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Title: Annali d'Italia, vol. 3 - dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750
Author: Muratori, Lodovico Antonio
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Annali d'Italia, vol. 3 - dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750" ***


  Nota del Trascrittore

  Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così
  come le grafie alternative (Peregrinus/Peregrinius, Regino/Rhegino
  e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

  Convenzioni usate per la riproduzione del testo:
  _xxx_ : testo in _corsivo_
  [=xxx]: testo [=sopralineato] (abbreviazioni latine nelle iscrizioni)



ANNALI D'ITALIA 3



                ANNALI D'ITALIA

        DAL PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE
              SINO ALL'ANNO 1750


                 _COMPILATI_

            DA L. ANTONIO MURATORI

      E CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI


           _Quinta Edizione Veneta_

                VOLUME TERZO


                   VENEZIA
    DAL PREMIATO STAB. DI G. ANTONELLI ED.
                    1845



ANNALI D'ITALIA

DAL PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE FINO ALL'ANNO 1500



    Anno di CRISTO DCLXIII. Indizione VI.

    VITALIANO papa 7.
    COSTANTINO, detto COSTANTE, imperadore 23.
    GRIMOALDO re 2.


Al presente anno rapportò il cardinal Baronio[1], e dopo lui Camillo
Pellegrino[2], il principio del regno di _Grimoaldo_. Ma sapendo noi da
Paolo Diacono[3], che succedette l'assedio di Benevento prima che
l'imperador _Costante_ venisse a Roma, ed essendo egli arrivato a Roma
nel dì cinque di luglio di quest'anno, correndo l'_indizione sesta_,
dopo essere stato presso Benevento, come troviamo asserito anche da
Anastasio[4]: per conseguente bisogna supporre che Grimoaldo nel
precedente anno 662 dopo il mese di luglio occupasse il regno dei
Longobardi (al che occorse non poco tempo), e che nel presente poi
venisse da Pavia in soccorso dell'assediata suddetta città di Benevento.
Convien dunque sapere che l'imperador Costante, uscito di Costantinopoli
nell'anno addietro, al comparire della primavera proseguì la sua
navigazione sino ad Atene, e di là poi venne a Taranto. Quivi inteso
come Grimoaldo con essersi portato a Pavia avea lasciato con poche forze
Benevento, e al suo governo _Romoaldo_, giovane poco pratico nel mestier
della guerra, s'avvisò che questo fosse il tempo propizio per iscacciar
di colà i Longobardi. Perciò colle truppe che seco avea condotto, e coi
presidii di varie città marittime a lui sottoposte, e con quanti soldati
potè trarre dalla Sicilia, determinò di passare all'assedio di
Benevento. Prima di farlo, narra Paolo Diacono[5] ch'egli volle
consultare intorno a questa impresa un santo romito che era in concetto
di predir le cose avvenire. Parlò con lui, dimandandogli se gli
riuscirebbe di abbattere i Longobardi. Prese tempo il buon servo di Dio
per far prima orazione, e la seguente mattina gli rispose, che per ora
la gente longobardica non potea essere vinta, perchè una regina venuta
da straniero paese (cioè _Teodelinda_) avea nel regno longobardico
fabbricata una basilica in onore di san Giovanni Battista, il quale
continuamente colla sua intercession presso Dio proteggeva la nazion
longobarda. Ma che verrebbe un dì che i Longobardi non farebbono più
conto di quel sacro luogo, ed allora arriverebbe la rovina di quella
nazione. Il che, soggiugne esso Paolo Diacono, s'è in fatti verificato
a' miei giorni, perchè avanti che succedesse l'estinzione del regno de'
Longobardi, coi miei occhi ho veduto quella stessa basilica, esistente
in Monza, data in preda a vili persone, e posti al governo d'essa
sacerdoti indegni e adulteri, perchè non più a gente di merito, ma
solamente a chi più danaro spendeva, era conferito quel venerabil luogo.
Ora l'imperador Costante con tutto il suo sforzo uscito di Taranto,
ostilmente entrò nel ducato beneventano, e prese quante città de'
Longobardi incontrò per cammino. Trovò resistenza a _Luceria_ (oggidì
_Nocera_), città ricchissima della Puglia in que' tempi; però convenne a
forza di armi e d'assedio espugnarla. Impadronitosene sfogò il suo
sdegno contra d'essa con guastarla sino ai fondamenti. Intraprese anche
l'assedio di _Acheronzia_ (oggidì _Acerenza_), ma per la forte
situazione non potè sottometterla. Passò di là sotto Benevento, ed
assediollo con tutto il suo esercito. Ai primi movimenti del nemico
imperadore, _Romoaldo_, figliuolo del re Grimoaldo, già da lui
dichiarato _duca di Benevento_, inviò a Pavia _Sesualdo_ suo balio a
pregare il padre, che il più sollecitamente che potesse accorresse in
aiuto di lui e de' suoi Beneventani. Non perdè tempo Grimoaldo, e
raunata tosto una potente armata, si mise in viaggio alla volta di
Benevento. Ma per istrada moltissimi de' Longobardi desertarono e se ne
tornarono alle lor case, persuadendosi che Grimoaldo, con avere
spogliato il regal palazzo di Pavia, più non fosse per ritornare in
quelle contrade.

In questo mentre l'imperadore con tutte le macchine da guerra continuava
vigorosamente l'assedio intrapreso; ma il duca Romoaldo, tuttochè
giovinetto, faceva una gagliarda difesa. Non era tale la guarnigione
ch'egli potesse azzardarsi ad uscire in campo per tentar la sorte d'una
battaglia; contuttociò in compagnia de' più bravi giovani facea delle
frequenti sortite, uccidendo non pochi de' nemici, e tenendoli in un
quasi continuo allarme. Allorchè Grimoaldo suo padre, camminando a gran
giornate, cominciò ad accostarsi ai confini del ducato beneventano,
spedì innanzi il suddetto balio di suo figliuolo, acciocchè cautamente
penetrando nella città assediata, incoraggisse i difensori colla
sicurezza dell'imminente soccorso. Ma Sesualdo sfortunatamente cadde in
mano de' Greci, che da lui seppero come il re Grimoaldo veniva a far
loro una visita. Di più non ci volle, perchè l'imperador Costante
trattasse subito aggiustamento col duca Romoaldo, per potersi ritirar
con vantaggio da quell'impresa. Fu fatta la capitolazione, e data a
Costante per ostaggio una sorella d'esso duca per nome _Gisa_ (_Gisela_
o _Gisla_, credo io, nome usato fra' Longobardi), la qual poscia non
potè più rivedere i suoi, essendo mancata di vita nel venire dalla
Sicilia, o nell'andarvi. Non esprime Paolo Diacono che patti seguissero;
ma sembra che si ricavi dalla vita di san _Barbato_ vescovo di quella
città, rapportata dall'Ughelli[6], che fosse pagata da Romoaldo a
Costante una buona somma d'oro e d'argento e di pietre preziose. Certo
la sorella data in ostaggio può far conghietturare, che fu accordata
qualche somma di danaro ad esso imperadore, di pagarsi con un respiro di
tempo. Aggiugne successivamente Paolo Diacono che l'imperadore fece
condurre sotto le mura il suddetto Sesualdo, con intimargli di far
sapere agli assediati che Grimoaldo non potea venire in lor aiuto; cosa
ch'egli promise d'eseguire. Dimandò egli di parlare con Romoaldo che in
fretta comparve sulle mura. Allora Sesualdo gli disse che tenesse forte,
nè avesse paura, perchè s'avvicinava il poderoso soccorso del padre già
pervenuto al fiume Sangro; e che solamente gli raccomandava di aver cura
e compassione di sua moglie e de' suoi figliuoli, ben sapendo che la
perfida nazione de' Greci nol lascerebbe sopravvivere. Tanto in fatti
avvenne. Non sì tosto ebbe finito di dir queste parole, che, per ordine
dell'imperadore, tagliato gli fu il capo, e questo con una petriera
gittato nella città. Un principe magnanimo non avrebbe operato così.
Portata essa testa al duca Romoaldo, con calde lagrime e baci fu da lui
ricevuta, e in un degno sepolcro dipoi riposta. Non si sa ben intendere
come seguisse questo fatto. Perchè se, prima di conchiuder la pace,
Sesualdo parlò con Romoaldo, questi non avea bisogno di far
capitolazioni, nè di comperare con sì grave pagamento e coll'ostaggio
della sorella la liberazion della città. Se poi dappoichè era seguita la
pace, non vi era bisogno di far credere a Romoaldo ch'egli non dovea
sperare soccorso. Non volendo poi l'imperadore aspettar l'arrivo del re
Grimoaldo, levato il campo, s'inviò alla volta di Napoli; ma nel
passaggio del fiume Calore, gli fu addosso con un distaccamento
_Mittola_, ossia _Micola_ conte di Capua, che gli diede una buona pelata
in un luogo appellato tuttavia a' tempi di Paolo Diacono la _Pugna_,
ossia la _Battaglia_. Ma se era seguita pace, come poi seguitavano le
ostilità? Il dirsi poi dallo storico che fosse allora conte, cioè
governatore di Capua, quel Mittola, quando all'anno precedente vedemmo
_Trasimondo_ conte di quella città, ci chiama ad avvertire ciò che il
medesimo Paolo narra più di sotto, con dire che, dacchè Grimoaldo ebbe
liberato Benevento dai Greci, prima di tornarsene a Pavia, dichiarò
_duca di Spoleti Trasimondo_, dianzi conte di Capua, in premio d'averlo
ben servito ad acquistare il regno, giacchè per la morte di _Attone_ era
restato vacante quel ducato. E per maggiormente obbligarselo, gli diede
per moglie un'altra sua figliuola, di cui non sappiamo il nome. Però a
quest'anno appartiene questo nuovo duca di Spoleti; e forse Paolo per
anticipazione appellò Mittola conte di Capua.

Abbiamo poi dal medesimo storico[7] che, posta in sicuro la persona
dell'imperadore in Napoli, allora uno de' suoi grandi, appellato
_Saburro_, dimandò la grazia ad esso Augusto di poter andare a
combattere col duca _Romoaldo_, promettendosi una sicura vittoria di
lui. Fu esaudito, e andò. Ancor questo può far sospettare che non
sussista la pace suddetta. A questo avviso il re Grimoaldo volle in
persona uscire colla sua armata a provare il valore dei Greci; ma il
duca Romoaldo tanto il pregò che lasciasse a lui l'impresa, che
l'ottenne. E presa seco parte dell'armata paterna, con tutti i suoi andò
ad attaccar la zuffa, la quale fu con vigore sostenuta lungamente da
ambe le parti. Ma avendo uno de' Longobardi, appellato Amalongo, che
portava il Conto, cioè lo stendardo regale, con quello a due mani
percosso un Greco, levatolo di sella, ed alzatolo con esso sopra il suo
capo, il terrore a questa vista saltò addosso ai Greci, i quali presero
incontanente la fuga, e d'essi fu fatta una grande strage. Se ne ritornò
Saburro svergognato all'imperadore, e Romoaldo tutto lieto e glorioso al
re suo padre. Ma il racconto di questa battaglia e vittoria è
accompagnato da Paolo Diacono con un _ut fertur_: segno che non n'era
ben certo. E veramente par cosa da non digerire sì facilmente quella
galanteria di alzare in aria quel povero greco, o vivo o morto ch'ei
fosse. Certamente il buon Paolo non è avaro di lodi alla nazion sua
longobarda. Qui poi non si dee tacere quel che abbiamo dalla vita poco
fa mentovata di san _Barbato_ vescovo di Benevento. Professavano bene i
Longobardi beneventani la legge di Cristo, e prendevano il sacro
battesimo, ma ritenevano tuttavia dei riti gentileschi, come lungamente
ancora fecero i popoli franchi: cioè aveano in uso di adorar la vipera,
di cui ciascuno tenea l'immagine in casa sua. Regnava eziandio fra loro
una superstizione consistente in riguardare per cosa sacra un albero, a
cui pare che facessero dei sagrifizii o de' voti. Attaccavano anche ai
suoi rami un pezzo di cuoio, e correndo a briglia sciolta a cavallo,
gittavano all'indietro dei dardi a quel cuoio; e beato chi ne poteva
staccare un pezzetto: egli sel manicava con gran divozione. Barbato, non
per anche vescovo, predicò più volte contro di queste superstizioni, ma
predicò indarno. Venne poi l'assedio di Benevento: allora più che mai
san Barbato si scaldò in questo affare, di maniera che il duca Romoaldo
promise di estirparle, se Dio gli facea grazia di salvare la città da
quel pericolo, del che si fece mallevadore Barbato. Perciò appena fu
sciolto l'assedio, che il servo di Dio, presa una accetta, corse a
tagliar l'albero sacrilego fin dalle radici, e coprì il sito di terra.
Fu poi creato san Barbato vescovo di Benevento, e saputo che il duca in
un suo gabinetto seguitava a tener l'idolo della vipera, aspettò ch'egli
andasse alla caccia, e portatosi a _Teodelinda_ moglie di esso duca,
principessa veramente cattolica e pia, tanto disse, che si fece
consegnar quell'idolo d'oro, ed immediatamente rottolo, ne fece un
calice e una patena di mirabil grandezza, e placò dipoi miracolosamente
il duca pel furto piamente a lui fatto. S'ha nella stessa vita che san
Barbato ricusò il dono di molti poderi, esibitogli dal duca Romoaldo, e
solamente gli dimandò che fosse sottoposta ed unita alla Chiesa di
Benevento quella di Siponto coll'insigne grotta di san Michele nel monte
Gargano, che si trovavano in questi tempi deserte, verisimilmente perchè
saccheggiate dai Greci: il che gli fu accordato. E di questa unione si
truovano sicure memorie da lì innanzi. Ma non è già sicuro documento di
ciò una bolla di Vitaliano papa, pubblicata dall'Ughelli[8], ed
indrizzata _reverendissimo domino carissimo beneventanae ecclesiae
episcopo_, che così non hanno mai parlato i papi scrivendo ai vescovi.
Dicesi anche data _III kal. februarii, pontificatus anno primo,
Indictione XI_. Questa indizione denota l'anno 668, nel quale indubitata
cosa è che non correva l'anno primo del pontificato di papa Vitaliano:
nè allora i papi lasciavano nella penna gli anni dell'imperadore, come
ivi si osserva.

Passò di poi l'imperador _Costante_ da Napoli a Roma, e sappiamo da
Anastasio[9] che arrivò colà nel mercordì, giorno quinto di luglio. Gli
andò incontro papa _Vitaliano_ col clero sei miglia fuori della città, e
fatte le accoglienze, il condusse nel giorno stesso a san Pietro, dove
fece orazione e lasciò un dono. Nel sabbato appresso si portò a santa
Maria Maggiore, dove pratico lo stesso. Nella domenica seguente
processionalmente con tutto l'esercito suo tornò al Vaticano, essendogli
uscito incontro tutto il clero con doppieri accesi. In quella sacra
basilica si cantò messa solenne, e l'imperadore fece l'oblazione di un
pallio tessuto d'oro e di seta. Nel sabbato susseguente si trasferì alla
patriarcale lateranense, e quivi pranzò nella basilica di Giulio. Dopo
dodici dì di permanenza in Roma, Costante Augusto si congedò dal papa, e
misesi in viaggio alla volta di Napoli, con aver prima levata da quella
regina delle città tutti i bronzi che le servivano d'ornamento, e tolte
infino le tegole di bronzo, onde era coperta la chiesa di santa Maria ai
Martiri, cioè la Rotonda. Passò a Napoli, e quindi per terra fino a
Reggio di Calabria. Prima che terminasse l'anno mise piedi in Sicilia, e
prese ad abitare nella città di Siracusa. Poche parole ha sotto
quest'anno Teofane[10]; ma ci danno abbastanza a conoscere di grandi
sciagure accadute in Oriente al romano imperio, perchè gli Arabi, cioè i
Saraceni devastarono molte provincie cristiane, e condussero in
ischiavitù un'immensa quantità di persone. Se crediamo al Sigonio[11],
_Agone_, creato duca del Friuli nell'anno 661, terminò la sua vita
nell'anno presente, e fu conceduto quel ducato a _Lupo_. Ma il Sigonio
si fece tal cronologia sulle dita, poichè per conto del tempo nulla si
ricava da Paolo Diacono. Sembra più verisimile che _Agone_ molto prima
avesse quel governo, e fors'anche ebbe Lupo per successore prima
dell'anno presente.

NOTE:

[1] Baron., Annal. Eccl. ad hunc ann.

[2] Peregrinus de Finib. Ducat. Benevent.

[3] Paulus Diacon. lib. 5, cap. 11.

[4] Anastas. Bibliothec., in Vitalian.

[5] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 6.

[6] Ughell. Ital. Sacr. tom. 4, in Archiepiscop. Benevent.

[7] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 10.

[8] Ughell. Ital. Sacr. tom. 4 in Episc. Benevent.

[9] Anast., in Vitalian. Paul. Diac., lib. 5, c. 11.

[10] Theoph., in Chronogr.

[11] Sigon., de Regno Italiae.



    Anno di CRISTO DCLXIV. Indizione VII.

    VITALIANO papa 9.
    COSTANTINO, detto COSTANTE, imperadore 24.
    GRIMOALDO re 3.


Tornato che fu il re _Grimoaldo_ a Pavia, ebbe finalmente notizia che il
fuggito re _Bertarido_ s'era rifugiato nella Pannonia, ossia
nell'Ungheria presso di _Cacano_, cioè presso il re degli Unni Avari,
signore di quelle contrade. Spedì tosto colà ambasciatori per far sapere
ad esso Cacano, che s'egli pensava di voler ritenere Bertarido nel suo
regno, dichiarava spirata la pace fra lui e i Longobardi. Doveano allora
portare gl'interessi di Cacano che non fosse bene di romperla con
Grimoaldo: però, chiamato Bertarido, gl'intimò che andasse dovunque gli
piacesse, perchè a cagione di lui non voleva nimicizia nè guerra coi
Longobardi; e bisognò che Bertarido sloggiasse. Adriano Valesio e poscia
il padre Mabillone scoprirono una particolarità di questo fatto, che
merita ben d'esser ancor qui registrata. Siccome s'ha dalla vita di san
_Vilfrido_, arcivescovo di Yorch, scritta da Eddio Stefano autore
contemporaneo, stampata dal suddetto Mabillone[12], quel prelato
cacciato di casa, volendo venire a Roma nell'anno 679, passò per
Francia, ed arrivò _ad Berchterum regem Campaniae, virum humilem et
quietum, et trementem sermones Dei_. Acutamente avvertirono que'
valentuomini, per le cose che seguitano, parlarsi qui di _Bercterit_,
ossia _Bertarido_ re dei Longobardi, dappoichè egli ebbe ricuperato il
regno, siccome vedremo; nè saprei dire, perchè chiamato re della
_Campania_, se forse non fosse perchè egli comandava nella gran pianura
e _campagna_ della Lombardia. Ora il buon re Bertarido disse al santo
arcivescovo che erano venute persone apposta dalla gran Bretagna con
esibirgli de' grossi regali, s'egli il faceva prigione, ed impediva che
non andasse a Roma. Ma che egli, udita sì iniqua domanda, loro avea
risposto: _In mia gioventù anch'io cacciato dalla mia patria andai
ramingo, e cercai e trovai ricovero presso un certo re degli Unni di
setta pagano, il quale, con giuramento fatto al suo falso dio, si
obbligò di non darmi giammai in mano de' miei nemici, nè di tradirmi.
Dopo qualche tempo vennero i messi de' miei nemici, e promisero con
giuramento di dare a quel re un moggio pieno di soldi d'oro se metteva
me in loro potere, per levarmi poi la vita. Al che il re rispose: Mi
aspetterei tosto la morte dagli dii, se commettessi questa iniquità, e
calpestassi il giuramento fatto alle mie deità. Ora quanto più io, che
conosco e venero il vero Dio, debbo star lungi da tal misfatto? Io non
darei l'anima mia per guadagnar tutto il mondo._ Così un re longobardo,
il quale fece dipoi mille carezze al piissimo arcivescovo, e con buona
scorta il fece accompagnar fino a Roma. Ciò succedette nell'anno 679.
Tornando ora a Bertarido, che era stato licenziato dal re Cacano, non
sapendo egli dove volgere i passi per assicurarsi la vita, prese una
strana risoluzione[13], e fu di venire a mettersi in mano dello stesso
suo nemico, cioè del re Grimoaldo, giacchè la fama portava ch'egli fosse
un principe clementissimo, avvisandosi che gli permetterebbe di passar
il resto de' suoi giorni con qualche convenevol comodità in vita
privata. Arrivato a Lodi, mandò innanzi _Onolfo_, suo fidatissimo
servitore, per far sapere a Grimoaldo la sua venuta, e aver da lui le
necessarie sicurezze. Lieto Grimoaldo per questa nuova, generosamente
rispose che venisse pure, promettendogli, in parola di re, che niun male
gli farebbe. Venne Bertarido, volle inginocchiarsi, ma Grimoaldo
abbracciatolo come fratello il baciò: e con giuramento lo assicurò che
sarebbe da lì innanzi salvo, e ben trattato da lui. Gli fu assegnato un
palagio e tutto quel che gli occorreva per un signor il trattamento. Ma
seppesi appena nella città l'arrivo di Bertarido, che i cittadini
continuarono a folla a fargli delle visite; nè mancarono poi persone
maligne che rappresentarono a Grimoaldo, come egli era alla vigilia di
perdere il regno, se più lungamente lasciava in vita Bertarido. Non
cadde in terra il consiglio.

Grimoaldo in quella stessa sera mandò delle regalate vivande e de'
preziosi vini a Bertarido, acciocchè facendo banchetto, e largamente
bevendo, si ubbriacasse, con pensiero poi di fargli qualche brutta
festa, dappoichè fosse ito a dormire. Ma Bertarido, destramente
avvertito da un suo famiglio di quel che si manipolava, mostrando di
bere spessissimo del vino alla salute del re, non bevve se non acqua,
portatagli in un bicchiero d'argento. Ritiratosi poi in camera, e
notificato quanto occorreva ad Onolfo e al suo guardarobiere, uomini
fidatissimi, si consigliarono di quel che s'aveva a fare in sì brutto
frangente. Quand'ecco arrivar le guardie del re che cinsero tutto il
palagio. Onolfo allora, avendo fatto vestir Bertarido in abito da
schiavo, e messogli sulle spalle un materasso coi panni da letto e una
pelle d'orso, sel mandò innanzi, ingiuriandolo e regalandolo anche di
bastonate. Arrivato alle guardie, che gli dimandarono che musica era
quella? _Eh_, rispose, _questo mascalzone m'avea preparato da dormire in
camera di quell'ubbriacone di Bertarido, che ronfa là annegato nel vino.
Io non vo' star più con quel pazzo. A casa mia, a casa mia._ Il
lasciarono andare: ed egli condotto il padrone al muro della città dalla
parte del Ticino, con una fune calò giù lui ed alcuno de' suoi famigli.
Bertarido con quella compagnia, avendo trovato dei cavalli alla pastura,
su quelli montato, colla maggior fretta possibile marciò alla città
d'Asti, dove avea di molti amici; di là poi passò a Torino, e poscia
felicemente arrivò nel paese della Francia. Dappoichè fu uscito
Bertarido della sua camera, vi si chiuse dentro il guardarobiere. Mandò
il re Grimoaldo a dire alle guardie che gli conducessero al palazzo
Bertarido, e però picchiarono all'uscito. Rispose di dentro il
guardarobiere, raccomandandosi che per carità lasciassero dormire anche
un poco il padrone, perchè era sì cotto dal vino, che non si sarebbe
potuto reggere in piedi. Portata al re questa risposta, replicò che non
tardassero ad eseguir gli ordini; e però, veggendo che il guardarobiere
andava temporeggiando per non aprire, forzarono essi la porta, e
cominciarono a cercare per tutti i buchi, dove fosse Bertarido. Non
trovandolo, in fine il guardarobiere fu obbligato a scoprire ch'era
fuggito. Furibondi allora i soldati se gli avventarono, e presolo pe'
capelli il trassero alla presenza del re Grimoaldo, come consapevole di
quella fuga, e degnissimo di morte. Grimoaldo, dopo avere ordinato che
il lasciassero, volle da lui intendere la maniera tenuta da Bertarido
per iscappare. E saputala, si rivolse ai suoi, chiedendo loro cosa si
meritava un uomo tale che avea servito a deludere gli ordini suoi. Mille
tormenti e la morte, risposero tutti. Ma Grimoaldo, principe magnanimo,
allora replicò: _Per Dio, che costui merita premio, perchè non ha avuto
difficoltà di espor la sua vita per salvare il padrone._ Ed in fatti lo
arrolò tosto fra i suoi guardarobieri, avvertendolo di avere pel nuovo
padrone quella stessa fedeltà che aveva avuto per Bertarido, e
promettendogli perciò di molti comodi. Volle poi sapere che fosse
divenuto di Onolfo, e gli fu detto che s'era ritirato in sacrato nella
basilica di san Michele Arcangelo. Affidatolo sulla sua parola, il fece
venire a palazzo, ed inteso da lui tutto il filo della fuga, il commendò
forte, e non solamente il mise in libertà, ma gli concedette ancora il
godimento di quanti beni a lui si appartenevano. Nulla dimeno poco tempo
passò che capitato Onolfo in corte, il re gli dimandò come se la
passava? Candidamente rispose, che amerebbe più di morire con Bertarido,
che di vivere altrove in mezzo alle delizie. Chiamato allora il
guardarobiere, volle udire di che sentimento egli fosse. Rispose anche
egli del medesimo tenore. Grimoaldo con gran benignità gli ascoltò, e
poscia ordinò ad Onolfo che prendesse quanto gli piaceva de' suoi servi,
cavalli e masserizie, e che gli permetteva di andarsene. Diede la stessa
licenza al guardarobiere: ed amendue, fatto un buon bagaglio, ed avute
buone scorte dal re, allegramente se ne andaron in Francia a trovare il
loro amatissimo padrone Bertarido. Per queste azioni gloriose, degne di
essere paragonate a quelle de' più illustri Romani è da lodar Grimoaldo,
se non che egli portava seco la macchia di avere proditoriamente
usurpato il regno altrui.

NOTE:

[12] Mabill., Annal. Bened., tom. 4, P. I, p. 691.

[13] Paulus Diacon. lib. 5, cap. 2.



    Anno di CRISTO DCLXV. Indizione VIII.

    VITALIANO papa 9.
    COSTANTINO, detto COSTANTE, imperadore 25.
    GRIMOALDO re 4.


Raccogliesi da Beda[14] che nel presente anno infierì molto la
pestilenza in Italia, e per questo malore l'ambasciatore del re
d'Inghilterra con quasi tutti i suoi domestici lasciò la vita in Roma. A
questo medesimo anno par che si possa riferire la guerra mossa dai re
franchi al re _Grimoaldo_. Dovette _Bertarido_, fuggito in Francia, così
ben perorare la causa sua presso di _Clotario III_ re di Parigi e della
Borgogna, con esporre la usurpazione ingiusta a lui fatta da Grimoaldo,
e la facilità che vi sarebbe di rimetterlo sul trono, stante il gran
numero de' suoi partigiani, qualora esso Clotario prendesse la sua
protezione, e spedisse un esercito in Italia, che quel re s'indusse a
muover guerra a Grimoaldo. Entrò l'armata francese per la parte della
Provenza nel Piemonte, ed arrivò fin presso alla città d'Asti. L'accorto
Grimoaldo, uscito anch'egli in campagna colla sua armata, fermò i nemici
in quel territorio, e quivi si accampò. Era principe sagace, e sapea le
furberie della guerra. Un dopo pranzo, fingendo un panico terrore, levò
all'improvviso il campo, e ritirossi con lasciar indietro le tende e
buona parte del bagaglio, e specialmente una quantità prodigiosa di cibi
e vini di buon polso. Caddero i Franzesi nella rete. Accortisi della di
lui fuga, diedero sacco al campo, e trovato sì buon preparamento di
mangiare e bere, fecero gran gozzoviglia, e si abboracchiarono in
maniera, che quasi tutti ubbriachi si diedero in preda al sonno. Ma non
fu sì tosto passata la mezza notte, che Grimoaldo voltata faccia, quando
men sel credeano, venne a far loro pagar lo scotto. Tanta strage ne
fece, che a pochi riuscì di portar salva la pelle alle loro case. Il
luogo dove seguì questo macello dei Franchi, Paolo Diacono scrive che a'
suoi dì si appellava _Rio_, ed era poco lungi della città d'Asti. Stava
intanto l'imperadore _Costante_ in Siracusa. S'erano a tutta prima
immaginati i Siciliani che la buona ventura fosse venuta a trovarli in
mirando piantata la sedia imperiale nella lor isola. Si disingannarono
ben tosto. Io non so se perchè questo principe era d'inclinazion troppo
cattiva, oppure perchè la necessità l'astrignesse, per non poter tirare
da Costantinopoli e dall'Oriente alcun danaro e sussidio pel grandioso
suo mantenimento, egli si desse a far delle insopportabili avanie a quei
popoli. Sì Anastasio[15] che Paolo Diacono[16] ci assicurano aver egli
talmente afflitti gli abitanti e possessori dei beni nelle provincie di
_Calabria_, _Sicilia_, _Sardegna_ ed _Africa_ con gabelle, capitazioni e
viaggi di navi, che non s'era, a memoria d'uomini, simil flagello
giammai patito. Restavano separate le mogli dai mariti, i figliuoli dai
genitori; in una parola, arrivarono tanto oltre i malanni, che non
restava più speranza di poter vivere alla gente. Nè già andarono i
luoghi sacri esenti da questa tempesta, perchè egli spogliò tutte le
chiese de' loro sacri vasi e dei loro tesori. Teofane[17], tuttochè
autor greco, nota anch'egli, forse sotto l'anno precedente, tanti essere
stati gli aggravii de' poveri Siciliani, che molti disperati scappando
andarono a fissar la loro abitazione a Damasco: il che a taluno potrebbe
sembrar cosa strana perchè i Saraceni signoreggiavano in quella città.
Ma quei popoli non si attentavano più a dimorar in paese, dove
comandasse un sì scellerato non imperadore, ma tiranno.

NOTE:

[14] Beda, Hist. Angl., lib. 5, cap. 1.

[15] Anast., in Vitalian.

[16] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 11.

[17] Theoph., in Chronogr.



    Anno di CRISTO DCLXVI. Indizione IX.

    VITALIANO papa 10.
    COSTANTINO, detto COSTANTE, imperadore 26.
    GRIMOALDO re 5.


Giacchè non si sa a qual anno precisamente si abbiano a riportare i
fatti del Friuli, riferiti da Paolo Diacono[18] circa questi tempi, mi
prendo la libertà di farne qui menzione. Morto che fu nei tempi addietro
_Agone_ duca del Friuli la cui abitazione in Cividal di Friuli tuttavia
a' tempi di Paolo Diacono esisteva, chiamata la Casa di Agone, fu
conferito siccome dicemmo, quel ducato a _Lupo_, uomo di pessimo
talento. Costui un giorno all'improvviso con un corpo di cavalleria fece
una sorpresa all'isola di Grado, poco lontana da Aquileia, passando per
una strada fatta a mano, che dalla terra ferma arrivava colà, la quale
par ben difficile a credersi, come notò il padre de Rubeis[19]. Era
quell'isola sottoposta all'imperadore, ed ivi dimorava il patriarca
cattolico d'Aquileia, appellato gradense. Diede Lupo il sacco a quella
chiesa, e ne portò via tutto il tesoro. Allorchè poi dovette Grimoaldo
portarsi al soccorso di Benevento assediato, lasciò in Pavia come vicerè
e comandante questo Lupo, i cui fatti egregiamente corrispondevano al
nome, e gli raccomandò il suo palagio. Commise Lupo in tal congiuntura
non poche insolenze in quella città, perchè si lusingava che Grimoaldo
non avesse più a tornare; ma s'ingannò. Tornò Grimoaldo, e Lupo temendo
il gastigo de' suoi reati, si ritirò nel Friuli, dove diede principio ad
una ribellione contro del suo sovrano. Crede il suddetto padre de Rubeis
accaduto ciò nell'anno 664. Grimoaldo, che non amava molto
d'intraprendere una guerra civile di Longobardi contra Longobardi,
perchè non si fidava del popolo suo, segretamente mosse _Cacano_ re
degli Unni Avari, affinchè venisse dall'Ungheria a gastigare costui. A
man baciate abbracciò Cacano l'assunto, e con un formidabil esercito
giunse ad un luogo appellato Fiume, intorno al quale lascerò che
disputino gli eruditi furlani. Quivi se gli fece arditamente incontro il
duca Lupo, e, per quanto raccontarono a Paolo Diacono[20] alcuni vecchi
che s'erano trovati presenti a quella tragedia, operò di molte prodezze
contro di que' Barbari, coi quali per tre volte attaccò battaglia con
esito felice. Nella prima li sconfisse, con restar solamente feriti
alcuni dei suoi. Nella seconda furono alquanti dei suoi feriti e morti,
ma con assaissima strage degli Avari. Nella terza, ancorchè molti
Longobardi restassero feriti e morti, pur diede la rotta all'immenso
esercito di Cacano, e ne riportò un ricco bottino. Ma raccoltisi i
Barbari, vennero nel quarto giorno sì sterminatamente addosso a Lupo,
che la sua gente diede alle gambe, ed egli, amando piuttosto di morir
che di fuggire, dopo aver date quante prove potè del suo valore, lasciò
sul campo la vita. I fuggitivi furlani si ritirarono nelle castella più
forti per quivi far difesa, con abbandonar la campagna alla discrezion
degli Avari, i quali diedero il sacco a tutto il paese, e parecchi
luoghi consumarono col fuoco.

Ora avendo abbastanza operato a tenore dei desiderii del re Grimoaldo,
questi fece loro intendere che oramai cessassero di guastar quella
provincia, e se n'andassero con Dio. Ma quegl'infedeli non l'intendeano
così. La risposta, che spedirono per i loro ambasciatori a Grimoaldo, fu
che aveano preso il Friuli a forza d'armi, e che sel voleano ritenere
per loro. S'accorse allora Grimoaldo d'essersi tirata la serpe in seno;
tuttavia siccome principe animoso adunò in fretta quanti combattenti
potè, per cacciar coloro dal Friuli colle cattive, giacchè colle buone
più non si poteva; e andò ad accamparsi a fronte de' nemici. Vennero per
parlare con lui altri ambasciatori di Cacano, ed egli seppe ben
prevalersi della lor venuta. Era picciolo l'esercito longobardo; ma
l'accorto re, tenendo a bada con parole per varii giorni quegli
ambasciatori, ogni dì dava la mostra alle sue genti, e facendo prendere
varii abiti e diverse armi alle truppe già vedute, quasichè ogni dì
sopraggiugnessero dei nuovi reggimenti, più volte fece mirare a que'
Barbari sotto diversi aspetti le medesime milizie, in guisa che coloro
rimasero convinti della innumerabile armata de' Longobardi. Allora
Grimoaldo, fatti venire a sè gli ambasciatori: _Or bene_, disse,
_riferite a Cacano, che se non la sbriga di tornarsene a casa, con tutta
questa gran moltitudine che voi co' vostri occhi avete veduto, io verrò
tosto ad insegnargli la strada_. Di più non occorse. Cacano, avvertito
del pericolo in cui si trovava, decampò, e tornossene al suo paese.
Tentò dipoi _Varnefrido_, figliuolo di Lupo, di succedere in luogo del
padre nel ducato del Friuli; ma conoscendo di non aver forze da
contrastare col re Grimoaldo, ricorse agli Sclavi, o vogliam dire
Schiavoni nella Carintia, ed ebbe tal rinforzo da quella gente, che si
figurava già di poter ottenere il suo intento. Ma pervenuto al castello
di Nemaso poco lontano da Cividale, quivi dal forte esercito de' Furlani
perdè colla speranza del ducato anche la vita. Fu dunque creato duca del
Friuli _Vettari_, oriondo della città di Vicenza, uomo di grande
benignità, che soavemente governò dipoi quel paese.

Prima di questi tempi cominciò, e spezialmente prese vigore nell'anno
presente, lo scisma della Chiesa di Ravenna. Abbiam veduto con quanta
sommessione e prontezza _Mauro_ arcivescovo di quella città intervenne
per mezzo de' suoi deputati al concilio lateranense sotto san Martino
papa nell'anno 649. Ma questo uomo, accecato dall'ambizione, cominciò da
lì innanzi a negare l'ubbidienza dovuta ai sommi pontefici, e praticata
da tutti i suoi antecessori[21]. La permanenza degli esarchi d'Italia in
Ravenna, quasichè quella fosse divenuta capo dell'Italia, servì ad
esaltar la superbia di questo prelato, ed a cercar la _autocefalia_,
ossia l'indipendenza da qualsivoglia Chiesa superiore, con trasgression
manifesta dei canoni del da tutti venerato concilio primo ecumenico
niceno. Racconta Agnello[22], che scrisse circa l'anno di Cristo 840, le
vite de' vescovi ravennati, autore per altro malaffetto verso la Sede
apostolica romana, che il papa (senza fallo _Vitaliano_) mandò a Ravenna
dei legati per intimare a Mauro arcivescovo la sommessione, alla quale
egli era tenuto verso il romano pontefice. Rispose Mauro insolentemente
di maravigliarsi di questo, perchè era seguito accordo fra loro di non
inquietare l'un l'altro, e di aver egli sopra ciò una scrittura
sottoscritta dal medesimo papa. Rapportata al pontefice questa risposta,
scrisse a Mauro, che se quanto prima non veniva a Roma, lo scomunicava.
Diede allora nelle smanie l'iniquo arcivescovo, e presa la penna scrisse
una lettera simile, in cui anch'egli scomunicava il papa. Fu portata a
Roma questa insolentissima lettera, e lettala, il pontefice in collera
la gittò per terra, e poi la fece raccogliere. Quindi portò le sue
doglianze all'imperador Costante, pregandolo di ridurre al dovere il
temerario arcivescovo. Ma nello stesso tempo scrisse anche Mauro
all'imperadore, implorando il di lui patrocinio alle sue pretensioni.
Costante, che altre vie non seppe mai battere, se non quelle
dell'iniquità, piuttosto che soddisfare alle giuste domande del papa,
volle sostener l'eccesso scandaloso dell'arcivescovo. Resta tuttavia il
diploma da lui scritto ad esso Mauro, cavato da un codice manuscritto
della bibblioteca estense, dove gli significa di aver dato degli ordini
in favore di lui a _Gregorio_ suo esarco: il che ci fa conoscere che a
_Teodoro Calliopa_ ora succeduto questo nuovo esarco _Gregorio_. Poscia
dichiara e determina che la Chiesa ravennate sia esente in avvenire da
ogni superiore ecclesiastico, e specialmente dall'autorità del patriarca
di Roma antica, di modo che goda il privilegio dell'_autocefalia_. Il
diploma è dato _kalend. Mart. Syracusa_. _Imperantibus dominis nostris
pissimis perpetuis Augustis, Costantino majore imperatore_ (il che fa
sempre più conoscere che il suo nome vero era _Costantino_ benchè l'uso
abbia ottenuto di chiamarlo _Costante_) _anno XXV_ (che tuttavia correa
nel marzo del presente anno), _et post consulatum ejus anno XIIII_ (si
ha da scrivere _XXIII_) _atque novo Constantino, Heraclio, et Tiberio, a
Deo con servatis filiis Constantini quidem anno XIIII Heraclio autem, et
Tiberio anno VII_. Concorrono tutti questi caratteri ad indicar l'anno
presente, e sempre più convincono i lettori essersi ancor qui troppo
sconciamente abusato della sua autorità l'imperador Costante, non
appartenendo a lui il mutar l'ordine della gerarchia ecclesiastica
stabilito dagli Apostoli e regolato dai concilii generali della Chiesa
di Dio. Ma di che non era capace questo empio ed infelice Augusto?

NOTE:

[18] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 17.

[19] De Rubeis, Monument. Eccl. Aquilejens. cap. 31.

[20] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 19.

[21] Agnell., in Vita Mauri, tom. 2. Rer. Ital. Rubeus. Hist. Ravennat.,
lib. 4.

[22] Agnell., tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCLXVII. Indizione X.

    VITALIANO papa 11.
    COSTANTINO, detto COSTANTE, imperadore 27.
    GRIMOALDO re 6.


Circa questi tempi il re _Grimoaldo_ diede per moglie a _Romoaldo_ duca
di Benevento, suo figliuolo, _Teoderada_ figliuola di _Lupo_ già duca
del Friuli[23], che gli partorì poi tre figliuoli, cioè _Grimoaldo II_ e
_Gisolfo_ (amenduni col tempo furono duchi di Benevento), ed _Arichi_,
ossia _Arigiso_. Vendicossi ancora di tutti coloro che, nell'andare ad
esso Benevento in soccorso del figliuolo, lo avevano abbandonato. Ma
soprattutto barbarica fu la sua vendetta contro la città del _Foro di
Popilio_, oggidì _Forlimpopoli_, perchè quel popolo, sottoposto
all'esarco di Ravenna avea fatto degl'insulti non solamente a lui nel
viaggio alla volta di Benevento, ma molte altre fiate ai suoi messi
nell'andare e venire da Benevento. Per l'Alpe di Bardone, cioè per la
via di Pontremoli, senza che se ne accorgessero i Ravennati, condusse
egli le sue truppe in Toscana in tempo di quaresima, e poi nel sabbato
santo piombò addosso a quella misera città, nel tempo appunto, che,
secondo l'uso d'allora, si faceva il solenne battesimo de' fanciulli
nella chiesa maggiore. A pochi, o a niuno perdonò la inumanità di quei
soldati, con aver fino svenati i diaconi che battezzavano i fanciulli.
Tale in somma fu la strage di quel popolo e il guasto della città, che
pochissimi abitatori vi restavano a' tempi di Paolo Diacono: crudeltà
degna di eterna infamia. Portava per altro il re Grimoaldo sommo odio ai
Greci e sudditi dell'imperadore, perchè contro la buona fede avessero
tradito ed ucciso i suoi due fratelli _Tasone_ duca del Friuli, e
_Cacone_. E questa fu la cagione che, quantunque la città di
_Opitergio_, oggidì appellata _Oderzo_, fosse già ridotta sotto il
dominio de' Longobardi, pure perchè ivi era succeduta la morte de' suoi
fratelli suddetti, la fece distruggere dai fondamenti, e partì poi quel
territorio, assegnandone una parte a _Cividal di Friuli_, un'altra a
_Trivigi_, e la terza a _Ceneda_.

NOTE:

[23] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 25.



    Anno di CRISTO DCLXVIII. Indizione XI.

    VITALIANO papa 12.
    COSTANTINO Pogonato imp. 1.
    GRIMOALDO re 7.


Fu questo l'ultimo anno della vita di _Costantino_, che noi sogliamo
appellare _Costante_ imperadore. L'odio universale dei popoli, ch'egli
s'era guadagnato colle immense sue estorsioni ed angherie lor fatte, e
il discredito in cui era per le sue empie azioni, diedero moto ed animo
ad una congiura contro di lui. Però sul fine di settembre dell'anno
presente, essendo già incorso l'_indizione XII_, come abbiamo da
Anastasio bibliotecario[24], da Paolo Diacono[25] e da Teofane[26],
trovandosi egli nel bagno in Siracusa, fu quivi da un Andrea figliuolo
di Troilo ucciso. Entrati gli uomini della sua corte, il trovarono senza
vita, e diedero sepoltura al suo corpo. Dopo di che un certo _Mizizio_
(così lo chiama Teofane), oppur _Mecezio_ (come ha Paolo Diacono) si
fece proclamar imperadore. Teofane scrive ch'egli fu forzato a prendere
l'imperio essendo giovane di bellissimo aspetto e di nazione armeno;
eppure confessa ch'egli era de' congiurati. Giunta a Costantinopoli la
nuova di questo successo, _Costantino_ suo primogenito, dichiarato già
imperadore dal padre nell'anno 654, prese le redini del governo. Era
egli assai giovinetto, ma perciocchè dopo l'impresa di Sicilia tornò a
Costantinopoli colla barba che gli spuntava sul volto[27], perciò ebbe
il soprannome di _Pogonato_ cioè _barbato_. Diedesi in quest'anno esso
giovane Augusto a far quanti preparamenti poteva, sì per vendicar la
morte del padre, che per liberar l'imperio del tiranno Mecezio, e
nell'anno vegnente, siccome vedremo, gli riuscì felicemente l'impresa.
Fu questo principe di religione e di costumi diverso dal padre. In
quest'anno ancora il re _Grimoaldo_ fece una giunta di alcune leggi a
quelle del re Rotari. Dal prologo[28] si veggono pubblicate _anno Deo
propitio regni mei sexto, mense julio, indictione XI_, e per conseguente
in quest'anno. Dovea già aver preso un gran possesso fra i Longobardi
l'empio abuso dei duelli, non già per bestiale appetito di vendetta o
per puntigli, come si usava negli ultimi secoli addietro, ma per
indagare con questa barbara invenzione il giudizio di Dio intorno alla
verità o falsità dei delitti, o alla giustizia od ingiustizia delle
pretensioni. Qualche freno vi mise il re Grimoaldo, con ordinare che se
constava che un uomo libero per trent'anni fosse vivuto in istato tale,
non potesse alcuno sfidarlo al duello in vigore di qualche pretensione
che costui fosse suo servo, cioè schiavo. Però bastava che questo uomo
adducesse davanti ai giudici i testimonii del possesso della libertà
durante lo spazio di essi trent'anni, per esentarsi da ogni altra
molestia. Lo stesso fu decretato in favore di chi provava di aver
posseduto per lo suddetto spazio di tempo case, servi e terre.
All'incontro, alle mogli accusate d'aver operato contro l'onore e la
vita de' mariti, era permesso di giustificarsi col giuramento, oppur col
combattimento: nel qual caso la donna sceglieva un campione ossia
combattente per la parte sua. Non parlo delle altre leggi, nelle quali è
prescritto che dee pagarsi dai padroni per gli delitti de' servi, e qual
pena si desse a chi, lasciata la moglie sua, un'altra ne prendeva:
oppure alle donne che prendevano per marito chi avea già moglie,
tuttochè informate dello stato di quell'uomo. In quest'anno _Teodoro_
monaco greco, poscia arcivescovo dorovernense, ossia di Cantorberi fu
inviato in Inghilterra da papa _Vitaliano_[29], ed è quel medesimo che
compilò dipoi ed accrebbe i canoni penitenziali, mise in credito le
lettere latine e greche in que' paesi ed allevò dei valenti discepoli,
con istabilire ancora il canto ecclesiastico in quelle chiese.
Probabilmente si prevalse degli sconcerti accaduti in Sicilia _Romoaldo_
duca di Benevento, per vendicarsi del già ucciso _Costante_ Augusto, e
rendergli la pariglia dell'insulto già fatto a Benevento. Noi sappiamo
da Paolo Diacono[30] ch'egli, raunata una buona armata, si portò
all'assedio della città di _Taranto_, e cotanto la combattè, che la
forzò alla resa. Altrettanto fece di quella di _Brindisi_: con che
aggiunse tutti quei contorni, cioè un buon tratto di paese, al suo
ducato beneventano.

NOTE:

[24] Anastas., in Vitalian.

[25] Paulus Diaconus, lib. 1, cap. 11.

[26] Teoph., in Chronogr.

[27] Zonar., in Annal.

[28] Leges Langobard., tom. 2 Rer. Ital.

[29] Beda, Hist., Agnel. lib. 4, cap. 1.

[30] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 1.



    Anno di CRISTO DCLXIX. Indizione XII.

    VITALIANO papa 13.
    COSTANTINO Pogonato imp. 2.
    GRIMOALDO re 8.


Premendo all'imperador _Costantino_ Pogonato il fuoco nato in Sicilia
per la tirannia di _Mecezio_, ammassò quanta gente potè[31], facendone
venire dall'Istria, dall'Italia, dalla Sardegna e dall'Africa perchè
essa durava tuttavia alla divozion dell'imperio. Venne lo stesso giovane
Augusto in persona a questa impresa con una poderosa flotta. Fu dunque
presa Siracusa, trucidato il tiranno Mecezio, e il suo capo, con quelli
di molti altri, portato a Costantinopoli. In questa maniera restò
estinto il fuoco che si era acceso in queste parti, senza che si legga
che i Longobardi continuassero a prevalersene maggiormente in loro
vantaggio. Ciò fatto, l'imperadore se ne tornò lieto alla sua residenza
di Costantinopoli. Ma probabilmente Mecezio, prima che gli arrivasse
addosso sì gran tempesta, avea fatto ricorso per aiuto ai Saraceni.
Benchè costoro non venissero a tempo per soccorrerlo, pure si sa da
Anastasio[32] e da Paolo Diacono[33], che all'improvviso con molte navi
arrivarono in Sicilia, entrarono in Siracusa, e misero a fil di spada
quell'infelice popolo con essersene salvati pochi col favor della fuga.
Pare eziandio che scorressero pel resto dell'isola, commettendo gli atti
della medesima crudeltà dappertutto: ma questo non è certo. Per
attestato ancora del cardinal Baronio[34] e del padre Mabillone[35], non
son sicuri documenti di un tale eccidio una lettera scritta dai monaci
benedettini di Messina ai monaci romani abitanti nel Laterano, nè una
lettera di papa Vitaliano ai medesimi monaci messinesi: della prima
delle quali vien detto che Messina e novantotto altre città e ville
della Sicilia erano state saccheggiate e date alle fiamme dai Saraceni.
Asportarono in quell'occasione i Barbari tutti i bronzi che l'imperadore
Costante avea rubato ai Romani, e se ne tornarono ad Alessandria.
Abbiamo da Teofane[36] che in questo medesimo anno l'imperador
Costantino diede il titolo d'Augusti e dichiarò suoi colleghi
nell'imperio i due suoi fratelli _Eraclio_ e _Tiberio_. Privò di vita
_Giustiniano_ patrizio padre di Germano, che fu poi patriarca di
Costantinopoli, e fece entrare lo stesso Germano nel ruolo degli
eunuchi. Il perchè non lo dice la storia.

NOTE:

[31] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 12.

[32] Anastas. in Adeodat.

[33] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 13.

[34] Baron., Annal. Eccl.

[35] Mabil., Annal. Benedict., lib. 15 in fine.

[36] Paulus Diacon. lib. 5 cap. 23.



    Anno di CRISTO DCLXX. Indizione XIII.

    VITALIANO papa 14.
    COSTANTINO Pogonato imp. 3.
    GRIMOALDO re 9.


Giacchè Paolo Diacono narra buona parte degli avvenimenti, senza
specificarne l'anno, perchè neppur egli dovea saperlo, si può riferire
qui un fatto di _Vettari_ duca del Friuli[37]. Avendo gli Schiavoni
dominanti nella vicina Carintia inteso ch'egli era andato a Pavia,
raunata un gran moltitudine di gente, vennero fin presso a Cividal di
Friuli, e si accamparono in un luogo chiamato Brossa. Per buona ventura
accadde che Vettari sbrigatosi in poco tempo da Pavia, quando niun se
l'aspettava, arrivò la sera innanzi a Cividale. Nè sì tosto ebbe intesa
la venuta degli Schiavoni, che presi seco venticinque cavalli, andò a
riconoscerli: ed arrivato al ponte del fiume Natisone, oltre al quale
s'erano attendati i Barbari, fu da loro osservato; e perchè era con sì
pochi compagni, motteggiato con dire: _Vedete là il patriarca che vien
contra di noi coi suoi cherici_. Il duca allora levatosi l'elmo di capo,
e facendo vedere ai Barbari chi egli era (e ben lo conoscevano), mise
tal terrore in costoro, che essendo corso il suo nome per tutto il
campo, quasichè egli fosse per assalirli con un formidabile esercito, si
diedero a una precipitosa fuga. E fin qui si può menar buono il suo
racconto al buon Paolo. Ma egli ci vuol far ridere con una slargata
romanzesca, che dipoi soggiugne, con dire che Vettari con que' pochi
compagni si scagliò loro addosso, e ne fece una tal beccheria, che di
_cinquemila uomini_, appena pochi col favor delle gambe portarono alle
lor case la trista nuova di tanta disgrazia. Tiene il padre Pagi che in
questo anno _Clotario III_ re de' Franchi nella Neustria e Borgogna
giugnesse all'ultimo de' suoi giorni. Per poco tempo regnò dopo lui
_Teoderico II_, il quale per forza prese la chericale tonsura.
_Childerico_ fratello di Clotario divenne padrone di tutta la monarchia
franzese. Ma da lì a non molto non solo a lui tolto fu il regno, ma
anche la vita. Allora il deposto _Teoderico_ ripigliò il regno. La
storia dei Franchi scarseggia molto di notizie in questi tempi. Ma se
all'italiana non restassero que' pochi lumi che ha raccolto Paolo
Diacono, noi resteremmo anche più de' Franzesi al buio, mancando a noi
le vite de' santi, de' vescovi e degli ultimi monaci italiani d'allora,
laddove non poche de' loro paesi ne scrissero essi Franchi e gl'Inglesi,
non già perchè allora anche l'Italia non nudrisse dei buoni prelati e
molti servi di Dio, ma perchè l'ignoranza avea qui preso troppo piede,
oppure perchè le guerre nostre civili han fatto perdere gran copia di
antiche memorie. Abbiamo poi da Teofane che circa questi tempi i
Saraceni fecero una incursione nelle provincie dell'Africa tuttavia
sottoposte al romano imperio; e corse voce che avessero condotte in
ischiavitù ottantamila persone. Aveva bensì, come abbiam detto,
l'imperador _Costantino_ conferito il titolo imperiale ai due suoi
fratelli _Eraclio_ e _Tiberio_; ma, per quanto si può conoscere,
consisteva nella sola apparenza la lor dignità, perciocchè l'autorità e
il comando risedeva tutto in esso Costantino. Nell'esercito a Crisopoli
vi furono più persone che pubblicamente gridarono: _Noi crediamo nelle
tre Persone della Trinità: andiamo anche a coronar tre imperadori_;
segno che la coronazione era il più importante requisito per esercitar
coi fatti l'imperiale autorità. Giunsero queste parole all'orecchio di
Costantino, che forte se ne turbò. Fatti perciò venire i capi di costoro
a Costantinopoli sotto pretesto di voler soddisfare ai loro desiderii,
li fece pendere tutti dalle forche, ed insegnò agli altri il rispetto
dovuto ai sovrani. Perchè nondimeno si seppe, o solamente corse il
sospetto che dai suddetti suoi fratelli avesse avuto origine quel
sedizioso progetto, fece ad amendue tagliare il naso. Ma quest'ultima
barbara azione non sembra appartenere all'anno presente; perchè, siccome
lo stesso Teofane racconta all'anno 13 di Costantino, allora egli
solamente rimosse i fratelli dall'imperio; nè sembra molto probabile che
se in quest'anno avesse lor fatto un sì brutto sfregio, eglino avessero
tuttavia continuato nell'onore primiero.

Circa questi tempi, per relazione di Paolo Diacono[38], _Alzeco_, ossia
_Alzecone_, duca de' Bulgari, senza sapersene il perchè, uscito colla
gente a lui suggetta dal suo paese confinante al Danubio, venne con
tutta pace a trovare il re _Grimoaldo_, esibendosi al suo servigio, e
pregandolo di dargli qualche contrada, dove potesse abitar coi suoi.
Grimoaldo l'inviò al figliuolo _Romoaldo_ duca di Benevento,
incaricandolo di trovargli sito a proposito. Egli in fatti diede a lui
ed ai suoi per luogo d'abitazione il paese fino allora deserto di
Supino, Boiano ed Isernia, ed altre città coi lor territorii, e con
giurisdizione signorile in esse, dipendente nondimeno dal duca di
Benevento: con avergli mutato il nome di _duca_ in quello di _gastaldo_,
equivalente a quello di governatore o conte, acciocchè non sembrasse
eguale col nome di duca al duca suo sovrano. Paolo Diacono racconta che
a' suoi dì, cioè cento anni dopo, quella nazione, tuttochè sapesse
parlare la lingua volgare di quel paese, pure non avea per anche
dismesso l'uso della natia lingua bulgara. Teofane[39] nell'anno XI di
Costantino Pogonato, e Niceforo[40] toccano questo punto anch'essi,
dicendo, che regnando l'imperador Costante, _Crovato_ re de' Bulgari
lasciò dopo di sè cinque figliuoli, con ordine che stessero uniti
insieme. Ma non andò molto che si divisero, e chi in questa, chi in
quella parte andò colla sua gente. Il picciolo di quei fratelli venne in
Italia nella Pentapoli, e passato a Ravenna, rimase suggetto all'imperio
de' Cristiani, e pagava tributo ai Romani. Potrebbe essere che Alzeco
prima si presentasse all'esarco di Ravenna con offerirsi ai di lui
servigii; ma che non trovandosi dove dar ricetto a tanta gente, egli
s'indirizzasse al re Grimoaldo, che l'inviò al figliuolo Romoaldo.
Certamente a Paolo qui è dovuta maggior credenza che agli storici greci.
Scrive poi il medesimo Paolo che in questi tempi (non sappiamo se nel
presente o nel seguente anno) il regno dei Franchi venne in mano di
_Dagoberto II_, il quale, dopo essere stato per più anni esule e in
grandi miserie, confinato in Irlanda per l'iniquità di Grimoaldo
franzese suo maggiordomo, finalmente richiamato dai suoi, ricuperò il
perduto regno. Non fu pigro il re Grimoaldo a spedirgli degli
ambasciatori per congratularsi seco, e in tale occasione fu giurata da
ambedue le parti una buona amistà e pace. Trovavasi allora in Francia in
bassa fortuna il già fuggito re de' Longobardi _Bertarido_, e temendo
degli andamenti di quegli ambasciatori, perchè ben consapevole
dell'accortezza del re Grimoaldo, che gli teneva continuamente gli occhi
addosso e spie d'intorno, non gli parendo più buon'aria quella di
Francia, prese segretamente la risoluzione di ritirarsene e di scappare
nella gran Bretagna, per cercar quivi ricovero presso il re degli
Anglosassoni. Gran disputa è stata fra gli eruditi franzesi intorno
all'anno in cui _Dagoberto II_ ricuperò il regno. Ne han trattato
Adriano Valesio, il Coinzio, e i padri Mabillone, Enschenio e Pagi.
Sostiene l'ultimo di questi, che quel principe nell'anno 673 tornò in
Francia; e perchè il Mabillone si serve del racconto già riferito da
Paolo Diacono, il quale ci fa vedere esso Dagoberto regnante in Francia
prima della morte del re Grimoaldo succeduta nell'anno seguente 671,
tiene il Pagi che in ciò si sia ingannato lo storico italiano, come mal
informato degli affari stranieri della Francia. Ma non par già che quel
critico porti sì sode pruove da atterrar qui l'autorità di Paolo, il
quale solamente cento anni dopo scrisse questi avvenimenti; e
massimamente confessando tutti i letterati restare la storia di Francia
in questi tempi involta in molte tenebre. Sembra non improbabile che
mancato di vita Clotario III re in quest'anno senza prole, ed essendo
insorti dei gravi torbidi per la successione, Dagoberto corresse al
rumore, ed ottenesse una parte della monarchia. Ermanno Contratto[41]
mette la morte di questo Dagoberto nell'anno 674, e però va d'accordo
con Paolo Diacono. Fosse nondimeno quello o altro re dei Franchi, con
cui il re Grimoaldo stringesse una buona lega, a noi basta di sapere che
Bertarido non si trovando sicuro in Francia, s'inviò alla volta
dell'Inghilterra.

NOTE:

[37] Theoph., in Chronogr.

[38] Paulus Diacon., lib. 5, cap. 29.

[39] Theoph., in Chronogr.

[40] Niceph., in Chron.

[41] Hermannus Contractus in Chron. edit Urstis.



    Anno di CRISTO DCLXXI. Indizione XIV.

    VITALIANO papa 15.
    COSTANTINO Pogonato imp. 4.
    BERTARIDO re 1.


S'avea fatto alleggerir la vena il re Grimoaldo in quest'anno[42]. Da lì
a nove giorni stando nel suo palazzo, e tirando l'arco con quanta forza
potea, volendo colpire una colomba, se gli riaprì malamente la vena, e
questa ferita bastò a levarlo di vita dopo nove anni di regno. Corse
voce che fossero adoperati medicamenti avvelenati in curarlo, e che in
tal maniera il mandassero per le poste all'altro mondo. Fu principe
temuto da tutti, gagliardo di corpo, arditissimo nelle imprese, calvo di
capo; nudriva una bella barba, e in avvedutezza ebbe pochi pari. Tiensi
ch'egli seguitasse la religion cattolica, e gli scrittori bergamaschi
attribuiscono a _Giovanni_ vescovo santo di quella città la di lui
conversione al Cattolicismo, ma senza addurne pruova alcuna cavata
dall'antichità. Quello ch'è certo per testimonianza di Paolo Diacono,
egli fabbricò in Pavia la basilica di sant'Ambrosio: dal che
fondatamente deduce il cardinal Baronio che egli dovette essere buon
cattolico; altrimenti non avrebbe onorato in questa forma santo
Ambrosio, impugnatore perpetuo degli Ariani. Restò di lui e della
figliuola del re _Ariberto_, già presa per moglie, un figliuolo
appellato _Garibaldo_, in età puerile. Questi fu proclamato re de'
Longobardi. Torniamo ora a _Bertarido_, da noi poco fa veduto fuggitivo,
per cercare ricovero in Inghilterra. S'era egli imbarcato sulle coste di
Francia, ad appena sciolte le vele, s'era alquanto slargata in mare la
nave, quando una persona dal lido ad alta voce dimandò, se quivi era
Bertarido? Fu risposto di sì. Allora replicò quel tale: _Fategli sapere
che se ne torni a casa sua, perchè ha tre giorni che Grimoaldo ha finito
di vivere._ Balzò il cuore in petto a Bertarido all'udir questa nuova, e
ordinò tosto che il legno approdasse di nuovo al lido, per trovar la
persona che avea gridato, ed informarsi meglio di questo favorevol
avviso. Ma quando fu in terra, non vide persona alcuna. Però immaginando
essere quella stata una voce di Dio, e non degli uomini, determinò di
venirsene senz'altro in Italia. Mandò innanzi persona che spiasse lo
stato delle cose, e fosse poi ad incontrarlo in luogo determinato ai
confini dell'Italia, per quivi prendere le sue misure. Ma giunto
Bertarido colà, vi trovò non solamente il suo messo, ma eziandio tutti
gli uffiziali della regal corte e l'apparato convenevole per ricevimento
di un re, ed accorsa gran moltitudine di Longobardi, che tutti con
lagrime e festa incredibile accolsero l'antico loro signore, dopo nove
anni d'esilio felicemente tornato alla patria e al regno. E non è da
maravigliarsene. Non fu mai ben voluto Grimoaldo dai Longobardi, sì
perchè usurpatore dell'altrui corona, e sì perchè uomo vendicativo, e
che col rigore più che coll'amore s'era sempre mantenuto sul trono.
All'incontro, per attestato di Paolo Diacono, Bertarido era principe
amorevolissimo, buon cattolico, dotato di rara pietà, osservantissimo
della giustizia, e soprattutto limosiniere ed amator de' poveri. Le sue
disgrazie aveano contribuito non poco a renderlo misericordioso ed
umile: virtù che di raro s'imparano nella sola sublime felicità e
fortuna. S'accorda questo elogio a noi lasciato da Paolo con quanto
abbiamo inteso di sopra all'anno 664 dalla vita di san Vilfrido
arcivescovo di Yorch, scritta da Eddio Stefano. Pertanto tre mesi dopo
la morte di Grimoaldo, _Bertarido_ ossia _Pertarito_, figliuolo del re
Ariberto, d'origine bavarese, per consenso de' Longobardi risalì sul
trono; ed immediatamente spediti messi a Benevento, fece di colà tornare
a Pavia la regina _Rodelinda_ sua moglie col figliuolo _Cuniberto_, che
furono senza difficoltà rilasciati dal duca Romoaldo. Del fanciullo
_Garibaldo_, lasciato re dal re Grimoaldo suo padre, altro non sappiamo,
se non che fu deposto; ma è ben da credere che non mancasse un buon
trattamento da lì innanzi nè a lui nè a sua madre, se vivea tuttavia,
perchè questa infine era sorella ed egli nipote di Bertarido. Si
potrebbe credere che il picciolo principe fosse mandato a Benevento; ma
più verisimile e più conforme alla politica pare che meglio si
giudicasse il custodirlo in qualche fortezza. Altra memoria non resta di
lui.

NOTE:

[42] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 33.



    Anno di CRISTO DCLXXII. Indizione XV.

    ADEODATO papa 1.
    COSTANTINO Pogonato imp. 5.
    BERTARIDO re 2.


In quest'anno (fors'anche nel precedente) cominciarono le tribolazioni
di Costantinopoli, perchè i Saraceni, che già divoravano coi desiderii
tutto l'imperio romano, secondo Teofane[43], prepararono una poderosa
armata navale con risoluzione di tentar l'acquisto di quella regal
città: avuta la quale, sarebbe venuto meno tutto l'imperio cristiano
dell'Oriente. Non mancavano loro cristiani rinegati che maggiormente gli
animavano all'impresa, come per disgrazia nostra neppur mancano oggidì
al gran Turco. Svernarono nella Cilicia per essere pronti ad inoltrarsi
nella primavera ventura. Intanto l'imperador _Costantino_, a cui non era
ignoto il disegno di quella perfida gente, attese anch'egli a premunirsi
contra de' loro sforzi, con adunar gente, fabbricar navi e macchine, e
disporre tutto quel che occorreva per la difesa. In quest'anno, per
quanto crede il padre Pagi, nel dì 27 di gennaro diede fine al suo
pontificato e alla sua vita il sommo pontefice _Vitaliano_, dopo aver
governata la Chiesa di Dio per quattordici anni e mezzo con molta lode.
Nel dì poscia 22 di aprile ebbe per successore nella cattedra di san
Pietro _Adeodato_, di nazione romano, già monaco nel monistero di
sant'Erasmo nel monte Celio. Nell'anno 615 noi vedemmo _Deusdedit_, il
cui nome in sostanza non è diverso da quest'altro. Tuttavia non ho osato
di chiamarlo secondo. In questo anno ancora, o nel precedente, malamente
compiè il corso di sua vita _Mauro arcivescovo di Ravenna_, perchè morì
scismatico e scomunicato dalla Sede apostolica. Lasciò scritto Agnello
storico ravennate[44] che questo ambizioso prelato prima di morire
adunati i suoi preti, piangendo dimandò loro perdono. Crederà il lettore
per gli misfatti della sua superbia: ma non è così. Seguitò poscia a
dire ch'egli era vicino a pagare il tributo della natura, e che gli
esortava di non tornare sotto il giogo de' Romani. Che però si
eleggessero un pastore, e il facessero consacrare dai vescovi della
provincia, e poscia dimandassero all'imperadore il pallio: quasichè il
diritto di darlo, riserbato al romano pontefice, fosse passato
negl'imperadori. Con questi scismatici sentimenti finì di vivere
l'arcivescovo Mauro, a cui fu data sepoltura in un'arca, davanti alla
quale era una tavola di porfido, al dire d'Agnello, lucidissimo nella
superficie a guisa di uno specchio, in maniera che chi mirava in quel
marmo, vi poteva vedere gli uomini, animali e uccelli che vi fossero
passati dinanzi. Come ciò possa essere del porfido, lascerò considerarlo
ai periti. Aggiugne lo stesso storico che a' suoi dì passando _Lotario_
imperador per Ravenna (forse nell'anno 824), ordinò che quella tavola
levata di là e bene stivata con lana in una cassa di legno, fosse
mandata in Francia, per servire di mensa all'altare di san Sebastiano.
Ebbe commissione lo stesso Agnello da _Petronace_ arcivescovo di andar
colà, e di assistere acciocchè i muratori balordamente lavorando non la
rompessero. Ma egli per dolore e rabbia di vedere spogliar la sua patria
delle cose preziose, se ne andò in tutt'altra parte. A Mauro succedette
_Reparato_, monaco prima nel monistero di santo Apollinare, poscia
abbate, e quindi vicedomino della Chiesa ravennate: uomo che si fece
consecrar da tre vescovi senza il beneplacito della santa Sede, e tenne
saldo lo scisma, per quanto potè; ma in fine, siccome diremo, si umiliò
all'ubbidienza del sommo pontefice.

NOTE:

[43] Teoph., in Chronogr.

[44] Agnell. Vit. Ep. Ravennat. tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCLXXIII. Indizione I.

    ADEODATO papa 2.
    COSTANTINO Pogonato imp. 6.
    BERTARIDO re 3.


Finalmente in quest'anno, correndo il mese di aprile, il formidabile
stuolo de' Saraceni si presentò davanti a Costantinopoli, e ne formò
l'assedio. L'imperador _Costantino_[45] s'accinse con tutto vigore alla
difesa, nè passava giorno che non seguisse qualche baruffa fra le sue
navi e quelle dei nemici. Aveva egli delle galeotte che portavano
caldaie di pece, e d'altri bitumi ardenti, e sifoni, co' quali si
gettava fuoco ne' legni infedeli. Seguirono questi combattimenti sino al
settembre, nel quale i Saraceni, poco avendo profittato con tutti i loro
sforzi, levarono l'ancore per andare a svernare in pace altrove.
Pervenuti alla città di Cizico, e presala, quivi passarono il verno. In
quest'anno _Childeberto_ re dei Franchi, a noi noto solamente per le sue
biasimevoli azioni, essendo caduto in odio de' suoi, alla caccia fu da
uno d'essi privato di vita. Restò del pari trucidata la regina
_Bilichilde_ sua moglie. Può essere eziandio che in questi medesimi
tempi nel mese di marzo si mirasse in cielo quell'_iride_ ossia arco
celeste che viene accennata dai suddetti storici e dall'autore della
Miscella[46], e recò tal terrore, che si cominciò a temere il fine del
mondo. Ma come? da quando in qua l'arco baleno fa paura alle genti? Ma
quello non fu già il naturale ed usitato. Fu una specie di terribile e
disusata cometa; e però indusse la costernazione ne' popoli. Raccontano
ancora gli scrittori che provossi una fiera mortalità in quest'anno
nell'Egitto; ma non è da maravigliarsene, perchè quel regno anche oggidì
è facilmente suggetto a così fiero flagello. E di là per lo più soleva
a' precedenti secoli passare in Italia quel malore, e passerebbe anche
oggidì, se non avessero finalmente aperti gli occhi gl'Italiani, ed
inventate precauzioni e saggi rigori per custodirsi illesi.

NOTE:

[45] Teoph., in Chronogr. Cedren., in Annal.

[46] Hist. Miscell. lib. 19.



    Anno di CRISTO DCLXXIV. Indizione II.

    ADEODATO papa 3.
    COSTANTINO Pogonato imp. 7.
    BERTARIDO re 4.


Nulla ci somministra di nuovo in questi tempi la storia d'Italia; ma il
suo stesso silenzio ci fa intendere la mirabil quiete e felicità che
godevano allora sotto il pacifico governo del buon re _Bertarido_ i
popoli italiani. Lasciava egli in pace i Romani nè attendeva che a
reggere con giustizia e soavità i suoi sudditi, e a dar loro nuovi
esempli di pietà, siccome principe cattolico e rinomato pel timore di
Dio. Abbiam fondamento di credere che sotto di lui il resto de'
Longobardi ariani si riducesse al grembo della vera Chiesa. E tanto più
dee dirsi felice allora ed invidiabile lo stato dell'Italia, perchè gli
altri paesi dell'Europa provavano dei fieri disastri. Tornarono
nell'aprile di quest'anno i Saraceni con tutte le loro forze all'assedio
di Costantinopoli, e quivi stettero anche tutta la state, con dare dei
frequenti assalti o alle mura o alle navi cristiane; per lo che tutto
l'imperio orientale si trovava in grandi angustie e guai. Peggio stava
la monarchia franzese, perchè caduta in mano di re o neghittosi o
viziosi, e piena di guerre civili, e per conseguente d'iniquità e di
prepotenza. Ciò fu cagione che molte provincie dell'Austrasia, come la
Baviera, l'Alemagna, la Turingia, ed altri paesi si sottraessero
dall'ubbidienza dei re franchi, e crebbe in esse l'idolatria con altri
disordini. Il regno delle Spagne, tuttochè governato da _Vamba_ re
piissimo e cattolico de' Goti, ebbe nella Gallia narbonense, ossia nella
Linguadoca, tuttavia sottoposta in questi tempi ad essi Goti, de' gravi
sconvolgimenti, per gli tiranni ivi insorti e spalleggiati dai vicini
Franchi. Fu astretto il buon re Vamba a far guerra, ed assistito dal
cielo, riportò varie vittorie narrate da Giuliano da Toledo[47]. La sola
Italia godeva in essi tempi un cielo sereno mercè dell'ottimo re che ne
aveva il governo, e tutto faceva per guadagnarsi l'amore di Dio e dei
suoi popoli.

NOTE:

[47] Julian. Toletanus, in Chronico.



    Anno di CRISTO DCLXXV. Indizione III.

    ADEODATO papa 4.
    COSTANTINO Pogonato imp. 8.
    BERTARIDO re 5.


Circa questi tempi il piissimo re dei Longobardi _Bertarido_, fabbricò
in Pavia un monistero di sacre vergini da quella parte del fiume
Ticino[48], dove egli calato per le mura, ebbe la sorte di fuggir l'ira
e il mal pensiero del re _Grimoaldo_. Può essere che la sua fuga
succedesse nel giorno festivo di sant'Agata, oppur nella sua vigilia,
come credono gli scrittori pavesi, e però dedicò quel sacro luogo a Dio
suo liberatore in onore di quella santa vergine e martire. Esiste
tuttavia esso monistero, appellato _Nuovo, e Monistero regio_, per più
secoli, ed oggidì _monastero di sant'Agata in Monte_, abitato già da
monache benedettine, ed ora dalle conventuali di santa Chiara. Nel
presente anno ancora tornarono i Saraceni all'assedio di Costantinopoli,
ed ostinatamente quivi si fermarono fino al settembre, tuttochè nulla
profittassero, anzi riportassero più percosse dalla bravura de' Greci.
Forse ancora appartiene a questi tempi la battaglia navale che il buon
_Vamba_ re de' Goti in Ispagna fece con un'altra armata navale di
dugento e settanta navi di Saraceni, passati ad infestar la Spagna[49].
Meritò la sua pietà di riportarne vittoria colla total disfatta e rovina
della flotta nemica. Dalla vita di sant'_Audoeno_ vescovo di Roano,
scritta da Fridegodo[50], noi impariamo quanta fosse la divozione de'
popoli anche più lontani al sepolcro dei santi apostoli Pietro e Paolo e
degli altri martiri in Roma. Volle il santo vescovo venire in quest'anno
alla visita di que' celebri santuarii; nè sì tosto fu risaputo questo
suo disegno, che moltissima gente pia concorse a lui, portandogli non
pochi pesi d'oro e d'argento, con pregarlo di offerirgli al corpo de'
santi Apostoli e Martiri pel riscatto de' loro peccati, e di dispensarne
anche ai poveri una parte colle sue proprie mani, affine d'avvalorare le
loro preghiere presso Dio. Eseguì puntualmente il piissimo pastore le
lor commissioni, giunto che fu a Roma, dove lasciò un gran concetto
della sua rara pietà e pia munificenza. Era in questi tempi una gran
rendita alle chiese di Roma il concorso de' pellegrini e le loro
oblazioni.

NOTE:

[48] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 34.

[49] Lucas Tudensis, in Chron.

[50] Fridegodus, in Vita S. Audoen.



    Anno di CRISTO DCLXXVI. Indizione IV.

    DONO papa 1.
    COSTANTINO Pogonato imp. 9.
    BERTARIDO re 6.


Nel dì 26 di giugno terminò la carriera de' suoi giorni papa _Adeodato_,
pontefice benignissimo, pieno di umiltà, caritativo massimamente verso i
poveri e liberale verso il clero, al quale diede la _roga_, cioè il
regalo solito a darsi dai suoi predecessori; ma con averne accresciuta
di molto la misura. Nota Anastasio[51] che dopo la sua morte vennero
tante piogge e caddero tanti fulmini, che niun si ricordava d'aver mai
provato un somigliante flagello; perchè durarono tanto, che non si
poteva battere il grano; e i legumi tornarono a nascere nelle campagne,
e restarono morti degli uomini e delle bestie dai fulmini. Fuor di sito
fece menzione Paolo Diacono[52] di questa medesima sciagura, e, quel che
è peggio, guastolla con una spropositata giunta, se pure a lui si dee
attribuire; perciocchè scrive che _innumerabili migliaja di uomini e di
animali furono uccisi dai fulmini_. Avea tanto senno Paolo Diacono da
non credere nè vero nè verisimile un sì terribil macello venuto dai
fulmini; e però usiamogli la carità di credere fatta da altri questa
giunta al testo suo. Vien riportata una bolla del suddetto papa
Adeodato[53] in favore del monistero di san Martino di Turs, in cui lo
esenta dalla giurisdizione dei vescovi, con protestar nondimeno che
_l'uso e la tradizione della sede apostolica era di non sottrarre i
monisteri dall'ubbidienza e dal governo de' vescovi_, e che intanto si è
indotto a concedere questo privilegio, in quanto ha conosciuto che lo
stesso vescovo di Turs _Crodeberto_ ha accordato la libertà ed esenzione
ad esso monistero: parole che son da notare, per giudicare della
legittimità d'altri privilegii che si dicono conceduti in questi tempi.
Il saggio cardinal Baronio, facendo menzione del suddetto documento,
osserva che per isperienza si doveva essere conosciuto che questa
indipendenza de' monaci noceva piuttosto alla disciplina ed osservanza
monastica; e che san Bernardo disapprovò l'usanza introdotta di esentare
i monaci dall'ubbidire ai vescovi, e che neppur piacque a san Francesco
d'Assisi una tale indipendenza de' suoi frati; ma che fu guasto il suo
disegno da frate Elia, personaggio condotto dallo spirito non di Dio, ma
della carne. Intorno a questo privilegio di papa Adeodato insorsero
negli anni addietro contese fra i letterati francesi, che io tralascio,
e certo v'ha gran ragione di dubitare della legittimità del medesimo. Ad
Adeodato succedette nella cattedra pontificia _Dono_ di nazione romano.
Dal padre Pagi vien creduto che la sua consecrazione seguisse nel dì
primo di novembre dell'anno presente, nel quale i Saraceni continuarono
i loro sforzi contra la città di Costantinopoli, ma senza guadagnar
terreno.

NOTE:

[51] Anastas., in Adeodat.

[52] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 34.

[53] Labbe, Concilior., tom. 4.



    Anno di CRISTO DCLXXVII. Indizione V.

    DONO papa 2.
    COSTANTINO Pogonato imp. 10.
    BERTARIDO re 7.


Mal soffrendo il pontefice _Dono_ che la chiesa di Ravenna si fosse
sottratta dalla ubbidienza della Sede apostolica, in quest'anno
finalmente ottenne l'intento suo, con ridurre al dovere
quell'arcivescovo _Reparato_. Ne siamo assicurati da Anastasio
bibliotecario[54], che scrive essere tornata quella Chiesa a riconoscere
la superiorità del papa, dopo aver nudrito negli anni precedenti delle
pretensioni di primato. Si dee credere che il sommo pontefice ricorresse
per questo affare all'imperador _Costantino_, il quale, siccome principe
veramente cattolico e di buone massime, forzò l'arcivescovo a chinar
l'ambiziosa testa. E qui è da notare ciò che lasciò scritto Agnello
ravennate nella vita di questo arcivescovo[55]: cioè ch'egli andò alla
corte imperiale di Costantinopoli, ed impetrò quanto seppe dimandare
dall'imperador Costantino, e spezialmente l'esenzione del suo clero
dalle contribuzioni e gabelle; e che tutti i contadini che lavoravano le
terre della sua chiesa e i suoi muratori e il suo crocifero fossero
esenti dalla podestà de' giudici secolari e degli esattori pubblici, e
sottoposti solamente all'arcivescovo. Fu eziandio decretato che
l'arcivescovo eletto di Ravenna, portandosi a _Roma_ per essere quivi
consecrato _non fosse tenuto a dimorar colà più di otto giorni_, segno
che dianzi si dovevano stiracchiar le consecrazioni di quegli
arcivescovi in Roma. Questo parlare d'Agnello fa chiaramente comprendere
l'aggiustamento suddetto, e dee essere un errore del suo testo il
soggiugnere appresso, che Reparato _non si sottomise all'autorità del
papa_, mentre le parole suddette pruovano tutto il contrario. Aggiugne
Anastasio che poco dopo questo aggiustamento il suddetto Reparato diede
fine ai suoi giorni. Ebbe per successore _Teodoro_, il quale, perchè si
fece consecrare in Roma, come per più secoli s'era costumato in
addietro, incorse nell'odio del suo clero. Agnello stesso dice molte
parole in suo vituperio, benchè si serva d'altri pretesti per
iscreditarlo. Anastasio notò[56] che questo Teodoro si presentò davanti
a papa _Agatone_ verisimilmente nell'anno seguente. Mi sia lecito il
rapportare al presente la fabbrica di un nuovo tempio fatto della regina
_Rodelinda_ moglie del re _Bertarido_ fuori di Pavia. Opera
maravigliosa, dice Paolo Diacono[57], e nobilitata da stupendi
ornamenti. Fu chiamata basilica di _santa Maria alle Pertiche_; e tal
denominazione venne a quel sacro luogo, per attestato del medesimo
storico, perchè quivi era un insigne cemeterio, dove i nobili longobardi
amavano per divozione d'essere seppelliti. Che se accadeva che taluno
de' suoi morisse in guerra, o in altra parte, alzavano delle pertiche,
cioè delle travi sopra que' sepolcri, con una colomba di legno in cima,
tenente il becco rivolto a quella parte, dove il suo parente od amico
era morto. Con qualche segno od iscrizione si distinguevano quei
sepolcri, acciocchè ognun potesse riconoscere il suo. Lo Spelta, storico
pavese di questi ultimi secoli, pretende che quel tempio fosse
fabbricato prima della venuta del Signor nostro Gesù Cristo, e servisse
agl'idoli. Tutti sogni. Paolo chiaramente scrive che Rodelinda lo
fabbricò di pianta; nè presso il padre Romoaldo[58] veggo bastanti
ragioni per farci credere che quella regina edificasse una chiesa col
monistero, posseduto oggidì dalle monache cisterciensi.

In quest'anno crede Camillo Pellegrino[59] che finisse di vivere
_Romoaldo_ duca di Benevento, dopo aver governato per lo spazio di
sedici anni quel ducato[60]. Egli ebbe, siccome dicemmo altrove, per
moglie _Teoderada_, la quale fuori della città di Benevento fabbricò la
basilica di san Pietro apostolo, ed unitamente un insigne monistero di
sacre vergini. Lasciò Romoaldo dopo di sè tre figliuoli maschi, cioè
_Grimoaldo II_, _Gisolfo_ ed _Arichi_, ossia _Arigiso_. Il primo di essi
fu duca di Benevento immediatamente dopo la morte del padre, ed ebbe per
moglie _Vigilinda_, ossia _Vinilinda_, figliuola del re _Bertarido_ e
sorella di _Cuniberto_, che fu re anch'esso: segno che era seguita buona
pace fra esso re Bertarido e il duca di Benevento. Ma vedremo all'anno
702 che questa cronologia non si accorda con Anastasio bibliotecario.
Seguitando intanto qui dietro alle pedate di Paolo Diacono[61], dico che
circa questi tempi succedette il trasporto in Francia dei sacri corpi di
san _Benedetto_ e di santa _Scolastica_. Era rimasto il monistero di
Monte Casino, ai primi tempi della venuta de' Longobardi nella Campania,
preda del loro furore. Se vi abitasse più alcun monaco non si sa. Ben
sappiamo che mal custoditi, se non anche negletti, restavano in quella
solitudine i lor sepolcri. Servì la negligenza de' monaci italiani per
far animo e voglia ai monaci francesi di venir a cercare que' sacri
depositi. Dicono che _Agiolfo_ monaco del monistero floriacense, ossia
di Fleury, con alcuni compagni fu spedito per questo in Italia; e che
andato a Monte Casino sotto pretesto di far quivi orazione, la notte
estrasse da quelle rovine i due sacri corpi, e se li portò in Francia,
con ritenere quel di san Benedetto in Fleury, e ripor quello di santa
Scolastica nella città del Mans. Abbiamo varie antiche relazioni di tal
traslazione, ma non contemporanee, e vi son raccontati vari miracoli,
non senza delle contrarietà e circostanze, le quali non siam tenuti a
credere per vere, ed anzi sembrano far poco onore alla fedeltà de'
monaci d'allora. Comunque sia, chi degl'Italiani ha voluto negar questo
fatto, ha contra di sè la chiara testimonianza di Paolo Diacono, che
visse e scrisse solamente nel secolo dopo. Quanto al tempo, il cardinal
Baronio ne parla all'anno 664. Il Coinzio, franzese, crede accaduto il
trasporto molto più tardi, cioè nell'anno 673. Ma i padri Mabillone e
Pagi lo riferiscono ai tempi di _Clodoveo_ II, e però all'anno 653
oppure al susseguente. Ma in fine il punto più sostanziale si è di
sapere se nel secolo susseguente fossero o non fossero restituite a
monte Casino quelle sacre reliquie; del che hanno acremente disputato i
Benedettini casinensi coi franzesi, palliando sì fattamente le cose, che
non si sa a qual parte credere. Di ciò diremo qualche altra cosa a suo
tempo. Seguitò poi ancora per quest'anno la guerra de' Saraceni contro
la città di Costantinopoli, che fu col solito valore preservata e
difesa.

NOTE:

[54] Anastas., in Vit. Don.

[55] Agnell., Vit. Episcopor. Ravennat. tom 2 Rer. Ital.

[56] Anastas., in Vita Agathonis.

[57] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 34.

[58] Romualdus, Papia Sacra, pag. 104.

[59] Peregrin., Hist. Princip. Long., tom. 2, Rer. Ital.

[60] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 1.

[61] Idem., ibid., cap. 2.



    Anno di CRISTO DCLXXVIII. Indizione VI.

    AGATONE papa 1.
    COSTANTINO Pogonato imp. 11.
    BERTARIDO re 8.
    CUNIBERTO re 1.


Fino a questi tempi, cioè per sette anni, era durata la guerra e
persecuzion fatta alla città di Costantinopoli dai Saraceni, e sostenuta
con immortal bravura dai Cristiani. Da sì ostinata gara altro non
riportarono que' Barbari, se non una gran perdita della lor gente e
delle lor navi, con aver la divina protezione assistito sempre ai suoi
fedeli, ed obbligati finalmente in quest'anno gl'infedeli a ritirarsi.
Cominciò ad usarsi in questa occasione dai Cristiani il fuoco greco[62],
che si gittava nei legni nemici, nè si poteva smorzare coll'acqua.
Portata loro ne fu l'invenzione da un certo Callinico, che desertò da
Eliopoli città dell'Egitto, uomo di mirabile industria in manipolar
simili fuochi. Cedreno scrive[63] che ai suoi dì vivea Lampro,
discendente da esso Callinico, e valentissimo fochista anch'egli. Con
questo micidial fuoco riuscì a' Cristiani di bruciar molte navi nemiche
e gli uomini vivi che in esse si trovavano. Partita da Costantinopoli
con vergogna la flotta de' Saraceni, fu sorpresa verso il Sileo da una
formidabil tempesta di mare, che parte sommerse di quelle navi, e parte
ne condusse a fracassarsi negli scogli. Fu similmente attaccata
battaglia in terra dai capitani cesarei _Floro_, _Petrona_ e _Cipriano_;
e vi restarono estinti sul campo trentamila di quegl'infedeli. Queste
percosse, e la sollevazione de' maroniti cristiani, che, creato un
principe, occuparono il monte Libano con tutti i suoi contorni, e fecero
felicemente alcuni fatti d'armi coi Saraceni, obbligarono in fine
_Muavia_ lor califa, ossia principe, a trattar di pace coll'imperador
_Costantino_. Spedito dunque da esso Augusto a tale effetto in Soria
_Giovanni_ patrizio per soprannome, Pitsiguade, o Pizzicoda, personaggio
di rara destrezza e sperienza negli affari politici, conchiuse coi
Saraceni una pace gloriosa e vantaggiosa all'imperio romano per anni
trenta, con essersi obbligati que' Maomettani a pagare annualmente
all'imperadore tremila libbre d'oro, restituire cinquanta schiavi, e
dare cinquanta generosi cavalli. Cagion fu questa pace che _Cacano_ re
degli Avari signore dell'Ungheria, e tutti gli altri Barbari situati
all'occidente e settentrione di Costantinopoli, si affrettassero a
mandare ambasciatori all'imperador Costantino, sotto colore di
rallegrarsi della buona riuscita delle sue imprese, ma in fatti per
confermar cadauno con lui la pace: tutti frutti del credito ch'egli
s'era acquistato nella guerra de' Saraceni. I soli Bulgari, popoli della
Palude Meotide, che s'erano ne' tempi addietro venuti a piantar di qua
dal Danubio nel paese oggidì chiamato la Bulgaria, seguitavano ad
inquietare la Tracia, e bisognò comperar da essi la pace, con promettere
loro un annuo regalo. Dopo ciò il buon imperadore s'applicò ardentemente
a procurar anche la pace della Chiesa sconvolta dagli errori e fautori
del monotelismo; e ben conoscendo il rispetto che si doveva alla prima
sede e al romano pontefice capo visibile della Chiesa santa, scrisse una
lettera a papa _Dono_, per seco concertare un general concilio da
tenersi in Costantinopoli. Ma questa lettera non trovò più vivo questo
piissimo pontefice, che nel dì undicesimo di aprile fu chiamato da Dio a
miglior vita. In suo luogo succedette papa _Agatone_, già monaco, di
nazion siciliano, il quale con un riguardevol treno di virtù salì sul
trono pontificio. Questi, essendo venuto a Roma _san Vilfrido_
arcivescovo di Jorch[64], cacciato dalla sua sedia, raunò nel presente
anno un concilio nella basilica lateranense, e proposta la sua causa,
decretò che dovesse riaver la sua chiesa. E fu appunto in tale occasione
che quel santo arcivescovo per la persecuzione a lui mossa in andando a
Roma, fu sì onoratamente accolto dal re _Bertarido_ in Pavia, siccome
osservammo all'anno 664. Era questo l'ottavo anno, in cui esso re
Bertarido pacificamente regnava sopra i Longobardi, quando pensò di
assicurare il regno a _Cuniberto_ suo figliuolo[65]. Però, convocata la
dieta generale, quivi, col consenso de' popoli, dichiarò re e suo
collega esso suo figliuolo. A me nondimeno dà fastidio uno strumento
fatto in Lucca, e da me riportato altrove con queste note:[66] _Sub die
tertiodecimo kalendar. februariarum sub Indictione tertiadecima,
regnante domnis nostris Pertharit, et Cunipert, viris excellentissimis
regibus, anno felicissimi regni eorum tertiodecimo, et quinto_: cioè
nell'anno 685. Se tali note fossero sicure, in quest'anno Cuniberto non
avrebbe cominciato ad essere re, nè camminerebbe ben la cronologia di
Bertarido. Ma discordando questo documento da un altro, che accennerò
all'anno 688, vo credendo corso errore nell'indizione, e che si abbia a
leggere _Indictione undecima_, errore provenuto dalla vicinanza di _die
tertiodecimo_. Circa questi tempi a _Vettari_ duca del Friuli succedette
nel ducato _Laudari_, di cui Paolo Diacono[67] non rapporta azione
alcuna; ma, dopo averne fatta menzione, immediatamente soggiugne,
ch'essendo egli, non si sa quando, mancato di vita, fu creato duca del
Friuli _Rodoaldo_. A quest'anno il Pagi riferisce la morte di _Dagoberto
II_ re dei Franchi ucciso per congiura di _Ebroino_ già maggiordomo e di
alcuni vescovi. La porzione a lui spettante del regno pervenne al re
_Teoderico III_. Ma Ermanno Contratto, siccome accennammo di sopra,
mette il fine di esso Dagoberto all'anno 674.

NOTE:

[62] Teoph., in Chronogr.

[63] Cedren., in Annal.

[64] Eddius Stephanus, in Vita S. Wilfridi.

[65] Paulus Diacon., de Gest. Langobard. lib. 5, cap. 35.

[66] Antiq. Italic. Dissert. XLV.

[67] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 24.



    Anno di CRISTO DCLXXIX. Indizione VII.

    AGATONE papa 2.
    COSTANTINO Pogonato imp. 12.
    BERTARIDO re 9.
    CUNIBERTO re 2.


Essendo già stabilito che si tenesse un concilio generale in Oriente per
mettere fine alla discordia originata dagli errori dei monoteliti, i
vescovi occidentali, che per la troppa lontananza non vi poteano
intervenire in persona senza lor grave incomodo, si studiarono
d'intervenirvi coi loro voti. Perciò da _Mansueto_ arcivescovo santo di
Milano fu celebrato un concilio provinciale, dove intervennero i suoi
suffraganei, e quivi fu dichiarata la sentenza della Chiesa cattolica
intorno alle due volontà in Cristo. Leggesi tuttavia negli atti del
concilio sesto generale[68] la lettera scritta da esso santo arcivescovo
all'imperador Costantino a nome del sinodo, _quae in hac magna regia
urbe convenit_, cioè in Milano, e quivi meritano attenzione le seguenti
parole: _Nos autem omnes, qui sub felicissimis, et christianissimis, et
a Deo custodiendis principibus nostri dominis Pertharit, et Cunibert,
praecellentissimis regibus, christianae religionis amatoribus_ (vivimus)
_una cum eorum sancta devotione_, ec. Di qui intendiamo che già
_Cuniberto_ era stato proclamato re, e che egli, non meno che
_Bertarido_ suo padre, professava la religion cattolica, ed anche zelo
per la custodia della medesima. Paolo Diacono[69], facendo menzione nel
concilio sesto ecumenico, scrive che _Damiano vescovo di Pavia_ sotto
nome di _Mansueto arcivescovo di Milano_ scrisse una lettera molto
utile, di cui fu fatto gran conto dal suddetto concilio. Osservò il
cardinal Baronio[70], che essendo intervenuto _Anastasio vescovo di
Pavia_ in quest'anno al concilio romano, di cui parleremo, non potè per
conseguente esser allora _Damiano_ vescovo di Pavia. Saggiamente rispose
a questa difficoltà il Pagi, che quella lettera dovette essere scritta
da Damiano tuttavia prete. Ma perciocchè egli da lì a non molto
succedette ad Anastasio nella cattedra di Pavia, però con un lecito
anacronismo potè Paolo appellarlo vescovo di Pavia. Furono anche
celebrati dei concilii in Francia e in Inghilterra per questa medesima
cagione. Ma il più celebre e numeroso fu il tenuto in Roma da papa
_Agatone_ nel martedì di Pasqua a dì 5 di aprile dell'anno corrente, in
cui furono destinati i legati della santa Sede al concilio sesto
ecumenico, che s'avea da tenere in Costantinopoli. Esiste negli atti del
medesimo concilio generale la prolissa lettera del papa a _Costantino
maggiore imperadore, e ad Eraclio e Tiberio Augusti_ di lui fratelli, in
cui è sposta la credenza della Sede apostolica e di tutte le Chiese
dell'Occidente intorno alle due nature unite, ma non confuse, in Cristo,
e alle due volontà distinte, ma non discordi. Ed è specialmente da
notare che il papa fa scusa per aver mandato dei legati, quali, secondo
il _difetto di questi tempi e la qualità di una provincia servile_,
s'erano potuti trovare, cioè _Abondanzio vescovo di Paterno_, _Giovanni
vescovo di Porto_, _e Giovanni vescovo di Reggio_ in Calabria, _legati_
del concilio romano, e _Teodoro_ e _Giorgio_ preti, e _Giovanni_
diacono, legati del medesimo papa. _Imperocchè_ (dice esso pontefice)
_qual piena scienza delle divine Scritture si può ritrovar in persone
poste in_ medio gentium, _e che colla fatica delle lor mani sono
astrette a procacciarsi il pane giornaliero?_ Il che ci fa intendere
l'ignoranza e la depression delle buone lettere, già introdotta in
Italia per l'occupazione fattane dai Longobardi. Ma non segue per questo
che mancasse nelle Chiese di Italia, e massimamente nella romana,
maestra delle altre, la scienza della vera dottrina di Cristo.
Perciocchè, siccome soggiugne il santo pontefice, la Sede apostolica e
le altre Chiese sapevano e tenevano salda la tradizione; e se non erano
gran dottori per disputare e parlar con eloquenza e pura latinità, pure
studiavano ed imparavano ciò che già i santi Padri aveano scritto
intorno ai dogmi della fede; il che solo è sempre bastato e basterà per
impedir le nascenti eresie e per atterrar le già nate: benchè sia sempre
da desiderare che nella Chiesa di Dio abbondi insieme colla eloquenza e
colla erudizione quella teologia, che può rendere ragione dei dogmi, di
cui furono sì ben provveduti i santi Padri. In fatti la lettera
sinodale, scritta dal papa e dal concilio, contiene un nobile e vasto
apparato in quel che avevano dianzi scritto i santi Padri intorno alla
quistione delle due volontà; e questa principalmente servì a condannare
nel general concilio il monotelismo.

Al romano concilio intervennero cento e venticinque vescovi d'Italia e
Sicilia, e fra questi i metropolitani di Milano, Ravenna e Grado. Era
allora arcivescovo di Ravenna _Teodoro_, di cui sparla forte nella di
lui vita Agnello ravennate, con dire[71] ch'egli tolse al suo clero la
quarta della Chiesa, cioè la quarta parte di tutte le rendite della
Chiesa di Ravenna, destinate, secondo i canoni, al mantenimento dei
sacri ministri, inducendoli a contentarsi d'un annuo regalo. Abolì
ancora le consuetudini dell'arcivescovo _Ecclesio_, e fraudolentemente
abbruciò tutte le carte che ne parlavano. Irritato il clero da questo
mal trattamento, nella vigilia del Natale segretamente passò tutto a
Classe con pensiero di celebrar ivi i sacri uffizii, e di non voler più
riconoscere per pastore chi da loro era creduto un lupo. La mattina per
tempo mandò l'arcivescovo ad invitare il clero, perchè intervenisse alla
cappella che si dovea tenere nella gran festa. Niuno se ne trovò. Udito
che s'erano ritirati a Classe nella basilica di sant'Apollinare, spedì
colà dei nobili per placarli e ricondurli. Proruppe il clero in lamenti
e lagrime, e stette saldo nel suo proposito. Disperato l'arcivescovo per
questo scabroso avvenimento, ricorse a _Teodoro_ patrizio ed esarco,
pregandolo d'interporsi per la pace. Mandò egli a Classe a tal effetto
alcuni de' suoi uffiziali, ma inutilmente v'andarono. Il clero più
risoluto che mai si lasciò intendere, che se fino a nona sant'Apollinare
non provvedeva, voleano ricorrere a Roma. Portata questa nuova
all'arcivescovo Teodoro, tanto più crebbe la sua paura, e quasi
buttatosi a' piedi dell'esarco, lo scongiurò di voler egli in persona
portarsi a Classe per ammansare il clero e ridurlo alla città. Fece
tosto l'esarco insellare i cavalli, e ito a Classe, con sì buone parole
e promesse di correggere gli abusi loro parlò, che gl'indusse a
ritornare in Ravenna, dove si cantò la messa e il vespro. Nel giorno
seguente poi tanto si adoperò, che convinto l'arcivescovo rilasciò al
suo clero tutte le rendite, onori e dignità loro spettanti fin da' tempi
antichi, e si stabilirono varii capitoli di concordia, che durarono
sotto ancora gli arcivescovi susseguenti. Aggiugne il medesimo storico,
che dopo l'arcivescovo Teodoro fu chiamato a Roma dal pontefice Agatone
per assistere al concilio romano, e ch'egli rinunziò alla pretensione
dell'_Autocefalia_, e che con papa _Leone_ successor d'Agatone fece un
accordo, per cui restava dichiarato che gli arcivescovi di Ravenna non
si fermassero più di otto giorni in Roma al tempo della loro
consecrazione, nè avessero altra obbligazione d'andar altre volte a
Roma, bastando che mandassero ogni anno colà ad inchinare il sommo
pontefice, e a riconoscere la santa Sede, uno de' sacerdoti. Agnello
storico, pieno di fiele contro la superiorità dei papi, va lacerando la
memoria di questo arcivescovo _Teodoro_: ma forse egli non ebbe altro
reato che quello d'aver adempiuto il suo dovere verso la Sede
apostolica, e rinunciato alla matta pretensione dello scismatico _Mauro_
suo antecessore. Già abbiam veduto di sopra all'anno 666 che _Gregorio_
esarco d'Italia era succeduto a _Teodoro Calliopa_ in quell'impiego.
Girolamo Rossi[72], che non avvertì nella serie degli esarchi il
suddetto Gregorio, avendo poi trovato che nell'anno precedente _Teodoro_
esarco acquetò la sollevazion del clero di Ravenna contra del loro
arcivescovo, s'immaginò ch'esso _Teodoro Calliopa_ continuasse nel
governo fino a questi giorni. Ma questo _Teodoro_ fu diverso da
_Calliopa_, e non già empio come il Calliopa. Confessa lo storico
Agnello che egli edificò in Ravenna il monistero di san Teodoro vicino
alla chiesa di san Martino confessore, chiamata _Coelum aureum_, e già
fabbricata dal re _Teoderico_. Donò tre calici d'oro alla cattedrale.
Alzò unitamente coll'arcivescovo Teodoro la chiesa di san Paolo, che era
divenuta sinagoga de' Giudei. Pose sopra l'altare di santa Maria alle
Blacherne un padiglione di porpora preziosissima, dove si mirava
effigiata la creazione del mondo. Aveva egli in uso ogni dì di visitar
questa chiesa, ed in essa fu dipoi seppellito insieme con _Agata_ sua
consorte. Sotto questo esarco, per attestato del medesimo Agnello,
cominciò a farsi conoscere in Ravenna _Giovanniccio_, così chiamato per
la picciola sua statura. Morì all'esarco Teodoro il suo segretario, ed
essendo egli perciò in affanno, perchè non sapeva dove trovar persona
eguale atta a scrivere le lettere imperiali, gli fu da alcuni Ravennati
indicato e sommamente lodato questo Giovanniccio, come uomo di gran
sapere, di rara onoratezza e prudenza, nobile di nascita, e che aveva un
bel carattere. Sel fece venir davanti; ma guatata la di lui picciolezza
e la sparutezza del volto, se ne rise in cuore, e disse a que' nobili
ravennati che lo avevano introdotto: _È questi il suggetto che m'avete
proposto per la carica di segretario? Ne ha pur la poca cera._ Gli
risposero che ne facesse la pruova. Fece portare una lettera a lui
scritta in greco dall'imperadore; e Giovanniccio, fattagli una profonda
riverenza, gli domandò se comandava che la leggesse in greco, o in
latino, perchè egualmente possedeva l'una e l'altra lingua. Allora
l'esarco si fece dare una scrittura latina, e gli disse che la leggesse
in greco. Ed egli prontamente eseguì il comando. Fu dunque preso al suo
servigio dall'esarco Teodoro. Dopo tre anni venne allo stesso esarco un
ordine di inviar alla corte colui che gli scriveva le lettere; e
l'esarco vi mandò Giovanniccio, il quale, dato saggio del suo ammirabil
sapere, non tardò ad avere una delle prime dignità d'essa corte
imperiale.

NOTE:

[68] Labbe, Concilior., tom. 6.

[69] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 4.

[70] Baron., in Martyrologio.

[71] Agnell. Vit. Episc. Ravenn. tom. 2 Rer. Italic.

[72] Hieronymus Rubeus, Histor. Ravenn. lib. 4.



    Anno di CRISTO DCLXXX. Indizione VIII.

    AGATONE papa 3.
    COSTANTINO Pogonato imp. 13.
    BERTARIDO re 10.
    CUNIBERTO re 3.


Fu in quest'anno a dì 5 di novembre aperto il sacro ecumenico concilio
sesto, tenuto in Costantinopoli nella sacristia del sacro palazzo in
_Trullo_, cioè sotto la _cupola_ maestosa che era in quell'edifizio.
Furono nelle prime sessioni prodotte le lettere di papa _Agatone_ e del
concilio romano in pruova delle due volontà in Cristo, e _Macario_
patriarca di Antiochia produsse anch'egli i passi dei santi Padri
creduti favorevoli ai monoteliti. Cinque sessioni si fecero, e con esse
si terminò l'anno, ma non già il concilio, le cui sessioni furono
differite sino al prossimo venturo febbraio. In quest'anno, per
attestato di Anastasio bibliotecario[73], un'orrida pestilenza afflisse
di molto la città di Roma e si provò il flagello medesimo anche in
Pavia. E perciocchè chiunque potè se ne fuggì alla campagna e ai monti,
nelle piazze della spopolata città di Pavia si vide crescere l'erba. Fu
rivelato ad una persona che non cesserebbe quella micidial malattia
finchè non fosse posto nella basilica di san Pietro _ad Vincula_ un
altare a san Sebastiano. Furono in fatti dalla città di Roma portate le
reliquie di san Sebastiano, ed alzatogli un altare nella suddetta
basilica di san Pietro: ed allora cessò la peste. Così Paolo
Diacono[74], le cui parole han data occasione ad una disputa,
pretendendo il Sigonio[75] e il cardinal Baronio[76] che nella basilica
romana di san Pietro _ad Vincula_ si ergesse quell'altare; e
all'incontro gli scrittori pavesi, che ciò succedesse nella chiesa
parrocchiale tuttavia esistente in Pavia di san Pietro _ad Vincula_. E
veramente i testi di Paolo dicono che le reliquie di san Sebastiano
furono portate _ab urbe Roma_, e non già _ad urbem Romam_, come immaginò
il cardinal Baronio che s'abbia quivi a scrivere. Potrebbe essere che
circa questi tempi accadesse ciò che narra il suddetto Paolo[77], di
_Alachi_ ossia _Alachiso_ duca di Trento. Governava il buon re
_Bertarido_ col re _Cuniberto_ suo figliuolo il regno longobardico con
tutta amorevolezza e giustizia, facendo godere ad ognuno un'invidiabil
pace e tranquillità, quando il suddetto Alachi turbò questo sereno con
accendere da lì innanzi un grande incendio, che costò la vita ad
assaissima gente. Nacquero contese fra lui e il conte, ossia governatore
della Baviera, la cui giurisdizione si stendeva allora pel Tirolo fino
alla terra di Bolzano. Si venne all'armi e riuscì ad Alachi di dare una
gran rotta ai Bavaresi. Per questa fortunata azione salì forte costui in
superbia, di maniera che cominciò a cozzare col proprio re, e
ribellatosi contra di lui, si fortificò in Trento. Portossi in persona
il re Bertarido con armata mano per gastigare l'insolenza e fellonia di
costui, e lo assediò in Trento. Ma uscito un dì all'improvviso fuor
della città Alachi con tutta la sua guarnigione, sì furiosamente si
scagliò sopra l'esercito regale, che obbligò lo stesso re a menar ben le
gambe. Era Alachi amato non poco dal re Cuniberto, a cagion massimamente
del suo valore; e ciò gli giovò non poco, che frappostosi il medesimo
figlio appresso il re suo padre, tanto fece, che gli ottenne il perdono
e rimiselo in sua grazia; cosa nondimeno mal volentieri fatta da
Bertarido, perchè ben conosceva il mal umore ed inquieto genio di
costui, e desiderava di risparmiare al figliuolo e ai popoli qualche
gran malanno, siccome col tempo avvenne. Fu più volte perciò in pensiero
di ucciderlo; ma Cuniberto, che si figurava in Alachi una soda fedeltà
per l'avvenire, sempre gl'impedì il farlo; anzi non rifinì mai di
supplicare per lui, finchè gli ottenne anche il ducato, ossia governo di
Brescia, contuttochè reclamasse il padre, con dire al figliuolo che egli
andava cercando il proprio malanno, e di aggiugnere lena ad un nemico e
traditore. In fatti, dice Paolo, la città di Brescia conteneva e sempre
ha contenuto nel suo seno una gran moltitudine di nobili longobardi. E
Bertarido, siccome principe vecchio e di molta sperienza, scorgeva, che
vedendosi sempre più potente Alachi, potrebbe un giorno costar caro al
figliuolo questo accrescimento di potenza. Vedremo a suo tempo ch'egli
non s'ingannò ne' suoi timori. Fabbricò in questi tempi esso re
Bertarido nella città di Pavia la porta vicina al palazzo, chiamata
Platinense o Palatinense, opera di sontuosa e mirabile struttura, per
quanto comportava il sapere di questi tempi, che era troppo declinato
dal buon gusto de' saggi romani. Secondo i conti di Camillo Pellegrino,
diede fine ai suoi giorni in quest'anno _Grimoaldo II_ duca di
Benevento, e a lui succedette in quel ducato _Gisolfo_ suo minor
fratello, il qual ebbe per moglie _Viniberta_, ossia _Guiniberta_, che
gli partorì _Romoaldo II_. Scrive in fatti Paolo Diacono[78], ch'egli
tenne quel ducato solamente _tre anni_. Ma discordando questa cronologia
da Anastasio bibliotecario, ne parleremo all'anno 702.

NOTE:

[73] Anast., in Agathone.

[74] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 5.

[75] Sigon., de Regn. Italiae, lib. 2.

[76] Baron., Annal. Eccl.

[77] Paulus Diacon., lib. 5, cap. 36.

[78] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 2.



    Anno di CRISTO DCLXXXI. Indizione IX.

    AGATONE papa 4.
    COSTANTINO Pogonato imp. 14.
    BERTARIDO re 11.
    CUNIBERTO re 4.


Furono ripigliate nel dì 12 di febbraio del presente anno le sessioni
del concilio sesto generale in Costantinopoli[79]. _Macario_ patriarca
d'Antiochia era il principal sostegno del partito de' monoteliti. Costui
avea prodotto una gran filza di passi presi dai santi Padri per provare
una sola volontà in Cristo nostro Signore. Ma avendo reclamato i legati
di papa _Agatone_, cioè _Teodoro_ e _Giorgio_ preti, e _Giovanni_
diacono, con dire che que' passi o erano adulterati, o mal intesi,
perchè staccati da altre necessarie parole, oppur detti della volontà
competente alla Trinità santissima, ma non già al Figliuolo di Dio
incarnato; veramente alle pruove comparve che così era. Fu dipoi
prodotta la lettera di papa Agatone, e trovati i passi de' santi Padri
in essa addotti per chiaramente comprovanti le due volontà in Cristo; e
però _Giorgio_ patriarca di Costantinopoli, che dianzi era in lega con
gli eretici, ravvedutosi a questa luce, con tutti i suoi suffraganei si
dichiarò per la dottrina della santa romana Chiesa. Macario antiocheno
stette fermo e pertinace nella credenza de' monoteliti: e però fu
deposto. Quindi passarono i padri a condannare anche i defunti vescovi
che aveano sostenuto il monotelismo, e questi furono _Ciro_ patriarca
d'Alessandria, _Sergio_, _Pirro_, _Pietro_ e _Paolo_ patriarchi di
Costantinopoli. Negli atti che abbiamo di questo concilio, ed in altre
antiche memorie, si truova ancora condannato papa _Onorio_, che mancò di
vita, siccome vedemmo, nell'anno 658. Intorno a questo punto, cioè se
sia vera una tal condanna, o se sieno stati alterati i testi, oppure
perchè fosse mischiata in essa sentenza la memoria di questo per altro
sì riguardevol papa, hanno disputato non poco i cardinali Baronio e
Bellarmino, e varii letterati franzesi, fra' quali ultimamente il Pagi e
monsignor Bossuet vescovo di Meaux. Non è del presente mio istituto
d'entrare in sì fatte quistioni. A noi basti di sapere, che se il nome
di papa _Onorio_ entrò in quella sentenza, certo non fu perchè egli
veramente insegnasse o tenesse l'eresia dei monoteliti, ma solamente
perchè, usando di troppa connivenza, non la riprovò, nè s'ingegnò di
strozzarla sui principii, avendo certamente questa sua maniera d'operare
dato un gran coraggio ai fautori di quegli errori.

In questo medesimo anno abbiamo da Teofane[80], che scoperta da
_Costantino_ imperadore qualche trama d'_Eraclio_ e _Tiberio_ suoi
fratelli per far delle novità in pregiudizio della sua autorità, li
degradò. Fin qui nelle date degli atti pubblici si veggono registrati
dopo gli anni d'esso Costantino quelli ancora de' suddetti suoi
fratelli. Da qui innanzi non vi s'incontra più il loro nome. Godevano
bensì del titolo di _Augusti_, ma non doveano impacciarsi nel governo.
Il solo _Costantino_ era considerato come _imperador maggiore_, ed essi
probabilmente non erano contenti di questa misura d'onore. Abbiam veduto
all'anno 670 che questo imperadore, per certa cospirazione scoperta in
favore di questi due suoi fratelli, fece loro tagliar il naso. A me si
rende verisimile che solamente in quest'anno succedesse la cospirazione
e lo sfregio fatto al loro volto e insieme la lor deposizione. Dopo di
che l'imperador Costantino dichiarò Augusto e suo collega nell'imperio
_Giustiniano II_ suo figliuol primogenito. Abbiamo poi da Anastasio
bibliotecario[81] un atto lodevolissimo di questo cattolico imperadore
in favor della Chiesa romana. Fin dai tempi dei re goti fu introdotto
l'abuso che il papa nuovo eletto, prima d'essere consecrato, pagasse una
somma di danaro al re e imperadore. Forse erano tremila soldi d'oro.
Giustiniano e gli altri imperadori greci trovarono introdotta questa
utile iniquità, e la continuarono sotto varii colori, che mai non
mancano. Ma il pio imperadore Costantino Barbato quegli fu che da questa
indebita avania esentò la santa Sede romana, con tener saldo nondimeno,
per attestato del medesimo Anastasio, che morendo un papa, fosse ben
lecito al clero, nobili e popolo romano di eleggere il successore, ma
questi non potesse essere consecrato senza l'approvazione in iscritto
dell'imperadore, secondochè portava l'antica consuetudine. Crede il
padre Pagi che per qualche tempo addietro gli esarchi godessero
l'autorità di confermar l'elezione del nuovo papa senza ricorrere alla
corte. Di ciò io non ho veduto buone pruove per i tempi addietro.

NOTE:

[79] Labbe, Concilior., tom. 4.

[80] Theoph., in Chronogr.

[81] Anastas., in Agathone.



    Anno di CRISTO DCLXXXII. Indizione X.

    LEONE II papa 1.
    COSTANTINO Pogonato imp. 15.
    BERTARIDO re 12.
    CUNIBERTO re 5.


Fu quest'anno l'ultimo della vita di papa _Agatone_, sapendosi ch'egli
fu chiamato da Dio ne' primi giorni di gennaio. Le sue virtù e i
benefizii prestati alla Chiesa di Dio meritarono ch'egli fosse messo nel
ruolo de' santi. Per più mesi stette vacante la cattedra apostolica, e
finalmente _Leone II_, di nazion siciliano, personaggio di non minori
doti ornato, fu consecrato papa, per quanto crede il Pagi, nel dì 17 di
agosto. Il cardinal Baronio, il padre Papebrochio ed altri hanno stimato
più tardi. Ma io mi soglio qui attenere all'esame, fatto il meglio che
s'è potuto, della cronologia pontificia dal suddetto padre Pagi. Nota
Anastasio bibliotecario[82] che egli fu consecrato da tre vescovi, cioè
da _Andrea ostiense_, _Giovanni portuense_ e _Piacentino di Veletri_,
perchè vacava allora la Chiesa d'Albano. Queste parole di Anastasio
diedero ansa al Sigonio[83] di credere che in addietro l'uso fosse che
il solo vescovo d'Ostia consecrasse il papa novello. Ma il padre
Mabillone ed altri han dimostrato che anche i precedenti papi furono
consecrati da tre vescovi. E sapendo noi che tre vescovi intervenivano
alla consecrazione de' metropolitani, quanto più dee ciò credersi del
romano pontefice? Convien ora udire l'elogio lasciatoci da Anastasio di
esso papa Leone. Era, dice egli, uomo eloquentissimo e sufficientemente
istruito nelle divine Scritture; egualmente perito della latina che
della greca lingua; ben addottrinato nel canto ecclesiastico e nella
salmodia; sottile interprete dei sensi delle sacre lettere; che con
grazia e pulizia di dire e con gran fervore esponeva al popolo la parola
di Dio, esortava tutti all'amore e alla pratica delle buone opere;
amatore de' poveri, al soccorso de' quali con sollecita cura
continuamente attendeva. Abbiam già parlato di sopra di _Teodoro_
arcivescovo di Ravenna (chiamato per errore _Teodosio_ dall'Ughelli), e
come egli sotto papa Leone II compose le differenze insorte colla Sede
apostolica per la vana pretensione dell'autocefalia, ossia della
indipendenza dal romano pontefice. Ora il suddetto Anastasio nella vita
d'esso papa Leone anch'egli osserva che a' tempi di lui, in vigore d'un
ordine e decreto del clementissimo principe Costantino Augusto, fu
restituita sotto l'ordinazione del romano pontefice la Chiesa di
Ravenna, di modo che ogni nuovo arcivescovo in quella Chiesa eletto
avesse da passare a Roma per essere ivi consecrato secondo l'antica
consuetudine. Ma perchè vi doveva esser introdotta un'altra consuetudine
che dispiaceva ai Ravennati, cioè che il loro novello arcivescovo pagava
una somma di danaro in Roma per ottenere il pallio, dal santo pontefice
Leone con un decreto, posto nell'archivio della Chiesa romana, restò
abolito quest'uso, od abuso. Ordinò poscia il saggio papa che nella
Chiesa di Ravenna non si potesse celebrare anniversario, nè messa da
morto per l'arcivescovo _Mauro_, siccome persona che pertinace nello
scisma era passato all'altro mondo; e per tagliar la radice agli
scandali in avvenire, volle che fosse restituito e lacerato l'iniquo
diploma dell'autocefalia, che esso Mauro avea carpito all'imperador
Costantino, detto Costante, nimico della santa Sede.

NOTE:

[82] Anastas., in Leone II.

[83] Sigon. de Regno Italiae.



    Anno di CRISTO DCLXXXIII. Indizione XI.

    Sede vacante.
    COSTANTINO Pogonato imp. 16.
    BERTARIDO re 13.
    CUNIBERTO re 6.


Secondo le prove addotte dal p. Pagi, sul principio di luglio del
presente anno giunse al fine dei suoi giorni _Leone II_ papa. Intorno al
principio e fine di questo pontefice hanno disputato non poco i
letterati. Quel che è certo, ebbe ben corta durata il suo pontificato;
ma tali e tante dovettero essere le di lui virtù, che meritò d'essere
aggregato al catalogo dei santi. Si celebra nella Chiesa di Dio la sua
festa nel dì 28 di giugno. Ma questo giorno, se vogliam credere al
suddetto Pagi, non è quel della sua morte, credendolo egli passato alla
gloria de' beati nel dì 5 di luglio. Stette poi vacante la cattedra di
s. Pietro undici mesi e ventidue giorni, per quanto abbiam da varii
testi d'Anastasio[84]: però all'anno susseguente appartiene la
consecrazion del suo successore. Benchè sia attorniata da molte tenebre
l'origine dell'insigne monistero di santa _Maria di Farfa_ nella Sabina,
compreso una volta nel ducato di Spoleti, e però sottoposto ai principi
longobardi, tuttavia dopo il padre Mabillone[85] sarà lecito anche a me
il parlarne in questo sito. Credesi per un'oscura tradizione che fin
prima della venuta dei Longobardi in Italia quel sacro luogo fosse
edificato e poscia distrutto, quando giunsero in quelle parti i nuovi
ospiti longobardi, spiranti allora solamente crudeltà. Verso questi
tempi poi capitato colà _Tommaso_ prete di Morienna, uomo di gran
santità, si sentì incoraggito da Dio a rimettere in piedi
quell'abbandonato monistero. Ma forse più tardi accadde la sua
restaurazione, dacchè sappiamo che _Faroaldo II_ duca di Spoleti, il
quale governò da lì a qualche tempo quel ducato, fu il principal
protettore di questa fabbrica, e vi contribuì con varii doni e spese.
L'antica cronica[86] di quell'insigne monistero fu da me pubblicata
nella Raccolta degli scrittori delle cose d'Italia. A questi medesimi
tempi si può similmente riferire un abbozzo della fondazione d'un altro
non men celebre monistero nel ducato di Benevento e nella provincia del
Sannio, appellato di s. _Vincenzo di Volturno_. Tuttavia la fabbrica
ancora di questo pare che appartenga al principio del secolo
susseguente, come si può ricavare dalla cronica d'esso monistero da me
parimente data alla luce[87]. Se non tutti, almeno la maggior parte de'
Longobardi, abiurato l'arianesimo e l'idolatria, avevano abbracciata la
religion cattolica; e però cominciò il monachismo a rimettersi nel
primiero vigore in Italia con lo ristabilimento degli antichi monasteri,
e colla fondazion di nuovi, ne' quali si rimiravano luminosi fanali di
pietà e santità cristiana. Fioriva in questi tempi la disciplina
monastica nella Francia, nell'Inghilterra e nell'Irlanda. Servirono
quegli esempli a rinnovarla in Italia.

NOTE:

[84] Anastas., in Leone II.

[85] Mabill., Annal. Benedict., lib. 17, cap. 20.

[86] Chronic. Farfense, part. II, tom. 2 Rer. Italic.

[87] Chronic. Vulturnense, part. II, tom. 1. Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCLXXXIV. Indiz. XII.

    BENEDETTO papa 1.
    COSTANTINO Pogonato imp. 17.
    BERTARIDO re 14.
    CUNIBERTO re 7.


Era stato eletto sommo pontefice _Benedetto II_ prete di nazione romano,
persona veterana nella milizia ecclesiastica, e studioso delle divine
Scritture, amatore dei poveri, umile, mansueto, paziente e liberale. Si
crede ch'egli fosse consecrato nel dì 26 di giugno dell'anno corrente.
Abbiamo da Anastasio bibliotecario[88] che l'imperador _Costantino_
mandò a Roma i _malloni_ (parola che tuttavia dura nel dialetto
modenese), cioè le ciocche _de' capelli_ de' suoi figliuoli
_Giustiniano_ ed _Eraclio_, che furono accolti con gran solennità dal
clero e dall'esercito romano. Fondatamente stima il cardinal Baronio che
ciò significasse l'offerire essi principi in figliuoli adottivi al
romano pontefice: degnazione convenevole a quel piissimo imperadore. Ed
infatti più sotto vedremo che Paolo Diacono abbastanza ci fa intendere
il rito di questa figliuolanza praticato in questi tempi. Potrebbe
ancora significar quest'atto sommessione e ubbidienza che que' principi
protestavano verso i successori di s. Pietro, a guisa de' servi, a'
quali si tagliavano i capelli. Anche i Gentili costumavano di tagliarsi
la chioma e di offerirla ai loro falsi dii, dichiarandosi in tal maniera
loro servi. Lo stesso Anastasio altrove[89], scrive, tanta essere stata
la divozione del re de' Bulgari verso la santa Chiesa romana, che un
giorno tagliatisi i capelli, e datigli ai messi del romano pontefice, si
dichiarò da lì innanzi servo dopo Dio del beato Pietro e del suo
vicario. Di questa adozion d'onore è da vedere una dissertazione del
Du-Cange[90]. Diede il medesimo imperador Costantino un altro nobil
contrassegno della sua pietà e della sua venerazione alla Chiesa Romana.
Riusciva troppo gravoso a quel clero il dover aspettare da
Costantinopoli, come abbiamo osservato di sopra, la licenza di
consecrare il nuovo papa eletto, restando con ciò per più mesi vacante
la cattedra romana, tuttochè l'eletto papa esercitasse in quel tempo
ancora non lieve autorità nel governo della Chiesa. Spedì il buon
imperadore una bella patente al venerabil clero, al popolo e al
felicissimo esercito romano, per cui concedeva che il nuovo pontefice
eletto si potesse immediatamente consecrare, il che recò somma
consolazione a quella gran città.

NOTE:

[88] Anastas., in Benedicto II.

[89] Anastas., in Praefat. ad Concil. VIII.

[90] Du-Cange, Dissertat. XXII ad Jouvill.



    Anno di CRISTO DCLXXXV. Indiz. XIII.

    GIOVANNI V papa 1.
    GIUSTINIANO II imperadore 1.
    BERTARIDO re 15.
    CUNIBERTO re 8.


Lagrimevole riuscì quest'anno per la morte del piissimo imperador
_Costantino Pogonato_, ossia _barbato_, succeduta nel principio di
settembre, e tanto più fu essa deplorabile, perchè lasciò successore
dell'imperio, ma non delle sue virtù, _Giustiniano II_ suo primogenito,
già dichiarato Augusto negli anni addietro. Era questo principe appena
entrato nel sedicesimo anno della sua età; e però, inesperto nel governo
de' popoli, tardò poco a sconvolgere il buon ordine lasciato dal padre,
e a tirare addosso a sè e a' suoi sudditi delle calamità sonore. Diede
parimente fine alla breve carriera del suo pontificato papa _Benedetto
II_ nel dì 7 di maggio del presente anno, e i suoi meriti il fecero
registrare nel ruolo de' santi. Dopo due mesi e quindici giorni di sede
vacante fu a lui sostituito nella cattedra di san Pietro _Giovanni V_,
nato in Soria, uomo di petto, scienziato e moderatissimo in tutte le sue
azioni[91]. Egli è quel medesimo _Giovanni_ diacono che fu mandato da
papa _Agatone_ per uno de' suoi legati al concilio sesto ecumenico, e
portò seco a Roma gli atti del medesimo concilio, ed inoltre gli ordini
pressanti dell'imperador Costantino Pogonato, perchè fossero restituiti
o conservati alla Chiesa romana i varii patrimonii che ad essa
appartenevano nella Sicilia e Calabria, se pur non vuol dire lo storico
ch'esso Augusto esentò quei patrimonii da un'indebita contribuzion di
grano ad essi imposta dai ministri cesarei. Secondo i conti di Camillo
Pellegrino[92], in quest'anno _Gisolfo_ duca di Benevento mosse guerra
alla Campania romana. Ma ne parleremo di sotto all'anno 702.

NOTE:

[91] Anastas. Bibliothec., in Johann. V.

[92] Peregrinus, Histor. Princip. Longobard., tom. 2 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCLXXXVI. Indiz. XIV.

    CONONE papa 1.
    GIUSTINIANO II imperadore 2.
    BERTARIDO re 16.
    CUNIBERTO re 9.


Condusse papa _Giovanni V_ la sua vita fino al dì 2 di agosto di
quest'anno, in cui passò a miglior vita. Essendo assai vecchio, e per la
maggior parte del suo pontificato stato infermo, non potè produrre tutti
que' frutti che prometteva la di lui rara abilità. Stette vacante la
sedia di san Pietro per due mesi e diciotto giorni, perchè il nuovo
imperador Giustiniano dovette rivocar la concessione fatta al clero
romano dal padre Augusto di poter tosto dopo l'elezione consecrare il
nuovo papa senza dover aspettarne l'approvazione e licenza della corte
imperiale. Permise egli nondimeno che dall'esarco di Ravenna si potesse
approvare l'elezion del novello pontefice, per non perdere tanto tempo.
In fatti ne vedremo delle pruove andando innanzi, e l'avvertì anche il
cardinal Baronio. Praticavasi in questi tempi che non meno il clero che
il popolo e i militi, ossia l'ordine nobile e militare, concorressero
tanto in Roma che nelle altre città alla elezione del loro sacro
pastore. Dovendosi eleggere il nuovo papa, insorse qualche divisione fra
gli elettori. Inclinava il clero nella persona di Pietro arciprete,
l'esercito in quella di Teodoro prete. Avevano i militi poste le guardie
alle porte della basilica lateranense, perchè il clero non v'entrasse,
ed essi intanto nella basilica di santo Stefano faceano la lor raunanza.
E perciocchè l'una delle parti non volea cedere all'altra, dopo essere
andati innanzi e indietro varii pacieri, ma inutilmente, fu proposto di
eleggere un terzo, ed entrato il clero nella patriarcale, diede i suoi
voti a _Conone_ prete, nato nella Tracia, allevato nella Sicilia,
vecchio di venerando aspetto, la cui vita era stata sempre religiosa e
lontana dalle brighe secolaresche, la cui lingua accompagnava il cuore,
persona di un'aurea semplicità e di quieti costumi. Risaputasi questa
elezione, concorsero tosto i magistrati del popolo e la nobiltà a
venerarlo. Questa unione del clero e del popolo indusse da lì a pochi
giorni tutto ancora l'esercito a consentire in esso Conone, e a
sottoscrivere il decreto della elezion sua: dopo di che tanto essi che
il clero e il popolo ne spedirono l'avviso coi loro messi a _Teodoro_
esarco di Italia, residente in Ravenna, secondo il costume. Siccome
apparirà da uno strumento dell'archivio archiepiscopale di Lucca, che
accennerò all'anno 688, in questi tempi si truova in essa città di Lucca
un _Allonisino duca_, il quale verisimilmente era solamente governatore
di quella città, e non già della Toscana, come pretende il
Fiorentini[93].

In quest'anno, per attestato di Teofane[94] e di Anastasio[95], seguì
una pace di dieci anni fra l'imperadore _Giustiniano_ e _Abimelec_
califa ossia principe de' Saraceni. Abbiamo da Elmacino[96] che in
questi tempi bollivano delle dissensioni e guerre civili fra quella
nazione. Si aggiunse ancora la continua vessazione che loro dava il
forte popolo dei cristiani _mardaiti_, che si credono i _Maroniti_,
abitanti nel monte Libano e nei contorni. Erano questi divenuti
formidabili ai Saraceni per le molte botte lor date e per le incursioni
che continuamente faceano nei loro paesi. Perciò Abimelec trattò di pace
coll'imperadore, e la ottenne, con obbligarsi di pagargli ogni anno
mille soldi d'oro, un cavallo, e uno schiavo; e che ugualmente per
l'avvenire si dividessero fra esso imperadore e il principe de' Saraceni
le gabelle di Cipri, dell'Armenia e dell'Iberia, perchè tuttavia in
quelle provincie avevano i Saraceni un gran piede. Parve questo un bel
guadagno dalla parte imperiale; ma una condizion troppo svantaggiosa,
che recò poi incredibili danni all'imperio cristiano, entrò in quella
pace; e fu che l'imperadore mettesse un buon freno ai Maroniti, affinchè
più non inquietassero l'imperio saracenico. Giustiniano, per soddisfare
a questo impegno, levò dal Libano dodicimila de' più valenti Maroniti
colle lor famiglie, e li trasportò in Armenia, con incredibil
pregiudizio dei suoi stati; perciocchè, laddove prima questo feroce
popolo teneva in continuo terrore i Saraceni, e colle scorrerie avea
ridotte in gran povertà e come disabitate moltissime città saraceniche
da Mopsuestia sino alla quarta Armenia, da lì innanzi la potenza dei
Saraceni non avendo più ostacolo, nè opposizione in quelle parti, si
scaricò sopra l'altre provincie del romano imperio. Aggiugne Anastasio
bibliotecario[97] ed anche Paolo Diacono[98], che, in vigore di questa
pace, Giustiniano ricuperò anche quella parte d'Africa che i Saraceni
avevano usurpato al romano imperio. Di ciò non parla Teofane. Soggiugne
egli bensì che Giustiniano, operando da giovane imprudente, e volendo
senza il consiglio dei vecchi governar egli da sè solo, passò ad altre
risoluzioni, che ridondarono appresso in sommo danno dell'imperio. Erasi
ribellata la Persia ad Abimelec, e ne aveva occupata la signoria un
certo Mucaro. Anche in Damasco era seguita una rivolta. Giustiniano, al
vedere così imbrogliati i Saraceni, non volle più stare alla pace fatta.
Pertanto spedì _Leonzio_ suo generale con un'armata, il quale uccise
quanti Arabi trovò nell'Armenia, ricuperò quella provincia, prese anche
l'Iberia, l'Albania, la Bulcacia e la Media; e raunata una gran copia di
tributi da quelle provincie, mandò un immenso tesoro all'imperadore.
Tutti doveano dire: Oh bello! Ma col tempo s'avvidero della imprudente
condotta del principe loro.

NOTE:

[93] Fiorentini, Vit. di Matilde, lib. 3.

[94] Theoph., in Chronogr.

[95] Anastas., in Johann. V.

[96] Elmacinus, Hist. Sarac.

[97] Anast., in Joan. V.

[98] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 11.



    Anno di CRISTO DCLXXXVII. Indiz. XV.

    SERGIO papa 1.
    GIUSTINIANO II imperadore 3.
    BERTARIDO re 17.
    CUNIBERTO re 10.


Non più che undici mesi governò _Conone_ papa la Chiesa di Dio, essendo
anch'egli oppresso dalla vecchiaia, e per lo più infermo. Mancò di vita
nel dì 21 di settembre. Un'imprudenza viene attribuita a questo papa da
Anastasio bibliotecario[99], per non essersi voluto consigliare col
clero romano. Cioè, per quando crede il cardinal Baronio, essendo morto
_Teofane_ patriarca d'Antiochia, esso papa col parere di persone cattive
ordinò in suo luogo _Costantino_ diacono della Chiesa siracusana, e
rettore allora del patrimonio della Chiesa romana in Sicilia, con
inviargli a tal effetto il pallio. Ma essendosi questi trovato uomo
rissoso ed atto solamente a far nascere e a fomentar delle discordie fu
cacciato in prigione dai ministri dell'imperadore che governavano la
Sicilia. Il cardinal Baronio ha seguitato qui un testo guasto di
Anastasio. Non ha quello storico scritto _ex immissione malorum hominum
Antiochiae ecclesiasticorum_, ma sì bene _et antipathia
ecclesiasticorum_. Non apparteneva allora ai papi l'ordinare i
patriarchi di Antiochia. Nè altro dice Anastasio, se non che Conone
costituì _rettore del patrimonio della Chiesa romana_ in Sicilia quel
Costantino che fece poi sì poca riuscita con disonore di chi l'aveva
eletto di sua testa, senza prender consiglio dal clero. In quest'anno
ancora essendo mancato di vita in Ravenna _Teodoro_ esarco e quivi
seppellito, siccome di sopra ci fece sapere Agnello, antichissimo
storico delle vite degli arcivescovi ravennati, l'imperador
_Giustiniano_ mandò ad esercitar quella carica _Giovanni_ patrizio per
soprannome _Platyn_. Arrivò egli a Ravenna, vivente ancora papa Conone.
Trovavasi infermo questo pontefice, e _Pasquale_ arcidiacono, che ansava
dietro al papato[100], spinto dalla cieca sua ambizione, inviò
incontanente persona segreta a questo nuovo esarco, per averlo
favorevole nell'elezione, con adoperar anche il possente incanto
dell'oro, maledetto per altro in sì fatte occasioni. Non ci volle di più
perchè lo esarco mandasse ordine agli uffiziali da lui deputati al
governo di Roma, affinchè dopo la morte del papa esso arcidiacono
venisse eletto. Pertanto essendosi raunato il clero e popolo per
eleggere un nuovo pontefice, i voti di una parte concorsero nella
persona di _Pasquale_, ma quelli d'un'altra voleano papa _Teodoro_
arciprete. Quindi nacque un gagliardo scisma. Fu più diligente Teodoro,
ed occupò la parte interiore del palazzo patriarcale lateranense:
Pasquale si fece forte nella parte esteriore, e cadaun partito cercava
la maniera di prevalere all'altro. Allora i più saggi fra i Romani, cioè
i principali pubblici ministri ed uffiziali della milizia, e la maggior
parte del clero con una copiosa moltitudine di cittadini mal soffrendo
questa scandalosa divisione e gara, unitisi insieme se n'andarono al
sacro palazzo, e quivi lungamente consultarono intorno alla maniera di
provvedervi; e la risoluzione fu di eleggere un terzo.

Però tutti d'accordo elessero _Sergio_, oriondo da Antiochia, e nato in
Palermo, allora prete e parroco di santa Susanna alle due Case; e
presolo di mezzo al popolo, il menarono nell'oratorio di san Cesario
martire, che era in esso sacro palazzo, e di là con grandi acclamazioni
per forza l'introdussero nel palazzo del Laterano. Appena fu egli
entrato, che Teodoro arciprete si quietò, e corse a fargli riverenza ed
a baciarlo. Non così Pasquale arcidiacono. Resistè quanto potè, e per
forza in fine pieno di confusione andò a riconoscerlo per suo signore.
Ma intanto egli aveva spedito segretamente avviso di quanto succedeva
all'esarco Giovanni, scongiurandolo di venire a Roma, perchè si
lusingava di poter carpire, coll'aiuto di lui, quella dignità, di cui,
per le macchine simoniache, era più che indegno. Andò in fatti l'esarco
a Roma, e così celatamente, che la milizia romana non ebbe tempo
d'andarlo ad incontrare al luogo solito, ed appena uscita da Roma, il
vide comparire. Vedendo l'esarco di non potere smuovere il consenso di
tutti gli ordini nella persona di _Sergio_, ne restò non poco
amareggiato, perchè perdeva _cento libbre d'oro_ che gli erano state
promesse dall'arcidiacono Pasquale. Tuttavia il tristo ritrovò presto il
ripiego di non voler approvare l'elezione, se non gli si pagava la detta
somma. E benchè Sergio gridasse che non si dovea questo pagamento, pure
bisognò prendere i candellieri e le corone che pendevano al sepolcro di
san Pietro, e impegnarle, e saziar colle cento libbre d'oro la sacrilega
avarizia di questo imperial ministro. L'arcidiacono Pasquale fu poi da
lì a non molto tempo processato per alcuni incantesimi e sortilegii, e
deposto e confinato in un monistero, dove dopo cinque anni impenitente
morì. In questo anno l'imperador _Giustiniano_ portatosi nell'Armenia,
quivi accolse i Maroniti, levati dal monte Libano, senza accorgersi
d'aver privato del più forte baluardo le frontiere del suo imperio
contra dei Saraceni. Poscia l'una dietro all'altre moltiplicando le
imprudenze, ruppe la pace stabilita da suo padre co' Bulgari. Si
figurava il baldanzoso giovane principe di poter con facilità
sottomettere quel popolo, e del pari i confinanti Schiavoni; e a questo
fine fece dei gagliardi preparamenti per l'anno venturo. Se alle sue
idee corrispondessero gli effetti, in breve ce ne chiariremo. Provossi
nell'anno presente una sì fiera carestia nella Soria, che moltissimi di
quella gente vennero a rifugiarsi nelle contrade del romano impero per
non morire di fame. In quest'anno parimente _Pippino_ chiamato il
_Grosso_, oppur d'_Eristallo_, dopo una gran rotta data a _Teoderico II_
re de' Franchi, s'impadronì della monarchia francese sotto titolo di
_maggiordomo_, cioè lasciando ai re il nome e l'apparenza regale, e
ritenendo per sè tutto il comando. Cominciò dunque a tener continuamente
delle guardie ai re della schiatta merovingica, affinchè non si
prendessero autorità di sorta alcuna; e durò questa usurpazione, finchè
un altro _Pippino_, nipote di questo Pippino, passò dall'essere
maggiordomo al trono regale della Francia, siccome vedremo.

NOTE:

[99] Anastas., in Conone.

[100] Anastas., in Conone.



    Anno di CRISTO DCLXXXVIII. Indiz. I.

    SERGIO papa 2.
    GIUSTINIANO II imperadore 4.
    CUNIBERTO re 11.


Benchè Paolo Diacono[101] scriva che _Bertarido_ re de' Longobardi
regnasse _dieciotto anni_, parte solo e parte col figliuolo _Cuniberto_;
pure egli stesso avea prima detto che questo principe regnò solo per
_sette anni_, e che _nell'ottavo_ prese per collega nel regno esso
Cuniberto, e con esso lui regnò _dieci anni_. Per conseguente,
_diecisette_ pare che sieno stati gli anni del suo regno, e dovrebbe
egli essere giunto a morte in questo anno 688. Pertanto io la metto qui
per non discordare da esso storico; e tanto più, perchè se tal morte
succedette prima, si viene ad imbrogliar la cronologia dei re
susseguenti. E pure gran cagione c'è di dubitarne. Imperciocchè in Lucca
si conserva un diploma del re _Cuniberto_ suo figliuolo in favore del
monistero di san Frediano, accennato dal Fiorentini[102], e distesamente
portato dal padre Mabillone[103] colle seguenti note: _Datum Ticini in
palatio nona die mensis novembris, anno felicissimi regni nostri nono
per Indictione quintadecima_. Nel novembre dell'anno 686 correva
l'_Indictione XV_ cominciata nel settembre. Non è mai da credere che se
Bertarido fosse stato vivo in quel tempo, il figlio _Cuniberto_ avesse
fatto un diploma senza mettervi in fronte il nome del padre, che tale
era il costume, e così conveniva, per essere Bertarido il vero regnante.
Per ciò par quasi certo che esso re Bertarido prima del novembre
dell'anno 686 fosse mancato di vita. Aggiungasi che nell'antichissima
cronichetta dei re Longobardi, da me data alla luce[104], e composta
circa l'anno 885, si legge che _Bertari regnò anni XVI_, e non già
_diecisette_, o _dieciotto_, come hanno i testi di Paolo Diacono; e
conseguentemente viene a cader la morte di lui nel suddetto anno 686.
Comunque sia, certamente credo io fuor di strada il Pagi che la mette
nell'anno 691. Lasciando io intanto al lettore di scegliere quello che
gli par meglio, dico che _Bertarido_ morì, e gli fu data sepoltura nella
basilica del Salvatore, fondata fuori di Pavia dal re _Ariberto_ suo
padre. Lasciò questo re una memoria onorevole di sè stesso a' posteri,
per aver fatto sedere con seco sul trono il timore di Dio, la
mansuetudine e l'umiltà. In fatti sotto di lui goderono i popoli
un'invidiabil calma e tranquillità. Era di bella statura e di corpo
pieno. Rimase solo al governo del regno _Cuniberto_ suo figliuolo, già
dichiarato re fin dall'anno 678, che in bontà e benignità d'animo riuscì
non inferiore al padre, se non che sembra che fosse troppo amatore del
vino. Egli prese per moglie _Ermelinda_ figliuola d'uno dei re
anglo-sassoni dominanti nell'Inghilterra. La feroce nazione de' Bulgari,
uscita della Tartaria, Unni anch'essi, perchè così erano chiamati tutti
i Tartari, avea, siccome accennai di sopra, occupata quella parte di
paese ch'era abitata dagli Schiavoni fra la Pannonia e la Tracia di qua
dal Danubio; e tale si provò la sua possanza, che _Costantino_ Pogonato
Augusto fu astretto a comperar da essi la pace con promettere un annuo
donativo da pagarsi loro da lì innanzi. Ora l'imperador _Giustiniano_,
pieno di spiriti giovanili, ma non iscortato dalla prudenza, virtù rara
ne' giovani, volle stuzzicar questo vespaio[105]. Pertanto con un
poderoso esercito marciò contro alla Bulgaria nel presente anno.
Sigeberto[106], seguitato dal padre Pagi[107], riferisce questa impresa
all'anno seguente. Se gli fecero incontro quei Barbari, e furono
ripulsati. Continuò l'imperadore il suo viaggio fino a Salonichi, con
raccorre e ridurre in suo potere un immenso numero di Schiavoni, prima
della venuta de' Bulgari dominanti in quel paese. Parte colla forza
furono presi, parte se gli diedero spontaneamente, non amando il giogo
dei Bulgari. Inviò Giustiniano tutta questa gente ad abitare nell'Asia
di là dall'Ellesponto nella Troade. Ma i Bulgari, che non osavano
combattere in campagna aperta, aspettarono ai passi stretti delle
montagne che l'imperador tornasse indietro, e quivi assalito l'esercito
cesareo colla morte e colle ferite d'assaissimi l'angustiarono talmente,
che lo stesso Augusto stentò non poco ad uscir salvo da quel pericolo.
Tornò in quest'anno la Persia sotto il dominio di _Abimelec_, principe
dei Saraceni.

NOTE:

[101] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 37.

[102] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3, p. 4.

[103] Mabill., Annal. Benedict., tom. 1, pag. 70.

[104] Antiq. Italic., tom. 4, pag. 943.

[105] Theoph., in Chronogr.

[106] Sigebertus, in Chron.

[107] Pagius, Crit. Baron.



    Anno di CRISTO DCLXXXIX. Indizione II.

    SERGIO papa 3.
    GIUSTINIANO II imperadore 5.
    CUNIBERTO re 12.


Venne in questi tempi a Roma _Ceadvalla_ re degli Anglo-Sassoni
nell'Inghilterra, risoluto di abbandonare il culto degl'idoli e
d'abbracciare la santa religione di Cristo. Per attestato di Paolo
Diacono[108], egli passò per la Lombardia, e fu con somma magnificenza
accolto dal re _Cuniberto_. Già dicemmo che _Ermelinda_ figliuola d'uno
dei re anglosassoni era maritata in Cuniberto. Non è probabile ch'essa
avesse per padre questo re sassone, perchè Cuniberto principe cattolico
e pio non avrebbe preso in moglie la figliuola d'un re idolatra; se pure
quel matrimonio non seguì dopo la venuta di Ceadvalla. Viene incolpato
Paolo dal Pagi, perchè chiamasse _Teodaldo_ questo re _Ceadvalla_. Ma
s'ingannò il Pagi per non aver ben consultato i migliori testi di Paolo,
dove quel re è appellato _Cedoaldus_. Beda[109] il chiama _Ceduald_, e
nel suo epitafio è detto _Ceadual_, e più sotto _Cedoald_, che è lo
stesso nome datogli da Paolo, latinamente espresso. Ora questo buon re,
arrivato che fu a Roma, ricevette il sacro battesimo dalle mani di papa
_Sergio_ nel sabbato santo, e gli fu posto il nome di _Pietro_. Ma
infermatosi poco dappoi, prima della domenica in albis, nel dì 20
d'aprile, fu chiamato a godere del premio della sua gloriosa
conversione. Paolo ne rapporta l'epitafio.

NOTE:

[108] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 15.

[109] Beda, Histor., lib 5, cap. 7.



    Anno di CRISTO DCXC. Indizione III.

    SERGIO papa 4.
    GIUSTINIANO II imperadore 6.
    CUNIBERTO re 13.


Si può rapportare a quest'anno la ribellione di _Alachi_ duca di Trento
e di Brescia, narrata da Paolo Diacono[110]. Costui, mostro
d'ingratitudine, perchè dimentico de' segnalati benefizii a lui fatti
dal re _Cuniberto_, e nulla curante del giuramento di fedeltà a lui
prestato, era gran tempo che macchinava di occupare il trono regale.
Congiurato perciò con _Aldone_ e _Grausone_, due de' più potenti
cittadini di Brescia, e con altri Longobardi aspettò che Cuniberto fosse
fuori di Pavia, e all'improvviso s'impadronì del palazzo regale e di
quella città, con assumere il titolo di re. Portata questa nuova a
Cuniberto, altro ripiego non ebbe per allora che di rifugiarsi
nell'isola del lago di Como, che in questi tempi era una delle migliori
fortezze, e quivi attese a fortificarsi. Grande fu l'afflizione di
chiunque amava Cuniberto, ma specialmente di tutte le persone
ecclesiastiche assai informate dell'odio che Alachi portava al clero.
Governava in questi tempi la Chiesa di Pavia _Damiano_ vescovo, insigne
per la santità dei suoi costumi, e sufficientemente ornato dell'arti
liberali: pregio allora assai raro in Italia. Questi dacchè intese
occupata dal tiranno la reggia, affinchè per sua trascuraggine non
venisse danno alla sua Chiesa, spedì a fargli riverenza Tommaso suo
diacono, uomo saggio e buon religioso, mandandogli nello stesso tempo
_la benedizione della sua santa Chiesa_, cioè l'eulogia, ossia il pan
benedetto. Dura questo nome di _benedizione_ nel suddetto significato
nella Garfagnana, provincia del duca di Modena, di là dall'Apennino, e
dura anche in Modena, ma corrotto e mutato in quello di _bendesón_.
Saputo che ebbe Alachi essere nell'anticamera il diacono, siccome uomo
pieno di mal talento verso i preti e cherici, gli mandò a fare una
sporca interrogazione, a cui saviamente rispose il diacono. Finalmente
fattolo entrare, dopo avergli parlato con asprezza di parole e motti
ingiuriosi, il licenziò. Si sparse per tutto il clero la nuova di questo
indegno trattamento, e in tutti sorse il terrore e la paura del tiranno,
e crebbe il desiderio che tornasse sul trono il buon re Cuniberto. In
fatti non permise Iddio che lungo tempo durasse questo crudele
usurpatore sul trono. Adunque un giorno contando Alachi sopra una tavola
dei soldi d'oro, gli cadde in terra un terzo di soldo. Fu presto il
figliuolo di Aldone sopraddetto, fanciullo di tenera età, e
probabilmente paggio di corte, a raccoglierlo, e glielo restituì. Scappò
allora detto ad Alachi verso il fanciullo: _Oh tuo padre ne ha ben
parecchi di questi, e volendo Iddio, non andrà molto che me li darà_.
Tornato la sera il fanciullo a casa, interrogato dal padre che parole
avesse detto in quel giorno il re, gli riferì il motto suddetto, che
bastò ad un buono intenditore per cercar riparo alle intenzioni malvage
dell'ingrato tiranno. Comunicato l'affare a Grausone suo fratello, ne
concertarono la maniera con gli amici, e fu questa. Andati a trovar
Alachi, gli rappresentarono che la città era assai quieta, e il popolo
tutto fedele, nè v'essere da temere di quell'ubbriacone di Cuniberto,
abbandonato da ognuno; e però poter egli oramai uscir fuori alla caccia
per divertirsi un poco insieme co' suoi giovani: che intanto essi con
gli altri suoi fedeli farebbono buona guardia alla città, con
promettergli anche di dargli in breve la testa di Cuniberto. Tesa non fu
la rete indarno.

Alachi uscito di Pavia, se n'andò alla vastissima selva del fiume, o del
castello, appellata Urba, oggidì Orba, e quivi cominciò a darsi bel
tempo. Intanto Aldone e Grausone travestiti andarono al lago di Como, e,
presa una barca, si presentarono nell'isola davanti al re Cuniberto, e
prostrati a' suoi piedi accusarono il loro fallo, ne espressero il
pentimento, e dopo avergli raccontato quanto aveva il tiranno macchinato
per la loro rovina gli rivelarono il disegno formato per rimetterlo sul
trono. Pertanto obbligatisi con forti giuramenti, destinarono il giorno
in cui Cuniberto avesse da comparire a Pavia, dove gli sarebbono aperte
le porte. Così fu fatto. Cuniberto vi fu senza difficoltà accolto, e
portossi a dirittura al suo palazzo. Si sparse, per dir così, in un
batter d'occhio per tutta la città la nuova: e i cittadini a folla, e
massimamente il vescovo e i sacerdoti e cherici, giovani e vecchi, a
gara tutti volarono colà, tutti pieni di lagrime e d'inestimabil
allegrezza, senza saziarsi d'abbracciarlo e di ringraziar Dio pel suo
ritorno. Li consolò, e baciò i principali il buon re Cuniberto. Non
tardò ad arrivare ad Alachi l'avviso che Aldone e Grausone aveano
mantenuta la parola, con aver portato non la testa sola, ma anche tutto
il corpo di Cuniberto a Pavia, e ch'esso era nel palazzo. Allora Alachi
saltò nelle furie contra Aldone e Grausone, e senza perder tempo, venne
a Piacenza, e di là se ne tornò nell'_Austria_ e non già nell'_Istria_,
come hanno alcuni testi di Paolo, guasti dai poco pratici degli usi di
questi tempi. Perciocchè la parte del regno longobardico posta fra
settentrione e levante era chiamata allora _Austria_, a differenza della
parti occidentale della Lombardia, che si chiamava _Neustria_: nella
qual guisa appunto anche i Franchi appellarono Neustria ed Austria,
ossia Austrasia due parti del vasto loro regno, cioè l'occidentale e
l'orientale. Però nelle leggi de' Longobardi[111] noi troviamo la
_Neustria_ e l'_Austria_, siccome anch'io ho dianzi fatto vedere nelle
annotazioni alle medesime leggi.

Arrivato Alachi nell'Austria longobardica, parte colle lusinghe e parte
colla forza trasse nel suo partito le città per dove passava. I
Vicentini a tutta prima se gli opposero, ma coll'armi fece lor mutare
pensiero, e gli unì seco in lega. Giunse a Trivigi, e così all'altre
città di quelle contrade, e tutte le ebbe a' suoi voleri. Quindi si
diede a raunare un esercito per andar contra Cuniberto; e perchè seppe
che quei di Cividale di Friuli s'erano mossi per essere in aiuto d'esso
Cuniberto, portatosi al ponte della Livenza, distante quarantotto miglia
da Cividale, di mano in mano che arrivava quella gente, la forzava a
giurare d'essere in aiuto suo, senza permettere che alcuno tornasse
indietro, e potesse avvisar gli altri che venivano di questa frode. In
una parola Alachi con tutta l'armata dell'Austria longobarda s'incamminò
alla volta di Pavia: ma passato il fiume Adda, trovò Cuniberto che gli
veniva incontro coll'esercito suo; e però nelle campagne di Coronata
amendue le armate, l'una in faccia all'altra, si accamparono. Quel sito
era verso Como, e non già presso Pavia, come han creduto alcuni
scrittori pavesi, ed oggidì ancora si chiama _Cornà_. Cuniberto, che
voleva risparmiare il sangue dei suoi, mandò a sfidare Alachi ad un
duello fra lor due soli. Ma Alachi non vi consentì. E perchè saltò su
uno dei suoi di nazione toscano, che disse di maravigliarsi come un
signore sì bellicoso e forte ricusasse di battersi con Cuniberto, Alachi
rispose: essere ben Cuniberto un ubbriacone e scimunito; ma che
nondimeno si ricordava, quando amendue erano giovanetti, che nel palazzo
di Pavia si trovavano dei castrati di straordinaria grandezza, i quali
Cuniberto prendendoli per la lana della schiena con una mano, gli alzava
in alto: cosa che non poteva far esso Alachi. Ciò udito, il toscano gli
disse, che s'egli non voleva battersi con Cuniberto, neppur egli
intendeva di combattere per lui; e detto fatto se ne scappò, e andò a
trovar Cuniberto, a cui narrò quanto era avvenuto. Andata la sfida della
general battaglia, si prepararono le due armate per affrontarsi. Ma,
prima di venire all'assalto, Zenone diacono della Chiesa di Pavia,
custode della basilica di san Giovanni Battista, fabbricata dalla regina
_Gundiberga_, siccome persona che amava teneramente il re Cuniberto, e
temeva che restasse morto in quella campal giornata, gli disse, che
essendo riposta la vita di tutti nella salute d'esso re, ed avendosi
giusto timore che s'egli per disgrazia perisse, il crudel tiranno dopo
mille strazii leverebbe a tutti la vita: perciò il consigliava di cedere
a lui le armi e la sopravvesta sua; perchè morendo un par suo, nulla si
perderebbe, e campando, ne verrebbe a lui più gloria per aver vinto col
mezzo d'un suo servo. Abborriva Cuniberto di accettar questo consiglio,
ma cotanto fu scongiurato dalle lagrime e preghiere de' suoi più fidi,
che si arrendè, e consegnò tutte le sue armi al diacono, il quale,
dimentico del suo grado, e affascinato da una imprudente carità,
comparve alla testa dell'esercito, e perchè era della stessa statura del
re, fu creduto Cuniberto da tutti. Si attaccò dunque la battaglia con
gran valore dall'una e dall'altra parte. Alachi, ben conoscendo la
certezza della vittoria se gli riusciva di abbattere Cuniberto,
scopertolo, con tanto sforzo dei suoi l'assalì, che lo stese morto a
terra; ma nel fargli levar l'elmo, per tagliargli il capo ed alzarlo
sopra una picca, trovò d'aver ucciso non Cuniberto, ma un cherico; e
indiavolato sclamò: _Ah che nulla abbiam fatto finora; ma se Dio mi dà
vittoria, fo voto d'empiere un pozzo di nasi ed orecchie di cherici_.
Questa cautela di far prendere l'armi regali ad una privata persona,
allorchè si andava ai combattimenti, fu poi praticata da alcuni re di
Sicilia. La voce sparsa della morte di Cuniberto fece che l'armata sua
cominciò a ritirarsi, ed era già in procinto di prendere la fuga, quando
Cuniberto, alzatasi la visiera, si fece conoscere al suo popolo, e gli
rimise in petto il coraggio. S'era arrestato anche l'esercito contrario,
perchè convinto di nulla aver guadagnato. Tornaronsi dunque ad ordinar
le schiere dall'una parte e dall'altra, e già erano in punto per menar
le mani, quando Cuniberto mandò di nuovo a dire ad Alachi, che non
permettesse la morte di tanta gente, e volesse piuttosto combattere con
lui a corpo a corpo. Esortavano i suoi il tiranno ad accettar la sfida;
ma egli rispose che mirava negli stendardi di Cuniberto l'immagine di
san Michele arcangelo, davanti alla quale gli avea prestato giuramento
di fedeltà. Allora arditamente gli rispose uno de' suoi: _Signore, voi
per paura mirate quello stendardo: ma tempo non è più di far queste
riflessioni_. Si ripigliò dunque la battaglia, e grande fu il macello da
ambedue le parti. Ma finalmente il crudel tiranno Alachi trafitto da più
colpi, stramazzò morto a terra; e l'esercito suo per questo si diede
alla fuga, con poco utile nondimeno, perchè quei che avanzarono alle
spade, trovarono la morte nel fiume Adda. A questa giornata dice Paolo
Diacono, per onor della sua patria, che non si trovarono le truppe di
Cividal di Friuli, perchè avendo per forza prestato il giuramento ad
Alachi, non vollero essere nè in aiuto di lui nè di Cuniberto; ed
allorchè si attaccò la mischia, se ne andarono a casa. Ora dopo la
felice vittoria il re Cuniberto se ne tornò tutto lieto e con trionfo a
Pavia, dove fece fabbricare un suntuoso sepolcro al corpo del diacono
Zenone, davanti alla porta della basilica di san Giovanni Battista.

NOTE:

[110] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 38 et seq.

[111] Leges Longobard. part. 1. tom. 1. Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCXCI. Indizione IV.

    SERGIO papa 5.
    GIUSTINIANO II imperadore 7.
    CUNIBERTO re 14.


Cominciò in quest'anno l'imperador _Giustiniano_ col suo leggier
cervello a cercar pretesti per guastar la pace già stabilita con onore e
vantaggio del romano imperio coi Saraceni. _Abimelec_ loro califa, ossia
principe, per attestato di Teofane[112], avea già atterrati tutti i suoi
ribelli; ed abbiamo da Elmacino[113] che nell'ottobre dell'anno
precedente egli si era anche impadronito della Mecca, città dell'Arabia
Felice, dove, se crediamo al padre Pagi[114], si vede il sepolcro di
Maometto. Ma il Pagi qui si lasciò trasportar dalle opinioni del volgo,
essendo certo, per relazion dei migliori, che quel famoso impostore
nacque bensì nella Mecca: motivo, per cui quella città è in tanta
venerazione presso i Monsulmani; ma fu poi seppellito in Medina, altra
città dell'Arabia, e non già in cassa di ferro, sostenuta in aria dalla
calamita, come han le favole di certi viaggiatori. Ora Abimelec
inclinava a conservar la pace: ma il giovane imperadore volea pur
romperla. Avendogli Abimelec inviato il tributo pattuito in danari di
nuova zecca, e diversi nel conio dai precedenti, Giustiniano ricusò di
riceverli. Il furbo califa, mostrando paura, si raccomandava, perchè la
pace durasse e fosse accettato quell'oro; e l'imperadore sempre più
alzava la testa, credendo quelle preghiere figliuole di debolezza. Prese
anche un'altra risoluzione, non meno stolta delle altre. Perchè i popoli
dell'isola di Cipri erano troppo esposti alle incursioni de' Saraceni,
gli venne in pensiero di trasportarli tutti altrove. Una gran copia di
essi perì per naufragio, o per malattie; altri coi loro vescovi furono
posti nella provincia dell'Ellesponto, ed alcuni fuggendo se ne
tornarono alle lor case, restando con ciò quella felicissima isola alla
discrezion de' nemici del nome cristiano. Si tiene che in quest'anno
terminasse i giorni del suo vivere _Teodoro_ arcivescovo di Ravenna, che
ebbe successore _Damiano_, il quale fu consacrato in Roma. Agnello,
scrittore ravennate[115], novecento anni sono, cel descrive per uomo di
grande umiltà, mansuetudine, e sì dabbene, che essendo morto un
fanciullo infermo, a lui portato dalla madre, perchè il cresimasse,
pregò sì istantemente Dio, che il resuscitò per tanto tempo, che potè
dargli la cresima. E in questi giorni tornò a Ravenna quel
_Giovanniccio_, di cui parlammo di sopra all'anno 679, che era salito ai
primi posti nella segretaria imperiale, e fece ancora risplendere la sua
sapienza per tutta l'Italia. Cessò parimente di vivere in quest'anno
_Teoderico III_ re de' Franchi di nome, perchè la regale autorità era
occupata da _Pippino_ il Grosso, suo maggiordomo. Probabilmente in
questo anno fu dai Greci tenuto in Costantinopoli il concilio trullano,
perchè celebrato nella sala della cupola dell'imperial palazzo, dove
furono fatti molti canoni e decreti riguardanti la disciplina
ecclesiastica, in supplemento, diceano essi, dei concilii generali
quinto e sesto, ne' quali niun canone fu pubblicato intorno alla
disciplina. Non apparisce che il romano pontefice mandasse legati
apposta ben istruiti per intervenire a quel concilio; e quantunque
Anastasio[116] scriva che i legati della Sede apostolica v'intervennero,
e ingannati sottoscrissero; tuttavia fondatamente si crede che sotto
nome di legati intenda Anastasio gli ordinarii apocrisarii, responsali,
o nunzii vogliam dire, che ogni pontefice solea tenere alla corte
imperiale per gli affari della sua Chiesa, che non aveano l'autorità di
rappresentar ne' concilii la persona del capo visibile della Chiesa di
Dio, cioè del romano pontefice. Comunque sia, cosa indubitata è, che
inviati a Roma per ordine dell'imperadore que' canoni, con essere stato
lasciato nella carta il sito voto dopo la sottoscrizion dell'imperadore,
acciocchè il papa li sottoscrivesse in primo luogo e avanti alle
sottoscrizioni già fatte dai patriarchi d'Oriente, papa _Sergio_,
pontefice zelantissimo, ricusò di accettarli, e si protestò piuttosto
pronto a dar la vita, che ad approvarli. E ciò perchè alcuni di que'
canoni eran contrari alla pura disciplina della Chiesa romana, e
principalmente quelli di permettere di ritener le mogli e l'uso loro a
chi era ordinato prete, e il proibire il digiuno del sabbato, con altre
simili determinazioni, che i Greci dipoi sostennero, ma non ebbero luogo
nelle Chiese d'Occidente. Sopra di che è da vedere quanto lasciò scritto
il cardinal Baronio[117]. Certo può dirsi strana cosa, che non si sappia
ben l'anno di quel concilio, e che gli atti d'esso neppure anticamente
si trovassero negli archivii delle Chiese patriarcali, di maniera che a'
tempi di Anastasio bibliotecario[118] si dubitava infino, se veramente
tutti i patriarchi d'Oriente vi fossero intervenuti; e par certo
difficile di quello di Alessandria, ch'era allora sotto il giogo dei
Saraceni.

NOTE:

[112] Teoph., in Chronogr.

[113] Elmacinus, Histor. Saracen.

[114] Pagius, Crit. Baron. ad hunc annum.

[115] Agnell. Vita Episcopor. Ravennat., tom. 2 Rer. Ital.

[116] Anastas., in Vit. Sergii I.

[117] Baron., Annal. Eccl. ad ann. 691.

[118] Anastas., in Praefat. ad Synod. VIII.



    Anno di CRISTO DCXCII. Indizione V.

    SERGIO papa 6.
    GIUSTINIANO II imperador 8.
    CUNIBERTO re 15.


Giustiniano Augusto più che invasato dalla voglia e speranza di tor
dalle mani dei Saraceni tante provincie occupate al romano imperio, in
quest'anno finalmente la ruppe con loro[119]. Di quegli Schiavoni
ch'egli aveva trasportati in Asia, abili all'armi, ne raunò ben
trentamila, e con queste ed altre squadre marciò a Sebastopoli con dar
principio alla guerra. Mandarono i Saraceni a pregarlo di pace,
protestando che Dio vendicherebbe la rottura indebitamente da lui fatta
de' trattati; ma trovarono che avea turati gli orecchi. Si venne dunque
all'armi. I Saraceni condotti dal loro generale, appellato Maometto,
appesero ad una lunga asta la scrittura della pace, e la fecero servir
di pennone. Il combattimento fu aspro, e a tutta prima toccò la peggio
ai Saraceni (Niceforo[120] scrive il contrario); ma avendo lo scaltro
lor generale inviato sotto mano al capitan degli Schiavoni un turcasso
pieno di soldi d'oro, con promesse ancora di maggiori vantaggi, lo
indusse a disertare con ventimila de' suoi; con che restarono tagliate
le ali all'esercito cesareo. Portato intanto a Costantinopoli l'avviso
che il romano pontefice[121] avea negato di prestare il suo assenso ai
decreti del concilio trullano, e neppur s'era degnato di leggerli, non
mancarono i Greci d'attizzar l'imperadore contra del buon papa _Sergio_,
e durarono ben poca fatica, perchè egli era già incamminato sulle pedate
dell'avolo cattivo, e non già dall'ottimo padre suo. In dispregio dunque
del papa mandò egli a Roma uno de' suoi uffiziali per nome Sergio, che
preso _Giovanni_ vescovo di Porto e _Bonifazio_ consigliere della Sede
apostolica, quasichè coi lor consigli avessero distolto il papa
dall'ubbidire ai cenni imperiali, amendue li condusse a Costantinopoli.
Non finì qui la faccenda. Inviò dipoi Zacheria, uno delle sue guardie,
che portava ciera di capitano Spavento, con ordine di menar lo stesso
papa Sergio alla corte. Ma ossia ch'egli, perchè non si poteva eseguire
sì nero disegno senza un forte braccio d'armati, confidasse ad altri
l'ordine dell'iniquo autore, o che in altra maniera traspirasse il suo
mal talento, Dio volle che si movesse il cuor dei soldati stessi in
favore del vicario suo, e che a truppe accorressero fin da Ravenna e
dalla Pentapoli, per impedir ogn'insulto che si volesse fargli.
Zacheria, al vedere questa inaspettata scena, tutto sgomentato gridava,
che si serrassero le porte della città; ma non era ascoltato. Però
temendo della pelle, tremante si rifugiò nella camera dello stesso papa,
e con lagrime si mise a pregare il santo Padre che avesse pietà di lui,
nè permettesse che gli fosse fatto oltraggio. Entrato intanto l'esercito
ravennate per la porta di san Pietro, corse al palazzo lateranense,
ansante di vedere il papa, perchè era corsa voce che la notte era stato
preso e messo in nave per menarlo in Levante. Erano chiuse tutte le
porte del palazzo; minacciavano i soldati con alte grida di gettarle per
terra, se non si aprivano; e a queste voci lo sgherro Zacheria corse a
nascondersi sotto il letto del papa, tenendosi per perduto, se non che
il papa gli fece animo, assicurandolo che non gli sarebbe recata
molestia alcuna. Aperte le porte, uscì fuori il pontefice, e lasciossi
vedere alla milizia e al popolo, che esultarono in rimirarlo libero e
sano. E cessò bene la loro ansietà e foga per le buone parole del papa;
ma per l'amore e riverenza loro verso la santa Sede e verso l'innocente
pontefice non vollero desistere dal far le guardie al palazzo, finchè
non videro uscir di Roma quell'empio Zacheria che se n'andò scornato e
sonoramente applaudito da mille villanie della plebe. Potrebbe essere
che succedesse più tardi questa scena in Roma, cioè o nell'anno
seguente, o nell'altro appresso, perchè Anastasio aggiugne che nello
stesso tempo per gastigo di Dio l'iniquo imperadore fu privato del
regno; del che parleremo fra poco.

NOTE:

[119] Theoph., in Chronogr.

[120] Niceph., in Chron.

[121] Anast., in Sergio I.



    Anno di CRISTO DCXCIII. Indizione VI.

    SERGIO papa 7.
    GIUSTINIANO II imperadore 9.
    CUNIBERTO re 16.


Nella guerra succeduta fra il re _Cuniberto_ e il tiranno _Alachi_,
quantunque il ducato del Friuli vi avesse tanta parte, pure Paolo
Diacono non fa menzione alcuna che vi fosse intricato _Rodoaldo_ duca di
quella contrada. Abbiamo bensì da lui[122] che dopo quella guerra,
trovandosi esso Rodoaldo lontano da Cividal del Friuli sua residenza,
_Ansfrido del castello Reunia_ occupò quella città col suo ducato senza
licenza del re Cuniberto. Certificato di questa sua disavventura
Rodoaldo, se ne fuggì in Istria, e di là per mare passato a Ravenna,
andò a Pavia al re Cuniberto, per implorare il suo aiuto. Ansfrido,
ossia che si lasciasse consigliar dalla superbia ed ambizione a tentar
cose più grandi, o che non volesse arrendersi agli ordini del re, passò
ad un'aperta ribellione contra di lui. Ma per buona ventura fu preso in
Verona, e condotto a Pavia. Cuniberto gli fece cavar gli occhi, e
cacciollo in esilio. Dopo di che diede il governo del ducato del Friuli
ad un fratello di Rodoaldo, per nome _Adone_, ossia _Aldone_, ma col
solo titolo di _conservatore del luogo_, cioè di _luogotenente_, senza
sapersi perchè Rodoaldo ne restasse escluso. In quest'anno i Saraceni
ridussero in lor potere l'Armenia, e però divenuti più orgogliosi e
crudeli, seguitarono a far delle scorrerie per le provincie del romano
imperio con incredibil danno dei popoli. Circa questi tempi, per
attestato del sopra mentovato Paolo Diacono[123], fiorì in Pavia
_Felice_, uomo valente nell'arte grammatica, zio paterno di Flaviano,
che fu poi maestro del medesimo Paolo. Era egli tanto in grazia del re
Cuniberto, che ne riportò, oltre ad altri riguardevoli doni, anche
l'onorevol regalo di un bastone ornato d'oro e di argento. Tenne conto
lo storico Paolo di questo fatto, che parrà una minuzia ai nostri tempi;
ma in quei tempi della ignoranza anche un solo buon grammatico si teneva
per una rarità; e questi tali poi insegnavano non solamente la lingua
latina, che sempre più si andava corrompendo presso il popolo e prendeva
la forma della volgare italiana; ma eziandio spiegavano i migliori
autori latini, e davano lezioni di quelle che appelliamo lettere umane.
Arrivò parimente a questi tempi _Giovanni_ vescovo di Bergamo con odore
di gran santità. Egli era intervenuto al concilio romano dell'anno 679,
e le storie di Bergamo raccontano molte cose di lui, ma senza essere
assistite da antichi documenti. Sappiamo bensì dal suddetto Paolo
Diacono ch'essendo stato invitato dal re Cuniberto ad un suo convito,
gli scappò detta qualche parola, di cui se ne offese il re. Ora dovendo
egli tornare a casa, Cuniberto gli fece apprestar un cavallo indomito e
feroce, solito a scuotere di sella chiunque ardiva di cavalcarlo. Ma
questa bestia, allorchè il vescovo vi fu montato sopra, divenne sì
piacevole e mansueta, che, a guisa d'una chinea, placidamente il
condusse al suo alloggio. Ciò risaputo dal re, fu cagione che da lì
innanzi onorasse maggiormente il santo vescovo, con donargli ancora lo
stesso cavallo ammansato dal toccamento della sua sacra persona.

NOTE:

[122] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 3.

[123] Paulus Diacon., lib. 6, cap. 7 et 8.



    Anno di CRISTO DCXCIV. Indizione VII.

    SERGIO papa 8.
    GIUSTINIANO II imperad. 10.
    CUNIBERTO re 17.


Secondo Teofane[124] e Niceforo[125], in quest'anno fece quanto potè
l'imprudente e malvagio imperador _Giustiniano_ per tirarsi addosso
l'odio del popolo di Costantinopoli. S'era egli dato a fabbricar nel
palazzo, e lo faceva cingere di muraglia a guisa di fortezza. Il
soprintendente alla fabbrica era _Stefano_ persiano, presidente del
fisco e capo degli eunuchi, uomo sanguinario e sommamente crudele, che
adoperava a più non posso le ingiurie e il bastone contra de' poveri
operai, e fece lapidarne alcuni ancora de' capi. Questa selvaggia
bestia, in tempo che l'imperador era fuori della città, osò di
staffilare, come si fa ai ragazzi, la stessa _Anastasia_ Augusta, madre
d'esso imperadore. Oltre a ciò, Giustiniano dichiarò suo generale
Logoteta, cioè soprintendente all'erario, un certo Teodoto, dianzi
monaco, persona parimente impastata di crudeltà, che attese a cavar
danari per tutte le vie e sotto varii pretesti dal popolo,
martirizzandone molti con attaccarli alla corda, e con paglia accesa di
sotto che col fumo li tormentava. Molto tempo prima aveva egli creato un
prefetto della città, diligente in far carcerare le persone, con
lasciarle poi per più anni marcir nelle prigioni. E perchè _Callinico_
patriarca non consentì alla distruzion d'una chiesa, la prese eziandio
contra di lui. Nell'anno presente il generale de' Saraceni Maometto,
servendosi degli Schiavoni disertati, ch'erano ben pratici del paese,
condusse via una gran quantità di prigioni dalle provincie cristiane, e
nella Soria fece un immenso macello di porci, bestie, che i Maomettani
hanno in abbominazione, essendo, al pari dei Giudei, loro ancora vietato
il mangiarne la carne. Intorno a questi tempi narra Paolo Diacono[126]
un fatto accaduto al re Cuniberto. Stava egli trattando nel suo palazzo
di Pavia col suo cavallerizzo (_Marpais_ nella lingua germanica
longobarda) di tor la vita a _Grausone_ ed _Aldone_, potenti fratelli
bresciani, de' quali ho parlato di sopra, perchè dopo la ribellione
d'Alachi non si doveva fidar di loro, oppure perchè avea voglia di farne
una sorda vendetta. Quando eccoti venirsi a posar sulla finestra, presso
cui la discorrevano, un moscone. Cuniberto preso un coltello, volendolo
uccidere, gli tagliò solamente un piede. In questo mentre andavano a
corte i due fratelli suddetti, che nulla sapevano di questa trama, e
trovandosi vicini alla basilica di s. Romano martire presso al palazzo,
s'incontrarono in uno zoppo, a cui mancava un piede, il quale gli
avvisò, che se andavano a trovare il re, era sbrigata per la loro vita.
Essi perciò immediatamente scapparono pieni di spavento nella suddetta
basilica, e si rifugiarono dietro all'altare. Cuniberto, che secondo il
solito gli aspettava, non veggendoli comparire ne dimandò conto; e
saputo ch'erano corsi in sacrato, cominciò a fare un gran rumore contra
del suo cavallerizzo, quasichè egli avesse rivelato il segreto. Ma
questo gli rispose che dacchè si cominciò a parlar di quell'affare, non
s'era mai mosso di sotto agli occhi suoi, e però non poter sussistere
che ne avesse detta parola con alcuno. Allora Cuniberto mandò per sapere
da Aldone e Grausone il motivo per cui s'erano ritirati nel luogo sacro.
Risposero, perchè loro era stato detto che il re macchinava contro la
loro vita. Tornò a mandar per sapere chi avesse lor dato un sì fatto
avviso; altrimenti che non isperassero mai la grazia sua. Confessarono
d'averlo inteso da uno zoppo che aveva una gamba di legno. Allora il re
Cuniberto intese che la mosca, a cui avea tagliato il piede, era uno
spirito maligno, ito a spiare i suoi segreti per poi rivelarli. Perciò
immantinente inviò a chiamare Aldone e Grausone sotto la sua real
parola; palesò loro i sospetti o motivi avuti di far loro del male; e da
lì innanzi li tenne per suoi fedeli sudditi. Ho raccontato questo fatto,
come sta presso Paolo Diacono, affinchè si conosca la semplicità e
credulità, effetti dell'ignoranza di quei tempi. Allora ci volea poco
per dare ad intendere, cioè per far credere alla buona gente
soprannaturali gli avvenimenti naturali, e, quel che è peggio, cose vere
le favole stesse anche men degne di fede. In quest'anno, se vogliam
seguitare Camillo Pellegrino, a _Gisolfo I_ duca di Benevento defunto
succedette _Romoaldo II_ nel ducato. Il Sigonio, il Bianchi e il Sassi
rapportano all'anno 697 la morte di Gisolfo e la creazion di Romoaldo.
Io, seguendo Anastasio bibliotecario, ne parlerò più abbasso. Circa
questi medesimi tempi, essendo mancato di vita _Adone_ o _Aldone_
luogotenente del ducato del Friuli[127], fu creato duca di quella
contrada _Ferdolfo_, nativo dalle parti della Liguria, uomo altero e di
lingua troppo lubrica. Ma forse ciò avvenne nell'anno seguente, restando
in troppe tenebre involta la cronologia di quei duchi.

NOTE:

[124] Theoph., in Chronogr.

[125] Nicef., in Chron.

[126] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 6.

[127] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 24.



    Anno di CRISTO DCXCV. Indizione VIII.

    SERGIO papa 9.
    LEONZIO imperadore 1.
    CUNIBERTO re 18.


La mala condotta di _Giustiniano_ imperadore giunse finalmente in questo
anno a produrre de' gravi sconcerti, e quasi la total sua rovina. Se
crediamo a Teofane[128], aveva egli ordinato a _Stefano_ patrizio e suo
generale, di fare una notte un gran macello della plebe di
Costantinopoli, e che cominciasse dal patriarca _Callinico_.
Niceforo[129] nulla dice di questo, e potrebbe essere una voce sparsa
dipoi, per procurare di giustificar quanto avvenne. Per tre anni era
stato detenuto nelle carceri _Leonzio_, generale una volta dell'armata
d'Oriente, e persona di gran credito. All'improvviso l'imperadore il
liberò, e scioccamente nello stesso tempo gli restituì il comando delle
armi, con farlo partire nel medesimo giorno verso l'esercito. Si fermò
Leonzio la notte a Giulianisio porto di Sofia, dove prese congedo dai
suoi amici, che erano accorsi a congratularsi e ad augurargli il buon
viaggio. Fra questi erano Paolo di Callistrata e Floro di Cappadocia,
amendue monaci, dilettanti più di strologia che di teologia, i quali più
volte visitandolo alla prigione, gli aveano predetto che diventerebbe in
breve imperadore. A questi rivolto Leonzio dimandò loro, dove fossero
terminate le lor predizioni, quando il miravano andar lungi da
Costantinopoli a cercar non un trono, ma bensì la morte. Gli risposero
che quello era appunto il tempo, e che fattosi coraggio, tenesse lor
dietro. Come entrasse in Costantinopoli, se pur ne era fuori, nol dice
lo storico. Solamente scrive che Leonzio, presi seco i suoi domestici,
coll'armi andò quella notte al pretorio, e bussato alla porta, come se
l'imperador venisse per sentenziar alcuno de' carcerati, il prefetto
corse in fretta ed aprire: ma appena uscito, restò preso e ben legato
dagli uomini di Leonzio. Entrati poi dentro, spalancarono tutte le
carceri, dove erano moltissime persone nobili ed avvezze al mestier
della guerra, che ivi da sei ed anche otto anni stavano rinchiusi. Con
questo numeroso drappello, provveduto in breve d'armi, corse Leonzio
alla piazza, gridando al popolo che venisse a santa Sofia, e così fece
proclamare per le contrade della città. Corsero a migliaia i cittadini
colà, ed intanto Leonzio coi nobili scarcerati fu a trovare il patriarca
_Callinico_, a cui si fece credere il pericolo che gli sovrastava;
pregollo di venire al tempio, e che gridasse ad alta voce: _Questo è il
giorno fatto dal Signore_. Tutto fu eseguito. Fu preso _Giustiniano_, e
condotto la mattina nel circo, quivi gli fu reciso il naso, ma non già
la lingua, come ha per errore il testo di Teofane; e la pubblica
determinazione fu di mandarlo in esilio, confinandolo in Chersona città
della Crimea. Teodoro e Stefano, que' due crudeli ministri, de' quali
s'è parlato nell'anno precedente, restarono vittima del furor della
plebe, e bruciati vivi. Terminò la tragedia con venire acclamato
imperadore lo stesso _Leonzio_ promotor del tumulto. Per sentimento del
Pagi[130], morì in quest'anno _Clodoveo III_ re de' Franchi, e gli
succedette _Childeberto III_ suo fratello, governando intanto la
monarchia franzese _Pippino_ d'Eristallo suo maggiordomo.

NOTE:

[128] Theoph., in Chronogr.

[129] Niceph., in Chron.

[130] Pagius, Critic. Baron.



    Anno di CRISTO DCXCVI. Indizione IX.

    SERGIO papa 10.
    LEONZIO imperadore 2.
    CUNIBERTO re 19.


Verisimilmente in quest'anno succedette in Ravenna una funesta
avventura, narrata da Agnello storico[131] di quella città, che fioriva
circa l'anno 830. Era un costume pazzo di quel popolo ogni domenica e
festa di precetto di uscir dopo il pranzo fuori della città dalle varie
porte per andare a combattere fra loro. V'andavano giovani, vecchi e
fanciulli, ed anche de' nobili, e vi concorrevano ancor delle donne. La
battaglia consisteva in tirarsi de' sassi colle frombole. Accadde che un
dì si sfidarono quei della porta Tiguriense e quei della Posterla, ossia
picciola porta di Sommo Vico. Restarono superiori i primi, e messi in
fuga gli avversarii, gli inseguirono con tal furia di sassate, che ne
uccisero molti. Arrivati i fuggitivi alla Posterla, la chiusero; ma
giuntivi ancora i vincitori, la gittarono per terra, e trionfanti poi si
ridussero alle lor case. Nella seguente domenica uscirono parimente da
quelle porte i giovani a giocare alla ruzzola; ma tardarono poco a
lasciare il giuoco e a venire a battaglia. Adoperarono sassi, bastoni e
spade, ed assaissimi dei posterlesi rimasero freddi sul campo; e più ve
ne sarebbono restati, se non vi fosse stato l'uso fra loro di dar
quartiere a chiunque lo chiedeva. Agnello scrive che quest'uso di
lasciar la vita e non dar più percosse a chi supplichevole si
raccomandava, durava ancora a' suoi tempi: segno che non s'erano per
anche dismesse somiglianti pericolose e spropositate zuffe, delle quali
si trovavano pure esempli in altre città, e durarono poi per più secoli.
Per queste perdite saltò in cuore ai posterlesi di farne una spaventosa
vendetta. Finsero pace ed amicizia, e una domenica, trovandosi il popolo
alla chiesa orsiana, allorchè, finite le sacre funzioni, erano tutti per
andare a pranzo, cadauno dei posterlesi con belle parole invitò seco a
desinare alcuno de' tiguriensi per maggiormente assodar l'amistà fra
loro. Vi andarono alla buona i tiguriensi, chi in questa e chi in quella
casa, e tutti furono in diverse maniere privati di vita, e i lor
cadaveri gittati nelle cloache, o seppelliti sotterra, di modochè si
videro mancar tante persone, senza che se ne sapesse il come. Quindi la
città si riempiè tutta di gemiti, di grida, e specialmente di terrore,
perchè la disavventura di quelli teneva in paura ognuno. Allora il santo
arcivescovo _Damiano_ intimò per tre giorni il digiuno e una processione
di penitenza, divisa in varii cori. Andava egli coi cherici e monaci,
tutti vestiti di sacco, colle teste coperte di cenere e coi piedi nudi.
Seguitavano i laici sì vecchi che giovani e fanciulli, vestiti di
cilicio e coi capelli scarmigliati: poscia le donne maritate, le vergini
e le vedove, tutte senza verun ornamento e in abito positivo. Finalmente
i poveri formavano la ultima schiera; e tutti questi cori andavano
separati l'uno dall'altro, quanto è un mezzo tiro di pietra, recitando
salmi di penitenza e implorando la misericordia di Dio. Servirà questo
racconto ai lettori per intendere l'antichità di certi usi lodevoli, che
tuttavia durano nella Chiesa cattolica. Dopo i tre giorni furono
scoperti i cadaveri de' tiguriensi uccisi, gastigati a dovere i
traditori, ed anche le lor mogli e figliuoli, e le case tutte di quel
rione atterrate, e posto il nome di rione degli assassini a quel sito,
nome conservato fino ai tempi dello storico Agnello. Delle lor
masserizie niuno ne volle toccare: di tutte si fece un falò. Sotto
_Leonzio_ Augusto si godè in questo anno una tranquilla pace in Oriente.
Non minore fu quella in Italia sotto il buon re _Cuniberto_.

NOTE:

[131] Agnell., Vit. Episc. Ravenn., tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCXCVII. Indizione X.

    SERGIO papa 11.
    LEONZIO imperadore 3.
    CUNIBERTO re 20.


Se si vuol prestar fede ad uno storico arabo, chiamato Noveiri e citato
dal padre Pagi, fin l'anno 691 ad _Abdulmelic_ ossia _Abimelec_, califa
de' Saraceni, riuscì per mezzo di _Asano_ suo generale di occupare dopo
un fiero assedio Cartagine capitale dell'Africa, le cui mura furono
smantellate e il popolo messo crudelmente a filo di spada. Sorse dipoi
un'eroina africana, donna nobilissima, che, unito un poderoso corpo
d'Africani, ruppe l'esercito saracenico, e costrinse il generale
maomettano a ritirarsi nell'Egitto. Costui ivi si fermò per cinque anni,
finchè, ricevuto un gagliardissimo rinforzo di gente, tornò in Africa, e
superata quell'eroina, di nuovo s'impadronì di Cartagine e della
provincia. Ma a noi sia lecito il dubitar della fede di quello storico
arabo intorno a questo fatto. Egli visse, per testimonianza del signor
d'Erbelot[132], circa l'anno 732 dell'egira, cioè dopo il 1300
dell'epoca nostra, e però molto lontano da questi tempi. Nè
Teofane[133], nè Niceforo[134], scrittori più antichi di lui, conobbero
invasione alcuna dell'Africa fatta dai Saraceni nell'anno 691, e
solamente ne parlano all'anno presente. Pare ancora, per quanto s'è
detto, che nell'anno 691 Abimelec non avesse per anche rotta la pace
coll'imperio romano. Abbiamo dunque dai due suddetti storici greci, che
in quest'anno gli Arabi, cioè i Saraceni, colla forza dell'armi
sottomisero al loro imperio Cartagine e l'Africa. Ciò inteso a
Costantinopoli, non mancò lo imperador _Leonzio_ di spedire colà
_Giovanni_ patrizio, uomo di grande affare, con un poderoso stuolo di
navi e d'armati. Andò egli, e valorosamente rotta la catena che serrava
il porto di Cartagine, v'entrò dentro, liberò la città e rimise nella
primiera libertà tutte l'altre città dell'Africa, avendo o cacciati o
trucidati quanti Saraceni trovò in quelle parti. Di così felice successo
spedì egli l'avviso all'imperadore, ed aspettando i suoi ordini svernò
in quelle parti. Nelle isole, onde è composta l'inclita città di
Venezia, era già cresciuta di molto la popolazione per le genti di terra
ferma concorse colà. Occorrevano spesso delle controversie coi
Longobardi confinanti; però adunatisi _Cristoforo_, patriarca di Grado,
i vescovi suoi suffraganei, il clero, i tribuni, i nobili e la plebe
nella città d'Eraclea[135], quivi concordemente crearono il primo duca
oggidì appellato Doge; e questi fu _Paoluccio_, al quale conferirono
l'autorità necessaria per convocare il consiglio, costituire tribuni
della milizia e giudici per le cause, e far altri atti di governo del
loro popolo.

NOTE:

[132] Erbelot, Bibliothec. Oriental.

[133] Theoph., in Chronogr.

[134] Niceph., in Chron.

[135] Dandul., in Chronico, tom. 12 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCXCVIII. Indizione XI.

    SERGIO papa 12.
    TIBERIO Absimero imp. 1.
    CUNIBERTO re 21.


Tornarono in quest'anno i Saraceni con isforzo maggiore ad assalir
l'Africa[136], seco conducendo un formidabile stuolo di navi, e venne
lor fatto di cacciare dal porto di Cartagine _Giovanni_ patrizio e la
sua flotta, e di assediarlo in angusto luogo. Tanta fu l'industria di
Giovanni, che si potè mettere al largo, e ricoverarsi nell'isola di
Candia, da dove spedì a chiedere all'imperadore un più vigoroso rinforzo
di combattenti e di navi. Ma succedette un gran cangiamento negli
affari; ed intanto i Saraceni ebbero l'agio convenevole per torre a man
salva al romano imperio tutto il rimanente dell'Africa: perdita
lagrimevole anche pel Cristianesimo, che a poco a poco s'andò perdendo
in quelle provincie, col radicarvisi la sola falsa dottrina di Maometto,
la quale tuttavia vi regna. E qui, per gli poco pratici del mondo
passato, voglio ben ricordare che se mai, perchè odono sovente nominare
sotto nome di Maomettani i soli Turchi, si facessero a credere che gli
Arabi, ossia Saraceni, tante volte finora mentovati, fossero gli stessi
Turchi, s'ingannerebbono di molto. Sono i Turchi una nazione di
Tartaria, di cui abbiamo anche parlato di sopra, ben diversa da quella
degli Arabi Saraceni. Adottarono anch'essi col tempo la setta di
Maometto, stesero per vastissimo tratto di paese le loro conquiste, e
finalmente distrussero la monarchia de' Saraceni nel secolo decimosesto,
coll'impadronirsi dell'Egitto. Ma nel mentre che l'armata di Giovanni
patrizio dimorava in Candia, per paura e vergogna di comparire a
Costantinopoli davanti all'imperador Leonzio, presero quelle milizie una
risoluzione da lui non meritata; cioè crearono un altro imperadore, e
questi fu _Absimero_ Drungario (ufficio militare) presso i Curiacati, al
quale posero il nome di _Tiberio_. Faceva allora la peste un gran
flagello in Costantinopoli. Davanti a quella città si presentò l'armata
navale del nuovo imperadore, e stette gran tempo senza potervi entrare,
perchè i cittadini teneano forte per Leonzio. Ma per tradimento di
alcuni uffiziali delle soldatesche straniere fu loro aperto il varco.
V'entrarono, misero a sacco le case de' cittadini, e preso l'imperador
Leonzio, per ordine d'Absimero, dopo avergli tagliato il naso, il
relegarono in un monistero della Dalmazia, ossia di un luogo appellato
Delmato. Quindi Absimero dichiarò supremo generale dell'armi sue
_Eraclio_ suo fratello, e il mandò nella Cappadocia per osservare i moti
de' nemici Saraceni, ed opporsi ai loro avanzamenti. Abbiamo detto
all'anno 638 che a papa _Onorio_ riuscì di smorzare lo scisma della
Chiesa d'Aquileia per cagione dei tre capitoli condannati nel concilio V
generale, ma sostenuti da quel patriarca e da molti suoi suffraganei.
Ritornarono poi quelle Chiese a ricadere nel sentimento di prima e nella
divisione; ma certo è, per attestato di Beda[137] e d'Anastasio[138] e
di Paolo Diacono[139], che verso questi tempi si tenne un concilio in
Aquileia, nel quale fu abbracciato il sinodo quinto suddetto, avendo
operato tanto il saggio papa _Sergio_ con paterne ammonizioni e con
istruzioni piene di dottrina, che indusse quel patriarca e i vescovi
suoi seguaci a ritornare nell'unità della Chiesa. Con che si pose
interamente fine a quello scisma, durando nondimeno in avvenire i due
patriarchi, l'uno d'Aquileia e lo altro di Grado. Era in questi tempi
patriarca d'Aquileia _Pietro_, di cui fa menzione Paolo Diacono. Nè vo'
lasciar di accennare quanto fosse in questi tempi infelice la condizion
delle lettere in Italia, perchè mancante di scuole e di maestri.
Solamente qualche ignorante grammatico si trovava nelle città, che
insegnava un cattivo latino, e così faceano per lo più i parrochi nelle
ville. Noi osserviamo negli strumenti d'allora sollecismi e barbarismi
in copia, senza potersi penetrare in che stato allora fosse la lingua
volgare de' popoli italiani. Per cagione di tanta ignoranza rarissimi
erano allora coloro che scrivessero libri, e per gran tempo niuno ci fu
che registrasse gli avvenimenti e la storia del suo secolo, di modo che,
se non si fosse conservata quella di Paolo Diacono, in una gran caligine
resterebbe la storia italiana di quei tempi.

NOTE:

[136] Theophan., in Chronogr. Nicephor., in Chronico.

[137] Beda, de sex Ætat., lib. 6.

[138] Anastas., in Sergio I.

[139] Paulus Diaconus, lib. 1, cap. 64.



    Anno di CRISTO DCXCIX. Indiz. XII.

    SERGIO papa 13.
    TIBERIO Absimero imper. 2.
    CUNIBERTO re 22.


L'armata di _Tiberio_ Augusto, per relazione di Teofane[140], in
quest'anno entrò nelle provincie suddite ai Saraceni, e giunse fino a
Samosata, mettendo a sacco tutti que' paesi. Fama fu che uccidessero
dugentomila di que' Barbari. Ma se lo storico vuol dire armati, narra un
fatto che non si può credere; se poi parla di disarmati, di fanciulli e
di donne, racconta una crudeltà indegna di soldati cristiani. Agnello,
scrittor delle vite degli arcivescovi di Ravenna[141], dice accaduta
circa questi tempi un'avventura ch'io non vo' tacere, acciocchè sempre
più s'intenda quanto facili fossero ne' secoli barbari alcuni ad
inventar delle favole, e più facili le genti a bersele e crederle verità
contanti. Per cagione di certe oppressioni fatte al suo monistero di s.
Giovanni, situato tra Cesarea e Classe nel territorio di Ravenna,
_Giovanni_ abbate d'esso luogo se n'andò a Costantinopoli; e benchè si
fermasse quivi per molti giorni, mai non potè veder la faccia
dell'imperadore. Ruminando fra sè varii pensieri, un dì postosi sotto la
finestra della camera, dove stava l'imperadore, cominciò a cantare de'
versetti de' salmi intorno alla venuta del Signore. Andò una delle
guardie per cacciarlo via; ma l'imperadore che prendea piacere in
udirlo, fece segno dalla finestra che non gli fosse data molestia.
Finito che ebbe di cantare, il chiamò di sopra, ascoltò il motivo della
sua venuta, e ordinò che gli fosse fatto un buon diploma per la
sicurezza de' beni del suo monistero. Oltre a ciò, l'abbate il supplicò
di una lettera in suo favore all'esarco, perchè nel dì seguente scadeva
il termine, in cui egli doveva intervenire ad un contraddittorio col suo
avversario; e mancando, la sigurtà indotta sarebbe gravata. L'imperador
gli fece dar la lettera scritta di buon inchiostro, col mese e giorno, e
dell'imperial sigillo munita. Volossene l'abbate tutto lieto sulla sera
al porto di Costantinopoli per cercar nave che venisse a Ravenna o
almeno in Sicilia. Niuna ne trovò. Rammaricato per questo, passeggiava
egli, essendo già venuta la notte sul lido, quand'ecco presentarsegli
davanti tre uomini vestiti di nero, che gli dimandarono, onde procedesse
quella sua turbazione di volto. Uditone il perchè, risposero che se gli
dava l'animo di far quanto gli direbbono, nel dì appresso egli si
troverebbe fra' suoi nel suo paese. Acconsentì l'abbate, e
quegl'incogniti personaggi gli diedero una verga, dicendogli che con
essa disegnasse sulla sabbia una barca colle sue vele, coi remi e
nocchieri. Quanto dissero, egli eseguì. Poscia aggiunsero, che si
posasse in un materasso sotto la sentina, e che se gli avvenisse di
udire fremiti di venti, grida di chi è in pericolo, tempeste e rumori
d'acque infuriate, non avesse paura, non parlasse, e neppur si facesse
il segno della croce. Posossi in terra l'abbate, e dipoi cominciò a
sentire un terribil fracasso di venti, un rompersi di remi, un gridare
di marinari più neri del carbone, senza dirsi come li vedesse: ed egli
sempre zitto. A mezza notte si trovò egli sopra il tetto del suo
monistero, e cominciò a chiamare i monaci, che venissero a levarlo di
là. Non si arrischiava alcuno, credendolo un fantasma. Tanto nondimeno
disse, che gli fu aperto il luminaruolo del tetto, e con gran festa fu
ricevuto da tutti. Ordinò egli, che giacchè era l'ora del mattutino, si
battesse la tempella per andare al coro; e dopo il mattutino se n'andò a
dormire. Nel dì seguente per la porta Vandalaria entrò in Ravenna, e
portossi al palazzo di Teoderico, dove presentò il diploma all'esarco,
che con venerazione lo prese; ma osservata poi la data della lettera
scritta nel dì innanzi, cominciò a trattarlo da falsario, perchè non
v'era persona che in tre mesi potesse andar e tornare da Costantinopoli.
Allora l'abbate si esibì pronto a far costare della verità della
lettera; per conto poi della maniera della sua venuta, disse che la
rivelerebbe al suo vescovo. In fatti andò a trovare l'arcivescovo
_Damiano_, e gli raccontò quanto era a sè accaduto, con soddisfare dipoi
alla penitenza che gli fu imposta dal prelato. Avran riso a questa
favoletta i lettori; ma non si ridano di me, perchè con essa gli abbia
ricreati alquanto, ed anche istruiti della antichità di simili racconti
falsissimi di maghi. E se mai udissero chi attribuisse un simil fatto a
Pietro d'Abano, creduto mago dalla plebe de' suoi tempi, ed anche de'
susseguenti, le cui memorie ha poco fa diligentemente raccolto il conte
Gian Maria Mazzucchelli bresciano; imparino a rispondere, che ha più di
mille anni che corrono nel volgo tali avventure, inventate da persone
sollazzevoli, per fare inarcar le ciglia non alla gente accorta, ma a
que' soli che son di grosso legname.

NOTE:

[140] Theoph., in Chronogr.

[141] Agnell., tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCC. Indizione XIII.

    SERGIO papa 14.
    TIBERIO Absimero imper. 3.
    LIUTBERTO re 1.


Scrive Paolo Diacono[142] che _Cuniberto_ re dei Longobardi dopo la
morte del padre regnò _dodici anni_. Per conseguente, se _Bertarido_ suo
genitore cessò di vivere nell'anno 688, convien dire che nell'anno
presente Cuniberto compiesse la carriera dei suoi giorni. Anche Ermanno
Contratto[143] mette sotto quest'anno la morte sua. Paolo in poche
parole ne forma un grande elogio, con dire ch'egli era amato da tutti:
al che senza molta virtù non arriva principe alcuno. Dal medesimo
storico sappiamo che egli era signore di molta leggiadria, di tutta
bontà, e di sommo ardire negli affari della guerra, siccome ancora, che
egli fabbricò un monastero di monaci in onore di s. Giorgio (e non
Gregorio) martire nel campo di Coronata, dove diede battaglia al tiranno
_Alachi_, e ne riportò vittoria. Ha creduto il padre Mabillone[144] che
questo monistero di san Giorgio sia quel riguardevole che tuttavia
esiste ne' borghi di Ferrara. Ma gli autori ferraresi non hanno mai data
questa origine al monistero ferrarese di s. Giorgio, nè Cuniberto avea
dominio allora nella città, ossia nel territorio di Ferrara. Oltredichè
chiaramente scrive Paolo Diacono che quella battaglia succedette in
vicinanza dell'Adda, fiume troppo lontano dal ferrarese. Però, siccome
accennai di sopra, il sito di quel conflitto e combattimento conviene al
luogo di _Cornà_, notato nell'Italia del Magino, alquanto distante dalla
riva occidentale dell'Adda. Ed essendo vicino a quel sito Clivate, dove
anticamente esisteva un monistero, mentovato da Landolfo[145] juniore
storico milanese del secolo XII, io avrei sospettato che non fosse
diverso da quel di Cornà, se il Corio non avesse avvertito che quel di
Clivate era dedicato in onore di s. Pietro apostolo, con farne anche
autore _Desiderio_ re de' Longobardi. Un altro monistero posto in Pavia,
ma di sacre vergini, dee qui essere rammentato in parlando del re
Cuniberto, tuttavia esistente, tuttavia sommamente illustre e
riguardevole in quella città. Chiamavasi anticamente il _monastero di
santa Teodota_, o piuttosto _di santa Maria di Teodota_. Oggidì si
appella _della Posterla_, perchè anticamente quivi era una picciola
porta della città. Di quel sacro luogo parla Paolo Diacono[146] nel
riferire che fa una debolezza di Cuniberto. Trovavasi al bagno, secondo
i costumi d'allora (nei quali forse niuna città mancava di terme, e i
bagni erano usati e lodati dai medici) trovavasi, dico, una gentil
donzella, di nazione non longobarda; ma nobilissima romana, di singolar
bellezza, e coi capelli biondi che le arrivavano fin quasi ai piedi. Le
leggi dei Longobardi ci fanno abbastanza intendere che le zitelle in
questi tempi si riconoscevano fra le maritate, perchè tutte portavano e
nudrivano i lor capelli, e ne faceano pompa; e beata chi gli avea più
belli e più lunghi. _Intonsae_ credo io che fossero appellate per
questo; e che da questa parola corrotta venisse _tosa_, nome adoperato
dai Milanesi per significar le zitelle. Allorchè le donne andavano a
marito, si tosavano, come oggidì si pratica dai Giudei. Ora questa
giovane per nome _Teodota_, stando al bagno, fu adocchiata dalla regina
_Ermelinda_, che dipoi con imprudenza femminile ne commendò forte la
bellezza al re Cuniberto suo consorte. Finse egli colla moglie di
lasciar cadere per terra questo ragionamento, ma nel suo cuore talmente
s'invaghì di questa non veduta bellezza, che non sapea trovar luogo.
Laonde prese il partito di portarsi alla caccia nella selva chiamata
Urba dal fiume o castello vicino, e seco menò anche la regina. Fatta
notte, segretamente se ne tornò a Pavia, e trovata maniera di far venire
a palazzo la suddetta fanciulla, l'ebbe alle sue voglie. Ma non tardò a
ravvedersi del suo trascorso, e la mise nel sopraddetto monistero, che
per ciò cominciò a chiamarsi di _Teodota_.

Rapporta il padre Romoaldo[147] da santa Maria agostiniano scalzo, un
antichissimo epitafio tuttavia esistente in quel sacro luogo, che
quantunque abbondi di errori, perchè non copiato coll'esattezza che
conveniva, merita nondimeno d'esser maggiormente conosciuto e tramandato
ai posteri. Esso è composto in versi ritmici e popolari, imitanti gli
esametri latini, ma senza verun metro, servendosi l'autore, per esempio,
a formare il dattilo e spondeo sul fine di _prosapiam texam, di nimium
plures_, ec.

    CAELICOLAE[148] SIC DEMVM EIVS PROSAPIAM TEXAM
    MATER VIXIT VIRGINVM PER ANNOS NIMIVM PLVRES,
    IN GREGE DOMINICO PASCENS OVICVLAS CHRISTO;
    QVAE FAVENS DOCVIT, ARGVIT, CORREXIT, AMAVIT
    INVIDVS NE PERDERET EIVS EX OVIBVS QVEMQVAM
    FRONTEM RVGATAM TENENS ERAT QVIBVS PECTORE PURA;
    CVIVS ABSTINEBANT A FLAGELLIS PLACIDAE MANVS,
    IN TRIBVENDO DAPES EGENIS DAPSILES ERANT.
    MORIBVS ORNATA PRODIENS, FAVTRIX, ATQVE HONESTA,
    PATIENS, MAGNANIMIS CORDE, DEXTRAQVE PIA.
    DECEBAT SIC DENIQVE TALI CVM EX STIRPE VENIRET
    B....OLEO EX NOVILLI[149] CRESCENS VT FLVVIVS FONTE
    ...EXTRA SAGA GENITORVM EXTITIT MAGNA.
    SI AD CVRSVS RERVM, ET PRAESENTIS STVDIA SAECLI
    TENDATVR ORATIO, MVLTA SVNT, QVAE POSSVMVS DICI.
    PER TE SEMPER VIRGINIS VISITVR PVLCHRVM DELVBRVM,
    AVFERENS VETVSTA, INSTAVRANS VILIA CVNCTA;
    NAMQVE DOMICILIA SITA COENVBIO RIDVNT
    VVLTV INTVENTIVM PRAECELLENTES MOENIA PRISCA.
    NEC SVNT IN ORBE TALES, PRAETER PALATIA REGVM.
    NEC SS. ECCLESIAS, QVAE VIBRANT FVNDAMINE CLARO
    ET PIIS EZEQVANTVR ONI A CVNCTIS COLVNTVR.

(forse _Quae Turoni_, per significare che son pari alla basilica e
monistero di san Martino Turonense)

    HOC ERGO THEODOTA ALVMNIS, SVA THEODOTAE,
    CVI RELIQVISTI NOMEN, DIGNITATEM, CATHEDRAM,
    NIMIS CVM LACRYMIS AFFLICTO PECTORE DOMNA
    LAPIDIBVS SARCOPHAGIS ORNANS EXCOLVI PULCHRIS
    DENOS DVOSQVE CIRCITER ANNOS DEGENS....
    EGREGIA VITAE SPIRACVLA CLAVSIT.....
    D. P. S. II. D. MENSIS APRILIS INDICTIONE TERTIA.

È andato a pescare il padre Romoaldo appresso Beda, che dalle lettere D.
P. S. si ricava l'anno 926, quando, secondo lo stile degli antichi,
quelle lettere altro non significano se non _deposita_. Aggiugne, essere
la tradizion delle monache che quel sia l'epitafio d'una regina, e però
egli la tiene per _Teodorata_ moglie del re Liutprando, il cui nome
abbreviato fosse _Teodota_. Finalmente dice esser qui nominate tre
diverse _Teodote_; la prima mentovata da Paolo Diacono ai tempi del re
Cuniberto; la seconda quella a cui fu posto l'epitafio nell'anno 926; la
terza quella che pose l'iscrizione stessa, succeduta a lei nel grado di
badessa. Tutti sogni. Altro non è, a mio credere, questa iscrizione, se
non la sepolcrale posta alla medesima _Teodota_, di cui fa menzion Paolo
Diacono. Non fu fabbricato quel monistero dal re Cuniberto: v'era prima.
Paolo altro non dice, se non che la mandò _in monasterium, quod de
illius nomine intra Ticinum appellatum est_. Essa colle ricchezze seco
portate magnificamente lo rifabbricò ed accrebbe, ed ivi eresse un bel
tempio in onore della Vergine santissima, di maniera che quel monistero
gareggiava colle fabbriche più suntuose d'allora. Quivi fu ella badessa
_annos nimium plures_, e finalmente morì nell'_indizione terza_ (forse
nell'anno 705, o piuttosto nel 720) con lasciare il suo nome e la
dignità di badessa a _donna Teodota_ sua alunna, da cui le fu posta
l'iscrizione suddetta. E se veramente quivi si leggesse _Romuleo_, come
ho conghietturato, non resterebbe luogo ad alcun dubbio, perchè Paolo
Diacono scrive essere nata Teodota _ex nobilissimo Romanorum genere_.
Ripeto che questo insigne monistero tuttavia con sommo decoro si
mantiene in Pavia, col raro privilegio ancora d'aver conservato un
tesoro d'antichissimi diplomi, conceduti ad esso da varii imperadori e
re, a poter copiare i quali ammesso io dalla gentilezza di quelle nobili
religiose, ho poi potuto comunicarli al pubblico per decoro d'esso sacro
luogo nelle mie Antichità Italiche. Finì dunque di vivere e di regnare
in questo anno il re _Cuniberto_, e il suo corpo ebbe sepoltura presso
alla basilica di san Salvatore fuori della porta occidentale di Pavia,
dove parimente _Ariberto_ re suo avolo, fondatore d'essa chiesa, e
_Bertarido_ re suo padre furono seppelliti. Diedi io già alla luce[150]
un pezzo dell'iscrizion sepolcrale a lui posta, ed esistente tuttavia
presso i monaci Benedettini, che per più di settecento anni posseggono
quella chiesa e monistero; ma non dispiacerà ai lettori di riceverla
ancora qui di nuovo:

    AVREO EX FONTE QVIESCVNT IN ORDINE REGES
    AVVS, PATER, HIC FILIVS HEIVLANDVS TENETVE
    CVNINGPERT FLORENTISSIMVS ET ROBVSTISSIMVS REX
    QVEM DOMINVM ITALIA PATREM ATQVE PASTOREM.
    INDE FLEBILE MARITVM GEME TIAM VIDVATA
    ALLA DE PARTE SI ORIGINEM QVAERAS,
    REX FVIT AVVS, MATER GVBERNACVLA TENVIT REGNI,
    MIRANDVS ERAT FORMA, PIVS, MENS, SI REQVIRAS,
    MIRANDA....................

Lasciò Cuniberto dopo di sè l'unico suo figliuolo _Liutberto_ in età
assai giovanile, che fu proclamato re, e gli diede per tutore
_Ansprando_, personaggio illustre di nascita, e provveduto di somma
saviezza. In quest'anno _Abdela_, generale de' Saraceni, fece una
irruzione nelle contrade romane, ed assediò non già _Taranto_, come ha
un testo guasto di Teofane e della storia Miscella, perchè questa città
è in Italia, e ubbidiva allora ai duchi longobardi di Benevento, ma
bensì la città d'_Antarado_, come notò Cedreno[151]. Non potendola
avere, se ne tornò a Mopsuestia, e quivi con un buon presidio si
fortificò.

NOTE:

[142] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 17.

[143] Hermannus Contractus, in Chr. edition. Canis.

[144] Mabill., Annal. Benedict., lib. 18, cap. 26.

[145] Landulphus Junior, Hist. Mediolan. tom. 5 Rer. Italic.

[146] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 37.

[147] Romualdus Papia, Sacr. part. 1, pag. 121.

[148] _Forse_ Caelicam.

[149] _Forse_ Romuleo ex Ovili.

[150] Antichità Estensi, part. 1, pag. 73.

[151] Cedren., in Annal.



    Anno di CRISTO DCCI. Indizione XIV.

    GIOVANNI VI papa 1.
    TIBERIO Absimero imp. 4.
    RAGIMBERTO re 1.
    ARIBERTO II re 1.


Fu chiamato in quest'anno da Dio al premio delle sue sante azioni
_Sergio I_ papa nel dì 7 di settembre, per quanto crede il padre
Pagi[152]. Lasciò egli in Roma varie memorie della sua pia liberalità
verso le chiese, che si posson leggere presso Anastasio, e per sua cura
si dilatò non poco per la Germania la fede santissima di Gesù Cristo. In
somma egli meritò d'essere registrato fra i santi, e la sua memoria si
legge nel martirologio romano al dì 9 del mese suddetto. Gli succedette
nella cattedra di san Pietro _Giovanni_, VI di questo nome, greco di
nazione, che fu consecrato papa nel dì 28 di ottobre. Noi vedemmo di
sopra all'anno 662 che il re _Godeberto_ tradito ed ucciso in Pavia dal
re Grimoaldo, lasciò dopo di sè in età assai tenera _Ragimberto_, ossia
_Ragumberto_ che dai fedeli servitori del padre fortunatamente fu messo
in salvo e segretamente allevato. Dappoichè il buon re _Bertarido_ fu
risalito sul trono, saltò fuori questo suo nipote, e Bertarido il creò
duca di Torino. L'ingratitudine, vizio nato nel mondo, entrò in cuore di
costui; e quello che non aveva osato di tentare, finchè regnò
_Cuniberto_ suo cugino, lo eseguì contra del di lui giovinetto figliuolo
Liutberto[153]. Unì dunque Ragimberto un grosso esercito, e venne alla
volta di Pavia per detronizzare Liutberto suddetto, pretendendo per le
ragioni paterne a sè dovuto il regno. Fu ad incontrarlo nelle vicinanze
di Novara con una altra armata _Ansprando_ tutore del giovine re,
spalleggiato con tutte le sue forze da Rotari duca di Bergamo. Un fatto
di arme decise in parte le loro controversie, perchè Ragimberto
essendone uscito vittorioso, s'impadronì di Pavia e della corona del
regno longobardico. Per conto di _Ansprando_ e del re _Liutberto_, essi
ebbero la fortuna di salvarsi colla fuga. Ma non godè l'ingrato principe
lungamente il frutto della sua vittoria, perchè prima che terminasse
l'anno, la morte mise fine al suo vivere. A lui succedette _Ariberto II_
suo figliuolo, che seguitò a disputare del regno col giovinetto
Liutberto. Circa questi tempi essendo stato riferito a Tiberio Absimero
Augusto[154], che _Filippico_ figliuolo di Niceforo patrizio s'era
sognato di diventar imperadore, solamente perchè gli parve di vedere
un'acquila che gli svolazzava sopra la testa, gl'insegnò a parlare con
più cautela sotto principi ombrosi: cioè per questa gran ragione il
cacciò in esilio; e noi vedremo in fatti questo personaggio salire a suo
tempo sul trono imperiale.

NOTE:

[152] Pagius, ad Annal. Baron.

[153] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 18.

[154] Theoph., in Chronogr.



    Anno di CRISTO DCCII. Indizione XV.

    GIOVANNI VI papa 2.
    TIBERIO Absimero imper. 5.
    ARIBERTO II re 2.


Circa questi tempi fu mandato da Tiberio Augusto per esarco in Italia
_Teofilatto_ patrizio e gentiluomo della sua camera. Venne costui dalla
Sicilia a Roma, ma non sì tosto fu intesa la sua venuta colà, che, per
attestato di Anastasio[155] bibliotecario, concorsero a quella volta con
gran tumulto le soldatesche imperiali esistenti in Italia, non si sa
bene, se perchè uscisse voce che egli fosse inviato per far del male al
sommo pontefice, forse non essendo soliti gli esarchi a venire a
dirittura a Roma, o pure se per altra cagione. Il buon papa Giovanni
immantinente s'interpose, affinchè non gli fosse fatto verun insulto, ed
oltre all'aver fatto chiudere le porte di essa città, perchè non
entrassero, mandò ancora dei sacerdoti a parlar loro alle fosse d'essa
città, dove s'erano attruppati; e tante buone parole eglino usarono, che
restò quetato il loro tumulto. Non mancarono in quella occasione delle
persone infami, che esibirono ad esso esarco una nota di vari cittadini
romani, rappresentandoli rei di cospirazione contra del principe, o rei
d'altri finti delitti. Furono gastigati a dovere quegli iniqui
calunniatori. Abbiamo poi da Paolo Diacono[156] che _Gisolfo II_, duca
di Benevento ai tempi di papa _Giovanni_ con tutte le sue forze entrò
nella Campania romana, prese _Sora_, _Arpino_ ed _Arce_; bruciò e
saccheggiò molto paese, e menò via molti prigioni, e venne ad accamparsi
col suo esercito, a cui niuno faceva opposizione, al luogo chiamato
_Horrea_, cioè i _Granai_. Noi abbiamo _Morrea_, luogo notato nelle
tavole del Magini; questo nome probabilmente è fallato. Si prese la cura
il santo pontefice Giovanni di smorzare ancor questo fuoco, con inviare
al duca Gisolfo dei sacerdoti che il regalarono da parte d'esso papa, e
riscattarono i prigioni, e indussero quel principe a tornarsene indietro
colle sue genti. Camillo Pellegrino[157] portò opinione che questo fatto
accadesse sotto papa _Giovanni V_, nell'anno 685. Ma Anastasio
bibliotecario[158] chiaramente attesta che ciò accadde sotto papa
_Giovanni VI_; e benchè non sappiamo se Anastasio pigliasse questo
avvenimento da Paolo, oppure Paolo dalle Vite de' papi, tuttavia par più
probabile l'ultimo, perchè Anastasio raccolse queste vite scritte da
altri, nè già egli le compose tutte. E giacchè abbiam parlato d'esso
_Gisolfo_, non conviene tardar più ad accennar anche la sua morte, il
cui anno nondimeno è tuttavia incerto. Crede il suddetto Camillo
Pellegrino, che _Romoaldo I_ fosse creato duca di Benevento lo stesso
anno che Grimoaldo suo padre occupò il trono de' Longobardi, cioè,
secondo lui, nell'anno 661. Ed avendo egli tenuto il ducato _sedici
anni_, la sua morte è da lui posta nell'anno 677. Poscia _Grimoaldo II_
governò quel ducato tre anni, e, per conseguente, morì nell'anno 680. Ed
essendo a lui succeduto _Gisolfo_, che per _diciassett'anni_ stette nel
ducato, la sua morte dovrebbe, a suo parere, mettersi nell'anno 694,
perchè immagina ch'egli insieme col fratello Grimoaldo II fosse creato
duca nell'anno 677. Ora quando sia vero che Gisolfo a' tempi di papa
Giovanni VI facesse quella irruzione nella Campania, come vuole
Anastasio, bisogna ben dire che i conti del Pellegrino sieno fallati, e
che Gisolfo campasse molto di più. E notisi che Giovanni Diacono[158a],
il quale fiorì a' tempi del medesimo Anastasio, anche egli sotto questo
papa riferisce l'irruzione suddetta. Ha creduto il padre Bollando[159]
che i sedici anni del ducato di Romoaldo I si debbano contare dalla
morte del re Grimoaldo suo padre, succeduta nell'anno 671. Almeno sembra
poco verisimile che Grimoaldo, nel partirsi da Benevento per andare a
Pavia, dichiarasse duca il figliuolo, senza sapere se gli riuscirebbe di
farsi re. Io per me lascio la quistione come sta, a decider la quale ci
occorrerebbe qualche documento di que' medesimi tempi. Quello che è
certo, essendo venuto a morte Gisolfo I duca di Benevento[160], gli
succedette in quegli stati _Romoaldo II_ suo figliuolo. Il dottor
Bianchi, nelle Annotazioni a Paolo Diacono, crede che Romoaldo II
succedesse a Gisolfo nell'anno 707. Intanto il giovane re _Liutberto_
col suo aio Ansprando[161] si studiava di ricuperare il regno
occupatogli dal re _Ariberto II_. Ebbe in aiuto Ottone, Tasone e Rotari,
duchi di varie città, e con un buon corpo di truppe andò fin sotto a
Pavia. Abbiamo dalla vita di san Bonito vescovo di Chiaramonte ossia di
Auvergna, scritta da autore contemporaneo, pubblicata dal Surio e dal
padre Bollando[162], che passando quel santo uomo a Roma, trovossi in
tal congiuntura in Pavia, accolto con particolar divozione dal suddetto
re Ariberto nel suo proprio palazzo. Ed allorchè esso re col popolo
armato era per andar fuori a dar battaglia, si raccomandò a s. Bonito,
che gl'impetrasse da Dio colle sue preghiere la vittoria. Uscì,
combattè, e rimasto vincitore, ebbe vivo nelle mani il giovinetto re
Liutberto, ma ferito, ch'egli poi fece morire nel bagno. Attribuisce
l'autor d'essa vita questa vittoria ai meriti di s. Bonito; ma non è sì
facilmente da credere che quel santo impiegasse le sue orazioni per chi
aveva usurpato il regno al signore legittimo, ed usò poi tanta crudeltà
verso del medesimo, tuttochè suo sì stretto parente. I giudizii di Dio
sono cifre per lo più superiori alla nostra comprensione. _Ansprando_,
tutore dell'infelice Liutberto, si ricoverò nella forte isola del lago
di Como. All'incontro, _Rotari_ duca di Bergamo, tornato a casa, non
solamente persistè nella ribellione, ma assunse ancora il titolo di re.
Ariberto con un potente esercito marciò contra di lui, e prese prima la
città di Lodi, assediò poi quella di Bergamo, e tanto la tormentò colle
macchine da guerra, che la prese, ed in essa anche il falso re Rotari,
al quale fece radere il capo e la barba, come si usava con gli schiavi,
perchè presso i Longobardi era di grande onore la barba, e per essa
credo io che si distinguessero gli uomini liberi dagli schiavi. Mandollo
poscia in esilio a Torino, ma da lì a pochi giorni vi spedì anche un
ordine di torlo dal mondo, e questo fu eseguito.

NOTE:

[155] Anastas., in Johann. VI.

[156] Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 27.

[157] Camill. Peregrinus, de Ann. Ducat. Benevent., tom. 2 Rer. Ital.

[158] Anastas., in Johann. VI.

[158a] Johannes Diaconus, Vit. Episcopor. Neapolit., Part. 1, tom. 1
Rer. Italic.

[159] Bollandus, Act. Sanctor. ad diem 9 februarii.

[160] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 39.

[161] Idem, ibid, c. 19.

[162] Bollandus, Act. Sanctor. ad diem 15 januarii.



    Anno di CRISTO DCCIII. Indizione I.

    GIOVANNI VI papa 3.
    TIBERIO Absimero imp. 6.
    ARIBERTO II re 3.


A quest'anno pare che sia da riferire la spedizion di un esercito fatta
dal re _Ariberto_ contra l'isola posta nel lago di Como, perchè in
quella fortezza s'era ricoverato _Ansprando_ già aio dell'ucciso re
Liutberto[163]. Ansprando non volle aspettar questa tempesta, e però se
ne fuggì a Chiavenna, e di là per Coira città dei Reti (noi diciam de'
Grigioni) passò in Baviera, dove fu cortesemente ricevuto da
_Teodeberto_, uno dei duchi di quella contrada, ed uno dei figliuoli di
_Teodone II_. Fin dai tempi della regina Teodelinda si strinse una gran
amistà e lega fra i Longobardi e i Bavaresi; e noi abbiam veduto più re
longobardi discendenti da un fratello d'essa Teodelinda, però d'origine
bavarese. Ma il re Ariberto, uomo portato alla crudeltà, dacchè non potè
aver nelle mani Ansprando, sfogò la sua rabbia contra di _Sigibrando_ di
lui figliuolo, con fargli cavar gli occhi, e maltrattare chiunque avea
qualche attinenza di parentela con lui. Fece anche prendere _Teoderanda_
moglie d'esso Ansprando; e perchè questa s'era vantata che un dì
diverrebbe regina, le fece tagliare il naso e le orecchie; e lo stesso
vituperoso trattamento fu fatto ad _Arona_, o _Aurona_, figliuola del
medesimo Ansprando. Ma in mezzo a questo lagrimevole naufragio della
famiglia di esso Ansprando, Dio volle che si salvasse _Liutprando_ suo
minor figliuolo. Era egli assai giovinetto di età, e parve ad Ariberto
persona da non se ne prender fastidio; e però non solamente niun male
fece al di lui corpo, ma anche permise che se ne andasse a trovare il
padre in Baviera, siccome egli fece: il che fu d'inestimabil contento in
tante sue afflizioni all'abbattuto padre. Volle Iddio in questa maniera
conservare chi poi doveva un giorno gloriosamente maneggiar lo scettro
de' Longobardi. Nel catalogo dei duchi di Spoleti, da me[164] pubblicato
nella prefazione alla Cronica di Farfa, si legge che _Faroaldo II_
succedette in quest'anno al duca _Transmondo_ suo padre in quel ducato.
Il Sigonio aggiugne ch'egli prese per collega _Volchila_ suo fratello, a
cui fu anche dato il titolo di duca. Onde egli abbia questa notizia, nol
so. Io per me non ne trovo parola alcuna presso gli antichi.

NOTE:

[163] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 27.

[164] Chronic. Farfense, part. II, num. 2 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCIV. Indizione II.

    GIOVANNI VI papa 4.
    TIBERIO Absimero imp. 7.
    ARIBERTO II re 4.


Esule dimorava tuttavia in Chersona, città della Crimea, _Giustiniano
II_ già imperadore, chiamato _Rinotmeto_, cioè _dal naso tagliato_,
continuamente ruminando le maniere di risorgere. Si lasciò un dì
intendere che sperava di rimontare sul trono: parole che increbbero
molto a quegli abitanti per paura d'incorrere nella disgrazia del
regnante _Tiberio Absimero_, e però andavano pensando di ammazzarlo o di
menarlo a Costantinopoli, per liberarsi da ogni impegno[165]. Penetrata
questa mena, Giustiniano all'improvviso scappò, e andò a mettersi nelle
mani del Cacano, ossia Cagano, che vuol dire principe dei _Cazari_, o
_Gazari_, appellati con altro nome _Turchi_. Da lui fu molto onorato, e
prese per moglie una sua figliuola appellata _Teodora_: nome, credo io,
a lei posto dai Greci, soliti, siccome vedremo, a cangiare i nomi degli
stranieri. Ma l'imperadore Absimero, dacchè ebbe intesa la fuga e il
soggiorno di Giustiniano, senza indugio, spedì ambasciatori al Cacano,
con esibirgli una riguardevole ricompensa, se gli mandava Giustiniano
vivo, o almen la sua testa. All'ingordo Barbaro non dispiacque l'offerta
di sì bel guadagno, e non tardò a mettere le guardie all'ospite e genero
suo, sotto pretesto della di lui sicurezza. Da lì a poco diede anche
ordine a Papaze governator di Panaguria, dove allora abitava
Giustiniano, e a Balgise prefetto del Bosforo, di levargli la vita. La
buona fortuna volle che a Teodora sua moglie da un famiglio del padre fu
rivelato il secreto, ed ella onoratamente lo confidò al marito, il
quale, fatti venire ad un per uno que' due uffiziali in sua camera, con
una fune li strangolò. Poi, dopo aver rimandata la moglie alla casa
paterna, trovata una barchetta pescareccia, con quella tornò nella
Crimea, e mandati segretamente a chiamare alcuni suoi fedeli, con esso
loro si incamminò per mare alla volta delle bocche del Danubio. Alzossi
in navigando sì fiera fortuna di mare, che tutti si crederono spediti;
ed allora fu che Muace, uno de' suoi domestici, gli disse: _Signore, voi
ci vedete tutti vicini alla morte; fate un voto a Dio, che s'egli ci
salva, e voi rimette sul trono, non farete vendetta d'alcuno_. _Anzi_
(rispose allora fremendo di collera Giustiniano) _s'io perdonerò ad
alcuno, che Dio mi faccia ora profondare in queste acque._ Così il
bestiale Augusto. Passò poi la burrasca, ed arrivati che furono
all'imboccatura del Danubio, Giustiniano spedì Stefano suo famigliare a
_Terbellio_, ossia _Trebellio_, signore della Bulgaria, con pregarlo di
dargli ora ricovero, e poscia aiuto sufficiente per poter rimontare sul
trono, esibendogli perciò un larghissimo guiderdone. Terbellio, fattolo
venire a sè, con graziose accoglienze il ricevè, e poi si applicò a
mettere in ordine una poderosa armata di Bulgari e Schiavoni per
effettuare il concerto stabilito fra loro.

NOTE:

[165] Theoph., in Chronogr. Niceph., in Chron.



    Anno di CRISTO DCCV. Indizione III.

    GIOVANNI VII papa 1.
    GIUSTINIANO II imperadore di nuovo regnante 1.
    ARIBERTO II re 5.


Arrivò in quest'anno al fine di sua vita il buon papa _Giovanni VI_,
essendo succeduta la sua morte nel 9 di gennaio. Fu[166] eletto in suo
luogo, e consecrato nel dì primo di marzo _Giovanni VII_, Greco di
nazione, persona di grande erudizione e di molta eloquenza. Dacchè
miriamo tanti Greci posti nella sedia di s. Pietro, possiam ben credere
che gli esarchi ed altri uffiziali cesarei facessero dei maneggi
gagliardi per far cadere l'elezione in persone della lor nazione: il che
nulla nocque all'onore della santa Sede, perchè questi Greci ancora
fatti papi sostennero sempre la vera dottrina della Chiesa, nè si
lasciarono punto smuovere dal diritto cammino per le minacce de' greci
imperadori. Sull'autunno di quest'anno _Giustiniano dal naso
tagliato_, per ricuperare il perduto imperio, passò alla volta di
Costantinopoli[167], accompagnato da Terbellio principe dei Bulgari, che
seco conduceva una possente armata. Assediò la città, invitò i cittadini
alla resa con proporre delle buone condizioni. Per risposta non ebbe se
non delle ingiurie. Ma in tanto popolo non mancavano a lui persone
parziali, e queste in fatti trovarono la maniera di introdurlo con pochi
del suo seguito per un acquedotto della città, e di condurlo al palazzo
delle Blacherne, dove ripigliò l'antico comando. Per attestato d'Agnello
Ravennate, egli portò da lì innanzi un naso e l'orecchie d'oro. Ed ogni
volta che si nettava il naso, segno era che meditava o aveva risoluta la
morte d'alcuno. Stabilito che fu sul trono, congedò Terbellio signor de'
Bulgari (de' quali nondimeno è da credere che ritenesse una buona
guardia) con dei ricchissimi regali, dopo avere stretta con lui una lega
difensiva. Ciò fatto, questo mal uomo, in vece d'avere colle buone
lezioni d'umiliazione, che Dio gli aveva dato, imparata la mansuetudine
e la misericordia, più che mai insuperbì, nè spirò altro che crudeltà e
vendetta. Fa orrore l'intendere come egli infierisse ed imperversasse
contra chiunque dell'alto e basso popolo fosse creduto complice della
passata di lui depressione. _Leonzio_ già imperadore deposto, fu preso.
_Tiberio Absimero_, precedente Augusto, nel fuggire da Apollonia, restò
anch'egli colto. Incatenati i miseri, strascinati con dileggi per tutte
le contrade della città, furono nel pubblico circo alla vista di tutto
il popolo presentati a Giustiniano che coi piedi li calpestò, e poi fece
loro mozzare il capo. _Eraclio_ fratello d'Absimero con gli uffiziali
della milizia a lui sottoposti, fu impiccato. _Callinico_ patriarca,
dopo essergli stati cavati gli occhi, fu relegato a Roma, e sostituito
in suo luogo un _Ciro_ monaco rinchiuso, che gli aveva predetto la
ricuperazione dell'imperio. Che più? Basta dire che quasi innumerabili
furono, sì de' cittadini che de' soldati, quei che questo Augusto
carnefice sagrificò alla sua collera, con lasciare un immenso terrore e
paura a chiunque restava in vita. Mandò poi nel paese de' Gazari una
numerosa flotta, per prendere e condurre a Costantinopoli _Teodora_ sua
moglie. Nel viaggio perirono per tempesta moltissimi di que' legni con
tutta la gente, di maniera che il Cacano di quei Barbari ebbe a dire:
_Mirate che pazzo? Non bastavano due o tre navi per mandare a pigliar
sua moglie, senza far perire tante persone? Forse che avea da far guerra
per riaverla?_ Avvisò ancora Giustiniano che sua moglie gli avea
partorito un figliolo, a cui fu posto il nome di _Tiberio_. L'uno e
l'altra vennero a Costantinopoli, e furono coronati colla corona
imperiale. Finì di vivere in questo anno _Abimelec_, ossia _Abdulmeric_
califa de' Saraceni[168], che dopo la presa di Cartagine avea stese le
sue conquiste per tutta la costa dell'Africa sino allo stretto di
Gibilterra. Ceuta nondimeno era allora in potere dei Visigoti signori
della Spagna, come è anche oggidì degli Spagnuoli. Succedette ad
Abimelec nell'imperio il figliuolo _Valid_, che distrusse la nobilissima
chiesa cattedrale dei cristiani in Damasco. Quando poi sieno sicuri
documenti una lettera di _Faroaldo II_ duca di Spoleti, e una bolla di
Giovanni VII papa, da me pubblicate nella Cronica di Farfa[169], si
viene a conoscere che in questi tempi esso Faroaldo comandava in quel
ducato. La bolla del papa è data _pridie kalendas julii, imperante
domino nostro piissimo P. P. Augusto Tiberio anno VIII. P. C. ejus anno
VI. sed et Theodosio atque Constantino_. Di questi, che credo suoi
figliuoli, ho cercata indarno menzione presso gli storici greci.

NOTE:

[166] Anastas., in Johann. VII.

[167] Theoph., in Chronogr. Niceph., in Chron.

[168] Elmacinus, Hist. Sarac., lib. 1, pag. 67.

[169] Chr. Farfense, Part. II, t. 2 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCVI. Indizione IV.

    GIOVANNI VII papa 2.
    GIUSTINIANO II imperadore di nuovo regnante 2.
    ARIBERTO II re 6.


Durava tuttavia la dissensione fra la Chiesa romana e greca per cagione
de' canoni del concilio trullano, che il santo papa _Sergio_ non avea
voluto approvare. In quest'anno comparvero essi canoni a Roma, inviati
dall'Augusto _Giustiniano Rinotmeto_, e portati da due metropolitani con
lettera d'esso imperadore a papa _Giovanni VII_[170], in cui il pregava
ed esortava di raunare un concilio e di riprovare in essi canoni ciò che
meritasse censura, con accettar quello che si fosse creduto lodevole. Ma
il papa, dopo aver tenuto in bilancio questo affare per lungo tempo,
finalmente rimandò gli stessi canoni indietro senza attentarsi di
correggerli. Si sforza il cardinal Baronio[171] di scusare e
giustificare per questa maniera d'operare il pontefice, ma con ragioni
che non appagano. A buon conto, Anastasio bibliotecario, cardinale più
vecchio del Baronio, non ebbe difficoltà di dire che _humana fragilitate
timidus_ non osò emendarli. E il padre Cristiano Lupo[172] osservò che
più saggiamente operò dipoi papa _Costantino_ e non meno di lui papa
_Giovanni VIII_, con esaminarli e separare il grano dal loglio, come
costa dalla prefazione del medesimo Anastasio al concilio VII generale.
Giacchè non sappiamo gli anni precisi dei duchi del Friuli, mi sia
lecito di rapportar qui ciò che Paolo Diacono[173] lasciò scritto di
_Ferdulfo_ duca di quella contrada, uomo vanaglorioso e di lingua poco
ritenuta. Cercava pure costui la gloria di avere almeno una volta vinto
i confinanti Schiavoni; e però diede infin dei regali a certuni d'essi,
acciocchè movessero guerra al Friuli. Vennero in effetto que' Barbari in
gran numero, e mandarono innanzi alcuni saccomanni, che cominciarono a
rubar le pecore de' poveri pastori. Lo _sculdais_, ossia il giusdicente
di quella villa, per nome _Argaido_, uomo nobile e di gran coraggio,
uscì contra di loro co' suoi armati, ma non li potè raggiugnere. Nel
tornar poi indietro s'incontrò nel duca Ferdolfo, il quale inteso che
gli Schiavoni senza danno alcuno se n'erano andati con Dio, in collera
gli disse: _Si vede bene che voi non siete capace di far prodezza
alcuna, da che avete preso il vostro nome da arga_. Presso i Longobardi,
che si piccavano forte d'esser uomini valorosi e persone di onore, la
maggiore ingiuria che si potesse dire ad uno, era quella di _arga_,
significante un _poltrone_, un _pauroso_, un _uomo da nulla_. Come
abbiamo dalla legge 384 del re Rotari, era posta pena a chi dicesse
_arga_ ad alcuno; e costui dovea disdirsi e pagare. Che se poi avesse
voluto sostenere che con ragione avea proferita quella parola, allora la
spada e il duello, secondo il pazzo ripiego di que' barbari tempi,
decideva la lite. Argaido, udita questa ingiuria, rispose: _Piaccia a
Dio che nè io, nè voi usciam di questa vita prima di aver fatto
conoscere chi di noi due sia più poltrone_.

Dopo alquanti giorni sopravvenne lo sforzo degli Schiavoni, che
s'andarono ad accampare in cima di una montagna, cioè in luogo
difficile, a cui si potessero accostare i Furlani. Ferdolfo duca
arrivato col suo esercito, andava rondando per trovar la maniera men
difficile d'assalire i nemici; quando se gli accostò il suddetto Argaido
con dirgli che si ricordasse di averlo trattato da arga, e che ora era
il tempo di far conoscere chi fosse più bravo. Poi soggiunse: _E venga
l'ira di Dio sopra colui di noi due, che sarà l'ultimo ad assalir gli
Schiavoni_. Ciò detto, spronò il cavallo alla volta de' Barbari, salendo
per la montagna. Ferdolfo, spronato anch'egli da quelle parole, per non
esser da meno, il seguitò. Allora i Barbari, che aveano il vantaggio del
sito, li riceverono piuttosto con sassi, che con armi, e scavalcando
quanti andavano arrivando, ne fecero strage; e più per azzardo che per
valore ne riportarono vittoria, con restarci morto lo stesso duca
Ferdolfo ed Argaido, ed anche tutta la nobiltà del Friuli, per badare ad
un vano puntiglio, e anteporlo ai salutevoli consigli della prudenza.
Aggiugne Paolo che il solo _Munichi_ padre di _Pietro_, il quale fu poi
duca di Friuli, e padre di _Orso_, che fu duca di Ceneda, la fece da
valentuomo. Perciocchè gittato da cavallo, essendogli subito saltato
addosso uno Schiavone, ed avendogli legate le mani con una fune, egli
colle mani così impedite strappò la lancia dalla destra dello Schiavone,
e con essa il percosse, e poi con rotolarsi giù per la montagna ebbe la
fortuna di salvarsi. Ed è ben da notare che in questi tempi vi fossero
duchi di Ceneda, perchè questo è potente indizio che il ducato del
Friuli non abbracciasse per anche molte città, e si ristrignesse alla
sola città di _Forum Julii_, chiamata oggidì _Cividal di Friuli_. Morto
_Ferdolfo_, fu creato duca del Friuli, _Corvolo_, il quale durò poco
tempo in quel ducato, perchè avendo offeso il re (Paolo[174] non dice
qual re) gli furono cavati gli occhi colla perdita di quel governo. Dopo
lui fu creato duca del Friuli _Pemmone_, nativo da Belluno, che per una
briga avuta nel suo paese era ito ad abitare nel Friuli, cioè in Cividal
di Friuli, uomo di ingegno sottile, che riuscì di molta utilità al
paese. La promozione sua è riferita all'anno precedente dal dottissimo
padre Bernardo Maria de Rubeis[175]. Pemmone aveva una moglie nomata
Ratberga, contadina di nascita, e di fattezze di volto ben grossolane,
ma sì conoscente di sè stessa, che più volte pregò il marito di
lasciarla, e di prendere un'altra moglie che convenisse a un duca par
suo: segno che in quei tempi barbarici doveva esservi l'abuso di
ripudiare una moglie per passare ad altre nozze. Ma Pemmone da uomo
saggio, qual era, più si compiaceva d'aver una moglie sì umile e di
costumi sommamente pudichi, che d'averla nobile e bella, e però stette
sempre unito con lei. Dal loro matrimonio nacquero col tempo tre
figliuoli, cioè _Ratchis_, _Ratcait_ ed _Astolfo_, il primo e l'ultimo
de' quali col tempo ottennero la corona del regno longobardico, e
renderono gloriosa la bassezza della lor madre. Finalmente questo
Pemmone vien commendato da Paolo, perchè, raccolti i figliuoli di tutti
quei nobili che aveano lasciata la vita nel sopraddetto conflitto, gli
allevò insieme co' suoi figliuoli, come se tutti gli avesse egli
generati.

NOTE:

[170] Anastas., in Johann. VII.

[171] Baron., in Annal. Eccl.

[172] Lupus, in Notis ad Concil. Trullan.

[173] Paulus Diacon., de Gest. Longobard., lib. 6, cap. 24.

[174] Paulus Diaconus, in Gest. Longobard., lib. 6, cap. 23 et 26.

[175] De Rubeis, Monument. Eccl. Aquilejens., cap. 3.



    Anno di CRISTO DCCVII. Indizione V.

    GIOVANNI VII papa 3.
    GIUSTINIANO II imperadore di nuovo regnante 3.
    ARIBERTO II re 7.


Circa questi tempi, se pure non fu nell'anno precedente, per attestato
di Anastasio[176] e di Paolo Diacono[177], il re ARIBERTO fece conoscere
la sua venerazione verso la Sede apostolica. Godeva essa ne' vecchi
tempi de' _patrimonii_ nelle _Alpi Cozie_, ma questi erano stati
occupati o dai Longobardi, o da altre private persone. Probabilmente
altri papi aveano fatta istanza per riaverli, ma senza frutto. Ariberto
fu quegli che fece giustizia ai diritti della Chiesa romana, e mandò a
papa _Giovanni_ un bel diploma di donazione, ossia di confermazione, o
restituzione di quegli stabili, scritto in lettere d'oro. Pensa il
cardinal Baronio[178] che la _provincia_ dell'_Alpi Cozie_ appartenesse
alla santa Sede; ma chiaramente gli storici suddetti parlano del
_patrimonio dell'Alpi Cozie_; e gli eruditi sanno che _patrimonio_ vuol
dire un bene _allodiale_, come poderi, case, censi, e non un bene
signorile e demaniale, come le città, castella, provincie dipendenti dai
principi. Di questi _patrimonii_ la Chiesa romana ne possedeva in
Sicilia, in Toscana, e per molte altre parti d'Italia, anzi anche in
Oriente, come ho dimostrato altrove[179]. Oltre di che, non sussiste,
come vuol Paolo Diacono, che la _provincia dell'Alpi Cozie_ abbracciasse
allora Tortona, Acqui, Genova e Savona, città al certo che non furono
mai in dominio della Chiesa romana. Ciò che si intende per _Alpi Cozie_,
l'hanno già dimostrato eccellenti geografi. Che se il cardinal Baronio
cita la lettera di Pietro Oldrado a Carlo Magno, in cui si legge che
Liutprando re _donationem, quam beato Petro Aripertus rex donaverat,
confirmavit, scilicet Alpes Cottias, in quibus Janua est_: egli adopera
un documento apocrifo, e composto anche da un ignorante. Basta solamente
osservare quel _donationem, quam donaverat_, Anastasio dice _donationem
patrimonii Alpium Cottiarum, quam Aripertus rex fecerat_. Ma _Giovanni
VII_ papa nel presente anno a' dì 17 di ottobre fu chiamato da questa
vita mortale all'immortale, e la santa Sede restò vacante per tre mesi.
Per opera di questo pontefice, come si ha dalle croniche monastiche,
l'insigne monistero di _Subbiaco_ nella Campagna di Roma, già abitato da
san Benedetto, e rimasto deserto per più di cento anni, cominciò a
risorgere, avendo quivi esso papa posto l'abbate Stefano, che rifece la
basilica e il chiostro, e lasciovvi altre memorie della sua attenzione e
pietà.

NOTE:

[176] Anastas., in Johann. VII.

[177] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 28.

[178] Baron., Annal. Eccl. ad ann. 704 et 712.

[179] Antiquit. Italic., Dissert. LXIX.



    Anno di CRISTO DCCVIII. Indizione VI.

    SISINNIO papa 1.
    COSTANTINO papa 1.
    GIUSTINIANO II imperadore di nuovo regnante 4.
    ARIBERTO II re 8.


Fu consecrato papa in quest'anno SISINNIO nativo di Soria, uomo di
petto, e che avea gran premura per la difesa e conservazione di Roma; al
qual fine, come se fosse stato giovane e sano, fece anche dei
preparamenti per rifare le mura di quella augusta città. Ma per la gotta
era sì malconcio di corpo, e specialmente delle mani, che gli bisognava
farsi imboccare, non potendo farlo da sè stesso. Però non tardò la morte
a visitarlo, avendo tenuto il pontificato solamente per venti giorni.
Nel dì 25 di marzo a lui succedette _Costantino_, anch'esso di nazione
soriana, pontefice di rara mansuetudine e bontà, ne' cui tempi, dice
Anastasio[180], che per tre anni si provò in Roma una fiera carestia,
dopo i quali così doviziosa tornò la fertilità delle campagne, che si
mandarono in obblio tutti gli stenti passati. In quest'anno mancò di
vita _Damiano_ arcivescovo di Ravenna, e in suo luogo fu eletto
_Felice_, uomo di bassa statura, macilente, ma da Agnello[181],
scrittore mal affetto alla Chiesa romana, rappresentato per uomo pieno
di spirito di sapienza, perchè volle cozzar coi papi, benchè lo stesso
Agnello di ciò non faccia menzione. Ne fa bene Anastasio con dire che
egli andò a Roma, e fu consecrato vescovo da papa Costantino. Ma
allorchè si trattò di mettere in iscritto la sua protesta di essere
ubbidiente al romano pontefice, e di rinunziare all'iniqua pretensione
dell'autocefalia, ossia indipendenza, così imbeccato dal clero e da'
cittadini di Ravenna, non vi si sapeva indurre. Gli parlarono nondimeno
sì alto i ministri imperiali di Roma, che per timore stese una
dichiarazione, non come egli doveva e portava il costume, ma come
gl'insinuò la sua ripugnanza a farla. Questa poi posta dal pontefice
nello scrupolo di san Pietro, dicono che fu da lì a qualche giorno
trovata offuscata e come passata pel fuoco. Ma Iddio tardò poco a
gastigar la superbia di lui e de' Ravennati, siccome vedremo fra poco.
In questo anno _Giustiniano_ Augusto, testa leggera e bestiale,
dimentico oramai dei servigii a lui prestati dai Bulgari, e della lega
fatta con Terbellio principe loro, messa insieme una potente flotta e un
gagliardo esercito, si mosse a' loro danni, ma gli andò ben fatta, come
si meritava. Coll'armata navale per mare cominciò a travagliare la città
d'Anchialo, e lasciò la cavalleria alla campagna. Se ne stava questa
sbandata coi cavalli al pascolo senza guardia alcuna, come in paese di
pace. I Bulgari, adocchiata dalle colline la poca disciplina dei Greci,
serrati in uno squadrone, si scagliarono loro addosso, con ucciderne
assaissimi, e molti più farne prigioni, e presero i cavalli e i
carriaggi d'essa armata. L'imperadore, che era in terra, fu obbligato
alla fuga, e a ritirarsi nella prima fortezza che trovò del suo dominio,
dove gli convenne star chiuso per tre giorni, perchè i Bulgari l'aveano
incalzato fin là. E non partendosi costoro di sotto alla piazza, il
bravo Augusto, tagliati i garretti ai cavalli, e lasciate l'armi,
s'imbarcò di notte, e svergognato se ne tornò a Costantinopoli.

NOTE:

[180] Anastas. Biblioth., in Constant.

[181] Agnell., Vit. Episc. Ravenn. tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCIX. Indizione VII.

    COSTANTINO papa 2.
    GIUSTINIANO II imperadore di nuovo regnante 5.
    ARIBERTO II re 9.


Pensava ogni dì a qualche nuova vendetta l'imperador _Giustiniano_, e
gli vennero in mente i Ravennati, caduti in sua disgrazia, non so se
perchè ricordevole che si fossero nell'anno 692 opposti al suo uffiziale
Zacheria mandato a Roma per imprigionare _Sergio_ papa, oppure perchè
nella sua precedente caduta avessero dati segni d'allegrezza, o
certamente non gli fossero stati fedeli. Racconta Anastasio[182] ch'egli
mandò _Teodoro_ patrizio e generale dell'esercito di Sicilia con una
flotta di navi a Ravenna, il quale prese la città, e tutti i ribelli che
ivi trovò mise ne' ceppi e mandolli a Costantinopoli con tutte le loro
ricchezze, messe in quella congiuntura a sacco. Aggiugne ch'essi
cittadini, per giudizio di Dio e per sentenza del principe degli
Apostoli, riportarono il gastigo della loro disubbidienza alla Sede
apostolica, essendo stati fatti tutti perire d'amara morte, e, fra gli
altri, privato degli occhi il loro arcivescovo _Felice_, che di poi fu
relegato nelle coste del mare Eusino, ossia del Ponto, probabilmente a
Chersona, stanza solita degli esiliati. Bisogna ora ascoltare Agnello
ravennate[183], che poco più di cento anni dopo descrisse questa
tragedia della sua città. Narra egli, nella vita di Felice arcivescovo,
che l'uffiziale spedito da Giustiniano fermossi fuor di Ravenna colle
navi ancorate al lido. Nel primo dì fece un bellissimo accoglimento ai
primarii cittadini, ed invitolli pel dì seguente. Poi fatto addobbar di
cortinaggi il tratto di uno stadio sino al mare, e colà concorsa tutta
la nobilità di Ravenna, cominciò ad ammettergli a due a due all'udienza.
Ma non sì tosto erano dentro, che venivano presi, e con gli sbadacchi in
bocca condotti in fondo di una nave. Con tal frode restarono colti tutti
i nobili della terra, fra gli altri _Felice_ arcivescovo e
_Giovanniccio_, quel valente ravennate che avea servito nella segretaria
del medesimo imperadore. Ciò fatto, i Greci entrarono in Ravenna,
diedero il sacco, attaccarono il fuoco in assaissimi luoghi della città,
che si riempiè di urli e di pianti, e rimase in un mar di miserie.
Poscia diedero le vele al vento, e condussero a Costantinopoli i
prigioni. Ed ecco come trattavano i Greci il misero popolo italiano che
restava suddito al loro dominio. Quei Longobardi, che non si sogliono
senza orrore nominar da taluno, un pacifico e buon governo intanto
faceano godere al resto dell'Italia. In quest'anno i Saraceni
assediarono Tiana città della Cappadocia. Giustiniano per farli
sloggiare vi mandò molte brigate d'armati sotto due generali, che, oltre
al non andare d'accordo, attaccarono senz'ordine il nemico, e furono
rotti colla perdita di tutto l'equipaggio, e così restò la città preda
dei Barbari.

NOTE:

[182] Anast., in Constant.

[183] Agnell., in Vit. Episcopor. Ravennat., tom. 2. Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCX. Indizione VIII.

    COSTANTINO papa 3.
    GIUSTINIANO II imperadore di nuovo regnante 6.
    ARIBERTO II re 10.


Fra le sue crudeltà e pazzie non lasciò l'imperador _Giustiniano_ di
desiderar l'accordo fra la Chiesa romana e greca in ordine ai canoni del
concilio trullano. Per ottener questo bene, conoscendo che gioverebbe
assai la presenza del romano pontefice, spedì, secondochè attesta
Anastasio, ordine a papa _Costantino_ di portarsi a Costantinopoli. Però
fece egli preparar delle navi per fare il viaggio di mare, e nel dì 5 di
ottobre del presente anno imbarcatosi, sciolse dal porto Romano,
conducendo seco _Niceta_ vescovo di Selva Candida, _Giorgio_ vescovo di
Porto, e molti altri del clero romano. Arrivò a Napoli, dove fu accolto
da _Giovanni_ patrizio ed esarco, soprannomato _Rizocopo_, il quale era
inviato per succedere a _Teofilatto_ esarco. Quindi passato in Sicilia,
quivi trovò _Teodoro_ patrizio e generale dell'armi, che gli fece un
suntuoso incontro; e con suo vantaggio, perchè venne malato a riceverlo,
e se ne tornò indietro guarito. Per Reggio e Crotone s'avanzò fino a
Gallipoli, dove morì il vescovo Niceta, e di là andò ad Otranto. In
quella città, perchè sopravvenne il verno, bisognò che si fermasse; e
colà ancora pervenne lettera dell'imperadore, portante un ordine a tutti
i governatori de' luoghi per dove avesse da passare il papa, che
usassero verso di lui lo stesso onore che farebbono alla persona del
medesimo Augusto. Giunsero in quest'anno a Costantinopoli i prigioni
ravennati, e furono menati davanti all'inumano Augusto, il quale era
assiso in una sedia coperta d'oro e tempestata di smeraldi, col diadema
tessuto d'oro e di perle, e lavorato da _Teodora_ Augusta sua moglie.
Comandò egli che tutti fossero messi in carcere, per determinar poscia
la maniera della lor morte. In una parola, tutti quei senatori e nobili,
chi in una chi in un'altra forma furono crudelmente fatti morire. Aveva
anche giurato l'implacabil regnante di tor la vita all'arcivescovo
_Felice_[184]; ma se merita in ciò fede Agnello, la notte dormendo gli
apparve un giovane nobilissimo con a canto esso arcivescovo, che disse:
_Non insanguinar la spada in quest'uomo_. Svegliato l'imperadore,
raccontò il sogno a' suoi; poscia, per osservare il giuramento, fece
portare un bacino di argento infocato, e spargervi sopra dell'aceto, e
in quello fatti per forza tener gli occhi fissi a Felice, tanto che si
disseccò la pupilla, il lasciò cieco. Tale era l'uso de' Greci, per
torre l'uso della vista alle persone, e di là nacque l'italiano
_abbacinare_. Fu dipoi esso arcivescovo mandato in esilio nella Crimea.
Sommamente riuscì quest'anno pernicioso e funesto alla Cristianità,
perchè gli Arabi, ossia i Saraceni, non contenti del loro vasto imperio,
consistente nella Persia, e continuato di là fino allo stretto di
Gibilterra, passato anche il Mediterraneo, fecero un'irruzione nella
Spagna, dove poscia nell'anno seguente fermarono il piede, e ve lo
tennero fino all'anno 1492, in cui Granata fu presa dall'armi de'
cattolici monarchi Ferdinando re ed Isabella regina di Castiglia e
d'Aragona. Cominciò, dissi, in quest'anno a provarsi in quel regno la
potenza de' Monsulmani o Musulmani, voglio dire de' Maomettani, e poi
nel seguente continuarono le loro conquiste, con riportar varie vittorie
sopra i già valorosi Visigoti cattolici, la gloria de' quali restò quasi
interamente estinta, e per colpa principalmente di un Giuliano conte,
traditore della patria sua. Fama nondimeno è che in questo anno seguisse
un combattimento, rinnovato per otto giorni continui, fra i Cristiani e
i Saraceni, e che restassero disfatti i primi colla morte dello stesso
cattolico re _Rodrigo_. Certo è che a poco a poco s'impadronirono quegli
infedeli di Malega, Granata, Cordova, Toledo e di altre città e
provincie, dove cominciò a trionfare il maomettismo, ancorchè coloro
lasciassero poi libero l'uso della religion cristiana cattolica ai
popoli soggiogati.

NOTE:

[184] Agnell., in Vit. Felicis.



    Anno di CRISTO DCCXI. Indizione IX.

    COSTANTINO papa 4.
    FILIPPICO imperadore 1.
    ARIBERTO II re 11.


Nella primavera di quest'anno continuò _Costantino_ papa il suo viaggio
per mare a Costantinopoli, dopo aver ricevuto grandi onori dovunque egli
passava[185]. Ma insigni specialmente furono i fatti a lui, allorchè
giunse colà. Sette miglia fuori di quella regal città gli venne incontro
_Tiberio_ Augusto figliuolo dell'imperador _Giustiniano II_, colla
primaria nobilità, e _Ciro_ patriarca col suo clero, e una gran folla di
popolo. Il papa salito a cavallo con tutti di sua corte, portando il
camauro, come fa in Roma stessa, andò ad alloggiare al palazzo di
Placidia. Saputa la sua venuta, Giustiniano, che si trovava a Nicea, gli
scrisse immantenente una lettera piena di cortesia, con pregarlo di
venir sino a Nicomedìa, dove anch'egli si troverebbe. Quivi in fatti
seguì il loro abboccamento, e l'imperadore ben conoscente della
venerazion dovuta ai successori di san Pietro, colla corona in capo
s'inginocchiò e gli baciò i piedi, ed amendue poscia teneramente
s'abbracciarono con somma festa di tutti gli astanti. Nella seguente
domenica il papa celebrò messa, e comunicò di sua mano l'imperadore, che
poi si raccomandò alle di lui preghiere, acciocchè Dio gli perdonasse i
suoi peccati, e ne avea ben molti. E dopo avergli confermati tutti i
privilegii della Chiesa romana, gli diede licenza di tornarsene in
Italia. Punto non racconta Anastasio qual fosse il motivo, per cui il
papa venisse chiamato in Levante, nè cosa egli trattasse
coll'imperadore. I padri Lupo[186] e Pagi[187] hanno immaginato, e con
verisimiglianza, che si parlasse dei canoni del concilio trullano, e che
il pontefice confermasse quelli che lo meritavano, con riprovar gli
altri ripugnanti alla disciplina ecclesiastica della Chiesa latina. Pare
ancora che ciò si possa inferire da alcune parole del medesimo Anastasio
nella Vita di papa Gregorio II. Ma non è inverisimile che quel capo
sventato di Giustiniano chiamasse colà il papa per far vedere al mondo
ch'egli comandava a Roma, e si faceva ubbidire anche dai sommi
pontefici: giacchè non apparisce chiaro che ciò fosse per motivo della
religione. Comunque sia, partissi il papa da Nicomedia, e benchè da
molti incomodi di sanità afflitto, arrivò finalmente al porto di Gaeta,
dove trovò buona parte del clero e popolo romano, e nel dì 24 di ottobre
entrò in Roma con gran plauso ed allegrezza di tutta la città. Ma nel
tempo della sua lontananza accadde bene il contrario in Roma, cioè uno
sconcerto che arrecò non poca afflizione a quegli abitanti. Passando per
essa città nell'andare a Ravenna il nuovo esarco _Giovanni Rizocopo_
fece prendere Paolo, diacono e vicedomino (cioè il maggiordomo, oppure
il mastro di casa del papa), Sergio abbate e prete, Pietro tesoriere
(parimente, per quanto pare, del papa) e Sergio ordinatore, e fece loro
mozzare il capo. Tace Anastasio i motivi o pretesti di questa
carnificina di persone sacre e di alto affare. Soggiugne bensì, che
costui, andato a Ravenna, quivi, a cagion della sue iniquità, per giusto
giudizio di Dio, vi morì di brutta morte. Questa notizia ci apre l'adito
ad attaccare al suo racconto ciò che abbiamo da Agnello scrittore
ravennate, mentovato più volte di sopra, la cui storia è arrivata fino
ai nostri giorni mercè di un codice manuscritto estense. Ci fa saper
questo istorico[188] che il popolo di Ravenna trovandosi in somma
costernazione e tristezza, non meno pel sacco patito l'anno addietro,
che per la nuova del macello di tanta nobiltà ravennate fatto in
Costantinopoli, scosse il giogo dell'indiavolato imperadore. Elessero
eglino per loro capo Giorgio, figliuolo di quel Giovanniccio, di cui
abbiam parlato di sopra, giovane grazioso d'aspetto, prudente ne'
consigli e verace nelle sue parole. In questa ribellione o
confederazione concorsero l'altre città dell'esarcato, che da Agnello
sono enunziate secondo l'ordine che dovea praticarsi per le guardie,
cioè _Sarsina_, _Cervia_, _Cesena_, _Forlimpopoli_, _Forlì_, _Faenza_,
_Imola_ e _Bologna_. Divise Giorgio il popolo di Ravenna in varii
reggimenti, denominati dalle bandiere; cioè _bandiera_ o _insegna
prima_, _la seconda_, la _nuova_, l'_invitta_, la _costantinopolitana_,
la _stabile_, la _lieta_, la _milanese_, la _veronese_, quella di
_Classe_, e la _parte dell'arcivescovo_ coi cherici, con gli onorati e
colle chiese sottoposte. Quest'ordine nella milizia ravennate si
osservava tuttavia da lì a cento anni allorchè Agnello scrisse la
suddetta storia, cioè le vite degli arcivescovi di quella città. Ma ciò
che operassero dipoi i Ravennati, non si legge nella storia castrata da
gran tempo del medesimo Agnello. Solamente aggiugne che Giovanniccio,
quel valente segretario di Giustiniano Augusto, fu in questo anno, per
ordine d'esso imperadore, crudelmente tormentato e fatto morire, e che
egli chiamò al tribunale di Dio quel crudelissimo principe, con predire
che nel dì seguente anch'egli sarebbe ucciso. Agnese figliuola d'esso
Giovanniccio fu bisavola del medesimo Agnello storico, da cui sappiamo
ancora che lo stesso Giovanniccio quegli fu che mise in bell'ordine il
messale, le ore canoniche, le antifone e il rituale, de' quali si servì
da lì innanzi la Chiesa di Ravenna. Ora egli è da credere che _Giovanni
Rizocopo_ nuovo esarco, giunto in vicinanza di Ravenna, in vece di
prendere le redini del governo trovasse ivi la morte per l'ammutinamento
di due' popoli. Ma è cosa da maravigliarsi come Girolamo Rossi[189],
descrivendo i fatti de' Ravennati in questi tempi, confondesse i tempi,
e di suo capriccio descrivesse avvenimenti, de' quali non parla l'antica
storia, o diversamente ne parla.

Verificossi poi la morte dell'imperador _Giustiniano_, siccome dicono
che avea predetto Giovanniccio. Come succedesse quella tragedia,
l'abbiamo da Teofane[190], da Niceforo[191], da Cedreno[192] e da
Zonara[193]. Cadde in pensiero a questo sanguinario principe di
vendicarsi ancora degli abitanti di Chersona nella Crimea, sovvenendogli
della intenzione ch'ebbero di ammazzarlo, allorchè egli era relegato in
quella penisola. A tale effetto mandò colà un formidabile stuolo di navi
con centomila uomini tra soldati, artefici e rustici. Si può sospettar
disorbitante tanta gente per mare, e che gli storici greci, soliti a
magnificar le cose loro, aprissero ancor qui più del dovere la bocca.
Stefano patrizio fu scelto per general dell'impresa, e con ordine di far
man bassa sopra que' popoli. Scrive Paolo Diacono[194], che trovandosi
allora papa Costantino alla corte, dissuase per quanto potè l'imperadore
da sì crudele impresa; ma non gli riuscì d'impedirla. Grande fu la
strage, e i principali del Chersoneso parte furono inviati colle catene
a Costantinopoli, parte infilzati negli spiedi e bruciati vivi, parte
sommersi nel mare. Giustiniano, all'intendere che si era perdonato ai
giovani e fanciulli, andò nelle furie, e comandò che l'armata nel mese
d'ottobre tornasse colà a fare del resto. Ma sollevatasi una gran
fortuna di mare, quasi tutta questa armata andò a fondo, calcolandosi
(se pur si può credere) che vi perissero circa sessantatremila persone:
del che non solo non si attristò il pazzo imperadore, ma con giubilo
comandò che si preparasse un'altra flotta, e si andasse a compiere la
presa risoluzione, con distruggere tutte le città e castella della
Crimea. Ora quei del paese, che erano fuggiti o sopravanzati alle spade,
avvisati di questa barbara risoluzione, si unirono, si fortificarono,
ottennero soccorso dai Gazari, e dopo aver ripulsate le armi cesaree,
proclamarono imperadore _Bardane_ che assunse il nome di _Filippico_, il
quale, mandato in esilio molti anni prima, siccome dicemmo all'anno 701,
fu chiamato, o accorse colà in tal congiuntura. _Mauro_ patrizio colla
sua flotta, per timore di essere gastigato da Giustiniano, si unì con
Filippico, e tutti concordemente sul fine di quest'anno giunsero a
Costantinopoli, dove pacificamente fu ammesso il nuovo Augusto, giacchè
Giustiniano dianzi uscito in campagna colle poche truppe che avea, e con
un rinforzo ottenuto dai Bulgari, non fu a tempo di prevenire Filippico.
Spedito dipoi contra di esso Giustiniano _Elia_ generale di Filippico,
tanto seppe adoperarsi, che tirò nel suo partito i soldati del di lui
esercito, mandò contenti a casa i Bulgari, ed avuto in mano il bestiale
imperadore Giustiniano, con un colpo di sciabla gli fece, come potè,
pagare il sangue d'innumerabili cristiani da lui sparso. Inviata a
Costantinopoli la di lui testa, d'ordine di Filippico fu poi portata a
Roma. _Tiberio_ Augusto di lui figliuolo scappato in chiesa, ne fu per
forza estratto, ed anch'egli tolto di vita. Questo fine ebbe
_Giustiniano Rinotmeto_, cattivo figliuolo di un ottimo padre, che,
sedotto dallo spirito della vendetta, andò fabbricando a sè stesso la
propria rovina, e colla sua morte liberò da un gran peso la terra. In
quest'anno ancora diede fine a' suoi giorni _Childeberto III_, re di
Francia, che ebbe per successore _Dagoberto III_, tutti re di stucco in
questi tempi, perchè re vero, benchè senza nome, era _Pippino_ di
Eristallo loro maggiordomo.

NOTE:

[185] Anastas., in Constant.

[186] Lupus, in Notis ad Canon. Concil. Trull.

[187] Pagius, ad Annal. Baron.

[188] Agnell., in Vit. Felicis, tom. 2, Rer. Italic.

[189] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 4.

[190] Theoph., in Chronogr.

[191] Niceph., in Chron.

[192] Cedren., in Annalib.

[193] Zonaras, in Historia.

[194] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 31.



    Anno di CRISTO DCCXII. Indizione X.

    COSTANTINO papa 5.
    FILIPPICO imperadore 2.
    ALIPRANDO re 1.
    LIUTPRANDO re 1.


Sotto il nuovo imperadore _Filippico_ si credeva omai di goder pace e
tranquillità il romano imperio, quando costui si venne a scoprire
imbevuto di errori contrarii alla dottrina ed unità della Chiesa
cattolica. Si disse (ma forse fu una ciarla inventata da alcuno) che un
monaco del monistero di Callistrato molti anni prima gli avea più volte
predetto l'imperio, con raccomandargli insieme di abolire il concilio
sesto generale, come cosa mal fatta, se pure a lui premeva di star
lungamente sul trono. Gliel promise Bardane[195], ossia Filippico, e la
parola fu mantenuta. Poco dunque stette, dopo esser giunto al comando,
che raunato un conciliabolo di vescovi, o adulatori o timorosi, fece
dichiarar nullo il suddetto concilio, ed insieme condannare i padri che
lo aveano tenuto, avendo già cacciato dalla sedia di Costantinopoli
_Ciro_, e a lui sostituito _Giovanni_ aderente ai suoi errori. Se ne
stava poi questo novello Augusto passando le ore in ozio nel palazzo, e
pazzamente dilapidando i tesori raunati dai precedenti Augusti, e
massimamente dal suo predecessore Giustiniano II con tanti confischi da
lui fatti sotto varii pretesti. Per altro nel parlare era molto
eloquente, e veniva riputato uomo prudente; ma ne' fatti si scoprì
inabile a sì gran dignità, e specialmente sporcò la sua vita coll'eresia
e con gli adulterii, essendo penetrata la sua lussuria fin dentro i
chiostri delle sacre vergini. La fortuna di Filippico fu ancor quella di
_Felice_ arcivescovo di Ravenna, il quale accecato viveva in esilio
nella Crimea[196]. Venne egli rimesso in libertà dal nuovo Augusto, con
fargli restituire quanto avea perduto. Fu anche regalato da lui di molti
vasi di cristallo, ornati d'oro e di pietre preziose. Fra gli altri doni
v'era una corona picciola d'oro, ma arricchita di gemme di tanta valuta,
che un giudeo mercatante, a' tempi d'Agnello storico, interrogato da
Carlo Magno, quanto se ne caverebbe vendendola, rispose che tutte le
ricchezze e i paramenti della cattedral di Ravenna non valevano tanto
come quella sola corona. Ma questa, soggiugne Agnello, sotto lo
arcivescovo _Giorgio_, che fu ai suoi giorni, sparì. Racconta dipoi esso
storico un miracolo fatto da questo arcivescovo, con far morire
daddovero chi s'era finto morto per burlarlo. Ma in questi secoli una
gran facilità v'era a spacciare, e molto più a credere le cose
maravigliose; e noi, dopo aver veduto la superbia di questo prelato che
volle cozzar coi romani pontefici, non abbiamo gran motivo di tenerlo
per santo. Convien nondimeno confessare il vero, e ne abbiam la
testimonianza di Anastasio bibliotecario[197], che, ritornato questo
arcivescovo in Italia, pentito dell'antico orgoglio, mandò a Roma la sua
profession di fede e l'atto della sua sommessione al papa, con che si
riconciliò colla Chiesa romana, e visse poi sempre di accordo con lei.
Secondo tutte le apparenze, Felice arcivescovo quegli fu che fece depor
l'armi ai Ravennati e cessar la cominciata loro ribellione. Tre mesi
dopo l'arrivo in Roma di papa _Costantino_, cioè verso il fine di
gennaio dell'anno presente, arrivò colà la nuova della mutazione
accaduta in Costantinopoli, colla creazione d'un imperadore eretico:
cosa che turbò forte esso papa e tutta la Chiesa. Venne dipoi anche
lettera del medesimo Augusto, che portava la dichiarazione degli errori
di lui: ma il papa col consiglio del clero la rigettò. Anzi acceso di
zelo tutto il popolo romano, fece pubblicamente dipingere nel portico di
san Pietro i sei concilii generali, acciocchè ben comparisse il suo
attaccamento alla vera fede. Animosamente ancora dipoi si oppose
all'ordine mandato da Costantinopoli, che simili pitture si abolissero.
Andò tanto innanzi lo zelo di esso popolo, che fu risoluto di non
riconoscere Filippico per imperadore, nè di ammettere il suo ritratto,
siccome si solea fare degli altri Augusti, con riporlo poi in una
chiesa, nè di nominarlo nella messa e negli strumenti, nè di lasciar
correre moneta battuta da lui. Ciò vien pure attestato da Paolo Diacono.

Fino a questi tempi _Ansprando_, aio del fu re _Liutberto_, avea fermato
il piede in Baviera. Probabilmente era anche egli o nativo o oriondo di
quel paese, che avea dato più re ai Longobardi in Italia, siccome abbiam
veduto[198]. Ora egli, ottenuto un poderoso corpo di soldatesche da
_Teodeberto_ duca d'essa Baviera, venne in Italia contra del re
_Ariberto II_, che non fu pigro ad incontrarlo colle sue forze. Seguì
fra loro una giornata campale, che costò di gran sangue all'una e
all'altra parte. La notte fu quella che separò i combattenti; e la
verità è, che i Bavaresi ebbero la peggio, e si preparavano alla fuga.
Ma Ariberto, che non dovea essere bene informato del loro stato, in vece
di star saldo nel suo accampamento, giudicò meglio di ritirarsi
coll'esercito in Pavia. Questa risoluzione, sì, perchè rimise in petto
ai nemici l'ardire, e sì perchè tornò in vergogna e danno de'
Longobardi, parendo che fossero vinti, cagionò tale alienazion d'affetto
dei Longobardi verso di Ariberto, che protestarono di non voler più
combattere per lui, e che volevano darsi ad Ansprando. Il perchè
Ariberto, entrato nell'anno dodicesimo del suo regno, temendo di sua
vita, determinò di ritirarsi in Francia; e preso quant'oro potè portar
seco, segretamente fuggì dalla città. Ma mentre egli vuol passare a
nuoto il Ticino, il peso dell'oro (se pur si può credere) fu cagione
ch'egli restasse affogato nell'acque. Trovato nel dì seguente il suo
cadavero, gli fu data sepoltura nella chiesa di san Salvatore fuori
della porta di ponente, fabbricata dal re Ariberto I, suo avolo. A
riserva del principio del regno di questo re, che coll'usurpazione e
colla crudeltà si tirò dietro il biasimo dei saggi, _Ariberto II_ si
fece conoscere principe pio, limosiniere e amatore della giustizia. Ebbe
egli in uso di uscir di corte la notte travestito, e di girar qua e là,
per sentire non men da quei della terra che dai forestieri cosa si
diceva di lui per le città, e qual giustizia si facesse dai giudici del
paese: il che serviva a lui di scorta per rimediare ai non pochi
disordini. E qualora venivano ambasciatori de' potentati stranieri a
trovarlo, il costume suo era di lasciarsi loro vedere con abiti vili, e
colle pellicce usate allora assaissimo dal popolo; nè mai volle imbandir
la loro tavola di vini preziosi, nè di vivande rare, affinchè non
concepissero grande idea del paese, e non venisse lor voglia d'insinuar
la conquista d'Italia ai loro padroni. Ebbe un fratello per nome
_Gumberto_, che, fuggito in Francia, quivi passò il resto de' suoi
giorni, e lasciò dopo di sè tre figliuoli, uno de' quali, appellato
_Ragimberto_, a' tempi di Paolo Diacono era governatore della città
d'Orleans. Dappoichè terminato fu il funerale del re Ariberto II, di
concorde volere i Longobardi elessero per re loro _Ansprando_,
personaggio provveduto di tutte le qualità che si ricercano a ben
governar popoli, e massimamente di prudenza, nel qual pregio ebbe pochi
pari. Ma corto di troppo fu il suo regno, essendo stato rapito dalla
morte dopo soli tre mesi di regno in età di cinquantacinque anni. Prima
nondimeno di morire, ebbe la consolazion d'intendere che i Longobardi
aveano proclamato re _Liutprando_ suo figliuolo, così nominato, e non
già _Luitprando_, come costa dalle lapidi e dai documenti antichi. Fu
posto il di lui cadavero in un avello nella chiesa di sant'Adriano,
fabbricata, per quanto si crede, da lui, col seguente epitaffio composto
di versi ritmici.

    ANSPRANDVS, HONESTVS MORIBVS, PRVDENTIA POLLENS,
    SAPIENS, MODESTVS, PATIENS, SERMONE FACVNDVS,
    ADSTANTIBVS QVI DVLCIA, FAVI MELLIS AD INSTAR,
    SINGVLIS PROMEBAT DE PECTORE VERBA.
    CVIVS AD AETHEREVM SPIRITVS DVM PERGERET AXEM,
    POST QVINOS VNDECIES VITAE SVAE CIRCITER ANNOS
    APICEM RELIQVIT REGNI PRAESTANTISSIMO NATO
    LYVTHPRANDO INCLYTO ET GVBERNACVLA GENTIS,
    DATUM PAPIAE DIE IDVVM IVNII INDICTIONE DECIMA.

Quel _datum Papiae_ temo io che non si legga così disteso nel marmo, sì
perchè questo non è un diploma o una lettera da mettervi il _datum_, e
sì perchè non si soleva per anche dire _Papiae_, ma bensì _Ticini_.
Verisimilmente le due sole lettere DP, che significano _depositus_, si
son convertite in _Datum Papiae_. Per altro sta bene la nota
cronologica, apparendo da varie memorie da me rapportate nelle Antichità
Italiche, e da altre osservate dal cardinal Baronio[199], dal p.
Pagi[200] e da altri, che cominciò in quest'anno a regnare il re
_Liutprando_ suo figlio, giovane bensì, ma principe di grande
aspettazione. Veggasi ancora uno strumento della primaziale di Pisa, da
me pubblicato[201], da cui apparisce che tra il febbraio e luglio
dell'anno presente Liutprando diede principio all'epoca del suo regno.
Prima nondimeno di terminar quest'anno, vo' riferire un fatto spettante
ai tempi del re Ariberto II, e succeduto nell'anno undecimo del suo
regno, per cui si accese in Toscana una fiera lite fra i vescovi di
Arezzo e di Siena, che durò poi dei secoli, come apparisce dagli Atti da
me dati alla luce nelle Antichità italiche[202]. Ne rapporterò il
principio colle parole stesse di Gerardo, vecchio primicerio della
Chiesa aretina che ne lasciò nell'anno 1057 una memoria, tuttavia
esistente manuscritta nell'archivio di quei canonici, e da me tempo fa
copiata. _Aripertus_ (dice egli) _filius ejus regnavit annos XII, cujus
regni anno undecimo senensis civitatis episcopus contra Deum, suique
ordinis periculum, sanctorum patrum firmissima jura, sanctaeque
Ecclesiae terminos transgressus, invasit quamdam sanctae aretinae
ecclesiae paroechiam, senensi territorio positam, atque per integrum
annum enormiter, ut ipse episcopus postea ante Liutprandum
gloriosissimum regem confessus est, usurpavit, ordinans in ea aliquanta
oracula, et duos presbyteros; statimque synodali terrore perterritus
cessavit. Tunc autem haec temeraria praesumptio et prima usurpatio
initium sumpsit, ut in vetustissimis thomis ego Gerardus, antiquus
sanctae aretinae Ecclesiae primicerius, qui et haec omnia, Deo teste,
veraciter ordinavi, legi paucis ab... Lupertianus aretinensis episcopus
cum suis domesticis habitabat apud plebem sanctae Mariae in Pacina,
pacifico et quieto ordine exercens ea, quae ad episcopum pertinent in
sua dioecesi. Illo autem tempore senensis civitas erat domnicata ad
manus Ariberti regis Langobardorum, habitabatque in ea judex regis
Ariperti, nomine Gundipertus, qui veniens simul cum Roberto Castaldio
regis Ariberti ad plebem sanctae Mariae in Pacina, ubi episcopus
Lupertianus aritinensis erat, nullamque reverentiam episcopo exhibens,
coepit homines ipsius episcopi injuriose atque contumeliose distringere,
atque per placita fatigare. Quod factum, Aretini, qui cum episcopo
erant, non volentes pacificare, tandem irruentes ipsum Godipertum
judicem senensis civitatis occiderunt. Qua de causa universus senensis
populus commotus est adversus Lupertianum episcopum, eumque inde
fugaverant, illam que parochiam Adeodatum senensem episcopum, qui erat
consobrinus praedicti Godoperti judicis, quem Aretini interfecerant,
volentem, nolentemque per unum annum tenere fecerunt. Ibique tria
oracula_ (cioè tre oratorii) _et duos presbyteros enormiter, et contra
ecclesiasticam disciplinam consecravit. Obiit autem praedictus rex anno
Dominicae Incarnationis DCCXII._ Vedremo andando innanzi la continuazion
di questa lite, essendo qui solamente da osservare che non di una sola
parrocchia, ma di molte si disputò fra que' vescovi, siccome fra poco si
osserverà. Continuarono ancora in quest'anno i Saraceni le loro
conquiste nella Spagna, con impadronirsi di Merida, di Siviglia, di
Saragozza e d'altre città. Solamente fece loro fronte il valoroso
_Pelagio_, che eletto re dei Cristiani nell'Austria, riportò anche varie
vittorie contra di quegl'infedeli.

NOTE:

[195] Theoph., in Chronogr.

[196] Agnell., in Vit. Felicis, tom. 2 Rer. Italic.

[197] Anastas. Biblioth. in Constant.

[198] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 35.

[199] Baron., Annal. Eccl.

[200] Pagius, ad Annal. Baron.

[201] Antiquitat. Italic., tom. 3, pag. 1005.

[202] Antiquit. Ital., Dissertat. LXXIV.



    Anno di CRISTO DCCXIII. Indizione XI.

    COSTANTINO papa 6.
    ANASTASIO imperadore 1.
    LIUTPRANDO re 2.


Potrebb'essere che in quest'anno fosse succeduta l'andata di _Benedetto_
arcivescovo di Milano, uomo di santa vita, a Roma per sua divozione,
narrata da Paolo Diacono[203] e da Anastasio bibliotecario[204]. Con tal
occasione il buon prelato spiegò le sue querele al trono pontificio,
pretendendo che a lui appartenesse il consecrare i vescovi di Pavia,
come a metropolitano. Ma essendosi trovato che la Chiesa romana da gran
tempo era in possesso di consecrar que' sacri pastori, sia perchè
all'arrivo dei Longobardi in Italia l'arcivescovo di Milano si ritirò in
Genova, soggetta all'imperadore, e seguitarono a dimorar colà alcuni
suoi successori; oppure perchè i re longobardi procurassero al vescovo
della loro principal residenza l'esenzione dal metropolitano: comunque
fosse, certo è ch'esso arcivescovo ebbe la sentenza contro; e però
seguitarono sempre da lì innanzi i vescovi di Pavia ad essere
indipendenti dalla cattedra di Milano, ed immediatamente sottoposti al
romano pontefice. Per altro anticamente non fu così, siccome io
dimostrai in una dissertazione[205] stampata nell'anno 1697. Abbiamo poi
attestato da esso Paolo Diacono la santità dell'arcivescovo Benedetto,
il quale in fatti non cercò allora di acquistare un nuovo ed inusato
diritto sopra la Chiesa di Pavia, ma bensì di ricuperare e conservare
l'antica sua autorità. In Roma stessa seguì nel presente anno uno
sconcerto[206]. V'era per governatore _Cristoforo duca_. Per
iscavalcarlo da quel posto, un certo _Pietro_ ricorse all'esarco di
Ravenna, che gli diede le patenti di quel governo. Ma essendo che i
Romani non voleano sentir parlare di _Filippico_ imperador monotelita, a
nome o col nome del quale era stato dato posto a Pietro, buona parte di
loro si unì con determinazione di non voler questo duca. La fazione
adunque che sosteneva Cristoforo si azzuffò coll'altra che era in favore
di Pietro, nella via sacra davanti al palazzo, e ne seguirono morti e
ferite. Più oltre si sarebbe dilatato questo fuoco, se papa _Costantino_
non avesse inviato de' sacerdoti, che coi santi vangeli e colle croci
divisero la baruffa. E buon per la parte di Pietro, la quale già
soccombeva; ma perciocchè fu fatta ritirar l'altra parte che si chiamava
la cristiana, Pietro proditoriamente se ne prevalse, e fece credere
d'essere rimasto vincitore. Poco poi stette ad arrivar dalla Sicilia la
nuova che l'eretico imperador _Filippico_ era stato deposto. Come
seguisse la di lui caduta l'abbiamo da Teofane, da Niceforo, da Zonara e
da Cedreno. Molti erano malcontenti di questo principe dopo averlo
scoperto nemico del concilio sesto universale, e tanto più perchè egli,
a cagione di questa sua alienazione dalla sentenza cattolica, s'era
messo a perseguitare i vescovi cattolici. S'aggiunse che i Bulgari
fecero un'improvvisa irruzione fino al canale di Costantinopoli, e molti
ancora passarono di là, con fare un terribil saccheggio e condur via
un'immensa quantità di prigioni, senza che Filippico facesse provvisione
alcuna in queste calamità. I Saraceni anch'essi, dopo aver preso Mistia
ed Antiochia di Pisidia, fecero dalla lor parte di simili incursioni con
riportarne un incredibil bottino. Ora congiurati alcuni senatori,
mossero Rufo primo cavallerizzo a deporre questo inetto e mal gradito
imperadore. Nella vigilia di Pentecoste con una truppa di soldati entrò
esso Rufo nel palazzo, e trovato Filippico che dopo il pranzo dormiva,
il trasse fuori, gli fece cavar gli occhi, ma non gli tolse la vita. Nel
dì seguente di Pentecoste, essendosi raunato il popolo nella gran
chiesa, fu eletto e coronato imperadore _Artemio_, primo de' segretarii
di corte, a cui fu posto il nome di _Anastasio_. Era egli versatissimo
negli affari, dottissimo e zelante della vera dottrina della Chiesa. Non
tardò il medesimo Augusto a spedire in Italia un nuovo esarco, cioè
_Scolastico_ patrizio e suo gentiluomo di camera, che portò a papa
Costantino[207] l'imperial lettera, con cui si dichiarava seguace della
Chiesa cattolica, e difensore del concilio sesto generale: il che recò
una somma contentezza al papa e al popolo romano. Ed allora fu che
_Pietro_ fu pacificamente installato nella dignità di duca e governatore
di Roma, con aver prima data parola di non offendere chi s'era opposto
in addietro al suo avanzamento. Fece in questo anno il re _Liutprando_
una giunta di nuove leggi a quelle di Rotari e di Grimoaldo. Nella
prefazione da me stampata[208] nel corpo delle leggi longobardiche, egli
s'intitola _christianus et catholicus Deo dilectae gentis Langobardorum
rex._ Soggiugne di aver fatte esse leggi _anno, Deo propitio, regni mei
primo pridie kalendas martias, indictione undecima, una cum omnibus
judicibus_ (cioè coi conti, o vogliam dire governatori della città) _de
Austriae et Neustriae partibus, et de Tusciae finibus, cum reliquis
fidelibus meis Langobardis et cuncto populo assistente._ Però è da
notare che non si stabilivano allora, nè si pubblicavano leggi senza la
dieta del regno e l'approvazione de' popoli. Con ciò ancora vien
confermata la cronologia d'esso re Liutprando, correndo nell'_indizione
undecima_, cioè nell'anno presente, il primo anno del regno suo. Noi
troviamo in un documento[209] di quest'anno Walperto (lo stesso che
Gualberto) duca della città di Lucca, cioè governatore di quella città.

NOTE:

[203] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 29.

[204] Anast., in Constant.

[205] Anecdot. Latin. tom. 1.

[206] Anastas., in Constant.

[207] Anastas., in Constant.

[208] Leges Langobard., P. II, T. I Rer. Italic.

[209] Antiquit. Italic., tom. 1, p. 227.



    Anno di CRISTO DCCXIV. Indizione XII.

    COSTANTINO papa 7.
    ANASTASIO imperadore 2.
    LIUTPRANDO re 3.


Erasi già assodato nel regno il re Liutprando, e tutto era in pace,
quando si venne a scoprire una trama ordita contra di lui nella stessa
Pavia[210]. Rotari suo parente quegli era che macchinava di torgli la
vita con isperanza, per quanto si può conghietturare, di succedergli nel
regno. A tal fine aveva egli preparato un convito in sua casa, dove
pensava d'invitare il re, e messi in disparte degli sgherri fortissimi,
che nel più bello del pranzo doveano fare la festa al re. N'ebbe sentore
Liutprando, e però mandò a chiamar Rotari; e, giunto costui alla sua
presenza, tastò colle mani s'era vero che portasse il giaco sotto ai
panni, come gli era stato supposto, e trovò ch'era così. Rotari scoperto
diede indietro, e sfoderò la spada per uccidere il re, ma il re non fu
mica pigro a sguainar la sua. Allora una delle guardie, per nome Sabone,
prese per di dietro Rotari, con restare ferito da lui nella fronte.
Accorsero l'altre guardie, e saltandogli addosso, lo stesero morto a
terra. Quattro suoi figliuoli, che non erano a questo spettacolo,
restarono anche essi uccisi, dovunque furono trovati. Per attestato poi
di Paolo Diacono, era Liutprando di mirabil ardire. Gli fu riferito che
era scappato detto a due de' suoi scudieri di volerlo ammazzare. Un dì
li fece venir seco nel più folto d'un bosco, e messa mano alla spada, li
rimproverò per l'iniquo loro disegno, con soggiugnere che era allora il
tempo di eseguirlo. Gli caddero a' piedi impauriti con rivelargli il
meditato delitto, e chiedergli misericordia. Così fece con altri; e
bastava confessare e dimandar mercè, che egli dipoi generosamente
perdonava. Attese in quest'anno il saggio imperadore _Anastasio_,
secondo la testimonianza di Teofane[211], a fortificare e provveder di
viveri la città di Costantinopoli, e far de' mirabili preparamenti per
terra e per mare, affin di mettere argine alle continuate conquiste de'
Saraceni, non lasciando di trattar nello stesso tempo con loro di pace,
e massimamente perchè voce correa che volessero venir sotto
Costantinopoli. L'anno poi fu questo, in cui venne a morte _Pippino_ di
Eristallo, potentissimo maggiordomo del regno di Francia. A lui
succedette nel medesimo grado _Carlo_ appellato _Martello_, che Alpaide
sua concubina gli avea partorito, giovane di ventiquattr'anni, ma di un
valore ed ingegno rarissimo. Egli avea per moglie _Rotrude_, da cui
erano già nati _Carlomanno_ e _Pippino_, che poi fu re di Francia. Ma
per la morte del suddetto Pippino d'Eristallo si sconvolse tutto il
reame de' Franchi, di maniera che seguirono varie battaglie con
ispargimento di gran sangue dei popoli, come s'ha dagli scrittori della
storia franzese. Da uno strumento scritto sotto questa indizione
nell'_anno secondo_ del re Liutprando, citato dal padre Mabillone[212],
si ricava che continuava tuttavia nel governo di Lucca _Walperto_, ossia
_Gualberto_, in qualità di duca o governatore, del quale s'è fatta di
sopra nel fine dell'anno precedente menzione.

NOTE:

[210] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 38.

[211] Theoph., in Chronogr.

[212] Mabill., Annal. Benedict., lib. 19, cap. 78.



    Anno di CRISTO DCCXV. Indizione XIII.

    GREGORIO II papa 1.
    ANASTASIO imperadore 3.
    LIUTPRANDO re 4.


Terminò in quest'anno _Costantino_ papa il suo pontificato, chiamato da
Dio a miglior vita nel dì 8 di aprile, per quanto crede il padre
Pagi[213], con lasciar dopo di sè una gloriosa memoria. A lui succedette
_Gregorio II_ romano di nazione, ordinato papa nel dì 19 di maggio[214],
che maggiormente illustrò la Chiesa romana colla santità dei costumi e
colle sue insigni azioni. Era egli stato allevato fin dalla sua più
verde età nel clero della basilica lateranense, e salito per varii gradi
al diaconato, aveva accompagnato papa Costantino alla corte imperiale,
dove diede buon saggio del suo sapere. Trovavasi appunto unita in lui la
scienza delle divine Scritture, l'amore della castità, la facondia del
parlare, e la fermezza d'animo, specialmente nella difesa della dottrina
e di ciò che riguarda la Chiesa cattolica. Nè minore fu il suo zelo per
la sicurezza di Roma sua patria; e lo fece ben tosto conoscere, perchè
appena fu entrato nella sedia pontificale, che fatte far delle fornaci
di calce, ordinò che si ristaurassero le mura di quell'augusta città; e
se ne cominciò in fatti la fabbrica dalla porta di san Lorenzo, ma non
si proseguì poi per cagione di varii impedimenti che sopravvennero.
Saputasi in Costantinopoli la di lui elezione, _Giovanni_ patriarca gli
scrisse tosto una lettera composta nel sinodo. E noi sappiam bene da
Anastasio che Gregorio gli rispose, ma non sappiam già cosa contenesse
la di lui risposta. Abbiamo poi da Teofane[215] che in questo medesimo
anno esso patriarca Giovanni, perchè favoriva o almeno avea favorito i
monoteliti, fu deposto per ordine dell'imperador _Anastasio_, e
sostituito in suo luogo _Germano_, figliuolo del già Giustiniano
patrizio, arcivescovo di Cizico, e in gran concetto per la sua rara
letteratura, e più per le virtù insigni dell'animo suo e per lo zelo
della dottrina cattolica: i quali pregi col tempo il fecero aggiugnere
al catalogo de' santi. Circa questi tempi, siccome abbiamo da Andrea
Dandolo[216], _Paoluccio_ duca di Venezia procurò a sè stesso e al suo
popolo l'amistà del re _Liutprando_, e ne ottenne un diploma, in cui
erano concedute varie esenzioni ai Veneti nel regno de' Longobardi, con
esprimere ancora i confini d'Eraclea, ossia di Città-nuova fra l'uno e
l'altro dominio, dalla Piave maggiore fino alla Piavicella: certo
essendo che le isole componenti Venezia erano escluse dal regno dei
Longobardi. A questa determinazion dei confini per la parte del duca
intervenne _Marcello_ generale della milizia, e n'è fatta menzione nei
diplomi che susseguentemente riportarono gli altri duchi o dogi di
Venezia dai re d'Italia. Di sopra all'anno 707 vedemmo fatta dal re
_Ariberto_ II la donazione, ossia la restituzione del patrimonio
dell'Alpi Cozie alla Chiesa romana. Non approvò il re Liutprando tal
concessione, e tornò a metter le mani addosso a que' beni e censi. Ma
con tal premura e forza l'intrepido pontefice _Gregorio II_ gli scrisse
intorno a questo affare, con far valere le ragioni della Sede
apostolica[217], che Liutprando cedette e confermò ad essa santa Sede
quanto avea conceduto il re Ariberto II. Fu il presente anno l'ultimo
della vita di _Dagoberto III_ re de' Franchi, al quale succedette
_Chilperico II_, in tempi appunto che tutta la Francia era sossopra per
le guerre civili e per le dispute del grado di maggiordomo. Era stato
posto prigione _Carlo Martello_ da Plettrude sua matrigna, ma ebbe la
maniera di scappare e di rimettere in piedi il suo partito, con istradar
poscia al regno i suoi discendenti. Finì ancora di vivere in quest'anno
_Valid_ califfo ed imperador de' Saraceni, dopo aver sottomessa al suo
imperio quasi tutta la Spagna, e gli succedette suo fratello _Solimano_.

Bolliva più che mai la lite agitata fra' vescovi di Arezzo e di Siena,
per cagione, non già di una parrocchia, ma di molte, che l'uno e l'altro
pretendevano essere di sua giurisdizione. Aveva il re Liutprando
nell'anno precedente inviato _Ambrosio_ suo maggiordomo a conoscere
questa controversia, e davanti a questo ministro fu agitata la causa da
_Luperziano_ vescovo di Arezzo, e da _Adeodato_ vescovo di Siena.
Allegava il primo un immemorabil possesso di varie chiese battesimali e
di alcuni monisteri, posti bensì nel distretto di Siena, ma sottoposti
al vescovo aretino, fin quando i romani imperadori signoreggiavano la
Toscana. Rispondeva il vescovo sanese, che allorchè i Longobardi
s'impadronirono della Toscana, Siena non avea vescovo; l'ebbe dipoi ai
tempi del re Rotari; e che i Sanesi aveano pregato il vescovo d'Arezzo
di prendersi cura di quelle chiese; ed aver ben l'aretino co' suoi
successori esercitate quivi le funzioni episcopali, ma precariamente; e
per conseguente doversi que' luoghi sacri restituire. La sentenza fu
proferita dal suddetto Ambrosio in favore della Chiesa aretina, perchè
costava dell'immemorabil possesso. Ne è riferito l'atto
dall'Ughelli[218], scritto _regnante Liutprando rege anno tertio,
indictione XI_: dee dire _Indict. XII_. Rapporta eziandio esso Ughelli
il diploma di approvazione fatta di quel giudicato dal re _Liutprando_:
_Datum Ticini in palatio regio, sexta die mensis martii, anno
felicissimi regni nostri tertio, indictione tertia decima_, cioè in
quest'anno. Dubitò l'Ughelli della legittimità di tali atti; ma senza
ragione. Ho io dato alla luce altri atti di questa lite[219], spettanti
al medesimo anno presente, e che confermano i precedenti. Da essi
apprendiamo, che essendosi richiamato il vescovo di Siena pel giudicato
suddetto, fu deputato Gunteramo notaio all'esame di varie persone, per
conoscere lo stato di quelle Chiese nei tempi antichi; e tal esame, che
serve di molto all'erudizion di quei tempi, fu fatto _sub die XII
kalendarum juliarum, Indictione tertiadecima_, cioè nel dì 20
di giugno dell'anno presente. Successivamente secondo l'ordine
dell'_eccellentissimo re Liutprando_ unitisi con esso Gunteramo
_Teodaldo_ vescovo di Fiesole, _Massimo_ vescovo di Pisa, _Specioso_
vescovo di Firenze, e _Talesperiano_ vescovo di Lucca, disaminarono le
ragioni dei suddetti due vescovi litiganti, ed ascoltarono i testimoni.
Dopo di che decisero in favore del vescovo di Arezzo. Il giudicato loro
fu fatto _V die mensis julii, regnante suprascripto domno nostro
excellentissimo Liutprando rege, anno quarto perindictio tertiadecima_,
cioè nell'anno presente; riconoscendo da tali note, che Liutprando
cominciò a regnare prima del dì 5 di luglio dell'anno 712. Leggesi
finalmente pubblicato parimente da me il giudicato del medesimo re sopra
questa controversia in favore del vescovo di Arezzo, con essere fra gli
altri giudici intervenuto ad esso giudizio _Theodorus episcopus Castri
nostri_, e inoltre _Auduald dux_. Ho io gran sospetto che questo
_Teodoro_ sia stato vescovo di Pavia, e che l'Ughelli non l'abbia posto
al suo sito. Allora Pavia era anche appellata _Castrum_, perchè
fortezza, perciò scelta per più sicura abitazione dai re longobardi.
Anche da Ennodio[220] viene accennata _Ticinensis Oppidi Augustia_.
Poichè per conto del duca _Audoaldo_ ne aveva io rapportato nelle
Antichità estensi l'epitaffio tuttavia esistente in Pavia, senza sapere
a quali tempi esso appartenesse. Conoscendosi ora che esso duca visse
sotto il re Liutprando, non dispiacerà ai lettori che io lo rapporti
ancor qui:

    SUB REGIBVS LIGVRIAE DVCATVM TENVIT AVDAX
    AVDOALD ARMIPOTENS, CLARIS NATALIBUS ORTVS,
    VICTRIX CVIVS DEXTRA SVBEGIT NAVITER HOSTES
    FINITIMOS, ET CVNCTOS LONGE LATEQVE DEGENTES,
    BELLIGERAS DOMAVIT ACIES, ET HOSTILIA CASTRA
    MAXIMA CVM LAVDE PROSTRAVIT DIDIMVS ISTE,
    CVIVS HIC EST CORPVS HVIVS SVB TEGMINE CAVTIS.

Più sotto si leggono queste altre parole:

    LATE AT NON FAMA SILET, VVLGATIS FAMA TRIVMPHIS.
    QVAE VIVVM, QVALIS FVERIT, QVANTVSQVE PER VRBEM
    INNOTVIT, LAVRIGERVM ET VIRTVS BELLICA DVCEM;
    SEXIES QVI DENIS PERACTIS CIRCITER ANNIS
    SPIRITVM AD AETHERA MISIT, ET MEMBRA SEPVLCRO
    HVMANDA DEDIT, PRIMA CVM INDICTIO ESSET.
    DIE NONARVM IULIARVM, FERIA QVINTA.

Dalle quali parole intendiamo che questo duca _Audoaldo_ morì in età di
sessant'anni nel dì 7 di luglio dell'anno 718.

NOTE:

[213] Pagius, ad Annal. Baron.

[214] Anastas., in Gregor. II.

[215] Theophanes, in Chronogr.

[216] Dandol., in Chronic., tom. 12 Rer. Italic.

[217] Anastas., in Gregor. II. Paulus Diaconus, lib. 7, cap. 43.

[218] Ughell., Ital. Sacr., tom. I Episcop. Aretin.

[219] Antiquit. Italic. Dissert. 74.

[220] Ennod., in Vit. S. Epiphani Ticinens. Episcop.



    Anno di CRISTO DCCXVI. Indizione XIV.

    GREGORIO II papa 2.
    TEODOSIO imperadore 1.
    LIUTPRANDO re 3.


Degno era l'imperadore _Artemio_, detto _Anastasio_, di lungamente tener
le redini dell'imperio romano, che sotto il suo saggio ed attivo governo
già sperava di rinvigorirsi e di risarcire in parte le perdite fatte. Ma
gli animi de' popoli per difetto dei passati Augusti aveano contratte
delle malattie, la principal delle quali era di abborrir la cura de'
medici. Avea preparata il buon imperadore una forte squadra di navi e di
armati, per inviarla contro de' Saraceni, e questa era giunta a Rodi;
quando per varii pretesti ammutinate quelle soldatesche, uccisero il
general dell'armata, e in vece di proseguire il cammino, se ne tornarono
a Costantinopoli. Trovato un certo _Teodosio_, esattor delle gabelle
pubbliche, benchè uomo inetto ai grandi affari, contuttochè egli
resistesse e fuggisse, pure il forzarono a prendere il titolo
d'imperadore, _Anastasio_ a questa nuova, dopo aver lasciata una buona
guardia alla città, volò a Nicea, e quivi si fortificò. Per sei mesi
durò l'assedio di Costantinopoli, seguendo ogni dì qualche baruffa fra i
difensori e i ribelli. Trovaronsi in fine dei traditori che introdussero
nella regal città quei scellerati, e diedero loro la comodità
d'infierire sopra gli abitanti con un sacco generale e coll'incendio
d'assaissime case. Costoro, ingrossati dai Goto-Greci restarono talmente
superiori, che Artemio Anastasio veggendo disperate le cose, trattò
d'accordo, con che gli fosse salvata la vita. Però deposto il manto
imperiale, elesse la veste monastica e fu relegato da Teodosio nuovo
Augusto a Salonichi. In tal maniera restò pacificamente imperadore esso
_Teodosio_, il quale, siccome buon cattolico, fece rimettere in pubblico
la pittura del concilio sesto generale, abolita dianzi dall'empio
Filippico; il che gli guadagnò qualche stima ed amore presso il popolo.
Circa questi tempi _Faroaldo II_ duca di Spoleti, per attestato di Paolo
Diacono[221], alla testa del suo esercito venne alla città di Classe,
tre miglia lungi da Ravenna, e non vi trovando difesa per l'improvvisata
del suo arrivo, se ne impadronì. Ne fece doglianze l'esarco _Scolastico_
al re _Liutprando_, ed egli disapprovando quell'occupazione, siccome
fatta sotto il mantello della pace, ordinò a Faroaldo di restituirla; e
così fu fatto. Il conte Bernardino di Campello nella sua storia di
Spoleti[222] fa di molte frange a quest'azione, con poche parole
raccontata da Paolo Diacono, volendo fra l'altre cose far credere che i
duchi di Spoleti fossero indipendenti dall'autorità dei re longobardi, e
che que' popoli non avessero alcun sopra di loro, fuorchè il proprio
duca. Con tal pretensione non si accorda già la storia di questi tempi.
Ne' medesimi giorni ancora venne a Roma per sua divozione _Teodone II_
duca della Baviera. Ma nell'ottobre di quest'anno fu afflitta essa città
di Roma da una terribil inondazione del fiume Tevere, accennata da
Anastasio[223]. Durò essa per sette giorni, ed era alta l'acqua nelle
piazze e contrade. Atterrò molte case, portò via infiniti alberi, ed
impedì la seminagione. Varie processioni e preghiere furono intimate dal
santo papa, e tornaron l'acque all'usato loro cammino.

NOTE:

[221] Paulus Diaconus, lib. 6, cap 44.

[222] Campelli, Istoria di Spoleti lib. 12.

[223] Anastas., in Gregor. II.



    Anno di CRISTO DCCXVII. Indizione XV.

    GREGORIO II papa 3.
    LEONE Isauro imperadore 1.
    LIUTPRANDO re 6.


Alle leggi longobardiche fu ancora in quest'anno fatta dal re Liutprando
un'altra giunta[224] _die kalend. martii anno regni nostri, Deo
propitio, V, indictione XV_, coll'intervento ed assenso dei primati del
popolo. Ivi egli è intitolato _excellentissimus rex gentis felicissimae,
catholicae, Deoque dilectae Langobardorum_. Godeva in fatti sotto quei
re un'invidiabil pace il loro popolo, ed era con vigore amministrata la
giustizia: al contrario dell'imperio romano in Oriente, sconvolto da
tante rivoluzioni, lacerato da tante parti dai Saraceni, e governato
bene spesso da imperadori o inetti, o eretici, o crudeli: dei quali
disordini entrava talvolta a parte anche il paese che restava sotto il
loro dominio in Italia. Succedette appunto in quest'anno, secondo la
testimonianza di Teofane[225] e di Niceforo[226], una nuova mutazion di
principe in Costantinopoli. Andavano alla peggio gli affari pubblici per
l'insufficienza di _Teodosio_ imperadore; e il peggio era che si sentiva
un formidabil preparamento dalla parte de' Saraceni e di _Solimano_ loro
califa ed imperadore, per venire all'assedio di quella imperial città.
Però cominciarono tanto i pubblici magistrati quanto gli uffiziali della
milizia ad esortar Teodosio, che volesse dimettere l'eccelsa sua carica,
e lasciar luogo in sì gran bisogno e pericolo del pubblico a chi avesse
più abilità e petto. Acconsentì egli da saggio, si ritirò, ed arrolatosi
col figliuolo nella milizia ecclesiastica, passò tranquillamente il
resto de' suoi giorni. Appresso fu eletto imperadore _Leone_, generale
allora dell'esercito di Oriente, nato in Isauria, e però conosciuto
sotto nome di _Leone Isauro_, uomo di gran coraggio. Salì egli sul trono
nel dì 23 di marzo, e poco stette a significar con sue lettere la
esaltazione sua al sommo pontefice _Gregorio II_, con una chiara
profession della fede cattolica: il che bastò perchè fosse ammessa la
immagine di lui in Roma, e il papa s'impegnasse tutto alla conservazione
del di lui stato in Italia. E forse fu in questi tempi che i Longobardi
del ducato beneventano sotto il duca _Romoaldo II_ con frode occuparono
il castello di Cuma, che era allora una buona fortezza dipendente dal
ducato di Napoli. Portatane a Roma la nuova, tutta la città ne restò
molto afflitta, ma specialmente papa Gregorio[227], a cui è molto
credibile che lo imperadore avesse raccomandata la difesa de' suoi
dominii in Italia. Procurò prima il vigilantissimo papa con preghiere
d'indurre i Longobardi a restituire il mal tolto; adoperò poscia le
minacce dell'ira di Dio; esibì loro un grosso regalo: tutto indarno; più
ostinati e superbi che mai i Longobardi tennero salda la preda, e n'era
molto in pena il buon pontefice. Cominciò dunque a scriver lettere a
_Giovanni_ duca di Napoli, e gl'insegnò la maniera di ricuperar
quell'importante luogo. In fatti esso duca con Teotimo suddiacono e
correttore, menando seco un buon corpo di truppe, di mezza notte diede
la scalata a quel castello, ed entrato dentro vi ammazzò trecento di
quei Longobardi, e cinquecento ne menò prigioni a Napoli. Per ricuperare
questo castello spese lo zelante papa settanta libbre d'oro. In
quest'anno medesimo si effettuò il già temuto assedio di Costantinopoli.
Con un immenso esercito di fanti e cavalli venne allo stretto[228]
Masalma, ossia Malsamano, generale de' Saraceni, e passato nella Tracia
nel dì 15 di agosto, diede principio a strignere quella imperial città.
Sopravvenne per mare nel dì primo di settembre lo stesso califa ossia
imperador de' Saraceni _Solimano_ con mille ed ottocento vele, e con
alcune navi di smisurata grandezza ed altezza, e dalla parte dello
stretto cominciò anch'egli ad infestar la città. Non ommise in tal
congiuntura diligenza alcuna l'imperador _Leone_ per la difesa; e il
popolo confidato specialmente nella protezion della beatissima Vergine
Madre di Dio della quale era divotissimo, sostenne sempre con animo
coraggioso ed allegro tutti gli assalti e le fatiche della guerra.
Meglio che mai si provò allora di quanta attività ed aiuto fosse il
fuoco greco. Portato questo con barche incendiarie, e gittato con sifoni
addosso ai legni nemici, non picciola parte ne distrusse. Arrivò poscia
il verno, che fu dei più orridi, perchè più di tre mesi stette coperta
la terra di ghiacci e nevi: il che cagionò una gran mortalità ne'
cavalli, cammelli ed altre bestie de' Saraceni. Terminò la sua vita in
quest'anno il califa _Solimano_, ed ebbe per successore _Umaro_ ossia
_Omaro_. Secondo la Cronica di Andrea Dandolo[229] essendo venuto a
morte _Paoluccio_ duca di Venezia, conoscendo il popolo che alla
pubblica concordia conferiva di molto d'avere un capo e duca, elessero
per suo successore _Marcello_, che fu il secondo fra i loro dogi.

NOTE:

[224] Leges Langobard. P. II Tom. I, Rer. Italic.

[225] Theoph., in Chronogr.

[226] Niceph., in Chron.

[227] Anastas., in Greg. II. Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 40.

[228] Theoph., in Chronogr.

[229] Andreas Dandulus, in Chron. Tom. 12, Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCXVIII. Indizione I.

    GREGORIO II papa 4.
    LEONE Isauro imperadore 2.
    LIUTPRANDO re 7.


Ebbe fine in quest'anno gloriosamente per i Greci l'assedio di
Costantinopoli, intrapreso nell'anno addietro dei Saraceni[230]. Nella
primavera comparve in aiuto di costoro una flotta di cinquecento navi,
ed altrettante minori barche che venivano dall'Egitto cariche di grani.
Un altro stuolo parimente di trecento sessanta legni, pieni d'armi e di
vettovaglie giunse dall'Africa. Ambedue per paura del fuoco greco si
ancorarono molto lungi dalla città. Ma Leone mandò a trovarle una man di
galeotte provvedute di quel fuoco micidiale, quando men sel pensavano; e
parte ne incenerì, parte ne prese, e ne ricavarono un ricco bottino i
suoi soldati. Mentre ancora un grosso corpo di quegl'infedeli devastava
la Tracia, fu bravamente disfatto dai Cristiani. Crescendo poi la fame
nel campo saracenico, furono costretti quei Barbari a mangiar le carni
di tutti quei cavalli, cammelli ed asini che morivano. Ebbero ancora una
fiera percossa dai Bulgari, dicendosi che per loro mano restarono uccise
ben ventidue migliaia di Saraceni. In somma tante furono le avversità,
che, per misericordia di Dio ed intercessione della santissima Vergine,
piombarono addosso a quell'infedele esercito, che nel dì 15 d'agosto
sciolsero l'assedio, e s'inviarono verso le loro contrade. Ma non vi
arrivarono. Insorta nel viaggio una terribil burrasca, disperse tutti
que' legni, e chi in una parte e chi in altra si affondarono, o andarono
a fracassarsi in diversi lidi e scogli, talchè solamente cinque di essi
poterono portare in Soria la nuova delle lor disgrazie e della mano
potente di Dio sopra d'essi. Abbiamo medesimamente da Teofane e da
Niceforo[231], che durante l'assedio dell'imperial città, _Sergio_
protospatario e duca di Sicilia, figurandosi inevitabile la rovina
dell'imperio in Oriente, e facendola credere già seguita ai soldati e al
popolo, proclamò imperadore un certo _Basilio_ figliuolo di Gregorio
Onomagulo, con farlo coronare. Subito che a Costantinopoli pervenne
l'avviso di questa ribellione, _Leone_ Augusto spedì alla volta di
Sicilia _Paolo_ suo archivista col titolo di patrizio e duca della
Sicilia sopra una nave veliera. Arrivò questi inaspettatamente a
Siracusa, e tal terrore pose in cuore del suddetto Sergio, che scappò in
Calabria, ricoverandosi sotto l'ale de' Longobardi quivi dominanti. Dopo
avere il nuovo duca spiegate all'esercito le commessioni cesaree, e il
buono stato della corte tutta in allegria per le vittorie ottenute sopra
i Saraceni, ottenne dai Longobardi il falso imperador Basilio ed alcuni
suoi complici, e fattane rigorosa giustizia, rimise la quiete e
l'ubbidienza in quelle contrade. Non si sa ben l'anno, in cui, per cura
del santo pontefice _Gregorio II_, risorse l'insigne monistero di Monte
Cassino, devastato dai Longobardi circa cento trentacinque anni prima.
Sappiamo bensì da Paolo Diacono[232] che ciò accadde sotto il suddetto
papa, e non già sotto Gregorio III, come scrisse Leone Ostiense.
Portatosi a Roma per sua divozione Petronace nobile bresciano, e ito a
baciar i piedi del pontefice, fu da lui consigliato di passare a Monte
Casino, per rimettere in piedi quel sacro luogo, celebre pel sepolcro di
S. Benedetto. Andò Petronace, e quivi trovati alcuni pochi anacoreti,
che il fecero lor capo, si diede a fabbricare la basilica e il
monistero, dove col tempo raunò una riguardevol congregazione di monaci,
da cui uscirono dipoi personaggi di gran santità e dottrina, e che servì
coll'esempio suo a fondar assaissimi altri monisteri, tutti professori
della regola di s. Benedetto. Parla in tal occasione Paolo Diacono anche
del monistero insigne di s. Vincenzo al Volturno, molto prima
fabbricato, e abitato a' tempi di esso Paolo da una grande adunanza di
monaci, la cui cronica è stata da me data alla luce[233]. Questi due
monisteri, siccome ancor quello di Farfa, erano in questi tempi i più
rinomati d'Italia. Nacque in quest'anno a Leone Augusto un figliuolo, a
cui fu posto il nome di _Costantino_, appellato di poi per soprannome
_Copronimo_, perchè immerso nudo nel sacro fonte, allorchè si volle
battezzarlo, come allora si usava, sporcò quell'acque coi suoi
escrementi. San Germano patriarca di Costantinopoli, che il battezzava,
predisse da ciò che questo principe nocerebbe col tempo ai cristiani e
alla Chiesa.

NOTE:

[230] Theoph., in Chronogr.

[231] Niceph., in Chron.

[232] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 40.

[233] Chron. Volturnense, P. II, tom. 1 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCXIX. Indizione II.

    GREGORIO II papa 5.
    LEONE Isauro imperadore 3.
    LIUTPRANDO re 8.


Era stato relegato, siccome accennai di sopra, a Salonichi _Artemio_,
detto _Anastasio_, imperador già deposto[234]. La memoria delle passate
grandezze non gli lasciava goder posa nel monistero, e questa in fine il
condusse a far delle novità. Sollecitato per lettere da Niceta Silonite
a ripigliar l'imperio, s'indirizzò a Terbellio principe dei Bulgari, che
l'accompagnò con un esercito, ed inoltre gli sborsò cinquemila libbre
d'oro per le spese della guerra. Con queste forze marciò alla volta di
Costantinopoli, ma non vi trovò quella corrispondenza ch'egli s'era
lusingato di avervi. Presero l'armi in favor di Leone i cittadini: il
che veduto dai Bulgari, pensarono meglio di far mercato della persona di
Artemio, consegnandolo vivo nelle mani d'esso Leone imperadore, da cui
ben regalati se ne tornarono contenti alle lor case. Non vi fu perdono
per la vita d'Artemio, di Niceta e di altri nobili suoi amici o
complici; e collo spoglio e confisco de' loro beni s'arricchì non poco
l'erario dell'imperadore. Circa questi tempi essendo stato eletto
patriarca di Aquileia _Sereno_, ottenne il re Liutprando dal papa il
pallio archiepiscopale per lui, giacchè, quantunque fosse cessato lo
scisma di quella Chiesa, i papi non aveano voluto concederlo a quei
patriarchi. Tal grazia fu a lui accordata con patto di non inquietare nè
usurpare l'altrui giurisdizione. Ma non passò gran tempo che Sereno
cominciò a voler raccorciare il piviale a _Donato_ patriarca di Grado.
Ne fece questi insieme col duca di Venezia, e coi vescovi dell'Istria
suoi suffraganei, doglianza a papa Gregorio, il quale perciò scrisse a
Sereno una lettera forte, incaricandogli di non istendere la sua
autorità oltre ai confini del regno longobardico, nel qual regno non
erano comprese nè Venezia coll'isole d'intorno, nè l'Istria. Un'altra
lettera fu scritta da esso papa a Donato patriarca di Grado, a Marcello
doge, e al popolo di Venezia e dell'Istria intorno a questo particolare.
Son rapportate queste lettere dal Dandolo[235], e le riferisce ancora il
cardinal Baronio[236], ma troppo tardi, e certamente fuor di sito. Il
Dandolo, da cui sono state conservate, parla dipoi di cose avvenute
sotto l'_anno quarto_ di Leone Isauro, e però sembra più convenevole il
farne qui menzione che altrove. Merita nondimeno attenzione quel che
saviamente ha osservato in questo proposito il padre Bernardo de
Rubeis[237], tenendo egli che poco dopo l'anno 716 il pontefice Gregorio
scrivesse quelle lettere.

NOTE:

[234] Teoph., in Chronogr.

[235] Dandulus, in Chronic., tom. 12 Rer. Ital.

[236] Baron., in Annal. Eccl. ad ann. 729.

[237] De Rubeis, Monument. Eccl. Aquilejens., cap. 36.



    Anno di CRISTO DCCXX. Indizione III.

    GREGORIO II papa 6.
    LEONE Isauro imperadore 4.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 1.
    LIUTPRANDO re 9.


Fece in quest'anno il re _Liutprando_ una giunta di quattro altre leggi
al corpo delle longobardiche[238]. Questa fu fatta _anno, Deo propitio,
regni mei octavo, die kalendarum martiarum, Indictione III, una cum
illustribus viris optimatibus meis Neustriae_ (credo io che vi manchi
_et Austriae_) _ex Tusciae partibus, vel universis nobilibus
Langobardis_. Se poi vogliamo stare ai conti di Camillo Pellegrini[239],
in quest'anno cessò di vivere _Romoaldo II_ duca di Benevento, dopo aver
governato per ventisei anni quel ducato. Secondo la credenza di esso
Pellegrini, fondata sopra una storia del monistero di s. Sofia, gli
succedette _Adelao_, o _Audelao_, che per due anni fu duca, e dopo di
lui nell'anno 722 fu eletto duca di Benevento _Gregorio_ nipote del re
Liutprando. Ma questi conti non s'accordano con quei di Paolo Diacono,
siccome vedremo all'anno 731, dove mi riserbo di parlarne. Abbiamo poi
da Teofane[240] che nel sacro giorno di Pasqua del presente anno _Leone
Isauro_ imperadore prese per collega nell'imperio, e fece coronare da
san _Germano_, patriarca di Costantinopoli, il suo picciolo figlio
_Costantino Copronimo_, gli anni del cui imperio si cominciarono a
contare in questo anno. In esso anno parimente diede fine alla sua vita
_Chilperico II_ re di Francia, e in suo luogo fu sostituito _Teoderico_,
appellato _Calense_, perchè nutrito nel monistero di _Chelles_, quattro
leghe lungi da Parigi. Ma in questi tempi il governo della maggior parte
della monarchia francese era in mano di _Carlo Martello_, acquistato od
usurpato a forza di battaglie e di vittorie. Solamente gareggiava con
lui _Eude_, duca dell'Aquitania, che in quest'anno stimò bene di fare
pace con esso Carlo, perchè i Saraceni padroni della Spagna,
minacciavano la guerra alla Linguadoca e alla stessa Aquitania, cioè
alla moderna Ghienna e Guascogna.

NOTE:

[238] Leges Langobard., P. II, tom. 1 Rer. Italic.

[239] Camil. Peregrinus, tom. 2 Rer. Italic.

[240] Teoph., in Chronogr.



    Anno di CRISTO DCCXXI. Indizione IV.

    GREGORIO II papa 7.
    LEONE Isauro imperadore 5.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 2.
    LIUTPRANDO re 10.


Andavano sempre più scorgendo i Longobardi, che al corpo delle loro
leggi mancavano molte provvisioni per i contratti, per le successioni, e
per moltissimi altri casi dell'umano commercio; nè si sentivano essi
voglia di assoggettarsi alle leggi imperiali, colle quali nondimeno
lasciavano che si regolasse il popolo di nazione romana, cioè italiana,
sottoposto al loro dominio. Perciò undici nuove leggi aggiunse in
quest'anno il re _Liutprando_ alle precedenti[241]. Dura ancora in molti
luoghi l'uso d'alcune di quelle leggi rinnovate negli statuti della
città, come, per esempio, che ai contratti delle donne debbano
intervenire i loro parenti col giudice. Secondo le leggi romane, non era
permesso ai servi, o vogliam dire schiavi, persone vili, lo sposar donne
libere di nascita, perchè la libertà una volta era una spezie di
nobilità. Ora di questa nobilità faceano gran conto i Longobardi ed era
loro permesso dalla legge di far vendetta di una lor parente libera, e
di un servo che l'avesse presa per moglie. Che se dentro lo spazio di un
anno questa vendetta non era seguita, tanto il servo che la donna
divenivano servi del re e del suo fisco. Provvide ancora il medesimo re
Liutprando alle negligenze de' giudici nella spedizion delle cause con
altri utili regolamenti per l'amministrazion della giustizia e per
l'indennità de' popoli. Furono pubblicate queste leggi _regni nostri
anno, Deo protegente, nono, die kalendarum martiarum, Indictione IV_, e
per conseguente in quest'anno. Nel quale fu celebrato in Roma dal santo
pontefice _Gregorio II_ un concilio, in cui furono, sotto pena di
scomunica proibiti i matrimonii con persone consacrate a Dio, o che
doveano osservar castità, dacchè i mariti di lor consenso aveano presi
gli ordini del presbiterato o diaconato. Aveano i Visigoti fin qui
tenuta in lor potere la Gallia Narbonense, ossia la Linguadoca. I
Saraceni, divenuti già padroni della maggior parte della Spagna,
ansavano dietro anche a questo boccone, considerandolo come pertinenza
del regno spagnuolo; ed appunto in quest'anno riuscì a _Zama_ generale
del medesimi di conquistar quel paese, e di occupar Narbona[242], che
n'era la capitale. Non si contentarono di questo, assediarono anche la
città di Tolosa; ma _Eude_, valoroso duca d'Aquitania, con una numerosa
armata di Franchi fu a trovarli, venne con loro alle mani, e ne riportò
una segnalata vittoria con istrage memorabile di quegli infedeli. Non si
sa quasi intendere come la razza de' Saraceni, già confinati
nell'Arabia, crescesse in tanto numero da occupare e tenere tutta la
Persia, la Soria, l'Egitto le coste dell'Africa e tante altre provincie;
e come con tante rotte ricevute sotto Costantinopoli ed altrove, pure
sempre più religiosa minacciasse tutto il resto del romano imperio. Ma è
da credere che con loro e sotto di loro militassero i popoli soggiogati,
massimamente sapendosi che molti d'essi o per amore o per forza avevano
abbracciato il maomettismo.

NOTE:

[241] Leges Langobard., P. II, tom. 1 Rer. Italic.

[242] Chron. Moyssiacense, et alii Anual.



    Anno di CRISTO DCCXXII. Indizione V.

    GREGORIO II papa 8.
    LEONE Isauro imperadore 6.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 3.
    LIUTPRANDO re 11.


In quest'anno ancora il re _Liutprando_ fece un accrescimento di
ventiquattro nuove leggi al corpo delle longobardiche[243]. Chiaramente
si conosce che il pontefice doveva aver comunicati ad esso re i decreti
fatti nel concilio romano dell'anno antecedente intorno ai matrimonii
illeciti; perciocchè nella prima di esse è vietato alle fanciulle, o
donne che han preso l'abito monastico o religioso, il tornare al secolo
e maritarsi; e, quel che potrebbe parere strano, ancorchè non fossero
state consacrate dal sacerdote; il che noi appelliamo far la
professione. Può essere che nel prendere l'abito monastico seguisse
allora qualche voto di castità, altrimenti ai dì nostri sembrerebbe dura
una tal legge. Sono quivi intimate varie pene contra le donne suddette
mancanti in questo, e contro chi le avesse sposate, e ai mundoaldi o
tutori di esse donne, che avessero consentito a tali nozze. Leggi
parimente furono fatte contro chi sposasse delle parenti, o rapisse le
altrui donne. Fu anche provveduto ai servi fuggitivi, affinchè fossero
presi, con decretar pene ai ministri della giustizia negligenti a farli
prendere, ed avvisarne i padroni. Durò presso i Longobardi, come ancora
presso l'altre nazioni di questi tempi, l'uso de' servi, che noi ora
chiamiamo schiavi, tal quale era stato in addietro presso i Greci e
Romani. Se ne servivano essi per far lavorare le loro terre, e per i
servigii delle lor case e negozi. Restavano sotto il loro dominio tutti
i figliuoli e discendenti da essi servi, e a misura poi del buon
servigio prestato da essi a' padroni, davano questi ad essi la libertà,
e specialmente ciò si praticava verso i meritevoli, allorchè i padroni
discreti e pii venivano a morte. Certo era di un gran comodo ed utile
l'aver sotto il suo comando gente sì obbligata, che non poteva staccarsi
dal servigio sotto rigorosissime pene, e il far suo tutto il guadagno
de' servi, con dar loro solamente il vitto e vestito, e lasciare un
ragionevol peculio. Ma un grande imbroglio era il dover correr dietro a
costoro, se maltrattati dai padroni scappavano, e il dover rendere conto
alla giustizia dei loro eccessi, e pagar per loro se commettevano dei
misfatti. Se crediamo ad Ermanno Contratto[244], in quest'anno
succedette la traslazione del sacro corpo di s. Agostino, fatta dalla
Sardegna a Pavia per cura del re Liutprando. Sigeberto[245] la mette
all'anno 721; Mariano Scoto[246] all'anno 724; il cardinal Baronio[247]
all'anno 725. La verità si è, che l'anno è incerto ma certissima la
traslazione. Ne parla anche Paolo Diacono[248], ne scrive parimente
Beda[249], che fioriva in questi medesimi tempi. Avevano i Saraceni
occupata la Sardegna al romano imperio, senza apparir ben chiaro se la
possedessero gran tempo dipoi. Mettevano a sacco tutto il paese,
spogliavano e sporcavano tutte le chiese dei cristiani. In quell'isola
era stato trasportato il corpo del suddetto celebratissimo santo vescovo
e dottore Agostino. Però venuta la nuova a Pavia di queste calamità del
Cristianesimo, il piissimo re Liutprando inviò gente colà con ordine di
ricuperare a forza di regali da quegl'infedeli un sì prezioso deposito.
Così fu fatto, e portate le sacre ossa a Pavia, furono coll'onore dovuto
a sì gran santo collocate nella basilica di s. Pietro in _Coelo aureo_,
dove tuttavia riposano. Quella basilica non dice Paolo Diacono[250] che
fosse edificata da esso Liutprando. Scrive solamente ch'egli fabbricò il
_Monistero_ del beato Pietro posto fuori di Pavia, ed appellato _Coelum
aureum_. Era stato d'avviso il padre, Mabillone[251], fondato in un
diploma del re Liutprando che si conserva in Pavia, che questa
traslazione seguisse avanti il giorno _IV non. aprilis, regni Liutprandi
anno primo, Indictione X_, cioè nell'anno 712, perchè il diploma dato in
quel giorno parla del corpo di s. Agostino già introdotto in quella
basilica. Ma dipoi avvedutosi che non poteva sussistere una tale
asserzione, si ritrattò negli Annali Benedettini[252], ed ebbero ben
ragione il Tillemont e il padre Pagi di sospettare della legittimità di
quel diploma. Aggiungo io che neppur nell'aprile dell'anno 712
Liutprando era stato dichiarato re. Fu poi trovato nell'anno 1695, nello
scuruolo di essa basilica il corpo d'un Santo, e dopo molte dispute
deciso che quello fosse il sacro corpo dell'insigne dottor della Chiesa
Agostino. Il che se sussista, può vedersi in una mia dissertazione
stampata che ha per titolo: _Motivi di credere tuttavia ascoso, e non
discoperto in Pavia il sacro corpo di s. Agostino_. Neppur sussiste una
lettera attribuita a Pietro Oldrado arcivescovo di Milano, quasi scritta
da lui a Carlo Magno imperadore, colla relazion della traslazione
suddetta. I padri Papebrochio[253] e Pagi[254] ne han chiaramente
dimostrata la finzione. Oltre all'altre ragioni, basta osservare che
questo arcivescovo intitola sè stesso della casa Oldrada. Neppure oggidì
sogliono i vescovi sottoscriversi col cognome; e allora poi neppur
v'erano i cognomi distintivi delle case.

NOTE:

[243] Leges Langobard., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[244] Hermannus Contractus, in Chron.

[245] Sigebertus, in Chron.

[246] Marian. Scotus, in Chron.

[247] Baron., Annal. Eccl.

[248] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 48.

[249] Beda, lib. 6, de Sex Ætat.

[250] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 58.

[251] Mabill., Mus. Ital. pag. 221.

[252] Mabill., Annal. Benedict., lib. 19, cap. 78.

[253] Papebrochius, Act. Sanctor. Maj. tom. 7.

[254] Pagius, ad Annal. Baron.



    Anno di CRISTO DCCXXIII. Indizione VI.

    GREGORIO II papa 9.
    LEONE Isauro imperadore 7.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 4.
    LIUTPRANDO re 12.


Se Paolo Diacono seguitasse nella sua storia un ordine esatto di
cronologia, converrebbe mettere la morte di _Sereno_ patriarca
d'Aquileia circa l'anno 717, perchè da lui[255] riferita dopo l'andata a
Roma di _Teodone II_ duca di Baviera, la quale si crede succeduta
nell'anno precedente 716. Ma egli narra appresso l'entrata de' Saraceni
in Ispagna, la qual pure abbiam veduto che accadde nell'anno 711.
Tuttavia ci manca l'anno preciso della morte di quel patriarca. Sappiamo
ben di certo che dopo di lui fu eletto patriarca _Callisto_, uomo di
vaglia, che era allora arcidiacono della chiesa di Trivigi. Il re
Liutprando s'ingegnò per far cadere in lui l'elezione. Ai tempi di
questo patriarca, _Pemmone_, da noi veduto di sopra all'anno 706 duca
del Friuli, continuava in quel governo, col merito di avere allevati co'
suoi figliuoli tutti ancora i figliuoli de' nobili che erano periti a'
tempi del duca Ferdulfo nella battaglia contro degli Schiavoni. Ora
avvenne che un'immensa moltitudine di quei Barbari tornò ad infestare il
Friuli, e giunse fino ad un luogo appellato Lauriana. Pemmone con que'
giovani tutti ben addestrati nell'armi per tre volte diede loro la
caccia, e ne fece un gran macello, senza che vi restasse morto dei suoi,
se non un Sigualdo, uomo già attempato. Costui nella battaglia suddetta
di Ferdulfo avea perduto due suoi figliuoli, e nelle due prime zuffe del
duca Pemmone largamente se n'era vendicato colla morte di molti
Schiavoni. Quantunque poi esso duca gli vietasse di entrare nel terzo
conflitto, perchè forse il vedeva troppo arrischiato, pure non potè
Sigualdo contenersi dall'andarvi, con dire che avea bastantemente
vendicata la morte de' suoi figliuoli, e che però se la sua fosse
arrivata, di buon volto la riceverebbe. In fatti vi perì egli solo. Ma
Pemmone, uom saggio, volendo risparmiare il sangue dei suoi, trattò di
pace in quello stesso luogo con gli Schiavoni, i quali dopo aver avuta
sì buona lezione, da lì innanzi cominciarono a portar più rispetto ai
Furlani, e ad aver paura delle lor armi. Fu ordinato da papa _Gregorio
II_ in questo anno vescovo della Germania l'insigne s. _Bonifazio_,
apostolo di quelle contrade, che nell'Assia, nella Turingia, nella
Sassonia, e in altre parti che prima professavano il paganesimo, piantò
la santissima fede di Cristo. Circa questi tempi _san Corbiniano_
vescovo di Frisinga, come s'ha dalla sua vita scritta da Aribone[256],
venne a Roma. In passando per Trento si trovò _Ursingo_, ch'era ivi poco
fa stato posto per conte, cioè per governatore. Arrivò a Pavia, dove da
Liutprando re piissimo fu per sette giorni trattenuto con singolar
venerazione, regalato e scortato sino ai confini del regno. Lo stesso
trattamento ricevè egli nel suo ritorno verso la Baviera. Da essa vita
apparisce che il dominio dei re longobardi arrivava allora fino al
castello, ossia alla città di _Magia_ nella Germania. Sarebbe da vedere
se fosse situato questo luogo nel Tirolo.

NOTE:

[255] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 44.

[256] Mabil. tom. 2, Saecul. Benedict., pag. 606.



    Anno di CRISTO DCCXXIV. Indizione VII.

    GREGORIO II papa 10.
    LEONE Isauro imperadore 8.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 5.
    LIUTPRANDO re 13.


Intento giornalmente il re _Liutprando_ a ben regolare il regno
longobardico, e a provvederlo di quelle leggi che esigeva il bisogno de'
popoli, o che sembravano più utili al loro governo, pubblicò in
quest'anno il sesto libro delle sue leggi[257]. _Anno regni mei, Christo
protegente, XII, die kalendarum martiarum, Indictione VII_: nel qual
tempo doveva essere in uso che si tenesse la dieta del regno, vedendosi
le varie pubblicazioni delle leggi fatte nel principio di marzo, o in
quel torno, _una cum judicibus et reliquis Langobardis fidelibus
nostris_. Cento e due son le leggi pubblicate da esso re in quest'anno
intorno a diversi suggetti, fra' quali è da osservare che la nazion
longobarda avea bensì abiurato l'arianismo ed abbracciata la religion
cattolica, ma non mancavano persone che conservavano alcuna delle
antiche superstizioni del paganesimo. Ricorrevano agl'indovini, agli
aruspici, ed aveano qualche albero, appellato da loro santo o santivo,
dove faceano de' sagrifizii, e delle fontane ch'erano adorate da loro.
Liutprando re cattolico sotto rigorose pene proibì cotali superstizioni,
bandì tutti gl'indovini ed incantatori, ed incaricò gli uffiziali della
giustizia di star vigilanti per l'estirpazione di somiglianti abusi.
Apparisce inoltre da esse leggi che i notai scrivevano i contratti
secondo la legge romana per chi la professava, oppure secondo la
longobardica, seguitata dagli uomini di quella nazione. Proibisce egli
inoltre alle vedove il farsi monache prima che sia passato un anno dopo
la morte del marito, quando non ne ottengano licenza dal re; perchè,
dice egli il dolore in casi tali fa prendere delle risoluzioni, alle
quali succede poi il pentimento. E nella legge LXV questo saggio
rechiaramente protesta di conoscere bensì, ma di non approvare la
sciocchezza dei duelli, perchè con essi temerariamente si vorrebbe
forzar Dio a dichiarar la verità delle cose a capriccio degli uomini;
contuttociò protesta di permettere e tollerar questo abuso, perchè non
osa di vietarlo, essendone sì radicata e forte la consuetudine presso
de' Longobardi, come parimente era presso dei Franchi e degli altri
popoli settentrionali. Dal catalogo dei duchi di Spoleti, che si legge
sul principio della Cronica di Farfa[258] da me data alla luce,
impariamo che nell'anno presente fu creato duca di Spoleti _Trasmondo_.
Egli era figliuolo di _Faroaldo II_ duca. Impaziente di succedere al
padre nel comando, non volle aspettar la sua morte, ma, per
testimonianza di Paolo Diacono[259], si ribellò contro di lui, e
l'obbligò a deporre il governo e a prendere l'abito clericale.
Bernardino dei conti di Campello[260] lascia qui la briglia alla sua
immaginazione e penna, per dipingerci i motivi e la maniera di questa
rivoluzione; ma il vero è, non sapere noi altro, se non quel pochissimo
che il suddetto Paolo lasciò scritto intorno a questo affare. Per altro
si può credere che Faroaldo II fondasse la badia di san Pietro di
Ferentillo, divenuta poi celebre luogo di divozione; e che egli,
ritiratosi colà, vi passasse il resto di sua vita. Questo duca
_Trasmondo_, per quanto si ha dalla Cronica suddetta di Farfa, donò a
quell'insigne monistero, mentre v'era abbate Lucerio, la chiesa di s.
Getulio, dove si venerava il corpo di esso santo, e delle terre nel
fondo Germaniciano. Verisimilmente cotal donazione, siccome fatta nel
mese di maggio _dell'Indizione VII_, dovrebbe appartenere all'anno
presente.

NOTE:

[257] Leges Langobard., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[258] Chron. Farfense, Part. II, tom. 2 Rer. Italic.

[259] Paulus Diacon., lib. 6, cap. 44.

[260] Campell., Storia di Spoleti, lib. 12 e 13.



    Anno di CRISTO DCCXXV. Indizione VIII.

    GREGORIO II papa 11.
    LEONE Isauro imperadore 9.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 6.
    LIUTPRANDO re 14.


Divenuti già padroni della Linguadoca i Saraceni, tentarono nel presente
anno di passare il Rodano. Ma _Eude_ insigne duca d'Aquitania coll'oste
generale de' Franzesi andò ad assalirli, e ne riportò un'insigne
vittoria, accennata da Anastasio bibliotecario[261] e da Paolo
Diacono[262]. _Carlo Martello_, altro eroe della nazion franca, in
questi tempi ostilmente entrò nella Baviera; ne soggiogò e saccheggiò
una parte, cioè la spettante a _Grimoaldo_ duca; seco condusse
_Piltrude_ concubina famosa d'esso Grimoaldo, con _Sonichilde_ nipote
d'essa Piltrude ossia Biltrude. Essendogli morta _Rotrude_ sua moglie,
madre di Pippino e di Carlomano, egli sposò la predetta Sonichilde. Ma
Piltrude dopo essere stata alcun tempo in sua grazia, per relazion di
Aribone nella vita di s. Corbiniano[263], fu costretta a ricoverarsi con
un asinello in Italia, dove miseramente terminò la sua vita. Ella era
stata persecutrice d'esso s. _Corbiniano_ vescovo di Frisinga, perchè il
trovò contrario alla disonesta sua vita. Scrive il padre Mabillone[264],
che il re _Liutprando_ per l'amicizia da lui sempre conservata coi re
franchi, prese l'armi anch'egli contra della Baviera, ma non cita onde
s'abbia tratta questa notizia. Senza buone prove non si dee credere
ch'egli rendesse sì brutta ricompensa al popolo della Baviera, dal cui
braccio egli riconosceva la corona del regno longobardico, e fors'anche
era di quella nazione. In quest'anno parimenti abbiamo dalle memorie
dell'archivio farfense[265], che _Trasmondo_ duca di Spoleti fece una
donazione a quel nobilissimo monistero _mense januario, Indictione
octava, sub Rimone Castaldione_. Nel registro d'esso archivio
medesimamente si legge una vendita di olivi fatta a _Tommaso_ abbate
_temporibus Transmundi ducis Langobardorum, et Sindolfi Castaldionis
civitatis Reatinae_: dal che si conosce che la città di Rieti era
sottoposta ai duchi di Spoleti. Ma non so io ben accordar gli anni
d'esso Tommaso abbate con quei del duca Trasmondo. Abbiamo poi da Andrea
Dandolo[266], che essendo mancato di vita _Donato_ patriarca di Grado,
_Pietro_ vescovo passò a quella Chiesa. Ma queste trasmigrazioni da una
chiesa all'altra, non essendo secondo la disciplina di que' tempi sì
tollerate ed approvate, come oggidì, Gregorio II papa zelantissimo il
dichiarò decaduto dall'una e dall'altra chiesa. Tanto nondimeno valsero
le preghiere del clero e popolo di Venezia, ch'egli fu rimesso nella sua
prima sedia. E perciocchè si sapeva, o vi doveva essere sospetto ch'esso
Pietro per vie simoniache sì fosse intruso nel patriarcato suddetto, il
papa avvertì i Veneziani di non eleggere pastori, se non nelle forme
approvate da Dio e dalla Chiesa. Dicesi data la lettera pontificia
nell'_anno IX di Leone_ Isauro imperadore; e però nel presente anno.
Succedette dunque nella cattedra di Grado _Antonio_ di nazion padovano,
dianzi abbate del monistero della Trinità di Brondolo, dell'ordine di s.
Benedetto, personaggio sommamente cattolico e dabbene.

NOTE:

[261] Anastas., in Gregor. II.

[262] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 46.

[263] Mabill., Saecul. Benedict. tom. II.

[264] Idem, Annal. Benedictin. lib. 20, cap. 53.

[265] Antiquit. Italic. Dissert. LXVII.

[266] Dandul., in Chronic., tom. 12 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCXXVI. Indiz. IX.

    GREGORIO II papa 12.
    LEONE Isauro imperad. 10.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 7.
    LIUTPRANDO re 15.


Cominciò in quest'anno _Leone Isauro_ una tragedia che sconvolse non
poco la Chiesa di Dio, e pose i fondamenti per far perdere l'Italia
agl'imperadori greci. Per attestato di Teofane[267], di Niceforo[268] e
d'altri storici, fra le isole di Tera, o Terasia, per alcuni giorni il
mare bollì furiosamente, uscendo da un vulcano sottomarino un fumo
infocato ed un'immensa moltitudine di pomici che si sparsero per tutta
l'Asia Minore, per Lesbo e per le coste della Macedonia, con essere nata
in quel mare un'isola, che si andò ad unire a quella di Jera. Anche a'
dì nostri, cioè nell'anno 1707, una somigliante isola sorse dal mare
poco lungi da quella di Santerine: sopra il quale avvenimento abbiamo le
osservazioni del celebre filosofo e cavaliere Antonio Vallisnieri. Per
questo naturale accidente fu grande lo spavento de' popoli anche a'
tempi di Leone Isauro, e un perfido rinegato per nome Beser, che aveva
abbracciata la superstizione degli Arabi, e s'era poi introdotto nella
corte imperiale, se non prima, certo di questa congiuntura seppe ben
prevalersi appresso l'imperadore per fargli credere irato Dio contro de'
cristiani, a cagion delle immagini che essi tenevano e veneravano ne'
sacri templi. Abbiamo dei riscontri che veramente si fossero introdotti
degli abusi nell'uso e culto delle sacre immagini, come anche si
osservava ne' tempi addietro fra i Russiani, ossia fra i Moscoviti,
uniti alla Chiesa greca. Ma questi tali abusi non fecero, nè fanno, che
per cagion d'essi s'abbiano ad abolir le stesse immagini, perciocchè,
siccome han dimostrato uomini di gran sapere, l'uso d'esse immagini e il
culto ben regolato di quelle, non solamente è lecito, ma riesce anche
utile alla pietà della plebe cristiana e cattolica. Ora Leone Augusto
infatuato della gran penetrazione della sua mente, e sedotto dal maligno
consigliere, con usurpare i diritti del sacerdozio, pubblicò un editto,
contenente l'ordine che fossero vietate da lì innanzi, e si togliessero
tutte le sacre immagini per le terre all'imperio romano suggette,
chiamando idolatria l'adorarle, ossia il venerarle. Tale fu il principio
della eresia degl'iconoclasti. Gran commozione si suscitò per questo
sconsigliato ed iniquo divieto fra i popoli suoi sudditi, detestando la
maggior parte d'essi come eretico e di sentimenti maomettani
l'imperadore: e tanto più perchè si seppe ch'egli aveva in abbominazione
le sacre reliquie e negava l'intercession de' Santi appresso Dio, cioè
impugnava dogmi stabiliti nella Chiesa cattolica, con impugnar egli
stesso la professione della fede, da lui fatta nella sua assunzione al
trono imperiale, e senza voler sopra ciò ascoltare il parer de' vescovi,
eletti da Dio per custodi della dottrina spettante alla fede. Passarono
perciò gli abitanti della Grecia e delle isole Cicladi ad un estremo con
ribellarsi all'imperador Leone, e proclamar imperadore un certo _Cosma_.
Poi messa insieme una flotta di legni sottili, ostilmente andarono sotto
Costantinopoli, e diedero battaglia a quella città, ma restò disfatta
dal fuoco greco la loro armata, e l'efimero Augusto, venuto in mano di
Leone, pagò colla testa il suo reato: con che maggiormente crebbe lo
orgoglio di esso imperadore e de' suoi seguaci per sostener l'empio
editto. Benchè poi ci manchino le lettere da lui scritte a _Gregorio II_
papa intorno alla abolizion delle sacre immagini, e le risposte a lui
date dal pontefice, pure da quanto s'andrà vedendo, chiaramente si
comprende ch'egli inviò a Roma lo editto sopraddetto, e che il santo
pontefice non solamente vi si oppose, ma dovette anche risentitamente
scriverne ad esso Leone Augusto, per rimuoverlo da questo sacrilego
disegno. Ne vedremo fra poco gli effetti. Per quanto s'ha da Andrea
Dandolo[269], succedette in questo anno la morte di _Marcello_ duca di
Venezia, e in luogo suo fu sostituito _Orso_, uno de' nobili della città
di Eraclea, e personaggio di gran prudenza e valore.

NOTE:

[267] Theoph., in Chronogr.

[268] Niceph., in Chron.

[269] Andreas Dandulus, tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCXXVII. Indiz. X.

    GREGORIO II papa 13.
    LEONE Isauro imperad. 11.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 8.
    LIUTPRANDO re 16.


Abbenchè in questi tempi per cagione della nascente eresia
degl'iconoclasti accadessero molte novità in Italia, pure non abbiamo un
filo sicuro per distinguere i tempi, e quasi neppure disbrogliare quegli
avvenimenti, de' quali i soli Anastasio bibliotecario e Paolo Diacono ci
han conservata una confusa memoria. Li riferirò io con quell'ordine che
mi parrà più verisimile. Allorchè l'imperador _Leone_ ebbe scorto[270]
quanto il romano pontefice fosse alieno dal concorrere ne' suoi perversi
sentimenti, tornò a scrivergli più imperiosamente, facendogli sapere che
ubbidisse, se gli premeva d'aver la sua grazia, altrimenti ch'egli
finirebbe d'esser papa. Allora l'intrepido pontefice _Gregorio_, ben
intendendo i pericoli della Chiesa e i propri, saggiamente si accinse
alla difesa. Con sue lettere avvisò i popoli italiani dell'insulto che
voleva fare il malvagio imperadore alla religione; cominciò a star cauto
per la propria persona; e molto più è da credere che con più vigore che
mai rispondesse a Leone. Il cardinale Baronio[271] rapporta due sue
lettere, come scritte da esso papa nell'anno precedente 726 al medesimo
imperadore. Pretende all'incontro il padre Pagi[272] che queste
appartengano all'anno 730. Forse niun di loro ha colto nel segno.
Sappiamo ben di certo che l'infuriato imperadore si diede a studiar
tutte le vie per levar dal mondo il santo pontefice. Pare che Anastasio
metta come avvenuti quegli empii suoi tentativi contro la vita del papa
prima che spuntasse la persecuzione delle sacre immagini, adducendo come
commosso a sdegno l'imperadore, perchè il pontefice Gregorio s'era
opposto all'imposizione d'un _censo_, ossia tributo, o capitazione,
ch'esso Augusto voleva esigere dai popoli d'Italia. Mette ancora
l'assedio di Ravenna quasi fatto dal re _Liutprando_ prima
dell'attentato contro esse immagini. A me sembra più verisimile che il
primo anello di questa catena sia stato l'empio editto di Leone Isauro
per cui cadde dalla sua grazia papa Gregorio, e s'imbrogliarono le cose
in Italia. Teofane[273] scrive, che dopo aver esso pontefice con sua
decretale esortato indarno l'imperadore perverso a non voler mutare i
riti stabiliti dai santi Padri intorno all'immagini, vietò che se gli
pagassero da lì innanzi i tributi. Può essere che Teofane s'ingannasse
in credere negati a Leone anche i tributi soliti, quando l'opposizione
probabilmente fu di un censo nuovo, ossia d'una capitazione, che
nuovamente si voleva introdurre; ma forse gli è da prestar fede allorchè
dice fatta cotale opposizione. Pare eziandio molto credibile che il re
Liutprando si prevalesse della buona occasione di profittar sopra gli
Stati imperiali, dappoichè vide alterati forte gli animi degli Italiani
contra del prevaricatore Augusto, il quale all'eresia aveva aggiunta la
persecuzione del papa. In fatti abbiamo da Anastasio[274] che per ordine
suo fu cospirato in Roma contro la vita del santo pontefice da _Basilio_
duca, da Giordano cartulario, e da Giovanni soprannominato Lurione, con
participazione e consenso di _Marino_ imperiale spatario, mandato
dall'imperadore col titolo di duca, ossia governatore di Roma. Volle
Iddio che non seppero mai trovare apertura di eseguir l'empio concerto,
e intanto Marino infermatosi passò al mondo di là. Arrivò dipoi _Paolo_
patrizio inviato in Italia _esarco_, e coll'intelligenza e colle spalle
di lui seguitarono i congiurati la lor trama contro del buon pontefice.
Ma venuto alla luce il loro disegno, commosso il popolo romano trucidò
Giovanni e Lurione. Basilio fu costretto a farsi monaco, e ristretto in
un monistero, quivi terminò i suoi giorni. Non istette per questo
l'esarco Paolo di proseguire nel suo sacrilego pensiero di torre la vita
al pontefice, e di sostituirne un altro a suo piacimento, per avere
libero il campo a spogliar le chiese di Roma, siccome avea fatto in
varii altri luoghi. Venne anche da Costantinopoli un altro spatario con
ordine di deporre papa Gregorio. Lo stesso esarco a questo fine raunò
quanti soldati potè in Ravenna, e gl'inviò alla volta di Roma, sperando
che con questo rinforzo i congiurati verrebbono a capo della loro iniqua
intenzione. Ma ciò risaputo, tanto il popolo romano, quanto i Longobardi
del ducato di Spoleti e della Toscana si misero in armi, e fecero buone
guardie al ponte Salario e ai confini del ducato romano, affinchè i mal
intenzionati non potessero passare. Il conte Campello nella Storia di
Spoleti, scrivendo che seguì in tal congiuntura una battaglia fra gli
imperiali e Trasmondo duca di Spoleti, colla vittoria in favore
dell'ultimo, di sua testa v'ha aggiunto questo abbellimento, non men che
l'orazione fatta da esso duca alle sue milizie. Probabilmente nell'anno
presente accaddero tutti questi movimenti e sconcerti. Dalla vita di s.
Giovanni Damasceno, scritta da Giovanni patriarca di Gerusalemme[275],
ricaviamo ch'esso Damasceno abitante in Damasco nel dominio de' Saraceni
e ministro del loro califfa, appena intese lo editto di Leone Isauro,
che prese la penna in difesa delle sacre immagini. Leggonsi le di lui
orazioni su questo argomento. Da essi Saraceni fu appunto nell'anno
presente assediata la città di Nicea, metropoli della Bitinia, ma Iddio
miracolosamente la preservò dalle loro unghie.

NOTE:

[270] Anastas., in Gregor. II.

[271] Anastas., in Gregor. II.

[272] Pagius, ad Annal. Baron.

[273] Theoph., in Chronogr.

[274] Anastas., in Gregor. II.

[275] Johannis Damasceni Oper. tom. 1.



    Anno di CRISTO DCCXXVIII. Indiz. XI.

    GREGORIO II papa 14.
    LEONE Isauro imperad. 12.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 9.
    LIUTPRANDO re 17.


Scoprivasi ogni dì più empiamente animato l'imperador _Leone_ non solo
contro le sacre immagini, ma eziandio contro il santo pontefice
_Gregorio_ difensore delle medesime. Tentarono i suoi ministri con
replicati ordini imperiali[276] di muovere contro di lui i popoli della
Pentapoli, cioè di cinque città, che son credute Rimini, Pesaro, Fano,
Umana ed Ancona, tuttavia in que' tempi soggette ai Greci, e parimente i
Veneziani. Ma que' popoli risolutamente negarono di consentire a sì nera
iniquità, anzi protestarono d'essere pronti a dar la vita per la difesa
del medesimo pontefice. Nè ciò loro bastando, scomunicarono l'esarco
_Paolo_, e chiunque teneva con lui, giugnendo a non volere i governatori
da lui destinati per le città, e ad eleggerne essi quelli che fossero
uniti alla Chiesa romana. Furono anche vicini que' popoli d'Italia
ch'erano sudditi dell'imperio, a creare un nuovo imperadore, con disegno
di condurlo a Costantinopoli, e ne tennero varie consulte. Ma il saggio
e piissimo papa disturbò questa loro risoluzione, sperando sempre che
l'imperadore s'avesse a ravvedere e a rimettersi nel buon cammino.
Accadde poscia che anche _Esilarato_ duca di Napoli, accecato dal
desiderio di farsi del merito coll'imperadore, sedusse non pochi di
quella parte della Campania, che tuttavia ubbidivano all'imperio, e
venne insieme con _Adriano_ suo figliuolo alla volta di Roma, pieno di
mal talento contro del pontefice. Allora il popolo romano, acceso di
zelo, uscì coll'armi contro di costoro, e preso esso Esilarato col
figliuolo, amendue li privarono di vita. Saputo poscia che _Pietro_
novello duca di Roma avea scritto alla corte contro del papa, il
cacciarono fuor di città. Nè minore fu il tumulto che durante questi
torbidi si svegliò in Ravenna. Molti aderivano all'empietà
dell'imperadore, ma i più erano in favore e difesa del romano pontefice.
Si venne perciò alle mani fra loro, e in quel conflitto restò ammazzato
lo stesso esarco Paolo. Era finora stato solamente spettatore di queste
brutte scene d'Italia, accadute per la pazza condotta di Leone Augusto,
il re _Liutprando_. Ma vedendo crescere il fuoco, e cotanto irritati e
sì mal disposti gli animi de' sudditi imperiali contro del loro sovrano,
volle cavar profitto da questa disunione, prendendo, credo io, motivo e
pretesto di muovere le sue armi dalla persecuzione d'esso imperadore
contro della Chiesa e del capo visibile della medesima. Nè duro fatica a
figurarmi che fosse anche invitato a questo giuoco da non pochi, i quali
non sapevano digerire d'aver per signore un imperador empio, e che, per
attestato di Anastasio, avea spogliate varie chiese: laddove sotto i re
longobardi la religion cattolica e i suoi ministri godevano tutta la
possibil tranquillità e il dovuto rispetto. Però uscito in campagna col
suo esercito, si spinse contro le terre dell'esarcato. Pare che la sua
prima impresa fosse l'assedio di _Ravenna_, dove stette sotto per alcuni
giorni; ed è certo che la prese, benchè Anastasio espressamente nol
dica, attestandolo chiaramente Paolo Diacono[277] ed Agnello
ravennate[278], che un secolo dopo scrisse le vite di quegli
arcivescovi. Anzi esso Agnello ci ha conservato qualche particolarità di
quel fatto, con dire che, per intelligenza di uno di que' cittadini,
Liutprando v'entrò, perchè avendo finto di dare un fiero assalto alla
porta del Vico Salutare, ed essendo corsi tutti i cittadini colà alla
difesa, il traditore intanto aprì la porta che va al Vico Leproso, e
introdusse i Longobardi. Gran somma di danaro era stata promessa a
costui; si sbrigarono da questo pagamento i Longobardi con ammazzarlo il
primo nell'entrare in città, se pure non morì per un trave cadutogli
addosso, come pare che voglia dire lo storico Agnello. Impadronissi
ancora Liutprando del castello, ossia della Città di Classe, e, secondo
la testimonianza d'Anastasio, ne portò via immense ricchezze. Han
creduto e credono tuttavia i Pavesi, che in tal congiuntura il re
Liutprando asportasse da Ravenna a Pavia la bella statua di bronzo di un
imperadore a cavallo, stimato Antonino Pio, la qual tuttavia serve di
ornamento alla lor piazza, ed è da loro chiamata il _Regisole_.

Oltre a ciò, altri paesi vennero in potere del re Liutprando, perchè,
secondo Paolo, egli prese _Castra Æmiliae, Formianum et Montem Bellium,
Buxeta et Persiceta, Bononiam et Pentapolim, Auximumque_. Anastasio
scrive che _Longobardis Æmiliae Castra, Feronianus, Montebelli, Bononia,
Verablum cum suis oppidis Buxo et Persiceto, Pentapolis quoque et
Auximana civitas se tradiderunt_. Quale di questi autori abbia copiato
l'altro nol so, perchè le vite dei papi son di varii scrittori. Si
conosce ben da queste parole che la città di _Osimo_ era distinta dalla
_Pentapoli_, e che _Feronianum_ era il _Fregnano_, picciola provincia
del ducato di Modena nelle montagne, dove sono Sestola, Fanano ed altre
terre. _Mons Bellius_ è _Monte Veglio_ o _Monte Vio_ nel territorio di
Bologna presso il fiume Samoggia. _Verablo_ e _Busso_, o _Bussetta_, son
forse nomi guasti, non potendo qui entrar _Busseto_ posto fra Parma e
Piacenza verso il Po, perchè non è mai credibile che i Longobardi
padroni delle città circonvicine avessero differito fino a questi tempi
la conquista di quel luogo. _Persiceto_ è un tratto di paese spettante
negli antichi secoli al contado di Modena, siccome ho dimostrato nelle
Antichità italiche[279], in cui era allora compreso il celebre monistero
di Nonantola. Tuttavia la nobil terra di san _Giovanni in Persiceto_
ritien questo nome nel distretto di Bologna. Dalla parte ancora del
ducato di Spoleti, per testimonianza d'Anastasio, dai Longobardi fu
occupata la città di _Narni_, nè sappiamo se la restituissero. Presero
anche il castello di _Sutri_, dipendente dal ducato romano; ma questo
nol tennero che cento quaranta o pur quaranta giorni; perchè il buon
papa con tante lettere e regali si adoperò presso il re Liutprando, che
l'indusse a rilasciarlo, dopo averlo spogliato di tutte le sostanze de'
cittadini. Nè volle il re cederlo a' ministri imperiali, ma bensì ne
fece una donazione alla Chiesa romana. Può essere che in tal congiuntura
accadesse ciò che narra il suddetto Paolo, cioè, che trovandosi il re
Liutprando nella _Pentapoli a Vico Pilleo_, una gran moltitudine di
quegli abitanti andava a portargli de' regali, per esentarsi dal sacco
ed ottener delle salve guardie. Sopravvenne una gran brigata di soldati
romani, che uccisero e fecero prigione quella sfortunata gente. In
questi tempi venne a Napoli _Eutichio_ patrizio eunuco, che altra volta
vien detto avere esercitata la carica di esarco d'Italia, rivestito
della medesima dignità. Costui portava ordini pressanti dell'empio
Augusto di levar di vita il santo pontefice Gregorio II. Nè molto stette
a risapersi il suo crudel disegno, e ch'egli meditava ancora di dare il
sacco alle chiese, e di far altri malanni. Fu colto un suo uomo
incamminato a Roma con lettere indicanti ch'esso esarco la voleva contro
la vita del papa e dei principali di Roma. Fecero istanza i Romani che
s'impiccasse il messo, ma il misericordioso pontefice il salvò dalla
morte. Per questa cagione poi dichiararono scomunicato l'esarco
Eutichio, e tutti s'obbligarono con giuramento di non mai permettere che
ad un papa sì zelante per la religione, e difensor delle chiese, fosse
recato alcun nocumento, o tolta la sua dignità. Ora veggendo Eutichio,
che non gli potea venir fatto il sacrilego colpo finchè non allontanava
i Longobardi dall'amicizia e protezion dei Romani, si studiò di ottener
l'intento con promettere dei gran doni ai duchi de' Longobardi, e allo
stesso re Liutprando, se desistevano dallo spalleggiare i Romani. Ma
conoscendosi il mal talento e la malizia del perfido eunuco ministro
imperiale, tanto i Romani quanto i Longobardi si strinsero maggiormente
in lega, protestandosi che si riputerebbono gloriosi se potessero
spendere le lor vite per la conservazione e difesa di un sì pio e santo
papa, e risoluti di non gli lasciar fare alcun torto dai nemici di Dio e
di lui. Intanto il buon pontefice attendeva a far di copiose limosine,
orazioni, digiuni e processioni, confidando più nel soccorso di Dio che
in quello degli uomini, con ringraziar nondimeno il popolo
dell'amorevole lor volontà, e raccomandar loro di far buone opere e di
sperare in Dio, esortandoli nello stesso tempo a non desistere
dall'amore e dalla fedeltà del romano imperio. Questa verità, attestata
da Anastasio bibliotecario[280] e da Paolo Diacono[281], autori ben
informati delle cose d'Italia, e comprovata dai fatti, ci fa chiaramente
conoscere che Teofane[282] scrittor greco, e chiunque gli tenne dietro,
s'ingannò in iscrivendo che papa Gregorio II (da lui per altro
sommamente lodato) sottrasse dall'ubbidienza dell'imperadore Roma,
l'Italia e tutto l'Occidente. Se il santo pontefice avesse voluto, era
finita allora per gl'imperadori greci in Italia; ma a lui bastò di
difendere le ragioni della Chiesa e la sua propria vita, ed impedì che i
popoli sollevati non passassero all'elezione di un altro imperadore.

NOTE:

[276] Anastas., in Gregor. II.

[277] Paulus Diacon., lib. 6, cap. 54.

[278] Agnell., Vita Episcopor. Ravennat., tom. 2 Rer. Ital.

[279] Antiquit. Italic., Dissert. XXI.

[280] Anastas. Biblioth., in Greg. II.

[281] Paulus Diacon., de Gest. Longobard., lib. 6, cap. 54.

[282] Theoph., in Chronogr.



    Anno di CRISTO DCCXXIX. Indizione XII.

    GREGORIO II papa 15.
    LEONE Isauro imperadore 13.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 10.
    LIUTPRANDO re 18.


A mio credere, in quest'anno furono scritte da papa _Gregorio_
all'imperador _Leone_ le due sensatissime lettere che il cardinal
Baronio[283] diede alla luce all'anno 726, credendole appartenenti a
quel tempo. Stimò il padre Pagi[284] che si dovessero riferire all'anno
730; perchè parlandosi nella prima d'esse della statua del Salvatore,
che Leone Augusto volle far gittare a terra in Costantinopoli (attentato
che costò la vita, o almeno di buone sassate al di lui ministro, essendo
insorte contro di lui alcune zelanti donne, le quali poi furono
martirizzate per questo) esso padre Pagi adduce l'autorità di Stefano
diacono, autore della vita di s. Stefano juniore, che dice accaduto un
tal fatto dopo la deposizione di s. _Germano_ dal patriarcato di
Costantinopoli e l'intrusione dell'eretico Anastasio. Ora certo essendo
che san Germano fu deposto nell'anno 730, conseguentemente prima di
quell'anno non possono essere scritte le suddette lettere di s. Gregorio
II. Ma Stefano diacono non fu autore contemporaneo, e perciò non è
infallibile la sua asserzione. Teofane[285], che scriveva nello stesso
tempo che Stefano, cioè sul principio del secolo nono, parla di questo
fatto all'anno 726. Quel che è più, la stessa lettera del papa fa
abbastanza conoscere ch'era ben succeduto il fatto della statua, ma che
s. Germano teneva tuttavia la sedia episcopale, nè era stato a lui
sostituito il perverso Anastasio. Se un sì santo prelato fosse già stato
deposto, ed occupata la sua cattedra dall'ambizioso suo discepolo, non
avrebbe mancato lo zelante papa Gregorio di rinfacciare ancor questo
delitto con gli altri, che egli andò ricordando al male consigliato
imperadore. Ma avverte il padre Pagi dirsi dal papa: _Ecclesias Dei
denudasti, tametsi talem habebas pontificem, domnum videlicet Germanum
fratrem nostrum et comministrum. Hujus debebas tamquam patris et
doctoris,_ etc. _consiliis obtemperare. Annum enim agit hodie vir ille
nonagesimum quintum,_ etc. _Illum igitur omittens lateri tuo adjungere,
improbum illum Ephesium Apsimari filium, ejusque similes audisti._ Ma
queste parole confermano che sussisteva tuttavia s. Germano nel
patriarcato, perciocchè il santo papa accusa l'imperadore di non essersi
consigliato con lui. Che avrebbe poi detto se l'avesse anche
ingiustamente cacciato dalla sua sedia? E il testo greco non dice
assolutamente, _benchè tu avessi un tal pontefice_, ma dice: Καἰ τοι γε
τοιοῦτον ἒχων ̓Αρχιερέα, che può significare, _benchè tu abbi
un tal pontefice_. Egli è poi da notare in essa lettera la risposta che
dà s. Gregorio alle minacce dell'imperadore di far condurre prigione lo
stesso papa a Costantinopoli, com'era intravenuto al di lui predecessore
san Martino. Risponde il saggio pontefice, ch'egli non è già per
combattere coll'imperadore, ma bastargli di ritirarsi solamente
ventiquattro stadi fuor di Roma nella Campania; e che venendo o mandando
poi esso Augusto, farà sol battaglia coi venti. Questo ci fa intendere
che i confini del ducato beneventano, posseduto dai duchi di Benevento,
erano distanti solamente poco più di tre miglia dalla città di Roma per
la parte della Campania; e però in pochi passi poteva trasferirsi il
pontefice in paese, dove non si stendeva il braccio dell'imperadore.
Sembra nondimeno incredibile che arrivasse così vicino a Roma il dominio
dei Longobardi. Camillo Pellegrino[286] dubitò che fosse scorretto il
testo greco, oppure che le tre miglia suddette si debbano computare dal
confine del ducato romano sino alla prima fortezza dei Longobardi. A noi
mancano le memorie per decidere questo punto.

In quest'anno, per quanto io vo conghietturando, ricuperarono i Greci la
città di Ravenna. Leggesi una lettera, a noi conservata da Andrea
Dandolo[287], rapportata dal Baronio e da altri, in cui papa Gregorio
scrive ad _Orso_ duca di Venezia, essere stata presa la città di
Ravenna, capo di tutte, _a nec dicenda gente Longabardorum_; e sapendosi
che l'esarco _nostro figliuolo_ dimora in Venezia, però gli comanda di
unirsi con noi affine di rimettere sotto il dominio de' _signori nostri
figliuoli Leone e Costantino_ grandi imperadori quella città. Non può
negarsi; questa lettera ha tutta la patina dell'antichità; eppure io non
lascio di aver qualche dubbio intorno alla sua legittima origine.
Questo, perchè ho pena a persuadermi che quel saggio papa nelle
circostanze di questi tempi potesse chiamar la nazion longobarda _nec
dicendam_ (lo stesso è che dire _nefandam_), titolo che si dava ai
Saraceni, e che fu anche dato ai Longobardi, allorchè sui principii
erano crudeli, nemici fieri di Roma ed ariani. In questi tempi noi
sappiamo che tutti professavano la religion cattolica, erano figliuoli,
come gli altri, della santa Chiesa romana, e gli abbiam veduti
protettori del sommo pontefice contro le violenze dell'imperadore; e
senza l'aiuto di essi il pontefice Gregorio restava preda del sacrilego
furor de' Greci. Come mai un sì avveduto pontefice potè sparlare in tal
forma dei Longobardi? Aggiungasi che non si può sì facilmente concepire
tanta premura del pontefice in favor dell'esarco rifugiato, come ivi si
dice, in Venezia. Se s'intende di _Paolo_ esarco, costui, per attestato
di Anastasio, era scomunicato, e poi fu ucciso dai Ravennati. Se di
_Eutichio_, anch'egli, per asserzion del medesimo storico, era
scomunicato e in disgrazia del pontefice, e toccò dipoi, siccome
vedremo, al re Liutprando di rimetterlo in sua grazia. Potrebbe
solamente dirsi che la presa e ricupera di Ravenna succedette nell'anno
725 prima che spuntasse l'eresia degl'iconoclasti, come ha creduto il
Sigonio con altri, e pare che si ricavi dallo stesso Anastasio: nel qual
tempo passava buona armonia fra il papa e l'imperadore, e i suoi
ministri. Ma ciò non sussiste. Si sa da Anastasio medesimo che l'esarco
_Paolo_ fu mandato in Italia con ordine di levar dal mondo papa Gregorio
II, e fece quanto potè per eseguirlo. Certo è altresì che non già
nell'anno 725, ma molto più tardi, e certo dappoichè Leone Augusto si
dichiarò nemico delle sacre immagini, e cominciò la persecuzione per
cagion d'esse, Ravenna fu presa. Ne abbiamo l'autentica testimonianza
dello stesso Gregorio II, che, dopo aver narrato nella prima lettera a
Leone Isauro l'affare della statua del Salvatore, per cui esso Augusto
avea fatto uccidere alcune donne, aggiugne che divulgata la fama di
queste sue crudeli puerilità, i popoli più lontani aveano calpestate le
immagini del medesimo Augusto, e che _i Longobardi e i Sarmati ed altri
popoli settentrionali aveano fatto delle scorrerie per l'infelice
Decapoli_ (cioè per le dieci città sottoposte a Ravenna), _ed occupata
la stessa metropoli Ravenna, con iscacciarne i magistrati cesarei, e
porvi al governo i lor propri, ed ora minacciano d'invadere gli altri
luoghi imperiali vicini, e Roma stessa, giacchè esso imperadore non ha
forza per difenderli. E questo tutto avvenuto per l'imprudenza e
stoltezza dello stesso Augusto._ Adunque scorgiamo seguita l'occupazion
di Ravenna dappoichè Leone s'era scatenato contro le sacre immagini; nè
questa città, allorchè il papa scrisse, era stata per anche ricuperata
da' Greci, nè il papa mostra d'aver data mano per ripigliarla, nè
premura perchè si ripigli. Finalmente è da osservare che nè Anastasio
bibliotecario, nè Paolo Diacono parlano punto che s. Gregorio
s'impacciasse in far ritorre ai Longobardi Ravenna; e pur questo sarebbe
stato di gran gloria d'esso pontefice, il quale avrebbe renduto bene per
male ad un imperadore sì fatto, cioè ad un persecutore della di lui vita
e dignità. Comunque sia, o fosse il papa o fosse l'esarco che
accalorasse questa spedizione, egli è fuor di dubbio che Ravenna tornò
alle mani de' Greci e fu ritolta ai Longobardi. Si dee la lode di questo
fatto al valore fino in que' tempi riguardevole dei Veneziani, asserendo
Paolo Diacono[288], che stando in _Ravenna Ildebrando nipote del re
Liutprando_, _e Peredeo duca di Vicenza_, all'improvviso arrivò loro
addosso l'armata navale dei Veneziani; e che nella battaglia da essi fu
fatto prigione Ildebrando: e che Peredeo bravamente combattendo vi restò
ucciso. Agnello ravennate[289] anch'egli lascia abbastanza intendere,
benchè molto ci manchi della sua storia, che Ravenna fu ricuperata;
perciocchè dopo aver narrata l'occupazione fattane dai Longobardi, dice
che sdegnati i Ravegnani contra di _Giovanni_ loro arcivescovo (senza
allegarne il perchè), il cacciarono in esilio, e perciò egli stette per
un anno in Venezia con danno notabile della sua chiesa. Ma ravveduti
dipoi fecero che l'esarco il richiamasse alla sua sedia. Quegli
scrittori moderni che rapportano varie particolarità della presa di
Ravenna, le han tolte dalla sola loro immaginazione. Per altro non si
può assegnare per mancanza di memorie il tempo preciso nè della
occupazione, nè della ricupera d'essa città, e dee a noi bastare di
saper con sicurezza che l'una e l'altra avvenne dappoichè fu principiata
la guerra contra le sacre immagini. Cosa accadesse della _Pentapoli_
occupata dai Longobardi, non ce l'han rivelato gli antichi; ma da
Anastasio[290] sufficientemente si ricava che ritornò anch'essa allora
alle mani dell'esarco.

Abbiamo poi da esso Anastasio[291] che nel gennaio di quest'anno fu
veduta per più di dieci giorni una cometa. E parimente da lui sappiamo
che _Eutichio_ patrizio ed esarco fece lega col re Liutprando, essendosi
convenuto fra loro di unir l'armi, affinchè il re potesse sottomettere
alla sua corona i duchi di Spoleti e di Benevento, e l'esarco di Roma
all'imperadore. Se fosse certo che in questo medesimo anno fosse stata
ricuperata Ravenna dai Greci e Veneti, potremmo immaginare che il re
Liutprando per riavere il nipote _Ildebrando_, condotto prigione a
Venezia, s'inducesse a far la pace e lega coll'esarco. Paolo altro non
dice, se non che esso re si mosse a questa unione per desiderio di
soggiogare i duchi di Spoleti e di Benevento. Non è noto onde nascesse
questo mal animo del re Liutprando contro que' duchi suoi vassalli.
Crede il conte Campelli[292] che il re mal sofferisse di vedere quei
principi come assoluti padroni di quelle contrade, e che non
riconoscessero nel re se non la semplice sovranità; e però portato
dall'ambizione volesse assoggettarseli come gli altri duchi della
Neustria, Austria e Toscana, che erano governatori delle città. Se ciò
fosse, non è chiaro. Solamente vedremo da una lettera di papa Gregorio
III, che quei duchi protestavano d'esser pronti a soddisfare a tutti i
lor doveri verso del re, _secondo l'antica consuetudine_; del che non
doveva essere contento il re Liutprando, con esigere di più. Ma quella
lettera non ha che fare con questi tempi, essendo scritta nell'anno 741.
Ora Anastasio racconta che il re colle sue forze andò a Spoleti; e
perciocchè _Trasmondo_ duca di quella contrada, siccome ancora il duca
di Benevento (secondo i conti di Paolo Diacono, dovrebbe essere stato
_Romoaldo II_) conobbero di non potere resistere alla di lui potenza, si
umiliarono, e gli promisero ubbidienza con solenni giuramenti, dandogli
anche degli ostaggi per pegno della lor parola. Poscia coll'esercito
marciò alla volta di Roma, e si attendò nel campo di Nerone. Sapeva il
buon papa Gregorio II che la pietà non era l'ultima delle virtù del re
Liutprando, e però intrepidamente uscito della città, andò a trovarlo e
a parlargli. Non potè Liutprando resistere alle paterne ammonizioni del
santo padre, e ne restò sì ammollito e compunto, che se gli gittò a'
piedi, con promettergli di non far male ad alcuno. Poscia entrati nella
basilica vaticana, ch'era allora fuori di Roma, esso re davanti al corpo
del principe degli Apostoli spogliossi del manto regale, de'
braccialetti, dell'usbergo, del pugnale, della spada dorata, della
corona d'oro e della croce d'argento, e tutto lasciò in dono e in
memoria della sua venerazione a quel celebratissimo sepolcro. Finita
l'orazione, fu pregato il papa da Liutprando di volere rimettere in sua
grazia ed assolvere l'esarco _Eutichio_: il che fu fatto; e poscia il re
con esso esarco se ne tornò indietro, senza aver fatto male ad alcuno.
Resta a noi il solo abbozzo di questi avvenimenti, ma senza che sieno a
notizia nostra pervenuti i motivi e le circostanze d'essi. Nè vo'
lasciar di dire che in quest'anno[293] il figliuolo del principe dei
Gazari, cioè dei Turchi, entrò nell'Armenia e nella Media, possedute da'
Saraceni, sconfisse l'esercito loro, comandato da Garaco generale di
essi Arabi Mussulmani, e, dopo aver saccheggiate quelle provincie,
ritornò al suo paese, con lasciare un gran terrore nella nazione de'
Saraceni.

NOTE:

[283] Baron., Annal. Eccl.

[284] Pagius, ad Annal. Baron.

[285] Theoph., in Chronogr.

[286] Camill. Peregr., de Fin. Ducat. Beneventan., tom. 5 Rer. Ital.

[287] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Italic.

[288] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 54.

[289] Agnell., in Vit. Episcopor. Ravennat., tom. 2 Rer. Italic.

[290] Anastas., in Vita Zachariae Papae.

[291] Id., in Vit. Gregor. II.

[292] Campelli, Storia di Spoleti, lib. 3.

[293] Theoph., in Chronogr.



    Anno di CRISTO DCCXXX. Indiz. XIII.

    GREGORIO II papa 16.
    LEONE Isauro imper. 14.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 11.
    LIUTPRANDO re 19.


Per attestato di Anastasio[294], fecesi in quest'anno una sollevazione
d'alcuni popoli nel ducato romano. Un certo _Tiberio_, per soprannome
_Petasio_, gl'indusse a ribellarsi contra dell'imperadore, e
specialmente fu a lui, come a signore, giurata fedeltà da quei di
_Maturano_, oggidì creduto _Barberano_, dal popolo di _Luni_, e da quel
di _Blera_ o _Bleda_. Credo scorretta la parola _Lunenses_, perchè Luni
città marittima, situata al fiume Magra, era sotto i Longobardi e troppo
lontana, nè potè ribellarsi contro chi non ne era padrone. Anastasio
parla di popoli posti in quella provincia romana, che oggidì si chiama
il patrimonio. Vicino a Barberano e Bleda si vede _Viano_; forse volle
parlar lo storico di quella terra. Trovavasi allora l'esarco _Eutichio_
in Roma, e turbossi forte a questo avviso; ma il buon papa _Gregorio_
fece a lui coraggio, ed animò l'esercito romano, seco mandando ancora
alcuni dei principali ministri di sua corte. Andarono i Romani, presero
il capo ribello Petasio, la cui testa fu inviata a Costantinopoli; e con
tutto ciò non poterono essi Romani ottenere l'intera grazia
dell'imperador Leone. Questi sempre più andava peggiorando nell'odio
contro le sacre immagini, e perciocchè un forte ostacolo all'esecuzion
dei suoi perversi voleri era il santo patriarca _Germano_, in quest'anno
appunto il costrinse a ritirarsi nella casa paterna, e a lui sostituì
nel patriarcato un indegno suo discepolo, nomato _Anastasio_.
L'ambizione di costui per ottenere quell'insigne dignità il trasportò ad
abbracciare e secondare gl'iniqui sentimenti dell'imperadore. Significò
egli ben tosto l'esaltazione sua al romano pontefice; ma trovandolo esso
papa macchiato degli errori iconoclastici, nol volle riconoscere per
vescovo, e gl'intimò la scomunica se non si ravvedeva dei suoi falli.
Colla scorta di questo malvagio patriarca l'imperadore più che mai si
diede a far eseguire i suoi sregolati editti, e a perseguitar chi non
voleva ubbidire, con dar anche la morte a non pochi che contrastavano a'
suoi ingiusti voleri. Credesi inoltre dal padre Pagi che per vendicarsi
del santo papa Gregorio, egli facesse staccare dal patriarcato romano
tutti i vescovati dell'Illirico, della Calabria e Sicilia, che dianzi
immediatamente dipendevano dal papa, aggregandoli al patriarcato di
Costantinopoli. Ciò apparisce da una lettera[295] di papa Adriano I a
Carlo Magno. E può dirsi che di qui traesse principio la funesta
division della Chiesa greca dalla latina: divisione in vari tempi
interrotta e non mai estinta, anzi rinforzata poi maggiormente da Fozio
e da altri ambiziosi o maligni patriarchi, e che dura tuttavia.
Nondimeno è incerto se questa smembrazione accadesse sotto questo papa,
oppur sotto il suo successore Gregorio III, come io credo piuttosto.
Veggasi all'anno 733.

NOTE:

[294] Anastas., in Gregor. II.

[295] Adriani I Papae Epistol. in fine Concil. Nic. II.



    Anno di CRISTO DCCXXXI. Indiz. XIV.

    GREGORIO III papa 1.
    LEONE Isauro imperad. 15.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 12.
    LIUTPRANDO re 20.


Fu questo l'ultimo anno della vita di papa _Gregorio II_, essendo egli
stato chiamato da Dio nel dì 11 di febbraio al premio eterno delle sue
virtù e fatiche in pro della religione cattolica, e meritevolmente
riconosciuto per santo. Verso l'ordine monastico esercitò egli non poco
la sua beneficenza, fondando nuovi monisteri, e ristorando i vecchi;
stese la sua liberalità a varie chiese; e lasciò una perpetua memoria
della sua pietà, dottrina e prudenza in mezzo di varii sconcerti della
religione e del secolo. Dopo un mese e cinque giorni di sede vacante, se
vogliamo seguitare il padre Pagi[296] ed alcuni esemplari di Anastasio
bibliotecario, fu eletto e consacrato papa, con assenso ed applauso
universale, _Gregorio III_, soriano di nazione. Ma nella vita del
medesimo presso lo stesso Anastasio si legge, ch'egli contra sua voglia
fu eletto nel tempo che si faceano i funerali al defunto Gregorio II, e
però non già un _mese e cinque giorni_, ma solamente _cinque giorni_,
dovrebbe essere durata la vacanza della Sede pontificia; se non che in
essa vita si parla solamente dell'_elezione_, restando in dubbio se
immediatamente ne seguisse la _consecrazione_, per cui veramente
l'eletto cominciava il suo pontificato. Fa un grande elogio di questo
novello pontefice Anastasio[297], o chiunque sia l'autore della sua
vita, rappresentandocelo dotto nella lingua greca e latina, che recitava
a memoria tutto il salterio, eloquente predicatore, amatore de' poveri,
redentor degli schiavi, e vivo esemplare d'ogni cristiana virtù. Non
tardò lo zelante pontefice a scrivere delle forti lettere agl'imperadori
_Leone e Costantino_, esortandoli a desistere dalla persecuzione delle
sacre immagini; e questi suoi sentimenti ed esortazioni inviò a
Costantinopoli per mezzo di Giorgio prete. Ma questi giunto colà,
veggendo l'aspro trattamento che si faceva a chiunque osava di opporsi
alle determinazioni degli Augusti, per timor della pelle se ne tornò a
Roma senza presentar quelle lettere. Confessò il suo fallo al pontefice,
il quale, sdegnato per la di lui pusillanimità, raunato il concilio,
volle degradarlo dal sacerdozio. Tante nondimeno furono le preghiere dei
padri e dei nobili laici, che si contentò di dargli una buona penitenza,
con patto che ritornasse alla corte colle stesse lettere. Andò egli in
fatti, ma dai ministri imperiali nel passare per la Sicilia fu ritenuto,
e stette quasi un anno esiliato in quelle parti. Provò in questi tempi
la Gallia qual fosse la crudeltà e l'odio de' Saraceni contro de'
Cristiani. Divenuti essi già padroni della Linguadoca, passarono il
Rodano, s'impadronirono della città di _Arles_, assediarono quella di
_Sens_, ma non poterono mettervi il piede, mercè dell'animo che fece in
tal congiuntura ai cittadini s. _Ebbone_ vescovo di quella città[298].
Distrussero poi assaissime chiese, monisteri e castella, lasciando
dappertutto segni del loro furore con incendii e stragi de' miseri
cristiani. Intanto i due eroi della Francia _Carlo Martello_ ed _Eude_
duca dell'Aquitania, in vece di volgere le armi contra di
quegl'infedeli, ad altro non pensavano che a scannarsi l'un l'altro, e a
sagrificar le vite de' popoli franchi alla loro ambizione. Toccò la
peggio in una delle due battaglie ad Eude, e Carlo per due volte entrato
nell'Aquitania, diede il guasto al paese con riportarne un immenso
bottino a casa.

Avea _Romoaldo II_, duca di Benevento[299] sposata in seconde nozze
_Ranigonda_ figliuola di _Gaidoaldo_ duca di Brescia. Ma egli terminò i
suoi giorni circa questi tempi, oppure nell'anno 733, come pensa il
Bianchi[300]. All'incontro Camillo Pellegrino fu di parere che avvenisse
la morte di quel duca nell'anno 720, e che dopo lui per due anni
governasse quel ducato un _Aodelao_, ossia _Audelao_, e che a lui
succedesse nell'anno 724 _Gregorio_, che da Paolo Diacono vien chiamato
_nipote del re Liutprando_, e creato duca da esso re. Ma avendo noi
veduto all'anno 729 che il re suddetto andò per sottomettere al suo
dominio il duca di Benevento, e volle ostaggi da esso, non par molto
verisimile che allora comandasse ai Beneventani _Gregorio_, il quale,
siccome nipote e creatura del re Liutprando, avrebbe dovuto conservar
buona armonia collo zio. Certo è che ci mancano lumi per diradar queste
tenebre; ma non è improbabile che circa i presenti tempi succedesse
l'assunzione di _Gregorio_ al ducato di Benevento, perchè torneremo a
vedere all'anno 740 irato il re Liutprando contro del duca di Benevento,
ed allora è probabile che il suddetto Gregorio non si contasse più tra i
vivi. Però sia a me lecito di riferire qui ciò che ha detto Paolo
Diacono intorno a questo affare. Scrive egli, che essendo mancato di
vita _Romoaldo II_ duca di Benevento, dopo aver comandato per ventisei
anni, lasciò dopo di sè un figliuolo di poca età, nominato _Gisolfo II_.
Contra di lui insorsero alcuni che anche tentarono di levarlo dal mondo;
ma il popolo di Benevento, avvezzo alla fedeltà verso i suoi principi,
gli salvò la vita con uccidere chi s'era sollevato contro di lui.
Probabilmente quell'_Audolao_ duca, menzionato nella Cronica di santa
Sofia[301], ma non conosciuto da Paolo Diacono, o da lui apposta omesso,
perchè considerato quale usurpatore, dovette occupar quel ducato e
tenerlo per due anni. Ora il re Liutprando, che vedeva di mal occhio lo
sconvolgimento di quelle contrade, e che dovette temere che i Greci
vicini e nemici non profittassero d'una tal turbolenza, e dell'età di
_Gisolfo II_ incapace a reggere un sì vasto dominio, e in pericolo di
perdere la vita, si portò a Benevento apposta, e levatone il fanciullo
Gisolfo, vi pose per duca _Gregorio_ suo nipote, la cui moglie si
appellò _Giselberga_. Dato in questa maniera buon sesto alle dissensioni
di quel ducato, se ne tornò il re Liutprando a Pavia, conducendo seco il
suddetto _Gisolfo_, ch'egli fece nobilmente allevare come se fosse
proprio figliuolo; e giunto che fu all'età convenevole, gli diede per
moglie _Coniberga_, ossia _Scauniberga_, di nobil sangue; e questi poi a
suo tempo fu creato duca di Benevento dal medesimo re Liutprando.

NOTE:

[296] Pagius, ad Annal. Baron.

[297] Anastas., in Gregor. III.

[298] Chron. Petav. apud Du-Chesne.

[299] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 50 et 55.

[300] Blancus, in Notis ad Paul. Diac. tom. I Rer. Italic.

[301] Chron. S. Sophiae apud Ughel. Ital. Sacr. tom. 8.



    Anno di CRISTO DCCXXXII. Indizione XV.

    GREGORIO III papa 2.
    LEONE Isauro imperad. 16.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 13.
    LIUTPRANDO re 21.


Chiarito oramai il sommo pontefice _Gregorio III_ che a nulla giovavano
presso dell'imperadore Leone le preghiere ed esortazioni perchè
desistesse dalla guerra mossa contro le sacre immagini, nell'anno
presente raunò nella basilica vaticana un concilio di novantatrè vescovi
d'Italia[302], fra' quali furono i principali _Antonio_ patriarca di
Grado e _Giovanni_ arcivescovo di Ravenna, e vi intervenne ancora tutto
il clero romano coi nobili e col popolo d'essa città. Quivi fulminò la
scomunica contra chiunque deponesse, distruggesse, profanasse o
bestemmiasse le sacre immagini; ed egli il primo, e poi tutti gli altri
prelati ne sottoscrissero il decreto. Ciò fatto, ingegnossi di far
sapere la risoluzion del concilio agl'imperadori, con far loro premura
perchè si rimettessero ne' sacri templi le immagini, e spedì le lettere
per Costantino difensore. Questi ancora fu arrestato in Sicilia, e quivi
detenuto prigione quasi per un anno intero, e le lettere gli furono
tolte, con rimandarlo in fine caricato d'ingiurie e di minacce. Tutti
poscia i popoli dell'Italia formarono varie suppliche ai predetti
Augusti in favor delle sacre immagini, e le inviarono forse nell'anno
seguente alla corte; ma questi scritti incorsero nella medesima
disavventura, perchè furono intercetti da _Sergio_ patrizio e generale
dell'armi in Sicilia, i portatori cacciati in prigione, e rilasciati
solamente dopo otto mesi col regalo di molte ingiurie. Non lasciò per
questo lo zelante papa di scrivere altre lettere vigorose tanto ad
_Anastasio_ usurpatore del patriarcato costantinopolitano, quanto a
_Leone_ e _Costantino_ Augusti intorno al medesimo affare, e le mandò
alla corte per Pietro difensore, verisimilmente per altra via che per
quella di Sicilia; e contuttochè Anastasio bibliotecario non ne dica
l'esito, pure si sa che tanto gl'imperadori quanto Anastasio stettero
fermi nella lor condannata determinazione. Già è deciso presso gli
eruditi, che continuando i Saraceni di Spagna le loro scorrerie nella
Gallia con incendiare e saccheggiar dovunque giugnevano, sicchè molte
città restarono desolate dalla loro barbarie, _Eude_ duca d'Aquitania,
al cui paese specialmente toccò questo flagello, veggendosi a mal
partito, o prima, ovvero allora pacificossi con _Carlo Martello_, e
implorò il suo aiuto contra di quegl'infedeli. Unitisi dunque i due
valorosi principi con una poderosa armata, furono ad affrontare i nemici
presso della città di Poitiers, diedero loro battaglia, e poscia una
memorabile sconfitta per valore specialmente delle truppe che Carlo avea
seco condotte dall'Austrasia, cioè della Germania. Paolo Diacono[303] fa
menzione anche egli di questa insigne vittoria, con dire che vi
restarono morti trecento settantacinquemila Saraceni, e solamente mille
e cinquecento Cristiani. Forse in tutta la Spagna e Linguadoca non v'era
sì gran numero di combattenti Saraceni; e certo il buon Paolo spacciò
qui la nuova di quel conflitto, quale correva fra il rozzo popolo, cioè
stranamente ingrandita dall'odio che meritamente si portava da'
Cristiani a quell'empia e finor trionfante nazione. Anche Anastasio
bibliotecario fa menzione di essa vittoria, con riferire lo stesso
numero di uccisi, ed attribuirlo al solo duca Eude. Ma sì egli che
Paolo, dicendola accaduta nel pontificato di papa Gregorio II, e circa
l'anno 725, confondono insieme due diverse vittorie, essendo certo che
quella del presente anno fu veramente la più riguardevole contro quei
Barbari, e che la gloria ne è principalmente dovuta al valore e alle
milizie di Carlo Martello. E di qui ancora pare che risulti non essere
stata scritta da autore alcuno contemporaneo la vita d'esso papa
Gregorio II, e che chi la scrisse, dovette copiar da Paolo Diacono
cotali avvenimenti.

NOTE:

[302] Anastas. Bibliothec., in Greg. III.

[303] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 46.



    Anno di CRISTO DCCXXXIII. Indizione I.

    GREGORIO III papa 5.
    LEONE Isauro Imperadore 17.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 14.
    LIUTPRANDO re 22.


Sotto quest'anno abbiamo da Teofane[304] che _Leone_ imperadore diede
per moglie a _Costantino Copronimo_ Augusto suo figliuolo una figliuola
del principe de' Gazari, cioè dei Tartari Turchi, avendo essa prima del
matrimonio abbracciata la religion cristiana, e preso il nome d'_Irene_.
Questa riportò la lode di buona principessa, studiò le sacre lettere, si
distinse nella pietà, e non mai approvò l'empie opinioni del suocero nè
del marito. Ora il medesimo Augusto Leone, in vece di accudire a
reprimere i Saraceni che in questi tempi diedero il guasto alla
Paflagonia, e si arricchirono colla rovina di que' popoli, ad altro non
pensava che a sfogare il suo sdegno contro del papa e contro di chiunque
contrastava in Roma al suo astio verso le sacre immagini. Però allestì
una poderosa armata navale per gastigarli, e sotto il comando di Mane
duca de' Cibirrei la spedì nel mare Adriatico. Confuse Iddio i di lui
perversi disegni, perchè alzatasi un'orribil burrasca, fracassò o
dissipò tutto quello stuolo, con vergogna e rabbia incredibile di chi lo
avea spedito. Altro dunque non potendo per allora l'infuriato Augusto,
imperversò contro le sostanze de' popoli della Sicilia e Calabria,
accrescendo di un terzo il tributo della capitazione. Oltre a ciò, fece
confiscare i patrimonii spettanti fin dagli antichi tempi alla Chiesa
romana, posti parimente in Sicilia e Calabria, dai quali essa Chiesa
ricavava ogni anno tre talenti e mezzo d'oro. Di questi patrimonii
usurpati alla santa Chiesa di Roma in tal occasione parlano ancora
Adriano I in un'epistola a Carlo Magno, e Nicolò I papa in un'altra a
Michele imperadore. Ne fecero in fatti varie volte istanza i sommi
pontefici agl'imperadori greci, ma sempre senza frutto, finchè i
Saraceni, siccome vedremo, vennero ad assorbir tutto. Non so mai se
potesse appartenere all'anno presente un avvenimento narrato da Agnello
storico ravennate[305], mentre era arcivescovo di Ravenna _Giovanni_
successor di _Felice_. La spedizion della flotta cesarea nell'Adriatico,
accaduta in quest'anno, e il sapere che i Ravegnani andavano d'accordo
coi sommi pontefici nel sostener le sacre immagini, e che il suddetto
Giovanni loro arcivescovo senza paura nè dell'imperadore, nè
dell'esarco, era intervenuto nel precedente anno al concilio romano
celebrato contra gl'iconomachi, mi fan credere non improbabile che in
Ravenna succedesse quanto vien raccontato dal medesimo Agnello; cioè,
che tornò di nuovo un ministro imperiale con varie navi armate per
saccheggiar Ravenna, come era accaduto negli anni addietro. Venuto quel
popolo in cognizione dell'iniquo disegno, dato di piglio all'armi, in
forma di battaglia andò ad incontrare i Greci. Finsero essi cittadini di
prendere la fuga, ed allorchè furono allo stadio della Tavola, voltata
faccia, cominciarono a menar le mani contra de' Greci. Intanto il
vescovo Giovanni, il clero e tutti i maschi e femmine restati entro la
città, vestiti di sacco e di cilicii, imploravano con calde preghiere e
lagrime l'aiuto celeste in favore dei suoi. Sentissi una voce, senza
sapersi onde venisse, nel campo ravennate, che loro intonò la sicurezza
della vittoria: laonde tutti più che mai coraggiosamente s'avventarono
contra de' Greci, i quali, vedendo rotta un'ala dell'esercito loro,
presero la fuga, con ritirarsi nelle navi chiamate dromoni. Allora i
Ravennati saltarono anch'essi nelle lor barchette e picciole caravelle,
e furono addosso ai nemici, con ucciderne assaissimi, e precipitarne
molti nel braccio del Po, che in questi tempi arrivava fino a Ravenna,
di maniera che per sei anni dipoi la gente si astenne dai pesci di quel
fiume. Questo conflitto accadde nel dì 26 di giugno, giorno de' santi
Giovanni e Paolo, solennizzato dipoi da lì innanzi dal popolo di Ravenna
quasi al pari del dì santo di Pasqua, con addobbi e con una processione
in rendimento di grazie a Dio, perchè restasse in quel dì liberata la
città dal mal talento de' Greci. Veramente sembra che non s'intenda come
stando allora in Ravenna l'esarco _Eutichio_ e seguitandovi a stare
dipoi, il popolo di quella città si rivoltasse contra de' Greci, e
continuasse poscia a far festa di quel prosperoso successo. Ma è da
avvertire, che tanto in Roma che in Ravenna s'era sminuita di molto
l'autorità degli esarchi, e questi navigavano come poteano.
Nell'esercizio della giustizia e ne' tributi ordinarii era prestata loro
ubbidienza; ma di più non veniva loro permesso, essendo quei popoli
risoluti di sostener le sacre immagini, e di non lasciarsi opprimere
dalle violenze indebite dell'empio imperadore. Era certo allora in
disgrazia d'esso Augusto anche papa Gregorio III; e pure sappiamo da
Anastasio[306] che questo pontefice ottenne dall'esarco Eutichio sei
colonne onichine, le quali furono da lui poste nel presbiterio della
basilica vaticana con travi soprapposti, tutti coperti con lastre
d'argento effigiate. Vi pose ancora varii gigli e candellieri alti
alcune braccia per le lucerne, tutti di argento, pesanti libbre
settecento. Quel tanto dirsi da altri scrittori greci, che l'Italia
s'era sottratta all'ubbidienza di Leone Isauro, non si dee credere che
sia affatto senza fondamento.

NOTE:

[304] Theoph., in Chronogr.

[305] Agnell., in Vit. Episcopor. Ravenn., tom. 2 Rer. Italic.

[306] Anastas. in Gregor. III.



    Anno di CRISTO DCCXXXIV. Indizione II.

    GREGORIO III papa 4.
    LEONE ISAURO imperadore 18.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 15.
    LIUTPRANDO re 23.


Circa questi tempi potrebbe essere accaduta la fondazione di _Città
Nuova_ fatta dal re Liutprando, quattro miglia lungi da Modena, sulla
via Emilia, ossia Claudia, come da assaissimi secoli in qua noi diciamo.
Doveano essere in quella parte del territorio modenese dei boschi, e
niuna casa, e però quivi nascondendosi gli assassini, infestavano la
strada regale della Lombardia, che passava per colà. Ora venne in mente
al re di fabbricar quivi una terra o città, con piantarvi una colonia di
Modenesi, acciocchè da lì innanzi restasse il passo ben guardato dagli
assassini. Quivi tuttavia nella facciata della parrocchiale di san
Pietro, che sola resta di quell'illustre luogo, ne esiste la memoria in
un marmo, benchè logorato dal tempo e mancante nel fine. Le parole che
ivi si leggono, son le seguenti in lettere romane:

    HAEC XPS FVNDAMINA POSVIT FVNDATORE
    REGE FELICISSIMO LIVTPRAND PER EVM CEB...
    HIC VBI INSIDIAE PRIVS PARABANTVR,
    FACTA EST SECVRITAS, VT AX SERVETVR.
    SIC VIRTVS ALTISSIMI FECIT LONCIBARD.
    TEMPORE TRANQVILLO ET FLORENTISS.
    OMNES VT VNANIMES.... PLENIS PRINC....

Dissi illustre luogo, perchè nominato anche nel testamento di Carlo
Magno, e veramente divenuta città dove dimorava un _conte_, cioè un
governatore, o un _gastaldo_, cioè un regio uffiziale che amministrava
giustizia, come ho con varii documenti provato nelle Antichità
italiche[307]. Dopo il mille andò in rovina essa _Città Nuova_,
probabilmente perchè il popolo di Modena volle maggiormente ampliare e
popolare la propria città. Dura nondimeno tuttavia il nome della villa
di _Cittanova_.

NOTE:

[307] Antiquit. Italic., Dissert. XXI.



    Anno di CRISTO DCCXXXV. Indizione III.

    GREGORIO III papa 5.
    LEONE Isauro imperadore 19.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 16.
    LIUTPRANDO re 24.


Godeva intanto _Gregorio_ papa pace, quantunque non godesse della grazia
dell'imperadore _Leone_ Iconomaco, perchè i Greci non aveano forza o
maniera di comandare a bacchetta in Roma, e il popolo romano si trovava
unito per sostener l'onore delle sacre immagini, e per non lasciarsi
calpestare dall'adirato Augusto, cui per altro riconoscevano per loro
signore. Attendeva dunque esso papa a ristorare ed ornar le chiese, ad
ergere monisteri, e lasciar dappertutto segni della sua pia munificenza,
che sono diligentemente annoverati nella di lui vita presso
Anastasio[308]. All'incontro Leone Augusto era intento a punire o colla
morte o coll'esilio chiunque ardiva di difendere il culto delle sacre
immagini, e non mancarono de' martiri sotto di lui e de' suoi successori
per questo. Venuto a morte nell'anno presente _Eude_ celebre duca
d'Aquitania e Guascogna[309], _Carlo Martello_, governatore di nome, re
di fatti, della monarchia franzese, corse tosto ad occupar coll'armi
quelle contrade. Avea Eude lasciato dopo di sè due figliuoli, _Unaldo_ e
_Attone_ (lo stesso è che _Azzo_ ed _Azzone_), i quali vigorosamente
sostennero, finchè ebbero forze, le loro ragioni. Durò la guerra fino
all'anno seguente, in cui, o, siccome io credo, che si venisse ad un
aggiustamento, o che Carlo volesse acquistarsi la gloria di principe
moderato, si sa che egli dichiarò e lasciò ad _Unaldo_ tutto quel
ducato, o almen parte d'esso, ma con obbligarlo a giurar fedeltà ed
omaggio non già al re Teoderico IV, ma a sè stesso, e a _Pippino_ e
_Carlomanno_ suoi figliuoli. Altrettanto avea egli fatto nell'anno
precedente nel ricuperar Lione ed altre città dalle mani de' Saraceni, e
nello impossessarsi del regno della Borgogna, con porre ivi dei suoi
uffiziali e vassalli, come in paese di suo proprio dominio. In questa
maniera andava egli istradando sè stesso, oppure i suoi figliuoli al
regno: il che si vedrà effettuato a suo tempo. E perciocchè il saggio re
_Liutprando_ coltivava con gran cura l'amicizia coi re franchi e con
esso Carlo Martello, e all'incontro per le sue mire alla corona anche
Carlo Martello si studiava di mantener buona intelligenza col medesimo
re Liutprando, volle circa questi tempi (e forse prima) lo stesso Carlo
dare un solenne attestato della sua confidenza ed amistà al re suddetto.
Pertanto mandò a Pavia _Pippino_ suo primogenito a visitar
Liutprando[310], e a pregarlo che volesse accettarlo per figliuolo
d'onore. Volentieri acconsentì il re Liutprando, e la funzione ne fu
fatta con tutta solennità, avendo esso re di sua mano tagliati i capelli
al giovane Pippino, con che si veniva, per testimonianza di Paolo
Diacono, a significare, secondo lo stile d'allora, che il teneva da lì
innanzi per suo figliuolo. Poscia, dopo averlo regalato con magnifici
doni, il rimandò in Francia al suo padre naturale.

NOTE:

[308] Anastas., in Gregor. III.

[309] Continuator Fredegarii, T. I. Du-Chesne.

[310] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 53.



    Anno di CRISTO DCCXXXVI. Indizione IV.

    GREGORIO III papa 6.
    LEONE Isauro imperad. 20.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 17.
    LIUTPRANDO re 25.
    ILDEBRANDO re 1.


Accadde che sul principio di questo anno gravemente s'infermò il re
_Liutprando_ di tal malore, che arrivò ai confini della vita, e
comunemente si credè ch'egli fosse spedito[311]. Raunatasi per questo la
dieta de' signori longobardi, di comun consentimento fu eletto e
proclamato re _Ildebrando_, ossia _Ilprando_, nipote del medesimo re
Liutprando. Seguì tal funzione fuori della città di Pavia nella chiesa
di s. Maria alle Pertiche. E perchè era in uso di conferire questa
sublime dignità con presentare un'asta al nuovo re, accadde che un
cuculo, uccello, venne a posarsi su quell'asta, mentre Ildebrando la
teneva in mano. Dai saggi di quel tempo, che badavano forte agli
augurii, fu preso questo maraviglioso accidente (se pure s'ha da credere
vero) per un prognostico che di niun uso sarebbe il principato d'esso
Ildebrando. Si riebbe il re Liutprando dalla sua pericolosa malattia, e
venuto in cognizione di quanto avevano operato i Longobardi, se l'ebbe a
male. Tuttavia come principe prudente lasciò correre il fatto, ed
accettò per collega il nipote, e negli strumenti si cominciarono a
contare gli anni ancora di lui. S'era creduto in addietro dal Sigonio e
da altri che l'elezion d'Ildebrando fosse accaduta nell'anno 740, perchè
Paolo Diacono spesse volte confonde l'ordine de' tempi; ma Francesco
Maria Fiorentini con rapportar le note cronologiche[312] di uno
strumento dell'archivio archiepiscopale di Lucca, da me poscia dato alla
luce[313], mise in chiaro che nel _marzo_ del corrente anno correva
l'_anno primo_ del medesimo _re Ildebrando_. Sarebbe nondimeno restato a
me non poco dubbio che negli ultimi mesi dell'anno 735 fosse conferito
ad esso Ildebrando il titolo di re, dopo aver io osservato nel suddetto
archivio lucchese altre memorie che sembrano insinuarlo. Veggasi la
dissertazione de Servis[314] nelle mie antichità italiane. Ed avrei ciò
tenuto per indubitato, se non mi fossi incontrato in una pergamena,
scritta nel dì _primo di febbraio_ del presente anno, in cui si vede
notato l'_anno XXIV_ del re Liutprando, senza che vi si parli del re
Ildebrando. A questi tempi mi fo io lecito di riferire la restituzione
fatta dal castello di Gallese da _Trasmondo_ duca di Spoleti, narrata da
Anastasio bibliotecario[315]. Era dianzi questa terra pertinenza del
ducato romano, l'avevano occupato i Longobardi Spoletini, e per cagion
d'essa passavano continue risse fra esso ducato romano e quello di
Spoleti. Studiossi il buon papa _Gregorio III_ di metter fine a queste
contese, e una considerabil somma di danaro sborsato al duca Trasmondo
quella fu che l'indusse a renderla ai Romani: con che cessò ogni nimistà
e dissapor fra loro.

NOTE:

[311] Idem, ibid., c. 57.

[312] Fiorent., Memor. di Matilde, lib. 3.

[313] Antiq. Italic., Dissert. XXVIII, p. 769.

[314] Ibid., Dissert. XIV.

[315] Anastas., in Gregor. III.



    Anno di CRISTO DCCXXXVII. Indiz. V.

    GREGORIO III papa 7.
    LEONE Isauro, imperad. 21.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 18.
    LIUTPRANDO re 26.
    ILDEBRANDO re 2.


Per attestato di Andrea Dandolo[316], essendo nata una civile discordia
fra il popolo di Venezia, restò in quest'anno ucciso il lor duca _Orso_;
e perciocchè le parti non si poterono accordare per eleggere un nuovo
duca, si convenne di dare il governo ad un maestro di militi, ossia ad
un generale d'armata, la cui autorità non durasse più d'un anno. E
questi fu _Domenico Leone_, primo ad esercitar quella carica. Crede il
medesimo Dandolo che in quest'anno accadesse nel Friuli uno sconcerto,
raccontato da Paolo Diacono[317], ma che forse appartiene ad alcuno
degli anni precedenti. Era tuttavia duca del Friuli _Pemmone_, postovi
dal re Liutprando; era patriarca di Aquileia _Callisto_. Ora nei tempi
addietro avvenne che _Fidenzio_ vescovo della città di Giulio-Carnico,
capitale una volta della Carnia, non trovandosi sicuro in quella terra a
cagion delle scorrerie degli Avari e Schiavoni, ottenne licenza dai
precedenti duchi del Friuli di poter fissar la sua abitazione in Cividal
di Friuli, cioè nella diocesi del patriarca d'Aquileia, non avendo
questa città vescovo proprio, come fu osservato dal cardinal Noris[318].
Venne a morte il vescovo Fidenzio, e in suo luogo fu eletto _Amatore_,
che seguitò a tenere la residenza in quella città. Nella Cronica de'
patriarchi d'Aquileia, da me data alla luce[319], si legge che a
Fidenzio succedette _Federigo_, e a Federigo _Amatore_. Gran tempo era
che i patriarchi d'Aquileia non potendo abitarvi in Aquileia, città
disfatta e suggetta alle scorrerie dei sudditi imperiali dimoranti nelle
isole di Venezia e nell'Istria, s'erano ritirati a Cormona[320], terra
della loro diocesi. Ora non sapeva digerire il patriarca Callisto che un
vescovo d'altra diocesi si fosse stabilito nella diocesi sua, ed
abitasse in quella città in compagnia del duca e della nobiltà, e
fors'anche si usurpasse alcuno de' diritti a lui spettanti, mentre egli
era astretto a menar sua vita come in villa fra persone plebee.
Sopportò, finchè visse Fidenzio; ma vedendo continuar questo giuoco, e
forse fattene più doglianze, ma indarno, venuto un dì a Cividal del
Friuli con molto seguito di persone, cacciò da quella città il nuovo
vescovo Amatore, e si mise ad abitar nella casa stessa che dianzi
serviva al medesimo prelato. Se l'ebbe molto a male questo fatto il duca
Pemmone, e però unitosi con molti nobili longobardi, prese il patriarca,
e condottolo al castello Ponzio, o Nozio, vicino al mare, vi mancò poco
che nol precipitasse in quell'acque. Si ritenne, o fu ritenuto, e
contentossi di chiuderlo in una dura prigione, dove per qualche tempo si
nudrì col pane della tribolazione. Portato l'avviso di questa sacrilega
violenza al re Liutprando, s'accese di collera, privò del ducato
Pemmone, e conoscendo _Ratchis_ suo figliuolo per uomo valoroso, il creò
duca in luogo di suo padre. Disponevasi Pemmone, dopo questo colpo, di
fuggirsene in Ischiavonia; ma cotanto si adoperò con preghiere il
figliuolo Ratchis presso al re, che gli ottenne il perdono, e fidanza
che non gli sarebbe fatto male; e però coi figliuoli e con tutti quei
nobili longobardi che avevano avuta mano in quell'attentato, se n'andò
alla corte del re. Allora Liutprando nella pubblica udienza avendoli
tutti ammessi, donò a Ratchis _Pemmone_ di lui padre, ed inoltre
_Ratcait_ e _Astolfo_ di lui fratelli, e li fece andar dietro alla sua
sedia; poscia ad alta voce ordinò che fossero presi tutti quei nobili.
Allora Astolfo sbuffando, e non potendo pel dolore sofferir questa
ingiustizia, fu per isfoderar la spada affine di tagliar la testa al re;
ma Ratchis suo fratello il trattenne. Furono messe le mani addosso a
que' nobili, a riserva di Ersemaro, il quale sguainata la spada, benchè
inseguito da molti, sì bravamente si difese, che potè salvarsi nella
basilica di s. Michele. Egli dipoi, solo a cagion di questa prodezza,
meritò che il re gli facesse la grazia; agli altri toccò di fare una
lunga penitenza nelle carceri. Tornò poscia il patriarca _Callisto_,
liberato dalla prigione, a Cividale, dove, per attestato della Cronica
suddetta dei patriarchi, fabbricò la chiesa e il battistero di s.
Giovanni e il palazzo patriarcale. Diede fine alla sua vita in
quest'anno _Teoderico IV_, re de' Franchi, e per cinque anni stette la
Francia senza re, governando gli stati _Carlo Martello_, il quale è da
maravigliarsi come non si mettesse la corona sul capo. Ebbe anche esso
Carlo nell'anno presente da far pruova del suo valore contra de'
Saraceni, che tornati ad infestar le contrade cristiane, per relazione
del Continuator di Fredegario[321], s'impadronirono della città di
Avignone. Fu ricuperata questa città da Carlo Martello, che v'accorse
con tutte le sue forze, e poi rivolse l'armi contra la Linguadoca,
posseduta da quegl'infedeli, ed assediò la città di Narbona. Allora i
Saraceni di Spagna, fatto uno sforzo, vennero per liberar quella città.
Tra essi e l'esercito di Carlo seguì un sanguinoso fatto d'armi colla
sconfitta totale d'essi Saraceni. Non potè neppur con tutti questi
vantaggi Carlo sottomettere Narbona; diede bensì il sacco a tutta la
Linguadoca, smantellò Nismes ed altre città, e pieno di gloria se ne
tornò alla sua residenza. Anche Paolo Diacono[322] fa menzione di questa
vittoria.

NOTE:

[316] Dandulus, in Chronic., tom. 12 Rer. Ital.

[317] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 51.

[318] Noris, de Synodo Quinta, cap. 9.

[319] Anecdot. Latin., tom. 4.

[320] _Cioè di quei sudditi imperiali che per ragione di commercio
abitavano nell'isole di Venezia, non essendo i Veneziani se non alleati
dell'imperadore._

[321] Continuator Fredegarii apud Du-Chesne, tom. 1.

[322] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 54.



    Anno di CRISTO DCCXXXVIII. Indiz. VI.

    GREGORIO III papa 8.
    LEONE Isauro imper. 22.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 19.
    LIUTPRANDO re 27.
    ILDEBRANDO re 3.


Venne a Roma nel presente anno per la terza volta l'insigne vescovo ed
apostolo della Germania s. _Bonifacio_[323], le cui continuate fatiche
per piantare in mezzo a tanti popoli pagani la fede di Gesù Cristo non
si possono leggere senza stupore. L'accoglienza a lui fatta dal
pontefice Gregorio III e da tutto il popolo romano fu corrispondente al
merito di quel mirabile coltivator della vigna del Signore. Dopo aver
ricevuto dal buon papa molti regali, e quante sacre reliquie seppe
dimandare, accompagnato ancora da tre lettere scritte da esso pontefice
ai popoli della Germania, convertiti di fresco da lui alla vera fede, se
ne partì contento alla volta della sua greggia. Nel cammino, o
spontaneamente o invitato, passò a Pavia, dove il re Liutprando gli fece
un bel trattamento, e il ritenne seco per qualche tempo, godendo e
profittando dei di lui santi insegnamenti. Secondo i conti di Paolo
Diacono[324], _Gregorio_ duca di Benevento, nipote del re Liutprando,
venne in quest'anno a morte, dopo aver governato quel ducato per _sette
anni_. Gli succedette _Godescalco_ duca, che solamente per _tre anni_
tenne quel ducato, ed ebbe per moglie _Anna_. Fu allo incontro di parere
Camillo Pellegrino[325] che la morte del suddetto Gregorio accadesse
nell'anno 729, e che Godescalco campasse _quattro anni_ nel ducato:
tempo appunto assegnatogli nella Cronica di santa Sofia presso
l'Ughelli. Finalmente il signor Bianchi[326] e il signor Sassi[327]
pensano che _Gregorio_ terminasse i suoi giorni nell'anno 740, e che gli
succedesse allora _Godescalco_. Forse che i fatti a noi somministrati
dalla storia, andando innanzi, ci porgeran qualche lume in mezzo a
queste tenebre. Abbiamo ancora dal Dandolo[328], che nell'anno presente
fu governata Venezia da _Felice Cornicola_ maestro de' militi, o vogliam
dire generale dell'armi, uomo umile e pacifico, il quale colle sue buone
maniere rimise la concordia in quel popolo, ed ottenne che _Deusdedit_,
ossia _Diodato_, figliuolo del duca Orso ucciso, fosse liberato
dall'esilio, e se ne tornasse alla patria.

NOTE:

[323] Othon., in Vit. S. Bonifacii, lib. 1, cap. 28.

[324] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 56.

[325] Camil. Peregrinus, Hist. Princ. Langob. tom. 2 Rer. Italic.

[326] Blancus, in Notis ad Paul. Diac., tom. 1 Rer. Ital.

[327] Saxius, in Notis ad Sigonium, de Reg. Ital.

[328] Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCXXXIX. Indiz. VII.

    GREGORIO III papa 9.
    LEONE Isauro imperad. 23.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 20.
    LIUTPRANDO re 28.
    ILDEBRANDO re 4.


Più vigorosi che mai tornarono in quest'anno i Saraceni ad infestare la
Francia. Presero, per attestato di Paolo Diacono[329], la città d'Arles,
e portarono la desolazione per tutta la Provenza. Carlo Martello,
governator d'essa Francia, stimò bene in questa congiuntura di chiamare
in aiuto il re Liutprando, e a questo fine gli spedì ambasciatori con
dei regali. Liutprando tra per la stretta amicizia ch'egli saggiamente
mantenne sempre colla nazione franca, e perchè non gli piacea d'avere
per confinanti al suo regno quegl'infedeli sempre ansanti dietro a nuove
conquiste, montò senza dimora a cavallo, e con tutta la sua armata
marciò in soccorso dell'amico principe. Fu cagion questa mossa che i
Saraceni, abbandonata la Provenza, si ritirarono nella lor Linguadoca.
Si sa dal Continuatore di Fredegario[330] che Carlo Martello anch'egli
con tutto il suo sforzo venne in Provenza, ricuperò quelle terre e
città, e, secondo l'uso suo, come se fossero paese di conquista, le unì
al suo dominio. Cessato il bisogno, Liutprando se ne tornò col suo
esercito a casa. Truovasi in quest'anno la fondazione dell'insigne
monistero della Novalesa a piè del monte Cenisio, diocesi allora del
vescovo di Morienna. Lo strumento fu dato alla luce dal p.
Mabillone[331], e, siccome egli e il p. Pagi[332] hanno osservato, le
note cronologiche di quel documento appartengono all'anno presente, in
cui il fondatore _Abbone_, ricchissimo signore, donò a quel sacro luogo
un'immensa quantità di beni, posti in varii contadi di qua e di là
dall'Alpi Cozie. Crebbe poscia quel monistero in credito di santità, e
molto più in ricchezze, come era in uso di questi tempi, ne' quali gran
copia di stabili colava ogni dì nelle chiese e ne' monisteri _pro
redemptione animae suae_. Si legge ancora la cronica antica d'esso
monistero, pubblicata dal Du-Chesne, e da me accresciuta[333] nel corpo
_Rerum Italicarum_, ma contenente fra molte verità non poche favole. E
perciocchè il prurito d'ingrandir l'origine delle città e delle
famiglie, passò talvolta anche nei monaci per dare maggior lustro alla
fondazione de' lor monisteri, non bastò a quei della Novalesa di avere
_Abbone_, uomo privato, per lor fondatore; vollero ancora che questo
_Abbone_ fosse patrizio romano, gran dignità in questi tempi, ma sognata
in esso Abbone. Ho io osservato altrove[334], che anche in Padova col
tempo fu spacciato per fondatore del celebre monistero di santa Giustina
_Opilione patrizio_, ma con documenti che non sussistono. Quello della
Novalesa, benchè servisse con parte delle sue sostanze a fondare il
cospicuo monistero di _Breme_, o _Bremido_ nel Monferrato, e tuttochè
decaduto dall'antico splendore, pure conserva alcuna delle sue
prerogative, perchè ornato di autorità diocesana, ridotto per altro in
commenda, di cui oggidì è abate commendatario il signor Carlo Francesco
Badia, insigne fra i sacri oratori. Circa questi tempi _Ratchis_ duca
del Friuli, forse irritato da qualche insolenza de' vicini Schiavoni, e
perchè essi negavano un annuo tributo solito a pagarsi da essi al
principe d'esso Friuli[335], col suo esercito entrò nella Carniola da
essi posseduta, e fece un gran macello di quella gente, e devastò tutto
il loro paese. Accadde che una brigata d'essi Schiavoni venne addosso al
medesimo Ratchis senza lasciargli tempo da farsi dare la lancia dal suo
scudiere. Ma egli colla mazza che aveva in mano sì fieramente percosse
sul capo al primo che se gli appressò, che lo stese morto a terra, e
questo colpo bastò a sbrigarlo dagli altri. Fu nell'anno presente,
secondo l'asserzione di Andrea Dandolo[336], creato maestro de' militi,
cioè governatore di Venezia, _Deusdedit_ figliuolo del duca _Orso_,
ucciso già nelle fazioni di quel popolo. Questo onore a lui fu fatto in
ricompensa delle ingiurie e dei danni in addietro sofferti.

NOTE:

[329] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 54.

[330] Continuator Fredegar., apud Du-Chesne, tom. 1.

[331] Mabill., Append. de Re Diplomatica.

[332] Pagius, ad Annal. Baron.

[333] Rer. Ital. P. II, tom. 2.

[334] Antiquit. Ital., Dissertat. XXXIV.

[335] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 52.

[336] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCXL. Indizione VIII.

    GREGORIO III papa 10.
    LEONE Isauro imperad. 24.
    COSTANTINO Copronimo Augusto 21.
    LIUTPRANDO 29.
    ILDEBRANDO re 5.


S'imbrogliarono in quest'anno non poco gli affari d'Italia, ma senza che
a noi sia pervenuta notizia de' veri motivi di questa turbolenza. Altro
non sappiamo da Paolo Diacono[337], se non che _Trasmondo_ duca di
Spoleti si ribellò contra del re Liutprando. Però esso re passò a quella
volta coll'esercito, affine di dargli il dovuto gastigo. Alle forze di
questo re, e re bellicoso, non potè resistere Trasmondo, e lasciato in
balia di lui tutto il paese, scappò a Roma: dopo di che Liutprando creò
duca di Spoleti _Ilderico_ suo fedele. Ascoltiamo ora Anastasio[338], o
chiunque sia l'autore della Vita di papa Zacheria, che ci ha conservato
varie particolarità di quegli avvenimenti. Scrive egli che l'Italia e il
ducato romano furono in gran turbazione, perchè essendo perseguitato dal
re Liutprando Trasmondo duca di Spoleti, questi si rifugiò in Roma. Fece
istanza il re per averlo nelle mani, perchè probabilmente v'era
convenzione fra l'uno e l'altro stato di darsi vicendevolmente i ribelli
e servi fuggitivi. Ma papa _Gregorio III_ e _Stefano_ patrizio e duca, e
l'esercito romano ricusarono di darlo. Per questo rifiuto, irritato il
re, entrò nel ducato romano, e colla forza s'impadronì di quattro città
romane, cioè di Amelia, Orta, Polimarzo (ossia Bomarzo, creduto da altri
Palombara) e Blera, ossia Bleda. Ciò fatto, e lasciate quivi delle buone
guarnigioni, se ne tornò a Pavia, correndo il mese d'agosto della
_Indizione II_. Convengono gli eruditi in credere che s'abbia quivi a
scrivere nella _Indizione VIII_ corrente fino al settembre dell'anno
presente. Ma da che si vide Liutprando allontanato cotanto da quelle
contrade, Trasmondo fatta lega coi Romani, e tirato in essa anche
_Godescalco_ duca di Benevento, si mise all'ordine per ricuperare il
perduto ducato. Raunossi a questo effetto quanto v'era di soldatesche
nel ducato romano, e da due parti entraron quegli armati nelle terre di
Spoleti. I primi a darsi furono quei di Marsi, di Forconio, di Valva e
di Penna, terre d'esso ducato, oggidì del regno di Napoli. Entrati gli
altri nella Sabina (parte allora del medesimo ducato), trovarono il
popolo di Rieti ubbidiente ai loro cenni. Così felici successi furono
cagione che Trasmondo senza fatica ricuperasse anche la città di
Spoleti, e tutto insieme il restante del ducato. Il conte di
Campello[339], a cui la immaginazione sua forniva tutti i colori per
descrivere quei fatti, come se vi fosse stato presente, quantunque
confonda non poco i tempi e le imprese, scrive che _Ilderico_, posto dal
re Liutprando per duca in quelle contrade, restò ucciso in questi
contrasti. Onde l'abbia egli preso nol so, nè si veggono le citazioni
ch'egli qui aveva promesso. Ora certo è che quel ducato ritornò
all'ubbidienza di Trasmondo. Nel registro del monistero di Farfa si
legge una donazione d'esso duca, fatta _mense januario Indictione VIII_,
che potrebbe appartenere a quest'anno prima della ribellione. Chi poi di
sua testa vuol qui farci credere che Liutprando altro motivo per
imprendere questa guerra non avesse fuorchè l'ansietà di sottomettere al
suo totale dominio i duchi e ducati di Spoleti e Benevento, e che Leone
Isauro avesse mano in questi torbidi per opprimere i papi contrarii alle
sue perverse opinioni, parlano in aria, qualora non adducano la autorità
degli antichi. In quest'anno, per attestato del Dandolo[340], fu
governata Venezia da _Gioviano_, o _Giuliano_ Ipato, cioè _console
imperiale_, uomo nobile e cospicuo per le molte sue virtù, in riguardo
delle quali egli meritò un sì fatto onore[341]. Ciò che significhi
questo titolo, già ce lo ha detto il Dandolo, siccome ancora chi lo
conferisse. Ma c'è un bel passo a noi conservato da Francesco Sansovino,
che egregiamente dà lume ad esso e a noi cognizione dello stato di
questi tempi. Parla de' popoli dell'Istria, i quali nell'anno 804
sottoposti a Carlo Magno e a Pippino suo figliuolo re d'Italia, si
lagnavano in una scrittura di _Giovanni_ duca, loro governatore[342].
_Ab antiquo tempore_, diceano essi, _dum fuimus sub potestate Graecorum
imperii, habuerunt parentes nostri consuetudinem habendi actus
tribunati, domesticos, seu vicarios, necnon loci servatores. Et per
ipsos honores ambulabant ad communionem, et sedebant in consessu
unusquisque pro suo honore. Et qui volebant meliorem honorem habere de
tribuno, ambulabant ad imperium_ (imperatorem), _qui illum ordinabat
hypatum. Tunc ille, qui imperialis erat hypatus, in omni loco secundum
illum magistratum militum praecedebat._ Così noi troviamo nelle città di
Napoli, di Gaeta e di Amalfi, sottoposte ai greci Augusti, i governatori
di esse, col titolo ora di _duchi_, ora d'_ipati_, ossia di _consoli_ ed
ora di _maestri de' militi_.

NOTE:

[337] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 5.

[338] Anastas. Biblioth., in Zacharia, tom. 12 Rer. Italic.

[339] Campelli, Storia di Spoleti, lib. 13.

[340] Dandulus, in Chronic., tom. 12 Rer. Italic.

[341] _Gl'imperadori di Costantinopoli, amici ed alleati dei Veneziani,
sovente davano questo titolo, allora di molto onore, ai capi della
repubblica._

[342] Sansovino, Venezia illustrat., lib. 13, facciata 356.



    Anno di CRISTO DCCXLI. Indizione IX.

    ZACHERIA papa 1.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 22 e 1.
    LIUTPRANDO re 30.
    ILDEBRANDO re 6.


L'ultimo anno della vita di _Leone Isauro_ imperadore fu questo.
Un'idropisia il condusse al fine de' suoi giorni nel dì 18 di giugno,
con lasciare il suo nome in abominazione ai popoli per la guerra da lui
cominciata contro alle sacre immagini. Restò alla testa dell'imperio
_Costantino Copronimo_, principe peggiore e più crudele del padre, de'
cui vizii non si saziano di parlare gli scrittori greci[343]. Ma sul
principio corse egli pericolo di perdere affatto l'imperio e la vita.
Era egli uscito in campagna contra degli Arabi; quando _Artabasdo_ o
_Artabaso_, suo cognato, si sollevò contra di lui per torgli la corona
di capo. Dai suoi parziali fu fatta correre voce in Costantinopoli che
Costantino avea cessato di vivere. Di più non vi volle perchè tutto il
popolo ne facesse festa, e caricasse di villanie e maledizioni il
creduto defunto Augusto. Anche il patriarca _Anastasio_, uomo iniquo,
che sapea navigare ad ogni vento, d'iconoclasta ch'era dianzi, voltato
mantello, si cangiò in protettor delle sacre immagini; anzi con
giuramento protestò d'avere inteso dalla bocca di esso Costantino delle
orride asserzioni ereticali. Però tutto il popolo gridò al imperadore
_Artabasdo_, il quale non fu lento a portarsi a Costantinopoli, dove,
per cattivarsi gli animi de' cittadini, fece rimettere nelle chiese le
sacre immagini. A tutta prima fuggì Costantino Copronimo; poi ripigliato
alquanto di forza, venne alla volta di Costantinopoli, s'impadronì di
Crisopoli, dove era l'arsenale in faccia della città, e succedette anche
qualche zuffa fra i due rivali imperadori. Ma non veggendosi egli quivi
sicuro, si ritirò, o andò a svernare nella città d'Amoria. Era forte in
collera il re _Liutprando_ contra di Trasmondo per avere, ad onta di
lui, ripigliato il ducato di Spoleti, e contra del duca di Benevento che
s'era collegato con esso Trasmondo, ma più coi Romani, dacchè colle lor
forze avevano rimesso in casa quel duca. Però venuta la stagione in cui
sogliono i re uscire per far guerra, con una poderosa armata s'incamminò
verso Spoleti. Non è chiaro se a questi tempi, oppure alla guerra
dell'anno 728 e 729 appartenga ciò che narra Paolo Diacono[344], poco
curante dell'ordine de' tempi in riferir le imprese: cioè che mentre il
re Liutprando si trovava lontano, in Rimini, ossia nel suo territorio,
fu messo a fil di spada il di lui esercito. Per me credo più verisimile
che ciò accadesse nella precedente guerra. Certo è che in questa esso re
giunse nella Pentapoli, e nel passare da Fano a Fossombrone, in un bosco
situato fra quelle due città, gli Spoletini e Romani, che vi si erano
posti in agguato, gli diedero molto da fare, con impedirgli il passo.
Tuttavia a forza d'armi si fece largo, e continuò la marcia. Aveva egli
data la retroguardia a _Ratchis_ duca del Friuli e ad _Astolfo_ suo
fratello; e però ad essi più che agli altri toccò di sostenere il peso
de' nemici, i quali andavano malamente pizzicando alla coda i Furlani.
Tale nondimeno fu la bravura di questi due condottieri e della lor gente
a quel brutto passo, che sempre combattendo e ammazzando molti degli
avversarii, seguitarono il loro cammino, con restar solamente feriti
alquanti della loro brigata. Si avanzò fra gli altri uno de' più
valorosi Spoletini, tutto armato, per nome Berto o Bertone, che chiamato
per nome Ratchis, disse che la voleva con lui. Ratchis il lasciò venire,
e con un colpo il gittò da cavallo. Accorsero i Furlani del suo seguito;
ma Ratchis, uomo misericordioso, gli permise di fuggire; e colui, usando
di questa grazia, carponi colle mani e co' piedi aggrappandosi ebbe la
fortuna di salvarsi nel bosco. Anche addosso ad Astolfo due coraggiosi
Spoletini corsero, mentr'egli stava passando per un ponte venendogli
alla schiena. Ma egli, voltata faccia, con un fendente ne cacciò l'uno
giù dal ponte, e immediatamente rivolto all'altro, l'uccise e fecelo
rotolar giù nel fiume.

Allorchè succedette l'altra rottura fra i Romani e Longobardi nell'anno
728 e 729, veggendosi a mal partito il santo papa Gregorio II, perchè
dall'un canto venivano contra di Roma i Longobardi, e dall'altro avea
l'imperadore nemico, cioè più disposto a fargli del male che del bene,
prese la risoluzione di raccomandarsi efficacemente con sue lettere a
_Carlo Martello_ reggente della Francia, potentissimo e prode guerriero
de' tempi presenti. Questa particolarità la ricaviamo dal solo
Anastasio[345], ma senza sapere che effetto producesse cotal ricorso.
Della stessa massima si servì ancora, e molto più solennemente, papa
_Gregorio III_ per l'impegno preso dai Romani in favore del duca di
Spoleti contra del re Liutprando, ben conoscendo che restava esposto il
ducato romano alle forze e sdegno di quel re irritato. Però abbiamo dal
continuatore di Fredegario[346] ch'esso papa spedì in quest'anno l'una
dietro l'altra due ambascerie a Carlo Martello (cosa non più veduta per
l'addietro in Francia), e gli mandò le chiavi del sepolcro di san Pietro
con grandi ed infiniti regali. Pare anche che Anastasio[347] faccia
menzione di questo fatto, ma non parla se non d'una sola ambasceria. Le
dimande del papa erano, come i padri Ruinart e Pagi han dimostrato, che
Carlo Martello volesse imprendere la difesa di Roma contra dei
Longobardi, poichè in ricompensa esso papa coi Romani gli offerivano di
levarsi affatto dall'ubbidienza dell'imperadore, che non potea
soccorrerli, anzi gli aveva in odio, e di dare a lui la signoria di Roma
col titolo di _console_, ossia di _patrizio_. Carlo Martello con
ammirabil magnificenza ricevette questa ambasceria; mandò anch'egli de'
suntuosi regali al papa; e tornando gli ambasciatori pontifizii
indietro, unì con loro _Grimone_ abbate di Corbeia, e Sigeberto monaco
rinchiuso di san Dionisio, con ordine di venire a Roma. Di più non
dicono gli storici. Ma che questa fosse l'intenzione del papa, pare che
chiaramente si deduca dalle parole di una lettera scritta dipoi al
medesimo Carlo Martello da esso Gregorio III, riportata dal cardinal
Baronio[348] e nelle raccolte de' concilii, dove dice: _Conjuro te per
Deum vivum et verum, ut per ipsas sacratissimas claves confessionis
beati Petri, quas vobis AD REGNUM direximus, ut non praeponas amicitiam
regum Langobardorum amori principis Apostolorum_, ec. E negli Annali di
Metz presso il Du-Chesne[349] si legge che in tal occasione papa
Gregorio III mandò a Carlo Martello una lettera _col decreto de'
principali Romani_, contenente che il popolo romano, _relicta
imperatoris dominatione_, desideravano di mettersi sotto la difesa ed
invitta clemenza di esso Carlo. Cosa risolvesse Carlo Martello, amico
del re Liutprando, e da lui soccorso nell'anno precedente, resta ancora
da sapersi. Solamente abbiamo dalla divisione de' regni fatta da
Lodovico Pio fra' suoi figliuoli[350], che egli loro raccomanda la cura
e la difesa della Chiesa di san Pietro, cioè de' romani pontefici,
siccome l'aveano avuta _Carlo_ suo bisavolo, _Pippino_ avolo, _Carlo_
genitore ed egli stesso. Ma questo non chiarisce se Carlo Martello
accettasse veramente il patriarcato di Roma, in quanto esso portava seco
anche la signoria di Roma e del suo ducato; nè se cessasse allora in
essa Roma totalmente il dominio imperiale.

Intanto il re Liutprando continuava il suo viaggio per far pentire
Trasmondo duca di Spoleti, i Romani e i Beneventani della lega fatta
contro di lui. Ma qui si truova un gruppo assai intricato di storia, che
non si può bene sciogliere, e convien solo giocar ad indovinare. Nè
Paolo Diacono, nè Anastasio dicono punto che il re Liutprando passasse
all'assedio di Roma; eppur pare che questo si deduca, e lo dedusse in
fatti il cardinal Baronio dalle due lettere scritte da papa Gregorio
III. Si sa che Liutprando conquistò il ducato di Spoleti, e parrebbe che
questo dovesse precedere l'insulto fatto a Roma; ma Anastasio scrive che
i Romani furono in aiuto del re contra degli Spoletini. Parimente è a
noi noto che Liutprando passò anche a Benevento, e ne scacciò il duca
_Godescalco_; ma senza che si sappia il tempo preciso di tale azione.
Dirò io quello che mi sembra più verisimile. Condusse il re Liutprando
l'armata sua addosso al ducato di Spoleti, dove Trasmondo colle forze
sue e de' collegati cominciò a difendersi con tutto valore. Mentre si
disputava fra loro, l'armata regale, parte pel bisogno, e parte per gli
eccessi quasi inevitabili delle guerre, attendeva a bottinare, non
solamente in quel ducato, ma eziandio nelle terre vicine del ducato
romano, certo essendo che la giurisdizione del ducato spoletino si
stendeva per la Sabina ad una gran vicinanza di Roma, e fra gli altri
andarono a sacco molti poderi e beni della Chiesa romana. In questi
brutti frangenti, e nel timore di peggio, Gregorio III papa scrive le
due lettere suddette[351] a Carlo Martello, colle quali, il più
pateticamente che può, lo scongiura d'aiuto, con dirgli, fra l'altre
cose, che nell'anno precedente nel passaggio dei Longobardi verso
Spoleti aveano patito di molto nelle parti di Ravenna i beni allodiali e
livellarii spettanti alla chiesa di san Pietro, che servivano alla
luminaria d'essa chiesa e al sovvenimento de' poveri. Che in ripassando
per colà in quest'anno i Longobardi aveano fatto del resto, mettendo a
ferro e fuoco quanto incontravano per cammino. Che facevano ora lo
stesso in varie parti del ducato romano, con avere distrutti i beni del
beato Pietro principe degli Apostoli, e condotti via gli armenti. Il
prega di non credere ai re Liutprando ed Ilprando, se gli rappresentano
d'aver giusti motivi di procedere contro i duchi di Spoleti e Benevento,
perchè questi in niuna cosa hanno mancato, ed essere solamente
perseguitati per non aver voluto nell'anno innanzi volgere le lor armi
contra del ducato romano, nè devastare i beni de' santi Apostoli, nè
dare il sacco ai Romani, come aveano fatto essi due re. Poichè per altro
i suddetti due duchi si esibivano pronti a soddisfare a tutti i lor
doveri verso dei re _secondo l'antica consuetudine_. Nell'altra lettera
torna a toccare la persecuzione ed oppressione fatta dai Longobardi, con
aver tolto _omnia luminaria ad honorem ipsius principis Apostolorum.
Unde et ecclesia sancti Petri denudata est, et in nimiam desolationem
redacta_. Di qui ricavò il cardinal Baronio che l'armata longobarda
fosse sotto a Roma, ed empiamente saccheggiasse la basilica vaticana,
con inveir poscia contra del re Liutprando, e trovare che per gastigo di
questa iniquità egli mancò di vita senza prole; quasichè Dio in tanti
anni di matrimonio per l'addietro non gli avesse data successione in
pena di un peccato che egli dovea poi fare. Va anche dubitando lo
zelante cardinale che Carlo Martello in quest'anno, per non aver dato
aiuto al papa, presto e miserabilmente morisse, quando appunto egli da
lunghe febbri e da una grave inappetenza oppresso, non potè accudire
all'Italia, e morì in tempi di queste medesime turbolenze. Sebbene è
probabile ancora che l'aiutasse con raccomandazioni al re Liutprando,
giacchè vedremo fra poco s'esso re fosse o non fosse rispettoso verso i
sommi pontefici e verso la santa Chiesa romana. Ma il punto principale
è, che non sussiste il sacco che il dottissimo cardinale immaginò dato
alla basilica vaticana dall'esercito di Liutprando. Papa Gregorio III
non parla quivi d'essa _basilica_, parla della _Chiesa di s. Pietro_,
cioè della _Chiesa romana_, secondo l'uso di questi tempi, ne' quali
ogni chiesa e monistero prendeva il nome dal suo titolare. Nomavansi in
questa maniera le chiese _di sant'Ambrosio_ di Milano, di _san
Giminiano_ di Modena, e simili. Nè altro dice esso pontefice, se non che
i beni posseduti dalla santa Chiesa romana in varii di quei territorii,
dove si faceva la guerra, erano stati devastati; male accaduto in
infiniti altri incontri di questa fatta, e spesso contra il volere dei
lor re e dei generali. Però non si accorda colla verità che Liutprando
andasse sotto Roma, e molto meno che saccheggiasse la basilica
sacrosanta del Vaticano; e per questa ragione Anastasio, o chiunque sia
l'autor della vita di papa Zacheria, non parlò punto di questa
insussistente empietà.

Potrebbe poi parere che mentre il re Liutprando era impegnato nella
guerra contro Spoleti, accadesse un altro fatto, raccontato fuor di sito
da Paolo Diacono[352], cioè che i Romani, unito un grosso esercito, alla
testa di cui era _Agatone_ duca di Perugia, vennero per ritorre
_Bologna_ dalle mani de' Longobardi. Ma v'erano di guarnigione tre bravi
uffiziali, cioè Valcari, Peredeo e Rotari, i quali facendo una vigorosa
sortita sopra essi Romani, molti ne tagliarono a pezzi, e il resto
misero in fuga. Resta tuttavia in essa città di Bologna una bella
memoria del dominio dei re Liutprando ed Ilprando, cioè un vaso di marmo
nella chiesa di s. Stefano, per uso sacro, coll'iscrizione di stile
barbaro, quale in quei tempi d'ignoranza sovente si trova. Fu essa
inscrizione spiegata ed illustrata dal conte Valerio Zani, e si legge
presso il conte Malvasia[353]. Eccone le parole.

     VMILIBVS VOTA SVSCIPE DOMINE
    DOMNORVM NOSTRORVM LIVTPRANTE
    ILPRANTE REGIBVS ET DOMNI
    BARBATII EPISC. SANCTE ECCLESIE
    BONONIENSIS. HIC IN HONOREM RELIGIOSI SVA
    PRAECEPTA OBTVLERVNT, VNDE HVNC VAS
    IMPLEATVR IN CENAM DOMINI SALVATORIS
    ET SI QVA MVNERA CVISQVAM MINVERIT
    DEVS REQVIRET

Per altro è incerto se il tentativo fatto dai Romani, cioè dai sudditi
dell'imperadore, per ricuperar Bologna, appartenga alla precedente
guerra dell'anno 728 e 729, ovvero ai tempi presenti. Ora noi sappiamo
da Anastasio[354], che non intervenne il popolo romano alla difesa di
Trasmondo, allorchè il re Liutprando armato venne per ritorgli il ducato
di Spoleti. E ne adduce quello storico la ragione, o il pretesto, perchè
Trasmondo, dopo essere rientrato nel possesso di quel ducato, non si
prese più cura o pensiero di cavar dalle mani del re le quattro città
dianzi occupate di ragion del ducato romano, e per non aver mantenuto
altri patti seguiti fra loro. Soggiugne Anastasio, che mentre il re
Liutprando si preparava con tutto l'esercito per passare all'offesa del
ducato romano, Dio chiamò a miglior vita il pontefice _Gregorio III_,
con lasciare in Roma un bell'odore di santità, e non poche memorie della
sua pietà e munificenza, che son descritte ad una ad una dallo stesso
autore. Finì egli di vivere sul fine di novembre. Diede alla luce
monsignor Fontanini[355] una lettera non più veduta di questo papa,
cavata dalla Raccolta MS. degli antichi Canoni, fatta dal cardinal
Deusdedit. Essa è scritta ai vescovi _Tusciae Langobardorum_, con
pregarli di unirsi con Adeodato suddiacono regionario, _ad obsecrandum
et Deo favente obtinendum pro quatuor castris, quae anno praeterito
beato Petro oblata sunt, ut restituantur a filiis nostris Liutprando et
Hilprando. _ Leggesi la data_ idus octobris Indictione IX_, cioè,
secondochè pensa il suddetto prelato, nell'anno 740. Ma non essendoci
probabilità che nell'anno 739 il re Liutprando, impegnato co' suoi
soccorsi nella guerra dei Saraceni in Provenza, facesse l'impresa di
Spoleti, convien credere che l'occupazion di quelle quattro castella o
città seguisse _anno praeterito_, cioè nell'anno 740, siccome ho detto;
e per conseguente che quella lettera sia scritta nel presente 741, prima
che questo pontefice passasse a miglior vita, e che in vece
d'_Indictione IX_, si abbia a leggere _Indictione X_, se pure
l'indizione allora non correva in Roma sino al fine dell'anno: nel qual
caso nulla sarebbe da mutare. Che se lo stesso monsignor Fontanini ci fa
quivi sapere che _Perugia_ era la capitale _della Toscana de'
Longobardi_, avrebbe egli durata fatica a provar quest'asserzione,
perchè sotto i Longobardi non apparisce che la Toscana costituisse un
ducato, o marca, di cui fosse capo qualche città. Quello ch'è peggio,
abbiam veduto poco fa _Agatone duca di Perugia_ uffizial de' Romani,
ossia degl'imperiali; e però neppur si vede che _Perugia_ in questi
tempi fosse sottoposta ai Longobardi, non che capitale della Toscana ad
essi spettante.

Ora dopo quattro giorni di sede vacante fu assunto al pontificato romano
_Zacheria_ di nazione greco, personaggio di gran benignità, di tutta
bontà, amatore del clero e popolo romano, che non sapea se non con
fatica andare in collera, facile a perdonare, e che fu liberale infin
verso coloro che dianzi l'aveano perseguitato. Questo buon papa[356],
trovati i pubblici affari in iscompiglio per la guerra di Spoleti, in
vece di mettere le sue speranze nel soccorso de' Franchi, lo mise in
Dio, e coraggiosamente spedì tosto un'ambasceria al re Liutprando con
esortazioni da padre, perchè non fosse turbata la pace del popolo
romano, con pregarlo spezialmente della restituzione delle suddette
quattro città, ed esibirgli la unione del popolo romano contro al duca
di Spoleti di lui ribello. Con tutta sommessione accolse Liutprando
questa ambasciata, e diede parola di restituir le città suddette. Dopo
di che unitosi l'esercito romano con quello de' Longobardi, marciarono
insieme alla volta di Spoleti. Il duca Trasmondo, veggendo che non v'era
scampo per lui, elesse il partito di rimettersi nella clemenza del re
Liutprando, e andò a gittarsi nelle di lui mani. Il re si contentò
ch'egli si facesse cherico, ricompensa adeguata a chi aveva obbligato il
padre ad abbracciar quello stato; e poi sostituì in suo luogo duca di
Spoleti _Ansprando_, ossia _Agiprando_, suo nipote. Così Anastasio, così
Paolo Diacono[357]; se non che Paolo nulla dice che i Romani fossero in
aiuto del re Liutprando contra di Trasmondo. Per altro non è sì facile
l'accordare insieme la narrativa di Anastasio colle lettere sovraccitate
di papa Gregorio III. Dice il papa non avere Trasmondo avuto altro reato
presso di Liutprando, che quello di aver ricusato di muovere le sue armi
nell'anno antecedente contra di Roma. Anastasio all'incontro narra che
Liutprando, dopo essersi impadronito del ducato romano, fece istanza ai
Romani, perchè gli dessero il fuggito Trasmondo; e a cagione del loro
rifiuto occupò le quattro già mentovate città, e quietamente dipoi se ne
tornò a Pavia. S'egli avesse avuto mal animo contro di Roma, era allora
vittorioso, aveva accresciute le sue forze coll'acquisto dell'ampio
ducato di Spoleti, e con un duca nuovo sua creatura: non potea darsi più
propizia congiuntura di quella per far del male ai Romani. Pure, secondo
Anastasio, nulla ne fece, e tornossene alla sua reggia. Vuole la lettera
di papa Gregorio, che Trasmondo fosse innocente, ed ingiustamente
perseguitato da Liutprando; e noi abbiamo da Anastasio che papa
Zacheria, pontefice non inferior di virtù al suo antecessore,
consigliava i Romani di unire le lor armi contra d'esso duca Trasmondo:
il che maggiormente servì ad abbatterlo. Tralascio altre osservazioni.
Fu in quest'anno maestro dei militi e governator di Venezia _Giovanni
Fabriciaco_, per quanto attesta il Dandolo[358]. Ma costui non arrivò a
compire l'anno del suo governo, perchè i Veneziani il deposero, e gli
cavarono anche gli occhi. Nel mese ancor d'ottobre del presente anno
finì di vivere dopo lunga malattia _Carlo Martello_, reggente per tanti
anni della monarchia franzese; celebre per tante vittorie da lui
riportate, e benemerito di quella corona per avere oppressi molti
tiranni, ma più benemerito della sua famiglia, ch'egli incamminò ad
occupar quella stessa corona. Tuttavia perchè questo principe si servì
delle rendite delle chiese per pagare i soldati in occasion di tante
guerre, e introdusse lo abuso di dar le badie dei monaci in beneficio ai
suoi uffiziali laici, lasciò dopo di sè una memoria svantaggiosa, e
servì d'esempio ai suoi figliuoli e nipoti per continuar nell'abuso
suddetto. Restarono di lui tre figliuoli _Carlomanno_, e _Pippino_, nati
dalle prime nozze, e _Griffone_ dalle seconde. Non accordandosi i due
primi coll'altro, si venne all'armi. Griffone fu da quelli preso e
confinato in una prigione, e _Sonichilde_ sua madre in un monistero. Il
cognome di _Martello_ dato ad esso Carlo, non si truova presso alcuno
degli antichi annalisti franzesi. Solamente comincia a leggersi nelle
storie di Epidanno e Odoranno, che fiorirono nel secolo undecimo.

NOTE:

[343] Theoph., in Chronogr. Niceph., in Chronic.

[344] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 54 et 56.

[345] Anastas., in Vit. Stephan. III.

[346] Continuator Fredegar., inter Opera Greg. Turonen.

[347] Anastas., in Gregor. III, et in Additamen.

[348] Baron., Annal. Eccl. ad ann. 740.

[349] Du-Chesne, tom. 3 Rer. Franc.

[350] Baluzius, Capitular. Regum Francor. tom. 1, pag. 685.

[351] Labbe, Concilior., tom. 6.

[352] Paulus Diaconus, lib. 6, cap. 54.

[353] Malvasia, Marm. Felsin. Section. IV, c. 10.

[354] Anastas., in Zachar.

[355] Fontaninius, in Antiquit. Hort., lib. 2, c. 7.

[356] Anastas., in Zachar.

[357] Paulus Diacon., lib. 6, cap. 57.

[358] Dandulus, in Chron., tom. 12. Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCXLII. Indizione X.

    ZACHERIA papa 2.
    COSTANTINO Copronimo imperatore 23 e 2.
    LIUTPRANDO re 31.
    ILDEBRANDO re 7.


O nel precedente anno, o pur nel presente dee ragionevolmente essere
accaduta la mutazione fatta nel ducato beneventano. Paolo Diacono[359]
immediatamente dopo la presa di Spoleti seguita a dire che il re
Liutprando s'incamminò alla volta di Benevento con tutte le sue forze
per punire _Godescalco_ duca, siccome vedemmo, rivoltato contra di lui.
Ma non aspettò Godescalco l'arrivo del re armato e vittorioso. Fece
trasportare in nave tutte le preziose suppellettili del palazzo e la
moglie sua, con pensiero di fuggirsene in Grecia. A lui nulla giovò,
perchè mentre anch'egli va per imbarcarsi, i Beneventani parziali di
_Gisolfo II_, gli furono addosso e l'ammazzarono. Ebbe sua moglie la
fortuna di salvarsi e di ricoverarsi con tutto il suo avere a
Costantinopoli. Uno dei suoi reati presso il re Liutprando vo io
intendendo che fosse l'aver egli al suo dispetto preso il ducato di
Benevento senza rispettare l'autorità regale, e in pregiudizio dei
diritti competenti a _Gisolfo II_, siccome figliuolo di _Grimoaldo II_
duca. Comunque sia, arrivato Liutprando a Benevento, quivi pose per duca
esso _Gisolfo_. Però non si può mai menar buono a Camillo
Pellegrino[360] il pretendersi da lui che la caduta di Godescalco e la
assunzione di Gisolfo II sieno da riferire all'anno 752. Senza documenti
autentici non oserei io qui di contrariare a Paolo Diacono, scrittore
del presente secolo, che chiaramente mette in questi tempi la mutazione
suddetta. E però essa appartiene all'anno presente, ovvero all'anno
antecedente. Dopo avere stabilita la quiete nel ducato di Benevento, se
ne tornò indietro il re Liutprando, e mentre era nella città di Orta,
udì che papa _Zacheria_ s'era mosso da Roma per venire a trovarlo. Per
quante lettere avesse scritto il buon pontefice, non avea finora veduto
adempiuta la promessa fatta da esso re di restituire le quattro città
occupate al ducato romano: laonde si determinò di andar egli in persona
a farne istanza, ben persuaso che la maestà, da cui è accompagnato il
sublime grado di un romano pontefice, leverebbe tutti gli ostacoli
all'esecuzion de' trattati. Nè si ingannò[361]. Partito da Roma col suo
clero, animosamente si mise in viaggio per abboccarsi con Liutprando.
Appena intese il re questa sua mossa, che spedì ad incontrarlo
_Grimoaldo_ suo ambasciatore, da cui fu condotto fino a Narni. Poscia
mandandogli incontro i suoi duchi e primi uffiziali con alcuni
reggimenti di soldati, che andarono a riceverlo otto miglia lungi da
Narni, e il condussero in un venerdì a Terni città del ducato di
Spoleti. In quella città davanti alla porta della basilica di s.
Valentino se gli presentò con tutta riverenza il re Liutprando,
accompagnato dal resto dei suoi uffiziali e soldati. Entrati nella
chiesa, fecero le loro orazioni, ed usciti che furono, il re quasi per
un mezzo miglio ossequiosamente addestrò il pontefice; ed amendue
stettero quel dì nelle loro tende. Nel sabbato seguente seguì un
abboccamento, in cui il saggio pontefice con tal grazia ed efficacia
perorò, che tutta la politica infine s'inchinò alla religione.
Liutprando non solamente accordò la pronta restituzione di quelle città,
_due anni prima_ occupate, con tutti i loro abitatori, e ne fece la
donazione in iscritto; ma concedette ancora tutto quanto seppe dimandare
il papa. Cioè ridonò a s. Pietro il patrimonio, ossia i poderi della
Sabina, che trenta anni avanti gli erano stati tolti, e i patrimonii di
Narni, di Osimo, d'Ancona e di Numana, e la valle chiamata Grande nel
territorio di Sutri; e confermò la pace col ducato romano per venti anni
avvenire. Oltre a ciò, donò al pontefice tutti i prigioni da lui fatti
in varie provincie de' Romani, ed anche i Ravennati, con Leone, Sergio,
Vittore ed Agnello consoli di quella città, e spedì lettere in Toscana e
di là dal Po, acciocchè fossero messi in libertà. Or vegga il lettore se
meritava questo re che la sua memoria fosse denigrata cotanto negli
Annali ecclesiastici. Dimandò il re al papa che si degnasse di ordinare
un vescovo in Narni, il cui nome non sappiamo, giacchè era mancato di
vita _Consignense_, ossia _Costantino_, pastore di quella Chiesa, e il
papa lo compiacque. Fu fatta la funzion della consecrazione alla
presenza del re e della sua corte, e sì pia e maestosa comparve, che
molti de' Longobardi non poterono ritener le lagrime per la divozione.
Venuta la domenica, dopo la messa solenne invitato il re andò a pranzo
col papa, e passò il convito con tal piacere, ch'esso re confessò dipoi
di non aver mai mangiato in sua vita con tanto gusto. Nel lunedì si
partì il buon pontefice, e il re mandò in sua compagnia _Agiprando_ duca
di Chiusi suo nipote, e _Taciperto_ gastaldo di Toscanella, e Grimoaldo,
non tanto per onorarlo, quanto perchè gli dessero il possesso delle
soprannominate quattro città: il che fu da loro puntualmente eseguito.
In questa maniera se ne tornò a Roma carico di allori il santo padre, e
perciò accolto con incredibili acclamazioni dal popolo, al quale ordinò
di fare una general processione a s. Pietro, per rendere grazie a Dio
del buon successo dei suoi passi. Queste cose accaddero, dice Anastasio,
nell'_indizione decima_ dell'anno corrente; e però s'intende che
nell'anno 740 erano state occupate quelle quattro città, _ante
biennium_. Abbiamo poi da Niceforo[362] che in quest'anno _Artabaso_
dominante in Costantinopoli dichiarò imperadore e collega _Niceforo_ suo
figliuolo, con farlo coronare dal patriarca Anastasio. Per attestato di
Teofane[363] e di Elmacino[364], diede fine alla sua vita nell'anno
presente _Iscamo_ califa ed imperadore de' Saraceni, il quale, secondo
la testimonianza di Roderico da Toledo[365], signoreggiò l'Iconia, la
Listria, l'Alapia, la Caldea, le due Sorie, la Media, l'Ircania, la
Persia, la Mesopotamia, la Fenicia, la Giudea, l'Egitto, l'Arabia
Maggiore, l'Africa, l'Etiopia, quasi tutta la Spagna, la Linguadoca, e
parte della Guascogna: cotanto era cresciuta la potenza de' Musulmani
Saraceni. Fu dichiarato re della Francia in quest'anno _Chilperico III_,
ed intanto _Carlomanno_ e _Pippino_ divisero fra loro la parte de' beni
di Griffone loro fratello; e, secondo i più accreditati autori, in
questo medesimo anno da Pippino e da Berta sua moglie nacque _Carlo_,
che fu dipoi re ed imperadore, e giustamente si acquistò il titolo di
_Magno_. Si disputa tuttavia intorno al luogo della sua nascita fra i
Tedeschi e Franzesi. Accortisi i Veneziani che il governo limitato d'un
anno pel loro rettore riusciva di incomodo e danno al popolo, elessero
in quest'anno per loro duca o doge _Deusdedit_, figliuolo del duca Orso
ucciso; e questi ebbe anche il titolo d'ipato, ossia di console
imperiale dall'imperadore di Costantinopoli. Leggesi nel Bollario
casinense[366] una bolla, data nell'anno secondo del suo pontificato da
papa Zacheria, in favore dell'insigne monistero di Monte Casino. Ma
quivi l'_indizione II_ non corrisponde all'anno presente, e corrono
sopra quel documento altri riflessi, per i quali lo stesso cardinal
Baronio dubitò della sua legittimità.

NOTE:

[359] Paulus Diacon., lib. 6, cap. 57.

[360] Camill. Peregrinus, Histor. tom. 2 Rer. Ital.

[361] Anastas., in Zachar.

[362] Niceph. in Chron.

[363] Theoph., in Chronogr.

[364] Elmacinus, Hist. Sarac., lib. 1, c. 17.

[365] Roderic., in Histor. Arab.

[366] Margarinius, Bullar. Casinen. tom. 2, Constitut. 7.



    Anno di CRISTO DCCXLIII. Indizione XI.

    ZACHERIA papa 3.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 24 e 3.
    LIUTPRANDO re 32.
    ILDEBRANDO re 8.


Fu decisa in quest'anno la controversia dell'imperio fra _Costantino
Copronimo_ ed _Artabaso_, ossia _Artabasdo_[367]. Vennero alle mani
questi due rivali in Sardi. La peggio toccò ad Artabasdo, che lasciò
anche l'equipaggio in preda ai vittoriosi. Si avventurò un'altra
battaglia, _Niceta_ figliuolo di esso Artabasdo con grande strage de'
suoi fu anch'egli obbligato alla fuga. Ritiraronsi essi in
Costantinopoli, città che venne strettamente assediata da Costantino, e
presa nel dì 2 di novembre. Rimase prigione Artabasdo co' figliuoli.
Costantino, dopo averli fatti accecare insieme col patriarca
_Anastasio_, e coi loro parziali, li fece condurre per loro scherno nel
circo sopra degli asini colla faccia volta alla coda. Nulladimeno
persuaso che l'iniquo patriarca aderisse alle sue opinioni contra le
sacre immagini, il rimise poscia nella sua sedia. Aveva il re Liutprando
ben fatta pace col ducato romano, ma non già coll'esarcato di Ravenna,
nè colla Pentapoli, provincie tuttavia dipendenti dall'imperio. Perciò
in quest'anno fece grande ammasso di genti con disegno di impadronirsi
di quelle provincie; e gli uffiziali suoi cominciarono la danza con
espugnar alcune terre e città. Atterrito da questo turbine e
dall'impotenza di resistere _Eutichio_ patrizio ed esarco di Ravenna,
altro scampo non ebbe, che di ricorrere all'intercessione del sommo
pontefice[368]: al qual fine spedì a Roma una supplica, a nome ancora di
_Giovanni_ arcivescovo d'essa città e de' popoli delle città dell'Emilia
e della Pentapoli, scongiurando che accorresse alla lor salvazione. Il
primo ripiego che prese Zacheria, fu quello d'inviare con lettere e
regali al re Liutprando _Benedetto_ vescovo e visdomino della santa
Chiesa romana, insieme con _Ambrosio_ primicerio de' notai, ad esortarlo
e pregarlo che desistesse dalle offese degli stati imperiali. Trovarono
essi ostinatissimo il re nel disegno di quell'impresa. Allora il buon
papa, lasciato il governo di Roma a _Stefano_ patrizio e duca, qual
padre amorevole, non atterrito dalle fatiche in pro de' suoi figliuoli,
si mosse da Roma alla volta di Ravenna. Fu incontrato il santo pontefice
dall'esarco alla basilica di s. Cristoforo quaranta miglia lungi da
Ravenna, in un luogo chiamato all'Aquila. Presso poi a quella città gli
uscì incontro gran parte del popolo dell'uno e dell'altro sesso,
benedicendo Iddio per la di lui venuta. Di colà spedì egli al re
suddetto Stefano prete ed Ambrosio primicerio, per notificargli il suo
arrivo e la risoluzion presa di portarsi a trovarlo. Arrivarono essi ad
Imola, città in questi tempi posseduta, non men che Bologna e Cesena,
dai Longobardi; ma quivi trovarono delle difficoltà per proseguire nel
viaggio, studiandosi i ministri del re di impedire la venuta del papa.
Di ciò avvertito il santo pastore, confidato nell'aiuto di Dio, mosse
arditamente da Ravenna, e raggiunti i suoi messi nella giurisdizione
longobardica, gl'inviò innanzi al re, che a tutta prima non li volle
ammettere, perchè mal sofferiva la venuta del buon pontefice, il quale
nel dì 28 di giugno arrivò al Po, con trovar ivi i principali ministri
mandati dal re per riceverlo. Con essi il papa si portò a Pavia, e
fermatosi nella basilica di s. Pietro in _Cielo aureo_, situata allora
fuor di Pavia, correndo la vigilia dello stesso principe degli Apostoli,
quivi celebrò messa solenne: dopo di che entrò nella città. Nella festa
seguente invitato dal re nella medesima basilica, solennemente compiè i
sacri uffizii, pranzò col re, e seco poscia con accompagnamento
magnifico fu introdotto nel regal palazzo. Quivi adoperò il pontefice
l'eloquenza sua non solo per distornar Liutprando dall'opprimere
l'esarcato di Ravenna, ma eziandio per indurlo a restituir le città
occupate. Si trovò nel re una gran durezza: tuttavia condiscese in fine
di rilasciare alcuni territorii a Ravenna, e due parti del territorio di
Cesena alla parte della _repubblica_, cioè al romano imperio (che tale
era il linguaggio d'allora), con ritenerne la terza parte in pegno,
finchè tornassero da Costantinopoli i suoi ambasciatori. Ciò fatto, si
partì di Pavia il pontefice, accompagnato da esso re fino al passo del
Po, dove prese comiato da lui, ma con inviar seco i suoi duchi e
primati, ed altri che eseguissero il concordato. Continuato poscia il
viaggio, e riempiendo di consolazione i popoli per dovunque passava,
siccome messagger di pace, arrivò finalmente a Roma, dove in rendimento
di grazie a Dio celebrò di nuovo con tutto il popolo la festa dei santi
apostoli Pietro e Paolo. Degna cosa di osservazione si è che in
quest'anno nell'indizione XII, cominciata nel settembre, fu celebrato da
papa Zacheria un consiglio in Roma, composto di molti vescovi, dove
furono stabiliti varii canoni riguardevoli per la disciplina
ecclesiastica. In fine vi si legge: _Factum est hoc concilium anno
secundo Artabasdi imperatoris, necnon et Liutprandi regis anno trigesimo
secundo, Indictione duodecima._ Non s'era dianzi negli atti romani
giammai mentovato l'anno dei re longobardi. Diligentemente poi ci
avvertì il cardinal Baronio che in vece dell'_anno secondo di Artabasdo_
si dee leggere l'_anno terzo_, perchè a Roma non si era per anche intesa
la di lui caduta e il risorgimento di _Costantino Copronimo_. Ad esso
imperadore Costantino avea già papa Zacheria inviato un suo nunzio; ma
questi trovato _Artabasdo_ sul trono imperiale, saggiamente si era
ritirato senza fare alcun personaggio, aspettando ciò che la sorte
determinasse di questi rivali. Andò in fatti, siccome dissi, per terra
Artabasdo; ed allora fu che il Copronimo vincitore ordinò che si
cercasse conto del ministro pontificio, e dopo aver fatta la donazione
al papa e alla Chiesa romana di due masse, cioè di due tenute
considerabili di terreno, gli diede licenza di tornarsene in Italia.
Queste masse erano appellate Ninfa e Normia, e appartenevano dianzi alla
_repubblica_, cioè all'imperio: segno manifesto che tuttavia durava in
Roma l'autorità e il dominio imperiale; nè i papi nè i popoli si erano
sottratti dall'ubbidienza dell'imperadore, nè era stata fulminata
espressa scomunica contro di Costantino Augusto, tuttochè nimico e
persecutore delle sacre immagini.

NOTE:

[367] Theoph., in Chronogr. Niceph., in Chron.

[368] Anastas., in Vit. Zachariae.



    Anno di CRISTO DCCXLIV. Indizione XII.

    ZACHERIA papa 4.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 25 e 4.
    ILDEBRANDO re 9.
    RACHIS re 1.


L'ultimo anno è questo della vita e del regno del re _Liutprando_, se
pure egli non era mancato di vita nell'anno precedente; del che io
dubito forte, considerando le parole di Anastasio[369], là dove scrive
che la divina clemenza _eumdem regem ante diem superius constitutum de
hac subtraxit luce_. Recò la morte sua una somma allegrezza ai Romani e
Ravennati, e per lo contrario grande afflizione ai Longobardi, che in
lui perdevano un ottimo principe; e tanto più perchè lasciava per
successore _Ildebrando_ suo nipote, già dichiarato re, ma mal voluto
dalla sua nazione. L'elogio di Liutprando l'abbiamo da Paolo
Diacono[370] nelle seguenti parole: _Fuit autem vir multae sapientiae,
consilio sagax, pius admodum et pacis amator, bello potens,
delinquentibus clemens, castus, pudicus, orator pervigil, eleemosynis
largus, literarum quidem ignarus, sed philosophis aequandus, nutritor
gentis, legum augmentator_. Aggiugne ch'egli in sua gioventù prese molte
castella della Baviera, sempre confidando più nell'orazione che
nell'armi; ed ebbe gran premura di conservar la pace coi Franchi e con
gli Avari, padroni allora della Pannonia, oggidì Ungheria. Dal medesimo
storico parimente sappiamo che questo gloriosissimo re fabbricò in onore
di Dio molte basiliche in qualunque luogo, dove era solito a
soggiornare. Oltre al monistero ch'egli aggiunse alla basilica di san
Pietro in _Coelo aureo_, dacchè in essa fece trasportar dalla Sardegna
il corpo dell'insigne vescovo e dottor della Chiesa s. Agostino, edificò
eziandio nell'Alpe di Bardone, cioè nelle montagne di Parma, il
monistero di Berceto, appellato di s. Abondio, perchè ivi fu riposto il
sacro corpo di questo martire. Nei borghi ancora di Olonna, corte e
villa insigne dei re longobardi in questi tempi, oggidì nomata
Cortelona, spettante a don Carlo Filiberto d'Este, principe del S. R.
impero, e marchese di san Martino e Borgomaimero, fabbricò una chiesa e
un monistero in onore di s. Anastasio martire. Oltre a ciò, entro il suo
palazzo di Pavia eresse la cappella del Salvatore, e quivi deputò preti
e cherici, che ciascun giorno vi cantassero i divini uffizii: pia
invenzione non praticata fino a que' giorni da alcuno dei re. Per
attestato di Paolo suddetto, che non si può credere ingannato in ciò,
data fu sepoltura al re Liutprando nella basilica di s. Adriano, dove
dianzi l'avea conseguita anche il re Ansprando suo padre. Ma essendochè
nella basilica di s. Pietro in _Coelo aureo_ tuttavia si legge il suo
epitaffio, costante opinione è degli storici pavesi che il di lui
cadavero fosse col tempo trasferito in essa basilica. Io per me credo
composto quell'epitaffio moltissimo tempo dopo la morte sua. E qui pose
fine il suddetto Paolo Diacono alla sua Cronica de' Longobardi, senza
sapersene il perchè. Se non ebbe cuore di scrivere la rovina del regno
longobardico sotto Desiderio, poteva almen registrare le azioni dei re
Rachis ed Astolfo. Restò al governo del regno longobardico il re
_Ildebrando_ suo nipote, che dopo di lui regnò anche sette mesi, per
attestato di Sigeberto[371]. Leggesi nella storia della Chiesa
piacentina del Campi, e presso il padre Mabillone[372], un suo diploma
in favore della chiesa di s. Antonio, posta fuori di Piacenza, dato nel
dì 31 di marzo del presente anno, correndo l'anno IX del suo regno, e
l'indizione dodicesima: dal che si scorge passato già all'altra vita il
re Liutprando. Ma essendo incorso questo principe nell'odio dei suoi
popoli o per vizii antecedenti, o per susseguenti cattive azioni, tolto
gli fu lo scettro, e questo conferito a _Ratchis_ ossia _Rachis_ duca
del Friuli, di cui s'è fatta menzione di sopra, signore non men pel
valore che per altre belle doti riguardevole. Nelle carte da me vedute
d'esso re, correva l'_anno II_ del suo regno nel dì 4 di marzo e nel dì
primo di settembre dell'anno 746, e l'_anno III_ nel dì 24 d'aprile
dell'anno 747, e l'_anno IV_ nell'agosto dell'anno 748, il che fa
conoscere ch'egli prima del settembre dell'anno corrente fu alzato al
soglio. Nè sì tosto il romano pontefice Zacheria[373] ebbe intesa la di
lui assunzione, che gli spedì ambasciatori, con pregarlo di lasciare per
riverenza del principe degli Apostoli in pace l'Italia. Furono ben
impiegate queste preghiere, e si ottenne da lui una tregua per venti
anni. In questi tempi, per attestato di Paolo Diacono, fiorirono due
buoni servi di Dio, cioè _Baodolino_ romito nel distretto di Foro di
Fulvio, ossia Valentino, oggidì Valenza, presso il fiume Tanaro, e
_Teodelapio_ nella città di Verona, amendue famosi allora per i miracoli
e per lo spirito di profezia. Ma l'opere loro son rimaste ascose nelle
tenebre per negligenza dei nostri maggiori, che di questi e d'altri, i
quali probabilmente vissero allora in Italia con odore di santità, niuna
vita lasciarono, o se lasciaronla, non è giunta fino a' tempi nostri.

NOTE:

[369] Anastas., in Zachar.

[370] Paulus Diaconus, de Gest. Langobard., lib. 6, cap. 58.

[371] Sigebertus, in Chron.

[372] Mabill., Annal. Benedict., tom. 2.

[373] Anastas., in Zachar.



    Anno di CRISTO DCCXLV. Indizione XIII.

    ZACHERIA papa 5.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 26 e 5.
    RACHIS re 2.


Fu quest'anno pacifico per tutta la Italia, perchè il re _Rachis_
solamente pensò a ben assodarsi sul trono, e la tregua fatta coi Greci
lasciava tranquillo il cuor dell'Italia. Papa _Zacheria_ intento a
sempre più stabilire nella Germania la fede cristiana, quivi piantata
dall'infaticabile san Bonifazio, celebrò in questo anno in Roma un
sinodo di pochi vescovi e preti, nel quale scomunicò Aldeberto e
Clemente, due seduttori dei Cristiani, a lui denunziati da esso san
Bonifazio. Intanto i due fratelli principi in Francia, _Carlomanno_ e
_Pippino_, fecero guerra, il primo ai Sassoni, l'altro in Alemagna,
ossia Suevia, con riportarne vittoria, e questi prosperosi successi
furono cagione che molti de' Sassoni abbracciarono la fede di Cristo.



    Anno di CRISTO DCCXLVI. Indiz. XIV.

    ZACHERIA papa 5.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 27 e 6.
    RACHIS re 2.


Nel dì primo di marzo di quest'anno il re _Rachis_, correndo l'_anno II_
del suo regno, pubblicò nove leggi, coll'aggiugnerle all'editto, cioè
all'altre dei re longobardi. Nella quinta vien, sotto pena della vita,
proibito a qualsivoglia persona l'inviare suoi messi a _Roma_,
_Ravenna_, _Spoleti_, _Benevento_, in _Francia_, _Baviera_, _Alemagna_,
_Grecia_ ed _Avaria_, cioè nella Pannonia ossia Ungheria, allora abitata
dagli Unni Avari. Ciò per gelosia di stato. Ma è ben degno di
considerazione che qui vengano pareggiati ai popoli stranieri i ducati
di Spoleti e Benevento, quasichè questi non fossero sottoposti al re
longobardo. Forse allora correvano sospetti della fedeltà di que' duchi.
Ed appunto noi sappiamo dai cataloghi da me stampati avanti alla Cronica
di Farfa[374], che _Ansprando_ duca di Spoleti compiè in quest'anno,
oppure nel precedente, la carriera de' suoi giorni, ed ebbe per
successore in quel ducato _Lupo_, ossia _Lupone_, che il conte Campello
non inverisimilmente crede appellato _Welfo_ in favella longobardica,
significando in fatti questo nome tedesco il _Lupo_ in italiano. Nelle
giunte ad essa Cronica farfense si legge un diploma del medesimo _Lupo_
e di _Ermelinda_ (verisimilmente sua moglie) _gloriosi e sommi duchi_,
in cui stabiliscono un monistero di sacre vergini vicino alle mura della
_città nostra di Rieti_, e il mettono sotto la protezione dell'insigne
monistero di Farfa. Quella carta è scritta _Spoleti in palatio, anno
ducatus nostri VI, mense aprili per Indictionem IV_, cioè nell'anno 751.
Nondimeno da altri documenti da me citati nelle Antichità italiane[375]
si raccoglie il principio del di lui governo e ducato nell'anno 745;
anno nondimeno, che a grandi calamità fu sottoposto in Occidente ed
Oriente per la terribil pestilenza, che, secondo l'attestato di
Teofane[376], ebbe principio in Sicilia e Calabria, e, diffondendosi poi
per la Grecia, arrivò a flagellar anche Costantinopoli, con istrage
incredibile de' popoli, e continuò qualche anno dipoi. Narra quello
storico gli strani effetti di questo indomito malore, di cui non
profittò punto il traviato imperador Costantino.

NOTE:

[374] Rer. Italic., part. II, tom. 2.

[375] Antiquit. Italic., Dissert. LXVII.

[376] Theoph., in Chronogr.



    Anno di CRISTO DCCXLVII. Indiz. XV.

    ZACHERIA papa 7.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 28 e 7.
    RACHIS re 4.


Fu oggetto di ammirazione alla Francia e all'Italia in quest'anno la
risoluzion presa da _Carlomanno_ fratello di _Pippino_, di abbandonar le
grandezze del secolo, e di abbracciar l'umile vita monastica. Gli era
preceduto coll'esempio _Unaldo_, ossia _Unoldo_ duca d'Aquitania, che
due anni prima, ceduto al figliuolo il ducato, e preso l'abito
monastico, si diede a far penitenza de' suoi peccati[377], ma con
lasciar in fine una svantaggiosa memoria di sè presso molti, perchè da
lì a venticinque anni, essendo morto il figliuolo _Waifario_ duca e il
re _Pippino_, se ne tornò al secolo e al governo dei suoi stati, e
ripigliò moglie dopo sì lungo divorzio. Ora Carlomanno, reo anch'egli di
molte crudeltà, a persuasione, per quanto si crede, del santo
arcivescovo _Bonifazio_, venne in Italia, e presentatosi a papa
_Zacheria_, fece di molti doni alla basilica di san Pietro, ed esposto
il suo pensiero, ottenne da esso pontefice la sacra tonsura, ossia la
veste monastica. Passato dipoi nel monte Soratte, dove si credea che
fosse stato nascoso san Silvestro papa, quivi edificò un monistero,
attendendo da lì innanzi ai santi esercizii del monachismo. Ma perchè
frequenti erano le visite che a lui facevano i nobili franzesi, allorchè
capitavano a Roma, veggendo egli di non poter quivi trovar la quiete
desiderata, di là si trasferì al celebre monistero di Monte Casino, e
sotto l'abbate _Petronace_, tuttavia vivente, colla profession religiosa
obbligò il resto de' suoi giorni a quel sacro istituto. Leone
Ostiense[378] ed altri raccontano varie pruove fatte della di lui umiltà
e pazienza. Ma non è già vietato il credere una favola il raccontarsi da
Reginone, ch'egli, senza essere conosciuto, fu ricevuto fra que' monaci,
e che strapazzato dal cuoco, fu poi da uno dei suoi famigliari scoperto.
Circa questi tempi, se dice il vero la Cronichetta del monistero
nonantolano, di cui parleremo all'anno 750, il ducato del Friuli era
governato da _Anselmo_, che fu poi fondatore del suddetto monistero.
Avendo egli rinunziato al mondo per servire unicamente a Dio, pare che a
lui succedesse in quel ducato _Pietro_ figlio di Munichis, riconosciuto
veramente per duca del Friuli da Paolo Diacono, ma senza assegnarne il
tempo. A quest'anno appartiene un decreto di Rachis re d'Italia, che si
legge nelle mie Antichità italiane[379], ma colle note cronologiche
alquanto difettose, in cui determina i confini d'alcuni poderi del
monistero di Bobbio.

NOTE:

[377] Mabill., in Annal. Benedictin.

[378] Leo, Chron. Casinens., lib. 1, cap. 7.

[379] Antiquit. Italic., Dissert. X, p. 517.



    Anno di CRISTO DCCXLVIII. Indizione I.

    ZACHERIA papa 8.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 29 e 8.
    RACHIS re 5.


Attendeva in questi tempi studiosamente il popolo della città di Venezia
alla mercatura, navigando anche e trafficando in Oriente e in Africa, ma
senza guardarla per minuto, purchè facesse guadagno[380]. Capitarono non
pochi di questi mercatanti veneziani a Roma, e quivi comperarono una
gran quantità di servi, o vogliam dire schiavi cristiani dell'uno e
dell'altro sesso, con disegno di condurli appresso in Africa, e di
venderli ai Saraceni. Pervenuto agli orecchi del piissimo papa
_Zacheria_ questo loro disegno, non tardò a proibire un così infame
traffico; e sborsato quel prezzo che si conobbe impiegato da essi nello
acquisto di tali servi, mise in libertà tutta quella povera gente,
siccome attesta Anastasio[381], ossia l'autore più antico della Vita di
esso papa.

NOTE:

[380] _L'illustre autore intende non di tutta la nazione in generale, ma
solo d'alcuni particolari._

[381] Anastas., in Vita Zachar.



    Anno di CRISTO DCCXLIX. Indizione II.

    ZACHERIA papa 9.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 30 e 9.
    ASTOLFO re 1.


Cessò in quest'anno la tregua accordata dal re _Rachis_ alle città
italiane dipendenti dall'imperio. Per colpa di chi, resta ignoto; se non
che Anastasio[382] attesta che Rachis pieno di sdegno si portò coll'armi
all'assedio di Perugia, minacciando inoltre tutte le città della
Pentapoli; e sembra ancora che alcune di esse fossero da lui occupate.
Questa sua collera non è ingiusto il credere che fosse originata da
qualche mancamento o ingiustizia de' Romani, per cui restasse gravemente
irritato l'animo suo. Comunque sia, appena agli orecchi del pontefice
_Zacheria_ pervennero questi movimenti di Rachis, che presi seco
alquanti del clero, e i più riguardevoli personaggi di Roma, volò a
Perugia, e quivi impiegati assaissimi doni e calde preghiere, tanto
disse e fece, che, placato il re, l'indusse a levar l'assedio. Poco fu
questo. In oltre il santo padre con tale efficacia gli parlò intorno
allo sprezzo delle cose terrene, adducendo verisimilmente l'esempio
fresco di _Carlomanno_, principe di tanta possanza, che, Rachis concepì
anch'egli il disegno di abbandonare il mondo, e di darsi a servire a Dio
nell'istituto monastico. In fatti da lì a pochi giorni egli rinunziò
alla dignità regale, e in compagnia di _Tasia_ sua consorte e di
_Ratrude_ sua figliuola, si portò a Roma, dove tutti e tre da esso
pontefice riceverono l'abito monacale. Passò anch'egli ad abitare nel
monistero di Monte Casino, e la moglie colla figliuola (oppur colle
figliuole) fondò un monistero di sacre vergini a Piombaruola, non lungi
da esso Monte Casino, dove si consecrarono a Dio per tutta la lor vita.
Durava ancora a' tempi di Leone Marsicano[383] il nome della vigna di
Rachis in Monte Casino, e la tradizione che la medesima fosse piantata e
coltivata dallo stesso re divenuto monaco. A lui succedette nel governo
del regno longobardico _Astolfo_ suo fratello. Il Sigonio e il cardinal
Baronio, seguitando l'Ostiense, rapportarono all'anno seguente 750 la
rinunzia di Rachis, e l'assunzione al trono di esso Astolfo. Ma prima
d'ora Sigeberto storico[384] antico, e a' dì nostri il padre Pagi[385],
fondato nella vita di sant'Anselmo abbate di Nonantola, osservarono
doversi riferire a questo anno cotali avvenimenti. Io parimente ho
altrove[386] con varii documenti provato che il principio del regno di
Astolfo s'ha da riporre nell'anno presente 749. E qui sotto all'anno 752
vedremo che egli era salito già sul trono nel dì 4 di luglio di questo
medesimo anno. Nell'antichissima Cronichetta longobardica, da me data
alla luce, si legge che Rachis _regnavit annos IV et menses IX_.
Dovrebbe appartenere a questi medesimi tempi la fondazione del monistero
di monte Ammiate in Toscana nella diocesi di Chiusi. L'Ughelli[387] ne
ha pubblicata un'antica relazione, da cui apparisce che Rachis dopo
l'assedio di Perugia, ed anche dopo aver preso l'abito monastico,
edificò quel monistero. Quivi ancora si legge un diploma del re
medesimo, che dona ad esso sacro luogo una gran quantità di beni. Sopra
di che è da dire, poter essere stato che Rachis fondasse il monistero
ammiatino; ma contenersi delle favole in quella relazione, ed essere poi
discordante dalla relazione, anzi per più capi ridicolo quel diploma che
si fa dato nell'_anno 742, terzo del regno di Rachis_, correndo
l'_indictione decima_, cioè vivente ancora il re Liutprando. Di simili
finzioni per accreditar le origini de' monisteri, o i lor santi, erano
fecondi i secoli dell'ignoranza, e più di un esempio ne abbiam già
veduto. Pensa Camillo Pellegrini, che in quest'anno a _Gisolfo II_ duca
di Benevento succedesse _Liutprando_. Ma se non v'ha errore nelle note
cronologiche di un documento riferito nella Cronica del monistero di
Volturno, da me data in luce[388], questo Liutprando con sua moglie
_Scaniperga_, signoreggiava in quel ducato nell'anno 747, cioè molto
prima dell'anno presente.

NOTE:

[382] Anast., ibid.

[383] Leo Ostiensis, Chron. Casinens. lib. 1, c. 8.

[384] Sigebertus, in Chron.

[385] Pagius, ad Annal. Baron.

[386] Antiquitat. Italic., Dissert. LXX.

[387] Ughel., Ital. Sacr. tom. 3 in Episcop. Clusin.

[388] Rer. Ital. part. II, tom. 1, pag. 374.



    Anno di CRISTO DCCL. Indizione III.

    ZACHERIA papa 10.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 31 e 10.
    ASTOLFO re 2.


Piucchè mai in questi tempi si dilatava per l'Italia l'ordine monastico
dei Benedettini, ed appunto correndo verisimilmente l'anno presente fu
fabbricato nelle montagne di Modena e nella picciola provincia del
Frignano il monistero di Fanano, oggidì nobil terra, distante ventidue
miglia dalla città. Fondatore d'esso fu s. _Anselmo_, poscia autore e
primo abate dell'altro insigne monistero di Nonantola, parimente nel
ducato di Modena. Era _Anselmo_ dianzi duca del Friuli e cognato del re
Astolfo, perchè fratello di _Giseltruda_ regina, moglie del medesimo
Astolfo, per quanto ne lasciò scritto l'antico autor della sua Vita,
pubblicata dal padre Mabillone[389]. Essendosi introdotto l'uso che
anche i principi dessero un calcio alle terrene grandezze per servire
nelle solitudini al re de' regi, Anselmo anch'egli, ritiratosi dal
secolo, abbracciò fervorosamente l'istituto monastico. Ottenuto dal re
Astolfo il luogo suddetto di Fanano, quivi ad onore del nostro Salvatore
fabbricò un monistero, pose in esso dei monaci osservanti della regola
di s. Benedetto, e v'aggiunse, secondo il rito d'allora, uno spedale per
servigio de' pellegrini e forestieri che capitavano in quelle parti, e
somma divenne la sua cura che niuno passasse per colà senza partecipare
della carità sua nella mensa e nello albergo. Perchè non usavano allora,
come oggidì, le osterie, perciò si studiavano i caritativi cristiani di
fondare alberghi per i pellegrini ed altri viandanti, somministrando
loro nel passaggio il tetto e gli alimenti. Si conservò per più secoli
il monistero suddetto, cioè fino ai tempi di papa Clemente VIII, che
trovatolo stranamente scaduto ne applicò quel poco che restava ad un
monistero di monache fondato in quella terra. Immaginò il cardinal
Baronio[390] che in questi tempi mancasse di vita _Ricardo_ re di
Inghilterra, padre de' ss. Willebaldo o Winebaldo, e Walpurga vergine,
de' quali è fatta menzione nella vita del santo arcivescovo e martire
Bonifazio. Nella città di Lucca, dove succedette la di lui morte e
sepoltura, si legge l'epitaffio suo che comincia:

                   HIC REX RICHARDVS REQVIESCIT
                         SCEPTRIFER ALMVS
                         REX FVIT ANGLORVM
                   REGNVM TENET IPSE POLORVM, ec.

Ma siccome dimostrò il padre Enschenio[391] della Compagnia di Gesù,
Ricardo padre di san Willebaldo, fu bensì di nobil prosapia, ma non mai
re di Inghilterra, e quell'epitaffio dee dirsi fattura de' secoli
posteriori. Fini egli di vivere circa l'anno 721, e non già in questi
tempi. Però quantunque anche nel Martirologio romano gli sia dato il
titolo di re, ora sappiam di certo che tale non fu. Così ingrandivano
(lo torno a dire) i secoli barbarici le cose loro, o per interesse, o
per troppa brama di gloria. Ed egli ottenne anche il titolo di santo in
tempi, ne' quali poco costava il canonizzar le persone dabbene: che per
altro non son giunte a nostra notizia le virtù ed azioni, per le quali
fosse a lui compartito sì luminoso onore.

NOTE:

[389] Mabill., Saecul. Benedictin. IV, tom. 1.

[390] Baron., Annal. Eccl.

[391] Henschenius, in Actis Sanctor. ad diem 7 februar.



    Anno di CRISTO DCCLI. Indizione IV.

    ZACHERIA papa 11.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 32 e 11.
    ASTOLFO re 3.


Era nato nel precedente anno a _Costantino Copronimo_ un figliuolo, a
cui fu posto in nome di _Leone_. Nel presente correndo il sacro giorno
della Pentecoste, egli il dichiarò _Augusto_ e collega nell'imperio, con
farlo coronare fa _Anastasio_ falso patriarca di Costantinopoli. Di ciò
fan fede Teofane[392], Niceforo[393] e Cedreno[394]. Per la cessione di
_Carlomanno_ poco fa riferita era _Pippino_ suo fratello salito in
maggior potenza. Contra di lui si ribellò bensì _Griffone_ altro suo
fratello, uomo di torbido ingegno; ma Pippino coll'armi lo aveva
represso, ed insieme gastigati i Sassoni e i Bavaresi, rei di aver presa
la protezione di lui. In somma, siccome maggiordomo della corte
franzese, egli era il direttore e braccio unico di quella vasta
monarchia. Da gran tempo ancora i re della Francia, ossia perché erano
inetti al governo, oppure perché la forza de' maggiordomi avesse
introdotti varii abusi, più non regnavano, benchè portassero il nome di
re. Il maggiordomo aveva in suo pugno le rendite del regno, l'armi, le
fortezze, e se al re s'indirizzavano le ambascerie, non rispondeva se
non quello che piaceva al ministro. E tale era in que' tempi
_Chilperico_ re della Francia. Però Pippino cominciò a pensare, come
essendo egli stesso nella sostanza re, potesse divenir tale eziandio col
titolo. A questo fine nell'anno presente egli spedì suoi ambasciatori a
Roma, per intendere sopra di ciò i sentimenti del papa, trattandosi di
assolvere dal giuramento di fedeltà i popoli, e di deporre dal trono chi
vi avea sopra un antico giusto diritto. Ciò che ne seguisse, lo vedremo
nell'anno appresso.

NOTE:

[392] Theoph., in Chronogr.

[393] Niceph., in Chron.

[394] Cedrenus, in Historia.



    Anno di CRISTO DCCLII. Indizione V.

    STEFANO II papa 1.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 55 e 12.
    LEONE IV imperadore 2.
    ASTOLFO re 4.


Secondochè abbiamo da varii Annali de' Franchi, la risposta di papa
_Zacheria_ alle dimande dei Franchi fu che lecito fosse ai primati e
popoli della Francia di riconoscere per re vero il principe _Pippino_, e
di levare l'autorità a _Chilperico_ re allora di solo nome. Perciò
Pippino sul principio dell'anno presente, se non fu sul fine del
precedente, coll'autorità della sede apostolica e colla elezione e
concorso di tutti i Franchi, fu proclamato re, con ricevere la sacra
unzione, per quanto si crede, dalle mani di san _Bonifazio_ arcivescovo
di Magonza. Chilperico deposto fu dipoi tonsurato e posto nel monistero
di san Bertino, per passar ivi il rimanente de' suoi giorni. Questa
azione di Pippino contro di un re legittimo vien dai Franzesi moderni
detestata quale eccesso intollerabile di ambizione; e si vorrebbe far
credere che il papa o non v'ebbe mano, o non ve la dovea avere, con
pretendersi ancora che san Bonifazio non vi acconsentisse, nè ungesse il
nuovo re; ma certo in que' tempi la nazion franzese era d'altra
opinione; ed è certo che la autorità pontificia influì non poco in quel
cambiamento. Non mancano storici, a' quali aderì il padre Mabillone, che
mettono nel precedente anno l'esaltazione e principio del regno di esso
Pippino. Certissimo è bensì che nel presente fu chiamato da Dio a
miglior vita il buon papa _Zacheria_ nel dì 14 di marzo. Molte azioni
pie e varii insigni doni da lui fatti alle chiese e ai luoghi pii di
Roma, si possono leggere presso Anastasio e negli Annali ecclesiastici.
Venne successivamente eletto pontefice romano _Stefano_ prete, ed
introdotto nel palazzo patriarcale del Laterano; ma nel terzo dì dopo la
sua elezione, colpito da un accidente apopletico, lasciò di vivere.
Onofrio Panvinio e il cardinal Baronio a questo eletto diedero il nome
di _Stefano secondo_; ma il Sigonio e gli altri moderni con più ragione
l'hanno escluso dal catalogo de' romani pontefici, perchè non
l'elezione, ma la consecrazione quella è che costituisce i vescovi e i
papi; e a questa consecrazione non si sa che l'eletto Stefano prete in
sì poco tempo pervenisse. In fatti nè da Anastasio, nè dagli altri
vecchi storici egli vien riconosciuto per papa, e il nome di _Stefano
secondo_ è riserbato da loro all'altro _Stefano_ di nazione romano, che
dodici dì dopo la morte di papa Zacheria restò eletto dal clero e
popolo, e poscia consecrato; pontefice di gran merito per le sue virtù e
per le sue piissime operazioni. Ma appena fu egli salito sul trono
pontifizio, che la pace se ne fuggì dall'Italia, se pur non era fuggita
molto prima. Nodriva _Astolfo_ re de' Longobardi una gran voglia di
aggiugnere a' suoi dominii quel che restava agl'imperadori in Italia; e
questo suo ambizioso disegno, se crediamo ad Anastasio, scoppiò nel
giugno dell'anno presente, con aver egli ostilmente assalito l'esarcato
di Ravenna, ed occuputa quella città, con volgere poscia l'armi contra
del ducato romano e delle città da esso dipendenti. Ho detto occupata in
quest'anno la città di Ravenna dal re Astolfo; ma se non son guaste le
note di un diploma di quel re, prese dal registro del monistero di
Farfa, e da me rapportate altrove[395], bisogna credere che tale
occupazione seguisse nell'anno precedente. Dicesi dato quel privilegio
di Astolfo _Ravennae in palatio, IV die mensis julii, felicissimi regni
nostri III, per Indictionem IV_, cioè nell'anno 751. Per conseguente,
nel dì 4 di luglio di esso anno 751, il suddetto re Astolfo
signoreggiava in Ravenna, da dove _Eutichio_ ultimo degli esarchi era
fuggito. Che occupasse ancora tutte le città della _Pentapoli_, si
raccoglie da quanto diremo all'anno 755. Ch'egli ancora stendesse le sue
conquiste sino all'_Istria_, con impadronirsi di quelle città, fin qui
suddite del greco imperadore, si ricava dal memoriale esibito nel
concilio di Mantova nell'anno 827, benchè sia ignoto il tempo in cui ciò
avvenne. Passò inoltre Astolfo, se non nel precedente, certamente in
quest'anno, ai danni del ducato romano.

Per quanto abbiam veduto finora, benchè i greci imperadori tenessero in
Roma i loro ministri, pure la principale autorità del governo sembra che
fosse collocata nei romani pontefici, i quali colla forza e maestà del
loro grado, e colla scorta delle loro virtù placidamente reggevano
quella città e ducato, difendendolo poi vigorosamente nelle occasioni
dalle unghie de' Longobardi. Non fece di meno questa volta papa _Stefano
II_. Come egli vide inoltrarsi le violenze di Astolfo, immediatamente
spedì a lui Paolo Diacono suo fratello, ed Ambrosio primicerio[396] per
ottener la pace. L'eloquenza e destrezza di questi ambasciatori, ma più
i regali ch'essi presentarono, ebbero forza d'ammollir l'animo del re
longobardo. Si conchiuse pertanto una pace, ossia tregua di quaranta
anni, e ne furono firmati i capitoli con solenne giuramento. Ma non
passarono quattro mesi che Astolfo, mettendosi sotto i piedi la giurata
fede, tornò ad infestare i Romani, minacciando anche il papa, e
pretendendo che cadauna persona del ducato romano gli pagasse un soldo
di oro per testa, e pubblicamente protestando di voler sottomettere Roma
al regno suo. Tornò il pontefice ad inviargli due suoi ambasciatori,
cioè _Azzo_ abbate di san Vincenzo di Volturno, ed _Optato_ abbate di
Monte Casino, come si raccoglie da Anastasio suddetto e da Giovanni
monaco, autore della Cronica volturnense[397], acciocchè lo
scongiurassero di lasciar in pace il popolo romano. Ma questi nulla
impetrarono, anzi ebbero ordine di ritornarsene ai lor monisteri senza
vedere il papa. Abbiamo nella vita di san Gualfredo abbate di
Palazzuolo, scritta da Andrea terzo abbate di quel sacro luogo, e
pubblicata dal padre Mabillone[398], che mentre _rex magnus Haistulfus
Italiae, Tusciae, Spoletanae, Beneventanae provinciae principabatur_
(parole degne di riflessione) _anno regni ipsius fere quarto,_ il
suddetto Gualfredo, personaggio nobile di Pisa, con due suoi compagni,
in un luogo appellato Palazzuolo nel monte Verde di Toscana vicino a
Populonia, ne' tempi antichi città, fondò un monistero, dove nello
spazio di pochi anni si fece un'unione di sessanta monaci, che crebbe
poi fino ad ottanta. Un altro monistero medesimamente fabbricarono essi
tre servi di Dio in Pitiliano presso al fiume Versilia sul lucchese,
dove si dedicarono a Dio le loro mogli con altre nobili donne, prendendo
tutte il sacro velo, e formando col tempo una congregazione di circa
novanta monache. Di altri monisteri fondati intorno a questi tempi ne'
territorii di Lucca e Pistoia ho io rapportato varii documenti nelle mie
Antichità italiche. E ciò che succedeva in Toscana, anche nell'altre
parti dell'Italia avveniva; le memorie de' quali monisterii son tuttavia
ascose negli archivii, oppure perite, per essere tanti monisteri passati
in commenda. In questi tempi più che mai si studiava lo sconsigliato
imperador _Costantino Copronimo_ di abolir le sacre immagini[399] e di
tirar dalla sua con varie arti i buoni cattolici. Il re _Pippino_,
all'incontro, mossa guerra ai Saraceni che tuttavia occupavano la
Settimania ossia la Gotia, oggidì la Linguadoca, conquistò varie loro
città. Si ha ancora dagli Annali di Metz[400], che se gli diedero
Barcellona e Girona, e gran parte della Catalogna: il che io non so
accordare colla storia dei tempi susseguenti, certo essendo che Lodovico
Pio, vivente Carlo Magno suo padre, per assedio costrinse Barcellona
alla resa nell'anno di Cristo 801.

NOTE:

[395] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.

[396] Anastas., in Stephan. II Vit.

[397] Chronic. Vulturnens., part. II, tom. 1 Rer. Italic.

[398] Mabill., Saecul. III Benedictin., part. 2.

[399] Theoph., in Chronogr.

[400] Annales Metenses apud Du-Chesne.



    Anno di CRISTO DCCLIII. Indizione VI.

    STEFANO II papa 2.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 34 e 13.
    LEONE IV imperadore 5.
    ASTOLFO re 5.


Continuarono le vessazioni del re _Astolfo_ contra del ducato romano; e
forse nell'anno presente, piuttosto che nel precedente, arrivò a Roma
_Giovanni_ silenziario, spedito dalla corte di Costantinopoli[401], che
portava lettere dell'imperadore assai premurose a papa _Stefano II_ per
la conservazione degli stati, ed altre esortatorie al re _Astolfo_,
acciocchè volesse restituire al romano imperio gli usurpati luoghi. Non
perdè tempo il pontefice ad inviare il ministro imperiale in compagnia
di Paolo Diacono suo fratello ad Astolfo, allora dimorante in Ravenna. A
nulla servì questa spedizione. La risposta del re fu ch'egli intendeva
di spedire un suo messo alla corte imperiale, per informar l'imperadore
e trattar seco di questi affari, siccome egli in fatti eseguì. A questo
avviso Stefano papa mal contento di simile sutterfugio, anch'egli inviò
messi e lettere a Costantinopoli, con pregar l'Augusto sovrano che, a
tenore di tante promesse già fatte, mandasse un esercito in Italia,
capace non solo di difendere il ducato romano dai Longobardi, ma
eziandio di liberare dalle lor mani l'Italia tutta: memorie ed azioni
chiaramente comprovanti che Roma non s'era levata in addietro dalla
ubbidienza de' greci imperadori, e che essi godevano tuttavia l'attual
possesso e dominio di quella gran città e del suo ducato. Accrebbe
intanto il re Astolfo le sue minacce contro del popolo romano, con dire
che se non consentivano alla di lui volontà, gli avrebbe tutti messi a
fil di spada. Però il santo pontefice attese in questi tempi coi Romani
ad implorare la divina misericordia con orazioni e processioni di
penitenza, in una delle quali portò appeso alla croce lo scritto di quei
patti violati dal re longobardo. Ma vedendo in fine che a nulla
giovavano le preghiere e gl'innumerabili regali inviati al re Astolfo,
ricevuto anche avviso dalla corte cesarea che dall'imperadore non era da
sperare soccorso alcuno: allora fu che dall'Oriente rivolse i suoi
pensieri all'Occidente; e seguitando l'esempio de' suoi predecessori,
cioè dei due ultimi Gregorii e di Zacheria, che erano ricorsi a _Carlo
Martello_, non già re de' Franchi, come scrive Anastasio, ma direttore
del regno dei Franchi, segretamente inviò lettere per mezzo di un
pellegrino al re _Pippino_, implorando l'aiuto suo in mezzo a tante
angustie. Spedì Pippino in Italia _Drottegango_ abbate di Gorizia, per
assicurare il papa di tutta la sua prontezza a soccorrerlo; e da lì a
non molto inviò _Crodegango_ vescovo di Metz ed _Autcario_ duca, che
invitarono il papa al viaggio di Francia. Arrivò in questo frangente
ancora da Costantinopoli _Giovanni_, silenziario imperiale, con ordine
al papa di portarsi al re Astolfo, per intimargli la restituzion di
Ravenna e delle città da essa dipendenti. Chiesto poi passaporto ad esso
re Astolfo, il pontefice, in compagnia del medesimo imperiale ministro e
de' messi del re dei Franchi, nel dì 14 di ottobre dell'anno presente,
accompagnato da molti Romani e dal pianto dei popoli, si mise in viaggio
alla volta di Pavia, dove il duca Autcario a lui preceduto lo aspettava.
Era già egli vicino a quella città, quando comparvero messi, inviati dal
re Astolfo, per vivamente pregarlo di non muovere parola intorno alla
restituzione dell'esarcato; ma il papa protestò che non desisterebbe dal
farlo. E in fatti arrivato a Pavia, dopo avere regalato copiosamente il
re, il tempestò con preghiere e lacrime, acciocchè restituisse il mal
tolto. Altrettanto fece l'ambasciatore imperiale, allorchè presentò al
re le lettere dell'augusto suo padrone. Ma non piacendo una tal sinfonia
all'ostinato re, si sciolsero in fumo tutti questi maneggi. Fece ancora
quanto potè Astolfo per impedire l'andata del papa in Francia; ma per
timore dei ministri presenti del re Pippino, benchè fremendo, il lasciò
partire. Pertanto il pontefice nel dì 15 di novembre, presi seco
alquanti del suo clero, con due vescovi s'incamminò verso l'Alpi; ma per
istrada avvertito che il re pentito d'avergli data licenza, era dietro
ad attraversare il suo viaggio, sì frettolosamente cavalcò colla sua
brigata, che arrivò alle Chiuse, cioè ai confini della Francia, dove
ringraziò Dio di vedersi in salvo. Giunse dipoi al monistero agaunense
di san Maurizio ne' Vallesi, dove il concerto era che seguirebbe
l'abboccamento col re Pippino; ma colà essendo arrivati _Fulrado_
arcicappellano di esso re, e _Rotardo_, duca, il pregarono di continuare
il viaggio sino alla villa regale di Pontigone, perchè quivi il re avea
destinato di accoglierlo. Venne poscia ad incontrarlo il principe
_Carlo_ primogenito del re; poscia tre miglia lungi dal palazzo della
villa suddetta _Pippino_ stesso colla moglie e coi figliuoli fu a
riceverlo, ed immantinente smontato da cavallo, addestrò a' piedi per un
certo tratto di via il santo padre, e condusselo al prefato palazzo nel
dì 6 di gennaro dell'anno seguente.

In questi tempi, giacchè il re Astolfo avea donato ad _Anselmo_ abbate
suo cognato un luogo deserto nel contado di Modena, appellato Nonantola,
di là dal fiume Panaro, e dove esso abbate coi suoi monaci avea già
fabbricata una chiesa con un ampio monistero, fu esso tempio consecrato
da Geminiano vescovo di Reggio e susseguentemente da Sergio arcivescovo
di Ravenna per ordine di papa Stefano, come s'ha dalla vita del medesimo
sant'Anselmo, rapportata dall'Ughelli[402] e dal padre Mabillone[403];
se pure non v'ha delle favole mischiate col vero. Dopo di che bramando
Anselmo di ottenere dal romano pontefice il corpo di s. Silvestro, per
maggiormente nobilitare il suo monistero, indusse il re Astolfo ad andar
seco a Roma per impetrargli sì prezioso regalo. Colà giunti il re e
l'abbate, e benignamente accolti dal papa, ottennero quanto
desideravano, ed inoltre una bolla del medesimo papa Stefano, in cui si
asserisce donato all'abbate Anselmo il corpo di s. Silvestro papa con
altre reliquie. Quivi parimente si legge che esso pontefice esentò dalla
giurisdizione del vescovo di Modena e di ogni altro prelato il monistero
nonantolano. Questa è data nell'_Indizione sesta, a dì 13 di gennaio
dell'anno primo di esso Stefano papa_. In essa bolla viene specificata
la venuta a Roma del re Astolfo, e che allora si teneva dal papa un
concilio, dove anche intervenne _Sergio_ arcivescovo di Ravenna. Ma non
ho io saputo finora persuadermi della legittimità di essa bolla, perchè
indirizzata ai vescovi e cristiani _Deo deservientibus regno italico, et
patriarchatu romano_; ed Astolfo chiamato _rex italici regni_: formole
che dubito non usate in que' tempi. Da questa sola vita abbiamo un
_Geminiano_ vescovo allora di _Reggio_. Ma difficilmente si può credere
un vescovo di tal nome in quella città, essendo questo nome piuttosto di
un vescovo di Modena; e noi abbiamo da sicuri documenti che circa questi
tempi fiorì _Geminiano II vescovo di Modena_. Di quel concilio romano
non v'ha vestigio alcuno nella storia ecclesiastica. Ma, quel ch'è più,
non si può accordare con quanto abbiam veduto finora l'andata del re
Astolfo a Roma nel gennaio del presente anno. Già era cominciata la
discordia e guerra fra esso re e i Romani: come mai figurarsi un sì
pacifico ingresso d'Astolfo in Roma, e ch'egli fosse in quella bolla
appellato _piissimus rex_, quando ci vien descritto solamente per iniquo
e perfido dalla storia romana d'allora? Tralascio ciò che ivi è scritto
intorno alle chiese battesimali, ed altre cose degne di riflessione. Per
altro che fosse trasportato a Nonantola il corpo di san Silvestro, ciò
vien asserito in alcuni antichi diplomi d'essa badia, la quale in poco
tempo divenne una delle più insigni e ricche d'Italia, siccome vedremo.
Se poi l'intero corpo di quel santo pontefice, o pure una sola parte
toccasse a Nonantola, lasceremo disputare a chi lo pretende tuttavia a
Roma nel monistero di s. Martino de' Monti. Certamente nella sedicesima
lettera del Codice Carolino, scritta pochi anni dopo da papa Paolo al re
Pippino, si legge di s. Silvestro: _Cujus sanctum corpus in nostro
monasterio a nobis reconditum requiescit, ec. Justum perspeximus, ut sub
ejus fuisset ditione, ubi ipsum reverendum corpus requiescit._
Altrettanto si ha da Anastasio bibliotecario[404] e da una bolla del
suddetto Paolo I riferita dal cardinal Baronio[405]. Però bisogna andar
cauto in prestar fede a certi antichi diplomi, perchè ne' secoli
barbarici non mancarono imposture, e di questi pochi archivii, per non
dire niuno, ne vanno esenti. Abbiamo ancora dalla vita suddetta, che il
soprallodato s. Anselmo abate fondò uno spedale per i pellegrini ed
infermi, quattro miglia lungi da Nonantola, coll'oratorio di santo
Ambrosio, dove, a mio credere, ora è il passo di s. Ambrosio, sulla via
Claudia, ossia romana, presso il fiume Panaro. Ne' confini ancora di
Vicenza ne fabbricò a sue spese un altro, con porvi dei monaci al
servigio pei poveri, ed uno similmente in un luogo appellato Susonia.
Talmente in somma il santo abbate si adoperò, che in sua vita sotto il
suo governo in varii siti ebbe mille cento quaranta quattro monaci senza
i novizii, se dobbiam prestar fede alla Vita suddetta.

NOTE:

[401] Anastas., in Steph. II Vita.

[402] Ughell., Italic. Sacr., tom. 2 in Episcop. Mutinens.

[403] Mabill., Saecul. IV Benedictin., Part. 1.

[404] Anastas., in Pauli I Papae Vita.

[405] Baron., Annal. Eccl. ad ann. 761.



    Anno di CRISTO DCCLIV. Indizione VII.

    STEFANO II papa 5.
    COSTANTINO Copronimo imperatore 35 e 14.
    LEONE IV imperadore 4.
    ASTOLFO re 6.


Fece _Stefano_ papa in Pontigone le sue doglianze contra dell'usurpatore
_Astolfo_ al re _Pippino_, con iscongiurarlo d'imprendere la protezion
de' Romani, e di obbligare alla restituzione il longobardo; e furono ben
ricevute le di lui istanze[406]. Fu dipoi condotto a Parigi, dove da lì
a qualche giorno con gran solennità coronò in re di Francia esso Pippino
e i suoi due figliuoli _Carlo_ e _Carlomanno_, con dichiararli ancora
_patrizii de' Romani_, del qual titolo parleremo più abbasso. Quindi è
che si veggono tre lettere nel Codice Carolino, scritte ai medesimi suoi
due figliuoli col titolo di re, benchè fosse tuttavia vivente Pippino
lor padre. Avea spedito esso Pippino i suoi messi ad Astolfo, per
esortarlo a rendere all'imperio gli stati occupati; ma nulla servì a
fargli mutar pensiero. Però chiamati ad una dieta generale tutti i
baroni del regno franzese, sì egli come il papa esposero i bisogni o
motivi di unirsi contra del re longobardo, con trovarsi in tutti una
mirabil disposizione a prendere l'armi in favore ed aiuto del papa.
Arrivò intanto in Francia _Carlomanno_, fratello dello stesso re, già
divenuto, come dicemmo, monaco in monte Casino. Giudicò bene il re
Astolfo di muovere questo principe, per isperanza che egli colla sua
presenza e facondia appresso il fratello Pippino potesse disturbare le
pratiche del pontefice, delle quali forte egli temeva. Notarono gli
antichi scrittori che Carlomanno assunse questo viaggio e sì fatta
incumbenza per ordine del suo abbate _Optato_, il quale non potè
resistere alle istanze del re Astolfo. Ma giunto a Parigi, ossia ch'egli
non si volesse punto riscaldare in favore del re longobardo, oppure che
prevalesse alle di lui persuasioni il credito e l'autorità del romano
pontefice, certo è ch'egli non potè punto smuovere l'animo del re
Pippino dall'imprendere la difesa degl'interessi a lui raccomandati dal
papa. Però Carlomanno non curandosi, o non attentandosi di tornare in
Italia, oppure, per quanto io credo, impedito dal papa e dal fratello,
fu inviato ad abitare in un monistero di Vienna del Delfinato, dove in
questo medesimo anno, secondo alcuni storici, oppure nel susseguente,
come altri vogliono, terminò in pace i suoi giorni. Per quello che
andremo vedendo, si potrà conoscere avere il papa fin da allora
intavolato il trattato che Ravenna col suo esarcato fosse donata alla
Chiesa Romana, e non già restituita all'imperio romano. Non lasciò il re
Pippino di spedire altri ambasciatori ad Astolfo con vive preghiere,
perchè s'inducesse pacificamente a rendere gli usurpati paesi. Altre
lettere v'aggiunse papa Stefano, con iscongiurarlo di risparmiare il
sangue cristiano: ma tutto fu indarno. Infellonito Astolfo, in vece di
buone risposte, mandò all'uno e all'altro delle minacciose parole. Il
perchè Pippino s'accinse finalmente a far guerra, e spedì alcune delle
sue truppe alla guardia delle Chiuse dell'Alpi, ossia de' confini del
regno. Accorso colà anche il re longobardo, ed informato che poche fino
allora erano le milizie franzesi, senza perdere tempo, fatto aprir le
Chiuse, andò ad assalirle. Ma quantunque fusse egli di troppo superiore
di forze, pure permise Iddio che i pochi vincessero i molti, in guisa
che egli, dopo aver corso pericolo della vita, fu costretto a
fuggirsene, con ritirarsi e fortificarsi poi entro Pavia. Arrivato
intanto con potente armata il re Pippino, calò in Italia, e giunto a
Pavia, vigorosamente si pose all'assedio di quella forte città. Allora
lo sconsigliato Astolfo, rientrato in sè stesso, fece segretamente
muovere parola di pace, e buon per lui che il misericordioso papa
bramava bensì la di lui correzione, ma non giù la rovina; e però
abborrendo che si spargesse il sangue cristiano, trasse colle piissime
sue ammonizioni il re Pippino ad ascoltar le proposizioni, e non andò
molto che seguì fra loro pace, con avere Astolfo sotto fortissimi
giuramenti promesso di restituire Ravenna e le altre città occupate, e a
tal fine dati ostaggi al re de' Franchi. Tornò in Francia il vittorioso
esercito, e papa Stefano a Roma, seco portando la speranza di aver messo
fine ai passati disastri. In quest'anno il re Astolfo aggiunse al corpo
delle leggi longobardiche quattordici nuove leggi, correndo l'_indizione
VII_, come apparisce dalla prefazione alle medesime, pubblicata dal
Sigonio[407], e da me data ancora alle stampe[408]. Nei medesimi
tempi[409] l'imperador _Costantino_ più che mai furibondo contro le
sacre immagini, raunò in Costantinopoli un conciliabolo di trecento
trentotto vescovi, al quale non intervenne alcuno del legati delle
chiese patriarcali, cioè di Roma, Antiochia, Alessandria e Gerusalemme.
Quivi per opera del falso patriarca di Costantinopoli fu pubblicato un
editto di non venerar da lì innanzi le immagini di Cristo, della Vergine
e dei santi, anzi di atterrarle ed abolirle, come idoli, dovunque si
trovassero. Fu in molti paesi eseguito l'empio decreto, e mossa
persecuzione contra de' monaci difensori delle medesime, in guisa che la
maggior parte d'essi fu obbligata ad abbandonare i propri monisteri e di
rifugiarsi in quelle contrade, dove si conservava il culto d'esse
immagini, e non giugnevano le braccia dell'iniquo imperadore. Truovasi
poi in questo anno _Alberto_ duca governatore di Lucca nelle memorie
rapportate dal Fiorentini[410], essendo egli succeduto a _Walperto_
duca. Un documento, dove esso si truova nominato, l'ho riferito nelle
mie Antichità italiane[411].

NOTE:

[406] Anastas., in Steph. II Vita. Annales Francorum.

[407] Sigonius, de Regno Italiae.

[408] Rer. Ital., P. II, tom. I.

[409] Theoph., in Chronogr. Niceph., in Chron.

[410] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.

[411] Antiquit. Ital., Dissert. IV, p. 136.



    Anno di CRISTO DCCLV. Indizione VIII.

    STEFANO II papa 4.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 36 e 15.
    LEONE IV imperadore 5.
    ASTOLFO re 7.


Bisognerà ben credere che _Astolfo_ re dei Longobardi fosse uomo di poca
coscienza, ed anche di men giudizio, da che egli non istette molto a
calpestare i giuramenti fatti e ad irritar la pazienza del re Pippino,
principe di potenza tanto superiore alla sua. Non solamente nulla
restituì di quanto avea promesso, ma furibondo sul principio dell'anno
corrente, se pur non fu di giugno, unito tutto lo sforzo delle sue armi
e del ducato beneventano, passò all'assedio di Roma con dare il guasto
ai contorni, asportare i corpi de' Santi ritrovati nelle chiese fuori
della città, e tormentare con frequenti assalti la città medesima.
Siccome costa dal Codice Carolino, cioè dal carteggio che allora passava
tra i romani pontefici e i re di Francia, e come lasciò scritto anche
Anastasio, ossia l'autore della vita di papa Stefano II, diede esso
pontefice prontamente avviso della prepotenza e perfidia di Astolfo al
re Pippino, inviandogli per mare i suoi legati, cioè _Giorgio_ vescovo e
_Tomarico_ conte, in compagnia di _Guarnieri_ abbate franzese, che a
nome di Pippino si trovava in Roma. Seguitando poi con più furia
l'assedio, nè udendosi movimento alcuno de' soccorsi desiderati, scrisse
il medesimo pontefice una lettera a nome di san Pietro apostolo ad esso
re Pippino, a' suoi figliuoli e a tutta la nazion franzese, rapportata
dal cardinal Baronio e dal Codice Carolino, in cui si finge che esso
Apostolo li chiami, con quante formole patetiche si seppero trovare,
all'aiuto di Roma, promettendo loro per tale azione la vita eterna in
paradiso, e minacciando, se nol facevano, l'eterna lor dannazione.
_Questa lettera,_ dice l'abbate di Fleury[412], _è importante per
conoscere il genio di quel secolo, e fin dove le persone più gravi
sapevano spingere la finzione, quando la credevano utile. Nel resto essa
è piena di equivochi, come le precedenti. La Chiesa vi significa non
l'assemblea de' fedeli, ma i beni temporali consecrati a Dio; la greggia
di Gesù Cristo sono i corpi e non già le anime; le promesse temporali
dell'antica legge sono mischiate colle spirituali del Vangelo; e i
motivi più santi della religione impiegati per un affare di stato._
Certamente nulla è più capace di travolgere le nostre idee e di farci
nascere in mente delle dolci e strane immaginazioni, che la sete e
l'amore de' beni temporali innata in noi tutti. Ma intorno a questa
delicata materia basterà per ora il poco che ho riferito dello storico
franzese. Ora noi abbiamo dai continuatori di Fredegario, da Anastasio e
da altri, che il re Pippino, raunato un potentissimo esercito si mosse
alla volta d'Italia: del che avvertito Astolfo, sciolto l'assedio,
lasciò libera Roma, ed accorse colle sue forze alla difesa dei confini
dell'Italia, per opporsi ai Franzesi. In questo mentre arrivarono a Roma
due ambasciatori spediti dall'Augusto _Costantino_ al re di Francia,
cioè _Gregorio_ capo de' segretarii, e _Giovanni_ silenziario, con
ordine, per quanto apparisce, di commuovere esso re contra de'
Longobardi, e di procurar la restituzione dell'esarcato al romano
imperio. Udito poi che già il re Pippino era marciato colla sua armata,
se ne stupirono forte, nè lo sapevano credere. Perciò senza perdere
tempo, messisi in viaggio per mare, e seco conducendo un messo dato loro
dal papa per accompagnarli, in breve pervennero a Marsiglia, dove udendo
che già il re Pippino avea valicato l'Alpi, se ne afflissero non poco.
Aveano essi, per quanto si può conghietturare, scoperto prima, o certo
scoprirono allora, che i negoziati del papa contra de' Longobardi erano,
non già in favore dell'imperador loro padrone, ma bensì in profitto del
sommo pontefice e della Chiesa romana, alla quale Pippino avea promesso
in dono l'esarcato. Per ciò s'ingegnarono in tutte le forme, e colle
brusche ancora, di tenere indietro il messo del papa, e in fatti il
suddetto Gregorio andando innanzi, trovò Pippino poco lungi da Pavia, e
presentate le lettere imperiali, non omise preghiere per indurlo a fare
restituire all'imperadore suo padrone le città dell'esarcato, siccome
paese a lui usurpato, e su cui non aveano per anche acquistato alcun
legittimo diritto i Longobardi, con esibirsi di pagar le spese occorse
nella guerra. Ma Pippino in poche parole apertamente gli disse di aver
fatto un dono di quella contrada a san Pietro, cioè alla Chiesa romana,
e che per tutto l'oro del mondo non cambierebbe mai pensiero. Se i
ministri cesarei impugnassero il disegno di questo donativo, come di
cosa altrui, nol sappiamo. Solamente si sa ch'essi ministri furono
licenziati, senza che ottenessero neppur buone parole.

Intanto posto l'assedio a Pavia, Astolfo si trovò verso il fine
dell'anno costretto a chiedere perdono, a pagare gran somma di danaro, e
a promettere in forma più stretta di rendere le città al papa,
aggiungendo anche alle medesime la città di Comacchio, che dianzi doveva
essere del re longobardo, e non già inchiusa nell'esarcato. Allora fu
che Pippino, siccome attesta Anastasio, fece una donazione in iscritto
di essa città a san Pietro, ossia alla Chiesa romana, ed inviò tosto
_Fulrado_ abbate del monistero di san Dionisio a prendere il possesso,
con ritornarsene egli intanto in Francia. Andò Fulrado coi deputati del
re Astolfo a città per città dell'esarcato e della Pentapoli (segno che
tutte erano dianzi venute in potere de' Longobardi), e ricevendone le
chiavi e gli ostaggi, coi principali cittadini d'esse passò a Roma, dove
sopra l'altare di san Pietro pose le chiavi suddette, insieme colla
donazion fattane dal re Pippino, e diede a san Pietro e a tutti i suoi
vicarii romani pontefici per l'avvenire il possesso di quelle città:
cioè di _Ravenna_, _Rimini_, _Pesaro_, _Fano_, _Cesena_, _Sinigaglia_,
_Jesi_, _Forlimpopoli_, _Forlì col castello Sussubio_, _Monfeltro_,
_Acerragio_, _Monte di Lucaro_, _Serra_, _Castello di san Mariano_
(forse san Marino), _Bobio_ (diverso dall'altro della Liguria),
_Urbino_, _Cagli_, _Luceolo_, _Gubbio_, _Commachio_, colla giunta ancora
della città di _Narni_, che i duchi di Spoleti molti anni prima aveano
tolta al ducato romano. Ma qual fosse e con quali condizioni una tal
donazione non resta a noi ben chiaro, essendo periti gli atti e
strumenti d'allora, e a nulla servendo per illuminarci i posteriormente
finti, se mai uscissero alla luce. Papa Stefano in una delle sue lettere
al re Pippino[413] scrive che il re Astolfo _nec unius palmi terrae
spatium beato Petro, sanctaeque Dei Ecclesiae, vel reipublicae Romanorum
reddere passus est_. Aggiunge che Pippino avea confermato _propria
voluntate per donationis paginam beato Petro, sanctaeque Dei Ecclesiae,
reipublicae, civitates et loca restituenda_. Altri passi ci sono, ne'
quali si parla della restituzione che s'avea da fare alla _repubblica_,
chiaramente distinta dalla Chiesa romana. Il padre Cointe negli Annali
ecclesiastici della Francia pretese, che sotto nome di _repubblica_
venisse il _romano imperio_, ossia la camera e il fisco imperiale. A
questa opinione non acconsentì il padre Pagi[414]; ma, per quanto mi
sono io ingegnato di provare nelle Antichità italiane[415], indubitata
cosa è che sotto il nome di _repubblica_ veniva l'_imperio romano_,
benchè non apparisca qual cosa fosse ora restituita ad esso imperio,
essendo anche incerto come restasse in questi tempi il governo di Roma.
Pretende bensì il suddetto padre Pagi, che da lì innanzi i romani
pontefici avessero in pieno lor dominio non meno essa città che
l'esercato; ma senza che si veggano prove concludenti di tal opinione.
Certo non si può mettere in dubbio la donazione dell'esarcato e della
Pentapoli fatta dal re Pippino alla santa Sede romana, con escluderne
affatto la signoria de' greci Augusti; ma se avvenisse per conto di Roma
e del suo ducato lo stesso, e se Pippino si riservasse dominio alcuno
sopra lo stesso esarcato, non pare finora concludentemente deciso, come
altrove osservai[416]. E questo, a mio credere, è il primo esempio di
dominii temporali con giurisdizione dati alle chiese e a' sacri pastori,
del quale poi profittarono a poco a poco le altre chiese, la maggior
parte delle quali procurò a sè stessa ed ottenne di somiglianti
signorie, siccome andremo vedendo. Gloriosamente in quest'anno coronò il
corso di sua vita san _Bonifacio_, celebre arcivescovo di Magonza, con
sofferire il martirio dai Pagani. Credesi parimente che riuscisse al re
Pippino di sottomettere la città di Narbona dopo tre anni di assedio,
con ritorla ai Saraceni, i quali perciò furono cacciati da tutta la
provincia della Settimania, oggidì Linguadoca. Per attestato ancora del
Dandolo[417], in quest'anno _Deusdedit_ doge di Venezia, mentre era
dietro per fabbricare un castello fortissimo alla riva del porto della
Brenta, per congiura di uno scellerato uomo appellato _Galla_, fu ucciso
dal suo popolo. Dopo di che lo stesso _Galla_ portatosi a Malamocco,
occupò la sedia e il nome ducale, ma per poco tempo, siccome vedremo.

NOTE:

[412] Fleury, Histoire Ecclesiast., lib. 43, §. 17.

[413] Codex Carolinus.

[414] Pagius, in Critic. Baron., ad ann. 755.

[415] Antiquit. Ital., Dissert. XVIII.

[416] Piena Esposizione, cap. 2.

[417] Dandulus, in Chron. tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCLVI. Indizione IX.

    STEFANO II papa 5.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 37 e 16.
    LEONE IV imperadore 6.
    ASTOLFO re 8.


Gli Annali d'Eginardo, Metensi[418] ed altri, siccome ancora
Sigeberto[419], riferiscono all'anno presente la morte di _Astolfo_ re
dei Longobardi. Andrea prete[420] nella sua Cronichetta scrive ch'egli
regnò _otto anni_. Era egli alla caccia, e cadendo da cavallo (alcuni
han creduto per urto di un cignale), tale fu la percossa, che da lì a
tre giorni cessò di vivere. Di lui così scrisse lo Anonimo salernitano,
autore del secolo decimo, nella Cronica da me data alla luce[421]: _Fuit
audax et ferox, et ablata multa sanctorum corpora ex romanis finibus in
Papiam detulit. Construxit etiam oracula, ubi et monasterium virginum,
et suas filias dedicavit. Idemque etiam fecit monasterium in finibus
Æmiliae, ubi dicitur Mutina, loco, qui nuncapatur Nonantula; nam pro
ejus cognato abbate Arsenio_ (si dee scrivere Anselmo) _ibi vivorum
coenobium fundatum est. Necnon et sibi ad sacra monachorum coenobia
aedificanda per certas provincias multa est dona largitus. Sed valde
dilexit monachos, et in eorum est mortuus manibus_. Perchè Astolfo non
lasciò figliuoli maschi, seguì appresso un gran dibattimento nella dieta
de' principi longobardi per l'elezione del successore. _Desiderio_ duca
era uno dei principali pretendenti. Abbiamo da Anastasio
bibliotecario[422], che esso Desiderio era stato indirizzato dal re
Astolfo in _Toscana_, e udendo egli la nuova della morte accaduta d'esso
re, immantinente raunato tutto l'esercito de' Toscani, si studiò
d'occupar la corona del regno longobardico. Questo parlar d'Anastasio ha
dato occasione al Sigonio e agli altri storici susseguenti di scrivere
che lo stesso Desiderio era in questi tempi _duca di Toscana_. Ma non è
ben certa cotale notizia. Non apparisce che allora vi fosse un duca, il
qual comandasse tutta la Toscana. Ogni città di quella provincia si vede
in essi tempi governata dal suo proprio duca; e specialmente ciò si
osserva in Lucca, città che più felicemente dell'altre ha conservate le
antiche sue carte che compongono oggidì un nobilissimo archivio,
custodito da quell'arcivescovo. Nè Francesco Maria Fiorentini, e neppure
io, che sotto gli occhi ho avuto le carte medesime, abbiam trovato
vestigio alcuno che Desiderio fosse duca di quella città, e molto meno
di tutta la Toscana. All'incontro, se vogliam credere ad Andrea
Dandolo[423], Desiderio era allora _dux Istriae_. In fatti, siccome
accennerò all'anno 771, l'Istria allora si truovava signoreggiata dai
Longobardi, e ne parla anche l'Anonimo salernitano. Comunque sia, certo
è che Desiderio incontrò di gravi difficoltà per salire sul trono.
Alzossi contra di lui _Rachis_, già re, e poi monaco in Monte Casino, il
quale invaghito di nuovo dell'abbandonato regno, e dimenticato de' suoi
voti, tentò ogni via per riassumere il comando, con ritornare a tal fine
in queste parti, dove anch'egli messa insieme un'armata di Longobardi,
si oppose ai disegni di Desiderio. Allora fu ch'esso Desiderio altro
rifugio non ebbe che di fare ricorso a papa Stefano, per ottenere col
mezzo suo la corona, promettendo di fare in tutto e per tutto la volontà
dello stesso pontefice e di render alla _repubblica_ le città non per
anche restituite, colla giunta d'altri doni. Resta ancora la
testimonianza d'esso papa Stefano in una lettera scritta al re Pippino,
che il re Astolfo contro i patti avea fino alla sua morte ritenuto in
suo potere alcune città: il che fa intendere non doversi prendere a
rigore ciò che di sopra abbiam veduto riferito dal medesimo Anastasio
intorno alla restituzione delle suddette città. Perciò il papa spedì
incontanente in Toscana _Fulrado_ abbate e Paolo diacono suo fratello,
che strinsero l'accordo con Desiderio. Ed appresso inviò Stefano prete
con lettere indirizzate a Rachis e a tutti i Longobardi, con pregarli di
non contrariare all'elezione di Desiderio, esibendo in aiuto del
medesimo alquante truppe franzesi, e più brigate di Romani, quando
occorresse.

Furono sì efficaci questi maneggi, che senza venire all'armi, Desiderio
pacificamente salì sul trono, e l'ambizioso monaco Rachis se ne tornò
confuso al suo monistero. Ma ciò dovette seguire solamente nell'anno
seguente. Avea promesso Desiderio di consegnare al papa Faenza col
castello Tiberiano, Gavello, e tutto il ducato di Ferrara; ma non già
Imola, Osimo, Ancona, Numana e Bologna, siccome vedremo. Che poi
l'opposizione di Rachis monaco pentito non fosse di poca conseguenza, lo
ricavo io da un riguardevol documento che si conserva nell'archivio
archiepiscopale di Pisa, ed è stato da me dato alla luce[424]. Consiste
esso in una donazione fatta da _Andrea_ vescovo pisano con queste note
cronologiche: _Guvernante domno Ratchis famulu Christi Jesu, principem
gentis Langobardorum, anno primo, mense februario, per Inditione
decima_. Indicano queste il mese di febbraio dell'anno 757 seguente, nel
qual tempo si scorge che Rachis sotto il falso nome di _famulus
Christi_, cioè di monaco, conservava l'antica ambizione, e contrastò a
Desiderio il regno. Questo documento ci rileva che Rachis riassunse il
governo con sollevar la Toscana contro d'esso Desiderio, giacchè si vede
notato in Pisa l'_anno primo_ del suo governo, corrente nel febbraio
dell'anno susseguente. Una bella e non mai più veduta scena in Italia
dovette esser quella di un monaco, il quale alla testa d'un esercito
dava a conoscere il suo prurito di comandar di nuovo ad un regno. Potè a
suo piacere Angelo dalla Noce[425] dargli il titolo _sanctissimi regis
et monachi_. Certo non fu santo per questo. Il tempo, in cui diede
Desiderio principio al suo regno, si potrebbe credere verso il fine del
presente anno. Nell'archivio archiepiscopale di Lucca v'ha una carta
scritta _nell'anno VI di Desiderio, e IV di Adelchis, a dì 8 di
dicembre_, correndo l'_indizione prima_, cioè nell'anno 762: note
indicanti che dopo il dì 8 di dicembre nell'anno presente 756 cominciò
l'epoca del re Desiderio. Un'altra carta è scritta _nell'anno XI di
Desiderio, IX di Adelchis, nel dì 19 di febbraio, indizione sesta_, cioè
nell'anno 768: dalle quali note si può inferire principiato il suo regno
nell'anno 757. Altre carte ho io veduto che sembrano indicare differita
la di lui elezione sino al principio d'esso anno 757. Perciò, finchè
altri meglio decida questo punto, mi attengo a tale opinione. A buon
conto s'è veduto che anche nel febbraio dell'anno seguente durava
tuttavia l'opposizione di Rachis alle pretensioni di Desiderio. E il
padre Astesati benedettino[426] dopo lungo esame concorre anch'egli
nell'anno 757. Secondochè abbiamo dal Dandolo[427], in questo medesimo
anno l'usurpatore del ducato di Venezia _Galla_ ebbe da quel popolo il
dovuto pagamento delle sue iniquità, con essergli stati cavati gli occhi
e tolta quella dignità. Succedette in suo luogo _Domenico Monegario_,
concordemente eletto doge, ma non senza qualche novità, perchè il popolo
volle anche avere sotto di lui due tribuni, che ogni anno s'aveano da
mutare. Per quanto poi risulta dalle memorie recate dal padre
Mabillone[428], mancò di vita in quest'anno _Guido conte_ longobardo,
figliuolo di _Adalberto conte_, marito di _Adelaide_ figliuola di
_Rodoaldo_ duca di Benevento, e parente del re Desiderio. Avendo egli
negli anni addietro ricuperata la sanità per le preghiere dei monaci di
Disertina ne' Grigioni nella diocesi di Coira, avea fatto a quel
monistero una donazion copiosa di beni.

NOTE:

[418] Eginhardus, in Annalib. Annales Metenses.

[419] Sigebertus, in Chron.

[420] Andreas Presbyter, Chron., tom. 1. Antiquit. Ital. Dissert. I.

[421] Anonym. Salernitan. P. II, tom. 2. Rer. Ital.

[422] Anastas., in Stephan. II Vit.

[423] Dandulus, in Chron., tom. 12, Rer. Italic.

[424] Antiquit. Ital. T. III. Appendic., p. 1007.

[425] Angelus a Nuce, in Not. ad lib. 1, cap. 8 Chron. Casinens.

[426] Astesati, Dissert. in Manelm.

[427] Dandul., in Chron. tom. 12 Rer. Ital.

[428] Mabill., in Annal. Benedict., lib. 23, n. 20.



    Anno di CRISTO DCCLVII. Indizione X.

    PAOLO I papa 1.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 38 e 17.
    LEONE IV imperadore 7.
    DESIDERIO re 1.


Fu di parere il padre Pagi che la lettera scritta da papa _Stefano II_
al re _Pippino_[429], il cui principio è: _Explere lingua_, fosse
scritta nell'anno precedente. Io la credo ne' primi mesi dell'anno
corrente, dicendo il papa che già era passato l'anno in cui era
succeduto l'assedio e la liberazion di Roma. Ora da questa lettera
apprendiamo che _Desiderio_ avea vestito il manto regale, e promesso di
rendere il rimanente delle città non per anche restituite a s. Pietro.
Da essa parimente intendiamo che la dieta generale del ducato di Spoleti
aveva eletto un nuovo duca, e questi era _Alboino_. Nel catalogo posto
innanzi alla Cronica di Farfa[430], da me data alla luce, si vede
registrato l'anno in cui seguì tale elezione, ed è l'anno presente 757.
Però concorre ancor questa notizia a indicar l'anno della lettera
suddetta di Stefano II papa, il quale fa inoltre sapere ad esso re, che
i popoli dei ducati di Spoleti e Benevento a lui si raccomandavano.
Esorta dipoi e prega il re Pippino, che, se Desiderio eseguirà i patti
con restituir pienamente a _san Pietro_ e _alla repubblica de' Romani_
ciò che avea promesso, voglia esso Pippino aver pace con lui, e
concedergli quanto bramava. Fa eziandio istanza che Pippino spedisca a
Desiderio i suoi messi, per comandargli la restituzione intera di quei
che restava a rendersi, cioè le città di sopra accennate. E qui si vuol
ricordare aver Leone Ostiense[431] lasciato scritto, che la donazione
fatta da Pippino e da' suoi figliuoli consisteva ne' seguenti paesi: _A
Lunis cum insula Corsica Inde in Surianum Inde in Montem Bardonem. Inde
in Bercetum. Inde in Parmam. Inde in Regium. Inde in Mantuam, et Montem
Sicilis. Simulque universum exarchatum Ravennae, sicut antiquitus fuit,
cum provinciis Venetiarum et Histriae; necnon et cunctum ducatum
spoletinum, seu beneventanum_. Trasse Leone Marsicano tali notizie da
Anastasio nella vita di papa Adriano. Ma non apparisce punto che fossero
donate dal re Pippino alla Chiesa romana le province della Venezia e
dell'Istria, nè i ducati di Spoleti e di Benevento, che noi seguiteremo
a vedere porzioni del regno d'Italia. Bologna fu all'occidente il
confine dell'esarcato conceduto alla santa Sede, senza mai stendersi il
dominio dei papi alla città di Luni, nè a Parma, Reggio, Mantova, ec.
Però non possono venir quelle parole da autore assai informato di questi
affari. Ricavasi dalla medesima lettera di papa Stefano II che tuttavia
un _silenziario_, cioè un segretario dell'imperadore, si trovava alla
corte del re Pippino, bramando il papa di sapere che negoziati fossero
passati con lui, e con quali lettere egli fosse stato licenziato dal re.
In fatti abbiamo dagli Annali de' Franchi, che in questi tempi andavano
innanzi e indietro ambasciatori dell'imperadore e di Pippino, e che il
primo mandò a donare al re un organo, che in que' tempi era mirabil cosa
presso i Franzesi. Ma _Stefano II_ papa sopravvisse poco alla lettera
suddetta, essendo mancato di vita nel dì 24 d'aprile dell'anno corrente:
pontefice assai benemerito di Roma e della santa Sede, spezialmente nel
temporale. L'elezione del suo successore non seguì senza qualche
discordia del clero e del popolo. Una parte concorse coi suoi voti in
_Teofilatto_ arcidiacono, un'altra in _Paolo_ diacono, fratello del
defunto papa Stefano, personaggio specialmente eminente nella carità
verso i poveri, e sommamente mansueto e benigno. Dopo trentacinque
giorni di sede vacante questi prevalse, e fu consecrato papa nel dì 29
di maggio. Non tardò egli a significare a _Pippino re di Francia e
patrizio de Romani_ l'assunzione sua al pontificato in una lettera che
si legge nel Codice Carolino, assicurandolo d'essere non men egli che
tutto il popolo romano saldissimi nella fede, amore, concordia di
carità, e lega di pace che il suo predecessore e fratello avea stabilito
con lui. Era già stato circa l'anno 752 ordinato arcivescovo di Ravenna
Sergio; e quantunque il testo delle sua vita scritta da Agnello
ravennate[432] sia scorretto, pure ci fa abbastanza intendere che
essendo nell'anno appresso in viaggio verso la Francia _Stefano II_
papa, non andò ad incontrarlo quell'arcivescovo, probabilmente per tema
del re _Astolfo_, padrone allora di Ravenna. Se l'ebbe a male il papa,
gli tolse il monistero di sant'Ilario della Galliata, e tornato a Roma,
cominciò a dargli delle molestie. Sergio confidato nella protezione del
re de' Longobardi si andò riparando; ma venuta alle mani del papa
Ravenna, egli fu con frode di que' cittadini condotto a Roma e posto in
prigione, dove stette circa tre anni. Finalmente papa Stefano era in
procinto di deporlo, adducendo per suo reato l'esser egli salito in
quella cattedra, quantunque avesse moglie. Ma Sergio rispondeva d'essere
stato eletto da tutto il clero e popolo di Ravenna, e che andato a Roma
ed interrogato dal medesimo papa, non avea taciuto d'essere ammogliato,
ma che era seguito divorzio colla moglie _Eufemia_, ed essa era entrata
dipoi nell'ordine delle diaconesse. Ciò non ostante, il papa gli avea
data la consecrazione. Sopra ciò diversi erano i sentimenti de' vescovi
raunati in un concilio; ma il papa in collera rispose che nel dì
seguente colle sue mani gli volea strappare la stola, ossia il pallio,
dal collo. Passò Sergio quella notte in lagrime e preghiere; ma nella
medesima appunto, essendo morto papa Stefano, fu a trovarlo segretamente
Paolo di lui fratello, che gli dimandò cosa voleva egli dargli se il
rimandava onorato e in pace a casa. Sergio spalancò la porta alle
promesse. Creato poi papa Paolo, il mise in libertà, e rimandollo con
onore alla sua chiesa. Non è Agnello assai esatto scrittore nelle cose
lontane da' suoi tempi, e si scuopre poi sospetto in tutto ciò che
riguarda i papi; però possiam giustamente dubitare della verità di
questo fatto. Certo s'inganna Girolamo Rossi, seguitato poi dal Baronio,
che lo rapporta ai tempi di Stefano III papa; scusabile nondimeno,
perchè ai suoi dì non si trovava più in Ravenna il Pontificale d'esso
Agnello, del cui rinascimento alla luce siam debitori alla biblioteca
estense. Nell'epistola vigesima settima del Codice Carolino, il
pontefice Paolo in iscrivendo al re Pippino, si mostra disposto di
restituire alla sua Chiesa l'arcivescovo _Sergio_: il che ci fa
intendere che non sì tosto dopo l'assunzione d'esso Paolo alla cattedra
pontificia fu rimesso il medesimo Sergio in libertà, ma da lì ad un
anno, o due, per cui forse ancora lo stesso re Pippino avea presa
qualche favorevole ingerenza.

NOTE:

[429] Codex Carolinus, Epistol. 6.

[430] Chron. Farfense, P. II. T. II Rer. Ital.

[431] Leo Ostiensis, Chron. Casinens. l. 1, c. 8.

[432] Agnell., Vit. Episcopor. Ravennat. P. I. Tom. II Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCLVIII. Indizione XI.

    PAOLO I papa 2.
    COSTANTINO Copronimo imperatore 39 e 18.
    LEONE IV imperadore 8.
    DESIDERIO re 2.


Dimenticò ben presto il re _Desiderio_ i benefizii ricevuti da papa
_Stefano II_, e le promesse da lui fatte di restituire interamente alla
Chiesa romana quanto era stato occupato da' suoi predecessori al greco
Augusto. Perciò papa _Paolo_ per questi affari fervorosamente scrisse al
re _Pippino_ nella lettera decimaquinta del Codice Carolino che
comincia: _Quotiens perspicua_. Questa lettera dal padre Pagi fu creduta
spettante all'anno precedente: io la stimo inviata nel presente. Da essa
impariamo alcune particolarità di molta importanza. Cioè, che mentre fu
l'ultimo assedio di Pavia, oppure nell'interregno dopo la morte del re
Astolfo, i duchi di Spoleti e di Benevento _se sub vestra a Deo servata
potestate contulerunt_: il che in buon linguaggio vuol dire che s'erano
ribellati al re, ossia regno longobardico, e messi sotto la protezione,
anzi sotto la sovranità del re di Francia, comparendo anche da ciò
l'insussistenza della donazione di que' ducati alla Chiesa romana, che
nel secolo XI fu immaginata, oppure interpolata. Ora il re Desiderio
altamente sdegnato contra di quei duchi, nell'anno presente si mosse
coll'esercito per castigarli. Abbiamo dalla lettera suddetta ch'egli
passò per le città della Pentapoli, cioè per Rimini, Fano, Pesaro, ec,
consumando col ferro e col fuoco i raccolti e le sostanze di quegli
abitanti. Altrettanto fece appresso ne' ducati di Spoleti e di Benevento
_ad magnum spretum regni vestri_, perchè que' duchi si erano dati al re
Pippino. Mise Desiderio in prigione _Alboino_ duca di Spoleti e molti di
que' baroni. E di là passato nel ducato di Benevento, tal terrore vi
portò, che _Liutprando_ duca di quel vasto paese si rifugiò nella città
d'Otranto. Non avendolo potuto far uscire di là, il re Desiderio creò un
altro duca di Benevento, cioè _Arichis_, ossia _Arigiso_, secondo di
questo nome. Osservò Camillo Pellegrini[433] che il governo del suddetto
duca Liutprando in Benevento si truova continuato fino al febbraio del
presente anno: il che ci fa conoscere doversi riferire a questo medesimo
anno, e non già all'antecedente, la lettera di papa Paolo I
soprammentovata. Aggiunge dipoi esso pontefice che il re Desiderio avea
chiamato a sè da Napoli _Giorgio_ silenziario, ossia segretario, quel
medesimo ministro imperiale che poco prima era tornato di Francia, e
trattato con lui per indurre l'imperadore ad inviare un potente esercito
in Italia, con promessa di seco unir le sue armi per fargli ricuperare
la città di Ravenna. Che inoltre era convenuto fra loro che la flotta
delle navi di Sicilia venisse all'assedio di Otranto, colla quale di
concerto coi Longobardi si potesse obbligar quella città alla resa, con
patto di cederla all'imperadore, purchè Desiderio avesse in mano il duca
Liutprando col suo balio. Dopo tali imprese e maneggi, seguita a dire il
papa, che essendo venuto il re Desiderio a Roma, in un abboccamento
avuto con lui l'avea scongiurato di restituire le città d'Imola,
Bologna, Osimo ed Ancona a san Pietro, secondo le promesse
antecedentemente da lui fatte. Ma che egli tergiversando avea fatta
istanza di riaver prima gli ostaggi longobardi che erano in Francia;
dopo di che avrebbe adempiuto quanto avea promesso. Perciò il papa si
raccomanda a Pippino, acciocchè con braccio forte insista appresso il re
longobardo per fargli mantener la parola, con avvisarlo ancora d'avergli
trasmessa altra lettera di tenor differente a petizione del re
Desiderio, dove il pregava di rendere gli ostaggi e di aver pace con
lui; ma che si guardasse però dal renderli, finchè non fosse seguita la
total restituzione delle città suddette. Questa lettera è la vigesima
nona del Codice Carolino. Quindi apparisce qual fosse il disparere tra
il papa e il re Desiderio, cadaun di loro pretendendo di aver la
preminenza nell'esecuzione de' patti.

Probabilmente ancora in quest'anno il pontefice Paolo scrisse al re
Pippino la lettera vigesima quarta, che comincia _A Deo institutae_, in
cui l'avvisa d'avere inteso da più parti che sei patrizii imperiali con
trecento legni e con lo stuolo delle navi di Sicilia venivano da
Costantinopoli verso Roma, senza che si sapesse il loro disegno, se non
che voce correva che fossero incamminati verso la Francia. Motivo abbiam
di maravigliarci come il papa, trattandosi di venire a Roma una sì
potente flotta, non ne mostri apprensione alcuna, quando tanta ne mostra
altrove per le minacce dei Greci contro di Ravenna. S'egli al dispetto
dell'imperadore, come suppongono alcuni, signoreggiava in Roma, perchè
non temere di quella visita? Seguita a dire il pontefice di aver
trattato col re Desiderio per ottenere _le giustizie dei Romani_ da
tutte le città de' Longobardi, cioè i patrimonii ed allodiali spettanti
in esse alla Chiesa Romana e ai particolari; ma esigere da Desiderio che
nello stesso tempo dalla parte de' Romani fosse fatta giustizia ai
Longobardi; e che mentre una città longobarda restituisse l'occupato,
anche un'altra dei Romani scambievolmente soddisfacesse al suo dovere.
Incagliato per questi puntigli l'affare, Desiderio avea fatto delle
scorrerie nelle terre dei Romani, ed inviato al papa delle gravi
minacce. In quest'anno, prima che terminasse il secondo del suo regno,
tengono alcuni che il re Desiderio dichiarasse suo collega nel regno e
re il suo figliuolo _Adelchis_, ossia _Adelgiso_. I miei sospetti sono
che all'anno seguente piuttosto appartenga tal promozione. Buona parte
dei documenti che restano di quei regnanti ci fan conoscere che l'epoca
del padre precede di due anni quella del figliuolo, e in altre carte di
tre. Nell'archivio dell'arcivescovo di Lucca è scritto uno strumento con
queste note: _Anno Domni Desiderii primo, kal. januaria, Indictione
undecima_, cioè nell'anno presente 758: il che può indicare che
nell'anno precedente 757 avesse principio l'anno primo dell'epoca di
Desiderio, durante tuttavia nel dì primo di gennaio di quest'anno. Quivi
pure se ne conserva un altro colle note: _Regnante D. N. Desiderio, et
Adelchis regibus, anno regni eorum undecimo et nono, undecimus dies
kalendas martii_s. In un'altra carta si legge: _Regnante D. N. Desiderio
rege, et filio ejus D. N. Adelchis anno regni eorum quartodecimo, et
duodecimo, quarto kal. octobris, Indict. IX_, cioè nel 770. In un'altra
abbiamo stipulato uno strumento nell'_anno X di Desiderio re, e VII del
re Adelchis, nel dì primo di luglio_, correndo _l'Indizione quarta_,
cioè nell'anno 766. Un altro fu scritto nell'_anno VIII di Desiderio, e
V di Adelchis, nel mese di maggio nell'Indizione II_, cioè nell'anno
764. Un altro nell'_anno IX del re Desiderio, e VI di Adelchis, nel mese
di maggio, Indizione III_, cioè nell'anno 765. Così nell'archivio di san
Zenone di Verona si vede una carta scritta _regnante domno nostro
Desiderio, et filio ejus Adelchis, etc. annis duodecimo, et nono, die
vincesima martii, per Indictione sexta_, cioè nell'anno 768. E
nell'archivio del monistero di sant'Ambrosio di Milano un'altra ne ho
veduta scritta _anno domno Desiderio et Adelchis, quintodecimo et
duodecimo sub die octaubo kalendarum augustarum, Indictione nona_, cioè
nell'anno 771. Similmente un'altra scritta _Desiderio et Adelchis
regibus anno nono et septimo, sub die tertiodecimo kalend. septembris,
Indictione tertia_, cioè nell'anno 765. Perchè non mi sembrano coerenti
tutte queste note cronologiche, lascierò che altri, unendo altre
notizie, ne deduca il principio delle epoche di questi due regnanti.

NOTE:

[433] Camill. Peregrin., Rer. Ital., P. I, tom. 2.



    Anno di CRISTO DCCLIX. Indizione XII.

    PAOLO I papa 3.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 40 e 19.
    LEONE IV imperadore 8.
    DESIDERIO re 3.
    ADELGISO re 1.


Senza alcun ordine e senza data si veggono registrate nel Codice
Carolino le lettere inviate in questi tempi dai romani pontefici ai re
di Francia; e però solamente a tentone si può fissar l'anno, in cui
furono scritte. Porto io opinione che al presente si debba riferire la
quattordicesima, che comincia _Quas praeclara_. Scrive in essa papa
_Paolo_ al re _Pippino_ d'aver inteso come il re _Desiderio_ avea voluto
fargli credere di non avere recato alcun danno agli stati della Chiesa;
ma che non gli presti fede, essendo verissimi i saccheggi e danni
inferiti dai Longobardi, e le minacce fatte dal re loro, siccome _hoc
praeterito_ anno con sue lettere aveva esso papa significato a Pippino.
Si riduce nondimeno a dire che l'ostilità de' Longobardi era seguita _in
civitate nostra senogalliensi_, e in Campagna di Roma, _Castro nostro,
quod vocatur Valentis_. Aggiunge, che essendo poi venuti i messi di
Pippino, ed avendo riconosciuta la verità del fatto, avevano obbligato i
Longobardi a rifare il danno. Medesimamente sembra a me credibile che
sia scritta nell'anno presente da papa Paolo al re Pippino la lettera
diciassettesima del Codice Carolino, in cui gli notifica, che, essendosi
abboccati in presenza sua i messi longobardi coi messi spediti da esso
Pippino e coi deputati delle città della Pentapoli, s'era chiarito il
conto di alcune giustizie, cioè de' bestiami tolti dall'una parte e
dall'altra, e che n'era seguita la restituzione. Ma, per conto dei
confini delle città romane e de' beni patrimoniali di san Pietro
occupati dagli stessi Longobardi, nulla fin allora era stato restituito;
anzi ne aveano occupato degli altri. Però si era conchiuso, che i messi
di Pippino coi deputati delle città si portassero a Pavia, per chiarire
davanti al re Desiderio i diritti delle parti. Replica susseguentemente
il papa le sue istanze che Pippino voglia operare in maniera da fargli
ottenere interamente le _giustizie_, affinchè il beato Pietro principe
degli Apostoli, per la restituzione della cui luminaria s'era impegnato
esso Pippino, gliene dia una somma ricompensa. Quel che è strano,
confessa il medesimo papa, in iscrivendo la lettera trentesimaquarta del
Codice Carolino al suddetto re, che i Greci non per altro odiavano e
perseguitavano il papa e la Chiesa romana, se non per cagione delle
sacre immagini, da loro abborrite e difese da Roma. _Non ob aliud (sono
le sue parole) ipsi nefandissimi nos persequntur Graeci, nisi propter
sanctam et orthodoxam fidem, et venerandorum patrum piam traditionem,
quam cupiunt destruere atque conculcare._ Qui son chiamati
_nefandissimi_ i Greci per consolazione de' Longobardi, che si veggono
anch'essi onorati col medesimo titolo, qualora prendevano l'armi contra
dei Romani. Intanto, quando si voglia ammettere che oltre all'acquisto
dell'esarcato, Stefano II papa, fratello e predecessore di papa Paolo,
cominciasse ad esercitare un pieno dominio in Roma con escluderne
affatto l'imperadore, non si sa intendere come esso Augusto per questa
da lui creduta usurpazione non fosse forte in collera contra de' Romani
pontefici. E pur dalle parole suddette non apparisce che Costantino
facesse doglianza di ciò, con lasciar conseguentemente dubbio se allora
il governo e dominio di Roma fosse quale ora viene supposto. Ammettendo
poi questo dominio, è ben da maravigliarsi, come il papa rifonda lo
sdegno dell'imperadore nella sola discrepanza del culto delle immagini
sacre, quando v'era ancora l'essersi ritirati i Romani dalla ubbidienza
di lui. Sotto quest'anno riferisce Girolamo Rossi[434] una bolla di papa
Paolo, in cui narra che fu conceduto dal suo predecessore papa Stefano
ad _Anscauso_ vescovo di Forlimpopoli il monistero di sant'Ilario della
Galliata, ossia Calligata, situato nella diocesi di quel vescovo
nell'Apennino, di cui vien fatta menzione anche nella lettera
settantesimaquarta del Codice Carolino, scritta da papa Adriano I. Ora
essendo poi venuto a morte esso vescovo, il pontefice Paolo restituisce
alla Chiesa di Ravenna quel monistero, perchè conosciuto essere di
ragione della medesima. La bolla è data _nonis februarii imp. domno_
(forse D. N. cioè _domino_ o _domno nostro) piissimo Augusto Costantino,
a Deo coronato, magno imper. anno XL. et pacis ejus_ (ivi sarà scritto
_P. C. ejus_, cioè _post consulatum ejus) anno XX. Sed et Leone majore
imp. ejus filio anno VII. Indictione XII._ Se niuno errore fosse scorso
negli anni di _Leone Augusto_ figliuolo del Copronimo, avremmo qui da
correggere il conto del padre Pagi, che di uno o due anni anticipò la di
lui assunzione al trono. Ma forse in quella bolla sarà stato _anno
VIII_, oppure _VIIII_. Pretende ancora esso Pagi, che invece dell'_anno
XL_ di Costantino s'abbia a scrivere _XXXIX_. Ma quando si ammetta per
legittimo quel documento, non si saprebbe intendere come il copista
avesse posto un sì diverso numero per un altro. E notisi che tuttavia in
Roma si segnavano i pubblici documenti col nome dell'imperadore: il che
serve di qualche fondamento per dubitare se ivi fosse estinta la di lui
autorità e signoria. Quindi ancora veniamo ad intendere che _Sergio_
arcivescovo di Ravenna era ritornato alla sua Chiesa, e godeva della
grazia del romano pontefice.

NOTE:

[434] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.



    Anno di CRISTO DCCLX. Indizione XIII.

    PAOLO I papa 4.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 41 e 20.
    LEONE IV imperadore 10.
    DESIDERIO re 4.
    ADELGISO re 2.


Fu scritta in quest'anno la lettera vigesima prima del Codice Carolino
da papa _Paolo_ al re _Pippino_. In essa gli significa, essere convenuto
fra _Desiderio_ re de' Longobardi, e _Remedio_ ed _Autario_ duca,
inviati d'esso re Pippino, che _per totum instantem aprilem mensis
istius XIII, Indictione_ dell'anno presente, il suddetto renderebbe a s.
Pietro _tutte le giustizie_, cioè i patrimonii, i diritti, i luoghi,
confini e territorii _diversarum civitatum nostrarum reipublicae
Romanorum_. Aggiugne, che una parte già n'era restituita, e che il re
longobardo faceva in breve sperare il restante. In questo medesimo anno
vo io conghietturando che sia scritto la lettera vigesima sesta del
Codice Carolino, riferita all'anno 757 dal Cointe e dal padre Pagi.
Quivi papa Paolo fa sapere al re Pippino che il re Desiderio
nell'autunno precedente per sua divozione era venuto a Roma, e che
parlando seco, restò conchiuso d'inviare i messi del medesimo re con
quei del re Pippino per diverse città affin di liquidare le _giustizie_
della Chiesa romana, mostrandosi egli pronto alla restituzione di tutto.
Soggiugne che in fatti questa si era effettuata nei ducato di Benevento
e nella Toscana, e che si era dietro a fare lo stesso nel ducato di
Spoleti e negli altri luoghi dove occorreva: il che fa sempre più
intendere che sotto nome di giustizia venivano beni patrimoniali ed
allodiali, e non già luoghi giurisdizionali. Ringrazia inoltre il re
Pippino, perchè abbia raccomandato al re Desiderio di forzare i _re di
Napoli e di Gaeta_ (non già che questi portassero il titolo di re, ma
perchè erano duchi di somma autorità indipendenti dal regno
longobardico, sottoposti nondimeno ai greci imperadori) a forzarli,
dissi, a rendere anch'essi i patrimonii esistenti sotto il loro
distretto, ed usurpati in addietro alla Chiesa di Roma, siccome ancora
ad inviare i lor vescovi eletti a Roma per esser ivi consecrati; e non
già, come si può conghietturare fatto in addietro a Costantinopoli,
cercando que' patriarchi coll'autorità dell'eretico Augusto di dilatare
le lor fimbrie in pregiudizio della santa Sede romana. Vedemmo di sopra
all'anno 758, che il re Desiderio avea preso e cacciato in prigione
_Alboino_ duca di Spoleti, perchè reo di ribellione al suo regno. Il
catalogo posto avanti alla Cronica del monistero di Farfa[435] ci fa
vedere in quest'anno sostituito in suo luogo il duca _Gisolfo_. Ma forse
ciò avvenne nell'anno precedente, trovandosi fra le carte del monistero
medesimo una scritta _anno II Gisulfi_. _Actum in marsis mense januario
Indictione XIIII_, cioè nel gennaio dell'anno seguente, in cui correva
l'anno secondo del suo ducato. Ci fanno anche intendere queste note che
il paese di Marsi formava allora una porzione del ducato medesimo.

NOTE:

[435] Rer. Italic., P. II, tom. II.



    Anno di CRISTO DCCLXI. Indizione XIV.

    PAOLO I papa 5.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 42 e 21.
    LEONE IV imperadore 11.
    DESIDERIO re 5.
    ADELGISO re 3.


Sembra che fossero già quetati tutti i litigii fra il pontefice _Paolo
I_ e _Desiderio_ re de' Longobardi, e dall'una e dall'altra parte
seguita la restituzione dei patrimonii e d'altri diritti. Ma non si
provava già la stessa quiete e pace dalla parte de' Greci, a' quali
stava nel cuore la doglia del perduto esarcato, e la brama di
ricuperarlo. Perciò probabilmente appartiene all'anno presente la
lettera ventottesima del Codice Carolino, con cui esso papa notifica al
re Pippino, patrizio de' Romani, d'essergli stata inviata da _Sergio_
arcivescovo di Ravenna una lettera scritta da Leone ministro imperiale
alla provincia di Ravenna, con esortar que' popoli a tornare sotto
l'ubbidienza dell'imperador suo padrone. Però prega esso re dei Franchi
di voler ordinare al re Desiderio, che, occorrendo il bisogno, porga
aiuto alle città di Ravenna e della Pentapoli, per resistere ai
tentativi dei Greci. Parimente nell'epistola trentesima, che pare
scritta in questo medesimo anno dal suddetto papa, si legge aver Pippino
raccomandato ad esso pontefice di camminar con buona concordia e pace
col re Desiderio: il che promette lo stesso pontefice di fare, ogni
qualvolta Desiderio continui nell'amore e nella buona fede promessa
verso la Sede apostolica. Anzi soggiugne, essere già stabilito che segua
un abboccamento fra di loro in Ravenna, per trattare d'affari utili alla
Chiesa, e delle maniere di opporsi alle malizie de' Greci, più che mai
ansanti di ricuperar quella contrada. Se seguisse poi di fatto questo
abboccamento, noi nol sappiamo. Truovansi replicati questi sentimenti
nell'epistola trentesimaterza del medesimo papa Paolo. Riferisce in
quest'anno il cardinal Baronio una Bolla del soprammentovato papa Paolo,
conceduta al monistero da lui fondato in onore di s. Stefano I papa e
martire, e di san Silvestro papa, il cui corpo si dice trasferito colà:
notizia che non s'accorda colla Bolla primordiale della badia
nonantolana, di cui fu fatta menzione all'anno 755. Le note cronologiche
son queste: _Datum IV nonas junii, imperante domino Constantino Augusto,
a Deo coronato magno imperatore, anno quadragesimoprimo, ex quo cum
patre regnare coepit, et post consulatum ejus anno vicesimoprimo,
indictione decimaquarta. Se crediamo al padre Pagi, si ha da scrivere
anno quadragesimoprimo, et post consulatum ejus anno XX_. Ma potrebbe
anche darsi che l'errore fosse non già in quella Bolla, ma bensì nei
conti del padre Pagi. E noi intanto miriamo continuarsi ne' pubblici
documenti romani la menzione dell'imperadore: il che soleva essere
indizio della continuata sovranità.



    Anno di CRISTO DCCLXII. Indizione XV.

    PAOLO I papa 6.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 45 e 22.
    LEONE IV imperadore 12.
    DESIDERIO re 6.
    ADELGISO re 4.


Leggesi nel Codice Carolino una Bolla di papa _Paolo_, sotto nome di
epistola duodecima, in cui concede al re _Pippino_ il monistero di san
Silvestro, posto nel monte Soratte, con tre altri monisteri da quello
dipendenti, cioè di santo Stefano martire, di santo Andrea apostolo e di
san Vittore, _a praesenti quintadecima Indictione_, per sostentamento
de' pellegrini, de' poveri e de' monaci. Perchè _Carlomanno_ fratello di
esso re Pippino avea qui professata la vita monastica, e, quel che è
più, era stato fondatore di quel monistero, si può credere che il re
desiderasse d'averlo in suo dominio, ossia sotto la sua protezione e
cura, per benefizio ancora del medesimo sacro luogo. Forse ancora
nell'anno presente (se pur non fu nell'antecedente) scrisse il medesimo
pontefice al re Pippino la lettera trigesima quarta del Codice Carolino,
con dargli ragguaglio di avere da buona parte ricevuto avviso, come i
Greci, nemici della Chiesa di Dio e della vera fede, meditavano in buona
forma di venire ostilmente contra di esso papa e contra di Ravenna, ed
esser eglino in movimento per questa impresa. Perciò efficacemente il
prega di spedire un inviato al re Desiderio, con raccomandargli di
porgere un gagliardo soccorso, qualora venissero ad effetto cotali
minacce, e di pregarlo che comandi ai popoli di _Benevento, Spoleti e
Toscana_, confinanti al ducato romano, di accorrere, bisognando, in
aiuto di lui. Certamente pare che que' duchi si fossero suggettati al
dominio di Pippino, e che ciò si ricavi ancora dall'epistola
quindicesima del Codice Carolino. Basta almeno questa notizia per
convincere d'insussistenza la narrativa di Leone Ostiense, che stimò
compreso nella donazion di Pippino i ducati di Benevento e Spoleti,
siccome abbiam detto di sopra. Era in questi tempi impegnato il re
Pippino in una scabrosa guerra contro di _Guaifario_ duca di Aquitania,
la quale, cominciata nell'anno 760, durò sino all'anno 768, e terminò
colla morte di quel duca. All'incontro, l'imperador Costantino seguitava
a perseguitar le sacre immagini, e chiunque le difendeva e onorava, e
specialmente i monaci, con giugnere a proibire che alcuno abbracciasse
il santo loro istituto. Ci fa sapere Anastasio[436] che lo zelante papa
_Paolo_ spedì più messi con lettere esortatorie agl'imperadori
_Costantino_ e Leone, acciocchè rimettessero in onore esse sacre
immagini, e desistessero dall'odio contra delle medesime e de' loro
veneratori. Ma frustranei furono tutti questi passi. E qui ben
s'intende, come fra il romano pontefice e la corte cesarea seguissero sì
fatti negoziati, senza che apparisca dalle memorie antiche che i Greci
Augusti facessero doglianza alcuna pel dominio di Roma, quando sia vero
che ne fossero stati esclusi e privati, come vien supposto da molti.
Consta che la facevano per l'esarcato; ma nulla mai si parla di Roma.

NOTE:

[436] Anastas. Bibliothec., in Vita Pauli Papae.



    Anno di CRISTO DCCLXIII. Indizione I.

    PAOLO I papa 7.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 44 e 23.
    LEONE IV imperadore 13.
    DESIDERIO re 7.
    ADELGISO re 5.


Mi sia lecito il rapportare a questo anno la lettera trentesima sesta
del Codice Carolino, scritta da tutto il _senato_ e dalla generalità del
_popolo romano_ al re _Pippino, patrizio de' Romani_. Il ringraziano
essi perchè abbia presa la difesa della vera fede per le controversie
che allora bollivano coi Greci, e perchè abbia procurata la salute al
popolo romano con proteggerlo dai Longobardi. Dicono d'avere ricevuto
con tutto onore una lettera graziosa d'esso re, in cui gli esortava ad
essere fermi e fedeli verso la Chiesa romana e verso il sommo pontefice
Paolo, e protestano d'essere fermi e fedeli servi della santa Chiesa di
Dio e del beatissimo padre e signor nostro Paolo papa, perchè egli è
nostro padre ed ottimo pastore, e non cessa di operare per la nostra
salute, siccome ancor fece papa Stefano suo fratello, con governar noi
come pecorelle ragionevoli a lui consegnate da Dio, mostrandosi sempre
misericordioso e imitatore di san Pietro, di cui è vicario. Il pregano
ancora di voler perfezionare la dilatazione di questa provincia, ch'egli
avea liberata dalle mani de' Longobardi, e di continuare nella difesa di
tutti loro, per poter vivere con sicurezza della pace. Veramente si
aspettava il lettore di poter apprendere da questa lettera qual fosse
allora il governo di Roma, cioè se ne era sì o no sovrano il sommo
pontefice. Ma non si può quindi accogliere assai di lume per ben chiarir
questo fatto, se non che al papa è ivi dato il titolo di _domino
nostro_; il che lascerò decidere ad altri, se sia un concludente indizio
di quel che si cerca. Certo non apparisce assai palesemente, quantunque
sia verisimile, che l'imperadore avesse perduta affatto la sua autorità
sopra di Roma, nè come si reggesse allora il popolo romano, potendo
essere che si governasse a repubblica, di cui fosse capo il sommo
pontefice. Lo stesso scrivere il re Pippino al senato e popolo, con
raccomandargli di onorare papa Paolo, porge luogo a conghietturare che
anche presso di loro risedesse in parte l'autorità del comando
temporale. E tanto più, perchè se nel papa era già trasferita, come vien
preteso, la sovranità sopra Roma, non ben s'intende come Leone III, per
quanto vedremo, volesse privarne sè stesso e i suoi successori, con
trasferirla in Carlo Magno, allorchè il dichiarò imperadore Augusto. Si
possono qui dir molte cose, ma forse niuna sarà bastevole a mettere ben
in chiaro il sistema d'allora; e massimamente perchè neppure ben
sappiamo in che consistesse l'autorità e il grado di _patrizio de'
Romani_ conferito in questi tempi ai re di Francia. Nell'anno presente,
essendo probabilmente mancato di vita _Gisolfo_ duca di Spoleti,
succedette in suo luogo, se crediamo al catalogo posto avanti alla
Cronica di Farfa, _Teoderico_ duca. Ma si dee scrivere _Teodicio_, i cui
Atti si cominciarono a vedere sotto quest'anno nelle memorie del
suddetto monistero, che io ho rapportato altrove[437]. Di lui parimente
è fatta menzione in varii siti della Cronica sopraddetta. Seguitava
intanto una fiera guerra fra il re _Pippino_ e _Guaifario_ duca
d'Aquitania, colla peggio dell'ultimo.

NOTE:

[437] Antiquitat. Italic., Dissert. LXVII.



    Anno di CRISTO DCCLXIV. Indizione II.

    PAOLO I papa 8.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 45 e 24.
    LEONE IV imperadore 14.
    DESIDERIO re 8.
    ADELGISO re 6.


Secondochè pensa il padre Pagi, intorno a questi tempi passava commercio
di lettere e d'ambasciatori fra _Costantino_ Augusto e _Pippino_ re di
Francia, per l'affare delle sacre immagini, riprovate dai Greci
adulatori dell'imperadore. Però egli è di parere che al presente anno
appartenga la lettera vigesima del Codice Carolino, indicante che
s'erano abboccati davanti al re Pippino i messi del papa e gl'imperiali,
giacchè non avea voluto Pippino dare udienza a questi senza l'intervento
di quelli. Vi s'era disputato della materia suddetta, ma con poco
frutto. Aggiugne il papa di essere stato pregato da _Tassilone_ duca
della Baviera d'interporsi fra Pippino e lui in occasione della mala
intelligenza insorta fra loro, essendo, per attestato degli Annali de'
Franchi, nell'anno precedente fuggito Tassilone dall'esercito del re
Pippino, con ritirarsi ne' suoi stati, o mosso da spirito di ribellione,
o mal soddisfatto d'esso re suo sovrano. Ma gli ambasciatori spediti per
questo affare dal papa erano stati fermati a Pavia dal re _Desiderio_,
per sospetto che si manipolasse qualche negozio contra di lui. Per
attestato poi di Teofane[438], che viveva in questi tempi, siccome
ancora dei suddetti Annali de' Franchi, nel gennaio e febbraio del
presente anno sorse un sì rigoroso freddo non meno in Oriente che in
Occidente, che i fiumi agghiacciarono, e sul mare a Costantinopoli
s'andava liberamente colle carra. Similmente in quest'anno e nel
precedente i Turchi, popolo della Tartaria già conosciuto in addietro,
usciti delle loro contrade per le porte Caspie, fecero un'irruzione
nell'Armenia, e vennero alle mani con gli Arabi, e costò ad amendue le
parti quella battaglia assaissimo sangue. Fino a questi dì, per
testimonianza del Dandolo[439] _Domenico Monegario_ avea tenuto il
governo del ducato di Venezia, quando il popolo, avvezzo già a simili
brutti giuochi, fatta una congiura, il cacciò via, con cavargli anche
gli occhi. In suo luogo fu sostituito _Maurizio_, nobile di Eraclea, e
più nobile per le imprese da lui fatte, essendo stato proclamato doge in
Malamocco. Per sua cura venne dipoi restituita pace e concordia fra'
cittadini discordi.

NOTE:

[438] Theoph., in Chronogr.

[439] Dandulus, in Chronic., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCLXV. Indizione III.

    PAOLO I papa 9.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 46 e 25.
    LEONE IV imperadore 15.
    DESIDERIO re 9.
    ADELGISO re 7.


Riferisce il padre Pagi all'anno presente le lettere quattordicesima e
vigesimaquarta del Codice Carolino, nelle quali papa _Paolo_ significa
al re _Pippino_ che sei patrizii greci con trecento legni erano in moto
verso l'Italia. Ma soggiugnendo egli che tuttavia erano occupate dal re
_Desiderio_ le _giustizie_ di san Pietro, senza che egli mostrasse
voglia di restituire, e che in contraccambio altro non faceva che dare
il sacco alle terre de' Romani, ed inviare delle minacce a Roma: è
sembrato a me ben più probabile che tali azioni e questo avviso
appartengano all'anno 738, o certamente molto prima d'ora accadessero,
dacchè si è, a mio credere, veduto che già s'era stabilita buona armonia
fra il papa e il re Desiderio. Seguitava intanto l'imperador
_Costantino_ ad infierir contro i difensori delle sacre immagini, e il
re Pippino continuava la guerra contro il duca dell'Aquitania. E
perciocchè gran rumore per la cristianità avea fatto la traslazione di
varii corpi di Santi, seguita in Roma per ordine e zelo di papa Paolo,
si invogliarono d'essi anche le chiese della Gallia, ma più quelle della
Germania, perchè prive di questi sacri pegni. Cominciossi dunque più di
prima, e specialmente verso l'anno corrente, dai Tedeschi e dai Franchi
a far delle premurose istanze a Roma, per ottenere dei corpi santi, o
almeno qualche loro reliquia; ed appunto in questi tempi si raccontano
alcune strepitose traslazioni, delle quali parlano gli Annali
ecclesiastici.



    Anno di CRISTO DCCLXVI. Indizione IV.

    PAOLO I papa 10.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 47 e 26.
    LEONE IV imperadore 16.
    DESIDERIO re 10.
    ADELGISO re 8.


Non è ben noto in qual anno preciso fosse fondato l'insigne monistero
delle monache di santa Giulia in Brescia. Il Sigonio ne mette la
fondazione nell'anno 759. A me sia permesso di farne qui parola. Certo è
che a _Desiderio_ re dei Longobardi e ad _Ansa_ regina sua moglie dee
quel sacro luogo l'origine sua. Jacopo Malvezzi[440], nella Cronica
bresciana, pretese ch'esso Desiderio fosse, prima di salire al trono,
cittadino di Brescia potentissimo. Da un diploma del re Adelgiso, che
sembra scritto in questo anno, presso il Margarino[441], pare che abbia
qualche fondamento questa immaginazione. Comunque sia, fu fondato quel
Monistero da esso re e dalla regina consorte, e magnificamente ancora
dotato con beni sparsi per tutto il regno longobardico. Sulle prime
venne appellato Monistero del Signor Salvatore, e non so bene se anche
Monistero Nuovo; ma perchè colà venne trasferito dalla Corsica il corpo
di santa Giulia vergine e martire, da quella prese poi la denominazione
che dura tuttavia. Merita ben esso d'essere annoverato fra i più
illustri monisteri d'Italia, sì perchè ivi si consecrò a Dio
_Anselberga_ figliuola di que' regnanti, che ne fu la prima badessa, con
servire d'esempio ad altre principesse, le quali dipoi presero ivi la
veste monastica; e sì perchè l'opulenza sua e il copioso numero delle
sacre vergini negli antichi secoli ivi abitanti si lasciava indietro gli
altri monisteri di monache in Italia. A' tempi del suddetto Malvezzi era
molto scaduto dal suo primiero splendore; ma, rimesso poscia in vigore,
oggidì ancora vien riguardato per una della più nobili e ricche comunità
di vergini del sacro Ordine benedettino. Della suddetta Anselberga si
truova menzione in due documenti dell'anno 760 e 769, e in altri da me
prodotti nelle Antichità italiane[442]. Un altro monistero ancora di
monaci fuori di Brescia nel luogo di Leno, detto una volta _ad Leones_ e
_Leonense_, riconosce la fondazione sua dal medesimo re Desiderio.
Alcune favole intorno alla sua origine duravano tuttavia a' tempi del
suddetto Malvezzi. Per varii secoli si mantenne questo in gran credito;
ma per le guerre che infierirono, dappoichè le città della Lombardia
cominciarono a governarsi a repubblica, diede un tracollo tale, che
forse più non ne resta vestigio. Crede il padre Pagi che a quest'anno
appartenga la lettera diciassettesima del Codice Carolino, in cui si
parla delle dissensioni fra il pontefice Paolo e il re de' Longobardi, a
cagione de' patrimoni e confini usurpati da essi Longobardi. Quanto a
me, tengo che molto prima fosse stato posto fine a quei litigi. In
quest'anno, per attestato di Teofane[443], una flotta numerosa di
duemila e secento legni, composta dall'imperador Costantino, e piena di
soldati, con disegno di una spedizione contra de' Bulgari, fracassata da
un furioso aquilone, andò quasi tutta a male.

NOTE:

[440] Malvecius, Chron., tom. 14 Rer. Ital.

[441] Margarinius, Bullar. Casinens. tom. 2, Constit. XII.

[442] Antiquit. Italic, Dissert. X, pag. 525, et Dissert. XII, pag. 667.

[443] Theoph., in Chronogr.



    Anno di CRISTO DCCLXVII. Indizione V.

    Sede vacante.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 48 e 27.
    LEONE IV imperadore 17.
    DESIDERIO re 11.
    ADELGISO re 9.


L'ultimo anno fu questo della vita di papa _Paolo I_, che nel dì 28 di
giugno passò a miglior vita, con portar seco il merito di molte illustri
e pie azioni. Fu susseguita la morte sua da molti torbidi nella Chiesa
romana. Perciocchè non per anche il buon papa avea spirato l'ultimo
fiato, che _Totone_ duca, cioè governatore di Nepi[444], insieme co'
suoi fratelli Costantino, Passivo e Pasquale, fatta una raunata di assai
gente d'essa città, e di Toscani e di rustici, ed entrato a mano armata
per la porta di san Pancrazio in Roma, nella sua casa fece eleggere papa
il suddetto suo fratello _Costantino_, tuttochè laico, e
coll'accompagnamento di que' suoi sgherri l'introdusse nel palazzo
patriarcale del Laterano Sforzò dipoi _Giorgio_ vescovo di Palestina suo
malgrado a dargli la tonsura e i sacri ordini; dopo di che nella
domenica susseguente, cioè nel dì quinto di luglio, si fece questo idolo
consecrare papa da esso Giorgio, da _Eustrasio_ vescovo d'Albano e da
_Citonato_ vescovo di Porto. Non v'ha dubbio che l'assunzione di costui
fu contro i sacri canoni, e per più motivi nulla e sacrilega: però non
solo dipoi, ma anche allora da tutta la gente saggia e pia fu riguardato
come falso pontefice. Premeva forte all'intruso Costantino di
assicurarsi della grazia di Pippino re di Francia, nè fu pigro ad
inviargli i suoi nunzii con lettere, nelle quali gli dava ad intendere
d'essere stato per forza dalla concordia d'innumerabil popolo alzato
alla cattedra di san Pietro, con fingere una grande umiltà e paura di
tanto peso, e con pregarlo della sua amicizia e protezione. Ci ha
conservato il Codice Carolino queste due lettere, e sono la nonagesima
ottava e la nonagesima nona. Probabilmente il re Pippino, altronde
informato come era passato l'affare, non cadde nella rete, nè volle
riconoscere costui per vero papa. Succedette in quest'anno la morte di
santo _Stefano_ juniore, insigne monaco e martire d'Oriente, dopo avere
sofferti varii tormenti e l'esilio dall'empio Costantino Copronimo, il
quale seguitava in questi tempi a sfogare il suo odio e la crudeltà sua
contro i difensori delle sacre immagini. Abbiamo nondimeno da una delle
suddette lettere di Costantino falso papa, che era giunta a Roma una
epistola sinodica del patriarca di Gerusalemme, con cui andavano
d'accordo gli altri due patriarchi di Alessandria e d'Antiochia, ed
assaissimi metropolitani orientali nel sostener l'onore d'esse immagini.
Perchè questi si trovavano fuori del dominio, e per conseguente
dell'unghie dell'Augusto Copronimo, però con libertà esponevano i lor
sentimenti, che erano gli stessi della Chiesa cattolica.

NOTE:

[444] Anastas., in Vit. Stephani III Papae.



    Anno di CRISTO DCCLXVIII. Indizione VI.

    STEFANO III papa 1.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 49 e 28.
    LEONE IV imperadore 18.
    DESIDERIO re 12.
    ADELGISO re 10.


Tenne il sacrilego _Costantino_ occupata la sedia di san Pietro per lo
spazio di un anno e di un mese, nel qual tempo fece anche varie
ordinazioni di diaconi, preti e vescovi. Come si liberasse da questo
obbrobrio la Chiesa e città di Roma, lo abbiamo da Anastasio
bibliotecario[445]. Non potendo più sofferire Cristoforo primicerio e
Sergio sacellario, ossia sagrestano, suo figliuolo, di mirar nella
cattedra pontificia lo scomunicato usurpatore, finsero di volersi far
monaci, e con tal pretesto ottennero da Costantino di poter uscire di
Roma. Furono essi a trovar _Teodicio_ duca di Spoleti, con pregarlo di
condurli a Pavia e di presentarli al re Desiderio. Così fu fatto, ed
essi supplicarono il re di volere dar mano, affinchè si togliesse dalla
Chiesa di Dio sì fatto scandalo. Ciò che poi succedette, porge a noi
sufficiente indizio che il re volentieri concorresse a questa bell'opera
e permettesse o desse impulso ai Longobardi del ducato di Spoleti per
unirsi coi due suddetti uffiziali primarii della Chiesa romana, i quali
con una gran brigata di Longobardi armati, presi da Rieti, da Forcona e
da altri luoghi del ducato di Spoleti, nella sera del dì 28 di luglio
occuparono il ponte Salario, e nel giorno appresso, per intelligenza che
avevano entro la città di Roma, si fecero padroni della porta di san
Pancrazio. Venuto alle mani con essi Totone fratello dell'usurpatore,
restò ucciso. Passivo, altro di lui fratello, e lo stesso Costantino
falso papa, veggendo la mal parata, si rifugiarono nella basilica
lateranense, e quivi si serrarono nella cappella di san Cesario, finchè,
venuti i capi della milizia romana, li fecero uscir sotto la fede. Nella
seguente domenica Valdiperto prete, senza saputa di Cristoforo e di
Sergio, congregati alcuni della sua fazione, e andato al monistero di
san Vito, ne cavò _Filippo_ prete, e condottolo al Laterano, quivi il
fece eleggere papa, e dar la benedizione al popolo, con tenere poi seco
a pranzo i primati del clero e della milizia, come era il costume degli
altri papi. Ma ciò saputo da Cristoforo, tutto ardente di sdegno giurò
che non uscirebbe di Roma, se prima Filippo non fosse cacciato fuori di
san Giovanni. Laonde i Romani a contemplazione di lui fecero sloggiare
Filippo, che umilmente se ne tornò al suo monistero. Nel giorno seguente
dal suddetto Cristoforo fatti ragunare i capi del clero e della milizia,
e tutto l'esercito e popolo romano, dopo maturo scrutinio fu
concordemente eletto papa _Stefano_ prete di santa Cecilia, _terzo_ di
questo nome fra i romani pontefici. Fu egli consecrato a dì 7 d'agosto.
Non si quetarono per questo i torbidi di Roma, perchè alcuni scellerati
insorsero contra di Costantino dianzi falso papa, e di Passivo suo
fratello, e di Teodoro vescovo, e di Gracile tribuno complice d'esso
Costantino, con cavar loro gli occhi, ed esercitar altre crudeltà. Non
finì la faccenda, che fecero il medesimo trattamento a Valdiperto prete
longobardo, quantunque avesse cooperato alla deposizione di Costantino,
per sospetto ch'egli nudrisse intelligenza con _Teodicio_ duca di
Spoleti affine di sorprendere la città di Roma. In mezzo a questi
sconcerti papa _Stefano III_ ebbe ricorso a _Pippino_ re di Francia, e
ai suoi due figliuoli, patrizii de' Romani, con inviar loro Sergio
secondicerio, e pregarli di spedire a Roma dei vescovi ben pratici delle
divine lettere e dei canoni, per togliere affatto gli errori prodotti
dall'usurpator Costantino. Ma Sergio arrivato in Francia, trovò che
_Pippino_ avea già terminata la carriera dei suoi giorni. Questo
glorioso principe, dopo aver felicemente compiuta la lunga guerra
mantenuta nell'Aquitania contra di _Guaifario_ duca di quella contrada,
il quale finalmente restò ucciso dai suoi, venne a morte nel dì 24 di
settembre dell'anno presente, con lasciare suoi successori _Carlo_,
appellato poscia _Magno_, ch'era allora in età di ventisei anni, e
_Carlomanno_ suo fratello. Da una delle appendici di Fredegario
impariamo che egli in sua vita avea diviso i regni fra i suddetti suoi
due figliuoli, già dichiarati re nell'anno 754. Toccò a _Carlo_ il regno
d'Austrasia, che abbracciava le Provincie poste al Reno, colla Sassonia,
Baviera, Turingia, ec. A _Carlomanno_ toccò la Borgogna, la Provenza, la
Linguadoca, l'Alsazia e l'Alemagna, cioè la Svevia. Amendue di nuovo
colla sacra unzione nel dì 9 di ottobre riceverono la corona regale, il
primo a Noyon, e l'altro in Soissons. Soddisfecero essi alle premure del
novello papa con inviare a Roma una mano di vescovi per assistere al
disegnato concilio.

NOTE:

[445] Anastas., in Vit. Stephani III Papae.



    Anno di CRISTO DCCLXIX. Indizione VII.

    STEFANO III papa 2.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 50 e 29.
    LEONE IV imperadore 19.
    DESIDERIO re 13.
    ADELGISO re 11.


Giunti che furono a Roma dodici vescovi di Francia, fra' quali
specialmente si contarono _Lullo_ arcivescovo di Magonza e _Tilpino_
arcivescovo di Rems, quel medesimo che sotto nome di Turpino acquistò
tanta fama dalle favole dei romanzi italiani, papa _Stefano III_
celebrò[446] nell'aprile un concilio nella chiesa patriarcale del
Laterano, al quale intervennero ancora molti vescovi della Toscana e
Campania, e di altre città di Italia. Ancorchè sieno periti gli atti di
quella sacra adunanza, pure si sa che furono stabiliti canoni contro
coloro che, essendo laici, fossero eletti al grado episcopale, o colla
violenza dell'armi fossero promossi al vescovato. Fu parimente
condannato il falso concilio tenuto negli anni addietro in
Costantinopoli contro le sacre immagini, e profferita scomunica contro
chiunque disprezzasse o credesse indegne di venerazione le medesime
immagini. Fu provveduto a coloro che erano stati ordinati da
_Costantino_ falso papa, decretando che seguisse di nuovo la loro
elezione e consecrazione. Introdotto lo stesso Costantino, benchè cieco,
alla presenza dei Padri, ed interrogato, come essendo laico, avesse
osato di passare al papato, perchè allegò in sua scusa l'esempio di
_Sergio_ arcivescovo di Ravenna e di _Stefano_ vescovo di Napoli, i
preti gli diedero molte guanciate, e il cacciarono fuori da quella sacra
assemblea. Dal trattato di papa Adriano a Carlo Magno si raccoglie che
_Sergio_ arcivescovo di Ravenna non intervenne a questo concilio, ma vi
mandò Giovanni Diacono, che sostenne il culto delle sacre immagini,
provandolo con un'antica pittura esistente in Ravenna. Significò poscia
il papa con sue lettere all'imperadore _Costantino_ Copronimo il
risultato di questo concilio; ma altro ci voleva a ritirare da' suoi
errori ed eccessi quel traviato Augusto. Era toccata a Carlo re di
Francia in sua parte, come dicemmo, l'Aquitania conquistata da Pippino;
ma _Unaldo_, già duca di quella provincia, che tanti anni prima aveva
abbracciata la vita monastica, dappoichè intese la morte del duca
_Guaifario_ suo figliuolo, invogliatosi delle cose mondane, deposto il
cappuccio, se ne tornò al secolo, e trovò partigiani che il riconobbero
per duca d'essa Aquitania[447]. Gli fu ben tosto addosso colle sue armi
al re Carlo, e il costrinse a ritirarsi in Guascogna presso _Lupo_ duca
di quella contrada, da cui poscia, a forza di minacce, lo ebbe vivo
nelle mani. Poichè _Carlomanno_ suo fratello non volle in tal
congiuntura dargli aiuto, cominciarono i dissapori fra loro, che
andarono poi a finire in male. Nè è da tacere che in quest'anno
l'imperador Costantino diede per moglie a _Leone IV_ Augusto suo
figliuolo, _Irene_ fanciulla greca, di cui avremo da parlare andando più
innanzi.

Apparisce poi dalle lettere scritte in questi tempi da papa Stefano e
Carlo Magno, e da quanto ancora ha Anastasio, che erano fatte istanze al
re _Desiderio_ da esso papa per la restituzione delle giustizie di s.
Pietro, cioè di allodiali, rendite e diritti che appartenevano alla
Chiesa romana nel regno longobardico. Notizie tali hanno servito al
Cointe, al Mabillone e al Pagi, per credere che il re Desiderio non le
avesse interamente restituite finchè visse papa Paolo, con rapportare
per tal cagione alcune lettere di esso pontefice Paolo, dove si tratta
delle giustizie suddette agli anni 766 e 767, le quali sono sembrate a
me scritte alcuni anni prima. Seguito nondimeno io a credere che
Desiderio avesse, vivente papa Paolo, soddisfatto al suo dovere, perchè
da varie lettere del medesimo pontefice si raccoglie che era stabilita
buona amicizia fra lui e il re suddetto, e il pontefice Paolo ricercava
aiuto da Desiderio contra le minacce de' Greci. E perciocchè Pippino re
di Francia nella lettera trigesima aveva esortato il medesimo re a
mantenere una buona pace ed amicizia col re Desiderio, rispose papa
Paolo d'essere pronto a farlo, purchè ancora Desiderio _in vera
dilectione et fide, quem vestrae excellentiae, et sanctae Dei romanae
Ecclesiae spopondit, permanserit_; e più non disse di voler conservare
questa armonia, se il re farà restituzione dei beni spettanti a s.
Pietro. Anzi, siccome s'è veduto di sopra, lo stesso papa Paolo nella
lettera vigesima sesta confessa di avere ricevuto le giustizie _de
partibus beneventanis atque tuscanensibus. Nam et de ducatu spoletino,
nostris vel Longobardorum missis illic adhuc existentibus, ex parte
justitias fecimus, ac recepimus. Sed et reliquas, quae remanserunt,
modis omnibus plenissime inter partes facere student._ Il perchè se
sotto papa Stefano III s'odono risvegliate pretensioni di giustizie
usurpate alla Chiesa romana, pare ben più probabile che sì fatte
usurpazioni sieno non già le antiche, ma bensì nuove e diverse dalle
antecedenti, cioè succedute mentre la cattedra di s. Pietro si trovava
occupata dal falso pontefice Costantino, e Roma involta in molti
sconcerti. Fors'anche non v'ebbe parte Desiderio, ma solamente i duchi
di Benevento e Spoleti. Intanto neppure in quest'anno potè godere Roma
della sua quiete. Se vogliam credere ad Anastasio[448] bibliotecario, o
chiunque sia l'autore della vita di Stefano III papa, perchè Cristoforo
primicerio e Sergio secondicerio suo figliuolo andarono al re Desiderio
a fare istanza per le giustizie di s. Pietro, il re se la prese
fieramente contra di loro, e macchinò la lor rovina. Pertanto guadagnò
Paolo Afiarta, ossia Asiarta, cameriere del papa, per mettere costoro in
diffidenza presso il santo padre. Penetratosi da Cristoforo che
Desiderio meditava di portarsi a Roma, fece gran massa di gente, presa
dalla Toscana e Campania e dal ducato di Perugia, e chiuse le porte di
Roma, con quegli armati si mise alla difesa della città. Arrivò in
questo punto il re Desiderio col suo esercito a s. Pietro in Vaticano,
che era allora fuori di Roma, ed invitò colà il papa, che v'andò, e che
dopo avere parlato con lui, se ne tornò nella città. Intanto Paolo
Afiarta col re trattò di sollevare il popolo romano contra di Cristoforo
e di Sergio; ma essi avutane contezza, armati entrarono nel Laterano,
dove era il pontefice, per cercare i loro insidiatori, e furono sgridati
forte per cotale insolenza. Nel dì seguente s'abboccò di nuovo il papa
col re Desiderio, che gli rappresentò le trame di Cristoforo e Sergio, e
poi fece serrar le porte della basilica vaticana. Allora il papa inviò
_Andrea_ vescovo di Palestrina, e _Giordano_ vescovo di Segna, per far
sapere a Cristoforo e a Sergio che eleggessero l'una delle due, cioè o
di farsi monaci, o di venire a san Pietro. Risaputa l'intenzion del
pontefice, cominciarono i lor partigiani ad abbandonarli, di maniera che
stimarono meglio amendue di portarsi al Vaticano, e di mettersi in mano
del papa, il quale ritiratosi poi in Roma, li lasciò in quelle de'
Longobardi, pensando di farli poscia venire la notte entro la città e di
salvarli. Ma Paolo Afiarta ito a trovare il re con una gran moltitudine
di popolo romano, trattò con lui direttamente. In fatti messe le mani
addosso a Cristoforo e Sergio, li condussero alla porta della città, e
quivi loro cavarono gli occhi. Cristoforo da lì a tre dì morì di
spasimo. Sergio, portato in una camera del Laterano, restò in vita sino
alla morte di papa Stefano, ed allora, per quanto vedremo, fu
strangolato. Tutti questi malanni, dice Anastasio, occorsero per segrete
trame di Desiderio re de' Longobardi.

Ma a poter ben giudicare degli avvenimenti suddetti, e se veramente se
ne debba rigettar la cagione e la colpa sulla malizia del Longobardo,
bisognerebbono altri lumi. L'odio de' Romani contra della nazion
longobarda era troppo gagliardo, e la loro passion trabocchevole ad
altro non pensava che a screditarli; e però il voler formare il processo
sull'unica relazion di essi, non è via sicura alla verità, quantunque
prudentemente si possa credere che Desiderio fosse uomo di raggiri e di
non molta lealtà. A buon conto abbiam veduto andar qui d'accordo il papa
e il re Desiderio. Abbiamo inoltre una lettera del medesimo papa Stefano
scritta a Carlo Magno e alla regina Berta sua madre, cioè l'epistola
quadragesima sesta del Codice Carolino, in cui assai differentemente
parla di questo fatto. In essa gli notifica che il nefandissimo
Cristoforo, e il più che malvagio suo figliuolo Sergio, unitisi con
Dodone messo del re Carlomanno, aveano congiurata la morte dello stesso
pontefice. A questo fine erano entrati violentemente coll'armi nella
basilica lateranense, ove egli sedeva, tentando di levarlo di vita; ma
che Dio l'avea salvato dalle loro mani, mercè l'aiuto ancora del re
Desiderio, capitato a Roma in questi tempi per trattare di diverse
_giustizie_ di s. Pietro. Che chiamati i due suddetti al Vaticano, non
solamente aveano ricusato d'andarvi, ma eziandio in compagnia di Dodone
e dei Franchi del loro seguito s'erano afforzati nella città, con
chiudere le porte, minacciare il papa, e impedirgli l'entrata in Roma.
Che veggendosi eglino finalmente abbandonati dal popolo, per necessità
erano venuti a s. Pietro, dove il papa con fatica gli avea difesi dalla
moltitudine che voleva ucciderli. Ma che mentre pensava di farli
introdurre nella città per salvarli, erano loro stati cavati gli occhi,
ma senza saputa e consentimento dello stesso papa, che chiamava Dio in
testimonio della verità. Però assicurava il re Carlo, che se non era
l'assistenza del re Desiderio, esso pontefice correva pericolo di
perdere la vita, con dolersi acremente di Dodone, che invece di essere
in aiuto suo, come ne avea l'ordine dal suo re, gli avea tramata la
morte, e con persuadersi che Carlomanno disapproverebbe il di lui
operato. Soggiugne in fine essere seguito accordo fra esso papa e il re
Desiderio, e di avere interamente ricevuto le giustizie appartenenti a
s. Pietro: del che ancora gl'inviati del medesimo re Carlo gli darebbono
buona contezza. Così in quella lettera. Ma il p. Cointe negli Annali
sacri della Francia, seguitato in ciò dal padre Pagi, fu di parere che
questa fosse scritta per forza dal papa, mentre egli era quivi detenuto
dal re Desiderio, e che, per conseguente, non le si debba prestar fede,
ma bensì alla relazion di Anastasio. Intorno a che hanno da osservare i
lettori, non sussistere primieramente il supposto del Cointe circa il
tempo in cui fu scritta quella lettera. Certo è che il papa la scrisse
dopo terminata quella scena, e dappoichè si trovava in tutta sicurezza,
ed erano stati accecati Cristoforo e Sergio: il che, per attestato del
medesimo Anastasio, accadde, essendo già tornato il papa in Roma, e
senza più abboccarsi col re Desiderio. Però indebitamente si pretende
forzato il papa a scrivere quella lettera, allorchè Anastasio il
rappresenta detenuto dal re nel Vaticano. Secondariamente son degne di
osservazione le parole dello stesso Anastasio, o, per dir meglio,
dell'autore della vita di papa Adriano primo[449], successore di Stefano
III. Faceva istanza esso pontefice Stefano al re Desiderio per la
restituzion dei beni di s. Pietro, e Desiderio rispondeva: _Sufficit
apostolico Stephano, quia tuli Christophorum et Sergium de medio, qui
illi dominabantur, et non illi sit necesse justitias requirendi. Nam
certe si ego ipsum apostolicum non adjuvero, magna perditio super eum
eveniet. Quoniam Carlomannus rex Francorum amicus existens praedictorum
Christophori et Sergii, paratus est cum suis exercitibus ad vendicandum
eorum mortem, Romam properandum, ipsumque capiendum pontificem._ Dalla
bocca del medesimo papa Stefano avea Adriano intese queste parole, con
avergli anche esso Stefano confessato di aver fatto cavar gli occhi a
Cristoforo e Sergio per suggestione di Desiderio; laddove nella suddetta
lettera quadragesima sesta esso protesta con giuramento di non aver
avuta parte nell'accecamento d'essi. Sicchè veniamo in chiaro che papa
Stefano andò d'accordo con esso re in quella occasione per liberarsi da
Cristoforo e Sergio, che voleano fargli da padroni addosso; e siccome
coll'assistenza dei Longobardi fu cacciato dalla sedia di s. Pietro
l'iniquo Costantino, e sostituito il legittimo papa Stefano, così
dell'aiuto degli stessi si servì egli in quest'altra occasione.
All'incontro, Dodone e i Franchi si dichiararono in tal congiuntura
contra del papa, perchè il re Carlomanno sosteneva il partito di
Cristoforo e di Sergio; e conseguentemente si viene ad intendere che non
fu ben informato di quel fatto Anastasio, o vogliam dire l'autor della
vita di Stefano III, oppure che il mal animo verso de' Longobardi gli
fece scrivere in maniera differente dal vero quel deforme successo. Ed
io l'ho rapportato all'anno presente, ma senza certa cognizione del
tempo; perciocchè Sigeberto[450], che parla sotto quest'anno, non ne
sapeva più di noi per conto di quegli affari.

NOTE:

[446] Anastas., in Stephani III.

[447] Eginhardus, in Annalib.

[448] Anastas., in Stephano III Papa.

[449] Anastas., in Hadriani I Vita.

[450] Sigebertus, in Chronico.



    Anno di CRISTO DCCLXX. Indizione VIII.

    STEFANO III papa 3.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 51 e 30.
    LEONE IV imperadore 20.
    DESIDERIO re 14.
    ADELGISO re 12.


Erano già insorti nuvoli di discordia tra _Carlo Magno_ e _Carlomanno_
re suo fratello, dandosi ben a conoscere che con fondamento fu detto:
_Rara est concordia fratrum_. Per riconciliarli insieme si mosse la
comune lor madre _Berta_, appellata da altri _Bertrada_, che portatasi a
Carlomanno, maneggiò con lui la concordia. E perciocchè era imminente
anche la guerra contra di _Tassilone_ duca di Baviera, il quale
insuperbito non volea riconoscere per suo sovrano il re Carlomanno, e la
faceva piuttosto da re che da duca, si adoperò la saggia regina per
impedire ancora un sì fatto incendio. Prese motivo papa Stefano III
dalla buona armonia rimessa fra i due re fratelli di scrivere loro la
lettera quadragesima settima del Codice Carolino, in cui si rallegra con
essi per tale riconciliazione, augurando loro la continuazione e
l'accrescimento della pace e dell'amore fraterno. Passa dipoi a pregarli
di voler impiegare i loro uffizii perchè la chiesa di san Pietro abbia
interamente le sue giustizie, e di adoperare ancora la forza dei
Longobardi: altrimenti ne renderan conto nel tribunale di Dio. Non
nomina egli il re Desiderio; ma, per quanto si ricava dalla vita del suo
successore Adriano[451], Desiderio avea promesso e giurato sopra il
corpo di s. Pietro di fare restituire le giustizie della Chiesa di Dio,
e poi nulla avea ottenuto della sua parola. Abbiamo nondimeno dalla
lettera quadragesima quarta del suddetto Codice Carolino, scritta non so
se nel presente o nel susseguente anno da papa Stefano alla regina Berta
e al re Carlo Magno, per rendere loro grazie del buon servigio prestato
da Iterio lor messo, spedito nel ducato beneventano, perchè colla sua
premura avea la Chiesa romana ricuperati dei beni in quelle parti, senza
che il papa vi dica altra parola di Desiderio, o si lagni di lui.
Siccome s'ha dagli Annali de' Franchi, passò la regina Berta dalla
Baviera in Italia e a Roma, e di là venne ad abboccarsi con esso re
Desiderio, e a trattar dell'accasamento di _Gisila_, ossia _Gisla_, sua
figliuola, sorella di Carlo Magno, con _Adelgiso_ figliuolo d'esso re
Desiderio, e di dare per moglie ai re Carlo e Carlomanno suoi figliuoli
due figliuole del suddetto re longobardo. Nulla più che questo bramava
il re Desiderio per istabilir maggiormente l'amicizia con que' due
potentissimi re, che soli poteano fare a lui paura. Non sì tosto penetrò
questo avviso alla conoscenza di papa Stefano, che risentitamente
scrisse loro la lettera quadragesima quinta del Codice Carolino, per
dissuaderli da queste nozze, perchè nozze illecite ed invalide, perchè
amendue, vivente anche il padre, s'erano ammogliati, e le mogli erano
viventi tuttavia. Che se i pagani faceano di queste azioni, non le
doveano già fare principi cristiani. E fin qui cammina con tutti i piedi
lo zelante gridar del papa. Ma strano è ch'egli seguiti a dire: _Che
pazzia è mai questa, o eccellentissimi figliuoli, re grandi (appena oso
dirlo), che la vostra nobil gente dei Franchi, eminente sopra l'altre
genti, e la splendida e nobilissima prole della regal vostra possanza,
si voglia macchiare colla perfida e puzzolentissima gente dei
Longobardi, la qual neppure è computata fra le genti, e dalla cui
nazione sappiam di certo che son venuti i lebbrosi? Niuno c'è, che non
sia pazzo, al quale possa neppur nascere sospetto che dei re sì rinomati
si vogliano impacciare in un contagio sì detestabile ed abbominevole.
Imperciocchè, come dice s. Paolo? Quae societas luci ad tenebras aut
quae pars fideli cum infideli?_ Torna più sotto a dire, che non è loro
permesso il prendere mogli di nazione straniera; e che avendo promesso a
s. Pietro d'essere amici degli amici, e nimici dei nimici,
commetterebbono peccato, imparentandosi co' Longobardi, gente spergiura
e nimica di Roma. Aggiunge in fine d'aver posta quella esortazione sopra
il sepolcro di san Pietro, e d'inviarla da quel santo luogo, con intimar
loro la scomunica, se opereranno in contrario.

Certo conveniva al vicario di Gesù Cristo l'alzar forte la voce contra
quei maritaggi, quando vero fosse che già quei due re avessero moglie,
essendo il divorzio contrario alla legge di Gesù Cristo. Ma sì poco
proprie della maestà e carità pontifizia compariscono quelle tante
esagerazioni, a dismisura piene di odio contro i Longobardi, ch'io ho
talvolta dubitato, e dubito tuttavia, che quella lettera potesse essere
stata finta da qualche bel cervello di que' tempi, ed attribuita al
papa. Sanno gli eruditi che prima ancora che i Longobardi calassero in
Italia, formavano una riguardevol nazione, ed erano già seguite
parentele fra i re di quella gente e i re franchi. In dugento anni poi
di dimora d'essi Longobardi in Italia, ognun dee credere che quei re e
il loro popolo s'erano ingentiliti, nè cedevano ad altre nazioni
nell'essere buoni cattolici, in fondar chiese, monisteri, spedali. Nè
certo la lebbra era nata ai tempi loro. E pure s'odono in questa lettera
vituperii sì lontani da ogni credenza. Altronde poi non apparisce che i
due re fossero già ammogliati; e però o quella lettera è finta, o, se
vera, troppo essa disdice ad un romano pontefice. Comunque sia, il fine
di questi maneggi fu che non condiscese Carlomanno a prendere per moglie
una figliuola del re Desiderio. La prese bensì il re Carlo, ma non
peranche divenuto Magno, senza curar la scomunica che si pretende
intimata dal romano pontefice, se pure è vero che Carlo Magno fosse
allora ammogliato. E questo avvenne per esortazione di Berta sua madre.
Si dee nondimeno aggiugnere che, secondo gli antichi Annali de'
Franchi[452], efficacemente si adoperò essa regina Berta, affinchè il re
Desiderio restituisse molte città alla Chiesa romana, e l'ottenne. _Et
redditae sunt Civitates plurimae ad partem sancti Petri_, il che si può
dubitare se sia vero, perchè non apparisce che si disputasse di città
tolte in questi tempi alla Chiesa. E quando pur sia vero, questo fa
vedere che noi non sappiam bene gli affari di que' tempi, nè i gruppi e
sviluppi succeduti fra i sommi pontefici e i re longobardi per
dissensioni di beni temporali. Verisimilmente ancora nell'anno presente
venne a morte _Sergio_ arcivescovo di Ravenna. Ricavasi poi da
Agnello[453], storico ravennate del secolo susseguente, che questo
arcivescovo la fece da padrone nell'esarcato e nella Pentapoli.
_Judicavit a finibus Perticae totam Pentapolim, et usque ad Tusciam, et
usque ad mensam Walani, veluti Exarchus; sic omnia disponebat, ut sunt
soliti modo Romani facere._ Se non fossimo per vedere che Leone suo
successore fece altrettanto, si potrebbe credere che questa fosse una
invenzione d'Agnello, scrittore d'animo corrotto verso i romani
pontefici, a' quali indubitato è che fu fatto il dono dell'esarcato, e
non già agli arcivescovi di Ravenna. Ma dalla lettera quinquagesima
quarta del Codice Carolino si raccoglie che _Leone_ arcivescovo,
allorchè cominciò ad usurpar la signoria dell'esarcato, allegava
l'esempio del suo predecessore _Sergio_, che avea quivi signoreggiato.
Di ciò parleremo meglio disotto all'anno 777. Nel Codice estense, che ci
ha conservata la parte che resta della storia del suddetto Agnello, si
legge nel margine una giunta da me stampata[454], da cui potrebbe taluno
essere indotto a sospettare, che il soprammentovato Sergio arcivescovo,
condotto a Roma, fosse quivi stato strangolato. Ma convien avvertire,
essere quella giunta uscita dalla penna d'un ignorante, che confuse
l'arcivescovo _Sergio_ di Ravenna con _Sergio_ figliuolo di Cristoforo,
da noi veduto di sopra, e che veramente fu con violenza levato dal
mondo. Sembra ancora avere costui confuso _Leone_ arcivescovo,
successore di _Sergio_, con qualche altro _Leone_ romano: e però di niun
valore è quella giunta. Per attestato dell'autore della vita di Stefano
III, dopo la morte dell'arcivescovo Sergio si fece scisma nella Chiesa
di Ravenna. Fu, è vero, eletto per quella cattedra _Leone_ arcidiacono;
ma _Michele_ archivista della Chiesa ravennate, benchè non alzato per
anche ad alcun ordine sacerdotale, se n'andò a trovare _Maurizio_ duca,
cioè governatore di Rimini, il quale, per consiglio del re Desiderio
(che in tutte le cose mal fatte si vuole che avesse mano), raunata una
banda d'armati, si portò a Ravenna, e quivi con braccio forte fatto
eleggere il suddetto Michele, l'introdusse nel palazzo archiepiscopale,
e mandò prigione a Rimini il poco fa riferito Leone. Scrisse poi
Maurizio, e scrissero i Ravennati a Stefano papa per ottener che Michele
fosse da esso papa consecrato; ma nulla poterono conseguire, stando
forte il papa nella negativa, perchè costui non era sacerdote. Ma
possiamo ben credere che molto più che questa ragione facesse il papa
valere la nullità dell'elezione, perchè estorta dalla violenza.
Nondimeno questo avvenimento ci può far sospettare che non avesse per
anche gran forza il romano pontefice nel governo temporale dell'esarcato
di Ravenna. Truovasi spettante al gennaio dell'anno presente
un'iscrizione, da me[455] data alla luce, da cui risulta che _Trasguno_
era duca della città di Fermo, correndo tuttavia l'anno XIII del re
Desiderio e l'XI di Adelgiso suo figlio.

NOTE:

[451] Anastas. Bibliothec., in Hadriani I Vita.

[452] Annales Veter. Francorum.

[453] Agnell., Vit. Episcopor. Ravennat., P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[454] Rer. Ital., P. I, tom. 2.

[455] Collectio nova veter. Inscription., p. 1857.



    Anno di CRISTO DCCLXXI. Indizione IX.

    STEFANO III, papa 4.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 52 e 31.
    LEONE IV imperadore 21.
    DESIDERIO re 15.
    ADELGISO re 13.


Cominciò in quest'anno a sconcertarsi non poco la buona corrispondenza
del re _Carlo Magno_ con _Desiderio_ re dei Longobardi, perchè Carlo,
dopo aver tenuta la di lui figliuola per moglie, in questo anno la
ripudiò, e rimandolla al padre. Eginardo[456], autore contemporaneo e
ben informato delle azioni d'esso Carlo, confessa di non averne saputo
il motivo; e però non si può molto fidare del monaco Sangallense, che
scrisse un secolo dappoi, e abbonda di favole, allorchè attribuisce la
cagione all'essere stata quella principessa di cattiva sanità ed inabile
a far figliuoli. Se ciò fosse stato, l'avrebbe anche saputo Eginardo,
notaio allora del medesimo re. Si potrebbe pensare che finalmente
accortosi questo principe dell'illecito suo matrimonio colla figliuola
del re Desiderio, perchè contratto vivente ancora la prima moglie, e
cotanto riprovato dal romano pontefice, perciò se ne separasse. Ma è da
avvertire che niuno de' tanti che scrissero delle azioni di Carlo Magno,
il riconobbe ammogliato, allorchè prese la figliuola di Desiderio. Ci
vien questa particolarità dalla sola lettera quadragesimaquinta del
Codice Carolino, che per altri capi patisce delle difficoltà. E
s'aggiunga poi, che gli stessi Francesi di quei tempi riguardarono come
incestuose le nozze di Carlo Magno con Ildegarda, da lui presa dopo il
ripudio fatto della longobarda: segno che giudicarono legittimo e non
dissolubile il matrimonio di questa, ed insieme indizio che esso Carlo
fosse non coniugato, ma libero, quando con essa s'accoppiò. Ne abbiamo
la prova nella vita di sant'Adalardo abbate di Corbeia, cugino di esso
Carlo Magno, scritta da Pascasio Radberto. _Factum est_ (così scrive
quell'autore) _quum idem imperator Carolus Desideratam_ (hanno creduto
alcuni tale essere stato il nome di quella principessa, e non già
_Berta_ o _Ermengarda_, come altri hanno immaginato) _Desiderii regis
Italorum filiam repudiaret quam sibi dudum etiam quorumdam Francorum
juramentis petierat in conjugium; ut nullo negotio beatus senex_ (cioè
Adalardo) _persuaderi posset, dum esset adhuc tiro palatii, ut ei, quam
vivente illa rex acceperat, aliquo communicaret servitutis obsequio. Sed
culpabat modis omnibus tale connubium, et gemebat puer beatae indolis,
quod et nonnulli Francorum eo essent perjuri, atque rex inclito uteretur
thoro, propria sine aliquo crimine repulsa uxore. Quo nimio zelo
succensus elegit plus saeculum relinquere adhuc puer, quam talibus
admisceri negotiis_. S'inganna forte chi è stato d'avviso che il
culpabat tale connubium voglia dire che Adalardo riprovava il matrimonio
di Carlo colla figliuola di Desiderio. Chiara cosa è che quel santo
giovane non sapeva sofferire il matrimonio di lui con _Ildegarda_,
sposata dopo il ripudio della longobarda, considerato da lui per
illecito, perchè contratto vivente la legittima moglie longobarda da lui
ripudiata _sine aliquo crimine_. Potea ben sapere queste particolarità
Pascasio Radberto, siccome quegli che fu discepolo di santo Adalardo, e
conversò molto con lui. Perciò si scuopre per immaginazione de' secoli
moderni il dire che il romano Pontefice sciolse il matrimonio della
longobarda, perchè non era consumato: e sempre più ci vien somministrato
motivo di dubitare della lettera quadragesimaquinta del Codice Carolino,
in cui papa Stefano ci rappresenta Carlo Magno ammogliato, allorchè era
per prendere la figliuola del re longobardo. Se ciò fosse stato, non
avrebbe creduto Adalardo legittima moglie d'esso re Carlo _Desiderata_,
nè avrebbe tenuto per illecito il susseguito matrimonio con _Ildegarda_.
Ma chi sa che fin d'allora il suddetto re Carlo non cominciasse i
negoziati per far suo il regno dei Longobardi, siccome seguì da lì a non
molto?

Per altro verso cangiarono molto di faccia in quest'anno gli affari
della Francia, imperocchè nel dì 5 di dicembre mancò improvvisamente di
vita il re _Carlomanno_, con lasciare dopo di sè due piccoli figliuoli
maschi, il maggiore dei quali portò il nome di _Pippino_, senza sapersi
il nome dell'altro. Si fece tosto innanzi il re Carlo alla selva
Ardenna, e tirati nel suo partito molti de' vescovi, conti e primati del
regno d'esso suo fratello, se ne mise in possesso, e si fece ugnere re
di quegli stati: con che tutta la Gallia e la maggior parte della
Germania venne ad unirsi sotto di lui solo, e a formare una formidabil
potenza, maggiore che a' tempi di Pippino, perchè s'era aggiunta a
questo amplissimo dominio anche l'Aquitania e la Guascogna. La regina
_Gilberga_, vedova di Carlomanno, veduto questo bel tiro del re Carlo
suo cognato, per timore ch'egli non mettesse le mani addosso ai suoi
figliuolini, e con farli cherici non li privasse della speranza
dell'eredità paterna, se ne fuggì in Italia, e ricoverossi sotto la
protezione del re Desiderio, con influir poi, senza pensarvi, alla di
lui rovina. Passano gli scrittori franzesi con disinvoltura quest'azione
di Carlo Magno, come se fosse cosa da nulla l'avere usurpato a' suoi
nipoti un regno, che per tutte le leggi divine ed umane era loro dovuto,
con avergli anche dipoi perseguitati. Ma la venerazione che si dee alla
verità, più che a Carlo Magno, vuol bene che noi riguardiamo come un
effetto della smoderata sua ambizione l'aver trattato così i principi
suoi nipoti. Certo per azioni tali egli non si acquistò nè meritò il
titolo di Grande, giacchè niuna buona ragione ci si presenta per iscusar
lo spoglio fatto a que' principi pupilli e sì stretti a lui per vincoli
di sangue. Seguitò fino al presente anno _Michele_ usurpatore della
Chiesa di Ravenna a tenerla con braccio forte. Anastasio[457], o
chiunque scrisse la vita di Stefano III, scrive che costui si sosteneva
coll'appoggio di Desiderio re de' Longobardi, e che, per guadagnarsi la
di lui protezione, spogliò di tutti gli ornamenti preziosi quella
Chiesa, e ne fece a lui un regalo. Gli mandò il pontefice più lettere e
messaggeri per indurlo a desistere da questi sacrilegii; ma egli più che
mai costante teneva occupata quella cattedra. Finalmente venuti
gl'inviati di Carlo re di Francia, ed insieme con quei del papa arrivati
a Ravenna, tanto dissero e fecero, che que' cittadini, preso il suddetto
Michele, l'inviarono ben legato a Roma. Dopo di che tornarono ad
eleggere per arcivescovo _Leone_, il quale dovea essere stato rimesso in
libertà, ed incontanente col suo clero si portò a Roma, dove ricevette
dal papa la consecrazione, ed ebbe il pacifico possesso della sua
Chiesa. Ma fa ancora questo fatto intendere che poca forza dovea avere
in questi tempi il romano pontefice nella città di Ravenna e in Roma,
dacchè abbiam veduto esercitati senza riguardo alcuno a lui gli atti
suddetti. Abbiamo poi da Teofane[458] che _Irene_, moglie di _Leone IV_
Augusto, diede alla luce _Costantino_, che fu poscia imperadore, e del
quale avremo occasion di parlare andando innanzi.

NOTE:

[456] Eginhardus, in Vita Caroli Magni.

[457] Anastas. in Stephani III Vita.

[458] Theoph., in Chronogr.



    Anno di CRISTO DCCLXXII. Indizione X.

    ADRIANO I papa 1.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 53 e 32.
    LEONE IV imperadore 22.
    DESIDERIO re 16.
    ADELGISO re 14.


Diede fine a' suoi giorni in questo anno nel principio di febbraio papa
_Stefano III_, in cui luogo fu eletto _Adriano I_, figliuolo di Teodolo
console e duca, distinto allora per le sue virtù, e che poi riuscì un
insigne pontefice; ed appena eletto richiamò alcuni che alla morte di
papa Stefano erano stati mandati in esilio. Lasciò scritto Andrea
Dandolo[459] che in questi tempi il re de' Longobardi _personalmente e
realmente_ affliggeva il clero e popolo dell'Istria, e tirava quei
vescovi sotto l'ordinazione del patriarca di Aquileia, quando, secondo i
canoni, essi erano della dipendenza del patriarca di Grado. Era ricorso
_Giovanni_ patriarca gradense per aiuto a Stefano III papa, e rapporta
esso Dandolo una lettera consolatoria d'esso pontefice a quel patriarca.
Scrisse anche ai vescovi il papa, ma non ne cavò profitto alcuno, stando
essi costanti nell'unione co' Longobardi. Questo enorme pregiudizio
inferito alla Chiesa di Grado, e l'intollerabil prepotenza de'
Longobardi nell'Istria, mosse dipoi _Maurizio_ doge di Venezia, già
creato console imperiale, a spedire a Roma Magno prete archivista, e
Costantino tribuno, per ottenere rimedii più efficaci in favore del
patriarca gradense; ma sopravvenuta la morte di papa Stefano, restò per
allora senza effetto la loro spedizione. Ora saputasi dal re Desiderio
l'esaltazione di _Adriano_ al trono pontificio, non fu egli lento ad
inviargli un'ambasceria[460], composta da _Teodicio_ duca di Spoleti, da
_Tunone_ duca di Ebora Regia (_Eboregia_ credo io che s'abbia quivi a
leggere, cioè _Ivrea_) e da Prandolo suo guardarobiere, per confermare
la buona pace ed amicizia fra loro. Adriano domandò agli ambasciatori
qual fidanza si potesse avere di un principe, il quale sopra il corpo di
s. Pietro s'era impegnato con giuramento sotto il suo predecessore
Stefano di fare le giustizie di s. Pietro, e mai non aveva attenuta
parola? anzi per sua suggestione aveva esso papa fatto cavar gli occhi a
Cristoforo e Sergio primati della Chiesa. Aggiunse ancora la risposta
data da Desiderio ai messi di papa Stefano, che aveano fatta dappoi
istanza per le suddette giustizie. L'abbiam veduta di sopra questa
risposta. Dappoichè Sergio secondicerio restò privato della luce degli
occhi, per quanto abbiam precedentemente detto, fu lasciato in prigione.
Otto giorni prima che morisse papa Stefano III, Paolo Afiarta e Calvolo,
camerieri d'esso pontefice, Gregorio difensore regionario, e Giovanni
fratello del medesimo papa, il presero, e mandatolo ad Anagni, quivi il
fecero ammazzare. Ora papa Adriano avendo subodorato che Paolo suddetto
era stato autore di questo assassinio, segretamente fece sapere a
_Leone_ arcivescovo di Ravenna, che mentre costui se ne tornava da
Pavia, dove era stato inviato per pubblici affari, gli facesse mettere
le mani addosso, e il cacciasse in prigione. Ciò fu eseguito; e formato
in Roma il processo, il pontefice Adriano per le istanze de' primati
della Chiesa e degli uffiziali della milizia, fece anche prendere
Calvolo e gli uomini che avevano ucciso Sergio, e processati che furono
dal prefetto di Roma, li mandò in esilio a Costantinopoli. Spedì poscia
il processo a Ravenna perchè su quello venisse esaminato Paolo Afiarta,
il quale davanti al consolare di Ravenna confessò il delitto. Tuttavia
desiderando papa Adriano di salvar la vita ad esso Paolo, formò a
_Costantino e Leone Augusti e grandi imperadori_ una relazione della
morte inferita al cieco Sergio, _deprecans eorum imperialem clementiam,
ut ad emendationem tanti reatus, ipsum Paulum suscipi, et in ipsis
Graeciae partibus in exilio mancipatum retineri praecepissent_. Queste
parole di Anastasio hanno servito a Pietro de Marca, insigne letterato
ed arcivescovo di Parigi, per credere che il pontefice signoreggiasse
bensì in questi tempi in Roma, ma con dipendenza tuttavia dalla
sovranità de' greci Augusti. Certamente non si sa intendere tanta
familiarità e confidenza de' papi coi greci Augusti, quando avessero
tolta loro tutta la signoria di Roma. Merita a questo proposito d'essere
anche osservata la data d'una bolla del medesimo papa Adriano in favore
del monistero di Farfa[461], cioè _Dat. X. kal. maji imperantibus domno
nostro piissimo Augusto Constantino, a Deo coronato, magno imperatore,
anno LIII, et post consulatum ejus anno XXXIII, sed et Leone magno
imperadore, ejus filio anno XXI, Indictione X._ Quel _domno nostro_
serve ad avvalorare l'opinione suddetta.

Mandò poscia papa Adriano ordine a Leone arcivescovo di Ravenna, che
inviasse Paolo Afiarta in esilio per via di Venezia a Costantinopoli,
accompagnato dalla relazione antedetta; ma Leone si scusò di farlo, con
rispondere al papa che non tornava il conto a spedire Paolo colà, perchè
avendo il re Desiderio prigione un figliuolo di Maurizio duca di
Venezia, questi per riavere esso figliuolo avrebbe potuto cambiarlo con
Paolo. Coll'occasione poi che Adriano ebbe da inviare a Desiderio un suo
messo, cioè Gregorio sacellario, gli diede commissione di protestare in
passando, ed ordinare per parte sua all'arcivescovo di Ravenna e a que'
cittadini, che Paolo rimanesse sano e salvo: ordine mal eseguito, perchè
nel suo ritorno a Ravenna Gregorio trovò che il prefato Paolo era stato
levato di vita. Prima ancora che succedessero questi fatti, cioè non per
anche passati due mesi dopo l'assunzione di Adriano alla cattedra
pontificia, per attestato di Anastasio bibliotecario, il re Desiderio
occupò la città di Faenza, il ducato di Ferrara e Comacchio, luoghi
tutti donati dal re Pippino e dai due suoi figliuoli a s. Pietro. Con
qual pretesto non è chiaro, se non che si sa avere il papa inviate
lettere di buon inchiostro a Desiderio per esortarlo alla restituzione.
La risposta sua fu che nol farebbe, se prima non seguisse un
abboccamento del papa con esso lui. Il motivo di questo congresso era
per indurre il santo padre ad ungere e riconoscere per re i figliuoli
del re _Carlomanno_, che si erano rifugiati sotto il suo patrocinio. Ma
il pontefice Adriano, a cui premeva forte di non disgustare _Carlo
Magno_, sostegno unico suo quaggiù per gl'interessi suoi temporali, si
guardò ben dall'acconsentire ai disegni del Longobardo. Ora tra questa
negativa e la carcerazione e morte di Paolo Afiarta, partigiano suo,
Desiderio probabilmente montato in collera, si diede a molestare ed
occupare gli stati della Chiesa romana. Non gli bastò d'aver tolto
all'esarcato i luoghi sopra espressi; spinse ancora un esercito più
avanti con entrare ne' confini di Sinigaglia, Montefeltro, Urbino,
Gubbio, dove furono commessi molti incendii, saccheggi ed omicidii. E
questo specialmente avvenne in Blera nella Toscana romana, dove uccisero
i principali di quella terra. Giunsero anche i Longobardi ne' confini di
Roma stessa, e si impossessarono del castello d'Utricoli. All'udir
questi fatti, chi cercasse delicatezza di coscienza e prudenza nel re
Desiderio, non la troverebbe. Perciocchè dell'un canto non apparisce
alcun giusto motivo di cotal invasione, e dall'altro doveva esso re aver
dimenticato ciò che era avvenuto sotto Astolfo suo predecessore,
gastigato dal re Pippino, e che poteva a lui accadere anche di peggio
dalla potenza di Carlo Magno, difensore della Chiesa romana, e principe
giovane voglioso d'accrescere i suoi stati, ed anche malcontento di lui,
per aver ricettati i nipoti figliuoli di Carlomanno. In questi tempi
diede principio esso re Carlo alla guerra contra de' Sassoni, popolo
pagano, popolo che s'era avvezzato a non voler più riconoscere la
sovranità dei re franchi. Carlo Magno non era principe da voler
trascurare alcuno dei diritti de' suoi predecessori, e ardeva più che
gli altri di voglia d'ingrandire la sua per altro vastissima monarchia.

NOTE:

[459] Dandulus, in Chronic., T. 12 Rer. Italic.

[460] Anastas., in Hadriani I Vit.

[461] Rer. Italic., P. II, tom. II.



    Anno di CRISTO DCCLXXIII. Indiz. XI.

    ADRIANO I papa 2.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 54 e 33.
    LEONE IV imperadore 23.
    DESIDERIO re 17.
    ADELGISO re 15.


Bramoso più che mai il re Desiderio di abboccarsi con papa _Adriano_,
gli spedì _Andrea_ referendario e _Stabile_ duca, per esporgli questa
sua intenzione. Mostrossi pronto il papa a tale abboccamento o in Pavia,
o in Ravenna, Perugia e Roma, purchè precedesse la restituzione delle
città ultimamente occupate. Ma Desiderio ostinato più che mai rigettò
questa condizione, e proruppe in minacce contra di Roma, passi tutti che
obbligarono il papa a spedire per mare i suoi messi al re Carlo Magno
colla notizia di sì fatti insulti, e con implorare il suo aiuto in tanta
angustia e necessità. Desiderio, giacchè non potea muovere il papa a'
suoi voleri, si avvisò di portarsi egli in persona a parlare con lui, e
di adoperar la forza per indurlo a cedere. Mossosi pertanto da Pavia con
_Adelgiso_ suo figliuolo, coll'esercito de' Longobardi, e colla moglie e
coi figliuoli del fu re Carlomanno, s'inviò alla volta di Roma senza
precedente concerto col papa. Solamente mandò gente innanzi ad avvisarlo
della sua venuta. Adriano coraggiosamente rispose che se non veniva
prima restituito il mal tolto, indarno il re si prendeva quell'incomodo,
perchè assolutamente intendeva di non ammetterlo. Quindi per precauzione
fatte venire a Roma le soldatesche della Toscana, Campania e Perugia, e
alcune ancora delle città della Pentapoli, guernì fortemente Roma, con
trovar tutti disposti a ben difenderla. Spogliò le chiese di san Pietro
e Paolo facendo portar tutti i lor tesori entro la città, e chiudere con
grossi ferri le porte della basilica vaticana. Poscia inviò al re
Desiderio _Eustrazio_, _Andrea_ e _Teodosio_ vescovi di Albano, di
Palestrina e di Tivoli, ad intimargli una forte scomunica, s'egli osava
senza licenza sua d'entrare ne' confini del ducato romano. Era già
pervenuto Desiderio a Viterbo, e quivi intesa questa disgustosa
ambasciata, non ardì d'andare più innanzi, e con gran riverenza e
confusione ne tornò indietro. Dopo ciò arrivarono a Roma i messi di
Carlo Magno, cioè _Giorgio_ vescovo, _Gulfrado_ abbate ed _Albino_
confidente d'esso re, per chiarire, se sussisteva quanto il re Desiderio
aveva esposto allo stesso re Carlo, con volergli far credere restituite
a s. Pietro tutte le città e giustizie usurpate. Trovato falso
l'esposto, se ne tornarono in Francia, e passando da Pavia, con tutte le
loro esortazioni nulla poterono ottenere da Desiderio. Informato di ciò
il re Carlo, tornò ad inviargli de' messi, con pregarlo di soddisfare al
romano pontefice, e con promettergli anche quattordicimila soldi d'oro.
Ma Desiderio divenuto cieco nella sua malizia, e tutto ricusando,
incautamente si andava fabbricando la sua rovina. Allora Carlo Magno,
conoscendo ormai che la sola forza potea liberar da queste propotenze
Roma e la Chiesa romana, e ridondar l'uso dell'armi in proprio profitto,
unito l'esercito generale di tutta la Francia, sen venne a Genova,
risoluto di passare in Italia. Trovò che il re Desiderio accorso colla
sua armata alle Chiuse dell'Italia verso il monte Cinisio, quivi s'era
fortificato in varie maniere, per contrastargli il passo. Divise Carlo
in due l'esercito suo, e ne spedì l'una pel suddetto monte, l'altra per
monte di Giove.

Prima nondimeno di sperimentar le suo armi, tornò ad inviare messi al
Longobardo, per indurlo pacificamente alla restituzione, contentandosi
di riceverne una promessa, e tre nobili ostaggi per sicurezza della
parola. Ma ancor questi vennero indarno. S'inoltrò l'esercito franzese;
ma trovata gagliarda opposizione, già si disponeva a tornarsene
indietro, quando all'improvviso s'intese che Adelgiso figliuolo di
Desiderio e tutti i Longobardi, colti da un panico terrore aveano presa
la fuga, abbandonate le tende e l'equipaggio, senza che alcuno gli
inseguisse. Agnello ravennate[462], scrittore del secolo susseguente,
scrive che Carlo Magno fu invitato in Italia da _Leone_ arcivescovo di
Ravenna, il quale anche per mezzo di Martino suo diacono gl'insegnò il
sito e la maniera di valicar l'Alpi al dispetto de' Longobardi. Questo
si può credere un vanto de' Ravennati. Sappiam di certo che Carlo venne
invitato dal papa; non sarebbe tuttavia improbabile che anche
quell'arcivescovo fosse concorso col suo influsso a muoverlo. L'autore
poi della Cronica novaliciense[463] lasciò scritto essere stato un
buffone che scoprì ai Franchi la via per passare in Italia. Quello
scrittore si scopre un romanziere in altri racconti. Certo è bensì che
senza contrasto calò il re Carlo in Piemonte col suo fiorito esercito, e
tal timore incusse nel re Desiderio, che altro scampo non ebbe che di
ritirarsi e chiudersi nella forte città di Pavia, come appunto avea
fatto il re Astolfo, ma con esito differente da quello. Che se Godifredo
da Viterbo[464], a cui prestarono fede molti de' moderni, scrisse che a
Selva-bella seguì un fiero fatto d'armi tra i Franchi e Longobardi colla
peggio degli ultimi, laonde quel luogo prese il nome di _Mortara_, si
può, anzi si dee un tal racconto mettere al ruolo delle favole, perchè
di tanti antichi storici de' fatti di Carlo Magno, niuno conobbe, niuno
accennò questa battaglia; e se questa fosse succeduta, n'avrebbono essi
avuta contezza e fatta menzione. Restò dunque confinato a Pavia e
circondato da uno stretto assedio o blocco il re Desiderio,
probabilmente nel mese d'ottobre, come ha Anastasio[465], e non già di
giugno, come scrisse l'autore della Cronica del monistero di
Volturno[466]. Adelgiso figliuolo di Desiderio ebbe l'incombenza di
difendere Verona, città allora delle più forti del regno longobardico,
che medesimamente restò assediata dall'armi franzesi. Ma veggendo il re
Carlo, che comandava in persona la sua armata sotto Pavia, essere un
osso duro quella città, si accinse a domarla coll'ostinazion
dell'assedio, o vogliam dire del blocco; e però fatta colà venir la
regina _Ildegarda_ co' suoi figliuoli, la quale ivi gli partorì una
figlia appellata _Adelaide_, passò sotto l'assediata città le feste del
santo Natale. Intanto molte città longobardiche oltre Po si sottomisero
alla potenza de' Franchi. Per attestato del Fiorentini[467] e di Cosimo
della Rena[468], in una carta del giugno di quest'anno si trova nominato
_Tachiperto_ duca, cioè governatore, nella città di _Lucca_. Ma che
questi reggesse la Toscana tutta non apparisce da memoria alcuna.

NOTE:

[462] Agnell., Pont. Raven. P. I, tom. 2 Rer. Italic.

[463] Chronic. Navaliciense, P. II, tom. 1, Rer. Italic.

[464] Godefridus Viterbiensis, in Chronico.

[465] Anastas., in Hadriani I papae Vit.

[466] Chronic. Vulturnense, P. II, tom. I. Rer. Italic., pag. 402.

[467] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.

[468] Cosimo della Rena, Serie de' duchi di Toscana.



    Anno di CRISTO DCCLXXIV. Indiz. XII.

    ADRIANO I papa 3.
    COSTANTINO Copronimo imperadore 55 e 34.
    LEONE IV imperadore 24.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 1.


Continuava con vigore l'assedio ossia blocco di Pavia nel marzo ancora
dell'anno presente, ed erano già passati sei mesi dacchè v'era sotto il
re _Carlo_ quando egli volle profittar di quell'occasione con portarsi a
Roma, parte per divozione e parte per visitare il pontefice _Adriano_.
Si fece fretta affin di giugnere colà nel sabbato santo, che in
quest'anno cadde nel dì 2 d'aprile[469]. Presentita la di lui venuta,
il pontefice tutto pieno di gaudio gli mandò incontro i senatori e
magnati sino a Novi, trenta miglia lungi da Roma, colle bandiere
spiegate. Un miglio poi presso alla città si trovarono ad incontrarlo
tutte le brigate della milizia e i fanciulli delle scuole che portavano
rami di palme e d'ulivo, e fecero con canto ed acclamazioni un festoso
accoglimento ad esso re dei Franchi. Fuori ancora della città uscirono
ad incontrarlo tutte le croci ed insegne, come era in uso di farsi per
onore ne' tempi addietro, allorchè l'esarco o il patrizio si trasferiva
a Roma, dove certo è che essi esarchi e patrizii signoreggiavano con
autorità delegata dagl'imperadori. All'aspetto delle suddette croci,
smontò da cavallo il re Carlo, e a piedi, col corteggio de' suoi
principi e nobili uffiziali, si incamminò verso la basilica vaticana,
nel cui atrio papa Adriano con tutto il clero e popolo romano lo
aspettava. Nell'ascendere colà baciò ad uno ad uno tutti i gradini, e
non sì tosto giunse dove era il pontefice, che cordialmente si
abbracciarono. Poscia amendue, stando Carlo alla destra, entrarono in
san Pietro, dove con canti ed orazioni restò onorato l'arrivo di sì
grande ospite. Fecero appresso il loro ingresso nella città, con essere
preceduti vicendevoli giuramenti per la lor sicurezza; e nel giorno
santo di Pasqua e ne' due dì seguenti si attese alle divozioni. Venuto
poi il mercordì, fece istanza il papa al re Carlo, perchè confermasse
le donazioni fatte dal re Pippino suo padre alla Chiesa romana; al che
puntualmente condiscese, e il diploma di questa conferma fu posto sopra
l'altare di san Pietro. Qui è che Anastasio specifica i confini e gli
stati allora donati, oppur confermati nella guisa che di sopra all'anno
757 abbiam veduto colle parole di Leone Ostiense. Ma qualch'errore si
può sospettare corso in quel testo, perciocchè non è mai credibile una
sì larga donazione in chi voleva essere re de' Longobardi. Togliendosi
da questo regno l'esarcato, le provincie della Venezia e dell'Istria,
e tutto il ducato di Spoleti e di Benevento, Parma, Reggio, Mantova,
Monselice e la Corsica, paesi e città tutti espressi, secondochè si
pretende, nella donazione suddetta, cosa mai veniva a restare del regno
dei Longobardi in potere di Carlo nuovo re dei Longobardi? La disgrazia
ha portato che non sieno giunti ai dì nostri gli autentici diplomi di
quelle donazioni per poterne ricavare la verità de' fatti. Ma intanto
è certo che la donazione fu fatta e confermata; e andremo anche
accennando alcuni di quegli stati o donati o promessi; ma insieme è fuor
di dubbio che, a riserva dell'esarcato, gli altri stati seguitarono ad
essere parte del regno longobardico e di giurisdizione dei re d'Italia.
Nè si dee dissimulare che veramente sul ducato di Spoleti acquistò
allora il romano pontefice qualche diritto. Abbiamo da Anastasio che
prima ancora dell'andata di Desiderio a difendere le frontiere del regno
alle Chiuse dell'Alpi, alcune persone di Spoleti e Rieti andarono a
suggettarsi a papa Adriano: in segno di che si fecero tosare alla
maniera de' Romani. Ma da che fu posto in fuga l'esercito longobardo
alle suddette Chiuse, e le milizie di Spoleti tornarono a casa,
l'università di quel ducato ricorse a Roma, pregando il papa di
prenderli al servigio di san Pietro, e di farli tosare alla romana.
Ebbe esecuzione la lor domanda, ed avendo essi eletto per loro
duca _Ildebrando_ signor nobilissimo, venne questi confermato dal papa.
Diersi parimente a san Pietro gli abitanti del ducato di Fermo, Osimo,
Ancona, e del castello di Felicità. Se durasse poi questo dominio
pontificio sopra il ducato di Spoleti, comparirà tra poco.

Proseguiva intanto l'assedio di Pavia, nè potendo più reggere alla
difesa il re _Desiderio_, capitolò in fine la resa, con restar
prigioniere. Fu egli dipoi colla regina _Ansa_ trasportato in Francia,
dove ebbe tempo per qualche anno ancora di far penitenza de' suoi
peccati. Scrivono gli antichi storici ch'egli fu relegato a Liegi sotto
la cura di _Agilfredo_ vescovo di quella città. Ma Epidanno monaco di
san Gallo[470] racconta ch'egli fu mandato colla moglie in esilio al
monistero di Corbeia, dove _in vigilis et orationibus et jejuniis et
multis bonis operibus permansit usque ad diem obitus sui_. Jacopo
Malvezzi[471], vecchio storico di Brescia, nota anch'egli di avere
trovato presso gli scrittori de' fatti di questo re, che condotto a
Parigi, attese quivi alle opere della pietà; anzi salì così avanti nella
santità, che andando alla notte a visitar le chiese, miracolosamente se
gli aprivano le porte delle medesime. Avrà egli letto questi miracoli
ne' romanzi, e non già in accreditati scrittori. L'autore antico della
Cronica della Novalesa[472], che fa parimente menzione di tal prodigio,
ha del romanziere anch'egli in molti altri suoi racconti. Per altro nel
re Desiderio, anche ne' tempi suoi felici, non mancò la pietà e la
religione. Giovanni monaco autore della Cronica del monistero di
Volturno[473] ne parla così: _Hic licet bello fuerit austerus, tamen
plurimis locis ecclesias construxit, ornavit, atque dilavit rebus ac
possessionibus multis. Deniqus ex iussione principis Apostolorum Petri,
monisterium aedificavit in honorem et vocabulum ejusdem nominis in Valle
Tritana_, ec. E già osservammo altrove gl'insigni monisteri da lui
fabbricati in Brescia. Abbiamo anche osservato che egli, allorchè il
papa gl'intimò la scomunica, se non desisteva dall'andare coll'esercito
a Roma, se ne tornò indietro _con gran riverenza_. Diede mano alla
Chiesa romana per liberarla dall'usurpator Costantino falso papa. Ma in
fine per la soverchia sua ambizione e poca prudenza precipitò dal trono,
e andò a finire in esilio i suoi giorni. _Adelgiso_ suo figliuolo, che
s'era ricoverato o difeso in Verona, probabilmente caduta che fu Pavia,
anch'egli quella città abbandonò alla discrezion dei Franchi, e si mise
in salvo. Veramente abbiamo da Anastasio[474] che il re Carlo nell'anno
precedente si mosse dall'assedio di Pavia, ed in persona andò con parte
della sua armata sotto Verona, e quivi stando, vennero a mettersi nelle
sue mani i nipoti, cioè i figliuoli del fu re Carlomanno suo fratello,
colla lor madre, e con Auteario personaggio illustre ed aio di que'
principini, che s'erano rifugiati colà con Adelgiso. Cosa poi divenisse
di questi principi, lo tace la storia, verisimilmente per non rivelare
un fatto che tornava in discredito d'esso Carlo, cioè la sua poca
umanità verso gl'innocenti nipoti. Potrebbe talun dedurre dal racconto
di Anastasio che in mano di Carlo Magno venisse nell'anno precedente
anche la città di Verona. Ma il chiarissimo marchese Scipione
Maffei[475] nella sua Verona illustrata osservò in un'antica pergamena,
che anche nell'aprile dell'anno corrente si segnavano gli atti pubblici
di quella città coi nomi di _Desiderio_ e di _Adelchi_, tuttavia
regnanti. Però resta evidente che sino a questi tempi si sostenne
Verona. Ma al vedere disperati gli affari, Adelgiso se ne fuggì al mare
col suo meglio, ed imbarcatosi a _Porto Pisano_, come lasciò scritto
Paolo Diacono[476], passò a Costantinopoli ad implorare l'aiuto di
quegli Augusti, che gli diedero bensì un buon pascolo di parole, ma non
mai grandi forze per rimetterlo sul soglio. Con che Carlo Magno non
avendo più contrasto, felicemente divenne re di Italia, e conquistò, a
riserva del ducato di Benevento, tutte le altre città e terre di questo
regno. Diede egli, per conseguente, principio ad un'epoca nuova. Pensa
il padre Pagi, aver egli usate due epoche diverse del regno
longobardico; l'una cominciata nel mese d'aprile e l'altra dopo la presa
di Pavia; e ch'egli prima ancora di essa conquista venisse riconosciuto
per re dei Longobardi. Nel Monistero di san Zenone di Verona una carta
scritta _regnante domno nostro Carolo_, ec. _excellentissimo rege in
Italia anno septimo mensis magii per Indictione tertia_, cioè l'anno
780, quando nulla vi manchi, indica la prima epoca, verisimilmente
principiata dappoichè fu divenuto padrone di Verona. Ma le notizie, che
ordinariamente si ricavano dalle carte italiane, portano un'epoca il cui
principio cadde negli ultimi giorni di maggio, o piuttosto nei primi di
giugno dell'anno presente[477], ne' quali egli trionfante entrò nella
superata reggia de' Longobardi.

Tanta facilità e felicità di Carlo Magno in conquistare il regno
d'Italia senza battaglia alcuna, senza che gli facesse opposizione città
o fortezza veruna, a riserva di Pavia che tenne saldo per più di otto
mesi, e di Verona che men tempo resistè, potrebbe dar motivo a taluno di
maraviglia. Non avvenne così a torla di mano ai Goti. Ma è da por mente
che le forze di Carlo Magno, padrone di tutta la Gallia e di non poca
parte della Germania, tali erano, che i popoli giudicarono più sano
consiglio il cedere che il resistere. Ma si aggiunsero a questa potenza
alcune ruote segrete, che agevolarono non poco la rovina del re
Desiderio. Non si farà torto veruno alla memoria del pontefice Adriano I
in credere che egli, autore della venuta in Italia del re dei Franchi,
impiegasse l'autorità e destrezza sua in quanti occulti maneggi egli
potè, affinchè la nazione longobarda, e massimamente gli antichi
abitatori della Italia concorressero ad accettare un re nuovo senza
contrasto. Ho io inoltre conghietturato altrove[478] che _Anselmo_,
abbate dell'insegne monistero di Nonantola nel territorio di Modena,
porgesse non poco influsso alla depressione del re Desiderio, e
all'esaltazione del re di Francia, giacchè resta una carta informe, atta
nondimeno a dar notizia di questi affari, che contiene una sterminata
donazion di beni fatta da Carlo Magno ad esso abbate, verisimilmente in
ricompensa de' buoni servigii a lui prestati in questa impresa. Abbiamo
un antico Catalogo di quegli abbati, pubblicato dall'Ughelli[479], da
cui apparisce che Anselmo governò quel monistero per anni cinquanta: _et
ex his septem passus est exsilium a Desiderio apud Casinum, sicut
multorum seniorum relatione didicimus_. Era stato Anselmo duca del
Friuli e cognato dei re Astolfo e Rachis. Già vedemmo che Rachis,
tuttochè divenuto monaco, contrariò a spada tratta Desiderio, allorchè
questi volle salire sul trono. Perciò Anselmo, qual persona o nimica o
sospetta, non fu più veduto di buon occhio da esso Desiderio, e non finì
la faccenda che il cacciò in esilio. Tali notizie ci fanno intendere
qual cosa troppo probabile che l'abbate Anselmo, unitosi col papa, si
servisse del credito e delle parentele sue, e della fazione dei re
precedenti, contraria a Desiderio, per ben servire in questa congiuntura
a Carlo Magno, con guadagnarli l'animo di molti Longobardi. In fatti,
siccome asserisce l'antico Anonimo salernitano[480] ne' Paralipomeni da
me dati alla luce, non pochi dei Longobardi insorsero contra del re loro
in favor dei Franzesi. _Dum iniqua cupiditate_ (così scrive egli)
_Langobardi inter se consurgerent, quidam ex proceribus langobardis
talem legationem mittunt Carolo Francorum regi, quatenus veniret cum
valido exercitu, et regnum sub sua ditione obtineret, asserentes, quia
istum Desiderium tyrannum sub potestate ejus traderent vinctum, et opes
multas cum variis indumentis, auro, argentoque intextis, in suum
committerent dominium. Quod ille praedictus rex Carolus cognoscens, cum
Francis, Alemannis, Burgundionibus, nec non et Saxonibus, cum ingenti
multitudine Italiam properavit. Postquam in Italiam rex Carolus venit,
rex Italiae Desiderius, a suis quippe, ut diximus, fidelibus callide est
ei traditus: quem ille vinctum suis militibus tradidit; et ferunt alii,
ut lumine eum privasset._ Che così passasse l'affare, possiamo anche
argomentarlo dalla fuga che l'esercito longobardo prese al solo comparir
del re Carlo alle Chiuse delle Alpi, senza aspettar di venir alle mani.
Finirono dunque i re di nazion longobarda, ma non fini il regno dei
Longobardi, di cui assunse il titolo di re il vincitor Carlo Magno.
Cambio che tornò anche in sommo vantaggio dell'Italia; perchè,
quantunque i sudditi dei re longobardi godessero interna quiete e
felicità, e fossero governati con buone leggi ed esatta giustizia, pure
provarono dipoi anche miglior trattamento sotto di Carlo Magno, monarca
che in altezza di mente, possanza e dirittura di giudizio superò tutti i
re franchi e longobardi. E tanto più perchè, siccome vedremo, da lì a
pochi anni esso diede all'Italia il suo re particolare, cioè _Pippino_
suo figliolo, venendo con ciò a continuare in Italia la corte regale,
con soddisfazione di tutti i sudditi. Ma si dee notare per tempo che
cadde bensì il re Desiderio, e il regno di Italia pervenne a Carlo
Magno; ma non venne già per allora, siccome dissi, in suo potere il
ducato di Benevento, che abbracciava la maggior parte di quello che ora
è regno di Napoli. _Arichi_ ossia _Arigiso_ era in questi tempi duca di
Benevento, ed avea per moglie _Adelberga_ figliuola del re Desiderio.
Udito che ebbe egli abissata la fortuna del suocero, pretese tosto di
succedere nelle ragioni di lui, con alzare perciò bandiera di sovranità;
e laddove fin qui avea portato il titolo di _duca_, da lì innanzi
cominciò ad intitolarsi _principe_, nome allora più cospicuo dell'altro
di duca, e significante chi non riconosce superiore sopra di sè. Si fece
inoltre incoronare dai vescovi, cominciò ad usare nei suoi diplomi la
formola _In sacratissimo nostro palatio_, e tutto poscia si applicò alla
difesa dei proprii stati. Carlo, che aveva allora sulle spalle la guerra
coi Sassoni, i quali, profittando della di lui lontananza, aveano fatte
non poche scorrerie ne' di lui stati, non potendo applicare alla guerra
dei Longobardi beneventani, tornossene in Francia, lasciando che Arigiso
continuasse in quelle parti la dispotica sua signoria. Notizie tali sono
state conservate da Erchemperto[481], dall'Anonimo salernitano, e da
Leone Marsicano vescovo ostiense.

NOTE:

[469] Anastas. Bibliothec., in Hadriano I Papae.

[470] Epidannus, Histor. apud Goldast., tom. 1. Rer. Alamann.

[471] Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.

[472] Chronic. Novalic., P. II, tom. 2 Rer. Italic.

[473] Chronic. Vulturnens. lib. 3, P. II, tom. II, Rer. Ital.

[474] Anastas. Bibliothec., in Hadriani I Papae Vita.

[475] Maffei, Verona illustrata, lib. 11.

[476] Paulus Diaconus, de Episc. Melitens.

[477] Antiquit. Ital., Dissert. I.

[478] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.

[479] Ughell., Ital. Sacr. tom. V, in Episc. Tarvis.

[480] Anonym. Salernitan. P. II. tom. 2 Rer. Ital.

[481] Erchempertus, P. I, tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCLXXV. Indiz. XIII.

    ADRIANO I papa 4.
    LEONE IV imperad. 25 e 1.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 2.


Si partì in quest'anno da Costantinopoli con una poderosa flotta di navi
_Costantino Copronimo Augusto_, risoluto di portar la guerra contro de'
Bulgari, co' quali era da qualche tempo in rotta, ed era anche succeduto
più d'un cimento. Ma arrivato che fu al castello di Strongilo, stando in
nave, diede fine alla sua vita nel dì 14 settembre, con lasciar dopo di
sè un'abbominevol memoria presso i cattolici per la fiera persecuzione
da lui fatta alle sacre immagini e a chiunque le venerava e difendeva.
Rimase suo successor nell'imperio _Leone IV_ suo figliuolo, già
dichiarato Augusto e collega suo fin dall'anno 751, e marito
dell'augusta _Irene_. In quest'anno ancora, soggiugne Teofane, _Teodoto_
re dei Longobardi con venire a Costantinopoli ricorse all'aiuto
dell'imperadore. Lo autore della Miscella[482] ossia chi diede quella
storia alla luce, credendo un errore quel _Teodoto_, sostituì il nome di
_Adelgisa_ nella versione del passo di Teofane. Ma è da osservare il
costume dei Greci superbi, che nella corte loro cambiavano in un greco
nome il nome dei principi stranieri. Così vedremo nel secolo decimo
_Berta_ figliuola d'Ugo re di Italia, maritata a Romano juniore,
figliuolo di Costantino Porfirogenota, assumere, giunta che fu in
Costantinopoli, il nome d'_Eudocia_. L'andata di Arigiso colà, e la
protezion dell'imperadore, siccome vedremo, mise de' sospetti e non poca
paura nel pontefice _Adriano_; e corse anche voce ch'egli, tenendo
intelligenza coi duchi d'Italia, minacciasse di ricuperare il suo regno.
Ma questi erano tutti spauracchi senza fondamento, perchè Leone Augusto
pensava a tutt'altro che a portar le sue armi in Italia. Adelgiso
null'altro ottenne in quella corte, che il titolo e la dignità di
patrizio, e quivi, siccome scrisse Eginardo, ossia l'autore degli Annali
lauresamensi, invecchiò, e diede fine in istato privato ai suoi giorni.
Si crederà ciascuno, che dappoichè Carlo Magno ebbe conquistato in buona
parte il regno longobardico, non tardasse punto a restituire alla Chiesa
romana tutto quanto le era stato occupato dai Longobardi, colla giunta
ancora del di più ch'egli avea promesso a papa Adriano I. Infatti
Sigeberto[483], il Dandolo[484] ed altri lasciarono scritto ch'egli
restituì tutto, immaginando quello che dovea essere, ma non già quello
che fu. Volentieri corse negli anni avanti il re Pippino a gastigare
Guaifario potente duca dell'Aquitania, usurpatore dei beni delle chiese,
perchè se gli offeriva questo plausibil motivo di conquistar quella
provincia. Non fu minor lo zelo di Carlo Magno suo figliuolo in prendere
per lo stesso titolo le armi contra del re Desiderio, perchè v'andava
unita la conquista d'un regno. Ma per disgrazia non contento di aver
acquistato sì bel paese, trovava anche dolce il ritenere ciò che si avea
da restituire a s. Pietro. Non sono a noi pervenute le lettere passate
fra papa Adriano e lui, nè i lor maneggi e patti, allorchè trattarono di
distronar Desidero. Ne restano bensì dall'altre, dopo questo fatto
scritte da esso pontefice al medesimo re Carlo, e conservate nel Codice
Carolino, ma senza che rimanga vestigio del tempo, in cui furono date.
Da esse andremo vedendo con quale puntualità Carlo Magno mantenesse la
sua parola. Intanto è da dire, aver giudicato i padri Cointe e Pagi, che
la lettera quinquagesima quinta appartenesse al precedente anno. Io la
stimo piuttosto dell'anno presente, oppure del susseguente. Quivi dice
papa Adriano che Gaufrido, cittadin pisano, _retulit nobis de immensis
victoriis, quas vobis omnipotens et redemptor noster Dominus Deus, per
intercessionem beati Petri principis Apostolorum concedere dignatus
est_. Se crediamo al padre Pagi, non era per anche presa Pavia allorchè
fu scritta questa lettera. Ma quali _immense vittorie_ aveva mai
riportate Carlo Magno, dacchè calò in Italia e mise l'assedio a Pavia?
Niuna. Ben più probabile sembra che tali _vittorie_ riguardino la
Sassonia, dove nell'anno precedente Carlo ripigliò la guerra, e nel
presente o in alcuno de' susseguenti riportò molte vittorie. Soggiugne
il papa, che nel venire il suddetto Gaufrido a Roma, _Allone_ duca
l'avea voluto uccidere, ed avea posto spie per coglierlo, se tornava
indietro. Questo Allone era duca certamente di Lucca; e, per attestato
del Fiorentini e di Cosimo della Rena, si cominciano a trovar memorie di
lui nelle carte dell'archivio archiepiscopale di Lucca sotto l'anno 782
e ne' susseguenti il che può far dubitare che anche molto più tardi
fosse scritta la lettera suddetta quinquagesima quinta da papa Adriano.
Il qual poscia prega il re Carlo di voler rimettere in libertà i vescovi
di Pisa, di Lucca e di Reggio, condotti da lui verisimilmente in
Francia, perchè sospettava della lor fedeltà. Il dirsi dal papa che
s'erano fatte orazioni per esso re in Roma, _ab illo tempore, et die,
quo ab hac romana urbe in alias partes profecti estis_, sembra piuttosto
indicar l'anno 782, in cui Carlo andò in Sassonia, dopo essere stato nel
precedente a Roma.

A quest'anno poscia pretendono i suddetti due scrittori che s'abbia a
riferire la epistola sessagesima terza del Codice Carolino. Quivi il
pontefice attesta la sua allegrezza per aver inteso dalle lettere di
Carlo Magno, _quod Domino protegente remeantes vos Saxonia, mox et de
praesenti, ad implenda, quae et polliciti estis, properare desideratis_.
Ma non in questo solo anno fu in Sassonia il re Carlo: vel richiamò la
guerra anche in altri susseguenti; e però non è certo neppur il tempo
d'essa lettera. Di qui nondimeno a buon conto apprendiamo che non aveva
egli per anche eseguite le promesse da lui fatte al romano pontefice.
Furono portate queste lettere al papa da _Possessore_ vescovo e da
_Babigaudo_ abbate; e però si trova coerente a queste la lettera
quinquagesima ottava, in cui Adriano scrive al re Carlo, che presentita
la venuta di questi due inviati, avea mandato loro incontro per
riceverli un decente equipaggio. Ma ch'essi giunti che furono a Perugia,
in vece di continuare il viaggio, erano iti ad abboccarsi con
_Ildebrando_ duca di Spoleti, con far anche presso di lui una lunga
posata. Avea loro scritto il papa, pregandoli di passar prima a Roma per
trattar con loro de' correnti affari, dopo di che sarebbono andati a
Benevento. E pure essi, nulla curando un tale invito, da Spoleti s'erano
portati a Benevento: cose tutte che empievano di mille sospetti e di non
poco affanno l'animo d'esso pontefice. Il quale perciò gli ricorda che
la mossa dell'esercito, e tante spese per la guerra d'Italia non per
altro erano state fatte da Carlo _nisi pro justitiis beati Petri
exigendis, et exaltatione sanctae Dei Ecclesiae_, con aggiugnere una
particolarità di gran considerazione; cioè che esso re avea, quando fu
in Roma, fatta l'offerta del _ducato di Spoleti_ a s. Pietro per
sollievo dell'anima sua. _Quia et ipsum ducatum vos praesentialiter
obtulistis proctetori vestro beato Petro per nostram mediocritatem_ (e
non già a' tempi di Pippino) _pro animae vestrae mercede_.
Conseguentemente il prega di liberarlo da quell'afflizione, e di
effettuar la promessa. Ma il re Carlo non apparisce punto che eseguisse
mai la sua promessa per conto del ducato di Spoleti, il quale da lì
innanzi non si truova signoreggiato dai papi, ma bensì incorporato nel
regno d'Italia, e que' duchi sottoposti ai re di Italia. Nella Cronica
del monistero di Farfa[485] si veggono atti del medesimo Carlo Magno,
ne' quali è mentovato _Hildeprandus dux noster_, e in tutto si scuopre
re padrone sovrano di quel ducato, e _Ildeprando_ vassallo di lui, e non
già del romano pontefice, senza avere esso papa veduta mai attenuta la
donazione, o promessa suddetta. E qui convien osservare per conto del
ducato di Spoleti una notizia involta in molte tenebre. Rapportò il
padre Mabillone[486] una donazione fatta nell'anno 787 al monistero
farfense da _Ildeperto_ duca di Spoleti. Tanto esso padre Mabillone
quanto io nelle annotazioni al medesimo documento, da me pubblicato
nella Cronica suddetta, abbiamo creduto che fosse scritto in quella
carta _Ildeperto_ ossia _Ildeberto_, in vece di _Ildeprando_ ossia
_Ildebrando_, il quale anche, per testimonianza del catalogo antico de'
duchi di Spoleti, posto avanti alla cronica suddetta, tenne il ducato di
Spoleti dall'anno 774 sino ai 789. Ma ho io poscia avvertito avere
l'Ughelli accennato un altro documento spettante all'anno 775, in cui si
legge espresso: _Dum nos Hildepertus gloriosus dux ducatus spoletini
residessemus Spoleti in palatio_, etc. Oltre a ciò, ho io
rapportato[487] varie notizie dell'archivio farfense, chiaramente
indicanti che questo medesimo _Ildeberto_ duca fece altri atti in quel
ducato nell'anno 778; e pur ne' medesimi tempi vi comandava il duca
_Ildebrando_. Difficile a credere è che sia stato cambiato in tutti que'
documenti il nome d'_Ildebrando_ in quello _d'Ildeberto_; e più
verisimil sarebbe l'immaginare che l'uno di que' duchi comandasse a
Spoleti e l'altro a Camerino; ovvero che due duchi nello stesso tempo
avesse allora Spoleti, siccome gli ebbe in altri tempi, se pure
Ildebrando per sospetti di sua fede in alcun tempo non fu deposto, con
risorgere poi come prima nel grado suo. In fatti dalla lettera
quinquagesima nona del Codice Carolino, scritta nel tempo stesso delle
due precedenti, papa Adriano screditò forte esso duca _Ildebrando_
appresso il re Carlo, con fargli sapere essere ritornati da Benevento
Possessore vescovo e Rabigaudo abbate, i quali avevano pregato
istantemente esso papa di ricevere in sua grazia il suddetto Ildebrando
che era pronto a presentarsi davanti a lui in Roma. Aggiugne ancora di
aver penetrato che il medesimo duca di Spoleti, _Arigiso_ duca di
Benevento, _Rodgauso_ duca del Friuli, e _Regnibaldo_ ossia _Reginaldo_
duca di Chiusi aveano tramata una congiura con _Adelgiso_ figliuolo di
Desiderio, e destinato ch'egli venisse nel prossimo marzo con una flotta
di Greci, affin d'assalire _questa nostra città di Roma_, e di rimettere
in piedi il regno de' Longobardi. Il perchè scongiura esso re Carlo di
porgergli senza dimora soccorso, e di venire in persona a Roma per
reprimere i nimici di s. Pietro e della Chiesa romana, e del popolo
nostro della _repubblica_ de' Romani, _et ut ea, quae eidem Dei Apostolo
vestris propriis, pro animae vestrae mercede, obtulistis manibus, ad
effectum perducatis_: dal che si conosce che Carlo Magno non avea per
anche dato effetto alle promesse sue.

NOTE:

[482] Historia Miscella, tom. 1 Rer. Ital.

[483] Sigebertus, in Chron.

[484] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[485] Chron. Farfense, P. II. T. 11 Rer. Ital.

[486] Mabill., in Annal. Benedictin.

[487] Antiquit. Ital. Dissert. LXVII.



    Anno di CRISTO DCCLXXVI. Indiz. XIV.

    ADRIANO I papa 5.
    LEONE IV imperadore 26 e 2.
    COSTANTINO Augusto 4.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 3.


L'imperadore de' Greci _Leone_, fattosi in quest'anno pregare dai suoi
baroni, perchè dichiarasse Augusto e collega nell'imperio il picciolo
_Costantino_ figliuolo suo e dell'imperadrice Irene, volentieri
s'accomodò alle istanze loro[488]; e però Costantino cominciò a contar
nel presente anno quelli del suo imperio. Ancorchè si trovasse il re
_Carlo_ impegnato non poco nella guerra contra de' Sassoni, popoli che
per forza s'andavano oggi sottomettendo, e domani tornavano a
ribellarsi; tuttavia premendogli forte gli affari d'Italia, s'era già
incamminato sul fine del precedente anno alla volta d'Italia, con
solennizzare la festa del santo Natale in Scelestat nell'Alsazia.
_Rodgauso_ duca del Friuli, di nazion Longobardo, veniva accusato per
manipolatore di una gran ribellione contra di lui, e già abbiamo veduto
quanto ne scrisse ad esso re il pontefice Adriano. All'apparir della
primavera piombò il re Carlo con poderose forze sopra il Friuli, e, per
attestato degli Annali de' Franchi[489], venuto alle sue mani esso
Rodgauso, il privò di vita. Assediò Stabilino suocero di lui in Trivigi,
e forzò quella città alla resa. Ugone Flaviniacense[490] scrive che
Pietro _italiano_ quegli fu che gli consegnò essa città di Trivigi, _et
ob hoc de Virdunensi episcopatu honoratus est_. In quella città celebrò
il re Carlo la santa Pasqua, e dopo aver prese l'altre città che s'erano
ribellate, in tutte mise degli uffiziali franzesi. Ivi lasciò _Marcario_
con titolo di _duca_. Poscia obbligato dalla guerra de' Sassoni, se ne
tornò vittorioso a ripigliar l'armi contra di quei popoli. Sembra
eziandio che possa ricavarsi da tali notizie, che al duca del Friuli
fossero allora sottoposte varie città, che fosse formata la _Marca
Trivisana_, o _del Friuli_. Può parimente essere che a questi tempi
appartenga ciò che racconta il monaco di s. Gallo[491] nella vita di
Carlo Magno con dire, che trovandosi egli nelle parti del Friuli, perchè
era freddo, portava una pelliccia fatta di pelli conce di castrato;
imperciocchè per più secoli anche in Italia fu in gran vigore l'uso
delle pellicce, siccome ho dimostrato altrove[492]. Erano capitati a
Pavia nel mese avanti mercanti veneziani, gente che più d'ogni altra
attendeva allora al commercio, ed aveano portato di Levante una gran
copia di galanterie, e spezialmente delle stoffe e delle pelli fine.
Corsero tosto i cortigiani di Carlo a provvedersene con quell'ansietà
con cui i mal accorti Italiani corrono oggidì a comperare i _bijoux_ e
le stoffe altramontane e forestiere, e fecero poi bella comparsa con
quegli abiti. Venuto un dì di festa, dopo la messa il re volle andare
con essi cortigiani alla caccia, ed era tempo freddo e piovoso. Que'
sontuosi abitini tutti bagnati dalla pioggia e maltrattati dal bosco, si
trovarono la sera lacerati e ridotti in pessimo stato, spezialmente dal
fuoco, a cui corsero que' nobili cacciatori per iscaldarsi. Volle Carlo
la mattina seguente che comparissero con quelle medesime vesti così
guaste, ed allora dimandò a que' vanerelli, qual abito fosse più utile e
prezioso: il suo che gli costava un soldo, ed era restato bianco ed
illeso, oppure que' loro pagati sì caro e che a nulla più servivano.

Furono di parere i padri Cointe e Pagi che in quest'anno il medesimo
pontefice scrivesse al re Carlo la lettera quadragesima nona del Codice
Carolino, con esprimere l'afflizion sua, perchè dopo le speranze a lui
portate da _Filippo_ vescovo e da _Megisto_ arcidiacono, ch'esso re
Carlo sarebbe colla regina _Ildegarde_ venuto a Roma avanti la Pasqua,
per dare il contento al papa di tenere al sacro fonte _filium, qui nunc
vobis procreatus est_; s'avvicinava già il dì di Pasqua senza sentore
alcuno del loro viaggio. Crede il padre Pagi che questo figliuolo di
Carlo Magno sia _Carlomanno_, appellato poscia _Pippino_, che fu re
d'Italia, e ch'egli nascesse in quest'anno. Ma non par molto probabile,
che se qui si parla di Pippino, egli nascesse nell'anno presente,
riflettendo alla data di questa lettera scritta prima del dì 25 di
marzo, in cui cadde la Pasqua, e al tempo necessario al viaggio de'
suddetti inviati, e all'improbabilità di condurre in mesi di verno a
Roma un principino poco fa nato. Comunque sia, non sappiam bene se al
presente anno appartenga la predetta epistola quarantesima nona. Certo è
bensì che nella medesima papa Adriano fa nuove istanze per l'adempimento
delle promesse: dal che finora egli s'era astenuto. Aggiugne le seguenti
parole: _Et sicut temporibus beati Sylvestri romani pontificis, a
sanctae recordationis piissimo Constantino magno imperatore, per ejus
largitatem sancta Dei catholica et apostolica romana Ecclesia, elevata
atque exaltata est, et potestatem in his Hesperiae partibus largiri
dignatus est: ita et in his vestris felicissimis temporibus atque
nostris sancta Dei ecclesia, idest beati Petri apostoli, germinet atque
exultet, et amplius atque amplius exaltata permaneat._ Passa poi a dire
che Carlo sarà chiamato un nuovo Costantino, se ingrandirà la Chiesa
romana: parole tutte che sembrano indicar già nata quella famosa
donazione di Costantino, che oggidì da tutti i saggi vien riconosciuta
per finta: non già che Costantino non donasse molto alla Chiesa romana,
ma che le donasse stati e dominii temporali. E di stati appunto pare che
qui si parli, con soggiugnere poi altre istanze per la restituzione de'
patrimoni e allodiali, spettanti per giustissimi titoli alla Chiesa
romana in varie parti d'Italia. _Sed et cuncta alia_ (seguita egli a
dire) _quae per diversos imperatores, patricios etiam et alios Deum
timentes, pro eorum animae mercede, et venia delictorum, in partibus
Tusciae, Spoleto, seu Benevento, atque Corsica, simul et Savinensi
patrimonio, beato Petro apostolo, sanctaeque Dei et apostolicae romanae
Ecclesiae concessa sunt: et per nefandam gentem Langobardorum abstracta
et ablata sunt, vestris temporibus restituantur._ E, per giustificar
meglio i diritti della sua Chiesa, dice di avergli anche spedito molte
donazioni cavate dall'archivio lateranense. Certo è da maravigliarsi
come Carlo Magno, dopo avere intrapresa la spedizione d'Italia
specialmente per reintegrare la Chiesa romana ne' beni ad essa occupati
dai Longobardi, divenuto che fu padron d'essa Italia, si mettesse sì
poco pensiero di restituirle e farle restituire essi beni. E di qui
parimente apparisce che papa Adriano niuna autorità doveva allora
esercitare in Benevento e Spoleti, nella Corsica e nella Sabina, la qual
ultima provincia almeno in parte era in questi tempi sottoposta ai duchi
di Spoleti. Truovasi in quest'anno un _Giovanni_ duca, che s'intitola
figlio del fu duca _Orso_[493], il quale fa una magnifica donazion di
beni al monistero di Nonantola, situato _Pago Persiceta, territorio
Motinense_, dove era abbate _Anselmo_, di cui s'è altre volte parlato.
Di qual città egli fosse duca non apparisce. Dice egli che il casale,
ossia villa della Verdeta, era stata donata ad Orso duca suo padre dal
_serenissimo Astolfo re_. Questa villa è del distretto di Modena.

NOTE:

[488] Theoph., in Chronogr.

[489] Annales Bertiniani.

[490] Hugo Flaviniacensis, in Chron.

[491] Monac. Sangall., lib. 2 de reb. gest. Caroli M. apud. Duchesne,
tom. 2.

[492] Antiquit. Ital., Dissert. XXV.

[493] Antiquitat. Italic., Dissert. XXI, pag. 197.



    Anno di CRISTO DCCLXXVII. Indiz. XV.

    ADRIANO I papa 6.
    LEONE IV imperadore 27 e 3.
    COSTANTINO Augusto 2.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 4.


Benchè le lettere del Codice Carolino, perchè prive d'ordine
cronologico, non ci lascino accertar gli anni in cui furono scritte;
pure sarà a me lecito il rapportare al presente tutto quanto ivi si
legge intorno a _Leone_ arcivescovo di Ravenna. Nell'epistola
cinquantesimaterza d'esso Codice papa _Adriano_ scrive a _Carlo Magno_
d'avere inteso dalle di lui lettere, come il suddetto arcivescovo si era
portato in persona a visitare il re, e ne mostra piacere; ma con
soggiugnere, che se Leone gli avesse prima notificato il pensiero
d'andarvi, con esso lui avrebbe spedito un suo messo: tacitamente
significando che non molto gli piaceano i lor colloquii senza
l'assistenza di qualche suo ministro. Si fece a credere il padre
Pagi[494] che l'andata di questo arcivescovo seguisse nell'anno
antecedente, allorchè il re Carlo si trovava in Trivigi. Trovansi poi
replicate nella stessa lettera le istanze tante volte fatte, _ut
velociter ea, quae beato Petro pro magna animi mercede, etc. per tuam
donationem offerenda spopondisti, adimplere jubeas,_ con aggiugnere che
siccome san Pietro portinaio del cielo l'ha aiutato a conquistare il
regno de' Longobardi, così renderà anche coll'intercessione sua presso
Dio sottomesse a Carlo tutte l'altre barbare nazioni. Seguita la lettera
quinquagesima prima, in cui Adriano ricorda al re Carlo la promessa
fatta di spedire a Roma i suoi messi; ma essere già passato novembre,
senza che alcuno si sia veduto. Perciò gli spedisce _Andrea_ vescovo e
_Pardo_ egumeno, ossia abbate, ben informati degli affari, insistendo
ancor qui per l'esecuzione di quanto il re Pippino promise a san Pietro,
e il medesimo re Carlo avea confermato. Evvi poi una giunta, con cui gli
notifica, qualmente Leone arcivescovo _postquam a vobis reversus est, in
nimiam superbiam elevatus, nullo modo nostris praeceptionibus, sicut
antea, obedire voluit, sed brachio forti usque hactenus in sua potestate
detinere videtur Imolam atque Bononiam, dicens: quod easdem civitates
nullo modo beato Petro, neque nobis concessistis, nisi tantummodo eidem
Leoni archiepiscopo_. Aggiugne d'avere spedito a Ravenna Giorgio
saccellario, affinchè facesse andare a Roma i giudici delle città
dell'esarcato, e si facesse dare il giuramento dei popoli; ma che
l'arcivescovo l'aveva impedito. E perciocchè il papa avea posto per
conte, cioè per governatore, nella picciola città di Gavelio Domenico,
raccomandatogli dal medesimo re, da Leone erano stati colà inviati dei
soldati, che il condussero prigione a Ravenna. Aveva questi inoltre
vietato l'andare a prendere dal papa impiego a tutti gli abitanti delle
città dell'Emilia, cioè di _Faenza_, del _ducato di Ferrara_, di
_Comacchio_, di _Forlì_ e _Forlimpopoli_, _Cesena_ e _Bobbio_. Di
Modena, Reggio, Parma, e Piacenza non si parla, perchè queste non furono
mai comprese nelle donazioni dei re franchi. Finalmente dice che per
conto delle città dell'una e dell'altra Pentapoli, cominciando da
_Rimini_ sino a _Gubbio_, tutti quei popoli erano ubbidienti al dominio
del sommo pontefice, pregando perciò il re Carlo di metter freno alla
superbia di Leone arcivescovo, e di non permettere che i beni da lui e
dal padre conceduti a san Pietro sieno usurpati dalla gente maligna.

Similmente nella lettera cinquantesima seconda fa il papa intendere a
Carlo Magno che nel dì 27 di ottobre essendogli giunta una lettera di
_Giovanni_ patriarca di Grado, immediatamente l'avea spedita ad esso
Carlo; ma con dispiacere, per avere scoperto che _Leone_ arcivescovo di
Ravenna avea prima dissigillata e letta quella lettera; nè per altro
fine che per farne sapere il tenore ad _Arigiso_ duca di Benevento, e
agli altri nemici del re e del papa. Ma confidar egli che Carlo
effettuerà tutte le promesse fatte a san Pietro. A parte poi ripete ciò
che è detto di sopra della tirannica superbia del suddetto Leone, che
non lasciava andar persona di Ravenna e dell'Emilia a Roma, e andava
vantando che Carlo non avea conceduto a san Pietro _Imola_ e _Bologna_,
ma sì bene a lui, che se ne era messo in possesso. Leggonsi le medesime
doglianze nella lettera cinquantesima quarta, e particolarmente vi si
dice che Leone arcivescovo, _postquam vestra exellentia a civitate Papia
in partes Franciae remeavit, ex tunc tyrannico ac procacissimo intuitu
rebellis beato Petro et nobis extitit, et in sua potestate diversas
civitates Æmiliae detinere videtur, scilicet Faventiam, Forum populi_,
ec. Ed aver egli tentato anche lo stesso nella _Pentapoli_; ma con
trovar que' popoli saldi all'ubbidienza della santa Sede. Perciò se ne
lamenta Adriano, mentre que' paesi che ai tempi de' Longobardi la Chiesa
romana signoreggiava, ora sotto Carlo re le sieno tolti. E circa il
dirsi da Leone arcivescovo che era stato a lui dato l'esarcato di
Ravenna con quel potere che ebbe _Sergio_ suo antecessore, risponde
essere stato consegnato l'esarcato a _Stefano_ suo predecessore e a lui
stesso, e volerne, per conseguente, il dominio, ed essere ben noto che
Sergio arcivescovo, allorchè cominciò a cozzare con papa Stefano III, fu
levato di Ravenna; siccome ancora che ne' tempi addietro si mandavano
colà da Roma i giudici a far giustizia con altri atti di possesso e di
signoria in quelle parti. Perlochè si raccomanda e prega il re Carlo di
non permettere questo danno ed obbrobrio alla Chiesa di san Pietro, sì
se vuole in questo mondo lunga vita ed immense vittorie, e nell'altro la
celeste beatitudine. Le parole latine riferite di sopra ci fan conoscere
che Leone arcivescovo cominciò nell'anno 774 a far da padrone
nell'esarcato; ed avendo seguitato non poco a tener salda la preda, par
difficile a credere che così egli operasse senza precedente scienza di
Carlo Magno, e tanto meno contra la di lui volontà, con restar poi allo
scuro come un re sì amico e divoto della santa Sede comportasse atti
tali dall'arcivescovo di Ravenna in vilipendio del sommo pontefice. Come
poi finisse questa controversia, non apparisce chiaro nè dalle lettere
di papa Adriano, nè dalla storia di que' tempi. Sarebbonsi probabilmente
avute intorno a ciò molte notizie dal pontificale di Ravenna, scritto
cinquant'anni dappoi da Agnello, se quell'opera non fosse stata (ha
molto tempo) castrata, con pervenire a noi troppo lacera e smunta. Dagli
atti nondimeno che si andran rammentando, e dal non udirsi più sopra
queste doglianze del papa, abbastanza comprenderemo che Leone dovette
essere messo in dovere, e che risorse nell'esarcato il dominio temporale
de' romani pontefici. Si son poi fatti a credere il Cointe e il Pagi che
fosse scritta nel presente anno da papa Adriano la lettera quinquagesima
del Codice Carolino. Abbiamo da essa che il re Carlo faceva sperare al
papa la sua venuta in Italia pel prossimo ottobre affine di effettuare
le promesse fatte a san Pietro, le quali restavano tuttavia sospese. E
perciocchè Carlo era mal soddisfatto di Anastasio messo del papa, per
avere sparlato contra di lui, e perciò gli negava il congedo; duolsi di
ciò il papa, allegando che per la notizia di questo fatto i Longobardi e
Ravennati spargevano voci che non passava più buona armonia fra il papa
e il re Carlo. In questi tempi, per attestato del Dandolo[495], perchè
_Maurizio_ duca ossia doge di Venezia aveva accresciuto il suo merito
col buon governo de' popoli, i Veneziani in ricompensa dichiararono suo
collega nel ducato e successore Giovanni suo figliuolo, venendo con ciò
per la prima volta ad avere Venezia due dogi nello stesso tempo; esempio
che, andando innanzi, produsse de' perniciosi effetti.

NOTE:

[494] Pagius, ad Annal. Baron.

[495] Dandulus, in Chronic., tom. 12 Rer. Italicar.



    Anno di CRISTO DCCLXXVIII. Indizione I.

    ADRIANO I papa 7.
    LEONE IV imperadore 28 e 4.
    COSTANTINO Augusto 3.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 3.


Dopo avere l'infaticabil re Carlo costretti colla forza i Sassoni negli
anni precedenti all'ubbidienza, e indotti non pochi d'essi ad
abbracciare la religione di Gesù Cristo, volle in quest'anno far pruova
delle forze sue contra de' Saraceni dominanti nella Spagna. Pertanto con
due eserciti per due diversi siti valicò i monti Pirenei, prese
Pamplona, Huesca e Jacca; forzò Saragozza a dar degli ostaggi, e fissò
maggiormente la sua autorità in Barcellona, Gironda e in altri luoghi
della Catalogna. Ma in ritornando verso la Francia le truppe sue, fra le
quali si contavano ancora alcuni reggimenti di Longobardi, allorchè
furono nelle cime de' Pirenei e ne' paesi stretti di una valle, ebbero
una fiera spelazzata dai perfidi Guasconi che quivi stavano imboscati in
agguato, con restarvi disfatta la retroguardia, e andare a sacco tutto
il loro equipaggio. Eginardo[496] racconta fedelmente il fatto,
asserendo che fra gli altri uffiziali della regale armata quivi perirono
Eginardo soprintendente alla mensa del re, Anselmo conte del palazzo, e
Rolando governatore della Marca di Bretagna. E questa è la battaglia di
Roncisvalle, divenuta poi celebre ne' romanzi di Spagna, Francia ed
Italia, dove finsero i poeti restassero uccisi i paladini di Francia, e
particolarmente l'invincibile Orlando (lo stesso che Rolando), di cui
nondimeno altra memoria non ci ha conservato la vera storia, se non le
poche suddette parole di Eginardo. Il motivo che indusse Carlo Magno a
non continuar le conquiste nella Spagna, in tempo appunto che i Saraceni
non aveano forze da opporgli, fu la ribellione de' Sassoni. Vedendo
costoro impegnato il re col maggior nerbo delle sue truppe nell'impresa
della Spagna, commossi spezialmente da _Witichindo_, valoroso principe
di quella nazione, ripigliate l'armi, passarono il Reno, giunsero fin
presso Colonia, ed empierono di stragi e d'incendii quelle contrade.
L'avviso d'essere tornato in Francia sano e salvo il re Carlo, e qualche
reggimento spedito contra di loro, bastarono a farli retrocedere; anzi
sorpresi dai Francesi al fiume Adarna, non pochi d'essi rimasero messi a
fil di spada sul campo. Partorì in quest'anno la regina Ildegarde al re
Carlo due figliuoli cioè _Lottario_, che da lì a due anni mancò di vita,
e _Lodovico_, che fu poi re d'Aquitania, e col tempo suo successore ed
imperadore. Giacchè resta incerto il tempo di non poche lettere di papa
Adriano I a noi conservate nel Codice Carolino, sia a me lecito di
rapportar qui un affare trattato in esse. Nell'epistola sessantesima
nona fa esso papa istanza perchè sia restituita a san Pietro una tenuta
di beni posti nella provincia della Sabina, e destinati per la luminaria
della basilica vaticana e per le limosine a' poveri, che lo stesso re
Carlo avea confermato alla Chiesa romana. A questo fine gli spedisce
_Agatone_ diacono e _Teodoro_ eminentissimo console e _duca_, suo
nipote. Poscia nella lettera quinquagesima sesta gli dà avviso come i
suoi messi in compagnia di quei del re, inviati _ad suscipiendum in
integro patrimonium nostrum ravennense_ (s'ha da scrivere _savinense_),
aveano trovato testimonii comprovanti che circa cento anni addietro la
Chiesa romana avea posseduto quel patrimonio; e che, ciò non ostante,
esso interamente non era stato restituito. Similmente nell'epistola
sessantesima ottava gli notifica la buona disposizione dei messi regali
per consegnare intero quel patrimonio a san Pietro; ma che alcuni
perversi ed iniqui uomini di quel paese l'aveano impedito, con
aggiugnere che il re _Desiderio_ avea ben fatta la restituzion di molti
poderi, ma non di tutti. Da ciò comprendiamo che la Sabina non era in
questi tempi sotto la signoria del romano pontefice, perchè compresa nel
ducato di Spoleti. E se fosse stata dipendente dal ducato romano, tanto
più comparirebbe che il papa allora non era signore nel temporale di
Roma e del suo ducato. Non si intende poi perchè niuna menzione sia
quivi fatta del duca _Ildebrando_, dominante in quel ducato: se pure in
questi tempi ne era egli duca, mentre dalle memorie del monistero di
Farfa, da me pubblicate[497], si truova in quest'anno _Ildeberto_ duca
di Spoleti. Veggasi nondimeno ciò che abbiam detto all'anno 775.

NOTE:

[496] Eginhardus, in Vita Caroli Magni.

[497] Antiquit. Italic., Dissert. LXVII.



    Anno di CRISTO DCCLXXIX. Indiz. II.

    ADRIANO I papa 8.
    LEONE IV imperadore 29 e 5.
    COSTANTINO Augusto 4.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 6.


Dagli Annali d'Eginardo[498] abbiamo che nella primavera dell'anno
presente venne _Carlo Magno_ a Compiegne, e partitosene, allorchè era
nella villa di Virciniaco, se gli presentò _Ildebrando_ duca di Spoleti
con dei gran regali. L'accolse Carlo con tutta benignità, e dopo averlo
anch'egli regalato, il rimandò contento al suo ducato. Tal notizia ci
può far di nuovo dubitare che questo duca fosse prima decaduto dal
governo di Spoleti, e che in luogo suo quivi risiedesse _Ildeberto_, da
noi veduto duca di quella contrada nell'anno precedente. Certo è che
nelle Carte farfensi non s'incontra da lì innanzi menzione alcuna di
questo _Ildeberto_, ma solamente del duca _Ildebrando_. Passò dipoi
Carlo Magno colle armi contra de' Sassoni, i quali più che mai
continuavano nella loro ribellione, con riportar sopra d'essi molti
vantaggi. Potrebbesi riferire a questi tempi la lettera cinquantesima
settima del Codice Carolino, dove papa _Adriano_ notifica al re Carlo,
come i Greci residenti nella provincia dell'Istria, perchè _Maurizio_
vescovo in quelle parti esigeva le pensioni spettanti alla Chiesa di
Roma, aveano inventata contra di lui una calunnia, cioè ch'egli
meditasse tradimento per mettere in mano del medesimo Carlo quella
provincia; e però gli aveano cavati gli occhi. Era ito a Roma il povero
vescovo; e papa Adriano l'avea rimandato e raccomandato a _Marcario_
duca del Friuli. Ora dunque prega il re di ordinare ad esso duca
d'impiegare efficaci uffizii, affinchè questo prelato possa restituirsi
alla sua chiesa. Da tutto ciò apparisce che l'Istria doveva essere,
almeno in parte, ritornata in potere de' Greci. Circa questi tempi
fioriva _Teodoro_, che si truova console e duca di Napoli.

NOTE:

[498] Eginhardus, Annal. Franc.



    Anno di CRISTO DCCLXXX. Indizione III.

    ADRIANO I papa 9.
    COSTANTINO imperad. 5 e 1.
    IRENE Augusta 1.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 7.


Mise fine in quest'anno al regno e al vivere suo _Leone IV_, imperadore
dei Greci[499], mentre era intento a perseguitare, non men di suo padre,
chiunque onorava e difendeva le sacre immagini. Soprattutto grande
schiamazzo aveva egli fatto contro ad _Irene_ Augusta sua moglie, perchè
le ne trovò due sotto un guanciale, con gastigar lei mediante una specie
di divorzio, e poi severamente chi gliele avea somministrate. Ma il
tolse la divina giustizia quando men sel pensava, essendo mancato di
vita nel settembre dell'anno presente. Ebbe per successore _Costantino_
suo figliuolo. Non ascendeva l'età sua che ad anni dieci; e perciò la
imperadrice _Irene_ sua madre ne assunse la tutela, e cominciò con esso
a contare gli anni del suo imperio. Era donna piissima e di cuor
cattolico, e per conseguente non tardò a rimettere in piedi la libertà
di monacarsi, e cessò ogni persecuzione contro le suddette immagini; ma
non cessarono già le dispute fra gli sprezzatori e i difensori delle
medesime. E perciocchè nel precedente febbraio era morto _Niceta_
patriarca eretico di Costantinopoli, e gli era succeduto _Paolo_,
personaggio di sentimenti cattolici, ornato di molte virtù, cominciò la
Chiesa di Dio a respirar presso i Greci; ma nello stesso tempo gli
Arabi, ossia i Saraceni, maltrattavano forte in Soria i cristiani, e
spianavano le loro chiese. Continuò in quest'anno il re _Carlo Magno_ la
guerra contra de' Sassoni con tal felicità, che non pochi d'essi vennero
a riconoscerlo per loro sovrano, e presero anche in apparenza il sacro
battesimo, per farsi credere tutti attaccati a questo principe[500], con
professare la di lui religione. Mandò egli ad abitar nella Sassonia e a
predicarvi la fede di Cristo alcuni vescovi, preti ed abbati; e veggendo
l'interno de' suoi regni in pace, credendo eziandio oramai terminato
ogni affare per l'avvenire coi Sassoni, si dispose a venir in Italia,
per visitar questo regno, e massimamente per far le sue divozioni a Roma
ed abboccarsi con papa _Adriano_. A questo medesimo anno riferirono i
padri Cointe e Pagi la lettera sessantesima quarta del Codice Carolino,
dove si parla dell'occupazione di Terracina, fatta dai Napoletani in
pregiudizio della Chiesa romana. Ma non la vedremo scritta molto dappoi.
Potrebbe piuttosto essere che al presente non appartenesse la lettera
sessagesima del medesimo pontefice, in cui egli notifica al re Carlo
d'essere stato assicurato da _Stefano_ vescovo (egli era insieme duca)
di Napoli[501], che l'imperador Costantino avea dato fine alla sua vita.
Ma certo è ch'esso Costantino sopravvisse a papa Adriano. Però o quella
fu una voce falsa, oppure il Papa scrisse della morte di _Leone_
Augusto, e i copisti inavvertentemente vi misero _Costantino_. In essa
lettera poi si lamenta acremente Adriano di _Reginaldo_ (lo stesso è che
_Rinaldo_) stato già gastaldo nel castello di Felicità (oggidì vien
creduto Città di Castello ) ed ora duca di Chiusi, perchè era ito con
una brigata di gente armata alla stessa città del castello di Felicità,
e ne avea condotto via molti di quegli abitanti, quantunque quello fosse
luogo donato e confermato dallo stesso re a san Pietro. Perciò vivamente
il pregava di levar di posto costui, e tanto più perchè a tempo ancora
del re Desiderio egli era stato seminator di liti e discordie dovunque
poteva.

NOTE:

[499] Theoph., in Chronogr.

[500] Annal. Franc. Moissiac.

[501] Johann. Diac., in Vit. Episcopor. Neapol. P. II, tom. I Rer.
Italic.



    Anno di CRISTO DCCLXXXI. Indizione IV.

    ADRIANO I papa 10.
    COSTANTINO imperadore 6 e 2.
    IRENE Augusta 2.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 8.
    PIPPINO re d'Italia 1.


Da tutti gli Annali di Francia abbiamo l'andata in quest'anno del re
_Carlo_ a Roma. Solennizzò egli le feste del santo Natale del precedente
anno in Pavia, insieme colla regina _Ildegarde_ sua consorte; e venuta
poi la primavera, si mise in viaggio alla volta di Roma, per trovarsi
nel giorno santo di Pasqua, cioè nel dì 15 di aprile, conducendo seco
due de' suoi piccioli figliuoli, cioè _Carlomanno_ e _Lodovico_. Giunto
colà, ed accolto con tutti gli onori, fece battezzare (per quanto si può
credere nel sabbato santo) _Carlomanno_ da papa Adriano, il quale con
levarlo ancora dal sacro fonte divenne suo padrino. Ma in tal
congiuntura il papa gli mutò il nome di Carlomanno in quello di
_Pippino_, sotto il quale fu poi riconosciuto da tutti. Nel solennissimo
giorno seguente, ad istanza di Carlo Magno, il medesimo papa consecrò in
re i suddetti due principi, cioè _Pippino_ sopra l'Italia e _Ludovico_
sopra la Aquitania. Soddisfatto ch'ebbe il re Carlo alla sua divozione,
e trattando de' correnti affari col sommo pontefice, sen venne a Milano,
dove l'arcivescovo _Tommaso_ diede il battesimo a _Gisla_ figliuola
d'esso re e della regina Ildegarde. Dopo di che Carlo se ne tornò in
Francia, lasciando l'Italia assai quieta. Fra gli altri affari che si
trattarono in Roma fra il papa e Carlo Magno, uno de' principali fu
l'accasamento desiderato da _Irene_ imperadrice di _Costantino_ Augusto
suo figliuolo con _Rotrude_ figliuola d'esso re Carlo. Teofane
scrive[502] che a questo fine nell'anno presente essa imperadrice inviò
Costante sacellario e Mamalo primicerio per suoi legati a Carlo, per
farne la dimanda; e secondo la Cronica moissiacense[503], gli sponsali
fra questi due principi furono realmente contratti mentre il re si
trovava in Roma; ma secondo altre storie, solamente nell'anno 787
seguirono questi sponsali. Restò presso di questa principessa Elisco
eunuco e notaio, per insegnarle la lingua greca, e accostumarla ai riti
della corte imperiale. Ma non ebbe poi effetto questo maritaggio per
imbrogli politici sopravvenuti col tempo tra Irene e suo figliuolo. Un
altro affare di molta conseguenza fu parimenti maneggiato in Roma fra il
pontefice e il re Carlo. Passavano de' grandi dissapori fra esso re e
_Tassilone_, potentissimo allora duca di Baviera, perchè l'ultimo
sdegnava di riconoscere per suo sovrano il re de' Franchi. Carlo andava
pazientando, per risparmiare, se si poteva, l'esorcismo della forza.
Però ricorse prima alle vie pacifiche, cioè al ripiego che il papa
invierebbe a Tassilone i suoi legati per indurlo alla conoscenza del suo
dovere. In fatti con Ricolfo cappellano ed Eberardo coppier maggiore del
re andarono due legati del papa, cioè _Formoso_ e _Damaso_ vescovi, e
tanto esortarono per parte del pontefice il duca Tassilone a volersi
ricordare de' giuramenti prestati al re Pippino e a' suoi figliuoli, che
l'indussero a portarsi a Vormazia, dove era il re Carlo, al quale di
nuovo prestò giuramento di fedeltà, ma con dimenticarsene da lì a poco,
quantunque in mano di lui avesse lasciato degli ostaggi. Fu in
quest'anno che Carlo Magno imparò a conoscere _Paolino_, cioè quel
personaggio che col tempo riuscì patriarca d'Aquileia, insigne non meno
per la sua letteratura, che per la sua santità. Fra le doti mirabili di
quel gran monarca si contava l'amor delle lettere e la premura di
piantarle e propagarle per tutti i suoi regni: premura tanto più
riguardevole, perchè allora l'Italia si trovava involta in una somma
ignoranza, fuorchè Roma, dove sempre furono in credito le sacre lettere.
Anche in Benevento il duca _Arigiso_ accoglieva tutti i letterati, e
specialmente manteneva una mano di filosofi. Ma in quasi tutte l'altre
città, a riserva di qualche tintura di grammatica, di cui erano maestri
nelle castella i parrochi, e alcun altro nelle città, le scienze e le
bell'arti erano in un miserabile stato. Peggio anche stava la Francia,
se non che il nobilissimo genio di quel monarca vi tirò dalla Scozia e
Irlanda alcuni monaci letterati, e specialmente il celebre _Alcuino_,
che introdusse e dilatò felicemente per tutta la Francia lo studio delle
lettere.

Abbiamo ancora da Eginardo[504] che lo stesso re Carlo, benchè giunto
all'età virile, ebbe per suo maestro di grammatica _Petrum pisanum
diaconum senem_. E di questo medesimo _Pietro da Pisa_ scrive il
sopraddetto Alcuino[505] di averlo in sua gioventù conosciuto in Pavia;
e ch'esso Pietro avea avuta una disputa con Giulio giudeo, la qual anche
si leggeva scritta. Aggiugne in fine: _Idem Petrus fuit qui in palatio
vestro_ (cioè in Aquisgrana) _grammaticam docens claruit_. Fortunato può
dirsi in questi tempi ancora il Friuli, perchè quivi fioriva il suddetto
_Paolino_ maestro di grammatica, il quale, fatto ricorso in quest'anno
al re Carlo, ottenne in dono alcuni beni, già confiscati a Gualdandio
figliuolo del fu Mimone da Laberiano, _quae ad nostrum devenerunt
palatium, pro eo quod in campo cum Forticauso inimico nostro_ (si dee
scrivere _Roticauso_, già duca del Friuli, di cui parlammo all'anno 776)
_a nostris fidelibus fuerit interfectus_. Il diploma di Carlo Magno è
rapportato intero dal cardinal Baronio[506] e dal padre Bollando[507].
Tal dono si dice ivi fatto _venerabili Paulino artis grammaticae
magistro_: titolo indicante ch'egli era già prete. Il diploma fu dato
_XV kalendas julii, anno octavo regni nostri e Loreia civitate_. Più
verisimile è che l'_anno ottavo_ del regno di Carlo appartenga qui
all'epoca del regno longobardico, cioè all'anno presente 781,
piuttostochè a quella del regno francico, trattandosi di diploma fatto
in Italia. Della vittoria riportata nell'anno 776 dal re Carlo contra
del suddetto _Rodgauso_ duca del Friuli, che s'era ribellato, noi
troviam menzione nel medesimo diploma. La città di _Loreia_, dove fu
fatta questa concessione, vien creduta dal Cointe la villa di _Loreo_,
posta nel dominio veneto, presso alla sboccatura di Po grande nel mare.
Il padre Pagi[508] crede incerto quel luogo. Ma in vece di _Loreia_, si
ha da scrivere in esso documento _Eboreia_, cioè nella città di _Ivrea_.
Colà era giunto il re Carlo in tornando da Roma in Francia. Ora
_Paolino_ suddetto tale stima si guadagnò nel Friuli e presso il re
Carlo, che essendo passato al paese dei più _Sigualdo_ patriarca
d'Aquileia, venne egli eletto per suo successore in quella sacra sede,
sommamente dipoi illustrata da lui colla santità della vita e co' suoi
libri. Intanto di qui impariamo non susistere l'opinion del Baronio,
dell'Ughelli e del Bollando, che mettono l'elezione di san Paolino in
patriarca d'Aquileia nell'anno 773. Al padre de Rubeis[509] parve dipoi
probabile che Sigualdo mancasse di vita nell'anno 776, e che Paolino a
lui immediatamente succedesse, scrivendo il monaco di san Gallo, che
Carlo Magno si trovava nel Friuli, allorchè venne a morte il patriarca
di quella Chiesa, e non avendo questi voluto nominar un successore,
Carlo gliene sostituì uno; e questi sembra essere stato _Paolino_. Ma se
veramente l'epoca suddetta riguardasse il regno longobardico,
converrebbe differire cinque anni dappoi la di lui esaltazione, e
fors'anche più tardi; perchè allora Paolino non vien chiamato se non
maestro di grammatica. Nè il passo del monaco sangallese ci assicura
punto che immediatamente succedesse Paolino a Sigualdo. Oltre di che,
anche nell'anno presente 781 potè il re Carlo nel ritorno in Francia
visitare il Friuli, e succedere allora la morte di Sigualdo. Ma in fine
a noi dee bastare che quest'uomo insigne fu promosso al patriarcato
d'Aquileia, e che tornerà occasione di parlare di lui più di una volta.
Merita poi d'essere aggiunto ciò che il suddetto monaco di san Gallo
narra nella vita di Carlo Magno[510], cioè che nel principio del regno
di lui le lettere in Francia, siccome accennai poco fa, erano affatto
per terra. Vennero colà dall'Irlanda due monaci benedettini, ben
addottrinati nelle sacre scritture e nelle lettere profane, che
invitavano la gente a comperar da loro la sapienza. Informato di questa
novità il re, volle vederli, e scoperto il loro sapere, ne fermò uno,
appellato _Clemente_, in Francia, con ordine di fare scuola ai nobili e
plebei che bramassero d'imparare. _Alterum vero in Italiam direxit, cui
et monasterium sancti Augustini juxta Ticinensem urbem delegavit, ut qui
ad eum voluissent, ad discendum congregari potuissent._ Il nome di
questo letterato monaco non è passato a nostra notizia. La sua
spedizione in Italia fu dopo l'anno 774. E così in Pavia, coll'aiuto di
questo valente maestro, cominciò a risorgere la letteratura.

NOTE:

[502] Theoph., in Chronogr.

[503] Chronic. Moissiacens., tom. 3 Du-Chesne.

[504] Eginhardus, in Vita Caroli Magni.

[505] Alcuin., Epist. 15 ad Carolum Regem.

[506] Baron., Annal. Eccl., ad ann. 802.

[507] Bollandus, Act. Sanctor. ad diem 11 januarii.

[508] Pagius, in Critic. Baron. ad ann. 801.

[509] De Rubeis, Monument Eccl. Aquilejens. pag. 333.

[510] Monac. Sangallensis, lib. 3, cap. 1, apud Du-Chesne, tom. 2.
Annal. Franc.



    Anno di CRISTO DCCLXXXII. Indizione V.

    ADRIANO I papa 11.
    COSTANTINO imperad. 7 e 3.
    IRENE Augusta 3.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 9.
    PIPPINO re d'Italia 2.


Aveva l'imperadrice _Irene_ nell'anno precedente fatta pace coi
Saraceni, pace al certo vergognosa, perchè si convenne di pagare un
annuo tributo a que' Barbari[511] sotto nome di regalo; ma pace
necessaria e utile alla situazione in cui si trovavano gli affari
dell'impero orientale. Spedì ella nell'anno presente un buon esercito
contra degli Sclavi ossia Schiavoni; ricuperò la città di Salonichi e la
Grecia; ed essendo penetrate le milizie della sua flotta nel
Peloponneso, o vogliam dire nella Morea, ne condussero via una gran
quantità di schiavi e di preda; segno che in essa Morea doveano allora
aver fissato piede e dominio gli Schiavoni stessi. Non fu men fortunata
per _Carlo Magno_[512] la campagna di quest'anno. Al feroce _Witichindo_
riuscì di muover di nuovo a ribellione una parte della Sassonia. Colà
accorsero le schiere franzesi, e seguì combattimento sanguinoso coi
nemici. Itovi poi in persona Carlo Magno, si vede venir pentita a' piedi
quella nazione, che gli diede in mano i ribelli, parte de' quali pagò
colla morte, ed altra coll'esilio la pena della lor ribellione.
Witichindo se ne fuggì nel paese de' Normanni, popolo delle provincie
poste al mar Baltico, cioè della Danimarca, Svezia ed altre di quelle
contrade. Erasi tenuta in questo medesimo anno dal re Carlo una dieta in
Colonia, dove comparvero gli ambasciatori di _Godefrido_ re de'
Normanni, siccome ancora quei di _Cagano_, cioè del re degli Avari ossia
degli Unni dominanti nell'Ungheria, poichè tutti veneravano e temevano
la possanza formidabile del re de' Franchi. Merita qui d'essere
rammentato, perchè fiorì in questi tempi, _Paolo Diacono_, a cui siam
non poco tenuti per la storia de' Longobardi. Senza l'aiuto suo sarebbe
restata in troppe tenebre la storia d'Italia per anni dugento. Era egli
di nazion longobarda. I suoi maggiori fissarono la stanza nel Foro di
Giulio, cioè in Cividal del Friuli, dove ancora venne egli alla luce,
per attestato di Erchemperto[513], anzi del medesimo Paolo[514]. Pare
che l'epitafio composto da Ilderico suo discepolo, il quale fu poi
abbate di Monte Casino, il faccia nato in Aquileia. Vivente il re
Rachis, Paolo fu allevato nella real corte, e studiò lettere sotto
Flaviano, grammatico di molto grido. Abbracciava allora il nome di
grammatica non solamente lo studio della lingua latina, ma anche
l'oratoria, la poesia, e la cognizione degli antichi autori latini, sì
di prosa che di verso. Servì poscia al re Desiderio di consigliere e
cancelliere, per quanto s'ha dal suddetto Erchemperto e da Leone
Ostiense[515]. Dopo la caduta di Desiderio, Paolo Diacono passò in
Francia; e poscia, forse perchè insorse qualche sospetto contra di lui,
verisimilmente si ritirò in Benevento sotto la protezione del duca
_Arigiso_, principe che per gran tempo ricusò di sottomettersi alla
signoria di Carlo Magno. Ma l'Anonimo salernitano[516] nella parte della
Storia da me data alla luce, racconta aver bensì Paolo guadagnata la
grazia di Carlo Magno, già divenuto re de' Longobardi; ma che accusato
due volte di aver voluto uccidere esso re in vendetta di Desiderio,
tante istanze fecero contra di lui i baroni del palazzo, che Carlo una
volta ordinò che gli fosse tagliata la mano; e un'altra che gli fossero
cavati gli occhi; ma che sempre pentito ne rivocò l'ordine,
contentandosi di mandarlo in esilio nell'isola di Tremiti. Di là
fuggitosene Paolo, si ricoverò alla corte del suddetto Arigiso, a cui fu
carissimo, ma specialmente ad _Adelberga_ figliuola di esso re Desiderio
e moglie di quel principe. Leone Marsicano, ossia Ostiense, copiò dal
Salernitano questo racconto. Ma l'avveduto padre Mabillone[517] prima
d'ora lo giudicò favoloso per le circostanze inverisimili che
l'accompagnano. Quel che pare non potersi negare, Paolo Diacono fu nella
corte di esso principe di Benevento, dove compose la storia dei
Longobardi e parte della storia Miscella. Poscia in Monte Casino si fece
monaco, e lavorò altri libri; e di certo abbiamo che fra Carlo Magno e
lui passò molta familiarità e corrispondenza di lettere.

NOTE:

[511] Teoph., in Chronogr.

[512] Annales Bertinian. Eginhard.

[513] Erchempertus, Hist. P. I. T. II Rer. Ital.

[514] Paulus Diaconus, lib. 4. cap. 39 Histor.

[515] Leo Ostiensis, Chron. Casinens. l. 1, c. 15.

[516] Anonymus Salernitanus, P. II, tom. 2, Rer. Italic.

[517] Mabill., Annal. Benedict., lib. 24, cap. 73.



    Anno di CRISTO DCCLXXXIII. Indiz. VI.

    ADRIANO I papa 12.
    COSTANTINO imperad. 8 e 4.
    IRENE Augusta 4.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 10.
    PIPPINO re d'Italia 3.


Restò sommamente sconsolato in quest'anno il re Carlo per la morte
immatura della regina _Ildegarde_, moglie sua dilettissima, che in età
di ventisei anni finì di vivere nell'ultimo dì d'aprile, e da alcuni,
secondo la facilità d'allora, fu registrata nel catalogo de' santi.
Lasciò essa dopo di sè tre figliuole e tre figliuoli viventi, cioè
_Carlo_ primogenito, destinato ad essere re di Francia, _Pippino_ già re
d'Italia, e _Lodovico_ già re d'Aquitania. Mancò eziandio di vita la
regina _Berta_, madre di Carlo Magno, nel dì 12 di luglio. E perciocchè
esso Carlo era principe poco inclinato alla continenza, non andò molto
che prese un'altra moglie, cioè _Fastrada_. Tornarono ancora in
quest'anno a ribellarsi i Sassoni, ma l'invitto re in due battaglie
talmente li snervò e confuse, che da lì innanzi pareva che non dovesse
più venir loro voglia di alzare il capo contra di lui. Col padre Cointe
si può riferire all'anno presente l'epistola settantesima quinta del
Codice Carolino, nella quale papa _Adriano_ espone a Carlo Magno, come
Eleuterio e Gregorio cittadini di Ravenna non voleano aver sopra di sè
giudici in quelle parti, commetteano enormi prepotenze contra de'
poveri, vendendoli specialmente per ischiavi ai pagani. Aggiugne, che
costoro menando seco una mano di sgherri, aveano commesso varii
omicidii, e massimamente in una chiesa in tempo della messa uno di quei
briganti avea malamente ferito un povero innocente. E poichè essi ben
conosceano che il papa non soffrirebbe così inique operazioni, senza
chiederne a lui licenza, s'erano portati in Francia per reclamare contra
d'esso papa, e sforzarsi di far nascere delle zizzanie fra il re Carlo e
il romano pontefice, non riflettendo che i fedeli di san Pietro son
parimente fedeli del re de' Franchi, e i nemici di s. Pietro tali sono
ancora del re stesso. Però il prega di non ammettere questi malvagi
siccome nemici suoi e di s. Pietro, e di volerli mandare a Roma,
affinchè sieno processati, e resti illesa ed illibata l'oblazione di
quegli stati, fatta dal re Pippino, e confermata dal medesimo re Carlo a
san Pietro. Questi ricorsi dei Ravennati a Carlo Magno, il fatto di
_Leone_ arcivescovo mentovato di sopra, l'avere esso Carlo rinnovata ai
romani pontefici la oblazione dell'esercato, possono servire ad indicar
sussistente l'opinion del Sigonio[518], che stimò ritenuta dai re
franchi la sovranità, ossia l'alto dominio sopra gli stati conceduti o
donati alla santa Chiesa romana. Per altro questa medesima lettera ci fa
conoscere che papa Adriano I era in possesso allora dell'esarcato, e vi
esercitava la giurisdizione temporale. Credesi poi da alcuni fondati
sulle lettere di Alcuino[519], che verso questi tempi _Angilberto_,
riguardevol personaggio franzese, e poscia celebre abate di Centula,
fosse in Italia _primicerius palatii Pippini regis_, cioè il primo dei
suoi consiglieri. _Omero_ veniva questi appellato dai letterati
d'allora, siccome Carlo Magno portava il nome di _Davide_, e così gli
altri affettavano un egual gergo ne' loro nomi. Ma forse più tardi
Angilberto ebbe quest'impiego e grado nella corte del re Pippino.
Pubblicò il Baluzio[520] un capitolare di Carlo Magno _de causis regni
Italiae_, ch'egli credette dell'anno 793, _post obitum Hildegardis
reginae_. Ma essendo succeduta in questo anno la morte di essa regina,
taluno ha creduto che quell'editto appartenga al medesimo presente anno.
Quivi Carlo comanda che chiunque ha degli spedali de' pellegrini, debba
farne buon governo: altrimenti vuole che il vescovo ne abbia cura.
Proibisce ai laici il tener parrocchiali. E perchè nell'Italia abitavano
allora molte nazioni, come, per esempio, i nazionali italiani, i
longobardi, i franzesi, i bavaresi; perciò ordina che sieno tutti
giudicati secondo la loro legge. Dal che si vede già introdotta e
praticata in queste contrade la varietà delle leggi. Comanda ancora che
nelle composizioni dei re la terza parte del denaro tocchi ai conti,
cioè ai governatori delle città, e le due altre al fisco regale. Oltre a
ciò, proibisce ai conti l'obbligare ad alcuno loro privato servigio gli
uomini liberi. Vuole che si faccia un inventario dei beni spettanti alla
fu regina _Ildegarde_, da inviarsi a lui; nè permette che i _Piacentini_
abbiano gli _Aldioni_, cioè uomini simili ai liberti dipendenti dalla
camera regia. In fine comanda che i servi fuggiti nelle parti di
_Benevento, Spoleti, Romania_ (onde è venuto il nome di _Romagna_) e
_Pentapoli_, sieno restituiti, e tornino ai lor padroni. Tralascio gli
altri. Di questo capitolare ho ben io fatta qui menzione; ma non avendo
il re Carlo sottomessi i Beneventani, se non nell'anno 787, al veder qui
ch'egli comanda anche in _Benevento_, più probabile a me sembra che dopo
quell'anno fossero pubblicate queste leggi.

NOTE:

[518] Sigonius, de Regno Italiae, ad ann. 774.

[519] Alcuin., Epist. 42 et 93.

[520] Baluz., Capitolar., tom. 1, p. 258.



    Anno di CRISTO DCCLXXXIV. Indiz. VII.

    ADRIANO I papa 13.
    COSTANTINO imperad. 9 e 5.
    IRENE Augusta 5.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 11.
    PIPPINO re d'Italia 4.


Potrebbe essere che nel presente anno fosse scritta l'epistola
sessantesima ottava del Codice Carolino, dalla quale apprendiamo avere
il re Carlo con sua lettera portata da _Aruino_ duca, fatta istanza a
papa _Adriano_ per avere tutti i musaici e marmi del palazzo di Ravenna,
esistenti non meno ne' pavimenti che nelle pareti. Adriano protesta che
ben volentieri tutto gli concede in ricompensa dei gran vantaggi da esso
re procacciati alla Chiesa romana. Di qui ancora apparisce l'attual
signoria e possesso del papa in Ravenna. Parlasi medesimamente d'affare
spettante a Ravenna nell'epistola ottantesima quarta. Scrive in essa il
papa d'aver ricevuti gli ordini di Carlo Magno di cacciar dalle parti di
Ravenna e della Pentapoli tutti i mercatanti veneziani; e che in
esecuzione della real sua volontà avea già spedito colà ordine
all'arcivescovo, che in qualsivoglia _territorio nostro_, e spettante
alla Chiesa di Ravenna, in cui si trovasse alcuno dei Veneziani, sieno
fatti sloggiare. Erano i Veneziani o dipendenti del greco imperadore, o
suoi collegati; e però non se ne fidava Carlo Magno[521], intento alla
conservazione del regno d'Italia. E l'aver egli comandato che fossero
scacciati dall'esarcato e dalla Pentapoli, torna a farci intendere
l'autorità di lui in quelle contrade, tuttochè signoreggiate dal romano
pontefice. Lagnasi appresso il medesimo Adriano, perchè _Garamanno_ duca
inviato da esso re Carlo, aveva occupati molti poderi della Chiesa di
Ravenna, posti _ne' nostri territorii_; e non ostante l'averlo esortato
a restituir quei beni, egli pertinacemente seguitava a ritenerli in suo
potere. Il perchè prega Carlo Magno che per amore di s. Pietro si degni
di spedir ordini, affinchè ne sia scacciato costui, e restino intatti _i
nostri territorii_ mediante la di lui regal difesa. Di questo _Garamanno
glorioso duca messo fedelissimo_ del re Carlo, è parlato anche nella
lettera sessantesima settima del Codice Carolino, con apparire ch'esso
re Carlo l'avea inviato per correggere molti abusi, e massimamente il
mercato che si faceva degli schiavi cristiani. Aggiugne che Giovanni
monaco avea avvertito esso re di non permettere che i vescovi andassero
alla guerra; abuso già introdotto in Francia; ed anch'egli il prega di
emendarlo, dovendo i vescovi attendere alle orazioni, al governo
spirituale dei popoli, e non già maneggiar armi terrene, nè vestire
l'usbergo. Finalmente parla d'una revelazione o visione vantata da esso
monaco e notificata al re, con dire d'aver veduto i cieli aperti, e la
destra di Dio, e una gran torre, e gli angeli che scendevano dal cielo,
con altre semplicità che aveano voga ne' secoli ignoranti, dei quali ora
parliamo, ma che per tali si conosce che furono giudicate e riprovate
non meno dal saggio pontefice che dal ben avveduto re Carlo. Bisognò poi
in che quest'anno ancora il medesimo re impiegasse le sue armi contra
dei Sassoni[522], perchè, secondo il loro costume, erano tornati a
ribellarsi. Entrò egli con gran potenza nelle lor terre, mettendole a
sacco; e spedì _Carlo_ suo primogenito con un altro esercito contra de'
popoli della Vestfalia, e riuscì poscia a questo giovane principe di dar
loro una rotta, ma non già di metter fine ai torbidi di quella inquieta
gente.

NOTE:

[521] _Erano collegati, perchè se fossero stati dipendenti, Carlo Magno
avrebbe tentato di soggettarseli._

[522] Annal. Franc. Loiselian.



    Anno di CRISTO DCCLXXXV. Indiz. VIII.

    ADRIANO I papa 14.
    COSTANTINO imperad. 10 e 6.
    IRENE Augusta 6.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 12.
    PIPPINO re d'Italia 5.


Diedero occasione di grande allegrezza in quest'anno alla Chiesa romana
e allo zelantissimo suo pastore le lettere scritte dal regnante
imperadore dei Greci _Costantino_ e dell'Augusta _Irene_ sua madre, per
invitarlo in Oriente ad un concilio generale, dove si decidesse della
disputa intorno all'onore delle sacre immagini. Dopo tanti anni che gli
imperadori le perseguitavano, flagellando ancora chiunque si scopriva
venerator delle medesime, gran giubilo, come dissi, recò alla santa Sede
e a' Cattolici di Italia l'intendersi che anche _Tarasio_ santo vescovo,
dopo la morte di _Paolo_ piissimo patriarca di Costantinopoli, era in
quella cattedra, e nudriva uno zelo imperturbabile per pacificar la
Chiesa di Dio. Anche egli inviò sue lettere e la profession della fede
cattolica a papa _Adriano_; ed essendo che in questi medesimi tempi
sedessero in Alessandria, Antiochia e Gerusalemme tre insigni patriarchi
di credenza cattolica, tutto venne ad accordarsi per terminar la
controversia del culto delle sacre immagini. Quest'anno ancora convenne
al re _Carlo_ di tornare in Sassonia colle sue armi per mettere al
dovere que' popoli ribelli[523]. Tenne dietro ai suoi passi la felicità,
perchè dopo aver prese e spianate varie loro fortezze, tutta quella
nazione finalmente si diede per vinta, e lo stesso _Witichindo_ ed
_Abbione_ capi dei tumultuanti vennero a trovare il re nella villa di
Attignì, e quivi presero il sacro battesimo con giurar fedeltà al
vittorioso lor soggiogatore, ed osservarla dipoi: avvenimenti che
servirono alla religion cristiana per dilatarsi in quelle barbare
provincie, dove furono fondati varii vescovati e monisteri. Parimente i
Mori Saraceni, costretti da un lungo assedio, renderono ad esso re Carlo
la città di Girona; con che tutta la Catalogna, oppur buona parte d'essa
venne ad unirsi sotto il dominio dei re franchi. In questi tempi, come
consta dalle memorie dello archivio archiepiscopale di Lucca, accennate
dal Fiorentini[524] e da Cosimo della Rena[525], si trova in Lucca
_Allone_ duca, il quale in una carta scritta nell'anno presente si
sottoscrive così: _Signum manus Allonis glorioso duci, qui hanc notitiam
judicati fieri elegit_. Di questo medesimo Allone duca fa menzione
un'altra carta scritta nell'anno 782, e da un diploma di Lodovico II
imperadore, riferito dal Margarino[526], impariamo essere stato dallo
stesso duca _Allone_ fondato un monistero in Lucca, che fu poi
sottoposto a quello di s. Giulia di Brescia. Altro non è questo _Allone_
duca, se non quel medesimo che di sopra vedemmo all'anno 775, mentovato
nell'epistola cinquantesima quinta del Codice Carolino, la quale
piuttosto appartiene a questi tempi, al vedere spezialmente che ivi si
parla delle immense vittorie riportate da Carlo Magno.

In un'altra lettera del medesimo Codice, cioè nella sessantesima quinta,
attesta papa Adriano I d'aver intese le doglianze di Carlo Magno
(accennate anche nell'anno precedente), perchè dai Romani si vendessero
schiavi cristiani alla nefanda nazione de' Saraceni. Risponde il
pontefice, non essere ciò succeduto nel ducato romano, ma bensì nei
littorali dei Longobardi, sottoposti a dirittura a Carlo Magno, cioè,
per quanto si può conghietturare, nella Toscana e nel Genovesato, dove
capitavano coi lor legni i Greci, e veramente comperavano gli schiavi,
essendosi in fatti venduti non pochi ai Greci, per non morire di fame in
tempo d'una terribil carestia. Ch'egli avea mandato ordine ad _Allone_
duca di allestire quante navi potea, per pigliar quelle de' Greci e
bruciarle; ma nulla essersi eseguito da esso duca. E quantunque
mancassero navi e marinari a Roma, pure egli avea fatto dare alle fiamme
nel porto di Centocelle (oggidì Cività vecchia) le navi de' Greci, con
tener anche per molto tempo in prigione i Greci stessi. Può servir
questa lettera per farci intendere tale essere stata la fidanza di Carlo
Magno in papa Adriano, che gli dava ancora una specie di sopraintendenza
sopra l'Italia tutta, certo essendo che la Toscana, dove il duca Allone
comandava, non era dipendente dalla temporal giurisdizione del papa. Il
figurarsi alcuni che questo duca comandasse alla Toscana tutta non ha
buon fondamento, veggendosi dei duchi in altre città di quella
provincia, i quali per conseguente erano governatori di una sola città.
Trovammo di sopra _Reginaldo_ duca di Chiusi. Aggiungasi ora
_Gundibrando_ duca di Firenze in questi medesimi tempi. Ne fa menzione
papa Adriano nella lettera settantesima quarta, in cui raccomanda a
Carlo Magno il monistero di s. Ilario in Calligata o Galliata, posto in
Romagna sulle rive del fiume Bidente, a cui spettavano varii spedali
dell'Appennino destinati per alloggio ai viandanti. Aveva Gundibrando
duca occupata a quel monistero una corte, cioè un'unione di varii
poderi, situata nel distretto di Firenze: però il papa efficacemente si
raccomanda al re Carlo, perchè ordini la restituzione di tutto. Adunque
più tardi dobbiam credere seguita l'erezion della Toscana in ducato o
marca, con darsi da lì innanzi il titolo di _conte_ ai governatori di
cadauna città, e poscia di _duca_ o _marchese_ al governatore, o
sopraintendente di tutta la provincia, a cui ubbidivano i conti d'esse
città. Da uno strumento da me dato alla luce[527] ricaviamo che
nell'anno presente fioriva in Lucca _Adeltruda_ figlia di _Adelvaldo_ re
degli Anglosassoni, principe ucciso circa l'anno 756. Era essa monaca in
quella città, dove dopo le disavventure del padre s'era rifugiata.

NOTE:

[523] Annal. Franc. Metens.

[524] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.

[525] Cosimo della Rena, Serie de' Duchi di Toscana.

[526] Margarinius, Bullar. Casinens. tom. 2, Constit. XXXI.

[527] Antiquit. Ital. Dissert. I, p. 19.



    Anno di CRISTO DCCLXXXVI. Indiz. IX.

    ADRIANO I papa 15.
    COSTANTINO imperad. 11 e 7.
    IRENE Augusta 7.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 13.
    PIPPINO re d'Italia 6.


Diedesi principio nel mese d'agosto del presente anno ad un concilio
generale in Costantinopoli per ordine dell'imperadrice _Irene_[528]
affin di decidere la controversia delle sacre immagini. Ma gli uffiziali
delle milizie esistenti in quella real città, siccome infetti
dell'eresia degl'iconoclasti, essendo anche spalleggiati da alcuni
vescovi, commossero in tal guisa le schiere da lor dipendenti, che con
un fiero tumulto e colle spade nude corsero a disturbar la sacra
assemblea, minacciando morte al santo patriarca _Tarasio_ e agli altri
vescovi, se ardivano di far novità contra gli empii decreti di
Costantino Copronimo. Bisognò desistere; i vescovi si ritirarono in
varie case di Costantinopoli, aspettando miglior vento; e i legati della
santa Sede, non credendosi quivi sicuri, se ne tornarono in Sicilia. Per
rimediare a questi disordini l'imperadrice fece venir dall'Asia a
Costantinopoli alcuni reggimenti di soldati, e col braccio di questi
fece disarmar le truppe sediziose, e divisele in varie provincie, quetò
tutto il rumore, lasciando luogo al ristabilimento del concilio
nell'anno susseguente. Mentre il re _Carlo_, siccome abbiam veduto, era
impegnato nella lunga guerra coi Sassoni, si prevalsero di tal
congiuntura i popoli della Bretagna minore per far delle novità e degli
atti tendenti alla ribellione. Ma non sì tosto si trovò egli sbrigato
dagli affari della Sassonia[529], che spedì contra di loro un esercito
sotto il comando di _Audulfo_, personaggio illustre, che bravamente
condusse a fine quell'impresa, con sottomettere quel paese e condurne i
principali umiliati ai piedi del re, mentre era in Vormazia. Scoprissi
ancora una congiura[530] manipolata in Germania contra di esso re da
molti malcontenti per la crudeltà della regina _Fastrada_, e ne furono
gastigati gli autori. Stabilita in tal maniera la quiete e pace per
tutta la monarchia franzese l'infaticabil re Carlo determinò di venire
in Italia, e particolarmente a Roma, per un motivo di cui parleremo
nell'anno seguente. Intraprese questo viaggio nell'autunno, ed arrivato
a Firenze, quivi si fermò per solennizzarvi la festa del santo Natale.
Puossi rapportare col padre Cointe all'anno presente l'epistola
novantesima prima del Codice Carolino. Quivi papa _Adriano_ si rallegra
con Carlo Magno, per aver soggiogata e ridotta ad abbracciare il sacro
battesimo la nazione de' Sassoni. Ed avendo esso re desiderato che si
celebrassero litanie in rendimento di grazie a Dio per così prosperi
successi, il papa prescrive tre giorni di giugno per queste sacre
funzioni negli stati della Chiesa romana, e in tutti gli altri del re
medesimo. Fors'anche appartiene a quest'anno la lettera sessantesima
prima, in cui è da avvertire che il papa fa istanza al re Carlo per
ottener delle travi lunghe per risarcire il tetto della basilica di san
Pietro con aggiugnere: _Prius nobis dirigite magistrum_ (cioè un capo
muratore) _qui considerare debeat ipsum lignamen, quod ibidem necesse
fuerit, ut sicut antiquitus fuit, ita valeat renovari. Et tunc per
vestrae regalis excellentiae jussionem dirigatur ipse magister in
partibus Spoleti, et demandationem_ (ora la dimanda) _ibidem de ipso
faciat lignamine: quia in nostris finibus tale lignamen minime
reperitur._ Chi fosse allora padrone del ducato di Spoleti, si può
chiaramente argomentare ancora dalle parole suddette. Del bisogno che
aveva il papa di quelle travi, ed anche di stagno per rifare il tetto di
san Pietro, medesimamente è parlato nella epistola sessantesima sesta
d'esso Codice Carolino. In essa dà eziandio ragguaglio papa Adriano a
Carlo Magno, come _Arigiso_ duca di Benevento, non potendo ottener
giustizia per alcuni suoi sudditi dal popolo di Amalfi, sottoposto al
ducato di Napoli, era entrato coll'esercito nel territorio loro, con
incendiar tutte le lor possessioni e case. Ma avendo i Napoletani
spedito soccorso a quei d'Amalfi, aveano messi in rotta i Beneventani,
uccisine molti, e molti de' principali fatti prigioni.

NOTE:

[528] Theoph., in Chronogr.

[529] Annales Franc. Metenses.

[530] Eginhardus, in Vit. Caroli Magni.



    Anno di CRISTO DCCLXXXVII. Indiz. X.

    ADRIANO I papa 16.
    COSTANTINO imperad. 12 e 8
    IRENE Augusta 8.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 14.
    PIPPINO re d'Italia 7.


Celebre fu quest'anno pel settimo concilio generale tenuto nella città
di Nicea in Bitinia. Gli si diede principio nel mese di settembre
coll'intervento di _Pietro_ arciprete della santa romana Chiesa, e di
_Pietro_ prete ed abbate, legati del sommo pontefice _Adriano I_, di
_Tarasio_ patriarca di Costantinopoli, dei legati dei patriarchi
d'Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, e di più di trecento cinquanta
vescovi. Il culto delle sacre immagini, come conforme allo dottrina
cattolica, venne ivi stabilito, e scomunicati gli sprezzatori e
persecutori delle medesime. Di più non dico, appartenendo agli annali
ecclesiastici questo racconto. Da Firenze passò a Roma _Carlo Magno_,
dove con solenne apparato e sommo giubilo fu accolto da papa Adriano. Si
spesero alcuni giorni per ismaltir varii negozii, uno de' quali
spezialmente riguardava il ducato di Benevento. Già osservammo di sopra
che _Arichis_ ossia _Arigiso_, duca di quella contrada, aveva assunto il
nome di _principe_, nè finora avea voluto sottomettersi al dominio di
Carlo Magno, tuttochè il ducato di Benevento fosse una porzione del
regno longobardico, la quale abbracciava allora quasi tutto il regno di
Napoli. Nulla pareva al re de' Franchi d'aver fatto, se non si stendeva
la sua signoria sopra così bella ed ampia parte d'Italia. È da credere
che anche il pontefice Adriano, pieno sempre di sospetti per cagione
dell'imperador greco, e di _Adelgiso_ figliuolo di Desiderio, ricoverato
a Costantinopoli, e dello stesso duca Arigiso, tutti pretendenti nel
dominio dell'Italia, aggiugnesse calore e stimolo ai disegni e desiderii
di Carlo, che seco avea condotta un'armata capace di farsi temere. Però
informato di questo vicino temporale Arigiso, siccome abbiamo dagli
Annali de' Franchi[531], spedì a Roma _Romoaldo_ suo figliuolo con
suntuosi regali per placare il re e per esibirsi pronto a fare ogni suo
volere. Ma il papa, che meglio conosceva il sistema delle cose,
consigliò il re di non appagarsi di queste parole e di portar l'armi
nelle viscere del ducato di Benevento. Arrivò Carlo Magno coll'esercito
suo fino a Capua, e l'armata cominciò a stendersi per quelle contrade,
mettendo tutto a sacco. Era in questi tempi Arigiso (per attestato di
Erchemperto[532] scrittore del secolo susseguente) in rotta coi
Napoletani, popolo che sempre si salvò dal dominio de' Longobardi, e fu
solito ad avere i propri duchi e a stare unito co' Greci, talvolta con
lega, e per lo più con suggezione e dipendenza. Conchiuse tosto pace con
essi Napoletani Arigiso, per non averli contrarii in quel frangente, con
accordar loro alcuni beni nella Liguria. Quindi si diede alla difesa, e
se crediamo ad esso Erchemperto, per un tempo ancora fece gagliarda
resistenza, benchè gli Annali dei Franchi nulla dicano di battaglie nè
di assedii. Ma scorgendo le sue forze inferiori al bisogno, dopo aver
lasciato ben guernita di gente e di viveri la città di Benevento, allora
capitale del ducato, molto popolata e ricchissima, si ritirò a Salerno,
città marittima e forte, per potere, in caso di necessità, mettersi in
salvo per mare, e maggiormente la fortificò con torri ed altri ripari.
Inviò poscia a Capua l'altro suo figliuolo, chiamato _Grimoaldo_, a
chieder pace, offerendo sommessione, danari e molti ostaggi, fra i quali
gli stessi suoi figliuoli. L'anonimo salernitano[533] mischiando una
mano di favole, ch'io tralascio, in questi avvenimenti, scrive, aver
egli spedito anche molti vescovi al re Carlo, per implorar misericordia:
il che non è inverisimile. Allora Carlo Magno, considerando che sarebbe
costato non lieve fatica e tempo il pretendere di più, e che dal
continuar la guerra ne seguirebbe la distruzion delle chiese e dei
monisteri, e forse che i Greci confinanti al ducato beneventano con
alcune città marittime della Calabria e colla Sicilia avrebbono potuto
entrare in ballo, e prendere la protezion di Arigiso: si piegò ad
accettar la pace. Le condizioni furono, che Arigiso continuasse ad
essere duca, ma con subordinazione al re di Italia suo sovrano, siccome
fu usato in addietro sotto i re longobardi, e con obbligarsi al
pagamento di una annua pensione, che fu di sette mila soldi d'oro, per
attestato di Eginardo[534]. Per sicurezza della promessa diede egli
dodici ostaggi al re Carlo, e, quel che più importa, gli diede ancora
_Grimoaldo_ e _Romoaldo suoi figliuoli_. Tante poi preghiere si
frapposero, che Romoaldo fu rilasciato in libertà; ma per conto di
Grimoaldo, gli convenne andare fino ad Aquisgrana, dove dopo questa
impresa, e dopo aver celebrato la Pasqua in Roma, si trasferì quel
monarca. Attesta inoltre Erchemperto che Arigiso fu costretto a comperar
questa pace collo sborso di un gran tesoro, per rifare il re Carlo delle
spese della guerra. Di una altra condizione parleremo fra poco.

Dappoichè fu fuori d'Italia il re Carlo, e cessato il timor delle sue
armi, credo che succedesse quanto narra papa Adriano nell'epistola
sessantesima quarta del Codice Carolino. Cioè, che i _nefandissimi
Napoletani e gli odiati da Dio Greci_, per maligno consiglio d'Arigiso
duca di Benevento, aveano occupata la piccola città di _Terracina_, la
quale egli avea prima sottomessa al dominio di san Pietro e del re
Carlo, con averla probabilmente tolta ai Greci. Prega per ciò esso re di
spedire nel primo dì d'agosto Vulfrino con ordine d'unire un'armata di
tutti i _Toscani_ e _Spoletini_, e degli stessi _nefandissimi
Beneventani_, per passare a ricuperar Terracina e ad espugnar anche
_Gaeta_ e _Napoli_, città dei Greci, acciocchè la Chiesa romana rientri
in possesso del suo _patrimonio_, cioè degli allodiali, a lei spettanti
nel distretto di Napoli, ed affinchè que' popoli, se si può mai, vengano
a sottomettersi _sub vestra atque nostra dictione_. Aveva poi esso papa
trattato coi Napoletani di ceder loro _Terracina_, purchè essi gli
restituissero il suddetto _patrimonio_; ma nulla voleva eseguire senza
il parere di Carlo Magno. Aggiugne ch'essi Napoletani trattavano
coll'_infedelissimo Arigiso duca di Benevento_, il quale tutto dì
riceveva ambasciate dal _nefandissimo patrizio di Sicilia_. Questi era
lo stesso Adelgiso figliuolo del re Desiderio. E lo spiega lo stesso
papa, con dire che Arigiso duca imbrogliava il trattato cominciato coi
Napoletani, perchè tutto dì era in espettazione di veder venire _filium
nefandissimi Desiderii dudum nec dicendi regis Langobardorum, ut una cum
ipso pro vobis nos espugnent_. Prega in fine Carlo Magno di operare in
maniera che non resti nè derisa nè danneggiata la Chiesa romana. Ma è da
maravigliarsi come dei saggi pontefici usassero allora contra dei popoli
cattolici, solamente per discordie e sospetti politici, termini sì
ingiuriosi. Perchè mai nefandissimi i Napoletani, odiati da Dio i Greci,
per avere ricuperato un picciolo paese già di loro ragione? Nè badava il
papa che anch'egli meditava, se avesse potuto, di far peggio, cioè di
occupare ai Greci due nobilissime città e ducati, Napoli e Gaeta, sulle
quali egli non avea diritto alcuno. Dalla lettera settuagesima terza del
Codice Carolino pare che possa ricavarsi che _Terracina_ era di
giurisdizion de' Greci, al pari di Gaeta. I padri Cointe e Pagi, che
rapportano la suddetta lettera settantesimaquarta all'anno 780, non
badarono assai che allora il duca Arigiso non s'era punto assoggettato a
Carlo Magno: cosa che avvenne solamente nell'anno presente; e che in
questi tempi appunto Adelgiso figliuolo di Desiderio era in Sicilia, e
manipolava un'invasione in Italia, siccome vedremo. A quest'anno per
conseguente, e non a quello, si dee riferir la lettera suddetta. Ma
questi segreti maneggi del duca Arigiso abortirono fra poco; perciocchè
in questo medesimo anno nel dì 21 di luglio la morte gli rapì il giovane
_Romoaldo_ suo figliuolo, per la cui perdita, per la lontananza
dell'altro, e per gli affanni sofferti, anch'egli infermatosi terminò il
corso de' suoi giorni a dì 26 d'agosto, con lasciar belle memorie della
sua giustizia, magnificenza e pietà in Benevento, e massimamente, oltre
a due superbi palagi, un magnifico tempio e monistero di sacre vergini,
appellato di santa Sofia, che egli sottopose a quello di Monte Casino, e
un altro monistero parimente di vergini a persuasione di _Alfano_
vescovo di Benevento, che fu posto sotto la direzione del monistero di
san Vincenzo di Volturno[535]. Leggonsi le altre lodi di questo principe
nel suo epitaffio composto da Paolo Diacono, e pubblicato da Camillo
Pellegrino. Restarono, per la morte di Arigiso, i popoli di Benevento
senza principe, senza governo: e però i principali baroni spedirono
tosto al re Carlo in Francia, supplicandolo di volere rimettere in
libertà _Grimoaldo_ figliuolo del defunto principe, e di permettergli
d'assumere il reggimento di quel ducato. S'incontrarono molte difficoltà
in questo maneggio, siccome nell'anno seguente accenneremo. Fra l'altre
cose trattate in Roma fra papa Adriano e il re Carlo vi fu ancora di
ridur colle buone il duca di Baviera _Tassilone_ a riconoscere per suo
sovrano esso re[536]. A questo effetto il pontefice, dianzi pregato dal
medesimo duca d'interporsi per la pace, fece tutti i buoni uffizii
presso di Carlo; ma scoperto in fine che gl'inviati di Tassilone altro
non davano che parole, mosso da giusta collera il pontefice, gli spedì
una ambasceria, per intimargli la scomunica se dopo le promesse fatte
non si sottometteva, rifondendo sopra di lui il reato, qualora
l'ostinazione sua si tirasse dietro lo spargimento del sangue cristiano.
A nulla giovarono le paterne esortazioni del papa; laonde il re Carlo,
giunto che fu a Vormazia, s'accinse ad ottener coll'armi ciò che non
avea potuto conseguir col mezzo de' trattati pacifici. Un esercito da
lui condotto arrivò fino alla città d'Augusta; un altro guidato dal
giovane re _Pippino_ suo figliuolo, che già avea preso a governare il
suo regno di Italia, s'inoltrò fino alla città di Trento. Allora fu che
Tassilone tornato in sè abbassò il capo, e portatosi alla presenza di
Carlo, tutto umiliato, gli giurò nel dì 5 di ottobre sommessione e
vassallaggio, con dargli in ostaggio _Teodone_ suo figliuolo, e dodici
altri principali signori della Baviera: con che soddisfatto il re Carlo
se ne tornò indietro alla villa d'Ingeleim. Lasciò anche scritto il
Dandolo[537] che venne a morte in questo anno _Maurizio_ doge di
Venezia. Giovanni suo figliuolo, già dichiarato suo collega nella
dignità ducale, continuò a regger solo que' popoli, stando in Malamocco,
ma con riuscita ben diversa, sì nelle parole che nelle opere, da quella
del padre. Nè si dee tacere che Carlo Magno nell'occasione della sua
venuta in questo anno a Roma, siccome principe che a tutte le cose belle
e lodevoli correva con ansietà impareggiabile, condusse via da Roma de'
cantori valenti che insegnassero alle chiese di Francia il puro canto
fermo, quale fu a noi lasciato da san Gregorio Magno, o pure da Gregorio
II papa, come ha creduto taluno. Così attesta il monaco
Engolismense[538], il quale inoltre aggiugne ch'egli menò anche seco da
Roma de' maestri di grammatica e d'abbaco, che dilatarono poi per la
Francia lo studio delle lettere. _Ante ipsum enim dominum regem Carolum
in Gallia nullum studium fuerat liberalium artium._

NOTE:

[531] Annal. Francor. Metens. et Bertiniani.

[532] Erchempertus, Hist. P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[533] Anonym. Salernitan., P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[534] Eginhardus, Annal. ad ann. 814.

[535] Rer. Ital. P. I, tom. 2.

[536] Annales Franc. Metens. et Nazar.

[537] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[538] Monachus Engolismensis, in Vita Caroli Magni.



    Anno di CRISTO DCCLXXXVIII. Indiz. XI.

    ADRIANO I papa 17.
    COSTANTINO imperad. 13 e 9.
    IRENE Augusta 9.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 15.
    PIPPINO re d'Italia 8.


Si vuol ora avvertire i lettori, che datisi in questi tempi i romani
pontefici a possedere stati, non lasciavano passar occasione alcuna per
accrescere la lor temporale possanza, chiedendo sempre nuove cose a
_Carlo Magno_, senza trascurare alcuna delle risoluzioni politiche di
pace e di guerra, siccome veri principi temporali. Ossia ch'esso Carlo
avesse nell'anno 774 promesso e conceduto, o pure, come io credo,
nell'anno precedente, allorchè venne fino a Capua contra d'Arigiso
principe di Benevento, concedesse a papa _Adriano_ alcune città di quel
ducato, ed altre poste nella Toscana, forse in ricompensa di danari
pagati dal papa per le occorrenti spese di quella guerra: certo è
ch'egli s'impegnò di dare a san Pietro la città di _Capua_, e
verisimilmente ancora _Sora_, _Arce_, _Aquino_, _Arpino_ e _Teano_; e
nella Toscana _Rosselle_ e _Populonio_, due piccole città situate al
mare, ed altre che nomineremo fra poco. Di queste verità non ci lasciano
dubitar le lettere di papa Adriano, registrate nel Codice Carolino, dove
s'incontrano le premure di lui perchè vengano effettuate cotali
promesse: premure che, cominciando in questi tempi, ci fan del pari
conoscere recente la promessa e donazione fatta, e che fra le condizioni
dell'aggiustamento seguito nell'anno addietro fra il re Carlo ed Arigiso
duca di Benevento, vi dovette entrare ancor la cessione di Capua e
d'altre città, le quali si aveano da staccare dal ducato beneventano, e
sottoporre alla temporal giurisdizione del romano pontefice. In fatti,
nell'epistola ottantesima prima Adriano prega il re Carlo, _ut denuo eos
missos suos dirigere jubeat, qui nobis contradere debeant fines
populonienses, seu rosellenses, sicut et antiquitus fuerunt. Sed
quaesumus, ut vestra regalis oblationis donatio fine tenus maneat
inconvulsa. Praesertim et partibus beneventanis idoneos dirigere
dignetur missos, qui nobis secundum vestram donationem ipsas civitates
sub integritate tradere in omnibus valeant._ All'anno precedente senza
dubbio appartiene la lettera ottantesima ottava del Codice Carolino. In
essa apparisce che i Capuani, mossi da una lettera del re Carlo, aveano
spediti a Roma i loro rappresentanti, che giurarono fedeltà al papa e ad
esso Carlo Magno. Dopo di che un d'essi, cioè Gregorio prete, avendo
chiesto di poter parlare a papa Adriano in segreto, gli avea palesato,
come nell'anno precedente, dappoichè Carlo re grande s'era partito da
Capua, il duca Arichis ossia Arigiso avea spedito a Costantinopoli per
chiedere soccorso dall'imperadore contra de' Franchi, ed insieme l'onore
del patriziato col ducato di Napoli, allora dipendente dall'imperio
greco; suggerendo inoltre che si facesse la spedizione in Italia di
Adelgiso suo cognato con poderose forze in aiuto suo, con promettere di
tosarsi e vestirsi da lì innanzi alla forma de' Greci, e di tenere per
suo sovrano il greco imperadore. Da ciò intendiamo che il _patriziato_
era una dignità portante seco la signoria sopra de' popoli, ma con una
specie di vassallaggio, perchè suggetta alla superiorità
dell'imperadore, di che sorta fosse il patriziato del papa (giacchè
vedremo che egli se l'attribuiva), e di quale il patriziato de' Romani
conferito a Pippino e a Carlo Magno re de' Franchi, lo cercheremo fra
poco. Seguita a dire in essa epistola Adriano che l'imperadore greco
aveva tosto inviato due suoi spatari in Sicilia, per crear patrizio esso
principe _Arigiso_, ed aver costoro portate seco vesti tessute d'oro, e
la spada, e il pettine, e le forbici, per tosarlo e vestirlo alla greca,
con esigere che egli desse per ostaggio _Romoaldo_ suo figliuolo. Avea
poi promesso l'imperadore d'inviare Adelgiso a Ravenna o a Trivigi con
un'armata, ed essere questi in fatti venuto, ma con ritrovar già cassati
dal numero del viventi il duca _Arigiso_ e _Romoaldo_ suo figliuolo (per
errore di stampa o de' copisti appellato quivi _Waldone_), e con restare
per conseguente svanita la loro meditata impresa. E che, mentre si
trovava Azzo, messo del re Carlo, in Salerno, quei di Benevento aveano
ricusato di ammettere gli ambasciatori greci; ma che, partito esso Azzo,
erano stati ricevuti in Salerno, dove con _Adelberga_, vedova del duca
Arigiso, e coi suoi baroni, avevano avuto de' trattati, con restar
nondimeno consigliati dai Beneventani di ritirarsi a Napoli finchè fosse
venuto di Francia il duca _Grimoaldo_, perchè diceano d'aver fatta una
spedizione al re Carlo per averlo, e mandata anche una _roga_, cioè un
suntuoso regalo, e non già una _roba_, come stimò il padre Pagi, ad esso
re per mezzo dello stesso Azzo, affinchè si degnasse di rimettere in
libertà Grimoaldo. Venuto questi, egli avrebbe eseguito tutto quanto
avea promesso Arigiso suo padre. Erano poi quegli ambasciatori iti a
Napoli, ed incontrati da quel popolo colle insegne e bandiere fuori
della città, quivi s'erano fermati, aspettando la venuta di Grimoaldo, e
manipolando col vescovo _Stefano_ e con altri dei disegni contrarii
agl'interessi del re Carlo. Però Adriano sollecita esso re a preparare
una buona difesa contro i tentativi di costoro. Scrive in fine che
_Maginario_ abate e gli altri messi del re medesimo erano venuti da
Benevento a Spoleti, per avere inteso che i Beneventani, uniti coi
Napoletani, Sorrentini ed Amalfitani, aveano tramato d'ucciderli con
frode. Di questi medesimi affari tratta la lettera nonagesima seconda,
scritta da papa Adriano sul principio dell'anno corrente.

Qui parimente luogo è dovuto alla lettera novantesima del codice
suddetto. Essa ci scopre che il papa facea quanto potea con lettere per
frastornare Carlo Magno dalla risoluzion di rimettere in libertà il duca
_Grimoaldo_. Dopo avergli significato che _Adelgiso_, figliuolo del già
re Desiderio, era venuto coi messi dell'imperador Costantino nella
Calabria in alcuna delle città greche vicino al ducato beneventano, a
motivo di precauzione, soggiugne, che _nullo modo expedit, Grimoaldum
filium Arichisi Beneventum dirigere_. Che se i Beneventani non
eseguissero le promesse fatte ad esso re Carlo, il consiglia di spedire
un sì potente esercito in quelle parti sul principio di maggio, che si
levi al _nefandissimo Adelgiso_ la comodità di nuocere. E qualora una
tale armata non venisse a rovesciarsi addosso ai Beneventani dal
principio di maggio fino al settembre, pericolo c'è che i Greci con
Adelgiso facciano delle novità pregiudiciali al medesimo re Carlo e agli
stati della Chiesa. Pertanto il prega che, per conto di Grimoaldo
figliuolo di Arigiso, egli voglia credere più ad esso pontefice, che a
qualsisia persona del mondo, assicurandolo che s'egli lascierà venir
questo principe a Benevento, non potrà il re tener l'Italia senza
torbidi; e tanto più per avergli rivelato _Leone_ vescovo che
_Adelberga_ vedova di Arigiso disegnava, dappoichè Grimoaldo suo
figliuolo fosse entrato nelle contrade beneventane, di passar colle due
sue figliuole a Taranto, dove avea rifugiati i suoi tesori. Nè credesse
il re mai sì fatti consigli da avidità alcuna del papa per acquistare le
città donate da Carlo a san Pietro nel ducato beneventano, perch'egli
protesta di darli per sicurezza della Chiesa e del regno dello stesso re
Carlo. Passa dipoi a pregarlo che comandi ai suoi inviati di non tornare
in Francia, se prima non avran consegnato interamente ad esso pontefice
le città concedute a san Pietro nelle parti di Benevento, siccome ancora
_Populonio_ e _Roselle_, e inoltre _Suana_, _Toscanella_, _Viterbo_,
_Bagnarea_ ed altre città, ch'esso re Carlo avea donato in Toscana alla
Chiesa di Roma, essendoci degli uffiziali del re che si studiano di
guastare ed annullare questa sacra oblazione. Da ciò intendiamo che non
era per anche seguita la consegna di queste città, nè rilasciato il duca
Grimoaldo. Ma finalmente Carlo Magno si lasciò indurre a mettere in
libertà questo principe, e a permettergli che venisse a prendere il
possesso del ducato di Benevento. Secondochè s'ha da Erchemperto[539],
obbligossi Grimoaldo di mettere il nome del re Carlo, come di suo
sovrano, nelle monete e negli strumenti (che tale era l'uso degli altri
principi vassalli), e di far tosare la barba a' suoi popoli (a riserva
de' mustacchi), e ciò alla moda de' Franchi, dismettendo l'usanza dei
Longobardi che portavano di belle barbe. Scrive l'Eccardo[540]: _Romani,
Graecique barbas alebant; Langobardi vero, et Graeci etiam, et Franci
eas radebant_. Ma per gli Longobardi non sussiste. _Ut Langobardorum
mentum tonderi faceret_, fu l'obbligo imposto a Grimoaldo; adunque la
barba era usata e tenuta per ornamento dai Longobardi. Finalmente
promise Grimoaldo di smantellar le fortificazioni delle città
d'_Acerenza_, _Salerno_ e _Consa_. Racconta l'Anonimo salernitano[541]
(creduto Erchemperto dal cardinal Baronio[542], ma veramente diverso da
esso), che avendo il re Carlo intesa la morte del duca Arigiso, fatto
chiamare a sè Grimoaldo, gli disse che suo padre era mancato di vita.
Allora l'accorto principe gli rispose: _Gran re, per quanto io so, mio
padre è molto ben sano, e la sua gloria è più che mai vigorosa; e
desidero che ella cresca per tutti i secoli_. Allora il re soggiunse:
_Dico daddovero, che tuo padre è morto_. Replicò Grimoaldo: _Dal dì
ch'io son venuto in vostro potere, non ho più pensato nè a padre, nè a
madre, nè a' parenti, perchè voi, gran re, a me siete il tutto_. Fu
lodata la risposta, e gli fu permesso il venire. Probabilmente giudicò
meglio il re Carlo di azzardar questo colpo con lasciar venir Grimoaldo,
perchè, nol facendo, già presentiva che i Beneventani si darebbono ai
Greci; nè a lui tornava il conto di lasciar cotanto ingrandire in Italia
una potenza che manteneva le sue pretensioni sopra tutta l'Italia.
Aggiugne il suddetto Anonimo salernitano che il re Carlo mandò in
compagnia di Grimoaldo due suoi giovani nobili, forse per vegliare sopra
i di lui andamenti, cioè Autari e Pauliperto, a' quali esso Grimoaldo
compartì le prime cariche della corte, donò assaissime case e poderi, e
procurò nobile accasamento. Non fu appena giunto questo principe al
fiume Volturno, prima di entrare in Capua, che gli venne incontro
un'immensa folla di Longobardi, che tutta piena di giubilo l'accolse.
Altrettanto avvenne fuori di Benevento, tutti gridando: _Ben venuto
nostro padre. Ben venga la nostra salute dopo Dio_. Andò egli a
dirittura alla chiesa della santissima Vergine, e colla faccia per terra
ringraziò Dio del favore prestatogli. Passò da lì a poco a Salerno,
anch'ivi incontrato da innumerabil popolo, e pervenuto alla chiesa,
visitò con lagrime il sepolcro del padre e del fratello. Ma allorchè
ebbe esposto a que' cittadini la promessa al re Carlo di demolir le
superbe fortificazioni di quella città, tutti se ne turbarono forte, nè
sapeano darsene pace. I ripieghi da lui presi per non mancare alla
parola e al giuramento, ed insieme per non restar disarmato e senza
difesa, gli accennerò in altro luogo.

Intanto papa Adriano, inteso ch'ebbe il ritorno e lo installamento di
Grimoaldo, poco stette a scrivere al re Carlo la lettera ottantesima
sesta del Codice Carolino, con protestare di nuovo, che se in addietro
avea fatte premure perchè non fosse restituita a quel principe la
libertà con gli stati, era unicamente stato per apprensione delle
insidie e trame di chi era nemico non men d'esso re che del papa.
Continua a dire, avere bensì il re Carlo incaricato _Aruino_ duca e gli
altri suoi inviati di consegnare ad esso papa le città di _Roselle_ e
_Populonia_ in Toscana, e le altre situate nel ducato di Benevento, ma
che nulla s'era fatto finora delle città di Toscana. E per conto delle
beneventane, aveano bensì que' messi dato ai ministri pontifizii il
possesso dei vescovati, de' monisteri e delle corti, ossia degli
allodiali spettanti alla camera del principe, e consegnate le chiavi
delle città, ma senza consegnar anche gli uomini che restavano in lor
libertà. _E come_, dice Adriano, _potremo noi senza gli uomini ritener
quelle città_? il perchè prega il re Carlo di non voler essere più
parziale verso _Grimoaldo_ figliuolo di _Arigiso_, che verso _san
Pietro_, custode delle chiavi del cielo, e massimamente perchè esso
Grimoaldo arrivato in Capua, alla presenza dei messi del re dei Franchi,
s'era lasciato scappar di bocca, _avere il re Carlo comandato che
qualsivoglia desiderante d'essere suo suddito, tale sarebbe_: cosa di
gran rammarico al suddetto papa, perchè i Greci e Napoletani si ridevano
dei ministri pontifizii, due volte tornati a casa senza ottener cosa
alcuna, con raccomandare che dia gli ordini per l'esecuzione di quanto
era disposto nell'offerta di quelle città. Come poi finisse questo
affare, non apparisce dalle lettere di papa Adriano; ma noi bensì
vedremo Capua signoreggiata dai principi beneventani, e senza che
traspiri per concessione dei papi. Fece in questi principii del suo
governo il duca Grimoaldo conoscere a Carlo Magno, quanto fossero
insussistenti i sospetti disseminati contra di lui da papa Adriano. Già
erano insorte liti fra _Costantino_ giovane imperadore dei Greci e
_Carlo Magno_, perchè questi, secondochè scrive Eginardo[543], ruppe il
trattato di dar la figliuola _Rotrude_, destinata in moglie ad esso
Augusto Costantino: il che indusse _Irene_ a cercarne altra al
figliuolo: e questa fu una giovane armena. Spedì ne' medesimi tempi la
indispettita imperadrice Irene in Sicilia una forte squadra di navi e di
combattenti, con ordine di assalire il ducato di Benevento. Era, per
attestato del suddetto Eginardo, alla testa di quest'armata _Adelgiso_
figliuolo del re Desiderio, chiamato _Teodoro_ da' Greci; ed è da
credere che Adelgiso vi andasse volentieri per la speranza di tirar ne'
suoi voleri il duca Grimoaldo suo nipote, perchè figliuolo di
_Adelberga_ sua sorella tuttavia vivente. Ma Grimoaldo, lungi dal cedere
a tali batterie, e dal volere effettuare i trattati seguiti, come ci fan
credere le lettere di papa Adriano, tra Arigiso suo padre e i Greci:
stette nella fedeltà verso il re Carlo e verso il re d'Italia Pippino.
Prese dunque l'armi per opporsi ai Greci, chiamò in aiuto suo
_Ildebrando_ duca di Spoleti, ed essendo anche stato spedito al primo
suono di questi rumori da Carlo Magno _Guinigiso_ per suo inviato con
alquanti Franzesi a Benevento, affinchè vegliasse sopra gli andamenti
de' Greci e dei due duchi di Benevento e Spoleti: si venne finalmente ad
un fatto d'armi. Riuscì questo favorevole ai principi e soldati
longobardi, che con poco lor danno fecero grande strage de' Greci, ed
ebbero in lor potere un ricco bottino con assaissimi prigioni. Se
vogliam credere a Teofane[544], l'infelice Adelgiso lasciò la vita in
quella sconfitta; ma altri scrivono ch'egli vecchio terminò i suoi
giorni in Costantinopoli. Con questa azione dovette Grimoaldo
accreditarsi non poco presso di Carlo Magno. Oltre di che, in questi
primi tempi egli non ebbe difficoltà di comparir senza barba al mento,
salvo sempre l'orrido ornamento dei lunghi mustacchi, e di mettere nelle
monete e in primo luogo negli strumenti il nome del sovrano suo Carlo,
senza però eseguir l'obbligo di atterrar le fortificazioni di Salerno,
Acerenza e Consa.

In questi tempi avvenne che _Tassilone_ duca di Baviera, a persuasione
di _Luidburga_ sua moglie, figliuola del già re Desiderio, pentito de'
giuramenti prestati e della suggezione promessa al re Carlo, che forse
inchiudeva delle dure condizioni, tornò a cozzare con lui. Accusato si
presentò davanti al re, e convinto di aver trattato con gli Avari, ossia
con gli Unni, padroni della Pannonia; d'aver macchinato contro la vita
dei fedeli del re, e d'aver detto che, se egli avesse avuto dieci
figliuoli, piuttosto li perderebbe che sofferire i patti per forza
stabiliti col re Carlo: corse pericolo della vita. Gli ebbe misericordia
il re; ma deposto dal ducato si elesse di terminare i suoi giorni con
_Teodone_ suo figliuolo in un monistero, dove professò la vita
monastica, e attese a far penitenza de' suoi peccati. In fatti non passò
gran tempo che gli Avari, secondo le promesse da lor fatte a Tassilone,
messi insieme due eserciti, coll'uno assalirono la marca del Friuli, e
coll'altro la Baviera. A far loro fronte non furono pigri i popoli
d'Italia e i Franchi; e seguirono in tutti e due quei luoghi dei fieri
combattimenti, ne' quali restarono rotti e posti in fuga que' Barbari.
Tornarono costoro con altre forze per far vendetta contra de' Bavaresi,
ma per la seconda volta furono sconfitti e respinti, con lasciare sul
campo una gran quantità di morti, senza quelli che affogarono nel
Danubio. A quest'anno pertanto son io d'avviso che appartenga una
notizia, a noi conservata da un documento veronese, che fu pubblicato
dal Panvinio, e poscia dall'Ughelli[545]. Raccontasi quivi che a' tempi
di Pippino re d'Italia, quando egli era tuttavia fanciullo, gli Unni,
con altro nome chiamati Avari, fecero una irruzione in Italia, per
vendicarsi dell'esercito francese e del duca del Friuli, che spesso
faceano delle scorrerie nella Pannonia signoreggiata allora da essi
Unni. Di ciò avvertito il re Carlo, ordinò tosto che si rimettessero in
piedi le fortificazioni di Verona, per la maggior parte scadute. Fece
rifar le mura, le torri e le fosse tutte all'intorno d'essa città, e vi
aggiunse una buona palizzata. Lasciò ivi _Pippino suo figliuolo_, e
_Berengario suo legato_ fu inviato per assistergli e difendere quella
città. Potrebbe essere che questo _Berengario_ padre di _Unroco_ conte,
fosse antenato di _Berengario_ che fu poi re d'Italia, e poscia
imperadore, siccome vedremo. In tal congiuntura nata disputa, se
toccasse agli ecclesiastici il fare la terza o la quarta parte d'esse
mura, non si poteva con buon fondamento decidere la controversia; perchè
sotto i Longobardi la città non avea bisogno di riparazioni,
bastevolmente munita dal _pubblico_; ed occorrendo qualche rottura,
veniva tosto riparata dal vicario della città. Fu pertanto rimessa la
decision della lite (secondo i riti strani, creduti in quel tempo
religiosi, ma da noi ora conosciuti superstiziosi,) al _giudizio della
croce. Aregao per la parte pubblica, Pacifico per la parte del vescovo_,
amendue giovanotti robusti, il primo de' quali fu poi arciprete, e
l'altro arcidiacono della Chiesa maggiore, si posero colle mani
sollevate a guisa di croce, oppure alzate in alto davanti all'altare, in
cui si cominciò la messa, e fu letto il Passio di san Matteo. Ma non si
arrivò alla metà d'esso Passio, che ad Aregao, ossia Argao, vennero men
le forze e cadde per terra. Pacifico stette saldo sino alla fine del
Passio, e per conseguente fu proclamato vincitore, gli ecclesiastici
obbligati solo alla quarta parte di quell'aggravio. Non si sa nondimeno
ben intendere come Verona fosse in quest'anno sì abbattuta di
fortificazioni, quando nell'anno 773 e 774 fece sì gran resistenza ai
Franchi, e vi ebbe sì lungo asilo Adelgiso figliuolo del re Desiderio:
se pure in quell'assedio non avessero patito di molto le mura, senza poi
prendersi cura alcuna di ristorarle.

NOTE:

[539] Erchempert., Chron. P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[540] Eccard., Rer. Franc., lib. 22, pag. 382.

[541] Anonymus Salernitan., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[542] Baron., in Annal. Eccl.

[543] Eginhardus, in Annal. Francor. Annal. Loiselian.

[544] Theoph., in Chronogr.

[545] Ughell., Ital. Sacr. tom. 2 in Episcop. Veronensib.



    Anno di CRISTO DCCLXXXIX. Indiz. XII.

    ADRIANO I papa 18.
    COSTANTINO imperad. 14 e 10.
    IRENE Augusta 10.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 16.
    PIPPINO re d'Italia 9.


Fino a quest'anno aveva il duca _Ildebrando_ lodevolmente governato il
ducato di Spoleti, e mantenuta buona armonia col re _Carlo_ e con
_Pippino_ re d'Italia; ma gli convenne pagare il tributo che tutti
dobbiamo alla natura. In lui perderono i Longobardi un principe
commendabile della lor nazione, a cui fu sostituito un altro, ma di
nazion franzese. Questi fu _Winigiso_, ossia _Guinigiso_, o _Guinichis_,
quel medesimo che nel precedente anno era stato spedito in Italia da
Carlo Magno per assistere al duca di Benevento nella guerra contra de'
Greci. Bernardino de' Conti di Campello[546] differì sino all'anno 791
la morte d'Ildebrando, e l'esaltazione di Guinigiso; ma è fuor di dubbio
che all'anno presente egli fu creato duca di Spoleti. Ne abbiamo la
testimonianza del catalogo antichissimo di que' duchi[547], posto avanti
alla Cronica di Farfa, e inoltre ce ne assicurano le memorie d'esso
monistero farfense, da me pubblicate[548], dove si legge una carta
scritta _anno Karoli et Pippini XVII et IX temporibus Guinichis ducis
Spoletani anno I, mense octobris, Indictione XIII_, con altri simili
coerenti all'epoca stessa. Se vogliam credere alla Cronica
moissiacense[549], in quest'anno vennero in Italia con un'armata navale
tre patrizii spediti da _Costantino_ imperadore per ricuperare l'Italia;
ma furono sbaragliati dai Longobardi uniti col messo del re Carlo. Ha
creduto taluno che questa sia impresa diversa da quella dell'anno
precedente, quando evidente è che si parla del medesimo fatto, ma
rapportato fuori di sito. Per conghiettura poi vien creduto che
nell'anno presente fosse scritta da papa _Adriano_ al re Carlo la
lettera ottantesima quinta del Codice Carolino, da cui si scorge che non
mancavano persone seminatrici di zizzanie fra esso papa e Carlo.
Duolsene forte il papa; e perchè il re anche egli si doleva d'avere
inteso, come in Italia avea voga la simonia, confessa il medesimo
pontefice che pur troppo si osservava questo iniquo mercato delle chiese
in qualche luogo, e massimamente nella provincia di Ravenna: vizio
nondimeno disapprovato e combattuto sempre dalla Sede apostolica, la
quale non consecrava mai vescovi che puzzassero di quell'infamia.
Finalmente dopo altri punti viene a parlare di certi uomini
dell'esarcato di Ravenna e della Pentapoli, iti in Francia per portare,
come credeva il papa, delle doglianze e delle sinistre relazioni al re
Carlo contra del papa medesimo. Vero è avere scritto esso Carlo che
costoro nulla di male aveano rapportato a lui in pregiudizio del
pontefice, e che anzi ne aveano parlato in bene: contuttociò si lagna
Adriano, perchè senza permissione e passaporto suo s'avvezzino a far dei
ricorsi al re, aggiugnendo queste rilevanti parole: _Ipsi vero
Ravenniani et Pentapolenses, ceterique homines, qui sine nostra
absolutione ad vos veniunt, fastu superbiae elati, nostra ad justitias
faciendas contemnunt mandata, et nullam ditionem, sicut a vobis beato
Petro apostolo, et nobis concessa est, tribuere dignantur._ Però Adriano
il prega di non fare novità nell'olocausto fatto a san Pietro da Pippino
suo padre, e dallo stesso re Carlo confermato, _quia, ut fati estis,
honor patriciatus vestri a nobis irrefragabiliter conservatur, etiam et
plus amplius honorifice honoratur: simili modo ipse patriciatus beati
Petri, fautoris vestri, tam a sanctae recordationis domno Pippino, magno
rege, genitore vestro, in integro concessus, et a vobis amplius
confirmatus irrefragabili jure permaneat_. Pertanto, siccome non soleano
vescovi, conti ed altri uomini venire di Francia a Roma senza passaporti
del re, così non dee dispiacere ad esso che anche gli uomini del papa,
_qualiscumque ex nostris aut pro salutationis caussa, aut QUAERENDI
JUSTITIAM ad vos properaverint_, vi vadano col passaporto del papa
medesimo. Diedero motivo le suddette parole a Pietro de Marca,
arcivescovo di Parigi[550], di credere che Roma fosse allora sottoposta
a due patrizii, cioè al papa e a Carlo Magno. Ma il padre Pagi[551] più
giudiziosamente osservò che i papi non furono mai patrizii di Roma;
Carlo bensì essere stato patrizio di Roma, perchè difensore della Chiesa
e del popolo di Roma: dignità nondimeno solamente d'onore. Perciocchè i
Romani, levatisi dall'ubbidienza dell'imperadore, aveano formata una
repubblica, di cui era capo il romano pontefice; nè Carlo Magno vi
esercitava giurisdizione se non per difendere i Romani. Però per
_putriziato del papa_ si dee intendere il dominio a lui spettante
nell'esarcato di Ravenna e della Pentapoli per concession di Pippino e
di Carlo re de' Franchi. Anche Giovan-Giorgio Eccardo[552] riconobbe
essere consistito il patriziato pontifizio nella giurisdizione sopra le
città di Ravenna e della Pentapoli, ma con aggiugnere: _Patriciatum
romanum cum urbe Roma regibus Francorum integre ubjectum fuisse, neque
pontifices sibi quidquam in eo jurisdictionis, aut ditionis arrogasse_.

Certo non è cosa facile il poter rischiarare senza pericolo d'ingannarsi
il sistema di que' governi, e ciò per mancanza di documenti e notizie.
Contuttociò tengo anch'io per infallibile che per _patriziato di s.
Pietro_, ossia del romano pontefice, si abbia da intendere la signoria
de' papi sopra le provincie di Ravenna e della Pentapoli. La stessa
epistola ottogesima quinta, da noi veduta qui sopra, sufficientemente
l'addita; perchè si tratta d'uomini di quelle provincie che faceano
ricorso al re Carlo contro la volontà e i diritti del papa. Ma questi
medesimi ricorsi e la concession di quelle contrade fatte dal re
Pippino, e la confermazione accordatane dal re Carlo, con altri atti
accennati di sopra, c'inducono a credere che l'alto dominio sopra quelle
provincie fosse ritenuto non men da Pippino che da Carlo Magno. Pippino
coll'armi le avea ritolte ai Longobardi, e ne dispose in favore della
Chiesa romana, ma ritenendo l'uso degli altri beni d'allora donati alle
chiese, sopra i quali i re e gli imperadori conservavano la loro
sovranità. Lo stesso nome di _patrizio_ indica dipendenza da qualche
sovrano. Per conto poi del _patriziato de' Romani_ conferito ai re
franchi, non sappiam bene come passasse la faccenda. Io bramerei di
poter dire che i pontefici fossero allora, come sono da più secoli in
qua, sovrani di Roma e del suo ducato, e che il _patriziato_ di Carlo
Magno si riducesse ad un titolo solo privo di dominio. Ma l'immaginarsi
che questo in altro non consistesse che in una dignità d'onore, per cui
il re si obbligava alla difesa della Chiesa e del popolo di Roma, non
s'accorda colla vera idea del patriziato, allorchè si conferiva per
governar popoli. Il _patrizio di Ravenna_, chiamato esarco ne' tempi
addietro, comandava a Ravenna, alla Pentapoli e a Roma stessa. Così il
_patrizio della Sicilia_, e così i papi in vigore del loro patriziato
esercitavano signoria e giurisdizione nell'esarcato di Ravenna. Che il
_patriziato romano_ di Carlo Magno fosse diverso, non apparisce; ed
Anastasio[553] attesta che quando Carlo Magno nell'anno 774 andò a Roma,
il sommo pontefice Adriano _obviam illi dirigens venerandas cruces,
idest signa, sicul mos est ad exarchum aut patricium suscipiendum, eum
cum ingenti honore suscipi fecit_. Ed appena creato, siccome vedremo,
papa Leone III, nell'anno 792, _mox per legatos suos claves confessionis
sancti Petri, ac vexillum romanae urbis, cum aliis muneribus regi_
(Carolo) _misit, rogavitque, ut aliquem de suis optimatibus Romam
mitteret, qui populum romanum ad suam fidem atque sujectionem per
sacramenta firmaret_. Questo porgere il vessillo è il segno adoperato
per conferire la signoria: il che si può anche osservare nelle antiche
monete de' dogi di Venezia. Indizio di questo son parimente le chiavi.
Gregorio III pontefice, in una lettera scritta a Carlo Martello, nomina
_claves confessionis beati Petri, quas vobis AD REGNUM direximus_. E
Paolo Diacono[554] scrivendo a Carlo Magno, non per anche divenuto
imperadore, gli dicea: _Et praecipue civitatis vestrae romuleae viarum,
portarum, etc, vocabula diserta reperietis._ Questi son passi che non si
accordano coll'opinione del padre Pagi, secondo il cui parere il
patriziato romano di Carlo Magno portava seco solamente l'obbligo e
l'onore della difesa del papa romano. Ma ne' suoi atti quel monarca
s'intitolava _patrizio de' Romani_, cioè con titolo indicante signoria,
come l'indicava senza fallo il chiamarsi ancora _re de' Franchi e
Longobardi_. Nè dice egli patrizio _della Chiesa romana_, ma sì bene
_de' Romani_. Erano voci sinonime in questi tempi i titoli di console,
duca e patrizio, e tutte portavano signoria, come si può vedere nei dogi
di Venezia, ne' duchi di Napoli e di Gaeta[555].

Dalla lettera ottantesima ottava del Codice Carolino scritta da papa
Adriano al re Carlo, siccome vedemmo di sopra, si ricava che Arigiso
duca di Benevento mandò al greco imperadore i suoi inviati, petens
auxilium _et honorem patriciatus una cum ducatu beneventano sub
integritate, promittens ei tam in tonsura quam et in vestibus usu
Graecorum perfrui, sub ejusdem imperatoris ditione_: cioè si esibiva di
diventar vassallo del greco Augusto, godendo il dominio del ducato di
Benevento colla giunta di Napoli, e intitolandosi _patrizio_. Ed appunto
uso fu degl'imperadori greci di conferire la podestà principesca con
questo titolo solo, perchè quello di re involveva la totale independenza
da altri sovrani. Così Zenone Augusto dichiarò _patrizii_ d'Italia
_Odoacre_ e _Teoderico_, che, non contenti di questo, assunsero il nome
di re. Ed Anastasio imperadore diede anch'egli il titolo di _patrizio_ a
_Clodoveo_ il Grande re di Francia, conquistator della Gallia, per
tacere altri esempi, secondo i quali anche i papi e il senato romano
elessero per loro _patrizii_, cioè principi, _Pippino_ e _Carlo Magno_
re de' Franchi; nè conferirono ad essi il titolo d'_Imperadore_ per
qualche rispetto che durava tuttavia verso i Greci Augusti, e per non
inasprir maggiormente le cose. Fors'anche nelle ambascerie, che non
poche seguirono fra i suddetti due re franchi e gl'imperadori greci,
procurarono i primi che fosse approvata questa lor dignità e podestà
dalla corte imperiale, con riconoscere tuttavia la sovranità d'essi
Augusti. Tutto quanto ho detto fin qui pare assai fondato. Ma che è da
dire dell'opinion dell'Eccardo, il qual pretende che, posto il
patriziato di Pippino e Carlo Magno, i papi non godessero giurisdizione
e dominio alcun temporale? Fu di sentimento il padre Pagi che Roma si
governasse allora a repubblica, di cui fosse capo il papa. È ella ben
fondata quest'altra opinione? E poi onde apparisce l'esercizio
dell'autorità in Roma, poco fa attribuita al patrizio? Convien
confessarlo: restano qui molte tenebre, nè si può decidere per mancanza
d'antiche memorie. Tuttavia sia lecito a me di dire che quel passo della
lettera ottantesima quinta fa gran forza, per indurci a credere che il
_patriziato di Carlo_ in Roma portasse dominio temporale, nè poter
sussistere la repubblica mera e independente, immaginata dal padre Pagi.
Pare bensì più verisimile che Roma allora fosse governata a nome del
patrizio, ossia con dipendenza dal patrizio, dal senato e dagli altri
magistrati, ne' quali io non ho difficoltà di riconoscere qualche forma
di repubblica e di padronanza. Le lettere del Codice Carolino fanno
vedere che ivi era il _senato_, ivi il _prefetto della città_. Se ci
restassero le lettere scritte da questi a Carlo, si conoscerebbe
probabilmente che la loro autorità, ammettendo ancora capo del senato e
d'essa repubblica il pontefice, dipendeva dal patrizio. Abbiamo anche
veduto che in Roma stavano i Franchi di Carlomanno fratello d'esso
Carlo; par bene che parimente Carlo vi tenesse i suoi. E noi sappiamo,
come si vedrà andando avanti, che i _prefetti di Roma_ erano ivi posti
dagl'imperadori, perchè esercitassero la giustizia punitiva. Inoltre si
osservi che nelle lettere del Codice Carolino si parla tanto del dominio
dei papi sull'esarcato, e nulla del dominio d'essi in Roma. Che se i
pontefici di questi tempi mostrano tanta premura per la difesa e
ingrandimento del ducato romano, nulla di più fanno che si facesse san
Gregorio Magno, il quale niun dirà che fosse padron di Roma. Comunque
sia, meglio è in questa oscurità di cose confessar la nostra ignoranza,
che decidere senza valevoli pruove dello stato delle cose d'allora. Io
so non mancar persone che mal volentieri odono trattati questi punto di
storia; ma è da desiderare che ognuno anteponga ai privati suoi affetti
l'amore della verità, nè si metta a volere stabilir colle idee de' tempi
presenti quelle degli antichi secoli; siccome all'incontro è di dovere
che ognuno rispetti il presente sistema degli stati e governi,
confermato dalla prescrizione di tanti secoli, senza pretendere di
prender legge da' vecchi secoli per regolare i presenti.

NOTE:

[546] Campelli, Istoria di Spoleti, lib. 15.

[547] Chron. Farfense, P. II, T. II Rer. Ital.

[548] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.

[549] Chronic. Moissiacense.

[550] Marca da Concord., lib. 3, cap. 11.

[551] Pagius, in Critic. ad Annal. Baron. Ad hunc ann. 789.

[552] Eccard., Rer. Franc., lib. 25, cap. 38.

[553] Anastas., in Vit. Hadriani I.

[554] Paulus Diacon., in Praefat. ad Festum.

[555] _Con diversità però, imperciocchè i dogi di Venezia erano principi
indipendenti ed eletti dal popolo, e non riconoscevano altri sovrani,
quando i duchi di Gaeta e di Napoli eletti a principio dagl'imperadori
riconoscevano la di loro sovranità, o alto dominio._



    Anno di CRISTO DCCXC. Indizione XIII.

    ADRIANO I papa 19.
    COSTANTINO imper. 15 e 11.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 17.
    PIPPINO re d'Italia 10.


In quest'anno, secondo gli Annali dei Franchi, niuna spedizion militare
fu intrapresa da _Carlo Magno_. Solamente sappiamo[556] che mentr'egli
dimorava in Vormazia, vennero a trovarlo gli ambasciatori degli Avari,
ossia degli Unni, padroni allora della Pannonia, oggidì chiamata
Ungheria. Sino ai confini del loro dominio si stendevano i dominii di
Carlo Magno, siccome padrone della Baviera; e lite appunto era fra loro
a cagion d'essi confini. Non si potè venire ad un accordo, e di qui ebbe
principio una nuova guerra, che nell'anno seguente accenneremo
principiata contra di quei Barbari. Avea poi fin qui l'imperadrice
_Irene_ tenute le redini del governo in Oriente, lasciando solamente il
nome di padrone al figliuolo _Costantino_ Augusto. Ma essendo egli
giunto all'età di venti anni, insorsero de' consiglieri[557] che gli
insinuarono non aver egli più bisogno di nutrice per governare i suoi
popoli, ed essere tempo di levare il maneggio alla ambiziosa madre e a
_Stauracio_ patrizio, che era dispotico della corte. Abbracciò
Costantino il consiglio; ma scoperta la congiura, Irene e Stauracio
infierirono contra dei complici. Nulladimeno dichiaratesi le armate in
favore del giovane imperadore, Irene Augusta fu costretta a cedere e a
ritirarsi nel palazzo fabbricato da Eleuterio per quivi menar vita
privata. Restò con ciò Costantino solo al governo degli stati, dopo
essere stato tenuto assai basso in addietro, senza che i sudditi
osassero di presentarsi all'udienza di lui; ma anch'egli sfogò dipoi la
sua collera e vendetta contra di Stauracio, e degli altri uffiziali e
favoriti di sua madre.

NOTE:

[556] Eginhardus, in Annal. Franc.

[557] Theoph., in Chronogr.



    Anno di CRISTO DCCXCI. Indizione XIV.

    ADRIANO I papa 20.
    COSTANTINO imper. 16 e 12.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 18.
    PIPPINO re d'Italia 11.


Diede Carlo Magno in quest'anno principio alla guerra contro gli Unni
possessori dell'Ungheria, gente pagana ed avvezza a commettere delle
insolenze contra dei Cristiani, sudditi del monarca medesimo[558]. Sulla
primavera con due armate, l'una di qua e l'altra di là dal Danubio, andò
ad assalire i nemici. Pel Danubio scendeva un copioso naviglio che
conduceva i viveri. Concorsero le nazioni tutte della monarchia
franzese, e gl'Italiani fra gli altri spediti dal re _Pippino_, a quella
impresa, di maniera che formidabili riuscirono le forze del re Carlo in
questa guerra. Tuttavia, se si eccettua la presa e la demolizione di
alcune fortezze degli Unni situate ai confini, poco di più guadagnò la
possente armata franzese, nè oltrepassò il fiume Rab. Anzi essendo
entrata una fiera epidemia ne' cavalli, di tante migliaia, onde era
composto quell'esercito, appena se ne salvò la decima parte. Però se ne
tornò indietro il re Carlo mal contento di questa campagna. Contuttociò
servì a lui di molta consolazione l'avviso ricevuto, che verso il fine
d'agosto l'armata d'Italia era giunta anch'essa addosso agli Avari, cioè
agli Unni suddetti, e che, arrischiato un fatto d'armi, avea con tal
valore e felicità combattuto, che da gran tempo non si era fatta una
simile strage di que' Barbari. A noi viene questa particolarità da una
lettera scritta dal re Carlo alla regina _Fastrada_, dimorante allora in
Ratisbona, che fu pubblicata dal padre Sirmondo[559] e dal
Du-Chesne[560]. Negli Annali del Canisio si legge, _exercitum, quem
Pippinus filius de Italia transmiserat, introivisse in Illyricum_. Non
avendo poi trovato sito proprio ne' precedenti anni all'epistola
settantesima terza del Codice Carolino, mi sia lecito il farne ora
menzione, benchè forse non appartenga all'anno presente. È essa scritta
a _Carlo Magno_ da due preti, da alcuni diaconi, e da una gran frotta di
altri segnati col solo nome loro, non si sa se del clero, oppure
secolari o senatori romani. Gli scrivono essi che i _nefandissimi_
Beneventani, unitisi con quei di Gaeta e di Terracina, tramavano di
usurpare e levare dal dominio _di s. Pietro e nostro_, alcune città
della Campania, e di sottometterle al patrizio greco della Sicilia,
venuto in questi tempi alla stessa città di Gaeta. Aveva il papa inviato
loro alcuni vescovi per dissuaderli, ed insieme per consigliarli che
mandassero i loro deputati ad esso Carlo Magno, oppure a Roma, per
esaminar gli affari; ma nè lo uno nè l'altro s'era potuto ottenere.
Pertanto soggiungono: _Dum vero eorum nequitiae praevalere minime
potuimus, disposuimus cum Dei virtute atque auxilio, una cum vestra
potentia generalem nostrum exercitum illuc dirigere, qui eos
constringere debeat, et inimicos beati Petri, atque nostri, seu vestri
emendare_. Dopo di che pregano il re Carlo di volere spedir lettere e
messi ai _nefandissimi e odiati da Dio Beneventani_ (questo era il bel
linguaggio d'allora), acciocchè desistano da queste inique operazioni, e
lascino in pace le città della Campania. Queste ultime parole fanno
intendere che si parla di fatti accaduti dopo l'anno 787, perchè prima i
Beneventani non ubbidivano a Carlo Magno. Per altro la presente lettera,
benchè abbia alla testa il nome di molti, apparisce scritta dal medesimo
papa Adriano, perchè chiama _figliuolo_ il re, e nomina _Teodoro
eminentissimo nostro nipote_. Tornando ora alla lettera che dicemmo di
sopra scritta alla regina Fastrada, Carlo Magno, fra le altre cose, ivi
le notifica, come nella battaglia data agli Unni dall'armata d'Italia,
_Dux de Histria, ut dictum est nobis, ibidem bene fecit cum suis
hominibus_. Cotal notizia ci conduce ad intendere che l'Istria, già
tolta dai Longobardi ai Greci, era pervenuta, insieme col regno
longobardico, in potere de' Franchi, oppure che era riuscito a Pippino
re d'Italia di riconquistar quella provincia insieme colla _Liburnia_,
togliendola ai Greci, probabilmente nell'anno 788, in cui i Franchi
fecero guerra al ducato di Benevento. Eginardo[561] in fatti ci assicura
che quelle due provincie erano venute in potere di Carlo Magno, e però
il duca _dell'Istria_ anch'egli entrò nella spedizione contra degli
Unni. Restò afflitta in quest'anno, per attestato di Anastasio[562], la
città di Roma da una fiera inondazione del Tevere, che atterrò la porta
Flaminia, il ponte d'Antonino, e cagionò altri gravissimi disordini. Con
paterna cura papa Adriano provvide in tal congiuntura agli alimenti de'
poveri, dando loro con barchette il pane, finchè cessò la furiosa piena
di quel fiume.

NOTE:

[558] Annal. Franc. Bertiniani, Fuldenses, etc.

[559] Sirmondus, Concil. Gal., tom. 2.

[560] Du-Chesne, Rer. Franc., tom. 2, p. 187.

[561] Eginhardus, in Vita Caroli Magni.

[562] Anastas., in Vita Hadriani I Papae.



    Anno di CRISTO DCCXCII. Indizione XV.

    ADRIANO I papa 21.
    COSTANTINO imper. 17 e 13.
    CARLO MAGNO re de Franchi e Longobardi 19.
    PIPPINO re d'Italia 12.


Scoppiò in quest'anno la congiura ordita contra del padre e de' fratelli
da _Pippino_ figliuolo bastardo nato a Carlo Magno da Imeltruda
concubina, e diverso da Pippino re d'Italia. Questo giovane principe,
bello di aspetto, ma gobbo, non sapea digerire che il re Carlo avesse
già creato re d'Italia _Pippino_, e re d'Aquitania _Lodovico_, e dato il
governo del Maine a _Carlo_ suo primogenito, tutti e tre suoi fratelli,
ma legittimi. Perciò, durante la lontananza del padre impegnato nella
guerra con gli Unni, badando a dei cattivi consiglieri, e trovati degli
aderenti che erano mal soddisfatti della regina _Fastrada_[563], tramò
una congiura contro la vita di lui, con isperanza d'occupar egli il
regno. Fardolfo longobardo quegli fu che scoprì la segreta mena, e la
rivelò al re Carlo, con riceverne poi in ricompensa l'insigne badia di
s. Dionisio di Parigi. Era stato questo Fardolfo uno dei più fedeli
cortigiani del re Desiderio, e con esso lui andò in esilio in Francia.
Dopo la morte di Desiderio si mostrò non men fedele al re Carlo, e
meritò da lui quel ricco guiderdone. Restano presso il Du-Chesne[564]
due epigrammi, dai quali apparisce che questo Fardolfo abbate fabbricò
un palazzo presso il monistero di s. Dionisio per servigio del re Carlo,
e inoltre una chiesa a san Giovanni Battista, per isciogliere un voto da
lui fatto allorchè andò in Francia in esilio. Gli autori del suddetto
scellerato disegno condotti a Ratisbona, parte furono impiccati, parte
accecati, e gli altri relegati in varii paesi. Non soffrì il cuore al
buon re di pagare l'indegno figliuolo a misura del suo reato, e
contentossi che assumesse l'abito monastico nel monistero di Prumia,
dove nell'anno 811, per attestato dell'Annalista sassone, terminò i suoi
giorni. Leggiamo poi in varii Annali dei Franchi, che convinto in
quest'anno di eresia _Felice_ vescovo di Urgel in Catalogna, fu condotto
a Roma da _Angilberto_ abbate di Centula, cioè da quel medesimo illustre
personaggio che vedemmo all'anno 783 primo tra i consiglieri di
_Pippino_ re d'Italia, il quale dovea già aver dato l'addio al secolo.
Ma in alcuni Annali egli è qui nominato senza il titolo di abbate.
Giunto a Roma il suddetto Felice, nel concilio de' vescovi alla presenza
di papa Adriano confessò e ritrattò la sua eresia, ed ottenne di
potersene ritornare a casa sua. Il solo Astronomo, ossia l'autore
anonimo della vita di Lodovico Pio[565], ci ha conservata una notizia
spettante, per quanto si crede, all'anno presente; cioè, che tornato
esso Lodovico re d'Aquitania dalla spedizione fatta contro degli Unni
della Pannonia nell'anno precedente, ebbe ordine da Carlo Magno suo
padre di andarsene in Aquitania, e poscia _fratri Pippino suppetias, cum
quantis posset copiis, in Italiam pergere. Cui obediens, Aquitaniam
autumni tempore rediit, omnibusque, quae ad tutamen regni pertinent,
ordinatis, per montis Cinisii asperos et flexuosos anfractus in Italiam
transvehitur, atque Natalem Domini Ravennae celebrans, ad fratrem
venit_. Ciò che ne seguisse, lo vedremo nell'anno susseguente. Intanto
non vo' lasciar di dire che il Sigonio scrisse[566] le seguenti parole
di Pippino re di Italia: _Dum autem is in Italia fuit, Ravennae
plerumque egit, aut vetere urbis amplitudine, aut certe navalis rei
administrandae opportunitate inductus_. Girolamo Rossi[567] anch'egli,
aderendo al Sigonio, scrisse che Pippino stabilì per sua sede Ravenna,
con immaginar nondimeno ciò fatto con licenza e permissione del sommo
pontefice. Non trovo io sicure e chiare pruove di tali asserzioni. Le
parole nondimeno del soprammentovato Astronomo paiono dar qualche
fondamento all'opinion del Sigonio. Attese in quest'anno il re Carlo a
far dei preparamenti, e specialmente un ponte di navi, con disegno di
sperimentare di nuovo le sue forze contra degli Unni, signori della
Pannonia. Ma gli stessi Barbari segretamente istigarono alcuni popoli
della Sassonia a ripigliar l'idolatria, cioè a ribellarsi al re Carlo:
il che disturbò i di lui disegni.

NOTE:

[563] Eginhardus, in Vita Caroli Magni, cap. 20. Ann. Francor. Canis.

[564] Du-Chesne, tom. 2 Rer. Franc., p. 645.

[565] Apud Du-Chesne, tom. 2 Rer. Franc.

[566] Sigonius, de Regno Italiae, ad ann. 781.

[567] Rubeus, Histor. Raven., lib. 5.



    Anno di CRISTO DCCXCIII. indizione I.

    ADRIANO I papa 22.
    COSTANTINO imper. 18 e 14.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 20.
    PIPPINO re d'Italia 13.


Sul principio di quest'anno, per testimonianza dell'Astronomo, autore
della vita di Lodovico Pio, uniti insieme i due re fratelli, cioè
_Pippino_ e _Lodovico_, con tutte le loro forze, portarono la guerra nel
ducato beneventano, diedero il sacco dove giunsero, ma senza
impadronirsi d'altro che di un miserabil castello. Passato il verno, se
ne tornarono amendue prosperosamente a trovare il padre, ma col
dispiacer d'intendere la ribellion di Pippino lor fratello naturale,
scoperta nondimeno e gastigata colla morte di molti nobili che aveano
tenuta mano al trattato. Motivo a questa guerra contro i Beneventani
potrebbe aver dato la lettera settantesima terza di papa Adriano,
accennata da me nell'anno 791, se in quello fosse stata veramente
scritta. Ma noi abbiam senza questo da Erchemperto[568] storico le
cagioni di rottura fra Pippino re d'Italia e i Beneventani. Comandava
allora a quell'ampio ducato, siccome è detto di sopra, _Grimoaldo_,
principe accorto e valoroso, che, ereditate le massime di suo padre,
cioè voglioso dell'indipendenza dai Franzesi, dimenticò in breve le
promesse e i patti stabiliti con _Carlo Magno_, allorchè gli fu
conceduto colla libertà il ducato. Sui principii del suo governo attenne
la parola, facendo mettere il nome d'esso re Carlo ne' soldi d'oro
ch'egli facea coniare, e ne' pubblici strumenti, per riconoscere la di
lui sovranità. Ma da lì a non molto lasciò anche queste usanze, e
cominciò a non voler che i Franchi gli facessero da padroni e maestri
addosso. Erasi egli impegnato di smantellar le fortificazioni di
Salerno, Acerenza e Consa. Abbiamo dall'Anonimo salernitano[569],
ch'egli fece diroccar le mura di Consa, ma senza dolor di testa, perchè
quella città a cagione del sito anche senza mura si poteva difendere.
Parimente venuto ad Acerenza, la fece tutta spianare; ma ordinò che se
ne fabbricasse un'altra più forte in sito vantaggioso, cioè sopra un
monte. Restava Salerno, che anch'esso doveva spogliarsi di
fortificazioni, ed aveva Grimoaldo già fatto dar principio ad una nuova
città in vicinanza nel luogo chiamato _Veteri_; ma non sapea ridursi a
rovinar sì bella e forte città, come era l'antica. Allora fu che uno se
gli esibì di trovar ripiego per soddisfare all'obbligo contratto, e
salvare nello stesso tempo la città, purchè gli fosse data la ricca
veste di vaio, cioè la pelliccia, che il duca Arigiso di lui padre solea
portare nel dì di Pasqua. Costui gl'insegnò di abbattere alcune mura di
Salerno, con alzarne appresso dell'altre, che rendevano più sicura ed
inespugnabile la città, con che egli si diede ad intendere di aver
mantenuto l'obbligo contratto e il giuramento prestato a Carlo Magno.
Prese anche per moglie _Wanzia_ nipote di _Costantino_ imperadore de'
Greci: andamenti e fatti tutti che sommamente dispiacquero a _Pippino_
re di Italia, e l'indussero a muovere guerra ad esso Grimoaldo, per
desiderio di fargli abbassare il capo. Perchè sì presto terminasse la
guerra suddetta, senza saper noi se Grimoaldo con qualche capitolazione
si sbrigasse da questi insulti, resta ignoto. Si può nondimeno credere
che convenisse ai Franchi di ritirarsi in fretta, perchè, secondo gli
Annali moissiacensi[570], sì il ducato beneventano che l'esercito
franzese patì in questi tempi una fiera carestia, la quale si stendeva
per tutta l'Italia, ed anche per la Francia. Oltre a ciò, sappiamo dal
suddetto Erchemperto, che assalito dall'armi franzesi il duca Grimoaldo,
per dar loro qualche soddisfazione, ripudiò all'ebraica la suddetta
moglie, quantunque ciò non bastasse per quetare lo sdegno de' Franchi
contra di lui. Ma se questo ripudio succedesse nell'anno presente, non
v'è storia che lo additi. Mentre si preparava il re Carlo per portare di
nuovo la guerra nella Pannonia, si vide obbligato a mutar per allora
pensiero; perchè dall'un canto udì che i Sassoni a sommossa degli Unni
s'erano ribellati; e dall'altro, che i Saraceni della Spagna aveano
rotta la pace, già stabilita con _Lodovico_ re d'Aquitania suo
figliuolo. In fatti abbiamo dai mentovati Annali moissiacensi, che
vedendo quegl'infedeli impegnato Carlo Magno nella guerra degli Unni,
presero il tempo, e con un poderoso esercito vennero nella Settimania,
oggidì Linguadoca, bruciarono i borghi di Narbona, e condussero via un
immenso bottino d'uomini e di robe. Nell'andar che costoro faceano alla
volta di Carcassona, presentossi loro a fronte _Guglielmo_ conte, ossia
duca di Tolosa, che fu poi santo, con quanti conti e gente egli potè
raunare in quel bisogno, e coraggiosamente attaccò la zuffa. Ma
prevalsero i Saraceni, e de' Cristiani sconfitti la maggior parte restò
estinta sul campo, e gli altri, fra' quali Guglielmo, si salvarono colla
fuga. Trattenevasi intanto il re Carlo in Ratisbona, meditando di tirar
un canale dal Danubio al Meno e al Reno, per facilitare il commercio de'
popoli: impresa riguardevole, ed anche cominciata, ma rimasta in breve
imperfetta. Andarono a trovarlo colà i legati di papa _Adriano_ con dei
grandi regali. Il motivo della spedizione da niuno storico si vede
registrato negli Annali; ma, secondo tutte le apparenze, fu la loro
andata per assistere al concilio, di cui parleremo fra poco.

NOTE:

[568] Erchempertus, P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[569] Anonymus Salernitanus, P. II, tom. 2, Rer. Italic.

[570] Annales Moissiacens., tom. 3, Rer. Franc. Du-Chesne.



    Anno di CRISTO DCCXCIV. Indizione II.

    ADRIANO I papa 23.
    CONSTANTINO imper. 19 e 15.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 21.
    PIPPINO re d'Italia 14.


Era tornato in Ispagna al vomito _Felice_ vescovo di Urgel, con rinnovar
le già ritrattate sue ereticali proposizioni; animato in ciò
principalmente da _Elipando_ arcivescovo di Toledo, concorde in sì fatte
storte opinioni con lui; il che accrebbe il bisogno di rimedio. _Carlo
Magno_, principe impareggiabile, che quantunque fosse occupato da tanti
pensieri politici, non lasciava d'aver l'occhio attento alla difesa
della religione, raunò in Francoforte un concilio plenario, a cui
intervennero i legati di papa Adriano, e ben trecento vescovi d'Italia,
Spagna, Francia e Germania. Fu quivi decretato che fosse contrario
agl'insegnamenti della fede cattolica l'insegnare che Gesù Cristo Signor
nostro, in quanto uomo, fosse figliuolo adottivo di Dio: che era
l'eresia del suddetto Felice. Passarono oltre que' Padri ad esaminar la
sentenza del settimo concilio generale, tenuto dai vescovi orientali in
Nicea, in cui furono condannati gl'iconoclasti, e stabilita come
ortodossa la venerazion delle sacre immagini. Di sentimento diverso
furono i vescovi occidentali nel concilio di Francoforte, avendo eglino
bensì ammesso l'uso delle immagini suddette, ma insieme rigettata la
loro adorazione. Uomini dottissimi han già fatto conoscere che quei
vescovi, a cagione di qualche traduzione malfatta del concilio niceno,
non intesero la mente e i decreti de' vescovi d'Oriente in proposito
delle sacre immagini, con figurarsi incautamente che alle immagini de'
santi fosse stato in Nicea accordato il culto della Latria: il che nè
punto nè poco sussiste. Però in questa parte non fu approvato dalla
santa Sede il sentimento de' Padri francofordiensi. Carlo Magno mandò in
tal occasione _Angilberto_ abbate di Centula a papa Adriano coi voti di
que' vescovi, acciocchè gli esaminasse; e il papa assunse bensì la
difesa del concilio niceno, ma camminò in quest'affare con pesatezza e
dolcezza; perchè per attenzione di Carlo Magno essendosi nei suoi regni
rimesso in qualche vigore lo studio delle lettere, non mancavano vescovi
di molta dottrina in questi tempi che sapeano tener la penna in mano. E
ben degno di considerazione è, che sopra molti altri bella figura fecero
nel concilio suddetto, dopo papa Adriano (che inviò una sua lettera
condannatoria di Eliprando), _s. Paolino_ patriarca d'Aquileia, e
_Pietro_ arcivescovo di Milano. Leggesi tuttavia in quegli atti
_Libellus episcoporum Italiae contra Elipandum_, composto da s. Paolino,
_una cum reverendissimo, et omni honore digno Petro mediolanensis sedis
archiepiscopo, cunctisque collegis fratribus et consacerdotibus nostris
Liguriae, Austriae, Hesperiae, Æmiliae, catholicarum ecclesiarum
venerandis praesulibus_. Crede il Labbe[571] che invece di _Austriae_
s'abbia quivi a leggere _Histriae et Venetiae_. Ma egli non sapea l'uso
de' Longobardi di chiamare Austria la parte orientale della Lombardia, e
_Neustria_ l'occidentale: del che ho parlato anch'io[572] nelle
annotazioni delle leggi longobardiche. La loro Austria abbracciava la
provincia della Venezia e il Friuli; la _Liguria_ disegnava i vescovi
suggetti all'arcivescovo di Milano; l'_Emilia_ dinotava i sottoposti
all'arcivescovo di Ravenna, e l'_Esperia_, cioè l'Italia, i vescovi
della Toscana, di Spoleti e di altre città italiane, i nomi de' quali
mancano negli atti di quel concilio. Probabilmente fu in questa
congiuntura che succedette quanto lasciò scritto Ermoldo Nigello nel
poema della vita di Lodovico Pio Augusto[573], da me dato alla luce.
Trovavasi il santo prelato Paolino nella chiesa d'Aquisgrana, o
celebrando la messa, o salmeggiando nel coro, assiso in una sedia.
Vennero colà i tre figliuoli del re Carlo. Precedeva a tutti il principe
_Carlo_ suo primogenito. Dimandò il patriarca ad un cherico, chi quegli
fosse, e udito chi era, si tacque; e Carlo, continuando il cammino,
passò oltre. Da lì poco sopraggiunse _Pippino_ con una gran truppa di
cortigiani. Chi questi fosse, volle saperlo il patriarca; e riflettendo
ch'era re d'Italia, l'onorò con cavarsi la berretta. Pippino senza
fermarsi anch'egli passò oltre. Venne finalmente _Lodovico_ re
d'Aquitania, che a differenza dei suoi fratelli maggiori si mise in
ginocchioni davanti al sacro altare, e con somma divozione incominciò le
sue preghiere. Udito ch'ebbe s. Paolino il nome di lui, alzossi allora
dalla sedia, e corse ad abbracciare questo pio principe, il quale con
profonda riverenza gli corrispose. Andato poi il patriarca all'udienza
di Carlo Magno, fu interrogato della cagione, per cui s'era mostrato sì
parziale del terzo de' suoi figliuoli. Gli rispose, perchè se Dio voleva
che succedesse a lui nell'imperio uno de' figliuoli suoi, Lodovico era
il più a proposito. Si verificò in effetto la predizione. I due maggiori
premorirono al padre, e Lodovico gli fu successore nell'imperio e nei
regni. Vero è che vien attribuita questa predizione ad Alcuino
dall'autore anonimo[574] della sua vita; ma quello scrittore non manca
d'altri sbagli, nè è da paragonare con Ermoldo Nigello abbate, che
meglio sapeva gli affari della vita e corte di Carlo Magno, perchè la
praticava in questi tempi.

Abbiam di sopra parlato dell'arcivescovo di Ravenna. Potrebbe per
avventura appartenere a questi tempi l'elezione seguita di _Valerio_ in
arcivescovo di quella città, succeduta senza fallo, vivente papa
_Adriano_. A cagion di questa sorse qualche disparere fra esso papa e
Carlo Magno, come apparisce dall'epistola settantesima prima del Codice
Carolino. Pretendeva esso re Carlo che i suoi messi dovessero
intervenire all'elezione di quegli arcivescovi, allegando ciò fatto,
allorchè dopo la morte di _Sergio_ arcivescovo si trattò di eleggere il
suo successore, cioè _Leone_. Risponde in quella lettera il pontefice
Adriano, che dappoichè fu mancato di vita il suddetto Sergio, _Michele_
usurpò la cattedra di Ravenna, e capitato per altri affari a Roma Ubaldo
messo del re medesimo, fu solamente incaricato di portarsi a Ravenna per
cacciar via di colà l'usurpatore e condurlo a Roma. Per altro non era in
uso che nè i papi, nè esso Carlo Magno, nè Pippino suo padre inviassero
messi per assistere all'elezione dell'arcivescovo ravignano; nè ciò
s'era fatto dopo la morte di Leone nell'elezion di _Giovanni_ e di
_Grazioso_. Perciò quivi seguitava lo antico costume, che morto un
arcivescovo, il clero e popolo di Ravenna concordemente eleggeva il
successore, il quale, col decreto dell'elezione in mano, passava dipoi a
Roma per ricevere la consecrazione dal sommo pontefice. Prega dunque
Adriano il re Carlo di quetarsi su questa pretensione e di non prestar
fede alle lingue ingannatrici, con persuadersi che niuno più d'esso papa
è geloso, perchè sia mantenuto tutto l'onore al di lui _patriziato_, e
venga esso re esaltato. Questa pretensione di Carlo Magno, di aver mano
nell'elezione dello arcivescovo di Ravenna, può anch'essa servire
d'indizio della sua sovranità nell'esarcato, perchè da gran tempo i re
franchi voleano mischiarsi nelle elezioni de' vescovi: abuso detestato
dai sacri concilii e dallo stesso papa Adriano nell'epistola ottantesima
quinta del Codice Carolino, dove scrive al medesimo re: _Numquam nos in
qualibet electione invenimus, nec invenire debemus vestram excellentiam;
sed neque optamus talem rem incumbere; sed qualis a clero et plebe
cunctoque populo electus canonice fuerit, et nihil sit, quod sacro obsit
ordini, solita traditione illum ordinamus_. Diede fine ai suoi giorni in
quest'anno la regina _Fastrada_ moglie di Carlo Magno, e fu seppellita a
Magonza, donna crudele e malvoluta da molti[575]. Il re Carlo poscia con
un'armata da una parte e Carlo suo primogenito con un'altra da altra
parte, marciarono contra i Sassoni, per farli pentire della lor
ribellione e del rinnovato lor paganismo. Pareano costoro disposti in
campo a decidere della lor sorte con una battaglia; ma conosciuto che il
pericolo era maggiore della speranza, implorarono la misericordia del re
e si sottomisero, con dargli in pegno della lor fede molti ostaggi.
Parimente spedì esso re un possente esercito sotto il comando di
_Guglielmo_ conte di Tolosa, o pur duca di Aquitania, contra de' Mori di
Spagna, che aveano preso Oranges ed altri luoghi della Linguadoca. Venne
a lui fatto di ricuperar quella città, e continuò dipoi anche nel
seguente anno le sue vittorie con grave danno di quella barbara gente.
Prese in quest'anno il re Carlo per sua moglie _Liutgarda_ di nazione
alemanna; ma, secondo Eginardo, non ebbe figliuoli. Probabilmente fu in
quest'anno che _Teodolfo_, scrittore poscia celebre, ottenne da esso
re[576] la badia di Fleury in Francia, e forse nello stesso tempo anche
il vescovato di Orleans. Era questi di nazione italiano, discendente non
già dai Longobardi, ma dai Goti; dai Goti, dissi, non so se dei rimasti
in Italia, o pure dei conquistatori della Spagna. Scrive egli[577], che
andato a Narbona, quivi trovò un resto di Goti che il riguardarono come
lor parente. Comune opinione è che il mirabil genio di Carlo Magno in
una delle sue venute in Italia, trovato Teodolfo dotato di molta
letteratura (cosa rara in questi tempi) seco il menasse in Francia, e
poscia il promovesse alla dignità episcopale.

NOTE:

[571] Labbeus, tom. 7 Concilior.

[572] Rer. Italic., Part. II, tom. 1.

[573] Nigell., lib. 1, Poemat. P. II, tom. 2 Rer. Italic.

[574] Anonymus apud Mabillon., Saecul. Benedict., lib. 1, cap. 10.

[575] Eginhardus, in Annal. Franc.

[576] Mabill., in Annal. Benedictin.

[577] Theodulphus, in Paraenesi ad Judic.



    Anno di CRISTO DCCXCV. Indizione III.

    LEONE III papa 1.
    COSTANTINO imp. 20 e 16.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 22.
    PIPPINO re d'Italia 15.


Giunse in quest'anno al fine de' suoi giorni papa _Adriano I_, e la sua
morte succedette nel dì santo del Natale di nostro Signore. La memoria
di questo prudente ed insigne pontefice, che meritò d'essere ascritto al
catalogo de' santi, sarà sempre in benedizione nella Chiesa romana, di
cui fu egli sommamente benemerito; perchè essa dianzi sempre maestosa e
riverita nello spirituale, per cura di lui cominciò ad essere grande e
stimata anche nel temporale. Quanto alto ascendesse la sua pia
liberalità verso le chiese di Roma e verso i poveri, si legge con
istupore presso di Anastasio bibliotecario[578]. La città stessa di Roma
gli professò di grandi obbligazioni, perchè con immense spese ne rifece
egli le mura e le torri. Era questo pontefice teneramente amato da Carlo
Magno, il quale, udita la di lui morte, l'onorò delle sue lagrime,
distribuì di molte limosine in suffragio della di lui anima, ed anche
formò in versi l'epitaffio che tuttavia si legge negli Annali
ecclesiastici e presso d'altri autori. Nella Raccolta dei concilii del
Labbe abbiamo i _capitoli di papa Adriano_, raccolti da varii concilii e
dai decreti de' sommi pontefici. E in questa occasione vien creduto che
per la prima volta alcuno si servisse della Raccolta delle decretali de'
papi, vivuti prima de' santi Siricio ed Innocenzo I, romani pontefici,
che uscì alla luce sotto nome d'_Isidoro vescovo_, da alcuni
incautamente cognominato Mercatore. Oggidì è sentenza stabilita anche
presso tutti i letterati cattolici, che quelle lettere sono apocrife e
finte, cioè invenzione del suddetto Isidoro, e spezialmente Davide
Biondello, uno de' protestanti, mostrò da che libri fu ricavata quella
farragine di decreti, non conformi all'antica disciplina della Chiesa.
Incmaro, celebre arcivescovo di Rems, il primo fu a scoprir quella
impostura; ma nol persuase agl'ignoranti secoli susseguenti, finchè
vennero altri valentuomini che nel secolo prossimo passato terminarono
il processo contra delle medesime. Ora nella festa di santo Stefano il
clero, i nobili e il popolo romano raunatisi, vennero concordemente
all'elezione del successore; e questa cadde nella persona di _Leone
III_, che pel lungo servigio prestato nella basilica lateranense, pel
suo amore verso i poveri e per la sua nota pietà, fu conosciuto sopra
gli altri meritevole della sublime pontificia dignità. Nel giorno
appresso seguì la di lui consecrazione, in cui fece un regalo al clero,
maggiore ancora del praticato dai suoi antecessori. Nè tardò egli a dar
notizia della sua esaltazione a Carlo Magno. Fra le lettere d'Alcuino e
presso il Du-Chesne[579], resta tuttavia la risposta data ad esso papa
Leone dal medesimo re Carlo. Rallegrasi egli per la concorde elezione
fatta di lui, _et in promissionis ad nos fidelitate_. Aggiugne che avea
preparato dei regali da inviare al suo predecessore, la cui morte l'ha
estremamente afflitto, ma essergli di consolazione che sia assunto al
pontificato un successore che non men di Adriano adotterà per figliuolo
esso re. Pertanto manda per mezzo di _Angilberto_ abbate, nominato di
sopra, quei donativi ad esso papa Leone, e gli dice di avere incaricato
lo stesso Angilberto di conferire col papa intorno a tutto ciò che _ad
exaltationem sanctae Dei Ecclesiae, vel ad stabilitatem honoris vestris,
vel patriciatus nostri firmitatem necessarium intelligeretis. Sicut enim
cum beatissimo praedecessore vestro sanctae paternitatis pactum, sic cum
beatitudine vestra ejusdem fidei et caritatis inviolabile foedus
statuere desidero._ In che consistessero questi patti e questa lega di
fede e d'amore, noi nol sappiamo; ma verisimilmente riguardano l'accordo
seguito fra i papi precedenti e il medesimo Carlo Magno, per conto del
_patriziato de' Romani_ conferito a Carlo, e del governo di Roma e del
suo ducato. In un'altra lettera, che si legge fra quelle d'Alcuino, esso
re Carlo dà commessione al suddetto Angilberto abbate di fare
un'ammonizione a papa Leone _de omni honestate vitae suae, et praecipue
de sanctorum observatione canonum, de pia sanctae Dei Ecclesiae
gubernatione;_ e vuole che gli ricordi quanto sia corto l'onore mondano,
e perpetuo il premio di chi ben fatica quaggiù, e gl'inculchi di
sradicare la peste della simonia e di effettuare la promessa a lui fatta
da papa Adriano di fabbricare un monistero presso alla basilica di san
Paolo.

Non ostante la sommessione fatta nell'anno precedente dai Sassoni
ribelli, si scorgeva tuttavia inquieto e tumultuante l'animo loro;
laonde Carlo Magno con grandi forze entrò nelle loro contrade, e la
maggior parte mise a sacco. Ma mentre veniva ad unirsi con lui _Vilza_
re degli Obotriti, nel passare il fiume Elba, caduto in un'imboscata de'
Sassoni, vi lasciò la vita: accidente che irritò forte il re Carlo, e
cagionò di gran rovina al paese di que' Sassoni. Nè cessò egli dal
perseguitarli, finchè ricevuti da essi varii ostaggi, se ne tornò
placato ad Aquisgrana. Durante questa spedizione vennero a trovare il re
Carlo gli ambasciatori di _Tudino_, uno dei principi degli Unni, che
prometteva di farsi cristiano: il che recò non poca allegrezza a quel
piissimo monarca. In fatti seguì la venuta di lui e il suo battesimo
nell'anno seguente; ma gli Annali del Lambecio lo riferiscono al
presente. Fu spezialmente in questi tempi che Carlo Magno s'applicò ad
ingrandire ed abbellire Aquisgrana, per desiderio di farne una Roma
nuova. Vi fabbricò un palazzo suntuosissimo, a cui diede il nome di
Laterano, e una basilica in onor della Vergine santissima, di ricca e
mirabile struttura, con pitture, mosaici e marmi rari, per la maggior
parte tratti da Ravenna, siccome innanzi dicemmo. Edificò eziandio altri
palazzi, ponti, contrade, e concertò i siti per nobilissime cacce. Quivi
pose il suo amore, quivi erano le delizie sue, e però vi stabilì la sua
magnifica corte, con far divenire celebre quella città sopra l'altre de'
suoi regni. Si può credere data in quest'anno la lettera centesima di
Alcuino a san Paolino patriarca di Aquileia, dove sono le seguenti
parole: _Mirabiliter de Avarorum gente triumphatum est, quorum missi ad
dominum regem directi subjectionem pacificam, et Christianitatis fidem
promittentes venerunt._ Dice ancora d'avergli scritto due altre lettere,
l'una mandata pel _santo vescovo d'Istria_, e l'altra pel _venerabil
uomo Erico_ o _Enrico duca_. Era questi duca del Friuli, e gli Annali
dei Franchi ci hanno conservata memoria delle prodezze sue nella guerra
contro gli Avari, o vogliam dire gli Unni, signori della Pannonia, che
allora era suggetta a varii principi, e non più ad un solo re, chiamato
per soprannome Cagano, come abbiam veduto ne' tempi addietro. Non si sa
bene se nell'anno presente, o pure nel susseguente (pare nondimeno che
piuttosto in questo che nell'altro), esso duca Enrico, ossia Erico,
spedì l'esercito italiano, o pure v'andò egli in persona, con
_Wonomiro_, uno de' principi della Schiavonia[580], contra degli Unni
ossia Avari, passando dalla Carintia nella Pannonia. Per buona ventura
erano fra lor disuniti gli Unni, e stanchi i lor capi per una guerra
civile, allumata ne' tempi addietro. Profittò Enrico della lor
debolezza, e gli riuscì di espugnare il Ringo, cioè la fortificazione
più rinomata di quella nazione, di cui parla Notchero[581] nella vita di
Carlo Magno, dove stavano riposti i lor tesori, raunati da più re,
spezialmente colle spoglie dei vicini. Vi si trovarono in fatti immense
ricchezze, e il duca adempiè bene il suo dovere, con portarne la maggior
parte ad Aquisgrana, e consegnarla al re Carlo. Servì questo tesoro al
generoso monarca per regalare i suoi baroni, cherici e laici; una buona
parte nondimeno riservò per mandarla in dono al romano pontefice.
L'incumbenza di condurla a Roma fu data ad _Angilberto_ abbate di san
Ricario, ossia di Centula, a cui parimente fu appoggiata la carica di
primo consigliere del re _Pippino_ in Italia. Nella lettera quarantesima
seconda di Alcuino egli è chiamato _Angilbertus primicerius Pippini
regis_. Di tanto in tanto il re Pippino era all'armata fuori d'Italia, o
alla corte del re Carlo suo padre. È da credere che allora Angilberto
facesse le funzioni come vicerè.

NOTE:

[578] Anastas., in Vit. S. Hadriani Papae.

[579] Du-Chesne, tom. II, pag. 685, Rer. Franc.

[580] Annales Franc. Loiselian.

[581] Notcherus, in Vita C. M., lib. 2, cap. 2.



    Anno di CRISTO DCCXCVI. Indizione IV.

    LEONE III papa 2.
    COSTANTINO imper. 21 e 17.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 23.
    PIPPINO re d'Italia 16.


Sul principio di quest'anno, per attestato degli Annali de'
Franchi[582], papa _Leone III misit legatos cum muneribus ad regem,
claves etiam confessionis sancti Petri, et vexillum romanae urbis eidem
direxit_. Cosa significassero quelle _chiavi_ e quel _vessillo_
l'abbiamo detto di sopra. E pare che non ce ne lasci dubitare
Eginardo[583], con iscrivere all'anno presente: _Mox Leo per legatos
suos claves confessionis sancti Petri, ac vexillum romanae urbis, cum
aliis muneribus regi misit, rogavitque, ut aliquem de suis optimatibus
Romam mitteret, qui populum romanum ad suam fidem atque subjectionem per
sacramenta firmaret_. Se il popolo romano giurava _fedeltà_ e
_soggezione_ al re Carlo, non si può già rettamente immaginare che il
_patriziato de' Romani_ a lui conferito consistesse in grado di semplice
onore coll'obbligo solo di difendere esso popolo e la Chiesa romana. E
però non ha già da chiamarsi una esagerazione, come si figurò il padre
Pagi[584] quella di Paolo Diacono[585], che di Carlo Magno tuttavia re,
e non peranche imperadore scrisse: _Romanos praeterea, ipsamque urbem
romuleam, jampridem ejus praesentiam desiderantem, quae aliquandiu mundi
totius domina fuerat, et tum a Longobardis oppressa gemebat, duris
angustiis eximens, suis addidit sceptris; cunctaque nihilominus Italia
miti dominatione potitus est_. Che nell'anno 773 non fosse angustiata
Roma da Desiderio re de' Longobardi, può ben negarlo il padre Pagi; ma
parla in contrario la storia. Seguirono in quest'anno le nozze di
_Lodovico_ re d'Aquitania, terzo legittimo figliuolo di Carlo
Magno[586], con _Ermengarda_ figliuola d'_Ingrammo_ conte o duca, nipote
di _Crodegango_ vescovo di Metz. Vuolsi parimente osservare che anche
_Pippino_ re d'Italia, già pervenuto all'età di ventun anno, era in
questi tempi ammogliato, perciocchè Alcuino in una lettera[587] a lui
scritta dice: _Laetare cum muliere_ (onde il nome di _moglie)
adolescentiae tuae, et non sint alienae participes tui_. Ma per una
strana negligenza niuno degli antichi storici ha a noi conservato il
nome di questa regina sua moglie. Trovavasi l'invitto re Carlo impegnato
in due guerre, l'una contra de' Sassoni ribelli, l'altra contra quegli
Unni della Pannonia che tuttavia mantenevano nemicizia e facevano testa
alle di lui forze. Abbiamo dall'Astronomo, autore della vita di Lodovico
Pio, ch'egli chiamò dall'Aquitania questo suo figliuolo con quanti
combattenti potè raunar da quelle parti. In compagnia dunque di lui e
col primogenito _Carlo_ condusse una poderosa armata in Sassonia, diede
il guasto dovunque arrivò, e fece prigioni innumerabili persone dell'uno
e dell'altro sesso, e d'ogni età di quella nazione che furono condotte e
distribuite per la Francia, e probabilmente anche in Italia, affinchè
imparassero e seguitassero la legge di Cristo. Da Anastasio
bibliotecario[588] impariamo che in Roma abitavano moltissimi Sassoni, e
v'era la lor contrada, appellata _Vicus Saxonum_. Diede Carlo in questa
maniera un gran crollo a quell'indomita ed instabil nazione. Dall'altra
parte ebbe ordine il re Pippino di portar la guerra nella Pannonia
contro gli Unni[589]. Conduceva questo valoroso principe una forte
armata d'Italiani e Bavaresi, e con questa virilmente s'inoltrò nel
paese nemico, con giugnere fin dove il fiume Dravo sbocca nel Danubio.
Alcuni scrittori attribuiscono a lui la presa del Ringo, detto di sopra;
e scrivono che, venendo il verno, andò a trovare il re Carlo suo padre
in Aquisgrana, e gli presentò un ricchissimo bottino fatto in quelle
barbare contrade, ed insieme una esorbitante quantità di prigioni. Altri
Annali[590] attribuiscono, siccome già osservammo, la principal gloria
di questa impresa ad _Arrigo_ duca del Friuli, che era succeduto a
_Marcario_ in quel governo, con aggiugnere esser egli stato il portatore
del tesoro unnico a Carlo Magno. Venne in questa maniera buona parte
della Pannonia, oggidì Ungheria, in potere di Carlo Magno, e questa fu
nello spirituale sottomessa e raccomandata alla cura di _Arnone_ vescovo
di Salisburgo. E perciochè non era lungi da que' paesi s. _Paolino_
patriarca di Aquileia, Alcuino[591] a lui scrisse animandolo a predicare
e piantar fra loro la religione di Cristo. Adoperossi ancora esso
Alcuino appresso Carlo Magno per la liberazione di tanti prigioni, ed
ottenutala, ne portò i ringraziamenti a lui e al re Pippino. Intanto
prosperamente ancora procedevano gli affari della guerra contra dei
Saraceni della Spagna[592]. Entrato nelle lor terre il prode _Guglielmo_
duca di Tolosa, ossia d'Aquitania, sconfisse le loro brigate, mise a
sacco le campagne, e sparse il terrore dappertutto. L'anno ancora fu
questo, in cui il suddetto san Paolino tenne un concilio in Cividale del
Friuli, appellata _Forum Julii_. Il cardinal Baronio[593], il Labbe[594]
ed altri l'hanno rapportato all'anno 791, ma con errore. Esso fu
celebrato _anno felicissimo principatus eorum_ (cioè di Carlo Magno e di
Pippino) _tertio et vicesimo, et decimo quinto_. Queste note
cronologiche convengono all'anno presente, come ancora ha osservato il
padre de Rubeis[595]. Dice ivi il santo patriarca di non aver fin qui
potuto congregare un sinodo, a cagion de' tumulti e delle guerre vicine,
cioè degli Unni; ma che atterrati per la maggior parte que' Barbari, e
restituita la pace al Friuli, egli ha oramai intrapresa quella santa
funzione. In questo concilio si vede stabilita la processione dello
Spirito Santo dal Padre e dal Figliuolo, condannato l'errore di Elipando
e di Felice vescovi spagnuoli, detestata la simonia, con altri saggi
decreti per la inviolabilità de' matrimonii, e per altri punti di
disciplina ecclesiastica.

NOTE:

[582] Annales Bertiniani, Metens. el alii.

[583] Eginhardus, in Annal. Franc.

[584] Pagius, Critic. ad Annal. Baron.

[585] Paulus Diaconus, de Episcop. Metens.

[586] Astronomus, et Theganus, in Vita Ludovici Pii.

[587] Alcuin., Epist. 91.

[588] Anast. Bibliothec., in V. Leonis III et IV.

[589] Annales Franc. Laureshamens.

[590] Poeta Saxo, in Annal. Franc.

[591] Alcuin., Epist. 112.

[592] Annal. Franc. Moissiac.

[593] Baron., ad ann. 791.

[594] Labbe, Concilior., tom. 7.

[595] De Rubeis, Monument. Eccl. Aquilejens., cap. 42.



    Anno di CRISTO DCCXCVII. Indizione V.

    LEONE III papa 3.
    IRENE imperadrice 1.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 24.
    PIPPINO re d'Italia 17.


Erasi l'imperador _Costantino_ tirato addosso il biasimo e l'odio di
molti, perchè nel gennaio dell'anno 795 avea sacrilegamente ripudiata
_Maria_ sua legittima consorte[596], e forzatala a farsi monaca. Dopo di
che nel mese d'agosto pubblicamente sposò e introdusse nel talamo regale
_Teodota_, già cameriera della deposta Augusta, rapito da cieco affetto
verso di quella. Disapprovò queste nozze, contrarie ai dogmi della
religione cristiana, s. _Tarasio_ patriarca di Costantinopoli, senza
però giugnere a scomunicare l'imperadore per paura di maggiori sconcerti
e mali nelle chiese orientali. Ma non fecero così i monaci zelanti, fra'
quali specialmente si distinsero i santi abbati _Platone_ e _Teodoro_
Studita. Questi francamente in faccia dell'imperadore stesso detestarono
il fatto, non vollero più comunicar col patriarca, ed allegramente se ne
andarono in esilio, dove li cacciò lo sdegnato Costantino. Stava intenta
a tutti questi movimenti la già deposta imperadrice _Irene_, e siccome
quella che riteneva la segreta voglia e smania di ritornare sul trono,
non fu pigra a prevalersi dello sconvolgimento presente, e massimamente
dell'appoggio de' monaci, che più che mai venivano perseguitati dal
figliuolo Augusto. Trasse ella pertanto non pochi cortigiani e soldati
nel suo partito, finchè un dì scoppiò la da gran tempo preparata mina.
Fu nel mese di giugno dell'anno presente che i congiurati attruppatisi
insieme misero le mani addosso a Costantino, e dopo averlo cacciato in
un bucintoro, la mattina poi del dì 15 di esso mese il trassero nella
stessa regal camera del palazzo, dove egli era nato, e quivi con sì poca
grazia, voglio dire, con tanta crudeltà gli cavarono gli occhi, che poco
mancò che non morisse per lo spasimo. Dopo di che l'imperadrice Irene
prese sola le redini del governo; furono richiamati dall'esilio i
monaci, e si rimise la quiete e pace nella Chiesa di Costantinopoli. Il
voler scusare, anzi il lodare esempli tali d'ambizione e barbarie, non
credo che meriti lode. Erano insorte dissensioni fra i Mori di Spagna.
Secondo che scrive Eginardo[597], Barcellona, città anche allora
fortissima della Catalogna, era stata in addietro ora in poter de'
Saraceni, ed ora dei re di Francia. Zaddo, uno dei principi mori della
Spagna, vi signoreggiava allora. Costui si portò fino ad Aquisgrana al
re Carlo, e quivi spontaneamente gli sottomise sè stesso e la città di
Barcellona. Il poeta sassone[598] a quest'anno anch'egli nota lo stesso,
e dice che _Barcellona Francorum subjecta fuit posthac dictioni_.

Noi nondimeno vedremo, andando innanzi, che dovette ben colle parole
Zaddo mostrare di rendersi a Carlo Magno, ma coi fatti operò poi il
contrario. Puossi credere che costui s'inducesse a questa resa per
timore di _Lodovico_ re di Aquitania, il quale per ordine del padre
penetrò in quest'anno in Ispagna con tutte le sue forze, ma senza che
sappiamo quali imprese egli quivi facesse. Trattenevasi il re Carlo in
Aquisgrana, e, per attestato di Eginardo, _illuc Pippinum de italica, et
Ludovicum de hispanica expeditione regressos, ad se venire jussit_. Che
spedizione militare facesse in quest'anno il re Pippino in Italia, lo
tace la storia. Potrebbe essere stata contra di _Grimoaldo_ duca ossia
principe di Benevento; perciocchè da che quel principe si mise in testa
di non voler più riconoscere per suo superiore Carlo re de' Franchi, nè
Pippino per re d'Italia, durò sempre la rissa e guerra fra questi due
principi, come si ha da Erchemperto. Portossi ancora ad Aquisgrana
_Teottisto_ legato, oppur figliuolo di _Niceta_ patrizio della Sicilia,
che presentò a Carlo Magno una lettera dell'imperador Costantino,
scritta prima delle sue disavventure, e fu con particolare onore
ricevuto e rispedito. Tornossene in Italia il re Pippino, e Lodovico si
restituì in Aquitania. In questo anno ancora il re Carlo coll'armata
entrò nella Sassonia, tolse quanti ostaggi volle da quei popoli, che
tutti correvano a suggettarsi a lui. Ne condusse anche via moltissimi,
avendo per esperienza conosciuto che non v'era miglior maniera di domar
quella feroce nazione, che col sempre più indebolirla e disperderla.
Quindi, per essere più a portata di quegli affari, svernò coll'esercito,
nella stessa Sassonia. Probabilmente sino a questi tempi condusse la sua
vita _Paolo Diacono_, già divenuto monaco di Monte Casino, scrittore de'
più celebri di quell'età, a cui dee molto la storia d'Italia. Il
catalogo delle opere da lui composte si legge presso gli autori della
storia letteraria. Passò fra Carlo Magno e lui una gran familiarità con
lettere e con versi vicendevoli, di maniera che egli lasciò un'illustre
memoria di sè stesso.

NOTE:

[596] Theoph., in Chronogr.

[597] Eginhardus, Annal. Francor.

[598] Poeta Saxo, Annal. Franc.



    Anno di CRISTO DCCXCVIII. Indizione VI.

    LEONE III papa 4.
    IRENE imperadrice 2.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 25.
    PIPPINO re d'Italia 18.


A questi tempi si può riferire quanto scrisse Pascasio Ratberto[599]
nella vita di s. _Adalardo_ abbate di Corbeia. Questo abbate, celebre
per la sua rara pietà e per molte altre virtù, fu scelto da Carlo Magno,
probabilmente o nel precedente o nel presente anno, perchè servisse di
consigliere e primo ministro al figliuolo _Pippino_ re d'Italia. Come si
portasse egli in quest'impiego, gioverà intenderlo dallo stesso,
Pascasio, che così ne parla: _Justitiam vero quantum sectatus sit,
testis est Francia, et omnia regna terrarum consultu sibi submissa.
Maxime tamen Italia, quae sibi commissa fuerat, ut regnum et ejus regem
Pippinum juniorem ad statum reipublicae, et ad religionis cultum
utiliter, juste, atque discrete honestius informaret. Ubi tantam
promeruit laudem, ut a quibusdam ita ut fertur, non homo, sed pro
virtutis amore angelus predicaretur_. Seguita poi a dire che Adalardo
non guardava in faccia ad alcuno, allorchè si trattava di far la
giustizia; nè dubbio v'era che entrassero a lui regali. Trovò egli de'
prepotenti nelle contrade d'Italia, che faceano delle angherie al basso
popolo. S'applicò a sradicar questi abusi, senza mettersi suggezione
d'alcuno, e procurò che dappertutto avesse luogo la giustizia, e ne
fosse bandita la violenza. Andò poscia Adalardo a Roma, e s'introdusse
presso papa Leone con tal credito e familiarità, che esso pontefice
ebbe, a dire che se si fosse ingannato a credere ad esso Adalardo, a
niun altro Francese avrebbe egli creduto nell'avvenire. Rimessa in trono
l'imperadrice Irene, spedì in quest'anno al re _Carlo_ per
ambasciatori[600] _Michele_, già patrizio della Frigia, e _Teofilo_
prete. Il suggetto della loro ambasciata fu di notificargli le mutazioni
seguite in Costantinopoli, e di stabilir pace con esso re: al che è da
credere che desse mano il buon re, il quale in segno anche di amicizia
restituì in libertà _Sisinnio_ fratello di s. _Tarasio_ patriarca di
Costantinopoli, che già era stato preso in guerra, probabilmente
nell'anno 788, allorchè l'armata greca fu disfatta da Grimoaldo ed
Ildebrando duchi. Ebbe da fare anche in quest'anno Carlo Magno coi
Sassoni, nel paese de' quali s'inoltrò coll'armi; fece, dovunque arrivò,
darsi degli ostaggi; e menò seco altri di quegli abitanti, con
dividerli, secondo il solito, in varie provincie. Succedette ancora un
fatto d'armi tra gli Sclavi settentrionali, benchè Pagani, pure fedeli a
Carlo Magno, e i Sassoni abitanti di là dall'Elba, con restar sul campo
quasi tre migliaia di questi ultimi. Accadde ne' medesimi tempi che
Felice vescovo d'Urgel in Catalogna, nominato di sopra, non solamente
rinnovellò le sue eresie, ma le difese ancora in un libro che diede alla
luce. La riputazione in cui si era allora s. _Paolino_ patriarca
d'Aquileia, fu cagione che Alcuino abbate, chiamato anche Flacco Albino,
non contento di scriver egli in difesa della Chiesa, sollecitò ancora
esso s. Paolino a confutar quella velenosa scrittura. E indarno nol
pregò. San Paolino con tre libri, che tuttavia esistono, rispose a tutte
le dicerie di Felice; e siccome versato non meno in prosa che in versi,
v'aggiunse un simbolo o regola della fede, composta in versi, che
parimente si legge data alla luce.

Attendeva in questi tempi, perchè tempi di pace in Italia, _Leone III_,
romano pontefice, a rinnovar le chiese di Roma, e a decorarle con
suntuose fabbriche, paramenti ed altri ornamenti, minutamente descritti
da Anastasio[601]. Monsignor Ciampini[602] rapporta un musaico, tuttavia
visibile nella chiesa di s. Susanna di Roma, dove comparisce la figura
d'esso papa che tiene in mano la forma d'una Chiesa; siccome ancora
l'immagine di _Carlo Magno_ che porta i mustacchi, il manto e la spada.
Ma soprattutto è celebre il magnifico triclinio, ossia sala destinata
per mangiarvi, ch'egli edificò nel palazzo patriarcale del Laterano.
Niccolò Alamanni, il Ciampini ed altri hanno pubblicato il musaico che
ivi tuttavia si conserva. Scorgesi in una parte d'esso il Signor Gesù
Cristo, che porge colla destra le _chiavi_ a s. Pietro, e colla sinistra
il _vessillo_ ad un principe coronato coll'iscrizione COSTANTINO V.
Trovandosi dietro alla testa di questo principe un _quadrato_, che,
secondo l'osservazione de' padri Papebrochio, Mabillone e d'altri,
denota persona vivente, verisimile è che qui s'abbia da intendere, non
già Costantino il grande, ma _Costantino_ imperadore di Oriente ne'
primi anni del pontificato di papa Leone III. E quando ciò sussista,
viene a fortificarsi la conghiettura proposta di sopra, cioè che durava
tuttavia in Roma il rispetto all'imperador greco, ed era quivi
riconosciuta la di lui sovranità, e che i re di Francia nell'accettare
il _patriziato_ de' Romani dovettero intavolar qualche accordo con
gl'imperadori, e senza vergognarsi d'essere loro vicarii e subordinati
per conto di Roma e del suo ducato. Nell'altra parte del musaico si mira
s. Pietro, che colla destra porge il pallio ad un papa inginocchiato
colle lettere appresso SCSSIMUS D. N. LEO PP., cioè lo stesso papa Leone
III, autore di quel musaico, rappresentato col _quadrato_ dietro la
testa. Colla sinistra poi s. Pietro porge un _vessillo_ ad un principe
inginocchiato, che porta i mustacchi, il manto, la spada e fasce alle
gambe, come ebbe in uso Carlo Magno. E che di lui appunto si parli lo
attestano le lettere sovrapposte, cioè DN. CARVLO REGI. Di sotto si
legge questa iscrizione: BEATE PETRE DONA VITA LEONI PP. ET BICTORI[=A]
CARVLV DONA. L'Alamanni, il Marca, il Pagi, l'Eccardo ed altri han fatto
varii commenti a questo musaico. Non ne vo' io aggiugnere alcun altro,
perchè non si può con sicurezza trovar la luce vera in mezzo a sì fatte
tenebre. A quest'anno poi dovrebbe appartenere, se fosse vera, una
donazione fatta da _Ludigario_ conte d'Ascoli ad _Instolfo_ vescovo di
quella città. La carta rapportata dall'Ughelli[603] si dice scritta:
_Regnante domino Carolo et Pippino filio ejus, excellentissimis regibus
Francorum et Longobardorum, seu et patritiis Romanorum, regnorum in
Christi nomine in Italia, Deo propitio, vigesimo sexto, et octavo
decimo, eodemque temporibus viro gloriosissimo Vinigisi summo duce, anno
felicissimo ducatus ejus octavo, seu Ludigari comite civitatis
asculanae, mense junio, die II, per Indictione sexta_ L'Ughelli,
quantunque infelice critico, conobbe che le sottoscrizioni _Carlo
imperadore, di Pippino patrizio de' Romani_, e l'_anno_ 874 posto in
fine, erano sconcordanze intollerabili. Contuttociò si credette di poter
conciare tante slogature con levar quell'anno, e credere tale atto
seguito nell'anno 799. Ma quello non è documento che si possa per verun
conto legittimare. Pippino mai non fu _re de' Franchi_; nè Carlo Magno
era _imperadore_ nel giugno di quell'anno, per tacere degli altri
spropositi, che non trattennero il Lilii nella storia di Camerino
dall'accogliere come tant'oro questa screditata carta. Abbiamo poi dalle
memorie del monistero di Farfa[604] che nella città di Spoleti _anno
Karoli, et Pippini regis XXIV et XVIII, mense majo, Indictione VI.
Mamiano_ abbate ed _Isembardo, missi domni regis_, giudicarono di una
causa in favore de' monaci farfensi.

NOTE:

[599] Apud Mabill., Saecul. IV Benedict., P. I.

[600] Annal. Franc. Loiselian.

[601] Anastas., in Vit. Leonis III.

[602] Ciampinius, de Musiv., P. II, cap. 23.

[603] Ughell., Ital. Sacr., tom. I, in Episc. Asculan.

[604] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.



    Anno di CRISTO DCCXCIX. Indizione VII.

    LEONE III papa 5.
    IRENE imperadrice 3.
    CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 26.
    PIPPINO re d'Italia 19.


Siccome costa dalla confession di fede che _Felice_ vescovo d'Urgel
compose, allorchè finalmente tornò al grembo della Chiesa, sul principio
dell'anno presente, fu celebrato in Roma un concilio da papa _Leone
III_, e da cinquantasette vescovi, _praecipiente gloriosissimo ac
piissimo domino nostro Carolo_: parole degne di osservazione. Proferì la
sacra adunanza la scomunica contra del suddetto Felice, s'egli non
ritrattava l'eretical suo dogma, _in quo ausus est Filium Dei adoptivum
asserere_. Ma non andò molto che il buon papa Leone si vide involto in
una fiera calamità per la scellerata congiura di alcuni dei principali
Romani, i capi de' quali furono _Pasquale_ primicerio e _Campulo_
sacellario, ossia sagristano, nipote del fu papa Adriano I. Il motivo o
pretesto di tale iniquità l'hanno o ignorato o lasciato nella penna gli
antichi scrittori, non altro dicendo se non che costoro accusarono
poscia di varii delitti il papa, ma senza poterne provar nè pur uno.
Costoro nondimeno, che sotto il precedente pontificato erano avvezzi a
comandare, probabilmente non sofferivano di ubbidire sotto il nuovo
pontefice. Ora noi abbiamo da Anastasio bibliotecario[605], che mentre
nel dì di san Marco a dì 25 d'aprile papa Leone con tutto il clero e
buona parte del popolo faceva la solenne processione delle litanie
maggiori, allorchè egli fu arrivato davanti al monistero dei santi
Stefano e Silvestro, sbucarono fuori i due suddetti congiurati con una
mano di sgherri armati, e preso il pontefice, il gittarono per terra, e
lo spogliarono, sforzandosi con somma crudeltà a forza di pugnalate di
cavargli gli occhi e di tagliargli la lingua. In fatti credendo di
averlo accecato e renduto mutolo per sempre, il lasciarono così
malconcio in mezzo alla piazza. Poi ritornati più che prima infelloniti
a prenderlo, e condottolo avanti all'altare di quella chiesa, di nuovo
più barbaramente il trattarono, con fama che gli cavarono gli occhi e la
lingua, gli diedero delle bastonate e ferite, e mezzo morto ed intriso
nel proprio sangue il rinserrarono prigione in quello stesso monistero.
Tutto il popolo, che interveniva senz'armi alla processione, se ne fuggì
in fretta. Fu poi condotto da quei masnadieri il misero pontefice nel
monistero di sant'Erasmo, cioè in luogo creduto più sicuro. Quivi
miracolosamente, per quanto fu creduto, gli fu restituita da Dio la
vista e la lingua; e venne poi fatto ad Albino suo cameriere, unito con
altri fedeli, di nascostamente penetrar colà, e di condurlo via con
guidarlo alla basilica vaticana, dove si fortificarono. Intanto corsa
dappertutto la voce di così empio attentato, arrivò anche agli orecchi
di _Guinigiso_ duca di Spoleti, il quale probabilmente si trovava in
quelle vicinanze, perchè i confini del suo ducato arrivavano assai
presso a Roma. Anzi gli Annali bertiniani e metensi dei Franchi scrivono
ch'egli era in Roma, e che il papa scappò di notte _ad legatos regis,
qui tunc apud basilicam sancti Petri erant, Wirundum scilicet abbatem,
et Winigisum Spoletanorum ducem veniens, Spoletum ductus est_. Comunque
sia, non tardò punto Guinigiso ad accorrere in aiuto del papa con un
buon nerbo di soldatesche. Arrivato a san Pietro, e trovatovi, contra
l'espettazione, sano e salvo esso pontefice, seco con tutta venerazione
il condusse a Spoleti, dove concorsero da varie città vescovi, preti e
secolari di prima riga a seco congratularsi. Volarono presto al re Carlo
lettere del duca Guinigiso coll'avviso di sì orrido avvenimento; e il re
rispose che avrebbe veduto volentieri il pontefice, il quale perciò si
mise in viaggio per ire a trovarlo. Scrivono altri essere stato il
pontefice che desiderò d'andare in persona alla real corte, e fu
esaudito. Nè si dee tralasciar di dire, che, oltre ad Anastasio, varii
Annali de' Franchi raccontano essere di fatto stati cavati gli occhi e
tagliata la lingua a papa Leone da quei sicarii, e che miracolosa fu la
di lui guarigione. Ma non mancano scrittori antichi e contemporanei che
diversamente raccontano quel fatto, e in maniera più credibile, con dire
che tentarono bensì quegli scellerati l'enormità suddetta, ma o non
poterono, o non vollero compierla; e veggendosi poi papa Leone tuttavia
colla lingua e con gli occhi, vi si aggiunse il miracolo. Secondochè
abbiam da Eginardo[606], esso pontefice _equo dejectus, et erutis
oculis, ut aliquibus visum est, lingua quoque amputata, nudus ac
semivivus in platea relictus est_. Son parimente parole dell'Annalista
lambeciano e moissiacense le seguenti: _Romani comprehenderunt domnum
apostolicum Leonem, et absciderunt linguam ejus, et voluerunt eruere
oculos ejus, et eum morti tradere. Sed juxta Dei dispensationem malum
quod inchoaverant, non perfecerunt_. Odasi ora Giovanni Diacono[607],
autore vicino a questi tempi, nelle vite de' vescovi di Napoli, da me
date alla luce. _Conspirantes_, dice egli, _viri iniqui contra Leonem
tertium romanae sedis antistitem, comprehenderunt eum. Cujus quum
vellent oculos eruere, inter ipsos tumultus, sicut assolet fieri, unus
ei oculus paululum est laesus._ Quel che è più, il grande ornamento
della Francia in questi tempi Alcuino abbate, in iscrivendo al re Carlo
la lettera terzadecima intorno al fatto di papa Leone, dice, che _Deus
compescuit manus impias a pravo voluntatis effectu, volentes caecatis
mentibus lumen ejus extinguere_. Similmente Notchero[608] racconta che
alcuni empi tentarono di accecarlo, _sed divino nutu conterriti sunt et
retracti ut nequaquam oculos ejus eruerent_. Finalmente Teodolfo vescovo
di Orleans[609], scrittore contemporaneo, narra che ai suoi dì v'era chi
diceva cavati e miracolosamente restituiti gli occhi al papa; e chi lo
negava, confessando solamente che il tentativo fu fatto, ma non
eseguito. Però riflette egli:

       _Reddita sunt? Mirum est. Mirum est, auferre nequisse,_
          _Est tamen in dubio; hinc mirer, an inde magis._

Dimorava in Paderbona _Carlo Magno_ colla sua armata, allorchè ebbe
avviso della venuta di papa Leone; ed immantinente gli spedì
all'incontro prima _Adelbaldo_, ossia _Adelboldo_, arcivescovo primo di
Colonia, e poscia il figliuolo _Pippino_ re d'Italia con assai baroni e
molte squadre d'armati. Per dovunque passò il pontefice nel suo viaggio,
fu accolto dappertutto dal concorso de' popoli e dalla venerazione e
maraviglia d'ognuno; e finalmente ricevuto dal re Pippino, fu condotto
alla corte del padre. Resta tuttavia un poemetto, dato alla luce da
Arrigo Canisio[610], che tratta dell'arrivo d'esso papa a Paderbona.
Avea il re Carlo schierato tutto il suo fiorito esercito per onorare il
vegnente santo pastore, ed egli stesso a cavallo gli fu all'incontro.
Tutte le schiere, al comparire del venerabil padre prostrate in terra il
venerarono, chiedendogli la sua benedizione; e Carlo anch'egli sceso da
cavallo, dopo profondi inchini l'abbracciò e baciò. Andarono poi
unitamente al sacro tempio a rendere grazie all'Altissimo, indi al
palazzo; e ne' molti giorni che il papa si trattenne presso quel
monarca, i conviti e le feste furono continue. Senza fallo fra il papa e
il re si dovette più volte trattare della maniera di gastigare e mettere
in dovere i Romani. Fu consultato intorno a questo affare Alcuino da
Carlo Magno, siccome ricaviamo dalla di lui lettera undecima, in cui gli
dice, che i tempi son pericolosi, e che _nullatenus capitis_ (cioè del
romano pontefice) _cura omittenda est. Levius est pedes tollere quam
caput._ Tuttavia aggiugne: _Componatur pax cum populo nefando, si fieri
potest. Relinquantur aliquantulum minae, ne obdurati fugiant: sed et in
spe retineantur, donec salubri consilio ad pacem revocentur. Tenendum
est, quod habetur, ne propter acquisitionem minoris, quod majus est,
amittatur. Servetur ovile proprium, ne lupus rapax devastet illud. Ita
in alienis sudetur, ut in propriis damnum non patiatur._ Da queste
parole volle dedurre il padre Pagi[611] che Roma in questi tempi non
riconosceva nè imperadore greco, nè Carlo Magno per suo superiore. Ma da
queste medesime Giovan-Giorgio Eccardo[612] dedusse tutto il contrario,
con pretendere consigliato Carlo Magno a procedere senza rigore contro i
delinquenti Romani, per timore che questi, già in rivolta contro il
papa, non si rivoltassero anche contro d'esso Carlo, ed egli per
acquistare il _meno_, cioè per voler punire a tutta giustizia gli
offensori del papa, non perda il _più_, cioè il suo patriziato e dominio
in Roma; e per voler riparare i torti fatti ad _altrui_, cioè al
pontefice, non resti egli privo del _proprio_, cioè della sua signoria
in quell'insigne ducato; potendo temere che i _lupi rapaci_, cioè i
Greci e il duca di Benevento confinanti non si prevalessero di tale
occasione per occupar Roma, e i Romani troppo aspramente trattati non
corressero loro in braccio. Intanto i nemici del pontefice, siccome
aggiugne Anastasio[613], misero a sacco molti poderi di san Pietro, e
per giustificare l'esecrabile lor procedura, inviarono al re Carlo una
lista di varie infami accuse contra del papa, tali nondimeno, che di
niuna potevano addurre le pruove. Ora dopo essersi fermato per alcune
settimane o mesi col re papa Leone, visitato quivi e onorato dai vescovi
di quelle parti, e dai fedeli correnti da tutti que' paesi, e
suntuosamente regalato dal re e dalla sua corte, fu risoluto ch'egli se
ne tornasse a Roma, avendo il saggio monarca prese ben le sue misure,
affinchè vi potesse rientrare senza pericolo della sua persona e
dignità.

L'accompagnaron nel viaggio _Adeboldo_ arcivescovo di Colonia, _Arnone_
arcivescovo di Salisburgo, e quattro vescovi, cioè _Bernardo_ di
Vormazia, _Azzone_ di Frisinga, _Jesse_ di Amiens, e _Cuniberto_ non si
sa di qual città, siccome ancora Elmgeto, Rotegario e Germano conti. Per
tutte le città, dove egli passò, fu ricevuto come un apostolo; e
pervenuto che fu nelle vicinanze di Roma nella vigilia di santo Andrea,
tutto il clero, il senato e popolo romano colla milizia, colle monache,
diaconesse e le nobili matrone, e tutte le scuole de' forestieri, cioè
dei Franchi, Frisoni, Sassoni e Longobardi, gli andarono incontro fino
al ponte Milvio, oggidì _ponte Molle_, e colle bandiere ed insegne,
cantando inni spirituali, e con infinito giubilo il condussero alla
basilica vaticana, dove egli cantò messa solenne, e tutti presero la
comunione del Corpo e del Sangue del Signore, come si praticava in
questi tempi anche per gli secolari. Nel dì appresso entrò in Roma, e
tornò pacificamente ad abitare nel palazzo lateranense. Da lì a pochi
giorni i suddetti vescovi e conti, siccome messi del re Carlo patrizio
de' Romani (la cui autorità anche di qui risulta), alzarono il lor
tribunale nel triclinio di papa Leone; e citati i malfattori, per più
d'una settimana attesero a formare il processo. Pasquale e Campolo coi
lor seguaci vi comparvero, e nulla avendo che dire, o non potendo
provare quel che dicevano contra del papa, furono presi e mandati in
esilio in Francia. Così Anastasio bibliotecario; ma noi vedremo che più
tardi accadde la relegazion di costoro. In questa maniera finì per
allora l'abbominevol tragedia succeduta in Roma. Nell'anno presente
ancora ebbe da faticare il re Carlo nella Sassonia, e di nuovo una gran
moltitudine di quegli abitanti colle moglie e co' figliuoli trasse da
quelle contrade, con dividerla per varie altre parti della sua
monarchia. Avevano poi i popoli delle isole di Maiorica e Minorica,
perchè infestati dai Mori di Africa, o pure di Spagna, implorato ed
anche ottenuto soccorso da Carlo Magno, col mettersi sotto la sua
protezione e signoria. Tornarono loro addosso in quest'anno i
Saraceni[614], e venuti a battaglia coll'esercito franzese, rimasero
sconfitti, e le lor bandiere prese, presentate ad esso re Carlo, gli
servirono di molta consolazione. Ma non compensarono queste allegrezze
l'afflizione che egli provò per la perdita di due de' suoi più valorosi
e fedeli uffiziali. L'uno di essi fu _Geroldo_ presidente della Baviera,
che in una baruffa contro gli Unni della Pannonia restò miseramente
ucciso[615], ma non invendicato. Imperocchè sembra che in quest'anno
terminasse la guerra con que' Barbari, il paese de' quali restò in
potere del re Carlo, ridotto nondimeno ad una total desolazione, dopo
essere periti in sì lungo bellicoso contrasto tutti i nobili di quella
nazione, e dopo averne i Franchi asportate le immense ricchezze, che
coloro in tanti anni aveano raunate coi lor latrocinii. L'altro suo
uffiziale fu _Erico_, ossia _Enrico_ o _Arrigo_, duca o marchese del
Friuli, personaggio sopra da noi nominato, che in varii cimenti e
vittorie s'era dianzi acquistato un gran capitale di gloria. Questi
trovandosi nella Liburnia, provincia situata fra l'Istria e la Dalmazia,
i cui popoli s'erano già dati al re Carlo e attendendo nella città di
Tarsatica, oggidì Tarsacoz, a regolar quegli affari, da alcuni di que'
cittadini ammutinati fu privato di vita. In luogo suo succedette in
quella marca _Cadalo_, di cui parleremo altrove. Conghiettura fu
dell'Eccardo[616] e del p. de Rubeis[617] che questo _Enrico_ potesse
essere lo stesso che _Unroco_, o pure padre di Unroco conte, il cui
figlio _Everardo_ a suo tempo vedremo reggere la marca del Friuli, ed
essere stato padre di _Berengario_ imperadore.

NOTE:

[605] Anastas. Bibliothecar., in Vit. Leonis III.

[606] Eginhardus, in Annal. Franc.

[607] Rer. Ital., P. II, tom. 1.

[608] Notcher., in Vita C. M., lib. 1, cap. 28.

[609] Theodulph., lib. 3, Carm. VI.

[610] Canisius, edition. Bosnag. tom. 1, P. II.

[611] Pagius, in Critic. ad Annal. Baron.

[612] Eccard., Rer. Franc. lib. 25, cap. 11

[613] Anastas. Bibliot., in Leon. III.

[614] Monachus Engolismensis, in Vit. Caroli Magni.

[615] Eginhardus, in Vita Caroli Magni.

[616] Eccard. Bissor.

[617] De Rubeis, Monument. Eccl. Aquilejen.



    Anno di CRISTO DCCC. Indizione VIII.

    LEONE III papa 6.
    CARLO MAGNO imperadore 1.
    PIPPINO re d'Italia 20.


Dopo essersi sbrigato Carlo Magno dalle lunghe e fastidiose guerre de'
Sassoni e degli Unni, rivolse i suoi pensieri all'Italia. Non pareva a
lui peranche se non imperfettamente terminata la causa de' persecutori
di papa Leone. Oltre a ciò, _Grimoaldo_ duca di Benevento sostenea con
vigore l'indipendenza dal re Carlo, e coll'armi difendeva il suo
diritto. Nè volea finalmente esso re Carlo lasciare impunita la morte di
_Enrico_ duca del Friuli. Venne dunque alla determinazione d'imprendere
di nuovo il viaggio d'Italia[618]. Dopo Pasqua arrivò alla città di
Tours, accompagnato da _Carlo_ e _Pippino_ suoi figliuoli, e colà ancora
arrivò _Lodovico_, il terzo de' suoi figliuoli legittimi. Gli convenne
fermarsi quivi per la mala sanità della regina _Liutgarde_ sua moglie,
che diede ivi fine al corso di sua vita. Perch'egli non sapeva
passarsela senza una donna ai fianchi, tenne da lì innanzi l'una dopo
l'altra quattro concubine, nominate tutte dall'autor della sua vita
Eginardo. I padri Bollandisti ed altri, considerate tante virtù, e
massimamente la religion di questo gran principe, hanno sostenuto che sì
fatte concubine fossero mogli di coscienza; mogli, come suol dirsi,
della mano sinistra: e però lecite e non contrarie agl'insegnamenti
della Chiesa, la quale poi solamente nel concilio di Trento diede un
miglior regolamento al sacro contratto del matrimonio. Se ciò ben
sussista, ne lascerò io ad altri la decisione. Passò di là il re Carlo a
Magonza, e, secondochè abbiamo dagli Annali pubblicati dal
Lambecio[619], tenne ivi una gran dieta, dove espose le ingiurie fatte
al romano pontefice e i suoi motivi di passare in Italia, giacchè si
godeva la pace in tutta la monarchia franzese. Venne dunque l'invitto
re, guidando seco un poderoso esercito, ed, arrivato a Ravenna, vi prese
riposo per sette giorni[620]. Continuato dipoi il cammino sino ad
Ancona, di là spedì il figliuolo Pippino con parte della armata contra
del duca di Benevento, ma senza apparire che questi facesse per ora
impresa alcuna in quelle parti. Venne il pontefice Leone incontro al re
sino a Nomento, oggidì Lamentana, dodici miglia lungi da Roma, e dopo
avere desinato con lui, se ne ritornò a Roma, per riceverlo nel dì
seguente con più solennità. Arrivato il re con tutta la sua corte, trovò
esso papa che l'aspettava davanti alla basilica vaticana coi vescovi e
col clero, e fra i sacri cantici l'introdusse nel sacro tempio per
rendere grazie all'Altissimo. Abbiamo anche dal monaco engolismense[621]
che andarono fuor di Roma le milizie, le scuole ed altre persone ad
incontrare il re vegnente, come altre volte s'era praticato. Seguì
l'arrivo colà di Carlo Magno nel dì 24 di novembre[622]. Dopo sette
giorni raunatisi per ordine suo in s. Pietro gli arcivescovi, vescovi ed
abbati, e tutta la nobiltà sì franzese che romana, e postisi a sedere
esso re e il papa, con far anche sedere tutti i suddetti prelati, stando
in piedi gli altri sacerdoti e nobili, fu intimato l'esame de' reati che
venivano apposti ad esso papa Leone. Allora tutti i vescovi ed abbati
concordemente protestarono che niuno ardiva di chiamare in giudizio il
sommo pontefice; perchè la Sede apostolica, capo di tutte le Chiese, è
bensì giudice di tutti gli ecclesiastici, ma essa non è giudicata da
alcuno, come sempre s'era praticato in addietro. E il papa soggiunse che
voleva seguitare il rito de' suoi predecessori. In fatti nel giorno
appresso, giacchè niuno compariva che osasse provar que' pretesi
delitti, il papa davanti a tutta quella grande assemblea, e presente il
popolo romano, salito sull'ambone, ossia sul pulpito, tenendo in mano il
libro de' santi Vangeli, con chiara voce protestò che in sua coscienza
non sapea d'aver commesso que' falli, de' quali veniva imputato da
alcuni de' Romani suoi persecutori, e tal protesta autenticò col
giuramento. Il che fatto, e canonicamente terminato quel difficil
affare, tutto il clero, intonato il _Te Deum_, diede grazie
all'Altissimo, alla Vergine santa, a san Pietro e a tutti i Santi. Negli
Annali pubblicati dal Lambecio e scritti da autore contemporaneo,
abbiamo che molto ben comparvero in quell'assemblea gli accusatori del
papa; ma conosciuto che da invidia e malizia procedevano quelle
imputazioni, fu risoluto da tutti che il papa da sè stesso si purgasse
da que' falsi reati. Leggesi presso il cardinal Baronio[623] la formula
usata in quella congiuntura da esso papa Leone.

Venuto poi il giorno del natale del Signor nostro, seguì una mutazione
di sommo riguardo per Roma e per l'Occidente tutto. Cantò il papa
secondo il solito messa solenne nella basilica vaticana coll'intervento
di Carlo Magno e di un immenso popolo, quando eccoti indirizzarsi esso
pontefice al re, nel mentre che volea partirsi, e mettergli sul capo una
preziosissima corona, e nello stesso tempo concordemente tutto il clero
e popolo intonar la solenne acclamazione, che si usava nella creazion
degli imperadori, cioè: _A Carlo piissimo Augusto coronato da Dio,
grande e pacifico imperadore, vita e vittoria_. Tre volte detta fu
questa acclamazione, e in tal maniera si vide costituito da tutti il
buon re Carlo imperadore de' Romani; e il pontefice immediatamente unse
coll'olio santo esso Augusto e il re Pippino suo figliuolo. Di questa
unzione non parlano alcuni Annali de' Franchi, ma solamente della
coronazione, e delle acclamazioni e delle lodi suddette: dopo le quali
aggiungono che il papa fu il primo a far riverenza a Carlo, come si
costumava con gli antichi imperadori. _A pontifice more antiquorum
principum adoratus est._ Perciò esso Carlo, da lì innanzi lasciato il
nome di patrizio, cominciò ad usar quello d'_imperador de' Romani_ e di
_Augusto_. E qui convien rammentar le parole di Eginardo[624] che di lui
scrive: _Romam veniens, propter reparandum, qui nimis conturbatus erat,
Ecclesiae statum, ibi totum hyemis tempus protraxit. Quo tempore et
Imperatoris et Augusti nomen accepit: quod primo in tantum aversatus
est, ut affirmaret, se eo die quamvis praecipua festivitas esset.
Ecclesiam non intraturum fuisse, si consilium pontificis praescire
potuisset_. Benchè Eginardo sia scrittore di somma autorità per questi
tempi ed affari, pure non ha saputo persuadere nè al Sigonio, nè al
padre Daniello, nè ad altri storici, che potesse mai seguire una tal
funzione senza contezza, anzi con ripugnanza di Carlo Magno, che pur fu
principe sì voglioso di gloria. E se il clero e popolo tutto era
preparato per cantare le acclamazioni poco fa riferite, come mai non
potè traspirar la notizia di sì gran preparamento e disegno ad esso
monarca? Nè mancano scrittori antichi che il tennero ben informato della
dignità che gli si voleva conferire. Giovanni Diacono[625], autore
contemporaneo, nelle vite de' vescovi di Napoli lasciò scritto che papa
Leone _fugiens ad regem Carolum, spopondit ei, si de suis illum
defenderet inimicis, augustali eum diademate coronaret_. Molto più
chiaramente parlano gli Annali del Lambecio e moissiacensi colle
seguenti parole: _Visum est et ipsi apostolico Leoni, et universis
sanctis patribus, qui in ipso concilio_ (cioè nel romano poco fu
accennato) _seu reliquo christiano populo, ut ipsum Carolum regem
Francorum IMPERATOREM nominare debuissent, QUI IPSAM ROMAM TENEBAT, ubi
semper Caesares sedere soliti erant, seu reliquas sedes, quas ipse per
Italiam, seu Galliam, nec non et Germaniam TENEBAT: quia Deus omnipotens
has omnes sedes in POTESTATEM EJUS concessit; ideo justum eis esse
videbatur, ut ipse cum Dei adjutorio, et universo christiano populo
petente ipsum nomen haberet. Quorum petitionem ipse rex Carolus denegare
noluit, sed cum omni humilitate subjectus Deo et petitioni sacerdotum,
et universi christiani populi, in ipsa nativitate Domini nostri Jesu
Christi ipsum nomen IMPERATORIS cum consecratione domni Leonis papae
suscepit_. L'Annalista lambeciano scriveva queste cose ne' medesimi
tempi, e però di gran peso è la sua asserzione.

Vo' io immaginando che molto ben fosse proposto dal papa e da quel gran
consesso al re Carlo Magno di dichiararlo imperador de' Romani, ma
ch'egli ripugnasse sulle prime, per non disgustare i greci imperadori,
asserendo appunto Eginardo che dopo il fatto se l'ebbero molto a male
gli Augusti orientali. _Constantinopolitanis tamen imperatoribus super
hoc indignantibus, magna tulit patientia, vicitque magnanimitate, qua
eis procul dubio praestantior erat, mittendo ad eos crebras legationes,
et in epistolis fratres eos appellando._ Ma il pontefice Leone dovette
concertare col clero e popolo di cogliere inaspettatamente esso Carlo
nella solenne funzione del santo Natale; e vedendo poi egli la concordia
e risoluzion del papa e de' Romani, senza più fare resistenza si
accomodò al loro volere, ed accettò il nome d'imperadore. Dissi il nome,
colle parole degli storici suddetti; perciocchè per conto di Roma e del
suo ducato, gli stessi Annali ci han già fatto sapere ch'egli anche
solamente patrizio ne era padrone: _ipsam Romam tenebat_. E come padrone
appunto mandò i suoi messi prima, e poi venne egli a far giustizia
contro i calunniatori e persecutori del papa. Che se talun chiede, che
guadagnò allora Carlo Magno in questa mutazione, consistente, come si
pretende, in un solo titolo e nome, hassi da rispondere: che fino a
questi tempi era stata una prerogativa degl'imperadori romani la
superiorità d'onore sopra i re cristiani di Spagna, Francia, Borgogna ed
Italia. Scrivendo essi re agli Augusti, davano loro il titolo di _padre_
e di _signore_. E i primi re di Francia e d'Italia, per giustificare i
lor dominio in tante provincie occupate al romano imperio, non ebbero
difficoltà di riconoscersi come dipendenti dagl'imperadori, con aversi
procacciato da loro il titolo di _patrizii_. Laonde gli stessi Augusti
greci ritenevano qualche diritto, o almeno un possesso d'onore sopra i
re e regni ch'erano stati del romano imperio. Inoltre fin qui erano
stati riguardati come sovrani di Roma, e il nome loro compariva negli
atti pubblici, come si usò per tanti secoli in addietro. Ora creato
Carlo Magno imperador d'Occidente, veniva a levarsi al greco Augusto
ogni diritto sopra Roma, e l'antica onorificenza nelle contrade
occidentali, perchè trasfusa nel novello imperador d'Occidente. Infatti
da lì innanzi Carlo Magno, per attestato di Eginardo, non più col titolo
di _padre_, ma con quel di _fratello_ cominciò a scrivere ai greci
imperadori, siccome divenuto loro eguale nell'altezza del grado, e così
ancora ne' pubblici atti di Roma si cominciò a scrivere il di lui nome
d'imperadore. Ecco la cagione per cui essi Augusti greci, fino allora
rispettati anche in Roma, s'ebbero tanto a male questa novità. E di qui
è avere scritto Teofane[626] che ora solamente _in Francorum potestatem
Roma cessit_, perchè in addietro avevano i Greci conservato l'alto
dominio in Roma, e questo cessò nel costituire imperador de' Romani il
re Carlo. Per altro i motivi del romano pontefice, e del senato e popolo
romano, per rinnovare nella persona di Carlo Magno il romano imperio,
son chiaramente accennati dagli antichi scrittori. Non v'era allora
imperadore. Una donna, cioè _Irene_, comandava le feste, e si intitolava
_imperadrice de' Romani_. Vollero perciò il papa e i Romani ripigliare
l'antico loro diritto, e farsi un imperadore. E tanto più perchè i Greci
non faceano più alcun bene, anzi si studiavano di far del male ai
Romani; ed era ben più nobile e potente de' Greci il monarca franzese.
Tornava anche in maggior decoro di essi Romani che il lor padrone non
più usasse l'inferior titolo di _patrizio_, ed assumesse il nobilissimo
ed indipendente d'_imperadore_, con cui veniva parimente ad acquistare
una specie di diritto, se non di giurisdizione, almeno di onore, sopra i
re e regni di occidente. Per conto poi de' papi non si può ben
discernere, se ne' precedenti anni avessero dominio, o qual dominio
temporale avessero in Roma. Da qui innanzi bensì chiara cosa è ch'essi
furono signori temporali della stessa città e del suo ducato, secondo i
patti che dovettero seguire col novello imperadore: con podestà
nondimeno subordinata all'alto dominio degli Augusti latini, potendo noi
molto bene immaginare che papa Leone stabilisse tale accordo con Carlo
Magno prima di cotanto esaltarlo, e guadagnasse anch'egli dal canto suo
e dei suoi successori. Il perchè da lì innanzi cominciarono i papi a
battere moneta col nome lor proprio nell'una parte dei soldi e denari, e
nell'altra col nome dell'imperadore regnante, come si può vedere ne'
libri pubblicati dal Blanc franzese, e dagli abbati Vignoli e
Fioravanti. Rito appunto indicante la sovranità di Carlo Magno e de'
suoi successori in Roma stessa, non lasciandone dubitare lo esempio
sopra da noi veduto di Grimoaldo duca di Benevento.

Dopo così strepitosa funzione l'imperador Carlo attese a regolar gli
affari di Roma, e ripigliò fra gli altri quello de' congiurati ed
offensori di papa Leone[627]. Furono costoro di nuovo esaminati, e
secondo le leggi romane, venne proferita sentenza di morte contra di
loro. Ma il misericordioso pontefice s'interpose in lor favore appresso
di Carlo, in guisa che ebbero salva la vita e le membra. Ma perchè non
restasse affatto impunita l'enormità del delitto, furono mandati in
esilio in Francia. Dal che si vede non sussistere l'asserzione di
Anastasio, che li fa esiliati prima che Carlo venisse a Roma. Fra le
altre controversie che si trattarono in questi tempi in Roma alla
presenza del nuovo imperadore, quella eziandio vi fu che già vedemmo
agitata ai tempi del re Liutprando fra i vescovi d'Arezzo e di Siena, a
cagione di molte parrocchie, che il primo pretendeva usurpate alla sua
diocesi dall'altro. L'Ughelli[628] pubblicò un decreto d'esso Carlo
Magno dato _quarto nonas martias, trigesimo tertio, et trigesimo quarto
anno imperii nostri. Actum Romae in ecclesia sancti Petri_, ec. È piena
di spropositi questa data. Viziato ancora si scorge il titolo, cioè
_Karolus gratia Dei rex Francorum et Romanorum, atque Longobardorum._ E
se così fosse scritto nell'archivio della chiesa d'Arezzo, il documento
sarebbe falso. Ma forse son da attribuire sì fatti errori al Burali,
ovvero alla non ignota trascuraggine dell'Ughelli. Quivi _Ariberto_
vescovo d'Arezzo ricorre al suddetto Augusto contra di _Andrea_ vescovo
di Siena, querelandosi che teneva occupate molte chiese spettanti alla
diocesi aretina. Rimessa tal causa a papa Leone, fu deciso in favore
d'Ariberto, e Carlo Magno con suo diploma avvalorò maggiormente questa
sentenza. Un'altra particolarità degna di gran riguardo abbiamo dagli
Annali de' Franchi, cioè che sul fine del novembre e sul principio di
decembre dell'anno presente, mentre Carlo Magno era in Roma, tornò da
Gerusalemme Zacheria prete, già inviato colà da esso Carlo, conducendo
seco due monaci spediti dal patriarca di quella città[629], i quali
_benedictionis gratia claves sepulcri dominici, ac loci Calvariae cum
vexillo detulerunt_ al medesimo Carlo Magno. Si è servito il cardinal
Baronio[630] di questo stesso fatto per provare che l'aver i romani
pontefici inviato ai re Franchi _le chiavi del sepolcro di san Pietro e
il vessillo_ non è segno che il dominio di Roma e del suo ducato fosse
trasferito in quei re. Ma il dottissimo cardinale, per non aver potuto
vedere a' suoi tempi tante storie pubblicate dipoi, si servì qui d'una
pruova che fa appunto contra di lui. Imperocchè è da sapere che Carlo
Magno mantenne gran corrispondenza con Aronne califfa de' Saraceni, e re
allora anche della Persia. Eginardo[631] attesta che questo califfo si
pregiava più della amicizia d'esso Carlo (tanta era la di lui
riputazione e potenza), che di quella di tutti gli altri principi del
mondo; e mandò più volte a regalarlo. Carlo Magno, siccome principe che
stendeva il guardo a tutto quanto potea recar gloria a sè e vantaggio
alla religione cristiana, seppe ben profittare del suo credito e della
sua amicizia con esso Aronne. Trattò dunque con lui per via di lettere e
di ambasciatori, e gli riuscì di ottenere da lui il dominio della sacra
città di _Gerusalemme_. Odasi il suddetto Eginardo, che così seguita a
dire: _Quum legati ejus_ (Caroli), _quos cum donariis ad sacratissimum
Domini ac Salvatoris nostri sepulcrum, locumque resurrectionis miserat,
ad eum venissent, et ei domini sui voluntatem indicassent, non solum ea
quae petebantur, fieri permisit, sed etiam sacrum illum ac salutarem
locum, ut illius potestati adscriberetur, concessit._ Il poeta
sassone[632] conferma la stessa notizia, con dire che Aronne inviò a
Carlo Magno donativi di gemme, oro, vesti, aromati:

             _Adscribique locum sanctum Hierosolymorum_
             _Concessit propriae Caroli semper ditioni._

E perchè non si dubiti del dominio ancora della città di Gerusalemme,
odansi gli Annali[633]: _Zacharias cum duobus monacis de Oriente
reversus Romam venit, quos patriarcha hierosolymitanus ad regem misit.
Qui benedictionis causa claves sepulcri dominici, ac loci Calvariae
claves etiam civitatis et montis eum vexillo detulerunt._ Altrettanto si
legge nella vita di Carlo Magno d'autore incerto[634], e in quella del
monaco Engolismense[635], negli Annali bertiniani[636], di Metz[637],
ec. Veggasi dunque che significasse in tali casi l'inviare il
_vessillo_. L'acquisto fatto nella forma suddetta da Carlo Magno della
città di Gerusalemme, servì di fondamento al favoloso ed antico romanzo
di Turpino per ispacciare ch'esso imperadore si portò in Oriente, vi
conquistò la santa città, andò a Costantinopoli, e fece altre prodezze:
tutte favole, che poi il Dandolo ed assai altri storici a man baciata
come verità contanti accolsero, ma che oggidì non hanno più spaccio. Io
mi dispenserò da qui innanzi dal riferir gli anni de' greci imperadori,
perch'essi in Italia non fecero più gran figura, e solamente andarono
ritenendo il dominio in Napoli ed in alcune città della Calabria.
Finalmente non vo' lasciar di dire che da una pergamena citata dal
Fiorentini[638] apparisce essere stato in questo anno duca, cioè
governatore in Lucca _Wicheramo_, ma senza sapersi se la sua autorità si
stendesse sopra le altre città della Toscana.

NOTE:

[618] Annal. Franc. Annal. Lambec. Eginhard., in Annal.

[619] Rer. Italic., Part. II, tom. 2.

[620] Eginhardus, in Annal. Franc.

[621] Monachus Engolismensis, in Vita Carol. Magni.

[622] Anastas. Bibliothec., in Leon. III.

[623] Baron., in Annal. Eccl.

[624] Eginhardus, in Vita Caroli Magni.

[625] Johann. Diaconus., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[626] Theoph., in Chronogr.

[627] Annal. Franc. Loiselian. Poeta Saxo. Monachus Engolism.

[628] Ughell., Ital. Sacr. tom. I, in Episcop. Aretin.

[629] Eginhardus, in Annal. Franc.

[630] Baron., Annal. Eccl.

[631] Eginhardus, in Vit. Caroli Magni.

[632] Poeta Saxo. Annal. apud Du-Chesne, tom. 2. Rer. Franc.

[633] Annales, Loisel. ad ann. 800.

[634] Anonymus, in Vit. Caroli Magni.

[635] Monach. Engolism.

[636] Annales Bertiniani.

[637] Annales Metenses.

[638] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.



    Anno di CRISTO DCCCI. Indizione IX.

    LEONE III papa 7.
    CARLO MAGNO imper. 2.
    PIPPINO re d'Italia 21.


Dappoichè Carlo _imperadore_ ebbe dato buon sesto al governo e agli
affari di Roma, del papa e di tutta l'Italia, e non solamente a quei del
pubblico, ma anche a quei degli ecclesiastici e de' privati, con
trattenersi apposta per tutto il verno in Roma, dove sappiamo ch'egli
fece fabbricare (è incerto il tempo) un magnifico palazzo per la sua
persona, ed anche fece dei ricchi presenti alla chiesa di s. Pietro e
alle altre di Roma; e dopo aver quivi celebrata la santa Pasqua, si mise
in viaggio per tornarsene in Francia. Nello stesso tempo[639] anche in
quest'anno ordinò a _Pippino re d'Italia_ suo figliuolo di portar la
guerra nel ducato beneventano contra di _Grimoaldo:_ del che fra poco
ragioneremo. Venne l'Augusto Carlo a Spoleti, e quivi si trovava
l'ultimo dì d'aprile, quando si fece sentire una terribile scossa di
tremuoto, che rovinò molte città di Italia, e fece cadere la maggior
parte del tetto della basilica di san Paolo fuori di Roma. Da Spoleti
passò egli a Ravenna, dove si fermò per alquanti giorni, e di là
portossi a Pavia. Stando quivi applicato, secondo il suo costume, a
stabilire il buon governo de' popoli, e a recidere gli abusi introdotti,
formò e pubblicò alcuni capitolari, o vogliam dire leggi, che servissero
da lì innanzi al regno d'Italia, come giunte al Codice delle leggi
longobardiche. Leggonsi queste in esso Codice e presso il Baluzio.
Alcune poche di più ne ho io[640] dato, ed insieme la prefazione alle
medesime, dove egli s'intitola: _Carolus divino nutu coronatus,
Romanorum regens imperium, serenissimus Augustus, omnibus ducibus,
comitibus, castaldis, seu cunctis reipublicae per provinciam Italiae a
nostra mansuetudine praepositis. Anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu
Christi DCCCI, Indictione IX, anno vero regni nostri in Francia XXXIII,
in Italia XXVIII, consulatus autem nostri primo._ Dal che e da altri
esempii si vede che cominciò allora ad usarsi con frequenza l'era nostra
volgare. Fece egli anche menzione dell'_anno primo del consolato_, per
imitar gl'imperadori greci, che gran tempo ritennero il rito di
annoverar gli anni del perpetuo lor consolato. Uso era allora che nei
casi particolari, a' quali non avessero provveduto le leggi
longobardiche, si ricorreva al re per intenderne la sua mente e volontà.
Erano perciò restate indecise molte cause in addietro: motivo per
conseguente al saggio imperadore di provvedere per l'avvenire colla
giunta di nuove leggi, _ut necessaria quae legi defuerant, supplerentur,
et in rebus dubiis non quorumlibet Judicum arbitrio, sed nostrae regiae
auctoritatis sententia praevaleret_. Stando in Pavia, ricevette
l'Augusto Carlo l'avviso che i legati di _Aronne re di Persia_, a lui
indirizzati, erano giunti a Pisa, e fra gli altri donativi veniva ancora
un elefante, cosa troppo forestiera in Occidente. Diede loro dipoi
udienza fra Vercelli ed Ivrea; e solennizzata in quest'ultima città la
festa di s. Giovanni Battista, passò dipoi in Francia. Erano già due
anni che _Lodovico re d'Aquitania_ stringeva con forte assedio o blocco
la città di Barcellona, perchè Zaddo saraceno, dopo aver fatto negli
anni addietro omaggio di quella città a Carlo Magno, allorchè Lodovico
entrò coll'armi in Catalogna, si scoprì mancator di parola, e non
fedele, anzi nemico. La fame era a dismisura cresciuta nella città, e
venuti meno i più dei difensori. Però disperato Zaddo, perchè niun
soccorso gli veniva da Cordova, si appigliò al partito d'andare egli
stesso a cercar soccorso dagli altri Mori di Spagna. Ma uscito di notte
non potè sì cautamente passare pel campo de' Francesi, che non fosse
scoperto e preso, e condotto al re Lodovico. Fu con più vigore da lì
innanzi continuato l'assedio, tantochè fu astretta quella nobil città
alla resa, e vi entrò trionfante il re Lodovico. Truovasi descritta
questa gloriosa impresa diffusamente dall'autore anonimo della vita di
Lodovico Pio[641], e similmente da Ermoldo Nigello[642], autore
contemporaneo, nel suo poema da me dato alla luce. Se crediamo al primo,
il saraceno Zaddo si partì da Barcellona per andare a trovare il re
Lodovico a Narbona, ed implorare la di lui misericordia. Sembra ben più
probabile, come ha il suddetto Ermoldo, ch'egli andasse a cercar
soccorsi dal sultano di Cordova; perchè se avesse pensato di rendersi ai
Franchi, facile gli sarebbe riuscito di ottenere un passaporto. Scorgesi
in altri punti di storia e di cronologia difettoso il suddetto Anonimo.
In Italia ancora fu posto l'assedio alla città di Rieti dall'esercito
franzese, e combattuta con tal vigore, che venne in potere del _re
Pippino_[643], insieme con tutte le castella da essa dipendenti. La
misera città data fu barbaramente alle fiamme, e _Rosulmo_ governator
d'essa incatenato, inviato in Francia all'imperadore. Ma negli Annali di
Metz, di s. Bertino e in altri, in vece di _Rieti_, sta scritto
_Theate_, cioè la città di _Chieti_, a cui toccò questa sciagura. In
fatti è scorretto nell'edizion del Du-Chesne il testo d'Eginardo.
_Rieti_ era città del ducato di Spoleti, nè alcuno scrive ch'essa si
fosse ribellata per darsi a _Grimoaldo duca di Benevento_. Oltre a ciò,
abbiamo da Erchemperto[644], che continuando la guerra fra il re Pippino
e Grimoaldo, _tellures Theatensium et urbes a dominio Beneventanorum
subtractae sunt usque in praesens_. Nel medesimo giorno furono dipoi
presentati a Carlo Magno il saraceno Zaddo, già padrone di Barcellona, e
Roselmo, governatore di Chieti, ed amendue mandati in esilio.

Al presente anno appartiene un giudicato in favore dell'insigne
monistero di Farfa, di cui è fatta menzione nelle memorie da me
pubblicate[645]. Trovavasi il re Pippino in un luogo appellato Cancello,
spettante al ducato di Spoleti, _Anno Karoli et Pippini XXVII, et XXI,
mense augusto_. Fatto ricorso a lui per aver giustizia, _Ebroardo_ conte
del palazzo, d'ordine suo decise la controversia, risedendo con lui
_Adelmo_ vescovo. Da un'altra carta d'essa badia di Farfa, scritta _sub
die XI mensis maii, Indict. IX., anno Deo propitio domni Karoli et filii
ejus Pippini XXVII et XX, in diebus illis, quando domnus Karolus ad
imperium coronatus_, apparisce che nel ducato di Spoleti veniva
esercitata giurisdizione _per Halabolt abbatem et missum domni Pippini
regis_. Dalla Cronica farfense[646] parimente si vede che _Mancione_
abbate ed altri messi erano stati inviati dal re Pippino per giudicare
eziandio di una lite vertente fra i monaci di Farfa e _Guinigiso_ duca
di Spoleti. Tenuto fu il placito nella stessa città di Spoleti, e
sentenziato contra del duca in favore del monistero. Pertanto comincia
qui ad apparire il grado di _conte del palazzo_ o pure _del sacro
palazzo_ in Italia, grado sommamente riguardevole, perchè a lui
devolvevano in ultima istanza e nelle appellazioni le cause difficili
del regno tutto d'Italia; ed allorchè egli si trovava per le città e
provincie del regno italico, godeva l'autorità di giudicar anche de'
conti, marchesi e duchi. Non ho io saputo scoprire in Italia un conte
del palazzo più antico di questo _Ebroardo_[647], a riserva di _Echerigo
conte del palazzo_, che si truova mentovato in una pergamena di
Pistoia[648] da me altrove rapportata, dove è citata, _Reclamatio
tempore domni Pippini regis facta ad Paulinum_ (patriarca d'Aquileja)
_Arnonem_ (arcivescovo di Salzburg) _Fardulfum abbatem_ (di s. Dionisio
di Parigi) _et Echerigum comitem palatii, vel reliquos loco eorum, qui
tunc hic in Italia missi fuerunt_, etc. Essendo, siccome diremo, mancato
di vita _s. Paolino_ patriarca nell'anno seguente, s'intende che questo
_Echerigo_ dovette esercitar la carica di conte del palazzo, prima che
venisse _Ebroardo_. Dei messi spediti o dai re o dagli imperadori a far
giustizia pel regno d'Italia parleremo più abbasso. Intanto da questi
placiti e giudicati abbiamo una chiara pruova che il sovrano di Spoleti
e del suo ducato erano allora Pippino re di Italia e Carlo Magno
imperadore suo padre; e non apparisce che in quelle parti esercitasse
giurisdizione alcuna, neppure subordinata, il romano pontefice. Quel
solo che merita osservazione si è, che nella maggior parte delle carte
farfensi scritte in questi tempi si veggono segnati gli anni di _Carlo
imperadore_ e di _Pippino re_, colla giunta talvolta degli anni del duca
di Spoleti. In altre poi s'incontrano i nomi di _Carlo_ e di _papa
Leone_. Ma chi potesse vedere interi quegli atti, troverebbe essere le
prime formate dai notai nel ducato di Spoleti, e le seconde in Viterbo,
e in altri luoghi del ducato romano sottoposti al pontefice. E
perciocchè anche negli strumenti dello stesso ducato romano si mirano
segnati prima gli anni di Carlo imperadore, come appunto uno farfense
scritto in questo anno si vede segnato: _Regnante domno nostro piissimo
perpetuo, et a Deo coronato Karolo Magno imperatore, anno imperii ejus
primo, seu et domno nostro Leone summo pontifice, et universali papa
anno VI, mense junio, Indictione IX_; questo ancora concorre a farci
intendere chi fosse il sovrano di Roma in que' tempi. Praticavasi lo
stesso dai duchi di Spoleti; nè si può mettere in dubbio che la
sovranità su quel ducato non fosse allora annessa ai re d'Italia.
Riferiscono i padri Cointe[649] e Pagi[650] al presente anno la vittoria
riportata da papa Leone e da Carlo Magno presso la città d'Ansidonia
nella Toscana occupata dagl'infedeli, essendo loro miracolosamente
riuscito di sconfiggere que' Barbari, con distruggere poi quella città,
situata verso Orbitello. Prestò fede a questo racconto anche il padre
Beretti[651] nella corografia de' secoli bassi. L'Ughelli, con
pubblicare il diploma dato da esso papa ed imperadore, quegli fu che
dopo il Volterrano c'insegnò questa notizia. Ma è da stupire come uomini
dotti e sperti nella critica non abbiano conosciuto che quel documento
da capo a piedi è un'impostura, nè merita d'aver luogo nelle purgate
istorie. Però, anche senza addurre il non dirsi parola di questa
battaglia e vittoria e tanto più di vittoria miracolosa, dagli storici
contemporanei, narranti tante altre minuzie dei fatti di Carlo Magno,
basta leggere quel diploma per rigettarne subito il racconto. In questi
tempi, per attestato di Giovanni Diacono[652], era console, ossia duca
di Napoli, _Teofilatto_, marito di _Euprassia_, figliuola del precedente
duca e vescovo di Napoli _Stefano_.

NOTE:

[639] Eginhard., in Annal. Franc.

[640] Rer. Italic., Part. II, tom. I.

[641] Vit. Ludovici Pii, tom. 2 Rer. Franc.

[642] Ermold., lib. I Carm. P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[643] Eginhard., in Annal.

[644] Erchempert., Hist. Princip. Langobard. P. I, tom. 2, Rer. Ital.

[645] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.

[646] Chron. Farfense, P. II, tom. 2, Rer. Ital.

[647] Antiquit. Ital., Dissert. 7 de Comit. Palat.

[648] Antiquit. Ital., Dissert. 70, de Cleri immunitate.

[649] Cointe, in Annal. Eccl.

[650] Pagius, Critic. Baron.

[651] Beretta, Chronogr., tom. 10 Rer. Ital.

[652] Johann. Diac., in Vita Episcopor. Neapol., Part. II, tom. 2 Rer.
Ital.



    Anno di CRISTO DCCCII. Indiz. X.

    LEONE III papa 8.
    CARLO MAGNO imperad. 5.
    PIPPINO re d'Italia 22.


Continuava l'_imperadrice Irene_ nel governo dell'imperio orientale, ma
con sentire il trono che le traballava sotto a' piedi. Più d'uno v'era
che aspirava all'imperio, e facea de' maneggi per questo, e
principalmente Aezio e Stauracio patrizii emuli lavoravano forte
sott'acqua per compiere questo disegno, ciascuno in proprio vantaggio.
Irene, per cattivarsi la benevolenza del popolo, gli avea rimesso nel
precedente anno alcuni tributi. Tuttavia, non fidandosi dell'instabilità
di esso popolo, e paventando le mine segrete de' concorrenti al soglio
imperiale, determinò di appoggiarsi a Carlo Magno, la cui riputazione e
possanza facea grande strepito anche in Oriente. Pertanto gli spedì per
suo ambasciatore _Leone spatario_[653], con ordine di stabilir pace fra
i Greci e Franchi, non ostante il disgusto provato per la dignità
imperiale a lui conferita. Ricevuta che fu l'ambasciata, e rispedito
l'ambasciatore, anche l'Augusto Carlo inviò a Costantinopoli i suoi
legati, cioè _Jesse vescovo d'Amiens_, ed _Elingaudo conte_, per
trattare con essa imperadrice. Teofane[654] scrive che v'andarono anche
gli apocrisarii di _papa Leone_. Dal medesimo storico e da Zonara[655]
viene spiegato il motivo di tale spedizione: cioè che Carlo Magno e il
papa erano dietro a fare un bellissimo colpo, consistente nello
strignere matrimonio fra esso imperador d'Occidente ed Irene imperadrice
d'Oriente, con che si sarebbono riuniti i due già divisi imperii. Se
questo glorioso disegno fosse vero, o pure una voce disseminata da chi
atterrò l'imperadrice, per renderla odiosa presso ai Greci; e se ella
stessa fosse la prima a farne proposizione a Carlo Magno, o pure ne
nascesse l'idea in mente del papa o di Carlo, al qual fine mandassero i
loro legati in Oriente, noi nol sappiamo dire. La verità si è, che
scoperto questo trattato, al quale scrivono che Irene aderiva, ma con
disapprovazione dei superbi Greci; o pure sparsane voce da chi
macchinava di salire sul trono; questo servì non poco per cagionare o
accelerar la rovina d'essa imperadrice. Si studiava Aezio patrizio di
promuover Leone suo fratello; ma fu più scaltro o fortunato _Niceforo_
patrizio e logoteta generale, che, tirati nel suo partito molti nobili e
una parte del popolo, si fece proclamare imperadore. Rinserrò nel
palazzo Irene, ed appresso con finte lusinghe e promesse tanto fece, che
le cavò di bocca il luogo dove erano i tesori; poscia per ricompensa la
mandò in esilio in un monistero di Lesbo, oggidì Metelino, dove
custodita dalle guardie, e riconoscendo dalla mano di Dio questo per un
gastigo de' suoi peccati, nell'anno seguente diede fine ai suoi giorni.
Presenti a questa tragedia, succeduta nel dì ultimo di ottobre, furono
gli ambasciatori di Carlo Magno, i quali poi seguitarono a trattenersi
in Costantinopoli, finchè videro quetati i rumori, e poterono ottenere
udienza dal novello imperadore, della cui avarizia, infedeltà, empietà e
tirannia parla assai francamente nella sua storia Teofane.

Continuava intanto la guerra fra il _re Pippino_ e _Grimoaldo duca di
Benevento_. Racconta Erchemperto[656] che fra questi due principi,
siccome giovani ed animosi amendue, passava una terribil gara, ed ognun
d'essi con gran vigore sosteneva il suo punto. Più volte Pippino spedì
ambasciatori all'altro, con fargli sapere, che siccome _Arigiso_ duca,
padre di lui, era stato suggetto al re Desiderio, nella stessa guisa
pretendea che Grimoaldo fosse suggetto a lui. Rispondeva Grimoaldo:

           _Liber et ingenuus sum natus utroque parente;_
              _Semper ero liber, credo, tuente Deo._

A tali risposte montava Pippino in collera, e con quante forze poteva,
di tanto in tanto passava a fargli guerra. Ma Grimoaldo non si perdeva
di coraggio. Nè a lui mancavano buone truppe e delle ben guernite
fortezze; e però si rideva di lui. Tuttavia abbiamo dagli Annali de'
Franchi, che in quest'anno riuscì al re Pippino di prendere la città
d'Ortona nell'Abruzzo[657]. Con lungo assedio ancora forzò la città di
_Lucera_ o _Nocera_ in Puglia a rendersi, e vi mise guarnigione
francese, con darne la guardia a _Guinigiso duca di Spoleti_. Grimoaldo,
che non dormiva, da che seppe che Pippino avea ricondotto a quartiere
l'esercito suo, venne colle sue brigate sotto la medesima città di
Lucera, e dopo averla stretta con assedio per alcun tempo, finalmente se
ne impadronì. Così cadde nelle mani di lui lo stesso duca Guinigiso, il
quale s'era infermato durante l'assedio, e fu da lui trattato con tutta
onorevolezza. Accadde in quest'anno una scandalosa iniquità, di cui
lasciarono memoria gli Annali de' Veneziani. Era stato eletto vescovo di
Olivola Castello (oggidì parte della città di Venezia) _Cristoforo_,
uomo greco, col favore di _Giovanni doge di Venezia_, e per
raccomandazione di _Niceforo imperadore_. Ma essendo in discordia i
tribuni di Venezia col doge, scrissero a _Giovanni patriarca di Grado_,
pregandolo di non volerlo consecrare. Non solo il patriarca gli negò la
consecrazione, ma lo scomunicò. A questo avviso andò sì mattamente nelle
furie il doge Giovanni, che preso seco _Maurizio doge_ suo figliuolo,
con una squadra di navi e di armati volò contro la terra di Grado; ed
entratovi senza resistenza, e trovato il patriarca fuggito sopra la
torre da quella il precipitò al basso. Il Sabellico[658] e Pietro
Giustiniano scrivono essere proceduta l'uccisione del patriarca,
perch'egli avea ripreso i dogi suddetti a cagione di molte loro
iniquità. Rapporta il cardinal Baronio[659] una lettera scritta da s.
_Paolino_ patriarca di Aquileia a Carlo Magno, in cui gli dà avviso
d'aver celebrato un concilio in Altino. E poscia soggiugne, _De
sacerdotibus autem plagis impositis, semique vivis relictis, vel certe
diabolico fervescente furore, per ejus satellites interemtis, non meum,
sed vestrae definitionis erit judicium, ec. Egrediatur, si placet, una
de hac re per universam regni vestri late diffusam monarchiam decretalis
sententiae ultio_, ec. Crede esso eminentissimo Annalista che s. Paolino
implorasse il braccio di Carlo Magno per punire il sacrilego misfatto
dei dogi di Venezia. Ma è da osservare che, secondo gli Annali di
Lambecio[660] e di Fulda[661] e di Ermanno Contratto[662], e per
confessione dello stesso Baronio, in quest'anno, e non già nell'804, fu
chiamato da Dio a miglior vita il santo patriarca Paolino. Ed essendo
seguita, per quanto s'ha dal calendario aquileiense, la di lui morte nel
dì 11 di gennaio, non si può tal notizia accordare coll'elezione del
vescovo d'Olivola, per quanto si dice, a raccomandazione di Niceforo
imperadore, che appena due mesi prima aveva occupato l'imperio
d'Oriente. Oltre di che, non essendo l'isola e il patriarca di Grado
sotto la giurisdizion di Carlo Magno, è da vedere come s. Paolino
ricorresse a lui pel gastigo de' malfattori. Ed egli parla di sacerdoti
feriti o uccisi, e non già di un vescovo e patriarca. Però non sono ben
chiare le circostanze di quell'orrido e indubitato fatto, che portò poi
seco un grave sconcerto nella repubblica veneziana. Per altro nella
morte di s. Paolino mancò all'Italia un singolare ornamento, perch'egli
non meno colla sua letteratura che per le sue insigni virtù faceva in
Italia quella gloriosa figura, che allora anche Alcuino suo amicissimo
faceva in Francia. Ed è ben da maravigliarsi come il cardinal Baronio
non inserisse nel Martirologio romano questo insigne personaggio, quando
ivi ha dato luogo ad altri in merito a lui molto inferiori. Più ancora è
da dolersi perchè in quei tempi, ne' quali la Francia, la Germania e
l'Inghilterra ebbero tanti scrittori delle vite di varii vescovi, abati
ed altri riguardevoli per le loro virtù, niuno in Italia prendesse a
scrivere quella del suddetto patriarca, e che sieno restate in oblio le
vite d'altri personaggi italiani, distinti per le loro bell'opere,
dovendosi credere che neppure all'Italia mancassero allora dei sacri
vescovi e degli altri ecclesiastici e secolari di rara pietà.

NOTE:

[653] Annales Franc. Bertiniani. Eginhard., in Annal. Franc.

[654] Teoph., in Chronogr.

[655] Zonar., in Annalib.

[656] Erchempertus, Hist. Lang., P. I, tom. 2. Rer. Ital.

[657] Annales, Franc. Metens. Eginhard., in Annal. Franc.

[658] Sabellicus, Ennead. VIII, lib. 9.

[659] Baron., in Annal. Eccl.

[660] Lambecius, in Annal. Franc.

[661] Annales Francor. Fuldenses.

[662] Hermann. Contractus, in Chron.



    Anno di CRISTO DCCCIII. Indizione XI.

    LEONE III papa 9.
    CARLO MAGNO imperadore 4.
    PIPPINO re d'Italia 23.


Spediti da _Niceforo imperadore dei Greci_ tornarono quest'anno in
Italia e in Francia gli ambasciatori di _Carlo Magno_, conducendo seco
quei di Niceforo[663], cioè _Michele vescovo, Pietro abate_ e Callisto
candidato. Si presentarono questi a Carlo, che dimorava allora nella
regal villa di Salz in Franconia, e con esso lui conchiusero un trattato
di pace; dopo di che per la via di Roma se ne tornarono a
Costantinopoli. Le condizioni di questa pace non le scrivono gli
storici; tuttavia si apporrà al vero chi crederà conchiuso fra loro un
accordo coll'_uti possidetis_. Con che venne Niceforo ad assicurarsi nel
dominio della Sicilia e delle città che già restavano nella Calabria, e
ne' suoi diritti sopra Napoli, Gaeta ed Amalfi; e all'incontro Roma col
ducato romano, e tutto il regno de' Longobardi, ossia d'Italia,
restarono sottoposti alla signoria di Carlo Magno con gli altri regni o
da lui acquistati, o già dipendenti dalla corona di Francia. Per conto
della città di Venezia, e dell'altre marittime della Dalmazia, è da
ascoltare Andrea Dandolo[664], che così scrive: _In hoc foedere_ (tra
Carlo Magno e Niceforo) _seu decreto nominatim firmatum est, quod
Venetiae urbes et maritimae civitates Dalmatiae, quae in devotione
imperii_ (cioè del greco) _illibatae perstiterant, ab imperio
occidentali nequaquam debeant molestari, invadi, nec minorari; et quod
Veneti possessionibus, libertatibus et immunitatibus quas soliti sunt
habere in italico regno, libere perfruantur_. In fatti è fuor di disputa
che la città di Venezia colle isole adiacenti restò esclusa dal regno
d'Italia, nè Carlo Magno nè Pippino suo figliuolo v'ebbero dominio.
Sappiamo inoltre da Eginardo[665] ch'esso Carlo Augusto abbracciò sotto
la sua signoria _Histriam quoque et Liburniam atque Dalmatiam, exceptis
maritimis civitatibus, quas ob amicitiam, et junctum cum eo foedus,
constantinopolitanum imperatorem habere permisit_. Era prigionere
_Guinigiso_ duca di Spoleti, siccome dicemmo. _Grimoaldo_ duca di
Benevento, che cercava tutte le vie di placare il re Pippino, rimise
quest'anno con tutto garbo in libertà esso Guinigiso; e di ciò fanno
memoria gli Annali de' Franchi. Intanto era stato eletto patriarca di
Grado _Fortunato_ da Trieste, parente dell'ucciso patriarca _Giovanni_.
Rapporta il Dandolo la bolla di papa Leone, che oltre all'approvare la
di lui elezione, gli manda ancora il pallio. Essa bolla è data _XII.
kal. aprilis per manus Eustachii primicerii sanctae sedis apostolicae.
Imperante domno nostro Carolo, piissimo perpetuo Augusto, a Deo
coronato, magno et pacifico imperadore anno III, Indictione XI_, e per
conseguente in quest'anno. La data è appunto a tenore del formolario
usato sotto gl'imperadori greci. Poco nondimeno stette fermo nella sua
sede questo patriarca. Perciocchè non potendo digerire l'iniquità
commessa contra del suo predecessore e parente cominciò a tramare con
alcuni de' principali Veneziani una congiura contra dei dogi di Venezia.
Ma questa scoperta, temendo egli della vita, se ne fuggì da Grado, e
ricoverossi sotto la protezione di Carlo Magno, con andare a trovarlo
alla villa di Salz, ossia di Sala, e portargli, fra gli altri regali,
alcune insigni reliquie di santi. Negli Annali di Metz[666] si legge:
_Venit quoque Fortunatus patriarcha de Graecis afferens secum super
cetera dona duas portas eburneas, mirifico opere sculptas_. Egli è detto
patriarca vegnente dai _Greci_, non per altro, se non perchè Grado era
tuttavia sotto la giurisdizione de' Greci. Complici della congiura
suddetta erano Obelerio tribuno di Malamocco, Felice tribuno, Demetrio,
ed altri nobili Veneziani, i quali vedendo svelato il lor disegno,
presero la fuga, e si ritirano a Trivigi, città del regno di Italia,
come in luogo di sicurezza. Ottenne il suddetto patriarca Fortunato da
Carlo Magno un privilegio, che si legge presso il Dandolo, e vien anche
rapportato dall'Ughelli[667]: la sua data è _idus augusti in sacro
palatio nostro anno XXXIII regni nostri in Francia, XXVIII in Italia, et
imperii III_, cioè nell'anno presente. In vece di _sacro_ il padre
Cointe giudiziosamente conghietturò che ivi fosse scritto _in Salz
palatio nostro_. In esso diploma vien ricevuto da Carlo Magno sotto la
sua protezione _Fortunatus gradensis patriarcha, sedis sancti Marci
Evangelistae, et sancti Ermacorae episcopus_; e inoltre tutti i suoi
servi e coloni, _qui in terris suis commanent in Istria, Romandiola seu
in Longobardia_. Ecco come quella parte dell'Emilia e Flaminia, che
formava l'esarcato di Ravenna, cominciò ad appellarsi _Romandiola_.
Vedemmo di sopra ordinato da Carlo Magno, o pur da Pippino fra le leggi
longobardiche[668], _de fugacibus, qui in partibus Beneventi et Spoleti,
seu Romaniae, vel Pentapoli confugium faciunt, ut reddantur_. Dal nome
di _Romania_ e di _Romandiola_ si formarono i nomi volgari _Romagna_ e
_Romagnola_. Eruditamente osservò il padre Mabillone[669], che
trovandosi in questi tempi abate del monistero Mediano, ossia di _Moyens
Moutiers_ nella provincia del Berry in Francia un _Fortunato vescovo_,
questi sia stato Fortunato patriarca di Grado ricorso alla protezione di
Carlo Magno, che dovette provvederlo di quel benefizio per suo
sostentamento. E tanto più, perchè vedremo che papa Leone in iscrivendo
a Carlo Magno la lettera undecima, e parlando del medesimo patriarca
Fortunato, dice: _Neque de partibus Franciae, ubi eum beneficiastis_.
Solamente non sussiste che di quel monistero fosse egli eletto abate
nell'anno 799, come sospettò il suddetto padre Mabillone, perchè
Fortunato solamente passò in Francia nell'anno presente.

Secondo il poeta sassone[670], questo fu l'anno in cui, dopo sì lunghe
rivoluzioni e guerre, fu data la pace alla Sassonia. Altri Annali ne
parlano all'anno seguente. Concorsero assaissimi della nobiltà sassone
alla villa di Salz, dove soggiornava l'Augusto Carlo, e quivi a lui
tutti si sottomisero, con promessa di abbandonare affatto il paganesimo
e di abbracciare la santa religione di Cristo. Niun tributo impose loro
l'imperadore, ma solamente l'obbligo di pagar le decime per alimento del
clero, e di ubbidire ai conti, ossia ai giudici e messi, ch'egli
invierebbe al loro governo, vivendo nulladimeno colle proprie leggi.
Abbiamo ancora dagli Annali di Metz, che venuto Carlo Magno a Ratisbona,
colà se gli presentò _Zodane_, uno de' principi della Pannonia nominato
di sopra, e si sottomise al di lui imperio: il che servì d'esempio ad
altri Unni della Pannonia e ad alcuni Schiavoni per fare lo stesso. Si
sa che Carlo anche in questo anno spedì l'esercito suo nella Pannonia, e
che vi dovette far delle nuove conquiste colla desolazione di tutte
quelle contrade. Dopo avere _Anselmo_ abate del monistero di Nonantola
nel territorio di Modena tenuto quel governo per lo spazio di cinquanta
anni, (come s'ha dalla sua vita scritta da un monaco che sembra vicino a
que' tempi, e pubblicata dall'Ughelli[671] e del Mabillone[672]),
terminò in quest'anno la carriera delle sue gloriose fatiche con odore
di santità, e per santo appunto è tuttavia venerato nella diocesi di
Nonantola. Fondò egli oltre a questo altri monisteri, dimodochè sotto di
lui si contavano _MCXLIV monachi, exceptis parvulis et pulsantibus, qui
non constringebantur ad regulam_, cioè non computati nel suddetto numero
de' monaci i _fanciulli_ che si allevavano nelle lettere e nella pietà
in esso monistero, siccome neppure i _novizzi_, chiamati _pulsantes_ o
dall'esame che lor si faceva a guisa dei medici toccanti il polso, o
pure dal pregare che essi faceano per venire ammessi all'abito e alla
professione monastica. Fu il monistero di Nonantola uno dei più insigni
e ricchi d'Italia, di maniera che crebbe a poco a poco una nobil terra
appresso il monistero che dura anche oggidì. Ebbero gli abati
giurisdizion temporale e spirituale sopra varie ville. Cessò la
temporale, ma si conserva tuttavia la spirituale, godendo quel monistero
la sua particolar diocesi e copiose rendite. Gregorio monaco, che
scrisse l'anno 1092 la Cronica del monistero di Farfa, da me data alla
luce[673], ci avvertì essere salito in tanto credito esso nobilissimo
monistero di Farfa sì nello spirituale che nel temporale, _ut in toto
regno_ (d'Italia) _non inveniretur simile huic monasterio, nisi quod
vocatur Nonantulae_. Tali parole copiò questo monaco da Ugo abate
farfense, che visse nel precedente secolo, e scrisse _de destructione
monasterii farfensis_. Questo opuscolo l'ho io pubblicato[674] dipoi. Ma
le troppe ricchezze, siccome vedremo, fecero guerra allo stesso
monistero nonantolano, laonde, a guisa di tanti altri fu ingoiato dagli
antichi cacciatori di benefizii ecclesiastici o secolari: costume o
abuso, cominciato anche prima di questo secolo in Francia, e solamente
in questo introdotto in Italia. Oggidì è abate commendatario d'essa
badia nonantolana l'eminentissimo _cardinale Alessandro Albani_, e la
chiesa è uffiziata da alquanti monaci cisterciensi, sustituiti ai
benedettini neri, che da gran tempo prima aveano cessato di abitarvi. A
santo Anselmo succedette _Pietro_ abate, personaggio anch'esso
riguardevole, di cui parleremo altrove.

NOTE:

[663] Annales Franc. Metens. Eginhard., in Annal. Franc.

[664] Dandul., in Chr., tom. 12 Rer. Italic.

[665] Eginhardus, in Vita Caroli Magni.

[666] Annal. Franc. Metenses.

[667] Ughellus, Ital. Sacr., tom. 8.

[668] Rer. Ital. P. II, tom. 1, pag. 123.

[669] Mabill., in Annal. Benedictin., ad ann. 799.

[670] Poetae Saxonis, Annal. Franc.

[671] Ughell., Ital. Sacr., tom. 3, in Episc. Mutin.

[672] Mabill., in Annal. Benedictin.

[673] Chronic. Farfense, Rer. Italic., P. II, tom. 2.

[674] Antiquitat. Italic., Dissert. LXXII.



    Anno di CRISTO DCCCIV. Indizione XII.

    LEONE III papa 10.
    CARLO MAGNO imperadore 5.
    PIPPINO re d'Italia 24.


Fece gran rumore quest'anno in Italia la scoperta succeduta nella città
di Mantova di una spugna inzuppata, come corse la fama, nel sangue del
Signor nostro Gesù Cristo, portata colà da Longino. In que' secoli
d'ignoranza poco ci voleva a spacciare e far credere somiglianti
racconti. Lo straordinario concorso dei popoli e l'universale bisbiglio
per questa novità giunse all'orecchie di Carlo Magno, e mosso da giusta
curiosità ne scrisse tosto a _papa Leone III_, pregandolo di esaminar la
verità del fatto, che non s'accorda cogl'insegnamenti della scolastica
teologia. Il papa, o perchè avesse voglia di passare in Francia, o gli
venisse fatta gran premura per questo affare[675], sen venne a Mantova,
senza che apparisca qual decreto egli proferisse intorno a questo
preteso sangue del Signore; e prevalendosi della buona occasione, fece
sapere a Carlo Magno il desiderio suo di trovarsi con lui, per
solennizzare insieme la festa del santo Natale. Gli scrittori mantovani
coll'Ughelli[676] asseriscono che fino a questi tempi la città di
Mantova non avea goduta la dignità del vescovato, e che il primo quivi
ordinato dal suddetto pontefice fu _Gregorio_ di patria romano. In fatti
non s'è scoperto finora vescovo di Mantova più antico di questo; ma con
rimaner sempre un motivo di stupore, come una sì illustre città
cominciasse così tardi ad aver questo decoro, e senza sapersi chi dianzi
la governasse nello spirituale. Avvertito Carlo imperadore della venuta
del papa, gli mandò incontro fino a san Maurizio il _principe Carlo_ suo
primogenito, ed egli l'aspettò nella città di Rems, di là poscia il
condusse a Soissons, e finalmente ad Aquisgrana, dove passarono le feste
di Natale in divozione ed allegria. Dopo otto giorni di permanenza nella
corte di quel monarca, sul principio del gennaio dell'anno seguente se
ne tornò il pontefice per la Baviera a Roma, seco portando varii regali
a lui fatti da Carlo Magno, il quale fece anche accompagnarlo da alcuni
suoi baroni fino a Ravenna. Aveva in quest'anno l'Augusto Carlo spedito
i suoi eserciti nella Sassonia, perchè vi restavano spezialmente di là
dall'Elba alcuni popoli ostinati nell'idolatria, che pervertivano anche
i nuovi convertiti de' Sassoni[677]. Fece egli prendere tutti costoro
colle lor famiglie (Eginardo scrive che furono diecimila persone), e li
distribuì in varie contrade de' suoi regni. Trovandosi poi egli in un
luogo appellato Holdunstetin, vennero ad inchinarlo alcuni principi
della Schiavonia, che erano in disparere fra loro. Egli, dopo essersi
servito della sua sapienza ed autorità per comporre le lor differenze,
diede ad essi per re _Trasicone_, che s'era presentato a lui con molti
regali. Era in questi tempi re della Danimarca _Gotifredo_. Desiderava
egli di abboccarsi con Carlo Magno, non si sa se per attestare il suo
ossequio a sì potente e temuto monarca, oppure per qualche controversia
fra loro. Venne colla sua flotta e con tutta la sua cavalleria sino a
Slevich, cioè ai confini del suo regno e della Sassonia, e fece
intendere a Carlo la sua venuta; ma i suoi baroni non gli permisero di
andar più innanzi. Siccome al precedente anno dicemmo[678], erano
fuggiti per paura dei dogi molti nobili veneziani a Trivigi. Quivi
stando e tenendo segrete intelligenze con gli altri nobili rimasti in
Venezia, per loro consiglio elessero doge _Obelerio_ tribuno. Il che
inteso dai due indegni dogi, cioè da _Giovanni_ e da _Maurizio_ suo
figliuolo, che dovettero anche avvedersi della poca sicurezza del loro
soggiorno, spaventati presero la fuga. Giovanni si ritirò a Mantova,
Maurizio se ne andò in Francia, per implorar la protezione di Carlo
Magno. E tentarono ben essi più volte di ritornare alla patria, ma
sempre rigettati, finirono i loro giorni in esilio. All'incontro
_Obelerio_ fu con gran festa accolto dal popolo, e intronizzato in
Malamocco, dove allora dovea esser la principal residenza di que' dogi.
Egli da lì a non molto ottenne dal popolo, che _Beato_ suo fratello
fosse anch'egli assunto alla dignità di doge, e dichiarato suo collega.
Per paura d'esso Obelerio, _Cristoforo_ vescovo d'Olivola, siccome
parente dei dogi scacciati, uscì di Venezia, e in suo luogo fu eletto
vescovo _Giovanni_ diacono. Rapporta l'Ughelli all'anno seguente, ma
dovea piuttosto dire al presente, un diploma di Carlo Magno, dato in
favore dell'antico monistero di santa Maria, situato fuori di Verona
presso la porta appellata dell'Organo, anche oggidì esistente, ed
inchiuso nella città. La data sua, che esso Ughelli mise fuor di sito, è
questa: _Imperante domno Carolo Magno imperat. anno IV, de mense
novembris, Indictione XIII_. Osservò il padre Mabillone[679], che
l'_indizione XIII_ non conviene all'anno presente, ma bensì al seguente,
e che questo diploma non sa dello stile della cancelleria di Carlo
Magno, e convenir esso piuttosto a _Carlo Crasso_ ossia il _Grosso_,
imperadore. Allorchè io visitai per opera del chiarissimo marchese
Scipione Maffei le pergamene dello archivio del suddetto monistero
veronese, trascurai di esaminare l'originale o la copia antica di questo
privilegio, in cui son corsi varii errori per negligenza dell'Ughelli.
Per altro non sussiste già che l'_indizione XIII_ sia qui scorretta.
Cominciò essa nel settembre dell'anno presente, e però era in corso nel
_novembre_; e durava similmente allora tuttavia l'_anno IV dell'impero_
di Carlo Magno. Tali note cronologiche non possono già accordarsi con
gli anni di Carlo Crasso Augusto. Del resto, se questo sia documento
autentico e sicuro, ne potrà render miglior conto chi avrà sotto gli
occhi quella cartapecora.

NOTE:

[675] Annal. Francor. Metenses. Annal. Francor. Bertiniani.

[676] Ughell., in Ital. Sacr., tom. 1 in Episc. Mantuan.

[677] Annales Franc. Moissiacens. Annales Franc. Loiselian.

[678] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[679] Mabillonius, Annal. Benedictin. ad ann. 804.



    Anno di CRISTO DCCCV. Indizione XIII.

    LEONE III papa 11.
    CARLO MAGNO imperadore 6.
    PIPPINO re d'Italia 25.


Le imprese di _Carlo imperadore_ nel presente anno furono le
seguenti[680]. Venne a trovarlo il _Cacano_, ossia _Capcano_, cioè il
principe primario degli Unni abitanti nella Pannonia, e già divenuti
sudditi e tributarii d'esso Augusto. Chiamavasi _Teodoro_, e professava
la religione di Cristo. Dopo avergli rappresentato che per le violente
incursioni de' vicini Schiavoni non potea più col suo popolo fermarsi
nelle antiche sue contrade, il pregò di permettergli che venisse ad
abitare fra Sabaria e Carnunto. Credono gli eruditi che queste due città
fossero nel tratto del paese posto fra Vienna e Presburgo, e il fiume
Rab. Ottenne Teodoro quanto dimandava, e licenziato con varii doni a lui
fatti dall'imperadore, se ne tornò ai suoi, ma con sopravvivere poco
tempo dipoi. Il suo successore inviò ambasciatori al medesimo Augusto
per l'approvazione della dignità a lui conferita; e Carlo gli concedette
autorità e giurisdizione sopra tutta la nazione degli Unni della
Pannonia, come era in uso ne' vecchii tempi. Ma Carlo Magno, nelle cui
vene bolliva la febbre dei conquistatori, i quali non mai sazii di
dilatare in confini, mentre fanno un acquisto, ne van meditando un
altro, rivolse in quest'anno le sue mire alla Boemia. Era quel paese
allora abitato dagli Sclavi o Slavi, o vogliam dire Schiavoni: e di qui
è poi venuto che que' popoli tuttavia usano la lingua schiavona. In più
parti confinava con loro il dominio di Carlo Magno, cioè per la
Sassonia, per la Baviera, che allora abbracciava l'Austria, e per la
Pannonia. Ora nell'anno presente risoluto egli di sottomettere quella
nazione, con tre poderosi eserciti da tre parti la fece assalire. Era un
d'essi formato di Franchi, condotti dal principe _Carlo_ suo
primogenito, il quale poco fa, oppure poco dappoi, avea conseguito il
titolo di re dal padre. Il secondo composto di Sassoni e Sclavi, o Slavi
Obotriti, secondochè s'ha dagli Annali de' Franchi, era composto di una
innumerabil moltitudine di gente. Nel terzo si contavano le milizie di
tutta la Baviera. Da questa formidabil oste assaliti i Boemi, non
pensarono a far fronte, ma misero tutta la lor difesa nella ritirata sui
monti e ne' boschi più folti. Bisogna nondimeno credere succeduta
qualche baruffa, perchè vi rimase estinto _Lecone duca dei Boemi_. Per
quaranta giorni le suddette armate scorsero il paese, incendiando e
dando il guasto a tutto; e perciocchè venne meno il foraggio ai cavalli
e la provianda ai soldati, se ne tornarono in fine ai loro quartieri. Ma
gli Annali moissiacensi[681] aggiungono che _Samela re de' Boemi_ venne
a patti, e promise fedeltà a Carlo Magno, con dargli anche per ostaggi
due suoi figliuoli. Essendosi nulladimeno continuata nell'anno seguente
la guerra coi Boemi, può dubitarsi della verità di questo racconto.
Intanto l'imperadore andava visitando i luoghi del suo regno vicini al
mare. Fu a visitarlo _Lodovico_ suo figliuolo re d'Aquitania, mentr'egli
si trovava nella villa di Teodone. Vi arrivò anche dall'Italia il re
_Pippino_; e quivi colla grata compagnia di questi suoi due figliuoli
solennizzò la festa del santo Natale del Signore. Ci viene poi dicendo
Andrea Dandolo[682], che dappoichè l'Istria, per le capitolazioni
seguite fra i due imperii occidentale ed orientale, restò sotto il
dominio di Carlo Magno, questi mandò per duca di quella provincia un
certo _Giovanni_. Cominciò costui ad aggravar que' popoli, e i popoli ne
portarono le doglianze all'imperadore, il quale non tardò a spedire colà
_Izone_ prete, _Cadaloo_ ed _Ajone conti_, con ordine di esaminar
l'affare. Questo _Cadaloo_ altri non può essere che il successore di
_Erico_ o _Enrico_ nel governo del ducato del Friuli. E non portando
egli se non il titolo di _conte_, potrebbe a talun parere che la marca
del Friuli o trivisana non fosse peranche formata. Ma noi vedremo che i
_marchesi_ usavano anche il titolo di _conti_, perchè come marchesi
soprintendevano a tutta la marca, e come conti erano governatori
stabiliti di qualche città. Dai suddetti deputati dell'imperadore fu
raunata una dieta in Istria, in cui concorsero _Fortunato patriarca di
Grado_, esule dalla sua patria, _Teodoro, Leone, Staurazio, Stefano_ e
_Lorenzo vescovi_ di quelle contrade, e cento sessantadue principali
cittadini delle città dell'Istria. Chiarito ch'ebbero l'insolito peso
imposto dal _duca Giovanni_, ne esentarono que' popoli, con ordinare che
non fossero tenuti a pagare se non marche trecentocinquantaquattro,
siccome dianzi faceano alla camera imperiale dei Greci, con ripartire il
pagamento secondo la possibilità delle città e castella della provincia.
Aggiugne il Dandolo che i Veneziani, per l'odio che portavano ai due
dogi fuggiti, ridussero in un mucchio di pietre la città d'Eraclea, da
dove quei medesimi dogi aveano tirata la loro origine, senza però
dissimulare che la distruzione di quella città vien da altri attribuita
a _Pippino re d'Italia_ nella guerra che fra poco racconteremo. Annovera
poi egli le nobili famiglie che di là passarono ad abitare in Malamocco,
Rialto e Torcello. La rovina di questa città mi fa sovvenire che ne'
medesimi tempi _Niceforo imperadore de' Greci_, a cui quasi tutte le
imprese andavano alla traversa, restò maltrattato sì fattamente nella
guerra coi Saraceni[683], che fu astretto a comperar la pace da loro,
con promettere un annuo tributo, e di non riedificare _Eraclea_, città
diversa da quella dei Veneziani.

NOTE:

[680] Annal. Franc. Metenses. Annal. Franc. Bertiniani.

[681] Annal. Moissiacenses, tom. 3 Rer. Franc.

[682] Dandul., in Chron., tom. 12. Rer. Ital.

[683] Theoph., in Chronogr. Elmac. Hist. Sarac. lib. 2.



    Anno di CRISTO DCCCVI. Indizione XIV.

    LEONE III papa 12.
    CARLO MAGNO imperadore 7.
    PIPPINO re d'Italia 26.


Gli anni intanto dell'_Augusto Carlo_ erano cresciuti di molto, e ne
cominciava egli a sentire anche il peso; però come principe saggio volle
provvedere all'avvenire, con dividere fra i tre suoi figliuoli la vasta
sua monarchia. Rapporta il cardinal Baronio la divisione da lui
fattane[684], che si legge anche presso il Baluzio[685] e in altri
libri. Trovavasi allora l'imperadore nella villa di Teodone: e quivi a
tale effetto tenne una dieta numerosa de' baroni de' suoi regni.
Concedette adunque a _Lodovico_, il minore dei figliuoli, la Linguadoca,
la Guascogna, la Provenza, la Savoia, il Lionese e la valle di Susa,
cioè tutto il tratto di paese meridionale posto fra i confini di Italia
e di Spagna. A _Pippino_ lasciò _Italiam, quae et Langobardia dicitur,
et Bajovariam, sicut Tassilo tenuit, excepto duabus villis,_ etc._, et
de Alamania partem, quae in australi ripa Danubii fluminis est, et de
ipso flumine Danubii currente limite usque ad Rhenum fluvium,_ etc._, et
inde per Rhenum fluvium, sursum versum usque ad Alpes quidquid inter hos
terminos fuerit, et ad meridiem vel orientem respicit, una cum ducatu
curiensi et pago Durgouve._ Sicchè al re Pippino toccò in sua parte il
regno d'_Italia_ con quasi tutta la _Baviera_, provincia allora di
grande estensione, e una porzione dell'_Alemagna_. In questa parte,
siccome conghietturò Giovanni Lucio[686] si può credere compresa
l'Istria e la Dalmazia, e una porzione della Pannonia e Schiavonia già
conquistate da esso Carlo Magno, ciò argomentandosi dalle parole: _et
quidquid inter hos terminos fuerit, et ad meridiem vel ad orientem
respicit_. A _Carlo_ suo primogenito lasciò tutto il rimanente della
Francia espresso coi nomi d'Austria e di Neustria, paese vasto, che
scorreva di là dal Reno, quasi tutta la Borgogna colla valle d'Aosta, la
Turingia, la Sassonia, la Frisia, e quasi tutta l'Alemagna, oggidì la
Svevia. Poscia, in caso che uno d'essi fratelli venisse a mancar di
vita, dispose come si avesse a dividere fra chi sopravviveva la porzione
del defunto, e fra l'altre cose si dice: _Si vero Karolo et Ludovico
viventibus, Pippinus debitum humanae sortis compleverit, Karolus et
Ludovicus divident inter se regnum, quod ille habuit. Et haec divisio
tali modo fiat, ut ab ingressa Italiae per augustam civitatem accipiat
Karolus Eboreiam, Vercellas, Papiam et inde per Padum fluvium termino
currente usque ad fines Regiensium, et Civitatem Novam, atque Mutinam
usque ad terminos sancti Petri. Has civitates cum suburbanis et
territoriis suis, atque comitatibus, quae ad ipsas pertinent; et
quidquid inde Romam pergenti ad laevam respicit de regno, quod Pippinus
habuit, una cum ducatu spoletano hanc portionem, sicut praedicimus,
accipiat Karolus. Quidquid autem a praedictis civitatibus vel
comitatibus Romam eunti ad dexteram jacet de predicto regno, idest
portionem, quae remansit de regione transpadana una cum ducatu tuscano
usque ad mare Australe, et usque ad Provinciam, Ludovicus ad augmentum
sui regni sortiatur._ Se dunque fosse premorto ai fratelli il re
Pippino, in sua porzione al principe Carlo avea da toccare l'Oltrepò, e
di qua dal Po anche la città di _Reggio, Cittanuova_ (allora
riguardevole luogo posto sulla via Claudia, quattro miglia lungi da
Modena all'Occidente, siccome ho provato altrove), e _Modena_ col suo
territorio _sino ai confini di s. Pietro_[687]. Che ai tempi di Clemente
VII papa ci fossero persone che si figurassero comprese nell'esarcato di
Ravenna, donato alla santa Sede, le città di _Modena, Reggio, Parma_ e
_Piacenza_, si può perdonare alla scarsa erudizione d'allora. Ma è bene
una vergogna che ne' tempi nostri, tempi di tanta luce per l'erudizione,
persona abbia osato di voler sostenere questa pretensione con impugnare
la verità conosciuta. Chiaro apparisce di qui che erano comprese nel
regno d'Italia le città suddette, e che il territorio di s. Pietro
cominciava sul bolognese. Non è già nella stessa guisa manifesto che
voglia dire l'Augusto Carlo con quelle parole: _Et quidquid inde Romam
pergenti ad laevam respicit de regno, quod Pippinus habuit_. Ma non si
può già controvertere che almeno il _ducato di Spoleti_ non fosse
anch'esso incastrato nel regno d'Italia. Similmente apprendiamo che al
re Lodovico sarebbe toccato in sua parte il di qua dal Po (a riserva di
Reggio, Cittanuova e Modena) col Genovesato e col _ducato della
Toscana_: notizia che ci conduce ad intendere che sopra tutta quella
provincia era già stato costituito con titolo di _duca_, oppure, siccome
vedremo, di _marchese_, un governator generale e perpetuo. Resta poi
scuro ciò che veramente significhi _usque ad mare Australe, et usque ad
Provinciam_. Il confine d'Italia al ponente era la Provenza. Pare che
l'altro confine al levante fosse il _mare Australe_, e che questo si
stendesse di là dalla Toscana, ma di ciò lascerò disputare ad altri.
Della sovranità di Roma e del suo ducato, siccome non pertinente al
regno d'Italia, nulla si parla in questa divisione. Era essa riservata a
chi fosse dipoi dichiarato imperador de' Romani: sopra di che nulla
determinò per allora l'Augusto Carlo. Fu mandata a papa Leone la carta
di questa divisione, acciocchè la sottoscrivesse: tanta era anche in
que' tempi la venerazione al sommo pontefice. Eginardo, autore degli
Annali e della vita di Carlo Magno, quegli fu che la portò a Roma.

Ora giacchè abbiam fatta menzione del ducato di _Spoleti_, si dee qui
avvertire che nel catalogo posto innanzi alla Cronica di Farfa[688],
sotto quest'anno, vien riferito _Romanus dux_, come duca di Spoleti. Ma
perciocchè era tuttavia vivo e comandava in quel ducato _Guinigiso_, e
nel medesimo catalogo all'anno 814 vien ripetuto _Guinichus dux_; perciò
non si capisce come qui entri Romano duca. Il conte Campelli[689] ha
senza bilanciare tolta ogni difficoltà con dire francamente che
_nell'anno 806 il duca Vinigiso prese per compagno nel ducato un suo
figliuolo, che natogli in Italia, e perciò chiamato Romano, era appunto
in quei giorni pervenuto ad età capace di alcun maneggio_. Ma questo
scrittore, avvezzo a spacciar le sue immaginazioni per le cose certe,
sarebbe restato ben imbrogliato, se gli fosse stata chiesta la pruova di
tale asserzione. Tutto quel che sappiamo di questo Romano duca, l'abbiam
dalla Cronica farfense, dove vien fatto menzione di una lite agitata _in
placito ante praesentiam Romani ducis castri viterbiensis, et omnium
judicum ejus_. Dalle memorie dell'archivio farfense, da me prodotte
nelle Antichità italiane[690], si raccoglie _judicatum Romani gloriosi
ducis in castro viterbiensi. Actum temporibus Karoli domni nostri
piissimi perpetui Augusti, a Deo coronati, magnifici imperatoris, anno
Deo propitio, imperii ejus VI, atque domni nostri Leonis summi
pontificis et universalis papae in sacratissima sede beati Petri
Apostoli anno XI, in mense majo, per Indictionem XIV,_ cioè nell'anno
presente. Ben considerate le circostanze di quest'atto, altro non so io
conchiudere, se non che questo _Romano_ fosse _duca_, non già di
Spoleti, ma bensì di _Viterbo_, cioè governatore di quel castello,
divenuto poi col tempo città illustre, sapendo noi che i papi davano il
titolo di _duca_ ai governatori delle loro città; e Viterbo senza fallo
era anche in que' tempi sotto la loro giurisdizione, come inchiuso nel
ducato romano. Noi troveremo da qui innanzi tuttavia duca di Spoleti il
suddetto _Guinigiso_, senza che più s'incontri memorie del predetto
_Romano_. Se il padre Mabillone[691] avesse fatta riflessione che
Viterbo, in cui Romano duca d'autorità ordinaria fece quel giudicato,
nulla avea che fare col ducato spoletano, non avrebbe anch'egli scritto
che nell'anno presente _Romano_ succedette a _Guinigiso_ duca di
Spoleti.

Per quanto lasciarono scritto varii annali dei Franchi, sul fine
dell'anno precedente, o sul principio del presente, _Obelerio_, chiamato
in essi Annali _Wilerio_, e _Beato_ suo fratello, dogi di Venezia,
insieme con _Paolo_ duca di Jadra, e _Donato_ vescovo di quella città,
legati della Dalmazia, giunsero alla villa di Teodone, e si presentarono
con assai regali all'imperador Carlo Magno. Ciò che trattassero e quel
che conchiudessero non è ben pervenuto a nostra notizia. Solamente s'ha
da quegli storici che l'imperadore fece alcuni ordinamenti sì per gli
dogi che pel popolo non men della città di Venezia che della Dalmazia:
parole che danno adito ad un giusto sospetto che i dogi di Venezia e le
città marittime della Dalmazia fossero minacciate dal bellicoso re
Pippino, e cercassero pace, oppure che credessero meglio l'amicizia o
lega, oppure l'alto dominio di Carlo Magno, e si ritirassero dalla
suggezione o lega che aveano coi Greci. Ma troppo è difficile di chiarir
bene il sistema de' Veneziani d'allora, e tanto più perchè Andrea
Dandolo[692], il più antico ed accurato degli storici veneziani, ci
rappresenta questi dogi con un differente aspetto, siccome vedremo
all'anno seguente. Intanto coll'autorità del medesimo Dandolo dirò che
_Fortunato patriarca di Grado_, già fuggito in Francia, ritornò in
Istria insieme con _Cristoforo d'Olivola_, e non attentandosi di andare
a Venezia, si fermò in Torcello. _Giovanni_, usurpatore dal vescovato di
Olivola, incautamente capitò colà, e fu messo in prigione, ma trovata
poi la maniera di fuggirsene, tornò a Venezia, e con rappresentare ai
dogi il trattamento a lui fatto, maggiormente gli attizzò contra del
patriarca. Ma qualora Torcello in questi anni fosse stato dipendente dal
ducato di Venezia, non sarebbe già probabile la dimora colà di Fortunato
patriarca. Noi abbiamo la lettera undecima[693] di papa Leone III
scritta a Carlo Magno, dove si parla d'esso Fortunato, che stava in
esilio in Francia _proter persecutionem Graecorum seu Veneticorum_. Fece
egli istanza ad esso Carlo di poter venir ad abitare nella città di Pola
e governar quella Chiesa vacante. Ne scrisse Carlo al papa, il quale
rispose d'esserne contento, purchè il patriarca, quando mai riuscisse ad
esso imperadore di rimetterlo nella sua sedia di Grado, lasciasse
intatti e liberi tutti i beni e diritti della Chiesa di Pola, in favore
del vescovo che quivi potesse essere eletto. Per altro soggiugne d'aver
poco buone informazioni d'esso patriarca, come di persona mal provveduta
di costumi ecclesiastici; e che se i cortigiani gliel lodavano, era
perchè i regali li faceano parlare.

In quest'anno poi l'imperador Carlo spedì il figliuolo _Carlo_ con
un'armata[694] contra degli Sclavi Sorabi, dimoranti di là dal fiume
Elba. In questa spedizione _Miliduco_, capitano e duca di quella
nazione, restò morto, e un gran guasto si fece di campagne e città:
laonde si trattò di pace, e que' popoli si sottomisero. Fu anche inviato
in quest'anno ai danni della Boemia un esercito composto di Bavaresi,
Alamanni e Borgognoni, che dato un nuovo guasto a gran tratto di quel
paese, se ne tornarono poi a casa senza aver provato incontro o danno
alcuno. Il _re Lodovico_ anch'egli fece una spedizion militare contra
de' Mori spagnuoli in Catalogna, che mise a ferro e fuoco quel paese
fino a Tortosa. Una gran perdita fece in quest'anno il ducato di
Benevento, perchè venne a morte _Grimoaldo_ principe, ossia duca di
quelle contrade, dotato di rara accortezza e senno, e di non minor
valore, a cui nè la forza de' Greci, nè la potenza maggiore di Carlo
Magno e di Pippino re d'Italia giunsero con tutti i loro sforzi e
maneggi al vanto di averlo potuto spogliare della sovranità e
indipendenza negli ampii suoi stati. L'Annalista lambeciano mette la di
lui morte sotto quest'anno; e Camillo Pellegrino[695] anch'egli
consente; e però l'Annalista sassone, che la riferisce allo anno
susseguente, verisimilmente non è qui da ascoltare. Riscosse Grimoaldo
in morendo un universal tributo di lagrime dai suoi popoli, e le lodi
sue si leggono nell'epitaffio a lui posto in Salerno, dove ebbe
sepoltura, a noi conservato dallo Anonimo salernitano[696]. Ivi si dice
che egli era della stirpe de' _Longobardi_, e riportò vittoria de'
Greci. Si aggiugne dipoi:

             PERTVLIT ADVERSAS FRANCORVM SAEPE PHALANGAS
                 SALVAVIT PATRIAM SED BENEVENTE TVAM.
             SED QVID PLVRA FERAM? GALLORVM FORTIA REGNA
                NON VALVERE HVJVS SVBDERE COLLA SIBI.

Perchè questo principe mancò di vita[697] senza lasciar dopo di sè prole
maschile, fu eletto per suo successore un altro _Grimoaldo_ già suo
tesoriere, cognominato _Storesaiz_. L'Anonimo salernitano ci spiega
questa parola, con dire al cap. 29: _Defuncto itaque Grimoald, Ildrici
filius Grimoald (qui lingua theodisca, qua olim Langobardi utebantur,
Storeseyz fuit appellatus; et nos in nostro eloquio: Qui ante obtutum
principum et regum milites hinc inde sedendo praeordinat, possumus
vocilare) in principali dignitate est elevatus_. Di costui dice gran
bene Erchemperto, all'incontro gran male l'Anonimo salernitano, siccome
vedremo andando innanzi. Si vuol anche avvertire che fra i regolamenti
fatti da Carlo Magno per l'Italia, vi fu ancora quello della zecca, cioè
il privilegio e diritto di battere moneta. Di questo godeva ab antiquo
la città di _Roma_, e i romani pontefici cominciarono a battere soldi e
denari d'oro, d'argento e di rame col nome proprio e con quello
dell'imperadore sovrano. Altrettanto faceano _Pavia_ e _Milano_, e
_Lucca_ nella Toscana. Ho io ultimamente scoperto che la città di
_Trivigi_ avea anch'essa la zecca pel ducato del Friuli. Verisimilmente
anche _Spoleti_ godea la stessa prerogativa, ma senza che fin qui moneta
si sia trovata spettante a quel ducato. Non vollero essere da meno i
principi di _Benevento_, siccome quelli che si sforzarono di ritenere la
sovranità: però si truovano anche le loro monete. In questo secolo
ancora, oppure nel susseguente, anche i dogi di _Venezia_ cominciarono a
battere moneta, siccome parimente i duchi di _Napoli_. Di tutto ciò ho
io recate le pruove nelle mie Antichità italiane[698].

NOTE:

[684] Baron., Annal. Eccl.

[685] Baluz., Capitular., tom. 1, p. 439.

[686] Johann. Lucius, de Regno Dalmat. lib. 1.

[687] Antiquit. Ital., Dissert. XXI.

[688] Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[689] Campelli, Storia di Spoleti, lib. 15.

[690] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.

[691] Mabill., Annal. Benedictin. ad ann. 806.

[692] Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Italic.

[693] Labbe, Concilior., tom. 7.

[694] Annal. Francor. Metenses. Eginhard., in Annal. Francor. Annal.
Francor., Moissiacens.

[695] Peregrinus, Hist. Princ. Langobard. P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[696] Anonymus Salernit. Paralipomen. P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[697] Erchempertus, Hist. Princip. Langobard.

[698] Antiquit. Ital., Dissert. XXVII.



    Anno di CRISTO DCCCVII. Indizione XV.

    LEONE III papa 13.
    CARLO MAGNO imperadore 8.
    PIPPINO re d'Italia 27.


Secondo l'attestato di tutti gli Annali de' Franchi[699], vennero in
quest'anno a trovar _Carlo imperadore_ in Aquisgrana gli ambasciatori di
_Abdela_ re di Persia e califa de' Saraceni, insieme con due monaci,
spediti dal patriarca di Gerusalemme. Nel nome di questo re pare ad
alcuni che abbiano fallato quegli storici, perchè allora dominava
tuttavia in Persia _Aronne_, sopra da noi memorato. Nulladimeno è da
osservare, che morto Aronne, per quanto si crede nell'anno seguente, fu
disputato quel regno fra _Almanana_ e _Abdela_ suoi figliuoli, per
attestato di Elmacino; e però potrebbe essere che piuttosto in
quest'anno fosse mancato di vita _Aronne_, e che _Abdela_ cercasse
l'amicizia di Carlo Magno. Portarono costoro dei sontuosi regali a
Carlo, cioè un padiglione col suo atrio di mirabil grandezza e bellezza,
tutto di bisso, fino le corde; e dei drappi di seta, odori, unguenti e
balsami preziosi. Soprattutto cagionò ammirazione un orologio di ottone
mirabilmente lavorato, che coll'acqua misurava il corso di dodici ore,
avendo altrettante palle di bronzo che, terminata un'ora, cadevano sopra
un sottoposto tamburo con farlo sonare. Eranvi ancora dodici statuette
d'uomini a cavallo, che, compiuta cadauna ora, uscivano fuori per dodici
finestre, e con tal empito uscivano, che chiudevano altrettante finestre
che prima erano aperte. Altri ingegnosi lavori si miravano in
quell'orologio, che, siccome cose non più vedute in Occidente, diedero
un gran pascolo alla curiosità della gente. Eranvi ancora due
candellieri d'ottone di sterminata grandezza ed altezza. Spedì poscia in
questo anno l'Augusto Carlo Burcardo suo contestabile con una flotta ed
assai brigate di soldati in Corsica, isola già venuta in suo dominio,
acciocchè la difendesse dai Mori di Spagna, che negli anni addietro
erano più volte sbarcati colà, ed avevano fatto varii saccheggi in quel
paese. Tornarono infatti costoro al solito lor giuoco, e prima si
provarono di bottinar nella Sardegna, ma i Sardi sì bravamente uscirono
alla battaglia, che fama corse d'essere rimasti estinti nel campo circa
tremila di quegl'infedeli. Passarono dipoi in Corsica, e con loro venne
alle mani Burcardo colla sua flotta. Quivi ancora restarono sconfitti
colla perdita di tredici navi, e con lasciarvi molti morti e feriti.
Merita qui d'essere registrato un passo della lettera ottava[700]
scritta da papa Leone a Carlo Magno, da cui pare che si ricavi, avere
esso imperadore donata alla santa Chiesa romana anche la suddetta isola
di _Corsica_; e però vien pregato dal papa di prenderne la difesa. _De
autem insula Corsica_, dice egli, _unde et in scriptis et per missos
vestros nobis emisistis, in vestrum arbitrium et dispositum committimus,
atque in ore posuimus Helmengaudi comitis, ut vestra donatio semper
firma et stabilis permaneat, et insidiis inimicorum tuta persistat_. Se
avesse effetto questa donazione, l'andremo cercando nel proseguimento
della storia. Quando poi appartenesse a questi tempi (il che io non so)
la lettera suddetta, da essa ancora apprenderemmo che il _re Pippino_
pensava di portarsi a Roma dopo Pasqua; laonde papa Leone si preparava
per fargli un degno accoglimento. Il motivo di questo viaggio era per
dar fine ad alcuni dissapori insorti fra esso papa e il medesimo re
Pippino, probabilmente a cagion della giurisdizione, o dei confini.
_Ubi_ (scrive Leone) _ambobus placuisset, nobis obviam occurrisset_
(Pippino)_; ut quod vos omni modo optatis, cum Dei adjutorio veniat ad
perfectionem: idest ut pax et concordia inter nos firma et stabilis
constituatur._ Protesta poi di non avere alcun mal animo col re Pippino,
e provenir la voce della discordia dai seminatori di zizzanie che
faceano de' falsi rapporti all'Augusto Carlo e a Pippino suo figliuolo.
Duravano tuttavia, forse anche andavano crescendo le dissensioni già
insorte nel popolo di Venezia e nelle città marittime della Dalmazia, sì
per i maneggi segreti di _Fortunato patriarca di Grado_, il quale s'era
messo in braccio de' Franzesi, come per le minacce o controversie mosse
da Pippino re d'Italia, il quale avea tuttodì in mente dei nuovi
acquisti. La corte di Costantinopoli, che non trascurava i suoi diritti
in quelle parti, spedì colà _Niceta patrizio_ con una armata navale, che
si fermò nella città di Venezia. Quivi stando quello stuolo, il greco
comandante trattò di tregua col re Pippino, e la conchiuse sino al mese
di agosto: dopo di che si restituì a Costantinopoli. Le notizie, che di
questi fatti ebbe il Dandolo[701], sono, che al patriarca Fortunato
riuscì in fine di tornarsene alla sua chiesa di Grado dopo aver placato
lo sdegno de' suoi compatrioti. Ma giunto che fu in quelle bande Niceta
patrizio colla flotta, portando soccorso ai Veneziani, il patriarca di
nuovo scappò in Francia per timore de' Greci; laonde Giovanni diacono,
che già avea usurpato il vescovato d'Olivola, si fece tosto eleggere
patriarca (coll'appoggio del greco ministro, e forse per ordin suo),
quasichè quella chiesa fosse restata vacante. Oltre a ciò, Niceta, per
maggiormente attaccare all'imperio orientale i dogi di Venezia, allorchè
si portò colà, presentò al doge _Obelerio_ la patente di _spatario
imperiale_. Parimente _Beato_ doge, fratello dell'altro, per consiglio
dei Veneziani, andò col patrizio Niceta per la seconda volta sino a
Costantinopoli, seco menando _Cristoforo vescovo d'Olivola_, cioè della
stessa Venezia, e Felice tribuno, banditi da essa Venezia, perchè pareva
che aderissero al partito de' Franchi. Fu ricevuto con molto onore Beato
da Niceforo Augusto ed essendo stato onorato col titolo di _ipato_,
ossia di _console_, se ne ritornò tutto lieto alla patria. Amendue poi
questi dogi ottennero dal popolo che _Valentino_ terzo loro fratello
fosse anche egli costituito _doge_. Dalle memorie del monistero farfense
si ha[702] che Ardemanno e Gaidualdo _missi Karoli imperatoris, et domni
regis Pipini_, giudicarono nella città di Rieti una causa in favore di
que' monaci. _Rieti_ era città del ducato di Spoleti.

NOTE:

[699] Eginhardus, Annal. Franc. Annales Franc. Bertiniani. Annales
Franc. Metenses.

[700] Labbe, Concilior., tom. 7.

[701] Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Italic.

[702] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.



    Anno di CRISTO DCCCVIII. Indizione I.

    LEONE III papa 14.
    CARLO MAGNO imperadore 9.
    PIPPINO re d'Italia 28.


Servì di esercizio in quest'anno alle milizie di Carlo imperadore la
guerra insorta con _Gotifredo re di Danimarca_[703]. Mosse questi le sue
armi contra gli Sclavi Obotriti, collegati de' Franchi, e minacciava
ancora i confini della Sassonia. Fu dunque spedito contra di lui il
principe o re _Carlo_, primogenito d'esso imperadore, con un forte
esercito di Franchi e Sassoni. Venne bensì fatto al suddetto Gotifredo
di spignere fuor del paese _Trasicone_ re o duca degli Obotriti, e di
espugnar molte castella; ma con pagar caro queste prodezze, perchè vi
perdette un suo nipote coi suoi migliori soldati. Il principe Carlo,
dopo aver fatto delle scorrerie nel paese nemico, formato ed assicurato
con due fortezze un ponte sull'Elba, se ne ritornò indietro coll'armata
sana e salva. Essendo intanto stato cacciato dal suo regno _Eardulfo re
di Nortumbria_ nella gran Bretagna, venne egli a trovare Carlo Magno,
che l'indirizzò a Roma a _papa Leone_, avendo, come io credo, conosciuto
che la di lui disgrazia era proceduta dalla mala intelligenza che
passava tra esso re ed _Eanbaldo arcivescovo di Jorch_, e i vescovi del
regno. Si adoperò efficacemente il sommo pontefice perchè Eardulfo fosse
rimesso sul trono, avendo spedito apposta colà Adolfo diacono, coi
legati di Carlo Augusto. Dalla lettera decima di papa Leone[704] consta
che l'imperadore fece non poche doglianze contra di questo diacono,
perchè tornando indietro non si lasciò vedere alla sua corte. Seguì
parimente in quest'anno una spedizione dell'esercito cristiano in
Catalogna contro la città di Tortosa per ordine di _Lodovico re
d'Aquitania_[705], ma con poco successo. E perciocchè aveano negli anni
addietro i _Normanni_ cominciato ad infestar colle loro navi armate i
litorali della Francia, male che, come vedremo, crebbe di poi in
infinito; il saggio imperador Carlo, che ben previde quel che poscia
avvenne, cominciò a pensare di buon'ora al rimedio. Sotto nome di
_Normanni_, significante _uomini del Nord_, cioè del Settentrione,
venivano allora i Danesi, gli Svezzesi, e tutti, a mio credere, gli
abitanti verso il mar Baltico, e parte probabilmente anche della Russia.
Si diedero que' Barbari alla pirateria, scorrendo per mare ora nella
Bretagna, ed ora nella Germania e nella Gallia; e trovando gusto in
questo infame mestiere, tuttodì andavano aumentando le lor forze, di
modo che, essendo pochi sulle prime, arrivarono poi a formar delle
flotte formidabili pel concorso di quelle settentrionali nazioni, che
tornavano sempre cariche di spoglie e di ricchezze ai lor poveri e
freddi paesi. Ora l'imperador Carlo ordinò in quest'anno che per tutti i
fiumi della sua monarchia, là dove sboccavano in mare, si fabbricassero
e tenessero pronte molte navi, per opporsi, quando occorreva, alle
incursioni de' Normanni. Ma le precauzioni di questo saggio Augusto o
furono mal eseguite, o non valsero col tempo a reprimere la potenza e il
furore di que' nefandi corsari. Benchè non si sappia il tempo preciso,
in cui papa Leone scrisse la lettera duodecima[706] a Carlo Magno, pure
sia lecito a me di farne qui menzione. Leggonsi quivi le seguenti
parole: _Misit igitur pia Serenitas vestra missos suos, ut justitiam
nobis facere debuissent, sed magis damnum fecerunt._ Il prega poi
d'interrogare di quanto era accaduto i medesimi suoi messi, e _Giovanni
arcivescovo_ spedito dal papa, dai quali potrà intendere, _quia omnia,
quidquid per vestrum pium ac legale judicium, de caussa videlicet
palatii ravennatis recollectamus, unde et jussistis, ut nullus quilibet
homo in posterum conquassare, aut in judicio promovere praesumeret, tam
de vulgaria, quam etiam de mansis, quos per vestrum dispositum Herminus
fidelis vester nobis reconsignavit: omnia cum casis, vineis, seu
laboribus, atque peculiis abstulerunt, et nihil exinde nobis remansit.
Quamobrem quaesumus vestram imperialem clementiam, ut sic de vestra a
Deo accepta donatione quam praedicto Dei Apostolo obtulistis peragere
jubeatis, quatenus in nulla minuatur parte._ Possono farci queste parole
maggiormente intendere il sistema dell'esarcato di Ravenna in questi
tempi: cioè averne bensì il vecchio Pippino fatta la donazione alla
Chiesa romana, ma con ritenerne l'alto dominio. Quivi perciò godevano i
sommi pontefici l'utile signoril dominio. Ma o i ministri
dell'imperadore, che anche allora si credeano di farsi merito col
patrone in procurando per diritto o per traverso di vantaggiare il
fisco; o pure i Ravegnani stessi si misero a disputare al papa alcune
rendite della camera di Ravenna, pertinenti a lui, cioè la _vulgaria_,
che possiam credere un tributo pagato dal volgo, o pure dai contadini, e
molte case e poderi colle lor vigne e bestiami. Fu al tribunale di Carlo
Magno dedotta questa lite, e ne uscì solenne decreto in favore del
pontefice, con essergliene anche dato il possesso da Ermino ministro
dell'imperadore. Furono poi suscitate nuove cabale contra questo decreto
e possesso; e Carlo Augusto per le istanze del papa spedì dei messi con
autorità ed ordine di fargli giustizia. La bella giustizia, che costoro
gli fecero, fu di spogliarlo di nuovo di que' diritti. Però il pontefice
Leone di loro si lagna, e prega l'imperadore che non permetta che sia
sminuita la donazione fatta a san Pietro.

Certo è poi che all'anno presente appartiene l'epistola settima del
medesimo papa Leone, perchè ivi si parla della cacciata del regno di
Eardulfo. Fra le altre cose scrive egli a Carlo Magno: _Nescimus enim,
si vestra fuit demandatio_ (comandamento, commessione) _quod missi
vestri, qui venerunt ad justitiam faciendam, detulerunt secum homines
plures, et per singulas civitates constituerunt. Quia omnia, secundum
quod solebat dux, qui erat a nobis constitutus per distractionem
caussarum tollere, et nobis more solito annue tribuere_ (leggo
_districtionem caussarum_, cioè le pene pecuniarie) _ipsi eorum homines
peregerunt; et multam collectionem_ (cioè una colletta di danaro)
_fecerunt de ipso populo: unde ipsi duces minime possunt suffragium_
(aiuto di danaro) _nobis plenissime praesentare_. Coerente a questa
lettera è anche la terza del medesimo papa, in cui si duole, perchè
gente maligna abbia rappresentato all'imperador Carlo che niun de' messi
spediti dall'imperadore dava mai nel genio d'esso papa, e che di tutti
il papa sparlava: cosa ch'egli niega affatto, avendo ricevuto col dovuto
onore tutti i messi imperiali, e però il prega di non prestar fede a
questi iniqui seminatori di zizzanie e calunniatori. Intorno a che è da
osservare, che stando sommamente a cuore a Carlo Magno l'esercizio della
giustizia fra i popoli, e ben conoscendo egli come facilmente
inferociscano i prepotenti, e sieno trasandate ed anche assassinate le
cause de' poveri, con gloriosa saviezza ne inventò un efficace rimedio.
Cioè introdusse l'uso di spedire per le provincie di tanto in tanto
degl'inquisitori, ispettori, o vogliam dire giudici straordinarii, per
osservar come era fatta giustizia, per rifare occorrendo il mal fatto,
elevare gli abusi e disordini pregiudiziali ai diritti e alla quiete sì
del pubblico che de' privati, con far loro protestare d'essere inviati
_ad singularum hominum caussas audiendas ac deliberandas_. Erano questi
appellati _missi regii, missi dominici_, persone nobili, scelte dalla
corte, o dal clero, o dai monisteri, credute le più disinteressate, di
petto forte, e d'animo incapace d'essere sedotto dalle parzialità, dai
riguardi, dai regali: cioè vescovi, abati, diaconi, conti, vassalli e
simili. Un solo talvolta, ma per lo più due si mandavano, l'un laico e
l'altro ecclesiastico; ed era la loro autorità di tale estensione, che
chiamavano al loro tribunale anche i duchi governatori delle provincie,
e i conti governatori delle città e gli ecclesiastici. Era tassata un
discreta contribuzione pel mantenimento e per i viaggi loro, ripartita
sulla provincia. Dappertutto dove si trovavano, teneano _placiti_
particolari, o pur generali, chiamati _malli_, cioè giudizii, dove dovea
intervenire il popolo, affinchè chi reclamava avesse pronti i rei citati
a rispondere. Se non erano liti molto scabrose e di lunga ispezione,
d'ordinario su due piedi decidevano le controversie, ora stando nel
palazzo della città, ora alla campagna sotto degli alberi, ed ora in
case private, con dichiarar nondimeno ne' loro giudicati di aver quivi
alzato tribunale _per data licenzia_ del padrone d'essa casa. Venivano
invitati a questi placiti o giudizii il vescovo, il conte, e vi
assistevano sempre varii giudici bene informati delle leggi, che
proferivano i lor voti, e molte persone onorate, acciocchè molti fossero
informati del fatto e delle ragioni della sentenza. Di tali messi e dei
lor malli e placiti ho io più diffusamente trattato nelle Antichità
italiche; e volesse Dio che ne durasse l'uso ancora ai nostri tempi! Ora
siccome _Pippino re d'Italia_ per ordine del padre inviava di questi
messi pel regno italico, e ne abbiam già veduti gli esempli nel ducato
di Spoleti dipendente da esso re, così Carlo Magno ne spediva per tutte
le provincie della sua monarchia; e dalla suddetta lettera settima di
papa Leone abbiam appreso: che se ne mandavano anche per gli stati
posseduti e governati dai sommi pontefici: _Missi vestri, qui venerunt
ad justitiam faciendam_. E perciò ne' patti col papa si scorge che Carlo
Magno doveva essersi riserbato questo diritto della sovranità. Ma questi
messi parve a papa Leone che eccedessero i limiti della loro autorità;
mentre non contenti di _far la giustizia_, levavano via i giudici e
ministri del papa, e ve ne mettevano degli altri venuti con loro. Nelle
città pontificie si vede che il governatore messovi dal papa portava il
nome di _duca_, ed era suo uffizio di mandare a Roma le multe ossia pene
pecuniarie che si ricavavano dalle cause criminali. Ma i messi imperiali
se le erano appropriate, con far anche contribuire il popolo: il che
ridondava in danno della camera pontificia, e con ragione dispiaceva a
papa Leone; sebben egli ne scrive all'imperador con gran riguardo,
mostrando di non sapere, se per ordine suo avessero così operato i di
lui messi, e con astenersi da ogni ombra di doglianza.

NOTE:

[703] Eginhard., in Annal. Franc.

[704] Labbe, Concilior., tom. 7.

[705] Astronomus, in Vit. Ludovici Pii.

[706] Labbe, Concil., tom. 7.



    Anno di CRISTO DCCCIX. Indizione II.

    LEONE III papa 15.
    CARLO MAGNO imperadore 10.
    PIPPINO re d'Italia 29.


Fece gran rumore in quest'anno la teologica quistione della processione
dello Spirito Santo non solo dal Padre, ma anche dal Figliuolo, commossa
da un monaco in Gerusalemme. Fu perciò tenuto un concilio in Aquisgrana,
e rimessane la decisione al romano pontefice, che faticò non poco per
questo affare, nè volle permettere che il _Filioque_ si aggiugnesse al
simbolo della Fede per non irritare i Greci, non aderenti alla sentenza
della Chiesa latina. Intorno a ciò son da vedere il cardinal Baronio,
Natale Alessandro, il Pagi ed altri. Durò ancora in quest'anno la guerra
con _Gotifredo re di Danimarca_, il quale mostrò ben di voler placare
Carlo Magno, e fece istanza per un abboccamento fra i suoi ministri e
quei dell'imperadore, ma si sciolse in fumo tutto quel negoziato. Però
continuarono le azioni militari in quelle parti. _Trasicone_ duca degli
Sclavi Obotriti ricuperò il suo paese, ma restò poi ucciso per frode
degli uomini di Gotifredo. _Carlo Magno_ allora determinò di mettere un
po' di briglia alla tracotanza di costui, e prese ben le sue
misure[707]; piantò nel marzo dell'anno seguente una città di là dal
fiume Elba in un luogo appellato Essesfeld, e la fortificò. Per quel che
riguarda l'Italia, noi abbiamo da varii Annali de' Franchi[708] che in
quest'anno (il Cronista loiseliano ne parla all'anno precedente) spedita
da Costantinopoli un'armata navale sotto il comando di Paolo, venne
prima nella Dalmazia, e poscia alla città di Venezia, dove svernò. Ora
una parte d'essa per voglia e speranza di occupar l'isola e città di
Comacchio, posta al mare di là dal Po, grande in que' tempi, si portò
ostilmente colà. Ma fu sì ben ricevuta dalla guarnigione ivi tenuta dal
_re Pippino_, che messa in rotta fu forzata a salvarsi di nuovo in
Venezia. Per questo il comandante della flotta Paolo cominciò a trattare
con esso Pippino di pace, quasi che fosse stato unicamente spedito per
questo dall'imperador greco suo padrone. Ma perchè s'avvide che
_Obelerio doge di Venezia_ e i suoi fratelli non solamente con segrete
mine attraversavano i trattati d'essa pace, ma eziandio tramavano a lui
delle insidie, stimò miglior partito l'andarsene con Dio. Così gli
Annali de' Franchi. Raccontano i medesimi che parimente in quest'anno
dai Greci chiamati Orobioti, cioè montanari, fu presa e saccheggiata la
città di Populonia, situata sul lido del mare nella Toscana, di cui non
restano più le vestigia. Inoltre dicono che i Mori di Spagna, venuti
nell'isola di Corsica, nello stesso giorno santo di Pasqua, presero e
misero a sacco una città di quell'isola, di cui non sappiamo il nome.
Vien creduta _Aleria_ dal Sigonio, dal padre Pagi _Mariana_, o _Nebbio_.
A riserva del vescovo e di alcuni pochi vecchi ed infermi, condussero
via schiavi tutti quegl'infelici abitanti. Per attestato poi di
Teofane[709], in questi tempi _Niceforo imperador d'Oriente_ parea che
si studiasse a tutto suo potere di tirarsi addosso l'odio universale del
popolo: tante furono le gravezze ed avanie ch'egli introdusse,
annoverate da quello storico ad una ad una. Ma, siccome vedremo, non
andò molto che ne pagò il fio.

NOTE:

[707] Annal. Francor. Loiseliani.

[708] Annal. Francor. Bertiniani. Annales Francor. Metenses.

[709] Theoph., in Chronogr.



    Anno di CRISTO DCCCX. Indizione III.

    LEONE III papa 16.
    CARLO MAGNO imperadore 11.


Tra l'ardente brama che nudriva _Pippino re d'Italia_ d'aggiugnere al
suo dominio anche la città, ossia le città di Venezia, e il trovarsi
egli mal soddisfatto dei dogi di quella città per le cagioni accennate
di sopra, in quest'anno prese la risoluzione di portar la guerra fin
dentro quella città. Formata perciò una potente flotta di navi (se
prestiam fede ad Eginardo[710]), andò per mare a quella volta; prese la
città; se gli arrenderono i dogi di Venezia; e di là passò in Dalmazia
con pensiero di sottomettere del pari quelle città marittime. Ma udito
Paolo governatore della Cefalonia (quel medesimo, secondo tutte le
apparenze, di cui s'è parlato nel precedente anno) veniva in soccorso
de' Dalmatini colla flotta de' Greci, giudicò miglior consiglio il
tornarsene indietro. Con questa relazione non s'accordano le storie
venete, le quali, sebben lontane da que' tempi per poterci dare
un'accertata notizia di quel fatto, non sono però da sprezzare. Andrea
Dandolo ne parla[711] come di cosa accaduta nell'_anno ottavo di Carlo
Magno_, quando è certo che correva allora l'_anno decimo_ del suo
imperio. Secondo lui, in potere di Pippino vennero Brondolo, Chiozza,
Palestrina e Malamocco. Ritiraronsi i Veneziani nell'isola di Rialto, e
quivi fecero fronte; nè Pippino aveva maniera di penetrar colà; perchè
pare, secondo il supposto di quello storico, che i Franchi andassero ai
luoghi suddetti _per litora_, cioè per la diga che separa la laguna di
Venezia dal mare. Ma se Pippino, come raccontano gli antichi Annalisti,
assalì _Venetiam bello terra marique_, bisogna che avesse delle navi; ed
è poi chiaro che non gli mancavano, perchè egli _classem ad Dalmatiae
litora vaslanda misit_. Ma forse era sprovveduto di quelle barche, delle
quali si può far buon uso nella laguna. Comunque sia, narra lo storico
Dandolo, aver Pippino fatto fabbricare un ponte di molte barchette, su
cui mise una buona brigata d'armati per assalire Rialto; ma ossia che i
Veneziani accorsi colle lor barche, oppure che i venti furiosi
improvvisamente insorti scompigliassero quel ponte, rimasero sconfitti i
Franchi, ed astretti ad andarsene, dopo aver devastati, o dati alle
fiamme quei luoghi, dove aveano potuto arrivare, cioè sino alla chiesa
di san Michele. Non è a noi possibile il chiarir oggidì questi fatti, i
quali potrebbe anche darsi che fossero stati esaltati più del dovere
dagli scrittori francesi, per dar più risalto alla gloria della loro
nazione. Tornato da questa spedizione il re Pippino a Ravenna, passò
dipoi a Milano, dove sorpreso da una mortale infermità cessò di vivere
agli otto di luglio in età di soli trentaquattr'anni: principe di gran
valore e di non minore ambizione, e sotto il cui governo l'Italia godè
pace, e provò gli effetti d'una ben regolata giustizia. Il suo corpo fu
portato a Verona, e seppellito nella basilica di san Zenone, ch'egli
stesso avea fatta magnificamente riedificare insieme con quell'insigne
monistero. Dal Ritmo pubblicato dal padre Mabillone e da me
ristampato[712], che contien la descrizione di Verona, fatta circa que'
tempi, impariamo che dilettavasi molto esso re Pippino del soggiorno di
quella nobile ed allegra città. _Magnus habitat in te rex Pippinus
piissimus, non oblitus pietatem, aut rectum judicium._ Lo stesso abbiamo
dall'antica leggenda della traslazione del corpo di san Zeno, ossia
Zenone, pubblicata dal marchese Maffei[713]. Fu essa fatta, _quum
Rotaldus, vir altributis personae praestantissimus, pastoralem curam
Veronae gerebat, et Pippinus rex Caroli Magni filius regnum italicum
regebat. Rex vero Veronam regali situ praeditam plus ceteris urbibus
diligebat, et cum episcopo sibi dilecto frequens colloquium habebat._
Nel corpo delle leggi longobardiche da me ristampato[714] se ne leggono
quarantanove spettanti al medesimo re Pippino, e pubblicate da lui, come
costa dalla prefazione, _quum adessent nobiscum singuli episcopi,
abbates et comites seu reliqui fideles nostri Franci et Longobardi_.
Buona parte nondimeno d'esse si possono credere costituzioni ossia
capitolari, mandati da _Carlo Magno_ suo padre, acciocchè si
pubblicassero in Italia. Leggesi parimente una lettera scritta[715]
dall'imperador Carlo _dilectissimo filio suo Pippino glorioso regi_, in
cui dice d'avere inteso che alcuni duchi d'Italia, e i lor cortigiani, i
gastaldi, i vicarii, i centenarii ed altri pubblici ministri, siccome
ancora i falconieri e cacciatori della corte, recavano degl'indebiti
aggravii al popolo e agli ecclesiastici, prendendo stanza nelle lor
case, e valendosi de' loro cavalli e delle lor carra, con obbligar per
forza gli uomini a lavorar ne' campi loro, ed esiger anche contribuzioni
di carne e di vino, e commettere altre avanie. Però gli raccomanda, se
ciò è vero, di mettervi rimedio in tutte le forme. Lettera degna di quel
sempre glorioso e memorando monarca. Chi fosse moglie di Pippino, non è
giunto a nostra notizia, ma pare indubitato ch'egli l'avesse. Abbiamo da
Eginardo[716] ch'egli lasciò dopo di sè un figliuolo appellato
_Bernardo_, (a lui nato da una concubina), per attestato di Tegano, e
cinque figliuole, cioè _Adelaide, Atala, Gundrada, Bertraide,_ e
_Tedrada_.

Ora il buon Carlo Magno accolse con amore paterno la tenera prole
lasciata dal figliuolo; esaltò Bernardo, siccome vedremo, con farlo re
d'Italia; e le sue sorelle fece allevare in corte fra le sue stesse
figliuole. Era pure mancata di vita in quest'anno nel dì 6 di gennaio
_Rotrude_ figliuola del medesimo imperadore, quella che già contrasse
gli sponsali coll'imperador de' Greci _Costantino_ figliuolo d'Irene.
Lasciò anch'ella, per testimonianza degli Annali bertiniani, un
figliuolo per nome _Lodovico_, ma illecitamente da lei messo alla luce,
non potendosi già negare che la felicità, compagna in tante imprese di
Carlo Magno, non l'abbandonasse per conto delle sue figliuole. E non
senza colpa di lui, per confessione del millesimo Eginardo, che parlando
d'esse, così scrive: _Quae quum pulcherrimae essent, et ab eo plurimum
diligerentur, mirum, quod nullam earum cuiquam aut suorum aut exterorum
nuptum dare voluit. Sed omnes secum usque ad obitum suum in domo sua
retinuit, dicens, se earum contubernio carere non posse._ Però seco le
conducea, ovunque andava, ed anche alla guerra, senza por mente che non
gli mancavano in casa e seco cavalcavano degli altri, ma dolci, nemici,
contra de' quali non sapeano combattere esse figliuole. Diede ciò motivo
di molte dicerie al popolo; e Carlo con disinvoltura dissimulava tutto,
come se mai non fosse nato, o non avesse forza il sospetto della lor
imprudente condotta. Seguitano gli Annali de' Franchi a dire che in
quest'anno i Mori della Spagna, avendo da tutto il lor paese raunata una
potente flotta di navi, passarono prima in Sardegna e poscia in Corsica.
Può essere che nella prima non trovassero i lor conti; ma nella seconda,
giacchè non v'era presidio di milizie atto alla difesa, riuscì loro
d'impadronirsene per la maggior parte, con danno e vergogna del
Cristianesimo. Intanto _Niceforo_ imperadore dei Greci, che, per
testimonianza di Teofane[717], ogni dì più andava imperversando contra
de' suoi popoli, udita la guerra mossa dal re _Pippino_ ai Veneziani, e
che la città di Venezia era stata dall'armi franzesi occupata, spedì
Arsacio spatario, suo ambasciatore al medesimo re[718]. Ma avendo questi
trovato che Pippino era passato al paese dei più, andò oltre per
trattare coll'Augusto Carlo. Gli diede egli udienza in Aquisgrana nel
mese d'ottobre; e perchè all'Italia era mancato il suo forte scudo colla
morte del figliuolo, volentieri ascoltò i discorsi di pace col greco
imperadore, al quale dipoi, per consentimento di tutti gli storici,
nell'anno 812 _Venetiam reddidit_: parole che bastantemente ci fanno
intendere lo stato e stima di Venezia in questi tempi. Come intendano
queste parole i veneziani scrittori, si può leggere nel Dandolo[719] e
ne' Giornali de' letterati d'Italia[720]. Il Porfirogeneta, tuttochè
storico greco[721], confessa che in quella pace si obbligarono i
Veneziani di pagare al re d'Italia da lì innanzi annualmente una somma
di danaro.

Fece anche pace l'imperador Carlo in quest'anno con _Albaca_, ossia con
_Abulaz_ re de' Saraceni, ossia de' Mori di Spagna, che da Cordova gli
spedì i suoi ambasciatori. Prima ancora di questi fatti ebbe esso
Augusto delle strepitose brighe con _Gotifredo re di Danimarca_, il
quale spedita un'armata di ducento vele nella Frisia, devastò l'isole
adiacenti; e sbarcato l'esercito in terra ferma, dopo avere sconfitti
quei popoli, avea loro imposto tributi e gabelle. Carlo Magno,
all'avviso di questi disordini negli stati suoi, s'affrettò per quando
potè per adunar da ogni parte un poderoso esercito; e in persona cavalcò
sino a Verda, per mettersi a fronte del re danese, che millantava di
voler venire ad un fatto d'armi con lui, anzi di voler arrivare fino ad
Aquisgrana coll'armi sue. Quand'eccoti giugnere nuova che la flotta
nemica si era ritirata dalla Frisia, e che il re Gotifredo era stato
ucciso da una delle sue guardie. Per questo se ne tornò l'imperadore,
senza far altro, ad Aquisgrana. Accadde nondimeno in quella spedizione
una funesta disgrazia, cioè che insorta la peste ne' buoi dell'armata,
quasi tutti vi perirono. Nè solamente si provò questo terribil flagello
nell'oste di Carlo Magno, ma anche per tutte le provincie della Francia
e Germania a lui soggette; perchè la buona gente d'allora non s'avvisava
che a sì fatti malori d'epidemie attaccaticcie d'uomini o di bestie si
può mettere riparo colle guardie e coll'impedirne la comunicazione.
Agobardo vivente allora arcivescovo di Lione[722] racconta una pazzia di
questi tempi, che dee servir d'istruzione ai posteri in somiglianti
casi: cioè che si sparse voce essere originata quella mortalità de' buoi
da polve avvelenata, che _Grimoaldo_ Storesaiz duca di Benevento avea
fatta spargere per le campagne della Francia: _Ante hos paucos annos,
dice egli, disseminata est quaedam stultitia, quum esset mortalitas
boum, ut dicerent Grimoaldum ducem Beneventanorum transmisisse homines
cum pulveribus, quos spargerent per campos et montes, prata et fontes,
eo quod esset inimicus christianissimo imperatori Carolo, et de ipso
sparso pulvere mori boves. Propter quam causam multos comprehensos
audivimus, et vidimus, et aliquos occisos, plerosque autem affixos
tabulis in flumen projectos atque necatos. Et quod mirum valde est,
comprehensi ipsi adversum se dicebant testimonium, habere se talem
pulverem et spargere_. Guai, se in casi di pestilenza o d'uomini, o
d'animali si caccia una di sì fatte immaginazioni in capo al matto
popolo. Non c'è maniera di farlo discredere, e facilmente si va a sognar
dei delinquenti e a levar loro la vita, come allora avvenne in Francia,
senza pensare (lo avvertì lo stesso Agobardo) come mai quella pretesa
velenosa polve nocesse ai soli buoi, e non anche agli altri animali. E
che succedessero molti omicidii di persone innocenti per questa
diabolica apprensione, lo ricaviamo anche da un capitolare di Carlo
Magno, pubblicato nel presente anno, e rapportato dal Baluzio[723]: _De
homicidiis factis anno praesenti inter vulgares homines, quasi propter
pulverem mortalem_.

NOTE:

[710] Eginhardus, in Annal. Franc.

[711] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Italic.

[712] Rer. Italic., Part. II, tom. 2.

[713] Maffei, Istor. Diplomat., facc. 330.

[714] Rer. Italic., Part. II, tom. 1.

[715] Ibid., pag. 112.

[716] Eginhardus, in Vita Caroli Magni.

[717] Theoph., in Chronogr.

[718] Annales Francor. Metenses. Annal. Francor. Bertiniani. Eginhardus,
in Annal. Francor.

[719] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Italic.

[720] Giornale de' Letterati d'Italia, tom. 16, pag. 475.

[721] Porphyrogenneta, lib. de Administr. Imp., cap. 28.

[722] Agobardus, I, de Grandine et Tonitr. c. 16.

[723] Baluz., Capitular. Reg. Franc., tom. 1.



    Anno di CRISTO DCCCXI. Indizione IV.

    LEONE III papa 17.
    CARLO MAGNO imperad. 12.


Sul principio di quest'anno, se pur non fu sul fine del precedente,
rispedì lo imperador Carlo a Costantinopoli Arsacio, ossia Arsafio,
ambasciatore di Niceforo Augusto, con una lettera che si legge fra
l'opere di Alcuino, ma non già scritta da lui[724], a nome
dell'imperadore, perchè Alcuino non era più tra i vivi. In essa Carlo
tratta Niceforo col titolo di _fratello_, per farsi conoscere eguale a
lui in dignità. Mandò con tal congiuntura anch'egli per suoi
ambasciatori a Costantinopoli _Attone_ ossia _Azzo, vescovo di Basilea,
Ugo conte di Tours_, e Aione ossia Agione longobardo del Friuli;
imperocchè il saggio monarca accomunava anche ai Longobardi ed Italiani
gli uffizii più onorevoli della corte e del regno. Abbiamo poi dalla
legge ottava[725] di Pippino re d'Italia nel corpo delle leggi
longobardiche, che in Italia c'erano dei conti _franzesi_, cioè dei
governatori delle città, e dei _conti longobardi_. Inoltre scrivono gli
Annalisti d'allora[726] che questi ambasciatori seco condussero _Leone_
spatario greco, e _Willario_, ossia _Willerico_, doge di Venezia,
chiamato _Obelerio_, siccome vedemmo dagli scrittori veneti. Il primo
dieci anni prima, allorchè Carlo Magno si trovava in Roma, era scappato
dalla Sicilia. _Alter_, cioè Willario (o vogliam dire _Obelerio_),
_propter perfidiam honore spoliatus, Constantinopolim ad dominum suum
duci jubetur_. Dal che sempre più apprendiamo come fossero regolati in
questi tempi gli affari della città di Venezia. Con tali notizie va
concorde il Dandolo[727], scrivendo che i Veneziani, coll'assistenza di
Ebersafio apocrisario imperiale, fecero in maniera che _Obelerio_ e
_Beato_ dogi fossero esclusi dalla dignità e dalla patria. Obelerio fu
condotto a Costantinopoli, e Beato a Jadra. _Valentino_, terzo lor
fratello, restò in Venezia difeso dalla sua giovanile età, ma spogliato
anch'egli dell'onorevol grado di doge. Il perchè venne il popolo di
Venezia all'elezione di un nuovo doge, e concorsero i voti in _Angelo
Particiaco_, chiamato da altri _Participazio_, originario d'Eraclea,
personaggio valoroso e buon cattolico. Era stata fino allora la sedia
ducale in Malamocco. Perchè troppo avea patito nella precedente guerra
quel luogo, fu concordemente risoluto dai Veneziani, che in avvenire i
dogi abitassero in Rialto, dove in fatti il novello doge fabbricò il
palazzo ducale, che tuttavia esisteva ai tempi del Dandolo. Perciò
l'inclita città che da tanti secoli risplende col nome di _Venezia_,
veniva allora appellata anche _Rialto_ dal popolo, e _Olivola_ o
_Castello_ dal clero, perchè il vescovo della città abitava in quella
parte che portava quei nomi. Ma gli ambasciatori spediti da Carlo Magno
alla corte di Costantinopoli o trovarono o videro dipoi cambiato di
molto l'aspetto di quel governo. Imperocchè _Niceforo_ imperadore,
principe per tutti i capi indegno dell'augustal dignità, uscito in
campagna contra di _Crummo re de' Bulgari_, nel dì 25 di luglio restò
con tutta l'armata sua disfatto, e lasciovvi anche la vita. La testa di
lui sopra un'asta fu esposta alla vista di tutte le nazioni in dispregio
de' vinti. Teofane, scrittore[728] contemporaneo, lagrimando descrive
quella terribil giornata, in cui perì la maggior parte della nobiltà de'
Greci. Succedette poscia al malvagio Niceforo con acclamazione
universale del senato e degli ordini militari nel dì 2 d'ottobre il buon
_Michele Curopalata_, ornato di ottimi costumi, e riguardevole per
insigni virtù. Fu egli coronato da _Niceforo patriarca_, e dipoi nel dì
25 dicembre anche a _Teofilatto_ di lui figliuolo fu conferita la
imperial corona. Nè tardò l'augusto Michele ad inviare i suoi
ambasciatori a Carlo Magno per istabilir seco pace, ed anche per
trattare di un matrimonio pel suddetto Teofilatto.

Varii erano ormai gl'incomodi della sanità di Carlo imperadore: al che
riflettendo il saggio e piissimo principe, fece nell'anno presente una
specie di testamento, che contiene la maniera di dividere i suoi tesori
in tante limosine alle chiese e ai poveri. Eginardo[729] ce ne ha
conservato un abbozzo. Buona parte adunque dell'oro, argento, gemme e
vesti, divisa in parti ventuna, fu destinata alle chiese metropolitane.
_Et quia_, dice quel contemporaneo scrittore, _in regno illius
metropolitanae civitates viginti et una esse noscuntur, unaquaeque
illarum partium ad unamquamque metropolim per manus haeredum et amicorum
eleemosinae nomine perveniat_, ec. Ma e quali erano queste città
metropolitane della monarchia di Carlo Magno? Seguita Eginardo a
spiegarlo con dire: _Nomina vero metropoleorum, ad quas eadem eleemosyna
sive largitio facienda est, haec sunt: Roma, Ravenna, Mediolanum, Forum
Julii_ (cioè Aquileia, perchè quel patriarca abitava in Cividale del
Friuli), _Gradus_, ec. Queste son le cinque città metropolitane d'Italia
(e di più non ce n'era in que' tempi), e tutte poste in _regno illius_:
dal che sempre veniamo ad apprendere quello che s'abbia a credere delle
città di _Roma_ e _Ravenna_. Aggiugne poscia Eginardo che nel tesoro di
lui si trovavano tre tavole d'argento e una d'oro di particolar
grandezza e peso. Ora egli determinò che una d'esse tavole di figura
quadrangolare, contenente la descrizione della città di Costantinopoli,
con altri suntuosi donativi fosse portata alla basilica di s. Pietro di
Roma. Un'altra di figura rotonda, in cui si mirava la descrizione della
città di Roma, fosse data all'arcivescovo di Ravenna. In fatti Agnello
storico di questi tempi, nelle vite de' vescovi ravennati[730], parlando
di _Martino_ arcivescovo, ha queste parole: _Igitur istius Martini
temporibus misit Ludovicus imperator ex dimissione sui genitoris Karoli
ad Martinum ponteficem hujus ravennatis sedis mensam argenteam unam
absque ligno, habentem infra se anagliphte totam Romam, unam cum
tetrogonis argenteis pedibus, et diversa vascula argentea, seu et cuppam
auream unam: quae cuppa haec sita in cratere aureo sancto, quo quotidie
utimur_. Perchè mai non son giunte fino a' dì nostri due sì riguardevoli
tavole? Varrebbono ora più che se fossero di oro, e darebbono un
maraviglioso pascolo alla curiosità degli eruditi. Gran bisogno in
quest'anno ebbe ancora Carlo Magno della sua virtù per tollerare un
nuovo colpo delle umane vicende; imperciocchè la morte gli rapì l'altro
suo figliuolo maggiore _Carlo_ nel dì 4 di decembre, cioè un principe
che in varie imprese finora fatte avea dato speranza di non riuscire
inferiore all'invitto suo padre. Con che dei tre suoi figliuoli
legittimi altro non gli restò se non _Lodovico re d'Aquitania_. Mostrò
poi premura di far pace coll'Augusto Carlo _Emmingo_ re di Danimarca,
succeduto all'ucciso Gotifredo suo padre; e in effetto questa fu
conchiusa; e perchè correva allora un verno straordinariamente rigido,
fu giurata sull'armi secondo i riti d'allora. Dappoichè fu mitigata la
stagione, venne essa pace con più splendida solennità ratificata da
dodici baroni eletti dall'una parte e dall'altra, che si trovarono
insieme ai confini. Le armate poi di Carlo nell'anno presente fecero
alcune azioni militari contro gli Sclavi Linoni di là dall'Elba e nella
Pannonia, dove bollivano delle controversie tra gli Unni e gli
Schiavoni, e contro ai popoli della minor Bretagna che aveano eccitato
tumulti di ribellione. Dappertutto ebbero prosperità l'armi sue. Circa
questi tempi fu console e duca di Napoli _Antimo_[731]. Venuto egli a
morte, i Napoletani avendo spedito in Sicilia, condussero di là per loro
_maestro de' militi_, o vogliam dire generale d'armata (così ancora
appellavano essi il loro console e duca), _Teotisto_. Questi dopo
qualche tempo ebbe per successore _Teodoro_, dichiarato _protospatario_
dai greci Augusti. Il tempo preciso d'essi duchi di Napoli non si può
ben accertare. Regnando poscia _Sicone_ principe di Benevento, ad esso
Teodoro succedette _Stefano_ nipote di Stefano vescovo. Di questi
tornerà occasion di parlare andando innanzi.

NOTE:

[724] Inter Alcuini Opera, Epist. III.

[725] Rer. Ital., P. II., tom. 1.

[726] Annales Franc. Eginhard., Annal. Francor. Metenses. Annal. Franc.
Bertiniani.

[727] Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[728] Theophanes, in Chron.

[729] Eginhardus, in Vita Caroli Magni.

[730] Agnell., Vit. Episcop. Ravennat., Part. I, tom. 2 Rer. Ital.

[731] Johann. Diac., in Vit. Episcopor. Neap., Part. II, tom. 1 Rer.
Ital.



    Anno di CRISTO DCCCXII. Indizione V.

    LEONE III papa 18.
    CARLO MAGNO imperad. 12.
    BERNARDO re d'Italia 1.


Quanto più Carlo imperadore sentiva declinante la sua sanità, tanto più
fervorosamente attese ai consigli di pace, per lasciare al figliuolo
Lodovico la monarchia quieta e senza nemici[732]. Giunsero appunto in
quest'anno gli ambasciatori a lui spediti da Michele nuovo imperadore
de' Greci, cioè Michele vescovo, ed Arsafio e Teognosto protospatarii
imperiali. Furono questi all'udienza dell'Augusto Carlo in Aquisgrana, e
siccome erano venuti anch'essi volonterosi di pace, così diedero tutta
la mano per istabilirla. Nella chiesa fu loro consegnata la
capitolazione segnata da Carlo: dopo di che in lingua greca gli fecero
le acclamazioni, appellandolo _imperatore_ e _basileo_, cioè _re_: cosa
nondimeno che si crede non fosse dipoi approvata dalla superba corte di
Costantinopoli. Preso poco appresso il congedo, vennero a dirittura a
Roma, e nella basilica di san Pietro riceverono un'altra copia della
suddetta convenzione, sottoscritta da papa Leone, sì in riguardo degli
stati della Chiesa confinanti a Napoli e Gaeta, città dipendenti dai
Greci, e sì per accrescere colla maestà del nome pontificio più credito
e sicurezza a quei patti. Trattossi parimente di pace[733] fra
l'imperadore Carlo ed Abulaz re di Cordova, ossia dei Mori della Spagna;
e questa essendo venuti a chiederla i messi di quel re infedele, fu
conchiusa per tre anni avvenire. Durava poi da molti anni la nemicizia
tra esso imperadore e il ducato di Benevento, e già vedemmo fatte varie
ostilità dai Franchi, cioè da Pippino re d'Italia, contra di Grimoaldo
duca, figliuolo di Arigiso, che mai non seppe indursi a riconoscere esso
re per suo sovrano. _Grimoaldo Storesaiz_, suo successore in
quell'insigne principato, si appigliò finalmente ai consigli di
concordia, ed ottenne la pace da Carlo Magno, con patto di pagargli
annualmente a titolo di tributo venticinquemila soldi d'oro, e che
restassero illese per lui e godute da lui tutte le regalie dell'ampio
ducato beneventano. Fu da lì a due anni, siccome vedremo, sminuito
questo tributo. Da Erchemperto[734] viene appellato il suddetto
Grimoaldo _vir satis mitis, et adeo suavis, ut non solum cum Gallis,
verum etiam cum universis circumquaque gentibus constitutis inierit
foedus, et Neapolitibus supramemoratis gratiam pacemque donarit_.
All'incontro l'Anonimo salernitano[735], men degno di fede, cel dipigne
per uomo superbo, avaro e seminator di discordie fra i Longobardi.
Aggiugne egli dipoi, appena esser egli stato assunto a quel trono
principesco, che l'armata franzese corse ad invadere il ducato di
Benevento, sperando forse i Franchi miglior fortuna in questa novità di
governo. Ma Grimoaldo, unite le sue forze ed uscito in campagna, diede
loro una gran rotta. Tacendo gli Annali di Francia questa guerra, e
tacendo Erchemperto, autore molto più vicino a que' tempi, una tal
vittoria, probabilmente ancor questa è una delle dicerie vane del volgo,
che l'Anonimo salernitano spacciò nella sua storia. Quando però
sussistesse, parrebbe che fosse da riferire a questi tempi.

Ebbe fine nell'anno presente la vita di _Emmingo_ re di Danimarca, e per
cagion d'essa insorsero gare fra i pretendenti al regno. Restarono
queste decise con una battaglia, e finalmente si videro eletti due re,
cioè _Eriolto_ e _Reginfredo_, i quali non tardarono a conchiuder pace
con Carlo Magno. Venuta in questo medesimo anno ad Aquisgrana la nuova
che i Saraceni di Spagna e d'Africa aveano preparata una formidabile
flotta per portarsi ai danni dell'Italia, Carlo Magno, che fino allora
nulla avea determinato per provvedere al governo di questo regno,
commosso dalle minacce de' suddetti Barbari, venne alla risoluzione
d'inviare in Italia[736] _Bernardo_ suo nipote, cioè figliuolo del
defunto _re Pippino_. Tenuta dunque una gran dieta dei suoi baroni in
Aquisgrana, quivi dichiarò la sua mente, e poscia spedì in Italia esso
suo nipote. Ma perciocchè egli era assai giovane e bisognoso di
consiglio, gli mise ai fianchi _Walla_, figliuolo di Carlo Martello,
persona allora secolare, e di gran senno e sperienza. Fratello di esso
Walla era _Adalardo_ celebre abbate di Corbeia; e questi, già dato da
Carlo Magno per primo consigliere al re Pippino suo figliuolo, seguitò
dopo la sua morte a governar l'Italia, e dovette anch'egli assistere
colla sua prudenza al novello re Bernardo, potendosi eziandio giudicare
ch'egli maneggiasse con _Grimoaldo duca di Benevento_ la sopra mentovata
pace. Ho già nominato re d'Italia il suddetto _Bernardo_, tuttochè paia,
siccome diremo, conferito a lui questo titolo solamente nell'anno
susseguente. Imperocchè per le memorie da me raccolte nelle Antichità
italiche[737], vegniamo bastevolmente ad intendere che l'epoca del regno
ebbe principio nell'anno presente, e non già nel susseguente, come vuole
il padre Pagi[738]. Nel contare i suoi anni si soleva aggiugnere:
_Postquam in Italia reversus est_. Era egli nato in Italia, e in Italia
ritornò nell'anno presente. Però negli Annali wirceburgensi citati
dall'Eccardo[739], si legge: _Anno DCCCXII. Pennhardus rex factus est_.
Presso l'Ughelli[740] si legge una carta di Rataldo vescovo di Verona,
_Anno Bernardi piissimi regis primo sub die VIII, kalendas julii,
Indictione VI_, cioè nell'anno susseguente, prima che seguisse la dieta
d'Aquisgrana, di cui parleremo. Perciò può essere stata in uso
un'altr'epoca, cominciata nell'anno seguente; il che nondimeno convien
provare con documenti sicuri. Ora la flotta de' Saraceni, di cui abbiam
fatta poco fa menzione, parte si scaricò addosso alla Corsica, e parte
alla Sardegna; ma quest'ultima per fortuna di mare quasi tutta andò a
fondo. Volle nel presente anno l'Augusto Carlo, intento sempre a cose
grandi, far pruova del sapere de' suoi vescovi, giacchè egli s'era
studiato finora di promuovere le lettere per i suoi regni. Scrisse
dunque agli arcivescovi, incaricandoli di riferirgli il sentimento loro
intorno a tutti i riti del sacro battesimo. Fra quei che soddisfecero
alla pia curiosità ed istanza di questo glorioso monarca, uno fu
_Odelberto_, arcivescovo in questi tempi di Milano. Il libro da lui
composto de _Baptismo_, esiste tuttavia diviso in ventidue capitoli, e
riferito del padre Mabillone[741], che diede alla luce la lettera a lui
scritta da Carlo Magno.

NOTE:

[732] Eginhardus, in Annal. Francor.

[733] Annales Francor. Moissincens.

[734] Erchempert., Hist. Princip. Langobard., cap. 7.

[735] Anonymus Salernitan., Paralipom. P. II. tom. 2 Rer. Ital.

[736] Annales Franc. Metens. et Bertiniani. Eginhard., in Annal. Franc.

[737] Antiquit. Ital., Dissert. X.

[738] Pagius, Critic. Baron.

[739] Eccard., Rer. Franc., lib. 18.

[740] Ughell., Ital. Sacr., in Episc. Veronensib.

[741] Mabill., Annalect., p. 10, edition. recent.



    Anno di CRISTO DCCCXIII. Indizione VI.

    LEONE III papa 19.
    CARLO MAGNO imperad. 14.
    BERNARDO re d'Italia 2.


Secondochè abbiamo dagli Annali de' Franchi[742], nella primavera
dell'anno presente Carlo imperadore inviò a Costantinopoli per suoi
ambasciatori _Amalario vescovo di Treveri, e Pietro abbate del monistero
di Nonantola_. Il motivo di tale spedizione era per confermar la pace
con _Michele imperador dei Greci_. Ma dovettero questi legati trovar
mutata la scena[743]. Michele Augusto avea già anteposto il parere
d'alcuni consiglieri che amavano la guerra coi Bulgari, a quello d'altri
che consigliavano la pace richiesta dai medesimi Barbari. Se ne ebbe
egli a pentire, ma troppo tardi. Uscito colla sua armata in campagna,
armata nondimeno, in cui mancava l'antico valore de' Greci, si azzuffò
con _Crummo_, ossia _Crunno_ re de' Bulgari. Dopo un lieve combattimento
eccoti le sue truppe prendere vilmente e precipitosamente la fuga: il
che da lui veduto, anch'egli non pensò se non a salvarsi correndo, e a
ritirarsi in Costantinopoli. Lasciò egli il comando dell'esercito a
_Leone Armeno_, personaggio di molta bravura, ma di poca fede, essendosi
fondatamente sospettato dipoi ch'egli da gran tempo aspirasse
all'imperio, e manipolasse anche coerentemente a tal disegno la fuga
delle milizie nel predetto conflitto[744]. In fatti facendo egli, o
altri per lui, valere la favola, che non conviene ad un cervo l'essere
condottier di leoni, fu esso Leone proclamato imperadore, ed astretto
Michele co' figliuoli ad abbracciar la vita monastica. _Crummo_ coi
vittoriosi Bulgari passò all'assedio di Costantinopoli, e ne desolò
tutti i contorni; poscia veggendo che quivi indarno consumava il tempo,
guidò tutte le sue forze contra di Andrinopoli, città che, dopo aver
fatta per quanto potè resistenza, cadde finalmente nelle sue mani. Gli
Annali dei Franchi narrano che mentre costui era sotto Costantinopoli,
Leone Augusto fece all'improvviso una sortita dalla città con tal
felicità, che il barbaro ferito con tutta la sua armata prese la fuga.
Secondo i greci autori tentò bensì Leone con frode in un abboccamento di
far uccidere il re nemico, ma non fece già prodezza alcuna. Innumerabili
furono in sì funeste congiunture i Greci condotti in ischiavitù dai
Bulgari, con averne poi la divina Provvidenza ricavato profitto per la
santa religione di Cristo, la quale per la cura di _Manuele arcivescovo
d'Andrinopoli_ e di altri ecclesiastici e prigionieri, fu piantata e
diffusa per tutta la Bulgheria. Intanto l'imperador d'Occidente _Carlo
Magno_, convocata in Aquisgrana una dieta generale dei suoi regni nel
mese d'agosto, propose ai vescovi, abbati, conti e nobili della
Francia[745] di conferire il titolo d'imperadore, e dichiarar suo
collega nell'imperio e nei regni _Lodovico_ suo figliuolo, già re di
Aquitania. Lodò ognuno il progetto, e tutti acconsentirono. Fu dunque
con lieta viva ed universale acclamazione de' popoli coronato Lodovico
con corona d'oro, e chiamato _Imperadore_ ed _Augusto_. Tegano[746]
scrittore di questi tempi, scrive, che dopo avere l'imperadore Carlo
fatta una paterna esortazione al figliuolo di custodire il timor di Dio,
di onorare i sacerdoti, di amare i suoi popoli, di scegliere buoni
ministri, con altre parole degne di un pio e saggio padre, gli ordinò di
prendere colle sue mani la corona posta sull'altare, e di mettersela in
capo. È un gran che il vedere che tutti gli storici di allora parlano
del parere dimandato da Carlo a tutti i suoi baroni, per fare imperadore
il figliuolo, e del consenso dato dai medesimi; e che niuno fa parola
del romano pontefice. Ma si può ben con tutta ragion conghietturare che
Carlo Magno non avrà fatto quel passo senza averne preventivamente
informato _papa Leone_, e chiestane la sua approvazione. Certo egli non
riconosceva punto dai Franchi la signoria di Roma, nè il maestoso titolo
e grado d'imperadore, onde gli occorresse il loro assenso per dichiarare
il suo successore; ma riconoscevalo bensì dal papa suddetto: e però a
lui più che ad altri si dovea ricorrere in tal congiuntura. Dall'anno
presente alcuni cominciarono a contar gli anni dell'imperio di Lodovico
Pio. Dopo questa splendidissima funzione l'Augusto Carlo, per attestato
degli Annali de' Franchi[747] _Bernhardum nepotem suum, filium Pippini
filii sui, Italiae praefecit, et regem appellari jussit_. Era venuto
nell'anno precedente, siccome notai di sopra, _Bernardo_ in Italia, e
dagli strumenti d'allora si può ricavare ch'egli già ne godesse il
dominio, benchè forse solamente in quest'anno gli fosse conferito il
titolo di re. _Adalardo_, abbate famoso della vecchia Corbeia, seguitò
con _Walla_ suo fratello ad assistere a questo giovane principe; ed
abbiamo dall'antico libro _de constructione Corbejae novae_[748] che
avendo esso Adalardo intesa l'assunzione al trono d'esso Bernardo,
_accepit ei uxorem et constituit eum secundum jussionem principis_ (cioè
di Carlo Magno) _super omne regnum_. La moglie trovata a questo principe
ebbe nome _Cunigonda_, siccome a suo tempo vedremo.

Quanto più poi Carlo imperadore s'andava appressando al fine di sua
vita, tanto più cresceva in lui il fervore della pietà; e perciocchè gli
premea non poco la correzion de' costumi negli ecclesiastici, ordinò che
si tenessero varii concilii provinciali a questo fine. Fecesi pertanto
il concilio di Magonza sul principio di giugno; se ne fecero altri in
Arles, in Tours, in Sciallone e in Rems, dove furono fatte delle egregie
costituzioni per rimettere in piedi la disciplina ecclesiastica, le
quali si leggono nelle raccolte de' concilii. Di tutto si ha
obbligazione all'indefessa pietà di Carlo Magno, di cui scrive Tegano
che in questi tempi l'ordinaria sua applicazione era alle orazioni, alle
limosine, ed a correggere i libri sacri, con avere spezialmente prestato
questo servigio ai quattro santi Evangelii, valendosi in ciò anche
dell'opera di alcuni Greci e Soriani. Nel presente anno parimente[749] i
Mori di Spagna, corsari di professione, fecero un'invasione nell'isola
di Corsica, e ne menarono via una gran preda. _Ermingardo_ conte di
Ampuria, ossia dell'Ampurdano in Catalogna, andò a mettersi in agguato
con delle navi sotto l'isola di Maiorica; e nel tornare che faceano que'
masnadieri in Ispagna, uscito contra d'essi, prese otto delle lor navi,
dove trovò più di cinquecento Corsi che erano condotti schiavi, e
fortunatamente riacquistarono la libertà. Ora non sapendo i Mori qual
altra vendetta fare, vennero dipoi a Cento Celle, oggidì Cività vecchia
nello Stato pontificio, e a Nizza di Provenza, ed amendue quelle città
rimasero desolate dal loro furore. Vollero, non contenti di ciò,
sbarcare in Sardegna; ma venuti alle mani coi Sardi, scornati furono
costretti alla fuga, con lasciarvi anche molti di loro estinti. Le
memorie dell'archivio farfense, da me pubblicate[750] fanno menzione di
un giudizio tenuto da Leone sommo pontefice _in sacro palatio
lateranensi cum Johanne et Fastaldo_ (o Rastaldo) _episcopis, Theodoro
nominculatore, Georgio bibliothecario, Gemmoso vestiario, Alminino,
Quisdelori, Agriprando cubiculario, Nordo, Racurio, Naningo de Viterbo.
Anno imperii Karoli XIII, pontificatus Leonis XVIII, mense majo,
Indictione VI_, cioè nell'anno presente. Si dee riferire a questo
medesimo anno la lettera quinta d'esso papa Leone[751], scritta nel dì 7
di settembre a Carlo Magno coll'avviso che il non per anche deposto
_Michele imperador dei Greci_, all'udire come i Saraceni dell'Africa o
della Soria infestavano alcune isole del suo imperio, con apparenza e
voce ancora di voler passare in Sicilia, avea colà spedito uno stuolo di
navi sotto il comando di _Gregorio patrizio_, per opporsi ai loro
disegni. Era in quei tempi duca di Napoli _Antimo_. A lui tosto, come a
persona dipendente dal greco imperio, scrisse il patrizio, comandandogli
che con tutte le navi del suo ducato s'andasse ad unire con lui. Antimo
gli mandò varie scuse o pretesti, ma non già veruno rinforzo. Quei sì di
Gaeta e di Amalfi accorsero con alquanti legni. Intanto i Mori suddetti
misero a sacco l'isola di Lampadusa, e presero sette navi de' Greci,
inviate per ispiare i loro andamenti. Ciò inteso, Gregorio patrizio col
maggiore sforzo che potè andò a trovarli, e gli riuscì di sbaragliar la
loro flotta, e di uccidere tutti quegl'Infedeli, senza che ne restasse
alcun vivo: il che non c'è obbligazione di credere. Inoltre quaranta
navi d'essi Mori aveano saccheggiata l'isola di Ponza, e la Maggiore
presso di Napoli. Un'altra epistola di papa Leone abbiamo, cioè la
quarta, scritta nel dì 11 di novembre, per recare notizia a Carlo Magno
che Gregorio patrizio avea conchiusa pace per dieci anni avvenire coi
suddetti Saraceni, senza obbligarsi essi Mori a cosa alcuna per conto
degli altri Saraceni, ossia dei Mori della Spagna, con dire che coloro
non erano sottoposti alla lor giurisdizione, e venivano considerati come
ribelli del loro califa. Riferisce ancora che cento navi di Saraceni
africani, ite in Sardegna, erano tutte state ingoiate dal mare. Anche
allora aveano gran voga, come oggidì, le nuove false, o troppo alterate,
dei lontani avvenimenti in tempo di guerra. Nella lettera sesta del
medesimo pontefice scritta poco dappoi al soprallodato Carlo Magno
coll'avviso della deposizione del greco _imperador Michele_, e
dell'assunzione al trono di _Leone Armeno_, si legge appunto una mano di
nuove tutte spallate, quali il volgo ignorante o la malizia di taluno
suol inventare, e che si fan vedere talvolta anche nelle gazzette de'
nostri tempi. In questo anno, secondo il Fiorentini[752], _Adalardo_
abbate di Corbeia, e messo di Carlo imperadore, quel medesimo che
principalmente governava allora l'Italia nella minorità del re Bernardo,
trovandosi nella città di Lucca, tenne un placito per la causa di un
cherico delinquente, _quem ipse Adalardus commendavit Bonifacio
illustrissimo comiti nostro_. Sicchè conte di Lucca era allora questo
_Bonifazio_, del quale, come di personaggio molto importante, io debbo
far memoria. E ch'egli ancora fosse _duca della Toscana_ l'ho provato
altrove[753] con un placito del medesimo Adalardo abbate, tenuto in
Pistoia nell'anno precedente 812, al quale intervenne _Bonifatius dux_.

NOTE:

[742] Annal. Franc. Metenses. Annales Francor. Bertiniani. Eginhard., in
Annal. Franc.

[743] Theoph., in Chronogr.

[744] Constantinus Porphyrogenneta, in Vita Basil., lib. 1.

[745] Annales. Francor. Moissiacens. Lambecius, Annales Francor.

[746] Theganus, in Vit. Ludovici Pii, c. 6.

[747] Annal. Franc. Loiselian. Annales Francor. Lauresamens.

[748] Tom. 2 Rer. Franciar. Du-Chesne.

[749] Annal. Franc. Eginhardi.

[750] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.

[751] Labbe, Concilior., tom. VII.

[752] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.

[753] Antiquit. Italic., Dissert. LXX.



    Anno di CRISTO DCCCXIV. Indizione VII.

    LEONE III papa 20.
    LODOVICO PIO imperad. 1 e 2.
    BERNARDO re d'Italia 3.


L'ultimo anno della vita dell'imperador _Carlo Magno_ fu questo.
Infermatosi egli in Aquisgrana con doglia di costa, nel dì 28 di gennaio
rendè l'anima al suo Creatore nell'anno settantuno della sua età, pieno
di vittorie e di gloria, pieno di meriti presso Dio e presso gli uomini.
Chi prendesse ad uguagliar questo monarca agli Augusti, ai Trajani, ai
Marchi Aurelii, troverebbe facilmente delle ragioni per sostenere il suo
assunto. Ma in una parte possiamo anche dire ch'egli superò
quegl'imperadori eroi del paganesimo. Perciocchè trovarono quegli
Augusti il romano imperio tuttavia florido, tuttavia forte per una
smisurata potenza, pulito ne' costumi, ben disciplinato nella milizia, e
regolato da sagge provvisioni e leggi nel suo governo. Ma Carlo Magno
trovò ne' suoi Franchi e nelle nazioni da lui soggiogate non poca
barbarie, una somma ignoranza ed infiniti altri disordini. Seppe egli
nondimeno colla sua gran mente e indefessa applicazione dare buon sesto
a tutto, ripulire i costumi dei suoi popoli, rimettere in buono stato lo
studio delle lettere, ch'egli medesimo con gran fatica procacciò a sè
stesso, dappoichè cominciò a regnare. Nè solamente si sparse il benefico
influsso del suo mirabil genio sopra de' secolari; ne furono anche a
parte, ed anche più degli altri, gli ecclesiastici, alla riforma e buon
ordine de' quali egli continuamente dimostrossi intento. Leggansi i suoi
Capitolari, ossia le sue leggi: tutte spirano sapienza, pietà e
giustizia. Colle tante sue militari imprese e vittorie accrebbe egli a
dismisura la monarchia franzese. Perciocchè, siccome lasciò scritto
Eginardo[754], egli ebbe sotto il suo dominio tutto quant'è oggidì il
regno di Francia; conquistò nella Spagna la maggior parte della
Catalogna, la Navarra e parte dell'Aragona; stese la sua signoria per la
Fiandra, Olanda e Frisia fino ad Amburgo, e di là dall'Elba. Sottoposte
a lui furono le allora ampie provincie della Sassonia e Baviera colla
Franconia, Svevia, Turingia, con gli Svizzeri e con altre provincie
della Germania. Alle sue mani vennero la due Pannonie colla Dacia e la
Boemia, l'Istria, la Liburnia e la Dalmazia, con varii paesi della
Schiavonia. Finalmente ebbe sotto il suo comando _Italiam totam, quae ab
Augusta Praetoria usque in Calabriam inferiorem, in qua Graecorum et
Beneventanorum constat esse confinia, decies centum et eo amplius
passuum millibus passuum longitudine porrigitur_: parole chiare di
quell'accreditato storico e uffiziale della corte di esso Carlo Magno,
che si oppongono a chi volesse escludere dal suo sovrano dominio Roma
col suo ducato, l'esarcato di Ravenna, la Pentapoli, il ducato di
Spoleti, o altra contrada d'Italia. Ma chi vuol pienamente conoscere la
virtù e i pregi di questo gloriosissimo monarca, non ha che da ricorrere
alle vite che lasciarono scritte di lui il suddetto Eginardo, il monaco
di Engoulemme, il monaco di san Gallo, ed altri presso il
Du-Chesne[755]. Però con troppa ragione a lui fu dopo morte dato dai
popoli e dagli scrittori il titolo di _Magno_; e le imprese sue
s'andarono da lì innanzi cantando per le città, con aver forse preso di
là il loro nome i _ciarlatani_, e con aver esse certamente servito di
base ad alcuni famosi poemi, romanzi degli ultimi secoli, composti in
Italia, pieni sì di favole, tutti nondimeno tendenti ad onorar la
memoria di questo eroico imperadore. Allorchè venne a morte Carlo Magno,
trovavasi in Aquitania _Lodovico_ suo figliuolo, già re ed imperadore
dichiarato. Ricevuta che egli ebbe non senza lagrime la nuova del padre
mancato di vita, s'incamminò alla volta d'Aquisgrana. Vedesi descritto
il suo viaggio da Ermoldo Nigello, autore di questi tempi nel suo
poema[756] da me tolto alle tenebre, siccome ancora l'esecuzione da lui
data al testamento del padre, e le grazie fatte al popolo. L'epoca
ordinaria di questo imperadore vien dedotta dal dì suddetto 28 di
gennaio, in cui egli succedette al padre. Una delle prime applicazioni
di questo imperadore fu quella di congedar le ambascerie, già
indirizzate al defunto Augusto. Aveva il nuovo imperador dei Greci
_Leone_ inviati a Carlo Magno due suoi legati, cioè Cristoforo spatario
e Gregorio diacono, per confermar la pace stabilita fra i due imperii, e
questi contenti se ne tornarono al loro paese. Lodovico vicendevolmente
spedì a Costantinopoli i suoi, cioè _Norberto_ vescovo di Reggio, che
l'Ughelli ed altri hanno creduto vescovo di Reggio in Lombardia, ma con
potersene dubitare, perchè di lui niuna memoria si conserva in quella
città per questi tempi, e potrebbe egli essere stato vescovo di _Riez_
nella Provenza. Troveremo nondimeno un vescovo di questo nome in Parma,
che nell'anno 835 sottoscrisse con altri una donazione fatta da
Cunegonda vedova al re Bernardo. Col re suddetto andò eziandio Ricoino
conte di Poitiers. Tale spedizione fu fatta per rinnovare i patti di
amicizia e pace col greco imperadore.

Giunsero dipoi ad Aquisgrana i legati di _Grimoaldo Storesaiz_ principe
di Benevento, anch'essi per ratificare i precedenti accordi. _Venerunt_
(son parole di Tegano) _legati Beneventanorum, qui omnem terram
Beneventi suae potestati tradiderunt, et multa millia aureorum per annos
singulos ad censum tradere promiserunt: quod ita perfecerunt usque ad
hodiernum diem_[757], cioè nell'anno 23 dell'imperio di Lodovico Pio. A
che ascendesse questo censo, o tributo annuo, lo specifica
Eginardo[758], o qualunque sia quell'autore scrivendo: _Cum Grimoaldo
Beneventanorum duce pactum fecit, atque firmavit, et modo quo et pater
scilicet ut Beneventani tributum annis singulis VII millia solidorum
darent_. Vedemmo di sopra all'anno 812 che il censo de' Beneventani era
di _venticinquemila soldi d'oro_. Qui è solo di _settemila_: però o
Grimoaldo ottenne che si riducesse a meno quel tributo, o pure in alcun
di questi passi è scorretto il testo di Eginardo. Ispirò di buon'ora la
gente malevola al nuovo imperadore dei sospetti contra di _Bernardo_ re
d'Italia suo nipote; e però il chiamò tosto in Francia[759]. La puntual
sua ubbidienza coll'arrivo ad Aquisgrana dissipò alquanto le suscitate
nebbie. Fu ben accolto, magnificamente regalato dall'imperadore, e
rimandato in Italia senza dimostrazione alcuna di dubitar della sua
fede. Contuttociò poco stette ad apparire che i conceputi sospetti non
erano affatto estinti. Dimoravano tuttavia in Italia _Adalardo_ abate di
Corbeia, e _Walla_ secolare suo fratello, figliuoli, come già accennai,
di Bernardo figliuolo del principe Carlo Martello, e però della famiglia
imperiale, e stretti parenti dell'Augusto Lodovico. Assistevano amendue
al giovinetto Bernardo re d'Italia, siccome suoi intimi consiglieri, e
spezialmente per la loro saviezza camminava con buon piede il governo di
questo regno appoggiato alla lor direzione. Ma i maligni alla corte
imperiale misero delle diffidenze in cuor dell'imperadore contra di
questi insigni personaggi, quasi che sotto Carlo Magno fossero saliti in
troppa potenza, e quasichè per la soverchia loro autorità e per essere
del sangue reale potessero macchinar delle novità in Italia o per loro,
o in favore del re Bernardo. Truovano facilmente udienza e credenza
sospetti tali in mente de' regnanti non assai coraggiosi, qual fu
l'imperador Lodovico. Noi abbiamo dalla Cronica farfense[760] e da un
documento pubblicato dal padre Mabillone, che sui principii di febbraio
dell'anno presente _Adalhard abbas missus domni imperatoris Caroli_ (la
nuova della cui morte non era per anche giunta) si trovava nel palazzo
ducale di Spoleti, dove accompagnato da _Sigualdo, Gradigis e Isemondo_
vescovi, e dai giudici e scabini, tenne un placito, in cui diede una
sentenza in favore di _Benedetto abate di Farfa_. Degno di osservazione
è che intervennero ancora a quel placito _Suppone_ conte del palazzo, e
_Guinigiso_ ed _Eccideo_ duchi. Certamente _Guinigiso_ era duca di
Spoleti; se tale fosse ancora _Eccideo_, nol so. Per me il credo duca
d'altro paese, se pur non si vuol intendere duca di Camerino. E
perciocchè il padre Mabillone[761] dall'archivio di quell'insigne badia
trasse la descrizione del palazzo suddetto, meritevole ben di passare ai
posteri, per conoscere il gusto di questi tempi, eccola di nuovo: _In
primo proaulium, idest locus ante aulam. In secundo salutatorium, idest
locus salutandi officio deputatus, juxta majorem domum constitutus. In
tertio consistorium, idest domus in palatio magna et ampla, ubi lites et
caussae audiebantur et discutiebantur; dictum consistorium a
consistendo, quia ibi, ut qualibet audirent, et terminarent negotia,
judices, vel officiales consistere debent. In quarto trichorum, idest
domus conviviis deputata, in qua sunt tres ordines mensarum. Et dictum
est trichorum a tribus choris, idest tribus ordinibus commessantium. In
quinto zetae hyemales, idest camerae hiberno tempori competentes. In
sexto zetae aestivales, idest camerae aestivo tempori competentes. In
septimo epicaustorium, et triclinia accubitanea, idest domus, in qua
incensum et aromata in igne ponebantur, ut magnates odore vario
reficerentur, in eadem domo tripertito ordine considentes. In octavo
thermae, idest balnearum locus calidarum. In nono gymnasium, idest locus
disputationibus, et diversis exercitationum generibus deputatus. In
decimo coquinia, idest domus, ubi pulmenta et cibaria coquuntur. In
undecimo columbum, idest ubi aquae influunt. In duodecimo hippodromum,
idest locus cursui equorum in palatio deputatus._

Sbrigato dagli affari di Spoleti l'abate Adalardo, per quanto narra
l'autore dell'opuscolo[762] _de constructione novae Corbejae_, se n'andò
a Roma, non tanto per soddisfare alla propria divozione, quanto ancora
per trattare con _papa Leone_ di molte faccende, perchè si doveva aver
sentore che _Carlo Magno_ veniva mancando. Arrivò in fatti colà l'avviso
della di lui morte; laonde Adalardo, ossia che vedesse terminata la sua
commessione, o che avesse presentito qualche mal animo del nuovo
imperador _Lodovico_ verso di lui, se ne tornò frettolosamente in
Francia, e si ridusse al suo monistero della vecchia Corbeia. Allora fu
che i malevoli cortigiani tanto soffiarono negli orecchi del timido
imperador Lodovico, che l'indussero a mandare in esilio esso Adalardo,
con relegarlo nell'isola di Here, oggidì Noirmoutier. Suo fratello
Walla, anch'egli personaggio di sommo credito, quantunque fosse stato
de' primi a suggettarsi al novello imperadore, e sembrasse assicurato
della sua grazia; pure, al veder questa tempesta, e temendo d'essere
finalmente in essa involto, giudicò meglio di dare un calcio al mondo,
agli onori e alla moglie, e ritiratosi nel monistero di Corbeia, quivi
prese l'abito e la tonsura monastica. _Bernardo_, altro loro fratello,
già monaco, e infin le sorelle sue furono perseguitate dall'Augusto
Lodovico: tutti contrassegni della sua debolezza. Per altro pieno di
buona volontà esso imperadore nel primo dì d'agosto tenne un gran
consiglio, in cui fu decretato di provvedere ai varii disordini, che
anche sotto i buoni principi van succedendo, ed erano succeduti di fatto
nella vecchiaia di Carlo Magno, con trovarsi una gran quantità di gente
in Francia, spogliata indebitamente o dei lor beni o della lor libertà,
da molti conti e da altri pubblici ministri. A tal fine deputò dei
_messi_, cioè dei giudici straordinarii, timorati di Dio e zelanti della
giustizia. Dell'uffizio di questi tali ho già parlato di sopra; ma non
dispiacerà di udire Ermoldo Nighello, scrittore e poeta di questi tempi,
che favellando del medesimo fatto, così scrive[763]:

    _Elegit extemplo missos, quos mittat in orbem,_
    _Quorum vita proba, et sit generosa fides._
    _Qui peragrent celeres Francorum regna perampla,_
    _Justitiam faciant, judiciumque simul._
    _Quos pater, aut patris sub tempore presserat urguens,_
    _Servitium, relevent, munere, sive dolo._

Seguita poi questo autore a raccontare il gran bene fatto da' suddetti
messi: il che vien confermato dall'astronomo nella vita di Lodovico Pio.
Mandò poscia l'imperadore il maggior figliuolo _Lottario_ al governo
della Baviera, e _Pippino_ secondogenito in Aquitania, con ritenere
presso di sè _Lodovico_ terzogenito, perchè tuttavia fanciullo. Ed
essendo ricorso a lui _Erioldo re di Danimarca_, cacciato dal suo regno,
per implorar la sua protezione, il mandò in Sassonia ad aspettar tempo
più propizio da prestargli aiuto. Notano inoltre gli Annali de'
Franchi[764] che in questo anno la città di Gerusalemme fu devastata dai
Persiani, cioè dai Saraceni, ed essere seguitata una fiera persecuzione
de' Cristiani. Probabilmente que' seguaci di Maometto non sapevano
digerire che quella santa città fosse passata in mano di Carlo Magno,
siccome dicemmo, e che vi fosse cresciuta cotanto la popolazion de'
Cristiani. Pel rispetto che portavano a sì potente e temuto monarca,
tacquero finchè egli visse, ma udita la sua morte, infuriarono contra
de' Cristiani ivi abitanti. Truovasi ancora nelle memorie del monistero
di Farfa[765], da me prodotte altrove, una donazione fatta a quel sacro
luogo da Ilderico castaldo colle seguenti note cronologiche: _Ludogvico
serenissimo Augusto a Deo coronato, magno, pacifico imperatore, imperium
romanum gubernante, anno ejusdem in Christi nomine I, seu et regnante
Bernardo rege Langobardorum anno ejus in Dei nomine II, sed et
temporibus Guinichis ducis ducatus spoletani, anno ejus in Dei nomine
XXV, mense majo, die XVIII. Indictione VII. Actum in Reate_. A questo
medesimo Ilderico erano stati conceduti in livello altri beni _mense
martio, Indictione VII, anno imperii Ludovici I, Bernardi regis
Langobardorum II_. Ne fo menzione, acciocchè si vegga non aver avuto
principio l'epoca di Bernardo nell'agosto dell'anno 813, allorchè Carlo
Magno nella dieta tenuta in Aquisgrana _Bernardum nepotem, suum Italiae
praefecit, et regem appellari jussit_, ma bensì sul fine del precedente
anno 812, allorchè il mandò in Italia; altrimenti nel marzo e maggio del
presente anno non sarebbe corso l'_anno secondo_ del suo regno, ma
solamente il primo.

NOTE:

[754] Eginhardus, in Vita Caroli Magni.

[755] Du-Chesne, tom. 2 Rer. Franc.

[756] Ermold. Nighel., lib. 2, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[757] Theganus, in Vit. Ludovici Pii, cap. 11.

[758] Eginhard., in Annal. Franc.

[759] Astronomus, in Vita Ludovici Pii.

[760] Chron. Farfense, P. II. tom. 2 Rer. Ital.

[761] Mabill., Annal. Benedictin. ad ann. 814.

[762] Du-Chesne, tom. 2 Rer. Franc.

[763] Ermold. Nigellus, lib. 2, P. II, tom. 2, Rer. Italic.

[764] Annal. Francor. Lambecii.

[765] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.



    Anno di CRISTO DCCCXV. Indiz. VIII.

    LEONE III papa 21.
    LODOVICO PIO imper. 2.
    BERNARDO re d'Italia 4.


Racconta Agnello nelle Vite degli arcivescovi di Ravenna[766], che
_Martino_ fu eletto arcivescovo di quella città, e consecrato in Roma
dalle mani di _papa Leone_; e ciò prima che mancasse di vita _Pippino re
d'Italia_, cioè prima dell'anno 810. Ch'egli ritornato a Ravenna, spedì
tosto in Francia i suoi messi a notificar la sua assunzione, e che
questi furono ben veduti da Carlo Magno. Esso arcivescovo fu che diede a
godere allo stesso Agnello, che era in questi tempi tuttavia fanciullo,
il monistero di _s. Maria ad Blachernas_, con averne ricevuto in regalo
dugento soldi d'oro, perchè allora la simonia non era cosa forestiera in
Italia. Di quest'oro colla giunta di altro egli fabbricò un vaso a guisa
di chiocciola marina, che serviva al sacro crisma. Aggiugne quello
storico, che dopo la morte di Carlo Magno, papa Leone mandò a Ravenna
Crisafio suo cameriere, e molti muratori per rifare il tetto della
basilica di s. Apollinare. Contribuì il papa molto di sua borsa per
cotal fabbrica; ma costò eziandio di molte spese ai cittadini di
Ravenna, e di grandi aggravii anche alle altre città dell'esarcato.
Parimente Anastasio[767] fa menzione di questa pia liberalità del papa
verso la basilica suddetta, e racconta altri doni ad essa fatti dal
memorato pontefice. Ora avvenne per attestato del medesimo Agnello, che
questo arcivescovo cadde in disgrazia di papa Leone, senza addurne a noi
il motivo. Perciò il pontefice mandò un suo legato in Francia
all'_imperador Lodovico_ per chiedere licenza di poter procedere contra
d'esso prelato, e l'ottenne. Spedì Lodovico apposta _Giovanni vescovo
d'Arles_ con ordine di presentarlo al papa. Venuto a Ravenna questo
prelato, fece l'intimazione all'arcivescovo, che mostrò prontezza ad
ubbidire; e fecero sigurtà di duemila soldi d'oro alcuni cittadini
ravegnani, che egli andrebbe a Roma, a riserva dell'infermità di corpo.
Pertanto da lì a dieci dì Martino si mise in viaggio; ma giunto che fu
_ad Novas_, quasi quindici miglia lungi da Ravenna, _ubi olim fuit
civitas nunc dirupta_, di cui si ha menzione anche nelle Tavole
itinerarie, e che dal Cluverio vien creduta _Porto Cesenatico_, quivi
finse di cader malato, e mandò questa scusa al papa, che al riceverla
battè i piedi. Tuttavia ebbe licenza di tornarsene a Ravenna, dove
trattò in Apolline il vescovo d'Arles, probabilmente guadagnato prima da
lui, e gli donò varii vasi di argento e le alape d'oro (forse le
coperte) dei santi Evangelii. Non è improbabile che desistesse papa
Leone dal procedere ulteriormente contra del suddetto arcivescovo,
perchè ad esso ancora toccarono in quest'anno delle traversie assai
pericolose e disgustose. Non si sa perchè Anastasio bibliotecario
trasandasse questa rilevante partita della vita d'esso pontefice. Abbiam
solamente gli Annali de' Franchi, i quali ne fanno menzione. Durava
tuttavia il mal animo di alcuni principali e potenti fra i Romani contra
di papa Leone, verisimilmente fin qui tenuti in dovere dalla paura di
Carlo Magno, fedel protettore della santa Sede[768]. Morto lui,
tramarono una congiura per levar di vita esso pontefice; ma avutone egli
sentore, li fece prendere e li diede in mano della giustizia. Convinti
di questo reato, secondo le leggi romane furono sentenziati a morte, e
la sentenza ebbe esecuzione. Giuntone l'avviso all'imperadore, se lo
ebbe forte a male, parendogli troppo rigorosamente gastigati i rei da un
papa primo vescovo della Cristianità. Può eziandio conghietturarsi
ch'egli temesse per questo fatto delle rivoluzioni, onde venisse a
perdere non men egli che il papa il dominio di Roma. Per questo spedì
immantinente a _Bernardo re d'Italia_ ordine di portarsi a Roma
unitamente con _Geroldo conte_, affin di prendere le informazioni di
questo strepitoso fatto. Andò Bernardo, ma appena fu in Roma, che restò
preso da alcune febbri. Nondimeno Geroldo in sua vece raccolse quanto
occorreva, e rimessosi in cammino, ne portò le notizie all'imperadore.
Il papa, o perchè temesse, o perchè sapesse che non erano molto
favorevoli per lui le relazioni del re Bernardo e di Geroldo, non tardò
a spedire anch'egli alla corte i suoi inviati, cioè _Giovanni vescovo di
Selva Candida_, Teodoro nomenclatore e _Sergio duca_, a' quali riuscì di
giustificare presso dell'Augusto Lodovico tutto quanto aveva in tal
congiuntura operato il papa. Ma non passò gran tempo che il pontefice
Leone cadde infermo di malattia tale, che fu giudicata da molti
disperata la di lui salute. Allora si sollevarono i Romani, ed armati si
portarono a distruggere i poderi e i casali di villa che di fresco egli
avea fabbricato; e senza aspettare sentenza di giudice alcuno, andarono
a ripigliarsi que' beni che esso papa avea lor confiscati, pretendendo
ingiusto un sì fatto confisco. Avvertito di questa commozione il re
Bernardo, diede incontanente commessione a _Guinigiso duca di Spoleti_
di passare a Roma con alcune squadre d'armati, e di smorzar
quell'incendio: il che fu puntualmente eseguito da esso duca. Di tutto
il successo diede avviso il re Bernardo all'imperadore.

Desideroso in quest'anno esso Augusto di rimettere in trono _Erioldo re
di Danimarca_, che s'era ricoverato sotto la ombra del suo patrocinio,
spedì una potente armata di Sassoni e di Sclavi Obotriti verso quel
regno. Ma venuto ad accamparsi contra di loro uno non men poderoso
esercito di Danesi, giudicarono i Sassoni più sicuro partito il
ritirarsi a casa, contentandosi del sacco dato ad un tratto di paese, e
di aver seco condotti alcuni ostaggi. Fu nondimeno cagione questo
armamento che i Danesi inviarono legati a trattar di pace. Secondo altri
Annali[769], tenne l'imperadore una dieta in Paderbona nel primo dì di
luglio, alla quale intervennero _Lottario re di Baviera_ e _Pippino re
d'Aquitania_, suoi figliuoli: dal che si può dedurre ch'egli avesse già
conceduto loro il titolo di re. Giunse colà anche _Bernardo re
d'Italia;_ e Tegano[770] scrive: _Bernardus ibi ad eum venit, quem
dimisit ire iterum in Italiam_. Tornarono ancora da Costantinopoli i
legati colà spediti, seco portando la concordia, di nuovo e
vantaggiosamente assodata con _Leone imperador de' Greci_, il quale in
questi tempi risvegliò e sostenne la setta degl'iconoclasti, con passar
anche a perseguitare i monaci ed altri che proteggevano il culto delle
sacre immagini, fra' quali _s. Teodoro Studita_ ed altri santi uomini
furono cacciati in esilio. Risulta poi dalle memorie del monistero di
Farfa[771], che Scatolfo e Formosa sua moglie fecero una donazion di
beni a quel sacro luogo _anno II Ludovici imperatoris, II Bernardi
regis, XXVI Guinichis ducis, mense januario, Die XVII, Indictione VIII_,
cioè nell'anno presente. Ne fo menzione, acciocchè si vegga non reggere
l'opinione del p. Pagi[772] e dell'Eccardo[773], che stimarono
_Guinigiso duca di Spoleti_ poco fa nominato, da cui fu quetato il
tumulto di Roma, diverso da _Guinigiso_ creato duca di quella provincia
nell'anno 789, perchè nel catalogo dei duchi spoletini[774] all'anno 814
si legge _Guinichus dux_, quasichè questi sia stato figliuolo del primo.
La carta suddetta ci fa conoscere che un solo _Guinigiso_ continuava
tuttavia a reggere il ducato di Spoleti, nè sussistere l'immaginazione
di due diversi duchi di questo nome. In vece di _anno II Bernardi
regis_, probabilmente quivi si leggerà anno III, per le ragioni che
altrove[775] addussi; potendo nulladimeno essere che due diverse epoche
di questo re si usassero, l'una dall'anno 812 in cui egli venne in
Italia, e l'altra dal susseguente, allorchè ebbe il titolo di re. Forse
nell'anno presente accadde ciò che narra Erchemperto[776] di _Grimoaldo
Storesaiz_, principe ossia duca di Benevento. Mentre egli andava a
Salerno, Dauferio, uomo fra' suoi di gran possanza, gli avea tese delle
insidie ad un ponte. Se ne avvide Grimoaldo, e rinforzato dalla gente
sua passò oltre senza molestia. Fece poi mettere in prigione gli
artefici di tal cospirazione. Dauferio ebbe la sorte di salvarsi colla
fuga a Napoli, e fu ben ricevuto dai Napoletani. Ciò mise in gran
collera Grimoaldo, e però senza perdere tempo corse colla sua armata
addosso a Napoli, e quella assediò, con fare strage dei Napoletani,
qualunque volta osavano di uscire contra di lui. Il duca di Napoli, che
probabilmente era _Antimo_, tanto s'ingegnò, che con lo sborso di
ottomila soldi d'oro il placò, e rimise in grazia di lui Dauferio: il
che diede fine alla guerra.

NOTE:

[766] Rer. Ital. P. I, tom. 2.

[767] Anastas. Bibliothecar., in Vita Leonis III.

[768] Astronomus, in Vita Ludovici Pii. Eginhardus, Annal. Franc.
Annales Franc. Bertiniani.

[769] Annal. Fuldens. Lambec.

[770] Theganus, de Gest. Ludovici Pii, n. 14.

[771] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.

[772] Pagius, ad Annal. Baron.

[773] Eccard., Rer. Franc., lib. 27.

[774] Ante Chronic. Farfens. P. II, tom. 2 Rer. Italic.

[775] Antiquit. Ital., Dissert. X.

[776] Erchempertus, Hist. Princip. Langobard., n. 7.



    Anno di CRISTO DCCCXVI. Indizione IX.

    STEFANO IV papa 1.
    LODOVICO PIO imperadore 3.
    BERNARDO re d'Italia 5.


Durò il pontificato di _Leone III_ papa fino al presente anno, in cui fu
chiamato da Dio a miglior vita nel dì 11 di giugno, o in quel torno.
Anastasio bibliotecario[777], qualunque sia l'autore della sua Vita, è
assai digiuno nel racconto delle sue azioni, ma diffusamente poi parla
delle tante fabbriche e de' risarcimenti da lui fatti alle chiese in
Roma e fuori di Roma, e dei doni ed ornamenti preziosi ch'egli alle
medesime contribuì. In questo, più che in altro sfoggiava in questi
tempi la divozion de' Cristiani, e papa Leone profuse in ciò assaissimi
tesori. Dopo dieci giorni di sede vacante fu eletto in suo luogo
_Stefano_, _quarto_ di questo nome[778], diacono della santa romana
Chiesa, che dianzi co' suoi piissimi costumi, con una vita veramente
ecclesiastica, e con predicare al popolo la parola di Dio, s'era
guadagnato l'affetto e la venerazione di tutto il clero e popolo romano.
Siccome abbiamo dall'autore della vita di Lodovico Pio[779], consecrato
ch'egli fu, si lasciò intendere di voler passare in Francia, per
abboccarsi collo imperadore, dovunque a lui piacesse. _Praemisit tamen
legationem, quae super ordinatione ejus imperatori satisfaceret_: parole
che indicano già nata in Lodovico Augusto la pretensione che non
s'avesse a consecrare il papa eletto senza il consentimento suo. Oltre a
ciò, siccome abbiam da Tegano[780], scrittore contemporaneo, _statim
postquam pontificatum suscepit, jussit omnem populum romanum fidelitatem
cum juramento promittere Ludovico_: parole che presso gl'intendenti non
han bisogno di spiegazione. Fu sommamente caro al pio imperadore d'udire
che il sommo pastor della Chiesa volesse venir a trovarlo; sebbene
Ermoldo Nigello suppone essere stato chiamato in Francia da Lodovico
esso pontefice. Comunque sia, mandò tosto l'imperadore ordine a
_Bernardo re d'Italia_ di accompagnarlo nel viaggio. Altri messi inviò
ad incontrarlo, allorchè fu entrato in Francia, ed egli si fermò nella
città di Rems ad aspettarlo. Quando poi fu in vicinanza di alquante
miglia dalla città, furono a riceverlo _Ildebaldo arcicappellano_ del
sacro palazzo, _Teodolfo vescovo di Orleans_, _Giovanni vescovo
d'Arles_, ed altri sacri ministri, tutti vestiti co' sacri abiti
sacerdotali. Un miglio poi fuori della città lo stesso imperadore con
isplendido accompagnamento l'accolse. Smontato da cavallo, tre volte
s'inginocchiò davanti al papa. Dice di più Tegano, che _princeps_ (cioè
_Lodovico_, dopo essere scesi amendue da cavallo) _se prosternens omni
corpore in terram tribus vicibus ante pedes tanti pontificis, et tertia
vice erectus, salutavit pontificem_. Ermoldo Nigello[781], che più
diffusamente degli altri descrive la andata in Francia di papa Stefano,
succeduta ai suoi tempi, racconta che il pontefice alzò da terra
l'imperadore, e il baciò. Dopo di che, preceduto da tutto il clero
cantante il _Te Deum_, andarono alla chiesa, dove il clero romano intonò
le acclamazioni consuete all'Augusto Lodovico, e il papa terminò
coll'orazione l'allegrissima funzion di quel dì. Nel giorno seguente fu
accresciuta l'allegria da un solennissimo convito, che l'imperador diede
al papa, con regalarlo ancora da par suo. Nel terzo giorno fu invitato
l'imperadore dal papa ad un somigliante magnifico convito, in cui anche
il papa gli fece de' suntuosi presenti. Venuto il quarto giorno, ch'era
domenica, essendo raunato tutto il clero e popolo nella gran basilica,
papa Stefano con una corona d'oro tempestata di gemme coronò ed unse col
sacro crisma l'_imperador Lodovico_, e similmente l'_imperadrice
Ermengarda_ sua moglie, con aggiugnere dipoi nuovi regali all'uno e
all'altra. Veggasi Ermoldo Nigello, il quale annovera appresso i
donativi fatti da Lodovico a Stefano di vasi d'oro e d'argento, di vesti
e cavalli, conchiudendo poi il catalogo con dire.

    _Plura quid hinc memorem? nam centuplicata recepit_
      _Munera Romanis quae arcibus extulerat._

Agnello[782] nelle Vite de' vescovi di Ravenna scrive che papa Stefano
andò in Francia all'imperador Lodovico, _et quidquid postulavit ab eo,
accepit_. E dal suddetto Ermoldo abbiamo che l'imperadore confermò i
privilegii alla Chiesa romana, ordinando,

    _Ut res Ecclesiae Petri, sedisque perennis_
      _Inlaesae vigeant semper honore Dei._
    _Ut prius ecclesia haec, pastorum munere fulta,_
      _Summum apicem tenuit, et teneat, volumus._
    _Addimus at, praesul, tantum eat ut supra locutum,_
      _Justitiam recolat, qui sedet arce Petri._

Preso poi congedo dall'imperadore, s'incamminò il papa verso l'Italia;
ma prima di farlo, secondochè avvertì Anastasio[783], avendo trovato in
Francia molti Romani banditi per le enormità da lor commesse contro la
Chiesa romana e contra del suo predecessore Leone, tutti con somma
clemenza e carità seco li ricondusse a Roma. Arrivato _papa Stefano_ a
Ravenna, per attestato del suddetto Agnello, _Martino arcivescovo_ fu ad
incontrarlo, e si baciarono insieme. Nel dì seguente celebrò messa il
pontefice nella basilica orsiana, _et ostendit sandalias Salvatoris,
quas omnis populus vidit_.

Fece l'imperador Lodovico[784] nell'ottobre dell'anno presente (e non
già del seguente, come con errore scrisse lo Astronomo nella di lui
Vita); fece, dissi, raunare un concilio numerosissimo di vescovi ed
abati in Aquisgrana; e siccome principe piissimo e sommamente bramoso di
veder fiorire la pietà e regolatezza del clero secolare e regolare,
ordinò che si stendesse la regola de' _canonici_ e quella delle
_canonichesse_. Fu eziandio stabilito che i _monaci_ esattamente
seguitassero la regola di s. Benedetto. Era già introdotto in varie
chiese cattedrali l'uso de' _canonici_, che viveano nel medesimo
chiostro, annesso alla cattedrale, ad una mensa comune, e in coro
cantavano i divini uffizii, non solamente di giorno, ma anche di notte,
non meno che si facessero i monaci d'allora. Quel solo che li
distingueva dai monaci, era l'abito, e il poter ritenere la proprietà
dei lor beni patrimoniali; e il titolo di _priore_, e non d'_abbate_, si
dava al loro capo. Gran cura si prese il pio imperadore perchè si
dilatasse per tutte le chiese, non solo della Francia e Germania, ma
anche dell'Italia, questo lodevole istituto, per cui si accresceva il
culto di Dio e il decoro delle cattedrali. E a' suoi desiderii tenne
dietro il buon successo, perciocchè a poco a poco s'andò introducendo
anche in Italia, in guisa che in quel secolo poche chiese rimasero in
Italia che non avessero il collegio de' lor canonici, viventi secondo la
regola proposta nel concilio suddetto. Attesta poi Ermoldo Nigello[785],
che venuto l'imperador Lodovico a Compiegne (due parole ne dice anche
l'Anonimo nella vita di lui), quivi fece una spedizione di messi per
tutto il suo imperio a disaminar la vita de' vescovi e del clero
secolare, e parimente de' monaci e delle monache, con ordine di notar
tutto, e di riferire a lui tutto quanto ritrovavano degno di lode e
bisognoso di correzione.

    _Nunc nunc, o missi, certis insistite rebus,_
      _Atque per imperium currite rite meum;_
    _Canonicumque gregem, sexumque probate virilem,_
      _Femineum nec non, quae pia castra colunt._
    _Qualis vita, decor, qualis doctrina, modusque,_
      _Quantaque religio, quod pietatis opus._
    _Pastorique gregem quae convenientia jungat,_
      _Ut grex pastorem diligat, ipse ut oves._
    _Si sibi e laustra, domos, potum, tegimenque, cibumque_
      _Praelati tribuant tempore sive loco._

Ebbe l'imperador Lodovico in quest'anno da impiegar le sue armi contro
agli Slavi, o Sclavi Sorabi, che pareano disposti alla ribellione. Un
esercito[786] raunato dalla Franconia e Sassonia li mise tosto in
dovere. S'erano anche apertamente ribellati i popoli della Guascogna
abitanti nella falda orientale de' Pirenei. Due spedizioni furono fatte,
per le quali tornarono all'ubbidienza con poco lor gusto. Trovandosi in
Compiegne, diede un diploma con varie esenzioni[787] al monistero di s.
Salvatore di monte Amiate in Toscana nel territorio di Chiusi, e ad
_Andoaldo abbate_, con lasciar ai monaci la libertà di eleggersi i di
lui successori, _per nostram auctoritatem et consensum, vel dilecti
filii nostri Bernardi regis_. Fu dato quel privilegio _XV kal. decembr.
anno, Christo propitio, III domni Ludovici piissimi Augusti, Indictione
X. Actum Compendio palatio_. Nel catalogo dei duchi di Spoleti[788],
posto avanti alla Cronica del monistero di Farfa, si legge sotto questo
anno _Geraldus dux_: il che ha fatto credere che in quest'anno egli
fosse eletto duca di Spoleti, quantunque, siccome vedremo all'anno 821,
_Guinigiso_ seguitasse ad essere duca di quella provincia. Di questo
parleremo più abbasso. Il conte Campelli[789] francamente scrive che
questo _Geraldo_, appellato altrove più rettamente _Gerardo_, era
figliuolo del suddetto Guinigiso, e che dal padre fu _dichiarato suo
compagno nel ducato_, mentre vivea tuttavia _Romano_ altro suo
figliuolo, già creato duca. Ma non sappiam di certo che Gerardo fosse
figliuolo di Guinigiso; nè sussiste che Guinigiso godesse l'autorità di
dichiararsi un collega nel ducato, perchè ciò apparteneva
all'imperadore, o pure al re d'Italia; e meno qui sussiste (siccome si
osservò all'anno 806) che quel _Romano_ fosse figliuolo di Guinigiso, e
duca anche egli vivente di Spoleti. Può ben l'accurato storico produrre
le sue conghietture intorno ai fatti antichi che egli descrive, ma non
dee già spacciare come fatti indubitati i suoi sogni, perchè facilmente
si fabbrica un inganno ai lettori.

NOTE:

[777] Anast. Biblioth., in Leon. III.

[778] Idem, in Vit. Stephani IV.

[779] Astronom., in Vit. Ludov. Pii.

[780] Tegan., de Gest. Ludovici Pii, num. 16.

[781] Ermold. Nighell., lib. 2, P. II, tom. 2 Rer. Italic.

[782] Agnell., P. I, tom. 2, Rer. Ital.

[783] Anast., in Vit. Stephani IV.

[784] Annales Franc. Lambec. Annal. Franc. Hildesheim

[785] Ermold. Nigellus, Poemat., lib. 2.

[786] Annal. Franc. Laureshamens. Annal. Fran. Bertin.

[787] Ughell., Ital. Sacr., tom. 3, in Episcop. Clusin.

[788] Chron. Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[789] Campelli, Storia di Spoleti, lib. 15.



    Anno di CRISTO DCCCXVII. Indizione X.

    PASQUALE papa 1.
    LODOVICO PIO imperadore 4.
    BERNARDO re d'Italia 6.


Abbiamo nella Cronica farfense una bolla di _Stefano IV_ papa, che
conferma ad _Ingealdo, abbate_ dell'insigne monastero di Farfa, tutti i
beni spettanti a quel sacro luogo. Fu essa scritta _per manus
Christophori scriniarii in mense januario. Datum X kalendas februarii
per manus Theodori Nomenclatoris sanctae sedis apostolicae, imperante
domno Hludowico Augusto a Deo coronato, magno pacifico imperatore anno
III, et patriciatus ejus anno III, Indictione X._ In vece di
_patriciatus_ crede il p. Pagi[790] che fosse scritto _P. C. ejus_, cioè
_post consulatum ejus_. Impose esso papa ai monaci di Farfa una pensione
annua di dieci soldi d'oro. Ma godendo Farfa il privilegio dei monisteri
imperiali, se crediamo al Cronografo, per cura di _Lottario imperadore_
sotto Pasquale successore nel pontificato, fu levato l'obbligo di tal
pensione. Poco stette dipoi a dar fine ai suoi giorni il suddetto buon
papa _Stefano_, essendo egli stato rapito dalla morte il dì 24 di esso
mese di gennaio. Appena fu egli passato a miglior vita, che di piena
concordia restò eletto da tutto il clero e popolo romano il sommo
pontefice _Pasquale_ romano, rettore del monistero di santo Stefano,
situato presso la basilica vaticana, alle cui virtù Anastasio
bibliotecario[791], o qualunque sia l'autore della sua vita, tesse un
illustre elogio. Riferisce il suddetto autore della Cronica farfense una
bolla conceduta da lui in favore di quel monistero, e data _kal.
februarii per manus Nomenclatoris sanctae sedis apostolicae, imperante
domno Hludowico piissimo perpetuo Augusto a Deo coronato magno pacifico
imperatore anno III, Indictione X,_ cioè nell'anno presente. Non si
truova in questa bolla menzione alcuna della pensione suddetta, e
vedremo poscia che ne' diplomi susseguenti di Lottario I Augusto essa
viene abolita. Ma ciò che potrebbe far sospettare della legittimità di
tal documento, si è, ch'esso è scritto nel primo giorno di _febbraio da
Teodoro nomenclatore della santa Sede apostolica_, quando
l'Astronomo[792], scrittore di quei tempi, ci fa sapere che papa
Pasquale _post expletam consecrationem solemnem_ (nel dì 25 di gennaio)
_legatos, ec. imperatori misit. Hujus legationis bajulus fuit Theodorus
nomenclator,_ ec. Se terminata che fu la consecrazione del nuovo papa,
_Teodoro_ fu spedito in Francia, come potè egli stendere quella bolla?
Ma dagli Annali lauresamensi si ha[793] che il papa dopo la
consecrazione spedì solamente lettera di scusa, e dipoi inviò Teodoro.
Però può egli aver tardato fin dopo il primo di febbraio a mettersi in
viaggio. Una particolarità poi si ricava dalle parole del medesimo
Astronomo, che così scrive del suddetto papa: _Legatos cum epistola
apologetica, et maximis muneribus imperatori misit, insinuans, non se
ambitione, nec voluntate, sed electione et populi acclamatione, huic
succubuisse potius quam insiluisse dignitati._ Odansi ancora gli Annali
lauresamensi: _Stephanus papa, postquam Romam venerat, mense, sed nondum
expleto, circiter VIII kalendas februarii diem obiit. Cui Paschalis
successor electus, post completam solemniter ordinationem suam, et
munera, et excusatoriam imperialem misit epistolam in qua sibi non solum
nolenti, sed etiam plurimum renitenti, pontificatus honorem veluti
impactum asseverat._ Questa lettera di scusa d'essere stato consecrato
papa Pasquale contra sua voglia, fa abbastanza intendere che ne' patti
della signoria di Roma conferita da Carlo imperadore e da Lodovico suo
figliuolo a Leone III e a Stefano IV sommi pontefici, vi doveva essere,
che per consecrare il nuovo papa eletto si dovesse aspettare
l'approvazione e il consenso dell'imperadore _pro tempore_. Abbiam
veduto che esso Stefano IV, il primo che dopo fatta la rinnovazion
dell'imperio romano nella persona di Carlo Magno, fu eletto papa e
consecrato immantenente, per attestato del medesimo autore della vita di
Lodovico, _praemisit legationem, quae super ordinatione ejus imperatori
satisfaceret_. Fin dai tempi dei re goti fu introdotto il costume,
continuato poi per più secoli dai greci imperadori (chiamisi anche
abuso, che non importa), di non venire alla consecrazione del papa
eletto, se prima non era giunto l'assenso dell'imperadore, padrone
allora e sovrano di Roma, o almeno dell'esarcato de' Ravennati. Carlo
Magno e Lodovico Pio, succeduti nel dominio di Roma, non volendo essere
da meno dei precedenti Augusti, imposero questa medesima obbligazione ed
aggravio al clero e popolo romano. Ma ai Romani quest'obbligo e peso
parve sempre grave ed ingiusto; e giacchè era passato qualche tempo,
dappoichè essi Romani si erano staccati dall'ubbidienza de' greci
imperadori, che liberamente aveano consecrati i papi, non sapevano
accomodarsi sotto Lodovico Pio a questo giogo. Però senz'altro riguardo
vennero all'ordinazione di Stefano IV e di Pasquale, confidati nella
pietà e bontà di Lodovico Pio, che accetterebbe le scuse del loro
operato: nel che non s'ingannarono. Ma andando innanzi, vedremo
sostenuto con forza questo, chiamato dagl'imperadori diritto della
corona, e dai Romani abuso.

Aggiugne il suddetto Astronomo che _hujus legationis_ (di papa Pasquale)
_bajulus fuit Theodorus nomenclator, qui negotio peracto, et petitis
impetratis, super confirmatione scilicet pacti et amicitiae more
praedecessorum suorum, reversus est_. Altrettanto abbiamo dagli Annali
lauresamensi, ne' quali _missa alia legatione, pactum, quod cum
praedecessoribus suis factum fuerat, et secum fieri et firmari rogavit.
Hanc legationem Theodorus nomenclator et detulit, et ea quae petierat,
impetravit._ E qui non si può di meno di non rammentare la famosa
costituzione _Ego Ludovicus_, accennata da Leone Ostiense, riferita da
Graziano[794], e rapportata più ampiamente negli Annali
ecclesiastici[795]. Vien questa creduta un'impostura dal padre Pagi[796]
e da altri che ne recano le pruove; laonde a me pure non dee essere
disdetto l'esporre onoratamente il sentimento mio intorno ad essa, non
mosso da veruna passione, ma guidato dal solo amore della verità, la
quale, chiunque ancora ha sommo rispetto per la santa Sede, dee preferir
sempre alla bugia. Col voler sostenere opinioni inverisimili uno
scrittore non giova ad altrui; fors'anche gli nuoce e solamente può
guadagnare a sè stesso lo svantaggioso titolo di adulatore oppur quello
di sciocco. Ora io dico non potersi mai sostenere per documento
legittimo e veramente uscito dalla cancelleria di Lodovico Pio quella
costituzione. Vi manca la data: segno che ne resta una sola copia
informe, e non autentica, la quale non può far pruova sicura. Contiene
essa veramente molti stati che erano in dominio della Chiesa romana e
de' sommi pontefici. Ivi è confermata al papa la città di Roma col suo
ducato, ma colla giunta di queste parole: _Sicut a praedecessoribus
vestris_ (dovrebbe dire nostris) _usque nunc in vestra potestate et
ditione tenuistis et disposuistis_. S'è veduto in addietro, se con
sovranità, oppure con dipendenza i papi governassero Roma e il suo
ducato, e continueremo anche a vederlo. Ma non può stare che Lodovico
Pio confermasse o donasse a papa Pasquale _Siciliam sub integritate cum
omnibus adjacentibus, et territoriis maritimis,_ ec. La _Sicilia_ era
allora dell'imperator greco, con cui durava la pace e concordia,
confermata anche nell'anno presente, come si ha dagli Annali bertiniani.
Non si può mai credere che il papa chiedesse e l'imperador d'Occidente
donasse la roba altrui. Gli conferma ancora Lodovico _Patrimonia ad
potestatem et ditionem nostram pertinentia, sicut est patrimonium
Calabriae inferioris et superioris, et patrimonium neapolitanum._ Ma
evidente cosa è che l'imperadore non istendeva allora la sua podestà e
dominio sopra la _Calabria_, nè sopra _Napoli_, che erano allora sotto
la giurisdizione dell'imperador d'Oriente, e ciò senza contrasto alcuno.
Almeno non toccava a Lodovico Pio di confermare al papa degli allodiali
situati sotto il dominio altrui. Più sotto si lascia ai Romani la
libertà di consecrare il nuovo papa eletto, senza obbligo di attendere
l'approvazion dell'imperadore. E i fatti precedenti e i susseguenti,
siccome vedremo, convincono d'insussistenza una tal concessione. Lascio
andare altre riflessioni, bastando queste per conchiudere che non merita
d'essere attribuita quella costituzione, almeno tal quale essa è oggidì,
a Lodovico Pio; e potersi con tutto fondamento sospettare che nascesse
quella carta, oppur fosse alterato ed interpolato il vero documento, nel
secolo undecimo, dappoichè i pontefici cominciarono a muovere delle
pretensioni sopra la Sicilia, e a non voler sofferire che gli imperadori
avessero mano nella creazion de' papi: tempo appunto in cui Leone
Ostiense cominciò a farne menzione. Una costituzione diversa da questa
viene accennata dal Dandolo nella sua Cronica[797].

Bollivano intanto delle controversie di confini nella Dalmazia tra i due
imperadori d'Occidente e d'Oriente, perchè la Dalmazia mediterranea
apparteneva al primo, la marittima al secolo. Forse ancora verso il
Levante non erano per anche bene stabiliti i confini[798]. Niceforo
ambasciatore di Leone imperador dei Greci spedito ad Aquisgrana
nell'anno presente, trattò di questo affare; ma perchè non si trovava
allora alla corte _Cadaloo_, ossia _Cadolaco_, a cui spettava la cura di
que' confini, bisognò aspettare. E da ciò possiam dedurre che Cadaloo
fosse in questi tempi duca o marchese della marca del Friuli, ed avere
unita al suo governo la Dalmazia franzese. Venuto poi Cadaloo ad
Aquisgrana, e conoscendosi necessaria l'ispezione de' siti, fu egli col
greco ambasciatore inviato in Dalmazia, e datogli per aggiunta Albigario
nipote d'Unroco, uno probabilmente degli antenati della famiglia di
Berengario, che fu poi re d'Italia sul fine di questo secolo. In
quest'anno ancora, quantunque i Danesi dessero a credere di voler pace,
Lodovico Augusto fece lor guerra in aiuto di _Erioldo re_ scacciato da
essi. Ma la più solenne azione fatta nel presente anno dall'imperadore
Lodovico fu l'aver egli in tempo di state adunata in Aquisgrana la
general dieta de' suoi stati[799], dove propose di dichiarar imperadore
e suo collega nell'imperio _Lottario_ suo primogenito. _Tunc omni populo
placuit, ut ipse se vivente, constitueret unum de suis filiis imperare,
sicut pater ejus fecerat ipsum_. Restò in fatti proclamato e coronato
imperador dei Romani ed Augusto esso Lottario, con gran giubilo e festa
del popolo; e dal giorno di questa sua esaltazione alcuni cominciarono a
contar l'epoca del di lui imperio. I due suoi fratelli, cioè _Pippino_ e
_Lodovico_, amendue, o prima o allora dichiarati re, furono mandati dal
padre l'uno in Aquitania, l'altro in Baviera, cioè ne' regni destinati
per loro porzione. Confessa Tegano[800] che _ob hoc_, cioè per la
dignità imperiale conferita a Lottario _ceteri filii indignati sunt_;
perchè l'essere d'imperadore portava superiorità non solo d'onore, ma di
comando e di giurisdizione sopra dei re, e sopra tutta la monarchia
franzese.

Più nondimeno di que' due fratelli se l'ebbe a male _Bernardo_ re
d'Italia. Non gli mancarono dei cattivi consiglieri che gli persuasero
di non sofferir la risoluzione presa dall'Augusto suo zio,
rappresentandogli, come si può credere, che a lui, siccome figliuolo di
_Pippino_ già re d'Italia, maggiore d'età che Lodovico Pio di lui
fratello, competeva maggior diritto all'imperio, e tanto più, perchè chi
era re d'Italia, parea più conveniente che fosse anche imperadore.
Pertanto lo sconsigliato giovinetto principe, senza considerare che la
sua nascita pativa delle eccezioni, e che le forze sue non poteano
competere col monarca delle Gallie e della Germania, e che massimamente
per l'interposizione di Lodovico Pio, Carlo Magno l'avea fatto re
d'Italia: si diede a far gente e a meditar ribellione[801]. Fu inviata
all'imperador Lodovico, nel mentre che tornavava in Aquisgrana, questa
nuova da più d'uno, ma principalmente da _Rataldo_ vescovo di Verona
(chiamato da altri _Rotaldo_) e da _Suppone_ conte di Brescia, con
supporgli che Bernardo avesse già preso tutti i passi alle Chiuse
dell'Italia, e messe ivi delle guarnigioni, e che tutte le città
d'Italia avessero mano in questa congiura: il che in parte era vero e in
parte falso. Però l'Augusto Lodovico con somma prestezza raccolto un
potente esercito da tutta la Gallia e Germania, s'inviò senza dimora
alla volta d'Italia. Non ci volle di più per far rientrar in sè stesso
il mal accorto Bernardo, che scorto oramai di non aver possanza da
contrastare coll'Augusto zio, perchè di dì in dì s'andavano ritirando da
lui e desertando le truppe italiane, prese finalmente il partito di
ricorrere alla clemenza dell'irritato imperadore. Deposte dunque l'armi,
andò fino alla città di Sciallon in Borgogna a gittarsi ai di lui piedi.
Gli tennero dietro altri che avevano avuta parte nella congiura, fra'
quali specialmente sono menzionati _Eggideo_, uno dei più confidenti
d'esso re Bernardo, _Rinaldo_ cameriere d'esso re, e _Reginario_ già
conte del palazzo dell'imperadore e figliuolo di Meginario conte.
Trovaronsi inoltre mischiati in questo trattato _Anselmo_ arcivescovo di
Milano, _Wolfoldo_ vescovo di Cremona, e, quel che è più da stupire,
_Teodolfo_ vescovo d'Orleans in Francia, sedotti forse dall'amore verso
l'Italia sua patria. Questi personaggi, non solamente dopo la deposizion
dell'armi spontaneamente si misero nelle forze dell'imperadore, ma anche
ai primi interrogatorii scoprirono tutta l'orditura della lor tela. Noi
non abbiamo se non gli autori franzesi che parlano di questo affare. Per
buona ventura, pochi anni sono, Gian Burcardo Menchenio diede alla luce
una Cronichetta longobarda, composta da Andrea prete italiano[802] in
questo medesimo secolo, e da me ristampata[803], che scrive essere stato
fraudolentemente chiamato in Francia l'infelice Bernardo
dall'_imperadrice Ermengarda_, e ch'egli dopo aver ricavato dagli
ambasciatori che doveano averne sufficiente mandato, un giuramento di
sicurezza o salvocondotto per la sua persona, v'andò: e male per lui.
_Conjux ejusdem Ludovici, Hermengarda nomine, inimicitiam contra
Bernardum Langobardorum regem gerens, mandavit ei, quasi pacis gratia,
ad se veniret. Ille ab his nobilibus legatis sacromenta fidei suscepit,
in Franciam ivit_. Comparirà molto probabile un tal racconto. Fu intanto
messo in prigione il misero re, e tutti i complici di quella congiura.

In quest'anno ancora attese il pio imperador Lodovico alla riforma dei
monisteri, valendosi specialmente dell'opera di Benedetto abbate già di
Aniana, e allora d'Inda[804], uomo di santa vita, e tale, per sentimento
d'alcuni, che potea gareggiare nelle virtù con san Benedetto patriarca
dei monaci in Occidente. Ordinò ancora l'uniformità del rito benedettino
per tutti i monisteri. Fino a quest'anno _Grimoaldo Storesaiz_,
principe, ossia duca di Benevento, tenne le redini del governo di quegli
stati. Avea fatto ricorso a lui _Sicone_, uomo nobile e riguardevole di
Spoleti, prima dell'anno 810, perchè era incorso nella disgrazia di
_Pippino re d'Italia_. L'Anonimo salernitano lo racconta nella storia da
me data alla luce[805]. Grimoaldo l'accolse umanamente, e il fece conte
di Agerenza. Per cagione di caccia sorse da lì a molto tempo amarezza e
discordia fra i due figliuoli del suddetto Sicone, cioè _Sicardo_ e
_Siconolfo_ dall'una parte, e _Radelchi_ ossia _Radelgiso_ conte di
Conza. Fecene querela Radelchi al duca Grimoaldo, che, per placarlo,
spedì subito ordine a Sicone di comparirgli innanzi senza dimora. Da
questa citazione, ben conoscendo d'onde veniva il vento, spaventato
Sicone, già pensava a fuggirsene per mare a Costantinopoli; ma penetrato
dal popolo di Agerenza questo suo disegno, tanto era l'amore che gli
portavano, che il confortarono a non abbandonarli, esibendosi tutti
pronti di dar la vita per lui. Perciò egli rispose a Grimoaldo di non
poter venire per trovarsi infermo. Da questa risposta, ma più dalle
frange che vi fece Radelgiso, irritato il principe, raunato lo esercito,
si portò all'assedio di Agerenza. Sostenne quel popolo vigorosamente la
difesa di quella città, e riuscì anche un dì ai figliuoli di Sicone di
dare una fiera spelazzata a quei di Conza, in maniera che stentò il loro
conte Radelgiso a mettersi in salvo. Ma perchè scappò detto un giorno a
Grimoaldo che gl'incresceva di far quella guerra ad un nobile straniero,
ricevuto da lui sotto la sua fede, Radelgiso uomo accorto, mutata
massima, si esibì di condur Sicone alla di lui presenza. Entrato in
fatti in Agerenza, e pacificatosi con Sicone, anzi formata lega con lui,
il menò davanti a Grimoaldo, che gli perdonò. Da lì innanzi il gran
pensiero di Radelgiso altro non fu che la rovina del duca, con desiderio
e speranza d'occupar egli il principato: al quale fine andò guadagnando
al suo partito molti del popolo. Ma Dauferio, uomo nobilissimo, co' suoi
due figliuoli Roffrido e Potelfrido si dichiarò per invidia in favor di
Sicone. Pretendendosi poscia un giorno esso Dauferio ingiuriato dal
_duca Grimoaldo_, talmente mise alla punta i suoi figliuoli, che preso
seco un sicario per nome Agelmondo, il misero a morte. Se vogliam
prestar fede al suddetto Anonimo salernitano, Grimoaldo era odiato per
la sua avarizia, per gli affronti e per le minacce che faceva ai grandi,
e per le oppressioni che inferiva al minuto popolo. Ma Erchemperto,
scrittore di maggiore antichità e credito, cel rappresenta per uomo
mansueto e di dolci costumi; e scrive che Radelchi conte di Conza e
Sicone gastaldo di Agerenza, ingrati agli onori ricevuti da Grimoaldo,
cospirarono contra di lui; e che trovandosi egli ridotto agli ultimi
respiri per qualche malattia, gli affrettarono con delle ferite la
partenza dal mondo. Non essendo restata prole di Grimoaldo, si venne dal
popolo all'elezione d'un nuovo principe di Benevento; e son d'accordo
Erchemperto e l'Anonimo salernitano, che specialmente per opera e
persuasione di Radelgiso (che se n'ebbe poscia a pentire) fu alzato al
trono _Sicone_.

NOTE:

[790] Pagius, ad Ann. Baron.

[791] Anastas., in Vit. Paschalis.

[792] Astronomus, in Vit. Ludov. Pii.

[793] Annales Francor. Laureshamenses.

[794] Gratian., Dec. _Ego Ludovicus_, Dist. LVIII.

[795] Baron., in Annal. Eccl.

[796] Pagius, in Crit. Baron.

[797] Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Italic.

[798] Astronom., in Vit. Ludovici Pii. Eginhard., in Anual. Francor.

[799] Annales Franc. Laureshamens. Annal. Franc. Moissiacens.

[800] Theganus, de Reb. Gest. Ludovici Pii, num. 21.

[801] Eginhardus, in Annal. Franc. Annales Franc. Bertiniani.
Astronomus, in Vita Ludovici Pii.

[802] Andreas Chron. apud Menchenium, tom. 1.

[803] Antiquit. Ital., Dissert. II.

[804] Astronomus, in Vita Ludovici Pii.

[805] Rer. Ital. P. II, tom. 2, pag. 198.



    Anno di CRISTO DCCCXVIII. Indiz. XI.

    PASQUALE papa 2.
    LODOVICO PIO imperadore 5.


Per attestato di Eginardo[806] e dell'Astronomo[807], per tacer le altre
istorie, in quest'anno, terminato il processo contra di _Bernardo re
d'Italia_ e contra dei complici di quella congiura, fu proferita
sentenza di morte sopra cadauno dei secolari; ma l'imperador Lodovico
commutò la pena, contentandosi che loro solamente fossero cavati gli
occhi. Con tal crudeltà fu eseguito questo decreto nel giovane re
_Bernardo_ e in _Reginario_, che amendue per ispasimo, più che per
malinconia, da lì a tre giorni cessarono di vivere. Sembra che
Andrea[808] prete italiano di questo secolo nella Cronichetta
attribuisca tal manifattura all'_imperadrice Ermengarda_, con iscrivere:
_Hermengarda, mox ut potuit, ut audivimus, nesciente imperatore, oculos
Bernardo evulsit, isque ipso dolore defunctus est, postquam quinque
regnaverat annos, duos sub Carolo, tres sub Hludovico._ Inverisimile non
è il sospetto che l'imperadrice vagheggiando il regno d'Italia per uno
dei suoi figliuoli, giacchè altro non potè ottenere dal marito, se non
che Bernardo perdesse gli occhi, s'ingegnasse ch'egli perdesse con gli
occhi anche la vita. Non sussiste già che l'imperadore non sapesse qual
gastigo fu decretato a Bernardo. Ma certo, se Bernardo spontaneamente
andò a mettersi nelle mani dell'imperadore, per implorar la sua
clemenza, non mancò dell'inumanità nella pena a lui data; peggio poi,
s'egli v'andò chiamato e sotto la buona fede. In fatti l'Augusto
Lodovico dopo qualche tempo, per attestato di Tegano[809], rimordendogli
la coscienza, _Magno cum dolore flevit multo tempore, et confessionem
dedit coram omnibus episcopis suis, et judicio eorum poenitentiam
suscepit, propter hoc tantum, quia non prohibuit consiliarios hanc
crudelitatem agere. Ob hanc causam multa dedit pauperibus propter
purgationem animae suae._ Questo suo pentimento cadde nell'anno 822,
siccome vedremo. I vescovi poi che avevano avuta parte nella congiura
suddetta furono deposti dagli altri vescovi, e relegati in varii
monisteri. Una tal condanna per conseguente piombò sopra di _Anselmo_
arcivescovo di Milano, e sopra _Teodolfo_ vescovo di Orleans. Ma,
siccome osservò il padre Pagi[810], Teodolfo fu ben sospetto di quel
delitto, ma egli stette sempre saldo in chiamarsi innocente, siccome
apparisce dai suoi versi ad _Adolfo_ arcivescovo bituricense, ossia di
Bourges, e a _Modoino_ vescovo di Autun. Comune sentenza è che il corpo
del re Bernardo fosse portato a Milano, e gli fosse data sepoltura nella
basilica di santo Ambrosio. Tristano Calco[811] racconta che a' suoi dì
fu ritrovata l'iscrizione a lui posta colle seguenti parole:

                    BERNARDVS CIVILITATE MIRABILIS
                 CETERISQVE PIIS VIRTVTIBVS INCLYTVS
                          REX HIC REQVIESCIT
                REGNAVIT ANNOS QVATVOR MENSES QVINQVE
                    OBIIT XV KAL. MAII INDICT. X.
                     FILIVS PIAE MEMORIAE PIPINI.

Il Sigonio e il cardinal Baronio in vece dell'_Indict. X_, scrissero
_Indict. XI_, perchè veramente nell'anno presente 818, in cui egli restò
privato di vita, correva l'_indizione undecima_. Ma anche il
Puricelli[812] attesta leggersi in quel marmo l'_indizione decima_. Ora
non sussistendo che la morte del re Bernardo accadesse nel corso di
quella indizione, cioè nell'anno 817, nè accordandosi colla storia, nè
coll'epoca del suo regno più comunemente usata in Italia, il dirsi
ch'egli regnò _quattro anni_ e _cinque mesi_, ho io altrove
dubitato[813] dell'antichità e legittimità di quella iscrizione. Per
altro abbiamo dal Puricelli suddetto che nell'anno 1638 si scoprì nella
basilica ambrosiana un'arca, dove erano due cadaveri, l'uno de' quali fu
creduto del _re Bernardo_, perchè a canto avea uno scettro di legno
indorato, la veste era di seta con frange d'oro, le scarpe di cuoio
rosso colle suole di legno, e con gli speroni di rame indorato. L'altro
cadavero fu riputato quello dell'arcivescovo _Anselmo_, perchè a lato
v'era una mitra episcopale, un pastorale di legno, e un anello d'argento
indorato con gemma. Perciò tanto il Puricelli, quanto l'Ughelli e il
padre Papebrochio, furono di parere che nell'anno 821, oppure 822,
quell'arcivescovo, ottenuto il perdono, se ne ritornasse a Milano alla
cattedra sua. Pel suo ritorno abbiamo fondamento bastante. Pel sepolcro
non v'ha che delle conghietture. Abbiamo bensì di certo da
Reginone[814], che _habuit iste Bernhardus_ (rex) _filium nomine
Pipinum, qui tres liberos genuit, Bernhardum, Pipinum, et Heribertum_.
Di questo _Pippino_, figliuolo del re Bernardo, fa anche menzione
Nitardo[815], con dire ch'egli avea dei beni in Francia; nè mancano
scrittori moderni che pretendono derivata da _Eriberto_ suo figliuolo la
schiatta degli antichi conti di Vermandois. Lasciarono i Sammartani[816]
in dubbio se questo giovane Pippino fosse legittimo o bastardo. Siam
tenuti alla diligenza del padre Mabillone[817], che mise qui in chiaro
la verità, con rapportar lo strumento della fondazione del monistero
delle monache di santo Alessandro di Parma, scritto in quella città
nell'anno 835, in cui si truova chi fu moglie del prelodato re Bernardo,
e madre del prefato Pippino, cioè _Cunicunda, relicta quondam Bernardi
incliti regis, pro mercedem et remedium animae seniori meo Bernardi, vel
mea, seu filio meo Pippino,_ ec. Restò dunque vacante per questo funesto
avvenimento il regno d'Italia, e fu alcun tempo governato a dirittura
dai ministri dell'imperadore.

Ebbe in quest'anno esso _imperador Lodovico_ da far guerra nella
Bretagna minore. Fin dal secolo quinto dell'era cristiana ritiratesi
dalla gran Bretagna alcune migliaia di famiglie, quivi piantarono la
loro abitazione, dove tuttavia conservano una particolar loro lingua,
che vien creduta l'antichissima celtica. Andò dipoi crescendo la loro
popolazione, e colla gente cresceva anche l'orgoglio, in guisa che
penarono a sottomettersi e a star sottomessi ai Franchi, nazione diversa
dalla loro. I duchi di quella provincia s'intitolavano bene spesso re,
per mostrare la loro indipendenza, nè volevano pagar tributo ai re
franchi. Carlo Magno ebbe anch'egli da fare per reprimere la loro
baldanza. Comandava in questi tempi nella minore Bretagna _Murmanno_,
uomo duro e borioso, che permetteva anche al suo popolo di far delle
scorrerie nelle provincie vicine de' Franchi. Portatene le doglianze
all'Augusto Lodovico, spedì egli _Witcario abbate_, per esortarlo
all'emenda dei danni, e a pagare i dovuti tributi, altrimenti si
aspettasse la guerra. La risposta di Murmanno, sedotto da sua moglie, fu
piena di superbia e di sprezzo. Però l'imperadore determinò di esigere
colla forza ciò che non si poteva ottener colle buone. Vien minutamente
descritta da Ermoldo Nigello[818] tutta questa azione, e il viaggio
dell'imperadore, e i doni a lui fatti in tal congiuntura dai vescovi ed
abbati, e l'unione e marcia dell'esercito contro i Bretoni. Ma non
s'ebbe esso Augusto a faticar molto. Portò la buona ventura che Murmanno
uscito un dì travestito per ispiare gli andamenti dell'armata francese,
incontratosi con un Francese di bassa lega, ma valoroso, appellato
Coslo, e venuto con lui alle mani, restò ucciso. Di più non vi volle
perchè i popoli bretoni corressero ad implorare il perdono, a giurar
fedeltà, e a promettere i tributi. Dopo questa felice impresa tornato
l'imperador Lodovico ad Angiò, trovò l'augusta sua moglie _Ermengarda_
aggravata da gagliarda febbre, e tale, che da lì a tre dì la portò alla
sepoltura. S'ella ebbe mano nel precipizio del re Bernardo, non tardò
già Iddio a chiamarla ai conti. Era già divenuto duca, ossia principe di
Benevento, _Sicone_, siccome abbiam detto. Spedì egli in quest'anno i
suoi ambasciatori a Lodovico imperadore, e, secondochè scrive
Erchemperto[819], _foedus cum Francis innovavit_. Eginardo anch'egli lo
conferma[820], scrivendo che l'imperadore, _quum Heristallium venisset,
obvios habuit legatos Siconis ducis Beneventanorum, dona ferentes,
eumque de nece Grimoaldi ducis antecessoris suis excusantes_. Aggiugne
dipoi, che comparvero parimente i legati d'altre nazioni, specialmente
di _Borna_ duca dei Gudescani, e di _Liudevito_ duca della Pannonia
inferiore, il quale, macchinando delle novità, mandò molte accuse contra
_Cadaloum comitem, et Marcae Forojuliensis prefectum_, tacciandolo
d'uomo crudele ed insolente. Per le quali parole ho già io dato il nome
di _marca_ al Friuli, e credo già costituiti i _marchesi_: del che
parlerò più abbasso. Fu cagione la rivolta del _re Bernardo_ che
l'imperadore in quest'anno costrignesse i suoi fratelli bastardi
_Dragone, Teodorico_ ed _Ugo_ a prendere la tonsura monastica,
quantunque niuno attribuisca loro demerito o reato alcuno. Proprio è de'
principi deboli essere sospettosi, e il lasciarsi trasportare talvolta
per questo anche alla crudeltà.

NOTE:

[806] Eginhard., in Annal. Franc.

[807] Astronomus, in Vit. Ludovici Pii.

[808] Antiquit. Italic., Dissert. II.

[809] Theganus, de Gest. Ludovici Pii.

[810] Pagius, ad Annal. Baron.

[811] Tristanus Calchus, Hist. Mediol.

[812] Puricellius, Monument. Basilic. Ambrosian.

[813] Antiquitat. Italic., Dissert. X.

[814] Reginon., in Chronico ad ann. 818.

[815] Nithardus, Hist., lib. 2.

[816] Sammarthani, Hist. General., lib. 4, cap. 13.

[817] Mabillonius, Append. ad tom. 2 Annal. Benedictin., n. 58.

[818] Ermold. Nigel., lib. 3, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[819] Erchempertus, Hist., n. 10.

[820] Eginhard., in Annal. Franc.



    Anno di CRISTO DCCCXIX. Indizione XII.

    PASQUALE papa 3.
    LODOVICO PIO imperadore 6.


Rimasto vedovo l'imperador Lodovico, non pensava punto a rimaritarsi; ma
cotanto gli picchiarono nell'orecchio i suoi cortigiani, che cangiò
pensiero. Per attestato dell'autore anonimo della sua vita[821],
_timebatur a multis ne regni gubernacula vellet relinquere_: cioè, come
si può conghietturare, si temeva ch'egli volesse prendere la monastica
cocolla. Fatte pertanto venire varie nobili fanciulle alla corte, egli
scelse per sua moglie _Giuditta_, secondo Tegano[822], _filiam Welfi
ducis, qui erat de nobilissima stirpe Bavarorum_. Non duca, ma
_nobilissimus comes_ vien chiamato dall'autor della vita di Lodovico Pio
questo _Welfo_, che _Guelfo_ è nel linguaggio de' vecchi italiani, i
quali voltavano il W tedesco in GV, come consta in assaissimi altri
nomi. Importa non poco ai lettori di far mente a questo _Guelfo_, perchè
da lui fu propagata l'insigne famiglia de' principi guelfi in Germania,
che poscia terminò in una donna maritata in casa d'Este e da cui
l'Italia prese l'infausta fazione de' Guelfi famosi competitori de'
Ghibellini, ossia dei Gibellini. Fra l'altre sue prerogative portò
Giuditta in dote una rara bellezza; ma il suo matrimonio col tempo
riuscì ben funesto a tutta la monarchia franzese, per quanto andremo
vedendo. All'imperadore si era ribellato _Liudevilo_[823], che già
abbiam veduto duca della Pannonia inferiore. Contra di costui si fece
marciare nel mese di luglio l'armata d'Italia, che senza fare impresa
alcuna se ne tornò a' suoi quartieri. Di ciò insuperbito Liudevito,
mandò i suoi inviati all'imperadore, mostrando di voler pace: ma nello
stesso tempo proponendo condizioni si alte, che Lodovico non istimò
convenevole alla sua dignità di accettarle. Dell'altre pe' suoi legati
ne inviò a lui l'imperadore, che furono del pari rigettate. Intanto
ritornato dalla Pannonia _Cadaloo_ o _Cadolaco_ marchese, ovvero _dux
forojuliensis_, come vien chiamato da Eginardo, sorpreso da febbre,
terminò il corso della sua vita. In luogo suo fu creato marchese o duca
del Friuli _Baldrico_. Andando questi a visitar la Carintia, provincia
anch'essa allora sottoposta al suo governo, eccoti entrare in quelle
contrade il suddetto Liudevito duca colla sua armata. Scontrossi con lui
Baldrico vicino al fiume Dravo; e tuttochè seco non conducesse se non
una picciola brigata, pure sì coraggiosamente l'assalì, che il fece suo
malgrado ritirar nella Pannonia, con istrage ancora di molti di que'
Barbari. All'incontro avendo Liudevito fatta un'incursione nella
Dalmazia, e venutogli incontro _Borna_, che era dianzi, oppur era poco
prima divenuto duca di quella provincia, abbandonato dalle sue truppe,
ebbe difficoltà a salvarsi colla fuga. Restò con ciò campo a Liudevito
di mettere a fuoco e sacco non poca parte della Dalmazia. Borna tenne
saldo tutte le fortezze, e con un corpo volante di notte e di dì andò
tanto pizzicando l'esercito nemico, che l'astrinse infine ad uscir di
quel paese, con averne ucciso circa tre mila, e presi trecento e più
cavalli, con altro grosso bottino. Di questi avvenimenti diede egli
avviso all'imperadore. Si fecero anche nel presente anno altre
spedizioni militari, massimamente per domare i popoli della Guascogna,
che s'erano in parte ribellati, e dal _re Pippino_ figliuolo
dell'imperadore furono ridotti al dovere.

Intanto in Oriente _Leone Armeno_ imperadore continuava la sua
persecuzione contro i difensori delle sacre immagini, fra' quali dicemmo
che specialmente si distinse _s. Teodoro Studita_. Per quanto si
stendevano le sue forze ed esortazioni, il sommo Pontefice _Pasquale_ si
studiò di mettere freno al furore di quel principe, e di confortare i
Cattolici alla sofferenza. Confermò il medesimo papa in questo anno i
privilegii della Chiesa di Ravenna con sua bolla data a _Getronace_
arcivescovo. Leggesi questa presso il Rossi[824], ma assai più corretta
per cura d'erudito cavalier milanese, mercè d'una antichissima copia (da
me ristampata) esistente nella Biblioteca ambrosiana[825]. La data è _V
idus julias per manum Sergii bibliothecarii sanctae sedis apostolicae.
Imperante domino nostro perpetuo Augusto Hludovico, a Deo coronato,
magno pacifico imperatore anno, et post consulatum ejus anno_ (sexto)_,
sedet Hlothario novo imperatore ejus filio anno... Indictione
duodecima._ Necessario fia, per cagion di queste note, di dire che
dall'anno 817, in cui _Lottario_ fu dichiarato dal padre collega
nell'imperio, si cominciasse ad usare in Roma l'epoca di lui: il che
potrebbe parere alquanto strano, mentre, siccome io ho avvertito
altrove[826], altre città d'Italia solamente dall'anno seguente
cominciarono a contare gli anni del suo imperio, oppure dell'anno 823,
in cui fu egli coronato in Roma. Egli è da credere che con
partecipazione del pontefice fosse conferita la dignità imperiale a
Lottario, e che perciò non si tardasse in Roma a pagargli quel tributo
d'ossequio che conveniva alla di lui sovranità. Attese in quest'anno
l'imperador Lodovico, giacchè erano tornati i messi da lui spediti per
gli suoi regni, a regolar gli affari delle chiese e dei monisteri, e la
vita degli ecclesiastici, siccome apparisce da varii capitolari presso
il Baluzio[827]. E perciocchè era seguita una convenzione intorno ad
alcune _chiese battesimali_, oggidì parrocchiali, fra _Giso_ o _Gisone_
vescovo di Modena, e _Pietro abbate_ di Nonantola; in questo anno nel dì
primo di ottobre Lodovico Augusto la confermò con un suo diploma, di cui
resta memoria nel catalogo di quella badia, da me[828] dato alla luce.
Circa questi tempi, se pur non fu molto prima, narra il Dandolo[829]
nella sua Cronica che _Angelo Particiaco_ ossia _Participazio_, doge di
Venezia, avendo due figlioli, ne mandò il maggiore, appellato
_Giustiniano_, a Costantinopoli, dove fu graziosamente ricevuto
dall'imperador _Leone Armeno_, con impetrar da lui il grado e titolo
d'_ipato_, ossia di _console imperiale_. Nello stesso tempo procurò che
il popolo dichiarasse suo collega nel ducato _Giovanni_ l'altro suo
figliuolo. Ma ritornato Giustiniano da Costantinopoli, e trovata la
promozion del fratello, se l'ebbe forte male; nè volendo entrar nel
palazzo, andò con Felicita sua moglie ad abitar nella casa contigua alla
chiesa di san Severo. Il padre, che teneramente l'amava, pentito di
avergli recato questo disgusto, degradò il figliuolo Giovanni, e il
mandò in esilio a Jadra, oggidì Zara, con far eleggere dipoi suo
compagno nel ducato non solamente il suddetto _Giustiniano_, ma anche
_Angelo_ di lui figliuolo. Irritato da quest'azione _Giovanni_, dalla
Dalmazia si portò alla corte dell'imperador Lodovico, _qui in Pergamo
erat_, per implorare il suo patrocinio. Sarà un error dei copisti la
menzione di _Pergamo_, cioè di _Bergamo_, perchè Lodovico Augusto,
dacchè fu assunto all'imperio, non venne più in Italia. S'interpose in
fatti l'imperadore, e fatti de' buoni uffizii il rimandò a Venezia a suo
padre il quale per togliere le occasioni di discordia, giudicò meglio
d'inviarlo ad abitar colla moglie in Costantinopoli. Aggiugne il
suddetto Dandolo che l'imperador Lodovico, per le istanze di _Fortunato
patriarca di Grado_, concedette al popolo dell'Istria di poter eleggere
i suoi governatori, vescovi, abbati, tribuni ed altri loro uffiziali,
siccome era dianzi stato accordato da Carlo Magno suo padre. Leggesi
ancora un privilegio, dato dai suddetti _Angelo_ padre e _Giustiniano_
figliuolo, chiamati _per divinam gratiam venetae provinciae duces_, a
_Giovanni_ abbate del monistero di s. Servolo nel mese di marzo, o di
maggio, correndo l'_indizione XII_, cioè nell'anno presente, dove
unitamente con _Fortunato_ patriarca di Grado, e _Cristoforo_ vescovo di
Olivola, o vogliam dir di Venezia, e col popolo trasportano que' monaci
nella chiesa di sant'Ilario presso il fiume Ima o Una, con varie
esenzioni quivi espresse.

NOTE:

[821] Astronom., in Vita Ludov. Pii.

[822] Theganus, Gest. Ludovicii Pii, num. 26.

[823] Eginhard., in Annal. Francor. Annales Francor. Bertiniani.

[824] Rubeus, Hist. Ravenn., p. 237.

[825] Rer. Italic., P. I., tom. X.

[826] Antiquit. Italic., Dissertat. 10.

[827] Baluz., Capitolar. Reg. Franc.

[828] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.

[829] Dandul., in Chron. tom. 12. Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCCXX. Indizione XIII.

    PASQUALE papa 4.
    LODOVICO PIO imperadore 7.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 1.


Di strepitose novità fu feconda in questo anno la città di
Costantinopoli. Già era mancato di vita nel precedente _Barda patrizio_,
e cognato di _Leone Armeno imperadore_, forte di lui appoggio, ma fiero
nemico e persecutore de' monaci, perchè nimico delle sacre immagini. Da
meno di lui non era lo stesso imperador Leone nel promuovere l'eresia
degl'iconoclasti; ma venne il flagello di Dio a visitarlo in
quest'anno[830]. Aveva egli condannato a morte _Michele_, cognominato
_Balbo_, perchè scilinguato, da Amoria città della Frigia, suo capitan
delle guardie e patrizio. Mentre questi era condotto al supplizio nella
vigilia del Natale del Signore, saltò fuori l'_imperadrice Teodosia_
tutta infuriata, perchè in giorno tale, in cui l'imperadore dovea
prepararsi per la sacra comunione, si facesse giustizia, e ne impedì
l'esecuzion per allora. Bastò questa dilazione, perchè gli amici di
Michele congiurati trucidassero nel dì seguente in chiesa l'imperador
suddetto, e poscia fatti eunuchi i di lui figliuoli, li cacciassero in
un monistero, uno dei quali nulladimeno non vi arrivò perchè si morì di
spasimo. _Michele Balbo_ cavato di prigione coi ceppi tuttavia ai piedi,
perchè la chiave stava in saccoccia dell'estinto Leone, andò a mettersi
sul trono imperiale, e fu proclamato imperadore, e poscia pacificamente
accettato da tutti: uomo per altro macchiato di non pochi vizii, infetto
di un'eresia che riteneva i riti ebraici, e non mai degno di quella
sublime dignità. Calamitoso ancora riuscì quest'anno a tutto il regno
della Francia, perchè v'infuriò la peste sopra gli uomini ed anche sopra
i buoi, con essersene attribuita troppo buonamente la cagione alle
smoderate piogge che vi si provarono, le quali ancora guastarono sì
fattamente i raccolti, che alla peste tenne dietro e si congiunse una
terribile carestia. Fu accusato in quest'anno per attestato degli Annali
de' Franchi[831], _Gera_ conte di Barcellona di varii delitti,
specialmente di fellonia, da un certo Sanilone. Perchè non vi erano
chiare pruove del reato, secondo il pazzo costume d'allora, già da lungo
tempo introdotto, si venne al giudizio di Dio, cioè al duello,
figurandosi la semplicità della gente di que' tempi che Dio nel
combattimento assistesse chi avea ragione, cioè tentando empiamente Dio
con questi e con altri, ma men pericolosi esperimenti. Vivamente
descrive Ermoldo Nigello[832], contemporaneo scrittore, il loro
conflitto, fatto a cavallo (perchè amendue erano Goti di nazione) in un
parco alla presenza dell'imperadore e di tutta la Corte, notando, fra le
altre cose, che fu portata nel campo la bara in servigio di chi vi
restasse morto. Toccò a Bera il disotto; ma il pio imperadore il
sottrasse alla morte, se non che la caduta sua servì a condannarlo come
se veramente fosse reo. Contentossi nulladimeno l'Augusto Lodovico di
gastigarlo solamente coll'esilio in Roano. Stavano poi fitte in cuore
d'esso imperadore le insolenze e la tracotanza di _Liudevito_ duca della
Pannonia inferiore, che gli s'era ribellato, siccome dicemmo. Tre
eserciti dunque, raccolti dalla Sassonia, dalla Franconia, Alamagna,
Baviera ed Italia, ordinò egli che nel medesimo tempo entrassero
ostilmente nella Pannonia; uno dall'Italia per l'Alpi del Norico, un
altro per la Carintia, e il terzo per la Baviera. Trovarono il primo e
l'ultimo delle difficoltà ad entrarvi, parte per cagion delle montagne
difese dai ribelli, e parte per l'opposizione del fiume Dravo, che
conveniva valicare. Quello che s'inviò per la Carintia, ebbe più
fortuna, benchè in tre luoghi se gli opponesse il nemico, che tre volte
restò sbaragliato. Liudevito intanto si tenea forte in un castello
inespugnabile della montagna, senza uscire in campagna, e senza parlar
di pace. Unitosi poi insieme i tre eserciti, misero a ferro e a fuoco
quasi tutta quella contrada. Alla testa dell'esercito italiano era
_Baldrico_ duca o pur marchese del Friuli. Nel ritorno a casa passando
egli per la Carniola, que' popoli, _qui Carcasovum fluvium habitant_ (si
dee scrivere, _qui circa Savum fluvium habitant_) confinanti col Friuli,
se gli arrenderono, ed altrettanto fece una parte della Carintia, che
dianzi s'era data a Liudevito. In quest'anno ancora fu guerra in Ispagna
contra di _Abulaz_ re de' Saraceni. E nel mare d'Italia otto navi di
mercatanti venendo dalla Sardegna in Italia, rimasero prese dai
Saraceni, e affondate in mare. Gli Annali dei Franchi ci hanno taciuta
una particolarità importante per l'Italia: cioè, che in quest'anno
l'imperador Lodovico concedè al primogenito suo _Lottario_, già
dichiarato imperadore nell'anno 817, il regno d'Italia. Ma questo fatto,
siccome han dimostrato con varii esempli i padri Cointe, Mabillone e
Pagi, abbastanza si raccoglie dall'epoca usata in varie carte sì entro
che fuori d'Italia, che ebbe principio nell'anno presente. In pruova di
ciò addurrò anch'io varie pergamene da me vedute, ed altre si possono
vedere nelle mie Antichità italiche[833]. Il padre Pagi[834] crede che
essa epoca avesse principio prima del dì ultimo di maggio dell'anno
presente. Deduco io da un suo diploma, da me rapportato altrove[835],
ch'essa era cominciata anche prima del dì 3 di febbraio, essendo quel
documento dato _III nonas februarias, anno, Christo propitio, imperii
domni Hlotharii imperatoris XVIII, Indictione XV,_ cioè nell'anno 837,
giacchè l'epoca dell'imperio denotava quella del regno. Dirò di più:
puossi anche dubitare, per quanto proposi nelle Antichità italiane[836],
che tale epoca prendesse principio negli ultimi mesi dell'anno 819;
sopra di che lascerò disputarne ad altri. Comunque sia, a noi basti di
sapere che al regno d'Italia fu dato in quest'anno (se pur ciò non seguì
nel precedente) un nuovo re, e questi fu _Lottario_, imperadore, il
quale non andrà molto che vedremo venire a prenderne il possesso.

NOTE:

[830] Cedren. Leo Grammaticus, Zonaras et alii in Hist. Byz.

[831] Eginhard., Annal. Francor. Annal. Franc. Bertiniani.

[832] Ermold. Nigellus, lib. 3, P. II, tom. 2 Rer. Italic.

[833] Antiquit. Ital., Dissert. X.

[834] Pagius, ad Ann. Baron.

[835] Antiquit. Ital., Dissert. LXXIII.

[836] Ibid., Dissert. X.



    Anno di CRISTO DCCCXXI. Indizione XIV.

    PASQUALE papa 5.
    LODOVICO PIO imperadore 8.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 2.


Trovavasi a Nimega l'_imperador Lodovico_ dopo Pasqua, ed ivi nella
dieta dei suoi conti magnati confermò la partizion degli stati fra' suoi
figliuoli, precedentemente da lui fatta nell'anno 817. Leggesi questa
presso il Baluzio[837]. Di _Lottario_ altro non è detto, se non che era
stato dichiarato compagno e successore nell'imperio. Al re _Pippino_
viene assegnata l'Aquitania, la Guascogna, la Linguadoca e la Marca di
Tolosa con quattro altri comitati; a _Lodovico_ re la Baviera, la
Carintia, la Boemia, e ciò che apparteneva alla monarchia franzese nella
Schiavonia e Pannonia. Comanda poi che i due minori fratelli non possano
ammogliarsi[838], nè far pace o guerra senza il consiglio o consenso del
fratello maggiore, cioè dell'_imperadore Lottario_. Colà arrivarono
nello stesso tempo i legati di _papa Pasquale_ cioè _Pietro Vescovo_ di
Cento Celle, oggidì Cività Vecchia, e Leone nomenclatore. Il suggetto di
tale ambasciata restò nella penna agli storici. Furono essi prontamente
ammessi all'udienza e rispediti. Fecesi ancora in quest'anno una
spedizione degli eserciti nella Pannonia contra del ribello _Liudevito_
duca, ed altro non si sa operato da essi, fuorchè l'aver dato il sacco
dovunque arrivarono. Nel mese poi di ottobre nella villa di Teodone,
essendo stata intimata colà una dieta generale, quivi il giovane
imperador _Lottario_ prese per moglie _Ermengarda_ figliuola di _Ugo
conte_[839], discendente da _Eticone_ duca d'Alemagna: _Qui erat de
stirpe cujusdam ducis nomine Edith_, scrive Tegano[840]. Informato il
romano pontefice che si aveano a celebrar queste nozze, vi spedì
anch'egli i suoi legati, cioè Teodoro primicerio e Floro, che portarono
dei gran regali agli Augusti sposi. E allora fu che il piissimo
imperador Lodovico, mosso a compassione (probabilmente ancora per le
istanze e preghiere del suddetto papa) verso gli esiliati a cagion della
congiura del fu re d'Italia _Bernardo_, li fece venire alla sua
presenza[841], nè solamente donò loro la vita e la libertà, ma eziandio
fece loro restituire tutto quanto dei lor beni era venuto in potere del
fisco. Negli Annali di Fulda più precisamente sta scritto che _singulos
in statum pristinum restituit_. Di qui han preso giusto motivo il
Puricelli, l'Ughelli e il padre Papebrochio di credere che _Anselmo_
arcivescovo di Milano se ne tornasse alla sua cattedra, e morisse
placidamente fra' suoi. _Wolfoldo_ vescovo di Cremona (chiamato
dall'Ughelli[842], non so con qual fondamento modenese) scrive il
medesimo autore che mancò di vita nell'esilio, ma senza addurne pruova
alcuna. _Teodolfo_ ancora vescovo d'Orleans fu partecipe di questo
perdono; ma comune opinione è ch'egli poco ne godesse, e che terminasse
da lì a non molto i suoi giorni. Anzi, se è vero quanto scrive Letaldo
monaco miciacense[843], il veleno fu quello che il levò di vita, a lui
dato da chi nel tempo di sua disgrazia avea occupati i suoi beni. Già
dicemmo all'anno 814 che il celebre _Adalardo_, abbate della vecchia
Corbeia, era stato per meri sospetti relegato in un monistero
d'Aquitania. A lui pure fece grazia in quest'anno l'imperadore, e il
rimise in possesso della sua badia. Avenne in questi tempi che
_Fortunato patriarca di Grado_ fu accusato da Tiberio suo prete presso
l'imperador Lodovico d'infedeltà[844], quasi che egli esortasse
_Liudevito_ duca dell'inferiore Pannonia a persistere nella sua
ribellione, ed in oltre con inviargli de' muratori gli desse aiuto a
fortificar le sue castella. Fu perciò citato che venisse alla corte.
Mostrò egli a tutta prima prontezza ad ubbidire, e a tal effetto passò
in Istria. Poscia, fingendo di andare alla città di Grado, ed occultato
il suo disegno ai suoi stessi domestici, all'improvviso segretamente
s'imbarcò, e portossi a Fara, città della Dalmazia, dove rivelò a
Giovanni, governator della provincia per l'imperador greco, i motivi
della sua fuga; e questi presane la protezione, non tardò a spedirlo per
mare a Costantinopoli. Non ebbe contezza di questo fatto Andrea Dandolo
nella sua Cronica di Venezia. Fu in quest'anno nel mese d'agosto tenuto
un placito, ossia pubblico giudizio nella città di Norcia del ducato
spoletino[845], da _Aledramo conte_, e da _Adelardo_ e _Leone_, vassali
e messi spediti da _Lodovico magno imperadore, ad singulorum hominum
causas audiendas et deliberandas_. Aveano sessione nel medesimo giudizio
_Guinigiso_ e _Gerardo duchi, Sigoaldo_ vescovo di Spoleti, _Magio,
Ittone_ e _Liutardo_ parimente vescovi con altri abati, vassi e
gastaldi. Aveva il suddetto Guinigiso duca di Spoleti confiscato _ad
regiam partem_, cioè applicato alla camera del re d'Italia (il che la
conoscere chi fosse il sovrano di Spoleti) i beni di un certo Paolo, che
i monaci di Farfa pretendeano donati al loro monistero, ed anche
posseduti da loro. La decision fu in favore d'_Ingoaldo_ abate di Farfa.
L'aver trovato nella carta di questo placito con _Guinigiso duca Gerardo
duca_, diede, credo io, motivo a chi fece il catalogo dei duchi di
Spoleti, anteposto alla Cronica farfense, di registrarlo fra i duchi di
quella contrada; e tale l'hanno tenuto il padre Mabillone, il padre Pagi
e l'Eccardo. Anzi il conte Campelli, siccome di sopra accennai, spacciò
francamente per figliuolo di Guinigiso questo _Gerardo duca_. Io senza
altre pruove non ardirei di asserirlo duca di Spoleti, perchè potè
essere duca d'altro paese, ed essere capitato a Norcia per suoi affari;
sapendo noi che s'invitavano ai placiti i più riguardevoli signori che
quivi allora si trovavano. Abbiamo già veduto che nei vicini stati della
Chiesa i governatori delle città portavano il titolo di duca. Nè di
questo Gerardo si truova più menzione; ed essendo passato a miglior vita
nell'anno seguente _Guinigiso_, duca indubitato di Spoleti, vedremo che
gli succede _Suppone_, senza che più si parli di Gerardo. Però tali
riflessioni fanno me andar guardingo a concedergli luogo fra i duchi di
Spoleti. Al più si potrebbe sospettare che fosse stato duca di Camerino.
Abbiamo poi dal Dandolo[846] che _Angelo Particiaco_ doge di Venezia,
udita l'assunzione al trono imperiale d'Oriente di _Michele Balbo_, gli
spedì per suo ambasciatore _Angelo_ figliuolo di _Giustiniano_ suo
figliuolo, che avea per moglie una nobil donna per nome Romana. Ma
questi giunto a Costantinopoli, da lì a pochi giorni s'infermò e morì.

NOTE:

[837] Baluz., Capitular. Reg. Franc., tom. 1, p. 573.

[838] Eginh., Annal. Franc. Annal. Franc. Bertiniani.

[839] Eccard., Hist. Genealog. Domus Habsburg.

[840] Thegan., de Gest. Ludovici Pii, num. 28.

[841] Annal. Franc. Lauresham. Annal. Franc. Bertiniani.

[842] Ughell., tom. 4 Ital. Sacr.

[843] Letald., de Miracul. S. Maximini, cap. 13.

[844] Eginh., Annal. Franc. Annal. Franc. Bertiniani.

[845] Chron. Farfens.

[846] Dandulus, Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCXXII. Indizione XV.

    PASQUALE papa 6.
    LODOVICO PIO imperadore 9.
    LOTTARIO imp. e re d'Italia 3.


Per attestato di Eginardo e d'altri antichi annalisti, l'anno fu questo
in cui l'_imperador Lodovico_, trovandosi nella dieta di Attignì, che fu
universale di tutto l'imperio, e v'intervennero anche i legati del papa,
si riconciliò con _Drogone, Teodorico_ ed _Ugo_, suoi fratelli
bastardi[847], ch'egli nell'anno 818 avea forzati a prendere l'abito
monastico. A Drogone diede nell'anno seguente il vescovato di Metz, ad
Ugo varii monisteri, Teodorico verisimilmente col morir poco appresso
non godè dei benefizii a lui pure compartiti o destinati dal fratello
Augusto. Si accusò ancora pubblicamente il religiosissimo imperadore
della crudeltà usata contra di _Bernardo re d'Italia_ suo nipote, e di
quanto aveva operato contra di _Adalardo_ abate e di _Walla_ suo
fratello, personaggi illustri della real famiglia; e ne domandò e ne
fece pubblica penitenza. Dopo la dieta di Attignì[848] egli spedì
l'Augusto _Lottario_ suo primogenito al governo dell'Italia, e gli mise
a' fianchi il suddetto _Walla_, già fatto monaco e _Gerungo_ che era
_ostiariorum magister_ nella sua corte, acciochè essendo esso suo
figliuolo tuttavia giovane ed inesperto, si regolasse negli affari del
regno col loro consiglio. Questo Walla abate, nella vita di lui scritta
da Pascasio Ratberto, e pubblicata dal padre Mabillone[849], è chiamato
_paedagogus Augusti Caesaris_; noi diremmo _aio di Lottario imperadore_.
Son di parere il suddetto padre Mabillone[850] e il padre Pagi[851] che
da questo ingresso di Lottario cominciasse un'altra epoca, che dicono
incontrarsi in alcuni diplomi. Veramente nell'insigne archivio
dell'arcivescovato di Lucca ho io vedute varie pergamene segnate con gli
anni di esso imperador Lottario, _postquam in Italiam ingressus est_.
Una di quelle fu scritta _Anno XXVIII. Hlotharii imperatoris, postquam,
ec. Indictione XIII, nono kal. martias_, cioè nell'anno 850. Ma questa
epoca pare dedotta dall'anno seguente 823, poichè in Lucca non si
contavano peranche nel febbraio dell'anno presente gli anni di Lottario,
ciò constando da un placito tenuto da due Scabini, dove son queste
parole: _Facta notitia judicati in regno Dno nro Hludovvic magni
imperatoris, anno imperii ejus nono, mense aprile, Indictione
quintadecima,_ cioè nell'anno 822, dove non si vede menzione di
Lottario. Un'altra carta vidi scritta _regnante. D. N. Hlothario
imperatore Augusto, anno imperii ejus postquam in Italia ingressus est,
trigesimo tertio, et figlio ejus D. N. Hludovvico idemque imperator,
anno sexto, decimo kal. octobris, Indictione quarta._ Un'altra ha le
seguenti note: _Anno XXV. Hlotarii imperatoris postquam in Italia
ingressus est, V nonas martias, Indictione X,_ cioè nell'anno 847, a dì
3 di marzo. Questa epoca, che mi sembra dedotta dall'anno presente, non
s'accorda colle precedenti; e però lascerò sopra di ciò disputare a chi
ha più abbondanza di tempo.

Abbiamo a quest'anno le seguenti parole di Eginardo[852], alle quali son
conformi quelle d'altri annalisti[853]. _Vinigisus dux spoletanus, jam
senio confectus, habitu saeculari deposito, monasticae se mancipavit
conversationi; at non multo post tactus corporis infirmitate decessit.
In cujus locum Suppo Brixiae comes substitutus est_. Sicchè nell'anno
presente _Guinigiso_ duca di Spoleti si fece monaco, e poco dappoi
compiè il corso della sua vita, e in luogo suo fu sostituito
dagl'imperadori Lodovico e Lottario _Suppone_ conte di Brescia. Questo
_Guinigiso_ vien chiamato _il secondo_ dal padre Mabillone[854], perchè
nel catalogo anteposto da me alla Cronica di Farfa si legge due volte
_Guinichus dux_. Ma siccome ho di sopra avvertito, un solo _Guinigiso_
governò quel ducato, e ciò a noi viene anche insinuato dal _jam senio
confectus_. Il conte Campelli ed altri hanno poi creduto ch'egli non
lasciasse dopo di sè prole maschile; ma il suddetto padre Mabillone
pretende che restasse di lui un figliuolo similmente appellato
Guinigiso; perchè in un placito tenuto nella città di Spoleti _anno
Ludovici et Lotharii imperatorum decimo et quarto, mense aprili,
Indictione I_, cioè nell'anno seguente 823, _Ingoaldo_ abate di Farfa
ricuperò una corte a lui usurpata da _Guinigiso vasso dell'imperadore_.
Per chiarirsi meglio di ciò converrebbe aver sotto gli occhi il placito
stesso, e vedere se questo Guinigiso è allora vivente; e quando sia
vivo, se apparisca figliuolo del defunto duca Guinigiso, potendo altre
persone fuori della di lui casa aver portato il medesimo nome. Per altro
non è da fidarsi molto del catalogo suddetto, al vedere che in esso non
è dipoi fatta menzione di _Suppone_, che senza fallo succedette in quel
ducato. Secondo i sopraccitati Annali, in quest'anno ancora l'esercito
d'Italia fu spedito contra di _Liudevito_ duca ribello nella Pannonia.
Costui, veggendo appressarsi le armi nemiche, abbandonata la città di
Siscia, oggidì Sissec, posta alla sboccatura del Savo, si ricoverò
appresso i Sorabi, creduti dall'Eccardo gli stessi che i Serbi, o Servi,
da lì innanzi padroni della Servia. L'Astronomo[855] scrive ch'egli _ad
quemdam principem Delmatiae venit_. Ammesso da quel principetto in una
sua città, il pagò da par suo di questo benefizio, perchè ammazzatolo
s'impadronì della città medesima. Finalmente o pentito daddovero, o
fingendosi pentito, mandò all'imperador Lodovico alcuni de' suoi a
chiedere misericordia, con promessa ancora di comparire davanti a lui in
persona. Ma il barbaro fu poscia nell'anno seguente ucciso da uno de'
suoi: con che diede fine a tante sciagure per sua cagione accadute alla
Pannonia. Abbiamo parimente dal Porfirogenneta[856] e dal continuator di
Teofane[857], che i Saraceni, e, quel che può recar più maraviglia, i
Saraceni di Spagna, s'impadronirono in quest'anno dell'isola di Creta.
Credesi che i medesimi coll'aver quivi fabbricata la città appellata
_Candia_, fecero col tempo mutare all'isola il nome. Avendo spedito
_Deusdedit_ vescovo di Modena un suo prete all'imperador Lodovico,
ottenne la conferma de' privilegii conceduti al vescovato di Modena,
ossia alla _chiesa di san Geminiano_, dai re longobardi, e dei beni
spettanti alla medesima, fra' quali era un molino, _quod pertinebat ad
curtem regis civitatis Novae_. Presso il Sillingardi e presso
l'Ughelli[858], quel diploma è scorretto in molti siti, e specialmente
nel fine. L'originale ha: _Durandus diaconus ad vicem Fridugisi
recognovi et subscripsi. Data sexto idus februarias, anno Christo
propitio VIIII imperii domni Hludovici piissimi Augusti, Indictione XV.
Actum Aquisgrani palatio regio._

NOTE:

[847] Hincmarus, de Divor. Lotharii Regis.

[848] Annal. Franc. Eginhard.

[849] Mabill., Saecul. Bened. IV, P. 1.

[850] Idem, lib. 2. cap. 26, de Re Diplom.

[851] Pagius, in Crit. Baron.

[852] Eginhardus, Annal. Franc.

[853] Annales Franc. Bertiniani.

[854] Mabillon., Annal. Benedictin., ad hunc ann.

[855] Astronomus, in Vita Ludovici Pii.

[856] Constantinus Porphyrogenn. de Administr. Imper. cap. 22.

[857] Continuator Chron. Theoph.

[858] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2.



    Anno di CRISTO DCCCXXIII. Indizione I.

    PASQUALE papa 7.
    LODOVICO PIO imperadore 10.
    LOTTARIO imperadore e re d'Italia 4 e 1.


Per attestato di Eginardo[859], dell'autore della vita di Lodovico
Pio[860] e d'altri annalisti antichi[861], l'_imperadore Lottario_ già
venuto in Italia, dopo avere per ordine del padre atteso a rendere
giustizia ai popoli in diversi luoghi, già si preparava per tornarsene
in Francia, quando fu inviato e pregato da _papa Pasquale (rogante
Paschale papa_) a portarsi a Roma, per quivi ricevere la corona
dell'imperio. L'aveano ricevuta Carlo Magno e Lodovico Pio dalle mani
de' sommi Pontefici; dovea premere a papa Pasquale di conservare i suoi
diritti, e di non permettere che Lottario seguitasse a farla da
imperadore senza la solenne funzione della coronazione, Pascasio
Ratberto[862] ci fa sapere che _Lodovico Pio_ anch'egli concorse ad
inviare colà il figliuolo, mettendo in bocca di Lottario queste parole
verso il padre: _Ad eamdem sedem_ (di Roma) _clementer me vestra
imperialis eximietas misit, ad confirmandum in me, quidquid pia dignatio
vestra decreverat, ut essem socius et consors, non minus
sanctificatione, quam potestate et nomine_. Ecco che ad autenticare e
confermare l'elezion di un Augusto si richiedeva la coronazione romana.
_Unde_ (soggiugne) _quia coram sancto altare et coram sancto corpore
beati Petri principis Apostolorum a summo pontifice, vestro ex consensu
et voluntate benedictionem, honorem et nomen suscepi imperialis
officii_. Andò in fatti Lottario a Roma, dove fu accolto con gran pompa
_(clarissima ambitione)_ dal sommo pontefice, e nel solenne giorno di
Pasqua, che in quest'anno cadde nel dì 3 di aprile, fu maestosamente
ornato della corona imperiale, _et Augusti nomen accepit_, come se
cominciasse allora ad usar questo glorioso titolo. Nelle giunte alla
storia di Paolo Diacono[863], date alla luce dal Freero, si legge
all'anno 823: _Lotharius imperator primo ad Italiam venit, et diem
sanctum Paschae Romae fecit Paschalis quoque apostolicus potestatem,
quam prisci imperadores habuere, ei super populum romanum concessit_. E
di qui prese principio un'epoca degli anni di Lottario imperadore, che
dipoi fu la più usata in Italia ed altrove. Fu in questa occasione del
trovarsi in Roma l'imperador Lottario che _Ingoaldo_ abbate di Farfa,
come consta da un diploma del medesimo Augusto dell'anno 840, rapportato
dal Du-Chesne e da me[864] nella Cronica di Farfa, reclamò nel
concistoro, dove erano _papa Pasquale_ ed esso _Lottario Augusto_,
contra del medesimo papa, perchè avea imposta al monistero di Farfa una
pensione contro i suoi privilegii. _Postquam nos_ (dice ivi Lottario)
_divino sibi nutu favente_ (Lodovico Pio) _consortes fecit imperii, ab
eo in Italiam directi sumus, et a summo invitati pontifice et universali
papa ac spirituali patre nostro Paschali, quondam Romani venimus. Quo
dum in praesentia ejusdem domni apostolici ac nostra, procerumque
romanorum, sive optimatum nostrorum, atque multorum utriusque partis
nobilium virorum quaestiones agitarentur: inter ceteras altercationes,
jubente eodem domno apostolico, advocatus suus nomine Sergius,
interpellavit virum venerabilem Ingoaldum abbatem, dicens, quod idem
Sabinense monasterium_ (cioè di Farfa) _ad jus et dominationem Romanae
Ecclesiae pertineret._ Ma avendo l'abbate Ingoaldo prodotti i diplomi
dei re longobardi e di Carlo Magno, da' quali appariva l'esenzione del
suddetto monistero, e che esso era sotto la tutela dei re d'Italia, nè
avendo che replicare in contrario l'avvocato pontificio: il pontefice
Pasquale riconobbe di non avervi diritto alcuno, e fece restituire
all'abbate tutti i beni che _ex eodem monasterio potestas antecessorum
ejusdem Paschalis papae injuste abstulerat._ Rapporta il padre Pagi[865]
questo atto all'anno seguente; ma è certo che si deve riferire al
presente in cui era tuttavia vivo papa Pasquale. Terminate queste
funzioni[866], se ne tornò l'augusto Lottario a Pavia, e di là nel mese
di giugno passò a visitar l'imperadore suo padre, con dargli contezza
delle giustizie in parte fatte e in parte cominciate in Italia. Il buono
imperador Lodovico, standogli forte a cuore il sollievo e buon
regolamento de' popoli, spedì allora in Italia _Adalardo_ conte del
palazzo, con ordine di prendere per suo compagno _Mauringo_ conte di
Brescia, e di perfezionar gli affari non terminati dal figliuolo.

Venuto l'autunno, tenne l'Augusto Lodovico una dieta in Compiegne[867],
e colà pervennero nuove da Roma come _Teodoro primicerio_ della Chiesa
romana, e _Leone nomenclatore_ suo genero (quel medesimo probabilmente,
che nell'anno 817 fu spedito da papa Pasquale a Lodovico Pio) nel
palazzo lateranense erano stati prima accecati, e che loro dipoi era
stato mozzato il capo: _et hoc ideo eis contigisse, quod se in omnibus
fideliter erga partes Lotharii juvenis imperatoris egerant. Erant et qui
dicerent, jussu vel consilio Paschalis pontificis rem fuisse
perpetratam_. Dispiacque non poco all'imperadore un tal fatto, ed
incontanente diede ordine ad _Adalongo abbate_ di san Vedasto e ad
_Unfredo conte_ di Coira, o pur duca della Rezia, di mettersi in viaggio
alla volta di Roma, per fare una diligente inquisizione di tali
omicidii. In questo mentre arrivarono alla corte i legati del papa, cioè
_Giovanni vescovo_ di Selva Candida e _Benedetto arcidiacono_ della
santa romana Chiesa, con incombenza di pregar l'imperadore che non
prestasse fede a chi volea caricare il pontefice dell'infamia d'aver
consentito alla morte di que' tali. Rispediti questi colle convenevoli
risposte, fu replicato l'ordine ai legati imperiali di passare a Roma ad
esaminar questo fatto. Andarono, ma non poterono raccogliere la certezza
come fosse passato l'affare; perchè papa Pasquale si era giustificato
col giuramento preso davanti ad un gran numero di vescovi, asserendo di
non aver avuta parte in quegli omicidii. Per altro si trovò che il papa
difendeva a spada tratta gli autori di quella strage, perchè erano della
famiglia di s. Pietro, cioè suoi cortigiani, sostenendo che gli uccisi
erano rei di lesa maestà, e però meritevolmente uccisi. Furono spediti
di nuovo all'imperadore quattro legati pontificii col ritorno
degl'imperiali; ed egli intese da loro la purgazione canonica praticata
dal papa, che tagliava il corso ad ulteriori perquisizioni intorno alla
pretesa di lui complicità, e udite le scuse degli uccisori (benchè mal
volentieri), lasciò morir questo processo senza vendicare gli uccisi.
_Occisorum vindictam ultra persegui non valens, quamquam multum volens
ab inquisitione hujusmodi cessandum existimavit_: son parole dello
Astronomo nella vita di Lodovico Pio. Chi non vede nella sostanza e nel
maneggio di questo fatto la sovranità dell'imperadore in Roma, è da
credere che abbia ben corta la vista. Sembra eziandio che i papi allora
non istendessero al criminale la loro autorità, forse appartenendo ciò
al prefetto di Roma, postovi dall'imperadore; ma ciò io non oso
asserirlo. Nel dì 13 di giugno dell'anno presente l'_imperadrice
Giuditta_ partorì in Francfort all'Augusto suo consorte un figliuolo, a
cui fu posto il nome di _Carlo_: figliuolo, che diede col tempo
occasione ad incredibili sconcerti nella monarchia franzese. Egli è
celebre nella storia col nome di _Carlo Calvo_. Noi, andando innanzi, il
vedremo un dì imperadore. Per altro in quest'anno s'unì insieme una gran
frotta di disgrazie in Francia, perchè un fiero tremuoto fece traballare
Aquisgrana, s'udirono di notte dei suoni insoliti; caddero furiose
gragnuole ed assaissimi fulmini, continuò la mortalità degli uomini e
delle bestie, ventitrè ville della Sassonia restarono distrutte dal
fuoco, creduto del cielo. Abbiamo ancora dagli Annali dei Franchi che in
quest'anno nella terra di Gravedona sul lago di Como una vecchia e già
scolorita immagine della beatissima Vergine con Gesù Bambino in braccio,
adorato dai Magi, per due giorni mandò splendor sì chiaro, che fu
cagione di maraviglia a tutti; nè questa irradiazione si stendeva ai
Magi. Della verità di questo miracolo io non fo la sigurtà ad alcuno.
Così fatti prodigii e disavventure tennero forte inquieto l'animo del
piissimo imperadore, di maniera che ricorse ai digiuni e alle orazioni
dei sacerdoti, e alle limosine, a fin di placare lo sdegno di Dio, con
farsi francamente a credere che tanti malanni presagissero qualche gran
rovina al genere umano. Già avea terminato il corso di sua vita
_Bonifazio conte di Lucca_, e verisimilmente _marchese di Toscana_, del
quale parlammo di sopra all'anno 813. Ebbe per successore, in quel
governo, _Bonifazio II_ suo figliuolo. Ciò si ricava da uno strumento
rapportato da Cosimo della Renna[868], e scritto _regnante domno nostro
Hludovicus serenissimus Augustus, a Deo coronatus, magnus et pacificus
imperator, anno imperii ejus decimo, et domni nostri Hlotarii
gloriosissimi Angusti filii et in Italia anno primo, III nonas mensis
octobris, Indictione secunda_, cominciata nel settembre di quest'anno.
Quivi _Richilda filia bonae memoriae Bonifati comiti, natio
Baivariorum_, badessa di s. Benedetto nella città di Lucca, promette
ubbidienza a _Pietro vescovo_ e ad _Odelberto abbate_ di san Salvatore
di Sesto. Dopo la di lei sottoscrizione seguita quella di _Bonifazio
conte_ suo _fratello_ con queste parole: _Signum manus Bonifati comitis
germanus suprascriptae abbatissae, per cujus licentiam hoc factum est_.
Sicchè nel governo di Lucca era già succeduto _Bonifazio II conte_, che
verisimilmente fu anche marchese di Toscana per le ragioni che addurremo
nell'anno 828.

NOTE:

[859] Eginh., Annal. Francor.

[860] Anonymus, in Vit. Ludov. Pii.

[861] Annales Franc. Bertiniani, etc.

[862] Paschasius Ratbertus, in vita Wallae Ab. apud Mabill.

[863] Rer. Ital., tom. 2, P. I.

[864] Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[865] Pagius, in Crit. Baron., ad ann. 824.

[866] Annales Francor. Metenses. Astronom., in Vit. Ludovici Pii.

[867] Annales Lauresham. Astronom., in Vit. Ludov. Pii.

[868] Renna, Serie de' duchi di Toscana, P. I, pag. 95.



    Anno di CRISTO DCCCXXIV. Indizione II.

    EUGENIO II papa 1.
    LODOVICO PIO imperad. 11.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 5 e 2.


Ritornarono a Roma i legati, già spediti da _papa Pasquale_ per
discolparsi presso l'imperador Lodovico[869]; ma trovarono esso papa
gravemente malato; e in fatti da lì a pochi dì accadde la morte sua. Non
se ne sa bene il dì preciso, nè se in gennaio o febbraio, o pure più
tardi. Anastasio[870] scrive ch'egli fece una solenne traslazione del
corpo di santa Cecilia vergine e martire; trasportò quelli d'altri
santi; riscosse molti schiavi cristiani dalle mani degl'infedeli, riparò
molte chiese rovinate; e lasciò dappertutto memorie illustri della sua
pia munificenza verso d'esse chiese e verso de' poveri. Si venne
all'elezion del nuovo pontefice, e non s'accordando il popolo, due ne
furono eletti; ma prevalendo la fazione de' nobili, restò canonicamente
prescelto ed ordinato _Eugenio_, _secondo_ di questo nome, che era prima
arciprete di santa Sabina. Ne fu portata subito la nuova all'imperador
Lodovico da Quirino suddiacono; e non resta sentore che fosse fatta
doglianza alcuna per la sua consecrazione, la qual nondimeno pare
seguita poco dopo l'elezione sua; se non che abbiamo dagli Annali de'
Franchi, avere in questi tempi l'Augusto Lodovico presa la risoluzione
d'inviare a Roma il figliuolo Lottario imperadore, _ut vice sua functus,
ea, quae rerum necessitas flagitare videbatur, cum novo pontifice,
populoque romano, statueret atque firmaret_. Dopo la metà d'agosto si
mise in viaggio esso Lottario, accompagnato da _Ilduino abate_ di s.
Dionisio, e arcicappellano di Francia; e giunto a Roma fu onorevolmente
ricevuto da papa Eugenio. _Cui quum injuncta sibi patefecisset_ (son
parole d'Eginardo) _statum populi romani, jamdudum quorumdam,
perversitate pontificum depravatum, memorati pontificis benevola
assensione ita correxit, ut omnes, qui rerum suarum direptione graviter
fuerant desolati, de receptione bonorum suorum, quae per illius
adventum, Deo donante receperant, magnifice sunt consolati_. Anche
Pascasio Ratberto[871] scrive che il celebre _Walla abbate_ si adoperò
molto perchè fosse eletto e consecrato _Eugenio_, santissimo vescovo
della sede apostolica, _in cujus ordinatione plurimum laborasse dicitur,
si quo modo per eum deinceps corrigerentur, quae diu negligentius a
plurimis fuerant depravata_. Odasi inoltre l'autore della vita di
Lodovico Pio[872], che dopo aver detto il buon accoglimento fatto dal
papa al giovane imperador Lottario, aggiugne: _quumque de his, quae
acciderant, quereretur, quare scilicet hi, qui imperatori et Francis
fideles fuerant, iniqua nece peremti fuerint, et qui superviverent,
ludibrio reliquis forent et haberentur; quare etiam tantae querelae
adversus Romanorum pontifices, judicesque sonarent: repertum est, quod
quorumdam pontificum vel ignorantia vel desidia, sed et judicum caeca et
inexplebili cupiditate, multorum praedia injuste fuerint confiscata.
Ideoque reddendo, quae injuste fuerant sublata, Lotharius magnam populo
romano creavit laetitiam. Statutum est etiam JUXTA ANTIQUUM MOREM, ut EX
LATERE IMPERATORIS mitterentur, qui judiciariam exercentes potestatem,
justitiam omni populo facerent, et tempore, quo visum foret imperatori,
aequa lance penderent_. Sicchè ai disordini passati si rimediò
coll'obbligare la camera pontificia alla restituzion dei beni
indebitamente confiscati; e si provvide all'avvenire col deputar giudici
_ex latere imperatoris_, che amministrassero giustizia a tutto il
popolo, e durassero nell'impiego per quel tempo che paresse
all'imperadore medesimo. Atti tali non credo che abbiano bisogna di
spiegazione. E probabilmente fu in tal congiuntura che l'imperadore
Lottario, trovati in Roma dei giudici rei di concussioni ed ingiustizie,
li gastigò con inviarli alle prigioni in Francia. Ma col tempo papa
Eugenio tanto si adoperò che riebbero la libertà. Nella vita breve
d'esso papa scrive Anastasio[873]: _Hujus diebus romani judices, qui in
Francia tenebantur captivi, reversi sunt, quos in parentum propria
ingredi permisit, et eis non modicas res ex patriarchio lateranensi
praebuit, quia erant pene omnibus facultatibus destituti_. Oltre a ciò,
pel buon governo di Roma Lottario Augusto pubblicò alcune costituzioni,
pubblicate dal cardinal Baronio[874], ma più copiose presso
l'Olstenio[875]. Nella prima egli ordina che chiunque ha spezial
privilegio, dipendenza e patrocinio del papa e dell'imperadore (_sub
speciali defensione domni apostolici, seu nostra_), inviolabilmente ne
goda, sotto pena della vita a chi li molestasse. Vedemmo di sopra il
monistero farfense posto _sub defensione regum langobardorum et Caroli
Magni_, e sopra d'esso niun dominio per conto del temporale avea il
papa. Ivi similmente comanda che si presti in tutto una giusta
ubbidienza al romano pontefice e ai suoi duchi (governatori delle città)
e ai giudici da lui deputati a far giustizia. Nella seconda son vietate
le ruberie fatte in addietro, tanto vivente il papa, come nella sede
vacante. Nella terza si prescrive, sotto pena d'esilio, che niuno
impedisca l'elezion del pontefice, e ad eleggerlo concorrano quei soli
Romani che v'hanno diritto. Nella quarta vuole che sieno deputati dei
messi dall'imperadore, che ogni anno informino esso Augusto, come si
portino i giudici nell'amministrazion della giustizia, e come sia
osservata l'imperial costituzione. Decreta inoltre che in prima istanza
le querele contra i duchi o giudici negligenti sieno portate al papa,
acciocchè egli tosto vi provvegga per mezzo de' suoi deputati; o lo
faccia sapere all'imperadore, che manderà suoi messi per provvedere.
Nella quinta vuole che s'interroghi tutto il senato e popolo romano, per
sapere con che legge voglia vivere, avvertendo ognuno che se commetteran
delitto contra la legge da loro eletta e professata, secondo quella
saran gastigati per ordine del pontefice e dell'imperadore. Va inteso
delle leggi romane, saliche, bavaresi, ripuarie e longobarde, che tutte
aveano allora corso in Italia ed anche in Roma, dove concorrevano tanti
Longobardi e Franzesi. Nella sesta trovandosi dei beni occupati alla
Chiesa romana da alcuni potenti di Roma, sotto pretesto d'averli
ottenuti dai precedenti papi, vuole i ministri imperiali, il più presto
che si possa, li facciano restituire. Nella settima comanda che non si
facciano dai Romani ruberie ne' confini delle provincie suggette al
regno d'Italia; e che le già fatte ed ogni altra ingiustizia occorse di
qua e di là sia corretta secondo le leggi. Nell'ottava dà ordine, che
compariscano alla sua presenza, finchè egli si trova in Roma, tutt'i
duchi, giudici ed altri uffiziali del governo; perchè ne vuol sapere il
numero e i nomi, e fare a cadauno un'ammonizione intorno al ministero
che gli è appoggiato. In ultimo comanda ed esorta ciascuno che portino
in tutto ubbidienza e riverenza al romano pontefice, se loro sta a cuore
di goder la grazia di Dio e d'esso imperadore. Da queste ordinazioni
risulta la signoria de' papi in Roma e nel suo ducato, ma insieme la
superiore degli Augusti. Tornò poscia Lottario in Francia, e notificato
al padre come erano stati eseguiti in Roma i di lui ordini, se ne
rallegrò forte il buon imperadore, e specialmente del bene fatto agli
oppressi sotto i precedenti pontificati.

Se vogliamo prestar fede al continuatore anonimo della storia di Paolo
Diacono[876], già pubblicato dal Freero, Lottario imperatore solennizzò
in Roma la festa di san Martino, e fece fare tanto egli come papa
Eugenio al clero e popolo romano il seguente giuramento: _Promitto ego
ille per Deum omnipotentem, et per ista quatuor Evangelia et per hanc
Crucem Domini nostri Jesu Christi, et per corpus beatissimi Petri
principis Apostolorum, quod ab hac die in futurum ero fidelis dominis
nostris imperatoribus Hludovico et Hlothario, diebus vitae meae, juxta
vires et intellectum meum, sine fraude atque malo ingenio, salva fide,
quam repromisi domino apostolico. Et quod non consentiam, ut aliter in
hac sede romana fiat electio pontificis, nisi canonice et juste secundum
vires et intellectum meum; et ille, qui electus fuerit, me consentiente
consecratus pontifex non fiat, priusquam tale sacramentum faciat in
praesentia missi domini imperatoris et populi eum juramento, quale
dominus Eugenius papa sponte pro conservatione omnium factum habet per
scriptum._ Ma noi non possiam dare questo per documento sicuro, stante
il dirsi da quello scrittore che _anno DCCCXXV Lotharius imperator
iterum ad Italiam veniens, missam sancti Martini Romae celebravit_.
Bensì nell'anno presente 824 venne a Roma l'imperador Lottario, e si può
credere che vi si trovasse nella festa di san Martino, perchè solamente
nel seguente anno tornò in Francia; ma non sussiste la sua venuta
nell'anno 825. Anche il padre Pagi[877] per altre ragioni tien
quell'autore per molto posteriore a' tempi di Paolo Diacono.
Giovan-Giorgio Eccardo[878] crede errato qui l'anno per colpa de'
copisti. Tolto ciò, non è inverisimile quell'atto per i motivi che
addurremo più abbasso. Lo stesso padre Pagi lo riferisce come cosa
certa; e veramente papa Eugenio, considerata la discordia accaduta nella
propria elezione, potè condiscendervi, per rimediare ai disordini
dell'avvenire. Tuttavia lecito è a ciascuno di sentire qui ciò che gli
pare più verisimile. Prima che il suddetto Augusto Lottario imprendesse
di quest'anno il viaggio in Italia, trovandosi in Compiegne, diede un
diploma in favore di _Leone vescovo_ di Como, che si legge presso
l'Ughelli[879], dove conferma alla di lui chiesa i privilegii conceduti
da Ansprando, Cuniberto, Bertarido, Ariberto, Liutprando, Rachisio,
Astolfo e Lodovico suo padre, e nominatamente _res quas Waldo abbas
praedicto Petro episcopo quaesivit, quae erant sitae in Valle Tellina in
ducatu mediolanense_. Degno è d'osservazione questo nome di _ducato di
Milano_, e che la Valtellina fosse in esso compresa. Per altro quel
diploma è pieno di spropositi, e v'ha qualche giunta che non può venir
dall'originale, come è il dirsi sul principio _Lotharius primus
Augustus_. Quel _primus_ è stato aggiunto da qualche sciocco, e così
_Ludovicus secundus_ e _Ludovicus tertius_ ne' susseguenti, quasichè gli
imperadori d'allora usassero i riti dei tempi nostri. Negli Annali sacri
del padre Tatti[880] non compariscono così macchiati que' diplomi. La
data è questa: _III nonas januarii anno, Christo propitio, undecimo
imperii domni Ludovici piissimi Augusti, Lotharii filii ejus
gloriosissimi regnantis secundo, indictione secunda, anno DCCCXXIV.
Actum Compendio, palatio regio_. Ma quell'anno dell'era cristiana
anch'esso è una giunta, non essendo per anche stato in uso di questi
monarchi ne' loro diplomi, come risulta da tanti altri esempli. _L'anno
secondo_ di Lottario, corrente nel dì 3 di gennaio del presente anno,
suppone una epoca incominciata nell'anno 822. Un altro diploma d'esso
Lottario vien riferito dal medesimo padre Tatti sotto il precedente anno
con queste note: _Datum III nonas junii anno imperii domni Hludovici
serenissimi imperatoris X, regnique Hlotharii gloriosissimi Augusti in
Italia I, Indictione prima. Actum Venonica Villa Unfredi comitis, in Dei
nomine feliciter. Amen. Anno DCCCXXIII_. Si dee credere aggiunto l'anno
cristiano, perchè è fuor di sito e non usato allora.

Fu costretto ancora in quest'anno l'imperador Lodovico, per domare gli
umori inquieti de' popoli della minore Bretagna, di portarsi con un
potente esercito in quella provincia, insieme coi suoi due figliuoli
_Pippino_ e _Lodovico_. Secondo gli abusi di que' tempi, anche i
vescovi, gli abati ed altri ecclesiastici, che aveano de' vassalli,
erano obbligati ad intervenirvi coll'armi. E v'intervenne appunto anche
_Ermoldo Nigello_ monaco, anzi per quanto portano le conghietture,
abbate di Aniana, che racconta[881] quella guerra, con protestar
nondimeno di non aver combattuto, nè sparso il sangue d'alcuno, e con
aggiungere un motto faceto del _re Pippino_, che al vedere la bella
figura di questo buon monaco guernito d'armi, non potè contener le risa,
e gli disse che andasse a studiar lettere; che questo era il suo
mestiere, e non già il maneggiar armi. Ecco le sue parole:

    _Hic egomet scutum humeris ensemque revinctum_
      _Gessi, sed nemo me feriente dolet._
    _Pippin hoc aspiciens, risit, miratur et infit:_
      _Cede armis, frater, literam amato magis_.

Questi erano i bei costumi d'allora, che durarono anche dipoi gran tempo
al dispetto di tutte le doglianze de' sommi pontefici e de' concilii, e
benchè Carlo Magno avesse promesso di esentar gli ecclesiastici della
guerra. Per più di quaranta giorni fu devastata la minore Bretagna,
tanto che quel popolo s'indusse alla sommessione e a dar degli ostaggi
per sicurezza delle loro promesse. Vennero nel novembre di quest'anno
all'udienza dell'imperador Lodovico[882] in Roano i legati di _Michele
Balbo_ imperadore d'Oriente, per confermar la pace fra l'uno e l'altro
imperio, e gli presentarono varii regali per parte del loro padrone. Si
servì di questa congiuntura _Fortunato patriarca di Grado_ per venire
anch'egli da Costantinopoli a trovar lo imperadore desideroso d'essere
rimesso in sua grazia. Ma quegli ambasciatori nulla parlarono in favore
di lui; ne parlò ben egli; ma l'imperadore il rimise al papa, come a
giudice competente dei suoi pari. Secondochè scrive il Dandolo[883]:
questo patriarca terminò il corso della sua instabile vita in Francia, e
lasciò per testamento alla chiesa di Grado molti ricchi arredi ch'egli
aveva acquistati nelle varie sue vicende. Suo successore nel patriarcato
di Grado fu _Venerio_, nato in Rialto, ossia nella nuova Venezia, che
rifabbricò in Grado molte chiese malcondotte dalla lor vecchiaia.
_Suppone_, già da noi veduto duca di Spoleti, godè per poco tempo della
sua fortuna, perchè per attestato degli Annali de' Franchi, mancò di
vita in quest'anno. Trovavasi allora in Italia a rendere giustizia ai
popoli per ordine degl'imperadori _Adalardo conte del palazzo_,
appellato il Minore. A lui fu conferito quel ducato; ma appena passarono
cinque mesi che anch'egli sloggiò da questa vita. In suo luogo venne
dichiarato duca di Spoleti _Mauringo ossia Moringo_, conte di Brescia,
che vedemmo nell'anno precedente delegato anch'esso dall'imperador
Lodovico insieme col suddetto Adalardo. Strana cosa parve che appena
ricevuta la nuova della dignità a lui conferita, cadde infermo, e passò
similmente al paese dei più. Pensa il conte Campelli[884] che a lui
succedesse nel governo di Spoleti _Guido I, ossia Guidone_ o _Widone_;
ma di ciò parleremo più abbasso. Nè vo' lasciar di dire che i legati
dell'imperador greco portarono all'Augusto Lodovico lettere del loro
padrone, dove si trattava del culto delle sacre immagini, contra le
quali esso Michele imperadore palesemente s'era dichiarato, per veder di
tirare nel suo partito il regno de' Franchi. Lodovico poscia inviò tutti
costoro a Roma, acciocchè di questo affare risguardante la Chiesa ne
fosse giudice il solo romano pontefice. Se vogliam credere ad essi
Greci, molte superstizioni e molti abusi s'erano introdotti nella
venerazion delle immagini. Ora Lodovico a cui dispiaceva la dissension
della Chiesa per questo affare, spedì anch'egli al papa i suoi legati,
con chiedergli licenza di tener delle conferenze coi vescovi per
disaminar questo punto, benchè già deciso nel concilio niceno II.

NOTE:

[869] Annal. Franc. Eginhardi. Annal. Franc. Bertiniani et alii.

[870] Anastas. Bibliothecar., in Vita Pascal.

[871] Paschasius Ratbertus, in Vit. Wallae Ab., lib. 1.

[872] Astronomus, in Vit. Ludovici Pii.

[873] Anastas. Bibliothec., in Vit. Eugenii II.

[874] Baron., in Annal. Eccl.

[875] Holstenius, Collect. Rom., P. II.

[876] Rer. Italic., P. II, tom. 1.

[877] Pagius, ad Ann. Baron.

[878] Eccard., Rer. Franc., lib. 28.

[879] Ughell., Ital. Sacr., tom. 3.

[880] Tatti, Annali Sacri di Como, tom. 1.

[881] Ermold. Nigellus, lib. 4, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[882] Annales Franc. Eginh. Annal. Franc. Bertin., ec.

[883] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Italic.

[884] Campelli, Storia di Spoleti, lib. 16.



    Anno di CRISTO DCCCXXV. Indizione III.

    EUGENIO II papa 2.
    LODOVICO PIO imperadore 12.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 6 e 3.


Fu in fatti nel novembre dell'anno presente tenuta in Parigi una copiosa
conferenza di vescovi per riconoscere, se culto si dovesse, e quale,
alle sacre immagini, e si trovarono que' prelati conformi in alcuni
punti alla dottrina della Chiesa romana, stabilita nel suddetto concilio
di Nicea, ma discordi in altri. Essendo fuori dell'assunto, ch'io ho
preso, una tal controversia, rimetto i lettori bramosi di prenderne
conoscenza, a quanto sopra di ciò hanno scritto il cardinal
Baronio[885], il padre Mabillone[886] e il padre Pagi[887], e alla
storia ecclesiastica del Fleury. Mentre l'imperador Lodovico era in
Aquisgrana, vennero a trovarlo gli ambasciatori de' Bulgari per metter
fine alle dispute de' confini fra la loro nazione e i Franchi. Segno è
questo che il dominio dei Franchi si stendeva ben oltre nella Pannonia,
mentre arrivava sino ai confini della Bulgaria. Tuttavia potrebbe essere
che i Bulgari occupassero allora un paese più vasto della Bulgaria
moderna da noi conosciuta, e che potessero anche sì fatte liti essere
state dalla parte della Schiavonia. L'imperadore, come conveniva,
rispose con sue lettere al re dei Bulgari; ma per ora non seguì accordo
alcuno fra loro. Conchiuse egli bensì un trattato di pace coi Danesi, e
inoltre destinò varii messi per diverse parti della sua monarchia con
ordine di procurar l'onore delle chiese e la giustizia fra i popoli.
Leggonsi tuttavia presso il Baluzio[888] le Istruzioni sue premurose e
giuste, a tale effetto pubblicate in un capitolare. Finquando vivea papa
Pasquale, _Claudio_ vescovo di Torino, di nazione spagnuolo, avea
cominciato a riprovar la venerazione delle sacre immagini e delle
relique, e i pellegrinaggi della gente pia. Si sa che esso papa era in
collera contra di lui. Da che Pasquale fu chiamato da Dio a miglior
vita, si diede Claudio a scrivere pubblicamente contro la dottrina della
Chiesa. Non si può negare, costui era uomo dotto, ma pieno di superbia e
di presunzione: chiamava asini tutti i vescovi d'Italia. Scrisse a
Teodemiro abbate in Francia per persuadergli i suoi sentimenti; ma
l'abbate, lungi dall'accordarsi con lui, modestamente riprovò gli
erronei di lui sentimenti. Di più non vi volle perchè Claudio acceso di
collera facesse un insolente risposta in difesa de' suoi errori. Dalla
Cronica farfense[889] apprendiamo avere _papa Eugenio_ donate al
monistero di Farfa due masse, appellate l'una Pompeiana, e l'altra
Belagai, poste _infra nobilissimam urbem romanam_: il che ci fa
conoscere che entro Roma stessa si trovavano dei buoni poderi
coltivabili. _Ingoaldo abbate_ ne cercò in quest'anno la conferma da
Lottario imperadore, come costa dal suo diploma, dato _secundo kalendas
junias, anno, Christo propitio, imperii serenissimi domni Ludovici
Augusti XII, regnique Lotharii gloriosissimi imperatoris in Italia III,
Indictione III Actum Olonna palatio regio_, cioè nell'anno presente.
Dura tuttavia il nome di _corte Olonna_ nel distretto di Pavia in
vicinanza del fiume Olonna non lungi dal Po. Era una volta luogo di
delizie dei re d'Italia con palazzo per la villeggiatura; e quivi furono
dati varii loro diplomi. Oggidì appartiene ad un generoso signore della
casa d'Este, cioè a don Carlo Filiberto d'Este, principe del sacro
romano imperio e marchese di san Martino. Circa questi tempi per
attestato del Dandolo[890], i dogi di Venezia spedirono Giusto prete per
loro legato, unitamente con Pietro diacono di _Venerio patriarca_ di
Grado, agl'imperadori Lodovico e Lottario, ed ottennero la conferma
delle esenzioni de' beni spettanti alla chiesa di Grado nel regno
d'Italia. Trovavasi l'Augusto Lottario in Marengo, corte regale in
Lombardia, nel febbraio dell'anno presente, ed ivi con suo diploma[891]
assegnò un monistero in ricompensa d'uno spedale di pellegrini tolto
all'insigne monistero della Novalesa. Erano negli antichi secoli
frequentissimi gli spedali per alloggiare i pellegrini, tanto nelle
città che fuori, e massimamente nei passaggi delle montagne e de' fiumi
perchè le osterie, sì usate oggidì, erano allora cose rare. Però pochi
monisteri di monaci e canonici regolari si contavano una volta che non
avessero di sì fatti caritativi alberghi; per nulla dire di tanti altri
istituti per gl'infermi, per gli fanciulli esposti, per gli vecchi ed
altri poverelli: del che ho io trattato nelle mie Antichità
italiane[892].

NOTE:

[885] Baron., Annal. in Eccl.

[886] Mabill., Praef. p. 1. Saecul. IV, Benedictio.

[887] Pagius, in Crit. Baron. ad hunc annum.

[888] Baluz., Capitular. Reg. Franc. tom. 1.

[889] Part. II, tom. 2 Rer. Ital.

[890] Dandolus, in Chron., tom. 12 Rer. Italic.

[891] Antiquit. Italic., Dissertat. XXXVII, p. 577.

[892] Antiquit. Italic., Dissert. XXXVII, pag. 577.



    Anno di CRISTO DCCCXXVI. Indizione IV.

    EUGENIO II papa 3.
    LODOVICO PIO imperadore 13.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 7 e 4.


Tenne in quest'anno _papa Eugenio_ un concilio in Roma riferito in parte
dal cardinal Baronio[893] ed interamente poi dall'Olstenio e dal
Labbe[894]. Si dice ivi raunata quella sacra assemblea, _imperante
domino nostro piissimo Augusto Hludovico a Deo coronato magno
imperatore, anno XIII, et post consulatum ejus anno XIII, et Hlothario
novo imperatore ejus filio anno X, Indictione IV_ (probabilmente sarà
stato ivi scritto _Indictione V_, cominciata nel settembre) _mensis
novembris die XV_. Si vede qui praticato per gl'imperadori d'Occidente
lo stesso stile che si usava nei tempi addietro per gli greci Augusti,
allorchè erano padroni di Roma. Merita anche osservazione l'epoca di
Lottario Augusto presa non già dall'anno della coronazione romana 823,
ma bensì dalla sua prima elezione dell'anno 817. A questo concilio
intervennero sessantatrè vescovi, e furono fatti trentotto canoni. Fra
l'altre cose dice il pontefice d'aver inteso come in alcuni luoghi non
si trovavano maestri di lettere, e che di ciò niuno prendeva cura. Il
perchè ordina che in tutti i palazzi dei vescovi e in tutte le pievi,
cioè nelle case de' parrochi di villa e negli altri luoghi, dove occorra
il bisogno, vi sia chi insegni le lettere e l'arti liberali, e spieghi
la divina Scrittura. C'era quest'obbligo anche prima, e Carlo Magno ebbe
anche egli a cuore che non meno in Francia e Germania, che in Italia
rifiorisse lo studio delle lettere. Ma in che stato fosse allora per
questo conto l'Italia, e ciò che allora insegnassero i maestri, lo
vedremo all'anno susseguente. In esso concilio ancora fece premura il
papa perchè dappertutto s'introducesse l'istituto dei canonici, e della
vita loro comune in chiostro unito alle cattedrali. Sappiamo eziandio
dagli Annali de' Franchi[895], che nell'anno presente furono spediti da
papa Eugenio _all'imperador Lodovico_ due nunzii, cioè _Leone vescovo_
di Selva Candida e Teofilatto nomenclatore; ma senza essere a noi
pervenuto il motivo e soggetto di quest'ambasceria. Vi tornò ancora un
legato del re de' Bulgari, e questi, giacchè non era anche decisa la
controversia de' confini, fece nuove istanze per determinarle senza
maggior dilezione, altrimente protestava che cadauno difenderebbe
coll'armi ciò che possedeva. Andò l'imperadore tirando in lungo le
risposte, perchè v'era qualche sentore che il re suddetto in questo
mentre fosse stato ucciso o cacciato dal regno; e per chiarirsene inviò
_Bertrico_, conte del palazzo, a _Baldrico, duca_ o marchese del Friuli,
e a _Geroldo, conte_ della Carintia, con ordine d'informarsene. Si trovò
falsa la voce: però l'imperadore rispedì quel legato, ma però senza
lettere.

La funzione più riguardevole dell'anno presente nella corte dell'augusto
Lodovico fu la venuta di _Erioldo_ ossia _Exoldo_, re di Danimarca,
colla moglie ed un figliuolo ad Ingeleim, presso al Reno, dove esso
imperadore tenne una gran dieta. Aveva _Ebbone, arcivescovo di Rems_,
esortato questo re pagano ad abbracciar la fede di Gesù Cristo, e a
questo fine venne egli a trovar l'imperadore; ma vel trassero anche dei
riguardi politici, mentre non si sentiva egli sicuro sul trono per la
concorrenza de' figliuoli del _re Gotifredo_, e potea molto giovargli la
protezione e l'aiuto dell'imperadore. _Ermoldo Nigello abbate_, il cui
poema, ricavato dalla biblioteca cesarea, ho io dato in luce[896],
descrive minutamente questo avvenimento, di cui sembra essere stato
spettatore, cioè tutta la solennità del ricevimento d'esso Erioldo: il
battesimo a lui conferito, alla moglie ed al figliuolo; la sua
coronazione, e i regali a lui presentati da Lodovico, a sua moglie
dall'_imperadrice Giuditta_, e a suo figliuolo da _Lottario Augusto_; e
una sontuosa caccia fatta in tal occasione col convito di campagna
preparato dall'imperadrice. Terminate queste funzioni, Erioldo sottopose
il regno suo danese all'imperio romano, con giurar fedeltà all'Augusto
Lodovico. Finalmente accompagnato da _Anscario_ monaco, il quale col
tempo divenne vescovo di Amburgo ed apostolo del Settentrione, ed ora
veniva destinato a predicar la religione di Cristo nelle di lui
contrade, s'incamminò verso la Danimarca, dove, per quanto si ha
dall'antico storico di quel regno[897], da lì a qualche tempo abiurò la
credenza e i riti del Cristianesimo, mancando di fede a Dio e
all'Augusto suo benefattore; Degnissima ancora di memoria, e non senza
ragione, parve agli scrittori d'allora l'introduzione in Occidente di
far gli _organi_ da fiato. Fin qui era stata ristretta nei Greci, che
forte se ne gloriavano; e chi volea degli organi anche in Italia, li
facea venir fatti di colà. Fin dall'anno 757 _Costantino imperador_ de'
Greci ne inviò uno in dono a _Pippino re_ di Francia: e questo sonato
empiè di maraviglia i Francesi. Noi, avvezzi ad udir sì fatte
ingegnosissime macchine, non ce ne stupiamo ora punto; ma se per la
prima volta ne udissimo una, tasteggiata da qualche buon maestro,
l'ammireremmo ancor noi al pari di quelli. Dissi che il saper fabbricare
di questi organi era mestiere allora affatto ignoto in Occidente.
Accadde, che tornando alla corte imperiale _Baldrico duca_ del
Friuli[898], per informar l'imperadore delle diligenze da sè praticate
per risaper lo stato dei Bulgari, menò seco un prete veneziano, per nome
Giorgio, il quale si esibì pronto a lavorar di questi organi. Accettata
ben volentieri una tal proposizione, l'imperadore il mandò ad
Aquisgrana, con ordine di somministrargli tutto il bisognevole. L'opera
fu compiuta, e perciò essendosi in quelle parti introdotta quest'arte,
che s'andò poi sempre più dilatando, non ci fu più bisogno da lì innanzi
di ricorrere alla Grecia per arricchir d'organi i sacri templi. Ebbe il
suddetto Giorgio prete in ricompensa una badia in Francia. Siccome fu
detto di sopra, era divenuto duca, ossia principe di Benevento _Sicone_.
_Radelchi_, o vogliam dire _Radelgiso_, che tanto avea cooperato alla di
lui esaltazione, per qualche tempo fu uno de' suoi favoriti. Nulla
d'importante, per quanto scrive l'Anonimo salernitano[899], si faceva in
quella corte senza il parere di esso Radelgiso. Ma ritrovandosi egli al
suo governo di Conza, e venutogli all'orecchio che Sicone senza
partecipazione sua avea presa non so qual risoluzione, se l'ebbe a male,
e gli scappò detto: _Poco fa io ho tolto di mezzo il falcone_ (cioè
_Grimoaldo Storesaiz_ duca, da lui ucciso), _mi resta anche la volpe_
(cioè Sicone). Non cadde in terra questo motto, e fu rapportato ben
tosto al principe Sicone, che con grande amarezza l'ascoltò, e cominciò
a pensar le vie di fortificarsi con delle parentele contro ai disegni di
Radelgiso. Per questo maritò tre sue figliuole con tre de' più nobili e
potenti beneventani.

Allora fu che Radelgiso, il quale dianzi si teneva in pugno le nozze
d'una di quelle principesse con un suo figliuolo, non solamente conobbe
perduta per lui questa fortuna, ma eziandio si avvide di essere caduto
di grazia, e si riputò come perduto. Però si appigliò al partito di
abbandonare il mondo, per motivo, diceva egli, di far penitenza
dell'omicidio commesso nella persona del suo principe, e ne ottenne
licenza da Sicone, il quale fece vista di concederla mal volentieri.
Raccomandatogli il figliuolo, si cinse al collo una catena; e presa
questa da un suo famiglio, si fece condurre al monistero di Monte
Casino, e quivi con assai gemiti e lagrime chiese l'abito monastico, che
non gli fu negato. Sì l'Anonimo salernitano che Erchemperto[900], monaci
amendue, raccontano cose grandi della sua penitenza, e v'aggiungono
anche de' miracoli. Fecesi monaca anche sua moglie in un monistero fuori
di Conza, e menò vita santa. Ora Sicone, che da Erchemperto ci vien
dipinto per uomo bestiale e troppo pesante ai Beneventani, e dal
suddetto Anonimo, per lo contrario, uomo mansueto e liberale: attaccò
lite coi Napoletani, che tutta la potenza de' Longobardi non avea mai
potuto sottomettere, e fece loro un'aspra guerra per più anni, con
assediar Napoli per mare e per terra. Convien credere che già questa
cominciasse molto prima dell'anno presente, e che quel popolo si
trovasse anche a mal partito, perchè sappiamo dal sopraddetto
Erchemperto che i Napoletani furono costretti a ricorrere a Lodovico
imperadore. Gli Annali dei Franchi appunto notano sotto quest'anno che
in Aquisgrana sì presentarono all'udienza dell'imperadore i _legati dei
Napoletani_, i quali, ricevuta che ebbero la risposta, se ne tornarono a
casa loro. Forse ottennero qualche lettera di raccomandazione al duca di
Benevento. Ma che non per questo cessasse la guerra, o la molestia al
loro territorio, lo conosceremo andando innanzi. Non si può ben chiarire
la cronologia dei _duchi di Napoli_; tuttavia sappiamo da Giovanni
Diacono[901], scrittore di questi tempi, che _Teofilatto_ circa il
principio di questo secolo governava quella anche allora potente città.
A lui succedette _Antimo_, dopo la cui morte non accordandosi i
Napoletani nell'elezione del duca (ed aveano essi il gius di eleggerlo),
stimarono meglio di prendere uno straniero che un lor cittadino pel
governo. Spediti dunque dei messi in Sicilia, fecero venire di colà un
greco _Teottisto_, e il costituirono maestro de' militi, cioè generale
dell'armi loro. I rettori di Napoli erano in que' tempi chiamati ora
_duchi_, ora _consoli_, ora _maestri de' militi_: tre nomi che
significavano il governatore, ossia principe di Napoli, il quale
nondimeno riconosceva per sovrano l'imperadore de' Greci. Teottisto ebbe
per successore _Teodoro_, decorato del titolo di _protospatario_ da esso
imperadore. Costui fu cacciato via dai Napoletani, e sustituito in suo
luogo _Stefano_ nipote di _Stefano_ dianzi vescovo di quella città. Per
attestato del medesimo Giovanni Diacono, ai tempi di questo _duca
Stefano_, Sicone principe di Benevento mosse guerra a Napoli, ansioso di
conquistare quella nobilissima città ed arrecò infiniti danni a quei
contorni. Fingendo poscia di dar mano ad un trattato di pace, inviò
entro la città i suoi legati con ordine di guadagnar con danari alcuni
de' principali del popolo: il che loro venne fatto. Presentatosi Stefano
davanti alla chiesa di santa Stefania, per conchiudere il trattato,
quivi fu ucciso dai congiurati su gli occhi dei legati beneventani. Ma
costoro ne furono ben pagati dalla giustizia di Dio, perchè creato
immantinente duca _Buono_, cioè uno degli stessi uccisori, egli da lì a
poco parte de' suoi complici fece abbacinare, e parte ne cacciò in
esilio. Era costui Buono di nome, scellerato di fatti. Cominciò tosto ad
aggravare e malmenare il clero e i beni delle chiese di Napoli: e
perciocchè _Tiberio_, vescovo della città, gli minacciava l'ira di Dio,
il fece prendere e confinare in una dura prigione, dove il tenne vivo
gran tempo a pane ed acqua. Forzò dipoi _Giovanni_ ad accettar
l'elezione di lui fatta di successore nel vescovato, minacciandolo che,
se ricusava, avrebbe fatto mozzare il capo al tuttavia vivente Tiberio
vescovo. Non durò il ducato di Buono se non che un anno e mezzo; e
tuttavia esiste l'epitaffio suo rozzissimo presso Camillo Pellegrino,
che il fa morto nell'anno 834. Epitaffio nondimeno composto da qualche
poeta col privilegio di poter dire delle bugie.

NOTE:

[893] Baron., Annal. Eccl.

[894] Labbe, Concilior., tom. 7.

[895] Annal. Franc. Lauresham. Auct. Vit. Ludovici Pii.

[896] Ermold. Nigell., lib. 4, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[897] Saxo Grammat., lib. 9 Hist. Dan.

[898] Annales Franc. Eginhardi. Annal. Franc. Fuldenses, etc.

[899] Anonym. Salernitan. Paralipomen., P. II, tom. 2 Rerum Italicarum.

[900] Erchempertus, P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[901] Johann. Diac., in Vit. Episcop. Neapol. P. II, tom. 1 Rerum
Italicarum.



    Anno di CRISTO DCCCXXVII. Indiz. V.

    VALENTINO papa 1.
    GREGORIO IV papa 1.
    LODOVICO PIO imperad. 14.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 8 e 5.


Accadde nel mese d'agosto la morte del buon papa _Eugenio II_, poche
memorie del quale per negligenza di que' tempi son giunte a nostra
notizia, essendo stata troppo breve la vita di lui, che ci resta presso
Anastasio bibliotecario. Successore nella cattedra di s. Pietro fu
immediatamente con rara concordia di tutti eletto _Valentino_ diacono,
oppure arcidiacono, senza che apparisca[902] che si aspettasse
approvazione alcuna degl'imperadori o de' loro ministri. Di questo
pontefice erano insigni le virtù, annoverate dal suddetto
Anastasio[903], ed egli degno ben era di lunga vita; ma non passò un
mese che Dio sel tolse, con dolore di tutti i Romani. Si venne adunque
ad una nuova elezione, e i voti di tutto il clero e popolo romano
concorsero nella persona di _Gregorio IV_, parroco, ossia cardinale di
s. Marco, la cui pietà e carità verso i poveri, con assaissimi altri
pregi, gli servirono di raccomandazione per conseguire la cattedra di s.
Pietro. Dissi che tutti concorsero, ma se ne dee eccettuare uno, cioè
Gregorio stesso, che, per quanto potè, ripugnò ad accettar sì fatta
elezione. Abbiamo poi da Eginardo, che questi _electus, sed non prius
ordinatus est, quam legatus imperatoris Romam venit, et electionem
populi, qualis esset, examinavit_. Ecco dunque che cominciamo a vedere
verificato il decreto attribuito a papa Eugenio secondo e Lottario
Augusto intorno al divieto di consecrare il pontefice eletto senza
l'assenso dell'imperadore o de' suoi ministri, con potersi dubitare che
ciò ancora si osservasse nell'elezione di Valentino, perchè, forse in
Roma, si trovava il legato imperiale che acconsentì. L'autore della vita
di Lodovico Pio scrive[904] che fu eletto esso Gregorio, _dilata
consecratione ejus usque ad consultum imperatoris. Quo annuente et
electionam cleri et populi probante, ordinatus est in loco prioris_.
Facevano gran rumore in Italia e in Francia gli scritti di _Claudio
vescovo_ di Torino contro il culto delle sacre immagini. Presero perciò
la penna per confutare i di lui errori _Dungalo_ monaco, e poi _Giona_,
vescovo di Orleans. Il padre Mabillone[905] cercando chi fosse questo
Dungalo, autore del libro _de Cultu imaginum_, inclinò a crederlo monaco
nel monistero di s. Dionisio in Francia, e lo stesso che un _Dungalo
rinchiuso_, cioè, secondo il costume durato per molti secoli, chiuso
spontaneamente fra quattro mura, talvolta con un contiguo orticello, o
con un oratorio, per servire a Dio in un sì stretto albergo; del qual
Dungalo restano tuttavia alcuni versi. Abbracciò anche il padre
Pagi[906], con altri, questa conghiettura, ch'io ho già dimostrato non
reggere alle pruove. Cioè nelle annotazioni[907] alle giunte delle leggi
longobardiche, e molto più nelle Antichità italiane[908] ho dimostrato
che _Dungalo_, monaco, di nazione veramente _scoto_, come immaginò il
suddetto padre Mabillone, abitava non già in Francia, ma in Italia nella
città di _Pavia_, e quivi era _maestro di scuola_, inviatovi
dall'imperador Carlo Magno, affine d'insegnar le lettere in quella real
città. Ciò costa dal capitolare di Lottario Augusto, da me dato alla
luce, di cui parleremo più a basso, e da altre memorie. La di lui
vicinanza a Torino il mosse ad entrare in aringo contra del suddetto
prosuntuoso prelato. Leggesi anche una lettera di questo Dungalo,
pubblicata dal padre Dachery[909], e indirizzata a Carlo Magno nell'anno
811, in risposta alle interrogazioni fatte da quel glorioso principe
intorno a due eclissi del sole accaduti nell'anno 810. Frequenti poi
aveano cominciato ad essere le traslazioni de' corpi santi da Roma in
Francia e Germania, paesi che ne scarseggiavano. Varie se ne raccontano,
che io tralascio, e solamente osservo che strepitosa fu nell'anno
presente quella dei santi Marcellino e Pietro, procurata da _Eginardo
abate_ di vari monisteri in Germania, e quello stesso a cui siam tenuti
della vita di Carlo Magno e, per quanto si crede, degli Annali dei
Franchi. Furono que' sacri corpi rubati ed asportati dalla chiesa di s.
Tiburzio di Roma. Si contano grandi miracoli succeduti in simili
traslazioni. E però non si può dire quanto fossero avidi di queste
caccie allora i pii Oltramontani. Usavano frodi, spendevano somme d'oro,
nè lasciavano arte alcuna per giugnere ad arricchir di sacre reliquie le
lor chiese e monisteri; e di qui presero talvolta occasione i furbi e
falsarii di burlar la divozion di essi con reliquie insussistenti e
finte. E di qui parimente è venuto che alcune chiese di Francia e
Germania si gloriano di possedere i corpi d'alcuni santi insigni, come
di s. Gregorio, di s. Sebastiano e simili, che pure in Roma si credono
tuttavia seppelliti. Ebbe la Catalogna in quest'anno delle fiere
vessazioni dai Mori, ossia dai Saraceni della Spagna, e quantunque vi
accorressero con forte armata i Franzesi, pure in vece di vittorie ne
riportarono vergogna, e le campagne di Barcellona e Girona ne rimasero
devastate. Nel mese di settembre[910] giunsero a Compiegne, dove si
trovava l'imperador Lodovico, i legati di _Michele imperador dei Greci_,
per confermar la lega ed amicizia. Portarono dei regali; ma anch'essi
furono _nobiliter suscepti, opulentissime curati, liberaliter munerati_.
Essendo morto in quest'anno[911] _Angelo Particiaco_ ossia
_Participazio_, doge di Venezia, _Giustiniano_ suo figliuolo, molto
prima dichiarato doge, continuò a governar que' popoli, ed ottenne da
_Michel Balbo_ imperador dei Greci il titolo di _console imperiale_.
Bramando _Masenzio_ patriarca d'Aquileia di ridurre all'antica
ubbidienza della sua Chiesa quella di Grado, siccome ancora le altre
dipendenti da esso patriarca di Grado, ed assistito dal favor di papa
Eugenio e de' regnanti Augusti, ottenne che raunasse in quest'anno un
concilio di molti vescovi nella città di Mantova. La sentenza fu quale
egli la desiderava, e gli atti di quella sacra adunanza si leggono
pubblicati dall'accuratissimo padre Bernardo Maria de Rubeis[912]. Ma nè
più nè meno continuò il patriarcato di Grado a sussistere, non ostante
lo sforzo in contrario di quello d'Aquileia.

NOTE:

[902] Annal. Franc. Eginhardus.

[903] Anastas, in Vit. Valentini.

[904] Astronomus, in Vita Ludovici Pii.

[905] Mabillonius, Annal. Benedictin. ad hunc ann.

[906] Pagius. ad Ann. Baron.

[907] Rer. Ital. P. II, tom. 1.

[908] Antiquit. Ital., Dissert. XLIII.

[909] Dachery, in Spicileg.

[910] Astronomus, in Vit. Ludovici Pii.

[911] Dandolus, in Chronic., tom. 12 Rer. Italic.

[912] De Rubeis, Monu. Eccl. Aquilejens. cap. 47.



    Anno di CRISTO DCCCXXVIII. Indiz. VI.

    GREGORIO IV, papa 2.
    LODOVICO PIO imperadore 15.
    LOTTARIO imperatore e re di Italia 9 e 6.


Cominciava già la monarchia franzese a sentire che più non la reggeva un
Carlo Magno. Avea l'armata imperiale di Catalogna fatta una vergognosa
figura incontro ai Mori di Spagna. Altrettanto aveva operato nella
Pannonia superiore, o pur nella Carintia quella d'Italia incontro ai
Bulgari, che aveano dato il guasto ad un buon tratto di paese suggetto
allo imperadore, senza che alcuno avesse fatta resistenza e
contrasto[913]. Però l'Augusto _Lodovico_ nel febbraio di quest'anno,
tenuta una gran dieta in Aquisgrana, cassò gli uffiziali che in sì fatte
congiunture aveano mancato al loro dovere. Cadde questo medesimo gastigo
sopra _Baldrico_ duca o marchese del Friuli; e quella marca, _quam solus
tenebat, inter quatuor comites divisa est_. Sicchè veggiamo che prima
d'ora era stata formata la _marca del Friuli_, e ch'essa per questo
avvenimento cessò d'avere un duca ossia marchese, con esserne dato il
governo a quattro conti, cioè a quattro governatori di città,
indipendenti l'uno dall'altro. Probabilmente queste città furono
_Cividal di Friuli, Trivigi, Padova_ e _Vicenza_, se pur fra queste non
si computò anche _Verona_. Il nome di _marca_ vuol dire _confine_. Fin
sotto Carlo Magno per maggior sicurezza delle provincie situate ai
confini furono istituiti uffiziali che ne avessero cura, chiamati perciò
_marchensi_ e _marchesi_, che è quanto dire custodi de' confini. E
perchè secondo i bisogni non mancasse forza a tali uffiziali, al
marchese furono subordinati i conti, cioè i governatori delle città
della provincia. Che il marchese della marca del Friuli risedesse in
_Trivigi_, sembra che si possa conghietturare dal vedere che in quella
città era la zecca dell'imperadore, come costa da una moneta di Carlo
Magno ch'io ho data alla luce[914]. Ma non andrà molto che questa marca
ci comparirà davanti risorta come prima. Non so onde abbia preso il
Sigonio[915] che la marca del Friuli fu allora divisa fra dodici conti,
e che _Lottario_ figliuolo dell'Augusto Lodovico se ne credette
stranamente offeso. Nell'anno precedente avea lo stesso imperadore
inviati a Costantinopoli per suoi ambasciatori _Alitgario vescovo_ di
Cambrai, e _Anfrido abbate_ di Nonantola sul modenese: contrassegno
della singolar considerazione in cui erano allora gli abati di questo
insigne monistero, ma che fra poco decaderono, siccome dirò a suo luogo.
Tornarono questi legati circa il tempo della dieta suddetta contenti
dell'onorevol trattamento lor fatto da _Michel Balbo_ imperador de'
Greci. Poscia nel mese di giugno, trovandosi Lodovico nella villa
d'Ingeleim (perciocchè i re ed imperadori di allora mutavano spesso
paese, nè soleano avere un luogo fisso di residenza, a riserva di
Aquisgrana, dove era il loro più ordinario soggiorno di là da' monti, ed
eccettuata Pavia per i re d'Italia) quivi si presentarono a lui con dei
ricchi doni Quirino primicerio e Teofilatto nomenclatore, legati del
romano pontefice _Gregorio_. La cagione della lor venuta è a noi ignota.
Furono ben accolti e rimandati. Sparsasi poi voce che i Saraceni di
Spagna con grande sforzo minacciavano la Catalogna ed anche l'Aquitania,
diede l'imperadore commessione a Lottario augusto di accorrere con un
grosso nerbo di milizie in ajuto del fratello _Pippino_. Venne Lottario
a Lione per questo; ma svanita la nuova, e cessato il pericolo, se ne
tornò al padre; il quale intanto religiosamente attendeva a placar Dio,
che parea sdegnato colla Francia, e diede in quest'anno ordine che si
celebrassero quattro concilii per la correzione del clero e del popolo.

Abbiamo ancora dagli Annali dei Franchi[916] che nell'anno presente
_Bonifazio II_, conte di Lucca, del quale abbiam parlato di supra
all'anno 823, e a cui l'imperadore avea dato il carico di difendere
l'isola di Corsica dalle incursioni de' Saraceni, preso seco _Beretario_
(che _Berehario_ vien nominato dall'autore della vita di Lodovico Pio)
con alquanti altri conti della Toscana, Corsica e Sardegna, _assumto
secum fratre Berethario, et aliis quibusdam comitibus de Tuscia_, e
formata una picciola flotta, uscì in corso contro quegl'infedeli. Non
avendo trovato nei contorni della Corsica alcun corsaro, passò in Africa
colle sue navi, e fece uno sbarco fra Utica e Cartigine. Accorse una
innumerabile quantità di quegl'infedeli, e ben cinque volte vennero alle
mani coi Cristiani, de' quali ancora ne trucidarono alcuni che vollero
far troppo da bravi. Però Bonifazio, fatta una saggia ritirata, se ne
tornò co' suoi legni a casa. Poco certamente di profitto riportò seco;
tuttavia gli Africani, avvezzi solamente a portare il terrore e la
desolazione nelle contrade cristiane, al vedere i Cristiani questa volta
comparire coll'armi in casa loro, se non sentirono danno, ebbero almeno
un fiero spavento. Allora veramente trascuravano forte gl'imperadori
d'Occidente l'aver forze in mare, e perciò cotanto insolentivano i
Saraceni di Spagna, d'Africa e di Soria. Ed appunto circa questi tempi
riuscì a quei d'Africa di mettere il piede nell'isola di Sicilia, e
poscia di conquistarla a poco a poco con danno e vergogna del nome
cristiano. Per quanto si ricava da Cedreno[917], un certo Eufemio
capitano di milizia perdutamente innamorato di una monaca, la rapì per
forza dal monistero, e tenne questa preda come cosa sua in sua casa.
Ricorsi i fratelli della monaca all'imperadore d'Oriente padrone
dell'isola, venne ordine di dargli il convenevol gastigo; ciò gli fece
prendere la fuga, e ritirarsi presso i Saraceni dell'Africa. Così un
greco storico. Ma un italiano, cioè l'Anonimo salernitano[918] ne
rigetta la colpa sopra gli stessi Greci, con dire che Eufemio avea
contratti gli sponsali con una giovine appellata Omoniza di maravigliosa
bellezza. Ma il governator greco della Sicilia, sedotto con danari,
gliela levò, e la diede per moglie ad un altro. Infuriato per tale
affronto Eufemio coi suoi famigli s'imbarcò, e passato in Africa, tante
speranze diede a quel re maomettano della conquista della Sicilia, che
in fatti condusse que' Barbari colà, ed aprì loro la strada ad
impadronirsene interamente nello spazio di pochi anni, avvenimento che
recò lunghi ed incredibili disastri all'Italia. Aggiugne lo stesso
Anonimo che i Saraceni presero a tutta prima Catania, con farvi un gran
macello di que' cittadini, e dello stesso greco governatore. Portata
questa infausta nuova a _Sicone_ principe di Benevento, se ne afflisse
forte, ben prevedendo che questo turbine andrebbe un dì a cadere sulle
proprie contrade. Giovanni Diacono, scrittore di questi tempi,
racconta[919] che i Siracusani _cujusdam Euthymii factione rebellantes_
(chiama egli _Eutimio_ lo stesso, che gli altri appellano _Eufemio_),
uccisone _Gregora patrizio_, cioè il governatore della Sicilia. Perciò
_Michele imperadore_ de' Greci spedì contra di loro un riguardevol
esercito, al quale non potendo resistere, presero que' cittadini la
fuga. Allora fu che Eutimio ossia Eufemio _colla moglie e coi figliuoli_
(adunque non potè cercare Omoniza per moglie) passò in Africa; e
sollecitò quel re saraceno all'impresa della Sicilia. Vennero que'
Barbari, e talmente strinsero Siracusa, che i Greci pagarono di tributo
cinquantamila soldi, forse per riscattare la lor vita e la facoltà di
andarsene in pace. Diedero da lì innanzi i Saraceni un terribil guasto a
tutta la Sicilia. La narrativa nondimeno di Giovanni Diacono pare che
metta alcuni anni prima del presente l'entrata d'essi Saraceni in quella
dianzi sì felice e dappoi sì sventurata isola. Ma giacchè abbiam fatto
di sopra menzione del suddetto _Bonifazio_, bene sarà che il lettore non
ne perda la memoria, sì perchè fortissime conghietture concorrono a
farci credere questo personaggio per uno degli antenati della
nobilissima ed antichissima casa d'Este, siccome ho fatto vedere nella
parte I delle Antichità estensi; e sì ancora perchè di qui possiam
ricavare che già la Toscana avesse ricevuto anch'essa la forma di
_marca_, stante il vedersi che già Bonifazio comandava ai conti di
quella provincia. Truovansi simili personaggi chiamati nello stesso
tempo _conti_, perchè governatori d'una città, ed appunto Bonifazio era
conte di Lucca; ed anche _marchesi_, perchè la lor provincia era
limitanea, ed essi custodi di quei confini; ed ancora _duchi_,
secondochè piaceva agli Augusti di decorarli coi titoli. Trovandosi
parimente monete battute in Lucca fino nei tempi di Carlo Magno,
concorre ancor questa notizia a farci credere quella città per capitale
in questi tempi di tutta la Toscana longobarda. Si ha poi da riferire
all'anno presente, per attestato del Dandolo[920], la traslazione del
corpo di s. Marco evangelista da Alessandria a Venezia: sopra di che è
da vedere la sua leggenda. Ed avendo l'imperador de' Greci _Michele_
fatta istanza di molte navi da guerra a _Giustiniano_ doge di Venezia
contra dei Saraceni che a poco a poco andavano conquistando la Sicilia,
le inviò ben egli, ma inutile riuscì il loro viaggio e sforzo.

NOTE:

[913] Annal. Francor. Bertiniani. Astronom., in Vit. Ludovici Pii.

[914] Antiquit. Ital., Dissert. XXVII.

[915] Sigonius, de Regno Italiae.

[916] Annales Franc. Eginhard.

[917] Cedren., in Annal. ad ann. 826.

[918] Anonym. Salernit., Paralip., cap. 45. P. II, tom. 2 Rerum Ital.

[919] Johann. Diac., in Vit. Episcopor. Neap., P. II, Tom. 2 Rer. Ital.

[920] Dandul., in Chron. tom. 12 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCCXXIX. Indiz. VII.

    GREGORIO IV, papa 3.
    LODOVICO PIO imperadore 16.
    LOTTARIO imperadore e re d'Italia 10 e 7.


L'anno ultimo della vita e dell'imperio di _Michele Balbo_ imperadore
de' Greci fu questo. Morì egli nel mese d'ottobre, con lasciare presso i
Cattolici un'abbominevol memoria a cagione de' suoi giudaici ed
ereticali sentimenti, e della persecuzione fatta ai protettori delle
sacre immagini. Gli succedette _Teofilo_ suo figliuolo, che sulle prime
finse mansuetudine e zelo della giustizia, e poi, cavatasi la maschera,
non sì lasciò vincere dal padre ne' vizii. Intanto l'_imperador
Lodovico_ continuamente pensava a provveder di stati il picciolo
_Carlo_, cioè il quarto dei suoi figliuoli, a lui nato dall'_imperadrice
Giuditta_; perciocchè dianzi avea divisi i suoi regni fra i tre
maggiori. Nitardo[921] è quello che ci ha conservate tali notizie. Nè
parlò più volte Lodovico con _Lottario_, e questi in fine consentì che
ne fosse assegnata anche a lui una porzione, con giurar anche di
sostenerlo e di difenderlo in tutte le occorrenze. Perciò l'Allamagna
ossia la Suevia, che allora abbracciava l'Elvezia, cioè gli Svizzeri, fu
data in sua parte al regio fanciullo. Tegano[922] vi aggiugne anche la
Rezia ossia i Grigioni, con parte della Borgogna. Di qui prese origine
un'iliade di sconcerti nella famiglia imperiale, che costò tanti
disturbi tanto sangue alla monarchia dei Franchi. Convien nulladimeno
osservare che prima ancora di questo avvenimento non mancavano nella
corte e fuor della corte d'esso Augusto de' cattivi umori contra della
stessa di lui persona. Quei medesimi, a' quali egli avea donata la vita,
o fatti altri benefizii, quegli erano che covavano un mal animo, e
segretamente sparlavano di lui, macchinando anche, o almen desiderando
la di lui rovina; effetti tutti del concetto, in cui egli era d'essere
un principe debole. Poco stettero ancora l'invidia e l'interesse a
maggiormente soffiar nel coperto fuoco. Ora altra via non seppe prendere
il buon imperadore che di costituire aio del figliuolo Carlo un uomo da
lui creduto di polso, cioè _Bernardo duca_ o marchese di quella che
oggidì chiamiamo Linguadoca, con insieme conferirgli il grado di
presidente della sua camera, e una straordinaria balìa nella sua corte.
Ma ad altro non servì una tal risoluzione che a maggiormente inasprire
non meno i figliuoli che i malcontenti, con somministrar loro nuovi
pretesti per le novità che andremo esponendo. Fu celebrato in quest'anno
un concilio di moltissimi vescovi nella città di Parigi, dove furono
formati varii canoni di disciplina ecclesiastica, e dati anche de' saggi
documenti agl'imperadori per governo de' popoli. In quest'anno
l'imperador Lodovico spedì il figliuolo Lottario in Italia, acciocchè
accudisse agli affari di questo regno. Sia lecito a me di rammentar qui
un suo capitolare, che già diedi alla luce fra le leggi
longobardiche[923], quantunque sia incerto l'anno in cui esso fu formato
dal suddetto Lottario Augusto. Dice egli di aver trovato che lo studio
delle lettere, per colpa e dappocaggine dei ministri sacri e profani, è
_affatto estinto_ nel regno d'Italia; e però di aver deputati maestri
che insegnino le lettere, con raccomandar loro di usar tutta la premura
possibile affinchè i giovani ne cavino profitto. Vien poscia annoverando
le città, in cadauna delle quali era destinato un maestro, acciocchè
concorressero colà a studiare gli scolari delle circonvicine città.
_Primieramente_, dice egli, _dovran venire a studiare sotto Dungallo in
Pavia i giovani di Milano, Brescia, Lodi, Bergamo, Novara, Vercelli e
Como_. Questo _Dungallo_ altri non può essere che _Dungalo_ monaco,
autore del trattato contra di Claudio vescovo di Torino, di cui s'è
parlato di sopra, che abitava e faceva scuola in Pavia. Seguita a dire
che _in Ivrea lo stesso vescovo insegnerà le lettere. A Torino
concorreranno da Albenga, da Vado, da Alba. In Cremona dovran venire
allo studio quei di Reggio, Piacenza, Parma_ e _Modena_. Ed ecco
chiaramente comprese queste quattro città nel regno d'Italia, e non già
nell'esarcato conceduto alla santa Sede, come alcuno (non so mai come)
ha preteso ai dì nostri. _In Firenze_ (son parole di Lottario
volgarizzate) _si farà scuola a tutti gli studenti della Toscana: in
Fermo a quei del ducato di Spoleti: a Verona concorreranno da Mantova e
da Trento: a Vicenza da Padoa, da Trivigi, da Feltro, Ceneda ed Asolo.
L'altre città di quelle parti manderanno i lor giovani alla scuola del
Foro di Giulio_, cioè a Cividal del Friuli. Questo bel documento ci fa
intendere tutte le contrade del regno d'Italia dalla parte occidentale.
Non vi si parla del ducato di Benevento, perchè que' duchi o principi, a
riserva del tributo, godevano quasi un supremo dominio ne' loro stati. E
neppur si fa parola delle città della Chiesa romana, perchè esse erano
ben sottoposte alla sovrana signoria degl'imperadori, ma escluse dal
regno d'Italia. Si vuol inoltre osservare che i maestri di scuola
d'allora altro non insegnavano che la grammatica, nome nondimeno che
abbracciava un largo campo, cioè, oltre alla lingua latina, anche le
lettere umane, la spiegazion degli antichi scrittori e poeti latini, una
qualche tintura delle sacre Scritture, colla giunta talvolta del computo
per intendere le lunazioni, e simili altre conoscenze. Ci ha contato
delle favole chi ha spacciato delle università di arti e scienze in que'
tempi, come oggidì, e ne ha fatto istitutore Carlo Magno in Italia e in
Francia. Era fortuna in quei secoli rozzi il poter avere un buon maestro
di scuola. Sì fatte scuole in molti monisteri di monaci si trovavano e
in alcune città. Anche i vescovi talora insegnavano, e i parrochi di
villa erano tenuti ad ammaestrar nelle lettere i fanciulli.

Appartiene a quest'anno un celebre placito ossia giudizio tenuto in Roma
dai ministri dell'_imperador Lodovico_, che il padre Mabillone[924] già
diede alla luce, e si legge nell'appendice alla piena esposizione dei
diritti cesarei ed estensi sopra Comacchio. Anche il Du-Chesne[925],
cento anni sono, l'avea comunicato al pubblico negli estratti della
Cronica di Farfa. Il padre Pagi[926] ne fa menzione all'anno 839, perchè
non ne avea veduta la data, che è questa: _Anno imperii domni Hludovici
XVI, mense januario, per Indictione VII_, cioè nell'anno presente. Da
esso placito impariamo che _Giuseppe vescovo_, e _Leone conte, missi
ipsius Augusti ad singulorum hominum causas audiendas et deliberandas_,
erano per ordine del grande imperador Lodovico venuti da Spoleti e dalla
Romagna a Roma, e che _residentibus nobis in judicio in palatio
lateranensi, in praesentia domni Gregorii papae, et una simul nobiscum
aderant Leo episcopus et bibliothecarius sanctae romanae Ecclesiae,
Theodorus episcopus,_ etc., _Petrus dux de Ravenna,_ etc., comparve
Ingoaldo abate del monistero di Farfa col suo avvocato, lamentandosi che
_domnus Adrianus et Leo pontifices per fortia invasissent res ipsius
monasterii, idest curtem cornianianum, etc. unde tempore Stephani,
Paschalis et Eugenii semper reclamavimus, et justitiam minime invenire
potuimus_: perciò chiedeva giustizia dai ministri imperiali, secondo
l'ordine dato loro dall'imperadore. Interrogato l'avvocato del papa,
rispose che la santa Chiesa romana teneva giustamente que' beni. Allora
fu intimato all'avvocato dall'abate di produrre, se ne avea, delle
ragioni. E questi esibì strumento, dal quale appariva che _Anselberga
badessa del monistero di s. Salvatore di Brescia_ (oggidì di santa
Giulia), e figliuola del re Desiderio, avea ceduto quei beni al
monistero farfense, siccome ancora un'altra pergamena, per cui si
chiariva che _Teodicio duca di Spoleti_ glieli avea venduti; e un'altra
comprovante che _Ansa regina_ avea acquistato con un cambio la corte di
s. Vito da _Teutone vescovo di Rieti_, e poi l'avea donata alla suddetta
Anselberga sua figliuola. Produsse ancora i diplomi del re Desiderio e
di Carlo Magno, che aveano confermato quelle corti al suo monistero. E
perciocchè negava l'avvocato pontificio che i monaci ne avessero mai
avuto il possesso, l'abbate si esibì pronto a produrre testimoni
legittimi del possesso, _usque dum praefati pontifices per fortia eas
tollere fecissent_. Nel giorno appresso furono esaminati varii idonei
testimonii che deposero in favore dei monaci; e non avendo l'avvocato
del papa che rispondere a tali testimonianze, i giudici diedero la
sentenza che que' poderi fossero riconsegnati al monistero di Farfa. Ma
l'avvocato pontificio disse di non voler farlo; e il papa protestò di
non accettar quella sentenza, con riserbarsi di trattarne di nuovo coi
medesimi davanti al signor imperadore. Se dal vedere che i ministri
imperiali alzano tribunale in Roma e nello stesso palazzo lateranense, e
ad istanza di chi si pretende gravato, chiamano al loro giudizio il
pontefice per beni temporali, e proferiscono sentenza, non risulti
chiaramente il dominio sovrano tuttavia conservato in Roma dagli
Augusti: io ne rimetto la decisione a chiunque fa profession d'amare le
verità in Roma stessa, con credenza che ognuno ivi l'ami e non
l'abborrisca. Secondo il Dandolo[927], mancò in quest'anno di vita
_Giustiniano Particiaco_, ossia Participazio, doge di Venezia, con
lasciar molti legati ai luoghi pii, e un buon fondo per fabbricare una
chiesa in onore di s. Marco evangelista, il cui corpo, siccome dicemmo,
sotto di lui fu portato a Venezia. Aveva egli richiamato alla patria
_Giovanni_ suo fratello, già relegato in Costantinopoli, ed ottenuto dal
popolo d'averlo per suo collega; laonde, accaduta la di lui morte, esso
Giovanni continuò ad esser doge.

NOTE:

[921] Nithardus. Hist., lib. 2.

[922] Theganus, de Gest. Ludovici Pii.

[923] P. I, tom. 2 Rer. Italic.

[924] Mabill. Append. ad tom. 2 Annal. Bened.

[925] Du-Chesne, Rer. Franc., tom. 3.

[926] Pagius, in Crit. Baron.

[927] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCXXX. Indizione VIII.

    GREGORIO IV papa 4.
    LODOVICO PIO imperad. 17.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 11 e 8.


Scoppiarono finalmente in quest'anno le mine formate contra
dell'_imperador Lodovico_ dai malcontenti, e, quel che fa più orrore,
da' suoi stessi figliuoli, cioè da _Lottario, Pippino_ e
_Lodovico_[928]. _Bernardo duca_ della Settimania, divenuto lo arbitro e
padron della corte, se vogliam credere a Pascasio Ratberto[929], l'aveva
tutta sconvolta, e la facea da tiranno; e può essere che non pochi
disordini succedessero a cagione della di lui prepotenza. Ma questo non
bastò. Si fece correre anche voce che egli mantenesse pratica disonesta
coll'_imperadrice Giuditta_, fino a dire che il _principe Carlo_, ultimo
genito dell'imperadore, a lui doveva i suoi natali. Ratberto su questo
si scalda, e francamente spaccia per vero tutto quanto era apposto ad
esso Bernardo, con dargli il nome di _amissarius_ (o pure, come par più
credibile, di _emissarius_) _qui cuncta reliquit honesta_. Avrebbe avuta
pena il buon monaco a recar buone pruove di questa imputazione; e certo
non conveniva mai ad un par suo il parlare così. Mossesi
l'imperador[930] sul principio della quaresima coll'esercito per passare
ostilmente contro ai popoli della minore Bretagna sempre tumultuanti.
Era la stagion fredda, fangose le strade, disastroso il cammino. Si
prevalsero i nobili congiurati di questa occasione per distrarre
l'armata dall'ubbidienza dovuta al sovrano, di modo che la maggior parte
delle milizie, tornatasene indietro, venne a Parigi; ed eglino intanto
fecero sapere a _Lottario_ che accorresse colà dall'Italia, e a
_Pippino_ di venir dall'Aquitania, perchè il tempo era questo di deporre
il padre, di levar dal trono la creduta impudica _Giuditta Augusta_, e
dal mondo il decantato adultero _Bernardo_, come sovvertitore del regno.
Se potesse servire di scusa a Lottario il sapere che i migliori e più
assennati tra' Franzesi non poteano sofferire lo stato della corte
imperiale d'allora: certo questa scusa non gli mancò. Ma nel tribunal di
Dio, e neppure in quello degli uomini, non avrà mai peso una scusa sì
fatta. Pervenuto allo orecchio dell'imperador Lodovico il suono
dell'insorta tempesta, preveduta in parte per l'abbandono seguito delle
soldatesche, mandò a Laon in monistero la Augusta sua moglie; permise a
Bernardo di ritirarsi a Barcellona, se pur questi non prese da sè stesso
e dalla sua paura un tal consiglio; ed esso imperadore sen venne a
Compiegne. Colà corse il _re di Aquitania Pippino_ suo figliuolo,
accompagnato da una gran folla di popolo; e secondo il concerto fatto
per via di lettere con Lottario Augusto suo fratello, levò al padre il
comando. Presa poi l'imperadrice Giuditta dal monistero di Laon, la
mandò a quello di Poitiers, ed ivi per forza la costrinsero a prendere
l'abito monastico. Per forza ancora cacciarono in monistero i due
fratelli d'essa Augusta _Corrado_ e _Ridolfo_. Alla serie di queste
abbominevoli vicende, secondo Pascasio Ratberto, pare che intervenisse
_Lodovico re di Baviera_, altro figliuolo dell'imperadore; ma è ben
certo che _Lottario Augusto_ dopo l'ottava di Pasqua arrivò a Compiegne,
e fece cavar gli occhi ad Eriberto fratello di Bernardo duca, giacchè
non potè aver nelle mani Bernardo stesso. Fu approvato da Lottario tutto
quanto fin qui aveva operato Pippino; e trattò ben egli rispettosamente
il padre, ma tendeva ogni mira de' figliuoli ad indurlo ad assumere la
tonsura monastica in qualche monistero. Prima ancora che Giuditta
prendesse il sacro velo, adoperarono lei stessa per persuadergli questa
ritirata; ed in fatti gli parlò essa in segreto, ma senza sapersi s'ella
mantenesse la parola data. Lodovico prese tempo per pensare a sì gran
risoluzione, ed intanto, poco fidandosi dei Franzesi, segretamente
cominciò dei maneggi coi Tedeschi. Per voglia di metter fine in qualche
maniera a tante turbolenze, fu destinata una dieta a Nimega. Il concorso
di chi era in favore dell'imperador Lodovico si scoprì maggiore di quel
che si credeva, di maniera che la contraria fazione, come disperata,
ricorse la notte a Lottario per esortarlo o a decidere col ferro la
contesa o a ritirarsi. Informatone Lodovico, fece venire a sè nella
mattina seguente il figliuolo Lottario, al dispetto di chi il
consigliava di non andarvi, e con una parlata da padre si studiò di
fargli conoscere il suo dovere. Intanto il popolo temendo chi per
Lodovico e chi per Lottario, furiosamente diedero di piglio all'armi; e
ne sarebbe venuto gran male, se i due Augusti non si fossero fatti
vedere a tutti in forma di concordia: il che servì a quetar tutto quel
pazzo movimento. E perciocchè oramai senza misura prevaleva la fazione
dell'Augusto Lodovico, egli ricuperò il comando; e successivamente
ordinata fu la cattura de' principali fra' congiurati, e d'essi formato
il processo. Fra questi si trovarono _Ilduino abbate_ di s. Dionisio in
Parigi e di altri monisteri, che godeva anche la riguardevol carica di
cappellano della corte, _Elisacaro_ abbate di Centulae, _Walla_ abbate
della vecchia Corbeia, di cui abbiamo parlato di sopra. Questi abbati
cortigiani ci vengono descritti per santi; ma certo, che che ne dica
Pascasio Ratberto ad acquistar loro il credito della santità, niuno dirà
che concorresse l'aver eglino avuta mano in questi imbrogli, e tenuto il
partito de' figliuoli contra di un padre. _Lottario Augusto_ giurò
allora fedeltà al genitore; e _Lodovico re di Baviera_, intervenuto alla
dieta suddetta, aiutò, per quanto potè, la causa del medesimo suo padre
Augusto. E ciò perchè non meno a lui che a _Pippino_ suo fratello
segretamente esso Lodovico Pio diede intenzione di accrescere la lor
porzione di stati. Può essere che in quest'anno accadesse ciò che narra
il Dandolo[931], cioè che _Obelerio_, già doge deposto di Venezia, se ne
tornò furtivamente a casa, e si fece forte nell'isola appellata Vigilia.
Accorse incontanente _Giovanni_ doge regnante coll'esercito, e lo
assediò in quell'isola. Avvenne che quei di Malamocco, perchè Obelerio
era di nascita loro concittadino, passarono al campo di lui, con
abbandonar Giovanni. Allora Giovanni, lasciata stare Vigilia, passò
contra di Malamocco, e dopo avere espugnato quel luogo e datolo alle
fiamme, tornò contra d'Obelerio, ed avutolo finalmente nelle mani, se ne
assicurò con fargli tagliare la testa.

NOTE:

[928] Anonymus, in Vit. Ludov. Pii. Theganus, de Gest. Ludovici Pii,
cap. 36.

[929] Paschasius Ratbertus, in Vit. Wallae Ab., lib. 2, cap. 28.

[930] Annales Francor. Bertiniani.

[931] Dandul., Chronic., tom. 12 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCCXXXI. Indiz. IX.

    GREGORIO IV papa 5.
    LODOVICO PIO imperadore 18.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 12 e 9.


Secondo gli Annali bertiniani[932], sul principio di febbraio dell'anno
presente fu in Aquisgrana tenuta una general dieta, dove si presero le
risoluzioni convenienti intorno a coloro che aveano cospirato contro di
Lodovico Pio. Furono tutti concordemente giudicati incorsi nella pena
della testa. Ma il buon imperadore volle che la clemenza andasse innanzi
alla giustizia, con decretare ai laici il farsi monaci, e ai monaci la
relegazione in qualche monistero. Cadde questo lieve gastigo sopra i tre
abbati suddetti _Ilduino_, _Elisacaro_ e _Walla_. _Jesse_ vescovo di
Amiens fu deposto. Altri vescovi ed ecclesiastici spontaneamente
elessero l'esilio con fuggire in Italia, e ricoverarsi sotto la
protezion di Lottario. Vi restava da decidere il punto dell'_imperadrice
Giuditta_. Sopra di ciò era stato consultato il sommo _pontefice
Gregorio_, e la sentenza sua fu che si avesse per nulla ed insussistente
la di lei monacazione, e concordi colla santa sede andarono i vescovi di
Francia. Però, come scrive Tegano[933], _jubente Gregorio romano
pontifice cum aliorum episcoporum justo judicio_ ella sen venne ad
Aquisgrana con riassumere gli abiti secolareschi; ma prima le fu
prescritto di purgarsi dagli apposti reati. Il che si fece secondo i
biasimevoli riti di que' tempi, cioè con esibirsi un campion d'essa
pronto a provare la di lei innocenza col duello. E posciachè non
comparve accusatore alcuno, fu accettato il di lei giuramento per pruova
bastevole della sua onestà. Dopo di che _Pippino_ e _Lodovico_ figliuoli
dell'imperadore, lieti per l'accrescimento fatto a' loro domini, ebbero
licenza di andarsene l'uno in Aquitania, l'altro in Baviera. Lottario
solo si trovò deluso in mezzo alle sue grandi idee e speranze[934],
perciocchè gli convenne contentarsi della sola Italia, con giurare
inoltre di non far da lì innanzi novità nella monarchia contro la
volontà del padre. A lui più che ad altri era attribuita l'origine e
continuazione di sì brutti sconcerti. E cercarono anche di profittarne i
suddetti suoi due fratelli, col cominciar cadauno a far broglio per
ottenere il primato, cioè il titolo imperiale dopo la morte del padre;
ma per questo conto ritrovarono una forte opposizione nei ministri della
corte paterna. La verità nondimeno è che Lodovico Pio non trattò sempre
da lì innanzi Lottario come collega nell'imperio. Tennesi poi un'altra
dieta in Ingeleim sul principio del seguente maggio, dove comparve
ancora esso Lottario Augusto, che fu onorevolmente accolto dal padre; ma
fra poco ebbe ordine di tornarsene in Italia, perchè non poca
apprensione dovea dare a Lodovico lo spirito imbroglione di questo suo
figliuolo. Quivi il clementissimo Augusto fece grazia a molti degli
esiliati, permettendo ad alcuni di ritornarsene alle lor case, e ad
altri anche il rivenire alla corte. In un'altra dieta, che fu
nell'autunno seguente tenuta a Tionvilla, si vide comparire _Bernardo
duca_ di Settimania, quel medesimo, per cui tanto rumore s'era sollevato
nell'anno addietro. Anch'egli si esibì pronto a provar coll'armi le
calunniose voci sparse contra di lui; e non essendosi trovato chi si
sentisse voglia di prendere questa briga, si venne al giuramento, per
cui, nel tribunale del mondo, egli restò bastantemente giustificato.
Assisterono a questa dieta due figliuoli dell'imperadore, cioè
_Lottario_ e _Lodovico_, e di poi se ne andarono. Ma non v'intervenne
già il re _Pippino_. Aspettollo un pezzo il padre, e non veggendolo
venire, mandò gente apposta a chiamarlo. Promise Pippino di andarvi, e
finalmente sol pochi dì prima del santo natale si presentò all'Augusto
genitore, che, a cagion della disubbidienza sua, lo accolse assai
freddamente, ed anche lo sgridò. Se ne impazientò il giovine principe, e
nel dì 27 di dicembre, senza dire addio ad alcuno, se ne fuggì
frettolosamente verso l'Aquitania. E tali erano i portamenti de'
figliuoli verso l'infelice Lodovico imperadore lor padre, che
declinarono anche in peggio, siccome vedremo. Abbiamo dalla Cronica
arabica[935], tratta dal codice di Cambridge e da me ristampata, che in
quest'anno riuscì ai Saraceni, dopo aver già fissato il piede in
Sicilia, d'impadronirsi della città di Messina. Teodoto patrizio, che
per l'imperadore greco, il meglio che poteva, andava contrastando e
difficultando le conquiste di quegl'infedeli, restò da loro ucciso in
qualche mischia.

NOTE:

[932] Annales Franc. Bertin. et Metens.

[933] Theganus, de Gest. Ludovici Pii, cap. 37.

[934] Nithardus, Hist. lib. 1.

[935] P. II, tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCXXXII. Indizione X.

    GREGORIO IV papa 6.
    LODOVICO PIO imperad. 19.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 15 e 10.


Non senza nuovi affanni passò l'_Augusto Lodovico_ quest'anno ancora a
cagione de' suoi figliuoli. L'improvvisa fuga e disubbidienza del _re
Pippino_ gli avea trafitto il cuore. Per cercare rimedio a questi
disordini intimò una nuova dieta in Orleans[936], dove eziandio furono
invitati _Lottario Augusto_ dall'Italia, e _Lodovico re_ dalla Baviera.
Ma non andò molto che arrivò nuova come il suddetto suo figliuol
Lodovico, messa insieme una poderosa armata di Bavaresi e Schiavoni
disegnava d'invadere l'Alemagna, ossia la Suevia e di torla al picciolo
fratello _Carlo_ e di passar poscia in Francia per sottomettere al suo
dominio tutto quanto quel paese che potesse. Tegano[937] ci vuol far
credere mosso questo principe dai consigli di _Lottario_, al quale
veniva forse troppo facilmente da alcuni attribuito ogni malanno
d'allora. Altri ne fanno autore _Malfrido conte_ di Orleans, a cui
l'imperadore avea donata la vita. A tali avvisi non tardò Lodovico Pio a
mettere in piedi un grosso esercito di Franzesi e di Sassoni, co' quali
marciò contra del figliuolo. Si trovarono a fronte le due armate presso
a Vormazia, e parea disposto il figliuolo a venire ad un cimento; ma
perchè riconobbe vana la speranza a lui data che passerebbono nel campo
suo le soldatesche del padre, e nello stesso tempo il buon imperadore,
non mai dimentico che quegli era suo figliuolo, il mandò a chiamare;
andò coraggiosamente il giovane Lodovico a trovarlo. Fu dal buon padre
benignamente accolto, e con sì amorevoli parole esortato alla pace, che
restò dissipato tutto questo nuvolo, ed amendue si separarono con
apparenza di grande amore. Non fu già così per l'altro figliuolo
_Pippino_. Questi fuggito, come dicemmo, s'ebbe avviso che meditasse
anch'egli delle novità; però fu obbligato l'imperador suo padre a mandar
ordine perchè sul principio di settembre si facesse la raunanza
dell'esercito ad Orleans, dove si portò per tenere la dieta. Colà fu
chiamato, e colà finalmente venne, ma contra sua voglia, il re Pippino.
Lo sgridò il padre, perchè senza chiedere licenza si fosse ritirato
dalla corte nell'anno addietro, e messolo sotto buona guardia, gli
comandò di andare a Treveri, e di guadagnarsi il perdono del passato
coll'ubbidienza in avvenire. Le promesse del figliuolo furono quali si
desideravano da un padre, ma i fatti non corrisposero. Non andò molto
ch'egli tornò a fuggire. Il perchè l'imperador Lodovico avendo non poco
fondamento che il figliuolo fosse pervertito dai consigli d'alcune
malvage persone, e specialmente da _Bernardo duca_ della Settimania,
autore in addietro di tanti mali, e dimorante allora in Aquitania, fece
citar costui a render conto di sua persona. L'imputazione era di
fellonia. Egli elesse la detestabil via del duello per provare
l'innocenza sua. Non si venne al combattimento per mancanza di chi
volesse uscire in campo contra di lui. Ciò non ostante, egli venne
degradato, e liberato il pubblico da sì pernicioso arnese. Presero qui
occasione _Lottario Augusto_ e _Lodovico re_ di Baviera di profittare
dello sdegno del padre contra del loro fratello _Pippino_[938], con
tirarlo a fare un'altra divisione della monarchia in vantaggio d'essi e
di _Carlo_, quarto loro fratello; ma questa non ebbe poi effetto. In
questi medesimi tempi la Cristianità e l'Italia ebbero di che piagnere,
perciocchè, secondo la Cronica arabica[939], riuscì ai Saraceni di
forzare alla resa la città di Palermo; con che venne la maggiore e
miglior parte della Sicilia sotto il loro giogo. Ne abbiamo anche la
testimonianza di Giovanni Diacono[940], che fiorì in questi tempi, e
racconta che tutti i Palermitani furono stati schiavi, e che il solo
_Luca_ eletto vescovo di quella città, e Simeone spatario
dell'imperadore greco con pochi altri ottennero dipoi la libertà. Circa
questi tempi ancora diede fine a questa mortal vita _Antonino_ abbate
benedettino di Sorrento. Leggesi la breve sua vita pubblicata dal padre
Bollando[941], e poi ristampata dal padre Mabillone[942], dove dice
ch'egli morì _sexto decimo kalendas martii, consule Probiano_. Non
riguarda già questa nota cronologica l'anno di Cristo 471, in cui fu
console _Probiano_, ma bensì l'anno presente, o i due vicini, ne' quali
_Probiano_ console ossia duca di Sorrento vivea. Ancorchè nulla di
riguardevole o per virtù o per miracoli si narri di lui nella vita
suddetta, pure in que' tempi barbari egli meritò il titolo di santo e lo
si ritien tuttavia in quella città.

NOTE:

[936] Annal. Franc. Bertiniani.

[937] Thegan., de Gest. Ludovici Pii, cap. 39.

[938] Astronomus, in Vita Ludov. Pii.

[939] P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[940] Johann. Diac., in Vit. Episcop. Neapol., P. II, tom. 1 Rerum
Italicarum.

[941] Bollandus, in Act. Sanct. ad diem 13 februarii.

[942] Mabill., Saecul. IV Benedict.



    Anno di CRISTO DCCCXXXIII. Indiz. XI.

    GREGORIO IV papa 7.
    LODOVICO PIO imperadore 20.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 14 e 11.


Intorno a questi tempi si può credere accaduto ciò che narra Anastasio
bibliotecario[943]. Quasi tutta la Sicilia era già caduta in mano de'
Saraceni africani, e cominciarono tosto a provarsi i funesti effetti
della maggiore loro vicinanza all'Italia, facendo quei barbari corsari
delle scorrerie per tutto il litorale del Mediterraneo. Questa calamità
diede molto da pensare al sommo _pontefice Gregorio_, per la giusta
apprensione che le città di Porto e d'Ostia potessero un dì restar preda
degl'infedeli. Tanto maggiore era la di lui ansietà, perchè se coloro
avessero presi quei due luoghi alla sboccatura del Tevere e peggio se vi
avessero fermato il piede, Roma non era sicura, o certo correva gran
pericolo la venerata basilica vaticana coi corpi de' santi Apostoli,
giacchè era essa in questi tempi fuori di Roma. Però il vigilante papa
determinò di fabbricare una nuova città nel sito d'Ostia. Vi si portò
egli in persona e diede principio con vigore alle mura, che riuscirono
alte, con porte ben fortificate, troniere e petriere e con buona fossa
all'intorno. Questa nuova Ostia ordinò egli che in avvenire si nomasse
dal suo nome _Gregoriopoli_. Cessò di vivere secondo i conti di Camillo
Pellegrino[944], nel presente anno _Sicone_ principe di Benevento, il
cui epitaffio resta tuttavia e vien registrato nella storia de' principi
longobardi del suddetto Pellegrino. Quivi è detto ch'egli regnò _per
quinos annos_, anni quindici, i quali dedotti dall'anno 817, ci possono
far dubitare che la sua morte accadesse piuttosto nell'anno precedente.
Comunque sia, fra le sue lodi si conta ch'egli difese il ducato
beneventano dall'ira de' Franchi; assediò vigorosamente Napoli, ed
obbligò quel popolo a pagargli il tributo, e di là condusse a Benevento
il corpo di san Gennaro vescovo e martire, in onore del quale fabbricò
un tempio e fece grandi donativi d'argento. A proposito dell'assedio di
Napoli narra Erchemperto[945], aver egli talmente stretta e bersagliata
quella città con arieti e mangani, che diroccato un buon pezzo di muro
vicino al mare, i Beneventani erano già alla vigilia di entrarvi per
forza. Allora il duca di Napoli mandò a trattar della resa per ischivare
il sacco, e diede per ostaggio la madre e due suoi figliuoli.
Impetrarono i legati che Sicone entrasse solamente nel giorno appresso
nella città; ma non v'entrò già egli mai, perchè nella notte stessa i
Napoletani alzarono bravamente nella parte smantellata un nuovo muro, e
sul far del giorno comparvero sopra di esso coll'armi più che mai
risoluti di difendersi. L'Anonimo salernitano[946] aggiugne che fu
inviato _Orso_, eletto vescovo di Napoli, ad implorar misericordia e
pace da Sicone, il quale, cedendo alle esortazioni e preghiere del
prelato, venne ad un accordo; cioè si obbligò il duca napoletano di
pagare ogni anno tributo al principe di Benevento. Abbiamo inoltre dal
prefato Salernitano che _Landolfo_ seniore conte di Capua per ordine di
esso Sicone fabbricò una nuova forte città nel monte Trilisco non lungi
dalla medesima città di Capua. Fu pregato Sicone di venirla a vedere e
giunto colà chiese parere a' suoi baroni, qual nome si potesse porre a
questa nuova città. Tutti ad una voce risposero _Sicopoli_, fuorchè uno
il qual disse: piuttosto che Sicopoli, chiamiamola _Rebellopoli_. Montò
in collera Sicone a questo motto, e gli dimandò perchè parlasse così.
Perchè, disse colui, dappoichè i Capuani hanno un luogo sì ben
fortificato, dureran fatica ad ubbidirvi; e questo vi succederà quando
non si formi una buona lega d'animi fra i Beneventani e Capuani col
mezzo di varii matrimoni. Non cadde in terra questo avvertimento; e
Sicone da lì innanzi procurò varie parentele fra que' due popoli. A
Sicone defunto succedette nel principato di Benevento _Sicardo_ suo
figliuolo, già dichiarato suo collega, principe, al dire di Erchemperto,
anch'esso divoratore de' suoi sudditi.

L'anno fu questo in cui si vide una scandalosa rivoluzion di stato, che
non si può rammentar senza orrore e senza obbrobrio della Francia e di
que' tempi. Tornarono peggio che prima a rivoltarsi contro l'_imperador
Lodovico_ i suoi tre maggiori figliuoli _Lottario, Pippino_ e
_Lodovico_. Le cagioni di sì fatti abbominevoli movimenti non sono ben
registrate dagli storici. Per quel ch'io credo, e per quanto si può
dedurre da _Agobardo_[947], celebre arcivescovo di Lione, l'invidia e
gelosia di stato rimise l'armi in mano a que' principi dimentichi della
riverenza dovuta ad un padre. Si lasciava pur troppo il buon imperadore
menar pel naso dalla _imperadrice Giuditta_ loro matrigna, e si può in
parte prestar fede a quanto di lei in questo proposito lasciarono
scritto Pascasio Ratberto[948] ed Agobardo. Le mire dell'ambiziosa donna
tendevano tutte ad ingrandir l'unico suo figliuolo Carlo; e in
quest'anno ancora le era riuscito di fargli assegnar l'Aquitania, con
levarla al figliastro Pippino, come attesta Nitardo[949], _Aquitania,
Pippino demta, Carolo datur, et in ejus obsequio primatus populi, qui
cum patre sentiebat, jurat_. Questi passi sì svantaggiosi agli altri
figliuoli e il timore di peggio, fecero perdere la pazienza a Lottario,
Pippino e Lodovico; e tanto più perchè non mancavano segreti istigatori
che malignamente accendevano il fuoco e nulla più desideravano che di
veder discendere dal trono il cristianissimo e clementissimo loro
monarca. Passata dunque intelligenza fra i tre suddetti fratelli, dopo
aver trattato indarno di concordia col padre in lontananza, _Lottario_
dall'Italia, _Pippino_ dall'Aquitania, _Lodovico_ dalla Baviera,
marciarono coi loro eserciti per andarlo a trovare in persona. L'Augusto
Lodovico, subodorati questi movimenti, anch'egli s'armò come potè, e
venne in Alsazia, dove a fronte di lui arrivarono anche i figliuoli,
risoluti di dare alla monarchia quel regolamento che al loro senno, o,
per dir meglio, alla loro detestabile ambizione parea più proprio. Quel
sito acquistò da lì innanzi il nome di _Campo della bugia_, o di _Campo
mendace_. Avea Lottario fatto venire d'Italia e condotto seco _papa
Gregorio IV_, figurandosi che niun personaggio fosse atto più di lui,
siccome padre comune e di tanta autorità, a maneggiar un trattato di
pace fra un padre e i suoi figliuoli. Ma fu presa in sospetto
dall'imperador Lodovico la venuta del romano pontefice, quasichè egli si
fosse unicamente mosso per favorire i disegni del figliuolo Lottario,
cioè di chi era arbitro dell'Italia. Fece in oltre delle doglianze
perchè egli fosse venuto, senz'averne preventivamente avuto da lui
ordine alcuno, ed anche dopo essere venuto, tardasse tanto a lasciarsi
vedere da lui. Anzi gli stessi vescovi franzesi del partito d'esso
imperador Lodovico, essendosi sparsa voce che il papa per troppa
parzialità nudrisse pensiero di scomunicar l'imperadore e i vescovi, se
alcun di loro si mostrasse disubbidiente al volere di lui e de'
figliuoli di esso Augusto, si lasciarono trasportare all'eccesso con
fargli sapere, secondochè narra l'autore della vita di Lodovico[950],
_nullo modo se velle ejus voluntati succumbere. Sed si excommunicaturus
adveniret, excommunicatus abiret: quum aliter se habeat antiquorum
canonum auctoritas._ Finalmente fu permesso al papa di andar ad
abboccarsi coll'imperador Lodovico, che il ricevette con poco garbo, e
senza la riverenza usata da' suoi maggiori al vicario di Cristo. Per
testimonianza di Tegano[951], Gregorio gli presentò grandi e
innumerabili regali, si fermò con lui qualche giorno e trattò seco de'
correnti scabrosi affari, per quanto si può conghietturare, con tutta
onoratezza e vera intenzione di rimettere la buona armonia fra lui e i
figliuoli. Da Pascasio Ratberto si può ricavare ch'egli proponeva ed
insisteva che stesse salda la _prima division dell'imperio_ fatta
dall'imperadore, giacchè l'averla egli guasta, per esaltare il fanciullo
quartogenito _Carlo_, avea troppo disgustato i tre maggiori figliuoli. I
seguenti successi ci danno a conoscere che o Lodovico Augusto, o i
figliuoli non vi vollero acconsentire. Però il papa licenziato si
restituì al campo di Lottario, nè gli fu più permesso di tornar a
parlare coll'Augusto Lodovico.

Intanto lavoravano sott'acqua i figliuoli tirando a poco a poco con doni
o con minacce nel loro partito i seguaci del padre, di modo che non andò
molto che esso Lodovico si vide quasi affatto abbandonato dai suoi e
costretto a far sapere ai figliuoli che andrebbe alle lor tende,
persuadendosi bene che non mancherebbono di rispetto verso di lui e
verso la moglie, nè di amore verso il loro fratello Carlo. Andò e fu
ricevuto col figliuolo nel padiglione di Lottario, che era il principal
promotore di questa esecrabil briga. Allora fu che i tre fratelli si
divisero fra loro la monarchia franzese, e si fecero giurar fedeltà dai
popoli. Quindi Lottario mandò in esilio l'imperadrice _Giuditta_ in
Italia, confinandola nella città di Tortona[952], con promessa giurata
fatta al padre di non nuocere al corpo nè alla vita di lei. Fu anche
levato da lato dell'imperadore con suo gran rammarico il tanto da lui
amato figliuolo _Carlo_ e relegato nel monistero di Prumia nella
Germania. _Papa Gregorio_ al vedere cotali sregolate violenze, le
disapprovò, nè soffrendogli più il cuore d'essere spettatore di sì
brutta tragedia, se ne ritornò malcontento a Roma. _Pippino_ e
_Lodovico_ fratelli di Lottario se ne tornarono ai regni loro. Restò
l'infelice _Augusto Lodovico_ nelle mani di _Lottario_, il quale, avendo
già prese le redini del governo, seco il condusse, come privata persona
e a guisa di prigioniere sotto buona guardia, a Soissons, con adoperare
intanto emissarii e segrete esortazioni per indurlo a rinunziare
spontaneamente l'imperio e a monacarsi, siccome altre volte pareva che
avesse avuta intenzione di fare. Per muoverlo più agevolmente, gli fu
dato a credere che l'imperadrice avesse già dato l'addio al secolo con
prender l'abito monastico, o fosse morta, e che il figliuolo Carlo già
fosse tonsurato in un monistero. Ma Lodovico non si arrendè per questo,
e tanto più perchè segretamente fu avvertito della falsità di quelle
voci, ed esortato a tener forte per quanto potesse lo scettro. Non
valendo questi mezzi, si venne al più vigoroso e fu quello di raunare
nel mese di ottobre in Compiegne molti vescovi, alla testa de' quali era
_Ebbone_ arcivescovo di Reims, fazionario di Lottario, uomo di vil
nascita, ma di una crudeltà che non avea pari. Videsi in tal occasione,
con vergogna del nome cristiano, empiamente impiegata dai ministri di
Dio la santissima religione per ispaventare e detronizzare quel misero
principe con indurlo a chiamarsi colpevole delle seguenti imputazioni.
Cioè, di aver permessa la morte del re _Bernardo_ suo nipote e fatti
monacare per forza i suoi fratelli naturali, tuttochè di ciò egli avesse
già fatta penitenza. Di aver contro i giuramenti rotta la divisione da
lui già stabilita dell'imperio, ed astretti i sudditi a due contrari
giuramenti: dal che erano venuti spergiuri e gravi turbazioni. Di avere
in tempo di quaresima intimata al popolo una spedizion generale: cosa
che avea cagionata una gran mormorazione. Di aver maltrattato chi dei
suoi fedeli era ito ad informarlo dei malanni correnti e delle insidie a
lui tese, con cacciarli in esilio e confiscar loro i beni; siccome
ancora d'aver cagionato del discredito ai sacerdoti e monaci. Di aver
esatto contro la giustizia varii giuramenti da' suoi figliuoli e popoli.
Di aver fatto varie spedizioni militari che aveano prodotti tanti
omicidii, sacrilegii, adulterii, rapine ed incendii, con oppression de'
poveri: mali tutti, de' quali era reo presso Dio. Di aver fatto delle
divisioni dell'imperio a capriccio, turbata la pace comune, armati i
popoli contra de' suoi figliuoli, in vece di pacificarli coll'autorità
paterna e col consiglio de' suoi fedeli. E finalmente d'aver messo a
pericolo d'infinite uccisioni i suoi sudditi, quando l'obbligo suo era
di procurar loro la salute e la pace. Con questi mal inventati capi di
reati diedero que' vescovi ad intendere al piissimo imperadore ch'era
scomunicato e che gli era d'uopo di farne penitenza, se voleva salvar
l'anima sua. Lasciossi il meschino principe trattar come vollero que'
vescovi che aveano venduta la lor coscienza a Lottario, con deporre la
spada e le insegne imperiali, e vestirsi di cilicio, e vituperar le sue
passate azioni, e con pericolo di verificar l'antico proverbio: _Heroum
filii noxae_. Questo bastò a Lottario per credere decaduto il padre:
benchè non fidandosi di lui, nè del popolo, seguitasse a tenerlo sotto
più rigorosa guardia, senza permettergli di parlare, se non con pochi
destinati al di lui servigio. Il popolo, terminata questa scena, se ne
tornò tutto confuso e mesto a casa. Lottario si fermò in Aquisgrana quel
verno, facendola da padron dell'imperio. _Walla abbate_ di Corbeia, per
levarsi da così deforme spettacolo, avea ottenuto da lui di potersi
ritirare in Italia, e venuto al celebre monistero di san Colombano di
Bobbio, quivi coll'aiuto di Lottario fu eletto abbate. Da un documento
veronese pubblicato dal Panvinio e poi dall'Ughelli[953], che fu scritto
nell'anno 837 pare che nell'anno presente Lottario Augusto mandasse a
Verona _Mario_ (forse nome scorretto) _conte bergense_ (s'ha
verisimilmente da scrivere _bergomense_) ed _Eriberto_ vescovo di Lodi,
_ut muros qui ad portam, quae dicitur Nova, diruebant, sive in castello,
aliisve necessariis locis restituerent_. Dicesi ordinata questa
riparazione _eo anno, quando imperator Lotharius cum exercitu in
Franciam cum fratribus ad patrem perrexit_.

NOTE:

[943] Anast. Bibliothec., in Vit. Gregor. IV.

[944] Part. I, tom. 2 Rer. Italic.

[945] Erchempertus, Hist., cap. 10.

[946] Anonymus Salernitan., P. II. edit. Peregr.

[947] Agobardus de Comparat. utriusq. Regimin.

[948] Paschasius, Ratbertus in Vit. Walae, lib. 1.

[949] Nithardus, Hist., lib. 1.

[950] Anonymus, in Vit. Ludov. Pii.

[951] Theganus, de Reb. est. Ludovici, cap. 42.

[952] Astronomus, in Vit. Ludovici Pii.

[953] Ughell., tom. 5, Ital. Sacr. de Episcop. Veronens.



    Anno di CRISTO DCCCXXXIV. Indiz. XII.

    GREGORIO IV papa 8.
    LODOVICO PIO imperadore 21.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 15 e 12.


L'aspro ed indegno trattamento fatto da _Lottario_ all'_imperador
Lodovico_ suo padre induceva ogni dì più a compassione chi non aveva
avuta parte nel di lui abbassamento, e svegliava pentimento in chi avuta
ve l'avea[954]. Fra gli altri _Lodovico re di Baviera_ suo figliuolo,
prima ancora che terminasse l'anno precedente, tornato in sè stesso,
cominciò ad assumere la di lui difesa, e venuto a Francforte, spedì
ambasciatori a Lottario pregandolo di usar più umanità verso del padre.
Lottario li ricevè assai freddamente. Altri successivamente ne mandò
esso re di Baviera, nè a questi fu permesso di vedere l'imperador
prigioniere. Venuto poi Lottario a Magonza, quivi con lui si abboccò il
fratello Lodovico, ma senza neppur riportarne buone parole, per gli
cattivi consiglieri che Lottario aveva ai fianchi. Questa durezza di
Lottario e le premure di molti nobili fautori dell'oppresso imperadore e
massimamente di _Dragone vescovo_ di Metz, indussero il suddetto re di
Baviera a trattare col _re Pippino_, altro suo fratello, una lega contra
di Lottario, per procurar la liberazion del padre. In fatti amendue coi
loro eserciti da due parti si mossero per andare a trovare ostilmente il
fratello; e crebbero per via le loro forze, concorrendo di qua e di là
gente a questo pio uffizio; di modo che Lottario giunto a Parigi,
veggendo sì gran turbine che minaccioso si appressava, lasciato quivi il
padre in libertà nel monistero di s. Dionisio, si diede alla fuga sul
fine di febbraio, seguitato da alcuni vescovi suoi aderenti, fra' quali
specialmente si contò _Agobardo arcivescovo_ di Lione[955]. Non volle il
buon imperador Lodovico ripigliare il cingolo militare e le insegne
imperiali, se prima non venne assoluto dai vescovi e da loro rimesso in
possesso del primiero comando con incredibil giubilo del popolo.
Ritiratosi Lottario Augusto nella Provenza, recò non pochi aggravii a
quelle contrade; e perchè la città di Cavaglione ricusò
d'ubbidirlo[956], la espugnò e diede alle fiamme; e presi quei conti che
la difendevano, tre ne fece morire e gli altri cacciò in prigione. Colà
inviò l'imperador suo padre degli ambasciatori per significargli come
gli perdonava tutti i passati eccessi, esortandolo a venirsene a lui
pacificamente, che sarebbe ben ricevuto. Non fidandosene Lottario,
continuò nelle risoluzioni di prima. Stava intanto confinata in Tortona
l'_imperadrice Giuditta_, ed era stato secretamente inviato in Italia un
certo Rodberto laico, menzionato da Walafrido Strabone in uno dei suoi
poemi, per procurar la sua liberazione; nè mancavano in Italia dei gran
signori fedeli all'imperador Lodovico. Sparsasi poi voce che esso
Augusto era stato rimesso in libertà e che si macchinava contra la vita
della medesima imperadrice, per attestato dell'Annalista bertiniano,
_Ratoldo_ vescovo, _Bonifazio_ conte e _Pippino_ parente
dell'imperadore, ed altri non pochi con gran prestezza inviarono persone
che destramente, o pure per forza la misero in salvo, e menaronla
felicemente ad Aquisgrana, dove la presentarono sana all'imperador suo
consorte. Ma egli non volle ripigliarla, se prima ella in pubblico non
si purgò dai reati che le venivano apposti col giuramento. Quel
_Ratoldo_ vien creduto dal padre Pagi[957] _vescovo di Soissons_. La
verità è ch'egli era _vescovo di Verona_, appellato da altri _Rataldo_.
_Bonifazio_ era _conte di Lucca_, e probabilmente marchese della
Toscana, come abbiam veduto di sopra all'anno 828. _Pippino_ parente
dell'imperador Lodovico altro non fu che Pippino _figliuolo di Bernardo_
giù re d'Italia, del quale parimente abbiam fatta menzione di sopra. Ma
Andrea prete italiano[958], e scrittore di questo secolo, lasciò scritto
essere stato Lottario stesso quegli che, pentito dei passati trascorsi,
ed infuriato contra chi gli avea dato di sì cattivi consigli (perlochè
molti per ordine suo furono uccisi, ed altri mandati in esilio),
restituì egli stesso la matrigna al padre. E parrebbe assai verisimile
questo racconto, non sapendosi intendere come i tre suddetti personaggi
si arrischiassero senza permissione o comando d'esso Lottario a levar
dalla guardia e ricondurre l'imperadrice in Francia. Ma all'anno 836
vedremmo che non s'accorda con questo supposto la più autentica storia
d'allora.

Continuava _Lottario Augusto_ nel suo furore, per cui trovata in
Cavaglione _Gerberga_ monaca, sorella di _Bernardo_ già duca della
Settimania[959], la fece affogare nel fiume Sona, e dopo avere riportato
qualche vantaggio contra le milizie del padre, passò coll'esercito suo
fino ad Orleans. Lodovico imperadore, chiamati in suo aiuto gli altri
due figliuoli Pippino e Lodovico colle lor truppe, andò a postarsi con
una potentissima armata nel mese d'agosto in faccia a Lottario.
_Marquardo abbate_ di Prumia, da lui spedito prima al figliuolo per
ricordargli i comandamenti e lo sdegno di Dio, ed esortarlo a
sottomettersi, se n'era tornato indietro, altro non riportando che un
cattivo trattamento e delle minacce. Ma il misericordioso imperadore,
non ributtato per questo, mandò altri ambasciatori al pertinace
figliuolo per vincerlo pur colle buone, e per risparmiare il sangue de'
suoi popoli. Furono questi _Baradado_, o pur _Badurado_ vescovo di
Paderbona, _Gebeardo_ nobilissimo duca, e _Berengario_ uomo saggio e
parente suo, il quale, secondo l'Eccardo[960], fu figliuolo di _Unroco_
conte, e fratello di _Eberardo_ marchese del Friuli, ch'era marito di
_Gisela_ figliuola d'esso imperador Lodovico. Egli da Tegano è chiamato
_duca fedele e saggio_; ed essendo mancato di vita nell'anno seguente,
la morte sua lungamente fu pianta dallo stesso imperadore e da' suoi
figliuoli. Ora ammessi questi legati all'udienza di Lottario, il vescovo
animosamente gli comandò da parte di Dio che si levasse da' fianchi i
malvagi consiglieri suoi seduttori, ed ascoltasse le proposizioni di
pace. Chiese Lottario un po' di tempo per pensarvi: e richiamatili,
domandò loro parere. Il consigliarono di venire a' piedi del suo buon
padre, con assicurarlo di pace e di perdono e con presentargli, come si
può conghietturare, un salvocondotto. Andò in fatti Lottario, e trovato
il padre Augusto sotto un alto padiglione alla vista di tutta la sua
armata, con gli altri suoi due figliuoli a lato, si gittò a' suoi piedi
con _Ugo_ suocero suo e cogli altri complici, confessando d'aver
stranamente fallato. Contentossi il pio imperadore che Lottario gli
giurasse di nuovo fedeltà, e di ubbidire a tutti gli ordini suoi, e che
se ne venisse in Italia, da dove non si avesse a muovere giammai senza
sua licenza. Giurarono anche gli altri, e a tutti fu conceduta, non
solamente la vita, ma anche il possesso de' loro beni patrimoniali.
Lottario se ne tornò in Italia; e a tal fine ebbe quella memorabil
tragedia, in cui non si può abbastanza ammirare l'insolenza d'un figlio
e la pazienza e carità di un padre. Secondo i conti di Camillo
Pellegrino[961], _Deusdedit abbate_ di Monte Casino uomo di molta
santità, cacciato in prigione da _Sicone_ principe di Benevento, fu
chiamato da Dio in quest'anno dalle miserie della carcere all'eterno
riposo. Erchemperto[962] è testimonio che al sepolcro suo succedevano
molte miracolose guarigioni. Nel Martirologio romano[963] si celebra la
di lui memoria. Il suddetto Erchemperto, dopo aver narrata la morte di
Sicone, ci accenna il tempo, in cui questo abbate fu sacrilegamente
cacciato in carcere, con iscrivere: _Prius enim quam obiret, ut cumulus
suae perditionis justius augeretur, pro amore pecuniae, spectabilem et
Deo dignum virum, sanctitate conspicuum Deusdedit nomine, beatissimi
Benedicti vicarium, a pastorali monasterio monachorum, saeculari magis
potentia, quam congrua ratione, deposuit, et custodiae mancipavit._ Con
questa enormità si preparò Sicone per comparire al tribunale di Dio.

NOTE:

[954] Tegan., cap. 45.

[955] Astronomus, in Vit. Ludovici Pii.

[956] Annal. Franc. Bertiniani.

[957] Pagius, ad Ann. Baron.

[958] Andreas Presbyt., Chron. tom. 1 Scrip. Menchenii.

[959] Thegan., cap. 52.

[960] Eccar., Rer. Franc., lib. 29.

[961] Camill. Peregr., in Serie Abb. Casinens. tom. 5 Rer. Ital.

[962] Erchemp., Chron. cap. 13, P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[963] Martyrologium, ad diem 9 octob.



    Anno di CRISTO DCCCXXXV. Indiz. XIII.

    GREGORIO IV papa 9.
    LODOVICO PIO imper. 22.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 16 e 13.


Nella villa di Teodone tenuta fu in quest'anno dall'_imperador Lodovico_
una dieta[964], in cui si trattò di que' vescovi che aveano cospirato
contro la di lui persona e contro l'imperio suo nell'anno precedente.
Fra gli altri essendo stato citato _Agobardo_ arcivescovo di Lione; nè
comparendo, gli fu di poi nell'anno susseguente levata la chiesa. Alcuni
di quei vescovi erano fuggiti in Italia; per questi non si fece gran
rumore, affine di non alterar maggiormente l'animo di Lottario Augusto,
che gli avea sotto la sua protezione. Quivi ancora con più solennità fu
da tutti i vescovi abolito e dichiarato ingiustamente fatto tutto ciò
nell'anno addietro era stato operato in disonore dell'Augusto Lodovico.
Poscia nella chiesa di santo Stefano di Metz fu di nuovo da que' prelati
coronato. _Ebbone_ arcivescovo di Reims v'intervenne anch'egli, dopo di
che confessando i suoi falli, si protestò decaduto dal vescovato e fu
confinato in un monistero. Attese in quest'anno Lodovico Augusto a
riparare i disordini cagionati in Francia dalle passate turbolenze con
essere cresciuti i ladri, essere stati usurpati i beni delle chiese,
oppressi i poveri: al qual fine spedì varii messi, o sieno giudici
straordinarii, per le provincie, e gastigò coloro che non aveano
soddisfatto al loro dovere nell'amministrazion della giustizia e nel
procurare la sicurezza delle strade. Han creduto il Cointe, il Pagi e
l'Eccardo che a quest'anno s'abbia da riferire una nuova divisione dei
regni fatta dall'imperador Lodovico fra i suoi tre figliuoli _Pippino_,
_Lodovico_ e _Carlo_, senza parlare in esso di _Lottario_, la quale dal
Baluzio viene rapportata all'anno 837. Comunque sia, certo è ch'esso
imperadore nulla più aveva a cuore, quanto di assicurare al suo
quartogenito _Carlo_ una buona porzion di stati, e a questo fine slargò
molto quella ancora degli altri due figliuoli con isperanza di
contentarli, e di tor loro di cuore la voglia di nuocere al minor
fratello. Veggonsi in quest'anno alcuni diplomi spediti in Italia da
Lottario Augusto, ne' quali non fa menzione alcuna dell'imperadore suo
padre, forse per vendicarsi del medesimo padre, che in Francia faceva
altrettanto, senza nominare il figliuolo ne' suoi atti e privilegii. Uno
d'essi diplomi, riferito dal Puricelli[965], è dato _VIII idus majas,
anno domni Lotharii Pii imperatoris XVIII. Indicione XIII: Actum Papiae
palatio regio._ L'epoca è presa dall'anno 817. In esso egli dona alla
basilica milanese di sant'Ambrosio la corte di Lemonta _pro remedio
animae Hugonis fratris ipsius Hermengardis_ (cioè dell'Augusta sua
moglie) _puerili aetate ab hac luce subtracti_. Fu dato un altro suo
diploma rapportato dal Margarino[966] in favore di _Amalberga badessa_
di s. Giulia di Brescia, _Actum Moringo, palatio regio, XVII kalend.
jannuarias anno imperii Hlotharii XVIII, Indictione XIV_: la qual
indizione ebbe principio nel settembre di quest'anno. Abbiamo parimente
dal padre Mabillone[967] uno strumento di _Cunegonda vedova del fu
Bernardo re d'Italia_. Quivi ella dona al monistero di santo Alessandro
di Parma molti beni posti ne' contadi di Parma, Reggio e Modena, _pro
remedio animae senioris sui_ (cioè di Bernardo) _et suae, filiique sui
Pippini_, cioè dello stesso che abbiam veduto nell'anno precedente
favorevole all'imperadrice Giuditta. Fu scritta quella carta _in Parma
civitate, regnantibus dominis nostris Hludowico et Hlothario
imperatoribus, anno XXII et XVI, septimodecimo kal. julias_, e
sottoscritta da _Lamberto_ e _Norberto_ vescovi, e da _Adalgiso_ conte e
da varii, ciascun dei quali s'intitola _Gartio_ (oggidì _garzone_, forse
allora _paggio_) _ex genere Francorum_; dal che non si può francamente
concludere, come ha credulo taluno, che questa principessa fosse di
nazione franzese, perchè le mogli solevano seguitar la legge del marito,
e secondo quella regolarsi ne' contratti. Circa questi tempi abbiamo dal
Dandolo[968] che _Massenzio patriarca_ d'Aquileia, assistito
dall'imperadore Lottario, obbligò i vescovi dell'Istria a riconoscere
lui per metropolitano, con sottrarli dall'ubbidienza del patriarca di
Grado, e a nulla giovò che _papa Gregorio_ l'ammonisse di desistere da
questa novità. Accadde ancora che in Venezia alcuni principali di quella
città scacciarono il loro doge _Giovanni_, il quale andò in Francia con
fare ricorso all'imperador Lodovico. Occupò dopo la di lui fuga il
ducato un certo _Caroso_ tribuno, figliuolo di Bonicio tribuno, e per
sei mesi lo tenne; ma unitisi molti, a' quali dispiaceva una sì fatta
usurpazione, gli misero le mani addosso nel palazzo, e cavati che gli
ebbero gli occhi, il mandarono in esilio: con che Giovanni doge se ne
tornò al suo governo.

NOTE:

[964] Astronomus, in Vit. Ludovici Pii.

[965] Puricellius, Monument. Basilic. Ambros.

[966] Bullar. Casinens., tom. 2, p. 23.

[967] Mabill., Annal. Benedictin., tom. 2. Append.

[968] Dandulus, Chron. tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCXXXVI. Indiz. XIV.

    GREGORIO IV papa 10.
    LODOVICO PIO imperadore 23.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 17 e 14.


Sul principio di quest'anno ricevette _Lottario imperadore_ gli
ambasciatori a lui spediti dal padre[969] per insinuargli la riverenza
ed ubbidienza filiale, e fargli premura di stabilire una buona
riconciliazione e concordia fra loro. Diede gran calore ad una tale
spedizione la stessa _imperadrice Giuditta_, la quale considerando la
sanità ogni dì più declinante dello Augusto suo consorte, e temendo che
se egli veniva a mancare, corresse pericolo il suo figliuolo _Carlo_,
per la ancor tenera età di restar preda de' suoi maggiori fratelli,
giudicò spediente il provvedere per tempo alle rotture che tuttavia
duravano fra lei e il figliastro Lottario. Anzi l'Astronomo[970] avverte
che fu creduto miglior partito di tutti il tirar dalla sua esso
Lottario, perchè l'imperadrice non si dovea fidar molto degli altri due
figliastri, che aveano fatto conoscere anch'essi una smoderata
ingordigia di stati. Non dispiacque a Lottario questa proposizione, e
però nel mese di maggio mandò all'Augusto suo padre molti de' suoi
baroni a trattar seco. Capo dell'ambasceria era _Walla_, già per cura di
Lottario divenuto abbate nell'insigne monistero di Bobbio, e uno dei
suoi più intimi consiglieri. Perdonò con somma clemenza l'imperador
Lodovico a Walla; accolse con singolare amore lui e tutti gli altri
inviati; e spianate le difficoltà che poteano impedir la pace, li
rimandò in Italia con ordine di dire al figliuolo che andasse in persona
a dar compimento al trattato con pieno salvocondotto per la sua andata e
pel suo ritorno. Ma rimase in sospeso l'affare, perchè Lottario cadde
pericolosamente malato, e l'infermità sua fu assai lunga, durante la
quale non mancò l'amorevol padre di mandare _Ugo_ suo fratello abbate di
san Quintino, e _Adalgario conte_ a visitarlo. Mancarono in quest'anno
di vita il suddetto _Walla_ abbate, due vescovi e la maggior parte di
quegli altri nobili franzesi che erano stati della fazion di Lottario
contra dell'imperador Lodovico, ed egli, all'avviso della lor morte, non
se ne rallegrò punto, anzi ne fece conoscere un non finto dolore. Erano
questi i più assennati cervelli della Francia. Si riebbe finalmente
della sua pericolosa e lunga malattia Lottario Augusto; ma o sia che se
era seguita la division de' regni poco fa accennata fra i suoi fratelli,
questa l'alterasse non poco; o pure ch'egli, siccome cervello bisbetico
e caparbio, fosse portato alla discordia, non solamente ricusò d'andare
a trovar il padre, ma si lasciò intendere che non si riputava tenuto
alla promesse ultimamente autenticate dai suoi giuramenti. Dispiacque
ciò sommamente all'imperador Lodovico; ma quello che più gli trafisse il
cuore fu d'intendere che Lottario avea cominciato ancora a dar delle
vessazioni alla Chiesa romana, con far uccidere alcuni degli uomini
della medesima. Niuna cosa con maggior premura avea raccomandato _Carlo
Magno_ ai suoi figliuoli, e successivamente anche _Lodovico Pio_ ai
suoi, quanto la difesa e protezion della Chiesa romana, sì per motivo di
religione, come ancora a titolo di gratitudine e di buona politica,
perchè i re di Francia aveano ricevuto dai papi l'imperio, e
disgustandoli poteano temere di perderlo. Va il cardinal Baronio
all'anno seguente cercando in che mai potesse consistere questa novità
di Lottario ed immagina che egli, non contento del regno d'Italia, si
volesse anche usurpare gli stati della Chiesa romana, dispiacendogli che
una sì nobil parte d'Italia fosse in mano altrui. Ma egli così pensò
perchè persuaso che gl'imperadori nulla avessero allora di dominio sugli
stati della Chiesa. La più natural immaginazione è di credere che
Lottario appunto, siccome principe borioso ed inquieto, si abusasse
della sua sovranità in pregiudizio di quel dominio e di quella autorità
che godeano e dovevano, secondo i patti, godere i papi.

Mandò l'imperador Lodovico dei legati per questo affare a Lottario, per
ricordargli, che quando gli diede il governo del regno d'Italia,
specialmente gli raccomandò la difesa della Chiesa romana, e che
desistesse da sì fatte violenze. Mandò anche a dirgli che gli preparasse
le tappe per tutto il viaggio fino a Roma, perchè egli era risoluto di
portarsi colà: cosa che poi non ebbe effetto per le sopravvenute
incursioni de' Normanni in Francia. Dagli Annali bertiniani sappiamo
particolarmente che di tre altri negozii erano incaricati gli
ambasciatori di Lodovico: cioè di trattare con Lottario della sua andata
in Francia; di indurlo a restituire alle chiese di Francia molti beni ad
esse spettanti in Italia, che i suoi cortigiani o pur egli avea
usurpato; e di rendere ai vescovi e conti, da' quali era stata condotta
in Francia l'imperadrice Giuditta, le lor chiese, i governi, feudi ed
allodiali. _Verum et de episcopis, atque comitibus, qui dudum cum
Augusta fideli devotione de Italia venerant, ut eis et sedes propriae,
et comitatus, ac beneficia, seu res propriae redderentur._ Fan queste
parole conoscere che non sussiste il dirsi da Andrea prete nella sua
Cronica, essere stato Lottario stesso quegli che mandò l'Augusta
matrigna a suo padre in Francia. Cosa precisamente conchiudesse
Lottario, non si legge, se non che abbiamo dall'Annalista bertiniano,
che egli mandò alcuni suoi inviati al padre, con fargli sapere alcune
sue difficoltà e scuse per le quali non poteva interamente sopra que'
punti uniformarsi alla di lui volontà. Per conseguente possiam
conghietturare che _Bonifazio_ marchese di Toscana, _Rataldo_ vescovo di
Verona e _Pippino_ figliuolo del già re Bernardo, i quali avevano
procurata la fuga dell'imperadrice Giuditta, fossero in disgrazia di
Lottario, ed avessero perduti i lor posti e beni, senza poter conoscere
se Lottario alle istanze del padre si arrendesse per ora in favor de'
medesimi. Nell'anno seguente ad una dieta tenuta in Aquisgrana si
trovarono presenti _Rataldo_ vescovo e _Bonifazio_ conte: segno che non
doveano potere stare in Italia. Ora fra gli ambasciatori inviati
dall'imperador Lodovico al figliuolo in Italia vi fu _Adrevaldo abbate_
noviacense, e questi avea particolar commessione di passare a Roma, per
prendere maggior contezza degli aggravii fatti da Lottario al papa.
Giunto egli a Roma, trovò il _pontefice Gregorio_ in poco buono stato di
salute a cagione di un flusso di sangue che di tanto in tanto gli usciva
pel naso. D'incredibil consolazione riuscì al buon papa una tal visita,
e il conoscere che era per lui scudo il piissimo imperador Lodovico
nelle agitazioni che gli recava il figliuolo. Ritenne seco per alcuni
giorni Adrevaldo, gli fece molti regali, e finalmente il rispedì
accompagnando seco _Pietro Vescovo_ di Cento Celle, oggidì Civita
vecchia, e _Giorgio vescovo_ regionario, che andavano suoi nunzii
all'imperador Lodovico. Saputa da Lottario questa spedizione di ministri
pontificii, non gli piacque, temendo forse che si potesse manipolar
qualche trattato contra di lui; e però inviò a Bologna un certo Leone,
di cui egli allora molto si fidava, con ordine di adoperarsi in maniera,
prima con esortazioni, poi con minacce, acciocchè non andassero innanzi.
Fu ben servito, ma Adrevaldo fatta scrivere da essi una lettera
all'imperador Lodovico, per mezzo di un uomo vestito da povero
mendicante gliela mandò oltramonti con tutta felicità. Altro di più non
sappiamo intorno a questo affare. Facevano in questi tempi a gara i
vescovi e monaci di Francia e Germania per avere reliquie di santi da
Roma e dall'Italia. Altro non s'udiva che traslazioni di corpi santi in
quelle parti. E tutte solennizzate con gran pompa. Furono anche nel
presente anno rubate in Ravenna le sacre ossa di s. Severo vescovo, e
portate a Magonza da _Otgario arcivescovo_ di quella città. D'altre
simili traslazioni parla la storia ecclesiastica.

NOTE:

[969] Annales Franc. Bertiniani.

[970] Astronom., in Vit. Ludov. Pii.



    Anno di CRISTO DCCCXXXVII. Indiz. XV.

    GREGORIO IV papa 11.
    LODOVICO PIO imperad. 24.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 18 e 15.


Tutte le applicazioni dell'_imperadrice Giuditta_, siccome abbiam detto,
erano per ottenere al figliuolo suo _Carlo_ una ricca porzion di stati
in retaggio. E in fatti nell'anno presente gli riuscì di fargli
assegnare dall'Augusto suo consorte la Neustria, cioè un tratto
vastissimo di paese, le cui città son tutte annoverate da Nitardo[971] e
dagli Annali bertiniani[972]. Parigi era fra queste. Tutti que' vescovi
e popoli gli giurarono fedeltà. Crede il Baluzio[973] che sia da riferir
qui la divisione de' regni espressa in un capitolare da lui pubblicato
fatta da _Lodovico imperadore_ fra i tre minori suoi figliuoli, ad
esclusion di _Lottario_; ma non concorda col racconto degli storici
quell'atto, nè il paese che si dice loro assegnato. Se crediamo
all'Annalista bertiniano, questo assegno di stati al giovinetto Carlo
seguì, _adveniente atque annuente Ludovico_ (re di Baviera) _et missis
Pippini_ (re d'Aquitania) _et omni populo, qui praesentes in Aquis
palatio adesse jussi fuerant_. Ma lo autore della vita di Lodovico
Pio[974] e Nitardo, autori contemporanei, ci assicurano che _Lodovico_ e
_Pippino_, figliuoli di esso Augusto, udita che ebbero tanta esaltazione
del minore lor fratello _Carlo_, se ne risentirono forte, e seguì ancora
un abboccamento fra loro per cercar le vie di disturbare il già fatto.
Ma o per qualche riverenza al padre, oppure perchè conobbero talmente
disposte le cose da non poterle mutare, si tacquero, e fecero vista che
loro non dispiacesse la risoluzion presa dall'Augusto lor genitore.
Aveva già quattordici anni il suddetto principe _Carlo_, o, per dir di
meglio, li avea già compiuti; laonde per testimonianza di Nitardo,
l'imperador suo padre gli diede la corona regale. Intanto i Normanni
sempre più cominciavano ad insolentir contro la Francia, e nell'anno
presente appunto commisero molti ammazzamenti, e fecero gran bottino
nella Frisia. Questo fu il motivo per cui Lodovico Pio non potè eseguire
il desiderio e disegno suo di passare a Roma. Nella Pasqua ancora di
quest'anno si lasciò vedere una cometa, descritta dall'autore anonimo
della vita di esso imperadore, il quale non potè celare il suo sospetto
al medesimo autore, che quello fosse un presagio della sua morte,
secondo la volgare credenza. Tuttavia si fece animo, e servì a lui
questo fenomeno per abbondar di limosine in favor de' canonici e dei
monaci, per accrescere le orazioni, e darsi ad atti di carità e
religione. Sappiamo parimente dagli Annali bertiniani che nell'anno
presente l'_imperador Lottario_ fece fortificar le chiuse dell'Alpi con
sodissime mura. Dio sa, qualora l'Augusto suo padre avesse veramente
impreso il viaggio di Roma, come sarebbe stato ricevuto dal figliuolo,
che tuttavia si mostrava sì alterato e malcontento di lui. Noi troviamo
esso Lottario Augusto nel dì 3 di febbraio di quest'anno nel monistero
di Nonantola sul modenese, dove egli concedette a que' monaci la facoltà
di eleggersi il loro abbate. Il diploma si vede _Actum Nonantula III
nonas februarii anno Domni Hlotharii imperatoris XVIII, Indictione XV_,
senza punto farvi menzione dell'imperador Lodovico suo padre[975]. Dice
di aver loro conceduto questo privilegio, perchè _dum nos caussa
orationis monasterium adissemus Nonantulae tantamque devotionem divino
munere ibidem in divinis cognovissemus_, sperava che le orazioni di que'
monaci gioverebbono alla stabilità del suo regno e alla perpetua sua
felicità.

Poco potè godere del ricuperato suo governo _Giovanni_ doge di
Venezia[976], perciocchè, formata contra di lui una congiura, fu preso
nella chiesa di s. Pietro, dove egli s'era portato nel dì della sua
festa, e tagliatagli la barba e i capelli, fu per forza fatto ordinar
cherico nella chiesa di Grado, dove a suo tempo terminò la carriera de'
suoi giorni. In luogo suo fu dal popolo alzato al trono ducale _Pietro_
cognominato _Tradonico_, originario di Pola, ed allora abitante in
Rialto, il quale dopo non molto tempo ottenne dal medesimo popolo che
_Giovanni_ suo figliuolo fosse dichiarato collega nel ducato. Per
attestato di Giovanni Diacono, autore contemporaneo, a _Buono_ console,
ossia duca di Napoli, uomo cattivo, mancato di vita nell'_indizione
XII_, cioè nell'anno 834, succedette in quel dominio Leone suo
figliuolo. Ma questi, appena passati sei mesi, fu abbattuto e scacciato
da Andrea suo suocero, il quale si fece eleggere _console_. Cavò egli di
prigione il già carcerato _Tiberio_ vescovo, e il confinò sotto buona
guardia in una camera davanti alla chiesa di s. Gennaro. Ora avvenne che
_Sicardo_ principe di Benevento, non men di quel che facesse _Sicone_
suo padre, mosse aspra guerra ai Napoletani. Andrea, non avendo altro
ripiego per salvarsi, mandò in Sicilia a far venire una grossa flotta di
Saraceni. Allora Sicardo intimorito diede ascolto ad un trattato di
pace, per non poter di meno, e restituì tutti i prigionieri ad Andrea.
Ma non sì tosto furono partiti verso la Sicilia i Saraceni, che Sicardo
ruppe la pace fatta, e più che mai si diede a perseguitare il popolo e
la città di Napoli. Racconta l'Anonimo salernitano[977], che la rottura
fra Sicardo e i Napoletani procedette dall'avere il duca di questi
ultimi differito di pagare al primo i tributi secondo le convenzioni
precedenti. Però infuriato Sicardo, nel mese di maggio dell'anno 856,
come consta dalla vita di _santo Anastasio vescovo_ di Napoli[978], si
portò con tutte le sue forze all'assedio di Napoli, e per tre mesi diede
il guasto al paese, e ne asportò i corpi de' santi e gli ornamenti delle
chiese. Era già a mal partito il popolo della città, specialmente per
mancanza di viveri, quando si pensò alla maniera di placare lo sdegnato
principe loro nimico. Spedirono dunque nel mese di luglio un monaco di
buona fama, il quale arrivato alla tenda di Sicardo, subito ch'egli
spuntò, s'inginocchiò piangendo a' suoi piedi, con chiedere misericordia
per i suoi concittadini, e fargli credere ch'essi non avrebbono
difficoltà ad arrendersi. Intenerito Sicardo, ordinò a Roffredo suo
favorito di entrare nella città per vedere se aveano pur voglia di
sottomettersi. Ammesso, diede una girata per Napoli, ed avendo osservato
nella piazza una picciola montagna di grano, ne dimandò il perchè. Gli
fu risposto, che avendo le lor case piene di frumento, il rimanente lo
aveano gittato colà; ma quella montagna non era che di sabbia, sulla cui
superficie aveano fatta una coperta di grano, il quale già cominciava a
rinascere. In questa maniera restò deluso Roffredo. La comune credenza
nondimeno fu che i Napoletani il regalassero d'alcuni fiaschi creduti di
vino, ma pieni di soldi d'oro, che fecero secondo il solito, un mirabile
effetto; perchè Roffredo con significare a Sicardo la gran quantità di
grano da lui osservata nella città, il trasse a contentarsi d'una
capitolazione, in cui i Napoletani salvarono la lor libertà, ma con
obbligarsi al puntual pagamento del tributo al principe di Benevento. La
carta dell'accordo scritta nell'indizione 14, cioè nell'anno precedente,
è fatta con _Giovanni vescovo_ eletto di Napoli, e con _Andrea_ maestro
de' militi, ossia duca di quella città; e tuttavia si conservava ai
tempi dell'Anonimo suddetto nell'archivio della città di Salerno; e per
buona ventura parte d'essa è stata pubblicata da Camillo Pellegrino,
scrittore diligentissimo e giudizioso della storia dei principi
longobardi. Da essa apparisce che Amalfi e Sorrento erano allora città
sottoposte al ducato di Napoli e quivi si leggono varii riti
considerabili per l'erudizion di quei tempi. Ma, siccome dissi, non durò
gran tempo questa pace e convenzione, e forse in quest'anno Sicardo
ricominciò di bel nuovo a far delle prepotenze contro dei Napoletani, e
in fine ripigliò l'armi contro la loro città. Potrebbe anch'essere
ch'egli in quest'anno occupasse la città d'Amalfi; del che parleremo
all'anno 839. Anche l'autore della vita di santo _Antonino abbate_ di
Sorrento[979] fa menzione (senza accennarne l'anno) dell'assedio di
Sorrento, fatto dal medesimo Sicardo. Se vogliam prestar fede a quello
storico, egli se ne ritornò, perchè il santo abbate apparendogli in
sogno, non solamente lo sgridò, ma gli lasciò anche un buon ricordo con
delle bastonate. Che i santi vogliano o possano venire dal paradiso in
terra per menare il bastone, non c'è obbligazione di crederlo fuori
delle divine Scritture.

NOTE:

[971] Nithardus, Hist., lib. 1.

[972] Annal. Franc. Bertiniani.

[973] Baluz., Capitular., tom. 1, p. 685.

[974] Astronom., in Vit. Ludov. Pii.

[975] Antiquit. Ital., Dissert. LX.

[976] Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Italic.

[977] Anon. Salernit., Paralip. P. II, tom. a Rer. Italic.

[978] Vita S. Athanasii Neapolit., Part. II, tom. 2 Rer. Italic.

[979] Acta Sanctor., in Vit. S. Antonini Ab. Surrent.; ad diem 14
februarii.



    Anno di CRISTO DCCCXXXVIII. Indiz. I.

    GREGORIO IV papa 12.
    LODOVICO PIO imperadore 25.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 19 e 16.


A chiunque era del partito del _principe Carlo_ re della Neustria, ma
più degli altri all'_imperadrice Giuditta_ sua madre[980], stava
continuamente sugli occhi la cadente sanità dell'Augusto consorte, e per
conseguente l'apprensione di fiere rivoluzioni dopo la morte di lui, per
le quali si vedeva esposta a troppi pericoli la porzion degli stati
assegnati ad esso Carlo dal padre. Temevano tutti dei due fratelli
_Pippino_ e _Lodovico_ troppo ingordi, e troppo confinanti coi loro
regni a quello di Carlo. Concorsero dunque tutti in un parere: cioè, che
era il meglio di guadagnare l'Augusto _Lottario_, se pure egli voleva
dar mano ad un trattato, e di formare una lega fra Carlo e lui, bastando
ciò per tenere tutti gli altri in briglia. A tal fine spedirono dei
messi a Lottario, con rappresentargli che l'avrebbono rimesso in grazia
dell'imperador suo padre, ed inoltre Carlo avrebbe partito con lui
l'imperio, a riserva della Baviera. Assaporata questa proposizione da
Lottario, gli parve assai dolce; nè perdè tempo a mettersi in viaggio
alla volta di Vormazia, dove era l'imperador suo padre[981]. Giunto colà
si gittò ai suoi piedi in presenza di tutti, con chiedere perdono del
passato: fu accolto con tutto amore, trattati i suoi domestici con
lautezza, e in somma ottenne la buona grazia del genitore, con patto di
nulla operare in avvenire contro la volontà paterna, nè contro il
fratello Carlo. Nel dì seguente il buon imperadore, per mantenere la
parola data dai suoi ministri, esibì al figliuolo la licenza di dividere
i regni, con dirgli che facendo egli le parti, Carlo eleggerebbe, o pure
facendole i ministri di Carlo, potrebbe Lottario eleggere. Per tre di
questi dì andò Lottario ruminando l'affare, e in fine mandò a pregare il
padre che si compiacesse di far egli la divisione, con riserbare a sè
stesso di prendere la parte che maggiormente gli fosse a grado. La fece
in fatti l'imperador Lodovico, senza toccar la Baviera; e Lottario si
elesse l'una delle parti cominciando dalla Mosa, e gliene fu dato il
possesso. A Carlo restò l'occidentale, cioè la Neustria; e in questa
maniera seguì buona unione fra essi fratelli. A riserva di Lodovico re
di Baviera, che si alterò forte all'udir questa unione, i popoli ne
mostrarono un sommo giubilo. Poscia Lottario, dopo aver ricevuto dal
padre molti regali e la benedizione paterna, lieto se ne tornò in
Italia. Così Nitardo e l'autore della vita di Lodovico Pio. Ma gli
Annali bertiniani[982] imbrogliano qui la storia con riferir questo
fatto all'anno seguente. Siam nondimeno tenuti a quell'autore, perchè
specifica le parti toccate in quella divisione ai suddetti due fratelli.
Lottario, oltre all'Italia, che già era in sua mano, comprendeva la
Provenza di qua dal Rodano sino al contado di Lione, e stendendosi pel
corso della Mosa fino al mare, abbracciava la valle d'Aosta, i Vallesi,
gli Svizzeri, i Grigioni, l'Alsazia, l'Alamagna, ossia la Svevia,
l'Austrasia, la Sassonia, l'Olanda, la Frisia ed altri ampii paesi. Ma
sì vasto dominio non ebbe effetto col tempo. Io non so bene se
appartenga all'anno presente ciò che hanno i suddetti Annali bertiniani,
con dire che sul principio della quaresima si fece un abboccamento alle
Chiuse d'Italia tra i due fratelli _Lottario_ Augusto e _Lodovico_ re di
Baviera; il che diede gran gelosia all'imperadore loro padre. Chiamato
perciò Lodovico a Nimega, seguì fra loro qualche altercazion di parole,
e finalmente fu costretto il figliuolo a restituire al padre tutto
quello che egli aveva usurpato, cioè l'Alsazia, la Sassonia, la
Turingia, l'Austrasia e l'Alamagna: e però potè nell'anno presente
l'imperador Lodovico assegnare queste contrade al figliuolo Lottario. Ma
non si vede il motivo per cui da sole parole s'inducesse il figliuolo di
Lodovico a far quella cessione, e qui v'ha delle tenebre. Ora, dacchè fu
stabilita la concordia d'esso Lottario col padre e con Carlo suo
fratello (se pure non fu prima, essendo ancor qui confusa la storia)
eccoti giugnere la nuova che _Pippino re di Aquitania_, altro lor
fratello, era stato da immatura morte rapito. Perchè nell'aggiustamento
poco fa descritto si truova assegnata al re Carlo l'Aquitania, par molto
probabile che questo seguisse dappoichè s'intese la morte di esso
Pippino. Non ostante poi che tra Lodovico Pio e il figliuolo Lottario
fosse stabilita la riconciliazione suddetta, pure sembra che _Bonifazio
II_ conte di Lucca e marchese della Toscana non ricuperasse peranche il
governo di quella provincia e città; perciocchè da una carta di
quest'anno, accennata dal Fiorentino[983], si raccoglie che _nell'anno
XXV di Lodovico, nel XVI di Lottario imperadori, nell'indizione prima_,
cioè nell'anno presente, fu fatto in Lucca un atto giudicatorio in
favore della chiesa di s. Frediano _per Aghanum comitem ipsius
civitatis, et Christianum venerabilem diaconum missos domini Lotharii_.
L'essere questo _Agano_ stato conte ossia governatore di Lucca nell'anno
presente, e il trovarsi egli quivi parimente nell'anno 840, esercitante
giurisdizione insieme con _Rodingo vescovo_ e _Maurino conte_, messi
imperiali, come consta da un altro documento lucchese, serve a noi
d'indizio che _Bonifazio II_, dianzi conte di Lucca, e probabilmente
ancora della Toscana, seguitasse ad essere privo della grazia di
Lottario e del suo governo, se pur egli non era già mancato di vita.

NOTE:

[980] Nithardus, Hist. lib. 1.

[981] Astronomus, in Vita Ludovici Pii.

[982] Annales Franc. Bertiniani.

[983] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.



    Anno di CRISTO DCCCXXXIX. Indiz. II.

    GREGORIO IV papa 13.
    LODOVICO PIO imperadore 26.
    LOTTARIO imperadore e re di Italia 20 e 17.


Pacificò bensì l'_imperador Lodovico_ ed unì per quanto potè i due suoi
figliuoli _Lottario_ e _Carlo_, con isperanza che tal unione terrebbe in
briglia _Lodovico re di Baviera_ dopo la sua morte[984]. Ma questi
sdegnato non poco per la divisione sopraccennata di stati, non volle
aspettar tanto a risentirsene. Nella quaresima dell'anno presente,
uscito egli in campagna con quante forze potè, occupò tutta la parte
della monarchia franzese di là dal Reno. A tale avviso l'imperadore suo
padre, raunato un poderoso esercito, marciò incontro al figliuolo
ribello, passò il Reno a Magonza, e dappoichè col fermarsi ebbe
maggiormente ingrossata l'armata sua, continuò il viaggio per andare a
fronte della nemica[985]. Ma accadde che le milizie della Sassonia,
Franconia, Turingia ed Alamagna, che s'erano poste sotto le insegne del
giovane Lodovico, non solamente abbandonarono lui, ma vennero a
schierarsi all'ubbidienza dell'Augusto suo genitore: colpo che fece
ritirar nella Baviera disingannato e confuso lo sconsigliato principe
suo figliuolo. Ma il buon imperadore, non mai dimentico d'essere padre,
mandò a chiamarlo; ed egli, veggendosi al disotto, benchè a suo
dispetto, v'andò. Lo accolse Lodovico Augusto con aria di sdegno, e
sulle prime lo sgridò, ma poi con amorevoli parole gli parlò e gli
perdonò: dopo di che lasciollo tornare in Baviera, con avere ricuperato
tutto il paese perduto. E qui è più probabile che accadesse quanto
abbiamo inteso di sopra dagli Annali bertiniani intorno alla cessione
fatta dal giovane Lodovico al padre. Dagli stessi Annali abbiamo sotto
quest'anno il racconto di questa guerra. Nel maggio del presente anno
vennero a trovar l'imperador Lodovico, dimorante in Ingeleim, gli
ambasciatori di _Teofilo imperadore dei Greci_, che gli presentarono
varii regali e una lettera assai cortese. Secondo i suddetti Annali
bertiniani, d'altro non trattarono, se non di confermar l'amicizia e
lega che passava fra i due imperii. Ma Costantino Porfirogenneta[986]
attesta che il principal motivo di tale spedizione fu per chiedere
soccorso all'imperador latino contra dei Saraceni che aveano occupate le
isole di Creta e di Sicilia, e varie città dell'Asia, con aver inoltre
dato varie rotte a più d'un esercito di Greci spedito contra di loro.
Non si mostrò Lodovico Augusto alieno da questa impresa; ma essendo
mancato di vita _Teodosio patrizio_, capo di quella ambasciata nel
presente anno, e nel susseguente lo stesso imperadore de' Greci, si
sciolse in fumo tutto il trattato. Intanto per la morte del _re Pippino_
era tutto in confusione il regno di Aquitania. Lodovico Pio fece tosto
intendere a que' popoli, che per concessione sua quelle contrade erano
state aggiunte al regno di Carlo, minimo tra i suoi figliuoli. Ma di
Pippino erano restati due figliuoli maschi leggittimi, cioè _Pippino II_
e _Carlo_; e una parte di que' popoli avea già acclamato per re lo
stesso Pippino II, perchè primogenito del re defunto: l'altra parte si
trovò favorevole al re Carlo. Perciò l'imperador Lodovico, per sostenere
gl'interessi dell'amato figliuolo, mosse l'armi nell'autunno contra del
nipote Pippino, prese qualche fortezza, e tirò nel suo partito alquanti
di que' nobili. Ma l'esercito suo infestato dalle febbri, e faticato
dalle scorrerie de gli Aquitani, giacchè cominciava ad inasprirsi la
stagione, stimò meglio di ritirarsi e di passare ai quartieri di verno.
Si sforza l'autore[987] della vita di Lodovico Pio d'inorpellare questa
sua spedizione contro i figli di un suo figliuolo, con dire che non
erano atti al governo i due figliuoli di Pippino per la loro età, e che
que' popoli tumultuanti aveano bisogno di un buon braccio per essere
regolati. Ma niuno lascerà di conoscere e di dire che non fa onore alla
memoria di questo imperadore l'aver voluto spogliare de' loro stati e
diritti que' principi per ingrandir maggiormente il proprio figliuolo
Carlo, già provveduto di una nobilissima porzione di stati. Il troppo
amore, ch'egli portava a questo suo Beniamino, gli dovette ben chiudere
gli occhi, e gli orecchi, per non vedere nè ascoltare in tal congiuntura
le leggi della giustizia.

Dalla storia di Andrea Dandolo[988] impariamo che circa questi tempi
_Pietro_ doge di Venezia, desiderando di far dismettere agli Sclavi, o
vogliam dire agli Schiavoni abitanti nella Dalmazia, il brutto mestiere
della pirateria, colla sua flotta andò a trovarli, e gli riuscì di
conchiudere col principe loro un trattato di pace. Passato dipoi alle
isole di Narenta, confermò la precedente lega con _Drosaico duca_ di
quella contrada; dopo di che con gloria se ne tornò a Venezia. Ed
appunto arrivato da lì a poco ad essa Venezia Teodosio patrizio,
spedito, come dicemmo poco fa, da Teofilo imperadore de' Greci, a nome
dell'Augusto medesimo, dopo aver creato il suddetto doge Pietro
_spatario imperiale_, gli fece istanza di un gagliardo armamento per
mare contra de' Saraceni. Sessanta furono le navi da guerra che in tal
congiuntura i Veneziani armarono, con passare fino a Taranto, dove
trovarono Saba principe di que' Saraceni con un formidabile esercito.
Vennero alle mani con coloro i Veneziani; ma soperchiati dall'eccessivo
numero degl'infedeli, quasi tutti vi restarono o morti o prigioni.
Insuperbiti per questa vittoria quegli infedeli, colla loro armata
navale vennero fino in Dalmazia, e nel secondo giorno di Pasqua avendo
presa la città di Ausera, la diedero alle fiamme. Lo stesso trattamento
fecero alla città d'Ancona, e nel tornarsene col bottino, scontrati per
viaggio alcuni legni mercantili de' Veneziani, li presero, con levare di
vita chiunque entro di essi si ritrovò. Ma alquanto più tardi sembra che
succedessero questi fatti, quantunque il Dandolo li racconti prima della
morte di Lodovico Pio; perciocchè abbiamo dall'Anonimo salernitano[989]
che _Taranto_ non era per anche caduto in mano de' Saraceni allorchè
_Sicardo_ principe di Benevento fu messo a morte dai suoi: del che ora
appunto io debbo favellare. Non durò molto, siccome dissi, la
capitolazione seguita fra Napoletani e il suddetto Sicardo. Narra il
sopraddetto Anonimo, che nata dissensione fra gli Amalfitani, i
principali di quel popolo si sottomisero a Sicardo e passarono ad
abitare in Salerno, città del ducato beneventano. I buoni trattamenti,
che quivi riceverono, servirono di stimolo a parecchi altri Amalfitani
di portarsi per loro maggior quiete a mettere casa in Salerno, di
maniera che fatti varii maritaggi in quella città, di due popoli se ne
formò un solo. Rimasta Amalfi spopolata, vi accorsero le brigate
longobardiche di Sicardo e la devastarono, con asportarne a Benevento il
corpo di santa Trifomene vergine e martire, come consta ancora
dall'antica sua leggenda, data alla luce dall'Ughelli[990]. Seguitò
Sicardo a maggiormente molestare e stringere colle sue armi la città e
il popolo di Napoli. Ora veggendo _Andrea_ duca di quella città di non
potere resistere, giacchè soccorso non si potea sperare dall'imperio
greco troppo avvilito, e continuamente spelato dai Saraceni, rivolse le
speranze, per quanto s'ha da Giovanni Diacono nelle vite de vescovi di
Napoli[991], a _Lottario Augusto_. Gli spedì i suoi ambasciatori, che
dovettero portarsi fino in Francia per trovarlo. Furono questi
graziosamente accolti da Lottario, e rispediti coll'accompagnamento
d'uno de' suoi baroni appellato _Contardo_, affinchè a suo nome
comandasse a Sicardo di desistere dalla persecuzione de' Napoletani:
altrimenti egli avrebbe medicato il di lui furore. Ritornarono gli
ambasciatori, ma non ci fu bisogno della calda parlata di Contardo,
perchè si trovò che in questi giorni Sicardo era stato tolto con
violenza dal mondo. Intorno a che è da sapere che il suddetto _Sicardo_
principe di Benevento, per attestato non men dell'Anonimo salernitano
che di Erchemperto storico[992] più riguardevole, era macchiato di molti
vizii d'incontinenza e d'avarizia, per i quali aggravava forte i suoi
popoli. A renderlo nondimeno peggiore concorse l'essersi egli messo
tutto in mano di Roffredo, figliuolo di Dauferio, sopprannominato
Profeta, ed uno de' più astuti uomini di que' paesi da cui fu ridotto a
tale, che nulla si faceva senza il suo parere e consentimento, e tanto
più perchè lo indusse a prendere per moglie _Adelgisa_ sua parente. Per
i consigli di costui Sicardo mise le mani addosso a _Siconolfo_ suo
fratello, per i sospetti ch'egli aspirasse al principato, e mandollo
prigione a Taranto; costrinse a farsi Monaco _Maione_ suo parente, e
proditoriamente fece impiccare _Alfano_, uno de' più illustri personaggi
di Benevento. In una parola, pochi de' nobili beneventani si contarono
che non fossero uccisi, o posti in prigione, o non eleggessero un
volontario esilio. Credevasi tutto questo operato da Roffredo con
disegno di occupar egli il principato, dacchè i migliori del paese
fossero depressi, e divenuto Sicardo odioso al popolo tutto. Ora non
potendo più reggere i Beneventani a tali iniquità, formata una congiura
da un certo Adalferio, con più ferite un giorno l'uccisero. Crede
Camillo Pellegrino che ciò avvenisse nell'anno presente. Dipoi passarono
all'elezione del nuovo principe. Cadde questa nella persona di
_Radelchi_, ossia _Radelgiso_, dianzi tesoriere del defunto Sicardo; e
quasi tutti si accordarono in proclamarlo principe, perchè era uomo di
buoni e dolci costumi. Ma qui ebbe principio la divisione e
l'abbassamento dell'ampissimo ducato di Benevento: intorno a che mi
riserbo di parlare all'anno seguente. Potrebbe essere che in questo
succedesse quanto narra Agnello[993], autore contemporaneo, di _Giorgio
arcivescovo_ di Ravenna. Destinato avea l'imperador Lottario di fare con
solennità il battesimo di _Rotrude_ sua figliuola. L'ambizioso
arcivescovo tanto si adoperò, che ottenne di poter levare al sacro fonte
questa principessa; onore che costò ben caro alla sua chiesa, perchè
egli la spogliò di parte del suo tesoro, e tutto portò seco a Pavia. Di
grandi regali fece al suddetto imperadore e all'Augusta sua moglie
_Ermengarda_. I soli abiti battesimali della principessa furono da lui
pagati cinquecento soldi d'oro; e al medesimo Agnello scrittore toccò di
vestirla, alzata che fu, secondo i riti d'allora, dal sacro fonte.
Intervenne alla funzione l'imperadrice col volto coperto, riccamente
abbigliata e carica di gioie; e nota Agnello ch'essa prima della messa,
che fu celebrata dall'arcivescovo, sentendosi una gran sete, si fece
portare una buona tazza di vino forestiere, ed occultamente la tracannò,
e ciò non ostante andò in quella mattina a partecipare della mensa
celeste.

NOTE:

[984] Astronomus, in Vit. Ludovici Pii.

[985] Annales Francor. Bertiniani.

[986] Porphyrogenneta, lib. 3, num. 36.

[987] Astronomus, in Vit. Ludov. Pii.

[988] Dandul., in Chron. tom. 12 Rer. Italic.

[989] Anonym. Salernit., Paralip. P. II. tom. 2 Rer. Ital.

[990] Ughell., tom. 7 Ital. Sacr. in Episcop. Minorit.

[991] Johann. Diac., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[992] Erchempertus, cap. 12, P. 1, tom. 2 Rer. Italic.

[993] Agnell., in Vit. Episcopor. Ravenn., P. I, Tom. 2 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCCXL. Indiz. III.

    GREGORIO IV papa 14.
    LOTTARIO imperad. 21, 18 e 1.


Sul principio dell'anno presente si trova l'_imperador Lodovico_ in
Poitiers[994], allorchè gli giunse nuova che _Lodovico_ suo figliuolo re
della Baviera, uscito coll'armi in campagna, ed assistito dai Sassoni e
Turingi, era già entrato nell'Alamagna, e vi si faceva riconoscere per
signore. Amaramente sentì questo colpo il buon imperadore, e tuttochè la
di lui sanità fosse già ridotta in un compassionevole stato, pure si
animò alle fatiche per reprimere l'orgoglio del ribellante figliuolo.
Raunò nello spazio di alquante settimane una buona armata, e dopo di
aver solennizzato in Aquisgrana il santo giorno della pasqua, si mosse
alla volta della Turingia, dove era il re Lodovico, e pervenne nel paese
d'Assia-Cassel. Non volle aspettarlo il figliuolo Lodovico, e
frettolosamente pel paese degli Sclavi si ritirò in Baviera. Allora
Lodovico Augusto intimò una dieta generale in Vormazia, con far sapere
anche al figliuolo Lottario che v'intervenisse per trattare de' mezzi di
mettere in dovere l'inquieto re della Baviera. Stando egli in quelle
parti[995], nel dì 5 di maggio accadde un'ecclisse spaventosa del sole,
che restò quasi tutto scurato, in guisa che si miravano le stelle in
cielo. Secondo l'opinione che correva in quei secoli d'ignoranza, fu
comunemente creduto essere questo un presagio di qualche strepitosa
disgrazia, senza por mente che, secondo le leggi invariabili del corso
dei pianeti avea da succedere quell'oscuramento del sole. Cominciò da lì
a poco l'imperador Lodovico a sentire svogliatezza grande di stomaco,
depression di forze, e frequenza di sospiri e singhiozzi. Ordinò che se
gli preparasse l'abitazione in un'isola del Reno di sotto a Magonza, in
faccia alla villa d'Ingeleim, e quivi si pose in letto. Scrivono che per
quaranta giorni altro cibo non prese, fuorchè il sacratissimo corpo del
Signore, e andava egli chiamando giusto il Signore Iddio, perchè non
avendo fatta quaresima in quell'anno, lo obbligava a farla con quella
malattia. Fece fare un inventario di tutti i mobili suoi preziosi, e ne
assegnò la distribuzione alle chiese, ai poveri e ai figliuoli. Non
gl'incresceva già di dover lasciare il mondo, ma si doleva forte di
averlo a lasciare sì sconcertato, ben prevedendo i fieri disordini che
poi succederono. Mandò al figliuolo _Lottario_ la corona, la spada e lo
scettro ornato d'oro e di gemme, cioè le insegne imperiali, con
ricordargli di mantener la fede a _Carlo_ suo fratello e all'imperadrice
sua matrigna, e di lasciar godere e di difendere la porzion degli stati
ad esso Carlo assegnata. Ammonito da _Dragone vescovo_ di Metz suo
fratello di perdonare al figliuolo _Lodovico_, volentieri protestò di
farlo, ma con ordine agli astanti di avvisarlo che riconoscesse i suoi
falli, e massimamente quello di aver condotto il padre a morirsi di
dolore. Finalmente in mezzo alle orazioni de' sacerdoti, con somma
umiltà e rassegnazione passò a miglior vita nel dì 20 di giugno
dell'anno presente in età quasi d'anni sessantaquattro, e il corpo suo
fu seppellito nella basilica di santo Arnolfo di Metz: principe glorioso
per l'insigne suo amore e zelo della santa religione e della disciplina
ecclesiastica, per la premura della giustizia, per la costanza nelle
avversità, per la munificenza verso i poveri e verso il clero secolare e
regolare: principe che non ebbe pari nella clemenza e nella
mansuetudine, ed in altre virtù, per le quali si meritò ben giustamente
il titolo di _Pio_; ma stranamente sfortunato ne' figliuoli del primo
letto, tutti ingrati a così buon padre, cui fecero provar tanti affanni,
e troppo amante della seconda moglie e dell'ultimo dei figliuoli, onde
ebbero origine tanti sconcerti, de' quali s'è fatta menzione. Allorchè
succedette la morte del padre, stava _Lottario_ imperadore in Italia, ed
avvisato di quel funesto avvenimento, spedì tosto, secondo la
testimonianza di Nitardo[996], dei messi per tutta la Francia, con far
sapere ch'egli a momenti andrebbe a posseder l'imperio, un pezzo fa a
lui assegnato, con promessa di confermare, anzi d'accrescere a cadauno i
governi, i benefizii e gli onori che prima godevano, e con varie minacce
ai disubbidienti. Diede egli principio ad un'epoca nuova, che s'incontra
spesso ne' suoi diplomi. Poscia si accostò alle Alpi; ma prima
d'inoltrarsi volle sapere come fossero disposti gli animi dei nobili e
de' popoli oltramontani. Nulla meno meditava l'ambizioso principe che di
assorbire tutta la monarchia dei Franchi, senza curarsi delle promesse e
dei giuramenti fatti al padre. Colla spedizione di alcuni ambasciatori
al _re Carlo_ suo fratello, ch'era passato in Aquitania, si studiò di
addormentarlo, con ispacciarsi pronto a mantenere quanto dianzi egli
avea promesso, ma con pregarlo che per allora desistesse dal
perseguitare _Pippino II_ figliuolo del defunto _Pippino_ re
dell'Aquitania. Il primo nondimeno a cominciar la nuova tragedia fu
_Lodovico re di Baviera_ suo fratello. Questi colla sua armata venne ad
occupar gli stati assegnati dal padre all'imperador Lottario nella
Germania, ed arrivò sino a Vormazia, dove lasciata guarnigione, attese a
conquistar altri paesi. Intanto passò Lottario le Alpi colle sue truppe,
e trovò gran concorso di gente che venne a riceverlo. Cacciò da Vormazia
il presidio di Lodovico, e continuò il viaggio sino a Francoforte. A
fronte sua in quelle vicinanze comparve con tutte le sue forze anche
Lodovico, e s'era per venire ad un fatto d'armi; ma Lottario propose una
tregua sino al dì undici di novembre, in cui si farebbe un abboccamento
fra loro, e si tratterebbe di concordia; e, mancante questa, si
deciderebbe coll'armi l'affare, e così si restò. Erano i disegni di
Lottario di guadagnar questo tempo, per la speranza di poter frattanto
occupare gli stati di Carlo suo fratello, creduto per la sua età non
molto atto a difendersi; nè mancò di dar buone parole agli ambasciatori
mandati da esso Carlo per precedenti capitolazioni, promettendogli dal
canto suo quella fedeltà ed ubbidienza che dee un fratello minore al
maggiore. Ma non curante Lottario de' giuramenti, poco stette a passar
la Mosa e ad entrar negli stati di Carlo. Arrivato alla Senna, cioè
verso Parigi, _Gerardo_ conte governatore di quella città, _Ilduino
abbate_ di s. Dionisio, e _Pippino_ figliuolo del già re d'Italia
_Bernardo_, per paura di perdere i lor beni e governo, andarono a
sottomettersi a lui.

Questi favorevoli avvenimenti servirono a gonfiar maggiormente l'animo
di _Lottario Augusto_, e tanto più perchè la sua armata andava di dì in
dì crescendo; il duca e i popoli della Bretagna si dichiararono in suo
favore, _Pippino II_ pretendente il regno d'Aquitania, benchè più di una
volta messo in fuga dal _re Carlo_, valorosamente sosteneva la guerra, e
se l'intendeva con esso imperador Lottario. Contuttociò Carlo animato
dai suoi fedeli, con quelle milizie che potè aver dalla sua, venne a
postarsi ad Orleans, nel mentre che Lottario meditava di avanzarsi alla
volta del fiume Loire. Bastò questo a fermare i passi di Lottario,
ancorchè troppo superiore di forze. Andarono innanzi e indietro de'
mediatori per trattar qualche accordo, e si conchiuse per allora una
tregua, consentendo Lottario di lasciare a Carlo l'_Aquitania_, la
_Settimania_, la _Provenza_, e dieci _contadi_ tra la Senna e la Loire,
a condizione che nell'anno susseguente si terrebbe una dieta in Attigny,
dove si stabilirebbe una piena pace e concordia. Fu accettato dai baroni
del re Carlo questo per altro disgustoso ripiego, per salvare il lor
principe in sì grave pericolo di perdere tutto. Sicchè, per attestato
degli antichi Annali de' Franchi[997], Lottario sul fine del corrente
anno restò padrone della Francia orientale, di Parigi, della Alamagna,
Sassonia e Turingia, e fu riconosciuto per signore anche dai popoli
della Borgogna, o almeno da una parte di essi. Per attestato del
Dandolo, _Pietro_ doge di Venezia spedì Patricio suo inviato
all'imperadore Lottario, ed ottenne per cinque anni la conferma de'
patti già stabiliti fra il suo popolo e i vicini sudditi dell'imperio,
fra' quali erano i _Comacchiesi_, _Ravegnani_ ed altri; e fece
distinguere i confini del suo ducato nelle terre del regno d'Italia,
secondo l'accordo, già fatto fra Paoluccio doge e Marcello maestro de'
militi de' Veneziani. Parimente _Sicardo abbate_ di Farfa ottenne da
esso imperadore un riguardevole privilegio rapportato nella Cronica di
quel monistero[998] colla seguente data: _XVIII kalend. januarii, anno,
Christo propitio, imperii, domni Lotharii pii imperatoris in Italia XXI,
in Francia I, Indictione III. Actum Caliniaco, villa comitatus
cabillonensis._ Di qui abbiamo dove dimorasse Lottario verso il fine
dell'anno. Vedemmo nell'anno addietro, dopo _Sicardo_, creato principe
di Benevento _Radelgiso_: tempo è ora di raccontare ciò che appresso ne
avvenne. Abbiamo dall'Anonimo salernitano[999] che gli Amalfitani, già
passati ad abitare in Salerno, udita che ebbero la morte di esso
Sicardo, fatta insieme una congiura, mentre nel mese di agosto i
principali di Salerno villeggiavano pe' loro poderi, diedero il sacco a
varie chiese e case di Salerno, e poi tutti carichi di bottino tornarono
ad abitare la desolata lor patria di Amalfi. Intanto il nuovo principe
Radelgiso, non fidandosi di _Dauferio_ soprannominato _muto_, o pure,
come scrive Erchemperto[1000], _balbo_ dall'impedimento della lingua,
perchè suocero dell'ucciso principe Sicardo, il mandò in esilio co' suoi
figliuoli, appellati Guaiferio e Maione. Erchemperto dice ch'erano
quattro, cioè Romoaldo, Arigiso, Grimoaldo e Guaiferio; e pare, secondo
lui, che mal animati contra del nuovo principe, spontaneamente si
ritirassero da Benevento per fare delle novità. O sia che questi
andassero ad abitare nel contado di Nocera, e di là segretamente
scrivessero ai Salernitani; o pure che passati a Salerno, a dirittura
trattassero con quel popolo: la verità è che ordirono coi Salernitani un
trattato di cavar dalle carceri di Taranto _Siconolfo_ fratello dello
estinto Sicardo. Tirarono i Salernitani dalla sua anche gli Amalfitani,
e scelti dell'uno e dell'altro popolo i più scaltri, gl'inviarono a
Taranto. Finsero costoro di essere mercatanti, seco portando varie merci
da vendere; e girando per le strade di quella città, ch'era allora
ricchissima, perchè non per anche presa dai Saraceni, quando furono in
vicinanza delle carceri, cominciarono ad alta voce a dimandare chi
volesse dar loro alloggio per la notte: segno che in quei tempi erano
poco in uso le osterie pubbliche, come ai dì nostri, e per questo si
mettevano dappertutto spedali per gli pellegrini. Gl'invitarono i
carcerieri nella loro abitazione, nè altro che questo bramava l'astuta
brigata. Fatta comperare buona quantità di vin generoso e varii cibi,
ubbriacarono i carcerieri, e dopo averli veduti immersi nel sonno,
trovarono la maniera di entrar nella prigione e di trarne _Siconolfo_.
Secondo Erchemperto, questi per qualche tempo si tenne ascoso presso di
_Orso conte di Consa_, che era suo cognato; poi quando se la vide bella,
passò a Salerno, dove da quel popolo e da quei d'Amalfi fu proclamato
per loro principe. Accadde ne' medesimi tempi, cioè, a mio credere,
nell'anno precedente, che _Radelgiso principe_ regnante di Benevento,
avendo conceputo dei sospetti contro di Adelgiso figliuolo di Roffredo,
e veggendolo venire a palazzo accompagnato da una schiera di molti
giovani, montò in collera, e ordinò alle sue guardie di gittarlo giù
dalle finestre. Lo ordine fu eseguito. _Landolfo conte di Capua_,
segreto fautore di Adelgiso, trovandosi presente a questo spettacolo,
finse di essere sorpreso da un dolore, e licenziatosi dal principe, se
n'andò via mostrando gran difficoltà di reggersi in piedi. Montato poi a
cavallo con quanta diligenza potè se ne tornò a Capua, e ribellatosi si
fortificò nella città di Sicopoli, e fece stretta lega con _Siconolfo_,
il quale seppe ancora unire al suo partito i conti di Consa e di
Aggerenza, ed altri signori. Stabilì eziandio Landolfo pace e lega coi
Napoletani, che non si fecero pregare per vendetta dei principi di
Benevento, dai quali aveano ricevuto tante molestie e danni. E questo fu
il principio della decadenza dell'insigne ducato beneventano, perchè in
tale occasione venne poi esso a dividersi in tre diverse signorie, cioè
nei principi di Benevento, in quei di Salerno e ne' conti di Capua. Nè
si dee tacere che, per attestato di Erchemperto, prima ancora che
Siconolfo entrasse a comandare in Salerno, quel popolo dovea aver mossa
ribellione contra di Radelgiso, ad istigazione probabilmente di Dauferio
e de' suoi figliuoli. Perciocchè avendo Radelgiso spedito un certo
Adelmario, o Ademario, a Salerno, per guadagnare e ricondurre esso
Dauferio alla sua ubbidienza, non solamente nulla fece di questo, ma
segretamente unitosi con Dauferio e coi Salernitani, manipolò una
solenne burla allo stesso Radelgiso: cioè lo invitò a venir sotto
Salerno, facendogli credere di aver disposte le cose in maniera, che gli
sarebbe facile il prendere la città. V'andò Radelgiso con un picciolo
esercito, e si attendò fuori di Salerno; ma eccoti all'improvviso uscir
di Salerno il medesimo Adelmario coi figliuoli di Dauferio e col popolo,
e così fieramente dar addosso ai Beneventani, che ne uccisero molti, e
gli altri ebbero bisogno delle gambe. Radelgiso stesso ebbe per grazia
di potersi salvar colla fuga, avendo lasciato un ricco bottino ai
Salernitani, alle porte de' quali non gli venne più voglia di andar a
picchiare. Forse questo fatto non appartiene all'anno presente.

NOTE:

[994] Astronomus, in Vit. Ludovici Pii.

[995] Annales Francor., Fuldenses., Metens. Bertiniani, etc.

[996] Nithardus, Hist. lib. 1.

[997] Annales Francor. Metenses., Fuldenses, etc.

[998] Chron. Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[999] Anonym. Salernitan., Paralipomen., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1000] Erchempertus, c. 14, P. I, tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCXLI. Indiz. IV.

    GREGORIO IV papa 15.
    LOTTARIO imper. 22, 19 e 2.


Venuta la primavera, Lottario _Augusto_ passò colle sue forze a
Vormazia, perchè sentiva essere in armi il fratello _Lodovico re_[1001];
e passato il Reno, l'incalzò talmente che il fece ritirar nella Baviera.
Intanto il _re Carlo_ colle brusche avea tirato nel suo partito
_Bernardo_, già rimesso in possesso della Settimania, e colle buone
s'era cattivato l'amore e la assistenza de' popoli dell'Aquitania; nè
gli mancava nella Neustria e nella Borgogna gran copia di fedeli ed
aderenti. Raunata perciò una non isprezzabile armata, coraggiosamente,
s'inoltrò fino alla Senna e, non ostante la opposizione delle
soldatesche quivi lasciate da Lottario per difendere que' passi, gli
riuscì di valicarla, e d'inoltrarsi fino alla città di Troyes. Portato
questo avviso a Lottario, fu cagione, ch'egli, lasciato stare Lodovico,
retrocedesse per badare all'altro fratello, al quale spedì ambasciatori
per lagnarsi di lui, perchè avesse passato i confini a lui poco avanti
prescritti. Li rimandò Carlo bene informati delle sue ragioni, cioè con
dolersi che Lottario perseguitasse il comune fratello Lodovico, e contro
i giuramenti usurpasse tanti stati ad esso Carlo assegnati nelle
precedenti convenzioni, con altre ragioni ch'io tralascio; esibendosi
contuttociò pronto ad un congresso, per vedere se all'amichevole si
potea stabilire un accordo: se no, che sarebbe rimessa all'armi la
decision delle loro controversie. In questo mentre i due fratelli
Lodovico e Carlo trattarono e conchiusero una lega fra loro contro di
Lottario: dopo di che Lodovico si mosse con quanto sforzo gli fu
permesso, e riuscitogli di dare una rotta ad _Adalberto_, creato duca
d'Austrasia da Lottario, e da lui lasciato alla guardia del Reno,
felicemente valicò quel real fiume, tendendo ad unir le sue forze con
quelle di Carlo, siccome in fatti avvenne. Andarono innanzi e indietro
varie ambasciate, varii progetti, per veder pure di concordar gli animi
senza spargimento di sangue; ma niuna condizione piaceva a Lottario,
perchè intanto aspettava che seco si venisse a congiugnere Pippino suo
nipote, pretendente alla corona d'Aquitania, che conduceva un buon
rinforzo di truppe. Venuto Pippino, sempre più si vide allontanar la
speranza dell'accordo, e però amendue le parti si accinsero alla
battaglia. Il sito, dove si azzuffarono nel dì 25 di giugno le due
armate nemiche fu Fontaneto, ossia Fontenay nel contado di Auxerre.
Agnello[1002], scrittore italiano di questi tempi, afferma che
l'esercito di Lottario era composto d'innumerabil gente, e però di lunga
mano superiore a quello de' due fratelli avversarii. Ciò non ostante,
con tal rabbia e vigore combattè l'armata d'essi due fratelli, che ne
restò in fine sconfitta quella di Lottario, il quale per altro fece
maraviglie di valore nel combattimento. Ma questo memorabil fatto d'armi
fu la rovina della Francia, per attestato degli Annali di Metz[1003],
perchè vi perì la gente più brava di tutta la Francia, cosicchè da lì
innanzi cominciò ad andare in declinazione quel regno, ridotto
all'impotenza di difendere sè stesso, non che di conquistare l'altrui.
Scrissero alcuni che cento mila persone rimasero estinte sul campo. Sì
gran macello non si dee molto facilmente credere. Agnello attesta che
dalla parte di Lottario e di Pippino vi perirono quarantamila persone:
sacrifizio ben grande alla matta ambizione.

Ci ha poi questo medesimo autore conservata una particolarità che vien
taciuta dagli Annalisti francesi e tedeschi d'allora. Cioè che _Gregorio
papa_, assai prevedendo dove aveva a terminare la abbominevol
dissensione dei tre fratelli, mosso da zelo ed amore paterno, determinò
d'inviare in Francia tre legati, affinchè s'interponessero per la
concordia e pace. Saputo ciò da _Giorgio arcivescovo_ di Ravenna,
scrisse all'imperador Lottario, pregandolo d'impetrare dal papa che
anch'egli in compagnia de' legati potesse intraprendere quel viaggio.
L'ottenne, ma andò colla maledizione apostolica, perchè ben conosceva il
pontefice che vano e torbido cervello fosse un tal prelato. Andò, dissi,
con trecento cavalli, seco portando gran copia d'oro e d'argento, con
aver saccheggiato il resto del tesoro della sua Chiesa, ed asportate
corone, calici, e patene d'oro, e vasi di argento e di oro, e tolte le
gemme dalle croci, tutto per far dei regali. Nè Agnello dissimula che le
mire di questo arcivescovo erano di sovvertire a forza di donativi
Lottario augusto, per sottrarsi dall'ubbidienza e podestà del papa, come
avea fatto qualche suo predecessore scismatico: al qual fine seco portò
i privilegii conceduti da alcuni empii imperadori greci alla sua Chiesa.
Giunto Giorgio all'armata di Lottario, siccome abbiamo dagli Annali di
san Bertino[1004], fu ritenuto da esso Augusto senza permettergli di
trattare d'accordo co' suoi fratelli. Altrettanto possiam credere che
succedesse ai legati del papa, perchè Lottario non sapeva intendere
consigli di pace, lusingandosi di maggior vantaggio per la via
dell'armi. Ora Iddio permise che dopo la rotta dell'esercito lottariano,
l'ambizioso arcivescovo Giorgio fosse preso dai vincitori soldati,
spogliato del piviale, di cui era vestito, e con grande strapazzo
condotto alla presenza del re Carlo, il quale per tre giorni il fece
stare sotto buona guardia, come prigione. I legati apostolici ebbero la
fortuna di potersi salvar colla fuga ad Auxerre: i preti e cherici che
accompagnavano l'arcivescovo suddetto, chi qua, chi là. Tutto il suo
tesoro restò in preda ai soldati. I suoi privilegii gittati nel fango,
calpestati e lacerati, si perderono; ed egli stesso fu in pericolo di
essere cacciato in esilio da _Carlo_ e da _Lodovico_, dappoichè furono
informati della di lui malignità; ma l'_imperadrice Giuditta_ mossane a
compassione, gl'impetrò la libertà. Sel fece venire davanti il re Carlo,
e dopo averlo rabbuffato ben bene, e fattogli prestar giuramento, il
lasciò andare, con ordine che gli fosse restituito tutto quanto si potea
trovare spettante a lui. Si trovò ben poco. Tutti i suoi preti, se
vollero tornare in Italia, furono costretti a venirsene a piedi e in
farsetto, e chiedendo la limosina. Promise Giorgio di compensar loro i
danni, giunto che fosse a Ravenna; ma i fatti non corrisposero poi alle
parole. Si ritirò lo sconfitto Lottario ad Aquisgrana, per attendere a
far gente di nuovo da poter sostenere la guerra, e lasciossi tanto
trasportare dal suo mal talento, che per aver soccorso da i Sassoni
Stellingi, permise loro di ritornare agli antichi riti pagani, con grave
scandalo del Cristianesimo. Ad _Erioldo_ ancora re di Danimarca,
apostata della religion cristiana e persecutor de' Cristiani, concedette
da godere alcune terre ne' suoi confini. Intanto il re Lodovico, parte
col terrore, parte col maneggio trasse nel suo partito molti de'
Sassoni: inoltre tutti i popoli dell'Austrasia, Turingia ed Alamagna
ridusse sotto il suo dominio. Nello stesso tempo i Normanni[1005],
profittando della discordia dei re fratelli, sbarcarono in Francia,
presero la città di Roano, e dopo il sacco la diedero alle fiamme, con
restar desolati dalla lor crudeltà alcuni monasteri e un buon tratto di
paese. Rinforzato alquanto di gente l'imperador Lottario passò il Reno,
quasi che volesse impedire i progressi di Lodovico suo fratello, ma poi
senza far altro se ne tornò a Vormazia. Passò poi nel Maine, commettendo
dappertutto le sue truppe immensi disordini e saccheggi, ed obbligando
colla forza que' popoli a giurargli fedeltà. Non era men della Francia
sconvolto in questi tempi il ducato di Benevento per la guerra insorta
fra _Siconolfo_ dominante in Salerno[1006] e Radelgiso principe
beneventano. Siconolfo, siccome uom bellicoso, aiutato anche da
_Landolfo conte di Capoa_ e da' suoi figliuoli, senza perdere tempo,
s'inoltrò nella Calabria, e tutta la ridusse sotto il suo dominio. Prese
anche buona parte nella Puglia, e rivoltosi addosso all'altro paese di
Benevento, s'impadronì di alcune altre città e terre. Una donazione
fatta da esso Siconolfo principe ad _Aione vescovo_ di Salerno e alla
sua chiesa nel mese di agosto dell'anno presente si legge nelle mie
Antichità italiane[1007].

NOTE:

[1001] Annales Franc. Fuldenses. Nithard., lib. 2.

[1002] Agnell., Vit. Episcopor. Ravenn. P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1003] Annales Franc. Metenses.

[1004] Annales Franc. Bertiniani.

[1005] Monach. Fontenell. apud Du-Chesne, tom. II Rer. Franc.

[1006] Erchempertus, Hist., cap. 15.

[1007] Antiquit. Ital. Dissert. XXXV, pag. 77.



    Anno di CRISTO DCCCXLII. Indiz. V.

    GREGORIO IV papa 16.
    LOTTARIO imperad. 25, 20 e 3.


Durando tuttavia la guerra e gli sconcerti in Francia tra _Lottario
Augusto_ e i due re suoi fratelli, seguirono varii movimenti dall'una e
dall'altra parte, minutamente descritti da Nitardo[1008]. Fra l'altre
cose con piacere si legge presso di lui la conferma della lega stabilita
fra i suddetti due fratelli _Lodovico_ e _Carlo_ in Argentina, o vogliam
dire in Strasburg. L'uno fece il suo giuramento in lingua tedesca, e
l'altro in lingua romanza, che era fin d'allora la volgare franzese, e
s'accostava più alla nostra italiana di quel che faccia oggidì. Sarebbe
da desiderare che fosse restato un pezzo simile della lingua nostra
italiana di que' tempi, per conoscere in che stato essa allora si
trovasse; ma finora nulla di ciò s'è veduto, perchè tutte le scritture
che restano sono di lingua latina, mischiata nondimeno di molti
solecismi e barbarismi. I Tedeschi e gl'Inglesi hanno interi opuscoli di
que' secoli nella lor lingua. Nulla ne ha l'Italia. Ora io non mi
fermerò a descrivere le vicende della guerra di Francia, perchè furono
di poco momento. Basterà qui dire, che incalzato l'_imperadore Lottario_
dai fratelli[1009], dopo avere spogliato il palazzo d'Aquisgrana di
tutte le cose più preziose, si ritirò a Lione, e quivi dopo aver finora
rifiutato di dare orecchio a progetti di pace, finalmente la debolezza
delle forze sue il consigliò ad ascoltarli. Si convenne tra i tre
fratelli di fare un abboccamento presso alla città di Mascon in un'isola
del fiume Sona che divideva le armate. Questo seguì verso la metà di
giugno, e vicendevolmente tutti e tre dimandarono perdono del passato,
giurarono di conservar tra loro una buona pace e fratellanza; e
determinarono di tenere un congresso nella città di Metz nel primo dì di
ottobre, per regolare la division della monarchia franzese, di cui si
andò poi seriamente trattando da lì innanzi. Ma questo congresso si
differì fino a' cinque di novembre, e per varii impedimenti o pretesti
trasportato fu al giugno dell'anno seguente. Per altro i due fratelli
_Lodovico_ e _Carlo_, dappoichè ebbero costretto l'augusto _Lottario_ a
ritirarsi da Aquisgrana, colà si portarono essi, e ordinata quivi una
raunanza di molti vescovi, fecero loro decidere che Lottario per
gl'insulti fatti al padre, per la mancanza ai giuramenti, per l'indebita
guerra fatta ai fratelli avea provato il flagello della vendetta di Dio,
ed era decaduto dai regni di Francia e di Germania, de' quali erano
divenuti giusti possessori i re Lodovico e Carlo. Ciò fatto, i due
fratelli divisero tra loro i regni; ma per l'accordo che nell'anno
susseguente seguì tra essi e l'imperadore Lottario, si fece una più
stabil divisione. Terminò i suoi giorni nel gennaio dell'anno presente
_Teofilo imperador de' Greci_, con lasciare successor nell'imperio
_Michele_ suo figliuolo in età di soli tre anni. Una malattia pericolosa
sopraggiunta a questo novello Augusto diede occasione ai monaci di
Studio di promovere la restituzione delle sacre immagini con promessa
della di lui guarigione. Risanato egli in fatti, con giubilo de'
Cattolici furono rimesse in uso ne' sacri templi le immagini; e cacciato
via Janne falso patriarca di Costantinopoli, in luogo suo fu eletto
_Metodio_, uomo di santa vita e di sentimenti ortodossi. La divisione e
guerra tra i principi di Benevento seguitava più che mai vigorosa,
quando i _Saraceni_ africani, chiamati da altri _Agareni_, o pure
_Mori_, padroni della vicina Sicilia, seppero ben prendere pe' capelli
la buona fortuna, con passare forse prima di quest'anno in Calabria,
dove a man salva s'impadronirono di alcune città e terre, e vi si
radicarono talmente, che l'Italia tutta ne ebbe a piagnere dipoi per
lungo tempo. Sotto quest'anno Nitardo[1010] e gli Annali
bertiniani[1011] mettono l'entrata di costoro nel ducato di Benevento.
_Radelgiso principe_ di quelle contrade veggendo prosperar sì forte gli
affari dell'emulo _Siconolfo_, da cui or una, or una altra città gli
veniva occupata, senza trovar maniera da potere resistere, s'appigliò ad
un consiglio dettato dalla disperazione: cioè chiamò in aiuto suo
alquante brigate de' Saraceni postati nella Calabria[1012]. Ebbe ordine
da lui Pandone governatore di Bari di dar quartiere a quegl'infedeli
fuori della città dalla parte del mare. Ma i Saraceni, gente la più
furba del mondo, andarono tanto spiando le fortificazioni della città,
che trovarono modo una notte di arrampicarsi e di entrarvi dentro senza
resistenza d'alcuno. Misero a fil di spada una parte del misero
innocente popolo, l'altra la fecero schiava, e Pandone fra gli altri
dopo molti tormenti fu gittato ed affogato nel mare.

Con Erchemperto va d'accordo l'Anonimo salernitano[1013] intorno a
questi fatti. Racconta egli che _Radelgiso_ principe di Benevento con
un'armata di ventiduemila persone tra cavalleria e fanteria si portò
all'assedio di Salerno; ma _Siconolfo_ principe colla gente di Salerno,
Capua, Aggerenza, Consa ed Amalfi, venne a battaglia, e sbaragliò i
Beneventani. Questa probabilmente è la rotta, di cui all'anno 840 s'è
fatta menzione coll'autorità di Erchemperto. Seguita poi a dire, che
Siconolfo, raunato un buon esercito, si portò anch'egli addosso ai
Beneventani; ma questi, usciti dalla città, sì valorosamente gli
assalirono, che li misero in fuga. Dopo questo i Saraceni con grandi
forze calarono in Calabria; presero Taranto con facilità, ed entrati
nella Puglia, diedero il sacco a quasi tutte le città con uccidere le
persone che erano cresciute a guisa delle biade. Per attestato poi di
Erchemperto, Radelgiso trovandosi impotente a cacciar fuori di Bari que'
barbari ospiti, cominciò a trattar con loro amichevolmente e a valersi
del loro aiuto. Comandò ad _Orso_ suo figliuolo di menarli all'assedio
di un castello, e v'andarono con una potente oste. Ma ciò saputo da
Siconolfo, arditamente andò a trovarli, e gli sconfisse con istrage di
chi non potè ben menar le gambe. Il re d'essi per nome Calfo, cadutogli
sotto per la stanchezza il cavallo, stentò a giugnere coi suoi piedi a
Bari. Crebbero poi le miserie di quelle contrade, perchè, secondo
l'Anonimo salernitano, Radelgiso prese al suo soldo il principe de'
Saraceni abitante in Bari, per nome _Saotan_, o _Saudan_, come altri
hanno scritto. Tengo io che questo fosse non il proprio suo nome, ma
quello bensì della sua dignità, e lo stesso sia che _Soldano_, o
_Sultano_, come han detto dipoi gl'Italiani. Veggasi il d'Erbelot[1014]
alla parola _Solthan_. Col rinforzo di costui e delle sue masnade, i
Beneventani passarono addosso ai Salernitani, e non meno agli uomini che
alle case e ai poderi recarono infiniti danni. Furono costoro appena
ritornati indietro, che pervenuta tosto a Siconolfo signoreggiante in
Salerno la notizia che Radelgiso aveva spogliata la cattedrale di
Benevento di buona parte del suo tesoro per ingaggiare e pagare i
Saraceni del suo partito: anch'egli si prevalse di questo scellerato
esempio, e presa per forza dalla cattedrale di Salerno gran copia d'oro,
se ne servì per impegnare alla difesa de' suoi stati il comandante
saraceno di Taranto, chiamato Apollafar. Ben volentieri costui passò con
buon nerbo di gente al servigio di Siconolfo, e poscia unito coi
Salernitani al guasto dei Beneventani. Accadde poi che tornato Apollafar
da quella spedizione con Siconolfo a Salerno, mentre amendue con festa
salivano le scale del palazzo, Siconolfo per ischerzo il prese colle
braccia e portollo di peso sopra, e nel posarlo giù l'abbracciò e baciò.
Ma il superbo e delicato Saraceno se l'ebbe forte a male; e tuttochè
Siconolfo dicesse d'aver fatto ciò per burla e non per inganno, pure
giurò di non volerlo più servire, ed immantinente con tutti i suoi si
partì da Salerno e tornossene a Taranto. Quivi trattò con Radelgiso,
esibendosi ai suoi servigi. Nè potea giugnere a lui nuova più cara di
questa. Accettato e venuto coll'esercito suo, tosto fu spedito contra
de' Salernitani, nel paese de' quali commise enormità e danni
incredibili. Così gl'infedeli andavano profittando della discordia de'
principi cristiani colla rovina de' popoli innocenti. Ottenne in
quest'anno, se pur non fu nel precedente, il doge di Venezia Pietro da
_Lottario_ imperadore la conferma delle esenzioni dei bani goduti dai
Veneziani nel regno d'Italia. Il diploma, rapportato dal Dandolo[1015],
fu dato _kalendis septembris anno, Christo propitio imperii domni
Lotharii piissimi Augusti in Italia XXII, in Francia II. Indictione
VIII. Actum termis villa palatioregio._ Queste note cronologiche non
sussistono. Fors'anche tale spedizione la stessa è, di cui s'è fatto
troppo presto menzione di sopra all'anno 840. Terminò in quest'anno,
secondo i conti di Camillo Pellegrino[1016], i suoi giorni _Landolfo_
conte ossia principe di Capua[1017]. Restarono di lui quattro figliuoli,
cioè Landone, che signoreggiò in Capua, _Pandone_ in Sora, e
_Landonolfo_ in Tiano. Il quarto figliuolo _Landolfo_ seguitò la via
ecclesiastica, con divenir poi vescovo di Capua, e personaggio famoso
per le sue iniquità. Lasciò il vecchio Landolfo per ricordo a' suoi
figliuoli, che non permettessero mai la riunione de' principati di
Benevento e Salerno, e tutti da lì innanzi cominciarono a tirar de'
calci contra del principe di Benevento, e a poco a poco stabilirono
l'indipendenza del principato di Capua da Benevento e da Salerno.

NOTE:

[1008] Nithardus, Hist. lib. 3.

[1009] Annal. Franc. Bertiniani.

[1010] Nithard., Hist., lib. 3.

[1011] Annales Franc. Bertiniani.

[1012] Erchempertus, Hist., cap. 16.

[1013] Anonymus Salernitan. Paralipom. cap. 65. Part. II, tom. 2 Rer.
Ital.

[1014] Erbelot., Bibliot. Orient.

[1015] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1016] Camill. Peregr., Hist. Princip. Langobard.

[1017] Erchempertus, Hist., cap. 22.



    Anno di CRISTO DCCCXLIII. Indiz. VI.

    GREGORIO IV papa 17.
    LOTTARIO imperad. 24, 21 e 4.


Di somma consolazione a tutta la monarchia francese riuscì l'anno
presente, perchè si venne finalmente alla divisione de' regni tra i
figliuoli di Lodovico Pio: il che produsse la concordia fra loro e la
pace fra tutti i popoli loro sudditi[1018]. Seguì questa nel mese di
agosto nella città di Verdun presso alla Mosa, con essersi quivi
abboccati i tre re, e pacificati fra loro. La parte che toccò al re
_Carlo_, appellato dipoi il _Calvo_, fu la parte occidentale della
Francia, cioè dall'Oceano fino alla Mosa e alla Schelda, e sino al
Rodano, alla Sona, al Mediterraneo e alla Spagna. Al re _Lodovico_ toccò
la Baviera, parte della Pannonia, la Sassonia, e tutte le provincie
della Germania di là del Reno, con qualche parte ancora di paese di qua
da esso Reno, e nominatamente Magonza; e qui ebbe principio il regno
della Germania, appellato anche _Francia orientale_. All'imperador
_Lottario_ restò tutto il tratto di paese situato fra il Reno e la Mosa,
andando sino all'Oceano, la Provenza, la Savoia, gli Svizzeri e
Grigioni, cioè quasi tutta l'antica Borgogna e l'Alsazia; _nec non et
omnia regna Italiae cum ipsa romana urbe_, come ha l'autore degli Annali
di Metz: con che egli venne a perdere tante provincie che il padre gli
avea lasciato in Germania, e ch'egli avrebbe potuto agevolmente ritenere
se l'incontentabile sua ambizione non l'avesse condotto a mancar di
parola e a far guerra al re Carlo suo fratello. E qui non lasciano
alcuni scrittori di que' tempi di deplorar questo trinciamento della
dianzi sì vasta monarchia franzese, che unita faceva paura a tutti,
divisa, aprì il campo ai Normanni, Saraceni, ed Ungheri d'infierire e
prevalere contra de' Cristiani d'Occidente, e d'inferir loro un'iliade
di mali. E tanto più restò essa indebolita, perchè al re _Carlo Calvo_
toccò bensì in questa divisione, almen tacitamente, anche l'Aquitania;
ma in quelle contrade si fece forte il suo nipote _Pippino II_,
figliuolo del re _Pippino I_, riconosciuto per re dalla maggior parte di
que' popoli; e gran sangue e fatiche dipoi costò ad esso re Carlo il
levar quel regno dalle mani del nipote. Ribellossi ancora al medesimo re
Carlo, per non dire che si staccò dalla sua alleanza, _Nomenoio duca_
della minor Bretagna, seguendo l'uso dei predecessori, che non sapeano
se non colla forza indursi a riconoscere per loro sovrani i re di
Francia. E in quest'anno ancora[1019] i Normanni fecero uno sbarco
nell'Aquitania inferiore, e diedero il sacco al paese. Soprattutto presa
la città di Nantes, vi trucidarono il vescovo _Goardo_, e molti cherici
e laici. Però sensibilmente si cominciò a provare collo smembramento
della monarchia il peso delle miserie, spezialmente nella Francia
occidentale, in cui ancora nell'anno corrente mancò di vita
l'_imperatrice Giuditta_, madre del suddetto re _Carlo Calvo_. Minori
poi non erano gli affanni nel ducato beneventano per la guerra che
ostinatamente faceano tra di loro il principe di Benevento _Radalgiso_ e
_Siconolfo_ principe di Salerno. Altro non si udiva che saccheggi, e più
degli altri ne sapeano profittare gli astuti Saraceni, dominanti nella
Calabria e in Bari, col farsi partigiani ora dell'uno, ora dell'altro
principe, ed arricchirsi colle spoglie degl'infelici popoli. Or mentre
costoro si stavano ai servigi di _Radegiso_[1020], _Siconolfo_ non
potendo reggere al contrasto, altro scampo non seppe trovare che di
condurre al soldo suo molte brigate di que' Saraceni che signoreggiavano
la Spagna, aveano anche occupata l'isola di Creta ossia di Candia. Fra
questi Saraceni e quei dell'Africa non passava allora amicizia, anzi si
riputavano fra loro nemici. Con questo rinforzo venne un giorno
Siconolfo alle mani coll'armata di Radelgiso nel luogo appellato le
Forche Caudine, celebre anche nella storia romana. Riuscì a Radelgiso a
tutta prima di mettere in rotta le schiere nemiche; ma Siconolfo, che
stava ritirato in disparte con uno scelto drappello ad osservar l'esito
della battaglia, allorchè vide i Beneventani sbandati perseguitare i
fuggitivi, si scagliò contra di loro, ne tagliò molti a pezzi, molti
altri ne fece prigioni e costrinse il resto a menar le gambe. Dopo
questa insigne vittoria vennero in suo potere, eccettochè Benevento e
Siponto, tutte le altre città di Radelgiso. Abbiamo da Leone
Ostiense[1021] che Siconolfo per pagare i Saraceni spagnuoli, sotto nome
di prestito spogliò di quasi tutto l'insigne suo tesoro il monistero di
Monte Cassino. Finalmente si portò egli all'assedio della stessa
capitale di Benevento. Era già ridotta a mal termine l'assediata città,
non meno per la morte dei difensori, che per la mancanza delle
vettovaglie, quando Radelgiso si avvisò di chiamare in soccorso suo
_Guido duca di Spoleti_. Contuttochè questi fosse parente di Siconolfo,
pure non lasciò di accorrere con un copioso esercito in aiuto di esso
Radelgiso; ma prima di giugnere a Benevento fece sapere a Siconolfo, che
il consigliava di ritirarsi dall'assedio, e che lasciasse fare a lui,
perchè subito che avesse potuto favellar con Radelgiso, avrebbe fatta
conoscere al medesimo Siconolfo la parzialità, di cui si gloriava verso
di lui. Gli fu prestata fede, e Siconolfo sciolse l'assedio. Ma Guido
_pro cupiditate pecuniarum, quibus maxime Francorum subjicitur genus_
(era Guido di nazion franzese) avendo smunto da Radelgiso la somma di
settantamila scudi d'oro, nulla attenne delle promesse fatte al suo
cognato Siconolfo, e se ne tornò a Spoleti.

Diversamente vien raccontato questo fatto dall'Anonimo
salernitano[1022], il quale fiorì, a mio credere, cento anni dopo
Erchemperto. Secondo lui, Siconolfo invitò ed ebbe in suo aiuto Guido
suo cognato, _qui illo tempore Tuscis praeerat_. L'Umbria, dove è
Spoleti, era in quei tempi dai letterati posta nella provincia della
Toscana; e però altri ancora chiamarono _duca de' Toscani_ chi comandava
agli Spoletani. Più sotto poi soggiugne che i _Toscani_, gli _Spoletani_
e i _Salernitani_ cinsero di assedio Benevento, quasichè Guido
comandasse, non solo al ducato di Spoleti, ma anche a quel della
Toscana: il che non pare credibile. Ora stando essi attendati sotto
quella città, uno de' Salernitani dimandò a una sentinella beneventana:
_Che fa il vostro fabbro ferraio?_ Così disse per ischerno, perchè
_Radelgiso_ in sua gioventù, benchè di nobilissima casa, si dilettava di
praticar con gli orefici e ne aveva imparata l'arte. Allora il
Beneventano gli rispose: _Sta fabbricando un paio di forbici per tosare
un cherico_, alludendo a _Siconolfo_, che negli anni addietro, per forza
usatagli da _Sicardo_ principe suo fratello, avea preso il diaconato.
Ora avvenne che andando il _conte Guido_ (così è chiamato dal
Salernitano) con un solo scudiere alla ronda intorno alla città, fu
adocchiato dal saraceno Apollafar, che s'impegnò con Radelgiso di
menarglielo davanti prigione, se tornava nel dì seguente a lasciarsi
vedere così soletto girando fuor delle mura. Comparve nel dì seguente
Guido, e Apollafar con un solo scudiere andatogli alle spalle, il colpì
sì fattamente nel capo, che tutto lo sbalordì. Allora prese il di lui
cavallo per le redini, s'inviò verso la città, senza che Guido sapesse
in che mondo allora si fosse. Ma il suo scudiere veggendo il padrone in
sì misero stato, colla lancia in resta spronò il cavallo, e passò da
parte a parte lo scudiere nemico. Ciò osservato da Apollafar, colla
lancia diede a Guido un colpo nel petto con tal forza che gli passò
l'usbergo, e alquanto ancora ferito il rovesciò a terra. Per questa
percossa tornato in sè Guido, e salito sul cavallo del suo scudiere,
dopo aver costretto il Saracino a tornarsene indietro, s'incamminò verso
i suoi, i quali, informati del successo, presero tosto le armi, e
diedero un furioso assalto alla città colla morte di molti Beneventani.
Per l'affronto ricevuto era forte in collera Guido, e però segretamente
fece proporre a Radelgiso un accordo, se gli dava in mano Apollafar con
altri Saraceni. Fu accettata la proposizione, preso Apollafar a dormire,
e condotto coi piè nudi a Guido, il quale non dimenticò di farne
vendetta. Seguita poi l'Anonimo a dire che i Beneventani promisero
danari a Guido, se induceva Siconolfo ad una divisione del ducato, e che
questa in fine si fece di consenso degli emuli principi. Ma il racconto
dell'Anonimo ha un po' d'aria da romanzo, e discorda da Erchemperto
storico di maggior credito; e certo pare contrario alla verità nel
supporre seguito l'accordo fra quei due principi poco dopo l'assedio di
Benevento, tenendo per fermo il Pellegrino che quella concordia
avvenisse tanto più tardi, cioè nell'anno 850, o pure 851, per opera di
_Lodovico III imperadore_. E però ne creda il lettor ciò che vuole.
Questa è poi la prima volta che presso gli antichi scrittori s'incontra
_Guido duca di Spoleti_ nell'anno presente. Vedemmo di sopra all'anno
824 che _Maurengo_ o _Morengo_ conte di Brescia, appena creato duca di
quella contrada, fu rapito dalla morte, senza che apparisca chi gli
succedesse in quel ducato; se non che il conte Campelli, autore del
secolo prossimo passato, mette per immediato successore di lui _Guido
I_, ossia _Guidone_ o _Widone_, di schiatta franzese. Ma egli a tentone,
e senza autorità dell'antica storia ciò immaginò; nè sussiste punto che
il medesimo Guido nell'anno 829 salvasse Roma dai Saraceni. Facile è
troppo quello storico a spacciar le immaginazioni sue come cose certe; e
tale anche è il dire che nell'anno 832 esso Guido per la morte di Sicone
principe di Benevento _ne fe' con la sua corte pubbliche dimostrazioni
di lutto_. Chi ciò ha mai rivelato al Campelli? A me sembra tuttavia
incerto se a _Morengo_ succedesse _Guido I_, perchè dall'anno 824 sino
all'843, in cui cominciamo a scoprir questo Guido duca di Spoleti, passò
di molto tempo, e in questi anni si potè frapporre qualche altro duca a
noi ignoto. Nel catalogo dei duchi di Spoleti, riferito dal padre
Mabillone[1023] si vede all'anno 836 _Berengarius dux_. Di questo
_Berengario duca_ troveremo fatta menzione più sotto all'anno 844.

Ora per conoscere che in quest'anno succedette l'assedio di Benevento, e
per intendere nello stesso tempo gli avvenimenti della città di Napoli,
convien qui ricorrere a Giovanni Diacono, scrittore di questi medesimi
tempi, nelle vite de' vescovi napoletani[1024]. Già ci fece egli sapere
all'anno 839, come _Lottario imperadore_ spedì un suo barone per nome
_Contardo_ per far desistere i Beneventani dall'oppressione de'
Napoletani. _Andrea_ maestro de' militi ossia generale, e console e duca
di Napoli, giudicò spediente di fermare in Napoli esso Contardo, per
tenere in freno colla sua presenza la petulanza dei Napoletani; e tal
fine gli fece sperar le nozze di _Euprassia_ sua figliuola, vedova del
_duca Buono_. Ma non si concludendo mai questo accasamento, Contardo
unito con alcuni nemici d'esso Andrea console, lo ammazzò di sua mano
nella basilica battesimale di s. Lorenzo; appresso si fece console e
duca di Napoli, e prese per moglie la suddetta figliuola dell'ucciso
duca. Ma il popolo di Napoli mal sofferendo che costui forestiere avesse
sì crudelmente tolto di vita il loro duca, dopo tre dì entrarono
furiosamente nella casa del vescovo, dove egli abitava, e misero a fil
di spada lui, la moglie Euprassia e tutti i suoi famigliari. Dopo di che
d'accordo elessero per loro duca _Sergio_ figliuolo di Marino e di
Euprassia insigne personaggio di quella città, come s'ha dalla vita di
santo Atanasio[1025] vescovo di Napoli, e figliuolo d'esso Sergio, con
ispedir tosto corrieri a Cuma, dove egli si trovava, per fargli sapere
questa elezione. Era Sergio stato spedito nella mattina stessa di quel
dì, in cui fu ucciso Andrea duca, per ambasciatore a _Siconolfo_
principe di Salerno, _obsidentem tunc Beneventanos. Enim vero in ipsis
diebus divisus est principatus Langobardorum_: parole che concordano
coll'Anonimo salernitano, e potrebbono indicare che qualche anno prima
di quel che finora s'è creduto, seguisse la divisione del principato di
Benevento, secondo la carta rapportata da Camillo Pellegrino[1026]; se
non che si può pretendere, voler solamente dire quel _divisus_, che era
scisma, divisione e guerra nel principato di Benevento tra _Radelgiso_ e
_Siconolfo_. Per altro convien osservare che nel suddetto strumento di
divisione è nominato _domnus Ludovicus rex_. Non può convenir questo
titolo di _re_ nell'anno 851, in cui pretendesi fatta quella divisione,
a _Lodovico II_, il quale nell'anno 850, siccome vedremo, ed anche
prima, fu dichiarato imperadore. Ma di ciò riparleremo all'anno 848.
Intanto ritornando noi agli affari di Napoli, abbiamo da Giovanni
Diacono che _Sergio_ eletto duca di quella nobil città volò a prenderne
il possesso. Ed essendo stato da lì a poco chiamato da Dio a miglior
vita _Tiberio vescovo_ di Napoli dopo sì lunga prigionia, _Sergius
consul apocrisarios suos Romani destinans, obnixius Johannem electum
inthronizari postulavit. Sed domnus Gregorius papa romuleus, tamdiu
kujusmodi petitione distulit, quoadusque missa legationem canonice
investigaret ne pontificalem subrideret sedem_. Ma essendo noi per
vedere accaduta la morte di papa Gregorio IV nel gennaio dell'anno
susseguente, vegniamo per conseguente a comprendere che nel presente
anno si fece l'assedio di Benevento, e _Sergio duca_ diede principio
alla sua signoria in Napoli. Conghiettura poi il padre Astezati abbate
benedettino[1027] che _Lottario Augusto_ nell'anno presente dichiarasse
re d'Italia il primogenito _Lodovico_: cosa anche di cui ebbe sospetto
il padre Pagi[1028]. Nè mancano carte che sembrano assistere a questa
conghiettura. Anastasio stesso[1029], siccome vedremo, chiamandolo re
prima della coronazione romana, potrebbe servire a darle qualche peso.
Però non è improbabile che dal presente anno _Lodovico II_ desse
principio agli anni del suo regno. Sia a me lecito nondimeno di mettere
il principio dell'epoca sua nell'anno seguente.

NOTE:

[1018] Annales Franc. Metenses.

[1019] Annales Franc. Bertiniani.

[1020] Erchempertus, Hist. cap. 17.

[1021] Leo Marsicanus, Chron. Cassin. lib. 1, cap. 25.

[1022] Anonymus Salern. Paralipom. c. 67. P. II. tom. 1 Rerum
Italicarum.

[1023] Mabill., Itinerar. Italicar.

[1024] Johann. Diacon., P. II tom. 1 Rerum Italicarum.

[1025] Vit. S. Athan. Episc. Neapol., P. II, tom. 2 Rer. Italic.

[1026] Camill. Peregr., Hist. Langobard.

[1027] Astezat., de nova Epocha Ludovic. II Imperat.

[1028] Pagius, in Crit. ad Annales Bar.

[1029] Anastas. Biblioth., in Vit. Sergii II.



    Anno di CRISTO DCCCXLIV. Indizione VII.

    SERGIO II papa 1.
    LOTTARIO imperad. 25, 22 e 5.
    LODOVICO II re d'Italia 1.


Secondo gli Annali bertiniani[1030], Sigeberto[1031], Mariano
Scoto[1032] ed altri antichi storici, diede fine a' suoi giorni
nell'anno presente _Gregorio IV_ papa. Ciò avvenne, per quanto han
creduto il Sigonio, il Panvinio e il padre Pagi, nel dì 25 di gennaio.
Anastasio[1033], o qualunque sia l'autore della sua vita, ci dà
ragguaglio delle fabbriche da lui fatte, e dei copiosi donativi ch'egli
offerì a Dio in varie chiese. Ma è ben da dolersi che per lo più gli
antichi scrittori delle vite de' papi, raccolte da Anastasio, altro non
ci sappiano contare, se non i risarcimenti, o regali da lor fatti ai
sacri templi. Le azioni loro, che ben più lo meritavano, quelle erano
che s'aveano da tramandare ai posteri, e che noi ora desideriamo, ma
indarno. Così le poche croniche antiche de' riguardevoli monisteri
d'Italia si riducono ad una gran fila d'acquisti, di livelli, o di liti
per beni temporali, lasciando quel che più importava, cioè la virtù e le
geste lodevoli degli abbati e de' monaci d'allora, se pur di queste vi
era abbondanza. Nella cattedra di s. Pietro ebbe Gregorio IV per
successore _Sergio II_, che fu consecrato nel dì 10 di febbraio. Ma
perchè contro i patti seguì questa consecrazione, cioè senza l'imperial
beneplacito (al che non sapevano accomodarsi i Romani), Lottario Augusto
ne fece del risentimento, ed inviò a Roma il suo primogenito Lodovico
coll'armata. Gli Annali bertiniani, dopo aver narrata l'elezione di papa
Sergio, seguitano a dire[1034]: _Quo in sede apostolica ordinato,
Lotharius filium suum Hludowicum Romam cum Drogone Mediomatricorum
episcopo dirigit, acturos, ne deinceps, decedente apostolico, quisquam
illic praeter sui jussionem, missorumque suorum praesentiam, ordinetur
antistes. Qui Romam venientes, honorifice suscepti sunt._ È vero che
furono onorevolmente ricevuti; ma Anastasio[1035] vi aggiugne altre
particolarità taciute dagli Annali. Cioè, che arrivato l'esercito
imperiale alla prima città degli stati ponteficii, cominciò a far
provare lo sdegno dell'imperadore a quegli innocenti popoli, con
uccidere moltissime persone, talmentechè, spaventata la gente, chi qua e
chi là correva a nascondersi. Un sì bestial trattamento seguitò per
tutto il loro viaggio fino al ponte della Cappella, dove fattosi un nero
temporale, vi perirono coti dai fulmini alcuni de' familiari di _Drogone
vescovo_ di Metz. Ne restarono bensì atterriti i Franzesi, ma non perciò
deposero la loro ferocia, e con quel mal animo pervennero nelle
vicinanze di Roma. Quasi nove miglia fuori della città _papa Sergio_
mandò incontro tutti i giudici a Lodovico, il quale verisimilmente era
già stato prima dichiarato re d'Italia da Lottario Augusto suo padre; e
questi colle bandiere e con acclamazioni l'accolsero. Essendo poi presso
alla città quasi un miglio, gli fecero un bell'incontro le scuole della
milizia, cantando le lodi, e parimente vennero ad incontrarlo tutte le
insegne del popolo (_sicut mos est imperatorem aut regem suscipere_)
alla vista delle quali si rallegrò il re Lodovico. Stava ad aspettarlo
il buon papa nell'atrio della basilica vaticana con tutto il clero e
popolo romano, ed arrivato Lodovico, si abbracciarono _et tenuit idem
Ludovicus rex dexteram antedicti pontificis_. Arrivarono in quella
maniera alle porte della basilica, che tutte il pontefice avea fatto
serrare, ed allora il pontefice interrogò il giovane re, s'egli veniva
con mente pura e con sincera volontà, e per salute del pubblico e della
città e di quella chiesa: perchè, se così era, esso papa comanderebbe
che s'aprissero le porte: altrimenti non aspettasse da lui ordine alcuno
di aprirle. Rispose il re d'essere venuto con buona intenzione, e senza
pensiero di alcuna malignità. Allora fece il pontefice spalancar le
porte, ed entrarono amendue col clero e con tutti i vescovi, abbati,
giudici, ed altri Francesi venuti col re; giunti alla tomba di s.
Pietro, prostrati venerarono il suo corpo; e dopo avere il papa recitata
l'orazione, tutti usciti della chiesa, andarono a riposar ne' palagi
preparati entro la città. Restò fuori di Roma l'esercito franzese, che
nei giorni appresso recò non pochi danni ai borghi, e forse perchè non
era preparato il foraggio, segò tutti i prati e i seminati. Corse poi
voce che volevano entrare in Roma, e quivi prendere alloggio, onde il
papa fece ben chiudere e fortificare le porte della città. Poscia nel dì
15 di giugno, giorno di domenica, raunati nella basilica vaticana tutti
gli archivescovi, vescovi e baroni venuti col re, insieme con tutta la
nobiltà romana, papa Sergio colle sue mani unse coll'olio santo esso
Lodovico figliuolo dell'imperador Lottario, gli mise in capo una
preziosissima corona, e la spada regale al fianco, con proclamarlo _re
de' Longobardi_, ossia _d'Italia_. Celebrata poi messa solenne, tutti
con gran festa se ne tornarono in Roma.

E di qui possiamo intendere che non per anche era introdotto l'uso della
_corona ferrea_, nè la coronazione del regno d'Italia in Milano, Monza e
Pavia, siccome giovane provai in un'operetta intorno a questo
argomento[1036]. Ebbe principio da questo giorno l'epoca del regno
d'Italia di esso _Lodovico II re_. Seguì poi ne' giorni seguenti un
lungo contrasto fra il papa e il vescovo di Metz Drogone, assistito,
come dice Anastasio, da _Gregorio_ (si dee scrivere _Giorgio)_
arcivescovo di Ravenna, da _Angilberto_ arcivescovo di Milano, e da una
frotta di altri vescovi e conti del regno d'Italia, senza che se ne dica
il suggetto. Solamente narra Anastasio che tal dibattimento fu _contra
hanc universalem, et caput ecclesiarum Dei_. Ma il pontefice, uomo
prudente e di petto, sì a proposito rispose, che tutti li lasciò
confusi. Fece dipoi istanza ad esso papa la baronia francese che tutta
la nobiltà romana giurasse fedeltà al suddetto re Lodovico; ma il saggio
papa non vi consentì, esibendosi solamente pronto a permettere che i
Romani prestassero il giuramento di fedeltà al _grande imperadore
Lottario. Tunc demum in eadem Ecclesia sedentes pariter tam beatissimus
pontifex, quam magnus rex, et omnes archiepiscopi et episcopi stantibus
reliquis sacerdotibus, et Romanorum et Francorum optimatibus,
fidelitatem Lothario magno imperatori semper Augusto promiserunt_. Ed
avea ben ragione il papa. Non era mai stata sottoposta ai re d'Italia,
nè al regno longobardico Roma col suo ducato; e non avendo Lodovico
acquistato alcun diritto sopra i Romani, per essere divenuto re
d'Italia, indebitamente voleva obbligare i Romani a giurargli fedeltà,
cioè a riconoscerlo per loro sovrano. Non ebbero già essi difficoltà di
prestare quel giuramento a _Lottario_ suo padre, perchè esso era
imperadore dei Romani, e la sua sovranità in Roma non veniva contrastata
da alcuno. Nè sussiste, come immaginò il cardinal Baronio, che in questa
occasione Lodovico II ricevesse il titolo e la corona imperiale. Questo
punto è già deciso fra gli eruditi; e se vi ha qualche diploma in
contrario, esso è o falso, o scorretto. Seguita poi a dire Anastasio,
che nel tempo stesso che il re Lodovico si trattenne in Roma, _Siconolfo
principe di Benevento_ arrivò anch'egli colà, accompagnato da molte
squadre d'armati, e fu ad inchinare il re, che il ricevette con molto
onore, e gli concedette quanto gli dimandò. Tanta fu in tale occasione
la folla de' Franzesi, Longobardi e Beneventani, che Roma parea
assediata da uno smisurato esercito, e tutti i seminati andarono a sacco
per pascolo della gran moltitudine de' cavalli e giumenti. Desiderava
ardentemente inoltre Siconolfo di veder _papa Sergio_ e di ricevere la
sua benedizione. Fu ammesso all'udienza, e prostrato in terra gli baciò
umilmente i piedi, e riportatane la benedizione, tutto lieto se ne
ritornò a casa. Altrettanto fece coi suoi il re Lodovico, con finalmente
liberare da quel flagello il popolo romano, e si restituì alla sua
residenza in Pavia. Ma perchè Anastasio nulla di più ci ha saputo dire
intorno ai trattati di _Siconolfo_ col re _Lodovico_, convien ora
ascoltare l'Annalista di San Bertino[1037], che così scrive all'anno
presente: _Sigenulfus Beneventanorum dux ad Lotharium cum suis omnibus
sui deditionem faciens, centum millium aureorum mulcta sese ipsi
obnoxium fecit. Quibus Beneventani, qui pridem alias versi fuerant,
compertis, ad eumdem Sigenulfum se se convertentes, Saracenorum
reliquias a suis finibus expellere moliuntur_. In vece di _Lottario_
sarebbe forse stato meglio scrivere Lodovico, al quale già abbiam veduto
che Siconolfo fece ricorso, se non che il figliuolo Lodovico nulla
operava che non fosse a nome del padre. Abbiam dunque che Siconolfo, per
assicurarsi il dominio di Salerno e dell'altre città a lui sottoposte,
riconobbe per suo sovrano il nuovo re d'Italia Lodovico, e ne dovette
ricevere l'investitura colla promessa di pagargli centomila scudi d'oro.
Tanta somma d'oro non dice Erchemperto[1038], autore in ciò più degno di
fede. Per testimonianza di lui, _Suido duca di Spoleti_, gran mercatante
di bugie, che nondimeno gli fruttavano assaissimo, promise a Siconolfo
suo cognato di fargli avere tutto l'intero ducato di Benevento, se
sborsava cinquantamila scudi d'oro, senza dire se a lui, o pure al re
Lodovico. Ma probabilmente a quest'ultimo, perchè soggiunge: _Cujus tunc
consilio consentiens, Romam_ (dove si trovava il re novello) _adiit,
aureos tribuit, sacramentum dedit, jusjurandum accepit. Nihil
proficiens, inanis abscessit_. Come potesse Siconolfo ammassare
tant'oro, cel farà intendere Leone Ostiense[1039], che racconta il fiero
salasso da lui dato al tesoro del monistero di Monte Cassino, dove egli
apposta andò più d'una volta. Portò via alla prima visita in tanti
calici, patene, corone, croci ed altri vasi, circa cento trenta libbre
d'oro purissimo, e tutto a titolo di prestito, con promessa di
restituire diecimila soldi d'oro siciliani. La seconda volta portò via
in tanta moneta trecento sessanta cinque libbre d'argento e quattordici
mila soldi d'oro; la terza in tanti vasi cinquecento libbre d'argento.
Tornato colà dopo dieci mesi, ruppe gli armadi del monistero, e ne portò
via il valore di quattordicimila soldi mazati, con obbligo di restituire
fra quattro mesi, e non restituendo di cedere varii beni al monistero.
Sette altri mila soldi in altre volte portò via di colà: tesoro di Dio,
che nulla giovò a lui, nè alla patria, e solo servì a pagar le sue
fatiche al diavolo. Egli è da credere che ad altre chiese e monisteri
Siconolfo facesse uno non diverso trattamento. Questo fine d'ordinario
toccava in que' tempi ai doni della gente pia fatti ai sacri templi.
Come sospettai di sopra, ben potrebbe essere che il re Lodovico, o in
questo o nel seguente anno si adoperasse per quetar la rabbiosa guerra
tra i due principi _Radelgiso_ e _Siconolfo_, e fosse anche accettata da
Radelgiso la division degli stati; ma che Siconolfo la rifiutasse,
perchè gli era stato promesso di più; o che per altri accidenti quella
non avesse effetto, di modo che continuasse dipoi la guerra fra loro.
Tennero in quest'anno i tre fratelli, _Lottario_ imperadore, _Lodovico_
re della Germania e _Carlo_ re di Francia, una dieta ossia un concilio
coi vescovi nella villa di Teodone, oggidì Tionvilla[1040], dove oramai
persuasi che era da anteporre la concordia ad ogni riguardo,
confermarono la pace ed amicizia fra loro. Adriano Valesio[1041] cita
uno strumento preso dal registro del monistero Cesauriense, e dato, come
egli pensa, in quest'anno, o pur come io vo credendo, nel precedente
843, cioè _anno imperii Lotharii XXII, seu temporibus Berengarii ducis,
anno ducatus ejus VI, die sexta mensis septembris. Indictione VII_.
Sicchè correano già sei anni che _Berengario_ era, per quanto si può
credere, _duca di Spoleti_. Ma come ciò, se abbiam già trovato _Guido_
duca di quella stessa contrada? Altro non so io immaginare, se non che
due essendo stati i ducati di Spoleti, l'uno propriamente di _Spoleti_ e
l'altro appellato poscia di _Camerino_, Guido avesse il governo del
primo, _Berengario_ del secondo.

NOTE:

[1030] Annal. Franc. Bertiniani.

[1031] Sigebertus, in Chron.

[1032] Martianus Scotus, in Chron.

[1033] Anast. Biblioth., in Gregor. IV.

[1034] Annal. Franc. Bertiniani.

[1035] Anast., in Vita Sergii II.

[1036] Anecdot. Lat. tom. 2. Append.

[1037] Annales Francor. Bertiniani.

[1038] Erchempertus, Hist. cap. 18.

[1039] Leo Ostiensis, Chron., lib. 1. cap. 26.

[1040] Labbe, Concilior., tom. 7.

[1041] Valesius, in Praefat. ad Panegyric. Berengarii.



    Anno di CRISTO DCCCXLV. Indizione VIII.

    SERGIO II papa 2.
    LOTTARIO imperad. 26, 23 e 6.
    LODOVICO II re d'Italia 2.


Si godè in quest'anno assai di quiete in Italia; se non che potrebbe
dubitarsi che tuttavia continuasse, o pure si riaccendesse la guerra tra
Siconolfo e Radelgiso principe di Benevento. Certamente seguitò essa
contra de' Saraceni. A quest'anno lasciò scritto l'Annalista
bertiniano[1042]: _Beneventani cum Saracenis, veteri discordia
recrudescente, denuo dissident_. Forse volle dir quello storico ciò che
abbiam di sopra inteso da altri stessi suoi Annali. Per conto poi de'
paesi oltramontani, _Lottario imperadore_, che avea stabilito il suo
soggiorno in quelle parti, passò il verno in Aquisgrana. Un suo diploma,
dato a dì quindici di maggio[1043] _anno imperii Hlotharii XXVI, et in
Francia VI, Indictione VIII, si vede scritto in palatio regio
Argentorato, cum iremus in Italiam_: cioè si trovava egli in Argentina
con pensiero di venire in Italia. Ma nè in quest'anno, che si sappia, nè
finchè visse egli dipoi, ritornò in Italia: cioè lasciò la cura di
questo regno al figliuolo re _Lodovico_, ed egli attese a conservar e
governare gli stati a lui toccati in parte nella Francia. Forse non si
fidava dei suoi fratelli. E in quest'anno ebbe un particolar motivo che
il fece desistere dal viaggio d'Italia. Se gli ribellò la Provenza, e fu
obbligato ad accorrere colà. _Fulrado conte_ era autore e fomentatore di
quella ribellione. Ma colà giunto colle sue forze l'Augusto Lottario,
non durò gran fatica a ricuperar quella provincia, con arrendersegli
esso Fulrado ed altri sollevati in quelle parti. Ne' suddetti Annali
leggiamo: _Fulradus comes, et ceteri Provinciales a Lothario deficiunt,
ubique potestatem totius Provinciae usurpant. Si legge appresso:
Lotharius Provinciam ingressus, bretoriam_ (forse _brevi totam_) _suae
potestati recuperat_. Negli Annali di Metz[1044] questo Fulrado è
chiamato _dux arelatensis_, e solamente si dice che Lottario _ipsum, et
reliquos comites illarum partium rebellare molientes, in deditionem
accepit, et prout voluit, Provinciam ordinavit_. Diversa fu ben la
fortuna del _re Carlo Calvo_ suo fratello. Mentr'egli nell'anno
precedente assediava Tolosa, ebbe una mala percossa da _Pippino_ suo
nipote re d'Aquitania, di modoche nel presente, per cagione d'altri guai
che sopraggiunsero, fu astretto a venire ad un accomodamento con lui, e
a cedergli l'Aquitania, con ritenere per sè tre sole città, cioè
Poitiers, Saintes ed Angulemme. Gli prestò Pippino il giuramento di
fedeltà, _sicut nepos patruo_, e si obbligò di prestargli aiuto in tutte
le necessità secondo le forze sue. In questo medesimo anno entrati i
corsari normanni per mare nella Senna con cento e venti navi, arrivarono
a Parigi nel sabbato santo, e v'entrarono. Si può credere che quella
gente pagana non attendesse a farvi le sue divozioni. Tutto il popolo
n'era fuggito per la paura. Accorse il re Carlo con quelle soldatesche
che in quel frangente egli potè raunare, fino al monistero di san
Dionisio; ma trovandosi debole in confronto di que' Barbari, bisognò
cacciarli via a forza di danari. Nè qui terminarono le di lui
disavventure. Fece egli parimente in quest'anno un armamento contro di
_Nomenoio_ duca della minor Bretagna, il quale, secondo il solito di
quella gente di nazion diversa dalla franzese, di tanto in tanto si
andava ribellando. In persona marciò contra di quei popoli il re Carlo,
ma non con quelle forze che occorrevano al bisogno. Però in vece di
domarli, riportò da essi vergogna e busse, e gli convenne tornarsene
indietro con tutta fretta nel paese del Maine. Circa questi tempi,
siccome racconta Giovanni Diacono[1045], i Saraceni venivano con grande
armata di navi per prendere l'isola di Ponza. _Sergio_ valoroso duca di
Napoli insieme con quei di Amalfi, Gaeta e Surrento, messa la sua
speranza nel divino aiuto, andò ad incontrarli, e ne riportò un'insigne
vittoria. Gli riuscì ancora di cacciarli dall'isola di Licosa. Adirati
per questo quegl'infedeli, fatti dei gran preparamenti in Palermo,
tornarono poi con una formidabile flotta, e s'impadronirono del castello
di Miseno, da dove cominciarono ad infestare i litorali cristiani. Un
placito tenuto in quest'anno per ordine del re Lodovico II, figlio
dell'Augusto Lottario, da Garibaldo giudice palatino[1046] nella _corte
ducale di Trento_, ci fa vedere in quelle parti _Liutifredo duca_, senza
ch'io sappia dire se questo titolo di _duca_ a lui provenisse dalla
Carintia, a cui fosse unita la marca di Trento, o pure dal medesimo
Trento.

NOTE:

[1042] Annal. Francor. Bertiniani.

[1043] Mabillonius, in Annal. Benedictin.

[1044] Annal. Francor. Metenses.

[1045] Johann. Diac. in Vit. Episcop. Neapol. P. II, tom. 1 Rerum
Italicarum.

[1046] Antiquit. Ital. Dissert. pag. XXXI, 97.



    Anno di CRISTO DCCCXLVI. Indiz. IX.

    SERGIO II papa 5.
    LOTTARIO imper. 27, 24 e 7.
    LODOVICO II re d'Italia 3.


Cresceva ogni dì più la superbia dei Saraceni, dacchè ebbero conquistata
la Sicilia e la Calabria; e tanto più perchè miravano i due emuli
principi di Benevento andarsi rodendo tra loro le viscere. A tanto
vennero, che in quest'anno partiti dall'Africa, o pure dal castello di
Miseno, dove già s'erano annidati, con un potente stuolo di navi, ed
entrati nel Tevere, arrivarono fin sotto Roma. Negli Annali
bertiniani[1047] son chiamati _Saraceni_, _Maurique_. Col nome di
_Saraceni_ vuol quell'autore significar gli Arabi maomettani,
conquistatori e padroni allora dell'Africa; e col nome di _Mori_ gli
Africani stessi lor sudditi, che aveano nondimeno abbracciata la falsa
legge di Maometto. Si tenne forte la città di Roma fortificata allora
abbastanza; però sfogarono que' Barbari la lor crudeltà nei contorni, e
spezialmente a la loro ingordigia sopra la sacra basilica di s.
Pietro[1048], ch'era in questi secoli fuori della città, con asportarne
tutti gli ornamenti, e quanto di prezioso vi trovarono; ma senza far
male alla fabbrica. Se vogliam credere a Leone Ostiense[1049], allo
stesso crudel trattamento soggiacque anche la basilica di s. Paolo.
Parrebbe che no, perchè lo Annalista di s. Bertino scrive che una parte
di essi infedeli, andando per dare il sacco a quel sacro luogo, restò
tagliata a pezzi dalle genti di campagna di Roma. Ma Giovanni Diacono,
poco dianzi da me allegato, scrittore troppo autentico, perchè di questi
medesimi tempi, asserisce che costoro _Romam supervenerunt, ecclesias
Apostolorum, et cuncta, quae extrinsecus repererunt, lugenda pernicie et
horribili captivitate diripuerunt_. Con questo scrittore va d'accordo
ancora Anastasio nella vita di Leone IV papa. Partiti dalle vicinanze di
Roma, secondo il suddetto Ostiense, e per la via Appia arrivati alla
città di Fondi, la presero, la diedero alle fiamme, trucidarono parte di
quel popolo, e il resto condussero in ischiavitù. Andarono poi a
fermarsi ed attendarsi sotto Gaeta. Portate sì funeste nuove a _Lodovico
II_ re d'Italia, diede solleciti ordini alle milizie di Spoleti di
marciare contra di sì nefandi masnadieri. Il conte Campelli[1050], come
se si fosse trovato presente a que' fatti, ci descrive i viaggi, i
disagi e il conflitto dell'esercito spoletino. Giovanni Diacono narra
che Lottario _re de Franchi_, sotto il cui nome tutto si operava dal re
Lodovico suo figliuolo, inviò una feroce armata contra de' suddetti
Saraceni, che li perseguitò fino a Gaeta. Ma i furbi Africani, messi in
aguato molti de' loro ai passi stretti delle montagne, stettero
aspettando i Cristiani; e sbucando all'improvviso sopra i poco
avvertiti, uccisero l'alfier sulle prime: il che bastò perchè andasse
vergognosamente in rotta tutto l'esercito de' Fedeli, e ne restassero
assaissimi estinti nella fuga. Peggio anche avveniva, se _Cesario_,
figliuolo di _Sergio duca_ di Napoli, ch'era accorso colle brigate di
Napoli e di Amalfi, non avesse attaccata battaglia anch'egli coi
Saraceni, con obbligarli a desistere dal perseguitare i fuggitivi
Cristiani. Negli Annali di s. Bertino noi leggiamo _Hludovicus Hlotharii
filius rex Italiae cum Saracenis pugnans, victus vix Romam pervenit_. Ma
Giovanni Diacono, che ne sapea più di quell'Annalista, nulla parlando
del re Lodovico in questa occasione, e parlandone poi ad un'altra
spedizione, fa assai conoscere ch'egli punto non intervenne a quella
sfortunata azione. Nell'inseguire i fuggitivi Cristiani arrivarono le
brigate saracene, secondochè avvertì Leone Ostiense, fin presso al fiume
Garigliano, in vicinanza del monistero Cassinese. Non era loro ignota la
ricchezza di quel sacro luogo (l'abbiam già veduto fieramente pelato da
Siconolfo), e già la divoravano coi desiderii; ma colti dalla notte, si
fermarono alla riva del suddetto fiume con pensiero di fare un buon
sacco la mattina seguente. Stettero i monaci, scorgendo il pericolo
imminente, tutta la notte in orazione, e furono poi rincorati
dall'_abbate Bassacio_, uomo di santa vita, che disse d'aver avuta una
rivelazione della lor sicurezza. Erano nel dì innanzi l'acque del
Garigliano sì basse, che dappertutto si poteano guadare a piedi; era il
ciel sereno. Quella notte venne un temporale con folgori e pioggia tale,
che nella seguente mattina si trovò sì gonfio il fiume, che usciva fuor
del suo letto. Restarono ben beffati i Saraceni, quando, fatto giorno,
andarono per valicarlo, e mordendosi le dita per la preda che loro era
fuggita dalle mani, se ne tornarono al loro campo sotto Gaeta. Restò
quella città assediata, e fecero quei Barbari ogni sforzo per entrarvi;
ma, per testimonianza di Giovanni Diacono, il soprallodato Cesario,
figliuolo di Sergio duca di Napoli, colle sue navi e con quelle degli
Amalfitani venne a stanziare nel porto di Gaeta, e saldo alla difesa di
quei cittadini, non lasciò mai prevalere la forza e rabbia degl'infedeli
cani. Avvenne in questi tempi, che mentre l'imperador Lottario dimorava
in Aquisgrana[1051], _Giselberto_, soldato, o pur vassallo del re _Carlo
Calvo_, rapì una figliuola d'esso Augusto, e condottala in Aquitania, la
prese per moglie. Il nome di questa principessa nol dicono gli antichi
storici. Per tale insolenza concepì Lottario non poco odio contra d'esso
re Carlo, il quale informatosene, scrisse intorno a ciò a _Lodovico_ re
di Germania, affinchè placasse il fratello. Pubblicamente protestarono
amendue di non avere avuta parte in quel rapimento, e ne scrissero anche
al fratello Lottario; ma egli continuò nella sua amarezza. Abbiamo poi
dal Dandolo[1052], che bramando _papa Sergio_ di comporre le differenze
tuttavia bollenti tra _Venerio patriarca di Grado_, e _Andrea patriarca
di Aquileia_, scrisse ad amendue, con ordinar loro di comparire al
concilio ch'egli avea proposto di tenere, e vi doveva assistere
l'imperadore. Ma non ebbe effetto il suo piissimo disegno, perchè la
morte il rapì nell'anno seguente, siccome diremo. Rapì essa nel presente
anche _Pacifico_ arcidiacono della cattedral di Verona, di cui feci
menzione nell'anno 789. Il suo epitaffio, pubblicato dall'Ughelli, ma
più corretto ed intero dal marchese Maffei[1053], tuttavia si legge in
quella città. E n'era ben degno, perchè uomo di mirabil industria in
questi tempi. Di lui spezialmente quivi è detto:

                      QVICQVID AVRO VEL ARGENTO
                         ET METALLIS CETERIS,
                     QVICQVID LIGNIS EX DIVERSIS
                         ET MARMORE CANDIDO,
                      NVLLVS VMQVAM SIC PERITVS
                         IN TANTIS OPERIBVS.
                         HOROLOGIVM NOCTVRNVM
                         NVLLVS ANTE VIDERAT.
                        ET INVENIT ARGVMENTVM
                         ET PRIMVM FVNDAVERAT.

NOTE:

[1047] Annales Francor. Bertiniani.

[1048] Annal. Franc. Metens. Fuldens. Bertiniani.

[1049] Leo Marsicanus. Chron. Casinens., lib. 1, cap. 29.

[1050] Campelli, Storia di Spoleti, lib. 16.

[1051] Annal. Franc. Metenses. Annal. Franc. Fuldenses.

[1052] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Italic.

[1053] Maffejus, in Praef. ad Complex. Cassiodor.



    Anno di CRISTO DCCCXLVII. Indiz. X.

    LEONE IV papa 1.
    LOTTARIO imper. 28, 25 e 8.
    LODOVICO II re d'Italia 4.


Venne a morte in quest'anno _Sergio II_ romano pontefice nel giorno 27
di gennaio, secondo i conti del padre Pagi[1054], e in luogo suo fu
eletto _Leone IV_ prete, ossia cardinale de' santi quattro Coronati.
Vuole esso padre Pagi che la sede restasse vacante _due mesi e quindici
giorni_, e che il novello pontefice fosse consecrato solamente nel dì XI
d'aprile. Sì lunga vacanza della cattedra apostolica non la so credere
io, perchè non si accorda con quanto ci vien narrato da Anastasio
bibliotecario[1055]. Le parole sue con queste: _Romani quoque novi
electione pontificis congaudentes, coeperunt iterum non mediocriter
contristari, eo quod sine imperiali non audebant auctoritate futurum
consecrare pontificem, periculumque romanae urbis maxime metuebant, ne
iterum, ut olim, aliis ab hostibus fuisset obsessa. Hoc timore et futuro
casu perterriti, eum sine permissu principis praesulem consecraverunt;
fidem quoque illius, sive honorem post Deum per omnia et in omnibus
conservantes._ Cioè si trovarono i Romani in uno non lieve imbroglio in
tal congiuntura. Dall'un canto per non tirarsi addosso l'ira del
principe, cioè dell'imperadore lor sovrano, non osavano senza la
permissione od approvazione di lui di consecrare il papa eletto.
Dall'altro canto erano spronati dalla necessità di veder sul trono un
papa che accudisse ai bisogni importanti della città coll'autorità del
governo, a cagione de' Saraceni che aveano poco dianzi portata la
desolazione ne' contorni di Roma, per paura dell'arrivo di altri simili
corsari africani. Che dunque fecero? Senza aspettare il consenso
dell'imperadore, passarono alla consecrazione del papa, ma con solenne
protesta fatta nel concistoro di non aver intenzione di offendere con
ciò l'onore dell'imperadore, nè di mancare in guisa alcuna alla fedeltà
ed ubbidienza che dopo Dio a lui professavano. Pare che questo saggio
ripiego, preso in tempi sì pericolosi per la città di Roma, li scusasse
abbastanza, e fosse preso in bene da _Lottario Augusto_. Certo non si sa
ch'egli ne facesse risentimento alcuno. Ciò posto, non è già verisimile
che si differisse per due mesi e mezzo la consecrazione di papa _Leone_:
prima perchè si scorge che i Romani si affrettarono a consecrarlo per
l'apprensione in cui erano di nuova invasion de' Saraceni; e
secondariamente perchè in tanto tempo sarebbe venuta l'approvazione del
_re Lodovico_ luogotenente del padre negli affari d'Italia; e quella
ancora, se fosse bisognata, del medesimo Lottario Augusto; giacchè non
sussiste, come pensa il Pagi, che a cagion delle scorrerie dei Normanni
in Francia non fossero sicuri i cammini. Fecero que' corsari gran danno
nella Bretagna minore nell'anno presente[1056]; non minore l'apportarono
alla Aquitania; presero anche nella giurisdizione dell'imperador
Lottario Durostadio e un'isola dell'Olanda. Tutto il resto del regno
oltramontano di Lottario godeva una buona quiete. Però a me par da
preferire l'asserzione di Tolomeo da Lucca[1057], che dopo _quindici
giorni_ di sedia vacante mette l'ordinazion di papa Leone, se pur questa
non seguì anche prima.

Continuavano intanto i Saraceni l'assedio di Gaeta, quando si sollevò
una fiera burrasca in mare che mise in pericolo tutto il loro
naviglio[1058]. Perciò mandarono pregando _Cesario_, figliuolo di
_Sergio duca_ di Napoli, che volesse permettere alle lor navi di
approdare al lido, con promessa di andarsene via subito che si fosse
rasserenato il cielo. Ne spedì Cesario sollecitamente l'avviso al padre,
che gli suggerì di prender buona precauzione contra gl'inganni di
quegl'infedeli. Si eseguì il trattato, e venuto il sereno, levato il
campo, s'imbarcarono e se n'andarono, ma non con Dio. Per viaggio furono
sorpresi da un'orribil tempesta, per cui quella flotta quasi tutta
interamente perì, come attestano ancora Anastasio bibliotecario e Leone
Ostiense. Questa lieta nuova arrivò a Roma in tempo che era eletto, e
non per anche ordinato papa Leone IV. Seguì in Francia, o, per dir
meglio, in Germania a Coblentz[1059] un abboccamento fra l'imperadore
_Lottario_ e _Lodovico_ re di Germania suo fratello. Pare che non
riuscisse a Lodovico di riconciliare con _Carlo Calvo_ Lottario Augusto,
tuttavia sdegnato per l'ingiuria fattagli da Giselberto nel rapimento
della figliuola. Ma se son veramente fatti in quest'anno a Marsne presso
a Mastricht alcuni capitoli di lega e concordia fra i suddetti tre
fratelli _Lottario_, _Lodovico_ e _Carlo_, che furono pubblicati dal
padre Sirmondo e dal Baluzio[1060]; bisogna credere che si rimettesse
fra tutti e tre una buona armonia. In quest'anno poi si comincia a
trovare in Toscana _Adalberto duca_ di quella contrada. Egli è chiamato
negli Annali di Fulda all'anno 878 _Albertus Bonifacii filius_, e da
Pietro bibliotecario[1061] nella storia abbreviata dei Franchi
_Adalberthus Bonifacii filius_. E in un documento dell'anno 884, da me
prodotto nelle Antichità estensi[1062], vien detto _Adelbertus in Dei
nomine comes et marchio, filius bonae memoriae Bonifacii olim comitis_;
di maniera che non si può dubitare ch'egli sia stato figliuolo di
_Bonifazio II_, da noi veduto di sopra conte di Lucca, e verisimilmente
marchese e duca di Toscana. Già si osservò che _Bonifazio II_, per aver
condotta dall'Italia la imperadrice Giuditta all'imperador Lodovico Pio,
era caduto in disgrazia dello imperador Lottario, e perciò si era
ritirato in Francia. O sia ch'egli ricuperasse il governo nella Toscana,
oppure che Lottario ammollitosi esercitasse la sua generosità verso il
figliuolo: certo è che _Adalberto duca_ in questi tempi comandava alla
Toscana, ciò risultando da un placito tenuto in Lucca[1063] nell'_anno
XXV_ di Lottario imperadore, correndo l'_indizione_ X, cioè nell'anno
presente, dove si legge: _Dum Adalbertus illustrissimus dux una cum
Ambrosio venerabili episcopo istius civitatis lucensis, et residentibus
hic civitate Luca, curte dicta ducalis_, ec. In questi tempi ancora
_Radelgiso principe_ di Benevento[1064] trasse in aiuto suo Massar duca
de' Saraceni con alcune masnade di quegl'infedeli. Costui neppure
portava rispetto agli stessi Beneventani; diede il guasto al monistero
di santa Maria in Cinghia; prese il castello di san Vito; forzò alla
resa la città di Telese, e saccheggiò tutti i suoi contorni. Fu creduto
miracolo ch'egli non molestasse il monistero di Monte Cassino,
quantunque vi arrivasse fino alla porte. Si sentì inoltre nell'anno
presente un fiero tremuoto per tutto il ducato di Benevento, che quasi
tutta diroccò la città d'Isernia, e fece altri mali. Roma anch'essa, per
attestato d'Anastasio[1065], provò una brutta danza in tal occasione.

NOTE:

[1054] Pagius, in Critic. Baron.

[1055] Anastas., in Vit. Leonis IV.

[1056] Annal. Franc. Bertiniani. Annales Franc. Metens. Annal. Francor.
Fuldenses.

[1057] Ptolemaeus Lucensis, Hist. Eccl., tom. II Rer. Ital.

[1058] Johann. Diac., in Vit. Episc. Neap., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1059] Annal. Francor. Metenses. Annal. Francor. Fuldens.

[1060] Baluz., Capitolar., tom. 2.

[1061] Petrus Biblioth., tom. 3. Du-Chesne.

[1062] Antichità Estensi, P. I, cap. 22.

[1063] Fiorent., Memor. di Matilde, lib. 3.

[1064] Leo Ostiensis, lib. I, cap. 28.

[1065] Anastas. Biblioth., in Vit. Leonis IV.



    Anno di CRISTO DCCCXLVIII. Indiz. XI.

    LEONE IV papa 2.
    LOTTARIO imperad. 29, 26 e 9.
    LODOVICO II re d'Italia 5.


Bollivano forte in questi tempi fra _Rabano Mauro arcivescovo_ di
Magonza e Gotescalco monaco alcune famose controversie intorno alla
divina predestinazione. Era venuto in Italia Gotescalco pieno di boria,
e per dovunque passava, andava seminando le opinioni sue. Fermossi
costui presso di _Eberardo_ duca, ossia marchese del Friuli, il cui nome
e titolo si comincia circa questi tempi ad udire. Rapporta
l'Ughelli[1066] una lettera scritta da esso Rabano a _Notingo_ vescovo,
non già eletto vescovo di Verona, ma bensì di Brescia, intorno a questo
monaco; e un'altra pure scritta _ad Heberardum ducem_, a cui poscia sul
principio dà il titolo solamente di _conte_, secondo il rito d'allora,
trovandosi i _duchi_ altre volte appellati _marchesi_ ed altre _conti_.
In essa gli dice di essergli stato riferito, _quemdam sciolum nomine
Gotaschalcum apud vos manere, qui dogmatizet_, ec. Che questo _Eberardo_
fosse veramente _duca_ o _marchese del Friuli_, ne fa fede Andrea prete
nella Cronichetta pubblicata dal Menchenio e da me[1067] ristampata.
Fiorì Andrea in questo medesimo secolo, e le sue parole sono tali:
_Multam fatigationem Langobardi et oppressionem a Sclavorum gente
sustinuerunt, usquedum imperator Forojulianorum Eberhardum principem
constituit._ Nè altri è questo Eberardo, ossia Everardo, se non lo
stesso, a cui Frodoardo[1068] dice scritta una lettera da _Hincmaro
arcivescovo_ di Rems, cioè _viro illustrissimo Eberardo ex principibus
Lotharii_. Ho anch'io, a mio credere, bastevolmente provato[1069] che da
lui viene la Raccolta delle leggi longobarda, salica, etc. che si
conserva nell'antichissimo Codice della cattedrale di Modena. In un
diploma dell'anno 855, riferito dal padre de Rubeis[1070], egli è
chiamato da Lodovico II imperadore _Eurardus illustris comes,
dilectusque compater noster_. Parleremo anche più abbasso di questo
medesimo principe, bastando per ora di sapere ch'egli fu marito di
_Gisela_ ossia _Gisla_ figliuola di Lottario Augusto, e fu padre di
Berengario, poscia duca o marchese anch'esso del Friuli, finalmente re
d'Italia ed imperador de' Romani. I soli Annali di san Bertino[1071]
quei sono che sotto il presente anno hanno le seguenti parole:
_Exercitus Hlothari contra Saracenos Beneventum obtinentes dimicans,
victor efficitur._ Non sussiste già che i Saraceni si fossero
impadroniti di _Benevento_. Solamente alcune brigate di essi vi erano
state chiamate in soccorso da Radelgiso principe. Altro non vuol dire
quello scrittore colla parola Beneventum, se non una parte del ducato
beneventano, occupata dai Saraceni; oppure in vece di _obtinentes_, s'ha
da scrivere _obsidentes_. Contra di quei Maomettani l'imperador Lottario
dovette comandare al figliuolo Lodovico re d'Italia di procedere con una
buon'armata, alla quale, secondo i suddetti Annali, riuscì di dar loro
una sconfitta. Sul fine poi di questo anno, soggiugne il medesimo
storico, che _Mauri denuo Beneventum invadunt_. Nella storia del regno
di Napoli è celebre la pace che finalmente fu conchiusa tra i due
competitori nel ducato di Benevento _Radelgiso_ e _Siconolfo_.
Erchemperto[1072] e Leone Ostiense[1073] raccontano che _Landone conte_
di Capua, Adelmario, e _Bassacio abbate_ di Monte Cassino, veggendo
troppo assassinate quelle contrade per la lunga nemicizia di quei due
principi, e per l'insaziabil crudeltà de' Saraceni abitanti in Bari, ed
anche presi al suo servigio da Radelgiso, si portarono a _Lodovico
Augusto_ (che nondimeno fin qui tale non era) figliuolo di Lottario,
supplicandolo di metter fine a tanti malanni. Colà pertanto si portò in
persona lo stesso re Lodovico, e fattisi consegnare per forza tutti i
Saraceni abitanti in Benevento, nella vigilia di Pentecoste condotti
costoro fuori della città, a cadauno fece tagliar la testa. Poscia
interpostosi fra i due principi litiganti, compose le lor differenze,
con dividere il ducato suddetto fra loro nella forma che vien descritta
dall'Anonimo salernitano[1074], e con restare sottoposta a _Siconolfo_
Capua col suo distretto, la quale nondimeno da lì a non molto scosse il
giogo; con che di un solo si vennero a formare tre principati, cioè di
Benevento, di Salerno e di Capua. Il solo Leone Marsicano quegli è che
chiaramente dice accaduta questa divisione nell'anno 851; ed
Erchemperto, col chiamare _Augusto_ in quel tempo il suddetto Lodovico,
sembra concorrere nella medesima opinione. Ma Camillo Pellegrino ebbe
sospetto che ciò seguisse all'anno 850, ed io più di lui vo sospettando
che anche prima possa essere succeduta una sì importante avventura. Sì
Erchemperto che Leone Ostiense molta accuratezza non mostrano nel
racconto di quel fatto dacchè mettono la venuta di _Lodovico II_ a
Benevento dopo la morte dell'_imperador Lottario_ suo padre: il che non
può stare, perchè Lottario mancò di vita solamente nell'anno 855. Però
non è maraviglia se su questo supposto amendue danno il titolo
d'_imperador_ e ad esso _Lodovico II_ in quella occasione.

Ora in quest'anno sembra a me più verisimile che Lodovico II re d'Italia
invitato e venuto a Benevento coll'esercito suo, dividesse quel ducato.
Nella parte che resta dello strumento d'essa divisione, pubblicata dal
suddetto Pellegrino[1075] Radelgiso dice: _Et praesentialiter antequam
domnus Ludogvicus rex cum suo exercitu exeat de ista terra, do in vestra
potestate gastaldatum Montellam_, ec. In quest'anno abbiam veduto che
l'esercito d'esso re Lodovico era nel ducato di Benevento, nè ci resta
memoria che negli anni 850 e 851 esercito alcuno franzese militasse in
quelle parti. Adunque piuttosto in questo, che in quegli anni, seguì
l'accordo fra i principi litiganti del regno di Napoli. Oltre a ciò, qui
_Lodovico_ è appellato solamente _re_: notizia che, siccome dissi
all'anno 843, abbastanza indica non potersi quel fatto riferire all'anno
851, perchè Lodovico sarebbe stato allora appellato _imperatore_. Ma
quel che più fa animo alla mia conghiettura, e forse la rende opinione
certa, si è l'autorità di Giovanni Diacono, che fiorì e scrisse ne'
medesimi tempi. Dopo aver egli narrato il naufragio della flotta
saracenica, di cui s'è parlato nell'anno addietro, seguita a dire[1076]:
_Eodem quoque anno, supplicatione hujus Sergii, principumque
langobardorum, direxit Lotharius imperator filium suum Ludogvicum, bonae
adolescentiae juvenem, propter catervas Saracenorum Apuliae sub rege
commanentes, et omnium fines populantes. Qui adveniens, coelesti
comitatus auxilio, de illis Hismahelitis triumphavit, et sagaciter
ordinata divisione Beneventani et Salernitani principum victor reversus
est_. O sia dunque che nell'anno prossimo passato venisse l'armata
franzese col re Lodovico a Benevento, ma vincesse e trionfasse nel
presente; oppure che _eodem anno_ voglia significare non per anche
spirato un anno dopo il naufragio de' Saraceni: abbastanza intendiamo
che in quest'anno il _re Lodovico_ pose fine alle lunghe contese dei
principi beneventani, e non già nell'anno 850 o pure 851. Era intanto il
popolo romano, ma più il buon _papa Leone_, preso da grave malinconia sì
per la fresca ricordanza del sacco dato dai Mori e Saraceni alla
basilica vaticana, come pel timore d'altri simili insulti in avvenire.
Mosso perciò il Magnanimo pontefice[1077] dal comune lamento, e
maggiormente ancora dal suo zelo, determinò di fabbricare intorno ad
essa basilica e al borgo una città colle sue mura, porte e
fortificazioni per sicurezza della medesima. Era prima di lui stato
formato questo disegno da papa _Leone III_; anzi ne aveva egli anche in
molti luoghi poste le fondamenta; ma sorpreso dalla morte, non potè
continuarne la fabbrica. Ora Leone IV comunicò la presa risoluzione
all'imperadore, e questi non solamente l'approvò e lodò, ma tanto egli
come i re suoi fratelli mandarono a Roma una buona somma di danaro per
dar principio al lavoro. _Quod nutu dei, Francique juvamine regis_, dice
Frodoardo[1078], cioè di Lottario, fu intrapreso. Ordinò il papa che da
tutte le città del ducato romano, da tutti i poderi del pubblico e da
ogni monistero si mandassero, secondo la tassa uomini atti a faticare in
quella operazione. E così nell'anno presente si cominciò la fabbrica
grandiosa di questa nuova città, e nello spazio di quattro anni se ne
vide il compimento. Tanto si adoperò in questo anno _Lodovico_ re di
Baviera, che ottenne da _Lottario_ Augusto a _Giselberto_ il perdono pel
rapimento della figliuola di esso imperadore. Tiene l'Eccardo[1079] che
da questo Giselberto discendesse quel _Giselberto duca_ di Lorena che fu
poi celebre nel secolo X.

NOTE:

[1066] Ughell., Ital. Sacr., tom. 3, in Episcop. Clusin.

[1067] Antiqit. Ital., Dissert. II.

[1068] Frodoardus, Hist. Remens, lib. 3, cap. 26.

[1069] Antiquit. Ital., Dissert. XXII.

[1070] De Rubeis, Monum. Eccl. Aquilejens., cap. 49.

[1071] Annales Franc. Bertiniani.

[1072] Erchempertus, Hist., cap. 19.

[1073] Leo Ostiensis, lib. I, cap. 29.

[1074] Anonym. Salernit. Paralip., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[1075] Camill. Peregrin., Hist. Princ. Longobard.

[1076] Johann. Diacon., Chron. P. II, tom. 1, Rer. Ital.

[1077] Anastas. Biblioth., in Vit. Leonis IV.

[1078] Frodoardus in Vitis Pontific. Roman.

[1079] Eccard., Rer. Franc. lib. 30.



    Anno di CRISTO DCCCXLIX. Indizione XII.

    LEONE IV papa 3.
    LOTTARIO imper. 30, 27 e 10.
    LODOVICO II imperadore 1.


Succedette in quest'anno una perfetta riconciliazione fra l'_imperador
Lottario_ e _Carlo Calvo re_ della Francia orientale, il quale nell'anno
antecedente era stato accettato per loro re anche da buona parte de'
popoli dell'Aquitania, e nel presente entrò in possesso di non poco
paese in quelle contrade. Giacchè non apparisce che i Mori e Saraceni
avessero per mare contrasto alcuno da' Cristiani, a man salva andavano
coloro infestando tutto il littorale del Mediterraneo. Qual fosse la
loro crudeltà ne fece in quest'anno pruova la città di Luni in Toscana,
che da essi presa e data a sacco, talmente restò desolata, che da lì
innanzi non risorse mai più. Il suo vescovato fu trasferito a Sarzana,
città nata dalle rovine dell'altra. Anche tutta la spiaggia del mare,
partendosi dal fiume Magra sino alla Provenza, ebbe che piangere per gli
sbarchi e saccheggi di quegl'infedeli. Crede il p. Pagi[1080] che
nell'anno presente _Lottario imperadore_ dichiarasse Augusto e collega
nell'imperio _Lodovico II_ primogenito suo e re d'Italia, deducendolo da
alcuni diplomi del monistero di santa Giulia di Brescia[1081], dove
s'incontra un'epoca d'esso imperadore cominciata prima dell'anno 850.
Così ha immaginato esso Pagi, perchè egli pretende seguita la
coronazione romana di questo principe nel dicembre dell'anno seguente; e
però trovandosi che prima di quel dì Lodovico II conta gli anni
dell'imperio, secondo lui, convien ammettere un'epoca precedente ad essa
coronazione. Ma di ciò si parlerà all'anno seguente. Dico intanto aver
anch'io osservato nell'archivio archiepiscopale di Lucca una pergamena
scritta, _ regnante D. N. Hlothario augusto, anno imperii ejus, postquam
in Italia ingressus est, trigesimo tertio, et filio ejus D. N.
Hludowico, idemque imperator, anno sexto, X kal. octubris, Indict.
quarta_, cioè nell'ano 855. Un'altra scritta colle medesime note, ed
_anno sexto. III kal. julii, Indictione III_, il che fa vedere mutata
l'indizione del settembre. Un'altra scritta _anno XXIX Hlotharii, et II
Hludowici, quarto idus septembris, Indictione XV_, cioè nell'anno 851.
Un'altra scritta _anno XXVIII Hlotharii et primo Hludowici imperatoris
ejus filii, VI nonas augusti, Indictione XIII_, cioè nell'anno 850. Si
possono vedere altri documenti simili da me rapportati nelle Antichità
italiane. Abbiamo poi da Anastasio bibliotecario[1082] che nella
_dodicesima indizione_, cioè nell'anno presente, o pure, secondo un
altro testo, nel precedente, l'indefesso _papa Leone_ attese a risarcir
le mura, le torri e le porte di Roma. Fece ancora alzar da' fondamenti
due torri a Porto alle rive del Tevere con catene di ferro da tenersi
dall'una all'altra, qualor si volesse impedire alle navi il salire su
per quel fiume. Tutte precauzioni saggiamente prese, perchè appunto in
quest'anno giunse avviso a Roma che i Saraceni con assaissimi legni
s'erano fermati a Torar vicino all'isola di Sardegna, e si preparavano
per tornare a visitare i Romani. Vennero in fatti alla volta di Porto:
cosa che recò non poco terrore al popolo romano, se non che Dio per sua
misericordia provvide al bisogno: cioè accorsero in aiuto de' Romani
colle lor navi i Napoletani, Amalfitani e Gaetani, con animo risoluto di
venire alle mani con que' Barbari. Fecero tosto sapere l'arrivo loro al
papa, ed egli andato ad Ostia, ne chiamò alcuni alla sua presenza, per
intendere con che pensiero fossero venuti. Fra gli altri si presentò ad
esso papa _Cesario_ figliuolo di _Sergio duca_ di Napoli, generale di
quell'armata, che coi suoi corse a baciargli i piedi. Furono tutti
accolti con tenerezza, animati alla difesa, confortati dalle orazioni
d'esso pontefice. Ed allorchè comparvero i Mori alla spiaggia di Ostia,
attaccarono coraggiosamente la battaglia; ma alzatosi un vento furioso,
questo combattè per gli Cristiani, con dividere le armate e dispergere
le navi africane, che ruppero in varie isole. Molti di quegl'infedeli
furono presi ed uccisi; molti condotti a Roma schiavi; e con sì buon
successo terminò quella scena.

NOTE:

[1080] Pagius, ad Annal. Baron.

[1081] Margarinius, Bullar. Casinens., tom. 2.

[1082] Anastas., in Leon. IV.



    Anno di CRISTO DCCCL. Indizione XIII.

    LEONE IV papa 4.
    LOTTARIO imper. 31, 28 e 11.
    LODOVICO II imperad. 2 e 1.


Dagli Annali di san Bertino[1083] abbiamo che nell'anno presente seguì
la coronazione romana di _Lodovico II_, dichiarato Augusto da Lottario
suo padre. _Lotharius filium suum Ludovicum Romam mittit, qui a Leone
papa honorifice susceptus, et in imperatorem unctus est._ Gran cosa è
che solo questo scrittore ci abbia conservata la memoria di sì
importante azione, e non ne abbiano parlato gli altri antichi storici;
quel che è più, neppure Anastasio bibliotecario, o chiunque sia l'autore
della vita di _Leone IV_ papa, ne ha lasciata parola. E quindi è
proceduto che tanto il Sigonio quanto il cardinal Baronio han posta la
romana coronazione di Lodovico II e la dignità imperiale a lui
conferita, sotto l'anno 844: il che certamente non sussiste. Valendosi
il padre Pagi di alcune carte del monistero Casauriense, prodotte dal
padre Mabillone, stabilì questa coronazione nel dì 2 di dicembre del
corrente anno. Ma io ne dubito forte, e meriterebbe questo punto
d'essere con più diligenza esaminato e deciso coll'esatta osservazione
di carte originali, e non già di copie e di memorie passate per più
mani. Veggansi i documenti dello stesso monistero Casauriense, da me
pubblicati[1084], da' quali si riconoscerà che in diversi mesi prima del
dì due di dicembre si vede cominciata l'epoca dell'imperio di Lodovico
II. E qualora si risponda che allora i notai si sono serviti dell'epoca
presa non dalla coronazione romana, ma dal precedente anno, in cui
Lottarlo dichiarò imperadore il figliuolo, siccome pretende il padre
Pagi, convien replicare che di tal dichiarazione non è fatta menzione da
scrittore alcuno antico. Ha il padre Pagi dedotta questa da alcune
carte, le cui note cronologiche possono esser fallate per colpa de'
copisti; e quando sussistano, indicheranno solamente seguita la
coronazione suddetta prima di quello che pensa il padre Pagi. Oltre di
che, non sono mancati eruditi che, a tenore delle loro opinioni, hanno
acconciate le note cronologiche di varii antichi documenti. Però
tuttavia resta da chiarire la sussistenza di queste due epoche, e se la
prima cominciasse nell'anno 849 dopo il dì 19 di maggio, e prima nel dì
3 d'ottobre; e se la seconda veramente avesse principio nel dì 2 di
dicembre dell'anno presente. Certamente il costume degl'imperadori
antichi fu di ricevere la corona in qualche giorno di festa solenne. Ma
in quest'anno il dì 2 di dicembre accadde in martedì, nè festa alcuna vi
s'incontrò. Fu in quest'anno bensì tenuto un concilio[1085] _in urbe
regia Ticino_, al quale presedettero _Angilberto arcivescovo_ di Milano,
_Teodemano_, o, per dir meglio, _Teutimaro patriarca_ d'Aquileia
(chiamato corrottamente dall'Ughelli _Hindelmario_, o _Vindelmario_) e
_Giuseppe vescovo_ (probabilmente d'Ivrea) _ed arcicappellano di tutta
la Chiesa_. V'ha dell'errore in queste ultime parole. Dicesi raunato
esso concilio _anno Incarnationis dominicae DCCCL, Indictione XIV, et
Hlotharii atque Hludovici piissimorum Augustorum XXX, atque primo_.
fondatamente pretende il padre Pagi che in vece di _Indictione XIV_,
s'abbia quivi a scrivere _Indictione XIII_, perchè Lottario augusto dopo
il dì ultimo di maggio contava non più l'anno XXX, ma bensì il XXXI del
suo imperio e regno d'Italia, e per conseguente celebrato questo
concilio ne' primi mesi dell'anno presente. L'_anno primo_ di Lodovico
II imperadore, secondo lui, è preso dall'epoca dell'anno precedente, in
cui dal padre fu dichiarato Augusto. Intorno a questo ultimo punto ho io
già proposto qualche mio dubbio. Fecero que' vescovi alcuni decreti
assai lodevoli ed utili per la disciplina ecclesiastica; ed essendovi
intervenuto anche l'imperator Lodovico, dal canto suo furono formati
cinque capitoli riguardanti il buon governo dell'Italia. Non godè molta
quiete neppure l'_imperator Lottario_ in quest'anno ne' suoi regni
oltramontani. Nella Provenza i Mori diedero un gran guasto sino alla
città d'Arles; ma in ritornando al loro paese, restarono anche essi
fieramente fracassati da una gagliarda tempesta di mare. Così nella
Frisia ed Olanda[1086], paesi d'esso Lottario Augusto, _Rorico_,
fratello o pur nipote d'_Erioldo_, essendosi ribellato ad esso
imperadore, calò con una flotta di masnadieri normanni, e portò la
desolazion dappertutto. Non sapendo Lottario come liberarsi da costui,
giudicò meglio di guadagnarlo colle buone; e ricevutolo in grazia, gli
diede Dorestado ed altri contadi in feudo, ossia in governo perpetuo. Da
un importante documento, da me rapportato nelle Antichità
italiche[1087], si ricava che in quest'anno l'imperador _Lodovico II_
prese per moglie _Angilberga_, oppure solamente contrasse gli sponsali
con esso lei, costituendole in dote due corti, l'una posta nel contado
di Modena, l'altra in quello di Reggio. Fu dato quel diploma in _Marengo
corte regale, III nonas octobris_.

NOTE:

[1083] Annal. Franc. Bertiniani.

[1084] Chron. Casauriens., Append., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1085] Labbe, Concilior., tom. 7.

[1086] Annal. Franc. Bertiniani. Annales Franc. Metens. Annal. Franc.
Fuldenses.

[1087] Antiquit. Italic., Dissertat. XX, pag. 117.



    Anno di CRISTO DCCCLI. Indizione XIV.

    LEONE IV papa 5.
    LOTTARIO imperad. 32, 29 e 12.
    LODOVICO II imperad. 3 e 2.


Terminò il corso di sua vita questo anno l'_imperadrice Ermengarda_,
moglie di _Lottario Augusto_, con lasciar dopo di sè[1088] tre
figliuoli, cioè _Lodovico II_ imperadore, _Lottario_ e _Carlo_, ed
alcune figliuole, delle quali una fu _Gisela_ o _Gisla_, badessa
nell'insigne monistero di santa Giulia di Brescia, come risulta dai
documenti pubblicati dal padre Margarino[1089], ma non colla dovuta
attenzione. _Obiit Ermengardis regina conjux Lotharii imperatoris_,
dicono sotto quest'anno gli Annali di Metz. Le imperadrici spesso si
veggono chiamate _regine_. Leggesi anche l'epitaffio suo in versi,
composto da Rabano Mauro, dopo il quale vien confermata la sua morte
sotto l'anno presente. A me diede da pensare una carta del monistero
casauriense, che pubblicai nell'appendice alla Cronica di quel
monistero[1090], scritta nell'anno VII _dell'imperio di Lodovico_, nel
mese di _giugno_, correndo l'_indizione IV_, cioè nell'anno 856, dove
Liutardo diacono e Contardo fratello vendono _tibi domnae Hermengardae
reginae_ alcune lor corti. Se non fosse stata certa la morte
dell'imperadrice Ermengarda in quest'anno, si sarebbe dovuto crederla
tuttavia vivente nell'anno suddetto. Ma e chi è questa _Ermengarda
regina_ nell'anno 856? Quanto più vi penso, tanto meno so io trovarne
conto. So che l'imperador Lodovico II veramente ebbe una figliuola di
questo nome, e ne parleremo anche andando innanzi. Ma come dare il
titolo di _regina_ ad una principessa nubile, quale essa era allora? E
poi come mai una principessa tale faceva ella degli acquisti? e
massimamente se questa fosse stata figliuola dell'_imperadrice
Angilberga_, perchè sarebbe stata di molto tenera età. Potrebbe
nondimeno essere stata di altra madre. Il Sigonio, il cardinal Baronio,
il padre Pagi, anzi la comune degli storici, seguitando in questo anno
Leone Ostiense[1091], scrivono, che portatosi l'_imperador Lodovico II_
a Benevento, cacciò da quella città i Saraceni, partì il ducato di
Benevento fra _Siconolfo_ e _Radelgiso_, e, ciò fatto, se ne tornò a
Pavia. Ma di sopra pare a me d'aver dimostrato che non possiamo in
questo luogo fidarci della Cronologia d'esso Ostiense, e sembrar più
probabile, anzi parer come certo che nell'anno 848 accadesse un tal
fatto. Era in questi tempi stranamente afflitta la Francia dai corsari
normanni, cioè settentrionali[1092]. Una parte d'essi tornò per la Senna
a desolar quei paesi sottoposti al re _Carlo Calvo_, e lasciò
dappertutto innumerabili segni della lor barbarie. Un'altra parte con
dugento cinquantadue legni mise a sacco di nuovo nel regno
dell'_imperador Lottario_ la Frisia e l'Olanda. Giunsero dipoi fino a
Gant, che diedero alle fiamme. Arrivati al famoso palazzo imperiale di
Aquisgrana, dopo averlo spogliato, l'incendiarono anch'esso con tutti i
monisteri del contorno. Presero le nobili città di Treveri e Colonia;
misero a fil di spada chi non era fuggito degli abitanti, e ad esse
città in fine attaccarono il fuoco. Non si racconta che l'imperador
Lottario uscisse in campo contra di costoro, nè che seguisse alcuna
importante prodezza dei Cristiani. Circa questi medesimi tempi crede
Camillo Pellegrino che s'abbia a mettere la morte di _Siconolfo_
principe di Salerno, narrata da Erchemperto[1093] e dall'Anonimo
salernitano[1094]. Dubito io che nel precedente, e fors'anche prima
morisse Siconolfo; perciocchè il suddetto Anonimo gli dà _anni dieci ed
alcuni mesi_ di principato, e questi convien dedurli dall'anno 839.
Lasciò egli per successore _Sicone_ suo figliuolo; ma per esser questi
in tenera età, ne dichiarò tutore ed aio un certo _Pietro_ che l'aveva
tenuto al sacro fonte, con esigere da lui un forte giuramento di fedeltà
al figliuolo. Poco stette a mancar di vita dopo Siconolfo anche
_Radelgiso_ principe di Benevento, in luogo del quale succedette
_Radelgario_ suo figliuolo, uomo per pietà, per valore e per altre doti
assai grato al popolo. Noi troviamo circa questi tempi l'Augusto
_Lodovico II_ in Pavia, applicato ad ascoltare i ricorsi de' popoli, e a
rendere giustizia a tutti, ciò apparendo da un documento da me prodotto
altrove[1095].

NOTE:

[1088] Annales Franc. Metenses.

[1089] Bullar. Casinens., tom. 2.

[1090] Chron. Casauriens. P. II. tom. 2 Rer. Ital.

[1091] Leo Ostiensis, lib. 1, cap. 31.

[1092] Chron. Fontanell. apud Du-Chesne tom. 2, Rer. Franc. Mirac. S.
Bavon. apud Mabillon. Saec. II Bened.

[1093] Erchempertus, Hist., cap. 19.

[1094] Anonymus Salernitan., Paralipom. cap. 78.

[1095] Antiquit. Italic., Dissertat. XXXI, pag. 951.



    Anno di CRISTO DCCCLII. Indizione XV.

    LEONE IV papa 6.
    LOTTARIO imperad. 33, 30 e 13.
    LODOVICO II imperad. 4 e 3.


Tale e tanta fu l'assistenza e premura del sommo _pontefice Leone_ per
la fabbrica della già ideata ed incominciata città intorno alla basilica
vaticana, che in questo anno essa si vide felicemente compiuta[1096].
Scelse egli il dì 28 di giugno, cioè la vigilia della festa de' santi
apostoli Pietro e Paolo per benedirla: il che fu fatto con incredibil
letizia di tutto il popolo romano, e coll'intervento di tutti i vescovi
e sacerdoti, con una divota processione d'esso papa e clero, che a piè
nudi e colla cenere sul capo fecero il giro delle mura, ed implorarono
l'aiuto e la protezione di Dio sopra la nuova città. Ad essa fu posto il
nome di _città leonina_; e il papa in tal occasione fece dei magnifici
regali al clero, alla nobiltà romana e a varie altre persone. Nè qui si
fermò l'insigne vigilanza di questo pontefice. Andava egli tutto dì
pensando come si potesse rimettere in buono stato la disabitata città di
Porto, per assicurarla dai tentativi de' Saraceni che erano in questi
tempi il terrore del litorale mediterraneo de' Cristiani in Italia,
siccome i Normanni erano per la Francia. Volle Dio che circa questi
tempi capitassero a Roma, per chiedere a lui soccorso, alcune migliaia
di Corsi fuggiti dal loro paese per paura de' suddetti Mori. Gli accolse
con amore di padre il buon papa, ascoltò con tenerezza tutti i loro
affanni, e ad essi in fine esibì il soggiorno nella suddetta città, e
terre e prati e vigne per le loro famiglie, che erano della camera
pontificia e dei monasteri e d'altre persone, purchè promettessero
d'essere fedeli a lui e ai successori pontefici in avvenire. Promise
quella gente non solamente la dovuta fedeltà, ma eziandio di vivere
sempre e morire in quel luogo; e però il pontefice a titolo di limosina
in _benefizio delle anime degl'imperadori Lottario e Lodovico_, e della
sua propria, assegnò loro quelle abitazioni, e ne spedì la bolla, con
dichiarare che quel dono durerebbe finchè essi Corsi fossero fedeli ed
ubbidienti ai papi e al popolo romano. Trovavansi parimente diroccate le
mura e porte d'Orta e d'Ameria, cioè aperto il campo ai ladri ed
assassini di danneggiar gli abitatori di quelle città. Accorse al
bisogno loro la munificenza dell'ottimo pontefice; nè passò molto che di
nuove mura e porte avendole cinte, le assicurò dai pericoli ne' tempi
avvenire. In quest'anno ci assicurano gli Annali di san Bertino[1097]
che l'imperador _Lodovico II_, il quale si trovava in Mantova nel dì
_VIII kal. martias_, come risulta da un diploma[1098], si portò con una
buona armata nel ducato di Benevento, ed assediò la città di Bari, tempo
fa occupata, come di sopra dicemmo, e signoreggiata dai Saraceni, da
dove poi facevano spesso scorrerie a danneggiare i circonvicini paesi.
Avevano già le sue macchine, dopo molto tempo e fatiche, aperta la
breccia, ed egli era risoluto di passare all'assalto con tutta apparenza
di potervi entrar colla forza: quando alcuni suoi poco saggi consiglieri
il fecero desistere, col pretesto che molto tesoro era in quella
raunato, e tutto si perderebbe, se la città restava presa per assalto, e
che era meglio guadagnarla per capitolazione. Ma i Mori nella notte
seguente seppero così ben profittare del tempo loro lasciato, che
chiusero la breccia con una forte travata, dimodochè nel dì seguente si
risero della bravura ossia della semplicità degli assedianti. E
l'Augusto Lodovico non volendo maggiormente consumar la sua armata
intorno a sì forte città, se ne tornò con poca gloria in Lombardia.
Erchemperto[1099] anch'egli fa menzione di questo fatto, con dire che i
_Saraceni_, chiamati da lui _Agareni_, ed _Ismaeliti_ da altri, abitanti
in Bari, non cessavano di fare scorrerie per tutta la Puglia e Calabria,
e di mettere a poco a poco tutto il ducato di Benevento non men che
quello di Salerno a sacco. Spronati da tante miserie _Bassacio abbate_
di Monte Casino e _Jacopo abbate_ di san Vincenzo di Volturno, andarono
a trovare l'imperador Lodovico II, ed eccitata in lui la compassione, il
trassero di nuovo all'assedio di Bari. Ma da' Capuani, che doveano
concorrere a quell'impresa, egli si trovò burlato. Niun d'essi vi
comparve. Solamente v'inviarono il loro vescovo _Landolfo_ a fargli de'
complimenti. Stomacato l'imperadore della lor doppiezza, e veggendo di
perdere il tempo intorno a quella città, ricondusse l'esercito suo a
casa, _concesso principatu salernitano Ademario fortissimo et illustri
viro, et Siconolfi filium exulem fecit_. Di ciò parleremo all'anno
seguente, in cui probabilmente questo fatto accadde. Dagli atti del
concilio romano tenuto nell'anno seguente apparisce che papa _Leone_
s'era fermato per qualche giorno in Ravenna insieme coll'imperador
_Lodovico_ per trattare di varii affari. Si può credere che ciò
avvenisse nel suo ritorno dall'assedio di Bari.

NOTE:

[1096] Anast. Biblioth., in Vit. Leonis IV.

[1097] Annales Franc. Bertiniani.

[1098] Antiquit. Italic., Dissert. XXIX, p. 867.

[1099] Erchempertus Hist., cap. 20.



    Anno di CRISTO DCCCLIII. Indizione I.

    LEONE IV papa 7.
    LOTTARIO imp. 34, 31 e 14.
    LODOVICO II imperadore 5 e 4.


Dagli Annali di san Bertino[1100] impariamo che in questi tempi insorse
non poco di amarezza fra _Michele imperador_ de' Greci e _Lodovico II
imperador_ d'Occidente, perchè questi avea contratti gli sponsali con
una figliuola del greco Augusto, e si andavano differendo le nozze.
_Graeci contra Ludovicum filium Lotharii regem concitantur propter
filiam imperatoris constantinopolitani ab eo desponsatam, sed ad ejus
nuptias venire differentem._ Ma a questo racconto sembra opporsi una
carta di Lodovico stesso imperadore, da me accennata di sopra all'anno
850. Per attestato di essa, in quell'anno esso Augusto pare che
prendesse per moglie _Angilberga_, che veramente fu imperadrice: come
dunque nell'anno presente si lagnavano i Greci perchè egli non
concludesse le nozze colla lor principessa, con cui già erano seguiti
gli sponsali? Altro non saprei dire, se non che nell'anno 850 seguissero
solamente gli sponsali con Angelberga, e che prima di effettuarne il
matrimonio, venisse in campo il trattato con una figliuola del greco
Augusto. Oppure che tardassero i Greci a sapere il matrimonio seguito di
esso imperador Lodovico, benchè per via di Venezia avessero facile il
commercio coll'Italia; e che saputolo in fine, se ne risentissero verso
questi medesimi tempi. Abbiamo poi dai sopraddetti Annali, che i Romani
veggendosi malmenati dai Mori ossia dai Saraceni, e che _Lottario
Augusto_, dimentico dei doveri di un buon padrone, niuna cura prendeva
della lor difesa, inviarono al medesimo delle doglianze. Ma Lottario
viveva anche dimentico di Dio, dato unicamente alla caccia e ai piaceri.
Dopo la morte dell'_imperadrice Ermengarda_ sua moglie aveva egli preso
al suo servigio due contadinelle, serve ossia schiave sue, una anche
delle quali gli partorì un figliuolo, appellato _Carlomanno_. E intanto
i Normanni già avvezzati a fare ogni anno visita alla Francia, anche nel
presente occuparono e spogliarono la città di Nantes, con uccidere il
vescovo e molti del clero e del popolo. Presero parimente la città di
Tours, e la diedero alle fiamme. Lascio andare il resto della lor
crudeltà. Tenne in quest'anno lo zelantissimo papa _Leone IV_ in Roma,
correndo il mese di dicembre, un concilio[1101] di sessantasette
vescovi, in cui furono pubblicati quarantadue canoni spettanti alla
disciplina ecclesiastica. In esso concilio fu deposto _Anastasio prete
cardinale_ del titolo di san Marcello, diverso da Anastasio
bibliotecario, perchè per cinque anni era stato assente dalla sua
parrocchia contro il divieto dei canoni, e dimorava in Lombardia.
Chiamavansi allora cardinali in Roma quei ch'erano veri e proprii
parrochi di qualche chiesa parrocchiale, o diaconi, cioè veri e proprii
rettori di qualche diaconia, ossia spedale, come ho dimostrato
altrove[1102]. Lo stesso si trova praticato in Ravenna, in Milano, in
Napoli ed in altre città. Ma anche allora in gran riputazione e stima
erano i parrochi e diaconi suddetti, perchè principali ad eleggere il
papa, e massimamente perchè i papi per lo più si eleggevano dal corpo
d'essi parrochi e diaconi.

Il papa con sue lettere il chiamò, e tre vescovi inoltre furono deputati
per invitare il suddetto Anastasio al concilio, con avervi anche
interposta la loro autorità _Lottario_ e _Lodovico imperadori_: il che
fa intendere in che pregio fosse allora la dignità de' parrochi di Roma,
che andò poi sempre più crescendo sino allo splendore, in cui oggi si
mira l'ordine cardinalizio. Essendo anche stato inviato a Roma da
_Etelvolfo_, re dei Sassoni occidentali dell'Inghilterra, _Alfredo_ suo
figliuolo[1103], _papa Leone_ solennemente lo unse in re della sua
nazione, e il prese per suo figliuolo adottivo. Dissi, all'anno
antecedente, che _Siconolfo_ principe di Salerno pria di morire
raccomandò il suo piccolo figliuolo _Sicone_ alla cura di un certo
_Pietro_ suo padrino[1104]. Costui vinto dagli stimoli dell'ambizione,
mettendosi sotto i piedi il giuramento della fedeltà, seppe far tali
istanze e maneggi, che indusse il popolo a riconoscerlo per collega di
Sicone nel principato salernitano, col pretesto che il fanciullo avesse
bisogno pel governo di un compagno. Nè di ciò contento, fece anche
ricevere per suo collega _Ademario_, suo figliuolo, non so ben se
nell'anno presente o nel susseguente. Nella Cronica del monistero di
Volturno, da me pubblicata[1105], nell'aprile dell'anno 858 correva
l'_anno V_ del principato d'esso _Ademario_. Da lì poscia a poco tempo
Pietro, affinchè Ademario restasse solo sul trono, insinuò all'innocente
Sicone, ch'era bene per lui l'andarsi a fermare per qualche tempo nella
corte dell'imperador Lodovico II, a motivo d'imparar la gentilezza e la
politica in quella buona scuola. Ubbidì il nobil garzone, e fu con tutta
benignità accolto da esso Augusto, nella cui corte si fermò poi per
alquanti anni. Par ben questo più verisimile, che il racconto di
Erchemperto, da cui di sopra intendemmo che Lodovico imperadore
concedette il principato di Salerno ad _Ademario forte ed illustre
personaggio, e mandò in esilio il figliuolo di Siconolfo_. Seguita poi a
dire il suddetto Anonimo, che cresciuto in età _Sicone_, l'Augusto
Lodovico il fece cavaliere, e con onore il rimandò al suo principato di
Salerno. Giunto egli a Capua, quivi si fermò, e guadagnossi l'amore di
ognuno, ma spezialmente di _Landone_ conte ossia principe di quella
città, e di _Landolfo_ vescovo di lui fratello, perchè era giovinetto di
bello aspetto, di alta statura e di tal robustezza, che gittava la targa
ossia lo scudo (se pure non è scorretta quella parola) fin sopra
l'anfiteatro di Capua, ch'era allora in piedi, edificio di mirabil
altezza e di non minor bellezza, del quale negli anni addietro
eruditamente fece un trattato il canonico Simmaco Mazocchi. Stavano
coll'occhio aperto _Pietro_ e _Ademario_, osservando gli andamenti del
giovane lor collega Sicone, nè piacendo loro tanta sua intrinsechezza
coi Capuani, spedirono colà gente sperta nelle iniquità, che
segretamente gli diedero da bere, e il mandarono al mondo di là. Da un
placito[1106] tenuto nel territorio di Balva o Valva, città allora del
ducato di Spoleti, confinante a Sulmona, si raccoglie che in questi
tempi era _duca di Spoleti Guido_, del quale già parlammo all'anno 843.
Per ordine dell'imperador Lodovico e di esso Guido, tenuto fu quel
giudizio, e v'intervenne anche _Arnolfo vescovo_ di Balva.

NOTE:

[1100] Annales Franc. Bertiniani.

[1101] Labbe, Conciliorum tom. 8.

[1102] Antiquitat. Italic., Dissert. LXI.

[1103] Asser, Hist. Anglican.

[1104] Anonym. Salernitan., Paralipom., cap. 80.

[1105] Chron. Vulturnens., Part. II, tom 1 Rer. Italic.

[1106] Chron. Vulturnens. P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCLIV. Indizione II.

    LEONE IV papa 8.
    LOTTARIO imper. 35, 32 e 15.
    LODOVICO II imperad. 6 e 5.


Correvano già quarant'anni che la città di Centocelle, colle mura per
terra, e dagli abitanti fuggiti, per timore de' Saraceni, abbandonata,
era divenuta un deserto[1107]. I suoi cittadini, a guisa di fiere,
abitavano per gli boschi e monti, e neppur ivi si tenevano sicuri.
Pensava tutto dì il vigilantissimo _papa Leone_ alla maniera di sovvenir
alle miserie e al bisogno di questi suoi sudditi. Ispirato da Dio, fece
cercare un sito proprio per fondarvi una nuova città, dove fosse
abbondanza di acque e comodo per mulini. Si ritrovò questo dodici miglia
lungi dalla suddetta città di Centocelle, e però quivi con tutto vigore
fu dato principio alla fabbrica delle mura, delle porte, chiese e case;
e compiuto il lavoro, vi si portò il papa a visitarlo e benedirlo, con
ordinar che tal città portasse da lì innanzi il nome di _Leopoli_.
D'essa oggidì forse non resta vestigio. E perciocchè quegli abitanti col
tempo dovettero tornare alla città vecchia di Centocelle, però
giustamente si può conghietturare che il nome di _Centocelle_ si mutasse
nel moderno di _Cività Vecchia_. Restò in quest'anno alquanto turbata la
buona armonia fra _Lottario imperadore_ e il _re Lodovico_ suo
fratello[1108]. Una parte del popolo di Aquitania, disgustata del _re
Carlo Calvo_, mandò ad esibirsi pronta a ricevere per suo re _Lodovico_
figliuolo di esso _Lodovico re della Germania_. Non lasciò l'ingorda
ambizione cadere per terra cotal offerta. Andò esso giovane Lodovico, e
fu accettato da quella fazione. Mise questa novità il cervello a partito
del re Carlo; e però si strinse in lega particolare coll'imperador
Lottario, al quale neppur piacea che il fratello Lodovico volesse
accrescere la sua potenza collo spoglio degli altri fratelli. Passò il
re Carlo in Aquitania collo esercito suo, ma non altro fece che mettere
a fuoco parte del paese. Essendovi nondimeno ritornato con più
forze[1109], e scorgendo il giovane Lodovico che non mancavano
nell'Aquitania varii popoli contrarii ai di lui disegni, abbandonò
quell'impresa e tornossene a casa: e tanto più perchè _Pippino_
figliuolo del già _re Pippino_, scappato dal monistero, dove stava
rinchiuso, fu ben accolto dalla maggior parte degli Aquitani. Per
cagione di tali turbolenze seguì nell'anno presente un abboccamento fra
i due fratelli _Lottario imperadore_ e _Lodovico re_ di Germania. Sulle
prime passarono fra loro delle parole calde; ma in fine si rappezzò la
buona amicizia: del che prese molta gelosia e sospetto il _re Carlo
Calvo_. In quest'anno, secondo i conti di Camillo Pellegrino, terminò il
corso di sua vita _Radelgario_ principe di Benevento. Ma forse all'anno
precedente si dee riferire la sua morte[1110]. Ebbe per successore
_Adelchi_ ossia _Adelgiso_ suo fratello, uomo di costumi dolci e
mansueti, e sì cortese, che non v'era persona che non lo amasse.
Contuttociò, a cagion de' Saraceni e della division del ducato, ogni dì
più andavano peggiorando gli affari in quelle contrade. Nè si dee
tralasciare che in questi tempi, per quanto eruditamente osservò il
padre Mabillone[1111], fioriva in Roma _Giovanni Diacono_ della santa
Chiesa romana, autor della vita di san Gregorio Magno e d'altre opere,
delle quali fa menzione la storia letteraria. Da un placito, che si
legge nella Cronica del monistero di Volturno[1112], si raccoglie che in
questi tempi era tuttavia duca di Spoleti Guido, di cui fu fatta
menzione nell'anno antecedente. In quest'anno noi troviamo Lodovico II
Augusto in Brescia nel dì 13 di giugno, dove con suo diploma confermò i
beni della chiesa di Novara a _Dodone_ vescovo. In esso egli s'intitola
_imperadore augusto, e figliuolo dell'invittissimo signore Lottario
imperadore_.

NOTE:

[1107] Anastas. Bibliothec., in Vita Leon. IV.

[1108] Annales Franc. Bertiniani.

[1109] Annal. Franc. Fuldenses.

[1110] Erchempertus, Hist., cap. 20.

[1111] Mabillonius, in Annal. Benedictin. lib. 34, cap. 72.

[1112] Chron. Volturnens., P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCLV. Indizione III.

    BENEDETTO III papa 1.
    LODOVICO II imper. 7, 6 e 1.


Avvenne in quest'anno in Roma un accidente fastidioso, di cui ci ha
informati il solo Anastasio bibliotecario[1113]. Daniello maestro de'
militi, ossia uno dei generali delle milizie, andò a trovare lo
_imperador Lodovico_, e gli rivelò che Graziano superista della città di
Roma, creduto da esso Augusto uomo fedele nel di lui servigio, nella
propria casa di esso Daniello avea detto a lui solo: _Che i Franchi_
(ossia _Franzesi_) _niun bene faceano, niun aiuto davano al popolo
romano_ (maltrattato o minacciato tutto dì dai Saraceni), _e che
piuttosto colla forza lo spogliavano delle loro sostanze. Perchè non
chiamiamo piuttosto i Greci, trattando con esso loro un accordo di pace,
e non ci leviamo di sotto al regno e alla signoria de' Franchi e della
sua gente? Quare non advocamus Graecos, cum eis foedus componentes, et
Francorum regem et gentem de nostro regno et dominatione non
expellimus?_ Di più non occorse perchè l'Augusto Lodovico andasse nelle
furie, e senza perdere tempo s'incamminasse alla volta di Roma con delle
soldatesche, come si può credere, ma senza far precedere, giusta il
costume, le lettere di avviso al papa e al senato romano. Contuttociò il
buon papa _Leone IV_ il ricevette coi soliti onori sopra le scalinate
della basilica di san Pietro; e udite le sue querele, cercò di placarlo
colle più dolci parole che seppe adoperare. In uno dei giorni appresso
lo stesso imperadore, assiso col pontefice e con tutti i baroni romani e
franzesi, tenne un solenne giudizio nella sala già fabbricata da papa
Leone III. Quivi Daniello pubblicamente disse: _Iste Gratianus habuit
mecum consilium, hanc romanam terram de vestra tollere potestate, et
Graecis tradere illam._ Allora non solamente Graziano, ma i nobili
romani tutti, alzatisi in piedi davanti all'imperadore, gridarono che
costui mentiva, e non essere vero in conto alcuno ciò ch'egli diceva.
Mancavano a Daniello i testimoni per provare l'accusa; e però come
calunniatore secondo le leggi romane fu giudicato reo, ed egli stesso
confessò il fallo; dopo di che fu dato in mano a Graziano, acciocchè ne
facesse quel che gli parea. Ma avendolo poi l'imperadore chiesto in
grazia, ed essendosene contentato Graziano, costui restò liberato dal
pericolo della morte. Se ne tornò a Pavia l'imperadore, e tal fine ebbe
un sì delicato affare, dal quale, siccome avvertirono il padre Pagi e
l'Eccardo chiaramente si deduce la sovranità degl'imperadori di que'
tempi in Roma stessa e nel suo ducato. Poco stette dipoi il sommo
pontefice _Leone IV_ ad essere chiamato da Dio al premio delle fatiche
da lui sostenute in un sì affannoso pontificato. Accadde la morte sua
nel dì 17 di luglio; ma dura e durerà la memoria di questo papa, insigne
per tante opere della sua pia munificenza descritte lungamente da
Anastasio, ossia dall'autore della sua vita, ma più per la santità del
viver suo, per cui meritò di essere registrato nel catalogo de' santi. A
questo pontefice (piuttosto che a papa Leone terzo) credono gli eruditi,
che si abbiano a riferir due squarci di lettere scritte, secondo
Graziano[1114], a _Lottario_ e _Lodovico imperadori_, nel primo de'
quali son le seguenti parole: _De capitulis vel praeceptis imperialibus
vestris vestrorumque praedecessorum irrefragabiliter custodiendis et
conservandis, quantum valuimus et valemus, Christo propitio, et nunc et
in aevum nos conservaturos, modis omnibus profitemur. Et si fortasse
quilibet alter vobis dixerit, vel dicturus est, sciatis, eum pro certo
mendacem._ Nel secondo si leggono quest'altre: _Nos si incompetenter
aliquid egimus, et subditis justae legis tramitem non conservavimvs,
vestro, ac missorum vestrorum cuncta volumus emendare judicio. Inde
magnitudinis vestrae magnopere clementiam imploramus, ut tales ad haec,
quae diximus, perquirenda missos in his partibus dirigatis, qui Deum per
omnia timeant, et cuncta (quemadmodum si vestra praesens fuisset
imperialis gloria) diligenter exquirant. Et non tantum haec sola, quae
superius diximus, quaerimus, ut examussim exagitent, sed sive minora,
sive etiam majora illis sint de nobis indicata negotia, ita eorum cuncta
legitimo terminentur examine, quatenus in posterum nihil sit, quod ex
eis indiscussum vel inde finitum remaneat._ Passi tali servono anche
essi per farci sempre più intender il sistema del governo temporale
d'allora in Roma.

Poco si tardò dopo la morte del santo pontefice Leone a venire
all'elezion del successore: e questi fu _Benedetto III_, cardinale del
titolo di san Calisto. Non già la papessa Giovanna, come una volta fu
creduto, allorchè per l'ignoranza de' popoli si poteano spacciare ed
erano buonamente ricevute anche le più spallate favole. Tale in fatti è
ancor questa, nata solamente nel secolo decimoterzo, ma oggidì talmente
confutata, e riconosciuta fin dai nemici della religion cattolica, che
si renderebbe ridicolo chi assumesse di più sostenerla, o di
maggiormente screditarla ed abbatterla. Ma l'assunzione di esso papa
Benedetto non passò senza contrasto. Eravi una fazion contraria di
Romani che segretamente teneva per Anastasio prete cardinale, già
scomunicato e deposto nel concilio romano, e adoperò quante cabale potè
per innalzarlo in questa congiuntura. Racconta Anastasio che eletto papa
Benedetto, _Clerus et cuncti proceres decretum componentes propriis
manibus roboraverunt, et ut consuetudo prisca poscit, invictissimis
Lothario ac Ludovico destinaverunt Augusti_; il che ci fa sempre più
intendere ch'era antico il costume, e tuttavia si osservava, di non
consecrare il papa eletto, se non dappoichè informatone l'imperadore,
prestava l'assenso suo. L'incarico di portar questo decreto alla corte
imperiale fu dato a _Niccolò vescovo_ di Anagni e a _Mercurio_ maestro
de' militi, cioè generale dell'armi, i quali arrivati a Gubbio trovarono
il vescovo di quella città _Arsenio_, che li guadagnò in favore dello
scomunicato Anastasio. Pervenuti alla corte di Lodovico Augusto, in vece
di promuovere gli interessi di Benedetto eletto, si studiarono di
guadagnar la protezion di lui per mettere esso Anastasio nella cattedra
di san Pietro, con rappresentargli probabilmente che la seguita elezione
era stata o simoniaca, o violenta, contuttochè il vero fosse che
Benedetto avea fatta gran ripugnanza ad accettare il peso del
pontificato. Spedì l'imperadore i suoi messi, i quali non sì tosto
furono giunti alla città di Orta, che videro venir varii nobili de'
primarii di Roma, tutti fautori di Anastasio; e poscia in vicinanza di
Roma con loro si unirono _Rodoaldo vescovo di Porto ed Agatone vescovo_
di Todi. Intanto l'eletto papa Benedetto inviò incontro ai ministri
imperiali due vescovi, ma questi contra l'intenzione dell'imperadore
furono ritenuti e consegnati alle guardie. Nel giorno seguente andò
ordine per parte di essi ministri a tutto il clero, senato e popolo
romano di venir loro incontro sino a Ponte Molle, per intendere i
comandamenti dell'imperadore. Così fecero, senza sapere che inganno
fosse preparato. Con questo solenne accompagnamento l'accecato dalla sua
ambizione Anastasio entrò nella basilica vaticana, poscia occupò il
palazzo lateranense, e fatto spogliar Benedetto degli abiti pontificali,
con istrapazzi non pochi il fece ritener sotto buona guardia. Allora
furono incredibili gli urli e i pianti del clero e popolo, il quale nel
giorno appresso si raunò nella chiesa di santa Emiliana, dove si
portarono anche i ministri imperiali con grande alterigia, accompagnati
da una copiosa frotta di armati, sperando pure o procurando d'indurli ad
eleggere il suddetto miserabil Anastasio. Ma si trovò ne' vescovi
specialmente, e poi nel resto del clero e popolo tal costanza in quel
giorno e nel seguente, gridando tutti di voler Benedetto, e di essere
pronti piuttosto a morire che ad accettare l'indegno personaggio loro
proposto, che gli uffiziali dell'imperadore convennero nel loro
sentimento, e fatto cacciar fuori del palazzo Anastasio suddetto,
rimisero in libertà Benedetto. Dopo tre giorni di digiuno fu
solennemente confermata l'elezion di esso Benedetto, ed egli
susseguentemente nel dì 24 di settembre consecrato, diede l'assoluzione
a chiunque pentito la dimandò, fuorchè al vescovo di Porto.

Nel quarto dì di febbraio dell'anno presente fu celebrato in Pavia un
concilio[1115] di molti vescovi, presidenti del quale furono _Angilberto
arcivescovo_ di Milano, _Andrea patriarca di Aquileia_ (quando non si
ammetta _Andrea II_ fra que' patriarchi, questo nome si dee credere
posto in vece di _Teutimaro_; oppure quel concilio appartiene ad altro
anno) e _Giuseppe_ vescovo d'Ivrea, arcicappellano della corte cesarea.
Truovansi in esso pubblicati alcuni bei regolamenti per la disciplina
ecclesiastica. Ed altri in fine ne aggiunse l'Augusto Lodovico,
spettanti al buon governo civile, da me[1116] dati alla luce fra le
leggi longobardiche. Truovasi dipoi esso imperadore da lì a quattro
giorni in Mantova, da che si legge un suo diploma[1117], dato in quella
_città VI idus februarii dell'anno presente_, in favore di _Rorigo
vescovo_ di Padova. Questo poi fu l'anno in cui _Lottario Augusto_ suo
padre cominciò a sentir sopra di sè la mano di Dio, e a riconoscere
ch'era mortale. Assalito da una lenta malattia, cercò indarno medici che
sapessero l'arte di guarirlo. Un tale avviso servì di sprone al suddetto
_imperador Lodovico_ per desiderare un abboccamento con _Lodovico re_ di
Germania suo zio, affine di averlo favorevole, ogni qual volta mancasse
di vita suo padre. Secondo le notizie recate da Gian-Giorgio[1118],
Eccardo seguì il loro congresso in Trento. Ivi si trattò di molti affari
utili alla Cristianità, ed amendue si partirono di là in buona
concordia. Crescendo intanto ogni dì più la infermità dell'imperadore
Lottario, ed accortosi egli di camminare a gran passi verso il sepolcro,
seriamente pensò a prendere congedo dal mondo, e insieme a profittar di
questo poco tempo per far penitenza de' molti suoi eccessi, e poter
comparire in morte diverso da quello ch'era stato in vita[1119].
Convocata una dieta de' suoi baroni, divise i regni fra i tre suoi
figliuoli legittimi. A _Lodovico II_ già dichiarato imperadore, confermò
il dominio dell'Italia. A _Lottario_ suo secondogenito lasciò la Francia
di mezzo, cioè il regno situato fra il Reno e la Mosa, di cui si è
parlato all'anno 843. Dal nome di questo giovane re cominciò poi
quell'ampio tratto di paese ad appellarsi _Lottaringia_, che noi ora
diciamo _Lorena_, se non che la moderna Lorena è una parte picciolissima
dell'antica. A _Carlo_ suo terzogenito lasciò il regno della Provenza.
Questi da Erchemperto vien chiamato _Carletto_. Dopo di questo l'Augusto
Lottario passò al celebre monistero di Prumia, nella diocesi di Treveri,
e quivi preso l'abito monastico con tutta umiltà, rinunziò affatto agli
affari del mondo presente, ed attese a prepararsi per l'altro. Da lì
appunto a sei giorni, nel dì 28 di settembre, finì di vivere; principe
saggio in morte, ma non così in vita, che a molte virtù accoppiò maggior
numero di vizii, nè mai meritò di essere messo nel ruolo de' santi, come
han fatto i buoni monaci, solamente perchè incalzato dalla vicina morte,
per qualche giorno portò le divise di monaco. Fu egli il primo, a mio
credere, che introdusse, oppur dilatò in Italia l'abuso, tanto tempo
prima cominciato in Francia, di dare in commenda i monisteri non men dei
monaci che delle monache, ai vescovi e ad altri ecclesiastici, e insino
alle imperadrici e alle principesse reali, e fino ai secolari di corte o
della milizia: abuso, dissi, che durò poi, anzi smisuratamente crebbe
negli anni susseguenti, più forza avendo i cattivi che i buoni esempli
nel cuore guasto degli uomini. Nell'epitaffio di questo principe si
legge:

    _Qui Francis, Italis, Romanis praefuit ipsis._

Anche il Blanc[1120] pubblicò una sua moneta, nel cui diritto sta
HLOTHARIVS IMP. AV., e nel rovescio VENECIA. Pensò l'Eccardo[1121]
bastante questa moneta a farci conoscere che la città di Venezia fosse
in que' tempi sottoposta al dominio dei re franchi. Ma ciò è lontano dal
vero. Dagli stessi diplomi degl'imperadori franzesi, citati dal
Dandolo[1122], chiaramente si ricava che quell'inclita città era esclusa
dal regno d'Italia; e se riconosceva superiore, questi era tuttavia
l'imperador de' Greci. La _Venecia_ di quella moneta altro non è che la
città di Vannes in Francia, appellata dai Latini Venecia. Così nelle
monete d'allora s'incontra VIRDVNVM, CAMERACVS, MEDIOLANVM, perchè quivi
furono esse battute.

NOTE:

[1113] Anastas. Biblioth., in Vita. Leonis IV.

[1114] Gratian., cap. 9, Dissert. X, et cap. 14, 2, n. 17.

[1115] Labbe, Concil., tom. 8.

[1116] Rer. Ital., Part. II, tom. 1 Leg. Langobard.

[1117] Antiq. Ital., Dissert. XIX, pag. 55.

[1118] Eccard., Rer. Franc., lib. 30.

[1119] Annal. Franc. Metenses. Erchemp., Hist., cap. 19.

[1120] Blanc, des Monnoyes de Rois.

[1121] Eccard., Rer. Franc., lib. 31, cap. 2.

[1122] Dandulus, tom. 11 Rer. Italicar.



    Anno di CRISTO DCCCLVI. Indizione IV.

    BENEDETTO III papa 2.
    LODOVICO II imperad. 8, 7 e 2.


Ci fan sapere gli Annali di san Bertino[1123] che l'imperator _Lodovico
II_ restò mal soddisfatto della division fatta dal padre dei suoi stati.
Pretendeva egli che l'Italia fosse a lui pervenuta per donazione
dell'avolo suo _Lodovico Pio_: però chiedeva, qual fosse la parte che
gli dovea toccare della eredità paterna, quando gli altri due fratelli
aveano assorbito tutti gli stati d'oltramonti. Ne fece querela presso
dei re suoi zii, cioè di _Lodovico re di Germania e di Carlo Calvo re di
Francia_; ma indarno la fece. Erano prima di lui ricorsi i primati della
Lorena ad esso re Lodovico, per assicurar quel regno nella persona del
giovane re _Lottario_, e il trovarono, o il renderono favorevole ai lor
desiderii. Nel maggio di quest'anno, per gli diplomi rapportati dal
Margarino[1124], si conosce che il suddetto imperadore fu in Brescia,
dove confermò a _Gisla_ sua sorella, dimorante nell'insigne monistero di
santa Giulia, la signoria ossia il governo di quel sacro luogo, e
ratificò eziandio i privilegii del medesimo. Abbiamo anche da Andrea
Dandolo[1125] ch'egli si trovava in Mantova, allorchè _Pietro_ doge di
Venezia gli spedì per suo legato un certo Deusdedit, ed ottenne la
conferma dei privilegii e delle esenzioni de' beni che il clero e popolo
di Venezia possedevano negli stati dell'imperio, ossia del regno
d'Italia. E perciocchè anche allora si considerava qual cosa rara essa
città di Venezia, fabbricata in mezzo all'acque del mare, il medesimo
Augusto coll'_imperadrice Angilberga_ sua moglie volle visitarla.
Vennero loro incontro i due dogi, cioè il suddetto _Pietro_ e _Giovanni_
suo figliuolo, sino a san Michele di Brondolo con suntuoso
accompagnamento, e fecero loro quanto onore poterono. In segno poi di
amore e di pace esso Augusto tenne al sacro fonte un figliuolo del
medesimo doge Giovanni. Non so io l'anno preciso in cui succedette un
fatto narrato dall'Anonimo salernitano[1126]. Certo fu dappoichè
_Adelgiso_ fu divenuto principe di Benevento. Ora egli racconta che
_Pietro_ (non è chiaro, se allora o se poi) _principe di Salerno_
confermò l'amicizia e lega coi Beneventani. Raunato poscia un copioso
esercito di Salernitani, insieme coll'oste di Benevento condotta dal
suddetto principe Adelgiso, amendue passarono alla volta di Bari con
pensiero di formarne l'assedio, e di levare ai Saraceni quel nido,
occasione di tante sciagure alle lor contrade. Ma vennero loro incontro
con grande strepito quelle barbare schiere, e in un momento attaccarono
la zuffa. Riuscì questa assai calda, e in fine tal fu il valore de'
Longobardi, che i Saraceni furono obbligati a piegare e a prendere la
fuga. Quand'ecco giugnere una fresca e poderosa brigata d'altri
Saraceni, che dando addosso agli stanchi Cristiani, gli sbaragliò. Molti
restarono nel campo estinti; gli altri, e parte d'essi feriti, si
diedero alle gambe. Orgogliosi per questa vittoria i Saraceni, scorsero
dipoi per gli principati di Benevento e di Salerno, uccisero non poche
persone, menarono in ischiavitù le lor mogli e figliuoli; e carichi in
fine d'immenso bottino, se ne ritornarono a Bari. In quest'anno poi,
secondo i conti di Camillo Pellegrino[1127], la città di Sicopoli
fabbricata dai Capuani, o per accidente, oppure per iniquità di taluno,
interamente fu desolata da un incendio, di maniera che non vi restò in
piedi se non il palazzo del vescovo, cioè di _Landolfo vescovo di
Capua_, fratello di Pandone conte ossia principe di quella città. Allora
Landone e gli altri suoi fratelli presero la risoluzione di abbandonar
quel sito montuoso, e di calare al piano col popolo. Diedersi infatti a
fabbricare presso il ponte Casalino del fiume Volturno una città nuova,
a cui posero il nome di _Capua nuova_, che è la Capua di oggidì, lontana
tre miglia dall'antica desolata Capua. Potrebbe nondimeno essere che più
tardi succedesse la fabbrica di questa città, scrivendo Giovanni monaco,
autore della Cronaca di Volturno, che _Landolfo conte di Capua_
nell'anno 841, abbandonata Capua vecchia, portossi ad abitare nel monte
Triflisco, con altro nome chiamato Sicopoli, e da lì a tre anni morì,
cioè più tardi di quel che suppose Camillo Pellegrino. Poscia _Landone_
conte suo figliuolo abitò in Sicopoli per anni tredici ed otto mesi,
dopo i quali rimase quella città affatto consumata dal fuoco. Il perchè
avendo tenuto consiglio co' suoi fratelli _Landenolfo_, _Pandone_ e
_Landolfo_ vescovo, edificarono Capua nuova al piano, dove signoreggiò
esso Landone per anni tre e mesi otto. Ed allora i Capuani cominciarono
ad avere infinite guerre coi Napoletani. Nè si dee tacere che in
quest'anno venne a Roma per sua divozione[1128] _Etelvolfo_ re dei
Sassoni occidentali in Inghilterra, e portò dei gran regali alla
basilica di san Pietro. Passando poi nel suo ritorno per la Francia,
prese per moglie _Giuditta_ figliuola del re _Carlo Calvo_, e la
condusse ai suoi paesi. Ma poco sopravvisse, perchè nell'anno 858 fu
rapito dalla morte. Patì la città di Roma nel gennaio di quest'anno una
fiera inondazione del Tevere, alla quale tenne dietro la pestilenza, per
cui perì una gran quantità di persone. Abbiamo anche dagli Annali di san
Bertino che in quest'anno _Saraceni de Benevento Neapolim fraude
adeuntes, vastant, diripiunt, et funditus evertunt_. Probabilmente vuol
dire che toccò questo flagello al territorio, ma non già alla città di
Napoli.

NOTE:

[1123] Annales Francor. Bertiniani.

[1124] Margarinius, Bullar. Casinens., tom. 2.

[1125] Dandul., in Chr., tom. 12 Rer. Italic.

[1126] Anonymus Salern., Paralipom., cap. 79.

[1127] Erchempert., Chron. c. 27. Chron. Vulturn. P. II, tom. 1 Rer.
Ital.

[1128] Anastas. Biblioth., in Vit. Benedicti III.



    Anno di CRISTO DCCCLVII. Indizione V.

    BENEDETTO III papa 3.
    LODOVICO II imp. 9, 8 e 3.


Due strepitose brighe in questi tempi insorsero che diedero per gran
tempo da faticare alla sede apostolica. Avea nell'anno antecedente
_Lottario_ re della Lottaringia, ossia della Lorena, fratello
dell'imperador _Lodovico_, presa per moglie _Teotberga_, e dichiaratala
regina. Ma egli anche prima teneva un segreto legame di affetto con
Gualdrada sua concubina. Gli Annali bertiniani[1129] notano, che vivendo
anche _Lottario Augusto_ suo padre, egli menava una vita dissoluta negli
adulterii. Poi soggiungono, che prevalendo le fiamme della sua impurità
e l'attaccamento a Gualdrada, cominciò ben tosto, cioè nell'anno
presente, a rigettar dal suo letto, e poi dalla corte la regina
Teotberga; il che cagionò dei gravi sconcerti, de' quali parla a lungo
la storia ecclesiastica. Peggiore di lunga mano fu l'altro affare.
Passava da gran tempo buona armonia e unità di dottrina fra la santa
sede romana e i patriarchi d'Oriente[1130], ed allora spezialmente
sedeva nella cattedra di Costantinopoli _Ignazio_ personaggio di santa
vita. Perchè questo zelantissimo pastore non volle condiscendere ad
alcune empie dimande dell'imperador _Michele_, fu deposto; e _Fozio_,
uomo laico di gran sapere, ma di maggiore ambizione, e mirabile
imbroglione di questi tempi, che avea soffiato segretamente in quel
fuoco, seppe così bene adoperarsi, che venne ad occupare la sedia
patriarcale tolta al vero pastore. Di qui ebbe principio lo scisma de'
Greci, che cessò bene da lì a qualche tempo, ma non ne seccarono mai le
radici, le quali risorsero poi più vigorose che mai nel secolo undecimo,
e durano tuttavia con lagrimevol separazione dei Greci dalla Chiesa
romana maestra di tutte l'altre. Non si può dire quante cure costasse,
quanti affanni ai papi susseguenti una tal mutazione di cose nella real
città e Chiesa di Costantinopoli. Ne accenneremo qualche altra notizia
andando innanzi, con riserbarne il disteso racconto a chi vorrà
consultar sopra ciò la storia ecclesiastica. Nell'anno presente ancora,
secondo gli Annali di san Bertino, l'_imperador Lodovico_ fece un
abboccamento con _Lodovico re della Germania_ suo zio, e fra di loro fu
conchiuso, o confermato un trattato di lega. Quest'anno riferisce il
padre Mabillone[1131] un avvenimento preso dall'Italia sacra
dell'Ughelli[1132], cioè la fabbrica del monistero di san Bartolomeo di
Ferrara, e la presa e distruzion di Comacchio fatta dalle armi de'
Veneziani, irritati perchè _Marino conte_ di quella città avesse
carcerato Badoario nipote di _Giovanni_ doge di Venezia, nell'andare
ch'egli faceva a Roma, e datagli anche una ferita, per cui si morì. Ma
quel racconto è sporcato da non poche favole; e l'affare di Marino
conte, siccome vedremo, accadde circa l'anno 881. Intanto i Normanni
flagellavano a più non posso la Francia, con aver portata la desolazione
fino alla stessa città di Parigi, e a quelle di Tours, Blois, Roano,
Beauvais, ed altre. E che parte d'essi ancora giugnesse per mare a
danneggiar l'Italia, si raccoglie dalla storia della traslazione di san
Filiberto abbate, data alla luce da esso padre Mabillone[1133]. Le
traslazioni appunto dei corpi de' santi in questi tempi seguitavano ad
essere frequenti in Francia e in Germania, cercando tutti di mettere in
salvo le reliquie de' loro santi, e di sottrarle alla rabbia de'
Normanni, tutti allora gente pagana e nemica del nome cristiano.

NOTE:

[1129] Annales Franc. Bertiniani.

[1130] Nicetas, in Vit. S. Ignatii.

[1131] Mabillonius, in Annal. Benedictin. ad ann. 857.

[1132] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2, in Episc. Ferrariens.

[1133] Mabillonius, Saecul. IV Benedictin., P. I.



    Anno di CRISTO DCCCLVIII. Indizione VI.

    NICCOLÒ papa 1.
    LODOVICO II imp. 10, 9, e 4.


Giunse in quest'anno al fine di sua vita il buon pontefice _Benedetto_
III, e, secondo i conti del padre Pagi, succedette la morte sua nel dì 8
di aprile[1134]. Insigni memorie della sua pia munificenza lasciò
anch'egli verso le chiese di Roma. Molto non era che l'_imperador
Lodovico_ venuto a Roma per non so quali affari, ne era anche partito.
Ma non così tosto ebbe intesa la perdita di questo dignissimo papa, che
frettolosamente se ne ritornò a Roma per impedir le dissensioni e gli
scandali nell'elezione del nuovo pontefice. Per quanto scrive Anastasio
bibliotecario, restò di concorde volere del clero, de' nobili e del
popolo romano eletto pontefice _Niccolò I_ diacono, personaggio di
sangue nobile e più nobile per gli suoi virtuosi costumi. Ma negli
Annali bertiniani si legge, ch'egli _Praesentia magis ac favore Ludovici
regis et procerum ejus, quam cleri electione substituitur_. E riuscì uno
de' più riguardevoli papi che s'abbia avuto la Chiesa di Dio. La sua
consecrazione fu fatta nella basilica vaticana nel dì 27 d'aprile; dopo
di che condotto alla lateranense, quivi, con immenso giubilo di tutta la
città, fu coronato. Tre giorni dopo la sua consecrazione pranzarono
insieme con somma carità il papa e l'imperadore; e questi poi, fatta
partenza da Roma, andò a fermarsi ed attendarsi colle sue genti ad un
luogo appellato Quinto. Colà volle portarsi per fargli una visita il
nuovo papa insieme coi baroni romani. A tale avviso l'Augusto Lodovico
gli venne incontro, e a piedi, presa la briglia del cavallo pontificio,
a guisa di un valletto addestrò esso papa, per quanto si stende un tiro
di saetta. Dopo varii amichevoli ragionamenti, e dopo un lauto convito
nel padiglione imperiale, il papa magnificamente regalato
dall'imperadore risalito a cavallo tornossene a Roma. Accompagnollo per
buon tratto di strada l'imperadore anch'esso a cavallo, finchè giunsero
in una larga campagna, dove esso Lodovico smontato di nuovo, per
alquanto spazio l'addestrò, e dopo essersi più volte baciati, finalmente
si separarono. Abbiamo poi dagli Annali di Fulda[1135], che trovandosi
nel febbraio dell'anno presente _Lodovico re di Germania_ nella città di
Ulma, quivi se gli presentarono due ambasciatori dell'_imperador
Lodovico_ suo nipote, cioè _Notingo vescovo_ di Brescia ed _Eberardo
conte_, che si può francamente credere quel medesimo che in questo tempo
era duca ossia marchese del Friuli. Diede loro udienza, e li rimandò,
senza che si sappia il motivo di tale spedizione. S'era fin dall'anno
precedente ribellata al re _Carlo Calvo_ non poca parte de' suoi popoli,
al vedere che con saputa di lui si commettevano assaissime iniquità, e
ch'egli quasi uomo da nulla non si applicava a reprimere le incursioni
de' Normanni che mettevano sossopra il suo regno. Ricorsero costoro per
aiuto a _Lodovico re di Germania_ e gli promisero la signoria d'esso
regno. Dicono che egli avesse ribrezzo a prendere le armi contra del
fratello: tuttavia col pretesto di sovvenire al bisogno de' popoli, ma
in fatti per appagar la sete della non mai sazia ambizione passò con un
grossissimo esercito in Francia, e cominciò quivi a far da padrone, con
donar largamente contadi, monisteri, ville regie e poderi a chiunque
abbracciava il suo partito: il che fu cagione che il re Carlo Calvo si
fuggisse in Borgogna. Ma avendo licenziata l'armata sua, e troppo
fidandosi di chi l'avea fatto colà venire, trovossi al fine burlato, e
gli convenne nell'anno seguente tornarsene a casa assai malcontento del
colpo fallito. Non pochi vescovi tennero saldo pel re Carlo, e giunsero
anche a scomunicar pubblicamente esso re Lodovico. In favor suo
parimente si dichiarò _Lottario re della Lorena_, fratello
dell'imperador Lodovico, il quale in quest'anno non potendo reggere alle
istanze de' suoi baroni, ripigliò bensì in corte la regina _Teotberga_,
ma, messe a lei le guardie, non la lasciava parlare se non con chi a lui
parea.

NOTE:

[1134] Anastas. Biblioth. in Vit. Nicolai I.

[1135] Annal. Franc. Fulden. Annal. Franc. Bertiniani.



    Anno di CRISTO DCCCLIX. Indizione VII.

    NICCOLÒ papa 2.
    LODOVICO II imper. 11, 10 e 5.


Erasi ritirato alle sue contrade di Germania il _re Lodovico_, dopo la
sua da tutti biasimata spedizione contra del fratello re _Carlo
Calvo_[1136]; ma durava tuttavia il bollore della contesa e disunion fra
loro. Di lui si parlava dappertutto con grande discredito. Però in
quest'anno giudicò egli spediente d'inviare in Italia _Teotone abbate_
di Fulda, affinchè presentasse all'_imperador Lodovico_ suo nipote e al
sommo pontefice Niccolò un manifesto, in cui si studiava di giustificar
la guerra da lui portata in Francia, adducendo quelle ragioni che non
mancano mai a chi cerca d'ingoiare l'altrui, e spera anche d'abbagliar
con parole il giudizio di chi è spettatore o uditor di tali tragedie. Fu
l'abbate cortesemente accolto non meno dal papa che dall'imperadore
presso i quali s'ingegnò il meglio che potè di purgar dall'infamia il
suo re. Qual risposta contenessero le lettere ch'egli riportò ad esso re
Lodovico, nol dice la storia. Ben si sa che si trattò forte in
quest'anno d'accordo fra quei re, ma nulla si potè conchiudere, perchè
Lodovico pretendeva di sostener nel possesso delle contee e de' beni da
lui donati le persone che s'erano dichiarate in favor suo nel regno di
Carlo; ma Carlo non vi volle mai acconsentire. _Guanilone arcivescovo_
di Sens, che era stato uno dei maggiori traditori del re Carlo in quei
torbidi, fu accusato per questo in un concilio, ma quel furbo uomo seppe
trovar la maniera di rientrare in grazia di lui. Fu di parere Papirio
Massone, seguitato poi dal cardinal Baronio, che da questo _Guanilone_ i
romanzisti franzesi e poscia gl'italiani prendessero il nome di _Gano_,
che vien sempre rappresentato ne' romanzi per un perfido, o per un
traditore. Certamente _Gano_ si trova chiamato anche _Ganelone_ in
alcuni romanzi. Non è da sprezzare una tal coniettura, se non che Gano
nei romanzi vien fatto di schiatta _maganzese_, cioè di _Magonza_, la
quale città sempre è rappresentata per traditrice alla casa reale di
Francia, ed uomo secolare, e non già arcivescovo, e non già a' tempi di
Carlo Calvo, ma bensì a quei di Carlo Magno. L'autore ancora degli
Annali di san Bertino[1137] ci ha conservata la notizia seguente. Cioè
che riuscì all'imperador Lodovico di farsi cedere con un trattato
amichevole da _Carlo re di Provenza_ suo fratello quella porzion di
stati ch'egli godeva di qua dal monte Jura, e che abbracciava le città
di _Geneva_ ossia Ginevra, _Losanna_ e _Seduno_, oggidì Sion, capitale
de' Vallesi, coi loro vescovati, contadi e monisteri. Ritenne Carlo in
suo potere solamente lo spedale del Monte di Giove, e il contado
pipincense, nome forse corrotto, di cui non trovo chi ne parli. Dagli
stessi Annali abbiamo sotto questo anno che _Nicolaus pontifex romanus
de gratia Dei et libero arbitrio, de veritate geminae praedestinationis,
et sanguinis Christi, ut pro credentibus omnibus fusus est, fideliter
confirmat, et catholice decernit_. Non ne fa menzione il cardinal
Baronio, non ne apparisce vestigio fra le lettere di esso papa.
Bollivano allora queste spinose controversie nella Germania e Francia
tra _Gotescalco_, _Ratranno_ monaco di Corbeia, _Giovanni Scotto_,
_Incmaro_ dottissimo arcivescovo di Rems, ed altri. È da dolersi che non
restino tali scritti di questo dotto ed insigne pontefice. Intanto piena
era di calamità la Francia per le incessanti rapine e stragi che vi
commettevano i Normanni. Nè contenti que' barbari corsari di far provare
la lor crudeltà alle città confinanti all'Oceano, passarono anche di qua
dallo Stretto, e salendo su pel Rodano, vi saccheggiarono varie città,
che punto non s'aspettavano una sì fatta visita; e senza volersi
ritirare dal Mediterraneo svernarono dipoi alla sboccatura di quel
fiume. Poco o nulla attendevano allora l'imperadore e i re della
schiatta franzese ad aver forze in mare; ed in Francia e Germania, in
vece di darsi vicendevole aiuto contra di quei cani, ad altro non
pensavano che ad ingrandirsi colle spoglie de' fratelli o nipoti.
Sarebbe da desiderare che fosse più chiaro il testo di Erchemperto[1138]
là dove racconta (sotto il presente anno, secondo i conti di Camillo
Pellegrino, ma forse più tardi), che terminata la nuova città di Capua,
venne ad assediarla _Guido jam dictus cum universis Tuscis_; e diedele
grandi affanni, perchè il popolo non voleva ubbidire, per quanto sembra,
a _Landone conte,_ suo singolare amico, a cagione delle iniquità che
commetteano i due suoi fratelli _Landolfo vescovo e Landonolfo_. Ma in
fine furono costretti a piegare il collo sotto il giogo. Sora ed altre
terre circonvicine, tolte a Landonolfo, in vigore dei patti furono
consegnate a Guido: del che Landonolfo concepì tanta afflizione d'animo,
che da lì a poco mori. Non s'intende bene come passasse questo affare.
Cosimo della Rena[1139] per le suddette parole di Erchemperto venne in
sospetto che Guido in questi tempi duca di Spoleti fosse anche marchese
della Toscana. Ma non merita questa propria locuzione che se ne faccia
caso. Sappiamo che altri scrittori riputarono il ducato di Spoleti,
ossia l'Umbria, parte della Toscana. Ed è poi chiaro che _Adalberto I_
era allora duca e marchese d'essa Toscana, trovandosi egli nelle carte
degli anni antecedenti e de' susseguenti in possesso di quel governo. Vo
io nondimeno dubitando che questo assedio di Capua succedesse in uno
degli anni susseguenti.

NOTE:

[1136] Annal. Francor. Fuldenses.

[1137] Annales. Francor. Bertiniani.

[1138] Erchempertus, His., cap. 25.

[1139] Rena, Serie de' Duchi di Toscana.



    Anno di CRISTO DCCCLX. Indizione VIII.

    NICCOLÒ papa 5.
    LODOVICO II imp. 12, 11 e 6.


Da un bel placito ch'io diedi alla luce[1140], tratto dalle memorie del
monistero casauriense, vegniamo in conoscenza che l'imperador Lodovico
per la _Romania_ (oggidì Romagna) era venuto nel ducato di Spoleti _pro
justitiarum commoditate, et malignorum astutia deprimenda_: al che egli
giornalmente faceva attendere i suoi ministri. Giunto poi _intra fines
Haesinos, et Camertulos_, cioè fra _Jesi_ e _Camerino_, quivi ordinò che
alzassero tribunale _Vibodo_ vescovo di Parma (il quale troppo tardi
vien supposto dall'Ughelli[1141] succeduto nella cattedra parmigiana a
_Rodoaldo_, cioè a chi non fu mai vescovo di Parma) e _Adalberto
contestabile_ e _Vepoldo conte del palazzo_ ed _Eccideo coppier
maggiore_, con altri. Venne citato alla lor presenza _Ildeberto conte,
ad oppressiones, quas fecerat, emandandas_. Aveva un certo Adalberto
ceduto all'imperadore tutti i suoi beni posti _in finibus Italiae,
Tusciae, Spoleti et Romaniae_; ma con riceverli poi di nuovo da lui a
livello, sua vita natural durante. Quindi gli avea o donati o conceduti
al suddetto _Ildeberto conte_, senza permission dell'imperadore; e però
fu giudicato che quei beni tornassero in potere e dominio d'esso
Augusto. Forse fu questo Ildeberto conte di Marsi. Tuttavia ho io
sospettato altrove che egli possa essere stato duca di _Camerino_,
perchè conti erano spesse volte appellati anche i duchi e marchesi. Un
suo placito tenuto in Marsi[1142] nell'anno 850, si dice scritto _anno
comitatus ejus VII_. E potrebbe essere che conte o duca ei fosse in
compagnia di _Guido_, da noi veduto di sopra; perciocchè quel ducato
soleva essere governato da due duchi, non so se in solido, oppure
dall'uno di qua dall'Apennino e dall'altro di là, veggendosi da qui
avanti due ducati di _Spoleti_ e di _Camerino_. Ma non ci somministra la
storia bastanti lumi per ben decidere questo punto. Sotto quest'anno
s'ha dagli Annali di s. Bertino[1143] che _l'imperador Lodovico suorum
factione impetitur, et ipse contra eos ac contra Beneventanos rapinis
atque incendiis desaevit_. Noi restiam qui al buio, perchè di questo
fatto niuna spiegazione, anzi neppur memoria ci han lasciato i pochi
scrittori d'Italia, de' quali si son salvate le storie. Forse nel ducato
di Spoleti s'era suscitata qualche ribellione, e a questo fine colà si
portò l'imperador suddetto. Ma del male fatto ai Beneventani in questi
tempi niun'altra testimonianza ci resta che questa. Seguita poi a dire
il suddetto storico bertiniano che i Danesi, cioè i Normanni, che aveano
passato il verno alla foce del Rodano, alla prima stagione vennero per
l'Arno a Pisa, e quella città con altre presero, misero a sacco e
devastarono. Se questo è vero, ben poca cura doveano allora avere gli
Italiani di ritener ben fortificate e guernite di buone mura le loro
città: che non volavano già, come gli uccelli per aria, quei Barbari; e
le mura d'una città bastavano, massimamente in que' tempi, a fermar
l'empito d'ogni più poderoso esercito. Sappiamo ancora dagli Annali di
Fulda[1144] che il verno di quest'anno fu sì fiero che _Mare Jonium
glaciali rigore ita constrictum est, ut mercatores, qui nunquam antea
nisi vecti navigio, tunc in equis quoque et arpentis mercimonia ferentes
Venetiam frequentarent_. Qui si parla della città italica di Venezia, la
cui laguna anche nel rigoroso verno del 1709 talmente aggiacciata si
vide, che su pel ghiaccio dalle carrette e dai cavalli convenne portarvi
le mercatanzie e le provvisioni del vitto.

Aggiungono gli Annali di Metz[1145], che il suddetto imperador Lodovico
in questo anno _plurima bella strenuissime gessit adversus Sclavorum
gentem_. È ben da compiagnere la storia d'Italia, che ci lascia per
tanto tempo digiuni de' fatti ed avvenimenti d'allora, con restarne solo
un qualche barlume presso gli storici oltramontani; se non che Andrea,
prete italiano e scrittore di questo secolo, nella sua storia
breve[1146] attesta anch'egli essere stata, _domni Hludovici imperatoris
anno X, Indictione octava_, cioè nell'anno presente, tanta la neve
caduta, e sì fuor di misura il freddo, che perì gran copia di seminato,
e si seccarono le viti alla pianura, e gelò nelle botti il vino. Dopo di
che, un cerio _Uberto_, dimentico dei tanti benefizii a lui fatti
dall'imperador Lodovico, e dei giuramenti a lui prestati, unitosi coi
Borgognoni, se gli ribellò. Spedì Lodovico contra di lui _Conrado_ colle
sue milizie, e bisognò venire ad un fatto d'armi, in cui restò ucciso il
suddetto Uberto, colla perdita ancora di molti dalla parte
dell'imperadore. Ci fa poi sapere la storia ecclesiastica che cominciò a
bollir forte la controversia della deposizione di _santo Ignazio_
patriarca di Costantinopoli, e dell'intrusione di _Fozio_, per cui il
vigilantissimo ed intrepido papa _Niccolò_ non perdonò a diligenza,
uffizii, preghiere e minacce, affin di medicar quella piaga. Spedì egli
in quest'anno a Costantinopoli i suoi legati, perchè s'informassero ben
di quegli affari. Fece anche istanza all'imperador _Michele_, perchè
restituisse alla Chiesa romana i _patrimonii di Calabria e Sicilia_. Non
men di rumore faceva allora la persecuzion di _Lottario re_ di Lorena
contra della regina _Teotberga_ sua moglie, che nell'anno presente fu
imputata di varii finti delitti; e quantunque ella si difendesse col
giudizio dell'acqua bollente, qual rea fu cacciata dall'impudico marito
in un monistero. Ma ella se ne fuggì di colà, e si ridusse in casa di
Uberto suo fratello nel regno di Carlo Calvo. Ora paventando Lottario
che Carlo non si movesse contra di lui, comperò la lega ed assistenza
del re della Germania _Lodovico_ suo zio, con cedergli tutta l'Alsazia.
In questo anno ancora (se pur fece bene i conti Camillo Pellegrino)
Erchemperto racconta[1147] che _Landone conte_, ossia principe di Capua,
colto da una grave paralisia, fu confinato in un letto. _Sergio_ duca di
Napoli, ciò inteso, senza mettersi pensiero delle convenzioni già
seguite fra lui e i Capuani, assistito da un rinforzo datogli da
_Ademario principe_ di Salerno, mosse guerra al giovane _Landone_, che
in difetto del padre aveva assunto il governo. Nè avendo rispetto alcuno
alla festa di san Michele, celebrata con solennità dai Capuani, anzi da
tutti i Longobardi, nel dì 8 di maggio, siccome tenuto per protettore da
tutta quella nazione; e senza ricordarsi che in quello stesso giorno
anticamente i Beneventani aveano data una gran rotta ai Napoletani,
mandò i suoi due figliuoli, cioè _Gregorio_ maestro de' militi, e
_Cesario_, coll'esercito di Napoli e di Amalfi all'assedio di Capua. Ma
allorchè giunsero al ponte di Teodemondo, il giovanetto Landone coi
Capuani, a guisa di un lione, sì bravamente gli assalì, che
sbaragliolli, e fece prigioni ottocento di essi col suddetto Cesario.

NOTE:

[1140] Rer. Italic, P. II, tom. 2, pag. 928.

[1141] Ughell., Ital. Sacr., in Episcop. Parmensib.

[1142] Antiquit. Ital., Dissert. VI.

[1143] Annal. Francor. Bertiniani.

[1144] Annal. Francor. Fuldenses.

[1145] Annal. Franc. Metenses.

[1146] Andreas Presbyt., Chron., tom. 1 Rer. Germ. Menckenii.

[1147] Erchempertus, Hist., cap. 27.



    Anno di CRISTO DCCCLXI. Indizione IX.

    NICCOLÒ papa 4.
    LODOVICO II imp. 13, 12 e 7.


Reggeva in questi tempi la chiesa di Ravenna _Giovanni_ arcivescovo,
uomo, in cui non si sa se maggior fosse l'ambizione o pur l'interesse.
Portaronsi a Roma varii cittadini ravennati a farne doglianza al sommo
pontefice, e ad implorare rimedio alle continue ed intollerabili
vessazioni che da lui ricevevano. Anastasio bibliotecario[1148] ne tesse
il catalogo, con dire che questo arcivescovo scomunicava la gente a suo
capriccio. Non permetteva ai vescovi della sua diocesi e ad altri di
andare a Roma. Aveva occupato non pochi beni della Chiesa romana e di
varii particolari. Sprezzava i messi della Sede apostolica, stracciava
gli strumenti degli affitti o livelli della Chiesa romana, e gli
appropriava a quella di Ravenna. Quei preti e diaconi che non solo in
Ravenna, ma in altre città dell'Emilia erano immediatamente sottoposti
alla santa Sede, li deponeva senza giudizio canonico, e li faceva
mettere in prigione, o in fetenti ergastoli; senza sapersi ben capire
come, se comandavano in quella città gli uffiziali del papa, si
potessero dall'arcivescovo commettere tante oppressioni, e tener birri e
prigioni. Fu pertanto esso arcivescovo più volte ammonito con lettere e
messi dal papa a desistere da sì fatte violenze e novità; ma egli faceva
il sordo. Citato a comparire in Roma al concilio, si vantava di non
essere tenuto ad andarvi. In fine fu scomunicato nel concilio romano. Ci
è stata conservata parte d'un concilio tenuto appunto in Roma per questo
affare in un antichissimo codice della cattedrale di Modena; e questa fu
poi pubblicata dal padre Bacchini nelle giunte ad Agnello[1149]. Dicesi
quivi celebrato esso concilio, _pontificatus domni Nicolai summi
pontificis, et universalis papae anno IIII imperii piissimi augusti
Lodovici anno XI, die octavodecimo mensis novembris, Indictione decima_:
note che non so se sieno corrette, o se riguardino l'anno presente. Ivi
l'epoca dell'imperadore è presa dalla sua coronazione dall'anno 850.
Ascoltiamo ora di nuovo il suddetto Anastasio. Racconta egli che
quell'arcivescovo, udito ch'ebbe l'anatema contro di lui fulminato,
corse ad implorar l'aiuto dell'imperador Lodovico, e da lui ottenne due
legati che per lui parlassero al papa. Con questi se ne andò egli a Roma
pien d'alterigia, persuadendosi di far col loro braccio tremare il papa.
Ma il papa, perchè assistito dalla ragione, si trovò più forte d'una
torre. Con buon garbo il santo padre fece dei rimproveri ai legati,
perchè comunicassero con uno scomunicato, e da lui altro non poterono
essi capire, se non che Giovanni si presentasse al concilio che si dovea
tenere in Roma nel primo dì di novembre, per dar le dovute soddisfazioni
dei suoi eccessi. Senza volerne far altro, egli se ne tornò indietro.
Allora i senatori di Ravenna, ed altra gente dell'Emilia, gittatisi ai
piedi del pontefice, lo scongiurarono di venire in persona a Ravenna per
dar sesto a tanti disordini. V'andò egli infatti, e restituì il suo ad
ognuno, e tornossene di poi a Roma.

Intanto l'arcivescovo ricorse di bel nuovo a Pavia per ottenere il
patrocinio dell'imperadore. Ma quivi trovò che il vescovo della città
_Liutardo_ e i cittadini non volevano commercio con lui, neppure lo
stesso Augusto, che solamente gli fece dire che, deposta la sua
alterigia, si umiliasse al papa, a cui gli stessi imperadori e tutta la
Chiesa prestano sommessione ed ubbidienza, altrimenti non intendeva
assisterlo, nè di favorirlo. Tanto nondimeno si adoperò, che ottenne di
essere accompagnato a Roma da due ambasciatori dell'imperadore; ma
questi giunti colà, si accorsero di non aver parole bastevoli a muovere
la fermezza dello zelantissimo papa. Perciò l'arcivescovo si gittò alla
misericordia, promise quanto gli fu prescritto, e fu assoluto. Nel dì
seguente avendo i vescovi suoi suffraganei dato un libello contra di
lui, fu risoluto: ch'egli non potesse consecrar vescovo alcuno, se non
precedeva l'elezione fattane dal _duca_, cioè dal governatore della
città, dal _clero_ e _popolo_. Che non impedisse ai vescovi l'andata a
Roma. Che non esigesse da loro alcuna sorta di danaro o di doni. Che si
levasse via l'uso cattivo della trentesima. Questa probabilmente erano
costretti i vescovi di pagarla agli arcivescovi di Ravenna delle rendite
delle lor chiese. Soleva Giovanni ogni due anni far la visita dei
vescovati a lui sottoposti, e tanto si fermava colla sua corte addosso
ai vescovi, che divorava tutte le lor rendite. Gli obbligava ancora
(aggravio non praticato in alcuna altra parte del mondo) a contribuire
ogni anno alla mensa archiepiscopale, all'arciprete, all'arcidiacono, e
ad altre dignità della chiesa di Ravenna, un determinato numero di
castrati, di oblate, cioè dell'ostie, del vino, dei polli e dell'uva.
Gli astringeva a dimorare or l'uno, ora l'altro in Ravenna, un mese sì e
un mese no, per farsi servir da loro. A suo capriccio ancora toglieva
loro quei cherici che sarebbero stati più utili alle loro chiese. Questi
ed altri abusi, ch'io tralascio, abolì il saggio papa; e dal concilio
suddetto apparisce che fu posto fine alle avanie di questo tiranno
arcivescovo, con essere intervenuti settantadue vescovi a quella sacra
raunanza. Abbiamo da Erchemperto[1150] che in quest'anno (per quanto
crede Camillo Pellegrino) il vecchio _Landone conte_ di Capua, cedendo
alla contratta paralisia, si sbrigò dai guai del mondo presente. Pria
nondimeno di morire, caldamente raccomandò il giovinetto suo figliuolo
_Landone_ a _Landolfo vescovo_ di quella città, e a _Pandone_ suoi
fratelli e zii del giovane, senza prevedere che raccomandava l'agnello
ai lupi. Era Landolfo uomo dimentico affatto del sacro suo carattere, e
tutto dato alle cabale secolaresche. Quand'anche era in vita il suddetto
Landone seniore (credesi in questo medesimo anno), egli segretamente
istigò _Guaiferio_, figliuolo di Danferio Balbo, a formare una congiura
contra di _Ademario_ principe di Salerno. Poco ben voleva ad esso
Ademario il popolo, per testimonianza dell'Anonimo salernitano[1151], a
cagion dell'avarizia non men sua che di _Guimeltruda_ sua moglie, donna
che ad altro non attendeva se non ad accumular denari. Preso egli
adunque dai congiurati, fu cacciato in una scura prigione, e il suddetto
Guaiferio costituito principe di Salerno. Era stato eletto vescovo
d'essa città di Salerno _Pietro_ figliuolo del medesimo Ademario.
Questi, udita la rovina del padre, se ne fuggì a Sant'Angelo; e
spontaneamente poi datosi al nuovo principe, fu condotto a Salerno, nè
si sa cosa ne divenisse. Ora _Landolfo vescovo di Capua_, quantunque
avesse giurata sopra tutte le cose più sacre fedeltà a Guaiferio, come a
suo principe, pure stette poco ad alienarsi da lui e a fargli guerra.
Barbaramente ancora cacciò di Capua Landone gli altri suoi nipoti, che
si misero sotto la protezion di Guaiferio. Dopo di che usurpò il dominio
di quella città, e vi restò solo signore, perchè suo fratello Pandone
lasciò la vita in un combattimento contra de' Salernitani. In quest'anno
ancora dai diplomi rapportati dal Margarino[1152] impariamo che _Gisla_
figliuola dell'_imperador Lodovico_ era in educazione nel monistero
appellato nuovo, ed ora di santa Giulia di Brescia; e che l'Augusto suo
padre, secondo gli abusi di que' tempi, che tuttavia durano in qualche
paese della Cristianità, le conferì quel sacro luogo da signoreggiare,
usufruttare e governare per tutta la sua vita, secondo la regola di san
Benedetto. Il diploma è dato in Brescia. Con un altro diploma, dato in
Marengo confermò esso imperadore tutti i privilegii e beni del monistero
di san Colombano di Bobbio ad _Amalarico vescovo_ di Como, chiamato ivi
_abbas monasterii bobiensis_; giacchè, siccome fu avvertito di sopra,
s'era già introdotta la biasimevol usanza di conferir le badie ai
vescovi, e talvolta fino ai secolari, i quali, lasciata una parte delle
rendite pel magro sostentamento de' monaci, si divoravano, senza
mettersi scrupolo, il resto.

NOTE:

[1148] Anastas., in Vit. Nicolai I.

[1149] Agnell., Vit. Episc. Ravenn., P. I, tom. 2 Rer. Italic.

[1150] Erchempertus, Hist., cap. 26.

[1151] Anonymus Salernitan., Paralipom., P. II, tom. 2 Rer. Italic.

[1152] Bull. Casin., tom. 2, Const. XXXVII et XXXVIII.



    Anno di CRISTO DCCCLXII. Indizione X.

    NICCOLÒ papa 5.
    LODOVICO II imp. 14, 13 e 8.


Era in questi tempi tutta sconvolta la Francia e la Germania, parte per
le interne discordie, parte per le continue scorrerie e crudeltà dei
Normanni. _Lodovico_ figliuolo del re _Carlo Calvo_ si rivoltò contra
del padre. Altrettanto fece in Germania _Carlomanno_ contra del re
_Lodovico_ suo padre. Nella porzione della Pannonia suggetta ad esso re
Lodovico, per attestato degli Annali bertiniani[1153], si cominciò a
provar la fierezza di una nazione dianzi incognita (_Ungri_ erano
costoro appellati), che saccheggiò il paese. Di razza tartarica erano
questi Barbari, e pur troppo ne avremo a favellare andando innanzi,
perchè li vedremo portar la desolazione anche alle contrade d'Italia. Ma
gli autori parlano moltissimi anni dopo di così barbara gente, talchè si
può quasi mettere in dubbio l'asserzione d'essi Annali. Avvenne ancora
che _Baldoino_, il quale era o fu dipoi conte di Fiandra, sedusse
_Giuditta_ figliuola del re Carlo Calvo, e nascostamente condottala via,
la prese per moglie con gran risentimento del di lei padre. _Carlo re_
d'Aquitania, altro figliuolo d'esso Calvo, anche egli fu in discordia
col padre, per aver presa moglie senza saputa e licenza di lui. E
_Lottario_ re di Lorena, cedendo agli assalti della sfrenata sua
concupiscenza, in quest'anno ripudiò con grave scandalo del
Cristianesimo la legittima sua moglie _Teotberga regina_, e
pubblicamente sposò la concubina Gualdrada, con aver guadagnata a questa
risoluzione sacrilega l'approvazione di _Guntario arcivescovo_ di
Colonia, e di _Teotgaudo_ arcivescovo di Treveri, e d'altri vescovi,
tutti cortigiani ed estimatori più della grazia del principe che di
quella di Dio. Ma in quasi tutta l'Italia si godeva allora buona pace,
se non che era gravemente affannata la sacra corte di Roma per gli
disordini delle chiese orientali, cagionati dall'intrusione di _Fozio_
nella cattedra di Costantinopoli, e per la suddetta scandalosa
risoluzione del re Lottario. L'infaticabil papa Niccolò avea spedito
alla corte imperiale d'Oriente _Rodoaldo vescovo_ di Porto e _Zacheria
vescovo_ d'Anagni, per sostener gli affari di _santo Ignazio patriarca_
ingiustamente deposto e carcerato. Restò tradito da essi, perchè ebbe
più forza in loro l'avidità dei regali, che la religione e la giustizia.
Tornarono in Italia questi due legati pontificii, e il papa non avendo
per anche scoperta la lor fellonia, si servì del medesimo Rodoaldo per
inviarlo in Francia insieme con _Giovanni vescovo_ di Ficocle (oggidì
Cervia), affine di esaminar la causa del re Lottario e di Teotberga, e
dei vescovi prevaricatori. Quivi ancora si lasciò vincere Rodoaldo dai
copiosi doni a lui fatti, e tradì le rette intenzioni e speranze del
papa. Mancò di vita _Gisla_ sorella dell'imperador Lodovico, badessa nel
monistero nuovo, cioè di santa Giulia di Brescia. Vedesi nel bollario
casinense[1154] un diploma d'esso Augusto, con cui concede a
quell'insigne monistero alcuni beni, affinchè si faccia ogni anno in
avvenire l'anniversario della sua deposizione, e ne goda il refettorio
delle monache. Ma forse invece di _quinto kalendas junias_, in cui si
dice passata a miglior vita quella principessa, quivi si ha da leggere
_quinto kalendas januarias_, cioè nel dì 28 di decembre dell'anno
precedente, perchè il diploma è dato _Brixia civitate pridie idus
januarii_ o _januarias_ dell'anno presente; e Lodovico asserisce seguita
la di lei morte _nobis astantibus_. Per relazione di Erchemperto[1155],
in questi ultimi tempi l'iniquissimo e scelleratissimo _Seodan_, o
_Saugdam_ (siccome ho già osservato questo nome vuol dire _soldano_), re
o sia principe dei Saraceni, signoreggiante in Bari, uscendo di tanto in
tanto colle sue squadre, andava mettendo a sacco tutte le contrade dei
ducati di Benevento e Salerno, di modo che gran parte di quel paese
restava disabitato. Per metter freno alla crudeltà di costoro, più volte
fu invitato, e andò l'esercito franzese; ma o sia che non potessero, o
che non volessero venire essi Franzesi alle mani con quella canaglia,
dopo aver fatta una inutil comparsa, se ne tornavano alle lor case senza
profitto alcun del paese. Però _Adelgiso principe_ di Benevento
s'appigliò al partito di comperar la pace da essi Barbari, con
promettere loro una pensione annua, e dar loro ostaggi per sicurezza del
pagamento.

NOTE:

[1153] Annal. Francor. Bertiniani.

[1154] Bullar. Casinens., tom. 2, Constitut. XXXIX.

[1155] Erchempert., Hist., cap. 29.



    Anno di CRISTO DCCCLXIII. Indiz. XI.

    NICCOLÒ papa 6.
    LODOVICO II imp. 15, 14 e 9.


Fin qui poca sanità avea goduto _Carlo re della Provenza_, fratello
dell'imperador Lodovico; e giacchè non avea figliuoli, tanto il re
_Carlo Calvo_ suo zio, quanto _Lottario re_ della Lorena s'erano
precedentemente maneggiati per succedergli, caso che venisse a
morire[1156]. Arrivò appunto il fine di sua vita nell'anno presente.
_Lodovico imperadore_, che stava cogli occhi aperti, volò in Provenza, e
tirò dalla sua molti dei principali del paese. Ma eccoti sopraggiugnere
anche Lottario re della Lorena, comune loro fratello, pretendente al
pari di Lodovico a quella eredità. Si conchiuse che amendue se ne
tornassero alle lor case, per tener poscia un amichevol placito, in cui
si decidesse della lor controversia. E tal risoluzione fu eseguita.
Succedette poi fra loro una concordia, per cui la maggior parte della
Provenza toccò all'imperador Lodovico. Impiegò in questo anno i suoi
paterni uffizii _papa Niccolò_ presso del re Carlo Calvo, acciocchè
perdonasse a _Baldoino conte_, che gli avea rapita la figliuola
Giuditta, ed ottenne quanto desiderava. Gli perdonò il re, e credono
alcuni che a titolo di dote gli assegnasse il paese oggidì appellato
Fiandra; e certamente da questo Baldoino discesero gli antichi rinomati
conti di quelle contrade. Avvertito dipoi esso pontefice[1157], come un
concilio tenuto a Metz nel regno della Lorena, que' vescovi venduti alla
corte iniquamente erano proceduti nella causa della regina _Teotberga_,
ed aveano palliato l'illegittimo matrimonio del re Lottario con
Gualdrada, in un concilio romano cassò e riprovò il celebrato a Metz,
scomunicò e depose i due suddetti arcivescovi di Colonia e di Treveri,
che erano stati spediti dal concilio e dal re Lottario con isperanza di
sorprendere colle lor relazioni il saggio ed avveduto pontefice; e
cominciò a processare i legati apostolici _Rodoaldo_ e _Giovanni_,
subornati in quella congiuntura coll'oro. Se vogliam credere a
Reginone[1158], agli Annali di Metz[1159] all'Annalista sassone[1160],
che hanno le stesse parole, si trovava in questi tempi l'imperador
_Lodovico_ nel ducato di Benevento, probabilmente ito colà per le
preghiere de' popoli, troppo spesso divorati dai masnadieri saraceni. A
lui ricorsero i due deposti e scomunicati arcivescovi, cioè _Guntario_ e
_Teotgaudo_; e gran rumore fecero, perchè venuti a Roma con
salvocondotto di lui, erano stati sì maltrattati dal papa, con disonore
del re Lottario, della regal famiglia, e di altri metropolitani, senza
il consenso dei quali non si dovea procedere a sì fiera sentenza. In
somma fecero quanto fu in loro potere per accendere un fuoco, di cui
vedremo gli effetti nell'anno seguente. Ma perchè gli Annali suddetti
han fallato in qualche punto di tale affare, e massimamente nel riferire
sotto l'anno 865 quello che avvenne nel presente, perciò non si può con
tutta certezza asserire che in questi tempi l'Augusto Lodovico dimorasse
nel ducato di Benevento. Abbiamo nulladimeno nelle giunte da me
pubblicate[1161] alla Cronica del monistero casauriense uno strumento
d'acquisto di varii beni fatto da esso Augusto nell'anno presente nel dì
19 di dicembre _in villa Rufano intus caminata, quam ipse Augustus ad
cortem ipsam paraverat_. Tal villa probabilmente era in quelle parti.

NOTE:

[1156] Anastas. Biblioth., in Vit. Nicolai I.

[1157] Idem, ibidem.

[1158] Regino, in Chron.

[1159] Annal. Francor. Metens.

[1160] Annalista Saxo.

[1161] Rerum Italicarum, P. II, tom. 2.



    Anno di CRISTO DCCCLXIV. Indizione XII.

    NICCOLÒ papa 7.
    LODOVICO II imp. 16, 15 e 10.


Tanto seppero dire i due scomunicati e deposti arcivescovi _Guntario_ e
_Teotgaudo_ all'_imperador Lodovico_, quasichè il papa in condannarli
avesse fatta una patente ingiuria a lui ed al _re Lottario_ suo
fratello, ch'egli montò in furore, nè capiva per la rabbia in sè
stesso[1162]. Probabilmente cooperò a maggiormente accendere questo
furore anche _Giovanni arcivescovo_ di Ravenna, perchè sappiamo da
Anastasio[1163] ch'egli, siccome amareggiato per le cose dette all'anno
861, sosteneva quegli arcivescovi, e insieme con loro non cessò di far
più passi falsi del papa e della santa sede. Non racconta Anastasio ciò
che ne avvenisse, ma gli Annali bertiniani ce ne han conservata la
memoria: cioè l'infuriato Augusto con _Angilberga_ sua moglie, con
quegli arcivescovi e con delle soldatesche se ne andò a Roma, per far
quivi cassare dal papa la proferita sentenza; e se nol facea, coll'empio
pensiero di fargli mettere le mani addosso. Presentito questo suo mal
talento dal papa, ordinò una processione e un generale digiuno in Roma,
per pregar Dio che ispirasse all'imperadore un sano consiglio e la
reverenza dovuta ai ministri di Dio e alla sede apostolica. Giunse in
quel tempo a Roma l'inviperito Augusto, e prese alloggio vicino alla
basilica di san Pietro. Colà arrivò in quel punto la processione del
clero e popolo romano, e nel salire che faceano le scalinate di san
Pietro, eccoti scagliarsi contro di loro i soldati dell'imperadore, che
con dar loro delle bastonate e con fracassar le croci e gli stendardi,
li posero tutti in fuga. A questo fatto, diversamente nondimeno
raccontato, allude un autore di poco credito, forse vivuto prima del
mille, che sotto nome di _Eutropio longobardo_[1164] fu citato e
pubblicato da' nemici della Chiesa cattolica. Non mantengo io per vero e
legittimo tutto quel ch'egli racconta di questi e d'altri fatti non
succeduti a' giorni suoi. Tuttavia convien ascoltarlo dove dice che
l'imperador Lodovico stava a san Pietro, il papa ai santi Apostoli; e
perciocchè il pontefice facea far processioni e cantar messa _contra
principes male agentes_ i baroni dell'imperadore furono a pregarlo di
far desistere da queste preghiere. Nulla ottennero. Ora accadde che
incontratisi in una di queste processioni, diedero delle bastonate ai
Romani. _Qui fugientes projecerunt cruces iconas, quas portabant, sicut
mos est Graecorum e quibus nonnullae conculcatae, nonnullae diruptae
sunt. Unde et imperator graviter est permotus in iram, et pro qua causa
apostolicus mitior effectus est. Profectus est denique idem pontifex ad
sanctum Petrum, rogans imperatorem pro suis talia patrantibus; et vix
obtinere valuit. Jam itaque inter se familiares effecti sunt._
Erchemperto[1165] anch'egli fa menzione di questa sacrilega violenza, ed
attribuisce ad un tal fatto il gastigo di Dio che, siccome vedremo
all'anno 871, provò esso imperador Lodovico. Seguitano poi a dire gli
Annali bartiniani che il pontefice, intesa che ebbe la violenza
suddetta, e che si pensava anche di mettere le mani addosso alla sacra
sua persona, dal palazzo lateranense si portò in barca alla basilica di
san Pietro, dove per due giorni e due notti stette senza prender cibo e
bevanda.

Ma non si sa intendere come egli si ritirasse colà, dacchè lo stesso
imperadore, per confession del medesimo autore, alloggiava allora _secus
basilicam beati Petri_. Frattanto morì uno della famiglia
dell'imperadore che avea spezzata la croce di sant'Elena, e lo stesso
imperador fu preso dalla febbre. Giudicossi questo un avvertimento a lui
mandato da Dio; e però inviò l'imperadrice al papa, perchè venisse a
trovarlo; ed egli sulla di lui parola v'andò. L'abboccamento loro ben
tosto rimise la concordia. Il papa si restituì al palazzo lateranense, e
l'imperadore ordinò che i due arcivescovi se ne tornassero in Francia.
Ma essi, prima di partirsi fecero gittare sopra il sepolcro di san
Pietro un insolentissimo scritto contra del papa. L'imperadore anch'egli
da lì a pochi giorni se ne andò, con lasciare in Roma una infausta
memoria delle uccisioni, delle ruberie e delle violenze fatte dai suoi a
varie chiese, e a molte donne anche consecrate a Dio. Venuto a Ravenna,
quivi celebrò la santa Pasqua, che nell'anno presente cadde nel dì 2
d'aprile. Non mi fermerò qui a raccontare gli avvenimenti dei due
suddetti arcivescovi, nè un altro affare che bolliva ne' medesimi tempi
di _Rotado_ vescovo di Soissons, deposto da _Incmaro arcivescovo_ di
Rems. E solamente verrò dicendo che, secondo i suddetti Annali di san
Bertino, i vescovi del regno di Carlo Calvo, contrarii a Rotado,
spedirono i lor legati colle lettere sinodiche al papa; ma l'imperador
Lodovico non li volle lasciar passare. All'incontro il re Carlo Calvo
impedì a Rotado di venire a Roma, benchè egli avesse appellato alla sede
apostolica; ma questi seppe trovar modo di fuggire con ricorrere
all'Augusto Lodovico, per potere sotto l'ombra sua portarsi a Roma.
Aggiungono essi Annali che in quest'anno lo stesso imperadore,
trovandosi alla caccia, in volendo ferir colla saetta un cervo, fu da
esso gravemente ferito. E che _Uberto_ fratello della regina
_Teotberga_, chierico coniugato, e, secondo gli abusi d'allora, abbate
di san Martino di Tours, dopo aver occupata la badia di san Maurizio nei
Valesi, ed alcuni contadi spettanti all'imperador Lodovico, padrone di
quegli stati, fu ammazzato dagli uomini di esso Augusto. La regina
Teotberga sorella d'esso Uberto, cacciata dal re Lottario, si ricoverò
negli stati del re Carlo Calvo. Avea la morte rapito a _Pietro_ doge di
Venezia il suo figliuolo _Giovanni_ anch'esso doge[1166]. Contra di lui
tessuta fu in quest'anno una congiura da varii nobili, per cui restò
ucciso, mentre stava celebrando la festa di s. Zacheria nella chiesa del
monistero di quel nome. In luogo di lui fu eletto doge _Orso
Particiaco_, chiamato da altri _Participazio_. Tanto egli come il popolo
diedero il condegno gastigo agli uccisori dell'innocente doge, con
levarne alcuni di vita, e mandar gli altri coll'esilio in Francia.
Questo doge fu poi creato _protospatario_ da Basilio imperadore de'
Greci, e in ricompensa di tal onore gli mandò in dono dodici grosse
campane. Se crediamo al Dandolo, cominciarono solamente allora i Greci
ad usar esse campane. Leone Allazio, uomo dottissimo, anch'egli insegnò
che una volta presso i Greci cristiani non erano esse in uso; e
l'invenzione delle medesime vien comunemente attribuita ai Latini. Cosa
manifesta per altro è che anche ne' secoli pagani erano in uso i
campanelli, non già le grosse campane, come oggidì.

NOTE:

[1162] Annales Francor. Bertiniani. Annales Franc. Metenses.

[1163] Anastas., in Vit. Nicolai I.

[1164] Eutrop. Langobardus, de Imp. Rom.

[1165] Erchempertus, Hist., cap. 37.

[1166] Dandul., in Chronico, tom. 12 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCCLXV. Indizione XIII.

    NICCOLÒ papa 8.
    LODOVICO II imp. 17, 16 e 11.


Probabilmente succedette in questo anno ciò che abbiamo da
Erchemperto[1167], le cui parole furono copiate dall'autore della
Cronica del monistero di Volturno e da Leone Ostiense. Maielpoto
gastaldo, cioè governatore di Telese, e Guandelperto gastaldo di Boiano
nel ducato di Benevento, tali e tante preghiere adoperarono, che
indussero _Lamberto duca_ di Spoleti, e _Garardo_ ossia _Gherardo_ conte
di Marsi, a voler colle loro armi dare addosso ai Saraceni. Tutti dunque
insieme assaltarono que' Barbari, nel mentre che dal territorio di Capua
e Napoli se ne tornavano a Bari, carichi tutti di bottino. Ma il feroce
loro sultano con tal bravura li ricevette, che li mise tosto in
iscompiglio e in fuga, con restare assaissimi cristiani morti sul campo,
e molti altri condotti via prigioni, ai quali parimente fu di poi
crudelmente levata la vita. Perirono in quella giornata, valorosamente
combattendo, i due gastaldi suddetti col conte Gherardo. Tali parole
sembrano indicare che a _Guido_ duca di Spoleti fosse succeduto
_Lamberto_. Presero da lì innanzi i Saraceni maggior baldanza e rabbia,
onde a man salva faceano scorrerie per tutto il ducato di Benevento, con
distruggere dovunque giugnevano; e, a riserva delle principali città,
luogo appena vi restò che non andasse a sacco. Toccò spezialmente questa
disavventura a Telese, Alife, Supino, Boiano, Isernia e al castello di
Venafro, che furono interamente disfatti. Arrivarono le loro masnade
anche al suddetto monistero di san Vincenzo di Volturno[1168] che era
dei più ricchi d'Italia, e tutto lo spogliarono con dissotterrare ed
asportare il suo tesoro. Convenne anche pagar loro tre mila scudi d'oro,
perchè perdonassero alle fabbriche, nè vi attaccassero il fuoco. Però
giusto sospetto nasce che Leone Ostiense[1169] senza fondamento
scrivesse, essere stato in tal congiuntura incendiato quell'insigne
monistero. Noi vedremo che molto più tardi gli succedette questa
disgrazia. Per altro sappiamo da lui che que' monaci si rifugiarono e
salvarono nel castello fabbricato da essi in vicinanza del monistero.
Era in questi tempi abbate di monte Casino Bertario, uomo letterato, che
compose molti trattati e sermoni, siccome ancora alcuni libri di
grammatica e medicina, ed assaissimi versi scritti all'imperadrice
_Angilberga_ e agli amici suoi. Questi pensando ai pericoli in cui per
l'addietro si era trovato il suo monistero per cagione de' Saraceni,
nemici del nome cristiano e troppo amici delle sostanze dei cristiani,
avea prima d'ora fatto cingere di forti mura e torri quel sacro luogo,
ed in oltre cominciata alle radici del monte una città, che oggidì si
appella San Germano. Giovò al monistero in tal congiuntura quella
fortificazione, ma giovogli anche più il senno d'esso abbate; perchè
appena ebbe sentore dell'avvicinamento di quei crudi infedeli, pervenuti
sino a Teano, che mandò a trattar con loro di composizione. Tre mila
scudi d'oro pagò anch'egli, e coloro contenti se n'andarono. Intanto
_Landolfo vescovo_ e signore di Capua[1170], dopo aver cacciato dalla
città i suoi nipoti, figliuoli di _Landone_ già conte, che si
fortificarono in alcune castella, tutto dì andava ordendo nuove cabale,
ingannando ora _Guaiferio principe_ di Salerno, a cui Capua avrebbe
dovuto ubbidire, ed ora _Adelgiso_ principe di Benevento. Tirò poscia in
Capua i suddetti suoi nipoti, affinchè facessero guerra agli altri suoi
nipoti, figliuoli di _Pandone_. Seguì finalmente pace fra essi cugini, e
tutti entrarono in Capua. Ma non mancò all'astuto prelato maniera di
dividerli ed ingannarli, con sostenere a forza di queste arti la sua
signoria anche nel temporale. Intanto spedì papa Niccolò in Lorena e
Francia _Arsenio vescovo_ d'Orta suo legato, che astrinse il re
_Lottario_ a richiamare e a ricevere in sua corte la _regina Teotberga_.
Avea anch'esso vescovo indotta l'imperadrice _Gualdrada_ a venire in
Italia per presentarsi al sommo pontefice; e la medesima promessa avea
riportato da _Engeltruda_, figliuola del _conte Matfrido_ e moglie di
_Bosone_ conte, scomunicata dal papa, perchè fuggita dal marito viveva
in un totale libertinaggio. Ma dietro alla strada si trovò da ambedue
deluso. Gualdrada giunta sino a Pavia[1171], non passò oltre, richiamata
dall'adultero re, che di nuovo cominciò a maltrattare la regina
Teotberga; Engeltruda anch'ella se ne ritornò ai suoi stravizzi in
Francia. Non dormiva intanto la imperadrice _Engilberga_, attendendo ad
impetrar continuamente dei doni dall'Augusto suo consorte. Da un
documento, che io diedi alla luce[1172], apparisce che nell'anno
presente, o pure nell'antecedente, _Gualberto vescovo_ di Modena, messo
dell'imperador Lodovico, la mise in possesso _della corte_ di
_Wardestalla_, oggidì _Guastalla_, città che poi passò sotto la signoria
del monistero di San Sisto di Piacenza, fondato e dotato dalla medesima
Augusta.

NOTE:

[1167] Erchempertus, Hist., cap. 29.

[1168] Chron. Vulturn., P. II, tom. 1 Rer. Italic. pag. 403.

[1169] Leo Ostiensis, lib. 1, cap. 35.

[1170] Erchempertus, Hist., cap. 30.

[1171] Epist. 55 Nicolai I papae.

[1172] Antiquit. Italic., Dissert. XXII, pag. 241.



    Anno di CRISTO DCCCLXVI. Indizione XIV.

    NICCOLÒ papa 9.
    LODOVICO II imp. 18, 17 e 12.


Fin dall'anno 861 aveano i popoli pagani della Bulgaria abbracciato il
Cristianesimo; e al loro re _Bogori_ battezzato, che, assunto il nome di
_Michele_, fedelmente conservava la ricevuta santa religione. Dio diede
forza per superare una terribil congiura dei suoi grandi, che pentiti
d'aver abbandonati gl'idoli, si rivoltarono contra di lui. Ora esso in
quest'anno somma consolazione recò alla sacra corte di Roma per la
spedizione de' suoi ambasciatori a _papa Niccolò_[1173], affin di
ricevere da lui istruzioni intorno ad assaissimi punti della religione e
della Chiesa. Giunti a Roma nel mese di agosto, con tutto amore ed onore
furono accolti dal saggio pontefice, il quale poco appresso inviò in
que' paesi _Paolo vescovo_ di Populonia, e _Formoso vescovo_ di Porto,
acciocchè si studiassero di convertire il resto di quei popoli, ed
ammaestrassero e cresimassero i già convertiti. Notò l'autore degli
Annali di san Bertino[1174] sotto quest'anno che il re de' Bulgari inviò
a san Pietro l'armi stesse che egli portava allorchè trionfò de' suoi
ribelli, colla giunta d'altri non pochi doni. _Hludowicus vero Italiae
imperator hoc audiens, ad Nicolaum papam misit, jubens, ut arma, et
alia, quae rex Bulgarorum sancto Petro miserat, ei dirigeret. De quibus
quidem Nicolaus papa per Arsenium ei consistenti in partibus
beneventanis transmisit, et de quibusdam excusationem mandavit._ Circa
questi medesimi tempi anche nella Moravia si piantò e crebbe la fede di
Cristo, e si dilatò questa luce fino nella Russia; ma non dovettero i
Russi tenerla salda, perchè sul fino del seguente secolo si truova la
lor conversione al Cristianesimo, con riuscire poi stabile sino ai
giorni nostri. Andrea Dandolo[1175], dopo aver narrata la conversione
de' Bulgari per opera di _san Cirillo_ da Salonichi, apostolo de' paesi
sclavi, attesta ch'esso Cirillo convertì alla fede _Sueiopolo re_ della
Dalmazia mediterranea, che abbracciava la Croazia, la Russia e la
Bossina. Abbiamo poco fa inteso che l'_imperador Lodovico_ si tratteneva
nell'anno presente nel ducato di Benevento. Sopra di che è da sapere che
que' popoli ridotti alla disperazione per gl'immensi continui saccheggi
e per le incredibili crudeltà de' Saraceni, altro scampo non veggendo se
non nell'aiuto dell'imperador Lodovico, sì da Benevento[1176] che da
Capoa gli spedirono degli ambasciatori, scongiurandolo di accorrere in
aiuto loro. Niuno ne spedì _Guaiferio principe_ di Salerno, perchè non
era in grazia d'esso Augusto, a cagion della deposizione e prigionia di
_Ademario principe_ da noi veduto di sopra. All'esposizione di tante
miserie patite dai cristiani, si mosse a compassione l'Augusto Lodovico,
e determinò di far guerra, ma non simile a quella degli anni precedenti,
contra di que' cani. A tal fine non so se nel seguente, o pure nel
presente, egli pubblicò quel rigoroso editto che Camillo Pellegrino
diede alla luce[1177]. In esso vien intimata a tutto il popolo del regno
d'Italia la spedizion militare verso Benevento, correndo l'_indizione
XV_, che denota l'anno susseguente. _Iter erit nostrum_ (dice ivi
l'imperadore) _per Ravennam, et immediate mense martii in Piscariam, et
omnis exercitus italicus nobiscum. Tuscani autem cum popolo, qui de
ultra veniunt, per Romam veniant ad Pontem Curvum, inde Capuam, et per
Beneventum descendant nobis obviam Luceria VIII kalendas aprilis._
Queste ultime parole sembrano accordarsi poco colle prime. Ma se è vero
che l'imperadore avea da muoversi nel marzo alla volta di Ravenna, per
andare a Pescara nel ducato beneventano, convien supporre emanato
quell'editto prima del marzo di quest'anno, giacchè è fuor di dubbio che
nel giugno dell'anno presente egli era già pervenuto coll'armata a Monte
Casino. E se fosse così, in vece di _indictione quinta decima_, si
avrebbe a scrivere _quarta decima_. Ma ritenendo l'_Indictione XV_,
l'intimazione apparterrà all'anno seguente, e si dovrà credere, che
accortosi Lodovico nell'anno presente che non bastavano le ordinarie sue
forze a schiantare quella mala razza, intimasse nel seguente
l'insurrezione dell'Italia tutta per ultimare sì importante affare. Ho
detto rigoroso quell'editto, perchè chiunque possedeva tanti mobili da
poter pagare la pena pecuniaria d'un omicidio, era tenuto ad andare
all'armata. I poveri, purchè avessero dieci soldi d'oro di valsente,
doveano far le guardie alle lor patrie e ai lidi del mare. Chi meno di
dieci soldi, era esentato. Se uno avea molti figliuoli, a riserva del
più utile che potea restar col padre, gli altri tutti aveano a marciare.
Due fratelli indivisi, amendue andavano. Se tre, il più utile si
lasciava a casa. I conti e gastaldi non potevano esentare alcuno,
eccettochè uno per lor servigio, e due per le lor mogli. Se più ne
avessero esentati, la pena era di perdere le lor dignità. E se gli
abbati e le badesse non avessero inviati all'armata tutti i lor
vassalli, restavano privi della lor dignità, e que' vassalli perdevano
il feudo e gli allodiali. Tralascio il resto. Son quivi destinati i
conti e ministri per l'esecuzione di quest'ordine. Fra gli altri _in
ministerio Witonis Rimmo et Johannes episcopus de Forcona_. Questo
governo di Guido altro non può essere che _Spoleti_. _In ministerio
Verengari Hiselmundus episcopus. Il governo di Berengario_ non dovrebbe
essere stato il Friuli, perciocchè vivea tuttavia _Eberardo_ suo padre
duca di quella contrada. Abbiamo da Andrea prete[1178], scrittore
italiano di questo secolo, che ad esso Eberardo duca o marchese del
Friuli, di cui parleremo all'anno seguente, succedette _Unroco_ suo
figliuolo. Dopo la morte d'_Unroco_ quivi comandò _Berengario_,
anch'esso figliuolo d'Eberardo, che poi giunse ad essere re d'Italia, ed
anche imperadore. Pare almeno che dalle parole suddette si possa
ricavare che Berengario signoreggiasse in qualche marca. Di questo
editto fa menzione anche Leone Ostiense[1179].

Ora l'imperador Lodovico con una formidabil armata, conducendo anche
seco l'Augusta sua moglie _Angilberga_, per Sora entrò nel ducato di
Benevento, e correndo il mese di giugno, arrivò al monistero di Monte
Casino, dove fu magnificamente ricevuto dall'abbate Bertario, al quale
confermò i privilegii di quel sacro luogo[1180]. Colà fu a trovarlo
_Landolfo vescovo_ e signore di Capoa, che gli presentò le truppe del
suo paese, ma col giuoco altravolta fatto, cioè con farle disertar tutte
a poco a poco. Restò egli solo presso di Lodovico, quasichè niuna parte
avesse nella fuga de' suoi. Ma l'imperadore sdegnato, ed assai
conoscente che avea che fare con gente doppia, pensò ch'era meglio
d'assicurarsi dei dubbiosi amici, prima di procedere contra de' patenti
nemici. Però, senza badare alle scuse e ai lamenti del malvagio vescovo,
passò ad assediar Capoa. Vi stette sotto ben tre mesi; soggiorno che
costò ai Capuani la distruzione di tutti i loro contorni. E perciocchè
non volle mai l'imperadore riceverli a patti, finalmente s'arrenderono a
_Lamberto conte_, cioè al duca di Spoleti, uno dei generali
dell'imperadore, che li trattò alla peggio da lì innanzi. Da ciò si
conosce che _Guido_ duca di Spoleti era morto, con succedergli
_Lamberto_ suo figliuolo, come apparirà all'anno seguente. Per attestato
dell'Anonimo salernitano[1181], _Guaiferio_ principe di Salerno venne
fino a Sarno ad incontrare l'Augusto Lodovico, il quale tosto gli fece
istanza d'aver nelle mani il deposto principe _Ademario_ da lui amato.
Gli rispose Guaiferio: _Che volete farne, signore, s'egli è già privo di
luce?_ E tosto segretamente inviò ordine a Salerno che gli cavassero gli
occhi. Portossi dipoi l'imperadore a Salerno, e vi fu ricevuto come
sovrano: e di là passò ad Amalfi e a Pozzuolo, dove prese quei bagni, e
sul finire dell'anno arrivò a Benevento, dove _Adelgiso_ principe gli
fece un suntuoso accoglimento. Nella Cronica di Volturno v'ha un diploma
di questo imperadore, dato _III idus junii anno, Christo propitio, XVII
imperii Domini Hludovici piissimi Augusti, indictione XIV, et postquam
cepit Capuam anno primo_. L'indizione XIV mostra l'anno presente. Ma nel
giugno dell'anno presente Capua non era peranche stata presa da lui, nè
correa l'anno XVII dell'imperio, dedotto dalla coronazione romana. Però
può credersi che in vece dell'_indictione XIV_, s'abbia quivi a scrivere
_indictione XV_, cioè nell'anno susseguente. Nel presente, se pur
sussistono le conghietture del padre Mabillone[1182], lo stesso Augusto,
desideroso di lasciare un'insigne memoria della sua pietà, ordinò che si
fabbricasse da' fondamenti l'insigne basilica e monistero di Casauria
nell'Abruzzo, in un'isola del fiume Pescara, oggidì nella diocesi di
Chieti. Aveva egli molto prima adocchiato quel sito, posto allora nel
ducato di Spoleti, siccome proprio per abitazione di monaci, cercanti in
que' tempi più le solitudini che gli strepiti delle città; e dopo aver
fatto acquisto di assai beni destinati al sostentamento de' servi di
Dio, essendo capitato colà in occasion della sua spedizion verso
Benevento, fece dar principio alla fabbrica di quel monistero. Lo crede
esso padre Mabillone appellato _Casa aurea_ o per la suntuosità e
ricchezza degli edifizii, o pure per la copia ed ampiezza de' suoi beni.
Ma forse anche prima del monistero e della basilica si nominava
_Casauria_ quel luogo. Da un documento da me dato alla luce[1183],
spettante all'anno 871, si vede un acquisto di beni fatto da esso
imperador Lodovico _in loco, qui dicitur Casauria, pago pinnensi_. In un
altro dell'anno seguente è nominata _Ecclesia Trinitatis, quae sita est
in insula prope Piscariae fluvium, quae dicitur Casauria, monasterium
aedificatum esse debet_. In un altro è menzionata insula, _quae vocatur
Casaurea_. Però sembra che l'isola ossia il luogo desse il nome a quel
monistero, e non giù che lo ricevesse. Tengo inoltre che solamente
nell'anno 871 si fondasse quel monistero, siccome vedremo. Oggidì è esso
ridotto in somma desolazione; ed è da stupire come le belle porte di
bronzo della basilica tuttavia sussistenti abbiano potuto durar tanto
contro la forza dei prepotenti, de' soldati e de' ladri.

NOTE:

[1173] Respons. Nicolai papae ad Consult. Bulg.

[1174] Annal. Francor. Bertiniani.

[1175] Dandul., in Chronico, tom. 12 Rer. Italic.

[1176] Erchempertus, Hist., cap. 32. Leo Ostiensis, lib. 1, cap. 36.

[1177] Peregrinus, Hist. Princip. Langobard., P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[1178] Andreas Presbyter, tom. 1 Rer. Germ. Menchenii.

[1179] Leo Ostiensis, Chron., lib. 1, cap. 36.

[1180] Erchempertus, Hist., cap. 52.

[1181] Anonym. Salernit., Paralip., cap. 90. P. II, tom. 2 Rer. Italic.

[1182] Mabill., in Annal. Benedict., lib. 36, cap. 59.

[1183] Cron. Casauriens., P. II. tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCLXVII. Indiz. XV.

    ADRIANO II papa 1.
    LODOVICO II imp. 19, 18 e 13.


_Michele_ imperador de' Greci, che avea dei gran conti a fare a
Domeneddio, per aver accesa la guerra nella sua chiesa colla ingiusta
deposizione di _santo Ignazio_ patriarca di Costantinopoli, e
coll'intrusione di _Fozio_, ebbe in questo anno il suo pagamento. Aveva
egli nel precedente fatto levar di vita _Barda Cesare_, e per ricompensa
creato suo collega nell'imperio ed Augusto l'uccisor di esso Barda,
_Basilio_, Macedone, uomo di bassa nascita, ma provveduto di molte
virtù, e più di fortuna. Ossia che Basilio avesse sicure testimonianze
che si macchinava contro della sua vita, o che venisse il timor di
cadere dall'ubbriachezza, vizio familiare d'esso Michele: la verità si
è, che Michele fu ucciso dalle guardie nel dì 24 di settembre dell'anno
presente, e Basilio restò solo sul trono. Era questo novello Augusto
uomo sommamente cattolico, e tale non tardò a farsi conoscere con
cacciare dalla sedia patriarcale di Costantinopoli Fozio, e rimettervi
sant'Ignazio; risoluzione che recò immenso giubilo alla Chiesa di Dio.
In questo medesimo anno, nel dì 13 di settembre passò a miglior vita
_papa Niccolò I_, e in lui la santa sede venne a perdere uno de' più
dotti e zelanti pontefici che da gran tempo ella avesse avuto[1184].
Raunatisi poscia i vescovi, il clero, i nobili e il popolo romano, per
passare all'elezion del successore, cadde questa nella persona
d'_Adriano II_, prete cardinale del titolo di san Marco, che tosto fu
portato al palazzo lateranense fra gli applausi sonori di tutta la
città, ma non giù de' messi dell'imperadore, i quali per avventura si
trovarono allora in Roma. S'ebbero questi a male di non essere stati
invitati all'elezione: non già che loro dispiacesse il buon papa eletto,
ma perchè parea che la loro esclusione ridondasse in poco rispetto
all'Augusto, di cui teneano le veci. Ma si quetarono all'intendere che
s'era ciò fatto non in dispregio dell'imperadore, ma per non introdurre
il costume di dover aspettare i ministri imperiali all'elezione de'
papi, la quale non ammetteva dilazione. In fatti quest'obbligo non
v'era, nè si trovava praticato in addietro. Erano tenuti solamente i
Romani ad aspettar l'approvazione imperiale dell'eletto: il che appunto
anche in quest'occasione si eseguì. Lodò l'Augusto Lodovico con sue
lettere l'elezion fatta e l'eletto; e certificato che non v'era
intervenuta promessa alcuna di danaro, diede ben volentieri l'assenso
per la consecrazione del nuovo pontefice. Confessa Guglielmo
bibliotecario che soleano succedere dei disordini nelle sedi vacanti
d'allora, e prevalendo le fazioni, venivano cacciati in esilio non pochi
ecclesiastici. Tutti sotto questo amorevolissimo papa se ne ritornarono
liberi a Roma. Accadde nulladimeno in questa vacanza una calamità
insolita. _Lamberto figliuolo di Guido, duca di Spoleti_ (così è
nominato da esso Guglielmo), tirannicamente entrò in Roma, senza
penetrarsi qual pretesto egli usasse; e come se avesse trovata quella
città ribelle all'imperadore, permise che fosse messa a sacco dai suoi
sgherri. Non perdonò a monistero, nè a chiesa alcuna; e senza farne
risentimento alcuno, lasciò che la sua gente rapisse non poche nobili
fanciulle, sì entro che fuori di Roma. Furono perciò portate
all'imperador Lodovico le doglianze de' Romani per tante iniquità, di
maniera che tutti i Franzesi sparlavano di _Lamberto_, benchè fosse
anch'egli di quella nazione; e non finì la faccenda che l'imperadore
gastigò questo nemico della santa sede con levargli il ducato, ma non
così tosto; siccome vedremo. Allorchè esso bibliotecario scrive che
Lamberto _apud Augustos piissimos Romanorum querimoniis praegravatus
fuit_, altro non si può intendere, se non che i Romani fecero ricorso a
_Lodovico_ solo imperadore in questi tempi, e all'Augusta _Angilberga_
sua consorte. Trovavansi allora esiliati dall'imperadore medesimo
_Gaudenzio vescovo_ di Veletri, _Stefano vescovo_ di Nepi, e Giovanni
soprannominato Simonide, per false imputazioni loro date alla corte
imperiale. In loro favore scrisse caldamente il pontefice, ed impetrò
non solo ad essi la libertà, ma anche a molti altri Romani, che come
_rei di lesa maestà_ esso Lodovico Augusto avea fatto carcerare.
Sparsesi poi un'ingiuriosa ciarla contra di questo buon papa, quasichè
egli avesse intenzion di cassare ed abolire tutti gli atti di papa
Niccolò suo predecessore, come fatti con zelo troppo indiscreto. Ma
Adriano informato di questa calunnia, con tanta umiltà e destrezza la
superò, che restò ognuno convinto della di lui retta intenzione di non
discostarsi punto dalle massime dell'antecessore. Giunsero poi a Roma i
legati del nuovo imperador cattolico _Basilio_ e del patriarca
_sant'Ignazio_; e il papa mandò anch'egli a Costantinopoli i suoi:
intorno a che è da vedere la storia ecclesiastica.

Venuta la primavera, l'imperador Lodovico[1185], ammassato in Lucera
ossia Nocera, città della Puglia, tutto l'esercito suo, si mosse contra
de' Saraceni, con disegno di assediar Bari, capitale delle loro
conquiste. Ma sì Erchemperto che Leone Ostiense[1186] ci assicurano, che
venuto l'esercito imperiale ad una giornata campale col sultano di
quegl'infedeli, restò disfatta, e perì in quel conflitto non poca parte
de' guerrieri cristiani. Quando l'editto citato all'anno precedente
appartenga pure al presente, se ne intende la cagione. Giacchè alla
brama di snidar da Bari e dalla Calabria gli occupatori Mori, che
tuttavia durava nell'imperadore, si aggiunse lo stimolo di risarcir
l'onore che avea patito non poco in quella battaglia, pare che nulla di
più per quest'anno operasse il medesimo Augusto, e che si trattenesse in
Benevento, aspettando miglior fortuna con un'armata di maggior polso. Nè
si vuol ommettere ciò che gli Annali metensi[1187] riferiscono all'anno
presente. Cioè, che l'imperador Lodovico, risoluto di sterminare dal
ducato di Benevento la pessima generazione de' Saraceni, che tanti
affanni recava a quelle contrade, temendo che le forze del regno non
bastassero all'intento suo, perchè possente era anche l'armata di que'
Barbari, spedì ambasciatori a Lottario suo fratello re della Lorena, per
pregarlo di un gagliardo rinforzo in questo bisogno della Cristianità.
_Lottario_ senza perdere tempo raunò un buon esercito, e colla maggior
fretta possibile venne in soccorso del fratello, con essere poi seguite
non poche prodezze da parte dei Cristiani. Ma non apparisce altronde che
Lottario in persona venisse a Benevento. E quegli Annali hanno l'ossa
slogate, mettendo fuori di sito le azioni di questi tempi. L'aiuto
suddetto prestato da Lottario all'Augusto Lodovico dee appartenere
all'anno precedente, essendo certo che la morte di papa Niccolò, quivi
riferita dopo il racconto suddetto all'anno 868, appartiene al presente.
A quest'anno pare che s'abbia da riferire il testamento fatto da
_Eberardo duca_ del Friuli indubitatamente, quantunque egli s'intitoli
solamente _conte_, e da _Gisla_ sua moglie figliuola di _Lodovico Pio_
imperadore, fatto _in comitatu Tarvisiano in corte nostra Musiestro,
imperante Ludovico Augusto domno anno regni ejus, Christo propitio,
vicesimo quinto_. Auberto Mireo[1188], che diedelo alla luce, lo
credette scritto nell'anno 837. Ma quivi si parla non già di Lodovico
Pio, bensì di Lodovico II imperadore, e dell'epoca del suo regno, il cui
anno XXV cade nel presente anno. In esso testamento egli divide i suoi
beni ad _Unroco_ suo primogenito, a _Berengario_ e a due altri suoi
figliuoli. Probabilmente egli diede fine alla sua vita in quest'anno, ed
è certo che succedette a lui nel governo del Friuli il suddetto
_Unroco_, per attestato di Andrea prete[1189], scrittore di questo
secolo. Mancato poi di vita Unroco, non so in qual anno, fu duca o
marchese di quella contrada _Berengario_ suo fratello, di cui ci sarà
molto da parlare.

NOTE:

[1184] Anastas. seu Guillelmus Bibliothec., in Vit. Hadriani II.

[1185] Erchempertus, Hist., cap. 33.

[1186] Leo Ostiensis, Chron., lib. 1, cap. 36.

[1187] Annal. Franc. Metenses.

[1188] Miraeus, Cod. Donat., cap. 15.

[1189] Andreas Presbyter, in Chron., tom. 1 Rer. Germ. Menchenii.



    Anno di CRISTO DCCCLXVIII. Indizione I.

    ADRIANO II papa 2.
    LODOVICO II imp. 20, 19 e 14.


Un riguardevol concilio fu nel presente anno tenuto da _papa Adriano_ in
Roma, in cui venne lodato e confermato lo ristabilimento di
_sant'Ignazio_ nella sedia patriarcale di Costantinopoli, ed abolito il
conciliabolo e tutti gli atti di _Fozio_ pseudo-patriarca. Abbiamo dagli
Annali di san Bertino[1190] un orrido accidente occorso in questi tempi
al medesimo papa. Aveva egli, siccome pontefice di tutta benignità, sul
principio del suo pontificato rimesso in grazia della santa sede
quell'_Anastasio_ parroco, ossia cardinale di san Marcello, che vedemmo
di sopra all'anno 853 condannato nel concilio romano da papa _Leone IV_,
e gli aveva restituita la carica di bibliotecario della santa Chiesa
romana. Qual gratitudine o ricompensa riportasse il buon papa da questo
Anastasio, uomo bensì delle prime e più nobili casate di Roma, ma anche
superiore a tutti nelle iniquità si vide ben presto. Era tuttavia in
vita Stefania, già moglie di Adriano, prima che egli abbracciasse col
celibato la vita ecclesiastica, e restava di loro una fanciulla nubile,
già promessa e legata con gli sponsali ad un nobile. Sul principio della
quaresima Eleuterio, fratello del suddetto Anastasio, sollevò con
ingannevoli modi quella donzella, e rapitala, seco contrasse il
matrimonio con sommo sdegno e rammarico del pontefice suo padre.
Probabilmente ebbe Adriano maniera di fargli levar la figliuola: il che
mosse a tal rabbia l'inferocito Eleuterio, che entrato nella casa, dove
essa dimorava colla madre Stefania, amendue più che barbaramente le
scannò ed uccise; ma gli uffiziali della giustizia gli misero le mani
addosso, di modo che non potè fuggire. Arsenio, padre di lui e del
suddetto Anastasio, molto prima era ito a Benevento per procacciarsi il
favore dell'_imperador Lodovico_, e spezialmente la protezion
dell'_imperadrice Angilberga_, alla quale, perchè era donna innamorata
più dell'oro che della giustizia, consegnò il suo tesoro. Ma
sopraggiuntagli un'infermità che il portò all'altro mondo, andò per
terra ogni suo negoziato. Ora il pontefice Adriano fece tanto che
ottenne dall'imperadore dei messi ossia dei giudici straordinarii,
perchè fosse fatto processo e giustizia secondo le leggi romane contra
del suddetto Eleuterio. _Hadrianus papa apud imperatorem missos
obtinuit, qui praefatum Eleutherium secundum legem romanam judicarent_:
il che, dice il padre Pagi[1191], fa intendere il supremo dominio
dell'imperadore in Roma, e sembra autenticare ciò che lasciò scritto
Eutropio longobardo[1192], creduto scrittore del secolo susseguente, ma
di poco peso, con dire che sotto gl'imperadori franchi _inventum est, ut
omnes majores Romae essent imperiales homines_. In fatti fu processato
Eleuterio, _et a missis imperatoris occisus_. Anastasio cardinale,
perchè v'erano indizii che avesse esortato il fratello a quegli
omicidii, nel concilio romano tenuto _anno pontificatus domni Hadriani
summi pontificis et universalis papae I, per IV idus octobris Indictione
II_ (cominciata nel settembre di quest'anno) fu solennemente
scomunicato, finchè comparisse a rendere conto de' reati, de' quali era
inquisito. Scrisse in questo anno esso pontefice a _Lodovico re di
Germania_ una lettera[1193] _pridie idus februarias, Indictione I_, in
cui parla con gran lode dell'imperador Lodovico, nipote di lui, perchè
senza risparmiar fatica, nè caldo nè gelo, combatteva contro ai nemici
del nome cristiano, e colle sue armi gli avea non poco abbassati, e
restituita la pace ai paesi circonvicini. Però gli raccomandava di
lasciare in pace i regni non solo d'esso Augusto, ma anche del re
Lottario suo fratello, con aggiugnere delle minacce in caso di
disubbidienza. Un'altra simile lettera fu scritta dal papa al re _Carlo
Calvo_ colla stessa premura per l'indennità degli stati di Lodovico
Augusto e di suo fratello. Non è a noi pervenuto un esatto conto delle
imprese fatte in quest'anno dallo stesso imperadore. Tuttavia pare che
non si abbia a dubitare ch'egli intraprendesse lo assedio oppure il
blocco di Bari[1194] dove era il forte de' Saraceni. Diede il guasto a
tutti i loro seminati; poscia passato a Matera, città ben fortificata da
que' Barbari, la forzò a rendersi, e col fuoco la ridusse in un mucchio
di pietre. Prese dipoi Venosa, e tanto ivi quanto in Canosa pose una
forte guarnigione che assicurò dalle scorrerie saraceniche la parte
occidentale del ducato di Benevento, e servì a maggiormente ristringere
la città di Bari. Arrivò anche l'armata sua fino alla città d'Oria verso
Oriente, ma senza sapersi se ne impadronisse, nè se la tenesse. Dopo di
che se ne tornò a stanziare in Benevento con sua gran lode e plauso di
tutti i fedeli.

NOTE:

[1190] Annales Francor. Bertiniani.

[1191] Pagius, ad Annal. Baron.

[1192] Eutrop. Presb. Langobardus, de Imp. Rom.

[1193] Labbe, Concilior., tom. 8.

[1194] Erchempertus, Hist., cap. 33. Leo Ostiensis, lib. 1, cap. 36.



    Anno di CRISTO DCCCLXIX. Indizione II.

    ADRIANO II papa 3.
    LODOVICO II imp. 21, 20 e 15.


Celebre riuscì quest'anno a cagione del concilio generale[1195]
celebrato in Costantinopoli per cura del sommo pontefice _Adriano_ e di
_Basilio_ cattolico imperadore d'Oriente. Presidenti del medesimo furono
_Donato vescovo_ d'Ostia, _Stefano vescovo_ di Nepi e _Mariano diacono_,
legati della sede apostolica, e _Ignazio patriarca_ di Costantinopoli.
Vi si trattò dell'intrusione di _Fozio_ e di tutti i suoi aderenti, con
altri punti, intorno ai quali si possono consultar gli atti e la storia
ecclesiastica del cardinal Baronio, il quale è da stupire, come si
lasciasse trasportar cotanto a maltrattar la memoria dell'imperador
Basilio, benemerito in questi tempi della santa sede e di tutta la
Chiesa cattolica. Da Guglielmo poscia bibliotecario[1196], e dalla
prefazione di Anastasio, allora bibliotecario della romana Chiesa al
suddetto concilio, si raccoglie che in questi medesimi tempi fu spedito
alla corte dell'imperador greco da Lodovico, imperador d'Occidente,
_Suppone_, ch'era in questi tempi _arciministro_ della sua corte, e fu
dipoi duca di Spoleti, con un altro legato, menando seco il suddetto
Anastasio, credo per interprete, siccome persona intendente della lingua
greca. Il motivo di tale ambasciata era di trattare di un matrimonio tra
_Costantino_ figliuolo dell'imperador Basilio, anch'esso creato Augusto
e collega nell'imperio, ed una figliuola dell'imperador Lodovico.
All'anno 851 io feci menzione di un'_Ermengarda_ regina, la quale
nell'anno 850, come costa dai documenti da me pubblicati[1197] nelle
giunte alla Cronica del monastero Casauriense, fece acquisto d'alcuni
stabili. Potrebbe ella aver avuto per padre il suddetto imperador
Lodovico; ma non pare ch'ella possa essere la stessa, delle cui nozze si
trattava in quest'anno alla corte di Costantinopoli. Lascerò io
volentieri una tal quistione alla decisione altrui. Parlano del suddetto
trattato nuziale anche gli Annali di san Bertino[1198], con dire che
Basilio imperadore _Patricium suum ad Bairam_ (cioè a Bari) _cum CCCC
navibus miserat, ut et Ludoico contra Saracenos ferret suffragium, et
filiam ipsius Ludoici a se desponsatam_ (non per lui, ma pel figliuolo
Costantino, chiaramente attestandolo Anastasio) _de eodem Ludoico
susciperet, et illi in conjugio sibi copulandam duceret. Sed quadam
occasione interveniente displicuit Ludoico dare filiam suam Patricio._ A
questo racconto si può aggiugnere quello dell'Anonimo salernitano[1199],
il quale scrive che fu bene scongiurato l'imperador Lodovico dai
principi di Benevento e di Salerno per l'esterminio dei Saraceni; ma
ch'egli tardò di molto a muoversi. La spinta maggiore a lui data fu da
Basilio imperador de' Greci, il quale scorgendo l'impossibilità di levar
colle sue forze sole dalle mani de' Saraceni la Calabria e la Puglia,
spedì ambasciatori e molti regali all'Augusto Lodovico per invitarlo a
questa impresa. Allora si mosse Lodovico con tutto l'esercito, ed
arrivato a Roma, fece de' ricchi donativi alla basilica di san Pietro, e
fu in tal occasione unto e coronato imperadore dal papa: dopo di che
marciò alla volta della Campania. Ma questa coronazione non sembra
sussistere, oppure indica quella di cui parleremo all'anno 872. Si
potrebbe anche dubitare se Basilio spronasse l'imperadore Lodovico alla
spedizion contra de' Saraceni nell'anno 866, perchè anche nell'anno 867
Michele Augusto era vivo e comandava, e da lui avrebbe dovuto venire
l'ambasceria. Abbiam nondimeno detto, che vivente ancora Michele, e
nell'anno 866, Basilio fu assunto al trono e dichiarato collega
nell'imperio. Ora quello che si può tenere per certo si è, che Lodovico
Augusto o trattò alla corte cesarea d'Oriente affin di ottenere soccorsi
per mare contra de' Saraceni; oppure, che saputo dai Greci lo sforzo con
cui egli era venuto contra di quegl'infedeli, Basilio già salito sul
trono, mandatigli que' legati, mettesse in campo il matrimonio del
figliuolo, e facesse una convenzione di concorrere anch'egli con
un'armata navale alla lor distruzione. Soggiungono poi gli Annali
bertiniani, che sdegnato il general greco, perchè non gli fosse stata
consegnata la principessa da condurre a Costantinopoli, colle sue navi
se ne tornò a Corinto.

Accostandosi poi il verno, l'Augusto Lodovico, nel ritirarsi
dall'assedio di Bari, fu assalito alla coda dai Saraceni, che gli
tolsero più di due mila cavalli, e con questi andarono alla Chiesa di
san Michele nel monte Gargano, e le diedero il sacco, con far anche
prigioni que' cherici, e molti altri iti colà per lor divozione. Un
avvenimento sì infelice turbò non poco l'imperadore, il papa e i Romani.
Aggiungono ancora, che avendo l'_arcivescovo d'Arles Rolando_ ottenuta
da esso imperadore, allora padrone della Provenza, e da Angilberga
Augusta sua moglie, _non vacua manu_, la badia di san Cesario, s'era
portato all'isola di Camargue, allora ricchissima, dove quel monistero
possedeva dei gran beni, e vi aveva in pochi dì alzata una spezie di
fortezza con della sola terra. Ma eccoti giugnere i Mori, non so se
dell'Africa, o della Spagna. In quella miserabil fortezza rifugiò lo
sconsigliato arcivescovo, ed ivi fu colto da que' Barbari, che misero a
fil di spada trecento dei di lui domestici o sudditi, e lui condussero
ben legato in una lor nave. Pel suo riscatto fu convenuto di dar loro
cento cinquanta libbre d'argento, altrettanti mantelli, altrettante
spade ed altrettanti schiavi. Mentre di ciò si trattava, l'arcivescovo
accorato si morì. Ciò veduto, i Saraceni furbi, per non perdere il
riscatto, affrettarono il cambio, fingendo gran fretta di partirsi.
Ebbero quanto era stato accordato; e messo in una sedia legato il
cadavere del prelato defunto, vestito con gli abiti sacerdotali, co'
quali era stato preso, lo portarono essi a terra, e depostolo con gran
riverenza, se ne tornarono alle lor navi. Allora quei che aveano portato
il riscatto, si accostarono per parlare all'arcivescovo, e rallegrarsi
con lui, e il trovarono senza parola e senza vita. Altro non restò che
di portarlo con urli e pianti al sepolcro ch'egli si avea preparato
molto prima. Un altro accidente, anche più strepitoso, accadde in
quest'anno in Italia. Lo raccontano varii scrittori[1200], e
spezialmente i suddetti Annali bertiniani, più copiosi degli altri.
Sotto il presente anno, e non già nel precedente, _Lottario re_ della
Lorena, sempre, per così dire, ammaliato da Gualdrada, e bramoso di
liberarsi dalla regina _Teotberga_ e dalle censure, figurandosi di poter
ammollire l'animo del sommo pontefice a forza di regali, e col venir
egli in persona in Italia, aggiuntavi ancora l'intercessione
dell'_imperador Lodovico_ suo fratello, si mosse nel mese di giugno, ed
arrivò fino a Ravenna. Quivi s'incontrò nei messi speditigli dallo
stesso imperadore per fargli sapere che se ne tornasse indietro, e
rimettesse a tempo più opportuno quel suo biasimevol affare, stante il
trovarsi troppo impegnato esso Augusto nell'assedio di Bari, _cui
amplius quam ducentas naves rex Graecorum in auxilium contra eosdem
Saracenos festinato mittebat_: Non istette per questo Lottario, troppo
cotto dall'amor della druda. Andò a trovar l'Augusto fratello che era in
campo sotto Bari, e tante batterie di preghiere e di doni adoperò, che
indusse l'imperadrice _Angilberga_ ad ottenere dall'Augusto marito
ch'ella stessa seco venisse a Monte Casino, per far quivi un
abboccamento col papa. Colà infatti, per interposizione dell'imperadore,
si portò _papa Adriano_. Gli fece molti presenti Lottario, ma senza
muoverlo per questo ad alcun atto sconvenevole alla disciplina
cristiana. Impetrò bensì, per le istanze dell'imperadrice, che il papa
gli desse nella messa solennemente cantata la sacra Comunione, ma con
interrogarlo prima s'egli avea puntualmente eseguito quanto gli era
stato prescritto da papa Niccolò suo antecessore, coll'essersi astenuta,
e promettere d'astenersi in avvenire da ogni commerzio carnale
coll'impudica Gualdrada: il che fu giurato e promesso da lui e dai suoi
cortigiani, che pur sapeano tutti di spergiurare. Tornò il pontefice a
Roma: colà ancora si portò Lottario, ma senza ricevere incontro alcuno;
e senza che alcuno de' chierici gli facesse accoglienza veruna, visitò
il sepolcro di san Pietro. Non potè impetrare che il papa gli cantasse
la messa. Solamente nel lunedì desinò con lui nel palazzo lateranense, e
fu regalato di una _lena_ (forse una sorte di veste), di una _palma_
benedetta e di una _ferula_, ossia baston pastorale. Ciò bastò per far
tutto ringalluzzire lo sconsigliato principe; ed intanto il papa
determinò di mandare in Lorena _Formoso vescovo_ di Porto, e un altro
vescovo, per informarsi meglio degli andamenti passati d'esso re
Lottario, affin di procedere secondo la giustizia. Partitosi da Roma il
re arrivò a Lucca, dove fu sorpreso dalla febbre egli con tutti i suoi.
Ne cominciò a morire oggi uno, e più altri ne' dì seguenti; e Lottario
senza profittare di avvisi sì chiari a lui mandati da Dio, malato come
era, passò fino a Piacenza, dove nel dì 10 di agosto infelicemente diede
fine alle sue follie e alla sua vita. Fu seppellito il corpo suo dai
pochi domestici a lui restati ignobilmente sotterra nel monistero, o,
per dir meglio, nella chiesa di santo Antonino, posta allora fuori della
città. Con giusto fondamento fu creduto da tutta la Cristianità un
potente gastigo dell'ira di Dio.

Senza far caso la pia regina _Teotberga_ dei tanti strapazzi a lei fatti
dal real consorte fece dono di molti poderi ai sacerdoti dalla chiesa
suddetta di sant'Antonino, acciocchè da lì innanzi facessero
l'anniversario, e pregassero Dio per l'anima di lui, siccome costa da
una lettera di Carlo Grasso imperadore, rapportata dal Campi[1201].
Ritirossi poi questa regina a Metz, dove nel monistero di santa
Glodosinde professò vita monastica, e vi morì badessa, per quanto si
ricava da Giovanni abbate nella vita d'essa santa Glodosinde. Il Muzio,
il padre Celestino ed altri autori bergamaschi han fatta di questa
regina Teotberga una beata, con formarne una leggenda secondo la libertà
de' secoli andati, da cui apparisce che la medesima fondò a _Pontita_
nel territorio di Bergamo un monistero, dove santamente compiè la sua
carriera. Con quali fondamenti e da quali antichi autori sia sostenuto
un tal racconto, io nol so. Ben so che merita maggior fede l'asserzione
del suddetto Giovanni abbate, che fiorì nel secolo decimo. Non così
tosto arrivò in Francia la nuova che era morto il suddetto Lottario
senza lasciar dopo di sè figliuoli legittimi, che il re _Carlo Calvo_ si
affrettò a prendere il possesso del regno di lui. E gli riuscì di
farsene coronare re nella città di Metz. Era allora infermo _Lodovico_
re della Germania suo fratello. Dacchè si fu egli alquanto riavuto,
mandò a far istanza per aver la sua parte di quegli stati. E intanto
l'_imperador Lodovico_, intento alla difesa e al vantaggio della
Cristianità, lontanissimo dalla Lorena, stava combattendo coi Maomettani
Mori verso Bari, e tardò poco a sapere, dopo l'avviso della morte del
fratello, l'altro ancora della occupazione del di lui regno. Ricorse a
papa Adriano; e questi immediatamente spedì in Lorena e in Francia due
vescovi suoi legati, cioè _Pietro_ e _Leone_, con lettere ai vescovi e
baroni di Francia, ordinando in esse che niuno osasse d'invadere,
turbare, o tentar di occupare il regno del fu re Lottario, siccome cosa
dovuta per diritto ereditario all'imperador Lodovico di lui fratello,
intimando la scomunica a chi contravvenisse, ed altre pene ai vescovi
consenzienti, o non resistenti a tale occupazione. Con questi legati
anche Lodovico Augusto spedì _Boderado_, uno dei suoi principali
ministri, per dire le sue ragioni, protestare e fare altri simili atti.
Chiari erano i diritti dell'imperadore sopra quegli stati; meritava ben
d'essere rispettata anche la sempre veneranda autorità del sommo
pontefice, e massimamente proteggendo egli una causa palesemente giusta.
Ma è gran tempo che la voglia e la comodità di occupare gli stati altrui
sa andare di sopra alla religione, alla parentela e a tutti i dettami
della giustizia. Carlo Calvo nulla si curò dei passi fatti dal papa e
dal nipote Augusto, nulla dello sparlare che tanti e tanti dovevano fare
di lui, perchè si prevalse della sua potenza contro di un nipote che non
si potea difendere, perchè impegnato contra i nemici del nome cristiano;
anzi salì in tal superbia, che, secondo gli Annali di Fulda[1202],
dichiarò che, da lì innanzi voleva essere chiamato imperadore ed
Augusto, perchè era possessor di due regni.

NOTE:

[1195] Labbe, Concilior., tom. 8.

[1196] Guillelmus Bibliothec., in Vit. Hadrian. II.

[1197] Chron. Casauriens., Part. II, tom. 2 Ital.

[1198] Annales Franc. Bertiniani.

[1199] Anonym. Salern., Paralip., cap. 8, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1200] Lambertus Schafnaburgens. Annales Francor. Bertiniani. Annales
Franc. Hildesheim.

[1201] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1, pag. 448.

[1202] Annales Francor. Fuldenses.



    Anno di CRISTO DCCCLXX. Indizione III.

    ADRIANO II papa 4.
    LODOVICO II imp. 22, 21 e 16.


Se nulla giovarono all'_imperador Lodovico_ le sue ragioni e querele,
benchè sì giuste, e benchè avvalorate da quelle del sommo pontefice, per
succedere nell'eredità del re Lottario suo fratello; e se se ne fece
beffe il re _Carlo Calvo_ suo zio, perchè non temeva di lui, troppo
lontano ed intricato nella guerra coi Saraceni[1203], ebbero ben polso
quelle di _Lodovico re_ della Germania, fratello del medesimo re Carlo.
Coi medesimi pretesi diritti che a sè attribuiva Carlo, anche Lodovico
pretendeva la sua porzione del regno di Lottario, e alle sue pretensioni
unì ancora l'intimazion della guerra, se il re Carlo non s'induceva ad
un'amichevol concordia. E non mancavano assaissimi nobili di quel regno
che segretamente o palesemente teneano per Lodovico, e non pochi erano
anche iti a trovarlo ed invitarlo. Ebbero gran faccende i corrieri e
messi che andavano innanzi e indietro per questo affare. Finalmente nel
mese d'agosto s'accordarono i due fratelli, e senza far parola del
nipote Augusto, come se non fosse vivo, o niuna ragione avesse sopra
quegli stati, li divisero fra loro. Toccò a _Lodovico_ re della Germania
in sua parte l'Alsazia con Argentina, Basilea, Colonia, Treveri,
Utrecht, Aquisgrana, parte della Borgogna moderna e della Frisia, Metz,
e moltissimi altri luoghi e monisteri. Si può dire che il re Lodovico
quegli fu che piantò veramente il regno germanico con quella grande
estensione che fin quasi ai nostri giorni è durata; regno che
maggiormente restò poi nobilitato con passare in esso l'imperio romano.
Pervennero in sua parte al re _Carlo Calvo_ Lione, Besanzone, Vienna del
Delfinato, Tongres, Tullo, Verdun, Cambray, Malines, il Brabante,
l'Hannonia, Liegi, Bar, e una gran quantità d'altri luoghi e monisteri:
con che restò moltissimo accresciuta la di lui potenza. Da tali memorie
si scorgerà quanto ampiamente si stendesse il regno allora appellato
dalla Lottaringia, ossia della Lorena. Dopo questa divisione e concordia
arrivarono al re Lodovico quattro altri legati, cioè _Vibodo vescovo_ di
Parma, due Giovanni e Pietro, anch'essi spediti dal papa, e con esso
loro Bernardo conte inviato dall'imperador Lodovico, incaricati di
sostenere e promuovere gl'interessi del medesimo Augusto. Allorchè _papa
Adriano_ fece questa spedizione, non gli era giunta per anche notizia
che i due re fratelli avessero divisa la preda. E perchè il re Lodovico
gli avea dato dianzi di belle parole, nella lettera che esso papa gli
scrive[1204], il loda perchè non ha imitato il re Carlo, cioè un
usurpatore del regno del fu re Lottario imperadore, dovuto, secondo le
leggi divine ed umane, al piissimo imperador suo figliuolo. Gli dice
ancora che se il re Carlo non restituirà il mal tolto, esso papa è
risoluto di portarsi in persona in Francia, e di procedere alle censure
contra di un tale sprezzatore di Dio e delle apostoliche ammonizioni.
Andarono questi legati a trovare anche il re Carlo, ma senza alcun
frutto per conto di Lodovico imperadore; e per quello che riguarda il
papa, ad altro tale spedizione non servì che a fargli intendere delle
insolenti risposte date da esso re Carlo e dai vescovi del suo regno,
capo dei quali era _Incmaro arcivescovo_ di Rems, uomo per dottrina e
per petto famoso in questi tempi, che dovette trovar nel suo cervello
qualche bella ragione per giustificare l'iniquità del re Carlo. L'anno
fu questo, in cui riuscì all'imperador Lodovico di ridurre alle strette
i Saraceni nella città di Bari. Grandi fatiche, gran dispendio di gente
e di danaro era già costato a lui quell'assedio. Oltre a quanto si è
detto di sopra, raccontano gli Annali di Metz[1205] che l'esercito
inviato in uno degli anni precedenti dal re Lottario in aiuto
dell'Augusto suo fratello, per non essere assuefatto al soverchio caldo
del ducato beneventano, oppresso anche dall'intemperie dell'aria, venne
men quasi tutto. _Plurimi etiam aranearum morsibus extinti sunt_: cioè
dalle tarantole, velenosi animaletti, anche oggidì sussistenti e famosi
pel danno che recano in quelle contrade. Ma sì gloriosa fu l'ostinazione
dell'Augusto Lodovico, che sul fine dell'anno presente ridusse
quegl'infedeli a perdere la speranza di soccorso, e in tale stato, che
furono in fine obbligati alla resa. Se vogliam seguitare il padre
Pagi[1206], egli se ne impadronì nell'anno presente; tuttavia è da
preferir Camillo Pellegrino[1207], che differì all'anno seguente la
presa di quella città; tal opinione coll'autorità di uno scrittore
contemporaneo verrà da noi dimostrata non solo più verisimile, ma certa.

Mi fo io a credere che nell'anno presente succedesse ciò che l'Anonimo
salernitano[1208] scrisse, e vien confermato da una lettera
dell'imperador Lodovico di cui parleremo all'anno seguente: cioè che
riuscì alle armi cristiane d'esso Augusto di sconfiggere tre ammirati, e
vogliam dire tre generali de' Saraceni, che guidando brigate di lor
gente in gran numero, mettevano a sacco tutta la Calabria: il che diede
non picciolo crollo alla lor potenza in quelle parti, e servì inoltre ad
affamar Bari ed a facilitarne la conquista. Appartiene appunto a questo
anno ciò che narra Andrea prete italiano[1209], ed autore di questi
tempi, nella sua breve Cronica, pubblicata dal Menchenio. Ricorsero
all'imperador Lodovico i popoli che restavano nella Calabria sotto il
dominio de' Greci, pregandolo di aiuto, perchè i Saraceni avean ridotte
in desolazione le lor città e chiese, e con esibirsi di darsi a lui, e
di pagargli da lì innanzi tributo. Lodovico mossone a compassione, senza
però accettar la loro offerta, inviò in soccorso loro _Ottone conte di
Bergamo, ed Oschisio e Gariardo vescovi_, i quali adunato un esercito,
diedero addosso a que' Barbari, mentre placidamente se ne stavano
mietendo i raccolti in certa valle, e fattane una grande strage,
liberarono i prigioni cristiani. Portata questa nuova a Cincimo generale
de' Saraceni abitante nella città di Amantea, si mosse con molte forze
contra de' cristiani; ma anch'egli fu sbaragliato ed inseguito dai
vincitori fino alle porte di quella città. Penetrò dipoi l'imperadore
per mezzo delle spie che il suddetto Cincimo con un poderoso rinforzo a
lui venuto per soccorrere Bari, avea risoluto di assalire i cristiani
nel giorno del santo Natale, lusingandosi di trovarli sprovveduti e
attenti solo alle divozioni. Pertanto ordinò che i suoi prima del giorno
ascoltassero messa e si comunicassero, e poi prese l'armi uscissero
contro alle masnade di quegli infedeli. Così fecero, e pieni di coraggio
attaccarono con loro la zuffa sì vigorosamente, che li ruppero e ne
fecero un copioso macello. Queste perdite quanto costernarono gli animi
del soldano e dei suoi, altrettanto rallegrarono il popolo fedele di
Gesù Cristo e del loro imperadore. Ci chiama ora a sè l'illustre città
di Napoli. Era mancato di vita _Sergio duca_ di quella città, in qual
anno precisamente nol so, con lasciar suo successore in quel ducato
_Gregorio_ il maggiore de' suoi figliuoli, dichiarato molto prima
_maestro de' militi_, ed è lo stesso che dire _duca_. Lasciò anche dopo
di sè altri figliuoli, fra' quali _Atanasio_ già creato vescovo di
Napoli, uomo di santa vita, e _Stefano_ vescovo di Sorrento[1210].
Finchè visse e regnò Gregorio, per esser egli uomo valoroso e savio, e
peritissimo della lingua greca e latina, camminarono bene gli affari di
quella città: e benchè l'imperadore Lodovico, allorchè nell'anno 866
venne coll'armi in quelle parti, si professasse mal soddisfatto di quel
popolo, e forse anche del loro duca, pure il santo vescovo Atanasio,
spedito incontro a lui, con sì buona maniera s'introdusse nella grazia
di esso imperadore e dell'Augusta sua consorte, che non fece violenza
alcuna a Napoli, e neppure vi entrò dentro. Da lì a non molto cadde
malato Gregorio, e consultati i suoi fratelli, e massimamente Atanasio
vescovo, dichiarò duca e collega suo _Sergio II_ suo figliuolo, al quale
prima di morire raccomandò vivamente d'essere ubbidiente al prelato suo
zio, e di regolarsi affatto col di lui parere; perchè così operando,
bene sarebbe per lui, male, facendo il contrario. Di questi documenti si
dimenticò ben presto lo sconsigliato giovane. La moglie sua, donna
superba, non potea sofferire ch'egli si suggettasse ai consigli ed alle
ammonizioni del santo prelato, e gli andava intonando all'orecchio, che
se pur intendeva di comparire e di essere veramente principe, dovea non
solo astenersi dall'averlo per consigliere, ma anche tenerlo lungi da
sè, anzi sbrigarsi da quell'intoppo. Dalla lettera, che citeremo
all'anno seguente, dell'imperador Lodovico, si ricava che fra l'altre
ammonizioni del buon vescovo che amareggiavano il duca suo nipote e la
moglie di lui, quella vi entrava di troncar l'amicizia coi Saraceni, o,
per dir meglio, una specie di lega contratta con loro, e vergognosa
troppo per un principe cristiano. De' Napoletani scrive così
quell'imperadore[1211]: _Infidelibus arma et alimenta et cetera subsidia
tribuentes, per totius imperii nostri litora eos ducunt; ut cum ipsis
toties Petri Apostolorum principis fines furtim depraedari conantur, ita
ut facta videatur Neapolis Panormum vel Africa. Quumque nostri quique
Saracenos insequuntur, ipsi ut possint evadere, Neapolim fugiunt, quibus
non est necessarium, Panormum repetere, sed Neapolim fugientes, ibidem
quousque perviderint latitantes, rursus improviso ad exterminia
redeunt._ Ora tanto picchiarono in capo al duca Sergio la moglie ed
altri perversi consiglieri, che il trassero a mettere in prigione il
vescovo Atanasio e gli altri zii. Non si può dire che commozione
eccitasse in tutta la città questo barbaro avvenimento. Altro non
s'udiva che gemiti, urli e mormorazioni contra dell'iniquo principe.
Però congregato tutto il clero sì greco che latino di quella città coi
monaci, si portò al palazzo, chiedendo con grido la liberazione
dell'amato loro prelato. Andò nelle furie Sergio, prese tempo a
rispondere, e finalmente dopo sette dì, avendo inteso che i sacerdoti
erano risoluti di scomunicarlo, di desistere dai sacri uffizii e di
spogliar gli altari, rimise in libertà il buon vescovo. Incredibile per
questo fu il giubilo e la festa di tutto il clero e popolo, in guisa che
si pentì il duca d'averlo liberato, e cominciò a tenergli delle spie
intorno, per sapere chi andava e veniva da lui; e da lì innanzi
perseguitò a man salva gli ecclesiastici, oppresse le vedove e i poveri,
perchè niuno più v'era che in lor favore aprisse la bocca. In questo
anno, secondo la Cronica saracenica[1212], s'impadronirono i Mori
dell'isola di Malta nel dì 20 d'agosto.

NOTE:

[1203] Annales Franc. Bertinian. et Fuldenses.

[1204] Labbe, Concilior., tom. 8.

[1205] Annal. Francor. Metenses, tom. 3 Du-Chesne.

[1206] Pagius, in Crit. Baron.

[1207] Peregrinus, Hist. Princip. Langob., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1208] Anonymus Salernitan., Paralipom., cap. 102 et 103.

[1209] Andreas Presbyter, Chron. tom. I Rer. Germ. Menchenii.

[1210] Johann. Diaconus, in Vit. S. Athanasii Episcopi Neapol. P. II,
tom. 2 Rer. Italic.

[1211] Epist. Ludov. II apud Anonym. Salern. cap. 106.

[1212] Chron. Saracin., P. II tom. 2 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCCLXXI. Indizione IV.

    ADRIANO II papa 5.
    LODOVICO II imp. 23, 22 e 17.


Non potè più lungamente resistere all'armi cristiane l'assediata città
di Bari. Da essa furono in quest'anno finalmente snidati i Saraceni.
Lupo protospata[1213], che scrive presa quella città dai Franchi _anno_
868, _Indictione prima, tertia die intrante mense februario_, troppo
sconciamente falla nell'anno. Ha bensì colpito nel mese, perciocchè
Andrea prete[1214], scrittore contemporaneo, nella sua breve Cronica,
notò che dopo le sconfitte sopra riferite de' Saraceni, _sequenti mense
februario, quinto_, (forse _quarto_) _expleto anno, quod Bari possessam_
(obsessam) _habebat dominus imperator, comprehendit soldanum, et
reliquos Saracenos ibi consistentes interemit anno XXI, Indictione IV_,
cioè nell'anno presente. Che quella città non si rendesse per
capitolazione, ma fosse presa per forza, si può raccogliere dalla strage
allora fatta de' Saraceni. Se la scappò netta il loro sultano, fu,
secondo la testimonianza dell'Anonimo salernitano[1215], perchè costui
ritiratosi in una torre ben forte, chiamò _Adelgiso principe_ di
Benevento, che era intervenuto coll'_imperador Lodovico_ a
quell'impresa, e si arrendè a lui, salva la vita, con dirgli di
meritarla bene, perchè aveva in suo potere una figliuola di esso
principe, già datagli per ostaggio, e giurò di non averla toccata. Da
ciò prese motivo Adelgiso di domandarlo con due compagni in grazia
all'imperadore, che se ne contentò, ma male per lui. Costantino
Porfirogenneta[1216], parlando della presa suddetta di Bari, scrive che
quella _città col suo territorio, e coi prigioni tutti venne in potere
de' Romani_, cioè de' Greci. Ma senza fallo s'inganna. Non apparisce che
i Greci avessero parte nello acquisto di essa città; niun segno d'averla
Lodovico ceduta all'imperador Basilio, si raccoglie dalla lettera che da
qui a poco verrò allegando. Quel che è più, tanto Erchemperto[1217],
quanto il sopraccitato Lupo Protospata asseriscono che i Greci solamente
dopo la morte dell'imperador Lodovico, siccome vedremo, entrarono in
quella città. Dopo questa gloriosa impresa, aggiugne il suddetto
Erchemperto, che l'Augusto Lodovico inviò la sua armata all'assedio di
Taranto città tiranneggiata anch'essa dai Saraceni. All'anno presente
pare che s'abbia a riferire col cardinal Baronio una lettera scritta
dall'imperador Lodovico a _Basilio imperadore de' Greci_, e a noi
conservata dall'Anonimo salernitano[1218]. Forse i prosperi successi
dell'Augusto latino, notificati al greco colla spedizion di due
ambasciatori, mossero ad invidia Basilio, il quale perciò scrisse al
medesimo Lodovico una lettera tutta tessuta di varie doglianze. La prima
era del farsi Lodovico chiamare _imperadore_, pretendendo Basilio che
questo nome, siccome ancor quello di _Basileo_, fosse riserbato ai soli
imperadori d'Oriente con tacciare di novità l'uso che ne facea Lodovico,
e con dire ch'egli dovea intitolarsi _imperador dei Franchi_, e non già
de' Romani. Risponde saviamente l'Augusto Lodovico, che il nome di
Basileo, significante _re_, si truova adoperato da tutte le antiche e
moderne nazioni; che quello d'_imperadore_ nella sua casa non è nuovo,
avendolo goduto infino il suo bisavolo Carlo. Riconosce poi che dai
Romani ne' suoi maggiori e in lui stesso, era venuto non solamente
l'imperio, ma anche il regno di Francia, perchè essi erano stati unti re
dai romani pontefici. _Nisi_, dice egli, _Romanorum imperator essemus,
utique neque Francorum. A Romanis enim hoc nomen et dignitatem
assumimus, apud quos profecto primo tantae culmen sublimitatis et
appellationis effulsit, quorumque gentem et urbem divinitus gubernandam,
et matrem omnium Ecclesiarum Dei defendendam atque sublimandam
suscepimus, ex qua re et regnandi prius, et postmodum imperandi
auctoritatem prosapiae nostrae seminarium sumsit_. Si stupisce poi come
Basilio abbia scritto, che mentre i suoi Greci tentavano di espugnar
Bari, i Franzesi se ne stavano colle mani alla cintola mirandoli, senza
porger loro aiuto, e con attender solo ai conviti. Quando manifesta cosa
era che i Greci, dopo aver fatto i bravi con dar uno o due assalti,
s'erano tosto avviliti, e segretamente tornati al loro paese; e intanto
que' Franchi, che, secondo lui, attendeano solamente a divertirsi,
aveano daddovero presa la città di Bari. Lamentasi poi l'imperador
Lodovico, perchè Niceta patrizio, destinato da Basilio alla _guardia del
golfo Adriatico_ colla sua flotta, avea dato il sacco a molte terre
della _Schiavonia_ franzese, col pretesto che gli Schiavoni avessero
spogliato i legati pontificii nel ritorno loro da Costantinopoli, benchè
condotti sopra legni dello stesso greco imperadore. Duolsi, dico,
gravemente perchè quei legati sieno stati sì malamente provveduti e
guidati; e nulla finora delle robe loro restituito; e che Niceta abbia
dato il guasto a varie castella di giurisdizione del medesimo Lodovico,
ed inoltre abbia menata via prigione gran quantità di quegli innocenti
popoli: iniquità tanto più intollerabile, _utiisdem Sclavinis nostris
cum navibus suis apud Barim in procinctu communis utilitatis
consistentibus, et nihil sibi adversi aliunde imminere putantibus, tam
impie domus suae quaeque diriperentur, sibique contingerent; quae si
praenoscerent, nequaquam prorsus incurrerent_. Perciò qualora Basilio
non emendi il fatto, _justae severitatis nostrae proxima ultio procul
dubio subsequetur_. Ci fan conoscere tali notizie, che tuttavia l'Istria
e almen qualche parte delle città marittime della Dalmazia ubbidivano
all'imperador d'Occidente. Riferisce Giovanni Lucio[1219] uno strumento
fatto nella città di _Spalatro, regnante in Italia Lothario Francorum
rege per indictione XV, sub die IV non. martii_, cioè nell'anno 857,
oppure 852. Mi giova ancor di produrre una iscrizione che tuttavia si
legge nella città di Pola nell'Istria, ed è testimonio del continuato
dominio dell'imperador Lodovico in quelle parti. Si mira esso sopra una
porta laterale del duomo.

                 [=AN]. INCARNT. [=DNI] DCCCLVII.
                  IND. V. REGE LODOVICO IMP. AUG.
                  IN ITALIA. HANDEGIS HUJUS AECCE
              ELEC P. [=ENE] CONS. EPS. SED. AN. [=V].

Questo vescovo non fu conosciuto dall'Ughelli nel tomo quinto
dell'Italia sacra.

Finalmente scrive nella sua lettera l'imperador Lodovico, dopo aver
parlato dell'iniquo procedere de' Napoletani fautori dei Saraceni:
_Noveris, exercitum nostrum, Bari triumphis nostris submissa, Saracenos
Tarenti pariter et Calabriae nos mirabiliter humiliasse, simul et
comminuisse; ac hos celeriter, duce Deo, penitus contriturum, si a mari
prohibiti fuerint escarum admittere copias, vel etiam classibus a
Panormo vel Africa suscipere multitudines_. Perciò prega Basilio di
voler inviare un competente stuolo di navi, che impedisca i trasporti
de' Saraceni, con aggiugnere: _Nos enim Calabria, Deo auctore,
expugnata, Siciliam disposuimus, secundum commune placitum, libertati
restituere_. Queste gloriose imprese meditava l'imperador Lodovico
contra de' Saraceni, formidabili allora alla Cristianità sì in Oriente
che in Occidente, non men di quello che poi furono i Turchi, professori
della lor legge, spezialmente dopo aver soggiogato i Saraceni medesimi.
Ma sconcertate rimasero tutte le sue idee da una di quelle vicende che
ben di rado succedono, ma pur succedono sulla terra, patria della
corruzion degli animi e dei corpi. Dimorava tuttavia in Benevento esso
Augusto, allorchè cadde in cuore al principe della terra _Adelgiso_ il
malvagio pensiero di metter le mani addosso alla di lui sacrata persona.
Costantino Porfirogenneta scrive[1220] che il sultano prigione in
Benevento, uomo de' più furbi ed astuti del mondo, quegli fu che gli
inspirò una sì detestabil risoluzione. Infatti anche l'Anonimo
Salernitano[1221] attesta che Adelgiso si consigliò con lui sopra un
affare di sì grande importanza: tanto s'era egli affratellato con
quell'infedele. Il motivo di procedere a fare un atto sì palpabile di
fellonia contra del suo sovrano variamente viene scritto dagli antichi
storici. L'Annalista di Metz[1222] dice ch'egli ciò operò _Graecorum
persuasionibus corruptus_, e che a persuasione di lui molte città
_Samnii, Campaniae, et Lucaniae, a Ludovico recedentes, Graecorum
dominationi se subdiderunt_. A tali notizie l'imperador mosse l'esercito
verso la capitale, cioè per andare a Benevento, città allora piena di
ricchezze. Non l'aspettò Adelgiso, ma scaltramente gli venne incontro;
protestò la sua fedeltà ed ossequio; giurò di non aver in guisa alcuna
acconsentito alla ribellion di quelle città; fece anche giocar molti
regali; laonde fu restituito nella grazia primiera. Passato dipoi
l'imperadore contro delle città ribellate, tutte le ridusse
all'ubbidienza, fuorchè Capua, che per essere forte di mura convenne
stringerla con assedio. A tutti i contorni di essa città fu dato un
terribil guasto. Veggendosi i Capuani ridotti a mal punto, pregarono il
vescovo loro _Landolfo_ di interporsi, ed alzato il corpo di santo
Germano, processionalmente usciti di città, andarono a trovar
l'imperadore, gridando misericordia. Mosso a pietà lo Augusto sovrano,
loro perdonò; e in tal maniera scacciati i Greci, posta guarnigione
nelle città prese, andossene dipoi a Benevento, dove gli succedette la
disgrazia che or ora verrò raccontando. In essa città si truova egli nel
dì 14 d'aprile dell'anno presente, come apparisce da un suo diploma già
pubblicato da me[1223]. Ma non si può, se non difficilmente, prestar
fede al racconto del suddetto autore, perchè oltre al non avere gli
antichi scrittori italiani nulla detto, nulla conosciuto dell'assedio di
Capua, nè dell'essersi data, come egli pretende, quella con altre città
circonvicine ai Greci, lontano dal verisimile si scuopre che i principi
di Benevento e i conti di Capua avessero voluto ammettere presidii greci
nelle loro città, e massimamente stando in tanta vicinanza l'imperador
Lodovico coll'armi in mano. Si vuol nondimeno confessare che Leone
Ostiense[1224] sembra accostarsi a tale opinione, allorchè dopo la presa
di Bari scrive, che _duo quidam comites nisi sunt in imperatorem
insurgere. Quod quum cognovisset imperator, persecutus est eos usque
Marsiam, ubi illi non audentes consistere, fugerunt Beneventum_. Di
questi due conti parleremo fra poco. Aggiugne, che l'imperadore in
perseguitando que' due conti, arrivò ad Isernia, e volendo quella città
resistere, la espugnò e prese. Poscia per Alife e Telese passò alla
città di Sant'Agata, intorno al cui assedio si fermò per alquanti
giorni. V'era dentro Isembardo gastaldo, cioè governatore perpetuo della
medesima; buon per lui che _Bassacio abbate_ di Monte Casino, per essere
suo parente, impetrò a lui e alla città dall'imperatore perdono. Colà
comparve _Adelgiso principe_ di Benevento. Gittatosi a' piedi
dell'Augusto sovrano, ottenne non solo per sè, ma anche per gli due
conti suddetti, d'essere rimessi nella sua grazia. Ciò fatto,
l'imperadore andò a Benevento a trovare una sciagura ch'egli mai non si
sarebbe aspettato. Ma neppur qui possiam riposare sull'autorità
dell'Ostiense. La ribellione di que' due conti, per attestato di
Erchemperto, siccome vedremo, accadde dopo la disavventura occorsa
all'imperadore, e per conseguente anche l'espugnazion di quella città.
Ciò che bensì possiam credere all'Ostiense, perchè concordemente
asserito dagli altri antichi storici, si è, che le insolenze usate al
popolo di Benevento, non già da Lodovico imperadore, principe assai
buono, ma dalle sue milizie, e massimamente dall'imperadrice
_Angilberga_ sua moglie, principessa, in cui non si sapeva discernere se
maggior fosse la superbia o l'avarizia, quelle furono che fecero perdere
in fine la pazienza ad Adelgiso loro principe. _Coeperunt Galli graviter
Beneventanos persegui, ac crudeliter vexare_: son parole
d'Erchemperto[1225]. _Quumque Beneventanos ostiliter insequeretur sua
conjux, atque mulieres illorum omnimodis nimirum foedaret; et ipsa
Beneventanos variis injuriis afficeret, asserens ad suos, quia minime se
sciunt communire Beneventani clypeis_, ec. Lo stesso viene asserito
dall'Anonimo salernitano[1226], per tacer d'altri autori. Cedreno[1227]
autor greco scrive, essere proceduta tutta la scena, che io son per
raccontare, dai consigli e dalle cabale del soldano, che condotto
prigione a Benevento, s'era intrinsecato con Adelgiso e collo stesso
imperadore. E certamente che Adelgiso si consigliasse con costui, lo
asserì anche l'Anonimo salernitano. Nel resto il racconto di Cedreno
discorda dalla verità della storia, e meritano qui più fede gli storici
latini.

Ora gli Annali di Metz c'insegnano avere _Adelgiso principe_ di
Benevento fraudolentemente persuaso all'imperador Lodovico di lasciar
tornare alle loro case le milizie franzesi, perchè lo star più quivi era
di loro incomodo e di gran danno ai suoi sudditi. Restò dunque con pochi
Lodovico. Ma è maggiormente da prestar fede ad Andrea prete[1228],
storico italiano contemporaneo, che scrive aver Adelgiso profittato del
tempo, in cui _erant Franci separati per castella, vel civitates
fidentes absque ullo terrore, credentes fidei Beneventanorum_. Però
venuto il bisogno del loro aiuto, furono trattenuti dai Beneventani in
maniera, che niun d'essi potè accorrere alla difesa del proprio padrone.
Nel giorno 23 agosto, _Indictione XI_ (si dee scrivere quarta), per
attestato del suddetto Andrea, scoppiò la congiura de' Beneventani.
Mentre l'imperadore dopo il mezzodì riposava, uniti andarono al palazzo
per sorprenderlo. Corsero all'armi i pochi Franzesi di sua guardia; e
svegliato l'imperadore da quel rumore, corse anche egli alla difesa.
Adelgiso veggendo la resistenza, fece mettere il fuoco alle porte del
palazzo, il che costrinse l'imperadore a ritirarsi colla moglie Augusta
e alquanti de' suoi in una torre forte, dove per tre dì si difese: se
pur questa torre non fu il palazzo medesimo. Negli Annali
bertiniani[1229] si legge: _Adelgisus cum aliis Beneventanis adversus
ipsum imperatorem conspiravit, quoniam idem imperator factione uxoris
suae eum in perpetuum exsilium disponebat. Et quum idem Adelgisus noctu
super ipsum imperatorem irruere disposuisset, isdem cum uxore sua, et
cum eis, quos secum habebat, quandam turrim valde altam munitissimam
ascendit, et ibi per tres dies cum suis se defendit_. Seguita poi a
dire, che interpostosi il vescovo di quella città, ottenne di poter
andarsene sano e salvo. Ma non così presto egli dovette ricevere la
libertà, scrivendo Erchemperto[1230], autore di que' tempi, che Lodovico
fu preso e messo in prigione; e mentre era in quello stato, _consistente
Augusto in custodia_, Iddio mosse dall'Africa i Saraceni, e non tardò
quaranta giorni a vendicar l'enorme strapazzo fatto al maggior principe
della Cristianità, ch'esso Erchemperto chiama _sanctissimum virum,
salvatorem scilicet Beneventanorum provinciae_. E Andrea prete lasciò
scritto che la di lui prigione durò fino a dì 17 di settembre. Ora le
soldatesche sue s'erano intanto ammassate; cosa che diede molta
appressione al principe Adelgiso, se pur ciò è vero, perchè Erchemperto
diversamente ne parla. Giunse anche nuove che un poderoso esercito di
Saraceni era sbarcato verso Salerno, sicchè si venne a capitolare la
libertà del maltrattato Augusto. Fu convenuto che egli, la moglie, la
figliuola Ermengarda e tutti i suoi con fortissimi giuramenti presi
sopra le sacre reliquie, si obbligassero di non fare in alcun tempo nè
per sè nè per altri vendetta alcuna di quel fatto, nè di entrare mai più
con armi ed armata nel ducato di Benevento. Dopo di che gli fu permesso
d'andarsene ovunque gli piacea. Soggiugne Erchemperto che Adelgiso _bona
ejus diripiens, ditatus est, cunctosque viros exercitales expoliavit, et
ex bonis eorum onustatus est_. Incredibile fu il rumore (e ben lo
meritava il caso) che per l'Italia e fuori d'Italia si fece per questo
insulto. D'altro non si parlava, dando alcuni ragione ad Adelgiso per
cagion delle estorsioni ed insolenze praticate nella provincia
beneventana dai Franzesi, e massimamente dall'imperadrice Angilberga; ma
i più detestando la fellonia e la somma ingratitudine di costui, che
pagava di questa moneta chi con tanti sudori di sangue e spese avea
liberato lui e i suoi popoli dal giogo de' Saraceni. Ho io
pubblicato[1231] un ritmo, allora composto che probabilmente si andava
cantando per le piazze. Tali sono i primi tre pretesi versi:

    _Audite omnes fines terrae horrore cum tristitia,_
    _Quale scelus fuit factum Benevento civitas._
    _Lhuduicum comprenderunt sancto pio Augusto._

Corse velocemente la nuova, di questo tragico caso in Francia e
Germania, per attestato degli Annali di san Bertino[1232] e di
Fulda[1233], e colla giunta che suol fare alle cose la fama, cioè con
spacciare che l'imperadore Lodovico era stato, non solamente preso, ma
anche trucidato dai Beneventani. Perciò chi degl'Italiani spedì al re
Carlo Calvo in Francia, e chi al re Lodovico in Germania, invitandolo a
venire a prendere l'eredità del creduto morto loro nipote.

Venne _Carlo Calvo_ fino a Besanzone e di là spedì corrieri in Italia,
per risapere più fondatamente la serie di questo sì strepitoso
avvenimento, e uditane poi la verità, se ne tornò indietro. _Lodovico
re_ di Germania inviò anch'egli _Carlo il Grosso_ suo figliuolo a tirar
nel suo partito i popoli posti di qua dal monte Jura, sudditi
dell'imperatore. Rimesso poi che fu in libertà esso Augusto, a dirittura
sen venne nel ducato di Spoleti, sdegnato forte contro i due _Lamberti_.
Son questi i due conti, de' quali parlò Leone Ostiense, forse con
anticipar di troppo la loro rivolta. Certamente l'un di essi era duca di
Spoleti; l'altro o fratello o nipote, se pur non v'ha errore nei nomi,
perciocchè l'Ignoto casinense scrive[1234]: _Lampert filius Widonis, et
Ildebert comites nisi sunt manus erigere contra Hludovicum imperatorem.
Sed relata illorum fraude persecutus est eo Hludovicus usque Marsim._
Siccome vedemmo di sopra all'anno 860, si truova in que' tempi un
_Ildeberto_ conte in quella contrade, non so se conte di Marsi, oppur
duca di Spoleti o di Camerino. Ma più innanzi non s'incontra memoria
alcuna di lui. Convien nullameno confessare che da Erchemperto[1235]
chiaramente sono appellati _ambo Lamperti comites_, e dall'Anonimo
salernitano[1236] _ambo nominis unius Lamperti_. Per me non credo che
propriamente questi due Lamberti si ribellassero a visiera calata contra
dell'imperador Lodovico, come si figurò il conte Campello[1237], benchè
assistito dal suddetto Ignoto casinense. Pare a me più verisimile che la
collera contra di loro procedesse, perchè Lodovico o li sospettasse
d'accordo con Adelgiso, o imputasse loro a fellonia il non essere
accorsi, come portava l'obbligo loro, in sua difesa ed aiuto colle
soldatesche di Spoleti, allorchè egli stava sotto il torchio in
Benevento. _Interea Landbertus_ (così dice l'Annalista bertiniano[1238])
_cum alio Lamberto sentientes sibi reputari ab imperatore de his, quae
in eum facta fuerant, ab eo discesserunt, et in partes Beneventi, quia
praefatus Adelgisus eis conjunctus erat, perrexerunt_. Erchemperto
attesta che i Lamberti furono onorevolmente accolti in sua corte da
Adelgiso. Nè sussiste, come vuole Leone Ostiense, che Lodovico Augusto
da Benevento si ritirasse a Veroli, ed ivi si fermasse quasi undici
mesi. Aveva egli mandata l'imperadrice a Ravenna acciocchè ivi tenesse
la gran dieta del regno d'Italia. Nel giorno 22 di novembre di
quest'anno _in villa, quae dicitur Vico, ubi ipse Augustus praeerat_,
fece esso Augusto acquisto da un certo Sisenardo dell'isola appellata
_Casauria_ presso il fiume Pescara. Verso quelle parti sembra che fosse
la villa di _Vico_. E in quest'anno appunto (piuttosto che nell'anno
886, come vuole il padre Mabillone) son io d'avviso che seguisse la
fondazione del celebre monistero benedettino di Casauria, ordinato
dall'imperador Lodovico in rendimento di grazie a Dio, che l'aveva
liberato dal gravissimo pericolo incorso in Benevento. Se egli in
quest'anno comperò quel sito, non si può ragionevolmente pensare ch'egli
fabbricasse prima nel fondo altrui. Della nuova guerra portata in
quest'anno dai Saraceni a Salerno parlerò all'anno seguente. Qui non
voglio lasciar di dire che _papa Adriano_, il quale nell'anno precedente
con tanto vigore adoperando anche le minacce avea scritto a _Carlo
Calvo_ re di Francia per sostenere i diritti dell'_imperador Lodovico_
sopra la Lorena e per altri affari; nell'anno presente dopo aver
ricevute delle risposte alquante brusche, tutto si raddolcì, e cominciò
a far degli elogi mirabili d'esso re Carlo in iscrivendogli. Fra l'altre
cose è notabile nella lettera d'esso papa, rapportata dal cardinal
Baronio, un pensiero ch'egli in somma confidenza notifica al medesimo re
con dire[1239]: _Ut sermo sit secretior et literae clandestinae,
nullique nisi fidissimis publicandae; vobis confitemur devovendo, et
notescimus affirmando, salva fidelitate imperatoris nostri, quia si
superstes ei fuerit vestra nobilitas, vita nobis comite, si dederit
nobis quislibet multorum modiorum auri cumulum, nunquam acquiescemus,
exposcemus aut sponte suscipiemus alium in regnum et imperium romanum,
nisi te ipsum. Quem, quia praedicaris sapientia et justitia, religione
et virtute, nobilitate et forma, videlicet prudentia, temperantia,
fortitudine, atque pietate refertus, si contigerit te imperatorem
nostrum supergredi, optamus omnis clerus, et plebs, et nobilitas totius
orbis et urbis, non solum ducem et regem, patricium et imperatorem, sed
in praesenti ecclesia defensorem, et in aeterna cum omnibus sanctis
participem fore_. Ma papa Adriano II non avendo potuto eseguir questa
idea, la trasmise almeno al suo successore, che vedremo dichiararsi in
favore del medesimo Carlo.

NOTE:

[1213] Lupus Protospata, Chron., tom. 5 Rer. Ital.

[1214] Andreas Presbyter, Chron., tom. 1 Rer. Germ. Mechenii.

[1215] Anonymus Salern., Paralipom., cap. 108.

[1216] Constantinus Porphirogenn., in Vit. Basil. Maced.

[1217] Erchempertus, Hist., cap. 38.

[1218] Anonym. Salernit., Paralipom., cap. 94.

[1219] Johann. Lucius, de Regn. Dalmat., lib. 2, cap. 1.

[1220] Constant. Porphyrogenn., in Vit. Basilii Maced.

[1221] Anonymus Salernit., Paralipom., cap. 109.

[1222] Annal. Francorum Metenses.

[1223] Antiquitat. Italic., Dissert. XI, pag. 585.

[1224] Leo Ostiensis, Chron., lib. 1, cap. 36.

[1225] Erchempertus, Hist., cap. 34.

[1226] Anonym. Salern., Paralip., cap. 109.

[1227] Cedren., in Annalib.

[1228] Andreas Presbyter, Hist. tom. 1 Rer. Germ. Menchenii.

[1229] Annales Francor. Bertiniani.

[1230] Erchempertus, Hist., cap. 34.

[1231] Antiq. Ital., Dissert. XL.

[1232] Annales Francor. Bertiniani.

[1233] Annales Francor. Fuldenses.

[1234] Ignotus Casinens., Chron. P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[1235] Erchempert., Hist., cap. 35.

[1236] Anonym. Salernit., Paralip., cap. 114.

[1237] Campelli, Storia di Spoleti, lib. 17.

[1238] Annales Francor. Bertiniani.

[1239] Epist. 34 Hadriani II. tom. 8 Concil. Labbe.



    Anno di CRISTO DCCCLXXII. Indizione V.

    GIOVANNI VIII papa 1.
    LODOVICO II imp. 24, 23 e 18.


Giunse ai confini della vita in questo anno _papa Adriano II_. Restò di
lui una gloriosa memoria sì per le sue virtù ed azioni lodevoli in
servizio della sede apostolica e della Chiesa di Dio, come ancora della
sua munificenza verso de' sacri templi e de' poverelli. E qui cominciano
ad abbandonarci le vite de' sommi pontefici con grave danno della storia
ecclesiastica e secolare di questi secoli. A lui succedette _Giovanni
VIII_, dianzi arcidiacono della chiesa romana, senza precisamente
sapersi, come pensa il padre Pagi, in qual giorno seguisse la sua
consecrazione. Nondimeno gli Annali bertiniani la mettono nel dì 14 di
dicembre. Stavano intanto in cuore _dell'imperador Lodovico_ due
pungenti spine. L'una era l'occupazion del regno della Lorena, da lui
giustamente pretesa; l'altra l'enorme affronto a lui fatto dall'ingrato
principe di Benevento. Per quel che concerne al primo affare, egli, per
attestato degli Annali di san Bertino[1240], spedì l'Augusta
_Angilberga_ sua moglie per trattarne coi due re suoi zii. Venne dopo
Pasqua il re _Carlo Calvo_ fino a san Maurizio per abboccarsi con lei,
secondochè era stato concertato; ma inteso che la medesima era per andar
prima a Trento per parlare con _Lodovico re_ di Germania, se tornò
indietro. Seguì infatti nella città di Trento il divisato abboccamento,
e Lodovico _cum Ilgerberga loquens_ (lo stesso è che _Angilberga_ ed
_Angelberga_), _partem regni Lotharii, quam contra Carolum accepit,
neglectis sacramentis inter eos pactis, sine consensu ac conscientia
hominum quondam Lotharii, qui se illi commendaverant, clam reddidit.
Inde utrimque sacramenta prioribus sacramentis, quae cum fratre suo
pepigerat, diversa et adversa inter eos sunt facta_. Fece poi sapere
Angilberga al re Carlo che venisse a san Maurizio; ma Carlo
insospettito, oppure avvertito di quanto essa avea pattuito col re
Lodovico, ricusò d'andarvi. Inviò poscia ad esso re Carlo il vescovo
_Vibodo_ sotto pretesto d'amicizia, ma veramente per trattare con lui
della restituzion degli stati del fu re Lottario. Carlo non si lasciò
trovare da lui, o se pur l'ascoltò, rimandollo colle mani vuote. Qual
parte della Lorena restituisse il re Lodovico al nipote Augusto, nol
dicono gli storici. Se potessimo riposar sull'autorità di Gotifredo da
Viterbo[1241], dovette in fine anche il re Carlo venire a qualche
composizione, scrivendo egli che _imperator Ludovicus ipsum regnum
Lotharingiae cum Carolo patruo suo, habita inter se pactione, divesit.
Ita tamen quod Ludovicus imperator Aquisgrani palatium cum sua portione
haberit_. Temo io che Gotrifredo abbia cambiati i nomi, e voglia parlar
qui della divisione fatta da Lodovico re di Germania col fratello Carlo
Calvo. Nè vo' lasciar di dire, che in riferir gli Annali il suddetto
abboccamento del re Lodovico coll'imperadrice Angilberga, non dicono
punto che la medesima fosse di lui _figliuola_, come ha preteso il
Campi[1242] ed altri. Il Bouchet la credette figliuola di un duca di
Spoleti; i Sammartani le diedero per padre _Eticone Guelfo_, figliuolo
di _Eticone duca_ di Svevia. Quanto a me tengo per tuttavia ascosa
l'origine sua. E per le ragioni che ho altrove addotto[1243], non la so
credere figliuola naturale del suddetto Lodovico re di Germania, perchè
dal medesimo è appellata in un diploma _dilecta ac spiritalis filia
nostra Engilpirga_, cioè solamente tenuta al battesimo. Nè erano allora
in uso le dispense di sì stretta parentela, quale sarebbe stata quella
di Lodovico II imperadore con Angilberga, mentre sarebbero stati in tal
supposto primi cugini. A proposito poi di questa principessa, mal voluta
da tutta la nobiltà d'Italia, massimamente a cagione de' gravi sconcerti
accaduti all'Augusto consorte in Benevento, strano è quel che raccontano
i suddetti Annali bertiniani, con dire: _Quia primores Italiae
Ingelbergam propter suam insolentiam habentes exosam, in loco illius
filiam Winigisi imperatoris substituentes, obtinuerunt apud eumdem
imperatorem, ut missum suum ad Ingelbergam mitteret, quatenus in Italiam
degeret (cioè in Lombardia), et post illum non pergeret, sed eum in
Italiam reversurum expectaret. Ipsa autem non obaudiens illud mandatum,
post eum ire maturavit_. Il conte Campelli[1244], indotto da queste
parole, si figurò che Lodovico imperadore ripudiasse Angilberga, la
quale perciò si fece monaca. Ma non sussiste in guisa alcuna che si
sciogliesse il legame del loro matrimonio, nè che Lodovico prendesse per
moglie la figliuola di Guinigiso, chiamato da lui e da altri duca di
Spoleti. Morì, siccome abbiam veduto di sopra, Guinigiso nell'anno 822.
Una sua figliuola in quest'anno sarebbe stata troppo attempata per
servire di moglie o di concubina ad un imperadore che abbisognava di
successione. Però ivi si parlerà di una figlia di qualche altro
Guinigiso, oppure di Guinigiso figliuolo del suddetto duca.

Da un placito della Cronica vulturnense[1245] si conosce che l'imperador
suddetto si trovava nel dì primo di gennaio dell'anno presente in Balva
città dell'Abbruzzo. Abbiamo da un altro strumento aggiunto alla Cronica
di Casauria[1246] che nel dì 12 di aprile egli dimorava nel territorio
di Rieti. Poscia, secondo gli Annali di san Bertino[1247], nella vigilia
di Pentecoste si portò a Roma: il che vien confermato da un suo diploma,
registrato nella Cronica del monistero di Farfa[1248], la cui data è
questa: _V kalendas junii, anno, Christo propitio, imperii domni
Ludovici piissimi Augusti XXIII, Indictione V. Actum in civitate Roma,
palatio imperatoris._ Nel giorno solenne della Pentecoste egli fu
coronato da papa Adriano, che allora vivea, cioè, a mio credere, egli
ricevette la corona del regno della Lorena, o perchè parte gliene avea
ceduta il re Lodovico suo zio, o perchè con questo atto egli intese
conservare e fortificare i diritti suoi sopra quegli stati. Dopo la
messa cantata fece insieme col suddetto pontefice una pomposa cavalcata
sino al palagio lateranense. Fu in questa congiuntura (come s'ha da
Reginone[1249] e dall'Annalista sassone[1250]), e non già nell'anno
seguente, ch'esso Augusto in una gran dieta alla presenza del sommo
pontefice espose le sue giuste doglianze contra di _Adelgiso principe_
di Benevento, il quale perciò fu proclamato tiranno, nimico della
repubblica e del senato romano, e dichiarata la guerra contro di lui.
Slegò papa Adriano da tutti i giuramenti e da qualunque promessa fatta
ad Adelgiso l'imperadore, riconoscendoli per atti nulli, perchè fatti
per forza affin di salvare la vita, e perciò ridondanti in pregiudizio
della salute pubblica. Contuttociò Lodovico, premendogli che nessuno de'
suoi il potesse chiamare spergiuro, non volle procedere coll'armi contra
di Benevento, ma lasciò questa incumbenza all'imperadrice sua moglie, la
quale raunato l'esercito, si preparò per passare a quella volta.
Pervenuta all'orecchio di Adelgiso la nuova di questa spedizione, tale
sbigottimento prese, che se ne fuggì nell'isola di Corsica, dove per
qualche tempo sconosciuto si fermò. Così quegli Annali. Ma senza fallo
questa fuga di Adelgiso in Corsica è affatto favolosa. Noi il troveremo
saldo nel suo principato, e non già figliuolo della paura, procedere
contra de' Saraceni, i quali in questi medesimi tempi portarono
l'eccidio ai ducati di Salerno e Benevento, e non privo di consiglio in
sì scabrose contingenze. Nè apparisce che l'imperadrice suddetta
passasse coll'armi nel beneventano, o che vi facesse prodezza alcuna.
Vegniamo ora ai Saraceni. Dacchè costoro ebbero perduta la città di
Bari, da vergogna e da rabbia commossi, misero insieme in Africa una
nuova poderosa armata di quasi trenta mila combattenti, e nell'autunno
dell'anno antecedente a dirittura diedero le vele verso Salerno. Volle
Dio che mentre costoro faceano quel grande apparecchio di gente e di
macchine per passare in Italia[1251], uno della lor nazione, per nome
Arrane, ricordevole di un piccolo favore a lui compartito da _Guaiferio
principe_ di Salerno, trovato in Africa un uomo da Amalfi chiamato
Fluro, il pregiò in confidenza di far sapere da parte sua ad esso
principe che fortificasse Salerno a tutto potere, perchè gli sovrastava
una gran burrasca. Eseguì l'Amalfitano la commessione, e Guaiferio
immantinente si diede a mettere in buon sesto le fortificazioni della
sua città, e vi fece alzar tre fortissime torri ne' siti più pericolosi.
Una fu fatta dai Capuani, allora sudditi suoi; la seconda dai Toscani,
probabilmente negozianti in quella città; e quella di mezzo la
fabbricarono i Salernitani stessi. Ricorse per aiuto ad Adelgiso
principe di Benevento; e questi appena udì lo sbarco della flotta
moresca, che comparve anch'egli a Salerno con quante forze potè. Tennero
questi due principi consiglio insieme, e fu presa la risoluzione di
uscire in campo contra d'essi, e di azzardare una battaglia. Ma avendo
l'accorto Adelgiso ben considerata e scandagliata la moltitudine e
possanza delle schiere nemiche, giudicò meglio di ritirarsi. Tornossene
egli a Benevento, e i Saraceni attendati intorno alla città di Salerno
cominciarono a stringerla con un ben regolato assedio, che durò
moltissimi mesi anche dell'anno presente, e fu sostenuto nulladimeno con
intrepidezza da Guaiferio e dal suo popolo. Per attestato dell'Anonimo
salernitano, da cui ho preso questo racconto, confermato ancora da
Erchemperto, quei Barbari nel tempo d'esso assedio uccisero innumerabili
contadini e distrussero tutti i contorni di Salerno. Venuta poi la
primavera, mandarono distaccamenti ne' territorii di Napoli, di
Benevento e di Capoa, che diedero il sacco dovunque arrivarono, e
desolarono una gran quantità di terre. Avea preso stanza il re loro
Abdila nella chiesa de' santi Fortunato e Gajo; e quivi fatto porre il
suo letto sopra l'altare, soleva sfogar la sua libidine colle misere
fanciulle cristiane che i suoi andavano rapendo. Ordine dovette essere
di Dio, che un giorno volendo costui far forza ad una, cadde dall'alto
della chiesa una trave, che stritolò l'infame tiranno, senza toccar
l'innocente giovane cristiana. In suo luogo elessero i Saraceni per loro
generale o re un altro chiamato Abimelec, uomo ardito e segace.

In tante angustie _Guaiferio_ principe di Salerno, altro scampo non
conoscendo, determinò d'implorare la misericordia dell'_imperador
Lodovico_, e spedì a lui prima _Pietro_ suo cognato, e poscia
_Guaimario_ suo figliuolo. In mal punto v'andarono. L'Augusto Lodovico,
che era forte in collera con Guaiferio, perchè o credeva o sapeva essere
il medesimo stato complice dell'ignominia a lui inferita in Benevento,
non solamente niun soccorso loro accordò, ma feceli anche arrestare, e
mandolli in esilio. Crebbe perciò la disperazione nei Salernitani,
perseguitati di fuori dai Barbari, dentro dalla fame; se non che
_Marino_ duca di Amalfi mosso a compassione della lor disavventura, e
riflettendo al pericolo della propria casa, se bruciava quella del
vicino, destramente andò introducendo vettovaglia nell'assediata città,
e incoraggiando quel popolo continuamente con isperanze e buone parole.
_Landolfo vescovo di Capoa_ si mosse anch'egli, e dopo tanti mali da lui
fatti, per attestato di Erchemperto, questo almen fece di buono in vita
sua: cioè andò in persona a Pavia a raccomandar l'infelice Salerno
all'imperador Lodovico. Prostrato ai suoi piedi, con tal efficacia
perorò, mostrando in qual pericolo sarebbe la cristianità cadendo
Salerno, la gloria che ne acquisterebbe l'imperadore, le calamità non
solo di Salerno, ma anche di tutte le circonvicine contrade, che il
cristianissimo principe si diede per vinto, e dimenticato per allora il
recente affronto a lui fatto, comandò che si allestisse un'armata e si
mettesse in viaggio. Volle il buon imperadore intervenire anch'egli alla
danza. Giunto che fu a Patenava in Campania, dove ricevette i legati di
varie città, e inteso che non lungi da Capoa s'era annidato un corpo di
dieci mila Saraceni, se gli gittò a' piedi _Guntario conte_ suo nipote,
giovane di quindici anni, e tanto fece e disse, che impetrò da lui di
poter andare ad assalire con parte delle truppe franzesi le nimiche
masnade. Seco andarono i Capuani, e sì bravamente menarono tutti le mani
contra di que' Barbari, che ne misero a fil di spada circa nove mila:
segnalata vittoria, ma che costò la vita allo stesso Guntario con sommo
dispiacere dell'Augusto suo zio. Che nel numero degli estinti lo storico
aprisse di troppo la bocca, lo credo io, e verisimilmente lo crederanno
molti altri. Mandò esso imperadore anche a Benevento un altro
distaccamento dei suoi guerrieri, che unito coi Beneventani diede
addosso ad un altro quasi ugual corpo di Saraceni, accampati in un luogo
chiamato Mamma. Ancor questi furono messi in rotta, e poco men che tre
mila d'essi rimasero estinti sul campo. _Adelgiso principe_ si trovò a
questa battaglia, seco avendo i due _Lamberti_ rifugiati in Benevento,
che mirabilmente il servirono in tale occasione. Erchemperto mette
questa vittoria dei Beneventani (il che è ben più probabile) prima che
l'imperador giugnesse in Campania colle sue milizie; ed aggiugne che i
Capuani anche prima aveano tagliato a pezzi mille di quegli infedeli.
Sul fine dell'anno presente riportarono l'armi cristiane tutti questi
vantaggi. E nella Cronica saracenica[1252] nell'anno presente si legge:
_Periit exercitus Moslemiorum in Salerniah_. Nei documenti da me
aggiunti alla Cronica di Casauria[1253] si comincia nell'anno presente a
far conoscere _Suppone II_ duca di Spoleti. Egli è veramente chiamato in
alcune carte solamente conte, secondochè praticavasi anche in Toscana e
in altri paesi; pure chiaramente in una carta, scritta nell'_anno XXIII
di Lodovico imperadore nel dì VI di giugno, indizione V_, cioè in
quest'anno, si legge: _Constat, me Suppo dux, filius quondam, Maurini_,
ec. E questi dallo autore della Cronica suddetta vien chiamato _Suppo
Piceni comes, qui et dux inscribitur, in imperatoris exercitu fulgidus_.
Già vedemmo all'anno 822 creato duca di Spoleti Suppone conte di
Brescia. Essendo egli morto nell'anno 824, fu promosso _Mauringo_ anche
esso conte di Brescia. Fondatamente si può credere che _Maurino_ e
_Mauringo_ sieno stati un personaggio solo; e quando ciò sia, par molto
verisimile che _Suppone II_ fosse figliuolo dello stesso _Mauringo_ già
duca di Spoleti, e che questo Mauringo avesse per padre _Suppone I_
duca.

Ancor qui troppo diede spaccio alle sue fantasie il conte
Campelli[1254]. Si figurò egli che _Lamberto_ duca di Spoleti per poco
tempo perdesse quel dominio, e si rimettesse presto in grazia di
Lodovico imperadore, senza che alcun fosse sostituito a lui in quel
ducato. Ma è fuor di dubbio, siccome ho dimostrato altrove[1255], che
Lamberto ne fu cacciato nell'anno 871, nè lo ricuperò mai in vita di
questo imperadore; e che _Suppone II_ fu creato duca nello stesso anno
871, al vedere che nel novembre di quell'anno si truova _missus Supponis
comitis_ nelle contrade dell'Abbruzzo moderno. Solamente dopo la morte
di Lodovico Augusto, e nell'anno 876, a _Lamberto_ riuscì di riaver quel
ducato. Quando poi si tratta in questi tempi di chi era _duca di
Spoleti_, convien sempre riflettere che due furono i _ducati di
Spoleti_; l'uno di là dall'Apennino, di cui _Spoleti_ era capo; e
l'altro di qua, che fu poi chiamato di _Camerino_. Però due solevano
essere in un tempo stesso que' duchi, senza comparir chiaro se in solido
amendue reggessero que' ducati, oppure se diviso fra loro fosse il
comando e l'autorità. Parlammo di sopra di _Atanasio vescovo_ di Napoli,
rimesso in libertà da _Sergio II duca_ suo nipote[1256]. Non potendo
egli più reggere alle oppressioni che continuavano, dopo aver sigillato
il tesoro della sua cattedrale, si ritirò nell'isola del Salvatore
nell'anno 871. Andò nelle furie il duca Sergio, e mandogli a dire che
rinunziasse il vescovato e si facesse monaco. Negò di farlo Atanasio, e
allora Sergio spedì molte brigate di Napoletani e Saraceni per occupar
l'isola e far prigione il santo vescovo; e costoro per nove giorni
diedero varii assalti, ma indarno, a quel luogo. Dimorava allora in
Benevento l'_imperador Lodovico_, a cui Atanasio fece segretamente
intendere il particolare stato in cui si trovava. Allora Lodovico spedì
immediatamente ordine a _Marino duca_ di Amalfi, che accorresse in aiuto
del perseguitato pastore. L'ordine fu puntualmente eseguito. Marino
arrivato colà all'improvviso con venti barche d'armati, levò il buon
prelato; e quantunque assalito fosse dai Saraceni e Napoletani nel
ritirarsi, fece loro fronte sì vigorosamente, che li ruppe: e quanti
Saraceni vennero alle sue mani tutti li mise a fil di spada. Allora
Sergio diede il sacco a tutto il tesoro del vescovato; perlochè fu
scomunicato da papa _Adriano II_ allora vivente, e messo l'interdetto
nella città di Napoli. Essendo stato condotto Atanasio in salvo a
Benevento, fu graziosamente accolto da Lodovico; andò poscia a Sorrento;
da lì a poco passò a Roma, dove fu alquanto trattenuto dal papa; e
dappoichè intese che l'imperadore era uscito libero da Benevento, andò a
trovarlo a Ravenna, oppur nella Sabina, come ha Pietro Diacono, e con
esso lui tornò a Roma. Uno degli autori della sua vita contemporaneo
attribuisce alle di lui forti preghiere ed ammonizioni la risoluzione
presa da esso imperadore di dar soccorso all'assediata città di Salerno.
Ito egli a Veruli, quivi cadde infermo, e nel dì 15 di luglio dell'anno
presente passò a miglior vita. Il suo corpo, portato alla sepoltura nel
monistero di Monte Casino, fu poscia a' tempi di _Atanasio II_ vescovo e
duca di Napoli, nipote suo, trasferito a Napoli coll'accompagnamento di
molte miracolose guarigioni. Si venera la sua memoria dalla chiesa di
Napoli nel suddetto giorno 15 di luglio. Il cardinal Baronio, che
dottamente negli Annali ecclesiastici fissò la sua morte nell'anno
presente, non mostrò la medesima attenzione nel Martirologio
romano[1257], dove il fa mancato di vita_ tempore Caroli Calvi_, in vece
di dire _tempore Ludovice II_.

NOTE:

[1240] Annales Francor. Bertiniani.

[1241] Godefredus Viterbiensis, Pantheon.

[1242] Campi, Hist. Placent., ad ann. 874.

[1243] Antiq. Ital., Dissert. XI.

[1244] Campelli, Storia di Spoleti.

[1245] Chronic. Vulturnens., P. II, tom. 1 Rer. Italic.

[1246] Chronic. Casauriens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1247] Annales Francor. Bertiniani.

[1248] Chron. Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1249] Regino, in Chron.

[1250] Annalista Saxo, tom. 1 Script. Eccardi.

[1251] Anonymus Salern., Paralipom., cap. 110.

[1252] Chronic. Saracenic., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[1253] Chron. Casauriens. P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1254] Campelli, Storia di Spoleti, lib. 17.

[1255] Antiquit. Italic., Dissert. VI.

[1256] Vita S. Athanasii Episc. Neapol. P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[1257] Martyrologium Romanum ad diem 15 julii.



    Anno di CRISTO DCCCLXXIII. Indizione VI.

    GIOVANNI VIII papa 2.
    LODOVICO II imp. 25, 24 e 19.


Avea principalmente atteso nel verno di quest'anno l'_imperador
Lodovico_ a far fabbricare ed arricchire il monastero di Casauria[1258].
Trovavasi egli tuttavia in Cività di Penna, o in quelle parti, nel marzo
dell'anno presente, dove per via di cambio acquistò da _Grimbaldo
vescovo_ di Penna molte terre _in insula Piscariae, ubi dicitur
Casaurea_. Lo strumento è scritto _anno imperii ejus XXIV, et secundo
anno Supponis comitatus, XXV mensis martii per Indiction. VI_. Passò poi
nel mese di maggio esso Augusto a Capoa, dove _pro totius romani imperii
commoditatibus commorans, universisque fere tam ecclesiasticis quam
saecularibus potentibus viris congregatis, augustatem atque solemnem
curiam celebravit_: sono parole della Cronica casauriense. E quivi in
favore del suddetto monistero diede due diplomi, l'uno scritto _septimo
calendas junias, indictione sexta. Actum Capua_. L'altro _pridie
calendas junii_. L'arrivo a Capua dell'Augusto Lodovico fu la salute di
Salerno[1259]. Immaginarono i Saraceni, fin allora ostinati nell'assedio
di quella città, ch'egli potrebbe star poco a giugnere colà colle sue
armi, per fare i conti con loro. Perciò cominciarono a disporsi per la
ritirata. Non la voleva intendere il re, ossia generale d'essi
_Abimelech_[1260], con dire d'aver non poche segrete promesse che quella
città poco potea stare a capitolare la resa. Ma ammutinati i suoi, gli
misero le mani addosso, e legato il cacciarono in una nave, e se
n'andarono tutti con lasciare sul campo una gran quantità d'arnesi e di
grani, a cui il popolo di Salerno fece tosto, ma scioccamente, attaccare
il fuoco, per paura che fosse finta la loro andata. Se n'andarono que'
ladroni: male nondimeno per la Calabria, dove si ridussero; perciocchè
non trovando quivi chi loro si opponesse, mentre i disattenti Greci
lasciavano senza guarnigion quel paese, e regnava la divisione fra i
popoli, tutta andò a sacco quella provincia. Erchemperto scrive che la
Calabria a' suoi dì restava desolata, ut in _diluvio_. Per attestato
nondimeno di quello storico e di Leone Ostiense, nel tornarsene i
Saraceni suddetti in Africa, oppure in Sicilia, furono battuti da una sì
fiera tempesta, che rimasero fracassate tutte le loro fuste. Stando
intanto l'imperador Lodovico in Capua, ed informato che era morto
Lamberto, soprannominato il Calvo, cioè uno di quei Lamberti che
fuggirono da Spoleti, ardea di voglia di vendicarsi una volta di
_Adelgiso principe_ di Benevento, tenendosi assoluto dai giuramenti
fatti. Cominciò pertanto a far dei preparamenti di guerra con disegno di
passare a Benevento, ma senza palesarlo ad alcuno. Non dormiva Adelgiso;
e siccome principe di non poca accortezza e provvidenza, da che vide
tornare esso Augusto colle armi nella Campania, cominciò a premunirsi in
casa e a cercar aiuti di fuori. L'Annalista bertiniano[1261] ci ha
conservato le notizie seguenti. Cioè, trattò egli con _Basilio
imperador_ de' Greci, affinchè spedisse in Italia una flotta in soccorso
suo, promettendo di pagare a lui que' tributi che in addietro i duchi
ossia principi di Benevento aveano pagato agl'imperadori francesi. Gustò
Basilio questa proposizione, e non mancò d'allestire una forte squadra
di navi, e di metterla in viaggio alla volta d'Italia. Attesta l'Anonimo
salernitano[1262] che l'Augusto Lodovico condusse l'armata sua fin sotto
a Benevento; ma che que' cittadini intrepidamente corsero alla difesa,
ed altro non ne riportò l'imperadore se non delle villanie,
beffeggiandolo quel popolo dalle mura. Procedeva la lor baldanza
dall'avviso certo che i Greci venivano in loro aiuto. Arrivò infatti ad
Otranto la flotta spedita da Costantinopoli sotto il comando di un
patrizio: nuova che ruppe tutte le misure prese dall'Augusto Lodovico, e
gli fece conoscere per impossibile l'adempimento de' suoi desiderii.
Affin dunque di uscire senza vergogna di questo impegno, fece
segretamente intendere a _papa Giovanni_, che desiderava la di lui
venuta al suo campo, suggerendogli di mostrare che spontaneamente egli
si fosse mosso da Roma per riconciliare con esso lui Adelgiso, mediante
l'intercessione sua; giacchè Lodovico s'era prima lasciato intendere,
anzi avea giurato, che non si leverebbe mai di sotto a Benevento, finchè
non l'avesse preso. Egregiamente soddisfece il papa a questa incumbenza
con farsi mediatore ad ottenere il perdono dall'imperadore; e questi
poco appresso ritiratosi colle sue genti, lasciò in pace la città di
Benevento.

Costantino Porfirogenneta[1263] ci racconta delle glorie favolose,
allorchè scrive che per paura dell'armi greche il sultano de' Saraceni,
abbandonato l'assedio di Benevento e di Capua, se ne tornò in Africa.
Che vanto insussistente sia questo, si può raccogliere da quanto abbiam
veduto finora. Ma possiam bene prestargli fede in parte, allorchè scrive
che da lì innanzi que' principi conobbero per loro sovrano l'imperador
greco: il che va inteso del solo Adelgiso principe di Benevento, e non
già del principe di Salerno, nè dei conti di Capua. Certamente Adelgiso
non si fidò più nè di Lodovico Augusto nè dei Franchi, dopo il
bruttissimo giuoco che aveva lor fatto. Abbiamo da Andrea prete[1264],
vivente in questi tempi, che nel mese di agosto, _multae locustae
advenerunt de vicentinis partibus in finibus brescianis, deinde in
cremonensibus finibus, inde perrexerunt in laudenses partes, sive etiam
in mediolanenses. Erant enim una pergentes, sicut Salomon dixit:
Locustae regem non habent, sed per turmas ascendunt. Devastaverunt enim
multa grana minuta milii vel pannici._ Crederei che a quest'anno
appartenesse quanto narra Giovanni Diacono[1265] nella vita di Atanasio
II vescovo di Napoli, con dire: _Hujus temporibus tanta locustarum
densitas in Campaniae partibus, et maxime in hoc parthenopensi
territorio exorta est, ut non solum segetes, sed etiam arborum folia, et
herbarum olera viderentur esse consumta._ Merita anche d'esser saputo
che in questo medesimo anno, secondo gli Annali di Fulda[1266], si provò
lo stesso flagello in Germania; anzi tale fu esso, che non mai prima un
simile ne fu veduto: _Nam vermes, quasi locustae, quatuor pennis
volantes, et sex pedes habentes, ab Oriente venerunt, et universam
superficiem terrae instar nivis operuerunt, cunctaque in agris et in
pratis viridia devastabant. Erunt autem ore lato, et extenso intestino,
duosque habebunt dentes lapide duriores, quibus tenacissime arborum
cortices corrodere valebant. Longitudo et crassitudo illarum quasi
pollex viri. Tantaeque erant multitudinis, ut una hora diei centum
jugera frugum prope urbem Monguntiam consumerent. Quando autem volabant,
ita totum aerem per unius milliarii spatium velabant, ut splendor solis
infra positus vix appareret. Quarum nonnullae in diversis locis occisae,
spicas integras cum granis et aristis in se habuisse repertae sunt.
Quibusdam vero ad Occidentem profectis, supervenerunt aliae, et per
duorum mensium curricula paene quotidie suo volatu horribile cernentibus
praebuere spectaculum._ Aggiugne in fine questo autore, essersi anche
raccontato che in Italia nel bresciano per tre notti era piovuto sangue:
fole che si spacciavano e trovavano dappertutto dei compratori in que'
secoli dell'ignoranza, ed ebbero anche credito ne' secoli della
repubblica romana. Andrea prete, che allora visse in Lombardia, racconta
veramente alcuni accidenti di quest'anno, che nel tempo di Pasqua per le
foglie degli alberi parea che fosse piovuta terra; che una brina caduta
a dì 4 di maggio nella pianura fece seccare i tralci delle viti; ma
nulla seppe di quel sognato sangue. Era in questi tempi _conte del sacro
palazzo Eribaldo_, costando ciò da uno strumento scritto nella città di
Penna, allora ducato di Spoleti, non già nell'anno 874, come ha l'autore
della Cronica Casauriense[1267], ma bensì nel presente. Truovasi questo
conte del sacro palazzo in altri atti sul fine dell'anno presente nel
monistero casauriense. Colà ancora a solennizzare il santo Natale portò
l'imperador Lodovico. In un placito tenuto da esso Eribaldo nel dì 24
dicembre si legge: _Dum domnus Ludowicus gloriosus imperator de partibus
Beneventi reverteretur, et venisset ad monisterium sanctae Trinitatis,
quod est constructum in insula, quae dicitur Casa aurea._ In quest'anno
ancora è data una lettera[1268] di _Giovanni VIII papa_ ad _Annone
vescovo_ di Frisinga, in cui gli raccomanda di spedire con sicurezza a
Roma le rendite spettanti alla Chiesa romana in Germania, con aggiungere
in fine: _Precamur autem, ut optimum organum cum artifice, qui hoc
moderari et facere ad omnem modulationis efficaciam possit ad
istructionem musicae disiciplinae nobis aut deferas, aut cum eisdem
reditibus mittas._ Ecco come la fabbrica degli organi avea preso gran
piede e credito in Germania. Ma non già penso io per questo, come altri
ha creduto, che ora solamente Roma cominciasse ad aver organi nelle sue
chiese.

NOTE:

[1258] Chron. Casauriens. P. II, tom. 2 Rer. Italic.

[1259] Erchempertus, Hist., cap. 35.

[1260] Anonymus Salern., Paralip., cap. 121.

[1261] Annales Franc. Bertiniani.

[1262] Anonym. Salernitan., Paralipo., cap. 122.

[1263] Constantinus Porphyrogenn., in Vit. Basilii.

[1264] Andreas Presbyter, in Chron., tom. 1 Rer. Germ. Menchenii.

[1265] Johann. Diac., Vit. Episc. Neap. Par. II, tom. 1 Rer. Ital.

[1266] Annales Francor. Fuldenses.

[1267] Chron. Casauriens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1268] Baluz., Miscell., tom. 5.



    Anno di CRISTO DCCCLXXIV. Indiz. VII.

    GIOVANNI VIII papa 3.
    LODOVICO II imp. 26, 25 e 20.


Fermossi ancora nel verno di quest'anno l'_imperador Lodovico_ in Capua,
dove l'accortissimo vescovo di quella città _Landolfo_ con tal
disinvoltura s'introdusse nell'animo di lui[1269], che quasi non vedea
esso Augusto per altri occhi che per quei di questo prelato; e però
_ipsum tertium in regno suo constituit_. Volle prevalersi Landolfo di un
sì favorevol vento, ed appoggiato alle raccomandazioni dell'imperadore,
che mostrava tanto affetto a lui, e un cuore sì alieno dai Beneventani,
cominciò a trattare con credibil calore che il papa costituisse il
vescovo capuano metropolitano di tutta la provincia di Benevento. Ma non
gli venne fatta. _Giovanni VIII_ probabilmente conoscendo che un tal
passo avrebbe portato delle conseguenze troppo nocive alla Sede
apostolica, perchè i Beneventani irritati avrebbono potuto gittarsi in
braccio ai Greci che aveano sottratto altre chiese in Calabria e Sicilia
alla santa Sede, e non lascerebbono di fare lo stesso per quelle di
Benevento, si guardò bene dall'acconsentire alle brame ambiziose del
vescovo di Capua. Riuscì poi da lì quasi a cento anni tanto al vescovo
capuano, quanto al beneventano di conseguir la dignità archiepiscopale.
Ora l'Augusto Lodovico, dopo essere dimorato per lo spazio quasi di un
anno in Capua, finalmente fu richiamato dai suoi affari in Lombardia.
Lasciò in essa città di Capua l'imperadrice _Angilberga_ e la figliuola
_Ermengarda_, e andossene a Ravenna, seco portando il corpo di san
Germano vescovo di essa città di Capua, come attesta Leone Ostiense.
Abbiamo nella Cronica casauriense[1270] un suo diploma in favore del
monistero di Casauria, _dato tertio calendas majas, Indictione septima.
Actum foris civitate Ravennae ad sanctum Apollinarem, anno imperii domni
Ludovici serenissimi imperatoris vicesimo quinto._ Anche il suddetto
Leone Ostiense[1271] è testimonio che il medesimo Augusto, trovandosi
nel monistero di santo Apollinare fuor di Ravenna, concedette un
privilegio favorevole al monistero di Monte Casino. Colà son io d'avviso
che andasse a trovarlo papa Giovanni per concerto fatto fra loro di
abboccarsi amendue con _Lodovico re_ di Germania nel territorio di
Verona. Ci assicura in fatti la Cronica di Fulda[1272], che esso re
Lodovico, dopo essere stato verso la metà d'aprile a visitar per sua
divozione il monistero di Fulda, tenne dipoi una dieta generale in
Triburia presso Magonza. _Inde in Italiam per Alpes Noricas transiens,
cum Hludowico nepote suo, et Johanne romano pontifice, haud procul ab
urbe Verona, colloquium habuit._ Cosa si trattasse in quel congresso,
nol dicono essi Annali. Probabilmente vi entrarono le pretensioni
dell'imperador Lodovico sopra il regno della Lorena. Potrebbe anche
dubitarsi che vi si parlasse di chi dovea succedere nel regno d'Italia e
nell'imperio, giacchè Dio non avea dato prole maschile ad esso Augusto
Lodovico. In quest'anno, tutto ansioso esso imperadore di sempre più
nobilitare il suo favorito monistero casauriense, impetrò da papa
Giovanni il sacro corpo di san Clemente I papa e martire, e fecelo
trasportare colà con gran solennità: laonde col tempo cominciò ad essere
appellato da alcuni il monistero di san Clemente. Il cronista
casauriense pretende che sotto papa Adriano II fosse fatta questa
traslazione. Ma che ciò seguisse a' tempi di Giovanni VIII, lo
persuadono i documenti spettanti nell'anno presente a quel monistero,
dove l'imperador Lodovico cominciava a far menzione di questo sacro
acquisto. In un privilegio di esso Augusto[1273], dato _calendis
septembris, Indictione octava. Actum Olonna in curte imperiali, anno
imperii domni Ludovici serenissimi imperatoris vicesimo quinto_, cioè
nel presente anno, nomina il tempio della santissima Trinità _in insula,
quae Casa aurea vocitatur, ubi et almificum beatissimi pontificis et
martyris Clementis corpus venerabiliter recondi fecimus_. In un altro
privilegio dato parimente _in corte Olonna_, delizioso palagio di villa
non lungi da Pavia, dove molto godeva di far soggiorno questo
imperadore, nel dì 15 d'ottobre egli conferma al monistero suddetto
tutti i beni ad esso da lui donati _sive infra romanam urbem, sive extra
ipsam, seu etiam per totam Pentapolim, Tusciam et spoletinum ducatum,
atque camerinum comitatum, necnon etiam firmanum, ascolinum, aprutinum,
pinninum, seu teatinum territorium_. Quivi miriamo distinto il _contado
di Camerino dal ducato di Spoleti_. Contuttociò in un altro diploma,
dato in quest'anno nel dì primo novembre _in curte imperiali Olonna_,
egli torna a far menzione d'essi beni donati _tam infra urbem Romam,
quam extra ipsam romuleam urbem, per totam scilicet Campaniam, et per
omnem Romaniam_ (oggidì Romagna), _necnon et per ambos spoletanos
ducatus, seu per totam Tusciam_. Se erano due i ducati Spoletani,
adunque d'un solo di Spoleti se n'erano già formati due; e l'uno d'essi
fu appellato Marca di Camerino o di Fermo. In quest'ultimo documento ci
fa lo stesso Augusto sapere di aver osservato un luogo atto agli usi
monastici, chiamato _Monnello, distantem ferme duobus milibus ab urbe
mantuana_, e di aver quivi fondato e dotato un monistero di monaci _pro
animae nostrae remedio_. Due altri diplomi d'esso Augusto, scritti
parimente in corte Olonna nell'ottobre di quest'anno, si leggono nelle
Antichità italiane[1274].

Non volle essere da meno dell'imperador suo consorte l'Augusta
_Angilberga_, e prese anch'ella circa questi tempi a fabbricare in
Piacenza un riguardevol monistero di sacre vergini _sub titulo dominicae
resurrectionis, et in honore sanctorum martyrum Sexti, Fabiani_,
ec.[1275], dove poi pare che si facesse monaca, ma non professa,
_Ermengarda_ figliuola d'essi Augusti, come costa da una donazione fatta
da essa nell'anno 890. Il tempo della fabbrica d'esso monistero si
ricava da un diploma del suddetto imperadore dato in _corte Olonna_ nel
dì 15 d'ottobre dell'anno presente, con cui conferma la donazione dei
beni a quel sacro luogo fatta da essa Angilberga. Il Locati[1276] e il
Ripalta, scrittori piacentini, pretesero che la fondazione del suddetto
monistero appellato poi di san Pietro, e divenuto uno dei più insigni
della Lombardia, oggidì posseduto dai monaci benedettini, seguisse
nell'anno 822, con error manifesto. Pretese poi Pietro Maria Campi[1277]
che l'imperadrice Angilberga desse principio a questa pia impresa
nell'anno 852, con riferire a quell'anno un privilegio dell'imperador
suo marito, dove dice che esso Augusto vuole _infra muros placentinae
urbis in honore sanctae resurrectionis monasterium unum sacrarum
puellarum construere_. Ma son chiaramente guaste le note cronologiche di
quel diploma, che per altro è da me creduto documento legittimo. Veggasi
un altro diploma d'esso Augusto, da me dato alla luce[1278], dove sotto
quest'anno si vide disegnata la fabbrica di quel monistero. Dimorò
almeno per qualche parte del presente anno essa imperadrice Angilberga
in Capua. Di tal congiuntura si prevalse _Landolfo vescovo_ di quella
città[1279], uomo che ordiva ogni dì delle nuove cabale, per far mettere
in prigione _Guaiferio principe_ di Salerno, contuttochè poco dianzi
questo vescovo gli avesse prestato giuramento di suggezione e fedeltà
per la città di Capua, ch'egli signoreggiava anche nel temporale. Ma per
questo non gli venne fatto ciò che egli andava macchinando; perciocchè
Guaiferio aiutato dagli amici fu rimesso in libertà, con dare per suoi
ostaggi i figliuoli di Landone, cioè Landone e Landenolfo, suoi parenti,
i quali Angilberga, tornando in Lombardia, condusse seco, e lasciolli
confinati in Ravenna. Mette poi Girolamo Rossi[1280] (seguitato in ciò
dal padre Pagi[1281]) un concilio tenuto in quest'anno da _papa
Giovanni_ in Ravenna, dove fu dato fine ad una lite insorta fra _Orso_
doge di Venezia e _Pietro_ patriarca di Grado. Ma il Rossi, che ha preso
questo fatto dalla cronica di Andrea Dandolo, non badò che quello
storico fa menzione di questo fatto dopo la morte di Lodovico II
imperadore. Però più tardi s'ha da allogar questo concilio. All'anno
presente bensì appartiene una lettera scritta da papa Giovanni VIII allo
stesso imperadore, e pubblicata dal Baluzio[1282]. Dovea Lodovico aver
fatta istanza al papa perchè si restituissero alla chiesa di Ravenna
alcuni monisteri da essa pretesi, e allora posseduti dal romano
pontefice. Ora con queste parole gli risponde papa Giovanni:
_Monasterium sanctae Mariae in Comaclo, quod Pomposia dicitur, et
monasterium sancti Salvatoris in monte Feretri, aliudque monasterium,
quod vocatur sancto Probo, atque colonos in territorio ferrariensi et
adriensi, et Gallicata, et Faventillam, ravennati archiepiscopo non
abstulimus; sed ea monasteria et loca ab antecessoribus nostris possessa
reperientes possedimus, hactenusque jure nostro retinemus_. Divenne col
tempo uno de' più celebri monisteri d'Italia quello della _Pomposa_,
massimamente dappoichè _Ugo marchese d'Este_ l'arricchì di molti beni.
Era in questi tempi arcivescovo di Ravenna _Giovanni_, quel medesimo che
fu condannato nel concilio romano nell'anno 861. E che tuttavia durasse
poco buona armonia fra lui e papa Giovanni, si può raccogliere da un
frammento d'altra lettera scritta da esso papa all'imperadrice
Angilberga, in cui le dice[1283]: _Ad hoc usque malum crevit et
incrassatum est, ut factione ravennatis archiepiscopi Maurinus cum suis
complicibus, qui excommunicati et anathematizati a nobis jam sunt,
Ravennam ingrederetur, et fidelium nostrorum res cum eis funditus
raperet et devastaret, adeo ut claves civitatis Ravennae a vestarario
nostro violenter subtraheret, et pro libitu suo, nescimus cujus
auctoritate, ipsi archiepiscopo (quod numquam factum fuisse recolitur)
potestative concederet._ Adunque i ministri della santa Sede comandavano
in Ravenna, giacchè presso di loro stavano le chiavi di quella città.

NOTE:

[1269] Erchempertus, Hist. cap. 36.

[1270] Chron. Casauriens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1271] Leo Ostiensis, lib. 1, cap. 39.

[1272] Chron. Franc. Fuldense.

[1273] Chron. Casauriens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1274] Antiquit. Italic., Dissert. XVI, pag. 935 et seq.

[1275] Idem, Dissert. VII, pag. 367.

[1276] Locatus Hist. Placent.

[1277] Camp., Istor. Eccl. di Piacenza all'ann. 852.

[1278] Antiquit. Italic., Dissert. XXVI, pag. 453.

[1279] Rubeus, Hist. Ravenn. lib. 5.

[1280] Pagius, ad Annal. Baron.

[1281] Baluz., Miscellan., tom. 5.

[1282] Erchempertus, Hist. cap. 36.

[1283] Baluz., Miscell. tom. 5.



    Anno di CRISTO DCCCLXXV. Indiz. VIII.

    GIOVANNI VIII papa 3.
    CARLO II imperadore 1.


Sono scorretti i testi di alcuni antichi Annali, oppure han fallato i
loro autori, allorchè riferiscono all'anno precedente la morte
dell'_imperador Lodovico II_. La verità è ch'egli finì di vivere
solamente nel dì 12 d'agosto dell'anno presente nel territorio di
Brescia, e non già in Piacenza, nè in Milano, come alcuni han creduto.
Però nella Cronica casauriense, data alla luce dall'Ughelli[1284], sono
scorrette le note cronologiche di un diploma, _dato III idus octobris,
Indictione VIII, anno dominicae incarnationis DCCCLXXV_. Si dee
scrivere. _DCCCLXXIV_, perchè l'Indizione _ottava_ ebbe principio nel
settembre dell'anno precedente. Andrea prete italiano nella sua
Cronichetta[1285] scrive, che correndo l'_indizione ottava_, cioè in
quest'anno, per tutto il mese di giugno si vide una cometa colla coda
lunga. E che nel mese di luglio vennero i Saraceni, ed abbruciarono una
città, ma con essere caduto il nome d'essa dal testo suo. Ha creduto
taluno che qui si parli di Benevento; ma certo in Benevento non
entrarono quegl'infedeli, nè quella città restò consunta dalle fiamme.
Seguita a dire esso Andrea: _Sequenti autem mense augusto Hludovicus
imperator defunctus est pridie idus augusti in finibus brescianis.
Antonius vere brescianus episcopus tulit corpus ejus, et posuit eum in
sepulcro in ecclesia sanctae Mariae, ubi corpus sancti Filastrii
requiescit. Anspertus mediolanensis archiepiscopus mandavit ei per
archidiaconum suum, ut reddat corpus illud. Ille autem noluit._
L'arcivescovo Ansperto la volle vinta, e si portò egli in persona a
Brescia con _Garibaldo_ vescovo di Bergamo, e _Benedetto_ vescovo di
Cremona, e con tutti i preti e il clero d'essa città. E fatto cavar di
sotterra l'imperial cadavero, ed imbalsamatolo, il misero in una bara, e
nel giorno quinto da che era morto, con lunga processione, cantando i
sacri inni, lo condussero a Milano. Confessa il suddetto Andrea prete,
esser egli stato un di coloro che portarono per qualche spazio di strada
il cataletto. _Veritatem in Christo loquor_, dice egli: _ibi fui, et
partem aliquam portavi, et cum portantibus ambulavi a flumine, qui
dicitur Oleo, usque ad flumen Addua_. Hanno conghietturato il Menchenio
e l'Eccardo che questo Andrea prete possa essere stato il medesimo che
_Andrea Agnello_ scrittore delle vite degli arcivescovi ravennati. Ma
se, secondo i conti del padre Bacchini, Agnello nell'anno di Cristo 829
era in età di anni trentacinque, non è giammai verisimile che nell'anno
875 egli avesse spalle atte a portare quel peso. Dubito io piuttosto
ch'egli fosse bergamasco, al vedere che dal fiume Oglio sino all'Adda,
cioè per la diocesi di Bergamo, a lui toccò l'onore suddetto; e che poco
appresso egli parla individualmente di ciò che fecero i Bergamaschi
nella dissensione succeduta a cagion dell'imperio. Seguita egli poscia a
dire, che condotto il cadavero d'esso imperadore a Milano, con grande
onore e pianto fu seppellito nella chiesa di santo Ambrosio _die
septimanae ejus_, cioè nel _giorno settimo_ dopo la sua morte, con avere
speso tre giorni nel viaggio, e non già nella settimana della festa di
santo Ambrosio del mese di dicembre. L'epitaffio suo, che tuttavia ivi
si legge, quantunque pubblicato da altri, mi sia lecito l'aggiugnerlo
qui.

                               D.P.M
                    HIC.CVBAT.AETERNI.HLVDOVICVS
                          CAESAR.HONORIS
                       AEQVIPARAT.CVIVS.NVLLA
                           THALIA.DECVS
                       NAM.NE.PRIMA.DIES.REGNO
                          SOLIOQVE.VACARET
                      HESPERIAE.GENITO.SCEPTRA
                           RELIQVIT.AVVS
                     QVAM.SIC.PACIFICO.SIC.FORTI
                           PECTORE.REXIT
                     VT.PVERVM.BREVITAS.VINCERET
                            ACTA.SENEM
                      INGENIVM.MIRER.NE.FIDEM
                         CVLTVSVE.SACRORVM
                         AMBIGO.VIRTVTIS.AN
                            PIETATIS.OPVS
                     HVIC.VBI.FIRMA.VIRVM.MUNDO
                          PRODVXERAT.AETAS
                        IMPERII.NOMEN.SVBDITA
                             ROMA.DEDIT
                       ET.SARACENORVM.CREBRAS
                          PERPESSA.SECVRES
                     LIBERE.TRANQVILLAM.VEXIT.VT
                             ANTE.TOGAM
                    CAESAR.ERAT.CAELO.POPVLVS.NON
                           CAESARE.DIGNVS
                     COMPOSVERE.BREVI.STAMINA
                             FATA.DIES
                     NVNC.OBITVM.LVGES.INFELIX
                            ROMA.PATRONI
                      OMNE.SIMVL.LATIVM.GALLIA
                             TOTA.DEHINC
                    PARCITE.NAM.VIVVS.MERVIT.HAEC
                           PRAEMIA.GAVDET
                     SPIRITVS.IN.CAELIS.CORPORIS
                           EXTAT.HONORIS

Fu principe buono. Erchemperto monaco[1286] altro non seppe trovar da
riprendere in lui, se non lo sconcerto accaduto in Roma delle croci
rotte, che narrammo all'anno 864, il quale si dee piuttosto attribuire
all'insolenza de' suoi cortigiani che a lui; e il non aver fatto levar
di vita il soldano de' Saraceni, allorchè costui nella presa di Bari si
arrendè ad Adelgiso principe di Benevento: il che non è un delitto, se
non nella mente di chi sa poco di teologia, e meno di politica. Per
altro abbiam l'attestato di Reginone, che così parla d'esso
imperadore[1287]: _Fuit iste princeps pius et misericors, justitiae
deditus, simplicitate purus, ecclesiarum defensor, orphanorum et
pupillorum pater, eleemosinarum largus largitor, servorum Dei humilis
servitor, ut justitia ejus maneret in saeculum saeculi, et cornu ejus
exaltaretur in gloria._ Fra le leggi longobardiche si leggono anche le
sue con varie giunte da me pubblicate[1288].

Niuna prole maschile lasciò dopo di sè l'imperador Lodovico. Restò di
lui una sola figliuola, cioè _Ermengarda_, a lui partorita
dall'imperadrice _Angilberga_, che la madre avea lasciata in Capua. E
questo mancar di successori abili all'imperio cominciò a turbar la pace
che per tanti anni s'era goduta in Lombardia pel buon governo di questo
principe: anzi cominciò qui la rovina dell'Italia, che restò priva del
sovrano abitante in essa, e così potente, che teneva in freno la
prepotenza e l'ambizione degl'inferiori; laonde la discordia con gli
altri malanni prese da lì innanzi possesso di questo regno. Due erano
allora i concorrenti all'imperio e al regno d'Italia, siccome
discendenti da Carlo Magno, cioè _Lodovico_ re di Germania in età assai
avanzata, e provveduto di tre figliuoli, ognun dei quali infetto di
molte magagne: e l'altro era _Carlo Calvo_ re di Francia suo fratello.
Tutti e due attentamente vagheggiavano gli stati d'Italia. Or accadde,
per testimonianza di Andrea prete[1289], che sul principio di settembre
si raunò in Pavia la gran dieta de' principi d'Italia, cioè dei duchi,
marchesi e conti d'allora, con esservi intervenuta la vedova imperadrice
Angilberga. La risoluzione che presero, biasimata da esso Andrea prete,
fu di offerire il regno a tutti e due i suddetti re, senza che l'uno
sapesse dell'altro: però amendue si accinsero a calare in Italia con
quanto forze poterono frettolosamente raunare. Maggiore nondimeno fu la
sollecitudine di Carlo Calvo. Senza aspettare invito alcuno degli
Italiani, appena ebbe egli udita la morte del nipote Augusto, che si
mise in assetto per venire a prendere questa pingue eredità. Secondo gli
Annali bertiniani[1290], nel dì primo di settembre imprese il viaggio
verso l'Italia, e con passare pel monistero di san Maurizio, cioè pel
paese de' Vallesi, felicemente arrivato a Pavia, si diede a far maneggi
per esser eletto re d'Italia. Abbiamo un suo diploma[1291] dato nella
stessa città di Pavia nel dì 29 di settembre, in cui non esprime l'anno
primo del regno d'Italia, ma solamente l'_anno primo della successione
di Lodovico_. Intanto Lodovico re di Germania spedì anch'egli alla volta
d'Italia _Carlo_ suo figliuolo, che gl'Italiani cominciarono a chiamare
_Carletto_, ed oggidì più conosciuto sotto nome di _Carlo Grasso_ ossia
_Carlo_ il _Grosso_. Giunto questi nel territorio di Milano, e inteso
che Carlo Calvo suo zio era già entrato in Pavia, restò assai
malcontento, e senza sapere qual partito prendere. Attesta Andrea prete,
che con esso lui si unì _Berengario_, cioè il figliuolo d'_Eberardo_ già
duca del Friuli, vegnendo noi con ciò in cognizione ch'egli dovea già
essere succeduto per la morte di _Unroco_ suo fratello nel governo di
quel medesimo ducato, o vogliam dire di quella marca. Vennero le
soldatesche di Berengario nel bergamasco, commettendo non pochi
disordini d'incendii e d'adulterii, di maniera che molti di que'
paesani, lasciando le case e le sostanze alla discrezion di quella
gente, se ne fuggirono o alla città, o alle montagne. Ricavasi ancora da
una lettera[1292] di papa _Giovanni VIII_, ch'egli arrivato a Brescia,
avea spogliato il monistero delle monache di santa Giulia di tutto l'oro
sì d'esso sacro luogo che dell'imperadrice Angilberga, la quale avea
colà rifugiato, come in ben sicuro asilo, il suo non piccolo tesoro,
ammassato con far tanto gridar la gente. Come veramente passassero in
tale occasione gli affari, non è facile il dirlo, stante la discordia
degli Annali di san Bertino composti da un Franzese, e dei Fuldensi
scritti da un Tedesco, cercando l'uno e l'altro di sostener l'onore, o
di coprire i difetti della sua nazione, con adoperare, occorrendo, anche
le bugie: difetto non già straniero negli scrittori di storie. Carlo
Calvo, secondo i suddetti Annali bertiniani, uscito contra di esso Carlo
Grasso, il mise in fuga, e costrinselo a ritirarsi. Anzi Andrea prete
aggiunse che _Carlo Calvo perrexit in Bajoariam_; cioè portò le sue armi
fino in Baviera: il che non saprei facilmente credere io. L'Eccardo
pensò che questo fosse uno stratagemma di Carlo Calvo, al quale non
riuscisse già di far fuggire il nipote Carlo, ma bensì di farlo
retrocedere, per accorrere alla difesa della casa. Ma neppur sembrerà
credibile che Carlo Calvo volesse passare in Baviera con lasciare in
Italia un principe tedesco suo nipote, assistito dal duca ossia dal
marchese del Friuli, che avrebbe potuto profittare della lontananza
dello zio.

Comunque sia, _Lodovico_ re di Germania inviò alla volta d'Italia
_Carlomanno_, cioè un altro de' suoi figliuoli, con un'altra armata. Per
attestato degli Annali di san Bertino, Carlo Calvo con forze maggiori
gli andò incontro; e Carlomanno, conosciuto di non potere resistere allo
zio, trattò con lui di pace, e dopo i giuramenti seguiti fra loro, se ne
tornò in Germania. Laonde Carlo Calvo, sbrigato da questi ostacoli, ebbe
l'agio convenevole per passare a Roma a ricevere la corona dell'imperio
dalle mani di papa Giovanni. All'incontro abbiamo dagli Annali di
Fulda[1293] che Carlo Calvo, tiranno della Gallia, balzò in Italia, ed
aggraffò tutti i tesori che potè ritrovare, specialmente dell'imperador
Lodovico II. All'avviso che Carlomanno calava in Italia, si fortificò
alle chiuse delle montagne; ma Carlomanno molto ben seppe preoccupare i
siti più difficili. Ora Calvo Carlo considerando che non si poteva
sbrogliare da questo pericoloso impegno senza venire ad un fatto d'armi,
siccome uomo più timido d'una lepre, ricorse al ripiego di guadagnare,
con una gran somma d'oro e con regali d'innumerabili pietre preziose,
l'animo di Carlomanno. E gli venne fatto. Giurò egli di ritirarsi tosto
dall'Italia, e di lasciar questo regno alla disposizione di suo fratello
Lodovico, purchè Carlomanno se ne tornasse anch'egli in Baviera. In
fatti l'incauto giovane Carlomanno se n'andò, ed allora Carlo Calvo,
nulla badando alle promesse nè ai giuramenti fatti, il più presto che
potè marciò a Roma, dove con donativi corruppe il senato romano in guisa
tale, che indusse papa Giovanni a dargli la corona dell'imperio. In
questo racconto ha verisimilmente avuta qualche parte la passione o la
diceria del volgo. Per altro Andrea prete, scrittore in ciò più
autentico, attesta, che fatto al fiume Brenta un abboccamento fra Carlo
Calvo e Carlomanno, rimase stabilita una tregua fra loro sino al mese di
maggio: dopo di che Carlomanno se ne tornò in Baviera, e Carlo Calvo se
n'andò a Roma, dove, fatti molti doni alla chiesa di san Pietro,
ricevette il titolo e la corona imperiale da papa Giovanni. Reginone
scrive ch'egli a forza di regali comperò l'imperio. Certamente pare che
seguisse la tregua suddetta, ed avesse da restar pendente la
controversia; ma Carlo Calvo non lasciò per questo di fare il negozio
suo con burlare il troppo suo credulo nipote. In questo mentre lo stesso
Lodovico re di Germania, credendosi di far desistere il fratello
dall'acquisto dell'Italia, entrò coll'armi in Francia, e diede il guasto
ad un gran tratto di paese, senza che per questo volesse Carlo Calvo
muoversi d'Italia. Non si sa bene se esso re Carlo da sè stesso
assumesse il titolo di re d'Italia, e neppure se ne seguisse la formale
elezione e proclamazione in Pavia. Abbiamo ben certo il tempo della sua
coronazione imperiale in Roma. Invitato dal papa colla spedizione di
quattro vescovi, arrivò egli colà nel dì 17 di dicembre, e poscia nel
giorno solenne del santo Natale[1294] fu unto e coronato imperadore ed
Augusto dal sommo pontefice _Giovanni VIII_. Reginone[1295] attesta
ch'egli fece dei gran regali al papa e ai Romani. Nel giorno seguente,
stando in san Pietro, esercitò la sua autorità col confermare i
privilegii al monistero insigne di Farfa. Il suo diploma, riferito nella
Cronica farfense[1296], è dato _VII kal. januarii, anno XXXVI regni
domni Caroli in Francia, et in successione Lotharii VI, et imperii ejus
I. Actum in sancto Petro, Indictione IX_. Feci menzione di sopra di
un'operetta, attribuita ad Eutropio longobardo, di cui si servì il de
Marca[1297] per provare che Carlo Calvo in tal congiuntura cedette ai
romani pontefici la sovranità sopra Roma. In fatti dice costui, che
venuto esso Carlo a Roma,_ renovavit pactum cum Romanis, perdonans illis
jura regni, et consuetudines illius_, ec. Ma il padre Pagi pruova non
sussistere una tale asserzione, avendo continuato gli Augusti il loro
dominio in Roma stessa. E certo quell'autore, qualunque ei sia, conta
nello stesso luogo dell'altre favole: cioè che Carlo Calvo donò loro
anche _patrias Samniae et Calabriae simul cum omnibus civitatibus
Beneventi_, e inoltre _ad dedecorem regni totum ducatum spoletinum cum
duabus civitatibus Tusciae, quod solitus erat habere ipse dux, idest
Aritium et Clusium_. La storia, siccome vedremo, non s'accorda con
questo racconto e con altre particolarità ch'egli soggiugne. Poichè per
altro non son io lungi dal credere che papa Giovanni ottenesse allora
non pochi vantaggi da un principe che avea un concorrente allo stesso
mercato. Certo si ricava da una lettera d'esso papa Giovanni[1298] che
Carlo Calvo avea ceduto Capoa, non si sa con quali patti, alla Chiesa
romana. Gli affari intanto del ducato di Benevento si trovavano in una
cattiva positura. Dacchè l'imperador Lodovico II si ritirò da quelle
contrade[1299], ripigliarono cuore i Saraceni, e giacchè restò sciolto
il blocco di Taranto, che avea quasi ridotta quella città alla necessità
di rendersi, a poco a poco si diedero a scorrere per gli territorii di
Bari e di Canna, commettendovi le solite ruberie con alcune iniquità.
Tre volte uscì in campo contra di costoro Adelgiso principe di
Benevento; ma sempre se ne tornò indietro senza gloria e senza vantaggio
alcuno. Però in quelle parti andarono a dismisura crescendo le sciagure,
siccome vedremo.

NOTE:

[1284] Chron. Casauriens. apud Ughellium tom. 6, Ital. Sacr. P. II, tom.
2 Rer. Ital.

[1285] Andreas Presbyt., Chron. tom. 1 Rer. Germ. Menchenii.

[1286] Erchempertus, Hist. cap. 37.

[1287] Regino, in Chronico.

[1288] Rer. Ital. P. II, tom. 1.

[1289] Andreas Presbyter., in Chronico.

[1290] Annal. Franc. Bertiniani.

[1291] Antiquit. Ital., Dissert. XI, p. 581.

[1292] Epist. 42 Johannis papae VIII.

[1293] Annal. Franc. Fuldenses.

[1294] Annales Francor. Bertiniani.

[1295] Regino, in Chronico.

[1296] Chron. Farfens. P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1297] De Marca, lib. 3, c. 11 de concord. sacerd. et imper.

[1298] Epistola 9 Johann. papae VIII.

[1299] Erchempertus, in Chron., cap. 38.



    Anno di CRISTO DCCCLXXVI. Indiz. IX.

    GIOVANNI VIII, papa 5.
     CARLO II imperadore 2.


Per quanto s'ha dagli Annali bertiniani[1300], _Carlo Calvo_ imperadore
soggiornò in Roma fino al dì cinque di gennaio, nel qual tempo _papa
Giovanni_ diede una bolla in favore del monistero di san Medardo di
Soissons, riferita dal padre Mabillone[1301], e scritta _quarto nonas
januarii per manum Anastasii bibliothecarii sanctae sedis apostolicae,
anno, Deo propitio, pontificatus domni Johannis quarto, imperante domno
piissimo perpetuo Augusto Carulo, a Deo coronato magno imperatore anno
primo, et post consulatum ejus anno primo, Indictione nona_, cioè nella
stessa guisa che si praticò cogli antichi Augusti. Partissi dunque da
Roma l'imperadore novello, e venuto a Pavia, colà convocò la dieta del
regno d'Italia, che si tenne nel mese di febbraio. V'intervennero
diciotto vescovi, alla testa de' quali era _Ansperto arcivescovo_ di
Milano, e _Bosone_ fratello di _Richilda_ imperadrice (poco dianzi da
Carlo dichiarato _duca_ di Lombardia, con dargli la corona _ducale_), e
dieci conti, fra' quali _Suppone_, che tuttavia teneva il governo del
ducato di Spoleti, e _Boderado_ conte del sacro palazzo. Non dovea prima
d'ora essere stato eletto e riconosciuto in dieta alcuna per re d'Italia
esso Carlo Calvo. Per sicurezza sua, ed anche per conservare i suoi
diritti ai principi di questo regno, volle l'Augusto Carlo che ne
seguisse la solenne funzione. Le parole dell'accettazione son queste,
secondo l'edizion più copiosa d'esso concilio[1302]: _Jam quia divina
pietas vos, beatorum Apostolorum, Petri et Pauli interventione, per
vicarium ipsorum, domnum videlicet Johannem, summum pontificem, et
universalem papam, spiritalemque patrem vestrum, ad profectum sanctae
Dei Ecclesiae, nostrorumque omnium invitavit, et ad imperiale culmen
sancti Spiritus judicio provexit: nos unanimiter vos protectorem,
dominum, ac defensorem omnium nostrum, et italici regni regem eligimus_,
ec. Ed ecco come cominciarono anche i magnati del regno d'Italia ad
eleggere il re loro: cosa praticata sempre sotto i re longobardi; ma,
per quanto sembra, dismessa sotto i precedenti imperadori franzesi.
Passato di poi Carlo Calvo in Francia, fece quivi tenere un concilio,
ossia un'altra dieta in Pontigone, dove fu medesimamente riconosciuto
per imperadore dai baroni della Francia, Borgogna, Aquitania,
Settimania, Neustria e Provenza, nel giugno dell'anno presente. V'erano
presenti i legati apostolici _Giovanni vescovo_ di Tuscania e _Giovanni
vescovo_ di Arezzo. Vi comparve lo stesso Carlo, vestito pomposamente
alla greca, e da essi legati gli furono presentati per parte del papa
varii regali, fra' quali uno scettro e un bastone d'oro, o pure
indorato. In questi tempi la vedova imperadrice _Angilberga_ menava sua
vita nel monistero insigne di santa Giulia di Brescia, che il defunto
Augusto consorte suo Lodovico II, giusta l'uso, o, per dir meglio, abuso
d'allora, aveva a lei conceduto in commenda, ossia in governo, finchè
ella vivesse. Da una lettera di papa Giovanni[1303], a lei scritta
nell'anno seguente, pare che traspiri aver ella già preso l'abito
monastico; ma questo non è certo, a creder mio. Siccome dicemmo,
Carlomanno l'avea nel precedente anno spogliato del suo tesoro. Le
restavano molte terre e stabili, a lei donati dall'Augusto consorte, e
almen buona parte di questi ella intendeva di donare al monistero delle
sacre vergini di san Sisto, da lei fabbricato in Piacenza. Ma perciocchè
non si fidava delle mani rapaci dei re suoi parenti, che o
signoreggiavano o aveano pretensioni negli stati, dove ella avea que'
beni, però quest'anno ella si procacciò un diploma di protezione da
_Lodovico I re_ di Germania, dato _XIII kal. augusti, anno XXXVIII regni
domni Hludowici serenissimi regis in orientali Francia, Indictione
VIIII_. Leggesi questo nelle mie Antichità italiche[1304]. Non si sa
ch'ella se ne procurasse un altro simile da _Carlo Calvo_ imperadore,
perchè non godeva molto della di lui grazia. Siccome accennai di sopra,
in esso diploma Angilberga è appellata da Lodovico _dilecta ac
spiritalis filia nostra Engilpirga_: il che fa conoscere l'abbaglio
preso dal Campi[1305] in ispacciarla figliuola naturale del medesimo re
Lodovico. Se crediamo agli Annali di Fulda[1306], Carlo Calvo montato in
superbia, faceva intanto delle sparate contra d'esso re suo fratello,
non solamente negando di volergli dar parte alcuna degli stati del
defunto comune nipote Lodovico, ch'egli pretendeva, ma anche minacciando
e vantandosi ridicolosamente di voler condurre tanta quantità di
cavalli, che bevendo tutta l'acqua del Reno, porgerebbono a lui comodità
di passare per l'alveo asciutto di quel fiume. Avendo poscia udito che
Lodovico si metteva in ordine per ben riceverlo, cadutegli le penne,
mandò ambasciatori per trattar di pace. Ma il re Lodovico preso da
mortale infermità, terminò i suoi giorni nel palazzo di Francoforte nel
dì 28 d'agosto: principe che nella storia germanica di Reginone si
meritò questo nobile elogio[1307]. _Fuit autem iste princeps
christianissimus, fide Catholicus, non solum saecularibus, verum etiam
ecclesiasticis disciplinis sufficienter instructus. Quae religionis
sunt, quae pacis, quae justitiae ardentissimus exsecutor. Ingenio
callidissimus, consilio providentissimus, in dandis, sive subtrahendis
publicis dignitatibus discretionis moderamine temperatus, in praelio
victoriosissimus; armorum quam conviviorum apparatu studiosior; cui
maximae opes erant instrumenta bellica; plus diligens ferri rigorem quam
auri fulgorem; apud quem nemo inutilis valuit; in cujus oculis perraro
utilis displicuit; quem nemo muneribus corrumpere potuit; apud quem
nullus per pecuniam, ecclesiasticam, sive mundanam dignitatem obtinuit;
sed magis Ecclesiam, probis moribus et sancta conversatione; mundanam
devoto servitio et sincera fidelitate._ Gli è tenuta la Germania,
specialmente per aver egli fondato quel vasto regno; e per questo, ma
più per le sue virtù, tuttavia _illius memoria in benedictione est._
Lasciò dopo di sè tre figliuoli, cioè _Carlomanno_ primogenito,
_Lodovico II_ e _Carlo_ appellato il _Grosso_.

Tutto ringalluzzito l'imperador _Carlo Calvo_ all'avviso della morte del
fratello, allora fu che si tenne in pugno la conquista di tutto il paese
toccato in parte ad esso Lodovico di qua dal Reno[1308]. Ammassato
dunque un poderoso esercito, andò ad occupare Aquisgrana e dipoi
Colonia. Accorse nella ripa opposta del Reno Lodovico II con quanti
armati egli potè in quell'angustia adunare; spedì ancora legati
all'Augusto suo zio, pregandolo con tutta umiltà di ricordarsi della
parentela, dei patti e giuramenti fatti nel dividere il regno di Lorena.
La risposta assai galante fu, che i patti erano seguiti col fratello, e
non già coi figliuoli del fratello. Allora Lodovico, benchè inferiore di
forze, rivolto il timore in rabbia, animosamente passò di qua dal Reno,
e fattosi forte nel castello di Adernaco, tornò ad inviare ambasciatori
a Carlo con chiedere pace. Fece vista Carlo di volerla, e promise
d'inviare a Lodovico i suoi messi per trattare di qualche accordo; ma
nella seguente notte mise in armi tutte le sue schiere per
improvvisamente assalire il nipote. Avvisato Lodovico segretamente di
questo disegno da _Guiliberto vescovo_ di Colonia, con ordinare che i
suoi mettessero le camicie sopra il giuppone, coraggiosamente si mosse
contro della nemica armata, che già era in marcia, e confidato in Dio,
attaccò la zuffa nel dì 8 di ottobre. Toccò alla perfidia di Carlo Calvo
quello che si meritava. Andarono vituperosamente in rotta le genti sue;
molti furono gli uccisi, molti i prigioni, fra' quali un vescovo, un
abate e quattro conti; e si arricchirono assaissimo tutti i vincitori;
tanta fu la copia del bottino in oro, argento, merci e bagaglie.
Crescevano intanto i guai della Italia a cagion de' Saraceni, i quali
avendo tirato dall'Africa in Calabria de' gagliardi rinforzi, s'erano
talmente ingrossati, che faceano paura a tutte le città cristiane del
vicinato[1309]. Venne a Taranto un nuovo lor generale, che, assunto il
titolo di re, ed uscito in campagna, diede un terribile sacco al
territorio di Benevento, di Telese e di Alifi. Volle di nuovo provar la
sua fortuna contra di quegl'infedeli _Adelgiso principe_ di Benevento;
ma rimasto sconfitto, fu obbligato a comperarsi un po' di quiete col
rimettere in libertà il sultano, già fatto prigione col riacquisto di
Bari. I due compagni di costui Annoso ed Abadelbach, dianzi spediti da
lui a Taranto per trattare di qualche accordo, restarono colà, nè più
fecero ritorno. Ora il popolo di Bari, veggendosi in pericolo di cader
di nuovo in mano dei Mori[1310], chiamarono da Otranto _Gregorio_
generale dei Greci, che con un buon nerbo di truppe venne a prendere il
possesso di quella città; ma, secondo la fede greca, mise tosto le mani
addosso a quel governatore e ai principali cittadini, e li mandò a
Costantinopoli. Andarono poscia i Greci colla spedizion di varie lettere
pregando quei di Salerno, Napoli, Gaeta ed Amalfi di dar loro aiuto
contra de' Saraceni. Ma cantavano ai sordi. Que' principi e popoli
aveano fatta pace con que' Barbari; anzi unitisi con essi cominciarono
colle lor navi ad infestar la riviera romana e il suo ducato. _Papa
Giovanni_, le cui lettere si cominciano a leggere nel settembre di
questo anno, essendo perite le precedenti, non avendo forze bastanti da
opporre a questo torrente, si diede a tempestar con lettere[1311]
_Bosone duca_, lasciato da Carlo Calvo come vicerè in Italia, e poi lo
stesso imperadore Carlo, con rappresentar loro lo stato miserabile in
cui si trovava il paese intorno a Roma per le scorrerie de' Saraceni, e
implorando l'aiuto loro. Acremente si lamenta egli ancora _de confinibus
et vicinis nostris, quos marchiones solito nuncupatis_, che facevano
anch'essi alla peggio contro gli stati della Chiesa. Vuol egli
significare _Lamberto_ e forse _Guido_ suo fratello, duchi di Spoleti, e
forse anche _Adalberto_ marchese e duca di Toscana, in una lettera[1312]
scritta allo stesso _Lamberto_. Il prega di rimediare ai danni che da i
di lui uomini venivano fatti a quei di _san Pietro_ e di _Guido_: col
qual nome se egli significa il fratello di Lamberto, si viene a
conoscere ch'egli non avea parte in quelle violenze. Ma Carlo Calvo,
nulla curando le preghiere del papa, nè il debito suo, altra premura non
aveva in questi tempi, che di spogliare, se avesse potuto, i nipoti suoi
de' loro stati: nel che andarono falliti i suoi desiderii e disegni.
Intanto que' principi si divisero fra loro l'eredità paterna[1313]. _A
Carlomanno_ toccò la Baviera, la Pannonia, la Carintia, la Schiavonia e
la Moravia; a Lodovico la Francia orientale, la Turingia, la Sassonia,
la Frisia e una parte del regno della Lorena; a _Carlo il Grosso_
l'Alemagna, cioè la Svevia, con alcune città della Lorena. Circa questi
tempi la Russia, che a' nostri giorni per cura di Pietro il grande è
salita in tanta potenza e credito, abbracciò la religione di
Cristo[1314], e cominciò ad avere un arcivescovo, spedito colà da
_sant'Ignazio_ patriarca di Costantinopoli. Si scorge poi da un placito
da me pubblicato nelle giunte della Cronica casauriense[1315], che era
stato tolto il governo di Spoleti a _Suppone_ conte o duca di quella
contrada; perciocchè nel presente anno si truova un decreto fatto in
favore del monisterio di Casauria _per jussionem domni Karoli
imperatoris Augusti, et per jussionem Lamberti et Widonis comitum_. Fu
scritto quel documento _anno domni Karoli piissimi imperatoris Augusti,
anno imperii, in Dei nomine, primo, seu et temporibus Widonis comitis
anno comitatus ejus primo, mense junio, per Indictionem IX_. Sicchè
_Lamberto_ per grazia di Carlo Calvo imperadore ricuperò il ducato di
Spoleti; e _Guido_ suo fratello fu anch'egli fatto duca, e pare che
signoreggiasse nel ducato spoletino di qua dell'Apennino, cioè in
Camerino e Fermo. Truovasi poi negli anni seguenti memoria di _Suppone_
conte nelle lettere di papa Giovanni VIII[1316], dalle quali si
raccoglie che governava Milano, Pavia e Parma; e però dovrebbe essere
stato duca o marchese di Lombardia, come era dianzi Bosone, passato al
governo della Provenza.

NOTE:

[1300] Annales Francor. Bertiniani.

[1301] Mabill., Annal. Benedict., tom. 3.

[1302] Rer. Ital. P. II, tom. 2.

[1303] Epist. 43 Johannis Papae VIII.

[1304] Antiquit. Italic., Dissert. LXXI.

[1305] Campi, Istor. Piacent., lib. 7.

[1306] Annales Francor. Fuldenses.

[1307] Regino, in Chron.

[1308] Annal. Franc. Bertiniani. Annal. Francor. Metenses. Regino, in
Chronico.

[1309] Erchempertus, Hist., cap. 38.

[1310] Lupus Protospata, in Chronico.

[1311] Epist. 1, 7, 21, etc. Johannis VIII Papae.

[1312] Epist. 22 ejusdem.

[1313] Regino, in Chron.

[1314] Constantinus Porphyrogenn., in Vit. Basil. Imper.

[1315] Chronic. Casauriens. Part. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1316] Epist. 107 et 130 Johannis Papae VIII.



    Anno di CRISTO DCCCLXXVII. Indiz. X.

    GIOVANNI VIII papa 6.
    CARLOMANNO re d'Italia 1.


Fece nel marzo di quest'anno la vedova imperadrice _Angilberga_, stando
in Brescia nel monistero di santa Giulia, l'ultimo suo testamento,
pubblicato dal Campi[1317], in cui lascia al monistero delle monache di
san Sisto, da lei fabbricato in Piacenza, un'immensa quantità di beni,
cioè case, poderi e ville, ivi chiamate _corti_, fra le quali si vede
Campo Migliaccio nel modenese, Corte nuova, Pigognaga, Felina, Guastalla
e Luzzara nel reggiano; Cabroi e Masino nel contado di Staziona, oggidì
Anghiera sul Lago Maggiore; Brunago e Trecate nel contado di Burgaria,
oggidì nel distretto di Milano, per tacere d'altri luoghi. Lascia altri
beni per lo spedale degl'infermi e pellegrini, edificato in vicinanza
d'esso monistero, secondo il costume d'allora, pochi essendo stati i
monisteri che non avessero spedale pubblico, perchè o non si usavano, o
rarissime erano quelle che oggidì chiamiamo osterie. E tutto ciò è
donato _pro remedio et mercede animae ejusdem clementissimi imperatoris_
(Lodovico II) _domini et senioris mei, et meae_. Si riserva, finchè
vivrà, il patronato e il governo sì del monistero che dello spedale, con
soggiugnere: _Post meum vero obitum volo atque decerno, ut si Ermengarda
unica mea filia religiosa veste induerit, ipsa provisionem ejusdem loci
mea vice suscipiat_, ec. _Quod si illa, me de hac vita transeunte,
religionis veste induta non fuerit, volo atque instituo, ut de ipso
monasterio atque xenodochio_, ec. _nullam deminorationem faciat_, ec.
Questa sua ultima volontà la fece ella confermare da _Giovanni VIII_ con
bolla data _kalendis augusti per manum Johannis episcopi, missi et
apocrisarii sanctae sedis apostolicae, imperante domno nostro Carolo, a
Deo coronato magno imperatore, secundo, et post consolatum ejus anno
secundo, indictione X._ Quando si legge di Ermengarda in esso
testamento, ci fa vedere che non doveva essere per anche seguito ciò che
narrano gli Annali bertiniani[1318] all'anno precedente 876 con queste
parole: _Boso, postquam imperator ab Italia in Franciam rediit,
Berengarii Everardi filii factione filiam Hludovici imperatoris
Hirmengardam, quae apud eum morabatur, iniquo cortudio in matrimonium
sumsit._ Intorno a che è da avvertire che _Berengario_ duca o marchese
del Friuli, siccome dicemmo, s'era nell'anno 875 unito con Carlomanno
contra di Carlo Calvo; ma essendo prevaluta in que' contrasti la fortuna
di Carlo con divenire re d'Italia ed imperador de' Romani, questo duca,
accomodandosi anch'egli al tempo, cangiò mantello, e strinse buona
amicizia con _Bosone duca_, lasciato da esso imperadore al governo e
alla difesa di Lombardia. Erasi per avventura ricoverata nella corte
d'esso Berengario la poco fa nominata _Ermengarda_, unica figliuola del
defunto imperador Lodovico II, stante la parentela che passava fra loro.
Imperocchè _Eberardo_ duca o marchese del Friuli, padre di _Unroco_ e
dello stesso _Berengario_, aveva avuta per moglie Gisela o Gisla,
figliuola di Lodovico Pio Augusto, e perciò sorella di Carlo Calvo
Augusto, e zia paterna del suddetto imperadore Lodovico II. Nel
testamento d'esso Everardo, che citai di sopra all'anno 867,
manifestamente si vede che _Gisla_ era il nome di sua moglie. Che poi
questa principessa avesse per padre Lodovico Pio Augusto, e Giuditta
imperadrice, lo negò bensì Adriano Valesio[1319], ma si raccoglie da
Agnello[1320], scrittore contemporaneo, il quale nelle vite degli
arcivescovi di Ravenna, dopo aver nominati i figliuoli d'esso Augusto a
lui nati dall'imperadrice Ermengarda, seguita a dire: _ad Carolum vero_
(cioè al Calvo) _plus fertilem et opimam largivit partem; et Giselam
filiam suam tradidit marito Curado_ (si dee scrivere Evrardo) _piissimus
homo_ (probabilmente in vece di _piissimo homini_). _Hunc et hanc Judith
Augusta parturit._ Anche nello Spicilegio del padre Dachery[1321] si
legge una donazione fatta da essa _Gisla_, in cui nomina riverentemente
_Carlo Calvo_ suo fratello. Ecco dunque per maggiore chiarezza la tavola
onde risulta la parentela di Ermengarda con Berengario.

                          LODOVICO PIO IMPERADORE

                            morto nell'anno 840.
                                     |
       +------------+----------------+----------------------+
       |            |                |                      |
  Carlo Calvo   Lodovico    Lottario imperadore   Gisela moglie di
   imperad.      re di             morto             Eberardo duca
                Germania       nell'anno 855.        del Friuli
                    |                |               morto circa
                    |                |               l'anno 867.
                    |                |                    |
       +---------+--+-----+          |              +-----+-----+
       |         |        |          |              |           |
  Carlomanno  Carlo  Lodovico   Lodovico II.  Unroco duca  Berengario
     re         il   II re di   imper. morto  o marchese    duca o
  d'Italia   Grosso  Germania  nell'anno 875. del Friuli   marchese
              imper.                 |                     del Friuli,
                                     |                     poscia re
                                     |                       d'Ital.
                                     |                     ed imperad.
                              Ermengarda moglie
                               di Bosone duca
                                di Lombardia.

Ora Bosone considerando la nobiltà di _Ermengarda_, figliuola di un
imperadore, e più la pingue eredità ch'ella portava seco, affine di
ottenerla per moglie, segretamente se l'intese con Berengario. Bramava
ancor questi di mettersi bene in grazia di Bosone, cioè di chi era
fratello dell'_imperadrice Richilda_, ed arbitro allora del regno
d'Italia. Fecero dunque una furberia e collusione iniqua per trarre a
fine questo negozio. E qual fosse può ricavarsi dagli Annali di
Fulda[1322], i quali all'anno 878, parlando di _Bosone conte_ (che così
ancora si veggono non rade volte allora appellati i duchi e marchesi),
hanno le seguenti parole: _Quia propria uxore veneno extincta, filiam
Hludovici imperatoris de Italia per vim rapuerat._ Dovette essere il
concerto che Bosone facesse vista di averla rapita per forza, acciocchè
a Berengario non venisse dato qualche carico presso la vedova
_imperadrice Angilberga_, nè presso i figliuoli di _Lodovico I_ re di
Germania, di aver tenuta mano a sì fatto matrimonio: poichè quanto a
Bosone, ne doveva egli avere un segreto consenso da Carlo Calvo Augusto,
mercè della sorella, cioè della suddetta imperadrice Richilda. Cosa poi
ne avvenisse, lo vedremo fra poco. Nè si vuol tacere che il medesimo
Bosone (non se ne sa il pretesto) avea ritenuto nell'anno precedente
_Leone_, nipote di _papa Giovanni VIII_, e _Pietro_, amendue vescovi e
legati, spediti da esso pontefice alla corte dell'imperador Carlo[1323]:
della quale ingiuria si dolse non poco con lui esso papa Giovanni.

Era intanto in grandi faccende questo papa per gli danni che tuttavia
recavano i Saraceni al ducato romano con timore di peggio. Non sapeva
egli digerire che _Sergio II duca_ di Napoli cristiano avesse non
solamente stabilita pace con que' nemici del nome cristiano, ma anche
una specie di lega ed unione con loro. Per disciogliere questa indegna
alleanza, si portò egli in persona a Napoli verisimilmente nel gennaio
di quest'anno; fece quante calde esortazioni potè a quel duca; e per
tentar pure di guadagnarlo[1324], consecrò vescovo di quella città
_Atanasio_ juniore, fratello del medesimo duca; ma non riportò a Roma se
non delle parole, perchè ad esse non tenne dietro alcun fatto. Questo è
il viaggio, del quale parla Erchemperto[1325], con aggiugnere che
_Lamberto duca di Spoleti_ e _Guido_ suo fratello andarono in compagnia
del papa, il quale usò il medesimo studio per istaccar dall'amicizia de'
Saraceni _Guaiferio_ principe di Salerno, _Pulcare_ duca di Amalfi, e
_Docibile_ ipato, ossia duca di Gaeta. Del suddetto Guaiferio principe
salernitano si legge una donazione fatta nell'anno 877, e da me
pubblicata[1326]. A seconda dei suoi desiderii questi operarono.
Gagliardissime istanze parimente fece ad _Aione_ vescovo di Benevento,
affinchè inducesse il fratello, cioè _Adelgiso principe_ di quel ducato,
a ritirarsi dalle convenzioni fatte con quegl'infedeli, con dire fra
l'altre cose[1327]: _Nos, cooperante gratia Christi, tam cum carissimo
filio nostro Lamberto glorioso duce_ (di Spoleti) _qui nobis in omnibus
haeret, quam cum aliis Dominum timentibus, desudabimus, ut impium foedus
cum Agarenis habitum dissolvatur_. E perciocchè esso papa intese che
_Gregorio imperial pedagogo_ era venuto in Calabria e a Bari con
un'armata spedita dall'_imperadore Basilio_, anche a lui scrisse,
pregandolo pel soccorso di alcuni per nettare dai Saraceni il littorale
romano. Ma le maggiori premure di papa Giovanni erano presso
all'imperador _Carlo Calvo_, acciocchè menasse o mandasse delle forze
bastanti a ripulsar que' Barbari, che già aveano disertata la Campania e
la Sabina, e scorreano fino alle vicinanze di Roma. Son patetiche le sue
lettere in questo affare[1328]. Aveva in questi tempi _Adalardo vescovo_
di Verona impetrato da esso imperadore in benefizio, ossia in commenda,
l'insigne monistero di Nonantola, posto nel territorio di Modena, _quod
pro Dei, tantique loci reverentia nullus umquam episcoporum vel judicum
in beneficium quaesierat, suisque usibus, coarctatis extrema egestate
monachis, applicavit_; e ciò con isprezzo de' privilegii della Sede
apostolica: disordine che anche in Italia avea cominciato a prendere
gran piede. Però lo scomunicò, e ne diede avviso ad _Ansperto
arcivescovo_ di Milano, a _Gualperto patriarca_ d'Aquileia e al clero di
Verona. Convien credere che al vedersi i Romani così maltrattati, anzi
divorati dai Saraceni, e minacciati di mali anche più terribili, senza
che dopo tante istanze Carlo Calvo movesse un dito per soccorrerli:
difficilmente potessero tenere in freno la lingua dallo sparlare contra
di lui con dire: _A che ci serve questo imperadore che si gloria
d'essere nostro sovrano, nè vuol poscia ne' gravissimi bisogni recarci
un menomo aiuto, e intanto attende solo a far delle guerre ingiuste
contra de' suoi nipoti? S'egli dimentica il suo dovere, saremo scusati
se dimenticheremo ancor noi il nostro, e se cercheremo altro miglior
signore._ Rapportate a Carlo Calvo queste mormorazioni e minacce di
sottrarsi al suo dominio, dovette egli far delle gravi doglianze col
papa per la fede vacillante del popolo. Ora il pontefice per quetar lui,
e reprimere eziandio le licenziose voci dei Romani, tenne nel febbraio
dell'anno presente un concilio di vescovi in Roma, nel quale, dopo la
protesta di aver già eletto ed unto in imperadore _Carlo figliuolo di
Lodovico Augusto[1329], _una cum annisu et voto omnium fratrum et
coepiscoporum nostrorum, atque aliorum sanctae romanae Ecclesiae
ministrorum, amplique senatus, totiusque popoli romani, gentisque
togatae, et secundum priscam consuetudinem_: conferma e fa confermare da
tutti la elezione e consecrazione di lui. Non si può leggere senza
stupore, per non dir altro, l'allocuzione ivi fatta da papa Giovanni,
perchè contenente una sparata tale di lodi di Carlo Calvo, che chiunque
è intendente della storia d'allora, manifestamente conosce essere
esorbitanti, nè convenienti alla gravità e maestà di chi le propone. Non
aveano certo i precedenti papi negli Annali de' Franchi conosciuto in
lui que' pregi che qui gli vengono dalla sola adulazione attribuiti.
Poscia si venne alla scomunica contra qualsivoglia persona che osasse,
per qualunque titolo, turbar questa elezione e seminar discordie, con
dichiararli ministri del diavolo e nemici di Dio, della Chiesa e della
Cristianità. Abbiamo una lettera scritta da esso papa Giovanni[1330] a
_Lamberto glorioso duca_ di Spoleti, da cui si scorge che esso duca avea
ricevuto ordine dall'imperadore di portarsi a Roma, e di obbligare i
Romani a dar degli ostaggi della lor fedeltà: chiaro contrassegno della
sovranità conservata anche da questo imperadore in Roma. Risponde il
pontefice: _Romanorum filios sub isto coelo non legitur fuisse obsides
datos: quanto minus istorum, qui fidelitatem augustalem et mente
custodiunt, et opere Deo juvante perficiunt?_ Chiaramente poi protesta
di dubitare se quest'ordine si sia spiccato dall'imperadore stesso,
perchè non gli par probabile ch'esso Augusto avesse tenuto segreto ad
esso papa un tal disegno, _et ipsum imperatorem non credimus suum nos
velle secretum latuisse_. In somma gli fa sapere che non s'incomodi per
venire a Roma, altrimente non sarà ricevuto. _Quum autem, Deo juvante,
ad unam concordiam et unam quietem reipublicae caussa redierit, et litis
figmenta, quae tamquam telas aranearum putamus, contra augustalem
majestatem oborta, sopita exstiterint_: allora sarà amichevolmente
accolto esso Lamberto: dal che si conferma che titubavano non poco i
Romani nella fedeltà giurata a Carlo Calvo; e probabilmente soffiavano
in questo fuoco i figliuoli di _Lodovico I_ re di Germania, pretendenti
anche essi all'imperio. Dicesi data la suddetta lettera di papa Giovanni
_XII kalendas novembris, Indictione XI_, cioè nel dì 26 d'ottobre
dell'anno presente. Ma si conosce che vi ha errore, ed esser ella (al
che non s'è badato fin qui) fuor di sito; perchè ivi si parla d'un
_imperador_ vivente, e Carlo Calvo era già mancato di vita (siccome
diremo) nel dì 13 di esso mese, nè Carlomanno era imperadore. Però
questa lettera probabilmente fu scritta nell'ottobre dell'anno
precedente, e in vece di _Indictione XI_, s'ha da scrivere _Indictione
X_.

Venne poscia l'infaticabil papa a Ravenna, dove nel mese d'agosto, se
pur non fu in giugno, tenne un concilio numeroso di 130 vescovi.
Girolamo Rossi, Giovan-Giorgio Eccardo, ed altri hanno moltiplicato i
concilii tenuti da papa Giovanni in Ravenna. Non so io dire se più d'uno
egli ne celebrasse. Ben so che in questo anno quivi si tenne la suddetta
sacra assemblea[1331], ciò costando da varie lettere del medesimo papa.
Furono in esso concilio fatti diciannove canoni; e il Dandolo
scrive[1332] che si diede fine alla controversia insorta fra _Orso doge_
di Venezia e _Pietro patriarca_ di Grado, perchè questi ricusava di
consecrar vescovo di Torcello, a requisizion del doge, _Domenico abbate_
del monistero di Altino. Fu determinato che finchè vivesse il patriarca,
egli resterebbe privo della consecrazione, ma godrebbe le entrate di
quel vescovato. Aggiugne quello storico, che l'armata navale de'
Saraceni arrivò sotto Grado, e le diede più assalti, ma indarno, per la
valorosa difesa de' cittadini. Portata questa nuova a Venezia, inviò il
doge con uno stuolo di navi Giovanni suo figliuolo al loro soccorso. Non
credettero bene que' Barbari di aspettarlo, ed alzate le ancore vennero
alla città di Comacchio, e le diedero il sacco. Fu poco appresso dal
popolo di Venezia eletto doge e collega del padre esso _Giovanni_.
Confessa il Dandolo che in questi tempi i mercatanti veneziani
comperando dai corsari (o Saraceni o Schiavoni) i poveri cristiani,
fatti da loro schiavi, ne facevano poi traffico, vendendoli anche
agl'infedeli. A tale iniquità il doge e popolo veneziano cercarono il
rimedio con pubblicare un rigoroso divieto, e intimar gravi pene a
chiunque contravvenisse. Seguitava intanto _Sergio II duca_ di Napoli a
tenere stretta corrispondenza e una specie di lega coi Saraceni, nè
voleva, per quanto gridasse papa Giovanni[1333], distorsene, ingannato
dai consigli di _Adelgiso principe_ di Benevento, e di _Lamberto duca_
di Spoleti, uomo doppio ed avvezzo a pescare nel torbido. Non potendo,
nè volendo papa Giovanni soffrire tanta iniquità, lo scomunicò. Sergio,
irritato per questo, mosse guerra a _Guaiferio principe_ di Salerno, che
avea non solo rinunziato alla amicizia di coloro, ma eziandio parecchi
ne avea già tagliati a pezzi. Otto giorni dopo la scomunica Guaiferio
prese ventidue soldati napoletani, a' quali fece tagliar la testa: che
così n'avea commissione da papa Giovanni. Qui nondimeno non finì la
faccenda. _Atanasio vescovo_ di Napoli ascoltò volentieri in tal
congiuntura le suggestioni dell'ambizione; e giacchè oltre i romani
pontefici, che da più d'un secolo godevano temporal dominio di stati,
anche _Landolfo vescovo_ di Capoa come principe signoreggiava quella
città, con questi esempli davanti agli occhi pensò anch'egli a farsi
padrone in temporale della patria sua. Pertanto formata una congiura,
fece prendere il _duca Sergio_ suo fratello, e dopo avergli fatto cavar
gli occhi, il mandò prigione a Roma, dove miserabilmente terminò i suoi
giorni. Non gli fu difficile il farsi poco appresso proclamar duca di
Napoli. Di questa azione ne fu mirabilmente lodato Atanasio da papa
Giovanni, come apparisce da una sua lettera. E che anch'egli avesse
intelligenza di questo fatto e vi desse braccio, pare che si raccolga
dal dirsi quivi: _Nos namque aliis omnibus mancosis datis, mille
quadrigentos vobis dare debemus, quos vestrae dilectioni aut in initio
quadragesimae, aut in die sanctae resurrectionis vobis procul dubio
dirigemus_. Scrisse anche ai Napoletani, lodandoli di quanto aveano
operato, e promettendo loro il danaro, concertato verisimilmente per
muoverli contra di Sergio. Queste nondimeno furono picciole avventure
rispetto a quelle dell'imperador Carlo Calvo[1334]. Ricevette egli a
Compiegne _Pietro vescovo_ di Fossombrone e _Pietro vescovo_ di
Sinigaglia, nunzii a lui spediti dal papa per sollecitarlo a venire in
Italia, per liberar dagl'insulti de' Saraceni il ducato romano: al che
si era egli obbligato con varie promesse. Determinò di venire; ma prima
attese a quotare i corsari normanni, gran flagello allora della Francia,
col pagamento delle contribuzioni ordinate: al qual fine impose una
grave tassa a tutti i secolari ed ecclesiastici del suo regno. Raunata
parimente gran copia d'oro, d'argento e d'altre preziose cose, e un
grosso nerbo di cavalleria, calò finalmente in Italia accompagnato
dall'_imperadrice Richilda_ sua consorte. A Vercelli fu ad incontrarlo
papa Giovanni. Se crediamo a Reginone, fu in questa occasione che[1335]
fu data in moglie a_ Bosone duca Ermengarda_ figlia del fu Lodovico II
Augusto. _Bosoni germano Richildis reginae Hermingardem filiam Ludovici
imperatoris in matrimonium jungit. Dies nuptiarum tanto apparatu,
tantaque ludorum magnificentia celebratus est, ut hujus celebritatis
gaudia modum excessisse ferantur. Dedit etiam eidem Bosoni provinciam,
et corona in vertice capitis imposita, eum regem appellari jussit, ut
more priscorum imperatorum regibus denominari videretur._ Può patire
delle difficoltà questo racconto di Reginone per quel che riguarda
l'aver Carlo Calvo dichiarato re di Provenza in tal congiuntura Bosone:
perchè, secondo gli Annali bertiniani, Bosone solamente due anni dappoi,
per impulso della moglie, prese il titolo di re; ma non dovrebbe già
aver egli sognato le nozze di lui, nè la gran pompa con cui furono
celebrate. Certo Bosone non isposò Ermengarda, allorchè nell'anno
precedente Carlo Calvo si trovò in Lombardia, perchè solamente dacchè
Carlo fu ritornato in Francia, egli la rapì. Il tempo proprio per tali
nozze fu il ritorno in Italia d'esso imperadore, e la presenza ancora di
Richilda Augusta, sorella di esso Bosone.

Stavasene tripudiando in Pavia Carlo imperadore col papa, quando eccoti
giugnere avviso che _Carlomanno_ suo nipote, cioè il primogenito di
_Lodovico I_ re di Germania, con un grosso esercito di Tedeschi calava
in Italia, non per intervenire a quelle feste, ma per fare una visita
disgustosa all'Augusto suo zio. Le parole degli Annali fuldensi son
queste:[1336] _Quod quum Carolus comperisset, illico juxta consuetudinem
suam fugam iniit. Omnibus enim diebus vitae suae, ubicumque necesse erat
adversariis resistere, aut palam terga vertere, aut clam militibus suis
effugere solebat._ Confessa anche l'autor franzese degli Annali di san
Bertino[1337] che Carlo Calvo sbigottito per quella nuova, nuova certo
non falsa, se ne scappò col papa a Tortona, dove l'imperadrice Richilda
appena ebbe ricevuta la consecrazione imperiale dalle mani d'esso
pontefice, che prese la fuga col tesoro verso la Morienna. Stette
alquanto in essa città di Tortona Carlo Augusto col papa, aspettando che
venissero a trovarlo i primati del suo regno, cioè _Ugo abbate_,
_Bosone_ ed altri, come era il concerto; e saputo che non venivano,
subito che intese l'avvicinamento di Carlomanno, frettolosamente si
incamminò egli verso la Savoia. Anche il papa non perdè tempo a
ritornarsene a Roma, ma di mala voglia, riportando seco in vece di un
esercito un Crocefisso d'oro di gran peso, e tempestato di gemme
preziose, per la basilica di san Pietro, che Carlo Calvo gli avea
donato. Fu preso per istrada l'imperador dalla febbre, e portato di là
dal monte Cenisio a un luogo appellato Brios, colà fece venir dalla
Morienna l'imperadrice, e poscia finì di vivere nel dì 15 d'ottobre.
Attestano tutti gli Annalisti, essere stata allora voce comune che egli
morisse di veleno, a lui dato o mandato da Sedecia medico ebreo, suo
favorito, in una medicina, per liberarlo dalla febbre. Il liberò questa
da tutti i mali. Aperto il suo cadavero, e levate le interiora, come si
potè il meglio, bagnato con vino e sparso d'aromi, fu posto in una bara
per portarlo a seppellire a Parigi nel monistero di san Dionisio, in
esecuzione degli ordini da lui lasciati prima di morire. Ma non potendo
reggere i portatori allo eccessivo fetore, misero quel corpo in una
botte ben impegolata di dentro e di fuori, e coperta di cuoio. Neppur
questo ripiego bastò a levare lo straordinario puzzo; però allorchè
furono giunti ad una chiesetta di monaci nella diocesi di Lione, quivi
seppellirono sotterra la botte col corpo stesso. _Sic transit gloria
mundi._ Per ordine poi di _Lodovico Balbo_ suo figliuolo e successore
nel regno, portate l'ossa sue a Parigi, qui ebbero più degna sepoltura.
Andrea prete[1338] nella Cronichetta più volte citata scrive che Carlo
Calvo creato imperadore se ne tornò a Pavia nel gennaio, _Indictione
nona_ cioè nell'anno 876. _Quumque idem Carolus imperator de Roma
reversus in Papia sederet, audivit quod Karlomannus Hludovici filius
contra eum veniret; quumque exercitum suum adunare vellet, et cum eo
bellum gerere, quidam de suis, in quorum fidelitate maxime confidebat,
ab eo defecti, cum Karlomanno se conjungebant. Quod ille videns, fugam
iniit, et in Galliam repedavit, statimque in ipso itinere mortuus est.
Karlomannus vero regnum Italiae disponens post non multum tempus ad
patrem in Bajoariam reversus est._ Due grossi errori son qui, e tali,
che fan conoscere o che esso Andrea non iscrisse in questi tempi, o che
alla Cronichetta in fine sono state da altri aggiunte le suddette
parole. Due furono le venute in Italia di Carlo Calvo, e non una sola.
Nè egli terminò sua vita nell'anno 876, ma bensì nell'877. Oltre a ciò,
Carlomanno non potè andare a trovar il padre in Baviera, perchè questi
era già morto nell'anno precedente. Dagli Annali bertiniani, che ci han
conservate le notizie riferite di sopra, un'altra ne abbiamo: cioè, che
_Karlomannus mendaci nuncio audiens, quod imperator et papa Johannes
super eum cum multitudine maxima bellatorum venirent, et ipse fugam
arripuit per viam, quam venerat_. Ma verisimilmente questo autore si
lasciò in ciò ingannare da qualche diceria del volgo. Carlomanno sen
venne senza paura alcuna in Lombardia, e quivi attese a mettersi in
possesso della corona di Italia, e a farsi eleggere o riconoscere re dai
baroni del regno, che a poco a poco andarono a sottomettersi a lui. Ho
io pubblicato[1339] un suo diploma, dato in favore dei monaci di san
Colombano di Bobbio (monistero allora goduto in benefizio da non so qual
persona potente) _XIII kalendas novembris, anno Christo propitio, I
regni domni Karlomanni serenissimi regis in Italia, Indictione XI. Actum
in Curte Nova villa regia._ Un altro pure[1340], con cui dona una chiesa
al monistero delle monache di san Sisto di Piacenza, fondato da
_Angilberga Augusta_, chiamata da lui nostra sorella, cioè spirituale, è
dato _XIV kalendas novembris anno, Christo propitio, I regni. Actum in
Curte sancti Ambrosii, quae vocitatur Cassianum juxta Attuam fluvium,
Indictione XI._ Un altro ancora in favore[1341] delle monache della
Posterla di Pavia fu dato _XII kalendas decembris anno, Christo
propitio, I regni. Actum civitate Verona, Indictione XI_.

Se in tali documenti l'_indizione_ comincia in settembre, come io credo,
essi appartengono all'anno presente. Anche nella Cronica
casauriense[1342] si legge un suo diploma dato in Pavia _XVII kalendas
novembris anno secundo regni_ (cioè di Baviera), _Indictione decima_: il
che dà indizio che egli non avesse per anche assunto il titolo di re
d'Italia nel dì 16 d'ottobre. Ma in vece di _Indictione decima_ dovrebbe
leggersi ivi _undecima_, che così hanno gli altri suoi diplomi, poco fa
accennati. Tralascio altri diplomi di esso re, da me pubblicati nelle
Antichità italiche[1343] ed altrove. Ma non pertanto non voglio lasciar
di avvertire che uno strumento originale, da me veduto in Lucca, porta
queste note: _Regnante domino nostro Karlomanno piissimo rege anno regni
ejus, postquam, Deo propitio, in Italiam ingressus est, primo, pridie
idus novembris, Indictione duodecima_, cioè nell'anno 878, nel dì 12 di
novembre. Adunque nello stesso dì nell'anno precedente egli non era per
anche re. Un altro è scritto: _Anno II Karlomanni pridie nonas
decembris, Indictione XIII_, cioè nell'anno 879, se la indizione ha
avuto principio nel settembre. Adunque neppur nel dì 4 di dicembre
dell'anno 877 egli sarebbe stato re d'Italia. Contuttociò assai
fondamento c'è per mettere in dubbio che Carlomanno sbigottito se ne
tornasse indietro per la via, per cui era venuto. E non tardò egli,
udita che ebbe la morte di Carlo Calvo Augusto, a ragguagliarne con sue
lettere papa Giovanni, con aggiugnere d'essere stato ben accolto in
Italia, e che dopo una scorsa che gli conveniva di fare in Germania, per
parlare co' suoi fratelli, intenzione sua era di venire in Roma per
ricevere la corona dell'imperio, promettendo di esaltare più di tutti i
suoi antecessori la Chiesa romana. Il papa gli risponde[1344], che a suo
tempo, cioè dopo il suo ritorno, gl'invierà i suoi legati _cum pagina
capitulariter continente ea, quae vos matri vestrae romanae Ecclesiae,
vestroque protectori beato Petro apostolo perpetualiter debetis
concedere_. Il prega di non ammettere nè di ascoltare _infideles
nostros, nostraeque vitae insidiantes_. La sua lettera è data nel
novembre dell'anno presente. In un'altra[1345], a _Lamberto glorioso
conte scritta_, gli fa sapere di aver inteso ch'esso Lamberto medita di
venire a Roma, per dar favore ai nemici ed infedeli del medesimo
pontefice, e che _eos rebus et beneficiis contra nostram etiam
voluntatem inconvenienter restituere debeatis_. Vuol dire di _Formoso
vescovo_ di Porto, e d'altri simili ch'egli avea scomunicati. Però dice
che nol riceverà, se viene per questo. Con altra lettera[1346] ancora
gli notifica la risoluzione sua di passar per mare in Francia, _per iter
marinum_, mostrando di andar colà per trattare col re _Carlomanno_
intorno alla difesa della terra di san Pietro e di tutta la Cristianità;
ma non se gli farà torto a credere ch'egli avesse dell'altre segrete
mire, perchè l'andar per mare non era il viaggio proprio per trovar
Carlomanno. Per questa ordina a Lamberto di non molestare gli stati
della Chiesa, altrimenti gl'intima la scomunica. Intanto prima che
terminasse l'anno[1347], il re Carlomanno se ne tornò in Germania; ma
seco portando una pericolosa malattia, che quasi per un anno il tenne
languente. Cacciossi anche la peste nell'armata sua, per cui molti
solamente tossendo cadevano morti. Una lettera di Giovanni papa, scritta
in quest'anno (se pur non appartiene al precedente) ad _Incmaro
arcivescovo_ di Rems[1348], _per manus Anastasii bibliothecarii_, ci fa
conoscere che fino a questi tempi visse _Anastasio bibliotecario_,
scrittore celebre della Chiesa romana, a cui spezialmente siam tenuti
per avere raccolte e a noi conservate le vite dei papi.

NOTE:

[1317] Campi, Hist. Ecclesiast. Piacent., lib. 7.

[1318] Annal. Franc. Bertiniani.

[1319] Valesius, in Praefat. ad Panegyr. Berengarii.

[1320] Agnell., Vit. Episcopor. Ravenn. P. I, tom. 2 Rer. Ital., pag.
185.

[1321] Dachery, Spicileg.

[1322] Annal. Franc. Fuldenses.

[1323] Epist. 7 Johannis Papae VIII.

[1324] Epist. 38 et seqq. ejusdem.

[1325] Erchempertus, Hist., cap. 39.

[1326] Antiquit. Ital., Dissert. XIV, pag. 831.

[1327] Epist. 45 Johannis Papae VIII.

[1328] Epist. 47 ejusdem.

[1329] Labbe, Concil., tom. 9.

[1330] Epist. 61 Johannis VIII Papae.

[1331] Labbe, Concilior., tom. 9.

[1332] Dandol. in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1333] Epist. 66 et 67 Johannis Papae VIII.

[1334] Annales Franc. Bertiniani.

[1335] Regino, in Chron.

[1336] Annales Francor. Fuldenses.

[1337] Annales Francor. Bertiniani.

[1338] Andreas Presbyter, Chron., tom. 1 Rer. Germ. Menckenii.

[1339] Antiq. Ital., Dissert. LXXIII.

[1340] Ibid. Dissert. LXIV.

[1341] Ibid. Dissert. LXX.

[1342] Chron. Casauriens. P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1343] Antiq. Ital. Dissert. XVII.

[1344] Epist. 63 Johannes Papae VIII.

[1345] Epist. 72 Johannis Papae VIII.

[1346] Epist. 68 ejusdem.

[1347] Annales Franc. Fuldenses et Bertiniani.

[1348] Marlot. Hist., Remens. lib. 3, cap. 34.



    Anno di CRISTO DCCCLXXVIII. Indiz. XI.

    GIOVANNI VIII papa 7.
    CARLOMANNO re d'Italia 2.


Non si può negare: _papa Giovanni_ poco genio avea per gli figliuoli di
_Lodovico I_ re di Germania; era egli tutto portato verso la casa dei re
della Gallia, ossia de' Franzesi. Non potè astenersi il cardinal Baronio
dal disapprovare la facilità, con cui egli corse a dar la corona
dell'imperio a _Carlo Calvo_. Ma chi non sa qual forza abbiano i regali,
e massimamente se grandi? Fors'anche non altronde procedette la
persecuzione da lui fatta a _Formoso vescovo_ di Porto, uomo lodatissimo
de' suoi tempi, se non dallo averlo scoperto aderente ai Tedeschi,
contrario ai Franzesi. Andava ben egli barcheggiando, e coprendo questi
suoi genii e contraggenii; ma i fatti contra suo volere levavano la
maschera al cuore. Si venne pertanto a scoprire, per quanto si può
conghietturare, qualche intenzione o maneggio suo per levare al re
Carlomanno il regno d'Italia, o almeno per non volerlo imperadore. Non
potea esso Carlomanno accudire in persona a questi affari, perchè
sequestrato dalla malattia in Baviera; e però diede commessione a
_Lamberto_ duca di Spoleti e ad _Adalberto duca di Toscana_ di far
mutare pensiero ad esso pontefice. Ciò che operassero, udiamlo dagli
Annali di Fulda[1349]: _Lantbertus Witonis filius, et Albertus_ (lo
stesso è che Adalbertus) _Bonifacii filius, Romam cum manu valida
ingressi sunt, et Johanne pontifice, sub custodia retento, optimates
Romanorum, fidelitatem Karlomanno sacramento firmare coegerunt_. Non si
sa intendere il pretesto di una tale violenza, stante il non essere
Carlomanno stato giammai imperador dei Romani, e il non essere tenuti i
Romani a giurar fedeltà al re d'Italia; perchè senza dubbio Roma col suo
ducato non era compresa nell'italico regno. Seguita a dir quello
storico, che dappoichè furono usciti di Roma que' due principi, il papa
fece portare dalla basilica di san Pietro tutte le cose preziose alla
lateranense, vestì di cilicio l'altare di san Pietro, fece chiudere
tutte le porte d'essa chiesa, e a chiunque veniva dalle varie parti
della Cristianità per far quivi orazione, non era permesso l'entrarvi:
risoluzione che fu riprovata dai buoni fedeli. Ciò fatto, salito in
nave, pel Mediterraneo passò in Francia, e vi si trattenne quasi tutto
quest'anno. Abbiamo varie lettere[1350] scritte da lui a _Giovanni
arcivescovo_ di Ravenna, il quale pare che in questi tempi fosse molto
in grazia di questo pontefice; a _Berengario conte_, cioè al duca ossia
marchese del Friuli, ch'egli chiama _nato da regal prosapia_, perchè
figliuolo di Gisla, figliuola di Lodovico Pio Augusto, come fu detto di
sopra; ad _Angilberga_ Augusta; a _Lodovico Balbo_, figliuolo di Carlo
Calvo e re di Francia; a _Lodovico II_ re di Germania; e finalmente allo
stesso re _Carlomanno_, con rappresentare loro i gravissimi insulti
fatti da _Lamberto_ e _Adalberto_ alla sua persona. Fra le altre cose
dice all'arcivescovo di Ravenna e a Berengario, essere venuto Lamberto a
Roma; aver preso una porta, ed occupata in tal maniera la città, _ut
nobis apud beatum Petrum consistentibus_ (erasi ritirato il papa nella
città Leonina) _nullam urbis Romae potestatem a piis imperatoribus beato
Petro, ejusque vicario traditam, haberemus_: parole che ci fanno
intendere il sistema di Roma in questi tempi, cioè che i pontefici
signoreggiavano in Roma, ma con podestà loro conceduta dagl'imperadori.
Aggiugne aver esso Lamberto a forza di bastonate disturbata una
processione fatta dai vescovi e dal clero a san Pietro: negato ai
vescovi, sacerdoti e familiari del papa l'andarlo a trovare; introdotti
in Roma senza licenza sua i nemici ed infedeli suoi già scomunicati;
dato il sacco a molti luoghi del territorio di san Pietro: per le quali
iniquità ha fulminato contra di lui e di _Adelberto_ marchese o duca di
Toscana la scomunica. Scrivendo poi a _Lodovico Balbo_ re di Francia,
adopera colori e titoli non certo convenienti alla gravità e
mansuetudine pontificia, contra del duca Lamberto; ed aggiugne essersi
egli portato a Roma con Rotilde sua sorella, da lui caricata con uno
indecente nome, _cum moecha sorore Rotilde, cumque complice suo infido
Adelberto marchione, immo patriae praedone_, per farsi imperadore, come
correa la voce: voce nondimeno smentita dai fatti. Si scorge poi da
un'altra lettera di esso papa[1351] che _Adelberto marchese_ avea per
moglie _Rotilde_, e questa si vien ad intendere che era sorella di
Lamberto duca di Spoleti, onorata con quel bel titolo da papa Giovanni.
Prega _Berengario_ di far sapere tali eccessi al re Carlomanno, perchè
Lamberto _ejus se voluntate jactat talia agere_. Scrive poi una
particolarità rilevante ad esso Carlomanno: cioè ch'egli era stato
necessitato prima delle suddette violenze fattegli da' Cristiani ad
accordarsi coi Saraceni, con pagar loro annualmente una pensione di
_venticinquemila mancusi_, ossieno _mancosi, in argento_, moneta di
questi tempi, trovandosi _mancosi in oro_ e _mancosi in argento_.

Queste tribolazioni ed angustie, accompagnate ancora da minacce d'altre
violenze, fecero risolvere papa Giovanni a passare in Francia, giacchè
nudriva anche prima questa voglia, per implorare l'aiuto del re Lodovico
Balbo. Andò per mare fino ad Arles, conducendo seco prigione _Formoso
vescovo_ di Porto, già da lui scomunicato, non fidandosi di lasciarlo in
Roma. _Bosone duca_[1352], che comandava le feste in Provenza, gli fece
tutte le maggiori finezze, e l'accompagnò per tutta la Francia, siccome
uomo di mire altissime suggerite a lui dall'ambizione non men sua che
della moglie _Ermengarda_, figliuola di Lodovico II Augusto. Perchè
Lodovico Balbo era infermo, gli convenne di andare a trovarlo a Troia,
città della Sciampagna, dove tenne nel mese d'agosto un gran concilio, e
fece confermar la scomunica contra de' duchi, cioè di Lamberto ed
Adalberto, e contra di Formoso vescovo e di Gregorio nomenclatore.
Coronò re di Francia il suddetto Lodovico, ma non già sua moglie per
varii riguardi. Veggendo poi il poco capitale che potea farsi del
medesimo re a cagion della sua poca sanità e del cattivo stato, in cui
si trovava allora quel regno per le prepotenze e divisioni de' baroni e
per le scorrerie de' Normanni, si attaccò il papa al suddetto Bosone
duca di Provenza, che in compagnia della moglie Ermengarda per la
Morienna e pel monte Cenisio il condusse sano e salvo a Torino, e di là
a Pavia. Cosa manipolassero insieme esso papa Giovanni e Bosone, si
raccoglie dagli Annali di Fulda, dove son queste parole:[1353]
_Pontifex, assumto Bosone comite, cum magna ambitione in Italiam rediit,
et cum eo machinari studuit, quomodo regnum italicum de potestate
Carlomanni auferre, et ei tuendum committere potuisset_. E che tale
fosse il disegno di papa Giovanni, e ch'egli pensasse a farlo re
d'Italia, ed anche imperadore, non servirà poco a farcelo credere una
lettera da lui scritta al _re Carlo_, cioè a Carlo il Grosso, in cui gli
fa sapere che per consiglio ed esortazione del re Lodovico Balbo[1354]
_Bosonem gloriosum principem per adoptionis gratiam filium meum effeci,
ut ille in mundanis discursibus, nos libere in his, quae ad Deum
pertinent vacare valeamus. Quapropter contenti termino regni vestri,
pacem et quietem habere studete: quia modo et deinceps excommunicamus
omnes, qui contra praedictum filium nostrum insurgere tentaverint_. Un
atto di questa fatta, e parole tali dicono molto. Parimente allorchè
egli arrivò ad Arles, avea scritto[1355] alla vedova imperadrice
_Angilberga_ di aver quivi trovato: _Bosonem principem generum vestrum,
et filiam domnam Hermengardam, quos permissu Dei ad majores
excelsioresque gradus modis omnibus, salvo nostro honore, promovere
nihilominus desideramus_. Giunto che fu papa Giovanni in Pavia, disegnò
di quivi raunare nel dicembre un concilio col pretesto di trattar degli
affari delle chiese, ma, secondo tutte le apparenze, per far broglio e
procurar la deposizione del re _Carlomanno_, e nello stesso tempo
l'assunzion di _Bosone_ al regno d'Italia. A questo fine scrisse più
lettere[1356] ad _Ansperto arcivescovo_ di Milano, chiamandolo a Pavia
co' suoi suffraganei; lo stesso fece a _Berengario duca_ del Friuli, a
_Wibodo vescovo_ di Parma, _Paolo_ vescovo di Piacenza, _Paolo_ vescovo
di Reggio e _Leodino_ vescovo di Modena, e ad altri vescovi e conti. La
disgrazia volle che niuno v'andò, perchè niuno si attentò di comparire
ad un concilio tale senza licenza del re Carlomanno, nel cui regno si
volea far questa sacra adunanza, e forse contra di lui. Neppure vi andò
_Suppone_ illustre conte, forse allora duca e marchese di Milano e della
Lombardia. Gli scrive il papa di essere maravigliato[1357], _cur, ut
audisti nos in tuos honores_ (così erano chiamati i governi dei conti,
marchesi e duchi) _venisse, obviam non concurreris_. Aggiugne: _Unde
cernimus quoniam istud non ex corde, sed pro fidelitate tui senioris_
(cioè perchè era fedele a Carlomanno suo signore) _taliter feceris: quod
ideo pepercimus_. Contuttociò il prega ed esorta di lasciar ogni altro
affare, di venire a trovarlo, _incitans etiam alios, quibus apostolicas
literas misimus, ut et ipsi similiter faciant_. Accortosi dunque papa
Giovanni che niuna buona piega prendevano le sue politiche idee, se ne
tornò (probabilmente per la via di Genova e del mare) a Roma, dove è
degno di osservazione che fu scritto uno strumento con gli anni di
Carlomanno, accennato dal Fiorentini[1358], cioè colle seguenti note:
_Regnante Carolomanno rex, anno regni in Italia secundo, XV kalendas
novembris, Indictione XIII. Actum civitate Leoniana Urbis Romae, beati
Petri Apostoli_. Bosone anch'egli si restituì in Provenza, e giacchè non
gli era venuto fatto il colpo in Lombardia, cominciò altre macchine per
l'ingrandimento suo, delle quali parleremo all'anno seguente. Perciocchè
venne in quest'anno a morte _Giovanni arcivescovo_ di Ravenna, in cui
luogo fu immediatamente eletto _Romano_, il sommo pontefice, siccome
padrone di quella città, scrisse[1359] al popolo di Ravenna di avere
inteso che Lamberto duca di Spoleti macchinava di entrare in quella
città. E però ordina ad essi, sotto pena di mille pisanti, di non
permettere ch'egli, nè alcuno de' suoi uomini, sia ammesso entro la
città. Che in questi tempi il re _Carlomanno_ dimorasse in Baviera, lo
abbiamo da varii documenti, e spezialmente in uno[1360] scritto nel dì
_sesto d'ottobre_, in cui concedè alla vedova imperadrice _Angilberga_
alcuni beni. Era passato a miglior vita nell'ottobre dell'anno
precedente _sant'Ignazio patriarca_ di Costantinopoli: accidente che
aprì l'adito al già deposto _Fozio_ di rimettersi su quel trono
patriarcale[1361], non senza biasimo di _Basilio imperador_ dei Greci,
che rialzò un uomo tale, dianzi sì solennemente riprovato in un general
concilio della Chiesa tutta. Furono perciò attribuite dai buoni
Cattolici a gastigo di Dio le disgrazie che ad esso Augusto accaddero di
poi, con avergli la morte rapito _Costantino_ suo primogenito, già
creato imperadore, quel medesimo, a cui _Lodovico II_ imperador
d'Occidente avea promessa in isposa l'unica sua figliuola _Ermengarda_.
Il cardinal Baronio[1362] e il padre Pagi[1363] differiscono la sua
morte all'anno 879, non so ben dire, se con infallibil racconto.

E fin qui s'era mantenuta forte contro tutti gli sforzi de' Mori e de'
Saraceni la città di Siracusa, capitale allora della Sicilia, per la
valorosa difesa dei Greci che n'erano padroni. Ma in quest'anno
assediata da que' Barbari, e con varie sorte di macchine battuta,
quantunque i cittadini e la guarnigion greca facessero di gran prodezze
nella difesa[1364], fu miseramente presa, messa a fil di spada la
maggior parte di que' Cristiani, e dopo un general sacco con incredibil
bottino, perchè era città ricchissima, tutta data alle fiamme. Trovasi
descritta questa miserabil tragedia da Teodosio monaco contemporaneo in
una lettera già data alla luce da Rocco Pirro, e da me ristampata[1365].
Pretese l'abbate Carusi, uomo dotto, che la presa di Siracusa accadesse
non già in quest'anno, ma bensì nell'anno 880. Tuttavia non paiono
convincenti le ragioni che egli reca, e si vuol confrontarle con altre
addotte dal padre Pagi, per provar succeduta questa perdita de'
Cristiani nell'anno presente. Aggiungasi ora la testimonianza della
Cronica saracenica, pubblicata dallo stesso Carusi, che parimente si
legge in essa mia Raccolta, dove all'anno 878 sono le seguenti parole:
_Captae sunt Syracusae vicesimo primo maii, feria quarta_. Cadde appunto
il dì 21 di maggio del presente anno in mercordì. La perdita di Siracusa
si tirò dietro quella di tutti gli altri luoghi fin allora conservati
dai Greci in Sicilia, e tutti poi, per attestato di Cedreno[1366],
furono smantellati dai vittoriosi Mori, fuorchè Palermo, città che,
scelta per loro fortezza, crebbe da lì innanzi in popolazione e
grandezza, e divenne poi capo di quella sì riguardevol isola; del che
gran doglia provarono i Cristiani non men dell'Occidente che
dell'Oriente.

NOTE:

[1349] Annales Franc. Fuldenses.

[1350] Epist. 84, 85, etc. Johannis Papae VIII.

[1351] Epist. 164 Johannis Papae VIII.

[1352] Annales Francor. Bertiniani.

[1353] Annal. Francor. Fuldenses.

[1354] Epist. 119 Johannis Papae VIII.

[1355] Epist. 92 Johannis Papae VIII.

[1356] Epis. 126, 127, etc. ejusdem.

[1357] Epistola 130 ejusdem.

[1358] Niceta, in Vit. S. Ingnatii Constantinop.

[1359] Baron., Annales Eccl.

[1360] Pagius, ad Annal. Baron.

[1361] Fiorent., Vita di Matilde, lib. 3. p. 24.

[1362] Epistola 133, Johann. Papae VIII.

[1363] Antiquit. Ital., Dissert. 17, p. 929.

[1364] Constantinus Porphyrogenn., in Vit. Basilii Imper.

[1365] Rer. Ital. P. I. tom. 2.

[1366] Cedren. in Annal. de Niceph. Phoca.



    Anno di CRISTO DCCCLXXIX. Indiz. XII.

    GIOVANNI VIII papa 8.
    CARLO il GROSSO re d'Italia 1.


Seguitava intanto _Carlomanno_ re di Baviera e d'Italia a combattere con
gl'incomodi della sua sanità[1367]. Sopraggiuntagli una paralisia, per
cui perdè quasi affatto l'uso della parola, andava peggiorando il suo
stato. Però i due re suoi fratelli _Lodovico_ e _Carlo Grasso_, ossia
_il Grosso_, cominciarono a fargli i conti sulla vita. Lodovico col
pretesto di una visita portatosi in Baviera, di mano in mano che
comparivano alla sua udienza i magnati di quel regno, si facea da loro
promettere di non prendere per loro principe se non lui, qualora
occorresse la morte del fratello. Carlo il Grosso all'incontro
vagheggiava l'Italia, e si preparava per calare dal suo regno di
Alemagna a procacciarsi questa corona. Teneva anche filo di trattati con
papa Giovanni; e il papa gli dava buone parole, anzi implorava il suo
aiuto contra dei Saraceni, senza lasciar nello stesso tempo di
riconoscere per re l'infermo Carlomanno. Anzi impariamo da una lettera
scritta da papa Giovanni[1368] ad Antonio vescovo di Brescia, e a
_Berengario conte_, ossia duca del Friuli, che Carlomanno avea
dichiarato esso papa suo _vicario_ nel governo del regno d'Italia. Era
intanto dallo stesso papa stato intimato un concilio da tenersi in Roma,
con chiamarvi spezialmente i metropolitani di Milano e Ravenna coi loro
suffraganei. Ma eccoti insorgere una gara fra il papa ed _Ansperto
arcivescovo_ di Milano, che andò a finire in una rottura. Ciò che
pretendesse il pontefice Giovanni, si raccoglie da una lettera scritta a
quell'arcivescovo. Erano le mire sue di raunar que' vescovi, per
disporre, coll'assenso loro, della corona del regno d'Italia. _Et quia_,
scrive egli, _Carolomannus corporis, sicut audivimus, incommoditate
gravatus, regnum retinere jam nequit, ut de novi regis electione omnes
pariter consideremus, vos praedicto adesse tempore valde oportet. Et
ideo nullam absque nostro consensu regem debetis recipere. Nam ipse, qui
a nobis est ordinandus in imperium, a nobis primum atque potissimum
debet esse vocatus et electus_. Il che era dire in buon linguaggio, che
l'arcivescovo e gli altri prelati doveano intervenire a quel concilio
per ricevere imperadore e re d'Italia chiunque avesse voluto il papa. Ma
Ansperto, oltre al poter essergli stato vietato dal re Carlomanno di
andare a Roma, verisimil cosa è che pretendesse spettante a sè ed ai
vescovi del regno d'Italia l'eleggere il loro re, senza dipendere dal
romano pontefice; giacchè per tanti anni sotto i re longobardi il regno
d'Italia era stato indipendente da chi era imperador de' Romani; e circa
ventisette anni l'avea tenuto Carlo Magno, senza essere imperadore. Anzi
lo stesso Carlomanno, re allora d'Italia, non si sa che dipendesse punto
dall'elezione del papa per acquistare questa corona. Aggiungasi che i
principi secolari d'Italia, cioè i duchi, marchesi e conti, doveano
anch'essi pretendere, almeno al pari de' vescovi, all'elezione del re;
ed all'incontro parea che il papa li volesse esclusi da questo diritto.
Può anche darsi che, per quanto era avvenuto in Pavia, già si
sospettasse, o si sapesse rivolto l'animo di papa Giovanni in favor di
Bosone duca, già da lui adottato per figliuolo, e che perciò Ansperto e
gli altri fedeli alla casa reale di Francia dominante in Germania si
tenessero lungi dall'andare ad un congresso, dove correano pericolo di
essere astretti a far le voglie del papa. Abbiamo una lettera da esso
romano pontefice scritta[1369] verso l'aprile di quest'anno _Bosoni
glorioso principi_, da cui risulta che gli andava procacciando degli
aderenti e fautori in Italia; ed anche per questa mira dovette egli
rimettere in sua buona grazia _Adalberto_ duca e marchese di Toscana con
_Rotilda_ sua moglie, già abominati da lui nell'anno precedente. _De
parte quoque_, dice egli, _Adelberti gloriosi marchionis, seu Rotildae
comitissae conjugis ejus, cognoscat nobilitas vestra, quod vobis in
omnibus fideles et devotos amicos eos esse cognoscimus. Ideo rogamus, ut
eorum comitata in provincia posita, sicut jam tempore longo tenuerunt,
ita deinceps pro nostro amore securiter habeant_. Questi contadi posti
in Provenza li doveano avere avuti Adalberto e sua moglie dalla
beneficenza di Lodovico II imperatore, cominciandosi con ciò a vedere
che tali governi prendevano a poco a poco la forma dei feudi de' secoli
susseguenti. L'assoluzione dalle censure data ad esso Adelberto si vede
solamente nell'epistola scritta dal suddetto papa[1370] nel novembre
dell'_Indictione XIV_ dell'anno seguente. Al medesimo Bosone ancora è
più che probabile che fosse indirizzata un'altra lettera del medesimo
pontefice[1371], mancante del titolo, in cui sono le seguenti parole:
_Secretum, quod, Deo auxiliante, vobiscum Trecis existentes habuimus,
immutilatum ac fixum nostro apostolico pectore, quasi quoddam thesaurum
reconditum procul dubio retinemus; et totis, vita comite, nisibus illud,
quantum in nobis est, alacriter optamus perficere. Quapropter si
excellentiae vestrae libet, jam hoc ipsum ad effectum debetis
perducere._ Dà il titolo di _eccellenza_ in altre lettere ad esso
Bosone. Che secreto poi e concerto fosse questo che si doveva presto
eseguire, cioè se riguardi il regno d'Italia, oppur l'occupazione del
regno della Borgogna che seguì in questo medesimo anno, noi nol
sappiamo. Più nondimeno probabile è il secondo.

Comunque sia, _Ansperto arcivescovo_ di Milano non volle intervenire al
concilio tenuto in Roma nel mese di maggio: perlochè fu scomunicato da
papa Giovanni. Poco dappoi nondimeno esso pontefice[1372] gli scrisse,
con ordinargli di venire all'altro concilio che s'avea da celebrare sul
principio d'ottobre, dicendo fra l'altre cose: _Hoc etiam tibi, tuisque
suffraganeis omnibus admonitione nostra denunciamus atque praecipimus,
ut cum eo, qui de regibus Francorum, Deo favente, Italiam fuerit
ingressus, nullum absque consensu et unanimitate placitum facere
praesumatis, Apostolorum canone capituli XXXV ita jubente atque
dicente_, ec. Strana cosa è il veder qui citato uno de' pretesi canoni
degli Apostoli. E da ciò sempre più si scorge che nasceva la discordia
fra il pontefice e l'arcivescovo dalle diverse pretensioni loro intorno
al diritto di eleggere il re d'Italia. Non cessava intanto papa Giovanni
di replicar le istanze[1373] al re _Carlomanno_, perchè accorresse in
aiuto della Chiesa afflitta dai Saraceni, maltrattata anche dai cattivi
Cristiani. Altrettanto scriveva a _Lodovico II_ re di Germania, e a
_Carlo Crasso_ re d'Alemagna loro fratello, facendo ora all'uno, ora
all'altro sperare l'imperio. Non mancavano intanto altre gravissime
faccende allo stesso papa, riguardanti la Chiesa di Dio. Era, come
dicemmo, il deposto _Fozio_ risalito sul trono patriarcale di
Costantinopoli. Arrivarono a Roma i legati di _Basilio imperadore_ e
d'esso Fozio, per indurre il papa ad ammetterlo alla sua comunione: e
venne lor fatto. Il cardinal Baronio[1374] benchè adduca delle ragioni
per iscusare in ciò la troppa facilità di papa Giovanni, pure non può
astenersi dal parlare con amarezza di lui, sino a figurarsi che la
favola della papessa Giovanna prendesse origine da questa sua
esorbitante condiscendenza in favore d'un personaggio si screditato:
immaginazione, che neppure ha ombra di verisimiglianza alcuna. Ma non
mancano altri scrittori, che biasimando la rigidezza di que' sommi
pontefici, i quali negli affari scabrosi niun temperamento vogliono
ammettere, credono saggiamente concorso questo papa ad approvar
l'elezione di Fozio, massimamente avendolo egli fatto con varie
condizioni e riguardi, dei quali parla la storia ecclesiastica. Venne a
morte in quest'anno _Landolfo vescovo_ e conte di Capoa[1375], con
lasciar dopo di sè una trista memoria per le sue cabale, per la sua
estrema ambizione, e per l'odio che portava ai monaci. Era solito a
dire: _Ogni volta che mi si presenta davanti agli occhi un monaco,
m'aspetto in quel dì qualche gran disgrazia_. Nel principato di Capoa
gli succedette _Pandonolfo_ suo nipote[1376]. _Landolfo_ iuniore
figliuolo di Landone, suo nipote, fu eletto vescovo di quella città. Ma
Pandonolfo, chiamato da altri _Pandenolfo_, da lì a poco fatta prendere
la sacra tonsura a _Landenolfo_[1377], suo fratello ammogliato, procurò
che anch'egli fosse eletto, e mandollo a Roma a prendere la
consecrazione dal papa. Quantunque _Bertario abbate_ di monte Casino e
_Leone vescovo_ di Teano venissero anch'eglino a Roma per dissuadere il
pontefice dall'ordinarlo, con predirgli dei gravi disordini, il papa non
ne fece caso. Verificossi la predizione, perchè nacque fiera discordia
fra i parenti e fra il popolo, che durò non poco; e i Saraceni,
profittando della lor divisione, diedero un terribil sacco al distretto
di Capoa. Perlochè il papa due volte fu obbligato a portarsi a quella
città, e a prendere in fine (forse nell'anno seguente) il ripiego di
dividerne il vescovato, costituendo _Landolfo_ vescovo in Capoa vecchia
e _Landenolfo_ nella nuova. Anche _Adelgiso principe_ di Benevento (non
si sa bene, se in questo, o se nel precedente anno) terminò i suoi
giorni, ma di morte violenta, perchè ucciso dai suoi generi, nipoti ed
amici. In suo luogo fu eletto _Gaideri_ ossia _Gaideriso_, figliuolo di
una sua figliuola. La discordia che, siccome dissi, si svegliò in Capoa
per i due pretendenti a quel vescovato, fece ricorrere i figliuoli di
Landone per aiuto a _Guaiferio principe_ di Salerno, il qual prese la
lor protezione, e mosse guerra a _Pandonolfo_ conte di Capoa. Questi non
avendo maniera di sostenersi, si raccomandò al papa, che scrisse
lettere[1378] per trattenere Guaiferio dal molestare i Capoani, con
intimargli anche la scomunica: flagello che si fa udire ben sovente
nelle lettere di questo pontefice. Gli dice fra l'altre cose: _Nam pro
vestro, quum venerimus, amore, ipsum quem vultis capuanae plebi,
antistitem ordinabimus, ut vester principalis honor imminutus
permaneat:_ parole indicanti che sovrano di Capoa era il principe di
Salerno, e che non dovea avere avuto effetto la donazione di quella
città fatta da Carlo Calvo Augusto alla Chiesa romana. Certo in queste
lettere papa Giovanni non mostra di pretendersi padrone in temporale di
Capua. Un altro ricorso prima ancora di questo avea fatto Pandonolfo a
_Gaideriso principe_ di Benevento, e a _Gregorio_ generale in Italia
dell'imperador greco Basilio, con chiedere loro soccorso, e promettere
al primo d'essi che venisse, di sottomettersi a lui e di giurargli
fedeltà. Per due diverse strade giunsero costoro a Capoa, e si
accamparono presso a quella città, in tempo che sopraggiunto ancora
Guaiferio colla sua armata, si piantò anch'egli vicino all'anfiteatro.
Restarono allora burlati da Pandonolfo il principe di Benevento e il
generale de' Greci; e però se ne tornarono mal soddisfatti alle loro
case. Seguitò per un pezzo Guaiferio a tenere assediata quella città, da
dove uscì tutta la nobiltà e molti del popolo; ma venendo il verno senza
ch'egli avesse potuto dar la lezione che volea a Pandonolfo, dopo aver
desolato il paese, se ne tornò a Salerno. Veggonsi ancora lettere di
papa Giovanni[1379] a _Pulcari duca_ d'Amalfi. Si era questi impegnato
di rompere i patti stabiliti coi Saraceni, e di difendere le terre della
Chiesa romana: al qual fine papa Giovanni già avea sborsato diecimila
mancosi d'argento. Perchè non avea attesa la promessa, il papa fece
istanza per riavere il suo danaro, e sopra ciò scrisse ancora a
_Guaiferio principe_ di Salerno, con iscomunicar dipoi _Pietro vescovo_
di quella città, e Pulcari e il popolo tutto, finchè rinunziassero
all'amicizia degl'infedeli. Un'eguale scomunica minacciò ad _Atanasio_
il giovane, vescovo di Napoli, se non si ritirava dall'alleanza
contratta coi suddetti Saraceni.

Arrivò al fine de' suoi giorni nel dì 11 di aprile dell'anno presente,
non senza sospetto di veleno, _Lodovico Balbo_, re solamente di Francia,
e non già imperador de' Romani, come immaginarono il Sigonio e il
cardinal Baronio. Presero quella corona i due suoi figliuoli _Lodovico_
e _Carlomanno_, a lui nati da _Ansgarde_ fanciulla nobile, che si crede
da lui presa per moglie in sua gioventù, ma poi ripudiata per ordine del
padre. _Lodovico II_ re di Germania mosse lor guerra[1380], e per una
convenzione acquistò una parte della Lorena. Furono questi torbidi che
diedero il comodo a _Bosone_ duca di Provenza di ben pescare in questa
congiuntura, e di eseguire un disegno suo, non già nato allora. La
moglie _Ermengarda_ l'andava incitando, con dire[1381] che una pari sua,
figliuola d'un imperador d'Occidente, e già sposata ad un imperador
d'Oriente, non potea vivere, se non vedea sè stessa regina, e il marito
re. Forse non avea egli bisogno di sì fatti sproni. Pertanto parte con
promesse di abbazie, di benefizii ecclesiastici e di ville, parte colle
minacce indusse i vescovi e primati della Provenza, e di una parie del
regno della Borgogna, ad accettarlo e riconoscerlo per re. Probabilmente
non gli fu di picciolo aiuto _Rostagno arcivescovo_ d'Arles, che il
papa, consapevole, per quanto si può conghietturare, di questa
risoluzione, avea decorato col titolo di suo _vicario_ per la Gallia. In
Mante presso a Vienna in una dieta di vescovi fu egli eletto e coronato
re, con piantare in questa maniera un nuovo regno, appellato
_arelatense_, oppure di _Borgogna_. Abbracciava questo la Provenza, il
Delfinato, la Savoia, Lione col suo territorio, ed alcuni contadi della
Borgogna. Pretende l'Eccardo[1382] che la città d'Arles riconoscesse
allora per suoi re _Lodovico II_ re di Germania, e _Carlo il Grosso_ re
d'Alemagna. Ma facilmente si può provare ch'essa apparteneva ai re della
Gallia, e che loro fu usurpata con altri stati da Bosone. Però,
secondochè attesta Reginone[1383], Lodovico e Carlomanno re della Gallia
e i lor successori perseguitarono sempre Bosone, ed ebbero in odio il
suo nome e tutti i suoi sudditi. Ma egli, siccome persona di acuto
intendimento e di rara destrezza, seppe così ben governarsi, che contra
tutti i lor tentativi sempremai saldo si sostenne. Figurossi allora
l'Eccardo suddetto che in quest'anno il re _Carlomanno_, figliuolo del
re di Germania Lodovico I, si facesse portare in Italia, deducendolo da
un diploma riferito dall'Ughelli[1384]. Ma non regge la sua conghiettura
fondata sopra un documento copiato con poca accuratezza, e che dee
riferirsi all'anno 877. Non permetteva la troppa afflitta sanità a
questo principe d'imprendere un viaggio tale. È bensì fuor di dubbio che
_Carlo_, appellato dai posteri _Grasso_ ossia il _Grosso_, re
d'Alemagna, suo fratello, calò in quest'anno in Italia. Ne abbiamo il
riscontro negli Annali bertiniani[1385]. Mirava egli cadente il
fratello; e però affrettossi a lasciarsi vedere in Italia per disporre
gli animi dei principi e magnati di questo regno ad eleggere lui per
successore. E che in tali negoziati passasse d'intelligenza coi re suoi
fratelli, cioè col suddetto _Carlomanno_ e con _Lodovico II_, si può
ricavar dagli stessi Annali, che riferiscono seguito fra loro un
abboccamento in Orba, terra oggidì degli Svizzeri, prima ch'egli
scendesse in Italia. Secondo i suddetti Annali, gli riescì di ottenere
il regno italico. Ma quando precisamente seguisse la di lui elezione,
noi saprei dire. Neppure nel dì 15 di novembre egli contava gli anni del
regno d'Italia, se crediamo ad un suo diploma[1386] da me pubblicato, e
dato _XVII kalendas novembris anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu
Christi DCCCLXXVIIII, Indictione XIII, anno vero regni regis Karoli
tertio_ cioè terzo del regno d'Alemagna. Adunque neppure nel dì _16 di
ottobre_ egli numerava gli anni del regno d'Italia. Veggasi il
testamento di _Ansperto arcivescovo_ di Milano, da me dato alla
luce[1387], dove son queste note cronologiche: _Karlomannus, divina
providentia ordinante, rex Longobardorum in Italia anno regni ejus
secundo, decima die mensis septembris, ingrediente Indictione
tertiadecima_, cioè in quest'anno, riconoscendosi da ciò qual corso
avessero in Milano le indizioni. Un altro testamento susseguentemente
fatto dal medesimo arcivescovo vien accennato dal signor Sassi
bibliotecario dell'Ambrosiana[1388], scritto nel _dì XI di novembre,
nell'anno primo di Carlo re, nell'indizione XIII_, cioè nello stesso
anno 879. Sicchè Carlo il Grosso dovette essere eletto e riconosciuto re
d'Italia solamente sul fine di ottobre, o sul principio di novembre
dell'anno presente. Un suo diploma in favor delle monache di santa
Giulia di Brescia, che si legge nelle mie Antichità italiche, è dato _IV
kalendas januarii, Indictione XIIII, anno vero regni Carolis regis in
Francia V, in Italia II. Actum in Placentia_, cioè nel dì 29 di dicembre
dell'anno seguente 880. E perciocchè in quel dì correva l'anno secondo
del regno d'Italia, per conseguenza nello stesso dì dell'anno presente
879 egli era già re d'Italia. Intanto il sommo pontefice _Giovanni
VIII_, giacchè _Bosone_ adottato per suo figliuolo o avea fatto, o era
vicino a stabilire il suo regno in Provenza e nella Borgogna, erasi
accorto abbastanza che sopra l'uno dei due re fratelli, cioè sopra
_Lodovico II_ re di Germania, o sopra _Carlo il Grosso_ re d'Alemagna
dovea cadere la corona del regno d'Italia, perciò colà rivolse le mire
sue. Che anche egli avesse mano in eleggere o far eleggere re d'Italia
esso Carlo, sembra quasi che certo, perchè all'udirlo disposto di venire
in Italia, gli scrisse[1389], con ispedirgli Arnolfo suo consigliere, e
pregarlo di accudire ai bisogni della Chiesa romana, troppo infestata
dai cattivi Cristiani, e più dai pessimi Saraceni. In un'altra lettera,
a lui scritta sul fine di novembre, si scorge essere già seguito
concerto che il papa dovesse portarsi a Pavia, allorchè Carlo vi fosse
giunto per trattar quivi di cose utili alla stabilità del regno; ed
essendo venuta nuova che esso re Carlo era pervenuto a Pavia, senza che
egli ne avesse dato avviso a Roma, nè inviati colà i suoi legati, di ciò
il papa molto si maraviglia. Vuole perciò ch'egli spedisca i suoi
ambasciatori a Roma con lettere onorevoli per la santa Sede: dopo di che
esso papa si metterà in viaggio per andare a trovarlo, e a digerir con
lui ciò che riguardava l'esaltazione della Sede apostolica, e l'onore
non meno del pontefice che del re. Era forte in collera papa Giovanni
contra di _Ansperto arcivescovo_ di Milano, perchè questi, seguitato
dagli altri vescovi e principi del regno longobardico, non avea voluto
accordarsi con lui intorno all'elezione del re d'Italia. Siccome essi
non entravano a far l'imperadore de' Romani, appartenendo ciò al papa e
al senato romano: così pretendevano che neppur il papa entrasse egli a
fare re d'Italia, credendo lor proprio questo diritto. Arrivò tant'oltre
questa gara e disunione, che per non avere Ansperto fatto caso della
scomunica pontificia, papa Giovanni il dichiarò decaduto dal vescovato,
e ne scrisse al re Carlo[1390], ed anche al clero di Milano, perchè
passasse all'elezione d'un altro. Non mancò il re Carlo di scrivere in
favore d'Ansperto; ma il papa se ne scusò, volendo che questo prelato
andasse prima a Roma a dar le dovute soddisfazioni. Vedesi nondimeno
cessato dipoi questo turbine. Ma per conto dell'elezione di _Carlo il
Grosso_ in re d'Italia, non essendovi vestigio che v'intervenisse nè in
persona nè per mezzo di alcun legato il papa, sembra assai credibile che
questa si eseguisse dai vescovi e primati del regno, senza volere
dipendenza da lui. Anzi appunto, perchè Ansperto arcivescovo volle
indipendentemente dal papa stesso procedere all'elezione di Carlo
suddetto, possiam conghietturare che nascesse l'ira d'esso papa Giovanni
contra di lui, fino a scomunicarlo, e a cercar di deporlo sotto altri
pretesti: il che non ebbe effetto, veggendosi da lì a non molto rimessa
la concordia fra loro.

NOTE:

[1367] Annales Franc. Fuldenses.

[1368] Epist. 155 et 237 Johann. Papae VIII.

[1369] Epist. 164 Johann. Papae VIII.

[1370] Epist. 258 Johannis Papae VIII.

[1371] Epist. 180 ejusd.

[1372] Epist. 177, 181 et 196 Johann. Papae VIII.

[1373] Epist. 186, 197 et 172 ejusd.

[1374] Baron., Annal. Eccl.

[1375] Erchempertus, Hist., cap. 40.

[1376] Chron. Comit. Capuan., apud. Peregrin.

[1377] Leo Ostiensis, lib. 1, cap. 41.

[1378] Epist. 206 et 214 Johannis Papae VIII.

[1379] Epist. 209, 225 et 227 Johannis Papae VIII.

[1380] Annales Francor. Fuldenses.

[1381] Annales Francor. Bertiniani.

[1382] Eccard., Rer. Francor., lib. 31, p. 634.

[1383] Regino, in Chron.

[1384] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Episcop. Veronens.

[1385] Annales Francor. Bertiniani.

[1386] Antiquit. Italic., Dissert. LXX.

[1387] Ibid., Dissert LVI.

[1388] Saxius, in Not. ad Regn. Ital. Sigonii.

[1389] Epist. 217, 230 et 231 Johann. Papae VIII.

[1390] Epist. 221, 222, 256 et 260 Johannis Papae VIII.



    Anno di CRISTO DCCCLXXX. Indiz. XIII.

    GIOVANNI VIII papa 9.
    CARLO il GROSSO re d'Italia 2.


Restò finalmente vinto dalle gravi sue infermità _Carlomanno_ re di
Baviera e d'Italia. Secondo gli Annali di Fulda[1391], seguì la sua
morte nel dì 22 di marzo. Leggesi appresso Reginone[1392] un elogio che
cel rappresenta dotato di molte insigni qualità e virtù. Niuna prole
legittima lasciò egli dopo di sè. Vi restò un solo figliuolo giovane di
bellissimo aspetto, a lui partorito da Ludsvinda sua concubina,
appellato _Arnolfo_, di cui avremo a parlar più d'un poco. All'avviso
della morte del fratello, non fu pigro _Lodovico II_ re di Germania a
correre in Baviera, dove, raunati tutti i baroni di quel regno, senza
difficoltà tutti a lui si sottomisero. Contentossi egli che il bastardo
Arnolfo ritenesse la Carintia, giacchè gliel'avea conceduta il padre.
Trovasi il re _Carlo Grasso_ in Pavia nel mese di aprile del presente
anno, e non già del susseguente, come pensò il Puricelli[1393], ciò
costando da due suoi diplomi in favore del monistero ambrosiano, dati
_anno regni in Italia primo_. Nel mese di giugno i figliuoli di Carlo
Calvo Augusto, cioè _Lodovico_ e _Carlomanno_, i quali divisero in
quest'anno il regno della Francia ossia della Gallia fra loro,
camminarono ben d'accordo, e tennero un congresso nella villa di
Gundolfo, a cui intervenne il re Carlo il Grosso, colà portatosi
dall'Italia. Non vi potè essere il re Lodovico suo fratello, perchè
impedito da malattia. Quivi spezialmente si trattò delle maniere di
abbattere _Bosone_ usurpatore della Borgogna e Provenza. Unitamente poi
nel mese di luglio mossero l'armi contra di lui; gli tolsero la città di
Mascon, e passati sotto Vienna del Delfinato, vi misero l'assedio.
Dentro v'era con un buon presidio _Ermengarda_, moglie del re Bosone,
che fece una gagliarda difesa per grandissimo tempo. Ma il re _Carlo
Grasso_ si fermò poco a quella impresa, chiamato da' suoi affari in
Italia. Ch'egli fosse in Piacenza nel dì 23 di aprile dell'anno presente
apparisce da un suo diploma, da me dato alla luce[1394], ma senza aver
allora avvertito che ivi il sigillo è di _Carlo imperadore_; il che non
può stare, perchè egli era solamente re, e contava l'_anno I del regno
d'Italia_. In esso diploma conferma i beni alla vedova imperadrice
_Angilberga_. Abbiamo una lettera da papa Giovanni a lui scritta[1395],
in cui gli ricorda d'averlo chiamato in Italia per l'utilità ed
esaltazione della santa Sede apostolica, _ad culmen imperii, Deo
propitio, volentes vos perducere_. Aggiugne, che pel grande amore che
gli portava, _ad vos Ravennam pervenimus_: cosa non mai praticata da'
suoi antecessori, per isperanza di domar col suo braccio i nemici della
Chiesa: _Sed quia de his omnibus nihil apud magnitudinem vestram, ut
volebamus, peregimus: revertentes prioribus pejora reperimus._ Perciò il
prega di spedire a Roma i suoi ambasciatori, per concertar con essi i
patti e privilegii della Chiesa romana, prima che egli colà si porti in
persona. Questa lettera nel registro vien riferita sotto il precedente
anno 879. Piuttosto nel presente credo io seguito fra loro un tale
abboccamento. Anche il Dandolo[1396] scrive d'esso re Carlo: _Hic primo
anno regni sui Ravennae existens, foedus inter Venetos et subjectos suos
italici regni per quinquennium renovavit._ Nel luglio poi di quest'anno
un'altra lettera si legge scritta dal medesimo papa ad esso re Carlo,
dove il loda per le sue buone intenzioni di accorrere in aiuto della
Chiesa romana, afflitta allora più che mai dai Saraceni e da varii
cattivi cristiani. Il prega di non prestar orecchio ai nemici dello
stesso papa, con aggiugnere ch'egli s'era portato ad una certa corte,
così esortato da _Vibodo vescovo_ di Parma per parlare con _Guido conte
figliuolo di Lamberto_; ma che questi lo avea burlato col non venire. E
perchè il re Carlo temeva che il papa seguitasse a proteggere Bosone
negli stati usurpati, papa Giovanni protesta di averlo abbandonato, dopo
la tirannia praticata contro la casa reale di Francia, e di voler tenere
solamente il re Carlo in luogo di figlio. Così questo politico papa
andava navigando secondo i venti, e mutando giri ed idee. Dice in fine:
_Pro justitiis autem faciendis sanctae romanae Ecclesiae, ut idoneos et
fideles viros e latere vestro nobis de praesenti dirigatis, obnixe
deposcimus, qui nobis pariter cum missis nostris proficiscentibus, de
omnibus justitiam plenissimam faciant, et vestra regali auctoritate male
agentes corrigant et emendent_: cioè, come io credo, ne' confini dei
ducati di Spoleti e di Toscana. La menzione poi fatta qui di _Guido
conte_ ossia duca di Spoleti, ci fa sufficientemente comprendere che o
in questo o nel precedente anno fosse già mancato di vita _Lamberto_,
veduto da noi in addietro duca di quella contrada, e scomunicato dal
papa. Camillo Pellegrino[1397] credette questo _Guido_ figliuolo di
_Guido_ seniore, parimente duca di Spoleti. In fatti sì da
Erchemperto[1398] che dall'Anonimo salernitano[1399] viene nominato
_Guido filius Guidonis senioris_. Altrove lo stesso Erchemperto scrive:
_Defuncto autem Lamberto filio Guidonis senioris, filio suo_ (senza
dargli il nome) _Spoletum reliquit. Quo etiam decedente, Guido junior,
Spoletum et Camerinum suscipiens, cum Saracenis in Sepino castrametatus
pacem fecit, obsidibus datis._ Dalle quali parole intendiamo, che morto
Lamberto, un suo figliuolo gli succedette nel governo di Spoleti. E,
questo parimenti mancato di vita, _Guido_, che dianzi era duca di
Camerino, ottenne anche il ducato di Spoleti, e signoreggiò in ambedue
que' ducati. Ma non si può fallare, credendo che _Lamberto_ lasciasse un
figliuolo appellato _Guido_, dacchè sopra ciò chiara è la testimonianza
dell'epistola di papa Giovanni.

Tre _Guidi_ duchi di Spoleti riconosce il conte Campelli[1400],
diversamente da quel che fece Camillo Pellegrino. E non senza
fondamento. In una sua lettera dell'anno 882[1401] papa Giovanni scrive
a Carlo il Grosso imperadore: _De omnibus immobilibus rebus territorii
sancti Petri, quas nobis Ravennae consistentibus, in praesentia
serenitatis vestrae UTERQUE WIDO MARCHIO pro reinvestitione reddidit,
nec unum recepimus locum_. Adunque nel tempo, in cui era seguito il
congresso di Ravenna, cioè nel presente anno 880, i due ducati di
Spoleti erano governati da due _Guidi_, l'uno de' quali sarà stato
figliuolo di Lamberto, e l'altro fratello. Il figliuolo di Lamberto,
secondo l'attestato d'Erchemperto, poco dappoi morì; e per conseguente
_Guido_ figliuolo di _Guido_, e fratello di _Lamberto_, quegli sarà
stato che fra pochi anni vedremo re d'Italia ed imperador de' Romani.
Abbiamo un'altra lettera di papa Giovanni[1402] al re _Carlo Grasso_,
scritta nel dì 10 di settembre del presente anno, da cui risulta che si
aspettava l'arrivo di lui a Roma; e il papa, dopo aver fatte nuove
istanze per la spedizione di un legato dalla parte d'esso re, che
prevenisse la di lui venuta affine di concertar le cose, passa a
dolersi, perchè partitosi da Pavia, sia venuto nel territorio di Roma
Giorgio nomenclatore, uomo già scomunicato, con un uomo di _Guido duca_;
e quasi assicurato dall'autorità del medesimo re Carlo, si sia messo in
possesso de' beni allodiali, _quae ad jus sanctae romanae Ecclesiae
(Carolo divae memoriae patruo vestro concedente) legaliter pervenerunt_.
Se erano que' beni, come pare che non s'abbia a dubitare, nel ducato
romano, vegniamo a conoscere che gl'imperadori doveano ritenere il fisco
in Roma in questi tempi, giacchè que' beni confiscati al suddetto
Giorgio gli avea _Carlo Calvo_ conceduti al papa. In un'altra
lettera[1403] il pontefice fa sapere allo stesso re Carlo il Grosso, che
l'armata navale de' Greci ha sconfitta la saracinesca, ma che non
lasciano i Saraceni di fieramente infestare i contorni stessi di Roma,
di modo che non osava la gente di uscir fuori di quella città. Questa
vittoria i Greci la riportarono nel mare di Napoli, ciò costando da
un'altra lettera di esso papa[1404], contenente le congratulazioni sue a
Gregorio generale di Basilio imperador de' Greci, a Teofilatto
ammiraglio, e a Diogene conte, a' quali forte eziandio si raccomanda,
perchè vengano con alquante navi nella spiaggia romana per dare addosso
ai Saraceni, inumani divoratori di quella contrada. Finalmente crede il
padre Pagi[1405] con altri che nel dicembre di questo anno
s'incamminasse il re Carlo il Grosso a Roma, e nel giorno santo del
Natale del Signore, secondochè attestano gli Annali bertiniani[1406],
ricevesse dalle mani di papa Giovanni la corona imperiale, cioè fosse
creato imperador de' Romani. Perchè Reginone[1407], Sigeberto[1408],
Ermanno Contratto[1409] ed altri antichi storici seguitano l'epoca
incominciante l'anno nuovo dalla _natività_ del Signore, perciò si crede
che registrassero la di lui coronazione cesarea nell'anno 881; al che
non facendo mente il cardinal Baronio[1410] ed altri, sino al Natale
dell'881 differirono l'assunzione di questo principe alla dignità
imperiale, ed evidentemente s'ingannarono. Imperocchè la lettera di papa
Giovanni[1411] a lui scritta _IV kalendas aprilis, Indictione XIV_, cioè
nel marzo dell'881, fa conoscere chiaramente ch'egli non aspettò al
Natale di quell'anno a portare il titolo d'imperadore. Concorrono a
confermar questa verità varii diplomi, da me posti in luce nelle
Antichità italiche[1412], da' quali risulta che molti mesi prima del
Natale dell'anno 881 questo principe contava nei suoi diplomi l'_anno
primo_ del suo imperio. Per altro ho io proposto varii dubbii intorno
all'asserzione de' suddetti Annali bertiniani, i quali soli ci fan
credere coronato imperadore Carlo Grasso nel dì 25 di dicembre dell'anno
presente, potendosi piuttosto giudicare che la coronazione sua in Roma
seguisse ne' due primi mesi dell'anno 881, siccome può vedersi nelle mie
Dissertazioni[1413]. E qui si vuol rammentare un diploma d'esso Carlo
Grasso re, e non peranche imperadore, dato, se ne crediamo a Pier-Maria
Campi[1414], _V kalendas januarii, anno incarnationis dominicae
DCCCLXXXI, Indictione XIV, anno vero regni domni Karoli regis in Francia
V, in Italia II. Actum Placentiae_. Qualora sussistano le note di questo
documento, scritto, secondo noi, nel dì 28 di dicembre dell'anno
presente 880, chiamato ivi 881 secondo l'era cristiana, allora usata da
molti, che principiava l'anno nuovo al Natale, (e debbono sussistere,
perchè altro simile documento ho io rapportato nella Dissertazione
ottava delle Antichità italiche), noi abbiam quasi decisa questa
controversia. Aggiungo, aver io dato fuori un altro simile diploma nella
Dissertazione quarantesima prima, da me veduto originale nell'insigne
monistero delle sacre vergini di santa Giulia di Brescia, dato _IV
kalendas januarii, Indictione XIV, anno vero regni Caroli regis in
Francia V, in Italia II. Actum in Placentia_, cioè nel dì 29 di dicembre
di quest'anno, anch'esso comprovante che nel dì di Natale d'esso anno
Carlo Grasso non fu in Roma, nè ricevette la corona imperiale. Adunque
avendo noi sufficienti pruove per credere dubbiosa od erronea
l'asserzion degli Annali bertiniani, resta da vedere se sia verisimile
l'opinion dell'Eccardo[1415], il qual tenne celebrata la coronazione
imperiale di Carlo Grasso in Roma nel sacro giorno dell'Epifania
dell'anno seguente 881. In un decreto di _Cadoldo_ già monaco d'Augia, e
poi vescovo di Novara, pubblicato dal padre Mabillone[1416], viene
ordinato ai monaci del monistero d'Augia di fare ogni anno con
celebrazione di messe e recitamento di salmi l'anniversario della
consecrazione di _Carlo serenissimo terzo imperadore augusto_, allora
vivente. _Et haec commemoratio fiat in die consecrationis suae, idest
Epiphaniarum die_. Aggiugne esso Eccardo un diploma del medesimo
Augusto, dato nell'anno 885, in cui ordina anch'egli che si facciano
orazioni _in annuali consecrationis suae die, hoc est, Epiphania
Domini_. Il suddetto _Cadoldo_, non conosciuto dall'Ughelli nella Italia
sacra, avea per fratello _Liutuardo vescovo_ di Vercelli e
arcicancelliere di esso imperadore Carlo, che era l'arbitro di tutta la
corte. Contuttociò il padre Affarosi[1417] cita una pergamena scritta in
Reggio, _regnante domno Karolo rex hic in Italia II, die IV mensis
martii, Indictione XIV_, cioè nell'anno seguente. Adunque nel dì 4 di
marzo del venturo anno non peranche si sapeva in Reggio la coronazione
romana imperiale di questo principe. Tralascio come scorretto uno
strumento pisano dell'anno 885, in cui nel dì 24 di maggio correva
l'_indizione prima_, e l'_anno secondo dell'imperio_ di questo Augusto.
Intanto sembra doversi credere che la consecrazione del dì dell'Epifania
riguardi quella del regno d'Italia, e non già il principio dell'epoca
dell'imperio. E se Carlo il Grosso si trovava in Piacenza nel dì 29 di
dicembre dell'anno presente, come potè egli mai colla sua corte essere
in Roma nel dì 6 di gennaio del seguente anno? Ma questi imbrogli di
cronologia procedono da documenti sospetti, oppur disattentamente
copiati; e però non si sa dove fermare il piede. Tuttavia se non è certo
il dì, pare almen certo l'anno in cui seguì la coronazione romana di
questo principe; e però comincerò io a contar l'_anno primo_ del suo
imperio nell'anno seguente. _Guaiferio_, stato finora principe di
Salerno[1418], in quest'anno per la sua disperata salute determinò di
farsi monaco in monte Casino. Nel portarsi colà, morì per strada, e fu
seppellito in Tiano. _Guaimario_ suo figliuolo gli succedette nel
principato.

NOTE:

[1391] Annal. Franc. Fuldenses.

[1392] Regino, in Chronico.

[1393] Puricellius, Monument. Basil. Ambrosian., pag. 228.

[1394] Antiquit. Ital., Dissert. XI, pag. 559.

[1395] Epist. 216 Johann. Papae VIII.

[1396] Dandalus, in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1397] Peregrin., Hist. Princip. Langob.

[1398] Erchempertus, Hist., cap. 58 et 79.

[1399] Anonym. Salernit., Paralip., c. 135.

[1400] Campelli, Ist. di Spoleti, lib. 18.

[1401] Epist. 293 Johann. Papae VIII.

[1402] Epist. 252 Johannis Papae VIII.

[1403] Epist. 255 ejusd.

[1404] Epist. 240 ejusd.

[1405] Pagius, ad Annales Baron.

[1406] Annal. Franc. Bertiniani.

[1407] Regino, in Chronic.

[1408] Sigebertus, in Chronico.

[1409] Hermann. Contractus, in Chronic.

[1410] Baron., Annales Ecclesiast.

[1411] Epist. 249 Johann. Papae VIII.

[1412] Antiquit. Ital., Dissert. VIII et XLI.

[1413] Antiq. Ital., Dissert. VIII et XLI.

[1414] Campi, Ist. Piacent., tom. 1, pag. 467.

[1415] Eccardus, Rer. Franciar., lib. 31.

[1416] Mabillon., Anecdot., p. 427, edit. in fol.

[1417] Affarosi, Istor. del Monistero di Reggio, Part. I.

[1418] Erchemp., cap. 48. Anonym. Salern., Paralip., cap. 130.



    Anno di CRISTO DCCCLXXXI. Indiz. XIV.

    GIOVANNI VIII papa 10.
    CARLO il GROSSO imperad. 1.


Per le ragioni di sopra addotte, tengo io per fermo che _Carlo il
Grosso_ conseguisse, non già nell'anno addietro, ma bensì nel presente
da papa Giovanni la dignità e titolo d'imperador de' Romani. Nella
Cronica farfense[1419] da me pubblicata si legge un diploma di esso
Carlo Grasso, confuso da quello storico con Carlo Magno, dato _IV
kalendas martii, anno, Cristo propitio, imperii domni Karoli
praepotentis Augusti unctionis suae primo, Indictione XIV. Actum Aquis
palatio_. Se, come dissi ivi in un'annotazione, col nome di _Aquis_
s'intendesse _Aquisgrana_, non potrebbe stare che allora questo Augusto
si trovasse in quel luogo. E che neppure quivi si parli della città
d'_Acqui_ nel Monferrato, lo deduco io da un bellissimo placito che
originale si conserva nell'archivio de' canonici d'Arezzo, e fu da me
pubblicato[1420] altrove. Da esso apparisce che _Carlo il Grosso_ si
trovava in Siena, assistente al medesimo placito, _anno imperii idem
domni Karoli primo, mense martio, Indictione quartadecima_, cioè nel
marzo dell'anno presente, nel tornare ch'egli faceva dalla coronazione
romana. Adunque non potè egli sul fine di febbraio trovarsi nel
Monferrato, come pretese a quest'anno l'Eccardo[1421]. Non s'accorda
questo documento col pisano riferito di sopra, e quando questo sussista,
parrebbe che nel febbraio o nel principio di marzo accadesse la
coronazione romana di Carlo il Grosso. Veggasi ancora un altro diploma
all'anno 896 qui sotto, dove s'incontra un _Aquis_, che era forse una
corte posta nel contado di Verona. Intanto l'Augusto Carlo in vece di
procedere coll'armi sue, siccome il papa desiderava e sperava, alla
difesa del ducato romano, troppo malmenato dai Saraceni, noi il miriam
ritornato in Lombardia a prendersi il fresco. Da un suo diploma[1422]
presso il Campi si scorge ch'egli era ritornato a Pavia _V idus aprilis,
anno Incarnationis dominicae DCCCLXXXI, Indictione XIV, anno imperii
primo_. Un altro da me dato alla luce[1423] cel fa vedere _V kalendas
maji anno Incarnationis dominicae DCCCLXXXI, Indictione XIV, anno vero
imperii ejus II_ (sarà scritto nell'originale _anno I_). In esso
dic'egli, Berengarium ducem (del Friuli), _et affinitate nobis
conjunctum_ (perchè figliuolo di _Gisla_ sua zia paterna) _nostram
deprecasse clementiam, quatenus cuidam capellano suo, Petrum nomine,
concederemus quasdam res massaricias_, ec. Non si sa che questo Augusto
attendesse nell'anno presente ad impresa alcuna. Abbiamo bensì una
lettera a lui scritta nel dì 29 di marzo[1424], nella presente
_Indizione XIV_, da _papa Giovanni_, in cui gli rappresenta i gravissimi
guai patiti allora dai Romani per cagion dei Saraceni, guai che andavano
ogni dì più crescendo, e però lo scongiura di spedire, secondochè avea
promesso, in loro aiuto un forte esercito, alla cui testa sia un
generale mandato dalla corte sua: segno che il papa non si fidava dei
duchi di Spoleti e Toscana. Ma non apparisce che Carlo il Grosso se ne
prendesse gran pensiero, nè che inviasse gente a soccorrere l'afflitta
Roma. Due diplomi d'esso Augusto nel dì 4 di dicembre in Milano, si
leggono nelle mie Antichità italiche[1425]. Si raccoglie da un'altra
lettera[1426], che manda esso pontefice all'imperadore _Petrum, insignem
palatii nostri super ista_ (si dee scrivere _Superistam_) _deliciosum
consiliarium nostrum, communemque fidelem_, con _Zacheria vescovo_,
affinchè esso Augusto spedisca i messi _pro recipiendis de omnibus, quae
hactenus perperam acta fuerunt, justitiis, et emendationibus, ac pro
totius terrae sancti Petri salute_. Qui si raccomanda papa Giovanni,
perchè vengano i messi dell'imperadore, acciocchè colla loro autorità si
rimedii ai torti e danni inferiti alla Chiesa romana. Ma in un'altra
lettera[1427] non avrebbe egli voluto che i messi imperiali fossero
venuti ad esercitar la loro giurisdizione in Ravenna. Passavano
dissensioni fra _Romano arcivescovo_ di Ravenna ed alcuni nobili di
quella città. Per mettergli in dovere procurò l'arcivescovo che
l'imperadore inviasse colà _Alberico conte_, il quale, senza che il papa
ne fosse consapevole, colla forza della giustizia diede sesto a quegli
affari. Se l'ebbe molto a male papa Giovanni; perchè quantunque pel
diritto della sua sovranità potesse l'imperadore inviar negli stati
della Chiesa i suoi giudici, siccome si era praticato sempre in
addietro, pure non potea piacere al papa padrone di Ravenna che i
sudditi suoi senza saputa sua, e senza prima fare ricorso a lui,
rivolgessero le loro istanze al tribunale e ai ministri d'esso Augusto.
Perciò ne fece doglianza coll'arcivescovo, quasi che egli contra il
giuramento prestato alla santa sede avesse operato; e non finì la
faccenda, che fulminò sotto altri pretesti la scomunica contra del
medesimo arcivescovo, il quale poi nell'anno seguente terminò i suoi
giorni, come si ricava da una lettera[1428] scritta da esso papa ai
Ravennati. Non so io mai intendere come Girolamo Rossi[1429] e l'Ughelli
differiscano sino all'anno 889 la morte d'esso arcivescovo _Romano_.
Convien credere difettosa in questi tempi la storia ecclesiastica di
Ravenna, e che abbia avuto qualche ragione chi fra esso _Romano_ e
_Domenico_, succeduto nel suddetto anno 889, ha posto un _Giovanni_
arcivescovo, e di più un _Leone_, Ho anche inteso dal padre don
Pier-Paolo Ginnani abbate benedettino, che nelle carte ravennati si sono
scoperti alcuni arcivescovi non noti al Rossi. Un d'essi probabilmente
sarà il successor di Romano.

Ora dalla lettera poco fa accennata, scritta al medesimo _Romano_, noi
impariamo che papa Giovanni s'era portato a Napoli. Il motivo di questo
viaggio risulta da varie altre sue lettere dell'anno presente[1430].
_Atanasio II vescovo_ insieme e duca di Napoli, per ambizione, per
interesse, per cabale uomo tutto mondano, si compiaceva forte
dell'amicizia dei Saraceni, perchè entrava a parte dei loro bottini,
cioè degli assassinii che coloro andavano commettendo negli stati della
Chiesa romana, di Capua e delle altre contrade cristiane. Più preghiere
ed istanze avea fatto _papa Giovanni_; molto danaro avea sborsato; andò
anche più d'una volta a Napoli, e dovette andarvi anche nell'anno
presente apposta, anche per tentare in persona di rompere quella indegna
lega. Nulla poi fruttando tanti passi, finalmente proferì contra di lui
la scomunica. Ma questo vescovo, finita una tela di frodi, ne cominciava
tosto un'altra. Chiamò egli dalla Sicilia[1431] Sicaimo re ossia
generale de' Saraceni, e il postò alle radici del monte Vesuvio. Per
giusto giudizio di Dio fu egli il primo a farne la penitenza, perchè
cominciarono que' cani a divorare spietatamente i contorni di Napoli, e
per forza prendeano le fanciulle, i cavalli e le armi di quegli
abitanti. Accadde nel gennaio dell'anno presente, come s'ha da una
Cronichetta da me data alla luce[1432], che _Gaideriso principe_ di
Benevento fu preso e posto in prigione dai suoi parenti, e in luogo suo
fu fatto principe _Radelchi_ ossia _Radelgiso II_, figliuolo del già
principe Adelgiso. Senza sapersene il perchè, fu il deposto Gaideriso
messo in mano dei Franzesi, cioè probabilmente del duca di Spoleti; ma
ebbe la fortuna di scappar dalle carceri e di rifugiarsi in Bari, città
allora sottoposta ai Greci, i quali onorevolmente il mandarono a
Costantinopoli. _Basilio imperadore_, oltre all'averlo benignamente
accolto e regalato, il rimandò in Italia con dargli il governo della
città d'Oria. Giunse in quest'anno al fin di sua vita _Orso doge_ di
Venezia, principe lodatissimo[1433] per la sapienza, pietà ed amor della
pace. Sotto di lui s'ingrandì la città di Venezia con essersi fabbricata
quella parte, allora isola, che si chiama Dorso duro. Per opera sua
furono terminate le controversie vertenti fra i patriarchi di Aquileia e
di Grado. Lasciò suo successore il maggiore de' suoi figliuoli appellato
_Giovanni_, e già collega suo nel ducato. Questi spedì a Roma Badoario
ossia Badoero suo fratello, acciocchè ottenesse da papa Giovanni il
contado ossia governo della città di Comacchio. Ma risaputo il suo
disegno, _Martino conte_ di quella città gli stette alla posta, e ferito
in una gamba il mise in prigione. Poco nondimeno stette a rilasciarlo
con esigere da lui una promessa giurata di non fare in alcun tempo
vendetta, nè di chiedere risarcimento della ingiuria, nè del danno
patito. Tornato che fu Badoario a Venezia, morì di quella ferita, e di
qua prese motivo Giovanni doge suo fratello di condurre l'armata sua
navale contra di Comacchio, città ch'egli prese a forza d'armi; e quivi
come in paese di conquista mise i suoi giudici; e dopo aver danneggiato
i Ravennati, siccome consapevoli della prigionia del fratello, se ne
ritornò a Venezia. Passava poi somma corrispondenza fra papa Giovanni e
la vedova _imperadrice Angilberga_. Ma dacchè _Bosone_ in Provenza e
Borgogna si fece re, tali sospetti insorsero contra di questa
principessa, allora dimorante in Piacenza nel suo monistero di san
Sisto, o piuttosto di Brescia nel monistero di santa Giulia, che _Carlo
il Grosso_ fattala prendere, la mandò in Alemagna in esilio. Ora papa
Giovanni, allorchè esso Carlo fu in Roma a prendere la corona
dell'imperio, s'interessò forte per la di lei liberazione. Ne ebbe la
promessa, purchè se ne contentassero i due re di Francia _Lodovico_ e
_Carlomanno_. Loro dunque esso papa scrisse nel dì 12 di marzo di
quest'anno[1434], con rappresentare che Angilberga era sotto la
protezione della Sede apostolica, e raccomandata a lui anche dal fu
imperador _Lodovico II_ suo marito, pregandoli perciò di volerla
rimettere a Roma, dove tal guardia le metterebbe, che niun soccorso ella
potrebbe recare al genero _Bosone_, nè alla figliuola _Ermengarda_, nè
in parole nè in fatti. Una lettera circolare parimente scrisse il
medesimo papa a tutti gli _arcivescovi, vescovi_ e _conti di Italia_,
acciocchè tutti concorressero ad impetrare questa grazia
dall'imperadore, e che Angilberga fosse inviata a Roma, con dire: _Nam
sicut illud regnum in quo nunc illa sub custodia manet_ (cioè
l'Alemagna) _ejus est: ita et istud. Et sicut ibi custoditur, ne aliquod
solatium vel consilium dare facereque possit Bosoni; ita et nos eam in
tali loco habitare faciemus, quo nihil adversi moliri, nihilque valeat
machinari contrarium ad hujus regni et imperii perturbationem._ Intorno
a ciò fece egli dipoi altre premure nell'anno seguente all'imperadrice
_Riccarda_, moglie dell'Augusto Carlo il Grosso, alla quale ancora si
raccomanda colle lagrime agli occhi, per avere i promessi aiuti da esso
imperadore, stante il crescere tutto dì la possanza de' Saraceni a Roma,
e il mancar poco che per la disperazione i Romani non facciano pace con
quegl'Infedeli: pace nondimeno che sarebbe costata tesori.

NOTE:

[1419] Chron. Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital., p. 380.

[1420] Antiq. Ital., Dissert. XXXI.

[1421] Eccard., Rer. Germanic., lib. 31.

[1422] Campi, Istor. Piacent., tom. I, pag. 466.

[1423] Antiq. Ital., Dissert. V.

[1424] Epist. 269 Johannis Papae VIII.

[1425] Antiq. Italic., Dissert. XXXIV p. 49. et seq.

[1426] Epist. 277 Johannis Papae VIII.

[1427] Epist. 271 et 278 Johannis Papae VIII.

[1428] Epist. 304 ejusd.

[1429] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.

[1430] Epist. 216, 241 et 266 Johannis Papae VIII.

[1431] Antiquit. Italic., Dissert. V.

[1432] Erchempertus, Hist., cap. 49.

[1433] Dandul., in Chronic., tom. 12 Rer. Italic.

[1434] Epist. 263, 282 et 298 Johannis Papae VIII.



    Anno di CRISTO DCCCLXXXII. Indiz. XV.

    MARINO papa 1.
    CARLO il GROSSO imperad. 2.


Venne a morte in quest'anno _Lodovico II_ re di Germania nel dì 20 di
gennaio[1435]. Trovavasi allora l'imperador _Carlo Grasso_ suo fratello
in Italia, e vennero volando i corrieri ed ambasciatori non meno del
regno germanico che della Lorena, invitandolo a quella pingue eredità,
ed insieme a soccorrere il popolo cristiano in quelle parti, giacchè le
fiere ed inumane squadre de' Normanni facevano quivi stragi e ruberie
incredibili, e peggio erano per fare, udita che avessero la morte del
re. In fatti riuscì loro in questi tempi di devastare i contorni del
Reno a Coblentz, di prendere e dare alle fiamme le nobili città di
Treveri e Colonia, e non pochi insigni monisteri. Noi troviamo questo
imperadore nel dì 15 di febbraio dell'anno presente in Ravenna, dove
pubblicò un insigne suo diploma[1436] in favor delle Chiese. Di là
portossi il suddetto Augusto in Baviera, e poscia ito a Vormazia, tenne
quivi nel mese di maggio la gran dieta del regno, dove da tutta la
Germania e dalla parte della Lorena antica, a lui spettante, fu
riconosciuto per loro signore e sovrano. E perciocchè egli era dianzi
padrone e re dell'Alemagna, e re d'Italia, e imperador de' Romani, unita
in lui una sì vasta estensione di stati, parve che un sì potente monarca
facesse sperare al pubblico delle segnalate imprese. Ma l'esito fu ben
diverso dalle speranze. Sul principio d'agosto anche _Lodovico_ re di
Francia fu rapito dalla morte, e ne' suoi stati succedette il re
_Carlomanno_ suo fratello. Aveva esso Carlomanno tenuta fin qui stretta
d'assedio la città di Vienna del Delfinato. Fu essa in quest'anno
obbligata a rendersi per capitolazione, il cui primo articolo fu, che la
regina _Ermengarda_ moglie del re Bosone, gloriosa per aver difesa
quella città quasi due anni, resterebbe in libertà di andar colla
figliuola dovunque a lei piacesse. Fu essa pertanto condotta ad Autun,
dove comandava Ricardo, fratello del re suo consorte. Nè si ha da
omettere che in questo anno ancora fu rimessa in libertà la vedova
imperadrice _Angilberga_, madre di essa Ermengarda: tante furono in
favore di lei le istanze di _papa Giovanni_. Così parlano di Carlo
Augusto gli Annali bertiniani[1437], con terminare appunto il loro
racconto in quest'anno: _Engilbergam vero Ludovici Italiae regis uxorem,
quam imperator in Alemanniam transduxerat, per Leudoardum vercellensem
episcopum_ (arcicancelliere e consiglier d'esso Augusto) _Johanni papae,
sicut petierat, Romam remisit_. È scritta a Suppone glorioso conte una
lettera di papa Giovanni[1438], in cui lo avvisa di venirgli incontro al
monte Cinisio, con pregarlo ancora di condur seco _Ansperto arcivescovo_
di Milano, _Vibodo vescovo_ di Parma, e l'imperadrice _Angilberga_, per
trattare di gravi affari. Fece credere questa lettera al cardinal
Baronio[1439], al Puricelli[1440] e ad altri, ch'esso pontefice
meditasse in quest'anno di passare in Francia, ma che restasse
interrotto dalla morte sua questo disegno. Nè s'avvide il dottissimo
porporato che quella epistola è fuor di sito, ed appartiene all'anno
878, in cui papa Giovanni VIII non andava in Francia, ma di Francia
ritornava in Italia _per Clusas montis Cinisii_, come s'ha dagli Annali
bertiniani[1441]. E perchè _Suppone conte_, siccome osservammo all'anno
suddetto, non andò punto ad incontrarlo, se ne lamentò con lui esso
pontefice in una lettera[1442]. Nè Angilberga Augusta era in questi
tempi in Lombardia, nè in istato da potere portarsi all'Alpi della
Savoia. Oltre di che, in essa lettera chiaramente dice il papa, _ad
Gallias properantes venimus, ut pacis atque unitatis vinculo regum corda
connecteremus_. Sicchè il papa era ito in Francia, nè, come si pretende,
pensava d'andarvi. Pare eziandio che all'anno presente piuttosto che
all'antecedente si debba riferire la epistola[1443] scritta da esso
pontefice a Carlo imperadore nel dì 11 di novembre, in cui gli dice
d'avere con giubilo inteso che esso Augusto, _postpositis ceteris, iter
vestrum in Italiam recto tramite ordinatum habeatis. Et ut utinam non
solum Papiae, verum etiam propius essetis, necessitas maxima deposcit_;
e ciò perchè gli stati della Chiesa romana erano più che mai involti
nelle miserie per cagion de' nemici Saraceni, e di _Guido duca_ di
Spoleti, del quale parla nelle seguenti parole: _Ceterum de Guidone
Rabia, invasore scilicet et rapaci, vestra gloria subveniat; et cum de
finibus nostris, ut aliquantulum populus noster relevari valeat, ejicere
modis omnibus jubeatis_. Questo _Guido Rabbia_ altri non è che Guido
duca di Spoleti, onorato di questo titolo dal papa per le sue continue
insolenze. Da un'altra lettera[1444] del medesimo papa scritta allo
stesso imperadore ricaviamo, che esso Augusto volea trovarsi in Ravenna
nel dì della Purificazione della beata Vergine, per abboccarsi col papa,
il quale bramava che almen quattro giorni prima Carlo si portasse colà,
con prendere seco _Suppone glorioso conte e Fedele comune_. Non
iscommetterei che questa lettera fosse dell'anno presente. Giudico bensì
scritta in esso un'altra[1445], nella quale papa Giovanni fa intendere
al suddetto Carlo Augusto d'essersi portato a Fano città della
Pentapoli, e che v'era giunto anche _Adalardo_ vescovo di Verona
_secundum vestrae delegationis jussum, et ibi praefati Widonis, et
satellitum ejus, qui nostra violenter tulerunt ac retinuerunt,
praesentiam praestolati sumus, quatenus vel inde omnis emendationis et
justitiae coepto initio per ceteras urbes, de omnibus juxta clementiae
vestrae decretum, recipiendo coram legato vestro justitias pariter
proficisceremur._ Ma Guido furbescamente sempre si guardò dal comparire.
Adalardo andò bensì _per ipsas civitates, quae illorum gravamine
opprimuntur,_ nella Pentapoli; ma a nulla giovò: il perchè prega
l'imperadore di venir egli in persona: altrimenti non si può sperar
riparo ai danni inferiti da Guido, e da' suoi aderenti e sgherri alle
città di san Pietro. Anche di qui, siccome il padre Pagi[1446] osservò,
si raccoglie tuttavia in vigore la sovranità ed autorità di questo
imperadore negli stati della Chiesa. Ma si dee anche osservare che la
Pentapoli era allora del dominio dei papi. Noi non tarderemo a vedere
che il duca _Guido_ non andò esente dal gastigo ch'egli si meritava.

Deesi qui parimenti far menzione di un'altra lettera[1447] scritta dal
medesimo papa ad _Anselmo arcivescovo_ di Milano, in cui racconta i suoi
guai. _Nos enim in hac terra tam Paganorum, quam malignantium
Christianorum tanta persecutione patimur, ut has verbis explicare non
valeamus. Inter innumeras rapinas, depredationes, et mala quam plurima,
ad augmentum doloris nostri quidam sceleratus Longobardus nomine, homo
Widonis marchionis, octoginta tres homines cepit; manibus singulis
detruncatis apud narniensem civitatem, plures ex tali sunt incisione
sine mora peremti._ Ci fa intanto conoscere questa lettera che già avea
terminata la carriera di sua vita _Ansperto arcivescovo_ di Milano, già
tornato in grazia del papa, e che gli era succeduto _Anselmo_. Leggesi
presso il Puricelli[1448] e nella Italia sacra dell'Ughelli[1449]
l'epitaffio, tuttavia esistente in marmo, dell'arcivescovo _Ansperto_,
la cui morte ivi si dice accaduta _anno Incarnationis dominicae
octingentesimo octogesimo secundo, septimo idus decembris, Indictione
XV_. Però il Puricelli mette francamente la sua morte nell'anno presente
882. Un grande imbroglio veramente per la cronologia di questi tempi si
è l'uso vario delle _indizioni_, che la maggior parte mutava nel
settembre, quando altri davano principio alle medesime solamente nel
principio dell'anno. Similmente ne' susseguenti secoli alcuno cominciava
l'anno nostro volgare non già nel primo dì di gennaio, ma nel marzo
dell'anno precedente, chiamato _ab Incarnatione_; il che specialmente fu
in uso presso i Pisani. Altri, come i Fiorentini, davano principio
all'anno _ab Incarnatione_ nel marzo seguente del nostro anno volgare.
Altri in fine, non dalla circoncisione, ma dal Natale precedente
cominciavano l'anno. Ora certo è che l'_indizione XV_ del suddetto
epitaffio ebbe principio nel settembre dell'anno 881, e l'altro
_ottocentesimo ottantesimo secondo_ quivi enunziato non è secondo
l'epoca nostra volgare, ma secondo il rito pisano, cioè, secondo noi,
altro non è che l'anno 881 di Cristo: il che fu dottamente avvertito
anche dal Sassi[1450]. Imperocchè è fuor di dubbio che non già nell'anno
882, come credettero il Calchi, il Puricelli, l'Ughelli, ed altri, ma
bensì nell'anno precedente 881 dovette dar fine a' suoi giorni
l'arcivescovo _Ansperto_. La sopraccitata lettera di papa Giovanni fu
scritta ad _Anselmo_ nuovo arcivescovo di Milano nel mese d'agosto di
quest'anno 882. Adunque non può esser mancato di vita _Ansperto_ nel dì
13 di dicembre di questo medesimo anno. Quel poi che finisce di chiarir
questa verità, è la morte di papa Giovanni, succeduta nel dì 15 o 16
dello stesso mese di dicembre dell'anno presente. Come dunque può aver
esso pontefice scritto ad _Anselmo_ successore d'Ansperto, e già
consecrato arcivescovo, quando non si metta la morte d'esso Ansperto nel
dicembre dell'anno precedente 881? Nè si dee tacere, dirsi
nell'epitaffio dello stesso Ansperto:

              MOENIA SOLLICITUS COMMISSAE REDDIDIT VRBI
                DIRUTA. RESTITVIT DE STILICONE DOMVM.

Di qui possiam conghietturare che questo arcivescovo avesse anche il
governo politico di Milano, e che perciò egli rifece le mura diroccate
di quella città. Così cominciarono i vescovi di Lombardia a procacciarsi
il governo e dominio delle città, e i loro voti a fruttare nelle
elezioni dei re d'Italia, e spezialmente allorchè ci era più d'un
pretendente. Gli arcivescovi di Milano, che erano i capi in tali
congiunture, seppero ben profittarne, e ne aveano anche l'esempio de'
romani pontefici. Ha già inteso il lettore il tempo in cui papa
_Giovanni VIII_, pontefice infaticabile, e di molta finezza negli affari
politici, di non minor forza nel governo ecclesiastico, ma vivuto in
tempi ben infelici, e sempre in mezzo alle burrasche. Anzi, se vogliam
prestar fede alla continuazion degli Annali fuldensi, pubblicata dal
Freero, quanto fosse il mondo cattivo, lo provò egli più degli altri,
perchè non naturale fu la morte sua. _Romae_ (dice quell'autore con
parole molto imbrogliate[1451]) _praesul apostolicae sedis Johannes
prius de propinquo suo veneno potatus; deinde quum ab illo, simulque
aliis suae iniquitatis consortibus, longius victurus putatus est, quam
eorum satisfactum esset cupiditati, qui tam thesaurum suum, quam culmen
episcopatus rapere anhelabant, malleolo, dum usque in cerebro constabat,
percussus exspiravit. Sed etiam ipse constructor malae factionis,
concrepante turba, stupefactus, a nullo laesus nec vulneratus, mortuus
(non mora) apparuit._ Non mancavano dei nemici in Roma stessa a questo
papa, e s'è veduto come egli fra essi contava _Formoso vescovo_ di
Porto, Gregorio nomenclatore, Giorgio di lui genero, Stefano
secondicerio, ed altri, de' quali esso pontefice parla in una
lettera[1452] che fu letta nel concilio pontigonense dell'anno 876. Era
ben potente anche la fazione di questi. Ma quel che è più da deplorare,
dopo la morte di questo pontefice, il quale niuna diligenza ommise per
difendere e salvar Roma in mezzo ai guai che correvano allora, andò
Roma, anzi l'Italia tutta peggiorando da lì innanzi, sino a trovarsi fra
poco in uno stato di confusion mirabile, e massimamente nel secolo
susseguente, siccome vedremo. Successore di papa Giovanni fu _Marino_,
che dagli Annali suddetti vien chiamato _arcidiacono della Chiesa
romana_, ma dagli Annali lambeciani (e pare ancora da una lettera di
_papa Stefano_ suo successore) si vede nominato _vescovo_, benchè non si
sappia di qual sede. Era personaggio di gran credito, adoperato dai
precedenti papi in cospicue legazioni, e a visiera calata opposto a
_Fozio patriarca_ di Costantinopoli; perlochè _Basilio imperadore_ de'
Greci nol volle poi riconoscere per papa, e sparlò forte di lui. Nella
elezione e consecrazione sua non si sa che punto entrasse l'imperador
_Carlo il Grosso_.

Durante quest'anno _Sigifredo_ e _Godifredo_ re, oppure generali de'
Normanni, con una straordinaria moltitudine di que' corsari e
masnadieri, venuti tutti dai contorni del mar Baltico, inondarono la
bassa Germania, commettendo dappertutto immensi mali[1453]. Carlo
imperadore, affin di reprimere quella diabolica nazione, raunato un
potentissimo esercito di Longobardi, Bavari, Alemanni, Turingi, Sassoni
e Frisoni, marciò contra di loro, ed assediò que' due generali in una
loro fortezza. Se si ha a credere al continuator lambeciano degli Annali
di Fulda, erano que' Barbari ridotti alla disperazione, mirando
imminente la morte al vicino assalto de' Cristiani, quando eccoti
_quidam ex consiliariis Augusti Liutovaldus_, _pseudo-episcopus_,
_ceteris consiliariis_, _qui patri imperatoris assistere solebant,
ignorantibus, juncto sibi Wicberto comite fraudolentissimo, imperatorem
adiit, et ab expugnatione hostium pecunia corruptus deduxit, atque
Gothefridum ducem illorum imperatori praesentavit. Quem imperator more
achabico quasi amicum suscepit, et cum eo pacem fecit._ Seguita poi a
dire, che non ostante l'essere stati burlati da esso Gotifredo i soldati
dell'imperadore, pure esso Augusto il tenne al sacro fronte, giacchè
costui si esibì di farsi cristiano, e gli concedette il governo della
Frisia, con obbligarsi a pagargli una specie di tributo da lì innanzi.
Ma questo autore par bene che si lasciasse sovvertir dalla passione, o
dalle dicerie del volgo, e che non sussistano tutte le particolarità del
suo racconto. _Liutvardo_, dipinto qui con colori assai neri, fu vero
vescovo di Vercelli, e si trova lodato in una sua lettera[1454] da papa
Giovanni VIII, e negli Annali di Metz[1455]; nè v'ha apparenza alcuna
ch'egli si lasciasse corrompere da danari. Raccontano poi gli Annali
pubblicati dal Freero molto diversamente l'affare: cioè che un
fierissimo temporale e la peste entrata nell'armata imperiale
sconcertarono tutte le misure dell'imperadore. Però si venne ad una
capitolazione. _Sigefredo_ (ma dovea dir _Gotifredo_) si fece cristiano,
e ben regalato si ritirò in Frisia. Aggiugne Reginone che gli fu anche
promessa in moglie _Gisla_ figliuola del fu re _Lottario_; e che
_Sigefredo_, cioè l'altro generale, comperato col dono di un'immensa
somma d'oro e d'argento, promise d'uscire del regno della Lorena; e in
fatti se ne andò. Comunque nondimeno passasse un'impresa tale, che sul
principio promettea mari e monti; certo è che da tutti per l'Augusto
Carlo riputata fu una pace sì fatta al maggior segno vergognosa ed egli
restò in concetto di principe dappoco e vile: concetto che in fine
produsse la sua rovina. Non vo' io lasciar passare questo anno senza
riferire un fatto, di cui fa menzione il solo Leone ostiense[1456]. Cioè
che _Pandonolfo conte_ ossia principe di Capoa pregò il papa di voler
sottoporre al suo dominio la città di Gaeta, perchè i Gaetani allora
servivano solamente al romano pontefice. Il che come fosse, non ben
s'intende, perchè Gaeta avea il principe proprio, e lo stesso Ostiense
altrove riconosce quella città per indipendente. Ottenne Pandonolfo
quanto chiedea, e cominciò a strignere quella città. Ma _Docibile duca_
di Gaeta non volendo sofferir questo scorno, mandò a chiamare i Saraceni
abitanti in Agropoli, che vennero con un gran rinforzo a trovarlo.
Pentito allora il papa del passo fatto, tanto si adoperò con buone
parole e promesse, che Docibile, rotta la lega, cominciò con que'
Barbari la guerra, in cui perirono assaissimi Gaetani. Si venne poscia
ad un accordo, e Docibile assegnò a que' Barbari per loro abitazione un
sito presso il fiume Garigliano, dove poi si fermarono per quasi
quarant'anni colla desolazion di tutti i contorni. Crede il cardinal
Baronio succeduto ciò nell'anno 879, ma non è ben certo. Leone ostiense
narra questo fatto dopo la morte di _Guaiferio_ principe di Salerno,
accaduta nell'anno 880. Può perciò essere che appartenga ai tempi di
Giovanni VIII papa. L'Anonimo salernitano[1457] scrive che _Atanasio II_
vescovo e duca di Napoli, per liberarsi dalla scomunica che contra di
lui esso _papa Giovanni_ avea fulminata nell'anno 881, unitosi con
_Guaimario principe_ di Salerno e coi Capoani, cacciò i Mori da
Agropoli, e che costoro uniti si ritirarono al Garigliano, _et ibidem
prolixa tempora nimium morarunt, et undique Capuam, Beneventum,
Salernum, Neapolim affligebant. Sed Athanasius ad solitam vergens
fallaciam, cum Agarenis pacem iniens, Salernitanorum fines fortiter
affligebat._ Però il racconto di Leone ostiense si può dubitare se sia
in tutto ben fondato. In quest'anno poi, secondo la relazione della
Cronica di Volturno[1458], fu preso e dato alle fiamme dai Saraceni
l'insigne monistero di san Vincenzo di Volturno, uccisi quei monaci, i
quali aspettarono a piè fermo que' nemici del nome cristiano. Restò poi
trentatrè anni derelitto e covile solamente di fiere quel sacro luogo.
Tuttavia scrivendo quello storico, essere accaduto questo terribil
guasto al monistero suddetto _XIII kalendas novembris, feria tertia,_
queste note disegnano l'anno precedente 881, e non già il presente.

NOTE:

[1435] Annal. Francor. Fuldenses. Hermann. Contractus, in Chron. Regino,
in Chron.

[1436] Antiquit. Ital., Dissert. XV, p. 869.

[1437] Annales Franc. Bertiniani.

[1438] Epist. 307 Johannis Papae VIII.

[1439] Baron., Annales Eccl.

[1440] Puricellius, Monum. Eccl. Ambrosian.

[1441] Annal. Francor. Bertiniani.

[1442] Epist. 130 Johannis Papae VIII.

[1443] Epist. 279 Johannis Papae VIII.

[1444] Epist. 286 ejusd.

[1445] Epist. 293 ejusd.

[1446] Pagius ad Annal. Baron.

[1447] Epist. 199 Johannis Papae VIII.

[1448] Puricellius, Monument. Basil. Ambrosian.

[1449] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4.

[1450] Saxius, in Not. ad Regn. Ital. Sigonii.

[1451] Annal. Fuldens. Freheri.

[1452] Epist. 319 Johannis Papae VIII.

[1453] Regino, in Chronico. Annales Fuldenses Freheri. Annales
Lambeciani.

[1454] Epist. 8 Johannis Papae VIII.

[1455] Annales Franc. Metenses.

[1456] Leo Ostiensis, Chron., lib. 1, cap. 43.

[1457] Anonymus Salern., Paralip., cap. 132.

[1458] Chronic. Vulturn., P. II, tom. 1 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCCLXXXIII. Indiz. I.

    MARINO papa 2.
    CARLO il GROSSO imperad. 3.


Nell'anno presente _papa Marino_, per quanto pretende il cardinal
Baronio[1459], _perperam facta Johannis papae rescindens_, fra l'altre
cose rimise nel suo vescovato _Formoso vescovo_ di Porto, già condannato
e deposto da _papa Giovanni_. Confessa il porporato Annalista di non
sapere i motivi per cui papa Giovanni condannasse Formoso, che ci vien
dianzi dalla storia ecclesiastica rappresentato come personaggio di
merito distinto. Ma s'egli ciò ignorava, non doveva già sì francamente
tacciar d'ingiustizia l'atto d'esso papa Giovanni. Inoltre poteva egli
informarsi dei reati dati al suddetto Formoso da quel pontefice, perchè
esposti da lui in una lettera[1460] scritta ai vescovi della Gallia e
Germania, che fu letta l'anno 876 nel concilio pontigonense. Se fossero
questi sì o no ben fondati, se giusta la sentenza, non si può ora
formarne giudizio. Possiam credere che neppure mancassero motivi a _papa
Marino_ per assolverlo, o per fargli grazia. Veggasi Ausilio[1461]
scrittore contemporaneo, che attesta la restituzion di Formoso, e
solamente disapprova il giuramento da lui estorto di non tornare in sua
vita nè a Roma nè al vescovato. Seguitava in tanto _Guido duca_ di
Spoleti a nulla voler restituire del maltolto alla Chiesa romana;
fors'anche alle iniquità passate ne aggiugneva delle nuove. Però papa
Marino, dopo aver significata all'imperador _Carlo il Grosso_
l'assunzione sua, istantemente il pregò di tornare in Italia per
desiderio, anzi per necessità di abboccarsi con lui. Calò in Italia nel
mese di maggio dell'anno presente esso Augusto, ed arrivato che fu a
Mantova, _Giovanni doge_ di Venezia per mezzo dei suoi ambasciatori
impetrò da lui la rinnovazione de' privilegii, come costa dal documento
rapportato dal Dandolo nella sua Cronica[1462]. Concede ancora al
patriarca di Grado e a tutti i vescovi, chiese e monisteri della sua
metropoli _justitiam requirendam de suis rebus in annos legales,
secundum quod Ravennas habet Ecclesia_. Fu dato quel diploma _VI idus
Incarnationis dominicae DCCCLXXXIII, Indictione I, anno vero imperii
domni Caroli in Italia tertio, in Francia secundo. Actum Mantua_. Fu
determinato per luogo del congresso col papa l'insigne monistero di
Nonantola, posto nel contado di Modena, cinque miglia lungi dalla città.
Quivi, per attestato dell'Annalista freeriano[1463], l'imperador _Carlo_
accolse con tutto onore il sommo pontefice _Marino_, e concorsero colà
varii magnati per ottener la conferma de' lor privilegii. Leggesi un suo
diploma conceduto al monistero di Casauria[1464] _XII kalendas julii,
anno Incarnationis dominicae DCCCLXXXIII, Indictione prima, anno vero
piissimi imperatoris Caroli tertio. Actum ad monasterium, quod
nuncupatur Nonantula_. Un altro dato nel medesimo giorno e luogo per la
pieve di Varsio sul piacentino, si trova presso il Campi[1465]. Un altro
dato _VIII kalendas julii_ in favore del monistero di Farfa nello stesso
luogo, viene accennato dal padre Mabillone[1466]. E due altri in fine da
me pubblicati[1467], l'uno dato _IX kalendas junii_, e l'altro _II
kalendas julii. Actum monasterio Nonantulas._ E qui non vo' lasciar di
dire avere il suddetto Campi dato alla luce un altro diploma d'esso
Augusto in favore de' nobili di casa Rizzola Piacentini, scritto _XII
kalendas martii anno ab Incarnatione dominica Domini nostri Jesu Christi
DCCCLXXXIII, Indictione I, anno vero domni Caroli regni V, impera autem
III. Actum Papiae._ Altronde si conosce la falsità di quel documento, ma
più chiaramente si raccoglie dalla data, certo essendo che nel febbraio
di quest'anno Carlo Grasso era in Germania, e non già in Pavia.

Quello che risultasse dal congresso tenuto in Nonantola dal papa e
dall'imperadore, l'abbiamo dagli Annali che così ne parlano[1468]: _Ibi
inter alia Wito comes Tuscianorum reus majestatis accusatur: quod ille
profugus evasit._ Dovea dire _comes Spoletinorum_, ovvero
_Spoletanorum_, se non che altri antichi tennero l'Umbria per parte
della Toscana. Tante dovettero essere le premure ed istanze di papa
Marino, uniforme in ciò alle massime del suo predecessore, che l'Augusto
Carlo mise al bando dell'imperio il suddetto _Guido duca_ di Spoleti.
Vero o falso che fosse, noi sappiamo da Erchemperto[1469] ch'egli fu
accusato di avere spedito i suoi messi all'imperador de' Greci, con
trattato di ribellarsi all'imperador d'Occidente, a aver preso danari
per effettuare questo pensiero. Aggiugne esso storico che Guido fu preso
da _Carlo III Augusto_, e se non gli riusciva di scappare, vi andava il
suo capo. Seguita poi a dire il suddetto Annalista: _Sed tamen illa fuga
totam italicam terram timore concussit: quia statim manu cum valida
Gentilium de gente Mauritanorum foedera firmiter pepigit._ Se Guido
ricorse ai Mori ossia ai Saraceni, segno è ch'egli niuna alleanza avea
dianzi intavolata coi Greci. Trovavasi in questi tempi alla corte
dell'Augusto Carlo _Berengario duca_ del Friuli, appellato da essi
Annali _consanguineus imperatoris_, per le ragioni addotte di sopra
all'anno 877. A questo principe fu data l'incumbenza di togliere il
ducato di Spoleti a Guido, in cui favore dovea quel popolo aver prese le
armi. _Mittitur ad exspoliandum regnum Witonis._ Ne prese egli una
parte. Avrebbe fatto lo stesso del resto, se non fosse entrata nel suo
esercito la peste: malore che si dilatò per l'Italia tutta, e giunse
fino alla corte del medesimo imperadore. Per questa cagione fu obbligato
Berengario a tornarsene indietro. Ma questa condanna ed esecuzione
contra di Guido, per attestato degli Annali lambeciani[1470], si tirò
dietro delle cattive conseguenze. _Imperator_ (scrive quello storico)
_omne tempus aestivum mansit in Italia, animosque Optimatum regionis
illius contra se concitavit._ Fra questi probabilmente fu _Adalberto
duca_ e marchese di Toscana, perchè cognato di esso Guido. _Nam Witonem,
aliosque nonnullos exauctoravit, et beneficia, quae illi et patres et
avi et atavi illorum tenuerant_ (il che fa vedere che i ducati,
marchesati e comitati aveano già cominciato a prendere la forma de'
feudi e a passar ne' figliuoli e nipoti) _multo vilioribus dedit
personis. Quod illi graviter ferentes, pari intentione contra illum
rebellare disponunt, multo etiam plura, quam ante habuerant, sibi
vindicantes._ Che commozioni fossero queste, e quali effetti
producessero, lo tace la storia d'Italia. Tre diplomi di Carlo
imperadore, dati alla luce dal padre Celestino[1471], e poi ristampati
dall'Ughelli[1472] ci fan vedere questo imperatore in _Murgola corte
regia_ del territorio di Bergamo nel dì 30 di luglio. Prima di Natale
passò egli in Germania, per provvedere ai Normanni che più che mai
devastavano la Lorena e la bassa Germania.

NOTE:

[1459] Baron., in Annal. Eccl.

[1460] Epist. 319 Johannis Papae VIII.

[1461] Auxilius, de Sacr. Ordin., tom. 17 Biblioth. Patrum.

[1462] Dandul., in Chronico., tom. 12 Rer. Ital.

[1463] Annal. Franc. Fuldenses Freheri.

[1464] Chron. Casauriens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1465] Campi, Ist. Piacent., tom. 1.

[1466] Mabill., Annales Benedict.

[1467] Antiq. Ital., Dissert. XXXIV et XLI.

[1468] Annales Francor. Fuldenses. Freheri.

[1469] Erchempertus, Hist., cap. 79.

[1470] Annal. Fuldenses., Lambecii P. II, tom. 2 Rer. Italic.

[1471] Celest., Istor. di Bergamo.

[1472] Ughell., tom. 4 Ital. Sacr. in Episcop. Bergam.



    Anno di CRISTO DCCCLXXXIV. Indiz. II.

    ADRIANO III papa 1.
    CARLO il GROSSO imperad. 4.


Terminò colla vita il suo breve pontificato _papa Marino_ nell'anno
corrente, probabilmente nel mese di maggio. Gli fu immantinente
sostituito _Adriano III_, di nazione romano. Questi, per attestato di
Martin Polacco[1473], di Tolomeo da Lucca[1474], del Platina[1475] e di
altri autori, fece un decreto, _che l'imperadore non s'intromettesse
nell'elezion dei papi_. Giudicò il padre Pagi[1476] vero un tal atto, e
che il cardinal Baronio credesse meglio di tacerlo. L'Eccardo il tiene
all'incontro per una mera impostura. Ne dubito forte anch'io. L'elezione
del romano pontefice s'era per tanti secoli addietro lasciata sempre in
libertà del clero e popolo romano. Gl'imperadori occidentali,
coll'esempio de' precedenti greci Augusti, solamente pretesero e
stabilirono che si dovesse comunicar loro l'_elezione_ fatta; e prima
che da' messi imperiali non fosse portata la approvazion dell'eletto,
era vietato il consecrarlo. Però il Sigonio ben informato di
quest'uso[1477], nè apparendo che si fosse alterata la libertà
dell'elezione, cambiò i termini del preteso decreto, in vece di
_eleggere_ scrivendo _consecrare_. _Ut pontifex designatus consecrari
sine praesentia regis, aut legatorum ejus possit._ Martino Polacco, il
primo a parlarne, ha solamente: _Hic constituit ut imperator non
intromitteret se de electione._ Qui si parla in generale dell'elezione
d'ogni vescovo, e non dell'elezione de' soli papi. Qualche testo
nondimeno, creduto dal Panvinio, ma senza fondamento, di Guglielmo
bibliotecario, ha _de electione domini papae_. Quando anche Adriano III
avesse formato un tal decreto, bene avrebbe fatto, nè sarebbe restato
giusto titolo all'imperadore di dolersene, stante la libertà delle
_elezioni_ fin qui lasciata al clero e popolo. Nè questo toglieva agli
Augusti l'altro loro diritto (io non cerco, se legittimo o illegittimo)
di voler sospesa la _consecrazione_, finchè venisse il loro
consentimento. Ma intanto mancando a noi più antiche ed autentiche
pruove d'esso decreto, più sicuro è il sospenderne la credenza. Aggiugne
il Sigonio[1478] un altro decreto di questo medesimo pontefice, fatto ad
istanza de' principi d'Italia: _Ut moriente rege Crasso sine filiis,
regnum italicis principibus una cum titulo imperii traderetur._ Ma
questo decreto, giacchè niun degli antichi scrittori ne ha parlato, si
può francamente tenere per una mera immaginazion di qualche scrittore
degli ultimi secoli, veduto dal Sigonio: quantunque sia verisimile che i
principi italiani, all'osservar privo di figliuoli l'imperador _Carlo il
Grosso_, seriamente pensassero ai loro vantaggi. Intanto esso Augusto se
ne stava in Germania, occupato dal meditar le maniere di reprimere i
Normanni che or qua or là portavano la strage e la desolazione, senza
però abbandonar la cura dell'Italia, dove destinò le milizie bavaresi
per andar contro al ribello _Guido duca_ di Spoleti. _Edictum est_
(scrive l'Annalista freeriano) _Baiovvarios ad Italiam contra Witonem
belligera manu proficisci_[1479]. Furono in più luoghi sconfitti dalle
truppe cristiane i Normanni, e Carlo Augusto, dopo aver dato sesto ai
suoi affari in Germania, specialmente quetate le turbolenze mosse da
_Zventeboldo re_, ossia duca della Moravia, verso il fine dell'anno se
ne tornò in Italia, e prosperamente celebrò il santo giorno del Natale
in Pavia. Non si sa che il bandito e fuggito duca di Spoleti Guido
veramente si valesse dell'armi de' Saraceni, e men di quelle de' Greci,
per danneggiar le terre de' Cristiani. Attese egli piuttosto a placar
l'animo dell'imperadore Carlo con fargli rappresentar le sue ragioni e
giustificazioni. Tanto in fatti si maneggiò, che fu rimesso in sua
grazia. Così parlano di Carlo Augusto gli Annali del Lambecio[1480]:
_Inde in Italiam profectus, cum Witone et ceteris, quorum animos anno
priore offenderat, pacificatur._ Sul principio di dicembre[1481]
trovandosi _Carlomanno_ re di Francia, ossia della Gallia, a caccia, da
un cinghiale, oppure da una delle sue guardie, che l'aiutava ad uccidere
quella fiera, involontariamente ferito, miseramente cessò di vivere, con
lasciar dopo di sè un figliuolo solo di età di quattro anni, appellato
dagli storici _Carlo il Semplice_, la cui legittima origine è messa in
dubbio. Fu gran dibattimento fra i baroni del regno intorno
all'accettare e dichiarar re questo fanciullo, incapace allora di
comando, oppure di dare il regno all'imperador _Carlo il Grosso_;
giacchè in questi due s'era ridotta la schiatta maschile di Carlo Magno.
Solamente nell'anno venturo si venne alla risoluzion di questo
dubbio[1482]. Ma non sì tosto pervenne ai Normanni la nuova della morte
di quel re, che, senza badare ai giuramenti fatti, ruppero la pace, e
cominciarono ad infierir come prima contra de' popoli della Gallia.

Aveva accennato Cosimo della Rena[1483] uno strumento scritto _regnante
domno nostro Carolo, divina favente clementia, imperatore augusto, anno
imperii ejus quarto sexto kalendas junii, Indictione secunda. Actum
Lucae_: cioè nel dì 27 di maggio dell'anno presente. Intero io l'ho
dipoi pubblicato[1484]. Contiene essa carta una donazione fatta da
_Adalberto marchese_ e duca di Toscana ad una chiesa da lui fondata
presso al fiume Magra nella Lunigiana sotto il castello dell'Aulla:
carta molto importante, perchè ci dà a conoscere chiaramente i genitori
e i figliuoli di questo principe. Egli è chiamato _Adalbertus in Dei
nomine comes et marchio, filius bonae memoriae Bonifacii comitis_, che
noi trovammo all'anno 823 ed 828 conte di Lucca e marchese probabilmente
ossia duca della Toscana. Fa Adalberto quella donazione per l'anima sua
e di _Bonifazio_ suo padre, _et etiam pro salute bonae memoriae Bertae
genitricis meae, sive pro salute animae Rotildis dilectae conjugis
meae_, che di sopra abbiam veduto sorella di _Guido duca_ di Spoleti;
_seu et pro anima Anonsuatae olim conjugis meae, aut pro salute animabus
filiorum meorum_. Due sono i figliuoli che sottoscrivono la donazione
con queste parole: _Signo manus Adalberti comitis, filio suprascripti
Adalberti comitis et marchionis. Signo manus Bonifacii ipsius filii
Adalberti_. E si noti che già il giovane _Adalberto_ s'intitolava
_conte_: segno che egli godeva il governo di qualche città. Vedremo,
andando innanzi, i forti motivi di credere discendente da questi
Adalberti duchi e marchesi di Toscana la nobilissima casa d'Este. Dopo
il principato di tre anni fu nel presente anno _Radelchi II_, ossia
_Radelgiso principe_ di Benevento cacciato dal trono, e sustituito in
suo luogo _Aione_ suo fratello, correndo il mese d'ottobre[1485]. Circa
questi tempi trovandosi l'armata de' Greci in Calabria all'assedio di
santa Severina, per soccorrere quel castello, accorsero a folla da
Agropoli e dal Garigliano i Saraceni; ma i Greci valorosamente
affrontatisi con costoro, li misero tutti a fil di spada. Dopo di che
s'impadronirono di santa Severina e di Amantea, nidi in addietro dei
Mori. Fanno menzione di questa vittoria Costantino Porfirogenneto[1486]
e Cedreno[1487], con dire che generale dei Greci fu a quell'impresa
_Niceforo Foca_ patrizio, avolo di _Niceforo Foca_, che fu poi
imperadore d'Oriente. Inoltre aggiugne esso Costantino, che presero la
città di Tropea e forzarono i Mori a contenersi nella Sicilia. Fu ancora
in questi, siccome ne' precedenti tempi, che _Atanasio II vescovo_ e
duca di Napoli (personaggio indegno del nome di cristiano, non che di
vescovo, perchè più che mai collegato coi Saraceni nemici del nome
cristiano, e fecondo di frodi e d'inganni) recò immensi danni alla città
di Capoa e al suo territorio. Moriva egli di voglia di sottomettere al
suo dominio quella città, e tentò più volte di sorprenderla. Ma non gli
venne fatto. Intanto mancò di vita _Landone_ il vecchio, conte ossia
principe di quella città, e gli succedette _Landenolfo_ suo fratello.
Leone Ostiense[1488], seguitato in ciò dal cardinal Baronio[1489], mette
sotto quest'anno la desolazion dell'insigne monistero di monte Casino,
preso dai Saraceni dimoranti al Garigliano, dove presso all'altare di
san Martino trucidarono _Bertario_ abbate di quel sacro luogo: _Pridie
nonas septembris anno Incarnationis dominicae DCCCLXXXIV, Indictione
secunda_. Anche il testo di Erchemperto[1490] ha l'anno 884. Contuttociò
temo io forte che non in quest'anno, ma nell'anno 883 toccasse la
suddetta gran calamità a monte Casino, perchè l'_indizione seconda_,
secondo l'uso più comune d'allora, cominciava nel settembre dell'anno
precedente. Oltre di che, per attestato di Angelo della Noce[1491], si
truovano documenti d'_Angelario abbate_, successor di Bertario, scritti
nel maggio di quest'anno, corrente l'_indizione seconda_. Finalmente
nella Cronica dell'Anonimo salernitano[1492], da me data alla luce, si
legge distrutto quel monistero nell'anno 883 e non già nel susseguente.
Questo autore copiò Erchemperto, e di molto precedette Leone Marsicano.

NOTE:

[1473] Martin. Polonus, in Chronico.

[1474] Ptolomaeus Lucensis, Hist. Eccl. tom. 11 Rer. Ital.

[1475] Platina, Vit. Pontif. Roman.

[1476] Pagius, Crit. Annal. Baron.

[1477] Sigonius, de Regno Ital., lib. 5.

[1478] Sigonius, de Regno Italicae, lib. 5.

[1479] Annales Fuldenses Freheri.

[1480] Annales Fuldenses Lambecii.

[1481] Chronic., de Gestis Normann.

[1482] Regino, in Chronico.

[1483] Rena, Serie de' duchi della Toscana, p. 119.

[1484] Antichità Estensi P. I. cap. 22.

[1485] Lupus Protospata, in Chron. Erchemp., Hist., cap. 48 et 51.

[1486] Constantinus Porphyrogenn. in Vit. Basilii.

[1487] Cedren., in Annal. ad Niceph. Phoc.

[1488] Leo Ostiensis, Chronic., lib. 1, cap. 44.

[1489] Baron., Annales Eccl.

[1490] Erchempertus, Hist., cap. 61.

[1491] De Nuce, in Notis ad Chronic. Leon. Ostiens.

[1492] Anonym. Salern., Paralip., cap. 136.



    Anno di CRISTO DCCCLXXXV. Indiz. III.

    STEFANO V papa 1.
    CARLO il GROSSO imperad. 5.


Restò decisa in quest'anno la controversia insorta fra i primati della
Gallia, a chi dovesse consegnarsi il governo di quella monarchia[1493].
Ai più assennati il meglio parve di offerirlo all'_imperador Carlo_,
siccome quello che per la sua età e per la potenza sua si credeva il più
a proposito per sostener questo peso, ed atto più di ogni altro a
rintuzzare l'orgoglio de' sempre più nocivi Normanni. A lui ubbidiva
tutta la Germania, chiamata allora Francia orientale, a lui l'Italia, a
lui buona parte della Lorena; e congiunte con queste forze quelle della
Gallia, chiamata Francia occidentale, si poteva sperar vittoria di
chiunque avesse voluto turbar que' regni. Ma questo imperadore, che
veniva ad unir in sè tutta la monarchia di Carlo Magno, era ben lontano
dall'imitare quel gran monarca, perchè non ne avea già ereditato nè la
mente nè il valore. Andò egli dall'Italia a prenderne il possesso in
quest'anno. Ma prima di portarsi colà, stando in Italia, per attestato
degli Annali di Fulda[1494], tenne una gran dieta (probabilmente in
Pavia) nel giorno dell'Epifania; e colà comparve _Guido duca_ di
Spoleti, che protestò con giuramento di non aver mai mancato alla
fedeltà da lui dovuta ad esso Augusto, e gli fu creduto. Così rientrò
egli in grazia dell'imperadore e nel possesso dei ducati di Spoleti e di
Camerino. Aveva esso Augusto determinata una gran dieta da tenersi in
Vormacia; e volendo trovarvisi anche _papa Adriano III_, si mise in
viaggio a quella volta; ma la morte gli troncò i passi dopo una breve
malattia. Da una bolla di questo papa, pubblicata dal Campi[1495], in
cui conferma ed accresce i privilegii ad _Angilberga imperadrice_
Augusta, vedova di _Lodovico II_, pel monistero delle monache di san
Sisto di Piacenza, non intendiamo ch'egli tenne un concilio, non
avvertito da altri, nell'aprile del presente anno. Probabilmente fu ciò
in Roma, dove vedremo ch'egli lasciò il vescovo di Pavia. Dice fra
l'altre cose: _Inter haec ravennate archiepiscopo cum ticinense, et
placentino, et reginense, et mutinense, cum mantuano, et veronense, cum
laudense, et vercellense, aliisque coepiscopis nobiscum sanctam synodum
celebrantibus, et tuae voluntati assensum praebentibus, volumus atque
instituimus_, ec. Nelle diocesi di questi vescovi erano situati i beni
del monistero di san Sisto. Degno è perciò di osservazione che il papa
concede quei privilegii e quelle esenzioni, perchè se ne contentano que'
vescovi. Tale era il rito di que' tempi. La bolla è data _XV kalendas
maii per manum Gregorii nomenclatoris _(probabilmente quel medesimo che
papa Giovanni VIII avea scomunicato) _missi et apocrisarii sanctae sedis
apostolicae, imperante domno piissimo Augusto Carolo, a Deo coronato
magno imperatore, anno ejus quinto, Indictione tertia. Osservisi in fine
che in questo concilio intervenne il vescovo di _Vercelli_, cioè
_Liutvardo_ arcicancellier dell'imperio, che l'imperadore, per mio
parere, avea inviato a Roma per muovere ed accompagnare il papa in
Germania. Imperocchè, per quanto racconta il continuatore
lambeciano[1496] degli Annali fuldensi, fu l'imperadore che invitò a
quella dieta il papa, e fama era che il motivo fosse per deporre, senza
ragione, alcuni vescovi a lui poco cari, e di far dichiarare suo erede e
successore nei regni _Bernardo_ suo figliuolo bastardo, a lui nato da
una concubina: cosa che diffidando di potere eseguire da sè, giudicò di
poterla ottenere coll'autorità del sommo pontefice Adriano III, il quale
uscito di Roma, e valicato il Po, infermatosi passò a miglior vita,
seppellito nel monistero di Nonantola. Così quello storico. Ma non
sussiste che papa Adriano passasse il Po. Guglielmo bibliotecario[1497],
autor contemporaneo, ci assicura che questo pontefice _super fluvium
Scultennam in villa, quae Wilczachara nuncupatur_, terminò i suoi
giorni. Questa villa Vilzacara, posta nel distretto di Modena in
vicinanza del fiume Scoltenna, con altro nome detto Panaro, oggidì si
appella san Cesario, siccome costa da molti indubitati documenti de'
secoli antichi. Per la vicinanza di quel luogo all'insigne badia di
Nonantola, fu il suo cadavere portato colà alla sepoltura. Degna cosa di
osservazione qui a noi si presenta, per conoscere sempre più la
ignoranza de' tempi barbari in Italia. Perchè i susseguenti monaci
nonantolani sapeano d'avere nella lor Chiesa il corpo d'un _Adriano
pontefice_, col tempo immaginarono che fosse quello del celebre _papa
Adriano I_, perchè amendue questi Adriani fiorirono l'uno a' tempi di
Carlo Magno e l'altro di Carlo il Grosso. Cominciarono dunque a venerare
_Adriano III_ (credendolo il I) nel dì 8 di luglio qual santo,
quantunque per santo non sia riconosciuto in alcuno degli antichi
martirologii. Molti secoli sono, ebbe origine una tal credenza, e se ne
veggono le pruove ne' monumenti rapportati dall'Ughelli[1498]. In essi
vien detto che _papa Adriano I_ morì nella terra di _Spilamberto_ del
territorio di Modena confinante con San Cesario, e che fu seppellito in
Nonantola.

    _Ad Carolum regem posthac quam pergere vellet,_
    _Lamberti campo vitam finivit in amplo,_
    _Qui propter casus Lamberti Spina vocatur._

Ma il padre Giam-Batista Solleri della compagnia di Gesù, uno de'
continuatori degli atti de' santi del Bollando[1499], dopo il padre
Pagi[1500], ha chiaramente dimostrato che il solo _Adriano terzo_, e non
già il _primo_, riposa ed è onorato nel monistero di Nonantola, avendo
acquistato con poca fatica la canonizzazione dall'ignoranza dei secoli
barbari.

Avea questo pontefice nel partirsi da Roma, per attestato del suddetto
Guglielmo bibliotecario, lasciato al governo e alla difesa di quella
città _Giovanni vescovo_ di Pavia e messo dell'imperador Carlo, in tempi
veramente disastrosi, perchè il territorio romano era poco dianzi stato
devastato dalle pioggie, e vi regnava la carestia. Pervenuta dunque a
Roma la nuova della di lui morte, raunatisi i vescovi, il clero e la
nobiltà di quell'inclita città, concordemente elessero pontefice
_Stefano V_, prete cardinale de' santi quattro Coronati, personaggio di
rare virtù e della prima nobiltà di Roma. Poscia col suddetto Giovanni
legato imperiale furono a prendere questo nuovo eletto, che nella
seguente domenica fu consecrato. Ma egli trovò dipoi spogliata di tutti
i suoi tesori ed arredi la guardaroba del sacro palazzo lateranense e
delle basiliche romane, e vuoti i granai e le cantine: con che gli mancò
la maniera di fare il donativo praticato dagli altri papi al clero e
alle scuole di Roma, e di soccorrere al popolo, miseramente allora
afflitto dalla fame. Crede il cardinal Baronio[1501] che questo
saccheggio provenisse dall'iniquo costume già introdotto in Roma, che,
morto il papa, la sua famiglia dava il sacco al palazzo patriarcale del
Laterano. Supplì il buon pontefice coi suoi beni patrimoniali al bisogno
del popolo. Applicossi anche alla distruzione delle locuste, con dare
cinque o sei denari a chiunque portava uno staio delle medesime uccise.
Ma ciò non bastando, coll'acqua da lui benedetta fece spruzzar le
campagne, e cessò affatto quel flagello. Notano gli Annali del
Lambecio[1502], che giunto l'avviso all'imperador _Carlo il Grosso_
della consecrazione di esso papa Stefano V, andò in collera, perchè i
Romani _eo inconsulto illum ordinare praesumserunt_. _Però misit
Luitwardum, et quosdam romanae sedis episcopos_ (che probabilmente
aveano accompagnato papa Adriano III a Nonantola), _ut eum deponerent:
quod perficere minime potuerunt: Nam praedictus pontifex imperatori per
legatos suos plusquam triginta episcoporum nomina, et omnium
presbyterorum et diaconorum cardinalium, atque inferioris gradus
personarum, necnon et laicorum principum scripta destinavit, qui omnes
unanimiter eum elegerunt, et ejus ordinationi subscripserunt_. Di qua
deduce il padre Pagi che sia vero il decreto che dicemmo fatto da papa
Adriano III intorno alla libertà di consecrare il nuovo romano
pontefice, senza aspettare il consentimento dall'imperadore.
Giovan-Giorgio Eccardo[1503] di qua all'incontro deduce che quel
decreto, non mentovato da alcuno dei più antichi storici, sia fattura
de' secoli posteriori. Ma di ciò s'è detto abbastanza al precedente
anno. Non bisogna confondere l'elezione colla consecrazione. Di qui
certo apparisce che Carlo il Grosso non volle essere da meno degli altri
Augusti suoi predecessori, pretendenti quasi un diritto della lor
sovranità il consenso della consecrazione suddetta; e ch'egli sdegnato
si figurò di poter deporre questo papa novello, perchè gli dovette
essere supposto che v'era stato del contrasto e del dubbio nell'elezion
di lui. Ma certificato poi che questa era stata canonica, ed avendo, a
mio credere, fatto i Romani valere lo aver essi operato tutto anche col
consenso e coll'assistenza di _Giovanni vescovo_ di Pavia, ministro
dell'imperadore stesso, gli convenne desistere, perchè chi era
canonicamente eletto e consecrato, non potea cessar d'essere vescovo o
papa, se non per delitti canonici. Perchè in quest'anno _Godifredo duca_
de' Normanni, a cui era stata data da Carlo Augusto in governo la
Frisia, facea delle novità, e dava evidenti segni di ribellione, fu
ingannevolmente tirato ad un abboccamento da _Arrigo conte_, uno de'
principali ministri dell'imperadore, e tagliato a pezzi. Con simile
inganno fu preso ed accecato Ugo figliuolo bastardo del fu _Lottario re_
della Lorena, e cognato di esso Godifredo, principe che negli anni
addietro avea con varia fortuna inquietato non poco quel regno, perchè
preteso da lui. Neppur cessava in questi tempi _Atanasio II vescovo_ di
Napoli[1504] di valersi ora dei Saraceni, ora de' Greci, per danneggiare
non meno i Salernitani che i Capoani. Era suo nemico chiunque non si
sottometteva alla sua immensa ambizione. Nella stessa settimana santa di
quaresima, credendo di poter sorprendere Capoa, mentre il popolo era
alle divozioni, spedì un esercito di Greci, Mori e Napolitani, che
diedero la scalata alla città; ma ne furono bravamente respinti.

NOTE:

[1493] Rhegino, in Chronicon Fontanell.

[1494] Annales Fuldenses Freheri.

[1495] Campi, Istor. Piacent., tom, 1 Append.

[1496] Annales Francor. Fuldenses Lambecii.

[1497] Guillelmus Bibliothec., in Vit. Stephani V Papae.

[1498] Ughell., tom. 2 Ital. Sacr. in Episcop. Mutinens.

[1499] Acta Sanctor., ad diem 8 julii.

[1500] Pagius, ad Annal. Baron.

[1501] Baron., Annales Eccl.

[1502] Annales Franc. Fuldenses Lambecii. P. II. tom. 2 Rer. Italic.

[1503] Eccard., Rer. Franc., lib. 31.

[1504] Erchempertus, Hist., cap. 57.



    Anno di CRISTO DCCCLXXXVI. Indiz. IV.

    STEFANO V papa 2.
    CARLO il GROSSO imperad. 6.


Gli Annali di Fulda[1505] ci fanno sapere che l'_imperador Carlo_
celebrò la festa del santo Natale in Ratisbona, e poscia invitato da
_papa Stefano_, se ne venne in Italia. Per varii affari spedì a Roma
_Liutvardo vescovo_ di Vercelli suo arcicancelliere, il quale
spezialmente ottenne che i vescovi, de' quali erano state devastate le
chiese e diocesi dai Normanni nella Francia e Germania, bassa potessero
essere istallati nelle chiese vacanti. Vennero nella domenica delle
Palme a parole, e poi alle mani le guardie di esso Augusto in Pavia con
que' cittadini. Molti de' primi restarono uccisi, molti de' Pavesi
feriti, i quali per timore della vicinanza dell'imperadore, dimorante
allora in Corte Olonna, si diedero alla fuga, e morirono nel cammino.
Dopo Pasqua tenne esso Augusto una dieta generale in Pavia, terminata la
quale s'incamminò per la Savoia alla volta di Parigi, città allora
assediata da tutto lo sforzo dei Normanni. Truovasi descritto questo
terribile assedio da Abbone[1506] monaco di san Germano de' Prati, che
fu spettatore di tutta la tragedia. Era difesa la città da _Odone conte_
d'essa, e da _Roberto_ suo fratello, amendue figliuoli valorosi di
Roberto il forte, dall'ultimo de' quali discende la real casa oggidì
felicemente regnante in Francia. Venuto a Metz l'imperadore Carlo, colà
arrivò il suddetto Odone conte, per implorare soccorso alla città
assediata da molti mesi. Fu spedito un potente esercito, raccolto dalla
Germania e dalla Lorena, comandato da _Arrigo conte_ e marchese, general
d'armi il più accreditato di questi tempi; ma questi nello spiare il
campo dei Barbari, non badando alle fosse coperte, disposte da coloro
intorno agli alloggiamenti, e caduto in una d'esse, restò quivi
infelicemente ucciso sul fine di agosto. Si mosse in fine l'imperadore
stesso alla volta di Parigi con un'altra più poderosa armata, e mentre
ciascuno si stava aspettando qualche gran fatto d'armi colla sconfitta
de' Normanni, eccoti giugnere con un gran rinforzo di gente in aiuto
degli assedianti _Sigefredo_ duca di quella nazione. Questo fece andar
ritenuto lo Augusto Carlo dall'azzardar tutto in una battaglia campale,
e fu creduto meglio di trattar d'accordo. Erano anche stanchi i Normanni
pel lungo ed infruttuoso assedio. Fu convenuto col grosso di quei
Barbari, che si ritirassero a Sens per quartiere del verno, e che
sborsate loro settecento libbre d'argento al mese di marzo, se ne
uscissero del regno per tornarsene alle loro case. Non gloria, ma
vergogna non poca universalmente riportò anche da questa impresa
l'Augusto Carlo[1507], perchè, oltre al non avere operato cosa alcuna
degna dell'imperiale maestà, lasciò in preda a que' crudeli pagani un
gran tratto di paese. Sigefredo duca, non compreso nella detta
convenzione, anch'egli colle sue masnade infierì contra di san Medardo,
distrusse varii palazzi, e condusse in ischiavitù assaissimi Cristiani.
Ritiratosi con gran fretta l'imperadore in Alsazia, quasi che avesse
alla coda i nemici, fu assalito da una malattia, per cui quasi si dubitò
della sua vita. Reginone, seguitato dal cardinal Baronio[1508] e dal
padre Mabillone[1509], mette l'assedio di Parigi all'anno seguente; ma è
fallato il suo testo. Abbiamo dagli Annali pubblicati dal Freero[1510] e
dal Lambecio[1511] che insorse in quest'anno una grave discordia fra
_Berengario duca_ del Friuli, parente dell'imperadore, e _Liutvardo
vescovo_ di Vercelli. Per questa cagione portatosi Berengario in persona
con una mano d'armati a Vercelli, diede il sacco al palazzo episcopale,
e se ne tornò senza opposizione a casa. I motivi di questa nemicizia ed
attentato ce gli ha conservati il continuator degli Annali di Fulda,
dato alla luce dal suddetto Lambecio, autore nondimeno a cui non si può
prestar fede in tutto, perchè appassionato forte contra di questo
prelato. Vedremo in breve che gli Alemanni non perdonarono alle calunnie
per maggiormente screditarlo. Scrive egli, che dacchè _Carlo il Grosso_
divenne re dell'Alemagna innalzò forte questo _Liutvardo_, uomo per
altro di bassissima origine, fino a dargli la carica di arcicancelliere
dell'imperio, e lasciarsi guidare da lui pel naso in tutti gli affari,
di modo che Liutvardo era più onorato e temuto che l'imperadore
medesimo. Sentendo egli la sua forza, rapì molte figliuole de' più
nobili dell'Alemagna e dell'Italia, per accoppiarle in matrimonio co'
suoi parenti. Giunse poi a tanta temerità, che fece levar per forza dal
monistero di santa Giulia di Brescia una figliuola d'_Unroco conte_, già
duca del Friuli e fratello di _Berengario_, e la diede per moglie ad un
suo nipote. Le monache di quel monistero si misero a pregar Dio, e nella
stessa notte che costui si pensava d'accostarsi alla fanciulla, cadde
morto, per quanto fu rivelato ad una di quelle religiose, che lo
raccontò poi all'altre; e la fanciulla restò intatta per questo: se pur
ciò è vero, e non un mero lavoro di fantasia femminile.

Durante l'assedio soppraddetto di Parigi, impariamo da Frodoardo[1512]
che _Folco arcivescovo_ di Rems scrisse a papa Stefano _pro Widone
quoque affine suo, quem idem papa in filium adoptaverat, tam se, quam
ceteros consanguineos suos, quibus id notificaverat, debitam exhibituros
eidem Papae reverentiam_. Aggiugne che nella risposta inviata ad esso
arcivescovo il papa protestava: _Memoriam quoque Widonis ducis
gratissime se suscepisse, quem unici loco filii se tenere fatetur_. Qui
si parla di _Guido duca_ di Spoleti, uomo di gran rigiri, di nazione
franzese, e perciò parente d'esso Folco. Da ciò si conosce che egli,
nemico dianzi de' precedenti romani pontefici, s'era ben introdotto
nella grazia del presente papa Stefano, forse per quei segreti disegni
che si verranno scoprendo nell'andare innanzi. Circa questi tempi sono
io d'avviso che succedesse quando narra dello stesso duca _Guido_
Erchemperto[1513], storico de' tempi presenti: cioè, ch'egli si portò
colla sua armata, mosso probabilmente dal papa, contra de' Saraceni
postati al Garigliano; ruppe i loro trinceramenti, diede il sacco al
loro campo; alquanti ne mise a fil di spada, e obbligò il resto a
fuggirsi per le montagne. Essendosi dipoi accostato a Capoa, quel popolo
per timore si sottopose al di lui dominio. Non sì presto si fu ritirato
Guido da quelle contrade, che _Atanasio vescovo_ di Napoli spedì le sue
genti con una brigata di Greci a dare il guasto al territorio di Capoa.
Ricorsero i Capoani per aiuto al suddetto Guido duca di Spoleti, ed egli
colla sola voce della sua venuta a Capoa dissipò le soldatesche
napoletane. Entrato poi in quella città, portossi ad abboccarsi con lui
per gli affari correnti _Ajone principe_ di Benevento. Guido, badando
più alle suggestioni de' Capoani che alle leggi dell'onoratezza, fece
prigione quel principe. Fors'anche uomo sì voglioso di dilatar le
fimbrie delle sue signorie, non ebbe bisogno a ciò degl'impulsi altrui.
In fatti conducendo seco esso Aione con buona guardia, si presentò alle
porte di Benevento, che gli furono aperte, e prese il dominio ancora di
quella città col mettervi de' suoi uffiziali. Di là passò a Siponto, e
colà parimente entrò, con lasciar Ajone fuori della città ben custodito
da' suoi soldati. Ma i Sipontini, forse ingannati da lui con delle false
esposizioni, scoperto che il lor signore Aione era detenuto prigione,
data campana a martello, presero i baroni di Guido, ed egli si rifugiò e
chiuse in una della chiese di quella città. Se volle uscirne libero, gli
convenne rimettere Aione in libertà; e nel seguente giorno, dopo aver
giurato di non far vendetta di questo, gli fu permesso di tornarsene a
casa, ma scornato e malcontento di sè medesimo Aione ricuperò Benevento;
e Capoa la vedremo in breve nelle mani de' suoi principi. Diede fine
alla sua vita in questo anno _Basilio macedone_ imperadore dei Greci,
principe glorioso per varie sue imprese e virtù, ma biasimato per
essersi lasciato sedurre da _Fozio_, autore dello scisma de' Greci, e
per averlo rimesso nella sedia patriarcale di Costantinopoli. Lasciò suo
successore nell'imperio _Leone_ suo primogenito, già dichiarato suo
collega ed Augusto, il quale non tardò a cacciare in esilio il suddetto
Fozio, con far ordinare patriarca in luogo di lui _Stefano_ suo
fratello. Fu poi questo Leone imperadore per la sua letteratura e
saviezza soprannominato il _sapiente_. Cominciò in questo anno[1514]
_Angelario abbate_ di Monte Casino a riedificar quell'illustre
monistero, già rovinato dai Saraceni. Portossi allora a visitar quel
sacro luogo Erchemperto monaco e storico di quei tempi, e nel ritornare
a Capoa cadde coi compagni in mano dei Greci, che li svaligiarono tutti,
e presero i lor cavalli e famigli. Stavano in que' contorni i Greci,
condotti da Atanasio II vescovo di Napoli, per danneggiare i Capoani.
Gravissimi danni ancora recarono nel presente anno a varii paesi le
tante inondazioni de' fiumi che portarono via le case e le ville. Ne
parlano gli Annali germanici, ed anche il Dandolo[1515] attesta che si
provò in Italia la stessa calamità. Se crediamo a quest'ultimo autore,
fu in questi tempi che gli _Ungri_ o _Ungheri_, gente uscita della
Scitia, cioè della Tartaria, vennero la prima volta nella Pannonia, e
cacciati da quelle Provincie, o piuttosto sottomessi gli _Avari_,
chiamati anche _Unni_, se ne impadronirono, _et usque hodie ibi manent_.
È cosa da avvertire, perchè questa nazione bestiale, che allora si
nudriva di carni crude e beveva il sangue umano, per quanto narra esso
Dandolo, si fece pur troppo sentire nei seguenti anni all'Italia. Da
essa prese la Pannonia il moderno nome di _Ungheria_. Reginone[1516] ne
comincia a parlare all'anno 889, siccome vedremo.

NOTE:

[1505] Annal. Franc. Freheri.

[1506] Du-Chesne, Rer. Francor., tom. 2.

[1507] Regino, in Chronico.

[1508] Baron., Annal. Eccl.

[1509] Mabillon., in Annal. Benedictin.

[1510] Annales Fuldenses Freheri.

[1511] Annal. Fuldenses Lambecii.

[1512] Frodoardus, Hist. Remens., lib. 4, cap. 1.

[1513] Erchempertus, Hist., cap. 58.

[1514] Erchemperto, Hist., cap. 61.

[1515] Dandol., in Chronico, tom. 12 Rer. Ital.

[1516] Rhegino, in Chronico.



    Anno di CRISTO DCCCLXXXVII. Indiz. V.

    STEFANO V papa 3.
    CARLO il GROSSO imperad. 7.


Trovavasi l'_imperador Carlo_ dopo Pasqua a Guibelinga fra Maneim ed
Eidelberga[1517], quando comparve alla sua corte _Berengario duca_ del
Friuli, informato che gli soprastava una gran tempesta per la violenza
usata in Vercelli contra di _Liutvardo vescovo_ di quella città, da noi
già veduto sì potente appresso di questo Augusto. Si seppe così ben
maneggiare Berengario, che placò lo sdegno dell'imperadore, _et magnis
muneribus, contumeliam, quam in Liutwardum priori anno commiserat,
componendo absolvit_, come s'ha dagli Annali di Fulda presso il Freero.
Sembra adunque ch'egli rifacesse a Liutvardo, e con usura, i danni
recati a lui in Italia. Mancò di vita in quest'anno _Bosone re_ di
Provenza e della Borgogna inferiore nel dì 11 di gennaio. Restò di lui
un figliuolo partoritogli da _Ermengarda_ figliuola di _Lodovico II_
imperadore, a cui fu posto il nome di _Lodovico_ in onore dell'avolo
materno. Abbiam veduto quanto odio portassero i re della Gallia e della
Germania a Bosone, perchè usurpatore di sì bella parte della monarchia
franzese. Ma Bosone favorito dalla propizia disposizione di questi
tempi, si mantenne la corona in capo; e, quel che è più da stupire, il
suddetto suo figliuolo Lodovico, che non potea aver compiuti i dieci
anni, portossi nel presente anno alla corte dell'imperadore Carlo, per
pagargli i tributi del suo ossequio, e dichiararsi suo vassallo. Piacque
tanto all'imperadore quest'atto, che avuto anche riguardo alla
parentela, l'accolse con singolare onorevolezza, e non finì la faccenda
che l'adottò per suo figliuolo. _Suscepit ad hominem_ (cioè per
vassallo), _sibique adoptivum filium constituit_, dicono gli Annali
suddetti. Se ne ricordi il lettore, perchè questo Lodovico si farà
conoscere dopo alquanti anni in Italia, e il vedremo anche imperador de'
Romani. Andava intanto declinando in esso Carlo imperadore la sanità del
corpo, e non men quella della mente. Aprissi con ciò una favorevol
congiuntura per abbattere la fortuna di Liutvardo vescovo di Vercelli, a
chiunque de' baroni e cortigiani o dall'invidia o dai giusti motivi era
animato contra di lui. Verisimile è, che se Berengario duca era tuttavia
alla corte, o almeno che gli amici suoi si sbracciassero per atterrar
questa torre. L'arme, con cui ottennero il loro intento, fu la calunnia.
Il continuator degli Annali di Fulda presso il Lambecio[1518], che
sparla forte di questo vescovo, giugne fino a dire ch'egli era eretico,
e che sosteneva essere il Signor nostro Gesù Cristo _unum unitate
substantiae, non personae_. Niente è più facile che il sognare od
inventar tutto contra chi è in odio al pubblico. Ma quello che diede il
crollo a Liutvardo, fu l'avere gli Alemanni nemici suoi fatto credere
all'imperadore, che fra lui e l'_imperadrice Riccarda_ passasse
un'indecente amicizia, perchè egli praticava assai familiarmente con
esso lei. Bastò questa sola ombra all'imperadore per cacciare
vituperosamente da sè il dianzi sì caro e potente ministro, e per
ispogliarlo di tutte le sue cariche, senza dar luogo a ragione alcuna in
contrario. Da lì poscia a pochi giorni, fatta venir l'imperadrice nel
consilio de' suoi ministri, vomitò anche contra di lei il suo sdegno, e
con istupore di tutti protestò di non averla mai toccata in dieci anni
di matrimonio passati con lei. Crebbe la maraviglia all'incontro
all'udire Riccarda protestare, che non solamente il marito Augusto niun
commercio aveva avuto con lei, ma neppure altra persona; e ch'ella era
vergine, esibendosi di provare questa sua asserzione col giudizio di
Dio, cioè o col duello da farsi da qualche campione per lei, o dalla
pruova dei vomeri infocati ch'ella stessa farebbe: riti praticati
dall'ignoranza di questi barbari secoli, e disapprovati sempre dai saggi
tra i Cattolici. Con ciò difese ella bastevolmente l'innocenza sua. Ma
dopo la deformità di quest'atto, o non reggendo il cuore a Riccarda di
abitar più con un consorte scimunito, o non volendola più lo stesso
Augusto nella sua corte, ella si ritirò in Andela, monistero d'Alsazia,
da lei fabbricato, dove santamente condusse il resto di sua vita, e dopo
morte fu onorata qual santa.

Crescendo intanto i malori di esso Augusto, intimò egli una dieta
generale del regno a Triburia pel prossimo novembre, affin di provvedere
ai bisogni della monarchia; e probabilmente colla speranza, o almeno col
desiderio di far accettare ai baroni per suo successore _Bernardo_ suo
figliuolo bastardo. La prima di quel tempo, per attestato degli antichi
Annali[1519], molti de' principali baroni della Francia, Sassonia,
Baviera ed Alemagna, non volendo più sofferire un principe sì
screditato, e divenuto oramai affatto inetto al governo, fecero insieme
congiura, ed invitarono al regno _Arnolfo_, figliuolo bastardo di
_Carlomanno_ già re di Germania e d'Italia. L'autore degli Annali
lambeciani[1520] ancor qui pretende che Liutvardo scacciato, come
dicemmo, da Carlo Augusto, ricoveratosi in Baviera presso il medesimo
Arnolfo, macchinasse con lui di deporre esso imperadore, e di prendere
le redini del governo. Se ciò fosse vero, segno ben sarebbe che a
Liutvardo non mancavano amici per tutta la monarchia de' Franchi.
Comunque sia, verso la metà di novembre si tenne la dieta suddetta;
tutti i baroni, e tutti infino i principali cortigiani, abbandonando il
misero imperadore, riconobbero per re il giovane _Arnolfo_, creduto da
essi il più abile al governo fra quei pochi che restavano della
discendenza maschile di Carlo Magno. In così abbietto stato rimasto
questo Augusto, dianzi padrone di quasi tutto l'Occidente, ed allora
vivo spettacolo della caducità delle cose terrene, che altro ripiego non
seppe prendere, se non quello d'inviar molti regali al nipote Arnolfo, e
di pregarlo che almeno gli concedesse alquanti luoghi in Alemagna per
sostentamento suo, finchè Dio il lasciasse in vita; e gli ottenne, ma
per poco tempo ne potè godere l'uso. Mandò anche il figliuolo Bernardo
ad esso Arnolfo, che gli assegnò varii beni per suo retaggio. I principi
e popoli della Gallia, tuttochè seguitassero ad essere flagellati dai
Normanni, pure non concorsero punto nell'elezione d'Arnolfo, e presero,
siccome dirò, altre risoluzioni. Per lo contrario i popoli della Francia
orientale, della Sassonia, Turingia e Baviera, e di una parte della
Schiavonia, accettarono per loro signore Arnolfo. Per conto dell'Italia,
finchè visse il deposto Carlo il Grosso, niuna mutazion vi si fece, e
solamente si tennero consigli e si formarono leghe per quello che già si
prevedeva vicino. Cadde infermo in quest'anno _Giovanni doge_ di
Venezia, per attestato del Dandolo[1521], e non potendo accudire al
governo, quantunque già fosse stato dichiarato suo collega nel ducato
_Orso_ suo fratello, tuttavia diede licenza al popolo di eleggersi un
nuovo doge. E fu eletto _Pietro Candiano_ nel dì 17 di aprile, uomo di
gran senno e cuore negli affari della guerra. Questi procedette
ostilmente contro gli Schiavoni; ma essendo egli restato ucciso nel mese
di settembre in una zuffa, il doge suddetto _Giovanni_ ripigliò il
governo, e sopravvisse anche sei mesi e tredici giorni. Era signore di
Capoa _Landone conte_[1522]. Tra per esser egli uomo pigro e disattento,
e perchè si trovava malconcio dalle febbri, per curar le quali si portò
ad abitare in Teano, giunse a perderne la signoria nell'anno presente
nel dì dell'Epifania. _Atenolfo_ suo parente, accordatosi prima con
_Atanasio II vescovo_ e duca di Napoli, che teneva mano a tutte le
cabale di questi tempi, s'impadronì di Capoa, e, siccome avea promesso,
si dichiarò vassallo del suddetto Atanasio, con dargli per ostaggio un
suo figliuolo. Ma pentitosi dipoi, si raccomandò a _Guido duca_ di
Spoleti, il quale con tal forza ne trattò col vescovo suddetto, che fece
restituirgli lo strumento dell'obbligazione, e rimandargli il figliuolo.
Trattò poscia Atenolfo con _papa Stefano_ di farsi suo vassallo, di
dargli Gaeta ch'egli avea poco avanti presa con un'astuzia, e di
aiutarlo contra de' Saraceni abitanti presso il Garigliano, col mandare
a tal fine a Roma _Maione abbate_ di san Vincenzo di Volturno, e
Dauferio diacono. Ma stette poco a dimenticar la parola data, e nulla
attenne di quanto avea promesso. Non mancavano già aderenti in Capoa a
_Landone conte_, escluso già dal dominio di quella città, che
l'invitavano a ritornarvi. Animato da questa speranza, un dì nascoso in
una carretta entrò in essa città, e a dirittura andò al palazzo del
vescovo, cioè di _Landolfo_ juniore suo figliuolo, dove raunò tosto
alquanti de' suoi fautori. _Atenolfo_, che non dormiva, sollecitamente
si mise in armi, laonde si venne alle mani fra le due fazioni.
Prevalendo quella di Atenolfo, Landone ebbe per grazia di potersene
andar sano e salvo; ma i suoi, e fra gli altri il vescovo Landolfo,
furono messi in prigione, e dopo non molto rimessi in libertà. Circa
questi medesimi tempi, e forse vivente tuttavia l'imperador
Basilio[1523], _Guaimario I_ principe di Salerno, si portò alla corte di
Costantinopoli, ricevuto quivi con distinti onori, e creato patrizio
dall'imperadore, se ne tornò poscia in Italia. Questo vuol dire che egli
giurò fedeltà ed omaggio ai Greci. Una carta di molta importanza, benchè
non assai corretta, ci ha conservato l'Ughelli[1524], scritta da
_Teodosio_ vescovo di Fermo nell'anno presente, dove è riferito ii
consenso _omnium venerabilium episcoporum in ducatu spoletano
degentium_. Questi erano i vescovi di _Rimini, Fossombrone, Ancona,
Camerino, Sinigaglia, Spoleti, Fano, Pesaro, Umana, Perugia, Osimo,
Rieti, Cagli, Lodone_ (non so che sia), _Urbino, Nocera, Terni_ e
_Forlì:_ la qual ultima città forse è nome guasto. Ora ecco fin dove si
stendesse allora il ducato di Spoleti, con cui andava unita la marca di
Camerino, appellata poi di Fermo, e finalmente d'Ancona.

NOTE:

[1517] Annales Francor. Fuldenses. Freheri.

[1518] Annales Fuldenses Lambecii.

[1519] Annales Fuldens. Freherii.

[1520] Annales Fuldenses Lambecii.

[1521] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1522] Erchempertus, Hist., cap. 63 et seq.

[1523] Erchempertus, Hist., cap. 67.

[1524] Ughell., Ital. Sacr. tom. 2 in Episcop. Firman.



    Anno di CRISTO DCCCLXXXVIII. Indiz. VI.

    STEFANO V papa 4.
    BERENGARIO re d'Italia 1.


Non sopravvisse molto alle sue disgrazie l'infelice deposto imperador
_Carlo il Grosso_. Finì egli di vivere nel dì 12 di gennaio dell'anno
presente, secondo Reginone[1525], oppure nel dì seguente, secondo gli
Annali pubblicati dal Freero[1526], i quali aggiungono: _Coelum apertum
multis cernentibus visum est, ut aperte monstraretur, qui spretus
terrenae dignitatis ab hominibus exuitur, Deo dignus coelestis patriae
vernula mereretur feliciter haberi:_ quasi che egli spontaneamente per
servire a Dio avesse dato un calcio alle umane grandezze. Aveano spaccio
simili immaginazioni in questi secoli d'ignoranza. Più saggiamente parlò
di lui, con isperar anche l'eterna sua salute, Reginone con dire: _Fuit
hic christianissimus princeps, Deum timens, et mandata ejus ex toto
corde custodiens, ecclesiasticis sanctionibus devotissime parens, in
elemosynis largus, orationi et Psalmorum melodiis indesinenter deditus,
laudibus Dei infatigabiliter intentus, omnem spem et consilium suum
divinae dispensationi committens: unde et ei omnia felici successu
concurrebant in bonum, ita ut omnia regna Francorum, quae praedecessores
sui non sine sanguinis effusione cum magno labore acquisierant, ipse
perfacile in brevi temporum spatio sine conflictu, nullo contradicente,
possidenda perceperat. Quod autem circa finem vitae dignitatibus
nudatus, bonisque omnibus spoliatus est, tentatio fuit, ut credimus, non
solum ad purgationem, sed, quod majus est, ad probationem. Siquidem
hanc, ut ferunt, patientissime toleravit, in adversis, sicut in
prosperis gratiarum vota persolvens, et ideo coronam vitae, quam
repromisit Deus diligentibus se, aut jam accepit, aut absque dubio
accepturus est._ Ermanno Contratto[1527] scrive, essere stata credenza
d'alcuni ch'egli morisse strangolato dai propri domestici. Non ci è cosa
più facile in somiglianti casi che il sospettare e spacciar violenta la
morte d'un principe, quasichè Arnolfo si volesse assicurare ch'egli mai
non potesse risorgere a contrastargli il regno. Venne poi portato al
monistero di Augia, e quivi seppellito il corpo suo. Ma il fine di
questo imperadore fu il principio d'innumerabili mali per l'Occidente
cristiano, che si scatenarono nella Germania, nella Gallia e
nell'Italia, e talmente vi presero piede, che da lì innanzi per gran
tempo massimamente l'Italia andò di male in peggio. Mercè del buon
governo degl'imperadori carolini avea la Lombardia coll'altre vicine
provincie goduta per più di cento anni un'invidiabil pace; ma eccoti
entrar in essa la discordia e la guerra; crescere da lì innanzi
l'ignoranza e la barbarie, e, quel che è peggio, introdursi ne' popoli
ed anche negli ecclesiastici una sfrenata corruzion di costumi, in guisa
che troveremo, andando innanzi, un secolo di ferro, e divenuti questi
paesi un emporio di calamità e di vizii. Ora ecco come la vasta
monarchia de' Franchi, dopo la morte di Carlo il Grosso, venne a
dividersi in più pezzi. _Arnolfo_, siccome dicemmo[1528], s'impadronì di
tutta la Germania e di parte dell'antica Lorena, e ne fu proclamato re.
_Lodovico_ figliuolo di Bosone, ben assistito dai suoi popoli e dalla
regina _Ermengarda_ sua madre, tenne saldo il regno arelatense, cioè la
Provenza e la Borgogna inferiore. Insorse un re nuovo, cioè _Rodolfo_,
figliuolo di Corrado e nipote di un altro Corrado, che era stato
fratello dell'_imperadrice Giuditta_, duca della Borgogna e marito
d'_Adelaide_ figliuola di _Lodovico Pio_ Augusto. Occupò questi la
Borgogna superiore, che abbracciava gli Svizzeri, i Grisoni, i Vallesi,
Genevra e la Savoia, e si fece coronare re da que' vescovi. Nella
Francia occidentale, voglio dir nella Gallia, dovette essere un lungo
dibattimento di consigli per eleggere un nuovo re, stante l'essere vivo
_Carlo il Semplice_, figliuolo non so se legittimo o illegittimo del re
_Lodovico Balbo_, ma in età non ancor atta al governo, ed altri
pretendenti per qualche attinenza di sangue alla real casa di Carlo
Magno. Ma in fine _Odone_, chiamato _Eudes_ nella moderna lingua
franzese, conte di Parigi, figliuolo di _Roberto il Forte_, conte
d'Angiò e fratello di _Roberto II_, cioè del propagatore della regnante
oggidì real casa di Francia, personaggio di gran nome pel suo valore e
per la difesa dianzi fatta di Parigi, creduto anche da alcuni scrittori
figliuolo in seconde nozze della suddetta Adelaide figliuola di Lodovico
Pio: questi, dico, siccome più utile ai bisogni del regno, riportò il
pallio, e fu coronato re di Francia. L'autore degli Annali freeriani
scrisse ch'egli usurpò la Gallia sino al fiume Loire, e l'Aquitania,
parlando in questa maniera a tenore delle pretensioni di _Arnolfo re_ di
Germania, il quale come discendente maschio dei re carolini credeva di
dover succedere anche nella Gallia, ad esclusione de' discendenti per
via solo di donne. Anzi venuta la state, esso re Arnolfo si mise in
procinto di muovere l'armi contro la Francia. A questo fine venne a
Vormazia, dove tenne una gran dieta; ma, secondo i sopra allegati
Annali, Odone, _salubri utens consilio, contestans se malle suum regnum
gratia cum regis pacifice habere, quam ulla jactantia contra ejus
fidelitatem superbire: veniensque humiliter ad regem, gratanter ibi
recipitur. Rebus ab utraque parte, prout placuit, prospere dispositis,
unusquisque reversus est in sua_. E Reginone[1529], scrittor di questi
tempi, dice che i Franzesi crearono _Odone_ re _cum consensu Arnulfi_:
dalle quali cose deducono i Tedeschi che intanto si contentasse Arnolfo
di quella elezione, in quanto Odone gli dovette giurar fedeltà ed
omaggio. Non era per passarla così bene _Rodolfo_, che, siccome dicemmo,
s'era fatto re della Borgogna tras-jurana, perchè Arnolfo pieno di mal
talento contra di lui, venuto in Alsazia, inviò un'armata per
soggiogarlo. Scrive Reginone che crebbe la collera di Arnolfo contra di
Rodolfo, perchè questi avea mandate lettere per tutta la Lorena, che
s'era sottoposta ad Arnolfo, per eccitar que' popoli a prendere lui per
re. Ma Rodolfo si salvò per le aspre montagne del suo dominio; ed
Arnolfo dipoi e Zventeboldo suo figliuolo il perseguitarono finchè
ebbero vita. Il che non si accorda coi suddetti Annali antichissimi del
Freero. Secondo la relazione d'essi, _Rudolfus, inito consilio cum
primoribus Alamannorum, sponte sua ad regem_ (Arnolfum) _urbem
Radasponam usque pervenit, multaque inter illos convenienter adunata,
ipse a rege cum pace permissus, sicuti venit, ad sua remeavit_. Potrebbe
essere che anche egli, dopo avere riconosciuto il suo regno da Arnolfo,
ottenesse pace da lui; ma che dipoi insorgessero fra loro motivi di
discordia, i quali non cessarono più, finchè visse Arnolfo, pieno di mal
talento contra di questo re nell'anno 894.

Mi è convenuto di condurre il lettore a conoscere lo smembramento della
monarchia de' Franchi oltramonti, perchè quegli affari, per quanto
vedremo, hanno gran connessione con quei della medesima Italia. Vegniamo
ora a noi, cioè all'Italia stessa. Due erano i concorrenti a questo
regno, cioè _Berengario duca_ del Friuli e _Guido duca_ di Spoleti.
Berengario, siccome abbiam già dimostrato, aveva avuto per padre
_Eberardo_, anch'esso duca del Friuli, principe di gran valore e pietà;
e per madre _Gisla_ figliuola di Lodovico Pio. Questa parentela col
sangue reale di Francia porgeva a lui qualche titolo per pretendere la
corona del regno d'Italia. Non son io peranche assai persuaso, che
Berengario fosse di nazione salica, ossia franzese, perchè quantunque
suo padre avesse gran copia di beni in Fiandra, pure ne possedeva anche
in Lamagna e in Italia, come apparisce dal suo testamento[1530], dove
dona la libertà a tutti i suoi servi. Dal panegirista di
Berengario[1531] _Guido_ duca di Spoleti vien chiamato _gallicus heros_,
e _Berengario italicus princeps_, con aggiugnere che Dio a Berengario

    _. . . . . Latium concessit avitum_.

Quanto ad esso Guido, sappiam di certo ch'egli era Franzese d'origine; e
che fosse anche parente dei re della schiatta di Carlo Magno, se n'ha
bastevol indizio, ma senza sapersi la precisa catena di tal parentela.
Gli Annali del Freero[1532] e di Reginone[1533] il chiamano figliuolo di
_Lamberto_, anch'esso duca di Spoleti. Ma sembra più degno in ciò di
credenza, siccome già accennai all'anno 880, Erchemperto[1534] storico
italiano e contemporaneo, che cel rappresenta figliuolo di _Guido
seniore_, duca parimente di Spoleti. Secondo questo autore, esso Guido,
avuto che ebbe sentore qualmente Carlo il Grosso era vicino agli ultimi
respiri, _cupiditate regnandi devictus, deceptusque a contribulibus
suis, relinquens Beneventanam provinciam sibi subactam, et spolitensium
ducatum, abiit Galliam regnaturus_. Come Guido avesse ridotto Benevento
sotto il suo dominio, nell'anno antecedente si è veduto coll'autorità di
Erchemperto. Ma certamente _Ajone_ era tornato in possesso di quel
principato. Se si può prestar fede a Liutprando da Pavia[1535], storico
del secolo susseguente, passava fra questi due potenti principi
italiani, cioè fra esso _Guido_ e _Berengario_, una stretta amicizia, ed
era seguita convenzion fra loro, che qualora Carlo il Grosso imperadore
terminasse i suoi dì, _Guido_ si procaccerebbe il regno della _Francia
romana_, cioè della Gallia, così appellata a differenza della Germania,
chiamata Francia tedesca ed orientale; e resterebbe a _Berengario_ il
regno d'Italia. Scrive inoltre esso Liutprando che _Guido_, appena udita
la morte dell'Augusto Carlo, _Romam profectus est, et absque Francorum
consilio totius Franciae unctionem suscepit imperii_. Di questa
coronazione romana di Guido niun altro storico ha fatta menzione, e Dio
sa se sussiste. Tuttavia non è inverisimile, perchè Guido era tutto di
_papa Stefano V_, e, siccome è detto di sopra, fu da lui adottato per
figliuolo. Colla sponda dunque del romano pontefice, e tratto dalle
speranze che gli porgeva _Folco arcivescovo_ di Rems suo parente, il
duca Guido se ne andò in Francia colla bocca aperta, credendo preparato
per lui, o facile da acquistare quel regno. Forse in quel capo, pieno
sempre d'ambiziosi disegni, v'era entrato quello di conquistare prima la
Francia, per poter poi con quelle forze anche dispossessar chi
signoreggiava in Italia, ed unir facilmente in questa maniera i due
regni. Intanto _Berengario duca_ del Friuli, trovandosi senza gagliardo
alcuno competitore, fu pacificamente eletto re d'Italia da molti
principi del regno. La città di Padova ha per buona fortuna a noi
conservato il panegirico di questo principe, composto da un
contemporaneo poeta anonimo, dato alla luce da Adriano Valesio, e da me
ristampato nella mia Raccolta _Rerum italicarum_. Un buon fanale per
questi tempi è quell'operetta, benchè scura in alquanti siti. Ora da
essa impariamo che Berengario, pregato dai baroni del regno italico, si
portò a Pavia, e quivi prese la corona del regno, certamente per le mani
di _Anselmo_ arcivescovo di Milano; e ci è permesso di credere che
allora si cominciasse ad usar la _corona ferrea_, conservata tuttavia
nella basilica di san Giovanni Batista di Monza, che divenne poi celebre
ne' tempi susseguenti, siccome ho dimostrato in una mia
dissertazione[1536]. Così parla quell'anonimo panegirista:

    _His motus gressum precibus contendit ad urbem_
    _Irriguam, cursim Ticini abeuntibus undis._
    _Sustulit heic postquam regale insigne coronam_, ec.

Da' varii diplomi che restano del medesimo re Berengario, alcuni de'
quali ho anch'io dati alla luce nelle mie Antichità italiane, noi siam
condotti a credere che nel gennaio o febbraio del presente anno 888
Berengario salisse sul trono, e cominciasse a numerare gli anni del
regno d'Italia. Da un suo diploma[1537] conceduto ad _Angilberga
imperadrice_ vedova, si raccoglie che nel dì 8 di maggio dell'anno
presente, egli dimorava in Pavia, correndo l'_anno I del suo regno_. Ma
non tutti i principi e popoli dell'Italia concorsero nell'elezione di
Berengario, e nominatamente son io di parere che i ducati insigni di
Spoleti e Camerino sospendessero il loro assenso, nè volessero
riconoscere lui per re, finchè non apparisse se la fortuna si dichiarava
in favore del duca _Guido_, che era passato in Francia. Gli Annali del
Freero[1538] dicono ch'egli _Galliam belgicam_ (cioè il regno della
Lorena) _prout rex habere proposuerat_. Il padre Daniello[1539] pretende
che Folco arcivescovo di Rems, già da noi veduto parente d'esso Guido,
avesse guadagnato a favore di lui alcuni vescovi e signori dei reami
della Borgogna e Lorena; che perciò il medesimo Guido giunto a Langres,
si fece quivi coronare da _Geilone vescovo_ di quella città, e ch'egli
condusse seco un'armata dall'Italia. Onde abbia preso tali notizie
questo scrittore nol so immaginare. Gli autori da lui citati non ne
parlano; e, per attestato di Frodoardo[1540], Folco protestava di non
aver promosso gli affari di Guido. Molto meno si sa, perchè esso padre
Daniello francamente asserisse che il duca Guido era figliuolo _di una
figliuola di Pippino re d'Italia_, figliuolo di Carlo Magno. Nè
sussiste, a mio credere, il dirsi da Liutprando[1541], che avendo Guido
mandato innanzi alla città di Metz un suo scalco, per preparargli la
tappa _more regio_, quel vescovo fece una gran provvisione di cibi; ma
intendendo che lo scalco d'ordine di Guido volea pochissima provianda,
una tale spilorceria gli fece mutar pensiero di favorir Guido, talmente
che si dichiarò in favore d'Odone conte, che poi fu eletto re. La città
di Metz riconosceva allora per suo signore _Arnolfo re_ di Germania, se
è vero che fosse quivi tenuto un concilio[1542] _anno ab Incarnatione
Domini nostri Jesu Christi DCCCLXXXVIII, regni domni Arnulfi
gloriosissimi regis primo, die kalendarum majarum_, o _martiarum_. E
però nè a Guido nè ad Odone potè essere favorevole Roberto vescovo di
quella città.

Quel che è fuor di dubbio, il _duca Guido_ chiarito fra poco delle vane
speranze che l'aveano condotto in Lorena, _invisus et inauditus_ dai
suoi Franzesi, come scrive Erchemperto, se ne tornò mal contento in
Italia. E giacchè non gli era riuscito di afferrar parte alcuna della
monarchia oltramontana de' Franchi, cominciò a rivolgere tutti i suoi
pensieri alla conquista del regno d'Italia, e ad abbattere il già
divenuto re _Berengario_. Questi intanto il meglio che poteva si andava
assodando nel nuovo suo regno; ma era minacciato da _Arnolfo_ re di
Germania, che già ammannito un possente esercito, si disponeva a calare
in Italia. Berengario, per attestato degli Annali del Freero[1543], _hoc
praecavens, ne italicum regnum cum tam valida manu ingressuro perperam
pateretur, missis ante se principibus suis, ipse vero in oppido
tarentino_ (ha da dire _tridentino_) _regi se praesentavit. Ob id ergo
et a rege est clementer susceptus, nihilque ei ante quaesiti regni
abstrahitur. Excipiuntur Curtes Navium, et Sagum_. Si può credere che
anche Berengario riconoscesse dal re Arnolfo, come da suo sovrano, il
regno d'Italia. Vuole l'Eccardo[1544] che _Navium_ significhi una villa
situata sopra di Trento, ed appellata oggidì _la Nave_, e può stare: ma
non giù che _Sagum_ diventasse poi città, ora perduta, da cui trasse il
suo nome _Sagis_, picciolo porto di Comacchio alle rive dell'Adriatico,
appellato oggidì _Porto di Magnavacca_. Non può stare che Arnolfo si
facesse cedere quel sito, troppo lontano da' confini de' suoi stati.
Arnolfo se ne tornò indietro pel Friuli nella Carintia, dove celebrò il
santo Natale, ma con una terribil perdita di cavalli, perchè entrata fra
essi un'epidemia, ne fece un aspro macello. Io so che in questo medesimo
anno gli Annali suddetti del Freero e Reginone (copiato poi da altri
susseguenti storici) mettono la guerra succeduta fra esso _Berengario_
re e _Guido_ duca di Spoleti, che assunse anch'egli il titolo di re; e
le due sanguinose battaglie, colle quali questi due emuli si disputarono
la corona del regno d'Italia, prima ancora che seguisse l'abboccamento
suddetto fra il re Arnolfo e Berengario. E che questi autori tedeschi
non possano aver fallato intorno a tali fatti, pare che non se ne abbia
a dubitare, dacchè anche Erchemperto[1545] storico italiano, il quale in
questi tempi appunto terminò la sua storia, dopo avere scritto che
l'armata navale de' Greci diede una rotta a quella de' Saraceni vicino
allo stretto di Sicilia nel mese di ottobre dell'anno 888, aggiugne
tosto: _Hoc etiam anno reversus est Guido ad Italiam, quam principare
cupit; sed obtinere nequit. In Italiam juxta civitatem brescianam cum
Berengario et ipso duce conflictu utriusque partis acies crudeliter
caesa est. Spolia autem caesorum a Berengario recollecta sunt. Pacti
sunt tantum ad invicem usque in Epiphania, quae celebratur VIII idus
januarii. Quum autem uterque se junxerint ad pactum, vel ad bellandum,
quod deinceps egerunt, praesenti opusculo inseram._ Qui finisce la
storia di Erchemperto, con lasciar noi al buio di quel che poscia
avvenne. Non si può negare: la storia d'Italia è qui imbrogliata non
poco. Due battaglie senza dubbio si diedero da Guido a Berengario; la
prima svantaggiosa e l'altra favorevole ad esso Guido. Per quanto
apparisce dal panegirista di Berengario, passò non poco tempo fra l'una
e l'altra. Non so io immaginare che _Guido duca_ di Spoleti in un solo
anno passasse in Francia, o, per dir meglio, nel regno della Lorena;
quivi facesse maneggi per ottener quella corona, e dopo aver raunato
molte brigate d'armati, ritornasse in Italia, e potesse mettere insieme
un esercito per la prima giornata campale, e un altro per la seconda.
Quel che è più, esso panegirista, autore se non contemporaneo, che
almeno gode la presunzione d'essere stato non lievamente informato di
quegli affari, sembra dire, che dopo essere stato eletto re Berengario,
egli si godette quasi un anno di pace[1546]:

    _Annua vix toto rutilarunt sidera mundo_
    _Pace sub hac._

E però, ciò posto, cadrebbe la guerra con amendue le battaglie suddette
nell'anno seguente 889. Ma perchè il suo dire quasi un anno, ci lascia
luogo a credere ritornato Guido in Italia negli ultimi mesi dell'anno
presente; però mi figuro che gli restasse tempo di dare prima del verno
una battaglia a Berengario. Confessa il poeta suddetto, non sì tosto
essere giunto in Italia il duca Guido, che si diede ad allestir
un'armata d'Italiani. Alcune brigate di Franzesi (l'abbiamo anche da
Liutprando) avea egli seco condotto in Italia. _Camerinos atque
Spoletinos, fiducialiter, ut propinquos adiit_, dice lo stesso
Liutprando[1547]. _Berengarii etiam partibus faventes, ut infidos,
pecuniarum gratia acquirit._ Aggiugne il poeta, che specialmente la
Toscana, la quale dianzi avea giurata fedeltà a Berengario, ribellata
prese l'armi in aiuto di Guido. Nè è da maravigliarsene. Quivi, siccome
vedremo, domina _Adalberto II_ marchese e duca, suo nipote.

                  _. . . . . . . Mala fide recessit_
    _Sed penitus Tyrrhena manus, hostesque protervos._
    _Exueltans in regna tulit._

Potrebbono nondimeno tali parole intendersi dei soli Spoletini, perchè
essi, come altrove ho detto, passavano allora per popoli di Toscana. Lo
stesso poeta avea prima detto che Berengario ne' tempi addietro

    _. . . . . . stimolis quia mutos iniquis_
    _Finibus absentes Gallos quaesivit Etruscis,_

con alludere alla guerra fatta nell'anno 883 da esso Berengario al
ducato di Spoleti per ordine di Carlo Grasso Augusto. Con queste armi
s'incamminò contra del re _Berengario_ il duca _Guido_. Trovavasi allora
Berengario nel distretto, o nella città di Verona, trattando
d'aggiustamento col re Arnolfo; del che abbiam parlato di sopra.

    _. . . . Princeps aberat, pacemque parabat_
    _Imperio, Veronae Athesis, qua culta salubris_
    _Irrigat._

Però negli ultimi mesi dell'anno, e dopo l'abboccamento fatto con
Arnolfo, dovette essere la mossa di Guido, incontro al quale marciò
Berengario con quante forze anch'egli potè. Due senza dubbio furono le
battaglie, ed amendue sanguinosissime, che seguirono fra questi due
competitori.

Se vogliam credere a Liutprando, la prima fu alla Trebbia; fra pochi
giorni succedette l'altra nel bresciano; e in tutte e due toccò a
Berengario di soccombere. Non la seppe giusta: cioè nell'ordine di
quelle giornate campali e nell'esito di esse s'ingannò. Il primo fatto
d'armi tengo io che succedesse nel territorio di Brescia, e questo
nell'anno presente, e colla peggio di Guido. L'altro nell'anno
susseguente, e colla peggio di Berengario. Erchemperto, il quale,
siccome abbiam veduto di sopra, diede fine alla sua storia sul finire
dell'anno presente, non conobbe se non una battaglia fra Berengario e
Guido; e questa accaduta nel contado di Brescia; e in essa _caesorum
spolia a Berengario recollecta sunt_. Ciò vuol dire che il cimento
riuscì di maggior vantaggio ed onore a Berengario. Viene confermata la
stessa verità dall'anonimo panegirista, autore anch'esso degno di gran
riguardo. Dal suo racconto apparisce che nel primo fatto d'armi non
riuscì già a Berengario di sconfiggere il nemico, perchè la notte
sopravvenuta disturbò il corso della vittoria. Tuttavia restò egli
padrone del campo della battaglia: laonde nel giorno appresso Guido
spedì ambasciatori a chiedergli la grazia di poter dare sepoltura ai
suoi morti, che ascendevano ad alcune migliaia; e l'ottenne. Non altro
conflitto che questo penso io che succedesse nel presente anno, perchè
vi volle non poco di tempo a reclutare ed aumentar le armate; e
spezialmente asserendo Erchemperto che restarono i due emuli di fare un
congresso nel dì della Epifania per trattar di qualche maniera di
aggiustamento fra loro. Finchè non si scuopra qualche diploma che ci
faccia veder Guido in Pavia nel fine di questo anno, o nel principio del
susseguente, sembra più credibile ch'egli se ne impadronisse dopo la
seconda battaglia nell'anno seguente. Mentre questi principi
contrastavano sì aspramente fra loro, anche _Ajone principe_ di
Benevento era in faccende contra de' Greci. Gli era venuto fatto di
ribellare ad essi il popolo di Bari coll'uccisione del presidio, e di
rimettere quella città sotto il suo dominio. Nella Cronichetta[1548] da
me stampata altrove sotto quest'anno si legge: _Perditio fuit facta in
Varo per Graecos_, cioè in _Bari_. Diede anche aiuto ad _Atenolfo conte_
di Capoa, che si era sottomesso alla sua signoria[1549], con essere
cagione che questo principe non solamente ricuperò l'anfiteatro, già
ridotto in fortezza da _Atanasio II_ vescovo di Napoli, continuo
martello de' Capoani, ma anche diede una rotta all'esercito di quel
vescovo, con che rintuzzò non poco l'insoffribile di lui orgoglio. Fu
forzato Atanasio a chiedere pace; ma le paci di questo mal unto vescovo
fatte per un anno, non duravano nè pur dodici giorni. E intanto i suoi
cari Saraceni abitanti al Garigliano, ovunque loro piaceva, divoravano
tutti i contorni, nè davano esenzione alcuna agli stessi Napolitani,
permettendo Iddio che costoro fossero il castigo di chi tutto dì si
serviva d'essi per infestare i suoi vicini. Ora tornando al suddetto
_Ajone principe_, recatogli l'avviso che _Costantino patrizio_ e general
de' Greci avea messo l'assedio a Bari, colle sue milizie e con un
rinforzo de' Mori marciò per Siponto in aiuto di quella città.
Arditamente attaccò la zuffa, e a tutta prima colla strage di moltissimi
Greci parve che la fortuna si dichiarasse in suo favore. Quando eccoti
sopraggiugnere Costantino con tremila cavalli freschi, co' quali diede
una tal rotta ai Beneventani, che quasi tutti vi rimasero o morti, o
prigioni, e lo stesso Ajone stentò a potersi ritirare con pochi dei suoi
in Bari. Cominciò egli dipoi a tempestar con lettere _Atenolfo_ conte di
Capoa per avere soccorso; ma questi era di nuovo in rotta col suddetto
vescovo Atanasio, uomo di niuna fede; e laddove in addietro i Napoletani
si tenevano sotto i piedi i miseri Capoani, prevalendo ora questi,
davano il guasto a tutto il territorio di Napoli. Atenolfo in vece di
recar aiuto all'assediato Ajone, stabilì una pace e lega col generale
suddetto de' Greci. Non dissomigliante successo ebbero l'altre premure
di Ajone per avere dei rinforzi dai Galli, cioè dal ducato di Spoleti e
dai Saraceni. Quantunque promettesse loro monti d'oro, niuno si volle
muovere per soccorrerlo, in guisa che veggendosi beffato da tutti, e
troppo ridotto in angustie, gli convenne capitolar coi Greci, e rendere
loro la città. Se ne tornò egli libero a Benevento con grandi minacce
contra di Atenolfo e di _Maione abbate_ di san Vincenzo di Volturno,
perchè l'avessero in tanta necessità abbandonato e deluso. Secondo la
testimonianza del Dandolo[1550], passò in quest'anno all'altra vita
_Giovanni doge_ di Venezia, in cui luogo fu concordemente eletto doge
_Pietro_ tribuno, personaggio di tutta bontà, che da _Leone imperador_
di Costantinopoli fu creato dipoi _protospatario_.

NOTE:

[1525] Rhegino, in Chronico.

[1526] Annales Fuldenses Freherii.

[1527] Hermannus Contractus, in Chron.

[1528] Annales Fuldenses Freheri.

[1529] Rhegino, in Chronico.

[1530] Apud Miraeum, Cod. Donat., cap. 15.

[1531] Panegyr. Berengarii P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[1532] Annales Fuldenses Freheri.

[1533] Rhegino, in Chron.

[1534] Erchempertus, Hist., cap. 58.

[1535] Liutprandus, Hist., lib. 1, cap. 6.

[1536] Anecdot. Latin. tom. 2.

[1537] Antiquit. Ital., Dissert. LXXIII.

[1538] Annales Fuldens. Freheri.

[1539] Daniel, Hist. de France, tom. 2.

[1540] Frodoardus, Hist., lib. 4, cap. 5.

[1541] Liutprandus, Hist. lib. 1, cap. 6.

[1542] Labbe, Concil., tom. 9.

[1543] Annales Fuldenses Freheri.

[1544] Eccard., Rer. German., lib. 31.

[1545] Erchempertus, Hist., cap 81 et 82.

[1546] Anonymus, in Paneg. Berengarii, P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[1547] Liutprandus, Hist., lib. 1, cap. 6.

[1548] Antiquit. Ital., Dissert. V.

[1549] Erchempertus, Hist., cap. 73, 75, 77 et 80.

[1550] Dandol., in Chronico, tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCLXXXIX. Indiz. VII.

    STEFANO V papa 5.
    BERENGARIO re d'Italia 2.
    GUIDO re d'Italia 1.


O non seguì il congresso di cui si era convenuto fra il _re Berengario_
e il _duca Guido_; o se seguì, non ne risultò accordo veruno, e fu
perciò rimessa alla decision dell'armi la contesa del regno. Accudirono
dunque amendue questi competitori nel verno e nella primavera a
rinforzar le loro armate: al che fu necessario gran tempo, perchè Guido
fece venir di Francia non poche brigate di combattenti. Veggonsi
descritte dal panegirista suddetto[1551] le di lui schiere. Cinquecento
fanti, calati dalla Francia, erano comandati da _Ascario_ ossia
_Anscario_ fratello di Guido. Menava trecento cavalli _Gaussino_;
altrettanti _Uberto_. Seguitavano le milizie della Toscana, se pure col
nome di _tyrrhena juventus_ non vuole il poeta disegnare _Spoleti_.
Venivano appresso mille soldati di _Camerino_. Poscia _Alberico_ con
cento pedoni, sperando di acquistarsi tal merito, che ne avesse poi in
ricompensa il ducato di Camerino. Concorse eziandio _Rinieri_ con altre
soldatesche, e _Guglielmo_ che menava trecento corazze. Condottier di
altrettante era _Ubaldo_, che fu padre di quel _Bonifazio_ che noi
vedremo a suo tempo duca potentissimo di Spoleti e di Camerino.
Succederono in fine alcune migliaia di gente avvezza non alle spade, ma
solo agli aratri. Tale era l'armata di Guido. Ragunò anche Berengario
quante genti potè. _Gualfredo_, che era, oppure che fu poi creato
marchese del Friuli, marciava alla testa di tremila Furlani. Veniva poi
_Unroco_ con due altri fratelli, tutti figliuoli di _Suppone_ già duca
di Spoleti, e dipoi, secondo le apparenze, duca di Lombardia, e suocero
probabilmente del re Berengario, conducendo mille e cinquecento corazze.
Marciavano _Leutone_ e _Bernardo_ suo fratello con mille dugento cavalli
tedeschi. Poscia un _Alberico_ con cinquecento altri cavalli, forse
anch'essi tratti dalla Germania. Succedevano poi altre soldatesche sotto
il comando di un _Bonifazio_, di un _Berardo_, di un _Azzo_ feroce e di
un _Olrico_, che era o fu poi marchese, e signoreggiava presso
all'Adriatico, oltre ad una gran folla di rustiche milizie. Non è a noi
possibile oggidì lo scifrare di quali città o luoghi fossero tutti
questi condottieri d'armi. Attesta il suddetto poeta che in quelle
armate alcuni vescovi ancora si trovarono maneggianti, in vece di
pastorali, spade e lance; ma per la riputazione del sacro lor ministero
non li vuol nominare. Regnava tuttavia in questo secolo un tale abuso,
del quale s'è parlato altrove. Si venne finalmente alla seconda giornata
campale, ma non già sul bresciano, come pensò Liutprando, ma, per quanto
si può conghietturare, alla Trebbia sul piacentino. Ho io dato alla luce
un diploma del medesimo Guido[1552], scritto _IX kal. maii anno
Incarnationis Domini DCCCLXXXVIIII, Indictione VIII, Actum Placentiae_.
Potrebbe questo documento comprovar ch'egli appunto si trovasse in
Piacenza nel dì 23 di aprile di quest'anno, cioè prima o dopo il
sopraddetto conflitto, se non che abbiam qui la _Indictione VIII_ che
non s'accorda coll'anno 889, ed appartiene all'anno susseguente,
convenendo per altro tutto il resto ad un autentico diploma. E si
osservi che quivi Guido conta già l'_anno II del regno_: segno ch'egli,
per non essere da meno di Berengario, avesse cominciato a dedurre il
principio del suo regno dalla morte di Carlo il Grosso; ma forse fu dato
quel diploma solamente nell'anno appresso. Abbiamo poeticamente
descritto questo fatto d'arme, che costò la vita a parecchie migliaia di
persone, dal panegirista di Berengario. Ma chi ne bramasse una più
minuta ed esatta descrizione, non ha che a leggere la storia di Spoleti
di Bernardino de' conti di Campello[1553], il quale, benchè vivesse e
scrivesse nell'anno 1672, pure dovette aver la fortuna di trovarsi
presente, e di mirar tutte le circostanze di quel sanguinoso conflitto,
ch'egli credette fatto sul bresciano, e ch'io più verisimilmente tengo
succeduto sul piacentino. Quantunque il poeta anonimo nel panegirico di
Berengario asserisca, aver la notte fatto ritirare ai lor campi le
infuriate armate di Berengario e di Guido; pure il suo silenzio e gli
effetti succeduti danno abbastanza ad intendere che ne riportò la peggio
Berengario. Scrive Reginone[1554], che dopo insorta la gara fra questi
due principi, _tanta strages ex utraque parte postmodum facta est,
tantusque humanus sanguis effusus, ut juxta dominicam vocem, regnum in
se ipsum divisum, desolationis miseriam paene incurrerit. Ad postremum
Wido victor existens, Berengarium regno expulit_. Ma non sussiste che
riuscisse a Guido di cacciar Berengario fuori del regno. Questi tenne
sempre saldo il ducato del Friuli, e fece sua residenza in Verona.
Soggiornava egli in questa medesima città nel dì 10 di settembre del
presente anno, come costa da un suo diploma ch'io ho pubblicato[1555],
le cui note sono: _Data IV idus septembris anno Incarnationis Domini
DCCCLXXXVIII, anno vero regni domni Berengarii gloriosissimi regis II,
Indictione VIII. Actum Veronae_. Il truovo io anche in Cremona, e
padrone tuttavia di Brescia nel dì 18 d'agosto, ciò apparendo da un suo
diploma pubblicato dal Margarino, e dato _XV kalendas septembris anno
Incarnationis Domini DCCCLXXXIX, anno vero regni domni Berengarii II.
Indictione VII_. Liutprando[1556] attesta che nella seconda battaglia,
_quum maxima strages fieret, fuga se se Berengarius liberavit_.
Ragionevolmente dunque si può credere che dopo rimasto in questa campal
giornata depresso Berengario, venisse in mano di Guido Pavia e Milano
con altre città della Lombardia.

Non ho io saputo intendere perchè il padre Pagi[1557] parli delle due
suddette battaglie solamente all'anno 892. Senza qualche fatto d'arme
non sarebbe entrato Guido in possesso di Pavia e della Lombardia. Ora
noi abbiamo, che stando esso Guido nella città di Pavia, avendo fatta
raunare in quella città una gran dieta di vescovi delle città a lui
suggette, si fece solennemente eleggere re d'Italia. L'atto di questa
elezione si truova dato alla luce nella mia Raccolta _Rerum
italicarum_[1558], e di nuovo nelle mie Antichità italiche[1559].
Ricordano que' vescovi in esso decreto _bella horribilia_, _cladesque
nefandissimas_ fino allora succedute, e tanti mali, che sarebbe
impossibile il contarli o scriverli. Aggiungono aver eglino consentito
di accettare per re Berengario (senza nondimeno nominarlo) _volentes
nolentesque minis diversis et suasionibus inretiti furtive ac
fraudulenter_. Dicono di più che i nemici, _superveniente perspicuo
principe Widone bis jam fuga lapsi, ut fumus, evanuerunt_; il che è da
temere che fosse dettato dall'adulazione. Pertanto di comun parere
eleggono _praefatum magnanimum principem Widonem ad protegendum et
regaliter gubernandum nos in regem et seniorem_, ec., giacchè egli si è
obbligato di amare e di esaltar la santa Chiesa romana, e di conservare
i diritti dell'altre chiese, e le leggi de' popoli, e di non permettere
le rapine, e di volere la pace. Non si sa che il _re Guido_ facesse
altra impresa in quest'anno, avendo egli probabilmente atteso ad
assicurarsi dei voti favorevoli dei suddetti vescovi, e a ridurre in suo
potere quelle città della Lombardia che tardavano ad umiliarsi alla
fortuna delle armi di lui. All'incontro _Berengario_ è da credere che si
applicasse tutto a fortificarsi in Verona, e a cercar soccorsi dalla
Germania, siccome in fatti vedremo all'anno susseguente. Nel presente la
vedova imperadrice _Angilberga_ presentendo o temendo che _Arnolfo re_
di Germania meditasse d'impadronirsi del regno d'Italia, ricorse a lui
affinchè le confermasse i beni da lei goduti in esso regno; e a tal fine
spedì in Germania _Ermengarda_ sua figliuola, regina di Provenza, vedova
del re Bosone. Vien rapportato dal Campi[1560] quel diploma, dato _II
idus junii anno dominicae Incarnationis DCCCLXXXIX, Indictione VII, anno
secundo piissimi regis Arnulfi. Actum Forachen_. Ma Ermengarda per altri
più importanti affari s'era portata in Germania, siccome vedremo.
Abbiamo accennato di sopra che circa questi tempi si cominciarono a
conoscere in Germania e in Italia gli _Ungri_, o vogliamo dire gli
_Ungheri_. Ora si vuol aggiugnere la terribile descrizione di questa
fiera nazione, che poi divenne il flagello dell'Italia, a noi lasciata
descritta da Reginone[1561] sotto quest'anno. _La ferocissima gente_,
dice egli, _degli Ungheri, più crudel d'ogni fiera, non mai udita nè
nominata in Occidente ne' secoli addietro, uscì dai regni della Scitia,
cioè della Tartaria, e dalle paludi del fiume Tanai. Costoro non
coltivano se non di rado la terra, non hanno casa o tetto, non luogo
stabile; ma_ (a guisa degli Arabi) _coi loro armenti e colle loro gregge
vanno qua e là vagando, conducendo seco le mogli e i figliuoli sopra le
carrette coperte di cuoio, delle quali in tempo di pioggia e di verno si
servono in vece di case. Gran delitto è presso di loro il furto. Non
appetiscono l'oro e l'argento, come fan gli altri uomini. Il loro
piacere è nella caccia e nella pesca. Si cibano di latte e miele. Non
usano vesti di lana, supplendo al bisogno con pelli di fiere per
guardarsi dai freddi continui nelle loro contrade. Spinti costoro fuori
del proprio paese da altri Tartari chiamati Pezinanti, perchè non
bastava alla cresciuta lor popolazione quella terra, vennero nella
Pannonia; e scacciati o sottomessi gli Unni, appellati anche Avari_
(benchè Tartari anch'essi di nazione), _s'impadronirono di quel regno:
di là cominciarono a far delle scorrerie nella Bulgaria, nella Moravia e
nella Carintia, uccidendo pochi colle spade, ma molte migliaia di
persone colle saette, scagliate da loro con tal maestria, che
difficilmente se ne possono schivare i colpi. Non sanno combattere da
vicino in forma di battaglia. Combattono a tutta corsa coi cavalli,
fingendo di quando in quando di fuggire, e bene spesso quando talun si
crede di averli vinti, si truova più che mai in pericolo di esser
vinto._ Negli Usseri moderni, discendenti da essi, dura anche oggidì
parte di questi loro costumi. Seguita a dire: _Vivono a guisa di fiere,
e non d'uomini; e fama è che mangino carne cruda, e bevano sangue.
Inumani al maggior segno, in quei cuori non entra compassione o
misericordia alcuna. Si radono il crine sino alla cute. Con gran cura
insegnano ai loro figliuoli e servi l'arte del cavalcare e saettare.
Gente superba, sediziosa, fraudolenta; e truovasi la medesima ferocia
nelle femmine che nei maschi: gente di poche parole, ma di molti fatti._
Tali erano gli Ungri, da' quali prese la Pannonia il nuovo nome
d'Ungheria, popolo nefando, la cui crudeltà in breve si vedrà venir a
desolare il meglio dell'infelice Italia. Cedreno[1562] dà a questa
barbarica nazione anche il nome di _Turchi_, nome che si stendeva a non
poche popolazioni della Tartaria, e si è udito già più volte ne' secoli
antecedenti.

NOTE:

[1551] Anonym., Panegyr. Berengar. P. I, tom. 2 Rerum Italic.

[1552] Antiq. Ital., Dissert. XXXIV.

[1553] Campelli, Istor. di Spoleti, lib. 9.

[1554] Regino, in Chronico.

[1555] Antiquit. Ital., Dissert. XVII.

[1556] Liutprandus, Hist. lib. 1, cap. 6.

[1557] Pagius, in Annales Baron.

[1558] Rerum Ital., P. I, tom. 2.

[1559] Antiquit. Ital., Dissert. III.

[1560] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1 Append.

[1561] Rhegino, in Chronico.

[1562] Cedren., in Annal.



    Anno di CRISTO DCCCXC. Indizione VIII.

    STEFANO V papa 6.
    BERENGARIO re d'Italia 3.
    GUIDO re d'Italia 2.


Abbiamo da Ermanno Contratto[1563] che in quest'anno _Arnolfo re_ di
Germania _ex verbis apostolici obnixe rogatur, ut Romam veniens
Italiamque sub ditione sua retinens, a tantis eam eruat tyrannis_. Era
_Stefano V_ pontefice di rara virtù, e non è improbabile che i malanni
di Roma per cagion dei Saraceni, e quei dell'Italia per la guerra dei
due re, il movessero a procurar la venuta d'Arnolfo. Tuttavia sapendo
noi quanta parzialità egli nudrisse per _Guido_ re d'Italia, con
apparenza ancora che coi suoi buoni uffizii l'avesse egli aiutato a
montare sul trono, non pare sì facilmente da credere l'invito che qui si
suppone da lui fatto ad Arnolfo di calare in Italia, e di levarla di
mano dei due nemici regnanti. Anzi son io d'avviso che in questo
racconto v'abbia dell'errore, essendo ben vera la chiamata, ma questa
fatta nell'anno susseguente, oppure nell'anno 893, siccome vedremo, e
non già nel presente; e da _Formoso_ papa, e non già da _Stefano_,
tuttavia vivente in quest'anno. Il continuatore degli Annali di
Fulda[1564], pubblicati dal Freero, molto più antico di Ermanno
Contratto scrive sotto quest'anno, ma fuor di sito, in parlando del re
Arnolfo: _A Formoso apostolico enixe rogatus interpellabat_ (scrivo
_interpellabatur_) _ut urbe Roma_ (si scriva _urbem Romam_) _domum
sancti Petri visitaret, et Italicum regnum a malis christianis, et
imminentibus Paganis ereptum ad suum opus restringendo dignaretur
tenere. Sed rex multimodis caussis, in suo regno increscentibus
praepeditus, quamvis non libens, postulata denegavit._ Copiò Ermanno
Contratto queste parole, ed anche egli intese di nominar _Formoso_ col
nome di apostolico, e non già di parlare di papa Stefano. Ora certo è
che _Formoso_ solamente fu eletto romano pontefice nell'anno seguente, e
per conseguente a quello si dee riferir l'invito fatto al re Arnolfo: se
pur non volessimo immaginare che Formoso vescovo in questi tempi di
Porto, e non per anche papa, avesse chiamato in Italia il re Arnolfo,
col quale egli manteneva buona corrispondenza, ed era legato, siccome
vedremo, con parziale affetto. Ma, siccome dissi, piuttosto nell'anno
893 si adoperò papa Formoso per tirare in Italia il re Arnolfo, e quivi
perciò ne riparleremo. Attestano gli Annali suddetti, che trovandosi
esso re Arnolfo in Forcheim dopo Pasqua nel mese di maggio _ibi ad eum
filia Hludovvici italici regis, vidua Bosonis tyranni, magnis cum
muneribus veniens honorifice suscepta, ac ad propria remissa est_. Ma
neppure questo fatto è rapportato al suo luogo. Da un diploma d'esso
Arnolfo, che io ho accennato di sopra, abbiamo già appreso che la vedova
imperadrice _Ermengarda_ si trovò nell'anno precedente alla corte del re
Arnolfo in Forcheim. Il motivo del suo viaggio e dei sontuosi regali
portati al re Arnolfo, fu il desiderio che _Lodovico_ figliuolo suo e di
_Bosone_, già pervenuto ad età convenevole per governar popoli,
assumesse il titolo di re del regno arelatense ossia di Provenza,
ch'ella fin qui avea governato come tutrice a nome del figliuolo. Non
voleva ella far questo passo senza licenza del re Arnolfo, principe
potentissimo, che manteneva pretensioni sopra tutta la monarchia dei
Franchi. E siccome Odone in Francia ossia nella Gallia, e Berengario in
Italia, non si crederono sicuri del possesso dei loro regni, se prima
non si furono accordati con esso Arnolfo: così Ermengarda ricorse a lui
per avere il consentimento suo in favore del figliuolo; con riconoscere
anch'ella il regno suddetto dipendente dalla sovranità del re della
Germania. Però tornata ch'ella fu in Provenza, raunati i vescovi e
baroni del regno, fece solennemente riconoscere per re, e coronar
_Lodovico_ suo figliuolo.

L'atto di questa elezione e coronazione si legge stampato nel corpo dei
concilii[1565], e si dice fatta quella raunanza e funzione anno
_Incarnationis dominicae DCCCXC, Indictione VII_, cioè o nel fine del
presente, o nel principio del corrente anno. Si vede che il buon _papa
Stefano_ con sue lettere aveva esortato tutti i vescovi di quel regno a
costituire re Lodovico, _nipote_ per via della madre di _Lodovico II_
imperadore, al quale, come protestano que' prelati e baroni
_praestantissimus Carolus_ (il Grosso) _Imperator jam regiam concesserat
dignitatem_ (nell'anno 887), _et Arnulfus, qui successo ejus extitit,
per suum scriptum, perque suos sagacissimos legatos, Reoculfum_ (oppure
_Theodolfum_) _videlicet episcopum, et Bertaldum fomitem, fautor regni,
auctorque in omnibus esse comprobatur_. Degne son di annotazione tutte
queste notizie, per intendere come i re della Germania acquistassero e
mantenessero dipoi la loro superiorità nel regno arelatense, e per
conoscere questo _Lodovico_ re per tempo, di cui la storia d'Italia avrà
da parlare non poco, andando innanzi. Cosa operassero in quest'anno in
Italia i due emuli re _Berengario_ e _Guido_, difficilmente si può
ricavar dalla storia assai digiuna in questi tempi delle cose nostre, e
specialmente difettosa per la cronologia. Abbiamo presso l'Ughelli[1566]
un diploma del re Guido, dato _VII kalendas junii, anno dominicae
Incarnationis DCCCXC, Indictione VIII, anno domno Widone rege in Italia
regnante primo. Actum in taurinensi comitatu_. Cosimo della Rena[1567]
scrive che nell'originale di questo documento da lui veduto si legge
_Indictione VII_, e che, ciò non ostante, torna esso nell'anno 890: cosa
ch'io non so intendere. Quando veramente appartenga all'anno stesso 890,
si vede che Guido metteva il principio del suo regno nell'889, e non già
nell'888, come pare che risulti da un altro, da me citato di sopra. Ora
in questo diploma dice il re Guido: _Quia Adalbertus dilectus nepos
noster et marchius, deprecatus est celsitudinem nostram, ut Zenovio
sanctae ecclesiae fesulanae episcopo_, ec. Certo è che qui si parla di
_Adalberto II_ marchese e duca della Toscana. Noi già vedemmo suo padre
_Adalberto I_ marito di _Rotilde_, sorella di Lamberto duca di Spoleti
in un documento dell'anno 884. Convien credere che quando fu dato il
diploma suddetto dal re Guido, fosse già mancato di vita esso _Adalberto
I_, con succedergli nella Marca e nel ducato della Toscana _Adalberto
II_, di cui parla qui il re Guido. E con ciò si conferma che lo stesso
re _Guido_ fu fratello di _Lamberto_ e di _Rotilde_, e figliuolo d'un
altro _Guido_. Trovo io il re _Berengario_ in Verona nel dì 20 d'ottobre
dell'anno presente, ciò apparendo da un suo diploma originale da me
veduto nell'archivio del capitolo de' canonici di Reggio[1568]. Esso fu
dato _decima tertia kalendas novembris anno Incarnationis Domini DCCC et
XC, anno vero regni domni Berengarii gloriosissimi regis III, Indictione
IX_. Mancò di vita in quest'anno _Aione principe_ di Benevento, se
vogliam credere ai conti di Lupo protospata[1569]; e lasciò per suo
successore _Orso_ suo figliuolo, e non già suo fratello, ma di età non
per anche atta al governo.

NOTE:

[1563] Hermann. Contractus, in Chron.

[1564] Annales Fuldenses Freherii.

[1565] Labbe, Concil., tom. 9.

[1566] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Episcop. Faesulan.

[1567] Rena, Serie de' duchi della Toscana, p. 122.

[1568] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.

[1569] Lupus Protospata, in Chron. apud Peregr.



    Anno di CRISTO DCCCXCI. Indizione IX.

    FORMOSO papa 1.
    GUIDO imperadore 1.
    BERENGARIO re d'Italia 4.


Quale stretta corrispondenza passasse fra papa _Stefano_ e _Guido_ re
d'Italia, l'abbiam già veduto di sopra. Seppe ben profittar Guido di
questo favorevol vento; e però nulla paventando dalla parte di
Berengario, scemato troppo di forze, s'inviò a Roma, e da esso papa
impetrò d'essere creato e incoronato imperador de' Romani nell'anno
presente, e non già nel seguente, come immaginò il cardinal
Baronio[1570] con altri. Il preciso giorno della sua coronazione, già
dottamente avvertito dal Sigonio[1571], fu il dì 21 di febbraio, ciò
costando da un suo diploma da lui veduto, e poi pubblicato
dall'Ughelli[1572], e da un altro da me[1573] dato alla luce, in cui
Guido conferma ad _Ageltruda_ imperadrice sua moglie, sorella del
suddetto _Ajone_ principe di Benevento, e per conseguente figliuola del
fu parimente principe _Adelgiso_, tutti i beni a lei appartenenti o per
eredità o per donazione sua. Fu dato questo diploma _kalendas martii,
Indictione VIII, anno Incarnationis Domini DCCCXCI, regnante domno
Widone in Italia anno regni ejus III, imperii illius die prima. Actum
Roma_. Abbiamo anche pubblicata dal Campi[1574] una bolla del medesimo
_papa Stefano_ con cui sono confermati a _Bernardo vescovo_ di Piacenza
tutti i suoi privilegii e diritti. Fu essa scritta _per manum Anastasii
regionarii et scriniarii sanctae romanae Ecclesiae in mense februarii,
Indictione nona. Data IV kalendas martias per manum Zachariae primicerii
sanctae sedis apostolicae, imperante domno piissimo Augusto Wido a Deo
coronato, magno, pacifico imperatore anno primo, et post consulatum ejus
anno primo, Indictione nona_, cioè nell'anno presente, e nel dì 26 di
febbraio. Altre pruove ci sono che in quest'anno e mese ci fan conoscere
indubitata la coronazione imperiale di Guido. Veggasi ancora uno
strumento pisano, da me riferito altrove[1575]. Nella bolla di piombo
pendente dai suoi diplomi, da me veduta, si mira nell'una parte il suo
busto col capo coronato e con lo scudo, e all'intorno WIDO IMPERATOR
AVG.; e nell'altra RENOVATIO REGNI FRANC.: dal che era ben lontano
questo imperadore, neppur signore di tutta l'Italia. Se gli andavano
bene gli affari, fors'egli avea la mira di far delle conquiste anche in
Francia, siccome apparisce dalle lettere di _Folco arcivescovo_ di
Rems[1576]. E correa voce in Francia che questo prelato, benchè si
mostrasse tutto favorevole a Carlo il Semplice, pure tenesse segreta
corrispondenza con esso Guido imperadore per tirarlo in Francia. Ma dopo
questa funzione pochi mesi sopravvisse il buon papa _Stefano V_, certo
essendo che egli passò nell'anno presente ad una vita migliore. Era in
questi tempi sconcertata di molto la buona armonia del clero e popolo
romano per le due potenti fazioni che vi predominavano, cominciate negli
anni addietro. Abbiamo da Liutprando[1577] che seguì non lieve scisma
nell'eleggere il novello papa. Concorse l'una parte del clero e popolo
nella persona di _Sergio_ diacono della Chiesa romana; ma allorchè egli
saliva all'altare per essere consecrato, la contraria parte prevalendo,
violentemente lo scacciò, e fece consecrar _Formoso vescovo_ di Porto,
da loro eletto e stimato assai _pro vera religione, divinarumque
Scripturarum et doctrinarum scientia_. Ma s'inganna Liutprando. Questa
elezione e caduta di Sergio accadde solamente nell'anno 898, siccome
vedremo. Liutprando prende non pochi altri abbagli negli avvenimenti di
questi tempi, perchè non succeduti ai suoi giorni. Ora noi troviam qui
divisi i giudizii dei posteri. Il cardinal Baronio[1578] è tutto per
_Formoso_, esaltando le sue molte virtù, e credendolo indebitamente già
scomunicato da papa _Giovanni VIII_. Il padre Mabillone[1579] ed altri
nol sanno credere esente da colpa, perchè adducono i motivi di quella
scomunica, che non erano noti ai tempi del cardinal Baronio. Certamente
pare che non mancasse l'ambizione di gustar in Formoso gli ornamenti
della religione e della sacra letteratura, commendata in lui da
Liutprando e da altri. Nè lasciò il partito contrario di fargli guerra,
finchè egli visse, e peggio dopo la sua morte, siccome vedremo. Il suo
avversario Sergio, non credendosi sicuro in Roma, si rifugiò in Toscana
sotto l'ali di _Adalberto II duca_ e marchese di quella provincia.

In quest'anno, se vogliamo stare all'opinione dell'Eccardo e d'altri,
venne in Italia _Zventebaldo_, spedito con un esercito dal _re Arnolfo_
suo padre in aiuto del _re Berengario_, che si trovava a mal partito; e
fu assediata da essi, ma indarno, Pavia. Secondo me, appartiene un tal
fatto all'anno 893, dove ne parleremo. Pretende l'Eccardo che il
suddetto Zventebaldo abbandonasse l'assedio di quella città nel mese di
marzo del corrente anno, perchè il panegirista di Berengario[1580]
scrive che questo giovane principe chiamato da lui _Sinibaldo_ alla
maniera degl'Italiani,

    _It monitu regis patrias Sinibaldus ad oras:_
    _Tertia vix lunae se cornua luce replerant._

Non appartengono a quest'anno quei versi, siccome dirò più abbasso; e
poteva accorgersene lo stesso Eccardo al considerare che _Guido_ fu
coronato imperadore in Roma nel dì 21 febbraio del presente anno, e
trovandosi colà, non poteva essere in Pavia, che fu assediata di
febbraio; e noi sappiamo da Liutprando e dal panegirista suddetto che
Guido in persona sostenne quell'assedio, e però non può essere succeduto
nell'anno presente. Riportò bensì in quest'anno il re Arnolfo un'insigne
vittoria contra de' Normanni. Reginone scrive che _ex innumerabili
multitudine vix residuus fuit qui ad classem adversum nuncium
reportaret_. Non c'è obbligazione di credergli tutto questo gran
flagello. Per la morte di _Ajone principe_ di Benevento restò quel
principato in una somma debolezza con rimanere nelle mani di _Orso_ suo
figliuolo, inetto al governo, perchè fanciullo di soli sette anni. Di
questa svantaggiosa situazione de' Beneventani ben consapevoli i Greci,
non istettero colle mani alla cintola, bramosi ancora di far vendetta
della guerra lor fatta dal defunto Ajone[1581]. Avea poco dianzi _Leone
il Saggio imperador_ d'Oriente spedito per generale delle sue armi in
Italia _Simbaticio_, appellato da Leone Ostiense[1582] _imperialis
protospatarius, et stratigo Macedoniae, Thraciae, Cephaloniae, atque
Langobardiae_. Davano i Greci il nome di _Lombardia_ a quel tratto di
paese ch'essi possedevano in Calabria e nella Puglia, e in altri siti
del regno ora di Napoli. Ora costui mise l'assedio nel dì 13 di luglio
dell'anno presente alla città di Benevento, ben conoscendo che
l'_imperador Guido_, troppo impegnato nella Lombardia maggiore per la
guerra tuttavia durante contra di Berengario, non avrebbe mosso un dito
per disturbar quell'impresa. Fecero una lunga e vigorosa resistenza i
Beneventani; ma in fine, perchè non aveano forze da poter fare sloggiare
i Greci, nè altronde speravano aiuto, lusingati ancora dalle promesse di
un soave trattamento, che Simbaticio andava loro con segrete ambasciate
facendo penetrare: capitolarono la resa della città, dove pacificamente
entrarono i Greci nel dì 18 d'ottobre, divenendo padroni di tutte le
dipendenze di quel principato. In quest'anno ancora, per attestato del
Dandolo[1583], _Pietro doge_ di Venezia avendo spedito a Pavia i suoi
ambasciatori a Guido Augusto, _ab eo obtinuit privilegium in ea forma,
qua praedecessores sui imperatores ducibus Venetiarum retroactis
temporibus concesserant_. Fu rapportato dal cardinal Baronio e dal padre
Mabillone un diploma di Guido Augusto, dato in questo anno nel dì primo
o nel dì 15 di novembre in Balva, città allora del ducato di Spoleti,
dove era egli capitato, _e Benevento redeuntes nostra cum conjuge_, la
quale gli partorì _Lamberto_ suo figliuolo, che vedremo imperadore
nell'anno seguente: per la qual grazia a lui conceduta da Dio egli dona
al monistero volturnense una chiesa, e tanto oro quanto pesa il real
fanciullo[1584]. Ho io prodotto alcune difficoltà intorno a questo
documento, il quale, quando mai si supponesse nato _Lamberto_ in
quest'anno, vien certamente da me creduto aprocrifo, perchè molto prima
era venuto alla luce questo principe; oltre di che, non potè Guido
tornare in tempi tali da Benevento che era in mano de' Greci.

NOTE:

[1570] Baron., Annales. Eccl., ad ann. 892.

[1571] Sigonius, de Regno Ital., lib. 5.

[1572] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Episcop. Parmens.

[1573] Antiquit. Italic., Dissert. III et XXX.

[1574] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1, Append.

[1575] Antiq. Ital., tom. 3, pag. 1039.

[1576] Frodoardus, Hist., lib. 4, cap. 5.

[1577] Liutprandus, Hist. lib. 1, cap. 9.

[1578] Baron., Annal. Eccl.

[1579] Mabill., Saecul. V Benedict.

[1580] Anonym., Paneg. Bereng. P. I, tom. 2 Rer. Italic.

[1581] Anonymus Salernitan., apud Peregrin. P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[1582] Leo Ostiensis, Chronic., lib. 1, cap. 49.

[1583] Dandul., in Chronic., tom. 12, Rer. Ital.

[1584] Chron. Volturnens., P. II, tom. 1, Rer. Ital. pag. 430.



    Anno di CRISTO DCCCXCII. Indizione X.

    FORMOSO papa 2.
    GUIDO imperadore 2.
    LAMBERTO imperadore 1.
    BERENGARIO re d'Italia 5.


Non sembra già che _Formoso papa_ fosse molto portato in favore di
_Guido imperatore_; anzi, se dobbiamo credere al continuator degli
Annali di Fulda[1585], pubblicati dal Freero, le cui parole ho citate
all'anno 890, egli non fu sì tosto papa che invitò il re Arnolfo a
calare coll'armi in Italia per liberarla dai cattivi _cristiani_, ossia
dai _tiranni_, come scrive Ermanno Contratto[1586] cioè da Guido e da
Berengario, la nimicizia e guerra de' quali si tirava dietro la
desolazion di buona parte delle contrade italiane. Ma probabilmente un
tale invito è da riferire all'anno seguente. Contuttociò dovette questo
pontefice accomodarsi alle vicende e circostanze de' tempi. Allorchè
egli salì sulla cattedra di san Pietro, trovò già creato imperador dei
Romani _Guido_, cioè chi in questi tempi esercitava giurisdizione
sovrana in Roma stessa e negli altri stati della Chiesa romana. Però non
potè negare ad esso Guido Augusto di dichiarare collega nell'imperio e
di ornare colla corona imperiale _Lamberto_, figliuolo assai giovane del
medesimo Guido. Le note cronologiche di varii diplomi dati da esso
Lamberto in compagnia del padre, oppure da lui solo, ci guidano a
conoscere che la di lui assunzione e coronazione seguì senza fallo nel
presente anno: il che parimente si vede confermato dall'autore della
Cronica casauriense[1587]. Del giorno preciso in cui gli fu conferita la
corona augustale, ho io fatta ricerca nelle Antichità italiche[1588], e
benchè non l'abbia potuto con sicurezza accertare, tuttavia da un
placito lucchese riferito dal Fiorentini[1589] si può ricavare ch'egli
prima del giorno quarto di marzo conseguisse il titolo d'imperadore. Fu
scritta quella carta _anno imperii domni Lamberti sexto, IV die mensis
martii, Indictione XV_, cioè nell'anno 897: note indicanti che prima del
dì IV di marzo dell'anno corrente, dovette essere conferito a Lamberto
in Roma il diadema imperiale. Ma avendo io quivi citato un'altra carta
prodotta dall'Ughelli[1590], e scritta in _anno quinto Lamberti
imperatoris, mense martio, per Indictione XV_, cioè nel medesimo anno
897, per accordar questo con quel documento si truova qualche
difficoltà. Vegga chi vuole la suddetta mia Dissertazione[1591] nelle
Antichità italiane. Aggiungo, vedersi un diploma[1592] di Guido Augusto
suo padre, dato in Rosselle di Toscana nel dì 15 di settembre dell'anno
presente, senza che vi si legga l'anno dell'imperio di Lamberto: il che
non ben s'accorda col suddetto supposto. All'incontro ho io prodotto un
altro diploma[1593] dell'archivio del monistero di santo Ambrosio di
Milano, scritto _kalendis mali, Indictione X, anno Domini DCCCXCII.
Imperante domno Widone imperatore, regni ejus III, imperii illius II,
anno Lantberti imperatoris I. Actum Ravenna_: dove probabilmente,
tornando da Roma, si trovarono questi due Augusti. Finalmente accennerò
all'anno 895 un privilegio d'esso Lamberto, per cui apparisce che nel
febbraio di quest'anno egli contava l'_anno primo_ del suo imperio.

Dissi già che _Odone_ conte di Parigi era stato eletto ed accettato dai
popoli della Gallia, ossia della Francia occidentale, per loro re, a
riserva dell'Aquitania che gli fu contraria. Era egli intento a ridur
colla forza anche gli Aquitani alla sua ubbidienza, quando nel dì 28 di
gennaio di quest'anno _Foco arcivescovo_ di Rems, avendo commossa a
ribellione non poca parte dei baroni franzesi, dichiarò e coronò re di
quel regno _Carlo il Semplice_, figliuolo del re _Lodovico Balbo_. Si
cominciò pertanto, non meno in quel paese, che si facesse in Italia, a
guerreggiar fra i due pretendenti, e nell'uno e nell'altro regno a
verificarsi il detto del Salvatore, che _regnum in se divisum
desolabitur_. In una delle sue lettere citata da Frodoardo[1594], scrive
il suddetto Folco arcivescovo, avere i suoi nemici sparsa voce ch'egli
avesse intavolata quella ribellione e alzato al trono il giovanetto
Carlo, per poi introdurre con tal pretesto in quel regno _Guido
imperadore_, con cui veramente era Folco anima e corpo, e strettamente
unito di parentela. Ma egli protesta che questa è un'indegna calunnia,
nè essere un par suo, siccome uomo d'onore e nobilmente nato, capace di
una cabala sì fatta. Furono poi cagione le funeste dissensioni di Guido
e Berengario in Italia che i popoli italiani cominciarono circa i tempi
presenti a fortificar le loro città e castella, poichè per la pace sì
lungamente conservata in queste contrade sotto gl'imperadori carolini, i
più viveano alla spartana. Ciò si raccoglie dall'esempio di Modena,
nella quale _Leodoino vescovo_ fece far varie fortificazioni alle porte,
e nuovi bastioni ben provveduti d'armi, non già contra i padroni, cioè
contra di Guido e di Lamberto Augusti qui allora signoreggianti, ma per
difesa de' proprii cittadini, come costa dall'iscrizione da me riferita
altrove[1595], dove son questi versi:

    HIS TVMVLVM PORTIS ET ERECTIS AGGERE VALLIS,
    FIRMAVIT, POSITIS CIRCVM LATITANTIBVS ARMIS,
    NON CONTRA DOMINOS ERECTVS CORDA SERENOS,
    SED CIVES PROPRIOS CVPIENS DEFENDERE TECTOS.

Leggasi nella Cronica del monistero di Volturno[1596] un privilegio
conceduto a _Maione abbate_ di quel sacro luogo da _Giorgio_
protospatario imperiale e stratigo (cioè general dell'armi) della
Cefalonia e Lombardia, a nome dei serenissimi imperadori, cioè di
_Leone_ ed _Alessandro_ imperadori d'Oriente. In fine si scorge che
anche egli, come era in uso di varii principi di allora, dice di aver
bollato quel decreto con _bolla di piombo, mense augusti, decima
Indictione_. Di questo Giorgio patrizio, che succedette a _Simbaticio_
conquistatore nel precedente anno di Benevento, fa menzione, oltre
all'Anonimo salernitano, una Cronichetta[1597] data alla luce da Camillo
Pellegrino, con aggiugnere ch'egli o nel presente o nel susseguente anno
andò a mettere l'assedio a Capoa; ma questa si dovette bravamente
difendere, nè si sa ch'egli se ne impossessasse. Riferisce il padre
Pagi[1598] a quest'anno le due sanguinose battaglie succedute fra i re
_Berengario_ e _Guido_, di sopra da noi vedute all'anno 888 ed 889. Non
si può mai credere che Guido, da noi veduto negli anni addietro
signoreggiante in Pavia e nella maggior parte della Lombardia, se ne
fosse impadronito senza colpo di spada, e che si fosse differito fino a
questi dì il provar le loro forze in qualche campale giornata. Oltre di
che, Erchemperto ed altri storici si truovano contrarii ad una tale
opinione. Vero è aver papa Formoso, per relazione di Frodoardo[1599],
significato a Folco arcivescovo di Rems, che era per tenere un concilio
generale in Roma _die kalendarum martiarum Indictionis decimae_, cioè
nell'anno presente, se pure non fu nel seguente, perchè si legge
_Indictionis undecimae_ nel testo pubblicato nella biblioteca de'
Padri[1600]. _In quibus literis fatetur, Italiam tunc semel et secundo
horrida bella perpessam, et paene consumtam_: le quali parole cita il
padre Pagi in confermazione della sua credenza. Ma da queste nulla si
può conchiudere, perchè nei correnti tempi ancora continuò più che mai
un'arrabbiata guerra fra questi due competitori. E noi vedremo all'anno
seguente ridotto a sì mal termine Berengario, che fu costretto a cercar
soccorso da Arnolfo re di Germania. Fra le leggi longobardiche[1601] se
ne leggono alcune di _Guido_ imperadore. Probabilmente furono fatte e
pubblicate in quest'anno nella dieta generale degli Stati.

NOTE:

[1585] Annales Fuldenses Freheri.

[1586] Hermannus Contract., in Chron.

[1587] Chron. Casaurienses, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1588] Antiquit. Ital., Dissert. V et XXXIV.

[1589] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.

[1590] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5, in Append. ad Episcop. Aprut.

[1591] Antiquit. Ital., Dissertat. VIII.

[1592] Ibidem, Dissert. XXIX.

[1593] Ibidem, Dissert. VI.

[1594] Frodoardus, Hist. Remens., lib. 4, cap. 5.

[1595] Antiquit. Italic., Dissert. I.

[1596] Chron. Volturnens., P. II, tom. I, Rer. Ital.

[1597] Rer. Ital., P. I, tom. 2, pag. 279 et 291.

[1598] Pagius, ad Annales Baron.

[1599] Frodoardus, Hist. Remens., lib. 4, cap. 2.

[1600] Bibliotheca Patr., tom. 17.

[1601] Rer. Ital., P. II., tom. 1.



    Anno di CRISTO DCCCXCIII. Indizione XI.

    FORMOSO papa 3.
    GUIDO imperadore 3.
    LAMBERTO imperadore 2.
    BERENGARIO re d'Italia 6.


Uomo inquieto e maligno era in questi tempi _Zventebaldo duca_ della
Moravia, chiamato anche re da talun degli storici. Di più benefizii
l'avea colmato _Arnolfo re_ della Germania, massimamente con dargli in
feudo la Boemia. Scoprì costui nell'anno presente il suo mal talento
contra dello stesso suo benefattore, laonde fu obbligato Arnolfo ad
impugnar la spada per mettere in dovere l'ingrato. Ma non parendo a lui
d'aver forze sufficienti per tale scabrosa impresa, chiamò in rinforzo
suo i nuovi abitatori della Pannonia, cioè gli Ungheri, iniquissima e
crudelissima gente, coi quali abbassò Zventebaldo, che fu costretto a
rendersi tributario di Arnolfo, e a dargli per ostaggio un suo
figliuolo, come s'ha da Reginone[1602]. Di questa risoluzione riportò
egli gran biasimo fra i Cristiani, perchè quella barbara schiatta imparò
le vie di nuocere alle circonvicine contrade, ma specialmente portò
dipoi la desolazione alla misera Italia. Prorompe qui in una
escandescenza Liutprando storico[1603] contra di Arnolfo, con dire fra
le altre cose: _Hungarorum cupidam, audacem, omnipotentis Dei ignaram,
scelerum omnium non insciam, caedis et omnium rapinarum solummodo avidam
in auxilium convocat: si tamen auxilium dici potest, quod paullo post,
eo moriente, tum genti suae, tum ceteris in Meridie Occasuque degentibus
nationibus grave periculum, immo excidium fuit. Quid igitur?
Zventebaldus vincitur, subjugatur, fit tributarius: sed Domino solus. O
caecam Arnulfi regis regnandi cupiditatem! O infelicem amarumque diem!
Unius homuncionis dejectio fit totius Europae contritio. Quid mulieribus
viduitates, patribusque orbitates, virginibus corruptiones,
sacerdotibus, populisque Dei captivitates, ecclesiis desolationes,
terris inhabitatis solitudines, caeca ambitio paras?_ Lascio il resto di
quelle giuste doglianze. Intanto andavano in Italia di male in peggio
gli affari del _re Berengario_, troppo soperchiato dalle maggiori forze
di _Guido imperadore_[1604]. Altro ripiego non avendo, si rivolse egli
al potentissimo e vittorioso re Arnolfo, con implorare il suo aiuto, e
suggettarsi in tutto, se gli dava assistenza per atterrar l'avversario,
e per fargli acquistar tutto il regno d'Italia. Pertanto spedì Arnolfo
in Italia _Zventebolco_, ossia _Zventebaldo_ o _Zuenteboldo_, suo
figliuolo bastardo, con un poderoso esercito, che unito con quel poco
che restava a Berengario, a dirittura s'inviò alla volta di Pavia per
farne l'assedio. V'era dentro l'imperador Guido, uomo di accortezza
militare e di non minor vigilanza provveduto. Avea egli barricato con
buone palizzate le rive di un fiumicello che bagna quella città, e quivi
disposto il suo accampamento in guisa tale, che l'esercito nimico non
potea nuocere al suo. Più giorni passarono senza che seguisse un menomo
badalucco. Vi fu un Bavarese che ogni dì caricava di villanie gli
Italiani, chiamandoli gente vile, che non osava di combattere, che non
sapea stare a cavallo; e per maggior loro vergogna un dì gli venne fatto
di levar di mano la lancia ad un Italiano, e di tornarsene con essa
tutto fastoso al suo campo. Adocchiò la boria di costui _Ubaldo_, padre
di quel _Bonifazio_, il quale poscia a' tempi di Liutprando storico fu
marchese di Camerino e di Spoleti; nè potendo digerir l'affronto fatto
da costui all'armata italiana, gli stette alla posta nel dì seguente, e
imbracciato lo scudo, andò ad incontrarlo, e lasciatolo ben caracollare,
all'improvviso se gli avventò dietro, e venuto seco a duello, gli passò
colla lancia il cuore. Da questo fatto presero ardire gl'Italiani,
terrore i Bavaresi. O sia che Guido in tale occasione si valesse della
possente interposizione della regina pecunia, come vuole Liutprando;
ovvero che il re Arnolfo richiamasse il figliuolo in Baviera, come
scrive il panegirista di Berengario[1605]: certo è che Zventebaldo se ne
tornò colle truppe in Germania, senz'altro avere operato in profitto di
Berengario che di raffrenare alquanto i progressi di Guido Augusto. Ma
questi appena mirò allontanato dall'Italia quel temporale, che più che
mai tornò ad incalzare l'emulo Berengario. Allora fu che Berengario
personalmente passò in Baviera per rappresentare con più efficacia la
prepotenza di chi era avversario non men suo che del re Arnolfo; e
supplicò di calar egli stesso in Italia, per prendere possesso di questo
regno, ch'egli poi riconoscerebbe come vassallo dalla di lui potente
mano. Abbiamo inoltre dal continuator degli Annali di Fulda[1606] che
anche _papa Formoso_ con sue lettere, e colla spedizione di molti baroni
d'Italia, sollecitò il re Arnolfo a questa spedizione, lamentandosi
ancora delle oppressioni fatte da Guido alla Chiesa romana. _Missi
autem_ (scrive quell'autore) _Formosi apostolici cum epistolis et
primoribus italici regni ad regem in Bajoaria advenerunt, enixe
deprecantes, ut italicum regnum, et res sancti Petri ad suas manus a
malis Christianis eruendum adventaret: quod tunc maxime a Widone tyranno
affectatum est_. Truovavasi allora il re Arnolfo in Ratisbona, e con
tutta onorevolezza accolti que' baroni e regalati, li rispedì in Italia,
promettendo di calarvi in breve anch'esso. Noi qui il vedremo frappoco,
conducendo seco una formidabile armata. Il panegirista di Berengario,
dopo avere raccontato che

    _In monitu regis patrias Sinbaldus ad oras,_

seguita a dire:

    _Tertia vix lunae se cornua luce replerunt,_
    _Hic laetus patriam postquam concessit ad aulam;_
    _En Wido agmen agens iterum renovare furores_
    _Accelerat. Contra ductor[1607] depellere pestem._
    _Instruit arma pius, tantosque recidere fastus._
    _Nec latet Arnulfum, rursus succrescere bellum_
    _Hesperia. Widonem etiamnum milite fretum_
    _Affore, cervicesque procaci attollere fastu_
    _Audiit,_ ec.

Perciò prese Arnolfo la risoluzion di venir egli stesso in Italia. Non
vuol dunque dire _tertia lunae cornua_ che nel mese di marzo dell'anno
891 Zventebaldo, chiamato Sinibaldo dal poeta, si ritirasse dall'assedio
di Pavia, come ha creduto taluno; ma bensì che erano appena passati tre
mesi dacchè esso Zventebaldo avea ricondotto dall'Italia in Baviera
l'esercito paterno, quando l'imperador Guido più ferocemente che prima
assalì il piccolo regno rimasto a Berengario, e che il re Arnolfo
determinò di venirne a far la vendetta in persona. Attesta il
Sigonio[1608] d'aver veduto dei diplomi dati da esso Arnolfo _anno
DCCCXCIII, V idus novembris Veronae_; e per conseguente, secondo lui,
sul principio di novembre dell'anno presente. Non ne ho io mai veduto
alcuno. So bensì che in esso giorno _V idus novembris_, dell'anno
presente Berengario si trovava in Verona, dove fece un dono all'insigne
monistero di San Zenone[1609]. Reginone[1610] poi pretende che Arnolfo
solamente nell'anno seguente si movesse verso l'Italia; e il
continuatore degli Annali di Fulda[1611] più precisamente scrive che
questo re celebrò il Natale di quest'anno (da cui i Tedeschi
cominciavano a contar l'anno nuovo) _in curte regia Weibilinga_, cioè
fra Maneim ed Eidelberga; e che dipoi intraprese il viaggio verso
l'Italia. Abbiamo anche da Frodoardo[1612], avere _Folco arcivescovo_ di
Rems dato avviso in quest'anno allo imperador _Guido_, che il suddetto
_re Arnolfo_ non volea pace con esso Guido. Verisimilmente accadde in
quest'anno ciò che viene scritto dall'Anonimo salernitano[1613]. Dacchè
i Greci s'erano impadroniti di Benevento e del suo principato, andavano
spiando le maniere di sottomettere al lor dominio quello ancora di
Salerno. Accadde che alcuni nobili salernitani banditi dalla lor patria
vennero a fissar l'abitazione in Benevento. Segretamente costoro
intavolarono un trattato con _Giorgio patrizio_, governatore di quella
città, promettendo di farlo entrare a man salva in Salerno. Vi accudì il
greco ministro, e fatta una massa di quanta gente potè dalla Calabria e
dalla Puglia, sotto colore di voler portare le armi contra de' Saraceni
abitanti al Garigliano, una notte s'istradò coll'esercito alla volta di
Salerno, le cui porte gli furono spalancate da chi dentro tenea mano coi
suddetti banditi. Era spedita per quella città; ma _Pietro arcivescovo_
di Benevento ed altri nobili beneventani, o perchè loro non piacesse il
maggiore ingrandimento de' Greci da loro malveduti, o perchè veramente
temessero di qualche trattato doppio, mostrarono renitenza ad entrare in
quella città, e intimidirono talmente il generale de' Greci, che tutti
frettolosamente se ne tornarono a Benevento, e in questa maniera restò
salvo Salerno. Scoprì poi _Guaimario I principe_ di quella città, i
traditori, e contuttociò loro perdonò. In questi tempi _Atenolfo conte_
e principe di Capoa teneva ora con _Atanasio II vescovo_ di Napoli, ora
con Guaimario, ed ora coi Greci, voltando vela a seconda dei venti. Di
esso Guaimario ho io riferito[1614] un diploma scritto all'anno 889, in
cui fa alcuni doni ad una chiesa fondata da _Guaiferio_ principe suo
padre. S'intitola Guaimario _imperialis patricius_ e dice d'essergli
stato conceduto dagl'imperadori _Leone_ ed _Alessandro_ di poter fare e
disfare, allegando _firmissimum praeceptum bulla aurea sigillatum_ de'
medesimi Augusti: il che fa intendere che in questi tempi il principato
di Salerno era dipendente dai greci imperadori. Ma dappoichè gl'ingordi
Greci tentarono d'impadronirsi di quella città, si può ben credere che
Guaimario prendesse delle altre misure.

NOTE:

[1602] Rhegino, in Chronico.

[1603] Liutprandus, Hist., lib. 1, cap. 5.

[1604] Idem, ibid., cap. 7.

[1605] Anonymus, Panegir. Berengarii, lib. 2.

[1606] Annales Fuldenses Freheri.

[1607] _Cioè Berengario._

[1608] Sigonius, de Regno Ital., lib. 6.

[1609] Antiquit. Ital., Dissert. XXI, p. 217.

[1610] Rhegino, in Chronico.

[1611] Annales Fuldenses Freheri.

[1612] Frodoardus, Hist., lib. 4, cap. 8.

[1613] Anonymus Salernitanus apud Peregrin., P. I, tom. 2, Rer. Italic.

[1614] Antiquit. Ital., Dissert. XIV, pag. 755.



    Anno di CRISTO DCCCXCIV. Indizione XII.

    FORMOSO papa 4.
    LAMBERTO imperadore 5 e 1.
    BERENGARIO re d'Italia 7.


Se non era calato verso il fine del precedente anno in Italia il _re
Arnolfo_ con poderose schiere d'armati, certamente ci comparve sul
principio di questo. Da Verona marciò alla volta di Brescia, che si
dovette rendere; e proseguì il viaggio, accompagnato sempre dal re
_Berengario_, verso la città di Bergamo[1615]. Era quivi conte, cioè
governatore per l'Augusto Guido, _Ambrosio_, che non volendo mancare
alla fedeltà dovuta al suo principe, e confidato nella forte situazione
di quella città posta sul monte, e ben provveduta d'armi e di forti mura
e di una buona palizzata, si accinse alla difesa. Animati i Tedeschi
dalla presenza e dalla voce dei due re, fecero delle maraviglie[1616].
Quantunque i cittadini soddisfacessero a tutte le leggi del valore, anzi
combattessero da disperati, pure si spinsero i nemici sotto le mura, e
con gli arieti talmente le flagellarono, che si aprì una larga breccia,
per cui entrò l'infuriata milizia, con dare il sacco a lei promesso
all'infelice città nel dì 2 di febbraio della Purificazion della
Vergine. Non si perdonò neppure ai sacri luoghi, neppure alle vergini
consecrate a Dio, ed erano condotti i ministri del tempio quai bestie
legati da chi non si ricordava d'essere cristiano. Tralascio l'altre
iniquità accennate da Liutprando. Si rifugiò il conte Ambrosio in una
torre. Pure fu preso e condotto davanti al re Arnolfo, che caldo per ira
diede immediatamente l'ordine barbarico che fosse impiccato per la gola
ad un albero; e questo fu puntualmente eseguito. Restò preso anche il
vescovo _Adalberto_, e dato in custodia al vescovo _Addone_. La crudeltà
usata in questa città sparse tal terrore fra l'altre di Lombardia e
della Toscana, che niuno aspettò l'arrivo dell'esercito tedesco per
rendersi ad Arnolfo. Così fecero Milano e Pavia, nella prima delle quali
città, secondo la testimonianza di Liutprando[1617], egli lasciò per
governatore _Ottone duca_ di Sassonia, avolo di Ottone, poscia primo fra
gl'imperadori di questo nome. Vennero i marchesi d'Italia in persona a
sottomettersi al vittorioso re, fra' quali specialmente, per attestato
degli Annali lambeciani, si contarono _Adalberto II_ marchese e duca di
Toscana, e _Bonifazio_ suo fratello, e _Ildebrando_ e _Gerardo_,
marchesi di non so qual contrada. _Sed praesumptuose se inbeneficiari
ultra modum jactantes, omnes capti sunt, et in manu principis dimissi ad
custodiendum_: cioè pretesero di essere investiti di varii o governi o
feudi; e perchè non piacque ad Arnolfo la lor pretensione, li fece
mettere in arresto, con accordar loro non molto dappoi la libertà, ma
con esigere da essi il giuramento di fedeltà. Se ne fuggirono di poi
Adalberto e Bonifazio, senza più far caso della promessa fede. Arrivò
Arnolfo a Piacenza coll'esercito suo malconcio per la stanchezza e per
le malattie; e di là passò circa la Pasqua al castello d'Ivrea verso
d'Alpi, tenuto da _Ansgero conte_ a nome dell'Augusto Guido, entro il
quale stava un buon presidio, inviatovi da _Rodolfo re_ della Borgogna
superiore. Gran voglia nudriva Arnolfo di far del male a questo Ridolfo,
e però con immense fatiche valicò le Alpi; ma senza profitto alcuno,
perchè Ridolfo si ritirò fra le montagne degli Svizzeri, ridendosi delle
forze dei Tedeschi. Che Arnolfo s'impadronisse d'Ivrea, tuttochè gli
Annali non ne facciano menzione, lo raccolgo io da un suo diploma, da me
pubblicato[1618], e dato _XV kalendas maii, anno Incarnationis Domini
DCCCXCIIII, Indictione XII, anno regni Arnulfi regis in Francia VII.
Actum Yporegiae_. Se ne tornò Arnolfo per quella via in Germania, e
spedì il figliuolo Zventebaldo ai danni di Rodolfo re, che lasciando
devastare il paese piano, si ricoverò, come dissi, nei siti forti delle
montagne. Strana cosa è che tanto il poeta panegirista[1619] di
Berengario, benchè autore sì riguardevole, quanto Liutprando scrittore
del seguente secolo mostrino di aver creduto che in quest'anno Arnolfo
passasse anche a Roma, perseguitando l'imperador Guido, che s'era
salvato in quelle parti. Ma si sono ingannati questi scrittori, e
probabilmente il primo indusse in errore il secondo. Siccome vedremo,
più tardi succedette quest'altro viaggio d'Arnolfo. L'Anonimo
salernitano[1620] attribuisce il ritorno d'Arnolfo in Germania alle
malattie del suo esercito. _Sed idem fame et intemperie aeris compulsus
reversus est ad propria_. Che poi Arnolfo facesse nel presente anno le
conquiste suddette per sè, e non già per Berengario, e che giugnesse a
farsi eleggere _re d'Italia_, fu avvertito dall'Eccardo[1621], mercè di
un suo diploma riferito dall'Ughelli ne' vescovi di Chiusi, e dato in
Roma _IV kalendas martii die, anno Incarnationis Domini DCCCXCVI,
Indictione XIV, Anno regni Arnulfi regis in Francia nono, in Italia
tertio_. Un altro diploma di lui (il che fu parimente osservato dal
signor Sassi[1622]) presso il Puricelli[1623], fu dato _V iduum martii
die, anno domini DCCCXCIV, Indictione XII, anno VII regni domni Arnulfi
serenissimi regis in Francia et in Italia primo. Actum Placentiae_.

Vedemmo anche di sopra che i marchesi di Toscana e d'altre parti vennero
a trovare Arnolfo per riconoscere da lui i loro governi e feudi, e che a
lui, e non a Berengario, giurarono fedeltà. Ma non lascia d'essere
strano il vedere chiamato in Italia Arnolfo da Berengario in aiuto suo,
e Berengario al pari di Guido Augusto depresso da questo re. Potrebbesi
qui sospettare che non fosse una vana diceria quanto lasciò scritto il
Dandolo[1624] con dire: _Arnulfus intravit Italiam, Berengarium regem
cepit, Ambrosium comitem in furca suspendit, et Italia se sibi subdidit,
et per montem Jovis in Galliam rediit_. Non pare improbabile che questo
ambizioso e feroce principe, allorchè vide la fortuna sì favorevole
all'armi sue in Italia, si beffasse del re Berengario, e gli mettesse
anche le mani addosso per assicurarsene: il che fatto, forzasse i
principi in Pavia a consentir nella sua elezione in re d'Italia.
Tuttavia a me non si può persuadere questo titolo di re d'Italia,
assunto da Arnolfo, dacchè, per quanto abbiam veduto di sopra, nel
diploma dato in Ivrea _XV kalendas maii_ dell'anno presente egli non
nomina gli anni del regno d'Italia. Neppur fa menzione in un altro
riferito dal padre Pez[1625] e, dato _II idus maii anno Domini DCCCXCV,
Indictione XIII, anno vero VII (oppure VIII) regni Arnolfi piissimi
regis. Actum Dripura_. Similmente un altro da me prodotto altrove[1626]
ha queste note: _Data kalendarum decembrium die, anno Incarnationis
Domini DCCCXCV, Indictione XIII, anno regni Arnolfi regis VIII. Actum
Papiae_. Resta perciò da cercare perchè in quei diplomi, e non in
questi, si veggano annoverati gli anni del regno d'Italia. E tanto più
parrà difficile a credersi questo fatto d'Arnolfo, perchè troviam
Berengario che nel dicembre dello stesso presente anno è padrone di
Milano, e quivi esercita l'autorità regale, siccome costa da un
privilegio suo pel monistero ambrosiano, riferito dal Puricelli con
queste note: _Data IV nonas decembris anno Incarnationis Domini
DCCCXCIV, anno vero regni domni Berengarii gloriosissimi regis septimo,
Indictione XIII. Actum Mediolani_. Pareva non men di questo punto di
storia imbrogliato l'altro della morte di _Guido imperadore_. Ma è già
deciso essersi ingannato il cardinal Baronio nel differirla sino
all'anno 899. Il Sigonio, il padre Pagi, l'Eccardo ed altri tengono per
indubitato ch'egli per isputo di sangue terminasse i suoi giorni in
quest'anno, arrivato ch'egli fu al fiume Taro fra Parma e Piacenza.
Reginone[1627] e l'Annalista di Metz[1628] (l'uno d'essi ha copiato
l'altro), Ermanno Contratto[1629] ed altri rapportano a quest'anno il
fine d'esso Guido. Così fa anche l'Anonimo salernitano[1630]. Quel che è
più, nel frammento del Continuatore freeriano[1631], che fu dato alla
luce dal Lambecio, chiaramente si legge sotto il presente anno: _Wido
italici regni tyrannus, morbo correptus obiit. Cujus filius Lantbertus
eodem modo regnum invadendo affectatus est_. Finalmente il
Fiorentini[1632] accenna uno strumento scritto _anno ab Incarnationis
ejus octingentesimo nonagesimo quarto post ovilo domni nostri Widoni
imperatoris anno primo, tertio kalendas januarii, Indictione
decimatertia_, cioè nel dì 30 di dicembre dell'anno presente; il che
mette in chiaro non doversi rimovere dall'anno presente la di lui morte,
contuttochè il panegirista di Berengario, Liutprando ed altri antichi
scrittori la rapportino più tardi. E si osservi, come in Toscana non si
contano in questi tempi gli anni di _Lamberto_ imperadore, per non
dispiacere, credo io, al re Arnolfo, a cui Adalberto II duca e marchese
di quella provincia avea giurata fedeltà. L'Ughelli[1633] rapporta un
diploma d'esso _Guido_ Augusto, conceduto ad Agilolfo abbate di Bobbio,
colle note seguenti: _Dat. idus aprilis anno ab Incarnatione Domini
DCCCXCV, Indictione XIII, anno vero regni ejus V. Actum Papiae_. Crede
l'Eccardo[1634] che qui sia stato adoperato l'anno pisano, cominciante
nel dì 25 di marzo l'anno nuovo, con precedere circa nove mesi l'anno
nostro volgare; e per conseguente che questo privilegio sia dato
nell'anno presente 894. Ma non avvertì egli che nel dì 13 d'aprile di
questo anno _Arnolfo_, oppur _Berengario_, e non _Guido_, dominava in
Pavia. Oltre di che, l'_Indizione XIII_ non può convenire all'aprile
d'esso anno 894. Però quel diploma s'avrebbe da riferire all'anno 895,
come ivi è scritto. Ma se abbiam detto che già nell'anno presente 894
Guido cessò di vivere, come può dunque egli aver comandato in Pavia nel
dì 13 d'aprile dell'895? Aggiungasi che in quel diploma non si veggono
notati gli anni del suo imperio contro il costume di tali documenti.
Perciò se il lettore prenderà diffidenza di quell'atto, non gli
mancheranno ragioni. Dovette succedere la morte d'esso imperador Guido
dopo il dì 12 di dicembre dell'anno presente, perchè uno strumento di
_Domenico_ arcivescovo di Ravenna accennato da Girolamo Rossi[1635], è
scritto _anno, Deo propitio, pontificatus domni Formosi summi pontificis
et universalis papae in apostolica sacratissima beati Petri sede tertio;
imperante domno Widone a Deo coronato, anno quarto, die XII mensis
decembris, Indictione XII. Ravennae_. Si vede che in Ravenna l'Indizione
si mutava solamente al principio dell'anno. E di qui si conferma che
Guido era imperadore prima che Formoso fosse papa, e però fu egli
coronato da _Stefano V_, e non già da _Formoso_, come pensò il cardinal
Baronio.

NOTE:

[1615] Annales Fuldenses Freheri.

[1616] Annales Fuldenses Lambecii, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1617] Liutprandus, Hist., lib. 1, cap. 7.

[1618] Antiquit. Ital., Dissert. XXI.

[1619] Anonym., in Paneg. Bereng., lib. 3.

[1620] Anonymus Salernit. apud Peregrin.

[1621] Eccard., Rer. German., lib. 32.

[1622] Saxius, in Not. ad Sigon. de Regn. Ital.

[1623] Puricellius, Monument. Eccl. Ambros.

[1624] Dandul., in Chronico, tom. 12 Rer. Ital.

[1625] Pez, Thesaur. Anecdot., tom. 1, Part. III, pag. 34.

[1626] Antiquit. Ital., Dissert. XXXIV.

[1627] Rhegino, in Chron.

[1628] Annalista Metensis.

[1629] Hermannus Contractus Canis.

[1630] Anonymus Salernitanus apud Peregrin.

[1631] Annales Lambecii, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1632] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.

[1633] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Bobiens.

[1634] Eccardus, Rer. German., lib. 32.

[1635] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.



    Anno di CRISTO DCCCXCV. Indizione XIII.

    FORMOSO papa 5.
    LAMBERTO imperadore 4 e 2.
    BERENGARIO re d'Italia 8.


Dappoichè fu partito d'Italia il re _Arnolfo_, noi non possiam giugnere
a sapere se Milano, Pavia e il resto della Lombardia seguitassero almen
per qualche tempo a star sotto il governo degli uffiziali da lui
lasciati qui, o se tornassero sotto il dominio di _Lamberto_ imperadore.
Chi vuol qui prestar fede a Liutprando storico[1636], crederà tosto che
Berengario, appena intesa la morte dell'Augusto Guido, passasse a Pavia,
e s'impadronisse non men di quella che del resto del regno. Soggiugne
esso storico: _Sed quia semper Italienses geminis uti dominis volunt,
quatenus alterum alterius terrore coerceant, Widonis regis defuncti
filium, nomine Lantbertum, elegantem juvenem, adhuc ephoebum, minusque
bellicosum, regem constituunt_. Poscia aggiugne, che, non osando
Berengario di stare a fronte di Lamberto, il quale s'era incamminato con
una grossa armata verso di Pavia, si ritirò a Verona, cedendo al più
forte. Ma Liutprando ha la disgrazia d'essere stato un cattivo storico
per conto degli affari non succeduti al suo tempo. Son chiari gli
abbagli da lui presi in differir troppo la morte di Guido, in supporre
che Lamberto solamente fosse dichiarato re, dappoichè mancò di vita suo
padre, quando egli tanto prima era anche imperadore. Tralascio altri
suoi falli: motivi tutti di non riposar sulla fede di lui per conto di
questi avvenimenti, qualora non si veggano confermati da altri
scrittori. Abbiamo nondimeno assai lume da un documento, riferito dal
Campi[1637], per intendere che Lamberto potè ricuperar, se non tutto,
almen parte degli stati paterni nell'anno presente. Questo è un diploma
d'esso imperadore, _dato in Parma mense februario, Indictione XIII, anno
vero imperii domni Lamberti serenissimi caesaris et imperatoris augusti
quarto in Italia_. Niuna menzione facendosi qui di _Guido_ suo padre,
ancor questo cel dà a conoscere mancato di vita. Di qui ancora si può
raccogliere che nel mese di febbraio dell'anno 892 Lamberto numerava il
primo anno del suo imperio. E s'egli era in Parma nel mese di febbraio
dell'anno presente, segno è o che questa città si tenne forte per lui
nella calata del re Arnolfo, il quale non arrivò che a Piacenza; ovvero
ch'egli l'avea ricuperata dopo la di lui ritirata in Germania. E qui si
vuol mentovare un altro suo diploma, già pubblicato da me[1638] con
queste note: _Anno Incarnationis Domini DCCCXCV. Domni quoque Lantberti
piissimi imperatoris quincto, VIII idus decembris, Indictione XIII.
Actum Regiae civitatis_, cioè nella città di Reggio, per quanto io vo
credendo. Pare che qui sia adoperata l'era pisana, e che questo anno
_DCCCXCV_ abbia, secondo noi, da essere l'anno 894, e massimamente se
l'_indizione XIII_ vien presa dal settembre. Certamente, siccome
vedremo, non sembra verisimile che nel dicembre di quest'anno esso
Augusto Lamberto soggiornasse in Reggio di Lombardia. Quel solo che a
tal supposto si oppone, è quell'_anno V dell'imperio_, perciocchè
possiam tenere per fermo che nel dì 6 di decembre dell'anno 894 correva
solamente l'_anno IV_ del suo imperio. Forse così sarà scritto
nell'originale, il Sigonio[1639] fa menzione di questo diploma all'anno
896. Che esemplare egli abbia veduto, nol so. E ben sarebbe da
desiderare che chi prende a trattar tali materie, arrivato a questi
dubbi ed ostacoli, potesse aver sotto agli occhi gli originali stessi,
per poter giudicare se portino seco tutti i contrassegni della loro
autenticità. Per quel che riguarda il re Berengario, abbiamo presso
l'Ughelli[1640] un suo diploma, dato sul principio di maggio in
_Verona_, dove si parla del _circo_ pubblico di quella città, una cui
parte per la vecchiezza era caduta. Le note del documento son queste:
_IV nonas maii anno ab Incarnatione dominica DCCCXCV, anno vero regni
Berengarii serenissimi regis IX. Indictione XIII_.

Non cessava intanto _Folco arcivescovo_ di Rems, per attestato di
Frodoardo[1641], di impegnar _papa Formoso_ in favore di _Lamberto
imperadore_, che rimasto in età giovanile dopo la morte del padre, poco
atto al governo de' popoli, abbisognava di assistenza da tutti i lati.
Gli rispondeva il pontefice, _de ipso Lamberto, patris se curam habere,
filiique carissimi loco eum diligere, atque inviolabilem cum eo
concordiam se velle servare_. In un'altra lettera Formoso si rallegra
col suddetto arcivescovo della di lui premura per gli vantaggi di
Lamberto imperadore, _asserens, se eum ipso tantam pacis et dilectionis
habere concordiam, ut nequeant aliqua jam ab invicem pravitate sejungi_.
Ma per disgrazia gran tempo è che bene spesso la lingua degli uomini non
va d'accordo col cuore; e qui si può appunto dubitare che Formoso nella
segreteria adoperasse un linguaggio differente dai desiderii
dell'interno suo gabinetto. Ciò dico io, perchè gli Annali del
Freero[1642] ci fan sapere in quest'anno che _Arnolfo re_ di Germania fu
di bel nuovo invitato da papa Formoso a ritornare in Italia, con
promessa, per quanto si può credere, di crearlo imperadore ad esclusione
di Lamberto. _Iterum rex_ (così quello storico) _a Formoso apostolico
per epistolas et missos enixe Romam venire invitatus est._ Arnolfo, dopo
avere ascoltato il parere de' suoi vescovi, determinò questa seconda
spedizione, e nel mese di settembre mosse l'esercito alla volta
dell'Italia. Passato ch'egli ebbe il Po, divise l'armata in due corpi,
l'uno de' quali inviò per la via di Bologna verso Firenze, coll'altro
marciò egli per la via di Pontremoli fino alla città di Luni, la quale,
se non è scorretto questo testo, non dovea per anche essere stata
smantellata; e quivi solennizzò il santo Natale. Ma, siccome vedremo,
non in Luni, ma bensì in Lucca ciò dovette avvenire. Probabilmente papa
Formoso non si credeva assai sicuro, dacchè il suo emulo Sergio
ricoveratosi in Toscana, molto s'era intrinsicato con _Adalberto II_,
potentissimo duca e marchese di quella provincia, e la fazione di Sergio
era tuttavia possente in Roma. Liutprando scrive[1643] che _hoc in
tempore Formosus papa religiosissimus a Romanis vehementer
afflictabatur_. Suppone egli ciò fatto, dappoichè, siccome vedremo, il
re Arnolfo fu a Roma, colà chiamato dal papa; ma non è inverisimile che
questa persecuzione cominciasse molto prima. Se un diploma di Arnolfo,
da me accennato all'anno precedente, è legittimo, e niuna scorrezione
v'ha, questo principe nel dì primo di decembre era in Pavia. Ma qui è da
ascoltare Ermanno Contratto[1644], che così scrive di Arnolfo all'anno
presente: _Per epistolas a Formoso papa rogatus, Italiam petiit;
Berengariumque perterritum, ad deditionem venientem, regnumque pervasum
Italiae reddentem, suscepit; et Waltfredo, Maginfredoque comitibus
Italiam cis Padum distribuit, et omnia vastando, divisisque ad superum
et inferum mare copiis, transiens ipse natalem domni Lucae celebravit._
Adunque Arnolfo solennizzò il santo Natale non in Luni, ma bensì in
Lucca, dove il marchese Adalberto II dovette accoglierlo. E di qui
chiaramente apparisce che Berengario fu abbattuto da Arnolfo, il quale
affatto lo spogliò di stati, perchè diede il ducato del Friuli a
_Gualfredo_, e quello di Milano a _Maginfredo_. Finalmente è da
avvertire che nel dì 4 di maggio l'imperador Lamberto si truova in
possesso di _Pavia_, ciò apparendo da un suo diploma indubitato, da me
ivi dato alla luce[1645], in cui fa una donazione all'_imperadrice
Ageltruda_ sua madre: atto bastante a far conoscere suggetto a molti
dubbii il diploma suddetto spettante al primo dì di dicembre dell'anno
precedente, dove Arnolfo comparisce padron di Pavia.

NOTE:

[1636] Liutprandus, Hist., lib. 1, cap. 10.

[1637] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1, Append.

[1638] Antiquit. Ital., Dissert. VIII.

[1639] Sigonius, de Regno Ital., lib. 6.

[1640] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5. in Episcop. Veronens.

[1641] Frodoardus, Hist. Remens., lib. 4, cap. 3.

[1642] Annales Fuldenses Freheri.

[1643] Liutprandus, Hist., lib. 1, cap. 8.

[1644] Hermann. Contract. in Chron. edition. Canisii.

[1645] Antiquit. Itali. Dissert. XLI, pag. 739.



    Anno di CRISTO DCCCXCVI. Indiz. XIV.

    BONIFAZIO VI papa 1.
    STEFANO VI papa 1.
    LAMBERTO imperadore 5 e 3.
    ARNOLFO imperadore 1.
    BERENGARIO re d'Italia 9.


Mentre il _re Arnolfo_ col suo esercito svernava in Toscana, abbiamo
dagli Annali di Fulda presso il Freero[1646] che si sparse voce,
_Berengarium nepotem ejus_ (cioè Berengario piuttosto zio che nipote
suo) _a fidelitate sua defecisse, et in Italiam jam per hoc reversum
esse. Adalpertum videlicet marchionem Tusciae mutuis colloquiis
Berengarii, ne aliquo modo ad regis fidelitatem intenderet_. Manca qui
qualche parola: tuttavia si comprende avere Arnolfo avuto sentore _che
Adalberto II_, duca e marchese di Toscana, e il _re Berengario_
maneggiassero sott'acqua una ribellione contra di lui: il che conturbò
non poco l'esercito suo e lui. Nè era senza fondamento tal fama. Il
vedere che Arnolfo due volte era calato in Italia, non per aiutare, come
si credeva, alcuni de' principi in essa dominanti, ma per soggiogarli
tutti, non potea piacere neppure ai principi contendenti fra loro. Dalle
parole ancora suddette potrebbe nascere dubbio che l'ambizioso e barbaro
Arnolfo sotto qualche pretesto avesse confinato in Germania il re
Berengario; e ch'egli, come se la vide bella, se ne tornò in Italia, con
darsi poi a strignere lega col duca di Toscana, mal soddisfatto
anch'esso del procedere d'Arnolfo. Ma nel Bullario casinense v'ha un suo
diploma, dato _V nonas martii, anno dominicae Incarnationis DCCCXCVI,
domni vero Berengarii regis IX. Actum Veronae._ Questo ci fa vedere o
ch'egli non era partito da Verona, o v'era ritornato, ed esercitava
l'autorità regale. In questa ambiguità di pensieri prese Arnolfo la
risoluzion di passare a Roma, per prendervi la corona dell'imperio,
figurandosi che fatto questo passo, gli sarebbe più agevole il dissipar
chiunque si scoprisse contrario ai suoi voleri. Per istrade cattive, e
con gran perdita di cavalli arrivò colà. Ma in Roma ancora trovò quello
che non si aspettava. _Ageltruda_ vedova del defunto imperador Guido,
donna di viril coraggio, per sostenere i diritti dell'Augusto _Lamberto_
suo figliuolo, avea prevenuto l'arrivo di esso Arnolfo, e con un buon
nerbo di gente entrata in Roma, s'era accinta alla difesa non men di
quella gran città che della città Leonina. Parve irrisoluto Arnolfo alla
vista di questo inaspettato ostacolo; ma veggendo irritate le sue
squadre da qualche villania lor detta dai Romani che guardavano le mura,
e tutte avide di combattimento, diede l'ordine per un generale assalto.
Liutprando narra un avvenimento[1647] che ha tutta la ciera d'una
favola: cioè che scappando una lepre verso la città, accompagnata dalle
grida grandi dell'esercito d'Arnolfo, cadde il cuore per terra ai
difensori di Roma: del che accortisi i soldati di Arnolfo, diedero
l'assalto alla città Leonina, e la presero. Per questo anche i Romani
capitolarono la resa di Roma. Certo è che Roma venne per forza alle mani
d'Arnolfo, e che _papa Formoso_, perseguitato, e forse imprigionato
dalla fazione di _Sergio_, unita coll'Augusta Ageltruda, fu rimesso in
libertà. Concertata dipoi la coronazione imperiale, tutto il senato
romano colla scuola dei Greci e colle bandiere e croci andò a ricevere
Arnolfo a Ponte Molle, e fra gl'inni e cantici sacri il condusse alla
basilica vaticana, nelle cui scalinate si trovò papa Formoso, che con
amore paterno l'accolse, ed introdottolo nel sacro tempio, quivi il creò
ed unse imperadore Augusto, con porgli in capo l'imperial corona. Da lì
a pochi dì Arnolfo, dopo aver dati molti ordini pel governo della città
e per la sicurezza del pontefice, fece raunare in san Paolo il popolo
romano, e da essi ricevette il giuramento di fedeltà secondo il rito
antico. Tale fu quel giuramento: _Juro per haec omnia Dei mysteria, quod
salvo honore et lege mea, atque fidelitate domni Formosi papae, fidelis
sum et ero omnibus diebus vitae meae Arnolfo imperatori, et numquam me
ad illius infidelitatem cum aliquo homine sociabo. Et Lamperto filio
Agildrudae_ (adunque era mancato di vita Guido Augusto suo padre, nè si
trovò in questo sconvolgimento di cose, come vuole il panegirista di
Berengario e Liutprando) _et ipsi matri suae ad secularem honorem
numquam adjutorium praebebo. Et hanc civitatem Romam ipsi Lamberto et
matri ejus Agildrudae, et eorum hominibus per aliquod ingenium, aut
argumentum non tradam._ S'era Ageltruda, per attestato di
Reginone[1648], segretamente ritirata da Roma, allorchè furono per
entrarvi le milizie d'Arnolfo. Presso il Campi[1649] si veggono due
diplomi conceduti dal novello imperadore Arnolfo in favore del monistero
delle monache di san Sisto di Piacenza. È dato il primo _VII kalendas
maii, anno Incarnationis Domini DCCCXCVI, Indictione XIV, anno imperii
ejus primo. Actum Romae._ L'altro fu dato a richiesta di papa Formoso
_kalendis maii_ colle stesse note. Anche l'Ughelli[1650] riporta un
altro diploma d'Arnolfo, con cui conferma i suoi diritti al monistero di
san Salvatore di monte Amiate. Ivi son queste note: _Signum domni
Arnulphi invictissimi imperatoris Augusti. Data IV kalendas martii die,
anno Incarnationis Domini DCCCXCVI, Indictione XIV, anno regni Arnulphi
regis in Francia nono, Italia tertio. Actum Romae._ Lascerò io
considerare ai lettori, perchè questo diploma sia dato da Arnolfo, già
dichiarato imperadore, senza poi far menzione in esso dell'_anno primo_
dell'imperio; e se sia da credere ch'egli fosse dichiarato imperador de'
Romani prima del dì 27 di febbraio di quest'anno, che fu bisestile. Noi
abbiamo appreso dai suddetti due sicuri documenti del monistero
piacentino che Arnolfo era in Roma nel dì primo di maggio; e gli Annali
freeriani[1651] ci fan sapere che _ipse XV tamdem die, postquam venerat,
ab urbe digressus est_. Adunque non potè il diploma amiatino essere dato
nel febbraio. Forse invece di _martii_ si avrà da leggere _maii_. Il
padre Papebrochio e il p. Pagi, che fondarono su questo documento alcuni
loro raziocinii, certamente non posarono il piè sicuro. Dopo le funzioni
suddette, Arnolfo fece prendere Costantino e Stefano, due de' principali
baroni di Roma, come rei di lesa maestà, per avere introdotta in Roma
l'imperadrice Ageltruda, e legati seco li condusse in Baviera: _Urbem
vero ad suas manus custodiendam Faroldo cuidam vassallo concessit_.

Erasi ritirata l'imperadrice vedova _Ageltruda_ nella città di Spoleti.
Mosse a quella volta Arnolfo con pensiero di coglierla o di scacciarla
di là. Ma sopravvenutagli una grave infermità di capo (Reginone le dà il
nome di paralisia), in vece di accudire a questa impresa, ebbe da
pensare a scappar d'Italia, dove non si fidava più di fermarsi, per gli
tanti nemici ch'egli aveva, o si era fatto colle sue crudeltà e co' suoi
ambiziosi disegni. Però con isforzate marcie il più tosto che potè,
prima del fine di maggio, si ritirò dipoi per la via di Trento in
Baviera, seco conducendo la pericolosa malattia onde era stato assalito.
Secondochè lasciò scritto Liutprando[1652], fu attribuito questo suo
malore alla sagacità della suddetta Augusta Ageltruda, assediata da esso
Arnolfo nel castello di Fermo, perchè le riuscì di guadagnar coll'oro un
domestico del medesimo Arnolfo, e di fargli dare un sonnifero che gli
sconcertò la testa e la sanità in maniera, che non si riebbe mai più. Ma
questa è verisimilmente una diceria, divulgata fra il popolo che troppo
inclina a credere soprannaturali, o effetti della umana malizia, alcuni
mali, massimamente de' gran signori. Altre cose soggiugne dipoi
Liutprando, cioè che _Guido re_ (questi era imperadore e morto molto
prima) prese ad inseguire il quasi fuggitivo Arnolfo. E che esso
Arnolfo, giunto che fu a monte Bardone sul Parmigiano, determinò di
cavar gli occhi a Berengario, per tenere più sicuramente da lì innanzi
l'Italia. Ma avvertitone Berengario da un amico suo cortigiano, se ne
scappò frettolosamente a Verona: dopo di che tutti gl'Italiani
cominciarono a sprezzare Arnolfo. Parimente racconta Liutprando, che,
giunto esso Arnolfo a Pavia, e svegliatasi una sedizione del popolo, fu
fatta tanta strage della di lui gente, che n'erano piene le cloache
tutte di quella città. E perciocchè Arnolfo non potea passar per Verona,
marciò pel Piemonte ad Ivrea, città governata da _Anscario marchese_,
uomo timidissimo, che s'era dianzi ribellato. Giurò allora Arnolfo di
non partirsi prima di sotto a quella città, se non aveva nelle mani
Anscario. Ma i cittadini, fatto uscir di città Anscario, per poter
veridicamente giurare che egli era fuggito, ottennero da Arnolfo di
restare in pace. Finalmente dice Liutprando, che Arnolfo pel Mongivì e
per la Savoia passò ai proprii paesi. Tutte immaginazioni e tradizioni
false, perchè il continuatore degli Annali di Fulda, autore
contemporaneo, e però più degno di fede, attesta, siccome abbiam veduto,
che Arnolfo da Spoleti a dirittura venne a Trento, ed uscì d'Italia
prima che fosse spirato il mese di maggio. In somma la storia di questi
tempi si truova assai maltrattata dai più antichi scrittori. Falla di
molto anche la Cronica di Reginone[1653], che sotto quest'anno ci vuol
far credere accaduta la morte di _Lamberto imperadore_, e l'entrata in
Italia di _Lodovico_ figliuolo di _Bosone re_ di Provenza. Chiaramente
vedremo la falsità di tali racconti, nè è da credere che vengano da
Reginone. Le stimo io giunte, disordinatamente fatte alla di lui
Cronica, quantunque il padre Mabillone[1654] ed altri le prendessero per
buona moneta. Lasciò Arnolfo, prima di abbandonare l'Italia[1655],
_Rotoldo_ suo figliuolo bastardo al governo di Milano, credendo in tal
guisa di tenere in ubbidienza il popolo d'Italia. Ma gl'Italiani
alzarono il capo, e Ratoldo fu costretto a tornarsene pel lago di Como
in Germania. _Lamberto_ imperadore, per quanto si può scorgere, non fu
pigro ad accorrere in queste parti e a ripigliare il possesso di Milano
e di Pavia col rimanente della Lombardia. _Maginfredo_ ossia
_Magnifredo_ conte di Milano, ed anche marchese della marca di Milano,
come si può dedurre da Ermanno Contratto[1656] dall'anno 895, perchè
avea tenuto forte pel partito del re Arnolfo, ebbe, d'ordine di
Lamberto, tagliata la testa; e ad un suo figliuolo e ad un suo genero
toccò la pena di perdere gli occhi. Vo' io credendo che in questa
occasione patisse dei grandi affanni la città di Milano, perchè a' tempi
di Landolfo seniore, storico di Milano[1657] del secolo undecimo, durava
la tradizione che un _Lamberto_ re d'Italia avea fatto un aspro
trattamento alla città di Milano, con averla assediata e presa con
inganno, dove poi fece un'orrida strage dei cittadini, distrusse i
palagi, le torri e l'altre belle fabbriche e fortificazioni di quella
nobil città. Pieno di favole e d'anacronismi è questo racconto di
Landolfo, copiato poi da Galvano Fiamma[1658], perchè suppone vivuto
questo re _Lamberto_ circa l'anno 570, e prima che i Longobardi
calassero in Italia: sbaglio inescusabile, e testimonio della somma
ignoranza di que' secoli, perchè solamente circa cento ottanta anni
dappoi fiorì questo Landolfo. Dice egli ancora che _Ilduino_ era allora
duca di Milano, e che Lamberto fu poi ucciso alla caccia in un bosco con
una _spina_ da _Azzo_ figliuolo di questo Ilduino. Tuttavia chiara cosa
è che egli intende di parlare dell'imperador Lamberto, siccome apparirà
dalla maniera della sua morte. E però dalle sue popolari fole abbastanza
traluce ch'esso Lamberto dovette maltrattare non poco la città di Milano
a cagion di sua ribellione. Ordinariamente non sono senza qualche
fondamento simili tradizioni de' popoli. Anche il re _Berengario_ dal
canto suo (giacchè venne in questi tempi a mancar di vita _Gualfredo
duca_ e marchese del Friuli, che ribellatosi a lui s'era dato ad
Arnolfo) ritornò in possesso di Verona e del Friuli, con istendere il
suo dominio fino all'Adda; con che si può credere che Brescia ancora e
Bergamo venissero alla di lui ubbidienza. Ho io pubblicato[1659] un suo
diploma dato _pridie kalendas decembris, anno Incarnationis Domini Jesu
Christi DCCCXCVI, regni vero domni Berengarii serenissimi regis IX, per
Indictionem XV. Actum Corte Aquis_. Vedemmo di sopra all'anno 881 un
diploma di Carlo il Grosso, scritto _Aquis Palatio_. Non so se abbia che
fare con questa _Corte Aquis_, la qual senza fallo non può essere
_Aiqui_ città del Monferrato, perchè fin là non si stendeva la
giurisdizione di Berengario.

I disgusti dati dai Romani a _papa Formoso_, prima che giungesse a Roma
Arnolfo, ed accresciuti a dismisura dappoichè egli se ne fu partito, il
fecero finalmente soccombere al peso degli affanni, se pure non
intervennero mezzi anche più violenti per troncare il corso di sua vita,
perchè egli era incorso nell'odio non solo della maggior parte di quel
popolo, ma anche di _Lamberto imperadore_, contra del quale aveva esso
pontefice alzato al trono imperiale il germanico re Arnolfo. Il cardinal
Baronio[1660] dopo Onofrio Panvinio, differì la morte di questo papa
sino al dicembre dell'anno presente, fondato sull'asserzione di Adamo
Bremense, che scrivea circa l'anno 1080 la sua storia. Ma il padre
Pagi[1661] con addurre due bolle di _papa Stefano VI_ suo successore,
date nell'agosto e settembre di quest'anno, ha mostrata la insussistenza
di tale opinione. Quel che è più, il continuatore degli Annali di
Fulda[1662] pubblicati dal Freero, autore, per quanto pare,
contemporaneo, scrive mancato di vita questo pontefice _die sanctae
Paschae_. Ed Ermanno Contratto[1663] anche egli scrive che _Formoso papa
die Paschae obiit_. Ma neppur questo si può credere, qualora esistano i
due diplomi, dati da Arnolfo imperadore in Roma sul fine di aprile e nel
dì primo di maggio pel monistero di san Sisto, che si sono accennati di
sopra. Nel dì 4 di aprile cadde la Pasqua nell'anno presente.
Confessando il medesimo Annalista freeriano che Arnolfo non si fermò in
Roma più di quindici dì, ed essendo egli stato senza dubbio coronato
imperadore da papa Formoso, per necessità non dovette accader la sua
morte nel dì di Pasqua. Lo storico suddetto freeriano ne fa menzione
solamente, dappoichè Arnolfo fu ritornato in Germania. Può essere che un
dì si scuopra qualche documento, onde venga assai lume per decidere
questo punto. Intanto è certo che a papa Formoso, dopo tre giorni di
sede vacante, succedette _Bonifazio VI_, pontefice efimero, perchè non
più che quindici giorni durò il suo pontificato. La podagra quella fu
che il portò all'altro mondo, secondo gli Annali freeriani suddetti; nè
fu già cacciato dalla sedia, come pretende il cardinal Baronio, tuttochè
veramente Giovanni IX papa nel concilio romano dell'anno 898 riprovasse
la di lui elezione. Si venne pertanto ad eleggere un nuovo papa, e
questi fu _Stefano VI_, di fazione contraria al defunto papa Formoso.
Sulle prime mostrò egli di approvare l'operato da lui nella persona
d'Arnolfo, con riconoscere anch'egli per imperadore, come costa da una
sua bolla citata dal padre Pagi, e data nel dì 20 d'agosto dell'anno
precedente, _imperante domno piissimo Augusto Arnulfo a Deo coronato
magno, imperatore, anno primo_. Ma da lì a poco o perchè fosse cacciato
di Roma il ministro lasciatovi da Arnolfo, o per gli potenti maneggi di
Lamberto Augusto, e per l'inclinazione dello stesso papa, riconobbe egli
_Lamberto_ per legittimo imperadore. Un'altra sua bolla rapportata dal
padre Dachery[1664], si vede scritta sotto l'_indizione XV_, cominciata
nel settembre di quest'anno, _imperante domno nostro Lamberto piissimo
Augusto, a Deo coronato magno imperatore_. Otto mesi poi dopo
l'assunzione sua arrivò questo pontefice ad un eccesso che renderà
sempre detestabile la memoria sua nella Chiesa di Dio; perchè egli fatto
disotterrare il cadavero di _papa Formoso_, e con una ridicola funzione
degradatolo in un concilio non assistito dallo Spirito Santo, lo fece
gittar nel Tevere, e dichiarò nulle tutte le sue ordinazioni, e in primo
luogo quella dello stesso Formoso. Intorno a ciò è da vedere la storia
ecclesiastica e la difesa di Formoso negli opuscoli di Ausilio, il quale
ci ha conservata una notizia fra l'altre: cioè, che in un concilio
tenuto in Ravenna, dove intervennero quasi tutti i vescovi d'Italia, era
stata riconosciuta legittima ed approvata l'ordinazione di Formoso,
ancorchè egli dal vescovato di Porto fosse passato alla cattedra di san
Pietro. Appartiene a quest'anno la mutazione seguita nel principato di
Benevento, raccontata dall'Anonimo salernitano[1665], da Leone
Ostiense[1666] e da altre Cronichette presso Camillo Pellegrino. Non
potevano più sofferire i Beneventani l'orgoglioso governo de' Greci,
dominanti nella loro città. Comunicarono essi i lor desiderii a
_Guaimario I_ principe di Salerno; e questi a _Guido duca_ e marchese di
Spoleti. Passò all'assedio della città lo stesso Guido con copioso
esercito, e per molto tempo la strinse. Veggendosi a mal partito
_Giorgio patrizio_, quivi governatore per _Leone imperador_ de' Greci,
incitò i cittadini alla difesa. Altro non cercavano essi; e però prese
l'armi tanto i Greci che i Beneventani, uscirono di città, per dare
addosso ai nemici; ma secondo il concerto fatto, quei di Benevento si
diedero alla fuga, ritornando nella città, e seco trassero nella mischia
le genti di Spoleti. Giorgio patrizio, se volle salvar la vita, pagò
cinquemila soldi d'oro, e fu lasciato andare. Restò in potere di Guido
duca quella città col suo principato. Ma chi è questo _Guido_? Lo stesso
Anonimo salernitano il credette quel medesimo che abbiam veduto re
d'Italia ed imperadore, con iscrivere ch'egli tenne per _un anno e mesi
nove_ quel principato, e che portatosi in occasion della morte di Carlo
il Grosso Augusto, _adeptus est regalem dignitatem. Beneventum namque
imperatrix Racheltruda nomine_ (Ageltruda vuol dire) _regendum suscepit,
et praefuit Beneventanis anno uno et octo mensibus. In eamdem urbem
ingressa est pridie kalendas aprilis_, ec. Sicchè, secondo questo
autore, il conquistatore di Benevento fu _Guido imperadore_, e prima
ancora di essere creato re d'Italia: il che vuol dire che la conquista
di Benevento da lui fatta cadrebbe nell'anno 887. Ma ciò non può
sussistere, quanto al tempo, perchè, siccome abbiam veduto, i Greci
entrarono in possesso di Benevento nell'anno 891, e ne stettero padroni
quasi quattro anni. Immaginò il conte Campelli[1667] che questo _Guido_
fosse figliuolo secondogenito di _Guido_ imperadore creato duca di
Spoleti nell'anno 891, e che egli nell'anno 894 assediasse Benevento, e
se ne impadronisse nell'anno 895. Nè è senza qualche fondamento la sua
opinione per quel che dirò. Tuttavia meglio avrebbe fatto questo autore
col guardarsi dal produrre i sogni suoi dappertutto come verità
contanti, e dal descrivere i fatti da lui immaginati, quasichè coi
proprii occhi gli avesse veduti. Egli mette anche fuor di sito la morte
di Guido imperadore, e differisce quella di Lamberto Augusto suo
figliuolo fino all'anno 910, che è uno spaventoso anacronismo contro la
storia di questi tempi.

Potrebbe in vero sospettarsi che _Guido_ duca e marchese di Spoleti, di
cui fanno menzione le Croniche suddette, fosse stato il medesimo _Guido_
imperadore, il quale nell'anno 894, qualche mese prima della sua morte,
impiegasse le forze sue in conquistar Benevento. Pure un anonimo
cronista beneventano assai chiaramente racconta che dopo la morte d'esso
Augusto entrò _Guido_ duca e marchese in Puglia, e vi conquistò
Benevento, dove era già morto Giorgio patrizio, e comandava Teodoro
Turmoca: e che _Guaimario I_ principe di Salerno avea per moglie una
sorella di _Guido_ per nome _Jota_. Però possiam conghietturare che
questo Guido fosse fratello, o almeno parente di Lamberto imperadore.
S'erano impadroniti i Greci di Benevento nell'anno 891. Secondo le
Cronichette pubblicate da Camillo Pellegrino[1668], _tribus annis,
novemque mensibus et diebus viginti dominatio Graecorum tenuit
Beneventum, Samniique provinciam. Post hoc Guido marchense introivit in
Beneventum_. Ci conducono tali notizie ad intendere che nell'anno 894
Guido duca di Spoleti cacciò i Greci da Benevento. Vi stette egli
padrone _anno I, et mensibus VII_, oppure, come ha l'Anonimo salernitano
e il beneventano, _anno uno et mensibus octo_, ovvero _novem_: dopo il
qual tempo fu ceduto il principato beneventano a _Radelchi II_ ossia
_Radelgiso fratello_ dell'imperadrice Ageltruda. Da due diplomi d'esso
Radelgiso, che si leggono nella Cronica del monistero di Volturno[1669],
sufficientemente si può dedurre ch'egli nell'anno presente 896 cominciò
a contare gli anni del suo principato in Benevento. Nella suddetta
Cronica abbiamo un placito tenuto da Lodovico gastaldo _in beneventano
palatio in praesentia domnae Ageltrudis imperatricis Augustae, et domni
Radelchis principis_. Verisimilmente appartiene esso al presente anno.
Portò opinione il suddetto Camillo Pellegrino che Radelgiso II
ricuperasse la signoria di Benevento nell'anno 898. Ma certo fallò nei
suoi conti. L'Anonimo beneventano da lui pubblicato scrive: _postea vero
praefata imperatrix anno uno, et octo mensibus expletis, postquam Graji
Benevento fuerant expulsi, in eadem ingressa est pridie kalendas
aprilis, et paulo post longe superius nominatus Radelchis fratrem suum
beneventano principatui restituit, qui fere duodecim annis ab eo fuerat
expulsus_. Nell'anno 884, siccome è detto di sopra, _Radelchi_ ossia
_Radelgiso II_ cadde dal dominio di Benevento. Adunque avendolo _dopo
quasi dodici anni_ ricuperato, cadde tal fatto nell'anno presente. E
perciocchè in quella città nell'anno 894 ebbe fine il dominio de' Greci,
e Guido duca vi signoreggiò _un anno ed otto mesi_, dopo i quali, venuta
l'imperadrice Ageltruda a Benevento, ne rimise in possesso il fratello
Radelgiso; per conseguente nell'anno presente si dee credere restituito
a lui il principato beneventano. Quest'atto dipoi fa ch'io sospetti non
essere stato il suddetto _duca Guido_ figliuolo d'essa Ageltruda
Augusta, come immaginò il conte Campelli, perchè, secondo il costume
delle cose umane, non avrebbe ella tolto al figliuolo quell'insigne
dominio per darlo ad un fratello, e massimamente per averlo esso Guido
tolto colle sue forze dalle mani de' Greci. Nè si dee tacere che questo
Guido duca di Spoleti, appena impadronito di Benevento[1670], mandò in
esilio _Pietro vescovo_ di quella città, che pure l'avea aiutato a farne
l'acquisto. Se l'ebbero forte a male i Beneventani. Però da lì a quattro
mesi pentitosi Guido di questa sua imprudente azione, andò in persona a
Salerno, dove s'era rifugiato questo virtuoso prelato, ed avendolo
placato, il ricondusse a Benevento, con praticar poscia verso di lui
tutti gli atti di una vera benevolenza. Aggiugne inoltre che _praedictus
Marchio Spoletium perrexit, imperatorem Lambertum, ejusque matrem
imperatricem cernere cupiens; ibant enim Romam ad Apostolorum limina, et
idem ire gestiebat_. Danno ancora tali parole qualche indizio che questo
Guido marchese non fosse fratello di Lamberto imperadore. Nell'anno
presente si ha dal medesimo Cronista e dall'Anonimo beneventano, che
andando _Guaimario I_[1671], principe di Salerno colla consorte _Jota_
alla volta di Benevento per visitare il _duca Guido_ suo cognato,
fermatosi nella città di Avellino, vi ebbe la mala notte. Perciocchè
_Adelferio_, gastaldo d'essa terra, per fama corsa che Guaimario
macchinasse di farlo imprigionare, mise in prigione lo stesso Guaimario,
e nel dì seguente gli fece cavar gli occhi. A questo avviso il duca
Guido mosse l'armi sue contro di Avellino, e tanto tormentò colle
macchine di guerra e coll'assedio quella città, che Adelferio s'indusse
a mettere in libertà l'accecato Guaimario, e la maltrattata principessa
sua moglie, che se ne tornarono a Salerno non con quella allegrezza con
cui se n'erano partiti. Trovossi dipoi questo Adelferio in compagnia de'
Capuani, allorchè, secondo il solito, marciavano a saccheggiare il
territorio di Napoli, e fu preso dai Napoletani in una scaramuccia.
Guaimario spedì immantenente calde istanze ad _Atanasio vescovo_ e duca
di Napoli, per avere costui nelle mani, e a fine di farne vendetta. Ma
Adelferio ebbe maniera di fuggirsene e di salvarsi. Succedette in questo
anno una sanguinosissima guerra[1672] fra gli Ungheri e i Bulgari. In
due battaglie restarono sconfitti gli ultimi. Vennero alla terza, che fu
sommamente rabbiosa. Vi perirono da ventimila Bulgari a cavallo (del
quale numero io non vo' far sicurtà), maggiore nondimeno fu la strage
senza dubbio degli Ungheri, perchè loro toccò di andare sconfitti. Ma
presto vedrem costoro risorgere più che mai possenti e fieri, e portar
la rovina anche alla misera Italia.

NOTE:

[1646] Annales Fuldenses Freheri.

[1647] Liutprandus, Hist., lib. 1, cap. 8.

[1648] Rhegino, in Chronico.

[1649] Campi, Istor. Piacent., tom. 1, Append.

[1650] Ughell., Ital. Sacr., tom. 3, in Episcop. Clusin.

[1651] Rhegino, in Chronico.

[1652] Liutprandus, Hist., lib. 1, cap. 9.

[1653] Rhegino, in Chronico.

[1654] Mabillon., in Annal. Benedictin. ad hunc annum.

[1655] Annales Fuldenses Freheri.

[1656] Hermann. Contractus, edition. Canis.

[1657] Landulphus senior, Hist., tom. 4, Rer. Italic.

[1658] Flamma, Manipul. Flor., tom. 11, Rer. Ital.

[1659] Antiquit. Ital., Dissert. LXVIII.

[1660] Baron., Annal. Eccl.

[1661] Pagius, in Critic. ad Annales Baron.

[1662] Annales Fuldens. Freherii.

[1663] Hermannus Contract., in Chron. edit. Canis.

[1664] Dachery, Spicileg., tom. 3.

[1665] Anonymus Salern., P. I, tom. 2, Rer. Ital.

[1666] Leo Ostiensis, lib. 1, cap. 49.

[1667] Campelli, Istor. di Spoleti, lib. 19.

[1668] Peregrin., Hist. Princip. Langob., Part. I, tom. 2 Rer. Ital.,
pag. 320 et seq.

[1669] Chron. Vulturnens., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[1670] Anonym. Benevent., P. I., tom. 2 Rer. Ital., pag. 280.

[1671] Anonymus Salernit., P. I, tom. 2 Rer. Ital., pag. 293.

[1672] Annales Fuldenses Freheri.



    Anno di CRISTO DCCCXCVII. Indiz. XV.

    ROMANO papa I.
    LAMBERTO imperadore 6 e 4.
    ARNOLFO imperadore 2.
    BERENGARIO re d'Italia 10.


In un placito[1673], ch'io ho dato alla luce, si conosce che in
quest'anno l'autorità di _Lamberto_ imperadore veniva riconosciuta in
Toscana, e che passava buona armonia fra lui e _Adalberto_ II, duca e
marchese di Toscana. Fu quel giudizio tenuto in Firenze _anno domni
Lamberti, Deo propitio, sexto, IV die mensis marci, Indictione
quintadecima_: il che fa conoscere che nel dì 4 di marzo dell'anno 892
Lamberto era già stato alzato al trono imperiale. Chi tenne quel
placito, si conosce dalle seguenti parole: _Dum ad praeclaram potestatem
domni Lamberti piissimi imperatoris missus directus fuisset in finibus
Tusciae, Amedeus, comes palatii; et cum venisset civitate Florentia in
domum episcopii ipsius civitatis, in atrio ante basilica sancti Johannis
Baptistae inibi resideret una simul cum Adelbertus marchio, singulorum
hominum justitias faciendas_, ec. Da questo _Amadeo_, che godeva
l'insigne carica di conte del palazzo nel regno d'Italia, ha creduto
taluno che possa essere discesa la real casa di Savoia, perchè il nome
d'_Amadeo_ nel secolo undecimo si truova in essa. Non è sprezzabile la
conghiettura; ma sola non basta a fissar cosa alcuna per quella
genealogia. Nella parte della Borgogna signoreggiata dal re Ridolfo
convien cercare gli antenati di questi nobilissimi principi, sapendosi
ch'essi di colà passarono in Italia. Lume troppo debole è un nome, per
poter credere che Lamberto si valesse per un sì riguardevol posto della
sua corte di un principe di straniera contrada. Abbiamo dal panegirista
di Berengario[1674] che seguì pace e concordia fra il suddetto _Lamberto
Augusto_ e _Berengario re_ in un congresso tenuto in Pavia nell'anno
precedente. Aggiugne egli appresso che Lamberto più volte andò cercando
pretesti per rompere questa pace: il che probabilmente avvenne nell'anno
corrente. Ecco le sue parole:

    _O juvenile decus, si mens non laeva fuisset!_
    _Saepe datas voluit pacis rescindere dextras_
    _Fraudibus inventis. Sed enim ratione sagaci_
    _Deprehendis pater alme[1675] dolos, ac murmura temnis_.

Che esso Berengario si trovasse in _Ceneda_ nell'anno presente,
l'abbiamo da un suo diploma riferito nelle mie Antichità italiane[1676].
Fece in quest'anno _Stefano VI_ papa un fine indegno del sacrosanto suo
grado, ma frutto dell'iniquità da lui praticata contro la memoria di
papa Formoso in disonore della santa Chiesa romana. Talmente restarono
stomacati i Romani del sacrilego strapazzo da lui fatto del cadavero di
quel pontefice, il cui elogio si può leggere nell'operetta d'Ausilio e
presso altri scrittori, che fatta fra loro congiura, gli misero le mani
addosso, e cacciatolo in una prigione, quivi da lì a poco lo
strangolarono. Frodoardo così ne scrive:

    _Captus et ipse, sacraque abjectus ab aede, tenebris_
    _Carceris injicitur, vinclisque innectitur atris,_
    _Et suffocatum crudo premit ultio leto._

E nell'epitaffio fattogli dipoi da _papa Sergio III_, e rapportato dal
cardinal Baronio, si legge lo stesso.

                    CVMQVE PATER MVLTVM CERTARET
                           DOGMATE SANCTO,
                      CAPTVS, ET A SEDE PVLSVS
                            AD IMA FVIT.
                      CARCERIS INTEREA VINCLIS
                        CONSTRICTVS, ET IMO
                         STRANGVLATVS NERBO,
                          EXVIT ET HOMINEM.

Pretende il padre Pagi che a questo pontefice s'abbia da riferire un
decreto, a noi conservato da Graziano[1677], e dal cardinal Baronio
rapportato all'anno 816, e non già ad uno degli antecessori Stefani:
cioè che si rimettesse in uso il divieto di non consecrare il nuovo papa
eletto senza la licenza e approvazione dell'imperadore regnante. Il
decreto è questo: _Quia sancta romana Ecclesia, cui auctore Deo
praesidemus, a pluribus patitur violentias, pontifice obeunte: quae ob
hoc inferuntur, quia absque imperiali notitia pontificis fit
consecratio, nec canonico ritu et consuetudine ab imperatore directi
intersunt nuncii, qui scandala fieri vetent: Volumus, ut quum
instituendus est pontifex, convenientibus episcopis et universo clero,
eligatur, praesente senatu et populo, qui ordinandus est. Et sic ab
omnibus electus, praesentibus legatis imperialibus consecretur.
Nullusque sine periculo sui, juramenta vel promissiones aliquas nova
adiventione audeat extorquere, nisi quae antiqua exigit consuetudo, ne
Ecclesia scandalizetur, et imperialis honorificentia minuatur._ Vien
chiamato _canonicus ritus_ quel costume. Tale non parve poi, siccome
vedremo, nel secolo undecimo. Ma è ben più probabile che questo papa
Stefano non facesse questo decreto, e che s'ingannasse Graziano con
attribuirlo ad un altro papa Stefano, quando esso indubitatamente si
legge nel concilio di Ravenna nell'anno seguente celebrato da papa
_Giovanni IX_. Il giorno preciso, in cui fu levato dal mondo questo
pontefice, è tuttavia ignoto. Bensì è certo ch'egli ebbe per successore
nella cattedra di san Pietro _Romano_. Due sue bolle, rapportate dal
Baluzio[1678], ci assicurano ch'egli era papa nel mese d'ottobre del
presente anno, essendo scritte _idibus octobris, imperante domno nostro
piissimo perpetuo augusto Lamberto a Deo coronato magno imperatore anno
VI, et post consulatum anno VI, Indictione prima_. Per attestato del
Dandolo, questo papa mandò il pallio archiepiscopale[1679] a _Vitale
II_, _patriarca_ di Grado. Se vogliam creder alla farraggine indigesta
della Cronica della Novalesa[1680], in questi tempi fiorì _Ammolo_ ossia
_Ammolone vescovo_ di Torino, di cui quell'autore narra un fatto assai
strano. _Lamberti regis tempore fuit Maginfredus, quem interfecit; nec
non et Ammulus episcopus taurinensis, qui ejusdem civitatis turres et
muros perversitate sua destruxit. Nam inimicitiam exercens cum suis
civibus, qui continuo illum a civitate exturbarunt, fuitque tribus annis
absque episcopali cathedra. Qui postmodum pace peracta reversus, et manu
valida cinctus, destruxit, sicut diximus. Fuerat haec siquidem civitas
condensissimis turribus bene redimita, et arcus in circuitu per totum
deambulatorios, cum propugnaculis desuper atque antemuralibus._
Veramente i vescovi aveano già acquistate forze tali e ricchezze, che
già cominciavano non pochi d'essi a prendere un'aria principesca; e però
non è tanto difficile a credere questa gara e vendetta fra quel vescovo
e i cittadini. Che poi questo Ammolone vescovo di Torino veramente
vivesse in questi tempi, lo abbiamo dal concilio romano tenuto nell'anno
seguente da papa Giovanni IX, apparendo da un frammento di esso, dato
alla luce dal padre Mabillone[1681], che esso Ammolone v'intervenne, e
fu uno de' più zelanti per la memoria e gloria di papa Formoso.

NOTE:

[1673] Antiq. Ital., Dissert. X.

[1674] Anonym., in Paneg. Bereng., P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[1675] _Berengario._

[1676] Antiquit. Ital., Dissert. XIX, pag. 97.

[1677] Gratianus Dist. XXXIII, cap. 28.

[1678] Baluz., in Append. ad Marcam Hispan. de Marca.

[1679] Dandul., in Chronic., tom. 12 Rer. Ital.

[1680] Chron. Novaliciense, P. II, tom. 2 Rer. Ital., pag. 763.

[1681] Mabill., Append. ad Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCXCVIII. Indizione I.

    TEODORO II papa 1.
    GIOVANNI IX papa 1.
    LAMBERTO imperadore 7 e 5.
    ARNOLFO imperadore 3.
    BERENGARIO re d'Italia 11.


Succedette in quest'anno ciò che narra Liutprando istorico[1682] di
_Adalberto II_, duca e marchese di Toscana: cioè, ch'egli insieme con
_Ildebrando_ molto potente conte (non si sa di qual città) si ribellò da
_Lamberto imperadore_, e raunata una competente armata, s'incamminò alla
volta di Pavia. _Tantae quippe_ (dice egli) _Adalbertus erat potentiae,
ut inter omnes Italiae principes, solus ipse cognomento diceretur
dives_. Aggiugne ch'egli avea per moglie _Berta_, la quale in prime
nozze con _Teobaldo conte_ di Provenza avea partorito _Ugo conte_ e
_marchese_, che vedremo all'anno 926 essere creato re d'Italia. Questa
altera donna figliuola del già _Lottario re_ della Lorena, quella fu che
spinse il marito a prendere le armi contra dell'Augusto Lamberto.
Passato per monte Bardone, giunse egli col suo poco agguerrito esercito
tino a Borgo san Donnino fra Parma e Piacenza. Intanto avvertito di
questa mossa Lamberto, mentre godeva il divertimento suo favorito nella
foresta di Marengo, senza aspettar che si unisse l'armata sua, con soli
cento cavalli venne frettolosamente incontro ad Adalberto. Trovata la di
lui gente immersa in un profondo sonno per aver votate nel giorno
innanzi le botti, le diede addosso, e sopra quanti arrivò, sfogò la
collera sua. Ildebrando ebbe la fortuna di salvarsi colla fuga. Non così
avvenne al duca della Toscana. Colto in una greppia, dove s'era
appiattato, e condotto alla presenza di Lamberto, che gli diede
solennemente la berta, fu condotto prigione con altri a Pavia. Gli
autori più antichi ci descrivono l'imperador Lamberto, come giovane di
non molto cuore e di minore sperienza nell'armi; e qui Liutprando cel fa
conoscere un Marte. Contuttociò si può ben credere che Liutprando nella
sostanza del fatto non si sia ingannato. Era in Pavia esso Lamberto nel
dì 27 di luglio di quest'anno, siccome costa da un privilegio da lui
conceduto ai canonici di Parma, e da me dato alla luce con queste
note:[1683] _VI kalendas augusti anno Incarnationis Domini DCCCXCVIIII_,
(sarà l'anno pisano, cioè secondo l'era volgare anno 898) _domni quoque
Lamberti piissimi imperatoris VI, Indictione I. Actum Papiae urbe
ticinensi_. Dopo soli quattro mesi di pontificato, per quanto si crede,
_papa Romano_ passò a miglior vita. In luogo suo fu eletto _Teodoro II_,
pontefice che non tenne la sedia di san Pietro più di venti giorni, ma
che meritava per le sue virtù di tenerla lunghissimo tempo. Di lui così
scrive Frodoardo[1684]:

    _Dilectus clero Theodorus pacis amicus,_
    _Bis senos_ (denos) _romana dies, qui jura gubernans,_
    _Sobrius et castus, patria bonitate refertus,_
    _Vixit pauperibus diffusus amator et alter._
    _Hic populum docuit connectere vincula pacis;_
    _Atque sacerdotes concordi, ubi junxit honore,_
    _Dum propriis revocat disjectos sedibus, ipse_
    _Complacitus rapitur decreta sede locandus_.

Si venne ad un'altra elezione. Elesse una parte del popolo _Sergio_
prete, il quale, se vogliam credere a Liutprando, era anche stato,
siccome già dicemmo, eletto nell'anno 891, in concorrenza di papa
Formoso, e poi rifugiato in Toscana sotto la protezione di _Adalberto
II_ duca. Ma più possanza ebbe il partito contrario, da cui fu non
solamente eletto, ma consecrato _Giovanni IX_. E questi poi cacciò in
esilio tanto il suddetto Sergio, quanto altri Romani di lui fautori:

    _Pellitur electus patria quo Sergius urbe,_
    _Romulidumque gregum quidam traduntur abacti._

Così scrive Frodoardo. E però si comprende che non già nell'anno 891
seguì la elezione e la decadenza di Sergio, ma bensì nell'occasion di
questa sede vacante. Nell'epitaffio del suddetto Sergio, che arrivò
finalmente anch'egli ad essere papa, si legge che questo _Giovanni IX_
papa fu un usurpatore del pontificato:

    _Romuleosque greges dissipat iste lupus._

Comunque sia, toccò a _Sergio_ il di sotto in questa occasione, e le
poche memorie che restano di Giovanni IX, cel danno a conoscere per uomo
molto saggio e pio. Siccome egli era della fazione di papa Formoso, così
ebbe principalmente a cuore di risarcire il di lui onore. A tal fine
poco dopo la consecrazione sua raunò un concilio in Roma, dove furono
stabiliti alcuni capitoli, da' quali si ricava non poca luce per
conoscere il sistema di questi tempi[1685]. Prima d'ogni altra cosa fu
annullato il concilio tenuto da papa Stefano VI contra del defunto papa
Formoso, e condannati alle fiamme i suoi processi e decreti, come
affatto illegittimi e disordinati, perchè fatti contra di un cadavero
che non può dir le sue ragioni. Dato fu il perdono al clero che
intervenne a quel sinodo; e decretato che la traslazione d'esso Formoso
dal vescovato di Porto al papato non passasse in esempio, perchè era
vietato dai canoni il passaggio da una chiesa all'altra senza qualche
grande necessità della Chiesa; e però non si ammettevano allora vescovi
al pontificato romano. Furono approvati e rimessi nel loro grado tutti i
vescovi, preti e cherici ordinati dal suddetto papa Formoso; confermata
l'elezione ed unzione di _Lamberto imperadore_; riprovata ed annullata
la barbarica di _Arnolfo, quae per subreptionem extorta est_. Fu
ratificata la scomunica contra Sergio, Benedetto e Marino, preti della
Chiesa romana, e contra Leone, Pasquale e Giovanni, diaconi della sede
apostolica, siccome principali promotori della scandalosa procedura
contra di papa Formoso; ed intimata la medesima censura a chiunque _ad
capiendum thesaurum_ avea tratto dal sepolcro il cadavero d'esso papa, e
poi gittato nel Tevere. Miriamo dipoi in questo concilio il decreto che
dal padre Pagi vien creduto fatto da _Stefano VI_ papa, e già riferito
all'anno precedente, intorno al non consecrare il nuovo papa eletto, se
non coll'approvazione dell'imperadore e alla presenza de' suoi legati.
Erasi già introdotto l'abbominevole abuso, che morendo il papa, correva
il popolo a dare il sacco al palazzo pontificio, con passare anche un
tal furore addosso ad altri luoghi entro e fuori di Roma: il che avea
servito d'esempio per fare lo stesso ad altre città. Fu proibito un tale
eccesso: _Quod qui facere praesumserit, non solum ecclesiastica censura,
sed etiam imperiali indignatione feriatur_.

Terminato questo concilio, si portò _papa Giovanni_ a Ravenna, per
abboccarsi coll'imperadore Lamberto, e trattar seco di concerto de'
comuni bisogni. Si raunò quivi ancora un concilio di settantaquattro
vescovi, e v'intervennero i due suddetti primi luminari della
Cristianità. Uno dei capitoli ivi stabiliti è questo per parte
dell'imperadore, bastevolmente indicante la di lui sovranità. _Si quis
Romanus, cujuscumque sit ordinis, sive de clero, sive de senatu, seu de
quocumque ordine, gratis ad nostram imperialem majestatem venire
voluerit, aut necessitate compulsus ad nos voluerit proclamare, nullus
eis contradicere praesumat; et neque eorum res quisquam invadere vel
depraedari, aut eorum personas in eundo, vel redeundo, vel morando,
inquietare praesumat, donec liceat imperatoriae potestati eorum causas,
aut personas, aut per nos aut per missos nostros deliberare. Qui autem
eos inquietare eundo, vel redeundo, vel morando tentaverit, vel eorum
quidpiam rerum auferre, postquam nostram misericordiam proclamaverint,
imperialis ultionis indignationem incurrat_. Fra gli sconcerti degli
anni passati dovea essere stato messo ostacolo in Roma a chi volea
ricorrere e appellare al tribunale dell'imperadore. Lamberto volle che
sussistesse nell'antico suo vigore questo suo diritto. Conferma inoltre
l'imperadore _privilegium sanctae romanae Ecclesiae, quod a priscis
temporibus per piissimos imperatores stabilitum est_. Volle dipoi il
pontefice che Lamberto Augusto, i vescovi e baroni approvassero il
concilio romano, poco dianzi _pro causa domni Formosi sanctissimi papae,
non invidiae zelo, sed rectitudinis gratia canonice peractum_. E
perciocchè negli stati della Chiesa romana per gli anni addietro erano
state commesse immense ruberie, incendii e violenze; perciò fece istanza
all'imperadore, _ut alia impunita non dimittatis_. Soggiunge: _Ut
pactum, quod a beatae memoriae vestro genitore domno Widone, et a vobis
piissimis imperatoribus, juxta praecedentem consuetudinem, factum est,
nunc reintegretur, et inviolatum servetur_. Chiamavasi _Patto_ la
signoria di Roma, dell'Esarcato e della Pentapoli, che chiunque
desiderava d'essere imperadore, confermava per patto ai romani pontefici
con un nuovo diploma. Forse il barbaro re Arnolfo mancò alla giusta
confermazione di questi patti. Dice inoltre il papa che erano stati
alienati illecitamente alcuni beni patrimoniali, ed anche alcune città,
ed altre cose contenute in esso Patto, senza esprimere se da' suoi
predecessori oppure dagl'imperadori; ed esige che tali alienazioni sieno
annullate nel concilio. E perciocchè in addietro s'erano fatte _in
territoriis beati Petri_ delle adunanze illecite dai Romani, Longobardi
ed anche Franzesi, _contra apostolicam et imperialem voluntatem_; vuole
che con un decreto dell'imperadore e del sinodo sieno proibite per
l'avvenire. Finalmente espone il papa lo stato miserabile cui era
ridotta la santa Chiesa Romana, perchè non le restavano rendite da
mantenere il clero, e da aiutare i poverelli; ed avendo egli trovata
quasi distrutta la patriarcal basilica lateranense, avea ben inviato
gente per tagliar travi da risarcirla, ma ne era stato impedito dai
malviventi d'allora il tagliamento. Però scongiura l'imperadore,
acciocchè dia mano a quella fabbrica, e adoperi l'autorità sua per
rimettere in migliore stato la Chiesa romana. Fa questo concilio
conoscere che questo _papa Giovanni_ era personaggio di vaglia, ma
eletto al governo della nave in tempi troppo burrascosi, che
peggiorarono anche di più andando innanzi.

Per altro abbiamo dal panegirista di Berengario[1686] che ne' due
precedenti anni e nel presente ancora si godè in Italia una buona pace e
un felice raccolto delle campagne:

    _Tertia mox tamen hunc Latio produxerat aestas._
    _Ubere telluris potientem pace sequestra._

Ma non giunse al fine di quest'anno l'_imperadore Lamberto_, giovane
dotato di bellissime doti, di costumi pudici, e di grande espettazione,
se fosse più lungamente vivuto, come s'ha da Liutprando. Dilettavasi
egli forte della caccia, e il suo luogo favorito per tal sollazzo era il
bosco di _Marengo_ nel territorio dove fu poi fabbricata la città
d'Alessandria. Dura tuttavia un castello in quelle parti che porta il
nome di Marengo, mentovato da Leandro Alberti e dal Magino. Quivi nel dì
30 di settembre confermò egli a _Gamenolfo vescovo_ di Modena i
privilegii della sua chiesa, con un diploma accennato dal Sigonio, e
pubblicato dipoi dal Sillingardi, che si legge ancora presso
l'Ughelli[1687]. Esso fu dato _anno Incarnationis Domini DCCCXCVIII,
domni quoque Lamberti piissimi imperatoris VII, pridie kalendas octobris
Indictione secunda_. Un altro diploma d'esso Lamberto ho io esposto alla
luce[1688], dato nel dì 3 di settembre, in favore della chiesa d'Arezzo,
che ha le medesime note del precedente. Sul principio dunque d'ottobre
dovette succedere la non naturale morte del suddetto imperador Lamberto.
Era egli alla caccia, e cadutogli sotto il cavallo, mentre a briglia
sciolta perseguitava non so qual fiera, l'infelice principe si ruppe il
collo e morì. Ecco le parole del suddetto panegirista di Berengario:

    _ . . . . . . . Studio jam vadit in altos_
    _Venandi lucos, cupiens sibi mittier aprum_
    _Informem, aut rapidis occurrere motibus ursum;_
    _Avia sed postquam nimio clamore fatigant_
    _Praecipites socii, ipse uno comitante ministro._
    _Dum sternacis equi foderet calcaribus armos,_
    _Implicitus cecidit sibimet sub pectore collum,_
    _Abrumpens teneram colliso gutture vitam._

Questa fu la pubblica voce che si sparse allora della maniera di sua
morte, lo attesta anche Liutprando[1689] con dire: _Ajunt sane, hunc
regem, dum in luco Marinco venaretur (est enim ibidem mirae magnitudinis
et amoenitatis lucus, adeo venationibus aptus) et sicut moris est, apros
effreni consectaretur equo, cecidisse, collumque fregisse_. Ma soggiugne
appresso, esserci stata un'altra fama, creduta da lui più verisimile, e
divulgata dappertutto. Cioè, che avendo Lamberto fatto decapitare
_Maginfredo_ conte di Milano a cagion di sua ribellione, conferì quel
posto ad _Ugo_ di lui figliuolo, che _Maginfredo_ o _Magnifredo_ vien
appellato anch'egli nell'antico codice della cesarea biblioteca, e
colmollo anche d'altri benefizii, affinchè dimenticasse la disgrazia
occorsa a suo padre. Anzi perchè in questo giovinetto all'avvenenza si
univa un nobile ardire, se gli affezionò talmente esso Lamberto, che il
voleva sempre ai suoi fianchi, nonchè in sua corte. Trovandosi soli
amendue alla caccia, aspettando che passasse qualche cinghiale, fu preso
Lamberto dal sonno; e allora Ugo, prevalendo più in lui l'ira per la
morte del padre, che il favore di Lamberto, e la memoria de' benefizii
ricevuti e del giuramento prestato, con un bastone gli ruppe il collo,
facendo poi correre voce che la caduta da cavallo gli avesse abbreviata
la vita. Stette nascoso per alcuni anni il fatto, ma presentossi
occasione in cui lo stesso Ugo lo rivelò al re Berengario. Anche
l'autore della Cronica della Novalesa[1690] lasciò scritto, che per mano
del figliuolo dell'ucciso Maginfredo conte tolta fu la vita a Lamberto,
mentre erano alla caccia. _Spina Lamberti_ era chiamata una volta la
terra che oggidì ha il nome di Spilamberto vicina al Panaro e a San
Cesario, e nel distretto di Modena. Di sopra vedemmo all'anno 885 che
l'antico monaco nonantolano, da cui abbiamo la vita d'Adriano I papa,
pretese così nominato quel luogo _a casu Lamberti_, con aver anche
creduto altri scrittori che Lamberto fosse stato con una spina tolto di
vita da Ugo. Ma queste son favole troppo leggermente nate, e che non
meritano d'essere confutate.

Altro non ci voleva che questo impensato accidente per far risorgere la
fortuna del _re Berengario_. Strano ben può sembrare uno strumento
d'acquisto fatto da _Everardo vescovo_ di Piacenza della metà della
Rocca di Bardi, scritto[1691], _Berengario rege, anno regni ejus in
Italia decimo, mense augusto, Indictione prima_. All'agosto dell'anno
presente appartiene questa indizione; e però potrebbe dedursi di qua che
fosse prima mancato di vita l'imperador Lamberto, e che Piacenza già
ubbidisse al re Berengario: il che non si può accordare colle notizie
recate di sopra. Ma quella carta o patisce delle difficoltà, oppure non
fu assai attentamente letta, e stampata per conseguente con qualche
sbaglio. Certo nell'agosto dell'anno presente 898 correva l'_anno
undecimo_, e non già il _decimo_, del regno di Berengario; e però nulla
si può stabilire con quest'atto dubbioso, se pur non è qualche cosa di
peggio. Ora portata al re Berengario la nuova del morto suo emulo, non
si fece egli pregare a volare a Pavia, dove fu senza aperta opposizion
ricevuto, con darsi a lui tutte l'altre città già signoreggiate da
Lamberto. Rapporta l'Ughelli[1692] un suo diploma in favore di _Azzo_
vescovo di Reggio, _VIII idus novembris anno Incarnationis Domini
DCCCXCVIII, anno vero domni Berengarii serenissimi regis XI, Indictione
I. Actum Papiae palatio regio._ Trovò egli, per testimonianza di
Liutprando[1693], carcerato in essa città di Pavia _Adalberto II_ duca e
marchese di Toscana, con altri. Li rimise egli tutti in libertà e in
possesso de' loro governi e beni; e perciò anche la Toscana cominciò a
riconoscerlo per suo re e sovrano. Vi restava il ducato di Spoleti, che
potea fare resistenza, perchè al governo di quelle contrade dimorava
tuttavia la vedova _imperadrice Ageltruda_, madre del defunto Lamberto
Augusto. Si trattò amichevolmente di concordia; e da un importante
diploma[1694], esistente nell'archivio di San Sisto di Piacenza, si
comprende che Berengario guadagnò quell'altera donna, col concederle,
secondo i corrotti costumi di questi tempi, due monisteri a disposizione
di essa, e col confermarle tutti i beni suoi propri, o a lei donati sì
dal marito Guido, che dal figliuolo Lamberto. Il diploma fu dato
_kalendis decembris, anno Incarnationis Domini nostri Jesu Christi
DCCCXCVIII, anno vero regni Berengarii gloriosissimi regis XI, per
Indictionem II. Actum civitate Regiae_: cioè, a mio credere, in Reggio
di Lombardia. Sotto essa carta Berengario aggiunse di suo pugno le
seguenti parole: _Promitto ego Berengarius rex tibi Ageltrudae, relictae
quondam Widoni imperatoris, quia ab hac hora, ut deinceps, amicus tibi
sum, sicuti recte amicus amico esse debet. Et cuncta tua praeceptalia
concessa a Widone, seu a filio ejus Lamberto imperatoribus, nec tollo,
nec ulli aliquid aliquando tollere dimitto injuste._ C'è motivo di
credere che per tal via il ducato di Spoleti venisse all'ubbidienza del
re Berengario. Forse anche seguitò Ageltruda a governar quel ducato,
giacchè non s'ode più parlare di _Guido duca_ e marchese, di cui fu
fatta menzione all'anno 896. Sul principio di questo, _Odone_, re di una
parte della Francia, morendo, aprì la strada a _Carlo il Semplice_, re
dell'altra, d'impadronirsi di tutto il regno. Intanto _Arnolfo_ re di
Germania per le sue infermità languiva, nè operò più cosa degna di
considerazione. Molto meno pensava all'Italia. E se lo Struvio[1695] col
prendere senza esame le parole di Liutprando storico, giunse a scrivere
ch'egli in questo anno per la terza volta calò in Italia, e perseguitò
_Guido imperadore_, non mostrò già discernimento critico, e tanto meno
dopo aver detto innanzi che lo stesso Guido qualche anno prima era
mancato di vita. Varii altri moderni scrittori hanno asserito lo stesso,
ma loro mancavano que' tanti lumi che ha dipoi guadagnato la storia, e
de' quali poteva e dovea valersi questo autore tedesco.

NOTE:

[1682] Liutprandus, Hist., lib. 1, cap. 10.

[1683] Antiquit. Ital., Dissert. XXXIV.

[1684] Frodoardus, de Romanor. Pontif., P. II, tom. 3 Rer. Italic.

[1685] Labbe, Concil., tom. 9.

[1686] Anonymus, in Panegyrico Berengarii.

[1687] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2, in Episcop. Mutinens.

[1688] Antiquit. Italic., Dissert. LXIII.

[1689] Liutprandus, Hist., lib. 1, cap. 12.

[1690] Chron. Novaliciense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1691] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1 Append.

[1692] Ughell., Ital. Sacr., in Episcop. Regiens. Append.

[1693] Liutprandus, Hist., lib. 1, cap. 12.

[1694] Antiquit. Ital., Dissert. LXXIII.

[1695] Struvius, Hist. German., in Vita Arnulfi.



    Anno di CRISTO DCCCXCIX. Indizione II.

    GIOVANNI IX papa 2.
    BERENGARIO re d'Italia 12.


Soggiornava in _Pavia_ il _re Berengario_ nel marzo dell'anno presente,
dove concedette varii privilegii da me[1696] dati alla luce. Il primo in
favore della chiesa di San Nicomede nel distretto di Parma, spedito
_VIII idus martias_, cioè nel dì 8 d'esso mese. Un altro _V idus
martias_, ossia nel dì 11 di marzo, alle monache della Posterla di
Pavia. Un altro per le medesime dato _V kalendas aprilis, ossia nel dì
28 di marzo, anno Incarnationis Domini DCCCXCVIII, anno regni domni
Berengarii gloriosissimi regis XII, Indictione II_. Ma con errore,
dovendo essere _anno DCCCXCVIIII. Actum Papiae_; perchè nel marzo
dell'anno 898 Berengario non era padrone di Pavia, nè è credibile che la
di lui cancelleria ora adoperasse l'era fiorentina, ora la pisana, ora
la volgare. Pareva pure, che omai ridotto tutto il regno d'Italia sotto
il governo di un principe solo, principe amorevole e di cuor sincero,
s'avesse qui a godere un'invidiabil quiete. Ma andò ben diversamente, se
vogliam credere al Sigonio[1697], al padre Pagi[1698] e ad altri moderni
scrittori; perchè in questo medesimo anno cominciò per l'Italia una tela
di gravissime sciagure, se pur la storia mancante ed imbrogliata di
questi tempi ci lascia discernere il vero. Durava tuttavia in alcuni de'
principi italiani, già della fazione di Guido e Lamberto imperadori,
l'avversione a Berengario, rimontato pienamente sul trono. S'avvisarono
costoro di chiamare in Italia _Lodovico_ re di Provenza[1699], figliuolo
di _Bosone_ e di _Ermengarda_, cacciandogli in capo delle pretensioni su
questo regno, per essere stata Ermengarda figliuola di _Lodovico II
imperadore_. Quel che parve più strano, fu che _Adalberto_ marchese
d'Ivrea si fece capo e promotore di questa mena, ancorchè egli avesse
per moglie _Gisla_ figliuola del medesimo re Berengario, la quale gli
avea partorito un figliuolo appellato _Berengario_ dal nome dell'avolo
materno. Vedremo a suo tempo questo giovane Berengario divenire re e
tiranno dell'Italia. Volle dunque _Lodovico re di Provenza_ provar la
sua fortuna, e calò in Italia con un'armata de' suoi Provenzali. Ma
certificato che il re Berengario veniva ad incontrarlo con forza molto
maggiore, avvilitosi, non tardò a pentirsi della cominciata impresa, e,
secondo l'osservazione del Vangelo, spedì segreti messi a Berengario per
trattare di pace. Non ripugnò Berengario, siccome uomo di buona legge,
ed essendosi contentato che Lodovico con forte giuramento si obbligasse
di non mai più tornare in Italia, per qualunque chiamata o istanza che
gli fosse fatta dai nemici d'esso Berengario, gli permise di tornarsene
indietro sano e salvo. Fu in questa congiuntura ben assistito il re
Berengario da _Adalberto II_ potentissimo marchese di Toscana, dianzi
guadagnato con molti regali. Si attribuì al gagliardo soccorso suo la
facilità con cui Berengario si sbrigò da questo pericoloso impaccio. Ma,
siccome vedremo, non si può ammettere in quest'anno la prima venuta del
re Lodovico in Italia, e, per le ragioni che si addurranno, si dee essa
riferire all'anno susseguente. Un altro avvenimento di maggiore
importanza pare che s'abbia da riferire all'anno presente, cioè il primo
ingresso, ossia la prima scorreria in Italia della crudelissima nazione
degli _Ungheri_, chiamati anche _Unni_ e _Turchi_ da alcuni scrittori, e
nominatamente dal suddetto Liutprando. Se non falla l'autore della
Cronica di Nonantola, i cui frammenti furono pubblicati
dall'Ughelli[1700], _anno DCCCXCIX, venere Ungari in Italiam de mense
augusti, Indictione III, octavo kalendas octobris junxerunt se
Christiani cum eis in bello ad fluvium Brentam, ubi multa milia
Christianorum interfecta sunt ab eis, et alios focavere, et venerunt
usque da Nonantulam, et occidere monachos, et incenderunt monasterium,
et codices multos concremavere, atque omnem depopulati sunt locum.
Praedictus autem venerabilis Leopardus abbas cum cunctis aliis monachis
fugere, et aliquamdiu latuere._ Sicchè, secondo questo autore, nel dì 24
di settembre, in cui correva l'_Indizione III_, fu data la battaglia dai
Cristiani agli Ungheri pagani al fiume Brenta, con immensa strage e
totale sconfitta de' primi; dopo di che vennero fino all'insigne
monistero di Nonantola sul distretto di Modena, e dopo avergli dato il
sacco, lo consegnarono alle fiamme. Tuttavia perchè il continuatore
degli Annali di Fulda[1701] riferisce all'anno seguente questa memorabil
calamità degl'Italiani, può restar dubbio che piuttosto a quello che a
quest'anno appartenga l'entrata prima degli Ungheri, e la rotta data al
popolo cristiano. E tanto più perchè pare che gli Ungheri solamente dopo
la morte di _Arnolfo_ re di Germania alzassero la testa, e cominciassero
a portar la desolazione non meno alla Germania che all'Italia. Certo è
che sul fine di quest'anno esso _Arnolfo_ diede fine ai suoi malori
colla sua morte. Vedremo all'anno susseguente come si parli di questa
irruzione degli Ungheri in una lettera scritta dai vescovi tedeschi _a
papa Giovanni IX_. Intanto si vuole qui accennare un diploma del re
Berengario, copia del quale, conservata dai monaci benedettini di
Modena, fu da me data alla luce[1702]. In esso re Berengario conferma
tutti i privilegii e beni del predetto monistero nonantolano a Leonardo
abbate, e in fine si legge: _Datum XIIII kalendas septembris anno
Incarnationis Domini DCCCXCVIIII, domni autem Berengarii gloriosissimi
regis XII, Indictione II. Actum Curtis nostrae Vilzachara_, cioè nel
castello oggidì appellato san Cesario nel modenese, vicino a Nonantola.
Quivi nulla si parla degli _Ungheri_, perchè più di un mese dappoi,
secondo il suddetto storico di Nonantola, succedette l'infelice giornata
campale con essi alla Brenta.

NOTE:

[1696] Antiquit. Ital., Dissert. XVIII et LXVII.

[1697] Sigonius, de Regno Ital.

[1698] Pagius, ad Annales Baron.

[1699] Struvius, Hist. German., in Vita Arnulf.

[1700] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Episcop. Mutinens.

[1701] Annales Fuldenses Freheri.

[1702] Antiquit. Ital., Dissert. XXI, p. 155.



    Anno di CRISTO DCCCC. Indizione III.

    BENEDETTO IV papa 1.
    LODOVICO III re d'Italia 1.
    BERENGARIO re d'Italia 13.


Fu in quest'anno, per attestato degli Annali pubblicati dal Freero, e di
Reginone[1703], eletto dai vescovi della Germania per loro re _Lodovico_
figliuolo legittimo del defunto _Arnolfo_, benchè in età puerile; e di
tale elezione diedero essi avviso a _papa Giovanni_ con una lettera che
si legge nella Raccolta de' concilii[1704]. _Zventebaldo_ ossia
_Zventeboldo_, fratello bastardo d'esso Lodovico, era già in possesso
del regno della Lorena. Se gli ribellarono quei popoli con darsi a
Lodovico; perlochè insorse la guerra; ma rimasto ucciso in un fatto di
armi esso Zventebaldo, finì presto quel rumore. Abbiamo nella suddetta
Raccolta dei concilii un'altra lettera scritta al medesimo papa Giovanni
dai vescovi della Baviera, che dee appartenere all'anno presente, non
potendosi differir più tardi, quando sia certa, siccome pare, la morte
di papa Giovanni IX in questo medesimo anno. E tanto più perchè vi si
dice già eletto il nuovo re Lodovico: il che, siccome abbiam detto,
accadde nel principio dell'anno corrente. Quivi sono menzionati
_progenitores serenissimi senioris_ (ora diciam _signore_) _nostri,
Ludovici videlicet imperatoris_. Qualche guastatore degli antichi testi
in vece di _regis_ avrà quivi posto _imperatoris_; non essendo probabile
che tal titolo si desse a quel re fanciullo, perchè dai soli romani
pontefici questo si conferiva, nè si sa che alcuno in questi tempi
l'usurpasse in pregiudizio de' papi. Infatti di sotto è mentovato
_juvenculus rex noster_. Pretendono que' vescovi affatto calunniosa la
voce sparsa, ch'essi avessero fatta pace con gli Ungheri, _atque, ut in
Italiam transirent, pecuniam dedisse_. Soggiungono appresso: _Quando
vero Hungaros Italiam intrasse comperimus, pacificare cum eisdem
Sclavis, teste Deo, multum desideravimus, quatenus tamdiu spatium
darent, quamdiu Langobardiam nobis intrare et res sancti Petri
defendere, populumque christianum divino adjutorio redimere liceret. Et
nec ipsum ab eis obtinere potuimus._ In fine con un poscritto aggiugne
_Teotmaro arcivescovo_ juvavense, ossia di Salisburgo: _Sed quia Dei
gratia liberata est Italia, quando citius potero, pecuniam vobis
transmittam_. Essendo mancato di vita _papa Giovanni IX_, a cui si dice
scritta questa lettera, avanti il settembre dell'anno presente,
conseguentemente prima di quel tempo erano per la prima volta venuti a
devastar l'Italia i fierissimi Ungheri. Laonde o nell'anno presente o
nel precedente s'ha da mettere il principio di questa orribil tempesta,
che per tanti anni dipoi flagellò e devastò la misera Italia. Il
continuatore degli Annali pubblicati dal Freero[1705] sotto quest'anno,
nel quale egli depose la penna, scrive, che mentre i Bavaresi uniti coi
Boemi davano il guasto alla Moravia, _Avari qui dicuntur Ungari, tota
devastata Italia_ (manca qualche parola) _ita ut occisis episcopis
quamplurimis, Italici contra eos depellere molientes, in uno praelio uno
die ceciderint viginti millia_ (numero forse troppo ingrandito). _Ipsi
namque eadem via, qua intraverunt, Pannoniam regressi sunt_. Reginone,
o, per dir meglio, qualche suo continuatore poco perito della
cronologia, riferisce all'anno seguente, cioè fuor di sito, come ha
ancor fatto di altri avvenimenti, la deplorabil rotta data dagli Ungheri
all'esercito degl'Italiani. Ma, per quanto s'è detto, appartiene quella
calamità o al presente o all'antecedente anno. _Gens Hungarorum_, scrive
questo autore, _Langobardorum fines ingressa, caedibus, incendiis ac
rapinis crudeliter cuncta devastat. Cujus violentiae ac belluino furori
quum terrae incolae in unum agmen conglobati resistere conarentur,
innumerabilis multitudo ictibus sagittarum periit; quamplurimi episcopi
et comites trucidantur_. Aggiugne che _Ludmardo_ (vuol dire _Liutuardo_)
vescovo di Vercelli, già da noi veduto ministro favorito di Carlo il
Grosso imperadore, e in fine suo nemico, volendo scappare dalla crudeltà
di questi Barbari, che doveano essere arrivati fino a Vercelli, mentre
conduceva seco gl'immensi tesori da lui raunati nel suo ministero di
corte, disavvedutamente incappò nei medesimi masnadieri ungheri, che gli
tolsero la vita, e più volentieri le di lui ricchezze.

Ma il racconto più individuato dei primi affanni recati dagli Ungheri
all'Italia s'ha dallo storico Liutprando[1706]. Certamente egli falla
nella cronologia, perchè dopo aver narrata la morte di Arnolfo re di
Germania e l'assunzione al trono di Lodovico suo figliuolo, succeduta
nell'anno presente, ed altri avvenimenti de' susseguenti anni, seguita a
scrivere così: _Paucis vero interpositis annis, quum nullus esset, qui
in orientali ac australi plaga Hungaris resisteret (nam Bulgarorum
gentem atque Graecorum tributariam fecerant) immenso innumerabilique
collecto exercitu miseram petunt Italiam_. Appresso narra la prima
irruzion di costoro in Italia. Verso la metà di marzo entrarono pel
Friuli, e senza fermarsi nè ad Aquileia, nè a Verona (ch'egli chiama
_munitissimas civitates_ non senza maraviglia di chi legge, perchè
Aquileia atterrata da Attila non si sa che risorgesse mai più, e lo
confessa altrove[1707] lo stesso Liutprando), passarono alla volta di
Ticino, _quae nunc alio excellentiori vocabulo Papia vocatur_, quasichè
quella città prendesse questo nome dai papi, dall'ammirativo _papae_,
come alcuni gramaticucci han sognato, o fosse _patria pia_. Sorpreso
dalla comparsa di queste non mai più vedute genti straniere il re
Berengario, spedì tosto pressantissimi ordini per tutta la Lombardia,
Toscana, Camerino e Spoleti, e radunò un esercito tre volte più copioso
di quello degli Ungheri. Con queste forze andò contra de' Barbari, i
quali accortisi dello svantaggio, rincularono fino all'Adda, e
passaronlo a nuoto colla morte di molti. Inseguiti sempre dall'esercito
cristiano, giunsero al fiume Brenta, dove abbiamo anche veduto che
l'Anonimo nonantolano mette la battaglia funesta al popolo italiano.
Quivi trovandosi alle strette, mandarono al re Berengario supplicandolo
di volerli lasciar andare in pace, con esibirsi di restituire tutti i
prigioni e tutta la preda, e di obbligarsi di non ritornare mai più in
Italia: al qual fine gli darebbono in ostaggio i loro figliuoli. Non
dovea sapere Berengario il proverbio: _A nemico che fugge, fagli i ponti
d'oro_. S'ostinò egli in non volere dar loro quartiere, figurandoseli
tutti già scannati o presi. Portata questa inumana risposta agli
Ungheri, li trasse alla disperazione, ingrediente efficace per
accrescere il coraggio nelle zuffe. Però risoluti di vendere ben cara la
vita loro, improvvisamente vennero ad assalire i Cristiani che
dolcemente attendevano a bere e mangiare, senza aspettarsi una tal
improvvisata. Non fu quello un fatto d'armi; fu un macello di chiunque
non ebbe buone gambe; e a niuno si perdonò: tanto erano inviperiti que'
cani. Da lì innanzi niuno degl'Italiani ebbe più cuore di far fronte a
costoro, che vittoriosi scorsero dipoi per la Lombardia, e sul finir
dell'anno si riducevano in Ungheria, per tornar poscia nell'anno
appresso in Italia. Non potè di meno, che per questa imprudenza, e per
sì lagrimevol perdita fatta o nel presente anno o nel precedente, non
restasse screditato ed avvilito il re Berengario; e possiam
conghietturare che anche da questo sinistro di lui successo prendesse
animo _Lodovico re di Provenza_ per condurre, come io credo, la prima
volta l'armi sue in Italia. Liutprando[1708] scrive, che nato qualche
dissapore fra Berengario e _Adalberto II marchese_ di Toscana, questi,
ad istigazione specialmente di _Berta_ sua moglie, donna al maggior
segno ambiziosa, mosse gli altri principi d'Italia ad invitare il
suddetto re Lodovico alla conquista di questo regno. È anche da credere
che nel trattato avessero mano i Romani, giacchè si osserva che
Berengario non potè ottener la corona imperiale, e questa poi fu sì
facilmente conceduta al suddetto Lodovico. Anche il panegirista di
Berengario attesta[1709] che il promotore di questa venuta del re
Lodovico fu Adalberto marchese di Toscana con dire:

    _Quarta igitur Latio vixdum deferbuit aestas,_
    _Hac ratione iterum solito sublata veneno_
    _Bellua, Tyrrhenis fundens fera sibila ab oris,_
    _Sollicitat Rhodani gentem: cui moribus auctor_
    _Temnendus Ludovicus erat, sed stirpe legendus;_
    _Berengario genesi conjunctus quippe superba._

Come poi questo poeta parli qui di un _anno quarto_, dopo aver detto che
nell'_anno terzo_ Lamberto Augusto terminò sua vita, non si sa ben
comprendere. Dall'anno 896, in cui stabilirono pace insieme Lamberto e
Berengario, si può intendere che corsero tre anni, nel _terzo_ de'
quali, cioè nell'anno 898, Lamberto diede fine a' suoi giorni. Pel
_quarto_, in cui Lodovico re di Provenza calò in Italia, pare ch'egli
intenda l'anno 899, e che non abbia conosciuto o abbia confuso le due
diverse venute di questo re mentovate da Liutprando, con dirne una sola.
Comunque sia, in quest'anno è certa la discesa d'esso Lodovico in
Italia; e questa la credo io la prima sua venuta. Accenna il Sigonio due
diplomi[1710] dati dal re Berengario in _Verona IV idus martias_, e
_XIII kalendas novembris_ dell'anno presente. E due altri dati dal re
Lodovico _pridie idus octobris_ in corte _Olonna_, e _pridie kalendas
novembris_ del medesimo anno in _Piacenza_. Quest'ultimo si legge presso
l'Ughelli[1711]. Ho io prodotto altrove[1712] un privilegio da lui
conceduto nel febbraio dell'anno seguente a _Pietro vescovo_ di Arezzo,
da cui si ricava, che dataglisi la città di Pavia, quivi in una gran
dieta de' vescovi, marchesi e conti del regno d'Italia (circa il
principio di ottobre dell'anno presente), _Venientibus vobis_ (dice
egli) _Papiam in sacro palatio, ibique electione, et omnipotentis Dei
dispensatione, in nobis ab omnibus episcopis, marchionibus, comitibus,
cunctisque item majoris inferiorisque personae ordinibus facto_, ec. Nè
perdè egli tempo per andare a Roma, dove gli dovea già essere stata
promessa la corona e il titolo d'imperadore. In un altro suo diploma,
parimente da me pubblicato[1713], egli comparisce in _Olonna_ presso a
Pavia nel dì 14 di ottobre dell'anno presente, e conta l'_anno primo_
del regno d'Italia.

Aveva intanto la morte rapito il buon _papa Giovanni IX_, e in luogo suo
era stato sustituito papa _Benedetto IV_. Prima del dì 31 d'agosto
convien credere che seguisse l'elezione e consecrazione di questo
pontefice, dacchè abbiamo una sua bolla spedita pel vescovo di Lione
_Angrino_, e data[1714] _II kalendas septembris anno domni Benedicti
papae primo, anno II post obitum Landeberti imperatoris Augusti,
Indictione III_, cioè nell'anno presente. E in quest'anno medesimo
credette il padre Pagi[1715], e credeva anch'io una volta, che Lodovico
avesse conseguito in Roma la corona e il titolo imperiale; ma, per le
ragioni che addurrò, ciò avvenne solamente nell'anno appresso.
Reginone[1716], o, secondo me, chi fece senz'ordine di cronologia delle
giunte alla storia di Reginone, scrive all'anno 897 avvenimenti che
debbono appartenere all'anno presente: cioè, che _inter Ludovicum et
Berengarium in Italia plurimae congressiones fiunt; multa certaminum
discrimina sibi succedunt. Novissime Ludovicus Berengarium fugat, Romam
ingreditur, ubi a summo pontifice coronatus, imperator appellatur_.
Altre memorie non ci restano per chiarire, se veramente in quest'anno
succedessero tali combattimenti fra Lodovico e Berengario. E qui si
osservi che il buon Liutprando non fa menzione alcuna della promozion di
_Lodovico_ alla dignità imperiale, ed assai mostra di non averne avuta
contezza: il che ci dee rendere cauti a credere tutto quanto fu scritto
da lui de' tempi alquanto lontani dall'età sua. Accadde nell'anno
presente mutazion di dominio nel principato di Benevento[1717].
_Radelchi_ ossia _Rodelgiso II principe_ di quella contrada, assai facea
conoscere la sua semplicità e debolezza con lasciarsi governare alla
cieca da un certo Virialdo, uomo di malignità sopraffina. Costui
trattava alla peggio i Beneventani, moltissimi ne cacciò in esilio, e
costoro si ricoveravano tutti a Capoa sotto la protezione di _Atenolfo
conte_ e signore di quella città. Aveva Atenolfo, siccome personaggio
attento a' suoi interessi, fatto dei gran maneggi per ottenere una
figliuola di _Guaimario I principe_ di Salerno, in moglie per _Landolfo_
suo figliuolo, ma senza mai poterla spuntare, tuttochè si esibisse di
riconoscere lui per suo sovrano, come aveano fatto in addietro i conti
di Capoa. A queste nozze sempre si oppose _Jota_, sorella del fu _Guido
duca_ di Spoleti e moglie d'esso Guaimario, la quale per essere _ex
regali stemmate orta_, abborriva d'imparentarsi con chi ella pretendeva
suddito suo. Vi si opposero anche i parenti d'esso Atenolfo, banditi e
dimoranti in Salerno. Il perchè, stanco di questi rifiuti, fece Atenolfo
pace con _Atanasio II, vescovo_ e duca di Napoli, ed accasò il figliuolo
_Landolfo_ con _Gemma_ figliuola d'esso Atanasio. Intanto i fuorusciti
beneventani andavano stuzzicando e animando Atenolfo ad occupar la città
e il principato di Benevento, e menarono così accortamente questo
trattato, che una notte rotte le serrature di quella città,
v'introdussero Atenolfo; e dopo aver preso Radelgiso, concordemente col
popolo proclamarono principe esso Atenolfo, il quale con umili maniere e
molti doni seppe ben cattivarsi in breve l'amore di que' cittadini.
L'Ughelli, seguitando la scorta di alcuni storici napoletani, mette la
morte del suddetto _Atanasio_ II, vescovo di poco gloriosa memoria, ed
anche duca di Napoli, nell'anno 895. Ma probabilmente egli visse oltre a
quell'anno; e se la di lui figliuola Gemma fosse stata presa per moglie
in quest'anno dal figliuolo di Atenolfo (parendo verisimile che suo
padre Atanasio fosse allora vivo), converrebbe differir la morte di
questo vescovo almen sino all'anno presente. In luogo di lui certo è che
_Gregorio_ (nipote suo, se non erro) fu creato duca di Napoli. Da uno
strumento riferito dal Campi[1718] si vede che in quest'anno nel dì 25
di settembre _per Indictione quarta domna Ageltruda olim imperatrix
augusta_ fa un cambio con _Majone abbate_ di San Vincenzo del Volturno,
acquistando una corte e chiesa posta nel piacentino, e ch'essa
continuava ad abitare nel ducato di Spoleti.

NOTE:

[1703] Rhegino, in Chronico.

[1704] Labbe, Concil., tom. 9.

[1705] Annales Fuldenses Freheri.

[1706] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 4.

[1707] Idem, ibidem.

[1708] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 10.

[1709] Anonym., in Panegyr. Berengarii, lib. 4.

[1710] Sigonius, de Regn. Ital., lib. 6.

[1711] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 Append.

[1712] Antiquit. Italic., Dissert. III.

[1713] Antiquit. Italic., Dissert. X, pag. 582.

[1714] Labbe, Concil., tom. 9.

[1715] Pagius, ad Annal. Baron.

[1716] Rhegino, in Chronico.

[1717] Anonym. Benevent. apud. Peregr., P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[1718] Campi, Istor. di Piacenza, Append.



    Anno di CRISTO DCCCCI. Indizione IV.

    BENEDETTO IV papa 2.
    LODOVICO III imperadore 1.
    BERENGARIO re d'Italia 14.


Noi diam principio ai secolo decimo dell'era cristiana, secolo di ferro,
pieno d'iniquità in Italia per la smoderata corruzion de' costumi non
meno ne' secolari, che negli ecclesiastici: motivi a noi di ringraziar
Dio, perchè ci abbia riserbati ai tempi presenti, non già esenti dai
vizi ed abusi; ma tempi aurei in paragone di quelli. Non come pretesero
il cardinal Baronio, il padre Pagi, l'Eccardo ed altri, fu conferita a
_Lodovico_ re di Provenza e d'Italia la corona imperiale in Roma dal
pontefice Benedetto IV, nell'anno 900, ma bensì nel febbraio dell'anno
presente, come avvertì il Sigonio[1719], e fu confermato dal signor
Sassi[1720] bibliotecario dell'ambrosiana. Rapporta l'Ughelli[1721], e
più correttamente il padre Tatti, un diploma di questo principe, dato in
favore della chiesa di Como a Liutprando vescovo di quella città e suo
arcicancelliere, _XV kalendas februarii, die, anno Incarnationis Domini
DCCCCI, Indictione IV, anno autem Ludovici largissimi_ (forse
_gloriosissimi) regis in Italia primo. Actum Baloniae_. Si dee scrivere
_Boloniae_. Un altro ne ho io prodotto[1722] della donazione della corte
di Guastalla fatta da esso re al monistero di San Sisto di Piacenza,
dato _XIV kalendas februarii anno Incarnationis dominicae DCCCC_ (quando
non si adoperi l'anno fiorentino e veneziano, cosa che a me par
difficile, si dee scrivere _DCCCCI) Indictione IV, anno primo regnante
Hludovico gloriosissimo rege in Italia. Actum Bolonia civitate_. Adunque
nel dì 14 di gennaio del presente anno era tuttavia Lodovico in Bologna,
ed usava il solo titolo di re. Passò dipoi a Roma, dove nel mese di
febbraio niuna difficoltà trovò ad essere innalzato al trono imperiale,
e coronato da papa _Benedetto IV_. Mi si rende verisimile che i voti del
pontefice e del senato romano concorressero volentieri in questo
principe, perchè _Berengario_ per lo scacco matto a lui dato dagli
Ungheri avea perduto il credito; e Lodovico all'incontro per l'unione
del regno di Provenza con quello d'Italia veniva creduto più possente e
più atto dell'altro a sostener questo governo e a difendere gl'Italiani
dagli Ungheri e dai Saraceni. Dappoichè Lodovico ebbe conseguita
l'imperial dignità, tosto ne esercitò l'autorità in Roma stessa, con
alzar ivi tribunale, e decidere le cause di chiunque a lui ricorreva per
ottenere giustizia. Così usavano di fare anche gli altri precedenti
novelli imperadori. È celebre in questo proposito un giudicato che già
il Fiorentini[1723] diede alla luce, scritto _anno imperii domni
Ludovici primo, mense februarii, Indictione quarta_, cioè nell'anno
presente. Il suo principio è questo _Dum domnus Ludovicus serenissimus
imperator augustus a regale dignitate Romam ad summum imperialis
culminis apicem per sanctissimi ac ter beatissimi summi pontificis et
universalis papae domni Benedicti dexteram advenisset; atque cum eodem
reverentissimo patre cum sanctissimis romanis seu italicis episcopis,
adque regni sui ducibus et comitibus, ceterisque principibus, _ec._ in
palacio, quod est fundatum juxta basilica beatissimi Petri principis
Apostolorum, in Laubia magiore ipsius palacii pariter cum eodem summo
pontifice, in judicio resedisset_, ec. Sicchè ragion vuole che si
riferisca al febbraio di quest'anno, la coronazione romana di questo
principe in Roma, dove era egli tuttavia nel dì 2 di marzo, come
risultata da un suo diploma[1724], da me pubblicato, dove si legge
l'_anno I dell_'imperio. Ch'egli poi si ritrovasse in _Pavia_ sul fine
dell'anno apparisce da un altro suo privilegio, in cui concede alla
chiesa di Como la badia della Coronata, posta vicina al fiume Adda,
quella stessa che fu fondata da Cuniberto re de' Longobardi. Il
diploma[1725] è dato _VII idus decembris anno Incarnationis Domini
DCCCCI, Indictione IV, anno autem regni Ludovici serenissimi imperatoris
in Italia primo_. Non può sussistere un diploma che viene accennato
dall'Ughelli[1726] come dato da Berengario _Papiae anno DCCCCI, sexto
idus julii, Indictione IV, anno ejusdem regis_ XIII. In quest'anno
_Berengario_ non fu padrone di Pavia. L'anno XIII del suo regno correva
nell'anno precedente, e a questo si dovrà riferire il diploma con
correggere del pari l'indizione, se pur non si tratta di un documento
apocrifo. Se la guerra continuasse, o se qualche battaglia si desse fra
questo nuovo imperadore e il re Berengario nell'anno presente, non si
può raccogliere dalle troppo scarse memorie di que' tempi. Sappiamo che
riuscì al primo di cacciar l'altro fuori d'Italia; ma in qual anno
preciso questo avvenisse, non ci è permesso di accertarlo. Il cardinal
Baronio si trovò alla descrizion di questi tempi sì confuso, che
disavvedutamente inciampò in non pochi anacronismi per volersi scostare
dal Sigonio, che qui più accuratamente pose al suo sito e distinse gli
avvenimenti. Ancorchè, siccome abbiam detto di sopra all'anno 896, a
_Guaimario I_ principe di Salerno fosse stata data una buona lezione che
dovea umiliarlo, allorchè gli furono cavati gli occhi; pure ritornato
alla sua residenza, non cessò mai d'essere superbo e crudele. Tante ne
fece, che perduta la pazienza, il popolo si mise a stuzzicare _Guaimario
II_ suo figliuolo, già dichiarato nell'anno 893 collega nel principato
dal padre, acciocchè egli solo assumesse il governo. Non caddero in
terra queste esortazioni. Fu preso con buona maniera il cieco e vecchio
Guaimario, e confinato nella chiesa di san Massimo, fondata da lui
stesso: con che il figliuolo da lì innanzi signoreggiò solo, e con
soddisfazione del popolo tutto. Però dai Salernitani il primo vien
chiamato _Guaimarius malae memoriae_, e il secondo _bonae memoriae_.
Abbiamo dalla Cronica arabica cantabrigense[1727] che Abul-abbas
generale dei Saraceni in Sicilia _cepit Panormum, et caedes magna fuit
die octavo mensis septembris_. Ma lascia di dir questo autore, se
Palermo fosse allora in mano di qualche ribello del re moro, oppur de'
cristiani greci, i quali nondimeno non ci resta vestigio che
ricuperassero quella città, da che fu per la prima volta loro tolta dai
Saraceni. In quest'anno ancora _Atenolfo_, principe di Benevento e
signore di Capoa, prese per suo collega nel principato[1728] _Landolfo_
suo figliuolo. Era in questi tempi conte del palazzo e conte di Milano
_Sigifredo_, siccome apparisce da un suo placito[1729] tenuto in Milano
nella corte del duca. Secondochè ho io dimostrato altrove[1730], nella
corte dei re longobardi la principal dignità dopo la regale veniva
considerata quella del conte del palazzo, appellato anche sacro palazzo,
perchè a lui in ultima istanza si riferivano tutte le cause del regno,
stendendosi perciò la di lui autorità anche nelle città delle marche del
Friuli, della Toscana e di Spoleti, ma non già al ducato di Benevento.

NOTE:

[1719] Sigonius, de Regno Ital., lib. 6.

[1720] Saxius, in Not. ad eumdem Sigonium.

[1721] Ughell., Ital. Sacr. lib. V, in Episc. Comens.

[1722] Antiquit. Italic., Dissert. XXI.

[1723] Fiorentini, Memor. di Matilde, Append.

[1724] Antiq. Ital., Dissert. XIX pag. 49.

[1725] Ughell., tom. 5, in Episcop. Comens.

[1726] Idem, ibidem, in Episcop. Vercellens.

[1727] Chronicon. Arab. P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[1728] Chronicon Vulturnense, P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[1729] Antiq. Ital., Dissert. XII, pag. 717.

[1730] Ibidem. Dissertat. VII.



    Anno di CRISTO DCCCCII. Indizione V.

    BENEDETTO IV papa 3.
    LODOVICO III imperadore 2.
    BERENGARIO re d'Italia 15.


Da un diploma[1731] esistente nell'archivio de' canonici di Reggio
abbiamo che nel dì 12 di febbraio di quest'anno _Lodovico imperadore_
soggiornava in Pavia. Le note son queste: _Dat. II idus februarii, anno
Domini DCCCCII, Indictione V, anno primo imperante domno Hludovico in
Italia. Actum Papiae_. Di qui ancora apparisce che la coronazione romana
di questo imperadore dovette succedere dopo il dì 12 di febbraio
dell'anno precedente. Anche il Sigonio[1732] ne cita un altro d'esso
Lodovico, dato _IV idus maii, anno regni sui in Italia secundo, Christi
DCCCCII_, ma senza far menzione dell'anno dell'imperio. E nell'archivio
archiepiscopale di Lucca vi ha uno strumento scritto _IV kalendas junii,
anno II imperii Ludovici, Indictione V_. Non si può giugnere a conoscere
in quale degli anni, dappoichè Lodovico re di Provenza si impadronì del
regno d'Italia, riuscisse a lui di cacciar Berengario fuori non solo di
Verona, ma anche di tutta l'Italia. Crede il Sigonio che ciò avvenisse
nel precedente anno. Comunque sia, pare indubitata cosa che Berengario
ne fu cacciato; ed egli ritiratosi in Baviera presso il giovane
_Lodovico re_ di Germania, stette quivi ad aspettar qualche favorevole
vicenda del mondo, per riacquistare il perduto regno. Se vogliam
riposare sulla opinione del Sigonio, seguitata e fiancheggiata dal padre
Pagi, dal Leibnizio, dall'Eccardo e da altri, in questo medesimo anno
Berengario la ricuperò, e seguì la tragedia di Lodovico III imperadore
suddetto, descritta dal poeta panegirista di Berengario[1733], da
Liutprando[1734], Reginone[1735] ed altri antichi storici. Racconta
Liutprando, che dopo aver Lodovico conquistata l'Italia, e visitate
varie sue Provincie, gli venne voglia di vedere anche la Toscana. A
questo fine da Pavia passò a Lucca, dove con impareggiabil magnificenza
fu accolto da _Adalberto II_ duca e marchese di quella provincia. Restò
ammirato esso imperadore al trovar quivi tante truppe, tutte ben in
ordine, e nella corte d'esso Adalberto una sì gran suntuosità e
proprietà, e le immense spese fatte da quel ricchissimo principe per
onorarlo. Gli scappò pertanto detto in confidenza ai suoi domestici:
_Questo Adalberto s'avrebbe da chiamare piuttosto re che marchese,
perchè in nulla è da meno di me, fuorchè nel nome_. Riportato questo
motto al duca Adalberto e a _Berta_ sua moglie, donna accortissima,
trovarono essi sotto queste parole nascoso il tarlo d'invidia; e però
Berta da lì innanzi alienò da Lodovico l'animo del marito e degli altri
principi d'Italia. Passò dalla Toscana a Verona l'imperador Lodovico, e
quivi si mise a dimorar con tutta pace, avendo probabilmente licenziata
parte dei suoi soldati, o messili a quartiere per la campagna. Scrive il
panegirista di Berengario, aver esso Lodovico sottomessa Verona colle
città circonvicine, perchè Berengario malconcio per una molesta quartana
non potè fargli resistenza. E che andato Lodovico a quella città,
ricompensò i suoi soldati con donar loro una gran quantità di poderi,
togliendoli forse ai cittadini. Senza timore dipoi quivi se ne stava,
perchè era venuta nuova, forse apposta fatta disseminare dallo stesso
Berengario, che l'emulo Berengario era sloggiato dal mondo.

    _Nil veritus: metuenda nimis quia sustulit ipsum_
    _Fama Berengarium lethi discrimina passum._

Ma non era morto nè dormiva Berengario. Ben informato egli dello stato
delle cose da que' cittadini che tenevano per lui, e specialmente da
_Adelardo_ vescovo della città, che l'esortò a venire, per testimonianza
di Reginone: prima ben concertato l'affare, una notte giunto con grossa
brigata d'armati alle mura di Verona, vi fu introdotto, e sul far del
giorno diede all'armi. Lodovico se ne fuggì in una chiesa. Scoperto e
preso, fu presentato a Berengario, che forte il rimproverò per la
mancata fede, e per aver rotto il giuramento di non ritornare in Italia;
e, ciò non ostante, dopo avergli fatto cavar gli occhi, perdonò la vita
allo spergiuro avversario, e lasciollo anche ritornar liberamente in
Provenza. Nel panegirico di Berengario probabilmente l'adulazione fece
dire a quel poeta, che contro la volontà di Berengario i suoi partigiani
tolsero la vista a Lodovico. Giovanni Bracacurta, che forse avea per
tradimento ceduta Verona a Lodovico, colto in una torre, restò tagliato
a pezzi. I soldati provenzali, all'avviso di questa disavventura, tutti
se n'andarono chi qua chi là dispersi, e Adalberto marchese d'Ivrea,
genero di Berengario, diede loro addosso nel voler passare l'Alpi.

Dopo questo fortunato colpo non fu difficile al re Berengario di
ricuperare il regno d'Italia, al quale si può ben senza fatica credere
che l'orbo Lodovico imperadore fu obbligato di rinunziare, se volle la
libertà di ritornarsene oltramonti. Che poi nell'anno presente avvenisse
colla caduta del nemico principe il risorgimento del re Berengario,
sembra che non s'abbia a dubitarne. Nell'archivio del capitolo di Modena
tuttavia si conserva un diploma originale d'esso Berengario, già
pubblicato dal Sillingardi, e poi dall'Ughelli[1736], dato _interventu
Hegilulfi episcopi a Gotifredo_ vescovo di Modena, _VII Idus Augusti
anno Incarnationis Domini nostri Jesu Christi DCCCCII, anno vero regni
domni Berengarii gloriosissimi regis decimo quinto per Indictionem V.
Actum civitate Papiae_. Ho io inoltre pubblicato[1737] un altro suo
diploma, dato in favore di Pietro vescovo di Reggio, _XVI kalendas
augusti, anno dominicae Incarnationis DCCCCII, regni vero domni
Berengarii piissimi regis XV, Indictione V. Actum palatio ticinensi,
quod est caput regni nostri_. Sicchè dee mettersi per cosa certa che
riuscì nel mese di luglio al re Berengario di ricuperare il regno, e di
far mutar paese all'Augusto Lodovico. Vedremo, andando innanzi, altre
pruove concorrenti a persuaderci la sussistenza di questa opinione, e
che si vede autenticata ancora da Leone Ostiense là dove scrive[1738]:
_Ludovicus Bosonis regis provinciae filius regnavit annis tribus:_ cioè
preso il principio del suo regno dalla elezione, siccome dicemmo,
seguita in Pavia l'anno 900. Contuttociò insorgono tali difficoltà, non
già intorno alla depression di Lodovico, ma sì bene intorno
all'acciecamento suo, che, secondo me, convien credere molto più tardi
balzato affatto dal trono d'Italia, e insieme privato degli occhi esso
Lodovico. Queste le ho già esposte altrove[1739], e le addurrò anche nel
progresso di questi racconti. Altro, per quanto a me sembra, non accadde
in quest'anno, se non che prevalse la fortuna di Berengario, aiutato da
_Adalberto duca_ di Toscana: laonde l'_Augusto Lodovico_ fu obbligato a
ritirarsi in Provenza con giuramento di più non tornare in Italia.
Abbiamo poi da Lupo Protospata[1740], che nell'anno presente Ibrahim re
de' Saraceni africani venne a Cosenza nella Calabria, e vi morì colpito
da un fulmine. Altra Cronica arabica[1741] mette la sua morte per
disenteria nell'anno presente, o pur nel seguente, e la dice succeduta
in Sicilia.

NOTE:

[1731] Antiquit. Ital., Dissert. XXI.

[1732] Sigonius, de Regno Ital., lib. 6.

[1733] Anonymus, in Paneg. Berengarii, lib. 4.

[1734] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 11.

[1735] Rhegino, in Chronico.

[1736] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Episcop. Mutinens.

[1737] Antiquit. Ital., Dissertat. XIV.

[1738] Leo Ostiensis, Chronic., lib. 1, cap. 44.

[1739] Antiquit. Italic., Dissert. XIV.

[1740] Protospata, in Chronico., tom. 5, Rer. Ital.

[1741] Chronicon Arabic. Ismaelis Abulfeda.



    Anno di CRISTO DCCCCIII. Indizione VI.

    LEONE V papa 1.
    CRISTOFORO papa 1.
    LODOVICO III imperadore 3.
    BERENGARIO re d'Italia 16.


Seguì nell'anno presente la fondazione del monistero di S. Savino, fatta
in Piacenza da _Everardo vescovo_ di quella città. Dice questo vescovo
nello strumento[1742] che la chiesa di questo santo era dianzi fuori di
Piacenza, e ch'egli pensava di quivi fabbricare un monistero di
Benedettini: _Haec itaque vota dum ferventi amore cuperemus explere (heu
proh dolor!) supervenit misera horridaque gens infelicium paganorum, qui
hostili gladio corpora trucidantes, igneque furoris ecclesias Dei
cremantes, concremaverunt pariter praefatam beati Savini ecclesiam_.
Aggiugne, cioè che per timore che i pagani suddetti, gli Ungheri, non
tornassero un'altra volta ad infierire contra di quel sacro luogo, avea
fabbricata entro la città la chiesa e il monistero di S. Savino: notizie
tutte che ci fan conoscere seguita la prima funestissima irruzione degli
Ungheri in Italia nell'anno 899, o nel 900. Lo strumento è scritto
_Regnante domno Berengario gratia Dei rege anno regni ejus in Dei nomine
sextodecimo, III kalendas aprilis., Indict. VI. Actum Placentiae._ Per
conseguente vegniamo ad intendere che il re Berengario nel fine di marzo
dell'anno presente signoreggiava in Piacenza, ed era già stato da lui
abbattuto e cacciato fuor d'Italia Lodovico III imperadore. Anche il
Fiorentini[1743] e Cosimo della Rena[1744] osservarono che nell'anno 903
e 904 sono segnati gli strumenti di Lucca coll'anno XVI e XVII del re
Berengario; e però veggiamo confermata la medesima verità. Abbiamo
inoltre due privilegii conceduti dallo stesso re Berengario all'insigne
monistero di Bobbio, e già dati alla luce dall'Ughelli[1745]. Il primo
fu scritto _III idus septembris anno dominicae Incarnationis DCCCCIII,
regni vero domni Berengarii piissimi regis XVI, Indictione VII, Actum
apud ecclesiam sancti Petri corte nostra Fulcia_. L'altro fu dato _XII
kalendas novembris anno dominicae Incarnationis DCCCCIII, regni domni
Berengarii XVI. Actum in Papia civitate palatio ticinensi_. Però non
pare che resti dubbio intorno all'essere stato in questi tempi signore
di Pavia e del regno d'Italia il re Berengario ad esclusione di
_Lodovico III imperadore_, soprannominato dai susseguenti scrittori
l'_Orbo_, per distinguerlo dagli altri Augusti di questo nome.
Finalmente ho io pubblicato un bellissimo placito[1746] tenuto in
Piacenza _anno regni domni Berengarii regis, Deo propitio, XV, mense
januario, Indictione sexta_, da Sigefredo conte del sacro palazzo. Che
quivi allora si trovasse anche il re Berengario, si ricava dal principio
del placito: _Dum in Dei nomine civitate Placentia ad monasterium
sanctae Resurrectionis Jesu Christi domnus gloriossimus Berengarius rex
praeerat_. Da questo documento ancora apprendiamo che _Ermengarda_
figliuola di _Lodovico II imperadore_ e della _regina Angelberga_, e
madre di Lodovico re di Provenza ed imperadore vivente, s'era fatta
monaca in san Sisto di Piacenza, ed era allora badessa di quel
monistero.

Venne a morte nell'anno presente _Benedetto IV_ papa. Se non fosse
Frodoardo che ci ha lasciato qualche memoria de' romani pontefici di
questo disgraziato secolo, noi non sapremmo le rare doti e virtù di un
tale papa. Merita d'essere riferito ancor qui l'elogio ch'egli ne fa con
dire[1747]:

    _Tum sacra consurgunt Benedicti regmina quarti_
    _Pontificis magni, merito qui nomine tali_
    _Enituit, cunctis ut dapsilis atque benignus._
    _Huic generis necnon pietatis splendor opimus_
    _Ornat opus cunctum. Meditatur jussa Tonantis._
    _Praetulit hic generale bonum lucro speciali._
    _Despectas viduas, inopes vacuosque patronis,_
    _Assidua ut natos propria bonitate fovebat,_
    _Mercatusque polum, indignis sua cuncta refudit._

Gli succedette nella cattedra di san Pietro _Leone V_, ma non durò
neppur due mesi il suo pontificato. Secondochè s'ha da Vicenzo
Belluacense, da Martino Polacco, da Tolomeo da Lucca, dal Platina e da
altri, _Crisoforo_ suo prete o cappellano il cacciò in prigione, ed
occupò egli la sedia apostolica. Fa il cardinal Baronio[1748] un giusto
lamento sopra l'infelice ed obbrobrioso secolo, di cui ora andiamo
parlando, con attribuire specialmente la sorgente di tanti disordini e
mostri, che si videro sul trono di Pietro, alla prepotenza de' principi
secolari, che vollero mischiarsi nell'elezione de' romani pontefici,
concludendo in fine: _Nihil penitus Ecclesiae romanae contingere posse
funestius, tetrius nihil atque lugubrius, quam si principes saeculares
in romanorum pontificum electionem munus immittant_. L'osservazione del
saggio e zelante porporato è bella e buona, e noi dobbiam desiderar che
sempre duri la libertà ben regolata e da tanti secoli introdotta nel
sacro collegio de' cardinali di eleggere il romano pontefice. Ma qui è
fuor di sito l'epifonema dello zelante Annalista; perchè i malanni della
sedia apostolica in questi tempi vennero dai Romani stessi, e non dai
principi secolari. Per lo contrario in que' secoli, ne' quali il clero e
il senato, i militi, cioè i nobili, e il popolo romano aveano tutti mano
nell'elezione del sommo pontefice, nascevano bene spesso contese e
scismi, non fu già creduto un abbominevol ripiego che i buoni imperadori
adoperassero il loro consenso per frenare in questa guisa le gare, le
fazioni e le prepotenze degli elettori. Abbiam veduto che il buon papa
Giovanni IX conobbe _canonico_ e necessario questo freno. Abbiamo anche
veduto tanti buoni ed ottimi papi eletti in addietro; nè si può dire che
nuocesse alla santa Sede l'esservi intervenuto il consentimento degli
Augusti. Anzi allorchè non vi furono imperadori o non ebbero essi alcuna
parte nell'elezion de' nuovi pontefici, e Roma si trovò piena di mali
umori, allora succederono i disordini più grandi, come si può conoscere
consultando la storia della Chiesa. Lodiamo dunque i principi buoni e i
tempi presenti, e biasimiamo i principi cattivi di tutti i tempi; e
rendiamo grazie a Dio che da tanti anni in qua camminano di sì buon
concerto le elezioni de' romani pontefici, e questi buoni, e questi di
edificazione, e non più di scandolo al popolo di Dio, senza che vi sia
bisogno di freno ai disordini per mezzo della potenza secolare. Se Roma
avesse allora avuto in Italia un imperadore, non sarebbe succeduta la
deforme scena di Cristoforo, che illegittimamente si assise sulla
cattedra pontificia, piuttosto tiranno che vero pontefice. Riferisce il
Dachery[1749] una bolla di questo _papa Cristoforo_, scritta nel fine
dell'anno presente in favore della badia di Corbeia, _Indictione VII,
septimo kalendas januarii, imperante domno nostro piissimo Augusto
Lodovico a Deo coronato imperatore sanctissimo_. Si osservi questo
nominar tuttavia imperadore Lodovico III, il quale pur vien creduto,
siccome abbiam detto, che accecato fosse spinto fuori d'Italia.

NOTE:

[1742] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1, Append.

[1743] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.

[1744] Rena, Serie de' duchi di Toscana.

[1745] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Bobiens.

[1746] Antiq. Ital., Dissert. VII.

[1747] Frodoardus, de Roman. Pont., P. II, tom. 2, Rer. Ital.

[1748] Baron., in Annal. Eccl. ad annum 900.

[1749] Dachery, Spicileg., tom. 6.



    Anno di CRISTO DCCCCIV. Indizione VII.

    SERGIO III papa 1.
    LODOVICO III imperadore 4.
    BERENGARIO re d'Italia 17.


Da un privilegio conceduto al monistero di San Vittore di Marsiglia, e
pubblicato dai padri Martene[1750] e Durand, noi impariamo che _Lodovico
imperadore_ soggiornava in Arles in Provenza nel dì 21 di marzo
dell'anno presente, essendo dato quel diploma _XI kalendas maii, anno
Domini DCCCCIV, Indictione septima, anno quarto, imperante domno nostro
Illudovico. Actum Arelate_. All'incontro noi troviamo in Verona il _re
Berengario_ nel dì 4 d'aprile di questo medesimo anno, ciò costando da
un suo diploma originale da me veduto nell'insigne monistero di san
Zenone di quella città, e pubblicato con queste note[1751]: _Data pridie
nonas aprilis, anno dominicae Incarnationis DCCCCIV, regni vero domni
Berengarii piissimi regis XVII, Indictione VII. Actum Veronae_. Ne
abbiamo un altro già dato alla luce dal Sillingardi e poi
dall'Ughelli[1752], cioè un privilegio conceduto a _Gotifredo vescovo_
di Modena, dato _VIII kalendas julias, anno Incarnationis Domini
DCCCCIV, anno vero domni Berengarii serenissimi regis XVII. Actum urbe
ticinensi_. Così sta nel suo originale. Un altro ancora spedito _XVIII
kalendas julii_ di quest'anno, _Actum villa Itazani_, si legge
nell'archivio de' canonici di Modena. Perciò possiam conietturare che la
pace per quest'anno continuasse in Italia, nè fosse turbato il re
Berengario nel possesso dell'italico regno. Egregiamente già ha provato
il padre Pagi[1753] che nel presente anno fu cacciato dal trono
pontificio l'usurpato re _Cristoforo_, e in suo luogo eletto e
consecrato _Sergio_ prete, cioè quel medesimo che dianzi nell'anno 898
vedemmo eletto papa in concorrenza di papa _Giovanni IX_. Ebbe più polso
in esso anno 898 la fazione opposta; laonde egli senza poter giugnere
alla consecrazione, fu necessitato a mutar cielo e a fuggirsene in
Toscana, dove stette nascoso per sette anni. Bisogna qui ascoltar
Frodoardo, scrittore di questi tempi[1754], che ne parla nella seguente
maniera:

    _Sergius inde redit, dudum. qui lectus ad arcem_
    _Culminis, exsilio tulerat rapiente repulsam._
    _Quo profugus latuit septem volventibus annis._
    _Hinc populi remeans precibus, sacratur honore_
    _Pridem adsignato. quo nomine tertius exit_
    _Antistes, Petri eximia quo sede recepto_
    _Praesule, gaudet ovans annis septem amplius orbis._

Sicchè non è vero ciò che scrisse Liutprando istorico dell'elezion di
_Sergio_ nell'anno 891, nè che a lui prevalesse quella occasione papa
Formoso. Ciò avvenne, come ho detto, solamente all'anno 898; e però
convien ripetere che Liutprando, a cui per altro siam tanto obbligati
per la storia d'Italia di questo secolo, non può negarsi che non l'abbia
molto imbrogliata ne' fatti accaduti, prima ch'egli nascesse, perchè li
scrisse solamente per altrui relazione. L'han seguitato alla cieca i
susseguenti storici, perchè negli affari d'Italia non aveano di meglio
da poter consultare. Si scatena qui contra _Sergio_ il cardinal
Baronio[1755] con parlarne all'anno 908, sino al quale egli differisce
l'ingresso del medesimo Sergio nel papato, con dargli i titoli di
_nefandus, quem audisti in Formosum papam ita saevisse. Potens iste
armis Marchionis Tusciae Adalberti, homo vitiorum omnium servus
facinorosissimus omnium, quae intentata reliquit? Invasit iste sedem
Christophori. Ab omnibus non legitimus pontifex, sed conclamatur
invasor_. Se il porporato Annalista avesse potuto vedere a' suoi di ciò
che di Sergio scrive Frodoardo, oltre ad altre memorie venute dopo di
lui alla luce, avrebbe insegnato alla sua penna maggior moderazione
contra di questo pontefice. Certo non fu egli esente da' vizii, ma non
giunse mai agli eccessi che qui gli vengono attribuiti. Fidossi qui
troppo il cardinale di Sigeberto, come anche prima avea fatto il
Platina. Ma Sigeberto forte s'ingannò con addossare a _Sergio_
l'iniquissimo procedere di papa _Stefano VI_ contra del cadavero e delle
ordinazioni di papa Formoso. Nè sussiste che Sergio colla potenza
dell'armi di Adalberto duca di Toscana usurpasse la sedia pontificia. Fu
egli richiamato a Roma _precibus populi romani_, e affin di deporre
_Cristoforo_, cioè un ingiusto occupatore del pontificato. Certo è
finalmente che _Sergio_ fu riguardato da tutta la Chiesa di Dio come
vero e legittimo pontefice, e non già come usurpatore della sedia di s.
Pietro. Vedremo a suo luogo l'epitaffio di questo papa che va d'accordo
coll'asserzione di Frodoardo. Per testimonianza dell'Ostiense[1756], il
deposto _Cristoforo_ si fece monaco, ed ebbe tempo da far penitenza dei
falli della sua ambizione. Secondo i conti di Camillo Pellegrino e del
padre Mabillone[1757], il nobilissimo monistero di Monte Casino, circa
ventidue anni prima smantellato dai Saraceni, in quest'anno per cura di
_Leone abbate_ si cominciò a rifabbricare, affinchè vi tornassero ad
abitare i monaci, i quali dopo la rovina di quel sacro luogo aveano
eletto il loro soggiorno in Teano. Potrebbesi credere che sul fine di
quest'anno ritornasse in Italia con grandi forze l'imperador _Lodovico
III_, quando fosse stato esattamente copiato dal Campi il decreto
dell'elezione di _Guido vescovo_ di Piacenza[1758], fatta dopo la morte
di _Everardo_, con queste note: _Anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu
Christi DCCCCIV, Indictione VIII, imperante domno Hludovico serenissimo
imperatore anno quinto_. Ma di ciò parleremo all'anno seguente, siccome
ancora di _Guido_ parlerà la storia andando innanzi. Basti per ora
osservare che essendo qui nominato _Lodovico Augusto_, si comprende
ch'egli, e non già il re Berengario, signoreggiava allora in Piacenza.
Ciò servirà di lume per quello che verremo dicendo all'anno seguente.

NOTE:

[1750] Martene, Veter. Scriptur., tom. I.

[1751] Antiquit. Ital., Dissert. XIV.

[1752] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2, in Episcop. Mutinens.

[1753] Pagius, in Critic. ad Annal. Baron.

[1754] Frodoardus, de Roman. Pontificib., P. II, tom. 3 Rer. Ital.

[1755] Baron., Annal. Eccl., ad ann. 908.

[1756] Leo Ostiensis, lib. 1, cap. 50.

[1757] Mabillon., in Annal. Benedictin. lib. 41, num. 25.

[1758] Campi, Istor. di Piacenza tom. 1, Append.



    Anno di CRISTO DCCCCV. Indizione VIII.

    SERGIO III papa 2.
    LODOVICO III imperadore 5.
    BERENGARIO re d'Italia 18.


Sul fine dell'anno precedente, siccome ho detto, dovette succedere la
seconda venuta in Italia di _Lodovico III_ Augusto, non già orbo, ma
tuttavia guernito d'un paio d'occhi sani e veggenti. E in quest'anno poi
crebbe la sua felicità, ma che andò a terminare in una grave miseria,
con essere avvenuto tutto quel che abbiamo narrato di sopra all'anno
902. Era dalla sua _Adalberto II_ duca di Toscana; avea questi tratto
nel suo partito varii altri principi d'Italia; in guisa che essendo
venuto Lodovico con grandi forze, e mancando al re Berengario quelle dei
principi suoi vassalli, fu astretto a dar luogo a questa prepotente
tempesta, con perdere non solo Pavia e Milano, ma anche Verona, e con
doversi ritirare in esilio fuori d'Italia. Si trovava egli[1759] _VII
kalendas junii anno dominicae Incarnationis DCCCCV. domni vero
Berengarii invictissimi regis XVIII Indictione VIII, in valle Pruviniano
juxta plebem sancti Floriani_. Dove sia questa valle, altri più pratico
di me lo dirà. S'aggiunse, secondo il panegirista di Berengario[1760],
che un'indiscreta quartana rendè esso Berengario inabile alla difesa e
ad accudire al bisogno sì pressante de' proprii affari. Dacchè egli si
fu messo in salvo, Lodovico si portò a Verona, dove prestando fede, alla
voce o accidentalmente corsa o maliziosamente sparsa, che Berengario
fosse morto, se ne stava senza buone guardie e senza sospetto, quasi che
fosse oramai terminata ogni disputa del regno. Questa sua trascuratezza
animò Berengario e la sua fazione ad entrare furtivamente di notte in
Verona, dove colto lo sconsigliato Lodovico, gli fece dipoi buon mercato
con solamente privarlo degli occhi. Che in quest'anno, e non già
nell'anno 902, accadesse la di lui venuta e rovina, ecco le ragioni che
ce lo han da persuadere, da me dedotte prima d'ora nelle Antichità
italiche[1761]. Siccome poco fa avvertii, abbiamo presso il Campi la
carta dell'elezion di _Guido_ vescovo di Piacenza, fatta da quel clero e
popolo, e scritta[1762] _anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi
DCCCCIIII, Indictione octava imperante domno Hludovico serenissimo
imperatore anno V_. Probabilmente il Campi non ha con assai attenzione
copiata quella carta, e in vece dell'anno presente _DCCCCV_, ha letto
_DCCCCIV_, essendo certo che l'_anno quinto_ di Lodovico Augusto
appartiene a quest'anno. Fors'anche ha trascurato il mese, che non si
suole ommettere, e che avrebbe dato a noi maggior lume per conoscere
meglio il tempo di questa elezione. Ma ne abbiam tanto, che non si può
fallare in riferendola al fine dell'anno precedente, in cui correva
l'_Indizione ottava_, oppure all'anno presente. Cominciamo dunque a
conoscere che in Piacenza v'era riconosciuto per padrone non già
_Berengario_, come vedemmo all'anno 903, ma bensì _Lodovico III_
imperadore. Ho io poi prodotto[1763] due atti di _Andrea_ arcivescovo di
Milano. L'uno informe e senza sottoscrizioni, fatto _anno Incarnationis
Domini nongentesimo nonagesimo sexto, pontificatus vero suprataxati
domni Andreae archiepiscopi sexto, mense julio, Indictione octava_. Ma
senza fallo si dee scrivere _nongentesimo quinto_, perchè in questo
correva l'_anno sesto_ di esso Andrea, eletto arcivescovo nell'anno 900,
e nel luglio di questo medesimo anno correva l'_indizione ottava_. Più
corretto è l'altro consistente in un placito tenuto dal medesimo
arcivescovo in Belano sul lago di Como, e da _Ragifredo_ giudice del
sacro palazzo, _amendue missi domni imperatoris_, e scritto _anno
imperii domni Hludovici imperatoris quinto, mense julio, Indictione
octava_. E che nel dì 4 di giugno del presente anno esso Lodovico
imperadore si trovasse in Pavia, lo raccolgo da un suo privilegio,
sottoscritto da Arnolfo notaio _ad vicem Liutuardi episcopi_ (di Como)
_et archicancellarii. Datum pridie nonas junias, anno Incarnationis
dominicae DCCCCV, Indictione VIII, anno V, imperante domno Hludovico
glorioso imperatore in Italiam. Actum Papiae_.

Però giusto fondamento a noi si porge per credere finalmente che in
questo anno ritornato per la seconda volta l'Augusto Lodovico in Italia,
niun caso facendo del giuramento verisimilmente prestato a Berengario
nell'anno 902, allorchè fu costretto a ritornarsene in Provenza,
riconquistasse Pavia, Milano e Piacenza, o, per dir meglio, tutta la
Lombardia, e cacciasse ancor fuor di Verona il re _Berengario_ allora
infermo. Secondo i documenti originali da me veduti e dati alla luce, si
truova Berengario nell'ultimo dì di luglio e nel primo di agosto del
presente anno in _Tulles_, corte posta sul lago di Garda, dove a
petizione di _Bertila_ regina e moglie, e di _Ardengo_ vescovo di
Brescia ed arcicancelliere, concedette alcuni beni a certi suoi
famigliari. Il primo è scritto _II kalendas augusti, anno dominicae
Incarnationis DCCCCV, regni domni Berengarii piissimi regis XVII_ (si
dee scrivere XVIII), _Indictione octava. Actum Tulles_. Il secondo fu
dato _kalendis augusti_ con altre simili note, e coll'anno XVIII del
regno di Berengario. Trovossi egli inoltre nel dì V d'agosto in
Peschiera sullo stesso lago, dove fece un dono al monistero di san
Zenone di Verona[1764], _III nonas augusti anno dominicae Incarnationis
DCCCCV, domni vero Berengarii piissimi regis XIX_ (va scritto con una
unità di meno XVIIII), _Indictione octava_, Reginone scrive[1765] che
_in mense augusto haec mutatio regni facta est_. Ma Galvano Fiamma[1766]
notò che Berengario _XII kalendas augusti_ entrò di notte in Verona, e
colse nella rete l'incauto suo avversario. E così appunto avvenne, ciò
risultando dal suddetto diploma dato da Berengario in Peschiera, dove
egli dice: _Omnium noverit solertia, Johannem quemdam, qui alio nomine
Braccacurta vocitabatur, nostrae olim fidelitati offensum, in qua etiam
perdurans comprehensus est, et mulctatus, cujus res omnisque substantia
legali judicio nostrae fuit ditioni subjecta_, ec. Per buona ventura il
panegirista di Berengario[1767] ci ha conservata questa medesima
notizia, chiaramente comprovante che nel tempo appunto del ricuperamento
di Verona, e dell'acciecamento di Lodovico Augusto, questo _Giovanni
Braca-corta_ infedele fu preso in una torre, e tagliato a pezzi. Ecco le
sue parole:

    _Tu ponens etiam Curtum-Femorale Johannes,_
    _Alta tenens turris, si forte resumere vitam_
    _Sis potis: hinc traheris tamen ad discrimina mortis,_
    _Et miser in patria nudos truncaris arena._

Sicchè oramai tocchiam con mano, in vigore delle addotte pruove, che
appartiene al presente anno la seconda comparsa in Italia d'esso
Lodovico, e la felicità delle sue armi, la quale poi andò a terminare in
una sonora disavventura, per cui gli convenne tornar senza occhi in
Provenza. Anche l'Annalista sassone[1768], Mariano Scoto[1769] ed Ottone
Frisingense[1770] riferiscono all'anno 905 la scena suddetta; e però non
si dee questa rimuovere dall'anno presente. La cronologia di Sigeberto è
affatto difettosa in questi tempi, massimamente per le cose d'Italia.
Giugne[1771] egli a differir la disgrazia suddetta di Lodovico sino
all'anno 915. È stato di parere il padre Bernardo Maria de Rubeis[1772]
che _Grimaldo_ ossia _Grimoaldo_ marchese, nominato in alcuni diplomi di
Berengario da me dati alla luce, governasse in questi tempi la _marca
del Friuli_, appellata anche _veronense_, perchè Berengario, prima
d'essere re, nella nobil città di Verona avea fissata la sua residenza.

NOTE:

[1759] Antiquit. Ital., Dissert. XXVIII.

[1760] Anonym., Paneg. Bereng., in lib. 4.

[1761] Antiquit. Ital., Dissert. XIV.

[1762] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1 Append.

[1763] Antiq. Ital., Dissertat. XIV.

[1764] Antiq. Ital., Dissert. XLI.

[1765] Rhegino in Chron.

[1766] Flamma, in Manipul. Flor., tom. 11 Rer. Ital.

[1767] Anonym., in Panegyr. Berengarii, lib. 4.

[1768] Annalista Saxo apud Eccardum, tom. 1 Rer. Ital.

[1769] Marian. Scottus, in Chronico.

[1770] Otto Frisingensis, in Chronico.

[1771] Sigebertus, in Chronico.

[1772] De Rubeis, Monument. Eccl. Aquilejens. cap. 51.



    Anno di CRISTO DCCCCVI. Indizione IX.

    SERGIO III papa 3.
    LODOVICO III imperadore 6.
    BERENGARIO re d'Italia 19.


Può essere che in quest'anno si godesse dopo tanti affanni di contese e
guerre una buona pace e quiete in Italia, se non che Andrea Dandolo
scrive[1773] che in questi tempi la crudelissima e pagana nazion degli
Ungheri scorse furiosamente l'Italia, incendiando i luoghi, tagliando a
pezzi, e menando in ischiavitù le persone. Che il re Berengario mandò
contra d'essi venti mila armati, pochi de' quali tornarono indietro. Si
stese la rabbia di costoro a Trivigi, Padova e Brescia, con giugnere
fino a Milano e Pavia, e passare all'estremità del Piemonte. Aggiugne
che questi Barbari venuti in barche ne' contorni di Venezia vi
abbruciarono Città Nuova e Equilo, Fine, Chioggia, Capodarzere, e
diedero il sacco a tutto quel litorale. Tentarono anche nel dì 28 di
giugno di arrivar fino a Malamocco e a Rialto, cioè alla stessa città di
Venezia. Ma _Pietro doge_, facendosi loro incontro coll'armata navale,
li mise in fuga. Durò una tal persecuzione tutto quest'anno. Il re
Berengario altra maniera non avendo per isbrigarsi di questi cani, a
forza di regali gl'indusse a tornarsene alle lor terre. Così il Dandolo,
ma senza poter io accertare s'egli errasse con riferire a quest'anno
l'irruzion fatta in Italia nell'anno 899, oppure nel 900, di cui s'è
parlato di sopra. Abbiamo parimente dal frammento della vita di san
Geminiano vescovo di Modena, da me pubblicata[1774], e scritta da un
autore non solo vivente in questo secolo, ma vicino a questi tempi, che
questa inumana gente _ex horrendo Scytharum genere originem ducens_,
cioè venuta dalla Tartaria, arrivò anche a Modena, da dove era fuggito
il vescovo con tutto il popolo. Entrarono nell'abbandonata città, si
portarono al duomo, senza però toccare il sepolcro d'esso santo, nè
inferirono danno alcuno alla città: il che fu attribuito
all'intercessione del medesimo santo protettore. Se questo avvenisse
nella suddetta prima entrata degli Ungheri in Italia, oppure nell'anno
presente, non si può decidere. Solamente sappiamo, per relazione di
Liutprando[1775], che dopo avere il re Berengario riacquistato il regno
d'Italia nell'anno precedente, e rimandato l'imperador Lodovico in
Provenza con una tal memoria, che più non gli venne voglia di tornare in
Italia, _Hungarorum interea rabies, quia per Saxones, Francos, Suevos,
Bajoarios nequibant, totam per Italiam nullis resistentibus dilatatur.
Verum quia Berengarius firmiter suos milites habere fideles non poterat,
amicos sibi Hungaros non mediocriter effecerat_. Questi erano i flagelli
della misera Italia dalla parte di Levante. Anche i Romani, Capuani e
Beneventani portavano il peso d'altre simili sciagure per cagion dei
Mori, ossia de' Saraceni, i quali fabbricatosi un buon nido, e ben
fortificato al fiume Garigliano, scorrevano per tutto il contorno.

S'aggiunse un'altra peste dalla parte del Ponente, narrata dal suddetto
Liutprando, dalla Cronica della Novalesa[1776] e da altre antiche
storie. Racconta esso Liutprando[1777], che alcuni anni prima di questo
venti soli Saraceni di quei di Spagna, in una piccola barca portati
dalla tempesta, approdarono ad una villa posta _in Italicorum,
Provincialumque confinio_, chiamato _Frassineto_. Questo luogo il
mettono alcuni nella Provenza; il padre Beretti[1778] lo crede situato
fra Nizza e Monaco nell'Italia. Certo è che non era lungi dal mare, e a
portata da poter nuocere sì all'Italia che alla Provenza. Costoro
entrativi di notte, scannarono quanti cristiani ivi si ritrovarono, ed
impadronitisi della villa, con folte boscaglie e spineti si fecero un
sicuro argine e rifugio in un monte contiguo. Di là cominciarono ad
infestare e saccheggiar i luoghi circonvicini: e chiamati dalla Spagna
altri non pochi della lor setta, a poco a poco si renderono formidabili
a tutti gli abitanti di quelle contrade, e divenne come inespugnabile
quel loro nido. Contribuirono anche gli stolti paesani ad accrescere la
loro bestiale insolenza, perchè regnando la dissensione fra i popoli
della Provenza, l'una parte li chiamava in aiuto per deprimere l'altra,
e tutti infine rimasero distrutti da questi ospiti, nemici del nome
cristiano. Ora comparivano costoro in Provenza, ora volavano nel regno
di Borgogna, ed ora si spargevano per le contigue parti dell'Italia.
Arrivarono dipoi, siccome a suo luogo vedremo, sino ad Aiqui nel
Monferrato, ed in quest'anno passarono fino alla Novalesa sopra Torino,
con saccheggiare ed abbruciare quel riguardevolissimo monistero.
Presentita la lor venuta, _Donniverto abbate_ co' suoi monaci e col
tesoro ebbe tempo di fuggirsene, e da mettersi in salvo nella città di
Torino. Per testimonianza della suddetta Cronica della Novalesa[1779],
_hoc tempore in taurinensi civitate translatio facta est sancti Secundi
martyris, qui fuit dux Thebeorum legionis, facta a domno Wilielmo
episcopo anno Incarnationis dominicae DCCCCVI. Hic composuit passionem
sancti Salvatoris cum tribus responsoriis. Et ab apostolico romanae
sedis, et cunctorum episcoporum, qui in sancta synodo convenerant,
tribus annis ob poenitentiae causam ab episcopatu suspensus est_.

NOTE:

[1773] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1774] Rer. Ital., P. II, tom. 2.

[1775] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 11.

[1776] Chron. Novaliciens., P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[1777] Liutprandus, Hist., lib. 1, cap. 1.

[1778] Beretti, Dissert. Chorogr., tom. 10 Rer. Italic.

[1779] Chron. Novaliciens., P. I, tom. 2 Rer. Ital., p. 731.



    Anno di CRISTO DCCCCVII. Indizione X.

    SERGIO III papa 4.
    LODOVICO III imperadore 7.
    BERENGARIO re d'Italia 20.


Seguito io a notar gli anni di _Lodovico III imperadore_, quasichè
quell'orbo principe continuasse a tener qualche dominio in questi parti.
Ma dappoichè la mala fortuna il colse in Verona, la verità è, che di lui
non si fece più conto alcuno in Italia, e cessò di comparire il suo nome
negli atti pubblici. Ritenne egli nondimeno il titolo d'imperadore nella
sua Provenza, finchè visse, ma senza giurisdizione alcuna in Roma, e
molto meno nel regno d'Italia. Probabil cosa è che in quest'anno a papa
_Sergio III_ ruscisse di ridurre a perfezione la fabbrica della già
caduta patriarcal basilica lateranense. È da stupire come il cardinal
Baronio niuna menzione abbia fatto di questa impresa, gloriosa alla
memoria d'esso pontefice. Forse il mal animo ch'egli portava contra di
Sergio, non glielo lasciò avvertire, ancorchè il Sigonio diligentemente
l'avesse notato prima[1780]. Onde poi avesse egli tratta questa notizia,
non appariva. Ma avendo il padre Mabillone[1781] dato alla luce un
opuscolo di Giovanni Diacono juniore, ora abbiamo il fonte di una tal
verità. Già vedemmo nel concilio di Ravenna, tenuto nell'anno 898,
rammemorata la caduta di quell'insigne basilica, per la fabbrica della
quale si affaticava papa _Giovanni IX_. Scrive esso Giovanni Diacono che
la medesima andò in rovina a' tempi di _Stefano sesto_ papa, _et fuit in
ruinis dissipata et comminuta usque ad tempus, quo revocatus est domnus
Sergius presbyter et electus de exsilio, et consecratus est Romanorum,
tertius praesul_. Parole, dalle quali sempre più vegniamo ad intendere,
che Sergio non fu un usurpatore del soglio pontificio, come suppone esso
cardinal Baronio, i cui Annali, non si può negare, si trovano circa
questi tempi confusi e difettosi non men per la cronologia de' papi e
degl'imperadori, che per gli falli dall'ora. Seguita a dir quello
scrittore: _Post ordinationem igitur suam domnus Sergius III papa
tristabatur nimium super desolationem, nobilissimi hujus templi. Non
enim erat spes neque solatium de restauratione illius. Quumque omnibus
esset desperatio de ejus desolatione, et humanum deesset auxilium: ad
divinae pietatis conversus juvamen, in qua semper habuit fiduciam,
incipiens ab antiquis laborare fundamentis, fine tenus opus hoc
consummavt, et decoravit ornamentis aureis et argenteis_. Va poi quello
storico annoverando ad uno ad uno quegli ornamenti, conchiudendo con
queste parole il suo ragionamento: _Haec omnia devotus tibi praeparavit,
et non cessabit, dum spiritus ejus rexerit artus, praeparare et offerre
tibi domnus Sergius papa tertius_: il che ci fa conoscere che il
suddetto autore vivea e scriveva in questi tempi. Se fosse stata
composta e fosse arrivata fino a' dì nostri la vita di papa Sergio,
tengo io per fermo che il troveremmo ben diverso da quello che troppo
facilmente suppose e pretese il padre degli Annali ecclesiastici.

In questi tempi, secondo le storie germaniche[1782] portarono gli
Ungheri la desolazione alla Baviera. Vennero con loro alle mani i
Cristiani di quella contrada, ma ne restarono sconfitti, e di loro fu
fatta una terribile strage. Dilettavasi non poco circa questi tempi
_Atenolfo principe_ beneventano di soggiornare in Capoa, antica patria e
dominio suo[1783]. Lasciava egli per governatore di Benevento _Pietro
vescovo_ di quella città, come persona, di cui si fidava assaissimo. Una
fazion di Beneventani poco contenta del governo di Atenolfo, si servì di
questa occasione per tentar l'animo del vescovo, offrendogli il dominio
della città e del principato. Non accettò egli l'offerta, ma neppur la
sprezzò, e tutto tenne nascosto ad Atenolfo. Ma questi ne fu avvertito
dalla fazion d'altri che gli era fedele; e perchè non cessava questa
mena, all'improvviso Atenolfo cavalcò a Benevento, imprigionò alcuni de'
congiurati, e cacciò in esilio il vescovo che si ritirò a Salerno, dove
_Guaimario II_, principe nemico d'Atenolfo, con onore l'accolse, e da lì
innanzi, finchè visse, generosamente il mantenne a tutte sue spese.
Rapporta l'Ughelli[1784] una bolla di Sergio papa in favore del capitolo
de' canonici d'Asti, fondato in questi tempi da _Audace vescovo_, data
_in mense majo, Indictione decima, anno, Deo propitio, pontificatus
domni Sergii summi pontificis IV_, che appunto cade nell'anno presente;
il che fa conoscere quanto sbagliasse il cardinal Baronio negli anni di
Sergio III. Ma certo dovea dormire l'Ughelli, quando, dopo aver
confessato che Audace vescovo d'Asti fu posto in quella cattedra
nell'anno 904, vuole con questa bolla correggere Anastasio bibliotecario
e il Baronio, i quali mettono la morte di _Sergio II_ papa nell'aprile
dell'anno 847, _quum ex hoc diplomate constet Sergium II mense majo
decimae Indictionis adhuc in vivis fuisse_, quasichè _Sergio III_ fosse
_Sergio II_. Abbiam di grandi obbligazioni all'Ughelli, ma sarebbe da
desiderare che la sua Italia sacra fosse interamente rifatta da capo a
piedi, come in Francia si fa della Gallia sacra de' Sammartani, essendo
ben da lodare la ristampa e correzione fattane dal signor Coleti, ma non
bastando questa al bisogno.

NOTE:

[1780] Sigonius, de Regno Ital., lib. 6.

[1781] Mabill., Append. ad Ord. Rom.

[1782] Continuator Rheginonis et alii.

[1783] Anonymus Salernit., Paralipom., P. I tom. 2 Rer. Ital., p. 296.

[1784] Ughell., Ital. Sacr. tom. 5 in Episcop. Astens.



    Anno di CRISTO DCCCCVIII. Indizione XI.

    SERGIO III papa 5.
    LODOVICO III imperadore 8.
    BERENGARIO re d'Italia 21.


Cosa vergognosa era che i Saraceni si fossero annidati presso al
Garigliano in sito tutto circondato dagli stati di principi cristiani, e
pur continuassero a quivi abitar con tanta pace, e senza che alcun li
turbasse, anzi con turbar eglino e desolare tutto il vicinato. Abbiamo
nulladimeno da Leone Ostiense[1785] che _Atenolfo principe_ di Benevento
e di Capoa, uomo di gran senno, presso a poco circa questi tempi volle
tentare, se si fosse potuto snidar di colà quella razza d'iniqui
masnadieri. Fatta pertanto lega con _Gregorio duca_ di Napoli, e con gli
Amalfitani, popoli allora indipendenti da Napoli, e che si eleggevano
anch'essi il loro duca, e contribuendo tutti la lor quota di gente, unì
un buon esercito e marciò contra di essi Mori. Formato un ponte di navi
vicino al traghetto sopra il fiume Garigliano, e venuto di qua, cominciò
la guerra. Ma una notte, mentre i suoi facevano poco buona guardia,
uscirono dai lor trinceramenti i Saraceni, e assistiti dai perfidi
cittadini di Gaeta diedero addosso al corpo avanzato dei collegati con
ucciderne molti, e inseguir gli altri fino al ponte. Quivi fecero testa
i Cristiani con tal vigore, che obbligarono il nemico a retrocedere in
fretta verso i suoi alloggiamenti. Di più non ne dice Leone Ostiense:
segno che dovette sfumare in nulla questo sforzo di Atenolfo. Ma ancor
di qui si conosce che i tanti guai recati dagli Africani per tanti anni
a quelle contrade d'Italia in buona parte son da attribuire alla poca
armonia, anzi discordia di que' popoli e principi cristiani, e, quel che
è peggio, alla malvagità d'alcuni; perchè mai non mancò fra essi chi
proteggesse ed anche aiutasse quegli assassini, per profittar del
guadagno ch'essi facevano colla rovina degl'infelici ed innocenti
popoli. Non si sa se in questo anno gli Ungheri facessero scorreria
alcuna in Italia. Egli è ben certo, secondo il Continuatore di Reginone,
con cui va d'accordo Ermanno Contratto[1786], che costoro devastarono la
Sassonia e la Turingia, perchè non passava anno che questa maledetta
schiatta non portasse la desolazione a qualche provincia cristiana. In
quest'anno ancora, oppure nel seguente, per quanto si ricava dalla
Cronica arabica cantabrigense[1787], fu mandato in Sicilia dal re de'
Mori d'Africa un nuovo emir, ossia generale di armata, il quale raunato
un esercito di Siciliani e di Mori, s'impadronì della città di Taormina
nel dì primo d'agosto, giorno di domenica. Ma il dì primo d'agosto nè in
quest'anno, nè nel seguente cadde in domenica. Nella Cronica del
monistero di Volturno si legge[1788]: _Civitas Rhegium a filio regis
Afar capta est. Urbs Taurimenis capta est a Saracenis. Rex vero Africes
super Cosentiam residens noctu quodam Dei judicio mortuus est_. Non son
così corte tali notizie, che non possano darci qualche lume per la
storia della Sicilia e della Calabria.

NOTE:

[1785] Leo Ostiensis, lib. 1, cap. 50.

[1786] Hermann. Contractus, in Chron. edition. Canisii.

[1787] Chron. Arab., P. II, tom. 1, Rer. Ital.

[1788] Chron. Vulturnens., P. II, tom. 1, Rer. Ital., pag. 415.



    Anno di CRISTO DCCCCIX. Indizione XII.

    SERGIO II papa 6.
    LODOVICO III imperadore 9.
    BERENGARIO re d'Italia 22.


Veggendo _Atenolfo principe_ di Benevento che non bastavano le forze sue
a sterminare i Saraceni, divenuti da gran tempo insoffribili per la loro
permanenza al Garigliano, giacchè costoro riceveano rinforzi dalla parte
del Mediterraneo: al che egli non avea riparo, nè potea far capitale
degli aiuti de' Napoletani, i quali navigavano con più bandiere, e molto
men de' Gaetani che davano braccio a quella canaglia: si avvisò di
ricorrere a _Leone il Saggio_ imperadore d'Oriente, per implorare
soccorso da lui. A tal fine intorno a questi tempi spedì a
Costantinopoli[1789] il suo primogenito e collega nel principato
_Landolfo_, con rappresentargli tutti i malanni sofferti da' Cristiani
in tanti anni addietro per cagion dei Saraceni, e con supplicarlo
d'inviare una potente armata per estinguere una volta questo incessante
incendio. Ebbe piacere il greco Augusto di sì fatta richiesta, e più di
chi la portò; perchè si lusingò che fosse venuto il buon vento di
rimettere in vigoria l'antica sovranità degli imperadori greci nel
principato di Benevento, che sotto gl'imperadori carolini avea fatto
naufragio. Promise tutta l'assistenza a Landolfo, e ordinò che si
allestisse un'armata navale per questa spedizione. Nell'anno presente,
per attestato degli Annalisti tedeschi[1790], gli Ungheri sfogarono la
lor crudeltà contra dell'Alemagna, ossia della Svevia. Può essere che il
re _Berengario_, adoperando il buon segreto dei regali, tenesse questa
mala gente lungi dall'Italia. Tuttavia, se non ci vennero, era continuo
il timore che ci venissero. Riccardo Cluniacense nella sua Cronica[1791]
asserisce (quanto a me, io credo senza fondamento) che costoro _fere
quotannis_, quasi ogni anno venivano a visitar l'Italia per radere
quello che era restato intatto negli anni precedenti. Comunque sia, i
popoli della Lombardia cominciarono da lì innanzi a fortificar le loro
città e castella, giacchè, per attestato di Liutprando[1792], _omnia
Hungari regni (italici) loca saeviendo percurrunt. Neque erat qui eorum
praesentiam, nisi munitissimis forte praestolaretur locis._
Altrove[1793] ho io provato che verso questi tempi appunto il re
Berengario concedette licenza a _Risinda badessa_ della Posterla in
Pavia di fabbricar delle castella nelle tenute del suo monistero, _ad
Paganorum deprimendas insidias_, e insieme _pro persecutione et
incursione Paganorum_. Anche _Adalberto vescovo_ di Bergamo ottenne dal
medesimo re di poter fortificare quella città che era minacciata _maxima
Suevorum Ungarorum incursione_. E sotto lo stesso re i canonici di
Verona concederono la facoltà di far delle fortificazioni al castello di
Cereta _pro persecutione Ungarorum_. Altri simili esempli ci vengono
somministrati dalle memorie rimaste negli archivii.

NOTE:

[1789] Leo Ostiensis, Chron., lib. 1, cap. 52.

[1790] Continuator Rheginensis, Hermannus Contractus, in Chronico.
Annalista Saxo.

[1791] Richardus. Cluniacensis, in Chron.

[1792] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 6.

[1793] Antiquit. Ital., Dissert. XXVI.



    Anno di CRISTO DCCCCX. Indizione XIII.

    SERGIO III papa 7.
    LODOVICO III imperadore 10.
    BERENGARIO re d'Italia 23.


Fra le giunte da me fatte alla Cronica casauriense[1794] abbiamo un
placito tenuto sotto quest'anno nel mese di novembre in un luogo
appellato Corneto da Waldeperto, chiamato _vicecomes Alberici
marchionis_. Per quanto si può scorgere, questo luogo era situato nel
distretto di _Cività di Penna_, che nei tempi d'allora apparteneva alla
marca di Camerino, perchè v'intervengono _Scabini de Pinne_. Veniamo
perciò a comprendere chi fosse allora marchese della marca di Camerino,
ciò un _Alberico_. E da tal notizia prendono lume i versi del poeta
panegirista di Berengario[1795], il quale fra gli altri che condussero
soldatesche in rinforzo di _Guido_ allora re d'Italia contra del re
Berengario nell'anno 888, oppure nell'889, annovera ancora Alberico, con
dire:

    _. . . . . . . Pariterque cohors camerina superbit_
    _Munere natorum, subigitque in bella sodales_
    _Mille. Sua virtute, magis sed prole supinus_
    _(Post monstrata fides) centeno milite laetus_
    _Pauper adhuc Albricus abit, jamjamque resultat_
    _Spe Camerina. Utinam dives sine morte sodalis._

Son certamente assai scure queste parole. Potrebbe talun credere che
quell'Alberico conte, il quale nell'anno 776 intervenne alla dieta di
Pavia, per eleggere o confermare Carlo Calvo re d'Italia, fosse il
medesimo che vien qui mentovato dal poeta. Ciò nondimeno è punto assai
dubbioso per la troppa distanza dell'età; ma par bene che non resti
dubbio, che l'_Alberico_ nominato qui dal poeta suddetto divenisse poi
marchese di Camerino. Militava egli nell'anno 888, oppure 889, in favore
di _Guido_ contra di Berengario, e già sperava il governo di quella
marca:

    _. . . . Jam jamque resultat_
    _Spe Camerina...._

Poscia dovette egli abbracciare il partito di Berengario:

    _Post monstrata fides...._

E in ricompensa fu fatto marchese di Camerino. Prima era povero Signore:

    _Pauper adhuc Albricus abit....._

Divenne poscia ricco coll'avere ucciso il suo compagno, cioè
probabilmente chi era duca di Spoleti, ed aver egli occupato anche quel
paese. Non ci dà la storia luce alcuna per poter discifrar questi oscuri
fatti. Più scuro ancora è il senso di quelle parole:

    _Sua virtute, magis sed prole supinus_.

Vo io credendo che _supinus_ sia adoperato per significare un arrogante
ed altiero. Seneca usò in questo senso il vocabolo _supinus_. E quando
ciò sia, vedremo a suo tempo che un _Alberico_ marchese da Marozia ebbe
un figliuolo appellato anch'esso _Alberico_, il quale divenne poi
principe, o vogliam dire tiranno di Roma. Potrebbe essere che il primo
di questi Alberighi fosse il medesimo _Alberico_ marchese di Camerino,
da noi veduto nel placito suddetto. Concorre a farcelo sospettare il
nome e la dignità ancora. Negli stati della Chiesa romana noi non
sappiamo che alcuno de' governatori portasse il titolo di _marchese_.
Era questo solamente in uso nei regni d'Italia, Germania e Francia. Però
non mancherebbe probabilità a chi volesse credere che _Alberico_
marchese di Camerino fosse marito di Marozia. E qualora il panegirista
di Berengario avesse scritto quel suo poemetto dopo la morte di lui (del
che ragionevolmente dubito io, e prima di me dubitò il padre Pagi)
potrebbe parere che fosse chiamato da lui Alberico _prole supinus_, cioè
superbo per aver procreato _Alberico_ principe di Roma, e _Giovanni XI_
pontefice romano. Da un diploma da me dato alla luce apparisce che nel
dì 27 di luglio[1796] il re _Berengario_ si trovava in Pavia, e che
tuttavia era vivente la regina _Bertila_ sua moglie, poichè ad istanza
sua egli donò una corte ad _Anselmo glorioso conte_ di Verona suo
compadre e consigliere. Fu dato il diploma _VI kalendas augusti, anno
dominicae Incarnationis DCCCCX, domni vero Berengarii serenissimi regis
XXIII, Indictione XIII. Actum in curte Rodingo_. Due placiti parimente
da me pubblicati[1797] cel fanno vedere nel mese di novembre in Cremona.
Il principio d'uno è questo: _Dum in Dei nomine civitate Cremona, ubi
domnus Berengarius gloriosissimus rex praeerat_, ec. Fu scritto quel
documento _anno regni domni Berengarii regis, Deo propitio, vigesimo
tertio, mense novembri, Indictione quartadecima_, cominciata nel
settembre. In quest'anno _Atenolfo principe_ di Benevento e di Capoa,
conoscendo per qualche incomodo di sua salute che si avvicinava il tempo
di pagare il tributo della natura, ed avendo inviato il maggiore de'
suoi figliuoli, cioè _Landolfo_, alla corte imperiale di Grecia,
affinchè, se veniva la morte, altri non s'intrudesse nel principato,
dichiarò suo collega coll'assenso del popolo il minore de' suoi
figliuoli, cioè _Atenolfo II_. Ciò si ricava dai diplomi di questi due
fratelli, molti dei quali si veggono dati alla luce. Secondo i conti di
Camillo Pellegrino, terminò in fatti _Atenolfo I_ la sua carriera nel
mese di aprile di quest'anno, ed ebbe per successori nel principato i
suddetti suoi due figliuoli, principi di gran giudizio, perchè attesero
per loro conto a smentire il proverbio del _rara est concordia fratrum_.
Diedero in quest'anno[1798] gli Ungheri una gran rotta all'armata di
_Lodovico_ re di Germania; e così la lor fierezza e fortuna si facea
largo dappertutto. Seguitava il re Berengario a tenerseli amici, e con
ciò difendeva l'Italia.

NOTE:

[1794] Chron. Casauriens., P. II, tom. 2, Rer. Ital.

[1795] Anonymus, in Paneg. Berengarii, lib. 2.

[1796] Antiquit. Ital., Dissert. XXII, pag. 245.

[1797] Antiquit. Italic., Dissert. XIX et IV.

[1798] Annalista Saxo, Hermannus Contractus, in Chronico et alii.



    Anno di CRISTO DCCCCXI. Indizione XIV.

    ANASTASIO III papa 1.
    LODOVICO III imperadore 11.
    BERENGARIO re d'Italia 24.


Mancò di vita in quest'anno nel mese di maggio _Leone il Saggio_
imperadore dei Greci[1799], e gli succederono nell'imperio _Alessandro_
suo fratello e _Costantino_ Porfirogenito, suo figliuolo di età puerile.
Girolamo Rossi[1800] cita uno strumento scritto in Ravenna _anno octavo
Sergii pontificis, Indictione quartadecima_. Perciò il padre Pagi[1801]
fondatamente scrisse che _Sergio III_ papa condusse sua vita fino a
qualche mese dell'anno presente. Frodoardo anch'egli, siccome è detto di
sopra, attesta[1802] che questo pontefice tenne la sedia di san Pietro
_annis septem amplius_. Finalmente il Lambecio[1803] pubblicò un'altra
bolla del medesimo papa scritta in _kalendis junii, anno pontificatus
domni Sergii summi pontificis et universalis papae VIII, Indictione
XIV_. Perciò resta assai accertato il tempo di sua morte. Era in sì mal
concetto questo papa presso il cardinal Baronio, che, riferendo esso
porporato[1804] il di lui epitaffio, conservato a noi da Pietro
Mallio[1805], non vi seppe trovare, benchè scrittore di tanto
discernimento, se non _Sergio I_ papa morto nell'anno 701. Ma indubitata
cosa è che esso appartiene a questo pontefice, sì per le notizie che
contiene, come ancora perchè uniforme a quanto scrisse di lui Frodoardo,
siccome abbiam veduto di sopra. L'epitaffio è questo, che a' tempi di
Pietro Mallio, cioè nel secolo duodecimo, tuttavia si conservava nella
basilica vaticana:

    LIMINA QVISQVIS ADIS PETRI METVENDA BEATI,
        CERNE PII SERGII EXCVBIASQVE PETRI.
    CVLMEN APOSTOLICAE SEDIS IS IVRE PATERNO
        ELECTVS TENVIT, VT THEODORVS OBIT.
    PELLITVR VRBE PATER. PERVADIT SACRA IOHANNES,
        ROMVLEOSQVE GREGES DISSIPAT ISTE LVPVS.
    EXVL ERAT PATRIA SEPTEM VOLVENTIBVS ANNIS
        POST MVLTIS POPVLI VRBE REDIT PRECIBVS.
    SVSCIPITVR PAPA. SACRATA SEDE RECEPTA
        GAVDET. AMAT PASTOR AGMINA CVNCTA SIMVL.
    HIC INVASORES SANCTORUM FALCE SVBEGIT
        ROMANAE ECCLESIAE IVDICIISQVE PATRVM.

Nel primo pentametro in vece di EXCVBIAS s'ha da leggere EXVVIAS. Nel
secondo si accenna _Teodoro II_ papa morto nell'anno 898. Nel terzo
esametro l'autore dell'epitaffio parla di _Giovanni IX_ papa. Ma ciò che
rendè sì esoso _Sergio III_ al piissimo cardinal Baronio, fu l'essere
noto che egli fu scomunicato dal pontefice _Giovanni VIII_; ma fu poi
anche assoluto dai papi successori. Sigeberto[1806] ed altri suoi
copiatori il tacciano, perchè infierì contra il cadavero e le
ordinazioni di papa Formoso. Abbiam detto ciò essere falsissimo. Nè
entrò egli come ladro, ma come pastore a reggere la greggia di Cristo.
Quel solo che può giustamente fargli discredito, si è, che _Maria_
soprannominata _Marozia_, nobilissima patrizia romana, ma anche donna di
vita disonesta in questi tempi, se vogliam prestar fede alla mala lingua
di Liutprando[1807], _ex papa Sergio Johannem, qui post Johannis
ravennatis obitum sanctae romanae Ecclesiae obtinuit dignitatem, nefario
genuit adulterio_. Così lasciò scritto quello storico, ma solo garante
di questa indignità, e copiato poi alla cieca dai susseguenti scrittori.
Può essere che egli dica il vero. Contuttociò, si potrebbe dimandare se
s'abbiano a prendere come verità contanti tutte le laidezze e
maldicenze, delle quali è sì vago nella sua storia Liutprando. Prestava
egli fede a tutte le pasquinate e a tutti i libelli infamatorii di quei
tempi, che neppure allora mancavano.

Durava in Roma una fazione contraria a papa Sergio III, e si può
lecitamente sospettare che questa spargesse delle velenose dicerie in
aggravio della di lui persona e fama. Son ben persuaso che Marozia desse
non poche occasioni di scandalo a Roma, e ne vedremo a suo tempo le
pruove; ma a poter asserire con franchezza ch'essa da Sergio procreasse
Giovanni, che poi tenne la cattedra di san Pietro, di gran pruove ci
vogliono. A buon conto di questo _Giovanni XI_ papa così scrive Leone
Marsicano, ossia l'Ostiense, storico del secolo susseguente[1808]:
_Defuncto Agapito papa secundo, Johannes undecimus natione romanus,
Alberici Romanorum consulis filius, illi in pontificatum succedit_.
Falla l'Ostiense in dire che Giovanni XI succedesse ad Agapito; siccome
anche poco accuratamente scrisse Liutprando che _Giovanni XI_ succedette
a _Giovanni X_. Ma in fine Leone Ostiense può a noi servire di
testimonio, essere stata la tradizione di Roma che Giovanni XI fosse
figliuolo di Alberico console de' Romani e marchese, e non già di Sergio
III papa. E Marozia è da credere che fosse moglie del medesimo marchese
Alberico. Veggasi anche l'Anonimo salernitano[1809], scrittore di questo
medesimo secolo, il quale notò che papa _Giovanni XI_ fu figliuolo
_cujusdam Alberici patricii_. E se fosse certo, come vuole il padre Pagi
all'anno 908, che nella vita di santo _Ulderico vescovo_ di Augusta, in
vece di _Marino_ si avesse da leggere _Sergio_ papa, avrebbe esso Sergio
avuto il dono della profezia. Ora a _Sergio III_ succedette nel
pontificato _Anastasio III_. Fece in quest'anno[1810] _Anselmus gratia
Dei comes comitatu veronense, et filius bonae memoriae Waldoriensis
Francorum genere_, nel suo ultimo testamento una donazione di varii beni
_monasterio sancti Silvestri sito in comitatu motinense, ubi vocabulum
est Nonantulas_. La carta è scritta _regnante domno nostro Berengario
rege hic in Italia, anno vicesimo quarto sub die de mense septembris,
Indictione XV_. Ebbero poco dappoi cura i monaci di far confermar questa
sua disposizione dallo stesso re Berengario, che ci scuopre dov'egli
allora dimorasse. Fu dato il diploma _V kalendas novembris, anno
dominicae Incarnationis DCCCCXI, domni vero Berengarii serenissimi regis
XXIV, Indictione quintadecima. Actum Papiae_. Tornò probabilmente di
quest'anno in Italia _Landolfo_ principe di Benevento e di Capoa, e si
diede col minor fratello, cioè con _Atenolfo II_, a governar saggiamente
i suoi popoli. Portò seco da Costantinopoli l'illustre titolo di
_patrizio_: del che si vede che egli si gloriava ne' suoi diplomi.
Questo nondimeno dà abbastanza a conoscere aver egli suggettati gli
Stati suoi alla sovranità degli imperadori greci, i quali, con
compartire lo stesso onore e titolo a _Gregorio_ duca di Napoli e a
_Giovanni_ duca di Gaeta, andarono slargando la loro autorità e dominio
in quelle parti d'Italia. L'ultimo anno fu questo della vita di
_Lodovico_ re di Germania[1811]. Morì in età giovanile, senza aver presa
moglie, senza lasciar figliuoli. Concorrevano i voti dei baroni in
_Ottone duca_ di Sassonia, che fu avolo di _Ottone I_ Augusto, ma egli,
colle scuse della vecchiaia, ricusò questo peso, e consigliò di
appoggiarlo a _Conrado_ ossia _Corrado_ duca della Francia orientale,
che in fatti fu eletto re. Che questi nudrisse delle pretensioni sopra
l'Italia, si può dedurre da quanto lasciò scritto Eccardo con
dire[1812]: _Hattonem moguntinum_ (archiepiscopum) _in Italiam, jus
regium exacturum, tendentem Constantiam devenisse, et rediisse divitem
ab Italia ditissimum_. Verisimilmente il re Berengario smorzò con dei
regali fatti a questo arcivescovo un principio di nuovo incendio. E
dipoi Corrado ebbe di pensare alla casa propria per cagion degli
Ungheri, che di tanto in tanto portavano le stragi e i saccheggi ora ad
una provincia ed ora ad un'altra del regno germanico.

NOTE:

[1799] Cedrenus, Leo Grammaticus et alii.

[1800] Rubeus, Hist. Ravenn., lib 5.

[1801] Pagius, ad Annales Baron.

[1802] Frodoardus, de Roman. Pont., P. II, tom. 3 Rer. Ital.

[1803] Lambecius, Rer. Hamburg., lib. 1.

[1804] Baron., in Annal. Eccles.

[1805] Petrus Mallius, de Basil. Vatic., in Actis Sanctor., tom. 7.

[1806] Sigebertus, in Chronico.

[1807] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 13.

[1808] Leo Ostiensis, in Chron., lib. I, cap. 61.

[1809] Anonymus Salernit., Paralipom., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1810] Antiquit. Ital., Dissert. XXII.

[1811] Marian. Scotus, Hepidannus, Hermannus Contractus et alii.

[1812] Echeardus, de Cas. Monast. S. Galli, cap. I.



    Anno di CRISTO DCCCCXII. Indiz. XV.

    ANASTASIO III papa 2.
    LODOVICO III Imperadore 12.
    BERENGARIO re d Italia 25.


Mercè del saggio governo del re _Berengario_ continuò la quiete e pace
nel cuor dell'Italia in questi tempi, perchè egli sapeva rendersi
benevoli gli allora formidabili Ungheri, trattenendoli dal tornare in
Italia. Duravano solamente gli affanni nella Campania per le scorrerie
dei Saraceni abitanti presso al fiume Garigliano, e ne' confini del
Piemonte e delle circonvicine parti, a cagion degli altri Saraceni
spagnuoli che dimoravano in Frassineto. Tornarono in quest'anno gli
Ungheri a devastar la Sassonia e Turingia. Ma nella Gallia, dove per
tanti anni addietro i Normanni, peste del genere umano, aveano riempiute
tutte le occidentali provincie d'incendii, ruberie e morti, finalmente
si cominciò a respirare[1813] col ripiego preso di cedere a _Rollone_,
capo di que' masnadieri, quel tratto di paese che cominciò ad appellarsi
Normandia. A questo s'indusse _Carlo il Semplice_ re della Gallia per le
istanze de' suoi baroni. _Rollone_, con abbracciare la religion
cristiana, e ricevere il santo battesimo, in cui gli fu mutato il
proprio nome in quello di _Roberto_, condusse anche il popolo suo a
rinunziare agl'idoli, e diede principio ad un insigne ducato in quelle
parti. Noi vedremo, nel secolo susseguente, la lor nazione in grand'auge
anche in Italia. Mancò di vita nel presente anno _Rodolfo I_ re di
Borgogna[1814], e in luogo di lui assunse il governo di quel regno
_Rodolfo II_ suo figliuolo. Questo principe ancora si lascierà vedere in
Italia da qui a pochi anni, e farà parlar di sè stesso. Possedeva il
celebre monistero della Nonantola, secondo l'uso di questi tempi, fra
gli altri monisteri da sè dipendenti, uno d'essi situato nel distretto
di Trivigi, e fondato da _Gherardo conte_ più di cento anni prima[1815].
Nella irruzione degli Ungheri restò affatto distrutto quel sacro luogo,
e seppellito nelle rovine il sepolcro de' santi martiri Senesio e
Teopompo, i corpi de' quali ivi riposavano. Ebbe premura _Pietro abbate_
nonantolano che questi sacri pegni fossero trasportati a Nonantola; e
una tal traslazione fu fatta nell'anno presente, come ha il
Sigonio[1816] e il catalogo degli abbati nonantolani da me dato alla
luce[1817]. Leggesi presso l'Ughelli descritta essa traslazione da un
antico scrittore. Fu questo l'ultimo anno della vita di _Pietro Tribuno_
doge di Venezia. Il Dandolo[1818] ripruova l'avere alcuni scritto
ch'egli fu un principe iniquo e pessimo, e che per gli suoi demeriti fu
ucciso dal popolo, sapendosi da autentiche scritture aver fatta lega in
lui la benignità colla saviezza, e ch'egli, dopo aver pacificamente
governato il suo popolo per ventitrè anni e ventitrè giorni, era di
morte naturale mancato. Per elezione del popolo fu sustituito in suo
luogo _Orso Particiaco_, ossia _Participazio II_, soprannominato
Paureta. Inviò questi da lì a poco alla corte di Costantinopoli _Pietro_
suo figliuolo a significare al greco Augusto la promozione sua.
Probabilmente era allora imperadore _Costantino Porfirogenito_
fanciullo, perchè in quest'anno morì _Alessandro_ suo zio. Molte
finezze, molti regali ricevette il veneto giovine; e ornato ancora del
titolo di _protospatario_ se ne tornava tutto contento a casa, quando
sui confini della Croazia fraudolentemente si trovò preso da _Michele
duca_ di Schiavonia, spogliato di quanto avea, e consegnato a _Simeone
re_ dei Bulgari. Se volle Orso doge riavere il figliuolo, fu necessitato
a spedire in Bulgaria _Domenico_ arcidiacono di Malamocco, che con
grandissimi doni il riscattò, e in benemerito fu dipoi creato vescovo
della sua chiesa. Abbiamo dagli storici greci[1819] che il suddetto re
dei Bulgari in questo medesimo anno con un copioso esercito passò ad
assediar Costantinopoli; ma conosciuto che troppo duro era quell'osso,
diede orecchio a chi trattò di pace; laonde carico d'oro e di altri
regali se ne tornò alle sue contrade. Trovandosi il _re Berengario_ in
Pavia, diede facoltà, siccome accennai di sopra, a _Resinda badessa_ del
monistero di Posterla di poter fabbricare castelli, cioè fortezze nelle
ville e tenute del suo monistero[1820], _cum bertiscis, merulorum
propugnaculis, aggeribus, atque fossatis, omnique argumento, ad
paganorum deprimendas insidias_. Vuol dire per difendersi dalla pessima
generazion degli Ungheri pagani. Anche nell'anno precedente avea
Berengario accordata una simile facoltà a _Pietro_ vescovo di Reggio,
come costa da altro suo diploma. Di qua poi venne che specialmente per
la Lombardia più di prima si cominciarono a fabbricar fortezze, rocche,
torri e castella ben munite in tal copia, che nel secolo susseguente si
mirava in queste contrade, per così dire, una selva di questi luoghi
forti; ed ogni signorotto, non che i marchesi, conti ed altri signori
potenti, n'era provveduto.

NOTE:

[1813] Gementicens., Hist. lib. 2, cap. 17.

[1814] Hermannus Contract., in Chron.

[1815] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Episcop. Tarvis.

[1816] Sigonius, de Regno Ital.

[1817] Antiq. Ital., Dissert. LXVII.

[1818] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1819] Curopalata, Simeon Logotheta et alii.

[1820] Antiquit. Ital., Dissert. XXVI, pag. 467 et 469.



    Anno di CRISTO DCCCCXIII. Indizione I.

    LANDONE papa 1.
    LODOVICO III imperadore 13.
    BERENGARIO re d'Italia 26.


Circa questi tempi succederono delle rivoluzioni in Sicilia. Quivi
signoreggiavano da gran tempo i Mori, o vogliam dire i Saraceni
africani. Erasi non picciola parte d'essi ribellata al re dell'Africa
loro signore, e nell'anno 909, per quanto si raccoglie da una cronica
araba[1821], cacciarono e mandarono in Africa il governatore ivi messo
dal re. In quest'anno fecero loro amira, ossia generale, Korhab; laonde
per domare costoro fu spedita nell'anno seguente dall'Africa un'armata
navale, ma il figliuolo di Korhab uscito all'incontro d'essa coll'armata
de' Siciliani, pose la nemica in rotta, e l'incendiò. Tanto son brevi
quelle memorie, che solamente a tentone si può dar conto di quegli
affari. Credo il Sigonio[1822], seguitato in ciò dal padre Pagi[1823],
che in quest'anno circa la metà di ottobre _Anastasio III_ papa
terminasse i suoi giorni. Frodoardo[1824] scrittore di questi tempi,
dopo aver narrata la morte di papa _Sergio III_, seguita a dire:

    _. . . . . . . . . Quo rebus ademto_
    _Humanis, in Anastasium Sacra concinit aula._
    _Tertius hoc praesul renitet qui nomine Romae,_
    _Sedis apostolicae blando moderamine rector,_
    _Sentiat ut Christum veniae sibi munere blandum._

In luogo suo fu eletto papa _Landone_, a noi solamente noto pel nome,
senza sapersi alcuna azione di lui. Fece in questi tempi _Corrado re_ di
Germania, non senza ingratitudine, guerra ad _Arrigo duca_ di Sassonia,
che fu padre di _Ottone Augusto_ il Grande: ma nulla vi guadagnò. Ebbe
maggior fortuna nel regno della Lorena, di cui s'era impadronito _Carlo
il Semplice_ re di Francia[1825], e ne staccò almeno l'Alsazia. Nella
Cronichetta amalfitana[1826], da me data alla luce, noi troviamo in
questi tempi duca d'Amalfi _Mansone_, il quale dopo sedici anni di
governo diede l'addio al secolo e si fece monaco. Nel dì 10 d'agosto
dell'anno presente era in Pavia il re _Berengario_, dove donò al
monistero delle monache della Posterla[1827] una parte del muro di
quella città.

NOTE:

[1821] Chronic. Arabicum, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1822] Sigon., de Regno Ital., lib. 6.

[1823] Pagius, ad Annal. Baron.

[1824] Frodoardus, de Roman. Pontificib.

[1825] Chronic. breve sancti Galli.

[1826] Antiq. Ital., tom. 1, pag. 210.

[1827] Ibid., Dissert. XI, pag. 587.



    Anno di CRISTO DCCCCXIV. Indizione II.

    GIOVANNI X papa 1.
    LODOVICO III imperadore 14.
    BERENGARIO re d'Italia 27.


Ci assicura Girolamo Rossi di aver veduto uno strumento scritto in
Ravenna a' tempi di papa _Landone[1828] nonis februarii, Indictione
secunda_. Perciò egli era vivo nel febbraio dell'anno presente. Di lui
così scrive Frodoardo[1829]:

    _Lando dein summam Petri tenet ordine sedem._
    _Mensibus hanc coluit sex, ut denisque diebus,_
    _Emeritus patrum sequitur quoque fata priorum._

Venne egli perciò a morte in questo anno, ed ebbe per successore
_Giovanni X_ papa, dianzi arcivescovo di Ravenna, il quale, siccome
apparirà da una sua bolla che accennerò all'anno 917, prima del dì 19 di
maggio dell'anno presente fu eletto e consecrato papa, e non già
nell'anno 912, come fu d'avviso il cardinal Baronio[1830]. La penna
satirica di Liutprando[1831] ha sommamente screditata la memoria ancora
di questo Giovanni romano pontefice. Racconta egli che _Teodora, scortum
impudens_, madre di _Marozia_ soprammentovata, ed avola materna di
_Alberico_, che vedremo a suo tempo signore o tiranno di Roma, era la
padrona assoluta di Roma, _romanae civitatis non inviriliter monarchiam
obtinebat_. Se è vero quanto con tali parole vuol dire Liutprando, un
gran processo è questo contra della nobiltà e del popolo di Roma, che
tanta possanza lasciava ad un'impudica femmina. Capitò a Roma
_Giovanni_, speditovi da Pietro arcivescovo di Ravenna. Se ne invaghì
Teodora. Venne in quel tempo a morte il vescovo di Bologna, e Giovanni
fu eletto per successore in quella chiesa. Ma _paulo post ante hujus
diem consecrationis_ venne a morte il suddetto arcivescovo di Ravenna, e
l'ambizioso Giovanni, per esortazione e mezzo di Teodora, lasciata
andare la chiesa di Bologna, _locum ejus contra sanctorum patrum
instituta sibi usurpavit_. Aggiunge Liutprando, che _modica temporis
intercapedine, Deo vocante, qui eum injuste ordinaverat papa, defunctus
est. Theodorae autem Glycerii mens perversa, ne amasii ducentorum
milliarium intercapedine, quibus Ravenna sequestratur a Roma, rarissimo
concubitu potiretur, ravennatis hunc sedem archiepiscopatus coegit
deserere, romanumque (proh nefas) summum pontificium usurpare_. Che
Giovanni per gli forti maneggi di questa femmina fosse trasportato sul
trono di san Pietro, non ho difficoltà a crederlo. Che fosse anche
universalmente biasimato questo suo passaggio dalla chiesa di Ravenna a
quella di Roma, ne son più che persuaso. Era contro la disciplina
ecclesiastica de' vecchi tempi. I canoni, ed anche l'ultimo concilio
romano dell'anno 898 riprovavano tali traslazioni, per frenare in tal
guisa la cupidità ed ambizione de' vescovi. Ma non si può già senza
ribrezzo ascoltare il cardinal Baronio, allorchè chiama Giovanni X
_pseudopapam, nefarium invasorem, meretricis viribus Romae pollentem_.
Non è già simile l'entrare in una chiesa per via della simonia, e il
farvi passaggio da un'altra chiesa. Roma aveva allora bisogno di un papa
di gran senno e coraggio. Tale fu creduto l'arcivescovo di Ravenna, e in
casi di bisogno cedono le leggi della disciplina ecclesiastica. Ed
essendo stato Giovanni eletto senza scisma, e riconosciuto dalla Chiesa
universale per legittimo e vero papa, il mettere oggidì in dubbio il suo
pontificato, non dovrebbe essere permesso, siccome punto che potrebbe
tirarsi dietro delle brutte conseguenze. Poichè, quanto al dirsi da
Liutprando, che per motivo d'impudicizia _Giovanni_ fu da Ravenna
condotto alla cattedra di san Pietro, so che chi è avvezzo a credere
piuttosto il male che il bene, anzi truova agevolmente anche nelle
azioni più buone il male, immantenente lo crederà. Ma non così, chi sa a
quante dicerie del volgo è sottoposta la vita dei grandi. Attesta lo
stesso Liutprando di aver ricavata questa notizia dalla vita della
suddetta Teodora, _ut testatur ejus vita_. Buon testo sicuramente per
ispacciar somiglianti iniquità senza pericolo di ingannarsi. Da quella
vita, ossia da quell'infame romanzo, avrà anche imparato Liutprando che
_poco dopo_ essere stato promosso Giovanni all'arcivescovato di Ravenna,
passò al sommo pontificato. _Modica temporis intercapedine_, dice egli.
Ora sappia il lettore averci dato Girolamo Rossi[1832] degl'indubitati
riscontri che fin dall'anno 905 Giovanni cominciò a governar la chiesa
di Ravenna. _Id_, scrive egli, _monumenta Ursiani tabularii complura
testantur_. Venne egli al romano pontificato nell'anno presente 914. E
pure l'autor di quella satirica vita, ovvero Liutprando, ci dice, che
non potendo sofferire l'impudica Teodora la troppa lontananza del drudo,
_modica temporis intercapedine_, il fece passare al soglio pontificio.
Come prestar fede ad autori sì mal informati e sì inclinati alla
maldicenza? Uno strumento e un diploma abbiamo nella Cronica del
monistero di Volturno[1833], spettanti a Landolfo ed Atenolfo principi
di Benevento e di Capoa. Il primo fu scritto _anno imperii domni nostri
Constantini septimo, et quinto anno patriciatus domni nostri Landulfi,
necnon et quinto anno domni nostri Athenulfi principis, mense novembri,
tertia Indictione. Actum Capuae_. Se l'indizione comincia, come io
credo, nel settembre, sono spettanti all'anno presente, e ci conducono a
conoscere che _Landolfo_ era stato creato _patrizio_ dal greco
imperadore prima della metà di novembre dell'anno 911, e similmente
_Atenolfo_ suo fratello creato collega nel principato. Veggendo noi
parimente mentovati gli anni di _Costantino VIII_ imperatore d'Oriente
in Capoa, viene a confermarsi la sovranità rimessa in Benevento e Capoa
dall'Augusto greco. Si scorge ancora che dall'anno 911, e non già dal
912, come volle il padre Pagi, si cominciarono a contare gli anni del di
lui imperio.

NOTE:

[1828] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.

[1829] Frodoardus, de Roman. Pontific.

[1830] Baron., in Annal. Eccl. ad ann. 912.

[1831] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 13.

[1832] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.

[1833] Chron. Vulturnense, P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXV. Indiz. III.

    GIOVANNI X papa 2.
    LODOVICO III imperadore 15.
    BERENGARIO imperadore 1.


Lasciò scritto il Dandolo[1834] che _quarto Conradi_ (re di Germania)
_anno_ _Saraceni Italiam graviter premunt_. L'anno quarto d'esso Corrado
correva nel presente; e però ci si porge fondamento di credere che in
quest'anno i Saraceni, abitanti presso il Garigliano, facessero qualche
funestissima scorreria nella Campania e nel ducato romano, e desolassero
le chiese e famiglie degl'infelici Cristiani. Assai verisimile inoltre è
che _Giovanni X_ papa, uomo di gran mente e cuore, siccome fra poco il
vedremo appellato dal panegirista di Berengario, prendesse di qui la
risoluzione di crear imperadore il _re Berengario_. Da questo passo,
quanto io vo conghietturando, s'era guardata finora la corte di Roma,
perchè viveva tuttavia l'orbo _imperadore Lodovico_, che quantunque
nulla s'impacciasse degli affari d'Italia, e niun conto di lui facesse
Roma e l'Italia, ciò non ostante, conservava il titolo d'imperadore, nè
i papi amavano di levargli questa ombra di diritto e di dignità. Ma
vinse il bisogno, e fece mutar sistema. Non si potea più tollerare
l'insolenza e crudeltà dei Mori del Garigliano, che si divoravano tutte
le rendite delle terre pontificie, e facevano languire nella povertà i
papi d'allora. Nè Berengario dovea sentirsi voglia di far delle spese in
condurre una armata allo esterminio di quegl'infedeli, dando
probabilmente per risposta ai pontefici, che ricorressero per aiuto al
loro imperadore in Provenza. Ora Giovanni papa inviò al re Berengario
una ambasciata con molti regali, pregandolo di venir a liberar da que'
cani gli spolpati stati della Chiesa, e i circonvicini ancora. Gli esibì
eziandio la corona imperiale, per maggiormente animarlo all'impresa.
Finora Berengario era stato solamente re d'Italia, nè avea voluto
adoperar la forza per ottener l'altra corona, come attesta il suo
panegirista, con dire[1835]:

    _Summus erat pastor tunc temporis urbe Johannes,_
    _Officio affatim clarus, sophiaque repletus,_
    _Atque diu talem meritis servatus ad usum._

Ebbe ben più conoscenza di questo papa, Giovanni esso panegirista che
non l'ebbero Liutprando e il cardinal Baronio, ed ecco come diversamente
egli ne parla, aggiugnendo:

    _Quatenus huic prohibebat opes vicina Charybdis,_
    _Purpura quas dederat majorum sponte beato,_
    _Limina qui reserat castis rutilantia, Petro._

Cioè i vicini Mori il privano delle terre che la pietà degli antichi
imperadori aveva donato alla Chiesa romana. Seguita a dire:

    _Dona duci[1836] mittit, sacris advecta ministris._
    _Quo memor extremi tribuat sua jura diei_
    _Romanis, fovet Ausonias quo numine terras,_
    _Imperii sumturus eo pro munere sertum;_
    _Solus et occiduo Caesar vocitandus in orbe._

Cioè gli manda dei donativi, scongiurandolo colla memoria del dì del
giudizio di liberar le terre dei Romani, e di rimettere in essi quella
pace ch'egli facea col suo buon governo godere al resto dell'Italia,
promettendogli la corona imperiale per questo. Truovo io nell'aprile di
questo anno il re Berengario in Pavia, ciò apparendo da un bellissimo
placito[1837] quivi tenuto, _anno regni domni Berengarii regis, Deo
propitio, vigesimo octavo, mense aprilis, Indictione tertia._ Che
v'intervenisse lo stesso re, l'abbiamo dalle prime parole, che son
queste: _Dum in Dei nomine in Viridario juxta palacio domni regis hujus
ticinensis, ubi domnus Berengarius gloriosissimus rex praeerat, et suum
generalem tenebat placitum_, ec. È per altro riguardevole quel placito
per la notizia ch'esso ci porge, come _Radaldo illustre conte e
marchese_ (non so di qual marca) godeva in benefizio una parte dei beni
del monistero di san Colombano di Bobbio, per concessione dei re, i
quali pagavano e ricompensavano allora con iscandalo i servigi dei loro
uffiziali colla roba delle chiese: il che si praticava in molti paesi
cristiani. Non contento di ciò, aveva anche occupata una corte appellata
Barbada, benchè spettante alla parte riserbata all'abbate e ai monaci
per loro sostentamento. Ne fece querela _Teodelassio abbate_, e fu
sentenziato che gli fosse restituita la sua corte. Leggesi medesimamente
presso il Campi[1838] un diploma dato dal re Berengario in questo stesso
anno, _VII kalendas augusti_. _Actum in Sinna._ Che luogo sia questo,
nol so. Un altro ancora vien rapportato dall'Ughelli[1839], dato
_kalendis septembris_ del medesimo anno. _Actum cucte Curciano._ Neppur
questa so io dir dove fosse. Seguita poi a dire il panegirista che
Berengario, intesa ch'ebbe l'ambasciata e volontà del papa, si diede a
raunar l'armata per portarsi a prendere l'imperial corona, ed impiegarsi
in servigio di lui:

    _Talibus evictus precibus, jubet agmina regni,_
    _Queis cum bella tulit, queis cum sacra munera pacis_
    _Affore, quae tanti gressum comitentur honoris._

Disposte le cose, Berengario si mise in viaggio alla volta di Roma. Un
rozzo placito, già accennato dal Fiorentini e da me poi dato alla
luce[1840], ci fa vedere fin dove egli fosse giunto nel dì 10 di
novembre, cioè fuori di Lucca. Fu scritta quella carta originale, da me
avuta sotto gli occhi, _anno regni domni Berengarii regis, Deo propitio,
vigesimo octavo, decimo die mensis novembris, Indictione quarta_, cioè
nell'anno presente, essendo cominciata nel settembre _l'indizione
quarta_. Le prime parole del placito son queste, concepute con istile
del secolo d'oro della latinità: _Dum domnus Berengarius serenissimus
rex pro timore Dei et statum omniumque sanctarum Dei ecclesiarum
electorum populo hic italicis abitantibus, animaeque suae mercedem
justitiam adimplendam partibus Romam iret, cumque pervenisset infra
Tuscia foris hanc urbem Luca_, ec. Sicchè per tempo scorgiamo non
sussistere l'opinione del Sigonio e del Baronio, che tennero conferita
la corona dell'imperio ad esso Berengario nel settembre dell'anno
presente. E che egli fosse coronato imperadore nel dì del santo Natale
dell'anno presente, ne son io persuaso per le ragioni che addurrò qui
sotto. Tuttavia perchè il panegirista di Berengario differisce la
coronazione romana di Berengario sino alla ventura Pasqua, anch'io mi
riserbo di parlarne all'anno seguente. Abbiamo poi dalla Cronica arabica
cantabrigense[1841] che in Sicilia nell'anno presente, oppure nel
seguente, _primo die mensis januarii egressa classis Benkorhab_
(probabilmente ribello del re dei Saraceni africani) _adversus Romaeos_
(cioè contra de' Greci) _in loco, Halayanah dictum, periit in mari_.
Sicchè una fiera tempesta mandò a male con quella flotta tutti i disegni
di quegl'infedeli.

NOTE:

[1834] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1835] Anonymus, in Panegyr. Berengarii, lib. 4.

[1836] _Cioè a Berengario._

[1837] Antiquit. Ital., Dissert. LXXIII.

[1838] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1. Apped.

[1839] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4, in Episcop. Bergomens.

[1840] Antiquit. Ital., Dissert. X.

[1841] Chron. Arab. P. II, tom. 1, Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXVI. Indizione IV.

    GIOVANNI X papa 2.
    BERENGARIO imperadore 2.


Se vogliamo fidarci del panegirista di _Berengario_, questo principe,
accostandosi la festa della resurrezione del Signore (che nel presente
anno cadde nel dì 24 di marzo), s'incamminò verso Roma a prendere la
corona dell'imperio, secondo il concerto fatto con _papa Giovanni_. Si
legge con piacere descritta da esso panegirista[1842] quella magnifica
funzione. All'udir che s'avvicinava alla regal città il futuro
imperadore, uscì il senato e popolo con tutte le scuole delle diverse
nazioni che si trovavano in Roma, Greci, Sassoni, Franzesi e simili,
portando le lor bandiere ed insegne. In cima a quelle dei Romani si
vedevano teste finte di fiere, cioè di lioni, lupi e draghi:

    _. . . . Namque prius patrio canit ore senatus,_
    _Praefigens sudibus rictus sine carne ferarum._

Tutti cantavano nella lor lingua le lodi di Berengario. Gli ultimi della
processione erano i nobili giovani romani, fra i quali Pietro fratello
del papa, e il figliuolo di Teofilatto console, i quali, dopo aver
baciato i piedi a Berengario, gli diedero il ben venuto, e il
complimentarono a nome della città. Stava il sommo pontefice Giovanni
sulle scalinate di san Pietro, vestito degli abiti pontificali, col
clero, aspettando il principe che veniva fra l'immensa calca del popolo
sopra bianca chinea a lui inviata dal papa. Smontò Berengario, e, al
salire delle scalinate, alzossi dal faldistorio papa Giovanni, e seguì
fra loro con baci e toccamento di mani un festoso abbracciamento.
Stavano chiuse le porte della basilica vaticana, nè si aprirono finchè
Berengario non ebbe giurato di confermare, creato che fosse imperadore,
tutti quanti gli stati e beni che la pia munificenza degli antichi
imperadori avea donato alla Chiesa romana. Fatte le preghiere al
sepolcro di san Pietro, passò il principe al palazzo lateranense, dove
gli era apprestata una lauta cena. L'entrata sua pare che succedesse nel
sabbato santo. Venuto poi il solennissimo giorno di Pasqua di
resurrezione, procederono papa Giovanni e Berengario alla basilica
vaticana, superbamente addobbata, fra gli strepitosi viva
dell'innumerabil popolo. Quivi fu unto, quivi fu coronato imperador de'
Romani _Berengario_ con corona d'oro, ornata di gemme; furono cantate le
acclamazioni votive del clero e popolo; e intimato il silenzio, fu letto
ad alta voce il diploma, con cui il novello Augusto conservava alla
Chiesa romana e ai sommi pontifici tutti gli stati e beni ad essa
conceduti da' suoi predecessori, coll'intimazione delle pene contra
chiunque ne turbasse il possesso e dominio ai successori di san Pietro.
Ciò fatto, Berengario esercitò la sua pia magnificenza con superbissimi
regali d'armi, vesti e corone d'oro, tempestate di gemme, non solamente
alla basilica di san Pietro, ma anche all'altre della città, e, come si
può credere, anche al papa, al clero, al senato e ai militi di Roma. In
tale occasione ancora gran copia di moneta si gittava al popolo, siccome
ho io dimostrato altrove[1843]. E qui l'anonimo poeta termina il
panegirico di Berengario, con invitare i giovani poeti a cantare il
resto delle azioni di questo nuovo imperadore:

    _Et post imperii diadema resumite laudes._

Adriano Valesio, che fu il primo a trar dalle tenebre questo poema
istorico, prezioso frammento per la storia dello scuro secolo presente,
fu di parere che il poeta fosse contemporaneo di Berengario. Ma,
all'osservare ch'egli ha preso qualche abbaglio in punti importanti di
storia, de' quali dovrebbe essere stato meglio informato chi rappresenta
sè stesso poeta vecchio sul fine, non so io farmi a credere ch'egli,
vivente Berengario, componesse quel poema. Parrà intanto inverisimile
che dopo la morte di Berengario alcuno avesse intrapresa questa fatica.
Pure non è fuori dei limiti del possibile che Berengario suo nipote,
divenuto poi re d'Italia, si prendesse la cura di far tessere le lodi
dell'avolo Augusto.

Ha già provato il padre Pagi con sode ragioni non sussistere l'opinione
di chi riferì al settembre dell'anno precedente la coronazione romana di
Berengario. Altre pruove ne ho addotte anche io di sopra, siccome pure
nelle Antichità italiane[1844]. Che poi seguisse nel dì di Pasqua
dell'anno presente quella maestosa funzione, dovrebbe a noi bastare la
chiara asserzione della Cronica casauriense[1845] e del panegirista
suddetto, che così ne scrive[1846]:

    _Mox crocei mundum lampas phoebea quadrigis_
    _Luce, Deus qua factus homo processit ab antro_
    _Tumbali, perflat......_

Tuttavia son io persuaso che non nella Pasqua dell'anno presente, ma nel
Natale dell'anno precedente, Berengario fosse innalzato al trono
imperiale. Ne addurrò le pruove all'anno 921 e 924. Intanto, dopo aver
noi veduto ch'egli era in Toscana nel dì 10 di novembre, incamminato
alla volta di Roma, non pare che dovesse tardar tanto ad arrivarvi, e
che piuttosto nel Natale egli avesse conseguito il diadema imperiale. Nè
già dice il Fiorentini ch'egli seguitasse sino al marzo dell'anno 916 ad
essere chiamato re, ma solamente dice che nel marzo si comincia a trovar
memoria dell'imperio suo nelle carte di Lucca. Abbiam detto essere stato
uno dei motivi, per gli quali fu promosso Berengario alla corona
imperiale, il bisogno del suo aiuto per isterminare i Saraceni dal
Garigliano. Leone Ostiense[1847] fece credere al Sigonio, al Baronio e
ad altri che questa gloriosa impresa seguisse nell'anno 915, correndo il
mese di agosto. Ma o egli fallò, o è scorretto il suo testo. Per
confessione sua, il principale influsso per distruggere quel nido di
assassini venne da papa Giovanni X, _qui ex episcopatu ravennate
triennio ante romanam sedem invaserat_. Solamente in quest'anno ebbe
principio il _terzo anno_ del pontificato d'esso papa Giovanni; e però
in questo dee essere succeduto l'esterminio di quegl'infedeli. Lupo
protospata[1848] l'attestò anch'egli, scrivendo: _Anno DCCCCXVI exierunt
Agareni de Gariliano_. Ora abbiamo da Liutprando[1849] e dal suddetto
Ostiense che Giovanni papa, premendogli forte di snidare dal Garigliano
i Saraceni, fin qui creduti invincibili, spedì alla corte imperiale di
Costantinopoli per ottenere un'armata navale, la qual chiudesse la via
del mare a quella canaglia, e impedisse i soccorsi che poteano sperare
dall'Africa. Trasse in lega Landolfo principe di Benevento e di Capoa,
_Gregorio duca_ di Napoli _e Giovanni duca_ di Gaeta, a' quali due
ultimi Niccolò patrizio, soprannominato Picingli, generale dei Greci,
portò l'onore del patriziato. Che anche l'imperador Berengario
contribuisse non poche forze per quell'impresa, si può lecitamente
conghietturare, e massimamente scrivendo l'Ostiense che papa Giovanni
_una cum Alberico marchione, cum valida pugnatorum manu_, volle in
persona intervenirvi, per maggiormente animare il popolo cristiano. Già
dicemmo che _Alberico_ era marchese di Camerino, e, secondo le
apparenze, anche duca di Spoleti, e però vassallo di Berengario. Par
credibile che egli guidasse le truppe date dall'imperadore; e da
Liutprando sappiamo che le genti di _Camerino_ e di _Spoleti_ non
mancarono a quella gloriosa spedizione. Diviso questo fiorito esercito,
da due bande strinse i Saraceni, tenendo forte l'assedio o blocco per
tre mesi: tempo che bastò ad affamar que' Mori, i quali non potendo più
reggere, attaccato il fuoco a tutte le lor case ed arnesi, sbucarono
impetuosamente fuori de' loro recinti, e scapparono chi qua chi là per
le montagne e selve vicine. Ma gl'inseguirono con tal diligenza ed
ostinazione i Cristiani, che di coloro niuno vi rimase che non fosse o
ucciso, o preso vivo, o fatto schiavo. Per questa gloriosa impresa
incredibile fu il gaudio dei fedeli di Cristo in Roma e negli altri
circonvicini paesi, e lode ne riportò papa Giovanni, tuttochè non a
tutti paresse proprio che un vicario di Cristo pacifico si portasse in
persona ad assistere a quella sanguinosa danza, e desse egli il primo un
esempio di praticar lo stesso ad altri. Intanto l'imperador Berengario
venne da Roma verso la Lombardia. Un suo diploma presso il
Margarino[1850] fu dato _VIII kalendas junii, anno Domini DCCCCXVI,
domni vero Berengarii serenissimi regis XXIX, imperii autem sui primo,
Indictione IV. Actum curte Sina_: luogo a me ignoto. In esso concede a
_Berta_ dilettissima figliuola sua, e badessa dell'insigne monistero di
santa Giulia di Brescia, la facoltà di fabbricare un castello sulla riva
del Ticino, _cum bertiscis, spizatis, turribus, et merulorum
propugnaculis, fossatis, atque aggeribus, omnibusque argumentis eidem
castello necessariis_. Il timore degli Ungheri, siccome dissi, facea
prendere queste precauzioni agli Italiani. Un altro suo diploma in
favore di _Pietro vescovo_ d'Arezzo e della sua chiesa, da me
pubblicato[1851], si vede dato _X kalendas junii_ coll'altre sopra
riferite note, e in fine _Actum in civitate Ravenna_. Nella Cronica
arabica cantabrigense[1852] è notato sotto quest'anno che i Siciliani
deposero Benkorhab, e il mandarono in Africa, dove egli e il figliuolo
morirono. Pare che costui si fosse sollevato in Sicilia contra del re
de' Mori, e che preso ed inviato in Africa, pagasse colla testa la pena
della sua ribellione. Spedì il re africano nel mese d'agosto dell'anno
presente una potente armata navale in Sicilia per estinguere quel fuoco,
il quale verisimilmente fu cagione che in questi tempi la nazione
saracenica da quelle parti non infestasse l'Italia.

NOTE:

[1842] Anonym., in Panegyr. Berengar., lib. 4.

[1843] Antiquit. Ital., Dissert. III, pag. 108.

[1844] Antiquit. Ital., Dissert. LVI.

[1845] Chron. Casauriense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1846] Anonymus, in Panegyrico Berengarii.

[1847] Leo Ostiensis, Chron., lib. 1, cap. 52.

[1848] Protospata, in Chronico, tom. 5 Rer. Ital.

[1849] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 14.

[1850] Margarinius, Bullar. Casinens., tom. 2, pag. 40.

[1851] Antiq. Ital., Dissert. XVII.

[1852] Chron. Arabicum, P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXVII. Indizione V.

    GIOVANNI X papa 4.
    BERENGARIO imperadore 3.


Giacchè non si può saper l'anno preciso della morte di _Adalberto II_
duca e marchese di Toscana, il Sigonio, il Contelori ed altri per
coniettura l'hanno assegnata all'anno presente. Però in questo ne fo
menzione anch'io. Mancò di vita questo rinomatissimo principe, come s'ha
dal suo epitaffio, tuttavia esistente in Lucca, e rapportato dal
Fiorentini[1853],

             IN SEXTO DECIMO SEPTEMBRE NOTANTE CALENDAS.

Secondo le conietture da me addotte nelle Antichità estensi[1854], da
lui discese la nobilissima casa d'Este. Un passo scorretto di Liutprando
è stato cagione che di questo ricchissimo e glorioso principe abbiano
parlato con discredito molti moderni scrittori, e principalmente il
cardinal Baronio. Favellando esso storico di Marozia nobilissima romana,
ch'egli ci vuol far credere donna prostituta, scrive[1855] ch'essa _ex
Alberto marchione Albericum (genuit) qui nostro post tempore romanae
urbis principatum usurpavit_. Ma Adalberto, dimorante in Toscana, nulla
ebbe che far con Marozia abitante in Roma. In vece di _Adalberto_,
Liutprando scrisse _ex Alberico marchione_; e lo può scorgere il lettore
stesso in osservar quest'altre parole del medesimo autore, dove
dice[1856]: _Habuerat Marozia filium nomine Albericum, quem ex Alberico
marchione ipsa genuerat_. E l'antico scrittore della Cronica di
Farfa[1857], che ebbe davanti agli occhi quella di Liutprando, anch'egli
scrive che _Marotia ex Alberico marchione habuit Albericum, qui post
ejusdem urbis accepit principatum_. Altre pruove di questa verità io
tralascio, ristringendomi a dire che s'hanno da cassare alcune partite
non sussistenti della penna del cardinal Baronio e d'altri contra la
memoria del duca Adalberto II, non verificandosi neppure ch'egli avesse
mano nell'elezione de' papi, come pensa il cardinale suddetto, il quale
disavvedutamente ancora ci rappresentò _Alberico_ principe di Roma, nato
da esso _Adalberto II_ e da _Teodora_ sorella di Marozia, quando è fuor
di dubbio che il giovane Alberico fu figliuolo di _Alberico_ marchese e
di Marozia patrizia romana. Ebbe questo duca Adalberto II per moglie
_Berta_, figliuola di _Lottario re_ della Lottaringia, ossia dell'antica
Lorena, che gli procreò tre figliuoli, cioè _Guido, Lamberto ed
Ermengarda_. Essendo mancata di vita Gisla, figliuola dell'imperador
Berengario, moglie di _Adalberto marchese d'Ivrea_, fu essa Ermengarda
presa per moglie da esso marchese d'Ivrea. Dopo la morte del duca
Adalberto nel ducato della Toscana, per attestato di Liutprando[1858],
_filius ejus Wido a Berengario rege marchio patris loco constituitur_.
Sicchè _Guido_, se in quest'anno morì suo padre, cominciò a governare il
ducato della Toscana.

Secondochè riferisce il Browero[1859], fu in questi tempi spedita da
papa _Giovanni X_ una bolla ad _Aicone abate_ di Fulda in Germania. Essa
è data _XIIII kalendas junii, anno, Deo propitio, pontificatus domni
Johannis summi pontificis et universalis decimi papae in sacratissima
sede beati Petri apostoli quarto, imperante domno pissimo augusto, a Deo
coronato magno imperatore, anno secundo, et patriciatus_ (se pur non ha
da dire, come io credo, _post consolatum_) _anno secundo, Indictione
quinta._ Ecco lo stile osservato anche sotto gli antichi imperadori
sovrani di Roma. Dalla Cronica casauriense[1860] impariamo, che
nell'anno presente l'augusto Berengario dovette portarsi a Camerino, da
dove andò poi a visitare l'insigne monistero di san Clemente di Casauria
fondato da Lodovico II imperadore. Quivi confermò i privilegii a quel
sacro luogo. Il diploma è dato _XII kalendas novembris, anno dominicae
Incarnationis nongentesimo septimodecimo, domni vero Berengarii piissimi
regis vicesimo octavo, imperii autem sui secundo, Indictione quinta.
Actum in Piscaria. L'indizione quinta_ (quando non fosse stato scritto
nell'originale VI piuttosto che V) qui corre sino al fine dell'anno: il
che è cosa rara. Ma forse quel documento contien dei difetti, non
sussistendo che in quest'anno corresse l'anno XXVIII del regno di
Berengario, come stampò il padre Dachery, ma si bene l'anno XXX. Il
Valesio[1861], in citar questo diploma, scrisse _anno tricesimo_,
probabilmente correggendo l'errore del testo. Però si può anche dubitar
dell'indizione. Se non si opponessero le ragioni addotte nell'anno
precedente, questo trovarsi Berengario a a Pescara mi avrebbe fatto
dubitare che l'esterminio de' Saraceni piuttosto in questo che in
quell'anno fosse succeduto. E a persuaderlo potrebbe ancora concorrere
la stessa Cronica casauriense, se fosse vero che _Ittone abbate_
casauriense avesse dato principio al suo governo nell'anno 916, come
vien preteso nella stampa d'essa Cronica; perchè ivi è scritto che a'
tempi di questo abbate i Saraceni diedero un fierissimo sacco al
monistero di Casauria, e distrussero tutte le castella e i poderi di
quel sacro luogo. Ma non si può con sicurezza attenere in questo ai
racconti di quello scrittore. Appartiene parimente all'anno presente un
diploma del medesimo imperadore, ch'io già pubblicai[1862]. Conferma
egli a Berta sua figliuola, che abbiam già veduta badessa del monistero
di santa Giulia di Brescia, il monistero di san Sisto di Piacenza con
tutti i suoi beni, secondo gli abusi di que' tempi. Fu dato quel diploma
_VI kalendas septembris, anno dominicae Incarnationis DCCCCXVI, domni
vero Berengarii piissimi regis XXXVIII, imperii autem sui secundo,
Indictione V. Actum in curte Sinna._ Ma l'_Indizione V_ mostra l'anno
_DCCCCXVII_. Forse qui il cancelliere si servì dell'anno pisano. Ma
neppure in questo documento dovrebbe essere l'anno XXXVIII del regno,
essendo fuor di dubbio che allora correva l'anno XXX. Si vede qui che
allora _Odelrico marchese_ era _conte del sacro palazzo_. Questo
personaggio il revedremo fra poco. Per quanto abbiamo dalla Cronica
arabica[1863] sopraccitata, già spedito dall'Africa con un'armata navale
_Abusaid Aldaiph_ in Sicilia, nel dì 28 di settembre ebbe maniera di
entrare in Palermo. Poscia nel dì 17 d'ottobre _foedus percusserunt
Siculi cum Ben-Ali Vava Assaario contra Abusaid Aldaiph, et obsessa est
Panormus sex menses, et defecit in ea sal, ita ut salis uncia duobus
tarenis vendi coeperit_. Si vede che tuttavia durava la ribellion dei
Mori in Sicilia contro il re loro, e i Siciliani tenevano coi ribelli.

NOTE:

[1853] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.

[1854] Antichità Estensi, P. I, cap. 22.

[1855] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 13.

[1856] Liutprandus, Hist., lib. 3, cap. 12.

[1857] Chron. Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital. Anonymus Salernitanus,
Paralipomen., Part. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1858] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 15.

[1859] Browerus, Antiquit. Fuldens., pag. 284.

[1860] Chronic. Casauriense, P. II. tom. 2 Rer. Ital.

[1861] Valesius, in Notis ad Panegyr. Berengar.

[1862] Antiquit. Ital., Dissert. VII.

[1863] Chronicon Arabicum, P. II, tom. I Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXVIII. Indiz. VI.

    GIOVANNI X papa 5.
    BERENGARIO imperadore 4.


Benchè molti sieno gli scrittori sì antichi che moderni, i quali
riferiscono all'anno seguente la morte di _Corrado_ re di Germania, pure
Epidanno[1864], Ermanno Contratto[1865] ed altri[1866] storici,
seguitati in ciò dal padre Pagi, dall'Eccardo e da altri moderni, la
mettono accaduta nell'anno presente, prima del Natale del Signore. Fu
principe di gran valore, e di non minor prudenza e pietà. Contra degli
Ungheri ebbe più volte da sfoderar la spada, e continuò la guerra contro
di _Arrigo duca_ di Sassonia, chiamato dagli storici, per distinzione
dagli altri Arrighi, l'_Aucupe_, cioè l'Uccellatore. Pure, venuto a
morte, anteponendo l'amore del pubblico bene alle private sue passioni,
egli fu che consigliò ai principi del regno germanico di eleggere per
suo successore lo stesso Arrigo, principe ben meritevole di quella
dignità[1867]. A questo fine gl'inviò lo scettro, la corona e gli altri
ornamenti reali. Da un diploma, da me dato alla luce[1868], apprendiamo
che l'_imperador Berengario_ si trovava in Pavia nel dì 20 d'aprile
dell'anno presente, dove confermò ai canonici di Padova i lor privilegii
e beni. Leggonsi ivi queste note: _Data XII kalendas maii, anno
dominicae Incarnationis DCCCCXVII; domni vero Berengarii piissimi regis
XXXVI, imperii anno III, Indictione VI. Actum civitate Papiae._ Ma si
dee scrivere _anno DCCCCXVIII_, seppure non si vuol ricorrere all'anno
pisano: il che difficilmente m'induco io a credere. Son guasti ancora
gli anni del regno, perchè allora era in corso l'_anno XXXI_. Ho io
parimente pubblicato[1869] un bel placito, tenuto in Milano _anno
imperii domni Berengarii imperatoris tercio, mense aprilis, Indictione
VI_, cioè nell'anno presente. Il suo principio è questo: _Dum in Dei
nomine civitate Mediolani, curte ducati in laubia ejusdem curtis in
judicio resideret Berengarius nepus et missus domni et gloriosissimi
Berengarii serenissimi imperatoris avio et senior ejus, qui in comitatu
mediolanense ab ipso imperatore missus esset constitutus, tamquam comes
et missus discurrens_, ec. Questo _Berengario_ era figliuolo di
_Adalberto marchese_ d'Ivrea, e di _Gisla_ figliuola dell'Augusto
Berengario. Noi il vedremo a suo tempo re d'Italia. La _corte del
ducato_, che si vede in Milano, significa il palazzo, dove solevano
abitare i duchi. In altre città s'incontra la _corte ducale_, che vuol
dire lo stesso. Le carte poi di questi tempi ci fanno vedere in Roma e
nel suo ducato molti nobili che insieme sono appellati _consoli e
duchi_, siccome ho mostrato altrove[1870]: probabilmente _consoli_,
perchè membra del senato romano, il quale tuttavia durava; e _duchi_,
perchè governatori di qualche città. Riuscì in quest'anno, oppure nel
seguente, ai Siciliani e Mori ribelli[1871] di costringere alla resa nel
dì 12 di marzo la città di Palermo dopo sei mesi d'assedio, con lasciare
la libertà al presidio africano. Salem fu creato Amira, ossia governator
generale della Sicilia. E sul fine dell'anno venne fatto ai Mori di
occupare anche la città di Reggio in Calabria.

NOTE:

[1864] Epidannus, in Chron.

[1865] Hermann. Contractus, in Chron.

[1866] Marian. Scottus, in Chronico et alii.

[1867] Continuator Rheginonis, in Chronico.

[1868] Antiquit. Italic., Dissert. XXXVI.

[1869] Ibid., Dissert. IX.

[1870] Antiq. Ital. Dissert. V, pag. 161 et seq.

[1871] Chron. Arab., P. II, tom. 1, Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXIX. Indizione VII.

    GIOVANNI X papa 6.
    BERENGARIO imperadore 5.


È involta in un gran buio per questi tempi la storia d'Italia, non
restando nè storie nè atti per gli quali si venga in cognizione di quel
che operarono i papi, l'imperadore e gli altri principi d'Italia. Ci ha
nulladimeno conservata Liutprando[1872] una notizia che mi sia lecito di
riferire all'anno presente. Cioè che nacquero dissensioni fra
l'imperador _Berengario_ e _Guido duca_ di Toscana; che questi insieme
colla duchessa _Berta_ sua madre fu preso e messo in prigione in
Mantova. Ma che non potendo Berengario cavar dalle mani dei governatori
fedeli ad essa Berta le città e castella della suddetta Toscana, rimise
in libertà Guido e la madre. _Bertha autem_ (sono le sue parole)
_Adalberti uxor cum Widone filio post mariti obitum, minoris non facta
est, quam vir suus, potentiae. Quae tum calliditate et muneribus, tum
hymenaei exercitio dulcis, nonnullos sibi fideles effecerat._ Ma se
Liutprando vuol tutte le principesse d'allora donne prostitute, senza
che i mariti se ne alterassero punto, ci è ben permesso di ripetere
ch'egli era una mala lingua, nè merita fede la satira sua. In età almeno
di sessanta anni si trovava Berta in questi tempi; e questo autore è
dietro a farci vedere ch'ella adescasse amanti e fedeli colle sue
dissolutezze. Seguita poi a dire: _Unde contigit, ut dum paulo post a
Berengario simul cum filio caperetur, et Mantuae in custodia teneretur,
suas civitates et castella omnia Berengario minime reddiderit, sed
firmiter tenuerit, eamque postmodum de custodia simul cum filio
liberavit._ Null'altro sappiamo che questo poco di quell'avvenimento,
con ignorarne i motivi e la maniera, con cui la duchessa Berta e Guido
suo figliuolo restarono presi dall'Augusto Berengario. Circa questi
medesimi tempi _Landolfo_ ed _Atenolfo II_ principi di Benevento e di
Capoa ebbero guerra coi Saraceni, e l'ebbero ancora coi Greci padroni di
Bari e di altre città. L'autore della Cronica di Volturno[1873] cel fa
sapere con queste parole: _Ilis temporibus supradicti principes multa
cum Saracenis et Graecis certamina habuerunt; sed Dei misericordia
victoriam acceperunt._ In Sicilia, per attestato della Cronica
arabica[1874] sul fine di quest'anno, o pur nel seguente, si fece tregua
fra Salem governator moro e il popolo di Taormina: dal che scorgiamo che
duravano le turbolenze in quell'isola, e vedremo che per molto tempo
ancora tennero in esercizio le forze del sultano dei Mori, il quale
intanto raunò un possente esercito per mare e per terra, senza che si
conosca, se per ispedirlo in Sicilia, o pur verso altra parte. Sotto
quest'anno scrive Frodoardo:[1875] _Hungari Italiam, partemque Franciae,
regnum scilicet Lotharii, depraedantur._ Da alcuna altra storia non
abbiamo notizia di questa incursione degli Ungheri in Italia. Pure si
può credere. Stavano i popoli della Lombardia circa questi tempi in
continua apprensione della venuta di questi cani. Ho io renduta pubblica
la preghiera[1876] che allora quel di Modena faceva a san Geminiano suo
protettore, acciocchè egli intercedesse da Dio,

    _Ut hoc flagellum, quod meremur miseri,_
    _Coelorum Regis evadamus gratia._
    _Nam doctus eras Attilae temporibus_
    _Portas pandendo liberare subditos._
    _Nunc te rogamus, licet servi pessimi,_
    _Ab Ungarorum nos defendas jaculis._

Leggonsi ancora altri versi per incitare il popolo a far buona guardia
in que' calamitosi tempi.

NOTE:

[1872] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 15.

[1873] Chron. Vulturnense, P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[1874] Chron. Arab., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[1875] Frodoardus, in Chron., tom. 2 Rer. Franc. Du-Chesne.

[1876] Antiq. Ital., Dissert. I.



    Anno di CRISTO DCCCCXX. Indiz. VIII.

    GIOVANNI X papa 7.
    BERENGARIO imperadore 6.


Ricavasi da un diploma, da me dato alla luce[1877], che l'_imperador
Berengario_, stando in Pavia nel dì 26 di settembre di quest'anno,
confermò tutti i privilegii alla chiesa di Parma e ad _Aicardo vescovo_
di quella città, chiamato _Hercardo_ dall'Ughelli, _interveniente
Odelrico gloriosissimo marchione nostro_. Non so io dire se _Odelrico_,
il quale sosteneva ancora il grado di conte del sacro palazzo, fosse
marchese del Friuli, o pure di Milano. Fu dato quel diploma _VI kalendas
octobris, anno dominicae Incarnationis DCCCCXX, domni vero Berengarii
serenissimi regis XXXIII, imperii autem sui V, Indictione VIIII_
(cominciata nel settembre). _Actum Papiae._ Un altro suo privilegio,
dato medesimamente in Pavia nel dì 6 di settembre[1878], ho io tolto
alle tenebre. A questo medesimo anno dovrebbe appartenere un documento
dello stesso Berengario[1879], in cui dona alla chiesa di sant'Antonino
di Piacenza una picciola badia di santa Cristina posta in Pavia, ad
intercessione di _Grimaldo glorioso conte_, e per gli meriti di _Guido
vescovo_ di essa città di Piacenza. Dicesi dato quel diploma _XIII kal.
januar. anno dominicae Incarnationis DCCCCXXI, domni vero Berengarii
piissimi regis XXIV, imperii autem sui quinto, Indictione nona. Actum
Veronae._ Ma nel dì 20 di dicembre dell'anno 921 correva l'_anno VI_, e
non già il _V_, per le ragioni addotte all'anno 916. Perciò o qui viene
adoperato l'anno pisano, anticipante l'anno volgare, o pure ivi si ha da
scrivere _anno DCCCCXX_, nel cui dicembre correva l'_Indictione IX_, e
potea forse correre l'_anno XXXIV_ del regno. Truovasi parimente nella
cronaca farfense una confermazione di tutti i privilegii conceduti
all'insigne monistero di Farfa, fatta dal medesimo imperadore. Il
diploma porta queste note[1880]: _Datum II kalendas julii, anno
dominicae Incarnationis DCCCCXX, domni vero Berengarii XXVIII_ (si dee
scrivere _XXXIII_), _regni imperii autem V. Actum in curte Olonna._ Fra
l'altre cose egli conferma a quel monistero _quidquid Albericus marchio
in idem monasterium aliqua inscriptione condonavit in comitatu Firmano_.
Anche di qui può trasparire che il _marchese Alberico_, altre volte
nominato di sopra, fosse marchese di Camerino, ed anche duca di Spoleti,
giacchè il monistero farfense era nel ducato spoletino. L'autore della
suddetta Cronica fa menzione della marca di Fermo. La stimo io una cosa
stessa colla marca di Camerino. Attesero in questi tempi gli abbati di
monte Casino, di san Clemente di Casauria e di Volturno a rimettere in
piedi i lor monisterii già distrutti dai Saraceni. Merita poi d'essere
rammentata la donazione della corte di Prato Piano, posta nel
piacentino, che Berengario Augusto fece in quest'anno alla _diletta sua
moglie Anna_. Per intercessione di _Guido vescovo di Piacenza_ e di
_Odelrico inclito marchese_. Il diploma, da me pubblicato[1881], ha
queste note: _Data VI idus septembris, anno dominicae Incarnationis
DCCCCXX, domni vero Berengarii serenissimi regis XXXIII, imperii autem
sui VI, Indictione VIIII. Actum Papiae._ Ma qui dee essere scorretto
l'_anno VI_ dell'imperio, e in suo luogo s'ha da scrivere _anno V_. Ho
io altrove[1882] citato uno strumento autentico, da me veduto in Reggio,
con queste note: _Berengarius gratia Dei imperator Augustus, anno
imperii ejus quinto, decimo kalendas decembris, Indictione nona_, cioè
nell'anno presente. Come poi diplomi, che han tutta la ciera di
originali, contengano sì fatti sbagli, non si sa così facilmente
intendere. Moglie dell'Augusto Berengario era negli anni addietro
_Bertila_. Noi qui ora troviamo _Anna_, a cui nondimeno non è dato il
titolo di Augusta. Scrive il panegirista di Berengario una rilevante
particolarità circa l'anno 889[1883].

    _. . . . . . Pariter tria fulmina belli_
    _Supponidae coeunt: regi sociabat amico,_
    _Quos tunc fida satis conjux: peritura venenis,_
    _Sed postquam haustura est inimica hortamina Circes._

Era congiunta in primo matrimonio col re Berengario _Bertila_,
probabilmente figliuola di _Suppone_, veduto da noi duca di Spoleti
nell'anno 872. Ch'ella fosse vivente anche nell'anno 910, s'è osservato
di sopra. Di qui impariamo ch'essa fu levata dal mondo col veleno, e
pare che per la sua infedeltà tanto male le avvenisse. Dovette
Berengario passare alle seconde nozze con prendere questa _Anna_. Se
inoltre le desse il titolo di Augusta, nol saprei dire.

NOTE:

[1877] Ibid., Dissert. LXIII.

[1878] Antiquit. Ital., Dissertat. XI pag. 583.

[1879] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1, Append.

[1880] Chron. Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1881] Antiquit. Ital., Dissert. XX.

[1882] Ibid., Dissert. LXVI.

[1883] Anonymus, in Panegyrico Berengarii lib. 2.



    Anno di CRISTO DCCCCXXI. Indizione IX.

    GIOVANNI X papa 8.
    BERENGARIO imperadore 7.
    RODOLFO re d'Italia 1.


Rapporta l'Ughelli[1884] il testamento di _Noterio_ ossia _Notekerio_
vescovo di Verona, fatto, _imperante domno nostro Berengario imperatore,
anno sexto, sub die decimo de mense februarii, Indictione IX_. Se questo
atto è autentico, e se accuratamente trascritto dall'Ughelli, noi
vegniamo a conoscere che Berengario non dovette ricevere la corona e il
titolo imperiale nella Pasqua dell'anno 916, ma bensì prima del dì 10 di
febbraio di esso anno; e con insorgere un sospetto che ciò seguisse nel
Natale dell'anno 915, ed aver fallato il panegirista di Berengario,
sulla cui relazione fondati alcuni hanno assegnata la di lui coronazione
alla Pasqua suddetta dell'anno 916. Ma perchè l'Ughelli troppe volte
porta scorretti i documenti nella sua Italia sacra, non possiam qui
riposar sulla sola sua fede. Se un dì uscirà alla luce qualche diploma o
strumento, scritto ne' mesi di gennaio e febbraio dell'anno 916 e dei
susseguenti, finchè visse Berengario, allora si potrà meglio accertare
questa partita. Il Sigonio[1885] attestò di averne veduto uno, dato
_regni sui trigesimo primo, imperii vero quarto, VII kalend. januarii,
Indictione VII_, cioè nel dì 26 di dicembre dell'anno 918. Il padre
Pagi[1886] vuole che s'abbia, secondo i suol conti, a legger ivi
_imperii vero tertio_. Ma se il Sigonio seppe ben leggere, e se
autentico era quel diploma, vegniamo in cognizione che appunto nel dì di
Natale dell'anno 915 accadde la coronazione romana di Berengario.
Veggasi un altro documento qui sotto all'anno 924. Aggiungasi ancora che
nell'indice delle carte dell'insigne archivio dell'arcivescovo di Lucca
è notato un livello, dato da _Pietro_ vescovo nell'_anno II_ di
_Berengario Augusto_ nel dì 14 di marzo _Indict. V_, cioè nell'anno 917.
Adunque prima della pasqua dell'anno precedente Berengario dovea avere
ricevuta la corona dell'imperio. Abbiamo poi dal Dandolo[1887], che
circa questi tempi gli Ungheri usciti della Pannonia empierono di
desolazione la Moravia e la Boemia, con uccidere ancora il duca di
quella contrada. Vennero poi nella Croazia, e, passato il castello di
Leopoli, trovarono _Gotifredo ed Ardo_ duchi insieme col patriarca di
Aquileja (secondo i conti dell'Ughelli dovrebbe essere _Orso_) che
attaccarono battaglia con loro; ma sfortunatamente, perchè quei due
duchi vi lasciarono la vita, e il patriarca, mercè di un buon cavallo e
degli speroni si ridusse in salvo. Diedero i barbari vincitori un sacco
universale alla Croazia e Stiria; se ne tornaron pieni di bottino nella
Pannonia, e di là passarono a far la stessa danza nella Bulgheria. Seguì
parimente nell'aprile di quest'anno un fatto d'armi presso la città di
Ascoli fra _Landolfo_ principe di Benevento e di Capoa, ed _Ursileo_
ossia _Orseolo_, generale dei Greci, che vi restò morto. Ne fa menzione
Lupo protospata[1888] con queste parole: _Anno 921 interiit Ursileo
Stratigo in praelio de Asculo mense aprilis, et apprendit Pandulfum
Apuleo._ Secondochè osservò Camillo Pellegrino, qui si dee leggere
_Landulfus Apuliam_. E che questo principe ritogliesse ai Greci la
Puglia, si ricava da Liutprando[1889], che scrive, _principem Landulphum
septennio potestative Apuliam sibi subjugasse_. Benchè l'imperador
Berengario placidamente governasse il regno d'Italia, pure i mali che in
quei tempi guastavano troppo di leggieri la pubblica quiete ed armonia,
non gli permisero di goder più lungamente della pace. In quest'anno
appunto succedette, a mio credere, ciò che vien narrato da
Liutprando[1890]. Venuto a morte _Gariberto arcivescovo_ di Milano, se
volle _Lamberto_ eletto suo successore entrar in possesso di quella
chiesa, gli convenne, secondo i pessimi abusi d'allora, comperare il
consenso dell'imperadore con buona somma di danaro, avendone egli esatta
tanta quanta se ne solea dare ai camerieri, ai portieri e ai custodi de'
pavoni e degli altri uccellami della corte. Se l'ebbe forte a male il
novello arcivescovo, e cominciò tosto a meditarne la vendetta. Accadde
che _Adalberto marchese_ d'Ivrea, benchè genero dello stesso Berengario,
_Odelrico_ marchese e conte del sacro palazzo, benchè tanto beneficato
da esso imperadore, e _Gilberto_ potente e valoroso conte segretamente
tramarono una ribellione contra del medesimo Augusto Berengario.
Insospettitosene egli, fece mettere le mani addosso ad Odelrico, e il
diede in guardia all'arcivescovo Lamberto, per prendere poi quelle
risoluzioni che fossero credute più convenienti alla giustizia. Da lì a
qualche giorno mandò Berengario dei messi con ordine all'arcivescovo di
rimettere in mano di lui il prigioniere. La risposta ch'egli diede, fu,
che se un par suo consegnasse alla giustizia alcuno, a cui si dovesse
levar la vita, egli opererebbe contro i canoni, e meriterebbe di perdere
il vescovato. Di più non occorse all'imperador Berengario per iscoprire
il mal animo di Lamberto; e tanto più si assicurò della di lui
intelligenza e lega coi ribelli, perchè egli senza licenza alcuna d'esso
Berengario rimise in libertà Odelrico.

Allora fu che il marchese Adalberto, esso Odelrico e Gilberto conte
determinarono di chiamare in Italia un altro principe per atterrar
Berengario[1891], e rivolsero gli occhi a _Rodolfo II_ ossia Ridolfo, re
della Borgogna appellata Transjurana, che comandava alla Savoia, agli
Svizzeri e ad altri circonvicini paesi. Non mancava a questo re
l'ambizione, cioè la sete di ingrandirsi, innata in quasi tutti i
principi, e con questa voglia andava congiunta la potenza, accresciuta
dall'aver egli presa per moglie _Berta_ figliuola di _Burcardo duca_
potentissimo della Suevia. Cominciarono pertanto questi tre congiurati
un trattato segreto col suddetto re Rodolfo per farlo venire in Italia.
Ma mentre costoro sulla montagna di Brescia battevano un dì consiglio
per condurre a fine la meditata impresa, ne fu avvertito l'imperador
Berengario. Portò il caso che in questo medesimo tempo erano calati in
Italia due re, ossia due capitani degli Ungheri, appellati Dursac e
Bugat, per salassare la misera Lombardia; i quali perciò mandò a
pregare, che se gli voleano bene, andassero a fare una visita a que'
suoi ribelli. Non vi fu bisogno di speroni a quella gente, avida di
sangue e di bottino. Volarono sul Bresciano per vie sconosciute, ed
arrivarono inaspettati al luogo di quella combricola. Uccisero e presero
molti di coloro. _Odelrico_ conte del palazzo bravamente difendendosi
lasciò ivi la vita. _Adalberto_ marchese e _Gilberto_ conte furono del
numero de' prigionieri. Il primo uomo non bellicoso, ma fornito di una
mirabil sagacità ed astuzia, vedendo che non v'era maniera di scappare,
gittate via l'armi e tutti gli ornamenti preziosi, e vestitosi da
semplice soldatello, si lasciò prendere dagli Ungheri. Interrogato chi
fosse, rispose d'essere un fantaccino d'un uomo d'armi, e li pregò di
farlo menare ad un castello appellato Calcinaia dove teneva i suoi
parenti che il riscatterebbono. Condotto colà, e non conosciuto, fu a
vilissimo prezzo comperata la di lui libertà da Leone, uno dei suoi
soldati. _Gilberto_ riconosciuto per quel che era, ben bastonato, e
mezzo nudo, fu presentato all'Augusto Berengario. Se gli gittò egli
tosto a' piedi per implorar la sua misericordia; ma trovandosi senza
brache, e mostrando quelle parti che la verecondia insegnò a nascondere,
commosse al riso tutti gli astanti. Era Berengario principe sommamente
portato alla clemenza, e questa volta ancora ne volle lasciare un
illustre esempio con perdonare a costui. Dopo averlo fatto vestire
d'abiti convenevoli al suo grado, il lasciò andare con dirgli di non
volere da lui giuramento alcuno; ma che s'egli tornasse a rivoltarsi
contra del suo sovrano, se ne aspettasse pure il gastigo da Dio. Di
questa sua soverchia indulgenza ebbe ben tosto a pentirsi Berengario;
perciocchè l'ingrato Gilberto appena fu ritornato ad Ivrea, che istigato
dagli altri ribelli se n'andò in Borgogna a spronare il re Rodolfo,
affinchè colle sue forze calasse in Italia. Nè passarono trenta giorni,
che Rodolfo, avendo mosse l'armi sue a questa volta, si diede a
detronizzar Berengario. Le scene di questi ribelli le credo io succedute
nell'anno corrente. Ed appunto nel settembre od ottobre di questo
medesimo anno son io d'avviso che esso Rodolfo venuto in Italia, e
impossessatosi di Pavia, quivi fosse eletto re dai principi suoi
parziali. Le ragioni si vedranno andando innanzi. Un placito tenuto in
Ravenna da _Onesto arcivescovo_ di essa città, e da Odelrico vassallo e
messo dell'imperadore Berengario, da me dato alla luce[1892], non so io
dire se appartenga all'anno presente, perchè le note cronologiche si
scuoprono guaste. Ben so che può esso far conoscere che in questi tempi
in _Ravenna_ e nel suo esarcato esso Augusto esercitava giurisdizione e
signoria, nè apparisce che ivi i romani pontefici ritenessero il
temporal dominio.

NOTE:

[1884] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5, in Episcop. Veronens.

[1885] Sigonius, de Regno Ital. ad ann. 918.

[1886] Pagius, in Critic. ad Annales Baron.

[1887] Dandul., in Chronico, tom. 12 Rer. Ital.

[1888] Lupus Protospata, in Chron., tom. 5 Rer. Ital.

[1889] Liutprandus, in Legationib.

[1890] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 15.

[1891] Liutprand., Hist., lib. 2, cap. 16.

[1892] Antiq. Italic., Dissert. XXXI, pag. 969.



    Anno di CRISTO DCCCCXXII. Indiz. X.

    GIOVANNI X papa 9.
    BERENGARIO imperadore 8.
    RODOLFO re d'Italia 2.


Se crediamo a Frodoardo[1893], solamente in quest'anno dovette comparire
in Italia coll'esercito suo Rodolfo re di Borgogna, scrivendo egli:
_Berengario Longobardorum_ (dovendo dire _Romanorum_) _imperatore regno
ab optimatibus suis deturbato, Rodulfus cisalpinae Galliae rex ab ipsis
in regnum admittitur_. Ma io tengo che la calata in Italia di Rodolfo e
l'elezione sua in re d'Italia succedessero negli ultimi mesi dell'anno
precedente. Il Dandolo scrisse[1894]: _Rodulfus regnum Italiae obtinuit
anno Domini DCCCCXXI, qui invitatus ab Italicis in Lombardiam venit, et
Berengarium regem bellando vicit, et sic regnum obtinuit_. So non essere
questo autore di tale antichità da poter decidere tal controversia; ma,
a buon conto, ho io pubblicato[1895] un diploma di Rodolfo, che ci
assicura che egli nel dì 4 di febbraio dell'anno presente era già
dichiarato re d'Italia, e pacificamente soggiornava in Pavia, dove
confermò ad _Aicardo vescovo_ di Parma la badia di Berceto. Fu dato quel
diploma _II nonas februarii anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu
Christi DCCCCXXII, Indictione X, regnante domno nostro Rodulfo rege in
Burgundia XI, in Italia I_. _Datum Ticini civitate_, ad intercessione di
_Lamberto arcivescovo_ di Milano e di _Adalberto marchese_ d'Ivrea. A
questa elezione non dovette consentire _Guido duca_ di Toscana, perchè
si veggono tuttavia notati gli anni di Berengario in una carta
dell'archivio archiepiscopale di Lucca, scritta _anno VII Berengarii
imperatoris pridie halendas majas, Indictione X_, cioè nell'anno
presente; ed altri susseguenti atti continuano col medesimo stile.
Riuscì dunque a Rodolfo re di occupar Pavia, e di farsi eleggere e
coronare re di Italia dal suddetto arcivescovo e dai principi ribelli
dell'imperador Berengario. Si ricoverò esso Berengario a Verona, e quivi
si sostenne coll'aiuto degli Ungheri, che verisimilmente in questa
congiuntura, ad istanza sua, vennero in Italia. Frodoardo chiaramente
dopo le parole sopra allegate aggiugne: _Hungari actione praedicti
Berengarii, multis captis oppidis, Italiam depraedantur_. Perciò Rodolfo
dovette contentarsi delle conquiste fatte, senza turbare Berengario nel
possesso di Verona, e conseguentemente nel ducato del Friuli. Truovasi
in Pavia Rodolfo nel dì 7 di dicembre dell'anno presente, seppure,
secondo l'era pisana, non è da riferire al precedente, ciò apparendo da
un suo diploma[1896], in cui conferma ai canonici di Parma i lor
privilegii. Fu esso dato _VI idus decembris anno dominicae Incarnationis
DCCCCXXII, domni vero Rodulfi piissimi regis in Italia I, in Burgundia
XII, Indictione X. Actum Papiae._ _L'Indizione X_ corrente nel mese di
dicembre, secondo l'uso più comune d'allora, indica l'anno precedente.
Un altro simile diploma, ma differente nelle note, vien rapportato
dall'Ughelli[1897], dato _III nonas decembris anno Incarnationis
dominicae DCCCCXXII, domni vero Rodulfi piissimi regis in Italia I, in
Burgundia XI, Indictione XI. Actum Papiae._ Come vi possa essere tal
divario fra atti spediti nello stesso tempo dalla medesima cancelleria,
chi mel sa dire? Per me credo l'un di essi difettoso. Nell'ultimo di
questi privilegii, conceduto ad istanza di _Lamberto arcivescovo_ di
Milano, di _Guido vescovo_ di Piacenza, di _Benedetto vescovo_ di
Tortona e di _Gilberto illustre conte_, diletti consiglieri suoi,
Rodolfo concede ad _Adalberto vescovo_ di Bergamo e a' cittadini di
poter fortificare la loro città già distrutta, _quae nunc maxime
Suevorum et Ungarorum incursione turbatur_.

NOTE:

[1893] Frodoardus, in Chron., tom. 2, Rer. Franc. Du-Chesne.

[1894] Dandul., in Chron., tom. 12, Rer. Ital.

[1895] Antiq. Ital., Dissert. LXXIII.

[1896] Antiq. Ital., Dissert. XXXIV.

[1897] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4, in Episcop. Bergom.



    Anno di CRISTO DCCCCXXIII. Indiz. XI.

    GIOVANNI X papa 10.
    BERENGARIO imperad. 9.
    RODOLFO re d'Italia 3.


Non mancava all'Augusto Berengario nè coraggio nelle sue avversità, nè
partito di aderenti e fedeli pronti ad impiegar la vita in difesa di
lui. Fra questi specialmente si contava _Guido vescovo_ di
Piacenza[1898], il quale poco fa abbiam veduto che era uno de'
consiglieri del re Rodolfo in Pavia. Il Campi[1899] notò che nell'anno
922 uno strumento fu scritto in quella città di Piacenza, correndo il
mese di _maggio_ e la _decima indizione_, con gli anni di _Rodolfo re
d'Italia_: il che fa conoscere che Piacenza allora ubbidiva a lui. Ma in
altre due carte, scritte nello _stesso anno_ e sotto la _stessa
Indizione_, e amendue in presenza di _Guido vescovo_, si fa menzione di
Berengario imperadore, correndo l'_anno settimo_ del suo imperio; segno
che il vescovo Guido e Piacenza erano tornati all'ubbidienza di lui.
Anzi da questi atti si può ricavar pruova che i due diplomi da me
accennati, come spediti nel precedente anno in Pavia, possano
appartenere (almeno l'uno d'essi) piuttosto all'anno 921, come io
sospettava. Perciocchè, come potè sul fine dell'anno 922 essere _Guido_
in Pavia consigliere del re Rodolfo, quando noi già il troviamo passato
nel partito di Berengario, correndo l'_indizione decima_, cioè
probabilmente prima del settembre d'esso anno 922? E se così fosse, il
principio del regno di Rodolfo in Italia sarà stato nel fine dell'anno
921, come io già conjetturai, e non già nell'anno susseguente. Aggiugne
il Campi, che sotto il dì 18 di maggio dell'anno presente 923 si vede
altro strumento scritto con gli anni di _Rodolfo_ in Piacenza. Sicchè
dovea già Rodolfo avere ricuperata quella città. Intanto l'imperador
Berengario, adunate quante forze potè, volle tentar la fortuna di una
battaglia, che troppo svantaggiosa in fine riuscì per lui. La rapporto
io all'anno presente sulla testimonianza di Frodoardo, che ne scrive
così:[1900] _Rodulphus cisalpinae Galliae rex, quem Italici, abjecto
rege suo Berengario, in regnum receperant, cum ipso Berengario
conflixit, eumque devicit, ubi mille quingenti viri cecidisse dicuntur_.
È narrato questo fatto d'armi da Liutprando colle seguenti circostanze.
S'incontrarono le due armate nemiche a Fiorenzuola tra Piacenza e Borgo
San Donnino, nel dì 29 di luglio, e quivi vennero alle mani con un
conflitto tanto più detestabile, perchè per la diversità delle fazioni
si videro imbrandire il ferro i padri contra de' figliuoli, i figliuoli
contra de' padri, i fratelli l'un contra dell'altro.

    _. . . . Acer avus lethum parat ecce nepoti_
    _Sternendus per eum...._

Sembrano queste parole indicar _Berengario_ imperadore, che dovette in
quella giornata avere per avversario il suo stesso nipote _Berengario_,
figliuolo di _Gisla_ figliuola sua e di _Adalberto_ marchese d'Ivrea. Di
grandi prodezze vi fece l'Augusto Berengario, non minori il re Rodolfo.
Ma finalmente si dichiarò la vittoria in favore del primo, e andò rotto
tutto il campo del re borgognone. Avea questo re maritata con
_Bonifazio_ conte potentissimo, che divenne poi marchese di Spoleti e di
Camerino, _Gualdrade_ sua sorella, donna per beltà e per saviezza
illustre, che era anche vivente allorchè Liutprando scrivea le sue
storie. Comparve questo Bonifazio insieme con Gariardo conte, menando
seco un buon corpo d'armati, in soccorso del re suo cognato, ed avrebbe
desiderato di entrare anche egli nel primo fuoco di quella battaglia. Ma
siccome personaggio di rara astuzia, giudicò meglio di tenersi in
agguato, aspettando l'esito del combattimento, per dare addosso a quei
di Berengario, caso che vincessero e si sbandassero, cioè per far quello
che tante volte è avvenuto in simili casi o per la poca accortezza de'
generali, o per la disubbidienza de' soldati troppo ansiosi del bottino.
E così appunto avvenne, talchè i berengariani di vincitori divennero
vinti. _Jam Rodulphi_, dice Liutprando, _paene omnes milites fugerant,
et Berengarii dato victoriae signo colligere spolia satagebant: quum
Bonifacius atque Gariardus subito ex insidiis properantes, hos tanto
levius quanto inopinatius sauciabant._ Gariardo accettava chiunque se
gli rendeva prigione. Bonifazio a niuno dava quartiere. Mutata perciò la
faccia della fortuna, e tornati alle bandiere i soldati fuggitivi di
Rodolfo, facilmente sconfissero l'armata di Berengario, con tanta strage
nondimeno dell'una e dell'altra parte, che, se vogliamo prestar fede a
Liutprando, a' suoi dì pochi uomini di arme restavano in Italia.
Fuggissene l'imperador Berengario a Verona. Rodolfo allora, nulla
temendo più dell'abbattuto avversario, dopo questa vittoria, diede una
scorsa in Borgogna, colà richiamato da varii suoi premurosi affari.

NOTE:

[1898] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 17 et seq.

[1899] Campi, Istor. di Piacenza, lib. 8.

[1900] Frodoardus, in Chron., tom. 2 Rer. Franc. Du-Chesne.



    Anno di CRISTO DCCCCXXIV. Indiz. XII.

    GIOVANNI X papa 11.
    RODOLFO re d'Italia 4.


Altra via non seppe trovare l'imperador _Berengario_ per sostenersi in
capo la crollante sua corona, che l'indegno ripiego di chiamar in Italia
la spietata nazione degli Ungheri, co' quali avea trattenuta fin qui a
forza di regali una buona amicizia. Calati costoro nel febbraio di
quest'anno, li spinse egli alla volta di Pavia. Ma ad alcuni dei suoi
medesimi Veronesi, stati in addietro sì fedeli ed attaccati a lui,
dovette dispiacer non poco questa risoluzione barbarica, prevedendo
ognuno quanto sangue e danno cagionerebbe agli amici stessi la venuta di
quella gente, nemica del nome cristiano, e troppo avvezza alle crudeltà.
E per questo motivo, oppure per altri a noi ignoti, cominciarono
alquanti di quei cittadini ad ordire una congiura contra di
Berengario[1901]. Ne ebbe sentore l'infelice principe, e saputo che un
certo Flamberto suo compare, perchè gli avea tenuto un figliuolo al
sacro fonte, ne era capo, fattoselo venir davanti, gli ricordò i
benefizii a lui compartiti, ne promise de' maggiori, purchè egli fosse
costante nella fedeltà verso del suo sovrano. E donatagli una tazza
d'oro, lasciollo andare in pace. Altro non fece nella notte seguente,
dopo essersi veduto scoperto, lo sconoscente Flamberto, che istigare i
suoi congiurati a fare il colpo divisato contra la vita dell'Augusto
Berengario. Che la malizia e l'accortezza non avessero gran luogo in
cuore di questo principe, si può riconoscere dall'aver egli preso il
riposo in quella notte, non già nel palazzo, che si potea difendere, ma
in un picciolo gabinetto contiguo ad una chiesa, per poter essere
presto, secondo il suo costume, a levarsi di mezza notte ed assistere ai
divini uffizii. Perchè nulla sospettava di male, neppure si precauzionò
colle guardie. Alzossi al suono della campana del mattutino notturno e
andò alla chiesa. Ma vi comparve da lì a poco anche Flamberto con una
mano di sgherri, e venutogli incontro Berengario per intendere il lor
volere, trafitto da varii colpi delle loro spade, cadde morto ai lor
piedi. E questo miserabil fine ebbe l'imperador Berengario, principe a
cui nel valore pochi andarono innanzi, niuno nella pietà, nella clemenza
e nell'amore della giustizia. Vo io credendo che nel mese di marzo del
presente anno egli fosse tolto dal mondo, perchè ho avuto sotto gli
occhi e poi stampato[1902] uno stromento originale, esistente
nell'archivio dell'arcivescovato di Lucca, con queste note: _Regnante
domno nostro Berengario gratia Dei imperatore augusto, anno imperii ejus
nono, duodecimo kalendas aprilis, Indictione duodecima_. Contiene una
permuta fatta di alcuni beni tra Flaiberto Scavino e _Pietro vescovo_ di
Lucca, con avere _Guido duca_ inviati i suoi messi per conoscere che non
seguisse lesione della chiesa in quel contratto. Ora di qui apparisce
che nel dì 21 di marzo non era per anche giunta a Lucca la nuova della
morte dell'Augusto Berengario. Quel che è più, un tal documento
maggiormente ci assicura che nel dì 24 di marzo, ossia nella Pasqua
dell'anno 916, Berengario non fu promosso alla dignità imperiale, ma
prima di quel giorno: altrimenti nel dì 21 di marzo del presente anno
sarebbe corso l'anno _ottavo_, e non già il _nono_, del suo imperio. Ma
se è così, vegniamo ad intendere che la di lui coronazione romana si ha
da riferire al santo Natale dell'anno 915, e che il panegirista di
Berengario si dee differentemente spiegare, se è possibile; e se non si
può, convien confessare ch'egli anche in questo fallò, nè ci è permesso
di crederlo autore contemporaneo di Berengario stesso. Fu compianta dai
più la morte di così buon principe; e se si vuol prestar fede a
Liutprando[1903], restava tuttavia a' tempi suoi in Verona davanti ad
una chiesa una pietra intrisa del sangue di esso Berengario, che, per
quanto fosse lavata con varii liquori, mai non perdè quel colore. Aveva
allevato Berengario in sua corte un nobile e valoroso giovane, appellato
_Milone_, ai cui consigli se si fosse egli attenuto, non gli sarebbe
avvenuta quella sciagura. La notte stessa che egli restò trucidato, avea
voluto _Milone_ mettergli le guardie, ma a patto alcuno nol permise
Berengario. Ora questo generoso giovane, giacchè non potè difendere il
suo sovrano vivente, non lasciò almeno di prontamente vendicarlo morto.
Prese egli l'iniquo Flamberto con tutti i suoi complici, e nel terzo
giorno dopo l'uccision di Berengario tutti li fece impiccar per la gola.
Questo Milone fu dipoi (forse anche era allora) conte, cioè governator
di Verona, e personaggio di rare e perfette virtù.

Doveano prima di questa tragedia avere avuto ordine gli Ungheri da
Berengario di passare all'assedio di Pavia, perchè se gli riusciva di
ricuperar quella città, capo del regno, il _re Rodolfo_ verisimilmente
più non rivedeva l'Italia. Andarono que' Barbari, sotto il comando di
Salardo lor generale, commettendo pel viaggio tutte le inumanità loro
consuete, e strinsero coll'assedio la regal città. Volle la disgrazia
che non seppero que' cittadini difendere coraggiosamente quella forte
piazza, nè saggiamente renderla a patti di buona guerra. V'entrarono per
forza gli Ungheri, fecero man bassa sopra tutto il popolo, ed attaccato
il fuoco a chiese, palagi e case, ridussero in un monte di pietre quella
dianzi sì felice e ricca città, avendo cooperato un vento gagliardo a
dilatare quell'incendio. In quella rovina perì pel fumo e per le fiamme
anche _Giovanni_ ottimo vescovo d'essa; e trovandosi con lui il vescovo
di Vercelli, anch'egli miseramente vi lasciò la vita. In somma da gran
tempo in qua non s'era udita una sì spaventosa calamità in città
cristiane. Nè tralasciar si dee l'orrida descrizione che ne fece
Frodoardo[1904], scrittore allora vivente: _Hungari ductu regis
Berengarii, quem Langobardi pepulerant, Italiam depopulantur. Papiam
quoque urbem populatissimam atque opulentissimam, igne succendunt, ubi
opes periere innumerabiles; ecclesiae quadraginta tres succensae; urbis
ipsius episcopus cum episcopo vercellensi, qui secum erat, igne fumoque
necatur. Atque ex illa paene innumerabili multitudine ducenti tantum
superfuisse memorantur. Qui ex reliquiis urbis incensae, quas inter
cineres legerant, argenti modios octo dederunt Hungaris, vitam murosque
civitatis vacuae redimentes,_ ec. _Interea Berengarius Italiae rex a
suis interimitur_. Anche Liutprando non si sazia di deplorar la
lagrimevole rovina di quella bella città[1905], e assegna il tempo
preciso della medesima con dire: _Usta est infelix olim formosa Papia
anno dominicae Incarnationis DCCCCXXIV, quarto idus martii, Indictione
XII, feria VI, hora III_. Aggiugne appresso, che Pavia distrutta, a
differenza di Aquileia, risorse, e da lì a non molti anni tornò ad
essere ben fabbricata, popolata e ricca, come prima, di modo che (dice
egli) _non solum vicinas, sed et longe positas praecellit opibus
civitates. Ipsa insignis, et toto orbe notissima Roma, hac inferior
esset, si pretiosa beatissimorum corpora non haberet_. Per attestato del
suddetto Frodoardo, gli Ungheri pieni di bottino, in vece di tornarsene
pel Friuli alle lor case, come pretende Liutprando, passarono per le
Alpi in Francia. _Rodolfo re_ di Borgogna e d'Italia si trovava allora
di là da' monti, ed unito con _Ugo conte_ di Vienna serrò questi
malandrini ad alcuni passi stretti. Ma ebbero la maniera d'uscirne per
dove men si credeva, e si spinsero verso la Linguadoca. Quanti ne potè
cogliere Rodolfo, tutti gli fece mettere a fil di spada.

Restata libera la Lombardia da questo flagello, e tolto di mezzo il
competitor Berengario, se ne tornò lieto in Italia il re Rodolfo, e
senza contrasto ebbe quasi tutto il regno a sua disposizione. Ricorse
tosto a lui _Giovanni vescovo_ di Cremona, già cancelliere dell'Augusto
Berengario, per raccomandargli la sua chiesa, _a paganis_, cioè dagli
Ungheri, _et quod magis est dolendum, a pessimis Christianis desolatam_.
Gli confermò Rodolfo tutti i suoi beni e privilegii, ad istanza di
_Beato vescovo_ di Tortona ed arcicancelliere, non conosciuto
dall'Ughelli, e di _Aicardo vescovo_ di Parma, suo _auriculario_, cioè
consigliere. Ha queste note il diploma:[1906] _Data V calendas octobris,
anno dominicae Incarnationis DCCCCXXIV, domni vero Rodulfi serenissimi
regis in Burgundia XV, in Italia IV, Indictione XIII. Actum in Pratis de
Granne_. Concedette egli ancora con un altro diploma a _Guido vescovo_
di Piacenza[1907] un sito delle mura della città di Pavia, per potervi
fabbricare la casa dei vescovi di Piacenza, perciocchè solevano tutti i
vescovi del regno aver quivi, siccome altrove accennai, casa propria per
abitarvi in occasion delle diete, e d'altre necessità da ricorrere al
re. E quivi truovasi appunto anche nominata _casa sanctae lunensis
ecclesiae_. Il diploma è mancante del luogo e giorno e mese. Dicesi dato
in quest'anno _Rodulfi regis in Italia tertio, Indictione duodecima_:
probabilmente prima di settembre. Esercitò inoltre questo re la sua
munificenza verso il suddetto _Aicardo vescovo_ di Parma, con donargli
la corte di Sabionetta, oggidì riguardevol terra. È dato quel
diploma[1908] _VIII idus octobris, anno dominicae Incarnationis
DCCCCXXIV, domni vero Rodulfi piissimi regis in Burgundia XIV, hic in
Italia IV. Actum Papiae_. Un altro ancora fu dato da lui in
_Verona[1909] pridie idus novembris, Indictione XII, anno regis in
Italia III;_ e un altro parimente dato nella stessa città e giorno
coll'_indizione XIIII_. Ma dee essere _XIII_. V'ha della discordia fra
questi diplomi intorno agli anni del regno d'Italia. Se poi sussistesse
che nell'ottobre e novembre di quest'anno corresse il di lui _anno
quarto_, si verrebbe ad intendere che nell'anno 922 non ebbe principio
il suo dominio in Italia, ma bensì circa l'ottobre del 921. Nè si dee
omettere che il privilegio dato al vescovo di Parma fu conceduto per
intercessione di _Ermengarda inclita contessa_ e di _Bonifazio
valorosissimo marchese_, che Rodolfo chiama _nostrae regiae potestatis
consiliarios_. Era _Ermengarda_ moglie di _Adalberto marchese_ d'Ivrea,
di cui ragioneremo fra poco, bastando per ora di osservare il grado di
somma confidenza che essa occupava nella corte del re Rodolfo. Bonifazio
qui mentovato potrebbe talun conjetturare che fosse quello stesso, per
la cui accortezza e bravura abbiam veduto di sopra che Rodolfo riportò
la vittoria di Fiorenzuola, e che in ricompensa l'avesse fatto marchese.
Ma non è già certo che ivi si parli di quel medesimo Bonifazio; e
quand'anche se ne parlasse, resta in dubbio di qual marca egli fosse
investito. Siamo assicurati da Liutprando[1910] che a' tempi suoi egli
fu _marchese di Camerino e di Spoleti_; ma non sappiamo già se
conseguisse in questi tempi quell'insigne governo. _Alberico marchese_
da noi veduto di sopra, era allora governatore di quella contrada. Certo
che a questo Bonifazio il re Rodolfo diede per moglie _Gualdrada_ sua
sorella. Di ciò tornerà occasion di parlare più a basso all'anno 946, al
qual anno solamente il credo io pervenuto al possesso e governo di
Spoleti e di Camerino. Sotto quest'anno poi narra Lupo protospata[1911]
le disgrazie della città d'Oria nella Calabria, con dire: _Capta est
Oria a Saracenis mense julii, et interfecerunt cunctas mulieres;
reliquos vero deduxerunt in Africam, cunctos venumdantes_. Abbiamo
parimente dalla Cronica arabica di Sicilia[1912], che venuto in
quest'anno dall'Africa un nuovo generale de' Mori, prese nella Calabria
la Rocca di Santagata.

NOTE:

[1901] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 18 et seq.

[1902] Antiq. Ital., Dissert. XIX.

[1903] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 20.

[1904] Frodoardus, in Chron., tom. 2, Rer. Franc. Du-Chesne.

[1905] Liutprandus, Hist., lib. 3, cap. 1 et seq.

[1906] Antiq. Ital., Dissert. LXXI.

[1907] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1, Append.

[1908] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2, in Episcop. Parmens.

[1909] Antiquit. Ital., Dissert. XIX, pag. 41, et Dissert. XXXIV, p. 55.

[1910] Luitprandus, Hist., lib. 2, cap. 18.

[1911] Lupus Protospata, tom. 5 Rer. Ital.

[1912] Chronic. Arabicum, P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXXV. Indiz. XIII.

    GIOVANNI X papa 12.
    RODOLFO re d'Italia 5.


O negli ultimi mesi dell'anno precedente, o negli otto primi del
presente, ne' quali correva l'_anno quarto_ di _Rodolfo_ re d'Italia,
_Orso_ Particiaco, ossia Participazio, doge di Venezia, per attestato
del Dandolo[1913], spediti per suoi ambasciatori ad esso re _Domenico
vescovo_ di Malamocco e _Stefano_ Caloprino, ottenne da lui la
confermazione di tutte le esenzioni e libertà, concedute al popolo di
Venezia dagli antichi re ed imperadori. Degno è d'osservazione che
Rodolfo in quel diploma _declaravit, ducem Venetiarum potestatem habere
fabricandi monetam, quia ei constitit, antiquos duces hoc continuatis
temporibus perfecisse_. In fatti è antichissimo il diritto di battere
moneta nei dogi di Venezia, e dagli strumenti di questo medesimo secolo
si ricava che era già in uso la _moneta veneta_, nè sussistere che da
Berengario II fosse loro conceduto un sì fatto privilegio, come ha
scritto più d'uno, perchè ne godevano molto prima. Si credeva il re
Rodolfo di avere ormai in pugno il regno d'Italia, senza sapere che un
altro v'aspirava anch'egli, e lavorava sott'acqua alla di lui rovina.
Questi era _Ugo_ duca e marchese della Provenza, figliuolo di _Teobaldo_
conte e di _Berta_, nata da _Lottario re_ della Lorena, e della famosa
_Gualdrada_, illegittimamente da lui presa per moglie. In seconde nozze
fu essa _Berta_ maritata con _Adalberto II_, soprannominato il _Ricco_,
duca di Toscana, la quale appunto cessò di vivere nel dì 8 marzo del
presente anno. L'epitaffio suo, riferito dal Fiorentini[1914], tuttavia
esiste inciso in marmo nella cattedrale di Lucca; nè so intendere perchè
il padre Pagi[1915] la creda fattura de' secoli posteriori. Una sorella
d'essa Berta per nome _Ermengarda_ morì anch'essa, e fu seppellita in
Lucca, siccome apparisce dal suo epitaffio, rapportato dal Fiorentini e
da me altrove[1916]. Siccome di sopra osservammo, procreò Berta al
secondo marito due figliuoli maschi, cioè _Guido_, che dopo la morte del
padre fu duca di Toscana, e _Lamberto_, di cui parleremo a suo tempo.
Procreò eziandio una femmina appellata _Ermengarda_, che già abbiam
veduta maritata con _Adalberto marchese_ d'Ivrea dopo la morte di Gisla
sua prima moglie, figliuola dell'imperador Berengario. Lo storico
Liutprando ci descrive[1917] questa principessa per la più prostituta
donna del mondo. Non solo, se crediamo a lui, faceva essa mercato della
sua onestà con tutti i principi d'Italia, ma scialacquò ancora con
ignobili persone. In questa maniera s'era renduta arbitraria e padrona
del regno, dipendendo da' suoi voleri e cenni i principi tutti. Qual
fede si meriti qui la penna sempre satirica di Liutprando, io nol saprei
dire. Ora Ugo, che a' tempi del re Berengario era venuto in Italia, e
probabilmente sollevò contro di lui la Toscana, e contro suo volere
cagion fu che Berengario facesse prigione la duchessa Berta sua madre e
il duca Guido suo fratello; Ugo, dissi, dappoichè intese la morte di
Berengario, tornò a far dei trattati segreti per ottener la corona
d'Italia, con _Berta_ sua madre allora vivente, con _Guido_ duca e
_Lamberto_ suoi fratelli uterini, signori di gran possanza in Toscana, e
colla marchesana _Ermengarda_, che comandava a bacchetta in Lombardia. E
non li fece indarno. Ermengarda fu quella che diede principio alla tela
contro di Rodolfo, uomo ineguale, che oggi faceva una cosa e domani la
disfaceva. Già noi vedemmo questa principessa in Pavia alzata al grado
di consigliera di sua maestà. Era in questi tempi mancato di vita il
marchese d'Ivrea _Adalberto_ suo marito. Gran dissensione bolliva fra i
principi di Italia. Liutprando storico, a guisa de' romanzieri
attribuisce tutto a rivalità fra loro insorta a cagion della stessa
Ermengarda. Ora essa trovandosi in Pavia con un forte partito de' suoi
parziali, ribellò quella città al re Rodolfo che ne era uscito per suoi
affari. Qui lascerò io che il lettore esamini come Pavia, la qual si
vuole ridotta dagli Ungheri nell'anno precedente in un mucchio di
pietre, si fosse così presto ripopolata e con forza da ribellarsi.
Comunque sia, seguita a dire Liutprando che Rodolfo, unita una poderosa
armata dei suoi aderenti, per mettere in dovere quella impudica amazone,
s'accampò dove il Ticino mette capo in Po. La notte vegnente Ermengarda
con un suo biglietto gli fece intendere che in mano sua era stato ed era
tuttavia l'averlo suo prigioniere, perchè tutti quelli del partito
d'esso Rodolfo nulla più bramavano che di abbandonar lui, e di darsi a
lei; ma che ella, perchè desiderava il di lui bene e la sua amicizia, a
tali istanze non avea voluto aderire. Prestò fede e restò spaventato
Rodolfo a queste furbesche parole; e nella seguente notte, avendo finto
di andare a letto, senza che alcun dei suoi se ne avvedesse, passò a
Pavia per abboccarsi con Ermengarda. Venuto il dì, nè alzandosi mai
Rodolfo, tutti i suoi principi e cortigiani n'erano in pena; e scoperto
in fine che egli mancava, chi diceva una cosa, e chi un'altra. Quando
eccoti arrivare nel campo un avviso, che Rodolfo unitosi coi suoi
avversarii si preparava per dar loro addosso. Bastò questo per metterli
tutti in costernazione, e però se ne andarono non correndo, ma volando a
mettersi in salvo in Milano. Allora fu che Lamberto, arcivescovo di
Milano e gli altri prima aderenti a Rodolfo, si staccarono affatto da
lui, ed inviarono messi ad Ugo duca di Provenza, perchè venisse in
Italia a prendere il regno. Qualche aria di romanzo comparisce in questo
racconto di Liutprando. Intanto Rodolfo burlato dagli uni, abbandonato
dagli altri[1918], si ritirò in Borgogna; ma non dismettendo la voglia
di ritenere o di ricuperar l'Italia, si raccomandò a _Burcardo_
potentissimo duca dell'Alemagna, ossia della Suevia, suocero suo, ed
uomo bestiale, la cui figliuola _Berta_ egli avea già presa per moglie.
Ammassato un copioso esercito, calarono in Italia; se in questo anno
oppure nel susseguente, nol so io decidere. Giunti che furono ad Ivrea,
Burcardo con disegno di esaminar le forze della città di Milano, dove
era il nerbo degli oppositori, prese l'assunto di andar colà come
ambasciatore, mostrando di trattar pace. Prima di entrarvi si fermò
fuori della città nella vaga basilica di san Lorenzo, che oggidì è
compresa entro le mura di Milano; e ben adocchiato il sito: _Qui_, disse
ai suoi familiari, _si potrà formare una fortezza, che terrà in freno
non solo i Milanesi, ma anche molti dei principi d'Italia_. Poi vicino
alle mura della città si lasciò scappar di bocca in linguaggio tedesco
che se egli non insegnava a tutti gli Italiani a contentarsi di un solo
sperone, e di cavalcar delle cavalle, egli non era Burcardo; con altri
vanti che tutti furono immediatamente rapportati all'_arcivescovo
Lamberto_. Questi da uomo accorto fece molte finezze a Burcardo, il
condusse fino alla caccia in un suo broglio con permettergli di
ammazzare un cervo: cosa che egli non soleva concedere a persona del
mondo; e il rimandò tutto gonfio di belle speranze. Ma nel mentre che
gli dava dei divertimenti in Milano, fece intendere ai Pavesi e ad
alcuni principi d'Italia che si preparassero per liberare il paese da
questo tedesco di sì mala volontà. Partito Burcardo da Milano, alloggiò
la sera in Novara. Nel dì seguente appena, ripigliato il viaggio, cadde
nell'imboscata che gli era stata tesa. Datosi alla fuga, e caduto il
cavallo nella fossa di quella città, quivi trapassato da più lance
lasciò la vita. I suoi rifugiatisi nella chiesa di san Gaudenzio, furono
tutti tagliati a pezzi. A questa nuova sbigottito Rodolfo, più che in
fretta se ne tornarono in Borgogna, nè più pensò all'Italia.

Da Ermanno Contratto[1919] e da Artmanno monaco[1920] sappiamo che dopo
la morte del re Corrado il suddetto Burcardo si era fatto tiranno della
Suevia, aveva commesse varie iniquità, _et in Italiam ingressus, dum
totam sibi terram subjicere, et multos decipere cogitat, ipse dolositate
illius gentis praeventus, dum studet evadere, subito lapsu infraenis
equi in foveam, veluti casui illius praeparatam, cecidit, hocque
insperato obitu miserabiliter vitam finivit_. Migliore forse del suocero
non era il genero suo Rodolfo. Così ne scrive Frodoardo all'anno
926[1921]. _Hugo filius Bertae rex Romae super Italiam constituitur,
expulso Rodulfo cisalpinae Galliae rege, qui regnum illud pervaserat, et
alteri feminae, vivente uxore sua, se copulaverat, occiso quoque a
filiis Bertae Burchardo Alamannorum principe, ipsius Rodulfi socero, qui
Alpes cum ipso transmearat, italici regni gratia recuperandi genero_.
Frodoardo in un fiato racconta tutti questi fatti sotto l'anno 926.
Dell'esaltazione del re Ugo, succeduta certamente nel seguente anno,
sotto il medesimo mi riserbo io di parlare. Intanto è da osservare che
_Burcardo_ fu ucciso a _filiis Bertae_; cioè da _Guido_ duca di Toscana
e da _Lamberto_ suo fratello, coll'aiuto di _Ermengarda marchesana
d'Ivrea_, loro sorella, perchè tutti aspiravano a mettere sul capo di
Ugo duca di Provenza, lor fratello uterino, la corona del regno
d'Italia, ma per loro castigo, siccome vedremo andando innanzi. Non si
dee ora tacere un'importante particolarità del suddetto _Guido_ duca di
Toscana. Dacchè per la morte dell'imperador Berengario Roma restò senza
imperadore, cioè senza quel freno in cui la tenevano gli Augusti
sovrani, governata solo da _papa Giovanni_, ma in tempi che non si avea
quella ubbidienza e rispetto dal senato e popolo romano che si conveniva
ai pontifici, i quali pure erano veri e legittimi padroni di quella
città, del suo ducato e d'altri paesi: _Maria_, soprannominata
_Marozia_, che, secondo Liutprando, colla impudicizia sua avea già
formato un grosso partito de' suoi aderenti, s'impadronì della Mole
adriana, oggidì Castello sant'Angelo, edifizio che in que' tempi ancora
veniva creduto una fortezza quasi inespugnabile, e in tal guisa cominciò
e continuò con più baldanza a far da padrona in Roma. Obbrobriose
memorie di quell'alma città son queste. Tuttavia per maggiormente
assodar la sua possanza, cercò di avere un marito potente, alle cui
forze congiunte colle sue niuno, e neppure il papa, potesse resistere.
_Guido_ duca e marchese di Toscana, per attestato di Liutprando[1922],
non ebbe difficoltà di prendere per moglie una sì fatta donna, perchè il
dominio di Roma, che pareva da lei portato in dote, ebbe presso di lui
più peso che ogni altro riguardo. Queste indubitate nozze di Guido con
Marozia ci danno abbastanza a conoscere che _Alberico marchese_, da noi
veduto di sopra marito di Marozia, dovea già essere mancato di vita.
Martino Polacco[1923], Tolomeo da Lucca[1924], il Platina[1925], il
Sigonio[1926] ed altri ancora scrivono che intorno a questi tempi, nata
discordia fra papa _Giovanni X_ ed _Alberico marchese_, fu forzato
l'ultimo ad uscire di Roma. Ritiratosi egli nella città d'Orta, quivi
con fabbricare una fortezza si assicurò. Per vendicarsi poi dei Romani,
chiamò in Italia gli Ungheri, i quali venuti in Toscana, dopo aver dato
a tutte quelle contrade il guasto, ed uccisa gran gente, se ne tornarono
carichi di bottino al loro paese. Sdegnati per questo i Romani
trucidarono il _marchese Alberico_. Non truovo io vestigio alcuno nè in
Liutprando, nè in veruno degli antichi scrittori, che gli Ungheri
arrivassero mai in Toscana o presso Roma. Tuttavia non sarà senza
fondamento la morte del suddetto Alberico, sembrando non improbabile che
non volendo più sofferir papa Giovanni la di lui prepotenza, trovasse
maniera per farlo levare dal mondo. _Marozia_ dipoi per conservare
l'usurpata sua signoria in essa Roma, si volle maggiormente fortificare
col tirar in essa città _Guido_ marchese e duca di Toscana, e prenderlo
per marito. Noi vedremo che essa avea partorito ad _Alberico_ marchese
suo primo consorte un figliuolo che portò il nome del padre, e divenne
col tempo principe ossia tiranno di Roma. Ma essendo egli in questi
tempi fanciullo, nè potendo per la sua tenera età dar vigore agli
ambiziosi disegni della madre, essa provvide al bisogno in altra guisa,
con passare alle seconde nozze.

NOTE:

[1913] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1914] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.

[1915] Pagius, ad Annal. Baron.

[1916] Collectio Nova vet. Inscription., p. 1885.

[1917] Liutprandus, lib. 3 Hist., cap. 2 et seq.

[1918] Liutprandus, Hist., lib. 3, cap. 4.

[1919] Hermannus Contract., in Chron. edition Canisii.

[1920] Hartmannus, in Vita S. Wiboradae.

[1921] Frodoardus, in Chronico.

[1922] Liutprandus, Hist., lib,. 3, cap. 4.

[1923] Martin. Polonus, Chron. Rom. Pont.

[1924] Ptolom. Lucensis, Hist. Eccl.

[1925] Platina, de Roman. Pontif.

[1926] Sigon., de Regno Italiae.



    Anno di CRISTO DCCCCXXVI. Indiz. XIV.

    GIOVANNI X papa 13.
    UGO re d'Italia 1.


Ricevette in quest'anno l'Italia un nuovo re, cioè _Ugo_ marchese e
duca, e non già re di Provenza, come osservò il padre Pagi[1927]. Se
vogliam credere allo storico Liutprando[1928], molte virtù concorrevano
in questo principe. _Fuit rex Hugo_, dice egli, _non minoris scientiae
quam audaciae, nec inferioris fortitudinis quam calliditatis. Dei etiam
cultor, sanctaeque Religionis amatorum amator; in pauperum
necessitatibus curiosus; erga ecclesias sollicitus, religiosus.
Philosophosque viros non solum amabat, verum etiam fortiter honorabat.
Qui etsi tot virtutibus clarebat, mulierum tamen illecebris eas
foedabat._ Così Liutprando, che da fanciullo fu paggio nella corte
d'esso re Ugo, ma forse non dovette allora per la sua età saper bene
scandagliare le qualità di questo principe. Noi, pesando le di lui
azioni nel progresso della storia, inclineremo piuttosto a crederlo un
picciolo Tiberio, una solennissima volpe ed un vero ipocrita, che per
fini umani mostrava gran venerazione alle chiese e persone sacre, ma
poca nelle sue operazioni verso Dio e verso la giustizia. Non solamente
tirò egli, stando in Provenza, nel suo partito _Lamberto arcivescovo_ di
Milano e buona parte dei principi d'Italia, e specialmente i suoi
fratelli uterini, ma anche lo stesso papa _Giovanni X_, facendo credere
a tutti ch'egli porterebbe in Italia il secolo d'oro, e principalmente
sosterrebbe l'autorità del papa entro e fuori di Roma. Dagli effetti ce
ne accorgeremo. Venuto per mare, sbarcò egli a Pisa, _quae est Tusciae
provinciae caput_ (lo dice Liutprando), ed appena giunto colà, vi
comparvero gli ambasciatori di papa Giovanni, anzi vi concorsero a
braccia aperte quasi tutti i principi d'Italia, per accogliere questo
creduto novello ristoratore del regno, ed invitarlo a prendere la corona
ch'egli vagheggiava da tanto tempo. Passò dipoi a Pavia, dove
concordemente fu eletto re, ed appresso coronato in Milano nella
basilica ambrosiana dal suddetto arcivescovo Lamberto. Non è sì facile
il determinare, non dirò solamente il giorno e il mese, ma neppur l'anno
in cui questo principe ottenne il titolo e la corona di re. Il Sigonio
fu d'opinione[1929] ch'egli giugnesse a Pisa nel luglio di questo anno,
e poscia in Milano fosse innalzato al trono. Il signor Sassi[1930]
bibliotecario dell'ambrosiana inclinò a crederlo creato re fra il maggio
e l'agosto dell'anno precedente 925, e ne addusse alcune ragioni. Ho io
all'incontro osservato dei combattimenti fra gli stessi diplomi di
questo principe, o per colpa de' copisti, o perchè alcuni d'essi
esistenti negli archivii paiono bene a prima vista originali, ma tali
non sono in fatti, ed alcun d'essi è anche fattura di falsarii.
S'aggiugne l'imbroglio altre volte accennato di tre diverse ere
dall'Incarnazione, cioè dell'anno volgare preso dal dì 25 di dicembre, o
dal primo di gennaio, e dell'anno pisano e del fiorentino; oltre a
quello delle indizioni ora mutate nel settembre, ed ora sul principio
dell'anno nostro. In questa controversia ecco ciò che io sono andato
osservando.

Due diplomi originali, da me veduti in Verona, già sono alla luce[1931].
L'uno ha queste note: _Data anno dominicae Incarnationis DCCCCXXVIII
pridie idus februarii, Indictione prima, regni vero domni Hugonis
gloriosissimi regis secundo. Actum Verona_. L'altro ha le medesime note,
a riserva dell'essere stato dato _XVIII kalendas martii_; e in questo
tuttavia si conserva il sigillo di cera coll'effigie d'esso Ugo coronato
e barbato, e colle lettere intorno Ugo GRA DI REX. Quel _XVIII kalendas
martii_ ha qualche cosa di straniero, ma non ne mancano esempli. Adunque
nel dì 12 di febbraio dell'anno 926 non dovette peranche Ugo aver presa
la corona del regno d'Italia. Un placito lucchese ha parimente queste
note[1932]: _Anno regni domni Hugonis_, ec. _quintodecimo, VIII kalendas
aprilis Indictione quartadecima_, cioè nel dì 25 di marzo dell'anno 941:
dalle quali note risulta che neppure nel dì 25 di marzo questo principe
avea cominciato a contar gli anni del suo regno. Un altro diploma
conforme a questi ho io prodotto altrove[1933], dato _VII kalendas
aprilis_ dello stesso anno 941. E nell'archivio de' canonici di Modena
v'ha uno strumento di donazione fatto a _Gotifredo_ vescovo, _regnante
domno Ugho rex ic in Italia anno quinto, de mense aprilis, Indictione
quarta_, cioè nell'anno 931, che conferma la verità suddetta. Rapporta
l'Ughelli un altro diploma dato[1934] _ anno dominicae Incarnationis
DCCCCXXVII, decimotertio kalendas martii, Indictione XV, anno Hugonis
primo_, che va d'accordo con gli antecedenti. Ne riferisce poi un altro
dato _IV idus maii, anno dominicae Incarnationis DCCCCXXIX regni Hugonis
IV, Indictione II_. Se non vi ha errore in questo documento, vegniamo a
conoscere che prima del dì 12 di maggio dell'anno 926 Ugo fu promosso
alla dignità regale. Ma forse ivi sarà scritto _regni anno III_,
trovando io altre memorie indicanti che neppure nel dì 7 di giugno
dell'anno 926 egli contò l'anno primo del regno. Uno strumento
dell'archivio dei canonici di Modena è scritto: _Regnante domno nostro
Ugho rex ic in Italia anno tercio, de mense julio, Indictione
quintadecima_, cioè nell'anno 927. Adunque nel mese di luglio dell'anno
925 si truova che egli avea già conseguita la corona del regno d'Italia.
Un altro è scritto regnante domno nostro Hugo, gratia dei rex in Italia
anno octavo, et regnante domno nostro Lottario filio ejus, gratia Dei
rex ic in Italia anno tertio, et dies XII de mense julio per Indictione
VI, cioè nell'anno 933. Queste note significano che egli era già re nel
dì 12 di luglio dell'anno 926. Uno strumento, riferito dal padre
Tatti[1935], fu scritto: _Ugo gratia Dei rex. Anni regni ejus in Italia
quinto, mense maii, Indictione quarta_, cioè nell'anno 931: fa conoscere
che nel maggio del 926 egli non era per anche re. Sicchè dopo tanto
scandaglio sembra potersi decidere che il regno di questo principe
cominciò nell'anno presente 926 nel mese di giugno, o poco prima, o poco
dopo. Truovasi poi esso Ugo[1936] in _Verona VII idus augusti_ dell'anno
presente, come costa da un altro suo diploma, in cui è espresso l'_anno
primo_ del suo regno. Chi avendo sotto gli occhi le carte di qualche
antico e dovizioso archivio, le esaminerà con pazienza, potrà più
sicuramente decidere questo punto di controversia.

Intanto non è improbabile che accadesse nei primi mesi dell'anno
presente l'ultima venuta in Italia del re Rodolfo, e la morte di
Burcardo duca di Suevia, narrata sotto quest'anno da Ermanno
Contratto[1937]: del che abbiamo favellato nell'anno precedente. Per
attestato di Liutprando[1938], dacchè fu entrato Ugo in possesso del
regno, _post paululum Mantuam abiit: ubi et Johannes papa ei occurrens,
foedus cum eo percussit_. Questa lega di papa Giovanni col re Ugo non si
può attribuire ad altro che alla speranza che questo principe gli desse
braccio per sostenere il suo dominio in Roma. Andava quivi probabilmente
ogni dì più venendo meno la di lui autorità a cagion di _Marozia_,
assistita dalle forze di _Guido marchese_ e duca di Toscana, marito suo,
laonde il papa cercò questo appoggio, ma appoggio sopra di un principe
che non avea se non un solo interesse, cioè quello della propria
grandezza. Nel dì 12 di novembre di quest'anno il re Ugo trovandosi in
Asti, confermò a quel vescovo[1939] tutti i suoi privilegii e beni.
Secondo la Cronica arabica di Cantabrigia[1940], il re de' Saraceni
facendo guerra ai Cristiani in Calabria, prese un luogo nominato _Urah_,
che forse è _Oria_, caduta, secondo il Protospata, nelle mani di
quegl'infedeli nell'anno 924. Poscia fece tregua coi Calabresi, ed ebbe
per ostaggio _Leone vescovo_ siciliano, governatore allora della
Calabria. Attesta inoltre il suddetto Protospata[1941] che in quest'anno
_comprehendit Michael Sclabus Sipontum mense julii_. E Romoaldo
salernitano[1942] ne parla anch'egli con iscrivere: _Venerunt Sclavi in
Apuliam, et civitatem Sipontum hostili direptione et gladio
vastaverunt_. Sicchè quelle contrade non men dai Saraceni che dagli
Schiavoni miseramente infestate si truovano in questi tempi.

NOTE:

[1927] Pagius, ad Annales Baron.

[1928] Liutprandus, Hist., lib. 3, cap. 5.

[1929] Sigonius, de Reg. Ital., lib. 6.

[1930] Saxius, in Not. ad Sigonium.

[1931] Antiquit. Ital., Dissert. LXX.

[1932] Ibid., Dissertat. X.

[1933] Ibid., Dissert. LXII.

[1934] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Episcop. Parmens.

[1935] Tatti, Annali Sacri di Como, tom. 2.

[1936] Antiq. Ital., Dissertat. XV, p. 851.

[1937] Hermannus Contractus, in Chronico.

[1938] Liutprandus, Hist., lib. 3, cap. 4.

[1939] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4, in Episcop. Astens.

[1940] Cronicon Arabicum, P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[1941] Lupus Protospata, Chronic., tom. 5 Rer. Ital.

[1942] Romualdus Salern., Chron., tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXXVII. Indiz. XV.

    GIOVANNI X papa 14.
    UGO re d'Italia 2.


Attese in quest'anno l'accorto _re Ugo_ a trattar amicizia e lega con
tutti i vicini potentati. Pensò ancora a spedire ambasciatori alla corte
imperiale di Costantinopoli, e scelse per tale incumbenza il padre di
Liutprando storico[1943], siccome persona di gran credito per
l'onoratezza de' suoi costumi e per essere bel parlatore. Andò questi, e
fu ben ricevuto da _Romano_ allora imperador de' Greci. Liutprando non
fa menzione se non di lui, quasichè il primo fra i greci Augusti non
fosse in que' tempi _Costantino VIII_ figliuolo di Leone il Saggio. Nè
si sazia d'encomiar esso Romano, come principe dotato di valore non
ordinario, e di pietà, liberalità e prudenza, che non avea pari. Portò
questo ambasciatore dei gran regali a quella corte. Ma ciò che riuscì
più caro all'Augusto Romano, fu che essendo stato assalito nel viaggio
esso ambasciatore da alcuni Sclavi, o vogliam dire Schiavoni, ribelli
all'imperio greco, gli riuscì di farli prigioni e di presentarli vivi in
Costantinopoli all'imperadore, che ne fece gran festa. Non così avvenne
per un altro bizzarro regalo portato a lui d'Italia. Consisteva questo
in due cani, non so se corsi o mastini, o pur di altra fatta, certo
incogniti in quelle parti. Queste bestie, allorchè furono presentate
all'imperadore, al vedere quella strana figura, quasi mirassero non un
uomo, ma un mostro, a cagion dell'abito de' greci imperadori, che
tuttavia comparisce nei bassi rilievi e nelle monete d'allora, troppo
straniero agli occhi di genti e bestie avvezze all'Italia, con poca
creanza s'avventarono contra di sua maestà imperiale; e se non erano
presi colle braccia da molti, faceano un bruttissimo scherzo al
dominator de' Greci. Tornò poscia in Italia tutto contento questo
ambasciatore al re Ugo; ma stette poco ad ammalarsi, e scorgendo di non
poterla scappare, si ritirò in un monistero, secondo l'uso di que'
tempi, e preso l'abito monastico, da lì a quindici giorni passò da
questa all'altra vita, con lasciare il figliuolo Liutprando in età
fanciullesca. Stando in _Pavia_, confermò il re Ugo[1944] nel dì 17 di
febbraio dell'anno presente i privilegii ai canonici di Parma. Crebbero
intanto le calamità de' Cristiani in Calabria per la potenza de'
Saraceni. Secondo la relazione di Lupo protospata[1945], assediarono
que' Barbari Taranto; e quantunque una valorosa difesa facessero que'
cittadini, pure toccò loro in fine di soccombere. _Anno_ 927 (scrive
egli così) _fuit excidium Tarenti patratum; et peremti sunt omnes
viriliter pugnando; reliqui vero deportati sunt in Africam. Id factum
est mense augusti in festivitate sanctae Mariae_. Romoaldo
salernitano[1946] riferisce all'anno 926 questa disavventura de'
Tarentini, e l'attribuisce agli Ungheri, scrivendo che dopo la presa di
Siponto fatta dagli Sclavi, _non post multum temporis Ungri venerunt in
Apuliam: et capta Auria civitate ceperunt Tarentum. Dehinc Campaniam
ingressi, non modicam ipsius provinciae partem igni ac direptioni
dederunt_. Il Protospata è scrittore più antico di Romoaldo.

NOTE:

[1943] Liutprandus, Hist., lib. 3, cap. 5.

[1944] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Episcop. Parmens.

[1945] Lupus Protospata, tom. 5 Rer. Italic.

[1946] Romualdus Salernitanus, in Chron., tom. 7, Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXXVIII. Indiz. I.

    LEONE VI papa 1.
    UGO re d'Italia 3.


Non sapeva accomodarsi papa _Giovanni X_ alla prepotenza di _Marozia_ e
di _Guido_ duca di Toscana di lei marito, che si andavano usurpando
tutto il governo temporale di Roma[1947]. Dovea bollir forte la
discordia fra loro, e verisimilmente il pontefice, uomo di petto, non
lasciava intentato mezzo alcuno per sostenere i suoi diritti, ed
abbattere questi perturbatori della sua sì ben fondata autorità. Andò a
terminar questa dissensione in un sacrilego enorme eccesso. Secretamente
Guido e Marozia raunarono una mano di sgherri, che entrati un dì nel
palazzo lateranense, sugli occhi dello stesso papa trucidarono Pietro di
lui fratello, specialmente odiato da Guido; e messe le mani addosso allo
stesso pontefice, il cacciarono in una scura prigione. Non passò molto
che l'infelice pontefice quivi terminò i suoi giorni, o sopraffatto dal
dolore di sì indegno strapazzo, o pure come correa fama a' tempi di
Liutprando, perchè con un cuscino il soffocarono. Si sarebbe aspettato
il lettore che il cardinal Baronio avesse qui aguzzata la penna contra
di sì esecranda iniquità, e contra dei suoi sacrileghi autori. Tutto il
contrario. Grida egli, quasi esultando: _Sic igitur dignum suis
sceleribus finem accepit invasor et detentor injustus apostolicae sedis
Johannes, ut qui per impudicam feminam sacrosanctam apostolicam sedem
violentus arripuit, aeque per impudicam mulierem ejectus et conjectus in
carcerem, ea simul cum vita caruerit_. Ma e se fossero ciarle e voci
inventate dagl'ingiusti nemici di questo papa Giovanni, quelle che il
solo Liutprando lasciò scritto del suo ingresso nel pontificato: che
sarebbe da dire della sentenza proferita qui contro la memoria di un
romano pontefice, accettato e venerato per tale da tutta la Chiesa di
Dio, e che lodevolmente esercitò il pontificato, e solo per sostenere i
diritti temporali della santa sede incontrò l'odio de' cattivi e dei
prepotenti, e restò in fine soperchiato da essi? Veggasi ciò che il
medesimo Baronio dica agli anni 955 e 963 di _Giovanni XIII_ papa, che
per varie ragioni non era da paragonare con _Giovanni X_. Non mi stendo
a dire di più, bastando rapportar qui ciò che ne scrisse
Frodoardo[1948]. I suoi versi son questi:

    _Surgit ab hinc decimus scandens sacra jura Johannes._
    _Rexerat ille ravennatem moderamine plebem._
    _Inde petitus ad hanc romanam percolit arcem.,_
    _Bis septem qua praenituit paulo amplius annis._
    _Pontifici hic nostro legat segmenta Seulfo._
    _Munificisque sacram decorans ornatibus aulam_
    _Pace nitet dum, patricia deceptus iniqua,_
    _Carcere conjicitur, claustrisque arctatur opacis._
    _Spiritus at saevis retineri non valet antris;_
    _Emicat immo aethra decreta sedilia scandens._

In questi medesimi tempi fioriva e scriveva Frodoardo, e la
testimonianza sua vale ben più di quella di Liutprando, che era allora
un ragazzo, e cresciuto poscia in età, pescò le notizie di questi tempi
nei libelli infamatorii e romanzi d'allora. E s'egli fosse ben informato
di quegli affari, basta leggere ciò ch'egli dopo il suddetto empio fatto
soggiugne: _Quo mortuo, ipsum Marotiae filium nomine Johannem, quem ex
Sergio papa meretrix ipsa genuerat, papam constituunt_. Ma questa è una
spropositata asserzione. Imperocchè di certo sappiamo che dopo _Giovanni
X_ fu eletto e consecrato papa _Leone VI_ nel mese di giugno, secondo i
conti del padre Pagi. E dopo _Leone_ venne papa _Stefano VII_, e dipoi
_Giovanni_ figliuolo di Marozia. Ora vatti a fidare di Liutprando.
Frodoardo differisce la morte di papa Giovanni X sino all'anno seguente.
Abbiam veduto che esso papa fu _patricia deceptus iniqua_, cioè da
Marozia; ma nella Storia Frodoardo stesso[1949] asserisce che _Guido
duca_ di Toscana, fratello del re Ugo, ebbe mano in quella empietà. Una
carta esistente nell'archivio archiepiscopale di Lucca, e da me veduta,
porta le seguenti note cronologiche: _Hugo gratia Dei rex anno regni
ejus, Deo propitio, secundo, ipsa die kalend. januarii Indictione
prima_, cioè nel dì primo di gennaio del presente anno, confermandosi
che Ugo non conseguì il regno nell'anno 925. Contiene quel documento una
permuta di beni fatta da _Pietro vescovo_ di Lucca, _et Wido dux direxit
missos suos_, per chiarire che non interveniva danno o frode in quel
contratto: dal che intendiamo ch'egli soggiornava allora in Lucca. Circa
il mese di settembre dovette il re Ugo fare una scorsa ai suoi Stati di
Provenza. Abbiamo questa particolarità a noi conservata dal sopraddetto
Frodoardo. _Heribertus comes_, dice egli, _cum Rodulfo_ (re di Francia)
_proficiscitur in Burgundiam obviam Hugoni Italiae regi_. Aggiugne
ancora che _Hugo rex habens colloquium cum Rodulfo, dedit Heriberto
comiti provinciam viennensem vice filii sui Odonis_. Però il re Ugo,
vedendo di non poter tener quegli Stati, dovette farne un sacrifizio
alla potenza di Eriberto conte di Vermandois, arbitro allora del regno
di Francia. Rapporta il padre Dachery[1950] un diploma d'esso re Ugo,
dato _pridie idus novembris anno dominicae Incarnationis DCCCCXXVIII,
regni vero domni Hugonis piissimi regis tertio, Indictione prima_. Da
questo ricaviamo il tempo in cui egli era in Vienna, e che o non avea
ceduto per anche quegli Stati, oppure gli avea ceduti con ritenersi la
sovranità. Nella Cronica d'Amalfi[1951], correndo questi tempi, noi
troviamo duca di quella città ed imperial patrizio _Mastaro_ figlio del
già duca _Mansone_. Il titolo di patrizio fa intendere che quella città
continuava a riconoscere la sovranità de' greci imperadori.

NOTE:

[1947] Liutprand., Hist., lib. 3, cap. 12.

[1948] Frodoardus, de Roman. Pont.

[1949] Idem. in Chronic. tom. II Rer. Francis Du-Chesne.

[1950] Frodoardus, de Roman. Pontific.

[1951] Dachery, in Spicileg., tom. 3 postrem. edition.



    Anno di CRISTO DCCCCXXIX. Indiz. II.

    STEFANO VII papa 1.
    UGO re d'Italia 4.


Non più di sette mesi e cinque giorni durò il pontificato di _Leone VI_
papa, attestandolo Frodoardo[1952] con questi versi, dopo aver parlato
della morte di papa Giovanni X:

    _Pro quo celsa Petri sextus Leo regmina sumens,_
    _Mensibus haec septem servat, quinisque diebus,_
    _Praedecessorumque petit consortia vatum._

Però il padre Pagi, che il fa creato papa circa il fine di giugno
dell'anno precedente, il crede per conseguente morto intorno al dì 3 di
febbraio dell'anno presente. Ma il suddetto Frodoardo, col riferire
sotto quest'anno la morte di _papa Giovanni X_ carcerato, può far
dubitare di questi conti, non essendo probabile che i Romani eleggessero
un pontefice novello, se prima non furono accertati che, coll'essere
mancato di vita Giovanni, era vacante la sedia di san Pietro. _Johannes
papa_ (dice egli) _quum a quadam potenti femina, cognomine Marocia,
principatu privatus sub custodia detineretur, ut quidam, vi, ut plures
astruunt, actus angore defungitur_[1953]. Che anche _Leone VI_ fosse
imprigionato e morisse in carcere, l'ha bensì scritto il cardinal
Baronio[1954], ma senza addurne autore, o pruova alcuna. Tolomeo da
Lucca[1955] trecento anni prima del Baronio scrisse: _De hoc nullae
historiae aliqua gesta tradunt, quia modicum sedit, sed quod in pace
quievit, nullam tamen tyrannidem exercuit_. Ora è fuor di dubbio che a
_Leone VI_ nel romano pontificato succedette _Stefano VII_, le cui
azioni restano tuttavia seppellite nel buio di quell'ignorante secolo.
Abbiamo poi dal suddetto Frodoardo che in questi tempi _viae Alpium a
Saracenis obsessae, a quibus multi Romam proficisci volentes, impetiti
revertuntur_. Venivano questi malanni ed impedimenti dai Saraceni, che
s'erano ben fortificati nel luogo di Frassineto ai confini dell'Italia e
Francia, da dove infestavano tutte le circonvicine provincie. Non si sa
bene l'anno preciso, in cui _Guido duca_ di Toscana passò da questa
all'altra vita. Tuttavia giacchè Liutprando[1956], dopo aver narrata la
morte di Giovanni X papa, scrive: _Wido vero non multo post moritur,
fraterque ejus Lambertus ipsi vicarius ordinatur_; si può fondatamente
conietturare che in quest'anno succedesse il fine dei suoi giorni. In
luogo d'esso fu creato duca di Toscana _Lamberto_ suo fratello. Noi
troviamo in Pavia il re Ugo nel mese di maggio, ciò apparendo da un suo
diploma[1957] spedito in favore di Sigefredo vescovo di Parma e della
sua chiesa. _IV idus maii, anno dominicae Incarnationis DCCCCXXIX, regni
vero domni Hugonis piissimi regis quarto_ (più probabilmente _tertio_)
_Indictione II, Actum Papiae_. _Landolfo principe_ di Benevento e di
Capoa, tuttochè creato patrizio dagli imperadori greci, ebbe di quando
in quando delle liti con essi, e fece lor guerra. In questo anno ancora
per attestato di Lupo protospata[1958], unitosi egli con _Guaimario II_,
principe di Salerno, guerreggiò contro i Greci, ciò apparendo dalle
parole di quello scrittore: _Anno 929, Indictione II, Pandulphus_ (vuol
dire _Landulphus_) _et Guaimarius principes Langobardorum intraverunt
Apuliam_, dove i Greci erano specialmente padroni di Bari. Abbiamo
inoltre dalla Cronica arabica[1959] che Saclabio generale de' Saraceni
in Sicilia, il quale nel precedente anno avea presa Zarmina, in questo
_excursionem fecit usque ad Alancaberdam_ (si crede che voglia dire
_Langobardiam_, cioè il ducato beneventano), _et multos captivos cepit,
nullam tamen civitatem expugnavit. Inducias tamdem unius anni fecit cum
Calaurensibus._

NOTE:

[1952] Antiquit. Ital., Dissert. V, pag. 210.

[1953] Idem, in Chronico.

[1954] Baron., in Annal. Eccl.

[1955] Ptolomaeus Lucens., Hist. Eccl., tom. 11 Rer. Ital.

[1956] Liutprandus, Hist., lib. 3, cap. 12.

[1957] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Episc. Parmens.

[1958] Lupus Protospata, in Chron., tom. 5 Rer. Ital.

[1959] Chron. Arab., P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXXX. Indiz. III.

    STEFANO VII papa 2.
    UGO re d'Italia 5.


Non ha la storia d'Italia, se non Liutprando, che abbia con qualche
estensione parlato dei fatti d'_Ugo_ re d'Italia. Ma ne parla egli senza
assegnarne i tempi, anzi talora confondendo l'ordine dei tempi. Sarà
perciò a me lecito di rapportar sotto il presente anno la congiura fatta
in Pavia contra del re Ugo da Gualberto e da Everardo soprannominato
Gezone[1960]. Erano essi due giudici di quella città, ma prepotenti per
la loro nobiltà, ricchezze e aderenze. Il primo avea avuto un figliuolo
appellato _Pietro, vescovo_ di Como, e una figliuola per nome Raza
maritata in _Gilberto conte_ del sacro palazzo. Gezone era una sentina
di vizi. La cagion non si sa: un dì fecero costoro adunanza di gente con
pensiero di andare addosso al re, che vivea senza sospetto alcuno. Tanto
tardarono, che Ugo fu avvertito della mena, e da uomo scaltro mandò a
dir loro le più belle parole del mondo, esibendosi pronto a correggere,
se v'era cosa che lor dispiacesse. Con ciò restò quetata la foga dei due
congiurati, ma non cessò l'animo loro perverso di macchinar contro la
vita del re, seppure lo astuto Ugo non finse quest'ultima partita per
liberarsi da chi avea nudrito sentimenti sì perniciosi contro la di lui
corona e vita. Facendo egli vista di non curar questi movimenti, uscì un
giorno di Pavia, e andato in altre città, fece venire a sè varie brigate
de' suoi soldati, e specialmente Sansone uomo di gran potenza e nemico
dichiarato di Gezone. Ugo fu consigliato da lui di tornarsene in Pavia;
e perciocchè costumavano i nobili Pavesi, allorchè il re ritornava, di
uscirgli incontro fuori della città, gli disse essere necessario di
ordinare segretamente a _Leone vescovo_ di Pavia, nemico anch'esso di
Gezone, di serrare, uscita che fosse la nobiltà, le porte d'essa città,
e di ben custodire le chiavi, acciocchè niuno potesse rientrarvi. Così
fu fatto. E Gualberto e Gezone restarono colti in questa maniera, e i
loro seguaci. Il primo pagò colla testa i suoi debiti; a Gezone furono
cavati gli occhi e tagliata la lingua, perchè avea sparlato del re; il
fisco tese le unghie a tutti i loro tesori; e ai complici di costoro
toccò una disgustosa prigionia. Questo colpo servì ad accrescere la
riputazion del re Ugo, e a farlo temere e rispettare, non solo in Pavia,
ma per tutto il regno: il che non avea saputo fare in addietro il buon
imperador Berengario. Un diploma del re Ugo, dato in Pavia nel settembre
di quest'anno in favore di _Sigefredo vescovo_ di Parma, fu da me dato
alla luce[1961]. Secondo la Cronica arabica di Sicilia[1962], Saclabio
generale de' Saraceni in questo anno _excursione in Calauriam facta,
cepit arcem, cui nomen Termulah, et abduxit captivorum duodecim millia_.
Intanto convien confessare che in questi tempi, ancorchè l'Italia
godesse comunemente la pace, pure assai deforme era il suo volto, perchè
le belle arti, le scienze, la pulizia da gran tempo ne erano bandite, e
una somma ignoranza regnava dappertutto, non solamente fra i laici, che
per lo più non possedevano libri, troppo cari allora perchè manoscritti,
ma anche fra gli stessi ecclesiastici, e fino tra i monaci, che pure in
molti luoghi mantenevano l'uso di trascrivere essi libri. Per cagion di
questa ignoranza, e per gli esempli de' viziosi che erano cresciuti a
dismisura, si aumentò di molto la corruzion de' costumi, e ne patì la
religione stessa, divenuta, per così dire, materiale senza spirito. Non
già che nascessero eresie, perchè il popolo e i pastori della Chiesa
tenevano saldo quel che aveano appreso della fede cristiana; ma perchè
pochi leggevano le divine Scritture; e il non udire inculcata nelle
prediche la parola di Dio e le sue gran verità, lasciava libero il campo
ai vizii e alle superstizioni: che tali erano il duello, e varie altre
prove appellate giudizii di Dio, ed inventate per iscoprire, come
scioccamente si credeva, la verità delle cose, e l'innocenza o reità
delle persone, per tacere altre cose. Allora ancora più che mai si
spacciarono miracoli falsi; si formarono varie leggende di santi, che
oggidì si scorgono favolose; e però andò in decadenza anche la
disciplina monastica nella maggior parte de' monisteri, massimamente
perchè que' sacri luoghi venivano divorati dai principi, e dati in
commenda ad abbati anche secolari e scandalosi; e i vescovi, e fin gli
stessi romani pontefici, più a distruggere, che ad edificare erano
rivolti, stante la voga in cui cominciò ad essere la simonia,
l'incontinenza, il dover andare alla guerra, per nulla dire di tanti
altri disordini di questi secoli barbarici, non taciuti dal cardinal
Baronio.

NOTE:

[1960] Liutprandus, Hist., lib. 3, cap. 10.

[1961] Antiquit. Ital., Dissert. XXXI, pag. 935.

[1962] Chron. Arab. P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXXXI. Indiz. IV.

    GIOVANNI XI papa 1.
    UGO re d'Italia 6.
    LOTTARIO re d'Italia 1.


Per maggiormente assicurarsi la corona sul capo e conservare ne' suoi
discendenti il regno d'Italia, il re _Ugo_ dichiarò in quest'anno
collega e re _Lottario_ suo figliuolo, natogli da _Alda_ sua moglie
defunta; e concorsero coi lor voti in questa elezione tutti i principi e
baroni nella dieta del regno. Credette il Sigonio[1963] che ciò seguisse
nell'anno 932. All'incontro Girolamo Rossi[1964] asserì che questo
principe fu promosso alla dignità regale nell'anno precedente 930, per
aver veduto nell'archivio di Ravenna strumenti scritti, dice egli, in
quell'anno col regno di _Ugo_ e _Lottario_. Prese il padre Pagi[1965]
con ambe le mani una tale asserzione, e la stabilì per cosa indubitata.
Ma s'egli avesse fatto mente a tanti altri documenti che restano di Ugo
e Lottario, si sarebbe anche egli trovato confuso, come son io, in
accertare il principio del regno di Lottario. Vero è che dal signor
Sassi[1966] bibliotecario dell'Ambrosiana sono allegate varie memorie
indicanti conferito il titolo regale a Lottario nell'anno 930. Ma egli
stesso ne accenna dell'altre che cominciano il regno di lui nell'anno
presente, con aver anche immaginata una lodevol maniera di sciogliere
questo gruppo, supponendo due epoche diverse di Lottario, la prima
dell'elezione, e la seconda della coronazione. È ingegnoso il trovato;
ma se ci erano popoli che non riconoscevano il re d'Italia, se non
dappoichè egli era coronato, e se la coronazione fu di tale importanza
che recava il compimento all'essenza dei re in quei tempi: non si saprà
sì facilmente intendere come dopo l'elezione si differisse cotanto il
prendere la corona. Io per me confesso di aver qualche diffidenza dei
documenti che mettono il cominciamento del regno di Lottario nell'anno
930. I diplomi scritti con lettere d'oro non sono in molto credito
presso di me; non mancano carte false negli archivii; e le legittime per
colpa o de' secondi notai, o de' copisti, o degli stampatori, non di
rado sono giunte a noi con delle slogature. Ora ancorchè n'abbia anch'io
veduto di quelle, dalle quali si può arguire innalzato al trono regale
Lottario nell'anno 930, ed alcuna per avventura se ne legga nelle mie
Antichità italiche; pure così abbondante è il numero di quelle che
mettono il principio del suo regno nell'anno presente 931, che più
sicuro tengo il fermarmi in questa opinione. Ho io pubblicato un bel
placito[1967], cioè uno de' più certi monumenti dell'antichità, tenuto
in Pavia stessa, _anno regni domni Hugoni et Lotharii filio ejus gratia
Dei reges, Deo propicio, domni Hugoni decimo, Lotharii vero quinto, XIV
kalendas octobris, Indictione nona_, cioè nell'anno 935. Un altro
placito si vede tenuto in Lucca, _anno domini Ugoni quintodecimo, domni
Lotharii vero decimo, hoctavo kalendas aprilis, Indictione
quartadecima_, cioè nell'anno 941. Il primo ci fa conoscere Lottario nel
settembre dell'anno 931 re, e il secondo cel mostra non per anche re nel
marzo dello stesso anno. Nell'archivio dei canonici di Modena uno
strumento fu scritto, _Domnus Hugo, et Lothario filio ejus gratia Dei
regis hic in Italia. Domno Hugo anno octavodecimo, et domno Lothario
anno terciodecimo, V kalendas januarias per Indictione secunda_, cioè
nell'anno 943. Adunque neppure nel dì 28 di decembre dell'anno 930
Lottario era salito sul trono. E che neppure nel dì 4 di marzo del 931
egli godesse del titolo regale, si raccoglie da una carta scritta in
Lucca _anno XIX, regni Lotharii regni, IV nonas martii, Indictione
VIII_, cioè nell'anno 950. Veggansi altri documenti da me rapportati
nelle Antichità italiane[1968], che neppur nell'aprile dell'anno 931
aveva avuto principio il regno di Lottario. Da queste notizie non
discordano le pubblicate dal Campi[1969], dall'Ughelli[1970] e dal
Margarino[1971], benchè non sempre esattamente copiati sieno i loro
documenti, dimodochè dee parer più sicuro il fissare nell'anno presente
il principio dell'epoca del regno di Lottario figliuolo del re Ugo. E
tanto più ciò si troverà certo, quanto più si rifletterà ad uno
strumento dato alla luce dal padre Tatti[1972], dove son queste note
cronologiche. _Ugo gratia Dei rex anno regni ejus in Italia quinto,
mense maii, Indictione quinta_, cioè nell'anno presente di maggio.
Adunque non era per anche in uso epoca alcuna di Lottario prima del
corrente maggio. Che poi verso il fine del maggio stesso egli salisse al
trono, può ricavarsi da una carta pecora dell'archivio del monistero
milanese di santo Ambrosio, scritta _Hugo et Lothario filius ejus divina
ordinante providentia regis anno regni praedicto Hugoni quinto, Lotharii
primo, mense magio, Indictione quarta_. Credesi che in quest'anno
mancasse di vita _Lamberto arcivescovo_ di Milano. Quel clero e popolo
si figurava di poter eleggere, secondo l'inveterato costume, dal grembo
de' suoi parrochi o canonici nazionali il successore; ma i maneggi e la
potenza del re Ugo s'interposero, e furono obbligati ad eleggere per
quella cattedra uno straniere. Questi fu _Ilduino_ franzese, parente del
medesimo re, che eletto già vescovo di Tongres in concorrenza di un
altro, soccombendo nella contesa, era negli anni addietro venuto a
cercar migliore fortuna in Italia[1973]. Essendo venuto meno nell'anno
928 _Noterio_ ossia _Notecherio_, vescovo di Verona, tanto si adoperò il
re Ugo, che istallò in quella sedia Ilduino, oppure gliene fece
solamente godere le entrate. Ma non terminò l'ambizione di questo
prelato, nè la politica del re Ugo, a cui premeva di avere un
arcivescovo di Milano tutto suo: sebben pare che Raterio, di cui
parleremo, metta in dubbio la volontà del re stesso in questo affare.
Certo è che Ilduino passò dalla chiesa di Verona alla più insigne e più
pingue ambrosiana; giacchè più non si badava ai canoni che vietavano le
traslazioni de' vescovi. Aveva egli, allorchè venne in Italia, condotto
seco _Raterio_ monaco di Liegi, uomo celebre in questi tempi _ob
religionem, septemque artium liberalium peritiam_, come dice Liutprando,
di cui avremo occasion di parlare andando innanzi. Fu spedito lo stesso
Raterio a Roma[1974], per ottenere dal sommo pontefice l'approvazione
dell'arcivescovato d'Ilduino e il pallio. Riuscì felicemente in questo
negoziato il valente monaco, e non dimenticò i suoi propri affari,
perchè, per confessione sua, insieme col pallio e colle bolle pontificie
in favor d'Ilduino _allatae sunt et literae domni papae tunc temporis
Johannis gloriosae indolis, quibus continebantur ejusdem preces,
totiusque romanae ecclesiae, uti ego Veronensibus darer episcopus_.
Perciò o nell'anno presente, o nel susseguente, dovette Raterio entrare
in possesso della chiesa di Verona.

Ma avendo noi udito che questo monaco portò lettere di _Giovanni_ papa,
convien ora raccontare che in quest'anno cessò di vivere _Stefano VII_
papa, di cui Frodoardo scrive così[1975]:

    _Septimus hinc Stephanus praefulget in annos,_
    _Aucto mense super, bisseno ac sole jugato._

Gli succedette _Giovanni XI_ figliuolo di Marozia. Ha questo papa
anch'egli la disgrazia d'essere appellato _pseudopontifex_ dal cardinal
Baronio[1976], che unicamente, come fecero tant'altri, si appoggiò sulle
maldicenze di Liutprando storico. Troppo stomaco fece allo zelante
porporato l'aver questi detto ch'esso Giovanni era nato da Marozia e da
Sergio III papa. Ma siccome abbiam detto di sopra all'anno 910,
ragionevolmente si possono queste credere calunniose voci sparse da'
nemici contro la fama e memoria di Sergio. _Marozia_ era moglie, secondo
tutte le apparenze, di _Alberico marchese_; e di esso Alberico vien
chiamato da altri scrittori figliuolo esso _Giovanni XI_, creato papa in
quest'anno. Che se il Baronio scrive essere egli stato portato al
pontificato dalla prepotenza di _Guido marchese_ di Toscana, marito
posteriore di Marozia, non s'abbia a male, se gli rispondiamo, essere
questi sogni suoi ed immaginazioni, non sostenute dalla testimonianza di
alcun antico scrittore. E tanto più, perchè, siccome abbiam detto, pare
che il suddetto _Guido_ duca e marchese già fosse mancato di vita
nell'anno 929. Per altro si può credere che Marozia non lasciasse in
ozio la sua possanza per far cadere in capo al figliuolo la tiara
pontificia, e seguitar ella a comandar le feste in Roma, come avea fatto
in addietro. Ma di questo si ha da domandar conto ai Romani d'allora
che, avviliti o effeminati, si lasciavano così aggirar da una donna. Per
altro non sapendosi succeduta allora violenza alcuna, ragion vuole che
legittima fosse l'elezion di _Giovanni XI_, ed egli in fatti fu
riconosciuto per vero papa da tutta la Chiesa, e chiamato dal vivente
allora Raterio _pontifex gloriosae indolis_; laonde al tribunale del
sacro Annalista non conveniva di dichiararlo _pseudopontefice ed
intruso_ contra il sentimento della Chiesa universale e della storia.

Abbiamo da Frodoardo[1977] che in questo anno, _Graeci Saracenos per
mare insequentes usque ad Fraxenedum saltum, ubi erat refugium ipsorum,
et unde egredientes Italiam sedulis praedabantur incursibus, Alpibus
etiam occupatis, celeri Deo propitio internecione proterunt, quietam
reddentes Alpibus Italiam_. Di questo fatto, glorioso all'armi greche ed
utile all'Italia, non resta vestigio in alcun'altra istoria. Nè si creda
già il lettore che venisse fatto ai Greci di schiantar quella mala razza
da Frassineto. Seguitarono que' malandrini ad abitar ivi, e ad infestar
come prima l'Italia e la Provenza: e tornerà in breve occasion di
parlarne. Oltre a quest'anno non si può differire una strepitosa
iniquità del re Ugo[1978]. Reggeva la Toscana allora _Lamberto duca_,
uomo bellicoso e capace di gran fatti. Il credito di questo principe,
suo fratello uterino, era una spina sugli occhi al re Ugo, per timore
che i principi d'Italia ribellandosi portassero alla corona esso
Lamberto. Aveva inoltre Ugo un fratello dal lato del padre, appellato
_Bosone_, che ardentemente vagheggiava il ducato della Toscana. Che
dunque fece questa volpe regale? Sparse voce che _Berta_ duchessa di
Toscana sua madre non aveva partorito alcun figliuolo al duca
_Adalberto_ suo marito; ma che presi dei figliuoli nati da altre donne,
cioè _Guido_, _Lamberto_ ed _Ermengarda_, avea finto di averli essa
partoriti, per poter continuare la sua autorità dopo la morte del
marito. Bisognò ben supporre stranamente semplice e scimunito Adalberto
duca, che non si avvide di questa invenzione. Ciò fatto, il re Ugo
stette poco ad intimare al duca Lamberto che non ardisse di appellarsi
più suo fratello. Non seppe Lamberto digerir questa calunniosa voce, e
fece sapere al re d'essere pronto a provare in duello che tanto egli
come esso Ugo erano venuti alla luce per la medesima madre. Allora il re
destinò un certo giovane appellato Teduino per suo campione, affin di
decidere coll'armi a nome suo questa controversia. Seguì il
combattimento, in cui restò vincitore Lamberto; e ciò in que' tempi, ne'
quali il duello per pazza opinione de' popoli veniva creduto un
manifesto giudizio di Dio intorno alla verità o falsità delle accuse,
servì a comprovare l'innocenza del vincitore Lamberto. Liutprando crede
inventata questa calunnia dal re Ugo, perchè egli era già in trattato di
accasarsi con Marozia, e cercava di levar di mezzo l'impedimento della
parentela, essendo ella stata moglie di _Guido marchese_ di Toscana suo
fratello. Restò confuso il re Ugo, ma non lasciò per questo di continuar
la persecuzione contro il fratello Lamberto; e tanto seppe fare che
l'attrappolò, ed avutolo nelle mani, gli fece cavar gli occhi, e
toltogli il ducato della Toscana, lo conferì a _Bosone_ suo fratello.
Per attestato del Fiorentini[1979], questo Bosone si truova nell'anno
seguente marchese della Toscana. Liutprando scrive[1980] che a' suoi
tempi vivea tuttavia l'infelice Lamberto, _qui nunc usque lumine
privatus superest_. Così in altre mani passò il ducato della Toscana,
tolto con sì enorme superchieria alla schiatta dei Bonifazii ed
Adalberti, gloriosi e potenti duchi di quella provincia. Ma non perciò
credo io che finisse la lor prosapia, con avere addotto conghietture
fortissime ed atte a persuadere, che[1981] da alcuno di quei due
principi, cioè o da _Guido_ o da _Lamberto_ marchese di Toscana, e
figliuoli di _Adalberto II il Ricco_, oppure da _Bonifazio_ fratello
d'esso Adalberto II, sia discesa la nobilissima stirpe dei _marchesi
d'Este_, che poi nel secolo undecimo diramata, fiorisce tuttavia nella
real casa di Brunsvic, regnante in Inghilterra e Germania, e nella casa
dei duchi di Modena. Siccome ho io provato con sicuri documenti,
cominciano in questi tempi a trovarsi gli antenati della gloriosa
prosapia che poi fu appellata de' _marchesi d'Este_. Si truovano essi
ornati del titolo di _marchesi_; e quantunque io non abbia potuto
scoprir finora documento alcuno chiaramente comprovante la lor
connessione coi suddetti antichi marchesi di Toscana; pure tali
conghietture concorrono, che difficilmente si potrà fallare in tenendo i
principi estensi per discendenti da essi. Lo stesso Liutprando[1982]
pare che indichi avere il duca Guido avuto dei figliuoli da _Marozia
patrizia romana_, perchè detestando le nozze del re Ugo colla medesima,
scrive ch'essa non potea valersi della legge ebraica, concedente all'un
fratello di suscitare il seme dell'altro fratello defunto senza
figliuoli, e perciò dice:

    _Immemor aspiceris praecepti caeca Johannis,_
    _Qui fratri vetuit fratris violare maritam._
    _Haec tibi Moyseos non praestant carmina vatis,_
    _Qui fratri sobolem fratris de nomine jussit_
    _Edere, si primus nequeat sibi gignere natum._
    _Nostra tuo peperisse viro te saecula norunt._

Ma che divenne di questi figliuoli di Guido? Altri ne potè avere
_Lamberto_ suo fratello, ed altri anche _Bonifazio_ loro zio paterno,
giacchè i Longobardi tutti soleano prendere moglie, non essendo in uso
fra loro le primogeniture. Noi troviamo ricreato e conservato negli
antenati della casa d'Este, viventi in questi medesimi tempi e dipoi, il
nome di _Adalberto_, il titolo di _marchese_, la lor potenza, i lor beni
e giuspatronati in Toscana, massimamente ne' contadi di Arezzo, Pisa e
Luni, prima che venissero in Lombardia. Però fra le tenebre di questi
secoli non poco lume si ha per conghietturare i principi estensi
diramati dagli antichi Adalberti marchesi di Toscana. Restò per le
iniquità del re Ugo depressa questa nobil prosapia, ma noi la vedremo
dopo la di lui morte risorgere con non minor lustro di prima.

NOTE:

[1963] Sigonius, de Regno Ital., lib. 6.

[1964] Rubeus, Istor. Ravenn., lib. 5.

[1965] Pagius, ad Annales Baron.

[1966] Saxius, in Not. ad Sigon., de Regno Ital.

[1967] Antiquit. Ital., Dissert. XXXI et X.

[1968] Antiq. Ital., Dissert. IX, XXXIV, XXXVI, LXII, etc.

[1969] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.

[1970] Ughell., Ital. Sacr.

[1971] Margarinius, Bullar. Casinens., tom. 2.

[1972] Tatti, Annal. Sacri di Como, tom. 2.

[1973] Liutprandus, Hist., lib. 3, cap. 11.

[1974] Ratherius, in Epist., in Spicileg. Dacherii.

[1975] Frodoardus, de Roman. Pontificib.

[1976] Baron., in Annal. Eccles.

[1977] Frodoardus, in Chron.

[1978] Liutprandus, Hist., lib. 3, cap. 13.

[1979] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.

[1980] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 15.

[1981] Antichità Estensi, P. 1, cap. 22 et seq.

[1982] Liutprandus, Hist., lib. 3, cap. 12.



    Anno di CRISTO DCCCCXXXII. Indiz. V.

    GIOVANNI XI papa 2.
    UGO re d'Italia 7.
    LOTTARIO re d'Italia 2.


Possedeva quietamente il re Ugo il regno d'Italia, e dimorava in Pavia
_IV kalendas madii_ di quest'anno, come s'ha da un suo diploma da me
pubblicato[1983]. Ma gli pareva poco, se non arrivava anche al dominio
di Roma, come avevano fatto tanti altri suoi predecessori. Conobbe che
altro mezzo non v'era per ottenere l'intento, che il guadagnar l'animo
di Marozia, onnipotente in quella città. Se vogliam credere a
Liutprando[1984], che teneva questo furbissimo re per uom santo, fu
Marozia stessa che dopo la morte di Guido suo marito, spediti a lui
ambasciatori, l'invitò a Roma, con offerirgli sè stessa in moglie, e il
dominio della città, per così dire, in dote. Andò il re Ugo in
quest'anno a quell'inclita città, accolto cortesemente dai Romani; fu
ammesso in castello di sant'Angelo da Marozia, che n'era la padrona; e
confidato in questa fortezza, lasciò fuori di città l'esercito suo.
Ch'egli sposasse Marozia, e si mettesse in possesso di Roma, abbastanza
si raccoglie dallo stesso Liutprando, il quale detesta come incestuose
tali nozze, dacchè Marozia avea dianzi avuto per marito _Guido duca_ di
Toscana, fratello uterino d'esso re Ugo. Qui chiede tosto il lettore, se
Ugo, che facea tanto l'uomo dabbene, veramente s'involse ad occhi aperti
in quell'incesto, oppure se ottenne dispensa della parentela dal papa.
Altro non so dir io, se non che non apparisce che allora fossero fatte
dispense. E che probabilmente Ugo si servì per contraere quelle nozze di
un galante suo trovato, cioè di far credere che Guido non era suo
fratello, siccome abbiam già veduto. Si può ancora chiedere, perchè Ugo,
che avea in pugno Roma e il papa, cioè Giovanni suo figliastro, non si
facesse dichiarare e coronar imperador de' Romani. Forse non ebbe tempo
da compiere questo suo verisimil desiderio; e si truova ancora qualche
antica memoria, in cui egli è chiamato _imperadore_, ma senza aver mai
conseguita la corona romana, mentre in tutti i susseguenti suoi diplomi
egli usa sempre il titolo di re, e non mai d'imperadore. Ora dacchè Ugo
fu in possesso di Roma, se vogliam credere a Liutprando, cominciò a
mostrar poca stima della nobiltà romana. Peggio avvenne. Un dì ebbe il
giovane _Alberico_, figliuolo di Marozia e di Alberico marchese, ordine
dalla madre di dar da lavar le mani al re suo padrigno; ma con sì poco
buon garbo colla brocca gli votò l'acqua nelle mani, che Ugo gli lasciò
andare un man rovescio sul volto. Levatosi di lì Alberico, fatta
raunanza di molti nobili romani, rappresentò loro la tracotanza di
questo novello re, il quale se sui principii trattava sì villanamente un
par suo, cosa non avrebbe fatto nel progresso del tempo in danno e
vituperio de' Romani? Con queste parole, e con altre in detestazion dei
Borgognoni, sì fattamente accese gli animi d'essi nobili, che data
campana a martello, e messo tutto il popolo in armi, chiusero le porte,
e andarono ad assediare il re in castello sant'Angelo, senza dargli
tempo d'introdurre le sue milizie. Tal fu la paura del bravo re Ugo, che
neppur credendosi sicuro in quella fortezza, si fece calar giù per le
mura del castello fuori della città, e volò a trovar le sue truppe,
colle quali assai scornato marciò tosto fuori del ducato romano. Servì
questa occasione al popolo romano, stanco d'essere signoreggiato da una
donna, per dichiarar loro principe e signore il suddetto _Alberico_,
giacchè se avessero renduto il governo a _papa Giovanni_, come era di
dovere, Marozia avrebbe continuato a governar ella sotto nome del
figliuolo pontefice. Anzi Alberico per maggiormente assicurare il suo
dominio, mise in prigione la stessa Marozia sua madre, e tenne in
maniera le guardie al papa suo fratello, che nulla poteva operare senza
saputa e consentimento di lui. Siamo tenuti di queste particolarità a
Frodoardo, il quale sotto l'anno seguente scrive nella Cronica[1985],
che tornati da Roma i messi della chiesa di Rems, _Pallium Artaldo
praesuli deferunt, nuntiantque, Johannem papam filium Mariae, quae et
Marocia dicitur, sub custodia detineri a fratre suo nomine Alberico, qui
matrem quoque suam Marociam clausam servabat, et Romam contra Hugonem
regem tenebat_. Ripete lo stesso nella storia della chiesa di Rems con
dire[1986]: _Artoldus episcopus post annum ordinationis suae pallium
suscipit, missum sibi per legatos ecclesiae remensis a Johanne papa
filio Mariae, quae et Marocia dicebatur, vel ab Alberico patricio fratre
ipsius papae, qui eumdem Johannem fratrem suum in sua detinebat
potestate, et praedictam matrem ipsorum in custodia clausam tenebat;
Hugonem quoque regem Roma depulerat_. Ed allora, a mio credere, fu che
si scatenò liberamente la satira contro della depressa _Marozia_ e di
_papa Giovanni_ suo figliuolo, con aggiugnere ai veri vizii di
quell'ambiziosa donna gli altri inventati dalla maldicenza, per
giustificare in qualche maniera l'usurpazione del dominio di Roma, e le
risoluzioni prese da Alberico contra di una madre e di un fratello papa.
Servirono poi a Liutprando quelle pasquinate per denigrar la fama dei
papi d'allora. Probabilmente in quest'anno fu promosso alla cattedra
episcopale di Verona _Raterio_ monaco, ma contro il volere del re Ugo,
il quale unicamente consentì all'ordinazione sua, per non dispiacere
alla corte di Roma, che l'avea caldamente raccomandato, e per isperanza
ch'egli, aggravato da particolari indisposizioni, sloggerebbe presto dal
mondo. Ma Raterio guarì, e fu consecrato. Allora Ugo, secondochè attesta
lo stesso Raterio[1987], _iratissimus redditur; juravit per Deum (nec
est mentitus) quod diebus vitae suae de ipsa ordinatione non essem
gavisurus. Misit ergo in pitaciolo certam quantitatem stipendii, quod
tenerem de rebus ecclesiae; de ceteris exigens jusjurandum, ut diebus
illius, filiique sui amplius non requirerem. Ego intelligens, quanta
absurditas ex hoc consequeretur, non consensi._ Ed ecco come si
abusassero allora i principi del secolo della lor potenza, con disporre
a lor talento dei beni delle chiese; e se il re Ugo fosse quel principe
sì pio e timorato di Dio che Liutprando ci vorrebbe far credere. Paggio
egli allora del re Ugo scrive di sè stesso[1988]: _Ea tempestate tantus
eram, qui regis Hugonis gratiam vocis mihi dulcedine acquirebam. Is enim
euplioniam magnopere diligebat, in qua me coaequalium puerorum nemo
vincere poterat._ Truovasi nel dì primo di luglio dell'anno presente in
Lucca esso re Ugo, dove[1989] _admonitione karissimi fratris nostri
Bosonis illustrissimi marchionis_ (già creato marchese di Toscana) dona
ai canonici di Lucca una corte _pro remedio animarum Adalberti
marchionis, et Bertae serenissimae comitissae matris nostrae_. Così quel
buon re, dopo averla infamata colla calunnia dei parti supposti. Il
diploma fu dato _kalendis julii, anno dominicae Incarnationis
DCCCCXXXII, regni autem domni Hugonis piissimi regis sexto, Lotharii
item regis secundo, Indictione quinta. Actum in civitate Lucae_. Non so
se Ugo andasse allora a Roma, oppure se ne venisse. In questo anno, per
attestato del Dandolo[1990], _Orso Particiaco ossia Participazio_, doge
di Venezia, veggendosi oramai vecchio, dato un calcio al mondo, si fece
monaco. In luogo suo fu eletto doge _Pietro Candiano II_, figliuolo di
Pietro Candiano I doge. Questi pel suo valore e saviezza accrebbe non
poco la potenza de' Veneziani con assuggettar varii popoli confinanti, e
far lega con altri. Mandò tosto alla corte di Costantinopoli _Pietro_
suo figliuolo con assaissimi regali, ed ottenne da quegli Augusti la
dignità di protospatario.

NOTE:

[1983] Antiq. Ital., Dissert. XIX, pag. 57.

[1984] Liutprandus, Hist., lib. 3, cap. 12.

[1985] Frodoardus, in Cron. apud Du-Chesne.

[1986] Idem, in Chronic. Remensi, lib. 4, cap. 24.

[1987] Ratherius, in Epist. ad Johannem papam.

[1988] Liutprandus, lib. 4, cap. 1.

[1989] Ughell., Ital. Sacr., tom. 1, in Episcop. Lucens.

[1990] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXXXIII. Indiz. VI.

    GIOVANNI XI papa 3.
    UGO re d'Italia 8.
    LOTTARIO re d'Italia 3.


Truovo io parimente nel gennaio di quest'anno il _re Ugo_ in Toscana.
Stando egli in Arezzo, confermò ai canonici di quella città, _precibus
karissimi fratris nostris Bosonis incliti marchionis_, i beni lasciati
da _Pietro_ vescovo ai medesimi canonici, e che loro avea confermato
_serenissimus avus noster Lotharius imperator_, padre di _Lottario_ re
della Lorena, da cui era nata _Berta sua madre_. Fu quel
privilegio[1991] dato _anno dominicae Incarnationis DCCCCXXXIII, XVI
kalendas februarii, regni autem domni Hugonis piissimi regis VIII,
dominique Lotharii item regis III, Indictione VI. Actum in domo sancti
Donati._ Quindi si può ricavare che Ugo già fosse re nel gennaio
dell'anno 926. Ma non è sicuro questo documento. Ho ben io messo qui
l'anno 933, ma parmi che l'originale non fosse ben chiaro in questa
nota. E poi come accordar questo diploma coll'altro dell'anno
precedente? Ivi nel dì primo di luglio 932 correva l'_anno sesto_ del
regno d'Ugo, e qui nel dì 17 di gennaio del 933 corre l'_anno ottavo_.
V'ha anche dell'errore negli anni del regno di Lottario. Per l'affronto
poi ricevuto da _Alberico_ patrizio di Roma, e dal popolo romano
nell'anno antecedente, si rodeva il cuore il re Ugo, e non tardò a
cercarne vendetta con passare all'assedio della stessa Roma. Trovò chi
non era figliuolo della paura. Diede bensì il guasto al paese, ma non
gli riuscì di condurre i Romani ad aprirgli le porte, e neppure a far
capitolazione alcuna. In poche parole si sbriga Frodoardo con
iscrivere[1992] sotto quest'anno: _Hugo rex Italiae Romam obsidet_. E
Liutprando racconta ch'esso Ugo[1993] _qualiter Romam, ex qua ejectus
turpiter fuerat, posset acquirere, cogitabat. Collecta itaque
multitudine, proficiscitur Romam: cujus quamquam loca et provincias
circum circa misere devastaret, eamque ipsam quotidiano impetu
impugnaret, ingrediendi eam tamen effectum obtinere non potuit._
Potrebbe anche credersi succeduto in quest'anno, e forse prima, ciò che
il medesimo Liutprando racconta[1994].

Cioè che i principi d'Italia, malcontenti di avere sopra di sè un re che
ad una somma malizia avea cominciato ad unire la crudeltà, con avere
specialmente privato sotto indegno pretesto della vista e del ducato
Lamberto marchese di Toscana suo fratello, si avvisarono di richiamare
in Italia il già detronizzato _Rodolfo II_ re di Borgogna. Ugo, che
tenea delle spie dappertutto, lo seppe; e spediti a Rodolfo i suoi
ambasciatori, gli fece uscir di cuore questa voglia, con cedergli parte
degli stati ch'egli possedeva in Provenza, prima di venire al regno
d'Italia, avendo all'incontro ceduto quel re ad Ugo qualsivoglia sua
pretension sopra l'Italia. Così restò egli libero dal timore da quella
parte. Pretendono il Du-Chesne[1995] e il Buchè[1996] che per tale
accordo Rodolfo II acquistasse la Savoia, il Delfinato ed altri paesi di
Provenza sino al mare di Marsiglia. Ma sarebbe da vedere se la Savoia
fosse dianzi di Rodolfo oppure di Ugo. E che Ugo avesse già ceduto ad
altri il marchesato di Vienna si è di sopra veduto. Pretendono inoltre
quegli scrittori che Ugo ritenesse in suo potere la città d'Arles col
suo contado; e certamente noi il vedremo tornare in Provenza, e quivi
esercitar dominio. Vogliono ancora che Rodolfo desse allora _Alda_ ossia
_Adelaide_ sua figliuola per moglie a _Lottario re_ figliuolo del re
Ugo. Può essere che fra le condizioni del loro accordo vi fosse ancor
questa; potrebbe anche dubitarsi che seguissero gli sponsali dell'uno
coll'altra; ma che in questi tempi si accoppiasse Adelaide con Lottario,
non sussiste. Vedremo all'anno 938 le loro nozze. E qui si vuol
avvertire che Lottario non era per anche in età capace di unirsi con
donna. Il monaco di Bobbio[1997], che scrisse i miracoli operati da Dio
per intercession di san Colombano abbate di quell'insigne monistero, e
vivea in questi medesimi giorni, racconta un fatto non indegno di
memoria. Aveano alcuni potenti, specialmente _Guido vescovo_ di
Piacenza, occupata una gran quantità di beni al monistero di Bobbio;
iniquità che era alla moda in que' sì sconcertati tempi dell'Italia e
della Francia. Allorchè il re Ugo fu divenuto padrone di questo regno,
la regina _Alda_ sua moglie condusse in Italia un nobile e saggio uomo,
appellato _Gerlenno_, con pensiero di dargli un vescovato. Fu questi
creato arcicancelliere del regno da Ugo. _Suum sigillum ei tribuit,
summumque cancellarium esse praecepit_. Io il truovo solamente
cancelliere nell'anno 929, ma comparisce poi ne' seguenti anni
arcicancelliere. Venuto a morte _Silverado abbate_ di Bobbio, il re
diede quella badia in commenda a Gerlenno, che neppur era monaco. E
questi trovato il monistero dianzi sì ricco, allora sì smilzo, più volte
si raccomandò al re Ugo, affinchè obbligasse quegli usurpatori alla
restituzion de' beni. _Sed rex potestative ea non valebat ab eis
auferre. Metuebat enim eos, ne si aliquid contra eorum voluntatem
ageret, regni damnum incurreret: quia scimus etiam contra eum saepius
rebellasse_. Di qui ancora si conosce come fossero corrotti gli animi e
i costumi dei principi sì secolari come ecclesiastici d'allora. Adunque
l'accorto re gli diede per parere di condurre a Pavia il corpo di san
Colombano, perchè a quella vista si commoverebbono gli usurpatori. Così
fu fatto, forse circa l'anno 929 o 930, e quel sacro deposito fu esposto
nella chiesa di san Michele. Allora _Lotharius bonae indolis puer,
filius praedicti regis, quem Alda regina sua genuit, magnis febribus
arebatur. Qui jubente patre ad supradictam ecclesiam in ulnis adductus
est_. Per intercessione del santo riacquistò egli la sanità.
Ricuperarono i monaci ancora alcuni dei lor beni, ma non già gli
occupati dall'indurato vescovo di Piacenza. Dal che si può intendere che
il re Lottario era tuttavia di tenera età circa questi tempi. Abbiamo
dal sopra allegato Frodoardo sotto il presente anno che i Saraceni
abitanti in Frassineto _meatus Alpium occupant, atque vicina quaeque
depraedantur_. Fece parimente fine al corso di sua vita in quest'anno
_Guaimario II_ principe di Salerno[1998], con lasciar suo successore
_Gisolfo_ suo figliuolo in età di soli quattro anni, a cui fu dato per
tutore Prisco.

NOTE:

[1991] Antiq. Ital., Dissert. LXII.

[1992] Frodoardus, in Chron. tom. II, Rer. Franc. Du-Chesne.

[1993] Liutprandus, Hist., lib. 4, cap. 1. Duc. Burgund., lib. 2.

[1994] Idem, lib. 3, cap. 13.

[1995] Du-Chesne, de Duc. Burgund., lib. 2.

[1996] Buchè, Histoire de Provence, lib. 6.

[1997] Mabill., Saecul. Benedict., tom. 2.

[1998] Romuald. Salernitanus, Chron., tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXXXIV. Indiz. VII.

    GIOVANNI XI papa 4.
    UGO re d'Italia 9.
    LOTTARIO re d'Italia 4.


Sigeberto[1999] all'anno 932 e l'Annalista sassone[2000] all'anno 933
raccontano un fatto che forse è da riferire all'anno presente. Dacchè i
principi d'Italia non poterono muovere contra del _re Ugo Rodolfo II re
di Borgogna_, nè c'era speranza di poter tirare in Italia _Arrigo_
glorioso re di Germania, perchè egli avea troppe faccende in casa
propria, e si sa da Liutprando che il re Ugo non risparmiava regali per
tenerselo amico; si rivolsero ad _Arnolfo duca_ di Baviera e di
Carintia, facendogli credere che l'Italia, s'egli veniva con una buona
armata, era di facile conquista, per l'avversione conceputa da molti
contra del re Ugo[2001]. Liutprando narra questo avvenimento, ma senza
assegnarne il tempo secondo il suo costume. Calò Arnoldo per la valle di
Trento, che era da quella parte la prima marca dell'Italia, e venne a
Verona, le cui porte gli furono aperte da _Milone conte_ della città e
da _Raterio vescovo_: essi almeno furono creduti dei principali a
chiamarlo in Italia. Non istette colle mani alla cintola il re Ugo.
Ammassato il suo esercito, lo spinse a quella volta. Accadde che uscito
di Gussolengo un corpo di Bavaresi, s'incontrò con un altro d'Italiani,
e venuto alle mani, restò talmente disfatto, che taluno appena
coll'aiuto delle gambe potè portarne la nuova agli altri. Bastò questo
poco per isbalordire Arnoldo, il quale conosciuto che non era sì molle
il terreno, come egli s'era figurato, determinò di tornarsene in Baviera
per rifare ed accrescere l'esercito, e rimettere ad altra stagione
questa impresa. Pensò ancora di condur seco Milone conte. Ma questi
penetrato il disegno, restò in forse di quel che avea da fare. In
Baviera per conto alcuno non voleva andare; pericoloso era il portarsi
al re Ugo. Tuttavia elesse l'ultimo partito, e questo gli dovette
servire per giustificarsi e per cancellare i sospetti formati contra di
lui. Arnolfo se ne tornò in Baviera, menando seco il fratello di Milone
e i di lui soldati prigionieri. Presentatosi il re Ugo a Verona, la
riebbe senza difficoltà, e fatto prendere il _vescovo Raterio_, il
confinò in una prigion di Pavia, dove ebbe tempo da poter descrivere
graziosamente i salti della sua buona e rea fortuna. Pretende egli in
una lettera[2002] scritta a papa _Giovanni XIII_ che ingiusto fosse il
gastigo, e che il re Ugo prendesse pretesto dalle rivoluzioni di Verona
per nuocere a lui secondo la suggestion del suo odio. _Cepit me_, dice
Raterio, _retrusit in custodiam in quadam Papiae turricula; non dico
sine mea culpa, sed citra legem ita haec egit, et sine audientia. Dicat
heic quisque quod volet; temerariis enim judiciis juxta Augustinum plena
tunt omnia._ Diede in quest'anno il re Ugo un diploma in confermazione
dei beni posseduti dai canonici di Modena[2003]. Le note son queste:
_Datum XII kalendas octobris anno dominicae Incarnationis DCCCCXXXIV,
regni autem domni Hugonis invictissimi regis octavo, et domni Lotharii
item regis tertio, Indictione septima_. Qui è adoperata l'indizione
nostra volgare, che cominciata nel gennaio procede per tutto l'anno.

NOTE:

[1999] Sigebertus, in Chron.

[2000] Annalista Saxo, tom. 1 Hist. Eccard.

[2001] Liutprandus, lib. 3. cap. 14.

[2002] Ratherius, in Epist., tom. 1, Spicileg. Dachery postrem. edit.

[2003] Ughell., Ital. Sacr., in Episcop. Mutinensi.



    Anno di CRISTO DCCCCXXXV. Indiz. VIII.

    GIOVANNI XI papa 5.
    UGO re d'Italia 10.
    LOTTARIO re d'Italia 5.


Non ho io ben potuto chiarirmi se quel _Bonifazio conte_, che noi
vedemmo di sopra all'anno 924 chiamato in aiuto da _Rodolfo re_ di
Borgogna e d'Italia, fosse fin d'allora promosso alla dignità di
marchese, ed avesse in governo il ducato di Spoleti e la marca di
Camerino. Liutprando scrisse[2004] ch'egli _nostro tempore Camerinorum
et Spoletinorum extitit marchio_: il che ci può far dubitare che molto
più tardi a lui fosse conferito quell'illustre governo. Nè è molto
verisimile che Ugo re promovesse questo Bonifazio, ch'era cognato del
suddetto re Rodolfo. Egli è ben fuor di dubbio che in questi tempi
signoreggiava nelle marche di Spoleti e di Camerino un _Teobaldo_ ossia
_Tebaldo_, di cui scrive il medesimo Liutprando[2005]: _Theobaldus heros
quidam, proxima regi Hugoni affinitate conjunctus, Camerinorum et
Spoletinorum marchio erat_. Questo Teobaldo è poi chiamato _nipote suo_
da esso re Ugo[2006]. Bolliva tuttavia la guerra fra _Landolfo principe_
di Benevento e i Greci, e si trovava il primo a mal partito, non so ben
dire se in quest'anno, oppure in alcuno degli antecedenti. Comunque sia
per conto del tempo, abbiam di certo che ricorse Landolfo per aiuto a
questo duca ossia marchese di Spoleti e di Camerino, il quale con grandi
forze unitosi a lui, e venuto ad un fatto d'armi coi Greci, loro diede
una rotta. Non tennero questi da lì innanzi la campagna, ma attesero a
difendersi nelle castella di loro giurisdizione. Liutprando, persona che
si dilettava forte di tagliare i panni addosso agli altri, e di
rallegrare i suoi lettori con delle galanti, ma forse non sempre vere
avventure, ne conta qui una alquanto oscena, e le fa i ricci colla sua
piacevole eloquenza. Cioè che Teobaldo quanti Greci gli capitavano alle
mani, tutti li faceva castrare, lasciandoli poi ire in pace, e con
ordine di dire al loro generale, che sapendo egli quanto preziose e care
cose fossero alla corte dell'imperadore di lui padrone gli eunuchi, gli
faceva que' regali, e che se ne aspettasse molti più andando innanzi.
Accadde che un dì usciti di un castello i Greci coi terrazzani, fecero
una zuffa con quei di Teobaldo, e ne restarono molti prigioni. Si
preparava la festa a questi infelici, quando dal castello giunse alle
tende infuriata una giovane donna, moglie di uno di essi, che
presentatasi a Teobaldo, seppe così ben dire le sue ragioni, e perorare
i suoi diritti sopra il corpo e le membra del marito, che mosse a riso
tutta la brigata, e le riuscì di avere sano e salvo il suo uomo. In qual
anno precisamente succedesse questa guerra di Landolfo e di Teobaldo
contra de' Greci, non si può dichiarare.

Circa questi tempi, per relazione del Dandolo[2007], avendo i
Comacchiesi messi in prigione alquanti Veneziani, _Pietro doge_ di
Venezia spedì contro di loro un'armata, che presa la città, la diede
alle fiamme, uccise molti di que' cittadini, e condusse il rimanente a
Venezia. Furono questi poi rilasciati con promessa di essere da lì
innanzi sudditi della repubblica veneta. A questi tempi ancora dovrebbe
appartenere la venuta in Italia di _Manasse arcivescovo_ di Arles, di
cui parla Liutprando[2008]. Questo ambizioso prelato, non contento del
grado e gregge suo, siccome parente del re Ugo, venne a pescar maggiori
grandezze in Italia. Il re, che per politica amava di esaltare i suoi
parenti e nazionali, gli assegnò le rendite delle chiese di Verona,
Trento e Mantova, e il fece anche marchese di Trento con iscandalo di
tutti i fedeli. Avendo, siccome dicemmo, ripigliata forza i Saraceni
abitanti in Frassineto, può essere che in quest'anno avvenisse ciò che
narra il suddetto Liutprando[2009]. Cioè che alcune brigate di que'
manasdieri calarono fino ad Aiqui nel Monferrato; ma raunatisi i
Cristiani di quelle contrade, con tal bravura diedero loro addosso, che
neppur uno ne scampò dalle loro spade. In Genova si vide scaturire una
fontana coll'acque color di sangue. Fu creduto sangue ciò che
verisimilmente fu un accidente naturale, e preso perciò come un presagio
di qualche calamità. Nè maggiore infatti poteva avvenire a quel popolo;
perciocchè nell'anno stesso venuti dall'Africa colla loro armata i Mori,
entrarono in quella città all'improvviso, e tagliarono a pezzi tutti i
cittadini, con riserbar solamente le donne e i fanciulli, che furono
condotti schiavi in Africa insieme col bottino di tutte le chiese e case
di Genova. Pietro bibliotecario, Martin Pollaco e il Belluacense
scrivono accaduta così funesta disgrazia nell'anno I di Giovanni XI
papa, cioè nell'anno 931. Non so qual fede meritino simili scrittori.
Liutprando, di gran lunga più antico di loro, la mette più tardi.
Leggesi nelle mie Antichità italiane[2010] un bellissimo placito, che ci
fa intendere che il re Ugo avea fabbricato un palazzo nuovo in Pavia,
dove anche dimorava nel dì 18 di settembre del presente anno. Il suo
principio è questo: _Dum in Dei civitate Papia in palacium noviter
aedificatum ab domnum Ughonem gloriosissimum rex in caminata dormitorii
ipsius palacii, ubi ipse domnus Ugo, et Lotherio filio ejus
gloriosissimi reges praeessent, in eorum praesentia Enesaribo comes
palatii_, ec. In vece di _Enesaribo_, che fu mal copiato, si dee
scrivere _esset Sarilo_, ciò riconoscendosi dalle sottoscrizioni, dove è
_Sarilo comes palatii_. Fu scritto quel documento, che ne contien degli
altri, _anno regni domni Hugoni et Lothario, filio ejus gratia Dei
reges, Deo propitio, domni Hugoni decimo, Lotharii vero quinto, XIV
kalendas octobris, Indictione nona_, cioè nell'anno presente. Vien
parimente rapportato dal Campi[2011] un altro privilegio da esso re
conceduto alla badia di Tolla sul piacentino, dato _VIII kalendas
januarii, anno dominicae Incarnationis DCCCCXXXVI, domnorum autem
piissimorum regum, Hugonis videlicet X, Lotharii vero V, Indictione
octava. Actum Papiae._ Era in uso presso di molti di dar principio
all'anno nuovo nel Natale del Signore; però questo anno 936, secondo
noi, fu il 935. Ma non so già intendere come ivi sia l'_indizione
ottava_, che dovea camminare sino al fine dell'anno, quando s'è nel
precedente documento veduto che in Pavia stessa l'_indizione nona_ aveva
avuto principio nel settembre. Bisognerebbe in tali occasioni aver sotto
gli occhi le carte pecore originali, per poterle meglio esaminare.
Trovandosi poi nel suddetto placito, tenuto in Pavia, presente
_Anscharius marchio quondam Adelberti, idemque marchionis filio_, si può
credere che il re Ugo, come scrive Liutprando[2012], _quia Theobaldus
marchio_ (di Spoleti) _hominem exuerat, Spoletinorum ac Camerinorum
marchionem_ l'avesse già costituito. Egli era fratello di _Berengario
marchese_ d'Ivrea, ed uomo di grande ardire. Ne avea paura il re Ugo, e
però il mandò al governo di Spoleti e di Camerino, per tenerlo lontano
da sè.

NOTE:

[2004] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 17.

[2005] Idem, lib. 4, cap. 4.

[2006] Idem, lib. 5, cap. 2.

[2007] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2008] Liutprandus, lib. 4, cap. 3.

[2009] Liutprandus, lib. 4, cap. 2.

[2010] Antiquit. Ital., Dissert. XXXI.

[2011] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.

[2012] Liutprandus, lib. 5, cap. 2.



    Anno di CRISTO DCCCCXXXVI. Indiz. IX.

    LEONE VII papa 1.
    UGO re d'Italia 11.
    LOTTARIO re d'Italia 6.


Giunse al fine de' suoi giorni in questo anno papa GIOVANNI XI, e se
mancasse di morte naturale, o in altra guisa, non ne abbiamo lume alcuno
nella storia. Ecco ciò che di lui lasciò scritto Frodoardo scrittore di
questi tempi[2013]:

    _Nato patriciae[2014] hinc cedunt pia jura Johanni,_
    _Undecimus Petri hoc qui nomine sede levatur,_
    _Vi vacuus, splendore carens, modo sacra ministrans,_
    _Fratre a patricio juris moderamine rapto._
    _Qui matrem incestam, rerum fastigia moeco[2015]_
    _Tradere conantem, decimum sub claustra Johannem_
    _Quae dederat, claustro vigili et custode subegit._
    _Artoldus noster sub quo sacra pallia sumit._
    _Papaque obit, nomen geminum[2016] fere nactus in annum._

Cioè, per attestato di Frodoardo, a questo sfortunato pontefice fu
usurpata tutta la signoria temporale di Roma. E sebben dice questo
scrittore, _modo sacra ministrans_ in vece di _tantummodo_, quasichè
Alberico patrizio suo fratello si contentasse ch'egli attendesse a dir
messa e a regolar lo spirituale della Chiesa; pure giusto motivo ci è di
credere che l'usurpatore Alberico volesse anche far da papa, con
obbligare il fratello a fare quel solo che a lui piaceva. Non vituperio,
ma disgrazia fu questa della santa Sede romana, tiranneggiata allora da'
suoi proprii cittadini. Abbiamo dal medesimo Frodoardo[2017] sotto
quest'anno che _Johanne papa fratre Albrici defuncto, Leo quidam Dei
servus Romae papa constituitur_. Queste parole congiunte con altre
riflessioni fatte dal padre Mabillone[2018] intorno ai brevi di questo
pontefice, zelantissimo perchè si rimettesse in piedi la troppa scaduta
disciplina monastica, hanno somministrato qualche fondamento da credere
ch'egli fosse monaco. Ma se tale non fu, certo fu uomo di rara probità,
e che difficilmente acconsentì alla sua elezione, appunto promosso a
questo sublime grado da _Alberico principe_ di Roma, perchè si sapeva
ch'egli non curava punto le pompe del secolo, e pensava solo alle cose
di Dio, il che era appunto ciò che Alberico desiderava, Frodoardo, che
finì di scrivere il suo poemetto de' romani pontefici, vivente esso papa
Leone, così ne parla:

    _Septimus exsurgit Leo, nec tamen ista voluntas,_
    _Nec curans apices mundi, nec celsa requirens,_
    _Sola Dei quae sunt, alacri sub pectore volvens,_
    _Culminaque evitans, dignusque nitore probatur_
    _Regminis eximii, Petrique in sede locatur._
    _Ac geminans dono cumulatum muneris almi_
    _Pergere laetantem amplexu dimisit honoro._
    _Quem Pater omnipotens alacrem cultuque venustum_
    _Attollat, servetque diu...._

Se Leone fosse stato monaco, non avrebbe probabilmente taciuta questa
sua qualità Frodoardo monaco. Uno strumento di _Leone abbate_ di Subiaco
si legge nelle mie Antichità italiane[2019], scritto _anno, Domino
propitio, pontificatus domni Leonis summi pontificis, et universalis
sexti_ (dovrebbe dire _septimi_) _papae I, Indictione VIII_, cioè
nell'anno presente. Dacchè Roma ebbe la consolazione di veder nella
sedia di san Pietro collocato un sì degno personaggio, tardò poco a
provar dei gravissimi affanni per l'assedio che di nuovo ne intraprese
il re Ugo, sempre inviperito contra de' Romani e del loro principe, a
cagion dell'insulto a lui fatto nell'anno 932, e sempre voglioso del
dominio di quell'augusta città. Ecco ciò che ne scrive nella sua Cronica
il suddetto Frodoardo[2020]: _Hugo Italiae rex Romam nisus capere,
afflicto suo exercitu fame, et equorum interitu, pacta tamdem pace cum
Albrico, dans ei filiam suam conjugem, ab obsidione desistit._ È da
credere che Alberico, veggendosi venir la piena addosso, avesse
spogliato di grani e di foraggio la campagna: dal che nacque la penuria
dell'esercito d'Ugo. Ad intavolar questa pace non poco si adoperò _Odone
abbate_ santo e celebre del monistero di Clugnì, che risplendeva allora
dappertutto per la riforma del monachismo felicemente in esso
introdotta. Era egli amicissimo del re Ugo, e però fu chiamato a Roma
dal buon papa, sì perchè trattasse d'accordo, e sì ancora perchè
rimettesse l'osservanza monastica e il buon ordine nel monistero di san
Polo di Roma. Giovanni monaco[2021], e discepolo di esso santo Odone,
nella di lui vita così scrive: _Sub idem tempus Italiam missi sumus a
Leone summo pontifice, ut pacis legatione fungeremur inter Hugonem
Longobardorum regem, et Albericum romanae urbis principem._ Più sotto
aggiugne: _Dum romuleam urbem ob inimicitiam Alberici jam fati principis
praedictus Hugo rex obsideret, coepit ille_ (Odo) _intra extraque
discurrere, et pacis concordiaeque monita inter utrosque disseminare,
quatenus posset furorem praedicti regis sedare, et praedictam urbem
tueri a tanta obsidione._ Ma forse non è certo che in quest'anno santo
Odone fosse chiamato da papa Leone. Liutprando[2022], che non parla se
non d'un assedio di Roma, fatto circa questi tempi del re Ugo, scrive,
che sperando egli di far cadere nella rete colle sue furberie Alberico,
gli propose di dargli in moglie _Alda_ sua figliuola, e di tenerlo da lì
innanzi in luogo di figlio. Ma Alberico, che sapeva anch'egli il fatto
suo, acconsentì alle nozze, e prese Alda per moglie, ma non lasciò mai
mettere piede in Roma ad esso re Ugo, nè mai si fidò, sinchè visse, di
lui. Tuttavia (aggiugne Liutprando) sarebbe riuscito al re Ugo di far
cadere nella tagliuola il genero, se non fossero stati tanti nobili e
soldati, che per paura del re Ugo scappavano a Roma, ed ivi ben accolti
ed onorati da Alberico, il tenevano saldo in non volere nè confidenza nè
pace con lui.

Un'altra più sonora ne fece in quest'anno il re Ugo. Vedemmo costituito
duca di Toscana per via d'iniquità _Bosone_ fratello del medesimo re.
Aveva egli per moglie Willa, donna nobile di Borgogna, avidissima di
accumular danaro o per diritto o per rovescio. Per paura di lei s'erano
ridotte le nobili donne di Toscana a dismettere tutti i loro ornamenti,
essendo pericoloso il portarne. Nessun maschio, quattro femmine bensì
aveva essa partorito al marito, una delle quali, _Willa_ anche essa di
nome, fu maritata con _Berengario_ figliuolo di _Adalberto marchese_
d'Ivrea, cioè con quello stesso che vedremo a suo tempo re d'Italia. Per
quanto ne scrive Liutprando[2023], pervenne all'orecchio del re Ugo che
Bosone, ad istigazion della moglie, macchinava contra di lui delle
novità. Chi sa nondimeno che quella volpe non fingesse ancor questi
delitti nel fratello, per far passare il ducato della Toscana in un suo
proprio figliuolo, siccome in fatti avvenne? Liutprando poi volea male a
_Willa_. Studiò pertanto e trovò la maniera di imprigionar Bosone; lo
spogliò anche di tutte quante le ricchezze sue, ed ordinò che _Willa_
sua moglie, come origine dei falli del marito, fosse ricondotta in
Borgogna. Sopra tutto faceva il re l'amore ad un pendone assai lungo e
largo, tutto gioiellato, che Bosone soleva portare. Questo non si trovò
fra lo spoglio di lui. Ciò inteso dal re, diede ordine che si usasse
ogni maggior diligenza per rinvenirlo; e se non compariva, che si
cercasse anche sotto i panni di Willa. In fatti osservato che pendeva
una fibbia di sotto le natiche di Willa assisa sul cavallo, una delle
guardie con galanteria le fece partorire il pendone. Liutprando, umor
buffone, mette in bocca di quella guardia delle piacevoli parole intorno
a questa scoperta. Dopo la caduta di Bosone, di cui non sappiamo cosa
divenisse, fu dato dal re Ugo il ducato di Toscana ad _Uberto_ figliuolo
suo bastardo, a lui partorito da Waldelmonda una delle sue concubine,
giacchè questo piissimo re agli altri suoi vizii univa ancor quello di
mantenerne molte alla turchesca. Al placito tenuto in Pavia nell'anno
precedente, e da me accennato di sopra, oltre ad _Azzone_ rinomato
vescovo di Vercelli, e a _Baterico_ vescovo d'Ivrea, intervenne ancora
_Ubertus illustris marchio, et filio, idem domni Ugoni piissimi regis_.
Sicchè egli portava già il titolo di _marchese_, e dovea governar
qualche marca. E se non ci fosse l'autorità di Francesco Maria
Fiorentini[2024], che ci assicura trovarsi in una carta lucchese
tuttavia Bosone duca in Toscana _nel dì sei di luglio del 936_, si
sarebbe potuto sospettare che nel precedente anno fosse accaduta la
disgrazia di Bosone, e divenuto duca ossia marchese di Toscana Uberto.
Ma abbiamo qui concorde anche Frodoardo[2025], che sotto quest'anno
scrive: _Hugo rex repertis quibusdam fratris sui Bosonis contra se, UT
FERTUR, insidiis, eumdem fratrem suum dolo capit, atque in custodia
mittit._ Sul principio di luglio dell'anno presente mancò di vita
_Arrigo re_ di Germania, principe per le sue molte virtù e per varie
segnalate vittorie glorioso nella storia, che ebbe per successore in
quel regno un figliuolo più glorioso del padre, cioè _Ottone il grande_,
di cui avremo non poco da favellare nel progresso di questi Annali. Fra
le carte del monistero vulturnense[2026] una se ne legge, scritta
_regnante domno Ugo rex gratia Dei in Italia in anno XI, et Lotharius
rex filius ejus insimul cum eo in anno V, et vigesimo die mense julii
per Indictionem nonam. Actum in Marsi._ Erano i Marsi nel ducato di
Spoleti, e però quivi si contavano gli anni del re d'Italia. Nel
presente anno fu scritta quella carta, ma i copisti han guaste alquanto
le note, cioè s'ha da scrivere _anno V Lothario_, essendo certo che
Lottario prima del mese di luglio dell'anno 931 avea conseguita la
dignità regale.

NOTE:

[2013] Frodoardus, de Roman. Pontificib.

[2014] _Di Marozia._

[2015] _Al re Ugo._

[2016] _Quinctum._

[2017] Frodoardus, in Chron., tom. 2 Rer. Fran. Du-Chesne.

[2018] Mabill., in Annal. Benedictin., lib. 43.

[2019] Antiquit. Ital., Dissert. XXVIII.

[2020] Frodoardus, in Chronico.

[2021] Mabill., Saecul. V Benedict., in Vita S. Odonis, lib. 2.

[2022] Liutprandus, lib. 4, c. 1.

[2023] Liutprandus, lib. 4, cap. 1.

[2024] Fiorentini, Memor. di Matilde.

[2025] Frodoardus, in Chronico.

[2026] Chronic. Vulturnens., P. II, tom. 1. Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXXXVII. Indiz. X.

    LEONE VII papa 2.
    UGO re d'Italia 12.
    LOTTARIO re d'Italia 7.


Fu quest'anno funestissimo alla Campania; perciocchè, secondo
l'attestato di Leone Ostiense[2027], _Indictione decima, venientes
innumerabiles Hungari super Capuam, omnia in circuitu ipsius depraedati
sunt. Similiter etiam Beneventi fecere, usque Sarnum et Nolam
discurrentes et devastantes omnia; cunctamque Liburiam peragrantes,
iterum Capuam reversi per duodecim dies in Campo Galliano commorati
sunt._ Fecero prigioni molti degli uomini sudditi del monistero di Monte
Casino, per riscattare i quali convenne ai monaci d'impiegar molti sacri
arredi e vasi d'argento della lor chiesa. Gonfii que' Barbari dal non
trovare opposizione alcuna alle loro rapine, si avanzarono entro al
paese de' Marsi, commettendo anche ivi incendii e saccheggi. Ma i Marsi
uniti coi Peligni gli aspettarono in agguato ad un sito, e piombando
loro addosso, quasi tutti li misero a fil di spada, con levar loro tutto
il copiosissimo bottino dianzi fatto. Pochi di que' masnadieri ebbero la
fortuna di sottrarsi alle loro spade e di tornarsene al loro paese. Lupo
protospata[2028] mette questa irruzion degli Ungheri all'anno precedente
936. Se più a lui che all'Ostiense s'abbia a credere, non saprei dirlo.
Vero è che da Frodoardo, da Witichindo e da alcuni altri scrittori si sa
che in questo medesimo anno un nuvolo d'Ungheri, passati per la Baviera,
diedero un terribil guasto all'Alsazia e a tutto il regno della Lorena
con arrivar fino all'Oceano. Ed Ermanno Contratto scrive[2029] _che anno
dominicae Incarnationis DCCCCXXXVII, Ungari Franciam, et Alemanniam, et
Galliam usque ad Oceanum, Burgundiamque devastantes, per Italiam
redierunt._ Ma non c'è apparenza alcuna che gli Ungheri guastatori delle
provincie oltramontane venissero fino a Capua con un giro sì lungo.
Quei, passando per l'Italia, se ne tornarono sani e salvi al lor paese:
laddove gli altri che saccheggiarono la Campania e Benevento lasciarono
per la maggior parte la vita in quelle contrade. Però diverse dovettero
essere le brigate degli uni e degli altri. Lascerò ch'altri decida se a
questo anno, oppure al precedente, appartenga un giudicato di Capua,
riferito nella Cronica del monistero vulturnense[2030], e scritto
_vigesimo septimo anno imperii domni Constantini imperatoris, et XXXVI
anno principatus domni Landulfi gloriosi principis, et XXVII anno
principatus domni Atenulfi eximii principis, mense septembri, Indictione
X._ Ne fo io menzione, affinchè dagli anni di _Costantino VIII_
imperadore de' Greci, registrati ne' documenti di Capua, si riconosca
che doveva essere ristabilita la pace fra la corte imperiale di
Costantinopoli e i principi di Benevento e Capua, cioè di _Landolfo_ ed
_Atenolfo_. Arrivò in quest'anno al fine de' suoi giorni _Rodolfo II_,
re di Borgogna, quel medesimo che era stato re di Italia, attestandolo
Frodoardo[2031], il Continuatore di Reginone[2032], Ermanno
Contratto[2033] ed altri. Lasciò dopo di sè _Corrado_ suo figliuolo, che
gli succedette nel regno, e _Adelaide_ figliuola, di cui parleremo
all'anno seguente. Presso il padre Tatti[2034] abbiamo un privilegio
conceduto nella città di Como dai re _Ugo_ e _Lottario_ ad _Azzone
vescovo_ di quella città, in cui compariscono queste note cronologiche:
_Datum XVII kalendas julii anno dominicae Incarnationis DCCCCXXXVII,
domni Hugonis piissimi regis XI, Lotharii vero filii ejus item regis
VII, Indictione X. Actum Cumis civitate._ Questo documento, diversamente
dall'allegato nell'anno precedente, ci fa riconoscere già creato re il
giovane Lottario nel dì 15 di giugno dell'anno 931. Secondo me, in quel
della Cronica del Volturno, e non in questo, v'ha dell'errore. Abbiamo
dalla Cronica arabica[2035] che continuavano in Sicilia le dissensioni e
sedizioni fra i Cristiani e Mori. Quivi è notato che nel presente, oppur
nel susseguente anno, il popolo di Gergenti si rivoltò contra di Salem
generale del re dell'Africa in quell'isola. Adunò questi un'armata, e
passò ad assediare Osra. Colà ancora accorsero con tutte le loro forze
gli Agrigentini, e misero in rotta il nemico esercito; e di là passarono
fin sotto Palermo, con dare a quella città varii assalti. Ma usciti i
Mori coi Palermitani, comandati dal generale Salem, sbaragliarono gli
assedianti, e buon pro a chi ebbe migliori gambe. Era in questi tempi
console e duca di Napoli _Giovanni_. Da un'altra Cronica arabica di
Abulphedà[2036] si ricava che nell'anno 936 _Amiras Siciliae, qui
dicitur Salem, multis molestiis et injiuriis vexavit Siculos, ita ut
Agrigentini coacti sint expellere milites regis. Tum rex Africae misit
exercitum circumseditque civitatem. Agrigentini vero petierunt succursum
ab imperadore Constantinopolis, qui statim eis allegavit praesidium.
Perduravit adhuc obsidio usque ad annum 329 aegirae_ (_Christi vero
940_). Credesi che in quest'anno ad _Ilduino arcivescovo_ di Milano
defunto succedesse _Arderico_ canonico milanese. Arnolfo storico
racconta[2037] che desiderando il re Ugo di mettere in quella sedia un
suo figliuolo (creduto da me quel _Teobaldo_ di cui fa menzione
Liutprando), nè potendo per la di lui poca età ottener l'intento, fece
eleggere arcivescovo questo Arderico, uomo vecchio, per isperanza che
tardasse poco ad uscire di vita. Scorgendo poi ch'egli non avea gran
fretta d'imprendere quel viaggio, fece in una dieta di Pavia attaccar
lite dai suoi coi Milanesi, per levar dal mondo con questa frode
l'arcivescovo. Ma Arderico ebbe la fortuna di salvarsi. Restaronvi
nondimeno morti novanta nobili milanesi; e il re Ugo dipoi per penitenza
diede alla chiesa di Milano la badia di Nonantola posta sul modenese,
_quae propter nonaginta sui juris curtes sic vocata perhibetur_. Questo
si può credere un tessuto di fole, mischiato di qualche verità.
Indubitata cosa è che la ricchissima badia di Nonantola fu formata e
magnificamente dotata due secoli prima di questo.

NOTE:

[2027] Leo Ostiensis, in Chron. lib. 1, cap. 55.

[2028] Lupus Protospata, in Chron.

[2029] Herman. Contract., in Chronic. edit. Canis.

[2030] Chron. Vulturn. P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2031] Frodoardus, in Chron.

[2032] Continuator Rheginonis.

[2033] Hermann. Contractus, in Chronic.

[2034] Tatti, Annal. Sacri di Como, tom. 2.

[2035] Chron. Arabicum, P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2036] Idem, ibidem.

[2037] Arnulf., Hist. Mediolanens. tom. 4 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXXXVIII. Indiz. XI.

    LEONE VII papa 3.
    UGO re d'Italia 13.
    LOTTARIO re d'Italia 8.


Dopo la morte di _Rodolfo II_ re di Borgogna, il _re Ugo_ intavolò un
trattato di nozze col re _Corrado_ di lui successore, e lo conchiuse
nell'anno presente, se crediamo al padre Mabillone[2038] e al padre
Pagi[2039]. Cioè essendo egli vedovo per la morte della regina _Alda_
sua moglie, e riguardato per insussistente e nullo il suo matrimonio con
Marozia patrizia romana, egli prese per moglie _Berta_[2040] vedova del
suddetto re Rodolfo. Stabilì ancora il matrimonio del re _Lottario_ suo
figliolo con _Adelaide_ figliuola del medesimo re Rodolfo, donna che per
la sua santità e per le sue avventure divenne poi celebratissima nelle
storie. Di che età fosse allora questa regal fanciulla, allorchè andò a
marito, l'abbiamo dalla vita di lei, scritta da santo _Odilone abbate_
di Clugnì[2041]: _Quum adhuc esset_, dic'egli, _juvencula, et
sextumdecimum aetatis suae ageret annum, Deo donante, adepta est regale
matrimonium, juncta scilicet regi Lothario, Hugonis ditissimi regis
italici filio._ La ragione per cui i suddetti scrittori giudicarono
appartenere a quest'anno il matrimonio di Adelaide, è fondata sullo
strumento dotale che tuttavia si conserva in Pavia nell'archivio
dell'insigne monisterio di san Salvatore, e fu dato alla luce dal
Margarino[2042]. Da esso pare che tanto il re Ugo, quanto il re Lottario
si fossero portati in Borgogna per ultimar quelle nozze. Fu scritto il
diploma _pridie idus decembris anno dominicae Incarnationis
DCCCCXXXVIII, regni vero domni Hugonis XII, filii ejus Lotharii item
regis VII, Indictione XI. Actum Curte, quae Columbaris dicitur_. Ma
queste note tutte indicano l'anno 937, essendo certissimo che nel dì 12
di dicembre d'esso anno correva l'_anno XII_ di Ugo e il _VII_ di
Lottario. L'_indizione XI_ doveva aver avuto principio nel settembre di
esso anno. Però qui o è fallato l'anno, o esso è l'anno pisano; e quel
938, secondo me, ha da essere il nostro 937. Se poi quelli fossero gli
sponsali solamente, oppure lo effettivo matrimonio, ne parleremo
all'anno 950. Certo è che quivi Lottario dona ad Adelaide cinque corti,
fra le quali son riguardevoli quella di _Marengo_, e l'altra di
_Olonna_, oltre ancora a tre badie, secondo i costumi corrotti d'allora.
La dote tutta a lei costituita da esso Lottario ascende a 4580 mansi di
terra: dono veramente da re, se non v'entrassero anche i beni della
Chiesa. Aggiugne Liutprando che il re Ugo perduto dietro alle concubine,
non solamente mancò dell'amor maritale verso la nuova sua moglie Berta,
ma in tutte le maniere mostrò averla in abbominazione. E che nella
mandra d'esse sue concubine fu specialmente distinta dalla di lui
parzialità Bezola, di vilissima nazione sveva, che gli partorì non
solamente _Bosone_, creato vescovo di Piacenza dopo la morte di _Guido_
nell'anno 940, ma anche _Berta_ maritata poi a _Romano_ juniore
imperadore greco. Inoltre amò forte Roza, figliuola di quel medesimo
Gualberto a cui egli avea fatto tagliare il capo, la quale gli partorì
una bellissima figliuola; e finalmente Stefania romana, da cui ebbe un
figliuolo Teobaldo, fatto dipoi arcidiacono della chiesa milanese. Era
Ugo sì screditato presso d'ognuno per questa sua sfrenata patentissima
disonestà, che il monaco autore della Cronica della Novalesa[2043]
lasciò correre una scandalosa diceria, che con tutta l'infame vita di
questo re non dee meritar fede presso gli assennati lettori. Dopo aver
egli detto che Ugo era uomo di estrema astuzia e malizia, e che teneva
spie per tutte le città per indagar chi parlava male di lui, il che tal
timore sparse in tutti, _ut minime auderent palam loqui de eo, sed more
scurrarum per calamos fossos ad invicem loquentes, sic insidias parabant
ei_; seguita poi a dire che Ugo ebbe un figliuolo appellato _Lottario_,
al quale, giunto che fu alla convenevol età, diede moglie. _Iste namque
obtemperans monitis patris, conjugem accepit. Pater vero post dotem
succensus face luxuriae, nurum vitiat, antequam ad filii perveniat
thalamum. O nefas! o libido indomita!_ ec. Continuò in questo anno la
guerra fra i Siciliani rivoltati e i Saraceni dominanti in
quell'isola[2044]. Sulle prime restarono in un fatto d'armi vincitori i
Siciliani, sconfitti poscia in un altro. Venne dall'Africa un nuovo
generale de' Mori con un copioso esercito a Palermo, e cominciò a
smantellar le mura e le porte di quella città; la qual novità fu cagione
che quei di Gergenti si ribellarono. Leggesi nel Bollario
casinense[2045] un diploma di Ugo e Lottario, dato in favore del
monistero delle sante Flora e Lucilla d'Arezzo, _pridie kalendas junii,
anno dominicae Incarnationis DCCCCXXXIX, regni domni Hugonis anno XII,
filii ejus Lotharii regis VII, Indictione XI._ Corrisponde all'anno
presente l'_indizione XI_. Per conseguente, l'anno 959 dee essere
secondo l'era pisana, cioè a dire il nostro 938. Ma che nel dì 31 di
maggio di esso anno 938 corresse l'anno XII di Ugo e il VII di Lottario,
nol so credere. Forse quel diploma è dell'anno 937.

NOTE:

[2038] Mabillon., Annal. Benedict. ad hunc annum.

[2039] Pagius, ad Annal. Baron.

[2040] Liutprandus, Hist., lib. 4, cap. 6.

[2041] Vita S. Adelhaidis apud Canisium et Surium, ad diem 16 decembris.

[2042] Margarinius, in Bullar Casinens., tom. 2, Constit. XLIX.

[2043] Chron. Novaliciense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2044] Chronic. Arab., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2045] Bullar. Casinense, tom. 2, Constit. XLVIII.



    Anno di CRISTO DCCCCXXXIX. Indiz. XII.

    STEFANO VIII papa 1.
    UGO re d'Italia 11.
    LOTTARIO re d'Italia 9.


Pretende il padre Mabillone[2046], che rinnovandosi di mano in mano le
gare fra il _re Ugo_ ed _Alberico principe_ di Roma, fosse di nuovo
chiamato a Roma in quest'anno santo _Odone abbate_ di Clugnì, per
aggiustar le differenze fra questi due emuli guerreggianti. Ne parla
veramente la di lui vita, e si vede che quel santo abbate andò a Pavia,
e fu alloggiato nel monistero di san Pietro in _coelo aureo_. Ma non è
ben chiaro il tempo de' suoi viaggi a Roma. Fra gli altri gravissimi
disordini di questo infelice secolo assai considerabile fu quello della
non solo snervata, ma abbattuta disciplina monastica nella maggior parte
de' monisteri d'Italia, per colpa specialmente dei re, che o vendevano
le badie agli ambiziosi e simoniaci monaci, o le concedevano in commenda
alle regine, ai vescovi, ed anche ai secolari, in ricompensa dei loro
servigi. Specialmente andò per questo in malora il nobilissimo monistero
di Farfa posto nella Sabina. Gregorio monaco, autore della Cronica
farfense[2047], attesta che quel sacro luogo era salito sì alto tanto
nello spirituale che nel temporale, _ut in toto regno italico non
inveniretur simile huic monasterio, nisi quod vocatur Nonantulae_, cioè
il nonantolano posto nel contado di Modena, che patì anch'esso le
disgrazie medesime in questi infelici tempi. Era abbate di Farfa
_Ralfredo_. Due scellerati monaci Campone ed Ildebrando col veleno se ne
sbrigarono. Ildebrando portatosi a Pavia, ottenne a forza di danaro
quella badia dal re Ugo per Campone, il quale in ricompensa diede a
goder quattro buone celle, cioè quattro piccioli monisteri dipendenti
dal farfense, ad Ildebrando. Per un anno stettero d'accordo questi due
falsi monaci; poscia vennero alle mani fra loro. Ildebrando, guadagnati
con danaro gli uomini della marca di Camerino ossia di Fermo,
s'impossessò di Farfa. Campone, con esibir più danaro a que' medesimi,
cacciò l'altro; e senza contare altre sue iniquità, attese a mettere al
mondo de' figliuoli e delle figliuole, che tutte arricchì e dotò coi
beni del monistero. Serva questo picciolo saggio ai lettori per
conoscere la corruttela di que' tempi infelici. Ora abbiamo dal suddetto
autore della Cronica di Farfa, oppur da una relazione di _Ugo abbate_
d'esso monistero una particolarità che fa onore ad _Alberico_ principe
allora di Roma, facendolo vedere pio riformatore del monachismo
d'allora. _Erat autem_, dice egli, _tunc temporis Albericus Romanorum
princeps gloriosus, qui comperta hujus monasterii crudeli devastatione,
quam pessimus praedictus abbas Campo satagebat exercere, valde
condoluit, et sicut alia monasteria, sub suo constituta dominio, ad
regularem normam, quam amiserant in paganorum devastatione praedicta,
ita et hoc coenobium reducere studebat._ Pertanto mandò egli de' monaci
regolari a Farfa; ma Campone co' suoi mal avvezzati monaci non li volle
ricevere, e poco vi mancò che la notte non facesse levar loro colle
coltella la vita. Tornati che furono questi a Roma, Alberico salito in
collera, spedì gente armata che ne scacciò l'indegno Campone, il quale
si ritirò a Rieti. Dal che si può dedurre che Farfa e la Sabina erano in
questi tempi della giurisdizione del ducato romano. Pose Alberico in
Farfa un esemplarissimo abbate, cioè _Dagiberto_, e gli fece rendere
tutti beni del monistero; ma questi da lì a cinque anni attossicato dai
pessimi monaci lasciò di vivere. Tale era allora in assaissimi luoghi la
corruzione del dianzi sì fiorito monachismo.

La morte in questo anno rapì a Venezia il suo doge, cioè _Pietro
Candiano II_, uomo di gran vaglia e prudenza[2048]. Aveva egli fra le
altre sue imprese indotta la città di Giustinopoli, oggidì Capodistria,
a pagar censo a quella di Venezia. E perciocchè _Wintero marchese_
d'Istria aveva imposto ai mercanti veneziani delle insolite gabelle, ed
altre gravezze a chi di loro possedeva beni nell'Istria, senza che
giovassero le lamentanze di questi, saviamente il doge pubblicò un
editto che proibiva a tutti i Veneziani d'andare in Istria, e a quei
d'Istria di venire a Venezia. Allora il marchese e i suoi popoli,
tornati in sè, implorarono la mediazione di _Marino patriarca_, di
Grado, il quale s'interpose col doge, e ridusse a' primieri patti e ad
una buona concordia amendue le parti. Fu poscia eletto doge _Pietro
Badoero_, il quale dicono che era figliuolo di _Orso Particiaco_ ossia
_Participazio_, già doge di Venezia, volendo ancora che fosse la stessa
casa quella de' Particiaci e dei Badoeri. Secondo la Cronica
arabica[2049], seguì una battaglia in Sicilia fra i Mori e quei di
Agrigento, ossia Gergenti, colla peggio de' primi. Tornato a Palermo il
generale de' Mori, pose una contribuzione alla città, e fatto venire un
buon rinforzo di truppe dall'Africa, s'impadronì di Butera, d'Assaro, e
di qualche altra fortezza in Sicilia. Passò in quest'anno a miglior vita
_Leone VII_, con danno della Chiesa, per essere stato pontefice di gran
pietà e zelo della religione. Ebbe per successore _Stefano VIII_ di
nazione romano, per attestato di Pandolfo pisano e d'altri[2050]. Non so
io intendere come mai scrivesse il cardinal Baronio[2051]: _Quum a
Romanis, posthabitis cardinalibus, esset electus opera Ottonis regis,
tyrannorum in se odium concitavit._ Dovette provenir questa
immaginazione dall'aver egli prestato fede a Martin Polacco, che il fa
di nazion tedesco. Ma questa è asserzione insussistente. Non poteva
allora _Ottone re_ di Germania avere tal possa in Roma da far eleggere
un papa. Che poi non fossero ammessi alla di lui elezione i cardinali,
niuno degli antichi storici lo attesta; nè sappiamo che questo eletto
non fosse un di essi. Girolamo Rossi[2052] accenna uno strumento di
livello fatto da _Pietro_ arcivescovo di Ravenna a qualche persona
particolare, e non già, come suppone il padre Pagi, la confermazione de'
privilegii della chiesa di Ravenna, fatta dal papa al suddetto
arcivescovo con queste note: _Anno, Deo propitio, pontificatus domni
Stephani summi pontificis, ec. anno primo, regnante domno Hugone
piissimo rege anno XIIII, sed et domno Hlotario ejus filio item rege
anno nono, die XXIX octobris, Indictione XIII Ravennae_, cioè nell'anno
presente. Ci assicura il suddetto Rossi che in altre carte ravennati di
questi tempi si veggono notati gli anni di Ugo e Lottario. Segno è
questo, che non avendo potuto il re Ugo vincerla coi Romani per ottener
la corona dell'imperio, s'era impadronito dell'esercato. Ed io temo che
il nome del papa entrasse in quegli atti solamente per costume e
riverenza verso il pontificato romano, e non già perchè Ugo lasciasse il
temporal dominio di quelle contrade ai papi. Vedremo che ai tempi di
Ottone il grande la santa Sede ricuperò l'esarcato.

NOTE:

[2046] Mabill., Annal. Benedict., lib. 44, n. 3.

[2047] Cron. Farfens. P. II tom. 2 Rer. Ital.

[2048] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2049] Chron. Arab. P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2050] Rer. Ital., P. II, tom. 3.

[2051] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[2052] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.



    Anno di CRISTO DCCCCXL. Indiz. XIII.

    STEFANO VIII papa 2.
    UGO re d'Italia 15.
    LOTTARIO re d'Italia 10.


O sia che il _re Ugo_ non si fidasse di alcuno, e di chi gli entrava in
sospetto egli macchinasse tosto la rovina; oppure che veramente stanchi
i principi d'Italia non potessero più soffrir sul trono questa volpe
coronata: certo è che esso re Ugo la prese contra di _Berengario
marchese d'Ivrea_, contra d'_Anscario duca e marchese di Spoleti e
Camerino_, fratello del medesimo Berengario, per sospetto, oppure per
certa cognizione che amendue d'accordo tramassero centra la di lui
corona. La tragedia, se vogliam credere al catalogo dei duchi di Spoleti
posto innanzi alla Cronica di Farfa[2053], dovette succedere nell'anno
presente, essendo ivi scritto: _DCCCCXL Anscharius marchio obiit._ Spedì
dunque il re Ugo in primo luogo alla volta di Spoleti _Sarilone_, ossia
_Sarlione_, borgognone[2054], uomo non guerriero, ma di rara accortezza,
e però assai atto al bisogno. _Sarilo_ e _Sarlius_ si truova egli
chiamato, ed è quel medesimo che si truova nelle vecchie carte appellato
_Sarilo comes palatii_, perchè esercitava l'insigne carica di conte del
sacro palazzo. Gli diede il re un buon nerbo di soldatesche per poter
operare colla forza, e vi aggiunse un altro più potente rinforzo, cioè
una gran somma di denaro, per potersene valere a tirar dalla sua i
popoli di Spoleti, con ordine ancora di ricorrere per aiuto alla vedova
del fu duca _Teobaldo_, che era nipote del medesimo re Ugo. Andò
Sarlione, ed eseguì puntualmente quanto gli era stato comandato. Mise in
punto una buona armata, ma Anscario, quantunque si vedesse troppo
inferiore di forze, pure si accinse da valoroso ad un fatto d'armi. Gli
riuscì di sbaragliar la prima schiera de' nemici ma non potendo reggere
all'arrivo di due altre schiere, dopo aver fatto grandi prodezze di sua
persona, caduto col cavallo in un fosso, quivi trafitto da molte lance e
dardi lasciò la vita. Portata questa nuova al re Ugo, ne fece gran
festa, e in ricompensa del buon servigio dichiarò _Sarlione_ marchese di
Spoleti e Camerino. Di questo affare si scuopre mal informato Gregorio
monaco autore della suddetta Cronica di Farfa[2055], con iscrivere che
_bellum magnum commissum est pro contentione marchiae firmanae inter
Ascherium et Sarilonem_ (quasi che Spoleti e Camerino fossero denominati
marca di Fermo). _In qua praevalens Sarilo interfecit Ascherium, et
obtinuit marchiam._ Fin qui cammina bene, ma non ciò che egli soggiunge
con dire: _Contra quem Hugo rex exarsit magno furore, persequens illum
pro eodem Ascherio germano suo. Et quum esset idem Sarilo in quodam
reclusus tuscano oppido, videns se nulla ratione illum effugere posse,
noctu indutus monachilem vestem, et summo diluculo, ligato in gutture
fune ejus, se potestati tradidit. Et motus rex misericordia super eum,
perdonavit ei ipsam culpam, ac praeposuit eum super cuncta monasteria
regalia intra fines Tusciae et firmanae marchiae._ Trovò questo monaco
fra le carte dell'archivio farfense _Sarilone_ abbate di quel monistero,
e sel figurò divenuto monaco. Ma costui fu duca e marchese di Spoleti e
Camerino, ed ottenne anche, secondo l'iniquità di quei tempi, in governo
ossia in commenda la badia di Farfa. Potrebbe ben conietturarsi che in
progresso di tempo Sarilone decadesse dalla grazia del re Ugo (giacchè
ci voleva ben poco), e ch'egli il perseguitasse e deponesse; e che
questo monaco confondesse poi le azioni e i tempi in raccontare quel
fatto.

Ci restava da abbattere _Berengario marchese_ d'Ivrea fratello del
suddetto Anscario[2056]. Non si mostrò punto corrucciato con lui
l'astuto re Ugo, anzi affettando gran benevolenza, nel venire ch'ei fece
alla corte, l'accolse con distinte carezze. Ma nel consiglio segreto fu
determinato di cavargli barbaramente gli occhi. Trovossi presente a
questa risoluzione il _re Lottario_, che viene da Liutprando appellato
_parvulus, et necessariarum sibi rerum adhuc ignarus puer._ E siccome
fanciullo di buona indole, non reggendogli il cuore di veder quella
crudeltà, secretamente ne fece avvertire Berengario, il quale non perdè
tempo a fuggirsene fuor d'Italia con ricoverarsi presso di _Ermanno
duca_ di Suevia. Per altra strada mandò anche verso Lamagna _Willa_ sua
moglie, benchè gravida di nove mesi, e vicina al parto, che ebbe tanta
forza e coraggio da valicare a piedi quell'aspre montagne. Ma non potè
prevedere il regal fanciullo Lottario che, col salvare gli occhi a
Berengario, preparava a sè stesso la perdita del regno e della vita,
siccome vedremo. Ermanno duca di Suevia presentò poi Berengario ad
_Ottone re_ di Germania, che l'onorò e regalò non poco, e sel tenne ben
caro nella sua corte. Giunta questa nuova al re Ugo, spedì ambasciatori
ad Ottone, pregandolo di non ammettere Berengario suo nemico, e di non
somministrargli aiuto alcuno, con esibirgli in ricompensa una gran somma
d'oro e d'argento. Ma il re Ottone, che forse avea per tempo delle mire
sopra l'Italia, gli rispose di non aver bisogno delle altrui ricchezze,
e di non poter negar ricovero e sussidio a chi ricorreva alla clemenza
sua. Nel Bollario casinense[2057] si legge un diploma di Ugo e Lottario,
in cui confermano il comitato ossia il contado e governo temporale di
Bobbio a quel monistero e a' suoi abbati, con esser ivi nominato
_Liutfredus comes et abbas bobbiensis_. Sarebbe da ricercare se questo
Liutfredo fosse monaco, oppure secolare, che con titolo di _conte_
governasse quella contrada, e di _abbate_ il monistero di san Colombano.
Molto più sarebbe da esaminare il dirsi ivi che i re longobardi, Rotari,
Ariberto e Liutprando, e gl'imperadori e re carolini _praefato coenobio
comitatum bobbiensem cum toto suo honore tradiderant et firmaverant_. È
difficile il credere in tanta antichità abbati conti di città. Ecco le
note cronologiche di quel diploma che stanno a martello: _Dat.
tertiodecimo kalendas aprilis, anno dominicae Incarnationis DCCCCXL,
regni nostri domni Hugonis piissimi regis XIV, Lotharii autem filii ejus
item regis IX, Indictione decimatertia. Actum in praefato bobiense
coenobio._ Abbiamo da Frodoardo[2058] che in quest'anno una gran brigata
d'Inglesi e Francesi, incamminata per divozione alla volta di Roma, fu
costretta a tornarsene addietro, _occisis eorum nonnullis a Saracenis.
Nec potuit Alpes transire propter Saracenos, qui vicum monasterii sancti
Mauritii occupaverant._ Se qui è indicato il monastero agaunense di san
Maurizio ne' Vallesi, aveano dilatato ben lungi quegl'infedeli assassini
di strada il loro potere. Ricavasi ancora dalla Cronica arabica di
Sicilia[2059], che portatosi l'esercito de' Mori all'assedio di Calata
Bellota, nel mese di novembre, fu messo in rotta da quei di Gergenti,
che vi presero tutte le tende degl'infedeli. Aggiugne Lupo
protospata[2060] che in questo medesimo anno 940, _introierunt Ungari
vel Unni in Italiam mense aprilis. Et factum est praelium in Matera a
Graecis cum Longobardis cum Stratigo Imogalapto, et negavit_ (pro
_necavit_) _cum Pao in mari._ Probabilmente _Landolfo_ principe di
Benevento e Capua l'avea rotta di nuovo coi Greci; ma queste troppo
brevi memorie non ci lasciano ben discernere le particolarità, e neppur
la sostanza di que' fatti. Osserva Camillo Pellegrino[2061] che fino a
quest'anno si truova nelle carte memoria di _Atenolfo_ principe
anch'esso di Benevento e di Capua, e fratello di _Landolfo_, e poi non
più: il che può far conietturare ch'egli nell'anno presente desse fine
a' suoi giorni.

NOTE:

[2053] Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2054] Liutprandus, lib. 5, cap. 2 et 3.

[2055] Chronic. Farfens., pag. 475. P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2056] Liutprandus, Hist. lib. 5, cap. 4 et seq.

[2057] Bullarium Casinens., tom. 2, Constit. L.

[2058] Frodoardus, in Chron.

[2059] Chronicon Arabicum, P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2060] Lupus Protospata, in Chron.

[2061] Peregr., Hist. Princip. Langob., P. II, tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXLI. Indiz. XIV.

    STEFANO VIII papa 3.
    UGO re d'Italia 16.
    LOTTARIO re d'Italia 11.


Attesta Liutprando[2062] non aver mai il re _Ugo_ dimessa la voglia, nè
deposta la speranza di acquistare il dominio di Roma, ossia il titolo e
la corona d'imperador de' Romani; e tuttochè avesse data in moglie ad
_Alberico principe_ di Roma _Alda_ sua figliuola, pure non cessò mai di
molestarlo e di fargli guerra. _Quem_, dice egli, _quotannis graviter
opprimebat gladio et igne, quae poterat universa consumens, adeo ut
civitates, praeter Romam, in qua ipse consederat, omnes auferret. Sed et
ipsam sine dubio tum depopulando, tum cives muneribus corrumpendo
conquisivisset, nisi occulta et justa justi Dei sententia illi
prohibuisset._ Ci si porge motivo di credere che il re Ugo in quest'anno
in persona coll'esercito suo infestasse il ducato romano, al vedere un
suo diploma, spedito nella Campania in favore del monistero di san
Vincenzo del Volturno, con queste note[2063]: _Dat. XIII kalendas
augusti anno dominicae Incarnationis DCCCCXLI, regni vero domni Hugonis
piissimi regis XV, Lotharii vero X, Indictione XIV. Actum in Campania
juxta oppidum Romaniae._ Secondo i miei conti, nel luglio del presente
anno avrebbe dovuto correre l'anno XVI di Ugo, e l'XI di Lottario. Però
forse appartiene esso diploma all'anno precedente e all'indizione XIII.
Nel marzo di quest'anno si truovano i due re in Lucca, dove donarono ai
canonici di quella città due corti con un diploma[2064] dato _VII
kalendas aprilis anno dominicae Incarnationis DCCCCXLI, regni vero domni
Hugonis regis XV, filii ejus Lotharii item regis X, Indict. XIV. Actum
Lucae._ Erano i due re in quella città, come si ricava da un placito da
me pubblicato[2065], incamminati alla volta di Roma. E che veramente il
re Ugo in quest'anno facesse guerra ad Alberico principe di Roma, e
fosse in que' contorni, come si può credere, coll'armi, si raccoglie da
un suo diploma[2066], in cui dona all'insigne monistero dì Subiaco,
posto nel ducato romano, la corte Sala. Fu esso scritto _VII kalendas
julii anno dominicae Incarnationis DCCCCXLI, regni vero domni Hugonis
piissimi regis XV, Lotharii vero item regis X, Indictione XIV. Actum
juxta Romam in monasterio sanctae virginis Agnes._ Ancor qui occorrono
le medesime difficoltà che ho poco fa accennate intorno al diploma
vulturnense; ma il documento ci assicura che Ugo verso il fine di giugno
era sotto Roma. Abbiamo inoltre un'illustre pruova del di lui passaggio
per Pisa in un placito, da me pubblicato, il cui principio è
questo[2067]: _Dum in Dei nomine civitate Pisa ad curte domnorum regum,
ubi domnus Hugo et Lotharius gloriosissimis regibus praeessent, subtus
vites, quod Topia_ (un pergolato) _vocatur, infra eadem curte in judicio
resideret Ubertus illuster marchio et comes palacii, singulorum omnium
justitias facendas ac deliberandas, resedentibus Leo vulterrensis,
Adelbertus lucensis sanctarum Dei ecclesiarum venerabilibus episcopis_,
ec. Fu scritto quel giudicato _anno regni idem domni Hugoni
quintodecimo, Lotharii vero decimo, XIV die mensis marcii, Indictione
quartadecima_, cioè nell'anno presente. Viene accennato dal
Fiorentini[2068] un altro placito tenuto in questi medesimi tempi da
_Uberto_ marchese di Toscana in Lucca, con questo principio: _Dum in Dei
nomine in civitate Luca ad curte domni Hugonis regis in solario ipsius
curtis, ubi domnus Ugo et Lotharius filio ejus gloriosissimis regibus
praeerant in capitela, ubi ec. longanea solarii, prope ecclesiam sancti
Benedicti, et prope capella ipsius solarii, quae vocatur sancti
Stephani, in judicio residerat Hubertus marchio, et comes palatii_, ec.
Dal che intendiamo che Uberto, figliuolo bastardo del re Ugo, era allora
non solamente marchese della Toscana, ma eziandio conte del sacro
palazzo. Circa questi tempi più che mai infierivano i Saraceni abitanti
in Frassineto ai confini dell'Italia e della Provenza[2069]. Aveano,
come ho accennato di sopra, occupati nell'Alpi tutti i passi che guidano
dalla Francia in Italia, con essere giunti sino al monistero agaunense
di san Maurizio, situato nel paese oggidì appellato de' Vallesi.
Studiava il re Ugo le maniere di snidar que' crudi masnadieri, e
conoscendo di mancargli le forze per mare, giacchè in que' tempi
gl'imperadori e re d'Italia poco attendevano ad aver armate navali,
prese la risoluzione d'inviare ambasciatori a _Costantino_ e _Romano_
imperadori de' Greci, per pregarli di volere a lui somministrare una
competente flotta di navi con fuoco greco, acciocchè, mentre egli per
terra andasse ad assalir que' Barbari ne' loro siti alpestri, esse
incendiassero i legni dei Mori, ed impedissero che non venisse loro
soccorso dalla Spagna. Secondo la Cronica arabica[2070], riuscì
finalmente ai Mori signoreggianti in Sicilia di prendere dopo tanto
tempo la già ribellata città di Gergenti. Allora il governator moro per
assicurarsi dei Siciliani fece smantellar assaissime fortezze di quella
isola, e menò schiavi in Africa moltissimi di quegli abitanti.

NOTE:

[2062] Liutprandus, lib. 5, cap. 1.

[2063] Chron. Vulturnens., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2064] Antiquit. Ital., Dissert. LXII.

[2065] Antiquit. Ital., Dissert. X.

[2066] Ibidem, Dissert. XVII.

[2067] Ibidem, in eadem Dissertat.

[2068] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.

[2069] Liutprandus, lib. 5, cap. 4.

[2070] Chron. Arab., P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXLII. Indiz. XV.

    MARINO II papa 1.
    UGO re d'Italia 17.
    LOTTARIO re d'Italia 12.


Che tuttavia sul principio di questo anno fossero in bollore le
controversie intorno al dominio di Roma fra il re _Ugo_ ed _Alberico_
patrizio e console dei Romani, si raccoglie da Frodoardo[2071], che
lasciò scritte queste parole: _Domnus Odo abbas pro pace agenda inter
Hugonem regem Italiae, et Albericum romanum patricium, apud eumdem regem
laborabat_. Abbiam già veduto di sopra che santo _Odone abbate_ di
Clugnì due altre volte era stato chiamato in Italia per questo medesimo
affare. Temo io che non più di due volte egli ci venisse. Mi si rende
probabile che seguisse pace o tregua fra questi due competitori al
vedere tornati di questo anno in Lombardia i due re, ossia il solo re
Ugo. V'ha un loro diploma[2072], con cui, ad intercessione d'_Uberto
inclito marchese_ e _conte del nostro sacro palazzo_, e di _Elisiardo
illustre conte_, confermano i lor beni ai canonici di Reggio. Esso fu
dato _quarto idus junii anno dominicae Incarnationis DCCCCXLII, regni
vero domni Hugonis regis XVII, Lotharii XIII, Indictione XV. Actum
Papiae._ Con altro diploma furono confermati da essi re, per
interposizione di _Ambrosio vescovo_ di Lodi ed _Adeverto vescovo_ di
Padova, tutti i beni della sua chiesa. Ivi s'ha queste note[2073]:
_Datum octavo kalendas junii, anno dominicae Incarnationis DCCCCXLII,
regni vero domni Hugonis XVI, Lotharii vero XI. Actum in Garda oppido._
Parve a me originale quel diploma. Ora sembrano a me scorretti gli anni
dei due re, e forse anche manca ivi l'_indizione_, la quale non si
soleva ommettere. Scrive inoltre sotto questo stesso anno il suddetto
Frodoardo: _Idem vero rex Hugo Saracenos de Fraxinido eorum munitione
disperdere conabatur_. Pertanto dovrebbe appartenere all'anno presente
ciò che scrive Liutprando[2074]: cioè che avendo _Romano_ imperadore
d'Oriente inviato uno stuolo di navi a requisizion del re Ugo, questi le
incamminò per mare a Frassineto. L'arrivo di esse colà, e il dare alte
fiamme tutte le barche de' Saraceni che quivi si trovarono, fu quasi un
punto stesso. Ugo nel medesimo tempo arrivò per terra a Frassineto colla
sua armata. Pertanto non si fidando i Barbari di quella lor fortezza,
l'abbandonarono, e tutti si ridussero sul monte Moro, dove il re gli
assediò. Avrebbe potuto prenderli vivi, o trucidarli tutti; ma per un
esecrabil tiro di politica se ne astenne. Tremava egli di paura che
Berengario, già marchese d'Ivrea, fuggito in Germania, non sopravvenisse
in Italia con qualche ammasso di Tedeschi e Franzesi. Però, licenziata
tutta la flotta de' Greci, capitolò con gli assediati Saraceni di
metterli nelle montagne che dividono l'Italia dalla Svevia, acciocchè
gli servissero di antemurale, caso mai che Berengario tentasse di calare
con gente armata in Italia. Non è a noi facile l'indicare il sito dove a
costoro fu assegnata l'abitazione. Solamente sappiamo che a moltissimi
Cristiani, i quali incautamente da lì innanzi vollero passar per quelle
parti, tolta fu la vita da que' malandrini: il che accrebbe l'odio e la
mormorazione degl'Italiani contra di questo re, il quale lasciò la vita
a tanti scellerati, affinchè potessero levarla a tanti altri innocenti.
Secondo i conti del padre Pagi[2075], ai quali credo ben fatto
l'attenersi, mancò di vita nell'anno presente _Stefano VIII_ papa.
Ermanno Contratto[2076], Sigeberto[2077] ed altri lo attestano. Dal solo
Martino Polacco abbiamo[2078] che egli _fuit mutilatus a quibusdam
Romanis_: il che ha fatto immaginare ai susseguenti storici ciò avvenuto
per ordine di _Alberico principe_ di Roma. Ma non è Martino autore di
tale antichità e credito, che la sola parola di lui ci abbia da legare
il cervello. Se crediamo ad esso Martino, questo papa Stefano fu anche
_natione Germanus_; e pure nel catalogo ben più antico de' papi, posto
avanti alla Cronica del Volturno[2079], e dal Dandolo[2080] e da altri,
egli è chiamato _Stephanus VII romanus_. Un avvenimento tale nella
persona di un sommo pontefice avrebbe fatto dello strepito, e ce ne
sarebbe menzione presso di qualche storico di que' tempi. A Stefano
succedette _Marino II_ papa di nazione romano, erroneamente chiamato
_Martino_ da alcuni scrittori anche antichi e dallo stesso Martino
Polacco. Che questi fosse posto nella cattedra pontificia prima del dì 4
di febbraio dell'anno seguente, si conosce da una sua bolla pubblicata
dal padre Dachery[2081] e dato _II nonas februarii, anno pontificatus
domni nostri Marini summi pontificis_, ec. _anno I mense februarii,
Indictione I_. Anzi era anche in possesso del pontificato nel dì 21 di
gennaio di esso anno 943, ciò costando da altra sua bolla prodotta dal
padre Tatti[2082], e data _XII kalendas februarii, anno pontificatus
domni nostri Marini summi pontificis_, ec. _secundo, Indictione II_,
cioè nell'anno 944. Però con tutta ragione si può credere innalzato
_Marino II_ in quest'anno al romano pontificato. La misera Sicilia, per
attestato della Cronica arabica[2083], in questi tempi si trovava in
gran confusione, perchè il furto e l'ingiustizia dappertutto godeano
passaporto, e i più potenti opprimevano i più deboli. In Venezia il doge
_Pietro Badoero_, secondochè dice il Dandolo[2084], finì di vivere in
quest'anno, e conferita fu la sua dignità a _Pietro Candiano III_. Si
legge nelle mie Antichità italiane[2085] un diploma di _Ugo_ e
_Lottario_, in cui si confermano ad _Aribaldo vescovo_ di Reggio tutti i
beni e privilegii della sua chiesa, dato _quarto idus augusti anno
dominicae Incarnationis DCCCCXLII, regni vero domni Hugonis regis XVI,
Lotharii XII, Indictione XV. Actum Papiae._ Ma nel dì 12 d'agosto di
quest'anno correva l'_anno XVII_ di Ugo re. Leone Ostiense[2086] cita un
diploma di questi re, che Angelo della Noce asserisce dato _idus majarum
anno dominicae Incarnationis DCCCCXLII, regni domni Hugonis regis XVII,
Lotharii XIII, Indictione I. Datum in palatio ticinensi._ Ma ancor
questo è fallato, perchè l'_indizione I_ appartiene all'anno seguente,
seppur non si ricorre all'anno pisano. In una Cronica manuscritta, da me
veduta, del monistero di Subiaco, si legge memoria di un placito tenuto
nel dì 27 d'agosto di quest'anno da _Alberico_ principe di Roma, in cui
fu decisa una lite vertente fra _Leone abbate_ di Subiaco ed alcuni
cittadini di Tivoli.

NOTE:

[2071] Frodoardus, in Chronico.

[2072] Antiq. Ital., Dissert. VII.

[2073] Ibidem, Dissert. XXXIV.

[2074] Liutprandus, lib. 5, cap. 5 et 7.

[2075] Pagius, ad Annales Baron.

[2076] Hermann. Contractus, in Chron.

[2077] Sigebertus, in Chron.

[2078] Martin. Polonus, in Chron.

[2079] Chron. Vulturn., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2080] Dandul., in Chronic., tom. 12 Rer. Ital.

[2081] Dachery, in Spicileg.

[2082] Tatti, Annal. Sacri di Como, tom. 12.

[2083] Chron. Arabicum, P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2084] Dandul., in Chronico, tom. 12 Rer. Ital.

[2085] Antiq. Ital., Dissert. XII.

[2086] Leo Ostiensis, in Chron., lib. 1, cap. 57.



    Anno di CRISTO DCCCCXLIII. Indiz. I.

    MARINO II papa 2.
    UGO re d'Italia 18.
    LOTTARIO re d'Italia 13.


In questi tempi maneggiò il _re Ugo_ il matrimonio di _Berta_ sua
figliuola, a lui nata da Bezola sua concubina, e giovane di bellezze
rare, con ROMANO figliuolo di _Costantino Porfirogenito_ imperadore dei
Greci[2087]. Allorchè questo imperadore mandò la flotta in aiuto del re
Ugo, fece istanza per avere una delle di lui figliuole legittime. Di
queste Ugo niuna ne avea, e però gli esibì la bastarda o spuria; nè la
città di Costantinopoli la rifiutò. Ebbe esecuzione questo trattato
nell'anno seguente. Ma intanto in Germania altro che nozze andava
manipolando _Berengario_ marchese d'Ivrea contra del medesimo re
Ugo[2088]. Fece egli più istanze al re _Ottone_ per ottenere un corpo di
milizie da condur seco in Italia; ma le fece indarno, perchè non
mancavano impegni e bisogni ad Ottone in casa propria; ed oltre a ciò
peroravano in favore d'Ugo i regali che di tanto in tanto egli ne andava
ricevendo. Trovavasi con Berengario un gentiluomo per nome Amedeo, che
Liutprando chiama _apprime nobilem_, personaggio di singolar destrezza
ed accortezza ornato. Questi il consigliò di rivolgere le sue speranze
ai principi d'Italia, sapendo che tutti erano malcontenti del re Ugo,
perchè d'ordinario non conferiva le cariche, i governi e i vescovati, se
non ai figliuoli delle sue concubine e ai Borgognoni, e continuamente
esiliava i nobili italiani; e pel suo aspro governo, peggio che il lupo
dalle pecore, era odiato dai popoli. Si esibì egli di venir a scoprire
gli animi dei principi d'Italia; e in fatti travestito da pezzente, col
bordone e la tasca, sen venne in compagnia di que' poveri pellegrini che
andavano per divozione a Roma. Segretamente s'abboccò con assaissimi
vescovi, conti e nobili potenti dell'Italia, e spiò i lor sentimenti
intorno al re Ugo, aprendosi ancora con quelli che conobbe più portati
alla di lui rovina. Ma non potè sì celatamente condurre l'impresa, che
non ne avesse sentore il re Ugo, siccome quegli che manteneva spie
dappertutto. Volarono gli ordini di cercarne conto, ma Amedeo andava
mutando abiti: si tinse con pece la bella e lunga barba, che, secondo
gli usi d'allora, anch'egli portava; facea cambiar colore ai capelli;
ora era zoppo, ora cieco, ora assiderato; e in una di queste figure si
presentò anche al re in compagnia degli altri poveri, e ne ebbe per
limosina una veste. Dappoichè ebbe terminate le sue faccende, informato
delle perquisizioni che d'ordine del re si faceano alle chiuse sopra
tutti i passeggieri, per istrade disastrose e fuor di mano felicemente
se ne tornò in Germania, dove fece a Berengario il rapporto delle sue
commissioni eseguite. Ancorchè Lupo protospata riferisca all'anno 942 la
morte di _Landolfo I_ principe di Benevento e di Capua, pure Camillo
Pellegrini[2089], diligentissimo scrittore delle memorie de' principi
longobardi, osservò trovarsi ancora nei primi mesi di quest'anno
menzione di lui negli strumenti antichi. Credesi dunque ch'egli
terminasse la vita nell'anno presente nel dì 10 d'aprile. Aveva egli
dichiarato nell'anno 940 suo collega nel principato _Landolfo II_ suo
figliuolo, il quale, dopo la morte del padre, tardò poco a proclamar
principe e collega _Pandolfo_ ossia _Pandolfo I_ suo figliuolo, che fu
poi soprannominato _Capo di ferro_. Abbiamo nella storia sacra di
Piacenza[2090] un diploma (non so ben dire se documento sicuro o no) di
donazione fatta in quest'anno da Ugo e Lottario alla chiesa di
sant'Antonino d'essa città di Piacenza colle seguenti note: _Data V idus
martii, anno dominicae Incarnationis DCCCCXLIII, regni vero domni
Hugonis piissimi regis XVII, Lotharii XIII, Indictione I. Actum
Placentiae._ Ma dee essere _Lotharii XII_, come si scorgerà da un altro
documento spettante alla medesima chiesa, e dato nel giorno _VII idus
martii_ del 945. Nè è da credere che il re Ugo, come si legge in questo
diploma, desse il titolo d'imperadore a _Lottario_ avolo suo materno,
seppellito in essa chiesa di sant'Antonino con dire: _Pro Dei amore et
animae avii nostri Lotharii imperatoris, cujus corpus infra basilicam
sancti Antonini martyris humatum quiescit_. Sapeva Ugo che l'avolo suo
Lottario era stato solamente re della Lorena e non mai imperadore.
Vedesi presso il suddetto Campi una donazione fatta da _Bosone_ vescovo
di Piacenza e figliuolo bastardo del re Ugo alla chiesa di san Fiorenzo
in Fiorenzuola con queste note: _Hugo et Lothario filio ejus, gratia Dei
reges, anno regni eorum Hugonis, Deo propitio, septimodecimo, Lotharii
vero tertiodecimo, VII die mensis junii, Indictione prima_, cioè
nell'anno presente.

NOTE:

[2087] Liutprandus, lib. 5, cap. 5.

[2088] Idem, ibidem, c. 8.

[2089] Peregrinus, Hist. Princip. Langobard.

[2090] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.



    Anno di CRISTO DCCCCXLIV. Indiz. II.

    MARINO II papa 3.
    UGO re d'Italia 19.
    LOTTARIO re d'Italia 14.


Non lasciavano gli Ungheri il favorito lor mestiere d'infestar colle
scorrerie, saccheggi e stragi tutti i paesi circonvicini, ora comparendo
addosso ai Greci, ora in Germania e Francia, e talora ancora in Italia.
Circa questi tempi, per testimonianza di Liutprando[2091], il _re Ugo_
per levarsi d'addosso questo flagello che si facea troppo spesso sentire
in Italia, stabilì pace con loro, comperandola nondimeno con _dieci
moggia di danari_, seppur non è una esagerazione di quello storico. Si
obbligarono costoro di uscir d'Italia, e di non ritornarci più, con dare
ostaggi della loro promessa. Ugo con sì belle parole rappresentò loro il
gran bottino che farebbono in Ispagna, paese dovizioso ed intatto, che
con una guida loro data da esso re presero la strada a quella volta.
Sperava Ugo che non tornerebbono mai più indietro; ma costoro essendosi
trovati in cammini aspri e senz'acqua, per timore di morire di sete,
dopo aver dato delle buone coltellate alla guida, di nuovo comparvero in
Italia, da dove poi passarono in Ungheria[2092]. Intanto si effettuarono
le nozze di _Berta_ figliuola del re Ugo con _Romano_ figliuolo
dell'imperador greco _Costantino_, giovane di quattordici anni. Per
attestato del Continuator di Teofane[2093], fu spedito a levarla in
Lombardia _Pascalio_ protospatario e duca della Lombardia, cioè degli
stati che i greci Augusti possedevano nel regno oggidì appellato di
Napoli. _Sigefredo_ vescovo di Parma fu scelto dal re per condottiero
della figliuola alla corte di Costantinopoli, dove arrivò nel mese di
settembre, seco portando un superbissimo treno di giocali e regali.
Secondo il costume de' Greci, fu mutato a questa principessa il nome di
_Berta_ in quello d'_Eudossia_, oppure d'_Eudocia_; e scrivono che dopo
cinque anni ella mancò di vita con fama che il marito non l'avesse mai
toccata. Abbiamo nell'Italia sacra[2094] uno strumento di dotazione,
fatta da _Eudo_ vescovo di Camerino della chiesa di santa Maria nel
castello di Santa Severina, che ci dà cognizione di una particolarità
non altronde a noi nota. Fu scritta quella carta _anno ab Incarnatione
Domini nostri Jesu Christi DCCCCXLIV, regnante domno Hugone nonodecimo
anno, et filio ejus Lothario quinctodecimo, excellentissimis regibus,
temporibus Huberto filio ejus inclito marchioni atque piissimo duci anno
secundo per Indictione tertia, civitate Camerina_. Manca il mese; ma
l'_indizione III_ indica alcuno degli ultimi quattro mesi dell'anno
presente. Forse invece dell'_anno XV_ di Lottario sarà stato ivi _anno
quartodecimo_. Di qui noi impariamo che, non contento il re Ugo di aver
creato _Uberto_, suo figliuolo bastardo, conte del sacro palazzo, e
marchese e duca della Toscana, gli conferì ancora nell'anno precedente
943 il ducato di Spoleti e la marca di Camerino, con profusione di
grazie sopra la medesima persona. Adunque _Sarlione_ o _Sarilone_, che
già vedemmo in possesso di quelle contrade, dovea essere o morto, o
incorso nella disgrazia del re Ugo (cosa ben facile sotto un sì
sospettoso regnante), ed avere perduto que' governi. Viene accennata
sotto quest'anno dal padre Mabillone[2095] una bolla di papa _Marino II_
confermatoria di tutti i privilegii e beni del celebratissimo monistero
di Monte Casino. Essa fu scritta _in mense januario per Indictionem
secundam. Datum XII kalendas februarii, anno, Deo propitio, pontificatus
domni nostri Marini summi pontificis_, ec. _secundo in mense januario,
Indictione secunda._ Un'altra simil bolla in favore del monistero di san
Vincenzo del Volturno si legge nella Cronica d'esso monistero[2096] _in
mense martio, Indictione secunda, anno pontificatus domni Marini summi
pontificis secundo_. Nella stessa Cronica abbiamo la confermazione dei
beni spettanti al monistero suddetto nel ducato di Napoli, scritta
_imperante domno nostro Constantino magno imperatore anno XXXVI, sed et
Romano magno imperatore anno XXIII, die prima mensis februarii,
Indictione secunda, Neapolim_. Queste note, indicanti, per cagion
dell'indizione, l'anno presente, non si accordano con gli anni che dal
Du-Cange[2097] e dal padre Pagi[2098] sono attribuiti a _Costantino
Porfirogenito_ e a _Romano Lecapeno_. Nè corrispondono a quelle d'altri
documenti della medesima Cronica. Ma di qui almen ricaviamo che durava
in Napoli la sovranità de' greci Augusti; ed essere stato allora
principe e duca di quella illustre città _Giovanni_ col figliuolo
_Marino_, creato anch'esso duca, siccome fan fede le seguenti parole:
_Nos Johannes in Dei nomine eminentissimus consul et dux pro vice
nostra, quam et pro vice Marini ducis filii nostri, qui infra aetatem
esse videtur_.

NOTE:

[2091] Liutprandus, lib. 5, cap. 8.

[2092] Idem, ibid., cap. 9.

[2093] Continuat. Theophan., n. 46, in Roman. Lecap.

[2094] Ughell., Ital. Sacr., tom. 1 in Episcop. Camerin.

[2095] Mabill., Annal. Benedict., lib. 44, § 63.

[2096] Chronicon Volturnense, P. II, tom. I Rer. Ital.

[2097] Du-Cang., Famil. Byzant.

[2098] Pagius, ad Annales Baron.



    Anno di CRISTO DCCCCXLV. Indizione III.

    MARINO II papa 4.
    UGO re d'Italia 20.
    LOTTARIO re d'Italia 15.


Fecero i due re, stando quest'anno in Pavia, donazione di una corte alla
chiesa di sant'Antonino di Piacenza. Il diploma che si può leggere
presso il Campi[2099], fu scritto _V idus martii, anno dominicae
Incarnationis DCCCCXLV, regni vero domni Hugonis piissimi regis XIX,
Lotharii vero XIV, Indictione tertia. Actum Papiae._ Camminano
egregiamente queste note. Dice ivi il re Ugo che quella corte _nobis
obvenit per cartulam donationis ab Ardingo venerabili mutinensis
ecclesiae episcopo_. Questo _Ardengo_ vescovo di Modena non fu
conosciuto dal Sillingardi, nè dall'Ughelli, e però si dee riporre nel
catalogo dei vescovi modenesi fra _Gotifredo_ e _Guido_. Nei diplomi di
Berengario imperadore si vede che un _Ardengo_ vescovo fu suo
arcicancelliere sino all'anno 921. Quando questi non fosse stato vescovo
di Brescia, dovrebbe tenersi per quel medesimo Ardengo vescovo di
Modena, di cui si fa menzione in questo diploma. Leggesi ancora un altro
diploma[2100] di essi re, scritto _IIII nonas martii_ coll'altre
suddette note; come ancora un placito[2101], tenuto in Reggio
_sextodecimo kalendas aprilis_, colle medesime note. Abbiamo poi presso
l'Ughelli[2102] una conferma di beni fatta nella metà d'agosto da essi
re ai canonici di Vercelli, _idibus augusti anno Incarnationis dominicae
DCCCCXLV, regni vero domni Hugonis XX, Lotharii vero XV, Indictione
III_: documenti che tutti servono a farci conoscere l'epoche di questi
re cominciate negli anni 926 e 931. Fin qui aveva tenuto saldo la
fortuna e la politica del re Ugo, ma finalmente tutto andò in fascio. Le
iniquità non poche da lui commesse, il tirannico suo governo,
l'avarizia, per cui aggravava forte i popoli, il non fidarsi degli
Italiani che il contraccambiavano col non fidarsi punto di lui, e il
conferire i posti ai soli stranieri, a' quali anche con facilità li
levava, furono le cagioni ch'egli fu rovesciato dal trono[2103]. Con
poche truppe calò dalla Suevia _Berengario marchese d'Ivrea_ il
sospirato da tutti, perchè da tutti creduto ch'egli solo potesse liberar
l'Italia dall'odiato re Ugo. Venne dalla parte di Trento. Da _Manasse
arcivescovo_ d'Arles, che aveva ingoiato ancora i vescovati di Trento,
Verona e Mantova, e governava inoltre la marca di Trento, era stato
posto per castellano d'una fortezza chiamata Formigara un cherico suo
fido per nome Adelardo. Con questo cherico abboccatosi Berengario,
s'impegnò di fare arcivescovo di Milano esso Manasse, qualora egli esser
volesse in aiuto suo, e di dare ad esso Adelardo il vescovato di Como.
Prese l'esca l'ingrato ed ambizioso Manasse, e non solamente cedette a
Berengario quella fortezza, ma cominciò anche a far grandi maneggi per
tutta Italia in favore di lui. Corse ben presto per le città di
Lombardia la fama dell'arrivo di Berengario. _Milone conte_ di Verona,
che, chiamato alla corte dal re Ugo per sospetti, era segretamente
osservato dalle guardie, fingendo di non avvedersene, diede ad esse una
lauta cena; e quando vide ognuno ben abborracciato ed immerso nel sonno,
con un solo scudiere scappò. Giunto a Verona, fece immantinente saperlo
a Berengario, e il ricevette in quella città. A Milone tenne dietro
_Guido vescovo_ di Modena, che, allettato dalla promessa di un buon
boccone, come dice Liutprando, _maxima illa abbatia Nonantula, quam et
tunc acquisivit, animatus_, si ribellò, e col suo credito si tirò dietro
una gran folla d'Italiani. A questo avviso accorse il re Ugo
coll'esercito, e pose l'assedio a Vignola, castello d'esso vescovo, e
(mi sia lecito il dirlo) patria mia. Anche oggidì ha questa terra,
presso il fiume Panaro, una forte rocca con tre alte torri; e dovea
anche allora essere luogo ben fortificato, perchè, per quanti sforzi Ugo
facesse, non potè espugnarlo. Nel testo stampato di Liutprando
scorrettamente si legge _Niveola_. Ha da essere _Vineola_, e così hanno
i manoscritti.

Mentre il re Ugo attendeva a questo assedio, invitato Berengario
dall'arcivescovo _Arderico_, se n'andò a Milano, dove a gara,
abbandonato Ugo, concorsero i potenti Italiani, tutti per ismugnere da
lui qualche governo, o podere, o monistero, o vescovato. Berengario,
allora poverissimo, con larga mano a chi prometteva, a chi dispensava la
roba non sua, studiandosi di contentare chiunque si dichiarava per lui.
Quantunque restasse in sì gran burrasca assai costernato l'animo del re
Ugo, pure corso a Pavia, prese il buon partito[2104] d'inviare il
figliuolo _Lottario_ a Milano, per pregare non solamente Berengario, ma
il popolo tutto, che se loro non piaceva di avere più per re esso Ugo,
almeno per amore di Dio tenessero per re il suo giovinetto figliuolo,
che nulla avea loro fatto di male, e che essi potrebbono allevare e
governare come meglio loro piacesse. Fece tal impressione e compassione
nella dieta di Milano la presenza ed umiltà di Lottario, prostrato
davanti alla croce, che corsi ad alzarlo, il proclamarono di nuovo loro
re e signore. In questo mentre non credendosi il re Ugo sicuro, uscì di
Pavia con tutto il suo immenso tesoro, e s'inviava verso le Alpi per
uscire d'Italia: quand'ecco gli giugne avviso che erano contenti
gl'Italiani di averlo tuttavia per re. Venne questa inaspettata
risoluzione dall'accorto Berengario, come poi si seppe, non piacendo a
lui che Ugo portasse oltre a' monti tanta copia di oro e d'argento, con
cui avrebbe potuto tirar in Italia i Borgognoni ed altri popoli, per
riacquistar colla forza il perduto regno. Era in questi tempi vescovo di
Brescia _Giuseppe_, prelato giovane d'età, vecchio di costumi.
Berengario, che faceva già parlar di sè tutta l'Italia (avvisandosi
ciascuno di mirare in lui un nuovo Davidde, un nuovo Carlo Magno),
cominciò ben tosto a farla da tiranno. Senza motivo alcuno, senza
consiglio de' vescovi, tolse a Giuseppe quella chiesa, e conferilla ad
_Antonio_, che la tenne fin l'anno 960. Tuttochè con giuramento avesse
promesso al soprammentovato _Adelardo_ il vescovato di Como, pure per
amore dell'arcivescovo di Milano lo conferì ad un certo _Waldone_, che,
per testimonianza di Liutprando, fece un mondo di mali in quella diocesi
con saccheggi delle campagne, con acciecamenti di varie persone; e ad
_Adelardo_ diede la chiesa di Reggio. Fu vicino ancora a cacciar dalle
loro sedie _Bosone_ vescovo di Piacenza, figliuolo spurio del re Ugo, e
_Liutfredo_ vescovo di Pavia; ma guadagnato segretamente con oro da
essi, mostrò di lasciarli per amore di Dio in pace. Queste sue sregolate
processure le racconta in un fiato Liutprando, ma io non farei la
sicurtà che tutte succedessero in questi tempi. Anzi quando sussistesse
uno strumento di _Adelardo_ vescovo di Reggio, da me pubblicato[2105], e
scritto _anno domni Hugonis serenissimi regis XIX Lotharii vero filii
ejus similiter rex XIV kalendis januarii, Indictione II_, (non so bene,
se spettante all'anno 943, o 944, perchè v'ha del difetto in queste
note) traballerebbe l'asserzione di Liutprando intorno alla persona
d'esso Adelardo, oltre al sapersi da Donizone[2106], che _Adelardo_ fu
amicissimo di _Adelaide_ moglie del re Lottario, e l'aiutò contra di
Berengario. Scrive sotto quest'anno Frodoardo:[2107] _Hugo rex Italiae
regno depulsus a suis, et filius ipsius in regnum susceptus est_. Ma che
restasse tuttavia in Italia per qualche tempo con titolo di re esso
Ugo non se ne può dubitare, e lo confessa dipoi lo stesso Frodoardo.

NOTE:

[2099] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.

[2100] Antiquit. Ital., Dissert. VIII.

[2101] Ibidem, Dissert. IX.

[2102] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4, in Episcop. Vercellens.

[2103] Liutprandus, Hist., lib. 5, cap. 12.

[2104] Liutprandus, Hist., lib. 2, cap. 13.

[2105] Antiq. Ital., Dissert. LXII.

[2106] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 1.

[2107] Frodoardus, in Chronico.



    Anno di CRISTO DCCCCXLVI. Indiz. IV.

    AGAPITO II papa 1.
    UGO re d'Italia 21.
    LOTTARIO re d'Italia 16.


Sotto il presente anno scrive Frodoardo[2108]: _Hugo rex Italiae a suis
in regnum recipitur_: il che ci può far credere che succedesse sul
principio di quest'anno parte di quello ch'io ho raccontato nel
precedente. Aggiugne poco dappoi quello storico: _Marinus papa decessit,
et pax inter Albericum patricium et Hugonem regem Italiae depaciscitur_.
Certo è che papa _Marino II_ fu chiamato da Dio a miglior vita in
quest'anno, ed ebbe per successore nella cattedra di san Pietro _Agapito
II_ di nazione romano. Quel _depaciscitur_ vuol dire in buon latino che
seguì finalmente pace fra il _re Ugo_ ed _Alberico patrizio_, ossia
principe di Roma; perciocchè Ugo, veggendosi omai ridotto in basso
stato, lasciò andar le vecchie pretensioni, e convertì per forza in
amicizia la nimistà fin qui sostenuta con Alberico suo genero; ma senza
pro. Imperocchè gli Italiani, secondo l'attestato di Liutprando
storico[2109], lasciarono bene il titolo di re ad esso Ugo e Lottario,
ma coi fatti neppur li consideravano come conti. All'incontro Berengario
riteneva bensì il nome di marchese d'Ivrea, ma presso di lui stava tutto
il potere e l'autorità regale. Questo suo ascendente e un'aria di gran
cortesia, accompagnata da un credito di molta liberalità, furono le
cagioni che i genitori d'esso Liutprando, di nazione Pavese, giudicarono
rara fortuna il poter accomodare ai servigii di lui il figliuolo, allora
assai giovane, ma di buon talento, amator delle belle lettere, e perito
nella lingua latina e greca. Bisognò nondimeno comperar con immensi
regali il di lui impiego, consistente nell'essere segretario delle
lettere d'esso Berengario. _Ei ad serviendum_ (dice egli) _me tradunt:
cui etiam immensis oblatis muneribus, secretorum ejus conscium, ac
epistolarum constituunt signatorem._ Ma del suo lungo e fedel servigio
mal pagato ben fu col tempo il misero Liutprando; e però non cessa
d'inveire contra d'esso Berengario e di _Willa_ ossia _Guilla_ sua
moglie, ch'egli ci vuol anche far credere adultera, secondo il consueto
tenore della sua penna. Peggio ancora ne avrebbe detto, se avesse
continuata la sua storia, e se questa fosse a noi pervenuta intera.

Qualche mutazione dovette seguire in questi tempi nel ducato di Spoleti
e nella marca di Camerino, se non c'inganna il catalogo dei duchi di
Spoleti[2110], posto avanti alla Cronica di Farfa, dove leggiamo: _Anno
DCCCCXLVI Bonefatius et Thebaldus duces_: il che sembra indicare che non
più signoreggiasse ivi _Uberto_ figlio del re Ugo, ma bensì _Bonifazio_
e _Tebaldo_ suo figliuolo. Lo stesso autore di quella Cronica, dopo aver
narrata la morte di _Alberico principe_ di Roma, avvenuta nell'anno 954,
fa menzione _marchionis Thebaldi, qui tunc Sabinensibus praeerat_. E in
un altro catalogo degli abati di Farfa è registrato _Radfredus presbyter
et abbas temporibus Hugonis regis, et Hlotharii filii ejus, et Theobaldi
ducis_. Seguita poi, _Campo presbyter et abbas temporibus Hugonis et
Hlotharii filii ejus regum, et domni Leonis papae, et Bonifacii et
Thebaldi filii ejus ducum_. Pertanto abbiamo bastevol fondamento di
credere, che non piacendo al marchese _Berengario_ tanto accrescimento
di potenza in _Uberto_ figliuolo bastardo del re Ugo, il quale al ducato
della Toscana aveva aggiunto quello di Spoleti e la marca di Camerino,
facesse in maniera ch'egli si contentasse del primiero, e fosse creato
_Bonifazio_ duca e marchese di Spoleti e di Camerino. Ebbe questo
Bonifazio un figliuolo appellato _Teobaldo_, il quale abbiam già detto
trovarsi duca e marchese di quelle contrade nell'anno 954. Di sopra,
all'anno 893, ci comparve mentovato da Liutprando[2111] un _Ubaldo_
padre di quel Bonifazio, _qui post nostro tempore Camerinorum, et
Spoletinorum extitit marchio_. Similmente fu da noi trovato all'anno 923
in aiuto del re Rodolfo questo _Bonifazio_, scrivendo il medesimo
Liutprando[2112]: _Dederat rex Rodulfus Waldradam sororem suam, tam
forma, quam sapientia, quae nunc usque superest, honestam matronam,
conjugem Bonifacio comiti potentissimo, qui nostro tempore Camerinorum
ac Spoletinorum extitit marchio._ Si può ora chiedere in qual tempo
questo _Bonifazio_ conseguisse le marche di Spoleti e di Camerino. Tengo
io per fermo che solamente nell'anno presente, e ciò per le ragioni da
me addotte nelle Antichità italiche[2113]. Quivi ancora ho fatto
conoscere che questo medesimo Bonifazio fu di _nazione ribuaria_, e si
può credere che fosse suocero del suddetto _Uberto_ marchese di Toscana.
Per attestato di san Pier Damiano[2114], _Ubertus marchio, pater Hugonis
marchionis_ (di Toscana) _filius naturalis regis Hugonis, Guillam
majoris Bonifacii marchionis filiam conjugali sibi foedere copulavit._
Chiama egli _Bonifazio maggiore_ il soprannominato Bonifazio marchese di
Spoleti e di Camerino, perchè vedemmo che un suo nipote chiamato
anch'esso _Bonifazio_ fu poi marchese (e probabilmente di Camerino)
nell'anno 1009, e questi, secondo san Pier Damiano, doveva essere
_Bonifazio minore_.

Intanto veggendo il _re Ugo_ sè stesso caduto in troppo dispregio presso
gl'Italiani, e fors'anche paventando peggio da Berengario e da altri
ch'egli ingiustamente aveva aggravati ed offesi, determinò in fine la
sua ritirata fuori d'Italia[2115]. Pertanto dopo aver finto di far pace
con Berengario, per mostrar anche una somma confidenza con lui,
raccomandò alla di lui fede, e come ad un caro amico, il figliuolo
_Lottario_. Andossene dipoi in Provenza, seco portando gl'immensi suoi
tesori: il che non si accorda con quanto s'è detto di sopra, cioè col
ripiego preso da Berengario, affinchè non passasse tanto oro di là da'
monti, se non che Ugo era più furbo dello stesso Berengario. Ch'egli non
fosse più in Italia nel dì 19 di maggio, si può raccogliere da una
donazione fatta dal re Lottario[2116] alla chiesa di Reggio, senza far
menzione alcuna del padre. Il diploma fu dato _XIV kalendas junii, anno
dominicae Incarnationis DCCCCXLVI, anno domni Lotharii XVII, per
Indictione IV. Actum Papiae._ Nulladimeno ho io veduto nell'archivio
arcivescovile di Lucca una carta pecora scritta _anno XXI Hugonis, et
XVI Lotharii regis, tertio nonas augusti, Indict. IV_, cioè nell'anno
presente, immaginandomi io che alcuni seguitassero a chiamarlo re anche
dopo la di lui ritirata dall'Italia.

NOTE:

[2108] Idem, ibidem.

[2109] Liutprandus, Hist., lib. 5, cap. 14.

[2110] Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2111] Liutprandus, Hist., lib. 1, cap. 7.

[2112] Idem, lib. 2, cap. 18.

[2113] Antiquit. Italic. Dissert. VI et XXII.

[2114] Petrus Damian., lib. 7, epist. 12.

[2115] Liutprandus, lib. 5, cap. 14.

[2116] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5, in Append.



    Anno di CRISTO DCCCCXLVII. Indiz. V.

    AGAPITO II papa 2.
    LOTTARIO re d'Italia 17.


Trovandosi in Provenza l'abbattuto _re Ugo_, _Raimondo principe_
d'Aquitania, commosso dalla fama delle asportate ricchezze, gli fu alla
vita, con esibirsi di metter insieme un grosso esercito, bastante ad
atterrar _Berengario_ e a rimetterre lui sul trono. Tante glie ne disse,
che giunse a cavargli dai cofani, e più dal cuore, una gran somma di
danaro. Si seppe in Italia questa sparata di Raimondo. Liutprando, che
era allora ai servigi di Berengario, scrive che se ne fecero le risate,
essendo assai nota la viltà di quella gente, la quale in fatti nulla poi
operò in aiuto d'esso Ugo. Aggiugne lo stesso storico che Ugo da lì a
non molto diede fine a' suoi giorni, con lasciare il tesoro suo a
_Berta_ sua nipote, vedova di _Bosone conte_ d'Arles, sposata poco prima
dal medesimo Raimondo, indegno per la sua sparutezza d'una sì bella
moglie. Si può credere succeduta in questo anno la morte sua, perchè
nelle Cronichette dei re d'Italia, da me date alla luce[2117], si legge
ch'egli _regnavit annos XXI expletos, et menses IX, et dies III_.
Computando gli anni che dopo lui regnò Lottario suo figliuolo, viene a
cadere la morte sua nel dì 24 d'aprile del presente 947. Scrive Leone
Ostiense[2118], che Ugo lasciato il regno al figliuolo, _in Burgundia
cum omni thesauro suo, et universis divitiis recessit, ibique
monasterium de propriis sumptibus ditissimum construens, quod sanctus
Petrus de Arte nuncupatur, in eodem monachus est effectus_. Ma si tien
per fermo che l'Ostiense abbia fallato in credere fabbricato dal re Ugo
quel monistero; ed, oltre a ciò, il padre Mabillone[2119] mette in
dubbio il di lui monacato. Nulla di questo dice Liutprando, che meglio
seppe le azioni di lui; ma bensì dice che Ugo, tornato in Borgogna
(sotto il qual nome si comprendeva allora anche la Provenza), _brevi est
viam universae carnis ingressus_. Non è improbabile, che veggendo egli
imminente la morte, vestisse l'abito monastico: che questo era uso
d'allora. Restato intanto in Italia il _re Lottario_, poco impaccio si
dovette prender in governar i popoli, perchè governato da _Berengario_
marchese d'Ivrea: cioè agnello consegnato alla custodia del lupo.
Abbiamo sotto quest'anno dal Protospata[2120], che _introierunt Ungari
in Italiam, et perrexerunt usque Hydruntum. Et Platopidi_ (generale de'
Greci) _sedit in civitate Cupersani. Et fuit eo anno boum interitus per
omnem terram._ Anche alla Lombardia circa questi tempi toccò
un'indiscreta visita degli Ungheri, per attestato di Liutprando[2121],
essendo comparso in queste contrade _Tassi_ re di que' Barbari con un
copioso esercito. Berengario colla forza non delle armi, ma di gran
quantità d'oro, il fece ritornare addietro; e non già coll'oro suo, ma
con quello che raccolse dalle chiese e dal povero popolo, con avere
imposto un testatico di un denaro d'argento per cadauna persona; e lo
pagavano infino i fanciulli lattanti dell'uno e dell'altro sesso. Colla
somma di tanto argento raccolto, con cui meschiò del rame, fece battere
dieci moggia di denari, co' quali soddisfece all'accordo stabilito con
gli Ungheri e per sè ritenne da buon economo tutto quanto egli avea
tolto alle chiese. Non par credibile, per la lontananza de' paesi, che
questo fosse il corpo d'Ungheri, di cui poco fa parlò Lupo Protospata, e
che arrivò ad Otranto. Nella storia arabica di Abulphedà si legge[2122]
che in quest'anno _Almansore_ re de' Saraceni africani diede l'isola di
Sicilia in feudo ad Alassano figliuolo di Alì, che fu obbligato a far
una gran guerra in quelle parti, ma con buon successo, perchè ridusse
quasi tutta quell'isola sotto il suo dominio. Un'altra Cronica arabica
asserisce che costui mise buon ordine in tutta la Sicilia, governandola
con singolar rettitudine.

NOTE:

[2117] Anecdot. Latin., tom. 2.

[2118] Leo Ostiensis, lib. 1, cap. 61.

[2119] Mabill., Annal. Benedict. ad annum 945.

[2120] Lupus Protospata, Chronic., tom. 5 Rer. Ital.

[2121] Liutprandus, Hist., lib. 5, cap. 15.

[2122] Chron. Arab., P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXLVIII. Indiz. VI.

    AGAPITO II papa 3.
    LOTTARIO re d'Italia 18.


In quest'anno ancora truovo io _Lottario_ che esercita l'autorità reale.
Ad istanza di _Deodato vescovo_ di Parma, egli dona alcuni poderi ad un
certo Liudono suo vassallo, con diploma[2123] spedito _XIV kalendarum
februariarum anno dominicae Incarnationis DCCCCXLVII, anno vero Lotharii
regis XVII, Indictione VI. Actum Papiae._ Qui vo io credendo adoperato
l'anno fiorentino e veneto. Presso a quei popoli l'anno DCCCCXLVII
correva fino al dì 25 marzo del nostro anno 948. Ne vedremo altri
esempli fra poco. Un altro suo diploma ho io prodotto[2124], dato _XVIII
kalendas julii anno dominicae Incarnationis DCCCCXLVIII, regni autem
domini Lotharii piissimi regis XVIII, Indictione VII. Actum Parmae._ Qui
ha da essere l'indizione VI. Dona esso re, a richiesta di _Attone_ ossia
di _Azzo_, _vescovo_ celebre di Vercelli, tre corti ai canonici di
Parma, cioè due poste nel distretto di Parma, e _Guilzacara_ (oggidì san
Cesareo) _in finibus mutinensibus, sub Strata Regia non longe a fluvio
Scultenna_. Aggiungasi un altro suo diploma pubblicato dal Campi[2125],
in cui, a petizione di _Guido vescovo_ di Modena e di _Adelardo vescovo_
di Reggio, conferma tutti i lor beni ai canonici di Piacenza. Le note di
quel documento sono le seguenti: _Data ibidus februarii, anno dominicae
Incarnationis DCCCCXLVIII, regni vero domni Lotharii XVII, Indictione
sexta. Actum Mediolani._ Qui è l'anno nostro volgare; ma chi sa che
l'originale non abbia l'anno fiorentino DCCCCXLVII? Finalmente un altro
diploma ho io dato alla luce[2126] che ci fa vedere esso re in Lucca nel
dì V di luglio dell'anno presente, correndo l'_anno XVIII_ del suo
regno, come ha l'originale, e non già XVII come per error del copista fu
stampato. È un privilegio conceduto _interventu et petitione Aledrami
incliti comitis_. Questi è forse _Aleramo_, che fu poi primo marchese
del Monferrato. Si può credere che il re Lottario, al vedersi così
abbandonato alla discrezione di _Berengario_ marchese di Ivrea,
consigliato dai suoi, ricorresse alla protezion di _Costantino
Porfirogenito_ imperador d'Oriente; giacchè _Berta_ sua sorella era
maritata in _Romano_ juniore, figliuolo d'esso Augusto, e dichiarato
anch'egli collega nell'imperio, correndo il mese di luglio dell'anno
presente. Liutprando[2127] ci assicura avere esso imperador Costantino,
per mezzo di Andrea conte della curia, inviate lettere a Berengario,
colle quali gli significava che avrebbe con piacere veduto qualche
ambasciatore di lui, per fargli conoscere quanto amore egli portasse
alla di lui persona. Chiaramente poi e caldamente gli raccomandava
d'essere ben fedele al giovane re Lottario, di cui sapeva ch'egli era
aio e governatore. Già si dovea temere o prevedere quel che da lì a non
molto avvenne. Berengario, che nulla volea spendere del suo in tale
ambasceria, s'avvisò di proporre questo viaggio ed impiego allo stesso
Liutprando, allora segretario suo, come ben pratico della lingua greca.
Perciò indusse il di lui padrigno, uomo facoltoso, a far gustare questa
scelta al figliastro, e a provvederlo ancora di tutto il bisognevole per
sì fatta spedizione, con promettere mari e monti all'uno e all'altro.
Non si sa l'anno preciso in cui Liutprando eseguì tal commessione; ma si
può conietturare nel seguente. Certo è ch'egli nel dì 25 di agosto uscì
di Venezia in nave, e nel dì 17 di settembre arrivò a Costantinopoli. Si
presentò all'imperadore colla sola lettera datagli da Berengario, piena
anche di bugie; e perciocchè l'avaro Berengario niun regalo gli avea
dato da presentare all'imperadore, ed egli osservò quanti ne avessero
portati a quella corte gli ambasciatori di _Ottone re_ di Germania e del
re saraceno di Spagna; non volendo egli essere da meno, avendo
provveduto di sua borsa varie preziose robe, a nome di Berengario le
presentò a quel monarca. Racconta egli dipoi le maraviglie da lui vedute
in Costantinopoli, ed alcune magnificenze di quella corte, e con
interrompere sul più bello del racconto la sua storia. Probabilmente
egli ne avrà scritto di più; ma non sarà giunto fino ai dì nostri.
Restano solamente due altri pezzi della sua fatica, riguardanti i tempi
di Ottone il grande, de' quali mi varrò a suo tempo. Ma intanto per
questa mancanza viene a restare in un gran buio la storia d'Italia.
Nell'archivio di Lucca si legge uno stromento, scritto _anno XVII
Lotharii regis, VIII kalendas aprilis, Indictione VI_, cioè nell'anno
presente, ma dovrebbe essere l'anno XVIII.

NOTE:

[2123] Antiquit. Ital., Dissertat. LXVI.

[2124] Ibidem.

[2125] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.

[2126] Antiquit. Ital., Dissert. XXVI.

[2127] Liutprand., lib. 6, cap. 1.



    Anno di CRISTO DCCCCXLIX. Indiz. VII.

    AGAPITO II papa 4.
    LOTTARIO re d'Italia 19.


Ermanno Contratto[2128] mette sotto quest'anno la morte del _re
Lottario_, e fu in ciò seguitato dal Sigonio[2129]. Ma indubitata cosa
ella è ch'egli mancò di vita solamente nell'anno seguente. Noi il
troviamo tuttavia vivo e regnante nel dì 11 di decembre di quest'anno,
in cui fu scritto uno strumento, pubblicato dal Campi[2130] con queste
note: _Lotharius gratia Dei rex, anno regni ejus, Deo propitio,
nonodecimo, XI die intrante decembri, Indictione octava_, cominciata nel
settembre. Troveremo anche de' suoi diplomi nel seguente anno. Da gran
tempo era in controversia l'arcivescovato di Rems, combattuto da due
antagonisti, cioè da _Artaldo_ ed _Ugo_, per colpa dei principi e re di
questi tempi, i quali, mettendo la mano nel santuario, deponevano i
legittimi prelati, e ne sustituivano degli altri a loro capriccio.
Marino legato della santa Sede, spedito colà da _papa Agapito_[2131], in
un concilio tenuto in Engeleim l'anno precedente, avea rimesso in quella
sedia Artaldo indebitamente deposto. Nel presente anno, per attestato di
Frodoardo[2132], _Agapitus papa synodum habuit apud sanctum Petrum, in
qua damnationem Hugonis episcopi apud Ingulenheim factam confirmavit;
excommunicans etiam Hugonem_ (duca di Francia) _principem, donec
Ludovico regi satisfaciat._ Anche la chiesa archiepiscopale di Milano
era per questi tempi involta in un grave disordine. Il Puricelli[2133] e
i padri Ughelli e Papebrochio tengono che in quest'anno finisse di
vivere _Arderico_ vecchio arcivescovo di quella città. Il Sigonio, la
cui asserzione è sostenuta dal testo della storia di Arnolfo antico
storico milanese[2134], riferisce la di lui morte all'anno 947, ed altri
la mettono nel 948. Comunque sia, l'ambizioso arcivescovo d'Arles
_Manasse_, che divorava anche le chiese di Trento, Verona e Mantova,
assistito, come si può credere, o dal re Lottario suo parente, o
piuttosto da Berengario marchese, secondo le promesse a lui fatte, fu
eletto arcivescovo da una parte del clero e popolo di Milano. Ma stette
forte un'altra non men vigorosa parte in eleggere e volere arcivescovo
_Adelmanno_ prete milanese. Niun d'essi, per cagione di questa
discordia, giunse mai ed esser consecrato o riconosciuto per legittimo
pastore di quella insigne chiesa. Non lasciarono per questo i due
pertinaci competitori di mettere le mani sopra le rendite
dell'arcivescovato; anzi vennero a qualche accordo con partirle fra
loro: il che produsse un incredibil danno ad essa chiesa, perchè ora
l'uno ora l'altro andarono svaligiando il tesoro della medesima, che era
dei più riguardevoli d'Italia, con servirsene a sostener le loro gare e
pretensioni. Simili sconcerti di questo miserabil secolo abbondavano
allora in altre chiese, e in assaissimi monisteri d'Italia. Secondo la
Cronica arabica[2135], in questo anno i Siciliani tramarono una congiura
contra di Assano, signore, o vogliam dire governatore di quell'isola. Ma
scoperto il trattato, e presi i capi della fazione, pagarono colle lor
teste la pena di questo mal condotto affare. Truovasi ancora nella
Cronica di Volturno[2136] un atto di _Leone abbate_ di quel monistero,
scritto _anno tricesimo sexto regnante domno Constantino magno
imperatore, et decimo anno principatus domni Landulfi gloriosi
principis_ (di Benevento e Capua), _et anno sexto principatus domni
Pandulfi filii ejus, mense julio, septima Indictione_, cioè nell'anno
presente. Altri documenti abbiamo in essa Cronica, dove sono annoverati
gli anni di _Costantino imperadore_ dei Greci, che vanno coerenti con
questo. È da vedere come il padre Pagi metta sotto l'anno presente
l'_anno XXXVII_ e _XXXVIII_ di esso imperadore.

NOTE:

[2128] Hermannus Contractus, in Chronico.

[2129] Sigonius, de Regno Ital.

[2130] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.

[2131] Frodoardus, Hist., lib. 4, cap. 35.

[2132] Idem, in Chronico.

[2133] Puricell., Monument. Basil. Ambrosian.

[2134] Arnulf., Mediolan. Hist., tom. 4 Rer. Ital.

[2135] Chronic. Arabicum, P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2136] Chron. Vulturnense, P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCL. Indiz. VIII.

    AGAPITO II papa 5.
    LOTTARIO re d'Italia 20.
    BERENGARIO II re d'Italia 1.
    ADALBERTO re d'Italia 1.


Ci si presenta tuttavia vivo e regnante in quest'anno il re _Lottario_,
ciò apparendo da una pergamena da me veduta nell'archivio insigne
dell'arcivescovato di Lucca, e scritta _anno XIX Lotharii regis, quarto
nonas martii, Indictione VIII_. Abbiamo parimente rapportato
dall'Ughelli[2137] e dal Tatti[2138] un diploma di esso Lottario, dato
_pridie kalendas junii, anno dominicae Incarnationis DCCCCL, regni vero
Lotharii XX. Actum Papiae._ Ma questo infelice principe, dotato d'ottimi
costumi, e degno di vivere e regnar lungamente, fu rapito dalla morte
nel più bel fiore dell'età sua. Leone Ostiense[2139] altro non dice, se
non che _in subitam phrenesim incidens, ultimam diem explevit_. Ma
Frodoardo scrittore di questi tempi[2140] riferisce la voce comune che
allora corse, cioè che _Berengario_ col veleno lo spedisse all'altra
vita. _Berengarius_, dic'egli, _quidam princeps Italiae, veneno_ (_ut
ferunt_) _necato Lothario rege Hugonis filio, rex Italiae efficitur._ Lo
stesso volle dire lo storico Liutprando[2141], allorchè dopo aver
narrato che il giovinetto Lottario salvò Berengario dall'ira del padre,
aggiugne: _Sed oh! quod sibi decipulam Lotharius praeparavit, futuri
ignarus videre non potuit. Dum enim Berengario consuluit, qui regnum et
vitam auferret, sibimet praeparavit._ Abbiamo il giorno certo della di
lui morte dalla Cronica della Novalesa[2142]. Così scrive di Lottario
quell'autore: _Hic dum aliquando de Papia veniret Taurinum cum uxore
sua_ (la regina Adelaide) _feria quarta, quae est XII die_ (manca qui, a
mio credere, _kalendas_) _mensis novembris, praeceptum dedit Arduino
marchioni_ (creduto marchese di Susa) _abbatiae bremetensis. Qui non
post multum tempus mortuus est, transacto vix spatio unius mensis, feria
sexta, quae est X kalendas decembris, et Mediolanum vectus: ibique
tumulatur in sepulchro sui genitoris._ Ma non sussiste che Ugo suo padre
fosse seppellito in Milano; possiamo bensì tenere per fermo che il re
Lottario nel dì 22 di novembre di quest'anno, giorno di venerdì,
terminasse i suoi giorni, perchè con tale asserzione si accorda anche
l'antica Cronichetta dei re d'Italia da me data alla luce[2143], dove è
scritto, che _post decessum ipsius Ughonis regnavit ipse Lautharius anno
III expletos, et menses VII, et dies II. Obitavit die veneris, qui est
decimo kalendas decembris, civitate Taurinensium._

Per attestato della medesima Cronichetta, stette vacante ventiquattro
giorni il regno d'Italia, essendo probabilmente occorso questo tempo per
radunare i principi italiani, dall'elezione de' quali dipendeva il
conseguimento della corona. Finalmente tanti furono i maneggi
dell'accorto _Berengario marchese d'Ivrea_, nipote del fu imperadore
_Berengario_ per parte di _Gisla_ sua madre, che tanto egli quanto
_Adalberto_ suo figliuolo furono eletti re, e coronati nel dì 15 di
dicembre di quest'anno, giorno di domenica, nella chiesa di san Michele
maggiore di Pavia. Le parole della Cronichetta son queste: _Die
dominico, XV die decembris in basilica S. Michaelis, quae dicitur major,
fuerunt electi et coronati Berengarius et Adalbertus filius ejus in
regibus._ Cadde appunto la domenica nel dì 15 dì dicembre di quest'anno;
e però resta fisso il principio dell'epoca di Berengario e di Adalberto
re d'Italia; nè è da ascoltare chi diversamente ne ha scritto. Erano
questi principi di nazione salica, e però di origine franzese. La regina
_Adelaide_ vedova del re Lottario restò in Pavia. È considerabile ciò
che scrive sant'Odilone nella di lei vita[2144]. Dopo aver detto ch'essa
regina non partorì a Lottario se non una figliola appellata _Emma_, che
fu poi maritata nell'anno 966 con Lottario re di Francia, padre di
Lodovico V, re parimente di Francia, seguita a dire: _Supradicto vero
Lothario ante annum circiter tertium, postquam dominam Adelheidam
duxerat, defuncto, remansit ipsa vidua viro, destituta maritali
consilio._ Se dunque Adelaide, non per anche compiuti i tre anni del suo
matrimonio, restò vedova per la morte del re Lottario, non sussiste
l'opinione de' padri Mabillone e Pagi, che all'anno 938 (siccome
accennammo di sopra) riferiscono le di lei nozze. Convien conchiudere
inoltre che il diploma esistente in san Salvatore di Pavia indica
solamente i di lei sponsali conchiusi sul fine dell'anno 937, in tempo
ch'essa per la sua tenera età non dovea essere atta alle funzioni
maritali. Giunta poi all'età di _sedici anni_ nell'anno 947, allora
dovette effettuarsi il matrimonio suo col re Lottario. E importa bene il
conoscere l'età di questa memorabil principessa, perchè in breve la
vedremo sposata da un gran monarca, e poscia imperadrice gloriosa.
Scrive Lupo Protospata[2145] sotto quest'anno che i Greci _obsederunt
Asculum, et obtinuerunt_.

NOTE:

[2137] Ughell., Ital. Sacr., lib. 5, in Episc. Comens.

[2138] Tatti, Annali Sacri di Como, tom. 2.

[2139] Leo Ostiensis, in Chronic. lib. 1, cap. 61.

[2140] Frodoardus, in Chronico.

[2141] Liutprand., Hist., lib. 5, cap. 4.

[2142] Chron. Novaliciense, P. II, tom. 2 Rer. Italic.

[2143] Chron. Regum Italiae, tom. 2 Anecdot. Latin., et tom. 4 Rer.
Ital.

[2144] Odilo, in Vita S. Adalheidis apud Canis.

[2145] Lupus Protospata, tom. 5 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCCCLI. Indiz. IX.

    AGAPITO II papa 6.
    BERENGARIO re d'Italia 2.
    ADALBERTO re d'Italia 2.


Il Sillingardi[2146] diede già alla luce un diploma dei re Berengario e
Adalberto, che si legge anco appresso l'Ughelli[2147]. Le note di quel
documento son queste: _Datum decima die kalend. februar. anno dominicae
Incarnationis DCCCCL, regni vero piissimorum Berengarii et Adalberti
regum primo, Indictione nona. Actum Papiae._ L'indizione _nona_ corrente
nel febbraio di quest'anno, e distesamente scritta, fa conoscere che qui
si parla dell'anno 951, e che vi è adoperato l'anno fiorentino e veneto,
il quale corre sino al dì 25 di marzo dell'anno nostro volgare. Dicesi
ivi fatta la donazione di quattro castella a _Guido_ vescovo di Modena,
che aveva molto cooperato all'esaltazione di Berengario, _interventu ac
petitione Odeberti marchionis, atque Magnifredi comitis_. M'è
incresciuto forte di non poter coi miei occhi vedere questo diploma,
esistente allora nel dovizioso archivio del capitolo de' canonici di
Modena, ma oggidì smarrito o perduto. Perciocchè, siccome ho provato
nelle Antichità estensi[2148], questo _Odeberto_ ossia _Otberto_,
illustre marchese e principe di questi tempi, è uno de' progenitori
della nobilissima casa di Este. Ne fo ora solamente menzione, per
parlarne poi ex professo, andando innanzi. Anche il Sigonio[2149] cita
un diploma dei suddetti re in favore del monistero delle monache di san
Sisto di Piacenza, dato _anno DCCCCL, regni vero domni Berengarii, et
domni Adalberti piissimorum regum primo, Indictione nona_. Non cita il
mese, ma sarà il gennaio o febbraio di quest'anno, riconoscendosi anche
ivi adoperato l'anno fiorentino, giacchè _Indictione nona_ indica
infallibilmente l'anno volgare DCCCCLI. Nell'anno presente ancora, per
testimonianza del Dandolo[2150], il re Berengario stando nella Corte
Olonna, _renovavit foedus inter Venetos et subjectos suos; et eorum
civitatum fines, ab urbibus italici regni distinxit, et a Venetis
quadragesimam solummodo debere declaravit_. Diede poi principio al suo
governo il re Berengario con una iniquità che fece incredibile strepito
per tutta l'Italia e Germania. Era, come dissi, rimasta in Italia
_Adelaide_ vedova del re _Lottario_, giovanetta di diciannove in venti
anni, in cui non si sa se maggior fosse la bellezza, o la pietà e
saviezza. Ossia che Berengario temesse che ella, passando alle seconde
nozze con qualche principe, potesse turbargli il dominio di questo
regno, o ch'egli, bramando di maritarla col figliuolo Adalberto, la
trovasse troppo renitente a questa alleanza, stante l'avversione da lei
conceputa contra chi comunemente si credea che avesse tolto di vita il
re suo consorte: la verità si è che Berengario, passando dalle dolci
alle brusche, rinserrò la misera ed innocente principessa in una
prigione.

Non sussiste ciò che il Sigonio scrive, che essendo Adelaide in possesso
di Pavia, Berengario fu necessitato ad espugnar quella città. Fu quivi
egli eletto re, siccome vedemmo, e ne prese allora la signoria, e quivi
diede anche i diplomi suddetti. Nè Pavia, come vuol Girolamo
Rossi[2151], era città dotale di essa Adelaide. Vien riferita dal
Browero[2152] una memoria posta nella cattedrale di Treviri con queste
parole:

                          XII. KALENDAS MAII
                   CAPTA EST ADELHEIDIS IMPERATRIX
                       CVMIS A BERENGARIO REGE
                      XIII. KALENDAS SEPTEMBRIS
                          LIBERAVIT, DOMINVS
                    ADELHEIDAM REGINAM A VINCVLIS.

La credo fattura de' secoli posteriori; potrebbe nondimeno essere che
contenesse qualche verità. Che questa regina fosse imprigionata, non già
nel lago di Como, ma bensì nella rocca di Garda sul lago Benaco, oggidì
lago di Garda, l'abbiamo da Donizone[2153]; e pare che così porti il
contesto delle sue avventure. Parimente l'Annalista sassone[2154],
pubblicato dall'Eccardo, scrive che Berengario _Adeleidem XII kalendas
maii captam Cumis depraedavit, et in custodia media_ (scrivi _et
inedia_) _lacrymabiliter afflixit_. E leggonsi tali parole anche in
Ditmaro[2155] autore più antico. Forse qui fu ricavata l'iscrizione di
Treviri. Per altro falla l'Annalista sassone rapportando la prigionia di
Adelaide all'anno 949, quando essa non può essere seguita se non
nell'anno presente 951; perchè Berengario fu eletto re solamente nel dì
15 decembre dell'anno precedente 950, nè sì subito dovette egli mettere
le mani addosso alla sfortunata regina. Ora de' mali trattamenti fatti
ad Adelaide non meno da lui che da _Willa_ ossia _Guilla_ sua moglie,
donna che anche da Liutprando ci viene dipinta per un vaso di tutti i
vizii, ne abbiamo un buon testimonio, cioè sant'_Odilone[2156] abbate_
di Clugnì, e personaggio confidente di questa medesima santa
principessa. _Postquam_, dice egli, _mortuus esset Lotharius vir ejus,
honorem italici regni adeptus est quidam vir nomine Berengarius, qui
habebat uxorem nomine Willam. A quibus innocens capta, diversis
angustiata cruciatibus, capillis caesariei distractis, frequenter pugnis
exagitata et calcibus; una tantum comite famula, ad ultimum tetris
inclusa carceribus, divinitus postmodum, ordinante Deo, imperialibus est
sublimata culminibus._ E la monaca Rosvida[2157], poetessa di quel
secolo, che narra a lungo questa scena, attesta che Adelaide fu anche
spogliata di tutte quante le sue gioie, vesti ed altre suppellettili.

Secondochè s'ha dal suddetto Donizone, per molto tempo stette confinata
Adelaide con una sola damigella in fondo di una torre. Ma essendo
riuscito ad un prete appellato Martino di fare una apertura nel muro di
quella prigione, oppure, come altri vogliono, con una cava fatta
sotterra, una notte la cavò fuori, e dopo aver vestita lei e la sua
damigella da uomo, trovò un pescatore che in una barchetta li condusse
tutti e tre ad una selva contigua al lago di Garda, a cui Odilone dà il
nome di palude; dove fra quegli alberi o fra quelle canne si
appiattarono, ma con pericolo di morir di fame, se un pescatore non
avesse loro somministrato del pesce. Fu spedito il prete dalla regina ad
_Adelardo vescovo_ di Reggio, in cui essa confidava non poco, per
ottener soccorso; il vescovo raccomandò questo affare ad _Attone_ (lo
stesso è che dire _Azzo_), il quale riconosceva in feudo dalla chiesa di
Reggio la fortezza di Canossa. Convien ora sapere che questo _Azzo_,
bisavolo della rinomata contessa Matilde, di cui avremo assai da
parlare, era figliuolo di _Sigifredo_ appellato da Donizone

    _Princeps praeclarus lucensi de comitatu;_

il quale co' suoi figliuoli si protesta di _nazione_ longobarda. Venuto
Sigifredo in Lombardia, crebbe in potenza e ricchezze, ed oltre a due
altri figliuoli che stabilirono due doviziose case in Parma, ebbe il
suddetto _Azzo_, chiamato anche nelle vecchie carte _Adalbertus, qui et
Atto_, che più de' fratelli s'ingrandì, e fra gli altri beni acquistò
dal suddetto Adelardo vescovo di Reggio in feudo _Canossa_, dove
fabbricò una inespugnabil fortezza. È situato questo celebre luogo nelle
prime montagne del distretto di Reggio, verso il fiume Enza. Ivi s'alza
ben in alto un sasso, tutto isolato, la cui sommità con buone mura e
torri fortificata non avea paura nè di assalti, nè di macchine militari;
e però, purchè la vettovaglia non mancasse, si rideva la guarnigion di
Canossa anche delle più grandi armate. Prese _Alberto Azzo_ l'impegno di
soccorrere la perseguitata regina; e messa a cavallo una mano de' suoi
armati, andò con essi in persona a levar Adelaide, e condussela a
Canossa. Lo attesta anche il suddetto santo Odilone con dire che
_supervenit quidam clericus, qui ejus fuerat captivitatis et fugae
socius, nuncians adesse exercitum militum armatorum, qui eam cum gaudio
accipientes, deduxerunt secum in quoddam inexpugnabile castrum_. Scrive
Donizone[2158] che Alberto Azzo diede avviso di questa sua risoluzione a
papa _Giovanni_, il quale la lodò. Aggiugne aver esso Alberto Azzo
trattato con _Ottone re_ di Germania per dargli in moglie Adelaide; ed
essendo segretamente venuto Ottone a Verona, gliela condusse colà; ed
egli, sposatala, seco la menò in Germania: il che non sussiste, siccome
vedremo. Seguita poi a dire Donizone, che scoperto l'affare da
Berengario, spedì l'esercito all'assedio di Canossa. E questo assedio,
se vogliam credere a Leone Ostiense, durò ben tre anni[2159]. Lo stesso
si legge nella Cronica della Novalesa[2160]. Di qui poi han preso motivo
alcuni moderni scrittori, e fra gli altri il padre Pagi[2161], di
credere assediata in quest'anno Adelaide entro Canossa, e di dire che si
sono ingannati i suddetti storici parlanti di un assedio di sì lunga
durata. Ma non hanno avvertito (l'avvertì bensì il Sigonio) che
l'assedio di Canossa vien raccontato da Donizone come impresa fatta
dappoichè il re Ottone ebbe sposata e condotta in Germania Adelaide.
Però fu così ben condotta la fuga di questa regina e il suo passaggio a
Canossa, che non ne ebbe sentore il re Berengario, se non dappoichè fu
calato in Italia Ottone il grande. Per altro Leone Ostiense e Donizone
hanno disavvedutamente confuse le circostanze dell'affare. Viveva allora
papa _Agapito II_, e non già papa _Giovanni_. Le nozze di Adelaide
furono celebrate in Pavia, e non già in _Verona_. Rosvida, più antica
che Donizone di un secolo, neppur ella racconta che Adelaide fosse
assediata in Canossa, e solamente dice che fu ricoverata da Adelardo
vescovo di Reggio in una sua forte città, volendo significare Canossa,
dove essa fu servita con tutto onore, finchè Ottone calò in Italia, e la
fece andare a Pavia. Ora, tornando indietro, si dee mettere per cosa
certa che fece gran rumore anche nella corte di Ottone il grande re di
Germania la crudeltà di Berengario, e la sventura e prigionia
dell'innocente regina. Bisogna eziandio supporre, come troppo
verisimile, che Ottone fosse informato del luogo ove ella era celata,
per avergliene scritto o ella, o il vescovo Adelardo, oppure Azzo
signore di Canossa. Nè mancarono alcuni di lui cortigiani, che
conoscendo di vista le rare doti di questa principessa, il consigliarono
a prenderla per moglie, giacchè la regina _Editta_ sua consorte era
mancata di vita cinque o sei anni prima, con aggiugnere ancora che, così
facendo, egli poteva aprirsi la strada a conquistare il regno d'Italia.

Preparossi dunque per tale spedizione il re germanico. Mandò innanzi
_Lodolfo_ suo figliuolo, il quale, se vogliam credere al continuatore di
Reginone[2162] e all'Annalista sassone[2163], trovò dappertutto degli
ostacoli e degl'incomodi, perchè niuna città o castello il volle
ricevere; e tutto ciò per colpa di _Arrigo duca_ di Baviera suo zio
paterno, che portando invidia agli avanzamenti del nipote, per tre anni
andò facendo sapere agl'Italiani quanto si macchinava in Germania, ed
alienava quanti poteva in Italia dall'amore di lui. Ma temo che si sieno
ingannati questi autori in riferir tali circostanze. Certamente
Rosvida[2164], istorica di questo secolo, scrive tutto il contrario,
dicendo di Lodolfo:

    _Perpaucis secum sociis secreto resumptis_
    _Italiam petiit, fortique manu penetravit._
    _Exhortans patris imperio populum dare collum;_
    _Moxque redit, clarum referens sine Marte triumphum._

Calò poscia il re Ottone, fingendo (come vuole Ditmaro[2165], e dopo lui
l'abbate urspergense[2166]), di fare un viaggio di divozione a Roma, e
all'improvviso s'incamminò verso Pavia, che gli aprì le porte. Niuna
opposizione fu fatta dal re Berengario, perchè egli solamente attese a
salvarsi in un suo forte castello. Ma è ben da maravigliarsi come così
accorto principe, quale era Berengario, si lasciasse cogliere sì
all'impensata, e pare piuttosto da credere che il re Ottone conducesse
seco un gagliardo esercito, o che tenesse di grandi intelligenze in
Italia. Arrivato egli a Pavia, ed impadronitosi di quella città, fece
tosto sapere alla regina Adelaide il suo desiderio di vederla,
insinuandole ancora, colla giunta di molti regali, l'intenzion sua di
averla per moglie. Colà portossi Adelaide, incontrata fuor della città
dal suddetto duca di Baviera Arrigo, e poi ricevuta con tutto onore dal
re Ottone. Sì Frodoardo[2167] come Rosvida, e gli altri antichi
storiografi ci assicurano che le nozze di esso re vedovo colla giovane
vedova Adelaide solennemente si celebrarono nella stessa città di Pavia.
Il padre Pagi[2168], fidatosi dell'iscrizione sopraccitata di Treveri,
vuol sostenere che circa il mese d'agosto seguì il loro matrimonio. Ma
egli s'appoggiò ad una memoria dubbiosa, e quando pur questa contenga
verità, altro non se ne può dedurre, se non che Adelaide ebbe nel dì 20
d'agosto la fortuna di salvarsi dalla prigione di Garda, e non già che
in quel mese ella arrivasse al talamo del re Ottone. Che tuttavia nel dì
22 di settembre di quest'anno Berengario e Adalberto signoreggiassero in
Pavia, ne fa fede un loro diploma, da me dato alla luce[2169], con
queste note: _Data X kalendas octobris anno dominicae Incarnationis
DCCCCLI, regni vero dominorum Berengarii atque Adalberti piissimorum
regum primo, Indictione X. Actum Papiae._ Così nella Cronica di
Volturno[2170] si ha un altro loro diploma dato _VI kalendas octobris
anno dominicae Incarnationis DCCCCLI, regni vero dominorum Berengarii
atque Adalberti piissimorum regum primo, Indictione X. Actum in plebe
sancti Marini._ Che stesse pochi dì appresso ad entrare in Pavia il re
Ottone, ne abbiamo il riscontro in un diploma[2171] d'esso re, dato _VI
idus octobris, anno Incarnationis Domini nostri Jesu Christi
nongentesimo quinquagesimo primo, Indictione decima, anno regni Otthonis
regis in Francia decimosexto, in Italia primo. Actum Papiae._ Un altro
simile ne esibisce il Puricelli[2172], dato nel medesimo giorno. E qui
si vuol osservare che Ottone cominciò ad intitolarsi re d'Italia,
quasichè Berengario e Adalberto fossero affatto decaduti dal loro
diritto. Celebrò egli dipoi il santo Natale in Pavia; ed allora fu,
secondo l'Annalista sassone[2173], ch'egli _cum suis fidelibus in Italia
Papiae natale Domini celebravit, et celebratis juxta magnificentiam
regalem nuptiis, sicque dispositis negotiis proficiscitur inde_, ec.
Abbiamo dalla Cronica arabica[2174] che nel dì 2 di luglio dell'anno
presente venne dall'Africa a Palermo un nuovo generale d'armi moro,
appellato Saclabio, forse quello stesso che era stato nell'anno 950,
oppure un suo figlio, menando seco una buona armata da valersene per
terra e per mare, ed assai cammelli. Assano padron dell'isola, uniti i
Siciliani con questi Africani, passò al castello di Riva, che si trovò
abbandonato dagli abitanti. Assediò Geragia ma essendo osso duro,
accordò pace a quel popolo, con ricevere gli ostaggi della lor fede; e
fece poi lo stesso con quei di Cassana. In questi tempi, per
testimonianza di Frodoardo[2175], i Saraceni, che già furono cacciati da
Frassineto, tenevano occupati i passaggi dell'Alpi, di manierachè
chiunque volea venire dalla Francia, o dagli Svizzeri e Grigioni, in
Italia, era costretto a pagar loro una somma tassata di danaro. Aggiugne
che gli _Ungheri_ in quest'anno, passando per l'Italia, arrivarono in
Aquitania, dove per tutta la state commisero grandi ruberie e
ammazzamenti di persone; e che poi, ripassando per l'Italia, se ne
tornarono alle case loro. Non dovea già succedere passaggio alcuno di
questi masnadieri, che non lasciassero dappertutto segni della loro
avidità e barbarie.

NOTE:

[2146] Sillingardus, in Catalogo Episcopor. Mutinens. edito anno 1606.

[2147] Ughell., Ital. Sacr., in Episcop. Mutinens.

[2148] Antichità Estensi, P. I, cap. 15 et seq.

[2149] Sigonius, de Regno Ital., lib. 6.

[2150] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2151] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.

[2152] Browerus, Annal. Trevir., lib. 9.

[2153] Donizo, in Vita Mathild., lib. 1, tom. 5 Rer. Ital.

[2154] Annalista Saxo, tom. 1 Corp. Hist. Eccard.

[2155] Ditmarus, Chronic., lib. 2.

[2156] Odilo, in Vita S. Adelheidis apud Canis.

[2157] Hrosvitha, de Gest. Oddon.

[2158] Donizo, lib. 1, cap. 1.

[2159] Leo Ostiensis, Chron., lib. 1, cap. 61.

[2160] Chronic. Novaliciense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2161] Pagius, ad Annal. Baron.

[2162] Continuator Rheginonis, ad ann. 951.

[2163] Annalista Saxo, in Chronico.

[2164] Hrosvitha, de Gestis Oddoni.

[2165] Ditmarus, in Chron., lib. 2.

[2166] Urspergensis, in Chronico.

[2167] Frodoardus, in Chronico.

[2168] Pagius, ad Annal. Baron.

[2169] Antiquit. Ital., Dissert. LXX.

[2170] Chron. Vulturnense, P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2171] Tatti, Annali Sacri di Como, tom. 2.

[2172] Puricellius, Monument. Eccles. Ambrosian., num. 172.

[2173] Annalista Saxo, tom. 1 Eccard.

[2174] Chronicon Arabicum, P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2175] Frodoardus, in Chronic.



    Anno di CRISTO DCCCCLII. Indizione X.

    AGAPITO II papa 7.
    BERENGARIO II re d'Italia 3.
    ADALBERTO re d'Italia 3.


Ci ha conservata il suddetto Frodoardo una particolarità dei disegni del
_re Ottone_: cioè ch'egli _legationem pro susceptione sui Romam dirigit.
Qua non obtenta, cum uxore in sua regreditur._ Dovette il re Ottone
tentare se _papa Agapito_ volesse concedergli la corona imperiale,
giacchè al vasto regno della Germania pareva ormai aggiunto quello
ancora dell'Italia. Ma fece male i suoi conti. Alberico patrizio era
tuttavia padrone di Roma, nè voglia si sentiva di deporre quel manto sì
luminoso. Si può credere che le risposte date colla negativa dal
pontefice ad Ottone, fossero dettate dal medesimo Alberico. Truovo io il
re Ottone sul principio del febbraio di quest'anno tuttavia dimorante in
Pavia, dove confermò tutti i beni al monistero delle monache di san
Sisto di Piacenza con un diploma[2176] dato _VIII idus februarii, anno
Incarnationis Domini nostri Jesu Christi DCCCCLII, Indictione decima,
anno vero domni Ottonis in Italia primo, in Francia XVI. Actum Papiae._
Ma insorsero liti in essa città di Pavia fra _Lodolfo_ figliuolo del re
Ottone ed _Arrigo_ duca di Baviera fratello del medesimo Ottone, che
misero di mal umore quel giovane principe. S'aggiunse ancora che egli
s'indispettì non poco per le nozze del re Ottone suo padre[2177]. Era
Ottone in età alquanto avanzata, nè di maschi avea se non quel
figliuolo, a lui nato dalla moglie _Editta_, prima d'essere re. Concepì
Lodolfo un timore, e timore anche non mal fondato, che se dal secondo
matrimonio nascessero figliuoli, questi potessero disputare la
successione al regno, perchè nati dal padre re. Perciò in collera
partitosi da Pavia prese il cammino verso la Sassonia, dove cominciò a
macchinar delle novità contra del padre. Questo accidente foce risolvere
il re Ottone a tornarsene in Germania. Lasciò in Pavia _Corrado duca di
Lorena_ suo genero (maritato con _Liutgarda_ sua figliuola) con
sufficienti milizie per guardia di quella capitale contro i tentativi di
Berengario. E, giunto in Sassonia, quivi celebrò la santa Pasqua. Ma
Berengario che la sapeva lunga, non volle già impugnar l'armi contra di
un re di tanta possanza, e a cui mostrava egli molte obbligazioni, per
le finezze usategli in tempo del suo esilio. Mise egli il suo studio in
guadagnarsi, come si può sospettare, con de' segreti regali il cuore del
duca _Corrado_, governator di Pavia. Il consiglio ch'esso Corrado gli
diede, fu di gittarsi alla misericordia del re Ottone. Da un principe sì
magnanimo si poteva sperar tutto. Abbracciato questo parere, e
preventivamente, come si può conietturare, avvertito di tal risoluzione
il re Ottone, Corrado stesso condusse in Germania Berengario. Stette
Berengario tre giorni senza poter ottenere udienza da Ottone: del che si
offese non poco il duca Corrado, dappoichè egli con buona fede l'aveva
imbarcato in questo affare. Se l'ebbe anche a male il principe Lodolfo,
siccome quegli che sposava tutti gl'interessi di Corrado suo cognato.
Finalmente Berengario giunse alla presenza del re Ottone; si esibì
pronto a far tutto quanto piacesse alla maestà sua; e restò conchiuso
che nella dieta, la qual si dovea tenere nella città d'Augusta, si
terminerebbono i suoi affari, siccome in fatti avvenne. Scrive il
Continuatore di Reginone[2178], seguitato dall'Annalista sassone[2179],
che Berengario sulle prime _nihil de his, quae voluit, obtinuit; sed
machinatione Henrici ducis fratris, vix vita et patria indulta, in
Italiam rediit: unde Chunradus dux multum offensus a debita regis
fidelitate defecit_. Potrebbe essere che Berengario in vigore del
salvocondotto se ne tornasse in Italia colle mani vote per allora.
Scrivendo poi Frodoardo[2180] che _ipse quoque Otho post celebrationem
Papiam regreditur_, io non so credere questo ritorno di Ottone in
Italia. Forse in vece di Otho si ha ivi da scrivere _Berengarius_.
Comunque sia, Berengario e Adalberto, coll'intervenire dipoi alla dieta
di Augusta, acconciarono i fatti loro col re Ottone.

Abbiamo da Vitichindo[2181] scrittore contemporaneo, e dall'Abbate
Urspergense[2182] in che consistessero le cose accordate da Ottone a
Berengario: cioè contentossi il re che Berengario col figliuolo
seguitasse ad essere re d'Italia, ma con riconoscere da lui questo regno
in feudo, e con giurargli fedeltà e suggezione. Il giuramento fu
prestato solennemente in faccia di tutta la corte e di tutta l'armata:
dopo di che Berengario _dimissus cum gratia et pace in Italiam
remeavit_. Ditmaro[2183] aggiugne, ch'egli _reginae_ (cioè di Adelaide)
_iram supplici venia placavit, bonaque cum pace patriam revisit_. E la
monaca Rosvida[2184] conferma la stessa verità con iscrivere di
Berengario:

    _Hunc regem certe digno suscepit honore,_
    _Restituens illi sublati culmina regni,_
    _Ista per certe tantum sub conditione,_
    _Ut post haec causis non contradiceret ullis_
    _Ipsius imperio, multis (sotto pene) longe metuendis,_
    _Sed seu subjectus jussis esset studiosus._
    _Hoc quoque sollicitis decrevit maxime dictis,_
    _Ut post haec populum regeret clementius ipsum,_
    _Quem prius imperio nimium contrivit amaro._
    _Qui se complendis simulans promptum fore jussis,_
    _Ocyus abscessit, patriam laetusque petivit._

Finalmente Liutprando[2185] nell'anno 968 diceva al greco imperadore:
_Berengarius et Adalbertus sui milites_ (vassalli) _effecti, regnum
italicum sceptro aureo ex ejus manu susceperunt, et jurejurando fidem
promiserunt_. E di qui ebbe principio il diritto preteso dai re di
Germania sopra l'Italia. E fin allora succedette una mutazione degna di
molto riguardo, cioè che il re Ottone riservò per sè le marche di Verona
e di Aquileia, le quali immediatamente diede in governo ad Arrigo duca
di Baviera suo fratello. Lo attesta dipoi il suddetto Continuatore di
Reginone[2186], con tornare sul buon sentiero, e scrivere che Berengario
col figliuolo Adalberto _regiae se per omnia in vassallitium dedit
dominationi, et Italiam iterum cum gratia et dono regis accepit
regendam. Marca tantum veronensis et aquilejensis excipitur, quae
Heinricho fratri regis committitur._ Lo stesso viene asserito
dall'Annalista sassone[2187], e da Ottone vescovo di Frisinga[2188]
nella sua Cronica. Un gran capezzone in questa maniera fu posto al re
Berengario; ma egli, ciò non ostante, di cattivo che era, diventò
peggiore. Noi il troviamo insieme col figliuolo Adelberto nel dì 9 di
settembre dell'anno presente in Pavia, ove diede un suo diploma[2189] in
favore di _Ramberto abate_ d'Asti. Come se la passasse _Uberto duca_ di
Toscana, figliuolo bastardo del già re Ugo, dacchè Berengario si fece
arbitro, e poi anche divenne re d'Italia, niuna memoria ce lo addita.
Perchè appunto in questi tempi non s'incontra il di lui nome nelle carte
della Toscana, può insorgere qualche sospetto che Berengario l'avesse
abbattuto, come persona di cui poco si avesse a fidare. Ma o sia ch'egli
pacificamente continuasse in quel dominio, o che vi fosse rimesso dopo
la venuta in Italia del re Ottone: certo è, che s'incontra memoria di
lui in quest'anno in uno strumento da me renduto pubblico[2190] e
scritto in Lucca _anno ab Incarnationis ejus nongentesimo quinquagesimo
secundo, quinto nonas magii, Indictione decima_. Non vi compariscono gli
anni del re per gl'imbrogli che erano allora in Italia. _Manifestus sum
ego Uberto marchio, legem vivente saliga, bonae memoriae domni Ugoni
regi._ Segno può essere questo ch'egli governasse allora la Toscana col
titolo di marchese, ma da lì innanzi se ne perde la memoria. Ho io
parimente data alla luce[2191] una donazione fatta al monistero di
Subiaco da _Benedetto console e duca, anno, Deo propitio, pontificatus
domni Agapiti summi pontificis et universalis junioris_ (cioè secondo)
_papae in sacratissima sede beati Petri apostoli VII, Indictione decima,
mense madio, die XXIV_. Dal che risulta che Agapito prima del dì 24 di
maggio nell'anno 946 avea conseguito il pontificato romano. Da questo
poi e da altri simili documenti dei papi d'allora scorgiamo che
_Alberico_ lasciava ai romani pontefici l'onore d'essere nominati negli
atti pubblici, come se fossero eglino i padroni di Roma e del suo
ducato, quando si sa di certo ch'egli la faceva da principe assoluto nel
temporale di quegli Stati.

NOTE:

[2176] Antiq. Ital., Dissert. LXV.

[2177] Ditmarus, Chronic., lib. 2. Uspergensis, in Chron.

[2178] Continuator Rheginonis, in Chronico.

[2179] Annalista Saxo, in Chron.

[2180] Frodoardus, in Chronico.

[2181] Witichindus, Histor., lib. 3.

[2182] Urspergensis, in Chron.

[2183] Ditmarus, in Chron., lib. 2.

[2184] Hrosvitha, de Gest. Oddonis.

[2185] Liutprandus, in Legationib.

[2186] Continuat. Rheginonis, in Chronic.

[2187] Annalista Saxo, in Chronico.

[2188] Otto Frisingensis, lib. 6, cap. 19.

[2189] Antiquit. Italic., Dissert. XVI, pag. 909.

[2190] Ibid., Dissert. XXII.

[2191] Antiquit. Ital., Dissert. V.



    Anno di CRISTO DCCCCLIII. Indiz. XI.

    AGAPITO II papa 8.
    BERENGARIO II re d'Italia 4.
    ADALBERTO re d'Italia 4.


Insorse in quest'anno un'aspra e scandalosa guerra in Germania, perchè
_Lodolfo_ figliuolo del _re Ottone_ si ribellò al padre; e collegato con
_Corrado duca_ della Lorena suo cognato, e con altri principi della
Germania, prese l'armi specialmente centra di _Arrigo duca_ di Baviera
suo zio paterno, siccome disgustato per più ragioni contra di lui. Fu
dunque necessitato il re Ottone a procedere coll'armi contra del
figliuolo e del genero. Succederono sanguinosi assedii, saccheggi di
città, coll'altre pensioni di una guerra arrabbiata, che io, come
avventure fuori d'Italia, lascerò raccontare ad altri. Se non falla
Frodoardo[2192], ebbe origine questo fuoco dall'essere nato al re Ottone
dalla regina Adelaide un figliuolo maschio, e corsa voce che il padre
avesse destinato questo frutto delle sue seconde nozze alla successione
del regno, quando egli l'avea già promessa a Lodolfo, con avergli anche
fatto giurar fedeltà dai baroni. Intanto il re Berengario tornato in
Italia, per quanto scrive il Continuator di Reginone[2193], di tutte le
sue disavventure incolpava _episcopos, et comites, ceterosque Italiae
principes; omnesque eos odiis et inimicitiis insequens, inimicissimus
sibi effecit_. Fra quelli che particolarmente s'erano tirato addosso
l'odio di Berengario ci fu _Alberto Azzo_ signore di Canossa, dopo
essere venuto esso re in chiaro, aver egli ricoverata e nascosa Adelaide
nella sua forte rocca, onde ebbe principio la depressione sua. Però ne
andava Berengario meditando la vendetta; ma il rispetto del re Ottone,
che aveva assicurato della sua protezione Azzo, il riteneva.
Quand'eccoti accendersi in Germania la guerra suddetta, la quale non
lasciava luogo ad Ottone di pensare all'Italia. Allora fu che Berengario
spedì l'esercito suo all'assedio di Canossa, e non già allorchè Adelaide
s'era colà ricoverata. Trovò quivi Azzo ben provveduto di vettovaglia
per una lunga difesa. Donizone[2194] ci assicura che al re Ottone fu
condotta da Azzo la regina Adelaide:

    _. . . . . . Quae regi tunc quoque nupsit:_
    _Conjuge suscepta redit ad propriam modo terram,_
    _Attoni spondens, quod de se maxima posset._

Poscia vien raccontando che Berengario, il quale finchè Ottone non fu
arrivato in Verona (o piuttosto in Pavia), non conobbe ove fosse
occultata Adelaide, fieramente adirato contra di Azzo, si portò ad
assediarlo in Canossa. Ora non avendo egli potuto intraprendere questo
assedio, dappoichè Ottone era calato in Lombardia, perchè altro aveva
egli da pensare in quel rovescio di fortuna, resta che solamente
dappoichè egli fu restituito nel regno, e vide impegnato il re Ottone
nelle interne turbolenze de' suoi stati, allora scaricasse la sua bile
contra di Azzo. Ma Canossa era inespugnabil fortezza; altra via non
restava per impadronirsene, che di soggiogarla colla fame, e a questo
avea ben provveduto Azzo. Scrive Lupo protospata[2195] all'anno 951:
_Malachianus fecit praelium in Calabria cum Saracenis, et cecidit_. Ma
l'autore della Cronica arabica cantabrigense[2196] mette questo fatto
sotto l'anno presente con iscrivere: _Egressi sunt exercitus_ (dei
Saraceni) _in Calauriam, et obviam facti Melgiano, eum in fugam
egerunt_. Aggiugne che gli abitanti di Ramaza e Pietra fecero in tal
occasione schiavi molti Cristiani, e gl'inviarono in Africa. Questo
Malachiano, o Megliano, assai si conosce che era generale de' Greci.
Gareggiavano tuttavia i due eletti, ma non mai consecrati arcivescovi di
Milano, cioè _Manasse_ e _Adelmanno_, con intanto furiosamente malmenare
i beni e il tesoro di quell'insigne chiesa. Stanchi i Milanesi di questo
scandaloso contrasto, o per amore o per forza gl'indussero a cedere: con
che restò aperto il campo all'elezione di un nuovo arcivescovo, e questi
fu _Walperto_ ossia _Gualberto_. _Utrisque_ (scrive Arnolfo[2197]
storico milanese) _sponte vel invito cedentibus, sedem tenuit Walpertus
solus_. Nel margine del manoscritto estense di quella storia è scritto
che l'elezione di Gualberto accadde nell'anno 953. Rapporta il
Campi[2198] un decreto di questo arcivescovo, scritto _anno
Incarnationis Domini DCCCCLIII pontificatus autem domni archipraesulis
Walperti decimo, mense julio, Indictione V_ (dovrebbe essere _VI_): note
che l'indicano creato vescovo dopo il luglio dell'anno presente 953, se
pure l'_indizione V_ non mostra piuttosto l'anno precedente. E poi
conviene accordare quest'atto con un altro riferito dall'Ughelli[2199],
dove s'incontra nell'aprile di quest'anno _Gualberto_ già arcivescovo.

NOTE:

[2192] Frodoardus, in Chronico.

[2193] Continuator Rheginonis, in Chron.

[2194] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 1, c. 1, tom. 5, Rer. Ital.

[2195] Lupus Protospata, in Chronico, tom. 5 Rer. Ital.

[2196] Chron. Arab., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2197] Arnulf., Hist. Mediolan., lib. 1, cap. 4, tom. 4 Rer. Ital.

[2198] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.

[2199] Ughell., Ital. Sacr. tom. 4 nov. edit.



    Anno di CRISTO DCCCCLIV. Indiz. XII.

    AGAPITO II papa 9.
    BERENGARIO II re d'Italia 5.
    ADALBERTO re d'Italia 5.


Continuò in quest'anno l'incendio della guerra civile in Germania, e vi
si mischiarono anche gli Ungheri, chiamati in loro aiuto da _Lodolfo
duca_ di Alemagna ossia di Suevia, figliuolo del _re Ottone_, e da
_Corrado duca_ di Lorena. Non pochi di costoro lasciarono la vita in
quelle parti, per attestato di Frodoardo[2200]: _ceteri per Italiam
revertuntur in sua_. Altrettanto scrive il Continuatore di Reginone.
Continuò ancora in Italia lo stretto assedio della rocca di Canossa,
dove intrepidamente si sosteneva _Alberto Azzo_, con isperanza che o il
_re Ottone_ od altri accorresse un dì in soccorso suo. Accenna Girolamo
Rossi[2201] uno strumento scritto in Ravenna _anno octavo Agapiti papae,
regnante Berengario et Adalperto ejus filio anno IV regni eorum,
Indictione XII_, cioè nell'anno presente. Cita eziandio un concilio
tenuto in quella città nell'anno susseguente, correndo l'_anno V_ d'essi
re l'_indizione XIII_: memorie tutte che ci scuoprono che anche questi
due re, non men di Ugo e di Lottario, dominavano in Ravenna e nel suo
esarcato, tuttochè tali stati non appartenessero al regno d'Italia. Roma
era stata usurpata ai papi da _Alberico_; i re d'Italia fecero anch'essi
un somigliante giuoco all'esarcato. Che poi il suddetto Rossi scriva che
_Adalbertus rex Ravennam sedem constituit regni praecipuam_; ed avendo
maltrattato i mercatanti veneziani, fu sconfitto da _Pietro Candiano_
valoroso doge di Venezia; ed in tal congiuntura, perchè il popolo di
Comacchio avea prestato aiuto al _re Adalberto_, i Veneziani portatisi a
quella città, dopo il sacco la spianarono in maniera, che dopo molti
secoli durò fatica a rialzare il capo: noi crederemo veri tali racconti,
qualora se ne adducano legittime pruove, con allegar memorie antiche o
autori non lontani dal secolo di cui parliamo. A buon conto nulla di ciò
seppe il Dandolo, vecchio scrittore delle cose venete, nè altri che
hanno scritto prima del Rossi. Terminò in quest'anno il corso di sua
vita _Alberico_ patrizio e principe, o vogliam dire tiranno di Roma. Nel
catalogo posto davanti alla Cronica di Farfa[2202] si legge: _Anno
DCCCCLIV, Albericus princeps Romae obiit_. E Frodardo storico di questi
tempi lo conferma con dire sotto il presente anno: _Albrico patricio
Romanorum defuncto, filius ejus Octavianus, quum esset clericus,
principatum adeptus est_. Sicchè il dominio temporale di Roma fu
occupato da questo _Ottaviano_, che in breve vedremo salire anche sul
trono pontificio. Ad istanza di _Gualberto arcivescovo_ di Milano, fu
fatto in quest'anno un privilegio a _Brunengo vescovo_ d'Asti da
Berengario e Adalberto re. Vien esso rapportato dall'Ughelli[2203] con
queste note: _Data decimo kalendas junii anno dominicae Incarnationis
DCCCCLIV, regni vero Berengarii et Adelberti IV, Indictione XII. Actum
Papiae._ L'arcicancelliere qui nominato è _Guido vescovo_, cioè il
vescovo di Modena, che dopo il suddetto Brunengo dovette circa questi
tempi conseguire quell'illustre dignità, continuata dipoi anche sotto
Ottone il grande.

NOTE:

[2200] Frodoardus, in Chron.

[2201] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.

[2202] Chronicon Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2203] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4, in Episc. Astens.



    Anno di CRISTO DCCCCLV. Indiz. XIII.

    AGAPITO II papa 10.
    BERENGARIO II re d'Italia 6.
    ADALBERTO re d'Italia 6.


Fu d'avviso il cardinal Baronio[2204] che in quest'anno _papa Agapito_
desse fine ai suoi giorni. Eruditamente han provato i padri
Papebrochio[2205] e Pagi[2206] ch'egli menò sua vita sino a qualche mese
dell'anno seguente. Ciò ancora si deduce da uno strumento ferrarese, da
me veduto, in cui sono queste note: _Anno, Deo propicio, pontificato
domno Agapito summo pontifice, et universali papae in apostolica
sacratissima beati Petri apostoli Domini sede anno decimo, sicque
regnante domno Berengario rege, et Adalbertus ejus filius in Italia anno
sexto, die undecimo mense januario, Indictione quartadecima Ferrarie_,
cioè nel dì 11 di gennaio dell'anno seguente. Durava tuttavia l'assedio
della rocca di Canossa, intrapreso dal _re Berengario_, che, per
testimonianza di Donizone[2207], v'intervenne in persona, ed avea presa
la sua stanza in un luogo appellato Lavacchiello, risoluto di non
partirsi di lì, finchè non veniva in suo potere quell'ostinata fortezza.
Si attediava di questa troppo lunga prigionia _Alberto Azzo_ quivi
ristretto, e spesse volte per ricrearsi scendeva dall'alto in un certo
sito, da dove parlava coi principali dell'esercito nemico. Venne
pensiero a Berengario di attrappolarlo in quel sito; ma Azzo una notte
avvertito da una delle sentinelle nemiche di quel che si trattava, non
più da lì innanzi si attentò di lasciarsi vedere. Gli venne poi fatto di
spignere una notte fuori della rocca uno de' suoi famigli, e d'inviarlo
al _re Ottone_ in Germania con lettere compassionevoli, supplicandolo
d'aiuto, e rammentandogli le promesse di protezione a lui fatte. Ma
Ottone neppur in quest'anno potè accudire agli interessi d'Italia,
perchè avea troppi nemici addosso nelle proprie contrade. Era sul fine
del precedente anno seguita la pace fra lui e _Lodolfo_ suo figliuolo, e
_Corrado_ suo genero; e quand'egli pur si credeva di poter attendere
alla sola guerra che gli restava con gli Schiavoni, eccoti un esercito
innumerabile d'Ungheri inoltrarsi fino ad Augusta. A giudizio d'ognuno,
questo gran nuvolo di armati pareva invincibile; ma il prode re Ottone
sì animosamente, ed ordinatamente, benchè troppo inferiori forze avesse,
gli assalì, che li mise in rotta[2208]. Una sterminata quantità restò
vittima delle spade; altri lasciarono la vita nel fiume Lech; pochi in
fine se ne salvarono; di maniera che da dugento anni in addietro non
s'era riportata una vittoria sì strepitosa e compiuta. Ma in quel
terribil conflitto restò morto il suddetto Corrado duca di Lorena. Diede
anche fine in quest'anno ai suoi giorni _Arrigo duca_ di Baviera,
fratello del re Ottone, principe che in ambizione e crudeltà non si
lasciava vincere da alcuno. Scrivono che egli fece castrare
l'arcivescovo di Aquileia, e cavar gli occhi a quello di Salisburgo.
Lasciò dopo di sè un figliuolo, che da' moderni viene appellato _Arrigo
il Rissoso_, a cui il re Ottone conferì il ducato, e col tempo si
ribellò ad _Ottone II_ imperadore.

Attese ancora in quest'anno il re Ottone alla guerra contro gli
Schiavoni, e di questi parimente riportò vittoria: con che crebbe in
immenso la gloria di lui, e il timore in tutti i popoli confinanti alla
Germania. Gli nacque eziandio nell'anno presente dalla regina Adelaide
_Ottone II_, che fu poi imperadore, con somma allegrezza del padre e de'
sudditi suoi. Circa questi tempi _Pietro Candiano III_, doge di
Venezia[2209] col consiglio ed assenso del popolo creò suo collega
_Pietro_, uno de' suoi figliuoli; ma questi, sprezzando le ammonizioni
del padre, alzò bandiera contra di lui, e si venne un dì all'armi nella
piazza di Rialto fra la sua fazione e quella del padre. Era per
soccombere il giovane, se il vecchio doge non gli otteneva in dono la
vita. Ma per soddisfazione della giustizia e del popolo il mandò in
esilio; e in questa congiuntura i vescovi, il clero e popolo fecero un
decreto con giuramento di non ammetterlo mai più per doge nè in vita, nè
dopo morte del padre. Secondochè scrive il Dandolo, andò il giovane
Pietro a ritrovare _Guido marchese_, figliuolo del re Berengario, che
accoltolo cortesemente, il presentò al re, _et ad spoletanam marcham
debellandam secum duxit_. Poscia ottenuta licenza da Berengario di
vendicarsi de' Veneziani, venne a Ravenna, dove con sei navi armate
prese vicino al porto di Primaro sette navi venete che cariche di merci
andavano a Fano. Non è da sprezzare questo racconto del Dandolo, il
quale si servì di antiche storie, ora indarno da noi desiderate,
somministrandoci egli un barlume per conoscere che il re Berengario
tentò di levare il ducato di Spoleti a _Teobaldo_ o _Tebaldo_, che
n'era, siccome vedemmo, allora in possesso, per darlo a _Guido_ suo
figliuolo. Pare nondimeno che il Dandolo riferisca questo sconvolgimento
all'anno 958, o 959, perchè scrive che Pietro doge (morto nel 959) _post
filii creationem non plus quam duobus mensibus et quatuordecim diebus
vixisse fertur_. Ma un sì poco tempo non convien molto a tutta quella
serie di cose.

NOTE:

[2204] Baron., in Annal. Eccles.

[2205] Papebrochius, in Conatu Chron. Hist.

[2206] Pagius, ad Annales Baron.

[2207] Donizo, in Vita Mathild., lib. 1, cap. 1.

[2208] Annalista Saxo, Continuat. Rheginonis. Frodoardus, in Chron.
Ditmar., lib. 2.

[2209] Dandul., in Chronico, tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCLVI. Indizione XIV.

    GIOVANNI XII papa 1.
    BERENGARIO II re d'Italia 7.
    ADALBERTO re d'Italia 7.


Fu questo l'ultimo anno della vita di papa _Agapito II_, pontefice, le
cui rare virtù e gesta è da dolere che non sieno state tramandate dalla
penna di alcuno ai posteri, oppure non sieno giunte sino ai dì nostri.
Aveva _Ottaviano_, dopo la morte di _Alberico_ patrizio suo padre,
occupata la signoria di Roma; fu consigliato dai suoi di occupare anche
la sedia di san Pietro; nè gli fu difficile l'ottenere l'intento. Venne
dunque creato papa; ma, per quanto osserva il cardinal Baronio, in età
impropria ed incapace di sì sublime e sacrosanta dignità, perchè forse
non arrivava all'età di diciannove anni. Egli nell'anno 963 si vedrà
tuttavia chiamato[2210] _puer_ dall'imperadore _Ottone_. Scaldasi forte,
e giustamente, contra di sì fatta elezione il cardinale annalista, ma
con saggiamente conchiudere, che essendo questo novello papa stato
accettato dalla Chiesa universale per vero e legittimo pontefice, per
tale ancora si dee ora riconoscerlo. Non sarebbe stato se non bene che
il dottissimo porporato avesse fatto uso di questa massima per alcuno
ancora de' precedenti pontefici. Certo è poi che _Ottaviano_ in questa
occasione mutò il proprio nome in quello di _Giovanni XII_; e però vien
creduto il primo che introducesse l'uso di cambiare il nome de' novelli
papi, con servirsi poi di due nomi, cioè d'_Ottaviano_ nelle cose
temporali e di _Giovanni_ nelle spirituali: rito osservato in parte
anche oggidì dai papi. È anche fuor di dubbio che non ha fondamento
alcuno il dirsi da alcuni storici, essere stata la potenza di _Alberico_
patrizio suo padre che promosse al pontificato questo suo figliuol
giovinetto; perciocchè sappiam di certo che Alberico avea cessato di
vivere nell'anno 954. E pure anche Gregorio monaco, autore della Cronica
farfense[2211], che vivea nel secolo susseguente, lasciò scritto che
_Alberico principe migrante, filius ejus Johannes, qui patre vivente
papa ordinatus est_, ec. Ho io prodotta altrove[2212] una donazione
fatta al monistero di Subiaco da _Graziano_ console e duca, e scritta
_anno Deo propitio pontificatus domni Johannis summi pontificis et
universatis XII papae in sacratissima sede beati Petri apostoli primo,
Indictione XV, mense novembrio, die XIIII_, cioè nell'anno presente.

Fu in quest'anno devastata da una terribil pestilenza la Germania.
Contuttociò il _re Ottone_, che oramai respirava dalle guerre interne o
vicine, pensò a reprimere l'insolenza del re _Berengario_, che ad onta
sua perseguitava _Alberto Azzo_, raccomandato suo. A questo fine scelse
_Lodolfo_ ossia _Litolfo_ suo figliuolo, con cui s'era pacificato, e lo
spedì in Italia con una armata[2213]. Era l'assediata Canossa già in
agonia, vicina a rendersi per la fame, quando si seppe l'arrivo di
Lodolfo a Verona: il che incoraggiò i difensori. A grandi giornate passò
Lodolfo il Po e venne alla volta di Canossa, perlochè senza aspettarlo
se ne andarono con Dio gli assedianti. Confessa Donizone[2214] che
l'assedio di quella fortezza durò _semis simul et tribus annis_, e che
fu incominciato dappoichè Ottone colla regina Adelaide fu ritornato in
Germania. Però non si può immaginar altro, se non che la liberazione di
Canossa accadesse in quest'anno per la venuta e pel soccorso di Lodolfo.
Per altro, convien confessare che Leone Ostiense e lo stesso Donizone,
siccome autori del secolo susseguente, avendo preso dalla tradizion dei
vecchi gli avvenimenti di questo tempo, confusero non poco il vero col
falso. L'Ostiense s'ingannò, scrivendo che la regina Adelaide fosse per
tre anni assediata in Canossa. Ingannossi forte anche Donizone con
iscrivere che Ottone il Grande calò in persona a liberar Canossa; e che,
venuto alle mani col re Berengario nel prato di Fontana, lo sconfisse,
l'ebbe vivo nelle mani, ed inviollo prigione in Germania, dove terminò i
suoi giorni; e che poscia fu creato re _Alberto_ (lo stesso è che
_Adalberto_) suo figliuolo, il quale tornò all'assedio di Canossa.
Aggiugne ancora, che spedito dal re Ottone in Italia il duca Litolfo suo
figliuolo, restò ucciso in una battaglia di man propria da esso re
Alberto: il che inteso Ottone, frettolosamente con una armata venne in
Italia, e qui fu creato re d'Italia ed imperadore. Somma confusion di
tempi e di fatti si scuopre in questo racconto, per quel che vedremo.
Per ora sappiamo di certo coll'autorità dell'Annalista sassone[2215] e
di Frodoardo[2216], che Lodolfo nel corso di questo anno _in Italiam ad
comprimendam Berengarii tyrannidem dirigitur, et in brevi expulso
Berengario, totius Italiae possessor efficitur_. Ermanno Contratto[2217]
anche egli scrive sotto il presente anno: _Liutolfus dux Italiam
hostiliter invasit, fugatoque Berengario et filio ejus, Papia urbe,
provinciaque potitus est_. Arnolfo storico milanese del secolo
susseguente[2218] non discorda da tali scrittori, con dire che
Berengario, odiato dagl'Italiani principalmente per la crudeltà sua, e
per l'avarizia di _Guilla_ sua moglie, non si attentò di venire a
battaglia con Litolfo spedito dal padre in Italia; _sed ingressus, quod
dicitur sancti Julii, inexpugnabile municipium_ (nel lago d'Orta
distretto di Novara) _resedit invalidus_. Dice di più, che tradito da'
suoi Berengario, fu dato in mano di Litolfo; ma che questi con eroica
magnanimità il lasciò andar libero, volendolo vincere coll'armi e non
colla perfidia. Altro che questo a noi non suggerisce intorno ad un tale
avvenimento la storia d'Italia. Se allora succedesse la battaglia
accennata da Donizone nel prato di Fontana, in cui egli (con errore, a
mio credere) fu sconfitto e preso il re Berengario, nol saprei dire.
Credo eziandio che Litolfo conquistasse parte della Lombardia, ma non
già _tutta l'Italia_, come scriveva l'Annalista sassone. Il Continuatore
di Reginone non altro dice, se non che egli _totius paene Italiae
possessor efficitur_.

NOTE:

[2210] Liutprandus, Hist., lib. 6, cap. 6.

[2211] Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital., pag. 472.

[2212] Antiquit. Ital., Dissert. V.

[2213] Annalista Saxo, ad hunc ann.

[2214] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 1, cap. 1.

[2215] Annalista Saxo, ad hunc ann.

[2216] Frodoardus, in Chronico, ad ann. 957.

[2217] Hermannus Contractus, in Chron.

[2218] Arnulf., Hist. Mediolanens. lib. I, cap. 6.



    Anno di CRISTO DCCCCLVII. Indiz. XV.

    GIOVANNI XII papa 2.
    BERENGARIO II re d'Italia 8.
    ADALBERTO re d'Italia 8.


Andavano prosperando in Italia l'armi di _Litolfo_ duca di Lamagna,
figliuolo del re Ottone, e già pareva che, abbattuto Berengario col
figliuolo, non potesse più risorgere: quando l'improvvisa morte di esso
Lidolfo troncò il filo alla fortuna e vita di lui, e fece mutar aspetto
alle cose d'Italia. Donizone[2219] cel rappresenta passato da parte a
parte in una battaglia dalla lancia del re Adalberto. Ma più fede merita
chi il dice morto in altra maniera. _Febre correptus_, scrive
Epidanno[2220] nella sua Cronica. E Froduardo[2221]: _Liudulfus Othonis
filius, qui paene totam obtinuerat Italiam, obiit, sepeliturque
Moguntiae apud sanctum Albanum_. Ed Ermanno Contratto[2222]: _Liutolfus
dux commissa pugna Adalpertum vincit, cunctisque sibi una cum regno
Italiae subjugatis, ipse eodem anno apud Plumbiam immaturo obitu vita
decessit, et magno multorum luctu Moguntiae sepultus est_. Non so se qui
si parli di _Plombia_ terra della diocesi di Novara. Ditmaro[2223] ci ha
conservato il dì della sua morte, con iscrivere, non senza qualche
differenza dagli altri scrittori circa il motivo della sua venuta in
Italia: _Liudulfus regis filius, malorum depravatus consilio, rursum
rebellavit, patriaque cedens, Italiam perrexit; ibique quum annum ferme
unum esset, octavo idus septembris (proh dolor!) obiit. Hujus corpus a
sociis ejusdem Moguntiam delatum, lugubriter in ecclesia Christi
martyris Albani sepultum._ Vanno concordi questi autori in asserire
seppellito il corpo del suddetto principe in Magonza, nè si oppongono a
Donizone, il quale attesta che le viscere di lui ebbero sepoltura nella
chiesa di san Prospero di Antognano, vicino al prato di Carpineto sul
Reggiano, ma il corpo imbalsamato fu mandato in Germania al re Ottone
suo padre. Facilmente s'intende ancora che la mancanza di questo
principe si tirò dietro il risorgimento dei re _Berengario_ e
_Adalberto_, i quali, tornati che furono i Tedeschi nelle loro contrade,
dovettero senza fatica rimettersi in possesso delle città perdute. Ma si
vuol aggiugnere essere corso in Italia un sospetto che Berengario avesse
procurata a Litolfo la morte con quei mezzi a' quali può ricorrere
solamente chi è servo dell'iniquità. _Postea vero_, scrive Arnolfo
storico milanese, _pius ille Liutulfus perfidia Langobardorum fertur
veneno necato._ Nelle giunte da me fatte alla Cronica del monistero di
Casauria[2224] si legge uno strumento di terre concedute a livello da
Ilderico abbate di quel sacro luogo ad _Attone_, ossia ad _Azzo conte_,
scritto _regnantibus domno Berengario, et Adelberto filio ejus regibus,
anno regni eorum in Dei nomine VII, et temporibus Teobaldi ducis et
marchionis anno ejus IV, mense junii, per Indictionem XV_. Abbiamo qui
assai luce per conoscere che in questi tempi era il governo del ducato
di Spoleti e della marca di Camerino appoggiato a _Teobaldo_ ossia
_Tebaldo_. Egli, siccome di sopra osservai all'anno 946, era figliuolo
di quel _Bonifazio_ di nazione ripuaria, che era stato duca anch'esso e
marchese di quelle contrade. Numerandosi qui l'_anno quarto_ del suo
ducato, convien credere che nell'anno 953, o 954 mancasse di vita
Bonifazio suo padre, e che egli succedesse nel governo di quegli stati.
L'autore della Cronica farfense[2225] fa parimente menzione sotto questi
tempi _marchionis Theobaldi, qui tunc Sabinensibus praeerat_. Nella
Sabina è situato il monistero di Farfa; e la Sabina era allora compresa
nel ducato di Spoleti. Abbiamo poi dalla Cronica arabica[2226], che
venuto nell'agosto dell'anno precedente in Sicilia un generale moro,
appellato Ammar, dopo avere svernato in Palermo, uscito di colà nella
primavera, passò in Calabria. All'incontro arrivato in Sicilia Basilio
ammiraglio de' Greci, vi spianò la moschea di Riva, e prese la città di
Termine; e venuto alle mani con Assano moro, signore dell'isola nella
valle di Mazara, misero a filo di spada molti di quegli infedeli.

NOTE:

[2219] Donizo, in Vita Mathild., lib. 1, cap. 1.

[2220] Epidannus, in Chronic.

[2221] Frodoardus, in Chronico.

[2222] Hermann. Contractus, in Chron.

[2223] Ditmarus, in Chronic., lib. 2.

[2224] Chronic. Casauriense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2225] Chron. Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital., pag. 472.

[2226] Chron. Arab., P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCLVIII. Indiz. I.

    GIOVANNI XII papa 3.
    BERENGARIO re d'Italia 9.
    ADALBERTO re d'Italia 9.


Perchè _Ottone_ il grande re di Germania, dopo la morte di _Lodolfo_ suo
figliuolo, succeduta in Italia, niuna inquietudine recasse ai re
_Berengario_ e _Adalberto_, potrebbe taluno chiederlo; e si potrebbe
rispondere che Berengario dovette placarlo in qualche maniera. Ne è
anche un contrassegno il vedere che esso Berengario, quantunque per le
ragioni vecchie, e per la venuta del suddetto Litolfo, a cui aderì tosto
_Alberto Azzo_, dovesse nudrire rabbia e mal talento verso di questo
bisavolo della contessa Matilda, pure il lasciò in pace, per riguardo,
come si può conghietturare, ad Ottone di lui protettore. Anzi è da
osservare, che se non prima, almeno in quest'anno esso _Alberto Azzo_
porta il titolo di conte, cioè di governatore probabilmente di qualche
città. Ciò costa da uno strumento da me prodotto[2227], scritto
_Berengarius et Adelbertus filio ejus gratia Dei reges, anno regni
eorum, Deo propicio octavo, mense novembris, Indictione secunda_:
indicanti l'anno presente. In esso strumento _Atto filius quondam
idemque Attoni de comitatu parmense, qui professus sum ex natione mea
lege vivere Longobardorum_, vende alcuni beni ad _Alberto, qui et Atto
comes, consobrino meo, filius quondam Sigefredi de comitato lucensi_. Fu
stipolato quello strumento _in loco insula Judiciaria parmensis_.
Potrebbe essere che a questi tempi appartenesse ciò che narra l'autore
della Cronica farfense. Quel tiranno e dilapidatore dell'insigne
monistero di Farfa, _Campone abbate_, di cui parlammo all'anno 939, era
tuttavia vivo, ed opprimeva quel sacro luogo. _Giovanni XII_ papa
cominciò ad abborrirlo, _sicut et suus pater_, cioè _Alberico_ patrizio.
E nol lasciando tornare al governo del monistero, creò in sua vece
abbate di Farfa un certo _Adamo_, oriundo della città di Lucca, se pure
non vuol dire di Lucania. Ma perchè in questi tempi per la maggior parte
i monisteri di Italia, seminarii una volta di virtù, erano divenuti
sentine di vizii, esso Adamo ben tosto si scoprì non da meno del
suddetto Campone. _Pro publico autem stupri scelere, in quo detentus est
a militibus papae Johannis, et marchionis Theobaldi, qui tunc
Sabinensibus praeerat._ Per esimersi dal gastigo gli convenne alienar
due corti ed altri fondi spettanti a quel monistero. Lupo
protospata[2228] all'anno 955 notò che Mariano generale dei Greci venne
in Puglia. Sotto quest'anno poi, oppur nel seguente, l'autore della
Cronica arabica[2229] della Sicilia lasciò scritto che Assano saraceno,
signore di quell'isola, _transfretavit et ivit obviam fratri suo Ammar.
Et fugit coram eo Marianus Strategus, abducta tamen navi e navibus
Moslemiorum._ Aggiugne appresso che quell'armata navale di Mori, nel
tornare di settembre in Sicilia, andò tutta a male, e fu d'uopo farne
una di nuova. Circa questi tempi _Attone_ vescovo di Vercelli, grande
ornamento di quella chiesa per la sua letteratura e pietà, diede fuori
il suo trattato _De pressuris Ecclesiae_, dove espone il mal trattamento
che si facea dei vescovi, con permettere a tutti di accusarli, con
esigere da essi che in mancanza di pruove prendessero il giuramento, ed
accettassero il duello da farsi con qualche loro campione. Riconosce per
canoniche e come vegnenti da Dio le elezioni de' vescovi fatte dal clero
e popolo. Ma i principi poco timorati di Dio, sprezzando queste regole,
volevano che la lor volontà prevalesse in eleggere i sacri pastori. E
quali mai? Si rifiutavano i meritevoli eletti, e conveniva prendere i
prediletti da loro, ancorchè indegni, non considerando essi il merito
del sapere e della bontà de' costumi, ma solamente le ricchezze, il
parentado e i servigii. E se non vendevano le chiese per denaro, le
davano nondimeno in pagamento della servitù prestata da essi, o dai lor
parenti alla corte. Però si vedevano fanciulli alzati al vescovato, e si
obbligava il popolo a dar testimonianze favorevoli a questi sbarbatelli,
che appena avevano imparato a memoria qualche articolo della fede, per
potere rispondere, benchè tremando, all'esame: il quale era tuttavia in
uso piuttosto per formalità, che per chiarire la scienza d'essi. Ed ecco
qual fosse in questi tempi lo stato miserabile delle chiese d'Italia.

NOTE:

[2227] Antiquit. Ital., Dissert. XXVIII.

[2228] Lupus Protospata, Chron.

[2229] Chron. Arabic., P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCLIX. Indiz. II.

    GIOVANNI XII papa 4.
    BERENGARIO re d'Italia 10.
    ADALBERTO re d'Italia 10.


Era assai vecchio _Pietro Candiano III_ doge di Venezia; a questa
malattia si aggiunse la grave afflizione provata per la ribellione di
_Pietro_ suo figliuolo, che servì ad affrettargli la partenza da questo
mondo[2230]. Non fu egli sì presto morto, che raunato il gran consiglio
del popolo, dove intervennero anche i vescovi ed abbati, tutti
deliberarono di voler per loro doge quel medesimo _Pietro IV_ che essi
prima aveano giurato di non ammettere al loro governo. Però a gara con
quasi trecento barche se n'andarono a Ravenna a levarlo, e pomposamente
ricondottolo a Venezia, di nuovo il crearono doge. Accadde probabilmente
in questo anno un fatto, di cui ci ha conservata una breve memoria
l'Anonimo salernitano[2231]. Cioè che _Giovanni XII_ papa, il quale
comandava tanto in temporale che spirituale in Roma, ebbe delle
dissensioni con _Pandolfo_ e _Landolfo II_ principi di Benevento e di
Capua, ch'esso istorico chiama figliuoli di _Landolfo I_, ma con errore,
perchè _Pandolfo_ fu figliuolo e non fratello di _Landolfo II_, il quale
fin dall'anno 943 l'avea dichiarato collega nel principato. Ora papa
Giovanni _dum esset adolescens, atque vitiis deditus, undique hostium
gentes congregari jussit in unum, et non tantum romanum exercitum, sed
et tuscos spoletinosque in suum suffragium conduxit_. Nè i popoli di
Spoleti, nè quei della Toscana erano allora sudditi del papa, e però gli
dovette egli trar seco in lega. A questo avviso Landolfo principe di
Benevento mise in armi tutti i suoi Capuani, ed incontanente spedì a
Salerno, pregando _Gisolfo_ principe di quella terra di accorrere in
aiuto suo. Venne Gisolfo con fiorito esercito e gran salmeria. Non ci
volle di più per fare abortire tutti i disegni di papa Giovanni;
perciocchè _dum Romani, Spoletinique et Tusci adventum principis Gisulfi
reperissent, magno metu percussi, suos repetunt fines_. Aggiugne il
medesimo storico, che da lì a qualche tempo papa Giovanni per suoi
ambasciatori fece intendere a Gisolfo suddetto di voler contraere lega
con lui. Venne Gisolfo da Salerno a Terracina, conducendo seco un
nobilissimo corteggio, e colà portatosi anche il papa, stabilirono tra
loro la desiderata lega. In somma dice questo scrittore salernitano,
essere stato in tanto credito Gisolfo principe di Salerno, che tanto i
Greci che i Saraceni, Franzesi e Sassoni si studiavano di averlo per
amico, e niuno si attentava a toccare gli stati di lui. Ho io data alla
luce[2232] una donazione da lui fatta alla chiesa di san Massimo,
fondata in Salerno _a domino Guaiferio principe bisavio nostro_, come
egli dice. Lo strumento fu scritto _in anno vigesimo quinto principatus
nostri de mense aprilis, Indictione II_, cioè nell'anno presente, se
quelle note furono ben copiate. Leggesi parimente nelle Antichità
italiche[2233] un diploma dei re Berengario e Adalberto, dato _VIII
kalendas novembris, anno Incarnationis Domini DCCCCLVIII, regni vero
domnorum Berengarii atque Adalberti piissimorum regum VIIII, Indictione
III. Actum Papiae._ Anche questo documento appartiene all'anno presente.
Non si sa già a quale sia precisamente da riferire una lettera scritta
dal soprallodato _Attone_, ossia _Azzo_ vescovo di Vercelli in questi
tempi, personaggio di sacra letteratura ornatissimo, come dimostrano
l'opere sue date alla luce dal padre Dachery[2234], e tanto più degno di
stima, quanto più era comune allora l'ignoranza in Italia. Tutti si
lamentavano, ma specialmente i vescovi, dell'aspro governo del re
Berengario, e si può credere che studiassero le maniere di sgravarsene.
Ora Berengario, a cui non mancavano spie, per assicurarsi della fedeltà
d'essi prelati, volle obbligarli a dargli degli ostaggi. Sopra ciò
Attone scrisse ai vescovi suoi confratelli (giacchè non era loro
permesso di raunarsi), per udire il loro sentimento intorno a questa
novità. Egli intanto giudiziosamente propone il suo con riconoscere
l'obbligo della fedeltà dovuto a' suoi sovrani, ma con sostenere che non
si dee far quello che non hanno fatto i predecessori; nè essere giusto
l'esporre gli ostaggi a' pericoli della vita, perchè i vescovi se non si
trattenessero per timore di Dio dal mancare al loro dovere, molto men se
ne guarderebbero per timore di nuocere agli ostaggi. Nel catalogo dei
duchi di Spoleti, posto davanti alla Cronaca di Farfa,[2235] prima
dell'anno 960 si vede menzionato _Trasmundus dux_, il quale si può
credere succeduto in quel ducato dopo la morte o per altra mancanza di
_Teboaldo duca_ e marchese di quella contrada. All'anno 981 noi
troveremo creato duca e marchese di Spoleti e Camerino un _Trasmondo_,
senza potersi chiarire se sieno diverse persone, e forse l'un figliuolo
dell'altro, o se pure fuor di sito avesse il Cronista farfense parlato
di un Trasmondo duca verso questi tempi.

NOTE:

[2230] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2231] Anonymus Salern., P. II. tom. 2 Rer. Ital.

[2232] Antiquit. Italic., Dissert. XXVIII.

[2233] Ibid., Dissert. II.

[2234] Atto Vercellensis, Epist. 11, in Spicileg. Dachery.

[2235] Chron. Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCLX. Indizione III.

    GIOVANNI XII papa 5.
    BERENGARIO II re d'Italia 11.
    ADALBERTO re d'Italia 11.


Non ha la storia d'Italia autore alcuno da cui si possa ricavare in che
consistessero gli aggravii fatti dal re Berengario a quasi tutti i
principi d'Italia, ed in particolare al romano pontefice. Ch'egli ne
facesse, e molti ed intollerabili, si può argomentare da quanto
lasciarono scritto gli antichi storici, fra i quali Liutprando, dove
racconta[2236], che _regnantibus, immo saevientibus in Italiam, et, ut
verius fateamur, tyrannidem exercentibus Berengario atque Adelberto,
Giovanni XII_ papa spedì per i suoi legati ad _Ottone_ il grande re di
Germania _Giovanni cardinal_ diacono ed Azzone notaio, oppure
archivista, con pregarlo che per amore di Dio e dei santi apostoli
Pietro e Paolo volesse liberar lui e la santa Chiesa romana dalle griffe
di questi due re, e rimetterla nella sua primiera libertà. Dietro ai
legati pontificii arrivò in Sassonia _Gualberto_ arcivescovo di Milano,
che appena vivo s'era potuto sottrarre alla rabbia di Berengario e
Adalberto, protestando di non poter più sofferire la loro crudeltà, e
molto men quella di _Willa_ ossia _Guilla_ moglie di Berengario, che
contro le leggi ecclesiastiche volea sostenere come arcivescovo di
Milano _Manasse_ arcivescovo d'Arles, il quale altronde si sa che
seguitava tuttavia ad intitolarsi arcivescovo di Milano. In oltre
sopraggiunse _Gualdone vescovo_ di Como, e non già di Cuma, come si
pensò il padre Pagi, lamentandosi anch'egli di varie oppressioni a lui
fatte dai due re suddetti e dalla regina Willa. Aggiugne Liutprando:
_Venerunt et nonnulli alterius ordinis ex Italia viri, quos inter
illustris marchio Otbertus cum apostolicis cucurrerat nuntiis, a
sanctissimo Othone tunc rege, ut dixi, nunc augusto Caesare, consilium,
auxiliumque expetens_. Lo stesso abbiamo dal Continuatore di
Reginone[2237], le cui parole, rapportate ancora dall'Annalista
Sassone[2238], sono le seguenti sotto quest'anno: _Legati quoque ab
apostolica Sede veniunt Johannes diaconus, et Azo scriniarius, vocantes
regem ad defendendum Italiam et romanam rempublicam a tyrannide
Berengarii. Waltbertus etiam archiepiscopus mediolanensis, et Waldo
cumanus episcopus, et Opertus marchio, Berengarium fugientes, in Saxonia
regem adeunt. Sed et reliqui paene omnes Italiae comites et episcopi,
literis eum autem legatis, ut ad se liberandos veniat, exposcunt._
Convien qui por mente a questo _Oberto_ marchese, indubitato ascendente
della real casa d'Este, che mireremo anche diramata nella real casa di
Brunsvich dominante in Germania e nella gran Bretagna. Noi vedemmo
questo principe nell'anno 951, caro al re Berengario, e suo confidente.
Ma Berengario, facile a farsi dei nemici, era anche più facile a perdere
gli amici. Non potendo più il marchese reggere alle aspre ed ingiuste
maniere di lui, ricorse anch'egli al re Ottone. Siccome si dimostrerà,
questo marchese _Oberto_ non è già lo stesso che _Uberto_ figliuolo
bastardo del re Ugo, e marchese di Toscana, del quale Uberto non parlano
più da qui innanzi le carte antiche di Lucca. Noi troveremo il nostro
_Oberto_ sotto Ottone il grande, uno de' primi personaggi nella sua
corte e di tutta l'Italia; laddove _Uberto_ marchese di Toscana fu da
esso Ottone cacciato in esilio.

Se mi vien chiesto di qual marca avesse allora il governo il suddetto
_Oberto_, non so rispondere, per mancanza di lumi. So bene (e lo vedremo
andando innanzi) ch'egli, mancato di vita circa l'anno 975, lasciò dopo
di sè due figliuoli, cioè _Adalberto_ ed _Oberto II_, amendue marchesi.
E questo _Adalberto_, siccome costa da uno strumento lucchese, citato
dal Fiorentini[2239], e da me poi pubblicato nelle Antichità
estensi[2240] vien chiamato _Adalbertus marchio, filio bonae memoriae
Obberti, et nepos bonae memoriae Adalberti, qui fuit similiter marchio_.
Sicchè padre di questo _Oberto_, chiamato _illustre marchese_ da
Liutprando, fu un altro _marchese Adalberto_; e però, secondo i miei
conti e per le osservazioni già addotte in essa opera, concorrono
fortissime conietture a farci credere il padre d'esso Oberto discendente
da uno dei due _Adalberti_ duchi e marchesi di Toscana, o per via di
_Bonifazio_ figliuolo di _Adalberto I_, o per quella di _Guido_ o di
_Lamberto_ figliuoli di _Adalberto II_ duchi anch'essi di Toscana. Sotto
i re Ugo e Lottario fu perseguitata e depressa la prosapia d'essi
Adalberti; ma sotto Berengario, e maggiormente poi sotto Ottone il
Grande, si rialzò nella persona del mentovato marchese _Oberto_, con
durar tuttavia per misericordia di Dio nelle nobilissime due case
regnanti che testè ho accennato. Ora tornando ad Ottone I re di
Germania, dovette ben parergli saporito l'invito a lui fatto da tanti
principi di acquistare non solamente il regno d'Italia, ma anche la
corona dell'imperio romano; e però in questo anno egli accudì alle
provvisioni necessarie per calare con forza e decoro in Italia nell'anno
vegnente. Truovasi una donazione fatta dal re Berengario alla regina
_Willa_ ossia _Guilla_ sua moglie[2241], _interventu ac petitione
Widonis marchionis, nostrique dilecti filii_. Fu dato quel diploma
_octavo die kalendas novembris anno dominicae Incarnationis DCCCCLX,
Indictione quarta regni vero domnorum Berengarii, et Adalberti regum
decimo. Actum vero Papiae._ Sotto questo medesimo anno racconta il
Dandolo[2242] che _Pietro Candiano IV_ doge di Venezia, insieme con
_Buono patriarca_ di Grado, con _Pietro vescovo_ di Olivola, ossia di
Venezia stessa, con _Giovanni vescovo_ di Torcello, e con gli altri
vescovi, clero e popolo, rinnovò il decreto già fatto da _Orso I_ doge,
di non far da lì innanzi mercatanzia degli servi ossia degli schiavi
cristiani. Cioè da gran tempo costumavano i mercatanti veneziani di
comperare dai corsari schiavoni o ungheri, dei poveri cristiani fatti
schiavi, e poi li rivendevano ai Saraceni o ad altre nazioni pagane.
Circa l'anno 877 fu proibito questo infame traffico dai dogi e dal clero
e popolo di Venezia con pene temporali e spirituali. Ci fu bisogno
ancora in quest'anno di rinnovar lo stesso divieto, con proibire nel
medesimo tempo il portar lettere d'Italiani, o di Tedeschi ai Greci, o
al loro imperadore, ad istanza forse del re Berengario, a cui non
doveano piacere simili intelligenze. Donizone[2243], oltre all'assedio
di Canossa fatto dal re Berengario, o sciolto nell'anno 946, ne racconta
un altro succeduto dipoi, od intrapreso dal _re Adalberto_, ma con
imbrogliare i tempi, perchè scrive essere venuto in Italia Litolfo
figliuolo del re Ottone, per le cui forze restò libera Canossa. Ucciso
poi, com'egli vuole, Litolfo in una battaglia, _Alberto Azzo_ signore di
quella rocca scrisse immediatamente al re Ottone che scendesse in
Italia, perchè questa sarebbe sua: e che Ottone

    _. . . . . . confestim multos secum inde revexit_
    _Italiam secum, quem pacifice petierunt_
    _Cuncti Lombardi, sibi dantes oppida gratis._

Questo secondo assedio, secondo lui, durò _tempora per bina, ternos
mensesque_, cioè, se so ben intendere, due anni e tre mesi. Conosce il
lettore che v'ha degli sbagli nella narrativa di Donizone. Ma posto che
sussista il suddetto secondo assedio, ed assedio anch'esso ben lungo,
parrebbe che dovessimo crederlo incominciato nell'anno 959, e terminato
nell'anno 961, allorchè un gran temporale venne dalla Germania in
Italia.

NOTE:

[2236] Liutprandus, Hist., lib. 6, cap. 6.

[2237] Continuator Rheginonis, in Chronico.

[2238] Annalista Saxo.

[2239] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 4.

[2240] Antichità Estensi P. I, cap. 21.

[2241] Antiquit. Ital., Dissertat. XIX.

[2242] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2243] Donizo, in Vita Mathild., lib. 1, cap. 1.



    Anno di CRISTO DCCCCLXI. Indiz. IV.

    GIOVANNI XII papa 6.
    BERENGARIO II re d'Italia 12.
    ADALBERTO re d'Italia 12.


Quando sia originale, come sembrò a me, un diploma[2244] dei re
_Berengario_ e _Adalberto_, conceduto a _Martino abbate_ della
Vangadizza presso all'Adigetto, dove io osservai tuttavia il sigillo di
cera col nome di quei re, noi troviamo essi regnanti in Verona sul fine
di maggio del presente anno. Fu dato quel diploma _tertio kalendas
junias, anno Incarnationis Domini DCCCCLXI, regni vero domni Berengarii,
atque Adalberti piissimorum regum XI, Indictione IV. Actum Veronae._
Quel che è più, essendo stato questo diploma _interventu ac petitione
Ugonis marchionis Thusciae_, noi vegniamo a conoscere che _Uberto
marchese di Toscana_, o avea pagato il debito della natura[2245], o,
come vogliono alcuni, era fuori d'Italia cacciato in esilio; e che _Ugo_
suo figliuolo, il quale poi riuscì uno de' principi famosi d'Italia, era
succeduto a lui nel possesso e governo della Toscana; ed avere san Pier
Damiano imbrogliata, siccome vedremo, co' suoi racconti la storia della
Toscana. Vien anche rapportata dall'Ughelli[2246] la fondazione del
monistero di Grassano nella diocesi di Vercelli fatta da _Aledramo
marchese_, figliuolo di _Guglielmo conte_, e da _Gerberga_ figliuola del
re Berengario. Questi vien creduto il primo marchese del Monferrato, da
cui derivò la schiatta di que' principi sì celebri, siccome vedremo
nella storia de' secoli susseguenti. Quello strumento ha queste note:
_Berengarius et Adalbertus ejus filius, gratia Dei reges, anno eorum,
Deo propitio, undecimo, mense augusti, Indictione quarta_, cioè
nell'anno presente, nel cui mese di agosto troviamo tuttavia dominanti
questi due re. Vedesi anche appresso il Guichenon[2247] un diploma di
Ugo e Lottario re d'Italia, che nell'anno 938 donano _Aledramo comiti
quamdam cortem, quae Forum nuncupatur, sitam super fluvium Tanar_. Si
può tenere per lo stesso Aledramo che con titolo di marchese comparisce
da lì innanzi. Intanto stava forte a cuore al re Ottone la spedizion
d'Italia; ma prima d'intraprenderla volle assicurar la corona della
Germania in capo ad _Ottone_ primogenito suo. Adunata dunque in Vormazia
la dieta generale del regno, fu con unanime consenso de' baroni e del
popolo eletto re di Germania, e coronato _Ottone II_ suo
figliuolo[2248]. Ciò fatto, e raccomandato a _Guglielmo arcivescovo_ di
Magonza, suo fratello, esso figliuolo, ch'era allora in età di sette
anni, tornò Ottone il Grande in Sassonia, e dopo aver dato buon ordine
agli affari, per la Baviera e per la valle di Trento calò coll'esercito
suo in Italia, _ubi omnes paene comites et episcopos obvios habuit, et,
ut decuit, ab eis honorifice susceptus, potestative, et absque ulla
resistentia Papiam intravit_. Trovò quivi distrutto da Berengario il
palazzo dei re, forse per un pazzo gastigo dato da lui ai cittadini, ed
ordinò che si rifacesse. Intanto Berengario e Willa sua moglie e i lor
figliuoli si chiusero in varie fortezze, senza osar di comparire
coll'armi in campagna per opporsi ai felici progressi del re germanico.

Si può molto bene accordar questa relazione con ciò che l'Anonimo
Salernitano[2249] lasciò scritto, dicendo che il re Adalberto _cum magno
apparatu, populoque nimis valido Clusas venit_, cioè alla Chiusa nella
valle dell'Adige, _quatenus cum Ottone certamen iniret. Feruntque
plurimi, ut sexaginta millia pugnatorum cum rege Adelverto fuissent._
Stette ivi questo esercito un dì e una notte, senza che udissero
avvicinarsi il nemico; quand'eccoti molti di que' conti, cioè de'
governatori delle città, dissero fuor dei denti ad Adalberto che il
pregavano di portarsi a Pavia per fare intendere al re Berengario suo
padre di cedere ad esso Adalberto il governo del regno, perchè loro
intenzione era di non istar più sotto il comando di lui. Se
acconsentiva, erano pronti a combattere con tutte le lor forze contra
chi veniva in Italia per torgli il regno, se no, si sarebbono dati al re
di Germania, siccome risoluti di non più sopportare la crudeltà di
Berengario; e di sua moglie. Andò Adalberto; trovò il padre disposto
alla rinunzia; ma Willa sua madre, femmina delle più perverse e triste
che sieno mai state create al mondo, non si volle lasciar in alcuna
maniera smuovere, e disturbò l'affare. Portata da Adalberto la risposta
ai conti, ciò servì ad accrescere la loro collera; e però all'istante
partendosi da lui colle lor genti, se ne tornarono cadauno alla sua
città. Di qui è che senza contrasto alcuno entrò il re Ottone in Italia,
e a dirittura passato a Pavia, vi trovò spalancate le porte. Non tardò
la maggior parte de' principi e delle città d'Italia ad eleggere e a
riconoscere per suo signore il re Ottone nella dieta tenuta a questo
fine in Milano. Landolfo seniore[2250] storico milanese del secolo
susseguente così ne scrive: _Otto ab omnibus in regnum cum triumphis
Mediolani electus, sublimatus est_. Seguita poi a descrivere la
coronazione fatta nella basilica ambrosiana di Milano, con queste
parole: _Walperto_ (arcivescovo) _mysteria divina celebrante, multis
episcopis circumstantibus, rex omnia regalia, lanceam, in qua clavus
Domini habebatur, et ensem regalem, bipennem, baltheum, clamydem
imperialem, omnesque regias vestes super altare beati Ambrosii deposuit,
perficientibus atque celebrantibus clericis, omnibusque ambrosianis
ordinibus divinarum solemnitatum mysteriis, Walpertus magnanimus
archiepiscopus, omnibus regalibus indumentis cum manipulo subdiaconi_
(si osservi l'antichità di questo rito) _corona superimposita_ (cioè la
corona del ferro, in cui non dovea sapere Landolfo, come sanno oggidì
quei di Monza, che v'era innestato un chiodo del Signore, perchè
l'avrebbe detto, come lo disse della lancia) _adstantibus beati Ambrosii
suffraganeis universis, multisque ducibus atque marchionibus
decentissime et mirifice Ottonem regem collaudatum et per omnia
confirmatum, induit atque perunxit._ Spedì intanto il re Ottone a Roma
_Attone_ ossia _Azzo abbate_ di Fulda, con ordine di preparar gli
alloggi e tutto quanto occorreva per la sua venuta a Roma, giacchè era
d'accordo con papa _Giovanni XII_ che gli sarebbe conferita la corona
imperiale.

Da gran tempo, cioè dall'anno 823, occupavano i Saraceni l'isola di
Creta, oggidì Candia. Venne in pensiero a _Romano_ juniore imperador de'
Greci di riacquistarla, e spedì a quella impresa _Niceforo Foca_
nell'anno precedente. Di molte prodezze quivi fece questo
generale[2251], e finalmente nel presente anno gli riuscì di prendere la
capitale, e di ridur tutta l'isola alla divozione del greco Augusto:
motivo di somma consolazione ed allegrezza, non solo ai Cristiani
d'Oriente, ma all'Italia tutta. Diversa era ben la sorte dell'isola di
Sicilia in questi tempi. Per attestato della Cronica arabica[2252],
Assano signore di essa isola seco condusse in Africa _optimates
Siculorum_ (cioè, per quanto vo io conghietturando, i figliuoli
giovanetti dei nobili siciliani) _et instituit eos in religione Amir
Al-Mumenin, hoc est imperatoris fidedelium, seu Mahometanorum, qui res
eorum auxit, et benefecit eis_. Dovette in questa maniera la religion
cristiana ricevere un gran crollo in Sicilia sotto il giogo dei
Saraceni. Sul fine di maggio dell'anno presente fece partenza da questa
vita _Landolfo II principe_ di Benevento e di Capua[2253], con
succedergli _Pandolfo_ soprannominato _Capodiferro_, già dichiarato suo
collega nel principato nell'anno 943, e _Landolfo III_, amendue suoi
figliuoli.

NOTE:

[2244] Antiq. Ital., Dissert. LXV.

[2245] Antichità Estensi, P. I, cap. 15.

[2246] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4, in Episcop. Vercellens.

[2247] Guichenon, Bibliothec. Sebus., Centur. I, num. 83.

[2248] Continuator Rheginonis, in Chronico. Hermannus Contract, in
Chron. Annalista Saxo, in Chron.

[2249] Anonymus Salernit., P. I, tom. 2 Rer. Ital., pag. 299.

[2250] Landulf. Senior., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 16, tom. 4 Rer.
Ital.

[2251] Leo Diaconus, Hist. apud Pag. Lupus Protospata, in Chron.

[2252] Chronicon Arabicum, P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2253] Peregr., Hist. Princip. Langob. P. I, tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCLXII. Indizione V.

    GIOVANNI XII papa 7.
    OTTONE I imperatore 1.
    OTTONE II re d'Italia 1.


Celebrò il _re Ottone_ la festa del santo Natale dell'anno precedente in
Pavia: e poscia si accinse al viaggio di Roma. Leggesi presso
Graziano[2254], negli Annali baroniani[2255] e in altri libri il
giuramento fatto da lui in favore di _papa Giovanni_ prima di passare
colà. _Si permittente domino_, dice egli, _Romam venero, sanctam romanam
Ecclesiam, et te rectorem ipsius exaltabo secundum posse meum; et
numquam vitam, aut membra, et ipsum honorem, quem habes, mea voluntate,
aut meo consilio, aut meo consensu, aut mea exhortatione perdes. Et in
romana urbe nullum placitum, aut ordinationem faciam de omnibus, quae ad
te, aut ad Romanos pertinent, sine tuo consilio. Et quidquid in nostram
potestatem de terra sancti Petri pervenerit, tibi reddam. Et cuicumque
regnum italicum commisero, jurare faciam illum, ut adjutor tibi sit ad
defendendam terram sancti Petri secundum suum posse._ Ha il padre
Pagi[2256] provato non essere stato Ottone il grande, divenuto che fu
Augusto, da meno de' suoi predecessori, con avere acquistata la
sovranità di Roma, e lasciatone l'utile dominio al romano pontefice.
Anche di ciò è una pruova il dirsi ch'egli in Roma non terrà alcun
placito e giudizio, nè pubblicherà editto alcuno intorno a cose
spettanti al papa e al popolo romano, senza ascoltare il consiglio del
medesimo papa. Accompagnato dunque dall'esercito e da gran folla di
vescovi e baroni, precedendolo per tre giornate l'arcivescovo di Milano
_Gualberto_, s'inviò alla volta di Roma Ottone[2257]. Giunto colà, fra
le acclamazioni d'immenso popolo fu con tutto onore ed amore accolto da
papa Giovanni XII. Ci è stato conservato da Epidanno[2258] il giorno in
cui con incomparabil magnificenza seguì la di lui coronazione per mano
del papa, e gli fu conferito il titolo e l'autorità d'imperadore
Augusto. _Ipse_, dice egli, _a papa Octaviano benedicitur in
purificatione sanctae Mariae, die dominico._ Così l'imperio romano,
ch'era stato vacante fin qui dopo la morte di _Berengario Augusto_,
passò nei re di Germania, oppure, come alcuni vogliono, tornò ai re
franchi, essendochè la Germania tuttavia portava il nome di Francia, e
lo stesso Ottone si intitolava re della Francia, cioè dell'orientale,
venendo la Gallia sotto nome di Francia occidentale. In tal occasione
papa Giovanni e tutto il popolo romano, per attestato di Liutprando,
giurò sopra il corpo di san Pietro di non mai tenere aderenza alcuna coi
deposti re _Berengario_ e _Adalberto_. All'incontro, per asserzione del
suddetto Liutprando, o, per dir meglio, del suo continuatore, Ottone a
papa Giovanni XII, _non solum propria restituit_, cioè l'occupatogli dai
re precedenti d'Italia, _verum etiam ingentibus gemmarum, auri, et
argenti muneribus ipsum honoravit_. La Cronica reicherspergense,
Teoderico da Niem, il Goldasto ed altri rapportano alcuni decreti che si
dicono fatti in tal occasione, e dipoi, intorno all'elezione de' papi,
alle investiture de' vescovi, e alla restituzione di beni e diritti
fatta all'imperadore. Sono manifeste imposture de' secoli posteriori,
che non meritano d'essere confutate. Leggesi parimente presso al
cardinal Baronio, e in altri libri, il diploma di Ottone, confermatorio
di tutti gli stati e beni della Chiesa romana: documento nondimeno che
non va esente da varie difficoltà, siccome ho altrove accennato[2259].
Fra l'altre cose si veggono ivi confermate a san Pietro _le provincie
della Venezia e dell'Istria, e tutto il ducato spoletano e beneventano,
e la città di Napoli_, per tacere d'altri paesi, che per l'addietro non
mai furono dipendenti nel temporale dal romano pontefice; ed erano
governati da principi, vassalli degl'imperadori d'Occidente o dei re
d'Italia, oppure degli Augusti greci, e seguitarono ad esser tali.

Dopo il soggiorno di pochi dì in Roma, passati in feste col romano
pontefice, e in dar buon sesto a quegli affari, se ne tornò indietro il
novello imperadore Ottone, ed arrivato a Lucca, quivi concedette ad
_Uberto vescovo_ di Parma il comitato ossia il governo di quella
città[2260], con un diploma dato _III idus martii anno dominicae
Incarnationis DCCCCLXII, anno vero imperii domni Ottonis serenissimi
Augusti primo. Indictione V. Actum Liviae._ Il nome di _Livia_ dovrebbe
significar _Forlì_; ma sì abbondanti di spropositi sono o per negligenza
dell'Ughelli, o per colpa de' copisti, o per isbagli degli stampatori, i
documenti da lui inseriti nell'Italia sacra, che in vece di _Liviae_
credo io scritto ivi _Lucae_. Leggesi in fatti nelle mie Antichità
italiane[2261] un diploma d'esso Augusto, dato in favore de' canoni di
Lucca nello stesso giorno, cioè _III idus martii anno dominicae
Incarnationis DCCCCLXII, anno vero imperii domni Ottonis primo,
Indictione V. Actum Lucae._ Però per la Toscana e per Lucca, e non già
per la Romagna, se ne tornò l'Augusto Ottone a Pavia, dove celebrò la
santa Pasqua. Ho io prodotto un altro suo diploma[2262] in favore di
_Norberto abbate_ di san Pietro in _coelo aureo_ di Pavia, dato, a mio
credere, in quella città _V idus aprilis anno dominicae Incarnationis
DCCCCLXII, imperii vero domni imperatoris Hottonis Augusti piissimi I,
Indictione V. Actum.... ie._ Quivi stando, esercitò la sua liberalità
verso altre chiese del regno, e verso i conti, marchesi ed altri baroni
che s'erano mostrati più fedeli alla sua corona, ed attaccati al suo
servigio. Gli scrittori milanesi riferiscono dei gran beni e stati da
lui conferiti a _Gualberto arcivescovo_ di Milano e alla sua chiesa. Si
può certamente credere che molto più sfavillasse la sua gratitudine
verso chi era stato il principal promotore dei di lui avanzamenti in
Italia. Conseguì in tal congiuntura _Liutprando_, le cui storie ho tante
volte allegato, il vescovato di Cremona, dopo essere stato varii anni
alla corte di Ottone in Germania, perchè o esiliato, o perseguitato dal
re Berengario. Anche Donizone[2263] attesta che _Alberto Azzo_ signore
di Canossa, a cui tante obbligazioni avea la divenuta _imperadrice
Adelaide_, fu ben rimunerato dall'Augusto Ottone. Ecco le sue parole:

    _Muneribus magnis Attonem ditat, et altis_
    _Cui nonnullos comitatus contulit ultro._
    _Per quem regnabat, nil mirum, si peramabat._

Ho io nelle annotazioni a questi versi, e nelle Antichità
italiane[2264], dimostrato, come egli fu creato _conte_, cioè
governatore perpetuo di Reggio e di Modena nello stesso tempo. Truovansi
inoltre memorie d'esser egli stato promosso a maggior dignità, perchè ci
comparisce ornato col titolo ancora di _marchese_. E qui specialmente
ebbe principio lo straordinario ingrandimento dei maggiori della famosa
_contessa Matilda_, di cui fu bisavolo lo stesso _Adalbertus qui et Atto
comes_. Medesimamente fra gli altri, sui quali sparse generosamente le
grazie sue l'Augusto Ottone, ci fu _Oberto_ illustre _marchese_,
progenitor degli Estensi, cioè quel medesimo principe che noi vedemmo
all'anno 960 maltrattato dal re Berengario, e passato in Germania ad
invitare Ottone alla conquista del regno d'Italia. Cioè fu egli assunto
all'insigne carica di _conte del sacro palazzo_, la cui autorità non
solo era eminente nella corte dell'imperadore, ma si stendeva anche per
tutto il regno, essendo al di lui tribunale sottoposti anche i conti, i
marchesi e duchi, cioè i principi di quei tempi. Ne accennerò le pruove
andando innanzi.

Abbiamo poi dal Continuatore di Reginone[2265], le cui parole paiono
copiate dall'Annalista sassone, che mentre l'imperador Ottone tornava da
Roma a Pavia, _Berengarius in quodam monte, qui dicitur ad sanctum
Leonem, plurimis undique secum copiis attractis, se munivit_. La
fortezza di san Leone era ed è situata nell'Umbria, ducato allora di
Spoleti, nel contado di monte Feltro, oggidì san Leo. E però altri
scrivono che Berengario fu assediato in Montefeltro. _Et Willa in lacu
Majori, in quadam insula, quae dicitur ad sanctum Julium, se inclusit_.
Ma s'inganna questo autore, mettendo l'isola di san Giulio nel Verbano,
ossia nel lago Maggiore. Essa è nel lago d'Orta nella diocesi di Novara.
_Filii vero ejus Adelbertus et Guido huc illucque vagabantur. Quasdam
tamen munitiones cum suis sequacibus adhuc possidebant, hoc est Grad_
(si dee scrivere _Gardam_ nel lago Benaco, chiamato oggidì di Garda fra
Brescia e Verona) _et Travallium_ (forse valle Travaglia nelle montagne
verso il lago Maggiore) _et insulam in lacu Cumano_: luogo già da noi
veduto per la sua fortificazione famoso ne' tempi precedenti. La prima
applicazione del novello Augusto fu di assediar _Willa_ nell'isola di
san Giulio. Ben s'immaginava egli di trovar con esso lei i tesori
ammassati con tante estorsioni negli anni addietro, e verisimilmente non
s'ingannò. Quasi due mesi durò quell'assedio, e vi faticarono non poco
gli arcieri e frombolatori dell'armata. Fu obbligata in fine Willa a
rendersi. Ebbe compassione e rispetto al di lei sesso l'imperadore; e
dopo averla, come si può conghietturare, ben pelata, le donò la libertà.
Essa con quanta fretta potè, andò a trovare il marito Berengario a monte
Feltro, con adoperar poi tutta per quanto potè la feminina eloquenza,
affinchè egli non si rendesse ad Ottone. Rapporta il cardinal
Baronio[2266] una donazione fatta da esso Augusto ai canonici di
quell'isola in rendimento di grazie a Dio, perchè _quoddam castellum,
videlicet insulam sancii Julii per Berengarium regem ab episcopatu
novariensi sublatam, nastrae subdiderit ditioni_. Il diploma è dato _IV
kalendas augusti anno dominicae Incarnationis DCCCCLXII, anno imperii
primo, Indictione V. Actum in Villa, quae dicitur Horta prope lacum
ejusdem S. Julii._ Però quell'isola non era nel lago Maggiore. Sul fine
di settembre si truova l'imperadore in Pavia, dove _intuitu amatissimae
nostrae conjugis Aleyde_ (si dee scrivere _Adelheidae_) _imperatricis_,
conferma a _Brunengo vescovo_ d'Asti i privilegii della sua
chiesa[2267]. Il diploma è dato _VIII kalendas octobris anno dominicae
Incarnationis DCCCCLXII, Indictione VI, anno imperii serenissimi
imperatoris Othonis primo. Actum Papia civitate._ Fuor dell'uso di
simili documenti quivi si veggono sottoscritti _Obsertus_ (si dee
scrivere _Otbertus_) _sacri palatii comes_, cioè _Oberto_ marchese,
progenitor degli Estensi, come abbiam detto di sopra, e _Wido mutinensis
episcopus_ con altri vescovi. Questo _Guido_ vescovo di Modena è quello
stesso che sotto i re Berengario e Adalberto aveva esercitata l'eminente
carica di arcicancelliere. Conviene ben credere ch'egli fosse uomo di
gran destrezza e maneggi, e che sapesse far giocare i regali, e voltare
mantello a tempo, perchè seppe ottener il medesimo riguardevolissimo
posto sotto l'Augusto Ottone. Ne fa fede lo stesso diploma, a cui si
sottoscrive _Autherus cancellarius ad vicem Widonis episcopi, et
archicancellarii_. Godeva già questo prelato, cioè divorava la
ricchissima badia di Nonantola, posta nel contado di Modena sotto il re
Berengario, siccome costa dalle memorie di quel monistero, da me
pubblicate altrove[2268]. Da che fu venuto un nuovo padrone a comandare
in Italia, non trascurò egli, secondo gli abusi d'allora, di farsi
donare e confermare da esso la medesima badia. Ne ho io pubblicato il
diploma[2269], dato a contemplazione dell'imperadrice _Adelaide Widoni
sanctae mutinensis ecclesiae venerabili episcopo, dilectoque nostro
fideli archicancellario, II nonas octobris, anno dominicae Incarnationis
DCCCCLXII, Indictione VI, anno imperii serenissimi Ottonis imperatoris
primo. Actum Papia civitate._ In essa città di Pavia celebrò Ottone la
festa del santo Natale; e, per quanto ho io osservato altrove[2270],
abbiamo fondamento di credere ch'egli facesse in quest'anno eleggere re
d'Italia _Ottone II_ suo figliuolo, già eletto re di Germania. Veggansi
ancora nella storia del monistero di Polirone alcuni documenti[2271],
ne' quali vanno concordi gli anni dell'imperio di _Ottone I_, con quei
del regno di _Ottone II_.

NOTE:

[2254] Gratian., Dist. LXIII, cap. 33.

[2255] Baron., in Annal. Eccles.

[2256] Pagius, ad Annal. Baron.

[2257] Liutprandus, Hist., lib. 6, cap. 6. Continuator Reginonis, in
Chronico.

[2258] Epidamus, in Annalibus.

[2259] Piena Esposizione per la Controversia di Comacchio.

[2260] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Episc. Parmens.

[2261] Antiq. Ital., Dissert. LXII.

[2262] Ibidem, Dissert. LXXI.

[2263] Donizo, in vita Mathild. lib. 1, cap. 1, tom. 5 Rer. Ital.

[2264] Antiq. Ital., Dissert. VIII.

[2265] Continuator Reginonis, in Chron.

[2266] Pagius, in Annal. Eccles.

[2267] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Astens.

[2268] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.

[2269] Ibidem, Dissert. LXXIII.

[2270] Antichità Estensi, P. I, cap. 16.

[2271] Bacchini, Istoria del Monistero di Polirone, Append.



    Anno di CRISTO DCCCCLXIII. Indiz. VI.

    GIOVANNI XII papa 8.
    OTTONE I imperadore 2.
    OTTONE II re d'Italia 2.


Subito che la stagione addolcita lo permise, e dopo aver solennizzata la
santa Pasqua in Pavia, si portò l'imperador _Ottone I_ all'assedio della
rocca altissima di san Leo nel monte Feltro, dove s'era chiuso
Berengario colla moglie, e probabilmente si trovava bloccato da molto
tempo. Non si potea quell'inespugnabil fortezza prendere se non col
mezzo di un blocco[2272]; e però questo, se non prima, certo in questi
tempi fu formato assai stretto, con prendere tutti i passi, per i quali
si potesse andare o uscir di quella rocca. Spese ivi tutta la state
Ottone, e ne abbiamo anche le pruove in varii diplomi conceduti da lui
in quel sito. Uno ne ho io dato alla luce[2273] in favore de' canonici
di Reggio, scritto _V kalend. julii anno dominicae Incarnationis
DCCCCLXIII, Indictione VI, anno vero imperii magni Othonis imperatoris
Augusti II. Actum in Monte Feretri ad Petram sancti Leonis._ Un altro
parimente ne ho dato altrove[2274]. _Guido_ vescovo di Modena, ed
arcicancelliere dell'imperadore, non dimenticò in tal congiuntura i
vantaggi, ed impetrò da esso Augusto, per interposizione di _Adelaide_
imperadrice, tutti i beni che in qualsivoglia maniera erano stati
appartenenti _Widoni quondam marchioni, seu Conrado, qui et Cono
dicitur, filiis Berengarii, seu Willae ipsius Berengarii uxoris,
eorumque matris, tam in comitatu motinense, seu bononiense_. Il
diploma[2275], tuttavia esistente col suo sigillo di cera nell'archivio
de' canonici di Modena, fu dato _II idus septembris colle_ altre note
suddette: _Actum in Monte Feretri ad Petram sancti Leonis_. Molto prima
ancora i canonici d'Arezzo riportarono da esso Augusto la conferma dei
lor beni e privilegii con un altro diploma dato _VI idus mai. Actum in
Monte Feretrano ad sanctum Leonem._ Rapporta il Guichenon[2276] una
donazione fatta da esso Augusto _Aymoni comiti_, creduto da lui marchese
di Susa, con queste note: _Data III idus augusti, anno dominicae
Incarnationis nongentesimo sexagesimo tertio, Indictione sexta, imperii
serenissimi Ottonis imperatoris XXVII. Actum Papiae._ Non era allora in
_Pavia_ Ottone, nè correva l'_anno XXVII_ dell'imperio. Che dunque s'ha
da dire di quel diploma?

Ma mentre si trovava impegnato Ottone in questo assedio, gli venne
avviso di una improvvisa mutazione seguita in Roma. Neppur io so dire se
sia di Liutprando, oppure d'altro autore, una giunta che si legge alle
di lui storie, dove si tratta a lungo di questo strepitoso affare. Ora
questo autore[2277] racconta, che trovandosi sul principio di quest'anno
in Pavia Ottone Augusto, molti, che prima per timore aveano taciuto i
difetti e vizii di papa _Giovanni XII_, ricorsero a lui mettendogli in
considerazione che a lui toccava di provvedere al decoro della Chiesa
romana, oscurato dalle dissolutezze e dagli scandali di questo giovane
papa, che senza freno alcuno attendeva a sfogarsi negli adulterii, con
far divenire un postribolo il palazzo lateranese. Aggiugnevano ancora
ch'egli teneva corrispondenze con _Adalberto_ figliuolo di Berengario,
benchè da lui prima odiato, perchè gli recava suggezione e timore il
conoscere Ottone per principe dabbene e rigoroso, e al contrario sperava
maggior libertà, se risorgessero Berengario e Adalberto. Non fidandosi
l'imperador Ottone di queste relazioni, mandò alcuni suoi confidenti a
Roma per sapere il netto di tali accuse. Trovarono essi più di quel
ch'era stato rapportato; e tornati alla corte dell'imperadore, nulla
tacquero de' disordini che correano in Roma. Allora l'imperadore,
siccome principe savio e ricordevole del benefizio ricevuto di fresco,
solamente rispose: _Puer est, facile bonorum immutabitur exemplo
virorum. Spero, eum objurgatione honesta, suasione liberali, facile ex
illis sese emersurum malis._ Gli spedì dunque alcuni dei suoi, che
amorevolmente l'ammonirono e il pregarono di rimettersi nel buon
cammino; ed intanto _Papiae navem conscendit, ac per Eridani alveum
Ravennam usque pervenit. Indeque progrediens, montem Feretranum, quod
oppidum sancti Leonis dicitur, in quo Berengarius et Willa erat,
obsedit._ Colà mandò papa Giovanni due suoi nunzii, cioè _Leone_, che fu
poi papa, e _Demetrio_ nobile romano, i quali fatta scusa degli eccessi
da lui commessi, ne promisero la correzione. Ma che gli fosse venuta in
fastidio l'ammonizione imperiale, lo fece tosto conoscere, perchè
cominciò ad attaccar lite, quasichè Ottone coll'assedio di Montefeltro
gli volesse occupare uno degli stati della Chiesa romana. Al che
rispondeva l'imperadore: _Omnem terram sancti Petri, quae nostrae
potestati subjecta est, promisimus reddere; atque id rei est, quod ex
hac munitione Berengarium cum omni familia pellere nitimur. Quo enim
pacto terram hanc ei reddere possumus, si non prius eam ex violentorum
manibus erectam potestati nostrae subdimus?_

Così andava prendendo piede l'incendio, quando eccoti giugnere sicuro
avviso all'imperadore che _Adalberto_, invitato dal papa, era giunto a
Cività Vecchia, e di là era passato a Roma, ricevuto con grande onore da
esso pontefice Giovanni. Allora Ottone s'avvide che era disperato il
negozio; e lasciata parte delle sue genti al blocco di san Leo, col
resto dell'armata s'incamminò alla volta di Roma, chiamatovi dai Romani
stessi. Il papa, al vedere avvicinarsi questa visita, comparve armato
come un san Giorgio; ma poi stimò meglio di fuggirsene fuor di Roma
insieme con Adalberto. Colà poi entrato l'imperadore senza opposizione,
anzi con allegrezza dei Romani, che uscirono ad incontrarlo, si fece
prestar giuramento da tutti gli ordini di non eleggere, nè consecrare da
lì innanzi papa alcuno senza il consentimento di esso Augusto e del re
Ottone suo figliuolo. Dopo di che, per soddisfare alle preghiere dei
vescovi e del popolo, fu raunato sul principio di novembre un concilio
nella basilica di san Pietro, dove intervennero moltissimi vescovi
d'Italia e di Germania, molti cardinali e uffiziali della Chiesa e del
popolo romano, e furono prodotte le accuse contra di papa Giovanni XII.
Due volte fu citato il papa a comparire e a giustificarsi. Altra
risposta non diede egli, se non che aveva inteso come si erano dietro a
fare un altro papa; e che quando mai ciò osassero, li scomunicava tutti.
Giunse il concilio a deporre Giovanni, e in suo luogo sostituì _Leone_
protoscriniario, personaggio di conosciuta probità, laico nondimeno: il
che era contro i canoni. Può, se vuole, il lettore ricorrere al cardinal
Baronio e a Pietro de Marca, che con assai ragioni ripruovano l'operato
da quei vescovi, e tengono per un conciliabolo quell'adunanza, e per
illegittimo papa _Leone VIII_, che così si fece egli chiamare. Ma
sarebbe forse da desiderare che lo stesso porporato Annalista non
avesse, peggio ancora che que' vescovi, screditato l'ingresso di papa
Giovanni XII nel pontificato, fino a tenerlo per illegittimo successore
di san Pietro, con dire[2278] che egli usurpò il pontificato, e che
_abortivum istum tunc parturiit Romae tyrannis vi pollens, armis omnia
audens atque subvertens, ut nullo pacto dicendus tunc fuerit legitimus
iste pontifex, in cujus electione lex nulla sit suffragatura, sed omnia
vis et metus impleverint_, ec. Più sotto ancora vien chiamato da lui
_Johannes assertus papa_. Fermossi qualche tempo dipoi l'imperador
Ottone in Roma, e per non essere d'aggravio alla città, mandò sotto san
Leo buona parte delle sue truppe, alquante solamente ritenendone per
guardia sua. Celebrò in essa città il santo Natale, ed ebbe la
consolazion d'intendere che il forte castello di Garda sul lago Benaco,
ossia di Garda, era venuto in potere de' suoi. Nè si dee tacere che esso
imperadore nell'anno presente, prima di portarsi coll'esercito a Roma,
verso il fine di agosto andò a Capua, dove con grande onore e
magnificenza dovette essere accolto da _Pandolfo Capodiferro_, chiamato
_Pandolfo_ nei suoi diplomi, e da _Landolfo III_ fratelli, principi di
quella città e di Benevento. Solevano da gran tempo questi principi
anteporre il loro soggiorno in Capua a quello di Benevento: il che fu
cagione che Capua si andò a poco a poco ingrandendo, e Benevento venne
calando. Dell'andata colà dell'imperadore ne abbiamo le pruove in un suo
diploma, con cui conferma al monistero di san Vincenzo di Volturno tutti
i suoi beni e privilegii[2279], dato _XI kalendarum septembrium anno
dominicae Incarnationis DCCCCLXIII, imperii vero domni Ottonis piissimi
imperatoris I_ (si de scrivere _II_), _Indictione VI. Actum Capua
Civitate._ Un altro si legge ivi dato nel medesimo giorno e mese, ma
coll'_Actum civitate Cumis_, forse scritto invece di _Capua_, se pure in
quello stesso dì Ottone non potè giugnere a _Cuma_. Talvolta nondimeno
l'_actum_ s'è veduto diverso di tempo e di luogo dal _datum_. Ricavasi
dalla Cronica arabica[2280] che nel mese di maggio del presente anno
Acmed, figliuolo di Assano signore della Sicilia, raunati i suoi Mori
coi Siciliani, andò all'assedio della città di Taormina, e talmente la
strinse e bersagliò, che nel dicembre la costrinse alla resa,
togliendola non so dire se ai Greci, oppure ai Siciliani ribelli.

NOTE:

[2272] Contin. Regin., in Chron. Annal. Saxo, in Chron.

[2273] Antiq. Ital., Dissert. LXX.

[2274] Ibidem, Dissert. XLII.

[2275] Sillingardus, in Catalogo Episcopor. Mutinens. Ughell., Ital.
Sacr., tom. 2, in Episcop. Mutinens.

[2276] Antiquit. Italic., Dissert. XXXVI.

[2277] Continuator Liutprandi, lib. 6, cap. 6.

[2278] Baron., Annal. Eccles., ad ann. 955 et 960.

[2279] Chron. Vulturnense, P. II, tom. 1 Rer. Italic.

[2280] Chron. Arab., P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCLXIV. Indiz. VII.

    BENEDETTO V papa I.
    OTTONE I imperadore 3.
    OTTONE II re d'Italia 3.


Dimorava tuttavia sul principio di quest'anno in Roma l'_imperador
Ottone_, quando si scoprì una congiura preparata contra di lui. _Papa
Giovanni XII_ avvertito delle poche forze ch'esso Augusto avea ritenuto
seco in Roma, mandò persone sotto mano, che con grandi promesse di
ricompense istigarono moltissimi Romani a prendere l'armi contra di lui.
Tirò ancora nel suo partito non pochi castellani del ducato romano. Già
era destinato il dì 3 di gennaio allo scoppio della mina. Ne fu
avvertito l'imperadore. Ossia, come vuole il continuator di
Reginone[2281], che egli preoccupasse l'insulto de' Romani, o, come
vuole il Continuator di Liutprando[2282], ch'egli s'opponesse così
coraggiosamente coi pochi suoi veterani soldati all'empito dei nemici, i
quali con carra aveano barricato il ponte del Tevere, che ne fu fatta
grande strage, e più ancora di male sarebbe seguito, se non si fosse
interposto l'eletto _papa Leone VIII_. A requisizione sua perdonò egli
ai Romani, restituì loro gli ostaggi, e raccomandato alla lor fede il
suo papa, uscì di Roma, per venire nelle marche di Spoleti e di
Camerino, dove intese che si trovava il già re _Adalberto_. Intanto la
rocca di san Leo capitolò la resa. _Berengario_ e _Willa_ sua moglie
presi d'ordine dell'imperadore, furono inviati prigioni a Bamberga in
Germania. Con queste parole racconta quel fatto Arnolfo storico
milanese[2283]: _Berengarium ipsum, arce quadam robusta munitum,
diuturna vallans obsessione subegit, filiis circumquaque dispersis,
Widone Adelberto, et Conone. Illum vero cum filiabus et conjuge captum
secum devexit in Sueviam, ubi non multo post in amaritudine animae diem
clausit extremum._ Maneggiavasi intanto _papa Giovanni_ per tornar in
casa, e seppe così ben adescare i Romani, che infatti l'introdussero in
città. Allora si trovò in gran pericolo il papa dell'imperadore, cioè
_Leone VIII_. Tuttavia ebbe la fortuna di poter uscire di Roma, ma
spogliato di tutti i suoi mobili e arredi, e si ricoverò nel campo
dell'imperadore stesso. Susseguentemente radunato nel dì 26 di febbraio
un concilio, i cui atti si leggono presso il cardinal Baronio[2284] e
nelle raccolte dei concilii[2285], fu dichiarato _Leone VIII_ occupatore
illegittimo del trono pontifizio, deposti i suoi ordinatori, e ridotti
per misericordia al primo lor grado gli ordinati da questo falso
pontefice. Per tali novità e per gli giuramenti sì mal osservati dal
popolo romano, fremeva di collera l'Augusto Ottone, e massimamente gli
trafisse il cuore l'avviso delle vendette fatte da papa Giovanni, con
far tagliare la mano destra a _Giovanni cardinal_ diacono, e la lingua,
due dita e il naso ad Azzone primo archivista; con far flagellare
_Otgerio vescovo_ di Spira, e con altri simili sfoghi della sua collera.
_Multa caede primorum in urbe debacchatus_ vien detto da Gerberto, che
fu poi papa, nel concilio di Rems dell'anno 992. Però si diede Ottone ad
ammassar l'esercito per tornare a Roma. Dio in questo mentre liberò Roma
e la Chiesa da così scandaloso pontefice. Una malattia di otto giorni il
portò via, senza ch'egli potesse ricevere i sacramenti della Chiesa.
Dopo di che i Romani, niun caso facendo delle promesse giurate di non
consecrare alcun papa eletto senza l'assenso dell'imperadore, elessero e
fecero consecrar papa _Benedetto cardinale_ diacono, con giurare nello
stesso tempo di non abbandonarlo e di sostenerlo contro la potenza
dell'imperadore. Maggiormente irritato da questo atto l'Augusto Ottone,
strinse coll'assedio Roma; la tempestò colle petriere ed altre macchine;
e impedendo l'entrata de' viveri, talmente l'affamò, che il popolo fu
astretto a ricorrere alla di lui misericordia, nulla avendo servito
l'essersi lo stesso papa Benedetto affacciato alle mura per minacciare
la scomunica all'imperadore e a tutto il di lui esercito.

Adunque nel dì 25 di giugno entrò l'imperadore in Roma; rimise nella
sedia pontificia _Leone VIII_, fece convocare un concilio ossia
conciliabolo, dove comparve cogli abiti pontificali anche il nuovo papa
_Benedetto V_, a cui fu chiesto come avesse, contra il giuramento prima
prestato all'imperadore, osato di entrar nella cattedra di san Pietro.
Confessò egli di aver peccato, ed implorò la misericordia
dell'imperadore. Ciò fatto, si spogliò del pontificale ammanto, e
consegnò il suo pastorale a Leone VIII, che lo fece mettere in pezzi. Fu
a lui permesso di stare nell'ordine de' diaconi, coll'esilio in
Germania. Torno a dire, che sono invenzioni de' secoli posteriori alcuni
decreti che la Cronica reicherspergense[2286] ed altri han rapportati,
come emanati da questo concilio o conciliabolo, ne' quali si trovano
esorbitanti concessioni di autorità all'imperadore sì nello spirituale
che nel temporale della Chiesa romana. Il cardinal Baronio[2287], il
padre Pagi[2288] ed altri han saggiamente rigettate simili imposture.
Partissi dopo la festa di san Pietro da Roma l'imperador Ottone per
tornarsene in Lombardia[2289]; ma vide nel viaggio assalito il suo
esercito da una terribil peste, la quale fece incredibile strage non men
dei nobili che degl'ignobili. Fra gli altri vi lasciarono la vita
_Arrigo arcivescovo_ di Treveri, _Gervico abbate_ di Wirtzburg, e
_Gotifredo duca_ di Lorena. Alla mano di Dio, sdegnato per le violenze
usate da Ottone in Roma, fu da molti attribuito questo gastigo. Cessata
finalmente la peste, si ridusse l'Augusto Ottone in Lombardia, dove pel
tempo dell'autunno si divertì colla caccia. Il cammino ch'egli dovette
tenere nel suo ritorno, fu per la Toscana, stante d'aver egli fatta una
donazione ad un monistero in Lucca nel dì 29 di luglio, come costa da un
suo diploma, da me divolgato[2290], _actum Lucae IV kalendas augusti_.
Riuscì in quest'anno ad Adalberto figliuolo di Berengario di aver nelle
mani Dodone cappellano d'esso Augusto, e di condurlo prigione in
Corsica, ma da lì a non molte il rimise in libertà. Venne anche fatto a
_Gualdo_ ossia _Gualdone vescovo_ di Como di espugnar l'isola, fortezza
situata nel lago Lario, o vogliam dire di Como, con ismantellare poscia
tutte quelle fortificazioni, ma senza potere rimettere in grazia
dell'imperadore Azzo, che sotto questa promessa gli avea ceduto quel
forte luogo. Vien accennato da Leone Ostiense[2291] un diploma
dell'imperadore Ottone in confermazione di tutti i privilegii e beni
dell'insigne monistero di monte Casino; e questo si vede pubblicato dal
padre Gattola[2292] colle seguenti note: _Data XII kalendas martii, anno
dominicae Incarnationis DCCCCLXIV, Indictione VII, anno imperii magni
Ottonis imperatoris Augusti tertio. Actum in Villa Paterno, in comitatu
pennense._ Di qui intendiamo che Ottone nel febbraio dell'anno presente
dimorava tuttavia nella marca di Camerino. E si noti il titolo di
_magno_, che non si suole ordinariamente vedere in altri diplomi d'esso
imperadore. Come si ha dalla storia veneta del Dandolo[2293], in
quest'anno _Pietro Candiano IV_ doge di Venezia spedì ad esso imperadore
Giovanni Contarino e Giovanni Denco ossia Dente, suoi ambasciatori, ed
ottenne la conferma de' soliti patti e privilegii del clero e popolo di
Venezia. Due placiti ho io riferito altrove[2294], e tenuti, in
quest'anno da _Otberto marchese e conte del sacro palazzo_, progenitor
dei principi estensi, in Pavia e in Lucca. Cosmo della Rena ha
incautamente confuso questo principe con _Uberto_ marchese di Toscana.
Vedesi esso Otberto ancora chiamato in un di que' placiti _Aubertus
marchio, et comes palacii_; ma egli nella sottoscrizione si chiama
_Otbertus_. _Uberto_ veniva da _Hucbertus_, oppure da _Humbertus_, nome
diverso da _Otbertus_.

NOTE:

[2281] Continuator Reginonis.

[2282] Continuator Liutprandi, lib. 6, cap. 11.

[2283] Arnulf., Mediolan. Hist., tom. 4 Rer. Ital.

[2284] Baron., in Annal. Eccles.

[2285] Labbe, Concil., tom. 9.

[2286] Chron. Reicherspergense.

[2287] Baron., in Annal. Eccles.

[2288] Pagius, ad Annal. Baron.

[2289] Continuator Reginonis, in Chronico. Annalista Saxo apud Eccardum.

[2290] Antiq. Ital., Dissert. XIV.

[2291] Leo Ostiensis, Chron., lib. 1, cap. 4.

[2292] Gattola, Hist. Abbat. Casinens.

[2293] Dandul., in Chronico, tom. 12 Rer. Ital.

[2294] Antichità Estensi, P. I, cap. 16.



    Anno di CRISTO DCCCCLXV. Indiz. VIII.

    GIOVANNI XIII papa 1.
    OTTONE I imperadore 4.
    OTTONE II re d'Italia 4.


Dopo avere l'Augusto _Ottone_ celebrato in Pavia il santo Natale
dell'anno precedente, e dato buon sesto agli affari d'Italia, tosto
s'incamminò, per attestato del Continuatore di Reginone[2295], alla
volta della Germania. Gli vennero all'incontro ai confini il re _Ottone
II_ e _Guglielmo arcivescovo_ di Magonza, suoi figliuoli. Seco condusse
in quelle parti lo sfortunato papa _Benedetto V_, e il consegnò ad
_Adalago arcivescovo_ di Amburgo con ordine di ben custodirlo. Attesta
Adamo bramense[2296] che _archiepiscopus illum magno cum honore usque ad
obitum ejus detinuit_. E che a' suoi dì si diceva essere stato questo
papa uomo santo e letterato. _Igitur apud nos in sancta conversatione
vivens, aliosque sancte vivere docens, quum jam, Romanis poscentibus, a
Caesare restitui debuisset, apud Hammamburg in pace quievit. Cujus
transitus III nonas julii contigisse describitur._ Abbiamo da
Ditmaro[2297] che a' tempi di _Ottone III_ fu riportato a Roma il corpo
d'esso papa, il quale avea predetto di dover morire in Amburgo, e che
finattantochè non fossero riportate a Roma l'ossa sue, sarebbe stato
quel paese desolato dai circonvicini pagani, nè vi si godrebbe mai pace:
il che si verificò a puntino. Le parole sopra riferite di Adamo bremense
ci danno a conoscere che prima di papa _Benedetto V_ era mancato di vita
_Leone VIII_, lasciato in Roma qual papa dall'imperadore Ottone. Morì
egli in fatti in quest'anno, per attestato del Continuatore di
Reginone[2298]; e i Romani, per paura di disgustar l'imperadore,
spedirono in Sassonia due ambasciatori, cioè _Azzo_ protoarchivista, e
_Marino vescovo_ di Sutri, _pro instituendo quem vellet romano
pontifice_. In tal congiuntura dovettero fare istanza per riavere il
legittimo papa, cioè l'esiliato _Benedetto V_. Ed aveano anche, secondo
il suddetto Adamo, indotto l'imperadore a concederlo, ma nol permise la
morte sua, accaduta mentre s'era dietro a questo maneggio. Però Ottone,
che li avea onorevolmente accolti, li rispedì a Roma, e con loro
accompagnò _Otgerio vescovo_ di Spira, e _Liuzo vescovo_ di Cremona.
Altri non è questo _Liuzo_ se non _Liutprando_ storico, tante volte
nominato di sopra, che divenuto vescovo di Cremona, non lasciava di
frequentar la corte di Ottone, siccome personaggio di vaglia e molto a
lui caro. I nomi in questi secoli barbari si trovano molto alterati nel
linguaggio de' popoli. _Conrado_ diviniva _Conone_; _Azzo_ si mutava in
_Attone_; _Enrico_ cangiavasi in _Enzio_; _Adelaide_ si pronunziava per
_Adela_, _Alda_, _Adeleita_, _Adelgia_; _Cunegonda_ si convertiva in
_Cuniza_, e simili, siccome ho io avvertito altrove[2299]. Seguita a
dire quello storico, che giunti a Roma i suddetti ambasciatori e
personaggi, _tunc ab omni plebe romana Johannes narniensis ecclesiae
episcopus eligitur, sedique apostolicae pontifex inthronizatur_.
L'antico rito era, che il clero e popolo romano, dappoichè era morto e
seppellito il papa, immantinente passavano ad eleggere il successore; ma
nol consecravano prima d'averne dato avviso agl'imperatori, o ai loro
ministri in Italia, e ricevutone il _placet_. Troppi esempli ne abbiam
veduto in addietro. Per lo contrario, le parole sopra riferite paiono
indicare che neppure godessero ora i Romani la libertà dell'elezione, e
che possa esser vera la facoltà che alcuni pretendono data od Ottone il
Grande e a' suoi successori di eleggere il papa. Ma non è da credere che
Ottone il Grande commettesse questo atto tirannico. E noi qui
intendiamo, perchè non fu secondo il costume immediatamente eletto il
successore di _Leone VIII_. Era tuttavia vivo il vero papa _Benedetto
V_, nè altro papa si poteva o doveva eleggere dai Romani. Morto quello,
e tornati con tal nuova a Roma gli ambasciatori coi vescovi suddetti,
non già dall'imperadore, nè dai suoi ministri, _ma ab omni plebe
romana_, cioè dal clero e popolo, fu eletto _papa Giovanni XIII_. Non
passò poi l'anno presente che questo novello pontefice, ossia perchè
trattasse con troppa altura i baroni romani, oppure perchè non volesse
che i Romani mal avvezzi nei tempi addietro si usurpassero la
giurisdizione a lui spettante, si tirò addosso l'odio loro; in guisa che
un dì preso dal _prefetto di Roma_ (uffizio insigne a' tempi degli
antichi imperadori, che si torna ad udire ancora in questi) e da un
certo _Roffredo_, e cacciato di Roma, fu messo prigione in una fortezza
della Campania, oppure mandato in esilio colà.

Non mancarono alla Lombardia in quest'anno altre novità. _Adalberto_
figliuolo di Berengario, per molti parziali e corrispondenti che
tuttavia conservava in Italia, si lasciò vedere in Lombardia, e ci
dovette suscitar qualche ribellione. Avvisatone l'imperadore, spedì
_Burcardo duca_ d'Alemagna con delle soldatesche, e con ordine di andare
a trovar questo turbatore del regno, dovunque egli fosse. Questi, per
testimonianza del Continuatore di Reginone, _cum Langobardis imperatoris
fidelibus et Alemannis visum per Padum navigavit, et illis, ubi eum
audierant esse partibus, navim applicuit_. In vece di quel _visum per
Padum_, che è un errore de' copisti o degli stampatori, l'Annalista
sassone[2300] ha per _jusum et Padum_, che è un altro sproposito. Si dee
scrivere _jusum per Padum, giù per Po_; voce nei barbari tempi e infino
da santo Agostino[2301] usata. Nell'uscir dalle barche dietro quel
fiume, le truppe imperiali furono assalite da Adalberto e da' suoi. Ma
restò estinto sul campo con alquanti _Guido_ fratello d'esso Adalberto,
e il resto diede a gambe. Adalberto anch'egli si salvò nelle montagne,
dove si tenne ben ascoso da lì innanzi. Burcardo all'incontro se ne
tornò in Germania, e portò all'imperadore la nuova di questa vittoria.
Fece anche rumore un altro fatto in Lombardia. _Interim_ (seguita a dire
il Continuator di Reginone[2302], con cui va d'accordo l'Annalista
sassone) _Guido metensis episcopus vulpina calliditate imperatori
fidelem se simulans, ipsique infideles se proditorium jactans, legatione
Adalberti fungens, in Saxonia imperatorem aggreditur, nec tamen visu aut
allocutione ipsius participatur: cum dedecore redire permissus, infra
Alpes ultra Curiam comprehenditur, et Saxoniam remissus in Sclavis
custodiae mancipatur._ Ma ancor qui un errore corso nelle copie o nelle
stampe di tale istoria ci ha nascoso chi fosse questo _Guido_ vescovo.
Non già egli fu _metensis episcopus_, come ha il testo suddetto, perchè
allora _Adalberone_, oppure _Teodorico_ reggeva la chiesa di Metz; ma
bensì _mutinensis_ (voce che, probabilmente abbreviata nell'originale,
non fu osservata nè intesa dal copista, e da lui presa per quella di
_Metensis_) _episcopus_. _Mutinensis episcopus_ appunto si legge
nell'Annalista sassone. Ed è quel medesimo _Guido vescovo_ di Modena che
abbiam veduto di sopra occupatore della ricchissima badia di Nonantola,
ed _arcicancelliere_ non meno sotto i re Berengario e Adalberto, che
sotto il medesimo Ottone Augusto. Non so già io credere ch'egli passasse
in Germania come ambasciatore di Adalberto, perchè un uomo sì scaltro, e
ministro sì eminente dell'imperadore, non par capace d'un salto sì
fatto. Dovette egli piuttosto tener qualche filo di corrispondenza con
Adalberto; e ciò scoperto, divenne sospetto alla corte cesarea. Mi si
rende verisimile ch'esso si portasse colà per far credere (non so se con
verità o con falsità) all'imperadore, che l'intelligenza sua con
Adalberto era stata per iscoprire chi fossero i partigiani d'esso
Adalberto in Italia, e chi quei che macchinavano ribellione contra
dell'imperadore. Ma nel cuore di Ottone prevalsero i sospetti formati
contra di lui, e massimamente perchè forse non lungi dal distretto di
Modena s'era lasciato vedere Adalberto allorchè si azzuffò poco dianzi
con Burcardo duca di Alemagna. Però gli negò l'udienza, e dopo averlo
licenziato, il fece poi prendere di qua da Coira nelle Alpi, e mandollo
prigione non so in quale fortezza. Così cessò egli d'essere
arcicancelliere. Ma noi il troviamo poscia nel concilio di Ravenna
dell'anno 967[2303], vivo e sano: segno, che se fu posto in prigione,
seppe anche uscirne, e dovette sopravvivere sino all'anno 969, perchè in
esso la città di Modena ricevette un vescovo nuovo, cioè _Ildebrando_.
La carica di _arcicancelliere_ vedesi da qui innanzi esercitata da
_Uberto vescovo_ di Parma.

Abbiamo da Lupo protospata sotto questo anno[2304] che _introivit Manuel
patricius in Siciliam, et ibi mortuus est_: cioè morì questo generale
dei Greci in una sanguinosa battaglia, ch'egli ebbe coi Saraceni
dominatori della Sicilia. Ne fa menzione Liutprando nella descrizione
della sua ambasciata[2305], di cui parleremo più abbasso, con dire che
_Saraceni animati ante triennium cum Manuele patricio, Nicephori_
(imperadore de' Greci) _nepote, juxta Scyllam et Charibdi in mare siculo
bellum pararunt. Cujus immensas copias quum prostravissent, ipsum
comprehenderunt, capiteque truncato suspenderunt. Cujus socium et
commilitonem_ (cioè Niceta eunuco) _quum caperent, quia neutrius erat
generis, occidere sunt dedignati, sed vinctum ac longa custodia
maceratum tanti vendiderunt, quanti nec ullum hujusmodi mortales sani
capitis emerent._ Più a lungo vien descritta questa funesta avventura da
Leone diacono presso il padre Pagi[2306]. Secondo lui, Niceta eunuco
patrizio comandava alla fanteria, Manuello patrizio alla cavalleria,
uomo di caldo ingegno e di sregolato ardire. Sbarcate che ebbero amendue
in Sicilia le lor milizie, trovaron da principio favorevole alle lor
armi la fortuna, perchè si arrenderono le città di Siracusa, di Termine,
Taormina e Lentini. Ma usciti di nuovo in campagna, mentre disordinati
inseguivano per luoghi disastrosi i fuggitivi, caddero nelle imboscate
de' Mori: laonde pochi se ne contarono che non restassero o messi a fil
di spada, o fatti schiavi. Le lor navi ancora per la maggior parte
rimasero preda de' vittoriosi Saraceni. Di questa spedizione cotanto
sfortunata fa menzione Cedreno; ed io vo credendo che sia la stessa che
vien narrata nella storia saracenica di Abulphedà[2307] sotto l'anno
961, o 962, con dire che _undique romanae venere classes_ (erano
appellati per lo più Romani i Greci) _propugnandi causa; et post
exitiosum bellum vicere Muslemii, qui plusquam viginti milia Romeorum
necarunt, cunctaque arma et illorum substantiam devastarunt_. Altri
autori hanno parlato di questo fatto all'anno 964.

NOTE:

[2295] Continuator Rheginonis, in Chron.

[2296] Adam Bremensis, lib. 2, cap. 6 Hist.

[2297] Ditmaros, in Chron. lib. 4.

[2298] Continuator Rheginonis, in Chronico.

[2299] Antiquit. Ital., Dissert. XLI.

[2300] Annalista Saxo, apud Eccardum.

[2301] S. Augustinus, Tract. VIII in Epist. S. Johann.

[2302] Continuator Rheginonis. Annalista Saxo.

[2303] Labbe, Concilior., tom. 9.

[2304] Lupus Protospata, in Chronico.

[2305] Liutprandus, in Legation.

[2306] Pagius, in Crit. Baron. ad hunc annum.

[2307] Hist. Saracen. Abulphedà, P. 1, tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCLXVI. Indiz. IX.

    GIOVANNI XIII papa 2.
    OTTONE I imperadore 5.
    OTTONE II re d'Italia 5.


Era disgustato forte l'imperadore _Ottone_ contra de' Romani a cagion
degli affronti fatti a papa _Giovanni XIII_, il quale si trovava
tuttavia o confinato in una prigione, o esiliato nella Campania. Non si
poteva scusar la ribellione, perchè si usurpavano l'autorità temporale,
di cui erano da gran tempo giustamente in possesso i romani pontefici; e
l'ardir loro feriva anche l'imperador loro sovrano. Perciò Ottone
determinò di tornare in Italia per rimediare a sì fatti disordini[2308],
ed anche per tagliare il cor a certe trame che _Adalberto_ figliuolo di
Berengario andava tuttavia ordendo o mantenendo in Lombardia. Ed appunto
si venne a scoprire anche in Germania che un certo _Udone conte_ di
quelle contrade, irritato contra di _Gualdo_ ossia _Waldone vescovo_ di
Como, perchè questi non avesse impetrata grazia dall'imperadore ad
_Attone_ ossia ad _Azzo_ già assediato nell'isola del lago di Como, si
preparava a venire in Italia con risoluzione di cavar gli occhi al
suddetto vescovo. Aveva a questo fine intelligenza segreta con
Adalberto. Fu preso e condannato; ma ottenne il perdono, con giurare di
non mettere mai più piede in Italia. Dopo la metà di agosto tenne
l'Augusto Ottone una gran dieta in Germania, e poi per l'Alsazia e per
Coira calò in Lombardia. Portava egli seco una lista di quei che
nell'anno precedente aveano o palesemente o segretamente abbracciato il
partito di Adalberto. Fra essi era _Sigolfo vescovo_ di Piacenza con
alcuni conti. Portatisi questi ad ossequiare l'Augusto sovrano, fece lor
mettere le mani addosso, e li mandò prigioni oltre a' monti, chi nella
Francia orientale e chi in Sassonia. Fece venir freddo ai Romani la
comparsa dell'imperadore in Italia, e l'apprensione del suo rigore; e
figurandosi di acconciar le cose con poca spesa, liberarono il papa con
richiamarlo a Roma, e chiedergli perdono delle ingiurie. Vuole il
Continuator di Reginone che _Giovanni XIII_ papa, da che venne cacciato
di Roma, stesse imprigionato in qualche fortezza della Campania. Ma
Leone ostiense[2309] suppone ch'egli solamente fosse mandato in esilio
con dire: _Johannes papa Roma pulsus exilio, Capuam venit, et a memorato
principe Pandulfo rogatus, tunc primum in eadem civitate
archiepiscopatum constituit_. Se ciò è vero, e se in quest'anno la
chiesa di Capoa fu eretta in arcivescovato, egli non altro soffrì che
l'esilio in Campania; oppure messo in libertà prima di tornarsene a
Roma, andò a Capoa, dove accrebbe l'onore a quella chiesa. Ma altri
tengono eretta Capoa in arcivescovato nell'anno 968. Ermanno
Contratto[2310] all'anno 969 (cioè fuor di sito) racconta che _hoc
tempore Rofredus comes et Petrus praefectus cum aliis quibusdam Romanis
Johannem papam comprehensum, et in castellum sancti Angeli retrusum, et
in exsilium demum in Campaniam missum per decem et amplius menses
affligunt; donec Rodfredo occiso a Johanne quodam Crescentii filio, ad
suam sedem vix tamdem relaxatus rediret_. Durò dunque più di dieci mesi
l'esilio di papa Giovanni, e verisimilmente egli ritornò alla sua sedia
nel settembre dell'anno corrente.

Verso il fine parimente di quest'anno arrivò l'imperadore Ottone a Roma,
e quivi celebrò le feste del santo Natale. Nota il Continuatore di
Reginone[2311] che in questo medesimo anno _Berengarius quondam Italiae
rex exsul moritur et in Babemberg regio more sepelitur_. _Willa_ ossia
_Guilla_ sua moglie, prima che il corpo di lui fosse dato alla
sepoltura, si fece monaca in Bamberga. Due loro figliuole nubili erano
state prima con tutto decoro messe dall'imperadore in corte presso
l'imperadrice _Adelaide_. De' due figliuoli maschi d'esso Berengario,
cioè di _Adalberto_ e di _Conrado_, che restarono vivi e in
libertà, ne parleremo anche all'anno 968. S'ingannò forte l'abbate
urspergense[2312], allorchè scrisse che _Adalberto_ con Berengario suo
padre fu condotto prigione a Bamberga. Intanto non voglio ommettere che
esso Adalberto lasciò dopo di sè un figliuolo appellato _Ottone
Guglielmo_[2313]; e che _Gerberga_ moglie d'esso Adalberto rimasta
vedova, si rimaritò con _Arrigo duca_ di Borgogna. Questi poi venuto a
morte senza lasciar figliuoli proprii, fece passare quel ducato nel
figliastro, la cui discendenza durò anche molto tempo in insigne onore.
In un diploma di _Arrigo I_ imperadore dell'anno 1014, rapportato dal
Guichenon[2314], egli si vede appellato _Ottho qui et Wilelmus comes,
filius Adalberti, nepos Berengarii regis_. Poc'attenzione per altro fu
quella del Guichenon[2315] medesimo, allorchè riferì all'anno presente
una donazione che si dice fatta da _Ottone II_ imperadore a _Manfredo_
marchese di Susa, con questa data: _XI kalendas novembris anno dominicae
Incarnationis nongentesimo sexagesimo sexto, Indictione I, anno vero
tertio Ottonis_. Nel presente anno neppur era nato, nè era per nascere
_Ottone III_. Nè _Ottone III imperare coepit anno salutis 973_, come
scrive esso Guichenon. Nè l'_indizione prima_ si accorda col suo _anno
terzo_. Manca eziandio il luogo del suo dato diploma. Però quello è
documento o apocrifo, o molto informe. Era in questi tempi re di Francia
_Lottario_, ed abbiamo da Frodoardo[2316] ch'egli nell'anno presente
_uxorem accepit Emmam filiam regis quondam italici_, cioè di _Lottario
re_ figliuolo del _re Ugo_. Essendosi rimaritata in Ottone Augusto
_Adelaide_ madre di questa principessa, è da credere che lo stesso
imperadore si adoperasse molto per procurar così illustri nozze alla
figliastra. Il medesimo Frodoardo nella Cronica virdunense[2317] ripete
lo stesso con dire _Lotharius rex Francorum Emmam Lotharii regis
Italiae, et Adeleidis post imperatricis filiam, duxit uxorem_.

NOTE:

[2308] Continuator Rheginonis, in Chron.

[2309] Leo Ostiensis, in Chron., lib. 2.

[2310] Hermannus Contract., in Chron., edition. Paris.

[2311] Continuator Rheginonis, in Chron.

[2312] Urspergensis, in Chronico.

[2313] Sammarthani, in General. Franc. Brondellus, in Geneal. Franc.

[2314] Guichenon, Bibliot. Sebus., Centur. II, c. 39.

[2315] Idem, cap. 89.

[2316] Frodoardus, in Chronic. apud Du-Chesne.

[2317] Idem, in Chronic. Virdunens., pag. 157.



    Anno di CRISTO DCCCCLXVII. Indiz. X.

    GIOVANNI XIII, papa 3.
    OTTONE I imperadore 6.
    OTTONE II imperadore 1.


Attese sul principio di quest'anno l'_imperadore Ottone_, stando in
Roma, a processar que' Romani che aveano sì maltratato papa _Giovanni
XIII_. Il Continuatore di Reginone[2318] altro non dice, se non che
_excepto praefecto urbis, qui aufugerat, tredecim ex majoribus Romanis,
qui auctores expulsionis domni Johannis papae videbantur, suspendio
interire jussit_: pruove, dice il padre Pagi, del suo supremo dominio in
Roma[2319], esercitato alla guisa dei suoi predecessori. Aggiugne il
cardinal Baronio[2320], con citare una giunta fatta ad Anastasio
bibliotecario, che Ottone mandò oltre ai monti in esilio i _consoli_,
fece impiccare per la gola i tribuni, e cavar dal sepolcro il cadavero
di Roffredo prefetto della città, che fu squartato in varii pezzi. Quel
prefetto, che era succeduto a Roffredo, posto nudo sopra un asino con un
otre in capo, fu ignominiosamente menato per la città, frustato, e poi
cacciato in prigione. Noi non sappiam tutto l'operato da lui; pure ne
sappiam tanto, che possiam conghietturare che la giustizia di lui
comparisse presso di molti crudeltà. Lo stesso _Niceforo Foca_ imperador
de' Greci rinfacciò a Liutprando ambasciator d'Ottone nell'anno
seguente, che esso Ottone[2321] _Romanorum alios gladio, alios suspendio
interemit, oculis alios privavit, exsilio alios relegavit_. Ma
Liutprando rispose che Ottone _insurgentes contra, et domnum
apostolicum, quasi jurisjurandi violatores sacrilegos, dominorum suorum
apostolicorum tortores, raptores, secundum decreta romanorum imperatorum
Justiniani, Valentiniani, Theodosii, et ceterorum, caecidit, jugulavit,
suspendit, et exsilio relegavit. Quae si non faceret, impius, injustus,
crudelis, tyrannus esset._ Ma Carlo Magno non fece così; ed Ermanno
Contratto scrive[2322] che Ottone _Romam veniens injurias domini papae
graviter in auctoribus sceleris, partim exsiliis, partim patibulis,
variisque poenis et abominationibus judicavit_. Non ha conosciuto il
cardinal Baronio, e neppur altri, fuorchè il Sigonio, un concilio di
assaissimi vescovi italiani ed oltramontani, celebrato sul principio di
quest'anno in Roma da papa Giovanni XIII. D'esso ci ha conservata
memoria un diploma di Ottone il Grande, con cui vengono confermati tutti
i suoi beni e privilegii all'insigne monistero di Subiaco. L'ho io
pubblicato[2323], e porta queste note: _Data tertio idus januarias, anno
dominicae incarnationis DCCCCLXVII, imperii vero domni Ottonis piissimi
Caesaris V, Indictione X_. Dice ivi l'imperadore che _Giorgio abbate_ di
Subiaco _venit in gremium Basilicae beati Petri Apostolorum principis,
ubi cum domno Johanne XIII papa, sanctae synodo pro utilitate ejusdem
ecclesiae, et venerabilium locorum intereramus, circum sedentibus cum
ravennate archiepiscopo plurimis episcopis ex romano territorio, atque
Italiae, et ultramontano regno, necnon praesente capuano principe, qui
et marchio Camerini et Spoletini ducatus_. Si noti quest'ultima partita,
di cui parleremo fra poco. Del suddetto concilio romano si ha anche da
intendere il Dandolo[2324], allorchè scrive che _Pietro Candiano IV
doge_ di Venezia nell'anno nono del suo ducato, cioè nel presente, mandò
per suoi ambasciatori Giovanni Contareno e Giovanni Venerio diacono
_Johanni papae, et Ottoni imperatori, Romae existentibus in synodo ibi
congregata_; e che, mostrati, i privilegii della chiesa di Grado, fu
decretato in esso concilio ch'essa fosse chiesa patriarcale e metropoli
di tutta la Venezia. E lo stesso Ottone le confermò i suoi privilegii
con un diploma a parte. Terminato questo concilio, l'imperadore,
secondochè s'ha dal Continuator di Reginone[2325], pel ducato di Spoleti
venne a Ravenna, dove celebrò la Pasqua in compagnia del sommo pontefice
Giovanni XIII. _Actum in loco, qui dicitur sancto Severo, ubi domnus
Otto praeerat, X kalendas madii, Indictione X_, si legge in uno
strumento rapportato dal padre Bacchini[2326]. Quivi ancora nel mese
d'aprile tenuto fu un concilio d'assaissimi vescovi, i cui atti, siccome
ancor quelli del concilio romano, non son giunti fino a' dì nostri.
Solamente si sa che furono ivi fatti molti decreti _ad utilitatem
sanctae Ecclesiae_; e il Continuator di Reginone scrive che l'imperadore
_apostolico Johanni urbem et terram Ravennatium, aliaque complura,
multis retro temporibus romanis pontificibus ablata reddidit; eumque
inde Romani cum magna laetitia remisit_. Cioè Ugo, Lottario e Berengario
re d'Italia nulla aveano lasciato godere dell'esarcato ai papi; e lo
stesso Ottone ne avea ritenuto anche egli fin qui, oltre al sovrano,
l'utile dominio. Per quello che dirò all'anno 970, motivo ci resta di
dubitare che Ravenna fosse restituita al papa. Tuttavia Liutprando[2327]
nell'anno seguente 968 rispose al greco imperadore che l'Augusto Ottone
I _sanctorum Apostolorum vicariis potestatem et honorem omnem
contradidit_.

Ciò fatto l'imperadore andò in Toscana, per attestato del Continuatore
suddetto. L'Annalista sassone[2328] aggiugne ch'egli _in partes Tusciae
et Lucaniae secessit_, cioè nel ducato di Benevento. Certo è ch'egli fu
in Toscana nel mese di giugno, ciò apparendo da un placito tenuto dal
_marchese Otberto_ conte del sacro palazzo, da me dato alla luce[2329],
e tenuto _locus nuncupante prope monte Vultrario, quod est infra
comitatu voloterense, ubi domnus Hotto imperator Augustus praeerat_. Il
documento fu scritto _anno imperii domni Hottoni imperatore Augustus, et
item Hotto filio ejus gratia Dei rex sexto, XII die mense junii,
Indictione decima_. Se poscia Ottone passasse verso Benevento, nol so
dire. Abbiamo bensì un diploma d'esso Augusto presso l'Ughelli[2330],
che cel rappresenta nella stessa città di _Benevento_ nel dì 13 di
febbraio dell'anno presente, e ci dà a conoscere ch'egli non andò a
dirittura da Roma a Ravenna. Esso privilegio fu dato in favore della
chiesa di Benevento: _Idibus februarii anno dominicae Incarnationis
DCCCCLXVII, imperii vero domni Ottonis piissimi Caesaris VI, Indictione
X. Actum in civitate Beneventi._ Ci conduce poi questo medesimo atto ad
intendere che _Pandolfo Capodiferro e Landolfo III_ suo fratello già
aveano riconosciuto l'alto dominio dell'imperadore sopra i loro
principati di Benevento e Capoa, e s'erano dichiarati suoi vassalli, con
abbandonare i Greci. Però _Niceforo Foca_ imperador greco nell'anno
seguente ebbe a dire a _Liutprando vescovo_ di Cremona e ambasciator di
Ottone[2331]: _Principes autem, capuanam scilicet, et beneventanum,
sancti nostri imperii olim servos, nunc rebelles, servituti pristinae
(Otto) tradat_. Ma Pandolfo la seppe fare da buon mercatante, perchè in
ricompensa di questa sua soggezione aveva ottenuto dall'imperadore di
esser creato anche _duca di Spoleti e marchese di Camerino_. Fu di
parere Camillo Pellegrino[2332] che Pandolfo solamente nell'anno 969
conseguisse così buon boccone. Ma ci restano documenti sicuri, indicanti
che prima anche dell'anno presente, egli arrivò a conseguirlo. L'abbiam
poco fa veduto intervenire al concilio romano nel dì undici di gennaio
del presente anno con i titoli di duca e marchese. Oltre a ciò, nelle
giunte da me fatte alla Cronica casauriense[2333] abbiamo un bel
placito, tenuto _in villa Mariani, campo juris proprietatis sanctae
Firmanae ecclesiae, residente Pandulfo duce et marchione_, e scritto
_anno ab Incarnatione Domini Jesu Christi DCCCCLXVII, et imperante domno
Ottone imperatore Augusto, anno imperii ejus VI, mense februario, per
Indictionem X_. Il nome di _duca_ e di _marchese_ riguarda il ducato di
_Spoleti_ e la marca di _Camerino_, nella quale era compresa la città di
_Fermo_, trovandosi anche la stessa marca talvolta appellata _marca di
Fermo_. Leggesi un altro placito nella Cronica del Volturno[2334],
tenuto nell'anno seguente _in territorio marsicano_, che era allora
parte del ducato di Spoleti, _ubi sedebat domnus Pandolfus gloriosus
princeps_ (di Benevento, oppur solamente di Capoa), _dux_ (di Spoleti)
_et marchio_ (di Camerino) scritto _in anno ab Incarnatione Domini
nostri Jesu Christi DCCCCLXVIII, anno imperii magni Ottonis Augusti in
anno septimo, et Otto imperatoris filius insimul cum eo in anno primo,
et IV kalendas septembris, Indictione undecima_. Di qui ancora si scorge
che Pandolfo non aspettò l'anno 969 per acquistare i governi di Spoleti
e di Camerino. Era stato ne' tempi del re Ugo in possesso di questi due
stati _Uberto_ duca e marchese di Toscana suo figlio bastardo. Quando
egli ne decadesse, e se per cagion del suo esilio, oppure per la sua
morte, non si sa; e noi troviamo ben imbrogliata la storia de' suoi
ultimi anni e il tempo della morte sua; del che ho io parlato
altrove[2335]. Quel che è certo, _Ugo_ suo figliuolo a lui succedette
nel ducato della Toscana (non so dire in qual anno preciso), ma non già
in quello di Spoleti, e neppur della marca di Camerino, quantunque col
tempo egli arrivasse a dominar ancora in quelle contrade. Ci vien poi
dicendo il Continuatore di Reginone[2336] che tanto papa Giovanni XIII,
quanto l'imperadore scrissero lettere al giovane re _Ottone II_,
invitandolo per la festa del santo natale a Roma.

Impiegò Ottone II alcuni mesi per mettere in buon ordine gli affari di
Germania, al qual fine tenne anche una dieta de' principi in Vormazia.
Ed essendosi finalmente messo in viaggio nel mese di settembre,
accompagnato da _Guglielmo arcivescovo_ di Magonza suo fratello,
solennizzò la festa di san Michele in Augusta. E qui termina la
continuazione degli Annali di Reginone. Seguita a dire l'Annalista
sassone[2337] ch'esso re per la valle di Trento calò in Italia, e trovò
in Verona l'Augusto suo padre, con cui celebrò la festa dell'Ognissanti.
Poscia passando per Mantova, ed imbarcatisi in Po, giunsero a Ravenna, e
dopo essersi fermati quivi per alquanto tempo, ripigliato il viaggio,
arrivarono a Roma _XI kalendas januarii_ nel dì 22 di dicembre; ma dee
dire _IX kalendas_, cioè nel dì 24, incontrati tre miglia fuori di Roma
dai senatori colle scuole portanti le lor croci ed insegne, e cantanti
le lodi dell'imperadore. Si trovò papa Giovanni nelle scalinate di san
Pietro a riceverli. Nel _seguente giorno_, cioè nella festa del santo
Natale, _Ottone II_ nella basilica vaticana fu proclamato imperadore
Augusto, e ricevette dalle mani di papa Giovanni l'unzione e corona
imperiale con gran plauso ed allegria non meno dei Tedeschi che dei
Romani. Ditmaro[2338] all'incontro scrive che Ottone suo padre non si
trovò allora in Roma: _Æquivocus imperatoris junior, Otto, quem peperit
inclyta mater Adelhaidis, in nativitate domini Romae imperator effectus
est, patre jubente, ac tunc in Campania juxta Capuam commorante_. Nè si
dee tralasciare, che stando nell'aprile di quest'anno Ottone il Grande
in Ravenna[2339], Niceforo Foca imperador de' Greci gli spedì degli
ambasciatori con diversi regali, chiedendo pace ed amicizia con lui.
Furono assai onorevolmente accolti e rispediti, forse con sole buone
parole; perchè l'imperadore covava delle pretensioni sopra gli stati
chiamati ora il regno di Napoli. Tuttavia, sperando egli di far meglio
questo affare con inviare i suoi ambasciatori alla corte di
Costantinopoli, scelse per tale incumbenza _Liutprando vescovo_ di
Cremona, a cui non mancava la lingua in bocca. Questi nell'anno
susseguente s'incamminò a quella volta, portando specialmente la
commission di chiedere per moglie del cesareo figliuolo _Ottone
Teofania_ figliuola di _Romano_ juniore, già imperador d'Oriente. Sotto
quest'anno scrive Lupo protospata:[2340] _Descendit Otho rex et senex,
pater Othonis regis, qui pugnavit cum Bulcassimo Saracenorum rege, et
interfecit eum, et in eo praelio perierunt quadraginta millia hominum_.
Ma pretende Camillo Pellegrini che questa sì strepitosa vittoria, in
tempi tali non conosciuta da verun altro storico, sia narrata fuor di
sito (siccome credo io che nel gran numero di que' Saraceni ammazzati il
protospata slargasse esorbitantemente la bocca), e s'abbia essa da
riferire all'anno 981, e a' tempi di Ottone II Augusto. Appartiene al
presente anno un diploma[2341] di Ottone I, in cui dona molte corti ad
_Aledramo_ ossia _Aleramo marchese_, il quale vien creduto che fosse il
primo marchese della marca del _Monferrato_. Da lui poscia discese la
famiglia di quei principi che fecero risonare il suo nome non meno in
Occidente che in Oriente.

NOTE:

[2318] Continuator Rheginonis, in Chron.

[2319] Pagius, in Crit. Baron.

[2320] Baron., in Annal. Eccl. ad ann. 966.

[2321] Liutprandus, in Legation.

[2322] Hermannus Contractus, in Chronic.

[2323] Antiquit. Ital., Dissert. LXV.

[2324] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2325] Continuator Rheginonis, in Chronico.

[2326] Bacchini, Ist. del Monistero di Polirone, Append.

[2327] Liutprandus, in Legationib.

[2328] Annalista Saxo.

[2329] Antichità Estensi, P. 1. cap. 16.

[2330] Ughell., Ital. Sacr., in Episcop. Benevent., tom. 8.

[2331] Liutprandus, in Legation.

[2332] Peregrinus, Hist. Princip. Langobard.

[2333] Chron. Casauriense, P. II, tom, 2 Rer. Ital.

[2334] Chron. Vulturnense, P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2335] Antichità Estensi, P. I, cap. 15.

[2336] Continuator Rheginonis, in Chronico.

[2337] Annalista Saxo, apud Eccardum.

[2338] Ditmarus, in Chron., lib. 2.

[2339] Continuator Rheginonis in Chronico.

[2340] Lupus Protospata, in Chronico.

[2341] Benvenuto da S. Giorgio, Istor. del Monferrato.



    Anno di CRISTO DCCCCLXVIII. Indiz. XI.

    GIOVANNI XIII papa 4.
    OTTONE I imperadore 7.
    OTTONE II imperadore 2.


Ci resta la descrizione dell'ambasciata fatta da _Liutprando_ vescovo di
Cremona a _Niceforo Foca_ imperadore di Oriente, a nome dei due _Ottoni_
imperadori d'Occidente[2342], ed è un pezzo stupendo per que' secoli
d'ignoranza, che fa più che mai conoscere quanto fosse spiritoso e
lepido l'ingegno di questo vescovo. Giunse egli nel dì 4 di giugno del
presente anno a Costantinopoli; fu mal ricevuto, maltrattato in varie
maniere a quella corte. S'ebbe a male Niceforo Foca che Ottone
s'intitolasse _imperadore de' Romani_, perchè, secondo lui, dovea
chiamarsi solamente _re_, pretendendo riserbato a sè solo il titolo
d'imperadore: pretensione che saltò fuori anche a' tempi di _Lodovico
II_ imperadore. Andò parimente in furia contra di _papa Giovanni_, il
quale avea spedito anch'egli de' legati con lettere esortatorie per le
nozze proposte con _Ottone II_ chiamato _imperadore_. Ma quel che più
scottava il greco Augusto Niceforo, a noi dipinto (non so se con tutta
verità) da Liutprando come uomo a cui niun vizio mancava, era l'aver già
inteso che i principi di Benevento e di Capua, in addietro vassalli e
tributarii dei greci imperadori, si fossero sottomessi all'imperadore
Ottone; e tanto più perchè era insorta paura che Ottone potesse e
volesse anche toglier ai Greci gli stati dipendenti da essi in Puglia e
in Calabria. Si vede da questa relazione che _Adalberto_ e _Corrado_
figliuoli del già re Berengario, erano ricorsi alla corte greca, e le
faceano credere d'avere in Calabria o in Puglia sette mila corrazzieri
da unire coll'armata navale che Niceforo pensava di spedire in Italia
contro gli sforzi d'Ottone Augusto. Fra le molte insolenze, vanti e
spropositate cose che Niceforo imperadore, o i suoi ministri dissero a
Liutprando, il più ridicolo fu l'aver eglino preteso, che se Ottone
voleva pure per moglie del figliuolo la regal principessa greca
_Teofania_, avesse da cedere al greco augusto l'esarcato di Ravenna,
Roma col suo ducato e il resto del paese, cioè Benevento e Capua, sino
ai confini degli stati goduti dai Greci in Puglia ed in Calabria.
Oppure, se cercava solo amicizia, senza trattar di parentela, che
lasciasse libera Roma, cioè ch'egli si spogliasse del titolo e diritto
imperiale sopra di Roma. Poichè per altro intendeva il greco imperadore
di restituire ai papi tutto quel che loro era dovuto, purchè potesse
ricuperare la sovranità sopra di Roma, e l'antica pretesa autorità
nell'elezione dei nuovi papi. In questo mentre avvertito l'imperadore
Ottone dell'indegno ricevimento del suo ambasciatore in Costantinopoli,
e che Niceforo in vece di pace voleva guerra, e dava ricovero ad
Adalberto e Corrado nemici suoi, e metteva in ordine una flotta, per
inviarla contra di lui in Italia: vedendosi invitato al suo giuoco,
senza perdere tempo, andò a mettere il campo sotto Bari, città allora
sottoposta ai Greci. Di questo assedio fa menzione lo stesso Liutprando,
ma con soggiugnere che alle sue preghiere Ottone l'avea poi levato:

    _Induperator enim Barium conscenderat Otto,_
    _Caede simul, flammisque sibi loca subdere tentans_
    _Sed precibus remeat romanas victor ad urbes_
    _Inde meis:_

Si dovea trovar in affanni Liutprando al veder cominciata la guerra,
quand'egli era tuttavia in mano de' Greci che poteano voler vendicarsi
sulla di lui persona. L'Anonimo salernitano[2343] scrive che Ottone
_Apuliae fines venit, et valide eam dimicavit, et civitatem Bari
aliquantulum obsedit, et quantum valuit undique constrinxit_. Forse
interpretando il Sigonio[2344] alcune parole di Sigeberto storico, prese
occasione di scrivere che i principi di Benevento e Capoa, ribellatisi
ad Ottone, furono in aiuto de' Greci, e che dipoi astretti dalla forza
tornarono all'ubbidienza dell'imperador latino. Ma Liutprando nella
relazion della sua ambasciata, e i placiti di Pandolfo, da me rammentati
all'anno precedente, fanno abbastanza intendere che esso Pandolfo e
Landolfo suo fratello osservarono una buona armonia coll'Augusto Ottone,
nè punto a lui si ribellarono in questi tempi. Cosa operassero in
congiuntura di tali turbolenze i due figliuoli del fu re Berengario, non
apparisce. Arnolfo storico milanese del secolo susseguente
racconta[2345] che _Corrado_, si quietò, perchè _Gotifredo_ creato dipoi
arcivescovo di Milano nell'anno 975, oppure Ottone II imperadore gli
dovette accordar qualche stato o pensione. Ma _Adalberto_ non volle mai
ascoltare trattato alcuno d'accordo, e finchè visse fu in armi contro
gli Ottoni Augusti. Dei figliuoli di Berengario così scrive il suddetto
Arnolfo storico: _Quorum Widone interfecto, Conone pactione quieto,
Adelbertus ceteris animosior diebus vitae omnibus factus est in diversa
profugus_. Contra di questi ebbe molta guerra il suddetto Gotifredo
arcivescovo di Milano, siccome prelato molto fedele agl'imperadori
Ottoni.

Appartiene all'anno presente, e non già all'antecedente, come immaginò
l'Annalista sassone, una lettera scritta da Ottone primo Augusto ai
baroni di Germania _XV kalendas februarii in Campania juxta Capuam_, e
riferita da Witichindo[2346], in cui fa loro sapere che aspettava gli
ambasciatori del greco imperadore, con apparenza che venissero a chieder
pace. Ma se altramente accadesse, sperava di tor loro coll'armi la
Puglia e la Calabria. Che se poi si accordassero, e gli concedessero la
moglie richiesta pel figliuolo, allora egli pensava di passare colle
milizie sino a _Frassineto_, per isnidar di colà i Saraceni spagnuoli.
Pareva che, secondo la relazion di Liutprando[2347], da noi veduta di
sopra all'anno 942, avessero i Mori abbandonato quel sito; ma di qui si
scorge che tuttavia ne erano in possesso, e che i lamenti dei popoli
circonvicini aveano mosso l'animo di Ottone il Grande a liberarli da
que' malandrini: il che poi non eseguì per la guerra insorta coi Greci,
e per altri disturbi suoi. In fine d'essa lettera scrive Ottone: _Filius
noster in Nativitate Domini coronam a domno Apostolico in imperii
dignitatem suscepit_: parole che compruovano scritta quella lettera nel
gennaio dell'anno presente. Nel dì primo di luglio parimente di
quest'anno diede esso imperadore in favore del monistero di Monte Casino
un diploma, accennato da Leone Ostiense[2348] e pubblicato dal padre
Gattola[2349], con queste note: _Data die kalendas julias anno dominicae
Incarnationis nongentesimo sexagesimo septimo, imperii vero domni
Ottonis serenissimi Caesaris septimo, Indictione XI. Actum in Monte, ubi
Staphulo Regis dicitur_. _L'anno VII_ di Ottone coll'_indizione XI_
chiaramente indicano l'anno presente 968, e pure ivi si legge 967. Altro
non si può pensare, se non che o il documento non sia autentico, e che
l'antico copista sbagliasse scrivendo _nongentesimo sexagesimo septimo_
in vece di dire _octavo_, oppure disattentamente copiasse il numero
romano DCCCCLXVIII tal quale forse stava notato nell'originale; oppure
che il cancelliere abbia fallato nell'_anno_, e forse anche nel nome del
_luogo_ il quale in un altro diploma, dato da esso Augusto al monistero
di San Vincenzo del Volturno nel dì precedente di questo medesimo anno,
vien chiamato _Stabulum Regis_. Le note di quest'altro diploma
sono[2350]: _Data pridie kalendas julias, anno dominicae Incarnationis
DCCCCLXVIII, imperii vero domni Ottonis serenissimi Caesaris septimo,
Indictione XI. Actum in Monte, ubi Stabulo Regis dicitur._ Di simili
sbagli commessi nelle segreterie e cancelliere de' principi, ne abbiamo
più di un esempio; ed io tengo un breve originale di Sisto IV papa,
scritto _pontificatus nostri anno tertiodecimo, die VII aprilis
MCCCCLXXXXIIII_, quando ha da essere _MCCCCLXXXIIII_. Sul fine di
quest'anno tornò indietro dalla sua ambasciata _Liutprando vescovo_ di
Cremona, mal soddisfatto dei Greci, e più del loro imperadore. Venne
anche a morte _Landolfo III_ principe di Benevento a Capoa[2351]. Benchè
lasciasse figliuoli, suo fratello _Pandolfo Capodiferro_ occupò tutti
gli stati dianzi da lui posseduti, con che crebbe di molto la di lui
potenza. In questi tempi fu creato duca di Amalfi _Mastaro_ juniore,
fratello del precedente Mastari, e tenne quel governo solamente quattro
anni, come si ricava dalla Cronichetta amalfitana, da me data alla
luce[2352].

NOTE:

[2342] Liutprandus, in Legation.

[2343] Anonymus Salern., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2344] Sigon., de Regno Ital. lib. 7.

[2345] Arnulf., Hist. Mediolan., lib. 1, cap. 8, tom. 4 Rer. Ital.

[2346] Witichindus, Annal., lib. 3. Annalista Saxo.

[2347] Liutprand., Hist. lib. 5, cap. 5 et 7.

[2348] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 4.

[2349] Gattola, Histor. Monaster. Casinens. P. I.

[2350] Chron. Volturn., P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[2351] Peregrinus, Hist. Princip. Langob., P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[2352] Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 120.



    Anno di CRISTO DCCCCLXIX. Indiz. XII.

    GIOVANNI XIII papa 5.
    OTTONE I imperadore 8.
    OTTONE II imperadore 3.


Secondo l'Annalista Sassone[2353], _Ottone il Grande_, dopo aver
solennizzata la festa del santo Natale dell'anno precedente nella
Puglia, fermossi tuttavia in quelle parti, e celebrò la Pasqua dell'anno
presente in Calabria. Sono affatto scuri i fatti d'esso Augusto in
quelle parti, dove egli si tratteneva, perchè tuttavia durava la guerra
coi Greci, nè voleva egli permettere che i principi di Benevento e di
Capua, divenuti suoi vassalli, restassero esposti allo sdegno
dell'imperadore di Oriente. Sigeberto[2354] attribuisce a quest'anno una
vittoria riportata sopra i Greci in Calabria da Guntero e Sigefredo
uffiziali dell'Augusto Ottone. Che vittoria fosse questa, lo dirò fra
poco. Lupo protospata[2355] altro non dice sotto quest'anno, se non _che
introivit Otho rex in Apuliam mense martii; obsedit civitatem Bari
irrito conatu_. Abbiam veduto che ciò succedette nell'anno antecedente.
Aggiunge: _Et in alio anno intravit in Calabriam mense octobris, et sol
obscuratus est mense decembris_. Pare che questo accadesse nell'anno
presente. In fatti abbiamo presso l'Ughelli[2356] un suo diploma, dato
_XIV kalendas maii, anno Incarnationis dominicae DCCCCLXIX, anno vero
domni Othonis serenissimi Augusti, octavo Indictione XII. Actum in
Calabria in suburbio Cassano._ In esso, a petizione di _Uberto vescovo_
di Parma ed arcicancelliere, conferma Ottone ad Ingone suo vassallo
tutti i beni da lui goduti _in comitatibus bulgariensi, laumellensi,
plombiensi, mediolanensi, evoriensi, papiensi, placentino, parmensi_: e
dice fra le altre cose: _Cum nos in Calabria residebamus in confine
atque planicie, quae est inter Cassanum, et Petram Sanguinariam, ibique
nostro imperiali jure nostris fidelibus tam calabris, quam omnibus
italicis, francisque atque theutonicis leges praeceptaque imponeremus_,
ec.; il che ci fa intendere la sovranità imperiale in quelle parti,
senza che ivi si parli punto di alcun altro diritto o pretensione dei
romani pontefici. Leggesi un altro diploma, spedito da esso Augusto in
confermazione de' beni e privilegii del monistero di Casauria, dato
_kalendis maii_, coll'altre note suddette[2357]. _Actum in suburbio
Bivino_ oggidì _Bovino_. Trovasi in questi tempi _Giovanni duca_ e
console di Gaeta[2358], cioè principe di quella città, ma dipendente dai
greci Augusti. Ora per tornare alla vittoria che dissi riportata
dall'imperadore in Calabria, Witichindo[2359] e Ditmaro[2360] la
raccontano in questa maniera. Fecero credere i Greci ad Ottone Augusto
d'aver condotta la principessa richiesta in moglie pel giovinetto
_Ottone II_; perlochè egli inviò in Calabria molta nobiltà con alcuni
reggimenti di soldati a riceverla. Quando questi si credevano d'essere
iti a far feste, all'improvviso i Greci si scagliarono loro addosso, non
pochi ne uccisero e molti ne presero, che inviarono prigioni a
Costantinopoli, con dar anche il sacco a tutto il loro bagaglio. Se a
questo avviso fumasse per la collera Ottone il Grande, ci vuol poco a
figurarselo. Diede ordine immantinente a Guntario e Sigefredo, valorosi
suoi generali, che col fiore delle sue genti andassero a dimandar conto
ai Greci di tanta iniquità. Volarono questi, sorpresero l'armata nemica;
ne fecero gran macello, e a quanti presero tagliarono il naso,
lasciandoli poi ire a lor comodo dove voleano. Posero in contribuzione
tutta quella parte di Calabria e Puglia che apparteneva ai Greci, e
carichi di bottino, d'allegria e di gloria se ne tornarono
all'imperadore. L'Anonimo salernitano[2361] scrive che Ottone _Calabriae
fines venit, incendiis et depraedationibus eam vehementer afflixit, et
millia damna vel oppressiones gessit in principatu salernitano_.
_Gisolfo principe_ di Salerno tenea allora coi Greci. Pretende
Witichindo che questa nuova portata a Costantinopoli servisse di motivo
al popolo di congiurare unitamente coll'iniqua imperadrice contra di
_Niceforo Foca_ imperadrice d'Oriente, a cui levarono la vita. Ma da
altre cagioni ebbe origine la morte inferita nel dicembre di quest'anno
a Niceforo: sopra di che si possono vedere gli storici greci[2362]. Lupo
protospata, Sigeberto ed altri il fanno ucciso nell'anno seguente, e
questa sembra opinione meglio fondata. In luogo suo salì sul trono
_Giovanni Tzimisce_, che ebbe assai a cuore di trattar d'amicizia con
Ottone Augusto.

Tenuto fu quest'anno un concilio in Roma da papa _Giovanni XIII_. Gli
atti ne sono periti; ma ne resta la testimonianza nella bolla
dell'erezione della chiesa di Benevento in arcivescovato, fatta in esso
concilio dal papa. Le note cronologiche di quella bolla son
queste:[2363] _Data VII kalendas junii anno pontificatus domni nostri
Johannis XIII papae IV, imperatoris Othonis majoris VII, et minoris II,
Indictione XII, anno dominicae Incarnationis DCCCCLXIX_. _Pandolfo
Capodiferro_ quegli fu che procacciò questo onore alla sua città di
Benevento, e adoperò l'intercessione dell'imperadore, _praesidentibus
nobis_, dice il pontefice, _in sancta synodo acta ante confessionem
beati Petri Apostolorum principis septimo kalendas junias, praesente
domno Ottone gloriosissimo imperatore Augusto Romanorum, nostro filio,
ec. hortatu benigno ipsius praefati domni Ottonis clementissimi
imperatoris Augusti_, ec. _intervenientibus Pandulfo beneventanae et
capuanae urbium principe, seu Spoleti et Camerini ducatus marchione et
duce, simulque et Landulfo excellentissimo principe filio ejus_, ec.
Sicchè seguitava tuttavia Pandolfo a governare anche Spoleti e Camerino.
Di lui racconta l'Anonimo salernitano il fatto seguente[2364]. Dacchè
l'imperadore ebbe dato il guasto alla Calabria e al principato di
Salerno, se no andò a Ravenna Pandolfo; il pregò di lasciargli un corpo
delle sue truppe, per poter tentare qualche altra prodezza contra de'
Greci, e l'ottenne. Con questo e co' suoi si portò sotto la città di
Bovino; venne alle mani coi Greci, usciti della città, e li sconfisse.
Ma sopraggiunto un rinforzo ad essi Greci, si attaccò di nuovo la
battaglia, e _Pandolfo_ preso nella mischia (di ciò si può dubitare non
poco) fu inviato a Costantinopoli prigione. Dopo ciò Eugenio patrizio
generale de' Greci spinse le sue armi contra gli stati di Pandolfo.
Prese Avellino, e giunto a Capoa vi mise l'assedio, con saccheggiar
intanto il paese e far prigioni quanti gli vennero alle mani. Si
prevalse di tal congiuntura _Marino duca_ di Napoli per danneggiare il
più che potè il distretto di Capoa. Ma dopo quaranta giorni d'assedio,
in cui inutilmente tormentata fu quella città dalle macchine di guerra,
i Greci, per timore che non sopraggiugnesse l'armata imperiale di
Ottone, se n'andarono con Dio, ritirandosi a Salerno, dove quel
principe, cioè _Gisolfo_, che sembra collegato con essi, fece lor godere
un delizioso trattamento. Arrivò in fatti a Capua l'esercito de'
Tedeschi e degli Spoletini, e trovando sloggiati i nemici, passò coi
Capuani a vendicarsi de' Napoletani. Renderono ben loro la pariglia.
Ripresero Avellino, e ne fecero un falò, perchè s'era dato ai Greci
spontaneamente. Ad Eugenio, patrizio greco, preso per la sua crudeltà
dai suoi ed inviato a Costantinopoli, era succeduto Abdila patrizio.
Questi, con quante forze potè, andò a trovar l'esercito cesareo verso
Ascoli. Restò egli ucciso, e sbaragliata la sua gente colla morte di
mille e cinquecento persone. Arricchirono forte delle spoglie de' vinti
i vincitori. Se è vero tutto questo racconto, e massimamente la
prigionia del principe Pandolfo, convien credere che tali fatti
accadessero qualche settimana dopo il dì 20 di maggio, in cui abbiamo
veduto il medesimo Pandolfo presente al concilio romano.

NOTE:

[2353] Annalista Saxo, apud Eccardum.

[2354] Sigebertus, in Chronico.

[2355] Lupus Protospata, Chronic., tom. 5 Rer. Ital.

[2356] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Episcop. Parmens.

[2357] Chronic. Casauriense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2358] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Append.

[2359] Witichinius, Hist., lib. 3.

[2360] Ditmarus, in Chron., lib. 2.

[2361] Anonymus Salernit., P. II, tom. 2 Rer. Ital., pag. 299.

[2362] Curopalata. Leo Diacon. Cedrenus. Zonaras.

[2363] Ughell., Ital. Sacr., tom. 8 in Episcop. Benevent.

[2364] Anonymus Saler., P. I. tom. 2 Rer. Ital. p. 299.



    Anno di CRISTO DCCCCLXX. Indiz. XIII.

    GIOVANNI XIII papa 6.
    OTTONE I imperadore 9.
    OTTONE II imperadore 4.


Celebrò _Ottone il Grande_, per attestato dell'Annalista sassone[2365],
il santo Natale dell'anno antecedente in Pavia. Del suo soggiorno in
quella città anche nel dì 22 di gennaio dell'anno presente resta
tuttavia sicura pruova in un suo diploma[2366], dato in favore del
monistero veronese di santa Maria dell'Organo, _XI kalendas februarii,
anno dominicae Incarnationis DCCCCLXVIIII, imperii vero domni Ottonis
VIII, Indictione XIII_. Qui l'anno 969 è secondo l'era fiorentina e
veneziana, e viene, secondo noi, ad essere l'anno 970, nel cui gennaio
correva tuttavia l'_anno ottavo_ del suo impero. Di là poi passò a
Ravenna, e quivi solennizzò la Pasqua del Signore. Piaceva non poco
all'Augusto Ottone quella magnifica città, e però quivi fece fabbricare
un palazzo nuovo per abitazione sua, siccome costa da un placito ch'io
ho dato alla luce nelle Antichità italiane[2367]. Cotale notizia sembra
indicare che Ottone godesse non solamente il diretto e sovrano dominio,
ma anche l'utile di Ravenna e del suo esarcato. Se non fosse stato così,
difficilmente s'intenderebbe come egli fabbricasse a sè stesso un
palazzo in suolo altrui. Abbiamo da Girolamo Rossi[2368], che trovandosi
in questo medesimo anno nella Romagna il suddetto imperadore, tenuto fu
in Ferrara un placito, dove alla presenza di _Adalberto vescovo_ di
Bologna, di _Uberto vescovo_ di Forlì, di _Giovanni vescovo_ d'Imola, e
di _Leone vescovo_ di Ferrara, _Pietro arcivescovo_ di Ravenna fece
istanza di riaver Consandolo, ed altri beni spettanti alla sua chiesa.
_Vidensque Liuzius episcopus cremonensis_ (così ancora si chiamava
_Liutprando_ allora vescovo di Cremona) _ea ad comitatum ferrariensem
nulla omnino ex parte posse spectare, nullius juris, nisi ravennatis
esse: Eccico nuntius Othonis Augusti pronuntiavit, probavitque, ea
ravennatis esse ecclesiae._ Sì _Liutprando_ che _Eccico_, chiamato
_Ezeca_ in altri documenti, erano messi spediti dall'imperadore Ottone
per conoscere e giudicare intorno a questa differenza; e però scorgiamo
l'autorità imperiale in quelle contrade. Da Ravenna portossi dipoi
l'imperadore Ottone nel principato di Capua, dove diede un diploma pel
nobilissimo monistero di monte Casino[2369] _VIII kalendas junii. Actum
in locum ubi Cellice_ (oppure _Sillice_) _dicitur, capuano territorio_.
Truovasi poi esso Augusto nel settembre seguente, amministrante
giustizia nel ducato di Spoleti. Nelle giunte da me fatte alla Cronica
di Casauria[2370] si può leggere un giudicato del medesimo Augusto, e di
_Pandolfo duca_ e marchese di quelle contrade, giacchè questo monarca
non isdegnava di assistere in persona ai placiti, e decidere le liti de'
sudditi col parere dei ministri. Ivi è scritto, _qualiter in territorio
marsicano in campo Castiri ad ipsam civitatem marsicanam, dum in placito
resideret domnus Otto magnus imperator serenissimus augustus, et
Pandulfus dux et marchio pro singulorum hominum justitia fieri
facienda_, ec. Così usavano allora i monarchi amanti de' suoi popoli; e
dovunque si trovavano, ed anche in campagna, alzavano tribunale, e,
sommariamente ascoltate le ragioni delle parti, proferivano la
convenevole sentenza. Fu esso placito tenuto _ab Incarnatione Domini
nostri Jesu Christi anno DCCCCLXX, anno imperii domni imperatoris
Ottonis serenissimi Augusti IX, et Ottonis filii ejus III, mense
septembri, Indictione XIV_, cominciata in esso mese di settembre. Ed è
qui considerabile il vedere che a quel medesimo placito assistè _Ezeca
duca, marchese e conte del palazzo_. Non ho saputo immaginar finora,
onde costui prendesse i titoli di duca e marchese, perchè chiaro si vede
che allora Pandolfo Capodiferro era tuttavia duca di Spoleti e marchese
di Camerino. Nè egli si sottoscrive, se non con queste parole: _Signum
manus Ezecae comitis palatii_. Per me penso che ivi sia egli chiamato
così in fallo, perchè in un altro simil placito, tenuto nel medesimo
luogo e tempo, e pubblicato nella Cronica del monistero di
Volturno[2371], egli interviene, ma con essere solamente intitolato
_Ezzeca comes palatius_, ossia _palatii_. Convien credere che in questi
tempi contro il costume Ottone Augusto avesse due _conti del sacro
palazzo_, essendo indubitato che nello stesso tempo era sostenuta questa
medesima carica da _Otberto marchese_, progenitor degli Estensi. E ciò
costa da un suo placito, tenuto in non so qual luogo[2372]. Ivi è
scritto: _Dum in Dei nomine locus, qui dicitur Classo in terra Alberici
filio bonae memoriae Aigoni, ubi domnus imperator praeerat, rexidisset
in judicio Otbertus marchio et comes palatio_, ec. Fu scritto quel
giudicato, _anno imperii donni Otto filio, ejus Deo propicio, tertio,
Indictione quartadecima_, cioè nell'anno presente. E notisi che quivi si
trovava in persona lo stesso Ottone Augusto.

Se non falla l'Anonimo salernitano[2373], dovrebbe essere accaduto in
quest'anno ciò ch'egli dopo il racconto dell'anno precedente seguita a
scrivere, con dire che l'imperadore Ottone con una copiosa armata si
portò ai danni de' Napoletani per gastigarli della crudeltà usata ai
Capoani nel tempo del precedente assedio. Allora fu che se gli presentò
davanti _Aloara_ moglie di _Pandolfo principe_ di Benevento e di Capua,
insieme con _Landolfo IV_ suo figliuolo, già dichiarato collega nel
principato dal padre nell'anno 968, e gli raccomandò vivamente il
marito, già condotto prigione a Costantinopoli. Ottone per costringere i
Greci a liberarlo, o almen per farne vendetta, menò l'esercito in
Puglia, fece dare il sacco al paese, e strinse coll'assedio la città di
Bovino, i cui borghi furono dati in preda alle fiamme. Ma le mutazioni
seguite in Costantinopoli influirono a far cessare la guerra. Perciocchè
mentre Pandolfo si trovava ne' ceppi in quella città, _Niceforo Foca_,
il quale si preparava a maggiormente angustiarlo, fu ucciso per congiura
dell'iniqua sua moglie, ed alzato al trono _Giovanni Tzimisce_. Questi
non volendo liti coll'imperadore Ottone, fece tosto mettere in libertà
Pandolfo ed inviollo in Italia con precedente concerto che facesse
desistere dalle ostilità Ottone. Informato dell'arrivo di Pandolfo a
Bari, spedì subito l'imperadore ad Abdala patrizio, acciocchè senza
perdere tempo gliel mandasse; il che fu eseguito; e tanto si adoperò poi
Pandolfo, che Ottone fece fine alla guerra. Quando sussista tutto questo
racconto, dovette prima del settembre ritornar libero in Italia esso
principe di Benevento e Capoa, giacchè l'abbiamo poco fa veduto
intervenire ai placiti tenuti di quel mese in Marsi. Venne dipoi
l'imperadore a Roma, e quivi, per attestato dell'Annalista sassone,
celebrò la festa del santo Natale. Ma io avrei volentieri veduto il
giorno preciso, in cui nell'anno presente da esso Augusto Ottone tenuto
fu un placito in Ravenna, rapportato dal padre Mabillone[2374], perchè
presente al medesimo si trovò _Pandolfo principe_ e _marchese_, per
confrontare l'asserzion dell'Anonimo salernitano con esso documento. Ho
detto di sopra che questo imperadore fece fabbricare un palazzo in
Ravenna, e tal notizia vien confermata dal medesimo placito. Eccone le
parole: _Dum in Dei nomine Otto, divina providente clementia imperator
Augustus, resideret in Regia Aula, non longe a moenibus Ravennae urbis
sita, quam ipse imperator clarissimus in honorem sui claris aedificiis
fundare praeceperat juxta rivum penes muros ipsius civitatis
decurrentem, qui dicitur Muro-novo, tunc eo imperatore clarissimo ibi
plurima sui imperii ordinante et disponente_, ec. Questo soggiorno
dell'Augusto Ottone in Ravenna, il palazzo ivi fabbricato, ed altri
segni di dominio ivi da lui esercitati e continuati dai suoi successori,
siccome vedremo, mi han fatto dubitare più volte se sussista quanto
vedemmo di sopra all'anno 967 intorno alla restituzione che si dice da
lui fatta a papa _Giovanni XIII_ di Ravenna e del suo esarcato. Ma non
ho assai lumi per poter ben decidere su questo punto. Ne parleremo
andando innanzi. Diede nel novembre dell'anno presente papa Giovanni
XIII in livello la città di Palestrina a _Stefania chiarissima
senatrice_ di Roma, come costa dallo strumento da me dato alla
luce[2375].

NOTE:

[2365] Annalista Saxo, apud Eccardum.

[2366] Antiquit. Ital., Dissert. XXXIV.

[2367] Antiquit. Ital., Dissert. XXXI.

[2368] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.

[2369] Gattola, Hist. Monaster. Casin.

[2370] Chronic. Casauriense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2371] Chronicon Vulturnens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2372] Antichità Estensi, P. I, cap. 16.

[2373] Anonymus Salern., P. II, tom. 2 Rer. Ital., pag. 300.

[2374] Mabillon., Annal. Benedict. ad annum 971.

[2375] Antiquit. Italic., Dissert. XXXVI, pag. 235.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXI. Indiz. XIV.

    GIOVANNI XIII papa 7.
    OTTONE I imperadore 10.
    OTTONE II imperadore 5.


_Ottone Augusto_ il Grande, che, siccome dissi, molto si dilettava di
soggiornare in Ravenna, solennizzò in quella città, secondochè attesta
l'Annalista sassone[2376], la Pasqua dell'anno presente in compagnia
dell'imperatrice _Adelaide_, la quale non si staccava mai dal suo
fianco. Era ito a Roma santo _Uldarico vescovo_ d'Augusta[2377]. Nel
tornare indietro, si portò egli a visitare in essa città amendue quegli
Augusti, che con somma divozione e con distinte finezze l'accolsero. Ed
è notabile[2378] che _Pietro arcivescovo_ di Ravenna in quest'anno circa
il mese d'agosto spontaneamente rinunziò la sua chiesa, ed ebbe per
successore _Onesto arcivescovo_. Aveva giù intavolata _Pandolfo
principe_ di Benevento la pace fra l'Augusto Ottone e _Giovanni
Tzemisce_ imperador de' Greci. Fra le altre condizioni di questo accordo
v'era, che il greco Augusto desse in moglie al giovane imperadore
_Ottone II Teofania_, figliuola di _Romano juniore_, e già imperador
d'Oriente, e di _Teofania_, ossia _Teofanone Augusta_: il che dovette
recar maraviglia ai politici d'allora, stante l'essere Teofania figlia
di chi non era più imperadore. Però Ottone Augusto suo padre si crede
che spedisse in quest'anno a Costantinopoli degli ambasciatori per
prendere e condurre in Italia questa principessa; e, secondo il
Sigonio[2379], fu scelto per questa incumbenza _Arnolfo I_, creato in
quest'anno arcivescovo di Milano. In tale opinione concorse anche il
padre Pagi[2380]. Ma essi incautamente confusero l'ambasceria di
_Arnolfo II arcivescovo_, succeduta a' tempi di _Ottone III_, con
questi tempi. Non parlano punto di questa funzione incaricata ad
Arnolfo gli antichi storici milanesi. Abbiamo all'incontro da Ugo
Flaviniacense[2381] che il corpo di san Pantaleone martire fu portato in
Germania dall'arcivescovo di Colonia, cioè da _Gerone, obtentum dono
constantinopolitani imperatoris, quando pro ejus filia Ottoni II in
matrimonio jungenda, jussu ejusdem Ottonis ad eumdem imperatorem legatus
missus est cum episcopis duobus, ducibus et comitibus_. Confessa
Ditmaro[2382] che non mancarono persone nella corte dell'imperadore, che
non solo disapprovarono questo maritaggio, forse per la ragione
suddetta, o perchè parea loro che, stante questa lega ed amistà coi
Greci, non sarebbe più permesso ad Ottone di togliere ad essi gli stati
da loro goduti in Puglia e Calabria, come essi desideravano. Ma Ottone
il Grande, senza far caso del loro parere, andò innanzi, e volle che si
eseguisse il trattato, perchè verisimilmente egli pensava di
maggiormente fiancheggiar le sue pretensioni colle ragioni di questa
nuora; e ne vedremo anche gli effetti. Narra sotto quest'anno il
Dandolo[2383] che _Pietro Candiano IV_ doge di Venezia, _Vitale
patriarca_ di Grado suo figliuolo, _Marino vescovo_ olivolense, cioè di
Venezia, e gli altri vescovi, clero e popolo di Venezia, per soddisfare
all'imperador di Costantinopoli, il quale pensava a ricuperar
Gerusalemme dalle mani degl'infedeli, e che avea guerra coi Russiani
Moscoviti, a' quali diede in quest'anno una gran rotta, fecero un
solenne decreto che niuno de' Veneziani osasse di portar armi, ferro,
legnami ed altri militari attrecci ai Saraceni, de' quali potessero
valersi contra dei Cristiani, sotto pena di cento libbre d'oro; e chi
non potesse pagar con danaro, pagasse colla testa: giustissimo divieto,
confermato poi da molti susseguenti editti dei Cristiani, ma mal
osservato anche oggidì. Abbiamo dall'Annalista sassone che Ottone
Augusto celebrò il santo Natale di quest'anno in Ravenna. E dalla
Cronica del monistero mosomense[2384], che _Adalberone arcivescovo_ di
Rems, _Natali Domini celebrato_ (in quest'anno), _legatos suos Romam cum
literis dirigit ad domnum Johannem papam, cognomento Albam Gallinam, qui
a juventutis suae primis annis, reverentiae competentis, et dignitatis
angelicae albebat canis_. Di costume antichissimo sono i soprannomi,
alcuni de' quali passarono col tempo anche in cognomi, e tale appunto
era quel di _Gallina bianca_ applicato a papa Giovanni, perchè fino
dalla gioventù ebbe il crine bianco. Di questo uso ho io trattato nelle
Antichità italiche[2385].

NOTE:

[2376] Annalista Saxo apud Eccard.

[2377] Vita S. Udalrici, cap. 21 et 22.

[2378] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.

[2379] Sigonius, de Regn. Ital., lib. 7.

[2380] Pagius, Critic. Baron.

[2381] Hugo Flaviniacens., Chron. Virdun., p. 166.

[2382] Ditmaros, in Chron., lib. 2.

[2383] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2384] Dachery Spicileg., tom. 2, novae edition.

[2385] Antiq. Ital., Dissert. LXI et seq.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXII. Indiz. XV.

    BENEDETTO VI papa 1.
    OTTONE I imperadore 11.
    OTTONE II imperadore 6.


In Roma celebrò _Ottone Augusto_ la Pasqua dell'anno presente, secondo
l'attestato dell'Annalista sassone[2386]. Colà s'era egli portato per
aspettarvi la regal nuora _Teofana_, o vogliam dire _Teofania_, che già
era pervenuta in Italia con superbo accompagnamento, e magnifici regali
da dispensare alla corte cesarea. Ottone le mandò incontro _Teoderico
vescovo_ di Metz. Di questo vescovo parla Sigeberto[2387] diacono nella
sua vita, allorchè dice: _Domno praesule Beneventum veniente, dum nurui
imperatoris a Graecia venienti obviam missus esset_, ec. Giunse a Roma
questa regal principessa, fanciulla di rara avvenenza, e d'ingegno e
facondia ben provveduta. Nell'ottava di Pasqua, cioè nel dì 14 di
aprile, seguì il solennissimo matrimonio suo con _Ottone II_ Augusto,
_arridentibus cunctis Italiae Germaniaeque primatibus_, come scrive
Ditmaro, e si fecero di grandi feste in così lieta congiuntura. Poscia
l'imperadore col figliuolo e colla nuora, lasciando l'Italia in pace,
s'inviò alla volta della Germania, da cui per tanto tempo era stato
lontano. Nel passare per Ravenna, concedette un privilegio chiestogli da
_Onesto arcivescovo_ in favore del monistero di Classe[2388], e dato
_anno dominicae Incarnationis DCCCCLXXII, imperii vero domni Ottonis
semper Augusti XI, alterius vero Ottonis V, Indictione XV. Acta
Ravennae._ Manca il giorno e mese o per dimenticanza del cancelliere, o
per inavvertenza del copista. Ma si vede che era tuttavia vivo papa
_Giovanni XIII_, col cui consenso, trattandosi di affare di Chiesa,
Ottone proibisce l'alienazion de' beni di quel monistero. Tenne esso
papa un concilio in Roma nell'anno presente, ciò apparendo da una sua
bolla rapportata dal padre Dachery[2389], e data _anno pontificatus VII,
imperii domni Ottonis majoris XI, junioris vero V, in mense aprili,
Indictione XV_. Solamente pochi mesi dopo questo fatto sopravvisse
questo dignissimo papa; e la sua morte, come si ricava dall'epitaffio
suo presso il cardinale Baronio[2390], accadde nel di 6 di settembre.
Ebbe verso il fine dell'anno per successore nella cattedra di san
Pietro, non già _Dono_, come Ermanno Contratto ed altri, seguitati da
esso cardinale, hanno scritto, ma, come c'insegna Sigeberto[2391] con
Martino Polacco[2392], Tolomeo da Lucca[2393] ed altri, _Benedetto VI_
di nazione romano. Durò la vacanza della santa sede circa tre mesi, come
osserva il padre Pagi[2394], perchè convenne aspettare l'assenso
degl'imperadori che erano allora in Germania. Ho io dato alla luce un
placito tenuto nella villa di Gragio da _Otberto marchese_ e conte del
sacro palazzo, cioè da uno de' progenitori della casa d'Este[2395],
_anno imperii domni Hottoni undecimo, imperii vero domni Hottoni filio
ejus, Deo propitio, quinto, XIII kalendas septembris, Indictione XV_,
cioè nel dì 20 d'agosto dell'anno presente. Da esso documento risulta
ch'esso marchese godeva con titolo di _benefizio_, secondo la biasimevol
usanza di que' tempi il celebre monistero di san Colombano di Bobbio, a
lui conferito _de parte domnorum imperatorum_.

Intorno a che è da osservare che circa a questi medesimi tempi era
abbate di Bobbio _Gerberto_, di nazione franzese, famoso personaggio per
la sua letteratura, per varie sue avventure, e per essere infine,
siccome vedremo, giunto a conseguire il pontificato romano. Si sa da una
sua lettera[2396], scritta verso l'anno 970, ch'egli fu promosso a
quella ricchissima badia da _Ottone I imperadore_, e ch'egli ricevette
il baston pastorale di quel monistero da papa _Giovanni XIII_. Di grandi
vessazioni ebbe quivi Gerberto, e tali, che in fine gli convenne
ritirarsi in Germania: il che fu principio della sua fortuna, perchè
giunse ad essere maestro di lettere di _Ottone III_, poscia imperadore,
ed entrò in più vaste carriere. Nelle lettere che restano di lui, si
scorge che abbondavano i suoi nemici, ma niun vestigio c'è ch'egli si
lagni del _marchese Otberto_, tuttochè per ragione di quell'appellato
benefizio questi possedesse una parte delle rendite del monistero. Le
sue principali querele erano contra di _Pietro vescovo_ di Pavia, al
quale scrive[2397] come ad un usurpatore dei beni appartenenti a quel
sacro luogo. A me non è venuta alle mani altra notizia dell'ulterior
vita del suddetto principe, cioè del marchese Otberto. Ben so ch'egli
nell'anno 975 non si contava tra i vivi, e che lasciò dopo di sè almeno
due figliuoli, cioè _Adalberto_ (lo stesso è che _Alberto_) ed _Oberto
II_, amendue marchesi. Varie pruove ne aveva io addotto nelle Antichità
estensi[2398], ma più individualmente si raccoglie da uno strumento,
esistente nell'archivio archiepiscopale di Pisa, somministratomi dal fu
chiarissimo padre abbate camaldolese don _Guido Grandi_, pubblico
lettore in quella università, e da me pubblicato nelle Antichità
italiane[2399]. Ivi _Adalbertus et Obertus germani marchioni filii bonae
memoriae Oberti marchionis et comitis palatio_, prendono a livello varii
beni da _Alberico vescovo_ di Pisa, _regnante domno nostro Otto
imperatore Augusto, filio bonae memoriae Ottonis imperator, anno imperii
ejus in Italia octavo, idus octobris_...... cioè nell'anno 975. Da
_Oberto II_ marchese discendono i principi estensi, siccome andremo
vedendo. Lasciò _Oberto I_ di grandi stati e beni ai suoi figliuoli,
situati specialmente in varii contadi della Toscana, dove poi fu celebre
la _terra Obertenga_. E più che altrove la sua potenza e ricchezza fu
nella Luigiana: tutti indizii che _Adalberto_ marchese suo padre
discendeva dagli _Adalberti_ da noi veduti duchi e marchesi potentissimi
della Toscana, secondo le forti conietture da me recate nelle suddette
Antichità[2400]. Merita ancora d'essere qui rammentata la distruzione
circa questi tempi seguita dei Saraceni, da tanti anni annidati in
Frassineto ne' confini dell'Italia, che infestavano il vicinato, e
mettevano in contribuzione chiunque osava di passare per le Alpi venendo
o andando in Francia. La gloria di averli schiantati di colà è dovuta a
_Guglielmo conte_ di Provenza, fratello di _Corrado re_ di Borgogna, che
con un forte esercito gli assalì e sconfisse[2401], liberando una volta
da sì gran peso quelle contrade. Racconta ancora Lupo protospata[2402]
un altro fatto d'armi dei Cristiani, succeduto in quest'anno contro i
Saraceni di Calabria, che per noi resta involto in molte tenebre:
_Pugnavit_, dice egli, _Asto filius Trasmundi marchisi cum quatuordecim
millibus Saracenorum. Caytus_ (sive dux) _Bucobolus vocabatur; et Otto
in subsidium misit sex millia suos, et vicit Asto persequens Agarenos
usque Tarentum_. Si dee scrivere _Atto_ cioè _Azzo_, il quale ebbe per
padre quel _Trasmondo_ che noi vedemmo all'anno 959 duca e marchese di
Spoleti: se pure (il che par poco credibile) non parlasse il suddetto
autore per anticipazione di _Trasmondo_, che troveremo creato duca e
marchese di que' paesi nell'anno 981, senza apparire se questo fosse
diverso dall'altro. La città d'Amalfi ebbe nei tempi correnti per suo
duca[2403] _Sergio_ imperiale patrizio, titolo a lui conferito dai greci
Augusti. Salì egli a questa dignità con aver fatto levare la vita a
_Mastari_ precedente duca.

NOTE:

[2386] Annalista Saxo, apud Eccard.

[2387] Sigebert., in Vit. Theoderici I Episcop., Metens.

[2388] Antiquit. Ital., Dissertat. LXXII.

[2389] Chronic. Monaster. Mosomens., apud Dachery, in Spicileg.

[2390] Baron., in Annal. Eccles. ad hunc annum.

[2391] Sigebertus, in Chronic.

[2392] Martinus Polonus, in Chronic.

[2393] Ptolomaeus Lucens., Hist. Eccl.

[2394] Pagius, in Crit. Baron. ad hunc. annum.

[2395] Antichità Estensi, P. I, cap. 16.

[2396] Gerbertus, Epist. 17.

[2397] Idem, Epist. 5.

[2398] Antichità Estensi, P. I, cap. 15 e 20.

[2399] Antiq. Ital., Dissert. VII.

[2400] Antichità Estensi, P. I.

[2401] Odilo et Syrus, in Vita S. Majoli apud Mabill. Annal. Bened.

[2402] Lupus Protospata, in Chron., tom. 5 Rer. Italic.

[2403] Antiquit. Italic., tom. I, pag. 210.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXIII. Indiz. I.

    BENEDETTO VI papa 2.
    OTTONE II imperadore 7 e 1.


Fu questo l'ultimo anno della vita del vecchio _Ottone imperadore_.
Trovavasi egli in Germania; avea celebrato il santo Natale dell'anno
addietro in Francfort, la Pasqua del presente in Quintileburg[2404],
dove ricevette le ambascerie dei Boemi, Greci, Beneventani, Ungheri,
Bulgari, Danesi e Slavi. Quivi ancora dimorando confermò i privilegii
alla chiesa di Cremona con diploma[2405] dato _V kalendas aprilis, anno
dominicae Incarnationis DCCCCLXXIII, Indictione I, Imperii domni Ottonis
XII, item Ottonis VI. Actum Quintileburg._ La morte di _Erimanno_
insigne duca di Sassonia l'attristò non poco. Passò a Merseburg,
lasciando dappertutto segni della rara pietà. Giunto a Miminleve, quivi
sorpreso o da accidente apopletico, o da altro frettoloso malore, dopo
aver ricreata l'anima coi santi sacramenti, la rendè al suo Creatore nel
dì 7 di maggio. Principe terror dei Barbari, che per le sue grandi
imprese in guerra, per l'amore e propagazion della religione, per lo
zelo della giustizia, e per altre luminose virtù, giustamente dopo Carlo
Magno si acquistò il titolo di Grande. Fu portato il suo corpo alla
sepoltura in Maddeburgo. Ancorchè _Ottone II_ suo figliuolo già fosse
coronato re di Germania e d'Italia, e solennemente creato imperadore de'
Romani dal papa; contuttociò i principi della Germania confermarono di
nuovo l'elezione sua. Questi, soprannominato il _Rosso_, nei primi suoi
anni lasciossi alquanto trasportare alla via lubrica de' vizii, ma non
tardò a rimettersi sul buon cammino. Abbondava allora la Germania di
vescovi e di abbati santi che coll'esempio loro ispiravano l'amore delle
virtù. Era anche una scuola di santità la stessa sua casa paterna, in
cui l'avola _Matilde_, e la madre _Adelaide_ meritarono d'essere riposte
nel catalogo delle principesse sante, per nulla dire del piissimo suo
genitore, di _Brunone arcivescovo_ di Colonia suo zio paterno, di
_Guglielmo arcivescovo_ di Magonza suo fratello, e d'altri di quella
regal famiglia, tutti per la singolare lor pietà e per molte altre virtù
commendati nella storia di questi tempi. Godeva nell'anno presente
l'Italia un'invidiabil pace. Rapporta Girolamo Rossi[2406] gli atti
assai logori di un concilio tenuto nel dì 7 di settembre dell'anno
presente da _Onesto arcivescovo_ di Ravenna con alcuni vescovi suoi
suffraganei e molti nobili nella terra di Marzaglia del contado di
Modena vicino al fiume Secchia. Anche il Sigonio[2407] ne fa menzione
sotto questo anno, citandone gli atti esistenti nell'archivio de'
canonici di Modena, i quali diversi da quei del Rossi furono poi dati
alla luce dal vescovo Sillingardi[2408]. Tali sono le note cronologiche
presso il Rossi: _Temporibus domni Benedicti apostolici..... ejus in Dei
nomine anno primo, imperante domno Othone piissimo anno VI, die nono
septembris, Indictione II. Actum in loco, ubi dicitur Martialia,
territorio mutinensi._ Di qui e da altri atti apparisce che gli anni de'
papi, anche fuor degli Stati della Chiesa, si contavano per venerazione
al sommo pontificato. Presso al Sillingardi si leggono queste altre
note: _Anno dominicae Incarnationis DCCCCLXXIII, apostolatus domni
Benedicti primo, imperii vero domni Othonis octavo, pontificatus domni
Honesti ravennatis metropolitani tertio. In loco Marsaglia._ Ma qui v'ha
qualche sbaglio. In uno strumento del monistero di Subiaco s'incontrano
queste note: _Deo propitio, pontificatus domni Benedicti summi
pontificis et universalis papae primo, imperantibus imperatoribus Ottone
majori anno XII, et Othone minori ejus filio anno sexto, Indictione I,
mense februario, die nona_. Camminano ben queste note, perchè non era
per anche mancato di Vita Ottone il Grande. Negli atti del Sillingardi
litigava _Adalberto vescovo_ di Bologna per alcuni beni pretesi della
sua chiesa, e goduti da _Uberto vescovo_ di Parma. In quei del Rossi
alcuni nobili ravegnani pretendevano alcuni beni, come lor propri,
esistenti nel Bolognese e in altri luoghi della Romagna; e il suddetto
vescovo di Parma li sosteneva come a sè spettanti _ex investituris magni
Othonis imperatoris_: il che fa intendere il dominio di Ottone I
imperadore nell'esarcato. _Uberto_ per essere stato arcicancelliere di
esso Ottone ne dovea aver ben profittato. Morto che fu Ottone, chi si
credea gravato gridò. Veggonsi ancora presenti a quel concilio alcuni
_conti_ dell'esarcato. Tali soleano denominarsi i governatori delle
città del regno d'Italia. Nel suddetto archivio di Subiaco si conserva
un'altra bolla con queste note: _Data VI kalendas december, per manum
Johannis Deo amabilis primicerei summe apostolice sedis, anno, Deo
propitio, pontificatus domni Benedicti summi pontifici et universali
pape in sacratissima sede beati Petri apostoli primo, imperante domno
nostro Ottone piissimo P. P. Augusto, a Deo coronato pacifico
imperatore, Indictione II_. Se questa indizione ha avuto principio nel
settembre, abbiam qui l'anno presente 973, e da tale documento risulta
che _Benedetto VI_ avea dato principio al suo pontificato o sul fine del
precedente anno, o sul principio di questo. Può essere poi che a questo
medesimo anno appartenga ciò che viene raccontato dall'Anonimo
salernitano[2409], cioè che _Pandolfo Capodiferro_, principe di
Benevento, a cui non uscivano di mente i danni recati dai Napoletani al
distretto di Capoa, unito insieme un esercito di Beneventani e
Spoletini, andò a devastare il territorio di Napoli. Pensava anche di
fare il medesimo giuoco a quel di Salerno; ma eccoti venire _Gisolfo I_
principe di quella contrada con una buona armata de' suoi, e postarsi ad
un luogo appellato Fiumicello, dove erano delle buone fosse, anticamente
fatte, aspettando a piè fermo i Beneventani. Ciò veduto, Pandolfo se ne
tornò a casa, senza recar altra molestia ai Salernitani.

NOTE:

[2404] Witichindus, Ditmarus, Annalista Saxo et alii.

[2405] Antiquit. Ital., Dissert. LXXI.

[2406] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.

[2407] Sigonius, de Regno Italiae, lib. 7.

[2408] Sillingardus, Catalog. Episc. Mutinens.

[2409] Anonymus Salern., P. I. tom. 2 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXIV. Indiz. II.

    DONO II papa 1.
    OTTONE II imperadore 8 e 2.


Duravano tuttavia i mali umori in Roma. Ad alcuni potenti non piaceva
punto la dipendenza dall'imperador dei Romani, siccome avvezzi, prima
che _Ottone il Grande_ mettesse loro la briglia, ad una sregolata
licenza in quell'augusta città. Pertanto, cessato che fu il timore
d'esso imperadore Ottone per la sua morte accaduta nell'anno addietro,
eglino senza mettersi pensiero del regnante imperadore di lui figliuolo,
perchè lontano e giovane, passarono ad un'orrida iniquità. _Bonifazio_
soprannominato Francone, figliuolo di Ferruccio, di nazione romano e
cardinal diacono, ma uomo scelleratissimo, mise le mani addosso a papa
_Benedetto VI_, cacciollo in prigione, e quivi crudelmente il fece dopo
qualche tempo strangolare. Quindi non per legittima elezione, ma colla
violenza, vivente anche lo stesso vero papa, occupò il pontificato
romano, rendendosi perciò immeritevole d'essere annoverato fra i
legittimi papi. Ma questo pseudo-pontefice e tiranno poco godè il frutto
delle sue scelleraggini; perciocchè, secondo Ermanno Contratto[2410],
_post unum mensem expulsus, Constantinopolim postea petiit_. Secondo
lui, fu _Crescenzio_ figliuolo di Teodota che fece imprigionar
Benedetto. Dal Sigonio[2411] è chiamato _Cencio_, siccome ancora nella
cronica del Volturno. Aggiugne il cardinal Baronio[2412] che Bonifazio
prima di abbandonare Roma, spogliò del suo tesoro e di tutti i sacri
arredi la basilica vaticana, e tutto portò con seco a Costantinopoli,
coronando con questo gli altri suoi sacrilegii. Di questo fatto abbiamo
anche menzione presso il Dandolo[2413]. E tali enormità commettevano e
commisero anche prima e dipoi i Romani d'allora, contra dei quali
sarebbono state più a proposito le doglianze del cardinal Baronio, che
contro i principi di que' tempi infelici. Cacciato via l'usurpatore, se
crediamo a Sigeberto[2414], a Mariano Scoto[2415], a Martino
Polacco[2416] e ad altri scrittori, fu alzato al trono pontificale _Dono
II_, delle cui azioni nulla ci ha conservato l'antica storia, la quale
anzi è confusissima nell'assegnare il tempo e la successione de' papi
d'allora. Abbiamo dal suddetto Dandolo che in quest'anno _Ottone II_
Augusto _existens Verhelae_ (oggidì _Verla_ nella Vestfalia, se pure non
è _Verda_ ossia _Verden_) _privilegium concessit Audoino capellano et
nuntio Vitalis gradensis patriarchae, confirmans gradensem ecclesiam
metropolitanam, exemtiones et immunitates et libertates, quas Otto I
eidem ecclesiae concesserat, per privilegium renovavit_. Crede lo
Struvio[2417] che nell'anno presente venisse in Italia il suddetto
Ottone II, e andasse fino in Calabria, con allegare intorno a ciò
l'autorità di Leone Ostiense[2418], il quale scrive: _Sequenti anno,
defuncto primo Ottone, Otto secundus imperator filius ejus cognomento
Rufus, venit Capuam, et abiit Tarentum ac Metapontum, et deinde
Calabriam: unde prospere ad sua reversus_. Ma è certo che questo
imperadore non si mosse di Germania nell'anno presente, perchè quivi
impegnato per la guerra insorta fra lui ed _Arrigo II_ il Rissoso, duca
di Baviera, suo cugino[2419]. Il _sequenti anno_ dell'Ostiense riguarda
la succession degli arcivescovi di Capoa, nè altro vuol indicare se non
l'anno 980, in cui, siccome vedremo, Ottone II arrivò fino in Calabria.
Secondo i conti di Camillo Pellegrino, qui convien riferire una
rivoluzione accaduta nel principato di Salerno, e narrata dall'Anonimo
salernitano[2420]. Avea _Gisolfo I principe_ di Salerno non solamente
accolto, ma eziandio colmato di beni e d'altri benefizii _Landolfo_
figliuolo di _Atenolfo II_ principe di Benevento e suo cugino. Costui
con esecrabil ingratitudine, sul fine dell'anno precedente, una notte
con assai congiurati fece prigione il suo benefattor Gisolfo e la
principessa _Gemma_ di lui moglie, con varii loro attinenti, ed
usurpossi il principato di Salerno. _Marino duca_ di Napoli, _Monsone
duca_ di Amalfi teneano con esso Landolfo. Ne era afflittissimo il
popolo di Salerno, perchè non poco amava il suo principe Gisolfo. Riuscì
in quest'anno ad alcuni parenti del principe medesimo di muovere
_Pandolfo principe_ di Benevento in aiuto di lui, giacchè esso Pandolfo
non avea caro che Landolfo suo parente alzasse la testa. Ed in fatti
portatosi egli con un potente esercito sotto Salerno, talmente strinse
quella città, che l'usurpatore coi suoi fu necessitato a capitolare. Fu
rimesso in libertà Gisolfo, e riebbe il dominio suo. Per ricompensa di
sì rilevante servigio recatogli da Pandolfo, giacchè non aveva figliuoli
suoi proprii, adottò per suo figliuolo _Pandolfo_ ossia _Paldolfo_,
secondogenito del medesimo principe Pandolfo.

NOTE:

[2410] Hermannus Contract., in Chron., edition. Canis.

[2411] Sigonius, de Regno Italiae, lib. 7.

[2412] Baron., in Annal. Eccles.

[2413] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2414] Sigebertus, in Chron.

[2415] Marian. Scottus, in Chron.

[2416] Martinus Polonus, in Chron.

[2417] Struv., Corp. Hist. Germ.

[2418] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 9.

[2419] Sigebertus, in Chronico.

[2420] Anonym. Salern., P. I, tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXV. Indiz. III.

    BENEDETTO VII papa 1.
    OTTONE II imperadore 9 e 3.


Diede fine alla sua vita e al suo pontificato in quest'anno, oppure sul
fine del precedente, _Dono II_ papa, senza che apparisca notizia alcuna
delle azioni sue, e col non essere ancora ben certo il tempo del suo
pontificato. Ben si sa da alcune bolle che fu eletto papa in questo
anno, se non prima. _Benedetto VII_, nipote di _Alberico_ già principe o
tiranno di Roma e vescovo di Sutri, giacchè più non si faceva conto de'
canoni che vietavano ai vescovi il passaggio da una chiesa all'altra.
Che egli entrasse nella sedia di san Pietro prima dell'aprile del
presente anno, lo pruova il p. Pagi[2421], e possono anche persuaderlo
altre memorie che citerò qui sotto all'anno 978. Che v'intervenisse
ancora l'assenso e l'approvazione di _Ottone II_ Augusto, asserita da
alcuni scrittori, si può dedurre dalla vita di san _Majolo abbate_ di
Clugnì, là dove scrive[2422] che esso imperadore unitamente con
sant'_Adelaide_ sua madre fece quanto potè per indurre il santo abbate
ad accettar questo sublime impiego per rimediare agli scandali del
disunito ed ambizioso popolo romano. Ma egli che cercava d'essere
umiliato e non esaltato, tanto si seppe scusare, che si sottrasse alle
loro istanze e preghiere: _Non longo post tempore,_ scrive quell'autore,
_romana sede proprio viduata pastore, idem Dei famulus_ (Maiolo abbate)
_Ottonis secundi juncta cum matre prece, Italiam repetere a partibus est
coactus Galliae. A matre tunc et filio honore susceptus dignissimo, ad
culmen apostolicae dignitatis precibus impelli coepit continuatis_, con
quel che segue. Ora non essendo loro riuscito questo intento, fu poi
eletto ed intronizzato il suddetto _Benedetto VII_, il quale non tardò a
raunare un concilio, e a fulminar la scomunica contra del vivente e
fuggito antipapa _Bonifazio_. _Gerberto arcivescovo_ di Rems, e poi
pontefice romano, negli atti del concilio di Rems, pubblicati dal
cardinal Baronio[2423] così ne parla: _Succedit Romae in pontificatu
horrendum monstrum Malefacius_ (così nomina egli l'iniquo Bonifazio),
_cunctos mortales nequitia superans, etiam prioris pontificis sanguine
cruentus. Sed hic etiam fugatus, et in magna synodo damnatus est._
Possono tali parole lasciar qualche dubbio che _Benedetto VII_
immediatamente dopo l'espulsione dell'iniquo Bonifazio e non già _Dono
II_, fosse alzato al pontificato. Ma senza miglior lume non si può
decidere una tal quistione.

Non s'accordano gli storici tedeschi nell'assegnar l'anno in cui _Arrigo
II duca_ di Baviera fu colla forza astretto ad umiliare il capo
all'Augusto Ottone II suo cugino. Lamberto da Scafnaburgo[2424] parla di
ciò sotto l'anno precedente, Sigeberto[2425] sotto il presente, ed
Ermanno Contratto[2426] più tardi. Oltre a ciò, secondo l'Annalista
sassone[2427], fece questo imperadore guerra con gran valore e fortuna
ai Danesi. Sigeberto ciò riferisce all'anno susseguente. Credesi che
presente terminasse il corso di sua vita _Arnolfo arcivescovo_ di
Milano, il quale ebbe per successore _Gotifredo_. Questi, per attestato
di Arnolfo storico milanese[2428], nipote del suddetto Arnolfo, a tutta
prima fu rigettato dal clero e popolo, perchè non era nè prete, nè
diacono, ma solamente suddiacono. Finalmente superò tutti gli ostacoli
_regiae fidelitatis gratia_, perchè o era stato promosso da Ottone II
Augusto, o per interposizione di lui si placarono gli oppositori. Questi
poi ebbe guerra, come di sopra fu accennato, con _Corrado_ ed
_Adalberto_ figliuoli del fu re Berengario, che tuttavia viveano e
teneano vive le lor pretensioni. Si quietò Corrado per via d'accordo; ma
Adalberto, finchè ebbe fiato, tenne l'armi in mano; tutti fatti, come si
può credere, succeduti in Lombardia. Sotto quest'anno ancora notò Lupo
Protospata[2429] che _Ismael_ (sarà un capitano dei Saraceni)
_interfectus est, et Zacherias_ (sarà un generale de' Greci) _Botuntum
cepit_, cioè la città di Bitonto, in cui forse prima dominava _Pandolfo
principe_ di Benevento: notizie troppo scure per poter conoscere la
storia di que' paesi. E il Sigonio[2430] parimente nota che
_Bononienses, orientibus in urbe seditionibus, turres privatas condere;
Urbevetani consules creare coeperunt_. Ma il Sigonio avrà ciò preso da
qualche storia degli ultimi tempi, non punto valevole ad informarci di
questi tenebrosi tempi. Che si potesse allora dar principio alle torri
private de' nobili nelle città d'Italia, non avrei difficoltà a
crederlo. Ma tengo ben certo che niuna per anche delle città d'Italia
avea introdotto l'uso de' consoli coll'autorità e balìa che troveremo
ne' due secoli susseguenti.

NOTE:

[2421] Baron., Ecclesiast. ad ann. 992.

[2422] Pagius, in Crit. ad Annal. Baron.

[2423] Syrus, in Vit. S. Majoli apud Mabillon.

[2424] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[2425] Sigebertus, in Chron.

[2426] Hermannus Contractus, in Chron.

[2427] Annalista Saxo, apud Eccardum.

[2428] Arnulf., Hist. Mediolanens., lib. 1, cap. 8.

[2429] Lupus Protospata, in Chronic.

[2430] Sigonius, de Regno Ital. lib. 7.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXVI. Indiz. IV.

    BENEDETTO VII papa 2.
    OTTONE II imperadore 10 e 4.


Dall'Annalista sassone[2431] sotto il presente anno abbiamo che _Arrigo
II duca_ di Baviera, appellato da' moderni il Rissoso, fu posto, come
oggidì diciamo, al bando dell'imperio, e privato del ducato, ed anche
scomunicato per la sua ribellione all'imperador suo cugino. Ritirossi
egli in Boemia, mettendosi sotto l'ali di _Boleslao II duca_ di quel
paese. Prese motivo di qui l'imperador Ottone di far guerra alla Boemia,
ma con poca fortuna la fece. Sorpreso dai Boemi un corpo di Bavaresi
ch'erano venuti al servigio di Ottone, fu per la maggior parte tagliato
a pezzi. A questo avviso, se ne tornò indietro assai confuso
l'imperadore, ma pieno di rabbia e di desiderio di vendicarsene. Per
testimonianza del Dandolo[2432], una fiera tragedia accadde in
quest'anno in Venezia. Avea _Pietro Candiano IV_ doge di Venezia sotto
varii pretesti ripudiata sua moglie, con obbligarla a farsi monaca nel
nobilissimo monistero di san Zaccheria. Quindi passò ad accasarsi con
_Gualdrada_, sorella di _Ugo duca_ e marchese di Toscana, che gli portò
in dote assaissimi poderi, servi e serve, verisimilmente verso i confini
del Ferrarese. Per difesa di questi beni che erano fuori del dominio
veneto, egli assoldò molti soldati italiani: il che accrebbe la sua
baldanza in maniera, che cominciò a trattar con troppo rigore il popolo
di Venezia, ed attaccar facilmente brighe coi vicini. Dicono ch'egli
_ferrariensis castelli populum debellavit; opiterginum quoque castrum
igne comsumtum devastari jussit; nonnullaque alia se objurgantibus
aspera intulit_. Ma finì male l'alterigia sua. Venuto egli in odio a
tutto il popolo, e formata una congiura contra di lui, questa scoppiò
nell'anno presente. L'assalirono un dì, e perchè non poteano espugnare
il palazzo, dov'egli si difendeva con alquanti soldati, seguitando lo
sconsigliato parere di _Pietro Orseolo_, vi attaccarono il fuoco. Le
fiamme non solamente distrussero il palazzo, ma anche le chiese di san
Marco, di san Teodoro e di santa Maria Zobenigo, e più di trecento case.
Pietro doge nel fuggire fu preso, e unitamente con Pietro suo figliuolo
infante trucidato dai principali della città. Nel dì 12 d'agosto fu
eletto doge il suddetto _Pietro Orseolo_, personaggio di rara pietà e di
costumi veramente cristiani, il quale s'applicò tosto a rifare il
palazzo ducale e il tempio di san Marco, e a governare con singolare
carità e giustizia il popolo suo. Da san Pier Damiano[2433], che narra
questo avvenimento, tali notizie prese lo stesso Dandolo. E merita
d'essere notato dirsi dal medesimo san Pier Damiano che Pietro Orseolo
_dalmatici regni adeptus est principatum_, ovvero, ch'egli _dalmatici
ducatus gubernabat habenas_; il che potrebbe far credere che i Veneziani
già fossero in possesso della Dalmazia. Ma noi vedremo che molto più
tardi la Dalmazia venne sotto il dominio dei Veneziani. Il Damiano per
anticipazione parlò così, perchè a' suoi giorni la Dalmazia ubbidiva a
quell'inclita repubblica. Veggasi qui sotto all'anno 997. All'anno
presente notò Lupo protospata[2434] che _obsederunt Saraceni Gravinam,
sed irrito conatu_; e che _Giovanni Zimisce_ imperador glorioso de'
Greci diede fine alla sua vita, con succedergli _Basilio_ e
_Costantino_, figliuoli di _Romano juniore_ già imperadore: il che viene
attestato anche da altri scrittori delle cose greche: nè si dee
tralasciare che nell'anno presente stabilì pace e lega _Sicardo conte_,
e tutto il popolo della città di _Giustinopoli_, oggidì Capodistria, col
suddetto _Pietro Orseolo_, appellato ivi _gloriosissimus Venetiarum
dux_. Lo strumento rapportato dal Dandolo ha le seguenti note:
_Imperante domino nostro domino Ottone serenissimo imperatore anno
quarto_ (coll'epoca incominciata dopo la morte del padre) _XII mensis
octobris, Indictione V_, cominciata nel settembre; e perciò nell'anno
presente, e non già nell'_anno secondo_, come pensò il Dandolo, perchè
sussiste che egli fosse creato doge nel presente. Di qui poi abbiamo che
l'Istria tuttavia riconosceva l'imperador d'Occidente per suo sovrano.

NOTE:

[2431] Annalista Saxo, apud Eccardum.

[2432] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2433] Petrus Damian., in Vita Sancti Romualdi.

[2434] Lupus Protospata, in Chronico.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXVII. Indiz. V.

    BENEDETTO VII papa 3.
    OTTONE II imperadore 11 e 5.


Cominciarono almeno in quest'anno, e continuarono nel seguente, le
discordie fra _Ottone II_ Augusto e _Lottario re_ di Francia, a cagion
del ducato della Lorena. Non sono concordi gli antichi storici, cioè
Ermanno Contratto, Sigeberto, l'Annalista sassone ed altri, in assegnare
i tempi di quelle militari imprese. L'Annalista suddetto[2435] racconta
sotto il presente anno, ed altri sotto il seguente, ciò ch'io sono ora
per dire. Perchè Lottario avea data la Lorena a _Carlo_ suo fratello, e
questi s'era collegato coll'imperadore, Lottario in collera portò l'armi
sue in Lorena, e dato il sacco al palazzo di Aquisgrana, sedia del
regno, e ad altri luoghi, se ne tornò indietro. Ottone irritato forte da
queste violenze del re suo cognato, per attestato di Sigeberto[2436],
_cum inestimabili exercitu prosecutus, condicto die, scilicet kalendis
octobris Franciam intravit, quam usque ad kalendas decembris pervagatus,
fines Remensium, Laudunensium, Suessionum, et Parisiensium, diversa
caede vastavit, ecclesiis tantum Dei omnium immunitate concessa_.
L'Annalista sassone scrive ch'egli _usque Parisius nullo sibi obsistente
pervenit_. Ma nel tornare indietro, allorchè ebbe da valicare il fiume
Assona, colto dall'armata di Lottario, vi perdè buona parte del bagaglio
e della preda. Lascerò ch'altri decida, se questa guerra appartenga al
presente o al susseguente anno. Secondochè scrive il suddetto Annalista,
prima che seguisse questa rottura fra l'imperadore e il re Lottario, il
deposto duca di Baviera _Arrigo II_ occupò la città di Passavia. Vi
accorse Ottone Augusto, assediò lui nella medesima, e in fine l'obbligò
a sottomettersi al suo volere. E Lupo protospata[2437] lasciò scritto a
questo medesimo anno: _Incenderunt Agareni civitatem Oriae, et cunctum
vulgus in Siciliam deduxerunt_. Altri tengono succeduto più tardi questo
fatto. Vien rapportato dal Margarino[2438] un diploma di Ottone II
Augusto, come spettante all'anno presente, colle seguenti note: _Datum
IV nonas aprilis anno dominicae Incarnationis DCCCCLXXVII, Indictione V,
regni vero domni Ottonis XVI, imperii XI_. In esso dichiara egli conte
di Bobbio l'abbate di quell'insigne monistero, come erano stati in
addietro altri abbati. Ma altrove[2439] ho io dubitato della legittimità
di questo diploma, al vedere sì anticamente investito l'abbate _per
annulum aureum de jam dicto comitatu_, e al trovar qui l'_anno XI_
dell'imperio, il quale cominciava a decorrere solamente nel Natale
dell'anno presente. Però l'Ughelli tralasciò l'anno di esso imperio, ed
aggiunse:[2440] _Actum Noviomaga in palatio imperatoris_. Sono ivi
citati per testimonii l'arcivescovo di Magonza, _Rinaldo vescovo_ di
Pavia, _Giovanni vescovo_ di Piacenza, ed altri. Non si solevano allora
registrar ne' diplomi imperiali i nobili testimonii. Tal costume fu
introdotto più tardi. Vescovo era allora di Piacenza _Sigolfo_ e non
_Giovanni_, come s'ha dalle carte accennate dal Campi[2441], il quale
stranamente si studia d'accordare con esse l'anacronismo di questo
diploma. Comunque sia, quivi s'incontrano le seguenti parole:
_Quaecumque igitur Adalbertus vel Opizo marchiones, vel eorum sequaces,
in praefato comitatu, et ejus pertinentiis agere vel facere
praesumpserunt, nisi de expressa licentia et libera voluntate comitis
memorati, volumus irrita fieri atque cassa_. Abbiamo veduto all'anno 972
provato con un autentico strumento, ed io ho prima d'ora con altre
pruove nelle Antichità estensi dimostrato, che fiorivano in questi tempi
_Adalberto_ ed _Oberto II_ marchesi, figliuoli del marchese _Oberto I_,
dal secondo dei quali discende la nobilissima casa d'Este. E in una
pergamena lucchese dell'anno 1011 s'incontra[2442] _Adalbertus marchio
filio bonae memoriae Oberti, qui Oppitio_: del che fo io menzione,
acciocchè si sappia che il medesimo _Oberto II_ era anche appellato
_Obizzo_. Nella stessa maniera s'incontrerà _Adalbertus, qui et Azzo_,
ed altri simili esempli si truovano nelle memorie di quei tempi. Però
_Azzo_ ed _Obizzo_ divennero poi nomi de' principi estensi susseguenti,
e andarono a poco a poco in disuso quei di _Oberto_ e di _Adalberto_,
che è lo stesso che _Alberto_.

NOTE:

[2435] Annalista Saxo, apud Leibnitium et Eccardum.

[2436] Sigebertus, in Chron. ad ann. 978.

[2437] Lupus Protospata, in Chronico.

[2438] Margarin., Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. LVIII.

[2439] Antichità Estensi. P. I, cap. 21.

[2440] Ughell., Ital. Sacr., 4 in Episcop. Bobiens.

[2441] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.

[2442] Antichità Estensi, P. I. cap. 16.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXVIII. Indiz. VI.

    BENEDETTO VII papa 4.
    OTTONE II imperadore 12 e 6.


Agli anni precedenti e a parte ancora di questo appartiene un racconto
di Andrea Dandolo[2443]. Scrive egli che _Vitale patriarca_ di Grado,
figliuolo dell'ucciso doge _Pietro Candiano IV_, per consiglio di alcuni
Veneziani, _Saxoniam ad Imperatorem properans, de occisione sui
genitoris quaerelam exposuit, et remedium imploravit. Quem imperator
devote suscipiens sibi condoluit, et eum secum manere rogavit._ Aggiugne
appresso che anche _Gualdrada_ già moglie d'esso doge ucciso, e sorella
di _Ugo duca_ e marchese di Toscana, _lege salica desponsata_, perchè
veramente discendente da padre ed avolo franzesi, fece anch'ella ricorso
con buone raccomandazioni alla imperadrice _Adelaide_, per inquietare il
doge novello e i Veneziani. Ma _Pietro Orseolo_ doge destramente trattò
con essa imperadrice, e per via d'una composizione _quietationem
obtinuit subsequenter, per imperatricem approbatam Placentiae, Dominico
Carimano Venetorum nuntio procurante_. Abbiamo dall'Annalista
sassone[2444] che in quest'anno _Adelheidis imperatrix cum filia
Athelheide abbatissa in Italiam profecta est propter quasdam discordias
inter se et filium factas_. Però si può credere che in questi tempi
seguisse l'accordo suddetto approvato in Piacenza dalla suddetta
Augusta. Noi abbiamo da Siro monaco[2445] che _Ottone II_ Augusto
concepì tanta alterazion d'animo contra della piissima imperadrice sua
madre, _quasi in rei publicae dilapidatricem_, forse perch'ella spendeva
molto in limosine, e in ornare o dotar le chiese. Ma _Odilone abbate_ di
Clugnì[2446] nella vita di questa santa imperadrice scrive, che non
mancando alla corte chi la metteva in disgrazia del figliuolo Augusto (e
fra queste si può sospettare, per quanto dirò altrove, che vi entrasse
la nuora Teofania), essa Adelaide non in Italia si ritirò, ma bensì nel
paterno regno della Borgogna, _ubi a fratre scilicet Chuonrado_ (re di
quella contrada), _et nobilissima Mathilde ejus conjuge_, fu ben
ricevuta. E perciò _tristabatur de absentia ejus Germania; laetabatur in
adventu ejus tota Burgundia; exultabat Lugdunum, quondam philosophiae
mater et nutrix: necnon et Vienna nobilis sedes regis_. Da ciò inferisce
il padre Mabillone che s'ingannasse l'Annalista suddetto sì nel
raccontar la venuta in Italia di santa Adelaide, come ancora nell'anno,
pretendendo egli che ciò seguisse solamente nell'anno 980, in cui san
_Maiolo abbate_ riconciliò l'Augusta madre col figlio. Ma avendo noi qui
l'asserzione dello storico sassone, e inoltre quella del Dandolo, che
dovette prendere la notizia dell'accordo seguito fra Gualdrada e Pietro
Orseolo doge dallo strumento fatto in Piacenza coll'interposizione
dell'imperadrice, abbiamo assai fondamento di credere quell'Augusta
venuta di Germania in Italia, da dove poi dovette passare a Vienna di
Francia.

Dal Dandolo suddetto vien susseguentemente scritto, e più diffusamente
esposto da san Pier Damiano[2447] e da altri che hanno scritta la vita
di san _Pietro Orseolo_, cioè del soprallodato doge, attendendo egli
alle opere di pietà, siccome uomo di santa vita, ma conoscendo d'aver
dei nemici che macchinavano contro di lui, e provando anche i rimorsi
per l'uccisione del suo antecessore: capitò a Venezia _Guarino abbate_
di san Michele di Cusano in Guascogna, che non difficilmente persuase al
buon doge di dare un calcio al mondo, e di abbracciar la vita monastica.
In fatti nella notte del dì primo di settembre dell'anno presente
_Pietro Orseolo_, senza far parola di ciò nè colla moglie Felicita, nè
con Pietro suo figliuolo, nè con alcuno de' suoi domestici, uscì
segretamente di Venezia, accompagnato da Giovanni Gradenigo e da
Giovanni Morosino suo genero, personaggi anch'essi di rara pietà, e da
_Romoaldo_ celebre monaco di Ravenna, e poi santo institutore
dell'ordine camaldolense, e da Marino insigne anacoreta, s'inviò in
Francia, e quivi nel monistero suddetto di san Michele prese l'abito
monastico, e passò quivi diciannove anni, crescendo di virtù in virtù;
di modo che dopo morte, risplendendo anche per varii miracoli, fu in
quel monistero ed in Venezia onorato qual santo. A _Pietro Orseolo_
succedette in quest'anno nel ducato di Venezia _Vitale Candiano_,
fratello dell'ucciso _Pietro IV_ doge. A questo avviso tornò a Venezia
_Vitale patriarca_ di Grado suo nipote, che dianzi dimorava nella marca
di Verona. E perciocchè questo prelato avea sommamente screditato i
Veneziani presso l'imperadore _Ottone II_, fu spedito dallo stesso suo
zio doge in Germania per rimetterli in grazia: il che egli felicemente
eseguì. Mancò di vita nell'anno presente _Gisolfo I_ principe di
Salerno[2448], e succedette a lui in quel principato _Pandolfo_,
secondogenito di _Pandolfo Capodiferro principe_ di Benevento e Capua,
adottato per figliuolo da esso Gisolfo nell'anno 974. Ma Pandolfo
assunse anch'egli il titolo di principe di Salerno, e volle governar
quegli stati insieme col figliuolo; in guisa che possedendo i principati
di Benevento, Capoa e Salerno, e reggendo inoltre il vasto allora ducato
di Spoleti e la marca di Camerino, quasi la metà dell'Italia stava sotto
il dominio suo, ed egli era senza comparazione il più potente principe
d'Italia. Nè si dee tralasciare che tutti quei principi erano di _nazion
longobarda_, e s'intitolavano _Langobardorum gentis principes_.

Tali ancora furono i due _marchesi Oberti_ progenitori della casa
d'Este, e i lor successori si gloriavano d'essa nazione. Tali parimente
furono gli antenati della celebre _contessa Matilda_. Fioriva tuttavia
in questi tempi _Adalberto_ ossia _Alberto Azzo_, conte di Modena e di
Reggio, e bisavolo della stessa contessa. Si truova egli vivente anche
nell'anno 981, come si ha da un suo contratto riferito nel Bollario
casinense[2449]. Aveva egli due figliuoli, cioè _Tedaldo_, che fu
successore ne' suoi beni e stati, e _Gotifredo_ che fu vescovo di
Brescia, vivente anche il padre. Moglie d'esso _Alberto Azzo_ era
_Ildegarde_, donna piissima, la quale, per attestato di Donizone[2450],
fabbricò il monistero di san Genesio di Brescello, oggidì ridotto in
commenda. Fortificò egli maggiormente la Rocca di Canossa, vi fondò ed
arricchì la chiesa di santo Apollonio, in cui stabilì una collegiata di
canonici, mutata dipoi in un monistero di Benedettini, anch'esso passato
dipoi in commenda. In alcuni strumenti di _Tedaldo marchese_ suo
figliuolo si truova anche lo stesso Alberto intitolato _marchese_.
Leggesi ivi[2451] _Theudaldus marchio, filio quondam Adelberti itemque
marchio, qui professo sum ex natione mea lege vivere Longobardorum_. Ma
ci è ignoto di qual marca sì l'uno che l'altro fossero investiti. Al
presente anno Ermanno Contratto[2452], Lamberto da Scafnaburgo[2453] ed
altri rapportano la guerra seguita fra _Ottone II_ Augusto, e _Lottario
re_ di Francia, siccome ancora la depressione di _Arrigo II duca_ di
Baviera. Sono di esso Ermanno queste parole: _Heinricus dux Bajoariae,
et alius dux, augustensis quoque episcopus Heinricus, rebellantes
imperatori, capti et exsilio mancipati sunt. Ducatumque Bajoariae Otto
dux Suevorum cepit_. Era questo _Ottone_ figliuolo di _Litolfo_, da noi
già veduto primogenito di Ottone il Grande imperadore. Confermò
l'Augusto Ottone in quest'anno i beni e privilegii della chiesa di
Cremona con un diploma[2454] dato _XIV kalendas majas, anno dominicae
Incarnationis DCCCCLXXVIII, regni vero domni Ottonis imperatoris Augusti
XVIII, imperii vero XI, Indictione VII. Actum corte, quae Altestet
dicitur._ L'indizione ha da essere _sesta_.

Girolamo Rossi[2455] sotto l'anno presente, come egli crede, rapporta
così imbrogliate e scure alcune notizie spettanti a Ravenna, che non se
ne può ben comprendere il senso. Cita egli uno strumento, in cui _Uberto
vescovo_ di Forlì ed alcuni arcipreti concedono ad _Onesto arcivescovo_
di Ravenna _viginti manentes_ (erano contadini obbligati con una specie
di servitù al servigio de' lor padroni) con tutte lor le vigne e beni,
_eo ordine, condicioneque, ut si per apostolicos sanctae romanae
Ecclesiae, aut per Othonem imperatorem, media pars de districtione urbis
Ravennae, et comitatus decimani, quem ipse_ (Hubertus) _cum Lamberto
fratre, Honesto_ (archiepiscopo) _dederat, subtracta fuisset, nec
restituere intra sex menses ipse, neque Lambertus posset, Honesto fas
esset manentes, qui supra scripti sunt, bonaque, quae ad Hubertum et
Lambertum ibidem pertinerent, omnia tenere, possidereque_. Lo strumento
fu scritto _anno pontificatus domni Benedicti summi pontificis sexto,
sicque imperante domno Othone, a Deo coronato in Italia anno XI, die II
mensis octobris, Indictione VI, in loco, qui dicitur Conversito,
territorio ariminensi_. Non si sa intendere come nel dì 2 di ottobre
dell'anno presente potesse correre l'_anno sesto_ di _Benedetto VII_
papa. Altre memorie abbiamo che indicano lui creato papa nell'anno 975;
e però come mai può convenire all'anno presente l'_anno VI_ del suo
pontificato? Nell'archivio del monistero di Subiaco si legge uno
strumento, scritto _anno, Deo propitio, pontificatus domni Benedicti
summi pontifici, et universali VII, papae IV, imperante domno Ottone a
Deo coronato pacificus imperator anno XI, Indictione VI mensis martii
die sexta_, cioè nell'anno presente. Un altro fu scritto _anno
pontificatus domni Benedicti summi pontifici et universali VII papae in
sacratissima Sede beati Petri II, imperatoriis domni Ottoni pissimi et
perpetuo Augusto a Deo coronati, anno nono, Indictione IV, mensis
januarii die X_, cioè nell'anno 976. Ritornando ora alle parole dello
strumento accennato dal Rossi, è considerabile il dirsi, che se dal papa
o dall'imperadore fosse tolta all'arcivescovo Onesto _media pars de
districtione Ravennae, et comitatus decimani_ (ceduto all'_arcivescovo
Onesto_ dal _vescovo Uberto_, e da Lamberto suo fratello), in tal caso
esso arcivescovo resti padrone degli uomini e beni soprannotati. Può
essere che fosse in disputa la signoria di Ravenna fra il romano
pontefice e l'imperadore. Ma giacchè abbiam rapportato dei documenti
spettanti alla cronologia pontifizia, non vo' finirla senza avvertire,
che nell'archivio poco fa menzionato del monistero insigne di Subiaco si
trova un'altra bolla con queste note: _Anno, Deo propitio, pontificatus
domni Benedicti summi pontifici, et universali septimi papae in
sacratissima Sede beati Petri Apostoli tertio, imperii domni Ottonis
magni imperatori anno decimo, Indictione V, mense aprilis die XXVIII_,
cioè nell'anno 977. Ora, dai suddetti documenti risulta che _Benedetto
VII_ fu assunto al pontificato o sul fine dell'anno 974, o sul principio
del 975. All'incontro in Ravenna si truova esso papa promosso al
pontificato un anno o due prima. Il padre don Pier Paolo Ginanni abbate
benedettino, diligentissimo raccoglitore delle memorie antiche di
Ravenna, ha scoperto due strumenti, l'uno scritto _anno pontificatus
domni Benedicti decimo, imperante Ottone in Italia anno XV, die XXIV
decembris, Indictione X. Ravennae_, che indica l'anno 982, regnante
Ottone II Augusto. L'altro fu scritto _anno pontificatus domni Benedicti
octavo, die XI aprilis, per Indictionem VIII_, cioè nell'anno 980, da'
quali strumenti veggiamo anticipato d'uno o di due anni il principio del
di lui pontificato. Che è qui da dire? Altro io non so immaginare, se
non un ripiego, che io nondimeno sono il primo a confessar poco
verisimile. Cioè che i Ravegnani confondessero insieme i due Benedetti,
cioè il sesto e il settimo, con credere che il primo uscito di carcere
avesse continuato a sedere nella cattedra di san Pietro, e che perciò
attribuissero all'uno anche gli anni dell'altro, mentre succedettero sì
da vicino l'uno all'altro. Fors'anche tali carte potrebbono far dubitare
che Benedetto, da noi chiamato sesto, non fosse strangolato, ma
risorgesse.

NOTE:

[2443] Dandul., in Chronico, tom. 12 Rer. Ital.

[2444] Annalista Saxo, apud Eccardum.

[2445] Syrus, in Vit. S. Majoli apud Mabill.

[2446] Odilo, in Vit. S. Adelheidis.

[2447] Petrus Damian., in Vit. S. Romualdi.

[2448] Camill. Peregr., Hist. Princip. Langob., P. I, tom. 2 Rer. Ital.

[2449] Bullarium Casinens., tom. 2, Constit. LXI.

[2450] Donizo, in Vita Mathild., lib. 1, cap. 1.

[2451] Bacchini, Istoria del Monistero di Polirone, Append.

[2452] Hermannus Contractus, in Chronico, edition. Canis.

[2453] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[2454] Antiquit. Ital., Dissert. XVIII.

[2455] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXIX. Indiz. VII.

    BENEDETTO VII papa 5.
    OTTONE II imperadore 13, 7.


Per attestato del Dandolo[2456], _Vitale Candiano_, creato doge di
Venezia nell'anno precedente, dopo aver passato solamente un anno e due
mesi nel governo colla sanità sempre languente ed afflitta da varii
malori, infermossi gravemente; e però quattro giorni prima di morire,
fattosi portare al monistero di sant'Ilario, quivi preso l'abito
monastico, e fatta la professione, passò a miglior vita. Tale era allora
il pio costume di molti, persuasi di assicurarsi in tal maniera l'eterna
loro salute. E resta tuttavia qualche vestigio di quest'uso nell'abito
religioso, con cui molti, e non men de' buoni che de' cattivi, si fanno
portare alla sepoltura, eleggendo allora alcuni ciò che forse
sprezzarono e derisero in loro vita. Fu in luogo di Vitale proclamato
doge di Venezia _Tribuno Memmo_, persona assai facoltosa, sotto il quale
per poca sua cura accaddero varii scandali e sconcerti in quella nobil
città. Perciocchè nata nimicizia fra i Caloprini e Morosini, potenti
famiglie di Venezia, i primi un giorno, spalleggiati dal medesimo doge,
presero l'armi contra degli altri, che ebbero la fortuna di salvarsi,
fuorchè Domenico Morosino, che restò vittima del furor de' nemici. Io
non so onde abbia tratto il Sigonio[2457] ciò che egli racconta sotto
l'anno presente. Cioè che insorse una gran guerra in Italia, _quippe
Basilius et Constantinus imperatores turpe rati, se vetere tot annorum
Apuliae, Calabriaeque fuisse possessione dejectos, Sarracenis, quos
nuper Creta exegerant_ (abbiam veduto che l'isola di Candia fu ritolta
ai Saraceni l'anno 961 sotto Romano juniore imperadore) _magna mercede
conductis, Italiam invaserunt, et Barrio, ac Matera expugnatis, Apuliam
primum, deinde, nemine prohibente, Calabriam receperunt_. Ma a chi
ritolsero i Greci quelle contrade? Se i Saraceni erano in loro aiuto,
dalle mani di chi le avran ricuperate i Greci? A me non è venuto sotto
gli occhi antico scrittore alcuno, che parli di sì fatto avvenimento. E
noi vedremo in breve i Saraceni potenti in Calabria. Lupo Protospata
sotto quest'anno scrive[2458]: _Occidit Porphyrius Protospata Andream
episcopum oriensem mense augusti_. Altra avventura di conseguenza non
dovette egli sapere. E poscia all'anno 982 nota che la città di Bari fu
consegnata ai Greci: come dunque se ne impadronirono in quest'anno? Per
altro è certo che pochi anni prima aveano i Greci perduta la città di
Bari, e seco, come si può credere, la Puglia. Cedreno l'attesta[2459],
favellando di Basilio e Costantino Augusti greci: _In Italia_, dice
egli, _quidam, vir potens, unus de iis, qui Barim incolebant, nomine
Meles, concitatis Longobardis, contra Romanos_ (tal nome attribuivano a
sè stessi i Greci) _movit. Quumque imperator adversus hunc misisset
Basilium Argyrum Sami, et Contoleonem Cephalleniae praefectos, Meles
illustri eos praelio vicit, multis caesis, haud paucis captis, reliquis
turpi fuga vitam tutatis._ È da stupire come Lupo Protospata nulla parli
di questo fatto, quando sia vero. Tanto l'Ughelli[2460], quanto il
Bordoni[2461] rapportano a quest'anno un privilegio conceduto a
_Sigefredo vescovo_ di Parma con queste note: _Data nonis aprilis, anno
dominicae Incarnationis DCCCCLXXIX, Indictione VII, anno tertii Othonis
regni regnante sexto. Actum Quitelemburgi:_ senza punto badar essi che
Ottone terzo non era per anche nato in quest'anno, e che allora regnava
Ottone secondo imperadore, e non già suo figliuolo, e che l'_indizione
VII_ non s'accorda coll'_anno VI_ di Ottone III. Sarà forse un diploma
vero, ma alterato dai copisti ignoranti. _Mansone_ imperiale patrizio ed
antipato, cioè proconsole, si truova duca di Amalfi[2462]. Questi
nell'anno 892 fu degradato da _Oferio_ suo fratello, il quale, dopo
avere regnato un anno e nove mesi, mancò di vita, e diede adito al
suddetto Mansone di riassumere il governo di Amalfi.

NOTE:

[2456] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2457] Sigonius, de Regno Ital., lib. 7.

[2458] Lupus Protospata, in Chron.

[2459] Cedrenus, in Annal.

[2460] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2.

[2461] Bordon., Thesaur. Eccles. Parmens.

[2462] Antiq. Ital., tom. 1, pag. 210.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXX. Indiz. VIII.

    BENEDETTO VII papa 6.
    OTTONE II imperadore 14 e 8.


Era fin qui durata la nimicizia di _Ottone II_ imperatore con _Lottario
re_ di Francia, a cagione della Lorena, provincia allora di grande
estensione fra la Germania e la Gallia. In quest'anno ebbe fine. Seguì
un abboccamento fra loro, e, per attestato di Ditmaro[2463], _Lutharius
rex cum filio suimet, ac muneribus magnificis ad Ottonem venit, et sibi
satis faciens, amicitiam ejus firmiter acquisivit_. Così hanno altri
scrittori[2464]. E Sigeberto aggiugne[2465], che _rex Lotharius
Lotharingiam abjurat_. Ma il continuatore di Frodoardo[2466] scrive che
Ottone Augusto riconobbe quel paese in feudo dal re di Francia:
_Lotharius rex Francorum contra voluntatem principum regni sui Remis
pacificatus est cum Othone imperatore, deditque Othoni in beneficium
Lotharingiae ducatum: quod magis corda praedictorum principum
contristavit_. Lascerò io disputare intorno a questo punto gli eruditi
franzesi e tedeschi; perchè quel continuatore non è di tale antichità da
potersi riposar sul suo detto. In questa maniera avendo l'Augusto Ottone
assicurata la quiete della Germania, rivolse i suoi pensieri all'Italia.
Stavagli ai fianchi l'imperadrice _Teofania_ sua moglie, che gli andava
mettendo in capo delle pretensioni sopra gli stati posseduti dai greci
Augusti in Italia, per esser ella figliuola d'un greco imperatore: con
che s'invogliò il marito di tentare la conquista. Se si ha da credere ad
un continuatore della Cronica di Frodoardo[2467] presso il Du-Chesne, fu
egli in oltre chiamato in Italia dal papa, per provvedere ai mali umori
che più che mai serpeggiavano in Roma: _Evocatus a papa, ut Ecclesiae
succurreret, in Italiam, ubi Apuliam et Calabriam Italiae provincias ad
jus imperii Graecorum appendentes, ad imperium romanum conatus
transferre_. In quest'anno, per testimonianza dell'Annalista
sassone[2468], la suddetta imperadrice Teofania partorì all'Augusto
marito un figliuolo, appellato _Ottone III_, che fu poi re ed
imperatore. Calò dunque in Italia Ottone II imperadore nell'autunno
dell'anno corrente, e, giunto a Pavia, quivi si pacificò colla santa
imperadrice _Adelaide_ sua madre. Non van d'accordo su questo punto
santo _Odilone abbate_[2469] di Clugnì, e Siro monaco abbate d'esso
monistero[2470] prima di Odilone. Secondo il suddetto Odilone, pentito
l'imperadore dei disgusti dati alla madre, spedì a _Corrado re_ di
Borgogna e a san _Maiolo_ dei messi, con pregarli d'interporsi per la
riconciliazione, e di condurre Adelaide a Pavia. Venne ella in fatti a
quella città, abboccossi col figliuolo, ed amendue non senza lagrime si
pacificarono. Siro all'incontro scrive che non attentandosi alcuno dei
buoni cortigiani di aprir bocca in favor d'Adelaide, sollecitato san
Majolo da molti, si portò alla corte, e con generosa franchezza talmente
ne parlò all'imperadore, ch'egli si diede per vinto, e andò a gittarsi
a' piedi della madre. Nelle annotazioni alle leggi longobardiche[2471]
ho io scritto che questa riconciliazione seguì in Verona nell'anno 983.
Ma essa è indubitatamente da riferirsi all'anno presente. Da Pavia passò
l'Augusto Ottone a Ravenna, dove, per relazione dell'Annalista sassone,
celebrò il santo Natale. Della sua permanenza in quella città ne abbiamo
anche la testimonianza in un diploma[2472] da me dato alla luce, in cui
egli confermò ai canonici di Parma _interventu ac petitione dominae
nostrae matris Adelaidae_, (già riconciliata con lui) tutti i loro
privilegii, _V kalendas januarii, anno dominicae Incarnationis
DCCCCLXXX, Indictione nona, regni vero domni Ottonis XXII_ (dovrebbe
essere _XX_) _imperii autem ejus XIII_ (dee essere XIIII, facile errore
del copista). _Actum Ravennae._ Vuole il Sigonio[2473] che Ottone,
appena arrivato in Italia, tenesse nel mese d'agosto una solennissima
dieta dei principi italiani in Roncaglia sul Piacentino, dove si fece
giustizia di chi avea mosse sedizioni in Italia, e furono conferiti
feudi a varie persone, e fra le altre a _Lanfranco Bracciforte_
piacentino. Aggiugne che _Tedaldo_, figliuolo di _Alberto Azzo_ conte ed
avolo della _contessa Matilde_, fu dichiarato marchese di Mantova. Ma
nulla di ciò sussiste. Nel dì 7 di ottobre era tuttavia di là da' monti
l'imperadore Ottone II, come con un suo diploma pruova il padre
Mabillone[2474]. In que' tempi non v'era marchese di Mantova. Senza
dubbio _Tedaldo_ portò il titolo di _marchese_, ma con restare tuttavia
ignoto onde a lui venisse questa denominazione. Ed è una favola quella
del Bracciforte.

NOTE:

[2463] Ditmarus, in Chron., lib. 3.

[2464] Annales Hildeshemenses. Annalista Saxo.

[2465] Sigebert., in Chron.

[2466] Continuator Frodoardi, apud Du-Chesne, tom. 2 Rer. Franc.

[2467] Idem, Ibidem.

[2468] Annalista Saxo, apud Eccardum.

[2469] Odilo, in Vita S. Adelheidis.

[2470] Syrus, in Vita S. Majoli.

[2471] Rer. Ital., P. II, tom. 1.

[2472] Antiquit. Ital., Dissert. XVIII.

[2473] Sigonius, de Regno Ital., lib. 7.

[2474] Mabill., Annal. Benedict., ad ann. 980.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXXI. Indiz. IX.

    BENEDETTO VII papa 7.
    OTTONE II imperadore 15 e 9.


Era tuttavia in Ravenna l'Augusto _Ottone II_ nel dì 15 di gennaio,
citando il Rossi[2475] un suo diploma, dato _XVIII kalendas februarii
anno dominicae Incarnationis DCCCCLXXXI, Indictione IX, regni XX,
imperii XIV. Ravennae._ Passò dipoi a Roma per attestato dell'Annalista
sassone[2476], in compagnia delle Auguste, cioè di _Adelaide_ sua madre
e di _Teofania_ moglie, e vi solennizzò la Pasqua. Confermò all'insigne
monistero di Farfa i suoi privilegii con un diploma[2477] dato _III
nonas maii, anno dominicae Incarnatione DCCCCLXXXI, Indictione VIII_
(scrivi _VIIII_), _imperii autem ejus XIV. Actum Romae._ Un altro suo
diploma in favor del monistero di Casauria fu spedito _XIV kalendas
maii_ nell'anno suddetto, _Indictione nona, regni vero domni Ottonis
secundi vicesimo primo, imperii autem ejus decimoquarto. Actum Romae in
palatio juxta ecclesiam beati Petri Apostoli_, cioè fuor di Roma, dove
soleano abitar gli imperadori, allorchè andavano a quella augusta città.
Lo stesso pure praticavano in Ravenna, in Milano ed in altre città,
abitando fuori d'essa, credo io, per loro maggior sicurezza, e quiete
ancora dei cittadini. Susseguentemente nel mese d'agosto confermò tutti
i privilegii e beni al celebratissimo monistero di Monte Casino. Il suo
diploma, che tuttavia originale col suo sigillo di cera si conserva
nell'archivio casinense, dato alla luce dal padre abbate Gattola[2478],
si vede spedito _VIII idus augusti anno dominicae Incarnationis
DCCCCLXXXI, imperii vero domni secundi Ottonis imperatoris Augusti
quartodecimo Indictione nona. Actum Cevice._ Quivi è degno d'attenzione
ciò che dice quest'imperadore in confermare ad _Aligerno abbate_ tutte
le tenute del monistero casinense _in ambobus ducatibus nostris
spoletino atque firmano, seu infra omnes fines nostri regni italici_. Il
ducato di Fermo, appellato anche Marca di Fermo, altro non è che il
ducato ossia la Marca di Camerino. Or di qua si vegga, se possa
sussistere che i due Ottoni primo e secondo avessero donato, ossia
confermato, alla santa Chiesa romana _cunctum ducatum spoletinum, seu
beneventanum_. Ognun sa, per conto del beneventano, che esso era in
questi tempi de' suoi proprii principi, i quali riconoscevano ora i
greci, ora i latini imperadori per loro sovrani, senza che mai niuno de'
papi se ne lamentasse, o vi pretendesse. Così i due ducati ossia le due
marche di Spoleti e di Camerino dipendevano dai soli imperadori
d'Occidente, ed erano parti del regno d'Italia; e i re e gl'imperadori
vi mettevano al governo i duchi di mano in mano; il che appunto
succedette nell'anno presente, imperciocchè venne a morte _Pandolfo
Capodiferro_, potentissimo principe di Benevento e Capua, che per molti
anni era anche stato duca di Spoleti e marchese di Camerino. Dopo
l'aprile, e prima del mese di giugno di quest'anno egli terminò i suoi
giorni, e fu seppellito in Capua. A _Landolfo IV_ suo primogenito toccò
il principato di Benevento e Capua; a Pandolfo ossia Paldolfo
secondogenito restò il principato di Salerno. Per conto di _Spoleti_ e
di _Camerino_, siccome vedremo, questo pervenne a _Trasmondo_ duca e
marchese, nominato nelle croniche di Farfa e del Volturno. Trovavasi in
Capua l'Augusto Ottone nell'ultimo dì di settembre, allorchè confermò
una gran copia di beni donati al nobil monistero di san Salvatore di
Pavia dall'imperadrice _Adelaide_ sua madre, piissima fondatrice di quel
sacro luogo. Il diploma fu dato[2479] _pridie kalendas octobris anno
dominicae Incarnationis DCCCCLXXXI, Indictione X, regni domni secundi
Ottonis XXIV, imperii quoque XIV. Actum Capuae_. Gli anni del regno sono
scorretti, nè si accorda questo diploma colla dotazione fatta più tardi
di esso monistero dall'Augusta Adelaide. Attese in questi tempi
l'imperadore Ottone ad ammassar gente, e a far tutti i preparativi per
cominciar la guerra coi Greci. Ma perchè _Pandolfo principe_ di Salerno
doveva essere ora dipendente da essi, Ottone, per attestato di Romoaldo
salernitano[2480], assediò quella città, e la prese: _Veniens Salernum
obsedit, cepitque illam expugnans_: sono parole di quello storico. Ed
Ermanno Contratto[2481] scrive a quest'anno: _Otto imperator peragrata
Italia, Campaniam, calabrosque fines cum exercitu ingreditur_. Lasciò
scritto Lupo Protospata[2482] sotto quest'anno, che _fecit praelium Otho
rex cum Saracenis in Calabria in civitate Cotruna, et mortui sunt ibi
quadraginta millia Poenorum_ (enorme slargata di bocca) _cum rege eorum,
nomine Bulcassimus_. Ma questa notizia è fuor di sito, conoscendosi che
appartiene all'anno seguente; ed è anche alterata di molto. Così egli
narra all'anno 982 la morte di Ottone II, la quale pure accadde
solamente nel 983.

Ci vien poi dicendo Gotifredo da Viterbo[2483], che prima che Ottone II
tornasse in Italia, erano qui insorte fra i popoli, e massimamente in
Roma, varie sedizioni. Arrivato ch'egli fu a Roma in collera, sentì le
doglianze de' popoli, notò i rei; ed un giorno, fatto un solenne
convito, in cui si trovarono tutti i principi e baroni, e circondato il
luogo dalle sue guardie, mentre erano sul più bello dell'allegria,
intimò il silenzio a tutti. Quindi ordinò che si leggesse il processo
dei delinquenti, a cadaun dei quali immediatamente fu spiccato il capo
dal busto:

    _Qui meruit, damnatur ibi poena capitali._
    _Sanguine nobilium jam mensa potest maculari._
    _Otho sibi capita vult quasi fercula dari._
    _Humani capitis dum mensa cruore medescit._
    _Non minus ante datis Rex imperat undique vesci._

Da Gotifredo prese queste notizie il Sigonio[2484], come buona moneta, e
le inserì nei suoi Annali. Ma s'ha da tenere per certo che queste son
tutte fandonie, almeno per quel che riguarda Ottone II imperadore. Al
più al più potrebbe aver dato motivo a questa favola Ottone III suo
figliuolo, per l'operato suo in Roma: del che parleremo a suo luogo. E
che lo stesso Gotifredo imbrogli qui i fatti del terzo Ottone con quei
del secondo, si scorge dal dire egli che Ottone II portò da Benevento il
corpo di san Bortolomeo apostolo: il che sappiamo attribuito dai vecchi
scrittori ad Ottone III, tuttochè neppur questo sussista. Ora non
parlando alcuno degli antichi storici della sopraddetta rigorosa, anzi
orrida giustizia, che avrebbe fatto grande strepito nel mondo: non è
bastante farcela credere l'autorità di Gotifredo, lontano da questi
tempi, e scrittore dell'anno 1190. Abbiamo poi dall'Annalista
Sassone[2485] che il suddetto imperadore celebrò la festa del santo
Natale in Salerno: il che ci vien sempre più assicurando che in
quest'anno egli se ne impadronì colla forza dell'armi. Lamberto da
Scafnaburgo[2486] dice ch'egli solennizzò essa festa in Roma. Ma qui non
se gli può prestar fede. Nella Cronica del monistero del Volturno[2487]
abbiamo un bel placito tenuto _ipso die lunae, quinto die intrante mense
decembrio, Indictione X super salernitanam civitatem, in qua residebat
supradictum imperatorem cum suis honoralibus hostiliter, anni Domini
DCCCCLXXXI, imperii vero domni secundi Ottoni XIIII_. Cadde appunto in
quest'anno il dì quinto di dicembre in lunedì; e però abbiamo che allora
l'imperadore era ad oste sotto Salerno, ed avendolo preso prima del
Natale, quivi dovette celebrar quella festa. A questo anno parimente
dovrebbe appartenere un diploma d'esso Ottone, conceduto ai canonici di
Lucca[2488] _XII kalendas januarias, anno dominicae Incarnationis
DCCCCLXXXII, Indictione X, anno regni secundi Ottonis XXV, imperii
quoque ejus XV. Actum justa civitatem Salernum._ Sono scorrette queste
note. L'anno, per mio avviso, ha da essere _DCCCCLXXXI_. Quando
nulladimeno fosse dato nell'anno susseguente, di qui apprenderemmo che
anche nell'anno appresso l'imperadore celebrò il Natale del Signore in
Salerno: cosa nondimeno ch'io peno a credere. Nè si dee tralasciare ciò
che scrive l'autore della Cronica di Casauria[2489], cioè che nell'anno
presente _dominus Otto imperator ex romulea egressus urbe, et aedificata
sibi regali domo in campo, qui vocatur de Cedici, toto ipso aestivo
tempore ibi perendinans mansit_. Era questo luogo nel territorio di
Marsi, ciò apparendo da un placito, da me aggiunto alla medesima
Cronica, tenuto _in territorio Marsicano in ipso campo de Cedici, ubi
erat ipsa casa domni Ottonis aedificata, ubi residebat in placito
Gislebertus venerabilis episcopus_ (di Bergamo), ec. Esso placito fu
celebrato _anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Cristi DCCCCLXXXI,
anno imperatoris magni Ottonis filii quondam Ottonis imperatoris Augusti
XIV, die mensis augusti, Indictione IX Actum in Marsi_. _Adamo abbate_
di Casauria vinse quivi una lite di beni. Truovasi ancora nella Cronica
del monistero di santa Sofia[2490] un diploma d'esso Augusto, impetrato
da _Gregorio abbate_ di quel sacro luogo, e dato _XV kalendas novembris,
anno dominicae Incarnationis 997, imperii vero domni secundi Ottonis
XIV, Indictione X. Actum in civitate beneventana in palatio regio_. Ma è
grossamente fallato l'anno, e s'ha da scrivere _anno DCCCCLXXXI_. Ho
detto di sopra che il principato di Benevento e di Capua, dopo la morte
di _Pandolfo Capodiferro_, fu governato da _Landolfo IV_ suo figlio.
Aggiungo ora che in quest'anno coll'espulsione d'esso Landolfo IV,
Benevento pervenne alle mani di _Pandolfo II_ figliuolo di _Landolfo
III_, cioè di un fratello del suddetto Capodiferro. Anche _Pandolfo II_
principe di Salerno[2491] era stato spossessato di quel principato da
_Mansone_ duca di Amalfi, il quale con _Giovanni I_ suo figliuolo il
tenne per due anni. E quantunque Ottone II assediasse e prendesse quella
città, siccome abbiam veduto, pure tanto sapere ebbero, che restarono
amendue confermati in quel principato.

NOTE:

[2475] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.

[2476] Annalista Saxo, apud Eccardum.

[2477] Chronicon Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2478] Gattola, Hist. Monaster. Casinens. P. I.

[2479] Margarinius, Bullar. Casines., tom. 2, Constitut. LX.

[2480] Romuald. Salernit., Chron., tom. 7, Rer. Ital.

[2481] Hermannus Contractus, in Chron.

[2482] Lupus Protospata, in Chronico, tom. 5 Rer. Italic.

[2483] Godefredus Viterbiensis, Panth. de Othone II.

[2484] Sigonius, de Regno Ital., lib. 7.

[2485] Annalista Saxo.

[2486] Lambertus Schafnaburgensis, in Chronico.

[2487] Chron. Vulturnen., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2488] Antiquit. Italic., Dissert. LXII.

[2489] Chron. Casauriense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2490] Ughell., Ital. Sacr., tom. 8.

[2491] Peregrinus, Hist. Princip. Langobard.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXXII. Indiz. X.

    BENEDETTO XII papa 8.
    OTTONE II imperad. 16 e 10.


Nel catalogo del monistero nonantolano[2492], da me dato alla luce,
viene scritto che in quest'anno fu conferita questa insigne badia a
_Giovanni archimandrita_ greco, ed è importante la notizia per imparare
a conoscer per tempo un volpone che arrivò in fine ad occupar la stessa
cattedra di san Pietro, siccome vedremo. S'era questo astuto calabrese
mirabilmente introdotto nella confidenza dell'imperadrice _Teofania_,
greca anche essa di nazione. Ed informato che buon boccone fosse quello
della badia nonantolana, goduto in addietro da alcuni vescovi, valenti
cacciatori de' beni de' monaci, l'impetrò, secondo i perversi costumi
d'allora, dall'imperadore. Nella copia del diploma da me veduta e
pubblicata mancava la data[2493]; ma è da osservare come sia ivi dipinto
questo ipocrita. Dopo aver detto l'imperadore che quel monistero, _in
comitatu mutinense constructum, quod Nonantula vocatur, omnibus aliis
majus, et quod olim exemplar bene vivendi, et sanctae conversationis
fuerat reliquis, paene jam annullatum, atque fondo tenus depopulatum
iniquorum pravitate hominum eo quod per longa curricula annorum_, era
stato senza veri abbati, e non essersi trovato fra i monaci alcuno atto
a quel governo, soggiugne: _Posthac consultu sapientium reduxi oculos
meos ad aulicos, inter quos quemdam archimandritem et consecretalem
meum, Johannem nomine, reperi, probis moribus ornatum, pudicum, sobrium,
docibilem, graeca scientia non ineruditum, totiusque prudentia, et
sanctitatis fulgore praeclarum. Quem consilio virorum illustrium,
Deumque timentium, et electione fratrum in jam dicto monasterio
commanentium, a nostro cubili, et necessariis consiliis abstrahentes,
super nominatis fratribus in patrem et rectorem praefecimus_. Osservisi
come la badia nonantolana vien chiamata la più grande, s'io non erro, di
tutte l'altre d'Italia. Ottima fu qui l'intenzione dell'imperadore, ma
andando innanzi, scorgeremo che santo uomo fosse questo archimandrita
Giovanni. Nel mese di marzo del corrente anno si truova l'imperadore
Ottone II in Taranto, dove conferma ad _Odelrico vescovo_ di Cremona i
beni della sua chiesa. Le note del diploma son queste[2494]: _Datum XVII
kalendas aprilis anno dominicae Incarnationis DCCCCLXXXII, Indictione X,
regni domni secundi Ottonis XX, imperii autem XIIII (si dee scrivere
XVI)_. Quivi ancora egli dimorava _XIV kalendas majas_, come si
raccoglie da altro suo diploma[2495] in favore di _Giovanni vescovo_ di
Salerno da me pubblicato. Scrive Leone Ostiense[2496], che Ottone _venit
Capuam et abiit Tarentum, ac Metapontum, et deinde Calabriam, unde
prospere ad suas reversus. Anno Domini DCCCCLXXXIII iterum magno
exercitu congregato cum Saracenis in Calabriam dimicaturus descendit_.
Ma non v'ha grande esattezza in queste parole, o, per dir meglio, nel
testo che abbiamo. L'anno è ivi fallato certo, essendo che nel presente,
e non già nel susseguente, seguì la battaglia di cui seguita esso
ostiense a parlare.

Romoaldo salernitano racconta[2497], che Ottone II da Salerno _per
Brixiam_ (forse _Brutios_) _et Lucaniam in Calabriam perrexit, et apud
Stylum Calabriae oppidum cum Saracenis pugnavit, eosque devicit, Rhegium
quoque cepit_. Anche Lupo Protospata, siccome abbiam veduto all'anno
precedente, nota che la battaglia d'esso imperadore coi Saraceni riuscì
favorevole ai Cristiani, e che vi restarono sul campo quaranta mila
Mori; nel che, siccome dissi, ognun vede ch'egli aprì di troppo la
bocca. Ma s'ingannarono questi ed altri autori non meno nel fatto che
nel tempo. Non si può staccare dall'anno presente il fatto d'armi
succeduto fra Ottone Augusto e i Mori; ed in questo non restò vincitore,
ma vinto l'imperador d'Occidente. Abbiamo da Ditmaro[2498], da Ermanno
Contratto[2499], da Epidanno[2500], dall'Annalista sassone[2501] e da
altri il vero racconto di questo infelice avvenimento. Intorno a che è
da sapere che i greci Augusti _Basilio_ e _Costantino_, dacchè
penetrarono l'intenzione dell'imperadore Ottone II, di voler assalire
gli Stati da loro posseduti in Puglia e Calabria, gli spedirono
ambasciatori per distornarlo da sì fatta impresa. A nulla avendo servito
le loro esortazioni e preghiere, si rivolsero per aiuto ai Mori di
Sicilia e d'Africa, promettendo loro buon soldo e regali. A questo
invito si leccarono le dita i Saraceni, di nulla più vogliosi che di
poter mettere liberamente il piede nella Calabria: se pure la guerra di
Ottone non fu ancora contra di loro, come possedenti qualche città o
fortezza in quelle parti. Pertanto, raunata una possente flotta navale,
accorsero a sostenere gl'interessi dei Greci, e fors'anche i loro
proprii. Avea l'imperador Ottone anche egli un gagliardo esercito dei
suoi Sassoni, accresciuto da un buon rinforzo di Bavaresi ed Alemanni.
In persona era venuto _Ottone duca_ di Baviera e di Svevia, figliuolo
del già _Litolfo_ suo fratello, a militar sotto il di lui comando. Oltre
a ciò, concorsero alla di lui armata i Beneventani, Capuani, Salernitani
ed altri popoli dell'Italia. La sua prima impresa fu l'assedio di
Taranto, città difesa e tenuta dai Greci: _eamque_, come dice Ditmaro,
_viriliter in parvo tempore oppugnatam devicit_. Proseguì il viaggio in
Calabria per azzuffarsi coi Mori. A tutta prima li mise in fuga, ed
obbligò a ritirarsi in una città. Usciti poi costoro con bella ordinanza
in campo, si attaccò la crudele battaglia. Gran macello fecero i
Cristiani di quegl'infedeli, sbaragliarono i loro squadroni, fecero
fuggire i restanti. Ma mentre i Cristiani sbandati son dietro a
raccogliere le spoglie del campo, eccoti, a mio credere, comparir di
nuovo raccolti e schierati i Saraceni, che senza trovar resistenza,
misero a fil di spada quanti dei Cristiani vennero loro alle mani, e
restarono padroni del medesimo campo. Perirono in quell'infelice
conflitto non già il suddetto _Ottone duca_ di Alemagna e di Baviera,
come vuole il Sigonio, perchè egli tornò in Germania, e quivi mancò di
vita nel presente anno, ma bensì _Arrigo vescovo_ d'Augusta, _Vernero
abbate_ di Fulda, siccome ancora, per attestato di Leone Ostiense,
_Landolfo principe_ di Benevento e di Capua, con _Atenolfo marchese_
(forse di Camerino) suo fratello, ed altri principi, vescovi e conti.
Altri ancora restarono prigioni, e convenne loro riscattarsi con gran
somma d'oro. _Quorum unus_ (scrive Epidanno) _erat vercellensis
episcopus, carcere diu maceratus apud Alexandriam_ d'Egitto. Le memorie
della chiesa di Vercelli presso l'Ughelli[2502] portano che circa questi
tempi _Pietro II_ vescovo di quella chiesa andò per sua divozione ai
luoghi santi d'Oriente, e fu preso e tenuto gran tempo in prigione.
Tornato poscia a Vercelli, dopo la morte fu aggregato al catalogo dei
beati. Ma s'egli per disavventura, secondo gli abusi de' secoli barbari,
fosse ito alla guerra, e fra i combattenti avesse voluto far da prode
(il che non si può ora chiarire), non sarebbe un tal santo approvato
dalla Chiesa di Dio. Succedette questa campale sfortunata battaglia,
secondo Ditmaro, _III idus julii_, e senza fallo in questo anno, come
s'ha dai suddetti scrittori.

Indarno pretende il padre Gattola[2503] che _Landolfo IV_, principe di
Benevento fosse tuttavia vivente nel novembre dell'anno presente, e che
perciò si debba trasferire la battaglia suddetta, in cui egli perì,
all'anno seguente. Dee patire qualche difetto il diploma da lui addotto,
ed esso apparterrà all'anno precedente, potendosi raccogliere dai
documenti da me pubblicati nella Cronica del monistero di Volturno[2504]
che _Landenolfo_ suo fratello dopo il luglio dell'anno presente cominciò
a reggere il ducato di Benevento, e che per conseguente era mancato di
vita _Landolfo IV_. Scrisse il Sigonio[2505] che i Romani e Beneventani
tenendo davanti agli occhi le crudeltà esercitate in Roma da Ottone II,
sul principio di quel fatto d'armi decamparono, lasciando colla lor
ritirata esposto il rimanente dell'esercito cesareo alla disgrazia che
da lì a poco avvenne; laonde nell'anno seguente Ottone sfogò la sua
collera contro di Benevento con assediarlo, prenderlo, diroccarlo e
trasportarne il corpo di san Bartolomeo. Ma il Sigonio troppo
incautamente seguitò qui Gotifredo da Viterbo[2506], parlante della
crudeltà di Ottone, della presa di Benevento, e dell'asportamento del
sacro corpo suddetto: che son tutte fole mancanti affatto di verità. Se
_Landolfo IV_ principe di Benevento lasciò la vita in quella funesta
battaglia, come si può credere che i suoi l'abbandonassero? Anzi Ottone
conservò la sua grazia a quella città, contentandosi che _Aloara_ madre
d'esso Landolfo governasse da lì innanzi quel ducato unitamente con
_Landenolfo_ altro di lei figliuolo, i diplomi dei quali cominciano a
comparir da qui innanzi. Ora tornando all'_imperador Ottone II_, dacchè
egli vide sbaragliato e la maggior parte tagliato a pezzi dai Saraceni
l'esercito suo, cercò scampo dalla parte del mare[2507], e adocchiata
una galea, ossia grossa nave di Greci, venuta a raccogliere i tributi in
Calabria, spinse il cavallo nell'acqua, e fu da un soldato schiavone,
che il riconobbe, introdotto in essa. Datosi anche a conoscere
segretamente al capitan della nave, il pregò ed ottenne che gli
lasciasse spedire un messo all'imperadrice _Teofania_, perch'ella
manderebbe montagne di danaro e regali per riscattarlo. Stava essa
Augusta nella città di Rossano, patria di quel _Giovanni_ archimandrita,
che abbiam già veduto divenuto abbate di Nonantola. E ben informata di
quel che avesse ad operare, allorchè comparve la nave greca, fece uscir
di Rossano una gran frotta di giumenti tutti carichi di some, credute
piene d'oro e di regali preziosi. In alcune barchette, dove erano dei
bravi soldati vestiti da marinari, s'accostò alla nave greca _Teoderico
vescovo_ di Metz, per conchiudere il negozio e il cambio. Condotto sulla
proda l'Augusto Ottone, allorchè si trovò alla vista dei suoi, fidandosi
del suo ben saper nuotare, spiccò un salto, e lanciossi in mare, e
perchè volle ritenerlo per la veste uno dei Greci, si guadagnò da uno
dei soldati tedeschi una stoccata, che il fece cadere indietro, e mise
spavento a tutti gli altri, in guisa che l'imperadore nuotando, e
seguitato dalle barchette dei suoi, arrivò in salvo al lido. Rimasti i
Greci tutti confusi, se n'andarono con Dio, altro non portando seco che
un rimprovero alla lor balordaggine. Arnolfo, storico milanese del
secolo susseguente, vuole[2508] che i Greci restassero in altra guisa
burlati: cioè mostrò Ottone di voler seco la moglie colle sue damigelle,
assicurando che porterebbono un'immensa somma d'oro e d'argento con
loro. _Quumque foret permissum, viros adolescentes muliebriter
superindutos, subtus autem accinctos mucronibus cautissime venire
mandavit. Ubi vero ingressi sunt navem, illico irruentes in hostes,
evaginatis ensibus, indifferenter quosque trucidant. Interim saltu
percito prosiliens imperator in pelagus, natando evasit ad littus liber
et laetus. Unde terrefacti transiverunt hostes ad propria._ L'anonimo
scrittore della Cronica della Novalesa[2509] anch'egli parla di questo
fatto con alcun'altra circostanza. Giunto poscia l'Augusto Ottone a
Capua, per attestato di Leone Ostiense[2510], _firmavit principatum
relictae Pandulfi_ (Capodiferro) _principis Aloariae, et filio ejus
Landenulfo_: dal che si può scorgere chi fosse riconosciuto allora per
sovrano di quegli Stati. Comparirà all'incontro che dagl'imperadori
d'Occidente punto non dipendeva in questi tempi il popolo di Venezia;
perciocchè abbiamo la fondazione del nobile monistero di san Giorgio
nella città di Venezia, data alla luce dall'Ughelli[2511]. Vedesi
scritto quello strumento _anno ab Incarnat. Redemptoris nostri
DCCCCLXXXII, imperatoribus dominis Vasilio et Constantino fratribus
populo romano_ (questi ed altri simili sbagli son frequenti nell'Italia
sacra. Qui s'ha scrivere, come risulta dalla Cronica del Dandolo[2512],
_fratribus filiis quondam Romani imperatoris_) _magnis et pacificis
imperatoribus, anno autem imperii eorum post obitum Johannis Cimistei_
(scrivi _Zimiski_) _undecimo die XX decembris, Indictione XI. Rivoalti._
Appena ritornato dalla battaglia di Calabria sano e salvo in Germania il
sopra mentovato _Ottone duca_ di Baviera, quivi diede fine alla sua
vita. Il ducato dell'Alemagna ossia della Suevia toccò a
_Corrado_[2513], e quel della Baviera nell'anno seguente ad _Arrigo_
figliuolo di Bertoldo, essendo tuttavia in prigione il già deposto
_Arrigo_, cugino germano di Ottone II Augusto. Mancò di vita in
quest'anno _Giovanni duca_ di Napoli, per quanto s'ha da san Pier
Damiano[2514].

NOTE:

[2492] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.

[2493] Ibidem, Dissert. LXIII.

[2494] Antiquit. Ital., Dissert. LXII.

[2495] Ibid., Dissert. V.

[2496] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 10.

[2497] Romualdus Salernitanus, Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2498] Ditmarus, lib. 3.

[2499] Hermannus Contractus, in Chron.

[2500] Epidannus, in Chron.

[2501] Annalista Saxo.

[2502] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4, in Episcop. Vercellens.

[2503] Gattola, Histor. Monaster. Casinens.

[2504] Chronicon. Vulturni., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2505] Sigonius, de Regno Ital., lib. 7.

[2506] Gotifredus Viterbiens., in Panth.

[2507] Ditmarus, in Chron., lib. 3.

[2508] Arnulf., Hist. Mediolanens. tom. 4 Rer. Ital.

[2509] Chron. Novaliciense, P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2510] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 9.

[2511] Ughell., Ital. Sacr., t. 5, in Venet. Patriar.

[2512] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2513] Annalista Saxo.

[2514] Petrus Damian., Epist. V., cap. 13.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXXIII. Indiz. XI.

    GIOVANNI XIV papa 1.
    OTTONE III re di Germania e d'Italia 1.


Tenuto fu nell'anno presente un riguardevol placito in Roma, da me già
dato alla luce[2515], _anno pontificatus domni Benedicti summi pontifici
et universalis papae VII, anno nono sive domno Ottone II magno
imperatore suae coronationis quintodecimo anno, sed et hujus aprilis
mensis Indictione XI_. In vece di _quintodecimo_ avrebbe da essere
scritto _sextodecimo_, se pur qui si parla, come si avrebbe a parlare,
della coronazione romana. Il luogo placito fu _in basilica beati Petri
Apostolorum principis intro hospitale, in eo usualis est nominati papae
dormiendum_. Presedeva il pontefice _Benedetto_ con varii vescovi,
abbati ed uffiziali della Chiesa romana, coll'intervento di _Giriberto
vescovo_ di Tortona, e di _Pietro vescovo_ di Pavia; _is enim ambobus_
(come scrive quell'ignorante notaio) _per consensu pontifici, ac
jussione imperatoria, cura audiendi veritatem eo missi sunt_, stante
l'essere il monistero di Subiaco litigante con quel della Cava, sotto la
protezion dell'imperadore. Fu ivi sentenziato in favore dei monaci di
Subiaco. Intanto abbiamo da Sigeberto[2516], che trovandosi tutti i
baroni di Germania e d'Italia afflitti e costernati per la rotta loro
data dai Greci e Saraceni in Calabria, _sola imperatrix_ (_Theophania_)
_feminea et graeca levitate insultabat eis, quod ab exercitu suae
nationis victi essent Romani: ac per hoc caepit primatibus exosa
haberi._ All'incontro l'Augusto Ottone non capiva in sè stesso per la
rabbia e pel dispetto del danno ed affronto recatogli dai suddetti suoi
nemici, ed altro non ruminava che le maniere di farne una sonora
vendetta[2517]. Venne dunque a Verona con pensiero di metter insieme un
più poderoso esercito. A questo fine intimò una dieta generale della
Germania e dell'Italia in essa città di Verona. Nel testo di Ditmaro si
legge che _anno dominicae Incarnationis DCCCCLXXVIII imperator Veronae
placitum habuit_. Ma si dee scrivere _DCCCCLXXXIII_. Così ancora ha
l'Annalista sassone[2518], che fedelmente va copiando Ditmaro. In essa
dieta _filius imperatoris_ (cioè _Ottone III_ fanciullo in età di circa
quattro anni) _ab omnibus in dominum eligitur_. Ma perciocchè egli non
ricevette allora la corona del regno d'Italia, però si truovano molti
atti pubblici da lì innanzi senza il suo nome. Fu in questa occasione
che si fecero e pubblicarono le leggi di Ottone II, aggiunte alle
longobardiche; giacchè continuava il costume che i re e gl'imperadori
non promulgavano leggi senza saputa e consentimento degli stati. Dalla
prefazione d'esse abbiamo[2519] che intervenne a quella dieta _cum
omnibus Italiae proceribus_ anche _Corrado re_ di Borgogna, zio materno
di esso Ottone II Augusto, chiamato, come si può credere, affinchè egli
pure contribuisse soccorsi per la gran guerra che si meditava di fare
contra de' Greci e Saraceni. Strane ben compariscono quelle leggi agli
occhi nostri oggidì, e s'hanno con tutta ragion da riprovare; ma in que'
secoli d'ignoranza e di barbarie sembrano non solo giuste, ma
necessarie. Secondo le precedenti leggi, qualora veniva prodotto qualche
strumento o testamento comprovante l'acquisto di beni, se mai da
contrarii litiganti veniva rigettato come falso, bastava che chi
l'allegava in suo favore giurasse, toccati i santi Vangeli, che esso
strumento era legittimo e vero, per ottener tosto sentenza favorevole
dai giudici: tanta era la venerazione che si aveva al giuramento. Ma in
pratica se ne provavano dei pessimi effetti. Abbondavano in que' tempi i
falsarii, che imbrogliano anche oggidì il criterio degli eruditi con
certe carte e diplomi che restano negli archivii. Abbondavano del pari
le persone di buono stomaco, alle quali nulla costava il prendere un
giuramento falso. Massiccio dunque era il disordine in pregiudizio dei
giusti acquirenti o possessori di beni. Fin l'anno 962 ad _Ottone I_
Augusto ne fu dato richiamo dai principi d'Italia nel concilio romano.
Per consiglio d'esso Ottone e del papa, se ne differì il rimedio al
concilio che si celebrò nel 967 in Ravenna. Ma neppur ivi si venne a
risoluzione alcuna, _ob quorumdam principum absentiam_: tanto è vero ciò
ch'io diceva del necessario lor consenso per le leggi. Nella dieta
dunque tenuta in quest'anno in Verona, si rimediò ad un tale sconcerto,
ma con un rimedio peggior del male. Cioè fu determinato, che se taluno
accusasse altrui di carte, titoli o giuramenti falsi, si decidesse la
controversia col _duello_; senza badare che il _duello_ è un tentar Dio,
e un mezzo sproporzionato ed infedele per iscoprir la verità delle cose,
e che si dava ai più forti il comodo di occupar facilmente le sostanze
dei men forti. Ma non le conoscevano allora queste verità, quantunque
alla stessa dieta non mancasse un gran numero di vescovi ed abbati, per
la persuasione, in cui erano, che Dio, come protettore della verità e
dell'innocenza, la dichiarasse nel duello, chiamato perciò giudizio di
Dio.

Il tempo della dieta di Verona dovrebbe essere stato il giugno dell'anno
presente, giacchè un diploma di _Ottone II_ Augusto in favore della
chiesa di Liegi, rapportato dal padre Martene[2520], e dato _XVII
kalendas julii, anno dominicae Incarnationis DCCCCLXXXIII, Indictione XI
anno vero regni secundi Ottonis XXV, imperii autem XV. Actum Veronae._
L'anno dell'imperio ha da essere il _XVI_; l'anno del regno non so come
possa essere il _XXV_. E ne dubiterò, finchè mi si mostri un'epoca, da
me non conosciuta fin qui, ed anche ignota al chiarissimo padre don
_Gotifredo abbate_ gotwicense[2521], che diligentemente tratta delle
epoche degli Augusti tedeschi. Vero è nondimeno che di sopra ne abbiam
veduto due altri simili esempli. Ci farà un altro diploma intendere dove
passasse l'imperadore Ottone dopo la dieta di Verona. Questo è
confermatorio dei beni del monistero di santa Maria _in Palatiolo_ di
Ravenna[2522], e con tale autorità formato, che abbastanza indica il
dominio d'esso Augusto in quella città. Fu esso dato _pridie idus julii,
anno dominicae Incarnationis DCCCCLXXXIII, Indictione XI, regni vero
domni secundi Ottonis XXVI, imperii quoque ejus XVIII_ (dee essere
_XVI_). _Actum Ravennae._ Ma prima di congedarsi da Verona, svegliò
l'Augusto Ottone dei pensieri sdegnosi contra dei Veneziani, a cagion
dell'uccisione del loro doge _Pietro Candiano_. Attesta nondimeno il
Dandolo[2523], che avendo spedito _Tribuno Memmo_ doge alcuni
ambasciatori a Verona in quest'anno, il placò, e ne riportò la conferma
dei patti. Ho io dato alla luce[2524] il diploma d'essi patti, fatto
dallo stesso Augusto ad esso Tribuno doge, dove son distinte le terre
sottoposte al doge di Venezia da quelle del regno d'Italia. Merita
osservazione di dirsi da esso imperadore: _Ili sunt ex nostro scilicet
jure: Papienses, Mediolanenses, Cremonenses, Ferrarienses, Ravennates,
Comaclenses, Ariminenses, Pisaurienses, Cesenatenses, Fanenses,
Senogallienses, Anconenses, Humanenses, Firmenses, et Pinnenses,
Veronenses, Gavallenses, Vicentinenses, Montesilicenses, Paduanenses,
Tervisianenses, Cenetenses, Forojulienses, Istrienses, et cuncti in
nostro italico regno._ Poi seguita ad annoverare i popoli dipendenti dal
doge di Venezia. E perciocchè egli non distingue punto dal resto delle
città del regno _Ravenna_, _Ferrara_, _Comacchio_, ec., segno è ch'erano
in questi tempi incorporate nel regno di Italia, nè sussistesse che
Ottone I Augusto avesse restituito l'esarcato ai papi ed aver egli
perciò fabbricato il palazzo regale presso a Ravenna, come s'è veduto di
sopra. Ma non andò molto che i Caloprini ed altri nobili veneti, nemici
dei Morosini, si portarono a Verona, ed insinuarono ad Ottone Augusto la
maniera di sottomettere Venezia all'imperio suo, con esibirgli anche
Stefano Caloprino una buona somma d'oro, se il dichiarava poscia doge.
Di più non ci volle, perchè l'imperadore, pieno di mal talento contra
chiunque dipendeva dai greci Augusti, vietasse con pubblico bando a
tutte le terre del suo imperio e regno di portar da lì innanzi
vettovaglie a Venezia, e ai Veneziani di metter piede nelle terre
dell'imperio. Il popolo ancora di Capodargere si ribellò ad essi
Veneziani, e si diede all'imperadore, con riconoscere da lui Loreo ed
altri siti. Inoltre il vescovo di Belluno occupò varii beni del veneto
dominio. Allora fu che _Tribuno doge_ fece dirupar le case di tutti que'
cittadini che erano ricorsi all'imperadore, e mettere in prigione le
mogli e i figliuoli loro. Male e peggio sarebbe andata pe' Veneziani, se
non succedeva colla morte di Ottone un gran cambiamento di cose. Ma
avanti di narrar questa morte, conviene accennare che esso imperadore
andò prima a Pavia, dove _IX kalendas septembris prope fluvium Ticinum_
diede un diploma al monistero di Volturno[2525]. Di là passò nei
principati di Benevento e Capua. L'autore della Cronica di Casauria
scrive[2526] che _anno ab Incarnatione Domini DCCCCLXXXIII, Indictione
XI, quum domnus Otto secundus imperator in Apuliam profectus, et Ottone
filio suo coronato_ (ma non sì presto) _apud Varim_ (cioè Bari)
_civitatem maneret, Johannes Pinnensis episcopus, ec._ Ma forse v'ha
dell'errore. Veggasi il Giudicato nelle giunte alla Cronica suddetta. Ci
somministra ancora la Cronica del Volturno due altri diplomi del
medesimo Augusto in favore di quel monistero, amendue dati _II iduarum
novembrium anno dominicae Incarnationis DCCCCLXXXIII, Indictione XI,
regni vero domni secundi Ottonis XXVI, imperii quoque ejus XVI. Actum
Capuae_. Ma forse questi son da riferire all'anno precedente. Ancor qui
abbiamo l'anno _XXVI_ del regno. Negli originali talmente sarà stato
scritto _XXIII_, che i copisti l'abbiano, siccome è facile, preso per
_XXVI_. Veggonsi in essa Cronica volturnense altri diplomi che servono
alla correzione di questi medesimi documenti. Anzi il cardinal
Baronio,[2527] riferendo questo diploma, legge _anno XXIII_.

Ora tutti questi movimenti di Ottone II Augusto erano per unire un
formidabil esercito da condurre specialmente contro de' Saraceni.
Pensava infino di andarli a trovare in Sicilia. _Disponens_ (scrive
Arnolfo milanese[2528]), _aequoreas undas potestative cum omni
transmeare Italia, per universum regnum dilatat militandi praeceptum_.
Altrettanto abbiamo da Leone ostiense[2529]. E lo storico Epidanno[2530]
aggiugne una diceria del volgo: cioè ch'egli intendeva di fare un ponte
sullo stretto della Sicilia, per passare in quell'isola, come altrove
fece Dario (vuol dire Serse) re di Persia per portare la guerra in
Grecia. Ma venuto esso imperadore a Roma sul principio di dicembre,
quivi infermatosi (chi immagina per afflizion d'animo, e chi per ferita
mal curata), diede fine ai suoi giorni. Abbiamo da Ditmaro[2531],
ch'egli, sentendo avvicinarsi il suo fine, fece quattro parti del suo
tesoro: la prima per le chiese; la seconda ai poveri; la terza a
_Matilda_ sua sorella, badessa piissima di Quidelinburg, e la quarta
agli afflitti suoi cortigiani: _Factaque latialiter_ (cioè in lingua
latina o romana) _confessione coram apostolico, ceterisque coepiscopis
atque presbyteris, acceptaque ab eis optata remissione, VIII idus
decembris ex hac luce subractus est, terraeque commendatus, ubi
introitus orientalis paradisi domus sancti Petri cunctis patet
fidelibus, et imago dominica honorabiliter formata venientes quosque
stans benedicit_. Leone ostiense aggiunge che il corpo suo fu seppellito
_in labro porphyretico_, che durava tuttavia a' tempi del cardinal
Baronio insieme coll'immagine del Salvatore nell'atrio della basilica
vaticana. Questo sepolcro di porfido fu poi levato da Paolo V pontefice
a cagion della fabbrica nuova. Così la morte sul più bel fiore dell'età
troncò la vita e le imprese meditate da questo principe, che prometteva
di uguagliar la gloria del padre, se più lungo fosse stato il corso de'
suoi giorni. L'autore della vita di santo Adalberto[2532] gli dà la
taccia di molta ambizione e di poco senno. Aveva egli, alquante
settimane prima, inviato in Germania l'unico suo figliuolo _Ottone III_,
per quivi ricevere la corona del regno germanico. In fatti, secondo la
testimonianza di Ditmaro, _in die proximi Natalis Domini ab Johanne
archiepiscopo ravennate, et a Willigiso moguntino, in regem consecratur
Aquisgrani_. È notabile che l'arcivescovo di Ravenna facesse la prima
figura in quella solenne funzione. La Cronica d'Ildesheim dice[2533]
ch'egli _per unctionem Johanni ravennatis archiepiscopi in die natalis
Dominis unctus est in regem_. Ma appena terminata la gran festa, eccoli
arrivar la nuova della morte dell'Augusto suo padre, che tutte sturbò
quelle allegrezze. Che in quest'anno ancora giugnesse al fin di sua vita
_Benedetto VII_ sommo pontefice, e gli succedesse _Giovanni XIV_,
verisimilmente lo persuaderan le ragioni che addurrò all'anno seguente.
Fu discacciato in quest'anno dai Salernitani _Mansone_ lor principe con
_Giovanni I_ di lui figliuolo, e in luogo di essi fu creato principe di
Salerno _Giovanni II_, figliuolo di Lamberto, forse della schiatta degli
antichi duchi di Spoleti.

NOTE:

[2515] Antiquit. Ital., Dissert. VII.

[2516] Vita S. Adalberti, in Actis Sanct., ad diem 23 aprilis.

[2517] Ditmarus, in Chron.

[2518] Annalista Saxo, apud Eccardum.

[2519] Leges Langobard., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2520] Marthene, Veter. Scriptor., tom. 1.

[2521] Chron. Gotwicense, tom. 1, lib. 2, cap. 4.

[2522] Bullar. Casinens., lib. 2, Constit. LXII.

[2523] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2524] Piena Esposizione, pag. 125.

[2525] Chronic. Vulturnense, P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2526] Chronic. Casauriense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2527] Baron., in Annal. Eccl.

[2528] Arnulf. Mediolan., lib. 1, cap. 9.

[2529] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 9.

[2530] Epidannus, in Chron.

[2531] Ditmarus, in Chron.

[2532] Vita II S. Adalberti, in Actis Sanctor. ad diem 23 april.

[2533] Annal. Hildeshemenses.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXXIV. Indiz. XII.

    GIOVANNI XIV papa 2.
    OTTONE III re di Germania e Italia 2.


Fu susseguita la morte di _Ottone II_ imperadore da gravissimi sconcerti
nella Germania[2534]. Venne fatto da _Arrigo II_, già duca di Baviera,
figliuolo di _Arrigo I_, cioè di un fratello di _Ottone il Grande_, di
uscir di prigione, oppure di tornar dall'esilio in cui si trovava. Aveva
il defunto Ottone II Augusto raccomandato il suo tenero figliuolo
_Ottone III_ alla cura di _Guarino arcivescovo_ di Colonia; ma entrato
Arrigo duca in quella città, con pretendere che a lui spettasse, secondo
le leggi, la tutela del re fanciullo, glielo levò dalle mani. La mira
nondimeno d'esso Arrigo era di occupare per sè la corona del regno
germanico: al qual fine si guadagnò con assai regali non pochi principi
e grandi di quelle contrade, e quei massimamente che l'imperadrice
_Teofania_ colle sue imprudenti doglianze avea disgustato. Non finì la
faccenda, che nel dì di Pasqua in Quidilingeburg, dove era concorsa gran
folla di baroni, si fece esso Arrigo dai suoi parziali proclamare re di
Germania. Dallo Struvio[2535] è chiamato questo Arrigo _Henricus Henrici
rixosi filius_: se con ragione, lascerò deciderlo agli eruditi tedeschi.
Dimorava tuttavia in Roma l'Augusta _Teofania_, afflittissima per la
perdita del consorte, quando gli arrivò l'amaro avviso del miserabile
stato in cui si trovava anche il re Ottone suo figliuolo. Volò per
questo a Pavia a trovar l'imperadrice _Adelaide_ suocera sua, lasciata
già dal figliuolo al governo di quella città e della Lombardia. Colle
lagrime deplorarono amendue le disavventure della loro augusta casa;
poscia senza perdersi d'animo passarono in Germania, dove si misero alla
testa di quanti stavano tuttavia fedeli al loro figliuolo e nipote.
Dichiararonsi ancora in loro favore[2536] _Lottario re_ di Francia e
_Corrado re_ di Borgogna, tuttochè _Gisla_ figliuola di Corrado fosse
maritata col suddetto Arrigo duca. Prevalse in fatti il partito di
Ottone III, e si venne ad una convenzione, per cui _III kalendas julii_
fu da esso Arrigo consegnato il re fanciullo all'Augusta Teofania sua
madre. In questo mentre nel dì 10 di luglio dell'anno presente, se
vogliamo riposar sull'asserzione del cardinal Baronio e del padre Pagi,
terminò il corso di sua vita _Benedetto VII_ papa, per quanto si ricava
dall'epitaffio suo, rapportato da esso cardinale annalista. Fu in suo
luogo sustituito _Pietro vescovo_ di Pavia, che assunse il nome di
_Giovanni XIV_. Egli era stato in addietro arcicancelliere
dell'imperadore Ottone II, e il suo nome s'incontra nei diplomi di lui,
da me accennati negli anni precedenti. Ma a me sembra assai più
probabile che nell'anno precedente seguisse la vacanza della Chiesa
romana. Vero è che i diplomi del monistero volturnense ci rappresentano
nel novembre del 985 _Pietro vescovo_ di Pavia, che fu poi papa Giovanni
XIV, tuttavia arcicancelliere di Ottone II. Ma non son documenti per
conto delle note cronologiche assai sicuri. E che essi appartengano
all'anno 982, ne può fare la spia l'_indizione XI,_ perchè nel novembre
dell'anno 983, secondo l'osservazione del cardinal Baronio dovea essere
la XII. Per conto poi dell'epitaffio di _Benedetto VII_ converrebbe
esaminare, se veramente sia fattura di autore contemporaneo, e non dei
tempi posteriori, come io sospetto, e se venga riferita la di lui morte
all'_indizione XII_ con sicurezza dal marmo, e non già da qualche copia
trovata nei manuscritti. Le ragioni ch'io ho di diversamente credere,
son queste. L'Annalista sassone[2537] presso l'Eccardo, e il Cronografo
sassone[2538] presso il Leibnizio scrivono all'anno presente 983, che
Ottone II dopo la dieta di Verona _Romam revertitur, ac domnum
apostolicum digno cum honore romanae praefecit Ecclesiae_. Questo non si
può intendere se non di _Pietro vescovo_ di Pavia, alzato al pontificato
col nome di _Giovanni XIV_. Sembra anche difficilissimo che il clero e
popolo romano, liberato dalla soggezione di Ottone II Augusto rapito
dalla morte, fosse concorso ad eleggere papa un vescovo straniero; ma
ciò fu ben facile, essendo tuttavia vivo e presente in Roma lo stesso
Ottone. Aggiungasi, vedersi citata dal cardinal Baronio[2539] una
memoria tuttavia esistente in marmo, e scritta _tempore Johannis XIIII
papae, mense februario, Indictione XII, anno dominicae Incarnationis
DCCCCLXXXIIII_. Adunque nel febbraio di quest'anno era già creato papa
_Giovanni XIV_, e per conseguente possiam presumere l'assunzione sua al
trono pontifizio succeduta nell'anno precedente. Strana cosa è che il
cardinal Baronio, lavorando sul supposto, che in quest'anno 984
_Benedetto VII_ morisse, e gli succedesse _Giovanni XIV_, facesse a
questa tavola di marmo la seguente annotazione: _Sed mendose nonnihil,
ut manifeste appareat, loco anni octogesimi quarti legendum octogesimi
quinti, et loco Indictionis duodecimae, legendum decimae tertiae, ut
convenire Johannis papae sedis tempori possit_. Anzi nulla si ha da
mutare, e da questo contemporaneo ed autentico monumento si ha, per lo
contrario, da inferire che l'epitaffio di _Benedetto VII_ papa fu
composto dai monaci, riconoscenti la fondazione del lor monistero da
esso papa, molti anni dappoi, e perciò fallace in assegnar l'anno
preciso della sua morte.

Ma dopo nove mesi di pontificato finì sua vita papa _Giovanni XIV_, e
dall'epitaffio, rapportato dal cardinal Baronio (se pure ricavato fu dal
marmo e non dai manoscritti), si raccoglie che la sua morte avvenne nel
dì _XX d'agosto_. Ma se quest'epitaffio era in san Pietro, chieggo io,
perchè nol rapportasse Pietro Mallio[2540], il quale tanti secoli prima
raccolse le memorie della basilica vaticana, e nol conobbe punto e nol
riferì? Secondo i conti d'esso Baronio, questo papa Giovanni morì
nell'anno susseguente; secondo i miei nel presente. L'autore della
Cronica del Volturno[2541], cioè Giovanni monaco, il quale fiorì nel
secolo susseguente, scrive così nel catalogo posto avanti alla sua
Cronica: _Johannes XIV papiensis annos (scrivi menses) IX. Iste in
castello sancti Angeli retrusus, famis crudelitate necatus est anno
DCCCCLXXXIV, Indictione XII_. Ermanno Contratto[2542] racconta così
orrenda iniquità di questi tempi colle seguenti parole: _Anno 984. Romae
Johannes XIV, qui et Petrus Papiae prius episcopus, sedit mensibus VIII,
eumque Bonifacius Verrucii_ (o Ferrucii) _filius, prius relegato
Benedicto, male ordinatus, de Constantinopoli quo fugerat, reversus,
comprehendit, et in castellum sancti Angeli relegatum fame, et ut
perhibent, veneno enecuit, atque sedem invasit_. Però da quest'anno non
s'avrebbe da rimuovere la morte di _Giovanni XIV_. Già abbiamo veduto
all'anno 974, che _Bonifazio_ figliuolo di Ferruccio, mostro d'iniquità,
dopo avere a forza di sacrilegii e di crudeltà occupata la cattedra di
san Pietro, costretto a fuggirsene, ricoverossi in Costantinopoli, seco
portando il tesoro di san Pietro. Appena costui ebbe intesa la morte di
Ottone II che il teneva in briglia, celatamente sen venne a Roma, e
colla fazione de' suoi parziali preso papa _Giovanni XIV_, il fece più
che barbaramente morir di fame o di veleno in castello sant'Angelo, ed
esporre il suo cadavere alla vista del popolo, deploratore di sì indegno
spettacolo. Poscia questo tiranno di nuovo si assise sul trono
pontifizio. Ma non vi durò, secondo i codici vaticani, più di _quattro
mesi_, oppure di _undici_, per quanto ha Ermanno Contratto e la Cronica
del Volturno, co' quali va d'accordo Romoaldo Salernitano. Mi attengo io
a questo ultimo, perchè vedremo questo empio usurpatore del pontificato,
tuttavia vivente nel marzo dell'anno venturo. Nella Cronica suddetta del
Volturno si legge uno strumento di livello conceduto da _Rofredo abbate_
del monistero volturnense ad _Attone_ ossia _Azzo conte_, con queste
note: _Ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi sunt anni DCCCCLXXXIV,
temporibus domni Transemundi dux et marchio, et ducatus ejus secundo, et
dies mense october, per Indictione XIII. Actum Capuae._ Fu ben fatto lo
strumento in Capua; ma perchè si trattava di un conte del ducato
spoletino, e di beni posti nel territorio di Penna compreso nel medesimo
ducato, perciò non si contano gli anni di _Landolfo principe_ di Capua,
ma bensì quei di _Trasmondo duca_ di Spoleti, e marchese di Camerino,
ossia di Fermo. Di qui dunque apprendiamo che nell'anno antecedente 983,
oppure sul fine dell'anno 982, _Trasmondo_ fu creato duca e marchese da
_Ottone II_ Augusto, senza apparire che altri dopo la morte di _Pandolfo
Capodiferro_ ottenesse que' due ducati, ossia quelle marche. Perchè non
ho fatto menzione in addietro di ciò che scrive Lupo Protospata[2543],
ora qui la farò. _Anno_ (scrive egli,) _DCCCCXXXII tradita est civitas
Barii in manus Chalechyri patricii, qui et Delphina, a duobus fratribus
Sergio et Theophylacto mense junii XI die. Et Otho rex obiit Romae._ Ma
essendo certo che la morte di Ottone II accadde nell'anno precedente
983, perciò anche il tempo della resa di Bari ai Greci dovrebbe
appartenere a quell'anno stesso. Abbiamo veduto di sopra che Ottone II
fu in Bari nell'anno 983. Se ciò è vero, non può stare il tempo che qui
il Protospata accenna. Anzi a me pare assai probabile che solamente dopo
la morte di esso imperadore i cittadini di Bari si dessero all'uffiziale
de' Greci, giacchè non aveano più da temere di lui. Aggiugne esso
storico: _anno DCCCCLXXXIII apprehendit praedictus Delphina patricius
civitatem Asculum in mense decembri_. Può esser che vi sia errore nel
tempo; ma a buon conto impariamo, che dopo essere mancato di vita Ottone
II Augusto, i Greci stesero le ali in Puglia, e s'impadronirono fin
della città di Ascoli. Pretende l'Ughelli,[2544] che in quest'anno la
chiesa di Salerno fosse alzata da papa _Benedetto VII_ al grado
archiepiscopale. Solamente cita, ma non rapporta la bolla d'esso papa,
come pure era di dovere: e però non si può giudicare intorno al tempo di
tale erezione. Quel che è certo, _Amato_, vivente in questi tempi, fu il
primo arcivescovo di quella città, e principe ne era allora _Giovanni
II_.

NOTE:

[2534] Ditmarus, in Chronic., lib. 3. Sigebertus, in Chron. Annales
Hildeshemenses.

[2535] Struv., Corp. Hist. German.

[2536] Annalista Saxo.

[2537] Annalista Saxo, apud Eccard.

[2538] Cronographus Saxo, apud Leibnitium, in Accession. Hist.

[2539] Baron., Annal. Ecclesiast. ad ann. 984.

[2540] Petrus Mallius, tom. 7. Junii Act. Sanctor. Bolland.

[2541] Chronic. Vulturnens., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2542] Hermannus Contractus, in Chronico, edition. Canis.

[2543] Lupus Protospata, in Chron.

[2544] Ughell., Ital. Sacr., tom. 7.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXXV. Indiz. XIII.

    GIOVANNI XV papa 1.
    OTTONE III re di Germania e d'Italia 3.


Tenea tuttavia nel mese di marzo dell'anno presente il tiranno antipapa
_Bonifazio_, parricida di due pontefici, occupata la sedia di san
Pietro, del che ci assicurano gli strumenti accennati da Girolamo
Rossi[2545], e scritti in Ravenna _anno nongentesimo octogesimo quinto a
partu Virginis, qui annus ibiprimus Bonifacii pontificis maximi,
Indictione XIII, idibus martii scribitur_. Ma non tardò la morte a
mettere fine alla vita e alle scelleraggini di questo falso papa. Colto
da improvviso accidente, passò a rendere conto di sè al tribunale di
Dio. Era costui talmente in odio al popolo romano, che la plebe preso il
di lui cadavero, lo strascinò per le strade della città[2546], e
trafitto da mille colpi di lancie, lo lasciò insepolto nel campo dove
era la statua di Marco Aurelio imperadore. La mattina seguente venuti i
cherici, e trovato si vergognoso spettacolo, gli diedero la sepoltura.
Truovasi qui più dell'usato imbrogliata e scura la cronologia de' sommi
pontefici. Mariano Scoto, Gotifredo da Viterbo, Martino Polacco,
l'autore della Cronica del Volturno ed altri mettono per successore di
Bonifazio un _Giovanni_ romano, chiamato da alcuni figliuolo di
_Roberto_, convenendo tutti ch'egli sedette _quattro mesi_ nel
pontificato. Quel che è strano, a questo figliuol di Roberto fanno dipoi
succedere _Giovanni_ di nazione romano, figliuolo di _Leone_ prete, nato
nel rione delle Galline bianche. Quest'altro _Giovanni_, indubitato
romano pontefice, si truova poi nelle memorie di questi tempi sempre
appellato _Giovanni XV_. Ma se il precedette un altro _Giovanni_
figliuolo di Roberto, come non assunse egli il nome di _Giovanni XV_,
che osserviamo nel suo successore? Si avvisò il padre Papebrochio[2547]
d'aver trovato lo scioglimento di questo gruppo con immaginare che
_Giovanni_ figliuolo di Roberto fosse solamente _eletto_, e non
consecrato. Ma chi registra il nome di lui nel catalogo dei romani
pontefici, nol distingue dagli altri veri pontefici, anzi gli dà il nome
di _Giovanni XV_. Nè si cominciavano a contar gli anni del pontificato,
se non dopo la consecrazione. Perciò altri autori antichi o moderni
tralasciano questo Giovanni figlio di Roberto, e così ancora fece il
cardinal Baronio. Ma fosse o non fosse papa per _quattro mesi_ esso
Giovanni, noi abbiam di certo che circa questi tempi, e, secondo tutte
le verisimiglianze, nell'anno presente fu eletto e consecrato papa
_Giovanni_ appellato _XV_, figliuolo di Leone, il quale per molti anni
dipoi governò la Chiesa di Dio. Veggasi ancora ciò che dirò qui sotto
all'anno 993. Secondo l'Annalista sassone[2548], _Arrigo_ già duca di
Baviera, che nell'anno addietro aveva usurpato il regno al piccolo re
_Ottone III_, in quest'anno _divino instinctu ad se reversus, et vana
exaltatione se dejectum conspiciens, veniente rege_ (Ottone) _in
Franconevord, illuc ipse adveniens in cospectu totius populi,
complicatis manibus, humilis habitu et actu, vera compunctus
poenitentia, regiae se tradidit potestati_. Fu ricevuto con tutto onore,
e gli fu restituito il grado di duca, e per conseguente il ducato di
Baviera. Anzi vedremo ch'egli ebbe per giunta col tempo anche il ducato
della _Carintia_ e la marca di _Verona_; di modo che Ottone III ebbe da
lì innanzi tra i suoi più fedeli questo Arrigo, come appunto richiedeva
la stretta lor parentela. Fu anche restituito ad esso Ottone III il
regno della Lorena da _Lottario re_ di Francia: con che di bene in
meglio andavano prosperando i di lui affari. Abbiamo da Lupo
protospata[2549] che in questo anno fu mandato dagl'imperadori greci al
governo della Puglia _Romano_ patrizio, la cui residenza possiam credere
che fosse in Bari.

NOTE:

[2545] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.

[2546] Baron., in Annal. ad hunc annum.

[2547] Papebrochius, ad Conat. Chron. Hist.

[2548] Annal. Saxo, apud Eccard.

[2549] Lupus Protospata, in Chron.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXXVI. Indiz. XIV.

    GIOVANNI XV papa 2.
    OTTONE III re di Germania e d'Italia 4.


Cita il padre Mabillone[2550] una bolla di papa _Giovanni XV_, con cui
conferma tutti i beni e privilegii del monistero di san Pietro in _caelo
aureo_, dove riposa il corpo di sant'Agostino dottore della Chiesa, a
_Pietro abbate_ di quel sacro luogo. Fu essa data _VIII kalendas
februarii per manum Johannis episcopi nepesini, anno primo Johannis XV
papae, Indictione XIV_. Girolamo Rossi[2551] anch'egli accenna uno
strumento scritto in Ravenna _anno secundo pontificatus Johannis XV,
mense decembri, Indictione XV_, cioè nel dicembre dell'anno presente. Ne
cita un altro stipulato _anno tertio Johannis XV pontificis, Vidus
julias, Indictione I. Ravennae_, cioè nell'anno 988: notizie tutte che
confermano assunto esso Giovanni XV al pontificato prima del dicembre e
dopo il luglio dell'anno 985. A questo anno 986 l'Ughelli[2552] e il
suddetto padre Mabillone riferiscono una donazione fatta da _Adelaide
imperadrice_, (che per errore di stampa, credo io, è chiamata da esso
Ughelli _Ottonis III imperatoris uxor_) al monistero di san Fruttuoso
del contado di Genova. Le note cronologiche son queste: _Tertius Otho
Dei gratia imperator Augustus, anno imperii ejus, Deo propitio, tertio,
prima die aprilis, Indictione XIV. Actum in sancto Fructuoso._ Ma Ottone
III non era per anche imperadore, nè è mai da credere che in uno
strumento pubblico, che si dice sottoscritto dalla piissima Adelaide
Augusta, e da _Wiligo_ ossia _Wiligiso arcivescovo_ di Magonza, gli
fosse dato il titolo d'imperadore. Dice ivi Adelaide di far quella
donazione _pro anima praedicti quondam domini Othonis imperatoris viri
mei, seu mercede, et pro fomento filii mei Karoli, quem Dominus Deus et
Salvator noster Jesus Christus reddidit mihi de fluctibus maris turbidi
vivum et sospitem, per merita beatissimi Fructuosi, et per orationes
bonorum virorum ibidem Domino famulantium_. Niuno per anche ha saputo
che l'Augusta Adelaide avesse un figliuolo chiamato _Carlo_; e se
l'avesse avuto, pare impossibile che la storia non ne avesse fatta
menzione. Da _Lottario re_ d'Italia ella non ebbe che una figliuola
appellata _Emma_, per testimonianza di santo Odilone[2553], e da Ottone
I certamente non ebbe un _Carlo_. Potrebbe dirsi che in vece di _Karoli_
si ha qui da leggere _Ottonis_, cioè di Ottone II, che nell'anno 982
vedemmo, che gittatosi in mare, si salvò dai nemici. Ma egli era già
mancato di vita. Però che si da ha dire di questo diploma? Venne a morte
in quest'anno _Lottario re_ di Francia, a cui succedette _Lodovico V_
suo figliuolo, chiamato nelle storie il _Dappoco_. La regina _Emma_, che
poco fa dissi figliuola dell'imperadrice Adelaide, passò di gravi
affanni dopo la morte del marito Lottario, perchè accusata al figliuolo
Lodovico di pratica scandalosa con _Adalberone vescovo_ di Laon: sopra
che si veggono due lettere da lei scritte alla madre Adelaide e
all'Augusta _Teofania_ fra quelle di Gerberto. Abbiamo da Lupo
Protospata[2554] che nell'anno presente i Saraceni fecero un'invasione
in Calabria. _Comprehenderunt Saraceni sanctam Chiriachi_ (cioè _sanctae
Cyriacae_) _civitatem, et dissipaverunt Calabriam totam._ E l'Annalista
sassone[2555] racconta che il fanciullo re _Ottone III_ con possente
esercito andò contra la Schiavonia occidentale. Colà venne a trovarlo
_Misecone duca_ di Polonia con gran seguito di soldatesche, ed oltre
all'avergli presentato un cammello con altri regali, _se ipsum etiam
subdidit potestati illius_, cioè si dichiarò suo vassallo; _et tunc
simul pergentes, devastaverunt totam terram incendiis, et
depraedationibus multis_. Aveva questo duca per moglie _Dobrova_,
sorella di _Bolislao_ duca di Boemia, principessa cristiana, la quale
tanto seppe fare, che indusse il marito ad abiurare il paganesimo, e ad
abbracciare la santa religione di Cristo; il che fu cagione che la
Polonia cominciò a dar luogo al Cristianesimo. Anche la Russia ossia la
Moscovia circa questi tempi abbracciò in parte la religione cristiana.

NOTE:

[2550] Mabillon., Annal Benedict. ad hunc annum.

[2551] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 15.

[2552] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Genuens.

[2553] Odilo, in Vit. S. Adelheidis.

[2554] Lupus Protospata, in Chronico.

[2555] Annalista Saxo, apud Eccard.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXXVII. Indiz. XV.

    GIOVANNI XV papa 3.
    OTTONE III re di Germania e d'Italia 5.


Celebre è quest'anno per la morte del giovane _Lodovico V_ re di
Francia, già raccomandato alla cura di _Ugo Capeto_ duca di Francia,
senza lasciar figliuoli dopo di sè. Della stirpe regale di Carlo Magno
ci restava tuttavia _Carlo_ duca di Lorena, zio paterno d'esso Lodovico.
Contuttociò esso Ugo Capeto, prevalendosi del mal animo che aveano i
primati della Francia contro d'esso Carlo, perchè legato d'interessi col
re germanico, si fece proclamar re di Francia, e coronare sul principio
di luglio. Da lui per diritta linea maschile discende il cristianissimo
regnante re di Francia _Luigi XV_. Seguitò poi la guerra fra lui e il
suddetto Carlo con varia fortuna: del che potrà informarsi chi vuole
dalla storia di Francia. In quest'anno portarono di nuovo i Sassoni la
guerra nel paese degli Slavi: _unde illi compulsi, regis_ (cioè di
Ottone III) _ditioni se subdunt, et castella juxta Albiam restaurantur_,
sono parole dell'Annalista d'Ildeseim[2556] e sassone. Perchè non si sa
in qual anno precisamente succedesse la persecuzione fatta in Roma a
papa _Giovanni XV_, chiamato da vari autori _XVI_, sarà a me lecito il
farne qui menzione. Il Sigonio[2557] ne parla all'anno 993; il cardinal
Baronio[2558] all'anno 985. Martino Polacco[2559], Tolomeo da
Lucca[2560] ed altri narrano che questo papa fu persona molto dotta, e
compose alcuni libri. Ma perchè non cessavano in Roma le fazioni,
Crescenzio patrizio di quella città, che col titolo di console avea in
suo potere castello sant'Angelo, si diede a perseguitarlo, in maniera
che fu costretto il buon papa a fuggirsene di Roma, e a ricoverarsi in
Toscana, della qual provincia era allora duca e marchese _Ugo_,
figliuolo di Uberto, e nipote d'Ugo già re d'Italia. Di là cominciò
Giovanni a sollecitare il giovinetto re Ottone III di calare in Italia,
altro mezzo non conoscendo per rimediare alla sfrenata licenza de'
Romani, che quella di creare un imperadore. Ciò inteso da Crescenzio, e
non essendo smarrita la memoria della giustizia fatta da Ottone il
Grande, e fors'anche dal secondo, mandò a pregare il papa che se ne
tornasse alla sua sedia. In fatti Giovanni XV si portò a Roma, dove esso
Crescenzio col senato fu a dimandargli perdono. Da lì innanzi ebbe
quiete il papa dal popolo romano. Per le suddette molestie inferite a
questo pontefice si può credere scritto da Romoaldo salernitano[2561]
che ai tempi d'esso Giovanni XV _Romani capitanei patriciatus sibi
tyrannidem vendicavere_; cioè usurparono al papa il dominio temporale di
Roma. Il cardinal Baronio se la prende spesso contro i principi
d'allora, senza mai riconoscere da chi venivano gli sconvolgimenti di
Roma e della cattedra pontificia, cioè dai Romani stessi. Aggiugne esso
Romoaldo che in quest'anno i Saraceni saccheggiarono la Calabria. Forse
racconta egli qui ciò che Lupo protospata scrisse all'anno precedente.

NOTE:

[2556] Annales Hildesheim.

[2557] Sigonius, de Regno Ital.

[2558] Baron., in Annal. Eccles.

[2559] Martinus Polonus, in Chron.

[2560] Ptolomaeus Lucens., de Roman. Pontif.

[2561] Romuald. Salernitanus, Chron., tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXXVIII. Indiz. I.

    GIOVANNI XV papa 4.
    OTTONE III re di Germania e d'Italia 6.


Circa questi tempi, come notò il Dandolo[2562], i Caloprini nobili
veneziani, i quali già vedemmo che erano iti con alcuni lor fazionarii a
stuzzicar l'imperadore _Ottone II_ contra di _Tribuno_ loro doge, e
contro la libertà della lor patria, veggendo per la morte d'esso Augusto
svaniti tutti i loro disegni, tanto si raccomandarono all'imperadrice
_Adelaide_, dimorante allora in Pavia, ch'ella interpose la sua
autorevole protezione presso il suddetto doge, affinchè potessero con
sicurezza tornare a Venezia. L'ottennero essi, con aver il doge mandato
quattro persone che giurarono la loro salvezza. Ma da lì a non molto i
Morosini lor nemici stettero alla posta, allorchè i tre figliuoli di
Stefano Caloprino venivano dal palazzo ducale in una gondola, e li
trucidarono. Il doge mostrò di non avervi colpa; ma il popolo credette
ciò che volle; e chi fu morto, non resuscitò. Sotto quest'anno racconta
Romoaldo Salernitano[2563] che i Saraceni assediarono, presero e
distrussero la città di Cosenza. Aveva scritto sotto l'anno precedente
Lupo Protospata[2564] che nella città di Bari, suddita allora de' Greci,
il popolo sollevatosi contra Sergio protospata (era questa una dignità
conferita dalla corte di Costantinopoli, come di primo capitano),
l'uccisero nel mese di febbraio. Nell'anno presente, _Indictione prima
depopulaverunt Saraceni vicos barenses, et viros ac mulieres in Siciliam
captivos duxere_. Intorno ancora a questi tempi si dilatò forte in
Lombardia l'ordine monastico, specialmente per la venuta a Pavia e per
gli santi esempli di _Majolo abbate_ di Clugnì. Era allora il monachismo
in Italia in somma depressione. Pochi monisteri si contavano, dove
fiorisse la regolare disciplina. Nella maggior parte de' monaci,
massimamente se i lor monasteri erano piccoli, o se grandi, ridotti in
commenda, compariva una deplorabile depravazion di costumi. Trovavansi
talvolta dei piissimi abbati e dei religiosissimi monaci; ma noi poco
sappiamo delle loro virtù, e meno delle opere loro in servigio e
profitto spirituale de' popoli. Si vede bensì dalle memorie che restano,
essere stato l'ordinario e comune studio degli abbati e monaci d'allora
di acquistar tutto dì dei nuovi stabili, ed anche degli stati, cioè
delle castella e ville, che andavan poi a finire nel _sic vos non vobis_
di Virgilio. Ingegnavasi ancora cadauno de' potenti monisteri di avere,
per quanto potea, degli altri monisteri subordinati a sè per tutta
l'Italia, o almen delle celle, ossia de' priorati nelle varie città, o
ne' lor contadi, dove poi teneano un priore, e talvolta alcuni pochi
monaci, i quali se ne stavano in gaudeamus, perchè disobbligati dal
rigore della disciplina.

Giovò non poco la venuta del santo abbate Majolo, perciocchè, oltre
all'aver egli riformato alquanti vecchi monisteri, s'invogliarono molti
di fabbricarne dei nuovi, ne' principii de' quali certo è che fioriva la
pietà e il buon esempio. Però intorno a questi tempi la santa
imperadrice _Adelaide_ aggiunse[2565] un riguardevol monistero
all'antichissima chiesa di san Salvatore di _Pavia_, non sussistendo una
antichità di lunga mano maggiore, che da taluno gli viene attribuita. In
_Parma_ sorse il monistero di san Giovanni, in _Brescello_ quello di san
Genesio, in _Milano_ quello di san Celso, in _Genova_ quello di san
Siro, in _Firenze_ la badia di santa Maria, in _Reggio_ quello di san
Prospero, oggidì san Pietro; in _Padova_ l'insigne di santa Giustina,
per tacer d'altri. In _Modena_ aveva _Ildebrando vescovo_[2566]
conceduta ad un monaco Stefano nell'anno 983 l'antica chiesa di san
Pietro, posta allora fuori della città. I monaci nonantolani, che
assorbivano un'immensa copia di beni ne' territorii di Modena, Cologna,
Ferrara, Verona ed altre città, mirando di mal occhio la disposizion di
un nuovo monistero in lor vicinanza, destramente spinsero un loro monaco
per nome Pietro, che si unì con esso Stefano alla cura della chiesa
suddetta. Quando poi Pietro se la vide bella, rubò all'altro monaco la
bolla episcopale, e tentò con danari il soprallodato vescovo per aver
egli la metà di quella chiesa; ma il prelato, detestando la furberia del
monaco nonantolano, il cacciò via, e confermò[2567] in quest'anno a
Stefano il possesso di quella chiesa: il che fu principio del monistero
di san Pietro, tuttavia florido in questa città, e fondato nell'anno 996
dal vescovo di Modena _Giovanni_. Degno è ancora d'osservazione ciò che
racconta Arnolfo[2568] monaco di santo Emmerammo: cioè che nella sola
Roma si contavano _quaranta_ monisteri di monaci e _venti_ di monache,
professanti tutti o quasi tutti la regola di san Benedetto, e _sessanta_
collegiate di canonici; tanto s'era dilatato l'ordine monastico e
l'istituto de' canonici. Dall'Ughelli[2569] e dal Tatti[2570] è
rapportato un diploma dato da _Ottone III_ in favore di _Adelgiso
vescovo_ di Como, con queste note _Datum III nonas octobris, anno
dominicae Incarnationis DCCCCLXXXVIII, Indictione II, imperii domni
Othonis quinto. Actum in palatio Renesbohe._ Non avvertì l'Ughelli che
questo privilegio non potè mai competere ad Ottone III, il quale non era
per anche imperadore. Il Tatti bensì lo riferì all'anno 978, e ad Ottone
II Augusto. Ma, siccome osservò il chiarissimo padre Gotifredo abbate
gotwicense[2571], neppur così vengono guarite le piaghe di questo
documento, in cui è anche da avvertire quel titolo strano: _Otho tertius
gratia Dei gubernator, seu imperator_.

NOTE:

[2562] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2563] Romual. Salern., Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2564] Lupus Protospata, in Chronico.

[2565] Odilo, in Vita S. Adelheidis.

[2566] Sillingardus, Catalog. Episc. Mutinens.

[2567] Antiquit. Ital., Dissert. LXV.

[2568] Mabill., Annal. Benedict., ad ann. 994.

[2569] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5.

[2570] Tatti, Annali Eccl. Com.

[2571] Chron. Gotwicense, tom. 1, p. 206.



    Anno di CRISTO DCCCCLXXXIX. Indiz. II.

    GIOVANNI XV papa 5.
    OTTONE III re di Germania e d'Italia 7.


Tanto dall'Annalista sassone[2572], quanto da quello d'Ildeseim[2573],
abbiamo che in questo anno _Theophania imperatrix mater regis_ (cioè di
Ottone III) _Romam perrexit, ibique Natalem Domini celebravit, et omnem
regionem regi subdidit_. Per la tenera età e per la lontananza del re
_Ottone III_, pur troppo aveano cominciato i popoli dell'Italia a
calcitrare e a suscitar delle sedizioni, siccome verrò dicendo più
innanzi. Ancorchè la santa imperadrice _Adelaide_, stando in Pavia,
comandasse e si studiasse di tener quieti i popoli, pure non era assai
temuta e rispettata la di lei autorità. Venne con più polso in Italia
l'Augusta _Teofania_, e di qui impariamo che essa dovette rimettere in
miglior sesto gli affari. Ma non si dee tacere che l'archimandrita
calabrese _Giovanni_, da noi veduto di sopra creato abbate del
ricchissimo monistero di Nonantola, seppe ben far fruttare in suo favore
l'intrinsichezza ch'egli godeva presso la suddetta imperadrice Teofania,
siccome uomo intendente della lingua greca, ed originario di Calabria.
Passò in questo anno a miglior vita _Sigualdo vescovo_ di
Piacenza[2574], e l'accorto Greco colla protezione dell'Augusta fu
promosso a quella chiesa, quantunque, per attestato del Cronografo
sassone[2575], fosse stato eletto vescovo un uomo degno, ch'egli fece
discacciare. Nè di ciò contenta la sua ambizione, giacchè in quel secolo
era divenuto alla moda il far dei nuovi arcivescovati, ottenne da papa
_Giovanni XV_ che Piacenza fosse eretta in arcivescovato, con levarla di
sotto alla giurisdizione del metropolitano di Ravenna. Ha recato
maraviglia a taluno, ed è sembrato errore, il trovar questo _Giovanni
arcivescovo di Piacenza_; ma di tal verità non si può dubitare. Leggesi
presso il Campi una permuta da lui fatta in Pavia col mastro di quella
zecca, in cui esso è appellato _domnus Johannes archiepiscopus sancte
placentine ecclesie, et abbas monasterii sancti Silvestri, siti
Nonantule_. Lo strumento fu scritto _anno ab Incarnatione Domini nostri
Jesu Christi nongentesimo ottuagesimo nono, tertio die mensis genuarii,
Indictione secunda_. Il non veder qui fatta menzione degli anni del re
Ottone III, siccome neppure nello strumento d'_Ildebrando vescovo_ di
Modena, citato all'anno precedente, e neppure un altro, accennato da
Cosimo della Rena[2576], e in altri della Cronica del Volturno[2577], mi
fa restar sospeso in pensare come Ottone III fosse re anche d'Italia, e
non entrasse, secondo il costume, il suo nome ne' pubblici documenti.
Forse perchè non era stato per anche coronato. Lascerò decidere ad altri
questo punto; poichè per altri documenti si vede che Ottone III
signoreggiava in questi tempi come re in Italia.

Ma prima di abbandonare il suddetto strumento di Giovanni arcivescovo di
Piacenza, si vuol osservare che, in conformità del buon rito che si
praticava allora in molti luoghi, affinchè nelle permute non venisse
danno alle chiese, furono inviati estimatori pubblici a riconoscere il
valore dei beni che s'aveano a permutare. Però quivi si legge: _Et ad
hanc previdendam commutationem accesserunt super ipsis rebus ad
previdendum Ilderadus misso donni Teodaldi marchio, et comes comitatu
motinense, et Adelbertus clericus misso eidem donno Johanni
archiepiscopo_. Perchè il monistero di Nonantola era ed è situato nel
territorio di Modena, e qui si trattava di permutar dei suoi beni,
perciò, d'ordine del conte ossia del governator perpetuo di Modena,
andarono gli estimatori pubblici a raccogliere il valor delle terre da
permutarsi. Ma _Tedaldo_, avolo della celebre _contessa Matilda_, è
inoltre appellato _marchio_. Di che marca era egli marchese? Così
nell'anno 975 (come da strumento[2578] da me pubblicato apparisce) si
truovano in Pisa _Adalbertus et Obertus_ (progenitore della casa d'Este)
_germani marchioni, filii bonae memoriae Oberti marchionis et comitis
palatio_. A qual marca comandavano questi due marchesi? L'una delle due
vo io conghietturando: cioè o che già fossero istituite delle marche
minori, e che, per esempio, Modena con altre circonvicine città formasse
una marca, da cui _Tedaldo_ prendesse il titolo di marchese; e che la
Lunigiana, in cui possedeano tanti stati i maggiori della casa d'Este,
siccome vedremo, anch'essa desse il titolo marchionale ai due suddetti
_Adalberto_ ed _Oberto_ fratelli: oppure che gl'imperadori conferendo il
titolo di marchese ai principi che possedeano molti stati, come terre e
castella, gli esentassero con ciò dalla giurisdizione dei marchesi
maggiori, concedendo loro l'autorità marchionale sopra i medesimi Stati.
Veggiamo in questi tempi ancora introdotti i _conti rurali_, cioè
signori di qualche castello, esentati dalla giurisdizione dei conti
delle città. Così a poco a poco s'andarono trinciando le marche e i
contadi non meno in Italia che in Germania. Questi son punti scuri; e
giacchè ci manca la chiara luce della verità, si debbono ammettere come
buona moneta le conietture fondate sopra il verisimile. Scrive Lupo
Protospata[2579] sotto questo anno che _descendit Johannes patricius_
(governator greco della Puglia), _qui et Ammiropolus, et occidit Leonem
Cannatum, et Nicolaum Critis, et Porphyrium_: probabilmente dei
principali di Bari. In questi tempi noi ritroviamo duca di Spoleti e
marchese di Camerino _Ugo marchese_ di Toscana: il che è degno di
osservazione. Da quel dominio dovea essere decaduto _Trasmondo_, oppure
egli era solamente marchese di Camerino. Ce ne assicura un
placito[2580], pubblicato dal padre Gattola, e tenuto _in territorio
Apruciense, anno nongentesimo octuagesimo nono, et mense julio, per
Indiccio secunda_. A quel giudizio presedeva _Guglielmus comes missus
domni Ugoni dux et marchio_. Si sarebbe desiderata più attenzione in
Pier Maria Campi, autore per altro benemerito delle lettere per la sua
Storia ecclesiastica di Piacenza, allorchè produsse un diploma di
_Ottone III_[2581], con cui crea _militi_ i Bracciforti, cittadini di
Piacenza, e dà loro in feudo Vicogiustino con varie esenzioni. La data
del privilegio è questa: _Datum XV kalendas decembris, anno
Incarnationis Domini 989, Indictione prima, anno vero domni Ottonis III,
imperii ejus quinto. Actum Placentiae in ecclesia sanctae Brigidae.
Testibus praesentibus Getone duce Boemiae, Geufredo duce Bavariae, et
Henrico comite de Lauzomonde._ Nè si avvide il buon Campi che _Ottone
III_ non era per anche imperadore, nè era venuto in Italia per questi
tempi, nè correva l'_indizione prima_ nell'anno presente 989, per nulla
dire di que' testimoni e d'altre particolarità di quel finto documento.

NOTE:

[2572] Annalista Saxo.

[2573] Annal. Hildesheim.

[2574] Campi, Istor. di Piacenza, T. 1.

[2575] Chronographus Saxo editus a Leibnitio.

[2576] Cosmo della Rena, Serie de' Duchi di Toscana.

[2577] Chronicon Vulturnense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2578] Antiq. Ital., Dissert. VII.

[2579] Lupus Protospata, in Chronico.

[2580] Gattola, Hist. Monaster. Casinens., Part. I.

[2581] Campi, Stor. Eccles. di Piacenza, tom 1.



    Anno di CRISTO DCCCCXC. Indizione III.

    GIOVANNI XV papa 6.
    OTTONE III re di Germania e d'Italia 8.


Abbiamo detto che l'imperadrice _Teofania_ colla sua venuta in Italia
mise o rimise alla divozione del re _Ottone III_ suo figliuolo que'
popoli che voleano vivere senza briglia. La Cronica del monistero del
Volturno[2582] ci somministra una pruova dell'autorità da lei esercitata
in Italia per un diploma suo spedito in protezione d'esso monistero,
_quarto nonas januarias anno dominicae Incarnationis DCCCCXC, Indictione
II, anno vero tertii Ottonis regnantis III. Actum Romae_, dove ella avea
celebrato il santo Natale. Ma si dee scrivere _Indictione III_, e per
conto degli anni del _regno_ si ha da scrivere _anno VII_. Tuttavia,
siccome fu osservato in alcuni atti accennati di sopra, non si contavano
per anche gli anni del regno di Ottone III in Italia. Un altro più
importante documento[2583] ho io dato alla luce, cioè un placito tenuto,
_anno, Deo propitio, pontificatus domni Johannis summi pontificis V, die
XIII mense martii, Indictione III, foris civitate Ravenne, in vico, qui
dicitur Sablonaria, post tribunal palatii, quod olim construere jussit
domnus Hotto imperator_. Notabili son queste parole, ma più ancora le
seguenti: _Dum resideret, Deo annuente, Johannes archiepiscopus sanctae
placentine ecclesie in generali placito, simul cum eo Hugo gratia Dei
episcopus sancte hansdeburgensis ecclesie jussione domne Theofana
imperatris_, ec. Un tale atto finisce di chiarire che l'esarcato di
Ravenna, non so se per qualche accordo seguito coi romani pontefici, o
per altre ragioni, era divenuto parte del regno d'Italia; e che da gran
tempo non ne erano più in possesso i romani pontefici. Ottone III non
per anche avea conseguito la corona e il diritto degl'imperadori; e pure
Teofania sua madre fa da padrona in Ravenna, mandandovi i suoi ministri
a tenere pubblicamente giustizia, senza che si sappia che ne facessero
doglianza i papi. Ed ora s'intende perchè Ottone il Grande avesse quivi
fabbricato di pianta un palazzo regale per sè e per gli suoi successori.
Dobbiamo anche al padre Mabillone[2584] la memoria di un diploma d'essa
imperadrice, dato in favore del monistero di Farfa, affinchè gli fosse
restituita la cella di santa Vittoria, posta nel territorio di Camerino.
Fu ottenuto questo diploma _interventu Johannis archiepiscopi
ravennatis, et Hugonis principis_, cioè di _Ugo duca_ e marchese di
Toscana e di Spoleti, che faceva la sua corte alla vedova imperadrice.
Le note di quel documento, come cosa rara, meritano d'essere qui
rammentate. _Datum kal. aprilis, anno dominicae Incarnationis DCCCCXC,
imperii domnae Theophanu imperatris XVIII, Indictione III, Ravennae._
L'epoca di Teofania non è giù presa, come pensò il suddetto padre
Mabillone, dall'anno della morte di Ottone II suo consorte, ma bensì,
come avverti il dottissimo padre Gotifredo abbate gotwicense[2585],
dall'anno delle sue nozze, cioè dal 972. Intanto osserviamo che questa
principessa la faceva non da imperadrice, ma da imperadore. Tornossene
ella in quest'anno in Germania per assistere al re Ottone III suo
figliuolo nel governo degli stati. Secondochè racconta Romoaldo
salernitano[2586], _anno DCCCCXC stella a parte Septemtrionis apparuit,
habens splendorem, qui tenebat contra Meridiem, quasi passum unum. Et
post paucos dies iterum apparuit eadem stella a parte Occidentis, et
splendor ejus ad Orientem tendebat. Et non post multos dies fuit
terraemotus magnus, qui plures evertit domos in Benevento et Capua,
multosque homines occidit, et in civitate Ariano multas ecclesias
subvertit. Civitas quoque Frequentus paene media cecidit. Civitatem vero
Consanam prope mediam cum episcopo subvertit, multosque homines
oppressit. Ronsem totam cum ejus hominibus submersit._ Viene anche da
Leone ostiense[2587] narrata questa disavventura con aggiugnere: _In
Benevento Viperam dejecit, et subvertit quindecim turres, in quibus
centum quinquaginta homines mortui sunt_. Angelo della Noce fu di parere
che col nome di _Vipera_ sia indicato un castello di questo nome nel
territorio di Benevento. Credo io piuttosto che Leone significhi una
figura di vipera che tuttavia i Beneventani nella stessa loro città
tenessero alzata sopra qualche colonna, o fabbrica alta: superstizione
ereditata dagli antichi Longobardi. _Simulacrum, quod vulgo Vipera
nominatur, cui Langobardi flectebant colla_[2588], si legge nella vita
di san Barbato vescovo di Benevento. Pare che sino a questi tempi
durasse quella superstiziosa statua o figura in essa città. Ma avendo
noi veduto all'anno 663 che per opera di quel santo prelato fu
atterrata, si può sospettare che almeno il luogo dove essa fu ritenesse
quel nome, e in alcuni non fosse ben estinta quella ridicola persuasione
che dal mantenimento di quel luogo dipendesse la felicità e salvezza
della città, in quella guisa che gli antichi Romani pensarono
dell'altare della Vittoria, i Troiani del Palladio, i Fiorentini della
statua di Marte, ed altri simili.

NOTE:

[2582] Chronic. Vulturnense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[2583] Antiq. Ital., Dissertat. XXXI, pag. 959.

[2584] Mabill., in Annal. Benedict. ad hunc annum.

[2585] Chron. Gotwicense, tom. 1, pag. 224.

[2586] Romualdus Salernit., Chron. tom. 7 Rer. Ital.

[2587] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 11.

[2588] Ughell., Ital. Sacr., tom. 8 in episcop. Benevent.



    Anno di CRISTO DCCCCXCI. Indizione IV.

    GIOVANNI XV papa 7.
    OTTONE III re di Germania e d'Italia 9.


Abbiamo dall'Annalista sassone[2589], che Ottone III coll'Augusta
Teofania sua madre celebrò con solennità ed allegria la santa Pasqua in
Quidelingeburg in Sassonia. Intervennero a tal festa _Marchio Tuscanorum
Hugo, et dux Polonorum Miseco cum pluribus regni princibus, diversa
munera ad obsequium imperatoris_ (non era per anche imperadore)
_deferentes_. _Ugo marchese_ e duca di Toscana con grandi ricchezze e
potenza accoppiava una non minore accortezza; e volendosi ben mettere in
grazia di Ottone III e di sua madre, non tornò sì tosto in Italia, ma
continuò a far la sua corte a que' regnanti, finchè giunsero a Nimega.
Quivi infermatasi l'imperadrice Teofania, da morte immatura fu rapita
nel dì 16 di giugno dell'anno presente Presso Ditmaro[2590] la sua morte
è posta sotto il precedente anno, ma per errore dei copisti. L'Annalista
sassone, Ermanno Contratto, Lamberto da Scafnaburgo, che copiavano la
Cronica di Ditmaro, dovettero ben vedere che anch'egli sotto il presente
anno notò la morte della suddetta imperadrice. Era questa greca
principessa donna di spiriti virili, di bella ed onesta conversazione,
molto caritativa verso de' poveri e delle chiese; sapeva cattivarsi
l'affetto di chi ella voleva, ed insieme tener basso chi alzava la
cresta; utilissima perciò nel governo degli stati al figliuolo. Un solo
difetto viene in lei riprovato da sant'Odilone[2591]: cioè, che
quantunque ella fosse utile ed ottima per gli altri, _socrui tamen_
(cioè a sant'Adelaide) _fuit ex parte contraria. Ad postremum vero
cujusdam Graeci_ (probabilmente vuol intendere di Giovanni arcivescovo
di Piacenza) _aliorumque adulantium consilio fruens, minabatur ei, quasi
manu designando, dicens: Si integrum annum supervixero, non dominabitur
Adhelhaida in toto mundo, quod non possit circumdari palmo uno. Quam
sententiam inconsulte prolatam, divina censura fecit esse veracem. Ante
quatuor hebdomadas graeca imperatrix ab hac luce discessit. Augusta
Adalhaida superstes, felixque remansit._ All'avviso della defunta nuora
la piissima imperadrice _Adelaide_ si portò dall'Italia in Germania per
consolare l'afflitto nipote _Ottone III_, e per dare assistenza alla di
lui età bisognosa tuttavia di consiglio nel governo del regno. E quivi
_ille eam matris instar secum tamdiu habuit, quoad usque ipse
protervorum consilio juvenum depravatus, tristem illam dimisit_. Sicchè
ella malcontenta si restituì all'Italia (non so in qual tempo),
lasciando il re nipote in balìa ai trasporti della sua gioventù. Fin qui
avea _Tribuno Memmo_ doge di Venezia governato il suo popolo senza
operar cose che gliene guadagnassero l'affetto[2592]. Gli stava non poco
a cuore che Maurizio suo figliuolo succedesse a lui nel governo, e
perciò lo spedì a Costantinopoli con isperanza, che ritornando
condecorato da quegli Augusti di qualche illustre dignità, più
facilmente otterrebbe il suo intento. Ma cadde intanto malato esso doge,
e sentendo accostarsi il suo fine, si fece portare al monistero di san
Zacheria, e quivi preso l'abito monastico, dopo sei giorni terminò di
vivere. Non già il di lui figliuolo, ma bensì _Pietro Orseolo II_ fu
creato in suo luogo doge di Venezia. Egli era figliuolo di quel _Pietro
Orseolo_ che già vedemmo doge, e poi passato alla vita monastica in
Francia, dove per le sue virtù si guadagnò il titolo di beato e di
santo. Questi fu principe di gran senno, e talmente attento ai vantaggi
della sua patria, che Venezia a' suoi di crebbe sommamente di potenza e
decoro. All'anno precedente 990 racconta il Sigonio[2593] le rivoluzioni
seguite in Milano fra _Landolfo arcivescovo_ e il popolo di quella
città. Il signor Sassi nelle annotazioni[2594] fu di parere ch'esso
Landolfo venisse promosso a quell'arcivescovato nell'anno 980, come in
fatti è notato nel Codice estense della Storia di Arnolfo
milanese[2595]; e che nel 982 succedessero quelle dissensioni, per le
quali Ottone II imperadore, secondo lui assediò Milano nell'anno 983. Io
non m'arrischio a proporre alcuno di tali fatti, perchè circa il tempo
la storia ci lascia nelle tenebre, e mi prendo la libertà di narrar qui
le sollevazioni suddette con qualche barlume di verisimiglianza, che
trovandosi troppo giovane il re Ottone III, e morta la madre sua, e
passata in Germania l'avola sua Adelaide, potesse allora il popolo di
Milano prendere l'armi contra del suo arcivescovo. Ora il fatto è in
questa maniera narrato da Landolfo seniore[2596] storico milanese.

A' tempi di Ottone I era potentissimo in Milano Bonizone da Carcano.
Essendo vacata la chiesa di Milano per la morte di _Gotifredo
arcivescovo_ nell'anno 980, costui a forza d'oro procurò
quell'arcivescovato dall'imperadore per suo figliuolo _Landolfo_ contro
la volontà di tutto il clero e popolo milanese, al quale apparteneva
l'elezione. Crebbe perciò di giorno in giorno sempre più l'odio
universale contra di lui. _Interea Landulphus paucis commoratus annis,
patre ejus male mortuo a quodam Tazonis vernula suo in lecto, ad Ottonem
imperatorem cursu veloci fugiens tetendit._ Istigato l'imperadore
(questi era Ottone II) venne all'assedio di Milano. Per una visione
ritornò in sè stesso Landolfo, e chiamati dalla città molti nobili,
stabilì un infame accordo con essi, concedendo loro in feudo o a livello
le dignità della chiesa e le pievi della sua diocesi: con che egli
ritornò quieto alla sua cattedra, e l'Augusto Ottone se ne andò in
Liguria. Ma nulla parlando Arnolfo milanese, scrittore più esatto e
contemporaneo d'esso Landolfo nel secolo susseguente, di un tale
assedio, e nulla dicendone gli scrittori tedeschi, che pure van
registrando tutte le più riguardevoli azioni di Ottone II, io non so che
s'abbia a creder a Landolfo storico per conto d'esso assedio. Però
meglio fia l'attenersi qui al racconto d'esso Arnolfo[2597], che con
altre circostanze ci rappresenta quegli avvenimenti. Dice adunque, che
succeduto Landolfo, nativo del castello di Carcano, a Gotofredo
arcivescovo, per la troppa insolenza del padre e del fratello cominciò a
tirarsi addosso l'odio del popolo, coll'abusarsi del dominio della
città, di cui forse era conte, o vogliam dire governatore. Congiurò
contra di lui la plebe, ma i nobili erano in favore di lui. _Quibus
assidue rixantibus grande commissum est in urbe certamen._ Vedendo
Landolfo di non potere reggere alla forza del popolo, lasciato nella
città il padre suo decrepito, si ritirò fuori coi nobili, ai quali, per
tenerli saldi nel suo partito con farli suoi vassalli, distribuì molti
benefizii dei cherici e beni della sua Chiesa, _Iterum autem collecto ex
diversis partibus agmine, conflixit eisdem cum civibus in campo
Carbonariae, ubi facta est plurima caedes utrinque: a quo bello aegre
divertit hac etiam vice. In civitate autem quaedam_ (scrivi _quidam_,)
_vernula, audita domini sui nece, accurrens, patrem praesulis lecto
jacentem cultro transfixit._ Ma non andò molto, che frappostesi varie
persone sagge, seguì concordia e pace fra Landolfo e il popolo.
L'arcivescovo in emenda de' suoi peccati fece fabbricare in Milano il
monistero di san Celso, dove poi venendo a morte, volle essere
seppellito. Qui non c'è parola nè di Ottone II, nè di assedio da lui
fatto di Milano; e però potrebbono essere succeduti cotali sconcerti
durante la lontananza e minorità di Ottone III. Circa questi medesimi
tempi anche il popolo di Cremona recò non pochi affanni ad _Odelrico
vescovo_ di quella città; perciocchè _ecclesiae suae terram potestative
invaserunt, ac illam_ (forse illum) _devestierunt; atque sub obtentu,
seu occasione commendationis atque facticii, clericos illius, ac laicos
suo regimini juste et legaliter deditos, ec. injuste depraedantes,
eamdem ecclesiam coarctando ac depraedando, multis calamitatibus
opprimebant_. Tutto ciò si legge in un diploma di Ottone III[2598]
dell'anno 996. Fatti tutti che son degni d'attenzione, poichè di qui si
scorge il principio della libertà e indipendenza che a poco a poco
andarono poi procacciando a sè stessi i popoli d'Italia con una
strepitosa mutazion di cose, di cui andremo di mano in mano ravvisando
il progresso. Rapporta il Campi[2599] un placito tenuto _in civitate
Placentia in solario proprio donni archiepiscopi sanctae placentinae
ecclesiae,_ dove _in judicio residebat domnus Joannes vir venerabilis
archiepiscopus sanctae placentinae ecclesiae, missus donni Ottonis
regis_. Dal notaio fu scritto _anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu
Christi DCCCCXCI, decimotertio kalendas februarii, Indictione quarta_.
Noi ancor qui troviamo in uso l'autorità regale di Ottone III in Italia,
ma non giù notati negli atti pubblici gli anni del suo regno. Abbiamo da
Lupo Protospata[2600] che _fecit bellum Asto comes cum Saracenis in
Tarento, et ibi cecidit ille cum multis Barensibus_. In vece di _Asto_,
un altro codice e l'Anonimo barense hanno _Otto comes_; ma si dee
scrivere _Atto comes_. Medesimamente in quest'anno _Ugo Capeto_ re di
Francia, sdegnato contra di _Arnolfo arcivescovo_ di Rems, il fece
deporre dai vescovi in un concilio tenuto in quella città, ma senza che
fosse approvata una tal risoluzione dalla santa Sede. In suo luogo fece
egli ordinare _Gerberto_, che noi già vedemmo abbate di Bobbio, in
ricompensa di essere stato maestro del _re Roberto_ suo figliuolo, e per
la stima della di lui rara letteratura. Vedremo poi fin dove arrivò la
fortuna di questo personaggio.

NOTE:

[2589] Annalista Saxo.

[2590] Ditmarus, in Chron., lib. 4.

[2591] Odilo, in Vit. Sanct. Adelheidis.

[2592] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2593] Sigonius, de Regno Ital., lib. 7.

[2594] Saxius, in Adnotation. ad eumdem.

[2595] Arnulf., Hist. Mediol., tom. 4 Rer. Ital.

[2596] Landulf. Senior, Hist. Mediol., tom. 4 Rer. Ital.

[2597] Arnulf., Hist. Mediol., lib. 1, cap. 10.

[2598] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Cremonens.

[2599] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.

[2600] Lupus Protospata, in Chron.



    Anno di CRISTO DCCCCXCII. Indizione V.

    GIOVANNI XV papa 8.
    OTTONE III re di Germania e d'Italia 10.


Dacchè fu alzato alla dignità ducale in Venezia _Pietro Orseolo II_,
siccome persona di grande attività e senno, spedì tosto a Costantinopoli
i suoi legati, ed ottenne dagl'imperadori _Basilio_ e _Costantino_ la
bolla d'oro contenente la conferma di tutte le libertà ed esenzioni
godute in addietro dal popolo di Venezia per tutto l'imperio d'Oriente.
Studiossi ancora di stabilir buona amicizia con tutti i principi de'
Saraceni, a' quali per tal effetto mandò ambasciatori. Ma
particolarmente ebbe cura di far confermare al re _Ottone III_ i vecchi
patti. Si legge nella Cronica del Dandolo[2601] il diploma di tal
conferma, conceduta da esso re _interventu et petitione nostrae
dilectissimae dominae aviae Adelheidae imperatricis Augustae_: il che fa
conoscere che la santa imperadrice tuttavia dimorava in Germania nella
corte del re suo nipote. E il diploma è dato _XIV kalendas augusti, anno
dominicae Incarnationis DCCCCXCII, Indictione V, anno vero domni Ottonis
III regnantis nono. Actum Molinhusen._ Asserisce Lupo Protospata[2602]
che in quest'anno si provò una terribil carestia per tutta l'Italia. Non
già nell'anno 991, come stimò il Sigonio[2603], ma bensì nel fine del
presente, diede fine ai suoi giorni _Aloara_ principessa di Capua, già
moglie di _Pandolfo Capodiferro_, la quale fin qui col figliuolo
_Landenolfo_[2604] virilmente avea governato quegli Stati. Siccome
osservò il cardinal Baronio[2605], ella avea fatto ammazzare un suo
nipote conte, per paura ch'egli col suo credito potesse occupare il
principato a' suoi figliuoli: perlochè san _Nilo abbate_ le predisse che
mancherebbe la stirpe sua, siccome in fatti da lì a non molto avvenne.

NOTE:

[2601] Dandul., in Chronic., tom. 12 Rer. Ital.

[2602] Lupus Protospata, in Chronico.

[2603] Sigonius, de Regno Ital., lib. 7.

[2604] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 10.

[2605] Baron., in Annal. Eccles.



    Anno di CRISTO DCCCCXCIII. Indiz VI.

    GIOVANNI XV papa 9.
    OTTONE III re di Germania e d'Italia 11.


Nell'archivio dell'insigne monistero di Subiaco sì legge uno strumento
scritto _anno, Deo propitio, pontificatus domni Johanni summi pontificis
et universali XV papae in sacratissima sede beati Petri apostoli
septimo, Indictione V, mensis februarii die tertia_, cioè nell'anno
precedente. Ma questo mese non s'accorda con quanto s'è accennato
all'anno 985 intorno al tempo della elezione di questo papa. Più si
confà un altro scritto _anno octavo, Indictione VI, mensis julii die
octava_, cioè nell'anno presente. Appena furono passati quattro mesi
dopo la morte di _Aloara_ principessa di Capua[2606], che in essa città
di Capua nel dì 20 d'aprile di quest'anno scoppiò una congiura di
malvagi contra di _Landenolfo principe_ suo figliuolo, per cui egli
restò miseramente privato di vita presso la chiesa di san Marcello. Era
parente di Landenolfo _Trasmondo conte_ teatino, ossia di Chieti, e
marchese, cioè, a mio credere, quel medesimo che di sopra dicemmo duca
di Spoleti, o almeno marchese di Camerino. Si accinse questi a vendicar
la morte dell'ucciso principe, e dopo due mesi con un competente
esercito, accompagnato da _Rinaldo_ ed _Oderisio conti_ di Marsi,
pertossi all'assedio di Capua. Vi stette sotto quindici dì, nel qual
tempo diede il guasto al territorio, cioè gastigò in vece de' rei
gl'innocenti; e senza far altro se ne ritornò a casa. Per attestato
della Cronica del Volturno[2607], entrò la peste in Capua con tal furia,
che appena restò in vita la terza parte del popolo. Giunta intanto la
nuova dell'assassinamento suddetto alla corte di _Ottone III_ in
Germania, venne un ordine ad _Ugo marchese_ di Toscana di farne rigorosa
vendetta. Adunque Ugo, ammassate le forze sue, ed unitele con quelle di
Trasmondo e dei conti suddetti, tornò ad assediare più strettamente
Capua, tanto che obbligò quei cittadini a dargli in mano i malfattori,
cioè gli uccisori del suddetto Landenolfo[2608]. Sei d'essi ne fece
impiccar per la gola; gli altri con varie pene ricevettero il pagamento
de' loro misfatti. Restò principe di Capua _Laidolfo_ fratello minore
del medesimo Landenolfo.

Attese circa questi tempi _Pietro Orseolo II_ doge egregio di Venezia a
ristorare la città di Grado, le cui fabbriche venivano meno per
l'antichità[2609]. La cinse di mura dai fondamenti; vi fabbricò il
palazzo ducale presso alla torre occidentale, e fece riporre in segreti
luoghi sotterra i corpi de' santi di quella cattedrale. E perciocchè
_Giovanni vescovo_ di Belluno seguitava ad occupar certi beni e diritti
de' Veneziani, e non voleva arrendersi nè alle ambasciate nè alle
lettere dello stesso re Ottone, proibì il savio doge ogni commercio del
suo popolo colla marca di Trivigi. Bastò questo ripiego per metter in
dovere i Bellunesi, i quali non potendo più ricevere sale, nè altre
mercatanzie, domandarono pace ai Veneziani, e l'ottennero, allorchè il
re Ottone venne in Italia. Credesi che a quest'anno appartenga la
dotazione della badia di santa Maria dei Benedettini, fondata in
Firenze[2610] da _Willa_ contessa, ivi chiamata _filia domni Bonifacii,
qui fuit marchio_, cioè di Spoleti. Era essa stata moglie di _Uberto_
duca e marchese di Toscana, ed era madre del vivente allora marchese di
Toscana _Ugo_. Le duchesse e marchesane per lo più usavano il solo nome
di _contesse_. Lo strumento fu scritto con queste note: _Otho gratia Dei
imperator Augustus, filius domni Othonis, anno imperii ejus XI, pridie
kalendas junii, Indictione VI_, cioè nell'anno presente, secondochè
pensò l'Ughelli, e dopo di lui il padre Mabillone[2611]. Ma doveasi por
mente che Ottone III non era per anche giunto alla corona imperiale, nè
in questi secoli alcun re tedesco portò mai il titolo d'imperadore, se
non dopo d'essere stato coronato dal sommo pontefice. Però quello
strumento è più antico, e s'ha da riferire all'anno 978, nel cui giugno
correva l'_anno XI_ dell'imperio di _Ottone II_ e la _Indizione VI_.
Abbiamo da Leone ostiense[2612] che i monaci di monte Casino
fabbricarono varii monisterii in Toscana _ex Hugonis marchionis
largitione et concessione_, fra' quali il suddetto di santa Maria in
Firenze. Terminò i suoi giorni in quest'anno[2613] _Corrado re_ di
Borgogna, fratello della piissima imperadrice _Adelaide_, ed ebbe per
suo successore _Rodolfo_ suo figliuolo, appellato dagli storici il
_Dappoco_. Tenne parimenti in questi tempi un placito in Verona _Arrigo
duca_, padre di santo _Arrigo_ imperadore, che governava allora non
solamente il ducato di Baviera, ma quello ancora della Carintia colla
marca di Verona. L'Ughelli[2614] rapporta i suoi titoli scorrettamente,
e si dee leggere così: _Domnus Henricus dux Bavariorum, seu
Karentanensium, atque istius marchiae Veronensium_. Fu scritto quel
giudicato _anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi nongentesimo
tertio....... de mense novembri, Indictione septima_. Pretendeva
_Ocberto_ (piuttosto _Otberto_) _vescovo_ di Verona che gli fossero
stati usurpati de' beni _a Theodaldo olim marchione_, cioè dall'avolo
della _contessa Matilde_, che si vede allora molto ben vivo; nè so
perchè v'entri quell'_olim_, se pur non dee dirsi una delle
disattenzioni dell'Ughelli. Perchè Tedaldo marchese citato non comparve,
fu decretato il possesso di que' beni al vescovo. Ecco chi era
governatore della marca di Verona in questi tempi.

NOTE:

[2606] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 10.

[2607] Chron. Vulturnens., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[2608] Petrus Damian., Opuscul. 57, cap. 3.

[2609] Dandul., in Chron. tom. 12 Rer. Ital.

[2610] Puccinelli, Vita di Ugo. Ughelli, Ital. Sacr., tom. 3.

[2611] Mabill., Annal. Benedict. ad ann. 989.

[2612] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 12.

[2613] Hermannus Contract., in Chron., edition. Canis.

[2614] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Episcop. Veronens.


FINE DEL VOLUME III.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Annali d'Italia, vol. 3 - dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750" ***

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