci nè di amare nè di odiare. Io non so, se in mezzo a cose
tanto gravi mi debba parlare delle pazzie dei democrati, che non
vedevano in qual trappola fossero. Pure non tacerò, che era tornato in
Piemonte quel Ranza. Le cose che diceva e che stampava, non son da
domandare; e peggio, che queste medesime cose aveva dette, standosene
carcerato in Vigevano in poter dei Russi, e le avrebbe anche stampate,
se avesse potuto. Ora scriveva contro i preti, ora contro i frati, ora
contro gli aristocrati, ora contro i democrati, ora contro il governo,
ora contro i governati, e fece un giorno, traendo il popolo a folla, non
so qual falò in piazza Castello dello scritto di un frate suo
avversario. Buttava nel pubblico ogni giorno sue miracolose gazzette, ed
ogni giorno ancora appiccava suoi cedoloni alle mura egli stesso, e
quando si sentiva voce, che era Ranza, il popolo correva a calca per
vedere. Incominciò, a dire, che vivevano troppi aristocrati in Piemonte:
ripreso, venne in sul dire che tutti erano aristocrati. Il governo che
non aveva penetrato l'umore, il volle frenare; ma e' furon parole,
perchè tornò sul dire che tutti erano aristocrati, e quei del governo i
primi. Basta, per lo men reo partito, e' fu lasciato dire. Ma le
opinioni si pervertivano; la maldicenza trovava forte corrispondenza
nell'invidia, e non si poteva più governare. Io ho voluto parlare, e
forse il feci troppo più lungamente che si convenisse, di questo Ranza:
ma il volli fare, perchè mi pare, che di questi Ranza ne siano molti in
Europa, e molti più in quei paesi di lei, che sono, o si credono liberi.

Lasciata incerta la sorte del Piemonte, sorgevano e s'inviperivano le
sette. Chi voleva essere Francese, chi Italiano, chi Piemontese. Gli
amici si odiavano, i nemici sì accordavano, nissun nervo di opinione.
Accrebbe l'incertezza ed i mali umori un atto del consolo, con cui diede
il Novarese sì alto che basso alla Cisalpina. Prina, Novarese, che era
allora ministro di Piemonte, fu primo suggeritore e confortatore di
questo smembramento della sua patria; ciò dico per dimostrare quale
sincerità, e quale lealtà fosse in quei tempi. La sinistra novella
sollevò gli animi maravigliosamente in Piemonte, perchè si pensò, che
Buonaparte volesse restituire il rimanente al re. Il governo protestò:
il consolo, che sapeva ciò che si faceva, si maravigliava che si
sperasse, che si temesse, che si protestasse. Pure non si scopriva; i
timori, le sette, e le angustie del governo crescevano. Era segno il
Piemonte ad ogni più fiera tempesta.

Fra sì funesta intemperie ebbe il governo, che allora, sotto nome di
commissione esecutiva surrogata alla commissione di governo, era
composto di Bossi, Botta, e Giulio, un consolatorio pensiero, e questo
fu di stanziar beni di una valuta di cinquecento mila franchi all'anno a
benefizio dell'università degli studj, dell'accademia delle scienze, del
collegio, e di altre dipendenze, ordine veramente benefico e magnifico,
di cui solo si trovano modelli negli stati uniti d'America per
munificenza del congresso, ed in Polonia per munificenza dell'imperatore
Alessandro.

Fu questo conforto piccolo pei tempi; perchè le disgrazie sormontavano.
Continuossi a vivere disordinatamente, discordemente, servilmente,
famelicamente in Piemonte, finchè venne il destro a Buonaparte
d'incamminarlo a più certo destino.

Le sorti di Genova del pari infelici, parte pei medesimi motivi, parte
per diversi. Per la capitolazione d'Alessandria abbandonava Hohenzollern
Genova, non senza aver prima, per comandamento di Melas, esatto dai
sessanta negozianti più ricchi un milione, come diceva, in presto ad uso
dei soldati. I Francesi condotti da Suchet, entrarono nella desolata
città il dì ventiquattro giugno. Quante sventure e quanti dolori abbiano
in se queste frequenti mutazioni di dominio, ciascuno può giudicare.
Trattaronla i Francesi duramente, come se uscendo dalle mani dei
Tedeschi fosse sana ed intiera: l'avevano trattata duramente i Tedeschi,
come se quando era uscita dalle mani dei Francesi fosse fiorita e ricca.

Il consolo, come in Cisalpina ed in Piemonte, creava una commissione di
governo con tutte le potestà, salvo la giudiziale e la legislativa:
creava una consulta con la potestà legislativa: creava finalmente
appresso al governo Ligure un ministro straordinario, chiamandovi il
generale Dejean. Diede il magistrato della commissione a Gian Battista
Rossi, Agostino Maglione, Agostino Pareto, Girolamo Serra, Antonio
Mongiardini, Luigi Carbonara, Luigi Lupi, uomini risplendenti per virtù,
e che nelle faccende presenti camminavano con moderazione. Nè minori
pregi d'animo si notavano in coloro che chiamava alla consulta, Luigi
Corvetto, Emanuele Balbi, Girolamo Durazzo, Cesare Solari, Giuseppe
Fravega, Niccolò Littardi, Giuseppe Deambrosis, con molti altri fino al
numero di trenta. Nella presa del magistrato sorsero le solite
adulazioni, maggiori però da parte del ministro straordinario, che del
governo. Parlò il ministro della lealtà e generosità del consolo,
impegnò la fede di Francia, che alla pace generale soliderebbe la
libertà e l'independenza della Ligure repubblica. Dolci parole alle
orecchie Genovesi; ma quest'altre che toccò, incominciavano a saper
d'amaro. Furono, che se la guerra si riaccendesse, e' bisognerebbe
pensare a trovare soldi. Molto poi lodevolmente inculcava il ministro,
si dimenticassero le offese, si perdonasse ai traviati: così volere
l'interesse dello stato. Rispose Rossi, presidente, non senza dignità,
ma con lingua Italiana sconcia e servilissima: essere quel giorno fra i
felici felicissimo per la repubblica; avrebbero cura della quiete e
della libertà della patria; desiderare i Liguri, come navigatori e
commercianti, la pace; del resto povera essere la repubblica, poveri i
cittadini; recar conforto le promesse fatte, e le qualità del ministro.
Più certo, e più chiaro era il destino di Genova, che quel del Piemonte;
perciocchè la Francia prometteva independenza. Ciò fu cagione, che fosse
maggior forza nel governo Ligure che nel Piemontese, e che le parti
avverse meno si ardissero di contrastargli. Favellò gravemente Dejean
alla consulta, quando la instituì: badassero alla sperienza, deponessero
i principj astratti, le teorie pericolose, infausti semi di rivoluzioni.
Dal che si vede, che Dejean aveva bene penetrato la mente del consolo, e
che il consolo molto sagacemente, e molto veramente giudicava della
natura umana.

Erano, come abbiam detto, quei della commissione di governo uomini
pacifici e dabbene. Pure mossi dalle grida dei democrati, stanziarono
una legge d'indennità, della quale il minor male che si possa dire, è,
ch'era contraria ai capitoli d'Alessandria. Si risarcissero dai briganti
e nemici della patria (così chiamavano i fautori dell'antico stato e
dell'Austria) i danni ai danneggiati; se non avessero di che risarcire,
risarcissero per loro i comuni; radice pericolosa era questa di enormi
arbitrj. Ammonì gravemente Dejean i reggitori dell'errore, rammentò i
patti d'Alessandria, e la volontà del consolo. Non istettero i Genovesi
in capitale al passo; il ministro del re di Francia crebbe di
riputazione; rallegrossi il consolo dell'occasione aperta di mostrar
generosità e tutela verso i partigiani del reggimento antico.

Con questi accidenti si viveva il governo povero obbligato a sopperire
allo stato, ed ai soldati forestieri: Keit dominava i mari, e serrava i
porti: Genova sempre in servitù, o periva di fame, o periva per ferro:
contristava vieppiù la città venuta a crudeli strette per la forza, la
malattia pestilenziale, che, non che cessasse, montava al colmo. Duemila
perirono in un mese. Brevemente, la condizione dei tre stati contermini
era questa: in Piemonte fame, peste di carta pecuniaria, incertezza
d'avvenire; in Cisalpina abbondanza di viveri, erario sufficiente,
maggiore speranza, se non di stato libero, almeno di stato nuovo; in
Genova fame, peste, e povertà d'erario. Nel resto in tutti tre servitù;
i governi fattori di Francia.

Intanto la fortuna preparava a Buonaparte il più efficace fondamento che
potesse desiderare a' suoi disegni, fondamento più potente delle armi,
più potente della fama. Morto Pio sesto pontefice nella sua cattività di
Francia, era stato assunto al pontificato nel conclave di Venezia il
cardinal Chiaramonti, sotto nome di Pio settimo. Temeva dell'Austria,
sperava in Francia, il consolo confidava di ridurlo a' suoi pensieri con
accarezzar la religione. Ciò produsse effetti di grandissima importanza.

Ricevettero i Romani con molte dimostrazioni di allegrezza le novelle
della creazione del pontefice. Erano in servitù dei Napolitani:
speravano, che il signore proprio avesse a liberargli dal signore
alieno. Partiva papa Pio il dì nove di giugno da Venezia, e dopo
travagliosa navigazione arrivava ai venticinque a Pesaro. Mandati avanti
con suprema autorità per ricevere lo stato dagli agenti del re
Ferdinando, e per dar qualche assetto alle cose sconvolte, i cardinali
Albani, Roverella, e della Somaglia, entrava in Roma il terzo giorno di
luglio in mezzo alle consuete allegrezze dei Romani. Provvide alla
Chiesa colla creazione di nuovi pastori, allo stato con quello di nuovi
magistrati; ridusse ogni cosa, quanto possibil fosse, alla forma antica.
Fu mansueto l'ingresso, mansueto il possesso, i partigiani della
repubblica salvi. Stanziò che i beni venduti al tempo del dominio
Francese alla Chiesa apostolica ritornassero, salvo il rimborso del
quarto ai possessori. Nè molto tempo corse, che volendo provvedere
dall'un de' lati alla camera, dall'altro all'interesse dei comuni e dei
particolari, tolse alcune tasse, nuove ne pose. Volle che i comuni si
liberassero dai debiti, sulla camera pontificia trasferendogli, salvo i
debiti contratti per l'annona, e gl'interessi corsi dei debiti
anteriori: liberava i comuni dai luoghi di monte sullo stato
investendogli, ma al tempo medesimo statuiva, che finchè l'erario non
fosse ristorato, solo i due quinti dei frutti dei monti si pagassero.
Comandava, che i quattro quinti si corrispondessero ai possessori dei
monti vacabili, e che i luoghi di monte sì perpetui che vacabili fossero
esenti da ogni qualunque tassa o contribuzione. Aboliva le gabelle
privilegiate, dico quelle dei bargelli, del bollo estinto, dei cavalli
morti, o le trasferiva a beneficio dei comuni. L'opera poi delle
contribuzioni indirizzava a più generale ed uniforme condizione: creava
due tasse, abolito ogni privilegio e consuetudine antica che fosse
contraria. Chiamò l'una reale, l'altra dativa. Quattro erano le parti
della prima, un terratico di paoli sei per ogni centinajo di scudi
d'estimo pei fondi rustici, una imposizione di due paoli per ogni
centinajo di scudi di valuta sui palazzi e case urbane, un balzello di
scudi cinque sui cambj per ogni centinajo di scudi di frutti, una
contribuzione di valimento, che doveva sommare alla sesta parte di tutte
le rendite dei capitali naturali e civili, rustici ed urbani sopra
coloro, che consumassero le loro rendite fuori di stato. La dativa
consisteva nella gabella del sale sforzato, in quella della mulenda, o
macinato, ed in quella di tre paoli per ogni barile di vino che
s'introducesse in Roma, salva la esenzione pei padri di dodici
figliuoli, e pei religiosi mendicanti. Buoni ordini furono questi, fatti
anche migliori dal beneficio dei repubblicani di aver cassa del tutto la
carta pecuniaria.

Non omise il consolo di considerare le Romane cose. Prevedeva, che come
la pace coi re era per lui grande mezzo di potenza, così maggiore
sarebbe la pace colla Chiesa. Quando poi seppe, che il cardinale
Chiaramonti era stato esaltato al supremo seggio, concepì maggiori
speranze, perchè il conosceva fornito di pietà sincera, e però più
facile ad esser tirato. Era gran cosa quella che veniva offerendo il
consolo, perchè il ristorare la religione cattolica in Francia importava
non solamente la restituzione di un gran reame alla Santa Sede, ma
ancora la conservazione pura ed intatta degli altri: conciossiacosachè
non era da dubitare, che se la Francia avesse perseverato nell'andare
sviata in materia di religione, anche gli altri paesi sarebbero stati, o
tardi o tosto, contaminati dall'esempio. Per la qual cosa papa Pio
settimo prestava benigne orecchie a quanto il consolo gli mandava
dicendo. Adunque, tentati prima gli animi da una parte e dall'altra, si
venne poscia alle strette del negoziare, e finalmente alla conclusione,
come sarà per noi nel seguente libro colla solita nostra ingenuità
raccontato.

Buonaparte dominava la terra, Nelson il mare. Quando arrivarono nel
regno di Napoli le novelle della vittoria d'Aboukir, conceputasi dei
Maltesi la speranza, che preponderando l'Inghilterra nel Mediterraneo,
non potessero più i Francesi mandar nuovi soccorsi all'isola, si
sollevarono in ogni parte contro i conquistatori, e gli costrinsero a
ridursi nella Valletta, che essendo fortissima per natura e per arte,
non poteva facilmente essere espugnata. Governava il presidio Vaubois;
ma i soldati, che sul principiar dell'assedio sommavano circa a
quattromila, erano scemati per modo dalle malattie, che non passavano i
due mila. S'aggiungevano i marinari delle navi il Guglielmo Tell, la
Diana, e la Giustizia avanzate alla ruina di Aboukir, che posti a terra,
e capitanati dall'ammiraglio Decrès, cooperavano alle difese. Erano
comparse al cospetto dell'isola alcune navi Portoghesi condotte dal
marchese di Nizza, le quali tosto diedero opera a bloccare il porto. Nè
soprastette lungo tempo Nelson ad arrivare colla vincitrice armata, e
tolse, se alcuna ancor restava, ogni speranza di redenzione agli
assediati. Concorse il re Ferdinando alla espugnazione sì col mandar due
fregate, sì col provveder d'armi e di munizioni i sollevati, e sì
finalmente coll'impedire che dalla Sicilia non si portassero
vettovaglie. Un grosso corpo di Inglesi posto a terra impediva,
cooperando coi Maltesi, ai repubblicani l'uscire dalle mura. Fece più
volte, ma invano, Nelson la chiamata a Vaubois. S'incominciava a patire
maravigliosamente dentro di vitto, d'abiti, e di denaro, le malattie si
moltiplicavano. Non per questo rimetteva Vaubois della solita costanza,
nè allentava la diligenza delle difese. Per provvedere ai cambj
costrinse i principali isolani a dargli carte d'obbligo da scontarsi
dalla Francia alla pace generale, e con queste pagava i soldati. Per
vestirgli si fe' dar tele e drappi; per pascergli, farine; spianava
pane, obbligava gl'isolani a venir levare le farine da lui; moltiplicava
i conigli ed il pollame, per modo che molto tempo bastarono. Infieriva
lo scorbuto; il combattevano con coltivare a molta cura nei luoghi più
acconci gli ortaggi. Un Niccolò Isoard di Malta, maestro di musica,
componeva opere, e recitavano, e cantavano, e ballavano. Pure la fame
pressava. Provavasi il governatore a mandar in Francia per soccorso il
Guglielmo Tell, ma i vigilanti e lesti Inglesi se lo pigliarono. Stava
attento, e provvedeva con mirabile accortezza a tutti gli accidenti.
Fecero i Maltesi di fuori congiure con quei di dentro: Vaubois le
scopriva; davano assalti, e gli risospingeva; pruove mirabili in chi si
moriva di fame e di morbo. In cospetto degli assediati tre navi Tolonesi
cariche di tre mila soldati, e di munizioni sì da bocca che da guerra,
venivano in poter di Nelson. Ogni giorno, anzi ogni ora la fame
cresceva. Mandava fuori le bocche disutili, gl'Inglesi, barbaramente,
come se vi fosse pericolo di vicino soccorso, le rincacciavano. Parecchi
morirono di fame sotto le mura, gli altri più morti che vivi furono di
nuovo ricettati dai Francesi. Prevedeva Vaubois avvicinarsi l'ultima
fine. Mandava al mare per preservarle, se fosse possibile, le due
fregate la Diana e la Giustizia: la prima fu presa, la seconda arrivò a
salvamento nei porti di Francia. La fame sopravvanzò il valore. Vennesi
a resa, ma onorevole, il dì cinque settembre: fosse il presidio
prigioniero di guerra fino agli scambj, e condotto in Francia a spese
d'Inghilterra; nissun Maltese di quanto avesse o detto o fatto in favor
dei Francesi potesse essere molestato. Così un forte presidio di
veterani dell'esercito Italico fu perduto per Francia, un'isola
fortissima, freno e sicurezza del Mediterraneo venne in poter di
Inghilterra, le reliquie dell'Egiziana ruina distrutte, o cattive,
accrebbero il trionfo di Nelson. Fu glorioso certamente il vincitore di
Malta, ma non fu inglorioso il difensore; perciocchè nè maggior valore,
nè maggior costanza, nè maggior perspicacia si poteva desiderare in
Vaubois. Abbandonato da tutti, contrastò due anni; non le armi il
vinsero, ma quel flagello che toglie all'uomo sempre la forza, spesso la
volontà del resistere.

Mentre l'Inghilterra, che già per la possessione di Gibilterra aveva la
chiave del Mediterraneo, si sforzava di acquistarvi una stanza sicura
per la espugnazione di Malta, ordinavano concordemente la Russia e la
Porta Ottomana le condizioni delle possessioni Ioniche. Statuirono, che
dai notabili del paese sotto forma di repubblica fossero governate, e
che la repubblica fosse, come quella di Ragusi, vassalla della Porta;
che la sua superiorità conoscesse, e per solenne legazione mandata a
posta a Constantinopoli le pagasse ogni anno un tributo di
settantacinque mila piastre, e con ciò s'intendesse libera, ed esente da
ogni altra imposizione verso la Turchìa; la repubblica delle Sette Isole
avesse i medesimi privilegj che Ragusi, e formasse una constituzione,
alla quale le due potenze ratificherebbero; se fosse necessario, durante
la presente guerra, e non più, potessero la Russia e la Porta mandarvi
genti, e navi armate per presidio; i vascelli della repubblica godessero
la libera navigazione del mar Nero, la Russia guarentisse l'integrità
della repubblica, e procacciasse che fosse riconosciuta dalle potenze
sue alleate; Prevesa, Parga, Vonizza, e Butintrò, terre poste sulla
terraferma dell'Epiro, cedessero in potestà della Porta, con ciò però
che fossero tenute solamente ad obbedienza simile a quella dei cristiani
Valacchi e Moldavi, e non maggiore; i Maomettani non vi potessero
possedere; i cristiani per due anni non pagassero nissuna tassa,
potessero riedificare le chiese loro, mai non rendessero alla Porta
tributi maggiori di quelli, di cui erano obbligati a Venezia. Diedero
gl'isolani forma al loro governo con creare un senato composto dai
notabili, in cui era investita la potestà legislativa, ed un presidente,
in cui sedeva la esecutiva. A questo modo le Veneziane isole arrivarono
in mezzo a tante guerre ad una condizione, non solo tollerabile ma
buona, ed in lei vissero parecchi anni assai felicemente: vennero poi
nuove guerre e nuove ambizioni nuovamente a turbarle.

La sospensione delle ostilità non rallentava gli apparecchi di guerra nè
dall'una parte nè dall'altra. Buonaparte, che mentre si combatteva in
Germania ed in Italia, non aveva mai intermesso di ordinar nuove genti,
ne aveva già adunato un numero di non poca importanza, e le mandava ad
ingrossare, ora l'esercito Germanico, ed ora l'Italico. Un grosso corpo
specialmente ne aveva rannodato, il quale posto sotto la condotta di
Murat, e stanziando nei contorni di Digione, accennava ad ambidue. Dal
canto suo l'Austria non ommetteva di levar nuovi soldati, massimamente
dall'Ungheria, e gl'inviava a rinforzar quelli che alloggiavano ai
confini. L'esercito vinto a Marengo si conservava tuttavia intiero, ed
era pronto a contendere di nuovo della vittoria. Ma non piccolo
fondamento alle future cose faceva la corte di Vienna sulle mosse di
Toscana, che posta pei capitoli d'Alessandria fuori del dominio
Francese, e conseguentemente in quello dell'Austria, seguitava i
desiderj dell'imperatore. Grande odio annidava ancora in Toscana contro
i repubblicani, perchè e troppo oltre era trascorso, ed i religiosi non
cessavano di fomentarlo. Al medesimo fine indirizzava gli animi la
reggenza creata in nome del gran duca. Il marchese Sommariva mandato
dall'imperatore, perchè desse forma a quelle masse incomposte, le
ingrossasse e le armasse, con indefessa autorità attendeva a compir
l'ufficio che gli era stato commesso. Siccome la pace e la guerra erano
ancora incerte, non si può affermare che questo procedere del governo
Toscano ed Austriaco fosse contrario ai patti. Ma quelle genti, siccome
quelle che non avevano nè ubbidienza nè ordine, ed erano mosse da odio
contro i repubblicani, ruppero i confini, e romoreggiando sui monti, che
dividono la Toscana dal Bolognese e dal Modenese, vi facevano molti
insulti. Questi moti diedero qualche apprensione ai repubblicani. Per la
qual cosa usando la occasione, non solamente richiedevano la Toscana e
Sommariva, che frenassero, e punissero i violatori dei confini, ma
ancora dissolvessero le masse dei contadini armati. Non fece Sommariva
risposta che piacesse, e continuava a scorrere il paese a suo
piacimento. Ciò diede occasione, muovendolo anche l'esca di Livorno, al
consolo di far risoluzione di occupare sforzatamente la Toscana. A
questo fine mandò comandando a Dupont, varcasse prestamente gli
Apennini, e s'impadronisse di Firenze, a Monnier andasse a combattere e
a disfare in Arezzo quel nido infesto di sollevati, a Clement, marciasse
più sotto, e Livorno in poter suo recasse. Nè fu diverso l'esito dalle
intenzioni; perchè il primo occupava facilmente la capitale della
Toscana, e l'ultimo, partendosi da Lucca, arrivava a Livorno, dove pose
le mani addosso a circa cinquanta bastimenti Inglesi, e ad una quantità
grandissima di fromenti. Le cose non successero di queto dalla parte di
Arezzo. Gli Aretini, non udita alcuna proposta, si risolvevano ad una
ostinata resistenza. I Francesi bersagliarono con cannoni e con granate
reali duramente la città ed il castello, ma quei di dentro si
difendevano virilmente. Cara-San-Cyr, il forte occupatore e difensore di
Castel Ceriolo, si affaticava indarno: gli Aretini con tiri a scaglia,
con granate, con pietre tenevano gli assalitori lontani. Il generale
repubblicano mandava i suoi ad un primo assalto; già con fuochi
artificiali avevano bruciate alcune porte; ma essendo fortificate con
forti lastre di rame, e terrapienate, furono costretti ad abbandonar
l'impresa, non senza molto strazio e sangue loro. Il seguente giorno,
che fu ai diecinove ottobre, avendo meglio ordinato la fazione, si
accostarono la mattina molto per tempo con le scale alle mura, vi
salirono sopra, ed impadronitisi delle porte, le apersero ai loro
compagni. Allora tutta la mole repubblicana, fatto impeto nella città,
la occupò, non però senza nuovi contrasti e nuovo sangue; perchè dalle
finestre, dai tetti, dalle feritoje aperte a quest'uopo in tutte le
case, gli abitatori, secondati anche da qualche nodo di genti regolari
Toscane, piovevano addosso ai repubblicani ogni sorta d'armi. Finalmente
prevalse il valore ordinato alla rabbia disordinata: Arezzo venne tutta
in mano di chi l'assaltava. Seguitò una strage, una insolenza, un sacco
tale, quale si doveva aspettare da soldati irritati per ingiurie nuove,
che avevano risuscitata la memoria delle antiche. Pochi si salvarono,
ritirandosi al castello: poco dopo chiesero i patti e gli ottennero. Il
terrore concetto pel caso di Arezzo fe' risolvere in gran parte le masse
Toscane. Quiete apparente succedeva; ma covavano pessimi umori, prossimi
a prorompere, se una nuova occasione si appresentasse. Il paese più
pacifico d'Italia preservava più di ogni altro ostinatamente nel
desiderio di guerra. Sommariva coi Tedeschi si ritirava nel Ferrarese.

Le cose si volgevano novellamente a guerra tra Francia ed Austria. Non
aveva voluto l'imperatore ratificare ai preliminari di pace stipulati a
Parigi il dì otto luglio tra il conte San Giuliano mandato da lui
espressamente, ed il ministro Taleyrand, e pei quali il consolo aveva
promesso di compensarlo con nuovi acquisti in Italia. Anzi l'imperatore
non solamente non aveva voluto consentire al trattato, ma si era anche
mostrato sdegnato contro il San Giuliano, come se avesse trapassato la
sua volontà. Stimolava a questi giorni instantemente l'Inghilterra
l'imperatore alla guerra, perchè avendo rifiutato la pace, abborriva dal
restar sola contro la Francia, nè poteva ancora accomodar l'animo al
pensiero, che i Paesi Bassi avessero a restar in possessione della
potenza emola a lei: offeriva adunque sussidj di denaro, ed ajuti di
forze dalla parte di Napoli. Dall'altra parte l'imperatore non sapeva
risolversi ad abbandonar la possessione di Mantova, parendogli che
fossero mal sicuri i suoi nuovi acquisti in Italia, finchè quella
fortezza fosse in potestà di uno stato dipendente intieramente dalla
Francia. Quantunque poi si trovasse privato della forte cooperazione
dell'imperatore Paolo, confidava di poter fare fortunata guerra da se
stesso, ricordandosi delle recenti vittorie di Verona e di Magnano, e
considerando che si era perduta la giornata di Marengo un sol momento,
dopo che era stata vinta sei ore, nè per difetto di valore ne' suoi
soldati. Erano gli eserciti avversi ordinati a questo tempo nel seguente
modo. Al Germanico di Francia condotto da Moreau stava a fronte il
Germanico d'Austria governato da Kray; all'Italico di Francia che
obbediva a Brune, l'Italico d'Austria cui era preposto Bellegarde. Fra i
due, e per congiungere l'uno coll'altro, si trovavano posti in mezzo nei
Grigioni un Francese governato da Macdonald, nel Tirolo un Austriaco
capitanato da Hiller. Così Moreau con Kray, emoli antichi, Macdonald con
Hiller, Brune con Bellegarde avevano a combattere.

La sollevazione del paese Toscano, che aveva obbligato Brune a smembrar
parte delle sue forze, ed a mandarla oltre il suo fianco destro, aveva
debilitato il restante. Laonde pensò il consolo a mandarvi nuove genti
con comandare a Macdonald, che lasciati grossi presidj nei Grigioni, si
calasse, prima dai Grigioni nella Valtellina, poscia dalla Valtellina
sulle sponde dell'Oglio e dell'Adige, quello per rinforzar Brune, dove
alloggiava, questo per riuscire alle spalle di Bellegarde, ed obbligarlo
a ritirarsi indietro dalla fronte del Mincio, dove allora aveva le sue
stanze. Aspro e difficile comandamento era quello del consolo; perchè il
traversare nella stagione già molto trascorsa (s'avvicinava la fine
d'ottobre), il monte asprissimo della Spluga per arrivare in Valtellina,
quel della Priga parimente pericoloso per arrivare in val Camonica
bagnata dall'Oglio, e finalmente il Tonale, che dà l'adito all'Adige
superiore, era opera piuttosto portentosa che umana. Nè valeva il fresco
esempio del San Bernardo, perchè la stagione era più aspra, ed i monti
più difficili. Forse la posterità troverà in questa intenzione di
Buonaparte più audacia che prudenza, e maggiore confidenza nei soldati,
che cognizione dei luoghi. Ciò non ostante non si perdeva d'animo
Macdonald, stimolandolo il fatto del San Bernardo, e volendolo emolare.
L'antiguardo condotto da Baraguey d'Hilliers, siccome quello che era e
partito più presto, e più vicino a quei monti, parte varcando la Spluga,
parte il monte dell'Ora, riusciva, non senza aver superato ostacoli
gravissimi, sulla destra a Chiavenna, sulla sinistra a Sondrio.
Acquistava per tal modo Baraguey l'imperio della Valtellina, e
facilitava la strada allo scendere di Macdonald. I Valtellini al veder
comparire quelle genti si maravigliavano, come se venissero dal cielo;
tanto pareva loro impossibile, ch'elle per quei luoghi, ed in quella
stagione fossero passate. Restava l'opera più difficile a compirsi a
Macdonald. Arrivato a Tusizio, donde si sale al monte eternamente
incappellato di nevi e di ghiacci, pareva, che la natura fosse divenuta
insuperabile. Tanto erano alte le nevi, tanto chiusa la strada già di
per se stessa sdrucciolevole, stretta, rotta, e precipitosa, pure, come
al San Bernardo, si posero le artiglierìe sui traini, le provvigioni sui
muli, marciavano, ma con difficoltà grandissima. Arrivava l'antiguardo
condotto dal generale Laboissiere al villaggio di Spluga, donde restava
a salirsi l'erta precipitosa, che porta al sommo giogo. Mettevansi in
viaggio, e con penosi passi, ed infinito anelito procedendo, alla
bramata cima già si approssimavano, quando ecco levarsi un levante
furiosissimo, che innalzando un immenso nembo di nevosa polvere, e negli
occhi dei soldati gittandolo, rendeva impossibile ogni passo. La forza
della veemente bufera furiosamente soffiando sul dorso delle nevi
ammonticchiate sopra quei sdrucciolenti gioghi, levava un'orribile
sommossa di neve, che con incredibile velocità e fracasso nelle
sottoposte valli piombando, portò con se a precipizio quanto le si era
parato davanti. Trenta soldati precipitati nell'abisso perirono; gli
altri atterriti, le strade chiuse. Aggiunse la sopravvegnente notte
nuovo orrore al fatto: tornarono a Spluga. Laboissiere, che separato da'
suoi, precedeva con le guide, a male stento, e quasi morto aggiungeva
alla cima; trovovvi benigno ospizio appresso ai religiosi, che come quei
del San Bernardo, attendono con pietà sì eroica alla salute dei
viaggiatori.

Pareva disperata l'impresa, e sarebbe stata, se non fosse arrivato
Macdonald, il quale spinto da ardente desiderio di emolare il consolo, e
prevedendo che lo stare importava la distruzione per la mancanza dei
viveri, con accesissime esortazioni tanto fece, che le stanche ed
atterrite genti di nuovo s'incamminavano. Precedevano quattro forti buoi
a pestar le nevi; seguitavano quaranta palajuoli ad appianarle ed a fare
il sentiero; i zappatori venendo dopo l'assodavano; due compagnìe di
fanti a destra ed a sinistra perfezionavano pel sicuro passo ciò che
ancora si trovava imperfetto. A questi s'attergavano le altre genti,
fanti e cavalli: le artiglierìe e le bestie da soma viaggiavano alla
coda; quest'era l'antiguardo. Arrivava sulla cima all'ospizio, con
infinita allegrezza si ricongiungeva col salvato Laboissiere. Poi
seguitando il cammino per la pianura del Cardinello, giungeva a campo
Dolcino. Allo stesso modo varcavano il dì secondo e terzo di dicembre
due altre squadre di fanti, di cavalli, e d'artiglierìe: il tempo freddo
e sereno, le nevi indurite in ghiaccio facilitavano il passo. Solo
alcuni soldati per la forza di quell'insolito rigore o morivano gelati,
o perdute le estremità con le membra monche restavano. Crudo era il
viaggio, ma speranza di terminarlo felicemente, quando il dì quattro
(rimaneva a varcarsi il retroguardo in cui si trovava Macdonald), si
levava una spaventevole bufera, che e gli uomini col soffio
violentissimo arrestava, e sotto monti di lanciata neve gli seppelliva,
ed ogni traccia che fatta si fosse di strada, intieramente scassava. La
disperazione entrava negli animi: le guide, uomini del paese, atterrite
attestavano l'impossibilità del passare, e l'opera loro ricusarono. Era
per perire Macdonald sotto monti di neve, come era perito Cambise sotto
monti d'arena. Ma vinse la virtù sua e dei compagni: queste sono opere
piuttosto da giganti che da uomini. Incoraggiò le guide, incoraggiò i
soldati. Accorreva, e gridava: «Francesi, ha l'esercito di riserva vinto
il San Bernardo, vincete voi la Spluga: superate per gloria vostra
quello, che la natura ha voluto fare insuperabile: i destini vi chiamano
in Italia; ite e vincete, prima i monti e le nevi, poscia gli uomini e
l'armi». La lunga tratta delle squadre desolate riprendeva il cammino.
Imperversava vieppiù la bufera: spesso le guide piene di un alto terrore
tornavano indietro, spesso gli uomini sepolti, spesso dispersi spesso la
stretta foce della sublime valle si trasformava in monte di neve; là era
un muro bianco e sodo, dove prima era l'aperta; chiusa ogni strada.
S'aggiungeva un freddo intensissimo, maggiore, quanto più si saliva, e
che gli animi attristava, e prostrava, e le membra con renderle inutili
aggrezzava. Le nevose ed estemporanee mura spesso si rinnovavano,
l'inesorabile inverno spaziava largamente, e dominava; le Rezie Alpi in
atto di sorbirsi gli audaci Francesi. Rifulse in tanto estremo caso
mirabilmente, quanto possa questa portentosa umana natura; perchè non
restandosi Macdonald nè i suoi a quel mortale pericolo, aprivano ciò che
era chiuso, spianavano ciò che era montuoso, rompevano ciò che era
ghiacciato, assodavano ciò che era cedevole, sgretolavano ciò che era
sdrucciolente, coprivano o riempivano ciò che era abisso. Per tale modo,
quantunque un rovinoso inverno gli chiamasse a distruzione ed a morte,
l'inverno vincevano, e contrastando a quanto hanno di più terribile e di
più insuperabile i furibondi elementi, riuscivano nella Valtellina valle
a salvamento. Rallegravansi dell'acquistata vita l'uno con l'altro,
perchè si erano creduti morti: godevasi Macdonald il raccolto frutto
dell'invitta costanza. Imprese son queste che pajono impossibili, e più
a coloro che le hanno effettuate. Non le crederebbe la posterità, se il
secolo nostro, tanto abbondante raccontatore, non uno, ma cento
testimonianze non fosse per tramandarne; nè ricorda alcuna storia o
antica o moderna fatto più maraviglioso, o più erculeo di questo. Da lui
si vide con qual nemico avessero a fare gli Austriaci; perchè certamente
non si sarebbero eglino mai posti a fatti sì rischievoli; il valore era
pari da ambe le parti, maggiore l'audacia da quella dei Francesi.
Chiamanla alcuni temerità; pure la fortuna è amica degli audaci, ed il
mondo è di chi se lo piglia.

Sebbene la prima parte dell'impresa fosse compita, restavano ad
effettuarsi le due altre, che avevano anch'esse gran momento di
difficoltà; quest'erano il passo dalla Valtellina nella valle Camonica,
cioè dall'acque dell'Adda a quelle dell'Oglio, ed il passo dalla
Valtellina nel Trentino, cioè dall'acque dell'Adda a quelle dell'Adige.
Apriva il primo il monte Priga, il secondo il monte Tonale. Non ebbe
prospero fine il tentativo contro quest'ultimo, perchè gli Alemanni vi
si erano fortemente trincerati, e sebbene Macdonald due volte con grande
vigorìa gli combattesse, ajutati dalla stagione, dalla fortezza del
luogo, e dal proprio valore il risospinsero. Da un'altra parte sortiva
esito felice il passo della Priga. Traversato, non senza gravi
difficoltà e pericoli, quell'aspro monte, vedevano i repubblicani le
acque dell'Oglio, e passato Breno, si raccoglievano a Pisogna, terra
posta sulla settentrional punta del lago d'Iseo, cui l'Oglio con le sue
acque forma e nodrisce. Vi trovavano la legione Italiana di Lecchi, e
vettovaglie fresche, provvidenza di Brune, che ve le aveva mandate a
ristoro di quelle stanche ed eroiche genti.

Erasi sul fine di novembre disdetta la tregua, e denunziate le ostilità
da una parte e dall'altra, ma non si venne tosto alle mani in Italia,
perchè Brune non voleva principiar la guerra innanzi che Macdonald,
occupato allora nel passo dei monti, fosse venuto a congiungersi con
lui. Nè stava senza timore che il suo fianco destro pericolasse,
stantechè Dupont, dopo la conquista della Toscana, era ritornato con la
maggior parte delle truppe al campo principale, lasciato solamente in
quel paese Miollis con tre o quattromila soldati. Oltre a ciò il re di
Napoli, stimolato dagl'Inglesi, e volendo cooperare coll'Austria, aveva
radunato un'esercito campale sotto la condotta del conte Ruggiero di
Damas; il quale traversato lo stato pontificio, già s'avvicinava alla
Toscana. Perciò il generale di Francia stava aspettando che Macdonald si
accostasse, e che i soldati novelli, che già erano arrivati in Piemonte,
gli pervenissero. Nè meno desiderava indugiar la guerra Bellegarde,
volendo aspettare che Laudon e Wukassowich fossero scesi dal Tirolo.
Inoltre trovandosi alloggiato in sito forte per natura e per arte, amava
meglio essere assaltato, che assaltare.

Avvicinandosi oggimai la fine dell'anno, ed essendo giunto Macdonald sui
campi, donde poteva cooperare con Brune, e volendo il generalissimo
secondare i movimenti di Moreau in Germania, che con armi prospere
minacciava il cuore dell'Austria, si deliberava a dar principio alle
ostilità: assaltati impetuosamente i corpi che Bellegarde aveva posto
alle stanze sulla destra del Mincio, gli sforzava a rivarcare il fiume.
Restava ch'egli medesimo il passasse, difficile opera, perchè gli
Austriaci forti di numero e di sito, si erano risoluti a difendere
gagliardamente il fiume. Erano i Francesi partiti in tre schiere: la
superiore, cioè la sinistra governata da Moncey, guardava a Peschiera,
la mezzana, a cui presiedeva Suchet, stava rimpetto a Borghetto, la
inferiore o la destra guidata da Dupont alloggiava alla Volta, e si
distendeva sino a Goito. Fece Brune pensiero di varcare al passo di
Mozambano, perchè quivi le rive essendo meno paludose facilitavano lo
accostarsi, ed il combattere più fermamente nei luoghi occupati. Perchè
poi il passo gli riuscisse più facile, avvisò di ingannar il nemico con
fargli credere, ch'ei lo volesse passare più sotto tra la Volta e
Pozzuolo. Con questo fine ordinava a Dupont, facesse qualche forte
dimostrazione di voler varcare in questo luogo, e tanto vi tempestasse,
che Bellegarde si persuadesse, che quest'era il passo veramente, che i
Francesi avevano intenzione di effettuare, non dubitando, che per questo
timore vi avrebbe il generale Tedesco mandato gran parte delle sue
genti, e perciò, nudando il suo destro fianco, dato più facile
esecuzione al disegno di Mozambano. Ciò non ostante voleva Brune, e così
aveva comandato a Dupont, che si contentasse di una dimostrazione sulla
riva sinistra, non vi prendesse alloggiamento stabile, non v'ingaggiasse
battaglia giusta. Correva il giorno venticinque decembre, cui il
generalissimo di Francia aveva destinato al passaggio del Mincio. Fu il
primo Dupont a mandar ad effetto la fazione che gli era stata commessa.
Passava primieramente coi soldati leggieri sulle barche trovate a caso,
poi, accomodate le piatte, construiva il ponte, e varcava con la maggior
parte delle genti, che erano le due squadre di Watrin e di Monnier.
S'impadroniva, dopo breve contrasto, della terra di Pozzuolo, e senza
aver rispetto alle condizioni delle cose, vi fermava le sue stanze;
felice ad un tratto, ed infelice pensiero, perchè se l'impadronirsi di
Pozzuolo era fatto importante, la circostanza era tale, che avrebbe
potuto partorire la difazione intiera dei Francesi, e per poco stette,
che non abbia fatto quest'effetto. Sarebbe stato e miglior partito per
non deviare dalla volontà del generalissimo, e più sicuro per Francia,
che Dupont, acquistata la facoltà del passare, attendesse, prima di
effettuare il passo, che Brune avesse ancor egli varcato a Mozambano. Ne
sorse un gravissimo pericolo; perchè Brune avendo trovato le strade
molto sinistre, non potè mettersi all'impresa il giorno venticinque; il
che fu cagione che Bellegarde, che alloggiava col grosso a Villafranca,
terra poco lontana, corse subitamente con tutto il pondo de' suoi contro
Dupont. Si difese virilmente il Francese, ancorchè Bellegarde si fosse
scoperto con quasi tutto il suo esercito in battaglia; fecero i suoi
soldati quanto in accidente sì pericoloso per uomini valorosi si poteva
fare. Ma tanto preponderava il nemico, combattendo colla maggior parte
delle sue forze contro una piccola di quelle dell'avversario, che già
Dupont, non essendo potente a resistere col suo corpo solo, cedeva, e si
vedeva vicino ad essere rituffato nel fiume, portando in tal modo la
pena dell'aver preso animo, contro gli ordini del capitano generale, di
fermarsi, e far grossa battaglia sulla riva opposta del fiume. Sarebbe
adunque stata l'ala destra dei Francesi conquisa intieramente e rotta,
se non fosse giunto improvvisamente un non pensato soccorso. Suchet, che
dall'eminenze della Volta scopriva quanto Dupont fosse pressato dal
nemico, consigliandosi piuttosto con la necessità dell'accidente, che
con gli ordini di Brune, perciocchè il generalissimo gli aveva ordinato
che andasse ad ajutare il passo di Mozambano, frettolosamente marciava
al mal auguroso Pozzuolo. L'arrivo di Suchet ristorava la fortuna della
giornata oramai perduta. Tuttavia gli Austriaci grossi e sicuri sul loro
destro fianco facevano una battaglia forte, e molto ostinata. Tre volte
s'impadronirono di Pozzuolo, e tre volte ne furono risospinti. Infine fu
costretto Bellegarde a tirarsi indietro a Villafranca, lasciando i
repubblicani in possessione di Pozzuolo. Patì molto in questa battaglia;
perciocchè gli mancarono circa cinquemila soldati tra morti e feriti;
tremila prigionieri attestarono quanto spesso le fini delle battaglie
siano diverse dai principj. Tre bandiere, undici cannoni ornarono il
trionfo dei vincitori. Non fu però senza strage la vittoria ai Francesi:
duemila soldati mancarono o per morte, o per ferite; pochi vennero in
potestà di Bellegarde. Il seguente giorno, come aveva destinato, passava
Brune il fiume a Mozambano per guisa tale che tutto l'esercito di
Francia si trovava condotto sulla sinistra del Mincio.

Bellegarde, considerato il successo della fazione di Pozzuolo, nè
volendo avventurarsi a battaglie campali in quella facile largura tra il
Mincio e l'Adige, ancorchè molto prevalesse di cavallerìa, accomodava le
sue deliberazioni agli esiti delle cose, e ritirava le genti sulla
sinistra dell'Adige, solo lasciando sulla destra alcuni corpi, non per
signoreggiare il paese, ma soltanto per meglio difendere il passo del
fiume. Brune, fatto più ardito dalla vittoria, applicava l'animo a
cacciare l'avversario oltre Verona, ed a far sentire l'impressione delle
armi Francesi nel Vicentino, nel Padovano, e nel Trivigiano. Ciò
meditando, a modo tale ordinava la fazione, che piuttosto sopra Verona
che sotto effettuasse il passo, perchè in questa guisa procedendo,
Macdonald poteva più facilmente cooperare con lui, ed aveva speranza
d'impedir la congiunzione di Laudon, e di Wukassowich, che già
scendevano dal Tirolo. Per la qual cosa, avvicinandosi col grosso
all'Adige, mandava Moncey con un corpo sufficiente verso Corona e
Rivoli, affinchè serrasse la strada a Laudon ed a Wukassowich, e nel
caso in cui eleggessero di rivoltarsi là, dond'erano venuti, gli
perseguitasse anche all'insù. Sapeva che Macdonald procedendo pei monti
superiori, ed entrando dalla valle dell'Oglio in quella del Mela, da
questa in quella della Chiesa, e pervenendo alla superior coda del lago
di Garda, si proponeva di riuscire per montagne scoscese e rotte, sopra
a Trento. La quale mossa, se avesse avuto il suo effetto, Laudon e
Wukassowich, combattuti sopra da Macdonald, sotto da Moncey, non
avrebbero più avuto scampo. Succedeva felicemente il pensiero di Brune,
rispetto al passo del fiume, perchè facilmente gli veniva fatto di
varcarlo a Bussolengo, luogo già tanto famoso pei successivi passaggi,
ora di Francesi, ora di Tedeschi. Bellegarde, informato del viaggio di
Macdonald, aveva fatto debole dimostrazione per impedire il transito ai
repubblicani, e si ritirava, lasciato solamente nel castello di San
Felice di Verona un presidio, che poco dopo s'arrese, sulle rive della
Brenta. Al tempo stesso accortosi, quanto la guerra fosse pericolosa a
Laudon ed a Wukassowich, aveva loro comandato, che risalissero più
presto che potessero l'Adige, e per la valle della Brenta con frettolosi
passi venissero a congiungersi con lui nei contorni di Bassano. In
questo punto pervennero le novelle, che dopo la vittoria di Hohenlinden
guadagnata da Moreau contro l'arciduca Giovanni, era stata conclusa a
Steyer il giorno venticinque decembre, una tregua tra il generale
Francese e l'arciduca Carlo. Propose Bellegarde a Brune un trattato
simile di sospensione di offese; ma esigendo conforme alle istruzioni,
che gli si cedesse, oltre Peschiera, Ferrara, Ancona e porto Legnago,
anche Mantova, il trattato non potè aver effetto, e si continuò la
guerra.

Le cose pressavano molto nel Tirolo. Moncey e Macdonald intendevano a
serrare da ogni parte Wukassowich e Laudon, per impedir loro la facoltà
del ritirarsi. Ma il primo alloggiato superiormente al secondo, e
prestamente obbediendo a Bellegarde, entrato per Pergine nella valle
della Brenta, schivava il pericolo, e sicuramente per la sponda di
questo fiume camminava alla volta del suo generalissimo; il secondo pel
contrario si trovava in molto ardua condizione, imperciocchè già si era
condotto tanto innanzi, che era disceso fin sotto a Roveredo, e non
poteva più tornare indietro per Trento innanzichè Macdonald vi
arrivasse. Era oltre a ciò aspramente combattuto da Moncey dalla parte
inferiore per modo, che cacciato all'insù da un sito all'altro aveva
anche abbandonato al vincitore la possessione di Roveredo. Al tempo
stesso Macdonald, superata la resistenza, che Davidowich con un po' di
retroguardo di Wukassowich aveva fatto a Trento, s'impadroniva di questa
capitale del Tirolo Italiano. Era adunque tolto ogni scampo a Laudon per
la strada maestra, nè altra speranza gli restava, che quella di condursi
per le strette ripide e malagevoli di Caldonazzo, a Levico. Il passo era
impossibile ad eseguirsi per sentieri tanto difficili, massime pei
cavalli, per le bagaglie, e per l'artiglierìe, se vivamente i Francesi
l'avessero perseguitato. Mandò dicendo a Moncey, essere conclusa una
tregua, cosa non vera, tra Brune e Bellegarde; il richiedeva
dell'osservazione: prestò fede il Francese, e si astenne dal combattere.
Laudon intanto, usando l'occasione e frettolosamente marciando, arrivava
a salvamento a Levico, donde calandosi con viaggio prospero, si
avvicinava a Bellegarde. Diede Moncey all'insù di Roveredo, Macdonald
all'ingiù da Trento: incontraronsi fra le due città i due generali della
repubblica, dolenti ambidue, che per inganno fosse loro stata tolta
l'occasione di un segnalato fatto a propria gloria, e ad utilità della
patria. Rammaricossene più spezialmente Macdonald, per avere incontrato
indarno tanti pericoli e fatiche. Restava che compisse un'altra parte
del suo disegno, piacendogli le imprese grandi ed audaci: quest'era di
montar l'Adige fino a Bolzano ed a Brissio, poi di entrare nella valle
della Drava per riuscire alle spalle di Bellegarde, e tagliargli la
strada al suo ricetto d'Austria. Infatti già era arrivato col suo
antiguardo a Bolzano, combattendovi gagliardamente il generale
Auffenberg, che vi stava a difesa con quattromila soldati: non la
guerra, ma la pace impedì a Macdonald l'esecuzione del suo animoso
pensiero.

Eransi Wukassowich e Laudon ricongiunti con Bellegarde, che ancora
poteva tener in pendente la fortuna; ma non volle più avventurare le
sorti, avendogli interrotto la speranza le novelle allora pervenute
della sospensione di Steyer. Per la qual cosa si ritirava dalla Brenta,
riducendosi sulle sponde della Piave. Il perseguitava Brune: era il fine
della guerra. A petizione del generale d'Austria si concluse il dì
sedici gennajo a Treviso un trattato di tregua coi capitoli seguenti: si
sospendessero le offese; le due parti non potessero rompere il trattato,
se non dopo quindici giorni di disdetta; le piazze di Peschiera e di
Sermione, i castelli di Verona e di Legnago, la città e la cittadella di
Ferrara, la città e il forte d'Ancona si consegnassero ai Francesi;
Mantova restasse bloccata dai repubblicani a ottocento braccia dallo
spalto con facoltà al presidio di procacciarsi viveri di dieci in dieci
giorni; i magistrati Austriaci si rispettassero, la tregua durasse
trentatrè dì, compresi i quindici; nissuno per fatti od opinioni
politiche potesse essere molestato. Non piacque al consolo l'accordo di
Treviso, perchè non giudicava a suo proposito, che l'Austria possedesse
Mantova. Mandò adunque minacciando, trovandosi in condizione vittoriosa,
all'Austria, che se non gli desse Mantova, sarebbe di nuovo interrotta
la concordia, e non avrebbe per rate nè la convenzione di Steyer, nè
quella di Treviso, e rincomincierebbe la guerra. Fu forza all'imperatore
il consentire, e per un nuovo accordo fatto a Luneville, fu quella
principalissima fortezza data in mano dei Francesi.

La sospensione di Treviso ridusse alle strette il re di Napoli, perchè
per lei potevano i Francesi più espeditamente attendere alla
ricuperazione dei paesi perduti. Il conte Ruggiero, volendo cooperare
con Bellegarde, si era mosso coi Napolitani, e, traversato lo stato
Romano, era entrato in Toscana, alloggiandosi in Siena. Dall'altro lato
il marchese Sommariva con qualche squadrone di Tedeschi, e coi
fuorusciti Aretini, s'era ancor egli fatto avanti, ed aveva levato a
romore le parti superiori del gran ducato. Al quale moto sollevati gli
Aretini, siccome quelli che mal volentieri sopportavano il nuovo
dominio, di nuovo erano corsi all'armi, ed avevano condotto in grave
pericolo Miollis, che con poche genti custodiva la Toscana. Messi in
confusione e sconquasso i confini, s'incamminavano Sommariva da una
parte, il conte Ruggiero dall'altra all'acquisto di Firenze, dove il
generale Francese aveva la sua principale stanza. Queste cose accadevano
sul principiar dell'anno. Disperando Miollis, perchè si sentiva più
debole pel poco numero de' suoi soldati, misti di Francesi, Cisalpini, e
Piemontesi, di far fronte ad un tratto ai due nemici, s'appigliò
prudentemente al partito di combattergli separati, usando celerità.
Marciavano primieramente contro i Napolitani condotti dal conte. Guidava
il generale Pino l'antiguardo di fanti Cisalpini, e di cavalli
Piemontesi. Affrontava tra Poggibonzi e Siena una grossa colonna di
cinque o sei mila fanti Napolitani, e valorosamente urtando con le
bajonette, gli voltava in fuga. Volle il conte far testa in Siena; ma
Pino guidato dal proprio valore, da quello de' suoi, dal fervore della
vittoria, dava dentro incontanente, e fracassate coi cannoni le porte,
vittoriosamente vi entrava. Ritirossene il conte; poi fece opera di
rannodarsi sui poggi vicini, ma pressando viemmaggiormente i Cisalpini
ed i Piemontesi, fu costretto ad abbandonar tostamente i territorj
Toscani, ritirandosi in quei di Roma per l'oscurità della notte. Il
marchese, udito il sinistro caso del conte, ritraeva prestamente i
passi, e giva a ricoverarsi in Ancona. In tal modo Miollis pel valore
de' suoi, e per la provvidenza propria riduceva di nuovo in arbitrio di
Francia le cose di Toscana, e teneva in timore il sinistro fianco di
Bellegarde. Quest'erano le condizioni di Toscana quando, conclusa la
sospensione di Treviso, nella quale non fu compreso il re di Napoli, le
cose del regno restarono esposte a grandissimo pericolo; perchè Murat,
siccome gli era stato comandato dal consolo, già venuto con le nuove
reclute in Italia, s'incamminava a gran passi contro la Toscana e la
Romagna per invadere il regno. Ai soldati di Murat s'accostava al
medesimo fine una forte squadra dell'esercito vittorioso di Brune: ogni
cosa cedeva alla riputazione della vittoria. Il resistere pel re era
impossibile, la sua ruina certa. La salute, caso da non essere
presentito, gli venne dal settentrione. Carolina regina, che quantunque
fosse di natura pur troppo risentita, e si lasciasse tropp'oltre
trasportare dallo sdegno, aveva mente forte, e non dava molta fede alle
matte credenze, ed alle parole gonfie degli stravolti nemici di Francia,
si era risoluta, voltando tutto l'animo alle speranze Russe, e non
isperando in altro modo congiunzione con Francia, di andar a Pietroburgo
per pregare l'imperatore Paolo ad intromettersi, come mediatore, tra il
consolo e Ferdinando. Piacque la fede a Paolo: già rappattumato col
consolo, mandava in Italia il generale Lewashew, affinchè
s'intromettesse a concordia fra le due potenze. Si soddisfece Buonaparte
del procedere di Paolo, perchè in primo luogo vedevano le nazioni,
principalmente gl'Italiani, che uno dei più potenti principi del mondo,
non solo riconosceva il suo governo, ma ancora aveva amicizia con lui;
in secondo luogo vedeva egli medesimo il regno di Napoli sottratto dalla
divozione Inglese, e ridotto nuovamente nella propria. Fecersi a
Lewashew venuto in Italia onorevoli accoglienze in ogni parte, parendo
che rilucesse nella persona sua tutta la grandezza di Paolo: i popoli si
maravigliavano, che la Russia tanto nemica a Francia, le fosse ora
divenuta amica, e paragonando i tempi di Suwarow con quei di Lewashew,
ammiravano la potenza e la felicità del consolo. Venne per parte del re
il cavaliere Micheroux a trovare Murat a Foligno: non istettero a
negoziar lungo tempo, essendo le due parti sommamente desiderose di
convenire, una per piacere a Paolo, l'altra per paura di Buonaparte. Fu
adunque il dì diciotto febbrajo, accordata tra Francia e Napoli, con
corroborazione dell'autorità della Russia, una tregua, i principali
capitoli della quale furono, che i soldati regj sgombrassero dallo stato
Romano, che i repubblicani occupassero Terni, ma che la Nera non
oltrepassassero; che tutti i porti di Napoli e di Sicilia si serrassero
contro gl'Inglesi e contro i Turchi; che ogni comunicazione cessasse tra
Porto-ferrajo e Porto-longone nell'isola d'Elba, fintantochè gl'Inglesi
non avessero sgombrato da Porto-ferrajo; che Dolomieu si liberasse dalle
carceri di Messina, che si restituissero gli ufficiali ed i generali
Francesi; che si obbligasse il re ad udire favorevolmente le
raccomandazioni di Francia per coloro, che fossero o banditi, o
carcerati per opinioni politiche. Ebbe questo trattato subito effetto:
vuotò il conte Ruggiero il territorio della Chiesa: prevenendo le
instanze del consolo, aboliva i tribunali straordinarj, e condonava ogni
pena pel crimenlese. Murat tra per vanagloria ad entrar qual liberatore
in Roma, e per adescare ai futuri disegni venutovi dentro, e concorrendo
a lui il popolo, si condusse a far riverenza al pontefice.

Ogni cosa si componeva a concordia: più poteva a Vienna il terrore, che
le Inglesi esortazioni. Negoziavasi a Luneville per l'Austria dal conte
Luigi Cobentzel, per la Francia da Giuseppe Buonaparte, l'uno e l'altro
avendo mandato e possanza di concludere. Dopo qualche contenzione,
pigliarono forma, che il trattato definitivo di pace fosse sottoscritto
il giorno nove di febbrajo. I capitoli principali, quanto all'Italia,
furono quelli stessi del trattato di Campoformio, solo variossi pei
confini: l'Adige, principiando dove sbocca dal Tirolo insino alla sua
foce, fosse confine tra la Cisalpina e gli stati d'Austria; la destra
parte di Verona, e così quella di Portolegnago spettassero alla
Cisalpina, la sinistra all'Austria; si obbligava l'imperatore a dare la
Brisgovia al duca di Modena in ricompensa del perduto ducato;
rinunziasse il gran duca alla Toscana ed all'isola d'Elba, e la Toscana
e l'isola si dessero all'infante duca di Parma; il gran duca si
ricompensasse con stati competenti in Germania; conoscesse, e
riconoscesse l'imperatore le repubbliche Cisalpina e Ligure, e
rinunziasse ad ogni titolo, sovranità e diritto sopra i territorj della
Cisalpina; consentisse alla unione dei feudi imperiali colla repubblica
Ligure. Del Piemonte nulla si stipulava, perchè Buonaparte voleva
serbarsi o una occasione per pigliarlo per se, od un appicco per piacere
a Paolo.

Il re di Napoli ridotto alla necessità di obbedire alla forza lontana di
Paolo, ed alla vicina di Buonaparte, si quietava anche col consolo,
convenendo in un trattato di pace a Firenze il dì vent'otto di marzo
sottoscritto per parte di lui da Micheroux, per parte della Francia da
Alquier. Convenissi come nella tregua, e di vantaggio, che il re
rinunziasse primieramente, e per sempre a Porto-longone, ed a quanto
possedesse nell'isola d'Elba, secondamente cedesse alla Francia, come
cosa propria, e da farne ogni voler suo, gli stati dei presidj ed il
principato di Piombino; ancora perdonasse ogni delitto politico commesso
fino a quel giorno; restituisse i beni confiscati, liberasse i detenuti,
potessero gli esuli tornare nel regno sicuramente, e fosse loro
restituita ogni proprietà; da ambe le parti si dimenticassero le offese.

Le cose si fermarono anche con nuova composizione colla Spagna,
essendosi stipulato un trattato a Madrid il dì ventuno marzo da Luciano
Buonaparte per parte di Francia, e dal principe della Pace per parte di
Spagna. S'accordarono le due parti, che il duca di Parma rinunzierebbe
al ducato in favore della repubblica di Francia, che la Toscana si
darebbe al figliuolo del duca con titolo di re; che il duca padre si
compenserebbe con rendite e con altri stati; che la parte dell'isola
d'Elba che apparteneva alla Toscana, spetterebbe alla Francia, e che la
Francia ne ricompenserebbe il re d'Etruria collo stato di Piombino; che
la Toscana s'intendesse unita per sempre alla corona di Spagna; che se
il re d'Etruria morisse senza prole, succedessero i figliuoli del re di
Spagna.

Così in men che non fa un anno, ogni ostacolo cedendo ai Buonapartiani
fati, vinse il consolo Austria ed Italia. Poscia, essendo in tutti,
parte pei medesimi, parte per diversi rispetti la medesima intenzione
alla pace, composte tutte le controversie, contrasse amicizia
coll'imperatore Paolo, s'accordò coll'imperatore Francesco, e rinnalzò
Francia da bassa ad eminente fortuna.



LIBRO VIGESIMOPRIMO

SOMMARIO

      Il consolo s'accorda con Roma, e rinstaura la religione
      cattolica in Francia. Concordato. Discussioni nei consigli del
      papa su di questo atto. Articoli organici aggiunti dal
      consolo, e querele del pontefice in questo proposito. Ordini
      Francesi introdotti in Piemonte, che accennano la sua unione
      definitiva colla Francia. Menou mandato ad amministrar questo
      paese in vece di Jourdan. Murat in Toscana. Suo manifesto
      contro i fuorusciti Napolitani. La Toscana data al giovane
      principe di Parma con titolo di regno d'Etruria. Il consolo
      insorge per arrivare a più ampia autorità, ed a titolo più
      illustre. Fa per questo sue sperienze Italiane, e chiama
      gl'Italiani a Lione. Quivi il dichiarano presidente della
      repubblica Italiana per dieci anni con capacità di esser
      rieletto. Constituzione della repubblica Italiana. Genova
      cambiata, e sua nuova constituzione. Monumento in Sarzana ad
      onore della famiglia Buonaparte, natìa di questa città. Il
      Piemonte formalmente unito alla Francia. Carlo Lodovico,
      infante di Spagna, re d'Etruria per la morte del principe di
      Parma. Descrizione della febbre gialla di Livorno. Le bilustri
      trame di Buonaparte arrivano al loro compimento; si fa chiamar
      imperatore. Pio settimo condottosi espressamente in Parigi, lo
      incorona.


Le cose della religione cattolica erano in gran disordine in Francia.
L'assemblea constituente aveva interrotto la unione con la sedia
apostolica rispetto alla instituzione pontificia dei vescovi, qual era
stata accordata tra Leone decimo, e Francesco primo, e tolto i beni alla
chiesa con appropriargli alla nazione. I governi che vennero dopo,
massimamente il consesso nazionale, non solamente distrussero gli ordini
statuiti dall'assemblea, ma spensero ancora ogni ordine religioso,
perseguitarono i ministri della religione, ed alcuni anche sforzarono,
cosa nefanda, a rinegare il proprio stato, e le proprie opinioni. Il
direttorio continuò a perseguitare i preti, ora confinandogli
nell'esiglio, ora serrandogli nelle prigioni, e sempre impediendo loro,
massime ai non giurati, che liberamente e pubblicamente celebrassero i
riti divini. Fra tante amarezze dell'anime pie, qualche consolazione
recavano i preti giurati colle esortazioni, e coi conforti loro: ad essi
la Francia debbe restar obbligata della conservazione della fede; della
conservazione medesima la sedia apostolica debbe sentir loro obbligo,
sebbene abbia cagione di dolersene per la diminuzione da loro
introdotta, e pertinacemente sostenuta con le parole, con le opere, e
con gli scritti, nella giurisdizione della cattedra di San Pietro.
Conservarono eglino la fede, che è la radice, senza la quale ogni
religione, non che ogni disciplina ecclesiastica, sarebbe impossibile.
Ma la religione senza un culto ordinato, e senza riti accordati con la
pubblica autorità, e da lei riconosciuti e protetti, non potrebbe
sussistere lungo tempo, la cattolica meno di ogni altra, solita a
cattivar gli animi con le pompe e solennità esteriori. Ciò si vedevano
gli uomini prudenti, nei quali era entrata la persuasione, che le
credenze religiose sono un ajuto efficace alle leggi civili:
quest'istesso vedevano gli uomini religiosi, che si dolevano, che quello
che nelle menti e nei cuori loro pensavano ed amavano, non potessero in
ordinato e pubblico modo manifestare. Era adunque nato un desiderio in
Francia di veder ristorati i riti della religione cattolica, e molti
Francesi in questo desiderio tanto più s'infiammavano, quanto più
difficile sembrava la rintegrazione. Certo pareva, che ove una prima
insegna di Cristo si fosse rizzata, là sarebbero concorsi cupidamente, e
con amore avrebbero abbracciato coloro, che rizzata l'avessero.
Buonaparte non era uomo da non vedersi queste cose, meno ancora da non
usarle per edificare la sua potenza, e per arrivare a' suoi fini
smisurati. Per questo aveva dato parole di pace, di religione, di
rispetto, e d'amicizia verso il papa, quando ritornò, dall'Egitto
arrivando, in Francia; per questo tenne i medesimi discorsi quando andò
alla seconda conquista d'Italia; per questo le medesime protestazioni
accrebbe quando vittorioso nei campi di Marengo se n'era tornato nella
sua consolar sede di Parigi. Adunque divenuto libero dai pensieri, che
più nella mente sua pressavano, della guerra, applicava viemaggiormente
l'animo al negoziare col papa, col fine di venirne con lui ad un
aggiustamento in materia religiosa. Offeriva di dare stato, culto, e
comodi pecuniari alla religione cattolica, ed ai suoi ministri.
Aggiungeva le solite lusinghe, favellando con accomodate parole della
mansuetudine, e della santità del Chiaramonti, vescovo d'Imola. Nè
tralasciava le consuete dimostrazioni del suo amore verso la religione,
e verso i Francesi. Alcuni accidenti ajutavano queste pratiche, altri le
disajutavano. Dava favore al consolo un concilio nazionale di vescovi
giurati che dipendentemente da un altro tenuto nel novantasette, con suo
consentimento espresso era per adunarsi in Parigi il dì di San Pietro.
Non solamente ei non impediva che questi vescovi parlassero, ma
gl'incitava anche a parlare, quantunque fossero giurati, e contrarj a
quella pienezza di potestà, che i papi pretendono spettarsi alla sedia
apostolica. Della quale facoltà largamente usando, mandavano circolari
esortatorie ai vescovi, e preti loro compagni della chiesa gallicana,
acciocchè imitando, come dicevano, quella carità, di cui Gesù Cristo
aveva lasciato il precetto e l'esempio, venissero al destinato giorno ad
unirsi nel concilio di Parigi. Compissesi, confortavano, l'opera
incominciata nel concilio del novantasette, dessesi occasione ed
incitamento al rinnovare queste nazionali e sante assemblee presso tutte
le altre nazioni della cristianità, assemblee tanto raccomandate, e
tanto commendate dalla veneranda cristiana antichità; nodrissesi
speranza, che fossero esse il principio di un concilio ecumenico, la di
cui convocazione già da più secoli interrotta, sebbene il concilio di
Costanza avesse prescritto che ogni dieci anni si convocasse, era santa
e necessaria cosa rintegrare. Mandavano al tempo stesso pregando il
papa, col quale già il consolo negoziava per venirne allo statuire con
lui precetti contrarj, inviasse suoi deputati per certificarsi, quale e
quanta fosse la purità della fede loro: con lui si lamentavano di essere
stati prima condannati che uditi da Pio sesto; affermavano, per opera
loro non essere stato interrotto il corso della potestà episcopale:
forse, sclamavano, poter essere loro imputato a peccato l'avere
somministrato i sussidj, ed i conforti della religione a sì copioso
numero di diocesi, e di parrocchie abbandonate dai pastori loro?
Allegavano, che la facoltà di teologia, e di diritto canonico di
Friburgo in Brisgovia aveva profferito una sentenza tutta a loro
favorevole, sebbene non provocata; imploravano il parere di tutte le
altre università cattoliche, offerendosi pronti a dire ed a scrivere
quanto loro fosse addomandato a dilucidazione della controversia.
Protestavano finalmente, essere figliuoli obbedienti della Chiesa una,
santa, cattolica, apostolica, e romana; e con parole efficacissime
testimoniavano, nel grembo suo voler vivere, nel grembo suo morire.

Trattavasi in queste controversie principalmente della elezione dei
vescovi, cioè quanto al temporale, se la elezione fatta dal popolo fosse
valida, come quella fatta dai re e da altri capi di nazioni, e quanto
allo spirituale, se, perchè il filo della successione episcopale non
fosse interrotto, fosse necessaria l'instituzione del pontefice Romano,
o se bastasse quella fatta da un altro vescovo. Trattavasi poi anche di
quest'altro punto, se gli ecclesiastici dovessero vivere per le sole
obblazioni dei fedeli, o se dovessero possedere beni in proprio, e se
dottrina eretica fosse il mantenere che la potestà temporale, pei
bisogni generali dello stato potesse por mano senza il consenso del
Romano pontefice nei beni della chiesa. Non era punto nè incerta, nè
ignota la opinione dei vescovi giurati adunati in Parigi intorno alle
annunziate questioni, poichè ognuno sapeva, che sentivano contro le
dottrine della Romana sede. Nè solo queste opinioni in Francia erano
sorte, ma a loro non pochi uomini dottissimi, e di ogni religiosa virtù
ornati in Italia si erano accostati; conciossiachè, tacendo del Ricci,
vescovo di Pistoja, che più vivamente di tutti procedeva, nella medesima
sentenza erano venuti i professori Degola, Zola, Tamburini, Palmieri, e
con loro Gautier, prete Filippino di Torino, Vailua canonico d'Asti, con
molti altri sì Toscani, che Napolitani, che dal Ricci, o dai fratelli
Cestari avevano le medesime dottrine imparato. Non dubitava Gautier di
affermare, quale principio incontrastabile, che le elezioni dei vescovi
sono di diritto divino, od almeno di apostolica constituzione, che sì
fatto modo di elezione venne statuito dagli apostoli stessi, e servì di
esemplare alla disciplina praticatasi universalmente nella chiesa nei
secoli posteriori intorno ad un articolo di tanta importanza: allegava
il Filippino a confermazione della sua dottrina, che l'elezione di San
Mattia era stata fatta, non da San Pietro solamente, ma da tutti i
discepoli adunati nel cenacolo, che sommavano a centoventi: finalmente
usciva con dire, che se in fatto il pontefice Romano usava da più secoli
la facoltà di instituire i vescovi, per mera usurpazione ne usava. Da
tutto questo concludeva, che il papa doveva riconoscere, e confessare
per veri e legittimi vescovi coloro, ch'erano stati creati in conformità
degli ordini stabiliti dall'assemblea constituente di Francia. Voleva
adunque Gautier, ed esortava i vescovi, andassero, non ammessa scusa
alcuna, o pretesto in contrario, al concilio di Parigi per ingerirsi in
quella gran causa, perchè pareva a lui, che chiunque diritto e senza
prevenzione mirasse, avesse a venire in questa sentenza, che
l'innocenza, la ragione, la giustizia, secondo i sani principj dei
canoni stessero intieramente in favore dei pastori ordinati a norma
della constituzione del clero di Francia; che essi veri e legittimi
pastori fossero, siccome quelli che erano stati eletti dal popolo
cristiano, ed appruovati e constituiti nelle loro chiese dai rispettivi
metropolitani secondo i canoni primitivi dalla venerazione di tutto
l'universo confermati, e contro i quali nissuna consuetudine potrebbe
prevalere. A queste opinioni con l'autorità sua, e con gli scritti dava
favore Benedetto Solaro, vescovo di Noli, mostrando gran desiderio di
recarsi al concilio Parigino.

Pure da un'altra parte la Romana curia ardentemente impugnava le
medesime dottrine: Pio sesto pe' suoi brevi dei dieci marzo e tredici
aprile del novantuno, le aveva solennemente condannate, affermando, e
costantemente asseverando, che la potestà di compartire la giurisdizione
ecclesiastica secondo la disciplina da più secoli venuta in costume, e
dai concilj, ed ancora dai concordati confermata, non apparteneva
neppure ai metropolitani; che anzi questa potestà era alla fonte,
dond'era derivata, ritornata, siccome quella che unicamente
nell'apostolica sede ha la sua stanza, che presentemente al Romano
pontefice spettava il provvedere di vescovi ciascuna chiesa, come spiega
il concilio di Trento; dal che ne conseguitava che niuna legittima
instituzione di vescovi può esservi, eccetto quella che dalla sedia
apostolica si riceve; così avere statuito la Chiesa universale
debitamente adunata in concilio; così avere constituito il concordato
concluso tra Leone decimo pontefice, e Francesco primo re di Francia;
dal che si vedeva, che sebbene solamente dal secolo decimoquinto i
pontefici successori di San Pietro instituissero nelle sedi loro i
vescovi, incontrastabile nondimanco era in questa materia il diritto
loro, perciocchè vicarj di Cristo essendo, in se tutta avevano raccolta
la potestà data da Dio in terra pel governo della chiesa; e se i vescovi
erano posti a reggere le chiese particolari, ciò solamente potevano
fare, quando dal supremo ed universal pastore ne avevano ricevuto il
mandato.

A queste dottrine della curia Romana, come le chiamavano, non potevano
star forti, nè udirle pazientemente gli avversarj, e con parole e con
iscritti e con allegazioni di testi, e con sequele di ragionamenti
continuamente le combattevano. Nè ciò facendo, del tutto modestamente
procedevano: perciocchè, quantunque usassero discorsi artifiziosamente
umili verso il pontefice, mescolavano nondimeno motti acerbi, e sentenze
ancor più acerbe, quando favellano della potestà pontificia, e le
disputazioni, come di teologi, s'innasprivano. Insomma, siccome per la
constituzione civile del clero ordinata dall'assemblea constituente
pareva loro avere vinto una gran causa, così con tutti i nervi, e con
tutte le forze loro tentavano di riconfermare la conseguita vittoria.

Queste contese teologiche molto piacevano al consolo, e gli dimostravano
una grande opportunità, perchè non dubitava che il papa, temendo ch'ei
non fosse per gettarsi in grembo agl'impugnatori della santa sede,
avrebbe mostrato più docilità nel concedere ciò che desiderava; perciò
questi umori non solo favoriva, ma incitava. Questi erano gli accidenti
favorevoli al consolo; ma per natura, e per uso, e per massima amava
egli molto più il governo stretto e monarcale del papa, che il governo
largo e popolare degli avversarj, e gli pareva che gli ordini papali,
rispetto alla potestà unica ed universale, fossero un grande, utile e
maraviglioso pensamento. Chiamava i giansenisti gente di molta fede, e
di ristretti pensieri; nè gli pareva che la constituzione del clero,
siccome cosa antiquata e cagione di molte disgrazie, si potesse
utilmente rinfrescare. Un nuovo e vivace pensiero, e più conforme ai
desiderj dei popoli, gli pareva che abbisognasse.

Da un'altra parte cadevano in questa materia molte e gravi difficoltà.
La principale forza del consolo era posta ne' suoi soldati e non istava
senza qualche timore, che quell'apparato religioso, al quale da sì lungo
tempo erano disavvezzi, e quel comparir di preti, cui avevano e con
fatti perseguitato, e con motteggi lacerato, non paresse avere agli
occhi loro qualche parte di ridicolo, cosa di somma importanza in
Francia. Temeva altresì su quei primi principj la setta filosofica,
nemica al papa, assai più potente di quella che impugnava la larghezza
dell'autorità pontificia. Egli aspettava dalla prima gran favore e gran
sussidio. Ma più di tutto questo travagliava l'animo suo la faccenda dei
beni della chiesa venduti dai precedenti governi; perchè l'ottenere del
papa la confermazione di queste vendite era di sommo momento, e sapeva
che il pontefice ripugnava al fare in questo proposito alcuna espressa
dichiarazione. Pure la tranquillità dei possessori era fondamento
indispensabile della sua potenza. Non pochi dei giurati erano di gran
nome, e di qualche autorità, e il consolo gli voleva vezzeggiare: ma
l'impetrare dal papa, che non solamente gli assolvesse, e nel grembo suo
gli riaccettasse, ma ancora, come desiderava, che ai primi seggi della
gallicana chiesa gli sollevasse, appariva intricato, e malagevole
argomento. La medesima difficoltà sorgeva per gli ecclesiastici della
parte contraria, che avevano conservato i seggi loro anche ai tempi
dell'esiglio, ed ai quali non avrebbero forse voluto rinunziare, parte
per insistenza nell'antiche opinioni, parte per affezione alla famiglia
reale di Francia.

Nè mediocre impedimento alla definizione del trattato recava il capitolo
della celebrazione dei riti cattolici; perciocchè essendo i medesimi
andati in disuso da sì lungo tempo, non era senza pericolo di scandalo,
in mezzo a popolazioni iniette di usi e di opinioni contrarie, il volere
che tutto ad un tratto pubblicamente, e secondo tutti gli usi della
chiesa si celebrassero: si temeva che nascessero enormità, dalle quali i
fedeli ricevessero maggiore offensione, che edificazione. Ripugnava
adunque il consolo, malgrado che il papa insistesse per ogni larghezza
di culto pubblico, a questa condizione, volendo indugiare a tempo più
propizio i desiderj di Roma.

Non ostante tutte queste malagevolezze in un negozio di tanta
importanza, essendo nelle due parti grandissimo desiderio di convenire,
mandava Pio settimo a Parigi il cardinale Ercole Consalvi, suo
segretario di stato, Giuseppe Spina arcivescovo di Corinto, ed il padre
Caselli, teologo consultore della santa sede. Dal canto suo dava il
consolo facoltà di trattare e di concludere a Giuseppe Buonaparte, a
Cretet, consigliere di stato, ed a Bernier, curato di San Lodo di
Angeri. Da questi si venne il dì quindici luglio al trattato definitivo
tra la santa sede, e la repubblica di Francia, atto piuttosto di unica
che di molta importanza, poichè per lui si restituiva alla chiesa
cattolica una parte nobilissima d'Europa, e si ridava la pace a tanti
uomini di coscienza timorata e pia. Il fece il papa per motivi
religiosi, il consolo per mondani; nè troppo ei se n'infinse; il che fu
non senza scandalo, perchè gli uomini religiosi abbominavano, che la
religione si usasse per mezzo, non per fine, antica, fondata, ed inutile
querela.

Confessatosi dal governo francese; che la religione cattolica,
apostolica e romana era professata dalla maggior parte dei Francesi, e
confessatosi altresì da Sua Beatitudine, che dalla sua rintegrazione in
Francia era per derivarle un grande benefizio ed un grande splendore,
convennero e stipularono le due parti, che la religione cattolica,
apostolica e romana avrebbe libero e pubblico esercizio in Francia, a
quelle regole conformandosi, che il governo giudicherebbe necessarie per
la quiete dello stato: s'accorderebbero la santa sede ed il governo ad
ordinare una nuova circonscrizione delle diocesi: esorterebbe il
pontefice i vescovi titolari a rinunziare alle sedi loro, e se nol
facessero, con la elezione di nuovi titolari provvederebbe; nominerebbe
il consolo tre mesi dopo la pubblicazione della bolla di Sua Santità gli
arcivescovi, ed i vescovi secondo la nuova circonscrizione, e
conferirebbe il papa l'instituzione canonica secondo le regole
constituite per la Francia innanzi che il governo vi si cambiasse: le
sedi vescovili, che in progresso vacassero ugualmente con nominazioni
fatte dal consolo, si riempissero, e l'instituzione canonica, conforme
al capitolo precedente, dal papa si conferisse; giurassero i vescovi, e
gli altri ecclesiastici, prima dell'ingresso loro, fedeltà alla
repubblica, e promettessero di svelare qualunque trama contraria allo
stato; pregassero nelle chiese per la repubblica e pei consoli; i
vescovi non potessero fare nuove circoscrizioni di parocchie, nè
nominare parochi, se non a beneplacito del governo; le chiese non
vendute si restituissero ai vescovi. Dichiarava inoltre il papa, avuto
riguardo alla pace ed alla rintegrazione della religione in Francia, che
nè egli, nè i suoi successori non sarebbero mai per molestare gli
acquistatori dei beni ecclesiastici alienati, e che per conseguente la
proprietà di essi beni, i diritti e le rendite annessevi, fossero e
restassero incommutabilmente in loro, nei loro eredi, e negli aventi
causa da essi. Obbligossi il governo di Francia a dare congrui
assegnamenti ai vescovi ed ai parochi, a provvedere che i fedeli di
Francia potessero legare alle chiese per benefizio della religione.
Confessò e riconobbe il papa, essere nel consolo gli stessi diritti e
prerogative, di cui appresso alla sedia apostolica godevano gli antichi
sovrani di Francia. Se accadesse, che un consolo acattolico arrivasse al
seggio supremo in Francia, i suoi diritti e prerogative, e così ancora
la forma delle elezioni dei vescovi si regolassero per un nuovo accordo.

Concluso il concordato, dissolveva tostamente il consolo, non avendone
più bisogno, il concilio nazionale di Parigi. Così gli sforzi dei
vescovi e preti giurati, per astuzia del consolo, servirono alla
rintegrazione dell'autorità papale piena in Francia.

Questa convenzione mandata a Roma per la ratifica del papa, vi destò
gravi e pertinaci controversie. I teologi più stretti e più dediti alle
massime della curia Romana, apertamente biasimavano i plenipotenziarj
dello avere troppo largheggiato nelle concessioni, e grandemente offeso
i diritti e le prerogative della chiesa cattolica. Il papa medesimo,
siccome quegli che molto timorato era, e delle prerogative della santa
sede zelantissimo, se ne stava in forse, non sapendo risolversi al
ratificare. I capitoli, su i quali cadevano principalmente le
controversie, erano, primieramente quello che statuiva, doversi il
pubblico esercizio del culto regolare dalla potestà temporale senza
nissun intervento dell'ecclesiastica, secondamente quello, per cui si
dichiarava da parte del pontefice la proprietà incommutabile a favore
degli acquistatori dei beni ecclesiastici. Pareva ad alcuni, che il
sostenere che la potestà laica possa di per se, e senza l'intervento
della potestà ecclesiastica far regole pel culto pubblico, quandanche
fosse per ragione della quiete dello stato, e che ad esse regole sia la
chiesa obbligata ad uniformarsi, fosse proposizione non solamente
contraria ai canoni, ma ancora più che sospetta di eresìa, siccome
quella che è contraria al detto dell'apostolo, che i vescovi sono posti
dallo Spirito Santo al governo della chiesa di Dio. Allegavano, che non
vi è chiesa senza culto, che chi regola il culto regola la chiesa, e che
chi regola regge. O è dunque falso, concludevano, che i vescovi siano
destinati dal divino Spirito a reggere la chiesa, il che è eresia, o è
indubitato, che i vescovi soli, e non i laici debbono reggere il culto,
il che è dogma. A queste ragioni vieppiù si peritava papa Pio, e stava
dubbio del partito al quale dovesse appigliarsi. Deliberò, prima di
risolversi, di consigliarsi coi teologi più dotti di Roma: richiese del
parer loro il cardinale Albani, e frate Angelo Maria Merenda dei
predicatori, commissario del sant'officio. S'accordarono ambidue, che il
papa, salva coscienza, potesse ratificare.

Il Merenda principalmente, molto sottilmente di questa materia
ragionando, statuiva, che se si trattasse di stabilire una bolla, un
canone, una definizione, od una massima in materia di dottrina, il dire,
che la potestà laica possa regolare il culto senza l'intervento della
potestà ecclesiastica, e che alle sue regole debbano gli ecclesiastici
uniformarsi, sarebbe proposizione eretica; ma non parimente quando si
trattasse, come nel caso presente, di trattato, convenzione, o accordo,
che si facesse coll'intento d'introdurre una regola, per cui si
rintegrassero e si repristinassero la religione e l'ecclesiastica
disciplina, in un paese del quale erano da molti anni miseramente
sbandite, benchè da più secoli, come in loro propria sede vi
dimorassero, e gli abitatori suoi fossero stimati veri e legittimi
figliuoli primogeniti della chiesa. Sapersi, quanto fosse la parte
acattolica potente in Francia, quanto disusata la religione, quanto
facili a nascervi gli scandali: però le circostanze dei luoghi e dei
tempi richiedere, che per evitare i danni maggiori che da un rifiuto
nascerebbero, per non privare un gran numero d'innocenti di quegli
spirituali sussidj, che potevano con la condizione presente concordarsi,
per avviare insomma l'importantissimo affare della religione di un
paese, che nel miglior modo che si potesse la desiderava, poteva, e
doveva il sommo pontefice risolversi alla ratificazione; nè all'uomo
prudente appartenersi il far gitto di tutto, quando si può conseguire
una parte: nè a patto alcuno potere il pontefice di tale atto venir
censurato, perchè soltanto faceva una concessione, la quale dalla sua
autorità procedendo, non dava nissun diritto alla potestà secolare:
avere voluto il divino Redentore, che in tempi avversi usassero gli
apostoli la prudenza del serpente, e la semplicità della colomba; il
quale precetto, siccome spiega San Tommaso, significare, che, siccome il
serpente nel pericolo s'avviticchia, e nasconde il capo per salvarlo,
così la chiesa deve studiarsi di salvar la fede, che è il capo e il
fondamento, su cui rimane la chiesa medesima edificata; e siccome
colomba, ella deve con la dolcezza, e con la lenità sforzarsi di mitigar
l'ira degli avversarj. Il cardinale Albani a questo parere tanto più
volentieri si accostava, quanto più sapeva, che i plenipotenziarj di
Francia avevano dato promesse certe per iscritto, che le modificazioni e
restrizioni della pubblicità del culto non in alcuna parte sostanziale,
ma solamente nelle processioni esteriori, nelle sepolture, ed in altri
somiglianti casi consistevano.

Quanto poi al capitolo che concerneva i compratori dei beni
ecclesiastici venduti, manifestarono Albani e Merenda una opinione del
pari conforme, e del pari favorevole alle stipulazioni, parendo loro,
che secondo i termini in cui era espresso, non per altro Sua Santità
riconoscesse i compratori, come proprietarj dei beni alienati, se non in
conseguenza delle promesse che loro faceva di non molestargli, nè per
se, nè pe' suoi successori; dalla qual promessa ne veniva loro
assicurato il quieto e pacifico possesso, dal quale sorgeva
necessariamente il diritto incommutabile di proprietà. Non era adunque,
pensavano, che Sua Santità riconoscesse negli acquistatori l'anzidetto
diritto di proprietà independente dalla sua concessione; che anzi il
diritto stesso di proprietà, siccome il capitolo esprimeva, era una
sequela della condonazione implicitamente contenuta nella promessa di
non molestare i possessori, condonazione, che il papa loro faceva colla
pienezza dell'apostolica suprema sua autorità. Che se, aggiungevano i
due consultatori della santa sede, le due parti del capitolo fossero
state concepite con ordine inverso, e si fosse detto che il papa
dichiarava, dovere la proprietà dei beni ecclesiastici alienati rimanere
immutabilmente presso gli acquistatori, e che in conseguenza non
avrebbero essi mai ricevuto molestia nel possesso di tali beni da parte
della santa sede, una dichiarazione di tal sorta sarebbe stata di grave
censura degna, perchè con lei si sarebbe appruovato in certo modo
l'errore già dai sacri concilj Lateranense secondo, e Constanziense
condannato in Arnaldo da Brescia, Marsilio da Padova, Giovanni da
Garduno, e nei Valdesi, Viclefiti, ed Ussiti: ma trovandosi le due parti
del capitolo collocate, come sono, il capitolo era irreprensibile,
poichè la proprietà risultava dalla condonazione del papa, non la
condonazione dalla proprietà.

Stante adunque le dilucidazioni date dal cardinale e dal commissario,
non soprastette più lungamente Pio settimo a dare il suo assenso, e
ratificò il concordato. Scrisse al tempo stesso brevi ai vescovi
titolari, acciocchè alle loro sedi rinunziassero. Alcuni rinunziarono,
la maggior parte, massimamente quelli che si erano riparati in
Inghilterra, ricusarono. Dei giurati Primat, le Blanc de Beaulieu,
Perrier, Lecoz, Saurin, supplicato al papa che loro perdonasse, e nelle
sedi destinate dal consolo gl'instituisse, impetrarono.

Rimossi per tale guisa tutti gli impedimenti, pubblicava il consolo il
giorno di Pasqua dell'ottocentodue il concordato. Scriveva ai vescovi
una circolare, in cui con parole asprissime ingiuriava i filosofi: poi
rivolgendosi ai francesi con Buonapartico stile discorreva, che da una
rivoluzione prodotta dall'amore della patria erano sorte le discordie
religiose, e per esse il flagello delle famiglie, gli sdegni delle
fazioni, le speranze dei nemici; uomini insensati avere atterrato gli
altari, spento la religione; per loro avere cessato quelle divote
solennità, in cui l'un l'altro aveva per fratello, in cui tutti sotto la
mano di Dio creatore di tutti si stimavano fra di loro uguali; per loro
non udire più i moribondi quella voce consolatrice, che chiama i
cristiani a miglior vita; per loro Dio stesso parere sbandito dalla
natura; dipartimenti distrutti dall'ire religiose, forestieri chiamati a
danni della patria, passioni senza freno, costumi senz'appoggio,
sciagure senza speranza, dissoluzioni di società; solo la religione
avere potuto portarvi rimedio; averlo lui voluto, averlo nella sapienza
sua voluto il pontefice, averlo i legislatori della repubblica
appruovato; così essere sorto il concordato; così essere spenti i semi
delle discordie, così svanire gli scrupoli delle coscienze, così
superarsi gli ostacoli della pace. Dimenticassero, esortava, i ministri
della religione le dissensioni, le disgrazie, gli errori; con la patria
la religione gli riconciliasse; con la patria gli ricongiungesse; i
giovani cittadini all'amore delle leggi, all'obbedienza dei magistrati
informassero; consigliassero, predicassero, inculcassero, che il Dio
della pace era per anco il Dio degli eserciti, e che, impugnate l'armi
sue insuperabili, combatteva a favor di coloro, che la libertà della
Francia difendevano.

Grande allegrezza ricevettero i fedeli in Francia per la rintegrata
religione. Gioinne anche maravigliosamente Roma, ma non fu il contento
del pontefice senza amarezza; conciossiachè il consolo aveva
accompagnato la pubblicazione del concordato con certe regole di
disciplina ecclesiastica sotto forma di decreto, che, secondo le Romane
opinioni, offendevano le prerogative della santa sede, o restrignevano
l'autorità dei vescovi, o difficultavano l'ingresso allo stato
ecclesiastico. Voleva che nissuna bolla, o breve, o rescritto qualunque
della Romana corte potessero, senza il beneplacito del governo, essere
pubblicati, od eseguiti in Francia; la quale proibizione rispetto ai
brevi della penitenzierìa parve cosa insolita, e poco decorosa per la
santa sede. Voleva che nissuno senza il beneplacito potesse assumere la
qualità di nunzio, legato, vicario, o commissario apostolico; che i
decreti dei sinodi forestieri, ed anzi quelli dei concilj generali non
si potessero pubblicare, se non previa appruovazione del governo; che
nissun concilio o nazionale o metropolitano, che nessun sinodo diocesano
senza permissione tenere si potesse; che le funzioni ecclesiastiche
fossero gratuite, salve le obblazioni dei fedeli; che vi fosse ricorso
al consiglio di stato per gli abusi; che s'intendessero abusi ogni
contravvenzione alle leggi della repubblica, od alle regole stabilite
dai canoni in Francia, ogni offesa delle libertà, franchigie, e
costumanze della chiesa gallicana, ogni atto commesso nell'esercizio del
culto, che od offendesse l'onore dei cittadini, o turbasse
arbitrariamente le loro coscienze, o tendesse all'oppressione,
all'ingiuria, allo scandalo. Voleva parimente, che i vescovi non
potessero ordinare alcun ecclesiastico, se non possedesse almeno una
rendita di trecento franchi, e se non fosse arrivato all'età di
venticinque anni. Nè minore offesa aveva recato l'articolo statuito pure
dal consolo, che i professori dei seminarj fossero obbligati a
sottoscrivere la dichiarazione del clero di Francia del
milaseicentottantadue, e ad insegnare la dottrina dei quattro articoli,
dottrina incomportabile a Roma, almeno quanto spetta ai tre ultimi.

Tutte queste regole, che appartenevano alla disciplina ecclesiastica,
quantunque fossero giuste e necessarie sì per la sicurezza della potestà
temporale, come pel buon ordine dello stato, ed usate già dai tempi
antichi non solamente in Francia, ma ancora in altri paesi d'Europa, e
massimamente in Italia, facevano mal suono alle Romane orecchie; ma il
consolo ne aggiunse un'altra veramente intollerabile, perchè toccava la
giurisdizione, e questa fu, che i vicarj generali delle diocesi vacanti
continuassero ad usare l'autorità vescovile, anche dopo la morte del
vescovo, e fino a tanto che successore non avesse. Parve cosa troppo
enorme; perciocchè i vicarj generali altro non sono, che i mandatarj del
vescovo, ed ogni facoltà loro, come di mandatarj, cessa pel fatto della
morte del mandatore. Bene dottrina più sana è quella, che sino alla
creazione del successore ogni autorità sia investita nel capitolo della
chiesa cattedrale, e che i vicarj capitolari eletti da lui la
eserciscano.

Se ne dolse il papa, e non punto calse al consolo ch'ei se ne dolesse.
Orava in concistoro Pio settimo, descrivendo con singolare facondia i
negoziati introdotti, le stipulazioni fatte, lo stato della Francia.
Ecco, diceva, i templi dell'Altissimo di nuovo aperti; l'augusto nome di
Dio, e de' suoi santi sulle loro fronti scritto; i ministri del
santuario per le sacre cerimonie in un coi fedeli intorno agli altari
accolti, le greggi novellamente sotto la tutela dei legittimi pastori
ridotte, novellamente i sacramenti della chiesa con libertà e con
riverenza ministrati, novellamente solidato il pubblico esercizio della
cattolica religione, novellamente spiegato all'aura lo stendardo della
croce, novellamente il giorno del Signore santificato; ecco novellamente
il capo della chiesa, col quale chiunque non raccoglie, dissipa,
riconosciuto; ecco finalmente uno scisma deplorabile, che per la vastità
della Francia, per la celebrità de' suoi abitatori, per la chiarezza
delle sue città minacciava gran pericoli, e gran ruine alla cattolica
religione, ecco questo deplorabile scisma dissipato e spento. Tali sono
i vantaggi, tali i benefizj, tale la salute, che il santo giorno della
redenzione, in cui, pubblicato il concordato, la Francia empiè di
compunti e venerabondi fedeli i tempj, ha partorito. Poscia il
pontefice, in se medesimo raccoltosi, continuò dicendo: «Non è però,
venerabili fratelli, che l'animo nostro non sia in mezzo alla sua
contentezza da qualche amara puntura trafitto. Sonsi col concordato, noi
non consapevoli, pubblicati certi articoli, di cui è debito nostro,
seguitando le vestigia del nostri antecessori, di addomandare e le
modificazioni, e le mutazioni: di ciò richiederemo il consolo; ciò
speriamo dalla sapienza e dalla religione sua, dalla sapienza e dalla
religione della nazione Francese, che da tanti secoli tanto ha di questa
religione meritato, e che oggidì novellamente con sì acceso desiderio
l'abbraccia. Volle il governo di Francia, che la religione in Francia si
ristorasse: non può non volere quanto la sua santa constituzione
richiede, quanto la salutare disciplina della chiesa ricerca». Infatti
instò il papa, perchè gli articoli si riformassero; ma il consolo, che,
ottenuto il concordato, voleva essere padrone della chiesa, non che la
chiesa fosse di lui, rispondeva ora con sotterfugj, ora con minacce, nè
mai il pontefice potè venire a capo del suo intendimento. In tale
conformità continuarono le faccende religiose in Francia, finchè nuove
condiscendenze del pontefice, e nuove ambizioni del consolo mandarono
ogni cosa in ruina ed in conquasso.

A questo modo travagliava Roma con Francia. Intanto cambiamenti notabili
fin dal varcato anno erano accaduti in Piemonte. Aveva il consolo
cupidigia di serbar questo paese per se. Ma indugiava a risolversi, ed
occultava cautamente le sue intenzioni. Aveva anzi veduto volentieri il
marchese di San Marsano mandato a Parigi per negoziare della
restituzione del Piemonte. Le incertezze e le ambagi del consolo, le
offerte palesi fatte al re dopo la battaglia di Marengo, e la presenza
del marchese a Parigi tenevano in pendente l'opinione dei popoli in
Piemonte, e toglievano ogni modo di buon governo. Ognuno guardava verso
Firenze, Roma, o Napoli, dove abitava, ora in questa, ora in quella, il
re Carlo Emanuele. Appresso a lui vivevano molti nobili Piemontesi o de'
più ricchi, o de' più capaci. Si aggiungeva Vittorio Alfieri, nato in
Asti di Piemonte, uomo di quell'ingegno smisurato, che ognuno sa, padre
della tragedia Italiana, e da essere eternamente, non che venerato,
adorato da chi venera ed adora le Italiane muse. Avendo egli odiato e
maledetto i re, quando erano in fiore, si era poi messo ad odiare ed a
maledire le repubbliche, quando erano venute in potenza, e ciò meno
forse pel male che in quelli od in queste era, che pel genio in lui
naturale di andar sempre a ritroso. Adunque in Firenze standosene,
continuamente fulminava contro la condizione delle cose Piemontesi.
L'autorità di un uomo sì grande operava con efficacia, e vieppiù rompeva
ogni nervo del governo. Sorsero le sorti fatte più certe della Cisalpina
e della Liguria, mentre si tacquero quelle del Piemonte, onde chi
sperava pel re ebbe cagione di più sperare, chi temeva di più temere. In
tali intricate occorrenze avvenne di verso Borea un caso di grandissima
importanza, perchè nella notte dei ventitrè marzo dell'ottocentouno morì
di morte violenta Paolo, imperatore di Russia; della quale non così
tosto fu avvisato il consolo, che trovandosi libero dalle instanze di
lui, e volendo preoccupare il passo alle intenzioni di Alessandro suo
figliuolo e successore, fece un decreto, il quale, sebbene ancora non
importasse la unione definitiva del Piemonte alla Francia, accennava
però manifestamente, che sua volontà fosse, che la unione si
effettuasse: constituiva il decreto il Piemonte secondo gli ordini di
Francia. Perchè poi non paresse all'imperatore Alessandro, che il
signore della Francia troppo impertinentemente avesse operato nel
prendere, prima di consigliarsi con lui, una deliberazione di tanta
importanza, diede al decreto una data anteriore al giorno, in cui gli
pervennero le novelle della morte di Paolo. Sperava che Alessandro,
trovata all'assunzione sua la cosa fatta, non difficilmente sarebbe per
consentirvi. Importava il decreto dato ai due di aprile
dell'ottocentouno, che il Piemonte formerebbe una divisione militare
della Francia, che fosse partito in sei dipartimenti, che le leggi della
repubblica rispetto agli ordini amministrativi e giudiziali vi si
pubblicassero ed eseguissero, che le casse al primo giugno fossero
comuni, che un amministrator generale con un consiglio di sei reggesse,
che Jourdan restasse eletto amministrator generale. Si crearono sei
dipartimenti, dell'Eridano con Torino, di Marengo con Alessandria, del
Tanaro con Asti, della Sesia con Vercelli, della Dora con Ivrea, della
Stura con Cuneo. Ma il consolo, che principiava a non amare i nomi
antichi, cambiò quello del primo, non più dell'Eridano, ma del Po
chiamandolo, e credè con ciò di aver fatto un bel tratto.

Mandava Jourdan a Parigi per ringraziare, e per promettere obbedienza
deputati; furono quest'essi, Bossi uno dei consiglieri, Baudisson,
professore dell'università, i nobili d'Harcourt, Alfieri di Sostegno,
della Rovere, e Serra. Furono veduti molto volentieri, massime i nobili,
perchè il consolo gli voleva allettare. Solo Fouché, ministro di polizia
generale, trascorse in presenza loro con parole eccessive contro i preti
e contro gli aristocrati: il che fe' ridere, e stringere nelle spalle i
deputati.

Intanto il consolo si studiava a conciliarsi l'animo di Alessandro, ed a
congiungerselo in amicizia; e siccome astutissimo ch'egli era, e
sprofondato in tutte le arti di Francia, d'Italia, e d'Egitto, avendo
udito che il novello imperatore era di natura generosa, e tendente al
governar gli uomini piuttosto con dolcezza che con severità, se gli mise
intorno da tutte parti tentandolo. Avere voluto la Provvidenza, diceva,
arbitra delle umane cose, che un principe d'animo nobile e buono fosse
salito al sovrano seggio delle Russie; avere voluto da un'altra parte,
che un generale di qualche nome avesse recato in se la somma
dell'autorità in Francia, generale, al quale e le filosofiche dottrine e
la religione piacevano, che sapeva qual moderazione convenisse alle
prime, quale tutela alla seconda: sarebbe felice il mondo, se Francia e
Russia potentissime s'accordassero tra loro al medesimo fine; rotta,
sanguinosa, desolata essere la umanità; ricordarsi delle ferite, non
bene avvisare i rimedj; il dispotismo da una parte, l'anarchìa
dall'altra; se Alessandro e Buonaparte nello stesso disegno
convenissero, darebbesi dolce norma in Europa alla potestà assoluta,
freno insuperabile alla licenza; aversi ad ordinare Italia, Svizzera,
Olanda; parlasse Alessandro, del desiderio suo avvisasse, e fora pago
l'intento suo; principiare il secolo, dover principiare con nuove e
fortunate sorti; questi essere gli augurj, queste le arre date dal cielo
a Buonaparte e ad Alessandro: dover loro mostrare, ad onta di tanti
secoli infelici, che vi è modo di condurre gli uomini a felicità; dover
mostrare, che calunniano l'umanità coloro che la odiano; dover mostrare
che la filosofia non inganna, che la religione non perseguita, che la
libertà non dissolve; dover mostrare che tutte insieme unite potevano
far sorgere un vivere fortunatissimo; a sì lieto fine volere lui usare
tutta la volontà, e tutta la forza sua; se le volesse usare anche
Alessandro, direbbero i posteri, che non indarno sperarono i filosofi,
che più avventurose stelle avessero a splendere sulle misere generazioni
un giorno.

Ai dolci suoni, alla magnificenza e giocondità delle parole, come
benevolo, si calava Alessandro, non sospettando quanto veleno in se
nascondessero. Intanto il consolo, fatto sicuro dell'amicizia di Russia,
insorgeva, e mentre Alessandro si pasceva di speranze lusinghiere, ei
dava mano alle realtà, incamminandosi al dominio del mondo. Cominciando
dal Piemonte, che stimava esser necessario congiungersi per avere senza
impedimenti di mezzo la signorìa d'Italia, comandava, che il decreto dei
due aprile fosse in ogni sua parte mandato ad effetto. L'Austria
impotente per le disgrazie, l'Inghilterra per la lontananza, nè
consentirono, nè contrastarono, persuase oramai, che se non arrivava
qualche improvviso accidente che le ajutasse, indarno erano i consigli
umani. Arrivarono a Torino i commissarj Parigini ad ordinar lo stato,
chi per le finanze, chi pel fisco, chi pel lotto, chi per le poste, chi
per gli studj, chi pei giudizj. L'antica semplicità degli ordini
amministrativi di quel paese degenerava in forme complicate, i nuovi
costarono a molti doppi più cari. Bene si migliorarono gli ordini
giudiziali sì civili che criminali per l'acquistata prontezza, immenso
benefizio, che consolava della perduta independenza. Ciò, quanto alle
cose scritte: quanto alle arti subdole, non so se provvide, ma
certamente furono strane. Voleva il consolo ridurre lo stato in forma di
monarchìa: i repubblicani di Francia, eccettuati i più furibondi, che
aveva confinati in carcere, o banditi in lidi lontani, il secondavano,
nè egli era avaro verso di loro di carezze e di ricchezze. Quanto ai
repubblicani Italiani, due mezzi gli si paravano davanti, o di
vezzeggiargli, come quei di Francia, o di spegnergli, non già
coll'ammazzargli, perciocchè sapeva che l'età non comportava sangue,
come la Borgiesca, ma col tôrre loro l'autorità e la riputazione. Elesse
quest'ultima; al che diede anche favore la ricchezza degli avversarj,
che mandavano doni, presenti e denari nelle corrotte Tulierie: il che
era cagione, che a quello, a che di propria volontà inclinava, fosse
anche stimolato da altri. Tolse adunque le cariche a molti, nè solamente
gli cassava, ma ancora dando favore e stimolo ai nemici loro, operava,
che il nome e la fama ne fossero straziati e vilipesi; intricate
infamie, perchè perseguitava chi l'aveva ajutato, vezzeggiava chi il
disprezzava.

Buon procedere sarebbe stato questo, quanto all'utile, se mai non
avessero potuto arrivare i tempi grossi, ma non al contrario, perchè per
esso si perdevano gli amici, e non si acquistavano i nemici; ma il
consolo sognava sempre prosperità. Restava Jourdan, che era stimato
repubblicano. Deliberossi a tôrre anche questo capo ai repubblicani,
quantunque ei si fosse portato molto rimessamente con loro: partì
Jourdan lodato dal consolo, desiderato dai Piemontesi. Arrivava Menou in
Torino in luogo di Jourdan. Raccontar le lepidezze, e gli arbitrj che vi
fece questo Menou, sarebbe troppo lunga bisogna, e forse troppo più
piacevole, che la gravità della storia comporti. Bene non mi posso
tenere dal considerare il consiglio del consolo, che per instaurare,
come diceva, gli ordini della monarchìa in Piemonte, vi mandava un Menou
di Francia, e per instaurarvi, come anche diceva, la religione di
Cristo, vi mandava un Menou d'Egitto. Forse voleva atterrire con qualche
odore di Turchìa; ma è un pessimo modo di terrore il rendersi ridicolo.
Basta, accidente strano e non più udito era quello di veder le carezze
che Menou faceva ai nobili, e quelle che i nobili facevano a Menou, dal
canto suo umili e dimesse, dal canto loro astute e superbe; ed ei se le
godeva, ed erane contentissimo. Diceva che il governo il voleva, il che
era vero: ma il governo dà l'autorità, non la discrezione, e Menou non
ne aveva. A questa guisa passarono i tempi fra i Subalpini infino alla
unione definitiva, partigiani di Francia perseguitati, partigiani di
Sardegna accarezzati, partigiani d'Italia usati come stromenti di
calunnie e di vendette, il giardino del re diformato da una succida
baracca ad uso di una Turca. A questo modo incominciava il promesso
legale dominio nel generoso e sfortunato Piemonte.

Il consolo teneva il Piemonte per Menou, la Toscana per Murat. Voleva,
come a suo cognato, aprire a Murat l'adito alle grandezze; nè Murat era
di cattiva natura, solo aveva poco cervello, e l'animo molto
vanaglorioso: per questo, quantunque fosse buono, si piegava volentieri
alle voglie del consolo, quali elle si fossero. La parte dell'esercito
ch'egli governava, mandata primamente in Italia per rinforzare l'ala
destra di Brune, e per alloggiare in Toscana, fu, dopo la pace di
Luneville, mandata nello stato Romano con star pronta ad assaltare il
regno di Napoli. Conclusa poi la pace col re, entrava nel Regno sin
oltre a Taranto, in nome per isforzare il governo ad osservar il
trattato, ed i perdoni verso i novatori, in fatto per minacciar
gl'Inglesi, e per vivere a spese del Regno. Quanto allo stato Romano,
concluso il concordato, Murat ritirava le genti, che vi aveva, in Ancona
per tener quel freno in bocca al pontefice; si coloriva il fatto col
pretesto degl'Inglesi. Così gl'Inglesi occupavano quanto potevano in
Italia e nelle sue isole per impedire, come dicevano, il predominio e la
tirannide dei Francesi; questi facevano lo stesso per impedire, come
protestavano, il predominio e la tirannide degl'Inglesi; fra entrambi
intanto l'Italia non aveva nè posa nè speranza. Murat girando per
Toscana, e stando in Firenze, ed ora andando a Pisa, ed ora a Livorno,
ed ora a Lucca, riceveva in ogni luogo, come cognato del consolo,
onorevoli accoglienze; cagione per lui d'incredibile contentezza. Si
mostrava cortese ed affabile con tutti: nè amava le rapine, manco il
sangue: purchè il lodassero, se ne viveva contento. Pure trascorse ad un
atto, credo per volontà del consolo, nel quale non so se sia o maggior
barbarie, o maggior ingratitudine, o maggior insolenza. Comandava con
bando pubblico, che tutti gl'Italiani, erano la maggior parte
Napolitani, esuli dalle patrie loro per opinioni politiche, dovessero
sgombrare dalla Toscana, e ritornare nei propri paesi, in cui,
secondochè affermava, potevano, in virtù dei trattati, vivere vita
sicura e tranquilla: chi fosse contumace a questo comandamento, fosse
per forza condotto ai confini ed espulso. E perchè niuna parte di
bruttezza mancasse a quest'atto, prese, per farlo, occasione da un
tumulto popolare nato in Firenze nel mentre che si conduceva all'estremo
supplizio un soldato Toscano reo d'assassinio contro un soldato
Francese, come se i fuorusciti fossero in paese ospitale rei di
ribellione alle leggi ed alla giustizia, o s'intendessero cogli
assassini. Sì per certo, questo mancava alla malvagità del secolo, che
coloro, i quali erano per le instigazioni di Francia venuti in odio ai
loro antichi signori, fossero, come gente di mal affare, cacciati
inesorabilmente dagli eletti ricoveri loro da un generale di Francia.
Potevano i ladri e gli assassini di altri paesi ritirarsi in Toscana,
quietamente dimorarvi, solo gli amatori del nome di libertà, uomini, se
ingannati, certamente ingenui e dabbene, non potevano esservi ricettati,
nè trovarvi riposo e salute, da quei medesimi cacciati, per cagione dei
quali erano a quelle miserabili strette condotti. Nè credo che abuso di
forza più intollerabile di questo sia stato mai, di far legar uomini
innocenti per condurgli là, dove non volevano andare. Ma non sola la
Toscana cacciava fuori i miseri. Mentre Murat espelleva gli esuli da
questo paese, la repubblica Cisalpina gli mandava via da' suoi territorj
con la solita giunta, che chi nel termine di dieci giorni non obbedisse,
fosse condotto per forza ai confini. Quest'erano le arre, che i
Buonapartidi davano ai re. Accadde poi un caso degno di molta
compassione; perchè i fuorusciti Napolitani svelti per forza dal Toscano
nido, quando furono arrivati a Roma, non avevano i passaporti che da
loro si richiedevano, per modo che non potevano nè stare, nè andare, nè
tornare. Da questo imparino prudenza coloro, che hanno smania di far
rivoluzioni, e di fidarsi dei forestieri. Solo in Piemonte trovarono gli
esuli ricovero lieto e sicuro.

Murat contento al comandar in Toscana, fu contentissimo d'instituirvi un
re. Era l'infante principe di Parma arrivato in Parma, dove stava
aspettando i deputati del novello regno. Vennervi a complimentarlo e
riconoscerlo come re d'Etruria, quest'era il titolo che gli si dava,
Murat, Ippolito Venturi, Ubaldo Ferroni. Assunse il nome di Lodovico
primo; nominò suo legato a ricevere il regno Cesare Ventura. Murat
annunziando l'assunzione di Lodovico parlava di civiltà e di dottrina ai
Toscani, lodava i Medici ed i Leopoldi, esortava i regnicoli ad avere i
Francesi in luogo di un popolo amico, che tanto sapeva rispettare presso
i popoli esteri i principj monarcali, quanto era fortemente addetto in
casa propria ai principj repubblicani. Cesare Ventura prendeva possesso
del regno. Favellarono nella solennità Francesco Gonnella, notajo dello
stato, Tommaso Magnani, avvocato regio, Orlando del Benino, senatore,
tutti lusinghevolmente per le cose, francescamente per le parole.
Vidervisi due donne complimentate da Gian Battista Grifoni, l'una
sorella del consolo, l'altra vedova del ministro di Spagna. Venne
Lodovico a Firenze; resse con dolcezza, le Leopoldiane vestigia
calcando.

Era tempo di constituzioni transitorie, fatte non perchè durassero, ma
perchè servissero di scala ad altre. Mandava il consolo, qual suo
legato, Saliceti a riformar Lucca, oppressa dall'imperio dei forestieri,
e straziata dalle discordie civili. Parve bello ed acconcio trovato per
ritrarre i paesi, a satisfazione delle potenze, verso i loro ordini
antichi, l'introdurre nei nuovi i nomi vecchi, come se le parole
avessero a prevalere sulle cose. Fecero i Lucchesi le solite feste a
Saliceti: chi agognava lo stato, il corteggiava; chi più aveva gridato
contro gli aristocrati, più gli accarezzava; a loro principalmente il
commissario di Francia si volgeva. Se i democrati si risentivano,
rispondeva esortando, portassero i tempi pazientemente, perchè così
voleva il consolo. Soggiungeva, meglio conservarsi la libertà con
l'aristocrazìa e la democrazìa mescolate insieme, che con la democrazìa
pura. Cominciavasi a parlar di aristocrazìa per far passo alla
monarchìa. Constituiva Saliceti la repubblica di Lucca con un collegio,
o gran consiglio di duecento proprietari più ricchi, e di cento
principali negozianti, artisti e letterati: avesse questo consiglio la
facoltà di eleggere i primi magistrati; fossevi un corpo d'anziani con
la potestà esecutiva; presiedesselo un gonfaloniere eletto a volta dai
colleghi, una volta ogni due mesi; un consiglio amministrativo, nel
quale gli anziani entrassero, e quattro magistrati di tre membri
ciascuno; esercesse le veci di ministri; proponessero gli anziani le
leggi, e le eseguissero; una congregazione di venti eletti dal collegio
le discutessero e le statuissero; rappresentasse il gonfaloniere la
repubblica, le leggi promulgasse, gli atti degli anziani sottoscrivesse.
I cantoni del Sercio con Lucca, del Littorale con Viareggio, degli
Apennini con Borgo a Mozzano componessero la repubblica. Per la prima
volta trasse Saliceti i magistrati supremi. Ordini buoni erano questi,
ma il tempo gli guastava.

Le sorti della Toscana erano congiunte con quelle di Parma. Essendo il
duca padre mancato di vita, cesse la sovranità del ducato nella
repubblica di Francia. Mandava il consolo il consiglier di stato Moreau
di San Mery ad amministrarlo. Resse San Mery, che buona e leale persona
era, con benigno e giusto freno. Era egli, se non letterato, non senza
lettere ed amatore sì di letterati, che d'opere letterarie: ogni
generoso pensiero gli piaceva. Solo procedeva con qualche vanità, e
siccome le vanità particolari sono intollerabili alle ambizioni
generali, venne in disgrazia del consolo. Non potè constituire in Parma
ordini stabili, perchè il consolo, che serbava il paese per se, non
volle aver sembiante di lasciarlo ad altri.

Due qualità contrarie erano nel consolo, pazienza maravigliosa nel
proseguire cautamente, anche pel corso di molti anni, i suoi disegni,
impazienza di conseguire precipitosamente il fine, quando ad esso
approssimava. Riconciliatosi col papa, vinta l'Austria, ingannato
Alessandro, confidente della pace coll'Inghilterra, si apparecchiava a
mandar ad effetto ciò, che nella mente aveva da sì lungo tempo concetto,
e con tanta pertinacia procurato. Voleva che le prime mosse venissero
dall'Italia, perchè temeva che certi residui di opinioni, e di desiderj
repubblicani in Francia non fossero per fargli qualche mal giuoco sotto,
se la faccenda non si spianasse con qualche precedente esempio. Sapeva
che nella nostra razza imitatrice, cosa molto efficace è l'esempio, e
che gli uomini vanno volentieri dietro alle similitudini. Deliberossi
adunque, prima di scoprirsi in Francia, di fare sue sperienze Italiane,
confidando che gl'Italiani, siccome vinti, avrebbero l'animo più
pieghevole. Così con le armi Francesi aveva conquistato Italia, con le
condiscendenze Italiane voleva conquistar Francia. Le rappresentazioni
che sanno di teatro, sempre piacquero agli uomini, massimamente a
Buonaparte. Sapeva che le cose insolite allettano tutti, spezialmente i
Francesi nati con fantasia potente. Perciò volle alle sue Italiane arti
dare pomposo cominciamento. Spargevansi ad arte e dai più fidi in
Cisalpina voci, che la repubblica pericolava con quei governi
temporanei; ch'era oggimai tempo di constituirla stabilmente, e come a
potenza independente si conveniva; che ordini forti erano necessarj,
perchè diventasse quieta dentro, rispettata fuori; che niuno era più
capace di darle questi necessarj ordini di colui, che prima l'aveva
creata, poi riscattata; non potersi più lei constituire con gli ordini
dati dall'eroe Buonaparte nel novantasette, perchè avviliti dalla
invasione, ricordatori di discordie, sospetti per democrazìa ai
potentati vicini. Aver pace Europa, averla Italia, non doversi più la
felice concordia turbare con ordini incomposti; volersi vivere in
repubblica, ma non troppo disforme dai governi antichi conservati in
Europa; sola potenza essere la Cisalpina in Italia, che a favor di
Francia stando, fosse in grado di tener in freno l'Austria tanto potente
per l'acquisto dei dominj Veneziani, nè essere la repubblica per
acquistare la forza necessaria, se non con leggi conducenti a stabilità;
varj essere gli umori, gl'interessi, le opinioni, le abitudini delle
Cisalpine popolazioni, nè Veneziani, Milanesi, Modenesi, Novaresi,
Bolognesi nel medesimo desiderio concorrere, nè la medesima cosa volere;
rimanere i vestigi dell'antiche emolazioni; parti separate, e non
consenzienti non poter comporre un corpo unito e forte, se un governo
stretto, se una mano gagliarda in uno e medesimo volere non le
costringessero: richiedere adunque un reggimento nuovo, concorde e
virile la pace d'Europa, richiederlo la quiete della Cisalpina,
richiederlo le condizioni felici, alle quali era chiamata.

Mentre questi semi si spargevano nel pubblico, Petiet coi capi della
Cisalpina negoziava, affinchè i comandamenti imperativi del consolo
avessero a parere desiderj e supplicazioni spontanee dei popoli.
Maturati i consigli, a Parigi pel disegno, a Milano per l'esecuzione,
usciva un decreto della consulta legislativa della repubblica: ordinava,
che una consulta straordinaria si adunerebbe a Lione in Francia, e suo
ufficio sarebbe l'ordinare le leggi fondamentali dello stato, ed
informare il consolo intorno alle persone che nei tre collegj elettorali
dovessero entrare; sarebbe l'assemblea composta dai membri attuali della
consulta legislativa, da quei della commissione, eccettuati tre per
restare al governo del paese, da una deputazione di vescovi e di curati,
e dalle deputazioni dei tribunali, delle accademie, della università
degli studj, della guardia nazionale, dei reggimenti della truppa
soldata, dei notabili dei dipartimenti, delle camere di commercio. Sommò
il numero a quattrocento cinquanta. Risplendevanvi un Visconti,
arcivescovo di Milano, un Castiglioni, un Montecuccoli, un Oppizzoni, un
Rangoni, un Melzi, un Paradisi, un Caprara, un Serbelloni, un
Aldrovandi, un Giovio, un Pallavicini, un Moscati, un Gambara, un
Lecchi, un Borromeo, un Trivulzi, un Fantoni, un Belgiojoso, un Mangili,
un Cagnoli, un Oriani, un Codronchi, arcivescovo di Ravenna, un
Belissomi, vescovo di Cesena, un Dolfino, vescovo di Bergamo. Andarono a
Lione chi per amore, chi per forza, chi per ambizione; grande
aspettazione era in Cisalpina; in Francia le menti attentissime. Pareva
un fatto mirabile, che una nazione Italiana si conducesse in Francia per
regolare le sue sorti. Il governo Cisalpino esortava con pubblico
manifesto i deputati: gissero a fondare gli ordini salutari della
repubblica in mezzo alla maggior nazione, in cospetto dell'autore, e del
restitutore della Cisalpina; nissuno l'ufficio ricusasse: mostrassero
con le egregie qualità loro, quanto la Cisalpina nazione valesse; a lei
amore e rispetto conciliassero; ogni pretesto di calunnia togliessero;
nel Lionese congresso livore nissuno, odio nissuno, parzialità nissuna,
recassero; al mondo disvelassero, buonamente, nobilmente,
affettuosamente verso la patria procedendo, esser loro quei medesimi
Cisalpini, che nell'inevitabile tumulto di tante passioni,
nell'avviluppamento di tante vicende, nell'alternativa di politici
eventi tanto contrarj, mai non attesero a vendette, a discordie, a
fazioni, a persecuzioni, a sangue; pruovassero, che non invano aveva il
Cisalpino popolo nome di leale e di buono; pruovassero, che se a sublime
grado fra le nazioni erano destinati, a sublime grado ancora meritavano
di essere innalzati; dovere a se stessa dei proprj ordini restare la
Cisalpina obbligata; solo se medesima potrebbe accagionare, se tanti
lieti augurj, se tante concepite speranze fossero indarno.

Questi nobili consentimenti verso la Cisalpina patria, e questa
rinunziazione di ogni affetto parziale ed interessato predicava un
Sommariva, presidente del governo. Trovarono in Lione il ministro
Taleyrand, che aveva in se raccolti tutti i pensieri del consolo;
trovarono Marescalchi, che riconosciuto da Francia per ministro degli
affari esteri della Cisalpina, guardava dove accennasse in viso
Taleyrand, e il seguitava. L'importanza era, che vi fosse sembianza di
discutere liberamente quello, che già il consolo aveva ordinato
imperiosamente. Già aveva sparso sue ambagi: volere la felicità della
Cisalpina; volere consigliarsi con gli uomini savj di lei; niuna cosa
più desiderare, che la independenza e la salute sua; amarla come sua
figliuola prediletta, stimarla principal parte della sua gloria. L'arte
allignava; bene si disponeva la materia. Partivansi i deputati in cinque
congregazioni, che rappresentavano i cinque popoli; esaminassero la
constituzione già data dal consolo per Petiet a Milano, e come per leggi
organiche si potesse mandar ad esecuzione.

Discutevasi a Lione dai mandatarj; la licenza soldatesca straziava
intanto i mandatori; un inesorabile governo con le tasse gli conquideva.
Dolevansi e delle perdute sostanze, e degli innumerevoli oltraggi, e
della durissima servitù: le grida degli straziati a Milano furono
soffocate dalle grida dei festeggianti a Lione. A Lione si discorreva, e
si obbediva. Allungato il farne pubblica dimostrazione quanto potesse
parere dignità e sufficienza di discussione, arrivava il consolo: era
l'undici gennajo; Lionesi e Cisalpini a gara accorrevano. Era spettacolo
grande a chi mirava la scorza, compassionevole a chi dentro, perchè là
si macchinava di spegnere per legge la libertà, che già innanzi era
perita per abuso. Ognuno maravigliava la dolcezza, e la semplicità del
consolo: pareva loro, che fossero parte di grandezza; le adulazioni
sorgevano. I repubblicani, se alcuno ve n'era, si rodevano, ma
s'infingevano, non tanto per non esser tenuti faziosi, quanto per non
esser tenuti pazzi o sciocchi; che già con questi nomi cominciava a
chiamargli l'età. Buonaparte metteva mano all'opera; chiamava i
presidenti delle congregazioni, e con loro discorreva intorno alla
constituzione: ora approvava, ora emendava, ora domandava consiglio.
Contradditor benigno, e docile alle risposte, pareva, che da altri
ricevesse quello che loro dava. Chi conosceva l'intrinseco, ammirava
l'arte; chi l'ignorava, la molestia. Infine dai discorsi permessi si
venne alla conclusione comandata: fu appruovata la constituzione; parve
buono e fondamentale ordine quello dei collegi elettorali: nominolli per
la prima volta il consolo su liste doppie presentate dalle
congregazioni. Ma non s'era ancor toccato il principal tasto, per cui
mezza Italia era stata fatta venire in Francia. Meno una constituzione,
che un esempio si aspettava dagl'Italiani. Trattavasi di nominare un
presidente della Cisalpina. Importava la persona, importava la durata
del magistrato: a Buonaparte non piacevano i magistrati a tempo. Fu data
l'intesa ai Cisalpini, perchè il chiamassero capo della repubblica, e
gli dessero il magistrato supremo di presidente per dieci anni, e
potesse essere rieletto quante volte si volesse. Avevano queste due
deliberazioni qualche malagevolezza, parte coi Cisalpini, parte con le
potenze, per la evidente dipendenza verso Francia, se il consolo fosse
padrone della Cisalpina. Importava anche il confessare, che niun
Cisalpino fra i Cisalpini fosse atto a governare: alcuni andavano alla
volta di Melzi. I ministri di Buonaparte fecero diligenze coi
partigiani, ora lodando Melzi, ora asseverando, che avrebbe grande
autorità nei nuovi ordini. Ebbero le arti il fine desiderato.
Appresentaronsi colla deliberazione fatta i Cisalpini al consolo, nella
quale era tanta adulazione di lui, e tanta depressione di loro medesimi,
che non credo che nelle storie vi sia un atto più umile, o più
vergognoso di questo. Confessarono, e si sforzarono anche di pruovare
con loro ragioni, a tanto di viltà gli aveva ridotti, che nissun
Cisalpino era, che idoneamente gli potesse governare. Gradì il consolo
nelle umili parole i proprj comandamenti: disse, che domani fra i
convocati Cisalpini in pubblica adunanza sederebbe. Accompagnato da
ministri di Francia, dai consiglieri di stato, dai generali, dai
prefetti, e dai magistrati municipali di Lione fra le liete accoglienze
ed i plausi festivi dei Cisalpini, in alto seggio recatosi così loro
favellava: «Hovvi in Lione, come principali cittadini della Cisalpina
repubblica appresso a me adunati: voi mi avete bastanti lumi dato,
perchè l'augusto carico a me imposto, come primo magistrato del popolo
Francese, e come primo creator vostro riempire io potessi. Le elezioni
dei magistrati io feci senza amore di parti o di luoghi: quanto al
supremo grado di presidente, niuno ho trovato fra di voi, che per
servigi verso la patria, per autorità nel popolo, pel sceveramento di
parti abbia meritato, ch'io un tal carico gli commettessi. Muovonmi i
motivi da voi prudentemente addotti; ai vostri desiderj consento.
Sosterrò io, finchè fia d'uopo, la gran mole delle faccende vostre.
Dolce mi sarà fra tante mie cure l'udire la confermazione dello stato
vostro, e la prosperità dei vostri popoli. Voi non avete leggi generali,
non abitudini nazionali, non eserciti forti: ma Dio vi salva, poichè
possedete quanto gli può creare, dico popolazioni numerose, campagne
fertili, esempio da Francia».

Questo favellare superbo del consolo fu da altissimi plausi e di
Francesi e di Cisalpini seguitato. La servitù era dall'un de' lati
mitigata dall'imperio sopra i forestieri, dall'altro amareggiata dal
vilipendio; pure lietissimamente applaudivano i servi doppi come se
onorati, e liberi fossero. Dimostrarono desiderio che la repubblica
(quest'era un concerto coi più fidi) non più Cisalpina, ma Italiana si
chiamasse, cosa molto pregna massimamente in mano di Buonaparte.
Consentì facilmente il consolo. Riprese, adulando, le parole Prina
Novarese, il quale essendo di natura severa ed arbitraria, molto bene
aveva subodorato il consolo, ed il consolo lui, e si voleva far innanzi
al dominare. Piacque, e per rimunerazione fu fatto grande.

Chiamarono gl'Italici ad alta voce il consolo presidente per dieci anni,
e rieleggere si potesse. Ebbe Melzi luogo di vice-presidente. Era Melzi
uomo generoso, savio, molto amato dagl'Italiani: pendeva all'assoluto,
ma piuttosto per grandezza, che per vanità.

Restava che si ordinasse la constituzione. Cominciossi dagli ordini
ecclesiastici. Fosse la religione cattolica, apostolica e Romana,
religione dello stato; ciò non ostante i riti acattolici liberamente si
potessero celebrare in privato; nominasse il governo i vescovi,
gl'instituisse la santa sede; nominassero i vescovi ed instituissero i
parochi, il governo gli appruovasse; ciascuna diocesi avesse un capitolo
metropolitano ed un seminario; i beni non alienati si restituissero al
clero; si definissero le congrue in beni pei vescovi, pei capitoli, pei
seminarj, per le fabbriche, fra tre mesi; si assegnassero pensioni
convenienti ai religiosi soppressi; non s'innovassero i confini delle
diocesi; per gl'innovati si domandasse l'appruovazione della santa sede;
gli ecclesiastici delinquenti con le pene canoniche fossero dai vescovi
puniti; se gli ecclesiastici non si rassegnassero, i vescovi
ricorressero al braccio secolare; se un ecclesiastico fosse condannato
per delitto, si avvisasse il vescovo della condanna, acciocchè quanto
dalle leggi canoniche fosse prescritto, potesse fare: ogni atto
pubblico, che i buoni costumi corrompesse, od il culto, od i suoi
ministri offendesse, fosse proibito; niun paroco potesse essere sforzato
da nissun magistrato a ministrare il sacramento del matrimonio a
chiunque fosse vincolato da impedimento canonico. A questo modo fu
ordinata la chiesa Italiana nella Lionese consulta. Alcuni capi,
ancorchè laudabili e sani, toccavano la giurisdizione ecclesiastica, e
sarebbe stato necessario l'intervento del pontefice. Nondimeno con
acconcio discorso a nome di tutto il clero Italico assentiva
l'arcivescovo di Ravenna, assentimento non necessario, se l'autorità
civile aveva dritto di fare quello che fece, non sufficiente, se
l'intervento dell'autorità pontificia era necessario. Ma il consolo su
quelle prime tenerezze d'amicizia col papa non aveva timore, e sapeva
che l'ardire comanda altrui.

Quanto agli ordini civili, i tre collegi dei possidenti, dei dotti, e
dei commercianti erano il fondamento principale della repubblica: in
loro era investita l'autorità sovrana. Ufficio dei collegi fosse
nominare i membri della censura, della consulta di stato, del corpo
legislativo, dei tribunali di revisione e di cassazione, della camera
dei conti. Ancora accusassero i magistrati per violata constituzione, e
per peculato; finalmente i dispareri nati tra la censura ed il governo
per accuse di tal sorte definissero. Sedessero i possidenti in Milano; i
dotti in Bologna, i commercianti in Brescia: ogni biennio si adunassero.

Magistrato supremo era la censura; componessesi da nove possidenti, da
sei dotti, da sei commercianti; sedesse in Cremona; desse per se, e
giudicasse le accuse date per violata constituzione e per peculato;
cinque giorni dopo la fine delle adunanze dei collegi si adunasse; dieci
giorni, e non più sedesse. Ordine buono era questo, ma l'età servile il
rendeva inutile.

Fosse il governo della repubblica commesso ad un presidente, ad un
vice-presidente, ad una consulta di stato, ai ministri, ad un consiglio
legislativo. Avesse il presidente la potestà esecutiva, il
vice-presidente nominasse; fossero i ministri tenuti d'ogni loro atto
verso lo stato.

Ufficio della consulta fosse l'esaminare ed il concludere le instruzioni
pei ministri presso le potenze, e l'esaminare i trattati. Potesse nei
casi gravi derogare alle leggi sulla libertà dei cittadini, ed
all'esercizio della constituzione: provvedesse in qualunque modo alla
salute della repubblica. Se dopo tre anni qualche riforma giudicasse
necessaria in uno o più ordini della constituzione, sì la proponesse ai
collegi, ed i collegi definissero.

Aveva il consiglio legislativo facoltà di deliberare intorno ai progetti
di legge proposti dal presidente, e di consigliarlo sopra quanti affari
fosse da lui richiesto.

Il corpo legislativo statuisse le leggi proposte dal governo, ma non
discutesse, nè parlasse: solo squitinasse.

Tali furono i principali ordini della constituzione dell'Italiana
repubblica, forse i migliori, massime i tre collegi ed il magistrato di
censura, che Buonaparte abbia saputo immaginare.

Letta ed accettata la constituzione, se ne tornava il consolo, traendo a
calca e con acclamazioni il popolo, nel suo Lionese palazzo. Poscia,
ricevute le salutazioni degl'Italici, e nominati i ministri, si avviava,
contento del successo del suo Italiano sperimento, al maraviglioso e
maravigliato Parigi.

Fecersi molte allegrezze nell'Italiana repubblica per la data
constituzione, e per l'acquistato presidente le adulazioni montarono al
colmo, fastidiose per uniformità. Presersi solennemente i magistrati
secondo gli ordini nuovi; Melzi, prendendo il suo, parlò magnificamente
del consolo, modestamente di se, acerbamente dei predecessori; toccò
principalmente delle corruttele. Il lusso fu grande; Melzi viveva da
principe, ma non con grandezza affettata. Essendo il presidente lontano,
pareva l'indipendenza maggiore; i soldati si descrivevano, ed in buoni
reggimenti si ordinavano. Prina, ministro di finanza, talmente rendè
prospera la rendita dello stato, che non ostante il tributo annuo che
pagava alla Francia, erano le casse piene, i pagamenti agevoli. Le
lettere e le scienze fiorivano, ma più le adulatorie che le libere. Chi
voleva favellare con qualche libertà, era posto dove nissuno il poteva
più udire. La consulta di stato, che per questo era stata creata,
siccome quella che era docilissima, sapeva fare star cheto chi avesse
voglia di parlare. Seppelo Ceroni, giovane d'ingegno vivo e generoso,
che per qualche verso, che toccava d'independenza, andò carcerato, poi
esiliato; con lui si trovarono nelle male peste Teuillet, generale
Italiano, Cicognara, ed alcuni altri, solo per aver lodato i versi di
Ceroni. Le quali cose udite dagli altri poeti e letterati, si misero in
sul più bello dell'adulare. Diceva Buonaparte, che era tempo di mettere
il freno; nel che aveva tutta la ragione; ma il male fu, che il mise
ugualmente sul favellar bene, e sul favellar male. Molte cose si
scrissero in quell'età; nissuna che avesse nervo, se non forse qualche
imprecazione contro l'Inghilterra, perchè le imprecazioni contra di lei
erano diventate parte d'adulazione. Nissuna cosa si scrisse che avesse
dignità, serpeggiando l'adulazione per tutto; nissuna che avesse novità,
perchè la lingua ed i pensieri erano levati di peso dalla lingua e dai
libri Francesi, e neanco dai buoni, ma dai più cattivi; i più insipidi
libricciattoli, le più informi gazzettacce servivano d'esemplare. Buon
modo aveva trovato Buonaparte presidente perchè gli scrittori non
facessero scarriere; questo fu di arricchirgli, e di chiamargli ai primi
gradi. Pareva loro un gran fatto, ed accettando il lieto vivere,
tacevano, o adulavano. Tuttavia qualche volta il mal umore gli assaliva,
e negl'intimi simposj loro si sfogavano, e si divertivano a spese del
presidente di Parigi. Il sapeva e ne rideva, perchè non gli temeva.
Insomma la letteratura fu servile, le finanze prospere, i soldati
ordinati, l'independenza nulla. Pure un certo sentimento dell'essere e
del vivere da se nasceva, e si propagava negli animi, che col tempo
avrebbe potuto fruttare. Melzi, uomo di natura tutta Italiana, e che
amava l'Italia, nodriva questi pensieri con arte; il che giunto alla
grandezza del suo procedere aveva molta efficacia. Questi andamenti non
piacevano al presidente; e però nol teneva più in quella grazia, in cui
l'aveva per lo innanzi.

Fra tutto questo sorgevano opere di singolare magnificenza; il foro
Buonaparte, come il chiamavano, fondossi nel luogo dove prima
s'innalzavano le mura del castello di Milano. Fu questo un maraviglioso
disegno, che molto ritraeva della Romana grandezza. Diessi mano al
finirsi il duomo di Milano da tanto tempo imperfetto, e tanto fu
promossa l'opera, che in poco d'anni vi si fece più lavorìo, che in
parecchi secoli. Rendevasi la libertà impossibile, si acquistava la
bellezza. Tutte queste cose, e quel nome di repubblica Italiana,
singolarmente allettavano i popoli della penisola. Così vissesi qualche
tempo in lei, finchè nuovi disegni di Buonaparte l'incamminarono a nuovi
pericoli, ed a nuovi destini.

A questo nome di repubblica Italiana, ed all'essersene Buonaparte fatto
capo, s'insospettirono le potenze, massimamente l'Austria, alla quale
stavano per le sue possessioni più a cura le Italiane cose. L'imperatore
Alessandro stesso, che già aveva concetto qualche sinistra impressione
per la grande autorità che il consolo si era arrogata nella Svizzera,
vieppiù si alienava da lui pei risultamenti della Lionese consulta, e le
cose della Russia colla Francia già si scoprivano in manifesta
contenzione. Il consolo, che non voleva essere arrestato a mezzo
viaggio, tentò di mitigare questi mali umori col pubblicare una
scrittura, colla quale si sforzava di mostrare, che la Francia,
conservando l'Italiana repubblica, non aveva preso troppo per se, nè
tanto quanto avevano per se stessi preso gli altri potentati. Fatta
comparazione della potenza della Francia prima della rivoluzione alla
presente, discorreva, che prima ella aveva autorità negli stati del re
di Sardegna per la vicinanza, e per le pretensioni dell'Austria sul
Monferrato, in Venezia per la necessità in cui era questa repubblica di
trovare appoggio contra la vicina ed ambiziosa Austria, nel regno di
Napoli pel patto di famiglia. Ma che ora Venezia apparteneva
all'imperatore, e che il patto di famiglia era rotto. Concludeva che
l'Austria sarebbe stata padrona dell'Italia, se la Francia non si fosse
attribuita una nuova forza per l'accessione della repubblica Italiana.
Tacque del Piemonte, come se il tacere più valesse che l'appropriarsi.
Nelle altre parti d'Europa, seguitava, la Polonia preda e nuova forza
delle maggiori potenze, la Turchia inutile, la Svezia impotente,
l'acquisto dei quattro dipartimenti del Reno non compensare nè far
giusto contrappeso per lo spartimento della Polonia. Toccò poi anche la
fine di Tippo Saib, grande aumento all'Inghilterra; moderatissimi essere
i desiderj della Francia; avere restituito in pace quello, che aveva
conquistato in guerra; ma non volere, col debilitar troppo se stessa,
derogare alla sua dignità, ed alla consueta sua potenza; solo volere che
nissuno preponderasse in Germania, nissuno in Italia; non voler dominare
altrui, ma non voler anco esser dominata; a chi bene considerasse,
essere evidente, ch'ella non aveva pei nuovi acquisti conseguito nuova
forza, solo avere conservato l'antica.

Genova sentiva ancor troppo pel recente governo di democrazìa: volle il
consolo venirne alla solita scala dell'aristocrazìa. Il supplicarono,
affinchè desse loro una costituzione: consentiva facilmente. I
governatori di Genova lietamente annunziavano le felici novelle ai loro
concittadini: essere arrivati al compimento dei desiderj loro: darebbe
forma alla repubblica chi aveva dato pace all'Europa; avere dovuto la
grande opera acquistare immortalità da un eroe: averlo essi di ciò
pregato spinti dall'amor patrio, e dai patrj esempi; sperarne sorti
felicissime; esserne sorta una constituzione annunziatrice della
religione, conservatrice della libertà; essere il reggimento dello stato
commesso a chi aveva, a chi industriava, a chi sapeva; esser posti in
sicuro i diritti dei cittadini; restare che la pubblica saviezza
tutelasse la pubblica felicità. Dimostrasse, aggiungevano, la nazione
Ligure fra le Italiane nazioni a nissuna seconda in memorie illustri,
che non erano spenti in lei i semi dell'antiche virtù, e che non
degenere dagli avi era degna di conservare un nome grave di tanta
gloria. Questo scritto dei reggitori Genovesi, disteso in lingua e stile
assai più purgato, che le sucide scritture Cisalpine, Toscane e
Napolitane, non era, quanto alla forma, senza dignità. Da Genova già
erano venuti molti buoni esempi, ora veniva anche quella della
limpidezza del parlare.

Importava la constituzione, che un senato reggesse con potestà esecutiva
la repubblica: presiedesselo un doge: dividessesi in cinque magistrati:
il magistrato supremo, quello di giustizia e legislazione, quello
dell'interno, quello di guerra e mare, quello di finanza. Trenta membri
il componessero. Ufficio suo fosse presentare ad una consulta nazionale
le leggi da farsi, eseguire le fatte; eleggesse il doge sopra una lista
triplice e presentata dai collegi.

Il doge presiedesse il senato ed il magistrato supremo: stesse in carica
sei anni; rappresentasse, quanto alla dignità ed agli onori, la
repubblica; sedesse nel palazzo nazionale; la guardia del governo gli
obbedisse; un delegato del magistrato supremo in ogni suo atto
l'assistesse.

Fosse il magistrato supremo composto del doge, dei presidenti degli
altri quattro magistrati, e di quattro altri senatori: il senato gli
eleggesse; gli s'appartenesse specialmente l'esecuzione delle leggi e
dei decreti; pubblicasse gli ordini e gli editti che credesse
convenienti; tutti i magistrati amministrativi a lui subordinati
s'intendessero; reggesse gli affari esteri; avesse facoltà di rivocare i
magistrati da lui dipendenti, di sospendere per sei mesi i non
dipendenti, anche i giudici dei tribunali; provvedesse alla salute sì
interna che esterna dello stato; vegliasse che la giustizia rettamente e
secondo le leggi si ministrasse; sopravegghiasse alle rendite pubbliche,
agli affari ecclesiastici, agli archivi, alla pubblica istruzione;
comandasse all'esercito. Quest'ordine del magistrato supremo
rappresentava nella nuova constituzione l'antico piccolo consiglio, che
i Genovesi chiamavano consiglietto; in lui era tutto il nervo del
governo. L'autorità del doge era, come negli antichi ordini, piuttosto
onorifica che efficace: contro di lui manifestamente si vedeva la
gelosìa degli antichi governi aristocratici d'Italia.

Quest'era il governo della repubblica Ligure. Restava a dichiararsi, in
qual modo si attuasse. Stanziò il consolo, che vi fossero i tre collegi
dei possidenti, dei negozianti, dei dotti, dai quali ogni potestà
suprema, o politica, o civile, o amministrativa, come da fonte comune,
derivasse. Eleggessero ogni due anni i collegi un sindacato di sette
membri: in potestà del sindacato fosse censurare due membri del senato,
due della consulta nazionale, due di ogni consulta giurisdizionale: due
di ogni tribunale, e chi fosse censurato, immantinente perdesse la
carica. Le giurisdizioni o distretti nominassero ciascuno una consulta
giurisdizionale, le consulte giurisdizionali i membri della consulta
nazionale eleggessero: sedesse in questa la potestà legislativa.

Il dì ventinove di giugno entrava in ufficio il nuovo governo in
cospetto di Saliceti, ministro plenipotenziario di Francia. Orò Saliceti
con parole acconce, ma in aria al solito, e teoretiche.

Ringraziato dal senato, il consolo rispondeva: amare la Francia i
Liguri, perchè in ogni fortuna avevano i Liguri amato la Francia, non
temessero di niuna potenza, la Francia gli aveva in tutela:
dimenticassero le passate disgrazie, spegnessero gli odii civili,
amassero la constituzione, le leggi, la religione; allestissero un
navilio potente, rinstaurassero l'antica gloria del nome Ligure:
sarebbesi sempre delle prospere cose dei Liguri rallegrato, dell'avverse
contristato.

Seguitavano le adulazioni. Decretava il senato, che a Cristoforo Colombo
per avere scoperto un nuovo mondo, ed a Napoleone Buonaparte per avere
pacificato l'universo, ampliato i confini della Liguria, stipulato i
suoi interessi, riordinato le sue leggi, due statue marmoree, una a
ciascuno, nell'atrio del palazzo nazionale s'innalzassero, e l'opera
alla cura del magistrato supremo, alla emolazione degli artisti,
all'amor patrio di tutti i Liguri si commettesse e raccomandasse. Oltre
a questo i Sarzanesi, accalorandosi sempre più questo negozio delle
adulazioni, supplicarono al nuovo governo, fosse loro lecito fondare
nella loro città un monimento a memoria della famiglia Buonaparte, che
in lei, come affermavano, avea avuto origine; allegavano avere avuto i
Buonapartidi per tre secoli prima del cinquecento sede e cittadinanza in
Sarzana; chiara esservi stata la famiglia loro sì per le cariche, sì per
le attinenze; dal connubii loro essere nato il cardinale Filippo,
fratello uterino che fu di Niccolò quinto, papa di gloriosa memoria. Fu
udito benignamente il supplicare dei Sarzanesi, e concesse loro
volentieri la facoltà del monimento.

Mentre Menou trasordinava in Piemonte, i reali di Sardegna andavano
esuli per l'Italia. Il re Carlo Emanuele, deditissimo alla religione,
perseguitato da fantasmi malinconici, ed avendo per le sofferte
disgrazie in poco concetto le cose umane, si deliberò di rinunziare al
regno, acciocchè da ogni altra mondana sollecitudine rimoto, solamente
ai divini servigi, ed alla salute dell'anima vacare potesse;
rinunziazione senza fasto, che dimostrò al mondo, che, se l'ambizione è
tormento a se stessa, la moderazione rende felice l'uomo così negli
alti, come negli umili seggi. Per la rinunziazione di Carlo Emanuele
venne il regno in potestà di Vittorio Emanuele suo fratello, che allora
dimorava nel regno di Napoli. Riuscì la signorìa di Vittorio assai più
dolce di quanto portasse la opinione, perciocchè siccome si era mostrato
dedito all'armi, si dubitava che da guerriero fosse per governare.
Nondimeno, mentre in ogni parte d'Europa per la prepotenza delle
soldatesche a gran fracasso rovinavano le reggie, governò quietamente
Vittorio Emanuele con pochi soldati l'isola di Sardegna: nè di ciò
furono reconditi i consigli; la giustizia e la mansuetudine gli diedero
forza e successo.

Il consolo, che aveva indugiato ad unire formalmente il Piemonte alla
Francia, venne finalmente a questa deliberazione, non perchè Alessandro
consentisse, ma perchè le cose sue colla Russia già tendevano a
manifesta discordia. Le sue minacce contro il corpo Germanico,
l'autorità militare che continuava ad arrogarsi negli stati del papa, in
Toscana, e nel regno di Napoli, la signorìa della Svizzera sotto nome di
mediazione, la presidenza dell'Italica, le non adempite promesse pei
compensi del re di Sardegna, avevano mostrato ad Alessandro, che
Buonaparte meglio amava prendere che dare. Avvisava il consolo, che fra
quegli umori già tanto mossi, il non unire il Piemonte non ristorerebbe
l'amicizia, l'unirlo non accrescerebbe l'inimicizia. Per la qual cosa
decretava il dì undici settembre il suo senato, che i dipartimenti del
Po, della Dora, di Marengo, della Sesia, della Stura e del Tanaro,
fossero e s'intendessero uniti al territorio della repubblica Francese.
Principiò l'unione del Piemonte la sequela dell'Italiane aggiunte,
quella opportuna per Francia, queste fantastiche e capricciose. Si
fecero per la unione allegrezze in Piemonte; dai nobili volentieri,
perchè per le carezze del consolo e di Menou vedevano, che il dominio
interrotto dalle intemperanze democratiche di nuovo veniva loro in mano,
dal popolo non senza sincerità, perchè sperava che col reggimento legale
fosse per cessare il dominio incomposto del capitano d'Egitto.

Continuossi a vivere qualche tempo in Italia, eccettuata la parte
Veneta, dal Piemonte fino a Napoli con due governi, l'uno di nome,
l'altro di fatto. In Piemonte piuttosto Menou che Buonaparte regnava, in
Parma piuttosto Buonaparte che San Mery, a Genova piuttosto il consolo
che il senato, in Roma piuttosto il consolo che il papa, in Toscana
piuttosto Murat che Lodovico, in Napoli piuttosto Napoleone che
Ferdinando. Rotte e superbe erano spesso le intimazioni a tutti questi
Italiani governi. Solo Menou faceva quel che voleva, e dominava a suo
arbitrio. Il consolo gli comportava ogni cosa, e solo che l'Egiziano gli
toccasse che erano democrati coloro che si querelavano, tosto
l'appruovava ed il lodava. Pagava il Piemonte le tremende ambagi
d'Egitto. Gli altri obbedivano, chi per paura, chi per le ambizioni.

A questo tempo morì di febbre acuta il re Lodovico d'Etruria. Per la sua
morte fu devoluto il trono nell'infante di Spagna Carlo Lodovico, il
quale per essere minore d'età fu commessa la reggenza alla vedova
regina, Maria Luisa. Ma qual regno fosse devoluto all'infante bene
dimostrarono i comandamenti pubblicati nel tempo della sua assunzione da
Murat in Livorno, dando questa città, come dichiarata d'assedio, nel
governo de' suoi soldati. Mandava inoltre il generale buonapartico
truppe a Piombino, ed in tutto il littorale Toscano per impedire ogni
pratica cogl'Inglesi, arrestava gl'Inglesi, prendeva le loro navi sorte
nel porto, e molestava co' suoi corsari, che uscivano da Livorno, i
traffichi Inglesi. Queste cose faceva, perchè, dopo breve pace, era
sorta nuova guerra con la Gran Brettagna. Prendeva in mezzo a queste
insolenze forestiere nel mese d'agosto possessione del regno Carlo
Lodovico sotto tutela della regina madre. Giurarono fedeltà il senato
Fiorentino, i magistrati, i deputati delle principali città. Furonvi
corse di cocchi, emblemi, luminarie, fuochi artificiati, e le solite
poesie elogistiche. Non solamente si lodava Carlo Lodovico, ma ancora
Murat ed il consolo, gli chiamavano instauratori d'independenza, dolci e
giusti governatori di popoli.

Le Toscane cose vieppiù turbava un insolito e doloroso accidente,
conciossiachè sorse in sul finire dell'autunno del milleottocentoquattro
nella egregia città di Livorno una pestifera infermità, alla quale diede
occasione, siccome pare, la state che trascorse in quell'anno, sotto il
dominio continuo di venti australi, oltre al solito calda e piovosa. La
quale infermità da alcuni chiamata febbre gialla, da altri vomito nero,
nomi l'uno e l'altro che a lei molto bene si confanno, pei segni strani
che l'accompagnano. Incominciò ad infierire nelle parti più basse, più
fitte e più sucide della città, per modo che a questi toglieva la vita
in sette giorni, a chi in cinque, a chi in tre, ed a chi ancora nel
breve giro di un giorno. Dire quali e quanti fossero gli effetti, che,
in chi ella s'appiccava, ingenerasse, fora materia assai lunga e
difficile, perchè chi assaliva ad un modo e chi ad un altro, ed era
molto proteiforme. Pure sormontavano sempre i due principali segni, che
il corpo, massimamente il busto, e prima e dopo morte, giallo divenisse,
e certo sozzume nero a guisa della posatura del caffè in copia lo
stomaco recesse. Nè più facilmente nei cagionevoli, che nei sani
s'accendeva il mortale morbo; perciocchè si vedevano spesso giovani
gagliardi passarsene dallo stato il più florido di salute fra brevissimo
tempo in fine di morte. Nè uno era nei diversi tempi l'aspetto del
morbo, tre particolarmente notandosene: in sul primo poco aveva, che
dalle solite ardenti febbri il differenziasse: l'insulto primo
accompagnava un ribrezzo di freddo, massimamente lungo il dorso ed alla
regione dei lombi, doleva acerbamente il capo, ma più alle tempia ed
alla fronte, che altrove, dolevano in singolar modo le membra alle
giunture, gli occhi accesi e come pieni di sangue; duri e presti i
polsi: la pelle ardeva di calore intensissimo, nè godeva l'ammalato del
benefizio del ventre, e delle orine. Augurio funesto erano
principalmente un molesto senso alla forcella dello stomaco, ed una
inclinazione al vomitare. Questo primo tempo concludeva una grande
insidia, per modo che quando più pareva al malato, ai parenti ed agli
amici vicina la guarigione, più vicina era la morte. Tutto il mortifero
apparato s'attutiva ad un tratto, e cessata la febbre, se un leggieri
sudore ed una somma debolezza si eccettuavano, sano si mostrava il
corpo, ed a perfetta salute inclinante. Ma ecco improvvisamente, e dopo
il breve spazio di poche ore, sorgere nuova e più fiera tempesta; che la
molestia della bocca dello stomaco diveniva dolore acerbissimo, e dalla
regione del ventricolo a quella del fegato si estendeva; nè il toccare
queste parti, ancorchè leggierissimo fosse, era a modo alcuno
sopportabile all'ammalato. Abborriva da ogni cibo e da ogni bevanda; gli
occhi rossi, gialli si facevano, gialle ancora le orine e giallo il
corpo, la faccia ed il collo più di ogni altra parte il giallore
vestivano. Lo stomaco impaziente vomitava ogni presa vivanda, benchè
leggierissima fosse; ovvero pretta bile, o bile mista a vermini buttava.

A questo si aggiungevano oppressione ai precordi, sospiri frequenti,
purgamenti del corpo fetidissimi, liquidi, e come di color di cenere. Nè
regola certa più restava ai medicanti per giudicar del male; perchè i
polsi ad ogni momento variavano; ora tardi, ora celeri, ora piccoli, ora
spiegati, ora urtanti, ora languidi, ora depressi, mostravano che se
insorgeva qualche volta natura, invano ancora insorgeva, superando la
prepotente forza del morbo. In mezzo a tanto tumulto, come se chi era
per morire meglio dovesse vedere la sua morte, libera si conservava la
mente ed intiera. Succedeva tantosto l'ultimo tempo più vicino a morte,
in cui tremavano le membra, i reciticci divenivano, non più di muchi o
di bile, ma di materia nera fetidissima, come di sangue putredinoso e
marcio. Trasudava anche, e spesso in gran copia dalle gengive, e dalle
fauci questo nero sangue; e così ancora dalle narici, e dal fondamento,
e dall'utero copiosamente usciva: ogni cosa si volgeva a putredine ed a
mortificazione. Bruttavano la pelle o macchie nere a guisa di piccoli
punti, o larghi lividori a guisa di pesche, massimamente in quei luoghi
a cui si appoggiava il corpo. Facevano la bocca disforme ed orrida, le
labbra turgidissime e nere: gli occhi lagrimosi e tristi ogni vivo lume
perdevano; quindi il delirio, od il letargo fra le convulsioni, ed un
mortale freddo di membra la vita troncavano. Chi moriva nel primo, chi
nel secondo, chi nel terzo tempo. Ma quando prima la malattia invase,
più morivano nel primo che nell'ultimo; più nell'ultimo, che nel primo,
ma non molti, quando già trascorsi essendo circa due mesi, o fosse per
l'abitudine dei corpi, o fosse per la diminuzione delle cagioni, già era
stata ammansita la ferocia del funesto influsso. Pessimi presagi erano
la violenza della prima febbre, i dolori acutissimi delle membra,
massime al petto, l'affanno sommo, la prostrazione delle forze, il
vomito pertinace e nero, il comparire sulle prime il giallore,
l'aggravarsi lo spirito, il chiudersi la via delle orine, il singhiozzo:
ottimi la moderata febbre, il vomito raro e mucoso senza putridume, il
giallore tardo, la transpirazione libera, il corpo lubrico, ma di bile,
non di sangue, e il non tremare, e il non prostrarsi. Per le orine
trovava per ordinaria via la natura a discacciare il veleno mortifero;
imperciocchè quando copiose ed intensamente gialle fluivano,
annunziavano l'esito felice. Ma non una era la maniera del guarire;
conciossiachè si è veduto lo uscire improvvisamente e copiosamente
sangue dalla bocca e dalle narici, chiamare inaspettatamente a vita chi
già pareva preda d'inevitabil morte. Furono viste femmine guarite dal
correre improvviso di mestrui abbondanti: fu visto lo sconciarsi della
concetta creatura, ed il copioso versarsi del sangue che ne
conseguitava, redimere la sofferente madre dalla fine imminente. Crudo
era il male, e nemicissimo alla vita: funeste vestigia, anche già quando
se n'era ito, nei corpi lasciava: lunghe, tristi, penose si vedevano le
convalescenze: chi restava stupido lungo spazio, chi tremava, chi
spaventato da funeste fantasime passava malinconici i giorni, spaventose
le notti, miserabili segni che stata era vicina la morte. Strana ed
orrenda contaminazione di corpi, che spesso, oltre le raccontate
alterazioni, insolite apparenze induceva: a questo veniva in odio
l'acqua, come se da cane arrabbiato morso fosse: a quello la vista si
pervertiva, o doppio, o più grande del solito vedendo: a quest'altro
gonfiavano straordinariamente le parotidi: a chi venivano bollicine
piene di umore corrosivo in pelle, ed a chi pioveva sangue dagli
orecchi. Escoriavasi la pelle, come se dal fuoco bruciata fosse, in quei
luoghi dove la suffusa bile si spargeva: trascolava dai vescicatorj una
linfa intensamente verde, simile piuttosto al sugo di cicoria che ad
altro, la quale sì caustica e sì pungente natura aveva, che la pelle
delle toccate membra dolorosamente infiammava, e tostamente cancrenava.
Più feroce infierì il male contro i giovani robusti, più mite contro i
deboli, contro i vecchi, contro le donne. Ma le gravide quasi tutte, che
prese ne furono, morirono: i fanciulli passarono quasi tutti indenni.
L'intemperanza di ogni genere, specialmente il darsi al bere eccessivo
del vino e degli spiriti, ed il gozzovigliare, ed il trascorrere nei
cibi cagionavano e più certa malattia, e più certa morte.

Ogni cosa poi sozza così dentro come fuori; imperciocchè negli sparati
cadaveri le narici si vedevano imbrattate di nero sangue, e la morta
bocca recere ancora, tanto n'era pieno il corpo, quel sucidume nero e
fetido, che nelle ultime ore della vita da lei pioveva. Pieno ancor
esso, e zeppo e gonfio di questo medesimo putridume infame e nero si
trovava il ventricolo, roso oltre a ciò da serpeggiante cancrena, e rosi
gl'intestini; la rete chiamata dai medici omento, rosa del tutto,
mostrava quanta forza di distruzione l'orribile malore avesse. Un fluido
rosso e giallastro, come di bile mista a sangue, il cavo torace
ingombrava; e sangue nero e putredinoso tutti aveva pieni i polmoni,
cospersi ancor essi di macchie livide e cancrenose; livido ed infiammato
il setto trasverso; livida e di corrotto sangue piena la milza; livido,
molle, putredinoso e di colore, come se cotto fosse, il fegato, sul
quale, e così sul ventricolo pareva essersi specialmente scagliata con
tutti i suoi effetti più tremendi la pestilenza. Insomma o putridume
sanguinolente, o sangue nero, o infiammazione vicina a sfacelo, o
distruzione intiera di parti in quel luogo, e nelle più vitali viscere
si discoprivano. Nè perchè la funesta corruttela tali mortiferi effetti
producesse, lungo tempo richiedevasi; che anche in coloro, i quali nel
breve spazio di ventiquattr'ore restavano morti, si scorgeva che uno
sfacelo universale, che un'aura venefica aveva il corpo tutto invaso, ed
allo stato di morte ridotto, che tale vide, tale descrisse con singolar
medica maestrìa questa esiziale infermità il dottor Palloni, mandato dal
Toscano governo a vedere, se alcun senno, od umano provvedimento contro
la medesima valesse. Nè solamente i visceri, che più vicini e
concorrenti all'opificio della digestione, quali sono per esempio il
fegato ed il ventricolo, ma ancora i più segregati e più lontani erano
da lei tocchi e contaminati; posciachè la vescica, che serve di
ricettacolo alle orine, vuota si rinveniva e di strisce sanguinose
listata: il cerebro stesso, fonte principale di vita, ed i suoi
proteggitori invogli col sozzo aspetto di vasi sanguigni strapieni, e
con le cavità bruttate di un fluido sviato e giallastro alla vista si
appresentavano. Corrotta era a bile, corrotta e sparsa per tutto il
corpo dei miseri contaminati. Pessimi il quinto e settimo giorno; pure
notati di morti frequenti anche il primo, il secondo ed il terzo; in
alcuni, ma rari, indugiò la morte insino al decimoterzo, od al
decimoquarto.

Varj furono gli argomenti usati dai medici per domare la dolorosa
infermità; ma i più semplici, come suole, riuscirono anche i più
vantaggiosi. Tenere il ventre libero col calomelano e con la gialappa,
buono; buono promovere il sudore; buonissime le limonee con qualche
piccola dose di tartaro emetico; utili i fomenti caldi, in cui fosse
stata cotta senape. Nè mancò di sovvenire efficacissimamente agli
ammalati l'acido nitrico, massimamente quando si usava in sulle
complessioni deboli, e quando, essendo già molt'oltre trascorso il male,
le emorragìe, il vomito nero, ed altri segni la incominciata
dissoluzione del corpo indicavano. Deteriorava pei vescitatorj la
condizione degli ammalati; pure giovarono in qualche caso applicati alla
regione del sottoposto ed infestato fegato. Le orine soppresse la
digitale purpurea giovava. Ma forte e sopra tutti supremo rimedio
mostrossi l'aria pura, e spesse volte rinnovata, della quale tanta era
l'efficacia, che per lei, anche a piccola distanza, si distruggeva la
venefica qualità, ed il fomite stesso del male.

Dall'altro canto si vedeva, che per l'aria pregna di esalazioni animali
si trasportava da uomo a uomo facilmente il morbo, e più fieramente
l'infettato tormentava. Serve di argomento a compruovare questo
accidente, che le contrade più piene d'immondizie, e meno ventilate
della città, e le case dei poveri furono le più miseramente contaminate.
Al contrario le contrade spaziose, e le case commode, pulite e di aria
aperta e libera o andaronne esenti, o non peggiorovvi, o non vi
appiccossi da corpo a corpo la corruzione; che anzi nel contaminato
individuo si contenne, gli assistenti, i parenti, i medici, i ministri
di Dio immuni lasciando. La quale cosa questa malattia dalle altre
contagiose febbri, e specialmente dalla peste d'Egitto differenzia, il
cui veleno largamente e lontanamente si appicca. Nè in contado si
propagava, abbenchè continuamente infinite persone, ed infinite
mercanzie da contrada a contrada, e dalla città nel contado si
trasportassero e si diffondessero. Nè l'uomo sano, ancorchè nella
vicinanza degli ammalati vissuto fosse, mai ad altri la infezione, se
prima egli medesimo tocco dalla malattia stato non fosse, comunicava; nè
per gl'individui sani delle contaminate famiglie, nè per gli arnesi
loro, nè per le altre suppellettili delle case giammai fuori la
corruzione si avventava; e sì pure che le monete, le carte, le merci
tutte in un continuo giro, ed in un indistinto commercio dentro e fuori
della città versavano. L'abitudine, per un mirabile e non conosciuto
artifizio dei nostri corpi, al malefico influsso gradatamente
avvezzandogli, gli salvava. Infatti pel funesto male che tanti fra la
minuta gente toglieva di vita, un solo ministro di Dio, tre soli
ministri di salute perirono, quantunque e gli uni e gli altri
frequentissimamente, e con tutta cura agl'infettati assistessero. E
quanta fosse la forza del rinnovato aere a domare l'acume del veleno,
confermò visibilmente il provvedimento dato da chi reggeva nell'ospedale
di San Iacopo, il quale quasi a riva il mare situato, ed ottimamente a
salute edificato, di un'aria libera, sfogata e purissima godeva;
conciossiachè non così tosto gl'infetti, ancorchè languidi, oppressi, e
già quasi vinti fossero dalla malattia, la soglia di quel salutifero
edifizio toccavano, ed in lui riposti erano, che i vitali spiriti in
loro si rinvigorivano mirabilmente, e dalle angosce più crudeli
subitamente ad un confortevole stato passavano. Toscano pregio fu
rimedio all'inquilino morbo, perchè oltre alla purezza procurata
dell'aria, la pulitezza delle case, la nettezza delle vestimenta, la
mondezza dei corpi, qualità tanto eminenti nel Toscano paese, sovvennero
agl'infermi, e per sanargli bastarono le consuete abitudini. Nè anco in
così nemico tempo si scoverse quel fine crudele di schifare, e di
fuggire gl'infetti per acquistar salute: a tutti rimasero i debiti
sussidi o per la carità dei parenti, o per l'amorevolezza degli amici, o
per la pietà dei cherici, o per la provvidenza del pubblico; dei quali
vantaggi debbono i Livornesi o ad una maggiore civiltà, od a più celesti
inspirazioni restare obbligati.

Adunque se oltre una naturale disposizione dei corpi, a restare
contaminato dal morbo abbisognavano o la vicinanza, o il contatto
dell'uomo ammalato, o delle robe che a suo uso avevano servito nel corso
della malattia, se l'aria stagnante e chiusa, e zeppa di animali effluvi
la dava, se l'aria aperta o sfogata o l'allontanava o l'alleggiava, se
le persone sane, benchè vissute in prossimità degl'infetti, e le merci
da loro tocche, solo che al puro e ventilato aere esposte fossero,
l'infezione fuori della città non trasportavano, e se finalmente il
medesimo aere ventilato e puro il malefico fomite presso al suo fonte
stesso, cioè all'ammalato, distruggeva ed annientava, si deduce, che, o
l'accidente mortifero di Livorno, quantunque avesse in se raccolti tutti
i segni di quel morbo, che alcuni febbre gialla, altri vomito nero
appellano, era nondimeno molto dal medesimo diverso, opinione non
verisimile, perciocchè i segni indicano identità di natura, o che il
terrore e la mossa immaginazione l'hanno in altri paesi fatto parer
diverso da quello ch'egli è veramente, tassandolo di contagio, quando
veramente contagioso non è a modo delle malattie, che i medici chiamano
specialmente con questo nome, come per cagion d'esempio la peste di
Egitto. Nè dimorerommi io a dire come in Livorno stato fosse recato;
perchè, se il vi recasse, come corse fama, un bastimento venuto da Vera
Croce, è incerto, siccome ancora è incerto, se da altro contagio
qualunque, o se da mera disposizione del cielo piovoso e caldo, come
alcuni credono, e pare più verisimile, ingenerato e sorto fosse. Certo è
bene, ch'ei fu contaminazione schifosa ed abbominevole, e che funestò
per numerose morti Livorno, spaventò le città vicine, tenne lunga pezza
dubbiosa ed atterrita l'Europa per la fama delle province devastate in
America. Queste cose ho voluto raccontare con quella maggiore semplicità
che per me si è potuto, acciocchè la nuda verità meglio servir potesse a
far conoscere per forza di comparazione, la natura ed i rimedi di un
male, che omai minaccia di voler accrescere la soma di tutti quelli che
già pur troppo affliggono la miseranda Europa.

Ordinate col consentimento del papa le faccende religiose in Francia, si
rendeva necessario che il consolo le acconciasse coll'intervento
pontificio nell'Italica; imperciocchè il pontefice non aveva tralasciato
di muovere querele intorno alle deliberazioni prese senza che la potestà
sua fosse non che consenziente, richiesta, nell'Italiana constituzione.
Il consolo per un suo gran fine voleva gratificare al papa. Per la qual
cosa, dopo alcune pratiche tenute a Parigi tra il cardinal Caprara,
legato della santa sede, e Ferdinando Marescalchi, ministro degli affari
esteri della repubblica Italiana, fu concluso il dì sedici settembre, in
nome del pontefice e del presidente un concordato, l'importar del quale
fu quasi in tutto conforme al concordato di Francia. Ma bene ne ampliò
le condizioni a favore della potestà secolare Melzi vice-presidente,
nodrito nelle dottrine leopoldiane. Decretava, che la facoltà di vestire
e di ammettere alla professione religiosa fosse ristretta agli ordini,
conventi, collegi monasteri, che per istituto fossero dediti
all'istruzione ed educazione della gioventù, alla cura degl'infermi o ad
altri simili uffizi di speciale e pubblica utilità; che per vestire, o
far professione religiosa individuale, e per la promozione agli ordini
sacri, il beneplacito del governo si richiedesse; che la libera
comunicazione dei vescovi colla santa sede non importasse nè devoluzione
di cause da trattarsi in via contenziosa avanti i tribunali, nè
dipendenza alcuna dall'autorità spirituale nelle cose di privata
competenza dell'autorità temporale; che le bolle, i brevi, ed i
rescritti della corte di Roma non si potessero recare in uso esteriore e
pubblico senza il beneplacito del governo; che solamente i sacerdoti,
gl'iniziati negli ordini sacri, i chierici ammessi nei seminari
vescovili, ed i vestiti o professi negli ordini religiosi fossero esenti
dal servizio militare; che il governo non darebbe mano forte per
l'esecuzione delle pene esterne ordinate dall'autorità ecclesiastica per
correggere gli ecclesiastici delinquenti, e gli appellanti dalle
medesime, se non se in caso di abuso manifesto, ed osservati sempre i
confini ed i modi della rispettiva competenza; finalmente, che la
vigente disciplina della chiesa nella sua attualità, salvo il diritto
della tutela e giurisdizione politica, si mantenesse. Sane e salutari e
necessarie guarentigie erano queste in pro ed a conservazione
dell'autorità secolare; imperciocchè la religione cattolica ha più che
qualunque altra, modo d'influire per mezzo de' suoi ministri, che sono
uomini, nelle deliberazioni dei reggitori dei popoli, e verso di lei
debbonsi da questi usare cautele efficaci, perchè siano salvi la libertà
ed i diritti della potestà temporale. Ma le sentì molto gravemente il
pontefice, e vivamente se ne dolse col presidente. Egli si temporeggiava
alle risposte, e nelle solite ambagi avviluppandosi, nè dava, nè
toglieva speranza di ammendazione. Intanto, quantunque il concordato
Italico, e massime il decreto del vice-presidente fossero più accetti a
chi amava le dottrine Pistojesi, e le riforme di Leopoldo, che ai
papisti, servirono ciò non ostante a tranquillare le coscienze timorate
del popolo, il quale avendo sempre perseverato nella fede, e nella
riverenza verso il papa, vedeva malvolentieri le dissensioni con Roma:
ed ora della ristorata concordia si rallegrava. I magistrati, i preti, i
filosofi, i soldati, il popolo predicavano il presidente unico: il
buonapartico nome a tutti sovrastava, ed a tutto.

Ma già le bilustri trame del consolo si avvicinavano al loro compimento.
Glorioso per guerra, glorioso per pace, nissun nome nè negli antichi, nè
nei moderni tempi alle allucinate generazioni pareva uguale al suo.
Ancora spesseggiava il suono nelle bocche degli uomini, e fresca era
negli animi la memoria delle sue maravigliose geste in Italia e prima e
dopo le Egiziache fatiche. Avere lui, si ricordavano, subitamente
l'umile fortuna della repubblica innalzato al più alto grado di gloria e
di potenza; senza di lui essere ricaduta, con lui risorta; i mostri,
così scrivevano, avere prevalso, lui lontano; essere stati vinti, quasi
da Ercole secondo, lui presente: con esso lui lontano la guerra avere
seguitato la pace, con esso lui presente la pace avere seguitato la
guerra; nè solo con l'Austria avere procurato la concordia, ma ancora
con la Russia, con l'Inghilterra, con la Turchia, col Portogallo, col
duca di Vittemberga, col principe d'Oranges: i barbari stessi avere a
beneficio di Francia pattuito con lui, Algeri e Tunisi essere tornati
all'antica amicizia di Francia; nè più spaventare i Francesi cuori
l'aspetto delle Africane crudeltà; potere le Francesi navi liberamente e
securamente attendere ai traffichi loro nel Mediterraneo, nè i Libici
ladroni più oltre insultare alle insegne della repubblica; avere lui
solo spenta la civile discordia; lui solo restituito la patria agli
esuli, lui solo restituito onore a papa Pio sesto, ed alle sue venerate
ossa dato riposo; avere a pace delle coscienze, a conservazione dei
costumi, a salute delle anime convenuto con papa Pio settimo; per lui
essere restituita a luogo suo la generosità e la fedeltà Francese verso
la sedia apostolica: lui avere stornato i Vaticani folgori dalla
religiosa Francia; lui averla riconciliata con se stessa e con la
cristianità; ciò quanto al politico ed al religioso: quanto al prospero,
a lui essere obbligate le finanze dell'abbondanza loro, a lui i
magistrati dei pagati stipendi, a lui i soldati delle diligenti paghe, a
lui i viandanti delle racconce strade, a lui i naviganti dei ristorati
canali, a lui i commercianti degli aperti mari: ogni cosa tornare
all'antico splendore; i palazzi laceri dal tempo o dalla rabbia degli
uomini, ristorarsi, nuovi edifizi innalzarsi: la Francia bella per
natura, divenir più bella per arte; dileguarsi le ruine, segni
abbominevoli delle passate discordie: sorgere moli, segni magnifici di
generoso governo: tali essere i frutti della pace, tali quei della
concordia; essere finita la rivoluzione, e con lei serrata l'officina di
tante disgrazie: rotta, esser vero, di nuovo essere dall'infedele ed
ambizioso Britanno la guerra; ma già correre sulle coste dell'Oceano le
vendicatrici schiere, già apprestarsi le conquistatrici antenne, già
Londra stessa esser mal sicuro nido ai corsari dominatori del mare;
presto aversi a vedere quanto potessero a benefizio dell'umanità contro
gli avari e superbi tiranni, che soli fra tutti restavano a domarsi, la
Francia potente, ed il fortunato consolo; minacciare, esser vero, la
Russia, essere appresso a lei efficaci le arti, e le profferte
d'Inghilterra; ma lontano essere Alessandro, nè spoglio d'umanità, nè i
dispareri poter durare tra chi a bene intende: così avere il consolo
dato a Francia pace sicura, ed occasione di vittoria. Di tanti obblighi
nissuno premio poter essere, non che maggiore, pari.

Queste cose si dicevano, ed ancor più si scrivevano. Il consolo non
abborrendo dal scelerato proposito di ridurre in servitù una nazione,
che con una piena di tanto amore si versava verso di lui, pensò essere
arrivato il tempo di dar compimento a' suoi disegni. Perciò, allettati
gli amatori del nome reale con la patria, i soldati coi donativi, i
preti col concordato, i magistrati con gli onori, il popolo coi commodi,
si accinse ad appropriarsi la parola di quello, di cui già aveva la
sostanza, accoppiando in tal modo il supremo nome alla suprema potenza.
Restava che i repubblicani assicurasse: il fece con l'uccisione del duca
d'Anghienna. Diè le prime mosse il tribunato: il senato non s'indugiò a
seguitare parte per paura, parte per ambizione: il dì diciotto maggio
chiamava Napoleone Buonaparte, imperator dei Francesi.

Questo atto, ancorchè inaspettato non fosse, empiè di maraviglia il
mondo. I pazzi reali s'accorsero, che Buonaparte non era uomo, come
aspettavano, che volesse fare il Monk: i pazzi repubblicani videro, che
non era uomo da voler fare, come si promettevano, il Cincinnato, questi
più inescusabili di quelli; perchè, tacendo anche gli altri suoi andari,
quell'aver detto al consiglio dei Giovani il dì nove novembre del
novantanove, che la realtà non poteva più vincere in Europa la
repubblica, avrebbe dovuto fargli accorti, ch'ei voleva fare che la
realtà vi vincesse la repubblica. Poi, siccome il secolo era tutto di
piacere, nulla di coscienza, come bene sel conobbe Buonaparte, i reali
dimenticarono tosto la realtà, i repubblicani la repubblica, e gli uni e
gli altri trassero cupidamente agl'imperiali allettamenti. Pochi
dall'una parte e dall'altra si ristarono; il secolo gli chiamò pazzi.
Delle potenze d'Europa l'Inghilterra, che non s'era mai ingannata sulle
qualità di Buonaparte, contrastava, ma invano; contrastava anche invano
il lontano ed ingannato Alessandro: la Turchìa, per timore della Russia,
si peritava; l'Austria doma taceva; la Prussia, che tuttavia per le sue
emolazioni verso l'Austria continuava ad ingannarsi, non solamente aveva
consentito, ma ancora esortato. Quest'era stato uno dei principali
fondamenti dell'ardimento di Napoleone. Primario confortatore a questi
consigli era il marchese Lucchesini ministro del re Federigo a Parigi.
Luigi decimottavo, re di Francia, che fino a questo tempo, forse per
qualche speranza, aveva più temperatamente che degli altri governi
Francesi, parlato e scritto di Buonaparte, a questo estremo atto di
assunzione di potenza, per cui ogni aspettazione di buon fine era tolta,
grandemente risentendosi, con gravissime parole contro l'usurpazione fin
dall'ultimo settentrione, dove esule dai suoi regni se ne stava,
protestò. Il Piemonte si confortava della perduta independenza per la
unione con chi comandava; Genova ingannata sperava almeno di conservar
l'antico nome; la repubblica Italiana, giacchè era perduta la libertà,
si prometteva almeno la potenza; la Toscana, che meglio di tutti
giudicava delle faccende presenti, non sapeva nè che sperasse, nè che
temesse; bene si doleva che i Leopoldiani tempi fossero perduti per
sempre; Napoli, già servo il regno di qua dal Faro, stava in dubbio se
almeno potesse conservar libero quello oltre il Faro. Il papa era
spaventato dalla grandezza di Napoleone; ma egli si confortava con le
promesse, con le adulazioni, ed ancor più con le richieste; imperciocchè
vedendo, che, poichè alle antiche consuetudini se ne tornava, non aveva
titolo legittimo, nè volendo ammettere la dottrina della sovranità del
popolo, perchè l'ammetterla era un confessare che chi faceva poteva
disfare, ed ei non voleva esser disfatto, il pontefice con grandissime
istanze, non purgate da qualche minaccia, richiedeva, che a Parigi se ne
venisse per consecrarlo imperatore. Parevagli che la consecrazione del
papa gli desse nell'opinione degli uomini quello, che per altre parti
gli mancava. Era certamente un gran fatto, che il capo supremo della
chiesa, in età già grave, in stagione sinistra, la lontana e straniera
terra se n'andasse per legittimare con la santità del suo ministerio
quello che tutti i principi d'Europa chiamavano o apertamente, o
occultamente una usurpazione. Per indurre il papa a questa
deliberazione, Napoleone gli prometteva, che se già molto aveva fatto a
benefizio della religione e della Santa Sede in Francia, molto più era
per fare, ove il papa consentisse alla consecrazione. Si trovava il
pontefice da queste domande molto angustiato, perchè dall'una parte
desiderava di satisfare a Napoleone, sperando di farne nascere frutti
profittevoli alla religione; dall'altra il confermare con la efficacia
del suo ufficio gli effetti della prepotenza militare, gli pareva duro e
disonorevole consiglio.

Tanto poi più se ne stava sospeso, quanto e Luigi decimottavo, e
l'imperatore di Germania, e quel di Russia, e il re medesimo
d'Inghilterra più o meno manifestamente il confortavano al non offendere
con un atto tanto strepitoso la maestà reale, ed i principj, sopra i
quali tutte le moderne sovranità si trovavano fondate. Non si
commettesse, dicevano, abbandonando gli amici antichi, alla fede di un
amico nuovo; la forza soldatesca non santificasse; la ruina d'Europa non
appruovasse; considerasse, fugaci essere le cose violente, rovinare di
per se stesse le eccessive; pensasse dopo quel nembo facilmente
dileguantesi dovere avere bisogno dei patrocinj antichi; non più
trattarsi di salvare la religione già salva, ma di salvare i seggi
antichi: o legittimità o usurpazione, o temperanza o tirannide, o leggi
o soldati, o civiltà o barbarie, di ciò trattarsi. Avvertisse finalmente
quanto enorme sarebbe, se il pontefice di Roma, se il capo della
cristianità si muovesse a santificar il sommo grado in chi usava la
religione per fraude, le promesse per inganno, le armi per
sovvertimento; vedesse la serva Italia, osservasse la tremebonda
Germania, riflettesse alla soggiogata Francia, e giudicasse se gli fosse
lecito, la dignità apostolica sua contaminando, onestare con sì solenne
dimostrazione ciò, che tutte le leggi divine ed umane condannavano.

Queste esortazioni grandemente muovevano il pontefice. Ciò non ostante
non gli sfuggiva, poichè al benefizio della religione aveva l'animo
intento, che la religione, per essere in Francia la parte avversa tanto
potente, per esservi la instaurazione tanto recente, per essere
Napoleone imperatore in tutte le cose sue tanto arbitrario e tanto
subito, maggiore pericolo vi portava, se a Napoleone non consentisse,
che in Austria e negli altri paesi cattolici della Germania, se ai
desiderj di Francesco imperatore non si uniformasse. Quanto alla Spagna,
piuttosto suddita che uguale alla Francia, per la divozione del principe
della Pace ai Buonapartidi, sapeva il pontefice, che la sua risoluzione
a favor di Napoleone vi sarebbe stata udita volentieri.

Da un altro lato il signore di Francia tanto si dimostrava amorevole e
lusinghiero verso la Santa Sede, che il papa venne in isperanza, non
solamente di tenerlo nei termini, ma ancora di volgerlo in quella parte
alla quale ei volesse. Confidava massimamente di poter conseguire
qualche utile modificazione negli articoli organici annestati da
Napoleone al concordato di Francia, e da Melzi a quello d'Italia.
Desiderava altresì, e sperava d'indurre Napoleone a dare qualche
larghezza di più al culto esteriore, al quale effetto erano corsi prima
non pochi dispareri, perchè Napoleone intendeva il culto pubblico ad un
modo, e Pio ad un altro. Nè dubitava punto che la presenza sua in
Francia efficacemente non avesse ad operare, perchè la religione meglio
si conoscesse, e meglio si amasse. Aveva anche difficoltà a persuadersi,
che una sì lunga e grave fatica, ed una tanta condiscendenza in un
affare di tanto momento per Napoleone, non fossero per ispirare al cuore
di lui, quantunque di soldato fosse, affetti più miti, e maggiore
agevolezza verso il Romano seggio.

Tutte queste cose molto bene e maturamente considerate, e co' suoi
cardinali parecchie volte ponderate, implorato anche l'ajuto divino,
siccome quegli che piamente da lui ripeteva ogni evento o prospero od
avverso, si deliberava a voler fare quello, che da tanti secoli non si
era veduto che alcuno fatto avesse. Per la qual cosa risolutosi del
tutto a voler posporre al benefizio della religione ogni altro umano
rispetto, convocati i cardinali il dì ventinove ottobre con queste gravi
ed affettuose parole loro favellava:

«Da questo medesimo seggio, venerabili fratelli, noi già vi annunziammo,
siccome il concordato con Napoleone imperatore dei Francesi, allora
primo consolo, era stato da noi concluso; da questo stesso vi
partecipammo la contentezza che aveva ripieno il nostro cuore, nel veder
volte novellamente, per opera del concordato medesimo, alla cattolica
religione quelle vaste e popolose regioni. D'allora in poi i profanati
tempj furono aperti e purificati, gli altari riedificati, la salvatrice
croce innalzata, l'adorazione del vero Dio restituita, i misteri augusti
della religione liberamente e pubblicamente celebrati, legittimi pastori
a pascere il famelico gregge conceduti, numerose anime dai sentieri
dell'errore al grembo della felice eternità richiamate, e con se stesse,
e col vero Dio riconciliate: risorse felicemente da quella oscurità in
cui era stata immersa, alla piena luce del giorno in mezzo ad una
rinomata nazione la cattolica religione.

«A tanti benefizj di gioja esultammo, e le esultazioni nostre a Dio
nostro signore dall'intimo del nostro cuore porgemmo. Questa grande e
maravigliosa opera non solamente ci riempiva di gratitudine verso quel
potente principe, che usò tutto il potere e l'autorità sua per fare il
concordato; ma ancora ci spinse, per la dolce ricordanza, ad usare ogni
occasione che si aprisse, per dimostrargli, tale essere verso di lui
l'animo nostro. Ora questo medesimo potente principe, il nostro
carissimo figliuolo in Cristo Napoleone imperatore dei Francesi, che con
le opere sue sì bene ha meritato della cattolica religione, viene a noi
significandoci, ardentemente desiderare di essere coi santi olj unto, e
dalle mani nostre l'imperiale corona ricevere, acciocchè i sacri
diritti, che sono in così alto grado per collocarlo, siano col carattere
della religione impressi, e più potentemente sopra di lui le celesti
benedizioni appellino. Richiesta di tal sorte non solo chiaramente la
religione sua, e la sua filiale riverenza verso la Santa Sede dimostra;
ma siccome quella che accompagnata da espresse dimostrazioni e promesse,
da speranza che sia la fede sacra promossa, e che siano le dolorose
ingiurie riparate; opera, che già ha egli con tanta fatica e con tanto
zelo in quelle fiorite regioni procurato.

«Voi vedete pertanto, venerabili fratelli, quanto giuste e gravi siano
le cagioni, che ad intraprendere questo viaggio c'invitano. Muovonci
gl'interessi della nostra santa religione, muoveci la gratitudine verso
il potente imperatore, muoveci l'amore verso colui che con tutta la
forza sua adoperandosi, ebbe in Francia alla cattolica religione libero
e pubblico esercizio procurato, muoveci il desiderio, che d'avanzarla
viemaggiormente in prosperità ed in dignità ci dimostra. Speriamo
altresì, che quando al cospetto suo giunti saremo, e con lui volto a
volto favelleremo, tali cose da lui a benefizio della cattolica chiesa,
sola posseditrice dell'arca di salvazione, impetreremo, che giustamente
con noi medesimi dello avere a perfezione condotto l'opera della nostra
santissima religione congratularci potremo. Non dalle nostre deboli
parole tale speranza concepiamo, ma dalla grazia di colui, di cui,
quantunque immeritamente, siamo il vicario sopra la terra, dalla grazia
di colui, che per la forza dei sacri riti invocato essendo, nei bene
disposti cuori dei principi discende, specialmente quando padri dei
popoli si mostrano, specialmente quando all'eterna salute intendono,
specialmente quando di vivere e di morire veri e buoni figliuoli della
cattolica chiesa deliberano. Per tutte queste cagioni, venerabili
fratelli, e l'esempio seguitando di alcuni nostri predecessori che la
propria sede lasciando, in estere regioni per promuovere la religione, e
per gratificare ai principi, che della chiesa bene meritato avevano,
peregrinarono, ci siamo ad intraprendere il presente viaggio deliberati,
avvengadiochè da tale risoluzione avessero dovuto allontanarci la
stagione sinistra, l'età nostra grave, la salute inferma. Ma non fia che
a tali impedimenti ci sgomentiamo, solo che voglia Iddio farci dei
nostri desiderj grazia. Nè fu il negozio, prima che ci risolvessimo, da
ogni parte ed attentamente non considerato. Stemmo dubbj, ed incerti un
tempo; ma con tali assicurazioni si fece incontro ai desiderj nostri
l'imperatore, che ci rendemmo certi, essere il nostro viaggio a pro
della religione per riuscire. Voi ciò sapete, che su di ciò a voi chiesi
consiglio: ma per non preterire quello che ogni altra cosa avanza,
sapendo benissimo, che conforme al detto della divina sapienza, le
risoluzioni dei mortali, anche di quelli che per dottrina e per pietà
più riputati sono, di quelli altresì, il cui parlare, quale incenso,
alla presenza di Dio sen sale, sono deboli e timide ed incerte, le
nostre fervorose preghiere al padre di ogni sapere indirizzammo,
instantemente richiedendolo, che ci sia fatto abilità di solo fare
quello che a lui piacer possa, solo quello che a prosperità ed
incremento della sua chiesa tornare prometta. Ecci Dio, al quale
coll'umile nostro cuore tante volte supplicammo, al quale nel suo sacro
tempio le supplici nostre mani alzammo, dal quale e benigna audienza ed
ajuto propizio in tant'uopo implorammo, testimonio, che niun'altra cosa
vogliamo, a niun'altra intendiamo, che alla gloria ed agli interessi
della cattolica religione, alla salute delle anime, all'adempimento
dell'apostolico mandato, a noi, quantunque immeritevoli, commesso. Di
questa medesima sincerità nostra voi stessi, venerabili fratelli, a cui
tutto apersi, siete testimonj. Adunque quando un negozio sì grande con
l'ajuto della divina assistenza vicino è a compirsi, qual vicario di
Dio, Salvator nostro, operando, questo viaggio, al quale tante e sì
ponderose ragioni ci confortano, imprenderemo.

«Benedirà, speriamo, il Dio d'ogni grazia i nostri passi, ed in questa
epoca nuova della religione con uno splendore di accresciuta gloria si
manifesterà. Ad esempio di Pio sesto di riverita memoria, quando a
Vienna d'Austria si condusse, abbiamo, venerabili fratelli, provveduto,
che le curie, e le audienze siano e restino secondo il solito aperte; e
siccome la necessità del morire è certa, il giorno incerto, così abbiamo
ordinato, che se durante il viaggio nostro a Dio piacesse di tirarci a
lui, si tengano i pontificj comizj. Infine da voi richiediamo, voi
instantemente preghiamo, che vi piaccia per noi sempre quell'affezione
medesima conservare, che finora ci mostraste, e che noi assenti, l'anima
nostra all'onnipotente Iddio, a Gesù Cristo nostro Signore, alla
gloriosissima sua Vergine madre, al beato apostolo Pietro, acciò questo
nostro viaggio, e felice sia nel corso, e prospero nel fine,
raccomandiate. La quale cosa, se, come speriamo, dal fonte di ogni bene
impetreremo, voi, venerandi fratelli, che di ogni consiglio nostro e di
ogni nostra cura foste sempre partecipi fatti, della comune contentezza
ancora voi parteciperete, e tutt'insieme nella mercè del Signore
esulteremo, e ci rallegreremo».

Giunto il pontefice sulle Francesi terre, fu per ordine dell'imperatore,
ed ancor più per la pietà dei fedeli in ogni luogo con riverenza veduto.
A Parigi, anche quelli che non credevano nè al papa, nè alla religione,
si precipitavano a gara, o per moda, o per vanità, o per adulazione,
alla sua presenza per esprimergli con parole sentimenti di rispetto.
Incoronava Napoleone il dì due decembre. Il fece l'imperatore aspettare
nella chiesa di Nostra Donna in Parigi un'ora prima che vi arrivasse:
vollero, quando il pontefice si mosse alla volta di lui, i pii
circostanti applaudire al venerando vecchio; furonne da Napoleone con
imperioso e forte segno impediti: partito da Nostra Donna il consecrato
ed incoronato Napoleone, fu lasciato Pio, come un uom del volgo,
avviluppato ed impedito fra l'immensa folla del popolo concorso; tristi
presagi dei casi avvenire. Napoleone consecrato diè nel campo di Marte
solennemente le imperiali aquile a' suoi soldati: le auliche insegne
della repubblica, che avevano veduto le Renane, Italiche, Egiziache
vittorie, lasciate nel fango, che era in quel giorno altissimo. Tanto i
soldati di tutti già erano divenuti soldati di un solo! Disprezzar la
gloria era segno, che non si sarebbe rispettata la libertà.

Andarono i magistrati, ed i capi dell'esercito a rendere omaggio
all'incoronato loro signore. Cervoni, antico compagno, vedendolo non più
così scarso del corpo, com'era una volta, con esso lui della prospera
salute si rallegrava. _Sì_, rispose il sire, _ora sto bene_.



LIBRO VIGESIMOSECONDO

SOMMARIO

      Buonaparte creatosi imperatore di Francia, pensa a farsi
      chiamare re d'Italia. Gl'Italiani gli si rappresentano a
      Parigi, e il fanno pago di questo suo desiderio. Va a Milano
      per incoronarsi re. Genova cambiata, ed unita a Francia. Festa
      che danno i Genovesi all'imperatore e re. Dichiarazione di
      Scipione de' Ricci vescovo di Pistoja, al papa, ed accoglienza
      che il pontefice gli fa a Firenze. Astute insinuazioni dei
      gesuiti ai principi, e loro rinstaurazione nel regno di
      Napoli. Nuova guerra tra la Francia da una parte, l'Austria e
      la Russia dall'altra, e sue cagioni. Massena generalissimo di
      Francia, l'arciduca Carlo generalissimo d'Austria in Italia.
      Battaglia di Caldiero. Strepitose vittorie di Napoleone in
      Germania. L'arciduca si ritira dall'Italia: pace di Presburgo.
      Napoleone toglie il regno a Ferdinando di Napoli, e per qual
      cagione. Giuseppe, fratello di Napoleone, re di Napoli. Si fa
      sangue nelle Calabrie. Battaglia di Maida tra Francesi ed
      Inglesi. Accidenti delle bocche di Cattaro, e ferocia della
      guerra Dalmatica. La Dalmazia e Ragusi riunite al regno
      Italico.


La natura di Napoleone era irrequieta, disordinata, solo costante
nell'ambizione. Però lungo tempo non stava nel medesimo proposito,
sempre mutando per salire. Pareva, e fu anche solennemente, e con
magnifiche parole detto da lui e da Melzi, che gli ordini statuiti in
Lione per l'Italica fossero per essere eterni; ma non ancora erano corsi
due anni, che già manchi, insufficienti, non conducenti a cosa che buona
e durevole fosse, si qualificarono. Importava a chi s'era fatto
imperatore, che re ancora si facesse. Erano, non senza disegno, stati
invitati gl'Italici a condursi a Parigi per cagione di assistere, in
nome della repubblica, alle imperiali cerimonie ed allegrezze. Vi
andarono Melzi vice-presidente, i consultori di stato Marescalchi,
Caprara, Paradisi, Fenaroli, Costabili, Luosi, Guicciardi; i deputati
dei collegi e dei magistrati Guastavillani, Lambertenghi, Carlotti,
Dambruschi, Rangone, Caleppi, Litta, Fe, Alessandri, Salimbeni, Appiani,
Busti, Negri, Sopransi, Valdrighi. L'imperatore si lasciò intendere che
il chiamassero re, e condannassero gli ordini Lionesi: disponendosi la
somma delle cose non solo con un comando, ma ancora con un cenno di
Napoleone, il fecero volontieri. Melzi certamente non nato a questi
vituperj, appresentandosi il giorno diciasette marzo con gli altri
deputati in cospetto di Napoleone salito sul trono nel Castello delle
Tuilerie, in tali accenti con lingua e concetti servili favellava. «Voi
ordinaste, o Sire, che la consulta di stato, e i deputati della
repubblica Italiana si adunassero, e l'affare il più importante pe' suoi
destini presenti e futuri, cioè la forma del suo governo considerassero.
Al cospetto vostro io m'appresento, Sire, per compire appresso a voi
l'onorevole carico d'informarvi di quanto ella fece e di quanto ella
desidera. Primieramente l'assemblea molto bene ogni cosa considerando,
venne in questa sentenza, che impossibile è, se troppo non si vuole
dagli accidenti dell'età nostra discordare, le attuali forme conservare.
Ebbero le Lionesi constituzioni tutti i segni di ordini provvisorj:
accidentali furono, perchè agli accidenti dei tempi fossero rispondenti,
nè in se alcun nervo avevano, per cui gli uomini prudenti e durata e
conservazione promettere si potessero. Non che la ragione, l'evidenza
stringono urgentemente a cambiarla. La qual cosa concessa, e confessata
vera, come vera è realmente, la via da seguitarsi semplice diventa e
piana: i progressi delle cognizioni, i dettami dell'esperienza la
monarchia constituzionale, la gratitudine, l'amore, la confidenza il
monarca ci additano. Voi conquistaste, o Sire, voi riconquistaste, voi
creaste, voi ordinaste, voi fino a questo dì l'Italiana repubblica
governaste; quivi ogni cosa le vostre gesta, la vostra mente, i vostri
benefizi rammenta: un unico desiderio poteva essere fra di noi: un unico
desiderio è sorto. Noi non preterimmo di maturamente considerare quanto
nelle future cose profonda sapienza vostra indicava; ma per quanto gli
alti e generosi pensieri vostri coi nostri più bramati interessi
s'accordino, facilmente abbiamo a noi medesimi persuaso, che le
condizioni nostre tanto ancora non sono mature, che possiamo aggiungere
a quest'ultimo grado della politica independenza. L'Italiana repubblica,
così porta l'ordine naturale delle cose, debbe ancora per qualche tempo
restare impressa della condizione degli stati novellamente creati. Un
primo nembo, quantunque leggieri, che l'aere oscurasse, sarebbe per lei
d'affanni e di timore cagione. Nella qual condizione, quale maggiore
sicurezza, quale più fondata speranza di felicità potrebbe ella, Sire,
che in voi trovare? Voi siete ancora necessaria parte di lei. Solo
nell'alta sapienza vostra sta, solo a lei s'appartiene il vedere il
preciso termine della dependenza tra le gelosie esterne, e i pericoli
nostri. Interrogati amorevolmente, rispondiamo sinceramente. Questo è il
desiderio nostro, che a voi significhiamo, questa la preghiera, che a
voi indirizziamo, che vi piaccia quelle costituzioni darne, in cui i
principj già da voi pubblicati, dall'eterna ragione richiesti, alla
quiete delle nazioni necessari, statuiti siano e confermati. Siate
contento, o Sire, di accettare, siate contento di compire le preghiere,
e i desiderj dell'Italica consulta. Per questa mia bocca instantemente
tutti ve ne ricercano, e ve ne scongiurano. Se voi benignamente ci
esaudite, agl'Italiani diremo, che voi con più forte legamento vi siete
alla conservazione, alla difesa, alla prosperità dell'Italiana nazione
congiunto. Così è, Sire, voi voleste che la Italiana repubblica fosse,
ed ella fu: fate ora, che la Italiana monarchìa sia felice, e sarà».

Terminato il favellare, e fattosi avanti Melzi, l'atto dell'Italiana
consulta espresse: il governo della repubblica Italiana fosse monarcale,
ed ereditario: Napoleone primo re d'Italia si dichiarasse: le due corone
di Francia, e d'Italia in lui solo, non ne' suoi discendenti o
successori, potessero essere unite: insino a tanto che gli eserciti
Francesi occupassero il regno di Napoli, i Russi Corfù, gl'Inglesi
Malta, le due corone non si potessero separare: pregassesi Napoleone
imperatore, passasse a Milano per ricevere la corona, e statuire leggi
definitive pel regno.

Rispose Napoleone con voce forte, ma chioccia, come l'aveva, aver sempre
avuto il pensiero di creare libera e independente la nazione Italiana;
dalle sponde del Nilo avere sentito le Italiane disgrazie; essere, mercè
del coraggio invitto dei suoi soldati, comparso in Milano, quando i suoi
popoli d'Italia ancora il credevano sulle spiagge del mare Rosso; ancora
tinto di sangue, ancora cosperso di polvere, sua prima cura essere stata
l'ordinare l'Italiana patria: chiamarlo gl'Italiani a loro re; volere
loro re essere, volere questa corona conservare, ma solo fintantochè
gl'interessi loro il richiedessero: deporrebbela, quando fosse venuto il
tempo, sopra un giovane rampollo volentieri, al quale del pari che a lui
sarebbero a cuore la sicurezza e la prosperità dei popoli Italiani. Nè
questa fu la sola dimostrazione, ch'ei fece in questo proposito.

Entrò il giorno seguente l'imperatore in senato. Taleyrand, ch'era uomo
molto ambidestro, e capace di pruovar questa con molte altre cose
ancora, pruovò, che per allora l'unione della corona d'Italia a quella
di Francia era necessaria. Lessesi l'accettazione: poi Napoleone prese a
favellare, pretendendo parole di moderazione e di temperanza. «Noi vi
chiamammo, o senatori, disse, per darvi a conoscere tutto l'animo nostro
intorno agli affari più importanti dello stato. Potente e forte è
l'impero di Francia, ma più grande ancora la moderazione nostra. La
Olanda, la Svizzera, l'Italia tutta, la Germania quasi tutta
conquistammo: ma in fortuna tanto prospera misura e modo serbammo. Di
tante conquistate province quello solo ritenemmo, che necessario era a
mantenerci in quel grado d'autorità e di potenza, nel quale fu sempre la
Francia posta. Lo spartimento della Polonia, le province tolte alla
Turchìa, la conquista dell'Indie, e di quasi tutte le colonie hanno a
pregiudizio nostro dall'un dei lati fatto ir giù la bilancia: l'inutile
rendemmo, il necessario serbammo, nè mai le armi per vani progetti di
grandezza, nè per amore di conquista impugnammo. Grande incremento alla
fertilità delle nostre terre avrebbe recato l'unione dei territorj
dell'Italiana repubblica: pure dopo la seconda conquista, l'independenza
sua a Lione confermammo; ed oggidì più oltre ancora procedendo, il
principio della separazione delle due corone statuiamo, solo il tempo di
lei, quando senza pericolo pei nostri popoli d'Italia effettuare si
possa, assegnando. Accettammo, e sulla nostra fronte l'antica corona dei
Lombardi posammo: questa rattempreremo, questa rinstaureremo, questa
contro ogni assalto, finchè il Mediterraneo non sia restituito alla
condizione consueta, difenderemo, e questo primo Italico statuto a poter
nostro sano e salvo conserveremo».

Creava l'imperatore Eugenio Beauharnais, figliuolo dell'imperatrice sua
moglie, principe: poi, suo figliuolo adottivo chiamandolo, vicerè
d'Italia il nominava. Creava Melzi guardasigilli del regno. Decretava,
anderebbe a Milano, e la corona reale, la domenica ventisei di maggio,
prenderebbe. Messosi in viaggio con grandissimo seguito di cortigiani,
perchè voleva far illustre questa sua gita con apparato molto superbo, e
più che regio, e festeggiato con grandissimi onori per tutta Francia,
arrivava Napoleone il dì venti aprile a Stupinigi, piccola ed amena
villa dei Reali di Sardegna, posta a poca distanza da Torino. Quivi
concorsero a fargli onoranza i magistrati; Menou verso di lui umilissimo
si mostrava. Ad alcuni parlò benignamente, ad altri superbamente,
secondochè era da Menou Egiziaco susurrato. Riprese con parole aspre
l'arcivescovo Buronzo, accusandolo di serbar tuttavia fede al re di
Sardegna: tolse dalla carica Pico, presidente del tribunale, e lo voleva
anche far ammazzare, perchè, come diceva, l'aveva tradito nelle faccende
Veneziane. Infine trascorse in parole sdegnosissime contro i giacobini,
chiamandogli scelerati, e più quelli che l'avevano servito: in ciò era
stimolato particolarmente da Menou, che parlava come se non fosse mai
stato giacobino egli. Aggiunse il sire, che gli avrebbe fatti arar
dritto, e chi non avesse arato dritto, avrebbe a far con lui. Tutte
queste cose disse, e fece con modi tanto plebei, che tutti restarono
persuasi, che se aveva la forza non aveva la dignità, e che novizio
ancora, male sapeva portare il nuovo imperio. Vennero a trovarlo a
Stupinigi i deputati di Milano per fargli omaggio, re loro, rigeneratore
loro, padre loro chiamandolo. Rispose onorevolmente, gli avrebbe in
luogo di figliuoli: raccomandò loro, fossero virtuosi, l'attiva vita, la
patria, e l'ordine amassero. Dell'ordine parlava per dar contro ai
giacobini, credendo che questa fosse buona arte per adescare i re.
Terminò minacciosamente dicendo, che se alcuno avesse concetto gelosia
pel regno d'Italia, aveva una buona spada per disperdere i suoi nemici;
il che era vero. I buoni Milanesi stupivano a quelle sì vive
dimostrazioni, ed argomentavano, che il placido e grasso vivere fosse
giunto al fine. Visitato Moncalieri, corse la collina di Torino:
esaminata Superga, entrò trionfalmente nella reale città. Abitò il
palazzo del re, con molto studio e diligenza a questo fine restituito ed
addobbato dal conte Salmatoris. Correvano i popoli Piemontesi a vedere
l'inusitato spettacolo: si maravigliavano, non del caso, che già ne
avevano veduti tanti, ma della superbia. Arrivava in questo mentre papa
Pio a Torino, tornando da Francia. Fu fatto alloggiare nella reggia con
Napoleone: stettero molte ore ristretti insieme: Pio sperava. Napoleone
lusingava, pubblicamente stretto accordo mostravano, l'imperatore ne
godeva, perchè sapeva qual effetto sulla opinione dei popoli partorisse
l'amicizia di un papa. Visitò le pubbliche singolarità, con incredibile
imperturbabilità parlando di quel che sapeva, e di quel che non sapeva:
ma che dicesse bene, o che dicesse male, tutti sempre applaudivano.
Parlò con facilissima loquela di musica, di medicina, di leggi, di
pittura: volle vedere la tavola d'Olimpia, pinta da Ravelli, pittore di
nome. Lodò l'opera, ma notò qualche difetto: tutti fecero le maraviglie
del quanto se ne intendesse. Il papa festeggiato, anche da Menou
Abdallah, se ne partiva alla volta di Parma.

Dai discorsi civili si venne alla rappresentazione delle armi. Volle
Napoleone vedere i gloriosi campi di Marengo, e quivi simulare una
sembianza di battaglia. Rizzossi un arco trionfale sulla porta
d'Alessandria per a Marengo con gli emblemi delle Italiche, Germaniche,
Egiziache vittorie. Sul campo stesso del combattuto Marengo l'imperial
trono s'innalzava. Compariva Napoleone in una carrozza molto splendida,
e tirata da otto cavalli: non conobbe, quanto più grande sarebbe stato,
se in quei medesimi luoghi si fosse rappresentato con modestia e da
soldato; ma la vanità guastava la gloria. Stavano i soldati schierati,
molti memori delle portate fatiche in questi stessi Marenghiani campi:
Francesi, Italiani, Mamalucchi, sì fanti che cavalli: s'accostavano le
guardie nazionali, tutte in abito, ed in bellissimo ordine disposte:
magnifica comparsa poi facevano le guardie d'onore Milanesi venute a
Marengo per onoranza del nuovo signore. Stavano appresso gli ufficiali
di corte, i ciamberlani, le dame, i paggi, e molti generali in abiti
ricchissimi. Splendeva il sole a ciel sereno: i raggi ripercossi, e
rimandati in mille differenti guise da tanti ori, argenti, e ferri
forbiti, facevano una vista mirabile. Una moltitudine innumerevole di
popolo era concorsa: l'Alessandrina pianura risuonava di grida festive,
di nitriti guerrieri, di musica incitatrice. Napoleone glorioso venuto
al trono, e postovi l'imperatrice a sedere, scendeva dall'imperiale
cocchio; e montato a cavallo s'aggirava per le file degli ordinati
soldati. Le grida, gli applausi, i suoni di ogni sorta più vivi e più
spessi sorgevano, ed assordavano l'aria. Terminate la rassegna e la
mostra, ivi a sedersi sull'imperiale seggio ancor egli, essendo in lui
conversi gli occhi della moltitudine, tutti imperatore e vincitore di
Marengo con altissime voci salutandolo. Seguitava la battaglia simulata
fra due opposte schiere, moderando le mosse e gli armeggiamenti Lannes,
che dopo i nuovi ordini imperiali era stato creato maresciallo. Durò
dalle dieci della mattina sino alle sei della sera con diletto
grandissimo di Napoleone; la quale terminata, dispensò a parecchi
soldati o magistrati le insegne della legion d'onore, nuovo allettamento
pe' suoi disegni creato da lui novellamente, siccome quegli che
ottimamente conosceva i repubblicani de' suoi tempi. Sceso poscia dal
trono gettava le fondamenta di una colonna per testimonianza alle future
genti della Marenghiana vittoria: ivi si fermarono le gloriose
ricordanze. Arrivava Napoleone con tutti i grandi della corona il dì sei
maggio a Mezzana-Corte sulla sponda del Po, dove passato il fiume sopra
non so quale estemporaneo Bucintoro, fra le innumerevoli acclamazioni
dei popoli, che sulle due opposte rive tripudiavano, sulle terre del suo
Italico regno entrava. L'aspettavano in solenne pompa, il ricevettero,
il lodarono il prefetto dell'Olona, il guarda-sigilli Melzi, il
maresciallo Jourdan, che stava al governo dei soldati francesi
alloggiati nel regno Italico. Rispose secco in un momento, in cui
massimamente il suo cuore sarebbe dovuto aprirsi, e spander fuori da
tutte le vene fonti d'affezione.

Giunto a Pavia, fece sua stanza nel palazzo del marchese Botta, ad uso
di palazzo imperiale destinandolo, buon grado o malgrado che ne avesse
il marchese, che per verità poco si curava di questo Napoleonico onore.
Guardie d'onore, studenti addobbati, folle di popolo, arazzi spiegati,
fiori sparsi, lumi accesi, applausi infiniti testificavano l'allegrezza
dei Pavesi verso chi gli aveva avaramente, e crudelmente posti a sacco.
Vide volentieri l'università, che l'ebbe con queste parole, per voce del
rettore, e dei professori decani, lodato: «Voi assicuraste due volte
colla vittoria, o sire, la sorte d'Italia, e due volte fra i travagli
delle armi stendeste la mano generosa alle scienze profughe e mal
sicure. Allora fu, che questo tempio sacro alla sapienza venne da voi
rialzato all'antico splendore. Chiamati noi sotto l'ombra del vostro
scudo all'onorato ministero del suo culto, fummo ognora penetrati da
profonda riconoscenza. Il popolo Francese vi pose in capo la corona
imperiale; ma gli Italiani vi prepararono quella degli antichi loro re:
essi ve la offersero, voi l'accettaste, e la fronte piena d'alti
pensieri si fregierà di un duplice diadema. Questo è l'istante, che apre
libero il campo alla nostra gratitudine, e che ci guida a depositare a'
vostri piedi l'omaggio solenne della nostra comune esultazione. Voi, cui
circondano le pacifiche non meno, che le guerriere virtù, accogliete il
rispettoso nostro discorso, e vogliate esserci padre, e nume tutelare.
Apprenda da voi la posterità, che il genio delle armi unito a quello
delle scienze e delle arti forma la felicità delle nazioni. Venite
adunque fra noi, benefico e magnanimo eroe: per voi si diffonderanno
vieppiù tutte le fonti del sapere. Già l'Italia, l'illustre patria de'
Virgili, de' Galilei, de' Raffaelli ingrandisce le sue speranze sotto i
potenti vostri auspicj. Il cielo vi formò per le grandi cose, e poichè
tutto vi diede, vi conceda ancor lunghi e sereni giorni, onde compiere
l'opera della vostra beneficenza, e gli alti destini, che ci avete
preparati». Io ho voluto riferire questo discorso elogistico
dell'università di Pavia, perchè, sebbene del tutto non sia purgato, è
nondimeno a comparazione delle laide e deformi Italiane scritture di
quei tempi, limpido e puro di parole, e di stile non isconveniente al
soggetto.

Fu magnifico l'ingresso di Napoleone in Milano. Entrava per la porta
Ticinese, a cui fu dato nome di Marengo. Gli appresentarono i municipali
le chiavi posate sopra un bacile d'oro. Dissero, essere chiavi della
fedel Milano; i cuori aversegli già da lungo tempo acquistati. Rispose,
serbassero le chiavi; credere, amarlo i Milanesi, credessero, lui
amargli. Pervenuto, traendo e gridando lietissimamente una foltissima
calca di popolo, al Duomo, il cardinal Caprara, arcivescovo, fattosegli
incontro sulla soglia, giurava rispetto, fedeltà, obbedienza e
sommessione, augurava conservazione di sì gran sovrano, invocava
gl'incliti protettori della magnifica città Ambrogio e Carlo, acciocchè
a lui, ed a tutta la sua famiglia salute piena, e contentezza perenne
dessero. Terminate le cerimonie del tempio, il palazzo dei duchi ornato
a festa, e tutto esultante per l'acquistata grandezza accoglieva il
novello re.

Ed ecco che, saputo ch'era andato a Milano per la corona, il venivano a
trovare i deputati dell'Italiche e dell'estere città. Vennevi Lucchesini
portatore dei Prussiani onori, e delle Prussiane arti: recava da parte
del re Federigo l'aquila nera, e l'aquila rossa a Napoleone:
fregiatosene il sire, compariva con loro al cospetto de' suoi schierati
soldati. Queste cose si facevano per pungere l'Austria, perchè a questo
tempo il re Federigo, a ciò confortato da Lucchesini e da Hagwitz, si
era risoluto, con quale prudenza e felicità il mondo stupidito se l'ha
veduto, a secondare in tutto e per tutto i disegni di Napoleone
imperatore. Vennevi Cetto, inviato di Baviera, Beust, inviato
dell'arcicancelliere dell'impero Germanico, Alberg mandato da Baden,
Benvenuti balì mandato dall'ordine di Malta: mandovvi la montagnosa
Vallesia il landamanno Augustini: mandovvi l'adusta Spagna il principe
di Masserano, Lucca un Cotenna ed un Belluomini, Toscana un principe
Corsini ed un Vittorio Fossombroni: tutti venivano ad onoranza, ed a
raccomandazione appresso al potente e temuto signore.

Maggior materia era sotto i deputati della Ligure repubblica. Aveva
mandato il senato Genovese Durazzo doge, cardinale Spina arcivescovo,
Carbonara, Roggieri, Maghella, Fravega, Balbi, Maglione, Delarue,
Scassi, senatori. A loro maggiori carezze, più squisiti onori si
facevano. Studiavansi il ministro Marescalchi, ed il cardinale Caprara a
soddisfar loro con mense, con udienze, con complimenti. Le medesime
gentilezze usavano i ministri di Francia: ad ogni piè sospinto veniva
dato dell'altezza serenissima al doge, e di ambasciatori straordinari ai
senatori. Il signore stesso sempre gli guardava con viso benigno, e si
allargava con loro in melliflue parole. Brevemente, fra tanto
festeggiare non erano i Liguri legati la minor parte della comune
allegrezza. Le quali cose considerando coloro, che la natura di
Napoleone non conoscevano, chiamavano i Liguri fra tutti gli uomini
felicissimi, e felicissime sorti argomentavano per la piccola
repubblica. Ma quelli a cui era noto l'umore, stimavano che vi fosse
sotto qualche disegno, e dubitavano di qualche mal tratto. I Liguri
legati stessi, quelli almeno che non erano nella trama, perciocchè
alcuni vi erano, di tanti onori ed accattamenti si maravigliavano, e gli
animi non avevano del tutto sgombri da timore. Ammessi all'udienza del
signore, il videro sereno e lieto. Con esso lui dell'acquistato imperio
si rallegrarono, il commercio della prediletta Liguria instaurasse,
supplicarono. Rispose umanamente, conoscere l'amore dei Liguri, sapere
aver soccorso gli eserciti di Francia in tempi difficili; non isfuggirli
le angustie loro; prenderebbe la spada e gli difenderebbe: conoscere
l'affezione del doge, vederlo volentieri, veder volentieri con lui i
Liguri senatori: anderebbe a Genova; senza guardie come fra amici
v'anderebbe. Dopo l'udienza furono veduti ed accarezzati
dall'imperatrice, e da Elisa principessa, sorella che era di Napoleone,
sposata ad un Baciocchi, creato principe anch'egli. Tutti mostravano
dolce viso ai Liguri legati nella Napoleonica corte.

Presa in Monza la ferrea corona, e non senza solenne pompa a Milano
trasportata, si apriva l'adito all'incoronazione. La domenica ventisei
di maggio, essendo il tempo bello, ed il sole lucidissimo, s'incoronava
il re. Precedevano Giuseppina imperatrice, Elisa principessa in abiti
ricchissimi; ambe risplendevano di diamanti, dei quali in Italia meno
che in qualunque altro paese avrebbero dovuto far mostra. Seguitava
Napoleone portando la corona imperiale in capo, quella del regno, lo
scettro, e la mano di giustizia in pugno, il manto reale, di cui i due
grandi scudieri sostenevano lo strascico, in dosso. L'accompagnavano
uscieri, araldi, paggi, ajutanti, mastri di cerimonie ordinari, mastro
grande di cerimonie, ciamberlani, scudieri pomposissimi. Sette dame
ricchissimamente addobbate portavano le offerte; ad esse vicini con gli
onori di Carlomagno, d'Italia, e dell'imperio procedevano i grandi
ufficiali di Francia e d'Italia, e i presidenti dei tre collegi
elettorali del regno. Ministri, consiglieri, generali accrescevano la
risplendente comitiva. Ed ecco Caprara cardinale affaccendatissimo, e
rispettoso in viso, col baldacchino, e col clero accostarsi al signore,
e sino al santuario accompagnarlo. Non so se alcuno in questo punto
pensasse, avere da questo medesimo tempio Ambrogio santo rigettato
Teodosio tinto del sangue dei Tessalonici; ma i prelati moderni non la
guardavano così al minuto con Napoleone. Sedè Napoleone sul trono, il
cardinale benediceva gli ornamenti regj. Saliva il re all'altare, e
presasi la corona, ed in capo postolasi, disse queste parole, che fecero
far le maraviglie agli adulatori, cioè a tutta una generazione: _Dio me
la diede, guai a chi la tocca_. Le divote volte in quel mentre
risuonavano di grida unanimi d'allegrezza. Incoronato, givasi a sedere
sopra un magnifico trono alzato all'altro capo della navata. I ministri,
i cortigiani, i magistrati, i guerrieri l'attorniavano. Le dame
specialmente, in acconce gallerìe sedute, facevano bellissima mostra.
Sedeva sopra uno scanno a destra Eugenio vicerè, figliuolo adottivo. A
lui siccome a quello a cui doveva restare la suprema autorità, già
guardavano graziosamente i circostanti. Onorato e speciale luogo ebbero
nell'imperial tribuna il doge, ed i senatori Liguri; stavano con loro
quaranta dame bellissime e pomposissime. Giuseppina ed Elisa in una
particolar tribuna risplendevano. Le volte, le pareti, le colonne sotto
ricchissimi drappi si celavano, e con cortine di velo, con frange d'oro,
con festoni di seta s'adornavano. Grande, magnifica, e maravigliosa
scena fu questa, degna veramente della superba Milano. Cantossi la
solenne messa, giurò Napoleone; ad alta voce dagli araldi gridossi:
«Napoleone primo imperatore dei Francesi, e re d'Italia è incoronato,
consecrato, e intronizzato; viva l'imperatore e re». Le ultime parole
ripeterono gli astanti con vivissime acclamazioni tre volte. Con questo
splendore, e con quel di Parigi oscurò e contaminò Buonaparte tutte le
sue Italiane glorie; conciossiachè a colui, che od in pace, od in
guerra, non per la patria, ma per lui s'affatica, anzi questo
nell'abbominevole suo animo si propone, di servirsi dei servigj fatti a
lei per soggettarla, e porla al giogo, il mondo e Dio faran giustizia;
sono queste azioni scelerate, non gloriose. Se piacquero all'età, dico,
che l'età fu vile. Terminata la incoronazione andò il solenne corteggio
a cantar l'inno ambrosiano nell'ambrosiana chiesa. La sera, Milano tutta
festeggiava: fuochi copiosissimi s'accesero, razzi innumerevoli si
trassero, un pallone aereostatico andava al cielo; in ogni parte canti,
suoni, balli, tripudj, allegrezze. A veder tante pompe si facevano
concetti d'eternità; già gli statuali si adagiavano giocondamente sui
seggi loro.

Mentre con lusinghe e con onori s'intrattenevano in Milano il doge, ed i
Liguri legati, per un concerto con gli aderenti più fidi, un empio fatto
si tramava. Sollevava Napoleone a cose nuove la travagliata Liguria. Vi
si spargevano prima parole, poi aperti discorsi intorno alla necessità
dell'unione con Francia. Questo avevano significato le parole di
Napoleone, quando pochi giorni prima favellando al suo senato in Parigi
aveva detto, nissuna nuova provincia dover essere aggiunta al suo
impero. Allegavasi per suggestione e comandamento di lui da uomini
prezzolati nelle Liguri province, allora essere stata perduta la
independenza, quando fu fatta la rivoluzione; d'allora in poi essere
stata sotto diversi nomi, e reggimenti diversi Genova serva; aver lo
stato più pesi, che portar possa da se; potergli portare facilmente
congiunto con Francia; sperarsi invano che il potente non manomettesse
il debole; di ciò manifeste testimonianze aver dato l'Austria, che venne
come amica, la Francia come alleata; ripugnare la natura umana, sempre
superba, ai moderati desiderj, nè la giustizia regnare in chi troppo
può; essere cangiate le sorti d'Europa; preponderare oltre modo la
Francia, già abbracciare stringere da ogni parte pel Piemonte unito, e
pell'Italico regno obbediente l'esile Liguria; che starsi a fare, che
non si domanda l'unione a Francia! Giacchè non più si può comandare da
se, savio consiglio essere il comandare con altrui; le umili Genovesi
insegne non rispettarsi sui mari dai barbari buttati fuori dalle caverne
Africane, rispettarsi le Francesi, i Napoleonici segni avere a render
sicuri i Liguri navilj; così una sola deliberazione politica essere per
fare ciò che le antiche armi della repubblica più non potevano. A queste
parole si aggiungevano le adulazioni sulla felice condizione di esser
posti al freno di Napoleone eroe. Le giurisdizioni domandavano l'unione
con Francia, supplicava il senato Napoleone, la decretasse.

Avendo le arti e i comandamenti del signore di Francia e d'Italia
sortito l'effetto loro, acciocchè dai Genovesi s'implorasse quello, che
l'imperatore aveva ordinato che implorassero, comparivano al suo
cospetto in Milano il dì quattro giugno i Liguri legati. Girolamo
Durazzo doge, serbato dai cieli a veder ii fine della sua nobil patria,
ed al quale erano state celate le arti usate in Liguria, dopochè egli
era venuto a Milano, tutto pallido e sgomentato in cotal guisa orava:
«Portano i Liguri legati ai piedi di Vostra Maestà Imperiale e Reale i
voti del senato e del popolo Ligure. Prendendo il carico di rigenerar
questo popolo, voi vi addossate anche quello di farlo felice. A questo
solo il possono condurre la sapienza ed il valor vostro. Le mutazioni
introdotte nei popoli vicini, da loro intieramente segregandoci, rendono
la condizione nostra infelice, e necessariamente richieggono la nostra
unione con questa Francia, che voi tanto glorificate. Questi sono i
desiderj del popolo Ligure, questi ei manda ad esprimere all'augusto
cospetto vostro, questi per noi vi prega di esaudire. Le ragioni che a
questa deliberazione ci muovono, pruovano all'Europa, ch'ella non è
l'effetto di alcun impulso straniero, ma bensì il necessario
risultamento della nostra condizione presente. Degnatevi, o Sire, udire
benignamente la voce di un popolo, che nel tempi più difficoltosi sempre
si mostrò affezionato alla Francia: unite all'imperio vostro questa
Liguria, primo campo delle vostre vittorie, primo grado del trono, sopra
il quale vi siete per la salute di tutte le civili società seduto.
Siate, supplichiamovene, verso di noi tanto benigno, che consentiate a
darci la felicità, che dall'esser vostri sudditi deriva: nè più devoti,
nè più fedeli potrebbe la Maestà Vostra trovarne.»

Dettesi queste umili parole dal miserando doge, e porti i suffragi del
Ligure popolo al signore, rispondeva Napoleone: essere da lungo tempo
venuto a parte delle faccende del Liguri, a buon fine sempre averle
indirizzate; essersi accorto, che per loro era impossibile, che qualche
cosa degna dei padri loro facessero: l'avara Inghilterra chiudere a
piacer suo i porti, infestar i mari, visitar le navi: le Africane rapine
andare ogni ora più crescendo: essere servitù nell'independenza Ligure:
essere necessità ai Liguri di unirsi ad un popolo potente: adempirebbe i
loro desiderj, gli unirebbe al suo gran popolo volentieri, memore dei
servigi prestati: tornassero nella loro patria: visiterebbegli fra
breve, suggellerebbe la felice unione in Genova.

Lessersi i voti. A cagione che la Liguria non ha forza sufficiente per
mantenere la sua independenza, che gl'Inglesi non riconoscono la
repubblica, che chiuso è il mare dai Barbari, la terra dalle dogane,
supplicare il senato all'imperatore e re, la Liguria al suo impero
unisse. Seguitavano le condizioni: si soddisfacesse dallo stato ai
creditori Liguri, come a quei di Francia: si conservasse il porto franco
di Genova; nell'accatastare si avesse riguardo alla sterilità delle
terre Liguri, ed al caro delle opere; si togliessero le dogane e le
barriere tra la Francia e la Liguria; si descrivessero i soldati
solamente all'uso di mare; si regolassero per modo i dazi sugli introiti
e sulle tratte, che i proventi e le manifatture della Liguria ne
sentissero beneficio, le cause sì civili che criminali si terminassero
in Genova, od in uno dei dipartimenti più vicini dell'impero; gli
acquistatori dei beni nazionali fossero indenni e sicuri nel possesso, e
nella piena proprietà di loro. Avviluppossi Napoleone, rispondendo,
nelle ambagi, perchè dei patti della dedizione solo voleva osservar
quelli ch'ei voleva, non quelli che volevano i Liguri. Intanto
desiderando mitigare l'acerbità del fatto con un uomo di temperata e
prudente natura, mandava a Genova il principe Lebrun, arcitesoriere
dell'impero, perchè lo stato nuovo ordinasse a seconda delle leggi
Francesi.

Restava, che con le feste si celebrasse la perduta patria. Arrivava
Napoleone il dì trenta di giugno a Genova, tratto dal diletto di udire
le Genovesi adulazioni, e di vedere popoli servi. Tutta la città si
muoveva per vederlo. Veniva dalla Polcevera: l'incontrava la cavallerìa
a Campo Marone; le campane suonavano a gloria, i cannoni rimbombavano,
le fregate e i legni minori sorti nel porto esultando mareggiavano: chi
traeva alle ambizioni si componeva nei sembianti; le Genovesi donne
attentamente il guardavano per giudicare di che cosa sapesse; del popolo
chi si maravigliava, chi diceva arguzie da marinaro. Succedevano le
adulazioni dei magnati. Michel Angelo Cambiaso, creato sindaco da
Lebrun, si appresentava con le chiavi: Genova superba per sito, essere
ora superba per destino, disse: darsi ad un eroe: avere gelosamente e
per molti secoli custodito la sua libertà: di ciò pregiarsi; ma ora
molto più pregiarsi, le chiavi della città regina in mano di colui
rimettendo, che savio e potente più di ogni altro valeva a
conservargliela intatta e salva. Rispose benignamente, restituì le
chiavi. Spina, cardinale arcivescovo, sulla soglia della chiesa di San
Teodoro aspettandolo, col sacro turibolo l'incensava. Luigi Corvetto
presidente del consiglio generale, venuto alla presenza del signore,
favellava, avere lui liberato il buon popolo di Genova, averlo in
figliuolo adottato; essere quivi in mezzo a' suoi figliuoli, dimenticare
il Genovese popolo le passate calamità; ogni altro affetto in questo
solo affetto comporsi dello amore dell'imperatore e re; per questo
essere i Genovesi sudditi deditissimi; per questo i doveri più sacri
affortificarsi dalle affezioni più dolci: non isdegnasse, pregava, la
semplicità delle parole loro: eroe, sovrano, e padre, in buon grado
accettasse il tributo dell'ammirazione, dell'amore, e della fedeltà
loro. Poscia a nome proprio, e di Bartolomeo Boccardi, uomo di non
mediocre ingegno, e stato sempre dedito alla parte Francese, Luigi
Corvetto medesimo pregava felicità per la sua patria, chiamando
Napoleone più grande di Cesare, e confortandolo a cambiare l'antica
cesarea divisa in quest'altra _venni, vidi, felicitai_. Piacque la
squisita lusinga: Luigi Corvetto fu creato consiglier di stato. Bene ne
occorse ai Liguri, che, perduto l'antico nome, trovarono in Corvetto chi
affettuosamente gli amava, chi prudentemente gli consigliava, e chi
utilmente appresso al signor del mondo gli avvocava, non a sdegni, nè ad
antichi rancori in tempi tanto solenni servendo, ma solamente al
benefizio dei suoi compatriotti risguardando.

Queste smodate lodi a viso scoperto con tanta franchezza si ascoltava
Napoleone, ch'io non so qual fronte fosse la sua. Alloggiava al palazzo
Doria a quest'uopo diligentissimamente preparato. Terminati i
complimenti si veniva alle feste. Incominciossi dal mare. Faceva
magnifica mostra un tempio, che di Nettuno, o Panteon marittimo
chiamarono: eretto sopra un tavolato di navi, senza però che ciò
apparisse, perciocchè pareva fondato sopra un verdeggiante suolo, se ne
andava sulle marine acque per forza d'ignoti ordigni galleggiando. Una
gran cupola aveva per colmo, sedici colonne d'ordine Jonico il
sostentavano, le immagini dei marini Dei l'adornavano. Sulle due facce
interna ed esterna della cupola si leggeva una inscrizione, parto del
padre Solari, la quale significava, i Liguri augurare a Napoleone
imperatore e re l'imperio del mare, come già si aveva quello della
terra. Opera bella ed ingegnosa fu questo tempio: sopra di lei, condotta
che fu in mezzo al porto, sedeva Napoleone, i circostanti festeggiamenti
rimirando. Quattro isolette, che rappresentavano quattro giardini cinesi
adorni di palme, cedri, limoni, melaranci, melagrani, rinfrescati da
zampilli di acque limpidissime, coperti da una cupola listata di più
colori, ed adornata da quantità mirabile di campanelli, che messi in
moto dal continuo aggirarsi della macchina con dolce concento
tintinnavano continuamente, givano con morbide giravolte ora qua, ora là
a galla ondeggiandosi. Un numero innumerabile di battelli, burchietti,
schifetti, liuti, gondolette in varie guise ed elegantemente ornate,
facevano che alla instabilità del mare nuova instabilità di barche e di
vele si aggiungesse, e mille variati aspetti ad ogni momento agli occhi
dei risguardanti si raffigurassero. S'apriva la regata, o vogliam dire,
gara di navi in numero di sei: partite dalle tre porte di mare, due da
ciascuna con velocità maravigliosa contesero della vittoria, vinse la
bandiera del ponte di Spinola: gli applausi e le grida festose montavano
ai cielo. Fecesi notte intanto: diventò più bello lo spettacolo. Lumiere
di cristallo, che fra le colonne del galleggiante tempio stavano
sospese, subitamente accese gittavano sulle incostanti acque, che con
lampi di vario colore gli rimandavano, raggi di abbondante e
rallegratrice luce. Le cupolette dei giardini anch'esse illuminate
consentivano con la sopravvanzante luce del tempio. Fuochi in aria a
forma di stelle, secondochè insegna Vitruvio, si volteggiavano intorno
al tempio, ed ai quattro giardini cinesi. Le agili barchette, poste
fuori anch'esse i lumi loro, facevano apparire giri, guizzi, e baleni,
che con la piena luce dei tempio, e delle isolette da un canto si
confondevano, dall'altro a chi d'in sulle spiagge di lontano mirava,
l'oscurità della notte con la immagine d'innumerevoli e vaganti stelle
tempestavano. Alla dolce vista consuonava un soave ascoltare:
imperciocchè dalle cinesi isolette uscivano suoni e concenti
giocondissimi mandati fuori dai petti, e dagli appositi strumenti di
musici vestiti alla Cinese. Al tempo stesso le mura della città
risplendevano per una immensa luminaria; i palazzi e le case quasi tutte
avevano anch'esse i lumi accesi a festa: tutto l'anfiteatro della
superba Genova con maraviglioso splendore rispondeva ai marini
splendori. La torre della Lanterna accesasi ad un tratto da innumerevoli
lumi con bel disegno ordinati, trasse a se gli occhi dei festeggianti
spettatori, che con intense grida applaudirono. Accrebbe la maraviglia,
che bentosto prese a buttar fuoco dalla cima a guisa di volcano, come se
veramente volcano fosse. Nè i fuochi artificiati furono la parte meno
notabile del magnifico rallegramento; poichè due bellissimi tempj di
fuoco sorsero improvvisamente dalle due punte dei moli, ed altri fuochi
con mirabile artificio apprestati, ora si tuffavano nelle acque, ed ora
più vivi che prima fossero, ne uscivano. Così fra il molle ondeggiare,
il vago risplendere, il giocondo suonare, nasceva una scena, a cui niuna
può esser pari in dolcezza ed in grandezza.

Stette in queste allegrezze Napoleone sino alle dieci della sera: poi
sceso dal marino tempio se ne giva al magnifico palazzo di Girolamo
Durazzo, dove trovò nuovi e squisiti onori, nuova e squisita adulazione.
Festeggiavano con maggior pompa la servitù, che mai avessero festeggiato
a libertà, il che non dee recar maraviglia; la libertà piace a tutti, e
nissuno vuol piacere a lei; il dispotismo piace a nissuno, e tutti
vogliono piacere a lui. Diessi un festino sontuoso a Napoleone nel
palazzo pubblico in quel luogo stesso, dove i maggiori della spenta
repubblica tante volte prudentemente e fortemente sulle più gravi
faccende di lei avevano deliberato. Intervennero Giuseppina di Francia,
Elisa di Piombino. Fu allegra la festa; se mescolata di antiche
ricordanze, io non lo so. Cantossi l'inno Ambrosiano nella cattedrale di
San Lorenzo. Quivi giurarono nelle parole dell'imperatore l'arcivescovo,
ed i vescovi. Poi dispensò le insegne della legion d'onore, più eccelse
a Durazzo, Cambiaso, Celesia, Corvetto, Serra, Cattaneo, arcivescovo
Spina: presentò con dorate gioje Cambiaso, Durazzo, Corvetto, Gentile:
questi furono i premj, e i segni della spenta patria. Comandò che si
restituisse la statua d'Andrea Doria; quest'affronto mancava ad Andrea
atterrato dai giacobini, rinnalzato da Napoleone. Contento allo aver
fatti servi, e veduto comportarsi da servi i Genovesi, se ne tornava
Napoleone per Torino ai suo imperiale Parigi. Rimase al governo di
Genova il principe Lebrun, il quale temperatamente secondo la natura sua
procedendo, diede norma allo stato nuovo riducendolo alla forma di
Francia: ordinò con prediletto pensiero l'università degli studj; vedeva
i professori volentieri: tra il bene operare ed il buon ricompensare
cresceva il zelo ed in chi ammaestrava, ed in chi era ammaestrato;
l'università Genovese diventò fiorente. Passarono alcuni mesi tra
l'introduzione degli ordini Francesi, e la unione alla Francia:
finalmente orando Regnault di San Giovanni d'Angely, decretava il dì
quattro ottobre il senato, che i territorj Genovesi fossero uniti al
territorio di Francia. A questo modo finì uno dei più antichi stati, non
che d'Italia, d'Europa. Gl'innorpellamenti non mancarono nella bocca di
Regnault: fra tutti fu lepidissimo il suo trovato, che la Francia
distruggeva l'independenza di Genova, questo appunto significavano le
sue parole, perchè l'Inghilterra non la rispettava. Fu lieto il
principio; per la potenza di Napoleone tornarono in patria i Genovesi,
schiavi della crudele Africa.

La repubblica di Lucca anch'essa periva: così si verificava il detto di
Napoleone, che le monarchìe non potevano vincere le repubbliche. Diè
primieramente Piombino ad Elisa sorella, poi Lucca e Piombino a
Bacciocchi ed Elisa. Fossevi in Lucca un senato: soldati non vi si
scrivessero, ma tutti fossero soldati; tassa e tributo nissuno vi si
pagasse se non per legge. Le cariche, salve le giudiziali, non si
potessero conferire se non ai Lucchesi; principi di Lucca fossero
Bacciocchi ed Elisa: nella nobile Lucca Bacciocchi dominava.

Animato dall'osare, viemmaggiormente osava Napoleone: avviava Parma
all'unione con Francia: le leggi Francesi vi promulgava; già le
ambizioni Parmigiane si voltavano alla fonte Parigina, Moreau di san
Mery secondava l'imperatore piuttosto per piacere a lui, che a se,
perchè amava il comandare assai più che a modesto ed attempato uomo si
convenisse; ma dolce era il cielo, dolci gli abitatori, dolce il
comandare.

Mentre con trionfale pompa scorreva per l'Italia Napoleone, e
gl'Italiani stati rovinavano, tornava nella sua Romana sede il pontefice
Pio. Parlò agli adunati cardinali delle cose fatte e delle cose sperate,
molto beneficio per la religione, e per la Romana chiesa dal suo
Parigino viaggio promettendosi. Ordinate le faccende religiose in
Francia, aveva desiderato di compor quelle, che più vicino a lui avevano
romoreggiato, e gettato anzi larghe radici in tutte le parti d'Italia:
quest'erano le differenze tra la santa sede, e Ricci vescovo di Pistoja.
Aveva papa Pio sesto gravemente censurato con la sua bolla _auctorem
fidei_ le proposizioni del sinodo di Pistoja, massimamente l'ottuagesima
quinta; colla quale il sinodo dichiarava aderirsi alle quattro
proposizioni del clero di Francia. Quando poi la Toscana se ne viveva
sotto la reggenza imperiale fondatavi dai Tedeschi, era stato il Ricci
confinato nella sua villa dì Rignano. L'arcivescovo di Firenze
instantemente il confortava, e gravemente anche l'ammoniva, si
ritratasse. Il vescovo, stando sui generali, affermava, non avere mai
avuto le opinioni, che uomini perversi gl'imputavano: essere di mente,
come di cuore e di coscienza cattolico. Frattanto morto Pio sesto, ed
assunto al trono pontificale Pio settimo, scriveva, per mezzo del
prosegretario Consalvi, nuove lettere al nuovo pontefice, protestando
della sua riverenza verso l'autorità pontificia, fondata, come diceva,
su quella sacra scrittura, della sua adesione a tutte le verità
cattoliche, e dell'integrità della sua fede ortodossa. Queste cose
scriveva parte perchè, salva qualche restrizione mentale in lui, erano
vere, parte perchè la reggenza di Toscana, che procedeva molto
vivamente, lo spaventava: erano tempi molto diversi dai Leopoldiani. Non
soddisfecero le lettere. Gli si scrisse da Roma, o in modo formale e
speciale gli errori del sinodo ritrattasse, o il papa rigorosamente
procederebbe contro di lui con le censure. Gli fe' poi sentire da
Toscana, che se non accedesse senza indugio alcuno alle domande di Roma,
sarebbe stato portato in castel Sant'Angelo, per modo che non vedrebbe
più lume. Quest'erano le intimazioni della reggenza. In su questo,
vennero novellamente i Francesi ad occupar la Toscana. Compose allora il
vescovo una nuova e più lunga apologìa, nella quale ad una ad una
esaminando le ottantacinque proposizioni, le affermava ortodosse. Sulla
ottuagesimaquinta, e rispetto a quanto s'attiene alla dichiarazione del
clero di Francia, protestava, non credere aver fatto ingiuria a
quell'illustre chiesa, la sua dottrina accettando: avere il gran
Bossuet, al quale la comunione cattolica per tanti segnalati servigj
restava obbligata, i quattro articoli difesi e mantenuti: non avergli
lui nel suo sinodo, come dogmi addottati, ma come un mezzo potente e
sacro per mostrare i limiti, che dividevano le due potestà ecclesiastica
e secolare.

Rispetto poi alle regole di disciplina, essersi creduto, come vescovo,
asseverava, tenuto a riformar gli abusi: di ciò averne fatto il concilio
di Trento espresso precetto. Le medesime protestazioni di obbedienza e
di fede fece il vescovo, e le mandò al pontefice, quando passando per
Firenze, se n'andava in Francia all'incoronazione. Ma papa Pio, tornando
da Parigi, e ripassando per la capitale della Toscana, fece sapere a
Ricci, che l'abbraccerebbe volentieri, se prima volesse sottoscrivere
una dichiarazione. Voleva, che il Pistojese vescovo dichiarasse,
accettare con rispetto puramente, e semplicemente di cuore e di spirito
tutte le constituzioni apostoliche emanate dalla santa sede contro gli
errori di Baius, Giansenio, Quesnel, e loro discepoli dai tempi di Pio
quinto sino ai presenti, e specialmente la bolla dogmatica _auctorem
fidei_, che dannava le ottantacinque proposizioni estratte dal sinodo
Pistojese; ripruovare e dannare tutte e singole le proposizioni
sopradette nella conformità e significati espressi nella bolla;
desiderare, perchè fosse lo scandalo corretto, che la dichiarazione si
rendesse pubblica; protestare finalmente voler vivere e morire nella
fede della chiesa cattolica, apostolica, romana con sommessione
perfetta, ed obbedienza vera a nostro signore papa Pio settimo, ed a'
suoi successori, vicari di Gesù Cristo. Ricci stretto dai tempi, e
temendo che il rifiuto gli fosse apposto a pertinacia, sottoscrisse.
L'aspettavano il papa, e la regina nel palazzo Pitti: il pontefice
gittatosegli al collo, l'abbracciava, e fattolo sedere accanto a lui,
molto l'accarezzava, della presa risoluzione con esimie espressioni
commendandolo. Passate le prime caldezze, consegnava il vescovo nelle
mani del pontefice uno scritto, l'importanza del quale era, che per
mostrare la obbedienza e sommessione sua alla santa sede aveva
volentieri sottoscritto; ma stantechè tutta la sua coscienza riandando,
nissuna altra dottrina vi trovava, se non quella che era definita dalla
bolla di Pio sesto, per obbligo di verità e di coscienza era obbligato
dichiarare, come dichiarava, non mai avere o creduto, o sostenuto le
enunziate proposizioni nel senso eretico giustamente condannato dalla
bolla, avendo sempre avuto l'intenzione, che se qualche espressione
equivoca fosse trascorsa, questa incontanente fosse ritrattata e
corretta. Pregare conseguentemente, soggiungeva, il pontefice,
accettasse benignamente questa rispettosa dichiarazione, come
un'effusione del suo cuore. Appruovò Pio questa seconda dichiarazione,
affermando, non dubitare della purezza cattolica di Ricci, e ne farebbe
fede al concistoro. Ciò detto, con nuove dimostrazioni accarezzava il
vescovo. Scrissegli Pio da Roma lunghe ed affettuose lettere: avere
Ricci, affermava, per aver posposto l'amor proprio alla verità, ed alla
cristiana obbedienza, ad essere tramandato con gloria alla posterità, ed
il suo nome collocato fra quello degli uomini più illustri. Il lodò
nell'allocuzione al concistoro; ma il governo Toscano non lasciò stampar
l'allocuzione, perchè non si riaccendessero i fuochi spenti, e le
disputazioni non si rinnovassero. A questo modo Pio, vittorioso di
Napoleone, trionfava anche di Ricci, due avversari potenti, uno per la
forza dell'armi, l'altro per la forza delle opinioni. Tuttavia vi
rimasero in Italia semi e radici contrarie. I discepoli di Ricci non
solamente perseveravano nelle medesime sentenze, ma predicavano, Ricci
non avere apertamente ritrattato. In fatti egli è certo, che il vescovo
nelle sue giustificazioni per tal modo, sebbene copertamente, favellò,
che facilmente si scorgeva, nodrire opinione avversa all'infallibilità
del papa, ed a quella pienezza di potestà, che i curialisti di Roma
attribuiscono al Romano seggio.

Mentre pel concordato con Francia aveva il pontefice dato sesto alle
faccende religiose di quel regno, un altro pensiero mandava ad effetto,
dal quale confidava che dovesse risultare molto benefizio alla sedia
apostolica; e siccome per l'accordo fatto con Napoleone aveva posto
freno alla setta filosofica, così con un'altra deliberazione voleva
medicare dalle radici il male, che credeva provvenire dalla setta che
l'impugnava, pretendendo le massime e gli usi della chiesa primitiva. La
giurisdizione dà ai pontefici Romani nei paesi esteri la potenza
esterna, le informazioni e le insinuazioni la segreta. In quest'ultima
bisogna molto efficace opera prestavano i gesuiti, perciocchè dall'una
parte in virtù degli ordini loro ogni cosa che spiassero, facevano con
diligenti informazioni nota al loro generale in Roma, e questi al
governo pontificio; dall'altra consigliando i principi, ed ammaestrando
la gioventù, tiravano e chi reggeva e chi era retto là dove volevano,
soliti a voltar a fini mondani i mezzi della religione. Ordine
potentissimo era questo per comandare ai re ed ai popoli, e che dinota
in chi primamente il concepì, un capo gagliardo, ed una cognizione
profonda delle cose umane. Napoleone stesso col suo disordinato ed
incomposto procedere, non ebbe mai, per farsi padron del mondo, pensiero
così forte qual ebbero un fraticello di Spagna, ed un preticello di
Roma. Adunque i gesuiti, poichè, quantunque spenti, il loro spirito
viveva, gran maestri del saper accomodare i consigli ai tempi, con
sagacità maravigliosa spargevano; per questo appunto esser nate le
rivoluzioni, per questo la rovina dei reali seggi, per questo
imperversare una libertà scapestrata, per questo l'anarchia dissolvere
ogni buon ordine, perchè era stata soppressa la società loro; per questo
la filosofica e la giansenistica piena avere tutto allagato: a sì
potenti e sì ostinati nemici i re soli senza il papa, nè il papa solo
senza i re, nemmeno i re ed il papa insieme congiunti non poter
resistere, se non s'accosta l'opera ajutatrice, e tanto efficace dei
gesuiti: sedurre la filosofia gli animi ardenti ed allegri con torre il
freno alle passioni, sedurre il giansenismo gli animi ardenti e rigidi
con un'apparenza di santimonia e di austerità: non esser padroni i re
dell'ammaestrare i giovani a seconda dei pensieri loro, non esser
padrone il papa di piegar uomini male ammaestrati: necessario essere
l'ajuto di coloro, che radici buone sanno porre negli spiriti, e di
quanto gli spiriti concepiscono, e di quanto le mani fanno, possono
essere, e sono diligentemente informati: conspirare il volgo contro i
potenti, doversi accordare i potenti per resistere al volgo; nè un modo
qualunque al grand'uopo poter bastare; richiedersi il più alto, il più
stretto, il più generale: soli a questo fine valere i gesuiti; doversi
loro chiamare ad instaurazione della società sciolta, a salute dei
principi pericolanti, a rannodamento dell'Europa disordinata: o gesuiti,
o rivoluzioni da rivoluzioni; nè altro modo di salvamento trovarsi che
in loro. Queste cose spargevano, come se il mondo non sapesse, ch'eglino
solo allora si facevano i difensori dei sovrani, quando i sovrani si
facevano servi di loro.

Lo spavento è mal consigliero, perchè fa velo al giudizio. Alcuni
principi mossi dall'artifizioso parlare desideravano i gesuiti, non
pensando che per diventar padroni dei popoli, si facevano servi di
altrui. Nè anco in questo vi era sicurezza alcuna, poichè solamente le
monarchìe cattoliche, in cui vivevano i semi e le radici gittate dai
gesuiti, rovinarono per rivoluzioni, non le protestanti, dov'erano
ignote le dottrine e le arti loro. Del resto nissuno più apertamente e
più tenacemente dei gesuiti sostenne la dottrina, che fosse lecito
uccidere certi re. Supplicava il re Ferdinando di Napoli al papa,
acciocchè per ammaestrare la gioventù del suo reame nelle rette e
salutevoli dottrine, come diceva, vi rinstaurasse, siccome già in Russia
aveva fatto, la compagnia di Gesù. Il pontefice facilmente gliene
consentiva; un Gabriello Gruber la ordinava; misera condizione degli
uomini, che non san trovar rimedio ad un eccesso, se non coll'eccesso
contrario. Così fu principiata la risurrezione dei gesuiti dannati da un
papa, e da tutti i re, e fu principiata da un re, attivo cooperatore
della soppressione, e da un papa uscito dai benedettini, nemici acerrimi
dei gesuiti; opera, come strana nel principio, così immensa nel
risultamento. Se ciò fia con utile dell'umana società i nostri nepoti il
vedranno; ma se si debbe giudicare del futuro dal passato, pensieri
sinistri debbono annuvolar la mente degli uomini savj, che amano la
quiete degli stati, l'independenza dei principi, la libertà dei popoli.

Mentre il pontefice s'ingegnava di confermare la potenza novellamente
riacquistata, nuove ferite si apprestavano alla sanguinosa Europa.
L'assunzione di Napoleone al trono imperiale di Francia, aveva sollevato
gli animi di tutti i potentati, e dato loro cagione di temere nuovi
sovvertimenti, e nuova servitù. Solo la Prussia se ne contentava e se ne
rallegrava, perchè credeva, che più stabile fondamento all'ingrandimento
dei suoi stati fosse la nuova potenza di Napoleone, che l'antica
dell'Inghilterra e della Russia. Due cose massimamente si scorgevano
nell'esaltazione ed incoronazione di Napoleone; era la prima, che per
loro si veniva a torre ogni speranza del veder restituiti i Borboni,
l'altra che avendo acquistato l'autorità imperiale, aveva ridotto in
mano sua maggiore forza a far muovere i popoli della Francia dovunque
egli volesse; nè che fosse per usarne moderatamente, da nissuno si
confidava, manco dall'Austria. Oltre a questo si pensava, che non fosse
prudente di dar tempo a Napoleone, onde mettesse radici sul suo imperio.
Si portava opinione, che i repubblicani di Francia, e gli amatori del
nome Borbonico a quell'imperiale capriccio di Napoleone si fossero
risentiti, e divenuti meno inclinati ad ajutarlo, quando si venisse ad
una nuova mossa d'armi. Si conosceva ch'egli non era uomo da non usare
efficacemente la sua fresca potenza per solidarla, e che se gli si desse
tempo, sarebbe stato non che difficile, impossibile il frenarlo. Nè egli
pel desiderio ardentissimo del comandare troppo s'infingeva. Il suo
procedere già era da imperatore d'Occidente. Questo voler significare,
argomentavano, quegl'onori di Carlomagno offerti il giorno
dell'incoronazione tanto a Parigi, quanto a Milano, questo la corona
ferrea dei Lombardi, questo i motti che metteva fuori già fin d'allora,
che l'Italia fosse vassalla del suo impero. Aggiungevansi nella mente
dell'imperatore Alessandro alcune ragioni particolari di tenersi mal
soddisfatto dell'imperator Napoleone, delle quali la principale
consisteva nella uccisione del duca d'Anghienna, giovane di sua età, e
da lui specialmente conosciuto, ed amato. Da questi motivi era sorto
nelle principali potenze d'Europa il desiderio di una nuova collegazione
a difensione comune, ed a conservazione degli antichi stati contro la
Francia, il cui fine era o di accordarsi con Napoleone, se qualche
termine di buona composizione a beneficio dell'independenza dei consueti
sovrani con lui si potesse trovare, o di venire con esso lui al cimento
dell'armi, quando ancora era tenero su quel suo sovrano seggio. Nè
l'Inghilterra mancava a se stessa, non solo per l'antica nimicizia, ma
ancora pel pericolo che pareva sovrastare al cuore stesso del suo stato;
conciossiachè avesse Napoleone raccolto un esercito molto grosso sulle
coste della Picardìa e della Normandìa, minacciando d'invasione i tre
regni. Nè era privo di un sufficiente navilio, avendo allestito, oltre
alla grosse navi di guerra, una quantità considerabile di legni minori.
Secondavano le intenzioni dell'imperatore con calore grandissimo i
popoli di Francia con proferte di denari e di navi. Guglielmo Pitt, che
a questo tempo reggeva i consiglj del re Giorgio, aveva questo moto in
poco concetto, conoscendo, che pel prepotente navilio d'Inghilterra
difficile era l'approdare, più difficile l'acquistare piè stabile
nell'isola, prima che le sorti fossero definite. Ciò non ostante
l'apparato di Francia travagliava la nazione, ed interrompeva i
traffichi. Per la qual cosa intendeva con tutto l'animo a suscitar nuovi
nemici, e ad ordinare una nuova lega contro la Francia. A questo fine, e
già fin del mese d'aprile era stato concluso a Pietroburgo tra la Russia
e l'Inghilterra un accordo, col quale si erano obbligate ad usare i
mezzi più pronti ed efficaci per formare una lega generale, e che per
conseguire quest'intento adunassero cinquecentomila soldati, non
compresi i sussidj d'Inghilterra; il fine fosse d'indurre, o costringere
il governo di Francia alla pace, e ad una condizione in Europa, in cui
nissuno stato preponderasse sopra gli altri; evacuasse Napoleone
l'Annoverese e la settentrionale Germania, rendesse independenti
l'Olanda e la Svizzera, restituisse il re di Sardegna con qualche
accrescimento di territorio, desse sicurezza al re di Napoli, sgombrasse
da tutta Italia, compresa l'isola d'Elba. Già la Svezia e l'Austria
erano entrate in questa lega. Prima però che all'aperta rottura si
venisse, sì per vedere se ancora qualche modo di onesta composizione vi
fosse, e sì per aver comodità di fare i necessarj apprestamenti, e di
dar tempo agli ajuti di Russia di arrivare, si deliberarono gli alleati
a mandare a Parigi il barone di Novosiltzoff, perchè le proposte loro vi
recasse, e di un accordo conforme l'imperator Napoleone sollecitasse.

Già era l'inviato dei confederati giunto a Berlino, quando
sopraggiunsero le novelle dell'unione di Genova all'imperio di Francia;
accidente contrario alle dichiarazioni di Napoleone, ed agli interessi
dell'Austria in Italia. Arrestossi a tale improvvisa notizia
Novosiltzoff, donde, fatto sapere all'imperatore Alessandro il fatto,
era tostamente richiamato a Pietroburgo. Per questo medesimo accidente,
e pel caso di Lucca, che poco dopo si seppe, l'Austria più strettamente
si congiungeva con la Russia. Incominciarono i discorsi politici soliti
a precedere le guerre. Mandò dicendo l'Austria a Napoleone, desiderare
cooperar con la Russia e con l'Inghilterra al fine di un onesto e securo
pacificamento d'Europa: ciò avere desiderato prima della unione di
Genova e di Lucca, ciò ancora e molto più desiderare dopo. A tali
mortificazioni si risentiva Napoleone: rispondeva, poco sperare dalla
Russia, e dall'Inghilterra; l'Austria potere sforzarle a consigli
pacifici, perchè per venir contro Francia dovevano passare pe' suoi
territorj: ma non potersi fidar dell'Austria; armare lei in Polonia,
ingrossare fuor di misura in Italia, empiere il Tirolo di soldati: se
pur pace volesse, tirasse indietro dal Tirolo Italiano e Tedesco i
reggimenti novellamente mandati, cessasse ogni fortificazione nuova;
restituisse al pacifico numero i soldati posti alle stanze nella Stiria,
nella Carintia, nel Friuli, e nei territorj Veneti; dichiarasse
all'Inghilterra, volersene star neutrale.

Da questi discorsi si vedeva, che poca speranza restava di pace; nè
Napoleone era uomo capace di disfare per minacce ciò che aveva fatto, nè
l'Austria si voleva tirar indietro dalle sue risoluzioni, sapendo che
Alessandro già aveva avviato verso i suoi confini due eserciti ciascuno
di cinquanta mila soldati. Insorgeva adunque più vivamente ed a
Napoleone rappresentava il suo desiderio d'amicizia con Francia, di pace
di tutta Europa; ma essersi violato per gli ultimi accidenti in Italia
il trattato di Luneville, promettitore d'independenza per la Italiana
repubblica; essersi con nuove rovine di stati independenti spaventata
l'Italia: non dovere una sola potenza arrogarsi il diritto di regolare
da se gl'interessi delle nazioni con esclusione delle altre; richiedere
la Francia dell'osservazione dei patti; richiederla della dignità e dei
diritti delle altre potenze; offerire a norma delle condizioni stipulate
la concordia, offerirla ora, che con le armi ancora non si contendeva,
offerirla quando già si combattesse, e sempre essere parata a convenire,
salvi i trattati conclusi, e l'independenza delle nazioni.

Seguitarono queste protestazioni altri discorsi sul medesimo andare da
ambe le parti, nei quali e il desiderio di pace, ed il rispetto pei
dritti altrui si pretendevano. Intanto le armi si apprestavano.
L'imperatore di Francia, che con la celerità aveva sempre vinto, vedendo
la nuova lega ordita contro di lui, e la guerra inevitabile, stando
coll'animo riposato dal canto della Prussia, che accecata dalla
cupidigia di avere l'altrui, falsamente giudicava della natura di
Napoleone, ordinò incontanente all'esercito raccolto sulle coste di
Francia verso l'Inghilterra, marciasse in Alemagna, soccorresse alla
Baviera minacciata dall'Austria, ributtasse la forza colla forza. Poco
dopo, descritti nuovi soldati, si avviava egli medesimo verso i campi
d'Alemagna, sapendo quanta mole della guerra fossero il suo nome ed il
suo valore. Dal canto suo l'Austria commetteva all'arciduca Ferdinando,
giovane animosissimo, l'esercito Germanico, dandogli per moderatore
della sua gioventù il generale Mack, nel quale l'imperatore Francesco,
piuttosto per industri parole che per egregi fatti, aveva molta fede.

Dalla parte d'Italia, le condizioni delle cose militari erano le
seguenti. L'Austria, considerato quanta efficacia fosse per avere il
nome dell'arciduca Carlo, lo aveva preposto all'esercito Italico,
schierato sulle rive dell'Adige. I forti passi del Tirolo erano dati in
guardia all'arciduca Giovanni con una grossa schiera congiungitrice dei
due eserciti Germanico ed Italico. Si era fatto disegno, che a queste
forze si accostasse sbarcando in qualche parte d'Italia, un grosso ajuto
di Russi e d'Inglesi, che allora erano raccolti nelle isole di Corfù e
di Malta. Ma Napoleone, contuttochè principal cura avesse delle cose di
Germania, non pretermise quelle d'Italia, e poichè seppe che l'arciduca
Carlo era stato posto al governo della guerra, avendo più fede nella
fortuna di Massena che in quella di Jourdan, surrogava il capitano
Italico al capitano Germanico. Mandava intanto nuovi soldati, per modo
che tra Francesi ed Italiani Massena aveva un esercito fiorito, ed
uguale pel numero all'Alemanno, che sommava circa a ottanta mila
soldati. Stavasi Massena alloggiato sulla destra dell'Adige, pronto a
tentar il passo, come prima fosse dato il segno della battaglia.
L'imperatore di Francia, che in tutte le sue guerre poco curandosi delle
estremità, ed amando le guerre grosse piuttosto che le sparse, badava
sempre al cuore, perchè sapeva che a chi n'andava il cuore, ne andavano
anche le estremità, fece disegno d'ingrossare sull'Adige, con mandarvi
quella parte che sotto Gouvion San Cyr alloggiava nel regno di Napoli.
Il che, perchè con sicurtà potesse eseguire, aveva con sue pratiche, e
per mezzo del marchese del Gallo, ambasciadore del re a Parigi, indotto
Ferdinando a sottoscrivere un trattato di neutralità. S'obbligava per
quest'accordo il re a starsene neutrale durante la presente guerra, a
respingere colla forza ogni tentativo fatto contro la sua neutralità, a
non permettere che alcuna truppa nemica sbarcasse, o ne' suoi regni
entrasse, a non ricettare ne' suoi porti alcuna nave nemica, a non
commettere i suoi soldati, o le sue piazze ad alcun ufficiale o Russo,
od Austriaco, o d'altra potenza nemica, ed in questo capitolo
s'intendessero anche compresi i fuorusciti Francesi; il che
particolarmente accennava al conte Ruggiero di Damas. Dalla parte sua
Napoleone, fidandosi, come si spiegava, nelle obbligazioni e promesse
del re, consentiva a sgombrar il regno dei suoi soldati, ed a consegnare
i luoghi occupati agli ufficiali Napolitani. Si obbligava oltre a ciò, e
prometteva di conoscere, ed aver per neutrale nella guerra presente, il
regno delle due Sicilie. San Cyr marciava verso l'Adige.

I discorsi secondo il solito precedevano le armi, moderati dal canto
dell'arciduca, più vivi da quello del capitano Napoleonico. Quando poi
già le armi suonavano in Alemagna, e già la Baviera era invasa dagli
Austriaci, il principe Eugenio, vicerè d'Italia, pubblicava con parole
aspre contro l'Austria la guerra. Avere Vienna contro il popolo
Francese, contro il popolo Italiano risoluto la guerra: la casa
d'Austria, prevalendosi della nobile sicurezza e confidenza di Napoleone
imperatore, invadere i territorj di un principe dell'impero, solo perchè
fedele ai trattati, amico ed alleato si era conservato all'imperator dei
Francesi, ed al re d'Italia: ma non dubitassero, continuava dicendo,
Napoleone guidare gli eserciti; sopra di loro lui riposarsi, sopra di
lui riposassero, combattere a favor suo Iddio sempre terribile agli
spergiuri; combattere la sua gloria, la sua mente, la sua giustizia, il
suo valore, combattere finalmente la fedeltà e l'amore de' suoi popoli;
saranno, terminava, i nemici vinti.

Già si combatteva aspramente in Germania, quando ancora si riposava
dall'armi in Italia; imperciocchè a petizione dell'arciduca, che
desiderava, prima di combattere, sapere a qual via s'incamminassero gli
accidenti della guerra Germanica, si era fatto tra lui e Massena un
accordo, perchè le offese non si potessero cominciare prima dei diciotto
ottobre. Grande errore degli Austriaci fu questo, perchè cercar
definizione di fortuna in un sol luogo, potendo in molti, non fu mai
prudente consiglio. Aggiunge gravezza all'errore la congiunzione di San
Cyr con Massena, alla quale per l'indugio si poteva dar luogo prima del
combattere. Non commise simile errore Napoleone, che con incredibile
velocità dalle spiagge marittime della Picardìa alle sponde del Danubio
viaggiando, arrivò, e combattè gli Austriaci innanzi che i Russi
giungessero sul campo di battaglia in ajuto loro. Dall'errore
dell'Austria nacque, che l'arciduca fu, pei fatti di Germania, prima
superato che combattuto.

Già vincevano le Napoleoniche stelle. L'imperatore dei Francesi
arrivando in Alemagna innanzi che gli Austriaci avessero avuto tempo di
riuscir oltre i passi della Selva Nera, e di fortificargli, si
avventava, in ciò mostrando, oltre la celerità, una grandezza di
militari concetti straordinaria, contro il nemico tante volte vinto.
Trovossi Mack in pochi giorni cinto da ogni parte, segregato da Vienna,
ridotto dentro le mura di Ulma. Aveva vinto Napoleone una prima
battaglia a Vertinga, una seconda a Gunsburgo. Due accidenti
principalmente gli avevano aperto l'adito a queste vittorie, l'aiuto dei
Bavari, e l'aver calpestato, stimando più il vincere che l'osservanza
della fede, la neutralità della Prussia a Bareit e ad Anspach: il primo
fu cagione che i Francesi riuscissero sulla destra ad Augusta ed a
Monaco, sulla sinistra a Novoburgo, Ingolstadt e Ratisbona, quinci e
quindi alle spalle degli Austriaci. Per tale guisa non solamente furono
serrati gli Austriaci, ma fu ancora Mack separato dall'arciduca
Giovanni.

Spuntava appena il giorno diciotto ottobre, termine della tregua, che
sapendo già Massena, essersi venuto alle mani in Germania con prospero
successo de' suoi compagni, si deliberava a cominciar la guerra. Alle
quattro della mattina, dando due assalti uno sotto, l'altro sopra
Verona, si accingeva a sforzare sul mezzo il passo.

Imponeva a questo fine a Duhesme ed a Gardanne, che assaltassero il
ponte: era murato e rotto; ma Lacombe San Michele, generale
d'artiglieria, con un petardo, esponendosi a grave pericolo perchè i
Tedeschi fulminavano dalla riva sinistra, rompeva il muro, ed il
generale Chasseloup con pari valore riattava il ponte. Passarono i
soldati armati alla leggiera: ma fortemente pressati dai Tedeschi
correvano grandissimo pericolo. Non indugiò Gardanne a venire in
soccorso loro col grosso delle sue compagnìe, e rinfrescò la battaglia.
Si combatteva con molto valore e con vario successo da ambe le parti.
L'arciduca che aveva il suo campo a San Martino, mandò tostamente nuovi
soldati in soccorso de' suoi donde nasceva un più vivo e più generale
combattere; Duhesme ancor egli era passato con tutta la sua schiera. Per
quel giorno non fu compiuta pei Francesi, ancorchè avessero il
vantaggio, la vittoria, e fu loro forza di tornarsene ad alloggiare
sulla destra del fiume, conservando però in poter loro la signorìa del
ponte. Mancarono in questi fatti dalla parte dei Tedeschi circa tre mila
soldati tra morti, feriti e prigionieri, con qualche perdita di cannoni.
Nè fu senza sangue la vittoria pei Francesi scemati di un migliajo di
combattenti. Massena, o che il ritenesse il forte sito dell'arciduca, o
che volesse aspettare che San Cyr l'avesse raggiunto, o che desiderasse
prima di cacciarsi avanti, udire i fatti ulteriori di Germania, se ne
stette più giorni senza fare alcun motivo d'importanza. In questo gli
sopraggiunsero desideratissime novelle: avere tutto l'esercito di Mack,
salvo una piccola squadra fuggita sotto la condotta dell'arciduca
Ferdinando, deposto le armi, ed essersi dato, il dì diciassette ottobre,
vinto e cattivo in mano di Napoleone; il che importava l'annichilazione
quasi intiera delle forze Austriache in Alemagna. Napoleone imperatore
aveva in questi fatti per arte e per fortuna superato Buonaparte
generale e consolo. Cambiavansi le sorti dell'Italica guerra. Fu
l'arciduca obbligato a debilitarsi con mandar parte de' suoi in ajuto
dell'imperio pericolante del fratello. Sgomentaronsene i Tedeschi,
presero animo i Francesi. Massena udito il maraviglioso caso di Ulma, si
risolveva, senza frappor tempo in mezzo, ad assaltar l'avversario nel
suo forte alloggiamento di Caldiero. Il giorno ventinove ordinava il
passo del fiume. Duhesme e Gardanne erano destinati a varcare per
l'acquistato ponte, Seras a stanca al passo di ponte di Polo, Verdier a
destra più sotto tra Ronco ed Albaredo, luoghi già tanto famosi pei casi
di Arcole. Duhesme e Gardanne, passato il ponte, si erano allargati a
destra, Seras passato più sopra seguitava ad altro disegno le falde dei
monti, ed occupando le alture di val Pantena, che signoreggiano il
castello di San Felice, che con le artiglierìe aveva molto nojato i
Francesi al passo del ponte, aveva obbligato i Tedeschi a sgombrare da
Veronetta. Ciò diede abilità ad altre squadre di passare, massimamente
ai cavalli, per modo che gli Austriaci cacciati da tutti i siti, e
perfino da San Michele, si ritirarono con grave perdita, sempre però
animosamente combattendo, oltre San Martino. I Francesi pernottarono in
Vago. Si risolveva l'arciduca a far fronte a Caldiero, piuttosto
coll'intento di non cedere la possessione d'Italia senza combattere in
una giusta battaglia, che colla speranza di cambiare le condizioni della
guerra già troppo preponderanti in favor di Napoleone. Si ordinava la
mattina del giorno trenta l'arciduca alla battaglia, sprolungandosi a
destra fin sopra alle eminenze di San Pietro rimpetto al villaggio di
Fromegna, e distendendosi a sinistra verso l'Adige fin oltre a Gambione.
Questi siti erano diligentemente fortificati. Perchè poi in un caso
sinistro vi fosse luogo a far risorgere la fortuna, aveva adunato la
cavallerìa, ed un grosso corpo di ventiquattro battaglioni di granatieri
verso Villanova al bivio, dove la strada di Verona in due partendosi
porta da un lato a Monigo, dall'altro a Vicenza.

Il generale di Francia aveva partito i suoi in tre schiere: la mezzana
condotta da Gardanne, la destra da Duhesme, la sinistra da Molitor. Un
grosso ordinato alle riscosse, e composto dai granatieri di Partonneaux,
e dai cavalli di D'Espagne e di Monnet, se ne stava accampato in poca
distanza alle spalle. Massena, avendo inteso che le fazioni ordinate di
Seras e di Verdier avevano avuto il fine ch'egli si era proposto, si
deliberava ad attaccare la battaglia. Il primo a far impeto fu Molitor:
assaltò furiosamente, e furiosamente ancora fu risospinto. Fecersi
avanti Gardanne e Duhesme, e ben tosto si cominciò a combattere su tutta
la fronte da ambe le parti. Gardanne spingendosi avanti con estrema
forza, faceva piegare la fortuna in favor suo; perchè, cacciati da luogo
a luogo i Tedeschi, ancorchè fortemente contrastassero, s'impadroniva,
avventandosi con le bajonette, di Caldiero. La qual cosa vedutasi dalle
due ali estreme, si scagliarono ancor esse con forza contro il nemico,
ed il costrinsero a piegare: ma rannodatosi sulle eminenze, vi faceva
una ostinata difesa; tuttavia la giornata inclinava del tutto a favor
dei Francesi. Erano le quattro della sera: l'arciduca mandò avanti il
retroguardo, che, come narrammo, serbava alla ricuperazione della
battaglia; ne era reintegrata, e le cose si mantenevano in modo
bilanciate che non più in una, che in un'altra parte pendevano. Massena,
veduto il nuovo rincalzo, mandava innanzi anch'esso il suo retroguardo:
la zuffa divenne acerbissima e mortale; perchè così i granatieri ed i
cavalli Tedeschi, come i granatieri ed i cavalli Francesi, che
novellamente erano entrati nella mischia, facevano egregiamente il
debito loro. Prevalse finalmente la cavallerìa di Francia: resistevano
ancora i granatieri dell'arciduca, ma quei di Partonneaux, dato mano
alle bajonette, con tale vigorìa gl'incalzarono, che gli obbligarono a
dar indietro. Così i Tedeschi, lasciando la vittoria in potestà di chi
poteva più di loro, cedettero del campo, e si ritirarono alle batterie,
che l'arciduca aveva piantate sopra le eminenze che torreggiano oltre
Caldiero. Fu notabile questo fatto d'armi per la somiglianza dei disegni
orditi dai due avversi capitani, perchè ambidue ordinarono le ordinanze
con una prima fronte, e con una schiera di riserbo, ed ambidue in lei
posero un grosso nervo di granatieri, ed un battaglione fiorito di
cavallerìa. Perderono gli Austriaci trenta cannoni, e tremila
cinquecento soldati: i Francesi circa millecinquecento. Si portarono
egregiamente tutti i generali di Massena: si dolse l'arciduca di
Wukassowich, che trovandosi a campo a Campagnola, e standovi, come pare,
a mala guardia, si lasciò fare un assalto improvviso addosso, il che
disordinò i disegni del generalissimo d'Austria: tal'è l'incertezza
delle guerriere sorti; imperciocchè questo era quel Wukassowich, che
meritò tante lodi in queste storie di perito, animoso, e vigilante
capitano.

Mentre si combatteva a Caldiero, aveva l'arciduca mandato a sua destra
verso i monti una colonna di cinquemila soldati sotto la condotta
d'Hillinger col proposito di circuire e di combattere i Francesi alle
spalle. Questa mossa aveva ordinato, o che non sapesse che Seras assai
forte marciava su quelle medesime terre, o che credesse potere più lungo
tempo resistere a Caldiero. Ne nacque un grave accidente a danno delle
forze Austriache. Seras oltre procedendo, ed intromettendosi tra
Hillinger e l'arciduca, tagliò fuori la squadra segregata, e la ridusse
alla necessità dell'arrendersi.

Il fatto di Caldiero, la calamità d'Hillinger, gli ordini
dell'imperatore suo fratello non lasciarono più luogo ad elezione
nell'arciduca. Per la qual cosa la notte del primo novembre principiò a
tirarsi indietro per la strada di Vicenza: poi continuando, non
senz'arte, a cedere del campo, conduceva le sue genti più intere che le
perdite prime, e la presta ritirata potessero promettere, sulle sponde
della Sava, ponendosi alle stanze di Lubiana. Il seguitarono velocemente
i Francesi: raccolsero alcuni corpi, ma piccoli, disbrancati, e grossi
magazzini di viveri, principalmente in Udine e Palmanova. A questo modo
i fertili paesi delle terraferma Veneta, conquistati di nuovo dalle armi
vincitrici di Napoleone, furono tolti all'Austria. Solo la città di
Venezia restava in poter dei Tedeschi.

Era in questo mezzo tempo arrivato da Napoli San Cyr. Massena trovandosi
in necessità di seguitare a seconda l'arciduca nelle montagne della
Carniola e della Carintia, non voleva, per timore di qualche sbarco di
Russi e d'Inglesi, lasciare senza difesa i lidi Veneziani. Ordinava
pertanto a San Cyr, che si allargasse, e custodisse le spiagge dalle
bocche dell'Adige sino a Venezia. Questa provvidenza ebbe felice
successo, non contro i tentativi di mare, che nissuno fu fatto, ma
contro uno di terra. Napoleone, volendo prostrare le forze d'Austria,
che tuttavia tenevano le alte rupi del Tirolo e del Voralberga, aveva
mandato da Augusta Ney contro l'arciduca Giovanni, Augerau contro
Jellacich. Ney, guadagnato celeremente il passo di Scharnitz, occupava
il Tirolo Tedesco; poi guadagnato con la medesima prestezza il passo di
Sterzing, s'impadroniva del Tirolo Italiano, ritiratosene, o piuttosto
fuggitosene a grave stento l'arciduca per ricoverarsi nella Carniola.
Augerau cacciossi avanti Jellacich cedente da Voralberga: il capitano
Tedesco, trovate le strade del Tirolo chiuse da Ney, fu costretto alla
dedizione. La conquista del Tirolo partorì un altro effetto di grande
importanza. Un grosso di settemila fanti e mille cavalli, sotto la
condotta del principe di Roano, costretto a calarsi per le sponde della
Brenta verso i piani bagnati da questo fiume, incontratosi a
Castelfranco con San Cyr, dopo un furioso conflitto, fu obbligato, ad
arrendersi. Dopo questo fatto Massena securo alle spalle, vieppiù
innoltrava la sua fronte, e fermava gli alloggiamenti in Lubiana,
ritiratosene l'arciduca per internarsi nella Croazia, e di là nel
principato di Sirmio in Ischiavonia tra la Drava e la Sava. Seras
occupava Trieste. I soldati di Massena e di Ney si congiunsero a Villaco
ed a Clagenfurt: i due eserciti di Francia Germanico ed Italico si
congregarono alle future imprese del Danubio. Grandi, audaci, ed
ottimamente composte furono tutte queste mosse di Napoleone: il fine
rispose alla maestrìa, colla quale erano state concette. L'apparato
bellico dell'Austria, in men che non fece un mese, fu distrutto, e
l'imperator Francesco, privo quasi interamente delle forze proprie, non
aveva più altro rimedio che gli ajuti della Russia, sufficienti prima
delle rotte, insufficienti dopo: l'Italia sgombra, come ai primi tempi
di Napoleone, da uomini Alemanni.

Ambiva Napoleone di per se stesso gli stati altrui, e facilmente senza
cagione o pretesto se gli appropriava: molto più volentieri se gli
appropriava, quando se ne gli dava cagione. Di ciò con estremo suo
eccidio ebbe pruova il re di Napoli. Aveva Ferdinando, siccome per noi
si è narrato, stipulato la neutralità; ma quando appunto la guerra si
definiva in favor di Francia in Germania, e nell'Italia superiore,
essendo già corso oltre il suo mezzo il mese di novembre, arrivavano nel
golfo di Napoli due navi Inglesi con molte onerarie, sopra le quali
erano quindici mila soldati, dodici mila Russi venuti da Corfù, tre mila
Inglesi venuti da Malta. Sbarcarono soldati, armi e munizioni tra Napoli
e Portici, annunziando venire non solo per proteggere il regno, ma
ancora per correre verso l'Italia superiore in ajuto degli Austriaci.
Non fece il re, non bene considerando quel che potesse portare seco il
tempo futuro, alcuna dimostrazione nè protesta per impedire lo sbarco di
queste genti nemiche a Francia. L'ambasciador di Napoleone, viste le
insegne del nemico, molto acerbamente si risentiva, e calati
gl'imperiali stemmi dalla fronte del suo palazzo, richiedeva il re dei
passaporti, e l'infedele terra, come diceva, abbandonando, se ne partiva
alla volta di Roma. Per mitigarlo mandava fuori il governo un editto,
per cui prometteva ai Francesi, Italiani, Liguri, e ad altre nazioni
unite all'impero Francese, che sarebbero le proprietà loro, ed i
traffichi securi e salvi. Fu la dimostrazione indarno, perchè non solo
nissuna protestazione conteneva contro il moto dei confederati, ma
nemmeno portava alcun dispiacere di quello, che la Francia aveva sentito
sì gravemente. Gli effetti che ne seguitarono, e che per molti anni
tolsero al re la possessione del regno di qua dal Faro, saranno da noi
fra breve raccontati.

Vinceva Napoleone nei campi di Osterlizza una campale battaglia. Vinti i
Russi ausiliarj, fu talmente prostrata l'Austria, che fu costretta a
consentire a durissimi patti. Si fermarono a Presburgo d'Ungherìa il dì
ventisei decembre. Consentiva l'imperator d'Alemagna e d'Austria a tutte
le unioni dei territorj italiani: riconosceva le risoluzioni prese
dall'imperator di Francia rispetto a Lucca ed a Piombino, riconosceva
l'imperator di Francia, come re d'Italia, con ciò però che, seguìta la
pace generale, le due corone, a seconda delle promesse fatte
dall'imperator Napoleone, l'una dall'altra fossero separate, nè mai in
perpetuo potessero esser riunite: dava in potestà dell'imperatore
medesimo di Francia tutti gli stati dell'antica repubblica di Venezia a
lui ceduti pel trattato di Campoformio, e consentiva, che fossero uniti
al regno d'Italia, riconosceva ancora nei duchi di Virtemberga e di
Baviera la qualità, ed il titolo di re: cedeva a quest'ultimo, oltre
parecchi paesi situati sulle sponde del Danubio, il Tirolo, compresi i
principati di Brissio e di Bolzano, le sette signorìe di Voralberga, e
parecchi altri paesi sulle rive del lago di Costanza: dal canto suo
l'imperator Napoleone guarentiva l'interezza dell'impero d'Austria;
consentiva, che Salisburgo già dato all'arciduca Ferdinando di Toscana,
al medesimo impero si unisse, e si obbligava ad intromettersi appresso
al re di Baviera, perchè cedesse Visburgo all'arciduca in compenso di
Salisburgo.

Si mandava ad effetto il trattato. Venezia e gli antichi suoi territorj,
dopo otto anni di dominio Austriaco, tornavano sotto quello di Francia.
Venne Law Lauriston a prenderne possesso da parte del re d'Italia.
Confortava i Veneziani a star di buon animo, promettendo loro felicità,
e chiamandogli figliuoli di Napoleone; bella consolazione per certo a
tanti mali. Il dì diecinove gennajo arrivarono in Venezia per fondarvi
la terza servitù, i soldati di Napoleone, gli mandava Miollis, destinato
dai cieli a commettere in Italia duri fatti con molli parole. Arrivava
il dì tre di febbrajo in Venezia Eugenio vicerè, testè sposato ad Amalia
di Baviera. Fecersi i soliti rallegramenti, i quali, siccome quelli che
o costretti erano dalla forza, o procurati dall'adulazione, muovevano
piuttosto a compassione che a gioja.

A questo tempo si rinfrescavano le Napolitane ruine. Napoleone
vittorioso pensava a soddisfare all'ambizione ed alla vendetta. Già
sull'uscire del precedente anno aveva pubblicato, parlando a' suoi
soldati, queste parole: «Da dieci anni io feci quanto per me si potè,
per salvare il re di Napoli, e da dieci anni ei fece quanto per lui si
potè per perdersi. Dopo le battaglie di Dego, di Mondovì, e di Lodi
deboli forze gli restavano per resistermi: fidaimi nelle sue parole,
anteposi la generosità alla forza. Risolvè poscia Marengo la seconda
lega; aveva il re, di tutti il primo, incominciato la guerra; da suoi
alleati abbandonato a Luneville, solo e senza difesa rimase. Implorò
perdono, gliel concedei. Voi a Napoli già vicini avevate in poter vostro
il regno; i tradimenti io sospettava, le vendette poteva fare; novella
generosità amaimi; che sgombraste il regno, ordinaivi; la terza volta
restommi della salute sua la casa dei reali di Napoli obbligata.
Perdonerò io la quarta ad una corte senza fede, senza onore, senza
ragione? No; ceda dal regno la Napoletana famiglia; non può ella col
riposo d'Europa, coll'onore della mia corona sussistervi. Ite, marciate,
precipitate nell'onde quei deboli battaglioni dei tiranni del mare;
seppure a loro basterà l'animo di aspettarvi: ite, e mostrate al mondo,
come da noi si puniscano gli spergiuri; ite, e fate ch'egli presto
s'accorga, che nostra è l'Italia, che il più bel paese della terra ha
oramai gettato via dal collo il giogo d'uomini perfidissimi: ite, e
mostrate che è la santità dei trattati vendicata, che sono le ombre de'
miei soldati, sopravvissuti ai naufragi, ai deserti, a cento battaglie,
ed alle uccisioni nei porti della Sicilia, mentre tornavano dall'Egitto,
placate e paghe. Guideravvi mio fratello: partecipe della mia potenza,
partecipe de' miei consigli, in lui fidatevi, come io in lui mi fido».

A queste aspre e superbe parole del terribile vincitore d'Osterlizza
tenevano dietro consenzienti fatti. Giuseppe fratello con esercito
poderoso marciava contro il regno; gli aveva dato Napoleone,
conoscendolo irresoluto e solito a lasciarsi portare dalla volontà degli
altri, per compagno e sostenitore de' suoi consigli Massena. Pruovossi
Ferdinando di stornare la tempesta, con mandar Ruffo cardinale appresso
allo sdegnato signore per iscusare il fatto dello sbarco. Adducesse,
comandava, essere gli alleati stati troppo forti, lui troppo debole, nè
aver potuto impedire; pregasse concordia, promettesse ammende, offerisse
sicurtà. Nè vedeva il re, che Napoleone più serviva all'ambizione che
alla vendetta; imperciocchè quanto allo sbarco, vi si poteva rimediare
con qualche perdita di provincie o di denaro, senza venirne alla radice
ed all'intiera distruzione del regno. Quanto all'ombre dei soldati,
aveva Napoleone, dopo la uccisione, fatto amicizia col re; il che aveva
dimostrato in quale conto avesse il sangue e l'ombre loro. Nè si vede
perchè il re mandasse Ruffo cardinale a placar Napoleone, se non forse
perchè credeva, che per qualche somiglianza di natura fossero facilmente
per accordarsi. Mostrossi Napoleone inesorabile; gli piaceva Napoli;
preparava reali seggi ai fratelli; voleva, per le sue cupidità, fermare
in ogni luogo stati dipendenti intieramente da lui.

Quando pervennero a Ferdinando le novelle della volontà di Napoleone, si
ristrinsero insieme i suoi consiglieri per deliberare su quanto la
necessità del caso richiedesse. Pensava ad abbandonar Napoli, e
desideravano che i Russi ed Inglesi si mettessero a qualche forte passo
degli Abruzzi, per vietare ai Francesi l'entrata nel regno. Ma
l'imperatore Alessandro, che amava meglio la salute de' suoi soldati,
essendo anche l'impresa molto dubbia, aveva comandato per un corriero
espresso, che tostamente s'imbarcassero, ed in Corfù tornassero. La
ritirata dei Russi, che erano la più grossa parte rendè necessaria anche
quella degl'Inglesi. Gli uni e gli altri partirono, quelli per Corfù,
questi per Sicilia, lasciato Ferdinando nell'ultima ruina. Veduto che il
regno andava senza indugio in manifesta perdizione, si risolvette nel
consiglio, che il re si ritirasse in Sicilia, che seco conducesse la
famiglia, i ministri, e quanti soldati e denari potesse. Già il nemico
insultava da Ferentino, già si apprestava ad invadere le provincie. Si
deliberò altresì, che il figliuolo primogenito del re andasse in
Calabria per animare quelle popolazioni armigere, e sempre addette a chi
più accesamente le instiga. Era in questa provincia rotta e sanguinosa
il conte Ruggiero con qualche banda di regolari; si sperava, che i
popoli congiungendosi a loro, avrebbero potuto tener vivo il nome regio
fintantochè qualche favorevole accidente desse occasione di risorgere.
Lasciava Ferdinando la real sede il dì ventitrè di gennajo. Così finì
allora il suo regno, regno pieno, per la sfrenatezza dei tempi, di casi
lamentevoli ed atroci; ma non pertanto cessarono le opere crudeli, come
se fosse fatale che perpetuo sangue vi si versasse, o che il regno, o
che la repubblica vi dominassero, o che forestieri d'Inghilterra o che
forestieri di Francia la potestà del comandare vi esercessero.

Partito Ferdinando sul vascello reale l'Archimede, fu lasciata una
reggenza composta dal generale Naselli, dal principe di Canosa, da don
Michelagnolo Cianciulli, e da don Domenico Sofia. Era la città paventosa
delle cose avvenire; si temeva del popolo, dei Francesi, dei Calabresi.
Accrebbe il terrore un grave tentativo dei carcerati al serraglio, che
se avesse avuto effetto, Napoli sarebbe andata a ruina. Marciavano
intanto i Francesi alla conquista. Giuseppe fulminato vendetta contro la
corte, e promesso dolcezza al popolo, se si sottomettesse, velocemente
viaggiava contro la capitale. Correva a destra, a riva il mare, Regnier,
nissun ostacolo in nessun luogo incontrando, salvo in Gaeta, piazza
forte di sito, e custodita dal principe di Assia, capitano valoroso.
Intimato di resa, rispose negando. Assaltarono i Francesi il bastione di
Sant'Andrea, e se lo presero, non senza sangue. L'altra parte si
difendeva egregiamente; ma essendo i Napoleoniani grossi, lasciato genti
all'oppugnazione, passarono. Massena a sinistra senza impedimento alcuno
camminando, poichè Capua già si era data, arrivava ai quattordici di
febbrajo sotto le mura dell'appetita città. S'arresero castel Nuovo,
castel dell'Uovo, castel del Carmine, e castel Sant'Elmo. Entrava
Duhesme il primo con una scelta fronte di soldati leggieri sì fanti che
cavalli. Faceva il dì seguente il suo ingresso Giuseppe a cavallo con
molto seguito di generali, e con tutte le ordinanze in bellissima
mostra. Smontò al palazzo reale; trovollo squallido, e spogliato dai
fuggitivi. Addì sedici visitava la chiesa di San Gennaro; udita la messa
di Ruffo Cardinale, presentava il Santo con doni, primizie del futuro
regno. Tornatosi nella reggia sede dava le udienze ai magistrati, vedeva
con viso benigno la reggenza di Naselli; ma tosto la cassava per crearne
un'altra; fecene capo Saliceti. Erano nella serva Italia certe persone
perpetue, alcune perchè Napoleone le amava, altre perchè le disamava;
Vignolle, Menou, Miollis, Saliceti. Per far denaro si mantennero le
tasse vecchie, se ne imposero delle nuove; per far sicurezza, si tolsero
le armi ai cittadini, e si venne sul suono di far morire soldatescamente
chi le portasse. Queste minacce già tante volte fatte, ed anche eseguite
da ambe le parti, dimostrano, qual dolcezza di vivere fosse allora in
Italia.

Intanto le Calabrie non quietavano. Si era il duca di Calabria accostato
con un corpo di soldati uscito con lui da Napoli al conte Ruggiero, che
con una squadra riempiuta di soldati Siciliani, Tedeschi, Napolitani, e
con qualche misto di raunaticci, parte buona, parte pessima, aveva fatto
un alloggiamento fortificato sulle rive del Silo nel principato di
Salerno. Arso il ponte, schierava i suoi sulla riva. Parve il caso
d'importanza; vi fu mandato Regnier. Andò il Francese all'assalto, mandò
i Napolitani in rotta, perseguitò i vinti fino a Lagonero. Rannodaronsi
i regj a Campotenese; venne loro sopra Regnier il dì nove marzo, e con
un forte assalto gli risolvette facilmente in fuga. A stento salvossi il
conte con mille soldati tra fanti e cavalli. Il Francese vittorioso
s'inoltrava nella Calabria ulteriore; occupato Reggio, muniva di
presidio la fortezza di Scilla, posta alla punta d'Italia, dove è più
vicina alla Sicilia; il che dava e freno e sospetto agl'Inglesi, che in
Messina si erano raccolti a difesa dell'isola.

Per la vittoria di Campotenese tutto il corpo Napolitano guidato da
Rosenheim fu fatto prigioniero. Rodìo, che aveva veduto le guerre di
Ruffo, e con lui e per lui aveva combattuto, perseguitato aspramente da
Lecchi, fu preso nelle montagne di Pomarico. Sperava Regnier di
pigliarsi Michele Pezza, che il volgo chiamava fra Diavolo, uomo
facinoroso mandato da Palermo a sollevare i popoli; ma per l'audacia
propria, e per conoscere il paese, gli sfuggì di mano, tornandosene a
Gaeta. Molti de' suoi seguaci, gente da strada ed efferata, come egli,
presi nelle montagne di Rocca Guglielma, Monticelli, e Sant'Oliva,
furono incontanente dati a morte. Da un'altra parte Duhesme, oltratosi
nella Basilicata, cacciava i nemici da Bernarda e da Torre, ed entrava
in Taranto, città opportuna pel suo sito ad accennare ugualmente a Corfù
ed alla Sicilia. Alcuni rimasugli dei vinti si erano rannodati a
Castrovillari, ma combattuti da Regnier furono dispersi. Vi andarono
presi un Tchudi ed un Ricci, capitani di qualche grido, e molto
affezionati al nome del re. Sbaragliati i regolari, sorgevano, parte per
la mutazione del governo, parte per gl'instigamenti di Sicilia, parte
per amore della vendetta, parte per cupidigia del sacco, in diverse
parti della Calabria bande collettizie di soldati spicciolati, e di
uomini facinorosi, che mettevano la provincia a terrore, a ruba ed a
sangue. In questi orribili ravvolgimenti perdeva chi aveva, acquistava
chi non aveva; i buoni solamente perivano; i scellerati trionfavano. La
ferocia d'uomini quasi ancora selvaggi era stimolata da uomini feroci
per consuetudine; il male s'appiccava, e dominava in ogni parte.
Spargevansi voci, che la regina fomentasse questi moti; il che era vero
per qualche capo e per la guerra, non per le masse dei scelerati e per
gli eccessi. I Francesi ed i partigiani loro accrescevano questi romori,
e davan loro più credito coll'intento di seminar viemaggiormente
rancori, ed odj contro quel governo, che da loro era stato cacciato. Da
questi accidenti nasceva, che non solamente il desiderio di Ferdinando
diminuisse continuamente nelle popolazioni quiete, e negli uomini
facoltosi, ma ancora con minor avversione si vedesse il dominio dei
Francesi, avvisando ciò che era vero, che, siccome potenti e speditivi,
avrebbero posto freno a quella peste degli assassinj e delle ruberìe.
Questi umori non ignorava Napoleone. Però giudicando, che fosse arrivato
il momento propizio per mandar fuori quello che si aveva già da lungo
tempo concetto, nominava Giuseppe re delle due Sicilie. Annestava la
solita condizione, che le due corone di Francia e di Napoli non
potessero mai essere posate sul medesimo capo. I principi consentivano,
i popoli adulavano. Solo Carolina di Sicilia non si lasciava tirare alla
debolezza universale, l'acerbità dell'animo con l'altezza compensando.
Per questo Napoleone la chiamava Fredegonda, ed ella chiamava lui
assassino di principi, e tiranno Corso. Finalmente vi cadde ancor essa,
non per adulazione, nè per abiezione d'animo, ma per odio contro
gl'Inglesi; perchè, come diremo a suo luogo, venne un tempo, in cui non
piacendole il comandare frenato alla foggia degli ordini d'Inghilterra,
desiderò, come più conforme alla sua natura, il comandare assoluto di
Napoleone; per questo prese consiglio di accostarsi a lui.

La creazione del re Giuseppe fu sentita con qualche allegrezza in
Napoli, ma più dai nobili che dai popolani. Furonvi luminarie, spari,
feste, teatri, canzoni, sonetti al solito; e di questi sonetti, chi ne
aveva più fatto per Carolina, più ne faceva per Giuseppe. Vi furono
anche non insolite, ma indecenti cose. Il marchese del Gallo,
ambasciadore di Ferdinando a Parigi, rivoltatosi subitamente alla
fortuna di Napoleone, divenne ambasciadore di Giuseppe, poi incontanente
suo ministro degli affari esteri. Di tanto anteponevano gli uomini,
anche i nobili, l'ambizione all'onore! Nè miglior natura mostrò il duca
di santa Teodora, ambasciadore di Ferdinando in Ispagna, poco prima
mandato da lui a mansuefare il vincitore: accettò carica nella corte di
Giuseppe. Aveva certamente il duca l'animo esacerbato pel supplizio di
Caraccioli, suo parente; ma sarebbe stato più onorevole il non accettar
cariche da Ferdinando, che il non tenergli fede. Ruffo cardinale
esultando ricevè Giuseppe sotto il baldacchino. Vide l'età Maury
cardinale fare fallo ai Borboni di Francia, per profondersi a Napoleone,
vide Ruffo cardinale abbandonare i Borboni di Napoli per inchinarsi a
Giuseppe. Scusavansi con dire, avere amato le cose, non le persone; il
che sarà loro da ognuno facilmente conceduto. Tutti errarono, pontefice,
imperatori, re, cardinali, vescovi, preti, nobili, popolani. Almeno
imparassero i potenti a non giudicar gli uomini a norma di una
perfezione, che non è nel mondo, ed a conoscere la debolezza propria in
quella d'altrui. Ma tal è la superbia umana, che chi più può, si
persuade anche d'esser migliore, e tal è anche qualche volta la
perversità di lei, che alcuni credono, e vogliono far dimenticare i
falli proprj col punirgli in altrui. La Turchìa stessa, a cui Napoleone
aveva voluto torre quel granajo dell'Egitto, adulava. Il giorno
dell'assunzione di Giuseppe il suo inviato in Napoli cacciò fuori sulla
fronte del suo palazzo, in mezzo a non so qual luminaria, questo motto
in lingua Turca e Francese: _l'Oriente riconosce l'eroe del secolo_.
Vero è, che quest'era piuttosto adulazione Francese e Napolitana, che
Turca. Napoleone rideva a queste mostre, e vieppiù disprezzava la natura
umana.

Le vittorie di Lagonero e di Campotenese, avendo rotto le forze regie in
Calabria, tutto il paese era venuto, salvo alcuni moti incomposti, a
divozione dei Francesi. Solo Gaeta e Civitella di Tronto resistevano.
Poca speranza restava al re di far frutto, sebbene sapesse che non
mancavano mali semi contro il nuovo signore, se gl'Inglesi sbarcando
sulle terre Calabresi non avessero somministrato qualche forte soccorso
di battaglioni ordinati. Ma grandemente ripugnava ad una spedizione in
terra ferma Stuart, che essendo succeduto a Craig nel governo dei
soldati Britannici in Sicilia, continuava a starsene nelle stanze di
Messina. Gli pareva che il principal fine degl'Inglesi fosse la
conservazione della Sicilia. Nè ignorava che la spedizione sarebbe
pericolosa per l'isola, se riuscisse infelicemente, di nissun frutto per
la terra ferma, a cagione dell'eccessiva forza dei Francesi, se
riuscisse felicemente. Fortunato capitano non sarebbe lodato;
infortunato biasimato. Ma era a questo tempo giunto in Sicilia un uomo,
a cui piacevano le imprese avventurose: questi era Sidney Smith, che,
arrestata la fortuna prospera di Buonaparte in Oriente, si era persuaso
di poterla arrestare anche in Occidente. Stimolato dalla propria natura,
dalle preghiere di Ferdinando, e dalle instigazioni della regina, che
non poteva vivere se non ricuperasse ciò che le era stato tolto,
continuamente esortava Stuart alla fazione. Ma la prudenza dell'uno
superava l'audacia dell'altro, e niuna cosa si risolveva. Si deliberava
Sidney a fare qualche sforzo da se colle forze marittime per far vedere
a Stuart, che la materia era meglio disposta ch'ei non credeva. Per la
qual cosa partiva dalla Sicilia con qualche nave grossa da guerra e
molte annonarie, con intento di andar a visitare le coste di Napoli. Due
fini principalmente il muovevano; il primo di rinfrescar Gaeta, il
secondo d'incitare, e di provvedere d'armi e di munizioni le Calabrie.
S'appagava del suo primo intento; anzi lasciava nelle acque della piazza
un'armatetta di navi sottili, affinchè cooperasse alle difese.
S'impadronì dell'isola di Capri; la qual possessione il rendeva signore
del golfo di Napoli. Poscia radendo i lidi a seconda verso scirocco, ora
qua ora là si mostrava, e con la presenza, colle esortazioni, colle
somministrazioni vi manteneva vivo il nome di Ferdinando. Vi scoverse
inclinazioni favorevoli, ma non sufficienti perchè potessero fare da se.
Tornossene in Sicilia: con intente esortazioni tanto fece che il
prudente Stuart si lasciò muovere a tentare qualche fatto su quella
tribolata e tumultuosa terra. Sbarcava sul principiar di luglio con
circa cinque mila soldati sulle coste del golfo di sant'Eufemia:
chiamava, ma con poco frutto, le popolazioni a levarsi. Stava sospeso,
stante la freddezza dei popoli, se dovesse tornare alle navi, o
persistere sulla terra ferma, quando gli pervennero le novelle, che
Regnier con un corpo di circa quattro mila soldati aveva posto il campo
a Maida, terra distante dieci miglia dal mare. Udì al tempo stesso, che
una nuova schiera di tre mila soldati accorreva in soccorso di Regnier,
perciocchè la nuova della venuta degl'Inglesi già si era sparsa nelle
vicinanze. Si deliberava pertanto di assaltare il nemico innanzi che il
soccorso si fosse congiunto con esso lui. Era il generale di Francia
accampato sul pendìo di una collina boscata sotto il villaggio di Maida,
soprastando alla pianura di sant'Eufemia: folte selve rendevano i suoi
fianchi sicuri. Scorreva alla sua fronte il fiume Amato, che sebbene in
ogni luogo fosse guadoso, tuttavia per avere le sue rive ingombre di
paludi, difficoltava assai il passo agli Inglesi. Forte, come si vede, e
quasi inespugnabile era il sito di Regnier, e se vi avesse aspettato
l'inimico, la sua vittoria sarebbe stata certa. È da notarsi, che la
dimora degl'Inglesi in quei luoghi non poteva esser lunga, perchè
essendo il paese paludoso, esala, massime nella stagione estiva, miasmi
pestilenziali, radice di malattie molto mortali. Ma Regnier, o nel
proprio valore troppo confidando, o di quello del nemico troppo
debolmente giudicando, consentì al commettere all'arbitrio della fortuna
un'impresa certa. Calavasi adunque dalla bene promettente collina,
varcava il fatale fiume, e s'innoltrava nella pericolosa pianura. Forse,
oltre la confidenza di se stesso e de' suoi, che per verità valorosi
soldati erano, a questo partito il mosse l'avere con se qualche squadra
di cavallerìa, della quale l'Inglese mancava. Arrivavano in questo
mentre i tre mila; il quale accidente accrebbe nei Francesi l'opinione
del vincere. Si fece dalla sua parte avanti l'esercito d'Inghilterra: le
due emule nazioni venivano al cimento.

Incominciò la battaglia, correva il dì sei di luglio, dall'affronto
incomposto e sparso dei soldati armati alla leggiera: poi si venne alla
zuffa delle genti grosse. Trassero poche volte con gli archibusi: mossi
dall'emolazione, ed impazienti del combattere da lontano, s'avventarono
colle bajonette in canna gli uni contro gli altri. La mischia
spaventosa: vivi erano i Francesi, stabili gl'Inglesi. I primi, o
perchè, avendo creduto di andarne a sicura e facile vittoria, restassero
stupefatti all'inopinato rincalzo, od altra cagione che sel facesse,
cominciarono, dopo un breve menar di mani, massimamente sulla sinistra
loro, a piegare, poi andavano in fuga. Gli seguitarono velocemente
gl'Inglesi, ed aspramente gli pressavano, non poca uccisione facendone.
Volle Regnier ristorare la fortuna con assaltare colla cavallerìa la
sinistra del nemico, ma fecero gl'Inglesi sì immobile resistenza coi
tiri e colle bajonette, che fu costretto a rimanersene. Si pruovava
allora, poichè coll'assaltar di fronte non aveva fatto frutto, di girare
co' suoi cavalli intorno alla punta della medesima ala degl'Inglesi, e
di urtarla di fianco ed alle spalle; con che sperava d'indurre qualche
scompiglio nell'ordinanza. Già i cavalli circuivano; la battaglia
pericolosa per gl'Inglesi, quando un nuovo reggimento partito da
Messina, e testè sbarcato a Sant'Eufemia, arrivò sul campo, e postosi
dietro un po' di riparo che il terreno offeriva, fece fronte ai cavalli,
e coi tiri spesseggiando, non solamente arrestò l'impeto loro, ma ancora
gli costrinse alla ritirata più rotti che intieri. Dopo questo fatto i
soldati di Regnier si posero in fuga scomposti e sbaragliati, cercando
ciascuno salute senza ordine o norma, come meglio avvisava. Fu compiuta
la vittoria degl'Inglesi. Errò Regnier nell'essere sceso al piano: errò
nell'aver troppo disteso le ordinanze. Morirono dei Francesi settecento,
due mila vennero in poter dei vincitori, parte sul campo della
battaglia, parte a Monteleone, dove si erano ridotti. Ornò massimamente
la vittoria la presa del generale Compère. Dei dispersi, che furono un
grosso numero, molti venuti in mano dei Calabresi, furono crudelmente
ammazzati: alcuni condotti cattivi al cospetto di Stuart restarono
salvi.

La vittoria di Maida diè nuova cagione ai Calabresi di levarsi a romore:
ad uso barbaro ammazzavano quanti venivano loro alle mani. I Francesi
dal canto loro irritati contro uomini, che a nissun uso civile
attendevano, saccheggiavano ed ardevano tutte le terre che loro si
scoprivano contrarie, uccidendo i terrazzani, e nissun rispetto avendo o
al sesso, o all'età. La Calabria tutta fumava d'incendi e di sangue.
Furono i Francesi obbligati a sgombrarne. I sollevati, fatti padroni
delle coste, stabilmente vi si alloggiavano nei siti principali, donde
comunicando con Sidney Smith, che in questa bisogna si dimostrava
attivissimo, e da lui ricevendo armi e munizioni, le tramandavano
nell'interno del paese, e somministravano continua esca a quel grave
incendio. Amantea, Scalea, l'isola di Dina sulle coste della Calabria
citeriore, erano tenute dai Calabresi: Maratea, Sapri, Camerota,
Palinuro, ed altre terre del golfo di Policastro a loro parimente
obbedivano. Massa di cruda ribaldaglia erano queste, nè io sarò mai per
lodare quelli che le fomentavano: scelerati, la più parte, i gregari,
scelerati i capi. Pane di Grano, uno dei primi, era un prete infame
condannato per delitti a galera: Fra Diavolo, che imperversava più
vicinamente a Napoli, uomo convinto di più latrocini, ed assassinii:
ladri ed assassini a costoro si accostavano. Gl'Inglesi non gli potevano
frenare, ancorchè Stuart per l'umanità sua molto vi si affaticasse. I
Francesi, dove potevano, acerbamente si vendicavano, furore e crudeltà a
furore ed a crudeltà opponendo.

Il trionfo di Maida poco durava. S'ingrossavano di nuovo i Napoleoniani:
gli assassini erano cattivo fondamento; il capitano d'Inghilterra si
ritirava in Sicilia, solo lasciando un presidio nel forte di Sicilia, di
cui si era impadronito.

S'accalorava l'oppugnazione di Gaeta. Già per molti mesi l'aveva
virilmente difesa il principe d'Assia: vi morirono molti buoni Francesi,
fra gli altri il generale Vallelongue, uomo, in cui la dolcezza e
l'integrità della vita pareggiavano la scienza ed il valor militare,
l'uno e l'altro singolari. Il principe ferito gravemente fu portato in
Sicilia. Gli assedianti impedivano le sortite con aver tirato una
trincea dalla spiaggia di Mola sino all'altra estremità dell'istmo.
Impedivano colle batterie i soccorsi di mare; una breccia molto grande
era aperta nel muro della cittadella sino a piè della controscarpa: i
terribili granatieri di Francia pronti all'assalto. Si diede la fortezza
il dì diciotto luglio. Anche in questo fatto mostrò il generale
Campredon molta perizia nell'arte d'oppugnar le piazze, ed a lui
principalmente restò Napoleone obbligato dell'acquisto di Gaeta. Solo,
siccome quegli che la voleva sempre fare da maestro, perchè gli altri si
studiassero di fare, non che bene, meglio, si lamentò che Campredon vi
avesse consumato troppa polvere.

La resa di Gaeta avvantaggiò le condizioni dei Francesi nel regno. La
forte schiera che l'aveva oppugnata, andava a ricuperar le Calabrie; e
stantechè il nome di Massena era di molto terrore, gli fu dato il
governo della spedizione. Perchè un uomo terribile avesse potestà
terribili, decretava Giuseppe, fossero e s'intendessero le Calabrie in
istato di guerra: i magistrati civili e militari obbedissero a Massena:
creasse commissioni militari pei giudizi, ed i giudizi si eseguissero
senz'appello in ventiquattr'ore: i soldati vivessero a carico dei paesi
sollevati: i beni degli assassini e dei capi dei ribelli si ponessero al
fisco; i beni degli assenti ancor essi si confiscassero; chi non essendo
scritto alla guardia provinciale, fosse trovato con armi, si desse a
morte; i conventi che non dichiarassero i religiosi complici si
sopprimessero. Andava Massena alla spedizione; seguitarono dalle due
parti crudeltà inusitate. Lavria, Sicignano, Abetina, Strongoli incesi:
i Napoleoniani trucidavano i Calabresi nelle battaglie, nelle imboscate,
nei giudizi; i Calabresi ammazzavano i Napoleoniani, e gli aderenti loro
nelle case, negli agguati, nelle battaglie: il furore partoriva morti,
le morti furore: gli uomini civili divenivan barbari, i barbari vieppiù
s'imbarbarivano. Il Crati, fiume principalmente in cui furono gettati a
mucchi i cadaveri degli uccisi, portò con le acque sue al mare i rossi
segni della bestiale rabbia degli uomini. Durò lunga pezza la
carnificina: pure i Napoleoniani per la disciplina e per gli ordinati
disegni prevalevano. Il terrore e le uccisioni frenarono, non quietarono
la provincia: semi orrendi vi covavano, che ora in questo luogo, ora in
quell'altro ripullulavano, e facevano segno, che più potevano l'odio e
la rabbia che i supplizi: nè mai potè Giuseppe venir a capo dei
sollevamenti Calabresi, ancorchè usasse rimedi asprissimi, e qualche
volta anche dolcezza coi perdoni. Orrendi casi io raccontai, ma più
orrendi, se mi fia dato di terminare queste storie, sarommi per
raccontare, dai quali si vedrà, che se la dolcezza mescolata con la
crudeltà non fece frutto per pacificare le Calabrie, una crudeltà pura
il fece: feroce razza di Calabria, che non potè costringersi alla
quiete, se non con lo sterminio.

Risoluzioni infedeli, atti soperchievoli, guerra barbara insanguinavano
una costa dell'Adriatico: simili accidenti insanguinavano l'altra: di sì
lagrimevoli frutti fu pregno il tradimento fatto a Venezia. Erano le
Bocche di Cattaro, il più sicuro ricovero che si avessero i naviganti
nell'Adriatico, state cedute alla Francia pel trattato di Campoformio,
con tempo di sei settimane ad esserne messa in possessione. Spirato il
termine, e non comparsi gli ufficiali di Francia a prenderne
possessione, un agente di Russia, col quale concordavano, siccome Greci,
gran parte dei Bocchesi e dei Montenegrini, selvaggi abitatori delle
vicine montagne, sollevò il paese, predicando, che, poichè il tempo
buono della consegnazione era trascorso, i Francesi erano scaduti, ed il
paese padrone di se stesso. I comandanti Austriaci di Castelnuovo e
degli altri forti, l'intendevano ad un altro modo, e volevano serbar la
fede. Arrivava in questo mentre il marchese Ghisilieri commissario
d'Austria, per far la consegnazione; ma non che il suo mandato
eseguisse, perchè già i Francesi si approssimavano, consentì a sgombrar
il paese, lasciandolo in potere dei natìi, dei Montenegrini, e dei
Russi. Sgombrarono di mala voglia i comandanti Austriaci, e
sdegnosamente anche protestarono della violazione dei patti. Nè meno
sdegnosamente udì Vienna il fatto; fu il marchese dannato a carcere
perpetua in una fortezza di Transilvania.

La fede violata in Cattaro diè occasione a fede violata in Ragusi. I
Napoleoniani, non potendo più occupare Cattaro, s'impadronirono di
Ragusi, nissuna ragione contro quella pacifica ed innocente repubblica
allegando, ma solamente il pretesto di preservarla dalle scorrerìe dei
Montenegrini. Certo i soldati Napoleonici difesero Ragusi, dico la
città, perciocchè i Montenegrini orribilmente saccheggiavano il
territorio; ma Napoleone spense la repubblica congiungendola all'Italico
regno; singolar modo di preservazione. Sorse una guerra varia. Lauriston
tenuto in assedio in Ragusi dai Montenegrini era soccorso da Molitor,
che gli vinceva risospingendogli ai loro nidi delle montagne. Pure
stavano ancora minacciosi, ed infestavano con spesse scorrerìe il paese,
quando Marmont, con astuzia militare avendogli indotti a venir al piano,
con istrage grandissima prostrava tutte le forze loro. Guerra orribile
fu questa: i Montenegrini ammazzavano i prigioni, e gittavanne le teste
tronche fra le file dei compagni inorriditi: i Napoleoniani
perseguitavano sui monti loro i Montenegrini, e quando non gli potevano
avere per essersi nascosti nelle tane, ne gli cacciavano con fuoco e
fumo, come se fiere fossero, per uccidergli.

Cantava queste vittorie con gloriose promulgazioni, secondo la natura
sua, Dandolo, che era per Napoleone provveditore generale della
Dalmazia. Sì per certo, questo mancava allo scandalizzato mondo, che
dopo di aver veduto Pesaro commissario Austriaco in Venezia, vedesse
Dandolo provveditore Napoleonico in Dalmazia.


FINE DEL TOMO V.



INDICE DEL PRESENTE VOLUME


  1799

  Pensieri della corte di Sicilia                        _pag._ 6
  Suo trattato colla Gran Brettagna                             7
  E coll'imperatore Paolo                                       7
  E colla Porta                                                 7
  Cardinale Ruffo in Calabria                                   8
  Proni, Mammone, Sciarpa, Fra Diavolo, Decesari                8
  Vescovo di Policastro                                         8
  Il cardinale assalta Altamora e la distrugge                  9
  Gravina distrutta                                            10
  Lucera ed altre città si arrendono                           10
  Russi, Inglesi ed Ottomani sbarcano a Manfredonia            10
  Micheroux gli conduce                                        10
  Entrano in Foggia                                            10
  Salerno presa dai regj                                       10
  Aversa si dichiara pel re                                    10
  Proni negli Abruzzi                                          12
  Inglesi innanzi a Napoli                                     12
  Speciale, chi fosse                                          12
  Congiura dei fratelli Bacher                                 12
  Scoperta dalla San Felice                                    13
  Angustie dei repubblicani in Napoli                          13
  Ritrovi di Napoli, domanda di uno di essi                    14
  Canonico Luparelli                                           14
  Vincenzo Lupo                                                14
  Legge crudele                                                14
  Ritrovo dell'accademia dei nobili                            15
  Minaccia Pignatelli di Monteleone e Bruno Foggia             15
  E il ministro Doria                                          16
  Nome di Ferdinando abolito                                   16
  Fanatismo politico                                           17
  Eleonora Fonseca, scrive un monitore                         17
  Frate Michelangelo Ciccone traduce il Vangelo in
    volgar Napolitano                                          18
  Fra Benoni predica in piazza                                 18
  Arcivescovo di Napoli                                        18
  San Gennaro fatto democratico                                19
  Mantonè                                                      19
  Duchesse di Cassano e di Popoli                              20
  Schipani, Ettore de Ruvo e Belpuzzi escono alla guerra       20
  Ordinamenti di Mantonè                                       20
  Belpuzzi, Ruvo e Sciarpa sono rotti                          21
  Ruffo s'avvicina alla capitale                               21
  Fuorusciti Calabresi                                         21
  Principe di Roccaromana                                      22
  Prigionieri salvati da morte dal popolo                      23
  Mantonè esce alla guerra ma poi ritorna in Napoli            23
  Schipani fatto prigione                                      24
  Diserzione di Roccaromana                                    24
  Forte di Viviena assaltato                                   25
  Antonio Toscano                                              25
  Bacher condannato a morte                                    26
  Assalto e difesa di Napoli                                   26
  Luigi Serio                                                  26
  Writz Svizzero                                               27
  Crudeltà di Ruffo in Napoli                                  28
  San Gennaro degradato e in suo luogo posto Sant'Antonio      30
  Assalto ai castelli                                          31
  Deliberazione nei castelli                                   32
  Mejean comandante Francese                                   32
  Pensieri di Ruffo                                            33
  I castelli capitolano                                        34
  Nelson rompe la capitolazione                                36
  Mejean si arrende e sua infamia                              39
  Capua e Gaeta si arrendono                                   40
  Speciale ed altri carnefici                                  41
  Supplizio di Mario Pagano e Domenico Cirillo                 41
  Di Francesco Conforti                                        43
  Di Vincenzo Russo                                            43
  Pasquale Baffi                                               44
  Mantonè                                                      45
  Tradimento di Sassetta                                       45
  Supplizio di Eleonora Fonseca Pimentel                       46
  Generoso fine di Velasco                                     46
  Niccolò Fiani                                                46
  Gio. Battistessa                                             47
  Altri supplizi                                               47
  Ettore Ruvo                                                  47
  Francesco Caraccioli                                         47
  Numero delle vittime                                         49
  Cimarosa come liberato                                       50
  Ricompense al cardinale Ruffo ed a Nelson                    51
  Repubblica Romana in pericolo                                51
  Garnier capitola                                             54
  Froelich assedia Ancona                                      55
  Nuovo governo in Roma                                        55
  Conte Torriglioni                                            56
  Zaccaleoni e Dematteis                                       56
  Crudeltà dei Napolitani                                      56
  Monnier in Ancona                                            57
  Ammiraglio Woinowich                                         59
  Donato de Donatis                                            59
  Diserzione di Lahoz                                          59
  Generale Pino                                                61
  Scaboloni, Cellini e Vanni                                   62
  Guerra minuta intorno Ancona                                 63
  Ancona battuta dagli alleati                                 64
  Froelich sotto Ancona                                        65
  Lahoz ucciso, sue estreme parole                             66
  Skal mandato ad intimare la resa di Ancona                   69
  Monnier si arrende                                           69
  Mejean unico dei comandanti Francesi, infame                 70
  Stato della Francia                                          71
  Opinione in favore di Buonaparte                             73
  Sieyes e Barras favoriscono Buonaparte                       75
  Luciano Buonaparte                                           75
  Buonaparte arriva in Francia                                 76
  S'impadronisce del governo                                   77
  Richiama gli esuli                                           79
  Cabanis                                                      80
  Buonaparte pacifica la Vendea                                81
  Alletta i preti                                              81
  Onora la memoria di Pio VI                                   81
  Conclave in Venezia                                          82
  Buonaparte offre la pace all'Inghilterra                     84
  Sua lettera al re Giorgio                                    84
  Risposta                                                     84
  Dissapori tra Russia ed Austria                              85
  Buonaparte si guadagna Paolo imperatore                      86
  Paolo si volta contro gli alleati                            87
  Buonaparte riconosciuto dalla Prussia                        87
  Tenta l'Austria, ma indarno                                  88
  Buonaparte provvede alla guerra                              89
  Conferma Moreau all'esercito del Reno                        89
  Manda Massena a Genova                                       89
  Sue parole ai soldati                                        90
  Disposizione dell'esercito Francese in Italia                91
  Errori di Melas                                              92
  Disposizione dell'esercito Austriaco                         94
  Parole di Melas ai Genovesi                                  94
  Azzeretto fuoruscito Genovese                                95
  Battaglia di Cadibuona e di monte Ajuto                      96
  Savona presa dagli Austriaci                                 97
  Altre fazioni in riviera di Levante favorevoli
    agli Austriaci                                             98

  1800

  Disposizioni di Massena                                      99
  Melas ridotto a cattivo passo a Voltri                      101
  Costringe Massena a ritirarsi                               102
  Miollis combattuto da Otto                                  103
  Suchet si ritira oltre il Varo                              104
  Ventimiglia preso dai Tedeschi                              104
  Melas ingannato da Buonaparte                               105
  Descrizione di Genova                                       106
  Massena con quali forze difende Genova                      107
  Rossignoli capitano Piemontese                              107
  Azzeretto sotto Genova                                      108
  Otto governa l'assedio                                      109
  Soult ferito e prigione                                     111
  Fame e malattie in Genova                                   111
  Prezzo dei viveri in Genova                                 113
  Massena rende Genova                                        116
  Reggenza creata dai Tedeschi                                117
  Buonaparte scende dal San Bernardo                          118
  Lecchi guida la Legione Italiana                            119
  Buonaparte a Ginevra                                        120
  Disegno di Buonaparte                                       121
  Parole di Berthier ai soldati                               122
  Spirito dei soldati Francesi                                123
  Loro viaggio pel San Bernardo                               124
  Giungono all'Ospizio                                        126
  Forte di Bard                                               128
  Artificio di Berthier per iscansarlo                        130
  Altro stratagemma di Marmont                                130
  Il forte di Bard si arrende a Chabran                       131
  Lannes mandato a Chivasso                                   132
  Pavetti consiglia Lannes                                    132
  Buonaparte a Milano                                         134
  Riordina la Cisalpina                                       134
  Lannes prende Pavia                                         135
  Pensieri di Melas                                           135
  Murat s'impadronisce di Piacenza                            135
  Battaglia di Casteggio                                      136
  Otto si ritira vinto a Voghera                              137
  Errore di Buonaparte nel dividere l'esercito                139
  Desaix, Bondet e Monnier spartiti a diverse fazioni         139
  Gardanne prende Marengo                                     139
  Battaglia di Marengo                                        140
  Keim riprende Marengo                                       142
  Champeaux ucciso                                            142
  Stretta di Buonaparte                                       143
  Errori di Esnitz                                            143
  Arrivo di Monnier                                           143
  Cara-San-Cyr                                                143
  La vittoria pende a favore di Austria                       144
  Arrivo di Desaix                                            145
  Partito che prende Buonaparte                               145
  Desaix ucciso                                               146
  Kellermann decide la vittoria                               146
  Zach e i suoi Ungaresi si arrendono                         147
  Melas si ritira                                             147
  Perdite                                                     147
  Detto di Buonaparte a Kellermann                            148
  Melas patteggia una tregua                                  149
  Buonaparte come ricevuto a Milano                           150
  Qual governo vi stabilisca                                  151
  Petiet ministro di Francia                                  151
  Offerte di Buonaparte al re di Sardegna                     152
  Governo che stabilisce in Piemonte                          153
  Stato del Piemonte                                          153
  Ranza tornato in Piemonte                                   156
  Sette in Piemonte                                           157
  Prina consiglia lo smembramento del Novarese                157
  Stato di Genova                                             158
  Pestilenza a Genova                                         161
  Pio VII creato pontefice                                    161
  Giunge a Roma                                               162
  Vaubois comanda la Valletta di Malta                        164
  È assediato da Nelson                                       165
  Nicolò Isoard maestro di musica in Malta                    165
  Vaubois si arrende                                          166
  Isole Joniche fatte dipendenti dalla Turchia                167
  Nuovi apparecchi di guerra                                  168
  Marchese Sommariva in Toscana                               169
  Buonaparte manda Dupont a impadronirsi della Toscana        169
  Manda Monnier contro Arezzo e Clement contro Livorno        169
  Navi Inglesi sorprese                                       170
  Gli Aretini si difendono                                    170
  Arezzo presa e saccheggiata                                 171
  L'Inghilterra stimola l'imperatore                          171
  Forma degli eserciti Francesi ed Austriaci                  172
  Brune comanda l'esercito d'Italia                           172
  Macdonald varca lo Spluga                                   173
  Baraguey d'Hilliers scende in Valtellina                    173
  Come i Francesi varcassero lo Spluga                        174
  Bufera                                                      174
  Laboissiere giunge sulla cima ed è accolto dai religiosi    174
  Nuovo pericolo di Macdonald                                 175
  Giunge nella Valtellina                                     177
  Le ostilità incominciano                                    178
  Ruggiero di Damas condusse i Napolitani contro Francia      178
  Brune pensa a passare il Mincio                             179
  Errore di Dupont nel prendere Pozzuolo                      180
  È assaltato da Bellegarde                                   181
  È soccorso da Suchet                                        181
  Bellegarde rotto si ritira sulla sinistra dell'Adige        182
  Moreau vince a Hohenlinden l'arciduca Giovanni e
    stabilisce una tregua                                     183

  1801

  Bellegarde propone a Brune una tregua e perchè ricusata     184
  Laudon inganna Moncey                                       185
  Tregua tra Brune e Bellegarde                               186
  Sommariva e Ruggiero di Damas mettono in moto la Toscana    187
  Pino mette in fuga i Napolitani                             187
  Murat va contro Napoli                                      188
  Carolina va a Pietroburgo e implora la protezione di Paolo  189
  Paolo manda Lewashew in Italia                              189
  Tregua tra Francia e Napoli                                 189
  Trattato di Luneville                                       190
  Altro trattato tra Francia e Napoli                         191
  E tra Francia e Spagna                                      191
  Stato della religione in Francia                            194
  Buonaparte la favorisce                                     196
  Concilio di Parigi                                          196
  Seguaci di monsignor Ricci in Italia                        198
  Benedetto Solaro vescovo di Noli                            199
  Pio VI condanna le dottrine dei vescovi giurati             199
  Pensieri di Buonaparte su queste contese teologiche         201
  Sua opinione sui giansenisti                                201
  Cardinali Consalvi, monsignor Spina, e il padre Caselli
    mandati dal papa a Parigi                                 203
  Giuseppe Buonaparte, Cretet e Bernier conchiudono
    il concordato                                             203
  Concilio nazionale di Parigi disciolto                      205
  Contrarietà a Roma pel concordato                           205
  Decisione del cardinale Albani e del padre Merenda          207
  Pio ratifica il concordato                                  209
  Circolare del consolo ai vescovi                            210

  1802

  Sue regole di disciplina ecclesiastica                      211
  Parole del papa in concistoro                               213
  Pensieri del consolo sul Piemonte                           215
  Marchese di San Marsano in Parigi                           215
  Vittorio Alfieri                                            215
  Paolo imperatore di Russia strozzato                        216
  Nuova costituzione data al Piemonte                         216
  Deputati Piemontesi a Parigi                                217
  Buonaparte tenta Alessandro                                 217
  Tende alla monarchìa                                        219
  Jourdan levato dal governo di Torino, e Menou mandato
    in suo luogo                                              220
  Murat come si governa col papa e col re di Napoli           222
  Suo decreto contro gli esuli Italiani                       222
  Fa lo stesso la Cisalpina                                   223
  Re di Etruria                                               224
  Saliceti mandato a riformar Lucca                           225
  Morte del duca di Parma                                     226
  Moreau di san Mery mandato a governar Parma                 226
  Artifizj di Buonaparte in Italia                            226
  Consulta di Lione e persone mandatevi                       229
  Buonaparte a Lione                                          231
  È nominato presidente della Cisalpina                       232
  Risposta di Buonaparte                                      233
  La Cisalpina mutata in repubblica Italiana                  234
  Prina                                                       234
  Melzi vicepresidente                                        234
  Nuova costituzione; ordini ecclesiastici                    234
  Ordini civili                                               235
  Primo ministro di Finanza                                   237
  Ceroni esiliato                                             238
  Teuillet e Cicognara                                        238
  Opere di magnificenza                                       239
  Sospetti delle potenze                                      239
  Scrittura di Buonaparte                                     240
  Nuova costituzione a Genova                                 241
  Saliceti ministro a Genova                                  243
  Statua a Colombo e a Buonaparte                             244
  Famiglia Buonaparte originaria di Sarzana                   244
  Carlo Emanuele abdica in favore di Vittorio Emanuele        245
  Buonaparte unisce il Piemonte alla Francia                  245
  Condizione degli stati d'Italia                             246

  1803

  Lodovico re di Etruria muore                                247
  Reggenza di Maria Luisa                                     247
  Murat governa la Toscana                                    247

  1804

  Febbre gialla di Livorno                                    248
  Dottore Palloni                                             253
  Concordato per l'Italia                                     258
  Buonaparte tende alla corona                                260
  Duca d'Anghienna ucciso                                     262
  Napoleone imperatore de' Francesi                           262
  La Prussia ve lo incita                                     262
  Marchese Lucchesini ministro di Prussia                     264
  Protesta di Luigi XVIII                                     264
  Pio VII chiamato a Parigi                                   265
  Opposizioni delle corti                                     265
  Discorso di Pio in concistoro                               268
  Come trattato da Buonaparte                                 272
  Detto di Buonaparte a Cervoni                               273

  1805

  Deputati Italiani a Parigi                                  275
  Discorso di Melzi                                           275
  Napoleone dichiarato re d'Italia                            277
  Parole di Napoleone in Senato                               279
  Eugenio vicerè d'Italia                                     280
  Melzi guarda sigilli                                        280
  Napoleone in Piemonte                                       280
  Colloquio del papa e di Napoleone a Torino                  281
  Finta battaglia a Marengo                                   282
  Lannes maresciallo                                          283
  Napoleone a Pavia                                           284
  Discorso del rettore dell'università                        284
  Napoleone a Milano                                          285
  Caprara arcivescovo                                         285
  Lucchesini a Milano                                         286
  Altri ambasciatori                                          286
  Napoleone come tratta i legati Liguri                       287
  Incoronazione                                               288
  Napoleone unisce la Liguria alla Francia                    290
  Discorso del doge Durazzo                                   292
  Principe Lebrun a Genova                                    292
  Napoleone a Genova                                          292
  Luigi Corvetto                                              295
  Bartolomeo Boccardi                                         295
  Napoleone ritorna a Parigi                                  299
  Lebrun come governa Genova                                  299
  Fine della repubblica di Lucca                              300
  Pio ritorna a Roma                                          300
  Ricci vescovo di Pistoja                                    301
  Sua ritrattazione                                           303
  Gesuiti                                                     305
  Sono rinnovati                                              307
  Gabriele Gruber                                             307
  Risentimento delle potenze contro Napoleone                 308
  Guglielmo Pitt                                              309
  Trattato di Pietroburgo                                     310
  Barone di Novosiltzoff mandato a Parigi                     310
  Dichiarazioni dell'Austria                                  311
  Arciduca Ferdinando comanda l'esercito Austriaco            313
  Generale Mack                                               313
  Arciduca Carlo coll'esercito d'Italia                       313
  Arciduca Giovanni                                           313
  Massena comanda l'esercito d'Italia                         313
  Re di Napoli si dichiara neutrale                           314
  San Cyr marcia verso l'Adige                                315
  Manifesto del vicerè                                        315
  Errore dell'arciduca                                        315
  Vittorie di Napoleone                                       316
  Massena assalta Verona                                      317
  Mack si arrende con tutto l'esercito                        318
  Battaglia di Caldiero                                       319
  L'arciduca si lagna di Wukassowich                          321
  Hillinger si arrende a Serras                               321
  Ritirata degli Austriaci                                    322
  Principe di Roano si arrende a San Cyr                      323
  Il re di Napoli rompe la neutralità                         324
  Napoleone vince ad Osterlizza                               325
  Pace di Presburgo                                           325
  Le provincie venete unite al regno d'Italia                 326
  Parole di Napoleone contro il re di Napoli                  326

  1806

  Giuseppe marcia contro Napoli                               327
  Cardinal Ruffo mandato a Napoleone                          328
  Re di Napoli abbandonato dagl'alleati                       329
  Ferdinando si ritira in Sicilia                             329
  Francesi assaltano Gaeta                                    330
  Entrano in Napoli                                           330
  Saliceti capo della reggenza a Napoli                       331
  Ruggiero di Damas rotto                                     331
  Rodio preso                                                 332
  Frà Diavolo                                                 332
  Moti in Calabria                                            332
  Giuseppe re delle due Sicilie                               333
  Marchese del Gallo                                          334
  Cardinal Ruffo                                              334
  Inviato Turco a Napoli                                      335
  Stuart comanda le forze Britanniche in Sicilia              335
  Sidney Smith in Sicilia                                     336
  S'impadronisce di Capri                                     336
  Sbarco d'Inglesi in Calabria                                337
  Battono Regnier a Maida                                     337
  Generale Compère prigione                                   339
  I Calabresi si sollevano                                    340
  Pane di Grano e frà Diavolo                                 340
  Gl'Inglesi ritornano in Sicilia                             341
  Principe d'Assia ferito in Gaeta                            341
  Gaeta si arrende                                            341
  Campredon come ripreso da Napoleone                         341
  Massena mandato in Calabria                                 341
  Crudeltà                                                    342
  Bocche di Cattaro si sollevano                              343
  Marchese Ghisilieri condannato e perchè                     343
  I Francesi s'impadroniscono di Ragusi                       344
  Marmont spegne i Montenegrini                               344
  Dandolo provveditore                                        344


FINE DELL'INDICE.


Correzione

Dalla pagina 99 in avanti invece dell'anno 1799 leggasi 1800.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (signoria/signorìa e simili), correggendo senza
annotazione minimi errori tipografici.





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