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Title: La plebe, parte IV
Author: Bersezio, Vittorio
Language: Italian
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Libraries)



                             LA PLEBE


                          ROMANZO SOCIALE
                                DI

                         VITTORIO BERSEZIO


                            PARTE QUARTA



                        PROPRIETÀ LETTERARIA

                               TORINO,
                 PRESSO CARLO FAVALE E COMP., EDITORI
                                1869.



PARTE QUARTA

La Catastrofe.



CAPITOLO I.


Secondo era inteso fra il marchese di Baldissero, Don Venanzio e
Maurilio, quest'ultimo, la mattina dopo il colloquio che aveva avuto
luogo fra i tre ora nominati personaggi, erasi recato al palazzo del
marchese per fissarvi senz'altro la sua dimora in qualità di segretario.

Dal marchese erano stati dati gli ordini opportuni. Appena si presentò,
Maurilio fu condotto dal mastro di casa che lo ricevette come individuo
specialmente raccomandato dal padrone.

— Signore, dissegli, tutto è pronto ad accoglierla, e nella sua camera
troverà un assortimento d'abiti fra cui potrà scegliere quelli che
meglio le piacciano e meglio le si attaglino.

Maurilio arrossì fino alle orecchie e nascose la sua confusione in un
inchino, balbettando inintelligibili parole di ringraziamento.

La camera destinatagli era pulita, allegra, appetto a tutte le altre
abitazioni ch'egli aveva avute sino allora, elegante. Il sarto e gli
abiti, come aveva detto il mastro di casa, lo stavano aspettando. Scelse
panni scuri, senza esagerazione di forme alla moda; e quando vestito di
nuovo da capo a piedi, e' si guardò nello specchio che stava sopra il
canterale, quasi non riconobbe se stesso: fece al suo pallido volto
riflesso dalla lastra un sorriso in cui c'era più vergogna che
compiacenza, e disse mentalmente a se stesso:

— Tu se' un altro Maurilio.... I panni ti faranno oramai giudicare dal
mondo un uomo ammodo.... Ma sei vestito di roba altrui!...

Il sarto, secondo le abitudini del più di questi mercatanti, cianciò
egli la parte sua e quella del giovane a cui la confusione dell'animo e
della mente non lasciava aver parole fatte; rifornitolo per allora
d'ogni parte d'abbigliamento, gli prese misura per altri abiti da
farglisi di ricambio, che tali erano gli ordini di S. E., e partissi
accompagnato dal domestico che era stato testimonio a codesta
vestizione, e la cui presenza non aveva conferito poco a vergognare ed
imbarazzare il timido Maurilio.

Questi rimase solo in mezzo alla modesta suntuosità di quella stanza che
gli era destinata. E' guardò allora tutt'intorno a sè, come per conoscer
bene quegli oggetti che lo circondavano, cui non aveva ancora osato
esaminare e prenderne, come dire, possesso: un lettino in ferro, una
tavola da lavabo, un cassettone con sopravi lo specchio incorniciato di
legno su cui una vernice di color naturale, un caminetto alla Franklin,
un seggiolone appiè del letto, una mezza dozzina di seggiole impagliate,
di quelle leggerissime di Chiavari, un armadio in un angolo, un tavolino
da scriverci, un acquasantino d'alabastro a capoletto, quattro incisioni
che rappresentavano le imprese di Cortez al Messico, in cornici di legno
appese alla parete tappezzata di carta colore di foglia secca,
bianchissime cortine alla finestra, tendoline ai cristalli della
medesima, sullo spazzo di quadrelli immasticati, una lista di tappeto
innanzi al letto, per mettervi su i piedi scendendone, ed ecco tutto. Ma
tutto respirava la pulizia, il buon gusto e l'agiatezza. Maurilio si
piantò innanzi allo specchio e vi si mirò con una specie di fissità
inquisitoriale, mezzo dispettosa, quasi maligna.

— Che fai tu qui? s'interpellò egli con quel suo sogghigno: sei tu fatto
per questi ambienti? è egli tuo posto questo? Povero buttero di
campagna, misero figliolo del fangoso rigagnolo della strada, sangue di
plebe, come osi tu mettere il piede su questo terreno? E che ci vieni a
far tu? a viverci da parassita?

I suoi lineamenti si contrassero con una dolorosa espressione.

— Parassita io?

Scosse il suo grosso capo arruffato e gettò uno sguardo che pareva di
sfida e di minaccia alla sua immagine rimandatagli dallo specchio.

— No, no, e poi no.... Sarà il mio lavoro che mi guadagnerà questo pane,
che mi guadagnerà questi abiti, che pagherà questa dimora. Non ho io
vissuto press'a poco in tal guisa quand'ero agli stipendi del signor
Defasi?... E perchè questo non avrebbe ad essere mio posto?

Ricordò le parole della vecchia _Gattona_, che Selva e Don Venanzio gli
avevano riferite, e le quali potevano far argomentare d'una sua non
plebea origine, sentì risollevarsi più vive in cuore le speranze,
vissute in lui sempre, ora rinfocolate cotanto, di giungere a penetrare
il mistero della sua nascita e trovare in fondo di esso un onorevole,
forse illustre destino.

— Ah! esclamò egli ad un tratto passandosi la mano sulla vasta, pallida
fronte: sento che da questo dì comincia per me una sorte novella. Più
trista delle varie che ho subite non può essere; sarà dunque più
lieta?...

Sentì, cominciando dal cervelletto giù giù pel midollo spinale scorrere
e diramarsi per tutti i nervi, passare in tutte le vene quel certo
fluido, dargli una lieve scossa quel brivido cui produce una intima
emozione, e che a lui pareva un vincolo d'unione, il mezzo di rapporto
fra sè ed il sognato suo spirito protettore. Levò gli occhi verso il
cielo, impallidì ancora nelle guancie incavate, e giungendo le mani come
si fa per pregare esclamò:

— Oh angiolo mio benigno! oh madre mia! Sei tu che qui mi hai tratto?
Sei tu che mi vuoi ospite in questa casa?...

Un novello pensiero a tali parole s'impadronì di ogni facoltà del suo
animo: un pensiero che era immanente in lui, ma che ora altre momentanee
sensazioni parevano avere assopito: il pensiero di _lei!_

— Questa casa è la sua! Soggiunse egli, interrompendo il suo primo
discorso, e cambiando di tono: essa abita qui, a poca distanza da me,
sotto il medesimo tetto; e la potrò vedere, e la vedrò tutti i giorni.

Schiuse le labbra ad un sorriso di beatitudine e corse alla finestra. Lì
sotto era la strada cui egli aveva passeggiato tante volte, là in faccia
era la cantonata, a cui tante volte s'era fermo a contemplare quel
palazzo, dov'egli ora si trovava. La stanza assegnatagli era al secondo
piano e Maurilio riconobbe con una strana sensazione che poteva dirsi di
gioia, come la fosse quasi al di sopra di quella in cui aveva indovinato
dormire Virginia.

Questo nome ripetè egli come se la invocasse.

— Virginia! Virginia!

All'udire la sua voce far suonare quella parola fra quelle pareti, si
riscosse, tremò, si soffuse di rossore, si volse rattamente a guardar
indietro e dintorno, come pauroso alcuno l'avesse potuto udire. Si
rassicurò vedendosi compiutamente solo; non ci aveva altra compagnia,
non s'udiva colà altro rumore che quello del foco che schioppettiva nel
caminetto.

— La vedrò ogni giorno: ripetè quasi avesse bisogno di dirselo più
volte, affine di credere egli medesimo; la vedrò oggi stesso, fra
poco!...

Un legger colpo battuto all'uscio della sua stanza lo fece sussultare.

— Avanti: diss'egli volgendosi alla porta, curioso e quasi inquieto di
vedere chi fosse.

S'apri un battente e comparve la faccia bonaria di Don Venanzio, più
lieta, più sorridente, più benigna del solito.

— Cospetto! esclamò il buon vecchio, come sei bene alloggiato, e come
vestito! Mi sembri un medico o un avvocato.

Si fregò le mani con espressione di viva contentezza:

— Dio sia lodato che mi ha voluto far la grazia di soddisfarmi uno dei
maggiori desiderii che avesse ancora la mia vecchiaia: quello di vedere
il tuo destino assicurato, Maurilio, mio buon figliuolo.

Il giovane, preso da un vivo intenerimento, sentì inumidirsi le ciglia e
non seppe fare altra risposta che gettarsi al collo del sacerdote ed
abbracciarlo. E Don Venanzio, tenendolo così stretto al suo seno in un
affettuosissimo amplesso, continuava:

— Sì il tuo destino assicurato, perchè qualunque cosa venga o non venga
a scoprirsi intorno alla tua nascita, la protezione di questo
generosissimo uomo, che è il marchese, non ti può mancar più, e tu non
sei tale da rendertene indegno mai....

Maurilio nascose la fronte sulla spalla di quel vecchio che aveva saputo
amarlo d'un amore paterno.

— Ma le triste vicende del mio passato... balbettò egli.

— Il marchese sa tutto, e d'or innanzi non correrai più il pericolo che
la rivelazione di quelle tue sciagure possa farti perdere l'impiego...
Nega ora, se il puoi, col tuo orgoglio di razionalista, l'azione e la
bontà della Provvidenza che mi ha tratto qui dal mio villaggio, giusto
appuntino per poterti allogare come si conviene, e forse forse per
trovarti eziandio la tua famiglia: e quest'ultima cosa dopo dimani spero
che la sapremo.

— Ah! se mai fosse! esclamò cogli sguardi sfavillanti Maurilio, il quale
sentiva nel capo suscitarsi e tumultuare la follia di mille assurde
speranze.

— Sì, sì, sarà... sarà anche questo. Io confido nel Signore; e non è per
nulla di certo che la sua bontà ci ha messo sulla traccia ora soltanto,
dopo tanto tempo... Ma questo non è momento di parlare di ciò... nè di
ciò nè di altro, perchè la è l'ora dell'asciolvere, e siamo attesi
tuttedue.

Maurilio guardò Don Venanzio con aria esterrefatta. Questo asciolvere,
voleva egli domandare, si farà con tutta la famiglia? Era dunque giunto
il momento desiderato e temuto, felice e pur penoso, di comparire
innanzi egli all'amata fanciulla?

Il buon vecchio prete che nello sguardo e nella mossa del giovine vide
soltanto una maraviglia, credette rispondere a quest'essa spiegando come
andasse la cosa.

— Sì, continuò egli, ci siamo attesi tuttedue. Il marchese ha voluto ad
ogni patto che fin tanto che io rimango a Torino, venga a farti
compagnia... Se ti dico che con tutta la sua dignitosa fierezza è il
migliore dei bravi uomini! Ha capito che ciò farebbe un immenso piacere
a me e nel medesimo tempo gioverebbe a levar te di suggezione, ti
sarebbe d'aiuto nell'affarti all'ambiente della casa... Dunque poc'anzi
sono venuto, come egli me ne aveva detto, e discorso un poco insieme del
più e del meno, vennero ad annunziare che se S. E. voleva si sarebbe
servito in tavola per l'asciolvere. Il marchese mi disse: «Ella non ha
ancora visto la camera del sig. Nulla?» — «No, signor marchese:» io gli
risposi. «Ebbene se vuole andare a chiamarlo Ella medesima per
l'asciolvere, avrà tempo a dargli un buon giorno ed un abbraccio: e così
potrà interrogarlo se gli manca e se desideri alcuna cosa cui forse non
oserebbe domandare al mastro di casa.» Ve' che bontà!... Io accettai
l'incarico ed eccomi... Già son persuaso che non ti manca nulla.

— No certo.

— Dunque non c'è altro che discendere nella sala da pranzo.

— Andiamo: disse Maurilio il quale si sforzò a dominar la emozione che
nacque subitamente e vivissima in lui.

Ma al punto di varcare la soglia di quella stanza dovette fermarsi e
reggersi allo stipite, tanto il cuore gli batteva e glie ne tremavan le
gambe.

— Coraggio! gli disse Don Venanzio che credette questa soltanto emozione
di timidità; e' son tutti in fine uomini come siam noi, per quanti
titoli abbiano al proprio nome.

Maurilio si fece forza e discese in compagnia del parroco. Quando
entrarono nella sala da pranzo non c'erano ancora che due domestici in
piccola livrea, immobili come statue presso un'alta credenza di legno
d'ebano scolpita, nella quale brillavano nitidissimi cristalli,
porcellane ed argenti, e il servo di confidenza del marchese, in abito
nero e cravatta bianca, dritto dietro l'alta spalliera della seggiola su
cui soleva sedere il capocasa.

Non tardarono a sopraggiungere il marchese che dava il braccio alla
marchesa, e dietro essi Virginia. Maurilio sentì la presenza di lei, ma
non osò alzare il capo nè gli occhi a guardarla: se ciò avesse fatto,
avrebbe trovato così pallido il viso della fanciulla, così chiare in
esso le traccie della insonnia e d'una pena morale che ne sarebbe stato
più di commosso.

Don Venanzio fu amichevolmente salutato da tutti, anche dalla superba
marchesa; la sua qualità di sacerdote gli valeva siffatta distinzione
dalla fierezza aristocratica di quella donna, più per principio politico
che non per devota osservanza al sacro di lui carattere. Virginia con un
sorriso di tutta amorevolezza andò a porger la mano al vecchio prete
dicendogli parole piene di grazia e di dolcezza.

— Il signor Nulla, il nuovo segretario di cui vi ho parlato: disse il
marchese facendo un cenno colla mano per presentare Maurilio, che
s'inchinò, alla marchesa ed a Virginia. — Mia moglie e mia nipote:
soggiunse poi additandole a loro volta al giovane.

La marchesa aveva fatto un legger cenno colla testa pieno di superbia, e
certo avrebbe prestato più attenzione e regalato uno sguardo più cortese
ad un cagnolino che le fosse condotto dinanzi; Virginia aveva fatto un
piccol saluto sbadato nella evidente preoccupazione onde aveva presa
l'anima, e stava per voltar via la testa, senz'altro, quando i suoi
occhi cadendo sopra il volto dell'uomo che le veniva presentato, un
sovvenire ed un'idea sorsero di subito nella sua mente. Il suo sguardo
si fermò su quelle fattezze che le parve avesse già viste altre volte; e
da quegli occhi color del mare balenò una fiamma viva cui Maurilio,
benchè timido e vergognoso tenesse volti a terra gli sguardi impacciati
e la faccia arrossita, sentì arrivarlo, circondarlo, penetrarne entro il
cervello il calore. Sollevò allora le pupille ancor egli; lo sguardo
della fanciulla era come un'investigazione. «Dove vi ho io visto? pareva
domandare: chi siete? che cosa venite a far qui?» Negli occhi di lui
c'era tanta ammirazione, tanta devozione, tanta ardenza di affetto che
impossibile una donna nulla ne scorgesse; Virginia non vide, non sognò
nemmanco che ci fosse, che ci potesse essere dell'amore; scorse,
avvertì, sentì che in quel giovane timido e modesto avrebbe potuto avere
in un caso un aiuto; glie ne diede un tacito ringraziamento, e prese
quasi atto come d'una muta promessa con una mossa gentile e andò a
sedersi al solito suo luogo fra lo zio e la zia.

— E mio figlio? domandò il marchese nell'atto di spiegare il suo
tovagliolo.

— È uscito or ora, appena levato: rispose uno dei domestici: ed ha
lasciato detto che pel _déjeuner_ non sarebbe venuto.

Il marchesino, che contro il divieto del padre voleva battersi quel
giorno medesimo con Benda (e già sappiamo come il duello avesse luogo
alle tre di quel pomeriggio) aveva pensato miglior consiglio fuggire la
presenza del genitore.

Il padre e la madre di Ettore scambiarono un ratto sguardo in cui
c'erano un medesimo timore ed un medesimo sospetto; una nube passò sulla
fronte del marchese, il quale non fece altre osservazioni nè domande, e
di suo figlio non parlò più. Anche sul volto di Virginia apparve, ma
dominata e repressa tosto, una espressione di ansietà.

Durante la colazione si fu piuttosto silenziosi. Il marchese parlò
talvolta con Don Venanzio ed anche con Maurilio; ma poi, vedendo che
quest'ultimo aveva dal suo impiccio la maggior pena del mondo a
rispondere, lo lasciò tranquillo; la marchesa rivolse alcune fiate il
discorso al prete intorno ad argomenti indifferentissimi e ne ascoltò le
risposte come si ascoltano le cose di che non c'importa niente affatto;
Maurilio fu per lei come se non esistesse.

Al nostro giovane amico il tempo di quell'asciolvere parve lungo,
eterno, e insieme fuggito come un istante. Egli si trovava quasi di
fronte a Virginia. Avrebbe voluto guardarla sempre, bearsi nella desiata
contemplazione di quel volto leggiadro; e il timore d'incontrare lo
sguardo di lei, gli faceva tenere gli occhi fissi inchiodati sul tondo
che aveva dinanzi. Ma pure due o tre volte ardì sollevarli, e di nuovo
essi incontrarono quello sguardo scrutatore di lei; anzi ad un punto
parve al confuso giovane che un'espressione di lieta sorpresa, d'una
inesplicabile speranza fosse nell'occhieggiare dell'adorata fanciulla.
Ei si disse che ciò era impossibile, che questo era un inganno, che egli
non aveva da essere altro per lei fuori d'un estraneo indifferente,
ch'ella non poteva in lui ravvisare una conosciuta persona, a meno che
riconoscesse il miseruzzo di giovane di libraio che le recò un giorno
dei libri, e cui ella non aveva pur degnato d'uno sguardo, o il
vagabondo che s'era introdotto un dì nel parco della villeggiatura in
cui ella si trovava, e ch'essa medesima aveva visto punire e scacciare
come ladruncolo di frutta; ma questo riconoscimento egli aveva sperato e
tutto gli faceva credere non potrebbe avvenire, e non sarebbe per esso
che gli sguardi di lei avrebbero preso quella che gli pareva ombra
d'interesse e di favore. Era dunque una compiuta illusione la sua.

E invece la era una realtà. Virginia non aveva riconosciuto in Maurilio
il giovane di libraio, nè il creduto ladroncello del parco, sibbene
quell'individuo che poche sere prima, nell'occasione del ballo
dell'_Accademia filarmonica_, ella, nel vestibolo del palazzo dove aveva
luogo la festa, aveva veduto in compagnia di Francesco Benda. La nostra
memoria ha di queste stranezze: ella, senza che ce ne accorgiamo, riceve
delle impressioni e le alloga, per così dire, in qualche suo riposto
cantuccio, indipendentemente dal concorso della nostra volontà; ad un
dato momento, quando appunto ci diventa più utile il poterci servire di
quell'impressione, il trarre in campo il ricordo di quel fatto, di
quella circostanza, ella ce lo trae fuori per mettercelo dinanzi fresco,
preciso ed efficace.

Virginia, dopo la nuova provocazione avvenuta al ballo la sera prima fra
suo cugino Ettore e l'avvocato Benda, non s'illudeva punto sulle
conseguenze di quel fatto. Nell'insonnia onde aveva avute turbate le ore
di riposo che trammezzarono tra la partenza dal ballo e l'asciolvere,
ella posseduta da una indescrivibile ansietà, s'era con sommo dolore
convinta, che nulla poteva fare affine d'impedire uno scontro, ed aveva
dovuto limitarsi ad ardenti preghiere e ad invocare che almeno le fosse
concesso di sapere tosto e tutta la verità. Inviare a domandarne a casa
dei Benda per un domestico, e non osava, e temeva non le sarebbe
concesso per la sorveglianza della zia; altro modo di ottenere il suo
intento non sapeva immaginare. Al primo vedere il nuovo segretario dello
zio, un confuso sovvenire d'averlo già visto e una più confusa idea che
quell'uomo la potrebbe servire le nacquero in una. Quando il suo ricordo
chiaro e spiccato le ebbe posto innanzi la vicenda e il modo ne' quali
quel giovane era stato da lei incontrato, ella non dubitò più che un
pietoso riguardo della sorte glie l'avesse mandato pur farla soddisfatta
nel suo ansioso desiderio: la lo guardò coll'occhio benigno con cui si
guarda l'opportuno stromento della nostra salvezza: il povero Maurilio
dovette a codesto la infida gioia — invano voluta da lui medesimo
cacciare e soffocare — d'un momento di ventura ch'egli stesso dichiarava
impossibile: la ventura d'uno sguardo affettuoso!

Nel recarsi dalla stanza da pranzo al vicino salotto da prendervi il
caffè, Virginia seppe far così bene che rimase indietro da venire a
costa di Maurilio, il quale nel vedersela vicino, tremava verga a verga.

— Signore, diss'ella con quel coraggio che le dava l'amor suo e con
quella franchezza che le permetteva la superiorità della sua condizione
sociale sopra quella del giovane; mi pare che la non sia questa la prima
volta che noi c'incontriamo.

Il povero Maurilio impallidì ed arrossì in una. Ella aveva dunque notata
la presenza di lui? Ma dove, e come, e quando? Si accrebbe il tremore
de' suoi nervi e il palpito del suo cuore: siccome non poteva spiccicar
parola dalle labbra, e' si contentò d'inchinarsi in segno di rispettosa
affermazione.

La nobile fanciulla continuava:

— La ho veduta, se non erro, l'altra sera insieme coll'avvocato Benda.

Pronunziò essa quel nome senza la menoma esitazione, senza deviar lo
sguardo, senza punto arrossire, ma abbassando la voce così che il suono
di tal parola non potesse giungere a svegliare in alcun modo
l'attenzione dello zio e della zia che precedevano.

Ma a questi detti parve al misero Maurilio che una mano di gelo venisse
a serrargli il cuore che si dilatava ad accogliere sempre meglio quella
ineffabil gioia di assurda speranza. La nebbia rosata ond'era avvolto il
suo spirito si ruppe, e traverso la fatale illusione che cominciava a
dileguarsi, travide il principio d'una realtà dolorosa.

— Sì, sì signora, balbettò egli, osando pur finalmente guardarla nel
volto. Ero insieme a Benda, mentr'ella passava su per la scala
dell'Accademia Filarmonica.

La ragazza chinò gli occhi innanzi a lui.

— Ella è molto amico di quel signore?

— Signora sì.

Virginia non fu padrona di contenere la vivacità dell'interesse con cui
affrettatamente soggiunse la domanda:

— Ne sa Ella qualche notizia di lui da questa mattina?

— No: rispose Maurilio con tanto appena di voce da farsi sentire.

E la ragazza più frettolosamente e più infervorata di prima:

— Deve essersi battuto... con mio cugino. Sono ansiosissima di saper
novelle dello scontro prima di mia zia... Sarei molto riconoscente a chi
me ne recasse il più presto possibile.

S'era giunti al salotto. Virginia s'allontanò dal giovane senz'altro, e
non vide per fortuna la nuova espressione che avevano presa i lineamenti
di lui.

A Maurilio s'era svelata tutta la verità. Quella sera in cui primamente
gli era avvenuto di vedere insieme Francesco e Virginia aveva indovinato
che Benda amava ancor egli l'oggetto dell'amor suo; ora e' si faceva per
lui chiaro come la luce del giorno che ancor essa, Virginia, riamava
Francesco. Quell'odio che già aveva sentito per quest'ultimo e cui aveva
confidato a Giovanni Selva, assalì con nuova vampa e con nuovo impeto
l'anima di Maurilio: desiderò ogni danno al suo fortunato rivale, non
inorridì, a tutta prima, allo scellerato pensiero, il quale si faceva
per lui una infame speranza: che cioè quel duello di cui le aveva fatto
cenno Virginia medesima, potesse, forse in quel momento medesimo,
togliere di mezzo quel fortunato per cui s'era aperto il cuore della
donna ch'esso era condannato ad amare inutilmente. Ma non tardò ad aver
vergogna e rabbia e disprezzo di se medesimo: aspettò poterlo fare senza
violare nessuna convenienza, e come il marchese gli ebbe detto che per
allora non abbisognava dell'opera sua, Maurilio corse a rinchiudersi
nella sua stanza, rifiutando anche la compagnia di Don Venanzio,
bisognoso come era d'esser solo e di affondarsi nel turbatissimo caos
de' suoi pensieri. Si gettò boccone sul letto e cacciandosi le mani
contratte entro le chiome arruffate, stette colà immobile a sentire,
quasi come si fa per una voluttà, l'interno spasimo che lo travagliava.
Che cosa era venuto a far egli in quella casa? tornava a domandare a se
stesso: non era meglio morir anzi mille volte di fame che venire a farsi
corrodere il cuore da simili angoscie? Qual delirio lo aveva preso, qual
odio di se medesimo quando aveva consentito a entrare in quella
famiglia? Come era mutato ora l'aspetto d'ogni cosa! Poc'anzi gli pareva
che fosse quello il fine delle triste venture, adesso invece sentiva
essere il cominciamento di nuovi e forse ancor più aspri dolori.

Le poche parole dettegli da Virginia seguitavano a suonargli nella
mente, come se un'eco incessante fosse lì a ripetergliele. Ella
evidentemente sperava in lui, ci aveva contato su per sapere tosto
quelle nuove di cui aveva schiettamente confessato essere ansiosa: e
perchè mancherebbe egli alla fiducia che in lui aveva ella riposta? Se
alcuno gli avesse detto un tempo: — «Tu puoi risparmiare un minuto di
dolore a quella che ami:» non avrebb'egli lietamente offerto se stesso
ad ogni tormento per quest'effetto: ed ora?...

Si levò di sopra il letto con nuova risoluzione; uscì della sua stanza,
scese precipitoso le scale del palazzo e prese correndo la strada per
alla dimora di Francesco Benda.

Mentre Maurilio recavasi a casa dei Benda, nel palazzo del marchese di
Baldissero avveniva una scena che non è inutile conoscere per la
prosecuzione del nostro racconto.

Presentavasi nell'anticamera una sordida vecchia che, invocando il nome
di Dio, della Madonna e di tutti i santi, protestava avere gravissime
cose da comunicare a S. E. il marchese, proprio a lui in persona, ed
insisteva perchè andassero a dirglielo affine di esserne ricevuta. I
lacchè, ai quali questa donna era già ben conosciuta, la ricevettero con
tutto il superbo disprezzo di cui questi valorosi sono capaci verso la
povera gente, e per quanto ella non iscoraggiata ed audace instasse, non
acconsentirono a darle retta.

— Oh sentite, _Gattona_, finirono per dirle, smettetela chè omai ci
avete fradici, e sono tutte inutili le vostre parole. Il marchese ha
ordinato, espressamente ordinato, capite, di mandarvi ai cento mila
diavoli ogni quel volta vi presentiate, ch'egli, per cantarvela in
musica, non vuol più avervi tra' piedi in nessun modo. Se gli è per
ispillargli qualche soccorso, venite nei giorni e nelle ore solite,
quando fa distribuire elemosine dal suo segretario, che al vostro turno
alcuna cosa vi potrete buscare, altrimenti, a star qui ed insistere, voi
seccate inutilmente noi, e ci perdete il vostro tempo.

La _Gattona_ pensò che, parlando al segretario, un'autorità superiore
nella schiera dei dipendenti dal marchese, avrebbe forse avuta maggior
probabilità di fare arrivare sino all'orecchio di S. E. l'ambasciata che
voleva, e per cui ella era persuasa di essere dal marchese ricevuta.
Domandò adunque di potere almanco vedere questo sor segretario; e n'ebbe
in risposta che egli era uscito, e che non sapevasi dirle l'ora nella
quale avrebbe potuto vederlo di quella giornata, perchè era nuovo
affatto in ufficio, entratovi soltanto quella mattina medesima, e non
aveva ancora assunto regolare servizio.

La _Gattona_ si partì finalmente, e borbottando fra sè come persona che
ha gravi preoccupazioni pel capo ed è più incerta che mai del partito
cui prendere, s'avviò verso la sporca viuzza dove ci aveva la dimora.
Sotto le volte che dalla strada di Dora Grossa mettono nella piazza del
Palazzo municipale trovò essa _Gognino_, il quale, abbandonata in un
angolo la sua cassetta dai fiammiferi, faceva chiasso con altri
sbarazzini della sua risma, tirando addosso a sè ed anco alla gente che
passava pallottole di neve. _Gognino_ vide bensì ad un punto la nonna
che veniva, e corse alla sua cassetta; ma era troppo tardi, l'occhio
grifagno della vecchia lo aveva colto in _flagranti_; e di più, come se
ciò non bastasse ad irritare la già indispettita, maligna femmina, ecco
una di quelle palle di neve tirata dalla mano d'uno fra i compagni del
nipote, venirla a colpire nella cuffia, mandargliela per traverso e
scomporle tutto il poco elegante edifizio della sua capigliatura grigia
ed arruffata.

La _Gattona_ piombò sopra il nipote, proprio come uno di quegli animali
che avevano avuto l'onore di darle il nomignolo sopra un povero topo, lo
ghermì e fece le vendette della sua autorità sconosciuta, dei suoi
comandi disubbiditi, della sua cuffia oltraggiata, della sua dignità
offesa dalle sghignazzate dei biricchini sulle orecchie di _Gognino_,
cui tirò senza misericordia, non ostante gli strilli del povero ragazzo.

Ma l'incontro di _Gognino_ le fece pure venire in mente una buona idea.
Quell'uomo cui la sorte le aveva condotto innanzi così inaspettatamente
poche sere prima, ed al quale ora ella credeva essere in grado di
rendere un nome ed una famiglia, e studiava appunto di far ciò nel modo
che più le fruttasse; quell'uomo avevale promesso dieci soldi al giorno
a patto gli conducesse il nipote ad imparare da lui lettura e scrittura.
Ora di quel giorno ella aveva trascurato di menargli il bambino e di
esigerne le promesse monete; e non ci vedeva nessuna buona ragione di
perdere quel tanto. Amministrata adunque la severa correzione alle
orecchie di _Gognino_, la vecchia lo prese ad un braccio, se con buona
grazia ve lo lascio pensare, e fattogli deporre la cassetta di
fiammiferi sotto il banco d'una rivendugliola sua comare, lo trasse con
sè verso la casa dove dimorava il pittore Vanardi coi suoi amici.

Salita su fino all'alto quarto piano ed entrata in quel quartiere che
ben conosciamo, la _Gattona_ ci trovò sola sora Rosina la moglie del
pittore, la miglior donna del mondo, come sappiamo, ma non delle meno
ciarliere. In breve la vecchia che cercava di Maurilio, ebbe appreso
tutte le novità che lo riguardavano; e la venuta del vecchio prete di
campagna, e l'intromettersi di quest'esso per trovare a Maurilio un
impiego, e l'avergli trovato il posto di segretario presso il marchese
di Baldissero, e l'essere già Maurilio fin da quella mattina allogato in
tal qualità da quella famiglia.

All'udire siffatta novella, la _Gattona_ parve cadesse dal quarto cielo,
tanto rimase sbalordita dalla meraviglia. Maurilio in casa dei
Baldissero! Se lo fece ripetere parecchie volte, come se la fosse cosa a
cui non potesse prestar fede così di piano; ed alla fine, levando le
scarne mani verso il cielo, esclamò con un'espressione che faceva
pensare a chi sa qual mistero la volesse adombrare:

— Oh Provvidenza! oh Provvidenza!

Sora Rosina non mancò al suo dovere di curiosa stuzzicando con varie
domande la vecchia popolana a parlare; ma la _Gattona_, cosa d'ogni
altra più meravigliosa, si rinchiuse nella discrezione d'un assoluto
silenzio, da cui fu impossibile farla uscire; anzi troncò senz'altro il
colloquio e se ne andò frettolosa dicendo che avrebbe cercato del signor
Nulla nel palazzo del marchese: ma non fu colà ch'ella diresse i suoi
passi, bensì al convento dei Gesuiti presso la chiesa del Carmine, dove
domandò di padre Bonaventura, e dove, non essendoci egli, si fermò fino
a tanto che rientrasse, cosa che non avvenne fino al cader del giorno.

Fra il frate gesuita e la pitocca venditrice d'abitini ebbe luogo un
altro segreto colloquio lungo ed animato, che si conchiuse colla
risoluzione, il frate medesimo avrebbe parlato al marchese ed avrebbe da
lui ottenuta udienza a Modestina Luponi chiamata la _Gattona_.

Ma di quel giorno fu impossibile a chicchessia vedere il marchese di
Baldissero, perchè gli avvenimenti capitati presero al vecchio
gentiluomo tutto il tempo, e quando, compito quello che credette il
debito suo, si ridusse in casa, non volle che nessuno più di estranei,
qualunque si fosse, venisse introdotto presso di lui.

Ecco intanto quel che era capitato.

Verso le quattro Ettore di Baldissero rientrava nel palazzo paterno.
Virginia, che stava ansiosamente attendendo ed a cui niuna nuova da
nessuna parte era ancora pervenuta, appena udì rientrato il cugino,
senza badare a verun'altra considerazione più, ma mossa soltanto
dall'impulso della sua ansietà, fece pregare Ettore di passare tosto da
lei. Il marchesino era troppo galante per tardare ad obbedire a un simil
cenno della sua bella cugina.

La ragazza gli venne incontro fin verso la soglia, che Ettore aveva
appena varcata; e guardandolo fiso in mezzo agli occhi come chi vuol
leggere altrui nell'animo, gli disse con tono di asseveranza come se già
sapesse tutto:

— Tu ti sei battuto quest'oggi coll'avvocato Benda.

Fra le tante cose meno degne d'un gentiluomo che Ettore di Baldissero
aveva imparate pur troppo, non c'era almanco quella di saper mentire.
Chinò il capo in segno affermativo.

Virginia continuava con aspetto pieno di coraggio, benchè fosse pallida
ed avesse alquanto affannoso il rifiato:

— Un duello quale deve aver avuto luogo fra voi non si conchiude senza
morte o ferita di alcuna delle parti. Tu sei compiutamente illeso.....

— Ti rincresce? interruppe con un sogghigno pieno di malignità il
marchesino.

La giovane parve non badar neppure alla interruzione.

— È dunque l'avvocato Benda che rimase colpito.

— Tu la ragioni meravigliosamente giusto: rispose Ettore colla medesima
ironia.

Virginia impallidì ancora di più e le sue palpebre tremarono un pochino;
fu il solo segno di debolezza che apparisse in lei.

— Morto? domandò ella con voce più sommessa.

— No.

— Ah! — Ella fece una breve pausa e mandò più grosso il respiro. — La
ferita è grave?

— Non è delle più leggiere: rispose con serietà il marchesino, che a
questo punto non ebbe il coraggio più di essere ironico nè impertinente:
ma la spero neppure delle più gravi.

Virginia tornò ad affondare i suoi occhi più brillanti che mai negli
occhi del cugino, e domandò con una franchezza che svelava in una la
forza e la nobiltà del suo amore:

— Vivrà?

— Spero di sì: rispose il marchesino.

Il colloquio fra i due cugini non aveva più ragione di continuare:
stettero un istante l'uno in faccia dell'altra, senza saper più che cosa
dirsi, finchè egli, tornando a far sentire nel suo accento quel tanto
d'ironia, ruppe il silenzio:

— Mi pare che tu non abbia più nulla da dirmi, Virginia?

Ella scosse la segno negativo la testa. Ettore si inchinò leggermente ed
uscì con aria disinvolta e quasi ilare, ma con un vivissimo dispetto in
cuore. Non gli rimaneva più dubbio alcuno sull'amore di sua cugina per
quel borghesuccio, ed egli, colla ferita che a quest'ultimo aveva
procacciata, non aveva fatto altro che renderlo più interessante.

Appena sola, Virginia chiamò a sè la sua cameriera.

— Fa di sapere, dissele, se il segretario di mio zio è rientrato; e se
sì, digli che venga a parlarmi.

La cameriera guardò stupita la padroncina.

— Va e fa come ti dico.

Aveva un aspetto di tal risoluzione e di comando, mai più visto in lei,
che la fante si mosse ad obbedire senza fare pure una di quelle
osservazioni che le erano venute in folla sulla punta della lingua.

Ettore, rientrato nelle sue stanze, trovò il domestico che gli trasmise
l'ordine del marchese di presentarsi subito innanzi a lui.

— Andiamo da mio padre: disse il giovane fra i denti con un soffocato
sospiro che manifestava la malavoglia e il disagio ispiratigli da questo
abboccamento.

E ci fu sollecito. Alle interrogazioni del padre egli rispose con
franchezza tutta la verità.

— Voi avete disobbedito in una al vostro genitore ed al vostro re; gli
disse con severissimo accento il marchese. Nè l'uno nè l'altro non vi
possono così agevolmente perdonare: mi recherò da S. M. ad intendere
quale punizione voglia infliggere alla vostra pervicacia. Voi
aspetterete in casa il mio ritorno.

Il figliuolo s'inchinò in atto di rassegnazione, e il marchese si recò
senza indugio a Corte per riferirne al re. Mezz'ora dopo egli rientrava
coll'ordine reale: Ettore di Baldissero si recasse incontanente agli
arresti in cittadella.

Ma entrando nella vasta sala dell'anticamera, il marchese s'incontrava
colla nipote che, apparecchiata per uscire, s'avviava in compagnia della
cameriera verso lo scalone. Era già scuro per le strade della città.

— Dove vai, Virginia, a quest'ora? le domandò.

Ella si confuse, arrossì, balbettò, ed insistendo lo zio nella
richiesta, rispose:

— Vado a consolare una mia amica e compagna di collegio a cui è capitata
una grande sventura.

— Chi?

Virginia si confuse e arrossì vieppiù.

— Chi? ripetè il marchese osservando attentamente la ragazza.

— Maria Benda.

— La sorella dell'avvocato?

— Sì.

— Ah! — Stette un istante guardando la nipote con fissità osservatrice,
ma non ostile, nè severa; — questa grande amicizia è nata da ben poco
tempo, che prima d'ora mai non vi fu fra voi attinenza di sorta.

Virginia chinò il capo e non disse parola. Lo zio la prese per mano con
un'autorevolezza piena di affettuoso interessamento.

— Vieni, vieni meco, Virginia, soggiunse. Conviene che ci parliamo noi
due. — Andate ai fatti vostri, voi: disse alla fante, e trasse con sè la
nipote in quel suo studiolo in cui siamo già penetrati parecchie volte.

Maurilio, più veniva accostandosi alla casa di Francesco e più sentiva
in cuor suo diminuire quel tristo sentimento d'odio che gli era sorto
verso l'amico. Anzi la riazione che avveniva nella sua natura
fondatamente buona, lo faceva a poco a poco ancora più sollecito,
ansioso e dolente del pensiero che a Benda avesse potuto accadere
disgrazia. Ciò lo mosse ad affrettare il passo così che giunse al
portone della casa, quasi correndo. Entrò egli nel casotto del portinaio
e interrogò Bastiano che stava seduto con un gran braciere in mezzo alle
gambe, fumando la sua pipa.

Apprese che Francesco non era ancora rientrato, e che in famiglia non si
aveva sospetto nessuno del pericolo del giovane. Si fermò alquanto nel
camerino del portinaio ad aspettare, poi non potendo più stare alle
mosse, uscì ed andò a scalpitare con impazienza la neve dei viali.
Avrebbe voluto camminare incontro alla novella per apprenderla più
presto, ma non sapeva da qual parte Francesco e i suoi compagni fossero
per giungere; pensava all'ansietà che, maggiore certo della sua, provava
a quel medesimo tempo Virginia, e in parte se ne arrabbiava con invida
gelosia, in parte se ne accorava come quegli che a lei avrebbe voluto
risparmiare ogni affanno.

E intanto il giorno se ne andava e in quell'annuvolato aere scendeva
assai presto il primo scuriccio della sera. Maurilio, intirizzito ornai
dalla brezza invernale che spirava gagliarda, vide finalmente una
carrozza che veniva a quella volta al trotto serrato d'un cavallo di
prezzo. Questa carrozza si fermò innanzi al portone, un giovane signore
ne discese frettoloso con aria visibilmente preoccupata ed entrò nella
casa. Maurilio indovinò che con quel signore era giunta la novella, e
dal volto del messaggiero capì che la non era lieta. Era diffatti il
conte San-Luca che veniva a preparare la famiglia alla luttuosa vista
del figliuolo ferito. Il sangue diede un rimescolo al nostro giovane;
avrebbe voluto entrare colà e domandarne, e non osò; vide il conte venir
fuori della casa, la faccia ancora più conturbata di prima, salir nel
legnetto e questo ripartire, senza ch'egli avesse la risoluzione di
spiccarsi dal luogo, di fare checchessiasi.

E di qual misura era la disgrazia che ormai non dubitava più fosse
capitata a Francesco? Stette lì ad aspettare ancora senza sapere al
giusto che cosa. Mezz'ora dopo giungeva a lento passo la carrozza che
portava il ferito. Nelle tenebre della sera, Maurilio si cacciò innanzi
di guisa da scorgere il meglio possibile, s'appiattò dietro il tronco di
un albero là dove la carrozza doveva voltare per entrar nel portone, e
mentre questa gli passava a un metro appena di distanza, gettò in essa
avidamente lo sguardo. Travide la faccia pallida di Francesco appoggiata
alla spalla di Giovanni Selva; negli occhi sbarrati del ferito che
fissavano la casa paterna, scorse l'ansia ed il dolore fisico e morale.
Maurilio non fu visto da nessuno; e' si ritrasse indietro quasi con
ispavento e con orrore di sè medesimo. L'empio desiderio che
nell'accesso del suo geloso furore aveva poco prima formolato, gli tornò
in memoria come un rimorso, e gli parve poco meno che d'esser egli
eziandio colpevole di quel sangue.

Dal suo nascondiglio vide sotto il portone, di cui Bastiano aveva
spalancato le imposte, le dolorose accoglienze cui padre, madre e
sorella facevano al povero ferito, che con riguardosa cura fu tratto
fuor di carrozza e condotto al piano superiore; vide traverso i vetri
delle finestre dell'abitazione il correre di qua e di là di lumi per
l'affaccendarsi a provvedere le cose occorrenti al misero giovane;
voleva entrare e domandarne e non osò: sperava che uno di quelli che
accompagnavano Francesco uscisse ed egli potesse da lui informarsi e
nessuno veniva. Finalmente il pensiero di Virginia, la quale stava
sempre attendendo, che in lui s'era affidata, ed alla cui fiducia non
voleva fallire, lo decise; entrò, chiese di Selva, lo ebbe a sè, apprese
come stessero le cose, e addoloratissimo prese correndo la via del
ritorno al palazzo Baldissero.

Virginia aveva giustamente mandato in cerca di lui. Maurilio le comparve
innanzi ancora tutto affannato della sua corsa.

— So che il suo amico è stato ferito, le diss'ella con una specie di
brusca vivacità che era irrequietezza dell'animo commosso e sgomento; ma
se e quanto sia pericoloso il suo stato, lo ignoro. Può Ella apprendermi
il vero?

Maurilio mestamente le ripetè quanto a lui medesimo aveva detto poc'anzi
Giovanni.

La ragazza lo ascoltò fredda, immota, si sarebbe detto quasi
indifferente. Quand'egli ebbe finito, essa fece un moto della testa che
significava insieme ringraziamento e congedo, e disse semplicemente, ma
la sua voce tremava un pochino:

— La ringrazio.

Il giovane uscì, e Virginia abbigliatasi e comandato alla fante si
abbigliasse per accompagnarla, voleva accorrere presso di Francesco a
vederlo, confortarlo, apprendere co' suoi occhi medesimi la fatal
verità.

— S'egli morisse, pensava, ed io non potessi manco più dargli un addio!

Era per uscire, come vedemmo, quando s'incontrò collo zio che ne la
impedì, conducendola seco nello studiolo.

— Aspettami qui un istante, le disse: devo dare pochi ordini e poi sono
da te.

Ebbe a sè il figliuolo, e comunicatogli la sovrana decisione, comandò
che immediatamente si recasse nella cittadella, dove già erano trasmessi
gli ordini opportuni per riceverlo. Ettore non rispose una parola:
s'inchinò e fu sollecito a recarsi in fortezza. Eravi diffatti già
aspettato, ed a lui — vedete gioco del caso! — toccò appunto quella
camera nella quale due giorni prima era stato rinchiuso come prigioniero
politico il suo rivale ed avversario Francesco Benda.

— Virginia: cominciò così a parlare alla nipote il marchese di
Baldissero, poichè fu rientrato nello studiolo, dove la ragazza stava
attendendolo. Hai tu confidenza in me? Ti pare che io la meriti intiera
e compiuta la tua fiducia?

La giovane stava dritta presso il camino e guardava fisamente la fiamma
che volteggiava sulle legna nel focolare. Anche sulle sue guancie,
precisamente come una fiamma, andava e veniva a volta a volta una vampa
di rossore, un'onda di sangue che coloriva la sua pallidezza un istante,
e spariva. Ella era levatasi dalle spalle il mantello e gettatolo
comecchessiasi sopra una seggiola, s'era tolto del paro il cappellino e
lanciatolo a quel modo. Le sue chiome abbondanti color d'oro, coi ricci
cascanti sul niveo collo chinato, splendevano alla luce della lampada
che era stata accesa sulla caminiera. Al di sopra della lampada pareva
chinarsi sopra di lei il grande crocifisso d'avorio dalle braccia tese,
e il riflesso rosato del lume dava a quel volto mite e sofferente
scolpito dall'artista un'espressione che sembrava pietà.

Alle parole dello zio, Virginia alzò il capo reclinato, e guardando con
franchezza e intenerimento insieme la bella figura del vecchio
gentiluomo, rispose con voce vibrante d'emozione:

— Oh zio! Ella è l'unica persona al mondo in cui io possa aver fiducia e
debba. E non vi ha alcuno che più la meriti di Lei.

Il marchese le pigliò una mano.

— Io ho fatto sinora tutto il mio possibile, perchè meno aspra e funesta
ti fosse la tremenda sciagura a cui ti volle condannare il Signore:
quella di non aver più nè padre, nè madre.

Virginia alzò gli occhi al soffitto, come se volesse lanciare uno
sguardo fino al cielo a cercarvi cari perduti.

— Mia madre! esclamò essa coll'affetto di chi invoca in supremo bisogno
un aiuto. Baldissero lasciò andare la mano della nipote, si passò la
propria destra sulla fronte, e continuò con accento più sordo:

— Tua madre io l'ho amata cotanto!.... Eppure!....

S'interruppe come chi ha pronunziata parola che non doveva, e s'affrettò
a riprendere:

— Ella aveva ogni fiducia in me... fin ch'io rimasi al suo fianco....
Ah! s'io non mi fossi allontanato, i miei consigli, il mio amore le
avrebbero risparmiato indicibili affanni. Or bene, Virginia, in nome di
tua madre medesima io ti prego a non voler mai tener celato a me quello
di cui ti sentiresti obbligo di rendere istrutta tua madre.

Virginia tornò a chinare la testa in aria più perplessa che confusa.

— Ed ora, continuava lo zio, mettendo nelle sue parole maggiore caldezza
d'affetto: ora se tua madre fosse qui, non avresti tu nulla da
confidarle?

La ragazza parve il sul punto di parlare; poi si rattenne; mandò
un'esclamazione e volse in là il viso arrossito.

— Tu hai dunque un segreto? seguitava il marchese coll'accento il più
paterno: e questo segreto la tua determinazione di poc'anzi abbastanza
lo rivela. Che cosa c'è di comune fra te e quel signore?

Virginia sollevò di nuovo la faccia con un'espressione piena di
coraggio: guardò fermamente lo zio e disse colla franchezza d'una
purissima coscienza e d'un nobile sentimento:

— Ci amiamo! Egli me lo svelò, io non glie lo nascosi.

— Sventurata! esclamò il marchese con accento in cui non c'era collera
ma piuttosto dolore. E che speri tu?

— Nulla.... Glie lo dissi.... Egli, forse appunto per disperazione di
ciò, volle morire.... Non debbo io prima che scenda nella tomba
consolarlo d'un addio?

Negli occhi le spuntarono due lagrime, ma la voce e l'aspetto non
manifestarono la menoma debolezza.

— Sventurata! Sventurata! ripetè lo zio. È dunque destino che anche
tu?...

S'interruppe di nuovo; parve recarsi sopra sè, e per un istante regnò in
quel salotto il più assoluto silenzio. Virginia guardava lo zio con una
specie di curiosa ansietà che le parole e i contegni di lui le
suscitavano. Dopo un poco egli soggiunse:

— Tu sai che nella vita di tua madre fu un gran dolore, ma quale esso
sia stato ignori tuttavia. Fu desiderio di quella povera donna che tu
l'apprendessi un giorno, e me lasciò giudice del momento opportuno. Oh
forse ho avuto torto a indugiare cotanto: e il racconto delle sciagure
di lei avrebbe potuto servirti d'ammaestramento! Ma così mal volentieri,
e ne intenderai il perchè, accosto quel discorso!... Ora però non debbo
più nulla tacerti. Siedi costì, Virginia, ed ascoltami. Udrai finalmente
la storia di tua madre.

Virginia mandò un gridolino di desiderio, di soddisfazione insieme e di
preghiera e di ringraziamento.

— Ah sì! esclamò giungendo le mani: ch'io l'oda finalmente!

Il marchese si raccolse, e cominciò poscia a narrare coll'accento di chi
esponendo le più dolorose vicende della sua vita, sente riaprirsi le mal
rimarginate piaghe del cuore.

Ma poichè non tutte le circostanze di quel funesto avvenimento poteva
egli e doveva raccontare alla nipote, noi esporremo da parte nostra in
termini più compiuti quel dramma, come già può essere narrato, senza
pregiudicar l'interesse dei fatti avvenire, al punto in cui si trova lo
svolgimento del nostro racconto.



CAPITOLO II.


Si era verso la fine dell'anno 1820. Che si avesse a vedere qualche
novità in Piemonte molti dicevano, parecchi speravano, pochi affatto
credevano. Carlo Alberto principe di Carignano continuava ad essere il
centro di quel movimento liberale che aveva preso proporzioni abbastanza
considerevoli nell'aristocrazia piemontese, la quale aveva sognato un
momento poter giungere a sostenere presso la monarchia sabauda e presso
il popolo subalpino quella parte moderativa e di dominatrice influenza
che da secoli è tenuta dalla nobiltà del sangue, del merito e del denaro
nell'isola inglese. S'era visto i medesimi Borboni di Francia accettare
una costituzione; perchè non l'avrebbero accettata anco i Savoia? Alcuni
spiriti aristocratici, mossi senza saperlo dalla forza impellente del
progresso, vagheggiavano la distinzione e l'autorità di una _parìa_
ereditaria nella loro famiglia colla guarentigia d'una libera tribuna.
Credevano con questo modo risuscitare sotto forme novelle contro il
trono, il feudalismo schiacciato dalla monarchia assoluta, e non
s'accorgevano che aprivano la strada ad un più forte, nuovo, invasore
potere, quello della libertà che non poteva a meno di far capo alla
sovranità popolare. Ma ciò scorgevano bensì alcuni dei più generosi e
dei più ardenti patrioti; i quali, oltre alle libertà interne miravano
ancora ad un altro sacrosanto scopo; quello dell'indipendenza della
comune patria dallo straniero.

La costituzione in Piemonte, speravano, sapevano, volevano che fosse la
guerra all'Austria; guerra che non si aveva da conchiudere se non colla
cacciata degl'imperiali al di là delle Alpi, ed ardenti giovani
ufficiali, anche di aristocratico sangue, affrettavano coi voti e
volevano affrettare coll'opera questo grandissimo fatto. Santorre
Santarosa, nobile recente, ingegno non comune, degno d'andare fra i
primi in qualunque tempo e presso qualunque popolo per cuore e per forza
di volontà; Santorre Santarosa sapeva e voleva precisamente lo scopo
necessario, legittimo, ultimo di quell'agitazione liberalesca, e
spingeva verso di esso con ogni suo potere.

Ma i più dei nobili ritornati, colla ristaurazione dei Principi, a
riprendere i loro privilegi, le loro cariche, le loro ricchezze,
l'autorità, non capivano come fra i proprii compagni di casta ci fossero
dei matti che, per una, secondo essi, poco illuminata ambizione,
cercassero di cambiare ciò che era il meglio nella migliore delle
monarchie assolute aristocratico-militari, e volessero porre a
repentaglio i vantaggi attualmente posseduti per diritti e politiche
guarentigie, di cui si poteva benissimo fare senza. Codestoro
avversavano accanitamente cotali novatori; e tra essi era de' più accesi
il vecchio marchese di Baldissero, padre di quello che abbiam conosciuto
per capo della famiglia al tempo del nostro racconto. Egli era stato uno
dei più fieri odiatori della rivoluzione di Francia, dell'impero e di
Napoleone; ed odiava ogni novità, come un fanatico inquisitore sapeva
odiare le eresie; aveva seguito il suo re in Sardegna, aveva trovato
crudelissimo quell'esilio e ne aveva accresciuto il rancore ai
_giacobini_ (sotto il qual nome egli comprendeva tutti quanti non la
pensassero esattamente come lui nella strettezza delle sue idee
cattoliche, monarchiche, assolutiste); tornato nel continente con
Vittorio Emanuele, era stato uno dei più caldi ed insistenti a dare
quello sciocco, funestissimo consiglio che fu pur troppo messo in
pratica, di ritenere come non avvenuti gli anni d'interruzione nel regno
di Casa Savoia, di cancellare con un frego tutta la storia della
dominazione repubblicana ed imperiale, e distrutta ogni innovazione,
riprendere e rifare le cose come si trovavano a quel medesimo punto in
cui il Re dovette fuggire innanzi allo spirito rivoluzionario
rappresentato dalle baionette francesi. Ogni progresso legislativo,
politico, sociale, civile fu tolto di mezzo: si volle rievocare la
società del secolo scorso morta e sotterrata: e l'ultimo _Palmaverde_
(annuario di Corte e degl'impieghi) fu preso per norma di distribuzione
delle cariche di cui si spogliarono i titolari per rivestirne gli
antichi, e se morti, i figli loro.

Codesto intrattabile ed accanitissimo nemico di ogni liberalismo odiava
più ancora degli altri quei nobili che accennavano piegare alle idee
moderne. A lui parevano codestoro come apostati e traditori; onde
immaginatevi voi quali non dovessero essere il suo dispiacere e la sua
collera, quando gli parve scorgere che suo figlio, il suo unico figlio
medesimo si intingesse di questa pece.

Era da parecchi mesi a Torino un giovane signor milanese: Maurilio
Valpetrosa. Era bello, geniale, elegante, pieno di brio e di
piacevolezza nella parola, di grazia e di avvenenza nei modi, di buon
gusto nel vestire e in ogni diportamento; ardito e destro ad ogni
esercizio corporeo, cavalcare, schermeggiare, al nuoto, alla danza, al
pallamaglio, allora di moda; generosissimo nello spendere; non inferiore
a nessuno, facilmente superiore ai più in ogni cosa onde possa comporsi
eletta educazione signorile, Venuto nella capitale del Piemonte con
autorevoli ed efficaci commendatizie era stato fin dalle prime
intromesso nella più scelta e titolata società e non aveva tardato a
diventare assiduo frequentatore di quel gruppo di giovani ufficiali,
letterati ed artisti che si raccoglievano nel palazzo Carignano intorno
al giovane principe che doveva fare ammenda del fallo al Trocadero.

L'aristocrazia torinese, difficilissima e assai cauta in quel tempo ad
ammetter ne' suoi salotti in condizioni di famigliarità e d'uguaglianza
chi fra i suoi concittadini non contasse il numero voluto dei _quarti_,
era assai più larga e benigna verso i forestieri; e quando uno venuto di
fuori avesse maniere acconcie, ricchezze all'avvenante, lo accettava
come invitato alle sue feste, e visitatore nelle sue conversazioni,
senza domandargli di più. Codesto non poteva aver tratto di conseguenza;
il forestiero sarebbe partito, recando seco la memoria della forbitezza
di quella società, che quando voleva, sapeva essere veramente squisita,
ed ecco tutto.

Maurilio Valpetrosa venne accolto di questo modo e per queste ragioni. I
denari gli colavano di mano come ad un milionario, aveva una figura da
principe di _conte de fées_, nel suo nome c'era anche un certo profumo,
direi quasi, d'aristocrazia, un titolo non disdiceva nè stonava con
quella sonora riunione di lettere d'alfabeto; s'avvezzarono a chiamarlo
di Valpetrosa, e gli uomini per mangiare le sue cene, fumare i suoi
sigari, averlo allegro compagno nelle loro pazzie, le donne per
sorridere alla maschia di lui bellezza, per lasciarsi incantare dalle
seduttrici parole dette con ispirito dalla sua voce insinuante, non gli
domandarono se potesse provare che i suoi maggiori erano stati alle
crociate.

Con costui il padre di Ettore Baldissero aveva stretto una più intima
attinenza, che quasi poteva dirsi amicizia. Si erano conosciuti
precisamente nelle sale del Palazzo Carignano, e dapprincipio e per
alcuni mesi fra di loro non fu altra attinenza che quella di persone
ammodo fra cui non v'è ragione alcuna di intrinsichezza. Ma ad un tratto
il giovane milanese si pose con tanta insistenza e con tanta gentilezza
a voler acquistare l'affetto e la confidenza del marchese di Baldissero
che impossibile resistergli. E' diventarono gli Oreste e Pilade di
quella nobile società torinese, e i maligni non tardarono a scoprire e
susurrare la causa di questo premuroso zelo d'amicizia nell'elegante e
leggiadro forestiero, quella cioè di accostarsi così vieppiù alla
signorina Aurora di Baldissero, della quale cupidamente bramasse la
beltà eccezionale e la dote vistosamente ricca.

Per quest'ultima parte si calunniava quel giovane, il quale in realtà
era una delle più generose e valenti anime d'uomo che esser possano; ma
quanto all'affetto che in lui avevano acceso la beltà, le grazie,
l'ingegno della nobile fanciulla ch'egli aveva avuto campo di conoscere
e di apprezzare in molti di quei salotti a cui era ammesso; quanto
all'amore che egli ad Aurora aveva consecrato, caldo, insuperabile,
eterno, tutto quello che diceva la gente, e parevano già cose esagerate,
era un nulla appetto al vero.

Valpetrosa amò Aurora con tutto l'impeto di quella sua natura vivace ed
ardentissima; l'amò di quell'amore che, come si esprime Dante: «a nullo
amato amar perdona,» di quell'amore così assoluto, così vasto, così
dominante che di esso non può a meno qualunque donna che assuperbirsi; e
la natura gli aveva concesso, oltre il valore dell'interno, anche quei
fisici pregi esteriori per cui cotale affetto si può a meraviglia
esprimere, eloquentemente significare e con efficacia comunicare. Egli
non aveva ancora parlato alla fanciulla che delle più indifferenti cose
onde si possa occupare il discorso di due che conversino colle stampite
delle cerimonie, e già la giovane sapeva d'essere amata con infinito
ardore, e già quel leggiadro garzone amava ancor essa, senza averlo
voluto, come spintavi da una forza superiore.

Il male si fu che di codesto ebbero ben presto ad accorgersene, come
dissi, anche gli altri. Gli uomini non erano disposti a perdonare che
questo intruso venisse loro a portar via il cuore della più bella
fanciulla del loro ceto e della città; le donne perdonavano anche meno,
che l'adorato loro vincitore abbandonasse il campo della galanteria,
dove si piacevano assai affrontare le audaci di lui aggressioni e
rimanerne vittime. Prima d'allora, passando egli da avventura in
avventura, da questo a quell'intrighetto, messa in giuoco la vanità, non
occupato il cuore, aveva saputo così bene governarsi con quei
capricciosi esseri che sono le donne civette, da sciogliere ed annodare
intime relazioni coll'una e coll'altra, senza offenderne veruna mai,
senza farsi una nemica dell'oggi dell'amante di ieri; ma ora la passione
vera e soverchia non gli lasciava più agio e prudenza da ciò. Abbandonò
i sentieri fioriti della galanteria, dove prodigava madrigali e
dichiarazioni piene di brio ad ogni incontro, lasciò vedere che tutto il
resto gli era diventato indifferente e che chi non voleva accomodarsi a
questa poco lusinghiera condizione a riguardo di lui, gli diventava
uggioso.

Ora le donne di quello stampo perdonano assai poco altrui che le abbiano
per indifferenti, meno ancora che le si trovino uggiose. Gli amori di
Valpetrosa e di Aurora ebbero quindi intorno una schiera di nemici
congiurati a loro danno.

Un bel giorno il vecchio marchese ricevette in mezzo agli scherzi
agrodolci d'una leggiadra signora la rivelazione delle pretese sopra la
figliuola dei Baldissero di quel forestiere che non si sapeva come fosse
nato e che sentiva orribilmente di liberale le mille miglia lontano. Il
marchese era amico dei mezzi spicci ed assolutisti, ordinò che Aurora
non sarebbe uscita più in quelle occasioni nè andata in quei luoghi,
dove e quando ci era probabilità potesse incontrare quel cotale: ebbe a
sè suo figlio e senza scendere a spiegargliene il motivo, gli comandò
rompesse ogni attinenza con quel Valpetrosa e sopratutto si guardasse
bene dall'accoglierlo ancora una volta in casa. Il figliuolo
rispettosamente volle opporre a questo comando, non resistenza, sibbene
qualche considerazione soltanto; ma a' suoi cenni il vecchio marchese
non ammetteva pure un indugio nell'ubbidienza: e siccome gli parve che
il figliuolo non avesse troncato secondo suo ordine ogni relazione con
colui e continuasse eziandio a frequentare quel circolo di liberali che
a lui erano cari come il fumo negli occhi, domandò al re ed ottenne che
l'erede del suo nome e del suo titolo fosse mandato sollecitamente a
Madrid, come addetto a quell'ambascieria.

Il fratello d'Aurora partì e sventuratamente, senza aver nulla appreso
nè nulla scoperto del reciproco amore di Valpetrosa e di sua sorella; e
intanto fra questi, come sempre avviene, gli ostacoli frapposti ne
accrescevano l'impeto e la fiamma della passione. Col denaro che il
giovane milanese spendeva così liberalmente, gli fu facile acquistare
degli alleati, dei complici nella casa stessa del marchese di
Baldissero, intorno alla fanciulla da lui amata, e questi furono una
cameriera specialmente addetta al servizio della marchesina Aurora e lo
stesso intendente che aveva tutta la fiducia del marchese, il signor
Nariccia. Questi non aveva tanto preso il suo tempo dagli affari della
nobil casa che lo pagava, da non poter pensare tuttavia a mandare
innanzi per suo conto certi traffichi con cui preludiava a quella sua
condotta d'usuraio ch'egli impudentemente chiamava professione di
banchiere. Valpetrosa che era venuto a Torino con molte lettere di
credito per somme assai vistose, aveva pensato accorto partito il
rivolgersi a questo cotale per lo sconto e la conversione in denari di
quegli effetti, e Nariccia il quale aveva visto in ciò un buon guadagno,
vi si era prestato con una certa premura, con una facilità, con uno
zelo, che pel forestiero riescirono come una fiorita gentilezza ed
avviarono fra di loro una certa fiduciosa attinenza che ben poteva dirsi
amichevole.

Nariccia era diventato proprio il banchiere di Valpetrosa; egli teneva
di costui in deposito le somme tutte in conto corrente, e veniva
rifornendolo tratto tratto di denaro, mentr'egli per le tratte stategli
rimesse era al di là di guarentito lucrandovi ancora interessi e sconto
e diritto di commissione, e va dicendo.

Di questa guisa era capitato che al giovane venisse un giorno la
infelice idea di confidare il suo amore a quest'uomo e cercare da lui
consiglio ed aiuto. Nariccia per sapere il segreto di Valpetrosa, non
aveva bisogno di questa confidenza, perchè era troppo accorto
osservatore egli stesso e la cosa erasi fatta troppo oramai palese a
troppi perchè la ignorasse, ma fece tuttavia come se la gli giungesse la
più nuova del mondo. Al giovane, il quale, credendolo molto addentro
nelle grazie e nei segreti del marchese, lo interrogava se dovesse mai
avventurarsi a fare al marchese la domanda della mano di Aurora, egli
rispose, ciò che era pure la giustissima verità, come il vecchio,
superbissimo nobile, non avrebbe altrimenti accolto che quale un
oltraggio siffatta richiesta da chi non potesse vantare tutti i voluti
quarti di nobiltà, pensasse che direbbe a Valpetrosa quando questi
avesse dovuto confessare di essere figliuolo d'un fabbricante di
pannilana! Il giovane amante d'Aurora che era di umore vivacissimo e di
spiriti più che audaci, decise in conseguenza non esporsi alla superba
ripulsa, a cui non egli sarebbe stato capace di rispondere con calma, e
giurò pur tuttavia che la fanciulla, a dispetto di tutto e di tutti, gli
avrebbe appartenuto.

Nariccia medesimo, divenuto suo confidente e consigliere, fu quello che
lo aiutò ad entrare in intimi rapporti con Modestina Luponi, la
cameriera di Aurora, e seppe in questo modo tutto quello che avvenne fra
i due giovani amanti. Tre mesi dopo la partenza del fratello di Aurora
per la Spagna, la nobile figliuola dei Baldissero, posseduta da una
irrifrenabile passione, aveva fatto padrone di sè, del suo avvenire,
dell'onor suo il seducente giovane, il quale coll'intensità e la
sincerità dell'amor suo meritava pure un tanto di lei sacrifizio.

La rivoluzione intanto era prossima a scoppiare. Valpetrosa doveva,
secondo gli accordi presi coi congiurati, recarsi alla sua città natale
e spingerla ad insorgere contro lo straniero per concorrere alla gran
causa della libertà e dell'indipendenza della patria. Per lui separarsi
da Aurora, e per quest'essa l'essere lontana dal suo amante era
insopportabile pure al solo pensiero: egli parlò di fuga; la fanciulla
resistette alcun tempo, esitò di molto, ma cedè finalmente. Stava per
diventar madre, e questa sua condizione non poteva più celarsi a lungo
oramai. La vergogna, il timore della tremenda collera paterna, la
mancanza assoluta di persone affezionate in cui confidare e da cui
prendere consiglio non le lasciarono campo a pure veder possibili altri
partiti, acconsentì, ed una notte usciva ella furtivamente dal palazzo
di Baldissero colla Modestina sua cameriera, complice e mezzana, e
salita in una carrozza ferma ad una cantonata vicina, nella quale
Valpetrosa stava aspettandola, partivasi con lui alla volta di Milano.

Ella dalla casa paterna non recava con sè nulla, nè gioielli, nè denari
(ed era stato il suo amante eziandio a voler così), fuor quelle poche
robe che vestiva ed alcuni oggetti suoi particolari che le erano
preziosi, fra cui un rosario d'agata, memoria di sua madre morta.

Prima cura di Valpetrosa, appena furono i fuggitivi fuori di ogni
pericolo di venir raggiunti, innanzi di condurre Aurora in presenza di
sua madre, fu quella di sposar la sua amante, di far consecrare dalla
benedizione del sacerdote, ai piedi dell'altare di Dio, quell'unione che
tra di loro già avevano giurato eterna; così che entrando nella casa
della genitrice potesse dire a quest'essa senza punto menzogna:

— Ecco mia moglie. Abbila qual figliuola.

La madre di Valpetrosa era donna di senno, di prudente carattere,
d'indole un po' asciutta, cui le molte traversie della vita che aveva
dovuto sopportare avevano resa taciturna, cupa anzi che no, aspra
talvolta eziandio. Amava ella immensamente suo figlio senza fallo; e
inoltre in lui riconosceva il capo della famiglia, il proprietario delle
domestiche sostanze, e il padrone di soddisfare come gli piacesse i suoi
onesti desiderii; ma quest'autorità del suo Maurilio ella per prudenza e
per affetto voleva temperata da' suoi richiami, dalle sue obbiezioni; e
siccome il giovane, di carattere alquanto svagato e leggero, non soleva
dare alle parole di lei tutto il rilievo che ella avrebbe voluto e che
si meritavano, soleva la madre punirnelo con un broncio che si dileguava
poi, ad ogni momento che il figliuolo volesse, sotto le carezze e le
dolci parole di lui.

E sarebbe stato invero un gran bene per tutti che sul giovane la madre
avesse avuto più impero ed autorevolezza da impedirgli col positivo
cenno e non soltanto coi consigli, ascoltati scherzando il più sovente e
dimenticati poi tosto, lo sciupio delle famigliari fortune. Ma questa
autorità la buona madre non credeva d'averla, non seppe e non pensava
neppure poterla acquistare. Le condizioni in cui era quando il
matrimonio col padre di Maurilio la fece entrare in quella casa; le
condizioni cioè d'una povera operaia che non aveva di ricchezze che la
sua avvenenza e la sua virtù, congiunte alla sua indole un po' timida,
un po' permalosa, l'avevano fin da principio messa in un certo stato di
sommessione e di dipendenza riguardo al marito, uomo operoso e
procacciante, volontà ferma ed imperiosa, natura audace e piuttosto
inchinevole a piegare e guidare e dirigere a suo senno le individualità
altrui, che più deboli lo avvicinassero. La moglie di fatti, di lui,
delle cose e degli interessi domestici seppe quello soltanto che a lui
piaceva comunicarle, ed egli aveva sempre trovato superfluo il
comunicarle gran che. La fabbricazione e il commercio dei pannilana da
lui esercitati parevano prosperare il meglio possibile e mercè i grossi
guadagni venir formando alla famiglia un enorme patrimonio. Era credenza
comune in tutta Milano; ed era anco quella della madre di Maurilio che
non vedeva, non pensava, non prendeva manco la fatica di immaginare
diverso e più in là.

Si viveva da milionarii; non già essa, la moglie del fabbricante, la
quale allevata fra le privazioni in una povera famiglia, non aveva
disposizioni nessune, nè gusto nemmanco a comparire e scialarla da gran
signora; viveva essa modestissima, rinchiusa fra le eleganti pareti del
suo suntuosissimo quartiere, non vedendo alcuno mai; ma il marito non si
rifiutava nulla di quanto potesse la ricchezza procacciare di sfarzo e
di spassi, e l'unico loro figliuolo adoratissimo era tenuto ed allevato
come l'erede di principesche fortune.

Ma, sventuratamente, ad un tratto il padre mancò. Dovendo venir appurata
l'eredità del figliuolo, ancora in età minore, ne venne a risultare che
cospicuo era bensì l'attivo della medesima, molti però eziandio i
carichi e le passività in tal grado da ridurre di più che metà le
rendite patrimoniali, quando mancassero quell'operoso spirito
industriale, quell'intelligente intraprendenza che valevano al defunto
fabbricante sì vistosi guadagni de' suoi capitali. Un'accorta
amministrazione di quel patrimonio in mezzo a tutti quei viluppi ed
imbrogli avrebbe saputo salvare all'erede una ricchezza più che
considerevole; ma la vedova di Valpetrosa, donna di timidi spiriti,
vissuta sempre ritratta, senza la menoma idea, senza la menoma
disposizione per nessuna sorta di affari, non ne capiva nulla, non
n'ebbe altra impressione che d'una gran confusione nella testa e d'un
grande sgomento nell'animo. Di una cosa sola ella scongiurò gli onesti
uomini che presero cura degl'interessi di lei e del pupillo, che cioè si
sceverasse da ogni debito, da ogni traffico, da ogni complicazione quel
tanto di più che si potesse delle fortune del marito, lo s'investisse in
sicuri impieghi di capitale, da averne un reddito certo, fisso,
immanchevole, in cui misurare le sue spese e la condotta e l'educazione
del figliuolo.

La fabbrica fu venduta, fu ceduta ogni ragione che il defunto aveva sul
principalissimo fondaco di panni che allora esistesse in Milano, e
pagato ogni creditore, si ebbe tuttavia il risultamento d'un patrimonio
di duecento e più mila lire austriache, cui la madre (suo marito essendo
morto senza testamento) volle investire nel nome del figliuolo, come
unico ed assoluto proprietario.

Questa buona e savia donna, cresciuta in mezzo agli stenti, anco fra le
grandigie nel tempo della prosperità del marito, alle quali ella così
poco aveva voluto partecipare, aveva sempre conservato spirito ed
abitudini parsimoniose. Ora, spaventata da quel crollo che avevano
subitamente sofferto le fortune dei Valpetrosa; crollo che da principio
sembrava anche maggiore, e le aveva fatto temere poco meno che d'essere
ridotti alla miseria, quelle sue tendenze a scemare le spese, a
restringerle nel necessario, si aumentarono grandemente, ed esagerandosi
benanco andarono fino alla grettezza ed all'avarizia.

Maurilio, per disgrazia, era perfettamente d'umore e di tendenze
opposti. Il gusto dello scialo, l'amor dello spendere, l'ambizione dello
sfarzo, e' doveva averlo recato seco fin dalla nascita; glie l'avevano
radicato ed accresciuto i modi ed abitudini di vita della sua famiglia,
vivente il padre; così bene che i diportamenti e le delicature
dell'esistenza signorile eransi fatti per esso quasi una necessità. Un
ridurlo a più modesti costumi, accompagnato da validi ragionamenti che
gli ponessero in chiaro le sue condizioni, avrebbegli certo giovato e
sarebbe riuscito a modificarne le propensioni; ma la madre esagerando e
privandolo del tutto d'ogni suo precedente diletto, recando in tutto ciò
che a lei sembrava superfluo una falce così spietata che a pochissimo
invero trovavasi ridotto quel necessario che gli era concesso, ottenne
anzi l'effetto contrario, suscitò quel sentimento di riazione che sta in
ogni spirito umano contro ciò che gli si vuole imporre, destò più vivi
ed irritò quei desiderii di godimento che acquistavano ancora, oltre
tutte le altre, la seduzione del frutto proibito. La madre gli aveva
pariate di povertà, ed egli era pure stato in caso di apprendere che una
certa parte delle fortune paterne era salva: ignaro del vero valore del
denaro, parevagli che duecento mila lire austriache fossero un gran che;
si persuase quindi agevolmente che le continue ammonizioni di non
ispendere, i continui lamenti sull'eccessività dei costi della roba, i
continui consigli di risparmiare fossero esagerazioni cagionate da una
specie di mania di sua madre, cui non bisognava contraddire, ma a cui si
poteva e si doveva non dar retta. La gente in mezzo a cui soleva passare
il suo tempo, non era acconcia a fargli nascere altra persuasione, nè ad
inculcargli la virtù del risparmio. Mentre sua madre con infiniti
risparmi riusciva in capo d'ogni anno ad aumentare d'una piccola somma
il capitale, Maurilio coi debiti, che di soppiatto veniva facendo, lo
intaccava senza misericordia, così che ne avrebbe dovuto fondere una
gran parte quel dì che, arrivando alla maggior età, egli sarebbe stato
costretto a pagare.

Quando quest'epoca dell'età maggiore del figlio fu arrivata, la madre si
spogliò senza indugio dell'amministrazione del patrimonio che era
proprietà assoluta di Maurilio, e cui pure ella mercè l'economia ed i
risparmi aveva di qualche poco accresciuto; e il giovane trovatosi di
poter disporre di una somma che a lui in quei primi momenti pareva
inesauribile, la diede per mezzo ai dispendi, senza che servissero di
valevol freno gli ammonimenti prima, e poi, visto inutile ogni parola, i
bronci della madre. Di siffatta guisa non andò gran tempo che Valpetrosa
ebbe consumata una gran parte di quelle sostanze salvate alla
liquidazione dell'avere paterno. Ardente di carattere, generoso
dell'animo, aperto e inchinevole ad ogni nobile impulso, Maurilio era
entrato nella congiura dei patrioti che volevano francare dallo
straniero l'Italia e sognavano nella monarchia, nell'esercito e nel
popolo piemontesi un aiuto alla santa difficilissima impresa.

Trattandosi di fermare più stretti gli accordi fra i congiurati dell'una
e dell'altra parie del Ticino, si pensò mandare in Piemonte uno dei
lombardi che seguisse attentamente lo svolgersi dei fatti, si mettesse
in giorno d'ogni processo della congiura, e di là comunicasse notizie,
cenni, istruzioni; e niuno fu pensato poter meglio adempire questo
ufficio di Maurilio Valpetrosa di scelte maniere, di vivacissimo
ingegno, di simpatiche sembianze e di animo sicurissimamente
incrollabile. Da ciò quelle tante ed efficaci lettere di favore
dell'aristocrazia milanese che l'avevano introdotto nell'intimità della
superba aristocrazia di Torino; per ciò quelle sue lettere di credito
per somme vistose, di cui egli usava così largamente, cui egli aveva
ritenute assolutamente indispensabili alla riuscita del suo compito e
per ottenere le quali egli aveva impegnato tutto o quasi tutto il
restante suo patrimonio.

Le cose gli erano andate perfettamente a seconda. Aveva egli mandato
innanzi con uguale buon esito e di pari passo gl'interessi della patria
causa e quelli del suo amore; aveva udito dalla bocca di Carlo Alberto
parole che erano più d'una speranza, che potevano dirsi promesse; coi
capi della cospirazione mezzo civile, mezzo militare, che si rannodava
intorno al palazzo Carignano, aveva inteso i modi d'esecuzione del vasto
disegno; aveva ottenuto da Aurora le massime prove d'amore. Ogni causa
di suo soggiorno a Torino era cessata; partì come vedemmo e rapì alla
sua famiglia la sedotta figliuola del marchese di Baldissero.

La madre di Valpetrosa non accolse Aurora come una figlia, sibbene con e
una straniera intrusa nel loro domestico affetto. La sua timidità,
l'amore misto ad una soggezione che aveva per suo figlio, non le
lasciarono manifestare in modi aperti e positivi questo suo sentimento
verso la nuora; ma esso apparve continuatamente nella freddezza poco
meno che ostile, nell'impaccioso silenzio, nella costante musoneria che
teneva con Aurora. Dopo alcun tempo, venutole un maggiore coraggio, si
mostrò eziandio in certe indirette rampogne, in velate lamentazioni che
ella faceva ad alta voce seco stessa in presenza della nuora, senza
volgere a lei la parola, ma perchè andassero a ferirla. Aurora non aveva
mezzo alcuno, nè credeva manco sua dignità, di rispondere; curvava il
capo e taceva, come se quello non fosse fatto suo; ma sentiva intanto
invaderla un'immensa amarezza.

Per la nobile figliuola dei Baldissero già cominciava la crudele epoca
delle delusioni; dalle serene regioni dell'ideale dove s'inebriava di
vaghe chimere l'anima sua, veniva ella precipitando nell'aspro mondo
della realtà, e per affarsi a questo nuovo ambiente ond'era avvolta
conveniva le si strappassero dintorno le antiche abitudini, dalla mente
le antiche idee e le si venissero facendo a poco a poco, quasi direi,
una nuova carne, un nuovo spirito. Bene l'aveva il suo amante chiarita
dapprima delle proprie condizioni, ed adombratole il destino ch'egli
poteva offrirle; ma come avrebbe potuto dipingerle con esatti colori la
verità, mentre egli medesimo non era tuttavia ben conscio di questa
stessa verità? Inoltre cosiffatti discorsi tenuti di fuggita in ratti
colloquii, fra due proteste d'amore, usciti dall'appassionato labbro
dell'uomo che vi ama, come potrebbero agli occhi d'una innamorata
fanciulla, inesperta del mondo, vestire le giuste sembianze della
realtà? Aurora, dietro i detti di Valpetrosa, aveva si pensato ad
un'esistenza modesta, ritirata, anche povera; ma rallegrata pur sempre
dalla divina luce di quel loro amore, ma vista traverso quell'immenso
desiderio comune di unire le loro sorti, codesta esistenza si lumeggiava
di certe poetiche tinte, si ornava del pregio d'un sacrifizio nobilmente
sostenuto, onde si compiacevano lo spirito romanzesco e il generoso
istinto di quella eletta e leggiadra creatura. Ella non aveva
menomamente pensato, perchè non poteva in nessun modo supporle, alle
piccole volgari contrarietà d'una vita domestica in ristrette
condizioni, alle fastidiose tribolazioni d'una lotta intestina, alle
punture di spillo d'una suocera inasprita; e quando la si trovò in mezzo
a tutto ciò, ebbe in fondo all'anima una pena ed uno scoraggiamento,
cui, volendo nascondere, sentì più forti, e che, se non furono un
pentimento, s'accostarono di molto ad un rimorso.

Durava tuttavia, e nelle stesse proporzioni, l'amor suo per l'uomo a cui
aveva sacrificato ogni cosa; ed egli si mostrava e mantenevasi degno pur
sempre di tanto affetto. Se Valpetrosa avesse potuto dare tutto il suo
tempo, o la maggior parte almeno, al dolcissimo compito di circondare
dell'amor suo l'anima e l'esistenza della sua giovane sposa, qual
traversìa, qual contrarietà avrebbe ancora avuta tanta forza da
penetrare sino al cuore di lei, difeso da sì cara e potente armatura? Ma
le bisogne della congiura esigevano imperiosamente il tempo, le cure, la
mente tutta di Maurilio Valpetrosa, che nella rischiosa intrapresa aveva
impegnati la sua più dominatrice idea, le sue più forti aspirazioni, il
più solenne suo giuramento. Aurora, per forza trascurata, rimaneva sola,
in casa, senza trammezzo nessuno, alla presenza della suocera ostile, al
contatto delle uggiose volgarità, all'inevitabile paragone del suo
presente col passato.

Si ritraeva ella nella camera coniugale, così infaustamente disertata
dal marito, e si affondava nelle più dolorose meditazioni dei suoi casi.
La sua colpa, della quale il trasporto dell'amore le aveva dapprima
velata la gravità, allora le appariva d'una inesprimibile enormezza.
Vedeva la faccia sdegnata di suo padre improntata d'una severità che non
perdona; le pareva d'udire suonare da quel labbro superbo la maledizione
sul suo capo; pensava eziandio a sua madre morta, e si figurava con
ispavento vederla ella stessa, che pure l'aveva amata cotanto, sorgere
dal suo sepolcro e lanciarle un'inesorabil condanna. Correva allora a
prendere quel rosario d'agata che aveva portato seco, unico ricordo
della spenta genitrice, e lo baciava implorando perdono, e, gettatasi in
ginocchio, pregava. Poi piangeva, e correva il suo pensiero all'amoroso
fratello colaggiù nella Spagna. Che cosa avrà detto del fallo di sua
sorella? pensava la misera. Certo si sarà unito ancor egli a tutti gli
altri a condannarla e maledirla. Sentiva coll'immaginativa il coro di
riprovazione che aveva dovuto levarsi nella nobile società torinese, in
tutta la cittadinanza, allo spargersi della scandalosa novella della sua
fuga; arrossiva e tremava, tutto sola, a questo pensiero, e si copriva
colle mani la faccia e si diceva con infinito tormento: — «Nessuno, nè
anche mio fratello, non ha diritto di impor silenzio a quelle voci che
affermano il mio disonore.»

Ma pure il fratello, ella sperava, sapeva che non si sarebbe congiunto
cogli altri ad imprecare su di lei. Egli l'amava tanto! Se c'era anima
al mondo in cui potesse entrare un sentimento di compassione per essa,
insinuarsi un generoso impulso di perdono, era quella. Dov'essa Io
avesse pregato intercessore fra lei e suo padre, non egli si sarebbe
rifiutato all'opera pietosa. E se a lui scrivesse?... Ah! no; era
inutile. Intercessione veruna non avrebbe giovato mai a placare la
giusta collera paterna, ch'ella immaginava seco stessa tremando. Quando
erasi partita aveva pure pensato un istante di lasciare pel padre un
motto che umilmente supplicasse perdono; e non aveva nemmanco osato
vergarlo. Ora gli parve che pur tuttavia al fratello potesse e dovesse
assolutamente dirigere una parola; scrisse a Madrid e stette
ansiosamente aspettando risposta.

Infelice! Ella non prevedeva quanto crudeli e fatali avrebbero avuto ad
essere le conseguenze di questa sua lettera.

Pel superbo marchese era stata la fuga della figliuola una ferita
crudele e profonda; non tanto per l'amore ch'egli avesse ad Aurora, il
quale in verità era temperatissimo, e veniva dopo altri affetti e
sentimenti parecchi, quanto per l'orgoglio che giudicò l'onore della
stirpe gravemente offeso. Suo primo impulso era stato correr dietro egli
stesso ai fuggitivi, strappare dalle braccia del rapitore la figliuola e
gettarla in un monastero, lui ammazzare come si fa del ladro che si
coglie nell'atto di rubare; ma la riflessione lo trattenne. La sua
condizione sociale, il suo grado, la età non gli consentivano di questi
partiti spicciativi; non a lui sì apparteneva raggiungere e punire i
colpevoli; egli, supremo capo della famiglia, doveva avvisare e decidere
ciò che occorresse per vendicarne l'offesa e lavarne la macchia, ma un
altro doveva essere di quella il braccio vendicatore, l'individualità
esecutrice. Si diresse alla Polizia per avere esatti ragguagli
sull'essere di quel Maurilio Valpetrosa e sul luogo dove si sarebbe
potuto afferrarlo, e scrisse a suo figlio in Ispagna. Gli apprese ogni
cosa e comandò venisse in patria tosto: quel che gli toccasse di far
poi, non disse nemmanco, sicuro che il figliuolo avrebbelo ben saputo
discernere da sè.

Il fratello d'Aurora, appena ricevuta la lettera paterna, non mise tempo
in mezzo, e benchè sua moglie l'avesse reso da pochi giorni padre d'un
figliuolo (che fu quell'Ettore, uno dei principali personaggi del nostro
racconto) partissi alla volta del Piemonte, risoluto a vendicar l'onore
della famiglia, punire il rapitore e tornare poi tosto presso la moglie.

Ma frattanto, appena divulgatasi per Torino la notizia del ratto
d'Aurora, un altro erasi presentato al marchese padre, per assumere
questa parte di vendicatore. Era un giovane gentiluomo, il conte di
Castelletto, amico del fratello d'Aurora, che non aveva nascosto un
rispettoso amore per quest'essa, che fra i nemici di Valpetrosa contava
quindi per primo, cui tutte le condizioni di famiglia, di fortuna, d'età
facevano degno sposo della fanciulla, e che quindi nella società
aristocratica era già da tempo considerato come il futuro marito di
madamigella di Baldissero. Chiesto un colloquio da solo a solo col
marchese, ed intromesso alla superba presenza di costui nel suo riposto
gabinetto, il giovane, senza preamboli, colla franchezza di un carattere
schietto ed impetuoso, coll'accento di chi ha preparate e studiate le
precise parole da dirsi, così parlò:

— Signor marchese, io amava immensamente — l'amo tuttavia — madamigella
Aurora; non posso permettere che l'infame suo rapitore goda del suo
delitto, respiri ancora in questo mondo. Ella può — deve contentarsi di
punirlo colla sua maledizione e col suo disprezzo; non io: nè
s'acqueterebbe pure suo figlio se qui fosse. Ho la superbia di credere
che nessun altro ne può prender le veci, può aspirare a sostituirlo,
meglio di me. Sono dunque venuto a pregarla, per l'amicizia che mi lega
a suo figlio, per l'amore che nutro verso quella infelice, di volermi
permettere che io mi consideri come della famiglia e prenda il
desiderato incarico della sua vendetta.

Il marchese lo guardò un poco in silenzio con quel suo superbo cipiglio
quasi ostile; poi rispianò le rughe della fronte, ed abbozzato un suo
cotal sorriso pieno di orgoglio, rispose tendendo al conte di
Castelletto la mano:

— La ringrazio; ma la famiglia di Baldissero non ha ancora, grazie a
Dio, bisogno alcuno che uno a lei estraneo ne pigli le difese e ne
compia i doveri. Ho scritto a mio figlio e senza aspettare altra
risposta, confido che verrà, partitosi di Madrid a volta di corriere. Se
mio figlio mancasse, cosa che io credo impossibile, gli anni non hanno
tuttavia così logorato il mio corpo da non poter io stesso compiere quel
che si deve.

E siccome Castelletto s'inchinava con una certa penosa mortificazione,
il marchese soggiunse con maggiore e quasi domestici espansione:

— Terrò tuttavia conto della sua offerta. Mio figlio avrà bisogno di
compagni nella sua impresa; ed Ella, conte, sarà senza fallo uno di
questi.

Pochi giorni dopo, viaggiando in posta, senza riposo, e facendo premura
ai postiglioni con ogni fatta sollecitazioni e generose mancie, giunse a
Torino il fratello d'Aurora, afflitto, sdegnato, pieno di cordoglio
verso la sorella, di odio e di furore verso l'antico amico Valpetrosa.

I discorsi col padre non furono molto lunghi nè molto precisi; ma si
capirono ciò nulla meno i due Baldissero. Non si aspettava più, perchè
il figliuolo corresse a raggiungere il seduttore, se non le esatte
informazioni dalla Polizia del luogo dove quell'infame, secondo essi lo
appellavano, si fosse rimpiattato. Ma già fin d'allora era cosa usuale
che la Polizia non riuscisse a saper bene cosa nessuna che importasse
davvero.

Valpetrosa aveva le mille ragioni per nascondersi, fra cui era eziandio,
se non la principale, non delle ultime nemmanco, quella del ratto della
nobile ragazza torinese. Principalissima poi fra codeste ragioni era la
congiura politica, di cui egli era uno dei capi. Avvisato da quei
personaggi autorevoli, da cui egli aveva avute le efficaci commendatizie
per Torino, che il Governo austriaco era in sospetto della cospirazione
e stava per mettere la mano su alcuni fra i più compromessi di cui gli
era uno; Valpetrosa, consigliato a fuggirsi e non volendo ciò fare e per
non essere lontano al momento dell'insurrezione ch'egli sperava
possibile e prossima, e perchè sua moglie in uno stato già inoltrato di
gravidanza non avrebbe potuto sostenere il viaggio, ed egli non voleva
separarsene; Valpetrosa, dico, fece correr voce della sua partenza e
nascose il suo domestico focolare e sè stesso in un rimoto quartiere,
presso fidatissimi amici, dove nessuno mai sarebbe riuscito a scoprirlo.

La Polizia adunque fece sapere ai Baldissero che quel cotal individuo,
nominato Maurilio Valpetrosa, stato a Milano un po' di tempo, erasi
poscia partito di là e fuggito in Isvizzera, dove non si sapeva bene in
qual città avesse riparato.

Il figliuolo del marchese stava per partire in compagnia del suo amico
il conte di Castelletto per la Svizzera coll'animo di girarne tutte le
città e borghi e casolari finchè vi avesse trovato i fuggitivi, quando
la fatalità volle che sopraggiungesse a Torino la lettera che Aurora
aveva scritto al suo fratello a Madrid, la quale, arrivata colà quando
egli erane già partito, gli veniva rinviata. In questa lettera la
infelice pregava suo fratello perchè non la volesse condannare
severamente egli stesso, perchè si facesse intercessore di pietà e
perdono eziandio verso il padre così che non proseguisse col suo odio e
colla sua maledizione lei e l'uomo che essa amava: queste supplicazioni
le faceva non tanto in nome suo, ella di cui certo la colpa meritava
ogni pena, ma in nome dell'innocente creatura che stava per nascere.
Pensasse egli e chiamasse al pensiero del padre che quella creatura era
pure sangue loro e che il proteggerla, l'amarla era in essi ad ogni modo
un debito. Sè affermava piena di tristi presentimenti, aver paura della
morte, sentire tremenda pesar sul suo capo la collera paterna, tremare,
piangere, abbrividire al solo pensiero che quando avrebbe dato la luce
al frutto già dilettissimo delle sue viscere, potrebbe per lei
dischiudersi la tomba; affronterebbe con animo più calmo il fatale
momento, non si spaventerebbe più dell'avvenire quando sapesse che
almanco suo figlio non sarebbe fatto reo di quella colpa ch'ei non
aveva, avrebbe trovato malgrado tutto nella famiglia di sua madre una
famiglia eziandio. Da quanto aveva potuto scorgere e capire delle
condizioni del suo sposo, avrebbe potuto nascere agevolmente il caso in
cui l'innocente nascituro sarebbe stato esposto anco alle strette del
bisogno: oh il diletto fratello di sua madre, quegli che aveva tanto
amato la infelice Aurora, non l'abbandonasse, non lasciasse che a quel
misero si chiudesse affatto come ad un estraneo il cuore e la casa
dell'avo. Se sciolta da queste paure ella sarebbe lieta pur anco
morendo. Affinchè suo fratello potesse farle risposta, l'imprudente
scriveva il preciso indirizzo del luogo in cui Valpetrosa nascondeva la
donna dell'amor suo e se stesso.

Il marchese figlio non lesse quella lettera, che avreste detto scritta
con inchiostro di lagrime, senza grande commozione. Il suo tanto affetto
per Aurora non era spento, ed a quelle umili e calde preghiere gli si
era tutto risuscitato in cuore insieme con una immensa pietà. Si recò
incontanente dal padre a dargli comunicazione di quello scritto ed a
prenderne gli ordini ulteriori.

Mentre nel rileggere forte a suo padre le parole della sorella la voce
tremava al giovane marchese, ed alla fine non erano senza lagrime i suoi
occhi, il fiero capo di quella famiglia ascoltò ogni cosa con aspetto
freddo, maligno, quasi ironico, e poichè il figliuolo si fu taciuto, un
baleno di feroce soddisfacimento passò ne' suoi sguardi.

— Ah ah! esclamò egli con un sogghigno. Ella stessa ci rivela il covo
della mala bestia. Non avrete dunque da sciupar tempo e fatica per
andarla a schiacciare.

Il figliuolo sentì nel suo cuore generoso tutto aperto in quel momento
alla pietà, entrare una profonda amarezza ed un raccapriccio, che erano
una dolorosissima pena. Ripiegò lentamente la lettera di sua sorella e
disse con voce sommessa ed accento d'un gelato rispetto e d'una
malvogliosa sommessione a suo padre:

— Che cosa mi ordina Ella adunque di fare? Nel volto del marchese
apparve più spiccata quell'espressione d'una fierezza mista a crudeltà,
che guastava la bellezza scultoria di quei lineamenti.

— Avete bisogno degli ordini miei? disse con superba severità. Non vi
dicono abbastanza quali sieno la coscienza del vostro dovere e il
sentimento dell'onore?....

Il figliuolo interruppe con qualche vivacità:

— Sì padre, per quanto riguarda _lui_.... ma essa? Aurora? (e pronunziò
questo nome quasi esitando); ma il figlio che ne nascerà?

Il marchese padre corrugò la fronte molto minacciosamente:

— Quello non è sangue nostro: proruppe; invano vorrebb'essa, quella
perduta, impietosirmi su quel figliuolo d'ignobil padre, d'un perfido e
abbominato e disprezzevol lignaggio. Nulla possono aver di comune i
Baldissero con quella schiatta di volgo... Ma cominciamo a punir _lui_.
Tolto di mezzo quel vile, penseremo alla disgraziata ed al frutto della
sua colpa.

Il fratello d'Aurora accennò voler insistere, e il padre, come per torsi
di subito ogni ulteriore fastidio in proposito, soggiunse, non
lasciandolo parlare:

— Ad ogni modo non dimenticherò mai che quella è mia figlia.

Il giovane marchese sapeva anche troppo che nessuna sollecitazione
avrebbe mai potuto ottenere di più e di meglio da suo padre a questo
riguardo: s'inchinò in segno di riverente acquiescenza, e si tacque.

Quel giorno medesimo partirono alla volta di Milano il fratello
d'Aurora, il conte di Castelletto ed un capitano delle Guardie, amico
dei due precedenti, il quale venticinque anni dopo, all'epoca del nostro
racconto, abbiamo trovato governatore della città di Torino. Insieme con
loro partiva eziandio l'intendente del marchese, messer Nariccia, con
particolari e segrete istruzioni del suo padrone.

Per far conoscere quali fossero queste istruzioni, ci convien qui
riferire un segreto colloquio che poche ore prima della partenza aveva
avuto luogo fra il marchese padre, l'intendente e Padre Bonaventura, in
quel tempo giovane gesuita d'una trentina d'anni, molto operoso e
inframmettente, frequentatore assiduissimo e graditissimo di tutte le
case dei nobili.

Il marchese padre aveva raccontato al gesuita la scoperta avvenuta del
luogo in cui si nascondevano i fuggitivi e la partenza che stava per
avvenire del figliuolo affine di coglierli alla posta; poscia, guardando
fisso il frate con quella sua aria imperiosa che voleva dire: le mie
parole hanno da accettarsi senza discussione, e parlando con una certa
simulata deferenza, nella quale pure si faceva sentire il tono
orgoglioso della superiorità, soggiunse:

— Ella, quantunque viva all'infuori delle esigenze e delle passioni del
mondo, pur sa, reverendo, quali siano gli obblighi che a noi,
gentiluomini, impone l'onore della famiglia, e a quelli nè io nè mio
figlio non saremo per mancare giammai.

Padre Bonaventura incrocicchiò le mani, le serrò al petto che teneva
ricurvo, levò un momentino gli occhi al soffitto e poi li abbassò tutto
compunto, mandando un profondo sospiro che voleva significare:

— Eh! pur troppo conosco le crudeli esigenze dell'onore mondano: le
deploro, ma sono disposto a dar loro passata.

Il marchese continuava:

— Ciò riguardo a quello scellerato; ma riguardo a mia figlia ed al
frutto della sua colpa, sento il bisogno di consultarmi con un buon
religioso qual è Lei, padre Bonaventura.

Il gesuita s'inchinò.

— Di udire dalle sue labbra se le mie decisioni possono approvarsi da
Quel di lassù, come sento che le approva e stima necessarie la mia
coscienza.

Queste parole erano dette con una maschera di umiltà sì mal messa che di
sotto appariva agevolmente e più effettivo ancora il vero intendimento
del favellante, che suonava: «Voglio che mi diate la ragione, e
coll'autorità del vostro carattere religioso consecriate come opera
irriprovevole lo sfogo della mia passione.»

Bonaventura prese il contegno di chi si mette ad ascoltare con profonda,
vivacissima attenzione.

— Disgiunta dal suo vile seduttore, mia figlia sarà tenuta in luogo dove
nessuno la veda nè pur la sappia finchè siasi liberata... Dopo, appena
guarita, entrerà in un monastero, dove rimarrà finchè... finchè
decideremo noi che basti... Lei, padre Bonaventura, mi farà il favore di
cercarmi un monastero acconcio, in cui possa ravvedersi quella povera
anima, espiare colle preghiere e colle macerazioni della carne il
proprio fallo, e dove nello stesso tempo non si dimentichi che quella è
figliuola del marchese di Baldissero.

Il gesuita tornò ad inchinarsi.

— Mi farò una premura d'obbedirla, Eccellenza, diss'egli, e spero che
riuscirò a soddisfarla compiutamente.

Successe un istante di silenzio; il marchese pareva non voler più dir
nulla; il frate, chinato un poco verso il suo interlocutore, stava nella
mossa di chi aspetta il principale del discorso; Nariccia, rimasto
sempre a bocca chiusa, seduto un po' discosto, guardava di sottecchi
colle sue pupille bircie ora l'uno ora l'altro.

— E?... e?... disse poi il frate.

— Che cosa? interrogò il marchese superbamente.

— E il fanciullo? susurrò con voce sommessa che quasi non s'udiva, padre
Bonaventura.

Nella faccia del marchese apparì quella feroce espressione che già gli
conosciamo.

— Quel fanciullo, diss'egli a voce bassa, ma fremente, è l'onta della
mia famiglia personificata: e come questa onta si de' cancellare, così
egli ha da scomparire.

Padre Bonaventura si trasse indietro colla seggiola; Nariccia fece un
leggier trasalto sulla sua.

— Scomparire! esclamò il frate; come la intende, signor marchese?

Questi si piegò verso il gesuita.

— Che privilegio può aver egli ad una sorte diversa da quella degli
altri frutti di simili colpe? La famiglia di suo padre andrà dispersa,
nella nostra non può entrare: non gli resta che il destino del
trovatello. Sarà posto come tale in un ospizio.

I due che udivano queste parole erano troppo soggetti al potente
personaggio che parlava, per manifestare in alcun modo, anche il più
lieve, la menoma riprovazione, e fors'anco non sentivano neppure entro
sè veruno sentimento siffatto; ma tuttavia a que' detti del marchese
tenne dietro un silenzio che tornò per tutti impaccioso e che nessuno
sapeva rompere.

Fu il signor di Baldissero che dopo un poco riprese a dire come
complemento del precedente discorso:

— A quell'ospizio, nello stesso tempo che sarà presentato il bambino,
arriverà una vistosa somma d'elemosina, così che tutti i compagni di
sventura di quel frutto della colpa avranno dalla sua venuta alcun
giovamento; e nello stesso tempo, a propiziare la divina pietà all'anima
medesima di quell'empio che mi rapì la figliuola, alla nostra così
crudelmente provata famiglia ed alla sorte del neonato, intendo
presentare alcuna offerta alle chiese dei Ss. Martiri e della Madonna
del Carmine, che sarà di due lampade d'argento, e pregare la loro
carità, reverendi padri, a voler dire un centinaio di messe a mia
intenzione.

Padre Bonaventura s'inchinò più basso di quello che non avesse ancora
fatto per l'innanzi, e disse col suo tono mellifluo, colla sua voce
untuosa, coi suoi occhi bassi e colle sue mani incrociate:

— S. E. invero è sempre un esemplare di sentimenti religiosi e di
generosità. Iddio saprà darle compenso, e dileguate queste poche nubi,
vedrà che le manderà più splendido il sereno di quella felicità anche
terrena che la si merita.

Fece una pausa, mandò un sospiro, strabuzzì degli occhi e poi riprese
con maggior compunzione:

— Ah! certo Ella ora si trova in una penosa condizione. La nostra divina
religione inculca il perdono delle offese, ed io che conosco il suo bel
cuore so quanto sarebbe pur dolce a Lei il perdonare.

Il marchese fece una smorfia, che smentiva ricisamente l'allegazione del
frate.

— Ma, continuava questi, pur troppo noi non possiamo aggiustare il mondo
e le cose come vogliamo, e ci conviene accettare quali sono le
circostanze in cui ci volle mettere la Provvidenza. Ella, pel grado che
occupa, pel lignaggio a cui appartiene, per le condizioni sociali in cui
si trova ha certi obblighi, certe necessità su cui non può transigere,
ed è volontà divina che ciascuno compia suoi doveri varii secondo il
diverso stato. Considerata adunque bene ogni cosa, io credo che V. E, fu
bene ispirata nelle sue decisioni, e che a Lei, nel metterle in atto,
non sarà per mancare il divino aiuto.

Il marchese si alzò; e gli altri ne seguirono lo esempio.

— Non dubitavo punto che avrei trovato anche questa volta in Lei, padre
Bonaventura, quel religioso prudente e di buon consiglio che sempre mi
si mostrò. Ecco dunque ciò che rimane da farsi. Voi Nariccia partirete
con mio figlio per essere colà sopra luogo a provvedere a tutto ciò che
possa occorrere. A voi l'incarico di condurre Aurora nel più rimoto
ritiro che sappiate trovare; a voi quello di togliere, quando sia tempo,
dal fianco di lei il neonato... A Lei, padre Bonaventura, l'accorrere
presso la infelice a farle udire la voce di Dio e condurla al
convento... Io, quella disgraziata, non la vo' manco vedere... Non ho
bisogno di dirvi, Nariccia, che tutto quanto occorrerà, potrete
spendere.

Il gesuita e l'Intendente uscirono insieme, e il secondo accompagnò il
primo per un tratto di strada verso il suo convento.

Non si parlarono per un po': sembrava che evitassero perfino di
guardarsi. Ad un punto fu il frate che, chinatosi vivamente verso il suo
compagno, gli disse all'orecchio:

— Credo che fareste bene a mettere un segno a quel bambino nell'esporlo,
affinchè in un caso qualunque lo si potesse riavere... Non si sa mai
quel che possa arrivare!...

Nariccia fissò entro gli occhi il gesuita e gli sguardi di quei due
maliziosi s'affondarono l'un nell'altro.

— Ci ho già pensato: disse poi l'intendente. E continuarono la loro
strada in silenzio.

E di molte cose ne aveva pensato il tristo Nariccia. Egli aveva
continuato a mantenersi in relazione col rapitore d'Aurora; quando
Valpetrosa stava per partire, aveva scritto all'intendente dei
Baldissero quella lettera di cui il _medichino_ aveva letta una parte
salvata dalla fiamma, allorchè _Graffigna_, che se n'era impadronito in
casa dell'assassinato Nariccia, aveva voluto porgergli fuoco da
accendere il sigaro.

Ritirate da Valpetrosa le quindici mila lire che aveva creduto
necessarie per la sua fuga con Aurora, un altrettanto e più di spettanza
del giovane milanese rimaneva tuttavia presso Nariccia; e questi,
posseduto fin dalla sua prima giovinezza da una smania feroce di
arricchire, dalla passione dell'avaro e da quel rabbioso amore dell'oro
onde cotanto si degrada l'anima umana, all'apprendere la venuta del
fratello d'Aurora e il suo disegno di vendetta su Valpetrosa, aveva
pensato che quando questi nello scontro con Baldissero morisse, quella
somma rimarrebbe sua senz'altro.

Quando arrivarono in Milano Baldissero coi suoi due padrini e Nariccia,
quest'ultimo, mentre gli altri per l'ora troppo tarda decidevano di non
presentarsi a Valpetrosa che il domattina, di soppiatto e sollecitamente
recavasi dallo sposo d'Aurora ad avvisarlo di quel che lo minacciava. Il
giovane ebbe una forte emozione che non cercò nemmeno dissimulare: ah!
non era timore per sè, che dotato egli era d'ogni valore; ma era paura,
viva paura del dolore e della sorte che sarebbero toccati a sua moglie
ed al figliuolo suo nascituro. Macchiarsi egli del sangue del fratello
di lei era grave al suo pensiero, ed era più grave ancora il pensare
ch'egli stesso potesse nello scontro soccombere. Per intanto ciò che
premeva era fare in modo che Aurora non avesse a concepire pure un
sospetto della minacciata sventura, da avanzarle almanco delle ore
penosissime di spasimi e paure. Decise a quest'effetto che il mattino
vegnente si sarebbe appostato fin di buon'ora sulla strada ad aspettare
la venuta dei padrini di Baldissero, perchè non avessero da entrargli in
casa ed esser visti dalla sposa, la quale, riconoscendoli, avrebbe
potuto agevolmente indovinare il motivo della loro presenza. Già di
molto erasi turbata Aurora del vedere l'intendente di suo padre, e
benchè le avessero detto che cagione di questa venuta erano gli affari
d'interesse tuttavia pendenti fra quell'uomo e suo marito, tuttavia una
specie d'istinto la teneva in un'ansietà piena di sospetti.

La seconda e rilevantissima cosa a cui volle provvedere Valpetrosa fu il
destino della moglie e del figliuolo da nascere. E per ciò a cui aveva
egli da affidarsi se non a Nariccia, al quale la sua fama di religioso
dava aria di onesto, e che, nelle attinenze sino allora avute,
all'inesperto e confidente giovane era apparso fedele e leale? Lo pregò
volesse egli assumere codesta opera pietosissima; salvasse Aurora e il
suo bambino dall'ira e dalle vendette della famiglia di lei; gli
consigliò la moglie e la madre da cui la morte lui disgiungesse,
Nariccia facesse riparare in qualche oscuro, rimotissimo luogo della
Svizzera, e là sovvenisse di quanto abbisognavano quelle infelici; egli,
Valpetrosa, con una ultima lettera da consegnarsi loro in caso di sua
morte, avrebbe alle medesime manifestato come in tutto e per tutto
dovessero in lui rimettersi ed a lui affidarsi.

Quanto ai mezzi di vivere, quanto alle fortune di quelle poverette, ohi
come si dolse allora Valpetrosa d'avere così sconsideratamente sciupata
tanta parte dell'aver suo! Ma quel che rimaneva, come fare perchè
rimanesse e bastasse al sostentamento della famigliuola, e s'aumentasse
da fornir poi al figlio che doveva nascere se non un'agiatezza, quanto
meno una sicurezza del pane? Qui si trovarono a fronte la facile fiducia
e la leale natura del giovane da una parte e dall'altra la frodolenta
accortezza dell'antico servo dei Gesuiti, il quale non era stato tardo
ad architettare per queste circostanze sopra le proposizioni del giovane
un suo perfido disegno. E si decise: che Valpetrosa facesse un atto
solenne di cessione d'ogni aver suo a Nariccia medesimo, perchè da
costui si potesse esigere ogni capitale di spettanza del primo ed
insieme colle somme che ancora rimanevano presso di lui in deposito,
trafficarlo nelle sue speculazioni ch'e' chiamava bancarie; che di tutto
questo avere il depositario pagherebbe un annuo interesse del cinque per
cento non che una data parte degli utili ricavati dall'uso di tali
somme, le quali annualità sarebbero pagate a Valpetrosa medesimo finchè
e' vivesse, alla madre ed alla moglie venendo egli a mancare; che
Nariccia pagherebbe a semplice richiesta di Valpetrosa di chi per lui,
tutto o quella parte di tal capitale che si volesse poi ritirare; e che
per impedire gli effetti giuridici di quell'atto di cessione, Nariccia
avrebbe rilasciato a Maurilio una privata dichiarazione, con cui si
certificasse come quella cessione fosse una finta soltanto e si
determinassero i veri patti fra loro intravvenuti.

Valpetrosa prese di poi le mani dell'ipocrita Nariccia, e
stringendogliele con forza, guardandolo con occhi umidi, con atto e voce
che erano tutta una supplicazione, soggiunse:

— Vi raccomando ancora una volta Aurora e mia madre... e mio figlio!
(Nel dire quest'ultima parola, tremò la sua voce.) Oh mio figlio! Se il
mio sangue avesse da farlo felice, con qual gioia lo darei tutto!...
Egli porterà il mio nome... Aurora lo desidera... lo desidero anch'io...
ricordatevene! ch'ei sia battezzato sotto il nome di Maurilio..... Ma
più di tutto egli e sua madre sieno sottratti alla famiglia di
Baldissero... Appena lo scontro avvenuto, s'io muoio, accorrete a torli
di qua, perchè il marchese non li trovi... Ch'e' fuggano, per amor di
Dio!... Voi me lo promettete? Voi me lo giurate?

Nariccia diede tutte le promesse e tutti i giuramenti che piacquero a
Valpetrosa, e questi ebbe il coraggio di rientrare colà dove aspettavalo
sua moglie, con una fronte serena così che Aurora se ne sentì
rassicurare la povera anima conturbata.



CAPITOLO III.


Era una fredda mattinata invernale, e Maurilio Valpetrosa tutto avvolto
nel suo mantello stava passeggiando da un po' di tempo nella strada
innanzi alla sua abitazione, quando, visto da lontano due persone bene
imbacuccate ancor esse venire a quella volta, e' si piantò sulla soglia
del portone che metteva nella casa ove dimorava; e trattasi giù dal viso
la falda del mantello, lasciò scorgere le sue leggiadre fattezze. E' non
s'era ingannato nella sua previsione; que' due si fermarono a quella
porta, lui guardarono bene, si ammiccarono, scambiarono sommesso e ratto
due parole, ed avvicinandoglisi uno si scoprì la faccia del pari e gli
disse con un accento in cui sotto una finta cortesia nascondevasi
un'ostilità superba:

— Giusto Lei, signor Valpetrosa, è la persona di cui venivamo in
traccia.... La mi riconosce?

Valpetrosa fece un lieve inchino ed un gentile sorriso:

— Perfettamente, rispose, signor conte di Castelletto.

Il compagno di costui s'era pur egli scoperta la faccia, e il conte lo
presentava dicendone il nome.

— Ed ora, riprese Valpetrosa con elegante scioltezza, a che cosa debbo
attribuire l'onore che mi fanno cercandomi?

Rispose il conte di Castelletto:

— È cosa che richiede per dirsi altro luogo più acconcio che la strada;
ma spero ch'Ella indovinerà agevolmente la qualità della nostra
ambasciata, sapendo che ci manda il marchese di Baldissero figlio, il
quale è qui, a Milano, venuto apposta da Madrid.

— Capisco senza bisogno d'altra parola: disse Valpetrosa con una serena
tranquillità, ma benchè mi rincresca assaissimo il non poter aver
l'onore di accoglierli nella mia umile casa, capiranno, spero, senza
difficoltà anche loro le ragioni che mi tolgono di invitarli a salire
nel mio quartiere.

I due padrini di Baldissero fecero un moto di assenso.

— D'altronde, continuava lo sposo d'Aurora, quello che si ha da trattare
fra chi li manda e me, esige anche da parte mia l'intravvento di
intermediarii. Faccianmi il favore di stabilire un luogo di ritrovo e
fissare un'ora, ed io manderò colà i miei rappresentanti.

— È giusto: rispose di Castelletto. Ella non vorrà stupirsi se questo
ritrovo lo fisseremo ad un'ora piuttosto vicina. Per le ragioni ch'Ella
può facilmente immaginare, il marchese brama ardentemente che ogni cosa
sia presto, assai presto finita.

Valpetrosa sorrise con mesta ironia.

— Capisco la sollecitudine del signor marchese, diss'egli, e non la
condanno; anzi la partecipo ancor io. Ma lor signori capiranno pure
come, per quanta volontà io abbia di accondiscendere alle brame del
signor marchese, mi ci vuole un certo tempo a trovare due fidati amici a
cui commettere il mio mandato, e come io, dovendomi preparare a quello
che è scopo della loro venuta con provvedere ad infinite cose, non posso
altrimenti che differire a domani l'onore di trovarmi a fronte del loro
principale.

I padrini di Baldissero mossero di subito alcuna obiezione, da cui non
si lasciò smuovere Valpetrosa, il quale dichiarò fermamente che nulla lo
avrebbe fatto cambiare di proposito a tal riguardo. Si stabilirono il
luogo e l'ora de! convegno fra i padrini, e poi sì separarono. Lo sposo
d'Aurora non tardò a trovare due amici che acconsentirono a rendergli
quel funesto servizio, e si decise che il duello _all'ultimo sangue_
avrebbe avuto luogo il domattina per tempissimo, arma la spada.

Tutto quel giorno Valpetrosa ebbe lo straordinario coraggio di comparire
in presenza di sua moglie e di sua madre più lieto, sereno e tranquillo
che mai; se vi fu un cambiamento in lui non si mostrò che nella
tenerezza dell'affetto che si sarebbe detta più espansiva e maggiore;
potè avere la forza d'animo di parlare con Aurora dell'avvenire, di
confortarla colle più lusinghiere speranze d'un destino migliore, di
parlare delle gioie che la nascita del loro bambino avrebbe arrecato a
far più prezioso e più santo ancora il diviso amor loro. E in cuore il
misero aveva pur troppo i più funesti presentimenti; e la sua natura
abitualmente risoluta era tutto ondeggiante fra le più opposte
contraddizioni. Ora non voleva difendersi, voleva disarmare il suo
avversario colla mitezza del suo contegno, presentandogli il petto
indifeso, chi sa che alcun resto dell'antico affetto non fosse ancora
per lui nell'animo di Baldissero, ed al vederlo così non si ridestasse
tornando quale al tempo della loro amicizia? pensò perfino un momento —
ma fu un solo momento — ad umiliarsi innanzi all'avversario, a tentare
di vincerne colle parole e colle supplicazioni la collera, a dirgli come
di loro l'uno a niun modo potesse uccider l'altro, perchè egli non
doveva tornare dalla sua sposa lordo del sangue del fratello di lei, e
questi non poteva presentarsi alla sorella, omicida dell'uomo a cui ella
aveva dato l'amore, la sua sorte, tutto di sè. Ora invece egli pensava a
difendersi con ogni vigore, a combattere con accanimento, ad offendere
con feroce ardimento. I vincoli del sangue, le memorie dell'antico
affetto non dovevano aver più ragione alcuna di farlo riguardoso verso i
giorni di Baldissero: non s'aveva da veder più in costui che un fiero
nemico il quale veniva per distruggere la sua felicità. Era suo diritto,
era suo dovere, anche per Aurora, il ripulsarne, fosse pur colla sua
morte, la minaccia e l'offesa.

Ed era egli tuttavia colla tenzone di questi varii pensieri in capo
quando il mattino di poi Valpetrosa vide giunta l'ora di recarsi al
fatale convegno. A Nariccia, col quale il giorno innanzi aveva terminato
ogni cosa che occorresse per quel certo aggiustamento che ho detto; a
Nariccia, cui aveva pregato di un ultimo abboccamento prima dello
scontro, Valpetrosa diede la lettera per la moglie e per la madre e
tutte le più minute istruzioni sul modo di governarsi, ed ottenuto anco
una volta i più solenni giuramenti di fedeltà da quell'ipocrita,
partissi accompagnato da' suoi padrini pel luogo del ritrovo, mentre
Aurora, ignara affatto d'ogni cosa, dormiva tuttavia tranquillamente.

Quale fosse l'esito del duello fra il marchese di Baldissero e Maurilio
Valpetrosa, lo sappiamo già dalle parole che dal primo di costoro
sorprendemmo pronunziate a se stesso in un momento d'angoscia
nell'attesa del figlio e poscia nel suo colloquio col Governatore.

Non vi narrerò la desolante scena che avvenne quando in casa di Maurilio
Valpetrosa fu quest'ultimo recato in aspetto di cadavere, innanzi alla
povera Aurora che di nulla sapeva, ma che pur tuttavia era turbata da
un'indefinibile inquietudine che era un presentimento di sventura. Il
marchese di Baldissero non volle, non osò presentarsi innanzi alla
sorella per annunziarle cotanta disgrazia; e nessuno l'osò di quelli che
avevano assistito al duello fatale, da Nariccia in fuori, a cui si diede
e il quale accettò l'incarico di correre a preparare, per quanto fosse
possibile, al brutto colpo l'anima sensitiva dell'infelice amante. Ma
Nariccia, fosse insufficienza in lui al dilicato ufficio, fosse anche (e
di quel tristo ben può pensarsi cotanto orribile disegno) uno scellerato
proposito di ferire mortalmente al cuore la misera donna, annunziò la
cosa in modo che Aurora svenne e parve dovesse morire di quel colpo
ancor essa. La madre di Valpetrosa non aveva guari maggior forza e
coraggio della sposa di lui. Il trafitto recato con ogni precauzione a
casa, non potè parlar più, non potè più esprimere che cogli sguardi i
suoi ultimi addii alle dilette persone del suo cuore, e raccomandarle
ancora a Nariccia, e morì fra le braccia delle sconsolatissime donne.

Fu allora che primamente Baldissero ardì entrare in quella casa in cui
egli aveva recato il dolore. Aurora giaceva priva di sensi abbandonata
sul corpo di suo marito che abbracciava strettamente: la vecchia madre,
in un accesso di dolore furibondo, malediva colei che aveva portato al
suo figliuolo la barbara morte immatura.

Baldissero sentì stringersi il cuore, e fino da quel momento gli penetrò
nell'animo quel dubbio crudele che gli abbiamo udito manifestare tanti
anni dopo all'epoca del nostro racconto, quando si domandava, s'egli
aveva avuto il diritto di troncare colla spada dell'omicida il nodo di
quelle due esistenze, se Dio aveva da perdonargli l'aver versato quel
sangue.

Mentre il marchese rimaneva colà fermo, immobile, sovraccolto, la faccia
pallida, i lineamenti contratti, stretto il cuore da un'emozione
impossibile a dirsi, Nariccia gli si appressò rispettosamente, e gli
parlò piano:

— Che ordina Ella si faccia?

Il fratello d'Aurora volse su di lui uno sguardo torbido e semispento.

— Lasciamo quell'infelice al suo dolore. L'intendente s'appressò ancora
di più al figliuolo del suo padrone e soggiunse con voce ancora più
bassa:

— Mi rincresce, ma ho altri ordini da S. E. il marchese suo padre.

Baldissero levò la testa con qualche vivacità:

— Ah! quali?

— Trar subito fuori di questa casa l'illustrissima signora marchesina
Aurora.

— Per condurla dove?

— Ho già preso a pigione una comoda casetta fuori di città dove è
intenzione di S. E. che nascostamente da tutti la stia finchè siasi
sgravata... E mi pare opportuno profittare di questo suo stato medesimo
per togliere la signora marchesina di qua.

Il marchese stette un momento sopra pensiero e poi rispose
asciuttamente:

— Fate quel che vi ha comandato mio padre.

Quando Aurora tornò in sè la si trovò in letto entro una stanza che non
aveva visto mai, con intorno un medico sconosciuto, la sua cameriera
Modestina e dietro le cortine del letto l'ombra d'un uomo ch'ella non
poteva scorgere chi fosse.

Dapprincipio non la si ricordò di nulla; non sentiva che un
indolorimento generale, e per raccogliere il suo pensiero aveva bisogno
d'uno sforzo penosissimo che gli tornava come una viva trafittura al
cervello. Ma poi venne la funesta memoria: gittò un grido e volle
gettarsi giù dal letto: ve la trattennero con amorosa violenza.

— Lasciatemi, lasciatemi.... Il mio Maurilio!.... Il mio Maurilio!....
Dov'è?... Voglio vederlo ancora.... Siate pietosi.... Vo' morire con
lui.

L'ombra d'uomo dietro le tende s'agitò, si mosse e come tratto da una
forza esteriore, venne fuori con passo lento, quasi riluttante fino
all'arrivo degli sguardi della giacente.

Questa mandò un'esclamazione soffocata che pareva di sorpresa: si lasciò
andare sul letto senza più sforzi per togliersene, guardò fiso fiso un
istante la faccia di quell'uomo che pareva non poter riconoscere. Dopo
un poco allargò le pupille, come sotto l'impressione d'un insuperabile
orrore, si trasse indietro sui cuscini più che potè, allungando innanzi
le braccia come per respingere un'orribile visione ed esclamò con
accento pieno di ribrezzo, di sdegno, d'odio:

— Via, via, via!.... Tu qui!.... Tu osi venir qui!...

Il fratello d'Aurora si ritrasse; uscì di quella stanza con infinita
oppressura dell'anima.

La misera diede nuovamente in ismanie: ma il medico che le stava al
fianco trovò pure le magiche parole con cui ricondurla alla calma,
infonderle forza e coraggio.

— Se la fa di questa guisa, le disse, la si uccide.

Aurora lo guardò con una certa espressione che significava chiaramente:
— E che m'importa? Se gli è questo appunto ch'io voglio!

Ma il medico lesto a soggiungere:

— E la sua morte sarà quella eziandio della innocente creaturina che
porta nel suo seno. Ella ha l'obbligo, il sacrosanto obbligo di
conservarsi per suo figlio.

Aurora non rispose parola: ma si calmò di presente; stette lungo tempo
sopra pensiero, muta, immobile, appena se con sembianza di viva, tanto
era pallida, solo che tratto tratto due grosse lagrime le colavano giù
delle guancie. Quando il medico tornò a vederla, ella gli disse piano:

— Ha ragione. Debbo vivere per mio figlio: e lo voglio... Mi faccia
guarire.

Il medico si pose con tutta la sua scienza e con tutto il suo zelo a
lottare contro la morte che pareva aver già posto il suo artiglio su
quella infelice; e la lotta fu varia, lunga, dolorosa.

Mai non fu che il marchese fratello d'Aurora le comparisse dinanzi: il
medico lo aveva assolutamente proibito: ma Baldissero seguiva con ansia
e sollecitudine l'andamento della malattia di lei, nè si sarebbe mosso
di colà se notizie arrivate di Madrid non avessero costrettolo ad una
ratta partenza. Suo figlio nato da poco, Ettore, era stato assalito da
una di quelle malattie infantili che tante vite mietono nella prima età
e temevasi pei giorni suoi. Il marchese raccomandò la sorella a
Nariccia, e partì.

Ed era proprio in buone mani, la povera Aurora, affidata alle cure di
quel tristo uomo di Nariccia, il quale veniva dicendosi fra sè con
cinica e scellerata speranza:

— Se questa donna morisse, portando seco nel mondo di là il frutto del
suo amore, chi vi sarebbe ancora a cui dovrei dar conto dei capitali di
Valpetrosa?

Legalmente egli s'era già governato di modo da non avere ostacolo
nessuno alla sua ruba, poichè aveva fra le carte dell'ucciso Valpetrosa
frugato, trovato quella sua dichiara che certificava simulata la
cessione, presala e distruttala: ma se la vedova e il figliuolo del
derubato sparissero, tanto di meglio: alla madre di Maurilio contava
dare una piccola somma per azzittirla.

Ma dopo alcuni giorni intorno all'ammalata venne da Torino un'altra
persona, mandata dal padre medesimo di lei: il frate Bonaventura, il
quale Aurora guarita e liberata, doveva poi condurre al scelto
monastero: e la misera vedova di Valpetrosa fu dunque in piena balìa di
queste tre persone: Nariccia, il gesuita e la fante Modestina Luponi.
Quella che per si poco tempo era stata sua suocera non sapeva dove
Aurora fosse riparata, nè ancorchè lo avesse saputo avrebbe cercato
vederla: ned Aurora chiese mai menomamente di lei.

Non andò gran tempo che una quarta persona si aggiunse a prestare le sue
cure alla giacente, e queste furono le cure veramente amorevoli ch'ella
ebbe. La cameriera, Modestina, si lagnava che da sola erale troppo
faticoso e poco meno che impossibile il bastare ai moltissimi ed
incessanti uffizi da rendersi all'ammalata, e siccome se a quella
piccola schiera in mezzo a cui viveva Aurora era da aggiungersi una
persona, questa volevasi delle più fidate, Modestina, che tutta oramai
s'era posta ai servigi di Nariccia e di Padre Bonaventura uniti in una
comune e strettissima lega d'interessi, suggerì ella stessa una donna
che secondo lei poteva ed era dispostissima ad aiutarla nell'accudire
l'inferma, senza pericolo di ciarle o d'indiscrezioni qualsiasi: ed era
questa insieme una buona opera che la Modestina, in quel tempo non
ancora trista del tutto, come quando la conoscemmo noi sotto il nome di
_Gattona_, invecchiata e pezzente, faceva in vantaggio d'una povera
vittima, che era sua cognata, la moglie di suo fratello Michele,
soprannominato più tardi _Stracciaferro_.

E qui ci occorre fare una nuova digressione per narrare brevemente la
storia di questa infelice.

Si chiamava Eugenia ed era figliuola di un armaiuolo; questi che un
tempo se la ricavava per benino, aveva fatto dare alla figliuola un po'
d'educazione di cui essa, dotata d'un ingegno non comune, d'una buona
volontà eccezionale e di una rarissima disposizione ad apprendere, aveva
tratto un tal profitto che si sarebbe giudicato impossibile. Bellissima
e virtuosissima, aveva intorno una nuvola di galanti, da cui era la sua
saviezza sola a difenderla, perchè sua madre era morta, e suo padre,
sempre inclinato al vizio, s'era ora buttato sulla mala strada
addirittura e crescevano in lui lo sciupo del danaro, la smania dei
bagordi nella proporzione diretta con cui diminuivano il lavoro ed i
guadagni.

Michele era allora maestro di scherma; era di umore irascibile, di
carattere impetuoso, d'abitudini manesche, conscio della sua forza e
facilmente tracotante, ma non aveva commesso ancora atto che si potesse
dir disonesto. La sua abilità nel mestiere gli dava sufficienti
guadagni, e il marchese di Baldissero dietro la raccomandazione della
cameriera di sua figlia (sorella di Michele) lo aveva fatto nominare
eziandio maestro all'Accademia militare. Per ragione del suo mestiere.
Michele aveva dapprima conosciuto l'armaiuolo padre di Eugenia, e veduto
poscia quest'essa se n'era fieramente innamorato. Aveva cercato ogni
maniera per diventare intrinseco dell'armaiuolo; e siccome la più facile
era quella di farglisi compagno nella vita disordinata ch'ei menava,
Michele, il quale aveva pur esso le medesime tendenze, non trascurò
questo mezzo e divenne il compagno assiduo delle orgie e dei bagordi di
quello sciagurato, il quale in breve tempo ebbe la maggiore ammirazione
e della robustezza di stomaco del maestro di scherma che ingollava vino
a bizzeffe senza manco darsene per inteso e della forza straordinaria
dei muscoli di lui che lo facevano temuto e rispettato da tutti e la
miglior salvaguardia per quelli che fossero dalla sua in ogni baruffa
che potesse nascere, tanto che non poteva più passarsela senza l'amico
Michele.

Quando adunque quest'ultimo ebbe fatto appena un cenno del suo amore per
Eugenia e del suo desiderio d'ottenerla, il padre di lei glie la gettò,
come si suol dire, fra le braccia, lieto e di far cosa grata al suo
amicone, e per dir tutto il vero, di sbarazzarsi d'un imbarazzo e d'una
spesa.

Eugenia non amava nessuno, ma l'ideale dell'uomo a cui avrebbe voluto
dare il suo bel cuore ed il suo animo eletto era ben diverso da quello
che suo padre le presentava in isposo. La grossolanità fisica, morale ed
intellettiva di quell'omaccione facevano il più spiccato contrapposto
colla delicatezza di lei: tutto in essa si ribellava a codesta che in
fatti era una mostruosa unione, e più che un presentimento la certezza
d'un'infelicissima sorte le si affacciava alla mente. Volle contrastare,
ma essa era debole, mite, timida; ed ai primi peritosissimi detti che
ardì pronunziare di opposizione e diniego, il padre la rimbeccò con tale
violenza ch'ella non ebbe altro scampo che curvare il capo e tacersi.

Sposò adunque Michele, ma senza farsi la menoma illusione sul conto di
lui, sulla possibilità di trarlo a miglior condotta, sul destino che
l'aspettava: andò realmente come vittima rassegnata all'altare, e le sue
previsioni e le sue paure avevano pur troppo ad essere tutte effettuate!

La condotta di Michele non si mutò pel matrimonio e non accennò neppure
volersi mutare; ma tuttavia da principio l'amore che aveva per Eugenia,
se con questo nobil nome può pure chiamarsi il sentimento affatto
materiale di desiderio che gli ispirava la bellezza di quella giovane,
la mite dolcezza di lei e quell'influsso inesplicabile che in certa
misura esercita anche sull'animo più rozzo la grazia d'una donna
gentile, poterono ottenere che almanco verso la moglie quello sciagurato
usasse alcun riguardo e mostrasse qualche rispetto: così che quando
tornava a casa concitato dai bevuti liquori, coll'anima sconvolta e
l'umore inasprito dalla perdita nel giuoco, dalle liti che sempre
finivano male pei suoi avversari grazie alla sua forza erculea, e cui
sempre era il suo spirito tracotante a provocare, Michele cercava di
nascondere il suo stato alla giovane moglie e si faceva uno studio di
non dirigerle pure la parola. Ma questa specie di suggezione non volle
durar lungo tempo. Non tardò guari ad accorgersi il marito, che la sua
presenza, i suoi modi, le grossolane manifestazioni de' suoi ardori non
cagionavano in Eugenia che una ripugnanza invano voluta dissimulare;
sotto l'azione del dispetto ch'e' ne sentì, scomparve anche quella
suggezione che prima si prendeva di lei; cominciò dalle rampogne e da
quelle ond'era capace la sua anima bassa e volgare, ne venne alle
minaccie, senza più riguardo nessuno si mostrò in tutta la bruttezza
della sua indole; la qual cosa se fosse atta a scemare quel sentimento
di ripulsione che era in lei giudicatelo voi.

Frattanto, come sempre accade, anche le condizioni materiali di quella
famigliuola andavano peggiorando. Il padre d'Eugenia aveva fatto capo ad
un fallimento in conseguenza del quale aveva dovuto smettere il fondaco
e vivere oramai di varii, incerti e non sempre onorevoli spedienti, a
cercare e mettere in atto i quali concorreva massimamente Michele.
Questi da parte sua, per la mala condotta, aveva perduto il posto da
maestro all'_Accademia militare_, e vedeva ogni dì più dimagrarsi di
accorrenti e di allievi la sua _sala di scherma_. Se _malesuada_,
secondo il poeta latino, è la fame, più mal consigliero ancora è il
vizio che non ha più mezzi di soddisfare le sue accanite ed empie
voglie: un dì Michele e lo suocero furono implicati in un certo processo
di truffa, ed andarono tuttidue a far conoscenza la prima volta col pane
di prigione. Furono condannati a più anni di carcere: il padre d'Eugenia
dopo non molto tempo ci morì; lo sciagurato di lei marito fu onninamente
perduto, perchè colà strinse conoscenza e lega coi più scellerati fra i
delinquenti, primo dei quali quel _Graffigna_ che, conosciuto ben tosto
il giunto della corazza in quel robusto colosso, seppe colla sua felina
accortezza insinuarvisi nell'animo e governarlo a suo talento.

La povera moglie di Michele rimase adunque sola, senza mezzi di fortuna,
con una salute resa cagionevole dai sofferti affanni, coll'onta d'avere
padre e marito colpevoli, e per maggior sventura portando nel seno un
frutto del materiale amore di Michele. Gli era in queste condizioni che
l'aveva lasciata la Modestina, quando insieme colla padroncina erasi
fuggita per alla volta di Milano. Siccome Eugenia erasi venuta
raccomandando più volte alla cognata, e questa non poteva a meno che
sentire alcuna pietà per lo stato veramente compassionevole in cui
quell'infelice era ridotta, trattandosi poscia di avere qualcheduna a
compagna nelle cure da prestarsi alla marchesina Aurora, la sorella di
Michele propose e riuscì a fare aggradire da Padre Bonaventura e da
Nariccia che a questo ufficio fosse chiamata Eugenia, della segretezza
della quale essa si rendeva compiutamente garante. Aveva inoltre la
Modestina in codesto un'altra idea ed un'altra speranza: ed era che
Eugenia essendo per diventar madre ancor essa, quantunque la liberazione
di lei dovesse venire qualche mese dopo quella di Aurora, potesse
tuttavia combinarsi che la medesima diventasse poi nutrice, custode ed
allevatrice del figliuolo della marchesina, la qual cosa
all'immaginativa non infeconda della Modestina si presentava come
sorgente e cagione di prosperità e di vantaggi, non che per sua cognata,
ma eziandio per sè.

Padre Bonaventura, incaricato di arruolare a quella piccola schiera
l'Eugenia, di darle le sue istruzioni e di condurla seco, riuscì
compiutamente nella sua missione; e come già dissi, Aurora ebbe quindi
delle cure veramente amorevoli, poichè l'anima pietosa della nuova
attendente a' suoi bisogni non tardò a porre in lei e nelle sue
condizioni il maggior interesse possibile ed un verace, sincero affetto.

Venne finalmente il giorno fatale. Aurora diede alla luce un bambino, di
cui, fino da quel primo stadio di vita, non potevano essere più dilicate
le forme, nè più avvenente l'aspetto. Nel trasporto ineffabile di quella
divina gioia della maternità, la misera dimenticò tutti i suoi passati
dolori, tutto il buio dell'avvenire che le si minacciava. Coprì quella
piccola, bellissima creaturina di baci e di lacrime, in cui si stemperò
la infinita tenerezza dell'anima sua; le parve fosse ricomparsa in
quelle deboli forme di neonato per accompagnarla ancora nella vita,
l'anima amorosa di quell'uomo che essa aveva supremamente amato: tutto
il suo mondo, l'esistenza, ogni affetto sentì concentrati per sempre in
quel debole bambinello, che già pareva sorriderle. Si ricordò di botto
del voto tante volte manifestato dal suo sposo, che il nascituro, se
maschio, portasse il medesimo nome di lui; volle che presso al suo letto
senza ritardo Padre Bonaventura battezzasse il neonato e gl'imponesse
tosto quel nome adorato: Maurilio; dopo tanti e tanti giorni di spasimi,
di affanni, di atrocissimi tormenti, la misera sentì finalmente un
istante di celestiale beatitudine quando, stringendosi al suo seno suo
figlio, cadde in un lieve sopore, di cui sentiva il riposo, e nel quale
pure si sentiva vivere, e sentiva fra le sue braccia il dolce carco del
figlio, sopore di cui non è descrivibile, appena immaginabile, se non da
una madre, la profonda dolcezza.

E intanto l'intendente di suo padre ed il gesuita pensavano a darle un
nuovo e massimo dolore, congiuravano per decidere il come toglierle quel
bambino condannato all'obblio, alla miseria morale e materiale del
trovatello, dall'odio implacabile di colui che era pure suo avolo.

Ben sapevano che farla acconsentire a separarsi dal suo figliuolo era
cosa impossibile; erano più che certi, quand'ella avesse avuto sentore
dello scellerato loro disegno, che Aurora avrebbe difeso il bambino
colla forza indomabile di quell'amore materno che non ha pari sulla
terra; decisero pertanto ricorrere all'astuzia, e levarle di letto il
piccino quando la fosse addormentata.

Vedete meraviglia di quel sovrumano affetto di madre! Mentre i due
tristi nella camera vicina complottavano a bassa voce, proprio come si
fa per combinare un delitto, Aurora dormiva chetamente nel più soave de'
riposi che si possa gustar mai: pareva dunque affatto propizio quel
momento medesimo ad eseguire l'empio rapimento, e i due malvagi non
vollero perder tempo; entrarono dunque con infinita precauzione in
quella stanza dove presso il letto della dormiente stavano sedute le due
cognate Modestina ed Eugenia. Ma non avevano appena varcata quella
soglia con passo guardingo, che la puerpera si svegliava in sussulto e
fissava su di loro uno sguardo inquieto, scrutatore, sospettoso,
sgomento. Un inesplicabile istinto l'aveva di subito riscossa ed
ammonita del pericolo; strinse fra le braccia il neonato e chiese a que'
due con accento in cui c'era alquanto dell'orgogliosa supremazia della
famiglia Baldissero:

— Che cosa vogliono? Perchè entrano nella mia camera senza farsi
annunziare mentr'io riposo?

L'imbarazzo ch'ella scorse sul volto dell'uno e dell'altro, accrebbe i
suoi sospetti. Nariccia si confuse in umili proteste e domande di
perdono; il frate parlò dell'interesse che aveva per la salute temporale
e spirituale di lei e dei debiti del suo ministero che lo chiamavano
intorno a chi soffrisse sì dell'anima che del corpo. Aurora giurò a se
stessa che non avrebbe smesso nè dì nè notte della più attenta vigilanza
sul suo bambino.

Rimasti un poco, Nariccia tolse licenza pel primo e passando innanzi
alla Modestina le fece un piccol cenno che le comandava lo seguisse
nelle altre stanze; la cameriera comprese e si affrettò ad obbedire;
dopo alcuni minuti anche fra Bonaventura s'alzò e partì. Aurora, per una
affatto nuova finezza d'intuizione e d'indovinamento, comprese press'a
poco ciò che si voleva: si rivolse con accalorato accento all'Eugenia
che era rimasta sola:

— Tu, le disse, mostri all'aspetto di avere un'anima bella e pietosa;
stai per diventar madre tu pure e proverai, e già senti per certo che
stretto, indissolubil legame ci avvince alla creatura delle nostre
viscere; per la pietà che l'ispirano i casi miei, per l'amor di Dio, per
quell'essere che avrà vita da te, Eugenia, ti scongiuro, tu non
tradirmi, tu non unirti a chi vuole i miei danni, tu aiutami a difender
me e mio figlio dalle insidie altrui.

La povera donna aveva gli occhi e la voce pieni di pianto. Eugenia
commossa promise tutto ciò che volle l'inferma.

— Vogliono disgiungermi da mio figlio, continuava quest'essa, lo sento,
lo so. Mio figlio che è l'unico bene che mi rimane!

Prese il bambino, lo sollevò all'altezza della sua faccia e lo baciò con
passione.

— Povero piccino! Nato appena, hai già nemici così accaniti che ti
vogliono togliere tutta la ventura che ti ha concesso Iddio, l'amor di
tua madre. Eugenia, se tu vuoi che la Provvidenza conceda fortuna a tuo
figlio, sta dalla mia parte e concorri meco a salvarmelo.... Dio!
Puniscimi de' miei falli nella più crudel guisa che tu vuoi, ma non in
questa, non togliendomi questo povero innocente. Lo raccomando alla tua
pietà, Vergine Santa, che conoscesti l'amore di madre; mi raccomando
anche a te, anima di mia madre, che non devi volere tanto strazio della
tua figliuola.

Un'idea le venne, quasi un'ispirazione, staccò dal capoletto il rosario
d'agata di sua madre, cui aveva portato seco e lo passò al collo del
neonato, come volendo porlo con ciò sotto l'immediata protezione di
quell'anima benedetta.

— Questo rosario, soggiunse, ti sia, o Maurilio, come un sacrosanto
talismano. Tu non avrai a lasciarlo più nella tua vita.... Ricordatene
anche tu, Eugenia, e s'io morissi, lo dirai tu a mio figlio: «quella è
la memoria di tua madre, serbala cara come un pegno dell'amor suo.»

In questo frattempo, nella camera vicina Nariccia e Padre Bonaventura
riuscivano senza troppi sforzi, colla promessa d'una somma in di più di
quelle già stipulate, a trarre complice al loro proposito la Modestina.
Bene pareva dapprima a costei troppo crudel cosa quella che le veniva
proposta a danno della sua padrona; ella aveva sì immaginato che quel
figliuolo d'un matrimonio odiato e disprezzato dal marchese sarebbe
tenuto lontano dalla nobile famiglia ed aveva anzi contato che ella
stessa potrebbe fare dei buoni guadagni in proposito, dando come nutrice
al bambino l'Eugenia che fra pochi mesi sarebbe stata madre ancor essa e
facendosi accettare lei medesima come allevatrice e custode di esso: mai
più non avrebbe creduto che quell'innocente bambino fosse gettato fra i
trovatelli e che essa a codesto avesse da por mano; ma quella certa
somma che ho detto vinse ogni scrupolo.

La sorte volle favorire essa medesima gli empi disegni orditi a danno
del figliuolo di Valpetrosa: una violentissima febbre sopravvenuta ad
Aurora, pose e tenne in grave pericolo parecchi giorni la vita di lei e
la trasse per una settimana affatto fuor di senno. Nariccia pensò
opportunissima l'occasione di fare sparire il bambino. Modestina essa
medesima lo prese dal letto della madre assalita dal delirio; ma
Eugenia, che aveva data pochi giorni prima alla infelice madre la
promessa che noi sappiamo, tentò con ogni suo mezzo opporsi all'iniquo
ratto. Ebbe essa tutti contro di sè, anche la cognata, e finì per cedere
più che all'autorità di Padre Bonaventura, che impiegò tutti i mezzi
della sua eloquenza gesuitica a persuaderla, alla promessa d'una somma
che le assicurava un boccone di pane per quel tempo in cui la nascita e
le prime cure da darsi a quella creatura ch'ella portava nel suo seno le
avrebbero impedito di poter lavorare tanto da guadagnarsene.

Nariccia avrebbe egli medesimo recato seco l'infante e dispostone a suo
grado, senza che nessun degli altri complici sapesse il come. Eugenia
pregò che almanco al collo del bambino si lasciasse il rosario che la
madre gli aveva messo, come vedemmo, e che alcun altro segno gli si
ponesse per cui poterlo riconoscere poi in quell'ospizio od in
quell'altro luogo qualunque in cui l'infelice venisse abbandonato.
Modestina entrò facilmente nelle ragioni della cognata; una specie di
sentimento superstizioso la persuase che s'ella a quel misero, cui
concorreva a rigettar dal seno della famiglia, dèsse alcun mezzo per cui
gli fosse possibile poi il rinvenire ancora questa famiglia medesima,
diminuirebbe la gravità del suo fallo; pose in un sacchetto fatto
appositamente il rosario d'agata, un bottone di livrea che aveva
appartenuto a suo marito, domestico un tempo della casa de Meyrand, ed
un biglietto, che scrisse ella medesima, per dire a coloro, chiunque si
fossero, nelle cui mani capitasse il neonato, qual nome fosse il suo e
per raccomandarlo alla loro pietà, e quel sacchetto unì alle fascie onde
il bambino era avvolto. Nariccia lo prese con sè tal quale una notte e
partissi solo con esso in un legnetto che guidava egli stesso, senza che
alcuno mai sapesse a qual parte si dirigesse. Stette assente parecchi
giorni e poi tornò presso di Aurora; ma il giorno prima erasi egli
presentato al marchese padre ed avevagli detto:

— Tutto è aggiustato.

— Aurora? Aveva domandato il marchese fissando lo sguardo interrogativo
sul suo intendente.

— Le nacque un figliuolo.

— E?...

— E questi è sparito.

— Morto?

— No: ma finchè Ella vorrà sarà come se sia tale.

— Lo vorrò sempre: disse con voce secca il marchese.

Nariccia s'inchinò.

— E sarà secondo il suo volere.

— Voi sapete dove egli si trova?

L'intendente fece un cenno affermativo.

— E se voleste rinvenirlo ancora, lo potreste?

— Signor sì.

— Gli avete lasciati mezzi di riconoscerlo?

— Glie li ho lasciati.

— Ed alcun altro li conosce?

— Signor no. Fuori di me nessuno potrebbe riaverlo.

— Sarà il meglio che questo modo lo dimentichiate anche voi.

Nariccia tornò ad inchinarsi senza rispondere.

Il marchese si alzò, prese da uno stipo un forte sacchetto di denari e
lo pose in mano all'intendente.

— Eccovi trenta mila lire: disse: ne darete venti mila a quell'ospizio
che voi sapete perchè sieno conservate a quell'esposto consegnato nel
giorno e nell'ora e coi connotati che voi indicherete: il resto vi
risarcirà delle spese che avete dovuto incontrare in quest'occasione.

Nariccia prese i denari, s'inchinò profondamente ed uscì senza
aggiungere parola. Nessuno degli ospizi di trovatelli che esistevano
allora in Italia ebbe pure un soldo di quella somma. Che cosa il
trist'uomo avesse poi fatto del figliuolo di quel Valpetrosa che tanto
si era in lui affidato, non è ancora giunto il momento di saperlo, ma lo
apprenderemo poi.

Dopo quel colloquio col marchese padre, l'intendente ripartiva per la
Lombardia e giungeva nella riposta casa dove era ricoverata Aurora,
trovandola ancora nel medesimo stato di delirante e nel medesimo pencolo
di vita. Ma pure quell'infelice donna (e fu questa per lei una
ventura?), contro ogni previsione, potè resistere a quel male e
vincerlo. Un bel dì la si svegliò come da un lungo sonno, colla mente
intorpidita, rotta tutta la persona, confuse tutte le sensazioni, ma
presente la volontà, riviva la coscienza, tornata la memoria. Non si
poteva movere, ma fece uno sforzo per cui riuscì a staccare da sè la
mano e tenderla nel letto a sè vicino al luogo dove stava suo figlio;
non trovò nulla; radunò ogni suo vigore per volger la testa e con grande
stento lo potè fare; non vide nulla. Volle mandare un grido e fece un
sobbalzo nel letto per levarsi a sedere: ricadde sui guanciali e la voce
le spirò come un gemito di dolore sulle labbra. Modestina che era in
quel tempo sola nella camera le fu accosto sollecitamente.

— Che ha, signora marchesa? disse ella; e vedendo lo sguardo
intelligente con cui la padrona la fissava, soggiunse: Dio sia lodato!
Ella è pur finalmente tornata in sè.

Aurora diceva mille cose col suo sguardo acceso; ma le labbra non
poterono che sommessamente balbettare:

— Mio figlio?

Era stato deciso che alla infelice madre, se e quando risensasse, si
sarebbe detto che il bambino, durante il terribile periodo trascorso
della infermità di lei, era morto; ma ora, vedendone tanto spasimo,
giudicando che tal novella sarebbe stato un precipitarla di nuovo in
quello stato da cui appena era venuta fuori, sarebbe anzi molto più
facilmente un ucciderla addirittura, Modestina non ebbe il coraggio di
darle un colpo così crudele. Rispose adunque esitando che il piccino si
era dovuto per forza allontanarlo per dargliene una nutrice, ma che
Aurora intanto non istesso in pena per lui, al quale in ogni modo era
accuratamente provvisto.

L'inferma trovò per prima cosa che si sarebbe dovuto far venire questa
nutrice presso di lei, piuttosto che allontanare da lei il figliuolo;
volle sapere se il luogo dove egli era a balia fosse lontano, se lo si
sarebbe potuto aver di frequente colà dove essa giaceva inferma, che già
star lungo tempo senza vederlo, non la voleva a niun patto; se la
famiglia presso cui s'era allogato il bambino fosse tale da ispirare
tranquillità e fiducia per le cure che si avessero di lui: alle quali
cose tutte, Modestina, non preparata, rispose impacciatamente e con
affatto nessuna soddisfazione di Aurora.

Ed era già costei piena di dubbi parecchi e di ansie indefinite, quando
sopravvenne Padre Bonaventura, al quale con più ardore, con più
sollecita insistenza ella rivolse le interrogazioni medesime.

Il gesuita sedette presso al letto dell'inferma, cogli occhi bassi, le
mani incrociate sul ventre, la mossa d'uomo in sè raccolto, scambiò due
o tre occhiate colla Modestina che gli ammiccava di soppiatto per
significargli come la pietà le avesse consigliato di parlare alla
padrona un po' diversamente da quel che era stato inteso fra di loro, e
quando Aurora ebbe finito le sue domande e stava attendendo ansiosamente
risposta, il frate diede alle sue sembianze l'espressione d'un intimo,
profondo cordoglio, d'un rassegnato dolore, mandò un sospiro, levò gli
occhi al cielo, e tutto compunto incominciò un sermoncino di melliflua
rettorica per esporre che questa terra è una valle di lagrime, che Dio
non vuole si metta nella creatura tutto il nostro affetto, che dobbiamo
prepararci alle grandi prove e sostenerle con fermo animo, quando le ci
arrivano, eccetera, eccetera.

La povera madre che aveva notalo l'impaccio della cameriera, gli sguardi
scambiati fra costei ed il gesuita, interruppe ad un punto quella
predica con un grido straziante che partiva dal profondo dell'anima.

— Gran Dio! Mio figlio non è più!

Le rispose troppo eloquentemente il silenzio della cameriera e di Padre
Bonaventura. L'infelice arrovesciò il capo sui guanciali, divenne più
pallida che un cadavere, chiuse gli occhi e mandò un fievol gemito: era
svenuta.

— Misericordia! esclamò la Modestina: ella è morta.

Il gesuita si curvò sulla giacente ad esaminarne l'aspetto, e le pose
una mano sul cuore.

— No, diss'egli; la Provvidenza non le vuole far questa grazia.

Si dovette ricominciare la lotta colla morte, ed anco questa volta
vinsero la gioventù e la natura.

Ma una persona era intorno all'inferma che aveva di lei la massima pietà
e sentiva nel cuore un cocente rimorso dei fatti suoi: la povera
Eugenia. Ella si diceva di aver empiamente mancato alla solenne promessa
da lei data ad Aurora di fare ogni possibil cosa affine di salvarle il
figliuolo; degli spasimi che soffriva la madre orbata ella accusava sè
stessa che se avesse mantenuto fede, avrebbe potuto conservarle allato
il bambino. Qual modo avrebbe potuto avere per ciò non sapeva bene; ed
anzi talvolta per iscusarsi innanzi a sè stessa dicevasi che nessuno
affatto era in poter suo e lo avesse anche tentato, ella ad altro non
sarebbe riuscita che a farsi cacciare di colà; ma pur tuttavia non
poteva tranquillare la sua coscienza. Non aveva ella accettato un
compenso pel suo silenzio? Lo aveva fatto per suo figlio: ma doveva ella
per un vantaggio al suo sacrificare il figliuolo della donna che in lei
s'era affidata? Un pauroso presentimento, allora invadeva il suo animo.
Codesto le avrebbe recato disgrazia; Dio ne l'avrebbe punita, dicevasi;
ma purchè non la volesse punir poi nel figliuol suo! Raccapricciava a
questo pensiero. Se la sorte l'avesse voluta colpir poi colla pena del
taglione? Se anco a lei una mano crudele venisse a rapir poi quel frutto
delle sue viscere che già amava cotanto? Sentiva allora che togliere un
figlio a sua madre era il più iniquo delitto che si potesse compire: ed
ella di questo infame delitto s'era fatta complice! Infelice! I suoi
paurosi presentimenti dovevano aver ragione; ed ella stessa un anno dopo
doveva provare, prima di morire, lo spasimo atroce di vedersi rapito il
figliuolo.

Codesto faceva che amorosissime, incessanti, piene d'uno zelo
impareggiabile fossero le cure che Eugenia prodigava all'inferma.
Avrebbe dato tutto di sè per restituirle la salute e il figliuolo; la
sua vita non fosse stata necessaria per un altro essere, avrebbe offerta
anche quella in benefizio d'Aurora.

A questa intanto ritornando a poco a poco la salute e la possibilità,
non certo la voglia di vivere, era più forte rinato il desiderio di
conoscere ogni particolarità della morte del suo bambino. Voleva le si
dicesse ogni menoma cosa che riguardasse quel luttuoso avvenimento;
domandava dove fosse stato il corpicciuolo sepolto, voleva che colà
sorgesse un modesto tumulo a segnarne il luogo che sarebbe stato in
avvenire meta a frequenti e pietosi di lei pellegrinaggi, moveva
un'infinità di interrogazioni che mettevano in imbarazzo le due donne e
sopratutto l'Eugenia, alla quale sentendo per lei più simpatia, Aurora
volgeva con più amorevole insistenza, con più pressante supplicazione le
sue domande.

Eugenia non sapeva mentire. Oltre ciò, col pensare e ripensare a quel
crudele atto a cui ella aveva partecipato in danno della povera Aurora,
aveva finito per giungere alla conclusione che il male cagionato non era
irrimediabile; ella sapeva quali contrassegni fossero stati posti al
bambino, mercè cui poterlo riconoscere; svelando tutta la verità alla
giovane madre, questa poteva ottenere da Nariccia le dicesse il luogo
dove il fanciullo era stato abbandonato e, per via di que' certi indizi,
riaverlo: stava adunque discutendo seco stessa intorno all'opportunità
di tutto rivelare ad Aurora. Questa, da parte sua, guidata da una specie
di segreto istinto, aveva maturamente riflettuto seco stessa
sull'imbarazzo, sulle incertezze, sulle contraddizioni che aveva dovuto
notare nelle risposte fatte alle sue domande intorno la morte del
bambino, ed una vaga, inesplicabile speranza le era nata in cuore che la
si fosse voluta ingannare, che il suo figliuolo non fosse morto. Le
pareva impossibile che ella potesse rimanere ancora sulla terra quando
ne fossero partiti lo sposo ed anco il bambino; Dio avrebbe avuto tanta
pietà almeno da farla morire, lei pure; se la aveva conservata malgrado
tutto a questa vita, gli era dunque ch'ella ci aveva da fare ancora
qualche cosa, e qual altro dovere poteva incomberle oramai fuor quello
di madre?

Da queste mutue disposizioni dei loro animi avvenne che una volta
finalmente che Aurora ed Eugenia eran rimaste sole, si fu molto presso a
venir fuori la verità. La figliuola del marchese aveva riprese le sue
dimande e le ripeteva con maggiori l'insistenza e la pressa; la cognata
di Modestina rispondeva più impacciata che mai. Aurora la guardava con
occhi penetranti che parea le volessero leggere nell'anima, e nella sua
voce si mise a palpitare, per così dire, un'emozione che era l'effetto
di un'incantevole speranza.

Ad un punto ella afferrò vivamente la mano della giovane, che teneva gli
occhi bassi ed era presa ancor essa da un notevolissimo turbamento.

— Eugenia, le disse con ineffabile passione, oh! ditemi il vero voi, oh
non vogliate ingannarmi voi pure!... È un sogno illusore che nacque
nella mia fantasia? è la voce del cielo che mi parla segretamente
all'anima? Una folle speranza mi è entrata in cuore.... Io non sono
tanto infelice come mi si vorrebbe far credere.... Mio figlio non è
compiutamente perduto per me, come sarebbe se lo possedesse la tomba....

La cognata di Modestina non ci resse; sollevò i suoi occhi in cui in
mezzo alle lagrime di commozione brillava la gioia di poter dare a
quell'afflita madre un conforto: con una famigliarità che non s'era mai
permesso e che ora pareva concederle la solennità del momento, ella
afferrò le mani della marchesina e le strinse forte.

Aurora indovinò la buona risposta che stava per uscire dalle labbra
tremolanti di quella donna; gittò un grido di giubilo e disse
affannosamente:

— Ah! Mio figlio vive?

Eugenia non aveva che un monosillabo da pronunciare per dar la risposta;
ma non lo potè profferire. Suonarono ad impedirglielo un passo e poi
tosto una voce d'uomo.

— Ritiratevi Eugenia: disse questa voce: debbo parlare alla signora
marchesa.

Le due donne si volsero in sussulto, Aurora contrariata, Eugenia
esterrefatta; era loro dinanzi la faccia scialba, falsa ed antipatica di
messer Nariccia.

— Che mi volete? domandò asciuttamente Aurora, appena Eugenia fu uscita
della stanza.

— Esporle gli ordini che ho ricevuti or ora da S. E. il marchese suo
padre.

— Quali sono?

— S. E., stomacata delle gazzarre rivoluzionarie che succedono in
Piemonte, se n'è partito e trovasi a Modena: mi ordina di andarvelo a
raggiungere.

— Ed io?

— Ella sarà condotta in pari tempo da Padre Bonaventura a quel monastero
che egli medesimo ha scelto.

Aurora si drizzò in piedi con vivacità.

— Io! Ad un monastero!

— Il marchese lo ha ordinato.

— Mostratemi la sua lettera.

— Eccola.

La giovane la lesse, e poi rimase un poco immobile, assorta in profonda
riflessione. Che cosa doveva ella fare? e che cosa avrebbe potuto se non
obbedire? Curvò la testa e disse con voce appena intelligibile:

— Sta bene: farò quel che vuole mio padre. Nariccia si dispose ad uscire
senz'altro: ma quando fu alla soglia, colla mano già sulla gruccia della
serratura, Aurora si riscosse e fece vivamente alcuni passi verso di
lui.

— Udite: diss'ella con accento quasi di supplicazione.

L'intendente si fermò e stette in attitudine di chi aspetta gli ordini
d'un suo superiore. La marchesina gli parlò con tutta la più soave
dolcezza della sua voce.

— Voi non avete alcuna ragione di volere il mio male. Che cosa vi ho io
fatto perchè abbiate da essermi nemico?

— Io sono il più fedele de' suoi servitori: rispose Nariccia colla sua
più ipocrita sembianza.

— Ho una voce in cuore che mi dice mio figlio non essere morto.... Ah!
io avrei per voi la maggiore riconoscenza del mondo, se voi foste così
pietoso da restituirmelo.

Nariccia alzò dalla punta de' suoi scarponi lo sguardo de' suoi occhi
birci, e lo fece guizzare un momento sulla faccia d'Aurora.

— Suo figlio? diss'egli poi colla voce flebile di chi con pena si decide
a parlare di cosa altrui dolorosa. Perchè la vuole tornar sempre su
questo per lei crudelissimo argomento? Oh! se io potessi
restituirglielo! Che cosa non farei per ciò? Ma la terra non rende più
la sua preda.

Aurora, dimentica un momento di quel suo riserbo di maniere con cui
aveva sempre trattato Nariccia, lo prese ad un braccio e glie lo strinse
forte.

— Mi giurate voi che il mio bambino è morto davvero? Me lo giurate
sull'anima vostra?

Nariccia, che conosceva perfettamente la teoria gesuitica delle
restrizioni mentali, rispose senza punto esitare:

— Glie lo giuro.

La giovane lasciò andare il braccio di lui, e le mani le caddero
abbandonatamente lungo il corpo con desolata rassegnazione.

— Partirò quando si voglia: diss'ella dopo un poco, facendo un atto che
indicava preferire a quel momento rimaner sola, e Nariccia s'affrettò a
levarsi dalla presenza di lei.

— Che cosa avete detto? Domandò l'intendente con feroce cipiglio ad
Eugenia, avutala sola tosto dopo quel colloquio con Aurora. Che cosa
avete lasciato capire alla marchesina?

Eugenia, allibita, non seppe che cosa rispondere.

— Traditrice: riprese più niquitoso che mai il tristo. Voi ora, tosto,
senza un minuto d'indugio, prendete le vostre robe ed uscite di questa
casa.

La misera, senza il menomo cenno di resistenza, si dispose ad obbedire.
Avrebbe voluto vedere ancora la padrona cui stava per abbandonare per
sempre, ma non le fu concesso. Nariccia per punirnela avrebbe anche
voluto privarla affatto di quella somma che le era stata promessa per
comprarne il complice silenzio, ma in ciò Modestina si intromise
efficacemente, ed aiutata da Padre Bonaventura ottenne che ciò nulla
meno Eugenia non fusse priva del pattuito compenso. Usci essa di quella
casa nè le si diminuì il rimorso del suo passivo concorso a quell'empio
delitto che ogni giorno le sembrava maggiore, di avere derubato ad una
madre il figliuolo; e molte volte anco di poi fu sul punto di rinviare a
chi l'aveva pagata i mal guadagnati denari, per riprendere il diritto di
dar compiutamente ascolto alla sua coscienza e rivelar tutta la verità
in una lettera alla marchesina Aurora.

Ma com'avrebb'ella fatto poscia per vivere? Tornare a Torino le
ripugnava profondamente: preferiva rimanere dove non si sapesse che suo
padre e suo marito erano condannati in carcere per truffa; pose la sua
dimora a Milano e cercò lavoro per guadagnarsi la vita. Presto conobbe
che non era così facile il trovare questo lavoro, principalmente a lei
nello stato di gravidanza inoltrata in cui si trovava. Se non avesse
avuto la somma pagatale da Nariccia avrebbe dovuto morire di fame essa
stessa, altro che poter bastare alle provviste necessarie pel nascituro,
ai bisogni di quest'esso quando fosse venuto al mondo. Ritenne con pena
il male acquistato denaro e si tacque.

Aurora frattanto era stata condotta al monastero scelto da Padre
Bonaventura. Aveva ella domandato di Eugenia e meravigliatasi assai
dell'improvvisa di lei sparizione, ed erale stato risposto da tutti
d'accordo che, venuta prima che si credesse a maturanza la gestazione di
lei, aveva essa dovuto allontanarsi sollecitamente per disporsi al parto
che in quella casa non si doveva, nè si voleva avesse luogo. La
spiegazione era affatto naturale, ma tuttavia sembrava ad Aurora che un
momento avrebbe pur potuto averlo Eugenia a venirle dare il saluto
d'addio, e un intimo sospetto ch'ella si guardò bene dal manifestare ad
alcuno, l'avvertiva che par null'altro erasi impedito fra lei e quella
donna un ultimo colloquio che pel timore si ripigliasse fra loro quel
discorso cui la venuta di Nariccia aveva in sì mal punto interrotto. La
speranza convien dire che sia un'edera tenace e vivacissima quando
s'attacca al cuore d'una madre e per poco favorevoli che trovi le
circostanze pur vive, poichè un vago sentimento di essa, una specie di
lusinga continuò ad esistere nel fondo dell'anima di Aurora, cui ella
nascose quasi come un tesoro che temesse le venisse rapito, e ad
appurare la verità del quale sentimento ella si riprometteva di
impiegare ogni mezzo che le si presentasse ed appena potesse.

Modestina Luponi, pagata de' suoi servigi, fu congedata colle più serie
minaccie s'ella parlasse, e fra Bonaventura e Nariccia s'incaricarono di
vegliare sul suo silenzio. Ella, datasi in preda alla più sregolata
vita, non istette gran tempo che cadde nella miseria, vide, come udimmo
da lei medesima narrato, volgere a male sua figlia, e visse finalmente
di elemosine col raccattato nipotino di cui traeva, come sappiamo,
profitto, elemosine alle quali concorreva dapprima la famiglia
Baldissero e poi, quando l'attuale marchese, stomacato di lei, proibì la
si lasciasse ancora entrare nel suo palazzo, che la aiutava a guadagnare
Padre Bonaventura, rimasto sempre con lei in abbastanza intime
attinenze.

Aurora stette un anno circa nel monastero. Passato questo tempo, suo
fratello tornò di Spagna. La sua anima buona e generosa era tormentata
dal rimorso di tutto il male che aveva fatto a quella sorella, cui aveva
amato ed amava tuttavia pur tanto. Si adoperò presso il padre affinchè
Aurora fosse ripresa come prima in famiglia, posto compiutamente in
oblio, come se non fosse avvenuto mai, tutto il passato. Ma il marchese
padre disse che non altrimenti sua figlia avrebbe potuto degnamente
tornare e non sarebbe tornata alla società che al braccio d'uno sposo,
il quale coll'onorevolezza del suo nome coprisse tutto il disdoro
dell'episodio trascorso; Aurora da canto suo si mostrò riluttante ad
ogni modo a entrare di bel nuovo nel seno della famiglia, in quel luogo
pieno di memorie ora tanto dolorose per lei, in mezzo a persone che
avevano cagionato la sua irrimediabile sventura. Si rifiutò ella persino
a tutta prima a rivedere suo fratello che supplicava caldamente di
poterle andare a chieder perdono; e acconsentì finalmente a riceverlo,
perchè un nuovo disegno era nato in lei, attinente sempre a quella
incerta, irragionevole speranza che pur durava nel suo cuore.

Con qual animo si trovassero a fronte dopo tanto tempo e dopo le cose
intravvenute, fratello e sorella, è più facile immaginare che
descrivere. Il cuore palpitava ad entrambi, a lui di tenerezza soltanto;
a lei parte di commozione nel trovarsi a fronte il compagno della sua
infanzia, l'amico più caro della sua giovinezza, parte d'odio nel
pensare che quello era pur l'uccisore del suo Maurilio.

I primi minuti del colloquio furono penosamente impacciati. Fu Aurora
medesima che dominata dal concepito disegno, diede per prima più animata
andatura al discorso. Disse al fratello le sue vaghe speranze, aggiunse
che allora avrebbe perdonato a chi le aveva tolto il marito, quando egli
le avesse restituito il figliuolo. Il marchese non potè a meno che
trovare destituiti d'ogni buon fondamento quei dubbi onde si lusingava
l'amore materno d'Aurora: ma pure promise a lei ed a se stesso che tutto
avrebbe fatto per venire in chiaro della verità e se la cosa era
possibile, egli ad ogni costo avrebbe ritornato fra le braccia della
misera madre il bambino.

Per saper qualche cosa in proposito non gli si presentava che un mezzo:
quello d'interrogare la persona che da suo padre era stata incaricata di
accudire ad Aurora, l'intendente Nariccia; ed il marchese, benchè senza
la menoma credenza che i sospetti della sorella avessero ragione, si
recò da lui. Nariccia a quel tempo aveva già abbandonato il servizio
della casa di Baldissero e si era dato esclusivamente a quel bel
traffico d'usuraio che doveva gonfiare sino ai milioni la già rotonda
cifra dell'aver suo.

Non occorre dire come alle prime parole che il marchese figliuolo
diresse a quel tristo a tal riguardo, egli giurasse, e spergiurasse che
il bambino era morto per davvero, positivamente morto, e non c'era più
da discorrerne. Il fratello d'Aurora stava per partirsene, quando una
subita ispirazione suscitata in lui dal desiderio di non lasciar nulla
d'intentato per soddisfare all'assuntosi debito, lo fece arrestarsi e
ricorrere ad un argomento che, per la conoscenza cui già aveva del suo
interlocutore, sapeva potentissimo sull'animo di lui; promise che se mai
questo bambino non fosse morto e venisse ritrovato, si sarebbe disposti
a ricompensare chi lo recasse alla madre con una vistosa somma che si
lascierebbe fissare a quel fortunato medesimo a cui si dovrebbe il suo
rinvenimento.

Nariccia non fu tanto padrone di sè da non manifestare una certa
emozione onde fu sovraccolto, e il marchese che se ne accorse, cominciò
a sentire alquanto scossa la sua incredulità nei dubbi e nei
presentimenti della sorella. Ripetè le sue parole, insistette con
calore, fece ad ogni modo perchè quella emozione momentanea di Nariccia
si traducesse in qualche precisa parola, in qualche ulterior segno
soltanto onde un più sicuro concetto egli potesse farsi del fondamento o
della insussistenza di quella speranza; ma l'accorto impostore aveva
saputo metter tosto la maschera al suo volto impassibile e si rinchiuse
nelle precedenti negative espresse gli è vero con meno vigore di prima.
Il marchese uscì di colà coll'animo combattuto; stette parecchi giorni
infra due e si decise finalmente ad un grande ed audacissimo passo:
quello di aprirsene a suo padre.



CAPITOLO IV.


Nel marchese padre, da qualche tempo veniva declinando assai la salute,
ed avreste detto sfuggirgli a poco a poco la vita. Il suo carattere,
divenuto taciturno e melanconico, era pur tuttavia rimasto fiero ed
orgoglioso del pari. Usciva di rado fuor del palazzo, spessi giorni non
abbandonava il suo appartamento, di frequente non discendeva manco di
letto: non si lamentava mai di nessun male, non faceva nulla, non voleva
medico intorno a sè, amava rimaner solo, passavano dei giorni intieri
senza ch'ei disserrasse le labbra a dir pure una parola. Chi avesse
conosciuto l'intima storia degli ultimi anni passati, avrebbe potuto
dire che un interno rimorso con travaglio continuo ne consumava
l'esistenza, se il suo aspetto, l'espressione della sua fisionomia non
avessero fatto troppo aperto contrasto a tale supposizione. In lui non
c'era nulla dell'uomo che si pente o soltanto rimpiange quel che ha
fatto: nè una parola, nè pur la fugace mostra d'una sensazione. Padre
Bonaventura che il più delle volte era solo ammesso alla presenza di
lui, ed al quale non si rifiutava mai l'ingresso e il marchese pareva
tenere aperto il più riposto sacrario dell'anima sua, non udì mai
parola, non sorprese mai atto nè cenno qualsiasi da cui altra cosa si
potesse indurre se non questa: che il marchese ciò che aveva fatto
sarebbe disposto a ripeterlo di tutto punto, dove ne fosse il caso.

Eppure egli veniva morendosi a poco a poco. Tutti lo scorgevano intorno
a lui, e lo scorgeva e mostrava saperlo egli pure. Quando gli si parlava
di cose avvenire, aveva un certo sorriso sulle sue labbra tirate che
mostrava com'egli non avesse più illusione di sorta sul suo destino.
L'orizzonte del suo futuro, nel pensiero come nelle parole, egli lo
limitava alla data di pochi mesi: allo scultore aveva dato egli stesso
la commissione del bassorilievo che nel sepolcro di famiglia avrebbe
segnato la sua fossa e fissatogli il tempo in cui avrebbe dovuto essere
compito; nelle mani del Re aveva rassegnato tutte le sue cariche di
Corte, e la solitudine di cui voleva essere circondato oramai era per
lui la preparazione a morire.

E che così fosse era persuaso quant'altri mai anche Nariccia. La morte
del marchese avrebbe potuto mutare le condizioni e le convenienze del
già intendente verso la famiglia, rapporto all'episodio doloroso che
riguardava la marchesina Aurora. Le parole del fratello di costei
aprirono allo scellerato un nuovo campo di speculazioni in proposito.
Certo egli era già che la povera madre avrebbe pagato vistosamente per
riavere il figliuolo creduto morto; ora le s'aggiungeva il fratello:
destramente maneggiandosi egli avrebbe potuto ricavare e dall'uno e
dall'altra i migliori guadagni del mondo, se la paura del vecchio
marchese non ne lo avesse ad ogni modo trattenuto. Ma questa paura
poteva dileguarsi: pochi mesi ancora, e chi la ispirava facilmente non
sarebbe stato più. Che cosa avrebb'egli ottenuto dai figliuoli suoi
quando egli si fosse presentato loro col bambino ricuperato, adducendo
incontrovertibili prove dell'identità del medesimo? E giustamente il
giorno dopo quello in cui era venuto da Nariccia il fratello d'Aurora a
fargliene le aperture che sappiamo, il marchese padre, assalito da nuova
debolezza, si sentiva nell'impossibilità di levarsi di letto e
confessava esser preso da una tale languidezza che gli pareva quasi
sciolto il legame che tiene l'anima incatenata al corpo. Alcuni giorni
passarono in cui quel malore venne via via crescendo; parve all'infermo
stesso fosse opportuno farsi amministrare i sacramenti onde la religione
conforta la morte dei cristiani, e fra' Bonaventura a cui glie ne disse,
pensò a tutt'altro che a dissentire.

Codesto spinse vieppiù Nariccia alla determinazione di adoprarsi in
guisa da potere, morto il marchese, presentare ad Aurora il bambino
fatto rivivere; vedremo più tardi come e che cosa egli facesse per ciò;
ma intanto si può dire fin d'ora che in breve tutto fu da lui immaginato
e preparato, perchè dopo la morte del vecchio marchese fossero
soddisfatti i voti e le speranze d'Aurora.

E di costei che cosa ne avveniva? La cresciuta infermità del padre e
l'avvicinatosi pericolo avevano consigliato al fratello d'Aurora di
tentare una riconciliazione fra il moribondo e la figliuola. Al primo
fece, per mezzo di fra' Bonaventura, inculcare la virtù del perdono,
alla seconda scrisse egli medesimo dicendo esser obbligo de' figli
innanzi all'agonia de' genitori obliar tutto e cancellar dall'animo
anche i più giusti risentimenti. Riuscì ad ottenere che il padre
consentisse ad accogliere la figliuola, e questa non si rifiutasse ad
entrare di nuovo nella casa paterna. Tra padre e figlia nel ritrovarsi
in presenza di nuovo dopo tali e tanti avvenimenti, non si scambiò una
parola d'affetto, nè un cenno pure qualsiasi che alludesse a quanto era
passato. Fu peggio che freddo il loro contegno: il dovere solo riuniva
ora quelle due persone fra esse, non più la menoma corrente di
benevolenza; nel contegno del vecchio, anzi, un'irritazione quasi un
accanimento d'ostilità, frenato, ma non punto sminuito da quello che
aveva voluto la morte di Valpetrosa e le lagrime amarissime d'Aurora.

Questa si pose a dare al padre tutte quelle cure che lo stato di lui
richiedeva, che il suo dovere di figlia imponevale; ma il vecchio mostrò
che quelle attenzioni e la presenza medesima di lei tornavangli
fastidiose, ed Aurora si tenne, per quanto le convenienze permettevano,
lontana dal letto e dalla camera paterna.

In questo stato di cose il marchese figliuolo ebbe l'infelicissima
ispirazione di credere che il vecchio padre non avrebbe voluto scendere
nella tomba senza riparare, quando ciò si potesse, al soverchio dolore
dato alla figliuola, alla barbara ingiustizia usata verso l'innocente di
lei creaturina, se pur era vero che il bambino vivo fosse stato
strappato alle braccia della madre, e condannato al disonore ed alle
miserie del trovatello. Aspettò un di in cui parve tornato qualche poco
più di forza all'infermo, e chiamando in aiuto tutto il coraggio ond'era
capace, entrò risolutamente nel discorso, e disse a suo padre dei
sospetti di Aurora, del passo ch'egli aveva fatto presso Nariccia,
dell'ambiguo contegno di costui onde ancor egli aveva sentito qualche
dubbio cui prima non avrebbe accolto mai, e finì colle più calde
suppliche e deprecazioni affinchè, se tanta crudeltà era stata veramente
commessa, non si tardasse oltre a rimediarvi, non volesse il malato
tenere sotto il peso di sì grave risponsabilità la sua vecchiaia. Il
marchese padre al discorso del figliuolo rimase in apparenza
perfettamente insensibile, da un vivo lampeggiar d'occhi all'infuori che
alle prime parole udite gli accese lo sguardo e poi tosto si spense.
Quando il fratello d'Aurora si fu taciuto, il vecchio volse verso di lui
un sogghigno ironico ed una faccia beffarda.

— E tu credi a codeste fandonie? diss'egli. Un diplomatico tuo pari, un
uomo d'ingegno, come ti ho sempre creduto!... Va, lasciami tranquillo, e
non venire altrimenti a turbare la mia quiete con simili fiabe.

Ma rimasto solo, il vecchio marchese fece venire a sè il suo servo di
confidenza e gli comandò senza indugio, andasse in cerca della Modestina
e glie la menasse il più sollecitamente possibile, facendola passare per
la segreta scaletta del palazzo e in ora tale che i figliuoli di lui non
potessero non che vederla, ma neppure avere il menomo sentore della sua
venuta. Fu egli prontamente obbedito, e poche ore dopo, quella che
doveva poi essere sopranominata la _Gattona_, trovavasi presso al letto
del vecchio marchese. Questo esigeva da lei gli raccontasse la verità,
ma proprio e tutta la verità di quello che era accaduto alla nascita di
quel bambino, cui egli aveva voluto e voleva per l'affatto smarrito; e
lo esigeva in quel modo con cui sapeva imporre a chiunque l'ubbidienza
ed a cui non c'era caso di resistere. Modestina disse tutto dal
principio alla fine; e il marchese ascoltò colla massima attenzione.

— Come segni di riconoscimento: disse il vecchio di poi, come per
confermare viemmeglio nella sua memoria la cosa; egli ha seco il rosario
d'agata della mia defunta, un bottone di livrea di vostro marito e la
carta scritta dalla vostra mano?

— Sì, signor marchese.

— Sta bene. Andate e non parlate con anima viva di quanto avete detto, e
sia per tutti, anco per voi, come se qui non foste oggi venuta, come se
questo colloquio non avesse avuto luogo mai.

Modestina giurò il più assoluto silenzio e se ne fu a' fatti suoi. Il
marchese meditò tutto quel giorno profondamente e non volle veder
nessuno nè della famiglia nè dei conoscenti tranne il fidatissimo suo
servitore. Alla sera diede a quest'esso il comando di andar a prendere e
condur seco al palazzo messer Nariccia. Con costui, del quale erasi
fatto ora mai un giusto concetto, per riuscire sicuramente nel suo
disegno, il vecchio marchese aveva pensato usare un inganno. Gli disse
che vedendosi avvicinare ogni di più il fine della sua vita, il rimorso
lo aveva assalito di aver tolto alla figliuola il suo bambino ed un gran
desiderio gli era nato di restituire a quella poveretta suo figlio,
parendogli che dopo ciò più tranquillamente avrebbe potuto avviarsi
verso la tomba; aver udito con molta soddisfazione che al bambino erano
stati posti certi contrassegni per cui riconoscerlo e poter riaverlo,
Nariccia saper egli dove questo bambino si trovasse, glie io dicesse
perchè si fosse in grado senza ritardo, di provvedere pel ricupero del
medesimo.

Nariccia, con tutta la sua accortezza, cadde compiutamente nella rete.
La cosa era troppo naturale perchè non si avesse da crederla, chi non
sapesse qual provvista d'odio avesse continuato a rammontarsi, invece
che diminuire, nell'anima fiera e crudele del marchese contro il morto
Valpetrosa e il rampollo del sangue di lui. Attonito che il marchese
sapesse così bene ogni particolare della cosa, l'ex-intendente non osò
negar nulla; ma quando il suo antico padrone volle svelasse il luogo
dove il bambino era stato posto, fu egli l'uomo più impacciato del
mondo, e per torsi d'imbarazzo fini per dire:

— A S. E. non importerà gran che il sapere ch'e' si trovi in questo o in
quell'ospizio, purchè la conclusione sia ch'Ella riabbia il bambino. Di
qualcheduno Ella avrà pur sempre bisogno il quale vada a prenderlo; chi
può far ciò meglio di me che conosco appuntino i contrassegni, e so il
giorno e l'ora precisi in cui venne il neonato deposto? Affidi dunque a
me siffatto còmpito, ed io fra quindici giorni le prometto di
presentarle il bimbo con tutti quegli oggetti che, come S. E. conosce,
ne stabiliscono l'identità.

Il marchese guardò ben fisso un istante il suo interlocutore, e poi
disse:

— Sia pure.... fra quindici giorni la cosa deve esser fatta, e conto
aver nelle mani il bambino ed i contrassegni.... Se ci mancate, guai a
voi!... Non comparitemi più dinanzi che per annunziarmi il giorno e il
momento in cui potrete farmi la consegna di quel che voglio. E di tutto
questo sopratutto, assoluto silenzio con mio figlio e con Aurora....
Siamo intesi!

Nariccia si curvò in un profondo inchino.

— Andate.

I quindici giorni non erano ancora trascorsi quando Nariccia introdotto
furtivamente presso il marchese dicevagli a bassa voce:

— Eccellenza ho nelle mie mani il bimbo.

Uno strano lampo passò negli occhi del vecchio, il quale, con impeto che
pareva indicare tornato in lui tutto il primitivo vigore, si levò a
sedere sul letto.

— Dove ce l'avete?

— A casa mia.

— Proprio desso?

— Signor sì.

— E i contrassegni?

— Ancora nel sacchetto che cucì e gli appese al collo l'Eugenia.

— Sta bene.

Successe un momento di silenzio.

— Ho da portarglielo qui io stesso quel bambino; domandò poscia
Nariccia: o che cosa ne debbo fare?

— Stassera, a mezzanotte, siate sveglio in casa vostra e pronto ad
accogliervi chi si presenterà. Verrà alcuno, a cui consegnerete ogni
cosa.

— Come si farà egli riconoscere per inviato da V. E.?

— Lo riconoscerete.

L'antico intendente non aggiunse più verbo.

Un anno o poco più era allora trascorso dalla morte di Maurilio; anche
allora si era in una fredda notte invernale come quella in cui vedemmo
cominciare il nostro racconto, e Nariccia, mentre battevano le dodici
ore al non lontano campanile della parrocchia, andava e veniva nella
fredda stanzuccia da lui abitata a quel tempo, fermandosi di quando in
quando innanzi ad una tavola sovra cui, avvolto in povere ma pulite
fascie, stava un bimbo di pochi mesi d'età, il quale dalla pallidezza
del piccolo viso, dagli occhi chiusi, dai guaiti di dolore che mandava
tratto tratto, pareva più presso a morire che non altro. L'antico
intendente non era per nulla contento dei fatti suoi, e volgendo lo
sguardo a quel fanciullo, i suoi occhi avevano un'espressione di
rincrescimento, di dispetto, di disappunto che impossibile il
descriverla. Dalla presenza di lui, Nariccia aveva sperato un momento
nuovi guadagni, maggiori di quelli che glie ne avrebbe dati il vecchio
marchese il quale non aveva promesso nulla. Dalla marchesina Aurora e da
suo fratello avrebbe egli osato domandare quel più che gli piacesse e le
sue esigenze sarebbero state subìte: dal marchese padre non poteva
pretendere nulla. Andava egli mulinando seco stesso con rabbia di questa
sua disavventura e pensando se non avrebbe potuto trovar modo per cui
raggirare il mandatario dell'antico suo padrone (e ancora non sapeva
egli tampoco chi sarebbe), quando un picchio nell'uscio lo avvertì che
la persona aspettata era giunta.

Nariccia aprì e vide entrare due uomini imbaccuccati nei mantelli, uno,
che pareva camminare a stento, sorreggendosi all'altro. Nel secondo
riconobbe tosto il servo fidatissimo del marchese, e nel primo, quando
abbassò la falda onde si copriva la faccia, dovette ravvisare con
infinita meraviglia il marchese medesimo, a cui una specie di febbre che
gli faceva lucicchiare gli occhi, unita ad una energica volontà, aveva
data la forza di sorgere e di venirsene segretamente fin là egli stesso.

— Lei Eccellenza: esclamò inchinandosi Nariccia che vide ogni
possibilità di ulteriore inganno affatto svanita.

Il marchese non rispose; andò dritto, diviato alla tavola su cui stava
il bambino e lo guardò — la similitudine è vecchissima, ma è l'unica che
si attagli — come falco che guarda la preda cui ha da ghermire. Serrò al
petto le braccia e stette un istante immobile; tutta la sua vitalità,
avreste detto, raccolta nello sguardo. Intorno a lui regnava un silenzio
di morte.

Volse di poi la faccia verso Nariccia e domandò bruscamente:

— È desso?

La sua voce aveva una vibrazione metallica che le dava un carattere più
imperioso ancora e più aspro.

Nariccia s'inchinò profondamente in segno di affermazione.

— Le prove? Ridomandò col medesimo accento il marchese.

L'antico intendente si accostò al bimbo, levò di intorno a lui un
sacchettino di tela che, appiccatogli per un legaccio al collo, stava
nascosto in un risvolto delle fascie e lo porse al marchese senza aprir
bocca.

Il padre d'Aurora aprì quella tasca e ne trasse fuori gli oggetti che vi
si contenevano; erano quelli che sappiamo: il rosario, il bottone e la
cartolina scritta dalla Luponi. Esaminò ben bene ogni cosa; poi come se
quegli oggetti gli bruciassero le mani li depose sulla tavola. Si
accostò vieppiù al fantolino, gli passò intorno al collo il cordone del
sacchetto che allora era vuoto, e si chinò su di esso a fisarlo ancora
di meglio. Cercava con avido sguardo una rassomiglianza che non riusciva
a trovare.

— È strano, disse poi, quasi parlando a se stesso: nulla vi ha in questi
tratti che ricordi quelli di _colui_... nè quelli pur di mia figlia....
Ed e' mi par molto piccino....

Si volse al servo che era sempre rimasto in un angolo con riserbatissima
discrezione:

— Venite un po' qua: gli disse. Guardate questo bambino. Vi par egli che
abbia un anno di età?

Il domestico s'appressò e guardò.

— Veramente è assai piccolo: disse.

Il marchese teneva gli occhi fissi su Nariccia, il quale stava
impassibile.

— Ma, soggiunse il servitore, di bambini a quel tempo è difficilissimo
poter giudicare a vista i mesi che hanno.

— Egli è deboluccio, a quanto pare, disse allora Nariccia, è da un po'
di giorni ch'è separato dalla nutrice, ha sofferto.

Il marchese tornò a prendere in mano e ad esaminare l'un dopo l'altro
gli oggetti che dovevano certificare la identità del figliuolo di
Maurilio. Non v'era cosa da opporvi, erano proprio dessi: il rosario che
il marchese ricordava aver appartenuto a sua moglie, il bottone collo
stemma a lui ben noto dei de Meyrand, la scritta col carattere di
Modestina. Stette ancora un poco in silenzio: non una fibra del suo
cuore palpitò di tenerezza, nè di compassione per quel povero infante,
che seguitava di quando in quando a gemicolare; poi si volse in là, come
se gli fosse uggioso il vederlo e disse a Nariccia:

— Rimettetegli addosso quella roba.

Fu caso o fu volere della Provvidenza? Mentre il marchese intendeva che
quegli oggetti fossero riposti entro la piccola tasca cui egli stesso
aveva rimessa al collo del bambino, Nariccia non fece altro che ficcarli
in mezzo ai risvolti della fascia che lo cingeva, lasciando pendere
vuoto il sacchetto al collo di lui.

— Nariccia, disse poscia il marchese con quel suo accento che era da
incutere timore a chicchessiasi: voi mi avete disubbidito, e ciò non
dimenticherò mai più. Quel bambino non aveva da trovarsi mai, e voi
stesso dovevate smarrirne le traccie: eccovelo invece innanzi agli
occhi... Ora me ne impadronisco e ne dispongo io stesso.... Stolto voi
se poteste credere ch'io mi lasciassi vincere da debolezza d'animo
fiacco e rimpiangere e voler mutare quello che ho fatto. Il figliuolo di
quel miserabile ho condannato alla sorte che gli spetta, e non ne avrà
altra nel mondo.... Voi, voi non mi comparirete più dinanzi, eccetto che
un mio ordine espresso vi richiami.

L'antico intendente non trovò parole da rispondere: era furibondo nel
suo intimo contro se stesso per esser caduto nella pania; s'inchinò
profondamente innanzi al marchese che passava più fiero che mai
dirigendosi all'uscio per partire.

— Prendete quell'involto: comandò il padre d'Aurora al servo,
accennandogli con un moto della testa il bambino: e seguitemi.

Se ne uscirono così tuttedue. Il vecchio, come se gli fosse tornata
tutta la vigoria della salute, camminava diritto della persona, colla
sua mossa superba e l'aspetto pieno d'autorità; il domestico lo seguiva
in silenzio. Si avviarono verso una delle strade le peggio rinomate
della vecchia città; e quando furono alquanto inoltrati per essa, il
marchese si fermò; il suo fidato servitore s'arrestò del pari,
interrogando collo sguardo, colla parola non osava, il padrone su ciò
che si dovesse fare.

Non v'era anima viva in quella fredda oscurità della notte; una brezza
sottile e ghiaccia soffiava alle cantonate. Il marchese additò il mezzo
dell'acciottolato della strada, dove un rigagnolo fangoso tutto
congelato rendeva ronchioso il terreno.

— Deponetelo colà: comandò al servitore.

Questi, fosse pietà che lo assalisse, o non potesse credere a tanta
barbarie nel suo padrone, esitò.

— Avete capito? disse il marchese con quell'accento che non permetteva
indugio all'obbedire.

Il servo si chinò a terra e depose pianamente su quella fanghiglia
gelata il suo fardello.

— Poverino! pensava egli: domattina lo troveranno tutto un ghiacciuolo.

Mentre stava per rialzarsi, la voce del padrone gli diede un altro
comando:

— Toglietegli quel sacchetto che gli pende dal collo e riponetelo nelle
vostre tasche.

Il domestico ubbidì; poi si volse al padrone per vedere se altro ancora
avesse da fare; ma in quella nel marchese parve venir meno ad un tratto
tutta quell'energia che fino allora lo aveva sostenuto: egli si appoggiò
alla muraglia della casa presso cui si trovava, e disse con voce appena
se intelligibile:

— Ah! mi sento mancare.

D'un balzo il servitore gli fu presso e lo sorresse nelle sue braccia.

— Glie l'avevo detto io, Eccellenza, che non si avventurasse a tanto
sforzo.

— Conducetemi a casa: mormorò il vecchio, abbandonandosi nelle braccia
del servo, il quale recandoselo quasi in braccio, s'affrettò verso il
palazzo, vi penetrò per la porticina e la scaletta, e senza che alcuno
avesse pur sentore della loro uscita, lo guidò nel suo appartamento e lo
coricò, mentre i denti del vecchio battevano dalla febbre.

Due ore dopo, il marchese alquanto riconfortato, disse al servo che non
s'era mosso dal suo fianco:

— Datemi qui quel sacchetto.

Il domestico se lo trasse di saccoccia e lo porse al giacente; ma questi
lo ebbe appena tocco colla sua mano che mandò un'esclamazione di rabbia
e disappunto: il sacchetto era vuoto.

Il marchese credette ad un inganno di Nariccia e mandò tosto da costui
quel suo servo fidatissimo perchè ne tornasse ad ogni modo con quegli
oggetti che aver voleva in poter suo. Il domestico fu di corsa in casa
l'usuraio, ma non potè ottenerne che le più vive proteste, aver egli
rimesso addosso al bambino quei contrassegni: e il mandatario del
marchese s'affrettò allora verso quel luogo dove il fanciullo era stato
abbandonato. Era presso l'alba e un pallidissimo chiarore già spuntava
sopra la collina all'orizzonte: qualche passo di cittadino mattiniere
incominciava a suonare per le strade ancora oscure, in cui venivano
spegnendosi i lampioni municipali; alcuni carri di ortolano e di lattaio
dei dintorni facevano saltare le loro ceste e le loro bigoncie correndo
sull'acciottolato al trotto dei loro ronzini sollecitati dal chioccare
importuno della frusta. Giunto a quel luogo dove il fanciullo era stato
deposto, il servo non vide più nulla; invano percorse tutta quella
straducola, il fantolino era scomparso. Dovette ritornare con queste
novelle al suo padrone, che ne rimase assai poco soddisfatto. Pareva al
marchese che il suo proposito di volere affatto smarrita quella
creaturina, corresse così pericolo di non venire ottenuto, e un giorno o
l'altro potesse ripresentarsi innanzi alla nobile sua famiglia
quell'essere che a suo vedere ne incarnava una disgraziata vergogna.

Ma, tra le emozioni di quella notte, la rabbia del non compiuto
successo, lo strapazzo fisico che la sua volontà aveva imposto al corpo
affaticato ed infermo, avvenne che la malattia del marchese il giorno
dopo s'aggravò notevolmente, ed una settimana non era ancora trascorsa
che un mesto corteo accompagnava a Baldissero, per seppellirla nel
fastoso sepolcro de' suoi maggiori, la salma del padre di Aurora.

Questa un anno dopo acconsentiva a sposare il conte di Castelletto, il
quale l'amava tuttavia, e del quale essa ignorava compiutamente la parte
avuta in quel funesto duello che le aveva tolto il primo marito. Che
ogni ulteriore ricerca del figliuolo fosse inutil cosa, le nuove
asseveranze di Nariccia congiunte colle parole del defunto marchese
avevano finito per mandare persuasi tanto Aurora medesima quanto il
fratello di lei. Da questo maritaggio nasceva poscia Virginia; ed era
questa giunta appena ai due anni, che un fatalissimo destino la orbava
del padre e della madre, e questa, morendo, la raccomandava al fratello,
a cui finalmente aveva perdonato di tutto l'animo.

Di questa lugubre storia narrava il marchese a Virginia quelle cose
soltanto ch'egli sapeva e che potevano conferire all'assunto ch'egli
s'era proposto: di far vedere alla fanciulla come un amore per uomo che
non appartenesse alla sua classe non potesse avere altro risultamento
che di dolori e sventure. Quali fossero le impressioni di Virginia
sarebbe stato difficilissimo giudicare dal suo aspetto: tanto ella aveva
ascoltato e tanto rimase anco di poi immota, senza un accento, senza uno
sguardo, senza un atto che ne rivelasse l'intimo sentire. E se avesse
dovuto dire quali fossero queste sue impressioni, non avrebbe manco
saputo ella stessa, poichè le si affollavano intralciate, confuse, poco
meno che inestricabili.

Superiore ad ogni altra era una grande compassione per la povera sua
madre. Dapprima però la sua era stata come una delusione: la madre, di
cui ella non ricordava nulla, di cui non conosceva che la mite
fisionomia dall'aria dolorosamente rassegnata, la quale le volgeva un
mesto sorriso dal ritratto ch'ella teneva appeso a capoletto come un
quadro di Madonna, la madre era per lei qualche cosa di sopraterreno, di
superiore a tutte le cose e le passioni del mondo, ed udire parlare di
cosa che poteva dirsi fallo di lei, tornava a Virginia quasi una
profanazione. Poi tosto la somiglianza del suo coll'affetto di sua madre
le destò un più ardente trasporto di simpatia verso la memoria di
quell'estinta che tanto aveva sofferto; sentì un subito moto di
repulsione verso lo zio che aveva tal dolore inflitto alla povera donna,
verso quello zio che pure era stato così buono per lei sempre, e ch'ella
s'era avvezza ad amare e venerare come padre. La barriera fra sè ed il
giovane ch'essa amava, già sapeva quasi insuperabile, il racconto dello
zio le dimostrava che era tale senza rimedio: non aveva ella mai nutrito
lusinga di speranze, ma ora più chiaro di prima le appariva l'assoluta
impossibilità d'ogni ventura.

Quand'ebbe finito il suo racconto, lo zio le prese fra le sue tuttedue
le mani e le disse con accento di amorevolezza infinita:

— Se io non fossi stato assente, Aurora, mi avrebbe confidato l'amor
suo, come tu hai fatto or ora del tuo; e sai tu quello che io le avrei
detto? «L'amor tuo è una follia: se tu vi resisti potrà esserti un
dolore, ma se ti abbandoni ad esso, sarà una colpa. Sul dolore il tempo
sparge a poco a poco pur sempre il suo balsamo infallibile, la colpa non
si cancella mai più. Tutti nella vita possono trovarsi nella cruda lotta
del dovere e della passione: per noi, classe privilegiata, questa lotta
può aver luogo più facilmente, in più frequenti occasioni, perchè sono
molti più i nostri doveri; e dobbiamo trovare nell'animo nostro tanta
forza che basti a tutti i doveri, anche quelli speciali della nostra
casta. Una fanciulla del nostro sangue non può sposare un plebeo, non
deve dunque amarlo, deve soffocare ad ogni costo l'amore che per esso
abbia imprudentemente lasciato nascersi in cuore...»

Virginia interruppe con un'esclamazione, e si levò pallida in volto,
risoluta nell'aspetto.

— Come io non isperi nulla di codesto amore, già glie lo affermai, zio;
già lo dissi al signor Benda medesimo. Viva o muoia quell'infelice, noi
siamo separati per sempre, lo so, non mi ribello a questo decreto del
nostro destino, non ripeterò l'errore della mia povera madre....
S'_egli_ vive non le prometto di cancellarmelo dal cuore. Non amerò
altri più sulla terra. Ma non lo rivedrò mai. S'_egli_ muore, voglio,
zio, vederlo un'ultima volta, dargli un ultimo addio; ed Ella non deve
negarmelo.

Il marchese fece un atto che pareva d'assentimento: e la nobil fanciulla
con mossa dignitosa e severa partissi; allora osò entrare nello studio
del padrone il cameriere, che recava: Padre Bonaventura essere venuto
lungo la giornata per parlare al signor marchese che trovavasi assente
dal palazzo, essere tornato la sera, ed averlo rinviato i domestici
dietro il preciso ordine di S. E. di nemmanco annunziarle chiunque si
fosse di persone estranee alla famiglia, aver quindi il gesuita mandato
testè una letterina pel marchese che si veniva a presentargli.

Baldissero prese quella lettera e la lesse. Era concepita ne' seguenti
termini:

      «Eccellenza.

    «Un gravissimo motivo mi spinge a domandarle l'onore d'una
    conferenza con Lei, quanto più presto Ella voglia degnarsi
    d'accordarmela.

    «Si tratta d'un importante scoperta, d'un avvenimento da non
    credersi, se non ci fossero le prove materiali e palpabili, d'un
    vero miracolo della divina Provvidenza.

    «Esso riguarda un fatto doloroso, pur troppo, della sua
    famiglia, al quale Iddio volle che ancor io avessi una parte; e
    per quanto io senta pena e ripugnanza a venirla ad intrattenere
    di quel funesto argomento, a rievocare fatalissimi ricordi, in
    presenza della gravità della cosa, sento il debito di farlo.

    «Quando V. E. mi abbia inteso, mi perdonerà, e sarà persuasa che
    altro non mi muove che l'interesse, l'affetto e la reverenza che
    ho sempre avuta e che ho per la nobile di Lei casa e con cui mi
    protesto

      «Suo Umil.mo e Devot.mo Servo

                                       «Padre BONAVENTURA
                                   _della Compagnia di Gesù_.»

Il marchese, nel leggere queste parole, provò una dolorosa scossa. Qual
poteva essere il fatto della sua famiglia a cui aveva partecipato il
gesuita, se non quello appunto del quale aveva fino allora discorso alla
nipote, e con quanta pena dell'anima, Dio vel dica! E che cosa poteva
essere il nuovo avvenimento di cui faceva cenno il frate, il miracolo
della Provvidenza ch'egli diceva riguardo a quella funesta storia?
Invero doveva pur confessare egli a se stesso che da due giorni tutto in
lui e intorno a lui pareva cospirare a far rivivere quelle sanguinose
memorie che dopo tanti anni dovevano essere e pensava egli stesso
obliterate e sepolte: tutto, il suo pensiero, il suo rinascente rimorso,
gli eventi che parevano voler riprodurre per la nipote le tristi vicende
avvenute alla sorella. Era dunque veramente la Provvidenza che veniva
preparando le cose allo scoppio di qualche nuovo episodio di quel dramma
non ancora finito? Ma quale?... Una viva impazienza, un'ansiosa
curiosità lo assalse di saper tosto che cosa fosse questo mistero
adombratogli dalle parole del frate. Fu sul punto di uscire egli stesso
e recarsi senza indugio al convento dei Gesuiti al Carmine; ma si
trattenne. Scrisse e mandò a Padre Bonaventura la seguente risposta:

«Il marchese di Baldissero aspetta a casa sua il Reverendo Padre
Bonaventura domani alle ore nove della mattina.»



CAPITOLO V.


Quella medesima sera, in cui successero i tristi fatti che abbiamo
narrati alla fabbrica dei Benda, Maurilio, ignaro di quelle funeste
vicende, avendo sfuggito ogni compagnia, perchè desideroso di rimaner
solo col tumulto de' suoi pensieri, col cumulo de' suoi affetti e delle
sue passioni, se ne tornava verso il palazzo Baldissero, ora sua dimora,
a lento passo, dopo un lungo giro fatto nella parte più solitaria della
città, insensibile all'aria frizzante della sera, quando alla cantonata
proprio del palazzo medesimo, vide un piccolo essere spiccarsi dalla
parete, e ponendoglisi dinanzi dirgli colla voce rauca d'un bambino
assiderato dal freddo:

— Giusto Lei che aspettavo; ho una commissione da farle.

Maurilio riconobbe la vocina, la faccia patita ma intelligente, l'occhio
vivo e la testa arruffata di _Gognino_ il nipote della _Gattona_.

— Tu qui? diss'egli assalito di subito da una specie di rincrescimento
d'aver perfettamente obliato il suo piccolo protetto. E m'aspettavi?

— Gnor sì. È la nonna che mi ci ha mandato e guai se me ne andavo prima
di averla vista e parlatole.

— E come sapevi tu che io sarei venuto qui in questa strada?

— Lo si seppe andando a cercare di Lei al suo antico quartiere, là, dove
l'altro dì la mi disse di tante belle cose, quando poi son venuti ad
arrestarla.

Maurilio sentì una specie di tenerezza a queste parole del fanciullo.

— Tu non le hai dimenticate le cose ch'io ti dissi? domandò ponendogli
con atto affettuoso la mano sul capo.

— Oh no.... non ancora: rispose ingenuamente _Gognino_.

— È dunque la tua nonna che ti manda in cerca di me a quest'ora?

— Non è mica lei che la vuole: gli è Padre Bonaventura.

— Padre Bonaventura! esclamò Maurilio stupito: che può aver meco da
spartire costui?

Il frate era conosciuto in tutta Torino come uno dei più influenti,
operosi ed intriganti fra i gesuiti che allora tenevano nella cosa
pubblica un'autorità incontestata, a cui nessuno osava pure opporsi: il
nostro giovane amico poi conosceva ancora più particolarmente i meriti e
le gesta di quel cotale, perchè di lui gli aveva discorso a dovere
Giovanni Selva, il quale all'influsso di quel tristo doveva la sua
esclusione dalla casa di suo padre.

Alla domanda di Maurilio, _Gognino_ non sapeva far alcuna risposta, e
non ne fece, contentandosi a stringersi nelle spalle.

— E dunque, riprese Maurilio, che hai tu da dirmi a nome di codesto
Padre Bonaventura?

— Che le ha da parlare di cose d'importanza e di premura che la
riguardano.

— Me?

— Gnor sì. E che perciò la aspetta questa sera medesima colaggiù al
convento; ed io ci ho ordine dalla nonna di accompagnarla fino dal fra'
laico portinaio e non lasciarla finchè non abbia acconsentito a venire.

Il primo impulso di Maurilio fu una viva curiosità di conoscere la
ragione di questo appello, cui, per quanto immaginasse non sapeva
indovinare: e già era per avviarsi, quando una quasi istintiva
diffidenza lo trattenne.

— E s'io non ci volessi andare a trovare quel gesuita? diss'egli al
fanciullo, che stava osservandolo con un'aspettazione che pareva quasi
ansietà.

— Ah! disse vivamente _Gognino_ con una fiduciosa ingenuità da ragazzo:
ci venga per far piacere a me soltanto. Se io non la conduco almanco
fino alla portieria del Carmine, dove la mi sta aspettando, la nonna
crederà che invece di fare secondo il suo comando, io sono andato a
baloccarmi, e me ne dà una famosa strigliatina.

Maurilio sorrise mestamente, e non disse altro più che questa parola:

— Andiamo.

_Gognino_ si mosse camminando zoppo e rattratto pel dolor dei geloni e
per l'intirizzimento delle sue piccole membra, e Maurilio gli tenne
dietro.

Erano aspettati. La _Gattona_ nel vedersi dinanzi quel giovane, sentì
entro il suo inaridito cuore di vecchia ipocrita un certo non so che da
potersi quasi dire una emozione; qualche cosa di più che una curiosità
la punse di vedere, di esaminare ben bene quell'individuo, e
piantandosegli in faccia lo squadrò ben bene coi suoi piccoli occhietti
infossati nel suo vecchio ceffo da uccello di rapina coperto di
pergamena, mentre con voce lentamente trascinata e più aspra e fessa del
solito gli veniva dicendo:

— Sia lodato Dio e la Madonna ch'Ella sia venuta. Avevo paura che la non
volesse dar retta alle parole di _Gognino_. E sarei pure andata io ad
aspettarla per la strada; ma una povera vecchia mia pari a questa fredda
brezza di notte star ferma impiantata c'è da lasciar subito le sue
quattro miserabili ossa. Ho pregato tanto il mio santo protettore e la
santissima Vergine che....

A Maurilio lo sguardo fisso, scrutatore della vecchia dava un
inesplicabile fastidio, quasi un'irritazione; le parole di lei gli
producevano un'impazienza uggiosa; sentiva una più spiccata ripugnanza
per quell'essere degradato.

— Eccomi qua: interrupp'egli bruscamente. Se son venuto gli è, perchè
non credeste che Luchino avesse mancato di ubbidirvi, chè altrimenti non
avrei visto ragione alcuna di rendermi all'invito di Padre Bonaventura,
che non mi conosce, ch'io non conosco, e col quale non ho attinenza di
sorta.

— Ah! esclamò la vecchia con un'espressione di zelo e d'interesse che
ognuno avrebbe detta esagerata: la non si penta d'esser venuta, sa!...
Ella volle farmi del bene, a me ed al mio nipotino, e mai non fu carità
nessuna così presto e così largamente ricompensata dal Cielo....
Ringrazio la bontà divina che mi volle così presto esaudita nelle mie
preghiere.... Questa povera e umile vecchia, questa abbietta creatura
volle Iddio fosse stromento de' suoi decreti; e per cagion mia Ella
potesse finalmente....

Maurilio ricordò le parole che gli avevan detto Don Venanzio e Giovanni
Selva del colloquio avuto da costoro colla vecchia, nel quale essa aveva
preso l'impegno di fare fra due giorni importanti rivelazioni sulla
nascita di lui; non dubitò punto che gli ambigui detti della _Gattona_
non avessero rapporto a codesto, e impallidito per subita forte emozione
si accostò a lei d'un passo e disse con voce tremante:

— Parlerete voi dunque? Potete voi dunque squarciare il mistero, e
volete farlo?

— Si calmi: rispose la _Gattona_ indietrandosi: io, come da un pezzo la
direzione della mia coscienza, ho posto questo delicato affare nelle
mani di quel sant'uomo, di quel perfetto religioso che è Padre
Bonaventura. Questi ha desiderato appunto parlarle in proposito, e saprà
dirle quello che conviene....

— E dov'è questo Padre Bonaventura? proruppe con impazienza Maurilio.
Conducetemi adunque da lui.

Il frate laico si fece innanzi.

— Abbia la bontà di seguirmi, disse, ch'io ho l'ordine di condurla alla
cella di lui.

Maurilio non rispose che con un gesto impaziente e vibrato che
significava: — Andate, vi seguo.

Il portinaio prese in mano un lanternino acceso e s'avviò seguito dal
giovane; la _Gattona_ tenne dietro collo sguardo a quest'ultimo, finchè
l'uscio richiudendosi glie ne tolse la vista.

— Non lo avrei mai più immaginato di quella fatta, diss'ella fra sè; chi
lo direbbe mai, a vederlo, figliuolo d'una marchesina, com'era quella
creatura là che pareva un angioletto, e di un sì bel giovane, chè gli
era proprio bellissimo daddovero. Non ci ha punto di rassomiglianza nè
coll'uno nè coll'altra, eccetto gli occhi.... Ah sì, quegli occhi son
quelli della povera marchesina Aurora, i medesimi che ha eziandio
madamigella Virginia. Ora ch'e' mi guardava fiso, ci fu un momento che
mi parve proprio di vedere gli occhi di quella buon'anima là quando mi
raccomandava appunto il suo bambino....

Diede uno scossone come se assalita da un subito brivido.

— E se restituisco il suo figliuolo alla condizione che gli conviene, la
non avrà più da volermene quella benedett'anima là.... E questo
figliuolo dovrebbe pure essermi riconoscente della bella maniera.... Ah
se avessi potuto menare da me tutto questo affare senza intromissione di
Padre Bonaventura, sarebbe pure stato meglio pel mio interesse; ma come
farla? Il marchese non mi avrebbe manco dato retta; se avessi minacciato
uno scandalo mi avrebbe fors'anco mandato a finire in una casa di
custodia questi quattro dì che mi restano, e questo diavolo d'un frate
ha in mano tutti i fili della matassa. Lasciamo dunque far da lui; e son
certa che qualche cosa in mio vantaggio lo vorrà pur fare.... Andiamo a
casa.

Prese _Gognino_ per un braccio e tirandolo seco di mala grazia uscì del
portone, che richiuse cautamente dietro di sè.

Intanto Maurilio seguendo i passi della sua guida attraversava un lungo
andito appena se illuminato dalla fioca luce d'una lanterna, saliva
quattro branche d'una vasta e comoda scala, ed arrivava quasi a capo
d'un corridoio all'uscio d'una cella nel quale il frate laico picchiava
discretamente colla nocca delle dita.

— Avanti: diceva dall'interno una voce tanto piena di benevolenza che
l'avreste detta un'ostentazione.

Il portinaio aprì a mezzo il battente e cacciò dentro la testa.

— Gli è quel giovane ch'Ella aspetta, Reverendo: disse.

— Dio sia lodato! rispose quella voce ancora più compunta. Ch'egli
venga.

Il laico si trasse in disparte, con una mano aprì di meglio l'uscio,
coll'altra fece invito al giovane di passare e lo confermò colle parole:

— Entri: quello è Padre Bonaventura.

Maurilio entrò, e dietro di lui la porta fu richiusa dal frate portinaio
che se ne andò ai fatti suoi. La cella era abbastanza vasta: le pareti,
scialbate a calce, bianchissime, senz'altro ornamento; un lettuccio
basso in un angolo, sopra di esso appiccati al muro un quadro
rappresentante San Luigi Gonzaga, un acquasantino di cristallo, una
palma; in faccia al letto un sofà semplicemente impagliato, seggiole
compagne intorno, appoggiate alle pareti; presso la finestra, che faceva
quasi riscontro alla porta, una tavola coperta d'un tappeto verde, la
quale serviva di scrivania; sopra di essa delle carte, un calamaio, una
croce piuttosto alta di legno nero inverniciato che si drizzava sopra la
base di due scalini, dietro questa croce uno specchietto accortamente
posto così che vi si riflettesse la figura di chiunque entrasse nella
cella da poterla vedere ed esaminare chi si trovasse seduto alla tavola;
presso a questo una piccola scancìa piena di libri.

Padre Bonaventura stava appunto seduto a codesta sua tavola su cui era
posta una lampada con una ventola che ne rifletteva giù la luce; così
che Maurilio entrando non vide che le spalle larghe del frate e la
grossa persona avvolte d'una vestaccia di lana nera. Ma il gesuita diede
colla mano un piccol colpo alla ventola della lampada e rialzandola fece
correre i raggi della luce, da una parte sulla faccia di chi entrava,
dall'altra sullo specchietto appostato dietro la croce. Il nostro
giovane che s'avanzava guardando non senza molta curiosità verso il
famoso gesuita ancora immobile al suo posto, potè vedere riflesso nello
specchietto lo sguardo acuto, investigatore, penetrante che fra'
Bonaventura fissava sui lineamenti di lui che gli si dipingevano
innanzi. Maurilio fece un sorriso; la ventola s'abbassò di nuovo sulla
fiamma della lampada, e il volto del giovane rimase all'oscuro; il frate
s'alzò e volse verso il nuovo venuto una faccia piena di benevolenza, di
cordialità, di interesse e di bonaria semplicità, espressione di
sembianze che era evidentemente preparata e sincera come il complimento
di un adulatore.

Tese a Maurilio tuttedue le sue mani bianche, grassotte, morbide e
carezzevoli, e disse con quel suo accento di sdolcinata gentilezza:

— Sia Ella il benvenuto nella umil cella del povero frate. Avrei dovuto
io stesso recarmi da Lei; ma non sapendo come e dove trovarla per un
colloquio segretissimo, quale dev'essere il nostro.... E poi un monaco
non può uscire a gironzare la sera. (Mostrò le sue due file di denti a
dispetto dell'età ancora bianchissimi e tutti presenti in un sorriso
tutto ameno, e soggiunse:) E d'altra parte la cosa premeva e bisognava
proprio che di stassera avessi l'onore di avere con esso Lei una
conferenza.

Siccome colle sue aveva afferrato le mani grosse e ruvide del giovane,
lo trasse per queste sino al sofà e ve lo fece sedere.

— Benchè noi non ci conosciamo affatto, riprese egli a dire, sedendogli
presso, noi dobbiamo parlare come due amici, due vecchi amici. La mi
permetta di usare con Lei d'una famigliarità che la mia età, il mio
carattere, ed anche, come vedrà, le circostanze possono permettermi, e
m'ascolti con pazienza ed attenzione.

L'idea di questo colloquio con Maurilio in Padre Bonaventura, ecco di
che modo era nata.

Abbiamo visto, come _Gognino_, tornato presso la nonna dopo l'arresto di
Maurilio che aveva interrotto la prima di quelle lezioni che il giovane
s'era assunto di dare al povero orfanello, avesse narrato alla vecchia
che lo interrogava tutto quello che era successo: le parole dettegli, e
che nel bambino erano state meravigliosamente impresse, la seguita
invasione degli agenti polizieschi, la perquisizione e l'arresto,
coll'episodio del bottone uguale a quello che possedeva la vecchia; ed
abbiamo visto che la _Gattona_ aveva creduto di dover tosto affrettarsi
a riferir tutto ciò a Padre Bonaventura, dal quale quella mattina
medesima, nelle prime ore del giorno, erasi già recata a raccontare
l'avventura della sera precedente, l'incontro cioè fatto da _Gognino_
d'un cotale che voleva pagar lei perchè lo lasciasse far da maestro al
bambino.

Padre Bonaventura era già stato punto da curiosità molta di sapere chi e
che cosa fosse quell'originale di cui s'era fatto lasciare la polizza,
da lui stesso data alla _Gattona_, con sopravi scritto il suo nome e
l'indirizzo della sua abitazione. Quando la vecchia venne più tardi a
narrargli le cose sopravvenute, il gesuita che non aveva ancora avuto
tempo ad occuparsi di quello sconosciuto, vide anzi tutto che egli non
aveva giudicato male mettendo quell'individuo in ischiera coi fautori ed
apostoli delle novità politiche e sociali, dei liberali amatori e
credenti del progresso, amici e patrocinatori dei cosidetti diritti dei
popoli e va dicendo: i discorsi tenuti a _Gognino_ e il successivo
arresto, col sequestro delle carte, di certo per motivi politici, ne lo
chiarivano abbastanza, e il buon Padre Bonaventura si riprometteva di
raccomandare egli stesso quel dabbene a cui si dovesse, così bene da
farlo torre per un po' di tempo alla propaganda attiva de' suoi
detestabili principii avversi (è la formola solita) al trono ed
all'altare. Ma quello che soggiunse di poi la _Gattona_ lo interessò ben
altrimenti, e senza ch'egli concepisse di botto un definitivo progetto
da attuare, intravide però senza indugio, che se fondati fossero i
sospetti dalla vecchia manifestatigli alcuna cosa poteva da lui
combinarsi che riuscir potesse in vantaggio suo proprio dapprima (cosa
che non era da obliarsi nè trascurarsi), in vantaggio della buona causa,
quella dell'assolutismo e della Compagnia di Gesù.

I sospetti della _Gattona_ si presentavano con una non disprezzabile
apparenza di fondamento. Il nome stesso che quel giovane portava, cui la
Luponi medesima aveva scritto su quel suo biglietto, perchè chiunque
nelle cui mani capitasse il bambino glie lo lasciasse, nome tutt'altro
che comune in queste provincie; il cognome di Nulla, che lasciava
supporre in chi io portava, e che probabilmente se l'era dato, la
condizione di fanciullo senza famiglia, e l'aver egli un oggetto simile
ad uno di quei pochi che erano stati posti come segni di riconoscimento
al bambino della marchesina Aurora, erano indizi da tenerne conto; e
Padre Bonaventura che aveva avuta tanta parte in quegli avvenimenti
della famiglia Baldissero, decise di volere il più sollecitamente
possibile appurare la cosa.

Congedata la vecchia colla raccomandazione di attendere, di non fare
nulla da sè e di venirgli a riferire poi tosto ogni menoma cosa che in
proposito capitasse, o cui ella venisse ulteriormente a scoprire, il
gesuita, per prima cosa, pensò recarsi da messer Nariccia, il quale in
codesto poteva dare gli elementi più sicuri per formarsi un esatto
giudizio, come quello che solo sapeva dove e come fosse stato
abbandonato il bambino della infelice vedova di Valpetrosa.

L'usuraio fu assai cauto nelle sue risposte, nè, quantunque molto
rimanesse meravigliato alle parole del frate, e fosse colto proprio alla
sprovveduta, ci fu verso che si lasciasse sfuggire parola alcuna da cui
l'accorto suo interlocutore potesse argomentare o indovinare alcun che
di quanto era succeduto dopo che Nariccia col bimbo erasi partito dalla
casa in cui la puerpera dolorava in lotta colla morte. Nariccia, senza
però dirne ragione veruna, si rimase a dire che egli non credeva punto
punto che il giovane di cui si trattava fosse il figliuolo di
Valpetrosa, che tuttavia la cosa meritava attenzione, e prima di
pigliare un partito e di agire in qualunque senso si fosse, conveniva
ben bene appurarla. Il frate, incerto come prima, anzi più di prima,
perocchè si fosse ora persuaso che quel tristo di Nariccia aveva in suo
potere una parte di segreto che a lui era affatto sconosciuta, uscì di
là e risolvette informarsi tosto di quanto riguardava quell'individuo
misterioso che si faceva chiamare Maurilio Nulla. A lui siffatta cosa
era facilissima per le relazioni che aveva nelle alte sfere governative
e per l'ascendente cui su tutti i più cospicui e potenti pubblici
funzionari avevano la Compagnia a cui il frate apparteneva e
personalmente egli medesimo uno dei maggiorenti di quella temuta e
intromettentesi società. Non istette perciò guari ad apprendere gran
parte dei fatti, dell'indole e delle tendenze di chi lo interessava.
Seppe che Maurilio era appunto un trovatello, come egli aveva supposto,
che era stato arrestato come nemico del Governo, che presso di lui s'era
sequestrato uno scritto incendiario pieno delle massime più sovversive,
ma che rivelavano un gran talento, così che dal Commissario di Polizia
al generale dei Carabinieri, da questo al Governatore, dal Governatore
al marchese di Baldissero, e dalle mani del marchese era pervenuto
niente meno che in quelle stesse del Re.

I Gesuiti furono sempre abbastanza accorti per riconoscere la potenza
dell'ingegno, e prima di perseguitarlo nemico a loro ed alla loro causa,
hanno sempre cercato di acquistarselo, di arruolarlo nelle proprie
schiere, a difesa del loro principii, mercè blandizie, in cui sono
maestri, e vantaggi personali con cui sanno comprare, o quanto meno
avvolgere le coscienze meno salde ed inconcusse. Di questa guisa essi
ottengono due guadagni: tolgono ai nemici una forza e ne accrescono la
propria parte. Padre Bonaventura era dei più accorti in codesta caccia
al paretaio delle giovani coscienze, e maestro insuperabile di blandizie
e di sofismi rincalzati dalle promesse; più intelligenze, nella sua
lunga carriera di intrigante politico e domestico, era già riuscito ad
inretire. Ei non credeva a profondità di convinzioni che le renda
incrollabili. Nei giovani considerava che agisse più la fantasia che il
ragionamento, e che le idee liberali seducessero le ardenti intelligenze
parte per quello sbarbaglio di generosità onde lucicchiano, parte per
sentimento fors'anco inconscio d'ambizione in chi non è nulla e vuol
pervenire, d'invidia in chi non ha mezzi di potenza verso chi li ha, il
qual sentimento trova uno sfogo nei patrocinio delle idee democratiche e
spera un appagamento nel trionfo delle medesime. Credeva che per tutti
la corazza della coscienza avesse un giunto per cui penetrare nel lato
debole e vincerla; la difficoltà era nello scoprire quel giunto, ed
egli, senza troppa superbia, che i fatti glie l'avevano provato più e
più volte, poteva dirsi abilissimo a codesto.

Non era forse il caso ora di usare di questa abilità verso quel cotal
personaggio che andava in cerca per le vie de' figliuoli del popolo,
affine di insinuar loro il catechismo sovversivo delle idee liberali? Se
si fosse potuto farne un affigliato, un diffonditore de' _buoni_
principii, che trionfo! E se mai stato egli fosse in vero figliuolo
della sorella del marchese, val quanto dire appartenente ad una delle
prime, più ricche e più potenti famiglie dello Stato, qual vantaggio
maggiore! Però, siccome fra le cose apprese del passato di Maurilio
aveva saputo eziandio che egli era rimasto alcun tempo presso il libraio
Defasi, col quale egli era in relazione, e cui conosceva il primo
onest'uomo del mondo, fra' Bonaventura decise di andare a chiederne a
costui, per farsi di quel giovane e del suo valore un più esatto
concetto.

Il signor Defasi, se vi ricorda, nel giovane derelitto, cui la
Provvidenza gli aveva un giorno menato innanzi privo d'ogni mezzo di
sussistenza, aveva posto dapprima la maggiore delle affezioni, e,
conosciutone lo straordinario ingegno, una speciale stima eziandio, che
di tanto aveva rafforzata la sua benevolenza per lui, da fargli
concepire il disegno di dare a quell'orfano senza nome la mano di sua
figlia; e Maurilio fino ad un certo tempo aveva corrisposto alla
generosità ed all'affetto del suo benefattore con tutto lo zelo e la
riconoscenza ond'era capace. Ma di poi, per sua disavventura, era
piombato addosso al povero giovane quel suo matto amore per la nobile
fanciulla Virginia di Castelletto, e il dominio di questa infelice
passione lo aveva mandato ad una stranezza di condotta che il suo buon
principale aveva cominciato per compiangere soltanto e per tentare di
voler guarire, credendola effetto d'infermità. La sorte che perseguitava
il povero trovatello aveva voluto che Nariccia, sapendo Maurilio
allogato presso del libraio, si credesse in obbligo di avvertire costui
come quel giovane fosse stato per mesi e mesi in carcere sotto l'accusa
di un orrendo misfatto, come egli stesso, che aveva avuta la
dabbenaggine di prenderlo poi al suo servizio, l'avesse dovuto scacciare
di casa sua, perchè aveva avute le prove che quello sciagurato
sfacciatamente lo derubava.

Il signor Defasi provò a queste rivelazioni tutta la amarezza d'un
disinganno, e non potè fare che il sospetto e la diffidenza non
entrassero in lui verso quel giovane che gli era stato ed ancora gli era
sì caro, e del quale gli strani contegni da qualche tempo assunti davano
ampia ragione ad una poco benevola interpretazione e ad una prudente
sorveglianza de' fatti suoi. Avvenne, come udimmo narrato da Maurilio
medesimo, che un giorno il libraio trovasse sparito un rotolo di monete
d'oro del valore di cinquecento lire ch'egli aveva riposto nel cassetto
del suo banco. Interrogatine tutti della famiglia, e niuno sapendone dar
ragguaglio di sorta, era inevitabile lo accusare di questa scomparsa
colui che tanto era venuto in sospetto, e il quale, per una strana
coincidenza, di tutto il giorno, obliando il dover suo, non s'era
lasciato vedere a bottega. Maurilio quindi era stato scacciato da quella
casa e da quell'impiego, come udimmo narrare da lui medesimo a Giovanni
Selva. Ma qual fu la sorpresa, la pena e il rimorso del buon Defasi,
quando parecchi mesi di poi, avendo non so per qual guasto da far
aggiustare il suo banco, il rotolino delle monete d'oro si trovò in uno
stretto spazio fra la rivestitura esteriore e il cassettino che non
correva sino al fondo, sdrucciolato colà chi sa per che caso! L'onesto
libraio avrebbe dato qualunque cosa per riparare l'avvenuto errore, più
ancora per non averlo fatto. Cercò istantemente del giovane; ma egli ne
aveva perdute affatto le traccie, e Maurilio, pieno di vergogna, si
guardava bene dal farsi vivo per quella famiglia e studiosamente evitava
perfino di passare per la strada in cui erano l'abitazione e il fondaco
dei Defasi. Il suo antico principale dovette rimanersi ad un inutile
rimorso, ma nell'anima di lui generosa, avvenne una tal riazione in
favore dell'innocente calunniato ch'egli cessò di prestar fede a tutto
quanto riguardo a lui avevagli detto di male messer Nariccia (l'accusa
ch'egli stesso gli aveva mossa era effetto d'un deplorabile errore;
perchè non sarebbe stato la stessa cosa delle accuse precedenti?); e
rinacquero più forti e più vivi l'affetto per quell'infelice, la stima e
l'ammirazione per quell'intelligenza superiore di molto a quante intorno
a sè Defasi avesse mai conosciute.

Da ciò avvenne che quando Padre Bonaventura fu da lui a chiedere di
Maurilio, il libraio ne intessè tale un elogio della mente, del cuore,
della volontà, della dottrina, che il gesuita si confermò ancora di
meglio nel suo proposito di guadagnare alla buona causa quella valente
individualità. Non fosse anche quegli che si sospettava, sarebbe sempre
stato per la Compagnia un buon acquisto. La riuscita del tentativo di
seduzione il gesuita la vedeva facile, tanto più trattandosi d'un povero
abbandonato, senza famiglia, senza sostanze, senza punto avvenire. Chi
sa che non lo si potesse indurre a vestire l'abito nero della Compagnia!
Egli, conosciuto quel giovane e tastatolo, avrebbe giudicate se
conveniva spingere innanzi le indagini intorno alla sua origine, o pur
lasciarle nel buio, e si riserbava d'agire a seconda, anche riguardo
alle possibilità del contegno che avrebbe assunto il marchese; ma gli
avvenimenti camminavano più rapidi e decisi che al gesuita non piacesse,
e la Gallona veniva ad informarlo di quanto era occorso fra lei e Don
Venanzio e Giovanni Selva, e del meraviglioso fatto che quel giovane già
trovavasi in qualità di segretario, introdotto ed albergato nel palazzo
medesimo dei Baldissero.

Conveniva prendere sollecita risoluzione. L'intromettersi del virtuoso
parroco vivamente rincresceva al frate intrigante. Quegli avrebbe spinto
la sua azione sino al compiuto conseguimento della verità; era utile
affrettarsi a farsene egli stesso merito ed entrando innanzi a quegli
altri agire presso il marchese per cercare di volgere le cose secondo il
proprio interesse. Incaricava quindi la _Gattona_ di menargli ad ogni
costo innanzi quella sera stessa il giovane, ed egli domandava pel
domani udienza al marchese il quale di quel giorno aveva chiusa a tutti
la porta del suo studio. Secondo il risultamento del suo colloquio con
Maurilio, fra' Bonaventura avrebbe determinato il modo di regolarsi col
marchese, i consigli da dargli e la direzione per cui avviare i
propositi del medesimo.

Maurilio e il gesuita si trovavano dunque seduti l'uno accosto
dell'altro, sul piano impagliato del sofà, nella modesta cella del
frate, al dubbio chiarore d'una lampada, i cui raggi erano impediti di
espandersi all'intorno da un coprilume. Si osservavano attentamente,
quasi cercando cogliersi l'un dell'altro nel volto il segreto pensiero e
le intenzioni: di fra' Bonaventura la conoscenza del mondo e degli
uomini, l'abilità accresciuta dall'uso continuo, facevano un osservatore
acutissimo, il cui sguardo penetrava molto agevolmente entro l'anima di
chi gli stava innanzi; Maurilio, dalla diffidenza cui la specialità
delle sue condizioni aveva fatta in lui naturale, dal sospetto che gli
nasceva spontaneo per la nota volpina falsità del gesuita, dall'altezza
medesima del suo ingegno, il quale, quando veramente esista, prova in
ogni cosa a cui si applichi, aveva tutti i mezzi onde passare fuor fuori
i raggiri e gli inganni del suo interlocutore. Era dunque una lotta fra
due capaci e degni campioni; ma sul principio il vantaggio stette da
parte del monaco, perchè il pensiero che in quel colloquio egli avrebbe
appreso alcuna cosa del suo destino diede al giovane un'emozione, che
congiunta a quella cui soleva sempre da principio destargli la sua
timidezza in ogni nuovo contatto con altre personalità, arrivò quasi
alle proporzioni d'un turbamento.

A Padre Bonaventura la vista di Maurilio fece la medesima impressione
che aveva fatta alla vecchia Modestina Luponi.

— Che? disse fra sè. Questi sarebbe il figliuolo della bella marchesina
Aurora? Fidatevi ai contrassegni della schiatta! Ecco il discendente di
due leggiadre creature dalle più fini forme aristocratiche, al quale una
misera vita in mezzo all'ambiente plebeo ha dato tutte le sembianze d'un
figliuolo della plebe.

La sua attenzione fu però chiamata dall'intelligente ampiezza della
fronte e dalla misteriosa potenza di quegli occhi color del mare e come
il mare profondi.

— Oh oh! costà in quel cranio non c'è davvero un cervello di pan bollito
e in codesta non bella scatola ossea sta un'anima che non è volgare...
Ed a Volontà come stiamo?

Osservò le protuberanze ben disegnate e spiccanti dell'alto della
fronte, la quale si drizzava sul viso perpendicolare come il frontone
d'un tempio.

— Uhm! soggiunse, non sarà facile fargli cambiar di convinzioni.... Ma
avrà egli vere convinzioni?... Speriamo di no.

E mentre lo conduceva, come ho detto, a sedersi presso di lui sul sofà,
con aspetto, alti e voce benevolissimi e carezzevoli, il gesuita veniva
pensando:

— Egli ha sofferto di molto; se ne vedono le traccie sul volto
travagliato e nel corpo che ci ha patito. Deve avere una rabbia
maledetta contro il destino che gli è toccato, e una più maledetta
smania di ricattarsi coi godimenti.... Se noi gli apriamo il passo alle
gioie ed alle soddisfazioni mondane, e gli diciamo: son tue se ci vieni
con noi; egli ci si precipiterà senza punto curarsi più qual sia la
bandiera che gli faremo sventolare sul capo.... Se non ne faremo un
gesuita, potremo farne un gesuitante.... Forse!

Maurilio aveva il respiro impacciato, come preso da un lieve affanno, e
più impacciato il labbro che non sapeva trovare parola; il gesuita gli
prese di nuovo una mano fra le sue e dissegli più amorevolmente che mai:

— Mio caro amico, caro figliuolo.... La mi permette ch'io la chiami
così?... S'immagina Ella qualche poco il motivo che mi ha fatto mandarla
a pregare di venire qui?

Maurilio esitò un momento a rispondere: trasse un grosso respiro, come
chiamando in suo soccorso il fiato che l'emozione gli impediva di venir
liberamente alla gola, tolse dalle mani del gesuita la sua destra fredda
come un pezzo di ghiaccio e incrociando le dita delle mani che premeva
forte sulle sue ginocchia, rispose poscia con quella sua voce
ordinariamente sorda e contenuta, che non aveva vibrazione ed armonia se
non quando la potenza di un'idea o di un affetto scuoteva l'intimo esser
suo:

— Le parole della nonna di Luchino me ne diedero un sospetto.... Ella
vuole parlarmi della famiglia che fu mia e che mi ha rigettato.

— Adagio, disse il gesuita con quel suo accento dolcereccio che gli era
abituale, accompagnato da un pari sorriso. Secondo il benedetto uso di
tutta la gioventù, Ella galoppa colla fantasia, e le sue supposizioni
vanno al di là del vero.

Maurilio diede in un leggero trasalto e volse al frate la sua faccia più
turbata e più impallidita di prima.

— Che? interrogò egli: non ha da esser questo l'argomento del nostro
colloquio? Non sono io dunque ancora al punto fatale in cui metterò
finalmente la mano sul motto dell'enimma che è la mia vita?

— La mi fa due interrogazioni a cui non posso fare la medesima risposta.
Alla prima posso dare un'affermativa: sì, noi siamo qui appunto per
discorrere amichevolmente di alcune cose, di qualche circostanza che
possono influire sulle ulteriori determinazioni da prendersi per parte
di certuni cui tale argomento interessa massimamente. Quanto alla
seconda interrogazione, se cioè ora Ella possa scoprir tutto ciò che la
riguarda, debbo, con mio gran rincrescimento, rispondere che io non ho
nè qualità, nè mandato per rivelarle dei segreti che posso conoscere, ma
che non m'appartengono....

Maurilio s'alzò di scatto da sedere e girò tutt'intorno alla stanza uno
sguardo fra sospettoso e investigatore.

— Che cosa sono dunque venuto a fare qui? Che cose, che circostanze son
quelle intorno a cui mi si vuole discorrere, e forse scrutare? Se Ella
non può aprirmi il vero, perchè sciupare tuttedue il tempo in inutili
parole, che nulla hanno da conchiudere?

Padre Bonaventura tornò a prendere per la mano il giovane, sorridendo
più benignamente che mai, lo trasse con dolce violenza a sedere di nuovo
presso di lui, e con accento di amorevolezza paterna passando dal Lei a
dargli del più domestico Voi, gli disse:

— Oh impazienza giovenile! Le nostre parole hanno tutt'altro che da
essere inutili e non conchiudere nulla. E se da loro al contrario avesse
da dipendere più questa, o più quella vicenda della vostra sorte?

Maurilio fissò il suo occhio, che in questo momento era oscuro come un
cielo abbuiato, e in cui dal fondo delle occhiaie balenavano lampi
annunziatori di un'interna tempesta.

Il frate gesuita riprese:

— Voi sapete di già, per le parole sfuggite alla _Gattona_, che la
famiglia a cui _forse_ voi potreste avere alcun diritto di appartenere è
una illustre e nobile famiglia.

Il giovane non potè frenare una mossa di soddisfazione, di superbia.

— Ah ah! egli è ambizioso: disse a se stesso Padre Bonaventura, che non
cessava di tener il suo sguardo felino fisso sul lineamenti del suo
interlocutore. Buono! è questa una presa da poterlo afferrare.

— Or bene, continuava il frate, questa famiglia, troverete ragionevole
anche voi, che voglia conoscere qual sia e che cosa pensi
quell'individuo il quale si presenta ora fatto e cresciuto per
appartenerle.

Maurilio, che era oramai tornato in tutta la calma del suo spirito,
chiese con una velata ironia:

— È questo dunque un esame che mi si è chiamato a subire?

— È una conversazione amichevole, come vi ho già detto, in cui, spero
che andremo d'accordo.

— E di ciò ha Ella ricevuto incarico da codesta mia famiglia?

— Non vi dico che sia così: rispose gesuiticamente fra' Bonaventura; ma
fate come se così fosse.

Il giovane incrociò le braccia al petto in una mossa di superba
aspettazione.

— Parli dunque Lei primo, Padre reverendo. Esponga il _credo_ che io
dovrei avere, perchè i miei congiunti si risolvessero a fare il loro
dovere: quello di riparare ad un infame delitto onde mi fecero vittima.
Io le dirò di poi se potrò giurare in quelle _verba magistri_.

— Ahi! pensò il gesuita: egli è orgoglioso al par di Satana.

Assunse il contegno più umile e più benigno che e' potesse, congiunse le
mani, levò gli occhi al soffitto, come per cercare ispirazione dal Cielo
e cominciò:

— Quantunque sia la prima volta che noi ci troviamo fronte a fronte, io
è già da qualche tempo che ho imparato a conoscervi ed apprezzarvi.

Era una piccola bugia; ma secondo la morale gesuitica l'onestà del fine
giustificava agli occhi del frate la lieve colpa del mezzo.

— Che! esclamò Maurilio stupito. Ella mi conosceva?

Padre Bonaventura confermò con un cenno e con un sorriso il suo detto, e
continuò:

— Vi conosco, e noi, che c'interessiamo per tutti quelli che hanno un
vero valore, che li amiamo più degli altri fratelli nostri in Gesù
Cristo, vi seguitiamo con isguardo pieno di cura e di sollecitudine,
deplorando le vostre tendenze e pregando Iddio perchè vi guidi sopra
sentiero migliore. Voi siete generoso e volete il bene, lo so; ma alla
vostra età, colla vita che avete vissuto, non si può scerner ancora con
fondamento, quale sia il bene reale del genere umano; non si conoscono
tuttavia gli uomini, non si è abbracciato con vista complessiva tutto
l'organismo degli ordini sociali, per giudicare che cosa al governo di
questi uomini convenga; si va più facilmente dietro a smaglianti chimere
che alla meno splendida, ma soda realtà, solo efficace. Anzi per
provvidenziale decreto di Dio che vuole l'intelligenza umana riconosca
la sua debolezza, quando abbandonata a sè, l'audacia, la temerità
giovanile fa scorgere il bene ed il vero nelle strade che nuove sembrano
aprirsi allo spirito umano. Si crede un generoso impulso il disconoscere
ciò che è insegnato dall'esperienza del passato, dall'autorità della
tradizione, ciò che posa sulla base inconcussa della divina rivelazione.
Ma voi, da quanto io ho potuto apprendere, avete troppo talento per
ostinarvi a chiudere gli occhi alla luce, quando questa vi sia fatta
splendere dinanzi....

Maurilio schiuse la bocca ad un suo sorriso pieno di sì fina ironia, che
il frate s'interruppe, e mettendo con mossa affettuosa una mano sulle
ginocchia del giovane, soggiunse con paterna bonarietà:

— Vedo sulle vostre labbra la punta d'un'obbiezione. Parlate, parlate
pure liberamente, chè qui siamo per leggerci a vicenda l'uno dell'altro
nell'anima.

— Vuole sapere la ragione del mio sorriso? Eccola. Ella vuole farmi
brillare dinanzi la luce: ma che luce è dessa quella che il suo partito
e la sua scuola sono disposti a concedere ai miseri mortali? Poichè Ella
stessa m'invita alla franchezza, dirò che credo loro intendimento e loro
compito la luce del vero misurarla con tanta parsimonia all'uomo che
egli trovisi nelle tenebre, costretto a seguire ciecamente per guida i
loro consigli e voleri....

— Se questi voleri e consigli lo hanno da guidare al bene ed alla
maggior possibile felicità, interruppe con qualche calore il gesuita,
non vi pare opera buona e doverosa il fare che primeggino ed ottengano?
Io non contesto quanto voi avete detto, e non vi accuso di attribuirci
concetti che non sono i nostri. Vi ho detto che fra di noi doveva
esserci un'assoluta franchezza. Sì, noi vogliamo misurare la luce: ma
quando una pupilla non è capace di sostenere che una data quantità di
chiarore, è prudenza, è carità, è dovere il non dargliene appunto che a
quel grado....

— E chi li fa giudici di questa misura?

— Il nostro santo ministero medesimo.

— No: l'interesse d'una casta, che da quello scuriccio ottiene
l'opportunità e la sicurezza di dominare.

— Sia; ma dominando spinge al vero bene l'umanità.

— La coscienza umana ha acquistato un altro concetto del suo bene, vuole
un altro mezzo di arrivarlo: la libertà.

— Parola ingannatrice! È lo scisma, è l'eresia. In essa appiattasi la
facoltà di fare il male.... Nel mondo, facciasi checchè si voglia, vi
saranno sempre due classi d'uomini: quelli che sanno, che pensano, che
hanno il talento e i mezzi d'istruirsi e di conoscere, e quelli che sono
condannati a vivere nell'ignoranza: i primi sono i pochi, i secondi sono
i molti. Chi può negare che a quelli non appartenga il diritto, anzi il
dovere di guidare gli altri, precisamente come ai genitori quello di
dirigere i loro figliuoli bambini?

Maurilio scosse il capo ed accennò parlare.

— Dite, dite pure: s'affrettò a sclamare il frate interrompendosi.

— Sì è vero, così parlò Maurilio, l'umanità fu divisa, è divisa ancora
in due parti: dei pochi che sanno e che possedono, dei molti che non
hanno ed ignorano. Ai primi tutte le distinzioni, tutti i gaudii
sociali; ai secondi nulla. Ah! loro non suppongono neppure quali sieno
le sofferenze di questa immensa turba di diseredati nella civiltà,
quanta sia e dolorosa la cancrena della miseria e dell'ignoranza nella
plebe. Io lo so che ho vissuto in mezzo ad essa; io lo so che quelle
sofferenze ho provate. E se là in mezzo cadde un'anima più sensitiva,
una intelligenza più sveglia, me lo creda, Padre, i tormenti morali
saranno peggiori e più crudeli ancora dei materiali.

— Voi mi cercate delle eccezioni; disse il gesuita colla medesima
benignità di sorriso e di voce, ma tuttavia con un accento in cui faceva
capolino una lieve impazienza della contraddizione. Sui cento mila ve ne
sarà uno capace di sentire quei tormenti morali che voi dite. E poi non
è vero che ad una eletta intelligenza, caduta per azzardo nelle basse
sfere sociali, sia assolutamente chiuso il cammino. La società è
abbastanza bene organata perchè sappia e possa giovarsi di tutte le
potenti individualità che Iddio mandi al genere umano, in qualunque
classe piaccia al suo alto senno farla nascere. La monarchia, dalla
quale abbiamo la fortuna e l'onore d'esser retti, non sa ella cercare e
scegliere i suoi zelanti servitori anche tra le più infime famiglie per
innalzarli ai primi gradi e favorirli di titoli, di ricchezze e di
onori? E la Chiesa? Non è dessa una madre amorosa che, senza riguardo ai
privilegi di nascita, innalza tutti coloro che se lo meritano, ai più
eminenti seggi della sua gerarchia? Quanti dalle più umili condizioni
non salirono essi fino al più allo fastigio, ad una grandezza «ch'era
follia sperar?» Voi sapete troppo le storie perchè io perda il tempo a
citarvene degli esempi.

— Queste si ch'Ella mi cita: interruppe Maurilio con vivacità;
queste sono eccezioni. Ma la cosa non va riguardata dal lato
dell'individualità, sibbene dal lato delle masse. Poco importa che di
quando in quando, uno della plebe rompa il cerchio fatale che costringe
nella miseria e nell'ignoranza tutti i suoi compagni, e si spinga anco
fino alle splendide aure del potere. Gli è tutta quella classe infelice
che dev'essere redenta dalla fame, dalla superstizione, dall'errore. Il
progresso umano sta tutto in ciò, che anche ai molti s'acquisti una
sempre maggior quantità di beni intellettuali ed economici...

Fu con decisa impazienza, questa volta, che Padre Bonaventura esclamò:

— Il progresso! il progresso!... Davvero che me l'aspettavo questa
parola.... La è sempre in bocca dei moderni novatori.... È un'assurda
teoria che prende l'uomo alla rovescia. Voi vedete nell'avvenire quello
stato di perfezione che fu nel passato prima della caduta dell'uomo; e
sperate superbamente arrivarlo, colle vostre misere e spesso empie
pseudo-conquiste della scienza. Tutto il progresso umano è contenuto
nella rivelazione. Fuori di li sono illusioni superbe e tenebre.

— Scusi. Il progresso è la legge che comanda a tutte le cose
dell'universo. Tutto progredisce, perchè tutto si muove, e muovendosi si
muta, e mutandosi sarebbe fare un oltraggio alla sapienza di Dio il dire
che non migliori. Guardi la storia medesima della terra, le successive
creazioni delle successive epoche cui ha percorso la vita del nostro
globo, e vedrà un continuo sforzo evidente della natura a raggiungere ed
estrinsecare sempre più perfette e più nobili forme e più intelligenti
creature, finchè arriva all'uomo.

Il gesuita, con quel suo atto di affettuosa domestichezza, pose di nuovo
la mano sul ginocchio del giovane.

— Non perdiamoci in così vasto ambito di considerazioni: diss'egli col
suo solito sorriso; e restringiamoci al nostro caso particolare.
Comprendo che voi, caro figliuolo, appartenendo finora di fatto a quella
classe che voi chiamate dei diseredati, voleste e vi proponeste di
tentare — usando sempre le vostre espressioni — la redenzione della
medesima, per ottenere con quella la vostra esaltazione...

Maurilio scosse il capo, come per protestare che quello non era stato
mai suo proposito; ma fra' Bonaventura, o non vide, o fe' mostra di non
vedere, e continuò:

— Avevate torto, perchè, sentendo ed apprezzando il valor vostro,
dovevate dirvi che eravate della razza degli uccelli dall'alto volo e
non di quella destinata a chiocciare nel fangoso suolo del pollaio; e
quindi, senza cercare di levare ad un volo impossibile i vostri compagni
senz'ali, dovevate pensare ad imbrancarvi voi alla schiera de' pennuti e
slanciarvi nelle serene aure del cielo....

— Oh come poterlo? Non seppe tanto frenarsi Maurilio che non
interrompesse. Ma tutto intorno abbiamo una fitta grata che ce lo
contende.

— Per chi non sa scegliere l'acconcio modo d'uscita: ribattè lesto il
frate. Se voi aveste saputo cercare validi protettori: se foste venuto,
per esempio, a picchiare alle porte di questo convento. L'umile tonaca
che mi vedete addosso avrebbe potuto aprirvi meglio d'ogni vostra
audacia di pensiero e d'azioni, il cammino. La predicazione,
l'insegnamento, la composizione di buoni libri, la paterna protezione
della nostra Compagnia vi avrebbero scorto anche ad una cattedra
vescovile. Ma, come dicevo, comprendo che per l'addietro queste idee non
sieno nate in voi; ora però, se voi uscite da quella sfera in cui foste
relegato finora, se voi arrivate in più felice lido e ponete il piede in
più splendida regione, spero che troverete anche voi opportuno, che
sentirete anzi il bisogno di cambiare opinioni e parere, che vedrete con
diverso aspetto le cose del mondo, appunto perchè le esaminerete da un
altro punto di mira, che riconoscerete in voi l'obbligo di difendere
quegli ordini religiosi, politici e sociali che volevate, ed avevate
anzi già cominciato assalire; che vi giudicherete della parte dei pochi
illuminati a cui è affidata la guida del gregge umano, e invece di
osteggiare e rendere difficile l'opera loro, vorrete aiutarla.

Padre Bonaventura tacque un momento, come per lasciar agio al giovane di
manifestare il suo pensiero; ma il nostro eroe, immobile, colle braccia
incrociate sul petto, non aprì bocca e stette aspettando la conclusione
con uno sguardo che sfavillava vivissimo nel fondo delle occhiaie, dalle
sue pupille color del mare.

Il gesuita s'ingannò sulla significazione di quello sguardo: credette
scorgervi la cupidigia dell'ambizione, e riprese a dire con più calore:

— A quali destini possiate arrivare, lo lascio pensare a voi. Colla
protezione d'una famiglia potente, col favore dell'aristocrazia,
coll'appoggio di noi, lo strenuo, eloquente, ispirato difensore dei
buoni principii otterrà quello che vuole.

Gli strinse come prima, ma più forte, il ginocchio, e tendendogli
l'altra mano dinanzi, come per mostrargli nella penombra della stanza le
cose che stava per evocare all'immaginazione del giovane, soggiunse col
tono di perorazione d'un buon predicatore:

— Nella vita secolare le prime cariche dello Stato, tutte le
distinzioni, tutti gli onori, tutto il potere; e nel clericato, se mai
Dio vi fosse così benigno da ispirarvi a vestire l'abito del nostro
ordine, i primi gradi, le infule vescovili e forse forse....

Abbassò la voce:

— Anche la tiara!... Sisto V era meno di te, figliuol mio!

Maurilio aveva sulle labbra un sogghigno pieno di tanta ironia, che fra'
Bonaventura, vedendolo, agghiacciò di subito. Levò vivamente la sua mano
dal ginocchio del giovane, spense il suo rettorico entusiasmo, e si tirò
indietro sul sofà, quasi con moto di sgomento improvviso.

Il giovane sorse in piedi con tutta freddezza, e disse lentamente:

— Io non sono punto ambizioso. Nelle mie sofferenze ho sentito le
sofferenze di tutta una classe: non aspiro al mio solo vantaggio: voglio
lavorare per quello di tutti gl'infelici, per quello in conseguenza di
tutto l'umano consorzio, della civiltà. O che ha ella creduto la
famiglia — ch'io non so se giungerò mai a chiamare mia — ha creduto
potermi imporre una condizione per compir essa il dovere che le incombe
di riconoscermi? Ed una scellerata condizione, qual è quella di
rinnegare le mie opinioni, di mutare dall'oggi al domani convinzioni e
credenze, cui non il particolare interesse, glie lo giuro, ma
l'apprezzamento del vero, ma la matura riflessione del mio intelletto mi
ha ispirate? La s'è ingannata; la s'inganna ancor Ella, Padre, nel
credermi capace di ciò. Fosse anche una madre che mi tendesse le braccia
a questi patti, io sarei disposto a farle la nobile risposta di
D'Alembert.

Il gesuita s'alzò egli pure. La sua faccia smise ad un tratto ogni
espressione di benignità per assumerne una di riserbata freddezza: aveva
capito che ogni ulteriore insistenza sarebbe stata inutile, che quella
volontà non si smoveva nè per blandizie, nè per offerte; pensò un
momento ricorrere alle minaccie e ne fece un lieve tentativo.

— Ella dunque, disse tornando a più cerimoniose forme di discorso, è un
nemico sfidato della Chiesa e del Trono, e vorrebbe combattere queste
due istituzioni sacrosante in qualunque condizione si trovasse?

— No: rispose con forza Maurilio protestando. Non penso che la Chiesa e
il Trono sieno ostacoli assoluti al progresso che vagheggio; spero
quindi che anche con essi possa il vantaggio delle plebi ottenersi. Sono
forme anche quelle istituzioni, e col moto del tempo ancor esse debbono
modificarsi. Credo che le si salveranno appunto modificandosi, secondo
il progresso sociale.

— Niente affatto. Chi le vuol toccare, vuol farle perire. Le sono come
la nostra benemerita Compagnia: e il motto che si disse di noi, deve
applicarsi anche a quelle istituzioni che noi colle nostre deboli forze
difendiamo: _sint ut sunt aut non sint_.... E saranno! _Portae inferi
non praevalebunt_. Crede Ella che le si lasceranno assalire dalle
temerità dei novatori moderni, senza difendersi e senza riagire? Hanno
dalla parte loro il comando, l'autorità, la forza sociale, la parola di
Dio, val quanto dire la verità e la potenza. Le temerarie idee e i loro
più temerarii profeti rimarranno schiacciati.

Maurilio sollevò la sua vasta fronte intelligente.

— I profeti, sia; può essere: esclamò egli, e questa volta la sua voce
vibrava coll'emozione ond'è dominato l'uomo il quale bandisce una
coraggiosa verità contrastata: ma le idee no. Soffocate per qualche
tempo soltanto, esse non muoiono, per dolori e tormenti di coloro che le
patrocinano non rinunziano, nel sangue anche dei loro proclamatori non
si spengono. Aspettano: si nascondono forse, ripostamente serpeggiano
fuor dell'arrivo delle polizie e delle predicazioni e della propaganda
del clero; e un bel dì sorgono in uno scoppio che è un trionfo, padrone
del campo, dominatrici del mondo. Guardi nella storia del passato, e
vedrà sempre essere avvenuto così, cominciando dalla più grande delle
idee, dall'idea cristiana....

— Ah! Ella bestemmia! Oserebbe paragonare le temerità delle malvagie
passioni demagogiche alle sacrosante cose della divina nostra religione?

— Anche le idee del Cristo erano temerità demagogiche pei gaudenti del
mondo pagano.... Io sono un nulla nel mondo; ma tutte le mie poche forze
ho consecrato al servizio di certi principii a cui ho dato
irrevocabilmente l'acquiescenza dell'animo mio e il consentimento del
mio pensiero; e quali che sieno le seduzioni onde mi si voglia
allettare, qualunque le minaccie che mi si facciano trasparire, non
muterò, se Dio mi assiste, per tutta la vita. Ho pensato sempre a quel
momento che mi pareva pure impossibile, in cui la mia famiglia potrebbe
riaprirsi per me, che ne fui, non so per qual cagione, spietatamente
reietto, ed ho sperato parecchie volte eziandio, glie lo confesso, che
questa famiglia potrebbe non essere nè spregevole, nè disonorata, avrei
dato qualunque cosa per giungere a questo risultamento; mi dicevo che
non la menoma recriminazione, non il menomo lamento avrei mosso contro
quella barbarie che mi ha condannato al supplizio di tanti anni di
miserabil vita, di disprezzata condizione; ma non avrei creduto mai che
questa famiglia volesse ancora impormi un sacrifizio cui non posso e non
debbo sopportare: quello della coscienza, quello di ciò che l'uomo ha di
più sacro, le proprie convinzioni. Se codesto pretende da me, le dica,
signore, che preferisco rimanermi nell'oscurità del mio nulla.

S'avviò per andarsene; il gesuita non lo trattenne; prese anzi la
lampada e gli fece lume fino al cominciar delle scale, dove, appena
chiamato, venne il frate laico per guidar fuor del convento il
visitatore.

— Addio: gli disse Padre Bonaventura. Non dispero che veniale a migliori
pensamenti. Se mai crederete d'aver qualche cosa da dirmi poi, se vi
sentirete in migliori disposizioni, venite a trovarmi....

Maurilio fece risolutamente un segno negativo, come per dire che non
sarebbe venuto mai. Il gesuita mandò un sospiro.

— Dio vi guidi ed illumini! Colla vostra famiglia, se pur sono veri i
sospetti che se ne hanno, se la Provvidenza vuole porvi in presenza di
lei, tratterete voi medesimo senza intermezzo; io ho fatto quello che ho
creduto bene per tutti, e mio dovere.

Rientrò nella sua cella, e intanto pensava:

— Se non ci fosse immischiato quello stupido di un onest'uomo che è Don
Venanzio, il meglio sarebbe lasciar tutto ignorare al marchese e trovar
modo di fare sparire ogni traccia.... Ciò non potendo più oramai, è
meglio svelare io stesso la verità al marchese e disporlo in guisa che
stimi dover suo non riconoscere il figliuolo di sua sorella.



CAPITOLO VI.


Battevano appena le nove quando il padre gesuita presentavasi al palazzo
Baldissero e veniva tosto introdotto presso il marchese, il quale, dopo
una notte insonne, stava ansiosamente aspettandolo. Invitato a parlare
sollecitamente, fra' Bonaventura incominciò, con aria compunta e mani al
petto intrecciate, un lungo esordio sulle vie imperscrutabili della
Provvidenza, cui il marchese finì per interrompere:

— Scusi.... Il fatto, a cui Ella fece allusione nella sua lettera di ier
sera, è desso la trista avventura della fu mia povera sorella?

— Eccellenza sì: rispose il frate inchinandosi.

— Le confesso che molto mi punge la sollecitudine di sapere qual cosa
mai, dopo tanto tempo, possa avvenire che abbia ancora attinenza a
quelle disgraziate vicende. La prego dirmi senza ambagi, senza indugi e
senza circonlocuzioni ciò di che si tratta.

Il gesuita fece col capo un segno di umile assentimento, ed abbassando
la voce ed accostando vieppiù la sua seggiola alla poltrona in cui stava
il marchese, come se avesse voluto che manco l'aria potesse cogliere le
parole che stava per pronunziare, disse:

— Il figliuolo, frutto di quel condannato matrimonio, fu creduto dalla
marchesina Aurora, e da Lei medesima, signor marchese, morisse pochi
giorni dopo la sua nascita.

Baldissero si riscosse in violento, ma tosto frenato sussulto; il suo
sguardo s'affondò negli occhi del gesuita che teneva la placida faccia
tonda a pochi centimetri dalle orecchie del marchese.

— Così affermarono, e con giuramento, diss'egli pesando sulle parole,
coloro che assistettero in quella circostanza mia sorella: Nariccia, la
cameriera Modestina... e Lei stessa, Padre Bonaventura.

Questi fece comparire sulle sue labbra rubiconde un sorriso tutto
amenità, levò la destra bianca e grassotta in un atto di mite protesta e
scotendo negativamente il capo, soggiunse con una cortese vivacità
d'accento:

— Perdoni, perdoni.... Io no!... Io non contraddissi le parole degli
altri.... Ecco tutto!

— Le confermò col suo silenzio.

— La permetta.... Il silenzio non conferma nulla.

Il marchese, con moto vivace, rivolse la poltrona e se stesso verso il
suo interlocutore così da rimanere con lui proprio faccia a faccia.

— Quel bambino non morì dunque allora, in fascie?

Bonaventura scosse gravemente la testa.

— No, signor marchese.

— E perchè fu detto morisse?

— Perchè tale fu la volontà, tale il comando di S. E. il marchese, padre
di V. E.

Baldissero si trasse indietro nella sua poltrona, impallidì leggermente,
e mandando un'esclamazione, interruppe con tono quasi di minacciosa
ammonizione:

— Badi bene!...

Ma il gesuita riprendendo con qualche calore:

— Di tutto quel che dico ho sempre buone prove per dimostrarne la
verità. Tengo delle lettere che scrisse a me stesso su tal proposito S.
E.; esistono testimonii Nariccia e la _Gattona_, e quando a Lei non
sembrino guarentigia sufficiente di sincerità, il mio carattere, la mia
parola....

Il marchese fece bruscamente un atto che voleva significare la sua piena
fiducia nelle parole del gesuita.

— E di quel fanciullo adunque, domandò impazientemente, che cosa
avvenne?

Padre Bonaventura narrò ciò che noi già sappiamo: Nariccia specialmente
incaricato di ciò dal vecchio marchese averlo seco portato un giorno, nè
alcun altro di quelli che stavano intorno alla vedova di Maurilio aver
saputo mai che cosa ne avesse fatto.

Sulla nobil faccia del marchese si dipinse l'espressione di un acuto
dolore, d'una penosa vergogna. Che cosa non avrebb'egli dato, perchè non
si fosse potuto accagionar mai di simil fatto suo padre! Pose la fronte
sulla palma della sua mano e stette un istante impensierito, poi
vivamente impugnò la nappa in cui finiva il cordone del campanello che
pendeva presso al luogo dov'egli sedeva e diede una forte tirata: un
lacchè si presentò sollecito all'uscio.

— Si corra tosto in casa di Nariccia: comandò egli: e gli si dica di
venir qui, subito, senza il menomo indugio.

Il domestico sparì con una premura che era indizio di quella colla quale
avrebbe eseguita la commissione.

Baldissero si volse di nuovo al gesuita.

— E come, dissegli con accento di rampogna, potè Ella prender parte a
questo crudele inganno?

— Io non vi ho preso parte diretta, rispose colla sua melliflua
parlantina padre Bonaventura: mi sono rimasto a non dissentire. Ho
considerato d'altronde la specialità delle circostanze che permetteva,
che consigliava una specialità di propositi. L'interesse e la pace di
una nobile stirpe come la sua, signor marchese, sono cose di tal rilievo
che ad ottenerle si può e si deve anco ammettere delle eccezioni a
qualche regola generale. Io sapeva d'altronde che la generosità del fu
signor marchese non avrebbe mancato di provvedere alla sorte futura di
quel bambino, e credo infatti che così abbia egli voluto fare e le
circostanze soltanto abbiano impedito che le sue intenzioni avessero
effetto....

Il marchese, che ascoltava non senza qualche impazienza i gesuiteschi
avvolgimenti di parole del frate, interruppe bruscamente a questo punto,
venendo la sua attenzione richiamata all'argomento principale e più
interessante.

— Ella dunque sa qualche cosa dell'ulteriore destino di quell'infelice?

— Allora io non ne seppi più nulla, nè di poi cercai mai di saperne, o
cosa alcuna venne a mia conoscenza a questo riguardo.... Ma ora
finalmente....

— Finalmente? interruppe con accento d'ansiosa interrogazione il
fratello della povera defunta Aurora: quel fanciullo vive?

Padre Bonaventura fece un cenno affermativo.

— Ella lo conosce?

— Signor sì.

— Dov'è?

Il gesuita si curvò ancora di più verso il marchese, abbassò ancora più
la voce e rispose:

— Qui nello stesso suo palazzo.

Il marchese afferrò una delle mani del frate e gliela strinse forte.

— Si spieghi, la prego: disse con voce vibrata, in cui più che una
preghiera era un comando.

Padre Bonaventura narrò quanto aveva appreso dalla _Gattona_, la
circostanza de' contrassegni, l'intromissione di Don Venanzio e va
dicendo quello che noi sappiamo già.

Il marchese ascoltò tutto ciò con un'agitazione ed un turbamento cui non
cercò in modo nessuno di dissimulare: quando il frate ebbe finito,
rimase un istante immobile, il capo chino, come senza volontà e senza
consiglio. Ancor egli vedeva in questo succedersi e combinarsi
d'avvenimenti la mano della Provvidenza, che voleva riparato un tale
delitto, e si veniva chiedendo che cosa gli toccasse di fare in presenza
di cotali circostanze. Il gesuita che indovinava ciò che si passava
nell'animo di lui, disse col suo accento e co' suoi modi insinuanti:

— Sì, qui è innegabile il Dito di Dio che ha voluto trarle innanzi a Lei
quel disgraziato giovane, perchè Ella lo salvasse.

— Qui!... qui stesso!... esclamò allora il marchese rompendo il
silenzio. Come un estraneo, come un poveretto sono io stesso che l'ho
introdotto nella casa di sua madre! Oh poichè Iddio lo volle fare in
questo modo rientrare sotto questo tetto, gli è perchè ci rimanesse come
a suo posto....

Era la naturale generosità del marchese che si manifestava nel suo primo
impulso; ma l'interruppe l'accortezza delle convenienze che parlò colla
voce melliflua del gesuita.

— Guardiamoci di non interpretare malamente i disegni di Quel di lassù.
Certo a riguardo di questo giovane qualche cosa ha da farsi, ma che sia
questo qualche cosa, converrà deciderlo con matura e ponderata
riflessione.

— Gli furon tolti famiglia e nome: disse con vivacità il marchese:
bisogna rendergli e il nome e la famiglia.

— Sta bene; ma prima bisogna chiarirsi di quale condizione egli sia
degno. V. E. sa meglio di me che se alcuno vien messo in posto a cui non
sia acconcio, ad altro non riesce che a far male per sè e per altrui.
Ella di certo ha qualche obbligo verso quel giovane, quantunque cotali
obblighi non sia un fatto suo ad averglieli dati: ma doveri ben maggiori
e più importanti V. E. ha eziandio verso la dignità della sua famiglia,
verso la causa del bene, verso la patria, verso la società. Ora l'alto
suo senno deve accordare così l'adempimento di questi doveri, che
soddisfacendo agli uni non riesca a ledere gli altri. Badi bene, signor
marchese, che volendo restituire alla sua famiglia un rampollo il quale
in realtà non le appartiene che per indiretto legame, Ella non faccia
poi capo ad altro che a dare al suo lignaggio il disdoro d'un nemico
dell'ordine, della religione e della monarchia, ed a porre questo nemico
in condizioni appunto da poter di meglio nuocere a quelle sacrosante
cose cui osteggia.

— Che sa Ella del come questo giovane pensa e ragiona? domandò il
marchese non senza qualche meraviglia.

— Ho creduto dovermi informare appuntino dell'essere morale e
intellettivo di quell'individuo, prima di fare il menomo passo presso V.
E. a questo proposito. Ho sentito che tale era il dovere di me che avevo
avuta la parte ch'Ella sa in quei funesti avvenimenti, dovere
accresciutomi ancora dal mio lungo ossequio devotissimo alla sua
illustre famiglia, dal mio stesso sacro carattere di sacerdote. Ho
dunque voluto appurare da me stesso chi e che cosa fosse quel giovane;
trovai modo d'averlo a me, lo scrutai con attento esame e ne conchiusi
che in esso vi era un demagogo incorreggibile, un invasato senza più
rimedio dall'iniquissimo spirito rivoluzionario che è lo spirito del
male.

— Ha tanto talento! esclamò quasi involontariamente il marchese.

— Sì; soggiunse con calore Padre Bonaventura, ed è perciò tanto più
pericoloso. A questa capacità volta al male, vorrebbe Ella dare i mezzi
di far più male?

— Tornato nelle condizioni normali della sua vera esistenza; riparata la
grande ingiustizia che fu commessa a suo riguardo, si calmerà
l'irritazione dell'anima sua e quella mente acuta potrà scorgere il
vero.

— Non lo speri: interruppe con maggior vivacità il gesuita. Se la mia
esperienza m'abbia posto in grado di conoscere gli uomini, e se grazie
al Signore io possedo una certa abilità nel penetrare a prima veduta
entro l'animo di chi mi parla, e leggerne l'indole sulle sembianze e sui
cambiamenti della fisionomia, Ella lo sa.

Il marchese fece un sorriso ed un cenno del capo ad accennare che era
affatto conscio di tale prerogativa del frate.

— Ebbene, questi continuava, io ho parlato per un'ora con quel cotale,
più che non mi occorra a scoprire l'intimo pensiero, anche di chi voglia
celarmelo — e le assicuro che quel giovane non vuole per nulla nè
sarebbe capace ad infingersi — e l'ho definitivamente giudicato. È una
di quelle nature ferme e tenaci che s'abbrancano ad un'idea come
l'ostrica allo scoglio, che vivono di essa, che non vogliono e non
possono separarsene, e piuttosto morrebbero. Di quel legno si fanno i
fanatici d'ogni razza ed i martiri. Guidato sulla buona via, sarebbe
stato un valente campione per noi. Ora è troppo tardi: l'albero si è già
malamente piegato e più non si drizza; piuttosto si rompe.

Il marchese fissò in volto il gesuita con quel suo sguardo nobile e
dignitoso e disse lentamente:

— In conclusione, che cosa crede Ella, Padre, che si debba fare?

— Lasciargli ignorare quello che ignorò fin adesso.... e ch'egli, se noi
vogliamo, non avrà nessun mezzo di scoprir mai, fargli offrire
un'acconcia somma che gli costituisca una discreta ricchezza perchè si
allontani e corra in quelle terre laggiù oltre l'Atlantico, dove pare si
siano dato ritrovo tutte le pazzie umane, e dove gli è proprio anche per
lui il suo posto.

La coscienza del marchese si ribellò di botto a quest'iniqua proposta.

— Come! esclamò egli. Io lo defrauderei un'altra volta del suo diritto,
dell'esser suo? Egli è figliuolo legittimo d'un legittimo matrimonio:
questa è la sacrosanta verità che si ha l'obbligo di riconoscere.

Padre Bonaventura, colla mossa che gli era solita, levò in alto la sua
mano bianca come quella d'una signora.

— Conviene distinguere: disse colla maggiore unzione del suo accento
dolcereccio. Se si trattasse di caso vergine, non ancora pregiudicato in
nissun modo, V. E. avrebbe forse compiuta ragione. Io non voglio con ciò
muovere il menomo rimprovero alla venerata memoria di suo padre,
l'illustre signor marchese; egli a prendere la determinazione che fu la
sua ebbe valevoli e imperiosi motivi che debbono tenerci ben ben lontani
dal condannarlo....

Baldissero fece vivamente un atto, con cui voleva significare ch'egli si
guardava dal condannare suo padre.

— Ma però ammetto, continuava il gesuita, che Ella, trovandosi in quelle
medesime circostanze potesse, e credesse anzi suo dovere, adottare altra
risoluzione. Ora noi siamo dinanzi ad una condizione di cose affatto
diversa. L'ingiustizia — chiamiamola pure con questo nome severo — fu
commessa: sono venticinque anni oramai che la è cosa compiuta, e
quell'individuo si è adattato alle condizioni in cui fu posto, venne su
colla natura informata a quell'ambiente, coll'essere costituito di
quegli elementi. Ho già avuto l'onore di dirle qual egli sia pur troppo;
e le ripeto che torlo ad un tratto a quelle sue condizioni per
trabalzarlo in altre a cui non è acconcio per nulla, riesce
evidentemente un far male a lui, un creare un pericolo alla società. Che
gli si migliori la sorte: questo sì, a ciò credo egli abbia qualche
diritto, ma pretendere di più non lo può neppure quel giovane il quale,
in fin dei conti, non ha nessun mezzo sicuro e legale di venire alla
scoperta mai de' suoi parenti, cui basta il silenzio della _Gattona_, la
quale non ha ancora parlato, e di Nariccia che non parlerà se non si
vuole, per lasciar sempre nelle più dense tenebre intorno alla sua
origine, il quale ci viene innanzi con indizi fortissimi di essere
quello che pensammo finora perduto per sempre, ma non ce ne porge però
delle prove sicure ed irrefragabili. Chi o qual cosa ne può togliere il
dubbio che quegli oggetti, per un caso qualunque, e mille ce ne possono
essere stati, non sieno caduti in potere d'un altro? Come rimaner
proprio certi che il bambino trovato in mezzo di una strada a Torino sia
proprio quello nato in una villa presso Milano? E non deve metterci in
sospetto la differenza delle epoche fra la nascita e il rinvenimento,
che sarebbe accaduto un anno dopo? Sono tutte questioni, pare a me, che
ci debbono fare riguardosi e di molto. Come vorrebbe Ella risuscitare
tutto quel tristo passato, richiamare l'attenzione del mondo sopra un sì
doloroso episodio della sua famiglia ora compiutamente posto in oblìo
per chiamare a condizione di cui non è degno un cotale cui nulla mai
potrà provare sia davvero l'individuo supposto?

Il marchese stette alquanto pensoso, evidentemente impressionato da
queste parole.

— Prima di decidere se questi dubbi ch'Ella accenna con giusto criterio
sieno risolubili o no, converrà parlare con messer Nariccia. Egli ci
potrà chiarire di molte cose, e forse dalle sue rivelazioni sorgerà alla
nostra mente l'evidenza.... Ma, appunto; nessuno ancora ritorna a darmi
conto della imbasciata fatta a Nariccia.

Tese la mano per afferrare il cordone del campanello, ma in quel punto
medesimo l'uscio s'aprì vivamente e il cameriere del marchese, così
concitato che aveva perfino trascurato di chieder licenza d'entrare, si
precipitò nella camera con aspetto turbatissimo e quasi sgomento.

— Volevo suonare, appunto per voi: disse il marchese prima che il servo
aprisse bocca. Si fu da Nariccia?

— Sì.... sì signore: rispose l'altro con voce che tremava. Ci fui io
stesso.... Ah! Eccellenza, se sapesse!...

Il marchese notò allora il turbamento del domestico.

— Ebbene?... Che avvenne?... Ce l'avete trovato?

— Il povero signor Nariccia questa notte fu barbaramente assassinato.

Baldissero e fra' Bonaventura sorsero di scatto da sedere. —
Assassinato! esclamarono essi. Morto?

— No.... Pare ch'e' non sia morto del tutto, per ora, ma gli è poco
meno. Non ha cognizione, non può più parlare, ed ho udito che i medici
lo danno per bello e spacciato.... gli assassini gli hanno quasi
tagliata la testa. Un rubalizio dei più audaci e dei più barbari che sia
stato compito mai.... La povera vecchia fante fu sgozzata come un
pollastro: quella è morta per davvero.... Scassinarono il forziere e
portarono via tutto il denaro che c'era, si dice delle somme enormi....
E dovevano aver delle chiavi che aprivano dapertutto, perchè non ci fu
la menoma effrazione, ned alcuno dei casigliani ebbe ad udire il menomo
rumore.... La cosa fu scoperta stamattina che andò, secondo il solito, a
recar loro il latte la rivendugliola della cantonata, e trovato l'uscio
aperto s'introdusse nel quartiere e mirò l'orrendo spettacolo. Ella mise
in un momento a rumore tutta la casa e non tardarono ad accorrere la
giustizia e la forza pubblica.... Adesso colà c'è un mondo di gente....
Già si dice che gli assassini sono i soliti di quella famosa _cocca_ che
non si sa mai cogliere e che sono il terrore di tutta la città.

Il marchese fece un atto colla mano che il servo prese per un ordine di
silenzio e un cenno di congedo: si tacque, e camminando all'indietro
come i gamberi si avviò verso l'uscita.

— Si attacchino i miei cavalli.... subito: comandò il marchese.

E il domestico dopo un ultimo inchino uscì sollecito.

— È una fatalità che il filo ci si debba spezzare tra mano? Soggiunse il
marchese. Nariccia che potrebbe dileguare i dubbi, ci viene ora tolto.
Voglio vederlo: Padre, venite anche voi meco.

— Molto volentieri: rispose untuosamente il gesuita, tanto più che se
quell'infelice non è ancora morto, può essergli utile il mio santo
ministero.

L'audacia e la misteriosità di quell'assassinio così ferocemente compito
avevano sdegnato e quasi direi spaventato, non che la popolazione, ma le
pubbliche autorità medesime; e tanto la giudiziaria quanto la politica
erano disposte a mettere tutto il possibile impegno per rintracciare i
colpevoli. Sventuratamente d'indizi non se ne avevano, fuor due: nella
destra contratta di Nariccia (il quale da principio era stato creduto
cadavere ancor esso) stava stretto uno squarcio di panno, che
probabilmente aveva appartenuto agli abiti del suo assassino; sopra un
mobile vicino al posto in cui era caduta sgozzata la povera Dorotea, si
vedeva l'impronta sanguinosa d'una mano grossa, a dita tozze e robuste,
la mano d'un uomo di forme colossali e di forza non comune. Era di certo
l'uccisore della vecchia fante, il quale colla mano intrisa del sangue
di quell'infelice, erasi appoggiato a quel mobile. Il commissario Tofi,
accorso egli stesso in persona ad esaminare le cose, alla prima
sguardata di quell'impronta, disse col suo accento secco e burbero:

— Qui c'è entrato quel brigante di _Stracciaferro_; ecco il suo bollo.
_Stracciaferro_ non va senza _Graffigna_: son essi che han fatto il
colpo.... Conviene snidarli dal covo in cui queste belve si nascondono,
ad ogni costo.

Affine di procedere con ordine ed attenzione all'esame d'ogni menoma
cosa nel quartiere abitato da Nariccia, Tofi ordinò si facesse sgombrare
il locale da tutti i curiosi, e le guardie intanto, mentre non avrebbero
più lasciato entrare alcuno fuor quelli di cui era bisogno, custodissero
a vista i vicini e coloro fra gli accorsi che parevano poter fornire
all'uopo qualche utile testimonianza. Mentre il Giudice ed il
Commissario di Polizia procedevano ad una minutissima investigazione,
l'ufficiale sanitario, fatto venire in tutta fretta, verificava che la
fante era morta senza più rimedio pel taglio della gola che quasi le
aveva separato la testa dal busto, ma che invece il padrone viveva
tuttavia, che la ferita di lui non era mortale, che la minaccia alla
vita glie ne veniva non dalla pugnalata ricevuta al collo, ma
dall'apoplessia che lo aveva assalito e la quale anzi molto
probabilmente l'avrebbe già ucciso se lo scolo del sangue per la
trafittura del pugnale, facendo funzione d'un abbondante salasso, non
avesse d'alcun poco diminuito la forza dell'accesso.

Il medico giudicò che altre cavate di sangue erano ancora necessarie, e
l'assassinato fu posto sopra il letto, dove gli si aprì la vena a quel
braccio medesimo la cui mano teneva tuttavia stretto il pezzo di panno.
Al signor Tofi non era sfuggita la importanza di quel piccolo squarcio
di pannilana, e fin dal primo istante aveva cercato impadronirsene; ma
le dita contratte dell'assassinato erano strette come una morsa di
ferro, talmente che per quanta forza il Commissario ci mettesse, non ne
potè venire a capo: ma dopo i due salassi che a breve intervallo, il
medico stimò bene si facessero all'assassinato, le irrigidite membra si
rammollirono un poco, e fu possibile finalmente lo impadronirsi di
quell'importante oggetto, che poteva diventare utilissimo stromento a
rintracciare gli scellerati.

Si capiva facilmente che quello era un pezzo di bavero d'un vestito
maschile: era di panno fine di color marrone, e circostanza che diede un
sussulto di soddisfazione al Commissario, nella parte inferiore aveva
trapunte in filo di seta due lettere dell'alfabeto — F.B.

— Ecco un prezioso documento: disse Tofi al giudice, riponendo
accuratamente lo squarcio di panno. Lasci in mio potere per qualche poco
quest'oggetto, ed io saprò bene trovare fra i sarti di Torino e
d'altrove se occorre quell'informazione che ci servirà da buon capo a
dipanar la matassa.

Benchè vi fosse ordine di non lasciar entrare nessuno, quando alla casa
di Nariccia si presentò il marchese di Baldissero, tutte le porte gli si
aprirono; e con esso penetrò eziandio fino al letto dell'usuraio Padre
Bonaventura.

Nariccia poteva dirsi trattenuto sulla soglia del buio regno della
morte, ma non che vivesse; l'irrigidimento delle membra aveva sminuito
alquanto, ma la immobilità la più compiuta le toglieva all'ubbidienza
della sua volontà, se pur era che la volontà fosse tornata in
quell'essere: la paralisi, una compiuta paralisi di tutto il corpo lo
teneva inchiodato sul letto senza voce, senza possibilità nessuna di
manifestare se e che cosa sentisse, se e che cosa volesse. La speranza
d'udire dalla sua bocca la esposizione dell'atroce caso era delusa, nè
il medico lasciava lusinga che ciò potesse in avvenire aver luogo. Di
vivo non aveva più che i suoi occhi piccoli e più balusanti di prima, i
quali non avevano più espressione di fatta sotto ad una velatura che li
appannava e che già pareva l'ombra della morte che li invadesse.

Se quell'anima, racchiusa in un corpo quasi morto del tutto, con nessun
altro spiraglio sulla vita che gli occhi, di cui non si poteva manco
valere a manifestare le proprie sensazioni e volontà; se quell'anima,
dico, era conscia di sè, giudichi il lettore quale dovesse essere il suo
supplizio!

Il marchese ed il frate s'accostarono al letto del giacente, mentre gli
altri con rispetto se ne scartavano.

— Nariccia, disse Baldissero, a cui parve uno degli occhi
dell'assassinato si fissasse sopra di lui; mi riconoscete?

Non un moto, non il menomo cenno, non un batter di ciglio che indicasse
l'infermo avesse udito; ma quella pupilla velata, dal fondo
dell'occhiaia, continuò a restar fissa sul volto del marchese.

Padre Bonaventura insinuò dolcemente sotto le coltri la sua mano e prese
la destra dell'assassinato.

— Ci riconoscete? diss'egli a sua volta, curvandosi verso il giacente, e
colla sua voce dolcereccia e l'accento d'ostentata benevolenza.

Nariccia stette immobile, e il suo sguardo non si deviò nemmanco
menomamente dalla direzione che aveva prima. La mano che fra'
Bonaventura aveva presa non rispondeva in alcun modo alla stretta, ma
era dura, ghiacciata come quella d'un cadavere. Il gesuita la abbandonò
con un certo ribrezzo e si trasse in là; anche il marchese provò una
specie di fastidio per quello sguardo atono, semispento, vitreo che si
ostinava a star fiso su di lui: vide che non c'era nulla da fare e
s'allontanò di alcuni passi.

— Avete voi qualche sospetto intorno agli assassini; credete voi di
poterne scoprire le traccie? domandò egli al Commissario.

— Sono persuaso che già li conosco, almeno i principali: rispose il
signor Tofi; quanto al trovarne io traccie, questo pezzo d'abito
signorile, che viene a confermarmi nell'idea essere fra loro e dei
principali alcuni che vestono panni fini, questo servirà di prova
accusatrice irrepugnabile, perchè si troverà senza fallo il sarto che ha
cucito e trapunto queste lettere e saprà dirci per cui.

Affondò le due mani nelle grandi tasche del suo soprabito, appoggiò il
suo mento quadrato sul duro cravattone e stette innanzi a S. E. nella
mossa del soldato senz'armi in presenza del suo superiore.

Il marchese fece un allo di licenza e di saluto che significava non
avergli più nulla da domandare, e badasse pure ai fatti suoi, e si mosse
per uscire; ma Padre Bonaventura domandava in quella al medico che
ancora non era dipartitosi dal fianco del giacente:

— Crede Ella che questo sventurato possa sopravvivere, o che almeno in
lui la vita possa durare ancora alcun poco?

Il medico si strinse nelle spalle e rispose:

— Sopravvivere, no certo; sarebbe un vero miracolo, e non ci credo; ma
però questo suo stato, e fors'anche con qualche miglioria potrebbe
prolungarsi per alcuni giorni, come pure potrebbe avvenire fra pochi
minuti eziandio la morte.

Messer Tofi, che non trascurava nulla, che per le cose del suo mestiere
aveva una fortunata feracità d'idee, erasi andato a piantare in faccia
al ferito, appiè del letto, e ne guardava con tanta intentività la
faccia terrea e immota che pareva una maschera di creta, da far credere
volesse co' suoi occhi penetrare entro quella testa e leggergli il
segreto del delitto di cui era vittima nelle pieghe del cervello. Gli
parve che alle parole del medico qualche cosa avvenisse in
quell'occhietto appannato che guardava senza espressione dal fondo
dell'occhiaia, una lieve modificazione si facesse, una specie di
turbamento vi si manifestasse. Tofi s'abbrancò alla sbarra del letto e
si curvò verso il giacente con un evidente interesse, guardandolo con
più attenzione.

— Se così è, diceva fra' Bonaventura, continuando il suo colloquio col
medico, sarebbe forse opportuno dire su questo infelice le orazioni dei
moribondi.

— Sì, sì: esclamò vivamente il Commissario di Polizia; glie le dica,
Reverendo. La carità le impone di non lasciar partire quest'anima
poveretta senza i supremi conforti della religione.

Non era del tutto un trasporto di zelo cattolico che movesse il signor
Tofi a parlare così: ma era il desiderio di assicurarsi meglio se quella
sembianza d'emozione ch'egli aveva creduto di scorgere nel paralitico
era vera, se l'anima racchiusa in quel cadavere aveva tuttavia coscienza
di sè e delle cose circostanti e poteva in qualche pur lievissima guisa
manifestare esteriormente le sue sensazioni.

Padre Bonaventura cominciò la recitazione di quelle tristi preci: il
medico si ritrasse in là come colui del quale non è necessaria la
presenza, e si ridusse col giudice nel vano d'una finestra a discorrere
sottovoce; il marchese invece non solo si fermò, ma venne
riavvicinandosi al giacente, per associarsi ancor egli a quell'atto
pietoso: il Commissario stette al suo posto, curvando sopra il letto
verso la faccia di Nariccia la sua lunga persona.

Egli non aveva travisto, sotto quell'appannatura onde quei loschi
occhietti erano velati, un osservatore, qual era il Commissario, potè
scorgere una emozione di spavento, di cordoglio disperato, la quale
cercava, penosamente direi quasi, manifestarsi, e non ci riusciva che a
stento. Si sarebbe detto che quelle pupille volevano rotare sgomentite e
non erano capaci che a girar lentamente, che volevano domandar pietà e
nol potevano, che volevano piangere e non trovavan lagrime. Il volto di
messer Tofi veniva esprimendo una strana soddisfazione che pareva quasi
un sorriso. Appena fu se lasciò finire le preghiere sul labbro del
gesuita.

— Egli ci ode, egli ci vede, egli capisce e può farsi intendere: esclamò
il Commissario. Dottore, venga un po' qua e presti attenzione. Credo
aver trovato il modo di far parlare questo morto.

Il medico ed il giudice s'accostarono vivamente: anche il marchese ed il
gesuita s'aggrupparono intorno al letto non senza un po' d'emozione.

Tofi spiegò quello che aveva osservato.

— Ed ora: soggiunse: stieno attenti tutti che riusciremo a metterci in
rapporto con quell'anima chiusa in quel corpo intormentito.

Si pose vicino al capezzale di Nariccia, e curvandosi verso di lui, gli
disse:

— Per prima cosa rassicuratevi sulla vostra sorte. Il vostro male è
grave, ma non è disperato; se anzi vi mettete con buon coraggio nel
vostro interno a volere riagire contro questo intorpidimento che vi
allaccia, riuscirete a superarlo più presto. Potrete guarire ed avrete
ancora lunghi anni da vivere.

Gli astanti intorno al letto, dominati da un pungente interesse,
tenevano gli sguardi fissi su quella faccia di morto con occhi semivivi:
non un moto, non un cenno, nulla che potesse fare arguire il giacente
avesse udito.

Tofi continuava:

— E più presto vincerete questo vostro torpore, più presto potrete darci
i ragguagli perchè noi possiamo cogliere gli scellerati. Sarete
vendicato (si curvò ancora più sul capo di lui) e potrete riavere tutto
ciò che vi fu tolto.

Un fugace bagliore, come un piccolo guizzo, spento poi tosto, animò
l'occhio destro dell'assassinato.

— Hanno visto? esclamò il Commissario. Per me non v'è più dubbio: egli
comprende.

Il medico dichiarò che quel menomissimo accenno poteva essere puramente
automatico.

— Non è vero che voi ci comprendete? soggiunse Tofi, curvandosi di nuovo
sul giacente. Date retta, messer Nariccia: vegliamo fare una prova:
metteteci da parte vostra ogni sforzo, tutta la buona volontà, perchè
ciò vi deve interessare più di tutti noi. Se voi mi udite, se voi
comprendete quel che dico, volgete il vostro sguardo verso di me.

Tutti si chinarono ansiosi a vedere se questa prova riuscisse. Le
pupille di Nariccia stettero un momentino immote; poi lentamente, come
con fatica, si mossero e la destra si volse verso Tofi, mentre la
sinistra si volgeva appiè del letto, il qual modo era quello di guardare
pe' suoi occhi loschi. Una lieve esclamazione uscì dal petto dei
testimoni di quell'atto che prendeva una strana importanza.

— Vedete s'egli ci comprende! esclamò Tofi con trionfo. Oh noi lo faremo
parlare, e la verità verrà fuori anche da quelle labbra morte. Fate
attenzione, signor Nariccia, continuò indirizzandosi di nuovo al
paralitico; potete voi chiuder le palpebre a volontà? Provatevici un
po', vi prego.

Gli occhi del giacente manifestarono dapprima la stessa esitazione, la
stessa difficoltà di poc'anzi, come restii ad ubbidire all'intimo
volere; poi le ciglia si abbassarono lentamente e le pupille furono
coperte.

— Bene, benissimo: esclamò il Commissario sempre più soddisfatto. Or
dunque — fate bene attenzione, da bravo! — quando voi avreste da
accennare di sì potreste chiudere gli occhi. Sarebbe come una precisa
affermativa alle nostre interrogazioni, pronunziata dalla vostra bocca.
Avete capito?

Le palpebre floscie e giallognole di Nariccia che si erano rialzate
tornarono ad abbassarsi sulle losche pupille.

— A meraviglia! Vedono lor signori che noi ci comprendiamo
perfettamente... E credo che non si voglia perder tempo — chi sa che
cosa può sopravvenire anche nello stato di questo povero diavolo, che
c'impedisca di poi l'approfittare del lume d'intelligenza che gli
rimane? — e sia spediente il venir subito all'argomento che più preme.

Il giudice fece vivamente un cenno di assentimento, e tutti
s'accostarono ancora di più al letto, presi da nuovo e maggiore
interesse.

— Avete voi conosciuto i vostri assassini? Se sì, fate come vi dissi,
chiudete gli occhi, se no, rimanete colle pupille immote.

Più presto di quello che avessero fatto per l'innanzi, le palpebre di
Nariccia s'abbassarono.

Tofi continuò il suo interrogatorio.

— Tutti? Se li avete riconosciuti tutti, chiudete come prima gli occhi;
se alcuni soltanto, volgete le pupille alla destra.

Nariccia chiuse compiutamente gli occhi.

— Potreste dirne i nomi?

L'assassinato fece di nuovo il segno affermativo.

— Troveremo il modo di aiutarvi a dirlo questo nome. Frattanto vediamo
un po' in quanti erano. Io pronunzierò i numeri, facendo una pausa fra
l'uno e l'altro; quando avrò detto il numero che si vuole, voi
accennerete di sì. State attento. Uno!

Aspettò un istante: le pupille del giacente stettero fisse sul volto del
Commissario.

— Due....

Gli occhi rimasero immoti.

— Tre.

Le palpebre si chiusero.

— È giusto. L'avrei detto anch'io che dovevano essere in tre, solamente
a vedere le traccie del delitto. Uno, il più nerboruto, dovette
spacciare la fante, mentre gli altri due erano intorno a voi.

Nariccia fe' segno di sì; ma i suoi occhi, fino allora semispenti e
quasi atoni, cominciavano a prendere un'espressione di sgomento e di
terrore, troppo vivo essendo forse nell'interno l'effetto di questo
richiamargli alla mente l'orribile scena.

— Di questi tre assassini io sono persuaso di sapervi dire il nome di
due: sono due galeotti scappati, di cui uno vien chiamato
_Stracciaferro_, e l'altro _Graffigna_.

Cenno affermativo nel giacente.

— Rimane il terzo, e questo sono persuaso che è il più importante.

Nelle pupille di Nariccia corse come un lampo; era una fiamma fugace di
quel desiderio di vendetta che stava in lui, e con più vivezza che non
avessero ancora avuta, gli occhi si chiusero ad accennar di sì.

— Il pezzo di vestito che voi avevate tra le mani è suo?

Segno affermativo di Nariccia.

— Quello squarcio di abito indica ch'egli vestiva panni signorili. È
così?

Il paralitico rispose affermativamente.

— Sotto quel bavero ci sono trapunte due lettere dell'alfabeto, F. B.
Sono esse le iniziali del nome di quell'individuo?

Le pupille dell'assassinato rimasero immobili.

— No? Eh! volevo dirlo ancor io. Ma con un po' di pazienza voi potrete
farci conoscere subito quel nome. Porgete attenzione. Come abbiamo fatto
pei numeri faremo per le lettere dell'alfabeto: io le pronunzierò
adagio, ad una ad una, e voi mi segnerete via via quelle che entrano a
comporre cotal nome. Cominciamo dalla prima.

Si mise a recitare lento e spiccato le lettere dell'alfabeto; gli occhi
dell'assassinato stavano intentivamente fissi su quelle labbra come per
cogliere a volo il suono delle lettere fatali che avevano da notare,
quasi volendo affrettare la pronuncia di quelle che occorrevano. Ma dopo
pochissimi istanti quelle pupille tornarono ad appannarsi e la fiamma
d'intelligenza che vi balenava venne via via spegnendosi e quando il
Commissario era giunto alla lettera H gli occhi di Nariccia si chiusero.

— Acca! esclamò il signor Tofi meravigliato. Un nome che comincia per
acca? Diavolo! Non me lo sarei mai aspettato.

Si curvò di più sul giacente.

— Ehi! messer Nariccia, date retta: è proprio l'acca che avete voluto
segnare? Riaprite gli occhi da bravo e ripeteteci il segno, se gli è
proprio vostra intenzione di notare questa lettera.

Ma gli occhi di Nariccia non si riaprirono. Il medico s'accostò, lo
esaminò, e disse che era inutile insistere, poichè la soverchia interna
emozione lo aveva tolto della cognizione.

Tofi fece un atto di disappunto.

— Peccato! diss'egli. La cosa era sì bene avviata. Chi sa se
quest'infelice potrà tornare in condizione da riprendere siffatto
interrogatorio!

— Converrà usare dei riguardi: soggiunse il medico, e non ricominciare
troppo presto. La emozione è troppo forte ancora e troppo recente,
perchè facendo rivolgere su quel fatto la sua mente indebolita non
succedano tristi effetti a danno della sua salute.

Il Commissario diede bruscamente una crollatina di spalle che
significava con molta evidenza: «quando ne avessi tratto fuori quel che
voglio, crepi o non crepi costui, che cosa m'importa?» ma non disse
verbo.

Il marchese che non aveva più ragione alcuna d'indugiarsi in quella
casa, se ne partì col gesuita. Il suo animo era stranamente commosso, la
mente turbata. L'intreccio de' casi, la combinazione di quelle strane,
inaspettate, imprevedibili circostanze gli facevano scorgere in tutto
codesto un certo che di fatale, come un disegno della Provvidenza che
volesse, ora, dopo tanti anni, metterlo al cimento di nuovo e dargli
occasione a riparare a quel suo fatto per cui gli durava ancora potente
nell'animo il rimorso. S'egli non avesse ucciso Valpetrosa (andava seco
stesso pensando), il figlio di lui non sarebbe caduto in sì misera
sorte!...

Giunti alla carrozza, che aspettava nella strada, Baldissero e fra'
Bonaventura, questi, mentre il valletto, col cappello in mano, teneva lo
sportello aperto perchè ci salissero, disse:

— Eccellenza, io la saluto. Ella se ne torna forse a casa, ed io rientro
nel mio convento.

Il marchese pose una mano sotto l'ascella del frate a fargli invito a
salire nel legno.

— Venga, venga meco, gli disse, l'accompagnerò fino al Carmine e la
deporrò alla porta.

Salirono ambidue, e la carrozza si diresse di trotto verso il luogo
indicato.

Per un po' rimasero in silenzio tuttedue: fu poscia Padre Bonaventura il
primo che incominciò a parlare col suo tono più insinuante che mai.

— È una dolorosa contrarietà, un fatale contrattempo questa orrenda
disgrazia capitata al povero Nariccia. Temo pur troppo ch'egli non
tornerà mai più in istato da potersi spiegare chiaramente e farsi
intendere con sicurezza; e senza la sua testimonianza è affatto
impossibile dileguare quei dubbi che ci si affacciano intorno all'essere
di quel giovane.

Il marchese lo interruppe con un gesto che indicava desiderare che per
allora non gli si parlasse più di codesto.

— Penserò di meglio quello che mi tocchi di fare, disse: pregherò Dio, e
preghi anche Lei per me, di grazia, perchè m'illumini.

S'era giunti al convento del Carmine, il gesuita discese con
ringraziamenti, rispettose salutazioni ed umili proteste di devozione, e
il marchese continuò la strada per al suo palazzo. Diverse idee gli
tenzonavano nella mente, diversi affetti gli agitavano l'animo. I
pregiudizi, l'orgoglio, la bontà del suo cuore, il rimorso lottavano in
lui, mandandolo a volta a volta ai più opposti partiti. Aveva bisogno di
guida e di consiglio, e non sapeva a cui rivolgersi, e non voleva
aprirsene a nessuno. Ad un tratto si presentò alla sua mente l'immagine
sorridente e bonaria dell'umile parroco di villaggio. Là era il buon
senso, là l'onestà la più pura, là una vera religione, la virtù più
generosa, il più esatto e preciso sentimento del dovere, là
l'ispirazione della carità veramente cristiana.

Salì di fretta nel suo quartiere e fece venire a sè il domestico.

— Cercate subito di Don Venanzio, e pregatelo di venir da me al più
presto.

Il lacchè s'inchinò in segno d'ubbidienza, ma non uscì della stanza.

— Che cosa avete da dirmi? domandò il marchese.

— Durante la sua assenza venne uno scudiere di Corte, pregandola di
recarsi a Palazzo chè S. M. desidera parlarle.

Il marchese represse un lievissimo atto di contrarietà, e disse
sollecito:

— Non si stacchino dunque i cavalli. Ci vado tosto: e frattanto si
cerchi di Don Venanzio. Vorrei trovarlo qua al mio ritorno.

E messosi di nuovo in carrozza, fu in pochi minuti nel palazzo reale
alla presenza di Carlo Alberto che lo aspettava e lo accolse tosto.



CAPITOLO VII.


Il commissario Tofi, fattasi inutile ogni insistenza presso lo svenuto
Nariccia, passò in altra camera e si diede ad interrogare coloro fra i
casigliani che aveva fatto trattenere, nella lusinga potessero fornire
qualche testimonianza utile al suo còmpito. Apprese egli di questo modo
il fatto della crudele cacciata sul lastrico della strada della famiglia
del povero Andrea, e quindi il furore e i propositi di vendetta di
quest'esso. Nel passato del misero operaio non c'era nulla che potesse
farlo stimar capace d'un delitto, e sopratutto d'una ruberia; ma la
passione di vendicarsi e la miseria in cui si sapeva caduto il
disgraziato sono così cattive consigliatrici! Gli stravizi a cui s'era
dato in preda, le triste compagnie cui da tempo frequentava erano
argomenti da far credere in Andrea offese e smussate quella moralità e
quell'onoratezza onde poteva un tempo vantarsi; per poter penetrare in
quel modo nel quartiere dell'avaro, senza effrazione, gli assassini
dovevano avere in loro mano delle chiavi ben fatte all'uopo; ora
sapevasi che Andrea era un abilissimo fabbro ferraio. Quella mattina era
stato visto in quella strada medesima ed aveva mostrato assai
turbamento. Tutto ciò parve al signor Tofi altro che bastevole per
legittimare i sospetti sul conto di Andrea e la sua cattura: diede
ordine senz'altro che il marito di Paolina venisse arrestato.

Ma dove trovarlo questo vagabondo che non aveva più domicilio? Tofi, che
conosceva i suoi polli, mandò gli sgherri prima all'osteria, e poi, se
Andrea non fosse colà, all'ospedale dove giaceva inferma la moglie
dell'operaio.

Povera Paolina! Pareva ch'ella fosse già precipitata al colmo delle
disgrazie, eppure una nuova le incombeva sul capo ed un nuovo massimo
dolore stava per colpirla. Rimasta fuor de' sensi quasi ventiquattr'ore
(ah! perchè non aveva Iddio concessole di continuare in questo stato,
nel quale almeno le era tolta la coscienza della sua sventura?) era
finalmente tornata in sè per conoscersi in un lettuccio sotto la trista
vôlta d'un camerone d'ospedale. La prima idea che le era venuta era
stata quella dei suoi cari.

— I miei figli! mio marito! esclamò essa.

Le rispose la voce dolce d'una pietosa suora di carità che per ventura
le stava presso in quel punto.

— I vostri figliuoli sono ricoverati nell'Ospizio di *** e non mancano
di nulla; vostro marito è già venuto due volte a vedervi, e credo che
tornerà di quest'oggi medesimo.

La inferma volse uno sguardo tra attonito e riconoscente alla mite
fisionomia di quella monaca, e stette un poco a guardarla, come se non
avesse parole fatte da risponderle; poi ad un tratto un'idea spaventosa
l'assalse, ed ella ruppe in un singhiozzo.

— Mio marito, disse, può venire a vedermi; ma i miei figli?.... Oh! non
verranno essi pure?.... Io non potrò uscir più di qua per vederli
loro... Dovrò io dunque morire senza più abbracciarli?

La suora tentò calmare lo spasimo della poveretta con buone parole, e
infonderle il coraggio di qualche speranza; ma tutto fu inutile.

— No, no: diceva ella scotendo sul guanciale la testa con mossa
desolata: lo sento bene; io morrò qui... qui, separata dai miei!...

Povera donna! Ella doveva aver pur troppo ragione!

Poco dopo Andrea si trovava presso il letto di sua moglie.

Non ebbero cuore a parlarsi i due infelici. Essa lo fissava cogli occhi
velati da lagrime; egli non osava quasi arrestare il suo sguardo sul
viso di lei, aimè! quanto cambiato, che già pareva il viso di una morta.
Nell'aspetto di lui c'era una confusione, una vergogna, un rimorso:
tutto esprimeva il pentimento ed il dolore; il suo contegno era
un'accusa di se stesso ed un implorare perdono: in lei non un'ombra di
rampogna, non la menoma amarezza; una rassegnata mestizia, una virtuosa
mitezza nella irrimediabile desolazione. Andrea balbettò alcune voci che
non avevano senso; si curvò sulla giacente; ne prese il capo fra le sue
nere, callose mani che tremavano, e baciandole la fronte, ruppe in un
pianto angoscioso, con singhiozzi che parevano squarciargli il petto.
Piangeva eziandio Paolina, ma piangeva chetamente e lasciava colar giù
del volto immagrito e color della cera le lagrime cocenti senza
asciugarle.

Stettero così un poco; e la dolorosa amaritudine di quelle anime in tale
istante, chi la potrebbe dire? Fu la Paolina che, con quel filo di voce
che le rimaneva, cominciò a parlare.

— Calmati, Andrea, e fa coraggio, te ne prego.

Era essa, la santa donna, che riconfortava il marito; essa che andava
persuasa di morire, di dover abbandonare nel mondo, in quelle sì triste
condizioni in cui erano, i figli suoi; essa che da ciò aveva all'anima
il più grande dolore che anima di madre abbia provato mai!

— Non pianger più..... Tu sei un uomo... Conviene che tu abbia forza...
Senti, Andrea: ti voglio domandare un piacere, un gran piacere, sai, che
mi farà bene, ma tanto, tanto bene.

— Oh parla: esclamò vivamente il marito: e qualunque cosa sia, ti giuro
che io lo farò.

— Ho bisogno di vedere i nostri figliuoli... Conducimili qui... Non
dev'essere proibito di condurre de' figliuoli a vedere la madre
ammalata... Se fosse proibito anche questo, per noi povera gente, va a
domandare la grazia da chi occorre, anche dal Re se fa bisogno... te ne
supplico, ma conducimi qui i miei bambini... Tutti, sai! Anche
l'ultimo... Povero piccino!... Ah! poveri tutti!...

Si tacque chè la commozione le faceva groppo alla gola, e si voltò in là
perchè il pianto le riempiva di nuovo gli occhi.

— Sta tranquilla, rispose Andrea, dovessi mettere sottosopra il mondo,
ti contenterò.....

— Quando? quando? chiese con ansia e sollecitudine l'inferma.

— Per oggi mi è impossibile, che già è troppo tardi, e prima che io sia
andato e venuto, è di là di trascorsa l'ora in cui qui ci si lascia
entrare; ma domattina, sta sicura che verrò qui coi nostri figliuoli per
mano.

— Grazie! disse Paolina con tanta tenerezza di accento che impossibile
farsene un'idea: ah! rivedrò i figli miei!...

Successe una pausa; poi la inferma, non senza qualche imbarazzo, si fece
a domandare:

— E tu, Andrea, ora, che fai? che conti di fare? come vivi? Hai cercato,
cerchi lavoro? ne hai trovato?

Andrea rispose con impaccio maggiore di quello con cui sua moglie lo
interrogava:

— No, di lavoro fin adesso non ne ho trovato... è così scarso!... ma ne
cerco.

— E intanto come vivi?

— Ho qualche amico che mi aiuta...

— Ah! i tuoi amici

— Ho reso servizio ad un cotale che può qualche cosa e che ci torrà
tutti dalle pene... Quando tu sarai guarita, e sarà guarito ancor
egli... perchè si trova malato di molto anche lui, tutto si
aggiusterà.....

Paolina guardò fiso in volto suo marito.

— Non c'è nulla in codesto, di cui un uomo onesto come sei tu debba
arrossir mai?

Andrea chinò gli occhi innanzi a quelli della maglie: ricordò la false
chiavi fatte la sera innanzi, ed una profonda vergogna de' fatti suoi lo
prese.

— No, no, rispose tuttavia con sufficiente franchezza; anzi ho fatto per
quel cotale una che si può dire opera buona. Ti conterò poi tutto
un'altra volta.

Il domani, come aveva promesso alla moglie di fare, Andrea uscì dal
segreto riparo in cui si nascondeva così bene, che da quella sera in cui
era stato condotto in _Cafarnao_ nè Marcaccio ned altri non lo avevano
visto più, e s'avviò verso l'ospizio ov'erano ricoverati i suoi figli.
Per giungere a questo ospizio, la strada più corta era quella in cui si
trovava la casa di messer Nariccia, ed Andrea ci passò, e come tutti
quelli che in quella mattina la percorrevano, fu arrestato dal
capannello di curiosi che impediva il passo all'altezza appunto della
casa dell'usuraio. Il marito di Paolina dalle vive ciarle che udì
intorno a sè, apprese tosto quel che era avvenuto al suo già padrone di
casa, e fu grave e profondo l'effetto ch'egli ne provò. Pensò di botto a
quelle chiavi da lui fabbricate, e non ebbe dubbio nessuno che esse
avessero servito a commettere quell'orribile delitto; egli dunque ne
aveva pure la sua parte di colpa, a lui si doveva il compimento di
quella strage, su di lui la giustizia divina e l'umana avrebbero potuto
e dovuto far ricadere quel sangue. Il povero Andrea seppe così poco
nascondere il suo turbamento che i presenti lo notarono tutti, e
parlandone poscia al Commissario, rafforzarono in lui i sospetti che
complice dell'assassinio fosse Andrea, e che, mandato appunto da quelli
che avevano fatto il colpo, fosse venuto lì quella mattina ad esplorare
come si mettessero le cose.

Intanto il marito di Paolina, allontanatosi da quel luogo di buon passo,
desideroso di fuggire quella strada e quelle voci, arrivava ancora tutto
sossopra dell'animo all'ospizio in cui erano ricoverati i suoi
figliuoli. Colà domandava gli fosse concesso prender seco i bambini e
condurli al letto della madre poco meno che moribonda; e la passione
dell'animo ond'era afflitto, diede alle sue preghiere tanta efficacia,
che le monache sotto la cui direzione era quel pio istituto,
acconsentirono senza difficoltà nessuna a lasciar andare col misero
padre i bambini; i quali, di vero, appena vistolo, s'erano gettati
addosso a lui e pregavano piangendo li togliesse con sè, li conducesse
dalla mamma, tornassero tutti nella loro soffitta a vivere come prima.

Andrea li abbracciò e baciò con tanta tenerezza, quanta forse non aveva
provata mai; ringraziò le monache alle quali promise avrebbe fra due ore
al più tardi ricondotti i piccini, cui loro raccomandava colla più
commovente effusione, e toltosi in braccio il più piccolo, mandandosi
innanzi gli altri, si diresse verso l'ospedale in cui giaceva la moglie.

Quest'infelice aspettava con ansioso desiderio che le faceva parere
lentissimo il tempo. Ad ogni minuto domandava alla monaca, che aveva più
specialmente cura di lei, qual ora fosse, e udendo sempre che
trammezzavano ancora parecchi minuti al punto in cui avrebbero
cominciato ad essere ammessi i visitatori, sospirava dolorosamente.

Ma quel momento giunse pure alla fine: vide Andrea comparire in fondo al
camerone col piccino in braccio che girava attorno attoniti i suoi
occhioni tondi come se volesse cercare la mamma che il babbo gli aveva
detto eran venuti a vedere; scorse gli altri suoi figliuoli che
camminavano tenendosi per mano colle mostre dello stupore ancor essi
sulle loro faccine a quei nuovi oggetti che si trovavan dintorno;
Paolina provò una tale emozione che ne attinse la forza di drizzarsi
alquanto della persona sul letto, di levar fuori dalle coltri le braccia
e tenderle a quei suoi cari che s'avanzavano verso di lei, mentre le sue
bianche labbra tremanti esclamavano:

— Figli... oh figli miei!

In un momento, fra quelle braccia mosse da tanta tenerezza si trovò
stretto con amoroso trasporto l'ultimo de' bimbi che il padre ci aveva
messo. La povera madre lo baciava piangendo, dicendogli mille
incoerenti, inintelligibili parole; il bambino guardava sempre con que'
suoi medesimi occhi attoniti, pareva non riconoscer più sua madre:
quelle due lunghe file di letti, con entrovi tanti volti quasi
cadaverici e tanti occhi riarsi dal fuoco della febbre, parevano
spaventarlo, faceva greppo e se non avesse avuto soggezione, molto
facilmente sarebbe prorotto in pianto. Il padre lo riprese, recandoselo
al petto, ed egli si serrò colle piccole braccia al collo di lui,
guardando la madre quasi sgomento: la infelice donna rispondeva a quello
sguardo con un mesto sorriso tutto bontà e con una dolorosa
rassegnazione entro gli occhi. Gli altri figliuoli furono dalla giacente
abbracciati del pari; poscia il marito sedutosi vicino al capezzale, i
bambini sulle ginocchia di lui, e l'ultimo nato, accoccolato sulla
sponda del letto, passarono un po' di tempo dicendo parole pochissime,
ma guardandosi, ma pensando di molto i due miseri genitori al loro
passato, alle miserie presenti, alle paurose minaccie dell'oscuro
avvenire. Il più piccino dei bimbi, superata oramai quella prima
impressione di timoroso disagio, riconosciuta compiutamente la mamma,
s'era accostato vicino vicino al capo materno ch'essa aveva dovuto
abbandonare di nuovo sul guanciale, e colla manina ne accarezzava le
pallide gote.

Così rimasero forse un'ora, non felici di certo, ma con una dolce e
preziosa tregua nel loro reciproco soffrire. Ed ecco che il momento
doloroso di separarsi era giunto. La monaca pietosa colle più umane
forme e col più mite accento venne ad avvertirneli. Andrea si levò a
malincuore, con un evidente sforzo, quasi avesse da sollevare con sè un
grave peso che lo tenesse piantato a quel posto; Paolina fissò il volto
de' suoi figli con un'espressione di spasimo, di rimpianto, quasi di
terrore. Oh com'era passato presto quel tempo! Come! già separarsi da
que' suoi dilettissimi! Rimaner di nuovo sola, ripiombare così presto
nella privazione della vista di quei visini, nella lontananza da ogni
suo affetto! E li avrebbe essa potuto rivedere ancora? Era quello forse
l'ultimo addio che loro dava!..... Le sue labbra fatte tenaci, parevano
non potere staccarsi dalla fronte dei figli in quel bacio d'addio. Non
potè dir molte parole; balbettò confuse frasi soltanto; non potè
piangere nemmeno; due lagrime sole ma cocenti le colarono giù dal volto;
e la espressione dello sguardo con cui seguitò marito e figli che
partivano, finchè non furono usciti dal camerone; quell'espressione
disperatamente dolorosa, chi la potrebbe dire?

Quando e' furono fuori della soglia la misera nascose il capo sotto le
coltri, e fu udita allora dolorosamente singhiozzare.

Andrea veniva fuori dell'ospedale, quando due uomini gli si slanciarono
contro e prima ancora d'aver pronunziata una parola lo afferrarono alle
braccia e lo disgiunsero da' suoi bambini che furono in là respinti.

— Venite con noi: gli dissero col tono poco gentile che è usuale a tutti
gli sgherri del mondo.

Andrea diede una strappata affine di sciogliersi da quelle manaccie; ma
i birri travestiti, coll'abilità e prestezza che hanno acquistate
coll'uso in codesta bisogna, gli ebbero messo di subito i cantini ai
polsi e dando una giratina colle mani glie li fecero entrare nelle
carni, con un dolore che obbligò l'infelice a mandare un grido. La
tremenda verità balenò innanzi al povero Andrea, a cui come uno spavento
si presentò l'idea della carcere.

— Dove volete condurmi? domandò egli con un'ombra ancora di speranza che
quello fosse un errore oppure d'altra cosa si trattasse. Chi siete?

— Siamo agenti della forza pubblica: risposero: ed abbiamo da condurvi
dritto dritto al _correzionale_.

Molta gente usciva in quel punto dall'ospedale: presso alla porta
stavano venditori e venditrici di arancie, cui sogliono comprare i
visitatori per recare agl'infermi; tutti costoro e chi per caso passava
in quel momento per la strada, si raccolsero in un gruppo curioso,
abbastanza fitto, che si serrò intorno ai birri ed all'arrestato. I
fanciulli che non capirono che cosa avvenisse, ma videro che si voleva
separarli dal padre loro, colle manine intirizzite dal freddo, e gonfie
dai geloni, afferrarono i panni del babbo e si diedero a strillare.
Andrea volse tutt'intorno, su quelle faccie curiose che lo guardavano,
un occhio smarrito, e gli parve che quelle faccie avessero centinaia e
centinaia di pupille larghe, brillanti, che lo saettavano di
schernitrici occhiate: il sangue gli salì prima alla testa, poi gli si
aggruppò al cuore, sentì possedersi da un'immensa vergogna, si fece
rosso come una fiamma, poi pallido come un morto e balbettando disse:

— È impossibile... Si sbagliano... Io non ho fatto nulla.

— Non ci sbagliamo: risposero col solito accento e coi soliti improperii
gli sgherri. E se non avete fatto nulla, lo direte a chi conviene, a suo
tempo.

E diedero una nuova strappata ai polsi per farlo camminare con loro.
Andrea sentì trarsi i panni dai bambini che vi si tenevano afferrati.

— I miei figli: disse egli, piantandosi a resistere alla tirata; io non
posso abbandonare i miei figli... Mi lascino almanco ricondurre
all'ospizio i figliuoli miei.

— Eh! le sono storie: risposero i birri; che sì che noi abbiamo tempo da
passeggiare per la città a lasciarvi fare le vostre commissioni; o che
credereste che noi vi lasciassimo andare a fare voi da solo una piccola
corsa, colla fiducia che voi veniate di poi a consegnarvi nelle nostre
mani?

— Io sì, lo farò, lo giuro: esclamò Andrea.

— Niente affatto; non c'è da farvi di queste lusinghe; già troppe parole
abbiamo scambiate; suvvia in marcia, e non fatevi tirare.

— Babbo, babbo, seguitavano a gridare i bambini: non lasciarci..... Ci
conducano anche noi col babbo.

I popolani presenti incominciavano a intenerirsi: i birri la vollero far
finita, e senza tante cerimonie trascinarono il meschinello facendogli
entrare nelle braccia le cordicelle delle manette. I bimbi correvan
dietro a quel gruppo strillando; il povero padre volgevasi verso di
loro, avvicendando le preghiere alle minaccie ed agli improperii e tutto
col medesimo effetto sui poliziotti che lo traevan prigione: era uno
spettacolo dolorosissimo a vedersi.

Ad un punto Andrea si buttò in terra disperatamente.

— No, urlò egli in un accesso di rabbia avvoltolandosi sul fango
ghiacciato della via; no, non faccio un passo di più, non mi movo.....
mi battano, mi uccidano se vogliono, ma io non abbandonerò i miei figli.

Gli sgherri si diedero in fatto a percotere il pover'uomo accompagnando
le busse d'ogni fatta villanie; ma l'infelice padre seguitava a gridare:

— Oh che giustizia è questa? Che ho da lasciare sul lastrico i miei
bimbi crepar di freddo e di fame? La loro madre è allo spedale... Me mi
gettano in carcere che sono innocente... Vogliono dunque farci morir di
miseria noi poveri e i nostri figliuoli..... Me li lascino guidare
all'ospizio, non domando altro.

Un signore vestito da buon borghese, d'età inoltrata, d'aspetto pieno di
bontà, che passava per caso colà, si fece innanzi e disse ai birri con
un accento tra di autorità, tra di preghiera:

— Via, non maltrattate così questo pover'uomo.

Gli sgherri gli si volsero inveleniti:

— Chi è Lei?.... Che cosa viene a ficcare il suo naso qui in mezzo, Lei?

— Io posso darvi di me il ricapito che vi piace. Sono Defasi, libraio di
S. A. R. il Principe di Carignano.

Queste parole fecero effetto sui birri, come non poteva mancare di
avvenire in quei tempi, quando in presenza d'un agente qualunque del
Governo si invocasse il nome di qualcheduno appartenente alla Corte.

— Signore, risposero con meno burbanza, noi abbiamo ordine preciso di
condurre quest'uomo in prigione, e capisce anche Lei che bisogna pure
facciamo il dover nostro.

— Sta bene; ma non entra nel vostro dovere il regolarvi in tal barbaro
modo. Lasciate ch'io dica due parole a quest'uomo.... Oh non dubitate
che le udrete anche voi, e credo che dopo di esse egli camminerà senza
contrasto.

I poliziotti annuirono tacitamente con una stretta di spalle.

— E' bisogna rassegnarvi: disse ad Andrea il signor Defasi, il resistere
non vi serve di nulla, ed anzi non può riuscire che a far peggiori le
vostre condizioni.... Quanto ai vostri figli, s'io ho udito bene, voi li
vorreste accompagnati a qualche ospizio, dove hanno ricovero; ebbene
dite a me quale sia quest'ospizio, e in parola di galantuomo vi prometto
che ve li accompagnerò io stesso.

Andrea fissò in volto il Defasi cogli occhi suoi ancora smarriti. Erano
nel suo sguardo prima una diffidenza ed un sospetto che non la letizia
di aver trovato un aiuto; ma la figura aperta e leale del libraio non
tardò ad inspirare al misero padre tutta quella confidenza che la si
meritava.

— Ebben sì, esclamò Andrea con voce subitamente commossa a tenerezza. La
è padre di certo anco Lei?

Defasi fece sorridendo un cenno affermativo.

— Affido dunque a Lei i miei figli. Faccia la carità di accompagnarli
all'ospizio ***; il mio nome è questo (e glielo disse), e soggiunga
ch'e' son que' piccini che ieri ci vennero ricoverati dietro le istanze
e le raccomandazioni del dottor Quercia.

— Siate tranquillo che farò appuntino: rispose il libraio con quella sua
voce da galantuomo: e troverò modo, se altri non ne avete, di farvi
sapere alcuna volta notizie di loro, ed eziandio di vostra moglie che ho
udito essere a quest'ospedale.

Gli occhi di Andrea s'inumidirono.

— Oh grazie! esclamò egli. Iddio le renderà un tanto bene ch'Ella fa e
farà ad una povera famiglia... Ah se mia moglie potesse ignorare quel
che mi accade!... Per carità, signore, Lei che è sì buono e generoso, se
volesse almanco adoprarsi a prevenirla quella povera donna, ad
apprenderle la mia sventura con qualche riguardo, ad assicurarla che gli
è soltanto un errore, ch'io sono innocente, che presto sarò di nuovo
libero per andarla a vedere. Oh sì lo spero, ne sono certo... Oh
disgraziata mia Paolina! Che colpo avrà da esser questo per lei!

Il signor Defasi promise anche questo: che, accompagnati i bimbi
all'ospizio, sarebbe venuto al letto della madre loro ammalata, e con
quei modi che avrebbe potuto migliori, sarebbe venuto informandola a
grado a grado del disavventuroso avvenimento. Ma, pur troppo, la buona
volontà e i caritatevoli uffici del signor Defasi dovevano essere
inutili a questo riguardo, perchè mentre Andrea staccavasi a gran fatica
dai suoi figliuoli baciandoli ed abbracciandoli con trasporto, cui gli
sgherri posero fine ruvidamente, e camminava tutto pieno di vergogna
verso la prigione; mentre il libraio recavasi coi bimbi all'ospizio e ve
li faceva accogliere, la brutta nuova dell'accaduto penetrava
nell'ospedale, e nel modo più crudo giungeva sino al letto della povera
inferma.

La sorella d'un'ammalata, il cui letto era il più vicino a quello di
Paolina, giungeva all'ospedale ritardata per alcune sue faccende, quando
stava per finire l'ora di ammissione alle visite, quando appunto già ne
usciva coi fanciulli Andrea, e rimaneva testimone di quanto avveniva a
quest'ultimo. Di poi, benchè già fosse proibita l'entrata, questa donna
che era conosciuta di molto da tutti gli attendenti alle cure
dell'ospedale, e la quale aveva realmente bisogno di parlare colla
sorella inferma, otteneva dalla monaca direttrice la grazia di potere
ciò nulla meno entrare nel camerone e stare alcuni pochi minuti
coll'ammalata ch'era venuta a visitare. Fra le prime cose che questa
donna disse fu la narrazione di quanto aveva veduto testè nella strada:
ed una narrazione fatta coi colori accesi che presta una fantasia
vivamente eccitata da fresca e profonda impressione. Descrisse con
colori esagerati (e il fatto per essere pietoso non ne aveva punto
bisogno) il dolore e la resistenza del padre, i pianti dei bambini, le
sevizie degli sgherri; e Paolina udì tutto. Non poteva esserci sbaglio:
un uomo che usciva in quel punto dall'ospedale, con bimbi così e così,
vestiti a quel modo — ed ella con uno sforzo sollevatasi alquanto sul
letto, interrogò ansiosamente la donna intorno a tutto codesto — non
poteva essere altri che il su' uomo. Paolina mandò un grido che pareva
quello d'una persona ferita a morte e si drizzò di scatto a sedere sul
letto: prese a due pugna le coperte e le rigettò, fece la mossa di
slanciarsi giù dal letto, e fu a stento trattenuta dalla suora di carità
che fu lesta ad accorrere.

— Mio marito!... I miei figli! Ella gridava, e non poteva, e non sapeva
gridar altro; e gli occhi le giravano orribilmente smarriti, e i denti
le battevano in una contrazione spaventosa. Ma le forze di resistere
alle braccia della monaca e d'un'altra infermiera venuta in soccorso, le
mancarono ben presto: ricadde supina, facendo moti incomposti colle
mani, pronunziando parole senza senso, e quando un quarto d'ora più
tardi, venne sollecito, secondo la fatta promessa, il sig. Defasi, la
trovò in un pieno parosismo di febbre e di delirio.

E di Andrea intanto che cosa era avvenuto?

La lurida stanzaccia di prigione in cui fu cacciato il marito di
Paolina, era piena zeppa di gente, essendo in essa stati posti molti
degli arrestati la notte scorsa nella riotta all'officina Benda, e fra
questi una nostra antica conoscenza, quel tristo arnese di Marcaccio.
Mancava il Tanasio, perchè la spaccatura della testa ch'egli doveva al
braccio robusto di Bastiano, lo aveva fatto trasportare nella
infermeria. Era la prima volta, per Andrea, ch'ei si trovava in quello
fisicamente e moralmente sconcio ambiente che è la prigione; e codesto
non avviene di certo senza un grande sconvolgimento di tutto l'essere;
aggiungetevi le condizioni in cui si trovava egli personalmente, in cui
era l'animo suo per le sofferte vicende, e facilmente potrete immaginare
come l'infelice non avesse quasi in quel punto la coscienza di sè e di
ciò che gli accadeva dintorno.

Di quanti erano colà dentro egli non riconobbe nessuno; non vide altro
che una turba di uomini, la quale gli parve assai più numerosa di quel
che fosse in realtà; e rimase poco meno che spaventato nel vedere tutta
questa turba serrarglisi dintorno con una curiosità che a lui parve
quasi una ressa minacciosa. Dell'udirsi interpellare da varie parti, da
varie voci, chiamandolo per nome, dandogli in isconci termini uno
sconcio benvenuto. Erano la più parte operai suoi antichi compagni
all'opificio e suoi più recenti alla bettola, i quali tutti mostravano
od ostentavano per la loro condizione presente e per le minaccie della
sorte che li aspettava una spensierata noncuranza od una riagente
allegria, alcuni perchè già avvezzi alla cosa avevano smussato l'animo
così ad ogni rispetto di sè come ad ogni vergogna, alcuni per bravata,
non volendo mostrarsi da meno d'altrui nello sciagurato merito di
quell'infame cinismo.

Marcaccio in quel primo istante non si fece innanzi; e invece si
sottrasse agli sguardi ed all'attenzione di Andrea, che da parte sua era
troppo stordito nella testa per discernere alcun che. Il marito di
Paolina essendo troppo afflitto e desolato per rispondere a
quell'accoglimento sciaguratamente festoso che gli fecero i suoi
compagni di carcere, esso ebbe fine ben presto: Andrea fu lasciato stare
non senza qualche epiteto oltraggioso; e il misero, ritrattosi in un
angolo, buttatosi a sedere sopra un saccone, puntando alle ginocchia i
gomiti e stringendosi colle mani la testa, rimase assorto nel caos
turbinoso dei suoi vari pensieri, dolorosi e paurosi tutti.

Perchè lo avevano arrestato? Era uno dei primi e de' più precisi che gli
si aggirassero nella mente confusa. Una voce segreta gli diceva in fondo
del cuore: «per cagione di quelle false chiavi che tu hai fabbricate.»
Se fosse così, e quando ne lo avrebbero interrogato, che cosa
avrebb'egli dovuto rispondere? Negar tutto: chi poteva provare quella
sua colpa? Non c'era che quell'omiciattolo presente, e poi più tardi era
sopravvenuto _Stracciaferro_; ma e l'uno e l'altro non avrebbero parlato
mai. Sì, ma se nelle sue risposte s'imbrogliasse, egli che non aveva
tanto ingegno da saper mentire? Confessare la verità? Codesto avrebbe
anzi disposto a favor suo l'animo dei giudici. Ma così la colpa era
chiarita assolutamente e certa la punizione. Egli non sapeva di leggi e
non conosceva qual pena gli avesse da toccare, ma forse per mesi ed anco
per anni l'avrebbero tenuto in carcere. A questa idea sentiva batter
tumultuoso il sangue nei polsi della testa. Anni? mesi? Ma egli non
poteva star lì nemmanco una settimana. Aveva sua moglie da andare a
vedere; voleva e doveva non lasciarla morire. Quella sua colpa non
l'aveva egli bastantemente espiata con tutto quello che aveva sofferto?
Gli pareva di sì; ma poi quella medesima voce interna accresceva di
forza per gridargli che a lui si doveva l'assassinio di Nariccia.
Ebbene? e con ciò? diceva nel suo intimo la parte di lui che la faceva
da avvocato difensore: non era egli che avesse preso parte a quel
delitto. Ben gli stava a quell'avaraccio disumano e crudele. Chi lo
rimpiangeva? A cui recava danno la sua morte? Era questa anzi a molti un
vantaggio. Egli se l'era voluta: era di certo una giustizia di Dio; ma
poi di colpo, tutto cambiavasi nell'animo d'Andrea. Sentiva più grave
pesar su di lui la responsabilità di quell'omicidio, parevagli scorgere
sulle sue mani medesime, le macchie di quel sangue che s'era versato.

Si ricordò in quel punto di Marcaccio. Era stato egli il suo demone
tentatore; egli a cui cagione Andrea aveva fallito: oh come giustamente
la pensava Paolina mettendo in guardia suo marito contro le seduzioni di
quel tristo amico, volendolo da quello allontanare! Probabilmente, anzi
sicuramente, a credere d'Andrea, Marcaccio era stato uno degli
assassini: egli, egli onest'uomo fino allora, era dunque amico d'un
ladro e d'un omicida: sentì un tale orrore di sè che tutto si riscosse,
come assalito dal ribrezzo, e mandò tra le palme onde si copriva la
faccia un'esclamazione soffocata che pareva un singhiozzo.

In quella una mano gli si posò leggermente sulla spalla ed una voce ben
nota lo chiamò sommessamente per nome. Andrea levò la testa con un
sussulto e mandò un'esclamazione di terrore. Quel Marcaccio, di cui
stava pensando, gli era davanti accoccolato sul pavimento, la faccia
pochi centimetri lontana dalla sua. Pareva succeduta come una
evocazione. Andrea aveva pensato al suo cattivo genio, e questo eccolo
presentarglisi di botto. Si trasse in là con uno sgomento che non
isfuggì al suo tristo compagno, e s'affrettò soprattutto a levare la sua
spalla dal contatto di quella mano che egli immaginava rea
dell'omicidio.

— Tu! tu qui! esclamò egli con istupore e paura. Che mi vuoi?.... Vuoi
tu ancora trascinarmi a peggiori malanni?

Marcaccio per prima cosa ruppe in un'alta risata, che coprì le ultime
parole di Andrea, poi gli disse:

— Ve' che bell'accoglimento da amico e che faccia che tu mi fai!....
Poverino! Tu sei tanto sbalordito che non sai proprio più quello che ti
peschi... Sì, c'è da far le meraviglie di trovarci in questo luogo, noi
galantuomini che siamo innocenti come l'acqua; ma e' capita sempre così,
i birboni vanno a spasso e fumano il sigaro sotto i portici, e i poveri
diavoli d'onesti vengono qui ad ammuffire su questi miserabili sacconi.

Poi si fe' ancora più presso all'orecchio d'Andrea e gli disse sotto
voce frettolosamente:

— Qui bisogna badar bene alle nostre parole, sai! Abbiamo da parlarci,
ma conviene farlo così piano che nessuno oda pure un soffio, e forte non
ci scappi un solo detto che dia appiglio a qualche supposizione. Qui
dentro sono almeno tre o quattro le spie.

Andrea lo guardò colla faccia d'uomo che non capisce; Marcaccio
ripigliava a più alta voce:

— Se' tu stato pescato eziandio per la gazzarra di ieri sera? Non ti ci
ho visto alla fabbrica. Vedi giustizia! Io mi sono contentato di andarci
a gridare che è tempo di dare un po' meglio di pane al povero popolo,
togliendone ai ricchi che ne han di troppo, e sono ingabbiato come un
merlo, mentre taluni che fecero il diavolo e peggio, se la sgabellarono
tranquillamente. Ah! non ci ho fortuna!

Andrea volse uno sguardo invelenito contro il suo compagno e rispose che
non sapeva il motivo per cui era stato arrestato, ma che supponeva
esserlo per quel fatto a cui lo aveva determinato Marcaccio medesimo due
sere prima. Egli parlava sommesso, non aveva pur nominato di che cosa si
trattasse, e nessuno pareva fare la menoma attenzione ai loro discorsi,
ma pure ciò non bastò a rassicurare il complice d'Andrea.

— Zitto! diss'egli. Queste sono quelle cose di cui t'ho detto non
bisogna discorrere che con infinite precauzioni. Dà retta. Io occupo il
saccone vicino al tuo: stanotte, quando tutti dormiranno, ci faremo
vicini vicini e ci insinueremo pian piano nel tubo dell'orecchio quello
che abbiamo da dirci a vicenda. Per ora basta, e non parliamoci più.

Il marito di Paolina ricadde nelle sue tristi meditazioni. La notte!
Egli era dunque il vero che avrebbe dovuto passare la notte in
quell'orribil luogo? Oh! non sarebbe stato possibile che prima del cader
del giorno qualche cosa avvenisse per cui egli fosse liberato? Dei
momenti ciò sperava, gli pareva quasi una cosa sicura; si diceva che chi
comanda non doveva volere che un uomo, il quale non era mai stato
incarcerato, sul conto del quale non s'era mai trovato nulla da ridire,
stesse pure un minuto di più del bisognevole frammezzo a quelle
muraglie, in quella scellerata compagnia; si lusingava che della sua
colpa nessuno potesse avere, non che prova, un indizio, che lo si
sarebbe quindi ritenuto tosto per affatto innocente, e mandato a
liberare, di quel giorno medesimo, fra poche ore, forse a momenti. Ma
l'illusione era troppo vanamente fondata per poter reggere a lungo.
S'accorgeva di accarezzare una chimera; gli nasceva il sospetto, il
presentimento di quello che era la verità: che cioè quando un povero
diavolo viene incarcerato, lo si dimentica, fino a che il giuoco
dell'ordigno sociale della giustizia non lo riporti a galla, che di lui
quindi nessuno per allora più non si occupava, come se non esistesse al
mondo.

— Sì, dovrò passar qui la notte: diceva egli allora a se stesso, con
cupa rassegnazione. E quante notti!... E se fossi poi condannato?... Oh
a che cosa mai potrebbero condannarmi? Bisognerà ch'io consulti un
avvocato... E Paolina intanto?

Venne la notte. Quando tutti giacevano immersi nel più alto sonno e
suonavano per lo stanzone i fragorosi russamenti de' suoi compagni,
Andrea che non poteva chiuder occhio, vide Marcaccio porre la testa
presso presso alla sua, ed udì come un soffio nell'orecchio che gli
diceva:

— Ora parliamo. Qual è il motivo del tuo arresto?

— Io non ho che un atto solo nella mia vita che mi possa meritare questa
sciagura: quello che mi hai fatto eseguir tu.

— Vuoi dire le chiavi false della casa di Nariccia?

— Sì.

— Oh che credi tu che siavi alcun sospetto di qualche cosa?

— Dopo il colpo di cui fu vittima stanotte messer Nariccia.

— Colpo! Vittima! esclamò con infinito interesse Marcaccio. Oh che, è
successo qualche cosa?

Andrea lo guardò con istupore.

— Non lo sai, o fingi di non saperlo?

— Non so niente.

— Io ho creduto che tu ci avessi parte.

— Niente affatto. Non mi si disse manco che la cosa doveva farsi la
notte scorsa: quel sornione di _Graffigna_ fa sempre così. Ed io fui
arrestato alla fabbrica Benda.

— Tanto meglio: disse Andrea, cui tornò una specie di sollievo sapere
che quell'uomo con cui discorreva non s'era macchiato dell'atroce
delitto, e sentì alquanto scemarsi la ripulsione che aveva a parlargli.

Raccontò a Marcaccio tutto quello che aveva appreso intorno alla sorte
di Nariccia: e ciò che sul mariuolo fece maggior effetto fu l'idea del
vistosissimo bottino che gli assassini dovevano aver fatto.

— Alla croce di Dio! de' bei sacchetti e' li avranno portati via di
colà..... Mi par mill'anni di esser fuori di qui per averne la mia
parte..... chè una buona porzione ce ne viene a noi due..... anche a te
che li hai messi dentro quella casa..... Senza di noi non ci sarebbero
riusciti.

Andrea tornò a provare tutto il ribrezzo ed il rimorso di poc'anzi.

— E tu dunque, riprese a dire Marcaccio, poichè il suo compagno si
taceva; tu temi che per tal cagione t'abbiano arrestato. Or dunque dimmi
un po': all'interrogatorio che cosa conti tu di rispondere?

— Ah non so davvero. Ho paura che leggano subito nel mio turbamento
tutta la verità.

— Bubbole! Ci vuole franchezza e coraggio. Dà retta a me e ringrazia il
tuo santo protettore che ti ha fatto incontrar qui con un amico par mio:
altrimenti tu mi avresti fatta una solenne frittata, rovinato te e
compromesso altrui. Bisogna negare fermo, forte e tutto. Non c'è alcuno
che possa tradirti, perchè nè io nè altri con cui tu avesti da fare puoi
esser certo che aprirà bocca. Non si è tanto gonzi. Tu non hai visto
nulla, tu non sai di nulla, tu non hai sentito di nulla. Non si esce di
lì. Ti terranno un par di settimane a mangiar _gratis_ il pan dello
Stato e la minestra della _Misericordia_ e poi ti daranno il largo....

— Un par di settimane! esclamò spaventato Andrea: oh che io avrei da
rimaner qui cotanto?

L'emozione gli fece dimenticare la prudenza inculcatagli da Marcaccio, e
queste parole furono pronunziate con voce quasi alta.

— Zitto, per amor di Dio! disse il suo compagno serrandogli forte un
braccio. T'ho detto che bisognava parlar tanto piano che neppure le
mosche, se ci fossero, non ci avessero da sentire.... Ora s'è discorso
abbastanza: mettiam berta in sacco e dormiamo.

Marcaccio non tardò in fatti a prendere una parte distinta nel concerto
di russamenti che eseguivano con una specie di foga accanita i
carcerati; ma pel marito di Paolina non ci fu possibilità di chiuder
occhio. Troppo nuove e troppo dolorose erano le impressioni che egli
aveva ricevute, perchè si potesse tanto presto acquetar l'anima sua. La
notte gli parve eterna; ed egli salutò quasi come un amico il primo
fioco barlume di luce che s'insinuò in quel lurido camerone traverso le
inferriate e i ragnateli polverosi dell'alto finestrino.

Comparve poi finalmente Andrea innanzi al giudice istruttore. Gl'indizi
a carico dell'accusato si erano fatalmente accresciuti e fatti gravi.
S'era raccolto da testimonianze che Andrea aveva espresse assai fiere
minaccie prima contro il suo antico principale, il signor Giacomo Benda,
perchè non aveva più voluto accettarlo nella sua officina, e siccome
l'assalto, il saccheggio e l'incendio di quell'opificio conoscevasi
essere il risultamento d'un complotto, era naturalissimo il credere che
questo operaio, amico e compagno indivisibile d'altronde d'uno dei
caporioni della riotta, arrestati _in flagranti_, avesse preso parte
principale ancor esso al complotto medesimo, ed anzi, alla esecuzione di
esso; quanto all'assassinio di Nariccia, Andrea aveva contro di lui la
sua abilità conosciuta di fabbro, e le minaccie ancora più terribili che
nell'osteria di Pelone egli s'era lasciato scappare a più riprese contro
il padrone di casa che gli aveva gettata la famiglia sul lastrico della
strada.

Andrea alle pressanti, accorte, pericolose interrogazioni del giudice
non rispose altrimenti, seguendo il consiglio di Marcaccio, che con
decise negative; ma egli spinse questo metodo ad un eccesso che lo
compromise maggiormente. Timoroso delle conseguenze che da principio
aveva veduto trarre dalle circostanze le più lievi coll'arte induttiva
dell'interrogatore, non essendo abbastanza accorto, nè abbastanza libero
di mente per indovinare o presentire soltanto a qual meta mirassero le
fattegli domande anche le più semplici, egli credette miglior partito
negar sempre e negar tutto. Ma queste sue negazioni non sapevano essere
tanto risolute che non lasciassero scorgere lo sforzo della menzogna; ma
elleno, poco accortamente, volevano escludere anche delle cose e
circostanze che erano provate evidentemente, così che l'impressione del
giudice fu quella affatto di avere innanzi a sè un reo ancora novizio,
ma reo assolutamente dei due gravi delitti che gli si imputavano.

Andrea s'accorse dell'impressione che produceva sul suo interrogatore, e
perdette ancora più la bussola, tanto che, non sapendo oramai più che
farsi, nè che dire, quasi avesse speranza di intenerire quell'uomo e da
lui dipendesse la sua salute, proruppe in confuse supplicazioni quasi
con voce di pianto. Giurò ch'egli ned era andato ad assalire la fabbrica
Benda, nè aveva saputo dell'assassinio di messer Nariccia fuorchè al
mattino; sì, era pur vero, disse, che inconsiderate parole gli erano
sfuggite contro il fabbricante ed il padrone di casa, ma in quel
momento, coll'animo vivamente esagitato, egli aveva detto cose a cui non
pensava, che non aveva per nulla l'intenzione di eseguire; lo
lasciassero andare ch'egli ne aveva gran bisogno: parlò della moglie
moribonda all'ospedale, dei figliuoli all'ospizio, che non per lui, ma
per quei poveretti gli usassero pietà.

Il giudice lo lasciò dire con molta pazienza, ascoltandolo freddamente;
poscia tornando egli a parlare:

— Sentite, gli disse, non vi nascondo che le apparenze sono molto contro
di voi, e che le vostre risposte furono ben lontane dal scemare i
sospetti a vostro riguardo: ma pure ci avete un modo tuttavia da
escludere ogni vostra colpabilità, da far dileguare ogni dubbio, e
sarebbe quello di provar l'_alibi_.

Andrea guardò il giudice con tanto d'occhi.

— L'_alibi_? ripetè egli con tono che significava non saper egli che
animale si fosse codesto.

— Sì, riprese l'uomo della legge coll'impazienza di chi, avendo
famigliare un'espressione, non può persuadersi che altri non la capisca:
sì l'_alibi_, vuol dire che proviate come durante il tempo in cui si
commisero quei reati, voi foste altrove, _alibi_, e quindi sia
impossibile che voi prendeste parte ai reati medesimi.

La faccia di Andrea si rasserenò tutta.

— Sì? esclamò egli con accento di somma gioia: ma in tal caso io sono
salvo. Ho passato fin dalla prima sera, tutta la notte in un luogo, oso
dire, a fare un'opera buona.

Il fiscale crollò con mossa alquanto incredula il capo. Per lui uno de'
rei era già trovato: era lieto del suo successo, e gli rincresceva aver
da rinunziare alla sua convinzione ed alla soddisfazione di amor proprio
d'aver già appurata la colpevolezza di uno di quei terribili assassini.

— Uhm! diss'egli con un certo risolino; codesto non basta il dirlo.
Converrebbe, come vi ho già espresso, provarlo.

— E lo posso provare.

— Ci avete dei testimoni?

— Sì.

— Ammessibili?

— Affatto... L'uomo stesso al cui letto io ho vegliato.

— Ebbene chi è costui? E dove lo si trova?

Andrea aprì le labbra per rispondere, ma poi un nuovo sentimento
sopravvenne a trattenerlo.

— Ah no, non posso: esclamò egli con dolore e rabbia; ho promesso
solennemente di tacerlo.

Sulla faccia del giudice tornò quel certo risolino di poc'anzi: ed egli
s'alzò come per dinotare che l'interrogatorio era finito.

— È molto spiacevole per voi che non possiate parlare. Codesto vi
avrebbe tratto assai facilmente d'imbarazzo: ma poichè una tal promessa
vi chiude la bocca, è inutile insistere, non abbiamo più nulla da dirci,
e potete tornare nella vostra carcere.

Chiamò i secondini perchè Andrea fosse ricondotto al suo stanzone, ed
egli medesimo, ripiegate le sue carte, s'accinse ad uscire col
segretario: ma il prigioniero, quando fu alla soglia, si fermò ed
esclamò con forza:

— Un momento!... Ah! per salvarsi, un padre di famiglia può anche
violare una tal promessa. Sono disposto a dir tutto. Ecco l'indirizzo
del luogo ov'io passai tuttedue le notti di sabato e di domenica; vadano
colà e troveranno l'uomo che forse deve a me se ancora trovasi in vita.

Il giudice fece scrivere dal segretario l'indirizzo che Andrea gli
disse; domandò che nome avesse quell'uomo di cui l'inquisito parlava, ed
Andrea rispose che l'ignorava.

— Si prenderanno informazioni: disse asciuttamente e di mala voglia il
fiscale; e ricordatevi bene che le frottole non vi serviranno di nulla.

Il marito di Paolina fu ricondotto in carcere.

Quel giorno medesimo il signor Tofi ebbe una viva soddisfazione. Egli in
questo succedersi di gravi avvenimenti sentiva di molto la mancanza di
Barnaba, cui non aveva più visto dopo quel colloquio avvenuto fra di
loro, nel quale egli all'agente caduto in disgrazia aveva manifestato i
voleri e gli ordini dei superiori; e per riaverlo al suo fianco avrebbe
dato non so che cosa. Aveva fatto cercare di lui, ma Barnaba, oltre il
palese, aveva un domicilio nascosto, sconosciuto anche dal suo capo, e
non era stato possibile averne notizia. Quel dì dopo l'interrogatorio di
Andrea, l'ufficio di polizia ricevette da quello fiscale una
comunicazione, in cui dicevasi uno degli imputati aver cercato di
stabilire l'_alibi_ allegando d'essere rimasto tutta notte in via tale,
casa tale, al tal piano, senza voler dire il nome della persona che in
quel quartiere abitava; si prendessero informazioni di che luogo fosse
quello e chi vi abitasse, ma con molta cautela per non dare la sveglia,
se per caso vi fosse colà dei complici.

Era una missione delicata; e poi una specie di ispirazione d'istinto lo
mosse: il Commissario decise di andare in quel luogo esploratore egli
medesimo. Assunse l'aspetto d'un buon borghese ed andò a picchiare (che
non c'era campanello) alla porta dell'indicatogli quartiere. Venne ad
aprirgli la faccia melensa di Meo, che rimase ancor più melensa nel
vedersi innanzi una persona che non conosceva.

— Oh! disse lo stupido. Credevo che fosse il medico!

— Son ben il medico per l'appunto: rispose il Commissario cacciandosi
innanzi.

— Ma!... E quell'altro?

— Quell'altro non ha potuto venire, ed ha mandato me in sua vece.

Traversò senz'altro con tutta sicurezza quella prima cameretta che
serviva d'entrata, e s'intromise nella seconda stanza, nella quale vide
un letto su cui giaceva un uomo. Mandò un'esclamazione e in un salto fu
presso il giacente. In costui aveva riconosciuto Barnaba.



CAPITOLO VIII.


Torniamo indietro di due giorni, a quella sera ed a quel momento in cui
Barnaba cadeva sulla neve della strada, trafitto alle reni dall'affilato
pugnale di _Graffigna_. Abbiamo visto che nell'ombra della notte due
persone accostantisi al luogo del commesso delitto, apparivano agli
occhi spaventati di Marcaccio, il quale gettando l'allarme come se fosse
loro addosso la forza pubblica, fuggiva e faceva fuggire il suo
complice.

Que' due uomini erano invece, come già fu detto, _Macobaro_ l'ebreo, e
il marito di Paolina, che ultimi erano usciti dalla bettolaccia di
Pelone. Il vecchio rigattiere che giunse primo sopra il caduto, lo
schivò col suo passo barcollante per l'età, e mormorò fra i denti:

— Un ubriaco fradicio. Be', ch'e' dorma costì sulla neve; ciò gli vorrà
far passare i vapori.

Barnaba era caduto, ma non aveva perso menomamente la cognizione. Aveva
sentito la fredda lama penetrar nelle viscere; gli era stato impedito il
pur mandare un grido dallo spasimo e dal sangue che si era precipitato
alla gola, ma egli non s'era tuttavia smarrito dell'animo. Quando vide
che i due uomini da cui era stato assalito fuggivano ratti, Barnaba
aveva creduto davvero ancor egli che una pattuglia od alcune guardie di
polizia di servizio sopraggiungessero, e fatto uno sforzo per levarsi,
puntando la mano al suolo, riuscì a tirar su il capo e guardare verso il
nuovo sopravvenuto; riconobbe _Macobaro_, e fu sul punto di lasciarsi
ricadere senza cercarne aiuto ned altro, perchè troppo sospettava delle
attinenze di quel vecchio con coloro che lo avevano trafitto: ma il
rigattiere non aveva ancora fatto il giro intorno al corpo del caduto,
per continuare il suo cammino, quando giungeva a quel punto anche
Andrea, il quale se nei fumi del vino aveva ammortito alquanto il
rimorso della mala opera commessa, non ci aveva però attutiti
quell'istinto pietoso e quel sentimento d'umanità che erano nella sua
natura.

— Un povero diavolo che ha male: diss'egli curvandosi sopra Barnaba che
stava ancora col capo eretto a guardare.

La fisionomia dell'operaio ispirò fiducia nel ferito.

— Sì, diss'egli colla poca voce che aveva, ho male, ho molto male; mi
fareste una fiorita carità ad aiutarmi a levar su, ed accompagnarmi a
casa, che non è lontano; e ne avreste buon compenso, ve ne assicuro.

Alla parola di compenso la cupidigia fece drizzar le orecchie e fermare
il passo a _Macobaro_.

— Oh, oh! diss'egli accostandosi, e' mi pare di conoscere questa voce.

Andrea passò un braccio sotto il corpo del caduto per sollevarlo, ma
ritirò con ribrezzo la mano, sentendosela bagnata d'un tepido umore
attaccaticcio.

— Santa Madonna! Questo è sangue!...

— Sì, sono ferito: ma non sarà nulla..... Ch'io possa soltanto giunger
presto a casa mia.

— Qui conviene correre a chiamare soccorso, ad avvisare la giustizia....

Barnaba trattenne pei panni Andrea che pareva voler prendere le mosse.

— No, no; diss'egli con istraordinaria energia. Non voglio nessuno; la
giustizia non ha da saperne nulla... Me la farò da me, la giustizia....
se scampo.

Jacob aveva riconosciuto pienamente il segreto agente della polizia,
sulla cui condizione, da lungo tempo egli aveva più che sospetti.

— Egli è l'Eterno medesimo che me lo manda a stromento della mia
vendetta: diss'egli fra sè. Quand'io salvi dalla morte costui, potrò per
suo mezzo perdere _quell'altro_ senza rovinar me.

Si chinò ancor egli con tutta premura verso il ferito.

— State di buon animo, gli susurrò, noi vi trarremo fuori d'ogni
rischio. Solo ch'io possa esaminare la vostra ferita, e vedrete. Nella
mia famiglia, da tempo immemoriale ci abbiamo conoscenza d'ogni fatta
ferite e segreti infallibili per guarirle. Andiamo adunque a casa vostra
e non dubitate di nulla.

Andrea prese fra le braccia il ferito, e recandoselo come se fosse un
fantolino, s'affrettarono verso quella strada, entrarono in quella casa
e salirono quelle scale cui Barnaba loro indicò, di guisa che pochi
minuti dopo, il trafitto era disteso sopra il suo letto, e _Macobaro_
visitatolo e fattagli una fasciatura a suo modo, lo rassicurava
affermando che nessun organo essenziale era stato offeso dalla lama, la
quale s'era miracolosamente insinuata fra le viscere, e che perciò non
solamente sicura, ma sollecita sarebbe stata la guarigione.

Andrea aveva acceso il fuoco ed aiutato l'ebreo in tutto ciò che aveva
potuto; e in codeste cure prodigate al ferito, era passata oramai la
notte. Barnaba, ringraziati i due suoi soccorritori, aveva voluto
rinviarli alle case loro ed alle loro bisogna, ma Andrea aveva risposto
non aver egli più casa ove ricoverarsi, nè famiglia che avesse da
inquietarsi de' fatti suoi, e quindi poter benissimo rimanere a custodia
del malato, come grande n'era pure il bisogno. _Macobaro_ ancor egli
protestò che a casa sua non ci aveva da andare, nè voleva, e che anzi se
non si fosse trattato d'una sì rincrescevole disgrazia, sarebbe stato
lieto fosse nata occasione da dovere star lontano dalla sua dimora; e
così avvenne che Ester, rimasta sola in casa, potesse di là fuggire,
come vedemmo.

Ma prima che il vecchio ebreo, la mattina di poi, abbandonasse il letto
dell'infermo per tornare a casa sua, fra quei due aveva luogo un breve
colloquio a parole interrotte, il quale era però importantissimo,
essendosi gettate, per così dire, le basi d'un'alleanza fra loro, della
quale dovevano riuscire terribili gli effetti.

Fu _Macobaro_ che incominciò:

— Scusi, diss'egli, se entro in discorso che forse la infastidisce o le
spiace, ma vi sono costretto per la mia stessa tranquillità e per quella
di quel bravo uomo.

Ed accennò con una mossa del capo ad Andrea, che sonnecchiava sopra una
seggiola presso il fuoco.

Barnaba fece un moto degli occhi, che voleva dire:

— Parlate pure:

— Ella non volle che si andasse ad avvertire l'autorità....

Il ferito interruppe con un gesto negativo del capo, pieno di energia.

— Non vorrei poi che io e quel buon operaio rimanessimo compromessi.

— Siate tranquillo: rispose allora Barnaba fissando ben bene entro gli
occhi il padre di Ester e pesando sulle parole, che pronunciava
lentamente: non avete nulla da temere. Se io guarisco... e voi mi
assicurate che guarirò...

Jacob ripetè quest'affermativa con accento pieno di convinzione.

— Non solamente non avrete disturbi, ma dall'avermi soccorso potrete
avere vantaggio. Debile ed umile, com'io vi sembro, io potrei pure molto
far obbliare, e molto perdonare per chi avesse bisogno dell'una e
dell'altra cosa.

_Macobaro_ chinò gli occhi, prese un'aria modesta e disse:

— Potrei invocare poi la sua protezione in questo senso... non per me,
ma per alcuni alla cui sorte m'interessassi?

— Sicuramente.

— Ma ciò vuol dire, s'io non erro, che s'Ella ha sufficiente autorità da
far mettere certe cose nel dimenticatoio, l'avrà pure per far volgere il
rigore delle Autorità sopra questo o quel fatto, questo o
quell'individuo?

Barnaba affondò i suoi occhi in quelli dell'ebreo che si levarono un
momento su di lui. Ciò bastò perchè il poliziotto travedesse nell'anima
del vecchio rigattiere.

— La ho: rispose con quell'accento significativo di prima. Anzi per far
male ad alcuno — che se lo meriti — la ho tanto di più.

Qualunque fosse l'impressione che queste parole facessero su _Macobaro_,
questi la dissimulò compiutamente in una perfetta immobilità della
persona, tenendo chini a terra il volto e gli occhi; ma dopo un breve
istante riprese a parlare.

— Se dunque Ella non vuole sia ora avvisata la giustizia del delitto
compito su di Lei, non è perchè la rinunci alla vendetta.....

Pronunciò egli questa parola con una vibrazione speciale, e nel
pronunziarla le sue fosche pupille dal fondo delle occhiaie tornarono a
volgersi sul volto di Barnaba.

— Alla vendetta! esclamò questi di cui gli sguardi balenarono alla pari.
Rinunciarvi? Mai più! Gli è perchè voglio compirnela io..... che ho i
mezzi ed il potere di regalarmela da me questa vendetta, che non mi
piace nessun altro venga ad intromettersi prima. I due sciagurati che mi
ferirono furono stromenti soltanto: io voglio salire più su, voglio
afferrare la mente che ha guidato quelle mani, e per giungervi farei non
so che cosa.

— Ah sì! esclamava con forza il vecchio Arom, Ella ha ragione..... Gli è
colà che bisogna percuotere.

Barnaba tese vivamente una mano fuori delle coltri ed afferrò lo scarno
braccio dell'ebreo.

— E voi mi ci aiuterete: disse con vece bassa ma vibrata. Avete voi pure
una vendetta da compiere? I nostri odii si uniscano e quell'uomo è
perduto.

— Basta! basta! disse, _Macobaro_ levando il suo braccio dalla stretta
della mano del ferito. Abbiamo già troppo discorso, e non bisogna che
Ella si agiti il sangue. Stia calmo ed in riposo, la mente ed il corpo.

Si curvò su di lui e soggiunse piano piano che appena il giacente l'udì:

— Di ciò parleremo ancora di poi.

— Ah vendetta, vendetta! pensava Barnaba seguendo collo sguardo il
vecchio oramai sull'orlo della fossa che col suo passo cadente
s'allontanava dal letto; tu sei la passione maggiore dell'anima umana,
tu sei la susta più potente della nostra volontà: chi sa servirsi di te
e sfruttare le tue ispirazioni e la tua forza, ha in pugno l'orgogliosa
umanità.

Verso le dieci del mattino, Meo, secondo che gli era stato ordinato da
Barnaba, venne a casa di quest'ultimo, e vi fu trattenuto ad ogni modo,
senza lasciarlo uscir più, premendo di molto al poliziotto che il servo
di Pelone più non tornasse nella bettola, nè fosse visto da alcuno dei
frequentatori di essa, non avendo Meo medesimo volontà nessuna di
tornarci, e giungendo inoltre opportuno per aiutare Andrea nelle cure da
darsi al ferito.

Barnaba, frattanto, condannato ad una forzata inerzia corporale,
lavorava di molto colla testa: veniva rifacendo nella fantasia tutto il
dramma avvenire che avrebbe avuto per conclusione una sua molteplice
vendetta verso quell'uomo il quale finora avea saputo a lui così bene
sottrarsi e nella coperta lotta vincerlo. Un istante solo aveva egli
pensato di mandare pel signor Commissario e svelargli quando venisse
ogni cosa, perchè s'affrettasse ad agire, nella paura che gli scellerati
potessero trovar modo da scivolare anche una volta fuor delle loro mani;
ma troppo era il suo desiderio di far egli tutto da sè, d'esser egli a
condurre a fine l'impresa e mostrare a' suoi superiori quale errore
avessero commesso condannandolo: ci teneva come un inventore alla sua
scoperta, il quale non può soffrire che un altro la metta in atto e se
ne faccia merito. Gli assassini credendolo spacciato, non avrebbero
stimato opportuna altra precauzione per guarentire il loro segreto e la
loro sicurezza; ed egli d'altronde ora colla cooperazione di _Macobaro_
poteva dirsi penetrato nel campo nemico. Si trattava solamente di guarir
presto, e poi egli avrebbe fatto meravigliare il signor Tofi e quanti
altri mai coi risultamenti che otterrebbe.

Egli era appunto in cosiffatti pensieri, quando in seguito alle vicende
che abbiamo visto, il signor Tofi medesimo entrava precipitoso nella
stanza del ferito e con lieta sorpresa riconosceva in lui il suo più
fido e più abile agente segreto.

Il signor Tofi era troppo accorto per far vedere che solamente al caso
egli dovesse la scoperta del covo in cui stava ritratto, come Achille
sotto la tenda, il suo subordinato; si avanzò verso il letto col suo
passo militare accelerato, il mento levato sopra il suo cravattone duro,
con aspetto più severo che soddisfatto, non ostante la compiacenza che
provava internamente per l'avvenutagli buona ventura di trovar lì chi
più desiderava.

— Ecchè, diss'egli col suo accento solito, mezzo di rampogna e mezzo di
comando; la ci vuol proprio tutta a stanarvi fuori. E mentre si fa più
forte il bisogno dei vostri servizi e si presenta più favorevole
l'occasione per farvi onore, voi state qui a poltrire in letto sotto il
pretesto di non so qual malattia? Forse che abbiamo il tempo di diventar
malati, noi? Forse che possiamo tener broncio e rifiutarci al nostro
dovere? Niente affatto. Ci conviene star sempre sulla breccia, il corpo
e lo spirito pronti. Animo su, fuori da quelle coltri che una grande
campagna incomincia, è già incominciata.

L'emozione della sorpresa vedendo entrare così inaspettato il signor
Commissario, aveva cagionato a Barnaba a tutta prima un certo rimescolìo
di sangue, per cui s'erano d'alquanto arrossate le sue guancie; ma poi,
dato giù quell'accorrere degli umori al capo, era tornata in lui la
pallidezza che lo dimostrava in preda ad una vera e non lieve sofferenza
di malattia. Tofi ciò vide e con alquanto più interesse che non avesse
fino allora manifestato, curvando un poco sopra il letto la sua alta e
rigida persona, soggiunse:

— Ma in realtà voi mi siete più bianco d'un cencio lavato. State dunque
male davvero?

Barnaba fece un segno affermativo.

— Sono andato fino alla porta della tomba, disse con un mesto sorriso, e
poco mancò, proprio assai poco, che non avessi più il bene di vederla,
signor Commissario.....

Questi volle saper tutto che era avvenuto al suo agente; e Barnaba
fattogli promettere che non avrebbe fatto nulla per iscoprire e cogliere
i colpevoli, gli raccontò in brevi termini l'aggressione di cui era
stato vittima.

Tofi stette un poco pensieroso, gli occhi fissi sul volto del giacente;
poi disse:

— Ed a chi ed a qual motivo credete voi dover attribuire questa
succhiellata?

Gli occhi di Barnaba si animarono un pochino.

— A chi? diss'egli. V'è una grande, orribile congrèga, di cui son presso
a scoprire le fila, v'è una scellerata e potente persona de' cui delitti
ho già quasi in mano le prove.... Si aveva tutto il possibile interesse
a farmi scomparire.

Questa volta il Commissario non fece più il sorriso d'incredulità che
era solito a fare quando Barnaba accennava a que' suoi sospetti intorno
ad un misterioso capo di un'orda di briganti.

— E perchè, domandò egli ancora, non volete ch'io cerchi de' vostri
assassini?

— Per più ragioni: rispose Barnaba. La prima è la mia sicurezza
medesima. Bisogna che si facciano l'idea ch'io sono sparito affatto, e
che del loro delitto non esiste traccia nè sospetto nessuno: per ciò
volli tenermi così nascosto e feci giurare ai pietosi che mi soccorsero
il più assoluto silenzio. Se altrimenti avvenisse, quell'associazione,
potente e così bene guidata com'è, avrebbe tosto mezzo di scoprirmi ed
una seconda volta mandare a buon fine il loro poco amorevol disegno a
mio riguardo. Poi è necessario ancora codesto perchè credendo tolto di
mezzo per sempre chi li minacciava, si rassicurino e non facciano
disperdere gl'indizi e le prove, di cui ho già tutti in mano gli
elementi. Per ultimo (e qui i suoi occhi brillarono vieppiù), perchè
voglio avere io il gusto ed il merito di fare le mie vendette.

Tofi fece un legger cenno d'acconsentimento.

— Sta bene, disse poi; ma frattanto l'audacia e il numero dei delitti
crescono ogni giorno, e preme porvi riparo il più presto. La notte di là
assassinarono l'usuraio Nariccia e la sua vecchia fante.

Barnaba si fece contare tutte le circostanze appurate di quel fatto.

— Ed Ella sospetta dei colpevoli? domandò poi.

— Sono certo: rispose vivamente Tofi. Gli assassini erano tre; due
furono i famosi _Stracciaferro_ e _Graffigna_.

E narrò il modo con cui di ciò erasi assicurato interrogando nella guisa
che abbiamo visto il paralitico Nariccia.

— Vi è il terzo ancora da scoprire: soggiunse poi.

— Eh! so ben io chi fu questo terzo: disse Barnaba con accento pieno di
convinzione.

Tofi si curvò su di lui.

— Sempre la vostra idea? interrogò abbassando la voce.

Il giacente fece un segno affermativo.

— Quel signorino elegante?

— Sì.

— Il dottor Quercia?

— Lui!... Non altri che lui! esclamò con forza Barnaba.

Il Commissario affondò le sue mani nelle lunghe tasche del suo
soprabito, posò il mento sul cravattone e fece due giri per la stanza,
assorto in profonda riflessione. Poi tornò a piantarsi alla sponda del
letto del suo subordinato.

— I vostri sospetti non li accuso più d'impossibili, diss'egli; ma
l'affare è molto delicato e conviene trattare con prudenza molta.

Esitò un momentino e poi con brusco accento, come se l'avesse amara seco
per dover pronunziare quelle parole:

— Che cosa penserete voi dover fare? domandò.

— Poco o nulla rispose Barnaba. Raccogliere tutti gli indizi possibili,
ma quasi di soppiatto, sorvegliare attentamente, ma senza che appaia.
Sarebbe buon partito mostrare d'aver preso uno svarione e mettersi
apparentemente in una falsa strada; oppure far vedere che, disperati di
venirne a capo di nulla, si rinuncia alla ricerca..... Intanto io,
grazie a Dio guarirò e se non si dà imprudentemente la sveglia, farò
cogliere al covo tutta la masnada.

— Guarite dunque presto: conchiuse il Commissario. Verrò a tenervi
informato d'ogni cosa che avvenga, e consulteremo assieme.

Barnaba fece un piccolo moto.

— Non temete, s'affrettò a dire il signor Tofi, userò ogni fatta
precauzione, perchè non mi si veda.

— Va bene... la ringrazio: soggiunse il ferito: ma perdoni ad una mia
domanda, di cui Ella comprenderà per me l'importanza. Come giunse Ella a
scoprire la mia dimora?

Tofi stette un momento a pensare, poi non vedendo inconveniente nessuno
nel dir la verità, raccontò tutto quello che era successo al povero
Andrea. Barnaba confermò che questo disgraziato era stato tutta quella
notte con lui e pregò vivamente perchè il Commissario s'adoperasse a
farlo liberare. Il signor Tofi ciò promise e mantenne la parola. Quattro
giorni dopo il suo arresto, Andrea era restituito alla libertà.
L'infelice appena fuori della porta del carcere, corse come un
indemoniato all'ospedale dove aveva lasciato sua moglie, che gli pareva
mille anni non aver più vista... Aimè! Era troppo tardi!

Andrea andò quasi correndo fino al letto in cui aveva lasciato sua
moglie.

— Paolina, Paolina, voleva gridare, finalmente sono qua di nuovo.... e
non ti lascierò più.... e verrò tutti i giorni; ma l'emozione lo serrava
talmente alla strozza che non altro potè uscirne fuori, che una specie
di rantolo.

Il pover'uomo benedisse questa emozione che gli impediva il parlare,
poichè vide la donna che giaceva in quel letto così immobile e
tranquilla che ben pareva immersa in placido sonno. Volta sopra un
fianco, ella si copriva colle lenzuola la faccia, sì che non se ne
potevano scorgere i lineamenti. Andrea volendo rispettare quel sonno
prezioso, si accostò pian piano e sedette sopra lo scanno che si trovava
appiè del letto, fissando quella testa che mezzo si nascondeva sotto le
coltri.

— Il dormire le fa del bene: diceva frattanto fra sè: poverina! che
sorpresa l'aspetta ora che si svegli!... La mi domanderà dove sono stato
e che cosa ho fatto... Come ho da risponderle?... La verità, no: troppo
le sarebbe crudele; se v'è caso in cui debba essere perdonata una bugia,
si è questo... Le dirò che sono stato a lavorare... sì, che ho trovato
dove allogarmi ed assai bene... Ciò invece le gioverà... E poi la mi
domanderà dei bimbi... E le dirò che stanno bene; e che glie li condurrò
domani... Quel buon signore che li ha condotti all'ospizio e che venne a
darmene delle nuove mi assicurò che son sani e vispi... Ho ancor io
tanto bisogno di vederli!... Ma la mia prima visita non poteva essere
che per te, mia buona Paolina, mia cara Paolina... Ah come mi sono
accorto che ti voglio bene, sai!... Ad esser lontano ho sentito che tu
mi sei necessaria alla vita; vedendoti a soffrire ho capito che ti
volevo ancora il gran bene d'una volta, perchè darei mille delle mie
vite per allungarti e far lieta la tua... E son io che ti ho fatto
soffrire... Oh me scellerato!... Ma d'ora innanzi...

Gli parve che l'inferma avesse fatto un moto, ed egli si levò di scatto
per essere pronto a gettarsi su di lei e baciarla. La giacente aveva sì
cambiato un poco la mossa, ma non s'era sveglia. Però la faccia rimaneva
ora un pochino più scoperta, ed Andrea, mirando quella piccola lista di
fronte che si presentava ai suoi sguardi, ricevette una strana
impressione.

— La non mi par lei: disse facendo un passo indietro quasi con
isgomento.

Guardò dintorno e riconobbe che quello era proprio il letto in cui aveva
lasciata Paolina, mirò il numero, ch'egli sapeva discernere, e vide che
non s'era sbagliato; ma pure più e meglio guardava quella testa, lo
stare di quel corpo abbandonato e più gli sembrava che la donna giacente
in quel letto non era la sua Paolina. Una vaga inquietudine lo prese.
Che cosa non avrebbe dato per saper leggere ed appurare qual nome fosse
scritto sul cartellino che pendeva a capoletto? Mentre si guardava
ansioso dintorno come per cercare mezzo alcuno di sincerarsi, ecco
accostarsi a quella volta la suora di carità ch'egli aveva veduta dare
le sue cure a Paolina. Andrea le mosse all'incontro con un'esclamazione
quasi di gioia:

— Ah! mi dica Lei come sta la mia Paolina... È ben sempre in questo
letto, è ben essa quella che vedo? Sono qui da cinque minuti; ma la
dorme sempre... Ciò le farà del bene, non è vero?... E che cosa dicono i
dottori?

La faccia della monaca si turbò talmente che Andrea ne rimase
spaventato.

— O Dio! soggiunse, la trovano forse peggiorata? Era essa molto male
alla visita di questa mattina?

La monaca scosse mestamente la testa.

— No: rispos'ella con voce ed accento pieni di compassione: questa
mattina ella non era male.

Andrea mandò un sospiro di sollievo: in quel momento la donna che era
nel letto si svegliò e volgendosi supina, scoprì affatto il suo volto.
Il marito di Paolina si precipitò verso di lei; ma tosto si ritrasse
indietro allato alla suora che per trattenerlo gli aveva posto sul
braccio una mano.

— Ma quella non è mia moglie! esclamò egli.

— No: disse la suora volgendo in là lo sguardo, vostra moglie da ieri
non è più qui.

Una folle speranza balenò all'anima del povero uomo.

— Uscita forse? domandò egli: Dio ci avrebbe già fatta la grazia di
guarirla?

Vide dall'espressione della faccia di quella monaca quanto fosse fallace
una simile speranza.

— Ah no, soggiunse, codesto non è possibile. L'hanno dunque traslocata
in qualche altro ospizio?... oppure solamente in qualche altra sala?...
Forse in una stanza particolare... Oimè! forse appunto perchè il suo
male era aggravato?...

Un barlume di quella che era pur troppo la tremenda verità cominciava ad
apparire alla sua mente; ma egli non voleva lasciarsene illuminare.

— Per carità, la mi dica dov'è mia moglie? scongiurò egli giungendo le
mani.

La monaca che stimò la terribile rivelazione fosse meglio non farla in
quel luogo, dove lo scoppio del dolore di quell'infelice avrebbe potuto
nuocere alla ammalate che stavano tutt'intorno, prese Andrea per mano e
gli disse:

— Venite meco e saprete ogni cosa.

L'uomo si lasciò guidare come un fanciullo.

— Andiamo a vederla? domandò. Mi conduce dov'è Paolina?

La monaca non rispose. Lo introdusse nelle camere della Direzione, e
colà fattolo sedere, incominciò a dire:

— Voi siete padre di famiglia, non è vero?

Andrea guardava intorno come per iscoprire dove fosse la sua moglie.

— Sì signora, rispose: ho una nidiata di bambini in piccola età.

— Bisogna dunque aver forza e coraggio per loro. A voi tocca adesso
l'amarli per due.

Andrea divenne pallido pallido; allargò tanto di occhi e fissò la monaca
tutto sgomento: le sue mani agitate spiegazzavano il suo berrettaccio, e
colle labbra che tremavano balbettò:

— Amarli per due?.... Non capisco.

Il vero era che egli cominciava a capire pur troppo.

— Sì, disse gravemente la monaca mettendogli una mano sulla spalla.
Sulla terra siete ora voi solo ad amarli i vostri bimbi; la madre loro
li ama e li protegge dal cielo.

Si sarebbe potuto credere ad uno scoppio di dolore nel povero Andrea;
invece egli rimase mutolo, gli occhi e la bocca larghi, quasi attonito;
avreste detto che non avesse capito. Stette in silenzio così alcuni
minuti fissando con pupille smarrite la monaca, la quale gli teneva
sempre, con atto pietoso, la mano sulla spalla.

— Paolina adunque? diss'egli poi con un soffio di voce, e le ciglia gli
si misero a tremolare leggermente.

La suora di carità non rispose che con una mossa mestissima, additando
il cielo.

— Morta!? esclamò l'infelice con voce serrata nella strozza. Ah! non è
possibile.... Morta senza ch'io più la vedessi?... Morta senza che mi
perdonasse.... Ah no, no, non deve esser vero.... Per carità mi dica che
non è vero.

— Vi ripeterò invece che bisogna abbiate forza e coraggio, rassegnarvi
alla volontà di Dio e mettervi in grado d'adempire giustamente a tutti i
doveri che partendosi da questa terra ella vi ha lasciato.

Andrea si cacciò le due mani convulse nella chioma arruffata, cui parve
volersi strappare; la monaca, paurosa ch'egli incrudelisse contro se
stesso, volle prendergli una mano, ma il misero la respinse da sè
bruscamente, senza profferire pure una parola: poi piantati i due gomiti
sulle ginocchia, nascose fra le mani nere ed incallite la faccia e
stette così alquanto tempo, immobile, senza dar segno nessuno di
sentimento nè di vita. La suora di carità avvisò che il meglio era
lasciarlo tranquillo nel suo dolore, e stette alcuni passi in là,
guardandolo pietosamente.

Dopo un poco un singhiozzo eruppe dalla gola del pover'uomo, un
singhiozzo penoso come un vero grido di strazio; le mani gli si
contrassero sulla faccia che coprivano, come se colle unghie la
volessero disfare, e una sequela di singulti che gli scuotevano tutta la
persona, parevano rompergli il petto.

— Coraggio! disse la suora di carità accostandoglisi di nuovo.

Andrea trasse giù dal viso le mani e mostrò delle sembianze che il
dolore aveva così sconvolte da non parere più quelle di prima.

— Mi dica quando e come ella sia morta.... La mi avrà chiamato..... mi
avrà accusato di non venire..... Povera donna!.... Morta senza una mano
amica a chiuderle gli occhi!... Mi dica tutto.

— No: essa non potè accusarvi, essa non soffrì, perchè Iddio pietoso non
volle che dopo quel colpo fatale la infelice tornasse più in senno.

L'uomo drizzò vivamente la testa.

— Colpo fatale! esclamò con una vivace sorpresa che pareva quasi una
violenza: che colpo?

— Quello di sapervi arrestato...

Andrea si drizzò di scatto, mandando più un urlo che un grido.

— La lo seppe!... Chi fu lo sciagurato che gliel disse?

La monaca raccontò come la cosa fosse passata e quindi la colpa non era
di nessuno.

Andrea si percosse coi due pugni chiusi la fronte.

— Infame, scellerato, gridò, sono dunque io, son io che l'ho uccisa.....
Ah perchè non sono morto io prima, nel tempo che ero un onest'uomo, e
ch'ella mi amava!... Ma la mi faccia ancora sta carità, sora madre, la
mi dica quando è morta la poverina.

— Ieri sera alle otto.

— Ma allora non è ancora sotterrata, esclamò con una specie di
soddisfazione e di speranza il miser uomo. Posso ancora vederla...
voglio vederla....

Congiunse le mani in atto supplichevole, spiegazzando fra esse il suo
berrettaccio.

— Ho bisogno di vederla, soggiunse, mi accordi questo favore, la
prego... Vuole che io la lasci portare in terra per sempre, senza darle
un ultimo addio?... La mi conduca presso di lei, la faccia sta carità,
la supplico in nome di quella povera morta. Debbo domandarle almanco
perdono innanzi al suo cadavere.

La monaca fu commossa ed impacciata. Ella non sapeva se quel cadavere
trovavasi ancora nel deposito dell'ospedale: in ogni caso ciò dipendeva
dalla direzione, e temeva che un simile permesso non venisse mai
accordato.

— Proviamo: insisteva con passione il pover'uomo: andiamo da chi
comanda, io li pregherò tanto che mi vorranno usare questa grazia.

La suora di carità cedette, la grazia fu concessa ad Andrea, e questi,
accompagnato da un uomo di servizio s'avviò tremando verso la camera di
deposito dei morti dell'ospedale. Il custode ne aprì la bassa porticina,
e l'operaio entrò in una stanza bassa, oscura, in cui sopra un lungo
tavolato stava, coperta da un lurido panno, la forma stecchita di un
cadavere.

Andrea si sentì mancare il cuore e le gambe; si appoggiò alla fredda
parete umidiccia per non cadere. Ogni suo coraggio era ito. Avrebbe
voluto fuggire, se ne avesse avute le forze; la testa gli tenzonava in
modo strano, doloroso; quasi gli sfuggiva la coscienza di sè; la mente,
come dire, gli si svaporava e parevagli non essere nella realtà delle
cose, ma in un sogno d'incubo. Guardava quella striscia di poca luce
livida che penetrava dal finestròlo, lambiva passando le pieghe di
quello sporco sudario e andava a perdersi nel fondo grigiastro.
L'immobile rigidità di quel cadavere attirava i suoi occhi e gli destava
insieme una ripulsione di ribrezzo. Che? Era la sua Paolina che stava
là, di quella guisa, insensibile, senza che più potesse vederlo,
sentirlo, muoversi alla sua voce?

Il custode, cui quegl'indugi impazientavano, guardò con aria
interrogativa Andrea, come per domandargliene:

— Ebbene? e che si fa ora?

Andrea fece un cenno col capo e colla mano, che l'uomo comprese di
subito e cui si affrettò ad ubbidire: prese per un lembo il lenzuolo che
copriva il cadavere e lo trasse via bruscamente. Andrea, come se in quel
punto fosse rotto il fascino che lo teneva avvinto, si precipitò innanzi
le braccia tese verso quelle forme d'essere umano che gli apparivano
nella loro nudità; ma retrocesse di botto, come respinto da una mano al
petto. Era il cadavere d'un uomo.

Si volse al custode domandandogli quasi con rabbia:

— Ma mia moglie?... Cerco di mia moglie, io... dov'è?

Il custode si strinse nelle spalle.

— Questo, rispose, è l'unico cadavere che abbiamo per il momento; un
povero diavolo morto questa mattina.

— Mia moglie morì ieri sera alle otto.

— Ah! ho capito. Fu trasportata questa mattina all'alba.

— Dove?.... già al cimitero?

— No: rispose il custode scotendo con una certa grave mestizia il capo.

Un'inquietudine, ch'egli stesso non avrebbe saputo spiegare, s'impadronì
del povero Andrea.

— Dove l'hanno portata adunque?

— All'anfiteatro: rispose il custode abbassando la voce.

Andrea non capiva questa parola, ma ne sentì una tremenda paura. Aveva
udito dir mille volte che i corpi dei poveri morti all'ospedale erano
mandati in un certo luogo, dove si tagliuzzavano in presenza di una
frotta di giovani. Un orribile sospetto del vero gli fece spuntare un
sudor freddo alle radici dei capelli.

— Anfiteatro! ripetè egli. Che volete dire?

— Sì, all'anfiteatro anatomico.

Andrea si ricordò allora che quel luogo esecrato si chiamava appunto
così. Come! La sua Paolina esposta a tale onta, a tale insulto, a tale
profanazione! Afferrò per le braccia il custode e gli gridò con furore:

— Non voglio, non voglio... Andatemela a riprendere..... subito..... ve
lo comando ve ne prego.

Il custode gli fece capire ch'egli non ci poteva nulla.

— Ma che debbo fare io adunque? Ditemelo voi, consigliatemi voi... Per
Dio! non voglio che mi si tratti così la mia Paolina: voglio salvarla ad
ogni costo, dovessi cacciar fuoco all'intiera città.

Il custode che non era malcontento di liberarsi al più presto di
codestui, gli disse:

— Andate voi stesso colà, e potrete forse ottener che vi restituiscano
il cadavere... Ma correteci tosto, se volete arrivare a tempo.

— È vero! esclamò Andrea, battendosi la fronte, ed uscito precipitoso di
là, corse come un indemoniato verso l'anfiteatro anatomico.

Il portinaio dello stabilimento arrestò quest'uomo fuori di sè che
entrava con tanto impeto, e gli domandò che cercasse.

— Mia moglie, rispose Andrea che pareva non aver più fiato in corpo.

— Vostra moglie! esclamò il portinaio, allargando tanto d'occhi. Oh che
la vi gira? Qui non vi sono donne....

L'operaio a cui la ragione era presso a smarrirsi davvero, prese pei
panni al petto il portinaio e scotendolo con aria di minaccia, gridò:

— Sì, che la c'è.... È fra i morti che si vogliono squartare.... Ma io
non permetterò tale scelleraggine. Voglio che la mi si restituisca....
Non andrò via finchè non me l'abbiate restituita... Voglio portarmela
via io colle mia braccia, adesso, subito, e guai a voi, guai a tutti!...

Il custode ebbe paura: chiamò in suo soccorso alcuni inservienti, ed
Andrea fu cacciato nella strada, se con buona grazia, pensatelo voi. Il
pover'uomo smaniò, gridò, bestemmiò; ma ad un puntò si calmò di botto,
perchè capì che in quel modo non avrebbe ottenuto nulla, che intanto il
tempo passava, e che ogni minuto trascorso poteva recare alla sua
Paolina quel supremo orribile sfregio, ch'egli voleva evitarle. L'esser
povero è una debolezza, è un'impotenza assoluta; capì che senza
intravvento, senza protezione di nessuno egli non avrebbe mai potuto
riuscire nel suo intento; ma a chi rivolgersi? chi pregare? chi c'era a
cui egli potesse con sicurezza e con efficacia ricorrere? Si ricordò in
buon punto di quel pietoso signore che la Provvidenza aveva mandato in
suo aiuto quel momento in cui era stato arrestato alla porta
dell'ospedale, e si disse che non c'era altri a cui potesse
indirizzarsi. Ne sapeva il nome e conosceva il luogo dov'egli aveva il
suo fondaco, e corse con tutte le forze che gli rimanevano dal libraio
signor Defasi.

Noi sappiamo già qual cuore pietoso avesse questo galantuomo, e quindi
non ci stupiremo s'egli sentisse con molto interesse la scucita
narrazione del povero Andrea smarrito dal dolore e si proponesse senza
indugio di efficacemente aiutarlo. Ma gli era il modo che non sapeva
trovare; egli non conosceva nessuno che avesse attinenza con quello
stabilimento, e capiva che non conveniva andare per vie indirette, ma
far presto per la più breve strada se volevasi arrivare a tempo. Di
soccorrere ad Andrea in tutte le spese che necessariamente sarebbero
occorse per far trasportare il cadavere al Campo Santo e farnelo
seppellire, già aveva deciso seco stesso; ma il principale era di
giungere ad impadronirsi di questo minacciato cadavere. Pensò rivolgersi
al professore incaricato dell'insegnamento anatomico: ma egli non lo
conosceva personalmente, e quel tale aveva una fama di burbero che non
incoraggiava di molto a fare un tentativo presso di lui. Anche al signor
Defasi venne ad un tratto l'ispirazione d'un'idea. Si ricordò che i
bambini di quell'operaio erano stati ricoverati nell'ospizio dietro
l'opera del dottor Quercia; questo signore che tanto faceva parlare di
sè, nella sua qualità di medico, doveva avere conoscenza e forse
autorità in quella sfera, e non si sarebbe certamente rifiutato
d'adoperarsi in favore di quel pover'uomo. Per fortuna egli sapeva
l'indirizzo del Quercia, e presa una carrozza da nolo, in pochi minuti
ebbe condotto al quartiere di Gian-Luigi il disperato Andrea.

Colà una gran sorpresa attendeva il sig. Defasi. Insieme col dottor
Quercia, il quale aveva subito fatto introdurre i due sopravvenuti
appena annunziatigli, stava un uomo, un giovane dalle strane sembianze,
vestito in panni eleganti, che parevano impacciarlo, con un'espressione
sulla pallida faccia tra di soddisfacimento e di dolore, che male
avreste saputo spiegare. All'ingresso del signor Defasi questo tale si
alzò e si trasse alquanto in là come se avesse tentato sottrarsi alla
vista del nuovo venuto, ed un leggiero rossore salì alle sue guancie
pallide ed incavate. Defasi, infervorato nel còmpito che si era assunto,
prese ad esporre il caso di Andrea e la ragione della loro venuta, senza
fare troppa attenzione a quell'individuo che stava in compagnia di
Quercia; Andrea rimaneva presso l'uscio rotolando fra le sue mani
convulse il berretto e guardando con occhi lucidi d'un ardore febbrile,
che supplicavano più di tutte le possibili parole.

Il dottor Quercia, appena ebbe udito il racconto di Defasi, senza porre
tempo in mezzo, esclamò con tutta la vivacità d'un buon cuore commosso:

— L'aggiusterò io, stieno tranquilli..... Io conosco appunto chi
conviene per ciò..... Corriamo senza perder tempo: fo attaccare la mia
carrozza... anzi mando a prenderne una che faremo più presto.....

Defasi disse ch'egli ne aveva impegnata una, la quale stava appunto
attendendo nella strada.

— Benissimo: soggiunse Luigi. Allora non domando che un mezzo minuto di
tempo, tanto da calzare un pastrano, e prendere il cappello, e sono con
loro.

Passò prestamente nella camera vicina, e Defasi allora si volse verso
quell'altro personaggio, a cui non aveva ancor badato; ma quegli, benchè
senza affettazione, volse in là il capo, come se desiderasse non
appiccar discorso. Pur tuttavia al libraio parve riconoscerlo: quella
vasta fronte, quegli occhi profondi, quel petto ricurvo gli ricordavano
un individuo, di cui pochi giorni prima aveva tenuto discorso, di cui da
tanto tempo desiderava sapere e non sapeva più notizia. Fece un mezzo
passo verso di lui, aprì la bocca come per interrogarlo: ma poi pel
contegno del giovane non n'ebbe il coraggio; si rimase a guardarlo con
una certa emozione che non cercava manco nascondere.

— Eccomi pronto: disse Luigi, entrando in quella col pastrano indosso ed
il cappello in testa. Andiamo.

Poi si rivolse al giovane cui il signor Defasi aveva creduto
riconoscere.

— Addio Maurilio, soggiunse tendendogli tuttedue le mani. Quanto
volentieri t'accompagnerei al villaggio... al nostro villaggio, lasciami
dire ancora!... Mi rallegro delle tue fortune e ne godo come se fossero
mie... Possa tu essere davvero felice!

E mandò un sospiro che sarebbe stato assai difficile interpretare.

All'udire il nome di Maurilio, il signor Defasi erasi riscosso: si
slanciò verso quel giovane e con accento pieno di calore esclamò:

— Ma dunque voi siete davvero Maurilio?...

Il giovane lo guardò con freddezza e il libraio si riprese:

— Ella è Maurilio Nulla?

Il nostro eroe s'inchinò leggermente e con un indefinibile sorriso in
cui c'era della fierezza ed insieme una mesta amaritudine, rispose:

— Non più Nulla; Maurilio Valpetrosa, nipote del marchese di Baldissero.

Defasi spalancò tanto d'occhi.

— Davvero!..... Ne godo..... mi rallegro..... Ma chiunque Ella si fosse,
io ho un'ammenda da fare verso di Lei, io ho delle vivissime scuse da
chiederle, e voglio ad ogni modo conquistare il suo perdono e riottenere
la sua amicizia..... Ora non ho tempo, ma la mi faccia il favore di
dirmi dove, come e quando potrei avere con Lei un colloquio, ed io mi
farò premura...

Maurilio l'interruppe.

— Sto per partire. Vo alcuni giorni al villaggio dove passai la mia
infanzia. Sono venuto appunto a manifestare le mie nuove condizioni ed a
dare l'addio a questo mio amico e compagno (ed additò Gian-Luigi). Al
mio ritorno sarò io stesso che passerò da Lei per avere quel colloquio
che preme anche a me.

Come fosse avvenuto il riconoscimento di Maurilio per parte del
marchese, vedremo fra poco: ora mi preme seguire l'infelice Andrea nella
dolorosa ricerca del cadavere di sua moglie.

Mezz'ora non era trascorsa da che era uscito di casa con Defasi ed
Andrea che Quercia aveva ottenuto tutto quello che si desiderava:
entrare nel deposito dei cadaveri al Gabinetto anatomico, ritirarne
quello di Paolina e farlo trasportare al Campo Santo.

Quando entrarono in codesto lugubre luogo che è il deposito de' morti,
gli inservienti stavano appunto prendendo dalla gran tavola di marmo uno
dei due cadaveri che c'erano per portarlo nell'anfiteatro: l'avevano
preso uno per le spalle, l'altro per i piedi e se ne andavano con quel
povero cadavere tutto nudo, Andrea gettò un urlo e si slanciò verso di
loro colle mani tese. Non avea vista la faccia di quel corpo dimagrato,
allividito, ma il cuore glie l'avea fatto riconoscere, ma ne aveva vista
la bionda capigliatura cadente. Era la sua Paolina.

— Fermatevi, disse agli inservienti Quercia che accompagnava il misero
Andrea: questo cadavere abbiamo l'autorizzazione di ritirarlo.

Ne li persuase in breve, sopratutto con una mancia. Il corpo fu rimesso
sopra il freddo marmo della gran tavola, e invece di quello, per portare
nell'anfiteatro, fu preso quell'altro che giaceva pure colà. Andrea fece
un moto, come per gittarsi addosso al cadavere della sua donna; ma la
nudità di quelle membra parvero fargliene ad un tratto ribrezzo e
vergogna: mandò intorno uno sguardo quasi selvaggio, e con atto pronto,
istantaneo, quasi violento, trattasi dalle spalle la sua carniera, la
stese su quelle povere membra livide ed irrigidite.

— Avrete freddo, disse il buon signor Defasi, e vi piglierete un
malanno.

Andrea scosse il capo senza rispondere altrimenti.

— Io corro tosto a casa, riprese Defasi, e manderò qui lenzuola e quanto
occorre.

— Volete voi rimaner qui? domandò Quercia al marito di Paolina, il quale
fece un atto energico di affermazione. Bene. Noi vi ci lascieremo. Tutto
sarà disposto intanto per la sepoltura di questa poveretta, e verso sera
la faremo trasportare al Campo Santo.

Andrea andò verso quei due suoi benefattori e prese loro le mani.

— Loro mi fanno una carità delle maggiori: disse egli con voce gutturale
che pareva uscirgli a stento dalle fauci (ed erano queste le prime
parole che pronunciava dopo che aveva narrato al signor Defasi la
crudeltà della sua avventura). Io non so e non saprò mai come
rimeritarneli; ma nasca il caso in cui abbiano bisogno di un uomo..... e
son io qua.

Gian-Luigi corrispose colla sua alla stretta di mano dell'operaio, e
guardandolo bene entro gli occhi, rispose lentamente:

— E per me può nascere questo caso. Se venissi dunque un giorno a
ricordarvi le parole che avete ora pronunziate?.....

— La mi troverà pronto a mantenerle.

— Sta bene.

Quercia e Defasi partirono. Andrea si lasciò andare sopra uno scanno che
c'era colà e tutto intirizzito dal freddo stette immobile, il capo nelle
mani, posseduto da un generale indolorimento in cui tutti erano confusi
i suoi pensieri, le sue sensazioni, il sentimento del presente, il
ricordo del passato. Non gli pareva manco di vivere, non gli sembrava
vero d'essere lui in quelle condizioni, e che a lui proprio erano
capitate tutte quelle vicende. Non guardava il corpo della sua Paolina;
non ne aveva il coraggio; era ben dessa che giaceva là immobile,
insensibile innanzi a lui? Ne temeva la vista ora ch'essa era fatta muta
per sempre, più che non ne avesse temuto mai dapprima gli amorosi
rimproveri. Come essa lo aveva amato! Ed egli pure aveva amato lei! Un
tempo lei prima di tutto al mondo. Quale un raggio di sole che per uno
squarcio di nubi venga a brillare un istante in un oscuro orizzonte,
vide ad un tratto presentarsi alla sua memoria le gioie soavi dei giorni
in cui s'erano sposati. Quanto era bella la sua Paolina! e quanto glie
la invidiavano i compagni, e quanto egli n'era fiero!... Alzò la testa
con ratta vivacità. Aveva bisogno di vederla. Sperava quasi doversela
trovare innanzi allo sguardo, qual era in quel tempo già remoto pur
troppo; una folle lusinga di mente vacillante gli faceva quasi sperare
il miracolo che Iddio glie l'avrebbe restituita nelle forme e nelle
sembianze che ora gli si erano affacciate al pensiero.

Aimè! Il corpo giaceva stecchito, stremato dai patimenti, dalle
privazioni di tanto tempo, dal male che l'aveva da ultimo tratta alla
tomba; in quel viso diventato color della cenere, smagrito, tirato,
quasi non erano più da riconoscersi i tratti della fiorente giovinetta
ch'egli aveva condotta all'altare; dalle palpebre semichiuse appariva un
occhio spento, senza colore, che nulla più ricordava della gaia, vivace
pupilla della giovane sposa. Andrea, intirizzito dal freddo, stretto il
cuore da un'emozione che mal gli lasciava circolare il sangue, sentì
invadersi come da un intorpidimento mortale; gli parve che se non si
riscuotesse egli sarebbe caduto cadavere ancor egli a' piedi di quella
tavola su cui giaceva cadavere la sua Paolina. Quelle sembianze di morta
su cui si fissavano e da cui non erano più capaci di spiccarsi i suoi
occhi smarriti, sembravano esercitare su di lui un fascino per attirarlo
nel paese delle ombre; gli pareva una voluttà il cedere a quel fascino.
Fosse egli pur morto! Sarebbe cessato ogni dolore anche per lui! Ma
allora gli sembrò che la bocca semiaperta della morta pronunziasse colle
labbra livide e sottili una parola, di cui orecchio umano non avrebbe
potuto udire il suono ma ch'egli intese col cuore: — «I figli!»

Oh! i figli suoi! Questo pensiero gli diede la forza di sottrarsi a quel
fatale intorpidimento. Sorse in piedi e si pose a passeggiare con passo
affrettato per la stanza. Quel moto violento, ridonando il calore e la
vita alle membra, pareva disperdere il turbinio di pensieri che gli
toglieva la testa. Passava e ripassava innanzi al cadavere, e ad ogni
volta vi gettava uno sguardo: ma questi sguardi via via venivano
cambiando espressione. Dapprima erano quasi paurosi, poi manifestarono
un rispetto, quasi una venerazione; da ultimo presero un'amorosa
tenerezza. Allora il pover'uomo s'accostò di nuovo al cadavere e si
fermò presso di lui.

— Paolina! Paolina! chiamò egli con voce piena d'immenso affetto: e si
curvò su quella testa abbandonata e cominciò a baciarne il fronte, e poi
gli occhi, e poi le labbra — ed allora pianse! Pianse a lungo e fu
sollevato: il dolore non si sminuì, ma si fece meno amaro, meno
disperato: gli sembrò sentire vicino a sè l'anima della sua donna, gli
pareva udire nell'aura le parole ch'ella soleva dirgli pur sempre, di
affettuoso perdono.

Perdono? Lo meritava egli? Chi l'aveva tratta dalla felice esistenza dei
primi anni a quella morte dei derelitti nell'ospedale, a quell'ultima
suprema miseria, di non aver nè anco sacro dopo morte il proprio
cadavere? Dall'altare in cui s'erano sposati a quella tavola di marmo,
qual cammino di delusioni, di stenti, di dolori, aveva percorso quella
povera donna! E tutta la colpa era di lui!

Cadde in ginocchio presso la tavola e tendendo le mani congiunte sopra
la fredda pietra, esclamò con accento di spasimo inesprimibile:

— Perdonami! Perdonami!...

Paolina fu seppellita in un angoluccio del cimitero comune: ma per cura
del signor Defasi una modesta croce ne segnò la fossa su cui potessero
venire a piangere e pregare il vedovo marito e gli orfani figli.



CAPITOLO IX.


Il marchese di Baldissero trovò il Re, che lo aveva mandato a chiamare,
molto accigliato. I fatti della sera innanzi gli erano forte
dispiaciuti, e innanzi al suo sguardo severo chinavano gli occhi
mortificati tutti i ministri che gli facevan corona. Era come un solenne
Consiglio ch'egli aveva radunato per consultare sul da farsi, ed al
quale, oltre i ministri, aveva voluto prendessero parte i più fidi e
devoti servitori della monarchia, fra cui il marchese.

In presenza d'un nuovo e tanto pericolo che subitamente era sorto per
l'edifizio politico e per l'organismo sociale, qual era l'insurrezione
della plebe, il Re volava si cercassero, si scegliessero e senz'indugio
si ponessero in pratica i mezzi più opportuni per cessare quel rischio
non solamente nel presente, ma eziandio per l'avvenire. La fantasia di
quegli uomini di Stato colà raccolti non era molto feconda nel trovar
fuori di cotali mezzi che paressero di sicuro, od anzi soltanto di
probabile effetto alla mente acuta del Re. I più non credevano si
dovesse dare a quel fatto tanta importanza, quanta glie ne metteva il
capo supremo dello Stato, nulla più che ad un accidente volgare, che ad
un turbamento momentaneo, il quale si raggiusta col mettere a segno i
tumultuanti e si passa; quasi tutti erano d'avviso che non c'era da far
altro che reprimere e severamente reprimere per impedire colla
esemplarità del grave castigo ogni simile tentativo ulteriore.

Non infastidirò le mie gentili lettrici, facendole assistere alle gravi
discussioni di quel poco fruttuoso Consiglio. Carlo Alberto ascoltò
freddamente tutte le parole che furono dette, non manifestando in nessun
modo la sua interna impressione sulla sua impassibile faccia pallida;
acconsentì tacendo alle varie proposte che furono messe innanzi dai
varii ministri: che quelli fra gli arrestati nella riotta della sera
innanzi che fossero noti come oziosi, vagabondi e proni a delinquere
fossero per misura economica, come allora si soleva dire, trasportati
nell'isola di Sardegna a dirsela colla malaria e colle palle degli
schioppi di quegl'isolani; che si dèsse una gran retata nei bassi fondi
sociali delle bettole e dei postriboli per coglierne la maggior quantità
possibile di altri fra quegl'_indiziati_ che sono esca al disordine, e
si mandassero a tener compagnia a que' primi; che si procedesse
severamente contro tutti coloro a cui poteva applicarsi condanna
criminale pei fatti della sera precedente, e il Ministro di grazia e
giustizia eccitasse il potere giudiziario a volerli colpire col
_maximum_ delle pene.

— Signori, disse finalmente il Re, levando il suo capo che teneva
reclinato sul petto, come troppo greve a portarsi. Non sarebbe per
avventura più vasta la questione di quello che noi ci figuriamo?
Nell'Inghilterra, nel Belgio e nella vicina Francia, le classi
lavoratrici si agitano e dànno seriamente da pensare agli uomini di
governo. Non sarebb'egli un accenno di quel moto che si fa strada nel
nostro paese?

I ministri e gli altri consiglieri si guardarono in faccia per sapere a
chi toccasse rispondere. Il Ministro dell'interno fece un piccol gesto
della mano per indicare ch'egli avrebbe risposto: e fatto un inchino col
capo verso il Re, così prese a parlare:

— Oserei credere, Sire, oserei anche affermare, Maestà, che nei
felicissimi Stali retti dal suo scettro non sono punto penetrate quelle
empie massime che sommuovono le plebi nei miseri paesi da V. M.
nominati. Noi abbiamo fatto buona guardia, e l'iniquo fiotto, se così
posso esprimermi, si è arrestato alla frontiera. In quelle parti là
l'artigiano, il povero, il pezzente, legge, pretende a discutere, si
crede di ragionare. Noi, grazie a Dio, siamo liberi ancora da siffatta
malsania. Non abbiamo lasciato nè lasciamo stampare o penetrare libri e
giornali perniciosi; e la nostra plebe, per fortuna, è troppo ignorante
per leggere checchesiasi.

Il Re mosse le labbra per parlare, e il ministro si tacque di botto,
rimanendo a bocca larga a dare ascolto.

— Oggi è così: disse Carlo Alberto, ma domani può essere tutto diverso.
Non ostante la buona guardia di cui Ella si vanta, quelle idee di cui si
discorre hanno pur penetrato nel nostro paese, ed io ne ho delle prove,
e n'è una lo sciopero avvenuto e poi la rivolta degli operai. Noi non
possiamo vivere tanto isolati dal resto del mondo che le passioni, le
idee, anco le pazzie del genere umano non ci tocchino e non si
partecipino eziandio da noi; le comunicazioni più rapide che si
stabiliscono, aiuteranno ancora codesta diffusione, e massime quelle vie
ferrate di cui abbiamo già adottato parecchi disegni pel nostro Stato e
della principale delle quali già è così ben avviata l'esecuzione.

Profittando d'una di quelle pause che il Re faceva frequentemente nel
suo parlare lento ed impedito, il ministro degli esteri esclamò con
qualche vivacità:

— Ed è per ciò ch'io ebbi il coraggio di oppormi quanto potei alla
costruzione di queste diaboliche strade.

Carlo Alberto volse verso quel ministro il suo sguardo semispento e fece
il suo enimmatico sorriso.

— L'esecuzione della rete ferroviaria, diss'egli, se Dio mi dà grazia di
poterla compire, la ritengo per una delle opere onde meglio sarà
illustrato il mio regno. Ai popoli si deve non solamente la sicurezza ma
la prosperità materiale eziandio; e quando un nuovo mezzo di accrescere
siffatta prosperità si presenta nel mondo ed è dalle altre nazioni
adottato, grave fallo sarebbe il lasciarne mancare il proprio paese. Per
più ragioni adunque è da credersi che anche le nostre classi inferiori
già sono, o in breve saranno corse ed agitate dalle medesime idee e
pretese da cui vediamo commosse le plebi degli altri paesi. La loro
condizione è misera, senza dubbio, e degna del massimo riguardo: le
passioni sovversive trovano nel disagio e nelle sofferenze di quelle
turbe malaugurato alimento. Non sarebbe egli dunque il caso di avvisare,
se le condizioni di questa povera gente, anche mercè la legislazione,
potessero venir mutate in meglio, se ai diritti di proprietà si potesse
fare qualche modificazione per cui più retribuito, meglio assicurato
potesse riuscire il lavoro manuale?

Tacque, e i ministri si guardarono esterrefatti, come se per la bocca
del loro sovrano avessero udito parlare lo spirito di Fourier.

Il ministro di grazia e giustizia s'inchinò e disse in tono magistrale:

— Non si può toccar più l'arca santa delle leggi senza danno evidente,
quasi direi senza una vera profanazione; V. M. ha compito il più gran
monumento legislativo che un sovrano abbia fatto mai. Il codice civile
da V. M. sancito posa su principii de' più liberali, e pone la proprietà
su solide basi, cui sarebbe il maggior pericolo del mondo il voler
mutare.

— Il popolaccio sta abbastanza bene; disse il conte Barranchi, capo
supremo della Polizia; sta bene anche troppo. Per me credo che più è
misera ed ignorante una popolazione, e meglio la si governa.

Carlo Alberto si rivolse al Riformatore degli studi, che era una specie
di ministro della pubblica istruzione:

— L'ignoranza dei popoli fu pel passato una guarentigia; non potrebbe
divenire d'or innanzi un pericolo? Poichè vi ha questa tendenza
universale all'istruirsi, non potrebbero la Chiesa e lo Stato di accordo
prendere l'iniziativa dell'istruzione popolare ed istillare così nelle
masse dei buoni principii, invece di lasciarle esposte alle seduzioni
dei novatori?

L'Arcivescovo di Torino, che era presente eziandio, e pareva
sonnecchiare tranquillamente, all'udir nominare la Chiesa arricciò il
suo naso rubicondo ed aprì i suoi occhietti vivaci.

— Sire: diss'egli, senza lasciar tempo di rispondere al Riformatore
degli studi; l'istruzione la si dia tutta, e popolare e non, in mano
della Chiesa; ed anche lo Stato se ne troverà bene. Noi faremo di tutti
dei buoni cristiani e dei sudditi fedeli.

Il Re fece un cenno grazioso col capo verso l'Arcivescovo, che poteva
significare un assentire, un ringraziamento od un semplice atto di
cortesia, e poi si levò in piedi. Tutti s'alzarono: il Consiglio era
finito.

Tolsero commiato e se ne partirono tutti; ma Carlo Alberto parlando a
Baldissero gli disse:

— Marchese si fermi.

Il marchese, che già s'inchinava presso la porta per partirsi, tornò
indietro lentamente verso il Re, il quale, secondo suo costume,
s'intromise nella strombatura della finestra che guardava nella piazza.

Baldissero stette aspettando: Carlo Alberto per un poco rimase in
silenzio. Con una mossa che gli era abituale, sulla mano del braccio
sinistro che teneva ripiegato al petto aveva appoggiato il gomito
dell'altro braccio e sosteneva alla mano destra la sua fronte vasta e
scialba come quella d'un cadavere.

— Nessuno di quegli uomini mi comprende; mormorava il Re, in modo che
parevano sfuggirgli inavvertite siffatte parole. Nessuno ha la
intelligenza delle grandi cose, niuno vede al di là dell'oggi, niuno
saprebbe indovinare le mie idee ed incarnarle.

Le sue dita si contrassero sopra la fronte, liscia come la lapide d'un
sepolcro.

— Ah! se potessi da me! soggiunse, ma così piano che non l'avrebbe pur
udito chi avesse potuto mettere il suo orecchio sulle pallide di lui
labbra. Se potessi io stesso dar forme concrete al mio pensiero,
trovarne il modo d'eseguimento ed aver la forza di porlo in atto!...

Nella sua anima successe in quell'istante fugace, ratto ma vivo, uno di
quegli scombuiamenti che la turbavano di frequente: una specie di lotta
fra la volontà e l'insufficienza dei mezzi, fra l'ardore dello spirito e
la debolezza dell'intelligenza, quando la idea si travede e non si può
afferrare, quando s'indovina, s'intuisce confusamente, in nube, il vero,
il bene, il bello, e la mente non ha forza di definirselo innanzi in
maniera efficace e precisa, così bene che dopo un poco d'inutili sforzi
la si accascia sfiduciata e stanca per cadere in balìa d'un'altra mente
fors'anche meno elevata, ma più pratica e più operosa.

Il marchese stava osservando rispettosamente il Re, due passi da lui
lontano. Carlo Alberto si riscosse e rivolse verso il suo fedele la
faccia melanconica e severa.

— La ho pregata di fermarsi, marchese, gli disse, per parlarle di quel
cotale, autore del manoscritto da Lei comunicatomi, e che, arrestato
come cospiratore, fu, dietro le raccomandazioni di Lei, per mio ordine
espresso liberato senza ritardo.

Baldissero fece una lieve mossa per accennare ch'egli era pronto a
rispondere ad ogni richiesta. Il Re sviò lo sguardo dalla faccia del
marchese e lo fissò vago ed incerto nell'orizzonte traverso i cristalli
della finestra: rimase in silenzio e parve aver subitamente volto il
pensiero a tutt'altro. Nel suo intimo frattanto meditava, se facesse
bene a parlare, se miglior consiglio non sarebbe stato il rinunziare
affatto a tutte quelle idee non ancora ben determinate, a tutti quei
disegni tuttavia in nube cui aveva desti in lui la lettura delle pagine
scritte dal trovatello.

Egli tutte le aveva attentamente lette, molte aveva rilette più volte, e
assai meditatovi sopra. Uno strano effetto sulla sua natura facilmente
esaltabile, benchè sotto apparenze contegnose e fredde, sulla sua anima
tra cavalleresca ed ascetica, inviluppata d'un altissimo orgoglio per la
dignità del grado, aveva prodotto quella lettura che rispondeva a certe
velleità di audaci pensamenti, a certe aspirazioni di novatore e di
messia che brulicavano segretamente in fondo al suo essere di sovrano,
innamorato della gloria e che vorrebbe stampare profonda e luminosa
l'orma del suo regno. Il fatalismo cattolico del suo spirito alquanto
superstizioso, per poco non lo aveva persuaso che era stato Iddio
medesimo a mandargli sott'occhi quello scritto in cui erano trattate
tante di quelle questioni sociali che preoccupavano la sua mente di re
che avrebbe voluto essere riformatore, ed alcune v'erano sciolte. Gli
parve che da quelle carte sgualcite su cui una mano febbrile aveva
scritto un tanto mondo di pensieri, uscisse come la voce del popolo
medesimo il quale avesse acquistato coscienza e sapienza de' suoi
destini e de' suoi bisogni e quindi formolasse, ad ammaestrarlo, in
linguaggio tra di poeta, tra di statista, le necessità economiche,
morali e sociali della nuova vita civile, sentite non avvertite dalla
massa comune, e i rimedi acconci alle medesime; la voce, direi, della
Sfinge, di cui egli voleva essere l'Edipo e dominarla. L'autore di
quelle pagine non era egli l'uomo che invano andava cautamente cercando
intorno a sè, e cui gli aveva mandato la Provvidenza? Pensò a quel suo
antecessore (e fu pure un glorioso principe quello!), il quale dal nulla
aveva innalzato alle prime cariche il Bogino, che fu uno dei più valenti
ministri del Piemonte. Se nelle file della plebe trovavasi un ingegno
superiore, il quale potesse rendere eminenti servigi alla monarchia e al
paese, perchè non l'avrebbe egli tratto di là e postolo in condizione da
poter compiere la sua missione? Era suo dovere il farlo; sarebbe stata
sua gloria l'averlo fatto. La conseguenza di tutti questi pensieri si fu
che egli decise informarsi meglio dell'essere di quel cotale presso il
marchese di Baldissero. Ma ora, come già accennai, le solite dubbiezze,
che al punto dell'azione assalivano sempre la sua anima esitante, lo
facevano restio e come peritoso al parlare.

Il marchese attendeva tuttavia le interrogazioni del Re. Questi ruppe
finalmente il silenzio, senza volgere gli occhi su colui che
l'ascoltava, guardando sempre con pupille vaghe nel grigio del cielo
annuvolato.

— Credono che la plebe non pensi, diss'egli, credono che ignori ancora
come un tempo. La rivoluzione francese ha inoculato il veleno nel sangue
delle generazioni di questo secolo di qualunque classe; esso serpeggia e
si diffonde. Ci vorrebbe sangue e fuoco ad estirparlo. E chi oserebbe
fare da Torquemada nel secolo XIX?... Ed ancora! Si riuscirebbe egli
forse? Le plebi pensano più che non si creda. Quel zibaldone di
temerità, di matte idee, di potenti concetti n'è una prova. Se viene un
giorno un'intelligenza superiore che mostri loro la terra promessa d'una
riforma sociale? Se acquistano un giorno la coscienza della loro forza?
Bisognerebbe fare qualche cosa per le plebi... Ma che cosa? Qual
pericolo toccare all'edifizio della società! Come prendersela, dove
incominciare, a qual punto arrestarsi? Questo è da definirsi; ed ecco
dov'è necessaria l'opera d'un ingegno superiore.

Si voltò allora verso il marchese.

— Lo scrittore di quelle pagine, domandò, Ella lo conosce, lo ha visto,
gli ha parlato?

— Sì, Maestà, rispose Baldissero, e l'ho anzi preso per mio segretario.

Il Re lo guardò con espressione di alquanto sospetto.

— Ah! gli è suo segretario?

Ma dinanzi alla nobile fisionomia del marchese ogni ombra di sospetto
s'affrettò a sparire dalla fronte di Carlo Alberto.

— Ha fatto benissimo: soggiunse vivamente: e l'aspetto di colui, la
parola, come sono?

— Ha l'aspetto d'un uomo che ha sofferto: rispose mestamente il
marchese, il quale abbassò gli occhi pensando con rimorso seco stesso di
chi fosse la colpa di quelle sofferenze. A prima vista le sue sembianze
possono tornare poco o punto piacevoli; ma la sua fisionomia non è
quella d'un indifferente. Interessa di botto e la sua fronte fa pensare.
Quando parla è in sulle prime peritoso ed impacciato; ma poscia la
lingua gli si snoda e l'eloquenza del labbro asseconda assai bene la
vivacità dell'idea.

Carlo Alberto atteggiò la bocca a quel suo indefinibile sorriso
melanconico e stentato, che pareva insieme timido e falso.

— M'è venuta una curiosità da Califfo di Bagdad. Voglio vedere
quest'uomo e discorrere con lui. Ma il Re in questo colloquio non ha da
comparire. Lo lascieremo alla porta. Vuol Ella rendermi un servizio,
marchese?

— Comandi, Maestà.

— Questa sera conduca da me il suo segretario... non qua, nella
palazzina che ho recentemente acquistata sotto il giardino. Alle nove
una persona fidata aprirà loro il cancello e li introdurrà in una camera
terrena, dov'io sarò ad aspettarli. Quel giovane non deve in alcun modo
sapere a chi dovrà parlare.

Il marchese s'inchinò in segno d'ubbidienza.

— Farò secondo gli ordini di V. M., ma le faccio osservare che sarà
molto difficile che quel cotale non riconosca l'interlocutore con cui
avrà l'alto onore di trovarsi.

— Non credo, disse il Re sorridendo, che le mie sembianze possano
essergli tanto famigliari: mi acconcerò di modo e farò che vi sia una
luce che giovino a trarlo in inganno....

S'interruppe, esitò un momentino e poi riprese con voce più bassa:

— Se però Ella crede che in ciò possa essere qualche inconveniente.....

— Oh no, s'affrettò a rispondere il marchese. Spero che quel giovane sia
degno d'ogni fiducia...

Il marchese era sul punto di svelare al Re il segreto della nascita di
Maurilio: ma Carlo Alberto pose fine al colloquio.

— Allora siamo intesi: diss'egli tendendo la mano a Baldissero. Questa
sera alle nove.

Il marchese s'inchinò colla dignità d'un gentiluomo: toccò
rispettosamente quella mano che gli veniva pôrta, e rispose:

— Alle nove senza fallo.

Carlo Alberto guardò fisamente per un poco la portiera che era ricaduta
dietro le spalle del marchese partitosi: e poi disse fra sè, curvando il
capo:

— Ho fatto bene? ho fatto male?... Al postutto son sempre in tempo di
mandare dire al marchese che non se ne fa nulla.

Il marchese nella sua carrozza, tornando al suo palazzo, era occupato da
molti e varii pensieri. Nell'apprezzamento delle cose egli subiva pure
l'influsso del suo grado, della sua qualità, della sua educazione. Non
si è impunemente nobili, nati ed allevati in corte, servitori devoti di
monarchi, senza acquistare una certa dipendenza d'animo verso chi occupa
quel supremo dei gradi sociali; anche pel vecchio, valoroso gentiluomo,
una parola del Re formava un'autorità indiscutibile. Dei talenti di
Maurilio ben aveva egli potuto persuadersi e dalla lettura di quello
scritto e dai discorsi dal giovane tenutigli; capace com'egli era
d'apprezzar giustamente il vero merito, il marchese non aveva tardato a
riconoscere la superiorità di quell'intelligenza; ma pur tuttavia, dopo
le parole intorno a quel cotale dettegli dal Re, dopo il desiderio
manifestato dal Re di avere con questo sconosciuto un colloquio,
s'accrebbe ancora in lui il concetto ammirativo che si era formato del
trovatello, e nacque in esso un nuovo sentimento che ancora non s'era
fatto vivo verso quell'infelice che gli era venuto innanzi, raccattato,
per così dire, nel fango della strada: un sentimento d'orgoglio ch'egli
avesse di suo sangue nelle vene, che fosse nato di sua sorella.

— Coi suoi talenti, col mio appoggio e colle aderenze della nostra
famiglia, colla stima del Re (e potesse anco acquistarne la
benevolenza!) dove non può egli giungere?

Così pensava non senza compiacenza il marchese; ma di colpo venne a
turbarlo il ricordo delle parole dettegli da fra' Bonaventura: e se
Maurilio fosse davvero quell'incorreggibile rivoluzionario, reo di
sovversivi intendimenti da far inorridire? Che farne? Come gloriarsi
d'averlo tralcio del proprio tronco? Il Re se ne sarebbe sgomentato ben
presto, poi sdegnato: egli stesso, il marchese, quando manifestasse i
legami di parentela che a lui annodavano quel temerario, correrebbe
pericolo di scadere nella estimazione e nella benevolenza del Re.

Giunse a palazzo e scese di carrozza con animo perplesso. Il suo
cameriere gli venne incontro e gli disse coi soliti accento e modi pieni
di rispetto:

— Il parroco Don Venanzio attende gli ordini di V. E. nello studio.

Il marchese mandò un lieve sospiro di soddisfazione; avrebbe udito sulle
labbra del vecchio prete i consigli della vera religione e la vera voce
del dovere.

— Solo? domandò egli.

— Signor no: vi è pure il segretario.

Baldissero sostò un momento; parve esitare; si domandò a sè stesso se
dovesse o no vedere in quel momento il giovane della cui sorte
trattavasi, se e quale effetto la vista di lui avrebbe prodotto sulla
definitiva risoluzione ch'egli doveva prendere. L'esitazione fu corta:
si disse che era appunto il meglio lo studiare ancora, subito, in tal
punto, la fisionomia di quel giovane; entrò risolutamente nel gabinetto
di studio. I due che stavano colà seduti si alzarono con rispetto; e il
vecchio sacerdote fece un passo verso il marchese, come si fa per la
persona che giunge desiosamente aspettata; ma Baldissero aveva rivolto
lo sguardo e l'attenzione esclusivamente sopra Maurilio. In quel momento
la sua impressione tornò ad essere quella poco favorevole che ne aveva
avuta la prima volta in cui il giovane era comparso ai suoi occhi.
Quella testa grossa, ispida, direi quasi, e quelle sembianze tormentate;
quell'occhio affondato e quella bocca larga a labbra pallide e sottili;
quel corpo ricurvo e quelle manaccie grossolane gli presentavano un
complesso così lontano dal tipo aristocratico di eleganza e di
leggiadria che era quello della sua famiglia, e il quale così
egregiamente era incarnato nella infelice sua sorella, che il marchese
non potè a meno di dirsi: «È impossibile che costui sia mio nipote.»

Don Venanzio cominciò egli a parlare.

— Signor marchese, eccoci ancora ad implorare la sua protezione per un
altro massimo favore.

— È cosa che riguarda Lei? domandò Baldissero sviando finalmente gli
occhi dalla faccia di Maurilio, il quale sotto a quello sguardo,
freddamente scrutatore e quasi ostile, sentiva, per la naturale sua
timidità, confondersi e smarrirsi. Il tono poi con cui era fatta la
domanda del marchese diceva chiaramente: «Badate che se si tratta d'un
interesse vostro, Don Venanzio, sono dispostissimo a soddisfarvi, non
così se si tratta d'altri.»

— No, signore, rispose il parroco, riguarda anche ciò questo mio
figliolo d'adozione.

Il marchese non diè risposta alcuna; sedette e fe' cenno agli altri due
sedessero anche loro; la sua mossa era quella d'un uomo disposto ad
ascoltare.

Don Venanzio, senz'attendere altra licenza, prese ad esporre ciò che per
essi volevasi. Disse della misteriosità della nascita di Maurilio, dei
segni di riconoscimento trovati appo lui, del caso meraviglioso che
pochi giorni prima li aveva posti a contatto colla _Gattona_, della
certezza che ci aveva costei conoscere la famiglia a cui apparteneva il
giovane, dell'obbligo che quella vecchia mendicante si era assunto di
svelare la verità dopo due giorni. Soggiunse come fosse allora
intravvenuto un nuovo fatto, l'intromettersi cioè del gesuita, fra'
Bonaventura, di cui narrò il colloquio cercato ed avuto la sera innanzi
con Maurilio. Stupito e messo in sospetto da ciò, egli stesso, Don
Venanzio, era tornato dalla _Gattona_ ad interrogarnela, e non aveva
potuto trarne fuori se non che la chiave del segreto era davvero in mano
di quel gesuita di lei confessore, e ch'ella non altrimenti avrebbe
parlato che se il frate glie ne avesse dato licenza. Don Venanzio aveva
capito che quella vecchia, o direttamente o per mezzo del gesuita, aveva
fatto conoscere alla famiglia, forse potente, di cui Maurilio aveva
diritto di portare il nome, che il fanciullo voluto smarrito era lì,
pronto a rivendicare i suoi diritti; e quella famiglia aveva forse
empiamente deciso di respingerlo. In tale emergenza egli aveva pensato
ricorrere eziandio alla efficace protezione del marchese. Era un'opera
di giustizia e di carità che doveva tentare il generoso animo d'un
tant'uomo. Come se già sapesse appuntino i dubbi e le obbiezioni che
voleva sottoporgli e intorno a cui voleva consultarlo il marchese, tutte
combattè e distrusse le sofistiche ragioni che si vorrebbero accampare
per esimersi dal sacrosanto dovere di riconoscere quell'abbandonato
fanciullo, e lo fece con quell'eloquenza bonaria e semplice del cuore
che è la più efficace su persona d'animo eletto, e ci mise tanto calore
che non so chi non ne sarebbe stato vinto.

Il marchese ascoltò immobile, curva sul petto la testa, nascondendosi
colla palma la faccia sotto il pretesto di sostenervi la fronte: quando
il sacerdote ebbe finito, stette un momento ancora in silenzio e senza
fare atto di sorta: poi trasse giù dal viso la mano, e rivolse a
Maurilio uno sguardo che non era più quello quasi ripugnante di prima.

— Signor.... Maurilio. (Esitò un momento a pronunziare questo nome,
quasi avessero difficoltà le sue labbra a spiccarnelo, ma poi lo disse
con una certa emozione poco meno che affettuosa). Signor Maurilio, così
parlò con voce lenta e sommessa, Ella ha dunque alcuni contrassegni.
Desidererei vederli. Vorrebbe favorire di mostrarmeli?

Maurilio, che li aveva presso di sè, fu lesto a porgerli al marchese.
Questi riconobbe al primo colpo d'occhio il rosario di sua sorella, e lo
prese affrettatamente, con mano tremante. Sentì una subita tenerezza
ineffabile invadergli l'anima. Avrebbe voluto portarselo alle labbra e
baciarlo: ma non osò. Ogni suo dubbio a quella vista era dileguato: gli
parve scorgere Aurora medesima uscita dal suo sepolcro e venutagli
innanzi a dirgli: «questo è mio figlio.» Quante preghiere non aveva ella
innalzato al cielo, tenendo quel rosario tra mano! Di quante lagrime non
l'aveva essa bagnato! Sotto la protezione di quel pietoso amuleto, di
quella preziosa reliquia famigliare, aveva ella voluto porre il suo
figliuolo, raccomandandolo alla Divina Consolatrice di tutti gli umani
dolori; ed ecco che quella reliquia appunto riconduceva alla famiglia di
lei quel figliolo cui una barbara malignità aveva voluto sbandire. Si
domandò s'egli non dovesse di subito aprirgli le braccia e dirgli: «tu
se' mio sangue.» Guardò ancora la faccia strana del giovane. Non ostante
la sua emozione, durava nel suo animo verso Maurilio un segreto
sentimento, quasi un istinto, di ripulsione. Si disse che non conveniva
lasciarsi guidare ad un passo irrevocabile dalla commozione d'un
momento, che occorreva prendere una decisione definitiva a sangue più
raffreddo: desiderò parlare ancora e più specialmente di ciò con Don
Venanzio.

— Mi lasci questi oggetti, la prego, diss'egli a Maurilio. Nessuno più
di me, le assicuro, s'interessa nè può interessarsi per Lei e per questi
suoi casi... E di ciò appunto, e di quel che sia da farsi, desidero ora
stesso parlare con Don Venanzio.

Maurilio s'alzò e tolse commiato. Era uscito appena dallo studio del
marchese, che un domestico venne a dirgli come la contessina Virginia
desiderasse parlargli. Il giovane ebbe in pensiero per prima cosa
rifiutarsi d'andare da lei, ma non l'osò: si compresse con una mano il
cuore e seguì il domestico che lo conduceva nel quartiere della nobile
donzella.

Il marchese teneva sempre in mano il rosario di Aurora, e lo guardava
con occhi umidi di pianto; quando Maurilio fu fuor della stanza, egli
non resse più alla piena del suo affetto e baciò quel rosario con
passione.

Don Venanzio sorse di scatto in piedi, tutto commosso.

— Che? esclamò egli. Ella dunque, signor marchese, riconosce questo
contrassegno? Ella forse sa?...

— Tutto. La famiglia del suo protetto è la mia: sua madre fu mia
sorella.

Il vecchio prete alzò le mani tremanti verso il cielo, e con voce piena
d'esultanza, di riconoscenza, di ammirazione, esclamò:

— Divina Provvidenza! Come sono profondi i tuoi disegni! come
imperscrutabili le tue vie!... Tu il figliuolo scacciato l'hai
ricondotto al focolare domestico, oltre l'arrivo del senno umano, e me
hai voluto stromento della tua grazia al miserello. Posso io dunque
cantare il _nunc dimictis_?

— La sua parte non è finita, Don Venanzio, disse il marchese. Le tocca
ancora rassicurare la mia coscienza, dileguare i miei dubbi, illuminare
la mia mente.

Senz'altro più, espose francamente, cordialmente, interamente il più
segreto dei suoi pensieri a questo riguardo e confessò tutte le sue
esitazioni e ripugnanze. Il vecchio sacerdote combattè ogni cosa ad una
ad una: affermò che non ostante i varii errori che riconosceva egli
stesso nei giudizi e nelle opinioni di Maurilio, la mente di costui
elettissima e l'animo nobilissimo lo facevano tuttavia degno della
miglior sorte e del miglior nome del mondo; soggiunse che quand'anche
non fosse così, il dovere della famiglia ond'egli era nato rimaneva pur
sempre il medesimo e bisognava compirlo; certo era meno piacevole lo
aver da accogliere un cotale che aveva sempre vissuto in isfera diversa
da quella che si avrebbe voluto, con idee e costumi affatto diversi,
colla disgrazia d'aver dovuto assaggiare della carcere per delittuosa
imputazione; ma di tutto ciò a chi la colpa? alla famiglia medesima che
lo aveva rigettato e posto in quelle condizioni; e parte dell'ammenda
che ella doveva farne, sarebbe stato eziandio il passar sopra a codesto,
il superare quelle antipatie e quelle ripugnanze. Il marchese era troppo
uno spirito superiore per non comprendere codesto, per volere ad un
individuo fare pagare il fio di risultamenti dovuti alle circostanze ed
al fatto altrui: d'altronde Maurilio, ingiustamente accusato, aveva
visto solennemente proclamata la sua innocenza ed aveva da quella bolgia
infernale dove era stato precipitato, della miseria, della carcere,
della malvagia compagnia, portata fuori un'anima sempre onesta, la qual
cosa era merito maggiore di molto che non quello di chi, favorito da
ogni condizione, non fallì mai.

Un'ora durò il colloquio fra Don Venanzio ed il marchese. Questi che
aveva ad un tratto affacciate in corpo tutte le sue obbiezioni, non le
venne più ripetendo a seconda che il buono ed umile prete di campagna,
coll'impeto della sua eloquenza naturale, rozza anzi, ma efficace, col
calore d'un'anima sempre giovanile ed ardente pel bene, il quale si
crede compire un'opera di apostolato, le andava distruggendo ad una ad
una. Ascoltava e li, il marchese, con mossa che dinotava tutta
l'attenzione prestata al suo interlocutore e la potenza riflessiva
impiegata dalla sua mente; sorreggeva secondo il solito la testa alla
sua mano bianca ed affilata, mentre lo sguardo stava fiso sulla fiamma
che volteggiava nel focolare; di quando in quando frammischiava alle
argomentazioni del parroco un dubbio, un'osservazione, una richiesta,
che erano come un nuovo incentivo al fuoco del discorso del protettore
di Maurilio.

Quando fu trascorsa quell'ora che ho detto, il marchese finalmente si
mosse, tirò giù dal capo la destra e lasciò scorgere la sua nobile
fisionomia colle traccia di alquanta commozione, si alzò in piedi,
drizzando la sua alta e distinta persona e mandò un sospiro che avreste
potuto interpretare come di rassegnazione o come di sollievo.

— Sia fatta la sua volontà, Don Venanzio....

Questi fece un atto come volendo protestare; il marchese s'affrettò a
soggiungere:

— Che credo sia pure quella di Dio. Il figliuolo di mia sorella sarà
accolto in casa mia..... come il figliuolo di mia sorella.

Pose mano al fiocco del cordone che pendeva presso il camino, ed una
scampanellata ferma, risoluta, imperiosa avvisò il cameriere che S. E.
aveva bisogno di lui.

— Dite al segretario si compiaccia di venir qui subito; comandò il
marchese al servo presentatosi sollecito alla porta.

Il cameriere notò l'uso del verbo _compiacersi_, acquistò una maggiore
stima che non avesse per l'innanzi ad un segretario, in favore de! quale
S. E. si serviva di tali termini, e si affrettò verso il quartiere di
Maurilio più rispettoso che non avrebbe mai creduto di dover essere
verso un cotale che egli aveva visto entrare in quella casa in sì poveri
arnesi.

Don Venanzio ed il marchese attendevano con una certa emozione
d'ansietà. Dieci minuti passarono e nessuno venne; il marchese,
impaziente, lasciò trascorrere ancora altri cinque minuti e poi diede
con forza un'altra tirata al cordone del campanello.

Si vide poco dopo fra la portiera dell'uscio la faccia del solito
cameriere; ma questa faccia aveva un'espressione di contrarietà
mortificata, di disappunto, d'imbarazzo che dinotava essere avvenuta
qualche novità che lo turbava.

— E così? domandò asciuttamente il marchese.

— Il segretario non c'è: rispose il cameriere con quell'impaccio nella
parola che aveva nell'espressione del volto.

— Perchè non venire ad avvisarmene subito?

— Volli far cercare più accuratamente di lui e sapere che cosa ne
fosse.....

— Avete fatto male: interruppe con severo accento il padrone; ciò
ch'egli faccia o non faccia non ha da chiamare in nessun modo la vostra
attenzione.

Il cameriere mandò giù il rimprovero con un inchino.

— Appena torni il signor Maurilio, lo si mandi da me.

Il servo non si mosse e fece un atto come chi ha qualche cosa da dire e
non osa.

— Che avete da soggiungere? domandò il marchese, il quale di ciò si
accorse.

— Vorrei dire a S. E. che dubito molto che il signor segretario torni a
palazzo.

Baldissero e Don Venanzio si riscossero e si guardarono in viso
meravigliati.

— Perchè dite voi questo? domandò il primo.

— Perchè il signor Maurilio è partito svestendo gli abiti che qui gli
erano stati dati e riprendendo i suoi logori che aveva deposti, ed il
custode, al quale diede una lettera, mi disse che egli aveva un'aria
talmente stralunata che da lui ad un pazzo ci correva poco.

Nuova e dolorosa meraviglia nel marchese e nel sacerdote.

— Ma gli è forse successo qualche cosa? domandò Baldissero: nessuno
saprebbe dire alcuna cosa che ci guidasse a scoprire la ragione di
questo fatto?

Il cameriere si strinse nelle spalle come uno che non sa niente.

— Voi avete detto che ha lasciato una lettera al custode: disse Don
Venanzio.

— Sì signore.

— E questa lettera?

— L'ho qui. Il signor Maurilio aveva pur detto al custode di non
consegnarla che fra un'ora; ma io ho creduto bene di farmela tuttavia
rimetter subito. È appunto diretta a Lei.

— A me! esclamò Don Venanzio, date, date qui.

La prese con mano premurosa dal domestico che gliela porse, e ne guardò
con sollecitudine la soprascritta; era di mano di Maurilio, ma nel
tracciare i caratteri dell'indirizzo quella mano era così fattamente
agitata che tutta sconvolta era riuscita la scrittura.

— Andate, disse il marchese al servitore che si affrettò ad ubbidire.
Legga, Don Venanzio, soggiunse quando furono soli, e se quello che si
contiene colà dentro crede potermelo comunicare, mi leverà dall'ansiosa
curiosità onde son preso.

Don Venanzio ruppe il suggello, spiegò il foglio con mano che tremava un
pochino, inforcò gli occhiali, e lesse.

«Parto. Dove me ne vada non so. Forse al villaggio dove imparai
primamente a soffrire. Potessi chiudere questa vita nel luogo in cui la
sentii cominciare a pesare su me colla gravezza del dolore!... La mia
sorte, la mia famiglia, il mistero della mia nascita, che m'importa più?
Cessi da indagini che a nulla mi possono giovare. Quando anche fossi
figlio d'un re, che me ne verrebbe oramai?... Mi sento circondato
dappertutto da una tenebra fitta. Vorrei che fossero le ombre della
morte. Le mando un saluto dal cuore... Forse l'ultimo... In questa casa
non posso rimaner più, non debbo... Ho la testa che minaccia di
rompersi... il cuore mi sembra che voglia saltarmi fuori dal petto.....
Non mi stupirei che l'uno e l'altra scoppiassero... Addio.»

— O mio Dio! esclamò il buon sacerdote quando ebbe letto, tutto
sgomento: ma che cosa può essere avvenuto? A quel poverino ha dato di
sicuro volta il cervello.

Ricordò che pochi anni prima una forte scossa morale aveva già ridotto
Maurilio al punto che la sua smarrita ragione lo aveva spinto al
suicidio da cui lo aveva salvo Giovanni Selva; ricordò la grave
pericolosa infermità che di poi lo aveva travagliato, temette anche
questa volta una simile vicenda e pari effetti: senz'altra spiegazione,
come uomo che non ha tempo nessuno d'indugiarsi, prese sollecitamente il
suo cappello a tre punte che aveva posto sopra una seggiola dritto
contro la spalliera, e si mosse per uscire.

— Ma che fu dunque? domandò il marchese con inquieta premura. Non posso
io saper nulla?

Don Venanzio s'arrestò sui due piedi e porse al marchese la dissennata
lettera di Maurilio.

— Legga, legga pure.

Baldissero la prese e lesse avidamente.

— Or dunque, che conta Ella di fare?

— Vado a cercare di quel disgraziato...

— Dove?

— A casa dei suoi amici, dove abitò finora: ma chi sa se ce lo
troverò.... Ah!

Una buona idea eragli venuta. Maurilio aveva scritto che forse si
sarebbe recato al villaggio, correndo giù per la strada che vi
conduceva, chi sa che non si sarebbe potuto raggiungere. Ne disse al
marchese, il quale trovò molto giusta l'idea, e per attuarla meglio pose
a disposizione del buon vecchio prete una sua carrozza. Dieci minuti
dopo Don Venanzio partiva al trotto serrato di due buoni cavalli per
correr dietro al fuggitivo.

Ma che cosa aveva dunque tratto il povero Maurilio a sì subita e pazza
risoluzione?

Che la nobile fanciulla da lui amata gli avrebbe parlato di Francesco
Benda, egli n'era sicuro. Non esisteva altro punto d'attinenza fra lei e
lui, e abbastanza ne lo preveniva l'istinto del proprio cuore. Il suo
amore senza speranza pur si ribellava furibondo al pensiero dell'amore
di quella donna per un altro. Senza speranza! Sì, tale era stato
l'affetto suo fin allora, tale ed anche più doveva essere al presente,
avendo egli acquistato certezza che Francesco Benda aveva ottenuto quel
sommo bene a cui egli non aveva osato pur mai aspirare. Eppure, vedete
stranezza della sua natura, in lui non era così. Ciò che gli accadeva da
due giorni era tanto straordinario che pareva avergli ispirato una
insensata fiducia anche nell'impossibile. In que' sogni matti e
sragionevoli che il bollore della gioventù presenta alla fantasia di
ciascheduno, creando un avvenire meravigliosamente eccezionale che non
si potrà effettuare giammai, ancor egli aveva avute a questo proposito
le sue pazze chimere, di cui poscia amaramente sorrideva e si riprendeva
egli stesso. Aveva sognato poter diventare illustre, grande, celebre,
potente colla forza sola del suo ingegno e del suo valore, e raccolta
una somma ingente di gloria venire a metterla a' piedi dell'adorata
fanciulla, che non avrebbe più potuto stimarlo da meno e respingerlo con
disprezzo. Ma ora ad avvicinarlo a lei, più sollecitamente e più
naturalmente e con maggiore ancora la desiderata efficacia, sembrava
volere adoperarsi la sorte. Tutto quello che gli era capitato, induceva
in lui la certezza di appartenere egli ad una nobile e potente famiglia.
Avrebbe dunque avuto un nome, un grado, un titolo pari a quelli di lei:
essa avrebbe potuto e dovuto trattarlo come eguale, ed egli starle
dinanzi senza umiltà e vergogna di soggezione e d'inferiorità. Nel suo
animo di plebeo che aveva sino allora lottato colla miseria e s'era
trovato oppresso dall'abbiezione del suo stato, entrò ad un tratto un
sentimento d'orgoglio aristocratico, di cui si vergognò poco stante, ma
che pure, anche passando solamente, lasciò in lui una certa traccia, un
effetto inavvertito. Si disse che Virginia di sì nobile casato, di sì
aristocratico sangue, non avrebbe potuto sposare un borghese come
Francesco Benda. Quel pregiudizio delle vane distinzioni di classi
sociali per nascita, che allora era così potente nella nostra società,
quel pregiudizio ch'egli aveva trovato stolto e condannato sempre per lo
addietro, parve a tal punto una verità al suo spirito momentaneamente
traviato. Una fanciulla come Virginia poteva ella amare un uomo a cui
non avrebbe dato la mano? Contraddisse, contestò l'evidenza delle prove
che il suo dolore aveva scorte dell'amore di lei per Francesco: le
interpretò con un quasi volontario errore nella più falsa guisa del
mondo: ed anche quando, riavutosi da quella febbre, potè più giustamente
apprezzare le cose, pure a sua insaputa, alcun che glie ne rimase al
fondo dell'animo di quelle pazze speranze.

Pur tuttavia quando Maurilio, fatto chiamare da Virginia, entrò nel
salottino in cui essa lo attendeva, vi fu con una timidità palpitante
che pareva quasi una ripugnanza. Era un salottino tappezzato di seta
cilestrina, e in mezzo, come un angelo nell'azzurro del cielo, cinta la
fronte d'un'aureola, spiccava la bella figura della ragazza, ornato il
capo del ricco volume dei suoi fulvi capelli. La splendeva come una
visione di paradiso. Maurilio la guardò ratto ed atterrò gli occhi con
paurosa confusione e si sentì tremare nelle più intime fibre. Stette
egli immobile presso la porta e non seppe trovare una parola.

Essa gli si accostò con qualche sollecitudine, colla sicurezza di
persona che non ha la menoma esitanza nè vergogna intorno a ciò che sta
per dire o per fare. Era pallida più dell'usato, gli occhi splendevano
d'una fiamma speciale, v'era un'inquietudine contenuta, una
supplicazione involontaria nella mossa.

— Signore; diss'ella con espressione di non dissimulato, vivissimo
interesse. Che notizie ha Ella del suo amico l'avvocato Benda?

Era la domanda che appunto s'aspettava Maurilio: eppure ad udirla egli
diede in un trasalto come se ad un tratto avesse sentito una punta
figgerglisi in cuore; sollevò ratto le palpebre, e le sue pupille color
del mare incontrarono lo sguardo delle pupille color del mare di lei. Fu
come un urto di due elettricità; e se ne sprigionò una potente scintilla
che variamente li scosse ambidue. Virginia travide un segreto nella
profondità di quell'anima che le aveva balenato dinanzi; le parve di
botto che quella persona non era nuova per essa, nè indifferente al suo
destino; dove l'avesse già vista e quando, quella fronte tormentata, non
sapeva, ma sentì che una qualche indefinibile attinenza correva fra
quello sconosciuto e lei. La sua fierezza avrebbe voluto sdegnarsi
dell'audacia di quello sguardo che sembrava volerle entrare nell'anima,
della temerità di quell'essere a lei di tanto inferiore, che pareva
aversi ad intromettere nella sua vita; ma negli occhi di quell'uomo
eravi pure tanto dolore che non potè a meno di sentirne compassione la
sua generosa anima di donna. Non fu una simpatia, fu una pietà. Il suo
sguardo mostrò ad un punto il risentimento ed il perdono; aveva appena
lampeggiato lo sdegno che già risplendeva caramente in quella leggiadra
pupilla una mitezza divina.

Quello che passava nell'interno del giovane chi lo potrebbe esprimere?
Il suo sguardo acceso avvolgeva, abbracciava con audace potenza la
bellezza fisica di quella nobil fanciulla, e si sforzava di penetrarle
nell'anima, ad abbracciarla del pari; nello stesso tempo supplicava con
ardenza e commozione infinita. Egli sentiva, in presenza di quella
adorata beltà, adergersi la passione, invaderlo, farsi più potente della
sua timidità, d'ogni riserbo, d'ogni riguardo, d'ogni suggerimento della
ragione, d'ogni dettame di convenienza, padroneggiarlo, torgli le redini
della volontà, stimolargli il cervello come una trionfante pazzia. Le
più spropositate idee gli tenzonavano nella testa, le più audaci parole
gli gorgogliavano nella gola; un lieve impulso ancora ed avrebbe
traboccato ed avrebbe prorotto il torrente della sua passione.

Fece uno sforzo supremo per frenarsi. Conveniva parlare. Virginia aveva
sviato da lui lo sguardo e rimaneva immobile attendendo risposta alla
sua domanda. Il povero Maurilio riuscì a pronunziare con voce sorda e
affaticata, le seguenti parole:

— Di Benda non ho notizia alcuna.

Virginia, da quel nome richiamata per intero all'argomento che le
premeva più di tutto al mondo, lo guardò con un'espressione di mite
rimprovero.

— Come! esclamò essa, mentre sì gravi avvenimenti successero e tanto
pericolo minacciò l'esistenza del suo amico e della famiglia di lui,
Ella non ebbe premura di saperne questa mattina le novelle?

La innamorata fanciulla che aveva vegliato in pena tutta la notte, che
aveva con ispavento appreso della rivolta degli operai e de' gravi fatti
che l'avevano accompagnata, che null'altro pensiero più aveva in mente
fuor quello dell'amor suo, considerava quasi per impossibile che in
altri avesse ad essere tanta indifferenza a tal riguardo. Maurilio, alle
ultime parole di lei, ebbe sulle labbra un sorriso amarissimo, onde la
fanciulla provò sdegno insieme, e pena e sgomento. Quel sorriso diceva
che il giovane aveva avuto ben altro a cui pensare, che del ferito e
delle sue sorti poco si curava ed anche peggio, che la ragazza sperando
in lui un aiuto erasi ingannata, che piuttosto avrebbe trovato in esso
un alleato ai nemici del suo amore. Ella si pentì subitamente della
fiducia che aveva creduto poter riporre in quell'essere; si rimutò nelle
sembianze compiutamente, s'allontanò da lui di qualche passo, e
riprendendo tutta la naturale fierezza del suo contegno, disse con
accento severo:

— Mi sono dunque ingannata a crederla un amico del signor Benda?

Per Maurilio quel mutamento fu come se gli si spegnesse subitamente agli
occhi la luce del sole. Tese le mani supplichevole ed esclamò:

— No, no; la non s'è ingannata. Sono un amico, un amico a tutta
prova..... Mi comandi e farò quanto so, quanto posso.....

S'interruppe perchè l'emozione gli faceva gruppo alla gola e non
lasciava più varco alle parole. Virginia stette un momento in silenzio,
come riflettendo, e pareva che il suo spirito fosse corso lontano da
quel luogo, ed ella non badasse più a chi gli stava dinanzi. Dopo un
poco scosse la sua leggiadra testa, s'avvicinò ad un mobile e prese in
mano una lettera che vi stava sopra: si rivolse di nuovo a Maurilio e
parlò con una semplicità affatto naturale.

— Io m'interesso di molto a quella famiglia. La signorina Maria
figliuola del signor Giacomo, fu mia compagna di collegio ed abbiamo
rinnovato pochi giorni fa un'intrinsichezza da amiche.....

Si tacque ad un tratto; si domandò perchè la diceva tutto ciò a
codestui: che aveva ella bisogno di scusare o di spiegare soltanto la
sua condotta? Arrossì alquanto: e dopo un istante riprese con accento
più altero che non fosse prima:

— Ho da mandare questa lettera di condoglianza e di conforto alla mia
amica..... Avevo pensato, poichè credevo ch'Ella si recasse colà, pregar
Lei di recargliela a nome mio.

Maurilio delle parole di Virginia aveva capito poco o nulla; il suo capo
confuso sempre peggio gli tenzonava con maggiore intensità, per poco non
aveva smarrita la giusta percezione delle cose e la coscienza di sè;
viveva come in un sogno, anzi meglio come in un parosismo di febbre,
quando ogni cosa piglia forme e proporzioni diverse e strane, ed ogni
impressione non più governata dalla ragione, si risolve in fantasima di
delirio. Vide una bianca carta nella bianca ed esile mano della
fanciulla; capì che quella carta era pôrta a lui, che egli la doveva
prendere; per che farne non sapeva, non aveva inteso, non voleva pure
intendere. Una ondata di quelle matte speranze che ho detto gli venne al
cervello malato. Pensò ad esclamare in risposta ai detti di lei che non
aveva compresi:

— Virginia, io ho nelle vene un sangue nobile al pari del tuo..... Io,
io sono degno di te.

Si trattenne; di tanto vegliava ancora nel fondo del suo cervello la
ragione da fargli comprendere la sua follia: si disse che non avrebbe
parlato più, perchè aprendo la bocca non era sicuro di frenare la sua
lingua. Tutta la sua timidità sentiva svanire sotto l'influsso d'una
specie d'alito infuocato che gli correva dal petto alla testa; ma mentre
il cervello sobbolliva e il cuore palpitava tremendamente, le membra gli
erano impacciate, irrigidite, come avvinte.

Per prendere quella lettera dalle mani di Virginia, che s'era
allontanata, bisognava varcare lo spazio di poco più d'un metro; erano
due passi, e Maurilio non si sentiva il coraggio e la forza di farli;
parevagli fosse quello un abisso da sorpassare. Esitò, fece uno sforzo e
riuscì ad accostarsi alla fanciulla con piede pesante.

La bellezza della donna ha certi momenti di fascino che, irresistibile,
impossibile ad esprimersi, n'è l'effetto sull'animo dell'uomo. Certe
mosse della donna che amate, senza che ne sappiate il perchè, vi fanno
bollire il sangue; uno sguardo vi caccia il fuoco in tutto l'essere; un
sorriso vi apre il cielo. L'uomo innamorato darebbe la vita, darebbe
tutto al mondo, darebbe l'onore, per potere in que' momenti stringere
fra le sue braccia quella creatura che tanto tumulto eccita in lui, e
soffocarla di baci. I sensi e lo spirito sono in quel punto eccitati ad
un trasporto supremo, ineffabile, divino; tutte le forze dell'essere,
tutte le potenze della mente, tutte le aspirazioni dell'animo si
concentrano in un solo desiderio, che è una sete, che è una rabbia, che
è un delirio. La passione rende l'uomo capace di qualunque eccesso: la
donna che sa il suo potere può in quel punto ottenere dall'uomo tanto
un'opera sublime d'eroismo, quanto il più infernale dei delitti.

Quando Maurilio si trovò ad un passo di distanza dalla bellezza divina
di quella fanciulla, subì uno di quegli influssi, si sentì trasportare
da uno di quei parossismi. Com'era bella davvero quella spigliata,
gentile persona di vergine con tanta grazia nobilmente atteggiata!
Com'erano soavi allo sguardo le pure ed artistiche linee di quella mossa
avvenente che si disegnavano nette sul fondo cilestrino della parete!
Com'era leggiadro quel viso dilicato sul cui pallore un'emozione del
momento aveva chiamato un lieve rossore alle guancie! La bocca
semiaperta pareva respirare con lieve affanno prodotto dalla intensità
d'un affetto; il seno, così voluttuoso nella sua casta bellezza, si
alzava ed abbassava soavemente come l'onda quieta d'un mare benigno; fra
le labbra di sì gentile color rosato spiccava con un effetto cui niuna
parola può riprodurre la candidezza dei denti e pareva uno splendor di
sorriso.

Maurilio le stette innanzi tremante, commosso, agitato, fremente fin
nell'intime fibre dell'esser suo. La sua casta gioventù, le contenute
forze de' suoi sensi gli desiarono con impeto irrefrenabile una tempesta
tremenda nel petto. Tante volte ne' suoi sogni egli aveva quella
fanciulla vagheggiata appunto tal quale! Ed ora se la trovava realmente
dinanzi come l'aveva desiderata, come invocata con tanto trasporto. Era
un sogno anche questo? od era stata una realtà anche quelle altre volte?
Il tumulto e la confusione de' suoi pensieri s'accrescevano; audacie mai
più immaginate gli sommovevano l'animo, desiderii che non sapeva pur
formolare gli salivano su dal cuore in subbuglio e lo soffocavano alla
gola. Perchè non le avrebbe detto ora quelle parole che tante volte
aveva detto all'immagine di lei? Perchè non avvintala alle ginocchia
colle sue braccia e trascinatosi a' suoi piedi come aveva sognato di
fare? La fronte del giovane era circondata d'una fiamma, gli occhi di
lui mandavano lampi; la sua faccia s'era trasfigurata; vi era da
ammirarlo e da averne paura.

Virginia aveva sempre la lettera in mano, la porse quasi con atto
meccanico, e il giovane volle afferrare quella destra. Le loro mani
s'incontrarono: l'urto de' fluidi fu maggiore di quello fosse stato per
mezzo degli sguardi; sussultarono ambedue, ritrassero le destre come se
le avessero abbruciate; Virginia gettò uno sguardo ratto sulla testa di
lui e fu meravigliata ed atterrita di quel fuoco che vi raggirava cupo e
profondo negli occhi. La lettera cadde a terra in mezzo a loro, e
Maurilio si gettò a raccoglierla: rimase così in ginocchio innanzi a
lei, e i suoi panni toccavano lo svolazzo degli abiti ond'era la bella
persona vestita. Passò un minuto secondo in cui s'affollarono nella
mente di lui tutt'a un tratto i pensieri d'amore, i sogni, i delirii di
tanti anni, di tante notti, di tante ore febbrili. Non potè parlare, ma
non era più la timidezza che facesse ostacolo alle parole, era la piena
soverchia dell'affetto, la troppa abbondanza delle cose. Si curvò a
terra come un credente innanzi al suo idolo, abbandona il suo capo sui
piedi della fanciulla e ruppe in singhiozzi, in esclamazioni che
parevano di dolore, in parole soffocate che non avevano senso.

— Che è ciò? domandò Virginia ritraendosi atterrita. Che fa Ella? che
vuole?..... Si alzi.

Maurilio udiva quella voce soave, ma non capiva le parole; la sua
ragione gli sfuggiva sempre più; aveva un tal tumulto nel cervello, che
pareva la pazzia vi combattesse un'aspra battaglia cui fosse per
vincere. Sollevò la faccia tutta bagnata di pianto e guardò la bellezza
di lei con occhio smarrito, splendente d'una luce febbrile. Dove fosse
non sapeva più. I più strani propositi s'affacciavano alla sua mente, ed
egli non li trovava assurdi e indegni di lui medesimo; ma se non li
attuava era solo perchè glie ne mancavano le forze. Levarsi e prendere
fra le sue braccia quella forma adorata di donna e stringerla da
soffocarla; aprire quella finestra da cui veniva la luce grigiastra del
giorno nebbioso, e con lei sul suo cuore precipitarsi e morire insieme;
portarsela come un bambino sul seno e fuggire da quel palazzo, fuggire
dalla città, fuggire, fuggire fin dove occhio d'altr'uomo non la potesse
veder più; dirle: «io t'amo, dammi un bacio» ed uccidersi ai suoi piedi.

Virginia fu spaventata per davvero; pensò suonare per chiamar gente, ma
era lontana dal cordone del campanello; le mani convulse del giovane
l'avevano afferrata ai panni; ella se ne sciolse, e ratta, come una
visione che si dilegua, fuggì della stanza. Maurilio, quando fu solo,
riebbe un po' di calma e gli tornò un po' di ragione. Stette immoto
alcun tempo, inginocchiata come si trovava, facendo girare lentamente
intorno a sè il suo torbido sguardo; fissò per un poco il punto del
tappeto su cui posavano poc'anzi i piedi di lei e parve che ve ne
scorgesse le traccie. Si gettò bocconi a quel luogo e con bocca quasi
rabbiosa baciò, ribaciò, tentò di mordere quella stoffa che a lui pareva
ritenesse l'impronta delle piante dell'adorata fanciulla. Ad un tratto
sollevò il torso e si cacciò le mani entro i capelli con mossa furibonda
di disperazione.

— Che ho fatto? esclamò. Che osai? Che le dissi? Che avrà ella giudicato
di me? Come venirle ancora innanzi agli occhi? La mi farà scacciare dal
suo cospetto pei suoi lacchè..... O mio Dio! O mio Dio!

Si strinse fra le due mani la fronte con tanta forza da farsene male.

— Ella ne ama un altro... Ella mi disprezza.... Ed io stoltamente le
lasciai scorgere nel mio cuore.... Oh fossi morto prima!...

La riazione contro quelle troppo false e troppo audaci speranze che gli
aveva fatte nascere in un momento di follia la sua immaginativa, venne
potente, terribile, da superare ogni altro sentimento, ogni altro
affetto. Delle cose del mondo e di sè nulla più glie ne importava. Che
cosa era ancora per lui il problema del suo destino che stava per essere
sciolto? A che cosa gli avrebbe giovato oramai qualunque più venturosa
ed invidiabile sorte? Era stato un malaccorto ad entrare ospite in quel
palazzo. La prima cosa a farsi ora, era di fuggire; di fuggire prima che
ignominiosamente ne lo scacciassero. Si drizzò in piedi sollecito,
guardando attorno quasi spaventato, come se temesse veder entrare i
servi che dovevano spazzarlo via da quel luogo ch'egli aveva profanato.
Corse nella sua stanza, riprese i suoi poveri vecchi panni, scrisse, per
Don Venanzio la lettera che abbiamo visto, e partì.

Corse per un po' giù della strada, urtando nella gente, urtato da chi
aveva fretta, senza direzione, da null'altro guidato che da un
prepotente bisogno d'allontanarsi, di fuggire. Nel suo cervello
continuava ad agitarsi confusamente un tumulto di pensieri
indescrivibile; il governo delle sue idee, delle sue fantasie sfuggiva
sempre più alla sua volontà. In mezzo a tutto quel subbuglio di
sentimenti e di affetti, non sapeva più districarsi, per così dire, la
sua ragione affievolita. Correva, correva, il cappello in mano, il suo
logoro mantello pendente dalle spalle, la fronte che gli ardeva esposta
alla fredda aria invernale. Tutto ad un tratto si fermò su due piedi e
si guardò attorno con aria attonita, come uomo che si sia smarrito e non
riconosca il luogo ove si trovi. L'impulso che lo cacciava innanzi
pareva cessato di colpo, ed egli si ritrovava senza forza, senza
decisione, senza energia. Nel suo interno quel tumulto tempestoso di
passione che lo tormentava era dato giù improvviso e gli aveva lasciato
un vuoto in cui non sentiva altro più che un indolorimento ed una
stanchezza. Pareva, come accade in qualche furioso temporale alla state,
che il vento, dopo aver soffiato gagliardo e sollevato nembi turbinosi
di polvere ed atterrato alberi e devastate le messi, cessa di botto e
lascia succedere un momento di calma; ma una calma spaventosa in cui
l'aria pesante non lascia avere il rifiato, in cui le nubi nere nere
pare che vi opprimano, ed a cui sapete che fra poco dovrà tener dietro
uno scoppio tremendo della bufera.

Maurilio portò la destra alla fronte e la passò sopra le ossa sporgenti
di essa con lento moto, e si palpò la testa, quasi ad accertarsi ch'egli
la teneva ancora al suo posto. Gli pareva d'esser scemo di cervello, che
tutto fosse svaporato in un attimo e che l'organo del pensiero gli si
fosse distrutto per sempre. Gli venne insieme una matta voglia di ridere
e di piangere su se medesimo; accennò un sogghigno colle labbra e si
rasciugò una lagrima che colava a stento giù delle guancie. Guardava
intorno e vedeva; ma non aveva coscienza esatta di quel che vedesse.
Passava uno di quei Lucchesi che girano il mondo a vendere le figurine
di gesso; gli nacque un gran desiderio di saltargli addosso e romper
tutti i busti e le statuette ch'egli portava sull'asse in equilibrio sul
capo; un piccolo spazzacamino se ne veniva rasente il muro, mandando il
suo monotono e melanconico grido: Maurilio fece un passo per venirgli a
tiro ed afferrarlo alla gola; fu preso dalla tentazione di andare a
strappare una legna accesa dal fuoco del caldarrostaio alla cantonata e
cacciarla in mezzo ai truccioli nella bottega del vicino legnaiuolo per
dilettarsi della vista dell'incendio che ne sarebbe nato. Ma la ragione,
ridotta per così dire all'ultimo confine del suo impero, e prossima ad
essere bandita del tutto, riagì un momento.

— Sciagurato! diss'egli a se medesimo a voce alla, percotendosi quella
fronte sotto cui lottava la sua intelligenza contro le chimere del
delirio: ma sono io dunque per diventar pazzo?

Pazzo! Questa parola, pronunciata da lui medesimo, lo spaventò. Tornò a
suscitarsi subitamente la tempesta nel suo spirito. Riprese la sua corsa
senza meta volontaria; in un attimo si trovò fuori della città sopra una
strada ronchiosa pel fango gelato, la quale si allungava tra i campi e
si perdeva nel nebbioso orizzonte. Corse giù per essa come l'ebreo
errante della leggenda cacciato da una mano misteriosa. Era per fortuna
la strada che conduceva al villaggio di cui era parroco Don Venanzio.

Questi nella carrozza del marchese veniva appunto giù della medesima in
traccia del giovane. Guardava a dritta ed a sinistra il buon vecchio
prete, con ansietà di padre, pregando colla fiducia della sua anima
religiosa, il suo Dio. Ad un tratto si sporse fuori del finestrolo dello
sportello che non ostante il freddo aveva tenuto sempre aperto, e gridò
al cocchiere:

— Fermate, fermate.

Sul ciglio del fosso della strada aveva veduto accoccolato, i gomiti
sulle ginocchia, il capo tra le mani il suo giovane amico. Scese
precipitosamente di carrozza e corse presso quell'individuo che gli era
davvero il povero Maurilio. Lo toccò sopra una spalla e con voce
amorevolissima lo chiamò per nome.

Il giovane alzò il capo e guardò innanzi a sè con aria così smarrita che
Don Venanzio se ne sgomentò di più che se avesse visto su quella faccia
le mostre della maggior disperazione.

— Maurilio, gli disse prendendogli le mani e traendolo a sè per farlo
levare, che fai tu qui? Perchè questa tua fuga? Perchè questo
abbattimento? Ora che il destino ti si volge propizio, vuoi tu mancare a
te stesso, vuoi tu esser da meno della tua novella sorte?

L'infelice seguitò a guardare come uomo che non capisce, che non ha
idee, che non ha volontà; ma si lasciò tirar su dritto in piedi, e
cedette facilmente alla mano che lo traeva verso la carrozza ferma in
mezzo la strada.

— Vieni, vieni meco, gli diceva il vecchio sacerdote, pensando che il
principale era in quel momento scuoterlo dal torpore di quella specie di
letargo e condurselo seco.

Accostò le sue labbra all'orecchio di Maurilio e soggiunse piano, ma con
forza:

— Vieni, la tua famiglia è trovata, e ti aspetta.

Il giovane diede in una scossa, guardò con indefinibile espressione il
volto del parroco ed una luce viva gli lampeggiò negli occhi rianimatisi
ad un tratto. Ma fu un lampo soltanto: curvò nuovamente il capo e
mormorò con accento di rassegnata desolazione:

— È troppo tardi.

Però si lasciò guidare docilmente alla carrozza; ubbidì senza contrasto
alla mano che dolcemente lo spingeva a salire, ed affondatosi in uno
degli angoli lasciò che il cocchio, i cui cavalli erano stati voltati di
nuovo verso la città, lo trasportasse di trotto dove altri voleva.

Don Venanzio, a cui questa strana apatia dava assai pena, cercò di
riscuoternelo.

— Ecchè? diss'egli dopo un poco, tu sei fatto di un subito così
indifferente a quello che fu sinora l'oggetto maggiore de' tuoi
pensieri? Tu non mi chiedi nemmeno chi sia questa famiglia che ti dico
avere scoperto essere la tua e trovarsi pronta ad accoglierti?

Maurilio crollò il capo con quella sua mossa abbandonata, e non rispose.

— Che avvenne egli adunque da rimutarti così compiutamente e ad un
tratto? Perchè mi scrivesti non poter più, non dover più rimanere nella
casa del marchese di Baldissero? — Fece una pausa: e poi soggiunse
lentamente: — In quella casa dove anzi dovresti rimaner sempre?

Il giovane non fece attenzione a queste parole; non le capì e non si
mosse.

— Che mistero è quella tua lettera inaspettata? Che mistero è questo tuo
contegno? Spiegamelo, te ne prego.

Maurilio tornò a crollar la testa, come per indicare che non voleva
rispondere; e si tacque.

La carrozza era già arrivata alle prime case della città. Don Venanzio
avvisò che bisognava affrettarsi a rendere consapevole della verità il
giovane, perchè a momenti si sarebbe giunti a palazzo.

— Or dunque, riprese, che vuoi tu ch'io dica, che posso io dire al
marchese, il quale ti attende per accoglierti come suo sangue?

Questa volta l'effetto fu maggiore di quello che il buon prete si
aspettasse, Maurilio sussultò come se ad un tratto una potente macchina
elettrica lo avesse colpito collo scoppio della sua scintilla.

— Suo sangue! esclamò egli curvandosi verso il prete con occhi che
sprizzavan fiamme e parlando con labbra convulse e con tremula voce.
Sangue del marchese, io!... Forse suo figlio?

Don Venanzio pose amorevolmente la sua destra tepida e morbida sulle
mani ruvide e ghiacciate del giovane.

— Suo figlio no, disse egli lentamente, ma figliuolo di sua sorella.

Maurilio guardò il sacerdote con espressione di spavento.

— Sua sorella?... Che sorella?

— Quella che fu poi la contessa di Castelletto, e in prime nozze fu
moglie di Maurilio Valpetrosa, da Milano, tuo padre.

— Valpetrosa!... Mio padre! ripetè il giovane proprio coll'accento d'un
uomo di cui la ragione vacilla. Si cacciò le mani in capo e stette un
istante raccolto in se stesso come per isforzarsi a dominare le sue
idee.

— Contessa di Castelletto: riprese egli poi dopo un poco, e la sua voce
era sorda, il respiro affannato, stentata la parola: la madre di.... di
Virginia?

Pronunziò questo nome con voce ancora più bassa e ratto come se gli
abbrucciasse le labbra.

— Sì: rispose semplicemente Don Venanzio, che non poteva pure immaginare
le cagioni di tanto turbamento nel suo giovane amico.

— Ed io, domandò Maurilio con maggiore ancora l'emozione, io sono dunque
suo fratello?

— Sicuro!

Il volto dell'infelice divenne in un subito scarlatto, le vene del collo
gli si gonfiarono tanto che parvero prossime a scoppiare; poi di
presente successe un pallore cadaverico su quelle guancie, che
apparirono più immagrite ed incavate di prima; la fiamma degli sguardi
si spense, e mandando un gemito che pareva un rantolo, l'infelice cadde
di nuovo abbandonatamente nell'angolo della carrozza, da cui s'era
staccato in sussulto un momento prima.

Don Venanzio si chinò premurosamente su di lui; Maurilio era svenuto. Il
buon parroco voleva gridare al cocchiere affrettasse la corsa verso il
palazzo; ma vide che allora appunto la carrozza voltava sotto il
portone. Si era giunti.



CAPITOLO X.


Quando Maurilio tornò in se stesso, si trovò in quella camera del
palazzo di Baldissero, ch'egli credeva aver abbandonato per sempre,
disteso su quel letto dove la notte precedente tante chimere di sogni
erano venute a tormentare il suo spirito. Sentì di subito ch'egli
pigliava intiero il possesso di sè medesimo, che tutta e non lesa gli
tornava la ragione. Si ricordò di subito, per prima cosa, della tremenda
novella che lo aveva mandato fuor dei sensi. Avrebbe voluto poter
continuare nello svenimento: quello era almeno l'oblio: avrebbe voluto
ricacciare quella ragione che gli tornava, fosse pur anche ricoverandosi
nel buio e nell'insensibilità del sonno eterno.

La camera era semioscura; in quella dubbia luce Maurilio vide al suo
capezzale seduta una persona le cui chiome candidissime gli dissero
essere Don Venanzio, in fondo al letto un uomo di alta statura, dritto,
immobile che lo guardava. Gli parve che quello fosse il marchese, sentì
anzi come cosa sicura che era lui; ma gli piacque indugiare a
riconoscerlo, volle allontanare il momento in cui si sarebbe venuto alle
spiegazioni; come volendo tornare nel torpore dello svenimento, richiuse
gli occhi e stette immobile, volgendo in sè tutta l'attenzione e quasi
direi lo sguardo interno della sua mente.

La vita fisica non pareva in lui ancora tornata; non si sentiva battere
i polsi e le membra gli erano così lasse, così sottratte all'azione
della volontà che gli pareva, per qualunque sforzo avesse fatto, non
sarebbe riuscito a muovere un dito. La sua anima pareva incatenata in un
corpo morto. Ma ad un punto il suo cuore si mise a palpitare frequente,
quasi con dolorosa violenza. Benchè seguitasse a tener gli occhi
serrati, i presenti s'avvidero che la vita era tornata in lui, perchè un
lieve rossore era salito ai pomelli delle sue guancie, e il petto gli si
sollevava ed abbassava in un respiro alquanto affannoso. A suscitarne
gli spiriti a quel modo era stato un pensiero che improvviso erasi
affacciato alla sua mente.

— E Virginia verrà essa a vedermi? Lo sa ella già ch'io sono suo
fratello? E che dirà, e che le dirò io, vedendola?... Io suo
fratello!... E l'amo!... E l'amo ancora!... E forse l'amerò sempre!...
Oh sciagura!

Sussultò sul letto, aprì gli occhi e si sollevò alquanto della persona
sopra i cuscini. Don Venanzio si drizzò in piedi e gli pose una mano sul
capo a toccargli la fronte; l'uomo dall'alta statura si curvò sopra il
letto a fissare nel giacente uno sguardo pieno di compassione e
d'interesse.

— La crisi è passata, ne sono sicuro, disse il parroco; da parecchi
giorni la sorte non volle risparmiare le emozioni a questo poveretto, ma
ora, coll'aiuto di Dio, spero che tutto sia finito... Non è vero,
Maurilio?

Il giovane ringraziò con uno sguardo l'amorevolezza del suo primo,
vecchio amico, poi volse que' suoi occhi ancora appannati verso l'uomo
dall'alta statura il quale, toltosi da quel luogo, venne lentamente
accostandosi ancor egli al capezzale dall'altra parte del letto. Era
proprio il marchese.

— Sì, Maurilio, diss'egli con voce piena, calma, quasi solenne, tutto è
finito; sono finite le vostre traversie e le vostre disgrazie. Tutto
sarà riparato; ed avrete una sorte degna di voi. Quando saprete ogni
cosa vedrete che a noi il debito della riparazione, a voi quello del
perdono. Don Venanzio vi conterà tutto appena sarete in caso d'ascoltare
la verità.

Il giovane attese un momento, come se esitasse a manifestare il suo
pensiero, o questo pensiero medesimo fosse incerto tuttavia ed
oscillante.

— Signore, diss'egli poi, la verità sono in caso di ascoltarla fin da
questo momento. Da tanto tempo ne vo in traccia e la invoco che
desidero, ora che la mi si affaccia, apprenderla più senza indugio.

Il marchese fece un atto d'acquiescenza.

— Vi lascio liberamente discorrere con Don Venanzio: diss'egli. Voi
potete liberamente interrogare, io posi in grado il nostro buon amico di
liberamente a tutto rispondere. Più tardi verrò io stesso a favellare
con voi, e faremo allora più ampia conoscenza reciproca.

Uscì di stanza dopo queste parole, lasciando soli Don Venanzio e
Maurilio. Il primo che poche ore prima aveva appreso dal marchese la
storia d'Aurora, la ripetè al giovane quale a lui era stata narrata.
Maurilio l'ascoltò con raccolta e profonda attenzione, senza interromper
mai col menomo cenno, colla menoma osservazione, con una domanda
qualunque di spiegazione, senza fare neppure il menomo atto. Lo spirito
del giovane era in una strana ed affatto nuova condizione. Parevagli,
dopo quel momentaneo offuscamento, avere acquistato una lucidità ed una
forza maggiori del solito: e nello stesso tempo, tratto tratto, esso gli
sfuggiva, si sperdeva, sembrava, per così dire, svaporargli e le idee
gli si confondevano, come si facevano incerte le sensazioni e le stesse
impressioni esterne. Egli aveva un'esatta cognizione delle cose, si
rendeva un esatto conto di sè, degli avvenimenti che gli erano successi
e di quelli che gli venivano narrati. Si vedeva colà dov'era, in quella
stanza, disteso su quel letto, e conchiusa l'odissea delle sue
disgrazie; nel pensiero, prendeva, con una facilità onde si meravigliava
egli stesso, il posto che gli spettava, e che ora soltanto scopriva
dovutogli; poi ad un tratto tutto gli pareva pigliare l'incertezza, il
vago, l'inapprensibilità d'un sogno. Era egli bene sveglio, era affatto
in sè mentre udiva svolgersi quel romanzo: ed era egli proprio cui esso
riguardava? E Virginia era sua sorella?.... Qui si scombuiavano di nuovo
tutti i suoi pensieri e sentimenti, e temeva gli sfuggisse nuovamente la
ragione. Don Venanzio aveva finito di raccontare e taceva spiando
attentamente sul volto pallido del giovane le impressioni che in lui
quel racconto aveva deste. Ma tal silenzio ecco riuscir penoso, quasi
sgomentatore per Maurilio, il quale volse per ciò gli occhi verso il
vecchio sacerdote, e gli disse con accento quasi di preghiera:

— Oh parli, mi parli ancora!

Che aveva egli da dire ancora Don Venanzio, il quale aveva tulle
divisatamente ripetute le cose udite dal marchese? Pensò opportuno di
fare al suo protetto un piccolo sermoncino di morale sui nuovi e
maggiori doveri che il suo nuovo stato era per accodargli verso i suoi
simili, verso la società e verso Dio. Se questi aveva dati al giovane
talenti non comuni, gli era perchè se ne servisse a maggior gloria di
Lui da cui tutto dipende, ed a maggior vantaggio dei suoi fratelli; se
aveva voluto che la sua infanzia e parte della giovinezza trascorressero
nella miseria e nell'umiliazione d'un povero stato, era per levargli
ogni superbia di grado, di titoli e di sangue, per renderlo ai mali del
miserabile compassionevole; se ora lo voleva elevato a cospicue
condizioni nella società, glie ne accollava tanti più obblighi di virtù,
di opere, di nobili esempi al mondo.

Maurilio meditava da parte sua, e le parole dell'onesto vecchio
entrandogli nella mente, senza che egli pur l'avvertisse s'intrecciavano
colle riflessioni di lui, e andavano ad allogarsi nel suo cervello.
Quando il sacerdote ebbe finito, il giovane gli tese una mano.

— Grazie, mio buon amico, gli disse con un sorriso pieno d'affetto;
grazie, mio padre..... Sì, Ella sarà pur sempre per me come un amorevol
padre... Se Iddio mi lascia vivere, non sarò indegno della mia sorte.
Vedrà.

La destra di Maurilio ora era divenuta ardente; gli sguardi sfavillavano
stranamente nelle incavate occhiaie.

— Maurilio, figliuol mio: disse con premura Don Venanzio. Ora tu hai
bisogno di calma e di riposo.....

— Sì: interruppe il giovane. Ho bisogno d'esser solo e di meditare.....
Solo colla memoria del mio passato, colle strane venture del presente,
colle lusinghe dell'avvenire; solo colla mia coscienza e Dio... Mi
perdoni se la prego lasciarmi.

Il buon prete accondiscese al desiderio del giovane, lo baciò
paternamente sulla fronte, e s'allontanò raccomandandolo con mentale
preghiera all'Angelo Custode, ispiratore delle sante risoluzioni.

Il primo pensiero di Maurilio, quando fu solo, fu Virginia. Ella era
dunque unita a lui da così stretto vincolo di carne: il medesimo sangue
correva nelle loro vene. Quell'amor suo che prima era una follia, ora si
faceva un empio delitto. Era esso questo amore uno sciagurato
traviamento dell'istinto, di quello che suol chiamarsi la voce del
sangue, che gli additava in quella una persona a lui da natura così
strettamente avvinta? O cielo! Ma egli sentiva che anche ora, conoscendo
la verità, anche in quel momento, la sua fatale passione ruggiva più
forte, più impetuosa, più tremenda che mai nell'animo suo. L'immagine di
quella tanta bellezza stava innanzi alla sua fantasia, più seducente,
più eccitante che non l'avesse ancora vista: e il sangue gli pulsava nel
cuore e nelle tempia.

— Potrei baciarla: si disse, e immaginò non un bacio fraterno, ma un
caldo bacio d'amore al cui pensiero sentì una fiamma di voluttà dolce ed
insieme penosa corrergli per tutte le fibre.

Inorridì.

— Sciagurato! sciagurato! esclamò egli. È figliuola di mia madre.

Secondo suo uso, quando di troppo gli tumultuavano nel cervello le idee,
si serrò colle mani la testa, e temette un istante smarrir di nuovo la
ragione ed i sensi. Ma egli, senza pensarvi, aveva pronunziato un nome
che era quasi un talismano; fu come una involontaria invocazione della
sua anima in angoscia.

— Mia madre! ripetè; ed un desiderio infinito, un'aspirazione
ineffabile, un trasporto di fiducia in tutto l'esser suo venne a
sollevarne lo spirito. Pensò alle apparizioni che nei momenti più
difficili e più solenni della sua vita erano venute a dargli coraggio.
Quella forma aerea che sì benigna veniva a consolarlo, a guidarlo, egli
ne aveva ferma convinzione, era la madre sua; il momento in cui si
trovava non era esso dei più gravi e fatali della sua vita? Perchè non
sarebbe venuta anche ora quella creatura celeste a confortarlo? Egli
serrò le mani in atto di preghiera, con indicibile ardore di desiderio,
con inesprimibile passione, con supremo impulso di fede.

— Spirito mio benigno! disse. Madre mia, non abbandonarmi!

L'apparizione così ardentemente invocata, con tanto desiderio attesa,
non ebbe luogo; ma pure, come se, anche invisibile, quello spirito
amoroso esercitasse un benigno influsso sull'animo travagliato del
giovane, questi sentì una certa calma succedere alla tumultuosa
agitazione di poc'anzi. Le savie parole del parroco che erano penetrate
nella sua mente inavvertite, cominciarono allora a staccarsi, per così
dire, dal ripostiglio cerebrale ove s'erano poste ed a sfilargli innanzi
all'intelletto coll'autorevolezza d'un'ammonizione e colla efficacia
d'un consiglio amichevole. Egli credeva in una intelligenza superiore
ordinatrice degli umani eventi; credeva nella ragionevolezza del
destino, tanto di quello dell'umanità, quanto del proprio. Se in lui
erano state poste quelle forze di volontà e d'ingegno non era perchè
inutilmente le si consumassero in isterili tormenti d'una passione
impossibile. Quella potenza che lo aveva voluto plasmato a quel modo,
dominato da quegli affetti, afflitto da quelle sciagure, aveva di certo
voluto che ad alcuna cosa approdasse tutto questo, che alcun
risultamento da ciò ne riuscisse. Quella stessa infelice ed ora empia
passione, appigliandosi al suo cuore non era destinata forse che a
distruggere in lui per sempre ogni tendenza di femmineo amore, perchè
tutte e soltanto le sue capacità si volgessero a quel còmpito che gli
era assegnato in pro dell'umanità. Una nobile superbia, una generosa
ambizione si levarono allora nell'anima sua. Gli parve sentire
nell'intimo della coscienza una voce che lo assicurasse chiamato
all'importanza d'una efficacissima parte in pro del progresso umano. La
sventura del suo affetto, e la scoperta delle sue nuove condizioni lo
sacravano apostolo operatore di quelle nuove idee che fino allora aveva
solamente vagheggiato nella solitudine delle sue meditazioni. _Sursum
corda_, credette sentirsi a gridare nell'anima da una voce discesa dal
cielo. Il divino entusiasmo del sacrificio gli si accese nel cuore, e
gli salì, per servirmi dell'espressione biblica, come fumo di vin nuovo,
al cervello. Ricordò quello che avevagli detto poc'anzi il marchese, che
avrebbegli procurato una sorte degna di lui. Quale sarebbe stata questa
sorte? Ebbe una subita smania di determinare senza ritardo il suo
destino, di fissare le linee di quella parte ch'egli voleva ed avrebbe
dovuto sostenere. Aveva bisogno di occupare in questa fatta pensieri la
mente perchè non vi si cacciasse di nuovo e dominatrice l'immagine di
Virginia. Saltò giù del letto: era debole e le gambe lo reggevano a
stento: ma la volontà gli tenne luogo di forze. Si vestì e con passo
oscillante scese le scale e venne a presentarsi nell'anticamera
dell'appartamento di _suo zio_ il marchese.

— Annunziate al signor marchese che domando di parlargli senza indugio:
disse al cameriere con accento autorevole ma senza superbia.

Il marchese lo fece introdurre tosto e gli venne incontro sino alla
soglia del suo studio.

— Che imprudenza è questa! gli disse con accento che tentava e riusciva
pure d'esser amorevole, ma in cui però non suonava ancora la vera nota
dell'affetto. Avete già voluto levarvi e scender giù voi medesimo?
Dovevate farmi avvertito e sarei venuto io al capezzale del vostro
letto.

Maurilio non rispose che con un sorriso; pose con discreta freddezza la
sua mano nella destra che gli tendeva il marchese con fredda cortesia, e
se ne lasciò trarre per essa fino presso al focolare, dove sedette sul
seggiolone che il marchese gli additò in prospetto a quello su cui si
pose egli stesso.

Si guardarono un poco senza parlare. La situazione era strana e
difficile per ambedue le parti. Stranieri fino a quel momento di
esistenza, di abitudini, d'opinioni, di tutto; di presente le loro vite
venivano ad intrecciarsi e stavano dinanzi nelle condizioni d'una
intimità necessaria. Erano un problema l'uno all'altro. Qual effetto
nelle vicende della loro vita reciproca avrebbe avuto quel nuovo
elemento che veniva improvviso ad imporsi loro sotto le sembianze di
quel personaggio che ciascuno dei due aveva innanzi a sè? Quella testa
scarmigliata, quelle forme grossolane, quell'aspetto tra timido e
selvaggio, che il marchese esaminava con poca simpatia, erano dunque di
suo nipote? Era dunque verso quell'individuo ch'egli aveva il debito di
riparare tutti i torti della sua famiglia e che da quel punto doveva
incominciare l'opera sua? Non lo avrebbe mai immaginato sotto quella
sembianza; avrebbe più volentieri impreso il suo còmpito, se fosse stato
diverso il suo aspetto. Ma queste le erano puerilità: se lo disse il
marchese a sè medesimo con segreta rampogna ed impazienza de' fatti
suoi.

— Voi avete appreso tutto da Don Venanzio, Maurilio? domandò egli con
voce che pareva fare un leggero sforzo a parlare.

— Signor sì: rispose il giovane levando quel suo capo grosso, così
originale e caratteristico: e vengo a vedere che cosa Ella intende fare
di me.

Le parole e il modo con cui furono pronunziate non piacquero al
marchese. Frenò una mossa superba e quasi disdegnosa che glie ne venne;
e rispose con pacatezza, ma con accento di superiorità:

— Intendo fare di voi un uomo degno della vostra nascita e di noi. E
spero che in quest'opera voi mi ci vorrete con tutte le vostre forze
aiutare.

— Vorrei diventare un utile cittadino al mio paese: disse Maurilio con
quella sua voce sorda e l'accento peritoso che gli erano abituali quando
un sentimento od una passione non lo commovessero.

Baldissero stette alquanto in silenzio guardando sempre il nuovamente
acquistato nipote più con curiosità che con interesse, con una specie di
diffidenza più che con affetto. Ricordò le opinioni democratiche e
rivoluzionarie del giovane, e si domandò se non fosse spediente fargli
capir tosto che le avrebbe dovuto modificare; ma si rispose che il
momento per una simile discussione non era opportuno, che conveniva
lasciare che le condizioni della nuova esistenza, il veder le cose del
mondo da altro punto di mira e sotto altro rispetto, l'influsso del
mutato ambiente in cui si sarebbe trovato, avessero cominciato ad agire
sull'animo suo, come non dubitava che avverrebbe, così che le parole
impiegate a convertirlo di poi trovassero quindi un terreno già
preparato e molto più favorevole. In conseguenza rispose semplicemente
di questa fatta:

— E voi potete diventar tale e lo diverrete di sicuro se l'ingegno che
Dio vi ha dato impiegherete con zelo a conoscere la verità delle cose,
le giuste leggi che reggono le società ben ordinate, i doverosi rapporti
fra chi deve comandare e chi deve obbedire.

Maurilio sollevò la sua ampia fronte, ed un'espressione più risoluta
apparve sui suoi lineamenti e suonò nella sua voce:

— Comandare, diss'egli, deve la legge in cui si incarnino la giustizia e
la verità; ubbidire devono tutti.

Il marchese fece un atto che significava non volere a niun modo in quel
momento entrare in discussione; e successe un'altra pausa di pochi
minuti.

In questo frattempo Baldissero ricordò la promessa che aveva fatto al Re
di condurgli la sera l'autore di quelle pagine che avevano prodotta una
viva impressione in S. M. Si volse di nuovo con una certa vivezza verso
Maurilio.

— Questa sera io dovrei condurvi ad un colloquio, da cui molto può
dipendere il vostro avvenire. Potreste subitamente acquistarvi
un'invidiabile posizione. Si tratta d'un personaggio importante e molto
potente nello Stato, il quale ha letto quel vostro manoscritto
sequestratovi dalla Polizia e concepì desiderio di parlare a viva voce
con voi intorno a qualche argomento che in quelle pagine avete
accennato.

All'udir far parola di quel suo scartafaccio, in cui erano depositati
tutti i segreti non che del suo pensiero e dell'anima, ma dell'esistenza
e del cuore, all'idea che quelle sue espansioni, quelle rivelazioni
erano venute in mano d'estranei, passate da questo a quello, un subito
rossore salì alle guancie del giovane; il marchese che lo vide e
s'accorse come quello fosse segno di viva contrarietà e quasi di sdegno
e vergogna, s'affrettò a soggiungere:

— Ci terrei molto, vi dico in vero, ad attenere la promessa che feci a
quel cospicuo personaggio di presentarvi a lui questa sera medesima;
però il male che vi è sopravvenuto è una valevol ragione a scusarmi se
ci manco. Se dunque la vostra salute non vi consente di rendervi a
questo convegno, ditelo pure ed io ne renderò avvertito quel
personaggio.

Maurilio esitò un momento.

— Scusi, diss'egli poi: non potrei sapere di questo personaggio il nome
od almeno il grado?

Il marchese scosse la testa.

— Va tra' primi dello Stato, rispose: non posso per ora dirvi altro.

Il giovane stette di nuovo un momento sopra sè. Il suo primo pensiero fu
quello di giovarsi appunto del pretesto della sua salute per sottrarsi a
quel misterioso colloquio coll'incognito personaggio; ma poi come una
subita ispirazione lo ammonì ch'ei faceva male, che in codesto era forse
una fase del suo destino che gli si presentava, e che quindi gli
conveniva meglio risolutamente affrontarla.

— Ci andrò: disse con una certa vivacità Maurilio.

— Sta bene; ricordatevi che a quell'uomo innanzi a cui vi troverete
dovete più che rispetto riverenza. Non vi dico di mentire alle vostre
convinzioni, ma discutendo con quel personaggio, sostenendo anche le
vostre idee che da quelle di lui certo dissentiranno, vi raccomando la
moderazione e non solo nelle forme, ma direi eziandio nella sostanza.

Maurilio non rispose; ma fra se stesso andava pensando con molta
curiosità chi sarebbe mai stato quell'uomo. Il marchese continuò:

— Potreste, vi ripeto, guadagnarvi di botto un posto onorifico e
rilevante..... Ad ogni modo, consultate anche le vostre attitudini e le
vostre propensioni, vi troveremo poi un impiego negli uffizi del
Governo.

— Perdoni: interruppe il giovane: ma io non intendo assumere verun
impiego governativo.

Baldissero lo guardò con istupore.

— Non volete voi servire il vostro paese?

— Sì; ma non è l'unico modo di servirlo quello d'imbrancarsi alla
schiera burocratica, e non credo neppure che quel modo sia il migliore.
Voglio rendermi utile più ch'io possa al mio paese, ma rimanendo libero
cittadino.

— Gl'impiegati sono essi schiavi? disse asciuttamente il marchese.

— Hanno un vincolo di più che gli altri. Hanno limitato e definito in
certi limiti, troppo stretti per me, il loro campo d'azione; hanno
esaurita e consumata ogni iniziativa individuale, prima che possano
manifestarla. Sono ruote d'una macchina, necessarie sì quando non
eccedono, ingombratrici e dannose quando ve ne ha troppe, non sono mai
fecondi inventori nè propagatori di verità onde la coltura umana e il
benessere generale s'accrescano.

Il marchese tornò a guardare il giovane con meraviglia.

— Ma che cosa vorreste voi dunque fare? che cosa essere?

— Vo' farmi banditore indipendente di verità al popolo ed al Governo;
voglio promuovere la diffusione del vero e del giusto negli ordini
politici, economici e sociali.

— Maurilio: interruppe il marchese con quella sua voce grave di una
incontestabile imponenza; voi siete giovane e le cose del mondo avete
visto finora traverso una lente sformatrice degli oggetti, quali sono le
proprie sventure. Prima di conchiudere dai vostri studi, prima di farvi
ammaestratore altrui, compite que' primi, allargate la cerchia delle
vostre osservazioni, fate maggior messe di più seria esperienza, e
lasciate maturare ancora meglio il giudizio.

Maurilio s'inchinò leggermente.

— Ella ha ragione: disse con ossequio, ma con una fredda fermezza
insieme che indicava non egli esser mai per lasciarsi smuovere dalle sue
idee. Questo appunto, e non altro desidero ancor io.

Successe un momento di silenzio. Il giovane aveva reclinata la testa,
s'era di nuovo incurvato del corpo secondo la sua abitudine, e teneva
gli occhi fissi sui fiorami del tappeto; il marchese lo guardava con una
curiosità come diffidente, quasi ostile. Cercava egli discernere nel suo
interno quali sentimenti gli ispirasse quell'individuo, e non sapeva
riuscirci. Era insieme un interesse ed un sospetto, quasi una paura;
un'attrazione ed una ripugnanza. Avrebbe voluto poter levare al
riacquistato nipote almeno dieci anni affine di esser in grado di
ridurlo quale egli lo avrebbe desiderato; pensava, anche senza volerlo,
al consiglio di fra' Bonaventura, di dare a quell'individuo una buona
somma e mandarlo nelle più lontane regioni.

— Maurilio, dopo un poco riprese a dire lo zio, converrà che vi faccia
conoscere tutta la vostra famiglia. Quando volete voi essere presentato
ai vostri congiunti?

Maurilio vide passarsi dinanzi la splendida aureola delle chiome d'oro
di Virginia. Sussultò, arrossì, impallidì, ed esclamò con tono che
pareva di sgomento:

— No, no.... non ancora.

Il marchese lo guardò stupito; egli dominò la sua emozione, e soggiunse
più freddamente:

— La mia famiglia sa ella già tutti i miei casi e l'esser mio?

— No: rispose il marchese; ma è mia intenzione apprenderli tosto a chi
si deve.

— Or bene, riprese il giovane con accento di preghiera; se Ella non
dissente, io desidererei, prima di entrare in questa nuova esistenza,
andarmene al villaggio dove fui allevato, passare alcuni giorni di
raccoglimento, di pace, di sovvenire e d'addio al passato. Don Venanzio
parte domani: con suo permesso, io ve lo accompagnerei. Al mio ritorno
prenderei nella famiglia quel posto ch'Ella mi vuole restituito.

Lo zio accondiscese sollecito, e quasi soddisfatto. Avrebbe avuto alcuni
giorni da preparare allo strano avvenimento la moglie, i figliuoli e la
nipote; avrebbe potuto riflettere di meglio sul da farsi, riguardo al
giovane medesimo.

Maurilio non volle quella sera sedersi pel pranzo alla tavola della
famiglia. Salì nella sua camera, dove chiese ed ottenne dallo zio
permesso di rimanervi, finchè lo si sarebbe fatto chiamare per recarsi a
quel misterioso convegno di cui il marchese gli aveva parlato. Non potè
mangiare neppur un boccone; l'eccitamento de' suoi spiriti e de' suoi
nervi era tale che non poteva star fermo, nè arrestar la mente sopra
un'idea. Don Venanzio venne più tardi a fargli compagnia; ma furono
impotenti a calmarlo anche le dolci esortazioni di quel brav'uomo.
Quando un lacchè venne ad avvertirlo che il marchese lo attendeva per
salire in carrozza, Maurilio era in uno stato quasi d'orgasmo che
avrebbe potuto del pari, nel colloquio a cui si recava, produrre questi
due effetti: o togliergli del tutto la libertà della mente e la capacità
di spiegarsi, o dargli un'audacia ed un'eloquenza non ordinaria di
parola.

Zio e nipote salirono in carrozza senza parlare; e in breve furono alla
loro meta; Maurilio scendendo vide che si trovavano sul principio di
quel viale medesimo che conduceva alla fabbrica dei Benda. Entrarono per
un cancello di ferro che loro venne aperto da un uomo avvolto in un
ferraiuolo, e preceduti da quest'uomo, che evidentemente li stava
aspettando, furono introdotti in una camera a pian terreno d'una
palazzina posta al di sotto di uno dei bastioni del giardino reale,
palazzina che Maurilio sapeva essere stata comprata da poco tempo dal
Re.

Furono lasciati soli in quella stanza modestamente arredata, parcamente
illuminata da una lampada colla ventola, ma acconciamente riscaldata. Vi
era tanto silenzio tutt'intorno che pareva proprio d'essere all'infuori
della vita chiassosa d'una gran città. Il solo rumore che s'udiva era il
_tic tac_ d'un grande orologio posto sulla caminiera.

Pochi momenti passarono, e nessuno dei due venuti pensò pure a rompere
quell'alto silenzio. Poi una tenda di panno verde che pendeva ad una
porta si sollevò da una parte, e comparve un uomo che, quantunque
vestito da borghese, aveva l'aspetto soldatesco.

— Marchese, disse costui parlando piano come per rispettare ancor egli
quel silenzio; si compiaccia venir qua un momento.

— Attendetemi qui: disse il marchese a Maurilio, e passando sotto la
tenda, entrò nella stanza vicina coll'uomo che era venuto a chiamarlo.

— Dove son io? Pensò Maurilio rimasto solo e guardandosi intorno come
per cercare alcuna cosa che rispondesse alla fattagli domanda. Chi è che
mi vuol parlare? Innanzi a cui mi troverò io fra poco?

Una idea che gli parve matta venne ad affacciarsi alla sua mente. Quella
casa era proprietà del Re; se questo medesimo fosse l'alto personaggio
che voleva interrogarlo? Sentì una specie di brivido corrergli per le
vene, tremò, ebbe paura, e pensò un momento cercar di fuggire: ma poi
tosto dopo un sentimento di riazione ebbe luogo in lui. Oh! se pur
fosse! Se in faccia all'incarnazione più spiccata dell'ordine politico e
sociale, alla rappresentazione più valida e suprema del potere e
dell'autorità umana egli si trovasse e potesse parlare a tu per tu e
dire la verità delle cose, i sentimenti delle masse, i bisogni della
plebe!..... Ma egli ci avrebbe valuto? Sentì un impulso d'orgoglio e di
temerità in quel sovreccitamento che non l'aveva ancora abbandonato, e
si affermò che, se non la capacità di fare presso Carlo Alberto la parte
del marchese di Posa di Schiller, il coraggio egli l'avrebbe avuto di
certo.

Scosse ad un punto le spalle e sorrise di se medesimo. Gli parevano
queste chimere assurde. Si accostò senza volerlo a quella tenda verde
dietro a cui era sparito il marchese: udì appena il susurro di voci che
parlavan sommesso. Passeggiò in lungo ed in largo sopra il morbido
tappeto che ammortiva il suono de' suoi passi. Andò poscia a sedersi
presso il camino dove fiammeggiava un gran fuoco, si prese colle mani la
testa e stette ad aspettare con una specie d'ansietà che gli faceva
battere il cuore e sembrar lunghi i minuti.

Un quarto d'ora o poco più era passato, quando la tenda si sollevò di
nuovo e tornò in quella camera il marchese.

— Passate di là, diss'egli a Maurilio. Il signore che vuol parlarvi vi
aspetta. Rispondete alle sue interrogazioni con franchezza, ma pesate
bene le vostre parole. Quando vi si darà il congedo, mi ritroverete in
questa sala.

Maurilio sentì più forte il batter del cuore, camminò quasi barcollando
verso la porta, e spinto dal marchese entrò nella camera vicina; l'uscio
si richiuse dietro di lui.

Era una camera vasta quanto la precedente, riscaldata del pari, ma
ancora più modesta a giudicarne da quel poco che si vedeva, perchè la
era ancora più scura. In fondo era una tavola abbastanza grande, coperta
da un tappeto verde di panno finissimo e sopravi una lampada colla
ventola ancor essa sul globo di cristallo. Questa lampada era stata
calata giù dal suo piedistallo perchè il cerchio di luce che mandava
all'intorno fosse meno ampio e tutto si contenesse sulla superficie
della tavola. Sopra il tappeto di questa vedevansi alcune carte
ripiegate per lo lungo e un gran portafogli su cui impresso in oro uno
stemma reale.

Seduto colà, con un gomito appoggiato alla tavola e il mento nel concavo
della mano, stava un uomo che appariva di alta statura. Aveva la faccia
nell'ombra e i lineamenti non si potevano discernere; ma scorgevasi una
vasta fronte e un viso lungo e pallidissimo. I raggi della lampada
cadevano di pieno sulla mano sinistra ch'egli teneva chiusa a pugno sul
tappeto e la facevano vedere magra, color di cera, ossea, eppure
elegante.

Maurilio s'era fermato sulla soglia, esitante, con un impaccio timoroso.

— S'avanzi: disse una voce sorda ma con accento gentile ed
incoraggiativo: s'avanzi e sieda costì.

Quella mano chiusa a pugno che posava sulla tavola, si aprì, e con mossa
piena di garbo accennò ad una seggiola posta a due passi da quella su
cui stava chi aveva parlato.

Il giovane s'avanzò lentamente fino a mettere la destra sulla spalliera
della seggiola che gli era stata additata, e il suo sguardo cercava
intanto penetrare nell'ombra a discernere i lineamenti di quello per lui
sconosciuto personaggio. Da quello scuriccio vedeva egli due occhi
fissi, con certa espressione d'autorevolezza venire indagando eziandio
il volto di lui che s'avanzava; e siccome anche questo volto trovavasi
nell'ombra, ecco la mano, che aveva fatto invito a Maurilio di sedere,
urtare nella ventola e farla piegare così che un fascio di raggi, di
colpo, battesse sulla figura del nuovo venuto. Il giovane chiuse gli
occhi come abbacinato, e sentendo sopra sè lo sguardo scrutatore di
quell'incognito, arrossì. Fu un momento, il coprilume tornò a posto e
quella voce grave e sommessa che aveva già parlato, disse di nuovo:

— Sieda, signor Valpetrosa.

Maurilio sussultò. Era la prima volta che gli veniva dato quel nome: e
senza sapere chi fosse che ora l'aveva pronunziato, parvegli che
dall'autorevolezza di quell'accento le sue nuove condizioni ricevessero
una più decisa ricognizione, una specie di consecrazione.

— Ella dunque sa il mio vero nome? diss'egli sedendo ed affondando
sempre in quell'ombra, oltre il cerchio di luce, il suo sguardo
curiosamente intentivo.

— Il marchese mi disse tutto testè: rispose con dignitosa semplicità lo
sconosciuto. Ciò le provi quanta fiducia abbia in me il suo zio e mi
faccia ritenere non indegno anche della sua.

Gli occhi di Maurilio cominciavano a penetrare la oscurità in cui le
fattezze di quel personaggio si riparavano; vide a queste ultime parole
sulle labbra di chi le aveva dette un sorriso che gli parve enimmatico:
potè discernere due guancie pallide e scarne con pomelli sporgenti sotto
le occhiaie affondate, due folti baffi nerissimi sopra una bocca larga,
sottile, d'una fredda e mesta espressione. L'idea, il sospetto, la paura
che gli si erano affacciati poco prima nella stanza vicina tornarono in
lui più forti. Quella figura non era essa quella del Re, cui pochi
giorni prima, la sera del ballo all'_Accademia Filarmonica_, egli aveva
visto sullo scalone di quel palazzo passargli a pochi passi di distanza
in tutta la pompa del suo grado? Volle rispondere alcune parole, e non
ne trovò punto; non seppe che inchinarsi, e frattanto pensava: «che mi
dirà egli? e che gli dirò io?»

Il Re da parte sua aveva ravvisato in quel giovane una figura che già
gli era venuta dinanzi altra volta. Egli vedeva passare sotto ai suoi
occhi tanti e tanti de' suoi sudditi, che il dove e il come avesse visto
costui non seppe trovare di subito nella sua memoria: ma quell'incontro
era stato così speciale e nella sua semplicità così inaspettato e
straordinario che non tardò a venirgli a mente. Rivide lo scalone adorno
ed illuminato, i fiori, le piante e fra queste la faccia curiosa,
esaminatrice, quasi interrogativa di quel giovane popolano. Alla sua
indole molto inchinevole alle mistiche ubbie, parve questa, più che
un'opera del caso, quasi un incontro preparatogli dalla Provvidenza,
forse per dargliene appunto aiuti al compimento della sua missione di
re.

Successe un silenzio. Carlo Alberto si passava lentamente sulla fronte
quella mano con cui prima sosteneva il suo volto; Maurilio, convinto
sempre più che quello fosse il suo Re innanzi a cui si trovava, sentiva
accrescersi l'interno suo turbamento, ma in mezzo al medesimo
l'eccitazione de' suoi nervi, aiutata dalla volontà, faceva spuntare ed
afforzava l'ardimento.

Carlo Alberto s'era ritratto alquanto dalla tavola, appoggiando il dorso
alla spalliera, e la sua faccia trovavasi quindi ancora più nell'ombra:
seguitava a tacere e i suoi occhi scrutavano sempre la fisionomia di
quell'individuo ch'egli stesso aveva voluto gli fosse condotto dinanzi.
Quel volto solcato da rughe troppo precoci, quella fronte intelligente,
ma per così dire tormentata, quello sguardo timoroso ed audace, sommesso
insieme e pure potente non gli piacevano, ma tuttavia gl'ispiravano una
certa curiosità benevola. Aveva tante volte immaginato potersi trovare a
tu per tu col suo popolo senza intermediari e sentirne la voce vera; ed
ora che gli pareva questo popolo gli stesse appunto davanti incarnato in
quell'individuo che aveva sofferto colla parte più misera di esso, non
sapeva come prendersela, quali interrogazioni muovergli, che cosa
volerne. Era come una fattucchiera novizia che ha evocato la prima volta
uno spirito e non sa più che farsene quando esso è comparso: egli aveva
evocato il genio delle nuove idee liberali, lo spirito delle teorie
democratiche le quali venivano ad accamparsi contro la monarchia quale
il passato l'aveva fatta, ed egli, il rappresentante di questa
monarchia, che pure in uno slancio di ambizione e diciamo anche di
generosità giovanile, aveva combattuta, egli si peritava a domandare il
motto di quella sfinge popolare di cui avrebbe pur voluto essere
l'Edipo.

— La sua vita sinora fu molto fortunosa: così cominciò il Re a parlare
dopo un poco; e la Provvidenza le darà certamente compenso in avvenire
dei travagli passati, i quali mi pare avranno a riuscire non infruttuosi
nè per Lei medesima, nè per la società, se quelle traversie hanno volto
il suo intelletto allo studio di gravi quistioni, ed hanno arricchito
d'esperienza la sua mente.

Carlo Alberto si tacque; Maurilio non aprì labbro nè fece pure una
mossa.

— Ho letto alcune pagine di quel suo scritto in cui con molto.... (esitò
come per cercare una parola acconcia che non gli veniva alle labbra) con
molto ardimento Ella affronta i più ponderosi quesiti ch'io creda
esistere intorno alle sorti delle società umane.

Allungò la destra e, preso il portafogli, ne trasse fuori lo
scartafaccio di Maurilio, il quale, nel vederlo, arrossì fino alle
orecchie.

Il Re continuava:

— Ma crede Ella che le soluzioni da Lei proposte, i rimedi da Lei messi
innanzi sieno valevoli a far cessare il male? La sua formola suprema,
s'io l'ho ben capita è la seguente: migliorare lo stato morale e
materiale dei poveri.

Maurilio chinò il capo per esprimere che quello precisamente era il suo
concetto.

— Ma questo è l'intendimento e il desiderio di tutti: ed è l'opera che
proseguono, con prudenza e secondo le circostanze consentono, i
legittimi governi. La democrazia a cui Ella fa appello col suo
ingannevole motto di _libertà_, parola elastica, mal definita sempre e
non definibile, appunto perchè traduce un concetto non esatto o non
acconcio alla natura umana; la democrazia, dalle leggi agrarie dei
Gracchi all'infame terrore della rivoluzione di Francia, non ha mai
potuto far nulla in pro appunto di quelle classi che più sono degne
d'interessamento e più hanno bisogno di soccorso. Il male pur troppo è
una fatalità della esistenza terrena tanto nell'individuo come nelle
agglomerazioni sociali, e per queste si traduce nella miseria di parte
dei loro componenti. Rimedio assoluto non c'è e non ci può essere;
qualche temperamento possono arrecarlo soltanto due virtù che c'insegna
la nostra santa fede; la carità e la rassegnazione.

Il Re s'interruppe di nuovo. Tornò ad appoggiare la fronte alla mano e
stette colle pupille immobili che con isguardo vago si fissavano
nell'ombra, come se vi cercasse ancora idee e parole che più non gli si
presentavano.

Maurilio aspettò un istante; ma poi capì che a lui ora toccava parlare.
Chiamò a rassegna i suoi pensieri e sentì con ispavento che invece di
accorrere fuggivano dalla sua chiama: sentì vuoto, come arido il
cervello, si turbò forte, maledisse la sua timidezza, fece uno sforzo
violento di volontà che gli raccolse il sangue nel capo e gli suscitò
nel cervello un turbinio vertiginoso, aprì le labbra e non ne uscì suono
veruno, volle cominciare a parlare e non sapeva che cosa avesse da dire,
non riuscì che a balbettare con voce tremola e soffocata:

— Maestà....

Carlo Alberto si riscosse vivamente; si tirò indietro della persona con
rapida mossa, come se un subito pericolo gli fosse sorto dinanzi ed egli
volesse ripararsene nell'ombra; i suoi occhi dalla luce semispenta e
dallo sguardo vago, acquistarono di botto una vivacità concentrata ed
una fissità imponente; la sua destra si posò sul bracciuolo del
seggiolone ov'egli sedeva, con atto di superba autorevolezza.

— Ella dunque mi ha riconosciuto?

Maurilio aveva chinato gli occhi, quasi pauroso d'essere abbacinato dai
raggi di quel Giove che rivelava la sua divinità; ma in quella voce che
gli aveva ora parlato c'era tale un sentimento affatto umano di stupore
senza sdegno, di contrarietà senza minaccia, ch'egli risollevò lo
sguardo su quel volto pallido che gli traspariva nell'ombra mandata
intorno dal coprilume. Il nume terreno non era nè abbagliante, nè
terribile: sulla fronte portava le rughe incavate dai dolori dell'uomo;
negli angoli della bocca stavano le pieghe che vi disegnano i dubbii, i
sospetti, i timori d'un'anima travagliata.

— Toltogli il manto e la corona di re, pensò Maurilio, è un uomo al pari
di me. Posso, devo parlargli come uomo ad uomo.

— Sire, diss'egli allora, senza cortigianeria, ma con rispettoso
ossequio: crede Ella che gli sguardi di tutto un popolo non si volgano
desiosi verso colui che rappresenta ai suoi occhi tutta l'autorità della
legge, tutto il potere di fare il suo bene e il suo male? Quando egli
passa in mezzo alle turbe frequenti nella pompa del suo corteo, come una
visione di splendore, come un Nume che traversa la terra all'infuori e
al di sopra delle miserie comuni, tutti gli animi come tutti gli sguardi
si volgono a lui con muta invocazione. Sono migliaia e migliaia di petti
che domandano, che sperano, che anelano da quell'essere superiore e
dominante la felicità od almanco il sollievo delle loro sventure.

— E domandano l'impossibile: proruppe con qualche vivezza il Re. Che
possiamo far noi? In quanti ostacoli non s'urtano le nostre migliori
volontà!... Aimè! Più facilmente si può fare il male che il bene.

— Sì, è vero, domandano l'impossibile: riprese Maurilio, a cui
l'ardimento e le parole venivano; perchè non è e non può essere nel
potere arbitrario d'un uomo cambiare ad un tratto le condizioni onde chi
si lamenta riesce infelice: questo è il fatto delle istituzioni, delle
leggi e de' costumi..... Ma quell'uomo che Iddio ha posto al di sopra
degli altri ha molto maggiore influsso nella sua azione per modificare
quegli elementi. Quindi l'istinto popolare, aiutato dalle tradizioni
monarchiche del nostro paese, il quale venne composto, plasmato, direi
quasi, dall'operosità e dalla forza di volere dei duchi della Casa di V.
M., non ha torto a rivolgersi con sì accese speranze e con sì sollecita
aspettazione a quella Reggia onde tutto finora si mosse il progresso
civile nel paese. Io stesso, quante aspirazioni e quanti voti non
rivolsi al monarcato ed al monarca! E benedico la fortuna che me, umile
e nullo fra i cittadini, volle porre in presenza di chi tiene in pugno
la parte maggiore dei nostri destini.

Carlo Alberto guardò per un momento in silenzio quell'individuo che ad
un tratto aveva acquistato tanta audacia di parola.

— Ella dunque, disse poi, è disposta a dire al monarcato ed al monarca
tutto il suo pensiero?

Maurilio s'inchinò in segno d'assentimento.

— A svolgere il commento delle idee che ha espresso in queste pagine:
continuò il Re battendo una mano sul manoscritto di Maurilio; ad
adombrare la pratica attuazione delle sue teorie?

— Sì Maestà, se così vuole.

— Voglio.... E desidero anzi ch'Ella parlando al monarcato oblii il
monarca e non veda che un uomo desioso di conoscere esattamente il
pensiero di quella democrazia di cui Ella ha abbracciata la causa.

Maurilio si raccolse un momento. Quel tumulto che aveva nel capo si
convertiva in un sobbollimento di idee che gli si accalcavano ad un
tratto e facevano ressa nel suo cervello: colla contenzione della
volontà mise ordine a quella confusione, e dopo un poco, sentita con suo
gran piacere diventare lucida la mente, cominciò a parlare, e si
espresse con un'eleganza, con un'eloquenza, con una chiarezza dalle
quali questa povera prosa è ben lungi pur troppo.

— Sì, il male è la condizione inesorabile della esistenza umana, ma non
così che sia fatalmente irrimediabile. Dal male l'umanità deve camminare
e cammina verso il bene: e l'opera più santa dell'ingegno, della
volontà, della potenza dell'uomo è quella che concorre a redimere da
siffatta tirannia del male la nostra grande famiglia. È questo il gran
lavoro della democrazia; anzi la democrazia bene intesa non è che il
risultamento, l'effettuarsi negli ordini politici, sociali e civili di
quella successiva miglioria delle umane condizioni, come la libertà è
l'ambiente necessario, senza cui quest'opera non può approdare. Nè la
democrazia va confusa colle temerità comunistiche o cogli eccessi
rivoluzionari, chè questi e quelle non sono di lei essenza, anzi il più
spesso ne sono la negazione, e saltan fuori sempre per riagire contro la
soverchia compressione di quegli interessi che, avendo il potere e
vivendo dell'uso ed abuso delle istituzioni del passato, impediscono con
tenace resistenza ogni rinnovamento, ogni miglioria. Il male terreno —
come tutte le cose umane — ha in sè una gran parte di relativo. Perfino
nella morale, intorno a qualche punto che forse s'impone assolutamente
allo spirito dell'uomo, ondeggia una quantità di precetti e di principii
che noi, a seconda del minore o maggiore sviluppo acquistato dal senso
morale, o vediamo, o travediamo o non vediamo. Peggio è nelle
istituzioni politiche e sociali. Il meno male di ieri è il male d'oggi,
quello che è un vantaggio pel presente sarà un danno o un inciampo da
torsi nell'avvenire. Codeste istituzioni sono alla società come gli
abiti ad una persona che cresce: a misura che il suo corpo si
ingrandisce le vesti diventano impacciose e non gli si adattan più, e se
si continua a portarle si strappano, e conviene assolutamente rimutarle.
Ora l'umanità è una gran persona che intellettualmente e moralmente
cresce sempre e si sviluppa all'indefinito. Ecco il perchè di questa
continua irriquietudine dei popoli che non possono lungamente stare
immobili, costretti in una forma, la quale da principio loro si
confaceva, e poi a poco a poco è divenuta e diviene loro sempre più
disadatta.

— Il lavoro dell'umanità, disse allora il Re col suo indefinibile
sorriso, è adunque nient'altro che un'interminabile tela di Penelope.

— No: riprese con vivacità Maurilio a cui la tensione della mente aveva
tolto oramai ogni timidezza: no, perchè l'umanità non cessa mai, è vero,
dal suo lavoro, ma pure non distrugge nè rende inutile quello del
passato, nè se la prende da capo per rifarlo. Qualche cosa rimane sempre
di acquistato al patrimonio umano, e sulle costruzioni delle epoche
trascorse ogni epoca nuova viene ad aggiungere la sua per innalzare
l'edificio della civiltà. È nè più nè meno che un'imitazione dell'opera
della natura, è un necessario uniformarsi ad una legge universale di
progresso che regola tutto l'universo. Anche la natura sembra aggirarsi
in una vana e inconcludente ripetizione de' suoi fenomeni: la notte
succede al giorno e il giorno succede alla notte, come la state al
verno; ma frattanto con progresso, che a noi meschine creature
limitatissime nel tempo torna d'incalcolabile lentezza, ma che forse in
realtà è più rapido che non possiamo immaginare, viene scambiando la sua
veste esteriore, la forma estrinseca del mondo, o, dirò meglio, dei
mondi, di epoca geologica in epoca geologica, attuando un sempre
diverso, e forse non è sacrilegio il dire un sempre più perfetto
pensiero del Creatore. V. M. non ha bisogno ch'io le citi a rincalzo del
mio argomento la storia per quanto riguarda le istituzioni umane. Dalla
caduta dell'Impero romano soltanto, per quante forme non è passato il
vivere civile dei popoli! Il feudalismo, poi i Comuni, poi i principati,
poi le grandi monarchie di cui l'ultima espressione fu il temerario
sogno di dominazione universale del Buonaparte. Sotto di lui cadde
definitivamente l'antico diritto della forza ch'egli aveva voluto
ristaurare valendosi della democrazia, la quale s'intromise nel mondo
colla rivoluzione francese. Questa democrazia era pure già apparsa alle
menti più acute di alcuni grandi uomini nei secoli precedenti:
inavvertita in gran parte e non conosciuta, aveva ispirato gli scritti
dei filosofi del secolo XVIII; ed anzi già aveva parlato colle utopie di
qualche ingegno bizzarro che antiveniva i tempi, coll'audace spirito
d'esame di Descartes, colle speculazioni di Leibnitz; aveva preparatosi
il terreno colle tenebrose, in gran parte folli, ma in parte pur
generose mene delle sêtte degl'illuminati e dei frammassoni; ma il suo
primo penetrare nella realtà della vita, il suo passaggio nell'ordine
dei fatti avvenne colla iperbolica e forse anco puerile dichiarazione
dei diritti dell'uomo nella rivoluzione francese, si vestì di formola
concreta nella sublime iscrizione di quella fatale repubblica: _libertà,
fraternità, uguaglianza_. Questa formola è il riassunto fatto dal secolo
progredito dello spirito del Vangelo: è la legge ed i profeti della
democrazia.

«Ora l'attuarsi di questa democrazia, l'applicazione di questa formola
ai fatti è l'opera che prepara il nostro secolo e che vedrà compiuta il
venturo. Benemerito e benedetto da Dio e dagli uomini chi ci concorre e
l'aiuta!...

S'interruppe come per prender fiato. Carlo Alberto, dall'ombra che
gettava sulla sua fronte il coprilume, guardava fisamente la faccia che
s'era animata, gli occhi che erano diventati brillanti del giovane
plebeo. Era esso affatto nuovo cotal linguaggio a quelle orecchie di re?
Certo che sì; ma forse non erano affatto nuove le idee che esprimeva.
Forse nelle sue taciturne e solitarie meditazioni, vaghe forme di simili
pensieri s'erano presentate alla sua mente curiosa ed inquieta, alla sua
anima avida di fama, al suo spirito non salvo dall'influsso delle idee
moderne. Egli era nato in quell'epoca appunto che simili principii
facevano una sì violenta irruzione nel mondo antico della monarchia del
privilegio e lo mandavano a catafascio; sua madre l'aveva portato in
collo in mezzo alle turbe del popolo che si scuoteva al suono di quei
tre motti meravigliosi ora ricordati da Maurilio: _libertà, fraternità,
uguaglianza_, e li leggeva ad occhi larghi sulle cantonate senza pur
capirli; non solamente un'ambizione di trono l'aveva spinto nel 1821 a
farsi fautore d'un movimento che chiedeva al trono franchigie di vita
politica e indipendenza dallo straniero. Le convinzioni leali e profonde
d'un'anima generosa hanno pur sempre, quando si manifestano,
un'efficacia, un fascino su chi le ode; e l'animo del re, non alieno
alla nobile passione d'una fede, di una calda adesione ad un principio,
non era avvezzo a sentire intorno a sè l'eloquente linguaggio d'uno
spirito convinto, d'una strenua credenza. Provò per quell'audacia di
parola che gli spiegava dinanzi i sogni d'una giovanile esaltazione, una
strana simpatia. Fece un lieve atto che indicava avrebbe egli parlato e
disse con voce contenuta, quasi sorda, ma che pur non mancava d'una
certa armonia:

— Ma come avrebbe ella da tradursi in atto questa democrazia, di cui
Ella mi vanta le glorie, la giustizia e la necessità? Colla libertà dei
popoli; ma l'uomo è egli abbastanza progredito — ammettendo l'idea del
progresso — per poter godere di questa libertà senza abusarne? Date
libertà ai tristi, e se ne serviranno per far male. Ora, volendo pur
anco credere con Lei che il male viene via scemando, siamo noi già in
tal buona condizione che la maggioranza degli uomini non sia di tristi e
di ignoranti facili a traviarsi? Diamo libertà a codestoro, e quali ne
saranno gli effetti? Per venire all'applicazione d'un caso concreto,
supponiamo che la Monarchia del Regno di Sardegna voglia modificare, o
temperare il suo potere assoluto che ricevette dai secoli precedenti,
crede Ella che i nostri popoli sieno abbastanza maturi per godere con
vantaggio di politiche franchigie, di una diretta intromissione nella
pubblica bisogna?

Maurilio interruppe con una vivezza che un cortigiano avrebbe trovata
supremamente contraria all'etichetta.

— Maturi! maturi! Ma come si farà a decidere che un popolo è oramai
maturo alle pubbliche libertà, se mai non gli si concede di fruirne. È
lo esercizio delle medesime che deve maturarlo. D'altronde questo è un
diritto sacrosanto dei popoli cui nulla può sospendere, e meno ancora
togliere.

Il Re fece un movimento, ma il giovane non se ne accorse.

— La società, sotto il rispetto degl'interessi politici, deve ai suoi
membri, non solamente l'indipendenza all'estero e la sicurezza
all'interno, ma deve loro i mezzi di esplicazione d'ogni loro sentimento
e capacità, deve permettere lo sviluppo in tutti i sensi della
personalità individuale. Ora la parte politica è ella così poca cosa
perchè si possa impunemente tagliar via dall'esistenza d'un individuo
che ha diritto e dovere d'essere un cittadino nella sua patria? Per
sapere amar questa a dovere, bisogna prendere una parte diretta agli
affari del proprio paese. Interdire al popolo la vita politica, è un
chiuderlo nella stretta cerchia dei bassi godimenti e delle
preoccupazioni materiali; è un corromperlo e degradarlo.

— Che dice Ella mai? esclamò il Re con qualche maggior vibrazione
d'accento. Il mio Governo sarebbe corruttore e degradatore?

— Si sforza a tutto potere di non esser tale, e si trova in una
contraddizione che lo fa cader nell'assurdo. Più logica l'Austria,
manifestamente favorisce la mollezza e direi anzi la scostumatezza dei
suoi soggetti.

— Far partecipare al Governo il popolo! ma la è una utopia. Dove si
vogliono impiantare delle Costituzioni liberali si crea una finzione: si
costituisce quello che si chiama un paese legale, una strana oligarchia
di elettori che col vero paese ha meno rapporti e meno compartecipazione
d'interessi e di pensieri di quello che non abbia la monarchia qual è
ora costituita.

— Vostra Maestà ha ragione; ma quelle forme costituzionali, anche come
finzione, sono una guarentigia. E codesto che cosa prova? Che le libertà
politiche devono essere le più ampie possibili; e inoltre che anche
essendo tali non bastano ancora per se stesse a far felice e prospero un
popolo, non contengono in sè compiutamente tutta l'attuazione del
pensiero della democrazia. La politica corrisponde ad una parte — una
gran parte, è vero, ma che pure non basta per sè sola a formare il tutto
— dei bisogni, delle aspirazioni, dell'esplicamento dell'umana natura.
No, tutta la vita d'un popolo non è costretta nel cerchio di quel
preteso paese legale cui costituiscono gli abbienti, aggiungiamovi pur
anche gl'istrutti; no, le classi cosidette liberali non hanno in alcun
modo autorità di considerarsi come la rappresentanza legittima di tutto
il corpo sociale. Ci sono altri interessi diversi ed anche in
opposizione ai loro, che hanno diritto di aver la propria voce e il
soddisfacimento. Tutti i cittadini hanno un diritto uguale ad
intervenire, sotto l'una o l'altra forma, nell'amministrazione della
cosa pubblica che tutti li riguarda: e se le masse popolari trovansi
momentaneamente ridotte per ignoranza ad una sorta d'incapacità
politica, è obbligo di tirarle al più presto possibile fuori di quello
stato d'inferiorità e metterle in grado di esercitare i loro diritti con
discernimento, in luogo di confiscarglieli ingiustamente. La democrazia
non vuole la libertà solamente per una o più classi, ma per tutte.

Carlo Alberto si chinò verso il suo audace interlocutore.

— Ella vuole adunque il suffragio universale? E per far capace di
esercitare questi suoi diritti la plebe ignorante, Ella vorrebbe — l'ho
letto nelle sue pagine — l'istruzione obbligatoria?

— Sì: rispose quasi fieramente Maurilio. Voglio tutte le libertà, salvo
quella dell'ignoranza. Perchè un uomo possa essere libero bisogna che
sappia quel che si voglia. La plebe deve avere coscienza di se stessa e
dei suoi diritti e dei suoi bisogni, mercè l'istruzione. Ella non può
accettare la tutela delle classi colte se non in quanto queste si
mostrano zelanti a fare il bene di lei: non può amare un governo se non
riconosce in esso la volontà e la capacità di migliorare le condizioni
in cui la si trova; bisogna che ella stessa sia posta in grado di
concorrere, massimamente da sè, a redimere e migliorare se medesima.

Carlo Alberto tese una mano sul tappeto verde come a richiamare
maggiormente l'attenzione del suo uditore.

— Se un re, disse lentamente, si decidesse a concedere al suo popolo una
costituzione rappresentativa nella quale la proprietà e l'intelligenza
fossero chiamate a concorrere alla legislazione del paese, secondo il
suo parere, non sarebbe neppure abbastanza per rispondere alle esigenze
della democrazia?

— No: rispose arditamente il giovane plebeo.

Il Re fece un moto tra di meraviglia, tra di scontento e ritrasse
indietro la persona che aveva chinata verso la tavola.

Maurilio riprese con più modesto accento:

— Quel sovrano compirebbe certo un progresso, un evidente progresso, ma
non soddisfarebbe a tutti i postulati del problema, non incarnerebbe
tutto il concetto della democrazia. La libertà politica è una gran cosa,
ma non è la sola, e limitata a certe classi di persone lascia
all'infuori una turba di scontenti che si prepara esca al fuoco della
rivoluzione. Si ha bisogno di libertà di credenze eziandio, di libertà
commerciale, di libertà amministrativa. È necessario effettuare anche
gli altri due termini: fraternità ed uguaglianza, e per ciò occorrono
modificazioni nell'assetto sociale.

— La fraternità ce l'insegna la nostra santa religione e si traduce nei
fatti colle opere della beneficenza. L'uguaglianza è una cosa
impossibile, perchè sarà impossibile sempre che non vi sieno ricchi e
poveri, virtuosi e disonesti, laboriosi e faciniente.

— La carità, virtù sublime, non è che un rimedio empirico ai mali
sociali: deve di tanto scambiarsi a poco a poco il mondo che non vi sia
bisogno più che uno ne abbia d'uopo e che altri l'eserciti.
L'uguaglianza che vuole la democrazia non è un'uguaglianza, veramente
impossibile, di condizioni materiali, ma l'uguaglianza di diritti,
uguaglianza di libertà nello sviluppo di ciascuna personalità,
uguaglianza d'istruzione fondamentale. Non vi ha inuguaglianza sociale
perchè uno sia ricco e l'altro povero, ma perchè questo è ignorante e
quello istrutto; e qualunque rivoluzione si faccia se non si comincia da
questa base fondamentale, vi sarà sempre disparità fra gli uomini ed
ingiustizia nei rapporti sociali, perchè colui che non sa nulla non
potrà esser mai l'uguale di chi sa qualche cosa. Dare a ciascuno
cognizioni sufficienti perchè possa trar profitto delle sue facoltà,
regolare le proprie faccende e comprendere i veri interessi della
patria, ecco la vera uguaglianza. Fra uomini condotti a tal punto la
ricchezza non importa: sono tutti pari.

— Ella farebbe dunque dello Stato un insegnante universale che desse a
forza l'istruzione a tutti i suoi cittadini?

— No. Lo Stato io vorrei anzi che facesse il meno possibile in ogni
cosa. Lo scopo dell'ordine sociale è lo sviluppo il più completo delle
facoltà dell'individuo, quindi il potere dello Stato deve
necessariamente essere ristretto in limiti definiti: e quanto più
cesserà l'azione di questo, tanto meglio avrà luogo l'azione
dell'individuo. La formola del mondo politico antico era falsa e va
compiutamente rovesciata. Non è l'individuo che sia fatto per lo Stato,
ma è lo Stato che esiste per la maggiore felicità dell'individuo.
Assicurare a ciascuno dei membri della società il più alto
perfezionamento morale, intellettuale e fisico che permetta la sua
natura, ecco la funzione dello Stato, ecco la cagione per cui gli uomini
si associano. In questa bisogna dell'istruzione lo Stato, per dir meglio
la legge, dovrebbe volere ad ogni modo che i cittadini fossero istrutti,
ma dovrebbe in pari tempo lasciare che insegnasse chiunque volesse...

— E se s'insegna il male?

— I padri di famiglia sono essi tali da volere che i loro figli sieno
allevati nel male?

— Ma sono essi giudici capaci di discernerlo questo male?

— Meglio che lo Stato. Saranno pochi fors'anco al presente gli uomini
illuminati che conoscano il vero, ma saranno sempre più illuminati che
gli agenti del Governo, e sopratutto sono più vicini al luogo in cui
l'insegnamento s'impartisce, ai maestri ed ai discepoli, che non il
governo centrale. Il giudizio di costoro aiutato dalla libertà di parola
e di stampa sarà la migliore delle guarentigie.

— Le innovazioni sono sempre pericolose, qualche volta tremende; quanto
meno vanno fatte poco a poco chi non voglia mettere a soqquadro tutta la
società. Il passato ha pure piantato nella compage sociale le sue radici
e se vogliasi svellerlo improvvisamente qual turbamento non ne
accade!... Nelle innovazioni ch'Ella vagheggia, io veggo la morte
dell'ordine vigente e successore il caos.

— Questo mondo non è un luogo di riposo in cui la società si possa
addormentar nella quietudine. La vita è una lotta; l'umanità sta
compiendo senza interruzioni un dramma indefinito. Impedite, indugiate,
cercate di soffocare il moto; l'atto si conchiuderà con una catastrofe.
Certo è sovente pericoloso l'innovare, ma noi siamo in tempi in cui è
più pericoloso ancora il volere star fermi alle forme antiche. Il
passato non ha più abbarbicato le sue radici che alla superficie;
nell'intimo della compage sociale le sono tutte assecchite. Esso ebbe
certo i suoi momenti di gloria e di grandezza, ma il più spesso fu
cagione ai popoli di crudeli patimenti, e i popoli hanno deliberatamente
fatto divorzio da lui. Sarebbe vano sperare che si possano ancora
quietare in quelle viete forme. Bisogna adunque necessariamente
innovare. La riforma politica non basta, ci vuole la riforma sociale o
dirò meglio economica. Nella sommossa d'operai che ebbe luogo qui
stesso, nella quieta e, diciamolo pure, indietrata Torino, la politica
non ci entrava per nulla. Non fu nè lo spirito di nazionalità, nè
l'aspirazione a franchigie costituzionali che non capiscono, a movere
quella turba, fu il disagio materiale, una sofferenza economica, fu la
fame. Sia pure che alcuni abbiano approfittato per altri fini dello
sdegno di quegl'ignoranti, ma le cagioni di quello sdegno esistono e non
saranno i cannoni nè le carceri che le toglieranno.

Qui il giovane s'interruppe, quasi dubbioso finalmente di dir troppo e
di parlare con audacia soverchia: ma il Re gli fece un cenno benevolo
perchè continuasse.

— Avanti, avanti: disse. Siamo appunto a quell'argomento che più mi
premeva udir trattare da Lei colle sue idee.

Maurilio si passò la destra sulla fronte come per condensarvi ancora
meglio i pensieri che vi pullulavano, e dopo un istante seguitò il suo
discorso.

— La nuova direzione che hanno preso gli spiriti moderni, cui col loro
meraviglioso istinto travedono inconsciamente anche le masse, è
contraddistinta da due speciali caratteri. Uno è la soppressione di ogni
privilegio, val quanto dire quella uguaglianza di cui parlavo testè, la
quale nella sua formola più elevata non riconosce altra differenza fra
gli uomini che quella derivante dalle virtù personali e dalla capacità
provata coi servizi resi alla civile comunanza; l'altro è la libertà,
val quanto dire il diritto riconosciuto a ciascuno di svolgere le
proprie facoltà e di farne quell'uso che crede migliore pel vantaggio
delle società e pel suo particolare. La libertà ha quindi tante forme
quanti vi hanno modi diversi nella capacità dell'uomo, quanti vi hanno
ordini di facoltà. Havvi dunque la libertà religiosa la prima di tutte,
perchè è la suprema consecrazione dell'affrancamento del pensiero; la
libertà politica che si esercita sia coll'intervento de' popoli nel loro
proprio governo per mezzo de' loro rappresentanti che determinino
l'imposta, misurino le pubbliche spese e facciano le leggi, sia per
mezzo della facoltà di esprimere e pubblicare le proprie opinioni; vi ha
la libertà del Comune, per cui ciascuna delle piccole agglomerazioni
d'individui che costituiscono questo primo e più naturale nucleo sociale
del municipio possa provvedere a se stessa, ai proprii interessi, di cui
è giudice meglio acconcia dello Stato; havvi infine la libertà del
lavoro, libertà naturale, cui pur tuttavia i Governi hanno poco
saggiamente impedita con regolamenti, paralizzata con monopolii e
schiacciata sotto il peso delle tasse. La libertà del lavoro implica
necessariamente la libertà dell'associazione industriale; questa di
associarsi essendo l'uso che l'uomo è più facilmente spinto a fare della
sua libertà.

«L'associazione è una forma non dirò novella, ma rinnovellata
dall'attività dello spirito moderno. È una leva taumaturga in mano ai
santi principii della democrazia, che muterà faccia al mondo.
Associazione industriale di capitali per giungere a forza maggiore di
produttività; associazione fraterna, quasi direi cristiana, di salarii
per dare all'operaio la sicurezza dell'avvenire e la dignità della vita
presente, il pane della vecchiaia e il miglioramento materiale delle sue
condizioni; associazione del capitale e del lavoro, i due gran fattori
della ricchezza nazionale, per ottenere il comune accordo, il comune
vantaggio, cessando un fatale ed illogico antagonismo.

«L'associazione permette ad un'accolta d'individui, isolatamente deboli,
di avere una grande potenza. L'idea di associarsi è un'idea sana, perchè
proviene da uno dei sentimenti più profondi e più speciali nell'uomo; è
il principio della solidarietà, principio essenzialmente umano,
essenzialmente cristiano, fruttuosamente applicato e sancito. Per questo
mezzo gli operai possono unirsi affine di produrre essi stessi,
esercitare un'industria, una manifattura, possono provvedere al
mantenimento loro con meno costo di spesa, procurarsi alloggi, vitto,
istruzione a miglior mercato, possono cambiare i loro risparmi in
capitali che loro dieno sempre crescente interesse. L'associazione fra
capitale e lavoro, quella che fa partecipare ai benefizi del principale
l'operaio, sorride al mio pensiero come la più acconcia a metter pace
fra il possidente ed il proletario, a far sparire quest'ultimo, ad
accrescere il benessere del lavoratore. Il povero e l'ignorante
cesserebbero d'esistere, e con essi molti dei delitti cui procurano
l'abbiezione dello spirito e la miseria. Quel sovrano che procurasse al
suo popolo cotal pacifico rivolgimento, sarebbe più grande di Cesare e
di Alessandro, meriterebbe l'entusiasmo dei presenti e dei posteri più
che la sanguinosa gloria di Napoleone.

Carlo Alberto guardava sempre fiso il giovane democratico che parlava
con calda eloquenza cui la nostra fredda e povera prosa non valse
menomamente a ritrarre, mentre dagli occhi, quasi direi dalla fronte
eziandio, uscivano fiamme. La faccia del Re rimaneva impassibile; ma in
fondo in fondo alle pupille, dietro la velatura abituale del suo
sguardo, si sarebbe pur detto che alcuna favilla si rifletteva di quel
fuoco che divampava nell'anima e nelle parole del giovane. Alla
intelligenza nobilmente ambiziosa di quel discendente di monarchi,
appariva come una terra promessa di splendore e di gloria rivelatagli
dall'entusiastico discorso del giovane plebeo. Egli vi si affacciava e
rimaneva affascinato e spaventato in una dalla splendida visione, e
sentiva un impulso di effettuare quell'apparsagli chimera, e gli pareva
pregustare la dolcezza di applausi infiniti di tutto un popolo fatto
felice, di tutta una società rinnovellata.

Ma dopo un poco il Re scosse la testa e disse colla sua voce senza
vibrazione e col suo accento quasi melanconico:

— Ma queste sono idee generali, vaghe come le fantasie d'un sognatore
che non si trovò mai alla pratica delle cose. Come farebbe Ella se
avesse da tradurre in atto cotali suoi principii?

— È il fatto di poche leggi. Una che renda più libera e più mobile e
quindi più accessibile che si possa la proprietà. V. M. ha già fatto
molto a questo riguardo nel suo Codice civile: bisognerebbe spingersi
più in là, e forse non di un solo passo. Un'altra legge che rendesse
obbligatoria l'istruzione affidandola ai Comuni; e compagna a questa la
legge che desse la più ampia libertà ai Comuni medesimi ed alle
Provincie. La legge quindi che permettesse le associazioni; e per ultimo
una politica costituzione rappresentativa.

— E se il popolo abusasse di tutte queste cose? domandò il Re fissando
sempre il suo sguardo sul volto del giovane.

— Ne abuserà di certo: rispose questi francamente: finchè dall'abuso
abbia appunto imparato il modo di servirsene a dovere. Si tenga un uomo
per anni ed anni legato sopra una seggiola senza lasciarlo muovere, e
poi lo si liberi: è certo che nei primi passi che farà camminando, egli
traballerà....

— Gli sarà dunque mestieri d'un sostegno.

— Sostegno al popolo saranno l'autorità della legge e l'azione del
governo che colle nostre abitudini sarà per molto tempo fin troppa.

Carlo Alberto sviò gli occhi da quelli di Maurilio, chinò la fronte
nell'ombra e si tacque. Rimasero ambidue per alcuni minuti in silenzio:
poscia il giovane si appoggiò con audace famigliarità alla tavola ed
abbassando alquanto la voce, riprese a parlare.

— E di questa guisa si redimerebbe eziandio da ogni influsso straniero
l'Italia.

Il Re si scosse leggermente, sollevò un istante le palpebre, ma tornò ad
abbassarle senza far motto.

— Simili riforme, continuava Maurilio, compite da V. M. nei proprii
Stati, richiederebbero di necessità le uguali nelle altre regioni
italiane. Per quanto si faccia a tenerle divise, le parti della Penisola
sono oramai, più che materialmente, moralmente unite da un comune
concetto che è un comune bisogno. Un progresso in una italica provincia
si ripercote in tutte le altre, crea la necessità d'imitarlo in tutti i
governi. V. M. facendo del Piemonte un modello di Stato libero e colto
alla moderna, trarrà a forza con sè, dietro sè, tutti i Principi e i
popoli d'Italia. E allora l'Italia avrà una forza reale e superiore ad
opporre all'Austria.

A questo nome Carlo Alberto fece un moto come se volesse interrompere;
ma quel moto lasciò a metà e permise il giovane continuasse.

— Non è coll'armi, almeno per ora, e se un miracoloso caso non
intravviene, che l'Italia possa mai combattere il suo eterno nemico:
bisogna vincerlo colla civiltà. Più delle baionette valgono in questa
lotta le idee, e bisogna colla istruzione spargere e fecondare le
migliori e più sane idee nel popolo italiano, affine di prepararlo e
guidarlo ad una supremazia morale ed intellettuale, la quale si
convertirà necessariamente anche in politica ed economica. Conviene che
non c'illudiamo sulla vera condizione delle cose. Una nazione non
soggiace ad un'altra, se non perchè questa seconda val più della prima
intellettualmente e moralmente: e ciò sopratutto nell'evo moderno. Una
volta era la sola forza materiale che dava il primato; ora la forza
materiale non ha valore se non si rincalza con quella del sapere. Noi
Italiani abbiamo il coraggio di dircela questa verità, soggiaciamo a
dominio straniero, perchè la razza germanica, un governo rappresentante
della quale ci tiene soggetti, è più innanzi di noi nella via del
progresso, nell'istruzione, nel lavoro, nel sentimento del dovere, nella
moralità. Facciamo di passarle innanzi noi, prepariamo delle generazioni
più colte ed oneste, ed avremo procacciata, se non la nostra, la
redenzione dei nostri figliuoli. Sarà forse necessaria anche allora una
lotta materiale; ma avvenendo questa quando la gara nella coltura sia
già vinta, sarà più facile e più sicura la vittoria.

Carlo Alberto rialzò il capo e fece vedere quel suo misterioso sorriso.

— Le sue sono idee generose, ma quanto sieno attuabili conoscerà fra
qualche anno, allorchè l'età abbia di meglio maturata la sua mente. Ella
è molto giovane, e del quesito così complesso non abbraccia tutte le
parti, e della libertà e de' suoi effetti ha concetto non esatto e cui
smentiscono le storie. La consiglio a riflettere e studiare, e valersi
dei lumi e della molta esperienza di colui che la sua fortuna le volle
dare per zio, l'egregio marchese di Baldissero, nostro fedele e
benemerito ministro.

Maurilio avrebbe avuto mille cose da rispondere ancora: il suo concetto
della libertà avrebbe voluto spiegare e confermare coll'esempio degli
Stati Uniti d'America; ma l'accento del Re mostrava che il colloquio
doveva finire; si alzò e stette in piedi presso la tavola in mossa
rispettosa di attesa. Carlo Alberto prese lo scartafaccio del giovane
che gli stava innanzi e glie lo porse.

— Eccole il suo scritto. Lo rinchiuda nel suo scrigno ed aspetti a
leggerlo fra cinque o sei anni. Vedrà allora che ben diversi giudizi
porterà sulle cose e sugli uomini.

Fece un cenno di capo che era un congedo; e Maurilio, preso con mano
sollecita il suo quaderno, s'inchinò ed uscì, il capo confuso e il passo
barcollante. Nella camera vicina ritrovò il marchese che lo attendeva.
S'avviarono senza dirsi una parola, salirono nella carrozza che stava
sul viale, e furono ricondotti al palazzo. Maurilio si teneva il viso
nelle mani e respirava con alito affannoso. Il marchese ad un punto
discretamente volle mettere il discorso sul colloquio avuto col Re.

— Non so, non so più nulla: rispose con impeto il giovane. Credo che
nella mia mente s'è dileguata per un'istante la nebbia. Ora è tornata
più cupa ed opaca di prima.

Il Re aveva seguìto col suo sguardo il giovane liberale che partivasi da
lui. Ne' suoi occhi c'era un interessamento benevolo. Quando fu solo,
s'alzò e si mise a passeggiare lentamente, con passo che pareva quasi
guardingo, sul tappeto della camera.

— Gioventù, gioventù! mormorava egli fra se stesso. Credono poter da un
giorno all'altro cambiar faccia al mondo. Quelle riforme sarebbero la
negazione del Governo: sarebbero il suicidio della monarchia.
Riforme!... E l'Austria me ne lascierebbe compire?... Ha ragione.
Bisogna rendersi superiori d'animo e di mente ai Tedeschi: ed è appunto
quello che Vienna non permetterà mai.

S'accostò al camino, posò il gomito alla tavola di marmo e chinando la
sua alta persona, guardò il fuoco, come se in quella fiamma ed in quelle
braci gli apparissero chi sa quali visioni.

E strane visioni gli si spiegavano veramente dinanzi. Vide campi biondi
per messi abbondanti, e lieti villici lavorare allegramente cantando;
vide officine piene del gaio tumulto del lavoro, e magazzini riboccanti
di merci, e battelli a vapore sul mare, e treni di ferrovie per terra
spargere in ogni dove prodotti e ricchezza; vide città e villaggi
puliti, ordinati, tranquilli, e scuole piene di giovani e di bambini, e
chiese piene di fedeli; vide un popolo, onesto, laborioso, agiato e in
mezzo un uomo dalle sembianze modeste passare con un sorriso paterno,
accompagnato dalle benedizioni di tutti: ed una voce gli pronunziava
all'orecchio le seguenti parole: «la gloria di Washington.»

Poi un'altra visione succedeva. Erano campi di guerra in cui dominava la
strage. Tutto un popolo che sorgeva infiammato da patrio fervore ed
accorreva in armi sotto una bandiera in cui splendeva una bianca croce,
quella di Savoia; schiere di prodi che si precipitavano impetuosi contro
le fitte falangi, contro i baluardi del nemico oppressore; una pioggia
di palle, una tempesta di fuoco, un orribile avvolgimento di morte, e in
mezzo a questo turbinio spaventoso un uomo più alto di tutti, a capo di
tutti, che, la spada imbrandita, il coraggio negli sguardi, si slanciava
dove più forte il pericolo a strappar la vittoria; e un lungo,
sonorissimo plauso d'esercito e di popoli, e un'eco imperitura nelle
pagine degli annali umani.

— O l'una o l'altra di queste glorie; si disse con un'interna
concitazione cui non nascondeva compiutamente la freddezza abituale
delle sue sembianze.

Alla sua fantasia di re guerriero, discendente da principi guerrieri,
sorrideva maggiormente la gloria del guerriero. Un altro pensiero venne
a farlo sorridere a quel suo modo misterioso. Oh vedere umiliata dalla
sconfitta l'Austria, che lui aveva umiliato coll'oltraggio ed umiliava
tuttavia col sospetto!

— O l'una o l'altra di tali glorie, ripetè; e perchè non tuttedue?

Sollevò il capo. Nell'alto specchio vide la sua pallida fronte e la sua
scarna faccia, che sembravano, nell'ombra mandata dalla ventola, la
faccia e la fronte d'uno spettro. Si trasse per moto istintivo indietro
d'un passo, vide ad un tratto tutti gli orrori della guerra: morti e
morenti, e saccheggi ed incendi e rovine. Si passò la mano sulla fronte,
deviò lo sguardo dallo specchio e disse curvando il capo:

— Sia quello che vuole il nostro Signore Iddio!



CAPITOLO XI.


Una strana notte fu quella che passò Maurilio. Non dormì e non fu
sveglio; non ebbe sogni e le più matte immagini di chimere danzarono
nella sua turbata fantasia. Il povero villaggio in cui era stato
allevato e le sontuosità cittadine, il fienile in cui bambino aveva
tremato del freddo e la camera in cui aveva parlato al Re, la modesta
pulita stanzina in cui gli faceva scuola il parroco e lo studio severo
del marchese, Menico e la Giovanna, Nariccia e il signor Defasi, Don
Venanzio e il marchese, Francesco Benda e gli altri amici suoi, e Carlo
Alberto, e il Commissario di Polizia, e _Stracciaferro_ e _Graffigna_
suoi antichi compagni di carcere passavano e ripassavano innanzi alla
sua mente in una confusione di scene senza senso e senza nesso che
s'avvicendavano, sparivano, tornavano, si interrompevano, si
ripigliavano con un tormentoso brulichio del cervello.

In quel disordine predominavano, affacciandosi di quando in quando, due
figure: una quella della splendida bellezza di Virginia che gettava su
quel caosse il raggio d'un suo sorriso provocatore; l'altra quella di
Gian-Luigi che appariva tratto tratto con un aspetto mefistofelico a far
suonare in quel tumulto un ghigno di scherno. Virginia, nè pure il più
pazzamente audace de' suoi sogni avuti fino allora non glie l'aveva
mostrata mai di quella guisa. La gli veniva dinanzi disciolte le chiome
d'oro, sparse sull'eburneo seno trasparente fra il velo di seta che le
facevano quegli abbandonati capelli; la si chinava verso di lui dal
piedistallo di nubi rosate sopra cui s'ergeva oltre la comune altezza
dei mortali: gli lanciava nel volto, negli occhi, nel cervello, nel
cuore un sorriso d'indefinibile procacia, un sorriso di seduttrice, un
sorriso di donna tocca dal dito impuro d'Asmodeo, ed una voce vibrante
come un acuto stromento metallico gli diceva: «Amami, amami, fammi tua.»
E la vaga forma gli protendeva le braccia e coll'influsso del suo
sguardo non umano lo attraeva a sè così che a lui pareva esser levato
nell'aria, ed accostarsi, accostarsi la sua bocca desiosa a quella bocca
di sì desiato riso: ma quando già erano per toccarsi le labbra frementi,
quando già si fondevano l'una nell'altra le fiamme dei vividi sguardi,
ecco una voce di rampogna tremenda gridargli all'orecchio: «Empio! è tua
sorella.» Ed egli ricadeva di botto con dolorosa scossa sul suo letto,
come un Titano fulminato dalla soglia dell'Olimpo alle rupi della terra;
e tutto gli si scombuiava dinanzi, e perdeva ogni coscienza di pensiero
per non conservar più che un senso indefinito, vago, ma profondo,
d'inenarrabile dolore.

Poi nella notte tenebrosa della sua mente ricominciavano da capo a
disegnarsi incertamente delle forme che via via, man mano prendevano più
corpo e venivano a sfilargli dinanzi in una processione che gli
rappresentava frammisti, intralciati i fatti del suo passato, le vicende
mirabili del presente, e le possibili avventure del futuro. Allora
veniva poco a poco architettandosi un romanzo impossibile di successi
della sua vita ambiziosamente lieti; gli si veniva disegnando dinanzi un
quadro di grandi e nobili venture delle quali egli era il benemerito
eroe, finchè di dietro in quella tela dava del capo e la sfondava
apparendo con uno scroscio di cachinno una figura ironica e beffarda,
quella di Gian-Luigi, che gli gridava con accento fra la collera, la
compassione e il disprezzo:

— Imbecille! Non t'accorgi tu che tutto questo è un sogno? Tu saresti un
discendente di nobile prosapia, ed io sempre un miserabile bastardo
d'ignoti genitori? Eh via! È impossibile. Metti l'animo in pace, e torna
a nasconderti nella tua nullità.

L'alba tardiva della giornata invernale rompeva le tenebre della notte,
e la mente di Maurilio, stanca di questa sequela di febbrili visioni,
era caduta in un torpore che non era riposo, ma che era pure una
sospensione da quello strano e doloroso travaglio. Giacque inerte per
alcun tempo, senza più idee, senza propositi, senza pensieri. Pur due
immagini vegliavano ancora, per così dire, benchè non avvertite, in
fondo a quella nebbia dell'intelligenza; e quando il giovane aprì gli
occhi alla luce del giorno, che s'era fatto pieno, e tornò nella precisa
cognizione di sè, le trovò ambedue chiare e spiccate, ma ora nell'essere
loro naturale presentarglisi come due doveri da compiere. Bisognava
fuggire Virginia, almeno per alcun tempo, finchè la forza della volontà
fortemente impiegata avesse sostituito l'affetto fraterno a quella ora
scellerata passione d'amore; conveniva apprendere al suo compagno
d'infanzia e di sorte la ventura del suo destino. Ad ottenere il primo
scopo già aveva deciso partire quella stessa mattina con Don Venanzio, e
presane licenza dallo zio; per la seconda cosa da farsi determinò andare
senza indugio a narrare ogni cosa a Gian-Luigi.

Questi riposava ancora nel suo letto sontuoso nella camera elegantissima
del suo ricco quartiere. Maurilio insistette presso il servitore così
che ottenne il suo nome fosse annunziato tuttavia al padrone, il quale
diede ordine il mattiniero visitatore fosse tosto introdotto.

Marullo aprì le imposte della finestra, fece passare il giovane e si
ritirò.

Gian-Luigi si sollevò alquanto della persona in mezzo al candore delle
sue finissime lenzuola, puntando il gomito sui cuscini, e collo sguardo
curioso più che colla parola interrogò il compagno.

— Tu a quest'ora? disse. C'è egli qualche cosa di nuovo?

Maurilio, senza parlare, fece col capo un grave cenno di sì.

— Oh, oh! esclamò Quercia, balzando sul letto, il tuo viso mi annunzia
che non le sono bazzecole. Da coricato non sono capace d'ascoltar cose
gravi. Aspetta un momento che salto giù e in un attimo sono preparato a
darti udienza. Siedi costì presso al fuoco e prendi un sigaro, se ti
piace fumare.

Il visitatore rifiutò con atto cortese, s'accostò al camino e volgendo
al fuoco le spalle stette in piedi ad aspettare, mentre il suo sguardo
esaminava non senza curiosità le signorili suppellettili di quella
stanza. Il letto era incortinato di seta, di velluto finissimo eran
ricoperte le seggiole, di Persia era il tappeto sul pavimento, di legno
d'India erano i mobili intarsiati con belli ornamenti ed adorni di fregi
di metallo indorato: l'orologio a pendolo era un amorino d'oro che
faceva all'altalena sopra un cespuglio di rose smaltate: sopra la pietra
di marmo del comodino stavano due pistole di bella fattura
ricchissimamente adorne d'argento niellato.

Gian-Luigi che si aggiustava il goletto della camicia innanzi all'alta
spera fino a terra dell'armadio d'un bel lavoro di scorniciature e
d'intaglio, vide entro lo specchio lo sguardo che Maurilio posò e tenne
fermo su quell'armi. Si volse indietro e gli disse:

— Ah ah! tu guardi que' gingilli eh? Prendili in mano ed esaminali, se
ti piace questa fatta lavori. E' sono un certo arnese che diventano
ormai indispensabili, chi vuol pararsi contro ogni pericolo.

— È vero: rispose sbadatamente Maurilio che poco metteva attenzione a
questi discorsi indifferenti; e l'assassinio di quel povero Nariccia è
cosa da mettere in apprensione qualunque.

Quercia si volse subitamente in là, e non parlò più. In pochi minuti
però ebbe finito di vestirsi, e serrandosi ai lombi i cordoni di seta
d'una veste da camera di lana finissima foderata di raso celeste, venne
a sedersi presso il fuoco in una poltrona a sdraio.

— Eccomi a te, disse allora. Siedi o sta ritto, come ti piace, e
parla... Ma forse ch'io indovino la cagione della tua venuta. Tu hai
pensato di meglio alle parole ch'io ti dissi pochi giorni sono, e sei
venuto a modificare la risposta che allora tu mi hai data.

Maurilio scosse lentamente la testa.

— No: rispose. Sono venuto ad apprenderti una grande e strana fortuna
che mi tocca: sì grande e sì strana che non posso crederci ancora.

Si chinò verso il suo uditore e colle più brevi parole che gli fu
possibile, concitatamente gli raccontò tutto quello che gli era
avvenuto.

Gian-Luigi, al primo annunzio di quel fatto, aveva mandato
un'esclamazione e dato un trabalzo. Poi la sua faccia aveva presa
un'aria d'incredulità che assai si accostava a quella beffa ironica, cui
nelle fantasie della sua notte Maurilio aveva visto all'immagine di lui;
quindi, mentre l'espositore più e più veniva narrando ed adducendo le
prove e certificando l'avvenuto riconoscimento, quell'espressione s'era
scambiata a poco a poco in un'altra ancora meno benevola e niente
soddisfatta. Lo sguardo nero di Gian-Luigi stava fisso con niquitosa
intentività sulla faccia del parlatore: v'erano lampi d'odio e
d'invidia, vi appariva una voglia intensa e sterminata che tutto ciò non
fosse vero: ad un punto quello sguardo divenne quello con cui un
derubato perseguita e rampogna il rapitore del suo bene: esso pareva
voler dire: «Sciagurato! quello era mio destino, quella avrebbe dovuta
essere mia ventura, e tu me l'hai rapita.»

Vedevasi che i suoi sentimenti erano sì forti che egli non pensava
nemmeno più a nasconderli. Maurilio se ne sentì una pena, un'amarezza,
quasi uno spavento entrargli nell'anima. Finì precipitosamente il suo
discorso, quasi impacciato, quasi vergognoso di sè, e chinò gli occhi
poco meno che un reo dopo aver confessato la sua colpa. Gian-Luigi anche
lui aveva chinato gli occhi; era divenuto pallido e ombre indefinibili
venivano e andavano sulla sua bella fronte. A un tratto, senza pure una
parola, s'alzò, incrociò le braccia al petto e fece due o tre giri per
la stanza a capo chino. Poscia si fermò improvviso; allentò il nodo
delle braccia e le lasciò cadere lungo la persona, sollevò la testa e si
riscosse come per farsi cadere di dosso il peso d'un uggioso pensiero;
illuminò la sua leggiadra faccia d'uno dei più graziosi suoi sorrisi.

Venne presso a Maurilio e con mossa cordialissima gli tese la destra.

— La tua felice ventura, diss'egli, lo confesso, per primo ha trovato in
me un invidioso. Tutti abbiamo più o meno un demone interno che alla
felicità del nostro fratello si adonta perchè la non è toccata a noi. A
te dunque l'effettuazione delle più care speranze... a me nulla. Io non
mi potrò dunque trar mai dall'ignobile condizione di trovatello che
nascondo come una vergogna. Non verrà la fortuna ad aprirmi a due
battenti la porta del mondo legale, nè varrà mai la mia attività e la
mia ambizione a sfondarle con prepotente successo..... Condannato a
perire, peggio che nell'oscurità, nell'ignominia.

Maurilio protestò con un'esclamazione contro la verità di queste ultime
desolate parole; Luigi atteggiò le labbra ad un misterioso, amarissimo
sorriso.

— Sarà così: riprese. Sii tu almeno felice! Tu hai cervello e polsi da
stare in mezzo ai leoni; poichè la sorte vi ti caccia, sappiti farvi il
tuo luogo e la tua parte.

Si passò la destra, che aveva tolta più fredda che un pezzo di marmo da
quella di Maurilio, sulla fronte come per iscacciarne l'ultima ombra di
turbamento e di mestizia.

— Che pensi tu di fare?

— Non so: rispose con voce appena da udirsi Maurilio, la cui mente
pareva ad un tratto sviata a tutt'altri pensieri.

— Non sai? esclamò Gian-Luigi. Ecco sempre i soliti giuochi di quel
demone dell'azzardo! I suoi favori cascano su quelli che sono
impreparati a riceverli... Ah! se io fossi a luogo tuo!...

S'interruppe e tornò a fare alcuni giri per la stanza; poi venne in
faccia a Maurilio che stava sempre in piedi presso il camino e gli pose
le due mani sulle spalle.

— Ho sperato anch'io potere un dì rivendicare come miei un nome ed una
famiglia... Pochi giorni sono mi venne in mano quasi un bandolo della
matassa.....

— Come! in che modo? chiese con interesse Maurilio richiamato dagli atti
del compagno a fare attenzione alle parole di lui.

Ma un ratto annuvolamento ebbe luogo sul volto di Quercia.

— Eh! appena colto il bandolo mi si è strappato di mano.... Oh chi
potesse trovar modo d'andare a chiamare il suo segreto ad un
cadavere!...

Maurilio che conosceva l'esistenza dello squarcio di lettera stato
trovato su Gian-Luigi quando raccolto nella ruota degli esposti, gli
domandò se quella fugace speranza si era annodata a quel pezzo di carta.

— Sì, rispose Quercia: ma non ti posso dire di più.

— Lasciami ancora vedere quel foglio: disse Maurilio come per una subita
ispirazione.

Gian-Luigi esitò un momento, e poi andò ad uno stipo dicendo:

— Sì, vo' mostrartelo.

Gian-Luigi non trasse fuor dello stipo un solo fogliolino, ma due: e
tornando presso Maurilio cominciò a porgergliene uno. Era quello
trovatogli nelle fascie: la metà d'una lettera di poche righe stracciata
per lo lungo. Le parole che vi si leggevano non presentavano senso
veruno, nè contenevano alcun nome od altra indicazione che valesse a far
congetturare in modo anche lontano d'onde e da chi provenisse quello
scritto: si vedeva che appositamente era stato scelto quel biglietto
indifferentissimo perchè chi lo avesse in mano di quanti non ne
conoscessero la calligrafia, non potesse ricavarne il menomo indizio di
chi avesse potuto esserne l'autore. Però parecchi squarci di frase
avevano colpito Gian-Luigi, ora che aveva riletto e riesaminato le cento
volte quel pezzo di carta dopo che gli era capitato in mano quell'altra
letterina della medesima scrittura che trovavasi nello scrigno di
Nariccia. Capivasi che quel bigliettino lacerato era stato scritto per
dar commissioni frettolose e concise a qualcheduno; ed a quelle parole
che prima non avevano significato, tenendo presente quell'altro
bigliettino, se ne poteva ora facilmente attribuir uno.

Nella carta lacerata che era la metà di destra del fogliolino si
leggeva:

                          -all'ora che v'ho già indi-
                          -zione perchè nulla trapeli
                        -il mio indirizzo e voi tosto
                        -qui dopo la nostra partenza.
                         -Quanto alle somme deposita-
                    -scritto, rimangano presso di voi
                       -cisione.

Nel biglietto trovato appo Nariccia, leggevasi:

«Essa si è finalmente decisa. Lo stato in cui si trova non ammetteva più
indugi. Partiremo domani. Preparatemi una quindicina di mila lire; per
ora mi bastano; il resto delle somme lascio ancora presso di voi, e vi
prego di ritenerle alle medesime condizioni: chè per l'avvenire poi...»

E qui era interrotto, perchè la fiamma aveva divorato il resto.

Era evidente una correlazione fra quei due biglietti, e il cenno di
somme depositate presso colui al quale erano scritti e l'uno e l'altro,
indicava che erano indirizzati alla medesima persona. Ora questa persona
non poteva essere altri, a senno di Gian-Luigi, che Nariccia, presso il
quale la seconda di tali lettere era stata ritrovata. Nariccia adunque
era in grado di sapere il segreto della nascita di quel bambino al
quale, esponendolo, era stata posta come contrassegno di riconoscimento
la lettera stracciata: ed egli stesso, Gian-Luigi, quel labbro che
poteva rivelargli il suo destino aveva reso mutolo per sempre;
imperocchè, informatosi per vie indirette, ma con molta premura, dello
stato della sua vittima, l'assassino aveva appreso che perduta aveva con
ogni movibilità la facoltà di parlare, e che il medico aveva dichiarato
impossibile potesse riacquistarla durante que' pochi giorni che
sarebbero rimasti da vivere all'assassinato. Il _medichino_ trovavasi
quindi in una strana condizione. Suo interesse immediato era che
l'usuraio morisse mutolo e presto: ma il pensare che seco egli portasse
il mistero del suo essere eragli pure tormentoso pensiero. Oh! s'egli
avesse potuto entrare solo in quella camera dove il vecchio giaceva,
richiamarlo un istante alla pienezza delle sue facoltà, strappargli il
suo segreto, le prove che forse egli ne aveva, e poi ripiombarlo
nell'ombre della morte in cui s'affondava a poco a poco!...

Maurilio esaminò attentamente quel foglio lacero che più volte aveva già
visto ancor egli e lo confrontò con quel secondo che Gian-Luigi gli
porse eziandio di poi, ed egli pure ne conchiuse ciò che già aveva
conchiuso Gian-Luigi medesimo: che quelle due scritture erano state
vergate dalla stessa mano e che le erano indirizzate alla medesima
persona.

— Io dunque non mi sbaglio? domandò Gian-Luigi, che desiderava
ardentemente vedere le sue indicazioni confermate da un osservatore
indifferente alla questione, e non facile perciò ad essere illuso dal
desiderio: questi scritti sono d'un medesimo autore, ed hanno relazione
alla medesima bisogna...

— Certo che sì.... Dove hai tu preso questa seconda lettera?

Quercia tolse vivamente di mano al compagno l'uno e l'altro foglio e
rispose asciuttamente:

— Questo non te lo posso dire.... È una trovata che ad ogni modo mi ha
da essere inutile.... Si socchiuse un momento l'uscio del mistero, e poi
mi fu serrato sul muso inesorabilmente e spietatamente per sempre.

Andò a riporre i due fogli nello stipo, che chiuse accuratamente, e
tornò presso Maurilio.

— Tu dunque abiti ora come casa tua il palazzo dei Baldissero?

Accompagnò queste parole con un sospiro, che, se non era d'invidia, era
l'espressione d'un intenso desiderio.

Maurilio rispose con un altro sospiro, che era quasi un soffocato gemito
di dolore.

— Non ancora... Parto oggi stesso pel nostro villaggio con Don Venanzio,
e starò colà non so quanto, forse pochi giorni, forse mesi.

Gian-Luigi guardò Maurilio negli occhi di una strana maniera, come se
volesse penetrargli nell'anima.

— Sei un essere originale tu!... Che vuoi andare a fare colaggiù?...
Mentre ti si apre a larghi battenti la porta del palazzo incantato dove
t'aspettano gli splendori della vita, tu scappi a rintanarti nello
squallido tugurio che non ti ricorda se non privazioni, stenti e
miseria. Tu hai conservato amore a quello sciagurato paese in cui vivono
più sciagurati esseri in sciaguratissime condizioni! È un mistero
psicologico che non arrivo a spiegarmi. Per me quella terra, quelle
miserabili casipole, quelle desolate campagne non rappresentano che una
somma di rabbie, di vergogne, d'affanni. Odio tutto questo, come odio le
mie condizioni.

Pose di nuovo una mano sulla spalla del suo compagno.

— Ma tu hai pure un'ambizione che cova sotto quel tuo vasto cranio
bernoccoluto... Quale? Avrai tu penetrato nell'intimo della mia anima,
senza che io abbia potuto leggere pur una parola nel libro chiuso della
tua? Che cerchi tu nella vita? Che pensi? Che tenti? Ora che la sorte
mette a tua disposizione mezzi efficaci e potenti, che opera ti vuoi tu
imporre, a qual fine usarli, verso qual meta intendi camminare?

Maurilio si sottrasse al tocco della mano di Gian-Luigi, se ne discostò
di alcuni passi ed affondando nelle sue manaccie grossolane la sua testa
dalle irte chiome, esclamò con una specie di sgomento:

— Non so..... non so nulla di me..... Sono ore tremende queste mie, in
cui mi affanno a cercar me stesso... e non mi trovo.

In questa il colloquio dei due giovani fu interrotto dall'arrivo, come
già abbiam visto, del signor Defasi e di Andrea, e pochi minuti dopo
Gian-Luigi, acconsentendo alla preghiera fattagli dai due nuovi venuti,
usciva con loro per tentar di ricuperare il cadavere di Paolina, mentre
Maurilio rientrava nel palazzo Baldissero, donde poco dopo, senza aver
rivisto altri che il marchese, partivasi con Don Venanzio alla volta del
villaggio. Andremo a raggiungervelo fra poco: per ora teniam dietro, se
vi piace, allo sciagurato Gian-Luigi, la cui buona stella sta per
tramontare, e di cui vengono a precipitare la sorte fatali circostanze
ed inattesi avvenimenti.

Parlando egli a chi si doveva per ottenere facoltà di ritirare dal
gabinetto anatomico il corpo della Paolina, Quercia udì da quel medico
esclamare, poichè la chiesta licenza fu accordata:

— Ah! v'è da ier sera nella _griglia_[1] un bellissimo soggetto, che
potrebbe vantaggiosamente rimpiazzare questo che le abbandoniamo.

  [1] Chiamavasi e chiamasi ancora la _griglia_ il luogo a Torino in
  cui si espongono alla vista del pubblico i cadaveri degli
  sconosciuti.

Gian-Luigi, senza pur saperne il perchè, provò una scossa, e domandò con
istrano interesse:

— Una disgrazia? Una morte accidentale?

— Pare un suicidio. Un'annegata che fu ieri pescata nel Po.

— Una donna?

— Sì, giovane... e direi fanciulla, se non la si trovasse in istato
_interessante_.

Per quanto poco facile il _medichino_ fosse a commuoversi, il sangue gli
diede un rimescolo: ma aveva su di sè tanta forza da non lasciar nulla
apparire.

— E non fu conosciuta? domandò egli sbadatamente.

— No... Almeno finora, a quanto io sappia.

— Bella? chiese ancora Gian-Luigi senza guardare il suo interlocutore.

— Bellissima. Delle chiome d'ebano, delle fattezze scultorie, un corpo
fatto a meraviglia... Fui chiamato io ad esaminarla per farne
l'accertamento legale della morte; ne ho già vedute di molte io donne, e
morte e vive, ma le dico in verità che di così ben fatte m'avvenne raro
o non mai di trovarne.

— E la fu trovata nel Po?

— Sì, impigliata nella diga del canale Michelotti. Eh uno dei soliti
romanzi a tristo fine: una povera giovane sedotta di certo e abbandonata
dal suo seduttore. Questa razza di birboni, in simili casi, dovrebbero
essi portar la pena dell'omicidio e dell'infanticidio.

Quercia voltò il discorso, e poco stante tolse congedo; ma quando ebbe
tutto provveduto quello che occorreva per l'interesse di Andrea, una
tremenda curiosità, che lo aveva preso di botto alle parole del medico e
non lo aveva lasciato più, lo trasse suo malgrado verso quel luogo
funesto ove si vedeva esposto il cadavere dell'infelice. Voleva vedere
quell'annegata e temeva. Entrò nel vasto cortile del palazzo municipale,
che allora chiamavasi _Corte del burro_, e dove in quel tempo aveva
luogo quel tristo spettacolo, con una lentezza prodotta dal contrasto di
due forze che in lui si combattevano: un'attrazione ed una ripugnanza,
penose ambedue; si venne accostando adagio al folto capannello di gente
che si serrava innanzi al cancello di ferro, dietro il quale, in una
specie di strombatura profonda circa un metro, sopra una tavola di
costruzione laterizia giaceva lungo e disteso il cadavere.

Da principio non potè veder nulla, chè la ressa della gente affollata
impediva di penetrare al suo sguardo: ma udì con un'amara irritazione i
commenti dei curiosi che gli stavano davanti.

— Che bel tôcco di ragazza! Guarda che sopracciglia!

— E che aria fiera pur da morta!

— Altro che fiera! La par che minacci.

— Ha dovuto morire mandando mille accidenti a qualcheduno.

— La conosci tu?

— Io no.

— Neppur io.

— A me la non mi pare una figura affatto nuova, ma non saprei dire dove
l'abbia vista.

— Madonna Santa della Consolata! Così giovane e così bella, e fare una
simil fine. Che cos'è di noi se il Signore ci toglie di capo la sua
santa mano!

Qualcheduno finalmente di quelli che erano in prima fila si mosse e
partì: avvenne un movimento generale di tutta quella piccola massa di
gente, e Gian-Luigi potè profittarne per ispingersi avanti. Giunse quasi
a toccare il cancello di ferro, fra il capo di due altri curiosi potè
insinuarsi il suo sguardo. Era assai tempo che una emozione come quella
che sentì in quel punto non aveva scossi i suoi nervi d'acciaio. Vide il
cadavere giacente della donna. La riconobbe di subito, e non c'era da
esitare, tanto n'erano poco alterati i tratti. Era Ester.

Ella giaceva come persona addormentata, il capo volto un poco dalla
parte degli spettatori. Le sue treccie disciolte, gravi per l'acqua
ond'erano ancora impregnate, le cadevano sul petto: giallognolo era il
pallore della sua carnagione bruna, sì che l'avreste detta una statua
d'avorio ingiallita dal tempo. I suoi lineamenti avevano in realtà una
severa espressione che non era di collera ma di potente rampogna,
d'inesorabile accusa. Era contro il destino, era contro la malvagità
degli uomini ond'era stata tratta a quel passo crudele, che s'era
ribellato, adontato l'ultimo pensiero della morente sì da imprimere sul
volto di lei un tal segno d'implacabile rancore? Gian-Luigi sapeva che
cosa crederne; e in faccia a quel cadavere provò un turbamento, qual
forse non aveva ancora provato mai, egli che aveva soggiogata al suo
perfido volere ogni sensibilità dell'anima. Sentì quasi un'emozione di
paura, gli parve che quelle palpebre abbassate e circondate da un livido
cerchio dovessero sollevarsi e lanciargli di mezzo alle lunghe ciglia
uno sguardo di tremendo sdegno; gli parve che, alla sua presenza, al suo
accostarsi, quel cadavere avrebbe dovuto riscuotersi e da quelle labbra
violacee uscire una terribil parola.

Qual è mai questo strano effetto della morte che sopra ogni individuo
pone un suggello di solenne autorità onde l'animo anche dei più arditi
riman sovraccolto? Se quell'audace giovane si fosse trovato innanzi alla
persona viva di quella infelice, ch'egli aveva empiamente sacrificata
alla sua scellerata passione, non la menoma soggezione, non il menomo
turbamento avrebbe pur tocco il suo animo; avrebbe egli freddamente
ascoltato ogni rimprovero, sarebbe rimasto incommosso ad ogni lamento,
ad ogni lagrima, ad ogni più disperata parola, ad ogni più disperata
esplosione di dolore, di furore, di minaccia, avrebbe risposto col
silenzio, o colla collera, o collo scherno fors'anco. Invece, innanzi a
quel cadavere la sua anima quasi tremava, e il suo sguardo rifuggiva da
quella vista, poco meno che timoroso. Non era quello un implicito
riconoscimento che oltre quella materia ora inanimata sopravviveva pure
ancora alcuna cosa di quella Ester che lo aveva amato, che s'era
sacrificata per lui, che in causa di lui era stata tratta a quel fine
fatale? E questo non so che d'immateriale, di cui il seduttore non aveva
avuto la menoma soggezione durante la sua vita corporea, ora, sciolto
dalla sua servitù al corpo, aveva acquistato un'autorità, una
maggioranza che ne imponeva a colui che aveva perduto quell'anima, colui
che il destino, una giustizia superiore forse aveva tratto innanzi a
quel cadavere. Gian-Luigi subiva questa influenza per istinto, senza
rendersene conto; egli il quale non credeva che alla materia, egli che,
allevato da un ateo materialista, non vedeva nell'universo che leggi
materiali, eterne, allo infuori d'ogni volontà e d'ogni intelligenza di
qualsiasi ente superiore, non vedeva nell'uomo che un organismo cui
scioglie e distrugge per sempre la morte.

Un popolano che stava in prima fila de' curiosi, presso il cancello di
ferro, sentì il fremito d'una delle persone che il premer della folla di
dietro gli pigiava addosso; si volse, vide la faccia autorevole, le
sopracciglia aggrottate, lo sguardo imponente di un uomo signorilmente
vestito, e per quella deferenza che è insita in chi si sa umile, povero
e nullo, e subisce l'influsso delle apparenze del potere e della
ricchezza, si trasse in là e lasciò rispettosamente luogo. Il
_medichino_ si trovò egli a contatto del cancello di ferro, e ne
abbrancò colla sua mano elegantemente inguantata una sbarra.

— È dessa, è proprio dessa: si diceva egli con una contrarietà quasi
rabbiosa della propria impotenza. La è morta e non c'è rimedio... Non
v'è Dio nè diavolo che potrebbe far rivivere quelle forme, che potrebbe
riaggiustare quella macchina infranta... Disgraziata!... Io avrei pur
trovato modo di salvarla!

Egli l'avrebbe fatta sottrarsi in qualche riposto luogo all'ira del
padre, al disprezzo della gente; colà quella passione che nell'infelice
non era ancora estinta per lui avrebbe conservato ai desiderii della sua
ardente natura quella giovanile bellezza pur tanta. Qualche cosa come un
desiderio, che era un'empietà innanzi alla rigidezza di quel cadavere,
sorse nel pensiero scellerato di quell'uomo reo di ogni colpa. La
memoria nella sua fantasia venne a dare alle forme di quella povera
morta le sembianze della vita rigogliosa, con tutta l'ardenza del sangue
giovanile che aveva conosciuta in lei. Rivide quelle braccia, ora
abbandonate, levarsi e con nodo tenace e soavissimo avvincergli il
collo; rivide quel candido petto anelante premersi contro il suo da
fargliene sentire il palpito; rivide lo sguardo pieno di fiamme; quasi
risentì sulla bocca il bacio ardente di quelle labbra ora allividite e
contratte dall'agonia suprema della morte.

In quel momento, per rifare di quella morta l'Ester che era stata poco
tempo innanzi, Gian-Luigi avrebbe dato non so che. Strinse quasi
convulsamente colle mani le barre di ferro a cui si appoggiava, e chinò
il capo verso il cadavere, quasi volesse, quasi sperasse potere, col
suo, soffiare in esso di nuovo l'alito della vita; ma ad un tratto, come
un ghigno mefistofelico, guizzò tra i suoi pensieri.

— Stolto: si disse; mi sarei sopraccaricato d'un imbarazzo che mi
avrebbe impacciato nelle mie faccende fin troppo, e che non avrebbe
tardato a non darmi più che fastidii e noia: la poverina, per mio
vantaggio, fu bene ispirata. I morti non tornano più, non imbarazzano
più nessuno, non fan più male di sorta.

Egli si sbagliava: la morte d'Ester doveva concorrere ancor essa alla
perdita di lui, oramai decisa dalla giustizia di Dio.

Mentre Gian-Luigi, tornato in tutta l'empia freddezza del suo spirito,
fattosi quel ragionamento per cui conchiudeva che la morte di Ester era
una sua ventura, stava per ritirarsi di là, avvenne un movimento nella
folla, che gl'impedì di aprirvisi il passo.

Un povero vecchio, vestito di miserissimi panni, faceva ogni sforzo per
ispingersi innanzi verso la cancellata, e siccome deboli aveva le forze,
e un tremito ne scuoteva le membra, così da non poter avanzare in nessun
modo in mezzo alla folla, egli si era messo a supplicare con voce
piagnucolosa e rotta dall'affanno:

— Per carità, mi lascino passare... Mi dicono che la è una giovane... Io
ho perduta mia figlia... Mi lascino vedere se la è mia figlia.

Il _medichino_ riconobbe la voce fioca e l'accento nasale di _Macobaro_.
Tanto più avrebbe voluto affrettarsi a partire; ma il movimento fatto
dagli astanti per dar passo al vecchio, e poi quello di curioso
interesse che li faceva restringersi intorno al padre della morta, per
assistere alla scena che stava per aver luogo, impedirono affatto a
Gian-Luigi di allontanarsi. Il rigattiere ebreo giunse alla cancellata,
e s'aggrappò ancor egli colle scarne mani tremanti alle sbarre di ferro.
I suoi luridi panni frusti e sporchi toccavano l'elegante pastrano di
Gian-Luigi; ma egli non vedeva nessuno, non poteva veder null'altro che
quel cadavere di donna che gli stava disteso dinanzi.

Lo guardò per un poco, fiso, in silenzio, immobile, senza trarre quasi
neppure il fiato. Pareva che stentasse a riconoscerlo, che non volesse
prestar fede all'evidenza, che credesse quella non altro che
un'illusione ed aspettasse vedersela dileguata. Ma ad un tratto mandò un
grido che si poteva dire un urlo.

— Mia figlia! Mia figlia! esclamò egli tendendo le braccia traverso le
sbarre, come se la volesse afferrare, e prendersela e seco portarsela: è
mia figlia.

Ogni traccia di quell'odio che ultimamente aveva improvviso concepito
per la colpevole, ogni sdegno contro di lei, sparì di botto nel misero
padre, per lasciar rivivere in tutta la sua forza quel primitivo amore
ch'egli sentiva per essa, quasi uguale a quello che aveva pel suo
tesoro. Ricordò ancor egli di colpo, e tutto ad un tratto, il passato di
quella infelice: quando era bambina, quando accoglieva con un sì bel
sorriso il padre al suo ritorno in casa, quando gli dava il bacio della
sera ed il saluto del mattino; quando vivevano sì lietamente in
quell'oscuro quartieretto che la bellezza di lei illuminava. E tutto ciò
era cambiato poichè un infame era venuto a cacciarsi in mezzo a loro.
Ricordò la mestizia sopraggiunta in Ester; poi tutte le scene tremende
che erano succedute; per ultimo la tremenda maledizione con cui egli
aveva flagellata la figliuola, quando il caso glie l'aveva fatta
ritrovare fuggitiva nell'oscurità vespertina della strada. Si percotè
coi pugni chiusi la fronte; si strappò i capelli grigiastri che gli
pendevano alle tempia.

— Eterno Iddio! esclamò: perchè hai tu dato ascolto alla maledizione
d'un padre?... Disgraziato! Disgraziato!... Sono io che l'ho uccisa...
Io, ed un altro!... Un altro! soggiunse con accento d'odio infinito
levando al cielo i pugni stretti e gli sguardi infiammati.

Un istinto parve avvertirlo in quella che l'_altro_ di cui parlava era
lì, al suo fianco, sì da toccarsi, e che Dio li aveva voluti appunto
raccogliere insieme innanzi al cadavere della loro vittima. Si volse di
scatto e i suoi occhi che brillavano ferocemente in fondo alle sue
occhiaie infossate, s'incontrarono nelle pupille fieramente corrusche di
Gian-Luigi.

_Macobaro_ mandò un'esclamazione gutturale che pareva un grido belluino,
e sulla sua faccia cinerina e macilenta corse un lampo come di gioia
feroce. Afferrò con una delle sue mani fatte ad artigli, dalle dita
lunghe, scarne, nere, unghiate, il braccio di Quercia e disse:

— Ah sei qui tu?... Vedi, vedi che hai fatto di mia figlia... Rendimi la
mia figliuola, scellerato!

Una subita e viva emozione corse il cerchio degli spettatori. Gian-Luigi
non si scompose: con un moto ratto e violento del suo braccio robusto
rigettò da sè il vecchio ebreo, e prese una mossa come di difesa.
Intorno a lui si fece un po' di largo e tutti gli occhi erano conversi
su questi due personaggi che accennavano rappresentare una scena
interessante di dramma innanzi a quel cadavere di donna.

Quercia girò intorno i suoi occhi che facevano chinare innanzi a sè
tutti gli altri.

— Quest'uomo, disse pacatamente, od è pazzo, tratto fuor di senno dal
dolore, od è illuso da una strana rassomiglianza... Io non lo conosco.

_Macobaro_ diede un balzo, come se volesse lanciarsi addosso al giovane
elegante: ma questi lo prevenne, gli pose una mano sulla spalla, e
guardandolo in certo modo speciale, come il domatore di fiere guarda il
tigre che vuol ribellarglisi, soggiunse lentamente:

— Io non vi conosco brav'uomo. Guardatemi bene, e vedrete che siete
vittima d'un errore.

Mai gli occhi neri del _medichino_ non avevano avuta tanta efficacia,
tanta imponenza, tanta autorità. Il vecchio avrebbe voluto resistere a
quell'influsso, ma non potè: la forza di quella individualità più
potente, l'abitudine di cedere ad essa, la soggezione di quell'autorità
che il _medichino_ aveva saputo acquistarsi e sapeva difendere e
mantenere, ebbero ancora la loro efficacia in _Macobaro_; curvò il capo
innanzi al suo superiore e sottrasse le sue pupille dallo sguardo di
quelle di lui.

— Mi conoscete voi dunque? domandò Quercia.

— No, no, balbettò il padre di Ester, guardando sempre per terra.
Perdoni ad un povero vecchio che non sa più quel che si faccia.

Gian-Luigi fece un gesto da eroe che mostra la sua clemenza, e
s'allontanò lentamente. Jacob non rivolse più verso di lui nemmeno uno
sguardo; si voltò verso il cadavere della figlia, e tendendo le due
braccia traverso le sbarre, le disse piano piano che niuno potesse
udire:

— Sta, sta tranquilla che ti vendicherò... Ci vendicherò tuttedue.

Poscia si levò di là ed allontanossi con passo barcollante. Pochi minuti
dopo egli era in istretto colloquio con Barnaba, la cui ferita era in
via di guarigione così bene che già poteva egli sedersi sul letto.

Gian-Luigi s'allontanava, pieno l'animo d'una malavoglia, d'un
malessere, d'un'irritazione da non dirsi. Sentiva, per così dire,
sfuggirgli sempre più di pugno il filo guidatore della sua sorte;
sentiva accrescersi quella stanchezza dell'iniqua lotta, quel fastidio
de' casi suoi che ho già accennato venire assalendo a volta a volta
l'animo suo. Ebbe egli appena attraversata la piazza municipale e fatto
pochi passi per la via che mena a piazza Castello, quando gli si fece
innanzi domandando l'elemosina un pezzente tutto rattrappito delle
membra. Il primo atto del giovane, assorto ne' suoi poco piacevoli
pensieri, fu un atto d'impazienza; ma il mendicante fece rapidamente un
certo gesto che destò l'attenzione del _medichino_. Questi si fermò, lo
guardò bene, rispose ratto con un certo ammicco degli occhi, e tratta
fuor di tasca la borsa ne prese una moneta e la fece scivolare nella
mano del povero. In questo medesimo atto il mendico fece passare nella
mano che gli porgeva il denaro un piccolo fogliolino di carta finissima,
ripiegato e compresso da tenere il meno spazio possibile.

Quercia serrò in pugno quella carta, senza fare il menomo cenno, come se
nulla fosse, e continuò la sua strada; ma dopo un poco affrettò
maggiormente il passo per giungere a casa sua e leggere il bigliettino
portogli in quella guisa, che ben poteva presumere trattare di cose di
molta premura ed interesse e cui non voleva neppur guardare nella
pubblica strada.

Quando fu chiuso nella sua camera, Gian-Luigi aprì con sollecitudine che
quasi era inquieta il finissimo fogliolino. V'erano scritte poche parole
e con carattere contraffatto: ma un certo segno convenzionale avvertì
subito Gian-Luigi da chi fosse scritto e mandato. La _cocca_ aveva
affigliati, più o meno addentro ne' suoi segreti, in ogni parte; e chi
scriveva era impiegato, e non degli ultimi, negli uffici medesimi della
Polizia. Il biglietto diceva:

«Guardatevi! Si comincia aver sospetti. Prendete ogni precauzione. Si
parla di certi diamanti. Nel bavero trovato in mano a N. v'è una cifra.
Voi sapete che cosa ciò voglia dire, e che importanza darci.»

Gian-Luigi lesse due e tre volte queste incoerenti parole e se le stampò
nella memoria; poi stracciò a minutissimi pezzi quel foglietto, e come
se non bastasse, lo gettò nel fuoco: stette a guardarlo mentre in un
attimo la fiamma lo distruggeva, e quindi incrociate le braccia al
petto, si mise ad andare su e giù per la stanza.

— Una cifra nel bavero?... Qual contrarietà!... Chi avrebbe mai pensato
a codesto?... Quel mantello era di Benda: il mantello è sparito e non lo
troveranno mai... Ma si può appurare che quella cifra è la sua, che
quello squarcio appartiene ad un suo mantello, e che questo fu
imprestato a me, il quale non l'ho più restituito... Bisogna rimediare a
ciò.

Stette un poco meditabondo; poi sollevò il capo con risoluzione.

— Non c'è che un modo di aggiustarla. Quel mantello è stato derubato a
me stesso quella notte medesima sul viale... E il rapitore, che io
descriverò a meraviglia, sarà _Stracciaferro_... a lui poi il non
lasciarsi pigliare. Ciò quanto al mantello. Ma e i diamanti? Che cosa
vuol significare il cenno intorno ai diamanti? «Si parla di certi
diamanti.» Quali? Quelli che ho trovati nello scrigno sono così bene
riposti che l'occhio della giustizia non li potrà veder mai; quelli di
Candida sono a lei restituiti, e nissuno de' sapere che essi furono un
momento nelle mani di quell'usuraio...

S'interruppe, assalito dal ricordo di un fatto che eragli sfuggito
compiutamente dalla memoria: Nariccia quando si trattò dell'imprestito
su pegno di quei gioielli, aveva questi recati un momento di là per
farneli forse esaminare, come Gian-Luigi medesimo aveva supposto, da
alcun intelligente della materia che ci avesse. Che questo tale avesse
conosciuto quali e di chi erano quei diamanti? La cosa prima di tutto
pareva a lui assai improbabile, e poi ancorchè fosse, quali conseguenze
a suo danno se ne potrebbero tirare? Come provare che egli fosse stato a
recare dall'usuraio quei diamanti? e se dati in pegno, non si erano
potuti riscattar poi pagando il debito? Ad ogni modo sarebbe forse stato
meglio parlarne subito colla contessa, combinare con lei, farle credere
ciò che occorreva, e consigliarle in ogni caso le risposte che
convenivano. Egli era sul punto di uscire per recarsi subito da lei,
quando i suoi occhi caddero sopra un bigliettino che stava sulla tavola
di marmo del cassettone, e cui gli aveva impedito di vedere a tutta
prima il turbamento col quale era entrato nella stanza. Lo prese
sollecitamente, e conobbe di botto dalla scrittura, dalla carta, dal
suggello, dal profumo speciale, da qual mano venisse. Era appunto di
Candida; e Gian-Luigi lo lesse in tutta fretta.

«Ho bisogno urgente di parlarvi» gli scriveva essa secondo il solito, in
francese; «all'una aspettatemi nella vostra casetta sul viale.»

Siccome non mancava di molto all'ora posta dalla contessa, Gian-Luigi
s'avviò tosto verso quel suo misterioso ridotto, in cui siamo già
penetrati con lui altra volta.

La contessa non si fece lungamente aspettare. Levando il fitto velo che
gli copriva la faccia mostrò al suo amante un aspetto turbato in cui
apparivano insieme contrarietà, collera, amarezza.

— Che è ciò? signore? cominciò ella senz'altro con voce vibrante. A chi
andate voi confidando le cose più arcane che debbono rimanere tra di
noi?

— Contessa! interruppe il giovane coll'accento risentito di persona
fieramente calunniata da tale cui non vuole rispondere oltraggio per
oltraggio. Voi mi fate un'iniqua accusa che non avreste mai dovuto pure
accennare.

— Voi non avreste dovuto meritarvela.

— Non perdiamo il tempo in garriti di parole. A che proposito mi
rivolgete voi quest'accusa? quali prove credete di averne?

— Mio marito seppe — sa — che i miei diamanti furono in pegno presso
l'usuraio che venne l'altro dì assassinato e sa che a portarglieli siete
stato voi.

Quercia non potè reprimere un contrarsi dei lineamenti che esprimeva
quanto questa novella gli dispiacesse.

— Ne siete voi certa?

— Certissima. Me lo disse egli stesso testè... Ah! vedete anche voi che
non potete negare....

Gian-Luigi prese le due mani della contessa, e stringendole con dolce
pressione, quasi supplichevole, soggiunse:

— No, Candida, io non ci ho colpa: è una maledetta fatalità che mi
perseguita, che ci perseguita tuttedue, e che può avere le più tristi
conseguenze, se non ci andiamo tosto al riparo.... Ti spiegherò tutto di
poi, caro amor mio; ma essenzialmente gli è per la tua tranquillità, per
te, che mi preoccupo.... Contami tutto quello che avvenne fra te e tuo
marito a questo proposito.

La contessa raccontò quel che erale capitato a tal riguardo, ma noi
prendendo da più alto le mosse esporremo assai più di quanto ella
sapesse e potesse apprendere al suo amante.

Ed ecco di che modo s'eran passate le cose.

Il signor X, gioielliere, uno dei principali, per non dire il
principale, di Torino in quel tempo, aveva recato, se ben vi ricorda, a
Nariccia, pochi giorni prima che succedesse l'assassinio di costui, una
certa quantità di preziosi oggetti del suo commercio, ed ottenutone
ancor egli una somma in prestito lasciandoli in pegno all'usuraio.
Figuratevi dunque come egli rimanesse allorquando quella mattina che si
sparse per la città la novella dell'orrendo delitto, ebbe udito che
tutta era stata svaligiata d'ogni cosa di valore la casa
dell'assassinato! Corse immantinente dal Commissario di Polizia a far la
sua denunzia e la sua deposizione, dando la lista distinta e divisata un
per uno di tutti gli oggetti ch'egli aveva consegnati a Nariccia e che
erano caduti nel furto. Il valore complessivo di quei gioielli saliva a
qualche diecina di mille lire: e il signor Tofi, quando ebbe udito
l'orafo specificare siffatto valore, esclamò con quella sua ruvidezza
che pareva sempre un accento collerico:

— I mariuoli hanno fatto un bel colpo!... L'altro dì hanno arraffato i
capitali del banchiere Bancone, ieri il tesoro dell'usuraio Nariccia:
c'è da farsi ricchi in più a queste due sole imprese.... Sarebbe un bel
mestiere.... se non ci fossimo noi a coglierli.... E li coglieremo, glie
lo prometto io!... Nel furto Nariccia gli scellerati avranno portato via
più di cento mila lire.

— Che la dice? esclamò il signor X, a cui le parole sfuggirono senza
pensarci, e che, pur pensandoci, le avrebbe fors'anche dette lo stesso.
Ma se Nariccia aveva tuttavia in suo potere i diamanti di casa Langosco,
e tutto mi induce a credere di sì, questi solamente furono pei ladri un
bottino di centinaia di mila lire.

Il signor Tofi volse tutto d'un pezzo la sua faccia aggrottata sul
cravattone duro verso il gioielliere:

— Come! I diamanti di casa Langosco erano in potere di quell'usuraio?

— Sì, signor Commissario; ce li vidi io stesso ch'egli me li diede ad
esaminare, consultandomi sul valore. E ciò accadeva solamente tre giorni
fa.

— Oh, oh! Questo sarebbe elemento da tenerne calcolo. Gli assassini
avrebbero saputo che quei diamanti erano colà... Ma come colà?... In
pegno forse?... Eh, eh! non è impossibile.... Bisognerà vedere.... Ad
ogni modo finora la Casa di Staffarda non fece richiamo nessuno, non
porse denunzia di sorta; e trattandosi di somma di tanto valore, non mi
pare che si vorrebbe star zitti.

Il Commissario congedò il gioielliere, ed occupato com'era in quel dì da
un subbisso di faccende, per la rivolta sopratutto degli operai avvenuta
la sera innanzi, dimenticò, o per dir meglio, trascurò di dare
l'importanza che avrebbe data altre volte a quelle parole dell'orafo
riguardo i diamanti della nobil famiglia Langosco. Tutta la giornata
passò senza che denuncia alcuna venisse; dalle informazioni che fece
prendere, il Commissario seppe che nel palazzo di Staffarda nulla era
avvenuto onde si potesse supporre che tal danno era capitato a quella
casa; la sera inoltre gli fu presto notificato che la contessa Candida
al ballo di Corte, sfolgorava il capo, il seno, le braccia di tutti i
suoi diamanti. Tofi non ci pensò più. Se il gioielliere non si era
sbagliato, e uno sbaglio di questa fatta in lui era difficilissimo, i
signori Langosco avevano per loro fortuna ritirato a tempo il pegno
preziosissimo dalle mani dell'usuraio.

Il signor X, a cui il ricupero della sua roba premeva infinitamente, era
già tornato parecchie volte nei due giorni che erano seguìti dal
Commissario a domandargliene novelle, finchè questi, che non aveva nulla
da apprendergli, che era occupatissimo e di peggio umore che mai, perdè
la pazienza, e con quelle sue maniere da burbero e parole da prepotente
gli ebbe fatto capire non venisse più a seccarlo, e quando si avesse
qualche cosa da dirgli, o da farsene dire, lo si sarebbe mandato a
chiamare. Il gioielliere se ne partì mortificato, e domandando a se
stesso che razza di giustizia la fosse questa che il derubato colà dove
si doveva prendere tutto l'impegno per fargli riavere la sua roba,
veniva accolto e trattato peggio che al ladro non si farebbe.

Ma il domani gli venne dalla Polizia un messaggio che gli fece nascere
in cuore qualche buona speranza. Il signor Commissario con un ordine
laconicamente espresso lo chiamava subito innanzi a sè, per
comunicazioni urgenti. Il gioielliere volò al Palazzo Madama colla dolce
speranza d'udirsi a dire per prima cosa che i ladri erano stati presi e
i suoi gioielli ricuperati. Fu una delusione. Introdotto in quel certo
gabinetto del Commissario che già conosciamo, e chiusane alle spalle di
lui la porta, il signor X rimase solo con quel terribile rappresentante
della pubblica autorità, il quale pareva assai sopra pensiero e più
burbero che mai.

Il signor X fu minutissimamente interrogato su quella circostanza
ch'egli aveva incidentalmente allegata nel primo colloquio da lui avuto
col Commissario, la presenza cioè in casa di Nariccia dei diamanti
Langosco. Il gioielliere dovette dir tutto: e come egli si trovasse
quella tal mattina in casa dell'usuraio, e come fossero sopravvenuti a
disturbarlo nel colloquio ch'egli aveva con Nariccia prima un frate
gesuita, poscia un cotale, di cui egli non aveva vista la persona, ma
uditane la voce e creduto di riconoscerla per quella del dottor Quercia;
come poco dopo Nariccia era tornato da lui portandogli ad esaminare,
perchè glie ne dicesse il valore, certe buste di diamanti ch'egli aveva
tosto riconosciuti per quelli della contessa di Staffarda, cui egli
aveva l'onore di contare fra le sue pratiche; come più tardi fossero
andati nel suo fondaco il conte Langosco e il dottor Quercia, il primo a
chiedergli della ripulitura di quei diamanti che a lui non erano stati
consegnati, il secondo a pregarlo in nome della contessa a far sì che il
conte credesse che i diamanti fossero presso di lui.

Il Commissario ascoltò attentissimamente, fece ripetere parecchie cose,
domandò varie minute spiegazioni: non iscrisse le parole pronunziate dal
signor X, ma prese diversi appunti di date, di ore, di motti sopra una
cartolina che chiuse poi accuratamente in un suo portafogli che teneva
allato; e finì per congedare l'orafo, più burbero che mai, intimandogli
che di quanto aveva narrato allor'allora non si lasciasse intanto
sfuggire parola con anima viva. Poscia diede subito ordine a varii
segreti agenti (e fu così che alcuna cosa venne a subodorare anche di
ciò quello affigliato alla _cocca_) si scrutasse se i diamanti portati
dalla contessa di Staffarda al ballo di Corte erano veri, se il dottor
Quercia di que' giorni fosse stato visto in alcun modo in possesso di
oggetti di valore od avesse speso eccezionalmente delle vistose somme.

Come mai il signor Tofi s'era posto a dare ora tanta importanza a questo
fatto che da principio aveva destato mediocremente soltanto la sua
attenzione? Gli è che nel frattempo egli aveva ritrovato Barnaba.

Sul modo di agire però, il signor Tofi si trovava molto perplesso. La
faccenda era assai delicata. La famiglia Langosco era troppo autorevole
e potente per non riguardarsi bene dal comprometterla leggermente.
D'altronde quello pareva pure un filo da non doversi trascurare per
guidarsi in quel labirinto finora indistricabile. Pensatovi su ben bene
il Commissario decise di parlarne francamente al conte medesimo; scrisse
una letterina, la più garbata ed umile ch'egli sapesse, al marito di
Candida, pregandolo a volergli assegnare un'ora in cui si potesse
presentare al suo palazzo, avendo egli urgente bisogno di parlargli.

Il conte di Staffarda, quando vide chi fosse che gli scriveva, tenne
quel foglio colla punta delle dita, in quel modo schifiltoso con cui il
marchese de la Seiglière nella bella commedia di Sandeau tiene la carta
bollata.

— Il Commissario di Polizia parlare a me? Oh che può avermi a dire un
simile personaggio?...... Entrare qui nel mio palazzo questa razza di
gente!... Mai più!.... Andiamo dal mio amico il generale Barranchi.

Ci si recò sul momento.

— Guardate, mio caro, diss'egli al generale, porgendogli il biglietto
ricevuto, che cosa mi scrive il vostro Commissario; mandatelo un po' a
chiamare quel _maroufle_, ch'e' venga qui a spiegarsi in presenza
vostra, se non vi disaggrada.

Il comandante dei carabinieri tirò su le sopracciglia sulla sua fronte
piccola e stretta, lesse e rilesse, tossì con aria d'importanza,
s'impettì nella montura, specchiò il suo naso nei bottoni lucentissimi
del suo petto e mandò ordine al Commissario venisse immantinente.

Quindici minuti dopo il signor Tofi si presentava, secondo il solito,
duro, impalato, le braccia lungo il corpo, in mano il suo cappello a
larga tesa, il suo lungo soprabitone cascante sulle gambe nervose, i
suoi piedi larghi e piatti ben piantati, il mento appoggiato alle
stecche del cravattone, lo sguardo dritto levato innanzi a sè, nella
impostatura del soldato senz'armi.

Il conte di Staffarda stava indolentemente sdraiato in una poltrona,
giocherellando con uno de' guanti che s'era levato dalla bella, fine ed
aristocratica destra, e pareva che quello non fosse punto fatto suo.
Però, guardando la faccia burbera e severa del Commissario di Polizia,
piantatosi a pochi passi di distanza, alla qual faccia l'aria di
sommissione che aveva assunta in quel momento, pareva accrescere ancora
la scontrosità, il marito di Candida provò uno strano e nuovo effetto,
come se gli fosse apparso in quell'alto e grosso corpo un messo del
destino ad annunziargli sventura. Il generale Barranchi fece un cenno al
Commissario perchè s'avvicinasse, e quando questi ebbe obbedito, gli
disse in tono di comando militare, porgendo verso di lui, a
mostrarglielo, il biglietto ricevuto da Langosco.

— Voi avete scritto questo biglietto?

Tofi diede un'occhiata al foglio, un'altra a chi lo interrogava, e
rispose:

— Sì, Eccellenza.

— Or bene, che cos'è che avete a dire al mio amico il conte di
Staffarda? Egli è qui pronto ad ascoltarvi; parlate.

Il Commissario fece scorrere lo sguardo di quelle sue pupille feline sul
volto di Langosco, poi lo ricondusse sulla faccia scioccamente superba
del generale.

— Mi perdonerà S. E., mi perdonerà anche il signor conte di Staffarda;
ma quello che devo dire, non lo posso dire che al solo conte medesimo.

Langosco staccò le spalle dalla poltrona con moto piuttosto vivace.

— Parlate, parlate pure in presenza del generale: è mio amico e non ci
ho nulla, ch'io sappia, che possa volere a' miei amici nascosto.

Tofi s'inchinò leggermente ed insistette.

— Non mi è assolutamente permesso di accondiscendere al desiderio di
vostra signoria. Credo mio debito parlare a Lei sola; e quando la mi
avrà ascoltato sono persuaso che mi darà ragione.

Il conte fece un atto d'impazienza.

Barranchi entrò in mezzo.

— Mio caro, disse, conosco questo bravo Tofi; è il più ostinato degli
uomini, e se non vuole non ci sarà verso di farlo parlare. Cedo io il
campo. Parlatevi qui stesso quanto fa bisogno; e voglio sperare che il
signor Tofi non avrà disturbato voi, nè vorrà disturbar me per bazzecole
che non abbiano importanza.

Gettò queste parole accompagnate da uno sguardo imponente e da una mossa
autorevole contro il Commissario come un'intimata. Tofi non si scompose.

— Ebbene, disse Langosco quando il generale fu uscito, parlate ora
liberamente e fate presto.

Aveva egli appoggiato un gomito alla tavola che gli era vicina, s'era
così appressato un poco della persona al suo interlocutore, ed aveva
parlato con accento di sollecita benchè dissimulata curiosità.

Tofi depose il suo largo cappello sulla seggiola che trovò più vicina,
s'aggiustò sotto il mento quadrato l'alta e dura cravatta, affondò
secondo sua abitudine le manaccie entro le grandi tasche del suo
soprabitone, e cominciò col tono di un interrogatorio:

— Il signor conte ebbe qualche rapporto d'interesse col fu Nariccia,
assassinato la settimana scorsa?

Langosco arrossì leggermente sui pomelli delle sue magre e pallide
guancie; si trasse indietro della persona con mossa d'inesprimibile
fierezza, e mettendo nella sua voce un disdegnoso risentimento, disse
guardando corrucciato la faccia del Commissario:

— Che è ciò? Obliate voi con chi parlate? Non son tale a cui dobbiate
osare volgere le vostre interrogazioni — voi!

Innanzi a questo disprezzo il Commissario si morse il labbro inferiore e
fece un atto colle mascelle come se mandasse giù un grosso boccone; in
fondo alle sue occhiaie, le grigie pupille ebbero un lampo fugace che
pareva voler accennare ad un riscuotersi di quella natura plebea contro
lo staffile di quel disprezzo aristocratico; ma la soggezione rispettosa
al grado, al titolo, alla casta non venne meno in quell'uomo pagato per
difendere con zelo l'ordine di cose esistente; s'inchinò a suo modo, e
soggiunse con un accento d'umiltà che stornava maladettamente
coll'espressione della faccia, coll'aspetto di tutta la persona, colla
rauca ruvidezza della voce:

— La mi perdoni. Si tratta della giustizia di S. M., e noi abbiamo il
dovere per servirla di non arrestarci innanzi a nulla. Ella sa l'orrendo
delitto che fu commesso, e certe circostanze che per mezzo della S. V.
si possono assicurare, son forse tali da metterci sulle traccie della
verità.

— Siete matto! esclamò il conte mezzo stupito e mezzo indignato. Che
cosa ci posso entrar io in codesto?

— Se Ella mi permettesse appunto di continuare a rivolgerle alcune
domande e volesse degnarsi rispondere...

Langosco interruppe con superba impazienza:

— Ditemi queste vostre circostanze cui accennate, e quando io le abbia
udite saprò e vedrò che cosa vi debba rispondere o no.

Il Commissario trasse di tasca il suo portafogli, prese in mezzo a molte
carte quella su cui aveva notati gli appunti della narrazione fatta dal
gioielliere X, e questa ripetè per intiero, con un'esattezza che poteva
dirsi crudele, e che ben vendicava il Commissario della sprezzosa
impertinenza con cui il conte lo trattava. Avreste detto, chi
superficialmente l'osservasse, che il marito di Candida stava ascoltando
le più indifferenti cose del mondo. Aveva appoggiato di nuovo il gomito
sul tavolo, teneva il mento nel concavo della mano e guardava fiso,
immobile il Commissario che lo fissava entro gli occhi egli pure. Ma
scrutando ben bene quella fisionomia si sarebbe visto che una maggior
pallidezza dell'usato s'era stesa su quel volto logoro più dalle
passioni che dagli anni, che quel sorriso ironico e superbo ond'erano
abitualmente mosse le sue labbra, ora copriva una nuova emozione che
tremolava, per dir così, ai due sottili angoli della bocca, che dalle
ciglia ravvicinate fuggiva a sprazzi una luce d'immensa ira compressa,
che sulla lucida, giallognola pelle del cranio denudato spuntavano, come
punte di spilla, alcune goccioline di sudore.

Quando Tofi ebbe finito di parlare, successe in quel salotto un assoluto
silenzio di parecchi minuti: s'udiva solamente il soffio un po' pesante
del rifiato del conte. Que' due uomini stettero alquanto così, immobili,
di fronte, l'uno seduto e l'altro in piedi, guardandosi con fissità poco
meno che ostile; il Commissario voleva leggere nell'interno del conte,
questi avrebbe voluto strappare dalla memoria di colui che gli aveva
parlato il fatto che ne aveva appreso. Pensava frattanto con indicibile
sforzo di mente che cosa fosse da farsi, qual risoluzione da prendersi.
Passò la mano sul suo cranio pelato ad asciugarsi quel po' di sudore; e
disse poi lentamente con voce bassa e stentata:

— Non vedo ch'io sia obbligato a nulla rispondere... Potrei limitarmi a
dirvi che in queste circostanze da voi narrate non c'è nulla,
assolutamente nulla che possa mettervi sulle traccie di quella tal
verità che cercate.

Si fermò come a prender fiato, chinò gli occhi egli innanzi a quelli del
Commissario, ma li rialzò tosto di nuovo e continuò:

— Ma voi siete come i confessori, e vi si può confidare un segreto di
famiglia.... È vero che mia moglie, per certi suoi bisogni, mandò, a mia
insaputa, ad impegnare i diamanti, e per nascondermelo volle farmi
credere fossero presso il gioielliere. Ma io non fui lungamente _sa
dupe_. La indussi a dirmene la verità; e quando la seppi non volli che i
gioielli di mia moglie stessero più a lungo nelle mani di un usuraio — e
li riscattai.

Nulla era più penoso a quell'uomo che mentire; sul suo cranio si
raddoppiavano le goccie di sudore.

Il Commissario si chinò un poco verso il conte e disse con accento che
non era interrogativo, ma che poco mancava ad esserlo:

— L'assassinio di Nariccia ebbe luogo nella notte dalla domenica al
lunedì. Ella ha certamente riscattati quei diamanti nella giornata
stessa di domenica, forse anche in quella di sabato.

Langosco trasalì.

— Sì, sì, diss'egli, sabato, sabato stesso.

S'alzò per indicare che l'udienza, secondo suo volere, doveva essere
finita; andò alla porta del gabinetto vicino in cui s'era ritirato il
generale e l'aprì.

— Venite pure, Barranchi.

Il generale si presentò con un'aria scioccamente curiosa sulla sua
stupida faccia superba.

Langosco non aspettò interrogazione veruna.

— Potete fare con giustizia i complimenti al vostro Commissario di
Polizia: disse. Egli sa anche ciò che non importerebbe sapere, e che le
famiglie vorrebbero molto bene nascosto a tutti. Ma ditegli anche voi
che un uomo suo pari dev'essere una tomba dei segreti.

Il generale tirò avanti colla sua solita mossa il petto lucente di
bottoni e di decorazioni e disse, come se comandasse il maneggio d'armi
ad un pelottone di carabinieri:

— Voi sarete una tomba dei segreti.

Tofi, congedato di questa guisa, si partì.

— Caro generale: disse Langosco rimasto solo con Barranchi: a voi non
voglio tener nulla nascosto. Mia moglie aveva impegnato i suoi diamanti
presso quell'usuraio che fu assassinato. Tofi lo seppe e voleva
conoscere il modo col quale la contessa li aveva riavuti. Sono io che
appena ho appreso tal cosa, mi affrettai a riscattarli. Non fareste male
d'inculcare a quel Commissario troppo zelante, che quando trattasi di
certa gente come noi, di certe famiglie come la mia, come le nostre, non
gli conviene avere tanta curiosità.

Barranchi prese la sua aria d'importanza e disse dall'alto del suo
colletto ricamato in argento:

— Glie l'inculcherò.

Il conte di Staffarda si recò sollecitamente dal gioielliere X. Ripetè a
lui quello che aveva narrato al Commissario ed a Barranchi, e con
preghiera che aveva tutto il tono d'un comando, lo invitò a non parlar
più con nessuno e in nessuna guisa di questa faccenda. Quindi si recò
nel suo palazzo.

— La contessa è nelle sue stanze? domandò ai domestici.

E come gli fu risposto di sì, s'avviò d'un passo lento e pesante verso
l'appartamento della moglie, dove entrò senza voler essere annunziato.

La contessa, che da qualche tempo veniva ricevendo alcune di cotali
improvvise visite del marito, a cui egli dapprima non l'aveva avvezza
mai; la contessa si volse a guardare il conte con aria meravigliata,
curiosa e risentita nello stesso tempo. L'espressione del suo bel volto
significava apertamente, senza che avesse bisogno delle parole per
dirlo: «Che altra novità c'è ella ora? Non vi ricordate i patti e la mia
volontà? Non volete più lasciarmi tranquilla?»

— Vedo che siete occupata: cominciò il conte, parlando francese, in
presenza della cameriera che finiva di aggiustare sul capo della
contessa le nere, abbondanti, fulgide di lei chiome: e mi rincresce
disturbarvi; ma vi è proprio necessità ch'io vi dica a quattr'occhi due
parole, e vi prego a congedare il più presto che si possa la vostra
donna.

L'aspetto del conte era affatto gentile, e sulle labbra stavagli un
sorriso che riusciva ad essere grazioso; ma entro gli occhi era un certo
cupo sbarbaglio e nella voce una vibrazione che rivelavano una qualche
profonda emozione contenuta a forza.

Candida s'affrettò a liberarsi della cameriera, e quando essa e il
marito rimasero soli nella stanza, drizzatasi in piedi ed avvoltasi nel
suo accappatoio come nell'ampio velo una statua romana, le braccia
conserte al petto, la faccia audacemente levata e gli occhi fissi sul
conte, dimandò asciuttamente:

— Che cosa dunque avete da dirmi? Sbrigatevi.

Langosco che s'era messo a passeggiar su e giù, si piantò in faccia alla
moglie, e incrociando collo sguardo di lei il suo collerico, invelenito,
viperino, disse con voce bassa ma che sibilava fra le labbra contratte:

— Quanto vi ha spillato il vostro amante, obbligandovi a mettere in
pegno le vostre gioie?

Un lieve rossore salì alle guancie della contessa. La sua prima
impressione fu lo stupore e la confusione: le sue pupille si chinarono
un istante; ma non tardò a riprendere la sua sicurezza.

— Vi fo i complimenti, signor conte, diss'ella, del nuovo dizionario
dove andate a pescare i vostri termini.

— È quello che ci conviene ad ambedue: rispose il conte con sogghigno di
fiera ironia. _J'appelle chat un chat, et Rollin un fripon_: disse quel
birbo di Voltaire. Nel caso nostro il _fripon_ sapete chi sia...

Candida fece un gesto colla mano ad imporgli silenzio.

— Basta: diss'ella con tutta l'imponenza d'una gentildonna offesa.

Ma Langosco, più animato nello sguardo, nell'aspetto e nella voce, le si
accostò ancora d'un passo e proruppe con forza:

— No, non basta, signora contessa. Que' diamanti che voi avete fatto
servire ad un uso così.... Ah! non dirò l'epiteto che si conviene per un
resto di riguardi che forse non meritate..... que' diamanti appartennero
a mia madre, e non voglio che sieno...

Essa lo interruppe.

— Ma quelle gioie, lo avete ben visto, sono tutte in poter mio....

— Non cercate di mentire: voglio sperare che non ci siate abile
tuttavia: ad ogni modo non arrivereste a darmi lo scambio perchè io so
tutto.

E qui ripetè in brevi parole quello che sapeva, senza dirle il come
avesse ciò appreso.

Candida rimase atterrata.

— Or via, qual somma ritrasse quello sciagurato da tale imprestito?

La contessa glie la disse.

— E voi?

Candida fece un gesto di denegazione pieno di verità.

— Io? Nulla.

— E le cinquanta mila lire (e ciò dicendo il conte pronunziò più
lentamente e pesando sulle parole) per riavere i diamanti furono
restituite all'usuraio?

— Sì: rispose debolmente la donna.

— Ne siete certa? insistè il marito con forza.

— Credo..... mi pare..... non può essere altrimenti.

Una scura nube passò sulla fronte di Langosco.

— Ah! esclamò, potrebbe pur anco essere altrimenti.

La contessa non comprese o non sospettò neppure il significato di
quell'esclamazione.

Langosco, memore d'una interrogazione che gli aveva fatta il Commissario
ed avendone apprezzata e meditata tutta l'importanza, la ripetè ora a
sua moglie:

— E quando vi furono essi restituiti que' diamanti? La domenica o il
lunedì?

— Il lunedì.

Un piccol fremito contrasse i muscoli della faccia del conte, e le sua
guancie impallidirono leggermente.

— Ah! fece egli: il lunedì.

Tacque un istante: guardava la donna con espressione indefinibile di
compassione insieme e di dispetto, di rampogna e di dolore: pareva che a
significare i suoi pensieri, i suoi dubbi, le sue paure non trovasse
parole, e non osasse neppure avventurarsi a cercarle. Candida si sentiva
afferrare da una soggezione affatto nuova, quasi da una timidezza e da
una vergogna.

Dopo un poco il conte parlò e con accento di gravità, quale non gli
aveva mai sentito la moglie.

— Forse a farvi dei rimproveri ci ho poco diritto, e nei vostri errori
ci ho la mia buona parte di torti. Alle prime osservazioni ch'io
tentassi di porvi innanzi intorno alla vostra condotta, voi potreste
rinfacciarmi il mio passato e la mia, ed invocare quel patto mezzo
tacito e mezzo espresso, per cui avete ricompra la vostra assoluta
libertà col sacrifizio delle vostre sostanze. Mi merito questa poco
bella condizione in cui mi trovo a vostro riguardo, e non cercherò più
di uscirne; è troppo tardi; quindi non una parola vi dirò delle vostre
galanterie, nulla neppure se avete anche l'assurdità di sciupare da
parte vostra i vostri capitali; ma finchè avete l'onore di portare il
nome della mia famiglia, finchè vivrò, m'incombe l'obbligo di vegliare a
che questo nome non venga compromesso e macchiato. La vostra relazione
con colui ch'io non voglio nominare, minaccia trascinarvi, minaccia
trascinare il nostro nome in funeste — dirò la parola — in infami
pubblicità. Ciò non posso tollerare, ciò dovete evitare ad ogni modo voi
stessa. Non credo per ora dovermi spiegare più chiaramente. Le cose che
dovrei dire mi brucierebbero le labbra. Ma pensateci voi medesima.
Domandatevi come e di che viva quel.... quell'individuo, e conchiudete
se possa dirsi onorevole la sorgente di quei denari che spende. Non vi
do ordini, non v'impongo sollecite determinazioni; mi prendo solamente
la libertà di rivolgervi un consiglio: sarebbe assai bene che quel
cotale cessaste addirittura di vederlo. Quanto a questo palazzo, siccome
qui sono io il padrone, e ci ho il diritto di escluderne chi voglio, do
ordine immantinente che quando si presenti gli si dica chiaro che queste
soglie non sono più fatte per lui, e se vuol saperne la ragione, gli
farò l'onore d'ammetterlo un momento alla mia presenza per dirgliela
sulla faccia io stesso.

Il conte uscì senz'aspettare risposta. Candida rimase atterrata, confusa
e perplessa. Sentiva, anche suo malgrado, una certa vergogna dei fatti
suoi: non aveva di certo capito tutto il significato delle parole del
marito, la sua mente non era andata fino a quel punto estremo a cui pure
esse direttamente miravano, ma pure sentiva che in quella sua
disgraziata passione c'era oramai più che una colpa un degradamento. E
tuttavia essa non aveva il coraggio di strapparsela dall'anima: e il
solo pensiero che potesse avvenire ciò che le aveva consigliato il
conte, di non veder più il suo amante, erale dolorosissimo. In mezzo a
questo suo turbamento sorgeva e veniva via aumentando una irritazione
collerica, un vivace risentimento contro il marito che le aveva dette
quelle parole, contro l'amante che se le meritava, contro se stessa.
Bisognava risolversi a qualche cosa. Scrisse il bigliettino che sappiamo
a Luigi, perchè si trovasse al convegno; ed all'ora posta fu con lui.

Le parole dettele dal marito ella non seppe ripetere esattamente
all'amante, ned avrebbe pur voluto; e dalla narrazione da lei fatta
risultò solamente che il conte aveva appreso l'oppignorazione fatta dei
diamanti a benefizio di Gian-Luigi, la decisa volontà nel conte medesimo
di voler impedire il rinnovamento di simili fatti, e la determinazione
da lui presa di mettere alla porta di sua casa il signor Quercia e di
dirglielo egli stesso sul muso.

Gian-Luigi stette un poco in silenzio, le mascelle contratte
morsicchiando i suoi baffetti neri che le dita quasi tremanti avevano
abbassati fra i denti, scolpita in mezzo della fronte con solco profondo
la sua ruga caratteristica.

Tutto questo era per lui molto spiacente. Non solamente il suo orgoglio
si trovava leso nel sentire che il conte lo voleva cacciare di casa sua,
ma il suo interesse eziandio che era di mantenersi in assai buona
attinenza con quella potente famiglia, come guarentigia contro certe
indiscrete curiosità.

— Di codesto, diss'egli poi, la colpa è certo al signor X e me ne farò
sentire (e qui narrò come sospettasse alcuno avesse visto i diamanti in
quel poco di momenti in cui Nariccia li aveva recati nell'altra stanza,
e questo qualcuno li aveva riconosciuti per quelli di lei, la qual cosa
non poteva fare che il gioielliere); ma frattanto, Candida, che pensi tu
di fare? abbandonarmi?

Le prese di nuovo le mani come aveva fatto poc'anzi, le accostò il suo
viso più bello che mai per un'espressione d'ardenza e d'amore, le saettò
negli occhi uno sguardo pieno di fuoco e di passione.

Candida sentì un caldo fremito soave correrle tutte le fibre; le sue
guancie arrossirono, le sue labbra si dischiusero tremanti, i suoi occhi
lampeggiarono.

— Abbandonarti? Io?... Mai!

Luigi colse con un bacio questa parola che ancora vibrava sulle
coralline labbra di lei.

— Quanto al signor conte, soggiunse egli, aggrottando di nuovo le
sopracciglia, non gli farò aspettare di molto l'occasione di dirmi ciò
che gli frulla, e stassera dopo pranzo mi recherò io stesso da lui.....

La contessa lo abbracciò con amplesso vigoroso e tenace, come chi colla
propria persona voglia difendere un suo caro da pericolo che lo minacci.

— Non vo' che ti batta con lui, esclamò ella con forza. Non voglio, non
voglio... Egli è perito nell'arte di ammazzare.

Quercia la rassicurò con un sorriso che pareva significare, quando
avvenisse una lotta, non per lui esservi da temere, e soggiunse
coll'accento con cui si calmano le paure d'un diletto bambino:

— Non pensarci neppure. Vedrai che tutto si conchiuderà più
amichevolmente che tu non creda.

Quando la contessa l'ebbe lasciato solo, Gian-Luigi stette ancora un
poco riflettendo seco stesso, poscia, determinazione che veniva
conseguenza delle sue meditazioni, uscì, e si diresse di buon passo
verso la casa dei Benda.



CAPITOLO XII.


Francesco Benda aveva passato una notte cattiva. Un gagliardo accesso di
febbre aveva spaventato non solo gli amorosi suoi congiunti, ma i medici
eziandio. Il mattino colse quella disgraziata famiglia senza che pur
uno, nè padre nè madre nè sorella dell'infermo, avesse chiuso quegli
occhi che tutti avevano rossi dal pianto, avesse riposato quelle membra
che ciascuno aveva, e non sentiva tuttavia, affrante dalla fatica e
dall'angoscia. Nè la venuta del giorno arrecò alcun sollievo al
giacente, alcun conforto di speranza a chi lo assisteva. Il ferito
passava avvicendatamente da un sopor plumbeo ad un delirio non
furibondo, nel quale, fra mille incoerenti parole che uscivano susurrate
dalle sue labbra, spiccava pronunziato con più affetto, con ardenza di
trasporto, un nome: quello di Virginia.

E questa, da parte sua (era esso un misterioso istinto, era una
meravigliosa corrispondenza delle anime nei due amanti?), Virginia da
parte sua, tutta notte era stata occupata più che non ancora mai da
un'inquietudine affannosa, che le faceva immaginare, che le faceva
indovinare più pericolose e crudeli le condizioni del ferito. Era di
poco inoltrata la mattina, quando la nobil fanciulla, senza punto lotta
cedette alle ispirazioni del suo amore ed all'impulso della sua pietà.
Scrisse una letterina a Maria, come ad antica compagna ed a nuova amica,
pregandola di volerle comunicare le notizie del fratello, e la mandò
tosto per un lacchè, a cui fu vivamente raccomandata la sollecitudine.

Maria, che in que' momenti ne' quali la lettera di Virginia le giunse,
non avrebbe voluto nè veder persona, nè ricevere biglietti di sorta,
pure ad udire il nome di chi mandava quel foglio lo prese e lesse con
premura. Il delirio del fratello aveva alla fanciulla rivelato il
segreto dell'amore di lui; e se anima pietosa di fanciulla è pur sempre
inchinevole a intenerirsi per siffatti affetti, da alcuni giorni la
buona Maria era pur troppo, in mezzo ad un nuovo turbamento del suo
cuore, più facile che mai ad esser commossa dalla vista, dalla parola,
dal pensiero di quella passione. Nelle poche righe di Virginia
laconicamente gentili, la sua dilicata percezione sentì un interesse più
caldo e più vivo di quel che non volesse apparire, avvertì la vibrazione
d'un affetto che invano cercasse nascondersi. Maria ebbe una ispirazione
da semplice ed innocente fanciulla inesperta delle cose del mondo;
sedette a tavolino e rispose alla nobile amica col biglietto seguente:

«Il povero Francesco sta male pur troppo.

«Se il giorno passasse come passò la brutta notte che è finita, non oso
nemmeno pensare a quel che ne potrebbe avvenire.

«Ho pregato tanto la Madonna, e mi pare che la dovrebbe pur farci la
grazia di salvarcelo.

«Sento una voce in cuore che mi dice esservi una persona al mondo che
potrebbe richiamarlo alla vita.

«Questa persona è Lei, cui Francesco, nel suo delirio, ha invocata tutta
la notte.

«Oh! s'Ella venisse a farci questo miracolo! Dio la benedirebbe per
tutta la vita.»

Maria, scritte rapidamente queste parole, non riflettè, piegò la carta,
la suggellò e la fece rimettere nelle mani del domestico di Virginia che
aspettava. Se avesse riflettuto alquanto non l'avrebbe mandata: se ne
pentì appena il lacchè fu partito, ma era troppo tardi e stette
aspettando con ansia l'effetto delle sue parole.

Quest'effetto fu il migliore ch'essa potesse desiderare. Abbiamo visto
come il primo impulso di Virginia nell'apprendere la disgrazia avvenuta
a Francesco, fosse stato quello di accorrere essa stessa di persona a
casa di lui; trattenuta dallo zio e da costui posta in guardia contro le
imprudenze e i trasporti della passione, mercè il racconto delle funeste
avventure di sua madre, Virginia aveva momentaneamente ceduto, ma non
aveva in modo assoluto determinato che mai non avrebbe più tentato quel
passo, ch'ella in cuor suo dicevasi potere diventare per certe
circostanze, quasi un dovere in lei. Il racconto delle sventure di sua
madre, se aveva potuto contribuire a scemar in essa le speranze che
avrebbe potuto concepire intorno all'amor suo, ed abbiam visto com'ella
poca o nessuna ne avesse, se aveva potuto ispirarle più riguardosa
prudenza, non era fatto per isminuirle quella passione d'amore che già
troppo oramai era in lei radicata e cresciuta.

Oh come ella aveva ripensato tra sè, e ricontatosi quel doloroso romanzo
che aveva avuto per eroina sua madre, e di cui lo zio le aveva ora
tracciate le linee principali! Come la sua fantasia eccitata aveva
alacremente lavorato intorno a questi tratti precipui e compitone il
disegno e menativi i colori e terminato il quadro! La sua tenerezza per
la madre aveva sempre avuto qualche cosa di speciale, quasi potrebbe
dirsi di misterioso, come se il suo istinto di figliuola avesse sentito
nell'esistenza di quella cara e veneranda creatura un profondo dolore da
consolare. Ora questa tenerezza, ch'ella sempre serbava all'anima della
morta, s'era accresciuta vieppiù; ora era essa penetrata nel mistero di
quel dolore e ne trovava ancora più pietosa la causa; ora comprendeva il
significato di quello sguardo mesto, lungo, quasi imploratore, ch'ella
ricordava aver visto tante volte nei begli occhi della madre. Virginia
s'era recata innanzi al ritratto di questa che pendeva alle pareti nella
sua camera da letto, ed era stata lungamente contemplandolo. Quante cose
le diceva ora quel pallido viso leggiadro, che mai non aveva ella
dapprima avvertite! Non era una colpa l'amor suo, ben lo aveva ella
sentito; era una sventura: ma sapendo che a tale sventura aveva
partecipato sua madre, le pareva che più nobile, più degna quella
disgrazia si fosse, e se la aveva più cara.

Ad accrescere la passione dell'animo di Virginia venne la notizia dei
fatti compiutisi alla fabbrica Benda e dei pericoli che quella famiglia
avevano minacciato. Aveva sperato la nobil fanciulla di poter per mezzo
di Maurilio sapere tutta e particolareggiata, e man mano la verità, ma
fallitale, come abbiam visto, questa speranza, maggiori n'erano
diventati il suo timore, la sua inquietudine, l'affanno dell'anima sua.
La letterina di Maria giunse in buon punto per deciderla affatto a
quello che già pensava seco stessa, a quel partito cui fino da principio
aveva voluto effettuare, ed a cui non aveva rinunziato mai. Si coprì
d'un fitto velo, si avvolse in un modesto mantello, si fece seguire
dalla sua governante, uscì ratta a piedi, come quando recavasi
modestamente in chiesa, e salita in una carrozza da nolo si fece
condurre alla casa dei Benda.

Maria sedeva appiè del letto di suo fratello, il quale era di nuovo
caduto in quel sopore che lo faceva rassomigliare poco meno che ad un
cadavere. Quando alla fanciulla vennero ad annunziare che una giovane e
bella signorina domandava di lei, una subita speranza le nacque in cuore
che la potesse esser quella di cui essa aveva invocata la presenza, ma
non osò accoglierla questa speranza; già s'era pentita, come dissi,
d'aver scritto quel biglietto, e pensando all'orgoglio aristocratico che
certamente doveva avere quella giovane, venivasi persuadendo che quel
foglio la lo avrebbe disdegnosamente gettato e non altro. Corse di là
con sollecitudine e mandò un'esclamazione di gioia e di riconoscenza nel
vedersi davanti, ritta in mezzo la stanza, il velo sollevato dalla
faccia leggiadra, la contessina di Castelletto.

— Dio la benedica! disse Maria, e le prese ambedue le mani, e si curvò
come se glie le volesse baciare.

Ma Virginia la trasse su, le gettò le braccia intorno alla vita e
l'abbracciò come una sorella.

Le due fanciulle si guardarono entro gli occhi, e si compresero più che
per qualunque lungo discorso; si sentirono per affetto e per tempera
d'anima congiunte; a dispetto d'ogni distinzione sociale si avvertirono
pari.

— Posso io vederlo? domandò Virginia con una virtuosa franchezza,
senz'ambagi come senza falsa vergogna.

Maria la prese per la piccola mano affilata e rispose con una sola
parola:

— Venga.

La introdusse nella camera dove il ferito giaceva. Siccome le imposte
della finestra erano rabbattute, Virginia da principio non vide che
confusamente in quella oscurità. Al rossigno chiarore che mandava il
fuoco del caminetto scorse una donna attempata, la quale, vedendo
entrare una ignota, s'alzava da sedere. Maria le correva presso, le
bisbigliava poche parole all'orecchio e quella donna faceva alla nuova
venuta una profonda riverenza. Era essa la madre di Francesco.

Virginia camminò lentamente verso il bianco cortinaggio del letto che
spiccava nel buiccio di quella stanza. I suoi occhi, cominciando ad
avvezzarsi alla poca luce, videro sui cuscini abbandonata la testa
simpatica del giovane. Le palpebre erano richiuse e le lunghe ciglia si
disegnavano finemente sul pallore delle guancie. Le labbra scolorate
erano semiaperte, ma pareva che di mezzo a loro non uscisse soffio
nessuno di respiro. Solamente di quando in quando un gemito esile, ma
penoso, saliva su dal petto e passava lento, trascinato per quella bocca
socchiusa. Qual differenza fra quel misero giacente che soffriva e il
robusto ed aitante garzone che Virginia aveva visto pochi giorni prima
alla festa da ballo, che le aveva allora appunto con tanta ardenza
svelato il suo amore!

Ella si fermò a pochi passi dal letto. Sentì nel suo cuore una pena che
era quasi un rimorso; una ineffabile tenerezza le mandò agli occhi due
lagrimette ch'ella non pensò neppure di asciugarsi.

— Gli è per me, a cagion mia, pensò, ch'egli è ridotto in tale stato.

Lo sguardo di Virginia parve esercitare alcun influsso sull'infermo:
certo per uno di quegl'inesplicabili istinti d'innamorato, egli, anche
inconsciamente, sentì alcun effetto della presenza di lei. Gli occhi
rimanevano chiusi tuttavia, ma un lieve color rosato saliva su alle
guancie, ed il respiro si faceva più sensibile. Ella fece ancora un
passo verso il letto: gli occhi di lui si spalancarono e stettero
immobili, fissi su quella bellissima figura di donna che avevan dinanzi
e ch'egli credeva una felice visione del suo delirio. Tutta la notte il
caro fantasma di quelle sembianze era passato e ripassato nei torbidi
sogni della sua malata fantasia; ma egli non aveva potuto fermarselo mai
innanzi alla mente per tanto tempo e in sì precise forme quanto
desiderava: credette che ora fosse questa un'apparizione come le
precedenti, ma più simile alla realtà, più netta di forme e più
duratura. Lo sguardo semispento de' suoi occhi affondati prese una
ineffabile espressione di tenerezza, di gioia e di preghiera; e le sue
labbra mormorarono con appena sensibil soffio di voce:

— Oh! non fuggirmi così presto, diletta immagine dell'amor mio!

Virginia superò d'un tratto con piè leggiero la poca distanza che ancora
la separava dal giacente e si curvò su di lui come per raccoglierne le
pronunziate parole. Negli occhi del ferito apparve una sorpresa, una
commozione, quasi un timore. Richiuse le palpebre come per vedere se
quell'apparizione era nella sua mente soltanto, o proprio nella realtà,
all'infuori di lui: e in quella sentì, come un soffio soave di paradiso,
un alito profumato passargli sulla fronte, e una celeste melodia di voce
femminile pronunziare teneramente il suo nome:

— Francesco!

Il giacente mandò un grido — un vero grido — di gioia. Teresa e Maria
accorsero sollecite, quasi spaventate. Ma non c'era onde spaventarsi.
Gli occhi del giovane riapertisi brillavano di tutta la luce della
salute e della ragione: l'anima fatta beata raggiava la sua letizia da
tutte le sembianze della leggiadra faccia.

— Virginia! Virginia! esclamò egli con voce più forte di quello che
altri avrebbe mai potuto credere.

Non avevano fatto che pronunziare a vicenda l'un dell'altro il nome; ma
quante cose con quella sola parola e' s'eran dette! ma come s'erano
reciprocamente compresi! come si sentivano l'un dell'altro penetrar
l'anima nell'anima!

Virginia tornò a curvarsi sopra il giacente, e fece sommessamente di
nuovo suonare la melodia della sua voce.

— Non parli, glielo proibisco. Sono venuta a pregarla di guarir presto,
e la mi deve obbedire. A questo patto soltanto le perdonerò il troppo
dolore ch'Ella ha dato a sua madre, a tutta la sua famiglia.....

Stette un breve momento, e poi soggiunse a voce più bassa:

— Ed a me.

Francesco beveva cogli occhi lo sguardo, colle orecchie la voce
dell'amata fanciulla. Sentiva nelle vene, in tutto l'esser suo rifluire
di subito nuova e più potente la vita; gli pareva di colpo fugato ogni
male, e quasi effettuato in lui il miracolo del Nazareno, che aveva
detto all'infermo di levarsi, prendersi il suo letto in ispalla e
camminare. Le parole gli mancavano alle idee, le idee stesse gli
mancavano all'espressione della sua felicità.

Non passarono più che dieci minuti. Fu un attimo pel loro desiderio, ma
vi fu abbastanza di tempo perchè le più svariate e numerose sensazioni
di tenerezza e d'amore si avvicendassero nelle loro anime. Le labbra non
promisero nulla, gli occhi si scambiarono mille giuramenti. Virginia,
allontanandosi dal giacente per partirsi, lasciava nel cuore di lui un
balsamo taumaturgo da risanarlo assai più presto e meglio d'ogni farmaco
di medico.

Mentre la fanciulla stava per uscire di quella stanza, vi entrò un uomo.
Era il padre di Francesco, che veniva inquieto a vedere suo figlio. In
presenza delle donne Virginia non aveva avuto pure un istante di
turbamento o di confusione; la vista d'un uomo la fece arrossire fino
alla radice dei capelli. Prese ella vivamente per mano Maria, come se
volesse con quell'atto significare che all'interesse ed all'affetto per
la compagna dovevasi la sua presenza in quel luogo, e s'affrettò ad
uscire dalla stanza, passando innanzi a Giacomo, il quale,
riconosciutala, salutava con profondissimo inchino.

Giunte nella camera che precedeva quella di Francesco, Maria e Virginia
trovarono Gian-Luigi che sopraggiungeva, preceduto da un domestico.
Maria arrossì leggermente nel rispondere al saluto del giovane i cui
sguardi e la cui attenzione furono attirati dalla superba bellezza della
titolata fanciulla. L'aspetto di Quercia era tale ancor esso da non
passare inosservato a qualunque lo vedesse, e Virginia, senza pur
darsene conto, fissò quasi con curiosità i suoi limpidi occhi sulle
sembianze virilmente belle di quel nuovo venuto, e rispose con una
cortesia che era presso che famigliare e benevola al saluto di quel
giovane che non ricordava aver veduto ancora mai. Avviene molte volte
che al bel primo incontrarci con una persona, questa non ci pare affatto
estranea; o sia una somiglianza con altre persone, o sia una certa
misteriosa affinità fra i nostri esseri che si rivela con una specie
d'istinto inavvertito, o sia un effetto travelato di attinenze anteriori
avute in una vita precedente, il fatto è che certuni appena ci vengono
innanzi ci sembrano conoscenze d'antica data, e siamo disposti di subito
a conceder loro più domestichezza ed interesse che non ad altri da molto
tempo già conosciuti. Fu un poco di quest'effetto che Virginia provò
alla vista di Gian-Luigi, e quasi uguale fu quello che sentì il giovane
a trovarsi faccia a faccia colla nobil ragazza cui aveva vista da
lontano parecchie volte, ma non aveva mai accostata. E, cosa strana, in
questa sua sensazione, non entrava menomamente quel suo ardore di
voluttà che gli faceva desiderare ogni bellezza di donna, ma eravi come
una tinta di rispetto, come un'ombra di affettuosa deferenza, come un
istintivo impulso ad inchinar riverente quelle belle sembianze.

Maria vide l'ammirativa fissità dello sguardo di Gian-Luigi su Virginia,
e sentì una dolorosa fitta nel cuore. Anche la gelosia doveva nascere in
quella povera, innocente fanciulla a confermarle e ribadirle nell'anima
l'infausta passione che vi si era insinuata. Non disse che poche parole
a Quercia, invitandolo a passare nella camera di Francesco, e seguitò ad
accompagnare la bella visitatrice che si partiva, fino all'anticamera.

Nel momento di prender commiato, Virginia, stringendo amichevolmente la
mano a Maria, le disse:

— Scriverò a Lei per avere ulteriormente le nuove di suo fratello; la
sia compiacente di darmene senza troppa parsimonia.... E spero che ci
rivedremo.

Quando la nobil fanciulla fu partita, Maria pensò un istante, invece di
tornare presso suo fratello, di andarsi a rinchiudere nella sua camera e
non uscirne più finchè Quercia si fosse partito; e s'avviò realmente per
porre in atto questa risoluzione, ma non n'ebbe la forza. Quando fu nel
salotto che precedeva la camera di Francesco, vide che Gian-Luigi non
era passato di là, ma stava lì tuttavia, come aspettando. Si turbò molto
nel trovarsi sola con lui, non osò guardarlo e stette impacciata, a
pochi passi da lui, senza parlare.

Egli le faceva piombare addosso quel suo sguardo caldo, luminoso,
efficace, che penetrava nell'anima; e la giovanetta, pur colle palpebre
abbassate, lo sentiva posarsi con infinita soavità, come una carezza
amorosa, sulla fronte, sul volto, sulla persona, avvolgerla come d'un
fluido voluttuoso, e vincerle ogni volontà. Quercia s'accostò alla
fanciulla, e le prese una mano; ella si mise a tremar leggermente, e
volle liberar la sua destra, ma egli ne la trattenne con dolce violenza.

— Maria! susurrò egli chinando la sua bocca sulle chiome di seta che
ornavano la testolina curva della ragazza: e la sua voce era sì
espressiva ed insinuante! e l'accento era pieno di tanto amore e di sì
cara espansione che una dolcezza ineffabile invase ed occupò tutto
l'essere della innamorata fanciulla.

I suoi occhi si levarono quasi tratti a forza verso gli occhi di lui, e
la luce brillò in essi ripercossa da due lagrimette.

— Maria! ripetè egli col medesimo accento, premendosi al petto quella
mano che seguitava a tener fra le sue.

Dal labbro della giovane fuggì, saettato per così dire dall'emozione, il
segreto del suo cordoglio.

— Ah! com'Ella ha guardato la contessina di Castelletto! disse con
amarezza in cui non c'era rimprovero, ma dolore.

Quercia cominciò per rispondere con un sorriso soltanto, ma con uno di
quei suoi sorrisi ammaliatori che erano più eloquenti d'ogni parola, e
che bastò a rassicurare ed a rallietare l'animo di Maria; poi disse:

— Sì, la ho guardata, perchè io ammiro la pietà dovunque si manifesti, e
trovo degno di lode il sentimento che condusse presso il letto del
giacente la figliuola d'una superbissima schiatta. La ho guardata, ma
l'ho io veduta? Come donna, no. Di donne ve n'è una sola al mondo ch'io
veda oramai, una sola che esista per me...

S'interruppe, sollevò lentamente alle sue labbra la mano che teneva e vi
posò un lungo e caldissimo bacio; poi soggiunse con voce più bassa, ma
con accento ancor più espressivo:

— E quest'unica donna — Maria — sei tu!

La fanciulla si riscosse come subitaneamente colpita da una potente
scintilla elettrica, arrossì, impallidì, tremò, accennò cadere, si
aggrappò al braccio di lui per sostenersi.

— Sì, Maria, sei tu. Benedico questo momento che Dio mi concede da
poterti parlare in libertà. T'amo e voglio che tu sia la donna compagna
del mio destino; ma non mi piace ottenere questa felicità da altri che
dall'amor tuo. Ti senti tu di amarmi? Ti senti tu d'esser mia, tutta
mia, sempre mia?

Ella appoggiò la sua fronte al petto di lui per nascondere il dolce
rossore del suo viso e mormorò sommessamente:

— Sì... Oh sarò felice!

Allora egli la staccò dolcemente da sè, e con gentile riverenza
inchinandosi innanzi, disse:

— Mi permette dunque, madamigella, ch'io domandi la mano di Lei ai suoi
genitori?

Maria gli porse la destra.

— Ed io glie la do senz'altro. Babbo e mamma non avranno altra volontà
che la mia.

Quando Quercia ebbe baciata quella mano, ella si fuggì ratta, e questa
volta andò proprio a serrarsi nella sua camera, dove sentiva il bisogno
di essere sola.

Il _medichino_ la seguitò con uno sguardo in cui brillava una bassa
cupidigia sensuale.

— Oltre i suoi denari, disse fra sè con cinismo, avrò anche una donnetta
che mi piace... finchè ne sia poi stufo.

Ricompose la sua faccia ad espressione onesta, ed entrò nella camera di
Francesco.

Il miglioramento dell'infermo era evidente anche agli occhi d'un profano
all'arte medica; e il padre e la madre di lui lo avevano subito
avvertito, pensatevi se con lieto animo. Quercia certificò questo
prospero mutamento e crebbe la consolazione dei parenti, il buonumore
del malato. Per la prima volta, dopo parecchi giorni, in quella famiglia
così crudelmente provata, entrò di nuovo la tranquillità dello spirito e
trovò luogo il sorriso.

Si parlò con mente più libera di cose varie e indifferenti; e Francesco
domandò che cosa succedesse per la città, come si fossero passati gli
ultimi giorni di carnovale e quali novità occupassero le ciarle dei
cittadini. Il sor Giacomo, fra altre cose, disse della principale di
codeste novità, che era quella dell'assassinio di Nariccia, di cui non
sapeva bene però tutti i particolari, essendo vissuto in quei giorni
così segregato dal mondo, e quindi chiedendone al dottore: ma questi non
parlò a lungo di tale argomento; ripetè spiccio le voci principali che
correvano, e poi tosto consigliò a fare in modo che l'infermo non avesse
tanto da parlare, e quindi troncare per allora il discorso.

Ma il ricordare quel delitto aveva richiamato qualche cosa alla mente
del padre di Francesco. Quercia, che era osservatore acutissimo e sempre
in sull'avviso, s'accorse che a questo proposito alcun che era
intravvenuto che più da vicino toccava quella famiglia o il sor Giacomo
solo, perchè quest'ultimo aveva preso un aspetto alquanto preoccupato, e
guardava il dottore con una certa espressione fra di curiosità e di
dubbio, di esitanza e di imbarazzo che pareva significare aver egli
qualche cosa da dire ed essere incerto se e come dirla.

Gian-Luigi decise tosto tagliar netto il nodo; si chinò verso il signor
Benda, e gli disse sotto voce:

— Avrei bisogno di parlarle. La mi vuole concedere due minuti di
colloquio nel suo studio?

— Volentieri. Ho giusto ancor io una strana circostanza da comunicarle.

Quando furono di là il giovane invitò il padre di Francesco a parlare
per primo: ma il signor Giacomo non volle.

— No, no, parli Lei: il suo contegno mi dice che le sono cose gravi
quelle che la mi ha da dire, ed io, avvezzo oramai a nuovi colpi della
sventura, sono ansioso di sentire se qualche nuovo malanno ci minaccia.

Luigi fece sorridendo un atto rassicuratore.

— No. Debbo trattenerla di due cose: la prima è una bazzecola che la mia
poca memoria mi ha tolto di dirle prima, come già avrei dovuto fare;
l'altra è una proposta, importantissima per me, pel quale si tratta
della felicità della vita.

Il signor Giacomo, la cui curiosità fu vivamente desta da tali parole,
fe' cenno al suo interlocutore parlasse liberamente.

— Cominciamo dalla cosa indifferente. Il parlare ora del delitto
commesso la notte dell'ultima domenica di carnovale, mi ha fatto
ricordare che io, quella notte medesima, quando mi sono partito di qua,
su questo stesso viale che qui conduce, fui vittima d'un'aggressione.

— Lei?

— Sì, signore. Due uomini mi assalirono, dei quali uno era un colosso.
Non pensai mi convenisse opporre resistenza; mi spogliarono di quanti
denari avevo, e, quel che più mi dolse, mi presero anche il mantello che
qui mi era stato imprestato: ed ecco la cagione per cui non l'ho potuto
ancora, nè lo potrò mai restituire.

Giacomo fece un atto ed un'esclamazione che significavano: «Ora capisco
tutto.»

— Egli è appunto cosa che riguarda quel benedetto mantello che io le ho
da dire. In causa di esso io ebbi una chiamata dal giudice istruttore.

— Davvero? esclamò Quercia, che nascose il suo malessere sotto le mostre
dello stupore.

— Sicuro; e ci fui questa mattina medesima.

— E che le si disse adunque? Il mio aggressore sarebbe stato arrestato?

— No, ma il suo aggressore dev'essere niente meno che l'assassino di
quell'usuraio.

— Possibile! Oh come? oh come?

— Nelle mani dell'assassinato si trovò un pezzo di bavero, sotto cui
trapunte due lettere iniziali. La Polizia ebbe a sè tutti i sarti della
città per vedere se alcuno riconoscesse in quello un suo lavoro, e il
sarto mio e di mio figlio disse che quello era il colletto d'un mantello
da lui fatto pochi mesi sono per Francesco, del cui nome infatti sono
iniziali le lettere che vi si trovano trapunte. (E il nostro sarto ha
appunto l'uso di ricamare tali cifre per distinguere i panni miei da
quelli di mio figlio). Mi si mostrò quello squarcio e mi si domandò se
lo riconoscevo: io risposi che quelle erano invero le iniziali del nome
di mio figlio, che ben mi pareva quello il pezzo d'un suo vestito, ma
che non potevo esserne sicuro. Si volle sapere se un mantello od altro
oggetto di vestiario qualunque mancasse alla guardaroba di Francesco, e
per che cagione la ci mancasse, ed io dovetti contare come quella sera
fatale avessimo dovuto imprestare a Lei, a cui abbiamo tanto debito di
riconoscenza, un mantello per tornarsene la notte a casa sua.

Gian-Luigi ebbe tanta padronanza di sè da nascondere la sua contrarietà,
la fiera rabbia ond'era assalito.

— Ho avuto torto, diss'egli, a non dare importanza a quell'aggressione.
Se fossi andato subito a denunziare il fatto, dando io i connotati dei
malandrini, e li posso dare esattissimi, avrei forse conferito allo
scoprimento de' rei; ma pensai allora che non valesse manco la pena di
scomodarsi. Però si è ancora certamente in tempo, e conto recarmi tosto
dal Commissario di Polizia.

— Farà bene. Di sicuro non è su Lei che possano cadere sospetti di tal
fatta; ma un altro da questo viluppo di circostanze potrebbe venir
compromesso. È meglio affrettarsi a dilucidare le cose.

Quercia, con atto di cordiale franchezza, tese la mano al signor
Giacomo.

— Lei, signore, mi dice superiore a questi sospetti, e sono persuaso che
tale mi crede; ma in realtà Ella conosce poco di me e nulla delle cose
mie. Avrà udito di me varii giudizi nel mondo, e forse malevoli i più:
ma il vero è che nessuno sa nulla dell'esser mio, del mio passato, delle
mie reali condizioni. Ebbene ora voglio che Ella mi conosca
compiutamente; devo farmene compiutamente conoscere, prima di
avventurare una domanda, da cui, come già accennai, dipende la felicità
di tutta la mia vita.

Si raccolse un momento, e poi raccontò il seguente romanzetto della sua
vita ch'egli si era preparato per simile occasione.

— Lungo tempo io vissi come trovatello. La mia nascita toglieva un
vistoso patrimonio a certi collaterali della mia famiglia, i quali mi
fecero pertanto sparire e mi relegarono in un ospizio. Un po' di rimorso
in que' sciagurati che così mi sacrificavano, li indusse a farmi levare
di là ed affidarmi alle cure d'una donna che mi fosse nutrice e madre,
incaricando di vigilare su di me un medico del villaggio in cui questa
donna abitava. Quando fui cresciuto, questo medico, sempre per mandato
di que' tali, mi fece studiare, mi mandò all'Università, e poichè fu
giunto all'estremo di vita mi ebbe a sè e mi rivelò il segreto. I miei
nemici avevano così bene prese le loro precauzioni che nessun documento
più, nessuna prova sopravanzava da farmi restituire il mio nome e
l'esser mio; d'altronde trattavasi dell'onore di certi autorevolissimi
personaggi che si voleva salvo ad ogni modo, così che se io, istrutto di
qualche cosa, avessi tentato il ricupero del mio vero stato, mi sarei
esposto anche al pericolo di vedere minacciata, non che la libertà, la
mia vita. Per rimediare in alcun modo al torto che mi era fatto, quei
medesimi avevano mandato al medico circa cento cinquanta mila lire da
darmi _brevi manu_, capitale che per poco mi sapessi industriare avrebbe
bastato a farmi vivere agiatamente. Il medico medesimo, commosso dalla
pietà del mio caso, mi lasciava parte delle sue sostanze. Che doveva io
fare? che mezzi mi restavano da ribellarmi contro il mio destino?
Accettai e mi tacqui. Quel capitale, che fu da principio di poco meno
che duecento mila lire, per mezzo di certe speculazioni industriali...
fatte in Francia... ho più che accresciuto; ed ecco l'origine di quella
ricchezza che la gente trova forse misteriosa, e di cui non curo, anzi
disdegno di porgere al volgare la menoma spiegazione. A Lei, prima di
fare la domanda che sto per volgerle, dovevo dare questa spiegazione; ed
anzi, siccome la non è obbligata a credermi soltanto sulla parola, le
darò per prova della verità del mio asserto uno scritto tutto di pugno
di quel medico, — e la sua firma si può riscontrare e fare autenticare
per vera quandochessia — nel quale ogni cosa è narrata per disteso,
scritto lasciatomi da lui, appunto perchè in qualunque caso io potessi
trionfalmente rispondere ad ogni sospetto che potesse sorgere, ad ogni
accusa che mi si potesse affacciare intorno alle fonti di quelle mie
sostanze.

— Io non ho bisogno di questo — si credette in obbligo di dire il signor
Giacomo, il quale non sapeva ancora a che volesse parare il giovane con
siffatti discorsi — per prestar fede alle sue parole.

E Gian-Luigi con maggiore la vivacità:

— Crede Ella dunque che un uomo in queste circostanze, con mezzo milione
di patrimonio, possa aspirare senza troppa audacia alla mano della
fanciulla d'un'onesta famiglia, d'una fanciulla ch'egli ama più d'ogni
cosa al mondo?

Giacomo comprese finalmente; ma la cosa gli giunse così inaspettata che
non ebbe parole fatte e non seppe dimostrare il suo stupore altrimenti
che coll'espressione della sua faccia; il giovane inchinandosegli
dinanzi con cerimonia, come aveva fatto testè dinanzi a Maria, gli disse
con accento solenne:

— Ho l'onore di domandarle la mano di sua figlia, madamigella Maria.

Il signor Benda, tanto meravigliato ancora che non sapeva bene tuttavia
se questa domanda gli faceva piacere o no, rispose come rispondono tutti
i padri in simili occasioni: esser questo un onore, ma prima di prendere
una decisione aver bisogno di consultare la famiglia, e la figliuola
sopratutto, eccetera, eccetera, e soggiunse che in quelle tristi
circostanze in cui si trovavano, troppo non era acconcio il tempo a
pensare e parlare di cose siffatte.

Quercia si credette allora in obbligo di spiegare la ragione per cui non
ostante la poco propizia occasione, chè riconosceva ancor egli quella
essere tale, avesse pur tuttavia affrettato di avventurare la sua
domanda. Disse che il suo amore per Maria era nato ben dapprima ch'egli
si fosse introdotto in quella casa (il mentire non gli costava nulla)
che ora avvicinandola erasi quell'affetto accresciuto a dismisura, e
che, dovendo egli partire fra poco tempo per recarsi in Francia, appunto
per quelle sue certe speculazioni che aveva detto averci colà
intraprese, e fermarcisi forse un anno ed anco più, non poteva
acquietarsi all'idea di partire senza aver deciso il destino del suo
amore. Questo era il motivo per cui aveva così bruscamente dichiarato le
sue intenzioni, e pregava in conseguenza che non gli si facesse di tanto
ritardare, qualunque si fosse, la risposta che invocava.

Il signor Giacomo fissò il dopo dimani per una risposta definitiva, e i
due si separarono con una stretta di mano che era più che d'amico, quasi
già di congiunto.

Gian-Luigi, uscendo da quella casa, s'affrettò verso il Palazzo Madama,
dove domandò di parlare al signor Commissario.



CAPITOLO XIII.


Quando il signor Tofi udì annunziare che il dottor Quercia domandava di
parlargli, provò una viva sorpresa che si manifestò in un leggier
trasalto ed in un vivace lampeggiar degli occhi sotto le folte
sopracciglia. La preda veniva da se stessa all'arrivo del cacciatore:
vero era che questa preda aveva unghie ed artigli, ma com'era bene
armato altresì il cacciatore a combatterla! Primo impulso del
Commissario fu quello di far sollecitamente introdurre questo
inaspettato visitatore: ma poi stimò meglio per varie ragioni non
mostrare e non aver premura. Quercia, venendo da se stesso ad offrirsi
al combattimento, ci veniva di sicuro preparato, munito di buone difese,
avendo studiato i colpi e le mosse; conveniva di meglio all'avversario
meditare un momento anche lui sul modo di condursi. Non voleva porre
piede in fallo; le protezioni che sapeva al giovane acquistate dalle sue
attinenze con una certa sfera sociale che aveva ogni autorità ed ogni
privilegio, lo impacciavano non poco, non voleva movere un passo più in
là di quello che si dovesse, per paura di aversi a ritirar indietro, la
qual cosa sarebbe stata sua vergogna e suo danno. Ad ogni buon conto
disse alla guardia che gli aveva annunziata quella visita:

— In quanti uomini siete costì?

— Siamo sette.

— Bene: quando quel signore sia introdotto da me, quattro vengano nella
stanza vicina, pronti ad ogni cenno.... Quel signore poi lo farete
passare solamente quando avrò suonato.

Partita la guardia, il Commissario andò al forzierino che stava presso
al caminetto, lo aprì colla chiavetta che portava sotto panni appesa al
collo per un cordoncino, e ne trasse quel grosso libro legato in pelle
nera, che gli abbiam già visto consultare quando volle sapere alcun che
del pittore Vanardi. Questa volta aprì il libro al punto in cui sul
margine della pagina era impressa per rubrica la lettera Q e lesse
attentamente tutto ciò che stava scritto sotto il nome di Quercia, sul
quale si posò il suo dito lungo, grosso, nero, villoso ed unghiato. Poi
richiuse il libro, lo ripose là donde l'avea tolto, serrò accuratamente
il forziere e le mani affondate nelle lunghe tasche del suo soprabitone,
il mento quadrato sostenuto al duro cravattino, passeggiò per lo
stanzino profondamente meditabondo.

Intanto Gian-Luigi s'impazientava d'aspettare. Per quanto fosse pieno di
risoluzione e scevro di timore il suo animo, non era certo senza una
specie di apprensione ch'egli era entrato in quel luogo. Affrontava
audacemente un pericolo che aveva visto sorgergli innanzi, ma non sapeva
bene quali forme precise e quali forze potesse prendere poi questo
pericolo, dal quale fors'anco non avrebbe potuto scampar vittorioso. La
sua natura era avida di simili temerità ed era avvezza ad ottenere,
mercè appunto l'audacia, l'aiuto della fortuna; ma gli piaceva per ciò
averne di subito dalla sorte la risoluzione del problema che affrontava,
il premio dell'ardimento che dispiegava. L'indugio che pose il
Commissario a riceverlo cominciò per essergli fastidioso, poi divenne
grave e quasi insopportabile. Anche la sua superbia, anche il suo amor
proprio n'erano offesi. Pensò inoltre che una troppo umile tolleranza da
parte sua avrebbe potuto essere indizio di qualche peritarsi, di
alquanto timore, e ciò non voleva assolutamente che si credesse. Si
staccò dalla finestra, dove superbamente atteggiato, il cappello in
testa, stava guardando nei fossi del castello, e indirizzandosi al capo
delle guardie che erano in quella stanza, disse con accento imperioso di
superiore:

— Olà! E' mi par soverchio questo farmi aspettare. Crede egli il signor
Commissario che io non abbia mezzo migliore di passare il tempo che star
qui a guardare traverso questi vetri affumicati il volo dei colombi?
Andate e ditegli che se le sue occupazioni non gli permettono di
ricevermi ora, me lo faccia saper subito, ed io tornerò in momento più
opportuno.

La guardia esitò un momento; ma il tono di comando e l'aria di disprezzo
agiscono sempre con una certa forza sull'animo di quella gente, avvezza
ad essere disprezzata da chi li comanda; e Gian-Luigi era tale a cui
nessuno andava innanzi nell'imponenza dell'aspetto e nell'autorevolezza
della parola. Sotto lo sguardo imperioso del giovane elegante il
poliziotto finì per cedere e si recò dal Commissario a fare
timorosamente l'ambasciata.

Il signor Tofi cominciò per istrapazzare di santa ragione il mal
capitato, e poi soggiunse più burbero che mai:

— Dite a quel signorino che di voglia o di necessità avrà la pazienza
d'aspettare; chè se volesse partirsene, avete l'ordine, come vi do
espressamente, capite, di trattenerlo ad ogni modo.

Quercia, all'udire questa risposta, sbuffò, disse ad alta voce con tono
concitato che avrebbe mostrato al sor Commissario il modo di trattare
coi pari suoi, e fece persuasi tutti quelli che l'udivano, esser egli un
gran personaggio.

Cinque minuti dopo il campanello del Commissario suonato con mano
robusta avvisò che il visitatore poteva essere introdotto.

Quercia entrò nel gabinetto senza levarsi il cappello, l'occhio
incollerito, la mossa superba, come avrebbe potuto fare il conte San
Luca o il marchesino di Baldissero.

— Sor Commissario, diss'egli colla sua voce vibrante e l'accento fiero
d'un padrone sdegnato, la sa che non mi tocca fare anticamera nemmeno
dal Governatore, nemmeno dal signor Ministro?

Tofi alzò gli occhi sul giovane e lo saettò d'uno sguardo acuto,
incisivo, penetrante di sotto l'arco sporgente delle sue folte
sopracciglia. Luigi sentì da quell'occhiata come un urto nel cervello e
nel petto: gli fu necessario usare tutta la sua forza, tutta la
padronanza che aveva su se stesso per frenare un sussulto; ma le
sembianze non ne lasciarono scorger nulla. Conobbe di botto che aveva un
fiero lottatore di fronte; ma non si sentì impari allo scontro. Rispose
con uno sguardo più superbamente sdegnoso che mai.

Il Commissario se ne intendeva di forza d'animo e d'espressione di
fisionomia.

— Ecco una stupenda figura, pensò, tenendo fisi sul volto del giovane i
suoi occhi, che però cessarono di avere l'aggressività di prima. Questo
individuo non deve far nulla di mediocre. Se ha posto il piede nella via
della scelleratezza ci andrà — ci sarà andato — più innanzi d'ogni
altro.

Sentì una specie, non dirò di rispetto, ma di riguardo verso quella
forza di tempra che vide rivelarglisi, che indovinò ancora più. Avvezzo
a rispettare ogni superiorità sociale, riconobbe e quasi accettò quella
superiorità di volere e di pensiero che aveva dinanzi. Laonde nella sua
risposta non ci fu tutta quella insolente asprezza che altri si sarebbe
potuto aspettare. Sedeva egli alla sua scrivania, al piano della quale
appoggiava il gomito sostenendo colla mano la sua faccia pelata di color
ulivigno, che teneva rivolta verso il giovane in piedi pochi passi da
lui distante, e senza punto muoversi, disse lentamente:

— Se S. E. il governatore e S. E. il ministro non le fanno fare
anticamera, gli è perchè andrà da loro in momenti in cui non ci hanno
nulla da fare. Io, che non ne ho punto di questi momenti, non posso
trascurare il servizio del Re per far piacere a questo ed a quello. Ha
capito?

Sulla faccia di Quercia parvero lottare un sentimento d'irritazione e un
altro di cedevolezza (ed era questa in lui tutta arte sopraffine da
comico): dopo un poco la diede vinta a quest'ultimo, fece uno de' suoi
incantevoli sorrisi che significava apertamente: «Siete un originale, e
conviene prendervi come siete;» e disse con accento scherzoso:

— Ho capito benissimo.

Siccome lo sguardo acuto di Tofi si levava al cappello che il giovane
teneva ancora in testa, ed essendo in casa altrui era dovere levarselo,
Gian-Luigi se lo tolse sbadatamente; come compiendo un atto abituale,
senza darci importanza, e lo gettò sul forzierino lì presso: poi senza
aspettare l'invito di sedere che il Commissario non pareva disposto a
fargli, prese una seggiola e venne ad assettarsi ad un passo di distanza
dalla scrivania.

— Posso sapere che cosa mi vale questa sua visita? domandò allora con
accento burbero il signor Tofi che non aveva mai tolto il suo sguardo
dal giovane.

Questi rispose con quell'accento scherzosamente leggiero che pareva aver
adottato per tono della conversazione:

— La lo può sapere di sicuro, perchè son venuto apposta per dirglielo.

Raccontò la favola dell'aggressione notturna, quale l'aveva narrata al
padre di Francesco, e diede dei suoi aggressori i connotati che
corrispondevano precisamente a quelli di _Graffigna_ e _Stracciaferro_.
Tofi lo aveva ascoltato, guardandolo sempre con quella fissità che era
fatta per turbare anche un innocente; e Quercia non se n'era menomamente
lasciato turbare.

— Bene: disse il Commissario con ironia; Ella mi ha dipinto a meraviglia
due malfattori che dovettero prender parte all'assassinio dell'usuraio
Nariccia; ce ne manca soltanto uno, poichè abbiamo la certezza che a
compire quell'orrendo delitto erano in tre. Saprebbe dirmi qualche cosa
anche del terzo?

Gian-Luigi lo guardò come uomo che non comprende, e che non si cura dare
importanza agli indovinelli cui piaccia al suo interlocutore
affacciargli.

— Credo, rispose con disdegnosa leggerezza, che non sia mio còmpito, ma
il suo, quello di rintracciare questa razza di gente.

— E lo rintracceremo, e lo troveremo: disse lento e spiccatamente il
Commissario chinandosi alquanto verso Gian-Luigi e guardandolo più fiso
ancora di prima.

Quercia non ebbe la menoma contrazione dei muscoli della faccia, nè il
menomo batter di ciglia.

— Lei è medico? domandò bruscamente a un tratto il signor Tofi.

Gian-Luigi s'inchinò con una ironica ma elegante cortesia.

— Per servirla; rispose.

— Sarei curioso di sapere in quale Università ha presa la sua laurea di
medicina.

— La curiosità è una dote del suo mestiere, ma non credo che sia un
obbligo dei cittadini il soddisfarla.

— È un obbligo molte volte cui impone la giustizia. Parecchi anni sono
c'era nell'Università di Torino uno studente di medicina che aveva molta
rassomiglianza con Lei; ma frequentava più le bische, i bigliardi, i
convegni di certe donne, eccetera, che non le lezioni dei professori; e
non avvenne mai che questo cotale prendesse la laurea. Sparì un bel dì
carico di debiti, e si ha forti dubbi che poi ricomparisse con altro
nome, dandosi addirittura per medico e sfoggiando una ricchezza che
nessuno sa com'egli si fosse guadagnata — o si guadagni.

Gian-Luigi appressò la sua seggiola alla scrivania ed a questa appoggiò
il gomito con mossa piena di grazia e di eleganza; poi, battendo una
marcia sul mobile colle dita bianchissime della destra che aveva
sguantata, prendendo un tono di libera domestichezza, ma non scevro
d'una certa superiorità, domandò:

— Parli chiaro, sor Commissario. È questa una specie d'interrogatorio
che la mi dirige?

— E se lo fosse, signor dottore, che la risponderebbe?

— Risponderei la verità. Quello studente ed io siamo una persona sola.
S'io non ho la laurea di medico, non n'esercito neppure la professione,
ed è innocente inganno quello di prendere un titolo vano che l'uso suol
dare di subito a chi intraprende una di simili carriere. Lo studente di
leggi è salutato fin dal primo anno col titolo di avvocato, e lo
studente di medicina con quello di dottore. Quanto alle mie ricchezze,
dove mi se ne chiedesse l'origine, ad uno qualunque, direi che gli è un
impertinente, e saprei dargliene anche la meritata lezione; ad
un'autorità, come sarebbe Ella, quando credesse per una ragione
qualunque di suo ufficio dover entrare in questi che sono individuali
segreti, avrei buono in mano da provare la legittimità della provenienza
di tutto ciò che possedo.

— Ebbene, signor dottore o non dottore; proruppe con una specie
d'impazienza il Commissario; quell'autorità le sta dinanzi, e il momento
di dar questa prova è venuto.

Quercia si trasse indietro levando il capo e drizzando il collo in una
mossa piena di superbia.

— Si oserebbe sospettare alcuna cosa?...

Tofi lo interruppe ruvidamente.

— Noi osiamo sospettare di tutto e di tutti.

Il giovane gli gettò un'occhiata fiera di minaccia e disdegno.

— La dovrebbe pur sapere chi io mi sia e di quali attinenze mi vanti.
Badi che questa troppo spiccia maniera di procedere, se conviene coi
miserabili coi quali è solita Ella a trattare, non si affà colle persone
ammodo...

— Io sono come sono e fo come mi aggrada, purchè faccia il dover mio:
interruppe Tofi diventando sempre più ruvido. Poichè Ella stessa è
venuta a me, prima ch'io la mandassi a cercare, la si acconci a darmi in
questa conversazione quelle nozioni di fatto che mi abbisognano,
altrimenti la conversazione potrebbe prendere un nome più severo, quello
che disse Ella stessa un momento fa, e diventare un interrogatorio.

Quercia fece colla mano un cenno di superba condiscendenza
accompagnandolo con un sogghigno che significava: «vedremo chi l'avrà
vinta alla fine;» e disse con tutta freddezza:

— Bene! Interroghi pure.

Alle domande di Tofi rispose colla storiella che gli abbiamo già sentita
narrare al sor Giacomo, e promise presentare come documento lo scritto
del suo protettore, il medico del villaggio, il quale scritto già aveva
eziandio accennato al padre di Maria.

Tofi scrisse man mano le sue noterelle nel portafogli che soleva portare
nella tasca del petto, e non mostrò in modo alcuno sulla sua faccia
scura che impressione, buona o cattiva, gli facessero le parole del
giovane. Questi, finita la sua narrazione, si levò.

— Parmi che non le occorra più nulla da parte mia e che posso andarmene.

Il Commissario lo guardò un momento senza rispondere. Gian-Luigi sentì
un brivido corrergli per le vene: gli parve che dalle labbra grosse di
quella bocca squarciata dovessero uscire le tremende parole: — «Ella è
arrestata;» ma neanco di lui la fisionomia non espresse nulla
dell'interno sentimento.

— Un istante: disse con accento che pareva minaccioso la voce rauca e
burbera del Commissario.

Gian-Luigi fece correre tutt'intorno uno sguardo ratto e fugace come chi
cerca se vi è modo di scampo.

— Che la vuole ancora? domandò egli sorridendo leggermente.

— La non è venuta qui per dar querela di quell'assalto notturno, di cui
dice essere stato vittima?

— Precisamente.

— Dunque aspetti che sia scritta la sua deposizione e ch'Ella l'abbia
firmata, perchè si possa poi trasmetterla all'autorità giudiziaria.

Fece venire l'impiegato che sedeva nella camera precedente, e dettò
rapidamente il verbale della denunzia fatta da Quercia.

— Va bene così? gli domandò poi col suo tono aspro e burbero.

Gian-Luigi chinò leggermente il capo.

— Allora firmi.

Quercia prese la penna e scrisse con mano sicura, nella più bella
calligrafia di cui fosse capace, il nome ch'egli soleva portare. Poi
prese il cappello che aveva posto sul forziere e a mo' di commiato
disse:

— Per qualunque cosa che occorresse ulteriormente in proposito, Ella sa
dove mi si può trovare.

Il Commissario rispose con un accento in cui c'era dell'ironia e della
minaccia:

— Sì signore: saprò appuntino dove trovarla.

Gian-Luigi, fece un legger cenno del capo che poteva sembrare un saluto,
ed uscì da quel gabinetto, da quel locale, dal Palazzo Madama col passo
tranquillo, sicuro e superbo con cui era entrato.

Tofi gli guardò dietro alla guisa con cui il gatto guarda un topo che
gli scappa.

— Ah! se non fosse amico del conte di Staffarda e il ganzo della
contessa: disse fra sè con un sospiro di rincrescimento: non me lo
lascierei sfuggir di mano.

Quando fu al largo nella vasta Piazza Castello, in piena luce e in piena
aria libera, Gian-Luigi mandò un grosso rifiato, come uomo fatto libero
da un'oppressura, e senza pur accorgersene affrettò il passo per
allontanarsi di là. Fu sotto i portici e fece un tratto di cammino senza
saper bene dove volesse andare e che cosa fare; salutò i conoscenti con
cui s'incontrò in quell'universale ritrovo dei Torinesi, coll'aspetto e
coi modi «d'uomo, cui altra cura stringa e morda che quella di colui che
gli è davante.»

— Bisognerebbe tagliar corto e presto a siffatte velleità curiose del
sor Commissario, pensava egli. Come governarsi per ciò?... Ah! non c'è
altri che mi possa meglio aiutare di quella brava Zoe.

Volse indietro ratto i suoi passi, e, frettolosamente camminando, fu in
breve alla dimora della famosa _Leggiera_. Trovò un gran disordine nel
quartiere di quella donna, e lei medesima in una somma desolazione. Nel
salotto e nella camera da letto tutto era sottosopra, gli specchi
spezzati, le porcellane infrante, gli orologi e i candelabri dorati
fatti a pezzi e giacenti in terra, le tende e le cortine strappate,
tutti i ninnoli e le minuterie eleganti ond'erano adorne quelle stanze
sparsi a frantumi sul pavimento. In mezzo a questo tramestio, le chiome
scarmigliate, pendenti sulle spalle, contratta la faccia, le mani
serrate, come Mario sulle rovine di Cartagine, sedeva la _Leggera_.

— Che è egli avvenuto? domandò Gian-Luigi guardandosi attorno stupito.
Si direbbe che v'è stata un'invasione di barbari.

Zoe sollevò il suo volto abbuiato e volse al suo complice gli occhi, in
cui si vedeva un implacabile risentimento.

— Che cosa è avvenuto? diss'ella con labbra strette e con voce che
sibilava fra i denti. Gli è avvenuto che il _prince charmant_ è un cane,
ed anche un peggior animale. L'invasione dei barbari fu uno scoppio
della sua collera bestiale. Quello scimmiotto andò in furore e parve un
orso scatenato. Ma me l'avrà da pagare...... oh se l'avrà da pagare!

E tese verso un punto dell'orizzonte, con atto pieno di minaccia, il suo
braccio colla mano chiusa a pugno.

Gian-Luigi diede un calcio ad un coccio di preziosa porcellana che si
trovò tra' piedi.

— Ed avrà da pagare eziandio tutto questo.

La _Leggera_ fece un perfido sogghigno.

— E come! Voglio una mobilia tutto nuova e dieci volte più bella.

— Benissimo! E così il sor Principe imparerà a far le bizze. Ma come
avvenne?

— Avvenne per causa tua.

— Mia! Oh, in che modo?

Per dirla in breve, al signor Principe era stato detto, affermato e
provato che la Zoe era in istrettissime e non innocenti attinenze col
famoso dottor Quercia, e S. A. arrabbiatissima aveva voluto con modi da
prepotente ottenere che la donna gli promettesse di non ricevere più
quel cotale. La domanda e la forma con cui era espressa spiacquero
immensamente alla _Leggera_ che non era d'umor dolce nè tollerante.
Rispose in pari tono, cioè con insolenza uguale all'imperiosità
dell'altro; la discussione divenne in breve più che vivace, e il
Principe si obliò al punto da levar la mazza sopra la mantenuta; ma
essa, accampandosi fieramente in faccia a lui, le braccia serrate al
petto, l'aria imponente di risoluzione, le nari frementi, lo sguardo
acceso, gli disse con forza:

— Suvvia! Abbia l'immenso valore di percuotere una donna! Bella
principesca impresa!

Il Principe s'era allontanato da lei come un animale domato; ma in
qualche modo aveva pur bisogno di sfogare l'irrefrenabil ira che lo
rodeva. Con quella mazza che si trovava in mano si diede a percuotere di
qua e di là sui mobili, sui quadri, sugli specchi, su tutto, atterrando,
rompendo, scaldandosi nella sua opera di distruzione, menando colpi alla
cieca come un paladino gettatosi in mezzo ad uno stuolo di nemici; e
quando tutto fu infranto, fuggì, perseguitato da uno stridente scoppio
di risa della _Leggiera_.

— Diavolo! Diavolo! mormorò Quercia vivamente contrariato: questa la non
ci andava.

Disse alla Zoe com'egli fosse venuto a domandarle di ottenere per mezzo
appunto del Principe che il Commissario di Polizia non si occupasse
altrimenti dei fatti suoi, ed ambedue riconobbero che l'occasione non
era niente affatto opportuna per parlare a S. A. di Quercia, e per
chiedergliene in pro di lui un favore.

Zoe giurò e spergiurò ch'ella non avrebbe fatto pure un passo verso il
suo principesco amante, e che a costui toccava venirsene umilmente ad
implorare ed ottenere il perdono; ma si mostrò sicura in pari tempo che
ciò non avrebbe egli tardato di molto a fare. Ella non avrebbe commesso
l'imprudenza di entrare subito con S. A. in quei discorsi che Luigi
desiderava, ma prometteva che con accortezza, dopo alcuni giorni,
avrebbe saputo affrontare destramente l'argomento ed ottenere lo scopo.

Bisognava aspettare alcuni giorni, e Quercia sentiva che i fati
premevano ed era urgente il pararne i colpi. Ma come fare? Uscì di casa
la Zoe, domandandosi se il meglio non era fuggire di presente, recando
seco tutto quel bottino che poteva. Ma l'idea di fuggire gli era ostica,
voleva ancora lottare; e poi gli passò innanzi alla mente la immagine di
Maria, la cui innocente giovinezza avevagli destato un ardente,
scellerato desiderio, decise aspettare.

— Per ogni occorrenza, pensò frattanto, bisogna ch'io vada a far
imparare alla Margherita il romanzetto che ho immaginato intorno alla
mia origine. E sarà bene ch'io induca eziandio Maurilio a non
contraddirlo almeno. Bisogna adunque ch'io vada colassù... Dopo tanto
tempo!... E sarà forse l'ultima volta.

Avrebbe voluto partire di subito pel villaggio, dove sappiamo essersi
eziandio recato Maurilio in compagnia di Don Venanzio; ma ricordò che
doveva, che voleva avere quel giorno medesimo una spiegazione col conte
Langosco, e differì la sua partenza al domani.

All'ora solita, colla solita fisionomia, come se di nulla sapesse,
Quercia si presentò al palazzo Langosco. Non mostrò il menomo stupore,
quando il lacchè gli ebbe detto che il signor conte desiderava parlargli
e lo attendeva nel suo gabinetto. Fece segno lo vi si guidasse, e seguì
il domestico che fu ad annunziarlo. Entrò colà dentro la fronte alta,
l'aspetto sicuro, un grazioso sorriso sulle labbra. Il conte stava in
piedi, accigliato, severo, con un sogghigno più amaro che mai sulla sua
bocca tirata; e non tese la mano verso il nuovo venuto. L'accoglimento
era così apertamente ostile che Luigi, il quale dapprima aveva
l'intenzione di non accorgersene, capì che sarebbe stato un errore il
non mostrarne risentimento. Spense di botto l'amichevole sorriso sulle
sue labbra, diede alla sua faccia un'espressione che in alterigia era
pari affatto a quella del conte, ed incrociò bravamente i suoi sguardi
arditi coi fissi sguardi di Langosco. Pensò che meglio gli convenisse,
senz'aspettare l'assalto, cominciar egli e vivamente l'attacco.

— Eccomi qua, disse con accento d'una sicurezza quasi impertinente. Ella
vuol parlarmi. Sta bene. Spero che non sarà cosa da durar lungo tempo,
perchè in verità, per mia disgrazia, non ho che pochi minuti da
concederle.

A queste parole ed al tono con cui erano dette, il conte sentì una
subita, vivissima ira salirgli alla testa, ridrizzò alquanto il curvo
petto e lanciò dagli occhi uno sguardo di fuoco, mentre una lieve tinta
rosata gli veniva ai pomelli delle guancie macilente. La sua mano si
tese verso il cordone del campanello, e Gian-Luigi comprese che
proposito di lui era suonare pei lacchè, e farlo da loro scacciare da
quella casa senz'altro. Quercia non lo avrebbe tollerato così di piano:
mosse un passo verso il conte e fece un alto risoluto, come per
trattenere quella mano; la sua faccia aveva preso l'aspetto terribile
delle risoluzioni violente, la fronte gli era solcata da quella sua ruga
caratteristica; gli sguardi accesi di quei due uomini si scontrarono di
nuovo pieni d'odio e di minaccie. Capirono che stava per avvenire uno
scandalo e gravissimo; questo non conveniva punto a Gian-Luigi, e meno
ancora al conte. La mano di costui s'arrestò e venne a posarsi
tranquillamente sulla pietra del camino: il lieve rossore sparì dalle
sue guancie; gli occhi perdettero alquanto dell'espressione di minaccia
e di collera per prenderne una di profondo disprezzo: stettero ancora un
poco di quella guisa, guardandosi senza parlare: ma in quello scambio di
sguardi e' si dicevan più e meglio, e' si rivelavano a vicenda l'animo
ed il pensiero più che non avrebbero fatto coi discorsi.

— Non ho nessun desiderio di trattenerla lungamente; disse poi il conte
con accento che mirabilmente s'accompagnava a quella nuova espressione
del suo sguardo. In due parole mi sbrigo e la sbrigo. Voglio anzi porla
così bene in libertà che non abbia da darci mai più neppure un momento
del suo tempo prezioso.

Gian-Luigi tese innanzi la testa come fa chi non ha capito bene e vuole
afferrar meglio il suono delle parole.

— La vuol dire? domandò con un certo piglio che aveva dell'ironia e
dell'impertinente.

— Non mi capisce? disse il conte coll'accento altezzoso d'un
aristocratico inuzzolito.

— Ne accusi pure la mia intelligenza. Desidero che si mettano i punti
sugl'i.

Il conte lo guardò fiso negli occhi con intendimento malizioso.

— Ah! Ella non dovrebbe avere di tali desiderii. La mi pare in
condizioni da dover capire a mezze parole.

Quercia non battè ciglio.

— L'indovinar le sciarade è la prova d'ingegno di chi non ha spirito:
disse accostandosi vieppiù al conte ed appoggiando famigliarmente un
gomito alla pietra del camino su cui il marito di Candida aveva posta la
mano. Le dispiace che ci parliamo in buon piemontese?

Langosco, quasi per moto istintivo, si trasse in là, come per
allontanarsi dall'interlocutore.

— Non v'è ragione per cui a me abbia da dispiacere; rispose con tono più
asciutto e più superbo di prima. Le voglio significare adunque che Ella
non abbia più da mettere piede in mia casa, mai.

Luigi accolse queste parole colla massima freddezza ed indifferenza.

— Perchè? domandò egli semplicemente.

— Perchè? ripetè il conte, cui quel contegno del suo avversario parve
presso a far uscire dai gangheri. Il perchè lo chieda al gioielliere X.

Quercia non si mosse: Langosco aspettò un momentino e poi soggiunse con
voce più bassa, affondando lo sguardo negli occhi neri e profondi del
giovane:

— Lo chieda all'assassinato Nariccia.

Luigi non ebbe il più leggiero sintomo della menoma emozione. Gli occhi
di Langosco non poterono cogliere nulla nella oscurità profonda di
quegli occhi immoti in cui ficcavan lo sguardo.

— Nariccia, rispos'egli freddamente, non mi potrebbe dir nulla, poichè
ho udito che da quella bocca non uscirà parola mai più; il gioielliere
non dovrebbe sapermi dir nulla, poichè non credo che Lei abbia voluto
porre a parte di cose intime domestiche delle persone estranee.

All'impudente franchezza di quell'individuo, lo stupore del conte superò
l'indignazione: stette lì quasi a bocca aperta a guardarlo meravigliato.

Quercia continuò:

— Una rottura fra di noi, creda, signor conte, non conviene a nessuno
dei due; poco a me, assai meno a Lei. Io non son tale da lasciare che il
mondo sappia aver io ricevuto un affronto quale è quello ch'Ella vuol
farmi, ed io avermelo ingoiato con santa pazienza. Vuol Ella che fra noi
si venga ad un duello?

Il conte fece vivamente un atto che indicava con chi gli stava dinanzi
non si sarebbe battuto mai.

— Ella sa, continuava Luigi con uno speciale sorriso, che un uomo della
mia fatta ha mille mezzi per far battere con sè un gentiluomo come Lei.
Ma in uno scandalo chi ci ha da guadagnare? Ho bisogno che per una
settimana tutt'al più, le cose continuino ad andare come per lo passato.
Le propongo quindi, non un trattato di pace, ma una convenzione di
tregua. Fra una settimana io parto per l'estero; glie ne do la mia
parola; e la sarà libera per sempre dei fatti miei. Durante questo poco
di tempo Ella ignori la mia presenza in questa casa ed altrove, le
prometto che non le verrò innanzi io a ricordargliela.

Langosco ebbe un movimento di sdegnoso dispetto: gli venne più forte di
prima la tentazione di far gettar fuori dai lacchè quell'impudente.

— Se Ella, seguitava lo scellerato pesando sulle parole, si lascia
trasportare dall'impazienza, ciò che ora è segreto diventerà pascolo
delle perfide ciarle del pubblico.

Il conte non rispose, non si mosse: aveva chinato lo sguardo, incurvata
di nuovo l'esile, infiacchita persona e pareva esser egli cui la
coscienza rimordesse. Aveva capito che in quelle parole era anche una
minaccia e questa gli faceva paura. Quercia attese un momento e poi
riprese con accento più sciolto che mai:

— Non voglio trattenerla più a lungo: le ho detto che anch'io non aveva
molto tempo da concederle. Questo colloquio non avrà il suo secondo,
mai. Non le domando risposta, ma l'attendo dai fatti. Ella già deve
conoscermi che io non temo di nulla e non m'arretro innanzi a nulla.

S'inchinò leggermente ed uscì, senza che il conte facesse il menomo
cenno, il menomo movimento, mandasse la menoma voce.

— Oh avere il proprio onore in mano di quello scellerato! disse poi fra
se stesso raccapricciando. E' vuol partire.... La è di certo la fuga del
colpevole... Ed io dovrò azzittire?

Quercia da canto suo faceva il seguente monologo:

— In una settimana avrò sbrigato tutto e partirò. Potrò io sostenere
ancora per una settimana questo edificio che si disfà e minaccia
crollarmi addosso? Certo che sì. L'audacia e l'accortezza mi aiuteranno.

Il domani a mattina partì ancor egli pel villaggio dov'era stato
allevato.



CAPITOLO XIV.


Don Venanzio e Maurilio erano giunti al villaggio al cader della notte.
Un freddo vento aveva sollevato alquanto sopra delle montagne la scura
cappa di nubi che incombeva sul cielo, e una riga rossigna, color di
sangue, mandava un fantastico chiarore dall'ultimo lembo di quel
mantello nero disteso sull'orizzonte. Al rivedere que' luoghi testimoni
della sua infanzia e della prima adolescenza, Maurilio, ora così mutato
di condizioni, provava una strana sensazione, quasi un rimpianto ch'egli
neppure non sapeva spiegare a se stesso.

La carrozza del marchese di Baldissero che ne li aveva condotti, si
fermò alla porta della canonica, dove il parroco ed il giovane
smontarono. Il rumore dei ferri de' cavalli che scalpitavano e delle
quattro ruote che trabalzavano girando sul grossolano e disuguale
acciottolato del villaggio, aveva tratto sul passo delle porticine le
comari che preparavano il pasto della sera ai mariti ed ai figli, i
quali appunto allora tornavano dal lavoro. Don Venanzio le salutava
passando, con un sorriso, ed esse rispondevano con un inchino: gli
uomini si levavano la berretta od il cappello con una famigliarità
rispettosa: i bambini, scappati dalle falde materne, correvan dietro
alla carrozza vociando come uno sciame di passerotti.

La chiesa era ancora aperta e ne veniva fuori un velato ronzìo di voci
femminili: erano delle buone donne che dicevano il Rosario. Il vecchio
moretto, tanto vecchio che oramai poteva appena trascinarsi, colla sua
affettuosità di cane fedele, venne fino sulla soglia a dare la buona
venuta al padrone collo scodingolare e con un suo mugolìo. Il campanaro
dall'alto del campanile mandava per le ombre della sera, che ad ogni
momento crescevano, i mesti rintocchi dell'_Avemmaria_.

La carrozza ripartì di trotto verso Torino, Don Venanzio e Maurilio
entrarono nella modesta casetta. In essa tutto era ancora esattamente
tal quale il giovane lo aveva visto nella sua infanzia, tal quale lo
aveva visto quella sera che, scacciato da Nariccia, era venuto, senza
pur saperne il perchè, a confortarsi l'animo nell'aspetto di quei
luoghi. Tutto il medesimo e tutto al medesimo luogo. Nulla neppure
pareva invecchiato. La paglia delle seggiole era sempre nel medesimo
stato, sempre sbiaditi quel medesimo, nè più nè meno, i colori del
tappeto a fiorami che stava sulla tavola nel tinello. In mezzo a quella
roba sempre uguale non pareva invecchiato nemmeno il buon sacerdote che
vi faceva raggiare il sempre medesimo sorriso di bontà, di cui le
bianchissime chiome parevano un'aureola di santo ad una fronte piena di
candore.

— Mio caro, disse il parroco a Maurilio, poichè si fu tolto il vecchio
mantello, l'ebbe accuratamente ripiegato e consegnatolo alla vecchia
fantesca perchè lo riponesse: hai tu bisogno di riposarti?

Il giovane fece un cenno negativo. Era commosso nell'intimo così che non
poteva parlare: guardava intorno con occhi rimbamboliti, e tutte le ore
della sua infanzia passate colà facevano ressa nella sua memoria per
affacciarsegli una prima dell'altra, come una frotta di ragazzi che si
vogliono cacciar dentro ad una porta alla rinfusa.

Don Venanzio si levò il cappello a becchi, lo lisciò bene colla manica e
consegnandolo ancor esso alla serva, soggiunse:

— Ci preparerai un boccone di cena. Poca roba. Il nostro Maurilio non
mangia di più di quello che mangiasse un tempo, e benchè sia ora un
signore, non ha ancora imparato ad averne le abitudini. Una buona
frittata coll'erbe e due capellini al brodo, e ne abbiamo d'avanzo. Non
è vero?

Maurilio sorrise. La vecchia fante, che in compagnia di quel sant'uomo
di prete aveva imparato la bontà, se ne andò via senza brontolare.

Don Venanzio si pose in capo la sua berretta da prete, nera col fiocco
nero, e poi disse:

— Tu fai quello che vuoi. Io non torno mai da una gita qualunque
senz'andar tosto a ringraziar la Madonna e il mio Santo protettore
d'avermi scampato da ogni malanno. Senzachè questa è l'ora solita in cui
mi unisco alle preghiere della sera di una buona parte de' miei
parrocchiani. Vado dunque in chiesa; se vuoi attendermi qui...

Il giovane fece segno che l'avrebbe accompagnato.

— Sì? esclamò il parroco tutto lieto. Va bene. Vieni, vieni nella casa
del Signore; chi sa ch'esso finalmente non ti faccia la grazia di
toccarti il cuore.

Maurilio sorrise e seguì il vecchio sacerdote. Per un corridoio
entrarono nella piccola, modesta sagrestia, non ancora rischiarata
altrimenti che dal fievol raggio del crepuscolo che andava sempre più
spegnendosi: e da questa penetrarono nella chiesa.

Essa era quasi oscura affatto. Una lampada sola ardeva dinanzi ad una
statua di Madonna che stava in una nicchia d'uno dei pilastri: la fiamma
oscillante di quella lampada mandava poca luce intorno e pareva meglio
che altro una macchia rossiccia nel nero di quell'ombra. A' piè di quel
pilastro, innanzi a quell'immagine, un gruppo di donne inginocchiate
borbottava il Rosario. La poca luce che pioveva dalla lampada accesa,
vacillando al di sopra di quelle teste chinate e di quelle spalle curve,
coloriva d'una striscia fugace ora i panni di questa, ora il volto di
quella donna; poveri panni e pallidi volti. Nessun rumore esterno
giungeva fin là, e il brontolìo di quella preghiera saliva su dal freddo
spazzo di quadrelli su cui le donne erano prostrate, come un gorgoglio
d'onda nel silenzio d'un deserto.

Il parroco non andò a frammischiarsi al gruppo di quelle preganti: si
recò all'altar maggiore, s'inginocchiò sui gradini che lo separavano dal
resto della chiesa, posò sulla balaustra di marmo bianco la sua
berretta, appoggiò le braccia alla balaustra medesima, pose sopra le
mani la sua testa ricurva e rimase immobile, assorto nella sua
preghiera.

Separata dalle altre, una donna eziandio stava inginocchiata nell'angolo
più oscuro della chiesa e pregava ferventemente in mezzo a lagrime e
sospiri.

Maurilio si appoggiò alla parete, nell'ombra più scura d'una cappella
dalla parte opposta a quella dove sotto l'immagine della Vergine
pregavano le donne, ed incrociate al petto le braccia, immobile al par
d'una statua, stette prestando l'orecchio, come ad una musica, al
monotono accento di quella preghiera, facendo scorrere il suo sguardo
dal parroco i cui panni neri spiccavano sul bianchiccio della balaustra,
al gruppo delle donne sotto il fioco raggio della lampada, alla creatura
isolata, le cui povere vesti scure si confondevano colle tenebre del
luogo nell'angolo estremo della navata.

A che pensava egli in tal momento? A nulla ed a tutto. Gli si agitava
confuso nella mente il tenebroso problema dei destini umani. Dimenticava
un istante il suo io; o per meglio dire questo si assorbiva nel gran
complesso della umana famiglia; il suo essere individuale era diventato
il tipo, il modello di tutti gli esseri umani, per provarne in quel
punto le aspirazioni e gli stimoli superiori alla materia; in lui s'era
incarnato, come dire, lo spirito dell'umanità. Ammirava la fede cieca di
quella povera gente e la invidiava come rimedio a porre in tacere le
angoscie, le ansie, le audacie dell'intelletto investigatore, avido del
vero; e la detestava nello stesso tempo come figliuola dell'ignoranza e
negatrice della ragione. Avrebbe voluto credere come quelle ignare
donnicciuole, pregare com'esse, lasciarsi avvolgere l'anima dalla
superstizione, acchetarsi nella stupidità dell'idolatria, bendarsi gli
occhi alla luce del vero col velo teocratico del passato: e si sarebbe
disprezzato di farlo. Aveva per quelle anime ignoranti che ritraevano
ancora, in mezzo alla civiltà moderna, del feticismo del selvaggio, ma
nobilitato da una divina speranza, uno sguardo di compiacenza ed un
sorriso di compassione. Sentiva entro sè la scienza riagire contro
l'influsso del sentimento, contro le impressioni del luogo, delle
memorie e dell'ora, e far suonare nel suo cervello le obbiezioni della
verità materiale e il riso amaro di Mefistofele.

Quando il Rosario fu finito, le donne si levarono e stavano per
partirsene; ma videro sorgere presso la balaustra l'ombra nera e le
chiome canute del parroco, videro volgersi verso di loro la faccia
soavemente veneranda del vecchio loro pastore, e si fermarono.

Don Venanzio venne presso di loro sotto la fievole ed oscillante luce
della lampada, e tutte le furono intorno salutevoli e festanti; — tutte
fuor che una: quella che, appartata dalle altre, pregava sempre con
fervore nella più remota ed oscura parte della chiesa. Il parroco
rispose amorevolmente e lietamente ai saluti ed alle amorevoli
interrogazioni delle donne; poi levando la mano destra per chiamarne di
meglio l'attenzione, disse:

— Voi avete pregato sinora per voi; è opera di carità e dovere di
cristiano pregare eziandio pei nostri fratelli: e tutti gli uomini, lo
sapete, sono nostri fratelli. Preghiamo adunque per quelli che soffrono,
di qualunque sorta sieno i loro dolori, a qualunque classe o nazione
appartengano, qualunque religione professino.

Sostò un momento e poi riprese con voce che vibrava d'una frenata
emozione:

— Unitevi a me per pregare soprattutto in favore di coloro che non hanno
il conforto ed il merito della fede.

A Maurilio parve che lo sguardo del buon prete andasse fugacemente a
cercarlo nell'ombra.

— Preghiamo perchè Iddio apra loro gli occhi e coi santi misteri della
religione parli al loro cuore.

Cominciò una preghiera cui le donne, inginocchiatesi di nuovo intorno a
lui, ripeterono con tenera compunzione. Era un commovente spettacolo
vedere quel vecchio sacerdote dritto innanzi all'immagine di quella che
fu madre del Salvatore degli uomini, del creatore del mondo novello, le
sue bianche chiome illuminate dal raggio della lampada, le mani giunte,
gli occhi sereni e puri, specchio di un'anima senza rimorso, levati con
espressione di ardente, angelico desiderio, di fede e d'amore; e intorno
a lui chinate a terra quelle meschine, povere di ricchezza e
d'intelletto, ma che con tanta fiducia s'associavano a quell'atto
sublime di carità spirituale. Maurilio se ne sentì intenerire. Volse a
quella rozza statua, che rappresentava la Vergine indiata, il suo
sguardo sfavillante e mormorò fra sè con profonda riverenza d'affetto:

— Sì, parlami al cuore o eterno femineo divinizzato dalla religione del
Cristo. Tu se' la bellezza, ma non solo delle forme come la greca, sì
dell'anima; tu se' la pietà, tu se' l'amore nel suo più alto
significato; tu se' insieme colla purezza la maternità, le due più
sublimi cose dell'universo. La fede! Sì, dammi la fede che è forza e
salvezza; ma non quella fede che distrugge il più prezioso dono di Dio
allo spirito umano: la ragione; che nega il vero e vi scema in dignità
ed in sapere, piegandovi all'assurdo. Aiuti l'influsso benigno di quella
virtù di amore che in Te si rappresenta, ad affermarsi ed afforzarsi in
me quella fede che vince ogni errore, perchè va unita coll'altra
figliuola di Dio: la scienza.

Quando Maurilio ebbe terminato questa specie d'invocazione, il parroco e
le donne avevano terminata la loro preghiera. Le contadine se ne
partirono; il sacrestano le seguitò per chiudere alle loro spalle la
porta, e Don Venanzio venne verso il giovane, commosso ancora nel
sembiante, nel sorriso, direi quasi, per la forza e la vivacità
dell'affetto ond'era stata improntata la preghiera che aveva fatto.

— Ed ora, diss'egli con sincera giovialità, andiamo a cena.

Ma un'ombra si staccò dall'oscuro della navata e venne innanzi
timidamente verso il cerchio di luce che mandava la lampada della
Madonna. Era la pregante stata sempre in disparte e che non aveva
abbandonata colle altre la chiesa.

— Signor Prevosto: diss'ella con voce affranta, timorosa, quasi
tremante.

Il Prevosto la riconobbe di subito.

— Ah! siete voi, Margherita. Venite, venite meco che ho da parlarvi.

— Sì? disse la povera donna giungendo le mani ed affannata per
desiderio, per isperanza, per ansietà. Da parte di _lui_? _Lo_ ha visto?

— L'ho visto, rispose sorridendo Don Venanzio: ed è proprio di lui e per
lui che ho da parlarvi. Seguitemi in casa.

Mentre il sacrestano abbarrava ben bene la porta della chiesa, il
parroco, Maurilio e la povera Margherita passarono nella _canonica_.

Nel tinello schioppettava allegramente una fascina di sarmenti sugli
alari del caminetto; sulla tavola, a coprire il famoso tappeto era steso
un mantile di tela operata grossolana ma candidissima; due coperti erano
posti allato l'un dell'altro, e in mezzo una bottiglia di vino ed una
caraffa d'acqua e un bel pezzo di pan bruno. Una lucerna d'ottone a
olio, de' cui tre becchi due erano accesi, illuminava la piccola stanza,
aiutatavi dal gaio chiarore che mandava il fiammar della fascina.
_Moretto_ accoccolato presso il camino, il muso sulle zampe, stava
nell'attitudine beata di chi gode tranquillamente il suo benessere. La
vecchia fantesca finiva di mettere sul desco le posate di ferro che
lucevano come se fossero d'argento, e, colla cesta in cui le si
tenevano, se ne andava in cucina. Don Venanzio fece segno di sedere ad
un lato del caminetto, a Maurilio, il quale obbedì: sedette anch'egli
dall'altra parte sul suo seggiolone a bracciuoli col piano semplicemente
impagliato, tirò fuor di tasca il moccichino di tela a quadretti bianchi
ed azzurri, se lo pose ripiegato sopra un ginocchio e si volse verso la
povera donna che avea fatto venire fin là.

Margherita s'era fermata in sulla soglia dell'uscio, e stava
timidamente, ma desiosamente aspettando. I suoi abiti erano quelli della
miseria; una veste tutto rappezzata di pannocotone che non avea più
colore le si serrava intorno al corpo macilento; un fazzoletto scuro
aveva sulle spalle, il quale, incrociandosele innanzi al petto
incurvato, veniva ad annodarsele sulle reni; portava in testa un
fazzoletto compagno che tanto le veniva innanzi sulla faccia da
nasconderne i lineamenti; teneva congiunte le mani che parevano quelle
d'uno scheletro ricoperte d'una pergamena color di tabacco e tutto
raggrinzita.

— Venite avanti. Margherita: disse Don Venanzio con accento
d'amorevolezza incoraggiativa: avete freddo, venite a scaldarvi.

La vecchia mosse due passi innanzi; i suoi zoccoli di legno fecero
rumore sopra i quadrelli del pavimento; ella sembrò vergognarsene e si
fermò.

— Avanti, avanti, vi dico: riprese il parroco; prendete una seggiola e
sedete qui vicino a me dinanzi al fuoco; vi scalderete un poco a questa
fiammata i piedi che ci scommetto son ghiacci.

— Oh! sor Prevosto: disse la donna vergognandosi più di prima.

— Animo, animo; sapete che non mi piacciono le cerimonie. Fate come vi
dico e non mi impazientate.

Margherita prese una seggiola e venne sedere al luogo che le indicava il
parroco.

— Marta, disse questi alla serva che era tornata per portar qualche cosa
da mettere sulla tavola, tu porterai una scodella di brodo ben caldo per
questa povera donna.

— Sì, signore, rispose la fante che tornò sollecita in cucina per
ubbidire all'ordine ricevuto.

— Oh! sor Prevosto, ripeteva la vecchia agitandosi un poco sulla sua
seggiola, troppa bontà..... non occorre... la prego.

— Levatevi quel fazzoletto di testa, disse Don Venanzio: ve lo
rimetterete uscendo e così non vi avverrà di sentir tanto il freddo
andando a casa.

La donna ubbidì. Si vide allora una testa arruffata di capelli grigi,
una faccia magra, corsa per ogni senso, per ogni dove da rughe infinite
e finissime che facevano come una rete fitta della sua pelle abbronzata
e riarsa dal sole, dall'intemperie, dagli anni. Se fosse stata bella chi
lo avrebbe potuto dire? Non sembrava pur vero che quello avesse dovuto
essere un giorno volto di giovane. Si sarebbe potuto dire un cumulo di
rovine che non lasciavano scorger più le forme del primitivo edificio.
Niuna vivacità era più nè in quelle fattezze distrutte, nè in quello
sguardo spento; nessuna espressione, fuorchè quella d'una profonda,
inalterabile, rassegnata mestizia.

Maurilio, che ad ogni volta la rivedeva, trovava nella povera donna
cresciuta la tristezza e più fiacca la persona, sentì una viva pietà nel
mirarne ora il sembiante così afflitto, benchè in fondo a' suoi
occhielli grigi infossati brillasse in questo momento una lieve luce che
pareva una speranza, che pareva un pallido raggio di gioia.

— O Margherita, disse il giovane, come la vi va? Non mi riconoscete voi
più?

— Che? esclamò ella volgendo verso di lui la sua piccola faccia
aggrinzita; tu se' Maurilio?... No davvero non ti avevo riconosciuto...
Pensavo così poco doverti vedere!... Gli è pur vero che tu non hai mai
obliato il villaggio, tu!...

Mandò un sospiro che diceva di molte cose; ma in quella pose mente alla
maggior eleganza dei panni di Maurilio che era vestito com'ella non
l'aveva visto mai, proprio da signore, e si vergognò d'averlo trattato
con quella famigliarità onde s'era avvezza a parlargli fin da bambino,
quando lo vedeva ruzzare col suo.

— Oh! la mi scusi: diss'ella. Io le parlo ancora come se fosse il
naccherino d'un tempo, e invece...

Maurilio la interruppe con calore:

— Vi prego a non cambiar nulla dei vostri modi a mio riguardo. Mi avete
trattato sempre come compagno di vostro figlio, e come tale voglio che
seguitiate a trattarmi.

A quelle parole «vostro figlio» una tinta di colore più scuro era venuta
alle guancie abbronzate della vecchia. Era un rossore di piacere e di
emozione.

— Il mio Giannino! esclamò essa (non osava ripetere quella espressione
«mio figlio» quantunque se ne struggesse dal desiderio). Anch'egli è
diventato un signore, mi dicono. Se lo vedessi, non oserei pure
guardarlo in faccia.... E tu.... e Lei lo vede sempre? Sono sempre
amici?

In quella entrava la serva colla scodella piena di brodo fumante.

— Di tutto ciò parleremo dopo: disse allora Don Venanzio; ora bevete
questa roba calda; ciò vi scalderà e vi rifocillerà lo stomaco.

Margherita, in mezzo a mille ringraziamenti e benedizioni, bevve, e se
ne sentì veramente riconfortata.

— Or dunque, diss'ella volgendosi poi al parroco, tutto sollecita. Ella
ha da parlarmi da parte di lui, del mio Giannino?

— Sì, mia cara; l'abbiamo veduto...

— Sta bene? interrogò la vecchia, a cui il parroco pareva troppo lento a
parlare.

— Sta benissimo...

— E si ricorda di me?

— Sì, se ne ricorda.....

— O Dio! Madonna santa! potessi vederlo! Dica, dica, potrò io vederlo
ancora prima di morire?

— Sì, sì, lo vedrete...

— Quando? Come?... Che mi tocca di fare?... Oh son pronta a qualunque
cosa per provare questo piacere. Non dico bugia, sa!... Devo andarmene a
cercarlo colaggiù a Torino?... Sono vecchia e debole, ma per vedere il
mio Giannino andrei in capo al mondo, finchè avessi consumato, non che i
zoccoli, ma i piedi. Quante volte non ci sarei già andata se non avessi
avuto paura di perdermi in mezzo alla folla della città e non poter
arrivare fino a lui, e più ancora se non avessi avuto paura di fargli
dispiacere... Ma ora finalmente lo rivedrò!... Ella me lo dice..... — Ve
lo dirò di meglio, se mi lasciate parlare; interruppe col suo sorriso
pieno di bontà Don Venanzio, il quale aveva per commozione umidi gli
occhi.

— Oh parli! parli!

— Io dunque ho veduto Gian-Luigi in casa di Maurilio dov'egli venne.

La povera vecchia, il collo teso verso il prete come per esser più
presso alle labbra di lui per coglierne a volo le parole, la bocca e gli
occhi larghi quasi volesse assorbire anche colle labbra, anche colle
pupille il suono di que' detti, faceva col capo de' vivi segni
d'affermazione, come per dire che aveva capito, che si sollecitasse a
dirle quelle buone novelle ond'essa attingeva tanto bene, tanto elemento
di vita.

— Mi chiese di voi, continuava il parroco: e la donna stringendo le mani
colle dita incrociate le alzava all'altezza della sua bocca in atto
misto di ineffabil gioia, di ringraziamento a Dio, di suprema
riconoscenza.

Il buon Don Venanzio non credette fosse peccato rasentare un pochino la
menzogna per dare a quella pover'anima di vecchia un momento di
beatitudine.

— Mostrò per voi un'amorevole sollecitudine. Disse che non vi aveva mai
dimenticata, e che soltanto la forza delle circostanze gl'impedì sinora
di venirvi a vedere e di venirvi in aiuto...

— Oh lo credo: interruppe Margherita, asciugandosi col dosso della sua
mano una lagrima che scendeva per le grinze della sua guancia. Lo credo.
È così buono! Non l'ho mai accusato io, no mai... La gente diceva
questo, diceva quello... Volevano farmi della pena... Io non credeva
nulla: e pregavo il Signore per lui... e per poterlo ancora vedere...
Ecco quel di che ho bisogno: vederlo... Il resto non m'importa. Io sono
vecchia, tanto poco mi basta per vivere!

Il parroco avvisò che per procedere a gradi e preparare quell'anima alla
gioia maggiore, conveniva serbar per ultimo l'annunzio della probabile
venuta di Gian-Luigi al villaggio.

— Egli vuole che d'ora innanzi quel poco almeno non vi manchi più:
riprese a dire: e perciò mi ha consegnato una somma da darvi da parte
sua, che tengo qui e che ho piacere di rimettervi all'istante.

— Una somma! per me! esclamò la vecchia. Lo ho sempre detto io che aveva
un gran cuore... Oh che cuore è il suo!

Don Venanzio trasse dal taschino del panciotto il rotolo di marenghi
avviluppato nella carta, quale gli aveva dato Gian-Luigi; e tenendolo
fra il pollice e l'indice lo porse alla Margherita.

— Ecco qua, disse, mille lire.

La vecchia si fece indietro sulla seggiola quasi spaventata; battè le
mani insieme e poi levò le palme in atto di indicibile stupore.

— Mille lire! esclamò; proprio mille lire!

— Sì, in altrettanti napoleoni d'oro.

— E tutto questo per me? soggiunse la donna ritraendo le mani dal rotolo
che il parroco le porgeva, come se avesse paura a toccarlo. Non è
possibile. Che cosa debbo io fare di tanto denaro?

— Dovete usarne a seconda dell'intenzione del vostro figliuolo: rispose
Don Venanzio col suo sorriso amorevolmente paterno; val quanto dire
procurarvi con esso quelle cose necessarie di cui maggiormente
abbisognate. Avete addosso appena di che coprirvi non che ripararvi dal
freddo; non vedete che i vostri piedi nudi s'intirizziscono e
irrigidiscono ne' zoccoli umidi dalla neve? Nel vostro stambugio appena
se ci avete, raccolto stentatamente su pei greppi, tanto di legna da
potervi cuocere una magra minestra. Potrete adunque comperarvi panni
caldi, e calze di lana, e legna da ardere per iscaldarvi; potrete
procurarvi un cibo migliore e più sostanzioso di quello che ora vi
fornisce l'andare elemosinando.

E quasi di forza mise il rotolo di monete nella mano della vecchia che
ne rifuggiva, poco meno che paurosa di toccarlo. Quando però l'ebbe tra
le magre, ossee dita, essa lo palpò quasi con amore, lo soppesò, lo
strinse forte in pugno, e poi se lo recò alle labbra e v'impresse su un
grosso bacio.

— E' mi viene dal mi' figliuolo: disse come per ispiegare la ragione di
quell'atto: dal mi' figliuolo: ripetè trovando una cara dolcezza nel
pronunziare quelle parole che fino allora non aveva osato adoperare....
Ah lo vorrò custodire come una sacra reliquia.... Spenderlo, mai più!...
Forse che ho bisogno di nulla io?... Sono sempre vissuta in mezzo alle
privazioni, io.... La gente è buona per me e non mi lascia mancare un
tozzo di pane.... E andrei ora a farmi carezze a questo vecchio carcame
per quattro giorni che gli rimangono da vivere? Che! che!

Il parroco la volle persuadere che per soddisfare al desiderio di chi
glie li mandava ed anche al dovere che ha ciascuno verso di se stesso,
la doveva impiegare quei denari nella guisa che le aveva detto; ma la
vecchia, pur non osando contrastare alle parole di lui, ben mostrava
coll'aria del suo sembiante che quelle ragioni non la scuotevano per
nulla dal suo proposito, e ch'ella avrebbe fatto a suo senno.

Margherita approfittò d'una pausa che fece Don Venanzio nel suo discorso
per entrare a parlare di quello che più le premeva. Il rotolo di monete
seguitava ella a stringere nel pugno e questo aveva nascosto nella tasca
della sua misera vestaccia.

— Lei mi disse, interruppe adunque, che io il mio Giannino l'avrei
visto... Per carità la mi dica in che modo e quando!... Se la sapesse
quanto lo desidero!... Ed io non ho gran tempo da aspettare. Non
converrebbe che tardasse di troppo a darmi questa consolazione, se vuol
trovare ancora insieme queste grame quattr'ossa.

— No, no, rispose il parroco, non tarderà molto tempo. Forse la
settimana ventura, forse sul finire di questa medesima, a quanto egli ha
detto, verrà qui per vedervi.

— Verrà qui? Per veder me? esclamò la poveretta giungendo le mani e
sollevandole verso il cielo con atto d'inesprimibile gratitudine e
soddisfazione. Oh! sia lodato Iddio! Sia ringraziata la Madonna dei
dolori!..... È Lei che mi fa questa bella grazia! L'ho pregata tanto,
tanto, tanto!.... Ancora questa sera io la pregavo che mi concedesse
questa grazia e poi mi togliesse pure dal mondo. E vuole che glie la
dica, sor Prevosto? Questa sera medesima, là in chiesa quando ho visto
entrar Lei e andarsi inginocchiare alla balaustra, io ho sentito una
voce in cuore che mi diceva: «Ecco là di ritorno quel sant'uomo del
parroco che ti ha da dir di sicuro qualche buona novella.» Era la
Santissima Vergine che mi faceva avvertita avermi accordata la grazia
che domandavo... Oh! voglio mostrargliene la mia gratitudine a quella
pietosa Madonna... Ecco a che mi serviranno i denari mandatimi dal mio
Giannino... Comprerò due bei cuori d'oro, proprio d'oro, da offrire alla
sua immagine...

Don Venanzio fece un moto d'impazienza, ma essa non se ne accorse e
continuava tutta infervorata:

— E il resto vo' darlo a Lei, perchè la mi dica o faccia dire tante
messe...

Qui il parroco la interruppe non senza qualche vivacità:

— Ma no, ma no, che così non istà bene, e siete matta a credere che ciò
voglia la Madonna o le faccia piacere... Non è l'offerta d'una cosa di
valore che possa contentare Quei di lassù... Che credete che loro
importi dei vostri cuori d'oro e d'argento?... È il cuor vero che
vogliono, quello che abbiamo nel nostro petto e che dobbiamo presentar
loro pieno di bontà, di carità, di adorazione e di fede... Ecco!... Non
dico mica che chi può, chi è in caso d'aver da spendere senza torne ai
suoi bisogni nè alla beneficenza, che deve esercitare, piuttosto che
gettar via altrimenti il superfluo, non faccia bene ad ornare la casa
del Signore; ma voi siete in questo caso, poveretta? Non sapete che uno
dei primi doveri che ci sono imposti è quello di conservarci noi stessi?
E se pecca chi ha troppi riguardi, e troppo amore per la sua persona,
pecca eziandio chi ne ha troppo poco?.... Quanto alle messe, di certo la
è una buona cosa.... Ma io vi contemplerò nelle mie preghiere in tutte
le messe che sarò per dire ancora, senza che vi abbia da costare un
centesimo.

— Ella è un santo.... l'ho sempre saputo.... Io la ringrazio; ma mi
sembra pure che le messe dette apposta devono piacere di più colassù e
farci più favorevoli quelli di cui domandiamo la protezione e l'offerta
di qualche cosa....

Il parroco interruppe con più impazienza di prima:

— Eh! voi misurate i Celesti alla nostra povera misura umana. Credete
ch'e' sieno come i potenti della terra, che si rendono propizii coi
regali?

Se fossero stati soli, il parroco e la vecchia contadina, forse il primo
non avrebbe parlato con tanta vivacità; ma in presenza dell'incredulo
Maurilio (che tale era il giovane nel concetto del buon sacerdote)
questi provò una certa irritazione, che non seppe dominare, nel vedere
una sua parrocchiana dare una così patente prova di erroneo concetto nel
suo sentimento religioso.

La vecchia, meravigliata e un po' intimorita del tono con cui le parlava
il parroco, in lui affatto nuovo, disse umilmente:

— La scusi... Credevo far bene... Ma Lei la sa più lunga di me... E se
Lei dice di no, è segno che gli è no... E io sono pronta a far tutto a
suo senno.

— Bene, bene: riprese il parroco tornando di subito al suo bonario
sorriso ed al suo benigno accento. L'intenzione è quella che dà il
carattere ad ogni atto; e la vostra intenzione è la migliore del mondo,
lo so. Ma credete a me, e spendete quei denari a sollievo de' vostri
bisogni... Ora andate, e Dio vi mandi una buona notte.

La vecchia si levò di fretta.

— Oh! la sarà buona di sicuro: disse. La si figuri se dopo una novella
simile!... Già non potrò dormire: ma che importa? Sono la più felice
donna del mondo... La buona notte anche a loro... ed a Lei, sor
Prevosto, tutte le benedizioni di Dio!...

Uscì. Don Venanzio e Maurilio la seguitarono collo sguardo. Quando
rimasero soli i due uomini, successe un silenzio, i loro pensieri
giravano intorno ad una grave quistione; ma l'uno e l'altro pareva che
si peritassero ad affrontarla. Fu Don Venanzio il primo che francamente
l'abbordò. Immaginava egli le ragioni e gli argomenti che la incredulità
di Maurilio dovesse agitare seco stesso contro la religione di cui egli
era ministro, suscitati da quell'occasione in cui la donnicciuola
ignorante aveva manifestato la natura della sua fede: e parvegli che non
andare incontro egli stesso a quelle obiezioni e distrurle, non isfidare
la disputa, fosse una specie di viltà, fosse un mancare al proprio
dovere. Levò arditamente la sua bella fronte canuta, come un valente
guerriero che si prepara a combattere, e disse al giovane che gli sedava
muto e pensoso dinanzi:

— Quella donna ha seco una forza... Per questa potè reggere ai travagli
della sua vita infelice; per essa resiste ora ai mali della vecchiaia e
della miseria. Ha la fede! È una fede da semplice, da ignorante,
offuscata, se vuoi, da nebbie superstiziose; ma è pure una fede — ed è
la vera.

Maurilio volse lentamente la sua grossa testa verso il parroco; lo
guardò con una indicibile espressione di calma riflessiva, di
convinzione profonda, di fermezza di proposito, e rispose colla sua voce
affranta e posata:

— Anch'io ho una fede!... E nelle linee principali, generalissime,
s'assomiglia, s'accosta, è forse anco la medesima di quella della povera
Margherita; ma nel suo complesso, nel modo di formularsi
all'intelligenza, di estrinsecarsi ed attuarsi, è diversissima. Ma Ella
afferma che quella della donna ignorante è la vera; e quindi la mia,
quella di chi la pensa come me, dev'essere falsa. Qui sta il punto.....

Fu interrotto dalla fantesca che recando in tavola una terrina fumante,
disse:

— Eccoli serviti.

— Bene: esclamò Maurilio sorridendo; cominciamo per cenare, e dopo, se
la vuole, discuteremo.

Don Venanzio fece un atto di acquiescenza sorridendo del pari, ed
ambedue si accostarono al desco. Il parroco stette un momento in piedi
colla sua berretta in mano, pronunziando a mezza voce il _Benedicite_.
Maurilio rimase dritto ancor egli con aria di rispetto, ma non disserrò
le labbra: finita la preghiera, sedettero, spiegarono le serviette che
sentivano un buon odore di bucato, e si posero allegramente a mangiare.



CAPITOLO XV.


Quando ebbero finito, e la tavola fu sparecchiata, i nostri due amici,
le gomita appoggiate sul tappeto, l'uno in faccia dell'altro, avviarono
animosamente la discussione che aveano lasciata in sospeso.

Non ripeterò che sommariamente le cose che furono dette dall'una parte e
dall'altra, e risparmierei affatto questa noia al lettore, se non
credessi opportuno far conoscere anche da questo lato lo spirito del mio
protagonista, il quale rappresenta meglio che altri le audacie e le
ispirazioni del pensiero moderno; epperciò con alquanto maggior
estensione, benchè in sunto, riferirò le ragioni da lui addotte nella
disputa.

Don Venanzio si appigliò senza ritardo alla, secondo lui, indiscutibile
autorità della rivelazione e della ininterrotta tradizione. La Chiesa
cattolica ebbe direttamente da Dio la cognizione della verità e la
capacità e la facoltà di diffonderla, spiegarla, affermarla. La mente
umana è troppo debole per affrontare colle sole sue forze la terribilità
del quesito religioso, di cui pure è necessario uno scioglimento al
bisogno intimo che Iddio medesimo ha voluto porre nella natura
dell'uomo. Senza un appoggio solido e potente la nostra ragione si
smarrisce nella ricerca di questo vero che è di tanto superiore alla sua
sfera d'azione, alla sua efficacia. La rivelazione è venuta a porgere
questo punto di appoggio, a dare il caposaldo alle aspirazioni religiose
dell'anima. Della verità della rivelazione poi non è da dubitarsi,
perchè la tradizione medesima, la incontestabile autorità dei testi
sacri la stabiliscono, anche sotto il rispetto storico, in modo
definitivo, ed è empio proposito e più empio attentato il volerla
rivocare in dubbio soltanto. Vi sono in quel complesso di credenze che
costituisce la fede a cui Don Venanzio apparteneva, alcune cose che
l'infausto e diabolico orgoglio della povera ragione umana, aiutata e
spinta dall'arte e dall'influsso dell'eterno nemico, vuol trovare
assurde, impossibili ed anche puerili. Ma vi è pure una quistione
principale e, come si suol dire, pregiudiziale, che tronca affatto e
rimove del tutto ogni simile obiezione. Come volere la ragione nostra
giudice della possibilità di cose che di tanto stanno al di là del
debole arrivo delle sue forze? Anzi tutto quello che può servire di buon
argomento nel campo della sua azione, cessa di aver effetto e si
converte in argomento a contrario per la ragione umana, quando la vuol
recare i suoi metodi logici e le sue deduzioni là dove ella non ci ha
più nulla da vedere, perchè non vi basta la cortezza della sua vista. In
questo senso fu detto il motto sublime: _Credo quia absurdum!_ E ad ogni
modo con che fronte, con che speranza di vittoria può la ragione umana
cimentarsi colla rivelazione? Questa è la parola diretta di Dio: quando
ella ha suonato chi non vede che si ha l'elemento supremo della verità?
E per promessa di Dio medesimo, non è una continua rivelazione la parola
della Chiesa legittimamente costituita, pronunziata da' suoi legittimi
rappresentanti? Una delle prove più perspicue della verità di quella
fede che egli professava, secondo il buon prete, era la dolcezza, la
tranquillità che ne sente chi in essa acquieta l'anima sua; era il gran
conforto che glie ne viene, anche nei maggiori travagli a chi,
appoggiato alla medesima, s'erge al Cielo sull'ali della preghiera:
speciali grazie e ricompense queste che Iddio concede appunto ai veri
credenti.

Maurilio la prese da quest'ultimo argomento, ritorcendolo di questa
guisa:

— Ma allora perchè tanti e tanti, allevati appuntino nella più stretta e
rigorosa ortodossia, sentono ad un tratto levarsi nell'animo loro le più
crude incertezze, i più ansiosi dubbi su quelle credenze, contro alcuna
delle quali protesta la loro ragione venuta a maturanza? E costoro son
quelli d'ordinario cui più volle favorire la Provvidenza di forza
d'intelletto. Perchè i tormenti di questi dubbi che sono quasi il
risvegliarsi della ragione? perchè questo ribellarsi e ripugnare
dell'intelligenza sviluppatasi contro le credenze insinuate fin dalla
prima età nell'animo nostro, così da essersi fatte per tutti come cosa
sacra da non isfiorarsi neppure coll'audacia dello spirito d'esame? Se
quella è la verità assoluta od anche solo quale è acconcia al nostro
intelletto, questo in tutti, e tanto più in quelli che l'hanno maggiore,
dovrebbe aderirvi tenacemente pago e soddisfatto. L'acquiescenza poi dei
credenti alle cose insegnate come verità indiscutibili, e la pace e la
beatitudine che l'anima loro ne risente, non sono un privilegio dei
fedeli della sua Chiesa; lo si ritrovano presso tutti quelli che hanno
una forte e profonda credenza radicata nell'animo, sieno essi
protestanti, giudei, maomettani, anche idolatri. È questo un effetto
mirabile certo, ma non esclusivo d'una sola religione; è effetto della
fede in genere, della sostanza di questo attributo dell'uomo, la facoltà
di credere nel mondo sovrumano, non della forma in cui questo attributo
si esplica e manifesta.

«Sì, caro padre mio, anche in ciò si ha da distinguere la sostanza e la
forma, e da tenerne conto. Quella è immutabile, e consta in realtà di
poche verità generali, cui la forma poi interpreta, spiega, applica od
offusca a seconda. Quella eterna come il vero assoluto, sta al di sopra,
all'infuori d'ogni azione dell'umano intelletto, delle circostanze di
condizioni morali e civili in cui l'umanità si trovi; questa, la forma,
come cosa puramente umana che ella è, partecipa della sorte di tutte le
cose umane, si viene scambiando, migliorando, purificando, elevandosi a
sempre più perfetto grado, a misura appunto che lo spirito umano si
migliora, si perfeziona, vede ingrandirsi innanzi a sè il campo del vero
ed acquista forza e capacità maggiore a contemplarlo. Questa forma è
adunque, più d'ogni altra cosa ancora, l'espressione del grado di
coltura, di sapere, di civiltà a cui gli uomini sono arrivati, e
riflette eziandio i caratteri delle nazioni e delle razze. Gli è per ciò
che il mondo moderno è cristiano, che i selvaggi sono idolatri, che i
latini sono cattolici.

«Quindi si fa che non è solo un errore, ma è cosa empia quella che tutte
le religioni positive commettono, di confondere la forma variabile e la
sostanza eterna, di voler dare alla prima le qualità e l'autorità della
seconda, d'imputar così alla religiosa essenza le colpe e gli errori
degli uomini che di quella si profittano. Da ciò avviene eziandio che in
certi momenti la forma invecchiata non si adatta più convenientemente
allo stato presente degli spiriti; e la sostanza medesima della fede,
per non essere intaccata essa stessa, per non correr rischio di perire
nel naufragio della forma diventata insufficiente e ripugnante alla
ragione progredita, lavora ella medesima a distrurla. Allora si accusano
di empietà e d'incredulità coloro che rifuggono da certi dogmi e da un
culto che non soddisfano più la loro coscienza religiosa divenuta più
delicata e più illuminata, e i quali, fors'anco inconsciamente, lavorano
a preparare la modificazione della forma in una fase novella.

«La sua Chiesa medesima, Don Venanzio, benchè riluttante ad ogni
cambiamento, benchè acremente tenace d'ogni sua parte, non segue ella
questa legge naturale e necessaria dell'umano progresso? Quanto non si è
ella venuta modificando nel corso dei secoli? Quanto non ha ella
cambiato insegnamento, disciplina e i dogmi perfino? Dalla Chiesa
primitiva alla presente, chi le paragonasse, quale immenso divario!
Senza volerlo, senza confessarlo, ha pur dovuto camminare coi secoli.

«Ma la ragione umana che ha sempre camminato più di lei, l'ha lasciata
indietro di molto, ed ora, mentr'essa non solo vuole immobilitarsi, ma
anzi regredire, la ragione invece ha preso slancio maggiore e più ardita
foga verso il vero. Di qua il quasi necessario divorzio e
l'irrimediabile contrasto fra l'una e l'altra.

«La ragione voi la negate; la volete, se non altro, sottomessa ad
un'autorità indiscutibile di cui non si hanno da esaminare il valore e
le prove. Contro la coscienza della ragione moderna voi urtate pel
metodo, per la dottrina, per la morale e pel culto; non proponete,
imponete, insegnate il sopranaturale e lo sostenete col mistero
appoggiato al miracolo, spiegate l'incomprensibile coll'inammessibile;
ordinate per morale un'obbedienza interessata agli ordini d'una volontà
estrinseca; ponete negli atti esteriori del culto, in certi mezzi
meccanici, in simboli, in operazioni materiali la condizione della vita
religiosa delle anime.

«Il vostro insegnamento dottrinale si fonda in gran parte sopra un
concetto dell'Universo, del principio dell'Universo, di un rapporto fra
questo e quello, cui la scienza ha dimostrato erronei...

— Ma la rivelazione: interruppe Don Venanzio.

— La rivelazione cui voi affermate sempre ma di cui non date prove che
possa la severa critica disaminare, ma cui non volete sottoposta a
questa disamina; la rivelazione da questo lato affermerebbe come vere,
cose che una certezza positiva ha dimostrate assolutamente false. La
scienza ha distrutto i miracoli, e la ragione, più robusta, ripugna ai
misteri. Il mondo è pieno di fatti inesplicati, fors'anco per noi
inesplicabili, ma non di fatti essenzialmente inintelligibili: volendo
fondarvi sull'assurdo e sull'impossibile non potete trovare un punto
d'appoggio saldo e valevole: il vostro edificio traballa al primo urto
del dubbio. Perciò siete costretti a proibire addirittura il pensiero. I
misteri che voi m'imponete, sono soltanto superiori alla ragione senza
contraddirla, oppure la contraddicono? Sono essi assolutamente
inintelligibili? Ma ciò che è inintelligibile non è: ciò che la nostra
intelligenza non può apprendere non è fatto per noi. Quello a cui
contraddice la ragione, dono di Dio, non può essere del pari; a meno che
la ragione ci sia data per vedere il falso. Empietà questa maggiore
d'ogni eresia.

«La vostra morale ci comanda non di fare il bene, ma di obbedire ad una
allegata volontà superiore manifestataci per certi intermediari: voi
mettete fuori di noi il nostro salvamento. La giustizia per voi è quel
che vuole l'Ente supremo quale voi ce lo presentate: ma invece la
giustizia è per se stessa.....

— Disgraziato: interruppe qui il buon vecchio, sgomento, afflitto,
disperato, direi quasi, di udire una tal filza di parole che per lui
erano tutte empietà. Oh come hai tu imparato tante orrende dottrine?
Come hai tu fatto ad aprir l'animo a questi diabolici sofismi? E tu
dicevi di aver pure una fede! Ma no; non è punto vero: tu sei un ateo.

— No: esclamò Maurilio con forza, levando la fronte. Credo e credo
fermamente: veggo nell'opera il creatore, sento Dio nell'universo. Glie
lo dissi e lo ripeto: Ho una fede ancor io.

— Ma quale?

— Mi ascolti.

Si raccolse un momento, e poi riprese il discorso.

— Ho detto che la forma estrinseca del sentimento religioso si scambia a
seconda collo scambiarsi del grado intellettuale a cui è giunto lo
spirito dell'uomo. Ecco le varie e principali fasi per cui ella passa e
deve passare.

«A tutta prima l'uomo, rozzo affatto e selvaggio, adora la natura. Ha
già fatto un passo immenso dallo stato assolutamente primitivo a quello
in cui si crea una religione qualsiasi, per quanto grossolana e puerile
ella sia, e nella storia dell'umanità chi sa quante sequele di secoli
dovettero passare, innanzi a che si giungesse a questo primissimo grado
dello sviluppo religioso dell'anima umana. Ma pure allora l'uomo è
tuttavia incapace di elevarsi al concetto della natura universale: egli
non rimane colpito che dagli oggetti che gli son prossimi e non va al di
là dei limiti del suo ristretto orizzonte. Gli oggetti del suo culto per
ciò si fanno quelli di cui si serve, che gli sono utili, che ama, di cui
ha timore: un albero, un masso, una montagna, un fiume, una belva, un
animale qualunque. La speranza ed il timore ispirano sopratutto il suo
culto grossolano. Siamo in pieno feticismo.

«Nel secondo grado l'uomo levandosi col pensiero al di sopra dei bisogni
e dei ristretti limiti della sua vita giornaliera, onora certi oggetti
maggiori, più belli, più brillanti: la luna, il sole, gli astri, la
vôlta celeste in cui si movono. Questi oggetti gli sembrano contenere un
grado di perfezione superiore a quanto trovasi sulla terra. È il
sabeismo; e l'intelligenza umana in esso possiede già una vaga nozione
dell'universo.

«Più tardi quest'intelligenza, progredita d'alquanto, giunge a concepire
sotto gli oggetti che mostra la natura, le forze che l'animano, che si
agitano nel seno della medesima natura, che danno ad ogni cosa il
movimento e la vita. Dietro gli elementi indovina le leggi alle quali
essi obbediscono e ne fa delle potenze dotate d'una esistenza personale
e indipendente; è costituito il politeismo. Poco a poco arriva in
seguito a comprendere l'ordine morale e lo fa entrare a sua volta nel
concetto delle sue divinità, attribuendo loro tutte le qualità che trova
nell'uomo stesso e tutte le perfezioni di cui può concepire l'idea. Di
questa guisa il politeismo già si trasforma e veste un carattere
filosofico. La religione comincia a passare dal tempio alla scuola; si
fa a studiare i problemi della nostra natura, del nostro fine, del
nostro destino. L'umanità è pronta per una religione metafisica, che è
il quarto grado del suo sviluppo.

«Questa religione metafisica, lascia in disparte la natura, non cura più
il mondo fisico, fissa i suoi sguardi sull'essere divino medesimo,
studia i suoi attributi e li vuole determinare e definire nel dogma. Ma
nel dogma s'incatena la ragione; si cristallizza, per dir così, il
progresso mentale dei tempi precedenti e si vuole immobilitare lo
svolgimento dell'umano pensiero. È la servitù: l'uomo è dichiarato
incompetente a nulla cambiare a simboli comunicati direttamente dal
cielo. A guardia di codesti simboli si pone un sacerdozio gerarchico che
per sua natura ed istituto e necessità logica delle premesse dovrà
sempre più isolarsi dal laicato. Questa casta si perpetuerà man mano con
delle reclute che si formerà ella medesima: costituirà un'associazione
potente con interessi proprii, stranieri e talvolta contrari a quelli
degli altri uomini; lavorerà tenacemente nel proposito di vantaggiar
sempre se medesima, senza tener conto dei voti e dei bisogni della
società cui vorrà anzi tutto dominare, e in conseguenza impedirà ogni
progresso, respingerà ogni innovazione, timorosa sempre la sua potenza
non ne venga a scapitare.

«La sua divinità, qual essa la presenterà all'uomo, sarà inaccessibile
all'intelligenza terrena; sarà tale da doversi ignorare dalla ragione
quali disegni abbia essa sugli uomini e ciò che da essi esiga. Quindi
per servirla a dovere, questa divinità, converrà affidarsi del tutto
alla casta che si propone e s'impone intermediaria fra essa e l'uomo,
che si spaccia sola interprete della volontà divina, ed accettare senza
esame i suoi decreti. La casta sacerdotale diventerà così l'arbitra
assoluta del pensiero umano. Mercè quella oscurità impenetrabile in cui
avvolgeranno il loro Dio invisibile, essa comanderà sacrifici ed
offerte, spaventerà gli animi e le immaginazioni, fulminerà coll'anatema
i suoi avversari, punirà i nemici colla maledizione tradotta anche nei
supplizi materiali.

«Ma questa è schiavitù, e l'anima umana e l'intelligenza umana non
possono durare a lungo in questo stato di violenza il quale le
condurrebbe addirittura alla distruzione. Per quanto si faccia, la
ragione comincia a protestare. Invano si moltiplicano le persecuzioni,
il grido della libertà del pensiero scoppia qua e là. L'umanità, stanca,
che si sente sminuita nella sua parte più essenziale, vuole rigettare la
cappa di piombo che l'opprime. Anche presso coloro che non avventurano
di cimentare le credenze autoritativamente loro imposte alla corte della
ragione, la materialità degli atti esteriori perde il suo significato;
il pensiero che si adombrava nei simboli se n'è staccato perchè questi
non valevano più ad esprimerlo e rimangono come vuote spoglie prive di
corpo e d'anima. La coscienza si risveglia: opinioni indipendenti,
pensieri di libertà s'infiltrano da ogni parte e corrodono le basi
dell'edificio da cui il vero spirito divino si viene man mano ritirando:
un giorno sopraggiunge, in cui le pareti crollano da ogni parte e rimane
su quelle rovine la coscienza dell'uomo levata e potente nella sua
libertà. Si è arrivati allora al grado più perfetto dell'evoluzione
religiosa che mente d'uomo possa ora concepire: il regno della libera
coscienza.

«Allora la fede non è più l'accettazione dell'assurdo, che è
un'abdicazione ingenerosa della propria ragione, ma diventa il
_rationabile obsequium_ di San Paolo; allora si verifica la parola del
Cristo, che si deve adorare Iddio in ispirito e verità; allora sarà
compiuto il ciclo della contrastata missione del Nazzareno, e l'uomo
sarà posto senza intermediario in relazione coll'Eterno, e sarà, secondo
la promessa di Cristo, in comunicazione col Padre di tutti.

«L'umanità trovasi sparsa su per la via del progresso, in tutti questi
gradi della manifestazione religiosa, dai selvaggi che sono ancora nelle
tenebre del feticismo (e forse ve ne ha tuttavia di quelli in cui il
sentimento religioso non è neppure nato) ai più avanzati delle classi
colte presso le nazioni incivilite, i quali già hanno posto il piede su
quell'ultimo gradino della libera coscienza.

«Io mi vanto d'essere fra costoro.

«Credo all'infinito, credo all'assoluto, credo all'eterno, credo alla
intelligenza regolatrice delle forze del creato, credo ad una evoluzione
del destino umano che non si compie nella breve vita su questo
miserabile globo, credo alla giustizia ed alla responsabilità d'ogni
libero volere; ma credo a ciò, perchè la mia ragione me ne persuade, non
perchè altri voglia impormene la fede con un'autorità che non vuole dar
le prove di sè stessa, o con una violenza morale o materiale. E non
penso che sieno empii, maledetti, da condannarsi, da disprezzarsi, da
infamarsi coloro a cui la ragione persuase altre credenze....»

Maurilio avrebbe continuato chi sa per quanto tempo ancora; Don Venanzio
avrebbe ribattuto, chè già mulinava nella testa una filza d'argomenti ed
una dozzina di citazioni da confondere il miscredente, e la disputa si
sarebbe protratta chi sa fin quando, se la fantesca, per quell'interesse
che aveva al padrone, con quella un po' brusca ma affettuosa
domestichezza che le davano i tanti anni passati in quella casa ed in
compagnia del vecchio parroco, non fosse venuta ad interrompere.

— Scusino, ella disse, ma per questa sera m'è avviso che s'è abbastanza
taroccato. Oh non sanno che ora è? Presto la mezzanotte. E dunque gli è
gran tempo di andare a dormire, Lei, sor Prevosto, sopratutto che la
mattina vuol sempre alzarsi al canto del gallo ed aver detta la sua
brava messa prima che sia giorno chiaro.

I due disputatori si guardarono sorridendo. Don Venanzio s'alzò primo e
tese la mano al suo giovane avversario che ne aveva imitato l'esempio.

— Neppur io, disse, non odio, non disprezzo quelli che la pensano
diverso da quel che vuole la Santa Madre Chiesa.... ma li compiango. Un
giorno o l'altro — io seguito sempre a sperarlo e prego tanto per ciò! —
un giorno verrà che anche tu ti accosterai e riparerai al più sicuro
porto della nostra fede e rimpiangerai allora le eresie e peggio che ora
ti stanno in mente.

Maurilio non rispose che col sorriso: e tutti due andarono a dormire.

Il nostro protagonista non dormì molto, ma passò quiete più che non si
pensasse le poche ore della notte nella modesta cameretta della
canonica. Le memorie del suo passato, evocate più vive dal trovarsi in
quel luogo, s'intrecciavano colle condizioni del suo presente ad
occupare in un lavoro di meditazione e di fantasticheria la sua mente:
ma ora quell'amarezza, quel tormento che i suoi pensieri avevano prima,
erano sminuiti. Perfino la immagine di Virginia, persino il ricordo che
la era sua sorella, affacciandoglisi alla fantasia, gli parevano in quel
punto meno dolorosi, gli eccitavano men crudo turbamento: ma egli però
si affrettava a scacciarli, e riparava sollecito l'animo nelle memorie
della età della fanciullezza.

Secondo quanto aveva detto la fante, il gallo aveva appena fatto
risuonare per la prima volta il suo canto mattiniero, che Maurilio udì,
da un lieve e riguardoso muoversi per la casa, che il parroco era già
alzato. Si levò sollecito ancor egli, e sceso a tentoni nel tinello, chè
l'oscurità era compiuta ancora, trovò Don Venanzio che, un candelotto in
mano, stava per passare nella chiesa a dire la sua messa. Dopo i
reciproci saluti uscirono ambidue, ma il parroco per l'andito che
metteva nella sacristia, Maurilio per la porta che aprivasi sulla
piazzetta.

Era notte chiusa a dispetto del canto del gallo; non una riga d'albore
nel cielo nuvoloso; la campanella della chiesa dava i rintocchi della
messa che stava per essere detta, in mezzo ad un alto silenzio degli
uomini e della natura. Solamente qualche raro lumicino vedevasi spuntare
dietro alcune invetrate di finestre: alcuni passi s'udivano venir per la
piazzetta, ammortiti dalla neve che copriva il suolo, alcune voci che
bisbigliavano sommesse, come paurose di rompere quel silenzio; e la
brezza fredda del mattino, di quando in quando metteva un leggier sibilo
alle cantonate delle case ed un fruscìo secco nei rami nudi dell'olmo
che stava in metà della piazza.

I passi e le voci che s'udivano erano di donnicciuole che accorrevano
alla messa del parroco; avvolte il capo, il collo e le spalle di fazzòli
e vestimenta messe a bardosso, per difendersi dall'aria ghiaccia di
quell'ora, le mani nascoste sotto a' panni, alcune col veggio in mano
dove avevan messe le poche ceneri calde rimaste dal fuoco della sera,
trottinavano a piccoli passi affrettati, ad una ad una, a due, a piccoli
gruppi, poi scorgendosi nell'ombra, s'aspettavano l'una l'altra alla
porta della chiesa ed entravano insieme bisbigliando. La schiera fu
presto compiuta; e non era che di dieci o dodici. Una delle prime era
passata, e Maurilio l'aveva tosto riconosciuta, la povera Margherita. Di
certo la buona donna non aveva dormito neppur essa quella notte, e
veniva a quell'ora mattutina a ringraziare il Signore di quella gioia
che le aveva mandata, di quella maggiore che le aveva promessa.

— Oh sublime cosa è la preghiera: disse Maurilio, quando ebbe visto
entrate in chiesa quelle donne. Ancor io ho bisogno di pregare. Andrò a
pregare in faccia alla natura, nel vero tempio del Dio vivente.

E s'avviò verso quel luogo solitario, dove fanciullo soleva condurre al
pascolo le vaccherelle di Menico.

Tutta la campagna era coperta di neve, e questo strato bianco, uniforme,
che faceva scomparire allo sguardo le lievi protuberanze e depressioni
del terreno, aiutato dalle ombre ancora fitte della notte, toglieva ai
varii luoghi che si succedevano il loro particolare carattere ordinario,
tutti confondendoli in una monotona rassomiglianza. Appena se facevano
varietà alcuna fra questa e quella parte, fra questo e quel campo, fra
l'una e l'altra landa i gruppi o le file degli alberi che piegavano
sotto il peso della neve i loro rami assecchiti e parevano contorcere
sotto quella gravezza i loro tronchi bassi e bernoccoluti.

Ma il nostro giovane pur tuttavia riconosceva ad uno ad uno que' luoghi,
quelle variazioni di terreno, tanto gli era impressa ogni cosa nella
memoria, e più ancora, direi, nel cuore. Avrebbe potuto riconoscere un
per uno ogni albero se tanta luce vi fosse stata, da discernere
pienamente gli oggetti; avrebbe potuto dire: qui ne manca uno che vi
sorgeva negli antichi tempi, questo crebbe dacchè io non son più venuto
qua. Salì lentamente il lene declivio della collina, su cui si
stendevano le aride brughiere che erano i pascoli comunali. Sedici e più
anni prima egli faceva due volte al giorno quel cammino i piedi scalzi,
una verga tra mano, cacciandosi innanzi le magre vaccherelle di Menico,
macilento egli più ancora delle bestie che aveva in custodia, obbligato
a star colà in ozio delle ore, sicuro di trovare, al suo ritorno
all'abituro, poco e povero cibo, molti rimbrotti e spietate percosse.
Colà, ancora affatto fanciullo, la sua mente era stata assalita dal
misterioso quesito degli umani destini, colà aveva sentito parlargli
all'anima la gran voce della natura, aveva sentito parlargli allo
spirito la voce dei morti. Aveva provato una specie di maravigliosa
iniziazione, per cui la sua vita aveva scorto il nesso che la
congiungeva alla vita dell'Universo, s'era cacciato, e non s'era
smarrito, nel vortice dell'esistenza universale, aveva avvertiti i
vincoli divini che uniscono le manifestazioni della vita su per tutta la
scala degli esseri in tutto il creato, e formatosene entro la mente un
primo concetto: aveva meditato, imparato, cominciato ad aver coscienza
del dolore, dell'intelletto e insieme della volontà. Quella brulla
costiera gli era cara oltre modo. La rivide alla poca, incerta luce del
crepuscolo che cominciava appena, con una commozione di tenerezza da non
dirsi; ebbe nel cuore i palpiti che desta il prossimo, aspettato
rivedere, dopo lungo tempo, d'una persona che si ama.

Giunse a quel punto preciso in cui soleva sostare da fanciullo, quando
l'alba appena disegnava al lembo estremo dell'orizzonte, fra la cresta
delle montagne e le nubi del cielo, una riga bianchiccia. Le sue gambe
affondavano nella neve fin sopra il nodello; un vento freddo gli faceva
svolazzare le falde degli abiti; non un grido d'augello, non una voce
umana, non un rumore d'esser vivo; regnava un silenzio di morte. Gli
ontani, spogli di frondi, inchinavano i loro rami carichi di neve sopra
il rigagnolo muto ancor esso, perchè rapprese dal ghiaccio erano le sue
onde. La brezzolina gelata che soffiava ad intervalli, ora era un
sibilo, ora era un gemito. Quel cantuccio della terra, pur così vicino
ad abitazioni umane, pareva in quel momento ignorare la esistenza
dell'uomo.

Maurilio si fermò là dove soleva sdraiarsi, là dove ragazzo settenne
aveva sentito la prima volta passar ne' suoi capelli l'alito del
fantasma, scorrer nelle vene il fremito solenne che desta l'apparizione
de' morti. Aveva in petto un gran desiderio, una viva aspirazione e
insieme una potente e quasi direi commossa fiducia. Era venuto per
pregare; ma l'intimo anelito gli diceva che la preghiera poteva essere
mezzo valevole di evocazione a quello spirito che da tanto tempo non era
più venuto ad aleggiargli innanzi apprensibile da' suoi sensi umani. Il
dramma della sua vita era giunto ad una fase suprema; e quest'essere
oltreterreno che lo aveva scorto nell'aspro cammino fin'allora percorso,
confortandolo, ispirandolo, ammonendolo, poteva esso mancare di venirgli
a dire la sua parola? Non aveva egli anche ora e forse più di prima,
bisogno d'aiuto, di conforto, di consolazione? Là dove primamente eragli
apparito ed avevagli favellato, doveva la sovrumana creatura apparirgli
ora e favellargli. La voce vaga e inafferrabile dell'immensa natura
doveva condensarsi e farsi concreta nello spiro, che gli parlava
all'anima, di quel benigno fantasima. Egli lo credeva, egli lo voleva:
egli venne colà a bella posta e stette aspettando.

Volse la faccia verso quel punto del cielo in cui la riga sottile della
luce crepuscolare fra la terra e la vôlta nubilosa dell'orizzonte
cominciava da bianca a farsi rancia, e pregò.

— Ente supremo ed infinito, Intelligenza assoluta ed eterna, Causa
ultima e prima, Anima dell'Universo, a te s'innalza questa creatura
finita, a te si volge questa misera intelligenza in sì angusti limiti
ristretta, verso te aspira quest'essere contingente, ma che ha pure nel
suo intimo una particella dell'eterno, te anela comprendere quest'anima
schiava d'una bassa materia, ma che pure è membro di quella grande
schiera fraterna d'intelligenze che dal primo manifestarsi della vita
sale per tutti i mondi sino all'inconcepibile altezza dell'assoluto, ove
tu siedi.

«O natura! Nudrice comune; culla e tomba indefinita della vita terrena;
fieramente avversa all'uomo, e colle tue crudeltà fatalmente benigna al
suo sviluppo; problema immenso alla mente umana che sempre sei sciolto e
sempre rimani; mistero cui la scienza persegue e svela, e sempre ti
sottraggi dietro nuovi veli, ritraendoti man mano nel campo
dell'infinito; natura che mi afferri e mi tieni, ma non mi possiedi; tu,
benchè immensa, non sei l'ambito in cui deve rimaner rinserrato il
pensiero, lo spirito, il destino dell'uomo. Tu non sei la madre, tu non
sei che l'alimentatrice temporanea di questo spirito che passa traverso
a te. Tu non sei causa, nè un complesso di cause; tu sei effetto e
complesso di effetti; tu sei un intermediario; per chi ti sa cogliere e
dominare tu sei uno sgabello per salire a Dio.

«Iside splendida e superba, le tue braccia potenti m'accolgano, ma non
mi soffochino; è la tua vita che si agita in me, circoscritta in questo
corpo morituro; ma questo non è tutto l'io che in me pensa e vuole;
quando tu decreterai la distruzione di questo corpo che tu mi hai dato,
non assorbirai eziandio nel serbatoio eterno della materia questa parte
immortale che può sola concepire l'eternità a cui appartiene. Non
velarmi tu coll'ebbrezza della tua beltà lo spirito che oltre te siede e
te stessa governa, non offuscarmi collo spettacolo della fatalità delle
tue leggi il concetto della libertà del volere, della giustizia, della
verità della potenza creativa. Io non posso tutta abbracciarti e
comprenderti, o natura, colla forza del mio pensiero; ma pur sento che
questo mio pensiero si spinge oltre te, che oltrepassa i limiti del tuo
regno, tuttochè immenso; sento che il mio pensiero è chiamato
ineffabilmente da altezze ineffabili, sento che si sprofonda negli
abissi dell'infinito.

«Dio! Dio! Dio! Noi aneliamo ardentemente verso Te, perchè l'uomo ha
bisogno della verità, e Tu sei la verità! A Te per una innumera sequela
di secoli, per tratto di tempo incalcolabile, là dove cessa il tempo,
traverso innumere esistenze, noi verremo accostandosi, senza
raggiungerti mai, ma conquistando a volta a volta, mano a mano una parte
maggiore di vero. Oh! l'anima mia ha fretta di gettarmi in questo pelago
dove splende la tua luce. È un ardore di desiderio che non ha riscontro
in nulla di terreno. Dio, chiamami sollecito al mio destino ulteriore:
Natura, affrettati a riprender possesso di questi elementi che mi
costituiscono un corpo. Ho io ancora una ragione di vivere qui entro
questa creta sciagurata? Non ho pagato a sufficienza il mio tributo di
prove e di dolori? Fammi passare, Eterno Iddio, per le ombre del
sepolcro, onde gli occhi dello spirito si possano riaprire alla maggior
luce della vita avvenire.»

Si scoperse la fronte e la espose al soffio del vento gelato che gemeva
sommessamente fra i rami degli alberi. Sentiva il sangue salito al capo
tintinnargli nelle orecchie e produrgli suoni inapprensibili, che
parevano parole d'un misterioso linguaggio.

— Morire, morire, mormorava egli, voglio morire per vivere!

Ad un tratto si riscosse; aveva sentito sulla fronte un soffio diverso
da quello del vento: provò per tutte le fibre un fremito soave, come
quello che vi desta il giungere improvviso della più diletta persona.
L'alito che era passato sulle sue chiome pareva lo sfiorar leggiero d'un
bacio. Il cuore gli si mise a palpitare, come in attesa d'un grave
avvenimento. Tutte queste cose aveva egli già provate altre volte, e da
lungo tempo ora non aveva sentite più: le gli annunziavano il
presentarsi dell'apparizione; era come il tocco dello spirito
oltreterreno che gli significava: «Son qua.» Quest'apparizione era egli
venuto colà con immenso desiderio e con viva speranza avvenisse. Ora ne
fu certo. Levò la testa e gli occhi, e guardò.

La cappa nuvolosa del cielo s'era abbassata ancor più sulle montagne e
toglieva ogni adito al libero passaggio del chiarore crepuscolare:
traverso a quelle nubi di un grigio plumbeo si stacciava, per così dire,
un po' di luce che riusciva livida e sfumava i contorni degli oggetti in
una strana incertezza di disegno: a pochi passi lontano tutto si
confondeva in un buio che pareva quello del vuoto.

Maurilio vide, palpitando, una nebbia, un vapore comparire, coagularsi,
direi, in mezzo ai tronchi degli ontani, prender forma e sembianza di
donna avvolta in bianco paludamento, ma una forma aerea e diafana, e da
questa forma, da quest'ombra, raggiare il benigno sguardo, il mesto
sorriso che già conosceva. Il diletto fantasima evocato gli stava pur
finalmente dinanzi. Il giovane fece un passo verso lo spirito, come per
afferrarlo, per giungerlo colle sue mani tremanti, ma si fermò tosto,
non osando più, mancandogliene le forze; cadde in ginocchio sulla neve e
tese verso quell'essere non umano le braccia.

— Sei tu, sei pur tu ancora una volta, alla fine! mormorò egli. Che tu
sii benedetta! Io ho tanto, tanto bisogno di te.

Tacque ansioso, aspettando. La benignità di quel sembiante lampeggiò più
viva; e Maurilio udì nella sua anima, nel suo cervello, nell'intimo
dell'esser suo la voce melodiosa, d'una melodia inesprimibile, di cui
nulla in terra può dar paragone, che gli parlava soave.

— Tu vuoi morire! Credi tu che l'anima tua sia già di tanto matura nella
crisalide terrena, da potere spiegar l'ali, farfalla, nel regno degli
spiriti? Non sai che ogni giorno di terreno dolore che passa, la prepara
a più eletta sorte, la fa degna di maggior grado nell'avvenire? No,
infelice, no, le tue prove non sono finite. Apparecchiati a sostenere le
nuove che ti aspettano, con quella forza che ti servì per le passate.
Macerato dalla sventura, tu giungerai alla soglia della vita umana, più
disposto alla vita superiore che t'attende.

«Non maledire il dolor che ti percuote! Nulla è senza ragione nel
creato; e la volontà divina non è il capriccio dell'arbitrio. «Il vaso —
ricordalo — non ha diritto di dire al vasellaio: perchè mi hai tu fatto
e perchè in questa piuttosto che in quella forma, a questo meglio che a
quell'uso[2]?» Ma la ragione il vasellaio ce l'ebbe. Un giorno verrà
forse — per gli spiriti che hanno vissuto quaggiù dove tu vivi — in cui
potranno alcun poco penetrare dei misteri di Dio. Ciò potrà avvenire
anche di te, e capirai la tua sorte e benedirai il flagello onde fosti
colpito. Abbi intanto fin d'ora l'istintiva coscienza che non inutili
sono le tue pene, e soffri longanime.

  [2] Parole di San Paolo.

«Soffri ed ama: soffri e perdona: soffri e confida nel dì futuro!»

La voce che pareva parlare non all'orecchio, ma direttamente nell'animo,
si tacque, e tutto l'essere di Maurilio vibrò ancora per un poco di quel
suono, come le corde dell'arpa vibrano tuttavia quando la mano ha
cessato appena di scuoterle. E il concetto e le parole che lo vestivano
erano appunto nel cervello di lui come l'armonia suscitata sulle corde
da una mano estranea: il suono è dello stromento, ma la melode è ad esso
estrinseca. A Maurilio quelle cose non erano state dette con voce di
suono: parevagli, per così esprimermi, che un altro le avesse pensate
nel suo pensiero.

— Soffrire! soffrire! gemette il giovane, inginocchiato sempre nella
neve. Ma non ho io sofferto abbastanza? Non ho io il diritto di
esclamare che s'allontani da me pur finalmente il calice delle amarezze?
Oh! mi si strappi almeno dal petto questo amore fatale che ancora mi
strugge e che la crudeltà del destino vuole empiamente mostruoso. Ah! tu
non sai, spirito benedetto, quanto questo amore mi tormenti e mi
affatichi col suo tormento! Quella immagine io non posso scacciare dal
mio pensiero, e col mite affetto d'un fratello non posso pensarla! Mi
squarcerei a brani a brani il cuore per tormi questa indomita passione.
Debbo io fuggire la mia famiglia ora che la Provvidenza mi ha ad essa
ricondotto? Mi fu ella mostrata la tenerezza dei domestici affetti e
concessami la possibilità di goderne, solo perchè una maledizione
venisse a piantarsi fra loro e me e rigettarmene lontano? Dovrò io
esecrare il momento in cui ripresi il possesso del nome e delle
condizioni che mi spettano?

Maurilio guardava il fantasima, e gli occhi non umani del fantasima
guardavano lui. Da questi occhi partì una fiamma, un raggio, una
scintilla, un qualche cosa d'inesprimibile che penetrò e si confisse nel
cervello del giovane, e gli suscitò di colpo un'idea che mai non gli si
era nemmeno adombrata. Era un dubbio strano che prese forma in una
domanda.

— Poichè, continuò egli, quello è bene il mio nome, quella è ben la mia
famiglia? Non è egli vero?

Stette aspettando ansiosamente la risposta. Il fantasima non la diede:
ma una indicibile espressione di mestizia insieme e di pietà apparve
sulle sue sembianze. Maurilio con infinita supplicazione protese le mani
verso lo spirito.

— Qual è questo mistero che mi si annunzia? che il mio pensiero intuisce
nel lampo de' sguardi tuoi?... tu sai la verità di certo... Oh dimmi
tutto il vero, qualunque sia...

Si tacque di nuovo in attesa d'una parola, di un cenno. L'aerea forma di
donna lo guardava sempre più mesta e più pietosa; ma non parlò, non
mosse. Il cuore a Maurilio batteva, batteva.

— Sono io figliuolo di Maurilio Valpetrosa? domandò egli con un'ansia
piena d'angoscia. Sono io figliuolo della contessa Aurora?

La neve in quella si mise a cadere; il vento si ridestò più vivo e
faceva turbinare le bianche falde intorno ai rami degli alberi. Il
bianco fantasima si confuse col bianco della neve fioccante. Parve che
quel turbinio avvolgesse, assorbisse, sciogliesse quel vapore condensato
in forma di persona; il sorriso del labbro e dello sguardo si fece più
lieve, si dileguò, sparì in mezzo alla danza dei fiocchi nevosi per
l'aria; ma a Maurilio che guardava intento con pupille fise, parve che
nel punto di dileguarsi quella apparizione scuotesse in segno negativo
il capo, e quella voce non umana che gli aveva parlato nell'anima, gli
susurrasse, ma fievolmente come un'eco lontana, lontana:

— No! no! no!

Il giovane sorse con impeto.

— No?... gridò egli. Io non sono dunque il fratello di Virginia?

Il primo pensiero che gli si presentava era quello dell'amor suo e gli
faceva accogliere quasi con gioia l'ispiratogli sospetto.

— Ma dunque io posso amarla? continuava con trasporto inesprimibile. Oh
parlami! Dimmelo ancora e più chiaramente... Rispondi, rispondi in nome
di Dio! È mia sorella Virginia?

Si avanzò d'un passo verso quel luogo dove gli era apparsa l'ombra.
Tutto era svanito e non si trovò in faccia che il cader lento e
turbinante della neve aggirata dalla brezza.

Sentì una gran confusione nel suo spirito. Aveva egli visto bene in quel
dileguarsi del fantasima? Era davvero un segno negativo quello che gli
era stato fatto ed una parola negativa quella che aveva creduto udir
pronunziata. E se anche ciò fosse, doveva egli credere fosse quella la
verità? E se tutto questo non fosse che illusione? Che fare? Come
sincerarsi della realtà delle cose? Se lo spirito aveva dettogli
veramente così, e certo non aveva mentito, vorrebb'egli usurpare un
posto che non gli toccava, mentre colui che ci aveva diritto viveva chi
sa dove, e chi sa come?

Discese lentamente al villaggio. Camminava assorto, il capo chino, le
braccia incrociate al petto, non vedendo nessuno, non sentendo nulla,
fuori affatto del mondo circostante. Ad un punto sentì una voce che lo
chiamava per nome. Gli pareva di conoscer quella voce, ma il suo spirito
era così lontano ancora dal mondo presente, che non seppe dirsi di chi
fosse; non le badò e continuò il suo cammino; un passo affrettato gli
corse dietro e lo raggiunse; una mano si posò sulla sua spalla e la voce
che già lo aveva chiamato gli disse:

— Eh Maurilio! sei tu sordo?

Egli si riscosse in sussulto; si volse e si vide dinanzi Gian-Luigi.

La vista del suo compagno d'infanzia fu a Maurilio in quel momento poco
piacevole, quasi molesta. Forse perchè veniva a sturbarlo da' suoi
pensieri; forse perchè l'irrequietezza dell'anima e l'irritazione dello
spirito confuso inasprivano ogni ricevuta impressione.

— Tu qui! esclamò egli con voce ed accento di burbera impazienza. Che
vieni tu a farci?

Quercia lo guardò stupito e parve nel suo occhio nero fosse per
lampeggiare il risentimento: ma di colpo si atteggiò alla più serena
ilarità la mobile espressione della sua bella faccia; ed egli ruppe in
una franca risata.

— Affè mia che non lo so io stesso. Avevo detto di venirci come prima
avrei potuto, e _promissio boni viri_.... con quel che segue. Mi sono
detto: poichè ho da mantenerla questa promessa, il meglio è che me ne
sbrighi il più presto. Siccome son io che meno gli avvenimenti della mia
vita, e non gli avvenimenti che menano me, mi sono procurato un giorno
di libertà e son volato... coi cavalli dell'_omnibus_. Sissignore son
venuto prosaicamente in quell'orribile baracca rompitrice di ossa umane,
per non sciupare il mio bravo cavallo; ed eccomi qua pronto a cogliere
sulla mia faccia i baci e le lagrime di tenerezza della povera
Margherita... E sei tu che mi facevi rimprovero del non venirci, il
quale ora hai da domandarmi con quell'aria di superiore corrucciato che
cosa son qui per fare?

Maurilio evidentemente non prestava attenzione alle parole del compagno
e non aveva capito nulla. Gian-Luigi con atto di amichevole
domestichezza volle passare il braccio in quello di lui, ma egli si
riscosse a quel tocco e ritrasse in là la persona guardando l'amico con
sì torbida cera che Quercia si fermò su due piedi.

— Orsù, diss'egli con accento e con isguardo superbamente risentiti; che
novelle son queste? che ti frulla pel capo, e con chi pensi tu ora di
aver da trattare? I fumi del tuo nuovo stato ti sono eglino già saliti
così stupidamente alla testa da metterti — e verso di me! — in una
stolida superbia?... Senti tu già il gorgoglio del sangue patrizio
ignorato pur ieri?

Maurilio parve allora destarsi da un sogno penoso.

— Io superbia? esclamò. Sangue patrizio, io?

Gli sembrò vedere ancora, in mezzo al bianchiccio della neve cadente, la
leggera forma del fantasma scuotere il capo in segno di negazione.

— No, no..... Non ho superbia, non ho sangue patrizio.... Sono plebeo,
tutto plebeo, non altro che plebeo.

Gian-Luigi lo guardò attentamente con occhio acuto, penetrativo,
profondo; subodorò un segreto.

— Perchè parli tu così? diss'egli lentamente. È il tuo animo che senti
fallire alla nuova condizione, o questa che ti fallisce?

Maurilio fu sul punto di narrar tutto; ma guardando il suo compagno gli
vide nel volto e nella pupilla soprattutto una intentività quasi maligna
che respinse in lui la fiduciosa espansione; crollò il capo, fece un
atto colla mano per significare: gli è nulla; e si tacque.

Camminarono alquanto in silenzio l'uno accosto all'altro per la via
deserta del villaggio; quando apparve loro dinanzi la modesta facciata
della chiesa in fondo alla piazza, il _medichino_ domandò bruscamente:

— Dove sei tu avviato?

— Rientro in casa di Don Venanzio.

— Ed io vo dalla Margherita. Annunzia la mia visita al parroco; fra
dieci minuti sarò a salutarlo e domandargli un boccon d'asciolvere.

Maurilio, colla mente ancora preoccupata, disse sbadatamente:

— Se ti accompagnassi dalla Margherita....

— No: interruppe con vivacità Gian-Luigi: queste scene di
riabbracciamenti non vogliono testimonii.

— Hai ragione. A rivederci dunque fra poco nella _canonica_.

— A rivederci.

Si separarono. In breve Gian-Luigi fu alla porta del tugurio, dove, ad
un'estremità del villaggio, abitava la povera donna che gli aveva fatto
da madre. Picchiò a quel povero uscio di assi tarlati e poco ben
connessi, senza che la menoma emozione gli turbasse il regolare battito
de' polsi. Un passo lento e trascinantesi si udì accostarsi nell'interno
della capanna; l'imposta fu aperta e si presentò sulla soglia la persona
ricurva della vecchia Margherita, il capo avvolto nel suo grossolano
fazzoletto, la sua conocchia piantata al fianco nel legaccio del
grembiule e il fuso tra mano. La si aspettava così poco di trovarsi
innanzi il suo figliuolo adottivo in quel momento che guardò
meravigliata quel signore elegantemente vestito che era venuto a
picchiare il suo uscio e non riconobbe in esso colui che da tanti anni
non aveva più riveduto ed aveva desiderato rivedere pur sempre.

Però, senza sapersene dire essa stessa una ragione, la sua voce fiacca e
velata tremava più dell'ordinario quando gli chiese con parole confuse
che parevano un balbettìo che cosa volesse, di chi cercasse.

— Ah! voi non mi riconoscete più, mamma Margherita? Disse il giovane con
un piacevole e schietto sorriso.

La vecchia lasciò cadersi il fuso e strapparsi il filo, alzò le scarne
mani abbronzate, all'altezza della testa, e battè palma a palma,
gettando un grido cui la soverchia intensità dell'emozione soffocò a
mezzo.

— Sei tu! Sei il mio Giannino! esclamò: oh Santa Vergine dei dolori!...

E quelle mani secche, inaridite, color di rame, tremanti per gli anni e
pel tanto turbamento di quell'istante, allungò verso il giovane per
istringerlo al collo, per afferrare quel capo diletto e tirarselo a sè a
baciarlo ed abbracciarlo e stringerlo ai miserabili panni che le
coprivano quel seno che lo aveva alimentato. Ma Gian-Luigi — fu egli un
istintivo impulso di vergogna che lo spingesse a sottrarre la vista di
quell'amplesso della pezzente agli sguardi di chi poteva passare per la
strada, fu il pensiero amorevole di levar via più presto dall'aria
ghiaccia che soffiava sul villaggio il debil corpo della vecchia? —
Gian-Luigi afferrò quelle braccia che si stendevano con tanto amore
verso di lui e per esse trasse indietro la donna finchè ambedue furono
entrati nel tugurio e la porta potè richiudersi dietro di loro.

— Ed ora, diss'egli poi ripigliando quel suo leggiadro sorriso, mamma
Margherita, abbracciatemi pure.

La donna lo guardava con occhi che per miracolo avevano ritrovata una
parte dell'antica vivacità della loro giovinezza. Quel sorriso del suo
Giannino, com'ella, per antica abitudine, lo chiamava pur sempre, le
illuminava lo squallido suo abituro come un raggio di sole primaverile
entratovi ad un tratto a dispetto della stagione e della neve. La voce
di lui suonavale come la più gradita melodia del mondo.

— Sei tu! sei tu! sei il mio Giannino! Oh Santa Vergine dei dolori!
ripetè essa come se la non sapesse trovare altre parole; e gettategli le
braccia al collo lo baciò e lo ribaciò sopra una guancia e poi
sull'altra, e poi sulla fronte, e poi sulle labbra, e finì per rompere
in un pianto dirotto con forti singhiozzi.

L'impressione del tristo giovane non fu di tenerezza. Le malvagie
passioni troppo avevangli guasto il cuore e smussata la sensibilità,
perchè egli comprendesse la profonda e santa emozione di quella povera
vecchia, la partecipasse e vi si compiacesse. In quell'amplesso, a
contatto di quelle vesti fruste e rappezzate, di quelle membra magre e
sfiacchite, sentì come un odore disgustoso di miseria e d'angustie; gli
parve quasi che il bisogno e l'abbiezione e la vergognosa umiltà di quel
miserabile ceto plebeo da cui egli aveva tanto fatto per uscire,
incarnati nella persona di quella squallida vecchia, gli gettassero le
braccia al collo per riprenderlo in loro possesso, per trarlo a
precipitar di nuovo nell'oscuro abisso. Si sciolse dall'abbraccio e
disse non senza qualche impazienza:

— Via, via; non piangete così. Affè che non ci vedo nulla da piangere!

Margherita si asciugò in fretta le lagrime.

— Hai ragione..... Non so nemmeno io perchè piango..... dovrei essere
così allegra..... Lo sono, sai..... Vorrei farti tanta festa e non
so.....

Non vi starò a ripetere tutte le parole di quella povera donna, che
avrebbe voluto poter cambiare in un tratto la sua capanna in una reggia
con ogni abbondanza di ben di Dio per accogliere degnamente il suo
diletto figliuolo. Non vi dirò i suoi ringraziamenti per l'invio delle
mille lire, le proteste ch'ella fece quando udì che Gian-Luigi di quella
stessa giornata sarebbe ripartito, e le preghiere per farnelo fermare
almeno un giorno ancora. Il giovane che tutti questi discorsi tollerava
con appena velata impazienza, li troncò per farsi egli a dire quello che
più gl'importava e che era stato la vera cagione della sua venuta.

— Date retta, Margherita, cominciò egli mettendole una mano sulla spalla
e guardandola ben fiso affine di richiamare alle sue parole tutta
l'attenzione di lei: se un gran pericolo mi pendesse sul capo e voi
poteste stornarlo, non è vero che lo fareste?

La vecchia strinse le mani in atto di quasi offesa meraviglia.

— Dio buono! Santa Vergine dei dolori! E me lo puoi domandare?... Farei
ogni possibil cosa... darei questa grama di vita... e più ancora... per
venirti in aiuto... Ma pur troppo, che potrò io mai fare per te, io,
povera vecchia?...

— Voi potrete assai. Un pericolo può minacciarmi da un momento
all'altro; e voi, non con fatti, ma con sole parole, potete concorrere a
salvarmene.

— Parla, parla. Che debbo fare? che debbo dire?

— Voi potreste essere chiamata da qualche autorità a dare informazioni
del mio passato, a narrare la storia della mia infanzia: così disse
Gian-Luigi con voce bassa e pronunzia spiccata, parlando lentamente e
tenendo sempre una mano sulla spalla a Margherita e gli occhi entro gli
occhi perchè le cose ch'ei diceva le si imprimessero ben bene.

La vecchia non moveva un dito, non batteva palpebra: aveva concentrata
tutta la sua vitalità negli occhi che fissavano il giovane e nelle
orecchie che assorbivano avidamente le parole di lui; ad ogni motto
quasi ch'egli pronunziava la faceva un leggier cenno del capo, come per
dire: «ho capito, questo non mi scappa più.»

— In tal caso, continuava il _medichino_, voi ripeterete parola per
parola ciò che ora verrò dicendovi.

Espose in quel modo lento e con quel tono spiccato la favola della sua
sorte che aveva narrata al signor Giacomo Benda ed al commissario Tofi;
appena la ebbe finita, la ricominciò da capo e tornò a dirla tutta
perchè di subito la si fermasse con tutti i suoi particolari nella
memoria di Margherita; e poi come ricapitolando soggiunse:

— Voi dunque affermerete che fu il dottore il quale vi mandò all'ospizio
a prendere non un trovatello qualunque, ma uno particolarmente
designato, quello cioè a cui per contrassegno, nell'esporlo era stata
messa tra le fascie la metà d'una lettera lacerata per lo lungo, nella
quale si leggevano le tali e tali parole, voi direte che fino dai
primissimi tempi, il dottore medesimo, benchè di nascosto così che
nessuno potesse accorgersene, pigliava interesse di me e veniva di
quando in quando segretissimamente a visitarmi; aggiungerete ch'egli vi
pagava eziandio in segreto, e che dalle sue parole avevate potuto capire
che agiva dietro mandato di qualche lontana persona; e infine — e qui
non avrete più che da dire la verità — che più tardi egli mi prese seco
e fu lui a farmi studiare, e quando morì mi lasciò una parte della sua
eredità.

Margherita aveva sempre ascoltato a bocca ed occhi larghi, immobile come
una statua.

— Avete capito? le domandò il giovane.

Ella accennò di sì.

— Sareste capace di ripetermi questa storiella? Su via, provatevici.

La vecchia ripetè dal principio alla fine, senza sbagliare d'un punto.

— Benissimo! Ma converrà che la riteniate ben bene a memoria, e che ogni
qualvolta possa occorrere, voi siate in grado di dirla come adesso,
senza imbrogliarvi e confondervi.

— Me la ripeterò fra me stessa, mattina e sera, tutti i giorni.

— Brava! E se vi domanderanno come avvenne che il medico pagandovi
secondo quello che dite, voi siate pur sempre rimasta nella miseria,
risponderete che spendevate ogni vostro danaro a giuocare in segreto al
lotto.

Margherita espresse per la prima volta un po' di scontentezza.

— Ah! questa è una ben grossa bugia.

— Non più grossa delle altre: rispose asciuttamente Gian-Luigi
guardandola con quel piglio che ne imponeva a qualunque: e conviene
dirla se il bisogno lo vuole.

La vecchia curvò il capo.

— E se, continuava il giovane, vi domandano eziandio perchè non avete
detto nulla mai a nessuno di codesto, risponderete che avevate giurato
di conservare su ciò il più assoluto silenzio, ma che ora, avendo
prestato un altro giuramento: quello di dire la verità a chi
v'interroga, siete costretta a svelare quello che non avete mai detto.

Margherita sollevò di nuovo in volto al figliuolo gli occhi che aveva
chinati a terra.

— Come! diss'ella: un altro giuramento? Non capisco.

— Sì: rispose Gian-Luigi con qualche impazienza. Molto facilmente se ciò
avviene — e potrebbe anche darsi che nulla di ciò avvenisse — prima di
interrogarvi vi faranno giurare di dire la verità...

— Ed io, interruppe la donna spaventata: dopo aver giurato di dire il
vero, non direi che bugie?... Un giuramento falso... Oh mai!

Un lampo passò negli occhi di Gian-Luigi.

— È questo dunque l'amore che diceste avere per me? diss'egli frenando
il subito moto della sua ira: è questo quello zelo che vantavate di
voler fare qualunque cosa per util mio?

— Qualunque cosa, sì... son pronta... Ma perdere l'anima poi!...

Quercia stette un momento a riflettere se gli convenisse meglio
ricorrere ai mezzi violenti per rompere quell'inaspettata opposizione
della vecchia, oppure agli amorevoli. Si decise per questi ultimi. Prese
ambedue le mani di Margherita, le strinse nelle sue, e disse con quello
sguardo ammaliatore e con quella sua voce soave che erano tutta una
seduzione:

— Sentite, mia buona e cara madre. Si tratta per me di tutto il mio
destino, di onore o disonore, di vita o morte. Ho confidato in voi:
vorreste ora mancarmi? Quando mi vedeste assolutamente perduto, che
rimorso non sarebbe il vostro, dicendovi: «io poteva con una mia parola
salvarlo, e nol feci!» L'anima si salva facendo opere buone: e qual
opera migliore, quale più doverosa per una madre — e voi siete una vera
madre per me — che quella di togliere alla rovina, all'onta, alla
disperazione suo figlio?

La donna vacillava; non era la forza degli argomenti usati da Gian-Luigi
che la sommovesse: ella era in quel momento così turbata, che appena se
capiva le parole di lui; era la voce, era lo sguardo del giovane che le
penetravano così dolcemente e potentemente nell'anima: era il suo
sterminato affetto che la dominava e stava per superare ogni contraria
ragione.

— Mi consulterò con Don Venanzio: diss'ella timidamente.

— No; proruppe con vivacità il giovane. Con nessuno conviene che vi
consultiate, e meno con lui che con altri. Ah! non avrei aspettato in
voi tanta esitazione, sì poco amore!....

La misera a questo rimprovero crudelmente ingiusto non rispose che con
un gemito e con uno sguardo; ma e lo sguardo e il gemito dicevano di
molte cose, per cui Gian-Luigi avrebbe avuto da arrossire e gettarsele
in ginocchio dinanzi a domandarle perdono. Egli mostrò non aver pure
avvertito quella muta, eloquente protesta, e continuò nel suo dire, e
tanto seppe colle melate parole e colle preghiere circonvenire l'animo
di quella povera donna che ne ebbe ottenuta solenne promessa, ella
farebbe tutto a senno di lui, non si ritrarrebbe innanzi al falso
giuramento, non farebbe parola di nulla al parroco.

Gian-Luigi uscì per recarsi da Don Venanzio: Margherita disse che
sarebbe andata a ritrovarlo colà fra poco tempo per vederlo ancora, per
rimanere ancora un po' di tempo prima ch'egli ripartisse; ora la
infelice aveva bisogno di esser sola. Il giovane nell'abbandonar la
capanna le fece la grazia di abbracciarla; e poi si allontanò col suo
passo franco, l'aspetto allegro e sicuro, lo sguardo vivace e
dominatore; e nessuno avrebbe detto che gravi cure lo travagliavano e
più grave pericolo incombeva sul suo capo.

Margherita, appena fu uscito il figliuolo, cadde in ginocchio sul freddo
pavimento della sua miserabile capanna, e serrando le mani in atto di
fervente preghiera, esclamò:

— Dio mio! Dio mio! Ho fatto tanti sacrifizi per quel ragazzo; ed avessi
anche da far questo? Risparmiatemi voi, Santa Vergine dei dolori;
risparmiatemi questo peccataccio mortale..... Che se sarà necessario,
dopo avergli sacrificato la mia vita terrena..... ebbene, gli
sacrificherò anche l'anima.

Gian-Luigi con Don Venanzio e Maurilio fu del più libero e lieto umore
del mondo, tanto che riuscì perfino a dissipare alquanto le nubi che
erano raccolte sulla fronte del suo compagno d'infanzia: disse che per
quella volta non aveva potuto procurarsi il piacere d'una più lunga
dimora al villaggio, ma che sarebbe tornato prossimamente e per
rimanervi alcuni giorni. Fu ameno, amorevole, piacevolissimo come sapeva
essere quando volesse. Margherita sopraggiunse: ma una mestizia di cui
Don Venanzio non sapeva darsi ragione offuscava in lei la gioia di
rivedere il figliuolo: essa lo guardava fiso, fiso, in silenzio, alcuna
volta le lagrime venivanle agli occhi. Quando però il giovane partì,
ella seppe rattenere il pianto.

— Ricordatevi: le susurrò Gian-Luigi all'orecchio, dandole l'ultimo
abbraccio.

Ella rispose con un cenno affermativo del capo.

— Che cosa avete? domandò il parroco alla vecchia, quando il giovane fu
partito. Mi par di scorgere in voi la mostra d'un nuovo dolore.

— Nulla, nulla: rispose sollecitamente la poveretta, e s'affrettò ad
allontanarsi.

Gian-Luigi, tornato a Torino, trovò a casa sua un altro bigliettino di
quel suo anonimo avvisatore; non v'erano scritte che queste parole:

«Affrettatevi. I sospetti crescono. Si tende una rete intorno a voi. Il
conte L. fu pregato di un abboccamento dal Direttore generale della
Polizia.»

Quercia stette un istante con questo biglietto in mano, le sopracciglia
aggrottate, la sua ruga caratteristica incavata sulla fronte; poi si
riscosse, e stracciando a minuti pezzi la carta che poi gettò ancora sul
fuoco, disse fra sè:

— Mi affretterò... Il conte poi, ne sono sicuro, non dirà nulla che mi
possa pregiudicare.



CAPITOLO XVI.


Era il vero che il conte Langosco di Staffarda aveva ricevuto dal
generale Barranchi un biglietto con cui lo pregava a recarsi da lui in
quell'ora e in quel momento che gli fosse più comodo.

La determinazione di scrivere questo biglietto il Comandante dei
Carabinieri l'aveva presa dopo un colloquio avuto col signor commissario
Tofi; e per esporre tutto per ordine ciò che avvenne e le cagioni di
questi abboccamenti, torniamo indietro un momento, a quel punto, in cui
partitisi ambedue da quel funesto luogo in cui si esponevano i cadaveri
degli sconosciuti e dove s'erano incontrati innanzi alla salma di Ester
annegatasi, il _medichino_ e _Macobaro_ s'erano recati, il primo a casa
sua, il secondo nel riposto quartierino dove Barnaba stava guarendo
dalla ferita avuta dallo stile di _Graffigna_.

Entriamo anche noi in quella piccola, modesta e oscura stanza, dove
giaceva il poliziotto.

Come già fu accennato, il miglioramento della sua salute era tale
ch'egli già poteva starsene seduto sul letto, le spalle appoggiate ai
cuscini. Più che l'arte del medico, più che i farmaci dello speziale, ad
affrettare la guarigione del ferito erano la forza, la tenacità, il
meraviglioso vigore del suo volere costante e fisso in un pensiero solo.
Le guancie aveva pallidissime, e il volto, già magro abitualmente, in
quei pochi giorni di malattia eragli diventato così scarno e macilento
che più non potrebbe un tisico nell'ultimo periodo del suo male; ma gli
occhi, che dapprima aveva sempre per ordinario come velati da una nube,
ora brillavano di un nuovo splendore che pareva ed era in vero il
riflesso del fuoco interiore d'una passione che vegliava continua, e cui
nulla avrebbe deviata dal camminare verso il suo appagamento.

Accanto al letto, quasi accoccolato sopra un basso sgabello, i gomiti
puntati sulle grosse ginocchia e la testaccia arruffata nascosta nelle
mani che parevano quelle di un gigante, stava Meo, il quale era mutato
ancor egli d'assai da quello che appariva nella taverna di mastro
Pelone, ed avreste detto esser malato eziandio. E lo era diffatti; aveva
un male che si poteva paragonare a quello della nostalgia; e n'era
cagione il non aver più visto da parecchi giorni, che a lui parevano
tantissimi, la faccia grassotta, rubiconda, rubesta, e gli occhi
assassini della Maddalena.

Meditavano tuttedue; Meo ad un punto avea rotto il silenzio facendo
questa domanda:

— Se io andassi a vederla solamente un minuto, che male ci sarebbe?

Barnaba era così affondato ne' proprii pensamenti che non gli diede
retta.

Meo ripetè la sua interrogazione. Il giacente udì, ma non comprese, e
vedendo la grossa faccia del giovinastro volta verso di lui con ansiosa
aspettazione gli domandò che cosa avesse detto.

— Dico che non ci potrebbe esser punto male s'io andassi a vederla un
minuto. Proprio solamente tanto da vederla. Ho bisogno di vederla io
quella donna.

Barnaba ebbe un lieve fremito nelle sue fibre. In mezzo alle tante,
varie, molteplici, aggrovigliate fantasticherie della sua mente
compariva anche per lui un'immagine di donna: degli occhi ora chiari e
sereni, ora scuri e torbidi, delle labbra carnose color di sangue, delle
chiome fulve, una persona di forme voluttuosamente procaci.

— Vederla! esclamò egli, il quale sentiva nel suo intimo vivissimo pure
il desiderio di avere innanzi reale quella bellezza che vagheggiava
colla immaginazione. Chi vedere? Di che donna parli tu?

— Di Maddalena.

Barnaba fece un atto d'impazienza.

— Ci sarebbe male e di molto: rispos'egli. All'osteria ti si
tratterrebbe, ti si interrogherebbe, tu non sapresti dissimulare.... e
la nostra vendetta ci sfuggirebbe di mano.... Non vuoi tu più giungere a
far tua quella donna?

La sciocca faccia di Meo divenne rossa, e le pallottole di vetro che
aveva nelle occhiaie ebbero un bagliore, che pareva lume d'intelligenza.

— Oh sì! diss'egli con forza.

— Non vuoi tu più vendicarti di quell'altro?

— Oh sì: ripetè egli con più forza e con più vivo luccicar degli occhi.

— Abbi dunque pazienza alcuni giorni ancora, ed avrai l'una e l'altra
soddisfazione..... Sì pochi giorni soltanto, e poi potrò agire: lo
sento, lo voglio.

In quella entrava il vecchio rigattiere ebreo, la faccia terribilmente
sconvolta; stampata entro la mente l'immagine del volto di sua figlia
annegata che aveva visto poc'anzi.

Barnaba comprese tosto che il momento era venuto di apprendere tutto
quello che desiderava.

— Jacob, diss'egli, ora mi sento abbastanza forte per cominciare
l'impresa che deve procurarci a tuttedue una desiderata vendetta. È
tempo che favelliate.

— Sì, rispose il padre di Ester, guardando torbidamente intorno. Sono
venuto apposta.

Meo fu mandato nell'altra stanza, e _Macobaro_ fece a voce bassa al
poliziotto un lungo racconto, che durò quasi un'ora.

Quando il vecchio ebbe finito successe un lungo silenzio; ambedue
stavano meditando. Fu Arom che ricominciò a parlare:

— Ella mi salverà, non è vero?

— Sì: rispose Barnaba che tutto aveva già fissato in mente il modo di
agire. Vi farò assicurare, come a propalatore, la impunità.

Un'altra idea s'affacciò in quella alla mente del vecchio usuraio pel
quale la passion del denaro era sempre la prima.

— Ah! esclamò egli: non vorrei perderci in codesto i miei poveri denari
che ho dati a quello scellerato dietro una cambiale coll'avallo della
contessa di Staffarda.

Queste parole fecero nascere un nuovo pensiero in Barnaba. Avvisò che
anche di codesto poteva trar profitto pel conseguimento del suo scopo.
Gli influenti personaggi con cui il _medichino_ aveva attinenza e che lo
proteggevano, avrebbero forse pensato a sottrarlo, anche per riguardo a
se stessi, alla giustizia; sarebbe stato opportuno far nascere in quei
medesimi il desiderio eziandio di vederlo perduto, e forse quella
cambiale gli porgeva il destro da ciò.

— Quel titolo, diss'egli a _Macobaro_, vorreste voi affidarlo a me?

Il vecchio fece una smorfia che dinotava chiaramente come questo partito
poco gli piacesse.

— Voi siete nelle mie mani, e potrei imporvelo con assoluto comando; vi
consiglio però a farlo di buon grado, assicurandovi che non sarete
defraudato dell'aver vostro.

Jacob capì che bisognava rassegnarsi; e di quel giorno medesimo
consegnava sospirando nelle mani di Barnaba la cambiale in quistione.

Ora, il giorno dopo, capitava giusto nella stanza del ferito il
commissario Tofi, il quale veniva a narrargli tutto ciò che era avvenuto
a proposito del dottor Quercia e che abbiamo visto nei capitoli
precedenti.

Barnaba ascoltò silenziosamente a suo modo, e poi disse:

— Ciò che vi ha di pregiudizievole in codesto si è che così venne data a
quel briccone la sveglia, e ch'ei penserà a porsi in salvo. Conviene
farlo custodire ben bene perchè non fugga.

— Ho già dato gli ordini opportuni per ciò..... Ah! l'avrei fatto
arrestare senz'altro. Ma il conte Langosco, che a dispetto di tutto lo
protegge sempre, sarebbe andato dal generale Barranchi, e mi si sarebbe
fatto un rabbuffo.

— Il conte Langosco non lo proteggerà più. Se l'affare dei diamanti non
ha bastato, ce n'è qui un altro che lo indegnerà vivamente contro quel
cotale e gli farà nascere una maledetta voglia di vederselo torre per
sempre dai piedi. Agendo con prudenza si può ottenere d'avere il conte
dalla nostra.

Diede la cambiale che sappiamo al Commissario e gli espose quello che a
suo avviso doveva farsi, e come. Il signor Tofi approvò tutto e tolse
commiato per andar tosto a mettere in pratica i datigli suggerimenti.

— Fra cinque o sei giorni potrò stare in piedi: disse a mo' di
conclusione Barnaba, i cui occhi brillavano fieramente: potrò procedere
io stesso all'arresto ed alla perquisizione di chi so io e dove so io.

Delle rivelazioni fattegli da _Macobaro_ intorno alla _cocca_ ed al suo
capo, non aveva ancora voluto dir nulla al Commissario perchè a sè
desiderava serbato l'onore e la soddisfazione dell'importante cattura.

Il signor Tofi si recò dal conte Barranchi, e fu dietro il colloquio
avuto insieme che il generale domandò al marito di Candida
quell'abboccamento che abbiamo detto.

Barranchi, quando Langosco fu da lui, non fece che ripetergli le parole
che destramente gli aveva suggerito il Commissario e che da costui erano
state combinate con Barnaba.

— Vengo a darvi un'altra prova, conte, del come la mia polizia si
faccia: disse con importanza il generale. Noi sappiamo tutto! E sappiamo
qualche cosa che vi riguarda, che forse non sapete nemmeno voi.

— Che cosa? domandò torbidamente il conte che da qualche giorno, per le
buone ragioni che conosciamo, non era di umore nè ciarliero nè
tollerante.

— Fra noi, amici da lungo tempo, della stessa classe, delle medesime
idee, possiamo parlarci francamente, non è vero? D'altronde voi lo
sapete che io non ci ho mai valuto niente nelle diplomaticherie. Sono un
militare, tutto d'un pezzo, e basta. Ecco dunque di che si tratta.
Vostra moglie si è lasciata abbindolare così da mettere la sua firma per
avallo ad una cambiale del valore di 52 mila lire.

Il conte sussultò, ma non disse nulla.

— Chi le ha carpita questa firma, continuò Barranchi, forse voi potrete
indovinarlo.....

— Lo indovino: interruppe con accento cupo Langosco, alle cui guancie
saliva un lieve rossore. Ebbene? e con ciò?

— Noi non si vuole che una famiglia come la vostra sia esposta a certe
pubblicità, a certi commenti.....

Il marito di Candida fece un atto che significava nello stesso tempo un
ringraziamento e il desiderio di veder troncate quelle parole.

— La disgraziata cambiale abbiamo trovato modo di averla in poter
nostro.

— Sì? proruppe vivamente il conte di Staffarda. Lasciatemela vedere, vi
prego.

Barranchi la prese da uno dei cassettini della scrivania e glie la
porse. Langosco esaminò attentamente la firma della moglie, e più amaro
del solito gli sfiorò le labbra il suo ghigno.

— Ebbene, diss'egli al generale porgendogli il foglio, non vedo qui che
ci sia nulla da fare. All'epoca della scadenza la contessa farà onore
alla sua firma.

— Legalmente ella non poteva obbligarsi....

— La contessa ha firmato: disse con vibrato accento Langosco; e la
contessa pagherà.

— Ma quell'uomo a cui favore diede il suo nome è uno sciagurato, indegno
d'ogni riguardo.

Il conte scosse la testa come per dire che ciò non ci aveva nulla da
fare nella quistione.

— Voi non lo conoscete ancora bene, continuava Barranchi. Abbiamo dati
positivi per credere che quel cotale è capace di tutto.... Si hanno i
più gravi sospetti sul conto di lui.... Volete che ve lo dica?... E
guardate quanto bisogni davvero andar guardingo nello stringere
attinenze fuori della nostra classe... Si dubita che quell'individuo sia
complice degli assassini dell'usuraio Nariccia.

Langosco, a cui questo brutto sospetto si era già presentato eziandio,
impallidì, ma non disse verbo.

— Sapete, continuava Barranchi, che il nostro diligente commissario Tofi
aveva già pensato farlo arrestare e perquisire la sua abitazione?

— Ciò non dev'essere, disse vivamente il conte di Staffarda, il quale
mise una mano sul braccio del generale come per chiamarne vieppiù
l'attenzione sulle sue parole. Siamo amici, generale, ed io per rendervi
un servizio che salvasse il decoro della vostra famiglia farei tutto
quello che fosse in mio potere. Conviene che ci sosteniamo e ci aiutiamo
a vicenda noi che lo spirito rivoluzionario moderno minaccia.... Quel
cotale non conviene sia arrestato e gli si faccia un processo.

Abbassò la voce e disse lentamente:

— Fra una settimana sarà fuori di Stato, ve ne do la mia parola....
Aspettate una settimana a farlo arrestare.

Barranchi fece gravemente un segno negativo e Langosco aggrottò le
sopracciglia.

— Mi neghereste ciò, anche s'io ve lo chiedessi come un favore?

— Ve lo negherei, perchè così vuole il vantaggio del pubblico.

Il conte di Staffarda fece un brusco movimento cui tosto però represse:
il generale continuava:

— Perchè così vuole eziandio il vostro medesimo interesse.

— Oh come?

— Nella stessa guisa che quel mariuolo ottenne questa cambiale, può
avere ottenuto altre carte, altri documenti, lettere... o che so io, per
cui possa rimanere compromessa qualche persona.... qualche persona, voi
mi capite.... che non da me certo, e nemmeno da voi, si vorrebbe potesse
venire in ballo. Ora siffatte carte in una perquisizione cadrebbero in
potere degli agenti della polizia...

— Ed è ciò che vuolsi evitare: proruppe vivamente Langosco.

— No: disse il generale sorridendo furbescamente, e tenendosene
d'un'accortezza che non era sua: no, perchè — (e qui abbassò ancor egli
la voce) — quelle carte, qualunque siensi, venute nelle mani d'un uomo
acconcio, a cui si daranno le opportune istruzioni, del medesimo
commissario Tofi, per esempio, fidatissimo e intelligentissimo, potranno
passare senza ritardo qui nel mio studio, e di qua a voi medesimo che ne
potrete fare ciò che più vi aggradirà.

Il marito di Candida prese vivamente la mano del Comandante dei
Carabinieri e glie la strinse forte per muto attestato di riconoscenza.

— E ciò, seguitava il generale trionfante, varrà sempre meglio che
lasciare in potere di quello sciagurato, ancorchè se ne vada in altri
paesi, un'arma che potrà rivolgere a vostro danno quando che sia.

— Avete ragione: disse con voce soffocata il conte di Staffarda.

— E pensate che se gl'indizi non c'ingannano, e son tali da poter essere
omai sicuri di ciò, colla cattura di costui avremo in mano le fila di
quella iniqua setta di malandrini, cui si devono i tanti misteriosi
delitti che ebbero luogo ultimamente. Quanto a quella cambiale poi...

— Quella sarà pagata: interruppe con una certa alterigia Langosco, e
prese quindi commiato dal generale.

— Contessa; disse poscia con severità quasi sprezzosa il conte a sua
moglie, appena fu solo con lei: conviene che vi procuriate al più presto
le cinquantadue mila lire da pagare quella cambiale che avete firmata.

Candida levò la testa e gli occhi verso il marito; e senza parlare lo
guardò coll'aria smemorata ed offesa di chi non capisce ciò che gli vien
detto, e crede d'esser fatto mira d'uno stupido ed insolente scherzo.

Il conte seguitava:

— A me è assolutamente impossibile procurarmele; ma con tutto ciò esigo
e pretendo che in pochi giorni quella somma sia pagata. Se non ci avete
altro modo, ricorrete a vostro padre, il quale _per l'onore della sua
figliuola_ non vorrà, spero, far la menoma difficoltà a venirvi in
aiuto.

La contessa guardava sempre il marito di quella guisa, se non che nei
suoi occhi scuri si accresceva ogni minuto più la fiamma dello sdegno.

— Vorrete voi avere la compiacenza di por termine a questo che io non so
come chiamare, se sciocco scherzo, o temeraria menzogna? Proruppe ella
con accento pieno d'ira contenuta e con voce che vibrava profondamente
agitata. Siete voi che avete bisogno ancora di tal somma ed avete
inventato questo bel metodo per estorcerla alla mia condiscendenza stata
troppa finora?

Langosco mandò un'esclamazione soffocata in cui c'erano collera, dolore,
vergogna, e si trasse indietro d'un passo come se dal colpo d'una mano
robusta al petto fosse stato respinto.

— Ah voi mi calunniate ed insultate! diss'egli con una specie di
ruggito.

Candida, che fin allora era rimasta a sedere, si drizzò in piedi, e la
faccia dritta levata, fulminando il marito con uno sguardo superbo
esclamò:

— E voi che state facendo verso di me? Insulti e calunnie sono le vostre
parole, ed io sono una donna, signor conte.

Il marito represse quell'ira che sentiva nel suo petto presso a
prorompere. Sapeva quella donna troppo fiera per abbassarsi a mentire ed
abbastanza audace per non isconfessare qualunque sua azione. Un sospetto
che ancora non gli era balenato alla mente glie ne nacque di botto.
Quell'uomo di cui egli aveva creduto scoprire pochi giorni prima che
giuocava di baro, che era ritenuto complice d'un assassinio, non era
egli capace di tutto? Il conte tornò accostarsi a sua moglie, e
guardandola ben bene entro gli occhi, la sua faccia magra e giallognola
a un palmo appena di distanza dal viso di lei, di qualche tempo patito e
pallido, le disse con parola lenta e spiccata:

— Voi dunque non avete firmata a favore di _quell'uomo_ una cambiale di
52 mila lire?

— Nessuna: rispose seccamente la contessa.

— Ebbene: disse con feroce crudeltà il marito: quella cambiale col
vostro nome, l'ho veduta io stesso poc'anzi; e ciò vuol dire che il
vostro amante, signora contessa, è tutt'insieme un baro, un assassino ed
un falsario.

Le guancie di Candida si fecero d'un rosso cupo e impallidirono poi
tosto; gli occhi lampeggiarono e ratto si spensero; le labbra frementi
s'aprirono e s'agitarono come sotto la pressione di fiere parole che
stessero per prorompere, ma non una voce ne uscì. Da parecchi giorni
troppe e troppo fiere erano le emozioni onde quella misera donna era
colpita: a quest'ultima non resse. Credette ella o non credette la
terribile accusa? Non ebbe campo a sceverare ella stessa nella
confusione della sua mente le proprie impressioni. Sentì uno sdegno
indicibile e insieme, in fondo all'anima, una segreta, tremenda paura.
Il cuore cessò di batterle, il cervello fu oppresso dall'èmpito del
sangue che vi salì vorticoso: agitò le braccia, mandò un rantolo, e su
quella poltrona da cui s'era drizzata poc'anzi ricadde pallida come un
cadavere.

Il conte le fu presso senza premura, senza interesse, senza pietà
nessuna, e la esaminò attentamente.

— Animo! diss'egli coi denti stretti: non è tempo di svenimenti; fatevi
coraggio ed udite tutto il vero.

Le prese una mano e la trovò inerte e fredda poco meno che quella d'una
morta; la lasciò ricadere, e guardò un istante la donna svenuta con più
amaro che mai sulle labbra il suo ghigno; poi diede una forte tirata al
cordone del campanello.

— La vostra padrona è svenuta: disse alla cameriera che si presentò:
soccorretela, mettetela a letto, e si mandi tosto per un medico.

E lento e tranquillo rientrò nelle proprie stanze.

Dopo uno svenimento di mezz'ora, Candida risensava e in mezzo alla
confusione delle idee in cui si trovava tuttavia e all'indolorimento
generale del corpo, il suo primo pensiero era quello della orrenda
novella appresa dal marito. Che questi era incapace di mentire e
calunniare troppo ella sapeva. La cambiale falsa era dunque un fatto
reale. Delle altre accuse in quel momento non si ricordava, non si
preoccupava. Non aveva tempo nè spirito da indegnarsi, da soffermarsi a
considerare l'infamia e la scelleraggine della cosa; al suo animo di
donna fatalmente posseduto da una tenace, indomabile passione, un solo
oggetto premeva, un solo si presentava: quello di salvare il suo amante.
Per ciò non v'era che un modo solo, e il conte medesimo glie lo aveva
additato: ricorrere a suo padre, farsene dare la somma occorrente, pagar
tutto, ottenere coll'influsso del barone La Cappa che in ogni modo
l'affare rimanesse soffocato, a Quercia non si desse molestia. La cosa
premeva, bisognava correre senza indugio, Candida volle scendere di
letto e non potè; le parve d'essere inchiodata in mezzo alle coltri;
fece uno sforzo, e tutte le idee le si smarrirono di nuovo,
l'intelligenza le si offuscò e tornò a perdere la cognizione, non in uno
svenimento, ma nel parosismo d'una febbre gagliarda sopraggiuntale.

Il conte, avvertitone, corse al capezzale di Candida, e siccome rotte e
tronche parole uscivano dalle livide, aride labbra della giacente,
timoroso ella nel delirio parlasse, allontanò dal letto ogni altro, per
rimanerci egli solo, oggetto di meraviglia ai servi che non lo avrebbero
creduto mai così tenero della moglie.

Il medico, fatto venire, annunziò che quella era una grave malattia, e
che per allora non poteva predire quali ne sarebbero state le
conseguenze.

La cameriera della contessa, che sappiamo avere intime relazioni con
Gian-Luigi, si affrettò di quella sera medesima a recargli l'annunzio di
quel caso.

— Anche questa è per me un'avversa circostanza: disse il _medichino_
dopo congedata la fante con larga rimunerazione. Questa malattia toglie
di agire a costei che in certe contingenze, guidata da me, avrebbe
potuto essermi d'un aiuto efficace. Conviene davvero che io m'affretti
il più che si possa e me ne vada sotto altro cielo.



CAPITOLO XVII.


Maurilio rimase al villaggio tutta una settimana. I suoi dubbi
continuarono ad agitarlo, ma non un barlume più venne a rischiarargli la
tenebra in cui era caduta a questo riguardo la sua mente. Invano erasi
recato di nuovo a quel luogo in cui lo aveva visitato l'apparizione:
invano questa, e colà e altrove, aveva invocata con trasporto d'anima
ineffabile, con vera frenesia di desiderio: nulla, nulla più era venuto
a confermargli o distruggergli quello strano sospetto che così inopinato
e così stranamente gli era stato saettato nell'anima. Col trascorrere
dei giorni, per ciò, anche questo dubbio aveva scemato di forza: la
ragione aveva riagito contro l'immaginativa, e debolmente dapprima, con
più forza di poi, aveva mostrato la insussistenza di quel sospetto che
non era forse altro se non un portato dell'inferma fantasia. Ad ogni
modo, appena di ritorno a Torino, ei si proponeva di raccogliere con
religiosa cura tutte quelle informazioni e que' documenti che si poteva
sul conto del padre e della madre, tanto da formare colla menoma
interruzione di anella quella catena di fatti che dall'amore della
nobile donzella di Baldissero pel giovane patriota milanese, doveva
condurre fino al ricevimento di lui come rampollo di quell'unione nella
illustre famiglia di Aurora.

Al settimo giorno dopo la sua partenza da Torino, Maurilio ricevette una
lettera dal marchese di Baldissero, nella quale gli si diceva: essere
tempo ch'egli ritornasse, S. M. con immensa degnazione, di cui Maurilio
avrebbe dovuto esserle riconoscente tutta la vita, non averlo
dimenticato, ma aver fatto benignamente sapere a lui, marchese, che suo
nipote sarebbe impiegato nel gabinetto particolare di S. M. medesima:
convenire ch'egli senza ritardo si recasse ai piedi dell'Augusto
personaggio ad esprimergli quella gratitudine che era più di un dovere:
per ciò si tenesse preparato a partir di colà il giorno vegnente, che la
carrozza sarebbe venuta a prenderlo al villaggio.

Maurilio lesse e rilesse quella lettera, domandandosi che cosa doveva
fare. L'idea glie ne venne un momento di rispondere al marchese,
rinunziar egli alle nuove grandezze che gli offriva la sorte, voler
fermare la sua dimora al villaggio e viverci ignorato; ma non tardò a
riconoscere che questo sarebbe stato «per viltate un gran rifiuto,» che
se il destino gli porgeva in quella guisa alcuna possibilità di fare un
po' di bene, era suo dovere non fallire all'opera, che il dar corpo ed
importanza a quei vaghi, aerei dubbi, senza fondamento di sorta, era
peggio che una follia. Annunziò adunque a Don Venanzio il suo ritorno in
città pel giorno dopo; e diffatti verso il cader della notte dell'ottavo
dì dacchè erasi di là partito, egli, nella carrozza collo stemma della
famiglia di Baldissero, rientrava sotto il portone del superbo palazzo,
dov'egli, quasi ragazzo ancora, coi panni e nelle condizioni di povero
figlio del popolo era entrato primamente di straforo per ammirare la
bellezza di Virginia, ond'era stato ammaliato.

Il maggiordomo era ad accoglierlo in alto dello scalone.

— Signore, gli disse con un rispetto che si vedeva chiaramente ispirato
dagli ordini espressi del padrone, S. E. il marchese la prega, quando
Ella siasi riposata, ristorata e rassettata, di voler passare nel
salone, dove troverà riunita tutta la famiglia.

Maurilio fece un muto segno di assentimento.

Il maggiordomo, camminandogli innanzi per quei locali, tutti già
rischiarati, lo condusse alla camera assegnatagli, che era un'altra da
quella che gli era stata data come a segretario, al primo piano ancor
essa come quella degli altri componenti della famiglia, più elegante per
mobili, per arazzi e per tappeto.

Il servo, che seguiva, depose sulla pietra di marmo d'una mensola i due
candelabri d'argento dalle candele accese che aveva tra mano; e il
maggiordomo inchinandosi innanzi al giovane gli disse:

— È pronta una refezione per Vossignoria. Desidera Ella esser subito
servita?

Maurilio che pareva aver perduto la parola mettendo piede sul limitare
di quel palazzo, fece un cenno che voleva dire, non aver egli bisogno nè
desiderio di nulla; il maggiordomo lo interpretò invece per un
assentimento anche questo e dopo un altro profondo inchino si ritirò
annunziando che colà stesso sarebbe tosto recata la refezione. Il
giovane non aveva in quel momento per la testa altro che un pensiero:
avrebbe visto fra poco tutta la famiglia, le sarebbe comparso dinanzi
egli a prendere ufficialmente il suo posto in mezzo a lei: quest'idea lo
turbava e lo spaventava. Sollevò gli occhi e incontrò la sua pallida
figura riflessa nello specchio che stava sopra alla mensola su cui il
lacchè aveva deposto i lumi, e diede in una scossa come se quella fosse
la vista inaspettata d'un ignoto che venisse a guastargli la solitudine
che desiderava: dietro la sua, vide pure la figura del valletto che lo
guardava con un'impertinente curiosità ammantata di rispetto, degna
affatto di un servo di nobil casa. Si rivolse vivamente.

— Che fate costì? domandò con tono abbastanza superbo da padrone che gli
valse di botto una maggior stima da parte del domestico.

— Aspetto gli ordini di Vossignoria, in caso volesse cambiarsi d'abiti.

Ma il nostro giovane, cresciuto fra gl'infimi, allevato in mezzo la
plebe, non aveva nè indole, nè abitudine da mantenersi in quello
sprezzoso contegno d'uomo che si ritien di razza superiore e che non
vede nel suo simile che un passivo stromento delle sue volontà; sentì
una soggezione e quasi una specie di vergogna de' fatti suoi in presenza
di quel cotale, più alto, più grosso, più forte di lui, dalle braccia
che avrebbero potuto fare tanto lavoro utile, il quale gli stava dinanzi
nella sua livrea gallonata per prestargli dei servizi che non gli erano
necessarii e di cui aveva sempre fatto senza. Chinò gli occhi con una
nuova umiltà che di colpo fece sparire tutto quel po' di stima che il
domestico aveva sentito per lui, e rispose impacciatamente:

— No.... non ho bisogno di nulla: ritiratevi pure.

Mentre il domestico apriva la porta per uscire, entrarono due altri
portando un deschetto apparecchiato, che posero poco distante dal
camino: uno di essi tirò presso al tavolino un seggiolone e disse al
giovane:

— Se Vossignoria vuole accomodarsi, eccola servita.

E i due nuovi valletti venuti stettero come due cariatidi, uno di qua,
l'altro di là del deschetto su cui fumava mandando un profumo appetitoso
una zuppiera d'argento.

Maurilio sempre immobile, sempre dritto a quel punto da cui vedeva
riflesso nello specchio in mezzo alle vacillanti fiammelle dei
candelabri, il suo pallido viso che spiccava nella penombra del fondo
della stanza; Maurilio guardava con occhio attonito il luccicare degli
argenti e dei cristalli sulla tavola dove ripercotevansi e rimbalzavano
i raggi di due altri candelabri d'argento, la candidezza della finissima
tovaglia, la forma spigliata della bottiglia di vino di Bordeaux, i
galloni delle livree e le braccia imbottite della soffice poltrona che
parevano tendersi verso di lui per invitarlo.

Dopo un silenzio di pochi minuti, il giovane capì che doveva dire o fare
qualche cosa. Fece un evidente sforzo per sciogliere la lingua che gli
pareva annodatasi; ed ebbe mestieri d'un atto di coraggio per
pronunziare le seguenti parole:

— Andate..... Desidero rimaner solo.

I domestici salutarono e partirono. Allora egli, quando ebbe visto
l'uscio richiudersi dietro le loro spalle, si mise a passeggiare su e
giù per la camera a capo chino, sostenendo colla mano destra il mento e
colla sinistra il gomito del braccio destro. Non pensava a nulla di
preciso, ma sentiva un gran disagio di sè, una strana malavoglia. Ora
che l'orizzonte della vita pareva esserglisi aperto dinanzi, egli non
iscorgeva che buio, peggio di prima, buio in sè ed intorno a sè. La sua
mente vagava, vagava in un indefinito chimerizzare, che non aveva
neppure una lontana somiglianza di forme, che niuna parola, che nemmeno
l'incerto, ondeggiante, generico linguaggio della musica varrebbe ad
esprimere.

Ma passando e ripassando egli innanzi alla tavola apparecchiata, gli
effluvii di quella succosa zuppa, che profumava l'aria della stanza,
finirono per solleticare e destare i suoi sensi: si fermò, si raccostò
al desco, cedette all'invito della poltrona, si lasciò cadere fra quelle
braccia così benignamente allargate. Quando ebbe mangiato un buon tondo
di minestra al consommé, una buona fetta di _pâté_ e bevuto un buon
bicchiere di Bordeaux, le cose apparvero sotto ai suoi occhi con aspetto
un po' diverso da quel di prima. Si fece coraggio, l'idea di affrontare
la presenza e gli sguardi della sua nuova famiglia gli fece battere il
cuore, ma non lo spaventò più: si guardò nello specchio con meno spregio
e ripugnanza di se stesso; camminò con passo più sicuro per la stanza,
si raggiustò la cravatta al collo e i panni addosso, e s'avviò
abbastanza risolutamente verso il salone.

Un domestico glie ne aprì l'uscio ed alzò la portiera: Maurilio vide
innanzi a sè, aggruppate presso il grande camino, quattro persone che
volsero verso di lui il loro volto su cui si dipingeva una curiosità in
tutti diversa: quelle quattro persone erano il marchese e sua moglie, la
loro nipote Virginia ed il loro figliuolo Ettore, uscito il giorno prima
soltanto dagli arresti di rigore in cittadella.

Ma prima di entrar testimonii a questa scena che sta per aver luogo, è
conveniente assistere ad un'altra che in quell'ora medesima succede nel
piccolo e remoto quartiere di Barnaba, l'agente segreto della polizia.
Già dal giorno prima il ferito s'era provato a scendere di letto; ma la
debolezza non gli aveva consentito che di far pochi passi per la stanza.

— Eppure _voglio_ esser guarito: aveva mormorato fra sè con fermezza
tenace; _voglio_ fra pochi giorni, fra tre, fra quattro al più, poter
uscire, poter io recarmi all'importante impresa. Lo _voglio_! Questo mio
corpo non me l'hanno avvezzo fin da piccino a piegarsi ad ogni maggiore
sforzo secondo le volontà altrui? Non ho io conservato sempre colla mia
volontà un predominio assoluto sopra di lui? Or dunque voglio esser
guarito, e lo sarò....

E ripeteva a mezza voce coi denti stretti, come per fermar meglio, dar
maggior forza alla sua risoluzione ed imprimersela più profonda nel
pensiero, la parola: _voglio!_

Quel giorno in cui Maurilio faceva ritorno a Torino, Barnaba due volte
volle calare dal suo giaciglio, vestirsi e provare a camminare. La
seconda di queste volte era appunto alla sera. Una piccola lucerna
illuminava di poca luce quella stanza; il viso del poliziotto, pallido
ed affilato, pareva una maschera di cera a quel fioco lume gialliccio;
Meo colla grossa faccia più melensa, e le chiome più scarmigliate del
solito dava il braccio al convalescente che mutava adagio adagio i
passi, appoggiato da una parte al non corrisposto amante di Maddalena,
dall'altra ad un bastone. _Macobaro_ seduto in un angolo col suo aspetto
d'arpia seguiva degli occhi que' due che gli passavano innanzi
lentamente andando e venendo.

— Sì, sì, disse Barnaba ad un tratto fermandosi in mezzo la stanza,
coll'aiuto di qualcheduno potrò uscire dopo dimani, e se non a piedi, in
carrozza, recarmi là dove occorre. Che ne dite Jacob?

— Dico che gli è possibilissimo: rispose il vecchio rigattiere che aveva
sul suo volto le mostre di una profonda preoccupazione: ma non conviene
che per esercitarsi al camminare la si stanchi di troppo, chè allora poi
sarebbe peggio.

— No, no: disse il ferito con una specie d'impazienza: so io bene come
devo fare..... Bisogna esercitarlo questo miserabile d'un nostro corpo
di nervi e di muscoli per ottenerne quello che si vuole.

E riprese il suo lento passeggiare. Arom sostenne il mento ai suoi due
pugni chiusi e si diede tutto alle sue meditazioni che parevano
tutt'altro che liete. Successe un silenzio di parecchi minuti, finchè
Barnaba andò a sedersi in faccia al vecchio ebreo, e guardatolo
attentamente un poco, gli disse poi con vibrato e quasi crudo accento:

— Voi pensate a vostra figlia, alla vostra Ester, non è vero? State
tranquillo che fra poco ne avrete piena vendetta.

Jacob sollevò un momento quei suoi occhi piccini, affondati
nell'occhiaia, che avevano il guizzo di quelli d'un serpente.

— Penso anche ad un'altra cosa: disse con voce sommessa; penso se mai
potrò riavere quelle cinquanta mila lire che ho dato al _medichino_.

Barnaba fece un atto di dispettoso disappunto.

— Le avrai, vecchio avaro, esclamò impaziente, se ci servirai a dovere.

In quella fu picchiato con mano risoluta all'uscio d'ingresso, e Meo
andò a dimandare chi fosse.

— Apri, son io: rispose la voce forte e burbera del commissario Tofi.

— Già levato! esclamò questi entrando nella camera in cui era Barnaba,
col suo passo sonante e il portamento da militare: molto bene! È
necessario affrettarsi ad agire.

— Perchè? È succeduto qualche cosa di nuovo? domandò Barnaba con molto
interesse.

— È succeduto che quel mariuolo sta per isposare una infelice di ragazza
di buona famiglia, e gli sponsali avranno luogo domani sera.

Il convalescente pregò il suo superiore gli narrasse tutti i particolari
ch'e' sapeva intorno a questa novella; e quando gli ebbe intesi colla
più seria e fissa attenzione di cui fosse capace, egli che aveva
penetrato le intenzioni del _medichino_, disse:

— Lei ha ragione, non conviene più indugiare. Quello sciagurato vuole
sposare, intascar la dote e fuggire... Di domani bisogna che sia
arrestato.

— Ciò non è tutto: riprese il Commissario che non aveva voluto neppure
sedersi e stava col suo largo cappellaccio in capo, le mani affondate
nelle gran tasche laterali del soprabito. Ci è ancora un'altra novità
più strepitosa ed importantissima. Ecco una lettera che ho ricevuto
testè dal giudice istruttore.

Trasse da una di quelle sue tasche un foglio che spiegò e porse così
aperto a Barnaba: questi lesse il seguente corto bigliettino:

«Il medico che cura il signor Nariccia mi fa avvertito adess'adesso che
quest'infelice vittima di quell'orribile assassinio, per un caso
provvidenziale, ch'egli non osava nemmeno sperare, ha riacquistato in
parte l'uso della favella. Siccome c'è timore che questo non sia che un
temporaneo e fuggitivo miglioramento, così è bene non perder tempo ad
approfittarne; ho perciò determinato di recarmi questa sera medesima a
tentare un interrogatorio dell'assassinato e la pregherei a volerci
intervenire Ella pure per recarmi il soccorso della sua pratica e della
sua intelligenza.

«L'aspetto dunque senz'altro al domicilio del signor Nariccia medesimo
alle ore otto di questa sera, che prima mi sarebbe impossibile di
recarmici, ed ho l'onore, ecc.»

— Sono le sette e tre quarti: disse il Commissario quando Barnaba ebbe
finito di leggere, e trasse dal taschino un grosso orologio d'argento
tenuto ad un occhiello del panciotto per una catena d'acciaio: ci ho
giusto il tempo di recarmivi.

Il convalescente restituì la lettera al signor Tofi, poi con qualche
sforzo, ma senza l'aiuto di nessuno, sorse in piedi e stette,
sorreggendosi alla spalliera della seggiola.

— Signor Commissario: disse con voce impressa di tanto desiderio, che
tremava come per emozione; mi conceda che io l'accompagni colà....

— Siete matto..... Potete appena camminare.

— Manderò Meo a prendere una carrozza.

— E le scale?...

— Non tenterò neppure di farle..... e forse ne sarei anche capace.....
ma per essere più sicuro e avanzar tempo Meo mi porterà.

Tofi non ci pensò che un minuto secondo.

— Bene: diss'egli colla sua solita ruvidezza: mi potete fors'anco essere
utile. Venite.

Si fece come Barnaba aveva detto, e un quarto d'ora non era passato che
il Commissario e Barnaba entravano nella camera dove giaceva Nariccia e
dove non tardava a raggiungerli il giudice istruttore.

L'usuraio era sempre immobile stecchito e pareva un cadavere
mummificato, in cui per miracolo fossero rimasti vivi gli occhi: questi
in quella faccia gialla di morto, al fondo di quelle occhiaie incavate e
d'un brutto lividore, nella loro irrequietezza avevano una pena, uno
spasimo, uno spavento che ti stringeva l'animo, che era una cosa
orribile a vedersi. Quegli occhi agitati che vivevano soli in quel corpo
morto parevano suppliziati che cercassero fuga, scampo, pietà dalla loro
tortura: pareva che le più tremende visioni passassero innanzi a quelle
pupille in cui ardeva la febbre; come certo innanzi alla mente passavano
tremendi i ricordi di un colpevole passato, le azioni d'una vita
scellerata. Le labbra erano livide, e l'inferiore contorto da una parte
penzolava dando a quel viso di pergamena una smorfia immobilitata come
quella d'una maschera, che faceva paura e ribrezzo a mirarsi. Fra quelle
labbra la lingua impacciata, grossa, pendente riusciva a balbettare a
stento alcune parole.

Barnaba, a cui la fatica d'esser venuto fin lì, benchè portato per le
scale da Meo e per la strada dalla carrozza, aveva tolta ogni forza, si
lasciò cader seduto sopra una seggiola al fondo del letto in cui giaceva
Nariccia, e quelle due faccie cadaveriche e quei quattro occhi
febbrilmente vividi in mezzo il gialliccio pallore da morto si
guardarono fisamente, curiosamente, con avida reciproca investigazione.
Erano due vittime del medesimo individuo che dovevano assembrare le
volontà in un intento comune: quello della vendetta.

Nariccia, sviato lo sguardo dal volto macilento di Barnaba, lo fece
scorrere con istupore interrogativo sopra le persone che in gruppo vide
accostarglisi e stargli dintorno; le sue labbra contorte si mossero
penosamente, la lingua penzolante si agitò e una voce gutturale,
stentata, che pareva quella d'un ventriloquo, pronunziò stentatamente
alcune parole, che non furono comprese.

— Che cosa avete detto? domandò il medico, il quale, dietro espressa
volontà del giudice istruttore, doveva assistere all'interrogatorio.
Abbiate la compiacenza di ripetere.

— Confessarmi, confessarmi: balbettò il paralitico colla medesima voce
stentata e sommessa, ma con terribile espressione d'angoscia
nell'accento: voglio confessarmi prima di morire.

Il medico, il giudice ed il Commissario s'erano curvati sopra il letto a
cogliere il debole suono della voce di quel meschino.

— Che cosa disse? domandò Barnaba il quale dal posto ov'egli si trovava
non aveva potuto udire.

— Domanda di confessarsi: rispose il medico.

— E' non fa altro dacchè ha riacquistato l'uso della parola: disse
l'infermiere che era stato posto a vegliare sul giacente: di queste
poche ore l'avrà già domandato un migliaio di volte.

— Sì, vi confesserete e potrete adempiere ai vostri doveri di cristiano:
ma prima è necessario che voi adempiate a quelli che avete verso la
giustizia umana, che noi qui rappresentiamo. Fate dunque coraggio,
raccoglietevi e preparatevi a rispondere alle nostre interrogazioni.

— Mi resterà ancora tempo abbastanza da confessarmi poi? domandò la voce
soffocata e penosa del moribondo.

— Sì, disse il medico; stia di buon animo che vi è di meglio ancora per
lei: la speranza della guarigione.

Gli occhi di Nariccia espressero un dubbio desolante in risposta a
queste confortevoli parole del medico.

Il giudice cominciò senz'altro l'interrogatorio. L'infermiere era stato
mandato nelle altre stanze; un segretario s'era seduto ad un tavolino
stato posto più presso al letto che fosse possibile, e teneva innanzi a
sè la carta su cui era preparato a scrivere le risposte; non altra luce
rischiarava l'oscurità di quella stanza, fuor quella della lampada
sormontata da una ventola opaca che stava sul tavolino dove s'accingeva
a scrivere il segretario; così alto silenzio regnava che si udiva il
rumore della respirazione affannosa del giacente, e che le parole da lui
pronunziate in risposta alle fattegli domande, quantunque dette a voce
più che sommessa, erano intese da tutti.

— Voi siete nel pieno possesso della vostra ragione? cominciò il
giudice, parlando piano ancor egli, e curvo sopra il letto.

— Sì.

— Da quando siete rientrato nella vostra cognizione?

— Da parecchi giorni.... non so bene.... quando mi vidi attorno tanta
gente....

— Vi ricordate (questa domanda fu fatta dietro suggerimento di Tofi) che
vi furono rivolte già altra fiata varie interrogazioni circa il delitto
di cui foste vittima?

— Mi ricordo.

— Eravate allora in voi come ora?

— Sì.

— E non potevate parlare?

— No.

— Dacchè siete rinvenuto, avete sempre avuto la cognizione, tuttochè
immobile e senza parola?

— Sì.

— Vi ricordate delle risposte che avete espresso allora con segni fatti
degli occhi alle domande mossevi?

— Sì.

— Quelle vostre risposte erano la verità?

— Sì.

— Sareste pronto a riconfermarle?

— Sì.

Le domande che sappiamo essergli state fatte in quell'occasione gli
furono nuovamente dirette una per una, ed egli colla voce diede la
medesima risposta che aveva dato cogli occhi.

— Avete conosciuto i vostri assassini?

— Sì.

— Di due avete annuito al nome che se ne disse: vorreste ripetere questi
nomi?

— Sono _Graffigna_ e _Stracciaferro_.

— E il terzo? Sapete il nome del terzo?

— Sì.

La respirazione del giacente si fece più affannosa e gli occhi si
turbarono.

Il medico diede il consiglio di lasciarlo un poco riposare.

Dopo cinque minuti il giudice istruttore riprese:

— Questo nome siete disposto a dircelo?

— Sì.

— Voi capite tutta l'importanza delle parole che state per pronunziare!

— Sì.

— E siete sicuro della verità di esse?

— Sicurissimo.

— Allora diteci questo nome.

— Quercia.

Barnaba che pure si aspettava quel nome, che era sicuro non altro
sarebbe uscito da quella bocca convulsa, tuttavia diede in una leggiera
scossa e mandò una soffocata esclamazione: gli altri si guardarono in
faccia e per un minuto secondo nessuno parlò; non s'udì che il rifiato
grave del giacente e lo scricchiolar della penna del segretario che
scriveva nel processo verbale incancellabilmente quel nome.

— Ma qual Quercia? susurrò poscia la voce fiacca di Barnaba; ve ne
possono essere parecchi, conviene farglielo specificare.

E Nariccia, interrogato in proposito dal giudice, diede tutte le più
precise informazioni che si desideravano.

— Signore, disse il giudice al Commissario, quando l'interrogatorio fu
finito, della giornata di domani sarà spiccato un ordine di arresto
contro quel tale, e sarà sua cura farlo eseguire.

Tofi chinò bruscamente il capo in segno affermativo.

— Sarà eseguito: diss'egli; e frattanto lo farò codiare dai miei agenti.
So che col pretesto d'un viaggio di nozze e' si è già procurato un
passaporto per l'estero; se appena un timore che si sospetti di lui gli
entra nell'animo, può partirne improvviso. Al menomo cenno ch'egli
faccia di abbandonar Torino, ordine o non ordine, lo agguantiamo.

— Signor Commissario, disse una voce tremante, quasi supplichevole,
all'orecchia di Tofi, mi conceda il favore di affidare a me l'impresa di
questa cattura... sotto la sua direzione s'intende.

Il Commissario guardò la faccia patita di Barnaba entro la quale gli
occhi ardevano più febbrilmente che mai.

— Ve ne sentirete già capace?

— Oh sì! esclamò il poliziotto. La vedrà! E sarà questa una grazia che
mi darà mezzo di rientrare nel favore dei superiori e nell'impiego.

— Va bene..... Di quello che avrete fatto e di quello che farete
informerò chi si deve.

Frattanto il giacente, stanco e spossato dallo sforzo mentale che aveva
dovuto fare per raccogliere le sue idee, da quello fisico stesso per
ispiccar la parola colla sua lingua inretita, dalla passione che glie ne
dava necessariamente all'animo il ricordare quei brutti, orribili
momenti in cui aveva visto la morte incombere sul suo capo, l'aveva
sentita piombare su di lui; Nariccia, dico, aveva chiuso gli occhi e
sarebbe sembrato affatto un cadavere se non avesse rivelato in lui un
resto di vita la respirazione tronca, affannosa e sibilante.

Quando dal silenzio fattosi intorno a lui, il misero capì che tutte
quelle persone eransi partite, egli riaprì nuovamente gli occhi e guardò
di qua e di là con una specie di terrore; dalla sua gola uscì una voce
che pareva un rantolo e le labbra gli si agitarono con penoso sforzo.

L'infermiere, che era tornato presso di lui, si curvò sul letto con
quella indifferente tranquillità che hanno per cotali spettacoli questa
gente avvezza a veder soffrire e morire.

— Eh? che cosa la dice? domandò.

— Confessarmi, confessarmi: balbettò Nariccia.

— Ah! gli è vero; ma ora non posso lasciarla sola per andare in cerca
d'un confessore: dimani mattina, appena mi si venga a sostituire, glie
ne andrò a chiamar uno; Padre Bonaventura del Carmine, che è già venuto
tante volte a prendere di sue notizie.

Il moribondo avrebbe voluto esclamare: — No, non quello; — ma le forze
glie ne mancarono affatto. Richiuse gli occhi e parve fuor dei sensi od
assopito.

L'infermiere, guardatolo un poco, disse fra sè:

— Domattina! Chi sa se avrà ancora bisogno del confessore domattina, e
non sia già precipitato a casa del diavolo. Sarebbe poco male un
pelacristiani di questa fatta.

E s'adagiò tranquillamente sopra un sofà per passare con più agio
possibile la notte. Se Nariccia fosse morto in quella notte senza
confessione, avrebbe portato seco un gran segreto.

Ora è tempo che ritorniamo nel palazzo Baldissero dove Maurilio viene
ufficialmente presentato alla nobile famiglia.



CAPITOLO XVIII.


Entrando nel gran salone splendidamente illuminato, Maurilio s'era
fermato appena fatti pochi passi sul morbido tappeto, come preso da
abbacinamento. Sul volto superbo della marchesa e del suo figliuolo
Ettore stava una scontentezza che si frenava, domata, soggiogata, direi
quasi, dalla espressa volontà del capo della famiglia alla cui autorità
essi piegavano la fronte; Virginia, ella, mostrava una sincera emozione
che la straordinaria e commovente circostanza ben era fatta per
suscitare in un'anima eletta ed amorevole come la sua. Lo strano
contegno tenuto da Maurilio con essa in quell'occasione che abbiamo
narrato, quando ella ebbe appreso dallo zio l'essere del giovane, aveva
avuto da lei la seguente spiegazione: egli conoscendo il segreto della
sua nascita era stato mosso allora a manifestarlesi, e l'emozione
dell'affetto, la timidità, il brusco e quasi sdegnoso fuggire di lei
glie lo avevano impedito. Ella si era fatta viva rampogna d'essersi
allora in quel modo diportata. Una parte di quell'affetto, di quel
trasporto dell'anima che aveva per la memoria della madre, di cui appena
era se ricordava una vaga immagine, aveva sentito rivolgersi verso colui
che ora le si additava fratello. Le parve come se qualche cosa di quella
madre tanto desiderata, rivivesse; ella che, tranne quello dello zio,
non aveva affetti vivaci e teneri intorno a sè, benedisse Iddio di
concederle a compagno, di condurle innanzi chi aveva nelle vene il
medesimo suo sangue materno. Perciò all'entrare di Maurilio fu con
sollecita premura che Virginia fece alcuni passi verso di lui ad
incontrarlo. Il marchese però la prevenne ed accostatosi egli primo al
giovane, lo prese per mano.

— Eccovi qui i vostri più prossimi congiunti dal lato materno:
diss'egli. Questa è vostra zia, la marchesa di Baldissero, questi è
vostro cugino, mio figlio Ettore, due altri miei figliuoli che sono
nell'Accademia Militare conoscerete poi, e questa è vostra sorella
Virginia.

Maurilio fece un inchino alla marchesa che si degnò appena
corrispondergli con un altezzoso cenno del capo; scambiò con Ettore
un'occhiata ed un saluto in cui c'era nulla d'affettuoso nè manco di
cortese; ma tremò da capo a piedi innanzi allo splendido sguardo della
fanciulla che si accostò a lui, tendendogli ambedue le mani.

— Mio fratello! esclamò essa con una voce piena d'emozione ed un accento
che a queste sole due parole dava la significazione di tanti sentimenti
e sensazioni.

Egli prese nelle sue larghe, grosse, volgari manaccie quelle piccole,
esili, bianche, dalla pelle finissima che Virginia gli porgeva, non osò
stringerle, ma le tenne alquanto, sempre più tremante, e invano tentando
di balbettare una parola che esprimesse il suo pensiero.

La scena fu fredda, impacciosa: la presenza della marchesa e del
marchesino versava un gelo che impediva ogni espansione. Maurilio
medesimo era troppo commosso per parlare; nel suo petto non abbastanza
soffocato ancora era quell'amore che tutta aveva dominata la sua
giovinezza, perchè egli osasse, per dir così, andare in fondo al proprio
cuore, perchè osasse aprire il varco a quei sentimenti che gli
sobbollivano con tramestìo confuso nell'anima. Virginia medesima dal
contegno di questo rinvenuto fratello, dal suo aspetto ebbe come una
specie di delusione; sentì quel suo trasporto d'affetto, quasi
risospinto, venirle a ripiombare sull'animo e ritorlo alla dolce
espansione di prima; nello sguardo profondo del giovane il quale pure
aveva qualche cosa di quello che avevano i bellissimi occhi suoi,
Virginia travide alcun che di misterioso, ond'ebbe pressochè paura e
sospetto. Scambiate poche parole di convenevoli quali l'occasione li
suggeriva, nessuno più seppe che cosa dire, e fu il marchesino Ettore
che più impaziente tolse primo il commiato.

— Io sono stato troppo tempo condannato alla immobilità forzata dentro
una camera, diss'egli con amaro sorriso facendo allusione alla sua
appena finita prigionia in Cittadella, perchè ora mi rassegni a star
lungo tempo inchiodato in casa.

Baciò la mano di sua madre, s'inchinò con un rispetto, in cui non c'era
mostra d'affezione, al genitore, strinse la destra a Virginia e
fermatosi un momento innanzi a Maurilio gli disse con un accento di
finissima, velata ironia:

— Mio cugino, _puisque cousin il y a_, a rivederci. Faremo più ampia
conoscenza più tardi: e se potremo andare d'accordo... tanto meglio!

Maurilio non rispose, guardò fiso, seriamente, quasi severamente il
marchesino che girava sui suoi talloni con una sprezzosa leggerezza, e
non gli fece manco un cenno di saluto.

— Signora, disse poi Maurilio accostandosi alla fanciulla più commosso e
tremebondo di prima, non osando levare le pupille sul volto di lei:
signora... mia sorella... Virginia... Vorrei domandarvi un favore.

La donzella vide la commozione del giovane e ne fu commossa ella pure.

— Parlate: disse con un interesse, con una specie di tenerezza che fece
battere il cuore di Maurilio.

— Voi avete bene un ritratto di _nostra_ madre?

— Sì.

— Conducetemi innanzi ad esso, ve ne prego.

Virginia parve esitare un momento. Quel ritratto era appeso nella sua
camera, in faccia al suo letto; le ripugnava a tutta prima introdurre
colà un individuo che appena se aveva cessato d'essere per lei un
estraneo. Un estraneo? Ah no, non doveva esserlo più. Che cosa avrebbe
detto la madre se avesse visto la freddezza diffidente con cui essa
accoglieva il fratello, la madre che con tanta espansione avrebbe aperte
al figliuolo le braccia, la madre che lieta sarebbe stata se di subito
fosse nato fra di loro vivace l'affetto fraterno? Prese ella per mano
Maurilio e gli disse:

— Venite.

Si arrestarono tuttedue, tenendosi per mano, innanzi al quadro in cui la
contessa Aurora era stata rappresentata quando, già colpita dal dolore,
portava nell'anima una ferita insanabile e ne lasciava scorgere le
traccie nel pallore del volto e nella mestizia desolata dello sguardo.
Tuttedue levarono gli occhi, che si rassomigliavano, verso quegli occhi
dipinti, che rassomigliavano ai loro; tuttidue sentirono invadersi da
una tenerezza d'affetto più viva, più cara, più calda. A Maurilio nello
sguardo mite, triste, nobilmente rassegnato, profondamente pensoso del
ritratto, parve scorgere alcun che di quell'inesplicabile, mesta soavità
della sua visione: Virginia pensò alla gioia suprema che avrebbe avuta
sua madre, se ancora viva avesse visto restituirsi al suo amore quel
figliuolo che aveva pianto estinto, e credette vedere nella tela dipinta
medesima, rallegrarsi e balenare soavemente quegli occhi color del mare.
Il giovane giurò a sè stesso che su quella fanciulla, orfana al par di
lui, in cui tante rivivevano delle sembianze materne, avrebbe volto gran
parte di quell'affetto che più non poteva consecrare alla persona viva
della madre, avrebbe per lei ogni cosa tentato, tutto sacrificato, se
occorreva, ogni cosa sofferto per conferire in ogni modo a lui possibile
a renderla felice: la donzella da parte sua promise a sè stessa, e ne
sentì come il dovere, di compensare ella col suo di sorella quell'amore
di madre che questa non aveva potuto mai, non poteva più rivolgere su di
lui, di fargli provare quell'affetto dolcissimo di famiglia onde il
derelitto era stato sin allora per tutta la vita affatto scevro. Le loro
mani, che ancora erano unite, si strinsero, quasi a scambiarsi la mutua
interna promessa fatta dal loro cuore, gli occhi s'incontrarono, ed ella
porgendo la sua fronte china alle labbra di Maurilio, gli disse:

— Fratello mio, potrò finalmente parlare con alcuno di mia madre, ne
parleremo sovente insieme, e ci ameremo com'ella ci avrebbe amati.

Maurilio depose un lieve bacio su quella candida fronte che gli veniva
offerta: era un puro bacio di amor fraterno, era un castissimo bacio
nell'atto e nel pensiero: ma appena le sue labbra ebbero tocco la pelle
finissima di quella fronte leggiadra, uno strano, terribile
sobbollimento si fece nelle vene del giovane. La passione d'amore, che
egli credeva soffocata nel suo cuore, s'aderse di subito, impetuosa,
congiunta con un tumultuoso trasporto di sensi, quale il misero, vissuto
purissimo d'ogni voluttà, non aveva provato mai: una fiamma gli passò
dinanzi agli occhi, quasi accecandolo, la mente sotto l'impulso del
sangue gli si confuse: al suo giovanile ardore, tremendamente
infuocatosi ad un tratto, sorrise procace la bellezza divina che aveva
dinanzi; una temerità sciagurata s'aggiunse ad un avido desiderio: oh
stringere al suo petto quelle mirabili forme, oh baciare con furore
quelle labbra coralline! Le sue braccia frementi si piegarono per
afferrare, serrare in un amplesso tenace quel corpo leggiadramente
elegante. Ma appena sentì il tocco di quelle membra, delle vesti che le
cingevano, la ragione si ridestò e riprese in lui il suo impero: volse
al ritratto uno sguardo confuso, pentito, pieno di vergogna e
supplicante perdono.

— Sono un infame, pensò rattamente fra sè. Oh mi estirperò dal cuore
questo scellerato amore, dovessi strapparne insieme la vita.

Si allontanò da Virginia, impallidito di subito, tremante, affannoso il
respiro, quasi vacillando.

La fanciulla lo guardò con istupore, e con affettuoso interesse gli
domandò:

— Che cos'hai? Tu stai male.

Era la prima volta che Maurilio udiva rivolgersi da lei la dolce parola
_tu_.

— Nulla, rispose, tenendo volti a terra gli occhi. L'emozione di questi
momenti è tanta per la mia anima che mal vi può reggere. Lasciatemi.....
lasciami ritrarre ad esser solo.

Corse a chiudersi nella sua stanza, inorridito di se stesso,
maledicendosi, accusandosi, pensando ogni fatta pazzie, ora piangendo,
ora sdegnandosi, pregando a volta a volta e bestemmiando.

— O madre mia, soccorretemi voi, esclamava dal profondo dell'anima,
aiutatemi, salvatemi, proteggetemi voi!

Ad un tratto un nuovo pensiero glie ne venne che lo fece riscuotersi in
mezzo alla sua dolorosa meditazione. Aveva sempre rivolto l'animo e la
mente a sua madre; e il genitore, perchè lo aveva egli dimenticato, o
meglio trascurato? Nobile di cuore e d'ingegno era egli, a quanto udito
ne aveva, di generoso animo e di virtuosi fatti. Della madre aveva egli
almeno una memoria, una reliquia, quel rosario con cui tante volte certo
aveva ella pregato, ne aveva ora viste le ritratte sembianze, ma del
padre non gli restava nulla, nulla affatto, nè aveva pure alcuno che
glie ne potesse parlare. Ardentissimo desiderio gli nacque di sapere
qualche cosa di più sul conto di lui; domandò se il marchese era
tuttavia in casa e se a lui poteva presentarsi, e venuto in presenza
dello zio espose le sue legittime brame a questo riguardo.

— Avete ragione: rispose il marchese; tutto quello che appartenne a
vostro padre dev'essere prezioso per voi ed è vostra proprietà. Ci ho un
involto delle lettere che egli scrisse a mia sorella, e che questa
teneva carissime: un momento volli distrurle, ma poi me ne trattenni
pensando che avrei amareggiato l'anima di quell'infelice. Quelle carte
debbono essere vostre, e senza indugio ve le rimetto.

Prese da un cassettino del suo stipo un pacco di carte suggellato con
quattro grandi impronte di cera lacca nera e lo consegnò a Maurilio, il
quale lo prese con religioso rispetto e strettolo al seno come se vi
tenesse un tesoro, corse a rinchiudersi di nuovo nella sua camera.

Pose quell'involto di carte sulla tavola innanzi a sè e stette a
contemplarlo a lungo come una cosa sacra, a cui non osasse, credesse una
profanazione accostar la mano. Ecco tutto quanto gli rimaneva di suo
padre! ecco quanto avrebbe potuto aver mai di lui! Di aprire quel plico
e leggere i fogli contenutivi, aveva egli il diritto? Certo che sì. Da
quelle carte doveva sorgere innanzi a lui e prendere forme più precise
quella persona di suo padre, che vagamente soltanto gli si era adombrata
nel racconto statogli fatto delle avventure della madre sua. Una nobile
figura era quella che già aveva intravvista; quanta più venerazione
avrebb'egli avuto per essa, quando più precisamente le si fosse
palesata! Tutto l'amor suo figliale, sinora egli aveva concentrato nel
pensiero della madre soltanto; avrebbe d'or innanzi volto quest'affetto
alla memoria del padre eziandio, nè quell'immenso che sentiva per la
donna a cui doveva la vita se ne sarebbe perciò sminuito pure d'un
punto.

Ruppe finalmente i suggelli ed aprì il plico: una ineffabile commozione
gli faceva tremar la mano. Era la raccolta di tutte le lettere d'amore
che Maurilio Valpetrosa aveva scritte alla marchesina Aurora, dalla
prima in cui le svelava con ardentissime parole l'affetto suo a
quell'ultima che prima di recarsi al duello aveva egli affidata al
tristo Nariccia, e nella quale, dicendo alla moglie d'aver confidenza
nell'ipocrita scellerato che tanto bene aveva saputo fino all'ultimo
ingannarlo, dava alla donna dell'amor suo con parole di tenerezza
infinita l'estremo addio, la benedizione del moribondo.

Nel primo gettar gli occhi su quegli scritti, Maurilio provò una strana
sensazione: non glie ne parve ignota la calligrafia, ma non seppe dirsi
di subito nè come, nè dove, nè quando l'avesse vista mai. Forse non era
che una vaga rassomiglianza: e in quel momento l'emozione del suo animo
fu tanta, che non ebbe agio a considerare freddamente questa
circostanza. Cominciò a leggere quelle lettere con avida curiosità
insieme e con riverente affetto, e l'interesse di quella lettura non gli
lasciò più per allora pensare ad altro. Palpitò alle affocate
espressioni d'una passione che per tanti versi riproduceva quella
ch'egli aveva giurato soffocare nel cuor suo; arrossì ed impallidì a
volta a volta pel tumultuar del sangue; pianse su quell'ultima lettera
dell'amante e marito ucciso in duello, sulla quale rimanevano le traccie
delle amare lagrime versate leggendola dalla vedovata donna.

Gran parte della notte passò egli leggendo e rileggendo quelle carte,
passeggiando per la stanza, la mente confusa per troppo accavallarsi di
pensieri, rifacendo colla sua fantasia quel passato di cui aveva ora
primamente innanzi a sè le traccie, ricostruendo quel doloroso dramma
del quale gli si presentavano ora le linee principali. La figura di
Maurilio Valpetrosa non aveva certo perduto nel concetto del giovane per
quella lettura: aveva preso un aspetto di amorevolezza generosa, di
franca e soave bontà, quale possono avere soltanto le anime elette. Di
tutto quello che veniva apprendendo de' genitori suoi, Maurilio era
fiero, era superbamente lieto.

— Oh padre mio! oh madre! chè non posso io coll'amor mio compensarvi in
parte di quello che avete dovuto soffrire! esclamava egli con dolci
lagrime negli occhi. Ma farò ogni mio possibile sforzo — lo giuro per la
vostra memoria — affine di rendermi in tutto degno di voi!

Una dolce stanchezza ora lo occupava: dall'anima erano partite tutte le
torbide sensazioni, le dolorose e pugnaci emozioni. Un assopimento,
ristoratore tanto della mente e dell'animo, quanto delle membra e dei
sensi, lo invadeva pian piano, come il dolce influsso d'un tepido
ambiente che lo avvolgesse. Egli sedeva al suo scrittoio colle lettere
aperte davanti; prese in mano quell'ultima così mesta e rassegnata e
dignitosa e forte nel suo dolore, la guardò ancora cogli occhi già
imbambolati dal sonno che cadeva, come se volesse imprimersene i
caratteri nel cervello per averli presenti anche nel sogno, la baciò e
poi reclinato il capo sulle braccia e le braccia su quelle carte
preziose, tranquillamente si addormentò.

Fu senza sogni e placido il suo sonno; ma ad un punto, chi l'avesse
mirato dormire, avrebbe visto la fronte corrugarglisi come per dolorosa
subita impressione ricevuta: il suo corpo si riscosse, ed egli svegliato
di botto rizzò il capo e la persona in sussulto. Quanto avesse dormito
non sapeva; ma la candela era di molto consumata. Maurilio si prese il
capo fra le mani e stette un momento come per riconoscersi, come chi ha
ricevuto sul cranio un colpo poderoso e ne rimane per un poco intronato.
Che cosa era successo? Nel più profondo del suo sonno, come se alcuno
avesse potuto susurrarglielo direttamente al cervello, eraglisi
presentato un sospetto circa quella somiglianza di scrittura che fin
dalle prime aveva creduto notare nelle lettere di Valpetrosa. Parve che
quei caratteri, cui egli aveva prima d'addormentarsi così intensamente
osservati, nella quiete della mente prodotta dal sonno, trovassero pure
alla fine quell'angoluccio in cui era riposto il sovvenire di quei
simili già visti dal giovane, e lo tirassero innanzi a presentarglielo
ad un tratto chiaro e preciso.

— Possibile! esclamò egli liberando poi la testa dalla stretta delle sue
mani, ed afferrata una di quelle lettere l'accostò vivamente alla
candela a farci piovere su la luce gialliccia di quella fiammella. Non
c'era da aver dubbio. Come aveva egli fatto a non riconoscer subito una
cosa sì evidente? Quella scrittura era affatto identica a quella della
lettera strappata che a Gian-Luigi era stata posta nelle fascie quando
abbandonato nel pubblico ospizio dei trovatelli, a quella di quell'altro
biglietto che da poco tempo Gian-Luigi aveva acquistato e non aveva
detto dove, lettera e biglietto che pochi giorni prima soltanto Maurilio
aveva potuto minutamente ed attentamente esaminare.

Che voleva dir ciò? Come uno scritto di Valpetrosa era stato messo per
contrassegno di riconoscimento a Gian-Luigi infante? Chi era dunque
colui? Ed egli, Maurilio, chi era? Gli tornò in mente l'apparizione che
aveva avuta al villaggio: ricordò quel segno negativo che aveva creduto
intravvedere. Ma allora?... La conclusione lo spaventò. Che si doveva
fare? Una paura ed una smania nello stesso tempo lo afferrarono, di
venire in chiaro della verità. Decise cercare di Gian-Luigi, rivedere
quegli scritti, confrontarli colle lettere di colui che già non osava
più dire suo padre, ed appurata meglio la cosa risolver poi.

Appena fu venuto il mattino uscì del palazzo e corse all'abitazione di
Quercia: questi dormiva ancora e il domestico non lasciò entrare
Maurilio: gli disse tornasse fra due ore. E giusto due ore o poco più
dopo che il giovane era uscito dal palazzo Baldissero, si presentava
nell'anticamera di questo Padre Bonaventura, chiedendo urgentemente di
parlare al marchese. Il frate veniva senza indugio introdotto e un lungo
colloquio aveva luogo fra il fratello della marchesa Aurora e il
confessore di Nariccia, imperocchè Padre Bonaventura veniva allora
allora dall'aver udito in confessione il vecchio usuraio moribondo.



CAPITOLO XIX.


Quando Maurilio tornò alla casa di Gian-Luigi ebbe ancora in risposta
dal mariuolo che faceva da domestico, il dottor Quercia non esserci e di
tutto quel giorno non potersi vedere perchè gli era giorno troppo
solenne, in cui aveva troppo da fare per accogliere chicchessia. Così
dicendo il servitore esaminava Maurilio con ostile diffidenza di cui il
giovane s'accorse. Il _medichino_ che si sapeva circondato dalla
sorveglianza e dallo spionaggio della Polizia aveva raccomandata la
massima cautela a tutti i suoi seguaci e dipendenti; quella mattina,
quando il domestico avevagli detto che un giovane in ora così mattutina
era venuto per parlargli, Gian-Luigi, a cui la descrizione fatta dal
servo non aveva fatto pur nascere in mente che quell'individuo dalle
guancie pallide, dall'aria cupa e dagli sguardi tenebrosi di cui gli si
diceva fosse Maurilio; Gian-Luigi aveva dato ordine lo si mandasse a
quel paese s'e' fosse ritornato.

Ma il nostro protagonista insistette cotanto, disse con sì franca e
calda asseveranza importantissime ed urgentissime essere le cose che
aveva da rivelare a Gian-Luigi, che il finto servo, scosso alquanto dal
timore che quello sconosciuto venisse invece a recare qualche
avvertimento che potesse giovare, finì per dire:

— Ella afferma che, se il dottor Quercia intendesse il suo nome la
vorrebbe ricever subito?

— Sì....

— E che si tratta di cosa onde dipende la sorte del dottore medesimo?

— Sì.

— Or bene, qui non è bugia che di tutto il giorno sarà impossibile
rinvenire il dottore, ma le indicherò il luogo dov'Ella lo possa
rintracciare; ed è nella casa del signor Benda, di cui egli sposa la
figliuola.

— Benda! esclamò Maurilio meravigliato. Il fabbricante di ferro?

— Sì signore, quello presso cui successe pochi giorni sono quel
maledetto buscherio.

— E il vostro padrone ne sposa la figliuola?

— Si fa il contratto degli sponsali questa sera medesima.

Maurilio partissi di là perplesso assai, con una nuova cura nell'animo.
Era egli amico di molto a Francesco Benda, del quale il generoso animo,
le buone qualità, i meriti singolari non gli faceva disconoscere la
invida gelosia natagli da poco per la rivalità in amore. Sapeva egli
quale onesta e buona famiglia, degna di stima, d'amore e di felicità
fosse quella: e conosceva abbastanza delle vicende e delle condizioni di
Gian-Luigi per arguire che se da parte dei Benda erasi acconsentito a
dargli in isposa la ragazza del loro sangue, era certo per effetto di un
inganno in cui il tristo li aveva indotti. Che doveva far egli in
presenza di questo avvenimento? Lasciar correre le cose e compire il
sacrificio di quella innocente fanciulla e il danno, forse e senza
forse, di tutta la famiglia? Glie ne rimordeva la retta coscienza,
rampognandolo che avrebbe mancato al dovere di amico e di onest'uomo.
Farsi denunciatore del suo compagno d'infanzia? Sentiva in sè qualche
cosa eziandio che a ciò ripugnava, come se fosse un tradimento. Si
aggirò lungo tempo incerto, travagliato da dubbio tormentosissimo; col
sì e col no che nel capo gli tenzonavano. Ora voleva accorrere dai Benda
e dir tutto quello che sapeva di Gian-Luigi: ora voleva in ogni modo
adoperarsi per avere a tu per tu quest'ultimo e intimargli rinunziasse
egli a quel maritaggio, minacciandolo di far conoscere la verità; ora si
diceva che quello in fin dei conti non doveva essere il fatto suo, e che
il meglio sarebbe stato tacere di tutto, a Gian-Luigi della per sè
fatale scoperta circa i due frammenti di lettera da lui posseduti, ai
Benda delle cose di colui al quale avevano accordato la mano della
fanciulla.

Aveva bisogno d'un consiglio, d'un aiuto, d'una direzione in tanta
perplessità, e non sapeva a cui rivolgersi, quando ad un punto in una
delle principali strade per la quale andava girelloni, assorto ne' suoi
pensieri, senza vedere cosa alcuna nè persona, il fondaco d'un libraio
si aprì vivamente, un uomo di età matura, dalle sembianze oneste e
schiette ne uscì ratto, e preso per un braccio Maurilio, gli disse con
accento di cordialità, d'affetto e insieme di supplicazione:

— La vedo finalmente! La mi avrà da scusare, ma io non la lascio più
finchè non m'abbia fatto il favore d'essere venuto nella mia casa,
ripresentato alla mia famiglia e aver ricevuto in presenza di questa
quelle scuse che ci tengo assaissimo a rinnovarle.

Era il signor Defasi, innanzi alla cui bottega Maurilio era passato
senza accorgersi, e il quale però avendo scorto il giovane erasi
slanciato sulla strada ad arrestarlo.

Maurilio, così richiamato dalle sue meditazioni alle cose circostanti,
guardò il libraio con un'aria smemorata che parve al signor Defasi
un'espressione di mala voglia e di rancore.

— Ella me lo ha promesso: riprese con calore il libraio. Si ricorda di
quel dì che l'ho incontrata in casa del dottor Quercia? Io le ho
domandato il favore d'un abboccamento in cui potessi far ammenda e
riparazione del mio grande, del mio grandissimo fallo verso di Lei: ed
Ella fu tanto generosa da promettermelo non solo, ma da dirmi che
sarebbe venuta Ella medesima a casa mia. Or dunque la prego non mi neghi
la grazia di mantenere quella sua promessa. Se la sapesse con che ardore
di desiderio l'ho attesa tutti questi giorni passati! come l'attendono
con vivezza pari di sentimento, con ansietà d'impazienza i miei figli,
tutti i miei, che si sentono in colpa come me verso di Lei, e che ci
tengono supremamente a farsene perdonare! Oh! la non sia tanto
inesorabile da rifiutarci questa grazia di perdono.

Maurilio avrebbe ceduto ad ogni modo alla richiesta del signor Defasi;
non era senza precisa volontà di attenere la promessa ch'egli aveva
detto al suo antico principale sarebbesi recato a casa sua appena
ritornato dal villaggio; ancor egli ci teneva a ricomparire purgato da
ogni accusa e da ogni sospetto in quella casa da cui era stato scacciato
come un malfattore; ma a deciderlo più presto ancora concorse il cenno
che il libraio fece di passata della circostanza per cui si erano
trovati pochi giorni prima in casa di Quercia. Questo nome gli
rappresentava appunto tutte quelle perplessità in mezzo a cui s'agitava
l'anima sua, riguardo a ciò ch'egli dovesse fare e per sè, e per
Gian-Luigi, e pei Benda. Aveva sentito il bisogno d'un onesto consiglio,
e nella lontananza di Don Venanzio, dove avrebbe potuto trovare uomo più
acconcio di quello che la Provvidenza gli conduceva ora dinanzi, la
rettitudine della cui anima traspariva dalla sincerità delle sembianze,
del quale egli, per abbastanza lunga consuetudine domestica, conosceva
positivamente il cuore generoso, la mente illuminata e la delicata
coscienza? Maurilio fece un cenno affermativo del capo senza parlare, ma
sorridendo amorevolmente e non senza commozione, e passando innanzi al
signor Defasi, entrò nella bottega.

In quel fondaco Maurilio non era entrato più da quel brutto momento in
cui ne era stato scacciato come lo udimmo narrare da lui medesimo a
Giovanni Selva. Appena entratovi, guardò egli intorno a sè con una
curiosità quasi desiosa: parevagli che il trovarsi di nuovo colà potesse
far rivivere per lui que' primi tempi di sua dimora in quell'onesta
famiglia, che furono i più tranquilli e più felici giorni della sua
esistenza, parevagli che tutto avesse da cancellarsi come se non
avvenuto quell'avvicendamento di sventure e dolori che aveva dovuto
sopportar poi. Che non avrebbe egli dato per tornare davvero a quei
momenti colà vissuti allora, i soli di pace che avesse provati mai?
Tutto era nel medesimo stato in quel fondaco, tutto al medesimo posto,
se non che vi si vedeva di subito un'attività anche maggiore, appariva
accresciuta la prosperità dello spaccio.

I figliuoli del signor Defasi, il commesso che già era colà al tempo di
Maurilio, ai quali il padre e il principale aveva narrato l'incontro del
giovane e le parole fra loro scambiatesi, riconobbero tosto l'antico
loro compagno nell'individuo signorilmente vestito cui ora il libraio
era corso ad arrestare nella strada e introduceva nella bottega;
s'alzarono tutti e gli vennero incontro coll'aspetto raumiliato e
pentito di chi ha un grave fallo verso altrui ed è disposto a far di
tutto che gli spetti onestamente per farselo perdonare.

Il signor Defasi prese il giovane per mano e presentandolo così agli
altri che facevan cerchio, disse con una certa solennità in cui c'era
molta commozione eziandio:

— Eccovi qui il signor Maurilio Valpetrosa che noi conoscemmo sotto il
nome di Maurilio Nulla; noi abbiamo da riparare verso di lui e da
farcene perdonare la maggiore delle colpe che altri possa avere verso un
onest'uomo; la peggiore delle offese che gli si possa fare, quella d'una
falsa accusa, di una calunnia. Dichiaro io qui in presenza di tutti voi
altri che mi ascoltale, e vorrei dichiararlo in presenza di tutto il
mondo che, raggirato da ostili relazioni fattemi intorno a lui,
ingannato da fallaci apparenze, ho osato sospettare la onestà d'un
giovane che in tutto il tempo durante cui rimase presso di me aveva dato
prove della maggior rettitudine. La Provvidenza volle molto tempo dopo
chiarire il mio sciagurato errore, perchè, facendo poi aggiustare il
banco, fu trovata in fondo, scivolatavi non si sa come, quella
miserabile somma la cui mancanza dal cassetto aveva originato il dubbio.
Io glie ne domando perdono, signor Maurilio, e qui meco glie lo
domandano i figli miei: e se il gettarmi in ginocchio innanzi a Lei, e
se ogni altra maggior mostra di pentimento e d'umiliazione potesse
bastare...

Fece una mossa come se volesse davvero inginocchiarsi; ma il giovane
intenerito, l'anima dolcemente sollevata, fu lesto a trattenerlo
abbracciandolo; e con ineffabile commozione si lasciò cadere sul seno di
lui, mentre due lagrime gli colavano giù per le guancie.

— Grazie, grazie: diss'egli con voce per emozione tremante. La perdono,
li perdono tutti; li avevo già perdonati... Avevo io il diritto pure di
lamentarmi di questo errore a mio carico? Tutto congiurava contro di me.
Io a luogo loro non avrei fatto forse ancora più temerario giudizio e
non sarei stato più crudele di quello ch'essi furono per me?
Dimentichiamo tutto e perdoniamo.

Si strinsero la mano quanti erano, si abbracciarono con cordiale
effusione. Maurilio da quelle mostre d'affetto, da quel puro ambiente
d'onestà che lo circondava, sentì l'animo confortato, quasi rallegrato;
girò intorno lo sguardo, annasò voluttuosamente quell'odore di stampati
in mezzo a cui era vissuto così volonteroso parecchi anni e disse
lentamente pronunziando le parole come chi desidera non le sieno
leggermente accolte da chi le ascolta:

— E forse avverrà, signor Defasi, ch'io venga fra non molto a domandarle
un gran favore; e voglia Ella, come riparazione a quella disgraziata
vicenda, essere disposto ad accordarmelo: questo favore sarebbe quello
di venire accettato di nuovo qui nella qualità in cui già ci fui un
tempo, come se il tempo, aimè poco lieto, che trammezzò non fosse
avvenuto.

Il libraio lo guardò con istupore.

— Come! diss'egli; ora ch'Ella ha trovato la sua nobile famiglia...

— A questo riguardo, se la mi consente, devo parlarle ed invocare i suoi
consigli. Quando avrà udito la capirà la ragione delle mie parole.

Il signor Defasi, che voleva appunto ripresentare il giovane eziandio
alle donne della sua famiglia, si affrettò a condurlo di sopra nella sua
domestica dimora. Ci trovarono la madre e la figliuola modestamente ma
con graziosa pulitezza vestite, in un modesto salotto da cui però non
erano esclusi i comodi della vita, alacremente occupate ai loro
donneschi lavori. Maggiore ancora che altrove era in quel salotto
l'ambiente di pace, di amorevolezza, di onestà: tutto il pregio della
cara vita domestica, le delizie degli affetti famigliari che ha seco per
prezioso corteo la donna virtuosa, madre, sposa, figliuola, si trovava
colà raccolto, rappresentato in quelle modeste e benigne figure
femminili, attempata una, fanciulla l'altra.

Maurilio, ricevuto con molta gentilezza, con quella cara espansività di
grazia muliebre a cui nulla può paragonarsi, rammentò in quel punto come
vi fosse stato un tempo in cui il signor Defasi, così generosamente
affettuoso per lui, non avrebbe fors'anco negato di dargli nella sua una
famiglia, di regalargli con quella mite giovanetta la felicità della
vita. Pensò quanto diverso, quanto lieto sarebbe stato il suo destino;
quanto migliore fors'anco sarebbe diventato egli stesso... Ma ora era
troppo tardi! Soffocò un sospiro e ridomandò al signor Defasi quel
colloquio che già gli aveva accennato.

Invaso, per così dire, da quell'atmosfera d'onestà in cui si respirava
il sentimento del dovere, nella quale viveva quell'ammirabile famiglia,
il nostro giovane s'era sempre più risoluto a svelar ogni cosa al suo
antico principale e seguirne i consigli, nè aveva il menomo dubbio su
quello che il galantuomo gli avrebbe consigliato.

Narrò dunque da capo a fondo quello che riguardava la scoperta della sua
creduta famiglia e le lettere del supposto suo genitore, narrò ciò che
sapeva di Gian-Luigi e quel di più che aveva potuto argomentare dai
fatti di lui dal momento che, dopo lungo intervallo, l'aveva rivisto
quella sera nella taverna di Pelone, e conchiuse che questo tale stava
per isposare la ragazza d'un'onoratissima famiglia, sorella d'un amico
suo.

Nel signor Defasi non ci fu la menoma esitazione ad esprimere colle
parole che dettava il buon senso que' consigli che gl'ispirava la
rettitudine dell'animo. Erano quali Maurilio aveva pensati e quali era
ormai risoluto di porre in atto senza fallo. Uscì di là colla
determinazione di svelare al marchese la circostanza delle lettere di
Gian-Luigi, di correre da Francesco Benda a fargli conoscere qual fosse
l'uomo che stava per isposare sua sorella.

Siccome quest'ultima bisogna premeva di più, fu la prima che imprese, e
con sollecito passo s'avviò verso lo stabilimento del fabbricante di
ferro.

Quei locali, che solevano essere così rumorosi sempre per la quotidiana
attività del lavoro, erano ora silenziosi come un cimitero. Le traccie
dell'incendio nel fabbricato in fondo al cortile davano a quella
solitudine l'aspetto della desolazione. Maurilio venne sino al portone
di cui lo sportello aperto lasciava scorgere la vista dell'interno e non
ebbe il coraggio di entrare. La timidità della sua natura l'aveva tutto
ripreso ed era il più impacciato del mondo. Come si sarebb'egli
presentato in quella casa? domandavasi: quali parole usate? con che
faccia abbordato il difficile argomento? Fece due o tre giri innanzi
alla porta: ma conveniva pur decidersi alla fine: dopo le parole del
signor Defasi, meglio ancora di prima e' vedeva in quell'atto un dovere
cui gli bisognava compiere assolutamente. Si fece forza ed entrò. La
voce burbera di Bastiano, che aveva ancora la testa fasciata ed in corpo
un umore terribile, lo venne arrestare ai primi passi colla domanda
fatta in tono feroce:

— Che la vuole? di chi cerca?

Maurilio diede in una scossa quasi di paura.

— Cerco, rispose con esitazione e quasi balbettando..., vorrei.... se ci
fosse il dottor Quercia....

Bastiano diede un'occhiata sospettosa a quel personaggio così impacciato
nelle parole. Se avesse avuto panni da povero, l'avrebbe creduto un
cercator d'elemosina e l'avrebbe rinviato senza tanti discorsi. Vistolo
riccamente vestito, il portinaio si contentò di bruscamente rispondere:

— Il dottore in questo momento non c'è.

Maurilio rimase lì stecchito, senza muoversi, senza saper più che dire,
senza consiglio.

— Ha capito? gli disse dopo un poco Bastiano alzando la sua grossa voce,
come se avesse da parlare ad un sordo: il dottore non c'è, nè so quando
sia per venire, nè qui è luogo da stare ad aspettarlo.

— Allora vorrei parlare con Francesco: disse finalmente Maurilio che
sentiva l'obbligo di non uscir più senza tutto aver tentato per compire
il suo ufficio.

— Francesco! esclamò più ruvidamente ancora il portinaio offeso di tanta
famigliarità pel suo padroncino in uno sconosciuto. Il sor avvocatino la
vuol dire?

— Sì... appunto... l'avvocato Benda.

— E' gli è a letto... La lo dovrebbe sapere, chè se n'è parlato
abbastanza per tutta Torino da empirne le orecchie di tutti... E non
riceve nessuno.

— Lo so che gli è a letto, ma ho pure inteso che sta meglio di molto, ed
è gran mestieri ch'io gli parli per cose che importano gravemente. Sono
molto suo amico io e sono certo che appena udito il mio nome mi vorrebbe
ricevere.

— Sì? domandò il bravo Bastiano di subito un po' rabbonito, ma guardando
con cera attenta e scrutativa quel cotale, per vedere se gli era un
impostore. Se la è così me lo dica a me il suo nome, ed io lo faccio
passare al sor avvocatino che deciderà quello che vuol fare.

— Sarà meglio anzi ch'io scriva due righe per chiedergliene udienza:
disse Maurilio, ed avuto dal portinaio l'occorrente vergò poche parole
che furono tosto fatte ricapitare nelle mani di Francesco.

Questi nel leggere il biglietto di Maurilio provò un senso che per poco
non era di ripugnanza e disgusto. Per quel trovatello, se Francesco
aveva partecipato ai generosi sentimenti di compassione che avevano
verso di lui i comuni amici, non aveva però mai sentita nissuna vivacità
di simpatia nè vera tenerezza d'affetto: ultimamente, quando, arrestato,
fu introdotto in presenza del Commissario, Benda, se vi ricorda, aveva
udito da quest'ultimo, come quel giovane fosse stato accusato d'un
orribile delitto e sostenuto molto tempo in carcere. Egli non aveva
punto creduto che di quel delitto Maurilio fosse veramente colpevole,
l'umana giustizia stessa aveva dovuto riconoscerlo innocente, se lo
aveva rilasciato libero; ma pure l'apprendere allora una simile
circostanza sempre ignorata, non era concorsa a sminuire quel certo
allontanamento fra il suo e l'animo del trovatello, allontanamento, il
quale, senza ch'essi lo volessero, e fors'anco se ne accorgessero, da
qualche tempo si faceva maggiore per effetto del loro istinto di rivali
in amore. Tuttavia ricevendo ora la preghiera di un colloquio per cose
importanti, e temendo potessero queste cose avere attinenza colla loro
fallita congiura politica e colla sorte dei comuni amici, non credette
poter fare altrimenti che ordinare lo s'introducesse.

Maurilio entrò più timido ed impacciato che mai. Appena dentro a quella
stanza, in presenza di quel giovane pallido e nel suo pallore più
leggiadro, lo assalse il pensiero ch'egli amava Virginia e n'era
riamato, e questo pensiero accrebbe il suo turbamento; gettò uno sguardo
sul giacente, e negli occhi di lui vide una diffidenza ed un sospetto
che lo offesero senza dargliene coraggio. Annaspò le parole per
ispiegare la ragione della sua venuta e cominciare il suo discorso e non
seppe trovar cosa che valesse.

Il suo contegno era dunque tale da ispirar poca fiducia anche in chi non
fosse mal prevenuto a suo riguardo. Il sor Giacomo, che si trovava
presso suo figlio, credendo alla sua presenza doversi attribuire la
difficoltà di parlare in Maurilio, volle partirsi; ma il giovane lo
pregò anzi rimanesse perchè le cose che aveva da dire era opportunissimo
le udisse egli pure. Allora chiamò in aiuto tutto il suo coraggio e
saltò a pie' pari in mezzo dell'argomento. Narrò dell'infanzia sua e di
Gian-Luigi: chi fossero ambedue, d'onde venissero, come allevati; disse
dei veri rapporti del suo compagno col medico che l'aveva fatto
allevare, dell'ingratitudine di lui verso la donna che lo aveva nutrito,
della misteriosa sorgente di quei denari che ora il sedicente dottore
spendeva e spandeva, delle attinenze ch'egli stesso, Maurilio, aveva
scoperto avere Gian-Luigi colla feccia della plebe, quando era entrato
per caso nella taverna di Pelone, ripetè le proposte che l'antico suo
camerata era venuto a fargliene, svelò a Francesco che quello era il
misterioso personaggio il quale, come aveva rivelato Mario Tiburzio,
nella progettata insurrezione doveva recare il soccorso della sommossa
plebea, il quale poteva perciò dirsi il promotore ed il risponsabile di
quella medesima riotta di cui essi, i Benda, erano rimasti vittime.

Padre e figlio si guardavano meravigliati, incerti, più increduli che
altro; nè sapevano ancora qual risposta dare, qual risoluzione prendere,
quando nella camera vicina venne udito il passo affrettato e deciso d'un
uomo, poi la porta s'aprì vivamente e comparve sulla soglia Luigi
Quercia medesimo, con una fiamma terribile di sdegno e di minaccia
nell'occhio nero, con un fremito di furore che ben dominava egli
tuttavia, ma che stava per prorompere.



CAPITOLO XX.


Gian-Luigi aveva, si può dire, ammaliato tutta la famiglia Benda; mercè
i falsi documenti aveva provato al padre di Maria tutto quello che aveva
voluto, mercè l'appassionato amore che aveva desto nell'animo della
fanciulla era riuscito ad aver questa efficace aiutrice al suo disegno:
sposarla e partire, aveva i congiunti indotti a consentirvi. Quella
mattina in cui Maurilio s'era risoluto a quel dilicato e difficil passo,
Quercia recavasi ad ora più presta del solito dalla sua sposa, quando
nel passare innanzi alla loggia del portiere venne da questo avvertito
che un cotale con sembianza di questo e quel modo, chiesto prima di lui,
aveva poscia ottenuto d'essere accolto dall'avvocatino, a cui affermava
aver cose importantissime da dire, mercè un biglietto scrittogli nello
stesso camerino del portinaio.

Quercia, che sospettoso era e sempre in sulle guardie già per natura, e
che tanto più era divenuto cauteloso e diffidente in quegli ultimi
giorni in cui stava giocando col suo destino l'ultima posta, temette di
subito in quel visitatore un nemico, un accusatore, un rivelatore di
verità che troppo a lui interessava rimanessero ignote. Dalle risposte
che Bastiano diede alle sue numerose, pressanti, rapide interrogazioni,
venne egli a concepire il sospetto che quello fosse Maurilio, e
l'intromettersi di costui egli non dubitava il meno del mondo non
volesse essere in suo favore. Salì affrettatamente, entrò improvviso
nella camera di Francesco dove aveva inteso essere quel cotale. Veduto
Maurilio e l'espressione della faccia di lui, veduto con un sol colpo
d'occhio il contegno dei Benda, badato al silenzio pieno d'impaccio che
successe alla sua venuta, Quercia capì che tutti i suoi sospetti avevano
ragione, che in Maurilio eragli ora sortogli innanzi un ostacolo cui
bisognava levare e tosto, a prezzo anche di schiacciarlo. Il furore che
aveva cominciato a sobbollire nella sua fiera anima impetuosa al primo
dubbio di quel pericolo, si levò potente ed efferato, ma la sua volontà
più forte d'ogni cosa riesciva a dominarlo tuttavia e, per dir così,
regolarlo. Incrociò le braccia al petto e camminò lentamente verso
Maurilio guardandolo fiso con occhio feroce, di cui la significazione
ben era chiara al giovane commosso.

— Sconsigliato, diceva, osi tu venirti a porre inciampo sul mio cammino?
Sai pure che vo' giungere alla meta che mi assegno, e chi mi si oppone
infrango.

Maurilio chinò innanzi a quelli di Gian-Luigi i suoi occhi, e dal
rispettivo contegno di que' due parve nel primo fosse il colpevole, nel
secondo l'autorevole accusatore.

— Che cosa è che succede qui? domandò poscia Gian-Luigi levando lo
sguardo dal suo compagno d'infanzia e facendolo scorrere sicuro,
investigatore, un po' stupito e quasi offeso sopra i Benda padre e
figlio. Se bado al vostro contegno, o signori, se argomento dalla
presenza e dall'imbarazzo di costui devo credere che son giunto a tempo
per udir cose che mi riguardano.

Il tono con cui egli pronunziò la parola costui accennando con un moto
disdegnoso del capo a Maurilio era così pieno di superbo disprezzo, che
Maurilio si sentì come una sferzata traverso la faccia; arrossì egli,
impallidì, levò lo sguardo col proposito di cimentarlo contro lo sguardo
di Gian-Luigi, ma non potè reggere allo scontro e riabbassò le pupille
sentendosi nell'anima un'angoscia, nel petto un affanno che era pena,
che era sgomento e che gli faceva temere fosse per assalirlo uno
svenimento.

Quercia continuava con più fierezza:

— E poichè gli è questo cotale che vien qui a parlare di me, ben posso
già indovinare fin da prima di che fatta discorsi egli ha osato tenere
ed a che scopo egli mira. Or bene, parla in mia presenza, miserabile, se
l'ardisci, e ripeti, continua e compi le calunnie che ti sei determinato
a vomitare a mio carico.

Maurilio sussultò sotto il fiero oltraggio. La soverchia offesa per
effetto di reazione gli diede un po' di coraggio: levò risoluto la
testa, un lieve rossore salì alle sue guancie macilente che s'erano
fatte color della cenere, ardì volgere e tener fisso lo sguardo sul
volto leggiadro ed ora spaventosamente feroce di Gian-Luigi, sulla cui
fronte era incavata quella ruga caratteristica, fatale contrassegno del
suo furore. Il _medichino_, egli, guardava il suo avversario con quel
modo con cui il domatore di belve guarda la tigre che accenna
rivoltarglisi, con quel modo con cui aveva fissato _Stracciaferro_,
prima di domarlo colla forza delle membra, quando l'assassino aveva
voluto resistergli. E forse Maurilio ora dallo sdegno del vivo affronto
ricevuto avrebbe attinto abbastanza coraggio per reggere a quell'urto,
se in quel momento, per sua sventura, una nuova impressione non gli
fosse stata prodotta dalla vista delle sembianze di Gian-Luigi. Benchè
animata allora da quel profondo sentimento d'odio e di furore, la beltà
scultoria delle fattezze di lui non ne veniva punto alterata, e quella
beltà nella memoria di Maurilio trovava riscontro in altri stupendi
lineamenti di viso umano visti, contemplati, vagheggiati con attenzione,
con espansività d'affetto da poco tempo, la sera precedente soltanto: i
lineamenti dipinti nel ritratto della contessa Aurora di Castelletto,
ch'egli aveva ammirato, innanzi a cui era rimasto con profonda emozione
stampandosene i tratti nell'anima perchè credeva stamparvisi i tratti
del volto della propria madre. Era innegabile, evidente a chiunque vi
ponesse attenzione, la rassomiglianza fra le sembianze di Gian-Luigi e
quelle del ritratto. Egli rassomigliava assai più alla defunta contessa
di quello che le rassomigliasse Virginia; e nella rassomiglianza alla
madre era un punto di contatto fra le sembianze della contessina e
quelle del sedicente dottore, punto di contatto che sfuggiva a chi non
paragonasse i loro volti a quel terzo termine di confronto. Maurilio non
dubitò menomamente più che gli stesse dinanzi il vero figliuolo della
sorella del marchese di Baldissero e di Maurilio Valpetrosa, e ciò lo
rese turbatissimo, più che non fosse ancora stato fino allora in quella
scena difficile e penosa.

Con qual fronte resistere egli a colui, venirsi a fare accusatore e
procurare l'infamia e il danno di colui al quale egli, innocentemente è
vero, era venuto a togliere il grado, il nome, la fortuna? In presenza
di questo strano avvenimento qual era ancora il suo dovere? Le idee gli
si abbuiavano a questo riguardo, e la commozione, la meraviglia, il
dispiacere non gli consentivano prontezza nessuna d'avviso. E lo turbava
quel rapporto di lontana somiglianza che gli appariva fra i tratti di
Gian-Luigi e quelli di Virginia; in mezzo a quei tanti sentimenti che
gli tumultuavano nell'anima, egli si sorprendeva a raccogliere tutta la
sua attenzione nell'investigare in che consistesse la parità e la
differenza fra quei due volti a così diverso titolo cotanto impressi
nella sua mente, a cercare sotto i tratti di lui quelli adorati della
fanciulla.

Ogni parola venne meno alle labbra tremanti di Maurilio, ogni voce mancò
alla sua gola serrata.

Giacomo Benda credette allora ufficio suo ricapitolare in breve quanto
il giovane era venuto sino allora esponendo. Quercia, che dominava
sempre più il suo furore, benchè questo punto non scemasse, ascoltava
con un sogghigno di fiero disprezzo, qual può avere innanzi alla più
vile calunnia l'innocenza superba e superiore ad ogni arrivo
d'oltraggio.

— Mirabile ed accorto tessuto d'infamie! esclamò egli poi con vece
fremente, che, quantunque contenuta, vibrava come il suono chiaro e
squillante d'una tromba. La calunnia vi è tanto meglio architettata che
si prende a base una parte della verità. Che io sia stato allevato al
villaggio e con costui, ve lo dissi io stesso; che la donna la quale mi
fu nutrice viva colà modestamente della vita che sempre fece e le
piacque fare, è pur vero, perchè le sorti in cui ella è nata e in cui
visse pur sempre non le piacque mutar mai per quante istanze glie ne
facessi; ma costui medesimo, che ora mi accusa, videmi, non son passati
che pochi giorni, recarmi io stesso colà a riabbracciar quella donna, a
recarle un migliaio di lire, a fare per lei tutti quegli atti che verso
una madre ad un figlio amoroso s'addicono: e sfido l'impudenza di questo
sciagurato a darmi una smentita.

Fece una pausa; Maurilio avrebbe voluto parlare, ma la lingua gli
aderiva al palato, le labbra gli parevano irrigidite, non un soffio di
voce glie ne venne alla gola.

Gian-Luigi riprendeva:

— Sì, io ho partecipato ai folli sogni della redenzione della patria di
quell'animo intemerato che è Mario Tiburzio; come voi pure, Francesco,
vi avete partecipato; sì, io offrii a quella santa causa il concorso
della plebe, perchè mi feci l'illusione che per mezzo di parecchi fra
essa che mi sono devoti per affetto di gratitudine, avrei potuto
guidarla a mio talento, ma coll'empie passioni demagogiche del
proletario io non ebbi nulla mai che fare; fui visto, è vero, da
codestui in una miserabile stamberga di bettola, vestito da popolano, e
fu ventura che arrivassi a tempo a salvare chi ora si fa mio
calunniatore, dall'ira di operai ch'egli aveva, non so come, provocata;
ma s'io m'immischio colla povera gente e talvolta vestito de' loro abiti
per non dar loro nè soggezione, nè antipatia, nè sospetto, penetro nei
luoghi dei loro ritrovi, come nelle miserabili loro abitazioni, si è
perchè ricco e disoccupato com'io sono, volli a me stesso imporre un
còmpito: quello di soccorrere i miei fratelli nella miseria, in quella
miseria che sarebbe pure stata mio destino se l'intravvento di quel mio
protettore, se il rimorso de' miei nemici non avesse poscia in parte
riparato al male che fu fatto al povero fanciullo. Io vado recando agli
infelici che soffrono di fame, di malattia, di disperazione, non poco
dell'oro della mia borsa, il contributo della mia scienza, il conforto
d'un'amica parola. Ecco il modo onde acquistai attinenza e sperai aver
acquistato influsso in quel mondo tenebroso ed agitato che sobbolle come
una minaccia sotto i piedi delle classi agiate — di noi. Quando a costui
favellai de' miei intendimenti a tal proposito, non dissi altro che
questo. Ancora una parola e finisco, sdegnoso e vergognato d'avermi
avuto a difendere da tali accuse e da tale accusatore. Questi fu sempre
mio nemico, perchè l'invidia lo rose pur sempre dei successi dovuti in
parte ad una fortuna — lo confesso — che forse è compenso datomi dalla
Provvidenza, ma in parte eziandio alla mia attività ed intelligenza.
Quelle passioni di cui egli accagiona me, fremono nel suo animo
inasprito, feroce insieme e codardo. Ora mi ha visto presso a metter la
mano sulla più cara felicità che uom possa desiderare. Ha voluto venir
cacciare frammezzo l'arte sua di malevolo. Ma di quanto io dissi sul
conto mio, di quanto vi affermai di essere, io diedi prove di documenti;
or dica egli se pur di una delle sue accuse può dare una sembianza di
prova.

Tacque come aspettando risposta: Maurilio, diventato sempre più pallido,
non parlò.

— Credereste voi dunque più che alla mia parola, più che alle mie prove,
alle semplici ciancie d'un tale individuo?

In quella l'uscio si aprì, ed entrò sollecita Maria che aveva notata la
venuta dello sposo ed accostandosi alla camera di suo fratello aveva
udito il suono alto e l'accento accalorato della voce di lui.

— Luigi, esclamò ella, che c'è?

Quercia le andò incontro e la prese per mano.

— Maria, disse con quella famigliarità cui già legittimava l'intimità
dei rapporti in cui erano: ecco un uomo che viene ad accusarmi di
sleale, di mentitore, di baro, e di nemico della vostra famiglia;
guardateci ambedue, e dite chi si ha da credere fra lui e me che mi
affermo innocente.

Nissuno sarebbe stato perplesso nella risposta, così era sicuro,
animato, trionfante l'aspetto di Gian-Luigi, tanto era smarrito,
confuso, disfatto quello di Maurilio; ed una donna può ella mai esitare
nel riconoscere l'innocenza dell'uomo che ama?

Maria si gettò al collo di Quercia.

— O mio Luigi, esclamò con passione, tu sei l'angelo mio.

Maurilio, nella dolorosa confusione in cui era la sua mente, capì pure
che tutto era detto, che la sua causa era perduta, che gli rimaneva
solamente di partirsene scornato, colla vergognosa nota d'un
calunniatore impotente. Come fece egli per torsi di là? Non avrebbe
saputo dirlo. Il vero è che si trovò fuor della casa, sul viale,
intronato, quasi barcollante, sentendosi ancora alle orecchie come suono
di sferzate, il suono delle parole di Gian-Luigi.

Quella sera medesima avevano luogo, come se nulla fosse intravvenuto,
gli sponsali di Luigi Quercia e di Maria Benda.

Era stato desiderio espresso di Quercia che nessuna festosa solennità,
nessun fasto accompagnasse la firma del contratto degli sponsali:
desiderio a cui s'affrettarono di aderire i parenti della sposa e la
sposa medesima, siccome quello che stava pure nell'animo loro, e veniva
consigliato dalle circostanze medesime in cui si trovavano, le
conseguenze cioè del tumulto degli operai e l'infermità di Francesco.
Nella camera di quest'ultimo la sera avevano luogo gli sponsali e, fuori
de' più prossimi congiunti di cui non poteva evitarsi la presenza, una
mezza dozzina di persone, non vi assisteva alcun invitato.

Lo sposo, Luigi Quercia, qualificatosi per dottore in medicina e in
chirurgia, aveva recato seco e presentato all'atto delle promesse la
somma di cento mila lire in biglietti di banco francesi che dichiarava
voler costituire in aumento dotale alla sua dilettissima sposa e
lasciava al suo futuro suocero perchè, celebrato il matrimonio,
investisse in altrettante cedole del debito pubblico piemontese (allora
in grandissimo pregio) nominativamente intestate alla sposa medesima:
questa, Maria Benda, portava in dote al marito ottanta mila lire in oro
ch'egli ritirava all'atto medesimo. Le due somme, i biglietti di banco a
fasci di dieci da lire 50 ciascuno, e i napoleoni d'oro a torricelle di
venticinque ognuna, stavano sopra la tavola a cui sedeva il notaio che
rogava il contratto, fra due massicci candelabri d'argento.

Vario era il contegno dei diversi personaggi che partecipavano a quella
scena; Maria, essa, posseduta da un'intima letizia che non si
scompagnava dall'agitazione, passava da un caro pallor delle guancie ad
un rossore più caro ancora, i suoi occhi si tenevano più volentieri
chinati a terra, ma talvolta però si levavano verso il suo sposo e
lampeggiavano d'una viva luce soave; egli, lo sposo, aveva l'orgoglio
temperato e l'allegria di buon gusto d'un trionfatore modesto; in ogni
sua mossa, come in ogni parola appariva l'uomo di squisito sentire, di
carattere delicato e di perfetta educazione; solamente chi avesse
conosciuto a fondo la variabilità d'espressioni di quella fisionomia
così soggetta alla volontà, avrebbe potuto notare una lieve mostra come
d'inquietudine, nella vivacità di certi sguardi, quasi un'impazienza che
quelle formalità durassero cotanto, un desiderio che tutto fosse finito
al più presto. La madre di Maria, come tutte le madri in simili
circostanze, era dominata da una commozione cui mal poteva frenare, e
spesso le si riempivano di lagrime gli occhi che teneva rivolti con
immenso affetto sulla figliuola. Il sor Giacomo aveva nell'animo qualche
cosa ancor egli che non lo lasciava del tutto contento. Aveva
liberamente e lietamente acconsentito a quel maritaggio con tanta
ardenza desiderato dalla figliuola, che doveva procurarne la felicità, e
cui credeva sotto ogni rispetto convenevole; sedotto ancor egli dalle
brillanti qualità dello sposo, persuaso per prova di fatto della
generosità dell'animo di lui, gratissimo verso di esso per quanto aveva
fatto in pro della famiglia, aveva pur sentito nascergli in cuore per
quel giovane una simpatia che già era quasi un affetto, e tuttavia a
questo momento, fosse inesplicabile istinto, fosse inavvertito effetto
delle accuse udite da Maurilio, non credute ma che, ciò nulla meno, come
quasi sempre d'ogni accusa suole accadere, avessero lasciata traccia, il
vero era che egli sentiva una specie d'agitazione, una mala voglia che
non si sapeva spiegare. Francesco, debole ancora, propenso per indole e
per la propria condizione a desiderare ed allietarsi nel veder
soddisfatto un reciproco amore, non provava che una affettuosa tenerezza
per la gioia della sorella.

Il notaio leggeva lentamente, con quel tono di voce e quell'accento
speciale di questi pubblici ufficiali che tutti conoscono, le clausole
del contratto. Gli sposi il domattina dovevano celebrare il matrimonio
alla parrocchia e partire immediatamente alla volta della Francia.

La lettura era finita: si procedette alle firme. Vi appose prima la sua,
non senza un legger tremito, Maria; poscia lo sposo. Nel passare la
penna alla suocera, Quercia drizzò l'orecchio e, senza che alcun altro
nulla udisse ed a questo suo atto badasse, stette intentissimo ad
ascoltare. Il finissimo suo senso dell'udito era stato percosso da un
lontano susurrio, da un penetrar di gente sotto il portone, da uno
scambio di parole. Egli, a buona ragione sospettoso di tutto, si
ritrasse indietro con moto naturalissimo e s'accostò lentamente alla
finestra. Maria, che non aveva occhi, che non aveva anima, che non aveva
vita che per lui, gli venne presso; egli, vivamente preoccupato com'era,
tutte le sue facoltà concentrate, per dir così, nell'intentività
dell'udito, ebbe pure l'arte e la forza di sorriderle e di prenderla per
mano.

— Cara, le disse traendola verso la finestra come volendo isolarsi con
lei dal resto delle persone presenti: cara, tu sei mia finalmente, e il
primo sacro vincolo ci ha avvinti di quella dolce catena che deve
tenerci uniti per tutta la vita.

Ella non sapeva che dire, non poteva parlare, tremava in tutte le fibre
d'un tremito soave; lo guardava e sorrideva.

Gian-Luigi aprì le imposte di legno della finestra e guardò fuori
traverso le invetrate. Quella finestra s'apriva dalla parte del cortile
in una delle due ale che si stendevano verso la fabbrica incendiata. Il
tempo s'era rimesso al bello e batteva la luna. Sulla neve del cortile
Quercia vide stendersi l'ombra di parecchi uomini.

— Che siano dessi? pensò; mi sembrano in pochi, tre o quattro tutt'al
più: ne avrei facilmente ragione.

Misurò l'altezza del ripiano a cui si trovava.

— In caso di bisogno, soggiunse, sono capace di far salti anche maggiori
di questo.

Tastò nelle saccoccie dove teneva due pistole corte e ne accarezzò il
calcio colla destra che si era sguantata per firmare, e frattanto
sorrideva sempre alla fanciulla innamorata.

Ma le sue orecchie non l'avevano ingannato; un rumore di passi e di voci
venne diffatti accostandosi vieppiù fino a che giunse nella camera che
precedeva, dove parve risolversi in un contrasto. L'ultima delle persone
presenti aveva appunto allora finito di sottoscrivere; chè tutti,
secondo l'uso, avevano voluto apporre a quell'atto la loro firma;
Giacomo Benda, stupito come gli altri di questo incidente, si tolse di
mezzo alle congratulazioni ed ai complimenti dei congiunti, ed andò
verso la porta dicendo:

— Vo a vedere che cos'è questo rumore.

Gian-Luigi parlava sempre con Maria nella strombatura della finestra, e
frattanto aveva pian piano alzato il palettino di sotto e fatto girare
il gancio di sopra che tenevano chiuse le invetrate; Maria non
s'accorgeva di nulla di quanto avveniva intorno a lei, non vedeva nulla
fuori delle pupille nere del suo sposo che seguitavano ad affisarla con
una fiamma che le sembrava di vivo amore.

Mentre il sor Giacomo stava per metter mano alla gruccia della serratura
dell'uscio, questo si aprì spinto dal di fuori, ed apparve Bastiano
tutto conturbato.

— Che cos'è? gli chiese quasi severamente il padrone.

Il gigantesco portinaio chinò la sua alta persona verso l'orecchio di
sor Giacomo e gli disse con un certo piglio d'ansietà, di disgusto e di
timore:

— V'è un cotale che vuole ad ogni costo entrare.....

— Gli è matto: interruppe parlando forte il signor Benda. Entrare! Qui,
a quest'ora? Perchè? E che pretende?

Tutti gl'invitati, la cui curiosità era solleticata ed in cui era nata
un'inesplicabile aspettazione, si avvicinarono al padron di casa e
fecero gruppo dietro di lui.

Bastiano, parlando sempre più sommesso rispose:

— Non è un matto; gli è un agente di polizia, con una mano d'arcieri.

Queste parole furono pronunciate pianissimo, ma pure, tanto era il
silenzio che s'era fatto, che furono udite da un capo all'altro della
stanza; da tutti, fuorchè da Maria. Il sor Giacomo aggrottò le
sopracciglia; Francesco sul suo letto si tirò su a vedere con moto più
vivace che non avrebbe ancora dovuto; la signora Teresa levò le mani
verso il cielo spaventata: gl'invitati allibirono, e più d'uno, temendo
d'essere compromesso, si pentì d'esser venuto.

— Ancora la Polizia! esclamò indignato il padron di casa. Che cosa mi si
vuole, per Dio?

— Falli entrare, padre mio, gridò Francesco dal suo letto, falli entrare
e vedremo tosto con che pretesto si viene a turbare nei momenti più
solenni la pace d'una famiglia, a violarne il domicilio.

Queste parole parvero molto audaci alla maggioranza dei presenti che
furono sempre più pentiti di trovarsi in quel luogo.

— Ebbene, vengano: disse bruscamente il signor Benda.

Bastiano non ebbe che ad aprire un battente. Sulla soglia si presentò la
faccia scialba d'un uomo, cui Gian-Luigi, dalla finestra ove si trovava,
riconobbe subito con dispetto per quella di Barnaba.

— Sciagurato d'un _Graffigna_: diss'egli fra sè: gli è proprio diventato
buono da nulla. Ora sì che son perduto. Chi sa?...

Aprì pian piano l'invetrata e il suo occhio corse rapidamente su due
punti: all'uscio per cui entravano gli uomini della Polizia ed al
tavolino sul quale erano le torricelle lucenti dei napoleoni d'oro.

Barnaba s'avanzò nella stanza, e dietro di lui si schierarono in fila
quattro brutti ceffi che non mentivano colle sembianze il loro essere di
arcieri travestiti.

— Non si sgomentino, disse il poliziotto che camminava ancora a stento,
appoggiandosi ad un bastone: non siamo venuti che per arrestare il
sedicente dottore Luigi Quercia.

La vecchia similitudine dell'effetto che produce un fulmine precipitato
a ciel sereno, non può menomamente esprimere lo stupore di
quell'adunanza alle parole dell'agente di Polizia.

Stettero lì, intenti tutti quanti, guardandosi, mentre Barnaba con una
rapida occhiata mandata in giro si rendeva conto della situazione
materiale delle cose per decidere del modo più opportuno di agire. Vide
Quercia nel vano della finestra e fra sè e lui frammezzare il gruppo
degl'invitati, il tavolino su cui era stato rogato il contratto e il
notaio che si levava allora esterrefatto, e per ultimo Maria che
all'udire le parole del poliziotto s'era gettata al petto dello sposo,
come per fargli scudo della sua persona.

Il _medichino_ ancor egli guardava codesto e pesava le circostanze di
tal disposizione di persone e di luoghi per servire al suo scampo. Non
aveva menomamente perduto del suo sangue freddo, nè aveva smesso il suo
superbo sorriso. E pensava:

— Fortuna traditrice! Nel migliore la mi manca. Due giorni avesse
tardato i suoi colpi!... Qualcheduno mi ha tradito.... chi?... Lo saprò,
e allora!... Intanto sfuggiamo alle loro unghie... Potessi almeno
arraffare eziandio parte di quel denaro!...

Barnaba aveva visto le invetrate aprirsi cautamente sotto la mano di
Quercia. Se le forze glie lo avessero concesso, si sarebbe slanciato
egli medesimo addosso all'uomo da arrestarsi: ma egli appena si reggeva
in piedi.

— Eccolo, gridò additandolo ai quattro seguaci, eccolo là alla finestra:
presto, afferratelo, ch'ei non ci sfugga.

Ma gli uomini avevano da passare in mezzo al gruppo degl'invitati che
avevano assistito al contratto, i quali senza punto volerlo, ma per
l'attonitaggine in cui erano, stavano piantati a fare ostacolo; e quindi
avevano da schivare il tavolino che si trovava nella linea retta da loro
al _medichino_.

— Sì, sono qua, gridò questi con una temeraria ironia; ma non mi ci
avete ancora preso, signori miei.

Erasi accorto che doveva rinunziare a far bottino di quei bei napoleoni
d'oro che splendevano sulla tavola, e n'aveva un dispetto da non dirsi;
appena appena se gli era possibile la fuga per la finestra. Si sciolse
dall'amplesso di Maria che stava palpitante sul suo seno; la rigettò
bruscamente contro i quattro uomini che si slanciavano su di lui; colla
rapidità del lampo fu sul parapetto della finestra e di là nel cortile.

Maria strammazzò nelle gambe degli _arcieri_, mandando un grido, e colla
sua caduta li arrestò un istante.

Barnaba, fatto più pallido, le labbra contratte dall'ira, gridava:

— Su, su, animali, buoni da nulla: fategli fuoco addosso; ch'e' non ci
sfugga, alla croce di Dio!

Quando gli _arcieri_ giunsero ad affacciarsi alla finestra, videro un
uomo che si dibatteva in mezzo a quattro altri ond'era circondato; si
udirono due colpi di fuoco, due dei quattro caddero e quello che era
stato aggredito fu visto fuggire con una rapidità straordinaria verso le
macerie della fabbrica incendiata.

— E' ci scappa, e' ci scappa: gridava furibondo Barnaba, giunto ancor
egli alla finestra. Fuoco, fuoco, su di lui.

Fu salutato dallo sparo di parecchie pistole, ma inutilmente: egli era
sparito.

Giacomo e Teresa erano accorsi a sollevare la figliuola; indicibile era
l'emozione in tutti.

— Signore, disse poscia il signor Benda con voce tremante dal turbamento
e dallo sdegno; si può almeno sapere a che titolo si voglia procedere
all'arresto del dottor Quercia?

Barnaba rispose con feroce crudità:

— Perchè gli è un ladro, un falsario ed un assassino. È il capo di
quella tremenda banda che chiamasi la _cocca_, ed è il soprannominato
_medichino_.

Maria non ebbe pur la forza più di mandare un grido; appoggiata com'era
alla spalla del padre si lasciò andare smarrita nelle braccia di lui, ed
egli l'adagiò sopra il sofà, priva affatto di sensi.

L'occhio del poliziotto era caduto sulle polizze di banca francese che
stavano sopra il tavolino.

— Ed ecco appunto, diss'egli, dei falsi biglietti di cui
quell'associazione di malfattori aveva la fabbrica.

E li sequestrò. Diede ordine tosto s'inseguisse da ogni parte il
fuggitivo.

— Oh! lo piglierò, diss'egli fra i denti, lo piglierò ad ogni modo.

Il padre e la madre di Maria erano intorno a lei desolati; i testimoni
di quella scena non rinvenivano dall'attonitaggine in cui erano caduti,
non sapevano che farsi nè che dirsi; alcuni, quelli che avevano meno
perduto il cervello, eransi partiti di cheto.

Barnaba si affrettò ad andarsene. Scendendo trovò i poliziotti che aveva
lasciati a guardia nel cortile, scornati, timorosi, mortificati; avevano
levati di terra e posti sotto l'atrio i cadaveri dei loro due compagni
stati uccisi dal _medichino_. L'agente della Polizia non fece loro il
menomo rimprovero; solamente li guardò con un occhio che parve loro più
severo d'ogni parola. Fu ad un giovinastro tarchiato e tozzo, dall'aria
scema, che Barnaba diresse una rampogna.

— E tu, imbecille, non sei stato da tanto di aggrapparti a lui e non
lasciarlo muover più? Ora egli ci scapperà per sempre, conducendo seco
la tua Maddalena.

Gli era Meo, che Barnaba aveva voluto condur seco, nella speranza che
gli sarebbe stato utile.

Lo stupido rispose con voce quasi piagnolosa:

— E' fu così lesto ch'io appena ebbi tempo a vederlo; quando accorsi
egli era già via; ma se mai lo trovo ancora a tiro della mia mano, le
giuro per la Madonna della Consolata, che non mi scappa più.

— Ah sì: mormorò Barnaba: ma il difficile ora sta appunto nel
ritrovarlo. Andiamo.

Camminando verso la città, il poliziotto pensava:

— Dove può egli ricoverarsi pel momento? Nella sua dimora abituale, mai
più. Nella palazzina del viale, difficilmente. Però or ora le passeremo
dinanzi ed osserveremo... Più probabilmente dalla Zoe.

In breve giunsero alla casina dei segreti ritrovi; Barnaba s'arrestò,
fece arrestare in perfetto silenzio la sua scorta e si pose ad osservare
attentamente. L'abitazione era muta e scura per l'affatto, nè si aveva
un menomo indizio che vi fosse anima viva. La neve caduta i giorni
addietro era stata spazzata via per una stretta striscia, dal cancello
all'uscio d'ingresso, quindi non vi poteva esser traccia di pedate; però
l'occhio acuto del poliziotto, in uno degli orli della neve in mezzo a
cui erasi aperto il sentiero, vide una lieve impronta; aprì il cancello
con un grimaldello e s'avanzò a contemplar davvicino quel segno. Era
l'impronta recente d'un piede ben fatto ed elegantemente calzato d'uomo.
Certo nel turbamento con cui camminava, il fuggente non aveva dovuto
badare che il suo passo, andato un po' di traverso, aveva lasciato una
piccola orma.

— Gli è qui: esclamò a bassa voce Barnaba, drizzando la sua faccia
illuminata da una fiera gioia. Il sorcio è in trappola, e questa volta
non ci può scappar più a niun modo.

Aveva seco sei guardie e Meo, che faceva sette. Non volendo tralasciare
cosa alcuna cui la previdenza consigliasse, egli trascelse due dei più
intelligenti fra i suoi uomini e diede loro l'ordine di recarsi sotto le
finestre dell'abitazione della Zoe a invigilare. Se mai per caso non
fosse Quercia quegli che era entrato nella palazzina, o già ne fosse
uscito, si tenesse d'occhio la dimora della cortigiana dov'egli poteva
riparare: tutti gli altri luoghi in cui era presumibile si recasse già
erano custoditi.

Partiti i due uomini, Barnaba fu all'uscio della casina, e senza molti
sforzi coi suoi grimaldelli lo aperse. Tutto era scuro là dentro: uno
degli _arcieri_ accese una lanterna, e cautamente, le pistole in mano,
s'introdussero tutti.

— Meo, disse Barnaba mettendo una mano sulla spalla del garzonaccio: gli
è ora che conto su di te.



CAPITOLO XXI.


Gian-Luigi, appena si fu colla sua rapida corsa di tanto allontanato pe'
campi da non temer più pel momento d'essere raggiunto, si fermò
ansimante a pensare quel che meglio gli convenisse. Fuggire addirittura
la città e il paese, tentar di giungere ad estere contrade era certo la
prima idea che gli doveva venire, e fu quella che gli venne: ma non
tardò a crollare il capo con uno scoraggiato sorriso.

— E che farò io, disse amaramente a se medesimo, senza mezzi nessuni,
senza punto denari? Aver tanto raccolto e veder tutto sfumarsi dinanzi!
Aver con tanti sforzi costrutto un edifizio e vederselo tutto
crollare!.. Espormi alla vita della miseria in altri paesi, ricominciare
da capo la vita del baro e dell'assassino per vivacchiare.... oh no! non
io discenderò sì basso.... Piuttosto morire.... Poichè tutto mi ha
fallito ad un tratto, che mi cale gettar via questa vita che ha mancato
a tutte le sue promesse?

Trasse fuori un pugnaletto acuto e sottile e ne guardò stranamente il
luccicar della lama al raggio della luna.

— Su via: diss'egli con quel suo sogghigno in quella solitudine, a quel
momento, più amaro, più superbo, più temerario che mai.

Ma la mano già levatasi per ferire, si arrestò e poi si chinò
lentamente.

— Non è una viltà fuggire innanzi al pericolo perchè si è fatto
gravissimo? Vo' lottare fino all'ultimo con questa società matrigna che
suscita tutti i desiderii e nega all'onestà ogni soddisfazione di essi,
e che ora mi minaccia colla forca... Vivo non cadrò nelle loro mani a
niun patto... Dunque tanto vale tentare ancora. Se potessi fuggire con
parte almeno de' miei tesori, sarebbe tuttavia una vittoria.

La sua decisione era presa, ringuainò il pugnale e si diresse verso la
palazzina. Camminava prudentemente celandosi dietro i tronchi degli
alberi, poco diverso dal cauteloso procedere che descrivono i romanzieri
americani dei selvaggi che vogliono sorprendere il nemico. Intorno alla
casina del viale tutto era quieto: Quercia spiò attentamente e non vide
indizio d'anima viva. Si fece ardito tanto da entrare nel cancello ed
introdursi nell'abitazione. Una lieve speranza gli venne che il segreto
nascondiglio detto _Cafarnao_ non fosse ancora conosciuto dalla Polizia
e colà potesse non solo penetrare sano e salvo a prendere il denaro che
vi aveva, ma rimanervi alcuni giorni nascosto a sviare la vigilanza e le
ricerche della Polizia. E certo se nessuno avesse tradito, quel rifugio
avrebbe dovuto essere compiutamente ignorato; ma che vi fosse stato un
traditore fra i servi era pure la prima idea che gli si era affacciata,
quando aveva visto comparirgli Barnaba per arrestarlo.

Pel segreto passaggio dalla palazzina passò nell'andito sotterraneo che
conduceva al grande stanzone centrale. Camminava lento, gli occhi e le
orecchie tese con ogni sua possibile intentività; la mano destra teneva
sull'elsa del pugnaletto, colla sinistra veniva tastando la parete per
guidarsi, essendo che quella sera non fossero accese le lampade lungo il
corridoio, ed egli avesse pensato meglio non recar seco lume nessuno. Ad
un punto udì innanzi a sè un suono, che gli fece spavento, se pure può
questa parola usarsi per l'intrepida tempra di quella natura. Era un
rumore di lotta: alcune voci d'ira e di minaccia, alcuni gemiti che
parevano di feriti, colpi e percosse. Il _medichino_ ristette. Era
questa una rissa fra i soliti abitatori del _Cafarnao_, oppure una lotta
con nemici invasori? Il dubbio non durò a lungo. Si udì una voce che
Quercia riconobbe per quella dal commissario Tofi.

— Non fate fuoco, gridava la voce, e' si vogliono prender vivi; che
diamine! siete in tanti e non ci valete ad opprimere due uomini soli, di
cui uno ancora non è che la metà d'un uomo?

Al punto in cui era giunto Gian-Luigi, poteva scorgere una luce
rossiccia in fondo al corridoio. Erano delle lanterne che tenevano in
mano vari uomini che non tardò a riconoscere per guardie di polizia. Sui
gradini che conducevano a _Cafarnao_ stavano ritti _Stracciaferro_ e
_Graffigna_ che si difendevano bravamente, il primo con un palo di
ferro, il secondo col suo coltello affilato, contro l'assalto d'una
schiera di poliziotti: alcuni di questi già erano distesi per terra
malconci; dietro degli assalitori appariva l'alta persona del
Commissario, il quale, nel suo solito contegno, le mani affondate nelle
sue grandi tasche del soprabitone, incoraggiava i suoi uomini
all'assalto. Allo sbocco dell'andito che conduceva alla bottega di
Baciccia apparivano altri poliziotti appostati.

Il primo impulso di Gian-Luigi fu quello di gettarsi là in mezzo a
soccorso de' suoi; ma fu lesto a cambiar d'avviso, egli si perdeva
inutilmente senza salvare gli altri. Sola cosa da farsi era tornare il
più presto sui suoi passi, prendere in fretta tutto quello che si poteva
di valore che era nella palazzina, e fuggire se pure s'era tuttavia in
tempo. Retrocesse adunque affrettato; giunto dietro all'uscio segreto
che metteva nel salotto della casina sostò ed applicò l'orecchio alla
commessura per ascoltare; non udì rumore di sorta; colà non era dunque
ancora penetrato nessuno. Toccò la molla nascosta; l'uscio si aprì; egli
passò ratto e lo richiuse: ma aveva fatto appena pochi passi che udì
nell'andito a pian terreno gente che entrava, che si accostava alla
scala, che saliva. Si morse le labbra fino al sangue, gettò un'occhiata
disperata intorno a sè, come per cercare una via di scampo: non ce n'era
nessuna: tornare nel sotterraneo era peggio: gli occhi gli balenarono
orrendamente: si vide compiutamente perduto e si disse con una bestemmia
che la sua ultima ora era venuta; si piantò sulla soglia di quella
stanza, impugnò con mano convulsa il pugnale e stette ad aspettare.

Non aspettò a lungo; l'uscio della camera che precedeva si aprì e
comparvero agli occhi suoi quattro uomini — quei medesimi che già lo
avevano assalito nella casa dei Benda — e in mezzo a loro, come duce,
Barnaba. Nessuna parola fu scambiata: nè i poliziotti minacciarono, nè
il _medichino_ aprì labbro; gli _arcieri_ ad un cenno di chi li
capitanava fecero un moto per islanciarsi addosso a Quercia: questi
brandì il pugnale, solidamente piantato sulle sue gambe, in una mossa
robusta ed elegante da gladiatore antico. Era sì fiero l'aspetto di lui,
sì ferocemente lampeggiavano i suoi occhi neri, la profonda ruga
incavatasi nella sua fronte dava una tale sembianza di forza, di
risoluzione disperata, di volontà e di ferocia indomabili a quel suo
volto fatto per imporne altrui e per comandare alle turbe, che gli
_arcieri_, come intimoriti, s'arrestarono. Ciascun di loro sapeva che il
primo fosse arrivato a tiro di quella sottil lama, che brillava nel
pugno piccolo e nervoso del _medichino_, sarebbe stato un uomo morto; e
per quanto si sia sicuri che la nostra morte verrà vendicata, non è
questo pensiero abbastanza consolante per deciderci a farci accoppare
così di piano senza punto oscitanze.

Barnaba, il quale voleva finirla presto, si volse indietro e chiamò a sè
un uomo che era rimasto nell'altra stanza in coda degli altri.

— A te, gli disse, vieni qua e guardalo. È egli quel desso?

Gian-Luigi vide, dietro le spalle dei quattro _arcieri_, comparire la
faccia scema e gli occhi vitrei di Meo, il garzone di mastro Pelone.

— Ah! sei tu il traditore: mormorò fra i denti il _medichino_: che sì
ch'io ti darò qui stesso la tua paga... Ma tu non sei già il solo,
perchè il segreto di _Cafarnao_ non t'era noto.

Lo sguardo di Meo, fissandosi nel volto di Gian-Luigi, s'animò per
quanto quello sguardo poteva animarsi.

— È lui, esclamò, gli è proprio lui: lo riconosco, quantunque e' sia
vestito da signore.

Barnaba aveva giudicato egli pure che alcuno dei presenti doveva
sacrificare la vita per la cattura di quell'importantissimo personaggio;
ed avvisò che, fra quante aveva in quel momento a sua disposizione,
l'esistenza di quel poveraccio era la più sacrificabile, come quella
che, arrestato il famoso _medichino_, diventavagli affatto inutile.

— Or bene, gli disse piano all'orecchio, saltagli addosso ed afferralo
tu, se non vuoi che più ci scappi e ti porti via per sempre la
Maddalena.

Meo allungò il collo fra le spalle dei poliziotti che erano dinanzi e
misurò collo sguardo lo spazio che gli restava da percorrere per
arrivare al _medichino_.

— Animo! gli susurrò all'orecchio Barnaba: l'hai giurato che non te lo
lascieresti scappar più; e così ti vendicherai di lui e di lei.

Il garzonaccio diede in una specie di grugnito: fece come il cane che,
animato dalla voce del cacciatore, esita a slanciarsi addosso al
cinghiale attergatosi ad una pianta, e poi ad un tratto ei si decide e
corre addosso alle mortifere zanne: colle due mani trasse indietro due
degli _arcieri_ per farsi lasciare il passo, e coll'impeto d'una
catapulta, piombò addosso al _medichino_ di tutto il peso della sua
persona.

Gian-Luigi piegò un istante a quell'urto; ma le sue gambe s'irrigidirono
tosto ed egli riprese di subito la sua impostatura di difesa; però
l'assalitore l'aveva afferrato alla gola e gli stava ingombro sul petto,
facendo sforzi ad abbatterlo in terra. Si vide al lume rossiccio della
lanterna balenare per aria la lama sottile, ed una riga di sangue colare
ad un tratto e per più luoghi dalle reni di Meo. Questi tuttavia non
lasciò la presa: muggiva e rantolava in orribil guisa, ma le sue braccia
si stringevano convulse al collo del _medichino_, così che tutto
pavonazzo ne diventava il viso di costui; e negli squassi dell'agonia,
cadendo a terra come sacco buttato, Meo traeva seco, sempre stretto
dalla morsa feroce delle sue braccia contratte, Gian-Luigi a mezzo
soffocato. Ma quando aveva toccato il pavimento, il povero Meo già era
cadavere.

— Su, su, gridò Barnaba: saltategli addosso ora ed impedite ch'ei possa
uccidersi, e disarmatelo.

Gli arcieri tutti quattro piombarono su di Quercia nell'atto che stava
per divincolarsi dall'amplesso orrendo di quel cadavere e volgere su di
sè l'arma omicida; non senza sforzi riescirono a torgli di mano il
pugnale e legarne le braccia e le gambe, e finirono per lasciarlo
disteso in terra ansimante, sanguinoso, pesto e allividito dai colpi
ricevuti, ma terribile ancora a mirarsi. Il pittore che avesse voluto
rappresentare il Satana fulminato, non avrebbe potuto trovare modello
più acconcio e più efficace di quell'uomo pallido, dalle chiome nere
irte sul capo come serpenti, dagli sguardi feroci e rabbiosi d'una
ferocia impotente, il quale si mordeva il labbro inferiore da far
spicciar il sangue che gli colava lungo il mento, sulla cui fronte la
ruga profonda che vi si incavava fra le sopracciglia, pareva l'impronta
della maledizione di Dio.

Barnaba, che aveva assistito con trepidante interesse alla breve ed
aspra lotta, ora che si vide disteso ai piedi, vinto ma non domato,
quell'uomo; come se soltanto per questo fine gli avessero bastato le
forze che aveva raccolte mercè il conato perseverante della sua volontà,
si lasciò cader seduto sovra una scranna, mandando un lungo sospiro, e
parve presso a svenire.

Gli occhi neri del _medichino_ caduto lo saettavano con isguardi pieni
d'un odio feroce.

Dopo un istante in cui gli _arcieri_ medesimi parvero riposarsi ancor
essi, stupiti insieme e della forza che loro aveva opposto quel giovane
dalle forme eleganti e quasi della loro vittoria, e' si volsero al
caduto a vomitargli mille improperii, urtandolo co' piedi. Il
_medichino_ rimase impassibile, muto ed immobile, nè i suoi occhi
degnarono pure volgersi sopra i suoi insultatori, ma continuarono a
restar fissi con quella espressione sopra di Barnaba.

Questi, appena gli fu tornato tanto di vigore da poter alzare la voce,
gridò ai suoi subalterni:

— Silenzio olà, e fermi!... Lasciate in pace il prigioniero.

Obbedirono colla prontezza e colla sommessione della disciplina
militare: e messisi nell'impostatura del rispettoso aspettar gli ordini
dal superiore, uno di essi, il brigadiere, domandò:

— Che ci comanda ora?

— Procederemo alla più minuta perquisizione in tutta la casa. Chiamate
gli altri uomini che abbiamo lasciato abbasso: due rimarranno qui a
custodia del prigioniero, gli altri romperanno tutti gli scrigni,
apriranno tutti i mobili, così ch'io possa rifrugar tutto e dappertutto.

Fu fatto secondo questi ordini. Ogni carta fu attentamente esaminata da
Barnaba, quelle sopratutto che avevano apparenza di lettere di donna. Di
queste se ne trovò di molte, ma non quelle che cercava l'agente della
Polizia; altre carte che avessero importanza non se ne rinvennero.

— Ed ora, disse Barnaba quando la perquisizione fu finita e lo disse in
modo che il _medichino_ potesse udire: ora non ci resta che penetrare
nel sotterraneo.

Gli occhi di Gian-Luigi che rimanevano sempre fissi sull'agente della
Polizia, diedero un leggier guizzo.

Barnaba si accostò al giacente e, curvatosi verso di lui, gli disse:

— Vedete che sono informato di tutto. So che per quella grande
specchiera laggiù si penetra nel sotterraneo covo della vostra _cocca_,
e so che la si può aprire mediante una molla segreta che si preme.
Fareste assai bene ad indicarci questo segreto per avanzarci la fatica e
il tempo di rompere ed abbattere quell'uscio così ben dissimulato, senza
contare che gli è un peccato mandar a male un sì bel cristallo.

Il _medichino_ seguitò a guardar fieramente chi gli parlava, ma non
disserrò le labbra.

— Rompete quello specchio, comandò Barnaba accennandolo colla mano, e
sfondate l'uscio che esso nasconde.

L'ordine fu tosto eseguito. Dieci minuti dopo appariva il vano nel muro
e il tenebroso pozzo della scala che s'affondava. Allora il prigioniero
fece un movimento ed accennò colle pupille a Barnaba che gli stava
seduto dappresso.

— Sentite: diss'egli.

Il poliziotto, aspettandosi qualche rivelazione, si curvò su di lui con
sollecita premura.

— Che ragioni personali d'animosità avete voi contro di me? gli domandò
Quercia, facendogli penetrare negli occhi il suo sguardo acuto.

Per un ratto istante le pupille, abitualmente velate, di Barnaba ebbero
un improvviso bagliore; ma le si spensero tosto.

— Nessuna: rispose egli freddamente.

— Voi mi avete data la caccia con ispeciale accanimento; foste voi che
veniste a suscitare fra i miei seguaci un traditore.

— Era dovere del mio ufficio.

Gian-Luigi fece quel suo scettico amaro sogghigno che ora su quelle
labbra sanguinose era più penoso a vedersi.

— Troppo zelo: diss'egli ironicamente.

Barnaba si drizzò della persona ed accennò avviarsi verso l'uscio
atterrato.

— Aspettate: disse vivamente il _medichino_ con un accento che pareva di
comando.

Il poliziotto si fermò.

— Curvatevi di più verso di me. Quello che voglio dirvi dev'essere udito
da voi solo.

Barnaba si chinò più che poteva.

— Per fare codesto mestiere voi dovete non esser ricco.

— Sono poverissimo.

— Chi mi lasciasse scappare potrebbe avere venti mila lire.

— Bah! dove le prendereste? Tutto quello che avevate qui sotto già vi fu
sequestrato.

La risposta del poliziotto accese un po' di speranza nel cuore di
Gian-Luigi. Chi si preoccupa del modo onde gli può essere pagato il
compenso ad un atto che gli si domandi, è presso ad accettare di compire
quest'atto.

— Ho in serbo altrove delle somme: disse con vivacità il _medichino_.
Sono presso una persona, dalla quale potreste avere subito, questa sera
medesima, la mercede che vi dico.

— Chi è questa persona? domandò Barnaba i cui occhi tornarono ad
animarsi alquanto.

— Vi condurrò io stesso da lei, appena ci saremo tratti di qua.

— Forse la Zoe? disse l'agente poliziesco con voce che sibilava fra i
denti.

Quercia era troppo osservatore per non por mente alla fiamma che aveva
lampeggiato nelle pupille di Barnaba, al tremare dell'accento con cui
aveva pronunziato quel nome di donna: sollevò alquanto il torso dal
suolo, puntando il gomito d'uno de' suoi bracci insieme
strettissimamente legati, ed affondò i suoi negli occhi
dell'interlocutore.

— La Zoe!... Voi la conoscete?

Barnaba aveva chinato sulle pupille le ciglia, e volto il capo
dall'altra parte.

— No: rispose freddamente. Non la conosco..... Ma mi offriste anche un
milione non consentirei nemmeno a chiudere un occhio perchè voi poteste
riacquistare la libertà.

— Va bene: disse con tutta indifferenza il _medichino_, lasciandosi
ricadere lungo e disteso per terra: siete l'eroe della Polizia.

E non pronunziò più una parola.

— Scendiamo giù: disse Barnaba ai suoi uomini: due di voi rimangano qui;
gli altri vengano meco. Credo che a quest'ora il Commissario avrà finito
con quegli altri, e se no arriveremo appunto in suo aiuto.

E l'agente cogli _arcieri_, tolti i due che rimasero presso il
_medichino_, sparirono nell'oscuro della scaletta che scendeva al
corridoio sotterraneo.



CAPITOLO XXII.


Per l'arresto dei malfattori della _cocca_, tre squadre poliziesche
eransi partite ad un tempo dal Palazzo Madama, la prima capitanata da
Barnaba si era diretta alla casa Benda dove sapevasi doversi cogliere
alla posta il capo della banda, e già abbiam visto quello che a questa
squadra era intravvenuto; la seconda erasi recata all'abitazione
ordinaria del cosidetto _medichino_ sotto la guida di un altro agente
che godeva ancor egli la speciale confidenza del signor Commissario, e
colà aveva arrestato i servi del sedicente dottor Quercia ed in una
minutissima perquisizione sequestrato tutte le carte che vi ci aveva
trovate, cui l'agente doveva consegnare nelle mani medesime del signor
Tofi: quest'ultimo poi, a capo della terza squadra, più numerosa delle
altre e rinforzata dall'aiuto di una mezza dozzina di carabinieri, s'era
assegnato il compito di penetrare nel covo sotterraneo e misterioso di
quella tremenda associazione di assassini. Giunta a poca distanza dalla
strada in cui s'apriva la taverna di Pelone, questa schiera si divise in
due, e chetamente le due frazioni s'avviarono, l'una verso la bettola,
l'altra verso la bottega di Baciccia.

Il bravo Pelone, che già da qualche giorno aveva inquietudini e di
molte, restò di stucco al vedere aprirsi l'uscio a vetri della bottega e
in mezzo al fumo denso delle pipe, delle vivande, dei lumi a olio,
presentarsi la faccia del Commissario, faccia che ispirava apprensione a
tutti e che in quel punto alla coscienza sporca di mastro Pelone fu
spaventosa come la testa della Medusa nei poeti classici. Ad accrescere
spavento questa faccia tremenda era incorniciata in un fondo di ceffi
arcigni di guardie poliziesche e di cappelli a becchi di carabinieri. Al
fondo dello stanzone, dal suo banco a cui sedeva secondo il solito, il
tavernaio, facendo una splendida eccezione alla ordinaria lentezza di
moti del suo lungo corpo dinoccolato, sorse di scatto sulle sue zattere
di piedi, assalito da un parosismo maligno della sua tosse profonda e
dal fondo delle occhiaie incavate girando attorno uno sguardo sgomento:

— Il Commissario in persona! si disse egli in fretta in fretta con un
ansioso monologo mentale. Caspita! Gli è dunque qualche cattura
importante che qui si vuol fare.

Ma lo sguardo che aveva mandato in giro gli aveva fatto conoscere che
presenti nell'osteria a quel momento, non c'era che una minutaglia di
birbanti, pesciolini senz'importanza, per cui non occorreva tanta forza
di reti nè tanta abilità di pescatore: e ciò lo spaventò ancora più.

— Ahi, ahi! Pelone, continuò egli nel suo monologo; codesto mi ha l'aria
molto brutta per te; tutto ciò temo voglia avviarsi molto male.
Qualcheduno avrà commesso delle imprudenze; già lo sapevo che sono una
manica d'imbecilli; lo dovevo prevedere ed avrei fatto bene a contar
tutto al Commissario. Ora temo d'essere nella ragna pur troppo, che il
diavolo li porti tutti quanti, e me con essi.

L'alto rumore che facevasi nella bettola, e vociare nel giuoco della
morra, e sbraitare di canzonaccie, e parole concitate che erano grida e
sghignazzamenti e imprecazioni e bestemmie, all'entrare della forza
pubblica, era cessato tutto ad un tratto, come per incanto. Tutte le
faccie s'erano rivolte alla porta, tutte le bocche erano rimaste
spalancate e gli occhi fissi nell'espressione d'una paurosa sorpresa,
nel cuore di tutti s'era messa l'ansia, perchè fra tutti quegli
avventori non ce n'era forse uno cui quella vista non dovesse dare a
riflettere ai casi suoi.

La Maddalena, che trovavasi nella cucina al pian di sotto, stupita
grandemente pel subito succedere senza transizione di quell'alto
silenzio al baccano di prima, venne su a vedere che mai fosse capitato,
e mostrò la sua faccia impertinente e rubiconda al di sopra della
botola.

— Figliuola di mala femmina, sgualdrina, sfacciata che Dio ti dia bene!
le disse mozzicando le parole fra le sue gengive il bettoliere che s'era
levato premurosamente di dietro il banco per muover all'incontro del
Commissario. Ecco qui la sbirraglia: siamo tutti perduti, che Satanasso
ti abbranchi!

Maddalena per prima cosa pensò alla più diletta persona, alla sola
diletta che avesse al mondo, al _medichino_, cui quel pericolo poteva
minacciare; guardò alla porta e veggendo entrare cinque o sei sgherri e
con essi tre carabinieri, ed una riserva di poliziotti rimanere ancora
al di fuori sulla strada, capì con molto dispetto che il fuggire di là
era impossibile. Suo proposito era correre in cerca di Luigi e tanto
aggirarsi finchè l'avesse trovato per avvisarlo di quel che avveniva
nella bettola, di guisa ch'egli potesse provvedere ai casi suoi.
Qualunque altro non avrebbe più avuta speranza nessuna di riuscire in
questo intento; ma la Maddalena era tenace nelle sue volontà, era
audacissima, accorta, ed era donna; si disse che un'occasione di
sgattaiolarsela sarebbe nata ed ella avrebbe saputo approfittarne, ed
anche l'avrebbe saputa far nascere, e salita del tutto fuor della
botola, si venne accostando lentamente al gruppo degli agenti della
forza pubblica, come spinta soltanto da una curiosità naturale, ma
affatto disinteressata.

Chi s'accostò non lentamente ma con zelante premura al sor Commissario
fu mastro Pelone, il quale, trattosi fuori di dietro il banco, levatosi
dal cranio lucido di avorio giallo la berrettaccia unta e bisunta,
veniva all'incontro del signor Tofi, lungo la corsìa in mezzo ai due
ordini di tavole, facendo passi da gigante colle sue lunghe gambaccie
stecchite e trinciando inchini da toccare colla punta del suo naso da
uccello di rapina le rotelle piatte de' suoi ginocchi.

— Oh signor Commissario, illustrissimo signor Commissario! gridava egli
colla sua voce rauca, punteggiata dagli sbruffi della tosse: in che cosa
posso servirla, signor Commissario? Mi metto a sua disposizione, signor
Commissario.... Fatevi in là voi altri: si diede a gridare a parecchi
degli avventori che ingombravano il passaggio, e li urtava nella schiena
per farneli ritrarre: toglietevi di qua, mascalzoni, fate largo, date
luogo al signor Commissario.

Questi dall'alto del suo cravattone guardò con occhio severo l'oste
tutto confuso, che credette, a quell'occhiata, sentir aprirsi il terreno
sotto i piedi, e non rispose pure una parola; poi volto al brigadiere
dei carabinieri ed a quello delle guardie di polizia, disse:

— Nessuno esca di qua sino a nuovo ordine. Prendete nome, cognome e
condizioni di tutti e quelli che sono in nota sieno ammanettati
senz'altro.

Carabinieri ed _arcieri_ si posero tosto all'opera. Della maggior parte
di quegl'individui non avevano pure da domandare il nome; chè erano
antiche loro conoscenze e non nuovi inquilini della carcere. Tutti
protestavano che gli era uno sbaglio, che erano innocenti come neonati,
ma le proteste non indugiavano d'un punto il ratto procedere degli
agenti della forza pubblica.

— Voi, Pelone, disse il signor Tofi con quel suo brusco accento, che
gelava il sangue nelle vene a chiunque: venite meco di là in quello
stanzino.

Il Commissario fe' cenno al brigadiere dei carabinieri, a quello degli
sgherri e passò primo; Pelone entrò dopo di lui abbrancato ad un braccio
dal caporale _arciere_, e le sue lunghe gambe gli si piegavano sotto:
l'uscio a vetri colle tendine rosse fu chiuso dietro di loro.

— Pelone; cominciò il signor Tofi con quel tono che toglieva ogni
volontà di resistenza; apriteci subito l'uscio segreto che c'è in quella
impiallacciatura di legno, pel quale si comunica col sotterraneo
ricovero della _cocca_.

L'oste sentì un brivido come mai l'uguale corrergli per tutte le vene e
gli venne un nodo alla gola che, secondo si espresse egli medesimo di
poi, gli parve una carezza della corda di mastro Impicca.

— Signor Commissario, balbettò egli, verde in viso e oscillando come
briaco sulle sue pertiche di gambe, non so..... non capisco..... in
parola di Pelone.....

Si ricordò che quel passaggio, per fortuna, ultimamente era stato
murato, che quindi non lo si sarebbe rinvenuto, e povero di consiglio
com'era in quel momento, preso alla sprovveduta, si figurò che il
miglior mezzo era di negare risolutamente.

— Non so che cosa Vossignoria voglia dire..... che il diavolo mi porti.

Tofi lo guardò con aria feroce, e senz'aggiunger verbo andò a quel punto
dove Barnaba gli aveva detto esistere il passaggio; toccò nel luogo
dove, per le rivelazioni di Arom, sapevasi esistere la molla, ma nulla
si mosse.

— Aprite, sarà meglio per voi: disse il Commissario furibondo a Pelone.

— La mi scusi, signor Commissario, ma per la salute dell'anima mia, per
la Madonna delle grazie e quella della Consolata, pel mio Santo
protettore, protesto.....

Il Commissario non lo lasciò finire: aprì l'uscio a vetri che metteva
nel primo stanzone e disse con accento di comando:

— Due uomini qua con ascie e picconi.

Gli uomini vennero solleciti.

— Abbattete quel tavolato lungo tutta questa parete: comandò il signor
Tofi.

In dieci minuti la bisogna fu compiuta. Non vi era passaggio di sorta
nella muraglia, ma ad un punto, ed era facile accorgersene, la muratura
era fresca.

Tofi si rivolse al bettoliere, più furibondo di prima.

— Brigante! Avete murato l'apertura, eh? E credete scappolarla?
Miserabili! siete tutti nei miei artigli ad ogni modo, ed avrete dal
boia quel che vi meritate... Distruggete quella muratura.

Gli uomini si posero a dar coi picconi in quella parte che si vedeva
costruita di recente.

Ma ecco che in quella giunge correndo un arciere della squadra che erasi
recata alla bottega del Baciccia, e viene a recare un'ambasciata al sor
Commissario.

A questa squadra ecco che cosa era avvenuto.

Giunti alla bottega del rigattiere e trovatala chiusa, se l'erano fatta
aprire ed irrompendo avevano senza perder tempo legato ben bene il
Baciccia e la sua famiglia, poi recatisi diviati al nascosto passaggio
che comunicava col sotterraneo, vi si erano introdotti, camminando pian
piano, con ogni cautela, colle loro lanterne accese.

In _Cafarnao_ erano i soliti inquilini, che non avevano altro soggiorno
più sicuro di quello: i due galeotti evasi dal bagno, _Stracciaferro_ e
_Graffigna_. Dormivano ambedue; ma l'ultimo, in qualunque luogo si
trovasse, non dormiva che di quel sonno che il volgo suole attribuire
alla lepre, la quale non chiude che un occhio e coll'altro sta sempre
spiando ciò che le succede dintorno. _Graffigna_ adunque udì fra il
sonno e la veglia il rumor lontano e soffocato dei passi guardinghi di
più persone suonare per la volta rimbombante del sotterraneo e si drizzò
in sussulto a sedere sul suo strammazzo. Era un sogno frequente ch'ei
faceva quello di essere perseguitato dai giandarmi, e credette anche
questa volta essere stato disturbato da un sogno; ma ora e' si sentiva
bene sveglio, e quel rumore non che dileguarsi veniva sempre più
accostandosi; balzò dal giaciglio e corse alla porta che usciva su
quella specie di vestibolo che precedeva lo stanzone, onde entrava
colaggiù un poco d'aria e di luce, vide dal corridoio che veniva alla
bottega del Baciccia, unica strada che ora ci fosse oltre quella della
casina del _medichino_, appressarsi uno splendore rossiccio che giudicò
prodotto da più lanterne portate a mano, e udì un tintinnare d'armi che
al suo orecchio esercitato rivelò di che razza fossero i sopravenienti.
D'un salto egli fu presso _Stracciaferro_ a scuoterlo vigorosamente. Suo
disegno era correre in tutta fretta su per l'andito che menava alla
palazzina di Quercia, il quale aveva visto ancor libero, e di là
fuggire, se ancora possibile, alla aperta campagna. Ma quanto era
leggiero il sonno di _Graffigna_, altrettanto era sodo e pesante quello
di _Stracciaferro_ onde alle scosse ed agli urtoni che il suo compagno
gli dava, quell'omaccione, senza punto destarsi, non faceva che
rispondere con un grugnito e con certi atti impazienti e collerici che
provavano essere il mal capitato chi venisse a disturbarne il riposo.
Vedendo che la cosa premeva oltre ogni dire, _Graffigna_ pensò ricorrere
ad un mezzo che ritenne infallibile: punzecchiò forte colla punta del
suo pugnale nelle carni dell'addormentato e nello stesso tempo gli gridò
nel padiglione dell'orecchia:

— Su, su, _Stracciaferro_; sono qui gli sbirri ad arrestarci.

L'omaccione mostrò che era sveglio pur finalmente sparando insieme una
grossa bestemmia e un tremendo pugno che guai per _Graffigna_ se n'era
colto.

— Possa tu venir appiccato, traditore d'un birbone da forca: esclamò
_Stracciaferro_: mi lascierai tu dormire in pace?

— Il tuo augurio sta per essere avverato: di rimando _Graffigna_,
martuffo del boia, mio caro amico, che ti venga un accidente; e sta per
avverarsi anche per te, giacchè stiamo per essere presi come due sorci
in trappola.... Ti dico che è qui la Polizia.

Questa volta _Stracciaferro_ fu desto del tutto.

— Possibile! esclamò egli levandosi.

— Senti! disse _Graffigna_.

L'omaccione udì ancor egli il passo in cadenza della squadra che
s'avanzava lentamente. Al suo spirito ottuso non balenò neppure il
pensiero d'un possibile scampo; non pensò che a vender cara la sua vita;
girò intorno lo sguardo degli occhi sanguigni e borbottò fra i denti:

— Ah cani maledetti! Or ora ne spedisco io una frolla all'altro mondo a
farmi da battistrada.

Aveva visto in un angolo un palo di ferro di quelli onde si servivano ad
abbattere imposte e sgangherar usci, e fu ad afferrarlo, maneggiandolo
con tanta facilità, come altri farebbe d'un semplice bastone.

_Graffigna_ gli spiegò in fretta in fretta la possibilità che forse
eravi ancora di fuggire per la casetta del _medichino_; ed egli allora
consentì a tentar questo passo, armato del suo palo di ferro; ma era
troppo tardi, ed appena usciti dallo stanzone, i due banditi si videro
saltare addosso gli agenti della forza pubblica. Si ritirarono essi
sulla soglia del _Cafarnao_, in alto dei pochi gradini che vi
conducevano, e disperati del tutto della vita, si prepararono ad una
strenua difesa. Non racconterò le vicende di questa lotta resa più
orribile dal luogo, dalle tenebre appena se rotte da quella luce
rossiccia che pareva anch'essa macchiata di sangue, dalla forza erculea
di _Stracciaferro_, dall'agilità di _Graffigna_ che balzava come una
pantera addosso ai nemici e riparava poscia sotto la protezione della
tremenda mazza del suo compagno, riportando ad ogni volta bagnata di
sangue novello la lama sottile del suo pugnale. Il fatto è che già
troppo durava questo combattimento, senza che si fosse potuto venire a
capo di opprimere i due assassini, e parecchi degli assalitori giacevano
malconci; speravano gli agenti della Polizia veder giungere da un
momento all'altro il rinforzo del Commissario co' suoi uomini, che
secondo le intese dovevano riunirsi colà appunto al resto della squadra,
ma non vedendo nulla arrivar mai, chi comandava quella frazione aveva
pensato miglior consiglio mandare alcuno ad istruire il signor Tofi di
quello che avveniva ed invocarne sollecito il soccorso. Codesto era
venuto a fare l'uomo che abbiamo visto soprarrivare sollecito alla
taverna di Pelone, e il Commissario appena inteso com'erano le cose,
lasciato nella bettola appena quanti uomini bastassero a tenere in freno
gli arrestati che già erano a due a due avvinti dalle manette, con tutto
il resto delle sue forze accorse sul luogo del conflitto.

La Maddalena, visto partire il Commissario e la maggior parte dei birri,
sentì accrescersi la sua mai perduta speranza di fuggire. Se ne venne
tranquillamente verso la porta d'uscita, e saettò un'occhiata assassina
all'_arciere_ che stava là appostato. Quell'_arciere_, per fortuna di
Maddalena e per sua sfortuna, praticava non di rado nella bettola, e le
attrattive petulanti della giovane lo tentavano maledettamente; a
quell'occhiata ch'egli credette gli dicesse tante cose, non potè a meno
che rispondere con un fatuo sorriso di compiacenza.

Maddalena, con atto di affettuosa domestichezza, gli pose una delle sue
mani paffutelle sul petto.

— Ho da dirvi una cosa: gli susurrò sotto voce, ponendogli bene innanzi
le sue pupille smaglianti, la sua faccia fresca e il suo sorriso
provocatore.

— Che cosa? disse il babbuino aitandosi ed andando tutto in brodo di
giuggiole.

— Non qui: soggiunse la briccona sempre più sommesso, guardandosi
dattorno con diffidenza: venite fuori un momento; è una cosa che vi farà
piacere.

E senza attender altro, lesta pose la mano sulla gruccia della
serratura, socchiuse l'uscio e sgusciò fuori: ma l'_arciere_ fu
sollecito ad allungar il braccio, afferrò la ragazza pei panni e le
tenne dietro nella strada.

— Or bene, parlate ora, mia cara...

Non ebbe tempo a finire queste parole che la Maddalena, la quale forzuta
era e coraggiosa più che a donna s'addica, gli scaraventava un pugno sul
naso con tanta violenza che il povero _arciere_ vedeva a un tratto cento
mila fiammelle, e recandosi le mani alla parte offesa non pensava più a
trattenere la donna, che non perdeva tempo a darsela a gambe e spariva
ratta nell'oscurità di quelle viuzze contorte.

Dove la si recasse vedremo poi, ora torniamo con Barnaba che dalla
camera ove giaceva il _medichino_ legato, si calava per la scala segreta
nel sotterraneo della _cocca_.

Quando Barnaba discese in _Cafarnao_ la lotta era finita, il
sopraggiungere del Commissario con nuovo rinforzo di poliziotti, aveva
dato più animo agli assalitori ed era riuscito a superare ben tosto
colla prepotenza del numero la difesa degli assassini. Questi, disarmati
e strettamente legati, stavano in quella specie d'atrio circolare dove
facevano capo le varie strade coperte, posti in mezzo ad una mezza
dozzina de' più robusti e risoluti sgherri, i quali li custodivano
tenendo gli occhi fissi su di loro e le mani sui calci delle pistole. Il
signor Tofi, penetrato nello stanzone sotterraneo, tutto lieto delle
infinite cose che vi scopriva, onde di gran lunga era superata la sua
aspettazione, ne faceva una ricognizione sommaria; riserbandosi, a cose
più calme, un minuto esame ed un esatto inventario. Intanto aveva già
riconosciuto che colà stavano le prove materiali di parecchi reati di
cui fino allora non si erano potuti trovare i colpevoli: quelli che in
linguaggio criminale si chiamano _corpi del delitto_. Là era la cassa di
ferro portata via al signor Bancone; là il mantello di Francesco Benda,
di cui uno squarcio era rimasto in mano all'assassinato Nariccia; là
varii e molteplici oggetti caduti nei più audaci furti ed assassinii
commessi. Adocchiato finalmente l'uscio che metteva nel gabinetto
particolare del _medichino_, il Commissario lo faceva atterrare, e
penetrato in quel recesso, rotte le serrature dei forzieri e della
scrivania, giungeva ad impadronirsi pur finalmente di tutti i segreti
della tremenda associazione, di tutti i fili di quella permanente
congiura di malfattori contro la proprietà e la società.

Barnaba arrivava appunto nel migliore dell'opera di sommario esame e di
separazione dei documenti sequestrati.

— Signor Commissario; cominciò egli, per richiamare su di sè
l'attenzione del suo superiore.

Il signor Tofi levò il viso vivamente e di sotto la larga tesa del suo
cappello che teneva piantato in capo, mandò uno sguardo pieno di
soddisfazione e brillante di trionfo verso il suo subordinato che gli
stava ritto dinanzi. Parve persino che le sue labbra severe si
atteggiassero ad una sembianza di sorriso; cosa che da anni ed anni
avevano affatto disimparato.

— Ah siete qui voi!... Spero che non vi sarete mica lasciato scappare il
merlotto.

Mai, a memoria di birro, il signor Commissario Tofi non aveva usato
parole e tono così scherzosi.

— No, signore, rispose Barnaba, che, sfinito del tutto di forze, si
appoggiò alla scrivania per sorreggersi; egli è colassù legato come un
salame.

— Bene, benissimo: esclamò Tofi fregandosi le mani. Ma come colassù?
Dove volete dire?

— Nella palazzina del viale.

— Ah sì! E come ce l'avete costì, perchè ce l'avete portato?

— L'abbiamo preso colà.

— Oh bella! Raccontatemi come andò la cosa.

Ma in questa il Commissario degnò accorgersi che il suo subalterno non
poteva proprio più stare in piedi.

— Sedete: gli disse con accento più benigno di quello che da lui si
potesse aspettare; avete bisogno di riposo; lo si vede.

Barnaba si lasciò andare sopra una scranna e raccontò le peripezie
dell'arresto.

— Che minchione! esclamò il Commissario: poichè vi era sfuggito dalle
branche, venirsi a porre da sè in trappola. Ma e' son tutti così: ce la
fanno, ce la fanno per un pezzo, e nissuno mai, conviene dirlo, ce l'ha
fatta così bene e per tanto tempo come questo scellerato, e poi ad un
bel punto perdono la scrima. Ora, grazie a Dio, ce l'abbiamo ed è affar
finito; non ci scappa più. Metteremo in pratica tutta la possibile
sorveglianza.

— L'affidi a me, sor Commissario: esclamò con un certo ardore Barnaba,
rianimandosi nonostante la sua sfinitezza. Lo vorrò sorvegliare anche
quando sia nelle carceri, perchè quell'associazione di cui il
_medichino_ è capo, ha tali diramazioni ed è sì potente che ci sarà
impossibile, anche con questo colpo, schiacciarla del tutto, e perchè vi
hanno troppe persone ed influenti che seguiteranno ad interessarsi per
la sorte di quel miserabile. Dobbiamo aspettarci a molti ed accorti
tentativi d'evasione.

— È giusto. Voi avete tanto merito in questa faccenda che a voi si
spetta appunto il badare che la si conduca a buon termine. Del resto
avete reso un sì gran servigio e ci avete posto tanto zelo che saprò
raccomandarvi a chi si conviene perchè ne abbiate degno compenso.
Intanto aiutatemi a frugare qui in mezzo se si trovano quelle certe
lettere di quella tale signora che vi ho detto..... O forse le avete voi
trovate nella palazzina?

Barnaba rispose di no: nemmeno fra le carte di quel gabinetto segreto
non si trovarono le lettere che si cercavano, e che il lettore ha già
indovinato esser quelle della contessa Candida Langosco di Staffarda. Si
sperò allora che le si sarebbero rinvenute fra le carte che agenti
speciali avevano sequestrate al domicilio abituale di Quercia e in
quelle altre camere che egli teneva qua e là per la città, e di cui Arom
aveva del pari rivelato l'indirizzo.

Presi seco i documenti più importanti; assicurata ben bene la custodia
dei locali e d'ogni cosa; dato ordine si traducessero in carcere il
bettoliere Pelone che invano invocava tutte le Madonne e tutti i Santi
del Calendario a protesta della sua innocenza, e quegli altri che erano
stati arrestati nell'osteria, il Commissario e Barnaba salirono nella
palazzina del _medichino_, traendosi dietro ammanettati _Stracciaferro_
e _Graffigna_.

Gian-Luigi giaceva sempre sul pavimento, legato braccia e gambe,
immobile, muto, l'occhio nero fisso innanzi a sè, la fronte corrugata a
suo modo, un'espressione d'indomabile energia nel volto. Quando vide
entrare i due agenti della polizia, que' suoi occhi ardenti li
saettarono con uno sguardo d'ira feroce; visto dietro di loro i
galeotti, suoi complici, trascinati dai carabinieri e dalle guardie, le
sue pupille presero fugacemente un'espressione di disappunto rabbioso,
di rampogna, di comando, poi divennero profondamente indifferenti.

Il Commissario si accostò al _medichino_ con passo piuttosto sollecito,
come spinto dalla vivace curiosità; gli si fermò a' piedi, guardandolo
attentamente, incrociando le sue braccia sul petto sporgente ed
abbottonato fino al collo del suo soprabito, il mento sostenuto al
solito alle stecche dure del cravattone, gli occhi felini, sfavillanti
al fondo della larga tesa del cappello abbassato sul fronte da coprir le
ispide e folte sopracciglia grigiastre. Il _medichino_ concentrò tutta
l'attenzione delle sue pupille su quel volto burbero che gli si piantava
dinanzi in alto di quella lunga, impalata, impettita persona. Non c'era
nel suo sguardo e non nella sembianza la menoma vergogna nè la menoma
paura: una sicurezza che poteva dirsi impudenza; quasi una sfida a quel
potere che l'aveva vinto, a quella autorità che lo teneva ora in sua
balìa.

Si sarebbe potuto credere che il signor Tofi dicesse qualche aspra
parola di vanto dell'ottenuta vittoria, od uscisse fuori con qualche
ironico cenno intorno al colloquio che avevano avuto insieme pochi
giorni prima; forse il giacente medesimo se l'aspettava, e nel contegno
aveva già posta per ciò tutta quella disdegnosa audacia con cui si
preparava a rispondere; ma invece il Commissario non disse pure una
parola; stato alquanto a contemplarlo con osservatrice e non niquitosa
attenzione, si volse poscia a Barnaba, e disse a mezza voce, come
risultamento del suo esame e del suo meditare:

— Un'anima da demonio, una volontà di ferro, ed un corpo da Adone.....
Sicuro che c'era da far girar le teste di tutte le donne di questo
mondo.

Gian-Luigi fece uno sprezzoso sogghigno e volse gli occhi ad altra
parte.

— Accostatevi: disse Tofi a _Stracciaferro_ ed a _Graffigna_, tornando a
tutta la brusca e fiera imperiosità del suo accento.

I due assassini, spinti alle spalle dai carabinieri, fecero pochi passi
innanzi verso il luogo dove giaceva il loro capo.

— Conoscete quest'uomo? domandò loro il Commissario, additando il
_medichino_.

_Stracciaferro_ e _Graffigna_ abbassarono gli occhi sul volto del
giacente; il primo con quel suo piglio stupido d'uomo fatto mezzo scemo
dall'abuso dei liquori, il secondo con tutta la penetrazione maliziosa
del suo sguardo intelligente. Gian-Luigi li guardò egli con perfetta
indifferenza, come per dire: «Rispondete un po' come vi pare, che per me
gli è affatto uguale.» _Graffigna_ pensò che in ogni caso il silenzio
val sempre meglio di qualunque parola, e deliberò tacersi;
_Stracciaferro_ che non aveva consiglio proprio, guardò _Graffigna_, e
vistolo tener chiusa ermeticamente la bocca, stè zitto ancor egli.

— Conoscete costui? ripetè il signor Tofi con più ruvido e minaccioso
accento; ma nè anche questa seconda interrogazione non ebbe l'onore
d'una risposta.

— Bene! esclamò egli: razza di cani, parlerete più tardi; oh ve lo
assicuro io che parlerete... Ora conduceteli in prigione.

I due galeotti furono menati via.

— Slegate le gambe a quell'uomo: comandò il Commissario accennando al
_medichino_ con una mossa del capo.

L'ordine fu tosto eseguito.

— Potete camminare? domandò allora il signor Tofi.

— Desidero una carrozza; rispose il _medichino_ con tono di orgogliosa
superiorità: me la volete concedere?

— Potete camminare? ripetè ruvidamente il Commissario.

Gian-Luigi lo guardò con inesprimibile disdegno e gli volse le spalle.

— Sono con voi: disse al brigadiere dei carabinieri. Dove avete da
condurmi?

Il brigadiere interrogò collo sguardo il Commissario.

— Al palazzo Madama: comandò questi; e poi rivolgendosi al prigioniero,
soggiunse: fra un quarto d'ora ci troveremo colà di nuovo faccia a
faccia, signore.

Il _medichino_, le braccia così legate come aveva che le cordicelle gli
entravano nella carne intorno ai polsi e gli facevano gonfiare le vene
da parere dovessero scoppiare, andò a porsi in mezzo ai carabinieri che
lo dovevano accompagnare e disse loro semplicemente:

— Andiamo pure, signori.

Le gambe, per la stretta legatura che avevano sofferto sino a quel
momento, gli dolevano così che sembravagli da principio non poter mutare
pure un passo; ma la sua fisionomia non rivelò nemmeno con una smorfia
il tormento ch'egli soffriva: impose al suo corpo d'obbedire alla
volontà, alla sua mente di non sentire il dolore, e con passo franco si
partì scortato dai carabinieri.

Il Commissario e Barnaba si avviarono da parte loro verso il Palazzo
Madama: e la debolezza del secondo rese necessaria una carrozza. Tofi
fece passare quest'essa nella strada ove abitava il generale Barranchi e
fermarsi alla porta del palazzo. Per fortuna il capo supremo della
Polizia era appunto in casa e, fatto introdurre senza ritardo il
Commissario, ne apprendeva tosto le importanti novelle delle catture e
della scoperta avvenuta quella sera.

Il bravo sor Generale lodava con moderazione e sussiego il buon successo
del Commissario, e poi tosto soggiungeva:

— Spero che quelle tali lettere di cui vi ho parlato saranno già in
poter vostro.

— No, Eccellenza, non ancora: rispose Tofi, e disse come nei luoghi da
esso perquisiti non le si fossero rinvenute.

Barranchi corrugò la sua piccola fronte superba.

— Diavolo! Codesto ve lo avevo tanto raccomandato!

— La non dubiti, s'affrettò a soggiungere il Commissario: le si saranno
trovate alla casa di quel mariuolo od in qualcuna di quelle altre camere
mobiliate ch'e' teneva a pigione.

— Va bene: e ricordatevi che appena le abbiate me le recate voi stesso.

— Sì signore.

Tofi discese, tornò nella carrozza dove Barnaba era stato aspettandolo,
e fu dopo pochi minuti nel suo bugigattolo al Palazzo Madama. Gli agenti
che avevano fatto la perquisizione al domicilio del _medichino_ e nei
varii suoi altri ricoveri, traendone in arresto i servi e taluni di
coloro che gli affittavano le camere, già stavano colà per fare la
relazione del loro operato. Il Commissario li interrogò sollecitamente e
se ne fece rimettere le carte che avevan preso: ve n'era di molte, ed
alcune abbastanza importanti, ma quelle benedette lettere tanto cercate
non v'erano. Tofi fu preso dalla stizza: mandò via con mal garbo tutti
que' suoi subordinati, e rimase solo con Barnaba, il quale in questo
affare era naturalmente elevato al grado di suo confidente e
consigliere.

— Che quello scellerato le abbia distrutte? disse il Commissario: non
posso crederlo. Mi vien voglia d'interrogarlo e cercare di
strappargliene la verità.

Barnaba fece un moto che indicava come alla riuscita di questo tentativo
credesse poco, ma disse che era forse spediente interrogare l'arrestato
in quel primo sbalordimento che certo gli aveva prodotto il suo arresto.

Tofi diede ordine il _medichino_ gli fosse condotto dinanzi.

Gian-Luigi era arrivato pur allora e stato rinchiuso in una delle
segrete delle torri. Fino a che era stato in presenza di gente, la sua
faccia aveva conservata una tranquillità quasi sprezzante, una fierezza
quasi minacciosa: ma quando fu rimasto solo, al buio in quella piccola
cella, di cui udì chiudersi con infausto rumore le serrature e tirarsi i
catenacci alla porta, dritto in mezzo alla carcere, la sua fisionomia
ebbe un'espressione di spasimo, di disperata rabbia, di selvaggia
ferocia che avrebbe fatto paura e pietà a chi l'avesse potuto vedere.
Sollevò verso la volta le sue mani ancora strettamente legate ai polsi e
ruppe in orribili bestemmie.

— Ecco: si disse: tutto è finito. Stolto ch'io fui! Non ho saputo
evitarla questa sorte che superbamente mi dicevo non sarebbe mai stata
la mia. Qui fanno capo tutte le mie audacie e tutti i miei sogni!... E
non ho nemmeno saputo uccidermi!...

Pensò scaraventarsi col capo contro la muraglia ed infrangervisi la
cervice: ma era tanto buio là dentro che non si vedeva abbastanza per
misurare il colpo e l'aire. In quella udì riaprirsi le varie serrature e
i chiavistelli dell'uscio, una luce rossiccia penetrò nel carcere, e gli
si disse che doveva comparire innanzi al Commissario. Egli aveva
ricomposto il suo volto alla superba calma di prima.

— Il vostro nome? gli domandò Tofi squadrandolo col suo burbero
sembiante.

— Lo sapete: rispose brusco Quercia stando innanzi all'interrogatore
colla mossa di un principe.

Il Commissario proruppe coll'accento che intimoriva qualunque:

— Ah! non vi crediate di fare il bell'umore con me, chè sono capace di
ridurre alla ragione anche voi.

Gian-Luigi levò le sue mani legate all'altezza dei suoi occhi e si mise
a guardare le profonde incavature livide e sanguigne che gli facevano
nella carne le cordicelle.

Tofi vide quell'atto; diè una volta per lo stanzino, e chiamò dalla
prossima camera una guardia con voce minacciosa e tonante.

— Slegate il prigioniero: disse bruscamente alla guardia che accorse.

L'ordine fu obbedito. Il _medichino_ non disse nulla, non ringraziò
nemmeno con uno sguardo, non mandò neppure un sospiro di sollievo: alzò
le braccia in su ed agitò lievemente le mani per farne discendere il
sangue agglomeratovisi tanto da renderne turgide le vene e gonfie le
carni.

— Risponderete? disse allora il Commissario.

— No: rispose asciutto il prigioniero.

— Alla croce di Dio!

— Non bestemmiate, sor Commissario. Non ho nulla da dire, non voglio dir
nulla. Rimandatemi nella carcere, risparmierete a voi l'irritazione e la
collera, a me il fastidio di queste scene.

Tofi stette un istante in silenzio a guardare il suo prigioniero; poi
gli si accostò lentamente.

— Lascierò il carico d'interrogarvi ai signori giudici; ve la caverete
con essi come vi parrà; io vo' farvi una sola domanda che ha tratto ad
un vostro interesse particolare, e rispondendo alla quale potrete averne
giovamento.

Accostò le labbra all'orecchio del _medichino_ e susurrò:

— Dove sono le lettere della contessa?

Un lampo sfavillò negli occhi di Gian-Luigi.

— Ah, ah! diss'egli scherzosamente: vi ha gente che s'interessa di molto
a quella prosa?... Or bene, prima di rispondere, ditemi un po', sor
Commissario, quale sarà il giovamento che m'avete annunciato io ne
avrei?

— Sareste trattato con più riguardi.

— Eh che cosa m'importa dei vostri riguardi? Esclamò con superbo
disdegno il _medichino_. Avreste dovuto vedere ormai s'io sono una
femminetta..... Quelle lettere sono in luogo sicuro, e dite a chi se ne
interessa, ch'io non isvelerò questo segreto fuorchè ad una persona
sola: alla contessa medesima che si degni venire a fare un'opera di
carità, visitandomi carcerato.

Non fu possibile cavarne altro. Quercia fu ricondotto alla sua prigione,
e il Commissario per disperato, esclamò avrebbe fatto qualunque cosa per
venire a capo di spuntarla e metter la mano su quelle carte. Barnaba che
aveva taciuto sino allora, accasciato com'era e mezzo disteso in un
angolo, si levò e venne dire al Commissario:

— Credo avere indovinato chi è il depositario di quelle lettere.

— Chi? domandò Tofi con tutto l'interesse che meritava una simile
circostanza.

— Una donna che fu la confidente di quest'uomo, che forse ne è complice
e che si farebbe molto bene ad arrestare eziandio: Zoe, detta la
_Leggera_.

Il Commissario strabiliò.

— La mantenuta del Duca!... Siete matto? Volete perderci tuttidue?

— Se si facesse una perquisizione colà, son certo che si troverebbero
quelle lettere che vogliamo avere.

Tofi pensò un momento.

— Converrebbe che a far ciò ci fosse un agente dei più sicuri...

Barnaba si fece ancora più pallido di quello che era, disse mettendo una
mano sul braccio del Commissario:

— Ci andrò io stesso.

— Voi! Se non potete più reggervi in piedi!

— Avrò forza bastante anche per ciò... Lo desidero, la prego di
concedermelo.

— Ebbene sia.

Era presso la mezzanotte quando Barnaba con sufficiente scorta
s'introduceva nella casa abitata dalla Zoe e suonava all'uscio della
celebre cortigiana.



CAPITOLO XXIII.


La Maddalena, sferratasi a quel modo che abbiamo visto, dalle mani
dell'_arciere_, si diede a correre per le viuzze scure e tortuose di
quella antica parte della città, senz'altra direzione e senz'altro scopo
fuor quelli d'allontanarsi dalla bettola e il più presto possibile. Si
temeva inseguita, e non cessò dal correre, finchè non la si trovò fuori
della città, sopra uno dei viali che circondavano allora Torino, in una
perfetta oscurità ed in un più perfetto silenzio. Allora la si fermò
alquanto, e per riposare, e per riavere un po' di respiro affatto
impeditole dall'affanno, e per pensare che cosa dovesse fare.

La prima cosa che voleva era sapere del _medichino_. S'accorse che le
gambe l'avevano portata su quel viale dove era la casetta isolata dei
misteriosi ritrovi, e per prima cosa pensò accostarsi cautamente a
quella palazzina, per tentare di scoprirvi alcun che. S'accorse di
subito, appena l'ebbe vista, che la casa era occupata, e non dubitò
punto che non ci fossero gli agenti della Polizia. Indugiatasi in quelle
vicinanze un po' di tempo, ora venendo presso al muro nella speranza di
scorgere cosa che le svelasse il vero, ora allontanandosene per timore
d'esser vista da qualche poliziotto messo a guardia ed in agguato,
avvenne che ad un punto ella vedesse uscire di là un gruppo di più
persone, fra le quali non tardò a conoscere _Graffigna_ e
_Stracciaferro_, posti in mezzo e legati alle mani.

Suo primo impulso fu spingersi innanzi, mostrarsi ai due mariuoli,
interrogarli con uno sguardo che essi avrebbero capito ed a cui
avrebbero saputo rispondere per apprenderle la sorte di Gian-Luigi. Ma
se ne trattenne, con più prudente consiglio, che mostrandosi correva
rischio, anzi era certa di essere arrestata anch'essa, ed allora non
avrebbe più nulla potuto per _lui_, al quale, senza sapere ancora il
come, era suo proposito, sua speranza, suo unico pensiero il giovare.

Vide allontanarsi il gruppo de' prigionieri, ed ella rimase colà,
nascosta nell'ombra, dietro il tronco d'un grosso albero, i piedi nella
neve, la testa scoperta, le spalle non difese, all'aria frizzante di
quella notte d'inverno, che la era quale al momento dell'invasione de'
poliziotti trovavasi nella calda atmosfera della bettola, incerta
l'animo, palpitante, tremante.

Che cosa era successo in quella palazzina? Che cosa in _Cafarnao_? Era
egli finito colà l'atto della tragedia in cui era in giuoco ciò ch'ella
aveva di più caro sulla terra? Pareva di no, perchè nella casetta
continuavano ad esser lumi e vedersi moto di ombre traverso i cristalli.
Maddalena era nella più ansiosa dubbiezza del mondo. Mentre la non si
poteva staccar di lì, perchè una voce segreta pareva avvertirla che in
quel luogo si decideva la sorte di _lui_, la quale era la sua sorte; una
quasi rampognante riflessione le diceva che forse avrebbe potuto altrove
spender meglio quel tempo che lì consumava inutilmente in sì febbrile ma
sì inerte aspettazione, che avrebbe dovuto esser già corsa
all'abitazione di lui, dove avrebbe sentito di certo, senza pur
interrogare, dalle ciarle della strada, se il _medichino_ colà fosse
stato colto, o no, che avrebbe potuto già far qualche cosa per
adoperarsi in favore di lui, per salvarlo.

L'istinto che la teneva inchiodata a quel luogo ebbe ragione. Dopo una
lunga attesa, che a lei parve eterna, udì nuovo rumore di gente che si
moveva dalla palazzina, vide un altro gruppo di persone uscire da
quell'uscio, scendere lo scalino, venir lentamente traverso il cortile,
accostarsi al cancello di ferro. Non ebbe mestieri che d'un'occhiata
sola per conoscere al chiaror della luna, chi fosse quell'uomo che più
legato ancora dei due che erano usciti precedentemente, veniva fuori in
mezzo ai carabinieri, camminando con uno stento che si sforzava a
dissimulare.

Era lui! Maddalena sentì il sangue darle un rimescolo: ebbe appena tanto
di prudenza e di forza da trattenere nella gola il grido di dolorosa
sorpresa, di spasimo e di rabbia che voleva scoppiare; si tenne al
tronco dell'albero dietro cui si riparava, e nella rugosa corteccia
dell'olmo piantò le sue unghie, tra per sorreggersi in piedi chè le
gambe le mancavan sotto, tra per dare un subito sfogo alla tanta
passione tormentosa che l'invase.

Come le apparve bello al pallido chiaror della luna! Più pallido di quel
raggio, che illuminandole, pareva accarezzarne le sembianze, ma fermo,
ma tranquillo, ma con una leggera amarezza d'ironia che pareva una nota
di superiorità a quelli che lo circondavano, all'umana schiatta, alla
sua sorte, egli rappresentava una sfera di gentilezza, un ideale di
distinzione a quella giovane plebea dal sangue ardente, in cui
tumultuava la passione, cui spingeva un'aspirazione d'istinto verso il
bello e l'eletto, come spinge anche la farfalla notturna una ignota
possa verso la lucentezza della fiamma.

Avrebbe voluto slanciarsi addosso a lui ad abbracciarlo; avrebbe voluto
aver le forze di Sansone per atterrare quei rappresentanti della
tirannia sociale e liberarlo; non voleva a niun conto lasciarlo passare
senza fargli sentire che ella era lì, che il cuore di lei non si mutava
e traboccava di passione per esso, che a costo anche della vita avrebbe
ella tentato giovargli. Ma non dimenticò la prudenza, camminando pian
piano, con accorta cautela, venne a portarsi innanzi ad uno dei rari
lampioni che avevano ufficio, e non lo adempivano, di rischiarare il
viale, e si pose in modo che ella, stando nell'ombra, vedesse chi
passava nel ristretto cerchio di luce rossastra, mandata dal lampione.
Quando Gian-Luigi fu a quell'altezza, ed ella ne potè ancora mirare le
dilette sembianze, Maddalena levò la voce in quel silenzio della notte,
che non era turbato fuorchè dal passo in cadenza dei carabinieri, gridò
una sola parola:

— Spera!

I carabinieri si riscossero e gettarono acuti sguardi nell'oscurità da
quella parte ond'era venuta la voce; ma nulla scorsero. Gian-Luigi
quella voce la riconobbe: volse a quel punto un sorriso di
ringraziamento, di gratitudine, d'affetto e continuò tranquillamente la
strada.

Maddalena era sparita.

Prendendo la corsa lungo il viale nella direzione opposta a quella che
avevano i carabinieri col loro prigione, nell'intento di rientrare in
città per un'altra parte, Maddalena non sapeva bene ancora che cosa
avrebbe potuto fare, che cosa avrebbe fatto in pro del suo amante.
Agire, la doveva, la voleva; sentiva una interna agitazione che non la
lasciava stare alle mosse. Ma che fare? che fare, ella povera fanciulla
della plebe, senz'altre attinenze che coi miserabili perduti nelle più
basse regioni della infima classe, nel fango sociale della povertà, dei
vizi e del delitto? Avrebbe dato tutta la sua vita, la sua bellezza fin
anco, la sua parte di paradiso (se pur osava sperar d'avere possibilità
d'entrarci) per arrivare un momento, un solo momento, a possedere forza
e potenza, l'autorità del grado, del nome, della ricchezza, la balìa
delle cose del mondo. Un'idea spuntò finalmente nel suo cervello
affaticato a immaginare spedienti dalla sua volontà incitata dalla
passione. Si ricordò che quel Barnaba medesimo, che era stato messo di
certo alla caccia del _medichino_, parlandole di costui appunto, le
aveva rivelato come Quercia fosse l'amante della Zoe, cortigiana
sfarzosamente elegante, mantenuta d'un Principe, della contessa di
Staffarda, nobilissima fra le nobili dame della città. Queste donne
dovevano avere quello che a lei mancava, l'influenza; ed esse al pari di
lei dovevano desiderare ardentemente di adoperarsi in pro del giovane,
poichè lo amavano. Non c'era altro adunque per allora da fare che
correre da una di queste, da tuttedue, raccontare il fatto e spingerle
subitamente all'opera. A quale doveva ella dare la precedenza? Editò
alquanto, e poi si decise per Zoe. Quantunque in altro ambiente, in
altro grado, direi quasi, quest'ultima era pure una cortigiana; e
Maddalena sentiva quindi con essa maggiori i punti di contatto, e per
ciò glie ne pareva più facile l'abbordo e che le sarebbe meno
impacciato, quando si trovasse in faccia a lei, il discorso. Da Barnaba
essa s'era fatto dire l'indirizzo dell'abitazione dell'una e dell'altra
dalle sue rivali: senza perder più tempo, corse dalla _Leggera_.

Costei, ancora in iscrezio col suo principesco amante, si faceva
consolare dell'abbandono di lui dalle galanterie del signor Bancone, il
re di denari nel mondo bancario d'allora; galanterie quotate alla borsa
del cuore della celebre cortigiana, e presentemente in rialzo. Quando la
confidente megera, che le serviva anche da mezzana sotto il pretesto di
farle da fante, venne a susurrarle nel padiglione di un'orecchia che una
povera popolana, giovane, belloccia, agitata, ansante era colà che
chiedeva parlarle di cosa gravissima e che premeva assai, la Zoe non
ebbe altro miglior pensiero fuor quello di mandarla ai cento mila
diavoli e risparmiarsene il fastidio d'una visita e d'un colloquio che
non poteva e non sapeva attribuire a cosa che lei potesse riguardare.
Fra la schiera immorale e tuttodì crescente con sempre più audace
spudoratezza delle venditrici d'amore, la _Leggera_ teneva un poco
invidiabile e pur da molte e da molte invidiato primato; invidiato non
che dalle compagne di vergogna cui la bellezza o la fortuna non
favorivano di tanto, ma, e questo è doloroso a pensarsi, dalle ragazze
di povere famiglie che stentavano la vita e si frustavano la non sorrisa
giovinezza ad un povero lavoro, e cui la mancanza d'attrattive, il caso
solamente, la sorveglianza de' genitori soltanto, non più un'onestà che
era sparita nelle dure prove della miseria, impediva di avere con sì
facile infamia vesti di seta ed ebbrezza di vizi. Per ciò all'antica
saltatrice di corda e danzatrice sul dorso di cavalli, avveniva sovente
quello che suole avvenire ad artisti da teatro di gran fama, a cui,
cioè, molti, o spinti dalla vocazione, o dalla molla d'una vita che
appare al pubblico piena di soddisfazioni e di gaudii, o dalla mattana,
o dall'irrequietezza dell'indole, ricorrono per aver consigli,
avviamento ed aiuti per intraprendere quella carriera in cui il
consultato è giunto già a sì elevata meta. Dalla Zoe ricorrevano povere
fanciulle abbandonate dall'amante, perseguitate dalla tirannia d'un
padrigno, od anche d'un padre ubriacone, perseguitate dalla miseria,
solleticate dalla smania dei piaceri mondani, dall'infingardaggine e
dalla voluttà, per imparare come si doveva fare a vendere utilmente quel
poco d'onore che loro ancora rimaneva. La Zoe, o loro rispondeva con
disprezzosa ironia, o le respingeva con indegnazione, o si commoveva
alle narratele miserie e veniva largamente in soccorso della sventura:
imperocchè per un'anomalia, che trovasi frequente in questa fatta di
donne, ella, spietatissima a pelare i giovani che le cadevano sotto le
unghie, non dandosi il menomo pensiero pur mai de' guai, delle
dissensioni o de' danni che recava in oneste famiglie, era poi a volta a
volta pietosissima per le sofferenze dei poveri, per quelle strette
della miseria traverso le quali ricordava pure esser passata la sua
infanzia, e di cui non esente la sua adolescenza.

Quando adunque la cameriera osò violare la soglia del gabinetto in cui
la padrona e il banchiere milionario stavano fronte a fronte
nell'intimità d'un _petit-souper_ inaffiato del vino spumeggiante di
Sciampagna, la Zoe credette che la fanciulla presentatasi a domandare un
colloquio con lei fosse una di quelle sventurate, a cui l'urgenza del
pericolo o della miseria facesse impaziente di gettar via al più presto
quel poco fardelletto di virtù e incaricò la fante della risposta che
accennai poc'anzi: ma quando la cameriera medesima tornò a riferire che
quella giovane con aria della maggior disperazione insisteva per vedere
subito la signora, affermando trattarsi di vita o di morte d'una persona
che a lei pure era carissima, la cortigiana non fu mossa da nessuna
inquietudine, sibbene da una certa curiosità che le fece sperare nel
domandato colloquio, uno spasso, un'occupazione d'un quarto d'ora —
tanto di rubato alla fastidiosa compagnia del Giove della banca che
l'aveva visitata in Anfitrione.

— Che cosa c'è? domandò appunto questi veggendo i sommessi parlari della
cameriera colla padrona.

Zoe guardò la faccia melensamente vanitosa del banchiere ringalluzzito
dal vino di Francia, i ciondoli d'oro che oscillavano e tintinnivano sul
madornale di lui ventre, e sentì viemmaggiore il desiderio di un
diversivo.

— È una povera giovane che dice avermi da parlare di cose di rilievo...
La vogliamo far venire?... Chi sa che le sue ciancie non ci
divertano!.... La è anche bellina.

Bancone ebbe un sorriso, in cui erano armoniosamente fusi quello d'un
Satiro e quello di Sileno.

— Ah ah! la è bella? domandò egli alla fante, facendo saltare i gingilli
dell'orologio.

— Signor sì.

Il banchiere si sdraiò di meglio sulla poltrona cui occupava col suo
corpo da elefante, ponendo in vista maggiormente la potenza della sua
pancia da Epulone; prese in mano un bicchier da Sciampagna e guardò con
occhio ammiccante il rifrangersi della luce traverso il liquore rosato.

— Va bene, va benissimo. Fate pure entrare quella ragazza.

Nell'entrare in quel luminoso e caldo camerino pieno di tanti profumi
che salivano impetuosamente al cervello: fiori, acque nanfe, vapori di
vivande e di vini, Maddalena rimase come abbagliata e sbalordita. La
veniva dal freddo e dall'oscurità della notte, e trovavasi di botto,
come per un colpo di verga magica, trasportata in mezzo ad uno splendore
di Eden sensuale. Stanca ed ansimante per la corsa che aveva fatta, la
si arrestò un momento sulla soglia e gettò nel gabinetto uno sguardo di
stupore, di curiosità quasi selvaggia. Gli occhi accesi dalla passione
del cuore e dall'animazione del sangue, le guancie infiammate per la
violenza del moto, pel flagellare dell'aria ghiaccia notturna, pel
rapido passaggio dal freddo intenso della strada al calore pieno di
effluvii di quello stanzino, la bellezza proterva della popolana aveva
una tale espressione di temerità, di sfacciataggine direi, che il vizio
intelligente del vecchio libertino ne fu sovraccolto.

— Oh oh! esclamò egli posando il suo bicchier da Sciampagna sul
candidissimo mantile: ecco una mariuola che deve sapere l'affar suo.
Venite avanti, venite avanti, ragazza.

La Zoe aveva piantato i suoi occhi smaglianti e a fior di pelle in volto
alla nuova venuta, e col tatto che è dote naturale delle donne, in lei
fatto più fine per codesto uso dall'esperienza, aveva subitamente
giudicata la strana visitatrice; la non era di quelle solite che vengono
a chiedere consigli di corruzione o soccorsi; ella non aveva bisogno di
andare a prendere da nessuno lezioni d'audacia o d'arte per torsi
d'impaccio. Ma per che cosa veniva ella dunque? Vi era nella sua
risolutezza qualche cosa di amaramente doloroso, nell'attenzione con cui
guardava quella innanzi a cui aveva domandato essere introdotta, v'era
alcun che d'ostile e insieme di espansivo. Zoe guardò con non celata
curiosità quel mistero in gonnella cui non sapeva spiegarsi. Maddalena,
nel medesimo tempo, esaminava con un sentimento assai complesso la
famosa cortigiana. Ne scrutava con occhio critico di rivale la bellezza,
ne studiava nell'espressione dei tratti l'indole, per indovinare che
cosa potesse sperarne. Quei due esseri simili, in quel mutuo raffronto,
non ostante un certo elemento di ripulsione che sentivano fra loro, si
riconobbero un'anima compagna, un'origine comune, una sorte medesima ed
un inesplicabile legame che le avvinceva.

Zoe fece un gesto invitativo colla mano e disse a sua volta:

— Venite avanti.

Maddalena venne fin presso alla tavola su cui specchieggiavano i
cristalli e gli argenti, appoggiò una mano al tessuto finissimo di quel
mantile di tela di Fiandra candido come la neve appena caduta, e disse
con voce che l'affanno della corsa e l'emozione del momento rendevano
saltellante e velata:

— Scusi se vengo a disturbarla, ma si tratta di cosa che preme
cotanto!...

— La è un pezzo di consistenza: disse col cinismo del ricco corrotto e
corruttore, Bancone, che guardava con occhio cupido le forme procaci
della giovane plebea. Avete freddo, eh carina? Sedetevi qui presso me,
innanzi a questa bella fiammata. Ve' la non può manco trarre il fiato.
Aspettate: bevete questo bicchiere e ne sarete rinfrancata.

Riempì sino all'orlo di vino di Sciampagna un bicchiere fatto a calice e
glie lo porse. Maddalena lo prese, guardò chi glie lo stendeva con una
malvogliosa indifferenza, come si fa d'un fastidioso che secca
incontrare, e bevve d'un fiato.

— Da brava: esclamò Bancone, tornando ad arrovesciarsi sulla sua
poltrona e scoppiando in un riso grossolano e sgangherato che gli era
solito. Che ne dite eh, cara la mia giovane?

Allungò un braccio per prenderla alla vita; Maddalena si trasse in là e
lo guardò con dispettosa impazienza.

— Tacete: disse severamente Zoe all'Anfitrione, e state fermo.

Poi volta alla giovane:

— E voi, che cosa avete da dirmi di tanta premura?

Maddalena accennò con moto del capo al grosso banchiere.

— Ho bisogno di parlare a Lei sola.

La _Leggera_ si levò e disse alla giovane:

— Venite meco.

— Ecchè? Voi mi piantate in questo bel modo? Esclamò Bancone volendo
dare al suo aspetto ed alla voce l'espressione del corruccio d'un uomo
che paga per essere divertito.

Zoe, che già era avviata all'altra stanza, non volse che la testa verso
il milionario.

— Se volete aspettarmi, siete padrone: diss'ella: se vi rincresce
l'indugio, siete padrone eziandio di andarvene.

Il banchiere borbottò una filza di rimproveri al battente dell'uscio che
si rinchiuse dietro le spalle delle due donne, e sfogò la sua bizza
sulla bottiglia di Sciampagna che aveva a tiro della mano.

— Ebbene? domandò la _Leggera_, piantandosi in faccia alla popolana. Ora
siamo sole e potete parlare.

Maddalena avvicinò il suo al capo della interrogatrice, le affondò, per
così dire, gli occhi negli occhi e disse con voce sommessa, ma vibrata:

— Gian-Luigi fu arrestato.

Zoe ebbe un sussulto di tutta la persona e una fiamma le balenò nello
sguardo; ma raffrenatasi tosto, disse freddamente:

— Chi? Quale Gian-Luigi?

— Quercia: rispose sempre a voce bassa ma con una veemenza quasi
indignata la Maddalena: il _medichino_, il vostro amante... ed il mio!

— Chi siete voi? domandò allora la cortigiana, serrando al suo petto le
braccia. Come mi conoscete? Perchè siete venuta da me? Ditemi tutto, e
siate schietta e veritiera.

La giovane contò ogni cosa, dalla prima conoscenza da lei fatta di
Gian-Luigi che aveva visto con abiti da popolano, frammisto a popolani,
introdursi nella taverna di Pelone, alla compiuta fiducia che presso di
lui le aveva acquistato la sua devozione amorosa, agli avvenimenti di
quella sera che avevano finito coll'incarceramento del _medichino_.

— Ed ora che cosa bisogna fare? disse la _Leggera_, quasi interrogando
se stessa, quando Maddalena ebbe finito.

— Bisogna salvarlo: esclamò la popolana con forza e calore. Bisogna che
lo salviamo noi, donne che lo amiamo. Io, sventurata, non ci posso nulla
che metterci la mia vita. E son pronta a dare tutto il mio sangue. Ma
Lei e la contessa di Staffarda che sono potenti: loro possono e debbono
toglierlo dal mal passo... Io imparai l'indirizzo di casa sua, con ben
altri intendimenti che di venire ad un amichevole colloquio, sa!... Fui
gelosa di Lei con una rabbia feroce, e mi sarei sentito il cuore e la
forza di sbranarla. Ma ora ch'egli è colpito dalla sventura, ho pensato
che non avremmo più che una volontà sola, che uno scopo... Lo salvi, ed
io le sarò riconoscente più che se me avesse tolta alla morte...

Zoe meditava. Recarsi dal Principe non le pareva in quel momento il
mezzo migliore; per riafferrare tutta la sua influenza su di lui era
necessario lasciare che S. A. fosse la prima a venirsi umiliare alla
bassezza della cortigiana: ed andarlo a cercare essa per supplicarlo in
favore appunto di colui che era stato la cagione del suo principesco
furore, era un'imprudenza e non altro. Il cenno che Maddalena fece della
contessa di Staffarda le richiamò alla mente una circostanza che in quel
punto non ricordava, e la pose sulla vera strada.

— La contessa di Staffarda! diss'ella. Sì! Ecco il filo che si ha da
tirare. — Ella per amore e per paura... e suo marito... sì, anche suo
marito ci ha da concorrere — il marito colla minaccia della pubblicità.
— A ciò pensava Luigi dandomi quelle lettere... Le sono un vero
talismano.

Si volse a Maddalena e disse ratto:

— Aspettatemi un momento, ed usciamo insieme.

Suonò con forza il campanello.

— Si attacchi subito subito e in tutta fretta: disse alla fante che
accorse. A me un cappellino, una mantiglia, una cosa qualunque da
mettermi sulle spalle...

La non era vestita che di una stupenda veste da camera di _cachemir_
foderata di seta; e nelle biancherie del collo e nella chioma aveva un
disordine, effetto di quella orgia a due che la Maddalena era venuta ad
interrompere. La cameriera domandò qual abito avesse da recare, per
indossarle.

— Nessuno: disse con impazienza la Zoe. Dove vo non avranno campo nè
voglia da guardarmi l'acconciatura.

Si avviluppò in un mantello e passò nel gabinetto dove Bancone
combatteva la noia dell'attesa con gli avanzi del banchetto.

— Mi capita una delle maggiori sciagure che mi potessero mai capitare:
disse affrettatamente la cortigiana a Bancone sbalordito. Bisogna ch'io
corra subito a tentar di rimediarvi. Non vi dico più di aspettarmi e
perchè non so quando potrò essere di ritorno, e perchè tornata, non avrò
tale umore da esservi di piacevole compagnia.

E senza aspettar risposta, fatto cenno alla Maddalena di seguirla, uscì.
La carrozza era pronta, le due donne vi salirono, e pochi minuti dopo
arrivavano alla porta del palazzo di Langosco.

— State qui dentro ed aspettatemi: disse Zoe alla sua compagna, ed
aperto l'usciòlo saltò leggermente a terra, corse per l'andito, su delle
scale, e si presentò nell'anticamera degli appartamenti, dove parecchi
domestici stavano sbadigliando.

— Vorrei parlare alla contessa: disse vibratamente la _Leggera_ e con
tono di comando.

— Non si può: rispose uno dei domestici: la signora contessa è a letto
malata e non riceve nessuno.

La cortigiana guardò con aria di superba superiorità i domestici, e
soggiunse fieramente:

— Andate dire alla vostra padrona che sono la Zoe, detta la _Leggera_,
che ho da dirle cose che la riguardano molto da vicino, e che non mi
parto di qua senza averle parlato.

Candida che sapeva pur troppo qual unico punto d'attinenza esistesse fra
sè e quella donna, indovinò riguardo a che ed a chi le si voleva
parlare: e benchè una grande ripugnanza fosse in lei a mettersi a
contatto con simile rivale, la curiosità, l'ansia, il pensiero di
apprendere qualche importante circostanza, la paura d'uno scandalo
fecero ch'essa tal ripugnanza superasse, e la Zoe venne introdotta nella
camera da letto della contessa di Staffarda.

Quelle due donne di sì diversa classe, educazione e qualità, che ora si
trovavano a fronte per sì strano giuoco di caso, già si conoscevano di
veduta, già, senza che paresse, incontratesi parecchie volte per istrada
ed a teatro, s'erano esaminate con occhio di rivali, non ostante la
immensa distanza che ne separava la condizione, ed avevano recato l'una
dell'altra reciproco, dispettoso e sprezzante giudizio della bellezza.
S'erano odiate: la Zoe perchè nella nobile dama invidiava quella
superiorità sociale contro cui, anche in lei, si ribellava il sangue
plebeo; la contessa perchè con vergogna sapeva che la vil cortigiana le
disputava l'amante. Si disprezzavano eziandio: e in un contrasto fra
loro, Candida aveva da riuscir meno forte e risoluta, perchè non aveva
più nemmeno di se medesima la stima, e l'autorità del grado e del nome
ch'essa aveva coscienza d'avere macchiato, non bastava a tener luogo di
quella della virtù che aveva perduta, contro la sfacciataggine della
donna, che del disonore faceva il suo mestiere. Si guardarono un poco
senza parlare, anche quando, per ordine della contessa, furono lasciate
sole; e l'imbarazzo e l'onta apparvero sulla fronte della padrona di
casa che accoglieva una tal visitatrice, e non su quella di costei.

Povera Candida! Com'era ella mutata in poco tempo! Il pallore ordinario
delle sue guancie — una delle sue bellezze — che le dava un'espressione
di sentimento e rivelava l'essere della sua anima appassionata, era
diventato un pallore morboso, segno di sofferenza; il viso dimagrato, le
labbra scolorate, le occhiaie infossate ed allividite, gli occhi
brillanti d'una luce febbrile colle palpebre rosse rivelavano le ansietà
e i patemi dell'animo suo, le mal celate lagrime dolorose. Sollevandosi
alquanto della persona, col gomito puntato ai cuscini, ella stava
aspettando, come si aspetta l'annunzio d'una sventura, le parole che
erano per uscire dalle labbra della cortigiana; ma questa, come se
godesse di quell'ansietà e di quell'imbarazzo, si teneva immobile, in
silenzio, innanzi a lei, le braccia incrociate al petto, con mossa d'una
insolente famigliarità, con un certo piglio di ostile osservazione, di
ironia e di minaccia.

La contessa si decise a provocare con una richiesta le parole della Zoe.
Esitò un momentino se avesse ad usare il _voi_ od il _lei_ parlandole; e
per allontanare la difficoltà, disse nel modo seguente, non senza sforzo
e con voce non del tutto sicura:

— Siamo sole; si può parlare liberamente e credo non vi sia ragione
d'indugiare. Sono qui ad ascoltare tutto quello che mi si vuol dire.

La _Leggera_ fece ancora un passo per avvicinarsi di più al letto, si
curvò alquanto della persona, come per diriger meglio le sue parole
sulla faccia della contessa, e guardandola sempre a quel modo
impertinente e minaccioso, disse con voce sommessa, ma vibrata:

— Luigi..... il _nostro_ Luigi fu arrestato questa sera..... E se non lo
salviamo noi, egli dovrà salire sulla _forca_!...

Per Candida fu, come se ricevesse nella faccia e nel petto l'urto d'un
colpo materiale: si lasciò andare indietro sui cuscini impallidita come
una morta, gli occhi sbarrati da uno sgomento indicibile; ma la riazione
fu lesta a venire. Quella che le tornava un'esagerazione, le apparve con
tutti gl'indizi della falsità. L'azione, le parole, l'aria del volto
della cortigiana non furono più per lei che un sanguinoso oltraggio, cui
quella donna perduta aveva avuto la temerità di venirle ad infliggere
nella sua casa medesima. Il sangue le salì di bel nuovo alla faccia a
ricolorarle più vivacemente le guancie, a ridonare più fuoco allo
sguardo. Fulminò d'un'occhiata imponente la sciagurata che le stava
dinanzi, e il disprezzo non consentendo al suo sdegno di pronunziare
pure una parola, non fece altro che allungare il braccio verso il
cordone del campanello. La Zoe, con un balzo da tigre a ghermir la
preda, le fu sopra, le afferrò quel braccio e stringendolo colla sua
mano nervosa, da lasciarvi sulla pelle liscia e finissima l'impronta
delle sue piccole dita, disse piano, con un fiero sogghigno:

— La badi, non faccia imprudenze. Cacciarmi per mezzo de' suoi domestici
di casa sua, è presto detto, ma non può farsi così presto e così piano
che non ne nasca uno scandalo. Il darmi retta è non solo nell'interesse
di Luigi, che deve starle a cuore a Lei, come sta a me, ma
nell'interesse suo: la lo dovrebbe capire, senza ch'io mi sfiati a
dirglielo.

Candida fu quasi dominata da quella violenza; non pensò a riluttare; il
suo braccio rimase inerte; il suo capo si trasse in là, e gli occhi si
sottrassero allo sguardo ardente di quelli della cortigiana. Successe un
momento di silenzio.

— Lasciatemi: disse poi la contessa con accento di comando e di superba
impazienza, movendo il braccio per isvincolarlo dalla stretta di quella
mano il cui contatto le era più doloroso d'un'offesa.

Zoe lasciò andare la mano della contessa e incrociò nuovamente le
braccia al seno.

— Che cosa volete da me? Che siete venuta a pretendere qui colle vostre
menzogne?

— Menzogne! ripetè la cortigiana col suo sogghigno. Ah Lei ricorre al
comodo spediente di non credere. Le ripeto che Luigi Quercia fu
arrestato e che lo aspetta la _forca_, perchè gli è accusato di parecchi
assassinii e depredazioni...

Abbassò ancora la voce e soggiunse:

— E l'accusa è vera. Quercia è il famoso _medichino_ capo della _cocca_.

Candida non ebbe altra forza che quella di mandare un fievol grido.

— Che cosa voglio e pretendo? continuava la Zoe: che voi sua amante...
al pari di me... più di me... mi aiutiate a salvarlo; che non lo
lasciate passare dalle vostre braccia a quelle della morte la più
ignominiosa.

La contessa chiamò a raccolta tutta la dignità e tutto il coraggio che
ancora le rimanevano.

— Strano modo di venire ad implorare la mia protezione pel _vostro
amante_, assalendomi con calunnie e minaccie, non so se più assurde o
ridicole... Uscite; io non posso e non voglio far nulla per voi nè per
quel cotale... E s'egli è quello sciagurato che voi dite, ben lo
colpisca la vendetta delle leggi.

La _Leggera_ guardava con profondo stupore la donna che così le parlava;
ad un punto proruppe con un'esclamazione che pareva un ruggito:

— Ah sì?.... Ah gli è così che la prendete?..... Implorare io?..... Dove
avete visto, da che avete capito che io venga ad implorarvi?... vengo a
comandare.... Voi non volete far nulla per _quel cotale?_... Vi dico io
che farete.... Potevate addirittura affermare che voi non l'avete mai
visto, nè conosciuto... Ecco come sono queste gran dame che si chiamano
oneste, e che non hanno per noi che disprezzo. Ci vengono a rapire i
nostri amanti, a rubare il mestiere, e quando si sono saziate dei loro
vergognosi capricci, con fronte spudorata vi negan tutto, coprono la
loro infamia del loro blasone; fanno cacciare alla porta quella ch'esse
chiamano una donna perduta, abbandonano nella disgrazia colui che pur
ieri onoravano dei loro amplessi.... Infamia ed ipocrisia!.... Voi
valete assai meno di noi, signora.... Ma vi dico che io — la quale non
abbandono chi amo — io non permetterò che sia così. Ho in mano il mezzo
di farmi obbedire, e mi obbedirete.... Conveniva essere più prudente per
prepararvi il comodo spediente del diniego.... Ho in mano io le lettere
d'amore che avete scritte a Quercia l'assassino.

Candida, senza più forza, non seppe dare altra risposta che mandare una
voce di disperazione; ma di botto la sua fisionomia espresse ancora
maggiore l'angoscia, la vergogna e lo spavento, mentre gli occhi
fissavano atterriti appiè del letto. La Zoe si volse a guardare, e vide
colà apparire il cranio giallo e gli occhi viperini del conte Langosco.

— Voi insultate mia moglie, credo: disse il marito di Candida con
espressione di supremo disprezzo ed autorità: v'impongo di rispettarla.

La cortigiana, come domata da quell'aspetto, dallo sguardo e
dall'accento, fece un passo indietro e non ribattè parola. Langosco si
avanzò così da mettersi in mezzo fra Zoe e sua moglie, e senza pur
volgere un'occhiata a quest'ultima, ripigliò a dire:

— Ho udito nominare certe lettere..... che possono essere interessanti
per noi..... Ho io inteso bene?

— Sì, signor conte: rispose la _Leggera_.

— E le sono in poter vostro?

— Sì signore.

— Bene!... Gli è dunque un affare.... Si tratta di compra e vendita...
Non è alla moglie che dovevate indirizzarvi, ma al marito... Venite meco
di là.

Zoe parve esitare un momento: guardò la contessa che si sarebbe detta
svenuta, se non avesse avuto larghi e spaventati i suoi grandi occhi
neri, guardò il conte che nascondeva il suo furore sotto il solito
ghigno sardonico delle labbra sottili, ed alla moglie prestava tanta
attenzione, come se non esistesse, e rispose con una insolente
crollatina di spalle:

— La moglie o il marito fa il medesimo: fra loro se l'aggiusteranno come
lor piace; in faccia al mondo è una causa sola ed un medesimo interesse.

Passarono nell'appartamento del conte. Questi, appena entrato nello
stanzino che avrebbe potuto chiamarsi il suo studio, se mai fosse stato
presumibile ch'egli studiasse, piantato a mezzo la stanza, fermò que'
suoi occhi grifagni in volto alla cortigiana e le disse con accento in
cui il disprezzo e la minaccia non erano temperati che da quel certo
riguardo che la sua galanteria serbava pur sempre per qualunque giovin
donna in qualsiasi grado e condiamone la fosse:

— Gli è dunque un ricatto, un _chantage_, quello che vieni ad esercitare
qui da noi, la mia bella giovane?..... Bene! Non perdiamo tempo. Quanto
ne vuoi di quelle lettere?

— La libertà di Luigi.

Langosco crollò le spalle con impazienza.

— Non dire e non farmi dire delle parole inutili. Due mila lire ti
bastano?

Zoe tentennò il capo.

— Tre?... Cinque?... Otto mila lire, via.

— Nè anco venti... Le ripeto, signor conte, che voglio la libertà di
Luigi. Non è per altro che son venuta.

— Non ti capisco: spiegati.

— Quelle lettere darò a Lei od a sua moglie quel dì, in cui Luigi sarà
uscito di carcere.

— Sei matta... Bisogna domandare alla gente cosa che si possa fare.

— E questo, Lei, se vuole, lo può fare.

— Come?

— Con quel denaro ch'Ella è disposta a spendere per riavere quelle
lettere, si può comprare qualche guardiano; coll'autorità e le
protezioni di cui Ella dispone si può ottenere che qualche occhio si
chiuda..... Quercia può di questa guisa trovare aperta la sua prigione,
pronta una carrozza ed un passaporto e....

Il conte l'interruppe.

— È questo il solo partito che tu venga a propormi, il solo che tu
voglia accettare?

— Il solo.

— Olà! Che interesse ci hai tu cotanto a salvar la pelle di quello
sciagurato?

Gli occhi della cortigiana brillarono stranamente, ed ella rispose con
accento di voce più sommesso, quasi cupo:

— L'amo.

— Oh oh, tu!... Esclamò il conte; ma l'espressione scettica e sardonica
del suo sorriso mefistofelico si dileguò in presenza della risolutezza e
della serietà che erano impresse sulla faccia della Zoe; egli riconobbe
lo stampo della passione, e meravigliato di quel miracolo che aveva
creduto impossibile nell'animo di quella venduta, s'inchinò leggermente:

— E tu fuggiresti con lui?

— Forse!

— Per andare a vivere da tortorelle in una solitudine: _une chaumière et
son cœur_. Che strana razza di gente che siete!... Senti, Zoe. Tu mi
domandi una cosa che non si deve fare. Capirai che non si può rispondere
lì su due piedi un sì, e neppure un no, quando tanto interesse è in
giuoco. Lasciami pensare. Promettimi intanto una cosa: che di quelle
tali lettere non farai uso nessuno, finchè tu non abbia perduta ogni
speranza di salvare... colui.

— Glie lo prometto.

— Io ti farò sapere la mia decisione fra pochi giorni.

Zoe si mosse per partire; ma fatti pochi passi, s'arrestò, e venendosi a
piantare di nuovo in faccia a Langosco, disse con forza quasi feroce:

— Badi che vane promesse non mi potranno ingannare; e che saprò
ricorrere a tali cautele da premunirmi contro ogni tradimento.

Il conte non rispose; lasciò partire la cortigiana, poscia avvoltosi ben
bene entro la sua pelliccia, senza servirsi della carrozza, a piedi
s'avviò di buon passo verso l'abitazione del generale Barranchi.

Questi aveva ricevute le relazioni compiute ed esatte delle importanti
operazioni eseguite quella sera dalla sua Polizia: stupito, egli stesso,
lieto e superbo dei risultamenti ottenuti, si fregava le mani per un
trionfo di cui egli non aveva il menomo merito.

La comparsa di Langosco lo fece ricordarsi che a quel successo mancava
una sola circostanza per essere compiuto: ed era che non si aveva potuto
trovare quelle lettere di cui aveva promesso il ricupero al suo buon
amico. Ma quando appena ebbe incominciato a dire tale non affatto lieta
novella al marito di Candida, questi lo interruppe.

— So che non le avete rintracciate, diss'egli: ma so eziandio dove le
sono e dove si possono pigliare.

— Ah sì? esclamò il generale con aria tra meravigliata ed incredula.
Sentiamo un po'.

— Le ha in suo potere Zoe, la mantenuta del Principe.

Barranchi guardò Langosco con un certo stupore, ma nello stesso tempo si
rimpettì, ed atteggiò la sua persona ad una mossa di orgoglioso
soddisfacimento.

— Ah ah! voi credete, caro conte, di venirci ad apprendere una novella
mai più sospettata... Udite, ed ammirate come la mia Polizia è ben
fatta. In questo stesso momento uno de' nostri più fidi, più segreti,
più sicuri agenti, quello a cui molto si deve nello scoprimento di
questa rete infernale, trovasi in casa la _Leggera_ a farvi una minuta
perquisizione, appunto per trovarvi quello che voi desiderate. Domani
mattina prima che siate levato, riceverete il plico che conterrà tutte
quelle carte; potete dormir tranquillo con questa certezza.

Ma il domattina, invece del plico che Barranchi gli aveva promesso, il
conte di Staffarda ricevette il bigliettino seguente:

«Conviene che le relazioni avute da voi e quelle che a me pervennero
fossero false, o che quel demonio d'una Zoe sia stata avvisata in
qualche modo; il fatto è che per quanto minutamente siasi perquisita
tutta la sua abitazione, nulla si rinvenne, nè quelle tali lettere, nè
altro che la potesse compromettere. Ho dato tuttavia ordine che la si
arrestasse; e vedremo se la prigione la farà parlare.»

Langosco sgualcì con mano rabbiosa quel pezzo di carta, stette un poco a
meditare, e poi rispose al comandante della Polizia:

«Credo inutile sostenerla in carcere; quella donna non parlerà. Libera,
potrò trattare con essa ed ottenere la consegna di quei fogli, che
voglio avere a qualunque costo; e poichè nessuna prova ci avete contro
di colei, io vi consiglio e vi prego di metterla in libertà. Eviterete
così anche la collera del Duca.»

Mandò sollecitamente il biglietto al suo indirizzo.

— Purchè, disse fra sè, quella sciagurata nello sdegno di vedersi presa,
non pensi di subito a vendicarsi con quell'armi che ha tra mano.

Ma la Zoe, in grazia del maggior interesse che aveva in vista, represse
il furore onde in fatto era occupata. Ecco il bigliettino che a sua
volta, appena libera, scrisse al conte Langosco:

«Ella aveva promesso di non ricorrere a tradimenti. Ho imparato che
valore hanno le sue promesse. Ecco ora l'ultimo patto che le vengo a
dettare: se fra una settimana L. non è libero, quelle lettere faranno il
giro di tutta Torino. Nè creda impedire in altro modo qualsiasi questo
fatto. Dovessi anch'io sparire dalla faccia della terra, quei documenti
sono in luogo sicuro ed in mano di tale che eseguirà ad ogni costo la
mia volontà.»

Or ecco di che guisa l'accorta Zoe aveva sottratto le lettere di Candida
alla ricerca della Polizia.

Uscendo dal palazzo di Staffarda, dopo i colloquii avuti colla contessa
e col conte, la cortigiana era salita nella carrozza, dove stava
attendendola palpitante la Maddalena.

— Ebbene? Aveva domandato costei colla sollecitudine della maggiore
ansietà.

— Ebbene: aveva risposto la _Leggera_, tutto ancora agitata dalla
passione che l'aveva mossa in que' narrati abboccamenti: ebbene li tengo
per i capelli e li farò marciare a mio talento.... Vi è tutto da
sperare.

Maddalena in uno slancio di gioia riconoscente, prese la mano della Zoe
e la baciò con calore.

— Oh oh! esclamò la elegante mantenuta del Principe con un accento
strano in cui c'era ironia, commozione, sdegno e simpatia nello stesso
tempo: cara la mia ragazza, tu ami dunque molto quel birbone di Luigi?

— Tanto, tanto! rispose la giovane col più sincero espandersi della
passione.

— Dovremmo essere nemiche ed odiarci, poichè l'amo anch'io. Ma tu non
sei come quella superba impostora di contessa. Tu lo ami per lui e non
per te. Possiamo intenderci, noi due. Ah! due donne che amano sono una
gran potenza, sai; e lascia fare che fra noi due lo salveremo. Di poi,
per contrastarcelo, ci caveremo anche gli occhi....

— Ah no! proruppe Maddalena, cui la bellezza, la risoluzione, la
vivacità, la passione della cortigiana soggiogavano. Io sento di non
esser nulla, di non poter nulla. La mi adopri come vuole, prenda la mia
vita se occorre: lo salvi solamente, ed io sparirò nell'ombra per
lasciarla felice con lui.

— Povera fanciulla! disse Zoe, passandole un braccio intorno al collo.
Sei tu forse quella che merita più d'essere amata.... E gli uomini son
essi degni di un simile amore?... Bah! Forse che si ama per merito e
ragione?... Quello che avverrà fra noi non so; per ora sento che ti
voglio bene e t'ammiro.

E tratta a sè la faccia animata della ragazza del volgo, le diede un
bacio di sorella.

— Di te, dunque: continuava: mi fido come di me stessa. Dà ben retta.
Per obbligare ad agire secondo le nostre voglie il conte e la contessa
ho un talismano che solo fa tutta la mia forza, e di cui per ciò essi
hanno massimo interesse a spogliarmi. Questo talismano sarà più sicuro
nelle tue mani che nelle mie. Conviene che tu mi prometta di non
mostrarlo a nessuno, di non farne cenno con anima viva, di nasconderti
con esso e di non restituirlo poscia che a me, nelle mie mani, quand'io
te lo ridomandi.

Maddalena promise.

— Or bene, vieni meco nella mia casa ed io te lo consegnerò di presente,
perchè temo qualche tentativo per privarmene.

Entrando in casa, Zoe apprese che vi era tuttavia Bancone; senza
preoccuparsene il meno del mondo, ella condusse Maddalena nel suo
elegante camerino da _toelette_, e chiuse là dentro le consegnò il pacco
delle lettere della contessa di Staffarda.

— Ed ora dove pensi tu andarti a rimpiattare?

— Ci ho la mia camera; ma colà non oso riparare per paura ci vengano gli
_arcieri_.

— Hai ragione. Bisogna assolutamente trovare altro ricovero. Aspetta un
poco. Te lo procurerò io.

Passò di là nel salotto da pranzo, dove trovò il banchiere milionario,
sbottonato il panciotto, disfatto il nodo della cravatta, arrovesciata
la testa sulla spalliera della poltrona, russare con voce sonora,
saporitamente addormentato.

La _Leggera_ inzuppò nell'acqua l'angolo d'una servietta, e bagnò al
dormiente la fronte e le tempia. Bancone si svegliò senza sussulto e,
vistasi innanzi la bellezza sorridente della cortigiana, fece un beato
sorriso ancor esso.

— Tò, m'ero addormentato... Tanto meglio! Così il tempo della tua
assenza mi è passato più presto... Sognavo di te, sai, sognavo che tu mi
facevi sul ventre i passi di danza che ballavi con tanta grazia sul
dorso nudo del cavallo al galoppo... Sei stata lungo tempo fuor di
casa?... Hai finito i tuoi misteriosi affari?... Sei tornata
definitivamente e possiamo stare allegri insieme senza che nessun più
venga a disturbarci?

— Quante domande! rispose Zoe con tutta la grazia seducente di cui era
capace. Vi risponderò pregandovi di farmi un piacere... che sarà un
piacere anche per voi.

— Che cosa? domandò Bancone stirandosi.

— Non ci avete mica nessun'abitatrice nel vostro appartamentino, dove,
di nascosto dalla moglie, andate a fare delle orgie da scapolo,
viziosone che siete?

Il banchiere fece saltare la sua pancia enorme in una grassa risata di
soddisfazione.

— Eh eh! Bisogna bene darsi un po' di buon tempo. La bellezza virtuosa
di mia moglie m'annoia come una quaresima; vado a fare di quando in
quando un po' di carnovale.

— Sentite. Si tratta di ricoverare e nascondere in quel vostro così ben
riposto quartieretto una bella ragazza.

Il vecchio satiro drizzò le orecchie e si levò sulle anche.

— Oh oh! esclamò egli, guardando incredulo la cortigiana: una bella
ragazza! Davvero?

— Sicuro: quella medesima che avete visto qui poco fa, e che non vi
dispiacque, io me ne sono accorta, vecchio peccatore.

— Sì, la è un discreto tocco di grazia di Dio. Ma perchè ricoverarla,
perchè nasconderla?

— Vi rincresce fare a me ed a lei questo piacere, procurare a voi
medesimo questo vantaggio?..... Lasciate stare: ricorrerò ad un altro.

— No, no. Sono disposto ad obbedirti.

— Quella giovane è perseguitata da qualcheduno, è venuta a raccomandarsi
a me; voglio salvarla, ed ho pensato il meglio fosse di affidarla alla
vostra generosa protezione.

— Affidala pure: disse il vecchio libertino, nei cui occhi brillavano le
fiamme d'una oscena cupidigia: la sarà in buone mani.

— Va bene... Vengo a consegnarvi tosto la giovane... La mia carrozza è
ancora bella ed allestita sotto il portone. Voi salite in essa colla
ragazza e... e buona notte.

— Come! Come! esclamò il banchiere meravigliato: così subito?

Ma la _Leggera_ già era sparita dietro le cortine dell'uscio.

Bancone si mescette un bicchiere di Sciampagna e lo bevette d'un fiato
per rischiararsi le idee. Cinque minuti dopo vide ricomparire la Zoe che
si traeva per mano la Maddalena. Si levò in piedi e sorresse alla tavola
il suo corpo oscillante.

— Dunque, diss'egli, aitandosi della persona colla grazia d'un orso che
si dimena entro la gabbia di un serraglio, mia bella giovane tu hai da
essere la mia ospite?

Maddalena lo guardò colla sua petulante figura e fece un sorriso poco
rispettoso; la _Leggera_ le si chinò all'orecchio e le susurrò alcune
parole, alle quali ella non rispose che con una crollatina di spalle
chiaramente significante: «Bah! ciò poco m'importa.»

— Non perdete più tempo: disse Zoe: sono le undici e mezzo, e più.
Andate.

Il vecchio libertino osò abbandonare l'appoggio della tavola e fece due
passi barellando verso la cortigiana.

— Crudele! mormorò con occhi che volevano essere espressivi d'un amoroso
rimprovero ed erano in realtà imbamboliti dall'ebbrezza: hai il coraggio
di scacciarmi di casa tua...

Zoe lo afferrò ad un braccio per aiutarlo a rimettersi in equilibrio
sulle gambe podagrose, e gli accennò Maddalena che aspettava presso
l'uscio con una certa impazienza.

— Avrete un fortunato compenso... nella buona opera che state per fare.

— Ah birbona!... susurrò il Creso della banca con quel suo certo
sorrisaccio; poi, parlando a Maddalena: vieni qua, soggiunse, vienmi
presso, biricchina... Così; dàmmi il braccio... Perbrio! che braccio
sodo... Dunque, buona notte, Zoe. Andiamo.

Appena furono usciti, la _Leggera_ chiamò a sè i servi.

— Chiunque v'interroghi, non direte che qui venne una giovane e che la è
partita con Bancone.

Ottenutane questa promessa, ordinò si spegnessero tutti i lumi, si
ridusse nella sua camera, e in pochi minuti fu spogliata ed a letto.
Eravi essa appena coricata, quando si udirono forti colpi al portone da
via. Il portinaio svegliato si recò a vedere che fosse: successe un
breve e vivace parlamentare fra quelli che picchiavano di fuori e il
portiere all'interno, quindi il portone s'aprì e i passi pesanti di
molte persone suonarono su per le scale. La Zoe stava ascoltando questi
rumori con interesse, quasi con ansia, dubitosa che quest'incidente la
dovesse riguardare, quando a levarle ogni dubbio sentì una violenta
scampanellata all'uscio del quartiere.

— È una visita della Polizia, ci scommetto: disse ella fra sè con un
sorriso di trionfo. La Maddalena è partita a tempo.

La sua fante le si precipitava in istanza, mezzo spoglia, assai
sgomenta.

— Ah signora, esclamava con voce tremante, è la forza, è l'autorità,
vogliono entrare ad ogni costo... Domandano di Lei... o mio Dio! o mio
Dio!

La _Leggera_ si sollevò un poco in mezzo alla candida neve delle sue
lenzuola, puntando il gomito ai guanciali ornati di ricche balze di
mussolina ricamata, incrociò al petto il suo giaco da notte ricco di
trine stupende e con atto superbo ed imponente da regina esclamò
imperiosamente:

— Qui non ha da entrare nessuno... Non lasciate entrare nessuno.

— Siamo già entrati: rispose una voce fiacca, affranta, ma in cui
suonava una certa maligna ironia, e in mezzo alle cortine dell'uscio Zoe
vide la faccia pallida ed infermiccia di Barnaba, e dietro lei i ceffi
caratteristici degli _arcieri_ da cui s'era fatto accompagnare.

La Zoe riconobbe di subito nell'uomo che le si affacciava, quel cotale
che da assai tempo si aggirava intorno all'abitazione di lei, gli occhi
rivolti alle finestre della medesima, e che la sua vanità femminile
aveva preso per un timido amatore. Luigi aveva avuto ragione: egli era
invece una spia. Essa lo fulminò con un'occhiata di sdegnoso disprezzo e
con un accento degno compagno di quello sguardo, domandò:

— Chi siete? Che volete? Che modo è questo d'introdursi nella casa d'una
donna?

Barnaba parve esitante; si sarebbe detto che su quella soglia trovava un
inciampo che stentava a superare; nella sua faccia scialba e sempre
impassibile eravi pure come un'ombra di misteriosa emozione; i suoi
occhi al fondo delle incavate occhiaie, velati quasi sempre, avevano ora
uno strano bagliore, mentre, trascurato ogni altro oggetto, si fissavano
sulle forme giovanili, leggiadre, procaci della cortigiana a mezzo
seduta sul suo letto.

Era davvero un'originale, irritante, potente bellezza quella che
splendeva dagli occhi, dal volto, da tutte le membra della giovine
donna. Le sue chiome abbondanti di color fulvo, slacciate, le pendevano
in ciocche ondulate che avevano i riflessi dell'oro, intorno al collo
candidissimo ed a perfezione tornito, sulle spalle, venivano a battere
come una carezza su quel turgido seno, il cui candore appariva traverso
le trine, come l'argenteo chiaror della luna traverso le squarciate
nubi. Sacerdotessa della voluttà, la sua espressione suprema, quella in
cui tutte s'appuntavano le espressioni delle sue sembianze, de' suoi
atti, d'ogni sua mossa, era l'espressione della voluttà. Anche nello
sdegno di quel momento c'era una grazia, un fascino malvagiamente
provocatore delle sensuali passioni dell'uomo.

Dopo un istante ella ripetè, ancora più sdegnosa di prima, le sue
richieste a Barnaba, il quale gli occhi fissi su di lei, il respiro
leggermente affannoso, nè parlava, nè si moveva. Allora l'agente della
Polizia si riscosse, vinse la sua emozione, ricoprì nuovamente la faccia
della maschera d'una gelata indifferenza, e con voce sorda ed affaticata
rispose:

— Siamo la Polizia; e veniamo a perquisire la vostra casa. Nessuno si
mova e nessuno fiati. Dobbiamo frugare scrupolosamente cose e persone.
Credo che ad alcuno non verrà in mente la pazzia d'una resistenza.

La donna con un sobbalzo si drizzò del busto sui cuscini ricamati del
suo letto.

— Cose e _persone_ avete detto? Domandò ella con inesprimibile accento
di fiero disdegno:

— Sì: disse freddamente Barnaba: e per togliervi più presto a questa
seccatura e lasciarvi tosto libera e tranquilla comincieremo da voi.

Fece alcuni passi verso il letto della cortigiana, ma più incerta che
mai era la sua andatura e le mani gli tremavano.

Le pupille di Zoe mandarono fiamme: con un moto rapido e violento si
torse della persona verso il comodino, ne aprì il cassetto e toltone uno
stile damaschinato, di bella fattura, lo impugnò risolutamente colla
piccola destra nervosa. L'avreste detta una Lucrezia romana.

— Guai chi mi tocca! gridò essa fremendo.

Il poliziotto ebbe sulle pallide labbra un sogghigno indefinibile
d'ironia insieme e di compassione e di profonda mestizia.

— Tanto sforzo di coraggio starebbe bene, diss'egli, se si volesse
attentare alla vostra virtù, ma questo non è ora il caso. Dovreste
sapere che contro la forza non vale la ribellione dello sdegno. Se
voi... od altri per voi... tentò un giorno salvare la vostra innocenza
dalla brutalità d'un prepotente, che valse?

Queste parole che le ricordavano un tristo episodio della sua prima
adolescenza, quasi della sua infanzia infamemente corrotta da uno
scellerato, sovraccolsero potentemente e stranamente la donna. Quella
disgraziata ventura ella non aveva raccontata mai; il miserabile che
l'aveva fatta sua vittima era morto; il suo compagno di stenti che era
stato testimonio inorridito ed impotente era scomparso. Come poteva
sapere alcuna cosa di quel dramma quest'ignoto? E sapeva egli veramente,
od era il caso soltanto che gli aveva posto in bocca quelle parole che
sembravano fare allusione alla sventurata vicenda? Non ebbe campo per
allora a meditare su codesto, perchè l'agente di Polizia, assumendo un
tono imperioso e solenne continuava:

— E noi siamo la legge, signora, noi siamo l'autorità, ed a noi non si
resiste.

Si volse agli _arcieri_ che dietro di lui s'erano inoltrati nella
stanza.

— Disarmate quella donna: comandò.

In un attimo due uomini furono allato della Zoe, le ebbero afferrate le
braccia e toltole di pugno il ferro. Allora ella vide avanzarsi su di
lei e starle sopra la faccia terrea di Barnaba; allora sentì sulla sua
persona il contatto di due mani che parevano frementi. Trasalì, come
corse le vene da un brivido di ribrezzo, mandò un gridolino di rabbia
repressa, slanciò uno sguardo di ferocia impotente su quel volto
pallido, macilento, incavato, che incombeva sul suo. I loro sguardi
s'urtarono come due saette che s'incontrino per aria volando, parve se
ne sprigionassero scintille. Nessuno dei due cedette e si abbassò
innanzi all'altro; ma nelle pupille di quell'uomo che le parvero in
fondo alle occhiaie come belve appiattate in fondo ad una caverna, Zoe
travide un fuoco profondo, cupo, terribile, credette travedere un
pauroso mistero.

— Chi è quest'uomo? domandò a sè stessa. Che vuol egli da me? Perchè mi
pare che costui debba entrare nella mia vita?

La perquisizione, come già sappiamo, non ebbe risultamento di sorta. Zoe
arrestata venne il giorno dopo messa nuovamente in libertà. Verso sera
di quel giorno medesimo, ella riceveva da mano ignota un bigliettino
scritto col lapis che riconobbe tosto di pugno del _medichino_.

Esso non conteneva che queste poche righe:

«Sono nelle carceri senatorie. Confido in te. Oro e protezioni ci vuole.
Verrà a tempo opportuno un uomo a mettersi teco in rapporto. Per ora
agisci con prudenza. Quell'uomo che ci ha spiato, che mi ha arrestato,
Barnaba, ha qualche ragione personale contro me o contro te. Cerca
d'accostarlo, studialo, tenta di sedurlo. Non mi pare impossibile.»

Erano due giorni che la Zoe non poteva scacciare di mente il pensiero di
quell'uomo cui anche Luigi veniva ora a ricordarle. Per quanto avesse
frugato e rifrugato nelle sue memorie, non aveva trovato nulla che le
rammentasse aver avuta con lui relazione.

— Lo cercherò; si disse; voglio penetrare questo mistero.

Come il _medichino_ fosse riuscito a far pervenire quel biglietto alla
_Leggera_, vedremo di poi. Ora torniamo indietro d'alquanto e rechiamoci
al letto di morte dell'usuraio Nariccia.



CAPITOLO XXIV.


La mattina del giorno che successe all'interrogatorio di Nariccia, Padre
Bonaventura, chiamatovi dall'infermiere, accorreva al letto dell'usuraio
moribondo. Questi, che avrebbe desiderato un altro per confessore, esitò
un momento fra la ripugnanza che allora gl'ispirava il suo antico
complice e lo spavento di morire senz'assoluzione, portando seco nella
tomba il fatale segreto del suo orribil peccato. Lo spavento la vinse, e
sentendo in se stesso che non gli rimaneva tempo abbastanza, nè vigoria
d'animo e di volontà da mandar via il gesuita ed aspettare la venuta
d'un altro confessore, si rassegnò a far manifesta la brutta storia del
suo passato in una confessione che fu lunga, penosa, interrotta da
debolezze e da spasimi, fatta con voce soffocata, il più spesso appena
se intelligibile, a coglier la quale il frate doveva star curvo sopra il
letto e tener l'orecchio proprio sulla bocca del giacente.

Trascurando tutto il resto che non ha rapporto colla nostra storia,
diremo ciò che da siffatta confessione il gesuita apprendeva riguardo al
figliuolo di Maurilio Valpetrosa e di Aurora di Baldissero.

Nariccia, incaricatosi, come sappiamo, di fare scomparire quel bambino,
erasi partito solo dalla casa in cui dolorava la povera madre, recando
seco il neonato. Di molte cose, e scellerate tutte, pensava egli, strada
facendo, e ne conchiudeva che a lui avrebbe giovato forse che quel
bambino fosse perduto di guisa che altri non arrivasse a rintracciarlo
mai più, ma egli pur lo potesse tuttavia, quando di ciò glie ne nascesse
convenienza. Per prima cosa, a questo fine, pensò togliergli d'intorno i
contrassegni di riconoscimento che gli aveva posti la Modestina e che da
costei e da Padre Bonaventura erano conosciuti; e quei contrassegni
ritenerli presso di sè. Così nè la donna, nè il frate non avrebbero più
avuto nessun bandolo da servirsene essi stessi o da dare altrui per
venire in chiaro di ciò che fosse diventato il bambino. Egli poi avrebbe
messogli un altro contrassegno particolare, per mezzo del quale potesse
all'uopo ricuperare l'abbandonato fanciullo e sarebbe stato egli solo
padrone del suo segreto.

Con siffatti pensamenti pel capo, e già risolutosi a porre in atto
questo proposito, egli era giunto alla frontiera di Lombardia, cioè al
Ticino, s'era liberato con una mancia dalle seccature degli agenti
austriaci mezzo addormentati, e penetrava sul ponte, a capo il quale i
doganieri e carabinieri piemontesi dovevano fermarlo per dar conto di sè
e delle sue robe. Aveva viaggiato di notte, e rompeva appena l'alba.
Tutto era deserto e silenzioso sulla riva piemontese, e la sola cosa che
ci fosse di vivo era il lumicino della lanterna attaccata al casotto dei
doganieri, che però era presso a spegnersi. Nariccia arrestò il cavallo
a mezzo il ponte, guardò ben bene se anima viva lo potesse vedere e
sentire, e rassicurato compiutamente, scese dal legno, prese il bambino,
e pian piano, in punta di piedi, venne a deporlo per terra a capo del
ponte dalla parte del territorio piemontese. Come contrassegno egli,
trascelta fra le lettere di Valpetrosa che aveva nel suo portafogli
quella che meno contenesse parole onde si potesse avere indizio della
provenienza, l'aveva stracciata per lo lungo e una delle due metà del
foglio insinuato in mezzo alle fasce del bambino.

Quando ebbe deposto per terra il poveretto, Nariccia tornò dello stesso
modo al suo legno e facendo chioccar la frusta se ne venne di trotto
verso la uscita del ponte, dove un agente della dogana ed uno della
pubblica sicurezza, levatisi al rumore e mezzo sonnacchiosi, lo
fermarono al solito per le solite formalità. Mentre Nariccia, senza
scendere neppure dal carrozzino, esibiva il suo passaporto e mostrava
che nella piccola valigia che era suo solo bagaglio, non v'era oggetto
alcuno che dovesse pagar dazio d'entrata, ecco un vagito di bambino
suonare lì presso.

Il viaggiatore si sporse in fuori del suo legno, e il carabiniere e il
doganiere si volsero verso il luogo da cui quel lamento era venuto.
Videro il fagottino per terra: il doganiere lo prese ed esclamò:

— Tò: qualche scellerato che abbandonò qui questa piccola creatura.

Il carabiniere guardò con sospetto il viaggiatore; ma questi aveva
un'aria così innocente e meravigliata; l'avevano veduto giungere pur
allora e non scendere nemmeno: come dubitare di lui?

— E che cosa ne facciamo di questo bel regalo? domandò il doganiere, il
quale per ventura era trovatello anche lui, aveva un cuore eccellente, e
s'intenerì di botto alla vista di quel poveretto.

— Lo prenda Lei, disse il carabiniere a Nariccia, lo reca seco sino a
Novara, e là lo mette all'ospizio.

— Io no certo: rispose Nariccia. Non vo' compromettermi. D'altronde può
essere che alcuno venga ancora qui da voi altri a farne ricerca.

Partì di buon trotto, lasciando il bambino fra le mani di quella gente.

— In un caso, si disse, potrò sempre sapere che cosa costoro ne avranno
fatto.

Naturalmente, dopo ciò, Nariccia non si diede più il menomo pensiero di
quel fanciullo; ma un anno e mezzo dopo cominciò a credere che
l'occasione di rifarlo vivo era presso a presentarsi con grande suo
giovamento. Se vi ricorda, Aurora aveva sempre in fondo al cuore la
speranza che suo figlio non fosse morto, di questa sua speranza aveva
parlato col fratello quando, tornato egli di Spagna, era successo fra
loro la riconciliazione, e il fratello, la cui anima generosa era
lacerata dal rimorso pel tanto male che aveva fatto ad Aurora, aveva
accettato, qual mezzo di compensarnela e di riparare, la missione di
tentare, se fosse possibile, il ricupero del bambino.

Nariccia, al quale, come abbiam visto, il marchese erasi rivolto, aveva
subito capito di quali guadagni potesse essergli sorgente il
rinvenimento del figliuolo di Valpetrosa, quando il marchese padre fosse
per mancare ai vivi, cosa che pareva non dover tardare di molto, tanto
era egli già male avviato di salute. Incominciò egli adunque le sue
ricerche per potere quando che si fosse metter la mano sul bambino; ed
apprese, recandosi egli stesso sui luoghi, che il doganiere il quale
trovavasi di servizio quella tal mattina del tal giorno, ed aveva
raccattato il trovatello, non aveva voluto metterlo all'ospizio di
Novara, ma recatolo con sè, lo stesso giorno in cui gli era stato dato
un congedo, l'aveva allogato presso qualche famiglia di villici, non si
sapeva quale, nè dove. Nariccia volle sapere dove fosse questo doganiere
per andarlo interrogare ed apprendere da lui medesimo la intera verità;
ma gli fu risposto che questo era impossibile, perchè mandato poco dopo
sul Lago Maggiore verso la frontiera svizzera, in uno scontro avutovi
coi contrabbandieri, era stato colto da una palla di schioppo nella
testa e mandato all'altro mondo col suo segreto.

L'antico intendente dei Baldissero non si perse d'animo per tutto
questo. Se il vero bambino era impossibile trovarlo, ben se ne poteva
avere un altro da sostituirgli; e non erano presso di lui quei
contrassegni che dovevano farlo riconoscere come figliuolo d'Aurora? Ad
affrettare in lui la maturazione e l'esecuzione di quest'empio disegno
venne il marchese padre, il quale esigette che in quindici giorni il
bambino della sua figliuola fosse dato in poter suo. Nariccia ebbe a sè
_Graffigna_, che ben conosceva capace di qualunque cosa, e gli commise
lo provvedesse d'un bambino maschio, andandolo a prendere così lontano e
con tali precauzioni che mai più non potesse venire scoperto qual fosse,
donde venisse, come preso. _Graffigna_ comunicò la cosa al suo fido
amico e complice Michele Luponi, fratello di Modestina e marito di
Eugenia, il quale allora già erasi fatto noto nella cronaca criminosa
col soprannome di _Stracciaferro_.

Lo scellerato _Graffigna_, il quale sapeva come la moglie di Michele
fosse madre di un bambino e vivesse a Milano donde non voleva venir via
più per non ricongiungersi col marito, propose a quest'esso senz'altro
di andare ad impadronirsi di suo figlio e presentarnelo all'usuraio.
Michele riluttò assai, ma l'influsso che già aveva preso su di lui
l'omiciattolo più tristo del demonio, qualche ubbriacatura accortamente
saputagli dare dal suo compagno, la seduzione della promessa di una
buona somma, finirono per deciderlo. Quello che avvenisse udimmo narrato
da Maurilio medesimo a Giovanni Selva, quando gli ripeteva i delirii e
le visioni che il rimorso cagionava a _Stracciaferro_, lui presente nel
carcere.

Questo bambino così acquistato, coll'uccisione della povera madre, il
figliuolo di Michele e di Eugenia, veniva consegnato al marchese padre,
il quale lo faceva spietatamente abbandonare in mezzo alla strada.

Terminando la sua confessione Nariccia additava al frate dove fosse
custodita la metà della lettera di Valpetrosa, di cui s'era servito per
dare un segno di riconoscimento al vero figliuolo della marchesina
Aurora e dove fossero tutte le carte che riguardavano le sue attinenze
con Valpetrosa, e il gesuita se ne impadroniva. Data l'assoluzione al
moribondo, Padre Bonaventura l'abbandonava a morir solo senza altri
conforti, e correva in tutta fretta al palazzo di Baldissero.

Dello strano fatto che il moribondo gli rivelava, Padre Bonaventura fu
più lieto ancora che stupito. Il falso Maurilio, ch'egli aveva tentato
trarre nelle sue reti, erasi ad ogni sua seduzione sottratto, e avea
mostrato, nel suo liberalismo, l'animo d'un nemico a quella parte a cui
il gesuita apparteneva, a quei principii in servizio dei quali l'ordine
monastico, e non degli ultimi in esso il Bonaventura, mettevano tutta la
loro accortezza e l'influsso. Se nel giovane cui si trattava di
restituire il grado e il posto nella nobile famiglia, il frate avesse
trovato un possibile affiliato della congrega, un acconcio stromento,
avrebbe anche potuto avvenire che egli tenesse per sè il suo segreto, e
di questo anzi facesse un legame più forte e più stretto per avvincere
all'interesse del partito e far più obbediente e sottomesso quel
giovane: ma Bonaventura, conoscitore degli uomini e sollecito
apprezzatore dei caratteri di coloro in cui s'incontrava, aveva
subitamente riconosciuto che dal nostro Maurilio non avrebbe mai potuto
nulla ottenere a suo pro, e quindi che ogni tentativo eziandio di
tenerlo soggetto colla minaccia di farlo respingere da quel luogo a cui
era appena arrivato, sarebbe stato inefficace. Non c'era nulla di meglio
adunque che svelar tutto al marchese e ricacciare il falsamente creduto
figliuolo d'Aurora in quell'abbiezione e in quell'oscurità da cui si era
andati ora a levarlo.

Il marchese di Baldissero, udita la narrazione del gesuita, rimase il
più attonito, perplesso ed amareggiato uomo del mondo. Che cosa doveva
egli fare? Abbandonare di nuovo alla miseria quel giovane a cui aveva
aperti, come a suo sangue, il cuore e la casa, non voleva di certo; ma
conservarlo in quella condizione di congiunto non doveva, nè gli
piaceva. Decise esporre tutta la verità al giovane medesimo e lasciarlo
giudice lui medesimo della condotta da tenersi reciprocamente: ad ogni
modo egli non avrebbe abbandonato più l'infelice ai rigori della sorte.

Maurilio rientrava al palazzo Baldissero, l'anima sconvolta. In casa
Benda aveva avuto luogo quella scena che abbiamo narrato, in cui
Gian-Luigi lo aveva cotanto avvilito. Quando il domestico gli disse che
il marchese desiderava parlargli, Maurilio fu sul punto di rispondere
che non poteva recarsi da lui, che stava male, che aveva assoluto
bisogno di solitudine e di silenzio. Ma non osò: obbedì sollecito alla
chiamata, e camminando lentamente verso lo studio del marchese,
domandava a se stesso se doveva o no esporre allo zio di Virginia tutti
i suoi dubbi e le ragioni dei medesimi. Non ebbe mestieri di decidersi
in questa tenzone del suo spirito: il caso colla forza dei fatti decise
per lui. Il marchese sapeva più di quanto egli era riuscito a scoprire,
e ripetendogli le confidenze di Padre Bonaventura, gli poneva innanzi la
certezza di quel ch'egli aveva argomentato dovesse essere. Non egli era
il figliuolo smarrito di Aurora, e questi, se fosse da trovarsi mai,
cosa che al marchese pareva impossibile, era da conoscersi per la metà
del foglio stracciato in cui era scritta la lettera di Valpetrosa.

Il nostro giovane protagonista, a questa comunicazione, chinò il capo e
parve non avesse capito, o fosse indifferente, tanto era priva
d'espressione la sua immobilità e tranquillo il suo pallido volto. Ma
dentro di lui c'era un tumulto che nessuna parola potrebbe dipingere.
Stette un momento in silenzio, poi domandò al marchese gli mostrasse
quella metà di lettera che era rimasta presso Nariccia. Il marchese glie
la porse. Appena vi ebbe posti sopra gli occhi, Maurilio la riconobbe
tosto pel carattere, per la carta, per la forma, per la lunghezza, come
il complemento di quella che aveva in suo potere Gian-Luigi. Tuttavia la
esaminò attentamente. Le parole che si leggevano in quel foglio di carta
ingiallita erano le seguenti:

  «La carrozza sia pronta-
  cata. Prendete ogni precau-

  «Da Milano vi farò conoscere-
  m'informerete di ciò che avverrà-
  Se fossi inseguito mi difenderò.-
  te, ripeto quello che vi ho già-
  fino a nuova mia ulteriore deci-

Maurilio lesse e rilesse queste linee interrotte. Egli che aveva visto
più volte lo squarcio del foglio posseduto dal suo compagno d'infanzia e
che ultimamente, una settimana innanzi aveva rivedutolo e rilettolo,
l'aveva in quel punto così presente alla memoria che se tuttedue le
parti della lettera gli fossero state poste raccostate dinnanzi non
avrebbe potuto farne più precisa lettura di quello che faceva la sua
mente, completando le presenti colle parole che mancavano.

Era un bigliettino che il seduttore d'Aurora aveva scritto a Nariccia
per dargli le ultime istruzioni e gli ultimi ordini riguardo alla sua
fuga con Aurora, per cui l'intendente della famiglia Baldissero compro a
denari s'era impegnato a procurare i mezzi; ed intero questo corto
biglietto diceva così:

    «La carrozza sia pronta all'ora che v'ho già indicata. Prendete
    ogni precauzione perchè nulla trapeli.

    «Da Milano vi farò conoscere il mio indirizzo, e voi tosto
    m'informerete di ciò che avverrà qui dopo la nostra partenza. Se
    fossi inseguito mi difenderò. Quanto alle somme depositate,
    ripeto quello che vi ho già scritto: rimangano presso di voi
    fino a nuova mia ulteriore decisione.»

Il giovane, che seguiteremo a chiamar Maurilio, perchè nessuno fin
allora poteva conoscergli altro nome, restituì al marchese quel pezzo di
carta, e disse con placida amarezza:

— Il mio non sarà stato che un sogno... un sogno che ha durato ben
poco..... ma che sarebbe anche meglio non avesse neppur cominciato.....
Il colpo non mi giunge inatteso... Chi son io dunque? Nessuno e sempre
nessuno: preso nelle tenebre, vivrò nelle tenebre, e non saprò mai
mettere un nome a quella individualità a cui debbo il tristo dono della
vita.

Il marchese, che credette scorgere in queste parole l'accento d'una
profonda desolazione, lo interruppe con amorevolezza.

— Non perdete ogni speranza. Nariccia, a quanto mi ripetè Padre
Bonaventura, incaricò dell'empia commissione due scellerati, di uno dei
quali forse c'è ancora possibile aver notizie da poterlo rintracciare;
egli è appunto il fratello di quella sciagurata che fu cameriera della
mia infelice sorella, e per mezzo di lei se ne potrà probabilmente saper
qualche cosa. Il suo nome è Michele Luponi e venne sopranominato
_Stracciaferro_.

Innanzi agli occhi di Maurilio passò come un lampo di color sanguigno,
il suo cervello sentì come la puntura di un ferro arroventato.

— L'altro di quei scellerati che derubarono il bambino chiamavasi
_Graffigna_? domandò vivamente il giovane.

— Sì.

Egli sapeva oramai l'esser suo. L'azzardo gli aveva squadernata dinanzi
la pagina del suo destino. Si rivide nell'orrido aere fetente della
carcere dove aveva udito l'orribile racconto di _Stracciaferro_; rivide
la faccia bestiale di quell'uomo ubriaco tormentata dai graffi del
rimorso; riudì le orribili parole di _Graffigna_ che tutto lo avean
fatto raccapricciare; riudì sulle labbra di _Stracciaferro_ il grido
ch'egli confessava riudire nelle sue notti, il grido della donna
assassinata che domandava le si rendesse il suo sangue, riudì il grido
supremo di toro ferito con cui l'assassino aveva conchiuso quella
spaventosa narrazione: «quel bambino era mio figlio!» e sentì insieme
assalirgli le intime sedi della vita un gelo di morte ed una vampa di
fuoco. Quella donna assassinata era sua madre; il bambino derubatole era
egli stesso; suo padre era un galeotto, ladro ed omicida!

Il delirio e la follia gli si slanciarono al capo insieme coll'èmpito
del sangue: sentì che a stento poteva tenere il freno della ragione al
suo intelletto scombuiato.

— Orrore ed infamia! esclamò egli coll'aspetto d'un dissensato che è
assalito dal parosismo della follia. Infamia ed orrore!... Ecco la mia
ricchezza; ecco la mia parte di bene sulla terra.

Ruppe in una risata ad udirsi penosissima, e si slanciò fuori dello
studio.

— Maurilio! Maurilio! gridò il marchese con voce in cui si temperavano
il rimprovero, il comando autorevole ed un affettuoso interesse; ma il
giovane non l'udì, e corse via, come Caino dopo l'orrendo suo delitto.

Il marchese fu d'un balzo al cordone del campanello e gli diede una
violenta tirata.

L'infelice figliuolo di _Stracciaferro_, correndo incontrò nella sala
precedente il gabinetto onde fuggiva, la contessina Virginia, che veniva
appunto in cerca di lui, e non tanto per desiderio di rivedere il
rinvenuto fratello, quanto per avere da esso novelle di altra persona a
lei cara.

— Mio fratello! disse la fanciulla colla melodia soave della sua voce
argentina.

Il fuggente si fermò sui due piedi e spaventò la donzella per
l'alterazione profonda delle sembianze con cui le si accostò.

— Fratello! Fratello! esclamò egli con un sogghigno indescrivibile sulle
labbra agitate da un tremore convulso. Io non sono vostro fratello, no,
non lo sono.

Incontrò collo sguardo de' suoi occhi turbati quello limpido e
dolcissimo delle serene papille di lei.

— Ah! quegli occhi! soggiunse. Sono gli occhi di vostra madre.... La
mia, servendo la vostra, glie li ha rubati per darli a me, che portava
nel suo seno.

S'interruppe mandando un grido rauco da selvaggio.

— Nella nostra famiglia si ruba! gridò quindi con disperata energia,
percotendosi coi due pugni chiusi la fronte.

Virginia impietosita, commossa, gli si appressò vieppiù e gli pose sopra
un braccio la sua destra dilicata e gentile.

— Calmatevi, Maurilio; gli disse mitemente.

Il giovane non lasciò che altrimenti continuasse. Vide innanzi a sè
quella tanta bellezza illuminata da un divino raggio di pietà; sentì sul
suo braccio il tocco di quella mano come una ineffabil carezza. Il suo
delirio dimenticò tutto il resto per non esser più che un delirio
d'amore.

— Non sono tuo fratello: diss'egli: dunque posso amarti, angelo del mio
cuore... Ho sangue di plebe. Che importa? Mi sento tanta grandezza de
esser primo fra gli uomini. Son figlio d'assassino. Che monta? L'energia
delittuosa dell'eredità paterna sarà in me l'energia delle grandi
cose... T'amo da tanto tempo con amor furibondo.

L'afferrò colle sue grosse mani: ella si dibattè spaventata mandando un
grido. In quel punto dall'una delle porte di quella sala entrava il
domestico chiamato dalla scampanellata del marchese, e questi si
presentava sulla soglia del suo studio, chiamato dal grido di Virginia.

Maurilio, alla vista dei sopraggiunti, abbandonò la ragazza, gettò un
urlo e riprese la sua fuga disperata.

— Tenete dietro al signor Maurilio; comandò il marchese, presso cui
Virginia era venuta a rifugiarsi tutto sgomenta: vegliate su di lui e
frattanto qualcuno corra subito per un medico.

Maurilio era corso nella sua camera e ne aveva chiuso a chiave l'uscio,
entrandovi, prima che il domestico giungesse a quella soglia. Al battere
nella porta, alle parole del servitore egli non rispose nemmeno; tanto
che il domestico, stancatosi dopo replicati tentativi, venne dal padrone
a dirgli quel ch'era avvenuto e riceverne nuovi ordini.

— Andate pel medico, frattanto; e quando e' sia giunto, penseremo al da
farsi.

Il giovane, disperato, s'era buttato traverso il letto colla faccia
affondata nelle coltri ed aveva prorotto in penosissimi singhiozzi.

— Figlio d'un assassino, ripeteva, figlio d'un assassino. E mia madre
una serva!.. E l'amo tanto Virginia!... E nel mio capo c'è
l'intelligenza d'un uomo superiore!... Sono nato dal fango sociale:
nelle mie vene corre il germe fatale del delitto: lo sento alla ferocia
d'un istinto che mi si fa gigante nel petto.... È un retaggio fatale....
Si trasmette come la tisi, il rachitismo e la pazzia.... La pazzia, la
sento che viene.... Oh sia la benvenuta!... Mia madre fu assassinata da
mio padre.... Mio padre assassino.... Ed io che cosa sarò?...

Una vertiginosa fantasmagoria di strane immagini orribili, spaventose,
in mezzo ad una nebbia color di sangue, gl'invase il cervello. Vide in
un tramestio orrendo assassini e vittime, suppliziati e carnefici, antri
di prigione e ferri di catene, e dominante su tutto la schifosa ombra
dello stromento del supremo supplizio. Si levò irte le chiome, smarriti
gli occhi, sconvolte le sembianze, contratti i muscoli, tutti in un
tremito i nervi. Gli spettri della pazzia e dell'infamia gli danzavano
innanzi. Tutti gli oggetti vedeva di color rosso affuocato; sentiva con
dolore inesprimibile battergli forte i polsi nella testa. Si recò
barcollando come un ebbro, le mani tese innanzi al par d'un cieco, al
lavamano, e immerse a più riprese la faccia e la testa nel catino pieno
d'acqua fredda; ciò non gli bastava: prese una tovaglia, la inzuppò
nell'acqua e se ne cinse la fronte che gli ardeva. Tutto ciò fece con
atti macchinali, senza aver coscienza di sè. Ne provò alcun giovamento.
L'orribile ridda che gli movevano nel cervello le immagini provocate dal
delirio si calmò; le visioni spaventose si dileguarono in quella nebbia
dello spirito che da rossa color sangue si sfumava in un color rosato
con dei guizzi più vivi che parevano baleni. Guardò intorno a sè, come
attonito, smemorato, e si riconobbe. Trovò nella sua mente, dritto, per
così dire, in mezzo al rovinio di quelle visioni della febbre, un
pensiero:

— Non ho detto al marchese chi e dov'era il suo vero nipote; e convien
bene ch'e' lo sappia.

Si strappò dalla fronte la servietta fumante onde s'era cinto le tempia
e si slanciò verso la porta. Ma ecco tosto la mano adunca della pazzia
acciuffarlo di nuovo. La febbre cerebrale, che sempre incombeva,
minaccia immanente sugli organi sovreccitati della sua intelligenza, gli
piombò addosso come falco sulla preda. Stralunò gli occhi, rise
orribilmente, battè l'aria colle braccia come fa delle ali uccello
ferito che non può più levarsi a volo, mandò un grido soffocato, un
gemito, un rantolo; e cadde lungo e disteso sul pavimento.

Al sopraggiungere del medico fu aperta di forza la porta, il giovane fu
raccolto di terra e posto a letto, e il male fu sollecitamente ed
energicamente combattuto coi salassi, colle mignatte, colle ventose.

— Temo che nulla non possa più salvarlo: disse al terzo giorno il medico
al marchese che mostrava molto interesse per quell'infelice.

Egli non era ancora tornato neppure un momento in cognizione di sè, e ad
ogni parosismo di quella febbre cui nulla ancora aveva potuto vincere,
tornava più fiero, più penoso, più dissensato il delirio.

Giovanni Selva, Romualdo, Vanardi, saputo dello stato del loro amico,
chiesero ed ottennero di venirgli prestar le loro cure, come avevano già
fatto nella precedente identica malattia, quando essi l'avevano
primamente ospitato.

Più tardi ci furono eziandio Don Venanzio e la vecchia Margherita, la
nutrice di Gian-Luigi. Il parroco era corso a Torino, tutto stravolto e
sconsolato dalle due bruttissime novelle: l'arresto di Gian-Luigi e la
malattia mortale di Maurilio; la Margherita, udito con indicibile
angoscia quello che era avvenuto a colui ch'essa aveva nutrito col suo
latte, cui amava più d'un figliuolo, aveva voluto accorrere alla
capitale, come se la sua presenza lo potesse difendere, lo potesse
aiutare; e seco aveva recate ancora intatte le mille lire statele date
poco tempo prima dal _medichino_. Tanto a lei, quanto al parroco,
l'autorità giudiziaria aveva intimato comparir come testimoni nel
processo che con sollecitudine straordinaria si veniva istruendo contro
di Quercia.



CAPITOLO XXV.


La mattina del giorno che successe a quello in cui il _medichino_ venne
arrestato, il conte Langosco entrò senza farsi annunziare nella camera
da letto di sua moglie alle ore dieci, che sono per quella gente, in
tale stagione, come l'ora dell'alba pei poveri operai.

Candida aveva passata una notte infernale, in cui lo spasimo dell'anima
aveva mantenuta vigorosa la febbre del corpo; sulla sua bellezza e sulla
sua gioventù erano passati nel giro di dodici ore due lustri ed avevano
stampata la loro impronta nell'incavamento delle occhiaie, nella
carnagione che aveva perduta la freschezza ed era diventata floscia,
nelle finissime rughe che le si erano disegnate come raggi divergenti
dall'angolo esterno degli occhi alle tempia. Certo mai colpa di donna
violatrice del suo giuramento di fedeltà coniugale non fu punita con più
crudeli tormenti, coll'angoscia di più vive paure, di più profonda
vergogna; ned ella poteva dirsi aver già tutto pagato il suo fio, essere
andata al fondo della coppa di dolore, e non poterle piombar più
sull'anima spasimi e sgomenti ed ansietà ed onta maggiori. Nell'orribile
insonnia di quella notte, la sua anima era passata per tutti gli stadi
della disperazione, dalla violenza dissensata al torpido abbandono
dell'abbattimento; ne aveva pensato ogni fatta spedienti, dal coraggio
della dissimulazione alla fuga, dal pentimento in un chiostro al
suicidio. E ciò che era un aggravamento delle sue triste condizioni
morali si è che quell'empio amore appiccatosele a tutto l'essere, come
alle membra di Alcide la camicia di Nesso; quell'empio amore continuava
in lei torbido, fiero, violento, scellerato, a dispetto della vergogna,
del rimorso, d'un sentimento inesprimibile di rabbia impotente e
selvaggia. Tutto le inaspriva la sanguinante piaga; e quello che aveva
nel pensiero e quello che aveva intorno a sè. Ogni oggetto che vedeva in
quella camera le ricordava un momento della presenza, una mossa, una
parola di colui che era penetrato profanatore in quel santuario della
fede coniugale: la cameriera che era rimasta l'ultima a disporre il
lumicino per la notte, cui essa aveva comandato testè d'allontanarsi, le
stava come un'incarnazione vivente di certi ricordi per cui la doveva
arrossire; l'aspetto e la parola di Zoe le rimanevano presenti come la
mitologica persecuzione d'una furia vendicatrice; aveva infisso nel
cervello lo sguardo freddamente implacabile del marito. Al pensiero di
rivedere costui raccapricciava: le pareva che meno tremendo le sarebbe
stato sopportare lo sguardo del Giudice Supremo: in questo almeno colla
giustizia avrebbe trovato pietà; nell'anima del conte, devastata come il
suo cranio ingiallito, come il suo volto scarnato, sapeva che di pietà
non ne avrebbe potuto trovare. E in mezzo a tutto ciò l'assalivano di
quando in quando con un'aspra voluttà inenarrabile soavi rimembranze di
certi momenti, di certe parole di lui, di certi delirii, di acuti
diletti della passione e della colpa.

Quando vide entrare il marito nella sua camera, chiuse gli occhi come
per allontanare un momento almeno l'urto penoso dello sguardo di lui: il
suo respiro affannato diceva quanto il cuore le battesse. Il conte le si
avvicinò lentamente, fissandola fino dalla porta col suo vivace occhio
da vipera. La fante, che era presente, ebbe compassione della sua
padrona, e mettendosi innanzi al conte, gli disse con voce sommessa:

— La riposa un momentino....

Langosco non la lasciò continuare: la fece ammutolire con un freddo
sguardo, che fu più eloquente d'ogni parola, e colla destra la trasse in
là per passare.

— Vedo con piacere, diss'egli quando fu alla sponda del letto, che voi
state molto meglio.

Candida aprì gli occhi, ma non li volse verso il marito, sibbene al
soffitto, come per protestare tacitamente contro quell'affermazione.
Ella si sentiva tanto male che le pareva dover morire.

— Sì, _voi dovete_ star meglio: continuava il conte: lo giudico dal
vostro aspetto.

Si voltò verso la cameriera e le disse tranquillamente:

— Andate.

La donna non si fece ripetere il comando.

— Vi ho detto che _dovete_ star meglio: riprese il marito quando fu solo
colla contessa: avete capito? Tanto meglio, che questa sera si deve
assolutamente andare al concerto a Corte... Si deve assolutamente!...
Non vi vedrò più fino a questa sera. Siate pronta alle nove; avrò
l'onore di accompagnarvi... E voglio che sia così.

Pronunziò queste parole lentamente, senza minaccia, ma con espressione
d'irremovibile fermezza.

Candida non pensò neppure a ribellarsi; capì che il marito voleva
opporre alle ciarle della gente la presenza di sua moglie; pensò con
sommo desiderio fra sè: «Ah! se prima di questa sera potessi esser
morta!»

— Non fa bisogno ch'io vi dica, soggiunse il marito, che conto sul
vostro solito buon gusto nello sfarzo dell'acconciatura, e che
mostrerete alla malignità delle vostre amiche e dei miei nemici una
fronte serena ed un allegro sorriso. _Noblesse oblige_, madama!

La contessa non parlò: il marito prese quel silenzio come un
consentimento, qual era. Stette un istante, e poi disse col medesimo
accento di freddezza, quasi d'apatia:

— Quanto alle ulteriori determinazioni da prendersi fra di noi, non è
ancora il caso di parlarne. Quando saranno ricuperate quelle lettere e
rimediata così in parte la vostra imprudenza, vi farò conoscere i miei
propositi. Per ora, innanzi al mondo, dobbiamo essere più intimi e più
d'accordo che mai. Domando la vostra cooperazione per questa commedia.
Io saprò difendervi da ogni apparenza di oltraggio; sappiate voi
aiutarmi a sostenere la parte di marito che non ha nulla da
inquietarsi..... Entrando nel salone di Corte al mio braccio, questa
sera avrete una mossa di confidente abbandono e di tranquilla
sicurezza..... Tutte le donne sono abbastanza buone commedianti per
fingere: voi dovete essere più commediante di tutte le altre.

Uscì dopo questo sanguinoso oltraggio, com'era entrato, lento, calmo,
con un sogghigno d'insopportabile ironia.

La giornata fu lunga e corta per la infelice contessa. Si fece forza e
si alzò, affranta com'era e colla febbre nelle ossa. Stette quasi sempre
sdraiata sur una poltrona, affondata l'anima nel buio abisso d'una
disperazione muta e senza risoluzione. I soli momenti di pace che la
ebbe furono certi fugaci intorpidimenti dell'anima, in cui questa,
stanca di soffrire, era invasa da una specie d'oblio che tutto le
cancellava dalla mente: viveva così un minuto, quasi senza coscienza, e
in quel breve riposo dello spasimo la prendeva nuove forze per soffrir
di nuovo.

Alle sette ore si alzò e venne alla teletta a farsi adornare, ad
applicarsi sul volto la maschera, a studiare come far mentire gli occhi,
la fronte, il sorriso.

Alle nove in punto la cameriera venne a dirle:

— Il signor conte le fa sapere che l'aspetta nel salone.

In que' tempi, finito il carnevale cessava il grandioso spettacolo di
opera e ballo al teatro Regio; anzi di quaresima nissun teatro era
licenziato a stare aperto e chiamare il pubblico a divertimenti profani.
Regnavano assolutamente sulla noia dei cittadini i predicatori, di cui
uno per ogni chiesa chiamava tutti i giorni a pentirsi una folla di
donne eleganti che ci andavano per esser viste, e di giovani galanti che
ci accorrevano per vedere; e facevano solamente concorrenza a questo
magro spasso le _marionette_ e i burattini e qualche privato concerto.
La Corte in tutta la quaresima soleva darne due di concerti, ed era ad
uno di essi che, dietro il comando maritale, interveniva la contessa
Langosco di Staffarda quella tal sera, entrando, secondo il programma
stabilito, appoggiata al braccio del conte, nel gran salone delle
colonne al palazzo reale, dieci minuti prima che vi facessero la loro
apparizione i sovrani e la loro famiglia.

L'entrata del conte e della contessa fece una viva impressione generale:
tutti gli occhi si volsero verso di loro; le parole si fermarono sul
labbro dei conversanti; successe uno strano silenzio significante,
seguìto tosto da un susurro più significante ancora: erano in ciò tutta
la curiosità, tutto il maligno talento, tutta la malizia delle induzioni
di quel mostro gentilmente feroce che è il mondo elegante. Per Torino in
quel giorno non s'era parlato d'altro, in quelle stesse sontuosissime
sale, quella sera, non si parlava d'altro che della scoperta di quel
covo d'assassini, dell'arresto dei principali capi di quella banda, che
il pubblico era già avvezzo a temere sotto il nome della _cocca_, della
cattura, in qualità di comandante supremo di tale scellerata schiera, di
quel giovane elegante conosciuto da tutta la società più scelta col nome
di dottor Quercia. La meraviglia, lo sdegno, l'orrore, lo sgomento di
questa società che aveva accolto nel suo seno sì tremendo nemico erano
al colmo: si vendicava dell'inganno sofferto, dei corsi pericoli, della
temerità di quel miserabile coll'improperio e con voti sanguinarii degni
d'una paura non bene rassicurata. Si conoscevano da tutti le intime
attinenze della contessa di Staffarda coll'assassino mascherato da
zerbinotto seduttore, e il nome di lei entrava con quasi ugual
proporzione di quello di lui nella vivacità dei discorsi su questo
argomento. Lo sgomento comune e la vergogna della sofferta frode se la
pigliavano anche colla contessa, cui pure avrebbe bastato a non far
risparmiare la sola malignità della natura umana, acuita dallo
sfregamento sociale e rincalzata dall'invidia muliebre. Dal suo sesso la
misera aveva un'assoluta condanna inesorabile, senza beneficio di
circostanze attenuanti; e gli uomini non osavano neppure prenderne le
difese innanzi all'accanimento delle mogli e delle amanti. Langosco,
pratico della scena del mondo, aveva capito che c'era un mezzo solo, non
dico per trionfare di questa valanga di ciarle, ma porle freno e
costringerla a mettere la sordina al suo crescendo: e questo mezzo era
l'audacia. Ritirarsi innanzi ad essa era un volersi perdere: il nome non
sostenuto dalla presenza della persona in quella gara di pettegolezzi
era sicuro di rimanervi schiacciato; però aveva forzato la moglie a
comparire in quella guisa, ed aveva aspettato per esporsi al fuoco
incrociato degli sguardi e delle parole di quell'assemblea, il momento
più tardo che si potesse, quando il loro ingresso doveva produrre
maggior effetto.

Il conte Amedeo Filiberto Langosco di Staffarda in quel momento era un
bello ed interessante spettacolo a mirarsi da un pittore, da un poeta,
da un osservatore di costumi, da uno scrutatore di caratteri e studioso
della natura umana, poichè questi soltanto potevano capire la superba
grandezza del suo contegno, penetrare il potente significato
dell'espressione che aveva saputo dare al suo aspetto. Levato il capo,
eretto il collo, egli camminava più dritto che da lungo tempo non avesse
fatto mai; sotto il suo cranio d'avorio giallo, sulla cui lucida
superficie si rifletteva la luce dei doppieri, brillavano fieramente gli
occhi che giravano intorno con uno sguardo di calma disfida, pronti ad
accendersi al menomo urto d'un atto men rispettoso, d'un sogghigno; le
labbra aveva atteggiate a più serietà che non gli fosse abituale; e la
guisa con cui dava il braccio a sua moglie, era espressiva d'una
deferenza protettrice che indicava chiaramente una lieve mancanza di
riguardo a lei essere da lui considerata come un fattogli oltraggio, e
ne avrebbe a qualcheduno fatto scontare il fio. Il marchese di
Baldissero, che s'intendeva d'ogni nobiltà d'animo e d'ogni valore,
lasciò scorgere sulla sua bella fisionomia imponente quanto quel
contegno gli andasse a grado, e fu egli il primo a fare un cenno cortese
di saluto al conte, appena gli occhi di costui vennero ad incontrare i
suoi.

E la povera Candida? Chi le avesse visto nel cuore avrebbe giudicato che
il coraggio con cui ella s'avanzava, gaia e sorridente sotto il fuoco di
tutti quegli sguardi, portando la morte nell'anima, era assai maggiore
del coraggio di cui ha bisogno il guerriero che s'avanza contro il fuoco
nemico in battaglia. Per lei quella era diffatti una grande e decisiva
battaglia, nella quale un momento di esitazione, di debolezza, di
tremore le avrebbe dato una sconfitta da non ricattarsene mai più.
Quando ella s'era presentata nel salone dove stava aspettandola il
marito, questi, senza dirle una parola, le aveva rivolto un ratto
sguardo con cui l'aveva esaminata da capo a piedi, e vistala qual egli
la voleva, elegante, senza lagrime negli occhi, il belletto sulla
faccia, lo sbarbaglio de' diamanti sul capo, intorno al collo, sul seno,
fece un legger cenno approvatore ed additò l'uscio che conduceva alle
anticamere, come invitandola a passar prima. Traversarono
l'appartamento, scesero le scale, salirono in carrozza, percorsero la
strada senza che una parola nè uno sguardo più fosse fra loro scambiato.
Nel palazzo reale, al momento di varcare la soglia del gran salone detto
degli Svizzeri, la contessa si fermò come se le mancassero allora le
forze. Le gambe le tremavano, e la sentiva nelle orecchie un ronzìo
penoso. Il conte la guardò e le porse il braccio senza parlare; sotto
quell'occhiata tutto il corpo di lei ebbe un legger fremito; ma dopo
l'esitazione d'un attimo, ella passò la sua mano nella piegatura del
braccio del marito, e riprese il cammino. Entrando nelle sale,
percorrendo sotto una piova abbagliante di luce i reali appartamenti, in
mezzo ad una siepe di decorazioni, di uniformi civili e militari, di
ricami e spallini, di sciabole e spadine, Candida rimase calma in
apparenza e tranquilla, col suo sorriso che s'era stampato a forza sul
labbro; ma nell'affacciarsi al salone principale, dove non più la sola
curiosità degli uomini era da incontrarsi ma la malignità delle donne,
ricevendo di pieno nel petto e nella fronte la scarica di tutti quegli
sguardi, accolta da quel significativo silenzio e da quel susurro che
tosto gli tenne dietro, alla contessa vennero meno ad un tratto la
risolutezza ed il coraggio; il suo braccio si contrasse su quello del
conte, e vi pesò come per tenersi e sorreggersi, mentre fino allora,
appena era se l'aveva lievemente toccato; il ronzìo delle sue orecchie
s'accrebbe infinitamente, innanzi ai suoi occhi, che pure erano levati e
lucenti, passò una nebbia che le confuse alla vista tutte quelle faccie,
tutti quegli oggetti, tutto quello sbarbaglio. Langosco non le volse una
parola nè uno sguardo; il suo capo continuò a star dritto levato
incontro alle faccie dell'assemblea, i suoi occhi continuarono ad
incrociarsi cogli occhi di tutta quella turba elegante; ma strinse alla
persona il braccio della moglie con una pressione lenta e forte nello
stesso tempo che era un incoraggiamento, un conforto ed una promessa.
«Fate animo, diceva, son qui io a proteggervi, e non avete da
intimorirvi di nulla e di nessuno.»

Il cerimoniere di Corte venne a dividere moglie e marito, per allogarli
al posto che loro competeva rispettivamente secondo il loro grado nella
gerarchia cortigianesca; Candida si trovò in mezzo ad una schiera di
spalle nude e di gioielli preziosi di donne che avevano più quarti nel
blasone che bellezza sul volto e gioventù. Il suo sorriso si contrasse
un momento in sogghigno al vedere il freddo saluto con cui fu accolta;
una vecchia, che a saputa di tutti, aveva impiegata la giovinezza ad
esser l'amante di più alti personaggi, si volse con una certa
affettazione dall'altra parte, mormorando con piglio disdegnoso parole
che Candida non potè intendere, ma di cui era troppo facile capire il
significato. Ciò nulla meno la contessa tenne un fermo contegno: rispose
ai freddi ed orgogliosi saluti con saluti più freddi ancora e più
orgogliosi; stette colla sua bella testa eretta, come se sulla sua
fronte, insieme a quello de' diamanti, non avesse da portare il peso di
nessuna vergogna. Il conte trovò negli uomini, in mezzo ai quali era
penetrato, le medesime strette di mano che ci trovava tutte le altre
volte. Erano troppo ben educati que' semidei dal sangue azzurro; il
conte era troppo conosciuto come uomo da sapersi far portar rispetto,
perchè il menomo cambiamento apparisse nel loro trattare verso di lui:
nessuno non ebbe neppure il cattivo gusto di dimostrargli una
compassione od un interessamento ch'egli avrebbe trovato un'offesa.

Non si era ancora affatto calmata la leggera agitazione che in quelle
onde stagnanti di cortigiani aveva suscitato il sopraggiungere dei
coniugi Langosco, quando il batter de' piedi per terra del mastro di
cerimonie alla soglia dell'uscio che conduceva agli appartamenti della
famiglia reale, annunziò l'arrivo della Corte. Si fece un alto silenzio,
e l'attenzione di tutti fu rivolta a quella porta, da cui entravano gli
augusti personaggi, al suono della _fanfara_ reale che echeggiò ad un
tratto dalla tribuna dell'orchestra.

Si ascoltarono con un raccoglimento che si sarebbe potuto dir religioso
varii pezzi di musica strumentale e vocale eccellentemente eseguiti e di
eccellenti maestri. Ogni cortigiano guardando verso il trono dove sedeva
la pallida figura di re Carlo Alberto, aveva l'aspetto beato d'un Joghi
indiano che, a forza di contemplarsi la punta del naso, è giunto a
vedersi dischiuso innanzi l'infinito. In un intervallo, il Re sorse, e
dietro il suo esempio tutti, e come solea, Carlo Alberto percorse
lentamente il salone, facendo orgogliosa e felice ora questa ora quella
delle dame, or questo or quello dei petti ornati di croci, col dire
poche parole, regalare uno de' suoi gelati sorrisi e passare. Fu notato
che il Re non favorì nè d'una parola nè d'uno sguardo la contessa di
Staffarda, quantunque fosse una delle più belle e delle più eleganti, e
quindi chiamasse meglio delle altre l'attenzione. Il contegno delle dame
a lei vicine, il quale fino allora era stato freddo, divenne decisamente
ostile. Ma questo sotto un certo rispetto riuscì a giovamento di
Candida, perchè l'irritazione dello sdegno che in lei ne nacque, valse a
ridarle quelle forze che venivano scemando e per la passione dell'animo
e pel malessere fisico, cui le cagionava la febbre ogni minuto
crescente.

— Hai udito, marchesa: disse dietro Candida una baronessa, magra come
un'acciuga, che faceva uscire spudoratamente dalla scollacciatura della
veste le ossa di due spalle da scheletro: quel famoso Quercia che era
capo di una banda di assassini, si vuole che fosse nelle buone grazie
d'una signora _comme-il-faut_.

— _Comme-il-faut_, no certo: rispose la marchesa con una voce che
rassomigliava a un sibilo di serpe. Una donna ammodo non avrebbe mai
ricevuto un simile individuo.

La contessa Langosco si voltò e guardò bene in faccia l'una e l'altra di
quelle due donne.

— Io l'ho ricevuto: disse fermamente: e le assicuro, signora marchesa,
che quel tale aveva portamento e maniere da ingannare qualunque, anche
lei; ed anche lei, signora baronessa, soggiunse volgendosi a
quest'ultima che smorfiva altezzosamente. Chicchessia l'avrebbe
scambiato per un addetto di ambasciata o per un ufficiale di dragoni...
in borghese.

Tutti sapevano che quella marchesa aveva una tresca con un addetto
dell'ambasciata austriaca, e che quella baronessa osteologica pagava i
debiti ad un giovane ufficiale di cavalleria, che ne approfittava per
farne a rotta di collo.

Se gli sguardi fossero lame di pugnale, la contessa Langosco sarebbe
caduta all'istante al suolo trafitta da parte a parte, sì niquitose
furono le occhiate che quelle dame le slanciarono; ma le labbra però
continuavano a sorridere.

— Eh via! disse la baronessa: la nascita e il sangue non si possono
simulare, e bisogna noi stessi _ne pas avoir de naissance_, ed essere di
sangue _roturier_ per lasciarcisi ingannare.

Candida tacque; aveva una smania feroce di gettare sul magro volto
impiastricciato di quella Venere anatomica una parola oltraggiosa come
uno schiaffo; ma lo spavento delle conseguenze che avrebbe potuto avere
uno scandalo riuscì a frenarla. Strinse siffattamente colle mani
convulse il suo ventaglio di madreperla che lo ruppe; seguitò a
sorridere colle labbra, a cui la cosmetica pomata di carminio dava il
colore della salute e della gioia; rispose con un'occhiata civettesca ai
ditirambi che le indirizzavano gli sguardi dell'ufficialetto della
baronessa, il quale col pretesto di vagheggiare la pagatrice dei suoi
debiti, ammirava con espressione di vivo desiderio la bellezza della
contessa Candida.

Ma in mezzo a tutta quella folla c'era una persona, che indovinava in
parte le strette dell'anima di questa povera donna, che sotto il
belletto delle guancie di lei scorgevane la pallidezza morbosa, che
dietro il sorriso avvertiva lo spasimo soffocato: e questa persona era
il padre di Candida, il barone La Cappa. Approfittò egli di quel
rompersi degli ordini che produsse il moversi del Re, e si accostò alla
figliuola.

— Tu hai qualche cosa, Candida: le disse sotto voce.

La contessa si attaccò al braccio paterno come un naufrago s'appiglia al
remo, che gli venga porto.

— Dàmmi il tuo braccio, _papà_: diss'ella; e conducimi fuori da questo
salone. Ci ho troppo caldo, soffoco, ho bisogno d'un po' d'aria.

Si allontanò sorreggendosi a suo padre, seguìta dagli sguardi e dagli
ammicchi delle dame che le eran vicino; trasse il barone fino in un
angolo di una sala in cui era minore la gente, e buttatasi sopra un
divano, si fece sedervi presso il suo compagno.

— Che ho? diss'ella allora rispondendo alla domanda che le aveva fatta
nel salone suo padre. Ho che sono la più sventurata donna del mondo e
che vorrei esser morta.

Queste parole furono pronunciate con accento disperato e con voce piena
di pianto; ma in quella, Candida vide parecchi sguardi fissi sopra di
lei ad osservarla, ed ebbe la forza di piegar di nuovo i muscoli della
sua faccia a quel sorriso che l'aveva stanca sino allora più che non
qualsiasi fatica di corpo.

— Misericordia! esclamò il barone spaventato, giungendo le mani con atto
d'infinito dolore.

Ma la figliuola, sempre con quella maschera di letizia sul volto, gli
pose una mano sul braccio e gli disse sotto voce:

— Piano, frenati, abbi l'aria tranquilla e contenta. Qui dentro bisogna
nasconder tutto e finger tutto. Sorridi come vedi sorrider me. Guarda
come ci osservano con avida curiosità!

Il barone girò intorno lo sguardo stupito di uomo che non capisce, e
ripetè la sua interrogazione:

— Ma che cosa dunque succede, in nome di Dio?

E la contessa, curvandosi sulla spalla di lui e parlandogli
all'orecchio:

— Tu hai voluto farmi felice, padre mio; mi hai data la ricchezza; mi
hai dato col marito un illustre blasone (sorrise amaramente nel dire
queste ultime parole); ebbene tutto questo non basta. Non sai tu che di
questi giorni ho invidiato la sorte di tutte le altre donne, ho
desiderato cambiare la mia in quella d'una povera operaia?

Il degno barone guardava la sua figliuola come si guarda uno che ad un
tratto si metta a spacciare le maggiori follie del mondo, e non sapeva
che risposta fare. La figliuola continuava dopo una brevissima pausa ed
abbassando ancora di più la voce:

— Non hai tu udito questa sera, qui stesso, in questi crocchi eleganti,
infamare la tua figliuola?

Anatolio La Cappa si atteggiò della persona con tutta l'imponenza degna
d'un _Intendente generale_, della qual carica, insieme colla pensione di
ritiro, aveva titolo e grado, e fece colla sua superba mossa tintinnire
fieramente i ciondoli e i gingilli delle decorazioni che gli coprivano
il petto del suo abito a spada, ricamato d'oro al goletto e ai paramani.

— _Corbleu_! esclamò egli con tutta la bravura che potrebbe avere il
discendente da un eroe delle crociate. Avrei voluto vedere anche questa!
Infamare la mia figliuola? Ma a chi fosse tanto temerario la farei ben
io pagare cara e salata..... con un buon processo.

— No, padre mio: disse scoraggiatamente Candida scuotendo la testa. Un
processo sarebbe peggio.

— Hai ragione. Che processo? Contro siffatta canaglia... perchè chi si
permettesse una cosa simile, non potrebbe essere che canaglia... contro
codesta gente c'è di meglio da fare che non un processo. Ho ancora
abbastanza aderenti in alti luoghi... che? Ricorrerei, se bisognasse, a
S. M. medesima che non ha obliato il suo antico, fedel servitore, e me
ne ha dato una prova testè ancora col modo onde mi ha salutato... e quel
miserabile lo farei ricoverare a Fenestrelle o mandare in Sardegna,
perchè meditasse _à loisir_ sui pericoli di perdere il rispetto a chi va
rispettato.

— Nè anche questo non si può fare: riprese la contessa, scuotendo
nuovamente la testa. Chi si compiace di straziare la mia fama è più
potente di noi, ha più aderenze di noi, è più presso a S. M. di noi...

— Tu scherzi: interruppe il barone scandolezzato. I Langosco di
Staffarda accompagnarono il conte Verde nella sua spedizione in
Oriente....

— Ma noi non siamo che La Cappa.

— _Palsambleu_! Tuo marito non sarebbe capace di far rispettare sua
moglie?

— Sì: è pronto a battersi contro chicchessiasi gli lasci pervenire
all'orecchio una di quelle infamie che si susurrano dietro il ventaglio;
ma lo scandalo d'un duello non rimedierebbe nulla; e quelle infamie sono
troppo codarde per osare venirci assalire di fronte.... Ah padre mio,
non c'è riparo: io sono perduta.

L'accento con cui l'infelice diceva tali parole era straziante, e pur
tuttavia il suo sorriso non cessava di rallegrare le sue labbra, e le
sue sembianze continuavano a mostrare la maschera d'una lieta
tranquillità. In siffatto contrasto eravi qualche cosa di più penoso e
di più commovente che non nelle ordinarie manifestazioni del dolore e
della disperazione.

— Ma corpo del diavolo!... (L'animo del degno barone _Intendente
generale_ era così turbato che invece delle solite eleganti parole
esclamative in francese, si lasciò scappare questa plebea imprecazione.)
Posso io sapere finalmente che cosa sia succeduto?

Candida, con infinita passione dell'animo, ma in mezzo a due risatine,
come se contasse a suo padre in un allegro colloquio il più piacevole
aneddoto, disse con voce che appena fa udita dal barone, il quale curvò
verso di lei l'orecchia:

— Hai tu sentito parlare dell'arresto del dottor Quercia?

— Giusto! esclamò il padre. Volevo dirtene un motto. _Ce drôle-là_, mi
pare che tu lo conoscevi.

Candida pose di nuovo una mano sul braccio di suo padre e fissò negli
occhi di lui uno sguardo che diceva un'infinità di cose: ma questa volta
non ebbe più la forza di ridere nè pur di sorridere.

— Il mondo, susurrò ella, lo dice mio amico.

La Cappa sussultò sul divano.

— Ah _diable_!

— E da un momento all'altro possono saltar fuori delle carte che dieno
ragione a quella voce.

— Possibile!... che carte?

— Delle lettere: disse la contessa così piano che la parola fu, più che
intesa, indovinata dal barone.

— L'imprudente!... Sì, cospetto che questo è un affare disgustoso
assai... E tuo marito?

— Sa tutto.

— Misericordia!... E che vuol fare?

— Ricuperarle... Ma io vorrei ottenere ciò d'altra parte e senza il suo
concorso.

— Hai ragione.

— Sei tu pronto ad aiutarmi, padre mio?

— Prontissimo... Che s'avrebbe da fare?

— Ci vorrà di certo una somma... piuttosto vistosa... e qualche passo
presso alcuni personaggi...

Il barone all'udire fatta menzione d'un sacrifizio di denaro, non potè
dissimulare una smorfia di poco aggradimento. Glie ne venne subito
l'ispirazione di fare un buon predicozzo di morale alla sua figliuola;
ma il luogo in cui erano e la presenza di tanti osservatori, non erano
acconci a codesto. La figliuola lo interruppe di subito per farglielo
notare.

— Ho bisogno di conoscere un po' meglio i particolari della cosa: disse
allora con tono che si accostava al burbero, il padre spaventato dalla
minaccia alla sua cassaforte.

— Sì; e siccome ora e qui non posso dirti tutto, e volli solamente
dartene un cenno, perchè avevo bisogno di sfogo e mi premeva aver la
consolazione di trovare in te un sostegno; così riserberò il resto da
dirti per domani. Mi permetti tu ch'io vada da te a versarci tutta
l'anima mia?

La Cappa che adorava la sua figliuola, non potè vedere senza
intenerimento l'aria di supplicazione che spirava dalle sembianze e
dagli occhi di lei.

— Vieni pure, gioia mia: rispose: ti darò tutta la mattinata a te sola,
e non avremo fastidio di disturbatori.

La lotta fra l'amore del suo danaro e quello per la sua figliuola era
finita in lui col trionfo di quest'ultimo.

— E di qualunque cosa tu abbia bisogno, soggiunse, e che tuo padre possa
fare..... (fece ancora una piccola pausa) ebbene, conta pure su di lui.

Candida gli strinse la mano in manifestazione di muta, ma vivissima
riconoscenza.

— Ora, torniamo nel salone: diss'ella alzandosi. Tu mi hai ridonato
coraggio.... E tutto già me lo sentivo mancare... Ah, padre mio, mi hai
fatto un gran bene, e che tu sia benedetto!... Sto meglio e sono ora
capace di affrontare di nuovo e sguardi e parole di queste maligne
ipocrite.

Quasi in quel medesimo frattempo in cui la contessa parlava con suo
padre, avevano luogo intorno alla cattura ed alla sorte di Quercia, due
altri colloquii: uno fra il Re ed il marchese di Baldissero, l'altro fra
il marito di Candida e il generale Barranchi.

Riferiamoli ambedue, cominciando da quest'ultimo.

— Avete qualche cosa da apprendermi, Langosco, intorno a quella vostra
faccenda? cominciò il generale Barranchi, parlando piano e ritraendosi
d'alquanto dalla folla circostante.

Il marito di Candida rise con quel suo legger ghigno da scettico di
buona società.

— Oh oh! il capo della Polizia che ha bisogno d'informazioni da un
semplice privato: diss'egli con tono forzatamente scherzoso. No, non ho
nulla da apprendervi; perchè quello che vi ho da dire e che vi voglio
dire, voi, gentiluomo qual siete, lo sapete prima e meglio di me: ed è
che non si dovrebbe tollerare che il nome e l'onore d'una famiglia
patrizia, sia alla _merci_ d'un tristo qualunque il quale può colle sue
parole comprometterla, e che quel nome e quell'onore vengano trascinati
nel fango della pubblicità d'un processo. È una orribil cosa solo a
pensarci.

— Voi avete ragione, rispose gravemente il generale con tutta la
solennità della sua montura di parata il cui petto era una pleiade di
costellazioni. Ma che cosa volete? Ci sono le leggi, c'è un codice....

Langosco fece un atto d'impazienza assai poco rispettoso per la maestà
della patria legislazione.

— Bel guadagno di codice! Bel tesoro di leggi! esclamò, avvicinando però
ancora più la bocca all'orecchio del suo uditore. Leggi rivoluzionarie
che sanciscono l'uguaglianza nelle cose civili come nelle criminali fra
il figliuolo del ministro e il figliuolo del portagerle. Sono
un'assurdità. Quella di voler fare il legislatore liberale, il
riformatore in preteso vantaggio del popolo, è una manìa di Carlo
Alberto....

Queste parole erano pronunciate a voce tanto bassa che niun altro
orecchio le poteva cogliere, fuor quello a cui erano susurrate, pur
tuttavia il comandante de' carabinieri si guardò dintorno con qualche
turbamento, e credette suo obbligo di servo fedele del Re e di
cortigiano, protestare con un'esclamazione:

— Oh oh! non parlate a questo modo, conte. Il torto non vogliamo
darglielo all'augusto Sovrano; ma se c'è qualche cosa da rimproverare,
ascrivetelo a quella mano di avvocatuzzi e di legulei, onde pur troppo
il buon re si lascia aggirare, tutta gente bacata dalle massime empie e
sovversive della perfida rivoluzione francese.

— E di questa guisa si rovina lo Stato e la Monarchia. Togliete a questa
ed a quello la base solida e il sostegno continuo e robusto d'una
nobiltà rispettata e potente, e per forza li vedrete cascare in balìa
delle passioni popolari e, come si suol dire oggidì, della democrazia.

— Giusto!

— E come volete avere un'aristocrazia costituita potente, che continui
di generazione in generazione l'opera tradizionale, se coll'abolizione
dei maggioraschi le togliete i mezzi di vivere; se con una fatale
uguaglianza _vous la ravalez_ al livello della plebe?

— Giustissimo!

— Nei tempi antichi della nostra monarchia, quando si aveva un buon
governo e si applicavano le buone massime...

— Prima degli orrori della empia rivoluzione francese: soggiunse
Barranchi, il quale contro quella rivoluzione aveva l'odio più accanito
che possa albergare nell'animo d'un generale.

— Ebbene, se si fosse presentato un caso simile all'attuale, non si
sarebbe messo a repentaglio nessuna di quelle cose per cui il popolo
deve avere venerazione, e la giustizia medesima ci avrebbe guadagnato.

— Sicuro! Prima di tutto non c'era quell'imprudente invenzione della
pubblicità dei processi.

— Ma che processo? Non se ne sarebbe fatto. Un individuo della fatta di
quel Quercia lo si sarebbe preso, e senza che nessuno ne sapesse e ci
avesse a mettere il becco lo si sarebbe mandato a lavorare sotto lo
staffile in qualche luogo remoto della Sardegna, dei più malsani, dove
non avrebbe potuto menar la lingua con nessuno, e dove non avrebbe
tardato a liberare del tutto il mondo e la società della sua scellerata
persona.

Il conte Barranchi mandò un sospiro di rincrescimento.

— È vero: diss'egli; ma ora codesto non si può far più.

— Si potrebbe fare qualche cosa d'equivalente.

— Oh come?

Langosco abbassò ancora più la voce.

— Se quell'uomo scomparisse portando seco tutti i suoi segreti?

Barranchi s'inalberò.

— Oh! esclamò scotendo il capo: farlo.... (esitò un momento)....
sparire?

— Colla fuga: s'affrettò a soggiungere il marito di Candida. Lo
scellerato va in America, e non se ne intende mai più a parlare. Questa
razza di gente mantiene siffatte promesse.... tanto più che ci ha tutta
la sua convenienza. Una buona somma, un guardiano di carceri comperato,
un capo-guardiano che chiuda gli occhi, e l'affare è fatto.... senza che
nessuno sia compromesso.

Barranchi seguitava a scuotere la piccola testa colla stretta fronte
corrugata e l'aria pensierosa. Il conte di Staffarda parlò ancora per un
poco non senza calore; e il colloquio finì di poi con una stretta di
mano.

Carlo Alberto aggirandosi, come fu detto, pel salone, venne presso al
luogo dov'era il marchese di Baldissero e gli fece un cenno di saluto
improntato di speciale benevolenza. Il marchese s'affrettò ad
accostarsegli.

— La vedo con piacere, marchese; disse il Re. Ho desiderio di parlarle.

Queste parole fecero intorno a S. M. un cerchio di spazio vuoto, i
cortigiani indietrando tutti le loro persone ricurve alla distanza di
due metri: entro questo cerchio stette il marchese in mossa
dignitosamente rispettosa, aspettando le parole reali.

Il Re cominciò a domandare di quel giovane che egli credeva ancora
figliuolo del Valpetrosa, da lui conosciuto ed apprezzato nel fatal
tempo della cospirazione del 1821; ed apprese così dallo zio di Virginia
e la scoperta dell'errore che aveva fatto ritener per tale quel
trovatello, e la malattia sopravvenuta a quest'infelice.

— Tutto ciò è molto strano; disse il Re. Ed ora che conta Ella di fare
riguardo quel giovane?

— La sua intelligenza e il suo carattere non sono mutati per questo; e
siccome io l'aveva scelto a mio segretario prima di supporlo mio
congiunto...

Carlo Alberto lo interruppe con un gentile sorriso d'approvazione.

— Così conta tenerselo anche adesso. Ha ragione. Ma ce lo disputeremo,
marchese; e se quel giovane ha un merito reale, può dirsi che la sua
fortuna è fatta. Casa di Savoia ha creati i Caissotti e i Bogini...

Tacque ad un tratto, e il suo sguardo vago e velato si diede ad errare
intorno con certa esitanza. Pareva che la sua mente fosse passata
improvviso ad altre idee, che volesse parlar d'altri argomenti, ma non
trovasse di subito le parole. Il marchese stette silenzioso aspettando.

— A proposito di cose strane: disse poi dopo una breve pausa: sa,
marchese, che me ne avviene una abbastanza curiosa? Ha inteso parlare
dell'arresto di quella banda di malfattori e del suo capo, certo
Quercia, che si spacciava per medico e viveva da elegante?

— Sì, Maestà.

— Ebbene, ricevetti una lettera anonima, la quale pretende che
personaggi alto locati e di molto influsso nelle cose pubbliche
intendono salvare quel cotale e mi prega a nome della giustizia di non
voler permettere una simil cosa. Ne ho parlato col Ministro dell'interno
e col Guardasigilli: ed ho inteso come sembri in verità che quel
miserabile abbia avute intime relazioni con una signora di nobilissimo
casato, e che in pubblico dibattimento possano venire a galla certe
circostanze da suscitare scandalo gravissimo e recare disdoro soverchio
ad una delle più antiche ed illustri famiglie del nostro Regno e delle
più benemerite del nostro Trono. In tali emergenze alcuni penserebbero
che ragioni di alta politica, dovrebbero far passar sopra allo stretto
rigore della privata giustizia, e che quindi sarebbe opportuno impedire
lo scandalo.....

S'interruppe ancora, come aveva fatto poco prima, quasi le parole gli
fossero mancate; ma questa volta il suo sguardo stette fisso con una
certa vivacità sulla nobile fisionomia del marchese. Questi era troppo
diplomatico e d'ingegno troppo penetrativo per non comprendere subito
che il Re desiderava sapere il suo parere in proposito, e non voleva in
pari tempo esplicitamente domandarglielo; e siccome avvisò di presente,
onesto e coscienzioso com'era, essere suo dovere esporre ciò che credeva
il giusto ed il vero, senz'altro indugio rispose con un certo calore:

— Costoro, a mio debole parere, s'ingannano. Lasciamo il diritto
_costituendo_, dove si potrebbe discutere, se in una monarchia come
questa la nobiltà che più strettamente circonda e difende il trono, e
deve accrescergli splendore, non s'abbia a guarentire di privilegi, ed
anche nell'esercizio della giustizia non debba avere sostegno di giudici
speciali, di procedure apposite ed eziandio di provvedimenti
eccezionali. Ma innanzi all'attuale legislazione non è più permesso il
dubbio. Le leggi emanate da V. M. vogliono che tutti sieno uguali: e le
leggi quando ci sono bisogna osservarle, e tanto più chi è a capo dei
popoli, se si vuole che i popoli medesimi le rispettino. In qualunque
modo sia impegnata nel processo la nobil famiglia cui V. M. fece
allusione, — ed io lo rimpiango profondamente — qualunque scandalo ne
debba avvenire, io credo che bisogna assolutamente che giustizia si
faccia.

Il Re aveva spenta la vivacità del suo sguardo, e stava in contegno
attento, riflessivo, quasi melanconico. Stette un poco prima di parlare
e poi disse sorridendo freddamente:

— Ella ha espresso precisamente la mia opinione. Godo di essere così
bene d'accordo con Lei, di cui il senno, l'esperienza e lo zelo per la
pubblica cosa dànno al parere tanto valore.

Fece di nuovo una piccola pausa, poi soggiunse con fermezza:

— Giustizia sarà fatta, e nessuno vi si potrà sottrarre.

Chi avesse detto al marchese di Baldissero che colle sue parole
confermando in quella risoluzione lo spirito prima esitante del Re, egli
condannava a salire sul patibolo il figliuolo di sua sorella! S'egli
avesse saputo codesto, certo, per quanta passione ne avrebbe avuto, non
sarebbe stato diverso il suo consiglio; ma sicuramente se avesse
conosciuta la brutta verità, quella sera non si sarebbe recato a Corte,
e probabilmente Gian-Luigi avrebbe potuto esser salvo. Ma il destino
aveva voluto che Maurilio non avesse ancora potuto parlare.

Il Re, continuando il suo giro, vide il conte Barranchi, il quale,
separatosi da Langosco, veniva accostandosi, pianeta o meglio satellite
di Corte, al centro di attrazione. Ad un legger cenno fattogli da S. M.,
il generale s'affrettò ad accorrere e stare innanzi alla faccia pallida
di Carlo Alberto, come il caporale che si presenta a ricevere un ordine
dal capitano.

— Generale, gli disse il Re in modo che nessun altro potesse udire: ho
una raccomandazione da farle.

Barranchi s'inchinò con una mossa delle braccia sollecita e vibrata che
voleva dire:

— Comandi e conti su di me.

— Mi è riferito che si tenti sottrarre alla giustizia dei nostri
tribunali quell'elegante capo di assassini, il cui arresto fa molto
onore alla sua Polizia.

Barranchi tornò ad inchinarsi in atto di ringraziare, ma in realtà per
nascondere il turbamento che quelle parole avevano in lui prodotto.

— Ordinerò al ministro degl'interni, continuava il Re, che procuri
intorno a quel tristo una sorveglianza speciale, e prego anche Lei di
voler coadiuvare colla sua Polizia ad impedire ogni evasione. Se
l'accusato fuggisse sarebbe un disdoro per l'autorità del Governo e
della legge; ed io ne proverei un particolare rammarico.

Il generale non trovò altro mezzo di rispondere che quello di fare un
terzo inchino. Il Re passò.

— _Sacrebleu_! esclamò fra sè il conte Barranchi, quando rimpettì di
nuovo il suo corpo serrato nella montura, drizzandolo dal profondo
inchino cortigianesco. Che cosa dirà ora quel povero Langosco?

Si pose subito in cerca di costui, e non tardò a ritrovarlo.

La faccia del marito di Candida, poichè il generale ebbe parlato, si
fece scura come una mattinata nebbiosa d'inverno.

— Sentite: diss'egli poi, mettendo proprio le labbra sul padiglione
dell'orecchia dell'amico; si tratta di qualche cosa più che la vita o la
morte. Può sempre tornar di giovamento l'aver un uomo a noi obbligato da
gratitudine eterna e capace di qualunque cosa per noi. Sapete la favola:
anche il sorcio tornò utile al leone; ed io sono qualche cosa più che un
sorcio.... Non avreste che da lasciar fare.

La lettera anonima che era pervenuta nelle mani del Re, denunziatrice
delle intenzioni di potenti personaggi di salvar Quercia, era stata
scritta da Barnaba.



CAPITOLO XXVI.


Due giorni dopo, alla mattina, verso le otto e mezzo, che in quella
stagione invernale è affatto di buon'ora, una donna modestamente vestita
di scuro, con un fitto velo sulla faccia che ne celava compiutamente le
sembianze, presentavasi all'uscio della Zoe e domandava con voce tremola
ed esitante di parlare alla celebre cortigiana. A costei tale visita era
stata annunziata la sera precedente da un bigliettino di carta
finissima, delicatamente profumato, il quale diceva:

«Una donna, che facilmente indovinerete chi sia, ha bisogno di parlarvi
nell'interesse di quella persona che più vi sta a cuore. Siate sola
domattina dalle otto alle nove, e si verrà da voi.»

La _Leggera_ non aveva menomamente esitato a riconoscere la calligrafia
della contessa Candida; ed aveva dato ordine che quando la mattiniera
visitatrice si presentasse, venisse subito introdotta.

Candida entrò tremante, che appena se poteva reggersi sulle gambe, nella
camera da letto sontuosa e disordinata della cortigiana. Essa, la donna
titolata, la superba signora, la fiera dama di Corte, presentavasi poco
diverso che imploratrice, nella casa d'una disprezzata femmina, cui
avrebbe un tempo, incontrandola, coperta delle più manifeste mostre del
suo disdegno! Zoe giaceva ancora sotto l'elegante cortinaggio, mezzo
seduta sui cuscini candidissimi, ornata il capo, il petto, le mani di
ricchissime trine sulla fina biancheria della sua cuffia e del suo giaco
da notte; teneva il gomito del braccio destro affondato nel cedevole
guanciale, più candido che neve, a cui si puntava, e sorreggeva alla
mano la testa: di sotto alla cuffia scappavano ribelli le ciocche ricche
e pesanti delle sue fulve chiome, e parevano matasse d'oro filato che le
cascassero sul seno e sulle spalle; lo sguardo vivo, ardente, quasi
selvaggio, stava intento nel volto d'una persona che sedeva presso alla
sponda del letto. Questa persona era una giovine donna, la quale,
vedendo entrare la contessa, si alzò, si trasse in là d'un passo e
saettò la nuova venuta con uno sguardo curioso, sollecito, avido, quasi
feroce. Candida non s'era inoltrata che di poco nella stanza; le forze
glie ne mancavano; si appoggiò ad un mobile, e stette un momento prima
di riaver tanto di respiro da poter pronunciare una parola. Di sotto il
velo intanto ella guardava, quasi sgomenta, un po' corrucciata,
turbatissima per mille contrarie sensazioni, quelle due donne, le quali
con aria presso che ostile fissavano lei.

Fu la Zoe a rompere quello strano ed impaccioso silenzio.

— La si avanzi e s'accomodi: disse asciuttamente accennando colla mano
il seggiolone da cui s'era levata pur allora la giovane che le stava in
compagnia.

— Vi avevo pregata d'esser sola: disse una voce fioca ed agitata di
dietro il fitto velo che copriva le sembianze della contessa.

— Maddalena non è di troppo: rispose la Zoe che prendeva evidente
piacere della confusione e del turbamento di quella nobil donna: anzi ci
è necessaria... È una nostra compagna: soggiunse dopo un poco, pesando
con intenzione sulle parole: è una nostra _complice_.

Candida si riscosse e rabbrividì: un vivo rossore le salì alla faccia,
cui per fortuna non lasciò scorgere l'abbassato velo: un'acre vergogna
l'assalse per quella complicità; sentì d'essersi abbassata al grado di
quelle disgraziate. Non aggiunse parola su ciò e venne a sedere sulla
poltrona che Zoe le aveva additata.

Maddalena, che non aveva cessato di squadrare con avida curiosità la
velata contessa, e che ora trovavasi alle spalle di lei, fece il giro
della poltrona, e venne a piantarsi in faccia a Candida seduta, le
braccia incrociate al petto, e il suo sguardo più impertinente che mai.
Ella cui l'amore comune per Quercia aveva piegata a subita simpatia
verso la cortigiana, sentiva ora contro quella nobile dama, che si
avventurava ad amare il medesimo uomo, un impulso d'odio, una gelosia
rabbiosa, una smania crudele di umiliarla e mortificarla. Per la prima
era forse la comunanza d'origine, la somiglianza delle condizioni che le
ispiravano una specie di fraterna benevolenza; e la decisione di
carattere, la risolutezza delle maniere, la violenza dei sentimenti e la
forza della volontà che contraddistinguevano la cortigiana valsero ad
imporne a quella natura aspra, selvaggia e rubesta del pari. Per quella
signora invece, che apparteneva ad altra classe sociale, che godeva di
tanti beni a lei povera negati assolutamente, e tanto più grandi nella
sua fantasia e desiderabili, l'istinto di proletario, l'odio naturale
del povero verso il ricco, che erano in Maddalena, non potevano altro
sentimento ispirare fuor che la gelosia e l'invidia. La Maddalena
adunque si piantò in faccia alla sua nobile rivale in quella mossa che
ho detto, e con accento che accompagnava perfettamente l'insolenza del
contegno, disse:

— Or be', questa signora la non vorrà degnarsi di mostrarci le sue
bellezze?

Candida trasaltò sul suo seggiolone e fece un atto come per alzarsi e
partirsene. Zoe represse in fretta un sorriso che le era venuto alle
labbra carnose e procaci, fece un atto verso la contessa per pregarla di
non muoversi, e disse, colla severità d'una compagna e non di una
superiore, alla giovane plebea:

— Taci, Maddalena.

Poi volgendosi a tutte due con un tono di compagnevole dimestichezza, di
cui la misera Candida sentì tutta l'onta e lo sdegno, ma cui dovette
reprimere, e non fu questa lieve pena per lei, la cortigiana soggiunse:

— Siamo qui e dobbiamo starci come tre buone amiche le quali vogliono
tutte tre ed ardentemente una cosa sola. Parliamoci adunque come tali.
Signora contessa, dal suo bigliettino ho capito che Ella aveva qualche
cosa da apprenderci o da suggerirci per la salute del nostro caro Luigi.
Parli dunque Ella prima, e ci rallegri, se è possibile, con delle buone
nuove, che in noi è uguale al suo, se non maggiore, l'interesse per
quella diletta persona. Dopo di Lei avrò io qualche cosa da comunicarle
eziandio, che forse non sarà meno interessante di quanto Ella sta per
dirci.

La contessa ringoiò lo sdegno, l'onta e tutta la fierezza che si
sollevava in lei, e fattasi forza parlò. Per capire il colloquio che
ebbe luogo fra quelle tre donne, diciamo brevemente ciò che era a
ciascuna di esse avvenuto il giorno innanzi.

Candida, secondo l'accordo preso con suo padre al concerto di Corte,
erasi da lui recata nella mattina, ed avevagli esposta a suo modo la
difficile, pericolosa e fatale condizione in cui ella si trovava, e la
necessità da questa nascente della fuga del _medichino_. Il barone La
Cappa, sbalordito da tutto ciò, non sapeva trovar fuori un modo
qualunque di effettuare questa fuga. Fu Candida che glie lo suggerì: una
somma di certa entità per comprare qualcheduno, una mezza parola di
qualche persona autorevole che inducesse taluni a chiudere gli occhi. Il
padre della contessa, animato dal suo amore per la figliuola, si lasciò
indurre a promettere la somma che sarebbe occorsa; e si pose senza
indugio in giro per trovare quel certo affidamento di cecità nella
complice tolleranza di qualche potente. Si rivolse addirittura al
Ministro e spiegò tutta l'arte diplomatica di cui era capace per
arrivare all'argomento senza accostarlo pericolosamente di fronte: ma fu
appena nei paraggi dell'isola di sì difficile approdo, che il Ministro
(a cui il Re già aveva fatto quell'intimata che la sera innanzi era
piovuta sul Comandante della Polizia), gli rese inutile ogni
bordeggiare, dichiarandogli seccamente che essendo nati sospetti che si
volessero far tentativi per una evasione di quel famoso assassino,
s'erano dati ordini opportuni affine non solo di impedire ogni riuscita
di siffatti progetti, ma di levare ad ognuno qualsiasi velleità di
tentarli. Il barone si partì mortificato, senz'aggiunger parola, e si
recò dal Direttore generale delle carceri.

Il povero barone ebbe a toccar con mano in questa circostanza la
differenza che passa nelle aure burocratiche fra un uomo in carica ed
uno cascato nel limbo della giubilazione. Quando egli era capo
d'ufficio, in tutto lo splendore della sua carriera, non si poteva
immaginare mostre di deferenza e di zelo rispettoso che il barone non
ricevesse da costui, nella anticamera del cui ufficio si presentava.
Credeva egli per ciò, lo riteneva come una cosa certa ed un suo vero
diritto, che a lui non sarebbe stato riserbato l'accoglimento d'un
postulante qualunque, ma che ogni uscio gli si aprirebbe dinanzi come a
padrone, in mezzo agli inchini degli uscieri, e il suo antico subalterno
si sarebbe affrettato a venirgli incontro come si fa per reverenza ad un
superiore. Non tardò ad accorgersi con grande sua mortificazione e
dispetto che quella era una falsa lusinga: e ad eccezione degl'inchini
degli uscieri, i quali erano troppo poca cosa per avere il coraggio e
credersi il diritto dell'impertinenza contro un titolato, un decorato e
tale che poco tempo prima li poteva far cacciare dall'impiego, in tutto
il resto la sua aspettazione fu pienamente delusa. Il Direttore generale
lo fece aspettare un quarto d'ora che all'orgoglio offeso del barone
parve un tempo infinito; e quando lo ammise nel suo gabinetto, siccome
l'argomento da affrontarsi era di così difficile e delicata natura che
occorrevano circonlocuzioni, preparazioni oratorie e volteggiamenti di
discorsi, il Direttore generale fece con garbo capire al suo visitatore
che aveva molte occupazioni da sbrigare e pochi momenti da concedere. Il
padre di Candida s'affrettò a toglier commiato, non senza lasciar vedere
qualche po' di quel risentimento che aveva molto nell'animo; ma dalle
fasi del discorso riportò, se non altro, per vantaggio, quello di
apprendere che era Ispettore delle carceri, ov'era custodito Quercia, un
cotale ch'egli nella sua lunga carriera amministrativa aveva potuto
conoscer per bene, povero di sostanze e di moralità, ricco soltanto di
famiglia e di bisogni. Avvisò tosto che questi era l'uomo di cui s'era
fatto il Diogene cercatore, e con molte precauzioni perchè non fosse
conosciuto il suo passo, si recò a trovarlo a casa sua.

Nel colloquio che ebbero, il corruttore ed il corruttibile, parlarono il
meno chiaro che si potesse, menarono, come si suol dire, il can per
l'aia, e si intesero perfettamente. L'Ispettore tenne alta la mercanzia,
il barone lasciò capire che si sapeva valutarla al prezzo che si
meritava: quegli accennò ai pericoli della sua condizione, alla facilità
d'essere compromesso, questi fe' cenno della prudenza dei procedimenti,
della guarentigia di cautele necessarie per tutti, eccetera, eccetera.
Venutosi a mezzo ferro, il barone parlò della felicità di farsi
proprietario e di comprar, per esempio, nel proprio paese un po' di
terra, una casetta; ma l'altro lo interruppe nell'esposizione di
quell'idillio, dicendo che il diventar proprietario gli avrebbe chiamato
addosso l'attenzione e la malignità degl'invidiosi, e che perciò avrebbe
preferito, quando gli piovesse dal cielo un capitale, impiegarselo in
altro modo e farselo valere in segreto come ben avrebbe saputo. Il
barone domandò per curiosità a qual somma si elevavano desiderii del suo
interlocutore circa quel capitale: e l'altro, che stimò esser meglio
domandare un'esagerazione, parlò di venti mila lire; La Cappa protestò
che il signor Ispettore non avrebbe mai potuto trovare una tal somma, ma
che invece la metà sarebbe stato probabile lo averla. L'Ispettore fece
lo schizzinoso, e il padre di Candida simulò non voler più dir altro a
questo proposito, cambiò discorso, e dopo un poco accennò andarsene; il
tentato accompagnò il tentatore fino alla soglia, e là, ad un tratto,
per dir così, a bruciapelo, con voce sommessa e parola ratta, disse:

— Dieci mila lire, sia: lascierò fare; ma ce ne vogliono cinque mila
subito.

La Cappa tornò indietro e chiuse l'uscio della stanza in cui entrarono
di nuovo.

— Le avrete stassera, disse; ma non basta lasciar fare; conviene anche
suggerirci come fare.

— Bisogna rivolgersi al capoguardiano. So che cederà. Ma la capisce che
non io posso trattare con lui. Abbia a questo oggetto qualche mandatario
fidato.... Io avrò una malattia che m'impedirà di esercitare la maggiore
sorveglianza comandata. Il capoguardiano ne prenderà fiducia per agire
secondo che si vuole.... Ma conviene far presto.

Il barone di quella sera fece avere le cinque mila lire all'Ispettore e
informò di tutto la figliuola. Per trattare poi con questo capoguardiano
ci voleva qualcun altro: egli non voleva commettersi in sì bassa
impresa. La contessa pensò che quell'ufficio lo potrebbe fare la Zoe e
scrisse alla medesima il bigliettino che abbiamo visto.

Di più importanza ancora e meravigliosamente accordantisi per fare
sperare un lieto successo coi fatti che conosceva la contessa erano
quelli avvenuti a questo proposito alla cortigiana. Eccoli in breve.

La sera precedente si presentava al quartiere di Zoe uno sconosciuto,
tutto accuratamente camuffato nel mantello, e chiedeva essere ammesso
alla presenza della donna, alla quale, a lei sola, in proprie mani
doveva rimettere certa carta. La cortigiana, senza la menoma esitazione
lo faceva introdurre presso di sè, e sola con lui nel suo gabinetto lo
invitava a spiegarsi sollecito, già sperando e indovinando che quel
misterioso individuo le dovesse parlare di cose attinenti a Luigi.

E così era diffatti. Scioltosi dalle falde del mantello, quell'uomo
lasciò vedere una faccia volgare e rozza, che era quella d'un guardiano
delle carceri. Fu già detto come quella potente associazione di
malfattori che chiamossi la _cocca_, e della quale forse vive ancora
qualche rimessiticcio, avesse affigliati ed aderenti in varie parti ed
in diverse condizioni sociali, così bene che anche negli uffici della
pubblica sicurezza ed in grado non tanto inferiore eravene alcuno da cui
partirono que' certi avvertimenti di cui il _medichino_ non seppe
approfittare. Ora la fortuna di Quercia volle che fra i guardiani a cui
era affidata la custodia di un sì importante prigioniero fossevi,
chiamato da poco tempo a prestar servizio in quelle carceri, uno di quei
subalterni soci della trista setta, e quell'altro in superior grado
costituito lo sapesse. È facile capire come, grazie a loro particolari
segni di riconoscimento e mezzi particolari di corrispondersi e
d'intendersi, anche senza parola viva, fra i componenti della _cocca_,
il _medichino_ e quel cotal guardiano si mettessero in rapporto, e il
secondo si decidesse e promettesse di servire ciecamente il primo. Era
dunque per mezzo di costui che già una prima volta Quercia aveva scritto
poche righe alla Zoe, ed era questo medesimo ch'egli ora le mandava con
una lettera in cui spiegava tutto il disegno da lui immaginato nella
solitudine della sua carcere per riconquistare colla fuga la libertà.

Anche Gian-Luigi sapeva che il capoguardiano avrebbe acconsentito a
favorire il loro intento dove se ne fosse compra con una buona somma la
fedeltà al Governo che lo pagava poco. Quando la cosa fosse intesa con
costui, bisognava procacciarsi delle false chiavi che aprissero la
carcere del _medichino_, il cancello in ferro del pianerottolo, quello
al fondo della scala. Nel corridoio a pian terreno esisteva una
porticina che non si apriva mai, ora stata murata, la quale metteva nel
cortile verso la Corte d'Appello, che allora si chiamava Senato; anche
di questa porticina bisognava fabbricare le false chiavi, poi una data
notte, ad una certa ora verso il mattino, quando è più silenziosa la
terra e più pesante il sonno degli uomini, il capoguardiano avrebbe
disposto le cose in guisa che i più zelanti e i più da temersi de'
custodi fossero allontanati e il vegliare incombesse a quello che era
addetto alla _cocca_. Questi avrebbe aperto pian piano la carcere di
Quercia, i cancelli e la porticina del cortile, e per questa il
_medichino_, vestito come un guardiano ancor egli, con abiti che il capo
medesimo dei custodi gli avrebbe procurati, sarebbe venuto sotto l'atrio
del palazzo della _Curia maxima_, dov'era facile aprire dall'interno il
portone. Per scender le scale bisognava bene passare nella stanza del
capoguardiano, ma questi avrebbe dormito d'un sonno di piombo. Una
carrozza sarebbe stata aspettando nella vicina piazza Susina, ora di
Savoia, e, appena salitovi il fuggitivo, di galoppo via fino a qualche
sicuro ricovero lontano di città, dove si sarebbe fatto trovare armi,
vestiti e mezzi di mascherare le proprie fattezze a Gian-Luigi, il quale
giurava che una volta fuori dalle unghie della giustizia non avrebbe più
lasciato che lo riafferrassero vivo a niun patto. Per ottenere le false
chiavi, Quercia scriveva si cercasse di un certo Andrea, cui Maddalena,
la serva di Pelone, conosceva per bene, come frequentatore di quella
bettola, il quale non si sarebbe rifiutato di certo, mentre non era gran
tempo, per un servizio che Gian-Luigi gli aveva reso, s'era protestato
disposto a fare per lui qualunque cosa.

Il custode affiliato alla _cocca_ già aveva preso le impronte di cera
necessarie all'uopo e insieme colla lettera le recava alla Zoe, la quale
lo congedava stimolandone con larga rimunerazione lo zelo. Non si
trattava più che di procurarsi i denari occorrenti, e la cortigiana già
pensava far capo per ciò al conte ed alla contessa Langosco, quando
ricevette la letterina di quest'ultima, che preveniva i desiderii e le
intenzioni della _Leggera_.

Giunto il mattino, Maddalena, che era necessario mettere a parte del
segreto e mandare in traccia di quell'Andrea, fu mandata chiamare dalla
Zoe; ed ecco di qual guisa avvenisse che quelle tre donne si trovarono
riunite nella stanza da letto della cortigiana.

La contessa e la cortigiana non si dissero mica tutti questi particolari
che son venuto esponendo; ma quella disse essere a sua cognizione in
modo positivo che l'Ispettore avrebbe lasciato fare, il capoguardiano
avrebbe potuto fare se qualcuno sapesse in bella maniera offrire a
quest'ultimo un certo numero di migliaia di franchi: ella avrebbe
provvisto il denaro, delle trattative con quell'uomo s'incaricasse la
Zoe: questa a sua volta confessò i tentativi già avviati, narrò che essa
tosto, di quel giorno medesimo, avrebbe cominciato l'assalto contro il
capo dei custodi, la Maddalena lì presente si sarebbe posta alla ricerca
di tale che era alla riuscita dell'impresa necessario, conchiuse, tutto
raggiante in volto d'una lieta speranza, che fra una settimana sperava
libero il _loro caro_ e finite per _tutte_ le angoscie.

— Ed Ella, signora contessa, soggiunse tendendo una mano a Candida, sarà
in possesso di quelle carte che tanto le premono.

La contessa esitò, poi non osò rifiutarsi a toccar quella mano, vi pose
dentro appena la punta delle sue dita inguantate e sentì a quel lieve
contatto serpersi nelle vene un brivido: le parve affermata la vergogna
della sua fratellanza con quella donna venduta.

In sul punto d'accomiatarsi, ella, per un atto quasi macchinale, alzò il
velo e mostrò la sua faccia impallidita e dimagrata in que' pochi
giorni, i suoi begli occhi ardenti di febbre in fondo alle occhiaie
contornate da un livido cerchio, la sua tanta bellezza fatta ora mesta,
severa, quasi direi solenne dalla espressione del dolore e dall'impronta
della sventura. Maddalena, che non aveva parlato più, e che stava sempre
osservando con occhi ostilmente avidi la contessa, frenata soltanto ne'
suoi nimichevoli sentimenti e propositi dalla presenza della Zoe, come
un animale selvaggio dalla tema del suo domatore, al vedere finalmente
scoperte quelle sembianze che tanto anelava esaminare e trovandovi tanta
bellezza, mandò un'esclamazione in cui c'erano insieme rabbia, stupore
ed una involontaria ammirazione, e si cacciò innanzi verso la nobile sua
rivale come un nemico che assale un nemico. Candida sorse in piedi e si
trasse in là con mossa di imponente fierezza, ma non scevra di
inquietudine.

— Maddalena! gridò in tono di comando la Zoe, e la giovane plebea si
arrestò; ma i suoi occhi mandavano lampi di odio da far paura.

— La riverisco: seguitò la Zoe, parlando alla contessa. Se la avrà
alcuna cosa da comunicarmi, non iscriva, la prego, ma mi mandi chiamare
o si degni disturbarsi per venire da me; io farò il medesimo quando
abbia notizie da apprenderle.

Candida fece un lieve cenno del capo che poteva passare insieme per
un'espressione di consentimento e per un saluto, abbassò di nuovo e
rattamente il velo sulla faccia ed uscì.

Maddalena fece un balzo dietro di lei, come se le volesse piombare
addosso e ghermirla.

— Ebbene? che cosa fai? Le domandò la Zoe con un certo sorriso sulle
labbra di porpora.

— Non vorrei lasciarla partire senza piantarle su quella bella faccia lo
stampo delle mie unghie.... Esclamò con accento pieno di ferocia la
Maddalena. Ah! la è bella davvero la superba!... Avrei voluto
levargliene e bellezza e superbia.

— Sta, sta: disse con quel suo sorriso la cortigiana. Quella bellezza è
già di molto danneggiata, e quella superbia non hai visto come si
contorceva spasimando sotto l'umiliazione?

Di quel giorno medesimo, come Zoe aveva annunziato avrebber fatto, le
due donne si misero all'opera. Il destino parve volerle favorire. La
seduzione del capoguardiano non fu difficile; e Maddalena, guidata
proprio da una felice ispirazione, non tardò ad incontrare Andrea. Ella
aveva udito raccontare come al tempo della catastrofe ond'era stato
colpito il povero operaio, i bimbi di costui fossero stati ricoverati
nell'Asilo infantile, e con accortissimo consiglio la si pose a
gironzare intorno a questo stabilimento, sicura che il misero padre ci
sarebbe capitato. E diffatti nella mattinata medesima lo vide.
L'infelice appena era riconoscibile. Il dolore lo aveva invecchiato di
dieci anni, e gli stenti della miseria, che continuavano per lui più
crudeli che mai, gli venivano inaridendo le fonti della vita. Maddalena
con molto acume aspettò ad accostarlo e parlargli quando egli uscisse
dall'asilo, dopo aver visti i figli. La capì che prima egli non sarebbe
stato molto disposto ad ascoltarla, ed avrebbe accolto con impazienza
una compagnia ed un discorso che gli avrebbero ritardato la gioia —
l'unica sua gioia oramai — di vedere ed abbracciare i bambini.

Quando adunque Andrea se ne venne fuori (e la sua faccia era più lieta,
meno velati i suoi occhi) Maddalena gli si appressò, e fece come se
l'incontrasse per caso, interrogandolo di lui e delle cose sue,
compiangendolo forte, e con quelle parole di pietà che ogni donna sa
trovare, delle avvenutegli disgrazie.

— Ed ora, gli domandò poi, avete trovato lavoro?

— No: rispose mestamente l'operaio; non ho potuto ancora allogarmi
presso nessuna fabbrica. Manca il lavoro; i principali mandano via i
buoni operai, altro che prenderne un tristo, come oramai ho il nome
d'esser io... come sono: soggiunse con un amaro scoraggiamento. Ho
vissuto sinora aiutando qualche mio amico facchino a portar legna... E
tutto ieri non ho potuto fare neppur questo... Ma che importa? (schiuse
le labbra ad un doloroso sorriso). Per me non me ne fa più nulla, e i
miei bambini hanno pane, vesti e ricovero.

— Pover'uomo! disse la Maddalena veramente impietosita. Vuol dire che
non avete mangiato...

Andrea curvò il capo e levò le spalle con atto che voleva dire:

— La è proprio così, ma ci sono avvezzo oramai.

— Siete avviato in qualche luogo dove abbiate da recarvi? domandò la
giovane.

— No: rispose l'operaio con quella sua tranquillità rassegnata che
pareva apatia. Non ho da andare in nessun luogo, non ho nulla da fare.

— Ebbene, venite meco; ho certe cose da far trasportare, e voi siete
appunto l'uomo che ci vuole. Intanto avrete da colazione.

Andrea nè ringraziò, nè disse pure una parola, ma seguì passivamente la
Maddalena, che lo condusse dove aveva ora la sua dimora, cioè nel
misterioso quartieretto di Bancone.

— Che cosa debbo fare? domandò l'operaio introdotto colà dentro.

— Prima di tutto colazione: disse la Maddalena, facendo sedere Andrea ad
una tavola e mettendogli innanzi cibo e bevanda.

Quando Andrea ebbe mangiato e bevuto come un affamato che da
ventiquattro ore non ha più avuto un boccon di pane sotto i denti, come
un beone che da molti giorni non ebbe più un fiasco di vino in sua
balìa, si alzò e disse con voce più sicura e più forte di quella che
avesse prima:

— Or bene, che cosa volete ch'io faccia?... Ora mi sento ritornate le
mie forze e capace di sollevare quanti _rubbi_ volete.

Guardò intorno ed esaminò l'eleganza del quartiere in cui si trovava.

— Cospetto! Siamo a casa di qualche principe, qui.... E che cosa ci fate
voi, Maddalena? Siete venuta a servire dei ricconi....

Maddalena fece un superbo sorriso, e non resistette alla vanità di dire:

— Io qui non sono serva, ma padrona....

Andrea allargò tanto d'occhi, e la guardò con una meraviglia che toccava
al sospetto.

— Davvero!... Mi rallegro con voi.... Or dunque, serva o padrona che
siate, qual cosa posso io fare per voi?

La giovane, istrutta dalla Zoe che aveva ricevute le comunicazioni di
Quercia, prese Andrea ad un braccio e gli disse:

— Vi ricordate voi di chi vi salvò la vostra Paolina dal coltello di
quei cannibali e ve la fece sotterrare da cristiana?

Le guancie d'Andrea, colorite dall'abbondoso pasto che aveva fatto pur
allora, impallidirono; gli occhi si velarono di nuovo, e la voce tornò
profonda ed affiocata.

— Che venite voi a rammentarmi? disse recandosi la mano alle ciglia come
se volesse ripararsi dalla vista del cadavere di sua moglie sulla tavola
di marmo cui le parole di Maddalena gli rievocavano dinanzi. Pur troppo
che ricordo tutto.

— Ricorderete adunque eziandio la promessa che avete fatto: «Se alcuno
di voi ha bisogno d'un uomo...»

— Ebbene? domandò Andrea interrompendo: v'è uno di quei due che abbia
bisogno di me?

— Sì... Non sapete che il dottor Quercia fu arrestato?

— Ah! è vero: esclamò l'operaio, battendosi la fronte, e con tono di
rampogna verso se stesso per non averci pensato.

— Bisogna salvarlo.

— E ci posso io qualche cosa?

— Tutto.

— Che debbo fare?

Maddalena gli pose innanzi le impronte di cera.

— Fabbricar le chiavi che devono aprirne la prigione.

Il ferraio indietrò come se vedesse uno spettro, e le sue chiome
scarmigliate gli si drizzarono sulla fronte.

— No, gridò egli, non questo... Domandatemi il mio sangue, ma non ciò.

Egli si era riveduto di botto nel sotterraneo a fabbricar le chiavi che
avevano servito per l'assassinio di Nariccia; gli pareva veder sulle sue
mani spuntare a chiazze un sudore di sangue — di quel sangue che senza
di lui non si sarebbe versato.

— Perchè non questo? domandò la Maddalena.

— Perchè ho giurato che mai più non avrei fatto opera simile.

— Avete pure giurato di far qualunque cosa per la salute del vostro
benefattore. Dura così poco in voi la riconoscenza?

Andrea non riluttò più a lungo. Si credeva realmente obbligato da quella
sua promessa. Di quel giorno si provvide di tutto il necessario, e nella
notte susseguente le chiavi furono fatte nella cucina del quartieretto
medesimo cambiata in laboratorio.

Al mattino Maddalena le portò trionfante alla Zoe che l'abbracciò e la
baciò con trasporto.

— È salvo: esclamò brandendo quelle grosse chiavi la cortigiana.

E le cose in fatti s'avviavano il meglio che si poteva desiderare in
favore di Gian-Luigi. Il capo-guardiano era stato il più arrendevole
uomo: e sollecitato anche dal conte Langosco, il quale aveva pensato del
pari dirigersi a lui, vendeva a costui ed alla cortigiana, all'insaputa
l'un dell'altra, l'opera sua. S'era già cercato il luogo di rifugio, la
Zoe aveva indotto Bancone a mettere a disposizione di lei una sua
carrozza con due cavalli, quella notte ch'ella avrebbe voluto, per
andare dove a lei piaceva e guidata da un uomo di tutta fiducia della
cortigiana: le tre donne credevano fermamente al successo, e nella loro
febbrile aspettazione cominciavano a rallietarsi. Ma per loro sventura e
per quella del _medichino_, la Zoe s'era dimenticata della
raccomandazione fattagli da Gian-Luigi nel primo bigliettino scrittole
dalla carcere, di tener d'occhio Barnaba e studiarlo per iscoprire il
movente della sua condotta. Ella, il poliziotto, non l'aveva visto più,
e l'aveva dimenticato: ma non avevala dimenticata egli, che, dopo le
fatiche di quella sera dell'arresto, rimasto due giorni nuovamente a
letto per rimettersene, erasi poi dato colle maggiori cautele del mondo
a spiare i passi e la casa della cortigiana. Vide così un uomo con
troppa cura celato il viso introdursi alcune volte nella casa di Zoe, la
sera: non lo riconobbe punto per un guardiano delle carceri, ma dubitò
che gli era qualche messo segreto per intrighi a vantaggio del
_medichino_: un'altra volta vide la Maddalena sgusciar lesta sotto il
portone della abitazione della _Leggera_: indovinò subito che all'antica
serva di Pelone la cortigiana aveva affidate le lettere tanto cercate, e
che importava quindi massimamente apprendere dove la ragazza si
nascondesse e là poi pigliarla al covo. Ma per quella volta non gli
venne fatto, perchè le due donne uscirono insieme in carrozza, ed egli
che aveva aspettato per codiarle, dovette rinunziare al proposito di
seguitarle. Una più importante scoperta ancora gli venne fatta: e fu una
mattina che vide per tempo uscire, assai modestamente vestita, la Zoe
con un fitto velo sulla testa da coprirsene le sembianze, sola, a piedi
e con certa aria di premura e di mistero da destare sospetti non che nel
furbo poliziotto, ma in ognuno che di quella donna conoscesse le
abitudini ed il modo di vita.

Barnaba la seguì e la vide entrare in una delle più vicine chiese, e
colà recarsi difilata nell'angolo più scuro d'una delle più riposte
cappelle. Non era impossibile che un impulso di divozione la menasse
colà — cotali donne ne hanno pur tante di stranezze! — ma il poliziotto
ci credeva poco. S'accostò pian piano, nascondendosi bene dietro i fusti
delle colonne e stette a sorvegliare, atteggiato in guisa che ognuno
l'avrebbe preso per un ascetico credente che non pensa se non alla
salute dell'anima sua.

Non dovette rimanere lungo tempo in attesa. Un uomo, guardandosi attorno
con molla cautela, si venne accostando alla Zoe velata; e
inginocchiatosele presso, ebbe con lei un colloquio bisbigliato, breve,
ma in apparenza vivace. Barnaba stette col viso affondato nelle mani,
come assorto nella più ardente preghiera, ma d'infra le dita il suo
sguardo non si staccava dai due colloquenti. Quando uscirono, la donna
prima e per una porta, l'uomo dopo e per un'altra parte, Barnaba lasciò
andare la Zoe e tenne dietro al maschio; lo vide entrare nelle carceri,
e riconobbe il capoguardiano. Senza perdere un minuto, egli corse dal
signor Commissario Tofi e gli parlò vivamente per un quarto d'ora. Il
Commissario, dopo uditolo, si recò in fretta dal Ministro degl'interni.

Era fissata la notte e l'ora della fuga: tutto pareva andar sempre a
seconda. L'ispettore, da qualche giorno malato, non s'era più fatto
vedere: il capo dei custodi aveva disposto le cose nel modo che s'era
voluto; le chiavi erano in mano al custode affiliato alla _cocca_, ed
erano già state provate nelle serrature.

Giunto il momento, la Zoe era nella carrozza ferma in piazza Susina,
dove sedeva a cassetta uno degli uomini scampati all'arresto dei
malfattori; la Maddalena che ce l'aveva accompagnata, era discesa e
venuta, impaziente, fino alla piazzetta davanti alla Corte d'Appello,
aspettando da un momento all'altro vedersi aprire il portone e venirne
fuori Gian-Luigi. I minuti sembravano ore, ed ore di tormento. Alla fine
credette udire nell'interno un lieve rumore di passi, un bisbiglio
soffocato di voci. Si curvò alla toppa, vi pose avidamente l'occhio, ma
per l'oscurità non vide nulla: vi appoggiò l'orecchio, e udì in modo
affatto distinto i passi di due uomini che camminavano pianamente e
venivano accostandosi; le parve di riconoscere, riconobbe di certo il
passo di Gian-Luigi. Il cuore le balzava in petto da farle male: ma
sull'ansietà oramai prepoteva l'emozione della gioia, più che la
speranza, la sicurezza della salute di lui. Tutta intenta a ciò che
succedeva sotto l'atrio del palazzo di giustizia, Maddalena non badava
ad altro più, non avvertiva ciò che aveva luogo sulla piazzetta in cui
ella si trovava: ed era che sei uomini in montura di carabinieri
sbucavano fuori dalle cantonate e s'accostavano con passo sospeso essi
pure verso il portone a cui la giovane stava origliando, preceduti da un
uomo in abiti borghesi che pareva guidarli.

Ad un punto Maddalena fu riscossa da un grido di donna, che scoppiò
sull'angolo della strada che va nella vicina piazza Susina.

— Salvati! — fu il grido — siamo perduti!

Era la Zoe, che non potendo più reggere alle mosse, era discesa di
carrozza, e veniva a vedere essa pure; e sopraggiungendo vedeva gli
agenti della forza pubblica stringersi intorno alla sua complice innanzi
al portone.

Maddalena sussultò, si volse, vide gli uomini e il luccicar delle armi,
fu per mandare un grido ancor essa; ma l'uomo in panni da borghese d'un
balzo le fu sopra, e senza dir pure una parola le pose violentemente una
mano sulla bocca, mentre due carabinieri prendevano la donna alle
braccia, ed a forza la tenevano ferma.

La _Leggera_ vide quell'uomo senza uniforme volgere verso di lei una
faccia scialba ed uno sguardo di fredda ed ironica minaccia, e gli parve
riconoscerlo.

— Sempre colui! si disse quasi spaventata. Ma chi è egli?... che vuole
da me?

Fuggì presa da un terrore strano, si gettò nella carrozza e la fece
partire di galoppo senza aspettare altro. Ogni speranza di poter salvare
Luigi, per allora, era perduta.

E Maddalena frattanto udiva — ora con angoscia — gli sforzi che facevano
quei di dentro per aprire il portone, e non poteva in niun modo
avvisarli.

Il portone finalmente si aprì e comparvero due uomini: quattro
carabinieri e Barnaba (poichè Zoe aveva veduto bene, e l'uomo in abiti
borghesi era lui) si precipitarono addosso al più giovane, che,
disarmato e preso all'improvviso, non potè far resistenza.

Egli riconobbe altresì Barnaba.

— È dunque fra noi una partita a morte? disse col suo disdegnoso
sorriso.

Barnaba fece un cenno affermativo col capo.

— La prima giuocata l'avete vinta voi, soggiunse, grazie al pugnale di
_Graffigna_: ma non l'avete vinta abbastanza bene. Ora la rivincita e la
decisiva a me.

Gian-Luigi salutò, come in un assalto cortese, un campione toccato dal
fioretto dell'avversario.

La Maddalena, libera la bocca dall'imbavaglio, gli occhi umidi di pianto
fissi con immenso desiderio e amore e rimpianto sul viso alquanto
impallidito del suo diletto, mandò una voce ed un singhiozzo:

— Oh mio Luigi! gemette ella.

Il _medichino_ le si volse con espressione di molta pietà e di molta
amorevolezza.

— Povera Maddalena! esclamò. Ora eccoti in trappola anche te.

Gettò uno sguardo pieno di rincrescimento nello scuro della notte
traverso il portone, là dove nella strada si stendevano i giallognoli
raggi d'un lampione, e represse un sospiro. Là era la libertà; ed egli
era venuto proprio fino alla soglia a contemplarla, Tantalo della
medesima.

— Ah di me non importa: disse con vivacità di sentimento che poteva
dirsi sublime la giovane plebea. Potessi aver salvato te, ed a me poi
accadesse qualunque peggior cosa del mondo.

Gian-Luigi non la ringraziò che con uno sguardo, ma era uno sguardo
d'ineffabile tenerezza, onde tutta ella si sentì commuovere.

— Costui, comandò Barnaba accennando il _medichino_, sia per ora
ricondotto nella sua prigione; ma stia sulla sua porta un uomo di
guardia fino a nuovo avviso; questo traditore (ed era il custode che
additava) sia subito messo ai ferri e nella stanza di deposito; così
pure si faccia al capoguardiano. Quanto a voi, bella giovane, prima di
trovar domicilio alle _Torri_[3] vi darete l'incomodo di condurci alla
casa dove ora avete dimora.

  [3] Carcere per donne.

Maddalena incrociò le braccia al petto con atto pieno di risoluzione, e
disse fieramente:

— Dov'io dimori da me non lo saprete mai.

Barnaba sorrise con espressione d'ironica superiorità.

— Non abbiamo più bisogno d'apprenderlo, carina, disse con ischerno, e
son io medesimo che avrò l'onore di guidarvici, caso che aveste
disimparata la strada.

Così Gian-Luigi, furibondo, ma nascondendo, per la forza della volontà,
il furore sotto le mostre della maggiore indifferenza, fu ricondotto
nella carcere e custodito con una sentinella alla porta; e Maddalena
venne da Barnaba fatta camminare sino al segreto quartierino di Bancone,
dove il poliziotto da due giorni sapeva che la giovane si rimpiattava.
Colà dopo un'accurata perquisizione nel locale e sulla persona medesima
della giovane arrestata vennero scoperte le lettere e prese da Barnaba
lieto e trionfante.

Maddalena fu condotta poscia in prigione ancor essa. La Zoe non s'era
ridotta a casa sua, ma per misura di prudenza erasi ricoverata presso
l'A. R. che concorreva in parte principale a mantenerne lo sfarzo, e con
cui una lite recente, come abbiam visto, aveva da parecchi giorni
interrotti i rapporti. Sapremo poscia se la cortigiana placasse e come
l'ira principesca.

Il domani, di buon mattino, il conte Langosco riceveva un invito di
recarsi dal generale Barranchi, e andatovi sollecito gli venivano
rimesse le lettere tanto desiderate. Il marito di Candida tornò
frettoloso a casa, e si ridusse nel salottino di sua moglie, solo con
lei. Chiusi ben bene gli usci, trasse fuori l'involto, e lo gettò con
mossa piena di supremo disprezzo alla moglie.

— Guardate se le ci son tutte: disse con voce piena di fiera ironia.

La contessa sciolse l'involto con mani tremanti, ed un vivo rossore la
colorì sino alla radice dei capelli.

— Ci sono? ripetè il marito, guardandola con occhi da far abbassare
qualunque più audace pupilla.

— Sì: rispose fiocamente la misera.

— Bene! Che cosa volete farne?... Conservarle come un oggetto prezioso?
Gettatele sul fuoco, madama, per Dio!

Candida allargò le mani e le lasciò cadere nel focolare.

— Ammirate la mia discrezione, _madama_, soggiunse il conte con ghigno
insopportabile a vedersi, mentre guardava le fiamme consumare quei
fogli. Non mi sono dato nemmeno il gusto di ammirare un solo di questi
vostri periodi d'una prosa certo eloquentissima.

La donna curvò il capo e si tacque.

— Spero che la lezione vi basterà, continuava il conte, e che andrete
più guardinga altra fiata nell'espansione letteraria de' vostri
sentimenti.

Colla punta dello stivale ond'era stupendamente calzato il suo piede
piccolo e sottile di forma aristocratica, spinse in là verso il fuoco un
foglio che era caduto sulle ceneri.

— Le lettere sono state restituite da quella donna: disse con fievol
voce la contessa, non osando levar gli occhi. È dunque riuscito a
fuggire quell'..... infelice?

— Ah ah! E' vi sta bene a cuore tuttavia: esclamò Langosco scaldandosi
le mani alla fiammata.

Non rispose altro; ma dopo un breve silenzio, smesso il ghigno e
l'accento ironico, disse con piglio e voce severi:

— Per questo scorcio d'inverno, signora, vivremo qui, come per lo
passato. Giunta appena la primavera, io avrò bisogno di fare un viaggio,
poi nella state di prendere i bagni: e l'inverno venturo, se Dio mi dà
tanta vita, conto andarlo passare a Parigi. Voi, al primo sbocciar delle
foglie, andrete nel nostro castello, e di là — me vivo — non vi
muoverete più..... Le ragioni d'interesse sono già belle ed aggiustate
mercè quelle carte a cui voi non è molto metteste la vostra firma.

Candida non disse una parola, non fece un movimento. Il conte, poichè
tutte consumate dal fuoco erano le carte, s'avviò lentamente all'uscio
per partirsi; quando fu alla soglia, già colla mano alla gruccia della
serratura, si volse e disse; con crudele freddezza:

— No, quell'assassino non ha potuto fuggire. Ei fu rimesso in carcere e
sarà impiccato... Che è ciò che gli spetta per ogni verso.

Ed uscì.

Quel giorno medesimo in cui Barnaba, mercè l'attenta sua sorveglianza,
capiva che il tentativo di fuga doveva farsi nella notte e riusciva a
sventarlo; quel giorno per la prima volta Maurilio si levava a sedere
sul suo letto, e smesso il parlare interrotto del delirio, e i moti
scomposti, domandava di parlare al marchese, al quale aveva
un'importante rivelazione da fare.



CAPITOLO XXVII.


Pensatevi qual rimanesse il marchese di Baldissero quando Maurilio gli
ebbe rivelato che il possessore dell'altra metà di quella lettera che
Nariccia aveva stracciato per servirsi a dare un contrassegno di
riconoscimento dell'abbandonato figliuolo della contessina Aurora, era
il giovane conosciuto in Torino sotto il nome di dottor Quercia; che
quindi quest'esso era il fanciullo smarrito che le circostanze avevano
fatto supporre un istante fosse egli stesso, Maurilio.

Il marchese ben sapeva ciò che ignorava l'infermo, tenuto segregato dal
mondo fino allora, mercè il delirio, cioè l'arresto degli assassini
della _cocca_ e di Quercia come capo dei medesimi. Sperò che un errore
eziandio fosse quello che facesse credere e dire al malato sì fatale
novella; ricorse ad autorevoli informazioni sul conto del giovane
arrestato e ne riportò la certezza della verità delle cose dettegli da
Maurilio, ed ebbe tra mano anzi quello squarcio di carta che combaciava
compiutamente col mezzo foglio trovato presso Nariccia e ne costituiva
la lettera integrale: squarcio che insieme con tutte le altre carte era
stato sequestrato presso Gian-Luigi.

In una perplessità straordinaria d'animo e di mente, il marchese non
sapeva a che partito appigliarsi, e l'idea glie n'era venuta di aprirsi
con Don Venanzio e consultare le ispirazioni di quell'anima santa di
vecchio prete, quando egli medesimo, il buon parroco, fece domandare a
S. E. il favore di un colloquio.

Egli era entrato nel palazzo già da un quarto d'ora ed era stato nella
stanza del giovane infermo dove un vivace discorso aveva avuto luogo fra
loro soli. Quella mattina la sua bella fisionomia piena di candore e di
benevolenza era turbata da una pena, da una dolorosa mostra di
contrarietà. La cagione si era ch'egli era stato testimonio d'un triste
fatto che molto lo aveva amareggiato: ed ecco quale.

Già sappiamo come la povera Margherita, la vecchia nutrice di Gian-Luigi
che lo amava più della pupilla degli occhi suoi, udito al villaggio
l'arresto del suo diletto, e saputo che il parroco ne veniva in città
chiamatovi dalla circostanza del male violento ond'era stato assalito
Maurilio, aveva voluto ad ogni modo venirne alla capitale ancor essa, e
qui la si era citata a comparire innanzi al giudice istruttore come
testimonio e subirne gl'interrogatorii.

Questi parevano una gran cosa alla povera vecchia campagnuola, e
presentandosi innanzi alla faccia burbera del giudice, la tremava tutta.
Avrebbe tremato in ogni modo ed in ogni occasione; ma tremava tanto più
ora che trattavasi della sorte del suo caro, e che a quest'esso poco
tempo prima aveva dato promessa di fare quello che non aveva mai fatto
in vita sua, quello che non avrebbe creduto mai di pur pensare di fare:
dire il falso. Le varie circostanze della favola fattale imparare da
Gian-Luigi le si ingarbugliavano nella testa con indicibile confusione;
e fu assai peggio, quando il giudice le ebbe fatto prestare il solenne
giuramento di dire la verità. La s'imbrogliò talmente, parlò con tanto
tremore, la si lasciò tirare in tante contraddizioni che il giudice
inquirente concepì su di lei i maggiori sospetti. Pure per quella prima
volta essa la passò liscia ed uscì da quella stanza di tribunale più
morta che viva, ma sciolta.

Ma frattanto avvenne che di tutte le informazioni prese d'altra parte
sul conto dell'infanzia di Gian-Luigi nessuna concordasse con quelle
della vecchia, la quale tutti asserivano essere andata a prendere
all'ospizio il bambino senz'altro amminicolo. Ben poteva la donna aver
tenute celate a tutti quelle circostanze che ora rivelava al tribunale
intorno all'origine del fanciullo, ma era poco credibile che codesto
avesse taciuto eziandio al suo parroco e confessore Don Venanzio, e
questi aveva affermato saper nulla di nulla del romanzo raccontato dalla
vecchia, ed anzi, interrogato se lo credesse possibile, aveva
ingenuamente confessato di no, e che egli aveva la persuasione che il
medico del villaggio non aveva mai avuto attinenza di sorta col bambino
dell'ospizio, finchè vistolo intelligente e piacevole, quando
grandicello, avevalo preso a ben volere e proteggere, che una fiaba
credeva pure la novella della vistosa somma che il medico avrebbe
ricevuto dall'incognita famiglia e passata a Gian-Luigi, il quale aveva
avuto sì nell'eredità del medico un lascito ch'egli si era affrettato a
consumare.

Aggiungasi che la Margherita, struggendosi dal desiderio di vedere il
suo figliuolo, chiesto inutilmente di poterlo visitare, s'aggirava
presso che tutto il giorno nei dintorni della carcere dove lo sapeva
rinchiuso, guardando attentamente ogni finestra, ogni sbarra, ogni buco,
ogni mattone della muraglia di quel cupo edificio, quasi sperando la
faccia di lui le avesse da comparire ad ogni momento o qua o colà, o
dovess'ella vedere una via di passaggio da giungere sino a lui, provando
se non altro una certa dolcezza a guardare il luogo dov'egli si trovava,
ad essergli così il più vicino che le fosse possibile. Ora Barnaba, che
di persona e per mezzo di agenti fidati vigilava con tanta cura intorno
al prigioniero, ebbe presto contezza di tali diportamenti di questa
vecchia, e dell'esser suo, e quando avvenne il tentativo di fuga da lui
mandato a vuoto, egli la denunziò al Tribunale come complice. Il giudice
istruttore determinò assicurarsi di lei, confonderla come per ispergiura
mercè un confronto con Don Venanzio, e procedere contro di lei per falsa
testimonianza e per complicità nel tentativo d'evasione del _medichino_.
E così avvenne che la mattina dopo la sventata fuga, mentre Don Venanzio
riceveva invito di recarsi fra un'ora al Tribunale, la vecchia, senza
tanti complimenti, era mandata a prendere e condurre in sala di custodia
da due _arcieri_.

Il confronto con Don Venanzio fu per la misera donna il peggior tormento
che avesse ancora provato mai. Mentire, e mentire innanzi al suo
parroco!... Il suo aspetto, la sua voce, il contegno dicevano ch'ella si
faceva uno sforzo a sostenere le menzogne precedentemente fatte. Se
Gian-Luigi avesse potuto avere comunicazione con lei, ben le avrebbe
risparmiato questa colpa e questo supplizio che a lui diventavano
inutili. Egli s'era preparato quel mezzo di difesa soltanto contro i
sospetti che cominciavano a sorgere sulle fonti ond'egli si procacciava
denaro, e per illudere la famiglia Benda che avesse cercato informazioni
fin nel villaggio dov'egli era stato allevato; ma ora in faccia
all'evidenza delle prove dei suoi delitti, ond'egli era schiacciato, a
che cosa serviva tutto questo? A un bel nulla; tanto che egli,
l'accusato, non aveva detto pur una parola di ciò, e rinchiusosi in un
assoluto silenzio, non aveva voluto rispondere pur una parola alle
mossegli interrogazioni, per quante minaccie o lusinghe glie ne venisser
fatte.

Ma la povera Margherita, che ne sapeva ella di tutto ciò? Aveva promesso
al suo Giannino di dir così. Credeva salvarlo così facendo, e lo faceva
anche colla paura, anche colla certezza di dannarsi l'anima per lo
spergiuro.

Ad un punto il buon Don Venanzio, che ebbe pietà delle angoscie di
quella infelice, disse:

— Può esser benissimo che tutto ciò ch'essa dice sia vero, ed io non ne
abbia mai saputo nulla..... Io ho sempre stimato questa donna incapace
di affermare, e tanto più con giuramento, una cosa che non sia.

— Bene! disse il giudice istruttore: avete già giurato che quello che
dite voi è la verità. Non dovete avere difficoltà di sorta a ripetere
questo giuramento adesso in presenza del vostro parroco.

La vecchia tentò schermirsene. Tremava tutta. Guardava intorno
spaventata, come per cercare un buco dove nascondersi, o meglio, come
timorosa di vedere saltar fuori Satanasso in persona ad acciuffarla.
Pronunziare un falso giuramento in faccia al suo pastore! in faccia a
quel sant'uomo!... Ma pure si trattava del suo figliuolo!... Si fece
forza: provò a stento di levar la mano per metterla sul Vangelo, ma non
ci valse: il braccio le cadde, un gemito che pareva un singhiozzo uscì
dal suo petto dove parve si rompesse qualche cosa, ed ella si lasciò
cascare in ginocchio per terra mezzo svenuta, balbettando:

— Non posso, non posso... Mio Dio! non posso.

Il giudice si drizzò con mossa solenne, e con voce e parola più solenni
ancora, fece alla meschina prostrata a terra una filippica violenta, in
cui, oltre la vendetta divina, minacciò la collera di quella umana da
tradursi in manette, carcere, processo e galera.

La infelice gemeva miseramente, la faccia contro terra, annientata,
schiacciata sotto il peso della propria colpa e sotto quello più grave
ancora del pensiero ch'ella perdeva Gian-Luigi.

Don Venanzio le si fece presso per sollevarla e confortarla di alcune
parole.

— La lasci stare: disse severamente il giudice. Questa mostra di
pentimento possa essere sincera e disporne l'animo alla rivelazione di
tutta la verità. Ella se ne vada, signor parroco; è libero: questa donna
dovrà essere trattenuta in carcere.

Il vecchio sacerdote, commosso, addoloratissimo, disse non molte parole
in difesa della disgraziata: ma le disse con tanto sentimento e calore,
ma la sua canizie, l'aria sua di solenne virtù loro davano tanta
efficacia, che il giudice ne fu tocco, e con accento molto più umano e
cortese soggiunse:

— Credo a quanto Ella mi dice, reverendo; credo che c'è più ignoranza
che malizia in questa poveretta... ed userò per lei i maggiori possibili
riguardi. Ma bisogna assolutamente ch'io la esamini ancora di meglio, e
la prego a volersi ritirare.

Don Venanzio uscì, non senza inquietudine sulla sorte della Margherita e
si pose a passeggiare nella strada innanzi alla porta del tribunale,
attendendo il risultamento dell'interrogatorio.

— Alzatevi: disse il giudice alla vecchia.

Margherita gemeva e singhiozzava sempre nella medesima postura; e, sia
che non udisse o non avesse forza da ubbidire, non si mosse.

— Fate il piacere, soggiunse il giudice, parlando al segretario che era
lì per iscrivere il verbale: alzatela voi.

Il segretario venne di mala voglia presso ella giacente, e come quegli a
cui non garbava di molto toccare e brancicare i luridi e stracciati
panni onde ella era vestita, la scosse bruscamente ad una spalla,
dicendole con voce graziosa come era l'atto:

— Or via, alzatevi, su, e non ci fate perder la pazienza.

La vecchia parve non darsene per intesa.

Allora il segretario la prese sotto le ascelle, e con quel garbo che vi
potete immaginare, la tirò su, e siccome ella vacillava sulle gambe mal
ferme, la gittò a sedere sur una seggiola che era lì presso.

In questo movimento un oggetto pesante cadde per terra, mandando un
suono metallico; il segretario lo raccolse e lo porse al giudice: era un
rotolo di napoleoni da far la somma di mille lire: quello che Gian-Luigi
aveva mandato alla povera donna per mezzo di Don Venanzio. Margherita,
da quando lo aveva ricevuto, lo aveva sempre portato con sè, come una
memoria del suo diletto: venuta ora a Torino, tanto più lo aveva seco
recato nella speranza di potere spendere quella somma in benefizio del
suo diletto.

Nel suo precipitare a terra, nell'essere scrollata dal segretario, il
rotolino le era uscito del seno ed era caduto sul pavimento.

Ma la vista di quell'oro cambiò del tutto le disposizioni d'animo del
giudice cui le parole di Don Venanzio avevano reso piuttosto benigno
alla misera vecchierella. Come spiegare il possesso di tal somma presso
quella povera donna così stracciata negli abiti e che si sapeva vivere
al villaggio elemosinando? Ella, interrogata, non tacque che quell'oro
le veniva da Gian-Luigi e fu creduto il prezzo pagatole per la sua falsa
testimonianza e per cooperare all'evasione. Margherita fu condotta alle
carceri.

Quando ciò seppe Don Venanzio pensò subito ricorrere alla valida
protezione del marchese di Baldissero, e giunto al palazzo avrebbe tosto
domandato d'essere ammesso alla presenza dell'autorevole personaggio, se
un domestico non lo avesse avvisato che Maurilio era molto impaziente di
vederlo e già aveva mandato due volte a cercare di lui.

Il parroco, prima di recarsi dal marchese, volle sapere che cosa avesse
il giovane malato che dal giorno prima soltanto era tornato in
cognizione di sè.

Maurilio quella mattina, come ogni altra dacchè giaceva infermo, era
stato visitato dai suoi amici, Romualdo, Selva e Vanardi, i quali molto
si rallegrarono trovandolo di nuovo conscio di se stesso, e colla mente
non meno vivace, pronta, potente di quello che fosse prima. Benchè il
poveretto avesse avuto questo deplorabile miglioramento di tornare alla
coscienza di sè, dei suoi dolori, delle sue sciagure, aveva però
tuttavia un ardor febbrile negli occhi, un'irrequieta agitazione nelle
membra stanche da parergliene rotte e peste, onde bene appariva che per
essere cessato il delirio, non era punto sminuito di gran cosa il male.
I suoi amici vollero rimanersi in silenzio presso di lui, e gli dissero
tacesse egli pure perchè non si stancasse ad udire e parlare; ma egli
aveva troppo desiderio di interrogare e di sapere di tal cosa, intorno a
cui tutta notte s'era aggirato con tormentosa insistenza il suo
pensiero. Voleva che gli amici suoi cercassero di Gian-Luigi, lo
conducessero al suo letto quanto più presto fosse possibile; voleva che
dalle sue labbra il suo compagno d'infanzia apprendesse la ventura che
gli capitava, ventura ch'egli aveva quasi rimorso d'avergli per un poco
momentaneamente rubato, e che si assegnava come una specie d'espiazione
di tosto comunicargli.

Quando udirono espresso da Maurilio questo desiderio di vedere il dottor
Quercia, gli amici si guardarono in viso alquanto imbarazzati, non
sapendo se convenisse dire all'infermo la verità o tacerla; ma
insistendo egli, nè conoscendo essi quali attinenze corressero fra il
loro compagno e il capo della _cocca_, non credettero ci fosse pericolo,
nè inconveniente alcuno a dirgli come stessero le cose in realtà.
Narrarono dunque sommariamente e la scoperta del segreto covo di quella
banda, che da più tempo era il terrore della città, e l'arresto di
Quercia come capo della medesima, e di tutti i principali componenti
della scellerata congrega.

Queste novelle, com'è facile immaginarsi, fecero una grandissima
impressione in Maurilio. La sua pena, il suo rammarico, il dolersene
furono tutti per Gian-Luigi; pensò che se prima fosse stato scoperto il
segreto della nascita di lui, avrebbe egli evitato quell'infelice e
vergognoso destino; pensò al cordoglio che doveva provarne il marchese,
pensò eziandio a Virginia che non avrebbe forse potuto ignorare quello
essere suo fratello. Ma poi il pensiero d'una sventura più personale e
quindi una più tormentosa ansia lo assalsero. Gli era stato detto che
fra i soci di quella banda si contavano ed erano stati presi i più noti
e tremendi malfattori; si volse a Selva e domandò se di questo novero
era un certo Michele Luponi detto _Stracciaferro_.

— Sicuro! gli fu risposto: una specie d'animalaccio bruto, forte come un
toro, crudele come una tigre. È uno dei più scellerati e dei più
terribili. Prima di poter essere preso accoppò una mezza dozzina di
guardie. La forca, quel mostro l'ha meritata non una, ma un centinaio di
volte.

Maurilio abbandonò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi. Se avesse
potuto diventar più scialba la sua faccia di color cadaverico, avrebbe
impallidito. Non disse una parola, non fece un atto, ma nei muscoli del
viso, intorno alla bocca, avvenne una lieve contrazione che era
l'effetto d'uno spasimo interno inesprimibile. Quel mostro era suo
padre! Pensò tosto di contar tutto a Don Venanzio, di cercare nelle
confidenze a quel sant'uomo un sollievo, nelle ispirazioni di
quell'anima onesta un consiglio; epperò, aspettatolo con impazienza,
quando il vecchio sacerdote fu venuto, lo accolse colla vivacità d'un
desiderio soddisfatto che pareva una speranza, che pareva quasi una
gioia, e volle tosto esser solo con lui.

Gli disse ogni cosa. Don Venanzio, esterrefatto, meravigliato,
sgomentito da questo fatale garbuglio di casi, impallidito e tremante
per emozione, levò le palme al cielo ed esclamò col fervore del
credente:

— Oh divina Provvidenza! Oh imperscrutabili vie del Signore! Riconosco
la tua mano potente, supremo Iddio! Dio della pietà, ma Dio pure della
giustizia! Dio che perdona chi si pente, ma che colpiste cogli effetti
della stessa sua opera scellerata il reo. Nariccia abbandonando il
fanciullo, creò col suo delitto un assassino, e quest'assassino fu a
dargli morte. Un orribil delitto punì un delitto infame. Curviamoci ed
adoriamo!...

— Che cosa si deve fare? domandò Maurilio palpitando.

Il vecchio prete nascose fra le mani la sua faccia turbata, e stette un
istante in silenzio.

— Pregare che Iddio ci ispiri: disse poi levando al cielo i suoi occhi
umidi di pianto. Pregare che Iddio si plachi!... La giustizia umana è
uno stromento anch'essa di quella divina... uno stromento molte volte
inefficace od anche fallace, ma conviene rispettarlo e sottoporvisi.
Dietro lei c'è la mano onnipossente del Signore dei mondi.

Gli occhi febbrili di Maurilio lampeggiarono più vivamente.

— Mio padre, io voglio vederlo: disse. Voglio conoscere quell'organismo
umano imbestialito, in fondo al quale è soffocata o sonnecchia l'anima,
soggiogata dagl'istinti della materia. Chi sa che da quello sciagurato
letargo io non la possa tuttavia destare! Chi sa che da quella rupe, io
non possa, percotendo, sprigionare ancora una scintilla! Da tanti anni
ladro ed assassino!... O cielo! o cielo!... Ed ebbe pure un'infanzia! Ed
ebbe forse desiderio e bisogno di miti affetti e impulsi generosi, ed
aspirazioni al bene!.... Li ho pur io, che sono suo figlio.... E la
sventura gli ha col dolore e coll'ira offuscata la mente; e la società
l'ha colle sue crudeli ingiustizie corrotto. Lo so ben io che sono
passato per la trafila della miseria!.... Quanti scellerati questa non
crea!.... La va a cercarli nelle schiere della plebe e di complicità
coll'ignoranza li getta in braccio al vizio, li educa con infame amore
al delitto. Miseria! Miseria... Una società che non combatte questo
umano flagello con tutti i mezzi che le si possono parare è risponsabile
essa stessa del male che nel suo seno si compie..... Che cosa ha pei
poveri questa moderna accozzaglia d'uomini che noi crediamo regolata da
leggi civili? La Chiesa da una parte che loro addita un tardo compenso
alle miserie della vita presente in una indefinita felicità quasi
impossibile ad arrivarsi in una vita avvenire, il carnefice e il codice
penale dall'altra parte che colpiscono troppo spesso alla cieca. Punire!
Va benissimo. È forse un diritto che ha la società; ma perchè non si
pensa al dovere sacrosanto che le incombe di prevenire? E noi questa la
chiamiamo civiltà?.... Verrà un tempo, ed io voglio sperarlo, in cui
questa nostra epoca sembrerà ai posteri progrediti altrettanto barbara
quanto sembra a noi quella feudale, quella del predominio della forza
bruta.

Don Venanzio vedendo l'esaltazione assalire il malato e crescere via
via, lo volle interrompere e indurre alla calma: il giovane gli si
rivolse con maggiori l'impeto ed il calore.

— E la vostra religione che fa ella in proposito? Nulla che valga, od
ascetica inculca un rinunciamento ai beni del mondo, impossibile alla
natura umana, fuori che a qualche morbosa eccezione, e che se si
propagasse, sarebbe distruttore d'ogni coltura, d'ogni progresso, d'ogni
ricchezza, val quanto dire d'ogni società; o complice, benedice ai
ricchi e li esime dai loro doveri verso i miseri; o timida,
inintelligente soccorritrice di questi ultimi, non sa trovar rimedio che
nell'antieconomica virtù dell'elemosina che umilia e fa sottomesso chi
la riceve, che si converte in fin dei conti in premio dell'ozio e in
incoraggiamento all'impostura.....

— Tranquillizzati, non ti affaticare con questi, per ora troppo gravi
pensieri, la mente: disse con pietoso accento il parroco. Più tardi
potrei teco discorrere anche di ciò, dirizzare colle deboli forze della
mia intelligenza le storte idee che tu hai in proposito, mostrarti
quanto conferirebbe al miglioramento sociale la nostra santa religione,
se fosse ben intesa ed applicata da tutti..... Ma ora non è occasione
opportuna da ciò. Sta in quiete.....

— In quiete! disse l'infelice sobbalzando in letto sotto un evidente
ripigliare della sua febbre. Com'è possibile? Mio padre è un
assassino..... E sta per essere condannato a morte..... Ha ucciso e lo
uccideranno, lui..... Sempre la legge del taglione!... Il sangue ch'egli
ha sparso ed il suo che spargeranno devono ricadere su di me... Già lo
sento... Già mi piomba addosso l'eredità del delitto e dell'infamia.

Si diede ad agitarsi nel letto con moti convulsi; il prete spaventato
corse alla porta per domandare i domestici venissero in suo soccorso a
contenere lo spasimante; ma una gentile, pietosa apparizione si mostrò
ai suoi occhi. Era Virginia che veniva ella medesima a saper novelle del
malato. Aveva appreso che questi non era suo fratello, ma la pietà del
suo cuore non consentiva ch'ella per ciò di botto cessasse
dall'interessarsi e sentì compassione per lui. L'amore medesimo, quasi
complemento delle egregie facoltà di quell'anima eletta, l'amore che la
fanciulla aveva in cuore la rendeva ancora più facile ed inchinevole ai
generosi sentimenti, alle pietose ispirazioni, al desiderio di recar
bene a chi più potesse. Le disordinate parole dal misero a lei dette
parecchi giorni prima, quando la sua infermità lo aveva assalito, ella
aveva perdonate, aveva attribuite al delirio soltanto, aveva quasi del
tutto obliate. Udito la buona novella che dalla sera innanzi Maurilio
era tornato in possesso della sua cognizione, ella veniva a
rallegrarsene, a fargliene coraggio con una sua parola, colla sua
presenza, prova irrefragabile d'un generoso interessamento. Quella
stessa mattina inoltre ella aveva compita l'opera pietosa di visitarlo,
verso un altro infermo, Francesco Benda, e riferirò fra poco i modi, e
le circostanze, e gli effetti di quella sua visita alla disgraziata
famiglia, della quale sarà questa appunto un'occasione per dire le
novelle; ed all'anima sua così squisitamente dilicata parve un dovere
quella medesima pietà che l'amore l'aveva spinta ad usare verso
Francesco, usarla eziandio verso l'infelice che dolorava sotto il
medesimo tetto da lei abitato, le sembrò che così legittimasse quasi
quella sua visita all'officina Benda, alla quale aveva dato per pretesto
soltanto il desiderio di vedere e confortare l'amica compagna
d'educandato e la novella amica, l'infelice Maria.

Quando il vecchio parroco si vide dinanzi la bella persona della nobile
donzella, giunse le mani come per pregare, in atto che gli era abituale
ogni qual volta una profonda commozione lo possedesse, ed esclamò:

— Misericordia! Ho paura che sia da capo col delirio, questo poveretto,
e che ci siamo rallegrati troppo presto.

La fanciulla entrò più ratta, come sollecitata da queste parole, e venne
risoluta presso il giacente.

All'intelligenza di Maurilio avveniva come al sole in quelle giornate di
primavera, in cui le nubi grosse e scure, ma interrotte, passeggiano pel
cielo e ad intervalli passano davanti all'astro di splendore e ne
offuscano i raggi, spandendo una mesta e cupa oscurità su tutta la
natura; e ad un tratto poi ne lasciano giunger libera alla terra la
luce, che pare ancor più viva, più brillante, più calda. Egli sentiva a
quando a quando salirgli al cervello una vera nube, come un ammasso di
vapori sanguigni, che tutta gli ottenebrava la mente; in mezzo a questi
vapori scorgeva immagini inesprimibili di cose tanto strane che erano
impossibili, forme e sembianze che non appartenevano alla creazione
terrena, e gli pareva come se dal fondo di quella tenebra uscisse una
granfia che afferrasse la sua ragione nel suo cervello e la tirasse a sè
facendola distendersi come un filo sempre più sottile, che non tenesse
più che per un picciol capo alle meningi della sua cavità cerebrale, e
l'avvolgesse, questo filo, nel labirinto di quelle forme mostruose della
notte tanto da perdercelo; poi ad un tratto, la nebbia vaporosa spariva,
il filo sfuggiva alla mano misteriosa, che si affondava nell'ombra, e
per gioco di elasticità ritornava a raggomitolarsi tutto nella sostanza
grigia del suo cervello; la intelligenza lucida, potente, maggiore che
nelle condizioni ordinarie della sua vita, brillava al di sopra della
pienamente riacquistata coscienza.

La vista della fanciulla parve fare più splendida che mai in Maurilio
questa luce d'intelletto. Vide più chiaro, più lontano e più giusto;
comprese con ambito più vasto le varie manifestazioni del vero, conobbe
meglio in sè e fuori di sè; dietro gli adombramenti delle forme discernè
la sostanza; capì la ragione e l'idea degli uomini e dei fatti; giudicò
e seppe.

Il suo volto, in cui le grossolane sembianze dell'uomo inferiore della
plebe erano pure animate dal tocco divino del Prometeo che è l'ingegno,
s'illuminò d'un barlume ineffabile, come brulla montagna del carezzevole
raggio rosato dell'aurora; nel suo pallore di cadavere, il fronte parve
divenuto fosforescente come diamante impregnato di luce solare, gli
occhi ebbero lo sguardo d'aquila del genio, le labbra il sorriso dei
beati; la sua bruttezza si trasfigurò in un'espressione di sovrumano
idealismo.

Virginia! esclamò egli con voce che aveva essa pure una nuova e
straordinaria melodia, che era un grido dell'anima, che pareva la
suprema aspirazione d'un morente: con quella voce con cui Goethe
all'agonia domandava la luce; poi chiuse gli occhi, volendo sottrarsi
alla troppa e troppo acuta dolcezza di quella visione di bellezza
divina, volendo fare che dalla retina degli occhi s'imprimesse
nell'intima compage del cervello l'immagine di quella testa angelica
dall'aureola delle chiome d'oro, tutto leggiadria, benignità e
splendore.

— Gran Dio! esclamò la donzella curvandosi sul giacente: egli è svenuto.

Maurilio bevve colle orecchie l'armonia di queste parole, rialzò le
ciglia a berne cogli occhi assetati la dolcezza dello sguardo pietoso
che cadeva su di lui, come si berrebbe una manna celeste.

— No, diss'egli: ben vorrei esser morto in quest'istante, ma è troppo
lieta fortuna perchè mi sia concessa.

Fece scorrere il suo sguardo animato da Virginia a Don Venanzio che lo
stavan mirando con interesse.

— Non temete di nulla... Sento, so che ho ancora da compire qualche cosa
su questa terra, prima d'abbandonarla... Qualche cosa di ignorato, che
non troverà eco nessuna nei rumori del mondo; ma che pure, non sarà
forse men grande delle opere famose di glorificati eroi... Far felice
alcuno, fare che risplenda a menti offuscate il vero, non è forse opera
di missione divina?... Ed io farò felice voi, o Virginia; ed io devo
scioglier dai ceppi delle passioni della materia due anime... Non morirò
dunque ancora... Mi rialzerò di qua, non dubitate, per abbandonare
questo miserabile ed odiato involucro, allora soltanto, quando avrò
compito il mio ufficio... Ah! non sarà questo la superba missione che ho
sognato un istante, quando parve il destino volermi porre in mano la
potenza... Che importa? Nessuno ha diritto di lamentarsi della sua
sorte; perchè, come saprebbe egli a quali precedenti di vite anteriori e
d'altri mondi corrisponde la sua attuale esistenza?... Se io non sarò
passato disutile affatto; se le mie sofferenze avranno portato per
frutto una sola ombra di vantaggio, un sol momento di bene ad un mio
simile, sarò pago abbastanza, sarà spiegata abbastanza anche alla corta
vista del mio scontento egoismo, la ragione di questa breve vicenda
nella mia vita immortale.

Parlava calmo, pacato, lento; ma con una vibrazione contenuta di voce
che rivelava un'energia interiore, con una certa solennità che imponeva,
quasi come un'autorevolezza. Virginia sentiva la sua compassione far
luogo ad un sentimento poco meno che di deferenza e di rispetto; Don
Venanzio insieme alla tenerezza ed all'ammirazione che gl'ispiravano i
concetti del suo pupillo, provava un sentimento di dolore, perchè
comprendeva che in quella superiorità morale ed intellettiva più
chiaramente manifestantesi, in quella profetica rassegnazione, era
l'effetto della mano della morte che già aveva tocco quell'organismo,
che lasciava penetrare a quello spirito incarnato un guizzo della luce
stessa dell'infinito.

Maurilio si rivolse al domestico, che stava appiè del letto ad aspettare
gli ordini, e gli disse con accento di dolce preghiera:

— Fatemi il piacere, tiratemi un pocolino più in su.

Il servitore lo prese sotto alle braccia e lo sollevò alquanto; in
questo movimento uno dei guanciali andò per traverso, e quando il
giacente fece per abbandonar di nuovo sovr'esso il suo capo fu la mano
di Virginia che sollecita e lieve raddrizzò il cuscino; e in quell'atto
cortese la fine, liscia, profumata pelle della mano di lei incontrò e
toccò la fronte ardente del giovane. Un lieve sussulto scosse a lui le
membra, uno sguardo d'ineffabile dolcezza, di supremo diletto ringraziò
la pietosa fanciulla.

— Don Venanzio, diss'egli poi, il marchese può aver bisogno di lei, ed
ella ha pur bisogno di parlare al marchese.

— È vero, rispose il parroco, che in quel momento si ricordò eziandio
della povera Margherita.

— Non indugi adunque di più.

Il prete si mosse per uscire, Virginia accennò volerlo seguitare.

— Un istante: disse vivacemente Maurilio e con accento di caldissima
preghiera. Vorrei dirle due parole, Virginia.

Ella si fermò senza esitazione, non esprimendo nè cogli atti, nè cogli
sguardi, nè in modo nessuno il menomo dubbio o diffidenza.

— Eccomi: disse con semplicità, tornando ad accostarsi all'infermo.

Il domestico s'era ritirato in fondo alla camera e stava colà come se
quello non fosse fatto suo. Maurilio, abbassando la voce in modo che il
suono delle parole giungesse solamente all'orecchio della donzella, così
prese a dire:

— Ella mi ha da perdonare gli atti e le parole che ora mi ricordo aver
usati con lei, l'altro dì quando primamente mi fu tolta la volontà dalla
mano della follia.

— Le ho tutto perdonato: disse dolcemente Virginia a cui quel discorso
rincresceva, e che stimava doverlo interrompere anche in vantaggio del
malato. Non se ne preoccupi dell'altro, e non parliamone più.

Ma il giovane, facendo cenno col capo lo lasciasse continuare chè tutto
aveva bisogno d'esprimere il suo pensiero, riprese dopo un poco:

— Potrei scusare il mio trascorso coll'alterazione mentale che mi
assalse; ma non voglio, perchè ho il debito e m'incombe aver il coraggio
di dirle la verità. Quello che mi sfuggì dalle labbra a quel punto,
usciva proprio fuor dell'anima mia, è il segreto della mia esistenza.
Sono anni ed anni, o Virginia, ch'io v'amo d'un amore impossibile ad
esprimersi.

Virginia fece un movimento.

— Non mi sfugga, soggiunse ratto il giacente; non m'imponga tacere. È un
uomo che deve morire fra poco quello che vi parla. Lo stampo della morte
consacra solennemente ogni affetto, e questo è santo come santa è
l'anima vostra. La confessione d'un moribondo si deve ascoltare con
animo pacato e pietoso; l'orgoglio umano, i pregiudizi terreni devono
tacere innanzi ad un amore che sta per nascondersi dietro una tomba.
Uditemi, Virginia, in nome del cielo! Sarà l'unica volta che vi avrò
fatto penetrare nell'anima mia. Avrò così aggiustata definitivamente
questa partita de' miei affetti terreni, e non ve ne parlerò più mai. Io
vi parlerò come se ad ascoltarmi qui fossero la vostra madre che voi
perdeste — e la mia, che non conobbi mai! — E forse i loro spiriti qui
sono e ci assistono. La vostra fierezza e la vostra purità non avranno
da essere turbate pur da un'ombra di corruccio.

La donzella appoggiò, come per sorreggersi, la sua destra bianca,
sottile, dalle dita affusolate sopra la spalliera d'una seggiola vicina,
e con dignitosa semplicità, con nobile fiducia, disse benignamente:

— Parlate!

E il giovane, con un fuoco che l'interna passione ispirava pure alla sua
debolezza, con un impeto di parola, che era come un residuo del suo
delirio, ma temperato dalla soavità dell'affetto, così parlò:

— Vi ho amata quando ero appena al limite dell'infanzia, sulla soglia
della turbolenta adolescenza della creta e del pensiero. Vi ho amata,
non perchè foste bella soltanto, ma perchè la vostra bellezza mi
incarnava dinanzi la più alta espressione di quell'ideale a cui,
inconsciamente ancora a quel tempo, ma pure con ardentissimo anelito già
aspirava l'anima mia. Ho amato il vero, quella parte del divino concessa
alla nostra natura nelle sue manifestazioni più pure, più splendide,
nella poesia, bellezza intellettuale, nella virtù, bellezza morale, in
voi, bellezza di forme che le altre due vestiva ed incarnava..... Non
arrossite, non vi corrucciate: vi parlo come parlerei all'angelo mio
custode; non c'è ombra di intendimento interessato in me, non voglio
commovervi nè lusingarvi; vo' dirvi quel che foste per me, quel che
siete, quel che potete essere nel mondo... Era naturale, era fatale
ch'io così vi amassi. Voi rappresentate tutto ciò che vi ha di bello e
di superiore nell'umana famiglia, circondato dallo splendore delle
distinzioni, dell'eleganza, dell'autorità e delle grandezze sociali: voi
siete il risultamento più completo e più perfetto dello stato attuale
della coltura e del progresso dell'umanità, fisico, morale,
intellettivo, estetico, economico. Il pensiero, il lavoro, i travagli
dell'uomo di tutti i secoli trascorsi hanno cospirato per crear voi e
disporvi intorno l'ambiente opportuno. Siete il frutto dell'intelligenza
applicata a tutti i rami dell'attività umana; la civiltà vi ha fatto un
piedestallo e voi raggiate sovr'esso, personificazione di quanto di
buono e di bello seppe arrivare e conseguire il secolo. Io sono la
plebe, la povera plebe che guarda da lontano il banchetto imbandito ai
ricchi, e muor di fame invidiando: banchetto non di cibi materiali
soltanto, ma di amore e di pace, di sapere e di fama, di potenza e di
virtù. La plebe che col suo lavoro e co' suoi stenti concorre all'opera
del progresso e non ne fruisce che poco o nulla, che ha, nell'oscurità
delle sue grandi masse ignorate, dato sforzi, sudori e vite per ottenere
il tesoro di agi sociali del secolo XIX, e vive tuttavia nella barbarie
di due secoli addietro; la plebe che contenuta, domata, ignorante, con
un barlume soltanto o con false idee de' suoi diritti, sta accalcata,
premuta alla base della società, ma s'agita talvolta e tiene il collo
levato verso lo splendore della luce, essa fitta nelle tenebre!... Io
son la plebe; ma soffrii più di essa, perchè fui conscio delle mie
condizioni e potei scrutare la ragione de' miei dolori. Seppi quel che
volevo e capii sempre l'impossibilità di ottenerlo. Conobbi dove era la
beatitudine e mi seppi sempre condannato a non arrivarla... Avverrà egli
un giorno che la plebe possa giungere alla conquista dell'Eden sociale?
Certo che sì, in un tardo, ma immancabile avvenire; e sarà quando il
figliuolo di nessuno — come io — coll'ingegno, col valore, col lavoro,
potrà ottenere l'amore della più bella, della più nobile donzella — come
voi — e gli usi e i pregiudizi sociali non grideranno allo scandalo, non
ne faranno alla fanciulla una vergogna.

Tacque un istante per riposarsi. Virginia disse, commossa, con quella
sua voce d'oro:

— Ah! gli usi e i pregiudizi sociali sono una tirannia a cui nessuno può
sottrarsi: e non è la volontà d'una debole fanciulla che possa rompere
queste catene di ferro.

La poveretta pensava al suo amore per Francesco, contrastato, ed ella
pur troppo temeva senza rimedio nessuno, dalla boria aristocratica della
sua famiglia.

Maurilio la indovinò, la comprese e con un mesto sorriso ripigliò a
parlare:

— La sorte volle che fra noi, così lontani — voi al fastigio, io
all'ultimo gradino della piramide sociale — si stabilisse in breve
un'attinenza di domestico affetto.... Oh la deve cessare, lo so: si
affrettò a soggiungere vedendo un lieve moto nelle fattezze della
fanciulla, al quale egli attribuì più superbo significato che non
avesse: ma frattanto, permettetemi ch'io me ne profitti per parlarvi in
vostro vantaggio.... in vantaggio d'un'altra persona che vi sta a
cuore.... per parlarvi come un fratello, quale un istante fui creduto
essere per voi.

Gli sguardi del malato erano così supplichevoli, la sua voce era
improntata d'un affetto che aveva qualche cosa di materno, per guisa che
Virginia represse la volontà d'imporgli silenzio cui le suggeriva
l'orgoglio, e credette far opera di pietà verso quel misero, cedendo
alla curiosità ond'era punta eziandio di ascoltare le parole che
Maurilio sarebbe per dirle, e col silenzio annuì che il giovane
continuasse.

— Io sono la plebe; Francesco Benda è la borghesia....

Al nome di colui ch'essa amava, le guancie di Virginia si suffusero d'un
lieve rossore e gli occhi si chinarono lentamente.

— La borghesia è plebe incivilita mercè l'agiatezza e l'educazione; è
parte di quel gran serbatoio comune del popolo, venuta su, trattasi
fuori dalla bolgia dell'ignoranza e della miseria grazie la fortuna,
l'intelligenza, l'operosità maggiore, arrivata a spartire colla classe
superiore una gran quantità dei beni sociali, se non tutti, a godere i
precipui vantaggi della civiltà. Ma tuttavia anch'essa, la borghesia,
anela ad ascendere pur sempre: lo splendore dell'idealismo sociale
incarnato nella grandezza e nell'autorità, la attrae sempre più su:
aspira ad un'uguaglianza assoluta cogli eredi delle grandezze antiche,
col capitale di educazione e di tradizioni raccolto dagli antenati....
Francesco Benda, il figliuolo degl'industriali arricchiti, ama Virginia
di Castelletto discendente d'una illustre prosapia di prodi. È la legge
del progresso: e l'effettuarsi di questo vuole che cotal maritaggio si
compia. Bisogna che l'aura, il profumo, il raggio della poesia
aristocratica si unisca alla prosa dell'attività, dell'audacia, della
scienza positiva del ceto medio. Ne verrà un miglioramento morale,
sociale, e fisico eziandio della razza umana. Plebe e nobiltà sono
troppo ancora distanti: il loro maritaggio è tuttavia mostruoso: ma fra
l'aristocrazia e il mezzo ceto, se gli è difficile sempre, non è più
impossibile. Le anime elette di questo e di quella, hanno oramai
dall'educazione e dalle condizioni economiche, ricevuto la patente
d'uguaglianza. Voi, Virginia, e Francesco rappresenterete questo fatto
colla vostra unione; le difficoltà della quale io conferirò ad
appianare. Come? Non so ancora: ma ho la coscienza che il mio concorso
aiuterà il conseguimento della vostra felicità. Fra voi, il povero
plebeo, cadendo, colmerà lo spazio che ancora vi disgiunge. La vostra
felicità sarà passata sul mio cadavere.

— Signore: interruppe qui Virginia: è un tristo augurio che voi mi fate.
Le circostanze straordinarie che avvennero tra noi vi hanno messo in
grado di parlarmi e mi hanno consigliata ad ascoltare da voi cose che
non avrei dovuto, che non avrei tollerato da nessuno, fuori da chi
avesse legittima autorità su di me. Avete voluto con soverchia audacia
penetrare nel segreto del mio cuore: volete ora disporre del mio destino
e far pesare su di me la risponsabilità di avvenimenti che spero non si
effettueranno, ma che in ogni modo non dipendono dal mio arbitrio.
Qualunque sieno i casi, quali che esser possano i miei sentimenti ed
affetti, una cosa sola potete ritener per sicura, ed è che la mia
condotta sarà ispirata sempre dalla coscienza dei miei doveri, della mia
dignità, dalla sommissione ai voleri di coloro cui debbo obbedire, ed
alle leggi della convenienza.

Maurilio rispose con un mesto sorriso:

— Non è un uomo che ora vi parla, è un'idea. Attribuite pure l'audacia
dei miei discorsi al residuo del delirio, ed ascoltatemi, pietosa come
siete, con generosa tolleranza, per compassione della mia follia; ma le
cose ch'io vi dico serbatele nella vostra memoria e richiamatevele alla
mente il dì che avrete bisogno di conformare a quei principii gli atti
della vostra vita. No, non è vero ch'io voglia addossare a voi la
responsabilità di fatti che sono un effetto necessario di quello
svolgersi del dramma umano nella esistenza particolare dei singoli
individui e nella complessiva della massa, del quale non possiamo
abbracciare le forme generali e lo scopo finale. Chiamatelo caso,
chiamatelo destino, chiamatelo piuttosto Provvidenza, noi siamo attori
che traduciamo in atto, ciascuno per la sua parte maggiore o minore, il
concetto di quell'autore. Il nostro dovere, l'importante è di
rappresentarla questa parte il meglio che ci sia possibile: l'esserne
conscii e il travagliarvisi intorno deliberatamente, è il privilegio
degli esseri eletti. Voi siete tra questi; voi siete un tipo; voi
sentite, forse ancora in confuso, la vostra missione: io, dall'orlo
della tomba, illuminata la mente da lampi di luce eterea che già mi
guizzano tra la materia che si scioglie, io vengo a definirvi colla mia
parola, a farvi concrete le forme vaghe della vostra ispirazione. Ponete
mente, voi siete la grazia, la bellezza, l'ultimo portato
dell'educazione civile, l'arte, la poesia, l'ideale; Francesco è la
ricchezza economica, il progresso materiale, la tendenza all'egoismo del
benessere, l'attività meccanica che nella lotta colle difficoltà
affacciate dalla natura sempre ribelle, anche soggiogata, dimentica
agevolmente la luce superiore, diventa sorda alla voce di doveri più
vasti che non son quelli avvertiti dalla comune, d'impulsi più sublimi
che non quelli delle pedisseque virtù delle anime volgari. Voi avete da
essere nella sua vita quella luce; voi avete da far risuonare al suo
cuore quella voce. L'uomo che avrà l'immensa felicità di possedervi deve
pagarla alla Provvidenza, deve farsene degno coll'essere un'anima
superiore. Francesco è un'anima generosa, ma debole: voi l'avete da
temperare col vostro amore alla forza delle grandi idee, alla sublimità
dei grandi sacrifizi, alla potenza delle grandi volontà. Di quel ferro
fatene acciaio. Fategli guardare in alto: sempre più su, sempre più su,
excelsior, coll'animo, coll'intelletto; ma fategli tendere la mano al
basso. Voi siete la beneficenza; siate di più ancora: siate il genio del
mondo novello; e l'uomo che ha l'amor vostro bandisca il vangelo della
nuova redenzione, lavori per l'effettuamento della nuova civiltà.

Si sollevò sui cuscini con più forza di quello che si sarebbe creduto, e
la vasta fronte parve corsa da una lieve fiamma fugace, mentre gli occhi
parevano riflettere un raggio di sole.

— Guardatevi dintorno in questa società, che si travaglia nella
gestazione dolorosa dell'avvenire. Quante cose da fare! Tutto vacilla:
la fede, l'autorità, la coscienza umana. Una casta, a nome dello
spirito, ha troppo disprezzata e maltrattata la materia: questa
s'insorge e dà la battaglia della negazione allo spirito, in nome della
libertà. Gli errori cozzano innanzi alla verità sbalordita. Gl'infimi,
dal ghiacciato fango dove giacciono oppressi levano in su la testa, si
drizzano in punta di piedi e vogliono arrampicarsi alle più tepenti aure
della ricchezza. I derelitti gettano in faccia alla civiltà del secolo
la tremenda questione; «Perchè abbiamo sofferto sinora? Perchè
soffriamo?» La risposta autoritativa delle religioni dommatiche non
basta più ad acquetarli. Un miasma di materialismo inasprisce le piaghe
sociali e manda al parosismo la febbre della miseria.... Convien
provvedere, convien provvedere.... La quistione politica non è che
vicenda di transizione. È la tendenza del predominio della borghesia; ma
l'avvenimento di questa non sarà che una sosta nella lotta sociale, dove
essa non pensi alla redenzione della plebe e non l'effettui.

Si strinse colle mani la fronte e tacque un istante; le carni gli
ardevano ed affannoso aveva il respiro. Virginia fece un atto come per
venirgli pietosamente in aiuto; ma egli lasciò cadersi le braccia e
mostrò spento nelle pupille il raggio, svanita la fosforescenza della
fronte diventata color della morte.

— Oh meschinità ed impotenza della parola! disse egli con voce sorda,
soffocata, in cui ogni vibrazione era spenta. S'io potessi tradurre in
linguaggio umano le mie idee! S'io potessi dar forma alle mie
visioni!... Mi avete voi potuto comprendere? Potrete voi completare
nella vostra intelligenza il concetto da me appena accennato?... Ah
perchè non posso trasmettere in altrui quello che s'agita dentro il mio
cervello? Perchè non son io Francesco?..... Perchè sono condannato a
morire?...

Ricascò sui guanciali e chiuse gli occhi così che parve già fatto
cadavere.

La nobile fanciulla si curvò su di lui, impietosita, palpitante; e gli
fece scendere sull'anima la rugiada di dolci parole di speranza e di
conforto. Egli sorrise mestamente a quella melodia soave.

— Addio bellezze dell'esistenza terrena; susurrò colle tremole labbra
sfiorate da un sorriso: addio poesia della mia vita!... Sì, sono
condannato a morire..... Bere sino alla feccia il calice delle amarezze,
e morire.

Il misero pensava all'ignominia di suo padre, il quale pure ei voleva
conoscere.

— Perdonatemi, Virginia, e compatitemi... E non dimenticate le mie
parole!... Forse non vi parlerò più..... Ma son lieto d'aver potuto
manifestarvi un cantuccio dell'anima mia..... E siate benedetta voi che
avete per pietà inchinato il vostro orgoglio alla pazienza di
ascoltarmi. Ora sento offuscarsi di nuovo la mia mente turbata: addio;
lasciatemi alle tenebre che m'invadono..... e siate felice!

Virginia s'allontanò pensosa, commossa, a passo lento. La rozza figura
del giovane plebeo aveva preso ai suoi occhi proporzioni mai più credute
di grandezza. Essa lo aveva indovinato; traverso le confuse parole aveva
capito il pensiero, aveva travisto la luce dell'idea. Si fermò innanzi
al ritratto di sua madre e stette assai tempo contemplandolo, assorta in
profonda riflessione. Quando si riscosse si passò le piccole mani sulla
fronte: gli occhi mandavan faville.

— Esser la luce, la coscienza, l'ideale dell'uomo che si ama! esclamò.
Essere il genio del mondo novello!... Oh! il mio Francesco sarà un
grand'uomo!

Don Venanzio vide sul volto del marchese le traccie d'una tal
desolazione e d'un tale abbattimento, che avventurandosi ad una maggiore
famigliarità di quella che mai avesse ardito usare coll'illustre
personaggio, gli si avvicinò con premura, gli prese una mano e disse con
tono di amichevole conforto:

— Coraggio, signor marchese.

— Ah! se sapesse!..... mormorò lo zio di Virginia.

— So tutto; disse affrettatamente il parroco; e narrò che veniva dalla
stanza di Maurilio, da cui aveva appreso la fatale novella, e come
quello sciagurato che da pochi dì andava per le bocche di tutti col nome
di _medichino_ egli avesse conosciuto bambino ed istrutto in compagnia
di Maurilio.

Il marchese si nascose nelle mani la faccia.

— Ah! come Iddio ha punita la mia famiglia e me stesso: disse gemendo.
Togliere ad una moglie il suo sposo, rubare ad una madre il frutto delle
sue viscere, condannare alla miseria ed alla vergogna un innocente
bambino furono orribili colpe... ma orribile pure è il castigo del
cielo!... Ed ora che fare, mio Dio! che fare?

Don Venanzio parlò col buonsenso della sua anima religiosa ed onesta.

— Bisogna rendere omaggio al vero; bisogna obbedire alla manifesta
volontà di Dio che per suoi imperscrutabili fini ha voluto appunto che
in questa occasione si scoprisse il segreto: bisogna che quello
sciagurato sappia tutto.

— Come! La pensa a quello che dice? disse il marchese levando in
sussulto la testa, vorrebbe che l'onore della famiglia fosse posto in
balìa di quel cotale?...

— La verità ha un diritto maggiore di quello dell'onor d'una casa;
quell'infelice medesimo non può ulteriormente lasciarsi nell'ignoranza
dell'esser suo. Chi le dice non sia uno de' maggiori e de' principali
castighi che gli abbia riserbato la Provvidenza pel suo traviamento,
quello di apprendere, quando caduto al fondo dell'infamia, che avrebbe
potuto essere ricco, glorioso, felice, dove avesse camminato sempre
senza inciampare nel cammino della virtù?

Il marchese curvò il capo e tacque alcun tempo, assorto in una profonda
e dolorosa meditazione.

— Forse Ella ha ragione, Don Venanzio: disse poi con accento di
scoraggiato abbandono; ma io sono in mezzo ad impulsi diversi, a
sentimenti contrarii, a doveri contraddittorii, e non so bene qual
seguire, qual condotta trascegliere. Quel miserabile può egli dirsi che
abbia ancora qualche diritto verso la mia famiglia? Non gli ha egli
persi tutti coll'infamia della sua vita?

— Ma di chi la colpa s'ei precipitò a quel modo?

— È vero, è vero.... Ma non ho io il dovere di conservare inviolato
l'onore del nome che devo trasmettere a' miei figli? Poichè tutto
s'ignorò finora, poichè tutto si può seppellire.... non ho io il diritto
di fare che si continui ad ignorare?

Il buon prete stette un momento, perplesso ancor egli: il marchese
incalzò:

— Se quell'infelice medesimo conoscesse le condizioni in cui mi trovo,
vedendo dall'una parte un inutile lustro gettato sulla sua ignominia a
dispendio del decoro d'un glorioso casato, dall'altra il silenzio e
l'oscurità continuati intorno alla sua origine, oh certo vorrebbe darmi
ragione di appigliarmi a questo secondo partito...

S'interruppe come sovraccolto da una nuova idea.

— Don Venanzio, soggiunse egli poi affrettatamente e senza guardare in
faccia il vecchio sacerdote: quel disgraziato è ben padrone della sua
sorte, in lui sta bene il diritto di rinunziare ad un nome e ad un
grado?

— Oh sì.

Il marchese tacque di nuovo un poco meditando.

— Ella mi ha detto avere stupito di trovare uno scellerato in quell'uomo
ch'Ella aveva giudicato capace dei più alti destini.

— Sì.

— Non è dunque spenta nella sua anima ogni generosità, ogni nobile
sentire?

— Non credo.

Altra pausa; poi con voce più bassa e testa più china, il marchese
soggiunse:

— Voglio andare io stesso ad apprendere la verità a quello
sventurato.... Ella mi vi accompagnerà, Don Venanzio.... Farò giudice
colui medesimo di quel che si debba.

Il parroco parlò allora della povera Margherita; il marchese promise
l'avrebbe raccomandata, e nello stesso tempo, quando avrebbe chiesto di
poter avere un colloquio senza testimoni col _medichino_, avrebbe
ottenuto facoltà a Don Venanzio di visitare la vecchia incarcerata.

All'influenza del marchese non fu difficile il conseguire per lo stesso
giorno successivo la permissione di quell'abboccamento coll'imputato
Gian-Luigi Quercia.

Ma di quella sera frattanto, una dolorosa scena aveva luogo nella
famiglia Baldissero.

Si era al finir del pranzo. Durante questo non si era quasi parlato mai:
il marchese era cupo, Virginia era triste e preoccupata, la marchesa
superbamente fastidiosa, il marchesino ancora in broncio con tutti.
Appena se poche parole erano state pronunziate in grazia a Don Venanzio
che in mezzo a quelle cere imbrunite mostrava afflitta eziandio la sua
bella fisionomia di uomo senza peccato. All'ultimo bicchierino di
Bordeaux, Ettore, come per protestare contro la comune musoneria,
sciolse il scilinguagnolo ed entrò di pieno nell'argomento che era sulle
bocche di tutti, ma che allora, per diversa cagione, suscitava
particolarmente l'interesse di Virginia, che quel giorno medesimo era
stata a vedere Maria, del marchese e di Don Venanzio, che avevano avuto
il colloquio or ora riferito; parlò del _medichino_.

— E' pare veramente, disse, che vi sieno in giuoco delle suste potenti
per sottrarlo alla sorte che si merita. Ieri sera ebbe luogo un
tentativo d'evasione che fu per un filo se non riuscì. (Contò le cose
com'erano andate). L'agente di Polizia che venne in momento tanto
opportuno ad arrestarlo, fu nominato sott'ispettore delle carceri e
specialmente incaricato della custodia di quel mariuolo: il
capoguardiano e il custode che fuggiva con lui sono ai ferri:
l'ispettore medesimo, caduto in sospetto, è per intanto sospeso
dall'impiego. È sperabile che quello sciagurato non isfugga al suo
destino: e ci ho gusto. L'infame supplizio il miserabile lo ha meritato
mille volte più d'ogni altro. Pensare che osava comparire nelle società
di garbo...

— Non nella nostra: disse con tono secco la marchesa.

— Ma pur tuttavia oggi che la società è così mêlée ci avvenne di
costeggiarlo le tantissime volte. Pensare che ci tendeva inguantata
quella mano la quale giuocava di baro, rubava ed assassinava!... Pensare
che l'ho avuto io di fronte in una quistione d'onore e che l'ho trattato
come uomo onorevole! Esso merita cento morti.

— E la sua condotta verso la povera Maria Benda? esclamò con
indignazione Virginia. Quello è uno dei peggiori suoi assassinii, se non
è il pessimo. Chi può vedere quella vittima infelice e non sentirsi
schiantar l'anima?... No, non v'è punizione di leggi terrene, non v'è
maledizione di Dio che basti per tanta scelleraggine.

Il marchese era divenuto pallido pallido e guardava con occhi sbarrati
ora la nipote, ora Don Venanzio.

— Ah! la misericordia di Dio è grande: disse questi colla sua voce mite
e commossa: e dove noi non veggiamo che ragione di maledire, il Supremo
Giudice sa le cause di compatire e di perdonare. Non anticipiamo i
giudizi del Signore!

— Lasciamo stare la giustizia di Dio: disse Ettore con quel suo fare fra
l'impazienza e la leggerezza, in cui un impertinente sussiego era appena
temperato dall'urbanità delle maniere. Quanto alla giustizia umana, se
havvi caso in cui la debba essere implacabile, è certo questo. Uno
scellerato che ruba la considerazione della gente, che non è spinto al
delitto dall'urgenza del bisogno, ma da empie passioni, che si trafora
nelle famiglie a rubarvi onore e denaro... Ma la morte è troppo poco...
Ha torto a mio avviso la nostra filantropia moderna che abolì le
tenaglie roventi e il supplizio della ruota...

Il padre di Ettore si drizzò di scatto più pallido ancora, e si levò di
tavola. Tutti ne imitarono lo esempio e lo seguirono nel vicino salotto.
Colà il marchesino che non s'accorse dell'emozione di suo padre, e che
ad ogni modo non ne avrebbe capita la ragione, continuò come se di nulla
fosse il suo discorso.

— Bisogna farli soffrire quella gente: la morte sì, ma dopo buoni
tormenti...

— Siete voi senza cuore, Ettore? esclamò il marchese con accento di
rimprovero doloroso.

— Per quella canaglia, sì: rispose col medesimo tono Ettore: e tanto più
per quel cotale. E' mi ha sempre sovranamente spiaciuto.... Se fosse
stato mio pari, gli è da tempo che avrei voluto dare anche a lui una
buona lezione.... Ma io sentiva per istinto che quello era degli uomini
che sono indegni anche del nostro odio, un vil verme che si disprezza e
si calpesta.

Il marchese fece un passo verso suo figlio con mossa così vibrata e con
aspetto così turbato che tutti gli si voltarono a guardarlo, ansiosi di
botto delle parole che stavano per uscire dalle sue labbra. Le porte del
salotto erano chiuse, e niun altro orecchio estraneo alla famiglia
poteva udire, fuor quello di Don Venanzio.

— Sapete chi è quel vil verme? disse il marchese con voce bassa, ma
tremola; sapete chi è quello scellerato, ladro, assassino, falsario, che
voi volete attenagliare ed arrotare?..... Egli è vostro cugino, Ettore,
è il figliuolo di mia sorella, è il tuo fratello, Virginia....



CAPITOLO XXVIII.


Virginia aveva detto il vero. Spettacolo da schiantar l'anima era vedere
la povera Maria, dopo la sera fatale dell'arresto di Gian-Luigi, quella
che esser doveva per lei la sera lietissima de' suoi sponsali. Chi
avrebbe ancora riconosciuta in essa la vispa, allegra, spensierata
fanciulla che abbiamo presentata al lettore nel secondo capitolo della
seconda parte? I pochi giorni che erano trascorsi dal momento in cui
ella aveva gittato quel suo grido di spasimo all'udire nominare il suo
diletto, ladro ed assassino, avevano tratta via dalle sembianze, dalla
persona, dal cuore della infelice ogni traccia di giovinezza,
distruttane ogni letizia, uccisa ogni speranza. La era diventata pallida
come una vittima della clorosi, magra come una malata d'etisia
nell'ultimo stadio; gli occhi infossati nelle livide occhiaie avevano le
palpebre rosse per le cocenti lagrime, per le veglie delle notti non più
visitate dal sonno, e come tormentose! i muscoli delle guancie cascavano
inerti dando alla fisionomia un'espressione di abbandono disperato che
si poteva dire morte dell'anima; cascavano gli angoli della bocca da cui
era sparito il color abituale di carminio, cascavano tutte le membra,
come dinoccolate, come prive della forza interiore che le reggesse;
avevano, la faccia sgomenta, e le pupille velate ed atone, e la mossa,
quell'apparenza di stupidità penosa a vedersi che dà un solo,
incessante, tormentoso pensiero onde sia punta la mente. La non parlava
quasi mai, non si lamentava, in presenza degli altri si guardava bene
dal piangere, non sospirava neppure: alle richieste che le si facessero,
alle parole con cui si tentava scuoterla da quel mortale letargo
rispondeva con pochi tronchi accenti, pronunciati a voce bassa, con
paziente mitezza, il più spesso con soli monosillabi, o con cenni del
capo. Alla capitata disgrazia non faceva mai neppure la menoma
allusione; e siccome ogni altro guardavasi bene eziandio di toccar quel
tasto, l'argomento di cui si parlasse meno, di cui non si parlasse mai
in quella famiglia, era quello appunto che era sempre fisso nella mente
di tutti.

Maria veniva chetamente a sedersi presso al letto di suo fratello ancora
giacente, e stava lì senza guardarlo, l'occhio piantato sopra un rosone
del tappeto: prendeva un suo lavoro tra mano e per un poco faceva andare
in fretta la destra a trarre i punti, ma ad un tratto, come se ci avesse
trovato un intoppo, l'ago si fermava nella stoffa, la cruna appoggiata
all'anello da cucire diventato immobile, il filo aggrovigliato fra le
pieghe del panno.

— Maria! le diceva allora dolcemente Francesco.

Ella si riscuoteva in sussulto.

— Che?

E il fratello fingeva aver bisogno d'un piccolo servizio, desiderava
alcuna cosa, tanto per levarla un istante da quella meditazione che le
consumava l'anima. Talvolta Francesco le prendeva una mano glie la
serrava con muto affetto; ella non corrispondeva a quella stretta, vi si
prestava per un poco, poi pianamente se ne liberava ed allontanavasi.
Tutta la famiglia la circondava d'una compassione vigilante, sempre in
sull'avviso, piena di silenziosa tenerezza e di cure: cercavano di
rimuoverne dall'intorno le spine che potevano pungere ancora quel cuore
trafitto, gli urti che potevano ferire quell'anima indolorita: ma aimè!
la piaga era interna ed irrimediabile, e tutti si sentivano feriti in
lei, in quella parte di loro che avevan sì cara. Ella, quelle cure,
quelle amorevolezze tollerava, il più delle volte pareva non
accorgersene, raro ne ringraziava con un sorriso che era dolorosissimo a
mirarsi, più raro ancora alcuna mostra le sfuggiva d'impazienza e
d'irritazione.

Ad ogni volta che rientrasse nella sua camera scoppiava in singhiozzi ed
in lagrime: talora, sentendo presso a traboccar la piena dello spasimo
che le si gonfiava nel petto, fuggiva alla sua stanza, si buttava
traverso il letto e soffocava i suoi gemiti nelle coltri che mordeva e
bagnava di pianto.

Appena saputa la dolorosa catastrofe, Virginia di Castelletto aveva
mandato alla sua antica compagna Maria l'espressione del suo cordoglio,
il conforto della sua simpatia, in un biglietto quale la squisitezza del
suo sentire e la sua forbitezza di maniere erano capaci di concepire e
di scrivere; poscia aveva tutti i giorni mandato per le notizie, e
finalmente, quel dì in cui Maurilio le doveva aprire in parte l'anima
sua ed il pensiero, era venuta ella medesima a vedere di persona la
sconsolata fanciulla.

Maria ad udire annunciata la nobil donzella, fece un atto di
contrarietà. Ella s'era avvezza a stare fronte a fronte col suo dolore,
a sentirsene rodere l'intimo essere, e glie ne piaceva così, e
dispettava ciò che venisse, non dico ad interrompere, ma a disturbare
quel suo supplizio. La madre di lei invece, che accoglieva come una
ventura tutto quello che in alcun modo facesse sperare di poter
distrarre la sua figliuola, fu sollecita a levarsi, e disse:

— Passa in sala, Maria; io vado ad incontrare la signora contessina, e
te la conduco.

E sparì dietro la portiera dell'uscio, verso l'anticamera.

Maria, che sedeva al suo solito luogo presso il letto di Francesco,
depose lentamente, con aria svogliata e quasi uggiosa, il suo lavoro; ma
in quella il suo mesto sguardo incontrò il volto di suo fratello che
all'udir quel nome s'era lievemente colorito.

— La saluterò per te, diss'ella facendo quel suo desolato sorriso: e
s'avviò lentamente verso la sala.

— Ah! Dio la rimeriti della sua carità! aveva esclamato la signora
Teresa correndo incontro a Virginia e pigliandole una mano che volle
baciare. Possa la sua vista, possano le sue parole recare un po' di bene
alla mia povera figliuola, che ne ha tanto, tanto bisogno.

Virginia con molto garbo, stringendo le mani della donna, impedì che le
venisse baciata la destra; e in risposta disse con quella sua voce che
si sarebbe detta il suono d'un'arpa d'oro:

— A prezzo di qualunque mio dolore vorrei darle conforto. Povera Maria!
Come sostiene essa la sua sventura?

La madre, alla quale il sol parlare di Maria aveva chiamato agli occhi
le lagrime, ora scoppiò in singhiozzi ed in pianto.

— Oimè! Oimè! esclamò ella: Maria se ne muore.

Virginia strinse forte le mani della signora Teresa che ancora teneva
fra le sue.

— Coraggio! disse con un accento di pietà e di affetto che era una soave
carezza. Non bisogna disperare. È venuto per la sua famiglia un tempo di
prove; ma tornerà di poi certamente quello della felicità.

Teresa si rasciugò in fretta in fretta gli occhi, e soggiunse:

— La venga avanti, contessina, la favorisca qui, la prego.

E la trasse nella stanza di ricevimento.

Maria era già colà, venutavi dalla camera di Francesco. Stava in piedi
presso al camino, sorreggendosi con una mano alla spalliera d'un
seggiolone, nella mossa d'una prefica o d'una statua del Dolore sopra
una tomba. Virginia fu quasi spaventata dall'abbandono desolato di quel
contegno, dalla pallidezza mortale di quell'aspetto, dalla disperazione
rassegnata dello sguardo semispento, del doloroso sorriso. Si avanzò
rattamente verso di lei, ed esclamò con voce impressa d'immenso affetto:

— Maria!

Non era che una parola; ma in essa l'intonazione, l'accento, la
vibrazione del suono ponevano un'infinità di cose: pietà, amore, offerta
di sè, benevolenza generosa spinta fino all'entusiasmo.

Maria sentì coll'anima delicata tutte queste cose contenute in un sol
motto, e ne fu tocca un istante; sollevò da terra i suoi occhi velati e
li affisò fugacemente in volto alla donzella, che le si avvicinava, si
staccò dalla poltrona a cui s'appoggiava e fece un passo verso Virginia,
tendendole, con atto che pareva pieno di lassitudine, la mano.

— Questa è un'opera di carità ch'Ella fa, madamigella, venendo qui:
disse Maria con voce debole, fiacca, quasi direi senza vita, onde molto
si accrebbero la commozione e la pena di Virginia.

— Ho obbedito all'impulso del mio cuore: disse questa prendendo la mano
di Maria, e mettendo nella voce tutta la dolcezza dell'anima sua. Sono
venuta a rivendicare un diritto che pretendo di avere: il diritto
dell'amicizia, e spero che Ella..... che _tu_ non me lo vorrai negare.

Il modo con cui s'era interrotta ed aveva ripreso, con cui aveva
pronunziata quella dolce parola _tu_, era pieno di grazia infinita, di
tenerezza ineffabile, attalchè a Maria se ne inumidirono gli occhi.

Virginia si volse e fece un legger cenno alla signora Teresa, la quale,
commossa, stringeva le mani e levava lo sguardo al cielo, nella speranza
che la venuta di quell'angelo in forma di donna recasse pur finalmente
alcun conforto alla sua Maria. La buona madre comprese di botto la mesta
preghiera della donzella, e s'affrettò a partirsi chetamente.

Per quella mano ch'essa teneva tuttavia, la contessina trasse a sè la
sorella di Francesco, e se ne fece appoggiare al seno il capo doloroso.

— Povera Maria! diss'ella, baciandole con calde labbra la gelida fronte.
Vuoi tu considerarmi come una tua sorella?

La disgraziata fanciulla, vinta da quell'affettuosa violenza di
tenerezza, gettò le braccia al collo della contessina, e prorompendo in
lagrime, pianse per un poco, senza poter dire pure una parola. Virginia
la strinse amorosamente fra le sue braccia, le fece quei dolci atti, le
susurrò quelle dolci parole, le prodigò quelle dolci carezze che usa una
madre ad acquetare i pianti del suo bambino; poi, quando si calmò quello
sfogo che fu in sostanza benefico all'animo oppresso della sventurata,
ella ricercò sulle labbra di Maria un bacio che fu da tuttedue le parti
pieno d'espansione e d'affetto; e così in quell'amplesso fu consecrata,
come dire, la loro nuova fraternità.

— Ah madamigella!... cominciò quindi Maria, rasciugandosi gli occhi: ma
Virginia, lesta ad interromperla:

— Chiamami Virginia, com'io te chiamo Maria. Mi hai accettata per
sorella: trattami come tale, e concedimi i privilegi di sorella..... E
il primo sarà quello di sgridarti. Il tuo aspetto mi dice che tu hai
mancato di forza d'animo, che tu non hai neppure tentato opporre la
menoma resistenza al dolore.

Maria scosse lievemente il capo.

— No, disse: gli ho aperto tutto il mio cuore; ne sentii con fiera
voluttà l'invasione. — Ah! vorrei che esso fosse ancora maggiore e mi
distruggesse più presto.

— Questa è una colpa! esclamò Virginia con una specie di severità, in
cui però non era sminuito l'accento dell'amorevolezza. Sei tu sola nel
mondo? Non hai legami di famiglia che ti avvincono? Non hai doveri che
ti obbligano?

La sventurata levò le spalle coll'ingenuo egoismo del dolore.

— Non sento più nulla che la mia sciagura; disse francamente; poi, come
volendo addurre una scusa, soggiunse: Francesco è oramai guarito e
presto non avrà più bisogno di me... E poi egli ha in cuore altro
affetto che deve occuparlo, che deve farlo felice più che non possa il
mio...

Virginia arrossì leggermente e chinò gli occhi.

— Mio padre è uomo forte e robusto, che sa lottare contro il dolore,
come contro il destino, e vincerli...

— E tua madre? domandò con forza la contessina, stringendo le mani di
Maria.

— Mia madre ama più suo figlio di me...

— Ah Maria, tu se' ingiusta...

Questo grido di Virginia richiamò in sè la sviata mente della disperata
giovane.

— È vero, è vero: esclamò con voce di profondo pentimento e di sdegno
contro se medesima. Hai ragione..... Sono diventata trista..... Ma
soffro tanto, sai!... Non so più quello che mi dica, nè quello che mi
faccia, nè che mi pensi...

Tacque un istante, e poi curvandosi all'orecchio della sua compagna, le
soggiunse piano, come il motto che doveva farle capire tutta la sua
condotta:

— L'amavo tanto!... L'amo ancora tanto!

E chinò il capo sulla spalla di Virginia, per nascondere il rossore onde
subitamente si soffuse il suo volto.

— Tu non devi più amarlo: disse con forza la contessina. Tu non devi a
quell'iniquo sacrificare il tuo avvenire, la tua vita, la tua famiglia.
Tu quel cotale, com'egli è, non l'hai amato mai. Hai amato un uomo
d'onestà e valore; quell'uomo è scomparso; a colui che è rimasto non
devi che odio e disprezzo.

Maria levò il capo, guardò bene in viso la nobile amica, e le disse
lentamente:

— Tu avresti potuto strapparti dal cuore l'amore e gettarlo via come si
fa d'un abito?... Tu non l'ameresti più?

— No, disse Virginia con forza, l'uomo che si rivelasse indegno della
mia stima, non avrebbe più il mio amore. Colui che avesse empiamente
ingannata la mia fiducia, che avesse mentito l'onore come la passione,
io lo abborrirei disprezzandolo.

Gli occhi della donzella, così dicendo, brillavano d'una fiera luce; la
bella di lei fisionomia aveva una imponente espressione di forza e di
superiorità.

— Gran Dio! esclamò Maria, allontanandosi alquanto da Virginia per
contemplarla meglio, e giungendo le mani in atto di meraviglia: nel tuo
volto c'è in questo momento una strana rassomiglianza col suo, quando mi
beava colle sue calde parole... Oh vedi s'io l'amo!

— Povera! Povera Maria!

— Ma io non lo credo colpevole: proruppe con impeto la sorella di
Francesco. Non lo può essere, non deve. Crederesti tu se ti venissero a
contare un'infamia dell'uomo che ami?... Io non darei fede neppure
all'evidenza. Il nostro amore è un'istinto divino, superiore ad ogni
umano argomento; e se un uomo ci inspira amore, è prova evidente che
egli è superiore altrui.

Virginia ammirò la sublime fede di quell'amore.

— Ma ora, diss'ella, abbracciandola di nuovo: che vuoi tu fare? Vuoi tu
abbandonarti fiaccamente all'azione del tuo dolore? lasciartene
travolgere senza opporre la resistenza d'una volontà vincitrice?

Maria ebbe allora negli occhi un maggior lampo di vita.

— Vorrei rivederlo ancora, una volta sola, e morire!

— Cattiva! disse Virginia dandole un bacio sulla fronte.

— Ho pensato al suicidio, sai: continuava la fanciulla con una
semplicità d'espressione che era veramente desolante; ma non ci ho avuto
coraggio. Nel mondo di là potrei ancora pensare a lui? Non ne sono
sicura: ed il tormento di pensarci — di pensarci sempre — mi è caro. Ma
c'è una fatta di suicidio per noi donne che mi sorride: un suicidio che
togliendoci al mondo ci lascia tutte alla esclusività d'un solo
pensiero... Ti ricordi, nel monastero del _Sacro Cuore_, di suor Clara,
sì pallida, sì mesta, sì taciturna? Quando passava col suo passo lento e
il suo sguardo di morta, noi sospendevamo i nostri giuochi e non osavamo
parlare. Quella era un'anima estinta, e il monastero era la sua tomba.
In questi dì quell'immagine, quell'ombra, quello spettro è venuto a
farmi cenno ed invitarmi. Là è la soluzione del mio destino.

— Che? Tu vorresti?

— Quella è la morte che sogno e che mi preparo.

Virginia combattè con calore, con vivaci ragioni e con insistente zelo
quel proponimento; Maria sembrava ascoltarla con sulle labbra quel suo
penoso sorriso, ma in realtà il suo pensiero era altrove. Ad un punto
interruppe l'amica e disse con accento di nuova risoluzione:

— Ho esitato finora ad aprirmene alla mia famiglia, ho tremato innanzi
all'idea di manifestare tal mia volontà a mia madre. Ora la tua presenza
mi darà coraggio. Vieni e sii tu testimone all'annunzio della mia
irrevocabile determinazione.

La prese per mano e la trasse vivamente con sè. Virginia, che non ebbe
neppur campo a contrastare, si trovò nella stanza di Francesco.

Là era in quel momento tutta la famiglia raccolta. Il sor Giacomo era
venuto allor allora, e teneva ancora fra le sue la mano di Francesco,
cui aveva interrogato della sua salute. Quell'uomo tanto forte e robusto
si vedeva che sotto i colpi così fieri e così repentinamente replicati
della sventura aveva vacillato, ma non era caduto disfatto. Le chiome in
que' pochi giorni gli si erano incanutite, dimagrata la faccia, fatte
più profonde e più numerose le rughe della fronte; smarrita affatto
quella vivacità alacre ed allegra che era l'espressione dell'operosità
instancabile della sua natura; ma l'occhio pur nella sua mestizia
serbava una luce, le labbra serrate avevano una rigidità di linee che
ben rivelavano un'anima pronta a lottar tuttavia colla sorte e cogli
uomini. Il suo cordoglio, la passione, la pietà per la figliuola e il
dolore per la ferita del figlio, pareva ch'egli cercasse distrarre mercè
una febbrile attività con cui s'era dato a riparare i danni
dell'incendio e del saccheggio, ristaurare la fabbrica e ravviare il
corso interrotto dei lavori. In casa, presso la famiglia, veniva di
frequente, ma ci stava assai poco; appena se ci compariva, gettava sopra
Maria uno sguardo pieno di tenerezza, interrogava il figliuolo, faceva
come atto d'incoraggiamento una mesta carezza alla moglie, e via di
nuovo. Pareva che rimaner lontano dai suoi non potesse, timoroso ad ogni
momento che una nuova sciagura precipitasse su di loro, e starne in
compagnia troppo gli fosse doloroso. Delle vicende passate nè anche egli
non faceva mai cenno veruno. Era una tacita intesa di tutti
quegl'infelici di non parlarne mai. Solo una volta che l'occasione
inevitabilmente ne venne, il sor Giacomo, la cui natura era
impetuosamente franca, lasciò scorgere tutto l'odio che implacabilmente
aveva concepito per quello scellerato ingannatore della loro fiducia,
per quel traditore assassino della sua figliuola; ma questa udendo le
invettive e le imprecazioni del padre contro l'uomo ch'ella amava pur
sempre, s'era levata in piedi pallida ed angosciata, aveva fatto
barcollando i pochi passi che la disgiungevano da suo padre,
un'ineffabile espressione di preghiera nel volto doloroso, nella mossa
delle mani tese, e venutale presso gli aveva dolcemente posta la destra
sulle labbra, senza dire una parola, ma con un gemito che significava ed
era tale da intenerire più d'ogni discorso. Giacomo da quel momento
s'era imposto di vegliare più attentamente su se stesso e di non
lasciarsi più sfuggire un detto mai su quell'argomento.

Vedendo entrare, tratta per mano da Maria, la contessina Virginia,
Giacomo si volse meravigliato e s'inchinò rispettoso, Francesco arrossì
ed ebbe un guizzo di gioia negli occhi, Teresa si levò in piedi, ed
accortasi di una certa animazione nella fisionomia e nella mossa di
Maria, cosa che non era avvenuta più dopo l'orribile sventura, sperò che
Dio l'avesse allora esaudita e la presenza e le parole della nobile
donzella avessero potuto recar conforto, dar consolazione ed ispirar
coraggio all'afflitta figliuola.

Ma la sua illusione, pur troppo, non potè essere di lunga durata. La
fanciulla s'avanzò con passo risoluto fin presso ai genitori ed al letto
del fratello, e là, prima che niun altro avesse tempo ad aprir labbro,
parlò di questa guisa:

— Padre, madre mia; sono venuta a manifestarvi, in presenze di questa
recente ma nobile e generosa amica, la quale fu la sola che nella mia
sventura non mi abbia abbandonata, ma ne prese anzi occasione a
mostrarmi tutta la bellezza dell'anima sua e la squisitezza del suo
affetto: sono venuta a manifestarvi la irrevocabile determinazione che
Dio mi ha ispirata, che ho presa, che credo mio dovere seguire nelle
dolorose circostanze in cui mi trovo. Se finora non ve ne ho parlato
benchè fin dal primo giorno fosse balenata alla mia mente e l'avessi in
massima accettata, si è perchè ho voluto prima discuterla meco stessa e
farmi tutte le obbiezioni che vi si possono affacciare per vedere se la
si poteva efficacemente combattere, e cimentarla coll'amore che ho per
voi, col concetto che mi rimane de' miei doveri di figlia a vostro
riguardo. Essa ha resistito a tutto; la voce che mi chiama si è fatta
anzi sempre più forte; l'impulso che mi spinge diventa più potente ogni
giorno. Parlando con Virginia, testè, una forza superiore mi trasse a
svelare il mio segreto proponimento; sentii subito allora come, poichè
quel mio disegno era uscito una volta dalla chiostra della mia
coscienza, diventava mio debito di farne partecipi tosto, voi, padre e
madre miei.

Il sor Giacomo la interruppe con un'impazienza che il suo carattere non
gli consentiva più di frenare, ma a cui l'affetto levava ogni asprezza.

— Qual è dunque questo tuo proponimento?..... Parla, e pensa che i tuoi
genitori, che la tua famiglia ebbe in questi giorni già troppi dolori,
perchè tu venga volontariamente ora a recargliene altri.

— Perdonami, padre mio; perdonami anche tu, mamma; ma questo dolore io
sono proprio costretta a recarvelo. Non posso più appartenere al mondo,
e non voglio; non posso e non voglio esser più di nessuno fuor che di
Dio: entrerò in un monastero e mi farò monaca.

La madre non rispose che con un gemito, e lasciandosi cadere seduta si
nascose nelle mani la faccia; Giacomo fece un atto di sdegnosa sorpresa
e ruppe in parole cui la presenza soltanto della contessina valse a
temperare.

— Crudele figliuola! È questo l'amore che hai per noi? questa la
corrispondenza e la gratitudine al nostro affetto? Perchè vuoi punirci,
noi innocenti, che soffriamo al pari di te? Noi, che se mai ci abbiamo
una colpa, è quella di aver troppo facilmente accondisceso ai tuoi
desiderii? La voce che chiama, l'impulso segreto, l'ispirazione del
cielo le sono storie; tu vuoi ritirarti nella solitudine, fuori d'ogni
affetto umano, fuor d'ogni legame di dovere domestico per istare faccia
a faccia unicamente e sempre col tuo dolore, affondarti in esso e
fartene consumare. È questo un egoismo bello e buono, che Dio non può
volere, che Dio riprova di certo....

S'interruppe bruscamente per additare con una eloquenza inesprimibile di
gesto la povera Teresa, che, abbandonata sulla seggiola, il volto
nascosto, piangeva e singhiozzava; e soggiunse con voce nella cui
burbera asprezza si sentiva pure far capolino la emozione delle lagrime:

— Guai, vedi, Maria, guai alla figliuola che fa piangere così sua madre!

Maria fu d'un balzo presso la madre, le prese le mani e glie le trasse
giù dal viso, le asciugò coi suoi baci le lagrime che le gocciavano giù
dalle guancie.

— Mamma mia, mia cara mamma, disse, il babbo ha ragione: è vero, io sono
crudele; è vero, io sono egoista; ma tu mi vuoi tanto bene col tuo amore
materno, che mi comprenderai e perdonerai, che capirai com'io non posso
vivere altrimenti. Oh! non ti sarebbe maggior dolore vedermi qui
estinguermi a poco a poco sotto i tuoi occhi, e perdermi
irrimediabilmente?... E ti giuro che avverrà così. In ciò la volontà non
può nulla; per quanto desiderio avessi di rimanere con voi, di vivere
per voi, la morte sarebbe più potente di me, e verrebbe a togliermi di
mezzo alle vostre braccia.

Teresa respinse dolcemente le carezze della figliuola.

— Ah! esclamò ella piangendo, non ho più figlia.

— Non dir così, mamma. Tua figlia pregherà per te, per tutti voi; chi sa
ch'ella, partendo, non tragga seco di questa casa la fatalità di
sventura che vi piombò sopra!..... No, tu non perderai tua figlia; nel
suo cuore tu sarai sempre, com'ella sarà nel tuo. Anche a te sarà di
conforto venire nella pace di quelle mura, dov'essa pregherà fuor d'ogni
agitazione del mondo, a sentire l'influsso della divina misericordia. E
il Cielo anzi ti compenserà del sacrificio che avrai fatto pel mio bene:
ti sarà concessa in luogo mio un'altra figliuola che ti amerà, se non
alla pari, forse meglio di me.

S'interruppe, esitò un istante, poi con mossa piena di grazia, di
franchezza, d'ingenua fiducia, andò presso Virginia e la prese per mano.

— Tu, le disse, hai affermato poc'anzi volermi essere sorella. Siilo in
nome di Dio, siilo in nome della pietà! L'esser sorella a me, non è egli
essere figliuola a mia madre?

Virginia arrossì leggermente, e il suo sguardo per moto involontario
affatto corse a Francesco, il quale arrossì alquanto egli pure; ma di là
gli occhi di Virginia si levarono ratto e si volsero alla sora Teresa
con un'espressione di somma pietà.

— Vorrei valere a questo còmpito, diss'ella dolcemente; ed accetterei
con gioia il mandato.

Teresa prese colla sinistra una mano della contessina; colla destra
stringeva quella della sua figliuola; e recatasi quelle due mani al
volto le baciò commossa, seguitando a piangere chetamente.



CAPITOLO XXIX.


Venuta in possesso delle sue lettere a Luigi, e distruttele, pareva che
la contessa di Staffarda non dovesse conservar più inquietudine veruna,
nè avere altre ragioni di timore. Eppure non era così; invano sforzavasi
essa medesima di farsi tranquilla e rimuovere ogni sollecitudine in
proposito; un'ansietà indefinita le incombeva sull'anima come una
minaccia continua di pericolo, e ad ogni momento era in angustia di
vedere presentarlesi e più fiero il disastro. Ad ogni volta che la
vedesse entrarle in camera la fante, ad ogni lettera o bigliettino che
le venisse recato, allo scricchiolar delle scarpe del marito che
s'avanzava nella sala o veniva a raggiungerla nella stanza da pranzo,
ella rabbrividiva dicendosi: «è qui la catastrofe.»

Il suo presentimento aveva ragione: e fu appunto una letterina che, il
giorno dopo quella scena in cui il marito le aveva fatte bruciare le
carte, venne a darle il colpo d'una nuova minaccia. Era una lettera
violenta della Zoe furibonda.

«Aveva ragione il mio istinto di popolana nel diffidare della vostra
perfidia, vipera della nobiltà. Siete una traditrice più infame di tutte
le donne infami del mondo; e vostro marito è un miserabile schifoso come
una spia. Sì, con tutti i suoi titoli, con tutti i suoi avi, con tutta
la superbia del suo sangue azzurro è un miserabile: ed insieme voi due
fate una degnissima coppia.

«M'avete vigliaccamente ingannata e credete aver trionfato! Il povero
Luigi lo credete irrevocabilmente perduto, e voi siete padrona delle
vostre lettere. Avete fatto l'opera di Giuda e vi pensate poter dormire
fra due guanciali! Vi sbagliate. Avreste dovuto fare sparire anche me;
ma ciò non potrete: so guardarmi, e so difendermi occorrendo. Non ho più
i documenti in mano, ma ho la conoscenza di tutto! So appuntino tutto
quello che passò fra voi e lui; e parlerò. Sarò creduta, non dubitate; e
se non potrò con ciò giovar più a Luigi, sfogherò almeno il mio sdegno e
vendicherò lui e me.

«Aspettatevi a sentire quanto prima qualche risultato della mia
vendetta.»

Alla lettura di queste parole, Candida fu presa da un assalto di febbre
nervosa. L'anima sua troppo in que' giorni percossa, non aveva più
vigore di sorta. Lesse e rilesse quel biglietto in una specie di
stupidità dolorosa, non sapendo che risolvere, sentendo in tutte le sue
fibre scorrere un fuoco che sembrava dissolverle gli elementi della
vita. Pensò mostrare al conte quella lettera; e non osò; le venne in
capo correre dalla cortigiana, provarle, giurarle ch'ella era innocente
della fattale accusa, e se ne trattenne, non perchè la sua dignità a ciò
si ribellasse, ma perchè non osò neppure. Stette inerte, tremante, sotto
un'angoscia impossibile a dirsi, che durando parecchi giorni l'avrebbe
uccisa. Ma parve che il Cielo avesse finalmente pietà di quell'infelice,
e che la sua punizione fosse omai sufficiente alla colpa, senza
accrescerne ancora la gravezza. Fu un'altra lettera della _Leggera_ che
venne a rassicurarla, due giorni di poi.

«_Egli_ mi comanda espressamente di lasciarla in pace. Io ho giurato di
obbedire a _lui_ in tutto, e gli obbedisco anche in ciò. Ringrazi le
circostanze che m'impedirono finora di cominciare l'effettuazione della
mia vendetta; sia riconoscente alla generosità di quell'uomo che le
perdona, e viva tranquilla riguardo a me: abbandono la cura della nostra
vendetta alla sua coscienza.»

A cagionare questo cambiamento nelle determinazioni della Zoe, ecco che
cosa era successo.

Fuggita, come abbiam visto, alle granfie di Barnaba e de' suoi, la
_Leggera_ aveva riparato niente meno che al Palazzo Reale,
nell'appartamento datovi da Carlo Alberto a quel principotto scapato
venutovi sotto colore di educarsi all'arte di regno del re Savoino, e
che doveva profittarne così bene da presentar poi al mondo lo spettacolo
strano, all'infelice popolazione del suo ducato il brutto regalo d'un
Caracalla in sedicesimo nel pieno secolo XIX, finchè non l'avesse
mandato ad aggiustare i conti con Dio il coltello vendicatore d'un
ignoto assassino.

Libertino, beone, giuocatore, soleva egli sottrarsi alle regole di
severa condotta che Carlo Alberto voleva imposte alla sua famiglia (e il
principotto era tenuto come della famiglia), al vivere di Corte. La
scapataggine, il libertinaggio, la corruttela si complicavano e
pigliavano più acre sapore d'un zinzino d'ipocrisia. La mattina in
chiesa, a messa, col libro delle orazioni in mano; la sera, fuggito di
soppiatto, al lupanare. Aveva taciti complici delle sue fughe notturne
il custode d'una porticina e i servi a lui più specialmente addetti.
Sgattaiolava fuori delle solenni pareti del Palazzo silenzioso, severo,
scuro in mezzo all'oscurità della notte, come un foriere di compagnia
riesce a scappolar di caserma, dopo fatta la chiama, e in compagnia di
abbietti campioni blasonati, cortigiani del vizio e del grado,
corrazzava per la città mostrando la vivacità del suo ingegno in
chiassose impertinenze a danno dei pacifici abitanti, de' buoni
bottegai, per le quali chiudeva gli occhi la Polizia così permalosa
verso i semplici cittadini.

La Zoe che conosceva le abitudini di quell'Altezza così bassa, bene
aveva immaginato che quella tal porticina le si sarebbe aperta e che,
nota come essa era ai ministri di quel principesco libertinaggio, le si
sarebbe concesso il passo verso l'abbominevole santuario di quella
grandezza politica e sociale, che era una morale abbiettezza. E così fu.
Il Principe non era ancora tornato a casa da una delle sue corse
notturne; ma la Zoe, la cui meretricia bellezza si sapeva pagata dal
denaro dei contribuenti che passava per le tasche del duchino, ebbe a
dire solamente che S. A. R. le aveva detto venisse da lui, perchè il
custode di sotto e i servi di sopra la lasciassero penetrare nelle più
intime stanze del padrone. Lasciata sola, Zoe si rallegrò della
circostanza che le concedeva un po' di tempo per pensare al modo di
regolarsi prima di affrontare l'avversario. Era la prima volta che dopo
una contesa col suo regio amante, veniva essa a fare il primo passo
verso una riconciliazione; e non ignorava che questo, coll'umore e col
carattere del Principe, non era buon metodo a tenerlo avvinto. Egli,
istintivamente, aveva un concetto abbastanza giusto di sè, da
disprezzare chi mostrasse per lui premura ed interesse: per farsene
correr dietro, una donna bisognava non se ne curasse, e ne pungesse il
capriccio col disdegno. Ma ora le condizioni delle cose erano state tali
che non concedevano alla _Leggera_ di seguire sino alla fine, come aveva
fatto le altre volte, quella regola di condotta. La lite era stata più
viva ed accanita delle precedenti; il rancore principesco era durato più
che non avesse fatto mai per l'addietro, e l'urgenza del bisogno in cui
era la cortigiana della protezione di lui per sè e pel suo damo
l'avevano spinta contro ogni consiglio di prudenza a venire. Bisognava
riparare a questa debolezza, coll'arte; e non c'era altro mezzo per lei
che di rendersi più bella, più procace, più provocante che mai, per
dettar poi la legge al desiderio di S. A. inuzzolito.

La si pose innanzi allo specchio, e preparò agli sguardi del principe un
accorto disordine di acconciatura che la faceva irresistibile: mezzo
sciolte le chiome che cadevano sulle spalle e sul seno in ciocche
voluminose il cui fulvo colore luceva d'uno splendore metallico ai raggi
de' candelabri accesi; discinte le vesti con tanta maestria che
lasciasse trasparire e pur celasse le bellezze delle forme, e più
facesse indovinare, ed acremente acuisse il desiderio di più vedere; uno
strano e piacevolmente irritante contrasto fra la fronte severa e
corrucciata e lo sguardo vivo come una fiamma e la bocca voluttuosa; un
abbandono delle membra pieno di grazia felina e d'impertinente
noncuranza. Quando il Duca entrò vide sopra una poltrona presso il
camino lo splendore di quella bellezza, la fiamma di quegli sguardi, il
candore di quelle carni, il fulvo dorato di quelle chiome, il carminio
di quelle labbra, tutto uno sbarbaglio, e stette sovraccolto, come
ammirato. Ella fu appena se volse il capo verso di lui, e lo guardò alla
sfuggita.

— Buon giorno, principe: disse con fredda leggerezza: son io.

Il principe aveva lo sguardo, l'andatura e le idee d'un uomo mezzo
briaco, qual egli era. I fumi del Bordeaux gli bollivano nel cervello
insieme coi vapori della libidine; non aveva il pieno dominio della
insolenza che gli teneva luogo di volontà; barcollava fisicamente e
intellettivamente sotto il peso dell'ebbrezza, oppresso, non sazio dello
stravizzo.

— Tu qui: esclamò egli: oh brava! oh la bella sorpresa!

E s'avanzò per abbracciarla; ma essa lo respinse e lo guardò con atto di
severa dignità offesa.

— Piano! disse. La stia in là; e le mani a casa... Oh che crede Ella io
sia venuta a fare?

Il principe ruppe in una risata.

— Sì, bene, rispose: oh che cosa sei venuta a far qui? A dire il rosario
eh?

— La senta; i suoi scherzi saranno bellissimi, ma ora non hanno il dono
di farmi sorridere... Ah che cosa son venuta a fare?... E se mentre
l'aspettavo mi fosse piaciuto renderle la pariglia di quello che Ella ha
fatto a casa mia e fracassar tutto qui dentro?

S. A. si lasciò cascare sopra una poltrona in faccia a quella della Zoe
e raddoppiò le sue risa.

— Questa sarebbe stata una bella idea..... Vi ti riconosco, mia bella
tigre... addomesticata.

— Ma io, almeno, se mi abbandonassi a questi sciocchi furori in casa
d'altri, non mi dimenticherei del proverbio.

— Che proverbio?

— Chi rompe paga.

— Ma, gioia mia, la casa tua non è affatto d'altri per me, ma un
pocolino anche mia..... Prima di rompere mi pare che avevo cominciato
per pagare... Ma al postutto tu hai ragione. Se non c'è che questa causa
di screzio, la è subito levata. Oggi ho tutte le fortune. Ho guadagnato
al giuoco, e ricevo una tua visita così inaspettata: sono il beniamino
della sorte, e voglio che abbia a rallegrartene anche tu.

Si alzò, venne presso alla cortigiana, e vuotando le sue tasche, fece
cascare una piova di napoleoni sul seno, in grembo della cortigiana;
nuovo Giove che si stemperava in oro per quella Danae di Pafo. A tutta
prima gli occhi della Zoe brillarono di quella brutta gioia che è
l'espressione d'una bassa cupidigia soddisfatta; ma poi tosto smorzò
quel guizzo, e si levò fremente in una falsa indignazione che la rendeva
bellissima a vedersi. Prese una manata di quei dischi d'oro e la gettò
ai piedi del principe sbalordito; scosse da' suoi panni, come si fa del
sudiciume della polvere, le monete che suonarono cadendo e
sparpagliandosi sul tappeto, ed esclamò con una superba fierezza la cui
simulazione le avrebbe invidiata la migliore delle commedianti:

— Si tenga il suo denaro, signor duca: che crede Ella io faccia una
quistione d'interesse? Come la mi conosce poco! È quistione di dignità,
dei più nobili sentimenti dell'animo mio.... Son venuta a darle un
addio, e per sempre. Vo' partire da questa città, forse dall'Italia, e
non tornarci mai più.

Agli occhi imbambolati del Principe mezzo brillo quella donna apparve
ora in quell'atto più bella che non le fosse apparsa mai; la desiderò
con più potenza che non avesse fatto; gli sembrò che il perderla, che il
non vederla più sarebbe stata per lui una vera sventura. Cominciò per
voler provare coi ragionamenti alla Zoe, che non doveva far così: i suoi
argomenti vacillavano nella logica, come avrebbero vacillato le
principesche gambe nel passo, se S. A. avesse voluto camminare; la
cortigiana li mandava le gambe in aria coll'urto dei più matti paradossi
e delle più impossibili affermazioni che al Duca parevano verità
incontrastate; finì egli per umiliarsi, pregare e domandare l'elemosina
del perdono. Era a questo punto ch'essa lo voleva trarre. Parve voler
cedere; e quando lo vide tutto invaso dal suo influsso, ella si sciolse
violentemente dalle braccia di lui, lo rigettò con vigore e gli disse
sulla faccia con freddezza brutale:

— Sapete che io ho determinato di non appartenervi mai più, se voi non
mi giurate di salvare Luigi Quercia?

Il colpo fu duro al principe colpito nel massimo calore della sua foga
da quest'acqua ghiacciata in viso. S'inalberò, volle ribellarsi; ma la
domatrice della fiera teneva nella sua mano nervosa attorcigliata la
giubba di quell'animale, lo aveva avvinto pei bassi vincoli della
sensualità.

— Quell'uomo!.... Ma che cosa t'importa di lui?... che cosa è quell'uomo
per te?

— Ebbene! esclamò con impudente franchezza la cortigiana: e s'io
l'amassi?

La faccia del Duchino si contrasse come il muso d'una jena che sta per
mordere.

— No, non l'amo niente affatto: s'affrettò a soggiungere la Zoe. Tutto
il mio amore è per te, mio principe, mio padrone, mio tutto; ma ho di
molti debiti a quell'uomo; gli è lui che mi ha fatta quella che sono:
fra noi corrono strane e misteriose attinenze che non ti posso spiegare
ma che sono indissolubili; è una fraternità delle anime e della sorte; e
sarei un'infame se la tradissi. Chiedimi qualunque cosa, ma non di
abbandonare nel pericolo quell'uomo. Tu puoi salvarlo: salvalo ed io
sarò per te più umile, più devota d'un cane. Lui non lo vedrò più
nemmeno; lo farai partire per lontani paesi, per dove ti piacerà meglio;
io starò sempre teco finchè mi vorrai; che m'importerà ancora di
quell'uomo, quando abbia compito verso di esso il mio dovere?... Io ti
amerò tanto, sai, che ti compenserò a dovizia di quanto avrai fatto...

Ne disse mille di parole, di promesse, di sollecitazioni, di preghiere
ardenti, accompagnate da mosse che suscitavano le più vive fiamme del
desiderio, con voce che vibrava, palpitava, accarezzava, con isguardi
che avrebbero turbato uno stoico.

— Ebbene, sia: disse il principe più inebriato che mai, sedotto,
allucinato, raggirato: lo salveremo e lo manderemo in Australia.

Zoe prese il Duca alle braccia, glie le strinse da lasciarci impresse le
sue piccole dita, e guardandolo bene in faccia soggiunse:

— Davvero? Oh non è una parola inconsiderata, leggermente concessa, che
mi basti. Tu codesto me lo hai da giurare, e lo farai per l'anima tua.

— Ma sì.

— Giuralo.

— Lo giuro.

— E se tu ci mancherai, guai a te... saprò punirtene e vendicarmi.

— Diamine! quando prometto una cosa, quando la giuro, è come se fosse
già fatta... Or via, smetti quell'aria da eroina, e torna meco la Zoe di
un tempo.

Le passò un braccio intorno alla persona, ed ella si abbandonò su di
lui... Il predestinato principe non sapeva che in quel punto con tal
giuramento ch'egli non aveva menomamente l'intenzione di mantenere,
aveva mosso il primo passo verso la tragica sua morte.

La Zoe non uscì del quartiere del principe che assai tardi nella
giornata di poi: venuta a casa sua, fatta sicura d'ogni molestia per la
protezione del Duca, dovette prima di tutto pensare all'opera importante
di restaurare le sue forze, accudire alle sue bellezze e rendere il
culto della _toilette_ alla sua persona. Bene cercò sapere di Maddalena,
la cui sorte assai la preoccupava, e la quale troppo aveva ragion di
temere caduta in mano della giustizia essa pure: ma nessuno de' suoi ne
la seppe informare di nulla al riguardo. Quando appena lo potè, ed era
oramai la sera, corse all'appartamentino di Bancone dove aveva fatta
ricoverare la giovane, e trovò tutto chiuso, scuro e taciturno, come là
dove regna la solitudine. I casigliani ella non voleva interrogarli, e
riteneva inoltre che non avrebbero saputo dirle cosa nessuna, perchè su
quel pianerottolo non c'era altro uscio e di sopra non ci stava che
povera gente, la quale stava fuor di casa tutto il giorno al lavoro, e
di notte dormiva della grossa. La _Leggera_ non rimase molto tempo in
forse, ma si affrettò verso il palazzo di Bancone, ed introdottasi nel
salottino dove il ricco banchiere riceveva chi veniva a parlargli di
affari, gli mandò una sua polizza di visita con due parole scritte a
matita che dicevano venisse subito, avere urgente bisogno di parlargli.

E Bancone, interrompendo il suo lauto pranzo ch'egli gustava da vero
Epulone qual era, venne sollecito, ma di cattivo umore e impazientemente
collerico. Non lasciò parlare la donna, e incominciò egli senz'altro con
una sfuriata:

— Brava! Belle cose che mi fai! Bei servigi che mi rendi!... Ed anche
questo di venirmi ora qui in casa è proprio un bel piacere che mi vuoi
dare... Ma saccorotto! non te l'ho detto le centinaia di volte che non
voglio mi veniate qui a trovare, tu e le pari tue?... Sono ben buono io
a non farvi mandar via e serrar l'uscio in faccia..... Ti preme
parlarmi?... Hai di nuovo qualche favore da chiedermi, qualche buon
soggetto da raccomandarmi come quella tua Maddalena?.... Un
bell'acquisto, affè di Dio, che mi hai fatto fare!... Io che mi piace
vivere tranquillo e che nessuno ficchi il becco nei miei negozi!... Sai
che cosa è capitato a quella tua sviata tortorella?.... E' me l'han
presa su i birri e tratta in prigione. Ed io aveva messo in mia casa una
simile eroina!... Ho avuto un bel spavento oggi quando sono entrato
colà.... Tutto era sottosopra; i mobili aperti, i cassetti tirati.
«Buono! pensai, quella tortorella mi ha fatto un _repulisti_ ed alzato i
tacchi; te lo meriti, animale.» Corsi alla Polizia senz'altro; ed
appresi che quella giovane era niente meno che un'addetta alla famosa
_cocca_, la quale mi ha già vuotato, è poco tempo, la cassaforte, e che
tutto quel disordine e quel rifrugamento in casa mia l'aveva fatto
l'Autorità per cercare non so che prove, non so che documenti, di cui la
birbona era in possesso. Cospetto! Compromettermi colla Polizia, me!
Questa è troppo e non me la sarei mai aspettata.

Zoe aveva udito questo diluvio di parole colle braccia incrociate, e
pensatevi se con interesse. Ora la sapeva tutto quello che voleva
apprendere, e non le restava più nulla da fare in quel luogo: girò sui
suoi talloni e s'avviò per partirsi, senza manco aver aperto bocca.

— Ebbene? gridò Bancone meravigliato. Te ne vai di questa guisa? Gli è
tutto ciò che avevi tanta urgenza di dirmi?

— Voi avete risposto a tutte le domande che volevo farvi; non ho più
nulla da chiedervi. Buona sera.

— Fermati, ascolta, spiegami almeno...

La _Leggera_ non volle fermarsi, nè ascoltare, nè spiegar nulla; partì
con una rapidità che legittimava il suo nomignolo, e Bancone di peggior
umore di prima, senza capirne niente, tornò a finire il suo pranzo.

Per la Zoe fu evidente che presso la Maddalena erano state trovate e
prese le lettere della contessa; credette un tradimento di questa e del
marito; ne provò tanto furore che in quei primi momenti pensò ogni più
orribil cosa per vendicarsene, e sarebbe stata capace di qualunque
eccesso; ma poi la solenne promessa ottenuta dal principe, mercè la
quale ella nutriva certezza che Luigi sarebbe salvo ad ogni modo, valse
a calmarla. Avvisò che non doveva scegliere tal vendetta del conte e
della contessa, che compromettendola, facendola forse incarcerare
eziandio o cacciare dal regno, la ponesse in condizione da non poter più
vegliare all'esecuzione del giuramento principesco, da non poter più
giovare al prigioniero; tutta notte lavorò colla fantasia per trovare un
mezzo che soddisfacesse a tutte le esigenze e scelse finalmente quello
che abbiam veduto minacciato dal suo oltraggioso biglietto alla
contessa.

Ella non pose immediatamente in atto il suo perfido disegno, perchè
voleva preparare i suoi colpi di modo che fossero i più efficaci, e due
giorni passò meditando e combinando un piano infernale contro di
Candida; e quando lo aveva tutto perfettamente immaginato e stava per
cominciarne l'attuazione, le venne l'ordine espresso ed energico di
lasciar in pace la contessa, in un biglietto di Gian-Luigi.

Quel giorno il marchese di Baldissero e Don Venanzio si erano presentati
alle carceri con un ordine in buona forma dell'autorità competente,
perchè il detenuto Gian-Luigi Quercia fosse posto in comunicazione con
S. E. il marchese e colla persona che lo accompagnava e lasciato solo
con essi per quanto tempo l'Eccellenza medesima avesse voluto. Il nuovo
capoguardiano, succeduto a quello stato destituito e imprigionato,
esaminò ben bene quell'ordine, s'inchinò profondamente innanzi al
vecchio che aveva titolo e grado di ministro di Stato; ma invece di
ubbidire prontamente, disse con una umiltà che intercedeva perdono per
l'indugio:

— Scusi, Eccellenza..... l'ordine è in piena regola,... io vorrei
affrettarmi a servirla... Ma ci è il Sott'Ispettore che ha sotto la sua
speciale osservanza quel prigioniero; ed abbiamo ordine di dipendere in
tutto e per tutto da lui rispetto a quell'individuo.....

— Fate quel che dovete fare: disse tranquillamente il marchese: e il
capoguardiano sparì portando seco la carta.

Due minuti dopo entrò con passo sollecito Barnaba, il quale esaminava,
camminando, con occhio attentissimo quel foglio che a lui aveva rimesso
il capoguardiano. Giunto a due passi di distanza dal marchese, levò lo
sguardo e lo diresse sul volto del vecchio gentiluomo che stava
attendendo con calma, seria e quasi mesta dignità; lo riconobbe di botto
e fece un riverente saluto.

— Mille perdoni, Eccellenza: diss'egli. L'importanza del prigioniero,
l'audacia de' suoi fautori che tutto son capaci di tentare per
liberarlo, ci obbligano alle maggiori precauzioni.....

Il marchese l'interruppe con un gesto che significava: «Va benissimo, e
siete compiutamente assoluto: ma ora non fatemi indugiare altrimenti.»

Barnaba, che lo comprese, si rivolse al capoguardiano:

— Introducete questi signori nel parlatorio e sia condotto presso di
loro il prigioniero. Li lascierete soli; ma due secondini staranno a
ciascuna delle porte.

Il capoguardiano precedette i visitatori in una stanzaccia vicina, e ve
li lasciò per andar a prendere il _medichino_. Le pareti di quella
stanza erano nude, imbiancate a calce; delle due finestre che si
aprivano verso il cortile, una era murata e l'altra munita d'una grossa
inferriata piena di ragnateli, lasciava passare poca luce pel riparo
della tramoggia che la difendeva esteriormente; questo poco di luce era
ancora impedito nel suo filtrar nella camera dal denso strato di polvere
e di indefinibile sudiciume che s'era disteso sui piccoli vetri
impiombati. Colà dentro, per effetto di ciò, pareva regnar sempre un
crepuscolo grigiastro, di giornata invernale nuvolosa. Per mobili eranvi
solamente una tavola di legno non verniciato, una panca, quattro
seggiole impagliate; non vi era fuoco e il freddo faceva densamente
vaporoso il fiato delle persone. Il marchese e il parroco ebbero ad
aspettare pochissimo tempo che udirono un rumore di chiavi che aprivano
dei chiavistelli che si tiravano, poi una cadenza di passi numerosi e
pesanti che si accostavano giù d'un corridoio, e quindi videro aprirsi
un uscio e circondato da quattro ceffi di secondini, presentarsi il
fiero viso di Gian-Luigi Quercia.

Una mano spinse alle spalle il prigioniero, e poichè fu entrato, la
porta pesante gli si chiuse dietro. I tre personaggi che rimasero così
in presenza si guardarono in faccia.

Quando il capoguardiano aveva aperto la porta della segreta in cui stava
rinchiuso il _medichino_, questi era dritto a metà del piccolo stanzino,
forse passeggiandovi su e giù come soleva quasi sempre e per iscaldarsi
alquanto e per occupare e divertire con quel moto l'attività febbrile
della sua mente. All'udire aprir la sua prigione in un'ora affatto
insolita, in cui non si usava fare interrogatorii, nè era tempo da
recargli cibo, Gian-Luigi guardò tutto meravigliato verso il
capoguardiano dietro il quale vide la scorta di quattro uomini.

— Che cosa c'è? domandò egli con un accento di lievissima curiosità.

— Siete domandato in parlatorio.

— Dal giudice istruttore?

— No.

— Da chi dunque!

— Da un signore e da un prete.

Quercia fece un sogghigno.

— Oh oh! Mi si manda già il prete.... E che cosa mi vogliono?

Il capoguardiano si strinse nelle spalle.

— Sentite, continuò il _medichino_: se gli è qualche altro tentativo per
farmi parlare, è tutto inutile. Io amo che oramai mi si lasci
tranquillo, e non più veder nessuno. Sarebb'egli possibile risparmiarmi
la noia di questo colloquio?

— No: è ordine preciso di mettervi in comunicazione con quei signori.

Gian-Luigi represse un sospiro, si passò le mani sulla faccia, quasi
volesse con quell'atto fermarsi la maschera d'indifferenza superba che
imponeva alle sue sembianze e disse:

— Allora andiamo pure.

E tenne dietro al guardiano accompagnato dai quattro secondini, che
tosto gli si misero alle coste.

Al primo presentarsi, Gian-Luigi apparve a Don Venanzio un po' più
pallido del solito e dimagrato, ma sempre colla medesima aria
d'imponenza, di superiorità e di sicurezza. Il marchese, che non
ricordava aver visto mai il sedicente dottor Quercia, fissò non senza
una certa emozione il suo sguardo sul giovane che, mossi pochi passi,
s'era fermato dinanzi a loro, e fu colpito dalla nobile figura di lui,
dalla fiera espressione de' suoi tratti, più di tutto da una abbastanza
spiccata rassomiglianza colla defunta sua sorella, prova questa non meno
delle altre efficace, della discendenza di quel reo, della consanguinità
che a lui, marchese, consigliere della Corona, ministro di Stato,
confidente del Re, avvinceva quel miserabile.

Gian-Luigi riconobbe di botto il vecchio sacerdote e l'autorevole
gentiluomo ch'egli aveva visto più volte e in sociali convegni e nel
corteo del Re; e fosse la vergogna di comparire innanzi a que' due in
tale stato e condizione, fosse una subita emozione di sorpresa, un lieve
rossore gli soffuse le guancie mentre i suoi occhi si chinavano a terra.
Ma fu un istante e nulla più. Le pupille si rialzarono di nuovo con
tutta l'usata sicurezza, il volto riprese l'impassibilità abituale
coperta dalla vernice della cortesia; ed egli si avanzò verso i due
visitatori, col garbo e coll'eleganza di un gentiluomo che riceve
personaggi degni del maggior rispetto nel suo salotto.

— Loro signori, diss'egli, a visitare il povero carcerato!... Non mi
stupisce di Lei, Don Venanzio; questa è opera di carità, ed Ella è stata
posta al mondo per dar l'esempio di tutte le carità: e poi Ella mi
conosce e mi fa il generoso regalo di volermi bene. La sua venuta mi
prova che questo suo affetto la non me l'ha ritolto, ora ch'io son
caduto nella disgrazia; e le accerto che non m'aspettavo punto che fosse
altrimenti; ma qual ragione mai può valermi l'onore d'una visita di S.
E.?

E' parlava con tanta libertà di spirito ed agiatezza di maniere che il
marchese, il quale si sentiva impacciato a dispetto dell'autorità del
suo grado, del suo frequente trattare coi più alti personaggi, non potè
a meno di pensare quella essere una prova o del soverchio indurimento
nel male di quel giovane, o della sua innocenza: osò sperare un istante
quest'ultima, e i suoi occhi espressero un desiderio, un'emozione cui
notò Gian-Luigi e, non comprendendone il perchè, si affaticò colla mente
ad interpretare. Ma per quanto pensasse, non una supposizione glie ne
veniva che gli sembrasse avere il senso comune, e tanto si struggeva
della curiosità che riusciva a mala pena a frenarla.

Nessuno dei due vecchi aveva ancora risposto, impediti e l'uno e l'altro
da diverso turbamento. Quercia, come se fosse nel suo quartiere a far
gli onori del sontuoso salotto, accennò con gesto pieno di grazia le
seggiole e disse, argutamente sorridendo:

— Facciano il favore d'accomodarsi. Mi rincresce che non ci ho poltrone
da offrir loro nè un allegro foco nel camino, che sarebbe troppo
necessario in quest'atmosfera da ghiacciaia; ma il generoso padron di
casa, che ora mi alberga, non mi concede altre sontuosità da queste.

Siffatta scherzosità dispiacque al marchese: la non gli parve più la
sicurezza dell'innocente, ma l'impudenza dell'uomo compiutamente
pervertito; la sua nobile fisionomia espresse il disgusto, e la sua
fronte si rannuvolò. Gian-Luigi era troppo furbo e pratico osservatore,
per non accorgersene subito: smise il suo sogghigno: stese sui suoi
lineamenti un velo di mestizia e di dignitoso riserbo, e si volse verso
Don Venanzio. Intanto pensava, sempre più intricata in impossibili
supposizioni la mente, qual cosa mai menasse da lui quello de' primi fra
i potenti personaggi dello Stato.

Don Venanzio aveva gli occhi pieni di lagrime, il petto di sospiri, e
guardando il suo antico discepolo, aveva una tale aria di rammarico, di
dolore e di tenerezza insieme, che commoveva a vederlo. Dapprima aveva
sembrato esitare se dovesse o no stringere ancora quella mano che veniva
accusata di opere sì ree; ma la generosa mitezza della sua anima
cristiana non lo aveva lasciato lungamente in forse: prese la destra di
Gian-Luigi, la serrò con significativa pressione e disse, commossa la
voce:

— Crudele figliuolo!... È così, in queste condizioni, in questo luogo
ch'io doveva vederti un giorno!.... Te nato per le grandi cose!.... Ah!
se tu avessi ascoltato le istruzioni e i consigli del povero vecchio
prete!

Quercia lo interruppe con accento in cui l'impazienza era pur vestita di
una certa deferente amorevolezza.

— Ella ha tutte le ragioni del mondo, mio caro Don Venanzio; ma pur
tuttavia le sue osservazioni entrano nell'ordine di quella scienza del
poi, che fu sempre inutile a tutto ed a tutti. Ella sa la massima
principale della mia filosofia pratica della vita: quando una cosa è
irrimediabile, da folle il disperarsene, e bisogna portarne allegramente
la risponsabilità.

— Ma, sventurato! esclamò il buon prete tremando; tu dunque ammetti
essere reo de' falli onde ti si accusa?

— Nè ammetto nè nego... Qui non sono a confessione: soggiunse con quel
suo mefistofelico sogghigno: d'altronde Ella sa che io e la confessione
non ce la diciamo troppo... Sono in mano della giustizia umana, a lei
l'adoperarsi coi mezzi che le spettano a scoprire la verità; io lascio
fare: e mi darò la soddisfazione di ridere o di maledirla se la
sbaglia... Ma questi non sono i discorsi che debbono interessare S. E.
il marchese di Baldissero, perchè non credo un sì autorevole personaggio
siasi di tanto scomodato per venire a darmi il gusto di una
conversazione da avvocato fiscale con un povero inquisito.

Le impressioni che provava il marchese erano molteplici e contrarie: ora
badando solo alla voce di chi parlava, alle aggraziate movenze di quel
giovane leggiadro, alle fattezze del viso, a certe arie, al complesso
esteriore di quell'avvenente persona, egli si sentiva grado grado
intenerire dalla dolcezza d'una cara memoria lontana, gli pareva
scorgere in quelle le arie, le mosse, le intonazioni di voce di sua
sorella, si lasciava vincere da un interessamento che era come la forza
della consanguinità che lo spingesse; ora ponendo mente al significato
delle parole cui pronunciava quella voce tanto simpatica, provava una
ripugnanza contro lo spirito che le dettava, ed una specie di riazione,
cancellando ogni ombra di tenerezza, gli rendeva poco meno che odioso
quel disgraziato nel quale non vedeva più che un diabolico cinismo.

Alle ultime parole di Gian-Luigi, il marchese lo saettò d'uno sguardo di
rampogna, e sedendo, aprì per la prima volta la bocca, parlando con una
severa freddezza:

— La verità è quella precisamente che voi non credete. Per ragioni che
saprete fra poco, m'importa di molto conoscere se voi siete e potete
provarvi innocente. Don Venanzio fa tuttavia tanta stima di voi che
afferma, se colpevole, avrete la franchezza di dirlo a chi lealmente
v'interrogasse... e non nell'interesse dell'umana giustizia.

— In qual interesse adunque? domandò il _medichino_ sedendo ancor egli,
sempre colla medesima elegante agiatezza.

— Nel vostro: rispose asciutto il marchese.

— Ed anche nel suo, Eccellenza: soggiunse ratto Gian-Luigi: se io so
bene argomentare, poichè la mi ha detto or ora che certe ragioni le
rendono importante la conoscenza di questa verità.

Il marchese annuì col capo.

— Sì, anche nel mio.

Gian-Luigi fece un grazioso inchino verso il parroco.

— Ringrazio Don Venanzio della buona opinione che conserva di me. Io son
pronto a dargli ragione; perchè Dio mi guardi dal vedere in codesto un
tranello teso alla mia buona fede!...

Baldissero fece un atto d'indignata protesta.

— Le giuro che una cosa simile non la crederei mai: continuò il
_medichino_; ma per aprire la mia coscienza così di piano a lor signori,
a Lei specialmente signor marchese, col quale non vi fu sinora la menoma
attinenza che possa condurre ad un simile risultamento, bramerei
conoscere quelle ragioni che rendono questo fatto così interessante per
V. E.

Il marchese parve esitare.

— Non si tratterebbe che di anticiparmene la comunicazione: soggiunse
vivamente Gian-Luigi; poichè Ella stessa mi disse che le avrei sapute
fra poco.

Baldissero si raccolse un momento; poi fece un gesto colla mano che
significava avrebbe accondisceso al desiderio del giovane. Questi con
moto vivace di curiosità, trasse innanzi la sua seggiola e, i gomiti
appoggiati alle ginocchia, si curvò verso il marchese ad ascoltare.

Dopo un istante, lo zio di Virginia, disse lentamente con voce sommessa
e quasi stentata:

— Voi non avete famiglia?

— No: rispose Gian-Luigi riscuotendosi tutto e impallidendo per una
subita, violenta emozione che lo assalse.

— Foste abbandonato nell'ospizio...

— Lo fui!...

— Ed avevate per segno di riconoscimento...

— Una lettera stracciata per metà.

Il marchese trasse di tasca un portafogli, lo aprì, ne levò due pezzi di
carta sgualcita ed ingiallita dal tempo, e li tese verso il giovane.

— Ecco la lettera intiera.

Quercia sorse in piedi di scatto. La mano del marchese nel porgere la
lettera tremava; la mano di Gian-Luigi nel prenderla tremava del pari.
Afferrò quei due squarci, li scorse, li esaminò, ne lesse lo scritto.
Quei caratteri gli danzavano innanzi agli occhi; la vista gli si
abbuiava; una folata di supposizioni faceva ressa nel suo cervello; che
si trattasse della sua origine in quel misterioso colloquio glie n'era
già, fra i mille altri impossibili, balenato il pensiero. Ora non
esisteva più dubbio: aveva quella lettera in mano; la sua famiglia era
trovata. Si recò alla fronte i pugni chiusi e premendoveli come per
contenere il cervello che era in bollore:

— Chi son io?... Chi son io dunque? esclamò; poi gettò uno sguardo
inesprimibile sulla fisionomia mesta e severa del vecchio gentiluomo,
tese verso di lui le mani che stringevano ancora e convulsamente quei
pezzi di lettera, fece un passo a quella volta con mossa d'ineffabile
trasporto e gridò, proprio dal fondo dell'anima:

— Ah! siete voi mio padre!

Il marchese si trasse vivamente all'indietro sulla sua seggiola, come se
avesse ricevuto un urto nella fronte e mandò un'esclamazione soffocata.
Sostenne un momento col suo lo sguardo vivo, fiammante del giovane che
palpitava innanzi a lui, poscia chinò gli occhi con un'espressione che
avrebbe potuto dirsi ripugnanza e si coprì colle mani il volto, come se
assalito da un accesso di vergogna.

— No, non son io vostro padre: susurrò con voce appena intelligibile.
Don Venanzio, mi faccia grazia, racconti Lei a questo infelice tutta la
verità.

Il _medichino_ fece un cenno al parroco, perchè indugiasse alquanto a
cominciar la sua narrazione. Giunto al momento tanto desiderato di
apprendere la verità, sentiva, per così dire, tremar l'anima ed aveva
bisogno di prepararsi per accogliere con calma il vero qualunque egli si
fosse. Si premette colla destra la fronte, coprendosi gli occhi; poi
incrociò le braccia e si recò lentamente alla finestra, dove rivolse lo
sguardo in su e stette contemplando pochi minuti secondi quella esigua
luce grigiastra che pioveva dalla tramoggia; finalmente venne presso il
sacerdote; sedette in faccia a lui, appoggiò i gomiti sulle ginocchia,
affondò il volto nelle palme delle mani e disse:

— Parli pure, Don Venanzio.

Ascoltò immobile in quella postura tutto il racconto del parroco. Non un
atto manifestò in lui le impressioni ch'e' dovette provarne; il viso,
sempre nascosto, non lasciava scorgere nulla di quanto sentisse l'anima
sua. Quando il vecchio prete ebbe finito, tutti si tacquero per un poco;
solamente si sentiva il rumore di due respirazioni affannate: quella del
marchese e quella di Gian-Luigi.

Fu quest'ultimo che ruppe finalmente il silenzio. Levò dalle mani la
faccia che era pallida, pallida, ma con nessun'altra traccia d'emozione,
e volse il capo verso il marchese, però senza levare gli occhi su di
lui.

— Or bene: disse sommesso e quasi penosamente: or bene, quali intenzioni
ha Ella a mio riguardo?

Baldissero non rispose subito; rifletteva profondamente e con visibile
amarezza; con voce bassa e stentata egli pure, disse poi:

— Ora capite voi perchè m'importi sapere se voi siete innocente?

Quercia mandò un'esclamazione; volle parlare, ma di subito se ne
trattenne; alla pallidezza successe sulle sue guancie un cupo rossore,
l'immobilità tenuta fin allora diede luogo per riazione ad un'agitazione
irrefrenabile; egli sorse e si mise ad andar su e giù con passo
concitato, lasciandosi sfuggir dalle labbra interiezioni, rotti accenti
e gridi a mala pena soffocati. La punizione crudelissima a' suoi
delitti, di cui aveva fatto cenno Don Venanzio, era piombata in tutta la
sua gravezza sull'anima ambiziosa di Gian-Luigi: quel grado a cui egli
aspirava, quell'altezza a cui aveva voluto giungere erano suo diritto,
li avrebbe potuto arrivare naturalmente ed onestamente; ed egli col suo
fatto ora se li era resi impossibili... Impossibili? No, egli non voleva
ammettere questa orrenda verità; egli non poteva rassegnarsi a questa
troppo fiera condanna. Come! Gli Orti Esperidi della ricchezza e della
potenza verrebbero ad aprirglisi ed egli sarebbe impotente ad entrarvi?
Avere dinanzi le onorificenze, la grandezza e la gloria, e precipitare
nell'ignominia!..... Doveva esserci un mezzo di salvarlo. La famiglia a
cui egli apparteneva rappresentava la potenza sociale: e questa poteva
creare a sua convenienza il giusto e l'ingiusto: la sua vita anteriore
doveva cancellarsi, non esister più, non aver mai esistito. S'era
trascinato miserabil bruco nel letame sociale: ora aveva da svegliarsi
farfalla al sole della prosperità. Chi alla splendida bellezza della
farfalla domanda conto della sua vile esistenza anteriore di verme? A
questa sua riabilitazione l'autorità monarchica, la società, la natura
medesima parevagli dovessero concorrere. Egli si sentiva rinnovato,
risorto per una meravigliosa palingenesi in un essere degno della sua
ventura: perchè gli altri non lo avrebbero voluto accettare come tale?
Il miserabile trovatello, senza legami nel mondo, poteva essere
condannato e giustiziato come un assassino, ma il nipote d'un ministro
di Stato, d'un discendente degli eroi delle crociate, d'un consigliere,
quasi d'un amico del Re, non doveva aver nulla di comune con quella
sorte ignominiosa: sognava la trasmutazione dell'Ernani di Vittor Hugo,
ieri bandito, oggi grande di Spagna.

Si fermò innanzi al marchese e ripetè con voce balzellante per èmpito
d'emozione la sua prima richiesta:

— Or bene, quali sono ora le sue intenzioni a mio riguardo?... Io sono
sangue suo; io sono sangue d'una delle più nobili prosapie del regno...
Lo sento bene in me!... L'ho sempre pensato; l'ho sempre saputo! Vedrà
zio mio che in me non è tralignata quella pianta.

(All'udirsi chiamare con quel titolo di parentela da tali labbra, il
marchese di Baldissero diede in una leggera scossa).

— Il passato che importa? Continuava il giovane. Non esiste più, non ha
mai esistito. Quella è la notte, ed ora mi si leva innanzi il giorno.
Tutto sarà sepolto nel buio: io sorgerò raggiante nella mia nuova
carriera di grandezza.... Signor marchese, glie lo giuro sulla sacra
febbre della mia ambizione: io mi sento la potenza di soggiogare il
mondo.

Don Venanzio gemette innanzi a quell'audace svelarsi d'un feroce
egoismo: il marchese mandò un sospiro.

— Ma voi, disse quest'ultimo con solenne mestizia, non avete ancora
risposto a quello che vi ho domandato. Siete voi innocente?

Il _medichino_ si trasse indietro d'un passo e si percosse coi pugni
chiusi la fronte.

— Innocente! Innocente! esclamò. Ma le dico che ciò non monta.... Mi
tragga di qua.... Gian-Luigi Quercia sarà morto: fra pochi anni sarà
perfettamente obliato, fuorchè, come una leggenda, nella memoria dei
miserabili... Maurilio di Valpetrosa, poichè quello è il mio vero nome,
comparirà essere novello sulla scena più elevata del mondo.... Non sono
che al principio della mia giovinezza.... Posso bene sottrarmi per un
lustro, a prepararmi, oscura crisalide, alla mia grandezza avvenire...
Mi mandi in Francia: andrò soldato in Algeria; mi sacrerò cavaliere al
fuoco delle battaglie: sento nelle mie vene il sangue dei prodi nostri
avi, signor marchese: cimenterò il mio nuovo nome al battesimo del
valore; tornerò coll'illustrazione della gloria, glie lo prometto.

Baldissero levò il suo viso improntato di severità e disse con accento
solenne:

— Ma se voi siete colpevole, ciò tutto non toglierà che alla nostra
famiglia abbia appartenuto un.....

Non disse la parola, ma Luigi la lesse nell'espressione inorridita dello
sguardo, nella piegatura dolorosa delle labbra. Il _medichino_ non osò
più sostenere l'incontro degli occhi del marchese.

Questi, dopo un poco, ripigliava con crescente imponenza e gravità:

— E la giustizia, a cui dovete pagare il fio? Perchè credete voi potervi
ad essa sottrarre?

— La giustizia è il ragnatelo. Debole moscerino vi sarò impigliato; mi
si aiuti a valermi delle mie ali di falco e vi passerò trammezzo.....

Il marchese scosse gravemente la testa.

— Al Re medesimo dissi non è guari che nessuna considerazione avrebbe
dovuto sottrarvi alla azione delle leggi: e quello che dissi allora
penso anche adesso.

Gian-Luigi scoppiò in queste orribili parole:

— Ella dunque lascierà suo nipote, il figliuolo di sua sorella salire il
patibolo?...

A questa cruda confessione di colpevolezza, Baldissero impallidì ancora
di più, ma stette come il Farinata di Dante nell'inferno; Don Venanzio
mandò un gemito e levò le mani congiunte al cielo.

— Sì, continuava con impeto Gian-Luigi, cui la emozione di quel
gravissimo momento aveva tolto il possesso ch'egli soleva avere della
sua volontà e della sua anima; sì, sono un miserabile, perchè ho
impegnato la lotta contro la vostra società che mi aveva scacciato dal
suo seno e me ne lasciai vincere. Ma di chi la colpa? Perchè m'avete
respinto? M'avete cacciato nel fango e mi condannate perchè ne vengo
fuori imbrattato!.... Fin dalla nascita io ho recato meco le aspirazioni
verso quel mondo a cui dovevo appartenere, e che mi fu barbaramente
precluso. Sentivo che era mio diritto il penetrarvi, e quando mi vi
affacciai conobbi che ogni sforzo sarebbe stato inutile al trovatello
per farvisi luogo, e che soli mezzi gli rimanevano da ciò l'inganno e il
delitto.... Credete voi ch'io mi vi sia deciso senza strazianti dolori e
senza lotte? Quando un bel giorno io mi trovai colle passioni, coi vizi,
colle vanità eccitati, irritati, non soddisfatti, senza più un
centesimo, in faccia ad una società che schernisce il povero ed il
debole; anche a me per prima si affacciò l'idea volgare del suicidio. La
somma lasciatami dal medico del villaggio aveva bastato appena a farmi
delibare la coppa de' piaceri mondani: la sete se n'era accresciuta e
non avevo più mezzi da accostarvi le labbra desiose. Il lavoro era mezzo
troppo lento e di troppo miseri effetti. Mi cacciai, come in una
voragine, in una casa di giuoco. Perdevo: l'oro esercitava su di me il
suo fascino infame ed irresistibile; e vedevo passarmi dinanzi le orde
sonore delle monete e sfuggirmi. Avrei dato l'anima al demonio: un
arrolatore dell'esercito del male, uno dei capi della segreta congrega
dei ribelli sociali mi lesse nel cuore, mi trasse in disparte, mi tastò
l'animo indolorito ed infierito, mi espose bruscamente in termini
grossolani la teoria delle vicende terrene che incominciava ad essere la
mia. Vi è una lotta universale nella creazione organica: tutto quello
che vive s'alimenta e si vantaggia di organismi più deboli del suo.
L'uomo sfrutta tutto il resto della creazione, appunto perchè si trova
al fastigio della medesima: col medesimo diritto l'uomo che è più forte,
più accorto, più audace può vantaggiarsi del più debole, più stupido e
più timido. Il tentatore cominciò a propormi ed a mostrarmi a giuocare
di baro. Divenni maestro nell'arte in breve, e dividemmo i guadagni. Una
sera, uscendo dal giuoco, carico appunto d'oro, venni assalito da un
assassino, che mi fece luccicare innanzi agli occhi la lama d'un
pugnale. Colla destra afferrai la mano che stringeva l'arma, colla
sinistra il collo di quell'uomo, e l'ebbi in un attimo messo a terra
presso a basire strangolato. Sopraggiunse in quella, per sua fortuna, il
mio complice, e lo riconobbe.

« — _Graffigna_, gli disse, ti sei male indirizzato; costui è dei nostri
e tu vedi che polso è il suo.

«Lasciai andare il mio assalitore che si scosse come un cane che vien
fuor dall'acqua.

« — Signore: mi disse umilmente, raccattando per terra il suo pugnale:
vedo proprio che ho sbagliato e glie ne domando mille perdoni. Ella d'or
innanzi ha la mia ammirazione e può contare sulla mia servitù.

«Que' due appartenevano ad una vasta associazione di malfattori che
stavasi appunto riordinando e cercava un capo autorevole, coraggioso,
intelligente. Non vi dirò tutte le fasi per le quali sono passato prima
di diventar io quel capo. Il male, il delitto è una macchina tremenda di
ruote e di rocchetti, i cui denti imboccano, e guai chi se ne lascia
pigliare pur per un solo lembo del vestito! La forza cieca, meccanica lo
trae, lo trae finchè tutto lo ha preso e maciullato. E poi m'ero fatto
un concetto più grandioso di quella guerra che avevo bandito agli ordini
sociali e degli effetti della medesima..... Mi allontanai per due anni
da questa città... Quando vi fui di ritorno ero il capo supremo della
_cocca_. Quell'attività, quell'intelligenza che ho impiegato nell'opera
del delitto, che cosa non avrebbero ottenuto se, rincalzate
dall'autorità di potenti aderenze, dall'influenza d'un grado, le avessi
rivolte in aiuto della società esistente?... Che cosa non potrei ancora
ottenere se mi si accetta, non ostante il mio passato, nel campo degli
onesti?

— E ciò è impossibile: interruppe severamente il marchese. Nessuno può
fare che il passato non sia. L'avete detto voi stesso testè: ogni uomo
deve portare la responsabilità de' suoi fatti. Io qui non sono per
giudicarvi: ma vi giudica la coscienza civile rappresentata dalla
giustizia umana. Avete violate le leggi della società, questa vi
bandisce dal suo seno; nulla si può mutare; quello che deve compirsi si
compia.

L'esaltazione a cui era stato in preda fin allora Gian-Luigi sparì ad un
tratto; egli si lasciò cadere sopra una seggiola, ed esclamò coprendosi
colle mani la faccia:

— E dunque mi si lascierà morire? Dunque non si vuol dare i mezzi ad
un'anima come la mia di rigenerarsi e compensare il male? E Lei,
marchese, lascierà che la mia ignominia sprizzi fino sul suo blasone?

Successe un istante di penoso silenzio, cui poscia fu Don Venanzio a
rompere.

— L'anima umana si rigenera col pentimento, il male si espia colla
punizione: disse il buon vecchio prete. Subir questa con rassegnazione,
curvandosi ai voleri di Dio, è indizio ed effetto di quello. Pentimento
ed espiazione conducono al perdono. Siamo deboli pur troppo noi uomini e
le arti dell'eterno nostro nemico sono potenti: ma dall'altra parte
immensurabile è la misericordia di Dio, e nessuno di noi può dire
dov'ella si arresti e che pure abbia limiti. Se dunque vi è la speranza,
anzi la certezza del perdono per tutti, vi è pure la necessità di subire
la pena per tutti quelli che fallirono; o sarebbe lesa la giustizia.

— Voi avete dichiarato alla società costituita una guerra, come diceste
voi medesimo: così parlò a sua volta il marchese: e rimaneste vinto. Ma
voi meglio d'ogni altro, voi di più vivido ingegno, di maggiore
istruzione del volgo, sapevate a quali rischi andavate incontro, qual
posta mettevate al giuoco, quali conseguenze affrontavate. Avete
perduto....

Il _medichino_ levò il capo e interruppe vivacemente con un fiero
sorriso:

— Bisogna pagare. Ella ha ragione.

Guardò bene in volto il vecchio gentiluomo e soggiunse, parlando
lentamente:

— E dunque che sarà di me verso la famiglia, e della famiglia verso di
me?

— Quello che vorrete voi medesimo. La famiglia non rifiuterà di
affermare pubblicamente il vero, quando voi lo esigiate, quando a voi
piaccia si gravi su di lei una parte di disdoro con nessuna utilità
vostra....

Negli occhi di Gian-Luigi corse un lampo.

— La comprendo: diss'egli vivamente; ed affondato di nuovo il volto
nelle palme delle mani, stette un poco meditando.

La cristiana santità di quel vecchio povero prete vero seguace del
Vangelo, la rigida onestà e la severa onoratezza del vecchio gentiluomo
facevano intorno al giovane un ambiente, per così dire, di tanto pura e
sana e morale influenza, che tutto quello che v'era ancora di generoso
nella traviata e sedotta di lui natura si ridestò, fu suscitato ed ebbe
in quel punto nuova e maggior forza che mai.

— Ebbene: soggiunse egli poi levando il capo e sorridendo amaramente:
che importa egli al mondo che il figliuolo della marchesa Aurora sia
ritrovato o no? che importerà a me medesimo si sappia, se ciò non avrà
da mutar per nulla la mia sorte?.... Ch'io scompaia ignoto ed ignorato,
portando meco nel sepolcro il mio segreto e l'onore soltanto d'un
miserabile plebeo che non ha nome... Hanno essi un onore quella razza di
gente?... Avrò fatto alla famiglia che mi ha rigettato ancora questo
sacrificio... Io non sono che il misero trovatello, signor marchese, si
rassicuri: e morrò come tale.

Spiegò bene i due squarci di lettera che aveva ancora tra mano; li
raccostò e li tenne innanzi agli occhi alcuni minuti quasi leggendo e
rileggendo lo scritto parecchie fiate, poi disse scuotendo mestamente il
capo:

— Ecco tutto ciò che mi rimane del padre mio; ecco tutta la mia eredità
nel mondo... Povero mio padre!... Se tu avessi vissuto che cosa avresti
fatto di me?

Baldissero che aveva versato il sangue di Valpetrosa, a queste parole
che gli ricordavano efficacemente la risponsabilità ond'era aggravato,
sentì più viva la fitta del rimorso.

Gian-Luigi accostò quei due pezzi di carta ingiallita alle labbra e ve
li premette con passione.

— Addio! Addio memoria di mio padre. Oh potessi credere che tu esisti
ancora, essere che fosti qui in terra l'autore della mia vita, e che un
giorno ti potrò vedere e conoscere!... Addio tu pure, pensiero della
madre mia; addio per sempre: voi non esistete più; tutto ha da essere
precipitato nella notte dell'oblio.

Colle mani convulse stracciò in minutissime parti quella lettera e ne
sparse al suolo i pezzetti; una lagrima, una lagrima sola colò
lentamente sulle sue guancie pallidissime che parean di marmo.

Il marchese si alzò e disse con accento commosso e molto nobilmente:

— Vi ringrazio.

Parve che volesse tendere al prigioniero la mano; ma se ne trattenne.

— Or dunque tutto è finito per me: esclamò con voce tremante quel
misero: ogni mio legame con questo mondo è sciolto...

In quel punto, per effetto d'una di quelle complesse visioni della mente
che abbracciano un mondo indefinito, passarono innanzi a lui le immagini
del suo passato sin dall'infanzia, e l'immagine di quello che avrebbero
potuto essere la sua vita e il suo avvenire.

— Oh giovinezza! soggiunse: oh mie sciupate forze di volontà e
d'ingegno!... Meglio non avessi abbandonato mai Lei, Don Venanzio, e il
villaggio e la povera vecchia Margherita..... Ma l'istinto del sangue mi
spingeva. Mi sentivo della razza dei leoni.....

Scosse le spalle con superba mossa da angelo fulminato.

— Ma il rimpiangere che giova?... Fu il destino che così volle..... No,
io non rimpiango nulla...... Sono vinto, non sono soggiogato.....
Guarderò in faccia la mia sorte fino alla fine col sogghigno che merita
questa irrisione di casi che è la vita.

S'interruppe e cambiò tono.

— Sì, v'è pure alcuna cosa che rimpiango. Alcune anime generose mi hanno
amato, ed io fui empio e scellerato per esse. Povera Ester! (e represse
un sospiro). Povera Maria!..... Povera Candida!..... Le ho odiosamente
ingannate e tradite..... Vorrei potere a ciò rimediare... e non ce n'è
mezzo nessuno.....

In quella si ricordò delle lettere della contessa di Staffarda, che
possedute, com'egli credeva ancora, dalla Zoe, erano per la misera donna
una minaccia continua.

— Ah sì, soggiunse, alcuna cosa posso pur fare in favore di una di esse.

Domandò di scrivere poche parole; e il marchese potè dargli un
fogliolino di carta ed una matita; Gian-Luigi scrisse alla Zoe l'ordine,
la preghiera di restituire alla contessa le lettere, e di non
tormentarla altrimenti. Don Venanzio accettò l'incarico di portar egli
stesso in persona alla _Leggera_ quella carta che doveva por fine agli
spasimi ed agli sgomenti d'una povera anima: e già vedemmo quali ne
fossero gli effetti.

— Ed ora: disse finalmente Gian-Luigi; prego che mi si lasci solo.

Il marchese ed il parroco partirono, quest'ultimo promettendo di tornare
a visitare il prigioniero quante più volte gli fosse concesso; e il
_medichino_ venne ricondotto nella sua segreta.

Quel che passasse nell'anima sua chi lo potrebbe descriver mai? Certo
furono spasimi che dovettero contare come parte migliore della dovuta
espiazione innanzi alla clemenza di Dio: ma il segreto di quella
tormentosa meditazione fu tra lui, tra l'anima sua e Colui che tutto
vede.

Quando i secondini entrarono, parecchie ore più tardi, a portargli il
cibo giornaliero, lo trovarono steso sul giaciglio bocconi, la faccia
premuta contro la coperta di lana ravvoltolata. All'invito che il
secondino gli fece di mangiare, non si mosse punto.

— La è malata? domandò il carceriere.

Il _medichino_ agitò la testa con un atto impaziente che indicava egli
non desiderar altro che di essere lasciato stare.

Alla visita della sera, ed ore parecchie erano trascorse, fu trovato
ancora nella medesima postura, immobile come un cadavere; e i cibi erano
intatti. Il guardiano gli si accostò alquanto sbigottito e lo toccò
sovra una spalla: Gian-Luigi sussultò come se fosse stato bruciato da un
ferro rovente, e volse verso il carceriere una faccia in cui tanta era
l'ira, e tanto insieme il tormento che pareva il sembiante di Satana
fulminato. Il secondino s'arretrò intimorito e s'avviò senz'altro per
uscire; ma quando fu all'uscio si ricordò che aveva una comunicazione da
fargli.

— Debbo avvertirla che domani cominceranno i pubblici dibattimenti del
suo processo.

Gian-Luigi si drizzò di scatto.

— Domani? domandò con emozione.

— Sì.

— Va bene.

Il guardiano uscì e il prigioniero stette ad ascoltare con una specie
d'interesse il rumore delle serrature che si chiudevano, dei paletti che
scorrevano; poi si mise a passeggiare nella sua oscura celletta su e
giù, proprio come una belva in gabbia. Comparire al pubblico
dibattimento, agli occhi curiosi di tanta gente, spettacolo miserando a
quel mondo ch'egli aveva voluto dominare e cui abborriva e disprezzava!
Gli era un primo supplizio, quello della gogna; gli era un'anticipazione
di quell'ultima ignominiosa scena che aveva da conchiudere la sua vita,
sull'infame legno del patibolo. Egli fremeva e rabbrividiva; aveva delle
fiamme e dei geli che s'avvicendavano lungo i suoi nervi, entro le sue
vene; sentiva la passione morale tradursi in dolori fisici che
cominciando dal cervello si propagavano per tutto il suo organismo.
Pensò a morire; ma come? Misurò la sua cella; non c'era spazio bastante
da prendere un aire di tanta forza da fracassarsi il capo alle pareti:
ed egli non voleva a niun conto il ridicolo d'un suicidio non riuscito,
il quale poi avrebbe ancora preclusagli la via ad altri tentativi: e nel
suicidio oramai era la sola sua speranza.

— Sosterrò anche questa prova: si disse: affronterò gli sguardi di tutta
quella canèa di curiosi, la cui onestà non è che codardia; a quelle
virtù bacate, a quelle infamie nascoste che si atteggiano a gente
onorata, farò abbassare gli occhi sotto il fuoco de' miei e li atterrirò
ancora colla mia audacia.

Al mattino volle fare un'elegante acconciatura quale d'un giovane di
garbo e di buona società che si reca a far visite di rispetto; e quando
lo si venne a prendere nella carcere per condurlo alla sala del pubblico
dibattimento, aveva la figura tranquilla e il calmo sorriso d'un uomo
sicuro di sè, che non ha rimorsi, nè timori, nè manco soggezioni.

Traversando i corridoi, i suoi occhi incontrarono ad uno svolto quelli
affondati del Sott'Ispettore Barnaba.

— Signore, disse Gian-Luigi, accostandosegli. Potrei io avere un
colloquio con voi?

Barnaba s'inchinò in segno d'assenso.

— Quando?

— Quando avrete avuta la vostra condanna di morte.

Il _medichino_ fece un superbo sorriso, mosse leggermente il capo, come
per dire «sta bene;» e passò.



CAPITOLO XXX.


Se la sala dell'udienza nella Corte d'appello (che allora aveva in
Piemonte nome di Senato) fosse zeppa di spettatori, lascio pensare ai
lettori che sanno quale morbosa curiosità sia nelle cittadinanze pei
processi criminali di siffatta specie. Quella banda di malfattori aveva
per tanto tempo incusso timore alla città intiera; la frequenza e la
gravità dei delitti commessi erano tali da far rabbrividire; la
circostanza straordinaria che il capo di quella orrenda sêtta fosse un
giovane elegante, accolto con favore nelle migliori società, accresceva
l'interesse della cosa. Dal giorno dell'arresto dei malandrini poteva
dirsi che nei crocchi cittadineschi, in tutti i convegni, nelle
conversazioni delle famiglie, non erasi parlato d'altro più fuor che di
ciò; in quel tempo di calma e di servitù, non essendoci concorso di
novità politiche a far diversione. Tutti volevano vedere le faccie
orribili di quegli assassini; e principalmente quella del loro capo, che
dicevasi, e molti di veduta conoscevano, non essere niente affatto
orribile, ma anzi bellissima. Le donne sopratutto avevano questo curioso
desiderio, il quale, in quelle creature così facilmente eccessive,
spingevasi per alcune fino all'ardore della passione. I biglietti di
ingresso alle tribune riservate erano quindi stati ricercatissimi; e
quel primo giorno in cui cominciavano i dibattimenti molti e molti
banchi erano occupati da rappresentanti del sesso gentile di tutte le
età, venute in grande eleganza d'acconciatura a cercare poco gentili
emozioni in quel dramma di sangue di processo criminale. Fra queste
spiccava, ned ella cercava pure nascondersi, la Zoe, la quale nel tempo
di attesa, prima che entrassero gli accusati a prendere il loro posto,
era il punto di mira di tutti gli sguardi e l'argomento di tutti i
discorsi. Era essa giunta delle prime — in una tribuna riservata
s'intende — epperò s'era impadronita del miglior posto che si potesse
avere di faccia e più vicino che era possibile all'ordine dei banchi
preparati pei prigionieri. Le prime signore che erano giunte dopo di
lei, avevano schivato il contatto e la vicinanza della cortigiana,
prendendo posto più in là che potessero dalla sontuosa di lei veste di
seta; ma quelle che erano sopravvenute più tardi non avevano avuto il
coraggio di andarsene piuttosto che occupare i posti che rimanevano a
fianco della cortigiana, e vi si erano sedute, ostentando però di tener
le spalle volte alla loro vicina, e di non lasciar posare mai su di lei
gli occhi che pure la sbirciavano di soppiatto con viva curiosità. La
_Leggera_, in una mossa quasi abbandonata, pareva non accorgersi di
nulla, e la sua attenzione era tutta fissa sui seggioloni dove sarebbe
venuta a sedere la Corte, sui banchi destinati ai rei. Nello
scompartimento lasciato al pubblico volgare senza privilegio di polizza
d'ingresso, fin dal primo momento in cui s'erano aperte le porte della
sala, si agitava una massa variegata di popolo cencioso, che ora ronzava
come uno sciame di tafani, ora muggiva come un maroso di burrasca, ora
rompeva in esclamazioni d'impazienza, in bestemmie contro chi urtava di
dietro per ispingersi nella sala, in motti sconci, impertinenti, tenuta
in freno dai cappelli a becchi, dalle faccie burbere e dalle baionette
dei carabinieri.

Stante il gran numero degl'inquisiti, per questi, come ho già detto,
erasi preparato un ordine di banchi, un dietro l'altro, che venivano
salendo sino alla parete della sala, in ciascuno dei quali potevano
stare quattro individui. Innanzi a questi banchi era uno spazio in mezzo
della sala, dove un tavolo a cui sedeva il segretario coi suoi aiuti; e
di là una delle pubbliche tribune, quella in cui c'erano più donne, e in
prima fila la Zoe: dal primo banco dei rei a quello della tribuna
correvano appena sei passi. In quello spazio centrale, precisamente di
prospetto alla gran tavola de' giudici, erano i banchi dei testimoni,
che si trovavano alla sinistra di quelli degli accusati. Dietro di
questi banchi dei testimoni era il locale destinato al pubblico plebeo.
Fra i banchi degli accusati e la tavola della Corte, che s'elevava sopra
un tavolato a cui si ascendeva per due gradini, stavano i difensori: di
faccia, dalla parte opposta, i rappresentanti del Pubblico Ministero.
Questa disposizione de' luoghi occorre tenere a mente per comprendere
poi l'orrenda tragica scena con cui si chiusero in quella sala i
dibattimenti di tal memorabile processo.

Si discorreva vivamente in tutte le tribune; il maroso del pubblico
straccione muggiva più che mai: ad un tratto si fece un gran silenzio e
gli occhi di tutti si volsero ad un punto: entravano i prigionieri, a
due a due, in mezzo a due file di carabinieri armati. Primi venivano
_Stracciaferro_ e _Graffigna_, poi Pelone, Marcaccio e la turba dei
satelliti minori; fra questi v'era una faccia onesta, disfatta dal
turbamento e dalla vergogna: quella del povero Andrea. Il suo arresto
dovevasi a Marcaccio; il quale, parte per le minaccie, parte per le
promesse di pena minore, s'era lasciato indurre a confessare qualche
cosa della verità e non aveva taciuto della fabbricazione delle chiavi
per mano del suo amico il ferraio senza lavoro. Di poi, pentitosi delle
sue rivelazioni, le aveva contraddette, aveva voluto ritrattare, s'era
posto di nuovo al niego più fermamente che mai; ma un secondo arresto di
Andrea era stato deciso ed eseguito, e il vedovo di Paolina, alle
fattegliene interrogazioni aveva risposto tutta la verità. Oh! Dio era
stato pietoso di togliere anche colla morte la onesta moglie di
quell'infelice allo spettacolo di tanta vergogna!

Mancava ancora il principale: il famoso _medichino_. Come se anche in
codesto si volesse riconoscere la superiorità di lui, il capo non era
stato condotto a mazzo cogli altri, ma gli si concedeva la distinzione
d'una entrata speciale in scena.

Il silenzio fattosi all'entrare dei prigionieri non durò gran fatto.
Tosto dopo cominciarono i discorsi, le osservazioni, i commenti, le
interpretazioni, gli indovinari intorno a quelle faccie risolute, la
maggior parte malvagie, feroci, fra cui dominavano la robusta,
imbestialita figura di _Stracciaferro_, l'allampanata, alta persona di
Pelone e la diabolica faccia sottile di _Graffigna_. Un movimento di
curiosità destarono due donne che in coda a tutti gli altri imputati
vennero in mezzo a' carabinieri ancor esse e furono fatte allogarsi nei
banchi de' rei. Erano Maddalena e la povera vecchia Margherita. Quella
conservava la sua aria sicura e petulante: appena dentro il salone aveva
mandato in giro i suoi occhi ardimentosi, e, vista di subito la Zoe,
aveva con essa scambiato un fuggevole ma significante ammicco. La misera
Margherita invece era tanto confusa e tremante che appena se poteva
reggersi e trascinarsi. Sotto l'abbronzato della sua pelle rugosa v'era
un pallore che sembrava di morte: i suoi poveri vecchi occhi erano rossi
dal pianto; già magrissima prima, il suo soggiorno in carcere e la pena
morale l'avevano ridotta a non aver più che la sua pelle color d'alluda
sulle ossa.

Nel primo banco furono posti _Stracciaferro_, _Graffigna_ e Marcaccio;
quest'ultimo era al capo del banco verso quello dei testimoni. Un posto
fu lasciato vacante, il primo dalla parte dove sedevano gli avvocati,
serbato di certo pel _medichino_. Nel banco di dietro erano le due
donne. In mezzo agli altri accusati Andrea, che pareva lo spettro
dell'uomo d'un tempo, aveva posto i gomiti sulle ginocchia e s'era
nascosto il volto nelle mani.

Il susurro cessò di nuovo, quando in mezzo a due carabinieri comparve il
fiero e leggiadro aspetto del sedicente Gian-Luigi Quercia. Era egli un
po' pallido, ma calmo e tranquillo. Dalla soglia gittò egli pure uno
sguardo su tutte quelle faccie intente verso di lui che lo divoravano
cogli occhi e schiuse le labbra ad un superbo, ironico sorriso; vide la
Zoe e non fe' cenno nessuno, ma nel guardarla le sue pupille nere
brillarono fugacemente d'una fiamma viva. La cortigiana sorrise in un
certo modo ed occhieggiò essa pure con una speciale significazione che
Gian-Luigi comprese.

— Sono qua, voleva essa dire, lavoro tuttavia per salvarti, ogni
speranza non è ancora perduta.

Egli s'avanzò con passo tranquillo, senza braveria, fino al suo posto,
fece un piccol cenno di saluto e d'incoraggiamento cogli occhi a
Maddalena, il cui volto alla vista di lui s'era tutto illuminato, e tese
una mano alla sua vecchia nutrice chiamandola affettuosamente per nome.

Margherita appena aveva visto entrare il suo diletto figliuolo, aveva
mandato un'esclamazione soffocata ed era stata assalita da un tremito
universale. Sarebbe corsa incontro a lui a gettarglisi nelle braccia, se
avesse osato e se glie ne fossero bastate le forze. Lo guardava, lo
guardava e gli occhi le si empivan di lagrime, e tremava sempre più.
Quando egli le fu dinanzi e le tese la mano, ella ruppe in singhiozzi, e
presa quella destra la baciò con trasporto.

— Oh mio Giannino!... oh mio Giannino! balbettò fra i singulti.

— Coraggio, madre! le disse amorevolmente Gian-Luigi.

Sentirsi dare questo nome di madre dal suo caro era sempre per la
poveretta una gioia ineffabile. In tal punto ciò pose il colmo alla sua
commozione.

— Ah! se questi signori lo permettessero, disse ella accennando i
carabinieri, e se tu non te ne vergognassi, vorrei pure abbracciarti.

Quercia le regalò il più amorevole de' suoi gentili sorrisi; poi si
curvò su di lei, le prese il capo fra le mani e le stampò un bacio sulla
fronte; essa, la povera vecchia, gittò le sue magre braccia al collo del
giovane e lo baciò replicatamente, piangendo. Questa scena destò
un'universale commozione.

E questa non era ancora dileguata del tutto, quando un'altra circostanza
avvenne che suscitò una impressione di ben diverso genere. In mezzo a
due carabinieri anche lui, fu introdotto e condotto a sedere al banco
dei testimoni un vecchio, piccolo, curvo, d'aspetto miserabile e sporco,
di andatura esitante ed obliqua; era il complice propalatore, al quale
(secondo l'uso di que' tempi) in premio delle sue rivelazioni era stata
concessa l'impunità: Jacob Arom il rigattiere.

Entrò egli cogli occhi bassi, timoroso ed incerto; solo un istante
sollevò le ciglia e saettò una guardata viperina al posto dov'era il
_medichino_. Questi s'era seduto tranquillamente, senza fare la menoma
attenzione agli altri coaccusati che si trovavano su quei medesimi
banchi, precisamente come se non esistessero, nè questi avevano mostrato
di badare a lui in alcuna maniera, fuori di _Graffigna_ che essendo più
vicino al posto dove aveva da sedere il _medichino_, s'era, quasi per
omaggio di rispetto, tirato più in là per lasciargliene maggior luogo;
per il che Quercia, in mezzo agl'imputati, stava, come per una nuova
distinzione, con una certa distanza isolato dagli altri, a cui non fu
mai ch'egli volgesse una parola, un cenno, uno sguardo soltanto.

Al passargli di _Macobaro_ dinanzi, Gian-Luigi, senz'affettazione, ma
con evidentissima espressione di profondo disprezzo e di schifo, volse
il capo dall'altra parte per non vederlo; ma saettarono il vecchio
rigattiere di sguardi micidialissimi gli altri imputati, e
principalmente _Graffigna_, il quale fece colla mano un cenno pieno di
minaccia. Anche nel pubblico, e specialmente in quella parte dove
entrava chi volesse, si levò un susurro che poteva dirsi di
riprovazione. _Macobaro_ si confuse ancora di più, e parve rannicchiarsi
all'estremità di quel banco dove egli fu condotto; ma poco stante ogni
rumore cessò, perchè gli uscieri imposero silenzio, ed entrarono a
prender seggio i magistrati.

Io non istarò ad annoiare i lettori coll'esposizione di tutto il
dibattimento del processo, delle requisitorie del fisco, e delle difese
degli avvocati. Sono cose oramai che si conoscono da tutti; e i fatti
che importano al nostro racconto e che vennero in quel dibattito
appurati, si videro man mano avvenire. Solo dirò che la quantità dei
testimoni, il numero degl'incidenti, la rilevanza delle quistioni
sollevate e dibattute fra il fisco e la difesa, fecero prolungare il
processo oltre le quindici sedute; che le due prime furono tutte spese
nella lettura del lunghissimo atto d'accusa, in cui erano consegnati
tutti i risultamenti ottenuti dalle propalazioni di Arom, dalle
rivelazioni poi disconfessate di Marcaccio, dalle ingenue confessioni di
Andrea, dalle indagini della Polizia; che tutte le volte fu grandissimo
il numero degli spettatori e fra questi delle donne, prima sempre la
Zoe; che fra i testimoni comparvero di nostra conoscenza Barnaba,
Bancone, Fra Bonaventura e Giacomo Benda. La giustizia, che non ha
pietà, aveva citato anche la povera Maria: e farla comparire alla
vergogna di tal pubblicità sarebbe stato un'ucciderla addirittura, la
infelice ragazza; ma Virginia avevale risparmiato questa prova mercè
l'autorevole intervento dello zio il marchese. Anche quest'ultimo era
stato sentito per ciò che era accaduto al letto di Nariccia; ma non si
era all'autorevolissimo personaggio dato il carico ed il disturbo d'una
comparsa in pubblico.

Solamente di quel processo riferirò l'interrogatorio del _medichino_, e
la tragedia che seguì la lettura della sentenza.

Il _medichino_, come il più importante degli accusati, fu fatto levare
in piedi pel primo, e il Presidente cominciò ad interrogarlo così:

— Il vostro nome?

Un gran silenzio s'era fatto nella sala, non si sentiva una mosca a
volare, e tutti gli sguardi erano intenti sulla bella figura del giovane
inquisito: questi con quel suo contegno di sicurezza, con quell'aria di
superiorità piena di degnazione che gli erano abituali, rispose colla
sua voce limpida e chiara tre parole che suonarono, in quel silenzio
come un accordo musicale:

— Non ho nome.

— Voi foste registrato nei libri dell'Ospizio con quello di Giovanni
Venturino, e con esso dato ad allevare alla donna Margherita Coppa; ora
vi facevate chiamare in società Luigi Quercia.

L'accusato guardò fiso il Presidente, come per dire: «non ci ho nulla da
contestare:» e si tacque.

— Perchè vi siete voi fabbricato un nuovo nome?

— Perchè così mi piacque.

— Credevate voi avere il diritto di cambiarvi nome ed attribuirvi
qualità a vostro capriccio?

— Lo credo sicuro. Gli uomini s'erano arrogato quello di stamparmi col
nome che mi avevano imposto una nota di vergogna per tutta la vita: io
me ne volli liberare. Il nome di Luigi era quello del mio benefattore,
medico al villaggio dove fui allevato, e lo presi in memoria di lui:
quello di Quercia lo scelsi come impresa del mio avvenire, come
programma di resistenza della mia volontà, ai colpi del destino nella
lotta della vita.

— Riconoscete voi dunque che avete affermato il falso alla famiglia
Benda, quando vi siete vantato d'una origine misteriosa, di segreta
parentela con famiglie di riguardo, e che sono falsi i documenti che
presentaste in sostegno delle vostre parole e che abbiamo qui dinanzi?

L'accusato levò la fronte e guardò intorno con dignitosa fierezza.

— Che io abbia detto il falso, la misera logica degli argomenti umani
sembra provarlo, che poi sia così realmente è un'altra cosa.

Il suo aspetto era cotanto nobile che nell'uditorio non vi fu forse una
persona in quel momento che non gli attribuisse quelle illustri,
misteriose origini, ond'egli s'era vantato.

— E la sua età? domandò dopo un istante il Presidente, passando senza
accorgersene a trattarlo col Lei.

— So di avere venticinque anni; ma non ho documento nessuno di fede di
nascita.

— Perchè si spacciava Ella per medico?

— Per omaggio eziandio al mio protettore che fu tale e desiderò ch'io
pure lo divenissi: perchè ho studiato la scienza della medicina, e senza
aver ottenuto diplomi di laurea credo saperne più di tanti che
acquistarono dall'Università il diritto di ammazzare il loro prossimo
impunemente.

Un'ilarità generale scoppiò nell'uditorio, e i giudici medesimi
sorrisero.

Il Presidente riprese dopo un poco:

— Ella conosceva da molto tempo il signor Nariccia?

L'accusato non rispose subito: tutti gli occhi erano con più intentività
che mai fissi sul volto di lui, il quale non ebbe pure il menomo cenno
d'una anche lievissima emozione.

— Mi permetta, signor Presidente, alcune parole ancora intorno al mio
nome ed all'esser mio, disse l'inquisito: e il Magistrato avendo fatto
un cenno di consenso, egli continuò. La povera donna che mi fu nutrice
trovasi accusata di falsa testimonianza per avere dato di me quelle
informazioni che ho ammesso poc'anzi trovarsi false innanzi alle
apparenze de' fatti. Dichiaro solennemente che la misera vecchia non può
essere tenuta imputabile di ciò. Ella mi ama d'un amore maggiore di
quello d'una madre; ella per me farebbe qualunque cosa; qualsiasi
maggior sacrifizio le domandassi, la vi si acconcerebbe; la sua volontà
è una molle cera in mano della mia. Ora io le avevo imposto, se
interrogata sul mio conto, di rispondere quel ch'ella disse. Coll'anima
padroneggiata dal tanto affetto, colla mente indebolita dalla vecchiaia
e dai patimenti d'una vita di miseria, ignara affatto delle cose del
mondo e delle leggi, come ritenerla in colpa di questo suo fatto?
Dichiaro poi altamente che nel mio tentativo d'evasione la buona
Margherita non vi ebbe parte di sorta e non n'ebbe pure sentore
nessuno...

Il Presidente lo interruppe.

— Ciò verrà più opportuno quando saremo a quel punto del processo; e
riguardo all'inquisita Margherita Coppa, il magistrato apprezzerà questa
dichiarazione ora da Lei fatta. Veniamo a noi..... e risponda alla
domanda che le ho diretta: s'Ella conoscesse da molto tempo il signor
Nariccia.

— Risponderò con un'altra dichiarazione, la quale penso non torni nuova
al Magistrato, essendo la medesima ch'io feci nell'istruttoria segreta,
dove assunsi il contegno da cui non intendo ora dipartirmi.

Nell'uditorio vi fu un movimento che indicava accresciuta ancora la
tanta attenzione con cui si ascoltavano le parole dell'imputato.

Questi pronunciò lentamente, con parola chiara e spiccata:

— Non dirò pure una parola che riguardi il processo e i tanti capi
d'accusa che si affacciano contro di me e i miei coimputati. Per
rispondere converrebbe ch'io volessi o difendere la mia innocenza e la
mia vita, o coadiuvare la giustizia nella ricerca della verità; ora io
non voglio nè l'una cosa, nè l'altra. Della mia sorte non mi curo e
l'abbandono al caso; nella ricerca del vero vo' lasciare che la
giustizia se la districhi da sè colla facilità dell'errore.

Il Presidente lo interruppe con tono di rampogna, riprendendo, nel
parlargli, il voi.

— Questa è una nuova colpa. Avete il dovere di rischiarare nelle sue
indagini la giustizia.

— Cotal dovere io non me lo sento per nulla.

— Lo avete pei vostri complici.....

— Non ammetto d'aver complici.

— Vuol dire che negate.

— Nè nego, nè affermo: mi taccio.

Il Presidente gli fece una severa ammonizione che l'inquisito ascoltò
freddamente.

— Signore, diss'egli poi, quando il Magistrato ebbe finito, le sue
parole non mi faranno uscire dalla determinazione che ho presa. Se
fossimo ancora ai beati tempi della tortura, non varrebbero a farmi
parlare neanche i più fieri tormenti.

Non ci fu verso a smuoverne il fatto proposito; _Stracciaferro_ e
_Graffigna_ ne imitarono l'esempio; gli altri si confusero nelle loro
risposte; Pelone riprese per suo conto quelle confessioni che Marcaccio
aveva ritrattate; Maddalena pose una strana audacia a compromettersi pel
_medichino_; Andrea, come già aveva fatto nell'istruttoria segreta,
disse tutta la verità di quanto lo riguardava. Così esplicite poi furono
le deposizioni testimoniali, così eloquenti i corpi del delitto
sequestrati che provavano un'infinita quantità di furti e di assassinii,
così precise le rivelazioni di _Macobaro_ che niuno poteva conservare il
menomo dubbio sull'esito che la sentenza avrebbe dato al processo.

Contro _Macobaro_ non avevano cessato gl'inquisiti di saettare sguardi
feroci d'odio e di minaccia. Certo le lunghe ore di seduta di quei
dibattimenti dovettero essere per quel vecchio una sequela di tormenti
indicibili; ma il pensiero della vendetta lo sosteneva, e poi messosi
una volta per quella strada, bisognava bene andarne fino al termine.

Si chiusero alla fine i dibattimenti. Il Pubblico Ministero tuonò contro
i rei e ricordando lo spavento generato nella cittadinanza da
quell'audacissima schiera d'assassini, l'empietà e la barbarie di tanti
e sì frequenti reati, invocò tutto il rigor delle leggi e chiamò la pena
di morte pel _medichino_, per _Stracciaferro_, per _Graffigna_, per
Marcaccio e per altri due accusati di cui il nome non rileva; per gli
altri inquisiti varii gradi di pena dai lavori forzati a vita fino ai
cinque anni di reclusione. Gli avvocati difensori s'industriarono se non
a purgare d'ogni taccia i loro clienti (chè la cosa era impossibile) di
mostrarne almeno minore di quel che volesse il fisco la colpabilità.

Udito tutti, il Presidente fece il riassunto di tutti i dibattimenti
avvenuti, e poi, levando la seduta, annunziò che nell'udienza del giorno
di poi sarebbe stata letta la sentenza che nell'intervallo il Magistrato
avrebbe pronunziata.

L'assemblea si sciolse con quel mormorio speciale che è indizio di
commozione delle masse: il domani una folla più fitta che mai si stipava
nella sala dell'udienza, nel vestibolo precedente, nella gradinata,
nell'atrio, fino nella strada. Un maggiore susurro regnava nella sala,
sintomo d'agitazione promossa dalla curiosità d'impazienza ansiosa
nell'aspettazione. Il rumore non cessò, anzi s'accrebbe quando furono
visti entrare gli accusati. Alcuni notarono che il _medichino_ era un
po' più pallido del solito; ma la sua fisionomia era calma e l'aspetto
sicuro come sempre. Avreste detto ch'egli veniva spettatore di cosa che
riguardava tutt'altri da lui. Gli altri delinquenti avevano tutti
l'aspetto turbato ed ansioso, eccetto _Stracciaferro_ che conservava la
solita aria ferocemente stupida e _Graffigna_ la sua maliziosa figura di
volpe. Il bettoliere Pelone era di color verde, il suo cranio
giallognolo luceva di sudore che vi spuntava a goccioline, e i suoi
occhi infossati si giravano intorno con uno sbigottimento profondo;
Andrea era abbattuto e privo di ogni vigore; Marcaccio per contro
ostentava un'animazione, una specie di gaiezza che era troppa per
apparir naturale e che si vedeva effetto della inquietudine la più viva;
egli non poteva star fermo, le mani sue brancicavano sull'assicella
superiore della barriera che aveva dinanzi a sè, volgeva atti e sguardi
e sorrisi a' suoi compagni, e il carabiniere che gli stava presso non
cessava dall'ammonirlo a tenersi tranquillo. Un osservatore avrebbe
fatto attenzione a certi sguardi che a questo carabiniere che gli era
allato gettava Marcaccio: erano sguardi che parevano misurarne la forza,
esaminarne la risoluzione e il coraggio; e ad ogni volta lo squadrasse a
quel modo, vedendo la robusta complessione e l'aspetto ardimentoso di
quel difensore della legge, Marcaccio non poteva nascondere certi segni
di contrarietà e di disappunto.

Jacob Arom, condotto anche lui ad udire la lettura della sentenza,
poichè ancor egli era fra gli inquisiti e solo aveva da esser salvo per
le fatte propalazioni, era più pallido, più confuso, più tremante che
mai e si sarebbe detto ch'egli, il quale aveva l'impunità assicurata,
era quello che più di ogni altro era occupato dallo spavento. Più feroci
che mai lo saettavano gli sguardi dei suoi complici, cui egli non osava
affrontare, tenendo gli occhi continuamente fissi al suolo; e più d'uno
tendendo verso di lui il pugno chiuso, gli faceva atti di minaccia e gli
lanciava imprecazioni e bestemmie.

Un gran silenzio si fece quando la Corte entrò e prese posto, quando il
segretario si levò in piedi e cominciò con la voce grave e monotona la
lettura della sentenza. Questa dopo le relative considerazioni per cui
venivano poste in sodo le risultanze del processo e le varie colpabilità
degli imputati, passando alla parte dispositiva, condannava, dei
personaggi del nostro dramma, tre alla pena di morte: Giovanni Venturino
sedicentesi Luigi Quercia e sopranominato il _medichino_; Michele Luponi
detto _Stracciaferro_; e Giocondo _Graffigna_. Marcaccio era condannato
alla galera in vita; Pelone a dieci anni di lavori forzati; Andrea a
dieci anni di reclusione; Maddalena a cinque anni; Margherita era
assolta.

I condannati all'estremo supplizio non fecero il menomo movimento;
Quercia solamente sorrise col suo modo superbo e slanciò uno sguardo
alla Zoe, la quale era là, innanzi a lui, al suo solito posto. Con
quello sguardo egli le diceva: «Bada che ora mi occorre un ultimo
servizio e conto su di te.» La _Leggera_ gli rispose con uno che
significava: «Non ismarrirti. Tutto può ancora rimediarsi: io non ti
mancherò, e sarai salvo.»

La vecchia Margherita a sentire quella tremenda parola di =morte= mandò
un gemito e tendendo le braccia verso il suo Giannino che le stava
dinanzi:

— Oh figliuol mio! esclamò.

Il _medichino_ le si volse mestamente sorridente e con tono di pietà e
d'autorità insieme le disse:

— Calmati; taci; non isgomentarti.

Passato il fremito della prima impressione prodotta nell'affollato
uditorio da quella sentenza di cui pure già s'aspettavano quali erano le
disposizioni, il Presidente si volse ai condannati e disse loro se
avevano qualche cosa da dire.

Il _medichino_ fece come se nulla avesse udito; ma _Stracciaferro_,
_Graffigna_ e Marcaccio si drizzarono tutti tre di scatto.

— Abbiamo da dire, gridò Marcaccio con voce stentorea, ma che un pochino
tremava, che qualcheduno l'ha da pagare..... e subito!

Ciò dicendo si slanciò sul carabiniere che aveva presso e lo afferrò
alla gola: nel medesimo tempo _Graffigna_ e _Stracciaferro_ scavalcavano
la barriera, quest'ultimo si gettava addosso al secondo carabiniere che
trovavasi all'altro capo del banco; e _Graffigna_ sgusciava, agile e
pronto com'era, verso _Macobaro_.

Successe un momento di confusione indescrivibile. L'uditorio spaventato
credette vedere tutta quella massa di malfattori precipitarsi sopra di
esso per aprirsi fra di lui un passaggio alla fuga: gli uomini si
levarono, le donne strillarono e minacciarono svenire: si fece ressa
alla porta per iscappare. I carabinieri così aggrediti, frattanto, non
potevano far uso delle armi, perchè stretti corpo a corpo dai loro
robusti avversari, e i loro compagni non potevano venire in loro aiuto,
perchè, allogati nelle corsie de' banchi, avevano il passo impedito
dalla persona medesima di chi si trattava di soccorrere, ed inoltre
avevano da tener d'occhio gli altri condannati cui temevano veder
levarsi ancor essi ed assalirli.

Ma non era tanto la libertà che volevano ottenere i tre assassini
insortisi a quel modo, quanto la vendetta contro il complice traditore.
Non ostante la sorveglianza dei carabinieri, che dovevano impedire ogni
comunicazione fra gl'inquisiti, essi, mercè sguardi, cenni, ammicchi e
qualche mezza parola, avevano ordita la congiura, ed era stato
_Graffigna_ ad immaginarla, per vendicarsi di _Macobaro_ il giorno e il
momento medesimo in cui sarebbe loro stata letta la sentenza.
_Stracciaferro_ e Marcaccio, poderosi di membra com'erano, dovevano
contenere i due carabinieri più prossimi, e _Graffigna_ lesto saltare
sul traditore e strozzarlo. Il programma fu eseguito alla lettera. In
mezzo a quel tumulto che ne nacque fu udito ad un punto un grido di
spavento indicibile, poi un rantolo: _Graffigna_ aveva preso alla gola
il vecchio rigattiere e colle sue mani nervose, piantandogli le unghie
entro la carne, lo stringeva con una forza che l'odio accresceva a più
doppi. Livida diventava la faccia del miserabile, gli occhi fattisi
pieni di sangue gli uscivano dalle orbite, le vene della fronte si
gonfiavano e parevano corde tese prossime a rompersi, un'espressione
orribile di sbigottimento, di dolore, di agonia contraeva quei
lineamenti convulsi, le mani adunche si agitavano nel vuoto, come per
domandare aiuto, come quelle del naufrago che cercano abbrancarsi a
qualche cosa. Un carabiniere potè finalmente arrivare in soccorso di
Arom e fece a trarre in là l'assassino che si abbandonava con tutto il
suo peso sopra la vittima, e non riuscendovi per quanto forti strappate
gli desse, si pose a percuoterlo sulla testa col calcio della pistola;
in quel frattempo s'udì un colpo di arma da fuoco, ed un corpo
sanguinoso fu visto strammazzare nello spazio vuoto a metà della sala.
Era Marcaccio. Il carabiniere da lui afferrato alla gola, vedendo non
poter aver ragione del suo assalitore, e già sentendosi mancare il
fiato, aveva lasciato andare la carabina di cui non poteva servirsi in
quel serra serra, e toltasi di dietro le falde della montura una delle
pistole che vi portava appese, ne aveva appoggiata la bocca alla nuca
del condannato colla direzione volta in su, ed aveva sparato; la palla,
traversato il cervello ed il cranio di Marcaccio, era andata ad
allogarsi su in un trave del soffitto. _Stracciaferro_, più forte, aveva
impedito al carabiniere su cui egli s'era gettato, di far uso delle
armi, ed avendolo steso a terra mezzo soffocato, erasi impadronito della
carabina e si levava su terribile colla baionetta inarcata contro gli
altri carabinieri, che riusciti a districarsi dagl'impacci, stavano per
lanciarsi contro di lui.

Tutto accennava ad una sanguinosa, orribil lotta. Ad un tratto suonò là
in mezzo una voce sonora, chiara, imperiosa, potente:

— Alto là!... Abbasso quell'arma, _Stracciaferro_!... Fermi tutti, per
Dio!

Era il _medichino_. Egli era rimasto sino allora tranquillamente seduto
al suo posto, guardando con una specie di meraviglia curiosa il fatto
dei suoi complici, delle cui intenzioni non era stato istruito. La
tentazione gli venne un momento di cacciarsi ancor egli in quello
sbaraglio.

— Bene! Aveva pensato. Strappiamo le armi a codestoro, e riconquistiamo
la libertà, o facciamoci uccidere.

Ma quando si levò guardando coll'occhio freddo dell'uomo che sa dominare
il pericolo, quella specie di campo di battaglia, vide due cose che gli
fecero cambiar di presente la sua determinazione. Vide le donne
spaventate in mezzo all'uditorio, e la Zoe medesima, che, nonostante
tutta la sua risolutezza, pareva prossima a svenire: questa vista, che
un tempo non l'avrebbe trattenuto di certo da nulla ch'egli avesse
deciso di fare, ora bastò a produrgli una riazione nei suoi propositi.
Sentiva l'obbligo di essere più nobile e più generoso che per l'innanzi;
ascoltava con più cedevolezza i subiti impulsi del suo sangue illustre,
di cui voleva esser degno oramai innanzi a sè medesimo.

— Morire io, si disse, e morire questi scellerati miei compagni, sta
bene; ma perchè la nostra morte avrebbe da costare quella di onesti e di
innocenti?

In quella vide altresì la faccia sconvolta del padre della povera Ester,
e gli parve che uno sguardo di quegli occhi, i quali parevano sul punto
di schizzar fuori delle orbite, si rivolgesse e posasse su di lui, pieno
di mortale rancore, di implacabile accusa e rampogna. Si sentì una
commozione che non aveva provato mai; credette vedere i lineamenti del
vecchio rigattiere, contratti dallo spasimo dell'agonia, cambiarsi in
quelli di sua figlia annegata ch'egli aveva visti irrigiditi dalla
morte. Un qualche cosa di nuovo che pareva un rimorso, che si accostava
ad un pentimento della sua condotta ne assalì l'animo. Credette suo
massimo dovere impedire che _Graffigna_ potesse consumare su quel
vecchio il suo orribil proposito di vendetta. Si gettò dunque in mezzo
la sala, gettando colla sua voce fatta per dominare il tumulto come le
volontà umane quel cenno di comando.

_Stracciaferro_, richiamato da quella voce all'ubbidienza passiva che il
suo capo aveva saputo imporgli coll'autorità morale ed anche colla
superiorità fisica del coraggio e della forza accompagnata dall'agilità,
come ci avvenne di vedere, guardò senza nemmanco stupore nessuno il suo
capo come per discernere se quello era proprio il suo comando, vide un
gesto risoluto che confermava le parole, e senz'altro lasciò cader
l'arma e s'incrociò le braccia, lasciandosi afferrare e legare dai
quattro carabinieri che gli furono addosso; Marcaccio era caduto morto;
gli altri condannati, non preavvisati, all'inatteso fatto erano rimasti
incerti e quando parvero decidersi a secondare la mossa dei tre primi,
gli agenti della pubblica forza erano già in contegno ed in numero da
tostamente opprimerli; _Graffigna_ percosso sul capo non abbandonò pur
tuttavia il collo di _Macobaro_ finchè non sentì l'ultimo rantolo uscire
da quella gola ch'ei serrava, finchè non vide spento l'ultimo raggio da
quegli occhi che venivan fuori della testa, finchè non s'accorse di
sostenere, colle sue mani omicide, un cadavere; allora lo abbandonò, e
il misero strangolato cadde strammazzoni per terra come un sacco di
cenci.

— Ora egli ha avuto il fatto suo: disse con maligno trionfo la voce
sottile dell'omiciattolo, della quale appena se ora rimaneva un filo:
ora nè anco il diavolo può più tornarlo in vita.

E barcollando sotto il dolore delle percosse ricevute sul capo, venne
tranquillamente presso il _medichino_, al cui comando pareva così
obbedire ancor egli, e là si lasciò, senza il menomo contrasto,
ammanettare.

Tutti i condannati furono legati, eccetto Gian-Luigi. Quando gli si
accostarono per mettere le manette anche a lui, quell'individuo
straordinario li guardò in un certo modo, che, senza pur dire una
parola, gli agenti della forza pubblica se ne rimasero e si contentarono
di dirgli, quasi con rispetto:

— La venga.

Il _medichino_, colla sua solita aria di superiorità imponente, prima di
muoversi volse uno sguardo verso i due caduti.

— Quegli uomini? domandò egli.

— Morti tuttedue: gli fu risposto.

Egli guardò un momento il cadavere di Jacob Arom, la cui figura,
contratta dallo spasimo di quella morte tormentosa e violenta, era
orribile a vedersi, e mandò un sospiro che pareva un rincrescimento, una
pena, un rimpianto.

— La è finita anche per lui... Mormorò: forse gli è meglio.

— Giannino! Giannino! esclamò in quella debolmente ma con infinita
passione una voce soffocata e piena di lagrime.

Il _medichino_ si volse e vide tese verso di sè le secche mani
tremolanti della povera vecchia Margherita, cui trattenevano dal
gettarsi addosso al suo diletto.

Gian-Luigi le si accostò.

— Mia buona Margherita! diss'egli: madre mia!

Ed usò in queste parole il più melodioso e dolce suono di quella sua
voce incantatrice. Poscia volgendosi ai carabinieri:

— Permettete, disse, che questa buona donna mi abbracci.

I carabinieri la lasciarono, e Margherita gettò al collo del giovane con
mossa piena di passione le sue braccia magre e stecchite.

— Oh mio figlio!... Mio povero figlio... Oh figliuol mio!

Non seppe dire altre parole; ma quanto affetto, quanto dolore, quanto
trasporto contenevansi in questi pochi accenti!

— Addio madre mia! le disse il condannato, rispondendo con alcuni suoi
ai tanti baci ond'ella copriva la fronte, le guancie, gli occhi del
giovane. Noi non ci vedremo forse più... Abbi coraggio: la vita, vedi,
non è per nessuno, e fu meno ancora per me tal cosa che si debba
rimpiangere. Sii tu benedetta ad ogni modo per le tante cure che avesti
di me, e pel tanto amore che mi porti. Anche quando sarò passato da
questa miserabile scena del mondo, tu ti ricorderai di me, ed è questo
l'unico modo con cui possa un uomo sopravvivere alla morte.

Quest'ultima parola colpì la povera donna che di tutto il resto non
pareva comprender nulla.

— La morte! la morte! esclamò ella. Questo è impossibile..... Tu non
puoi morire, tu non devi morire..... Hanno bisogno d'una vita? Prendano
la mia..... Io sono vecchia..... Ma tu che sei sì giovane, sì
robusto..... sì bello..... No, no, non è possibile..... È una cosa che
grida vendetta.

Qui i carabinieri s'intromisero.

— Or via, è tempo di finirla. Voi, buona donna, siete libera; e il
condannato ha da venire con noi.

— Calmati, Margherita: disse allora Gian-Luigi. Torna nel tuo villaggio
e consolati colla religione... tu che così puoi. La speranza è tutto ciò
che ha di più felice l'uomo; e tu vivi nella speranza che ci rivedremo
un giorno.

Accompagnò queste parole con un sorriso che indicava quanto fosse
lontana da lui una simile speranza, ma cui fortunatamente la vecchia non
comprese; poi si sciolse con dolcezza dall'abbraccio della donna e si
voltò ad un'altra che faceva per avvicinarglisi ancor essa con viva
mostra d'immenso desiderio.

— Addio anche a te, Maddalena: le disse: t'ho tratta meco nel
precipizio; ma tu mi perdoni.

— Ti amo! rispose con una specie d'entusiasmo la popolana. Ti ho giurato
tante volte che avrei data la vita per te..... Oh potessi darla mille
volte per salvarti!...

Il _medichino_ ringraziò con un amoroso sorriso e s'avviò con passo
fermo verso l'uscita. Quando fu per varcar la soglia di quella, si fermò
un istante e voltandosi indietro gettò uno sguardo sulla scena che stava
per abbandonare.

Somma era tuttavia la confusione. Gli spettatori non si partivano, ma
dritti in piedi, agitati, raccolti a gruppi tumultuanti discorrevano,
gestivano, pascevano cogli occhi desiosi la curiosità di quello
spettacolo di sangue: i giudici s'erano ritratti; intorno ai cadaveri di
Marcaccio e di _Macobaro_ si curvavano uomini dell'arte medica, chiamati
lì per lì ad esaminarli; i condannati, chi colle sembianze abbattute,
chi indifferente, chi feroce, stavano serrati in un cerchio di ferro in
mezzo alle baionette dei carabinieri, che li circondavano. Gian-Luigi
scorse collo sguardo tutto ciò, e poi fissò un momento i suoi occhi in
un punto, e le sue pupille brillarono con più viva e speciale
significazione. Guardò la Zoe, che stava china sul suo banco, intenta
tutta a lui a seguirne ogni mossa, parlandogli coll'anima traverso gli
occhi.

— Conto su di te: disse quella suprema occhiata di Gian-Luigi.

— Non dubitare: rispose la nera pupilla della cortigiana: io non ti
mancherò.

Il _medichino_ fu ricondotto in carcere; e un quarto d'ora dopo udì egli
aprirsi i catenacci della sua porta, e vide entrargli nella segreta un
uomo.

Era Barnaba.

Que' due uomini stettero un poco a fronte l'un dell'altro, guardandosi
senza parlare.

Fu il _medichino_ che ruppe di poi il silenzio.

— Siete stato di parola: diss'egli con accento in cui suonavano insieme
una specie di superiorità indifferente, d'ironia e di superbia. Sono
condannato, e voi siete venuto.

Il poliziotto rispose con voce sorda:

— Sono sempre di parola. Quando prometto a me stesso o ad altrui di
ottenere una cosa, ci arrivo, o soccombo.

Ebbe luogo di nuovo un istante di silenzio.

Que' due evidentemente si studiavano, come fanno due lottatori, prima di
venire alle mani.

— Voi dunque avete vinto, e compiutamente vinto: riprese a dire il
condannato. Su di me fu pronunziata la sentenza di morte. E voi siete
venuto qui per null'altro che per godere della dolcezza feroce del
vostro trionfo.

— Forse! disse Barnaba con un ghiacciato sorriso. E voi, desiderando
vedermi, qual è la vostra intenzione?

Gian-Luigi affondò i suoi occhi penetranti in quelli del suo
interlocutore e rispose lentamente:

— Quello di cercare un perchè.

— Quale?

— Il perchè del vostro accanimento a mio riguardo.

Barnaba continuò a sorridere di quel suo modo.

— È facilissimo a capirsi: voi siete la lepre, io sono il segugio.

— Una lepre! proruppe il _medichino_, e la sua voce vibrò: vi pare?...
Ma accettando anche l'infelicità di questo paragone, fra il lepre ed il
cane v'è antipatia di razza; e fra noi c'è comunanza di origine. D'onde
uscite voi? Di certo da quella plebe ch'io mi sdegnai di veder preda
senza rimedio alla miseria.

Il volto del poliziotto, che di solito non aveva mai espressione veruna
e sapeva nascondere ogni sensazione dell'animo sotto una maschera
immutabile d'apatia, per caso straordinario, si rimbrunì e lasciò
scorgere una traccia di amarezza come di un antico dolore.

— Sì: diss'egli: voi avete detto il vero. Io esco proprio dalla più
infima plebe, dal fango della piazza pubblica. Da chi nasco? Non lo so.
Non so nemmanco se son frutto d'un legittimo matrimonio o d'una fortuita
unione prodotta dall'amore o dal vizio. Mi ricordo vagamente d'un tempo
lontano lontano, nei miei primi anni, che vivevo con un uomo e con una
donna che si battevano fra di loro e battevano me. Erano mio padre e mia
madre?... Forse!... Conobbi il benefizio del loro amore dalle percosse e
dalla fame. Un bel giorno mi abbandonarono sopra una strada. Fui
raccattato piangente ed affamato da un saltimbanco. Orrori d'ogni fatta
videro la mia adolescenza e la mia giovinezza. Non avevo nulla di mio,
nè anco una fede di battesimo. Mi si addestrò colle percosse a far
ridere il pubblico; per molti e molti anni, non fui più che
_Pagliaccio_. Ecco la mia origine, ecco la mia vita, ecco ciò che mi
diede, ciò che fece per me questa società ch'io ora difendo, e non senza
merito mi pare.

Amarissima era, nel dir queste parole, l'ironia del suo accento e del
suo sogghigno.

Gian-Luigi stette un istante considerandolo in silenzio.

— Strano! Strano! Pensava egli frattanto. Costui, nato di miserabili,
doveva mettersi a difendere quell'ordine sociale, dal cui sovvertimento
i pari suoi non hanno che da guadagnare; mentre io doveva assalire e
minacciare quelle istituzioni che fanno la grandezza e la superiorità
del ceto da cui ho avuto origine. È un gran burlone il caso!

— E dunque, diss'egli poscia ad alta voce, siete soddisfatto della
vostra parte, e dei risultamenti dell'opera vostra? Non vi è mai venuto
in mente il pensiero che avreste fatto meglio per vostro interesse e per
la verità delle cose a prender posto nel campo nemico, e recare la
vostra attività, la vostra accortezza e il vostro coraggio a quelli che
ora combattete come avversarii? Supponete che le nostre due abilità si
fossero incontrate, poste d'accordo ed unitesi in uno scopo comune. Oh!
non vi pare che di grandi cose avremmo potuto ottenere?

Barnaba scosse il capo.

— Prendendo una falsa strada, dove volete che si arrivi se non ad un
precipizio?..... E per quella strada della ribellione sociale ho
cominciato ancor io... Anch'io fui un giorno un eslege, posto al bando
dal Codice Penale... Ed io pure pensai allora di gittarmi a capofitto
nella demoniaca baraonda dei ribelli sociali. Sapete che cosa me ne
trattenne? Fu l'odio che avevo contro il mio carnefice il saltimbanco.
Quell'uomo mi aveva non solamente torturato e guasto il corpo, ma
insudiciata, invelenita, adulterata, deturpata l'anima. Ogni fiore di
soave e dilicato affetto che vi spuntasse, egli l'ha inesorabilmente
schiacciato e calpesto. L'uomo in generale ed il povero, il plebeo in
particolare, mi apparve in lui la più trista creatura, un mostro da' più
turpi istinti, dalle più infami tendenze, una belva feroce che doveva
esser domata. L'onestà in me naturale si suscitò nell'orrore che provai
per quell'abbiezione in cui non la mia volontà, ma le circostanze mi
avevano precipitato, per quella scellerata corruzione del volgo che
s'incarnava per me nella persona di quel miserabile. Preferii passare
nella schiera dei domatori che rimanere in quella delle belve. Mi parve
che in ogni scellerato ch'io concorressi a far punire vendicassi ancora
la mia innocenza, la mia infanzia, la mia debolezza conculcate da
quell'iniquo. Non mi sfuggì nessuna delle ingiustizie dell'attuale
società: ma mi domandai spaventato che sarebbe dell'umanità, che sarebbe
del mondo, se un giorno prevalessero mai contro l'ordine stabilito le
scellerate passioni, le rozze nature e i brutali impulsi della plebe. Mi
posi per convinzione e a poco andare per diletto a quell'opera cui avevo
intrapresa dapprima per necessità. L'ardore della lotta e il
soddisfacimento del trionfo si aggiunsero a determinare viemmeglio la
mia vocazione... E chi meglio di voi rappresentò mai il genio del mal
sociale che noi siamo chiamati a combattere?

Il _medichino_ crollò il capo con sulle labbra un sorriso da incredulo.

— Gli è dunque per solo amore del vostro mestiere che voi foste così
implacabile mio cacciatore. È un bel zelo. Ed ora godete del vostro
pieno trionfo. Io sono condannato a morte; e voi siete venuto a gioire
della dolcezza di mirare in volto un uomo che avete tratto fino ai piedi
del patibolo. Non avete più nulla da desiderare nè da operare...

— No: interruppe Barnaba: l'opera mia a vostro riguardo non è ancora
finita. Io sono risponsabile della vostra persona fino all'ultimo. Ho da
consegnarvi _vivo_ alle mani del boia.

Gian-Luigi ebbe un lieve sussulto e lanciò al suo interlocutore uno
sguardo che era una saetta di fuoco; Barnaba lo sostenne immoto.

— Questo pensate che eziandio vi riuscirà; e veramente gli è ora il più
facile.

— Penso che voi tenterete ogni cosa per sottrarvi a quell'onta; ma io
veglierò....

Gian-Luigi ebbe nello sguardo un'espressione di ferocia da sbigottire
chiunque, e nella fronte gli si disegnò la ruga caratteristica del suo
furore.

— Non avete immaginato ch'io vi potrei strozzare qui stesso in questo
momento? diss'egli coi denti stretti.

Barnaba d'un balzo fu all'uscio a cui non si erano tirati i paletti, e
socchiudendolo lasciò vedere che quattro uomini stavano là appostati.

— Vedete se non ci ho pensato! diss'egli rabbattendo di nuovo l'imposta.

— Sta bene! Tutte le carte buone sono nel vostro giuoco. La società è
ben felice d'avere in voi un così previdente ed appassionato difensore.
Vi si darà una _gratificazione_.

Ciò detto il _medichino_ volse le spalle a Barnaba, come per significare
che non aveva nulla più da chiedergli nè da dirgli e che non desiderava
più nulla a lui si chiedesse o si dicesse.

Barnaba tuttavia non si partì; sembrava che alcuna cosa ancora gli
rimanesse da dire, ma fosse di un argomento cui ripugnasse
dall'abbordare.

Gian-Luigi di colpo fu preso da un'idea, che si può dire un
indovinamento. Si ricordò delle lunghe fermate di questo cotale sotto
alle finestre della casa abitata dalla Zoe, e dell'impressione che in
lui aveva creduto notare una volta al nome di quella donna. Gli si voltò
di bel nuovo ad un tratto e gli disse osservandolo bene:

— Voi dunque avete incominciato coll'abbandono dei vostri parenti, per
esser vittima d'un malvagio saltimbanco? È una strana rassomiglianza dei
vostri casi con quelli della celebre cortigiana, la Zoe.

A questo nome un lieve scotimento, un batter di ciglia manifestarono
un'interna impressione; fu mossa lievissima, ma Gian-Luigi la scorse.

— Voi la conoscete? domandò egli.

Barnaba esitò un momento.

— No: rispose poi con voce dimessa.

Stettero in silenzio per un poco ambedue, guardandosi come prima entro
gli occhi: ma questa volta Barnaba dopo alquanto chinò i suoi.

— Quella donna vi ama di molto: diss'egli quindi con una falsa
indifferenza nell'accento.

— Sì: rispose con alquanto d'enfasi il _medichino_.

— So che ha tentato di tutto per salvarvi; e la si lusinga vanamente che
la protezione del suo Principe valga a qualche cosa.

— Per giovarmi quella donna darebbe ogni cosa che possiede, e se
stessa....

Gian-Luigi s'accorse d'un nuovo sussulto di Barnaba tostamente represso.

— Ella s'è rivolta a demoni ed a santi di sicuro.... Mi stupisco che la
non sia venuta a cercare anche di voi.

L'emozione sempre validamente contenuta di Barnaba divenne tuttavia
ancora più visibile.

— No: diss'egli colla voce sorda: da me non è venuta.

— E se ci venisse?

— Ascolterei quello che la mi domanderebbe.

— E fareste?

— Ciò che mi permette il mio dovere.

— Ella desidererà certo vedermi e parlarmi....

— È impossibile.

— Forse la eloquenza di lei, se l'ascoltaste, saprebbe convincervi che
un uomo come voi può eseguire quest'impossibilità senza violare nessuno
dei suoi doveri.

Barnaba non aggiunse verbo, ed accennò ritirarsi.

— E la conclusione del nostro colloquio? gli domandò ironicamente
Gian-Luigi quando era già sulla soglia.

— Nessuna: rispose con tono di trionfo il poliziotto: oppure se vi piace
meglio, che voi siete un'altra volta sconfitto, ed io esco di qua con
una nuova vittoria. Io vi ho letto nell'anima; voi volevate penetrare
nel mio segreto, ed io parto di qua ancora un enimma per voi.

Uscì dopo queste parole.

— Un enimma! mormorò il _medichino_, guardando l'uscio che si era chiuso
dietro di Barnaba. Ne ho ben travisto il motto, ma lasciamogli credere
di no... Ah perchè Zoe ha obliato di rivolgersi a costui?..... Egli era
forse l'uomo da salvarmi.

E la _Leggera_ allora appunto pensava precisamente a riparare
quell'oblio.

Gian-Luigi aveva perfettamente indovinato il pensiero della Zoe: ella,
uscita appena dalla sala in cui aveva udito condannato a morte il suo
amante, s'era messa tosto all'opera per ottenere licenza di poter
parlare col _medichino_. Per prima cosa, come facilmente si può
indovinare, erasi recata dal Principe. Questi, a cui ella di frequente
ricordava la fattale promessa, la qual cosa cominciava ad essergli
uggiosa, l'accolse e le rispose colle mostre dell'impazienza e del
fastidio; al che la non troppo mite natura della cortigiana contrappose
lo sdegno e la minaccia. Badasse bene S. A. R. a non dimenticare il
giuramento che a lei aveva fatto, imperocchè se fosse per mancarci mai,
ella era tal donna da farne pagare al traditore, tuttochè principe, il
fio. Il Duchino sorrise, e volendosene liberare le diede tutte le
assicurazioni ch'essa volle e la congedò. Ella attese tutto il giorno e
tutta la sera il permesso di visitare il condannato, e non vedendolo
arrivare ed essendo corsa a palazzo per sollecitare, per richiamare
ancora il Principe all'esecuzione della fatta promessa, trovò che S. A.
aveva dato ordine non la si lasciasse più penetrare sino a lui.

Allora si ricordò di Barnaba, e volò alla carcere, domandando di
potergli parlare. Il sotto-ispettore la fece aspettare un quarto d'ora e
poi ordinò la s'introducesse in sua presenza.

La camera in cui la Zoe fu condotta non era illuminata che da una
lucernetta, i cui raggi erano ripercossi in giro da un coprilume.
Barnaba nascondeva la pallidezza della sua faccia nell'ombra che
stendevasi tutt'intorno a quel cerchio di luce riflesso dal cappelletto
della lampada.

— Signore, disse la cortigiana senza esitare, senza preamboli, senza
preparazione veruna, voglio vedere Luigi, e Lei può concedermi questo
favore... Non mi dica di no: lo so: e di ciò la prego, come chi crede
prega Iddio e la Madonna..... Bisogna ch'io lo veda stassera
medesima..... Ci sono mille incombenti da fare per ottenerne
regolarmente licenza... Non ho tempo..... Sono venuta da Lei..... Ella
ci ha fatto tanto male; ci faccia questo po' di bene... Le giuro ch'Ella
non sarà compromessa per nulla..... Nessuno ciò saprà mai..... si tratta
di un condannato a morte... d'un infelice che non ha più che un giorno
da vivere..... Lasci che un'amica, forse la sola che gli è rimasta,
possa recargli alcun conforto... Io glie ne sarò grata eternamente...
Nella mia debolezza di donna ho forse più influsso e potenza che altri
non creda; farò di tutto per esserle utile; qualunque cosa la mi
chiedesse io sarei pronta a fare per Lei.

La _Leggera_ pronunziò tutte queste parole colla foga della passione, e
con una certa impazienza della risposta; quando si tacque, attendendo la
decisione di quell'uomo, ella vide nell'ombra luccicare stranamente gli
occhi di lui ed udì una voce soffocata dirle con un tremore d'emozione:

— Qualunque cosa?..... Ella farebbe qualunque cosa per me?

Zoe era troppo esperta degli uomini per non comprendere tutta la
significazione di quello sguardo e di quell'accento: si trasse indietro
d'un passo, e parve sulla sua fisionomia accennarsi un sentimento
d'indignazione: ma fu un momento fugacissimo soltanto; si riaccostò a
quell'uomo, e levando verso di lui il suo fronte senza pudore,
guardandolo co' suoi occhi di cortigiana, gli disse con impudente
franchezza:

— Faccia Ella quel ch'io voglio; ed io farò quel che vuol Lei.

Barnaba si coprì colla mano gli occhi, come se quello sguardo della
donna gli fosse penoso, e stette un istante in silenzio; quando poi
abbassò la destra disse alla Zoe, schivandone la vista come se avesse
paura di guardarla:

— La sa che l'avvocato difensore è ricorso alla grazia sovrana, e il
_medichino_ avrà forse ancora due giorni di vita?

— Voglio vederlo stassera, subito: esclamò la _Leggera_.

Venne presso presso a lui, gli pose una mano sul braccio, e lo fulminò
colle fiamme più accese del suo sguardo promettitore di voluttà.

— E voglio parlargli da sola a solo: soggiunse abbassando la voce ed
assumendo un tono carezzevole come si farebbe per una confidenza
amorosa.

Un brivido corse per tutte le fibre di Barnaba. Tolse il suo braccio dal
contatto della mano di lei, e si fece in là; atterrò gli occhi e stette
immobile e muto nell'atto di una profonda meditazione.

— Quanto lo ama! pensava egli. Ebbene voglio udire una volta che accenti
ha sulle labbra d'una donna un amore come questo; vo' darmi questo
spasimo, io che non fui, che non sono, che non sarò amato mai!...

— Che cosa mi rispondete? domandò Zoe impaziente.

— Comincierò ad attenere i patti da parte mia: farò quel che volete voi,
e voi vi ricorderete la vostra promessa..... Parlerete da sola col
condannato.

Due minuti dopo, il _medichino_ veniva introdotto in quella stanza dove
la _Leggera_ era rimasta sola; ma Barnaba trovavasi appostato in un
segreto stanzino fatto a bella posta ed in modo che tutto quanto poteva
udirsi di quello che si dicesse nella camera del colloquio anche a
bassissima voce, e tutto pure poteva scorgersi di quanto vi avvenisse
per certi bucherelli con arte nascosti.

Ed ecco ciò che Barnaba vide ed udì.

Il _medichino_ entrò colla sua solita aria di superba indifferenza; ma
appena lasciato solo colla donna, questa gli si gettò al collo con
indicibile espansione d'amore, rompendo in lagrime ed altro non potendo
dire che chiamarlo per nome; e la faccia di lui espresse allora una
riconoscente e commossa tenerezza, mentre con qualche calore rispondeva
agli abbracci di lei.

— Calmati, calmati: diss'egli poi; qui conviene por tosto a profitto il
tempo che ci viene lasciato e che temo pur troppo non sarà lungo. Lo
sapevo che tu avresti compreso il mio sguardo e saresti venuta: lo
sapevo che avresti saputo superare ogni ostacolo.... Tu hai sedotto il
misterioso poliziotto....

— Venni a pregarlo, ed egli accondiscese....

— In esso avevamo uno strumento in nostro vantaggio, e non l'abbiamo
saputo adoperare...... Quell'uomo ha per te una passione tanto più
forte, quanto più è nascosta.

Barnaba nel suo ripostiglio trasalì, strinse i pugni da piantarsi le
unghie nella carne delle palme e si morse le labbra.

— Parliamo di noi, Luigi, parliamo di te.

— Sì: è quello appunto ch'io voglio.... L'hai udita la fatale
parola...... Per me la è finita... Ma ad ogni costo io non vo' salire
l'infame scala dell'infame patibolo, e tu mi ci hai da sottrarre..... Tu
sola lo puoi oramai, e confido in te sola.

— Hai ragione, ed io ti salverò: son venuta apposta per dirtelo.... No,
non credere che tu abbia da morire.... È impossibile. Piuttosto darei
fuoco alla città..... Quel Barnaba mi ama; ebbene me gli venderò a
prezzo della tua fuga.... Il Principe è un infame..... ma pure mi ha
giurato che t'avrebbe salvo..... Andrò a ricordargli il suo giuramento
in mezzo a tutta la Corte.... Andrò a gettarmi ai piedi del Re, ed esso
ti accorderà la grazia....

Il _medichino_ scuoteva tristamente il capo.

— No, diss'egli, la fuga è impossibile, la grazia non la voglio: questa
mia vita è giunta proprio al suo termine, così dev'essere, e così mi
piace che sia. Prima ancora della sentenza dei giudici io mi era
condannato da me medesimo alla morte; ma questa non ha da essere lo
spettacolo d'un volgo feroce, che accorra a bearsi, come ad una festa,
della mia ignominiosa agonia; l'ultimo mio sguardo non ha da fermarsi
sopra una fitta di faccie avidamente tese da una curiosità infame. Vo'
liberarmi da onta siffatta, e sei tu che devi recarmi questa libertà.

Pose le sue labbra sull'orecchio della Zoe, e timoroso che altri potesse
udir mai, le parlò così sommesso che a Barnaba non giunse più che un
bisbiglio confuso: le parlò a lungo, ed ella mostrò orrore, ripugnanza,
parve riluttare, scongiurare; ma all'insistenza calorosa di lui finì per
cedere.

— Ebbene, si lasciò ella sfuggire di poi a voce abbastanza alta da
essere intesa. Se non ti potrò recare la salvezza, farò quello che vuoi.

— Ricordati che di grazia non ne voglio!.... Ti attendo adunque
all'estremo momento... Tu me lo prometti sull'anima tua?

— Te lo giuro.

— Ed io ti benedirò per quell'ultimo bacio.

Zoe gettò le braccia al collo di lui, ed appoggiando il viso al petto
ruppe in pianto, e pianse a lungo disperatamente, mentr'egli con amorose
parole cercava confortarla. Non era più la vile cortigiana, era la donna
che ama. Egli chinò il volto sul capo di lei e le susurrò colla sua voce
incantevole dolcissime parole d'amore. Quella loro mutua, tenera
effusione fu interrotta ad un punto dallo scalpito d'un passo: si
voltarono e videro la scialba figura di Barnaba dritta sulla soglia.

Luigi si sciolse dall'amplesso di Zoe, e disse freddamente:

— Il nostro colloquio ha da esser finito.... Addio e coraggio: è tempo
di separarci.

— Di già? esclamò la donna addolorata; e volgendosi verso Barnaba, gli
domandò: è egli vero? Voi venite a disgiungerci?

Il poliziotto fece gravemente cenno di sì.

— Ma vi lascierete tuttavia impietosire dalle mie preghiere, e ci
concederete ancora un po' di tempo, una mezz'ora solamente, un quarto
d'ora?

Barnaba scosse la testa in segno inesorabilmente negativo.

La _Leggera_ avrebbe forse pregato ancora: ma il _medichino_ non gliel
permise.

— È superfluo insistere: diss'egli vivamente: separiamoci.... E tu, Zoe,
ricorda le mie parole!... Conto assolutamente su di te per l'ultimo
addio, per l'ultimo amplesso!

Pronunziò queste parole con ispeciale espressione, e senza volgere a
Barnaba uno sguardo, nè un cenno, camminò verso l'uscio, dove comparvero
i soliti quattro secondini.

— Sia ricondotto alla sua carcere, comandò il sott'ispettore.

Zoe e Gian-Luigi scambiarono ancora uno sguardo in cui mille cose si
contenevano, e il prigioniero scomparve nell'oscurità del corridoio, in
cui metteva l'uscio di quella stanza. S'udirono per un poco i passi di
lui e de' suoi accompagnatori suonare cupamente sotto le vôlte, poi
tutto ridivenne silenzioso come la tomba.

Barnaba e la Zoe erano di nuovo faccia a faccia e soli in quel silenzio
notturno.

Ambedue avevano ancora qualche cosa da dirsi e capivano che una maggiore
spiegazione era necessaria fra di loro, e provavano una difficoltà
grandissima a trovar le parole.

Fu Barnaba che incominciò. Venne presso alla donna e le disse con voce
sommessa, come se avesse vergogna egli stesso d'udire le sue parole:

— Io feci quel che voleste; a voi ora il mantenere la vostra promessa.

La cortigiana lo guardò con un superbo disdegno.

— Voi volete per un picciol merito un troppo ghiotto compenso.

Ad un tratto cambiò espressione di fisonomia e d'accento, prese
vivamente le mani di Barnaba, le strinse forte, ed accostando a quella
di lui la sua faccia illuminata dal più vivo riflesso d'una fiamma che
parea quella dell'amor sensuale, le sue pupille brillanti d'una luce
diabolicamente affascinante, gli susurrò con tono di violenta passione:

— Salvatemelo..... fatelo fuggire..... ed io vi darò tutte le voluttà
del paradiso... e dell'inferno...

Barnaba chiuse gli occhi per sottrarsi all'ardenza di quella vampa
seduttrice; tutto l'esser suo fu riscosso fino nell'intimo; le guancie
gl'impallidirono per la soverchia emozione. Liberò quasi con isgomento
le sue mani da quelle di lei, e se ne allontanò palpitante senza avere
per un poco fiato e forza a rispondere. Ella accennò voler muovere un
altro assalto e rinnovare la sua tentazione; ed allora egli con un gesto
le comandò si ristesse e con voce commossa, senza guardare verso la
donna, così parlò:

— Codesto è inutile mi domandiate... Non posso acconsentirvi..... e non
voglio..... E voi sarete mia pur nullameno.

Zoe fece un risoluto segno di diniego: ed egli con forza:

— Sì, sarete mia, ripetè, se pur non volete vedere salire sul patibolo
infame l'uomo che amate, se pur volete mantenere il solenne giuramento
che a lui avete fatto qui stesso testè.

Quell'uomo in dire queste parole s'era tutto trasmutato: l'incertezza,
quell'esitazione che pareva una timidità, quella specie di contegnoso
riserbo che aveva avuto sino allora, erano affatto spariti; la maschera
di umiltà, di sommessione e di apatia che soleva tenere sul volto eragli
caduta, e nei lineamenti, che direi commossi e frementi, appariva pur
finalmente la violenza della passione tanto tempo contenuta e soffocata.

La _Leggera_ fu sovraccolta, quasi sbigottita da questo cambiamento, da
questa rivelazione d'un uomo nuovo in colui, d'un uomo, quale ella non
aveva ancora mai sospettato sotto quelle fredde apparenze.

— Qual giuramento? balbettò ella, quasi non sapendo che dirsi nella sua
attonitaggine.

— Avete giurato di recargli la morte per sottrarlo alle mani del boia...
E s'io voglio che queste mani infami si prendano la vita di
quell'avvenente che voi amate, nulla lo potrà sottrarre a tal
destino..... Che voi possiate penetrare ancora presso di lui dipende in
tutto e per tutto da me.

— Voi ci avete spiati! esclamò la donna, che si sentiva dominare da
quella nuova forza che le si rivelava.

Barnaba contrasse la faccia turbata in un amarissimo sogghigno.

— Sì: rispose crudamente: è il mio mestiere..... E voi gli è da anni che
seguita cautamente il mio spionaggio... Dacchè, tornato in paese, mi
avvenne di vedervi... bella, più bella e desiderabile che mai...
brillante, famosa, corteggiata da tutti, comperata dai più ricchi.....

— Signore!

— Oh quante volte volli presentarmi a voi, e mai non n'ebbi ardimento:
quante volte volli venirvi a dire come vi amassi e vi odiassi, quanto vi
desiderassi e vi disprezzassi, e nol feci, sapendo mi avreste fatto
scacciare come un miserabile... Allora sognai meco stesso di far
giungere un momento, in cui voi avreste avuto bisogno di me, avreste
dovuto supplicarmi, dipendere dal mio volere.... E questo momento è
venuto.

Zoe guardava quell'uomo con uno stupore che toccava alla paura.

— Ma chi siete voi? domandò. Che cosa vi ha di comune fra noi? Che
pretendete da me?

— Chi son io? esclamò l'uomo. Guardatemi bene!

Diede un colpo al coprilume e lo fece cadere per terra: tutta la luce
della lampada percosse la faccia tormentata di quell'individuo, a cui
sarebbe stato impossibile assegnare un'età precisa.

— Mi riconoscete? domandò egli, avanzando il suo volto verso di lei.

— No: rispose la cortigiana, che lo guardava con occhi sbarrati e con un
segreto turbamento che non sapeva spiegare a se stessa.

Barnaba sorrise amaramente.

— È giusto... Che cos'è un uomo che per voi ha commesso un delitto, che
ha affrontato la forca per voi, che si è condannato ad un'intera vita
d'abiezione per voi?... Egli non merita pure un posticino di memoria
nella vostra anima di donna.... Non è vero, Martuccia?

All'udire questo suo antico nome, da lei medesima quasi obliato, fu un
vero spavento che assalse la cortigiana, come se vedesse innanzi a sè
sorgere uno spettro: ed era in vero lo spettro del suo lontano passato
che le compariva in quell'enimma di uomo.

— Voi conoscete quel mio nome!... Ma chi siete dunque?

— Mi domandaste che cosa vi ha di comune fra di noi? C'è un orribile
vincolo che ci lega: un delitto, il sangue d'un uomo ucciso per vendicar
voi e me...

Allora essa lo riconobbe finalmente; gettò un grido e chinandosi verso
di lui a guardarlo meglio, esclamò:

— Gran Dio! Voi siete _Pagliaccio_?

— Son quello... Sono il compagno della vostra infanzia, il compartecipe
dei vostri tormenti d'allora; il testimonio all'assassinio della vostra
innocenza.

Quella donna indurita al vizio, incallita oramai alla corruzione, al
rievocare di tal memoria si coprì colle mani la faccia.

L'antico pagliaccio continuava:

— Che cosa pretendo da voi?... Voglio della vostra beltà che fino dalla
prima giovinezza, fino dall'adolescenza ha posto nel mio sangue un
ardore insensato di desiderio... Voi non sapete, non potete pure
immaginare quanto io vi amassi fin d'allora, quanto io vi abbia sempre
amata di poi, quanto vi ami tuttora!..... Nelle taciturne meditazioni a
cui m'abbandonava durante la nostra miserabile vita nomade di
saltimbanco, quai sogni di felicità io faceva con un destino che ci
fosse comune, in cui tutte avrei impiegate le forze dell'anima mia a
procurarvi una tranquilla esistenza!... Quando lo scellerato nostro
padrone vi fece quell'empio oltraggio, l'amor mio non isminuì di forza,
ma cambiò natura: diventò men puro e forse anche più violento... Avrei
voluto dapprima che voi foste morta di dolore e di vergogna per
quell'orribile attentato... Vi avrei seguita ancor io nel mondo dei
morti, ve lo giuro..... Poi venni a desiderarvi con furore, con
frenesia.... Quante volte non pensai ricorrere ancor io alla violenza, e
poi uccidervi ed uccidere me sul vostro corpo palpitante!.... Il
pensiero dell'omicidio era entrato nell'anima mia, e mi possedeva come
uno spirito maligno: non potevo sottrarmegli.... Quel che avvenisse
spero non avrete obliato..... Quando vidi precipitare a terra morto
quell'uomo, non un rimorso, non un rincrescimento mi nacque nell'anima;
non pensai che a te! Fu allora soltanto che il tumulto della passione
che mi fremeva nell'anima ebbe un primo, solo e fuggitivo sfogo: corsi
da te, ti afferrai, ti strinsi in un amplesso fremente, ti baciai sulle
labbra. Tu non te lo rammenti più quel bacio!.... Io l'ho portato meco
come una sacra reliquia, come l'unico dolce tesoro della mia vita... Se
tu allora fosti venuta meco, com'io ti dissi, che sarebbe stato di me,
di noi? Chi lo sa? Forse ora tu non avresti l'infamia della cortigiana,
ed io quella della spia..... Ah! non ti accuso, nè mi lamento, nè
rimpiango nulla.... Se più non t'avessi rivista, sarei forse vissuto
tranquillo nella ignominia del mio mestiere..... Ma la fatalità volle
mettermi di nuovo fronte a fronte con te.

Tacque un istante, come oppresso dal peso di queste memorie: essa, la
Zoe, nella quale un'ardente curiosità, un vivo interesse s'erano desti,
afferrò il braccio di lui e dissegli con calda sollecitazione:

— Dove? dove? dove e quando mi hai tu riveduta? E nel frattempo che era
egli avvenuto di te?.... Oh dimmi tutto..... Non è vero ch'io ti abbia
obliato, povero mio Pagliaccio: tu fosti l'amico della mia infanzia, un
fratello per me, fosti l'unico amico ch'io abbia avuto nella vita....
Quante volte t'ho ricordato, sai, e desiderato rivederti, od almeno
sapere di te!

— Ebbene sì, ti dirò tutto: rispose Barnaba dopo un istante di silenzio
in cui parve occupato a domare la sua emozione e concentrare le sue
memorie. Questo mio passato l'ho tenuto chiuso finora sempre nell'anima
mia, senza lasciarne scorgere pure un segno, pure una traccia ad occhio
altrui. Ora in tua presenza, insieme colla passione, lo sento
traboccare. Ascoltami e impara a conoscermi.

«Fuggii senza saper dove.... Non recavo impresso nel mio cervello il
grido soffocato dalla morte dell'assassinato padrone, ma quello di
stupore uscito dalle tue labbra rosse quando t'afferrai ad un tratto
nell'amplesso violento: non avevo nella mente e nell'anima il ricordo
del mio delitto, ma quello del bacio ardente che ti aveva stampato sulla
bocca.... L'istinto non la ragione mi faceva nascondere la mia persona e
i miei passi ad ogni vista d'uomo. La ragione in me era compiutamente
smarrita in quel tempo: vivevo come in un delirio continuo. Mi
nascondevo il giorno, viaggiavo la notte: i miei alimenti li rubavo con
miracoli indicibili di audacia e di destrezza. Venni giù lungo il Po,
seguitandone il corso, ignaro de' luoghi, senza scopo altro che quello
di fuggire. Alla fame che mi toccava sopportare, ero già da tempo
avvezzo. Giunsi finalmente presso Ferrara, e là fui arrestato. La
polizia pontificia nelle cui mani caddi, sfinito, affamato, presso a
terminare i miei guai colla vita, mi tenne parecchi mesi in carcere
senza curarsi altro di me; un giorno il carceriere annunziò ai suoi
superiori ch'io stava per morire, e in un momento di pietosa ispirazione
di qualche direttore fui trasportato all'ospedale.

«Ad un prete che mi venne intorno per farmi pensare all'anima, dissi
tutto. Questo tale che aveva ingerenza nella Polizia vide in me una
certa tenacia di propositi, una forza di volontà, onde avrebbe potuto
vantaggiarsi il Governo papale; ne parlò al cardinale legato, e quando
la robustezza della gioventù e la mia cattiva sorte mi trassero a
risanare, venne dalla parte dell'autorità a farmi la proposta seguente:
«mi mettessi al servizio della Polizia pontificia e sarebbesi ignorato
sempre il mio passato e datomi i mezzi di vivere agiatamente; se
rifiutassi sarei cacciato di là della frontiera e consegnato, come
micidiale che ero, al Governo Sardo.»

«Non mi venne pure in mente di rifiutare: ed anzi mi parve quella una
ventura. La mia vita anteriore non era tale da darmi scrupolosità
nessuna circa i mezzi di guadagnarmi la vita. Il nostro padrone m'avea
ispirato un tal odio contro gli scellerati miserabili, che mi sorrideva
in pensiero di dar loro la caccia, parendomi che col perseguitare altri
sciagurati uguali al saltimbanco, avrei continuato ancora la mia
vendetta. Fui accanito nemico di ladri, assassini e liberali; fui
tutt'insieme spia, sgherro, agente provocatore....

Zoe fece un moto quasi di ribrezzo.

— Ah! non inorridire.... e non meravigliare se io ti dico ciò senza la
menoma vergogna.... Abbandonati a noi, coll'infanzia che avevamo
passata, che cosa si poteva diventare se non quello che siamo?... Tu una
meretrice, io.... quel che dissi.... E di me non ho vergogna, e te non
accuso. Siamo un effetto fatale delle circostanze.

«Ebbi la fortuna di rendere importanti servigi e progredii nella
intrapresa carriera. Fui chiamato a Roma a quell'uffizio centrale, e
colà sarei rimasto assai facilmente per sempre, se tu non ci fossi
venuta, se non ti avessi rivista.

«Entrai un giorno nell'anfiteatro dove avevano luogo le rappresentazioni
d'una compagnia equestre venuta dall'Alta Italia. Avevo udito parlare
come di una vera meraviglia dell'agilità, della grazia e insieme della
forza e del coraggio d'una saltatrice, fra le attrattive della quale non
era ultima e meno efficace quella d'un'originale e potente bellezza.
Tutta Roma se ne occupava: dicevano le male lingue che parecchi
monsignori facevano omaggio del loro cuore e dei loro denari a quella
figliuola d'Erodiade mandata dall'inferno per la loro perdizione. Io di
donne non mi davo punto pensiero. Era questa anzi una delle mie forze:
su di me venivano a spuntarsi le seduzioni delle Sirene, come le vere
lagrime delle oneste fanciulle. Era il tuo pensiero che mi premuniva. I
sensi e l'anima, tutto avevo assorto nella memoria dell'esser tuo;
nessuna mi aveva riprodotto, che? adombrato nemmeno dinanzi quel tipo di
cui mi rimanevi nella mente la più perfetta espressione. Entrai in
quell'anfiteatro affollatissimo di gente ansiosamente aspettante senza
il menomo stimolo di curiosità; quella sorta di spettacoli anzi mi
ripugnava; ogni qual volta trovavo di quei saltimbanchi ambulanti, de'
quali ero stato uno ancor io, me ne allontanavo con ripulsione; essi mi
ricordavano le mie sofferenze infantili e il mio delitto; se non ci
fossi stato tratto per ragion di servizio, forse nemmeno in quel circo
di Roma non ci sarei entrato mai.

«Il popolo della città eterna è ancora quello dell'antico tempo,
appassionatissimo per siffatti spettacoli. Una fitta immensa di teste
coronava a varii ordini l'arena su cui piovevano torrenti di luce, e
dove, per divertir quella plebe censita e non censita delle povere
creature si esponevano a rompersi il collo ogni momento nei più
arrischiati salti e giuochi di equilibrio sul dorso di cavalli correnti.
Ne li compensava un entusiasmo strepitante che si manifestava in
applausi clamorosissimi e senza fine. Io mi sentiva all'infuori di
quell'ardore comune che possedeva tutto quel pubblico; mi trovavo
isolato in mezzo a quella folla, ed anzi un velo di mestizia veniva a
stendersi sulla mia mente e sull'anima mia. Ad un tratto a quel
fragoroso pandemonio di voci, di grida, di battimani, di urla, successe
un profondo silenzio, un silenzio quasi religioso. Era stata condotta
nell'arena una cavalla bianca a dorso nudo, ornate le briglie di mappe e
nastri svolazzanti color di rosa.

« — È la _Leggera_, vien la _Leggera_: udii mormorare intorno a me, e
tutte le faccie si tesero verso il circo, e corse per tutta l'assemblea
un fremito di piacere, come in anticipazione di quello cui ognuno si
riprometteva.

«La tenda che pendeva alla porta per cui entravano nel circo gli artisti
fu vivamente scartata: la musica fragorosa di stromenti d'ottone intuonò
una marcia vivace, e con un salto prodigiosamente leggiero e grazioso si
slanciò e fu in mezzo all'arena una donna. Ebbi lo sbarbaglio negli
occhi, credetti sognare, mi dissi che quella forma che m'ero vista
volare dinanzi nello scintillio dei lustrini del suo abito elegante da
rappresentazione era una chimera della mia fantasia, era una visione del
cervello malato sempre fisso nel pensiero d'una persona. In quella
silfide avevo riconosciuto te, Zoe.

«Tutto il teatro era scoppiato in un tuono tale d'applausi, che
chiamarli furibondi è dir poco. Tu t'inchinavi sorridente con grazia un
po' superba, facendo cenni di ringraziamento col pome d'argento del tuo
frustino; poi d'un balzo, senz'aiuto, fosti seduta sul dorso del tuo
cavallo che s'impennava impaziente, contenuto al morso da uno scudiere,
raccogliesti nella tua piccola mano nervosa le briglie bianche, e colla
tua voce chiara, argentina, che giunse fino a me distinta ed armoniosa
in mezzo a tutto quel baccano, gridando: «hop! hop! lasciate andare» ti
slanciasti di botto al galoppo per l'arena.

«Avevo riconosciuto la tua persona, avevo riconosciuto la tua voce: eri
tu, ma come diversa, essendo pur sempre la medesima! Eri tu, ma completa
nella tua bellezza, perfetta nella potenza delle tue attrattive, cinta
di quell'aureola di splendore che conveniva all'esser tuo, superba dello
sfoggio della tua luce. Facesti due giri seduta sul dorso del cavallo,
poscia, senza che ti si vedesse pure fare il balzo, tanto fu leggero il
tuo movimento, fosti dritta in piedi sul destriero sempre al galoppo. Le
tue forme così perfettamente belle si disegnavano in modo spiccato e
preciso nella luminosa infuocata atmosfera di quell'ambiente; le tue
chiome d'oro, in cui erano frammisti fiori di color di fuoco,
svolazzavano all'aria come raggi di sole intorno al tuo capo; il seno
anelante pareva pieno di desiderii e li eccitava rabbiosamente in
altrui; le labbra rosse, i denti bianchissimi erano tutta una voluttà
nel tuo sorriso; gli occhi saettavano scintille. Ogni atto, ogni mossa
era una grazia, una bellezza artistica, un incanto. Tu affrontavi ogni
più rischioso passo e lo superavi sorridendo: parevi aver domato il
pericolo ed averlo fatto tuo schiavo. Si trepidava, si palpitava, si
gioiva acremente a vederti. Tutte quelle migliaia d'occhi maschili ti
divoravano, migliaia e migliaia d'ardori ti possedevano colla fantasia.

«Ed io?..... Tu mi turbinavi dinanzi come una visione. Il cuore mi
doleva nel petto pel battere disordinato e violento. Tutto l'esser mio
aspirava a te. Mi pareva impossibile che tu non dovessi sentire in mezzo
a tutta quella folla l'effluvio della mia volontà, il trasporto verso te
dell'anima mia... Che ti dirò di più? Uscii di là ebbro, la mente
sconvolta, pazzo..... Quante follie non immaginai!..... Presentarmi a
te, farmiti conoscere, e rapirti, tornare al mio antico mestiere ed
arruolarmi in quella compagnia ancor io... In quel troppo tumulto della
passione così vivamente ridestatasi avrei certo commesso qualche follia;
ma giusto allora per ragioni di servizio fui allontanato da Roma. Non
ebbi la temerità di disubbidire; e quando fui di ritorno la compagnia
equestre aveva abbandonata la città, e tu eri partita con essa.

«Rimasi lungo tempo sconclusionato, triste come una giornata senza sole.
Avevo bisogno di sapere almeno di te, e ti seguii accuratamente nella
tua carriera su per le novelle dei giornali. Sentii allora come una
specie di nostalgia: era il bisogno non delle aure, del sole, della
vista del mio paese, ma il bisogno di te. Sapevo che tu eri in Piemonte;
un giorno la passione fu più forte d'ogni ragionamento: fuggii e venni
di nuovo in questa terra da cui ero stato lontano tanti anni.

«La Polizia di Roma aveva già informata quella di Torino di ogni cosa
che mi riguardava. Appena qui giunto fui preso e tratto innanzi al
Commissario Tofi. Egli mi pose innanzi il medesimo dilemma che già il
prete poliziotto di Ferrara: od essere giudicato come omicida, o farmi
suo cieco stromento. Tu eri qui, mi piaceva fermar qui la mia dimora: mi
diedi al signor Tofi.

«Cercai la tua presenza, ti ammirai da lunge, ma venirti innanzi non
ardii mai. Lasciasti l'arte tua e sfavillasti nel mondo delle
cortigiane, stella errante e più splendente delle altre: non cessai di
amarti, di desiderarti, di volerti. Compresi che presentandomi a te, io
umile, povero, oscuro, disprezzato agente di polizia, mi avresti
scacciato. La fortuna mi condusse tali circostanze, e il mio
presentimento me le aveva fatte indovinare, ed io fui accorto
cooperatore alla fortuna; tali circostanze, dico, per cui tu hai da
curvarti al mio volere — e di queste circostanze intendo trarre compiuto
vantaggio in pro della mia passione.

— E sia: esclamò con una impudente franchezza la cortigiana: questa tua
passione non offende il mio amor proprio. Ma poichè questo premio che tu
cerchi l'hai desiderato cotanto e ci dài tanta importanza — e non sarò
io di certo che te ne darò torto — lascia che almanco io ci metta un
prezzo un po' meglio adeguato. Tu ora l'avresti comperato con nulla.

— Nulla: interruppe Barnaba: e il delitto che ho commesso per te? e gli
spasimi di tanti anni?...

La Zoe gli si accostò col sorriso procace del suo mestiere e lo afferrò
ad un braccio.

— Avrai compenso di tutto, gli susurrò ponendo le sue labbra presso
all'orecchio di lui, quasi da toccarlo. Ti farò lieto e felice così che
non troverai troppo pagata la tua ventura colle disgrazie del passato...
Io voglio darti più assai che non domandi. Un'ora di voluttà, una notte
di trasporti e poi abbandonarci? No. Ciò ti basterebbe a te?..... Ma se
io ti consacrassi tutta l'esistenza? Se io volessi esser tutta per te e
sempre? Non sono una venditrice di piaceri soltanto, quale tu mi credi,
sai! Ho nell'anima tesori d'amore che non ho ancora aperti a nessuno. A
nessuno, intendi! Fu il destino che volle li riserbassi per te. Credi tu
che io abbia amato alcuno a questo mondo? Eh via! Ho conosciuto troppo
gli uomini e quindi li ho disprezzati. Io non fui per loro che un
giocattolo, che uno stromento di voluttà e di vanità la più stolta, essi
non furono per me che mezzi di guadagno... Ma tu meriti ben di meglio.
Il tuo amore così vivo, conservato a dispetto di tutto; la tua costanza,
la foga della tua passione che ora ho visto traboccarti dall'anima, mi
hanno tocca. Una donna non resiste a queste prove. Tu mi hai meritata,
mi hai guadagnata e m'hai vinta... Senti: effettuiamo quei sogni che già
fin da giovinetto tu facevi sul nostro destino; partiamo noi due soli,
per andarci a nascondere lontano lontano, fuor degli occhi di tutti a
vivere beati, per amarci soltanto. Tu benedirai la sorte e questa mia
ispirazione, te ne assicuro, saprò animarti quella solitudine, e
variarti la medesimezza de' nostri diletti. Io possedo in mobili ed ori
e gemme una ricchezza; venderò tutto, avremo da vivere agiati e sicuri.

Lo sguardo, l'accento della Zoe, il contatto delle sue mani che gli
stringevano il braccio, il caldo fiato delle labbra di lei che gli
percuoteva sulle guancie spiravano nel sangue di Barnaba un febbrile
calore che gli faceva pulsare il cuore e tumultuare il cervello. Prese
la donna alle spalle, la tenne innanzi a sè, facendole piombare negli
occhi il suo sguardo più penetrativo; e con una cupa fiamma di rossore
sulla pallidezza morbosa del suo volto, le disse:

— Tu faresti ciò per me?

— Sì: rispos'ella francamente.

— Senza patti?

— Ah no.

— A qual condizione adunque?

La _Leggera_ abbassò la voce.

— Fa fuggire Luigi.

Barnaba divenne più pallido di quel che fosse prima, le sue mani si
contrassero sulle spalle della donna, come per convulsione di spasimo,
le sue pupille saettarono uno sguardo feroce. Respinse da sè la
cortigiana e con voce sorda, ma risoluta, espressione d'una volontà
irremovibile, disse seccamente:

— No.

Poi si pose a passeggiare per la stanza, le braccia incrociate, il capo
chino, sulla fronte e sul viso l'ombra d'una fiera amarezza.

Zoe stette un istante in silenzio, guardandolo attentamente. Siccome
egli in quel punto non la vedeva, la fisonomia di lei aveva deposta
quella sembianza di tenerezza che aveva ritenuta sino allora, e vi si
scorgeva invece un'impazienza, un'irritazione, quasi una rabbia. Dopo un
poco ella riprese la maschera dell'affetto, e domandò con voce la più
soave che potesse:

— Perchè?

L'uomo si fermò di presente e si riscosse come colpito inaspettatamente
da una botta. Levò la faccia e mostrò lo sguardo malvagio ed il
sogghigno d'una spietata ironia.

— Perchè? diss'egli riavvicinandosi con passo lento alla Zoe; ah! tu mi
credi dunque tanto novellino da lasciarmi ancora invischiare in queste
panie?

Mutò ad un tratto espressione di viso e d'accento, e soggiunse con
iscoppio d'odio feroce:

— Il tuo Luigi vo' che muoia infamemente sulla forca.

La _Leggera_ mandò un'esclamazione di vero spavento.

— Ti leggo nell'anima, vedi: continuava l'antico pagliaccio. Tu mi
faresti traditore al mio dovere, e poi mi pianteresti per ricongiungerti
a colui: useresti di me come di un vile strumento, che quando ha servito
si getta o s'infrange. Non mi ci lascio cogliere, disgraziata!...
Quell'uomo che tanto ti sta a cuore, sappi che è forse l'unico al mondo
ch'io odii. Ad ogni altro ti sei venduta, non l'hai amato: il vizio
aveva preso di te tutta la materia, mi figuravo che nel fondo del tuo
essere vi fosse ancora un'anima che sonnecchiasse e potesse ridestarsi
ed espandersi ad un amore completo qual era il mio: venne costui, e tu
gli desti anche l'anima. Egli ti ha posseduta tutta, ti ha corrotto
anche lo spirito. L'odio, e morrà.

Zoe volle ribellarsi a quella feroce pressione, che tentava dominarla.

— No, esclamò con forza: io lo salverò, dovessi ricorrere a qualunque
mezzo.

— Non lo salverai, perchè di mezzi non ce n'è alcuno. Il tuo Principe
non muoverà un dito.....

La cortigiana fece un gesto di minaccia, che era una promessa di
vendetta.

— Nè alcun altro — alcun altro, capisci — troverai pronto ad
aiutarti.... Avessi tu anche un milione da gettare, non riusciresti
nell'impresa, perchè son io qui a vegliare, e non è possibile nè
ingannarmi, nè farmi cambiare di proposito.

La _Leggera_ saettò Barnaba d'un'occhiata piena di collera, tanto più
feroce, quanto più impotente.

— Tu vuoi dunque ch'io ti detesti?

— Detestami, ma piegati al mio volere.

— E tu vuoi?

— Il _medichino_ salirà sul patibolo, se io non lascio penetrare presso
di lui la morte che tu hai promesso recargli.... Or bene, la notte
ultima sua, ch'egli passerà in _confortatorio_, sarà quella delle nostre
nozze; il mattino, uscendo dalle mie braccia, ti lascierò entrare, un
momento prima del carnefice, nella cella del tuo Luigi.....

Zoe respinse inorridita quell'uomo che si era piegato verso di lei per
susurrarle queste parole all'orecchia.

— Mostro! esclamò essa; e fuggì sbigottita da quella stanza.

— Pensaci! le gridò dietro Barnaba: non ci hai più che un giorno. Domani
probabilmente la domanda di grazia sarà respinta, e i condannati saranno
messi in _confortatorio_; domani sera attendo un tuo cenno.....

La donna era uscita e correva raccapricciando per gli oscuri e freddi
corridoi della carcere, e il guardiano che le doveva aprire poteva a
mala pena tenerle dietro.

Ma l'odio di Barnaba aveva calcolato giusto: nissuna possibilità di
salute era oramai pel _medichino_; invano Zoe tentò ogni via; dovette
convincersi che altro ella non poteva far più per lui che procurargli
l'invocato mezzo di sottrarsi all'infamia del supplizio. Prese tutto
l'oro che possedeva e corse da un farmacista di cui aveva da tempo
speciale conoscenza. Ebbero insieme un lungo e segreto colloquio; poi il
chimico si ridusse solo nel suo laboratorio e la donna partì; ma verso
sera questa tornò e si ridussero di nuovo a segreto abboccamento la
cortigiana e lo speziale. Quando uscì dalla bottega, la Zoe aveva la
faccia pallida, gli occhi turbati e le mani tremanti.

Il ricorso per la grazia era stato respinto: i condannati alle dieci del
mattino erano stati introdotti in _confortatorio_: la sentenza di morte
doveva essere eseguita il giorno di poi all'alba.

A sera già chiusa, Barnaba ricevette un bigliettino in cui era scritta
una sola parola: «Venite.»

Era di pugno della Zoe.



CAPITOLO XXXI.


Alle dieci del mattino adunque ciascuno dei condannati aveva visto
aprirsi la porta della sua carcere ed uditosi annunziare che la domanda
di grazia per commutazione di pena era stata respinta, e che dovevano
quindi prepararsi alla morte per la mattina ventura. Furono condotti,
come si suol dire, in _confortatorio_, ciascuno in una stanza separata,
e posti in mano ai confratelli della Compagnia della Misericordia, ai
quali i miseri dovevano essere affidati fino alla loro inumazione.

Le celle in cui furono posti i condannati erano carceri come le altre,
nelle quali presso una parete s'era drizzato una specie di altare con
sopravi un crocifisso e quattro candele accese; siccome le porte di
queste celle avevano da rimanere aperte, e la custodia dei miseri, senza
intromissione di agenti della forza pubblica, era tutta lasciata ai
fratelli della Misericordia, ed anco perchè gl'infelici non potessero
attentare alla propria vita, si era fatto vestire ai condannati la così
detta _camicia di forza_, e per una catena che si univa ad un anello
piantato nel muro, catena abbastanza lunga da permetter loro di
passeggiare su e giù della cella, furono avvinti ad una gamba.

Il venire ad annunziare ad un uomo che è pieno di vita: «tu domani
morrai,» è una tremenda novella. La natura, l'istinto si ribellano
contro questa sentenza: tutte le forze della vitalità insorgono e
s'inalberano: il vuoto orrendamente nero del sepolcro spaventa le
aspirazioni della vita in pieno vigore dell'organismo; la cosa dapprima
non sembra possibile; si crede ad un giuoco feroce, ad un orribile
inganno che cesserà ad un punto, si spera follemente un miracolo che vi
salvi, si aspetta anche una catastrofe; l'io, avvezzo a far centro se
stesso all'universo, come può persuadersi che impreparato, senza
transizione, ad un tratto, abbia da venir tolto di mezzo, e quella
natura che crede fatta per lui, in mezzo alla quale vive, cui egli per
sè riempie della sua personalità, stiasi indifferente ed immota? Esso
argomenta contro l'evidenza; come una mosca dentro una chiusa invetrata,
gli pare che debba trovare ad ogni momento il passo per fuggire da
quella orribile realtà e si urta il capo vanamente contro l'impervia
necessità inesorabile. Ad un punto la certezza di questa impossibilità
lo assale, lo afferra, direi quasi, alla gola, e l'uomo sente invaso dal
sangue in tumulto il cervello indebolito. Entra allora in furore:
bestemmia, minaccia, freme, ruggisce; vorrebbe infierire contro sè,
contro tutta l'umanità, contro il mondo; si scaglia colla temerità di
Satana contro Dio. Più tardi succede la spossatezza; il parosismo della
febbre suscitatasi lascia l'abbattimento; la stessa fatica materiale
della prima esaltazione, conferisce a domare quel sussulto di nervi;
l'incessante crudele pensiero: «fra poche ore morrò» è un potente
interno corrosivo che consuma l'energia e le forze. Nell'inoltrarsi
della notte cresce questa prostrazione: è quello il tempo che i preti
accorti sanno più propizio a rendere efficaci le loro esortazioni
religiose. Respinta d'ordinario nelle prime ore in cui il condannato è
in _confortatorio_, nella notte la parola religiosa è accolta con
tolleranza dapprima, poi il più spesso, con fervore. Visto inutile ogni
lusinga nelle cose umane, il morituro si getta disperatamente nelle
braccia della religione e cerca in essa quella forza che sente da ogni
altra parte mancargli. Verso il mattino, di regola generale, una certa
pace, e per parecchi una vera e positiva pace, è entrata nell'anima del
condannato, e il misero s'addormenta di un sonno quasi sempre calmo e
tranquillo.

Le impressioni provate, o per dir meglio manifestate dai nostri tre
personaggi all'annunzio fatale furono diverse. _Stracciaferro_ colla sua
aria sempre più stupidita parve non aver nemmeno compreso; guardò col
suo occhio semispento le persone che lo attorniavano; e siccome il
secondino lo aveva fatto levare dritto in piedi per ascoltare quella
terribile comunicazione, si dispose a sdraiarsi di nuovo sul suo
giaciglio. Ne lo impedirono dicendogli che bisognava cambiar di cella ed
entrare nel _confortatorio_. Si lasciò passivamente indossare la
_camicia di forza_, trascinare alla stanza destinatagli, e guardò con
una certa curiosità da scemo il carceriere che gli attaccava alla gamba
la catena di ferro. I due fratelli della Misericordia che stavano a
fargli compagnia (e due dovevano rimanere sempre di guardia intorno a
ciascuno dei condannati) vollero cominciare a dirgli qualche parola di
conforto; ma egli li guardò con aria così ferocemente imbestialita,
ch'essi pensarono essere miglior consiglio per allora non toccare quel
tasto. Ch'egli però capisse la sua condizione diede prova poco stante
facendo la seguente domanda:

— In _confortatorio_ si dà al condannato tutto quello che desidera, non
è vero?

— È una pia usanza della nostra compagnia della _Misericordia_, gli fu
risposto, di cercar di soddisfare ai desiderii di quegl'infelici, per
quanto lo consentono le nostre facoltà; e se voi desiderate qualche
cosa....

— Ebbene sì; proruppe quell'omaccione in cui fino all'ultimo avevano da
predominare gl'istinti materiali: desidero fare una buona corpacciata.
Voglio provare il gusto dei ricchi, mangiare come un signore, almeno
l'ultimo giorno della mia vita... Mi si dia una pernice... e tutto
quello che vi ha di più fino e costoso... e buon vino, barbera
suggellato, e una caraffa di _cognac_.

_Graffigna_, d'ordinario così calmo, così cauto e prudente, perdette la
padronanza di sè, e salì subitamente in un furore senza misura all'udire
il brutto annunzio. Si dovette ricorrere alla forza per contenerlo; due
uomini robusti furono necessari a vestirgli la _camicia di forza_, e
bestemmiante, urlante, gli occhi piccoli fuori della testa, la schiuma
alla bocca, bisognò trasportarlo a braccia nella cella a lui assegnata.
Seguitò per un poco a strepitare, maledire, imprecare, minacciare,
contorcersi, agitarsi: ma poi abbattuto, non domo, si accovacciò presso
il muro dov'era infisso il capo della sua catena e stette rotando
intorno occhi spauriti e insieme feroci, che lo facevano rassomigliare
in vero ad una volpe presa al laccio che s'aspetta da un momento
all'altro il colpo mortale.

Il _medichino_, egli, com'è facile aspettarsi, aveva mostrato un più
nobile e più fiero contegno.

Udito che quello era l'ultimo giorno della sua vita, Gian-Luigi s'era
vezzosamente inchinato come per ringraziare chi glie ne aveva data la
novella, come per salutare la morte che vedesse comparirgli sulla soglia
della sua carcere. Nessun altro segno d'emozione fu da notarsi in lui,
fuorchè un lievissimo tremar delle ciglia; non impallidì il suo viso,
non diede il menomo sussulto pur uno de' suoi membri: sorrise. Quando
seppe che gli bisognava calzare la _camicia di forza_ ed essere
incatenato per il nodello ad una gamba, domandò se questo non poteva
essergli risparmiato; rispostogli che no assolutamente, mandò un
sospiro, e vi si acconciò senz'altra osservazione. Messo nella cella a
lui destinata, guardò con empia ironia l'altare preparatovi, il
crocifisso e l'inginocchiatoio postovi dinanzi; girò intorno alle pareti
per quanto gli concedeva la lunghezza della catena, e lesse con
apparente interessamento parecchie iscrizioni che vi erano
scombiccherate su. Ad un punto vi era una filza di nomi accompagnati da
qualche parola di preghiera e di rimpianto: erano i nomi di coloro che
da più anni erano passati in quel confortatorio per andarne a morire:
ciascuno vi aveva scritto il suo nome, la sua età, la data della sua
dimora nel luogo funesto ed un'invocazione alla pietà ed alla
compassione di chi leggesse. Il _medichino_ si volse ad uno dei fratelli
della Misericordia che stavano guardandolo con un interesse di curiosità
che ben gli valevano la sua trista rinomanza e gli strani casi della sua
vita:

— Avrebbe Lei un toccalapis da imprestarmi?

Il confratello della Misericordia s'affrettò a soddisfare alla sua
richiesta. Gian-Luigi scrisse poche parole e si allontanò: i due suoi
assistenti si accostarono a leggere avidamente. L'ultima di quelle
lamentanze diceva: «Ah! come crudele morire a trent'anni, sano e robusto
da viverne ancora altri cinquanta!» Il _medichino_ aveva scritto con
mano ferma al di sotto di tutti que' rimpianti: «Imbecilli tutti! si
muore e si tace!»

I due fratelli della Misericordia si guardarono in volto stupiti, non
comprendendo il significato di quella disperata rassegnazione.

— Ella non ha voluto fare come gli altri e metterci il suo nome: disse
il più audace de' due.

Il _medichino_, pure in quella estrema condizione in cui si trovava,
aveva conservato tanta apparenza di superiorità che il buon popolano
sotto la cappa della confraternita non osava trattarlo altrimenti che
col Lei.

— A me non piace fare come gli altri: rispose superbamente il
condannato. Il mio nome!... Perchè metterci costì su quella ignominiosa
parete, vicino a que' nomi infami anche il mio? Per farmi ricordare? Ho
più caro essere obliato. E chi lo leggerebbe? Qualche altro miserabile
che passerà angosciato per quest'anticamera del patibolo.

Si piantò innanzi alla parete dov'erano scritti que' nomi e li lesse
forte con accento d'una sprezzosa ironia.

— Ne ricordo alcuni di questi buoni arnesi. Costui che ha scritto la
massima la più affettuosa e più tenera del Vangelo, cui certo gli aveva
allor allora soffiata nell'orecchio il confessore, aveva ucciso una
vecchia a colpi di sasso per pigliarle quaranta franchi; quest'altro
ammazzò suo padre, perchè non voleva dargli dieci lire da pagare una
meretrice.... E tutti costoro si sono purgati con una buona confessione,
s'illustrarono con un pentimento esemplare, sono partiti dal mondo «puri
e disposti a salire alle stelle» ed ora godono nelle beatitudini del
paradiso il premio delle loro buone azioni.

I due della Compagnia della Misericordia, senza capire tutta l'empietà
dell'ironia che era nelle parole del condannato, pure se ne sentivano
ghiacciare il sangue; lo guardavano quasi esterrefatti, e non sapevano
trovare parola.

Il _medichino_ riprese dopo un poco:

— Loro ne hanno assistito qualcheduno di questa brava gente nelle sue
ultime ore?

— Signor sì: rispose quello de' due che aveva lo scilinguagnolo più
sciolto. Feci quest'opera di carità per tre di codestoro; e li
accompagnai, sostenendoli, proprio sino ai piedi.....

Si trattenne dal dire l'ultima parola.

— Della forca: suggerì il condannato con un sorriso pieno d'innocenza.

— Sì, signore.

— Bravo! È uno zelante Lei!

— Eh eh! fece il confratello insaccando modestamente il capo fra le
spalle.

— Ne la felicito. Che professione è la sua?

— Sono barbiere.

— E la trascura la sua bottega per passar qui la giornata nella
compagnia poco gradevole di uomini che stanno per dar calci all'aria. Ci
prova dunque una soddisfazione?

— Quella di fare un'opera buona.

— E ne spera compenso?

— Da Quel di lassù.

— Benone! La sarà chiamata a far la barba nel regno dei cieli.

E voltò le spalle ai due confratelli, a cui quello scherno ispirò più
terrore che risentimento. Passeggiò per un poco su e giù, poi andò a
sedersi sul gradino dell'inginocchiatoio. I due assistenti si dissero
che loro debito era quello di confortare il condannato, e che per
confortarlo bisognava parlargli; si consultarono quindi a bassa voce fra
di loro, si fecero reciprocamente coraggio, s'avvicinarono al paziente
uno dall'una parte, l'altro dall'altra, e cominciarono colla maggior
convinzione del mondo a snocciolare la filza delle consolazioni e degli
ammonimenti volgari che erano del caso. Gian-Luigi sollevò il capo e
guardò stupito questo poi quello, come avrebbe guardato due automi di
Vaucanson, così perfezionati da favellare; poi ad un punto li
interruppe.

— Signori, la loro eloquenza a duetto senz'accompagnamento è tale da
disgradare quella del Segneri, dello Scarpa, di tutti i predicatori
gesuiti e del professore Paravia; ne faccio loro i miei complimenti, ma
io non amo l'eloquenza — fuor quella dei fatti — detesto i sermonanti e
gli avvocati; e il susurro delle loro parole mi riesce molesto come il
ronzio di due tafani. Li prego di credere che ho abbastanza fantasia per
immaginarmi tutte le belle cose che trovano da dirmi, e di lasciarmi
quindi tranquillo. Ho piacere di meditare: è l'ultimo giorno che mi
servo di questo strano stromento che è il cervello, e mi piace, come si
suol dire, darmene una satolla. Le loro buone intenzioni che apprezzo,
tradotte in discorsi, non riescono che a disturbarmi.

I confratelli s'allontanarono da lui mortificati, e lasciandolo immerso
ne' suoi pensieri, non gli rivolsero più la parola.

Erano passate parecchie ore, quando il condannato, uscito dalla sua
meditazione, s'accorse che i due soci della pietosa confraternita stavan
sull'uscio della cella discorrendo vivamente, a bassa voce, con
qualcheduno.

— Che cosa c'è? domandò egli uscendo per la prima volta dalla sua apatia
e lasciando apparire una certa inquietudine.

I confratelli si volsero verso di lui a rispondergli. Il tempo di
guardia dei due primi era trascorso, ed altri due si erano a quelli
sostituiti, senza che il condannato pur se ne avvedesse. Uno di questi
nuovi assistenti rispose adunque:

— È un buon religioso, il bravo Padre Bonaventura de' frati gesuiti che
vorrebbe parlarle.

Gian-Luigi corrugò leggermente le sopracciglia.

— A me? domandò egli con accento d'uomo che non capisce il perchè d'una
cosa: Padre Bonaventura? E che può egli aver da dirmi?

Il frate non lasciò rispondere da altri: cominciò per allungare il collo
e mostrare il suo cappellone da gesuita e la sua faccia pienotta nel
vano della porta, poi si fece innanzi e introdusse la sua grassa persona
vestita di cotta nera.

— Caro mio figliuolo: disse con voce d'un'affettata dolcezza, che riuscì
al paziente oltremodo antipatica: ti dispiace ch'io venga a fare un poco
di conversazione con te?

Era una delle specialità di quel gesuita il confortare i condannati a
morte, ed aveva fama di saper toccare il cuore ai più riottosi e
convertire i più ricalcitranti. Si narrava di scellerati dal cuore
induritissimo, che, avendo resistito alle esortazioni dei più eloquenti
confessori, avevano poi finito per cedere alla insinuantesi, melliflua
voce del gesuita. I casi più serii ed i birboni più matricolati erano
riservati a lui; era questo uno dei suoi vanti eziandio, e soleva
accorrere come divisione invincibile di riserva nella battaglia contro
il demonio, per istrappare dagli artigli di quest'ultimo l'anima
scellerata che si stava per lanciare nell'eternità. Il contegno del
_medichino_ coi due primi confratelli della Misericordia aveva già
provato chiaro come quest'infelice appartenesse alla schiera dei
pervicaci, e s'era pensato senz'attender altro, di far venire subito
all'assalto le poderose forze dialettiche e teologiche dell'eloquenza
del gesuita.

Questi poi era da se stesso offertosi sollecitamente ed andato incontro
all'ufficio, perchè una gran curiosità gli era nata in corpo di veder
chiaro in certi misteri cui frequentando assiduamente la casa Baldissero
aveva colla sua solita accortezza notato in quella famiglia da alcuni
giorni, misteri nei quali aveva subodorato aver parte il famoso
_medichino_, condannato a morire. Come abbiam visto aveva egli appreso
dalla confessione del moribondo Nariccia che il creduto Maurilio non era
altrimenti il figliuolo della marchesina Aurora, ma che questi era da
trovarsi in altro individuo possessore della metà di quella certa
lettera di cui egli s'era reso padrone e che per suo mezzo era passata
nelle mani del marchese. A lui non si era detto nulla più intorno a
quell'affare: ma col suo acume il gesuita non tardò a concepire il
sospetto che quel vero figliuolo fosse stato trovato, e da certi sguardi
scambiati, da certi pallori e silenzi impacciosi subitamente avvenuti
fra i componenti della famiglia Baldissero, quando nel loro salotto il
discorso cadeva, come in que' giorni era troppo facile succedesse, sul
così detto _medichino_, il frate era venuto ad argomentare che quel tale
smarrito fanciullo potesse benissimo esser costui. Sdegnato che a lui
non se ne fosse fatta la confidenza, e pensando che in qualche modo
nell'avvenire la scoperta di questo segreto di famiglia aggiunto a
quegli altri ch'egli conosceva già, avrebbe forse potuto giovargli,
Padre Bonaventura decise impiegare tutta la sua arte nell'apprendere il
vero, ed avvisò che metodo buonissimo da ciò fosse il sentire il
condannato a morte nell'ultima sua confessione. Ed ecco perchè con tanto
maggior zelo si affrettava a venir disputare quell'anima al demonio.

Ma al pari della voce falsamente amorevole, fu antipatica al condannato
la figura ancora più falsa di quel frate. Il sorriso piacentiere di
quelle labbra carnose da ghiottone gli dispiacque estremamente: quel
sentirsi a dar del tu (usanza che il gesuita aveva con tutti i suoi
penitenti) fece inalberare l'orgoglio permaloso di Gian-Luigi. Questi si
levò in piedi, guardò il gesuita dalla cera ipocritamente umile, come un
principe avrebbe guardato un pezzente, e rispose con superbo piglio:

— Che cosa vuoi _tu_ ch'io me ne faccia della tua conversazione?

Padre Bonaventura, offeso, arrossì alquanto nelle sue guancie paffute, e
nello sforzo di voler dominare la sua bizza, fece una smorfia che pareva
di chi inghiottisca qualche amara medicina.

— Oh oh! disse fra sè: che tono.... Ma gli è tutto l'orgoglio dei
Baldissero.... Cospetto! E' rassomiglia di molto alla marchesa
Aurora.... Non ci è più dubbio: questo è il figliuolo di Valpetrosa.

— Mio caro, riprese di poi con un forzato sorriso: chi sa che la mia
conversazione non possa esservi utile più che non crediate. E se
d'altronde, a voi non interessa, fate conto che la vostra interessi me,
e concedetemi un momento di colloquio per farmi piacere.

Gian-Luigi sorrise più superbo che mai; e passando ancor egli a dargli
del voi, rispose:

— Sia come volete. Inoltratevi; sedete... o state in piedi, come vi
piace meglio; e dite quello che vi pare.

Padre Bonaventura s'introdusse col suo solito sorriso e il suo passo
discreto che non faceva rumore, sedette, si levò il cappellone e se lo
pose sulle ginocchia, vi pose su le mani incrociate e guardò col suo
occhio esaminatore il condannato; il quale, dopo averlo fissato un poco
con aria di non dissimulato disprezzo, si era dato a passeggiare in su e
in giù per quanto gli permettesse la sua catena.

Il frate non tardò a farsi certo che le sue usate sdolcinerie gesuitiche
e le carezzevoli forme per cui soleva insinuarsi nell'animo altrui, non
avrebbero approdato con questo cotale; ed avvisò che a scuotere quella
superba avversione onde il giovane lo aveva accolto, a farne oscillar
l'anima fiera, e poter trovare un giunto, se pur vi era, di quella
corazza di incredulità e d'orgoglio cui vestiva quella robusta volontà,
occorreva percuotere un gran colpo. Stette un buon quarto d'ora senza
parlare, seguitando sempre collo sguardo de' suoi furbi occhi
penetrativi l'andare e le mosse del condannato: voleva eccitarne
alquanto con quel silenzio la curiosità; il giovane non avrebbe di certo
potuto a meno di pensare: «che mai ha in animo di dirmi costui? come se
la vuol prendere per convertirmi? e perchè non parla?» voleva suscitarne
coll'attesa l'impazienza e così provocarne di meglio l'attenzione. Di
fatti il _medichino_, che andando e venendo gettava sempre uno sguardo
sul gesuita e ne vedeva le pupille fisse su di lui con espressione di
pietà, di cordoglio, di rammarico, finì per impazientirsi di quella
taciturnità e di quelle guardate.

— Ebbene, diss'egli piantandosi innanzi al frate, la è questa la
conversazione che volete fare?

— Sapete pure, rispose Padre Bonaventura, che quando si hanno le tante
cose da dire, gli è appunto allora che non si trovano le parole. Stavo
pensando.

— Quando siete venuto qui, disse Gian-Luigi con fine ironia, dovevate
già aver pensato. Alle corte, voi siete venuto per salvare l'anima mia.
(Fece un satanico sogghigno nel dir ciò). Non è egli vero?

Il gesuita alzò gli occhi al soffitto in una mossa da estatico, come si
dipingono i santi che si adorano sugli altari.

— Ho pregato vivamente, rispos'egli con voce che pareva piagnolosa, ho
pregato la Madonna del Carmine mia santa patrona, perchè mi rendesse
degno di questa grazia.

— Or bene, continuava il condannato colla medesima empia ironia, se la
vostra Madonna vuol farvi questa grazia, deve già avervi ispirato i
mezzi di pervenire al vostro santo fine, gli argomenti da convincere la
mia incredulità (perchè io sono un incredulo, signor mio), l'eloquenza
da penetrarmi in cuore. Parlate adunque sollecito e saremo più presto
liberi tuttedue, voi dell'obbligo del vostro mestiere, io....

Si arrestò, perchè la sua natìa gentilezza gli fece sentire in quella
tutta la brutale grossolanità della espressione che stava per usare.

— Della mia compagnia: soggiunse il gesuita terminando la frase, con
accento di mite umiltà e faccia di rassegnata tolleranza. Ditelo pure.
Oh! non crediate d'offendermi. Me, come uomo, voi potete ferire come e
peggio che vi piaccia; non mi lamenterò, vi benedirò anzi. Vorrei esser
fatto segno non solo della vostra ironia, del vostro scherno e del
vostro disprezzo, ma dei più fieri insulti eziandio e dei mali
trattamenti. Ricordate ch'io son servo e ministro di Colui che venne in
terra per tutto soffrire dagli uomini in beneficio degli uomini, di
Colui che disse: «se vi percotono la guancia destra, e voi porgete la
sinistra.»

Queste parole pronunciate con un tono dolciato ed untuoso che sapeva
d'ipocrita lontano le mille miglia, irritarono vieppiù il paziente: una
matta voglia glie ne venne di percuotere una di quelle guancie paffute
del frate, per porlo tosto in condizione d'applicare la massima del
Vangelo; si tolse di là per resistere alla tentazione, e prese di nuovo
a passeggiare.

Padre Bonaventura, che s'accorse dell'effetto delle sue parole,
continuava:

— Vedo tutta l'irritazione dell'animo vostro, e la capisco. La è
naturale, è necessaria, e vorrei benissimo che la potesse avere uno
sfogo, sicuro che di poi la cederebbe per lasciarvi luogo a penetrare
alla parola di Dio. Deh! (e levò più che mai gli occhi al soffitto)
potess'io essere occasione e vittima anche di questo sfogo: io vi direi
come Temistocle: «batti ed ascolta»; ma per carità, per l'amore di voi
medesimo, per l'anima vostra, rispettate quello che v'ha di più
rispettabile e di più venerando: la nostra santa religione....

Il _medichino_ lo interruppe con impazienza:

— Voi, quantunque gesuita, mancate di quell'arte rettorica che mostrate
a vostro uso alle generazioni crescenti. Mi scongiurate a nome di cose
che non hanno, che non possono avere su di me nessuna efficacia. La
carità? Come volete che ci creda un uomo che gli altri uomini mandano a
morire? L'amore di me medesimo? Fra dodici ore non esisterò più. L'anima
mia? Non credo a questa invenzione dei pusilli che i furbi di tutte le
epoche col nome di sacerdoti, hanno sfruttata per tenere a sè soggetto
il genere umano. Noi siamo un organismo come quello dei bruti, più
perfetto, e che quindi è arrivato al fenomeno del pensiero: distrutto
quest'organismo, tutto è distrutto. La vostra anima l'ho cercata collo
scalpello dell'anatomico, e non l'ho trovata; ho trovato bensì la
materia e le leggi necessarie che la reggono da cui tutto mi viene
spiegato senza bisogno d'altra ipotesi. Come volete voi ch'io rispetti
la religione? La vostra, al par di tutte le altre, non è che un insigne
inganno a cui si pigliano i semplici: l'uomo, stupito egli medesimo
d'avere una ragione, vi ha rinunciato per credere alle assurdità dei
dogmi.

Padre Bonaventura tolse dalla coppa del suo cappello le sue mani bianche
e grassotte, e le levò in alto inorridite. Allora pensò che non
bisognava più indugiare a dar quel certo gran colpo che aveva meditato.

— Sapete una cosa, signor incredulo? diss'egli con maggior forza
nell'accento: io son quello che assistè fino alla morte l'agonia del
povero Nariccia, e ne udì l'ultima confessione.

La botta fu veramente efficace; le guancie già pallide del condannato
impallidirono ancora; un tremito, tosto frenato, gli agitò le membra;
negli occhi corse come uno sgomento; ma il vigoroso atleta si riebbe
tosto; i muscoli della faccia si fermarono in una espressione di feroce
impudenza, lo sguardo sfavillò d'una luce infernale.

— Ebbene? domandò egli freddamente. Che cosa ne volete inferire da ciò?

— Che in questo dovreste riconoscere la mano di quel Dio che negate,
l'opera di quella Provvidenza cui bestemmiate.

Gian-Luigi crollò le spalle.

— Non ci vedo che il fatto naturalissimo di un caso volgare. È vostro
mestiere udire confessioni ed assistere moribondi.

Il gesuita piantò in faccia al condannato i suoi occhi fissi, acuti,
penetrativi.

— Gli è da lungo tempo che io conosceva messer Nariccia: diss'egli
lentamente: fin dal tempo ch'egli era ragioniere del fu marchese di
Baldissero, padre dell'attuale.

Il lieve movimento con cui si rivelarono l'interesse e la sorpresa di
Gian-Luigi, non isfuggì allo sguardo attento del frate.

— Io sapeva già molto di lui e della sua vita: continuò questi con la
medesima lentezza: ma non sapevo _tutto_..... Di un uomo qual era quel
povero Nariccia (Dio gli voglia usare misericordia!) è impossibile saper
mai tutti i segreti; ma in faccia al sepolcro, al momento di comparire
innanzi al giudice eterno, anche le anime più nere e più false sentono
la pressione della verità e provano il bisogno di riconoscere la
giustizia divina.

Quercia protestò con un sorriso.

— Eh! esclamò egli. Ho conosciuto anch'io e per bene quello sciagurato.
Era un impostore.....

— Innanzi alla morte ed alla paura della dannazione eterna non vi hanno
più ipocrisie. Quell'uomo disse tutta la verità, così che io potei
riparare ad un grave errore in cui per sua colpa stava per cadere
un'illustre famiglia, adottando come suo membro un estraneo che non le
apparteneva.

Il _medichino_ non pensò neppure a dissimulare la sua meraviglia.

— Ah! siete voi che avete appreso al marchese la verità?... Voi dunque
sapete tutto?

— Vi ho già detto che così era.

Padre Bonaventura non ebbe più dubbio nessuno sull'essere del giovane.
S'e' non fosse stato lo smarrito fanciullo, come avrebb'egli avuto
cognizione di codeste cose?

— Or bene: disse dopo una brevissima pausa il condannato: per qual
motivo venite voi a ricordarmi codesto? Poichè siete così appuntino
informato a tal riguardo, saprete pure che tutto ciò gli è, dev'essere
come se non fosse stato mai, che quindi non se ne ha pur da discorrere.

— Vengo a ricordarvelo, disse il frate, appunto perchè nella sequela di
questi avvenimenti riconosciate qualche cosa di più che l'opera del
caso, la mano di quell'Essere supremo che tutto muove.

Volse uno sguardo verso i due confratelli della Misericordia, che fino
dal principio del colloquio si erano ritratti il più lontano che si
potesse, ed abbassò tuttavia la voce perchè neppure il suono di una
parola giungesse sino a loro.

— Quel bambino cui Nariccia derubò dell'aver suo e volle smarrito fu
quello che venne ad assassinarlo, spogliarlo e trarlo a morte...

Questa vicenda di casi era veramente così speciale che già n'era stato
colpito, meditandovi sopra, l'assassino medesimo; nel rimettergliela ora
innanzi la mente, fra' Bonaventura, che aveva di botto determinato
giovarsi di quella circostanza per influire sull'animo del giovane,
ridestò in costui tutta l'emozione, tutto il turbamento che già
pensandovi da solo, egli ne aveva provato. Fece vivamente un atto colla
mano come per dirgli, per imporgli tacesse, ed allontanatosi da lui,
stette un istante immobile, muto, colla faccia nascosta nelle palme
delle mani. Ma fu breve l'istante della sua commozione; la fiera natura
non tardò a riagire in lui: rialzò la faccia in cui brillava da
agghiacciare il sangue a chi lo mirasse in tutta la sua potenza malefica
un sogghigno mefistofelico e disse con acre ironia:

— Io non sono dunque stato, a vostro senno, che lo stromento della
Provvidenza, per punire la colpa di quell'....

Trattenne l'epiteto oltraggioso che stava per uscire dalle sue labbra a
carico di quell'individuo da lui ucciso.

— Di quell'uomo: soggiunse ripigliando. Non c'è dunque imputabilità in
me. E che s'immischia la giustizia umana a voler sindacare gli atti e
gli stromenti di quella divina?... Se la voleva concedersi gusto di fare
un processo, non è a me che lo doveva rivolgere, ma a Domineddio.

— Sì, rispose il gesuita, voi foste stromento della Provvidenza, come lo
siamo tutti quanti siamo, effettuando ognuno il disegno di Dio; ma ciò
non toglie che ciascuno debba portare la risponsabilità dei suoi atti.

— Signore, interruppe Gian-Luigi, queste le sono teorie filosofiche da
spacciarsi ai babbei che adottano lo stupido assioma: _credo quia
absurdum_. Se io nei miei fatti sono l'agente d'una volontà superiore
che mi domina, non posso io essere accagionato di quel che faccio; non
ho più la libertà del mio arbitrio, e senza questa libertà come aver
merito o colpa?

Stimo troppo fastidioso pei miei lettori il riferir qui le ragioni
addotte dal gesuita a difendere le grandi teorie dell'esistenza di Dio e
dell'anima umana immortale, non che la guisa con cui esprime questi
principii ne' suoi dogmi, nel suo culto e nella sua disciplina (tutte
cose che si tengono) la religione cattolica. La sostanza fondamentale di
tutti quegli argomenti era quella medesima che abbiamo visto nelle
parole di Don Venanzio, allorchè ebbe luogo tra lui e Maurilio la
discussione religiosa che fu riferita per sommi capi; con questa
differenza però, che dalla parte del parroco di villaggio v'era maggior
bonarietà e vi si sentiva più profonda convinzione e più sincerità di
buona fede; in Padre Bonaventura erano invece maggior quantità di
arzigogoli d'argomentazione scolastica da teologia di seminario, ed
abbondosi quegli ornamenti (che nel discorso dell'umil prete mancavano
affatto) dell'eloquenza gesuitica carezzevole, untuosa e sdolcinata.

Gian-Luigi oppose con acerbo disdegno tutte le difficoltà che suole
affacciare il materialismo alle idee spiritualiste da Lucrezio in poi,
rincalzate dall'aiuto potente che gli vennero a dare le scoperte della
scienza moderna; ma il gesuita non solo condannava, sì ancora negava la
scienza, non si contentava di cercare ai progressi positivi della
medesima un'interpretazione che si potesse accordare coi principii da
lui sostenuti, ma que' progressi contestava addirittura coll'ignoranza
superba di chi nei quattro _cujus_ della sua teologia vede racchiuso
tutto lo scibile umano, e pretendeva disfare ogni argomento avversario,
scombussolare la dialettica delle deduzioni oppostegli colla
indiscutibile autorità della rivelazione. Que' due individui
rappresentavano due estremi opposti dell'umana ragione uscita dalla
strada normale della sua vera capacità; il gesuita era di quelli che la
volevan trarre all'eccesso dell'abdicazione, Gian-Luigi apparteneva allo
stuolo temerario di coloro che per troppo orgoglio della medesima, per
volerla fare troppo assoluta sovrana sono costretti a degradarla sino
alla compiuta dipendenza di lei dalla materia. Era impossibile che
s'intendessero.

— Oh sentite: disse ad un punto il giovane impazientito: mi è avviso che
voi sciupate il vostro tempo, e che a me, quel poco che mi rimane, non
me lo lasciate così piacevolmente occupare come si potrebbe. Io non
credo a nulla, nè a Dio, nè a diavolo, nè alla mia anima, nè alla
vostra, e non credo neppure al vostro zelo, nè alla vostra buona fede.
Quello che voi volete si è conseguire il vanto di aver ottenuta la
meravigliosa conversione del famoso scellerato di cui parla tutta la
città. Bene, facciamo un patto. Tutto a questo mondo è finzione; ed ogni
uomo sostiene una parte mostrandosi diverso da quello che è: io non ho
fatto altro nella mia vita che rappresentare la commedia, posso bene
terminarla acconciandomi ad un'ultima finzione in un ultimo episodio.
Gli uomini che tutti non vogliono altro che ingannare altrui, non
meritano altro che di essere ingannati. Lasciatemi tranquillo ed io farò
da convertito, e domattina mi adatterò a tutte le scioccherie che voi
vorrete. Il mondo sarà edificato, e la brava ignoranza del volgo
popolerà il paradiso d'un beato di più.

Il gesuita non rispose; pareva che pensasse ad altro; quando verso
l'uscio fu udito uno scalpiccio ed un bisbiglio; i due personaggi di
questa scena rivolsero a quella parte un'occhiata e videro due persone
che volevano entrare, ed a cui i fratelli della _misericordia_
impedivano il passo, dicendo:

— Pel momento non si può; sta col confessore.

Padre Bonaventura vide una di quelle persone vestita de' panni neri del
prete, e parlò ad alta voce, tanto da essere udito anche da chi stava
sulla porta:

— Diletto figliuolo, oh come benedico Iddio di aver data alle mie povere
parole tanta forza da avervi tocco il cuore, sgombrata la nebbia dalla
mente, e fattavi scorgere la luce sublime della nostra santa
religione!...

Gian-Luigi represse una risatina, scambiò col frate uno sguardo profondo
in cui quelle due anime si penetrarono, e disse sottovoce:

— Ad impostore, impostore e mezzo.... Il patto è dunque accettato.

— Volete ch'io dica qualche cosa al marchese di Baldissero?

— Ditegli che ho tenuto parola....

Ma in quella il condannato riconobbe quali erano le persone cui i
confratelli della _misericordia_ impedivano dall'entrare, e si slanciò
vivamente verso di essi.

— Lasciate, lasciate passare.... Madre mia! Mio buon Don Venanzio,
venite, venite.

Entrarono la vecchia contadina ed il vecchio parroco del villaggio. Il
gesuita, dritto in piedi, si trasse un poco da un canto, e rimase lì ad
osservare.

Margherita non pronunziò parola: il suo non fu che un gemito: si gettò
al collo del giovane e scoppiò in pianto dirotto, quantunque a vederne
le ciglia rosse, le occhiaie infossate, le pupille spente si sarebbe
detto che quella donna aveva già pianto tante lagrime da esaurirne la
fonte.

Il condannato la guardava e l'accarezzava con aria di profonda e tenera
compassione.

— Via, via: diss'egli poi con voce commossa: fa cuore, povera donna!...
Dovresti tu piangermi così? Dovresti tu ancora amarmi cotanto?..... No
certo. Io sono stato per te il più sconoscente dei figliuoli: mi avresti
dovuto cancellare dalla tua memoria e dal tuo cuore. Gli è dunque che tu
sei organicamente costituita per amare, come la pianta per fiorire e
l'ape per raccogliere miele.

La povera vecchia non capiva nulla, non dava retta a nulla, non faceva
che piangere e stringere a sè il giovane, come se temesse venissero
allora a strapparglielo dalle braccia, ed essa lo volesse difendere
contro tutti e contro tutto.

— Oh quanto ora mi duole, soggiunse Gian-Luigi, di non averti rimeritata
come avrei dovuto.

Don Venanzio, che aveva udito entrando le parole di frà Bonaventura ed
aveva sentito allietarsi il cuore nella credenza della conversione
religiosa del giovane, prese le ultime parole di costui come
un'espressione parziale di quel pentimento che la nuova fede
riacquistata aveva suscitato nell'anima del reo, e si confermò nella
lusinghiera opinione da lui concepita del ravvedimento di Gian-Luigi e
della sua acquiescenza alle verità della fede.

— Giovanni: disse il buon vecchio commosso; riconoscere i proprii falli
è il primo atto di chi si pente e sta per purgarne l'anima sua. Quella
medesima ingratitudine che ora confessi verso la donna che ti fu
amorosissima madre di adozione, l'hai avuta verso la Provvidenza che ti
fu larga di tanti doni.....

— E sopratutto d'una così bella sorte: soggiunse amaramente Gian-Luigi.

— Ella volle colla medesima porre al cimento l'anima tua: riprese
vivamente il parroco, a cui le parole del giovane tornarono di botto il
timore che la conversione di lui non fosse così certa come s'era
lusingato. Ma il _medichino_, che non bramava ricadere in quei discorsi,
si affrettò ad esclamare con tono d'ipocrisia che la sua abitudine di
fingere faceva naturalissimo:

— Lo so, lo so; e benedico appunto quella buona Provvidenza, che
traverso tanto succedersi di vicende mi ha menato a questo punto. La si
rallegri anco Lei, caro Don Venanzio, che ha la bontà d'interessarsi
alla salvezza della miserabile anima mia: io ho aperto gli occhi alla
luce della verità, ed ecco il benemerito che colla sua dialettica, colla
sua eloquenza veramente ispirata da lassù, ha eseguito su di me questa
operazione di cataratta morale.

Accennava ciò dicendo a Padre Bonaventura, il quale nell'angolo dove
s'era ritirato e stava ad osservare ogni cosa, prendeva una mossa tutto
modesta, avvolgendo in un'ostentata umiltà di cristiano e di frate il
merito e il vanto dell'allegata sua vittoria sull'errore. Nelle parole
del condannato c'era una finissima beffa, e nell'accento una velata
ironia, cui ben sentì lo spirito arguto del gesuita, ma di cui non
s'accorse menomamente la bonaria semplicità e la buona fede della
candida anima di Don Venanzio.

Questi si rivolse adunque verso il frate, e con vera espansione di
affetto ammirativo, quasi di riconoscenza, gli disse:

— Permetta che anch'io, il più umile dei servi del Signor nostro che è
ne' cieli, la ringrazi e la benedica per questa sua così bella e felice
opera di carità. Io veniva qui piegando sotto il grave carico che
credevo Dio mi avesse imposto: quello di condurre alla verità
quest'anima miseramente traviata, e sentendo impari al còmpito le deboli
mie forze. Ecco che pietoso Padre di lassù ha suscitato a tempo Lei per
ottenere questa difficile vittoria, ch'io avrei forse invano cercata.
Sia lodato e benedetto il Nome dell'Altissimo, e lasci ch'io nell'opera
sua, reverendo, riconosca ed adori la clemenza e l'onnipotenza divina.

Tese una mano al frate, il quale pose in essa la punta delle sue dita.

— Sì: disse poi Padre Bonaventura con maggiori le mostre della sua
ipocrita umiltà, torcendo il collo, serrando le labbra, alzando di
traverso gli occhi al soffitto: io non sono che un misero stromento di
cui piacque servirsi al Signore. Io non riconosco altro merito in me, ed
innalzo al trono del Creatore i più fervidi rendimenti di grazie.

Il _medichino_ ebbe di nuovo sulle labbra il più perfido sogghigno
mefistofelico: ma per fortuna Don Venanzio non lo vide.

— Ella ha forse già udito in confessione questo infelice? domandò il
parroco al gesuita.

— Sì: rispose quest'ultimo scambiando uno sguardo d'intelligenza col
condannato: e domani prima dell'alba tornerò per recargli il santo
viatico ed accompagnarlo fino all'ultimo passo tremendo.

A questo ricordo dell'orribile fatto che attendeva Gian-Luigi, Don
Venanzio ebbe un brivido in tutta la persona, Margherita mandò un
gemito, il condannato solo stette impassibile, ma un sospetto gli
attraversò la mente.

— Che costui sia mandato dal marchese per custodire sulle mie labbra il
suggello affinchè non ne sfugga il segreto della mia nascita? Pensò
egli, e un vivo interno dispetto diede uno speciale bagliore allo
sguardo con cui ricevette l'addio affettatamente affettuoso con cui lo
salutava il gesuita; il quale saputo ciò che lo interessava, si sentiva
ora disagiato a star lì fra l'ironia diabolica del condannato, e
l'angelica buona fede del parroco del villaggio.

— Questo taumaturgo convertitore: disse il _medichino_, senza più
dissimulare la sua malvagia beffa, quando il frate fu partito: è dunque
molto famigliare del marchese di Baldissero?

— Sì: rispose il buon prete che non capì la ragione di questa domanda:
aveva già molta attinenza con quella famiglia fin dal tempo del fu
marchese padre dell'attuale.

— Gli è perciò che questi volle affidata a lui sì nobile missione.....
Lei, Don Venanzio, è troppo buono e troppo onesto perchè l'accettasse e
fosse capace di compirla.

Il parroco allargò tanto d'occhi.

— Che missione? domandò egli: quella di convertirti?... Ah! gli è lungo
tempo che pregavo il Signore me ne rendesse degno e mi accordasse la
forza e l'abilità di sostenerla....

— No: disse bruscamente Gian-Luigi: si tratta d'una missione meno nobile
a cui la sua delicatezza avrebbe disdegnato, caro Don Venanzio; il
marchese non si fida della mia parola e mi ha mandato intorno
quell'ipocrita d'un frate a sorvegliarmi, perchè io non racconti a
nessuno il segreto dell'esser mio.

— Che di' tu mai? esclamò il parroco in una meraviglia che pareva quasi
spavento. Il marchese, sappilo, è incapace di un simile tratto, e quel
santo religioso non si assumerebbe mai una tal parte.

— Quel santo religioso! interruppe con un ghigno il condannato a cui
scappò la pazienza. Quel birbo d'un gesuita, mio caro Don Venanzio, è il
più matricolato impostore che sia stato mai sotto la cappa del cielo.

E raccontò in breve con parola vivace e risentiti colori ciò che
poc'anzi era intravvenuto fra lui e il frate.

A Don Venanzio, cui questa cosa tornava incredibile, parve di fare un
brutto sogno.

— È impossibile! andava egli esclamando, le mani levate in alto
nell'espressione dell'orrore da lui provato a siffatta rivelazione: non
può un ministro di Dio scendere sì basso, tradire così il suo dovere,
mentire nella più sacra cosa ch'egli abbia!

E poichè Gian-Luigi ebbe confermato con solenne asseveranza il suo dire,
il vecchio sacerdote, dolorosamente sbigottito, uscì a domandare:

— Ma dunque non è punto vera la tua conversione? Non è punto vero il tuo
pentimento?

— Conversione! Pentimento! disse il condannato con amarissima ironia. Mi
lasci esser sincero, Don Venanzio: è nel mio carattere, e mi è debito in
queste ore supreme il dire audacemente la verità. S'io fossi riuscito
nell'opera che avevo intrapresa — opera assai più vasta e terribile di
quanto il pubblico crede e i giudici hanno appurato; — mi sarei io
pentito? avrei avuto rammarico dei mezzi adoperati? No certo! Ho comune
con quella setta di cui veste la tonaca ed ha i pensieri ed usa gli
accorgimenti quell'ipocrita che è testè uscito di qua, ho comune coi
gesuiti, dico, il principio che qualunque sieno i mezzi, poco importa,
purchè si arrivi alla meta... Mezzi buoni e mezzi cattivi... Ma nulla è
di assoluto per l'uomo, e il male non è che un particolar modo di vedere
e di sentire secondo le epoche, l'educazione, le diverse qualità di
razza, di temperamento, d'intelligenza. Quando la maggior parte degli
uomini si accorda a dir male una cosa, ha il diritto colla forza che dà
il numero di imporre la sua credenza altrui. Sia: tutto è dominio della
forza quaggiù e finchè un'altra forza non la vince, governi il mondo
morale quell'opinione e punisca i violatori della sua ortodossia: ma il
vinto, il punito, ha pur diritto nel suo foro interiore di protestare,
di serbare la sua credenza, di pensare come vuole. Me colpisca pure la
dominante prepotenza sociale, ma la non può farmi da me rinnegare me
stesso, condannare il mio fatto, smentire la mia individualità. Io non
mi converto e non mi pento.

Don Venanzio levò al cielo le palme con mossa d'uomo inorridito.

— Oh sofismi orgogliosi dell'errore! esclamò egli. Ma sventurato che tu
sei!... Ciò che è male non ti accusa e denunzia la tua stessa coscienza?

— Che cos'è che chiamano coscienza gli uomini? Per molti — per quasi
tutti — è un'intima, inconscia viltà; è il residuo di vane credenze e
paure istillate nell'animo umano dalla presente educazione infantile e
delle quali, tanta è l'impronta, rimane pur sempre in ognuno, checchè si
faccia, un ricordo. La coscienza del cristiano è diversa da quella del
musulmano, questa da quella del buddista, e diversa da tutte è quella
del selvaggio che non ha punto, od appena se un adombramento d'idee
religiose. È dunque la nostra coscienza l'arbitro per ciascuno del bene
o del male? E se la mia coscienza mi lascia tranquillo, egli è segno
quindi che non è male quel ch'io ho fatto?

— Perchè tu l'hai pervertita dall'influsso delle inique passioni, dai
sofismi del tuo intelletto, ribelle al suo Creatore.

— E perchè le passioni non sarebbero esse una scorta verso il vero fine
dell'esser nostro?

— Lo sono, quando contenute nei limiti dal timor di Dio e dall'amor del
prossimo.... L'idea del bene non è una chimera, perchè trovasi in tutto
il genere umano, a qualunque grado di coltura sia giunto. Anche il
selvaggio che tu citavi poc'anzi, ha in fondo in fondo alle poche sue
idee una nozione confusa, incerta, ma pure essenziale, del bene e del
male. A seconda che l'uomo progredisce, quest'idea si fa più netta, più
complessa insieme e più giusta; finchè la nostra santa religione ce ne
dà la più compiuta e perfetta, perchè l'ultima espressione del vero,
perchè rivelata da Dio.

— E chi non ci crede è dannato! esclamò con diabolico sogghigno il
_medichino_.

Margherita non aveva parlato più, non s'era nemmeno mossa più sino
allora; la teneva fra le sue una mano del giovane, e cogli occhi umidi
lo stava contemplando, mentre il suo povero vecchio capo tremolava sul
suo collo magro e in giù chinato dal peso degli anni. Ella non capiva
molto le cose che dicevansi fra il parroco e il suo figliuolo
d'adozione: la sua mente era troppo oppressa perchè potesse afferrare
quelle idee, che in realtà eccedevano eziandio l'arrivo della sua
intelligenza, e l'unico pensiero immanente, incessante che la possedeva
era quello della morte incombente sul capo del suo caro. Ma a quella
esclamazione di Gian-Luigi un raggio le penetrò di botto nel cervello
abbuiato, e le fece scorgere la sostanza dei discorsi cui non aveva
capito. Si trattava della salvezza del suo Giannino, e di una salvezza
ben più importante di quella della vita, della salute eterna. L'idea che
il dilettissimo giovane avrebbe potuto essere colpito da
un'irrimediabile eternità di pene la colse allora per la prima volta, e
spaventò a dismisura la sua cieca e fervente fede di cattolica.

— No, dannato: gridò ella con indicibile sbigottimento: no, Giannino, tu
non hai da essere dannato! Non voglio saperti nel fuoco dell'inferno....
Pazienza io!... Darò piuttosto la mia anima al demonio, in cambio della
tua.... Ho già meritato la collera di Dio con un falso giuramento per
giovarti: Don Venanzio mi disse che il Signore, mercè un buon
pentimento, mi avrebbe perdonata.... Perdonerà anche te, figliuol mio: è
così buono e clemente il Signore!... Domandane al nostro parroco: dà
retta a quel che ti dice: pentiti e Dio ti accoglierà, anche te, nel suo
regno.... Pentiti, te ne prego, pentiti per amor mio, se non vuoi farmi
dannata anche me.... Io già nel paradiso non ci vo' stare, se non vieni
anche tu.... Vuoi tu farmi precipitar nell'inferno?

E stringeva le mani del giovane, e pregava oltre che colle parole, collo
sguardo, e singhiozzando, agitava più che mai nel suo tremolìo della
vecchiaia il povero capo canuto.

Il condannato le fece una carezza.

— Sta tranquilla, povera donna! Nel mondo di là, non avrai niun
dispiacere da me per questa — nè per altra cagione, te ne assicuro io. E
tu ed io, non dubitare, saremo tutti salvi ad un modo.

Poi si rivolse al prete.

— Una buona confessione adunque, l'assoluzione datami da un uomo mio
pari scancellano agli occhi di Dio ogni colpa e mi farebbe degno della
beatitudine eterna. E così quello che fu uno scellerato tutta la sua
vita — Nariccia per esempio — con dieci minuti di pentimento, quando
sente la vita sfuggirgli, e con qualche cerimonia, ricompra tutto il suo
passato, compensa tutto il male che ha fatto e va dritto a prender posto
in mezzo ai santi, mentre l'uomo che per tutta la vita fu saggio ed
onesto, anche secondo quei dettami di morale di cui la maggioranza
dell'umanità ha idea, se muore negando fede, oppur serbando un dubbio
soltanto a qualcheduna di quelle assurdità che il sacerdozio vuole
imporre alla sua ragione come dommi indiscutibili, si trova eternamente
dannato.

— Questo chi lo può assicurare? disse il parroco tanto mite d'indole e
d'anima sì generosamente pietosa che sentiva non dover metter limiti
alla clemenza di Dio. Quel di lassù vede meglio di noi lo stato
dell'anima che si presenta al suo giudizio e sa adattare ai meriti di
essa la sorte che le conviene. Infinita inoltre è la sua bontà.....

— Ah non dica: interruppe il _medichino_ uscendo da quella ironica
freddezza con cui aveva parlato sino allora, e dando al suo accento una
vivacità che toccava all'indegnazione: infinita bontà la sua, mentre è
articolo di fede la eternità delle pene! È una crudele contraddizione.
Come! Per gli errori di una vita che è un soffio, che è un nulla al
cospetto del tempo senza fine, la mia anima immortale sarà perduta
eternamente, senza più rimedio, senza possibilità nessuna di
riabilitarsi; il destino della mia immortalità sarà deciso dal breve
esperimento d'un attimo ed irrevocabilmente. Dopo un passaggio nella
volgare esistenza terrena, le anime piomberanno nell'inerzia eterna,
queste — le poche — felici sempre, quelle — le moltissime — sempre
tormentate? Un istante d'operosità senza causa in mezzo al nulla da una
parte, all'ozio infinito dall'altra. E sopra i dannati a cui si
rinnovano sempre più crudeli i dolori, Dio immutabile e compiacentesi,
autore del male. E questa è per loro la suprema bontà?

Il buon parroco, a questo punto, tacque un poco, non senza qualche
imbarazzo. Era questo un argomento che agiva di molto, non tanto sulla
capacità del suo intelletto, quanto sulla bontà del suo cuore.

— Vogliamo noi, misere, deboli, insipientissime creature che siamo,
comprendere, giudicare, misurare alle povere idee che possiamo aver noi
l'Ente supremo, infinito, assoluto, il Creatore di tutto, e le sue
qualità, e, mi perdoni l'Altissimo, i suoi doveri?

Troppo lungo e fastidioso sarebbe riferir tutte le parole che intorno a
questo argomento si scambiarono tra il prete e il perverso spirito
impenitente dell'assassino, in mezzo a' quali frappose le sue
lamentazioni anche la povera Margherita. Ma nè le ragioni e le
esortazioni del sacerdote, nè le preghiere della vecchia contadina
valsero a smuovere pur di un punto la pertinace incredulità di
Gian-Luigi, quando, verso sera, un altro personaggio entrò nella cella
che serviva di _confortatorio_ al _medichino_: Maurilio.

Era un moribondo che camminava: le sue membra tremavano, e il passo
vacillava come quello di un ebbro. Era la forza della volontà, avreste
detto anzi che era una potenza superiore, estrinseca all'individuo, che
reggeva quel corpo sfibrato, che conteneva e faceva funzionare
quell'organismo. Aveva dei movimenti automatici, ora bruschi, ora
incerti come se determinati da molle e da suste di un meccanismo
guastatosi. Recava seco nel color delle guancie, nella macilenza del
viso qualche cosa di sepolcrale, quasi avreste detto un odore di fossa;
il dito della morte era chiaramente impresso su quella fronte che pareva
diventata più ampia, su cui parevano drizzarsi più irti e stecchiti i
neri capelli. Eppure dal fondo di quelle occhiaie più infossate,
raggiava una luce d'intelligenza che era maggiore di quanta possa
brillare in occhio umano; e sulla grossolana volgarità di quelle
sembianze plebee era sparsa come una fosforescenza, quasi pareva
distesavi intorno un'aureola.

Chi lo aveva avvisato di ciò che succedeva, e che quello era l'ultimo
giorno dei condannati? Non una voce umana di certo. Tutti gli amici che
lo visitavano avevano cura grandissima di non parlargliene, credendo con
ciò aggravare e la passione dell'animo suo, e quindi il suo male; ned
egli aveva interrogato nessuno: ma ad un punto, dopo circa mezz'ora
d'uno di quei sopori in cui cadeva di quando in quando, Maurilio s'era
ridesto con una scossa e senza dire pure una parola, disceso
stentatamente dal letto, aveva cominciato a vestirsi. A chi ne lo volle
impedire e gli fece presente la sua debolezza che non lo avrebbe
lasciato reggersi in piedi, il danno maggiore cui questo sforzo avrebbe
recato alla sua salute, egli aveva risposto con una fermezza che in lui
non era molto abituale:

— Debbo far così — e lo voglio. Ho un gran dovere da compiere. Lo
spirito mio protettore mi vi spinge e mi guida e mi sorregge. Esso mi
darà la forza. Lasciatemi andare.

Nulla valse a rimuoverlo dalla sua volontà, e il marchese, che dovette
acconsentirvi ancor egli, ottenutagli quella licenza, ch'ei desiderava,
di visitare i condannati a morte, lo faceva condurre in carrozza fino
alla porta della carcere. Per primo domandò vedere _Stracciaferro_.
L'assassino, riempitosi a spavento di cibo e di bevanda, erasi
addormentato e russava fragorosamente in una impostatura, con tutte le
apparenze d'un uomo briaco morto.

Maurilio si fermò innanzi a lui a contemplarlo, ed una indicibile
amarezza gli occupò con forza maggiore di prima l'animo addolorato. Che
cosa c'era ancora d'umano, d'intelligente in quella massa di carne
abbandonata soltanto agli istinti brutali, alle leggi della materia? Che
faceva lo spirito immortale dentro quell'organismo degradato? E quello
era suo padre! La fiamma di vita che ardeva in lui s'era accesa a quel
focolare; da quel sangue era stato originato il germe ond'egli era
prodotto, era carne di quella carne il corpo che ospitava la sua
intelligenza, il suo pensiero. Se l'opera educativa di Don Venanzio non
avesse cominciato dapprima a far entrare qualche po' di luce superiore
nelle tenebre del suo cervello; se la fortuna non gli avesse messo a
disposizione i libri del signor Defasi dove il suo spirito s'era
affinato, afforzato, innalzato, avrebb'egli resistito alle infami
seduzioni del carcere in cui l'avevano fatto precipitare, alle
scellerate lusinghe di _Graffigna_, ai più scellerati consigli della
miseria? Figlio di quell'assassino, sarebbe diventato come suo padre:
ecco quello che la società avrebbe avuto di lui, se il destino alla
tutela di lei soltanto l'avesse affidato.

Uno dei fratelli della _misericordia_ che assistevano il condannato, non
sapendo quali attinenze corressero fra questo giovane e l'assassino,
attribuì a sola curiosità lo sguardo cui Maurilio fissava
sull'addormentato prigioniero, e gli disse:

— Questa è proprio una bestiaccia senza lume di ragione: non ha fatto
che mangiare a quattro ganascie, ingoiar vino e grugnire: non si è stati
capaci nessuno di fargli pronunziare due parole che avessero senso.

Maurilio volse verso colui che gli aveva parlato la sua faccia di
cadavere, e rispose mestamente:

— Egli è mio padre.

Il fratello della _misericordia_ fu tanto confuso e mortificato che non
seppe aggiunger sillaba: mandò un'esclamazione, e ritraendosi quasi
nella sua gran cappa bianca, come se tutto volesse nascondervisi al par
della lumaca nella sua conchiglia, si ridusse nell'angolo il più lontano
che potè.

Maurilio contemplò ancora un istante suo padre addormentato. Su quella
faccia ebriosa, color del mattone troppo cotto, non un'espressione, non
un movimento che accennasse soltanto ad una morale sensibilità
qualunque: i lineamenti fattisi vieppiù grossolani, che parevan gonfi,
che si sarebbero potuti dire turgidi di vino, avevano una placidità
stupida da animale bovino che sta ruminando: un respiro grave e
romoroso, ma tranquillo e regolare, dinotava in quel quasi mostruoso
ammasso di carne una straordinaria potenza di vita organica, materiale.
Il nostro giovane guardava quella faccia, ascoltava quel respiro con
cuore palpitante, con una ansia angosciosa: ardeva dal desiderio, e
raccapricciava per paura d'interrogare quella sfinge imbestialita e di
sentirla rispondere; di cercare in mezzo a quella corruzione, a
quell'orrore, a quell'ignobile lezzo l'anima d'un padre. Allungò la mano
per iscuoterlo ad una spalla, ma se ne trattenne.

— Perchè svegliarlo? si disse. Egli ora è tranquillo e non ha un
pensiero che lo crucci: gode già tutti i benefizi della morte senza i
dolori dell'agonia. Ch'io aspetti che la natura medesima o la necessità
lo richiami al sentimento della sua condizione.

Abbandonò quella cella e domandò di essere introdotto presso Gian-Luigi.



CAPITOLO XXXII.


Il _medichino_ s'era trovato a fronte all'ipocrisia gesuitica, colla
fede sincera ma cieca e condannante la ragione; ora si trovava innanzi
una credenza che si appoggiava del pari sopra le aspirazioni più nobili
dell'anima umana e sopra le deduzioni del ragionamento, sostenuta dai
misteriosi impulsi della natura e dalle verità scoperte dalla scienza
moderna. Il grande intelletto di Maurilio, tutto questo aveva raccolto
in una sintesi potente, e creatone l'edificio monumentale d'una
grandiosa percezione dell'universo. Mai l'ingegno del figliuolo della
plebe non era stato così eccitato nella forza della sua comprensione:
mai la parola non aveva nel suo linguaggio così giusto e così vivamente
tradotto il suo pensiero. Senza indugio, senza preamboli egli aveva
affrontato il ponderoso argomento.

— Tu, non è guari, disse al condannato, sei venuto da me, per iniziarmi
a certi tuoi concetti affine di conquistare insieme questo povero mondo
terreno: io vengo da te in questi supremi istanti, per farti brillare
quella luce dell'intelletto onde tu puoi conquistare il mondo dell'idea,
del vero e dell'eterno.

Svolse senz'altro quelle sue teorie di cosmogonia del mondo invisibile,
compagno ed anima del mondo materiale, quell'indefinito e forse infinito
progresso dalla materia alla sensazione, dalla sensazione alla
intelligenza, dall'intelligenza al sapere che forse non si arriverà mai,
quel grandioso quadro dell'universo in cui la vita umana non è centro,
non è principale, non è prova unica, nè definitiva, nè ultima, sibbene
un lieve e fugace episodio, un passo, un grado, una fase di svolgimento,
come il globo che ci sostiene è nel mondo astronomico non altro che un
granello della sabbia infinita de' mondi seminati traverso lo spazio
senza limite; svolse tutte quelle idee, insomma, che lo udimmo già
adombrare nella prigione del Palazzo Madama al suo amico e compagno,
Giovanni Selva, e che qui non si ripetono per evitare accrescimento di
fastidio ai buoni lettori. Era tanto felice che poteva dirsi ispirato;
le sue idee e il modo ond'erano espresse si presentavano di tal guisa da
afferrare l'attenzione di qualunque, da vincergli la mente e scuotergli
l'animo. La sua era in quel momento una vera eloquenza, dal cui fascino
ogni intelligente doveva restar preso; parlava nello stesso tempo al
cervello ed al cuore, trascinava la parte effettiva e convinceva la
ragione dell'uomo. Le sue stesse sembianze, la sublime dignità che alla
sua faccia volgare dava l'impronta della morte, cui già vi aveva
impresso il morbo, quasi una preoccupazione del mondo superiore a cui
era chiamato, il fulgore dell'anima traverso gli occhi, la voce
cavernosa e pur vibrante con inesplicabile efficacia, tutto concorreva a
dare alla sua intraducibile eloquenza una quasi irresistibil forza. Il
sentimento della superiorità di quello spirito sopra il suo, sentimento
che Gian-Luigi aveva pur sempre avuto in fondo all'animo, senza
confessarlo a se stesso si spiccò più netto e più potente nel condannato
e represse quella empia ironia onde aveva egli accolte le precedenti
esortazioni religiose. In fra' Bonaventura era a parlargli l'interesse
di dominazione umana che s'ammanta di religione e non fa capo che ad una
superstizione che si vuole imposta allo spirito dell'uomo come freno e
impedimento; in Don Venanzio era una sublime ignoranza affermativa alla
quale ei credeva sovrastare per intelletto e per dignità l'audace
negazione del suo orgoglio; ma qui era il genio con tutto l'ardore del
suo intimo fuoco, con tutta l'azione e il prestigio della sua potenza,
con tutto il peso e l'efficacia d'una vera scienza acquistata mercè lo
studio e la meditazione. Gian-Luigi rimase sovraccolto, fu come
sbalordito; gli parve che qualche cosa più che una ragione umana gli
parlasse; ebbe primamente sentore d'una intelligenza superiore a quella
onde si vantaggia l'uomo in questa vita. Quando Maurilio si tacque
affranto dallo sforzo fatto pel lungo parlare, tornato nella sua
primiera debolezza, anzi accresciutasi, accasciato come se la forza
interiore che lo aveva sostenuto sino allora si fosse esaurita, o da lui
dipartitasi, Gian-Luigi stette un istante immoto, in silenzio, gli occhi
volti alla terra, pallido, le ciglia aggrottate, le guancie contratte
dalla forza con cui l'intentività della sua meditazione gli faceva
serrar le mascelle.

— Ebbene? diss'egli poi levando con moto brusco il capo, stringendo
forte al petto le sue braccia incrociate, e saettando sul suo compagno
d'infanzia uno sguardo in cui c'era un raggio quale forse non vi era mai
brillalo per l'innanzi: che cosa conchiuderne a mio riguardo? che devo
fare? che deve esser di me?

Maurilio così rispose:

— L'esistenza del nostro spirito immortale è un avvicendamento di vita
organica quando unito colla densa materia, e di condizione immateriale,
quando traverso la morte del corpo passa ad uno stadio di essere appena
forse se cinto di fluidi imponderabili. Ogni vita organica ha da essere
un travaglio in cui lo spirto si affina, ogni morte un salire nella
scala del progresso indefinito. Chi manca alla sua missione, chi
tradisce il suo debito rifarà forse e con più travagli il cammino. Nel
periodo di esistenza oltre umana a cui stai presso, tu avrai da far
provvista di forza morale per ricominciare forse con ancora più
difficili condizioni la prova. Questa forza alla tua intelligenza già
avanzata nel suo svolgimento te l'ha da concedere la luce della scienza
dell'infinito a cui durante questo stadio che stai per finire, hai
chiuso ostinatamente gli occhi. Sarà quello un lavorìo di
perfezionamento a cui dovrai la capacità di riconoscere ed amare la
virtù nella vita terrena avvenire; quel lavorìo cominciato fin d'ora sul
limite di questa esistenza, e ne avrai tanto di guadagno nell'anima tua.
Riconosci la legge suprema dell'universo; confessa l'intelligenza ultima
verso cui camminano vacillando ed inciampando le deboli nostre; e credi
in Dio.

Che fu? Qual raggio di fiamma divina come saetta penetrò nell'intimo di
quel petto, squarciandolo? Il condannato era seduto, immobil sempre; a
quelle ultime parole si riscosse come crollato da una mano potente, una
ondata di rossore gli corse alle guancie ed un calore inesplicabile,
subitaneo, invadendolo tutto, gli fece spuntare a goccioline sulla
fronte il sudore; mandò un grido che pareva di dolore come uomo
trafitto; sorse in piedi come per rispondere ad un subito appello a cui
non si resiste.

— Dio! Dio! esclamò egli, cacciandosi le mani entro i capelli come un
pazzo. L'infinito, l'assoluto, il vero, la realtà! Mistero, mistero che
ho odiato, perchè non ti ho potuto stringere coll'audacia del mio
pensiero, possedere coll'ansia desiosa dell'anima mia!.... Parlami nella
mia debolezza, parlami nella mia impotenza, parlami nella morte....
Rivelami questa sostanza che non so capire nelle manifestazioni delle
sue parvenze. Se il velo della carne mi offusca l'intelletto, mi fa
ostacolo ai raggi del vero, sono lieto che tu me lo strappi. — Voglio
contemplar la luce, dovessi consumare a quella fiamma il mio spirito, e
distrurlo.... Dio! Dio! ti sento, e vo' comprenderti.

Ricadde come spossato. Maurilio rispettò col silenzio la stanchezza di
quella crisi. Dopo un poco Gian-Luigi tese una mano al suo compagno
d'infanzia, e disse modestamente:

— Credo alle tue parole, e ti ringrazio.

Stettero un pezzo seduti vicino, tenendosi per mano, discorrendo sotto
voce soavemente. Quando la notte era già di molto inoltrata, Maurilio
s'alzò per recarsi presso suo padre.

Gian-Luigi lo abbracciò strettamente.

— Non ci rivedremo dunque più: diss'egli con una emozione contenuta, ma
quale non aveva forse avuta ancora per l'addietro: forse mai più!

— Con questo corpo, rispose Maurilio, sotto questa forma, di certo
no.... La forma?... Chi può immaginare quella che vestiremo nelle
esistenze avvenire; qual sia quella che corrisponde allo spirito nostro?
Ma quanto a trovarci ancora nel mondo illimitato degli spiriti e nella
infinitezza del tempo, ciò avverrà, lo spero, ne sono anzi sicuro, e
forse fra non molto. (Sorrise mestamente, soggiungendo:) Picchio ancor
io alla porta del sepolcro, e tu mi precederai di poco nel regno dei
morti. Sta pur certo, che vi ci riconosceremo, e forse ci riconosceremo
avvinti l'uno all'altro dalle memorie di chi sa quali vite anteriori in
questo od in altri mondi; memorie che si ridesteranno al nostro spirito
ora offuscato, al cadergli intorno della carne che gli fa velo.

— Tal sia di noi! esclamò Gian-Luigi, abbracciando un'altra volta
Maurilio. Perchè mi sono io disgiunto da te nella vita? Le tue parole mi
avrebbero salvo. In questi momenti che l'approssimarsi della morte fa
solenni, vedo con più chiaro sguardo in me stesso; una gran qualità è
mancata al complesso delle mie forze: quella dell'amore. Sento ora tutta
la pochezza e l'impotenza dell'egoismo.... Sì; nel mio intimo c'è una
energia che non si può consumare colla morte di questo corpo; bisogna
che ci sieno altre vite in cui impiegarla e svolgerla, farla servire a
qualche cosa, in cui riparare agli errori della presente. Avrò in esse
la facoltà che qui mi è mancata; lo voglio, ed alla possa
dell'intelletto, congiungerò l'intelletto d'amore. Ora vanne; addio! Ed
a rivederci nell'eternità!

Si separarono con occhi asciutti e con un sorriso pieno di speranza sul
labbro; Maurilio entrò nella cella in cui russava ancora
_Stracciaferro_.

L'alba fatale non era lontana che di poche ore; ed un sacerdote che era
accorso a confortare il condannato, volendo approfittare di quel po' di
tempo che ancora rimaneva, svegliava il misero su cui così imminente
incombeva la vendetta sociale. _Stracciaferro_ girava intorno
stupidamente il suo sguardo avvinazzato, e per prima cosa diceva:

— Da bere..... Quell'acquarzente era buonissima.... To' la caraffa è
finita..... La era troppo piccolina..... Me se ne porti un'altra.

Il sacerdote incominciava le sue esortazioni religiose; ma l'assassino,
guardatolo alquanto di quella guisa con cui un lupo preso in trappola
deve guardare il cacciatore che lo viene a spacciare, lo interruppe con
mal piglio.

— Che storia la mi viene a contare Lei? La sappia che a me non piace
quella musica, e che non intendo di quell'orecchia..... Invece di tante
fanfaluche, se la è un brav'uomo, mi faccia dar da bere.... Non mi
occorre altro.

Avendo quell'altro voluto insistere, il condannato entrava in una specie
di furor bestiale.

— Da bere, da bere: gridava egli strepitando. Voglio dell'acquavita.....
Me se ne dia.... Ci ho diritto..... La voglio, dico.

E con un'orrenda bestemmia, poichè aveva afferrata la caraffa, che già
era vuota, la scaraventò con tanto impeto sul pavimento, a dispetto
della _camicia di forza_ onde aveva impacciati i movimenti, che la mandò
in mille frantumi. Il prete si allontanò da lui spaventato: i due
fratelli della _misericordia_ si accostarono per tentar di capacitare
quel forsennato; ma egli strepitava sempre più forte. Ad un punto il
prete, che s'era avvicinato e stava recitando esorcismi in presenza del
parosismo di quel miserabile, sentì un respiro affannoso dietro le sue
spalle ed una voce, che gli disse:

— Mi lascino solo con quest'uomo, li prego.... Me gli è Dio che mi manda
in questo momento presso di lui.

L'aspetto di Maurilio aveva tale imponenza d'autorità che tutti si
ritrassero senza domandargliene altra spiegazione. Egli si avvicinò al
condannato che urlava tuttavia, gridando colla schiuma alla bocca:

— Da bere! da bere!

Gli pose tutte due le mani sulle spalle e si chinò verso di lui,
facendogli piombare addosso uno sguardo da domatore.

— Tacete ed ascoltatemi: gli disse con un accento di comando insieme e
di esortazione.

_Stracciaferro_ lo guardò un istante, stupito, quasi non comprendendo
tanta audacia, nè sapendo immaginarsi ciò che quello sconosciuto gli
volesse; poi una fiamma selvaggia si accese in que' suoi occhi
intorbidati, ed egli parve raccoglier le forze per iscuotere da sè
quell'importuno, come fa il toro de' cani da presa che gli si attaccano
alle tozze membra coi denti nelle così dette _corse_ in Ispagna. Ma
prima che avesse tempo a compir l'atto, il giovane si era chinato
vieppiù verso la faccia bestiale e gli aveva detto con forza:

— Michele Luponi: io son vostro figlio.

La fiamma si spense nelle pupille del condannato, che diventarono
attonite. Stette un poco immobile, evidentemente senza aver compreso il
senso delle parole, ma pur tuttavia colpitone, forse dall'accento con
cui erano state pronunciate.

— Sono vostro figlio: ripetè il giovane: e vengo a voi guidato dallo
spirito di mia madre.

Il miserabile crollò le spalle ed ebbe una ferina occhiata che
annunziava prossimo uno scoppio d'ira.

— Figlio! disse. Che figlio d'Egitto?... Io non ho figli... Non mi
rompere le tasche... Voglio da bere.

— Ricordatevi una notte tremenda a Milano..... la notte dei morti...
Sono ventiquattro anni... Una povera madre vegliava sulla culla del suo
bambino... Due uomini entrarono e fecero a strapparle il nato delle sue
viscere... Ella volle difenderlo, e s'afferrò colla forza disperata
d'una madre che non ha soccorso ad uno dei rapitori: e quell'uomo per
liberarsene le piantò un coltello nel seno.

Gli occhi di _Stracciaferro_ sbarrati avevano presa l'espressione del
più alto spavento.

— Che sapete voi?... Che volete voi?... gridava egli: e pareva che
l'ebbrezza, sotto l'azione del commovimento destato da quel ricordo,
sparisse dal suo ottuso cervello.

— Quell'omicida eravate voi, e il bambino era vostro figlio.

— No, no, non è vero: urlò il condannato cui le chiome arruffate si
drizzarono in capo. Chi ha parlato mai di ciò? Nel processo non se n'è
trattato... Nessuno lo sa, nessuno l'ha da sapere. È forse _Graffigna_
che mi ha tradito?... Io lo ammazzerò come egli ha ammazzato
_Macobaro_... Sono già condannato a morte: che cosa mi si vuole di
più?... Lasciatemi stare; lasciatemi stare; ch'io passi almeno in pace
questi pochi momenti che mi rimangono. Datemi da bere, che il diavolo vi
porti!...

Le nebbie dell'ebrietà tornavano ad invadere quella già mezzo estinta
intelligenza; egli era ricaduto nel suo imbestiamento peggio di prima.

— Da bere! da bere! ripeteva coll'accento, collo sguardo, colla mossa
d'uno scemo.

Maurilio lo scosse con una emozione che pareva di rabbia.

— Ma quel bambino che avete rubato, cui la povera madre ha difeso
inutilmente a prezzo del suo sangue, quel bambino che avete venduto ed
era vostro figlio — quel bambino sono io. — Io sono vostro figlio e
vengo in queste vostre ore d'agonia a recarvi il mio perdono, il perdono
di mia madre.

E il miserabile ormai dissensato del tutto:

— Figlio: balbettava con lingua grossa: non ho figli, io..... Non mi si
venga a seccare..... Vo' da bere..... In _confortatorio_ ci si deve dar
tutto quello che domandiamo..... Io domando dell'acquavita..... Od
almeno mi si lasci dormire... Ho un sonno che non posso tener gli occhi
aperti... Ho una sete che mi divora la gola... Ah! se non avessi le
braccia in queste maniche d'inferno, vorrei ben io mettervi alla ragione
tutti.

— Io non v'abbandonerò, padre mio: disse con mestizia, ma con
risoluzione Maurilio: è mia madre che mi ha mandato presso di voi; lo
sento, lo so; non vi abbandonerò più fino all'ultimo fatale momento...
Questo momento si appressa: e come ci siete voi preparato?... Dite,
dite: non vi ricordate voi che qualcuno vi parlasse un giorno della vita
futura, e di Dio?..... Di certo nella vostra infanzia ve ne ha parlato
vostra madre, perchè voi non foste tolto all'amor suo... Oh richiamatevi
alla memoria quegli anni. La madre vi ha fatto inginocchiare, stringer
le mani e pronunziar parole che avevano una misteriosa virtù di
confortarvi... Ricordatevi! Ricordatevi!... Quel qualche cosa che allora
si rasserenava, si calmava, si consolava in voi, non era questo corpo
che il cibo satolla ed il liquore assonna; quegli intimi, ineffabili
diletti toccavano ben altra parte di voi che quella cui solletica il
vizio... V'è alcun che in voi diverso da quelle membra dallo stravizzo
intorpidite: questo che fu assopito in voi dalla sciagurata vita
materiale, ma non è estinto, perchè non può estinguersi, perchè è
immortale. Cercatelo in voi con uno sforzo di volontà e ce lo troverete,
e potrete ridestarlo. È immortale, vi dico, è quello che chiamiamo
l'anima; e che la distruzione del corpo non distrugge. Voi dovete
morire... perchè lo sapete bene che dovete morire, non è vero?... non
dimenticatelo... Dovete morire tra poco: ma dovete morire voi, uomo qual
siete adesso, voi Michele Luponi, voi _Stracciaferro_; ma quella parte
intima di voi non morrà... quella parte che si commoveva alle dolci
parole materne, alle preghiere infantili,..... quella parte vivrà
ancora, vivrà sempre, vivrà secondo la sorte di cui si è fatta degna.

Parlò a lungo in cosiffatta maniera; parlò della virtù del pentimento;
parlò del riscatto possibile di ogni colpa coll'espiazione e colla
volontà; cercò tutte le fibre del cuore umano per farne vibrar una in
quello del condannato; si commosse fino alle lagrime, fino a quel
trasporto onde pare che un'anima effonda il più intimo di sè nell'anima
d'un altro; aspettò con quell'intensità di desiderio che è tanta da
farci credere impossibile venga delusa, che un cenno, un cenno solo si
manifestasse del ridestarsi dello spirito in quella massa di carne
caduta al di sotto dell'umanità.

_Stracciaferro_ aveva appoggiato un braccio all'inginocchiatoio presso
cui stava seduto e sul braccio aveva reclinata la testa; poteva la sua
mossa esser creduta quella d'un uomo cui le cose udite fanno
profondamente meditare. Maurilio si chinò palpitante su di lui. Il
miserabile, al suono delle parole di suo figlio, cui non aveva
riconosciuto, cui non avrebbe riconosciuto, s'era riaddormentato. Anche
questo massimo dolore era riserbato a Maurilio: percuotere su quel masso
e non poterne sprigionare pur una scintilla della divina fiaccola;
cercare in quella corrotta macerie d'uomo l'anima e non trovarla; e
quello era suo padre! Provò uno spasimo così acuto che minore certo
giudicò dover essere quello della morte; strinse le mani con atto
convulso, torcendosi le dita da rompersele, e levò verso il cielo gli
occhi ardenti di febbre con uno sguardo disperato che pareva un'accusa.

— Madre mia! Madre mia! Esclamò egli come un'invocazione, come un
rimprovero, come uno sfogo.

— Da bere! ripetè l'ebbro, facendo un movimento per cui ebbe a destarsi.

Maurilio voleva parlare ancora; ma erano tornati nella cella e stavano
sulla soglia i fratelli della _misericordia_, il sacerdote ed un uomo
dalla faccia pallida e mesta che teneva in mano una corda a nodo
scorsoio.

Maurilio sentì agghiacciarsi il sangue. Il condannato vide que' nuovi
personaggi e si riscosse; fermò la sua attenzione su quell'uomo pallido,
dalla faccia mesta, che teneva la corda in mano, e conobbe chi fosse ed
a quale scopo venuto, perchè lo saettò di uno sguardo che pareva quello
d'un infelice che tutto è invaso dal veleno della rabbia canina, e si
drizzò di scatto, come per fuggire, o per opporre resistenza al fero
atto che veniva a compiere presso di lui quel ministro della umana
giustizia.

Il primo di quegli uomini che giungesse accosto al condannato fu il
sacerdote.

— Coraggio! gli disse. Il momento fatale si appressa. Nulla più di bene
o d'aiuto avete da sperare nella terra: rivolgetevi a Quel di lassù che
accoglie ogni sincero pentimento, che perdona a qualunque peccatore a
Lui di cuore si raccomandi.

_Stracciaferro_ guardò il prete che gli parlava, mandò un grugnito
soffocato, e dall'espressione di ferocia la sua faccia e il suo sguardo
passarono a quella d'una stupidità bestiale che non capisce. Il fugace
baleno d'intelligenza, che era corso nella sua mente ottusa, erasi già
dileguato, ed egli ricaduto nella tenebra. L'uomo dalla corda gli si era
accostato e dicevagli con voce sommessa e priva affatto d'ogni sonorità:

— Perdonatemi, fratello mio, se io vengo a compiere questo doloroso
uffizio presso di voi; ma il mio dovere me lo comanda.

Ed alzò le mani e le braccia per fargli passare dal capo intorno al
collo il laccio fatale.

Maurilio a quella vista mandò un gemito e fece un passo innanzi, senza
sapere pur egli che si volesse fare.

— Lasciateci: gli disse il sacerdote arrestandolo: ora non tocca più che
a me lo star presso a quell'infelice a compire il debito del mio
ministero.

Maurilio si nascose la faccia tra le palme delle mani, e fu preso da un
tremito universale. Il condannato aveva tentato levar le mani per
allontanare da sè la corda che gli si alzava sul capo; ma la _camicia di
forza_ gli aveva impedito tal mossa; allora, come affranto di colpo,
s'era lasciato ricader seduto colà dove stava dapprima, e non aveva
mostro più che una completa apatia. Suo figlio, sollevando dalle mani il
viso, lo vide colla ignominiosa corda pendente dal collo, il corpo
accasciato in uno svigorito abbandono, e vicino a lui il prete che gli
susurrava parole cui il misero non pareva udire nemmanco. Non resse a
quella vista: uscì barcollando di quella cella, e sorreggendosi alla
fredda parete umidiccia, venne lungo quei cupi corridoi in cui densa era
la tenebra entro la quale appena parevan macchie rossigne i fumosi
lucignoli di rade lanterne che stavano per ispegnersi. Aveva egli
tracannato sino alla feccia del suo calice; aveva tutta consumata la sì
gran parte dei dolori assegnati all'anima sua nella vita terrena; aveva
il cuore infranto; sentiva esser compita la sua infelice giornata:
camminava come il gladiatore antico che aveva ricevuto il colpo mortale
e andava cercarsi un angolo nella sanguinosa arena, in cui sdraiarsi e
morire.

Ad un tratto udì a pochi passi innanzi a sè un accorrer di gente, un
susurro di persone, un agitato scambiarsi di domande, di risposte e
d'interiezioni; vide un venire, un aggrupparsi, un muoversi irrequieto
di lumi. Era giunto presso la cella in cui era stato posto a passare le
ventiquattr'ore d'agonia il _medichino_. Maurilio non ebbe bisogno di
chiedere che fosse avvenuto: le parole che udiva incrociarsi nel
capannello raccoltosi sulla soglia di quella cella ebbero pure la forza
di penetrare sino alla sua mente, richiamarne l'attenzione ed
apprenderle la causa di quella emozione: il _medichino_ era caduto a un
tratto come colpito da un fulmine; la subita, misteriosa morte lo aveva
salvato dal patibolo.

Il figliuolo di _Stracciaferro_ si spinse innanzi entro la carcere che
era divenuta la camera mortuaria del suo compagno d'infanzia, e
contemplò tremando lo spettacolo che gli si offerse alla vista.
Gian-Luigi giaceva lungo e disteso per terra, le braccia larghe, le mani
mollemente ripiegate, la testa un po' tirata all'indietro e quindi la
faccia volta verso il soffitto: nei suoi lineamenti v'era una placidità,
a cui però faceva contrasto la ruga caratteristica della fronte che era
disegnata nettamente nella pallidezza d'avorio, ma che andava via via
spianandosi, come se a poco a poco scancellata dalla mano della morte.
Era forse la traccia dell'ultima lotta di quell'organismo contro la
volontà, e forse meglio, di quell'anima contro l'idea; dell'ultimo cozzo
dei pensieri, in mezzo a cui quello spirito inquieto e superbo, si era
violentemente sottratto ai dubbi della vita per fuggire l'ignominia, per
precipitarsi avidamente nel mistero della tomba, ansioso di trovarci il
motto dell'enimma.

Maurilio stette mirandolo alquanto. Ad ogni momento cresceva la calma
nelle sembianze del cadavere: e con questa calma veniva fuori agli occhi
del giovane che lo contemplava una rassomiglianza di quei lineamenti con
altri che gli erano impressi da lungo tempo nell'animo: il dolce viso
leggiadro di Virginia. S'inginocchiò presso di lui, e depose un bacio su
quella fronte che già era diventata ghiaccia.

— Addio per sempre, corpo che hai chiuso quella misera anima combattuta;
ritorna i tuoi elementi al gran serbatoio della natura, e possa fin la
memoria distrursi della tua vita. Tu spirito, che ora te ne sei sciolto,
possa arrivare nella nuova esistenza immateriale a tanto progresso da
essere poi, in altra prova terrena, oltre che un intelligente, un
onesto.

Quanto più s'avvicinava l'alba e tanto più cresceva nel _medichino_
l'agitazione ch'egli aveva dapprima dissimulata, ma cui ora non poteva
nascondere più. Se la Zoe mancasse all'assunto impegno e fosse in
qualunque modo impedita di recargli, come aveva promesso, la morte! Gli
toccherebbe percorrere le strade della città sull'infame carro,
coll'infame accompagnatura, in mezzo all'infame curiosità del volgo; gli
toccherebbe salire gl'infami scalini del patibolo e pendere dal legno
infame, ignominioso spettacolo ad una vil turba che ne prenderebbe
codardo diletto. Questo pensiero tanto lo tormentava da toglierlo quasi
di senno, sentiva sfuggirgli il dominio che aveva conservato sino allora
su sè stesso; la volontà pareva sul punto di cedere travolta dall'impeto
della passione e dell'istinto. Guardava intorno a sè con occhio
smarrito, come per cercare un mezzo di morte, poichè quello invocato e
sperato non gli giungeva; aveva già entro sè maledetta e sacrata al
demone della vendetta la cortigiana da cui si credeva ora abbandonato.
Quando udì all'orologio d'una chiesa vicina suonare le cinque ore, ogni
speranza fuggì da lui: digrignò i denti, si morse le mani, e guatò
intorno con tanta ferocia che i fratelli della _misericordia_ se ne
allontanarono impauriti. Due ore appena lo separavano dal supplizio;
anche presentandosi tuttavia la Zoe, egli temeva che non le sarebbe più
stato concesso giungere sino a lui. Ma allora appunto ch'egli si
riteneva perduto, la salvezza arrivava. Un uomo dalla faccia scialba,
con una strana espressione di stanchezza nelle sembianze, che parevano
d'infermo, si presentò, accompagnato da una donna velata, alla porta del
_confortatorio_ e disse con accento di comando:

— Lasciate penetrare questa signora presso il condannato.

Si ubbidì al sotto-ispettore delle carceri; e quella donna entrò dove
stava il moribondo. Questi udì il fruscio delle vesti e sollevò il capo;
benchè velata la riconobbe; sorse di scatto con un'esclamazione di gioia
e le mosse vivamente all'incontro.

— Sei tu, Zoe? Sei tu pur finalmente?

La cortigiana levò il velo dalla faccia.

— Sono io! rispose con voce cupa, sorda, stentata.

Ah! quanto era ella diversa dalla _Leggiera_ che vedemmo lieta e procace
nel palchetto del teatro! Come l'aveva cambiata quella notte trascorsa,
stendendo sulla sua bellezza il pallore dell'angoscia, incavandovi le
rughe della vergogna! Il _medichino_ medesimo ne fu sovraccolto.

— Che hai tu? le chiese prendendola per le mani che strinse forte fra le
sue.

— Ho comperato il diritto di venirti a recare la morte; rispose
sommessamente la Zoe: e l'ho pagato molto caro.

Gian-Luigi non domandò pure spiegazione di queste parole.

— Tu hai dunque teco la mia libertà? disse con vivace èmpito di gioia.

— Sì: rispose essa tremando tutta ed atterrando quasi impaurita gli
sguardi.

— Quale io te la chiesi?

— Sì: ripetè la donna.

— Che tu sii dunque benedetta! L'ultimo favore e l'ultima gioia mi
verranno da te..... Solleva la fronte, Zoe, e guardami bene entro gli
occhi.

Ella tremava sempre più forte e le sue pupille non potevano staccarsi
dal suolo.

— No, no: disse; non son degna di guardarti.

Ma egli, stringendo nuovamente quelle mani che teneva ancora fra le sue:

— Noi siam degni l'un dell'altra, oh va!... E tu almanco avrai amato!...
Mi vai innanzi per ciò..... Guardami, Zoe, perchè tu possa leggere ne'
miei occhi la mia riconoscenza, perchè ti possa stampare un'ultima volta
nella mente le mie sembianze. Fu una vita scellerata la mia, di cui devo
desiderare si disperda presso tutti ogni memoria; ma è una strana
passione dell'uomo che, a dispetto di tutto, lo attacca a questa
miserabile esistenza terrena. Mi è di una folle dolcezza, anche in
questi momenti, il pensiero che, morto, vivrà ancora nell'anima tua lo
sparito esser mio, mercè il ricordo. Guardami adunque!... Presso te sola
vo' riviver così; da tutti gli altri non domando che oblìo: presso te
sola!... Per quanto tempo?...

— Sempre, sempre, per tutta la vita: esclamò la Zoe che affondava i suoi
negli occhi di lui, e gli pendeva palpitante dal labbro.

Gian-Luigi sorrise mestamente.

— Non ti domando l'impossibile: riprese a dire. Finchè nuove impressioni
abbastanza forti e vaste per occupar tutto il tuo animo non me ne
avranno scacciato. Non voglio che tu faccia il menomo sforzo per
ritenere la mia immagine quando accenni a dileguarsi. Obliato dai
viventi in questo mondo, chi sa che non abbia anch'io allora
tutte dimenticate le cose terrene!... E ciò avvenisse pure
sollecitamente!..... Zoe, noi abbiamo sbagliato la vita..... Auguro
anche a te di morir presto, prima che la vecchiaia t'abbia raggiunta,
prima che anche quel piccolo carbone acceso d'amore che ti rimane
nell'anima si sia spento... Ora addio!... Bisogna che io m'apra le porte
del sepolcro... Sento un palpito in me che rivela le riluttanze della
natura; ma la mia volontà è impaziente; l'anima anela di slanciarsi
nell'incognito mare. Prendi fra le tue labbra la morte, e porgimela nel
tuo ultimo bacio. Questo sacro bacio mortale cancellerà l'onta dei baci
menzogneri e brutali che abbiamo dato, che ci siamo scambiati.

Zoe si torse le mani con disperazione.

— No, no; disse: darti io la morte, non posso... Vederti cadere innanzi
a me!...

— Non mi vedrai. Aspetterò a rompere l'involto in cui è rinchiuso il
veleno quando tu sarai partita di qui.

Uno di quegli impeti di generoso affetto, a cui sono aperte le
impressionabili anime delle donne, anche le men nobili, assalse allora
la cortigiana.

— Piuttosto, esclamò ella, moriamo insieme: rompi la fragil crosta,
mentre le nostre labbra si toccano, e beviamo tuttedue la morte.

— No, Zoe: perchè vuoi tu accrescere il mio delitto? Lasciami morir
solo.

Un'ombra nera comparve in mezzo ai fratelli della _misericordia_ che
s'erano ritirati presso la porta: era fra' Bonaventura che, secondo i
presi accordi, veniva per essere compagno in quelle ultime ore al
condannato.

— Il tempo preme: soggiunse Gian-Luigi che vide il gesuita, e gli fece
colla mano cenno di aspettare un momento: coraggio, Zoe.

Questa si recò la mano alla bocca e vi pose una pillola grossa come una
piccola nocciuola. Gian-Luigi afferrò la donna con un impeto che pareva
di passione; la strinse al petto con abbraccio furibondo; ne cercò
avidamente colle sue le labbra e le tenne suggellate in un bacio lungo,
tenace. Nel silenzio di quella stanza e di quell'ora, si sentiva il
palpito del cuore della Zoe; tanto era forte. Quando il _medichino_ la
sciolse dal suo amplesso, ella indietrò per alcuni passi vacillando,
come se stesse per cadere: la pillola mortale dalla sua bocca era
passata in quella di Gian-Luigi.

Successe un istante di silenzio.

— Addio! addio! gridò poi il _medichino_. Ora va... Tutto è finito.

Padre Bonaventura s'avanzava colla sua faccia ipocritamente dolcereccia.
La _Leggera_ parve voler parlare, ma la voce non uscì dalle sue labbra
allividite, due lagrime le colavano giù delle guancie; agitò le mani,
poi si premette il cuore, un penoso singhiozzo eruppe dalla sua gola, ed
abbassato il velo, uscì vacillando. Gian-Luigi l'accompagnò con un
ineffabile sguardo di compassione.

— Figliuol mio: disse il gesuita al condannato: in questa notte che
oramai è trascorsa, Dio ha egli parlato al vostro cuore?

Gian-Luigi guardò il frate con una occhiata fissa, da cui era sbandita
ogni espressione della primitiva ironia.

— Sì: diss'egli seriamente: e di quella sua parola me ne odo ancora
entro l'anima l'eco che risuona.

Fra' Bonaventura credette opportuno il momento di spacciare un'edizione
delle sue solite esortazioni che teneva in pronto per queste
circostanze: Gian-Luigi pareva ascoltarlo, ma in realtà non faceva al
sermonante ned alle sue parole la menoma attenzione. Egli ravvolgeva
nella sua bocca la mortifera pallottolina; era di gomma con entrovi una
goccia di acido prussico; e intanto pensava:

— Appena morto io, se il mio spirito non muore, come mi sono indotto a
credere, in quale condizione si troverà? Con quali attinenze ancora con
questo mondo, colla materia, colla luce, collo spazio, col tempo?... Sì,
questo è uno spaventevole abisso. Questa è tale curiosità che pure
sgomenta... Esito forse?... Ho io forse paura?... No.... Perchè dunque
mi trattengo innanzi a quell'attimo che deve tutto decidere, che deve
lanciarmi nell'eternità?

Guardò la faccia grassa e rubiconda del gesuita, il quale, gli occhi a
mezzo socchiusi, dipanava con una certa voluttà i periodi della sua
eloquenza da predicatore.

— Appena costui interrompa la sua onda di parole per prender fiato,
disse a se stesso sorridendo, morderò in questo chicco di morte.

Il sermonante non tardò a fare una piccola pausa necessaria ai suoi
polmoni; e Gian-Luigi si tenne parola. S'udì un lieve rumore: quello
della crosta di gomma rotta dai denti; e di botto la vita cessò come per
incanto in quel corpo giovane, robusto, nella più ricca e piena
espansione della sua vitalità. Non diede un grido, nè un gemito, nè
nulla: cadde improvviso quant'era lungo; nè la menoma convulsione gli
agitò le membra, gli contrasse i lineamenti. Padre Bonaventura, stupito,
spaventato, si chinò sopra un cadavere.

— Ah! questa è l'opera del marchese: pensò egli, e da buon gesuita stimò
opportuno consiglio tacere ed allontanarsi senz'altro.

La Zoe presso all'uscir della carcere vide appoggiato alla parete un
uomo che pareva un'ombra; suo primo impulso fu passar ratta senza
badargli; ma poi ravvisatasi gli si avvicinò. Stettero tuttedue l'uno
innanzi all'altra, senza parlarsi, senza guardarsi, tremando. Fu la
donna finalmente che ruppe il silenzio.

— Quello che tu hai fatto è infame; quello che mi hai obbligato a fare è
infame. Questa infamia che per altri sarebbe cagione di odio e
innalzerebbe fra loro una insuperabil barriera, noi invece accomuna. Ora
ci siamo ritrovati e ci apparteniamo; tu hai da essere strumento per le
mie passioni, come io fui per la tua. Ti servirò ancora, ma tu mi
servirai... La mia passione ora è una vendetta... Mi aiuterai a
compirla[4].

  [4] Vedrassi in un altro romanzo in cui ricompariranno parecchi
  dei personaggi di questo, qual fosse questa vendetta, e come
  coll'aiuto di Barnaba la Zoe l'ottenesse.

Barnaba non rispose parola; ma promise con uno sguardo. La cortigiana
partì. Lungo le strade che ella percorse trovò già frequenti i gruppi
de' curiosi che s'affrettavano prima di giorno a recarsi sul luogo dove
avevano da essere giustiziati i rei. Senza sapere di avere questo voto
scellerato comune con Nerone, la cortigiana desiderò poter tenere in una
testa sola tutte le teste di quella folla crudele per ischiaffeggiarla e
sputarle sul viso. Giunse sino in Piazza Castello che quasi non sapeva
quale strada avesse percorsa e perchè fosse colà venuta. In fondo si
drizzava in una massa scura l'imponente Palazzo reale. Zoe tutta la sua
ira, tutto il suo odio, tutta la ferocia del suo dolore concentrò in un
punto e volse ad una persona sola. Tese la destra stretta a pugno verso
il Palazzo reale e disse coi denti serrati:

— Principe! Principe! Tu me la pagherai!

Sino al luogo in cui ella si trovava, pel queto aere della notte cui non
rompeva ancora il menomo raggio dell'alba, venivano i lenti e gravi
rintocchi della campana che suonava l'agonia degl'infelici che stavano
per morire per mano del boia.



CAPITOLO XXXIII.


Maurilio sta sul suo letto di morte. La ragione della vita è cessata per
lui. Ogni forza di vitalità in quegli ultimi così crudeli tormenti s'è
affatto consunta. Egli non ha dimenticato Virginia. Domandò un colloquio
al marchese, e perorò la causa dell'amore di lei. Alla forza de' suoi
argomenti, al calore della sua eloquenza aggiungeva efficacia e
solennità la sua morte che tutti vedevano vicina. Parlò della parte
dell'aristocrazia nella nuova fase della civiltà che s'annunziava:
quella che era stata sostenuta un giorno era irrimediabilmente finita:
una nuova parte doveva la nobiltà assumersi, o perire come inutile,
peggio che inutile, come inciampo. Bisognava quindi chiamasse a sè nuovi
elementi, si risanguasse coll'operosità del ceto medio, si avvicinasse
mercè l'intrammezzo della borghesia al gran serbatoio popolare. Il
marchese, già proclive a siffatte idee, subì l'influsso dei ragionamenti
e delle esortazioni del moribondo; diede la promessa, che, appena
opportune le circostanze, non avrebbe contrastato al matrimonio di
Virginia di Castelletto con Francesco Benda. Maurilio sapeva che una
promessa del marchese era una immanchevole verità nell'avvenire.

Si ricordò di _Gognino_, del povero fanciullo da lui trovato una sera,
piangente ed affamato, nel fango della strada, cui la sorte gli aveva
menato innanzi per aggruppare e sciogliere il più rilevante episodio del
dramma della sua vita, e col quale aveva comune non che il destino, ma
il sangue. Abbandonato a sè, coll'educazione ch'ei poteva ricevere dalla
sua nonna, la sorella di _Stracciaferro_, non era egli da temersi per
sicuro che quel bambino sarebbe riuscito quale era stato _Stracciaferro_
medesimo?

Maurilio lo raccomandò al marchese, il quale disse avrebbe tolto
quell'infelice dalle unghie della vecchia, infame venditrice di
_abitini_ e di rosarii, e fattolo allevare un onest'uomo.

Tutti coloro che avevano avuto attinenza con lui, che in qualche modo
gli erano stati cari o che lui avevano avuto caro, Maurilio volle ancora
vedere: anche il signor Defasi, cui volle far noto non esser egli
altrimenti il figliuolo della nobil dama, quale si era creduto un
istante, ma quello dell'assassino, morto sul patibolo, quasi a togliere
con ciò, o scemare almeno il rammarico che il buon libraio aveva
tuttavia di averlo sospettato reo d'un delitto.

Pregò Don Venanzio gli conducesse eziandio la povera Margherita. La
vecchia contadina, quando uscita dalla carcere in cui il suo diletto
Giannino aspettava l'ora della morte, era vissuta in una specie di
stupidimento che pareva insensibilità, ed era invece eccesso di spasimo,
fino al mattino vegnente, pochi minuti prima che cominciasse i suoi
rintocchi la campana dell'agonia. Allora s'era riscossa ed aveva
tormentate colle mani convulse le sue chiome canute, come persona che
risensi ad un tratto e si ricordi subitamente di cosa che prema oltre
misura. Erasi sferrata dal luogo ove si trovava, ed era corsa alla
carcere, appostatasi alla parete proprio dirimpetto alla porta e rimasta
lì cogli occhi fissi su quella soglia fatale, immobile che forza nessuna
sarebbe stata capace di trarla viva di là. Voleva vederlo ancora una
volta, gettargli ancora un saluto ed un bacio mentre passava, fare che
in mezzo ai ceffi ostili e curiosi che lo avrebbero con crudele avidità
contemplato, trovasse almeno uno sguardo amoroso, una faccia benigna, un
labbro che lo benediceva.

Quando le pesanti imposte s'aprirono, ed al dubbio lume d'un crepuscolo
invernale appena incominciato, cominciarono ad uscirne gli sgherri di
scorta, Margherita si aggrappò colle mani macilente alla parete della
casa contro cui s'appoggiava, per non cadere, tanto fu il commovimento
di tutto l'esser suo, vedendo due carri pesanti venir fuori dalla cupa
vôlta del portone e scantonar nella strada. Oh con quale ardore fisse le
sue pupille inaridite dal pianto sulle faccie di quegli sciagurati che,
le braccia legate dietro le reni, stavano seduti in mezzo ai preti su
quei carri sobbalzanti!... Ma nel primo il suo Giannino non c'era. Sarà
dunque nell'altro. Drizzò, per dirla con Dante, tutto il nerbo della sua
facoltà visiva su quel secondo carro che ad una certa distanza del primo
veniva fuori dall'oscurità del portone alla luce grigiastra del mattino;
— e neppure in esso non iscorse la bella figura del suo diletto. Stette
attonita da principio, e non seppe neppur rallegrarsi. Non le venne idea
nessuna a spiegare questo fatto. Credette non aver visto bene;
quantunque sentisse impossibile che suo figlio essendoci, gli occhi suoi
non l'avessero di presente trovato. Volle correre dietro i carri che
s'allontanavano lentamente nello scuriccio della strada, per vederli
anche una volta; ma la folla raccolta per vedere quello spettacolo ne la
impedì. Ebbe dalle ciarle di quella folla, le quali si fecero alte e
vive di subito, la conferma, ch'ella non s'era sbagliata, che aveva
veduto bene, che il suo Giannino colà non era.

— E perchè non c'è il _medichino_? diceva la gente. Oh che non aveva da
essere giustiziato anch'egli cogli altri questa mattina?

In un attimo corsero pel popolo colà raccolto le più varie novelle,
venute fuori, come sempre avviene, non si sapeva d'onde nè come: — che
il capo della _cocca_ lo si serbava per un altro giorno: — che gli era
stata fatta grazia: — che gli era fuggito; corse anche la voce della
verità: — che gli era morto: — ma questa nessuno volle crederla.

Margherita, agitata, presa da una viva speranza, si slanciò verso la
carcere a domandare di Gian-Luigi, a pregare glie lo si lasciasse
vedere; ma, com'è facile immaginarsi, fu bruscamente respinta. Ben le fu
detto anche colà che il capo della _cocca_ era morto, ma ella ciò non
credette meglio di quel che lo credesse il popolo. Ella ben lo aveva
detto, non esser possibile che _egli_ salisse il patibolo, che _egli_
così giovane e bello dovesse morire. La ragione del salvamento di lui,
ella non se la spiegava, non la cercava neppure: fosse anche
intravvenuto un miracolo visibile ad effettuare la sua speranza, ella
non si sarebbe menomamente stupita. Il fatto verificava il suo istintivo
indovinamento: ecco tutto. E siccome le più assurde dicerie correvano
per la plebe sul conto della scomparsa del _medichino_, e sulla mancanza
di lui alla orribil festa che la giustizia umana aveva preparata alla
sua crudeltà, Margherita accettava tutte per vere quelle che
conchiudevano alla salute di quel personaggio diventato di botto
misterioso e leggendario.

Anche presso l'infimo volgo erasi sparso delle relazioni che il
_medichino_ aveva con nobili e potenti famiglie; qualche cosa era
trapelato eziandio, e chi potrebbe dirne mai il come? circa la origine
di lui, che si attribuiva ad un alto e potente casato; volevasi ad ogni
costo che misteriosi ed illustri protettori lo avessero sottratto e per
nasconder meglio la cosa si facesse spargere la notizia della morte di
lui. Il popolo che, vedendolo menare al supplizio, avrebbe forse
manifestato per quello strano individuo la più viva simpatia, ora
vedendoselo mancare alla sua sanguinaria voluttà di feroci emozioni,
tumultuò di guisa che fu necessario l'accorrere dei soldati a disperdere
la riotta intorno alla carcere. Ma questa per lei felice illusione salvò
la povera Margherita dal morir disperata.

Quando fu introdotta presso il letto dove moriva Maurilio, la vecchia
contadina, senza voler parlar d'altro, si chinò all'orecchio del
giacente, e con un sorriso mezzo da scemo, gli disse piano all'orecchio:

— So che vive... Zitto!... Non si de' sapere..... Non lo dirò a nessuno,
sta certo; ma fra noi ce lo possiam dire... Andrà lontano, lontano,
neh?... Forse ci è già ito... Io non lo vedrò più sulla terra. (Si
asciugò una lagrima). Capisco che dev'esser così... e pazienza!... Tu lo
vedrai ancora, non è vero?... Digli che si ricordi di me... E poi quando
verrai al villaggio alcuna volta..... Guarirai, e ci verrai certo... mi
recherai le sue novelle... Intanto dàgli ancora un bacio per parte mia.

Baciò il moribondo colle sue labbra secche ed avvizzite.

— Ecco, io non ho più nulla da dirti: soggiunse poi con aria ed accento
vieppiù da dissensato; posso andarmene, e me ne vado al mio paese. Non
ho più nulla da far qui, in mezzo a questo rumore che mi toglie la
povera mia vecchia testa..... Vado al villaggio... Ma ch'ei non si
dimentichi la vecchia Margherita che lo ha allattato... La sua vera
madre, l'unica sua madre sono stata io.

Tornata al villaggio, il marchese provvide ad ogni suo bisogno; ma ella
non visse a lungo. Si trascinò due anni, senza quasi parlare altrui,
dalla sua misera casipola alla chiesa, e morì ancora con quella
illusione sul conto del suo Giannino; illusione cui lo stesso Don
Venanzio non ebbe coraggio di distrurre, credendola una pietà della
Provvidenza verso quell'infelice.

Maurilio era caduto in un assopimento che già pareva la morte: il medico
aveva detto che da quello non si sarebbe ridesto più, ma insensibilmente
passato nel sonno eterno. Intorno a lui stavano mesti e raccolti e lo
contemplavano con amore gli amici suoi: Giovanni Selva, Antonio Vanardi,
Romualdo, anche Mario Tiburzio, del quale il morente aveva chiesto
eziandio: il marchese si teneva dritto, nella sua mossa nobilmente
severa, da un lato del letto, e sulla sua bella fisionomia dignitosa di
vecchio, era una mestizia forse uguale a quella dei giovani amici del
morente. Maggiore d'ogni altro era il dolore che appariva sulla faccia
di Don Venanzio, il quale sedeva dall'altra parte del letto e teneva fra
le sue una delle mani abbandonate del moribondo. Gli occhi sempre così
miti e sereni del vecchio sacerdote erano pieni di lagrime, ed oltre
quelle lagrime avevano una desolazione, quale non vi era apparsa ancora
mai, in tutte le traversie che pure aveva egli passate nella vita.

Quei due giovani egli aveva amati come figli; si era tanto tempo
compiaciuto in essi, svolgendone la rara intelligenza; aveva deplorato i
traviamenti del loro pensiero, ma sperato sempre che li avrebbe un
giorno ricondotti sulla retta via segnata dalla Chiesa di cui egli era
membro e stromento, dalla religione di cui era ministro. Ora ambedue,
sul fiore dell'età, gli venivano tolti e crudelmente tanto! e lasciando
in lui tanto terrore della sorte loro futura, che appena se giungeva a
calmarlo l'immensa idea ch'egli aveva della clemenza di Dio.

Maurilio giaceva supino, gli occhi e le labbra chiusi. I suoi nerissimi
capelli, dritti e scarmigliati sul guanciale candidissimo, gli facevano
una corona che pareva di spine alla fronte vasta, dalle ossa
protuberanti, che sembrava imbiancatasi, che avreste detto lucente d'una
misteriosa fosforescenza. In quei supremi istanti i suoi lineamenti
grossolani avevano presa un'espressione di nobiltà di cui li avreste
creduti incapaci dapprima; la sua fisionomia trasformata aveva assunta
una nuova, una strana, inesplicabile, inesprimibile bellezza che non era
quella della misera forma umana, che anche uno scettico avrebbe detta
superiore alla terrena.

La predizione del medico ebbe torto. Il morente ad un punto aprì gli
occhi e girò intorno le pupille, conscio di sè e delle cose che lo
circondavano: salutò con un'occhiata di gratitudine e di compiacenza
coloro che lo attorniavano con mostre di dolce affetto e si dolevano del
suo destino; fermò più a lungo e più commosso lo sguardo sulla bella
testa canuta di Don Venanzio, che piangeva chetamente a lui vicino;
volle stringere colla sua la mano del vecchio prete, ma non n'ebbe la
forza; accennò lo sollevassero sopra i cuscini, e poichè fu soddisfatto
al suo desiderio, parlò pianamente a colui che era stato il suo primo e
vero e si può dire unico benefattore, che gli aveva fatto
intellettualmente ed anche per affetto da padre.

— Non pianga, Don Venanzio; io sto per giungere là dove un po' meglio si
vede la gloria di Dio. Non tema della salute dell'anima mia, non tema
del mio avvenire oltre tomba. Ai moribondi avviene qualche volta che si
conceda avere un sentore del mondo degli spiriti a cui stanno per
approdare. Dio mi fu largo di tanta ventura. Nel mio assopimento ed
anche ora mi stanno dinanzi le auree forme d'una sublime visione. Non
gli occhi del corpo la contemplano, ma quelli dello spirito già
apertisi, benchè tuttavia nel carcere della carne. Ella si spaventò per
me, che abbandonai le forme della fede da Lei apprese alla mia infanzia.
La si rassicuri: non è la forma, è la sostanza della fede che salva. Io
credo al buono, al bello ed a Dio. Credo ed amo! Ecco i profeti e la
legge.... Veggo nell'infinità dello spazio l'infinità dei mondi, e in
questi, traverso a questi, l'infinità delle vite degli spiriti, da
incarnazione ad incarnazione, da grado a grado; immenso elevarsi di
anime verso l'inarrivabile. Nel cammino chi s'arresta, chi travia, chi
cade: — ma niuno è perduto. Il male non ha l'autorità dell'assoluto; è
una contingenza; è l'ombra; privazione, non corpo; negazione, non
sussistenza; è il divenire del bene. La grande fraternità degli spiriti
che si sviluppano nella materia, cominciando dalle prime manifestazioni
della vita sino all'intelligenza che si accresce e si accresce vestendo
sempre meno di materia: questa grande fraternità scrive la sua storia e
la imprime per mezzo dell'eterea luce nell'infinità dello spazio che i
raggi percorsero, percorrono e percorreranno sempre, sempre, senza
principio, senza interruzione, senza fine. Questa luce, latrice delle
immagini d'ogni avvenimento cosmico, cammina, cammina nelle profondità
dello spazio: correte alla distanza che occorre e troverete
rappresentate le fasi geologiche dell'esistenza primitiva della nostra
terra. In queste pagine immortali mi lasciò un momento scorgere la
clemenza di Dio. Tosto che sarà spirito disumanato, le potrò leggere con
occhio sicuro. Tutto il passato è così sempre presente, e tutto coesiste
nell'attimo. La luce delle lontane stelle che giunge a noi dopo due mila
anni di viaggio è per noi il presente, e per loro è il tempo forse già
sepolto nell'oblio.

I presenti credevano ch'ei vaneggiasse; Don Venanzio lo pregò a non
istancarsi cotanto nella fatica di parlare che era molta e sempre
maggiore per lui, al quale il fiato ad ogni minuto diventava più
oppresso e più debole. Ma il moribondo scosse lievemente la testa,
facendo un mesto sorriso.

— Lasciatemi dire: rispose: pochi minuti soltanto mi rimangono, ed ho
desiderio di comunicarvi ancora tante cose!

Si rivolse ai giovani amici suoi, Selva, Romualdo, Vanardi e Tiburzio.

— Seguitate ad amare la patria. L'amore tanto è più nobile, quanto più
si stacca dall'individuo ed allarga la cerchia della sua azione. Chi si
sente di amare la patria, come altri ama la sua amante, è una delle
anime più generose del mondo. Cristo amò così l'umanità e fu l'essere il
più sublime e il più divino che abbia visto la terra. La patria avrà
bisogno di voi; possiate dare esempio agl'Italiani di sacrificio, non
solo della vita, ma dell'interesse, delle passioni, dei pregiudizi
personali: di questi sacrificii hanno bisogno le nazioni per risorgere e
farsi grandi: e di questi sacrificii temo gl'Italiani non troppo capaci.
Virtù ci vuole, ed amore!.... Amatevi tutti. Amate que' poveri vostri
fratelli costituiti nella perenne minor età dell'ignoranza, che formano
la plebe. Amateli ed educateli — e date alle loro famiglie il pane e la
sicurezza della vita....

Il respiro a questo punto gli mancò affatto. Fe' cenno che soffocava, e
Giovanni Selva fu lesto a sollevarlo nelle sue braccia.

— Quanto a me: soggiunse con voce che appena si poteva udire: non
obliatemi affatto... ed amatemi un pochino, anche morto.... Io ho
perdonato tutti e tutto... Domando che tutto e tutti mi perdonino.... Ho
sofferto molto, ed ho amato tanto!... E non ebbi un'ora di gioia....
L'avrò nell'avvenire... (Fece un ineffabile sorriso). Oh! se l'avrò!...
Vorrei parlare ancora... e non posso più... Sento un'onda di poesia
divina che m'invade... Se la potessi esprimere!.... Voi bacierete la mia
fronte, quando sarò cadavere..... Essa albergò un'intelligenza.... Date
quest'addio ad una miserabil forma che si distrurrà per sempre... Addio!
addio! addio!

Levò verso il cielo le sue pupille larghe, in cui correvano tratto
tratto guizzi di luce simili a quelli d'una lampada che sta per
ispegnersi, ed una inesprimibile aura di beatitudine gl'illuminò la
faccia: egli vedeva innanzi a sè lo spirito protettore della sua vita.

— Sei tu, madre mia: esclamò con immenso affetto: tu che pur da morta,
non abbandonasti il figliuol tuo nel mondo!... Tu che ora mi chiami ed
inviti!... Vengo, vengo, vengo!... Ecco la luce!... Ecco l'etere!...
Ecco l'infinito!

Gettò un grido e ricadde di tutto il suo peso sulle braccia di Selva.
Con quell'ultimo grido l'anima era fuggita da quell'infelice corpo
tormentato.

Il domani una piccola, mesta schiera accompagnava al cimitero le spoglie
di colui che fu nella vita terrena chiamato Maurilio. Quando la fossa in
cui venne calata la cassa mortuaria fu ricolma di terra, Don Venanzio
pronunziò sovr'essa le ultime preghiere, e gli amici del morto, credenti
e non credenti nelle forme cattoliche, udirono con religioso rispetto, a
capo scoperto, le solenni parole che colla voce tremolante del vecchio
sacerdote acquistavano efficacia maggiore; poi, quando con una ultima
benedizione, con un ultimo addio si staccarono da quella tomba, Mario
Tiburzio, disse ai giovani traendoli in disparte:

— Ora conviene recarci colà, ad altri, ma men tristi addii. È giunta
l'ora: venite.

Lasciarono tornar solo in città Don Venanzio, nella carrozza che il
marchese di Baldissero aveva fatta allestire per lui; ed essi, passando
traverso i campi, si recarono sulla strada che, passata la Dora sul
ponte Mosca, si dirige verso la pianura di Lombardia. Si posero alla
distanza di un centinaio di metri dall'ultima casa che si trovava al di
là del ponte; e stettero aspettando, silenziosi, mesti e raccolti,
dominati dalla solennità della scena di morte a cui avevano allora
allora assistito, da quella eziandio del convegno a cui erano venuti.
Dopo un poco, sulla strada deserta si udì il rumore di ruote correnti, e
si vide venir da Torino una carrozza in posta al trotto serrato di due
cavalli. Appena vide i giovani sulla strada, chi era dentro il legno,
diè ordine al postiglione di fermare: ed aperto l'usciòlo, ne discese un
uomo di alta statura, di nobile portamento, di faccia serena ed
intelligente, di aspetto da militare insieme e da cavaliere; era Massimo
d'Azeglio, verso cui i giovani s'affrettarono circondandolo con mostre
d'affettuosa riverenza.

— Ho voluto darvi qui l'addio: disse il valente scrittore e patriota;
per evitare ogni sospetto ed ogni sorveglianza della Polizia. Ci tenevo
a stringervi le mani, bravi giovani, ed a lasciarvi per addio e per
memoria di me alcuni consigli.... no, dirò meglio, alcune preghiere.
Credete a me: l'epoca delle congiure è passata: bisogna oggidì cospirare
al bene della patria ed al progresso dell'umanità alla chiara luce del
sole. Non si tratta d'_uccidere il tiranno_, ma di educare il popolo, ed
anco i principi, e di elevare le masse. Per questo ci vuole la
coraggiosa propaganda della pubblicità.

« — Carlo Alberto fa da senno, io ne sono persuaso; egli è con noi, è
obbligato ad essere con noi; non attraversiamogli il cammino, e
mettiamoci noi con esso lui.

Mario Tiburzio interruppe.

— Ella ha ragione, sor Massimo. Questi giorni ci ho pensato di molto a
codeste cose, e mi sono convinto che per ora miglior mezzo per giovare
all'Italia è farsi soldato di Carlo Alberto. Ho rinunciato al mio
repubblicanismo (mandò un sospiro) e domani stesso vestirò l'assisa di
soldato nell'esercito piemontese.

Massimo d'Azeglio gli strinse la mano.

— Ve ne lodo.... Spero che ci troveremo un giorno nei campi lombardi a
combattere, fianco a fianco.

— Vi ci troveremo tutti: esclamarono in coro gli altri con entusiasmo.

— Dio vi ascolti! Io ripiglio la mia giornata di messo della nuova
rivoluzione. Possa trovar io per tutta Italia anime come le vostre.

Dopo i più cordiali salutari ed augurii, d'Azeglio risalì nella carrozza
e continuò il viaggio verso Milano; i giovani stettero fermi guardando
dietro quel legno che s'allontanava, finchè non lo videro più.

Quando giunse il 1848 Mario Tiburzio non fu il solo che prendesse parte
alla guerra: si arruolarono eziandio Giovanni Selva, Romualdo e
Francesco Benda. Povera sora Teresa! Anche questo dolore le doveva
toccare: veder partire per la guerra il suo figlio dilettissimo, che
solo erale rimasto in casa. Il padre di Francesco soffrì molto ancor
egli, ma nell'attività del suo lavoro industriale a cui si diede con più
alacrità di prima, nella robustezza maggiore della sua tempra aveva gli
elementi da resistere meglio al dolore. La infelice Teresa, durante
l'assenza del figliuolo, andava a calmare l'ansietà dei suoi timori ed a
confortarsi colla preghiera, presso sua figlia, nel convento di Santa
Chiara, dove ad ogni costo Maria aveva voluto vestire il velo, e
consumare la sua giovinezza in una rassegnazione piena di speranza nella
vita futura.

Ma giorni di gioia erano pur tuttavia serbati ancora alla famiglia dei
Benda. Francesco, divenuto in breve capitano di cavalleria, decorato di
due medaglie al valor militare, otteneva finalmente nel 1850 la mano di
Virginia di Castelletto. La marchesa di Baldissero, che forse non
avrebbe consentito mai a queste nozze, era morta: il marchesino Ettore
viveva separato da suo padre, il quale, conosciutolo indegno del suo
affetto, come del grado in cui il destino l'aveva fatto nascere, l'aveva
scancellato dal suo cuore: il marchese padre si ricordava della promessa
fatta a Maurilio moribondo.

Povero marchese! Ancor egli aveva dovuto pagare altro e crudelissimo
tributo al dolore. Il secondogenito de' suoi figli, sul quale aveva
concentrato la maggior parte del suo affetto paterno, morì a Goito di
palla nemica; ed egli andando a prenderne il corpo per venirlo a
seppellire negli avelli di famiglia, condusse seco il terzo ed ultimo
dei suoi figli, perchè prendesse tostamente il luogo del morto nelle
file dell'esercito al servizio del suo Re. Il primogenito intanto si
occupava con zelo eroico di cavalli, di cani, di cortigiane e di giuoco.

Il conte e la contessa di Staffarda sparirono dall'orizzonte cittadino.
Sparì la Zoe: nella tempesta rivoluzionaria fuggì il principotto suo
mantenitore; Andrea morì in carcere; la vecchia Debora fu trovata nel
sotterraneo di _Macobaro_, morta di fame; Barnaba fu nominato nel nuovo
ordinamento della Polizia assessore di pubblica sicurezza in una città
verso la frontiera orientale; Tofi fuggì innanzi alla luce della
libertà, e corse a rimpiattarsi nel suo paesucolo, mangiando la sua
giubilazione, sempre cupo, burbero, nemico dei liberali, segretamente
ostile ai ricchi, devoto al Re.

Don Venanzio morì qual visse: da santo, e lo pianse tutta la popolazione
del villaggio. Ora la sua modesta tomba è già coperta dalle erbe ed
obliata.

Obliato del tutto non è ancora Maurilio. Alcuni di quelli che lo
conobbero vivono tuttavia, e Giovanni Selva legge di quando in quando
qualche pagina di quello scartafaccio in cui egli aveva effusa parte
dell'anima sua: e il più spesso dopo quella lettura conchiude:

— Le sono pazzie di paradossi che domani forse diventeranno realtà.


FINE



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (fruscio/fruscìo e simili), correggendo senza
annotazione minimi errori tipografici.





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